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BraDypUS.

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COMMUNICATING
CULTURAL HERITAGE

Carlo De Maria

Percorsi didattici di storia


moderna e contemporanea
Dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

OttocentoDuemila
2018 Didattica della storia, 1
OttocentoDuemila, collana di studi storici e sul tempo presente
dell’Associazione Clionet, diretta da Carlo De Maria

Didattica della storia, 1


In copertina:

Antonio Canova, busto di Napoleone, calco in gesso, 1803-06. Rielaborazione di una foto di Sa-
liko (https://commons.wikimedia.org). Licenza: Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0
International
Carlo De Maria

Percorsi didattici di
storia moderna e
contemporanea
Dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

BraDypUS.net
COMMUNICATING
CULTURAL HERITAGE

Roma 2018
Progetto grafico BraDypUS

ISSN: 2284-4368
ISBN: 978-88-98392-70-4

Quest’opera è stata rilasciata con licenza Creative Commons


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Percorsi didattici di storia moderna e
contemporanea: dal Seicento alla vigilia
della Grande Guerra
INDICE GENERALE

I. La nascita dello Stato moderno. L’Europa tra XVII e XVIII secolo

1. L’eredità del Seicento


1.1. La fine delle guerre di religione e il consolidamento del potere statale 17
1.1.1. La Francia dalle divisioni interne alla costruzione dell’assolutismo 17
1.1.2. Dalla Guerra dei Trent’anni ai nuovi conflitti tra potenze 19
1.2. Due modelli: lo Stato assoluto e lo Stato liberale 21
1.2.1. Le grandi monarchie assolute d’Europa: Francia e Spagna 21
1.2.2. Il caso inglese e il consolidamento del sistema parlamentare: dalle
guerre civili alla Rivoluzione gloriosa 21
1.2.3. Il caso olandese: decentramento del potere e libero commercio 25
1.3. Mercantilismo e protezionismo. La sfida economica e militare
tra le potenze europee 26
1.4. La nascita delle grandi banche pubbliche 28
1.5. La modernità del pensiero politico e scientifico del XVII secolo 29
1.5.1. Il problema della sovranità dello Stato: tra assolutismo e costituzionalismo 29
1.5.2. Crisi della tradizione e rivoluzione scientifica 30

Approfondimenti:
Costituzione e cittadinanza: Lo Stato moderno come garante di spazi e di regole 33
Italia-Europa-Mondo: Dal Mediterraneo agli oceani 34
Accelerazioni della storia: La nascita dell’economia-mondo 36
Profili: Thomas Hobbes; John Locke 37
Luoghi simbolo: Le accademie scientifiche 39
Parole-chiave: Giusnaturalismo 40
Fonti e documenti: Libertà e autorità nei testi giuridici e filosofici del XVII secolo 41
Dibattito storiografico: Come si passò dalla crisi del Seicento ai nuovi assetti
politici e istituzionali del secolo successivo? 49
2. La costruzione della supremazia mondiale britannica
2.1. La Gran Bretagna e il sistema politico europeo 57
2.2. L’evoluzione del sistema costituzionale britannico 59
2.3. Lo sviluppo dei porti atlantici e la leadership mercantile inglese 60
2.3.1. Consolidamento e modernizzazione della base agricola 61
2.3.2. Importazioni, esportazioni e consumi 62
2.3.3. Luci e ombre del commercio internazionale: benessere e schiavitù 63
2.4. Il predominio in America e la conquista dell’India 64
2.4.1. La Royal Navy e il controllo dei mari 64
2.4.2. Impero coloniale e interessi britannici 65
2.4.3. Dalla Guerra dei Sette anni alla scoperta dell’Australia 66
2.5. Londra, capitale dell’economia mondiale 69

Approfondimenti:
Profili: Robert Walpole 71
Luoghi simbolo: Il Tamigi e il porto di Londra 72
Costituzione e cittadinanza: L’equilibrio dei poteri 72
Fonti e documenti: Le pagine di Montesquieu sull’Inghilterra 74

3. Gli Stati dell’Europa orientale


3.1. La Russia di fronte al problema dell’arretratezza 83
3.2. Da Pietro I a Caterina II 85
3.3. L’egemonia austriaca sui Balcani e il declino dell’Impero ottomano 86
3.4. Il nuovo assetto politico nell’area baltica. Dalla Guerra del Nord
alla questione polacca 88

Approfondimenti:
Profili: Caterina II 91
Parole-chiave: Ortodossia 92
Focus: La scomparsa di un grande Stato: il destino della Polonia 93
Fonti e documenti: Lo “Stato contadino”: contadini e servi della gleba 94

4. L’Italia dall’egemonia spagnola a quella austriaca


4.1. Una terra di conquista 103
4.2. La dinastia dei Savoia e il Regno di Sardegna 105
4.3. Tra gli Asburgo e i Borbone 106
4.4. L’Italia dal 1748 al 1796 108
4.5. La stagione delle riforme 109

Approfondimenti:
Profili: Pietro Leopoldo di Lorena 113
Luoghi simbolo: La Milano asburgica e la Torino sabauda 114
Focus: L’introduzione del catasto nella Lombardia austriaca 114
Costituzione e cittadinanza: La riforma del codice penale in Toscana e
l’abolizione della pena di morte 115
Fonti e documenti: Contro le ingiustizie della Giustizia. Cesare Beccaria
e la riforma della legislazione penale 116

II. L’accelerazione dell’Occidente nel Settecento

5. Illuminismo, circolazione delle idee e nascita di una opinione pubbli-


ca europea
5.1. I riferimenti culturali dell’illuminismo 125
5.2. Tra riforme e rivoluzione 128
5.3. L’assolutismo illuminato 131
5.3.1. L’Austria di Maria Teresa e Giuseppe II 131
5.3.2. Federico II di Prussia 133
5.3.3. Un segno dei tempi: la soppressione dell’ordine dei gesuiti 134
5.4. Istruzione e alfabetizzazione. Giornali e lettori 135
5.4.1. Libertà di stampa e opinione pubblica 136
5.4.2. Scuola ed educazione 136
5.5. La borghesia in primo piano 138

Approfondimenti:
Profili: Jean-Jacques Rousseau 141
Focus: Adam Smith e il libero scambio 142
Costituzione e cittadinanza: La lezione sull’uguaglianza di Voltaire 143
Fonti e documenti: L’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert come specchio di un secolo 144

6. La nascita degli Stati Uniti d’America


6.1. La popolazione nordamericana tra Sei e Settecento:
indiani, coloni europei e neri africani 151
6.1.1. Il primo insediamento inglese a Jamestown (Virginia) 152
6.1.2. Lo sviluppo delle colonie britanniche nel Settecento 154
6.1.3. Nuove ricchezze e diseguaglianze sociali 155
6.2. La rivoluzione americana 156
6.2.1. La rivolta fiscale: “No taxation without representation” 157
6.2.2. La Dichiarazione d’indipendenza del 1776 159
6.2.3. La fine della guerra di indipendenza e i trattati di pace 160
6.2.4. Tra istanze di rinnovamento e spinte conservatrici 161
6.3. Gli Stati Uniti e i primi passi della politica federale 162
6.4. Il mito della frontiera: l’espansione verso ovest 163

Approfondimenti:
Profili: Thomas Jefferson 165
Costituzione e cittadinanza: Federalismo e divisibilità del potere.
La Costituzione degli Stati Uniti 166
Accelerazioni della storia: Nascita di una grande democrazia fuori dall’Europa 167
Fonti e documenti: La fase costituente degli Stati Uniti d’America (1776-1787) 168
III. Il protagonismo della Francia

7. La Rivoluzione francese
7.1. 1789: il rovesciamento del vecchio ordine 177
7.1.1. La crisi fiscale e la convocazione degli Stati generali 177
7.1.2. La presa della Bastiglia e la nascita della Guardia nazionale 180
7.1.3. I lavori dell’Assemblea nazionale costituente 181
7.1.4. Il nuovo parlamento e il confronto fra Destra e Sinistra 185
7.2. Dalla monarchia alla repubblica 186
7.3. Robespierre e il governo dittatoriale (1793-1794) 189
7.3.1. Alla ricerca di una nuova religione civile 190
7.3.2. La guerra continua 191
7.3.3. Il colpo di Stato del 9 Termidoro 192
7.4. Gli anni del Direttorio e l’ascesa di Bonaparte (1795-1799) 192
7.4.1. La campagna d’Italia 195
7.4.2. La spedizione in Egitto 197
7.4.3. Il colpo di Stato del 18 Brumaio 1799 e la fine della Rivoluzione 197

Approfondimenti:
Profili: Robespierre 199
Luoghi simbolo: Vandea 200
Parole-chiave: Giacobinismo 201
Costituzione e cittadinanza. Le fonti: I principi rivoluzionari del 1789
e la loro evoluzione 201
Dibattito storiografico: Una nuova epoca? La Rivoluzione francese
tra cesure e continuità 209

8. Dall’imperialismo napoleonico al Congresso di Vienna


8.1. La Francia tra guerre, autoritarismo e impero 219
8.1.1. La Costituzione consolare 220
8.1.2. Dalla riconquista dell’Italia alla proclamazione dell’Impero 220
8.1.3. Un nuovo modello di potere 221
8.2. Lo Stato napoleonico 222
8.2.1. Amministrazione, sistema giudiziario e finanze 222
8.2.2. Il Concordato con la Chiesa 223
8.2.3. Il Codice civile 224
8.3. L’Europa di Napoleone 225
8.3.1. Le grandi vittorie e le prime sconfitte 225
8.3.2. Le caratteristiche del dominio napoleonico 226
8.3.3. La situazione italiana 227
8.4. La fine dell’imperialismo napoleonico 230
8.5. Il Congresso di Vienna 232
Approfondimenti:
Profili: L’ammiraglio Nelson 235
Luoghi simbolo: Waterloo 236
Parole-chiave: Plebiscito 236
Focus: Arte e propaganda. Le rappresentazioni dei fasti imperiali 237
Fonti e documenti: Testi e discorsi di Napoleone - Il Trattato della Santa Alleanza 238

IV. Da sudditi a cittadini: l’impatto degli ideali rivoluzionari sul Continen-


te europeo

9. Nazione e moti costituzionali in Europa. Verso un nuovo equilibrio


politico continentale
9.1. Idea di nazione e Romanticismo 245
9.2. Società segrete e insurrezioni tra anni Venti e Trenta 246
9.2.1. I moti costituzionali del 1820-21: Spagna, Regno delle
Due Sicilie e Piemonte 246
9.2.2. La lotta di indipendenza greca e la situazione dei Balcani 248
9.2.3. Luglio 1830: l’insurrezione di Parigi 249
9.2.4. La rivolta del Belgio e della Polonia 250
9.2.5. I moti italiani del 1831 251
9.3. La Francia di Luigi Filippo 253
9.4. L’Inghilterra delle riforme 254
9.5. Il 1848 tra dimensione locale ed europea 257
9.5.1. Il Quarantotto in Italia e la Prima guerra di indipendenza 257
9.5.2. La Repubblica romana e la breve esperienza democratica in Toscana 258
9.5.3. Il Quarantotto a Vienna, Budapest e Praga 259
9.5.4. La Francia: dalla “rivoluzione di febbraio” all’ascesa di
Luigi Napoleone Bonaparte 260
9.5.5. La Prussia e la Confederazione germanica 262
9.6. Dal socialismo utopistico al Manifesto di Marx ed Engels 263
9.7. Paura della modernità: reazionari e conservatori 265
9.8. Verso un nuovo equilibrio continentale (1849-1871) 265

Approfondimenti:
Profili: Metternich; Napoleone III; Karl Marx 269
Parole-chiave: Società segrete 271
Fonti e documenti: Le istanze democratiche e popolari nel dibattito
pubblico europeo (1830-1848) 272
Dibattito storiografico: Che cos’è una nazione? 279

10. Il Risorgimento e l’unificazione dell’Italia


10.1. La politica estera di Cavour e gli ultimi tentativi mazziniani 290
10.1.1. Il Piemonte costituzionale e la guerra di Crimea 290
10.1.2. Carlo Pisacane e la spedizione di Sapri 291
10.1.3. L’attentato di Orsini e gli accordi di Plombières 292
10.2. La guerra contro l’Austria del 1859 e le insurrezioni
nell’Italia centrale 292
10.3. Il colpo di scena: Garibaldi e i Mille 294
10.4. Dalla proclamazione del Regno d’Italia al completamento
dell’unità (1861-1870) 295
10.4.1. La distanza tra paese “reale” e paese “legale” 297
10.4.2. L’Italia e la guerra austro-prussiana del 1866 299
10.4.3. I delusi del Risorgimento: mazziniani e garibaldini 299
10.4.4. Lo Stato italiano e la Chiesa di Roma 300

Approfondimenti:
Profili: Giuseppe Garibaldi 303
Costituzione e cittadinanza: Lo Statuto albertino e la libertà di associazione 304
Fonti e documenti: Il Risorgimento italiano nelle parole dei protagonisti 306

V. Una pluralità irriducibile. Le trasformazioni mondiali tra


Otto e Novecento

11. Colonialismo e aspirazioni all’indipendenza: America Latina,


Africa e Asia
11.1. Le guerre di liberazione in Sudamerica 315
11.1.1. L’indipendenza delle colonie spagnole e il progetto federale
di Simón Bolívar 315
11.1.2. La nascita del Brasile 316
11.2. Il Messico e il Centro America 317
11.3. L’imperialismo europeo in Africa 319
11.4. L’India sotto il dominio britannico 322
11.5. La Cina: fine dell’isolamento internazionale e crollo
della dinastia Manciù 324
11.6. Il nuovo corso giapponese. Dalla crisi del regime Tokugawa
alla modernizzazione del paese 325

Approfondimenti:
Profili: Simón Bolívar 329
Italia-Europa-Mondo: L’apertura del canale di Suez 330
Parole-chiave: Confucianesimo 331
Fonti e documenti: Le grandi diplomazie europee all’opera 332
Dibattito storiografico: Come nacque l’imperialismo? 336

12. Società e cultura nei paesi industriali


12.1. Il socialismo europeo dalla Prima alla Seconda Internazionale 345
12.1.1. Marx e Bakunin 345
12.1.2. La nascita del Partito socialdemocratico tedesco e la
diffusione della forma partito 346
12.1.3. Verso la società di massa 347
12.1.4. Revisionismo, ortodossia e nuove spinte rivoluzionarie 348
12.1.5. Le peculiarità del socialismo anglosassone 348
12.2. Il cattolicesimo davanti alla questione sociale: l’enciclica
Rerum Novarum 350
12.3. La parabola del positivismo e le nuove forme di individualismo 351
12.3.1. Dall’idea di progresso di Comte all’evoluzionismo di Darwin 351
12.3.2. Nuovi orientamenti culturali e artistici al passaggio del secolo 352
12.4. La Belle époque e l’ascesa della classe media 354
12.4.1. La figura del cittadino-consumatore 354
12.4.2. L’allargamento del suffragio elettorale 356
12.5. I cambiamenti nella condizione femminile: educazione e
nuove professioni 357

Approfondimenti:
Profili: Marie Curie 359
Parole-chiave: Internazionalismo 360
Costituzione e cittadinanza: Le suffragette e il diritto di voto 361
Fonti e documenti: Questione sociale e movimento operaio 362

13. L’inizio del declino inglese


13.1. La Gran Bretagna vittoriana 369
13.2. Tra conservatori e liberali: i governi Disraeli e Gladstone 370
13.3. Il disastro della “guerra boera” 372

Approfondimenti:
Profili: La regina Vittoria 373
Costituzione e cittadinanza: Bipartitismo e alternanza nel sistema politico inglese 374
Fonti e documenti: La questione irlandese (dalle origini alla dichiarazione
di indipendenza del 1916) 375

14. Nel cuore dell’Europa. L’emergere di profondi squilibri


14.1. La Germania guglielmina 379
14.1.1. La struttura istituzionale del Reich 379
14.1.2. La vita politica tedesca e le scelte di Bismarck 380
14.2. Dalla politica estera bismarckiana alla rottura dell’equilibrio europeo 382
14.2.1. La questione balcanica: Bismarck arbitro tra le potenze 382
14.2.2. Il “nuovo corso” di Guglielmo II e l’uscita di scena di Bismarck 383
14.3. La Terza repubblica francese. Rafforzamento delle istituzioni
e tentativi autoritari 385
14.3.1. Il generale Boulanger e il revanchismo francese 386
14.3.2. L’affaire Dreyfus e l’ascesa al governo dei radicali 387
14.4. Il tramonto dell’impero di Francesco Giuseppe 388
14.5. Il problema dell’arretratezza. Dall’Austria-Ungheria alla
penisola iberica 390
14.6. L’Impero ottomano, grande “malato d’Europa”, e
l’instabilità dei Balcani 390
14.7. La Russia tra dispotismo e rivoluzione 391

Approfondimenti:
Focus: Emile Zola e la figura dell’intellettuale impegnato 395
Parole-chiave: Balcanizzazione; Antisemitismo 396
Costituzione e cittadinanza: L’introduzione della legislazione sociale
nella Germania di Bismarck 398
Fonti e documenti: La rivoluzione russa del 1905 400
Dibattito storiografico: Cosa si intende per nazionalizzazione delle masse? 403

15. L’Italia nel primo cinquantennio post-unitario 413


15.1. I governi della Destra storica e il pareggio di bilancio 414
15.2. Tra “rivoluzione parlamentare” e “trasformismo”:
la Sinistra liberale al governo 415
15.3. La legge elettorale del 1882 e le altre riforme della Sinistra 417
15.4. L’Italia crispina e la stretta autoritaria di fine secolo 417
15.4.1. Il primo governo Crispi, 1887-1891 417
15.4.2. L’entrata sulla grande scena politica di Giolitti 418
15.4.3. Il secondo governo Crispi, 1893-1896 419
15.4.4. Il 1898, come culmine della crisi di fine secolo 420
15.5. L’epoca giolittiana, 1900-1914 422
15.5.1. Il movimento socialista tra istanze riformiste e slanci rivoluzionari 423
15.5.2. Il suffragio universale maschile e la risposta clerico-moderata 424

Approfondimenti:
Focus: Andrea Costa e le origini del socialismo italiano 427
Italia-Europa-Mondo: La politica estera italiana dall’Unità alla
vigilia della Grande Guerra 429
Fonti e documenti: La sovranità popolare. Il progetto politico giolittiano e
la riforma elettorale del 1912 431
Dibattito storiografico: L’Italia giolittiana fu una vera democrazia? 433
Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea:
dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra
di Carlo De Maria
Roma (BraDypUS) 2018
ISBN 978-88-98392-70-4
pp. 13-14

Presentazione
La storia come strumento critico di
comprensione del presente

I percorsi di didattica della storia che qui vengono proposti nascono, da una parte, dal
lavoro svolto tra il 2011 e il 2015 per l’impostazione e la scrittura, insieme ad altri colleghi,
di un manuale di storia per i licei1 e, dall’altra, dagli stimoli e dalle riflessioni compiute più
recentemente preparando i corsi di “Didattica della storia” che sono stato incaricato di
tenere nelle università di Bologna e Urbino.
Attraverso una serie di “lezioni” di storia moderna e contemporanea che spaziano dal
XVII all’inizio del XX secolo, l’architettura complessiva del libro cerca di restituire gli ele-
menti essenziali della trasmissione culturale della conoscenza storica: periodizzazioni e
visioni d’insieme, idee e passioni, lungo un filo conduttore che va dalla nascita dello Stato
moderno e dell’idea di nazione fino alle origini della Prima guerra mondiale, vera e propria
cifra simbolica del Novecento.
Nei profili storici che aprono ciascun capitolo sono contenute tutte le informazioni
fondamentali per narrare alcune delle cruciali trasformazioni politico-istituzionali e socio-
culturali della modernità: dall’evoluzione dei sistemi costituzionali tra XVII e XVIII secolo
alla Rivoluzione americana di fine Settecento, il primo dei grandi eventi di segno democra-
tico dai quali è scaturita la fisionomia dell’odierno mondo occidentale; dalla Rivoluzione
francese – con la sua idea di sovranità fondata sulla nazione – alla novità (foriera di sviluppi
e conseguenze) rappresentata dal regime plebiscitario di Napoleone Bonaparte; dalla re-
staurazione illusoria dell’assolutismo monarchico operata dal Congresso di Vienna ai moti
costituzionali che percorrono l’Europa della prima metà dell’Ottocento, quando si diffon-
dono le istanze liberal-democratiche e popolari, ma nello stesso tempo emerge nell’idea
di nazione un elemento identitario sempre più forte, legato alla cultura romantica; dallo
sviluppo industriale e urbano della seconda metà dell’Ottocento, quando nei paesi occi-
dentali cominciano a profilarsi i caratteri sociali e culturali di una moderna società di mas-
sa, agli esiti dell’imperialismo da intendersi come proiezione esterna e aggressiva dell’idea

1
  Vera Zamagni, Germana Albertani, Carlo De Maria e Tito Menzani, Una storia globale. Storia, eco-
nomia e società, manuale per il 2° biennio e il 5° anno di licei e scuole superiori, 3 voll., Milano-Firenze,
Mondadori Education-Le Monnier Scuola, 2015.
14 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

di nazione, con il corollario – all’interno delle singole comunità – di forme di esclusione e


razzismo: l’antisemitismo di fine Ottocento e l’idea del “nemico interno”. Una escalation
dei nazionalismi che porta alla rottura dell’equilibrio europeo tra le potenze e poi, lungo
un inesorabile piano inclinato, verso la mobilitazione civile e militare della Grande Guerra,
con la sua dimensione popolare e di massa.
Gli approfondimenti che completano ciascun capitolo si concentrano sui processi e su-
gli attori più che sugli avvenimenti, focalizzando gli elementi di svolta e le conseguenze di
lungo periodo, individuando i concetti-chiave, stabilendo connessioni tra dimensione lo-
cale e globale e, infine, intrecciando biografie e luoghi. È questa la parte più laboratoriale,
dalla quale attingere alcune proposte pratiche per il trasferimento dei contenuti in effica-
ci azioni didattiche. La spiccata sensibilità verso i temi della storia costituzionale e verso
l’evoluzione dei diritti e dei doveri di cittadinanza riporta al nesso fondamentale tra lo
studio della storia e la formazione di una solida cultura civica. La costante attenzione alle
fonti consente di delineare percorsi didattici “dal documento alla narrazione storica”, che
avvicinino gradualmente studenti e insegnanti alle possibilità della didattica in archivio e
in biblioteca.

Carlo De Maria
Bologna-Urbino, febbraio 2018
I. La nascita dello Stato moderno.
L’Europa tra XVII e XVIII secolo
Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea:
dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra
di Carlo De Maria
Roma (BraDypUS) 2018
ISBN 978-88-98392-70-4
pp. 17-32

Capitolo 1. L’eredità del Seicento


Profilo storico

1.1. La fine delle guerre di religione e il consolidamento del


potere statale

Dal 1520 guerre di religione scoppiavano ripetutamente in Europa, interessando con parti-
colare intensità le regioni tedesche del Sacro Romano Impero e la Francia. Quell’anno il te-
ologo Martin Lutero si era rivolto con un manifesto politico “alla nobiltà cristiana della na-
zione tedesca” invitandola a convocare un concilio nazionale per attuare la riforma della
chiesa. La dottrina luterana, incentrata sulla responsabilità morale e sulla libertà interiore
del cristiano, aveva subito intercettato il profondo malcontento che esisteva nei confronti
del papato e delle gerarchie ecclesiastiche, di cui si condannavano la ricchezza, l’avidità e
un certo autoritarismo sui laici. In questo modo, le istanze della Riforma protestante si era-
no velocemente diffuse in buona parte d’Europa, trovando a Ginevra, con Giovanni Calvino,
un centro di irradiamento verso le comunità di fedeli francesi.

1.1.1. La Francia dalle divisioni interne alla costruzione dell’assolutismo.


La Francia uscì da una crisi ormai secolare solamente nel 1624, quando il cardinale Riche-
lieu prese le redini del potere, ponendo fine alle guerre civili. L’instabilità era iniziata intor-
no alla metà del secolo precedente, nel periodo in cui le idee religiose di Giovanni Calvino
cominciarono a fare presa in molti settori della società francese. Calvino era nato e si era
formato in Francia e le sue dottrine, la sua concezione del governo della chiesa, riuscirono
ad attirare molti gruppi sociali dissidenti. Il maggiore sostegno alla Riforma veniva, infatti,
da coloro che si opponevano al regno di Francesco I (1515-47), il quale si era impegnato per
il rafforzamento del potere centrale, scontentando gran parte della nobiltà provinciale e
delle oligarchie cittadine. E proprio nella misura in cui la diffusione del calvinismo andava
minando le fondamenta del potere costituito, i protestanti attirarono contro di sé una per-
secuzione sommaria di crescente durezza.
Con Enrico II, successore di Francesco I, cominciò una vera e propria caccia aperta ai
seguaci di Calvino. Essi venivano condannati senza giudizio o inchiesta: delle semplici voci
18 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

bastavano per mandare al rogo una persona. I funzionari regi erano indotti a dimostrare
la loro ortodossia sradicando con zelo gli eretici. Sospetto, paura e false accuse dilagava-
no per tutta la Francia. Nonostante tutto, un evento imprevisto, la morte di Enrico in un
incidente durante un torneo cavalleresco (1559), accese nei calvinisti la speranza in una
riscossa e addirittura nella conquista del potere.
In effetti la discendenza reale si trovò in forte pericolo, tanto che nei successivi vent’an-
ni la Francia fu governata di fatto da Caterina de’ Medici, vedova di Enrico II. Nessuno dei
loro tre figli (Francesco II, Carlo IX e Enrico III) mostrò, infatti, una tempra e una determina-
zione all’altezza del momento storico. Ma la volontà di pacificazione e la ragionevolezza
di Caterina non bastarono a stemperare gli odi e i conflitti sviluppatisi negli anni prece-
denti. Si giunse così al massacro della notte di San Bartolomeo (24 agosto 1572), quando i
sostenitori più fanatici del partito cattolico, guidati dalla famiglia aristocratica dei Guisa,
massacrarono circa 30.000 calvinisti, assalendoli casa per casa. Il loro proposito era quello
di annientare il calvinismo in Francia, ma nemmeno una tale carneficina si dimostrò suffi-
ciente a distruggere il movimento protestante.
Il conflitto interno continuò, mentre ciascuna delle due parti migliorava la propria orga-
nizzazione: se, da una parte, ai calvinisti giungevano aiuti dai gruppi protestanti olandesi,
inglesi e tedeschi, dall’altra Filippo II di Spagna inviava uomini e denaro a sostegno della
causa cattolica. Si arrivò a una svolta – e non solo in Francia – nel 1588, quando Filippo II
lanciò la sua grande Armada contro gli inglesi e i Guisa riuscirono a prendere il potere a
Parigi, mettendo a repentaglio la stessa autorità di Enrico III e della madre. Per difendere
il trono, il re fece assassinare il Duca di Guisa, ma la vendetta della famiglia aristocratica
non tardò ad arrivare e pochi mesi dopo Enrico III cadeva, a sua volta, vittima di un agguato
(agosto 1589).
Prima di morire nominò come suo erede il capo dei protestanti, Enrico di Navarra, che
salì al trono come Enrico IV. Una soluzione che venne naturalmente rifiutata dalla parte
cattolica, rendendo inevitabile una scia di sangue e conflitti proseguita fino al 1598, quan-
do Enrico IV giunse a patti con Roma, abiurando il protestantesimo. Il re decretò una am-
nistia generale e proclamò l’Editto di Nantes, che garantiva la libertà religiosa a tutti i suoi
sudditi e non ammetteva discriminazioni politiche tra cattolici e ugonotti (il termine che
identificava i calvinisti francesi). L’editto consentiva, inoltre, alla minoranza protestante di
mantenere delle piazzeforti – cioè il controllo di città fortificate – a garanzia della propria
libertà. Con queste coraggiose misure Enrico IV avviava la ricostruzione di un paese pro-
fondamente segnato dalla lunga guerra intestina. Era il primo sovrano francese a provenire
dalla Casa di Borbone, che avrebbe regnato sulla Francia ininterrottamente fino al 1792 e
poi ancora durante la Restaurazione (1815-48).
Tuttavia il periodo di relativa pace interna imposta da Enrico IV non durò molto. Nel
1610 venne anch’egli assassinato da un fanatico di parte cattolica. Lasciò sul trono il figlio
Luigi XIII di appena nove anni affiancato dalla madre Maria de’ Medici. Ricominciarono i
conflitti armati tra cattolici e ugonotti, che proseguirono fino al 1624, quando iniziò la sta-
gione di governo del cardinale Richelieu, che riuscì a imporre una svolta decisiva alla storia
della Francia moderna.
In qualità di primo ministro di Luigi XIII, che quasi si eclissò davanti alla grande perso-
nalità del suo consigliere, Richelieu fondò infatti una vera e propria monarchia assoluta,
combattendo ogni opposizione e ribellione al sovrano da parte della nobiltà, stroncando
tutte le forma di autonomia politica (La Rochelle, storica piazzaforte degli ugonotti, venne
espugnata dopo un lungo assedio nel 1628), non convocando mai gli Stati generali, cioè
l’assemblea consultiva che rappresentava il clero, l’aristocrazia e i ceti urbani e rurali, e
Capitolo 1. L’eredità del Seicento 19

infine potenziando l’esercito permanente e gli apparati amministrativi. L’attivismo di Ri-


chelieu si manifestò anche in politica estera con la decisione di intervenire nella Guerra dei
Trent’anni. L’obiettivo era quello di rompere l’accerchiamento operato nei confronti della
Francia dagli Asburgo, che occupavano sia il trono spagnolo, con Filippo IV, che quello
dell’Impero germanico, con Ferdinando II.
In politica interna come in politica estera le strategie di Richelieu vennero proseguite
dopo la sua morte (1642) dal cardinale Mazarino, fino a quando nel 1661 il potere passò a
tutti gli effetti a Luigi XIV, il Re Sole, simbolo europeo dell’assolutismo monarchico, salito
al trono fin dal 1643 all’età di soli cinque anni.

1.1.2. Dalla Guerra dei Trent’anni ai nuovi conflitti tra potenze.


Nella prima metà del Seicento l’Europa centrale fu attraversata da un conflitto di inedita
violenza, la cosiddetta Guerra dei Trent’anni (1618-48), incomparabilmente più distruttiva
non solo dei precedenti conflitti feudali, ma anche degli eventi bellici dei due secoli succes-
sivi. Solamente le guerre mondiali del Novecento la supereranno, e di gran lunga, in questa
tragica classifica.
A partire dal 1618 il cuore del Vecchio continente venne messo a ferro e fuoco da con-
dottieri e mercenari di ogni risma in un susseguirsi di saccheggi e razzie che colpirono cam-
pagne e città imponendo enormi sofferenze alle popolazioni civili. Si può tranquillamente
affermare che la Guerra dei Trent’anni incise nella vita quotidiana degli europei molto più
in profondità di altri importanti fenomeni che caratterizzano il XVII secolo, come la rivo-
luzione scientifica o il primo delinearsi di una economia mondiale, che influenzarono solo
gradualmente la vita sociale europea.
I motivi del contendere furono essenzialmente di duplice natura: differenze religiose e
questioni dinastiche. La pace firmata ad Augusta, in Baviera, nel 1555 dai principi cattolici e
luterani era stata solamente una tregua. Forti tensioni avevano continuato ad accumularsi
nel Sacro Romano Impero (o Impero germanico), un mosaico geografico e politico che riu-
niva centinaia di principati e città sovrane dell’Europa centrale, dove gesuiti e predicatori
protestanti aizzavano i rispettivi seguaci. Fino a quando una ribellione scoppiata in Boemia
nel 1618 non scatenò una guerra generale che, estendendosi di regione in regione, durò fin
verso la metà del secolo.
Il giovane re cattolico di Boemia, Ferdinando d’Asburgo, decise di imporre una tassazio-
ne oppressiva ai protestanti e di chiudere le loro chiese. Per tutta risposta venne deposto
dalla nobiltà protestante boema, che scelse come nuovo re Federico del Palatinato, calvini-
sta. Ne nacque una reazione a catena. I numerosi piccoli principati dell’Impero formarono
due leghe contrapposte: l’Unione evangelica guidata da Federico (che non vedrà la fine
della guerra, morendo nel 1632) e la Lega cattolica, comandata da Ferdinando. Quest’ulti-
mo venne eletto nel 1619, per volontà dei più importanti principi cattolici, imperatore del
Sacro Romano Impero.
Il ruolo giocato dagli Asburgo fu dunque di primo piano. Si trattava di una grande fami-
glia aristocratica di origine austriaca, che da circa due secoli aveva appannaggio la carica
imperiale e che dominava su mezza Europa. Per spostare gli equilibri del conflitto a suo
favore, Ferdinando d’Asburgo strinse subito alleanze con il papato e con la Spagna (guidata
da Filippo IV, del ramo spagnolo degli Asburgo), cioè con le principali forze della Contro-
riforma. Nello stesso modo i principi luterani e calvinisti della Germania settentrionale –
vera e propria roccaforte protestante – si allearono con gli ugonotti francesi, con l’Olanda
e l’Inghilterra.
20 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

La maggior parte delle battaglie della Guerra dei Trent’anni non furono combattute
da eserciti regolari, ma da mercenari, come era del resto abitudine in quei tempi. Il vero
problema fu costituito dal fatto che quando, dopo anni di spese belliche, principi e sovrani
rimasero a corto di denaro, le bande armate non ebbero scrupoli a prendersi le loro paghe
sotto forma di bottini e rapine, tormentando e assalendo intere comunità.
Il conflitto continuò ad allargarsi in diverse direzioni: a nord, con l’intervento prima del-
la Danimarca (1625) e poi della Svezia (1630), entrambe guidate da sovrani protestanti, ri-
spettivamente Cristiano IV e Gustavo Adolfo; a ovest, con l’alleanza in funzione antispagno-
la tra Francia e Olanda; a sud, con conflitti nell’Italia settentrionale (ad esempio a Mantova)
tra la Casa d’Asburgo e la Francia di Richelieu.
Nel 1643 i francesi conseguirono una vittoria decisiva contro l’esercito spagnolo a Ro-
croi, nella Francia settentrionale, ponendo sostanzialmente fine alla supremazia militare
spagnola in Europa (anche se la guerra franco-spagnola si trascinò fino al 1659, con la
vittoria definitiva dei francesi). La storia europea della seconda metà del Seicento sarebbe
stata largamente caratterizzata dalla potenza della monarchia francese di Luigi XIV, che
divenne – in seguito alla decadenza della Spagna, del Sacro Romano Impero e del papato
– il nuovo punto di riferimento dell’Europa cattolica.
Dopo Rocroi si ridimensionarono gli obiettivi degli Asburgo anche nel Sacro Romano
Impero. La Lega cattolica rinunciò alla riconquista delle terre della chiesa in possesso dei
protestanti e al termine di faticosi negoziati, sicuramente favoriti dalla morte nel 1637
dell’ultracattolico imperatore Ferdinando sostenitore di una linea intransigente nei con-
fronti dei protestanti, si arrivò alla firma nel 1648 della pace di Vestfalia. Non si fece che
ristabilire il principio della pace di Augusta, secondo il quale ogni principe determinava la
religione dei suoi sudditi. Ne discese che gli Asburgo cacciarono tutti i protestanti dai loro
territori e analogamente molti dei principi luterani e calvinisti posero i loro sudditi cattolici
di fronte alla scelta tra convertirsi o emigrare. Probabilmente nessuno pensava che fosse
stata raggiunta una pace giusta e duratura, ma dopo trent’anni di guerra gran parte dell’Im-
pero germanico era esausta e in rovina, con un terzo della popolazione morta in battaglia
o a causa della peste, della fame e di altre calamità connesse alla guerra.
Con gli accordi di Vestfalia, la Francia occupò parti consistenti dell’Alsazia e della Lo-
rena e pose importanti teste di ponte nella zona renana del Baden-Württemberg; la Svezia
ottenne il controllo di porzioni significative nella Germania settentrionale e il diritto di voto
all’interno della Dieta imperiale; venne, infine, riconfermata l’indipendenza dell’Olanda dal
dominio spagnolo e la Svizzera si staccò dal Sacro Romano Impero.
A partire dalla metà del XVII secolo le divisioni religiose sarebbero gradualmente pas-
sate in secondo piano, mentre emergeva una nuova impostazione politica ed economica
denominata “mercantilismo di Stato”: l’idea cioè che il potere pubblico dovesse rafforzarsi
stabilendo un articolato sistema di tassazione sui propri sudditi, incentivando manifatture,
organizzando monopoli statali, creando colonie e compagnie commerciali, imponendo
dazi alle importazioni per proteggere dalla concorrenza straniera l’economia nazionale
(protezionismo), accumulando e controllando grandi riserve d’oro. Questa forma di prota-
gonismo statale segnerà per lungo tempo la politica europea, producendo a sua volta una
serie di conflitti tra le potenze, con ripercussioni anche sull’organizzazione degli eserciti.
Ufficiali e generali cominciarono a essere inquadrati come servitori dello Stato, alla
guida di eserciti regolarmente arruolati, e non rappresentarono più figure di condottieri in-
dipendenti (spesso incontrollabili) alla guida di truppe mercenarie, come durante la Guerra
dei Trent’anni. Battistrada di queste trasformazioni fu l’esercito francese di Luigi XIV, che
nella seconda metà del Seicento contava 170 mila uomini in servizio permanente (su una
Capitolo 1. L’eredità del Seicento 21

popolazione di 18 milioni di abitanti) ed era regolato da un preciso ordinamento gerarchi-


co, articolato in corpi, ciascuno con la propria uniforme: fanteria, cavalleria e artiglieria.

1.2. Due modelli: lo Stato assoluto e lo Stato liberale

1.2.1. Le grandi monarchie assolute d’Europa: Francia e Spagna


Nella prima metà del Seicento, nonostante le tensioni economiche e le agitazioni sociali
prodotte dalla Guerra dei Trent’anni, Francia e Spagna apparivano a molti come le nazioni
più potenti d’Europa. Né le rivolte contadine in Normandia della fine degli anni Trenta
(contro le tasse altissime imposte da Richelieu, incurante della scarsità dei raccolti), né le
frequenti ribellioni indipendentistiche della Catalogna e del Portogallo (allora sottomesso
alla Spagna) sembravano incrinarne la posizione dominante. Erano le grandi monarchie
assolute d’Europa e i loro tratti distintivi consistevano proprio nel potere dei sovrani di tas-
sare i sudditi senza averne il consenso e nella facoltà, se necessario, di umiliare i nobili più
orgogliosi e indocili. Se è vero che la Spagna, proprio in seguito alla guerra franco-spagnola
del 1635-59, fu definitivamente ricacciata al di là dei Pirenei, entro i propri confini naturali,
la Francia affrontò invece – nei decenni successivi – una spavalda politica espansionistica
che poté contare su un grande esercito regolare e su una solida macchina amministrativa
fortemente centralizzata, con funzionari regi in ogni provincia e in ogni città.
Tale dispiegamento di forze impressionò enormemente (in un misto di terrore e ammi-
razione) gli uomini politici e gli studiosi dell’epoca, spiegando perché l’ideologia dell’asso-
lutismo fiorì, in quel periodo, in quasi tutti i paesi d’Europa. Per imitazione, cioè copiando
semplicemente il modello francese, anche altri governanti potevano coltivare la speranza
di creare un regime dispotico forte ed efficiente. E del resto la tentazione dell’assolutismo
sarebbe rimasta ben presente per secoli nella storia del Vecchio continente, se è vero che
quel modello politico fu definitivamente archiviato in Europa soltanto dopo la Prima guer-
ra mondiale. L’ultima monarchia assoluta a cadere fu, infatti, quella dello zar di Russia nel
1917.
Tuttavia, già nel corso del Seicento cominciarono a delinearsi con chiarezza delle al-
ternative. In Inghilterra, dopo le guerre civili e dopo il governo militare di Cromwell, Carlo
II Stuart affermò di riconoscere le prerogative di un “libero parlamento”; prerogative che
vennero ulteriormente rafforzate dalla Rivoluzione gloriosa del 1688. In Olanda si affermò
un modello di decentramento repubblicano che rese per lungo tempo quel piccolo paese
un rifugio per il nonconformismo religioso e un simbolo del libero spirito commerciale.

1.2.2. Il caso inglese e il consolidamento del sistema parlamentare: dalle


guerre civili alla Rivoluzione gloriosa.
Fin dalla prima metà del Cinquecento, sotto il regno di Enrico VIII (1509-47), si era delineato
in Inghilterra una forma di “governo consiliare”. Fra il 1530 e il 1540 si definì il ruolo del se-
gretario di Stato, ricoperto dal funzionario di maggior fiducia del re a cui venivano affidati
compiti di particolare importanza negli affari esteri; così pure acquisì un peso crescente il
Consiglio del re, che in passato era un corpo non ufficiale di consiglieri reali, e che divenne
22 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

invece, con il nome di Privy Council, una commissione più regolare di ministri che decideva
e metteva in esecuzione la politica di governo. Tra i temi affrontati dal nuovo organo colle-
giale ci furono quelli relativi alle prime imprese di colonizzazione e il tentativo di risolvere
il problema cronico della povertà, che culminò nella Poor Law del 1601, con la quale si
garantivano aiuti dello Stato ai bisognosi: probabilmente il più importante esempio di legi-
slazione sociale fino al XIX secolo.
Anche il parlamento ebbe uno sviluppo in senso istituzionale, diventando qualcosa di
più di una convocazione dei magnati feudali. Si articolava in due rami: i rappresentanti
della piccola nobiltà rurale e i rappresentanti delle città costituirono la Camera dei Comu-
ni, mentre l’alta nobiltà e i vescovi erano riuniti nella Camera dei Lord. Il ruolo del parla-
mento non era solo simbolico ma effettivo, dal momento che i provvedimenti legislativi di
maggiore importanza e, in particolare, l’imposizione di nuove tasse dovevano sottostare
alla sua approvazione. Quando Enrico VIII diceva che in nessun altro momento si sentiva
così forte come quando era in sintonia con il parlamento coglieva perfettamente la realtà:
la sovranità suprema risiedeva effettivamente nel re insieme al parlamento.
Il XVI secolo si chiuse per l’Inghilterra con una grande ondata di energia patriottica e
culturale che trasse in gran parte impulso dalla vittoria sull’Armada spagnola del 1588.
Va ricordato, infatti, che sotto il regno di Elisabetta I (1558-1603) l’anticattolicesimo era
diventato addirittura un elemento fondamentale della vita pubblica inglese, legandosi a
doppio filo all’odio nei confronti della Spagna in un vero e proprio patriottismo con venatu-
re religiose, che culminò appunto nella storica vittoria contro la flotta da guerra spagnola.
Non si può comprendere questo fenomeno se non si tiene presente il breve ma cruento
intermezzo rappresentato dal regno di Maria I (1553-1558) che aveva tentato di ripristinare
la fede cattolica, sposando Filippo II di Spagna e perseguitando i sostenitori della Riforma
protestante e della Chiesa anglicana, fondata da Enrico VIII.
Dall’entusiasmo collettivo scaturito dalla vittoria contro la Spagna trassero impulso sia
la vita economica che quella intellettuale (si collocano in questo periodo anche le opere
di William Shakespeare) e perfino i viaggi di esplorazione. Un clima di fiducia che, però, si
guastò con il regno di Giacomo I (1603-1625), quando si aprì una stagione di conflitto sem-
pre più aspro tra la Corona e la Camera dei Comuni in materia fiscale. I proventi del sistema
di tassazione non arrivavano a pareggiare i debiti creati dai gusti dispendiosi di Giacomo,
mentre un aumento generale dei prezzi cominciava a creare qualche difficoltà anche ai
proprietari terrieri e agli uomini d’affari, che avevano goduto negli ultimi decenni di un te-
nore di vita in ascesa. L’effetto fu quello di renderli sempre più ostili alla prospettiva di nuo-
ve tasse e, più in generale, a ogni interferenza del re sulla vita socio-economica del paese.
La Camera dei Comuni conquistò progressivamente l’iniziativa stringendosi intorno a
Edward Coke. Già ministro con Elisabetta, Coke era entrato in conflitto con il nuovo sovrano
intorno al tema cruciale dell’indipendenza dei giudici. Il re sosteneva che i giudici dovesse-
ro essere suoi servitori e dipendere dal suo beneplacito (come “leoni ai piedi del trono”); al
contrario Coke difendeva appassionatamente la supremazia della legge, l’autonomia del
potere giudiziario e dunque la prerogativa dei giudici di prendere decisioni senza consul-
tare il re.
Se nel 1625, quando finì il regno di Giacomo I, non era in vista alcun conflitto definitivo
con il parlamento, in meno di cinque anni suo figlio Carlo I (1625-1649) lo rese inevitabi-
le. Nella seconda metà degli anni Venti, due brevi conflitti armati con Spagna e Francia
non portarono alcun vantaggio e peggiorarono notevolmente la situazione finanziaria. La
Camera dei Comuni negò al re una nuova imposizione fiscale e Carlo decise di esigere il
Capitolo 1. L’eredità del Seicento 23

tributo senza autorizzazione. Fece inoltre ricorso a un prestito forzoso e alle maniere forti
nei confronti degli oppositori.
La risposta di Coke e dei Comuni arrivò nel 1628 con la Petizione dei diritti (Petition
of Rights), che dichiarava illegale esigere denaro senza il consenso del parlamento e im-
prigionare persone senza che ne fosse dichiarato il motivo. Mostrando di non curarsi del
parlamento, Carlo decise – a partire dal 1629 – di governare senza più convocarlo. Iniziò
in questo modo la cosiddetta “tirannia degli undici anni”. La situazione precipitò quando,
nel 1640, una ribellione scoppiata in Scozia per motivi religiosi (la Scozia presbiteriana si
opponeva all’introduzione di pratiche di preghiera anglicane imposte da Londra) costrinse
il re a convocare di nuovo il parlamento, affinché venisse approvato uno stanziamento
di fondi necessario per l’intervento militare a repressione della protesta. A quel punto, il
parlamento ebbe buon gioco nel procedere all’approvazione – nel corso del 1641 – di una
serie di leggi di riforma, attraverso le quali si stabilì, tra le altre cose, che il parlamento
stesso non poteva essere sciolto d’autorità. Carlo si sottomise a questi primi provvedimen-
ti, ma rifiutò l’anno successivo la richiesta avanzata dal parlamento di avere il controllo
dell’esercito e del potere esecutivo. Fu così che nel 1642 iniziò la guerra civile, in un paese
spaccato a metà.
Se è vero infatti che Londra, sede del parlamento, era contro il re, Carlo aveva comun-
que dalla sua parte quasi metà dei Comuni inglesi, moltissimi nobili e un largo consenso
nelle campagne. In linea di massima, le regioni economicamente più ricche e intrapren-
denti, quelle del Sud-Est, erano dalla parte del parlamento, mentre il Nord e l’Ovest rima-
sero fedeli al re. Una spaccatura si manifestò anche all’interno dell’esercito e, mentre la
maggior parte degli ufficiali seguì il re, il parlamento fu comunque pronto a creare il New
Model Army, un esercito di nuova concezione comandato e ispirato da Oliver Cromwell, tra
i più accesi oppositori della monarchia Stuart alla Camera dei Comuni.
L’esercito di Cromwell diede ottima prova di efficienza e coesione sul campo. Il nucleo
più combattivo, con punte di fanatismo in battaglia, era costituito dai puritani, un movimen-
to calvinista (cui apparteneva lo stesso Cromwell) che mirava a purificare la chiesa dagli
eccessi del culto cattolico. I puritani guardavano a un libero cristianesimo fondato sulla
Bibbia e caratterizzato da forti principi comunitari e da una condotta ascetica di vita. Il loro
rancore nei confronti delle forze fedeli al re si spiegava, almeno in parte, con le persecu-
zioni che le comunità puritane avevano subito da Carlo I nei decenni precedenti, proprio a
causa dell’indipendentismo culturale e religioso che esse esprimevano.
Si profilò ben presto la vittoria del New Model Army e nel 1646 il re fuggì in Scozia,
arrendendosi. Iniziò un lungo negoziato tra sovrano e parlamento, condotto con la sin-
cera volontà della maggioranza parlamentare di mantenere la monarchia. Ma Carlo fu
costantemente elusivo, fino al punto di abbracciare la chiesa presbiteriana per accattivarsi
l’aiuto degli scozzesi, lanciandoli contro il suo stesso paese. Le forze scozzesi attaccarono
l’Inghilterra nel 1648, innescando la seconda guerra civile nel giro di una manciata di anni.
Cromwell riuscì sia a soffocare l’insorgenza scozzese sia a condurre a giudizio di fronte
a un tribunale appositamente creato Carlo I Stuart, che venne dichiarato colpevole di alto
tradimento ai danni dello Stato e giustiziato il 30 gennaio 1649. Con la sua morte venne
(temporaneamente) abolita la monarchia e iniziò un breve regime repubblicano, nel qua-
le trovarono spazio nuovi rigurgiti di violenza e vendette a sfondo religioso. Nel 1650-51,
ad esempio, i puritani di Cromwell condussero epurazioni ed espropri di terre nell’Irlanda
cattolica e in Scozia.
Intanto, a Londra, parlamento ed esercito entrarono presto in conflitto. L’esercito vit-
torioso, assetato di ulteriori riforme, mal tollerava la propria subordinazione a un’assem-
24 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

blea che percepiva come inefficiente e indecisa. Già durante la guerra civile, le truppe di
Cromwell erano state un vivaio di idee radicali, tra le più note quelle sostenute dai Levellers
(Livellatori), che anticiparono alcuni contenuti del pensiero democratico moderno, come
il suffragio universale. Anche per tenere a bada movimenti di opinione che ne potevano
mettere in pericolo la leadership, Cromwell accentuò la natura militare e dittatoriale del
suo governo, assumendo, nel 1653, il titolo di Lord protettore: una sorta di capo supremo
di un regime repubblicano che continuava ad avere contorni istituzionali molto incerti. A
ben vedere, Cromwell diventò un monarca in tutto e per tutto fuorché nel nome, tanto che
al momento della sua morte, nel 1658, gli successe il figlio Richard, pur essendo una figura
pubblica di scarse capacità.
A quel punto la restaurazione degli Stuart fu solo questione di tempo. All’inizio del 1660
il comandante delle truppe inglesi in Scozia, George Monck, scese in Inghilterra e convocò
il parlamento, che accettò di richiamare dall’esilio Carlo II Stuart, figlio del sovrano giu-
stiziato nel 1649. Di determinante importanza fu la Dichiarazione di Breda (4 aprile 1660)
con la quale il futuro re, ancora in Olanda, riconosceva senza ambiguità le prerogative del
parlamento inglese.
Sebbene il regno di Carlo II (1660-85) rappresenti per certi versi un periodo di importan-
ti progressi nella convivenza civile – si pensi all’approvazione nel 1679 dell’Habeas Corpus
Act, con il quale il parlamento ribadiva la salvaguardia della libertà individuale contro l’a-
zione arbitraria dello Stato e proteggeva, in particolare, i cittadini dal carcere preventivo –,
tuttavia lacerazioni religiose e dinastiche erano ancora in agguato. Sempre nel 1679, infat-
ti, una parte del parlamento sostenne la proposta di escludere dalla successione al trono il
fratello del re, Giacomo, a causa della sua aperta adesione al cattolicesimo. Si delinearono
due partiti contrapposti, il “partito del paese” (detto whig) e il “partito della corte” (detto
tory). Prevalse in un primo momento il lealismo monarchico agli Stuart e, così, nel 1685 Gia-
como II poté prendere il posto del fratello, morto quell’anno. Ma ben presto la situazione
si capovolse, in seguito al tentativo del nuovo sovrano di introdurre esponenti cattolici nei
posti di comando della chiesa anglicana, delle università e dell’esercito.
Per bloccare il tentativo di restaurazione cattolica non fu necessaria alcuna sollevazio-
ne armata, ma bastò che nel 1688 una coalizione di capi whig e tory inviasse un appello
a Guglielmo III d’Orange, capo del governo olandese e campione protestante di tutta Eu-
ropa, offrendogli il trono d’Inghilterra. Egli vi poteva legittimamente ambire dal momento
che era imparentato con gli Stuart: sua madre era figlia di Carlo I e sua moglie, Maria, era
figlia dello stesso Giacomo II. Quando Guglielmo sbarcò in Inghilterra iniziando la marcia
verso Londra, Giacomo perse in breve tempo ogni sostegno e fuggì in Francia, dove poteva
contare sull’appoggio di Luigi XIV. Il parlamento dichiarò il trono vacante e lo offrì con-
giuntamente a Guglielmo e a Maria, che diventarono pertanto sovrani d’Inghilterra non
per diritto divino ma per un atto parlamentare. Il loro potere era limitato dalla legge e le
libertà fondamentali degli inglesi saldamente garantite. Noto fin da allora come Glorious
revolution questo cambiamento dinastico fu celebrato come una nuova liberazione, che
giungeva esattamente un secolo dopo la vittoria sull’Armada spagnola.
Una serie di leggi approvate negli anni successivi al 1688, note come Revolution Settle-
ment, stabilirono la cornice costituzionale dell’Inghilterra post-rivoluzionaria, che si appre-
stava a diventare la prima potenza commerciale del mondo. Particolarmente importante
la Dichiarazione dei diritti (Bill of Rights) del 1689 in materia di controllo della tassazione,
libertà di parola e di culto. Si delineò una stabile articolazione dei poteri: da una parte, il
ruolo del parlamento non era più messo in discussione e si ribadiva l’indipendenza dei giu-
Capitolo 1. L’eredità del Seicento 25

dici dal sovrano, dall’altra il re rimaneva il capo del governo e i ministri erano responsabili
verso di lui.
Elementi di stabilità sul versante finanziario e diplomatico furono poi rappresentati
dalla fondazione della Banca d’Inghilterra nel 1694, dalla messa in sicurezza del debito
pubblico l’anno successivo e dall’Atto di unione del 1707, che unificò Inghilterra e Scozia
nel Regno Unito di Gran Bretagna. L’Inghilterra smise definitivamente di essere un esempio
di violenza e di guerra di tutti contro tutti, per diventare un modello di libertà ammirato e
seguito dai riformatori del diciottesimo secolo in ogni paese.

1.2.3. Il caso olandese: decentramento del potere e libero commercio.


Il Seicento vide l’ascesa dell’Olanda al rango di grande potenza mondiale. La repubblica
olandese era nata, alla fine del secolo precedente, come confederazione di sette Stati pro-
vinciali (si parlava, infatti, di Province Unite), i quali a loro volta si presentavano come fede-
razioni di città. Il gusto per l’indipendenza e l’esigenza di una maggiore tolleranza religiosa
verso le organizzazioni calviniste avevano portato, nella seconda metà del Cinquecento, la
popolazione a rivoltarsi contro il dominio spagnolo. Si era formata una lega guidata da Gu-
glielmo principe d’Orange (Guglielmo I), che pose l’accento su un programma all’insegna
del costituzionalismo e della libertà di culto.
Dopo che, in una prima fase, i malumori e i disordini contro gli spagnoli avevano coin-
volto tutti i Paesi Bassi (cioè i territori corrispondenti agli odierni Belgio e Olanda), il mo-
vimento d’indipendenza si affermò solamente nelle province olandesi, dove il gruppo so-
ciale dominante era quello della borghesia mercantile, ben disposta a sostenere il principe
d’Orange al solo patto che il potere pubblico non venisse centralizzato. La struttura sociale
delle regioni meridionali, Fiandre e Vallonia – cioè l’attuale Belgio –, era invece molto più
polarizzata tra nobiltà e corporazioni di arti e mestieri (gilde). La nobiltà meridionale, cioè,
temeva meno il re spagnolo e i suoi fiduciari di quanto non guardasse con inquietudine al
montare delle forze popolari e democratiche di Bruxelles e di Gand, che per giunta veniva-
no appoggiate dal principe d’Orange.
Mentre dunque, nel 1579, le regioni meridionali decisero di firmare un accordo con Fi-
lippo II, riconoscendo la tutela della Spagna, due anni più tardi, nel 1581, i rappresentati
delle province del Nord, riuniti negli stati generali rivoluzionari, decretavano l’indipenden-
za dell’Olanda dalla corona di Spagna e la nascita della repubblica delle Province Unite. La
nuova compagine statale riuscì a resistere al contrattacco spagnolo anche dopo l’assassi-
nio di Guglielmo d’Orange (1584) e a condurre una lunga e vittoriosa guerra di indipenden-
za. Si arrivò a una tregua solamente nel 1609, quando vennero fissate le frontiere olandesi
poi riconosciute definitivamente con la pace di Vestfalia (1648).
Gli storici olandesi hanno spesso deplorato la divisione dei Paesi Bassi e la possibilità
perduta di una più ampia unità nazionale. È probabile, invece, che la frattura determina-
tasi tra territori meridionali e settentrionali sia stata un fattore decisivo nella fortuna della
repubblica olandese. Proprio i contrasti sociali che, nelle regioni del Sud, determinarono
il fallimento degli sforzi di Guglielmo d’Orange per arrivare a una grande confederazione
dei Paesi Bassi, fanno ipotizzare che se tutte le province fossero state liberate non sarebbe
passato molto tempo prima che nuovi conflitti ne lacerassero l’unità. Bisogna poi conside-
rare che la rapida espansione economica degli olandesi nel XVII secolo poté comunque
giovarsi di capitali, manodopera e professionalità di fiamminghi e valloni emigrati al Nord
in cerca di maggiore libertà. Le regioni meridionali, cioè, anziché costituire un competitore,
favorirono lo sviluppo dell’Olanda.
26 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Una forte e compatta guida politica fu un altro degli ingredienti dell’espansione olan-
dese: la ricca borghesia mercantile sapeva meglio di qualsiasi re come fare i propri interes-
si. Infine, l’ascesa della repubblica olandese può essere spiegata anche con il fatto che essa
era abbastanza piccola da essere governata come una città-stato, ma abbastanza grande
da difendersi contro possibili conquistatori.

1.3. Mercantilismo e protezionismo.


La sfida economica e militare tra le potenze europee

Le scoperte compiute dai navigatori europei tra XV e XVI secolo aprirono, come sappiamo,
un capitolo nuovo nella storia dell’umanità e fecero emergere nuove potenze commercia-
li transoceaniche, che soppiantarono velocemente quelle del Mediterraneo (le città-stato
italiane, Venezia e Genova). Con diversa fortuna, le grandi monarchie europee – Spagna,
Portogallo, Inghilterra e Francia – cercarono nell’espansione oltreoceano i mezzi per sta-
bilizzare i loro Stati, che si erano faticosamente formati attraverso una lunga lotta per sot-
trarre privilegi e autonomia a un gran numero di corpi sovrani quasi indipendenti: casate
nobiliari, vescovi, ordini militari, corporazioni.
L’approccio alla conquista coloniale fu molto diverso tra i vari paesi europei. Mentre i
possedimenti inglesi e francesi in America del Nord rappresentavano basi per il commercio
e la produzione agricola, l’America centro-meridionale largamente controllata da spagnoli
e portoghesi era tutta dedita all’estrazione di oro e argento e, più in generale, allo sfrutta-
mento delle enormi risorse naturali. Ma l’abbondanza di metalli preziosi, anziché essere
un vero colpo di fortuna (a cui probabilmente nessuno avrebbe potuto resistere), si rivelò
presto un calice avvelenato. Tanto che nel 1631 uno degli uomini più influenti di Spagna, il
duca di Olivares, affermò in una riunione del Consiglio di Stato che per il suo paese sarebbe
stato preferibile non aver scoperto il Nuovo Mondo.
È un dato di fatto che, tra Cinque e Seicento, Inghilterra e Francia (ma anche la più pic-
cola Olanda) potenziarono e diversificarono le loro economie, mentre la Spagna sostenuta
dall’illusione di una inesauribile fornitura di moneta declinò sotto il peso di guerre condot-
te contro tutto il resto d’Europa. A causa della straordinaria abbondanza di metalli prezio-
si provenienti dalle miniere messicane e peruviane, gli spagnoli furono per lungo tempo
incapaci di comprendere il valore del coltivare la terra e dello sviluppo delle manifatture.
Una sorta di cecità economica indotta dal bagliore dell’oro e dalla brama di altre ricchezze
d’oltreoceano, che fece sì che la Spagna e, in modo simile, il Portogallo non si riprendessero
mai più dal rapido declino della loro esperienza coloniale; un declino che cominciò a esse-
re evidente già alla fine del XVI secolo.
Nella prima metà del Seicento non era comunque facile prevedere quale delle nuo-
ve potenze commerciali avrebbe dominato il mercato mondiale in espansione. Dopo la
fortunata ribellione antispagnola i traffici commerciali e finanziari si spostarono massic-
ciamente verso l’Olanda, e più in particolare verso il porto di Amsterdam, che si affermò
come il centro economico del mondo occidentale. Il sistema economico olandese palesava
però un limite rispetto ai suoi concorrenti, Inghilterra e Francia. Non poteva, cioè, contare
sull’autosufficienza agricola e, quindi, per garantirsi gli approvvigionamenti alimentari do-
veva puntare necessariamente su un sistema aperto di commercio internazionale. Tanto
Capitolo 1. L’eredità del Seicento 27

per fare un esempio, gli olandesi importavano il grano dal Baltico, in cambio di pesce e
soprattutto di aringhe. Ma le aringhe venivano pescate lungo le coste dell’Inghilterra e del-
la Scozia, inoltre l’industria della pesca aveva bisogno di sale, che veniva importato dalla
Spagna e dalla Francia. In sostanza, gli olandesi potevano prosperare fintanto che i com-
merci marittimi si fossero svolti liberamente in tutte le loro ramificazioni interdipendenti.
Questo tallone d’Achille divenne presto chiaro all’Inghilterra, la sola potenza marittima
che potesse davvero sfidare gli olandesi. La competizione economica anglo-olandese si
inasprì dopo il 1651, quando Cromwell emanò l’Atto di navigazione e intraprese la pri-
ma guerra contro l’Olanda (1652-54); una politica aggressiva che venne proseguita e anzi
incentivata da Carlo II con il corollario di altre due guerre combattute nel 1665-67 e nel
1672-74.
L’Atto di navigazione, esplicitamente diretto a danneggiare il commercio marittimo
olandese, stabiliva che il trasporto di tutte le merci da e per l’Inghilterra dovesse essere
effettuato soltanto su navi inglesi. Può essere ritenuto il primo esempio di una politica pro-
tezionista, con lo scopo di favorire il commercio nazionale inglese a discapito delle nazio-
ni concorrenti. Una strategia che venne ulteriormente perfezionata negli anni successivi
con una serie di provvedimenti restrittivi, Navigation Acts, che limitarono il più possibile
l’attracco del naviglio estero presso tutti i porti britannici, compresi quelli delle colonie,
dal momento che anche il commercio con le colonie inglesi d’oltreoceano doveva essere
monopolio della madrepatria.
La situazione divenne estremamente critica per gli olandesi quando il difensore del
mercantilismo francese, Jean-Baptiste Colbert, ministro delle Finanze e della Marina di Lu-
igi XIV, portò anche la Francia in una guerra economica contro l’Olanda. Colbert impose
dazi molto elevati sulle importazioni dirette in Francia e schierò sui mari una potente e
moderna flotta navale. Questo nuovo duro colpo diretto agli olandesi e alla loro mentalità
commerciale si tradusse dal punto di vista militare in una coalizione anglo-francese che,
nel 1672, arrivò quasi a schiacciare l’Olanda. La piccola repubblica si difese dall’avanzata
nemica su Amsterdam aprendo le dighe e allagando una vasta area del proprio territorio.
Quell’operazione disperata ebbe successo, ma la pace del 1674 annunciò, con la rinuncia
olandese ai commerci verso le Americhe, quel declino che si manifestò appieno all’inizio
del Settecento, quando l’Olanda scese al livello di potenza di secondo piano, mentre si
affermava il predominio inglese sui mari.
In buona sostanza, l’abilità e l’attitudine olandese verso il libero commercio nulla po-
terono contro la mobilitazione di grandi entità statali e coloniali come l’Inghilterra e la
Francia. Amsterdam rimase un importante centro finanziario, ma la sua potenza mercantile
e politica non tornò mai più ai livelli toccati intorno alla metà del Seicento.
Alla fine del secolo rimaneva sul campo un solo autentico vincitore, l’Inghilterra, dal
momento che anche le ambizioni espansionistiche di Luigi XIV risultarono, in definitiva,
insoddisfatte. La flotta da guerra voluta da Colbert venne duramente sconfitta nel 1692 da
una nuova coalizione anglo-olandese riunita sotto il vessillo di Guglielmo d’Orange, già
capo della repubblica olandese e dal 1688 re d’Inghilterra.
La cosiddetta Guerra dei Nove anni (1688-97) era iniziata proprio con l’appoggio di Luigi
XIV al cattolico Giacomo II Stuart, contro l’ascesa di Guglielmo al trono d’Inghilterra. Ma
si rivelò più sanguinosa e distruttiva del previsto per la Francia, anche in ragione del fatto
che la coalizione anglo-olandese venne ulteriormente rinforzata da Leopoldo d’Asburgo,
l’imperatore del Sacro Romano Impero, che dopo aver allentato e respinto la pressione tur-
ca sulle regioni austro-ungariche, voleva contendere alla Francia alcuni territori di confine
come l’Alsazia e la Renania.
28 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Solo le preoccupazioni di Guglielmo III legate ai troppi finanziamenti da chiedere al


parlamento, e dunque la sua volontà di arrivare velocemente a un accordo di pace, evita-
rono a Luigi XIV una sconfitta definitiva. Le ambizioni di potenza della Francia uscirono co-
munque fortemente ridimensionate e avrebbero ricevuto, poi, un ulteriore colpo all’inizio
del Settecento con la sconfitta nella Guerra di successione spagnola. La politica egemonica
della Francia lasciava gradualmente il passo al principio dell’equilibrio europeo (balance
of power) sostenuto dalla Gran Bretagna.
Come se non bastasse, anche sul fronte interno Luigi XIV andò incontro a scelte con-
troproducenti. La creazione di una chiesa cattolica di Stato, denominata Chiesa gallicana
(1682), e la conseguente revoca dell’Editto di Nantes (1685), sollevarono critiche e perples-
sità da più parti. Infatti, al di là di ogni considerazione legata alla negazione della libertà di
coscienza e di culto, l’emigrazione forzata di circa mezzo milione di ugonotti verso l’Olan-
da e l’Impero germanico finì per impoverire di risorse e competenze l’economia francese.

1.4. La nascita delle grandi banche pubbliche

Le banche private avevano sempre concesso con difficoltà credito agli Stati e ai loro sovra-
ni, in quanto non si fidavano di creditori che avrebbero avuto il potere di ripudiare il debito
contratto. Per questa ragione, nel corso del Seicento, con l’accrescersi di apparati pubblici
sempre più dispendiosi e di attività economiche e commerciali promosse direttamente dai
governi, si assistette alla nascita dei primi istituti di credito pubblici.
La prima banca pubblica fu quella di Amsterdam, fondata nel 1609 su iniziativa di un
gruppo di mercanti originari di Anversa (Fiandre), giunti nella città olandese per sfuggire al
dominio spagnolo. Si partiva da una precisa esigenza, quella di uniformare una situazione
finanziaria dominata dal disordine e dalla grande eterogeneità di monete in circolazione.
Consapevoli di questo, le autorità della repubblica olandese posero termine all’attività di
tutti i cambiavalute, dichiarando l’illegalità dei loro biglietti, e chiusero le oltre venti zec-
che esistenti, assegnando alla nuova banca il compito di unificare il sistema dei pagamenti
attorno al fiorino olandese. Appoggiarono inoltre la banca centrale a condizione che essa
si assumesse il compito di concedere prestiti al governo e a istituzioni pubbliche o semi-
pubbliche, come la Compagnia delle Indie. Il decollo della banca fu immediato e favorì
in modo consistente il predominio commerciale olandese, che segnò gran parte del XVII
secolo.
Altre banche pubbliche nacquero ad Amburgo (1619) – vale a dire il principale porto
dell’Impero germanico, con una grande tradizione commerciale che affondava le radici
nella storia della Lega anseatica –, e più tardi a Stoccolma (1656), capitale del Regno di
Svezia, potenza egemone in Scandinavia e sul Mar Baltico. Ma l’istituto bancario di gran
lunga più importante creato nel XVII secolo fu la Banca d’Inghilterra, fondata per iniziativa
del parlamento nel 1694, nel pieno della guerra con la Francia.
La Banca d’Inghilterra nasceva con alcune importanti prerogative. Tanto per comin-
ciare, la complessità delle operazioni di cui si faceva carico: da una parte la raccolta di
finanziamenti da investire in imprese industriali e commerciali private; dall’altra il compito
di acquistare titoli di Stato per facilitare il collocamento del debito pubblico (soprattutto in
caso di guerre). Inoltre, essa assumeva, come la Banca di Amsterdam, il diritto di emissione,
Capitolo 1. L’eredità del Seicento 29

ossia di “battere moneta”, compito fino ad allora svolto dai privati sulla base di concessioni
e privilegi statali.
Queste prerogative comportarono un controllo diretto sulla banca da parte del parla-
mento e del governo: il Lord tesoriere (più o meno, l’attuale ministro del Tesoro) sottopone-
va alle camere dei Comuni e dei Lord le leggi finanziarie, le previsioni annuali delle spese
pubbliche e delle entrate e presentava un piano rigoroso di rimborso dei prestiti che la
banca erogava alla corona e al parlamento. Nasceva cioè, tramite l’istituzione della banca
pubblica una vera e propria politica di bilancio, cosa che rendeva più regolare e meno one-
roso il flusso di spese e prestiti dello Stato.
Da Amsterdam a Londra il sistema bancario si modernizzò nelle aree economicamente
più avanzate e dinamiche d’Europa, mentre altrove le banche centrali nacquero solamente
più tardi: a partire dal 1800, come nel caso della Banca di Francia.

1.5. La modernità del pensiero politico e scientifico del XVII secolo

Nel passaggio tra Cinque e Seicento, il frantumarsi dell’unità religiosa corrispose con le pri-
me elaborazioni di una teoria dello Stato moderno da parte dei filosofi della politica. Quasi
parallelamente, nel campo delle scienze naturali si assistette al fiorire di nuove conoscen-
ze basate sul metodo induttivo, sull’osservazione diretta dei fenomeni e su sperimentazioni
attentamente programmate.
Del resto, la tradizione classica si era rivelata, per molti versi, inaffidabile. E questo a
partire dalla fine del XV secolo, quando i viaggi transoceanici avevano mostrato che la
geografia dei greci era in larga parte sbagliata. Successivamente, intorno alla metà del XVI
secolo, gli studi di Copernico avevano ribaltato il sistema aristotelico-tolemaico tenace-
mente difeso dalla chiesa; fino ad arrivare all’inizio dei Seicento, quando Galileo cominciò
a utilizzare il telescopio, inventato da artigiani olandesi e perfezionato da lui stesso, per
studiare la conformazione della Luna e i satelliti di Giove.
Alla metà dei Seicento, dunque, i filosofi e gli scienziati europei si ritrovarono in un mon-
do nel quale sia i tradizionali ordinamenti politici e religiosi sia l’autorità dei testi antichi
non offrivano più un fondamento affidabile per affrontare il presente e il futuro.

1.5.1. Il problema della sovranità dello Stato: tra assolutismo e


costituzionalismo.
Nel 1576, durante le guerre religiose che sconvolsero la Francia, Jean Bodin, uno dei mag-
giori scrittori politici di quel secolo, pubblicò i sei libri della Repubblica, nei quali spingeva
in secondo piano le divisioni e le contese religiose a favore di un principio di sovranità asso-
luta dello Stato. Parallelamente altri autori approfondivano la riflessione sui pericoli della
tirannide e sulla legittimità di opporsi a essa. Si prefiguravano, cioè, fin da allora due teo-
rie opposte che sarebbero state pienamente sviluppate nel corso del Seicento da Thomas
Hobbes e John Locke, i due più grandi pensatori politici di quel secolo, entrambi inglesi. Il
primo, ponendo l’accento sui diritti del sovrano nei riguardi di tutti i suoi sudditi, prefigurò
l’idea dell’assolutismo politico; il secondo, mettendo in rilievo i diritti dei sudditi contro il
tiranno, mosse verso l’idea di un moderno costituzionalismo.
30 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Formatosi culturalmente nei primi decenni del Seicento, Hobbes visse dapprima la sta-
gione di crescente tensione tra Giacomo I e la Camera dei Comuni, poi l’aperto conflitto tra
Carlo I e il parlamento, che avrebbe portato alla guerra civile e alla decapitazione del re
nel 1649. Due anni più tardi, nel 1651, durante il governo militare di Cromwell, mentre si
manifestavano nuovi conflitti tra parlamento ed esercito, pubblicò la sua opera principale,
il Leviathan.
Hobbes individuava nella guerra civile il più grande male del mondo e, per scongiurare
quella deriva violenta, sviluppava un sistema rigoroso e coerente di sovranità e sudditanza,
fondato su una ben precisa concezione della natura umana. La qualità peculiare dell’uomo
è, secondo le pagine di Hobbes, il suo egoismo: un desiderio perpetuo e senza tregua di
potere. Riferendosi a una metafora allora in voga tra i teorici politici, quella dello stato
di natura, dove gli uomini esistono senza le istituzioni politiche, Hobbes parlava di una
“guerra di tutti contro tutti” (bellum omnium contra omnes) senza speranza di riscatto per
l’umanità. La ragione e lo spirito di autoconservazione conducevano l’uomo ad abbando-
nare il disastroso stato di natura per un sistema politico in grado di impedire la guerra
civile. Per raggiungere questo obiettivo lo Stato avrebbe dovuto assumere ogni possibile
potere e, secondo l’immagine usata da Hobbes, gli uomini consegnare le loro spade al so-
vrano, “grande Leviathan” e “dio mortale”, il cui controllo era assoluto. Sia detto, per inciso,
che l’autore inglese prendeva l’immagine del Leviatano – gigantesco e voracissimo mostro
acquatico – dalla tradizione biblica.
A Hobbes, e qui sta la sua modernità, non interessavano principi di legittimità del pote-
re fondati sulla tradizione o su basi religiose; secondo la sua teoria politica, infatti, la sola
giustificazione dello Stato consisteva nella capacità di mantenere l’ordine. Le rivoluzioni
dunque erano illegali, ma se riuscivano ad affermarsi e a prendere il potere, ristabilendo
un ordinato vivere civile, legittimavano se stesse. In questa presa di posizione alcuni videro
la volontà di compiacere il nuovo regime di Cromwell.
Se il Leviatano fu, almeno in parte, il risultato dell’impressione provocata su Hobbes
dall’esperienza diretta della guerra civile, ben diverso era il clima politico vissuto dal più
giovane Locke, che pubblicò le sue opere fondamentali – in particolare i Due trattati sul
governo – subito dopo la Rivoluzione gloriosa. Proprio la minaccia (poi sventata) di una
successione cattolica in un paese anglicano e protestante, spinse Locke a teorizzare il dirit-
to alla resistenza dei cittadini rispetto a un governo che esorbitasse dalle sue prerogative.
Nella sua narrazione politica, Locke ricorse come Hobbes all’immagine iniziale dello
stato di natura e al presupposto dell’origine contrattualistica dello Stato, ma con connota-
zioni differenti. Nella loro condizione originaria, secondo Locke, gli uomini godevano del
diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà; dunque una società politica si poteva giustifi-
care solo se riusciva a meglio garantire i diritti inalienabili di tutti, all’interno di una cornice
costituzionale. Nello Stato prefigurato da Locke il governo era sottoposto al controllo della
società e del parlamento ed esistevano certe condizioni nelle quali le forze sociali poteva-
no legittimamente negare l’obbedienza al proprio governo, in particolare quando esso de-
generasse diventando tirannide, rompendo i patti con la cittadinanza e violandone i diritti.
Affermando che la rivoluzione era la risorsa ultima, ma talvolta giustificata, le idee di
Locke avrebbero acquisito nuova attualità durante le grandi trasformazioni politiche del
Settecento.
Capitolo 1. L’eredità del Seicento 31

1.5.2. Crisi della tradizione e rivoluzione scientifica.


Parlando di rivoluzione scientifica ci si riferisce alla trasformazione, avvenuta tra Cinque e
Seicento, dell’immagine della natura e del cosmo ereditate dall’antichità. Questo profondo
rinnovamento nella conoscenza del mondo si colloca, convenzionalmente, in un arco tem-
porale delimitato dalla pubblicazione di due opere fondamentali: Le rivoluzioni delle sfere
celesti (1543) del polacco Niccolò Copernico e i Principi matematici della filosofia naturale
(1687) dell’inglese Isaac Newton.
La rivoluzione scientifica prese, cioè, avvio con la rivoluzione astronomica, fondata sul
sistema eliocentrico, uno degli avvenimenti più importanti della storia culturale europea, e
si consolidò grazie all’applicazione del calcolo matematico alla fisica e al ricorso all’inda-
gine sperimentale. La scienza si dissociava definitivamente dalla magia e approdava a una
metodologia di conoscenza sistematica e trasmissibile, cioè potenzialmente accessibile a
tutti e non più legata a una idea di iniziazione soprannaturale.
Tutto ciò minava alla radice sia la tradizione culturale “ufficiale”, con le sue vecchie
teorie fisiche e cosmologiche, sia l’autorità della chiesa, soprattutto laddove essa confidava
ancora in un’interpretazione letterale, e non allegorica, delle Scritture, guardando con diffi-
denza al principio della libera ricerca (ritenuto dal papa pericoloso quanto il libero esame
dei testi sacri sostenuto dai protestanti).
Mentre dunque, nell’Italia segnata dalla Controriforma, Galileo Galilei (1564-1642), pa-
dre della scienza moderna e protagonista di primo piano della rivoluzione astronomica,
fu sospettato di eresia e accusato di voler sovvertire la filosofia naturale aristotelica e le
Sacre Scritture, per questo processato e condannato dal Sant’Uffizio, infine costretto all’a-
biura e al confino; diversamente scienziati e matematici dell’Europa centro-settentrionale
– oltre a Newton (1642-1727) è da ricordare almeno il francese René Descartes, Cartesio
(1596-1650) – furono più liberi di mettersi in cerca di nuovi modi di utilizzare la ragione e
l’osservazione, senza eccessivi timori di criticare la visione del mondo tradizionale. La diffu-
sione della Riforma protestante e i violenti conflitti settari del secolo e mezzo precedente
avevano profondamente ridimensionato, nei loro paesi, l’autorità religiosa come guida per
la conoscenza.
Se in Francia la scuola cartesiana insistette sul ragionamento logico e matematico
come fondamento per la conoscenza scientifica, in Inghilterra, e in particolare presso la
Royal Society (l’accademia scientifica nazionale presieduta da Newton a partire dal 1703),
lo studio della natura si impostò su programmi di misurazioni sperimentali, che utilizza-
vano apparecchiature e strumenti sempre più sofisticati e che prevedevano come esito
finale importanti dimostrazioni pubbliche. Un approccio spiccatamente empirico secondo
il quale osservazioni condotte con strumenti quali telescopio, microscopio, prismi e lenti
– in un rapporto di costante confronto con la società attraverso le dimostrazioni aperte
al pubblico – portavano a conoscenze più precise e attendibili di quelle risalenti ai tempi
antichi, ai testi religiosi o anche alla sola deduzione astratta. Si trattava di una novità
clamorosa per l’Europa dell’epoca ed è possibile rendersene conto non appena si pensi a
cosa aveva dovuto sopportare pochi decenni prima Galileo.
Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea:
dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra
di Carlo De Maria
Roma (BraDypUS) 2018
ISBN 978-88-98392-70-4
pp. 33-56

Capitolo 1. L’eredità del Seicento


Approfondimenti

Costituzione e cittadinanza
Lo Stato moderno come garante di spazi e di regole

Nell’Inghilterra del XVII secolo si sviluppò quasi alla perfezione il funzionamento di un


istituto politico destinato a esprimere la volontà popolare, il parlamento. Per prevenire le
tentazioni autoritarie dei sovrani, si stabilì che le convocazioni dell’assemblea dovevano
essere frequenti, l’elezione dei deputati libera e fissata a cadenza triennale. Così, i deputati
stessi furono spinti a tener costantemente presenti le istanze che provenivano dalle provin-
ce e dai territori del regno.
Il parlamento faceva le leggi insieme al re, discuteva e ispirava la politica generale del-
lo Stato, e il sovrano non poteva arbitrariamente ricusare quanto vi fosse stato deliberato.
La corona, inoltre, non poteva legiferare da sola e meno che mai infliggere ai cittadini im-
poste che il parlamento non avesse approvato. Su queste posizioni convergevano entrambi
i partiti inglesi, tanto i liberali whig che i conservatori tory, facendo sì che esse delineassero
una riconosciuta cornice costituzionale.
Le posizioni di avanguardia del pensiero politico inglese cominciarono a insinuarsi an-
che nei regimi improntati all’assolutismo, come quello francese. Luigi XIV si era illuso di aver
allontanato per sempre dal suo regno quella che egli sentiva come la più odiosa di tutte le
calamità: il fatto che un sovrano dovesse piegarsi a leggi e disposizioni deliberate dai rap-
presentanti del popolo. E tuttavia, mentre il Re Sole si batteva con il suo grande esercito per
l’egemonia europea, il fascino delle istituzioni politiche inglesi penetrava tra gli uomini di
cultura del suo paese, come avrebbero dimostrato gli sviluppi rivoluzionari del Settecento.
Un altro tema centrale per una riflessione sui diritti di cittadinanza, e in particolare sulla
libertà di coscienza, attraversò tutto il XVII secolo. Ci si chiedeva, cioè: ha il sovrano facoltà
di imporre una determinata confessione religiosa o la libertà di culto dei sudditi va assolu-
tamente rispettata? In alcuni Stati europei il principio di libera scelta non veniva più messo
in discussione. Era stato formulato per la prima volta in Francia al tempo delle guerre di
religione, con l’Editto di Nantes del 1598. Lo praticava l’Olanda, dove uomini di qualunque
nazione e di qualunque fede si incontravano per motivi commerciali. Anche l’Inghilterra,
34 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

dopo avere scongiurato il rischio di violente restaurazioni cattoliche, recepì di fatto la li-
bertà di culto. E il Sacro Romano Impero era ormai una entità plurireligiosa, anche se con
gli accordi di Augusta (1555) e di Vestfalia (1648) veniva fatto obbligo ai sudditi dei singoli
principati di seguire la religione del loro sovrano; in alternativa sarebbero dovuti emigrare
in un altro principato in cui la religione di Stato coincidesse con la propria.
Quasi paradossalmente, sul finire del secolo, fece retromarcia la Francia di Luigi XIV,
che contraddicendo il suo avo Enrico IV abolì nel 1685 l’Editto di Nantes, costringendo all’e-
silio centinaia di migliaia di ugonotti. Di fronte all’intolleranza del re, le proteste scoppia-
rono vivaci. Il più esplicito fu John Locke che nella Lettera sulla tolleranza (1689) sostenne
essere la libertà di religione condizione necessaria di ogni consorzio civile. Locke avan-
zava anche un altro principio che avrebbe fatto scuola nel pensiero liberale europeo: la
separazione della Chiesa dallo Stato. Una affermazione che arrivava, non a caso, mentre
gli ugonotti francesi sperimentavano sulla propria pelle tutti i danni di una chiesa, quella
Gallicana, posta sotto la tutela di una monarchia assoluta.
Si giunge così a un’altra questione cruciale posta dalla storia politica del XVII secolo.
Perché uno Stato si regga in piedi c’è proprio bisogno di un re, di un regime monarchico e
magari di un assolutismo politico basato sul diritto divino? Le smentite venivano da diver-
se direzioni. L’Olanda, già alla fine del Cinquecento, aveva ripudiato il dominio della coro-
na spagnola, scegliendo la forma repubblicana e applicando un forte decentramento del
potere che salvaguardasse l’autonomia di città e province. L’Inghilterra decapitò il suo re
(1649) e dopo aver sperimentato un regime repubblicano – quello di Cromwell – caratte-
rizzato da un forte autoritarismo e da espressioni di fanatismo religioso, arrivò alla defini-
zione di un ordinamento costituzionale che regolasse il funzionamento della monarchia.
Da entrambi gli esempi emergevano le istanze di popoli che provavano a governarsi da
sé. Si era, comunque, ancora lontani da una concezione propriamente democratica della
politica, dal momento che il diritto di voto era limitato ai possidenti. In Inghilterra, ad esem-
pio, i deputati alla Camera dei Comuni erano eletti dai cittadini che disponessero di una
rendita di almeno 40 scellini e più elevato ancora era il patrimonio che si richiedeva per la
eleggibilità in parlamento. Questo significava che i deputati erano agiati proprietari e in-
dustriali, ricchi commercianti e importanti professionisti, mentre i nullatenenti, i lavoratori
manuali e i ceti piccolo borghesi erano ancora esclusi dai diritti politici.

Italia-Europa-Mondo
Dal Mediterraneo agli oceani

Fino alla fine del XV secolo i navigatori europei avevano percorso rotte relativamente bre-
vi. Si può dire che le loro navi non uscissero dal Mediterraneo (dove si distinguevano per
abilità i marinai veneziani e genovesi), se si fa eccezione naturalmente per i commerci che
nella parte nord-occidentale del continente interessavano la Manica, il Mare del Nord e il
Mar Baltico; rotte sulle quali dominavano le città della Lega anseatica.
Questi limitati confini marittimi vennero cancellati dai viaggi di esplorazione compiuti
negli ultimi decenni del Quattrocento. Il riferimento è sia alle rotte verso sud-est seguite,
a partire dal 1488, dai navigatori portoghesi Bartolomeo Diaz e Vasco da Gama, i quali
discesero per primi le coste dell’Africa mostrando l’esistenza di una via navigabile per
Capitolo 1. Approfondimenti 35

l’India e l’Asia orientale; sia alla traversata dell’Oceano Atlantico, verso ovest, intrapresa
da Cristoforo Colombo, che nel 1492 approdava nell’isola di San Salvador (Caraibi) sco-
prendo l’esistenza dell’America.
Inizialmente i navigatori provenienti dalle città-stato italiane furono ancora protago-
nisti, anche se al soldo di potenze straniere. Oltre a Colombo, che lavorò per la corona
spagnola, vale la pena ricordare Giovanni Caboto, anch’egli genovese, che compì per conto
dell’Inghilterra una serie di viaggi in direzione delle coste nord-occidentali dell’America
fino al Canada (1497); oppure Giovanni da Verrazzano, di origine toscana, che intorno al
1520 con il sostegno economico della Francia esplorò per primo la zona costiera dove oggi
sorge New York. Ma il primato nei navigatori provenienti dal Mediterraneo si rivelò presto
in netto declino, mentre gli equilibri politici ed economici europei si spostavano verso i
porti inglesi e olandesi.
All’inizio del Seicento l’esplorazione della Terra si orientò principalmente verso due
direzioni: la ricerca di un passaggio a nord-ovest dall’Atlantico al Pacifico e le spedizioni
verso l’Oceania che portano alla scoperta di isole e nuove vie marittime tra l’Oceano India-
no e l’Oceano Pacifico.
Nel 1609 il comandante inglese Henry Hudson salpò per un viaggio di esplorazione
finanziato dalla Compagnia olandese delle Indie orientali con l’obiettivo di trovare il pas-
saggio a nord-ovest verso l’Asia orientale. La sua spedizione trovò la rotta bloccata dal
ghiaccio e il comandante decise allora di girare verso occidente, esplorando la costa del
Nord America e risalendo un grande corso d’acqua che venne denominato fiume Hudson.
In quella zona l’equipaggio si imbatté negli indiani Mohicani, con i quali riuscì a realizzare
vantaggiosi baratti, scambiando perline e oggetti in metallo con pellicce di castoro. Un
tipo di commercio che si rivelò molto remunerativo e che spinse, negli anni successivi, gli
olandesi a finanziare una serie di viaggi per esplorare compiutamente il fiume Hudson.
Nel 1621 venne creata appositamente la Compagnia olandese delle Indie occidentali
(nome con il quale si indicavano comunemente le Americhe). La nuova compagnia com-
merciale fondò nel 1625, alla foce dell’Hudson – proprio nella zona toccata un secolo pri-
ma da Giovanni da Verrazzano –, un villaggio fortificato, New Amsterdam, che diventerà
più tardi la città di New York. La colonizzazione olandese del Nordamerica arrivò in pochi
decenni a coprire molte parti degli attuali Stati di New York, Connecticut, Delaware e New
Jersey. Più tardi, tuttavia, durante gli aspri conflitti militari e commerciali anglo-olandesi, la
cosiddetta Nuova Olanda sarebbe stata conquistata in toto dall’Inghilterra (1664).
Nel momento del suo massimo splendore la marina olandese inanellò una serie di suc-
cessi anche nel Pacifico, giungendo per prima alle Isole Mauritius, in Tasmania (dal nome
dell’esploratore olandese Abel Tasman) e in Nuova Zelanda con una serie di spedizioni
realizzati intorno alla metà del Seicento.
Olanda, Inghilterra e, in misura minore, la Francia cominciarono ben presto a insidiare
anche le rotte commerciali già aperte da spagnoli e portoghesi nel secolo e mezzo pre-
cedente, sia verso l’America centrale e meridionale, sia verso l’India e l’Asia orientale. Fin
dal 1561 la Spagna aveva dovuto organizzare una Flotta dell’Argento per scortare i carichi
di metalli preziosi contro l’attacco delle navi corsare inglesi, olandesi e francesi. All’inizio
dei Seicento si fecero sempre più intensi gli attacchi contro i navigli spagnoli e portoghesi
e cominciò anche l’occupazione di terre costiere e insulari. Insediamenti e fattorie inglesi
sorsero, tra il Mar dei Caraibi e l’Oceano Atlantico, nelle Barbados (1605), nelle Bermude
(1612), nelle Bahamas (1646-70) e in Giamaica (1655), mentre gli olandesi conquistarono
Bahia (1624) e altre basi commerciali sulla costa brasiliana.
36 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Parallelamente prendeva piede la colonizzazione dell’America del Nord. A partire dal


1603 la Francia occupò il Canada con la fondazione di Quebec (1608) e di Montreal (1643),
mentre la Compagnia francese delle Indie occidentali intraprendeva un redditizio com-
mercio con gli indiani: acquavite in cambio di pellicce. Nella seconda metà del secolo,
Colbert, influente ministro di Luigi XIV, si impegnò nella costituzione di un vero e proprio
impero coloniale e intorno al 1690 si contavano in Canada oltre 10 mila coloni. Nel 1682
la Francia annesse ai propri possedimenti anche la Louisiana (la città New Orleans verrà
fondata nel 1718).
Ancora più consistente fu l’attività coloniale inglese, che dopo la creazione del primo
insediamento a Jamestown in Virginia (1607), poté contare sull’arrivo dalla madrepatria di
un consistente flusso migratorio determinato, in primo luogo, dalle persecuzioni religiose
e dai ripetuti contrasti tra anglicani, cattolici e puritani. Si formarono, così, velocemente le
Colonie della Nuova Inghilterra. Tre date sono particolarmente significative: il 1620 con la
traversata dei “padri pellegrini” puritani che si stabilirono nel Massachusetts; il 1632 con la
fondazione da parte di coloni cattolici del Maryland; il 1683 con la nascita di Filadelfia e
della colonia quacchera della Pennsylvania, che rappresentò un vero e proprio rifugio per
il piccolo movimento protestante dei quaccheri nato in Inghilterra pochi decenni prima e
dissidente rispetto alla Chiesa anglicana.
A metà del XVII secolo si contavano in Nordamerica già oltre 30 mila coloni inglesi. Una
realtà politica ed economica in rapida espansione che la madrepatria favorì sia concedendo
facilitazioni commerciali sia stroncando la concorrenza olandese. L’immigrazione – dettata
da opportunità economiche, motivi religiosi o politici – costituì uno dei caratteri originali
dell’esperienza storica del Nordamerica, configurandosi come il principale elemento a par-
tire dal quale scaturì la natura multietnica, multirazziale e multiculturale degli Stati Uniti,
nati nel secolo successivo con la Dichiarazione di indipendenza delle tredici colonie britan-
niche (1776).

Accelerazioni della storia


La nascita dell’economia-mondo

L’espansione dei traffici commerciali europei in altre parti del globo si fece particolarmente
intensa e pervasiva nella seconda metà del Seicento, tanto da far parlare – per la prima volta
nella storia dell’umanità – di una vera e propria economia-mondo. Una rete sempre più fitta
di scambi marittimi e di insediamenti coloniali, di attività missionarie e di avventurose esplo-
razioni, collegò l’Europa agli altri continenti.
Si trattava di un sistema economico fortemente asimmetrico ed eurocentrico. Questo
squilibrio a favore dell’Europa non era per nulla scontato, se si considera che fino al XVI
secolo il sistema commerciale asiatico, molto più vasto di quello mediterraneo ed europeo,
aveva visto l’egemonia dei mercanti arabi, indiani e cinesi. Mentre i primi si muovevano in-
torno alla penisola arabica, nel Golfo Persico e nel Mar Rosso, poi lungo le coste dell’Africa
orientale, indiani e cinesi solcavano l’Oceano Indiano sia verso ovest (Arabia e Africa) che
verso sud-est (Golfo del Bengala). E ancora si spingevano a nord, verso la Russia. In breve si
spostavano liberamente in tutto il mondo asiatico e avevano flotte di velieri più importanti
di quelle europee. Mancavano, però, sia dell’artiglieria pesante, montata invece sulle navi
Capitolo 1. Approfondimenti 37

da guerra occidentali, sia della determinazione alla conquista territoriale propria dei mag-
giori Stati del Vecchio continente.
Fu soprattutto grazie alle compagnie commerciali olandesi, inglesi e francesi, appog-
giate dai rispettivi Stati e dalla loro forza militare, che l’Europa nel corso del Seicento riuscì
a conquistare una posizione nettamente dominante. Mentre i paesi americani e asiatici,
che fornivano ai colonizzatori europei merci e materie prime, rappresentavano soltanto le
periferie di quel nuovo sistema economico.
Dall’Oriente aumentarono le importazioni di spezie, caffè e tè, mentre dalle Americhe
arrivavano cotone grezzo, tabacco, cacao, zucchero e ancora caffè (coltivato soprattutto nei
Caraibi e in Brasile). In cambio, le compagnie commerciali europee vendevano manufatti in
metallo e tessuti, trovando quindi importanti mercati per le manifatture dei propri paesi. Un
discorso a parte, come si è visto nel volume precedente, va poi fatto per i regni africani della
costa atlantica, che vennero considerati semplicemente come serbatoi di forza lavoro da
ridurre in schiavitù.
L’espansione del commercio internazionale comportò la crescita delle transazioni de-
stinate al finanziamento dei traffici con l’Oriente e le Americhe. Le borse divennero le sedi
dove si incontravano i mercanti per la compravendita delle merci, ma anche gli uomini
d’affari per acquistare e vendere le quote delle compagnie commerciali o i titoli di Stato
emessi per ottenere prestiti, nonché gli assicuratori che stipulavano apposite polizze sui
viaggi oltremare. In questo modo si stabilivano i prezzi all’ingrosso delle merci, le quota-
zioni dei titoli pubblici e il valore azionario delle società commerciali. La prima borsa ad
essere inaugurata fu quella di Anversa (1531), poi con l’indipendenza olandese il cuore
del mercato finanziario europeo si trasferì ad Amsterdam, dove la borsa aprì nel 1611. Nel
frattempo aveva aperto anche l’importante borsa di Londra (1571).

Profili
Thomas Hobbes

Nato vicino a Bristol, sud-ovest dell’Inghilterra, nel 1588 Hobbes studiò a Oxford e si per-
fezionò compiendo tre lunghi viaggi sul continente, in particolare in Francia e Italia, dove
conobbe alcune delle personalità decisive della cultura filosofica e scientifica seicentesca
come Galileo Galilei, Pierre Gassendi e Cartesio. Nel 1640, mentre si annunciavano i pro-
dromi delle guerra civile, si trasferì a Parigi, dove si fermò fino al 1651. Quell’anno pubblicò
in inglese la sua opera principale, il Leviathan. Sulla copertina della prima edizione del
testo, lo Stato era rappresentato come un gigante costituito da tanti singoli individui; l’enor-
me Leviatano reggeva in una mano una spada, simbolo del potere temporale, e nell’altra il
pastorale, simbolo del potere religioso, a indicare che, secondo Hobbes, i due poteri dove-
vano essere esercitati congiuntamente.
Nel pieno di una crisi europea caratterizzata dalla rottura dell’unità cristiana, dalle
guerre civili di religione, dall’inasprirsi di competizioni commerciali internazionali e dall’e-
mergere – specie in Inghilterra – delle prime istanze rivoluzionarie moderne, la teoria po-
litica di Hobbes partiva dalla convinzione che in assenza di una potenza regolatrice una-
nimemente riconosciuta i rapporti umani cadessero inevitabilmente verso un disordinato
conflitto. Da qui la necessità di costruire un nuovo potere comune, che grazie alla propria
38 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

sovranità assoluta fosse in grado di assicurare la pace e l’ordinato svolgersi dei rapporti
economici tra gli individui. Allo Stato-Leviatano i sudditi, stringendo un patto tra loro, cede-
vano definitivamente i propri diritti naturali di autogoverno. In uno dei passaggi centrali del
libro si legge la formulazione di questo patto, idealmente pronunciato da ogni membro del
consorzio civile: «Io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo o
a questa assemblea di uomini, a questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi
tutte le sue azioni in maniera simile. Fatto ciò, la moltitudine così unita in una persona vie-
ne chiamata uno Stato, in latino civitas. Questa è la generazione di quel grande Leviatano o
piuttosto – per parlare con più riverenza – di quel dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto
il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa».
La dottrina di Hobbes costituì, insomma, una teorizzazione coerente e rigorosa dell’as-
solutismo politico, basato non sul diritto divino ma su un patto umano (contratto sociale), e
derivava da una concezione nettamente pessimistica della natura umana. Che peso avesse
avuto l’esperienza traumatica dei conflitti interni all’Inghilterra e all’Europa nel percorso in-
tellettuale di Hobbes è ulteriormente dimostrato dal fatto che nell’ultima parte della sua vita
egli scrisse un libro di storia dedicato proprio alle origini della guerra civile inglese, intitolato
Behemoth (1670).

Profili
John Locke

Nel 1665, a poco più di trent’anni (era nato nel 1632 in un piccolo villaggio della contea di
Somerset nell’Inghilterra sud-occidentale), Locke ebbe probabilmente l’incontro più impor-
tante della sua vita, quello con lord Ashley, un uomo politico liberale che sarebbe stato tra
i fondatori del partito whig. Locke divenne il suo segretario privato e ne seguì da vicino le
battaglie politiche. Tra queste, la più importante fu combattuta a partire dal 1679, contro
i tentativi di restaurazione cattolica di Carlo II e di suo fratello Giacomo, erede al trono.
Esule, come il suo protettore, in Olanda, Locke si legò alla causa degli orangisti e tornò a
vivere in Inghilterra dopo la Rivoluzione gloriosa del 1688.
Avendo alle spalle l’esperienza di lotta contro le tentazioni dispotiche degli Stuart, Loc-
ke impostò la sua riflessione politica intorno all’idea di una sovranità fondata sul consenso
dei cittadini. I Due trattati sul governo pubblicati nel 1690 ebbero l’effetto di consacrare
la seconda rivoluzione inglese e di conferire una sorta di investitura laica e liberale alla
dinastia degli Orange.
Tutto questo avrebbero potuto far pensare all’eventualità di un impegno politico e
istituzionale diretto da parte di Locke, che invece preferì declinare le offerte di incarichi
prestigiosi e rifugiarsi, fin dal 1891, in un castello dell’Essex immerso nella pace campestre.
Qui Locke passò gli ultimi quattordici anni della sua vita riflettendo e scrivendo. Affrontò,
tra gli altri, i temi dell’educazione, intesa come formazione della dignità dell’uomo, e della
tolleranza religiosa. Nella Lettera sulla tolleranza del 1689 individuò nella reciproca indi-
pendenza e autonomia la ricetta per una virtuosa convivenza tra Stato e Chiesa. Secondo
le parole di Locke, sia l’uno che l’altra rappresentano due “società di uomini”, ma con com-
piti e interessi diversi: mentre, infatti, lo Stato è impegnato a conservare e promuovere i
“beni civili” (libertà, proprietà, integrità del corpo), la Chiesa, invece, deve preoccuparsi dei
Capitolo 1. Approfondimenti 39

problemi della fede, che mai possono essere risolti con l’intervento coercitivo del potere
pubblico. La Chiesa, infatti, o per meglio dire ogni chiesa, rappresenta per Locke una “li-
bera società di uomini che si riuniscono spontaneamente per onorare pubblicamente Dio
nel modo che credono sarà accetto dalla divinità, per ottenere la salvezza dell’anima”. In
queste parole di Locke è contenuto, in buona misura, il principio della moderna libertà di
coscienza, che il filosofo inglese applicava a tutti ad eccezione degli atei, cioè coloro che
negano l’esistenza di Dio, verso i quali nessuna tolleranza doveva essere ammessa. Biso-
gnerà per questo attendere l’Illuminismo.

Luoghi simbolo
Le accademie scientifiche

Nel corso del Seicento nacquero al di fuori delle università, tradizionalmente controllate
dal potere ecclesiastico, nuove sedi per la discussione e la ricerca. I grandi epistolari del
XVII secolo documentano bene quanto fosse avvertita tra gli uomini di cultura l’esigenza di
una libera collaborazione intellettuale, in grado anche di travalicare le frontiere. Se è vero
che le prime accademie scientifiche aprirono i battenti in Italia fin dall’inizio del secolo (nel
1603 a Roma l’Accademia dei Lincei, provvista di biblioteca, di gabinetto di storia naturale
con annesso un orto botanico e, più tardi, nel 1657, a Firenze l’Accademia del Cimento, vo-
luta dal principe Leopoldo di Toscana, amico e discepolo di Galileo), in realtà a dominare
la scena della cultura scientifica europea tra Sei e Settecento furono le grandi accademie
nazionali inglesi e francesi. Queste ultime avevano l’appoggio di governi forti e impegnati
a promuovere, anche per motivi di prestigio, le eccellenze del proprio paese; energie e
risorse impensabili nella penisola italiana, economicamente decadente e politicamente
frammentata.
Significativamente, in Francia la nascita delle due principali accademie scientifiche
avvenne in corrispondenza della fondazione e poi del trionfo dell’assolutismo. Nel 1635,
per volontà di Richelieu, nacque l’Académie Française, per l’incremento delle arti e delle
scienze, mentre nel 1666, su interessamento del ministro Colbert, aprì i battenti l’Académie
royale des sciences, che si concentrò in particolare sulle questioni tecniche, astronomiche
e matematiche relative alla navigazione.
Qualcosa di diverso accadde in Inghilterra, dove la Royal Society of London for the Pro-
motion of Natural Knowledge (Società Reale di Londra per la promozione delle conoscen-
ze naturali) non fu diretta emanazione del potere pubblico. La Royal Society, infatti, trasse
origine dagli incontri di un gruppo di filosofi aderenti all’Empirismo (convinti, cioè, che la
conoscenza umana derivasse esclusivamente dai sensi e dall’esperienza); incontri che si
tennero fin dal 1645, in piena guerra civile. Solamente nel 1662 Carlo II approvò lo statuto
di quel sodalizio, stabilendone ufficialmente i diritti e le prerogative. Tre anni più tardi si
diede inizio alla pubblicazione degli Atti della società: le “Philosophical Transactions”, che
escono ancora oggi.
Le “Transactions” della Royal Society costituirono il primo esempio in Europa di rivista
dedicata a questioni di natura scientifica ed erano sostenute dalla convinzione che far co-
noscere agli altri le nuove scoperte fosse cosa necessaria per il progresso generale della
conoscenza. Le “Transactions” – secondo le parole degli stessi animatori della rivista – era-
40 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

no un invito e un incoraggiamento per gli studiosi «a ricercare, a sperimentare e a scoprire


nuove cose, a comunicarsi l’un l’altro le proprie conoscenze e contribuire così, per quanto
possibile, al grande progetto consistente nell’arricchimento della conoscenza della natura
e nel perfezionamento di tutte le arti e le scienze filosofiche». E tutto ciò «per la gloria di
Dio, l’onore e il profitto di questo Regno e il bene universale dell’Umanità».

Parole-chiave
Giusnaturalismo

Affermatosi nel XVII e nel XVIII secolo il giusnaturalismo (dal latino ius naturale) è una dot-
trina filosofica e politica che afferma l’esistenza di diritti naturali insiti in ogni essere uma-
no. Dal punto di vista culturale esso traeva origine dal preminente interesse per l’uomo,
quale cardine dell’intera vita sociale, che aveva caratterizzato il mondo rinascimentale, e
dalla crisi della cristianità apertasi con la Riforma protestante.
Storicamente, fu proprio con gli effetti della Riforma luterana che si accentuò la scis-
sione tra pensiero politico e pensiero di ispirazione religiosa. Fu, cioè, sempre più forte
l’esigenza di separare l’analisi delle forme di governo dalle scelte di valore attinenti alla
sfera religiosa. La necessità di trovare un fondamento puramente naturale o immanente
sia dell’autorità politica sia dei diritti individuali nasceva precisamente dal fatto che la reli-
gione, che era stata per secoli la principale base della coesione e del consenso sociale, era
diventata a sua volta fonte di divisione e di conflitto. Si trattava, quindi, di trovare un nuovo
fondamento comune, che fosse indipendente dalla fede e valido di per sé.
Tale esigenza ispirò le dottrine giusnaturalistiche fin dall’inizio del Seicento ed ebbe
esiti importanti, sebbene di segno opposto, sia con Thomas Hobbes (assolutismo politico)
che con John Locke (monarchia costituzionale). La società non fu più concepita come un
ordine fondato in modo immutabile sulla legge divina ma come il prodotto storico di un
accordo razionale tra i membri della società stessa. Questo approccio laico ai problemi
della politica contribuì in maniera decisiva alla trasformazione dell’atteggiamento verso
la realtà sociale, che invece di essere sentita come immutabile, divenne anzi oggetto di
progetti riformisti e di critiche radicali.
La scuola del diritto naturale aprì la strada a concrete conquiste politiche di stampo
liberale. Il riferimento è, in primo luogo, all’approvazione in Inghilterra del Bill of Rights
all’indomani della “Glorious Revolution”. Il nome del provvedimento indicava letteralmen-
te un progetto di legge (bill) sui diritti (rights), ma l’espressione entrò nell’uso comune con
il significato di vera e propria “dichiarazione” sui diritti. E tra gli storici britannici, in effetti,
è comune anche la denominazione alternativa Declaration of Rights.
L’importanza e la carica innovativa del giusnaturalismo non sarebbero diminuiti nel
Settecento, contribuendo a creare il clima culturale in cui si svolsero le grandi rivoluzioni
politiche di quel secolo, sia in America del Nord che in Francia. Si può anzi dire che l’i-
dea centrale del giusnaturalismo – l’esistenza di diritti individuali innati – trovò la propria
consacrazione nel documento più celebre della Rivoluzione francese, la Dichiarazione dei
diritti dell’uomo e del cittadino (1789).
Capitolo 1. Approfondimenti 41

Fonti e documenti
Libertà e autorità nei testi giuridici e filosofici del XVII secolo

Introduzione
È stato notato da più parti che l’affermazione del mondo moderno portò con sé una crisi
sempre più profonda dell’idea di autorità. Questo naturalmente è vero se si associa l’autori-
tà alla tradizione, cioè a una eredità etica e culturale tramandata come valore inalterabile
di generazione in generazione. In questa accezione l’autorità subì nel Cinquecento e nel
Seicento decisive contestazioni sia a opera della Riforma protestante che della rivoluzione
scientifica. Tuttavia, mentre traballava sul piano religioso e cognitivo, l’idea di autorità ven-
ne esaltata con l’assolutismo politico diventando vero e proprio “autoritarismo”, cioè l’uso
coercitivo dell’autorità dello Stato e dei suoi apparati per mantenere l’ordine interno (in-
teso come bene supremo) e per imporre decisioni senza riconoscere diritti ai sudditi. Nelle
pagine del Leviatano di Hobbes, l’uomo nella sua individualità viene sacrificato al perfetto
funzionamento della macchina dello Stato (testo n. 1).
Nel giusnaturalismo e, più in particolare nel pensiero di John Locke, si trovano alcuni
antidoti a queste tendenze tiranniche e le premesse del pensiero liberale. Esse risiedo-
no nel tentativo di limitare il più possibile l’intervento discrezionale del potere pubblico
nell’attività dei cittadini, sottoponendo su questioni cruciali il governo al controllo del par-
lamento. La volontà era quella di salvaguardare il libero sviluppo delle iniziative individua-
li e associative di carattere economico, politico o culturale (testo n. 2).
L’approccio liberale ai problemi del rapporto tra cittadini e governanti trovò espres-
sione nel Bill of Rights del 1689, che sancì a livello legislativo il successo della Rivoluzione
gloriosa. Una sorta di carta costituzionale che fissando i limiti posti alla corona segnò il
passaggio definitivo alla monarchia parlamentare. In dettaglio, il Bill of Rights sanciva in-
fatti: la libertà di parola e discussione in parlamento; il divieto per il re di abolire leggi o im-
porre tributi senza il consenso dell’assemblea legislativa; libere elezioni per la nomina dei
parlamentari. E ancora: l’impossibilità per il sovrano di perseguitare i suoi sudditi per motivi
religiosi. Infine, come aspetto più legato alla contingenza politica, il rifiuto di sottostare a
un possibile re cattolico. Anche grazie a queste garanzie giuridiche sulla libertà personale,
sulla proprietà privata (che non poteva essere aggredita da una tassazione ingiustificata)
e sull’equilibrio tra potere esecutivo e potere legislativo, l’Inghilterra divenne per lungo
tempo la prima potenza commerciale e capitalistica del mondo (testo n. 3).
Si è parlato delle origini del pensiero liberale, ma nella storia inglese del Seicento, e
in particolare negli anni della guerra civile, emerse addirittura un movimento politico di
tendenza democratica, quello dei Levellers, che posero l’accento sulla sovranità popolare
e sul suffragio universale (maschile), denunciando con una petizione rivolta alla Camera
dei Comuni nel 1648 ogni tentativo di compromesso del parlamento con la dinastia degli
Stuart (testo n. 4). Dopo l’affermazione della repubblica, le loro posizioni radicali vennero
presto marginalizzate dal regime di Cromwell.
42 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Testo n. 1
Dal Leviatano di Thomas Hobbes (1651)
Uno Stato viene definito come istituito quando una moltitudine di uomini si trovano d’ac-
cordo e, ciascuno con l’altro, stipulano un patto stabilendo che ad un determinato indivi-
duo o ad un’assemblea di uomini, verrà conferito, da parte della maggioranza, il diritto di
rappresentare la totalità delle loro persone, cioè di essere il loro rappresentante. Ciascuno
poi, sia chi votò in suo favore, sia chi votò contro, autorizzerà tutte le azioni e decisioni di
quell’individuo o di quell’assemblea, allo stesso modo come se fossero proprie, e ciò allo
scopo di garantire pacifica convivenza nell’interno dello Stato e di essere difesi dai nemici
esterni. [...].
In secondo luogo, dato che il diritto di rappresentare le persone di tutti i sudditi è ceduto a
colui che viene nominato sovrano, soltanto attraverso un patto di ciascuno con l’altro e non
di lui con ogni singolo contraente, non può mai verificarsi il caso che il sovrano infranga il
patto, e di conseguenza neppure da parte dei suoi sudditi può esservi una rottura che, sotto
pretesto di una pena ricevuta, possa renderli liberi dalla soggezione accettata. [...].
In terzo luogo, dopo che la maggioranza ha espresso il suo consenso nell’eleggere un so-
vrano, colui che si opponeva deve consentire con gli altri, cioè essere contento di avallare
tutte le azioni, che quello compirà, altrimenti sarà a giusta ragione, distrutto dagli altri. Se
infatti egli, di sua volontà, si associò con quelli che si erano riuniti per eleggere il sovrano
ha con ciò sufficientemente espresso la sua volontà e perciò implicitamente convenuto
di accettare quello che la maggioranza avrebbe in seguito ordinato; e perciò se rifiuta di
eseguire, o protesta contro qualcuno dei suoi decreti, fa ciò contro i termini del patto, e
perciò ingiustamente. E sia che egli appartenga o non all’associazione, sia che gli venga o
no richiesto il suo consenso, egli deve o sottomettersi ai decreti stabiliti da quella, oppure
essere lasciato nella condizione di guerra precedente al patto, nella quale potrà essere
distrutto, senza ingiustizia, da qualunque altro dei suoi simili.
Quarto, dato che ogni suddito è, in conseguenza di questa istituzione, autore di tutte le
azioni ed opinioni del sovrano istituito, ne deriva che qualunque cosa egli faccia non può
essere considerata come offesa rivolta ad alcuno dei suoi sudditi, né egli deve essere accu-
sato di ingiustizia da alcuno di loro. Colui infatti che compie un’azione per autorità ricevuta
dalla volontà di un altro, non può offendere quello la cui autorità a lui concessa è causa
della sua azione; e, dato che per questa istituzione dello Stato, ogni singolo individuo è
autore di tutto ciò che il sovrano fa, conseguentemente chi si lamenta di un’offesa ricevuta
dal suo sovrano si lamenta di qualcosa di cui egli stesso è l’autore, e non dovrebbe perciò
accusare altri che se stesso, e non può nemmeno far ciò perché è impossibile arrecar danno
a noi stessi con le nostre proprie mani. È vero che coloro che detengono il potere sovrano
possono commettere iniquità, ma mai ingiustizia od ingiuria nel vero senso della parola.
Quinto, in conseguenza di ciò che si è detto antecedentemente, nessuno che detenga il pote-
re sovrano può, secondo giustizia, essere condannato a morte o punito in altro modo dai suoi
sudditi, poiché essendo ogni suddito autore delle azioni commesse dal suo sovrano, punireb-
be un altro per ciò che invece è stato commesso da lui stesso. Ed una volta ammesso che lo
scopo di questa istituzione è la pace e la difesa di tutti, e che chiunque ha diritto a realizzare
uno scopo ha diritto anche ai mezzi, bisogna accettare che appartiene di diritto a qualunque
individuo od assemblea che abbia ricevuta la sovranità, di essere giudice dei mezzi occorrenti
alla pace ed alla difesa ed anche degli ostacoli e degli impedimenti che vi sono, e di dar com-
pimento a qualunque cosa che gli sembrerà opportuna per la conservazione della pace e la
Capitolo 1. Approfondimenti 43

garanzia della sicurezza, col prevenire le discordie interne e l’ostilità proveniente dall’ester-
no, e di cercare di riconquistare la pace e la sicurezza quando si sono perdute.
Dunque è cosa connessa con lo stato di sovranità il giudicare quali dottrine siano contrarie
od utili al mantenimento della pace, e perciò in quali circostanze, fino a che punto ed in
quale misura ci si possa fidare di coloro che parlano al popolo, e chi debba avere il compito
di esaminare le teorie contenute in tutti i libri, prima che ne venga autorizzata la pubbli-
cazione. [...].
Settimo, è attività connessa all’esercizio della sovranità il completo potere di prescrivere
norme di legge mediante le quali ognuno possa sapere quali sono i beni di cui può usufru-
ire e quali sono le azioni che può compiere senza essere di intralcio a nessuno degli altri
sudditi; e questo è ciò che gli uomini chiamano proprietà. Infatti prima della costituzione
del potere sovrano, come si è già mostrato, tutti gli uomini avevano diritto a tutte le cose,
e ciò dava necessariamente origine alla guerra, e perciò questa proprietà, essendo cosa
necessaria alla pace e dipendendo dal potere sovrano, è un atto di quel potere rivolto a
garantire la pubblica pace. [...].
Ottavo, è diritto connesso con l’esercizio della sovranità, di giudicare, ascoltare e decidere
in tutte le controversie che si possono presentare riguardo alla legge civile o naturale o
riguardo ai fatti, perché senza decisione delle controversie non è possibile la protezione
di un suddito contro le ingiurie di un altro, le leggi che contemplano il “meum” ed il “tuum”
sono vane e ad ognuno rimane, a causa della sua naturale e necessaria tendenza alla
conservazione, il diritto di proteggere se stesso mediante la sua forza individuale, il che
è lo stato di guerra, contrario al fine che ci si prefigge all’atto dell’istituzione dello Stato.
Nono, è diritto connesso con l’esercizio della sovranità, il far guerra e pace con gli altri Sta-
ti, cioè il giudicare quando la guerra è utile all’interesse comune e quante truppe devono
essere reclutate, armate e pagate per quello scopo; e quanto denaro deve essere richiesto
ai sudditi per far fronte alle spese del conflitto. Infatti il potere mediante il quale il popolo
deve essere difeso consiste nelle sue truppe, e la forza di un esercito nell’unità di azione
sotto un comando unico, istituito dal sovrano e perciò in suo potere. Il comando della mili-
zia, senza altra istituzione, rende sovrano colui che lo detiene, e di conseguenza, chiunque
sia nominato generale dell’esercito, colui che ha il potere sovrano è sempre generalissimo.
Decimo, è funzione annessa all’esercizio della sovranità lo scegliere tutti i consiglieri, mi-
nistri, magistrati, ed ufficiali, sia in pace che in guerra, poiché, dato che il sovrano ha come
compito la realizzazione del fine che è la comune pace e difesa, è pacifico che abbia anche
il potere di usare mezzi che ritiene più adatti per raggiungere lo scopo.
Undicesimo, al sovrano spetta il potere di ricompensare con ricchezze ed onori e di punire
con pene corporali e pecuniarie, o con l’ignominia, ogni suddito, a seconda della legge in
precedenza da lui promulgata; oppure, se non esiste nessuna legge, secondo il criterio che
egli giudicherà più opportuno per incoraggiare i sudditi a servire fedelmente lo Stato, o per
convincerli, per mezzo del terrore, a non agire contro di esso. [...].
Ma si può a questo punto obiettare che la condizione dei sudditi è molto miserevole, do-
vendo essi sottostare ai desideri ed alle altre violente passioni di colui o di coloro che di-
spongono di un potere così illimitato; e comunemente quelli che vivono sotto un governo
monarchico pensano che tale sia un difetto proprio della monarchia, mentre coloro che
vivono sotto un governo repubblicano attribuiscono tutti gli svantaggi a quella forma di
governo, mentre il potere, sotto qualunque forma sia espresso, se è sufficientemente capa-
ce di proteggerli è lo stesso, senza considerare che la condizione umana non può mai non
44 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

essere accompagnata da qualche svantaggio, e che il più grande che, sotto una qualsiasi
forma di governo, possa cadere sulle spalle di un popolo, è cosa a mala pena percettibile
in confronto alle miserie ed alle terribili sventure che accompagnano una guerra civile, o
quella condizione di dissolutezza di uomini privi di una guida, senza alcun rispetto per la
legge e senza un potere coercitivo che impedisca loro di commettere vendette e rapine;
senza altresì considerare che anche la più grande oppressione esercitata da un sovrano,
non è derivata da un piacere o da un vantaggio che egli possa aspettarsi dal danneggiare
od indebolire i propri sudditi, nella cui prosperità consiste la forza dei re, ma è invece pro-
vocata dalla turbolenza dei sudditi stessi che non contribuiscono volentieri alla propria
difesa e rendono perciò necessario che i governanti tolgano loro quanto possono, in tempo
di pace, per poter disporre dei mezzi indispensabili per far fronte in una situazione d’emer-
genza, in un immediato bisogno, ai loro nemici, a resistere od a sopraffarli. Tutti gli uomini
sono per natura provvisti di considerevoli lenti di ingrandimento, cioè le loro passioni e
l’amor proprio, attraverso le quali ogni piccolo contributo sembra un’imposizione insoste-
nibile; ma sono privi invece di quei binocoli, cioè la scienza morale e civile, per vedere le
disgrazie che impendono sopra di loro e che non si possono evitare, senza pagare quel
tributo.
T. Hobbes, Il Leviatano, a cura di R. Giammanco, Torino, Utet, 1955, pp. 209 e ss., 360 e ss.

Testo n. 2
Dal Secondo trattato sul governo civile di John Locke (1690)
Poiché il fine principale dell’entrata degli uomini in società è il godimento delle loro pro-
prietà in pace e tranquillità, e i principali strumenti e mezzi diretti a questo fine sono le
leggi stabilite in quella società, la prima e fondamentale legge positiva di tutte le società
politiche consiste nello stabilire il potere legislativo, in quanto la prima e fondamentale
legge naturale, che deve governare lo stesso legislativo, consiste nella conservazione della
società, e, per quanto si concilia col pubblico bene, di ogni persona che vi si trova. Questo
legislativo non soltanto è il potere supremo della società politica, ma rimane sacro e immu-
tabile nelle mani in cui la comunità l’ha collocato, e l’editto di un altro, in qualunque forma
sia concepito, o da qualunque potere sia appoggiato, non può avere il valore e l’obbliga-
zione di una legge, se non ha la sua sanzione da quel legislativo che il pubblico ha eletto e
designato; perché senza di questa la legge non avrebbe ciò ch’è assolutamente necessario
ed essenziale alla legge, cioè a dire il consenso della società, alla quale nessuno può avere
il potere di dar leggi se non per consenso di lei e per autorità da essa ricevuta. E perciò
tutta l’obbedienza che, con i vincoli più solenni si può essere obbligati a prestare, fa capo,
in definitiva, a questo potere supremo, ed è regolata dalle leggi ch’esso promulga, né può
un giuramento prestato a un potere straniero qualsiasi, o a un potere interno subordinato,
dispensare un membro della società dall’obbedienza al legislativo, che delibera in seguito
alla sua fiducia, né obbligarlo a un’obbedienza che sia contraria alle leggi così stabilite, o
vada oltre ciò ch’esse ammettono, poiché è ridicolo che si possa esser vincolati in definitiva
ad obbedire a un potere che nella società non sia il supremo [...].
Sebbene in una società politica costituita, che poggi sui propri fondamenti e deliberi secon-
do la propria natura, cioè a dire in vista della conservazione della comunità, non vi possa
essere che un solo potere supremo, ch’è il legislativo, al quale tutti gli altri sono e devono
essere subordinati, tuttavia, poiché il legislativo non è che un potere fiduciario di deliberare
in vista di determinati fini, rimane sempre nel popolo il potere supremo di rimuovere o al-
Capitolo 1. Approfondimenti 45

terare il legislativo, quando vede che il legislativo delibera contro la fiducia in esso riposta.
Infatti, poiché ogni potere, conferito con fiducia per il conseguimento di un fine, è limitato
da questo fine medesimo, ogniqualvolta il fine viene manifestamente trascurato o contra-
stato, la fiducia deve necessariamente cessare, e il potere ritornare nelle mani di coloro
che l’hanno conferito, i quali possono nuovamente collocarlo dove meglio giudicano, per
la loro tranquillità e sicurezza. È così che la comunità conserva sempre il potere supremo
di preservarsi dagli attentati e dalle intenzioni di chicchessia, anche dei suoi legislatori,
ogniqualvolta questi siano così insensati o perversi da concepire e perseguire intenzioni
contrarie alle libertà e proprietà dei sudditi. Infatti, poiché nessun uomo e nessuna società
di uomini ha il potere di rimettere la propria conservazione e, conseguentemente, i mezzi
di essa, alla volontà assoluta e al dominio arbitrario di un altro, ogniqualvolta si tenti di
ridurli in stato di schiavitù, essi avranno sempre il diritto di conservare ciò di cui non hanno
il potere di disfarsi, e di liberarsi di coloro che hanno violato questa legge fondamentale,
sacra e immutabile, dell’autoconservazione, per la quale sono entrati in società. [...].
In ogni caso, sin che il governo sussiste, il potere supremo è il legislativo, perché ciò che
può dar leggi ad altri deve necessariamente essergli superiore. E poiché il legislativo è
legislativo della società non per altra ragione che per il diritto di far leggi per tutte le parti
e per ciascuno dei membri della società, prescrivendo norme alle loro azioni e conferendo
il potere di eseguirle quando siano trasgredite, il potere legislativo deve necessariamente
essere il supremo, e tutti gli altri poteri, in qualunque membro o parte della società si trovi-
no, debbono derivare da esso ed essergli subordinati.
G. Garavaglia, Società e rivoluzione in Inghilterra. 1640-1689, Torino, Loescher, 1978, pp. 222-223.

Testo n. 3
Dal Bill of Rights (1689)
Atto per proclamare i diritti e le libertà dei sudditi e per definire la successione al trono.
Dato che i Lords, spirituali e temporali, e i Comuni, riuniti a Westminster, legalmente, pie-
namente e liberamente rappresentanti di tutti gli ordini del popolo di questo regno, il tredi-
cesimo giorno di febbraio, nell’anno di nostro signore 1689, presentarono alle loro Maestà,
allora chiamate e note con il nome e i titoli di Guglielmo e Maria, principe e principessa
d’Orange, presenti in persona, una certa dichiarazione scritta, stesa dai detti Lords e Comu-
ni, nelle seguenti parole:
Siccome il precedente re Giacomo II, assistito da vari cattivi consiglieri, giudici e ministri da
lui impiegati, tentò di sovvertire ed estirpare la religione protestante e le leggi e le libertà
di questo regno:
Assumendo ed esercitando un potere di dispensare e sospendere dalle leggi e dall’esecu-
zione dalle leggi senza il consenso del parlamento;
Arrestando e processando diversi degni prelati, per aver presentato umilmente petizioni di
non dover ricorrere al suddetto presunto potere;
Emanando e facendo applicare una commissione sotto il gran sigillo per l’erezione di un
tribunale chiamato la Corte dei commissari per cause ecclesiastiche;
Prelevando denaro per l’uso della corona, sotto pretesto della prerogativa, in modi e tempi
diversi da quelli stabiliti dal parlamento;
46 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Radunando e mantenendo un esercito permanente entro questo regno in tempo di pace,


senza il consenso del parlamento, e avendo acquartierato soldati contro la legge;
Avendo fatto disarmare diversi buoni sudditi protestanti nello stesso tempo in cui i papisti
erano armati e da lui impiegati, contro la legge;
Violando la libertà d’elezione dei membri del parlamento;
Processando nel tribunale di King’s Bench, per motivi e cause giudicabili solo in parlamento
e per diversi altri procedimenti arbitrati e illegali;
E poiché negli ultimi anni persone parziali, corrotte e squalificate sono state scelte come
giurati nei processi e, in particolare, in processi per alto tradimento, senza essere in posses-
so dei requisiti richiesti;
E cauzioni eccessive sono state richieste a persone imprigionate per cause militari, a elusio-
ne dei benefici previsti dalle leggi a difesa della libertà dei sudditi;
E ammende eccessive sono state imposte, e punizioni illegali e crudeli inflitte;
E diverse ammende e confische comminate, prima che vi fosse alcuna sentenza di colpevo-
lezza contro le persone alle quali esse erano imposte.
Tutte cose nettamente e direttamente contro le leggi tradizionali del paese e gli statuti e
la libertà di questo regno.
E poiché il suddetto re Giacomo II avendo abdicato il governo e il trono essendo quindi va-
cante, sua altezza il principe di Orange – che è piaciuto a Dio Onnipotente di rendere stru-
mento glorioso della liberazione di questo regno dal papismo e dal potere arbitrario – fece
(per consiglio dei Lords spirituali e temporali, e di diversi importanti membri dei Comuni)
scrivere lettere ai Lords spirituali e temporali protestanti, e altre lettere alle diverse contee,
città, università, borghi [...] per la scelta di persone che li rappresentassero in parlamento e
le quali si incontrassero e sedessero a Westminster il 22° giorno di gennaio dell’anno 1689
perché provvedessero a che la loro religione, le leggi e le libertà non fossero più in pericolo
di essere sovvertite: in base a queste lettere sono state di conseguenza tenute elezioni.
E quindi i suddetti Lords spirituali e temporali, e i Comuni [...] ora riuniti in un organo pie-
namente e liberamente rappresentativo di questa nazione, prendendo in considerazione i
modi migliori per raggiungere i fini suddetti, in primo luogo (come hanno fatto in casi simili
in genere i loro antenati) per l’asserzione dei loro antichi diritti e libertà, dichiarano:
Che il preteso potere di dispensare dall’osservanza delle leggi, o dall’applicazione delle
leggi, per autorità regia, senza consenso del parlamento, è illegale;
Che l’ordine di costituzione di una corte di commissari per cause ecclesiastiche e di ogni
altra commissione o corte di simile natura è illegale e dannoso;
Che imporre tributi in favore o ad uso della corona, per pretese prerogative, senza l’ap-
provazione del parlamento, o per un periodo più lungo e in modi diversi da quelli da esso
fissati, è illegale;
Che è diritto dei sudditi di rivolgere petizioni al re, e ogni arresto e processo per questo è
illegale;
Che radunare o mantenere un esercito permanente nel regno in tempo di pace, senza il
consenso del parlamento, è illegale;
Che i sudditi protestanti possono tenere armi per la propria difesa secondo le proprie con-
dizioni e come è consentito dalla legge;
Che le elezioni dei membri del parlamento devono essere libere;
Capitolo 1. Approfondimenti 47

Che la libertà di parola, e i dibattiti o i procedimenti in parlamento, non debbono essere


posti sotti accusa o contestati in nessun tribunale o luogo al di fuori del parlamento;
Che cauzioni eccessive non devono essere chieste, né imposte ammende eccessive, né in-
flitte punizioni crudeli e insolite;
Che i giurati devono essere nominati regolarmente e che i giurati dei processi per alto tra-
dimento devono essere liberi proprietari (freeholders);
Che ammende e confische prima della sentenza di colpevolezza sono illegali o nulle;
E che per rimediare a tutte le lagnanze, e per correggere, rafforzare e difendere le leggi, le
riunioni del parlamento devono essere tenute frequentemente. [...]
Pienamente fiduciosi che sua altezza il principe d’Orange vorrà perfezionare l’opera di li-
berazione da lui iniziata e li vorrà preservare dalla violazione dei diritti che essi hanno qui
affermato e da ogni altro attentato alla loro religione, ai loro diritti e libertà, i detti Lords
spirituali e temporali e i Comuni riuniti a Westminster stabiliscono che Guglielmo e Maria,
principe e principessa di Orange, sono e sono dichiarati re e regina d’Inghilterra e Irlanda e
dei domini ad essi appartenenti.
G. Garavaglia, Società e rivoluzione in Inghilterra. 1640-1689, Torino, Loescher, 1978, pp. 213-
216; F. Gaeta - P. Villani, Documenti e testimonianze. I grandi problemi della storia medioevale e
moderna nei testi originali e nelle interpretazioni critiche, Milano, Principato, 1978, pp. 637-638.

Testo n. 4
Dalla Leveller Petition (1648)
Con nostro grandissimo dispiacere abbiamo osservato che non appena Dio vi concesse la
vittoria e vi benedisse con il successo e quindi vi pose nella condizione di garantire a noi e
all’intera nazione una libertà e una sicurezza assolute, voi, secondo il vostro costume, igno-
rando la rovina di una nazione e tutto il sangue che è stato versato dal re e dal suo partito,
vi impegnaste in trattative con lui, contrapponendolo, lui un singolo individuo e pubblico
funzionario del paese, all’intero popolo, che voi rappresentate [...].
La verità è (e vediamo che dobbiamo proclamarla ora o tacere per sempre) che noi ci at-
tendevamo ben altro da voi, cose che siamo certi avrebbero soddisfatto i seguaci di ogni
partito:
Che voi avreste liberato la suprema autorità del popolo in questa onorevole Camera dei
Comuni da ogni diritto di veto sia del re che dei Lords;
Che avreste approvato una legge per l’elezione di rappresentanti ogni anno e automatica-
mente, senza bisogno di mandati o convocazioni;
Che avreste fissato i tempi per la convocazione, le sessioni e lo scioglimento, in modo da
non eccedere 40 o 50 giorni al massimo, e così pure il termine di dissoluzione del parla-
mento attuale;
Che avreste sottratto questioni religiose al potere di costrizione o di restrizione di qualsivo-
glia autorità sulla terra e lasciato all’autorità suprema un potere non coercitivo di indicare
il modo del culto pubblico, per cui sarebbe stata evitata per sempre una quantità di miserie,
persecuzioni e tormenti interiori;
Che avreste rifiutato per voi e per i futuri rappresentanti il potere di costringere qualsiasi
sorta di uomini a servire in guerra [...];
48 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Che avreste reso re, regine, principi, duchi, conti, lords e ogni persona parimenti responsa-
bile di fronte alla legge del paese [...];
Che avreste liberato tutta la gente comune dalla giurisdizione dei lords in ogni caso e che
avreste provveduto a che tutti i processi si tenessero con dodici giurati e che nessuna con-
danna fosse emessa se non sulla base di due o più testimonianze fondate;
Che avreste liberato tutti gli uomini dall’essere costretti a testimoniare contro se stessi e
dall’essere interrogati o puniti per aver fatto ciò che nessuna legge punisce;
Che avreste ridotto le procedure legali, mitigandone e rendendone più chiari i particolari;
Che avreste liberato ogni commercio da monopoli e accaparramenti, da parte di compa-
gnie o di altri;
Che avreste abolito l’accisa e ogni genere di tasse, fuorché i sussidi, l’unico sistema antico
e valido in Inghilterra;
Che avreste abbattuto ogni recinzione di paludi e di altre terre comuni o le avreste cintate
solo o principalmente a beneficio dei poveri;
Che avreste preso in considerazione le varie migliaia di persone rovinate dal carcere a vita
per debiti e provveduto alla loro liberazione;
Che avreste provveduto perché la gente non mendicasse in una nazione tanto fertile come
questa per benedizione di Dio;
Che avreste fissato punizioni più proporzionate alle offese, in modo che le vite e i beni degli
uomini non potessero essere soppressi per cause lievi e di poco conto;
Che avreste rimosso il gravoso peso delle decime, escogitando un sistema più giusto per
mantenere i ministri del culto;
Che avreste raccolto denaro dai molti possedimenti confiscati, per pagare coloro che die-
dero volontariamente contributi pur al di sopra delle loro possibilità, prima di provvedere
a chi diede avendo del superfluo;
Che avreste dichiarato quale fosse il dovere e quale il compito del re, che cosa non gli
competesse, e avreste accertato le sue entrate in modo che non vi potessero essere più
contestazioni al riguardo [...];
Che non avreste seguito l’esempio di altri parlamenti tirannici e superstiziosi nell’emet-
tere ordini, ordinanze o leggi o nel fissare punizioni concernenti questioni sovrannaturali,
definendole alcune bestemmie, altre eresie, mentre voi stessi sapete di potervi facilmente
sbagliare e che le verità divine non hanno bisogno di sostegni umani; simili procedure sono
state in genere escogitate per dividere gli uomini fra loro e per intimorirli dall’usare quella
libertà di parola dalla quale la corruzione e la tirannide sarebbero facilmente scoperte [...].
Queste cose ed altre simili noi abbiamo a lungo sperato che voi vi curaste di fare per la
pace generale e la piena soddisfazione di ogni qualità di persone, il che sarebbe stata la
felicità di tutte le generazioni future.
G. Garavaglia, Società e rivoluzione in Inghilterra. 1640-1689, Torino, Loescher, 1978, pp. 157-
159.
Capitolo 1. Approfondimenti 49

Dibattito storiografico
Come si passò dalla crisi del Seicento ai nuovi assetti politici e
istituzionali del secolo successivo?

Introduzione
Il XVII secolo rappresenta un’epoca di cambiamenti fondamentali nei rapporti politici e
sociali e nelle sensibilità culturali e religiose. Non a caso, la parola crisi ebbe grande for-
tuna nella letteratura economica e politica prodotta tra Sei e Settecento, indicando alla
perfezione il momento di transizione dal vecchio al nuovo e la convivenza fra continuità
e trasformazione. Le perturbazioni politiche e sociali e le guerre più sanguinose e deva-
statrici si concentrarono soprattutto nel periodo 1620-1660, mentre nei decenni successivi
si osservò un generale attenuarsi dei conflitti economici e religiosi e l’emergere di nuove
forme di convivenza civile. Il secolo dell’intolleranza religiosa fu così anche il secolo della
“rivoluzione scientifica” e di altre importanti novità.
Tra Cinque e Seicento nacque e prese forma lo Stato moderno, come monopolista della
forza legittima su un determinato territorio. È stato lo storico delle istituzioni Pierangelo
Schiera (testo n. 1) a descrivere efficacemente il passaggio dal sistema policentrico e com-
plesso delle signorie di origine feudale allo Stato territoriale unitario e tendenzialmente
accentrato. Le lotte religiose che lacerarono l’Europa nei secoli XVI-XVII furono quasi un
passaggio necessario verso una nuova forma di organizzazione del potere che si richiamas-
se espressamente alla “politica” e non più alla “religione”. In altre parole, i conflitti religiosi
trovarono alla fine la loro soluzione non nel trionfo di una fede sull’altra, ma proprio nel
superamento di ogni pretesa di fondazione del potere su una fede purchessia.
Fin da allora, lo Stato moderno o “Stato-amministrazione” esercitò le proprie funzioni in
alcuni campi fondamentali di intervento, illustrati dettagliatamente da Charles Tilly (testo
n. 2). Segnatamente, il potere pubblico si impegnò nella difesa dei confini e nel manteni-
mento dell’ordine sociale all’interno, ma anche nel drenaggio fiscale e in forme sempre
più efficaci di sostegno all’economia, con particolare riferimento alle attività commerciali.
Anche per questo, all’innegabile declino economico di alcune aree del Vecchio continente
(la regione tedesca, la penisola italiana e quella iberica) fece riscontro lo sviluppo di altre:
Olanda, Inghilterra e (in misura minore) la Francia, proiettate verso traffici internazionali e
viaggi di esplorazione transoceanici.
Lo Stato moderno conobbe due varianti fondamentali che continueranno per lungo tem-
po a caratterizzare la civiltà europea: l’assolutismo francese, che raggiunse il suo apogeo
con Luigi XIV, e la monarchia parlamentare inglese, che pervenne a un assetto stabile dopo
la Glorious Revolution. George Trevelyan, uno dei maggiori storici liberali inglesi (testo n.
3), ha il merito di aver messo in evidenza il valore fondamentale della rivoluzione inglese
del 1688-89, identificandolo nella stabilizzazione del regime monarchico costituzionale. La
Rivoluzione gloriosa, infatti, mantenne il ruolo del re come fonte del potere esecutivo, ma
lo assoggettò alla legge, che da allora in poi sarebbe stata applicata da giudici indipenden-
ti e inamovibili, e modificata o aggiornata soltanto dall’intervento parlamentare.
50 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Testo n. 1
Pierangelo Schiera. Lo Stato moderno come forma storica determinata
Lo “Stato moderno europeo” ci appare come una forma di organizzazione del potere sto-
ricamente determinata e, in quanto tale, caratterizzata da connotati che la rendono pecu-
liare e diversa da altre forme, pure storicamente determinate, e, al loro interno, omogenee,
di organizzazione del potere.
L’elemento centrale di tale differenziazione consiste, senza dubbio, nel progressivo accen-
tramento del potere secondo un’istanza sempre più ampia che finisce col comprendere
l’intero ambito dei rapporti politici. Da questo processo, fondato a sua volta sulla concomi-
tante affermazione del principio della territorialità e sulla progressiva acquisizione della
impersonalità del comando politico, attraverso l’evoluzione del concetto di officium, sca-
turiscono i tratti essenziali di una nuova forma di organizzazione politica: lo Stato moderno
appunto.
Il sociologo tedesco Max Weber ha tradotto il carattere dell’accentramento – valido so-
prattutto a livello storico-istituzionale – in quello, più spiccatamente politologico, del “mo-
nopolio della forza legittima”. Il richiamo consente di comprendere meglio il significato
storico dell’accentramento, mettendone in luce, al di là dell’aspetto funzionale ed organiz-
zativo, l’evidenza più schiettamente politica, che consiste nella tendenza al superamento
del policentrismo del potere in favore di una concentrazione del medesimo in un’istan-
za tendenzialmente unitaria ed esclusiva. La storia della nascita dello Stato moderno è
la storia di questa tensione: dal sistema policentrico e complesso delle signorie di origine
feudale si giunge allo Stato territoriale accentrato e unitario attraverso la cosiddetta razio-
nalizzazione della gestione del potere – e quindi della organizzazione politica – dettata
dall’evolversi delle condizioni storiche materiali. [...]
Le lotte religiose che lacerarono l’Europa del ’500 e del ’600 sono da considerare la matri-
ce, o comunque il necessario punto di passaggio, della nuova forma di organizzazione del
potere che si richiama espressamente alla “politica”. La drammaticità di tale genesi è, a
sua volta, ancora esaltata dal fatto che il conflitto religioso trovò alla fine – segnatamente
in Francia, ma in modo non dissimile anche in Germania e in Inghilterra – la sua soluzione
non nel trionfo di una fede sull’altra, ma proprio nel superamento di ogni pretesa di fon-
dazione del potere su una fede purchessia. Aldilà delle parti contendenti, schierate sui due
opposti fronti della conservazione dei residui di policentrismo del potere a base signorile,
fondato sulle antiche libertà feudali ormai in via di trasformarsi nei moderni diritti innati,
e della rigorosa affermazione del potere monocratico del re sulle altrettanto tradiziona-
li basi divine e personali, ebbe la meglio una visione tecnica del potere che, intendendo
quest’ultimo come ordine esterno necessario a garantire la sicurezza e la tranquillità dei
sudditi, puntava espressamente sul compimento del processo di integrazione e di riunifica-
zione del potere stesso nella persona del principe, sorretto da un apparato amministrativo
(l’organizzazione degli uffici) efficiente e funzionale [...]. La religione cessa di essere parte
integrante della politica: quest’ultima si giustifica ormai dal suo interno, per i fini che è
chiamata a realizzare, che sono i fini terreni, materiali ed esistenziali, dell’uomo: in primo
luogo l’ordine e il benessere.
È facile cogliere, in questo processo, il ruolo svolto da quelle che sono già state indicate
come le premesse necessarie alla nascita della nuova forma di organizzazione del potere.
L’unità del comando, la territorialità del medesimo, il suo esercizio attraverso un corpo
qualificato di aiutanti “tecnici” sono altrettante esigenze di sicurezza e di efficienza per
Capitolo 1. Approfondimenti 51

quegli strati di popolazione che da una parte non riescono più a svolgere i loro rapporti
sociali ed economici all’interno delle antiche strutture organizzative e, dall’altra, indivi-
duano con chiarezza nella persistenza del conflitto sociale il maggior ostacolo alla propria
affermazione. Fin dalla sua preistoria, lo Stato si presenta appunto come la rete connettiva
dell’insieme di tali rapporti, unificati nel momento politico della gestione del potere. Ma è
solo con la fondazione “politica” del potere, conseguente alle lotte religiose, che gli attri-
buti nuovi dello Stato – mondanità, finalità e razionalità – si fondono a dare di quest’ultimo
l’immagine moderna di unica ed unitaria struttura organizzativa formale della vita asso-
ciata, di vero e proprio apparato per la gestione del potere, operante secondo procedure
sempre meglio definite, ma soprattutto in funzione di uno scopo concreto: la pace interna
del paese, l’eliminazione del conflitto sociale, la normalizzazione dei rapporti di forza, at-
traverso l’esercizio monopolistico del potere da parte del monarca [...].
Tale è il carattere essenziale del nuovo Stato anche sul piano istituzionale ed organiz-
zativo. Con riferimento ad esso, si è parlato di Stato macchina, di Stato-apparato, di Sta-
to-meccanismo, di Stato-amministrazione: in ogni caso si tratta di un’organizzazione dei
rapporti sociali (del potere), attraverso procedure tecniche prestabilite (le istituzioni, l’am-
ministrazione), utili alla prevenzione e neutralizzazione dei casi di conflitto e al raggiun-
gimento dei fini terreni che le forze dominanti nella struttura sociale riconoscono come
propri e impongono come generali all’intero paese. Ciò è divenuto possibile all’interno
di una nuova visione del mondo, risultante dal passaggio da una concezione dell’ordine
come gerarchia prefissata ed immutabile di valori e di fini, estesa all’intero universo, or-
dine al quale la sfera sociale non poteva che adeguarsi attraverso una sua articolazione
interna che rispettasse l’armonia del cosmo, ad un ordine più ristretto, ma più immediato
e, quindi, più attinente all’uomo: l’ordine mondano dei rapporti sociali, che l’uomo poteva
e doveva gestire direttamente con gli strumenti di cui disponeva, in base alle necessità
e alle capacità della sua natura. Ed è quest’ultima, indagata sempre più a fondo nei suoi
connotati empirici e materiali (ad opera in primo luogo di Hobbes), a fornire il necessario
tramite logico fra la vita stessa dell’uomo nel mondo – carica di paura e di egoismo, biso-
gnosa di pace e di benessere – e il Dio sempre più astratto e “nascosto” che giustifica tutto.
L’ordine statale diventa così un “progetto ragionevole” dell’umanità intorno al proprio
destino terreno: il contratto sociale, che segna simbolicamente il passaggio dallo stato di
natura alla stato civile, non è altro che la presa di coscienza, da parte dell’uomo, sia dei
condizionamenti materiali cui è soggetta la sua vita in società, sia delle capacità di cui egli
dispone per controllare, organizzare, gestire, utilizzare quei condizionamenti, in primo luo-
go per la sua sopravvivenza, secondariamente per il suo crescente benessere. [...].
Una volta eretto lo Stato – il principe ed il suo apparato di potere – a monopolista della
sfera politica, i suoi interlocutori diretti non furono più i ceti, ma gli individui – sudditi nella
singola sfera del loro “privato”. Questo dato, che trova infiniti riscontri nella storia cultu-
rale e religiosa dell’Occidente del Sei e Settecento, costituisce il terreno di fondo si cui si
venne costituendo, in primo luogo, la presa di coscienza da parte dei singoli dell’identità
e comunanza dei loro interessi privati; secondariamente, e in conseguenza di ciò, la pri-
ma organizzazione di tali interessi attraverso un atteggiamento sempre meno passivo e
sempre più critico nei confronti della gestione dello Stato da parte della forza storica che
aveva consentito il superamento dell’antica struttura feudale: il principe. È per queste vie
e soprattutto sulla base dello sviluppo economico, vero principio unificatore degli inte-
ressi comuni dei sudditi, severamente impegnati non solo nella difesa del loro privato ma
nell’attribuzione ad esso di valenza politica, che si venne formando la moderna “società
52 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

civile”, come insieme organizzato degli interessi privati, e al suo interno la primordiale dif-
ferenziazione in classi, sulla base dell’acquisita dominanza, sempre meno contrastata, del
nuovo modo di produzione capitalistico.
P. Schiera, Verso lo Stato post-moderno, in R. Ruffilli (a cura di), Crisi dello Stato e storiografia
contemporanea, Bologna, il Mulino, 1979, pp. 151-162: 151-155, 158-159.

Testo n. 2
Charles Tilly. I campi di attività dello Stato moderno
Fino al 1300 l’identificazione dei centri effettivi di potere in Europa rimane una questio-
ne sostanzialmente controversa. Chiese, capitali, leghe di città, monarchie federate in vari
modi, Stati: tutte queste istituzioni detenevano una fetta consistente di potere. Ma nel Set-
tecento gli Stati nazionali erano già divenuti chiaramente l’istituzione dominante. Per Stato
nazionale intendo una forma organizzativa relativamente centralizzata, differenziata e se-
parata che controlla i principali mezzi di coercizione su un territorio contiguo chiaramente
delimitato. In questa determinata accezione, gli Stati nazionali erano in realtà un fenome-
no storico abbastanza raro. Parti differenti del mondo si sono più spesso organizzate in
gruppi, dinastie, leghe e imperi dotati di proprie autonomie interne, che non in Stati nazio-
nali. Ma dopo il XV secolo quest’ultimo tipo di organizzazione cominciò ad aumentare la
propria forza e a spartire il territorio europeo in aree di dominio separate.
I rappresentati di questo tipo di Stati che hanno cominciato a prevalere in Europa, grosso
modo dal Cinquecento, hanno sviluppato sei diversi campi di attività maggiori, combinan-
doli in vario modo fra loro.
1. Attività bellica: eliminando o neutralizzando i propri nemici fuori dai territori sui quali
essi stessi esercitavano il proprio chiaro e continuo controllo.
2. Formazione dello Stato: eliminando o neutralizzando i propri nemici all’interno di quei
territori.
3. Protezione: garantendo l’ordine dentro e fuori il territorio nel quale i rappresentanti eser-
citano il proprio chiaro e continuo controllo.
4. Produzione: creando beni e servizi (sia individuali che collettivi) attraverso la trasforma-
zione del lavoro, della terra, dei capitali e/o delle materie prime.
5. Distribuzione: trasferendo e destinando le merci e i servizi, sia individuali che collettivi.
6. Drenaggio: procurandosi le risorse necessarie per realizzare le cinque precedenti attività.
Tutte queste attività, ovviamente, si sovrappongono e dipendono una dall’altra. Nella mag-
gior parte degli Stati la guerra detta i ritmi più ampi dell’attività di drenaggio: la tassazione,
il prestito, la coscrizione e altre iniziative consimili nascono e muoiono insieme alle guerre
e alla loro preparazione. Ma ognuna delle categorie dello schema che ho proposto, in real-
tà, non vuole essere soltanto un termine diverso per indicare la stessa cosa. L’importanza
relativa di tali, diverse, attività è destinata a cambiare con il passare del tempo e a mutare
anche profondamente da uno Stato all’altro. [...]
L’attività bellica, la formazione dello Stato e il drenaggio delle risorse dominarono i primi
secoli del processo di costruzione dello Stato moderno; il loro nucleo coercitivo stabilì la
priorità degli Stati nei confronti di tutte le altre organizzazioni territorialmente contigue.
L’attività di protezione crebbe di importanza insieme all’aumento della quota di popola-
zione protetta; l’istituzione di forze di polizia distinte dagli eserciti nazionali coronò questo
Capitolo 1. Approfondimenti 53

processo. Nel corso del tempo tutti gli Stati hanno sviluppato attività crescenti di produ-
zione e di distribuzione. La misura del loro impegno in questi settori è cresciuta al punto di
superare quella di altre attività tradizionali come la guerra, la formazione dello Stato, la
protezione e il drenaggio. [...]
Il drenaggio di cibo, di uomini, di servizi, di bestiame e di denaro per sostenere lo sforzo
bellico, la formazione dello Stato e l’attività di protezione favorirono la creazione di siste-
mi gerarchici di sorveglianza e di controllo diffusi in tutto il territorio nazionale ma parti-
colarmente concentrati laddove tali risorse erano maggiormente presenti. Nel processo
di costruzione degli Stati europei, la formazione di sistemi regolari per la coscrizione, gli
approvvigionamenti e, in modo particolare, la tassazione per sostenere le attività belliche,
modellarono le strutture di base dello Stato moderno: il tesoro, il debito pubblico, la buro-
crazia centrale, le istituzioni rappresentative. La maggior parte di quelle strutture, tuttavia,
dipendeva dalla interazione tra volume delle attività di drenaggio, la loro organizzazione
e la mobilità delle risorse estratte. A un estremo si collocava lo Stato olandese che riusciva
a tassare il traffico della sua economia altamente monetizzata senza dover ricorrere a un
apparato smisurato. All’altro estremo della scala si trovava la Russia che aveva creato una
ingombrante burocrazia allo scopo di estrarre risorse dalle terre sterminate ma scarsamen-
te aperte al commercio.
Da un punto di vista generale, comunque, lo Stato si muoveva nella medesima direzione.
L’espansione delle attività di guerra, formazione dello Stato, protezione, produzione, distri-
buzione e drenaggio promuoveva la creazione di ampi territori contigui, delimitati da linee
di frontiera, socialmente omogenei al loro interno, divisi in aree amministrative controllate
gerarchicamente che mutavano parzialmente a seconda della contiguità alle città capitali,
alle frontiere, alle risorse disponibili per le attività dello Stato. La guerra, la formazione del-
lo Stato, la protezione, la produzione, la distribuzione e il drenaggio erano, in poche parole,
le attività che concorrevano a costruire gli Stati nazionali.
C. Tilly, La dimensione spaziale nella formazione degli Stati, in “Passato e presente”, 1986, n.
10, pp. 141-153: 141-144.

Testo n. 3
George M. Trevelyan. La Gloriosa rivoluzione
Perché gli storici considerano importante la Rivoluzione del 1688? Si meritava davvero il
titolo di “gloriosa” che fu per tanto tempo l’epiteto che la distinse? Forse “la rivoluzione
del buon senso” sarebbe stato un titolo più appropriato e l’avrebbe certo distinta più chia-
ramente tra le altre rivoluzioni. Ma in quanto fu davvero “gloriosa”, in che cosa consiste la
sua “gloria”? Non è certo la gloria di marca napoleonica, che va ricercata nello splendore
degli eventi, nel movimento drammatico delle scene, o nell’eroismo degli attori [...]. La vera
“gloria” della Rivoluzione non sta nel fatto che per il suo successo non fu quasi necessaria
la violenza, ma nel modo, che il “Regime rivoluzionario” escogitò per le future generazioni
inglesi, di fare a meno della violenza. Non c’è nulla di particolarmente glorioso nella vitto-
ria che i nostri avi riuscirono a riportare, con l’aiuto di armi straniere, sopra un re mal con-
sigliato che attaccò briga con nove decimi dei suoi sudditi inglesi sui principi fondamentali
del diritto, della politica e della religione.
Farsi sconfiggere in una simile circostanza sarebbe stata davvero un’ignominia nazionale.
La “gloria” di quella breve e incruenta campagna va a Guglielmo, il quale tracciò piani
profondi e complicati e corse rischi grandissimi una volta traversato il mare, piuttosto che
54 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

agli inglesi cui toccava soltanto di buttare in aria i berretti in suo onore con sufficiente una-
nimità quand’egli e le sue truppe fossero sbarcati. Ma la vera gloria dell’Inghilterra è che il
cataclisma della caduta di Giacomo non venne accompagnato da spargimento di sangue
inglese, né in campo né sul patibolo. Gli istinti politici del nostro popolo si rivelarono in
questo, che evitarono una seconda guerra civile, della quale erano pronti tutti gli elementi.
Il nostro nemico Luigi XIV di Francia aveva fiduciosamente sperato che, allo sbarco di Gu-
glielmo, la nostra isola faziosa sarebbe stato teatro di un altro lungo periodo di confusione
e di lotta: altrimenti avrebbe minacciato le frontiere dell’Olanda, impedendo così al suo
rivale persino di salpare. Ma il Parlamento di Convenzione [l’assemblea parlamentare che
conferì il titolo di sovrani a Guglielmo e sua moglie Maria], nel febbraio 1869, unificando
l’Inghilterra sventò la politica della Francia. I whigs e i tories, ribellatisi insieme contro Gia-
como, colsero il fuggevole istante della loro unione per stabilire una forma di governo nuo-
va e antica, conosciuta nella storia come il Regime rivoluzionario. Sotto di esso l’Inghilterra
godette da quel tempo la pace all’interno. Il Regime rivoluzionario della Chiesa e dello
Stato dimostrò di avere la virtù della stabilità.
Durò quasi inalterato fino all’era della Legge di Riforma (Reform Bill) nel 1832, quando ven-
ne approvata una riforma elettorale che favorì un notevole aumento degli aventi diritto al
voto, attraverso l’eliminazione delle piccole circoscrizioni rurali (controllate da pochi pro-
prietari terrieri) e l’aumento dei seggi cittadini e delle contee industrializzate. E attraverso
i successivi stadi di rapidi mutamenti che seguirono, i suoi principi fondamentali hanno
continuato a reggere il peso della vasta sovrastruttura democratica che i secoli XIX e XX
hanno innalzato sulle sue solide basi. Ecco, in un’occhiata comprensiva, una “gloria” che
continua ad ardere da duecentocinquant’anni: non è la vampa vorace, effimera e rovinosa
della gloire.
La cacciata di Giacomo fu un gesto rivoluzionario, ma per il resto lo spirito di questa curiosa
rivoluzione fu tutt’altro che rivoluzionario. Essa non venne per rovesciare le leggi, ma per
confermarle di fronte a un re che le violava. Non venne per costringere il popolo in un unico
schema di opinioni politiche o religiose, ma per dargli la libertà al riparo e per mezzo della
legge.
Fu contemporaneamente liberale e conservatrice; la maggior parte delle rivoluzioni non
sono né l’uno né l’altro, ma rovesciano le leggi e poi non tollerano se non un unico modo
di pensare. Nella nostra Rivoluzione i due grandi partiti si unirono per salvare le leggi del
paese dalla distruzione minacciata loro da Giacomo; ciò fatto, e divenuti in questo modo
padroni della situazione nel febbraio 1689, né il partito dei whigs né quello dei tories po-
tevano tollerare che i propri adepti rimanessero ancora soggetti alla persecuzione sia del
potere regio sia dell’opposto partito statale. In queste circostanze la nota fondamenta-
le del Regime rivoluzionario fu, tanto in religione quanto in politica, la libertà personale
nell’ambito della legge. La più conservatrice delle rivoluzioni che conosca la storia, fu an-
che la più liberale. [...]
Nel settore del pensiero e della religione venne assicurata la libertà individuale, abbando-
nando la prediletta idea che tutti i sudditi dello Stato debbano altresì essere membri della
Chiesa di Stato. L’Atto di Tolleranza (Toleration Act) del 1689 accordò il diritto di culto, se
non la completa uguaglianza politica, ai dissidenti protestanti; e tanto forte era lo spirito
latitudinario e tollerante dell’epoca che s’aperse con la Rivoluzione, che ben presto la pra-
tica, se non la legge, estese questi privilegi ai cattolici, contro i quali sotto un certo aspetto
la rivoluzione era stata particolarmente diretta.
Capitolo 1. Approfondimenti 55

La libertà politica individuale venne assicurata in uno spirito consimile con l’abolizione
della censura (1695), con una più mite e meno parziale amministrazione della giustizia
politica, e con un equilibrio tra whigs e tories, sotto le bandiere rivali dei quali quasi tutti
trovavano riparo in qualche modo. Così l’idea tutta inglese della libertà di opinione e dei
diritti dell’individuo ricevette un grandissimo incremento dal particolare carattere di que-
sta rivoluzione.
Giacomo aveva tentato di collocare il re al di sopra del Parlamento e della legge. La Rivo-
luzione, mentre lasciava sussistere il re come fonte del potere esecutivo, lo assoggettava
alla legge, che da allora in poi giudici indipendenti e inamovibili avrebbero interpretato, e
soltanto un Atto del Parlamento potuto alterare.
In questo modo l’Inghilterra ottenne non soltanto la libertà politica e religiosa, ma una
potenza nazionale maggiore di quella dell’illimitata monarchia francese. Sono queste le
ragioni per cui gli storici moderni considerano la Rivoluzione una svolta nella storia del
nostro paese e del mondo intero.
G.M. Trevelyan, La rivoluzione inglese del 1688-1689, Torino, Einaudi, 1940, pp. 1-7.
Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea:
dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra
di Carlo De Maria
Roma (BraDypUS) 2018
ISBN 978-88-98392-70-4
pp. 57-70

Capitolo 2. La costruzione della


supremazia mondiale britannica
Profilo storico

2.1. La Gran Bretagna e il sistema politico europeo

Nata nel 1707 dall’unione di Inghilterra e Scozia, la Gran Bretagna divenne “arbitra dell’Eu-
ropa” – come la definivano gli stessi diplomatici dell’epoca – al termine della Guerra di suc-
cessione spagnola (1701-1713), che sancì la definitiva sconfitta delle ambizioni egemoni-
che dell’assolutismo francese. Con l’Union Act tra i regni d’Inghilterra e di Scozia cominciò
la moderna storia britannica. Si trattò di un atto politico della massima importanza che ga-
rantì forza e sicurezza all’Inghilterra proprio durante un nuovo periodo di guerra in Europa.
La crisi dinastica in Spagna si determinò nel 1700 con la morte del sovrano Carlo II. Il re
non lasciava eredi e terminava, dunque, con lui quel ramo spagnolo degli Asburgo che ave-
va occupato il trono di Madrid per circa due secoli. Le diplomazie europee erano attive già
da alcuni anni nel tentativo di gestire in modo non cruento la difficile questione dinastica.
I più direttamente interessati erano gli Asburgo d’Austria, che con Leopoldo I, imperatore
del Sacro Romano Impero, ambivano legittimamente a salire anche sul trono di Spagna. Lo
stesso Leopoldo, tuttavia, si era dimostrato disponibile a limitare il proprio ruolo, in modo
da non alterare in maniera troppo evidente gli equilibri di potenza. Egli, cioè, non preten-
deva per sé la corona di Spagna, ma l’avrebbe ceduta al figlio, mantenendo almeno tempo-
raneamente la Spagna e i suoi possedimenti separati dall’Impero germanico.
La crescente invadenza esercitata sulla politica spagnola da parte degli Asburgo di Vien-
na finì, comunque, per suscitare a Madrid una violenta reazione antiaustriaca; uno stato d’ani-
mo così diffuso che arrivò a influenzare anche il testamento del morente Carlo II. Egli decise
di lasciare tutti i suoi territori (oltre alla Spagna, i possedimenti in Italia, Belgio e le colonie
americane) al nipote del sovrano francese Luigi XIV. Il Re Sole, infatti, aveva sposato Maria
Teresa di Spagna, sorella di Carlo, e dunque si era stabilita una parentela tra i Borbone di
Francia e gli Asburgo di Spagna. Carlo II pose alla Francia un’unica riserva, che la corona di
Spagna non si saldasse con quella francese: pretese, insomma, da Luigi XIV e da suo nipote, il
giovane Filippo duca d’Angiò, la stessa garanzia che gli aveva già assicurato Leopoldo I.
In questo modo la Francia sembrò essersi finalmente liberata dalla “tenaglia” politica e
territoriale nella quale era stata per lungo tempo stretta dagli Asburgo (tra Spagna e Sacro
58 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Romano Impero). Ma l’esultanza francese fu di breve durata. Quasi tutti i principati germa-
nici si dichiararono contrari al testamento del sovrano spagnolo, rafforzando dunque le
ambizioni di Leopoldo I e della sua casata. Anche dall’Olanda giungevano forti preoccu-
pazioni per la prospettiva di una stabile coalizione franco-spagnola che avrebbe potuto
significare per la piccola repubblica una più temibile concorrenza commerciale e politica
sulle rotte atlantiche. Ma l’aspetto davvero decisivo, nel determinare i rapporti di forza in
una eventuale guerra contro il Re Sole, era la posizione inglese.
In Inghilterra il dibattito interno pro o contro la guerra fu assai vivace. E l’opinione pub-
blica finì per orientarsi con decisione verso l’intervento militare contro la Francia solamen-
te a causa di una enorme imprudenza commessa da Luigi XIV, che anche in quel delicato
frangente continuò a sostenere in modo esplicito il ritorno degli Stuart sul trono di Londra
(la dinastia cattolica degli Stuart, come si ricorderà, era stata spodestata in seguito alla
Rivoluzione gloriosa del 1688, quando il parlamento aveva offerto la corona d’Inghilterra
al protestante Guglielmo III d’Orange).
In una monarchia parlamentare come quella inglese muovere una guerra significava
per il sovrano poter contare sull’appoggio dell’assemblea legislativa ai necessari provvedi-
menti finanziari. Le guerre costavano e l’Inghilterra era appena uscita da un lungo conflitto
proprio contro la Francia – la Guerra dei Nove anni, conclusasi nel 1697 –, che aveva già
portato a nuovi carichi fiscali. Lo scontento serpeggiava soprattutto tra i grandi proprietari
terrieri, ben rappresentati in parlamento dal partito conservatore (tory); una circostanza
che avrebbe sicuramente fatto propendere Guglielmo III d’Orange per la scelta di evitare
una nuova guerra. Sennonché, nel settembre 1701, moriva durante l’esilio in Francia l’ex
sovrano inglese Giacomo II Stuart, e sul suo letto di morte Luigi XIV coglieva l’occasione
per promettere, con la massima solennità, di riconoscere i diritti dei suoi eredi al trono
d’Inghilterra. Questo solo fatto fu sufficiente a sollevare l’indignazione della maggioranza
dell’opinione pubblica inglese. Nelle elezioni che si svolsero poco dopo il partito whig, che
era su posizioni liberali e antifrancesi, ottenne la maggioranza alla Camera dei Comuni. A
quel punto l’entrata dell’Inghilterra in guerra era scontata.
Sul finire del 1701 le due potenze marittime, quella inglese e quella olandese, riunite
sotto la guida di Guglielmo III ricomposero, insieme alle forze del Sacro Romano Impero
(guidate sul campo dal generale Eugenio di Savoia, al servizio degli Asburgo), la stessa co-
alizione che aveva già fermato la politica aggressiva di Luigi XIV pochi anni prima. Le osti-
lità cominciarono nel 1702 e la prima fase della guerra fu caratterizzata dall’avanzata in
direzione di Vienna da parte dell’esercito francese. La città austriaca fu difesa con successo
anche grazie all’intervento delle truppe inglesi.
La morte improvvisa di Guglielmo III (avvenuta proprio nel 1702, in seguito a una pol-
monite) non tolse vigore all’impegno dell’Inghilterra, che venne alimentato dalla regina
Anna, proveniente dal ramo protestante del casato degli Stuart. Anna era la sorella minore
di Maria II, moglie di re Guglielmo, morta nel 1694 per vaiolo. La nuova regina confermò la
linea di condotta in politica estera del suo predecessore, scegliendo un esponente di spicco
del partito whig, Lord Marlborough, come comandante in capo dell’esercito.
Dopo che le truppe di Luigi XIV, dirette su Vienna, erano state fermate in Baviera e poi
costrette a ripiegare (1704), altre dure sconfitte attendevano le forze franco-spagnole sul
fonte belga a opera di inglesi e olandesi (1706). Tra il 1708 e il 1709, con la Francia in ginoc-
chio a causa di cattivi raccolti, le truppe inglesi e quelle dell’Impero germanico tentarono
di infliggere una spallata decisiva nei pressi di Malplaquet, vicino al confine franco-belga.
Dopo una battaglia cruentissima, che lasciò sul campo complessivamente quasi 40 mila
morti, i francesi benché sconfitti riuscirono comunque a ritirarsi in buon ordine, pronti a
Capitolo 2. La costruzione della supremazia mondiale britannica 59

resistere ancora. L’opinione pubblica inglese era sgomenta per le gravi perdite subite e per
i crescenti costi economici di una guerra che, del resto, non stava neppure portando signi-
ficative conquiste territoriali. A quel punto il governo britannico preferì accettare le offerte
di pace provenienti dalla diplomazia francese. Si arrivò così alla pace di Utrecht del 1713.
Dagli accordi di pace la Gran Bretagna otteneva grandi vantaggi in campo coloniale
(rafforzando, come vedremo meglio, la propria posizione nei commerci atlantici), l’Olanda
consolidava i propri confini meridionali con l’acquisizione di alcune piazzeforti e, infine, gli
Asburgo d’Austria occupavano diversi possedimenti spagnoli in Italia: segnatamente Mila-
no, la Sardegna e Napoli. La Sicilia, invece, passava ai Savoia, che dunque ingrandivano i
loro possedimenti fino ad allora limitati all’area piemontese.
Il nipote di Luigi XIV conservò il trono di Spagna, con il nome di Filippo V, e tuttavia
dopo Utrecht venne tacitamente abbandonato ogni tentativo (soprattutto francese) di mo-
dificare l’equilibrio di forza in Europa. In questo senso il 1713 segnò simbolicamente la fine
dell’età di Luigi XIV; il Re Sole morirà due anni più tardi.
La pace di Utrecht merita anche una considerazione più generale. Durante le trattative
si ebbe la conferma di come i contrasti religiosi, che avevano incendiato l’Europa tra Cin-
que e Seicento, si fossero decisamente raffreddati. Nel 1713, infatti, i diplomatici europei si
confrontarono esclusivamente su questioni di interesse nazionale, riguardanti gli equilibri
politici tra le potenze; e non per questioni religiose, che avevano invece pesantemente
condizionato i negoziati di Vestfalia alla conclusione della Guerra dei Trent’anni.

2.2. L’evoluzione del sistema costituzionale britannico

Nel 1714, la morte della regina Anna e l’avvento al trono di suo cugino, Giorgio I di Han-
nover (l’erede protestante più prossimo), portarono a sensibili novità negli equilibri del go-
verno britannico. Giorgio, infatti, era di origine tedesca e parlava assai male l’inglese, per
giunta conosceva poco l’Inghilterra e non era, dunque, in grado di trattare in prima persona
gli affari del regno. Tutto ciò portò, come conseguenza, a una maggiore importanza dei
ministri e a una loro sempre più stretta adesione agli indirizzi espressi dalla maggioran-
za parlamentare. L’interprete massimo di questa nuova stagione – che si consolidò con il
regno di Giorgio II (1727-60) – fu l’esponente whig Robert Walpole, che diresse la politica
inglese dal 1721 al 1742, esercitando una vera e propria leadership all’interno del consiglio
dei ministri. Se in precedenza la guida del potere esecutivo era riconosciuta al sovrano, a
partire da Walpole essa cominciò a essere esercitata dal più influente dei ministri, presto
indicato come Primo ministro.
Si trattò di un mutamento graduale che si affermò prima nella prassi di governo e poi
nei codici. Dal punto di vista strettamente formale, infatti, Walpole non occupava una posi-
zione di preminenza rispetto agli altri ministri, e bisognerà attendere la fine del Settecento
perché la carica di Primo ministro venga ufficialmente riconosciuta.
La teoria costituzionale dell’epoca prevedeva che ogni ministro fosse responsabile sin-
golarmente del proprio operato e del proprio dipartimento di fronte al sovrano. Di conse-
guenza Walpole, che occupava le cariche di Primo lord del Tesoro e di Cancelliere dello
Scacchiere (cioè, ministro del Tesoro e ministro delle Finanze), non aveva ufficialmente
alcun diritto di interferire nella politica estera o in sfere che erano di pertinenza di altri
60 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

ministri. Ma dal momento che Giorgio I non partecipava attivamente alla vita politica del
paese e neppure alle sedute del governo, occorreva che il più autorevole tra i ministri gli
riferisse periodicamente sull’attività dell’esecutivo. In questo modo, facendo leva sulla sua
doppia carica ministeriale e sull’influenza personale che esercitava sulla maggioranza par-
lamentare, Walpole divenne di fatto, se non di nome, Primo ministro del Regno Unito.
A ben vedere, nella storia d’Europa, non era la prima volta che si affermava, accanto al
re, un ministro in grado di primeggiare sugli altri consiglieri. Si pensi, ad esempio, alla Fran-
cia del XVII secolo, con le figure di Richelieu, Mazarino e Colbert. Trattandosi di una monar-
chia assoluta, però, quei grandi ministri non avevano dovuto confrontarsi con il parlamento
e negoziare con esso le proprie scelte politiche. Nettamente diversa appare, dunque, la
rilevanza del governo di Robert Walpole, che da una parte era indipendente dal sovrano e
dall’altra fondava il suo potere proprio sul parlamento.
Si può dire che in Inghilterra stesse prendendo sempre più forma quel governo costitu-
zionale e parlamentare prefigurato dalla Rivoluzione gloriosa del 1688, a cui corrisponde-
va una riduzione al minimo dei poteri e delle responsabilità della corona. Il Primo ministro,
infatti, non era più vincolato alla fiducia del re, ma era responsabile del proprio operato
di fronte al parlamento, della cui maggioranza era espressione. Il Primo ministro, dunque,
governava il paese e deteneva di fatto il potere esecutivo, mentre il re britannico ormai
“regnava ma non governava”.
Attorno al 1750 l’ordinamento giuridico britannico era, sotto molti punti di vista, unico
in Europa. Esso si affidava a una costituzione non scritta, basata su una serie di principi fon-
damentali accumulatisi nel corso del tempo ed entrati a far parte del diritto comune (com-
mon law). Allora come oggi, non esisteva alcun testo intitolato “Costituzione britannica”;
inoltre, accanto alle leggi scritte avevano un peso rilevante consuetudini non formalizzate.
Se è vero, infatti, che le prerogative del parlamento erano fissate in atti legali come il Bill
of Rights (1689), i rapporti tra il consiglio dei ministri e il sovrano erano in larga parte dettati
da prassi che si consolidavano nel tempo. All’epoca di Walpole, ad esempio, non vi era alcuna
legge che si riferisse a un consiglio dei ministri retto da un Primo ministro, così come non vi
era nulla di scritto che regolasse esattamente i rapporti tra governo e parlamento: nessuna
legge che impedisse a un governo di restare in carica anche senza la fiducia parlamentare.
Ma era chiaro a tutti che se un governo che aveva perduto la fiducia non si dimetteva, esso
comunque non avrebbe potuto più svolgere le proprie funzioni, perché senza il consenso del
parlamento era impossibilitato dalla legge a ottenere finanziamenti di sorta.
La Gran Bretagna disponeva, insomma, di un energico parlamento che vigilava sul so-
vrano e sul governo. L’assemblea legislativa era, anzi, il vero fulcro della monarchia britan-
nica e per questo si parla di monarchia parlamentare.

2.3. Lo sviluppo dei porti atlantici e la leadership mercantile


inglese

Il teatro sul quale si svolgeva l’attività commerciale della Gran Bretagna era, nei primi de-
cenni del Settecento, già vastissimo. Andava dal Mar Baltico e dal Mare del Nord ai porti
francesi e iberici dell’Atlantico fino al Mediterraneo orientale; abbracciava le coste dell’A-
Capitolo 2. La costruzione della supremazia mondiale britannica 61

merica settentrionale e meridionale; arrivava ai mari asiatici dell’Oceano Indiano e dell’O-


ceano Pacifico.
Lo sviluppo mercantile era supportato da una crescita complessiva dell’economia e
della società inglese. Il progresso si muoveva in diverse direzioni: i miglioramenti dell’agri-
coltura e, in particolare, della produzione cerealicola con la scomparsa delle terre incolte
e la formazione di grandi aziende agricole; lo sviluppo della produzione manifatturiera so-
prattutto nel settore tessile (stoffe di seta, di cotone indiano, articoli di lana); la costruzione
di nuove strade e il miglioramento della viabilità interna; la crescita delle città all’insegna
della prosperità e della operosità.
Il panorama urbano inglese non si compendiava più nella sola Londra, prima metropoli
d’Europa, e in Bristol, il più ricco centro urbano dopo la capitale, ma si articolava in una
miriade di città e cittadine in continua espansione. Partendo dalla punta sud-occidentale
dell’Inghilterra, si incontravano i piccoli centri portuali e d’affari della Cornovaglia; i poli
manifatturieri del Devon, del Somerset e del Wiltshire; e ancora le fonderie di ferro del
Kent, a sud di Londra. Spostandosi verso nord, la lavorazione della lana nel Leicester e
ancora più su, non lontano dalla Scozia, l’estrazione e il commercio del carbone nella zona
di Newcastle. Città portuali in forte espansione come Manchester e Liverpool caratterizza-
vano ormai con la loro attività l’intera costa atlantica.

2.3.1. Consolidamento e modernizzazione della base agricola.


Tra Sei e Settecento le strutture agrarie cambiarono profondamente con l’affermazione
di una produzione agricola sempre più orientata a soddisfare le esigenze di un mercato in
espansione. Le trasformazioni avvennero in seguito alle recinzioni (enclosures) dei campi
aperti e delle terre comuni e all’introduzione di nuove tecniche e colture. Il tradizionale
sistema a campi aperti (open fields) caratterizzava, ancora nel Seicento, oltre la metà del-
le campagne inglesi ed era costituito da piccoli appezzamenti non recintati e contigui, di
proprietà individuale. Le consuetudini prevedevano che su questi campi, dopo il raccolto,
tutti gli abitanti del villaggio potessero spigolare o condurre gli animali al pascolo. Molto
diffuse erano anche le terre comuni (common lands), così chiamate perché rappresentava-
no aree di proprietà collettiva, che le comunità locali destinavano al pascolo e alla raccolta
di legna.
Le enclosures significarono recinzione (con muretti, siepi, steccati) e ricomposizione
fondiaria degli appezzamenti situati nelle zone dei campi aperti e privatizzazione delle
terre comuni. In questo modo si determinò una più chiara definizione della proprietà fon-
diaria e grazie alla creazione di aziende agricole di dimensioni maggiori fu possibile realiz-
zare una coltivazione più razionale, aperta al mercato e libera dagli obblighi consuetudi-
nari delle comunità e dai vincoli dell’autoconsumo. Come corollario, diminuì il numero dei
piccoli proprietari e i contadini rimasti senza terra cercarono lavoro come braccianti negli
appezzamenti più grandi.
Altro fattore di trasformazione dell’agricoltura inglese fu il superamento della rotazio-
ne triennale, con l’introduzione di piante da foraggio come il trifoglio e le rape, avvicen-
date con i cereali. Un tipico esempio di questa nuova agricoltura consisteva in sei anni di
rotazione continua con un solo anno di riposo ogni sette, e non più ogni tre come nella
rotazione triennale. Le colture foraggiere avevano la proprietà di arricchire il terreno con-
sentendo rotazioni più lunghe e una produttività più elevata. Aumentavano così le disponi-
bilità alimentari per gli uomini e per il bestiame. L’allevamento divenne una componente
62 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

fondamentale per le aziende agricole, fornendo concime naturale per la terra e carne e
latte per il mercato.
Rotazioni complesse, integrazione di agricoltura e allevamento, produzione per il mer-
cato non furono una prerogativa inglese: i nuovi sistemi si diffusero anche nella Francia
settentrionale, nella Germania nordoccidentale, nelle Fiandre e in Lombardia. Ma solo in
Inghilterra si diffusero su larga scala, mentre altrove continuarono a convivere con vecchie
strutture feudali.

2.3.2. Importazioni, esportazioni e consumi.


All’inizio del XVIII secolo la quasi totalità delle esportazioni inglesi era assorbita dall’Euro-
pa. Il Vecchio continente offriva i mercati più ricchi e più vicini. Si pensi all’Olanda, all’Impe-
ro germanico, alla regione del Mar Baltico e ancora alla Francia, alla Spagna, al Portogallo
e al bacino del Mediterraneo. Nondimeno la ricettività dei mercati americani e asiatici ebbe
un rapido incremento, e intorno alla metà del secolo i territori extraeuropei acquistavano
circa il 20% delle esportazioni provenienti dalla Gran Bretagna.
Anche le importazioni inglesi provenivano principalmente dall’Europa, ma già nel 1700
il 32% delle merci che raggiungevano il regno avevano origine non europea; una quota sa-
lita al 45% nel 1750. Alcuni di questi beni, soprattutto le spezie e i tessuti indiani, venivano
importati per poi essere a loro volta esportati verso il resto del continente. Nel complesso,
i cento anni che precedettero il 1750 si caratterizzarono per un consistente progresso del
commercio inglese oltreoceano; e dopo quella data la crescita diventò ancora più soste-
nuta.
I dati relativi alle importazioni mostrano una tendenza costante al calo della quantità
di manufatti, scesi al 22% a metà Settecento, a fronte di un aumento di materie prime e di
prodotti coloniali quali lo zucchero e il tabacco. Era un chiaro segnale del vigore delle in-
dustrie domestiche, che richiedevano tessuti e materiali grezzi da lavorare sul suolo ingle-
se. Accanto alle prime testimonianze di uno sviluppo industriale che avrebbe presto dato
(dopo il 1770-1780) prove ancor più stupefacenti, l’aumento delle importazioni di prodotti
come zucchero, tè, tabacco, sottolineava l’esistenza di un mercato interno più articolato in
cui i consumatori potevano destinare una parte dei redditi a spese non di prima necessità.
Fra metà Seicento e metà Settecento le importazioni dello zucchero decuplicarono. Le im-
portazioni di tè, trascurabili a metà Seicento, raggiunsero i tre milioni di libbre un secolo
dopo. I prezzi al dettaglio scesero sensibilmente, stimolando ancora di più la domanda.
È ormai assodato che l’allargamento mondiale degli scambi commerciali venne traina-
to dalla diffusione del consumo di alcuni prodotti esotici in Europa. La commercializzazio-
ne di questi prodotti e il miglioramento dei trasporti che favorirono lo spostamento delle
merci via mare o lungo canali navigabili permisero un rifornimento alle popolazioni urba-
ne sempre più continuo e massiccio. Tè, tabacco, caffè, cacao, zucchero venivano stoccati
in enormi magazzini e messi in condizione di alimentare i mercati cittadini con regolarità.
Nel XVIII secolo Londra divenne un deposito mercantile di importanza mondiale.
Si è stimato che nelle spese alimentari delle famiglie di lavoratori delle campagne bri-
tanniche alla fine del Settecento, il 10% circa fosse destinato a prodotti coloniali (soprat-
tutto, tè e zucchero). Questi ceti, ormai, si approvvigionavano per i consumi domestici pres-
so i negozianti del villaggio o della città ed entravano così in una dinamica del consumo
sempre più slegata dal loro più prossimo circuito di produzione e di scambio e dipendente
invece dai flussi del commercio globale. In paesi come Inghilterra e Olanda, il ricorso al
Capitolo 2. La costruzione della supremazia mondiale britannica 63

mercato da parte di una quota sempre più ampia della popolazione diede una spinta con-
sistente alla crescita e alla diversificazione dei consumi.

2.3.3. Luci e ombre del commercio internazionale: benessere e schiavitù.


Il Settecento fu un’età aurea per il commercio internazionale e, più in particolare, per il
commercio atlantico. Il volume degli scambi con l’estero aumentò di due volte e mezzo in
Inghilterra e di tre volte in Francia (che partiva da posizioni più arretrate), mentre la cre-
scita dell’Olanda, che era stata impetuosa nel secolo precedente, si attenuò in modo netto:
Amsterdam restava certamente un importante fulcro della finanza internazionale, ma la
sua funzione di centro mercantile fu ereditata da Londra.
Il contributo maggiore allo sviluppo dei traffici venne dall’Atlantico, grazie soprattut-
to all’incremento del commercio inglese con le colonie, che salì dal 23 al 44% sul totale
del commercio con l’estero della Gran Bretagna. La colonizzazione e lo sfruttamento del
continente americano conobbero, nel complesso, una grande accelerazione. E se è vero
che larga parte della ricchezza inglese continuava a essere prodotta in patria, una quota
crescente derivava anche dai possedimenti all’estero, alimentando i capitali delle società
per azioni sia commerciali che industriali.
La società inglese, nel corso del XVIII secolo, divenne sempre più ricca e più sicura di sé.
Certe differenze di classe sfumavano: erano gli anni in cui l’aristocrazia si costruiva case di
campagna enormi ed eleganti, ma lo faceva spesso utilizzando il denaro fresco acquisito
grazie all’ingresso in famiglia della figlia di un qualche ricco esponente della borghesia
mercantile. E anche le classi inferiori, contadini e artigiani, risentivano a cascata della pro-
sperità generale, consolandosi in questo modo della mancanza del diritto di voto, ancora
riservato ai possidenti.
Specchio della straordinaria vitalità del paese fu per tutto il corso del Settecento l’in-
cremento della stampa quotidiana e periodica, presente su ogni questione politica e larga-
mente diffusa anche nelle province. Nella capitale, intorno alla metà del secolo, si pubbli-
cavano quattro quotidiani e una novantina di periodici.
I governi britannici del Settecento si dedicarono relativamente poco agli affari interni,
mentre concentrarono molta più energia sulla diplomazia internazionale, sulle colonie e
sul commercio estero. La promozione del commercio oltremare divenne anzi l’interesse
centrale della Gran Bretagna.
Un aspetto non occasionale o di dettaglio, ma sistematico e fondamentale, dell’attività
mercantile attraverso l’Atlantico fu la tratta degli schiavi. Per documentarne lo svolgimen-
to basta volgere lo sguardo a quanto accadeva a Bristol, che, dopo Londra, era il principale
porto inglese interessato all’esportazione di manufatti verso l’America e all’importazione
di tabacco, zucchero, legname, carne, pesce e cotone dalle colonie d’oltremare.
Il febbrile lavoro dei mercanti di Bristol si applicava con profitto anche a un particolare
genere di traffico, quello di merce umana, che prelevata dalle coste occidentali dell’Africa
era venduta come forza lavoro servile nelle piantagioni americane. Solo nelle colonie in-
glesi, tra il 1680 e il 1783, furono tradotti più di due milioni di schiavi africani.
I negrieri partivano dai porti atlantici europei – sia francesi (Bordeaux e Nantes) sia
inglesi (Bristol e Liverpool) – carichi di varie mercanzie, ferramenta, armi da fuoco che ven-
devano lungo le coste dell’Africa ai capi indigeni in cambio di schiavi, ottenuti da costoro
con continue razzie all’interno. Dopo averli stivati e incatenati sotto coperta in condizio-
ni spaventose, attraversavano l’Atlantico e li vendevano ai proprietari delle piantagioni o
a intermediari. Il denaro guadagnato con la vendita degli schiavi veniva poi reimpiegato
64 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

nell’acquisto di generi coloniali (zucchero, caffè, tabacco) da rivendere in patria. I profitti


di questo commercio triangolare erano altissimi e su di esso si basò in gran parte la fortuna
dei porti britannici e francesi.
Bisognerà aspettare la fine del Settecento perché si crei un movimento umanitario fa-
vorevole alla proibizione della tratta e solo nella seconda metà dell’Ottocento si giungerà
alla definitiva abolizione della schiavitù nelle Americhe.

2.4. Il predominio in America e la conquista dell’India

La potenza politica e commerciale aveva i suoi costi. I numerosi conflitti sostenuti dall’In-
ghilterra contro la Francia tra Sei e Settecento fecero quasi triplicare la spesa pubblica
ed ebbero l’effetto di far salire il debito di Stato britannico da 11 a 40 milioni di sterline.
Tuttavia la ricchezza nazionale continuò a crescere rapidamente; i ceti legati alle attività
commerciali e imprenditoriali erano in forte ascesa, e si faceva progressivamente strada
una mentalità fondata sulla logica del profitto e della concorrenza, che alimentava a sua
volta le ambizioni imperiali di Londra.

2.4.1. La Royal Navy e il controllo dei mari.


La marina da guerra di sua maestà, Royal Navy, fu il principale strumento di grandezza
dell’Inghilterra e dell’impero britannico. Era nata ai tempi di Enrico VIII e divenne nel Set-
tecento la signora incontrastata di tutti gli oceani. Il suo primo compito era stato quello
di rappresentare una barriera nei confronti delle imbarcazioni della flotta spagnola e di
quella francese, che solcavano regolarmente le acque della Manica, minacciando le coste
inglesi. Ma fin dal Seicento le funzioni della Royal Navy si erano di molto arricchite: essa
garantiva i collegamenti con le colonie d’oltremare e ne assicurava la difesa. Inoltre proiet-
tava la presenza navale inglese in tutto il mondo, sostenendo la ricerca di nuove colonie e
di nuovi commerci, attraverso una catena globale di basi navali, da Gibilterra alle Bermude,
fino ad arrivare a Bombay. Se la marina di sua maestà poté assurgere a una dimensione di
tale importanza, in ciò furono determinanti le condizioni dettate dal tratto di Utrecht nel
1713, che fra l’altro assegnò alla Gran Bretagna il monopolio sulla rete commerciale intes-
suta dagli spagnoli nei due secoli precedenti.
Il mantenimento di una flotta poneva allo Stato problematiche ben diverse rispetto alla
gestione di un esercito terrestre. Anzitutto, richiedeva la disponibilità permanente di moli,
cantieri navali, fonderie e magazzini, oltre alla certezza di poter disporre di legname e fer-
ro in abbondanza. In secondo luogo, rendeva indispensabile una costante attività di ricerca
e sviluppo nelle scienze nautiche e nelle tecnologie militari. Per tutte queste ragioni una
forte flotta militare era indice affidabile del dinamismo e della crescita complessiva di un
intero paese.
Al finanziamento della Royal Navy provvedeva il sistema fiscale britannico, che per la
maggior parte (82%) era costituito da imposte sul commercio e sui consumi. Un imponente
esercito di ispettori doganali esigeva dazi in tutti i principali porti del paese. Le imposte
più remunerative erano quelle sulle bevande alcoliche (in particolare sui vini francesi).
Alti dazi, però, gravavano anche sui tessuti indiani e sulle importazioni di cereali. Oltre a
ciò, una rigida regolamentazione della navigazione garantiva che soltanto imbarcazioni e
Capitolo 2. La costruzione della supremazia mondiale britannica 65

compagnie inglesi fossero autorizzate a commerciare nei porti e con le colonie della Gran
Bretagna.
I proventi della elevata pressione fiscale non erano sperperati in palazzi o trastulli per
il re e la corte, ma erano destinati in gran parte al finanziamento della marina da guerra. In
questo modo, la Royal Navy poteva essere così forte da proteggere la marina mercantile,
garantendo ai marinai britannici rotte sicure in tutto il mondo. Si stabilì, in sostanza, un
circolo virtuoso in cui le imposte pagate sui traffici commerciali venivano utilizzate per
le spese navali e militari, che a loro volta aprivano la strada a un commercio ancora più
esteso e sicuro.
I risultati parlavano da soli. A metà Settecento quasi tutto l’argento estratto nel Nuovo
Mondo finiva nelle mani delle compagnie commerciali britanniche, che gestivano la mag-
gior parte della tratta degli schiavi e del commercio di zucchero, tabacco e metalli preziosi
nell’Oceano Atlantico, così come gran parte del commercio europeo di tè, spezie, ceramica
e panni di cotone e di seta con la Cina e con l’India.

2.4.2. Impero coloniale e interessi britannici.


Nella prima parte del XVIII secolo, le colonie britanniche potevano essere grosso modo di-
vise in quattro categorie: i possedimenti lungo le coste atlantiche del Nord America, le isole
dei Caraibi, le basi commerciali per il traffico degli schiavi lungo le coste africane e gli inse-
diamenti della Compagnia delle Indie orientali nel subcontinente indiano. Estremamente
lontani e diversi fra loro per clima ed economia, questi possedimenti erano nondimeno
strettamente integrati nell’economia britannica. Nello stesso modo in cui, nelle caffetterie
di Londra, il tè indiano incontrava quotidianamente lo zucchero prodotto nei Caraibi.
Le colonie del Nord America, che erano stati i primi possedimenti inglesi oltreoceano,
costituivano un vasto mercato per le industrie manifatturiere britanniche e una fonte ine-
sauribile di essenziali materie prime. Erano sorte nell’arco di oltre un secolo attraverso
una serie di ondate migratorie che avevano portato al di là dell’Atlantico non solo cittadini
inglesi (comunque la maggior parte), ma anche francesi, irlandesi, scozzesi, tedeschi e sve-
desi, oltre a una consistente componente di origine africana ridotta in schiavitù e utilizzata
nelle piantagioni del Sud. Questa mescolanza di tradizioni, culture, religioni ed etnie (che si
arricchirà ulteriormente nei secoli successivi) fu faticosamente riassorbita dalla dominante
componente inglese, che con la propria lingua e la propria cultura impronterà di fatto la
storia moderna del Nord America.
Tra le colonie caraibiche la più importante era la Giamaica, che aveva a metà del Set-
tecento una popolazione di appena 10 mila bianchi e di oltre 120 mila neri. Tale squilibrio
dava conto delle caratteristiche dell’economia dell’isola, che come quella di altri possedi-
menti dell’Impero britannico nei Caraibi (Barbados, Bermuda e Bahamas), ruotava intorno
a enormi piantagioni per la produzione dello zucchero, dove erano costretti a lavorare gli
schiavi africani.
Molto diversa era la situazione in India dove, almeno inizialmente, la Compagnia delle
Indie orientali non si dimostrò interessata all’acquisizione di territori o all’ampliamento di
un impero, ma si concentrò esclusivamente sui profitti che i suoi traffici le procuravano. I
funzionari commerciali britannici controllavano alcune città fondamentali come Calcutta,
Bombay e Madras. L’economia indiana nel suo complesso dipendeva quasi interamente
dalla produzione agricola locale, ma i mercati europei erano interessati soprattutto ai tes-
suti, alle spezie e all’indaco che venivano prodotti nel Bengala, la regione occupata dal
66 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

delta del fiume Gange, uno dei regni semi-indipendenti che formavano il frammentato im-
pero indiano.
Intorno alla metà del XVIII secolo, proprio per determinare una volta per tutte il con-
trollo del commercio con il Bengala, Inghilterra e Francia si impegnarono in un violento
braccio di ferro. La sconfitta dei francesi fu un aspetto di portata mondiale e venne deter-
minata anche dalla superiorità commerciale britannica. Infatti, gli insediamenti francesi in
India dipendevano direttamente dal sostegno politico e finanziario di Parigi, mentre quelli
inglesi, grazie all’intraprendenza della Compagnia delle Indie orientali, possedevano un
ampio grado di autonomia dalla madrepatria e, dunque, una maggiore forza e autorità sul
campo.
Poco alla volta l’estensione della rete commerciale oltreoceano – i cui traffici, come
abbiamo visto, stavano diventando sempre più importanti e vitali per l’economia britanni-
ca – finì per rendere indissolubilmente legate sfera politica e sfera economica, difesa delle
colonie e salvaguardia degli interessi commerciali dell’Impero.

2.4.3. Dalla Guerra dei Sette anni alla scoperta dell’Australia.


Con l’uscita di scena di Walpole, sconfitto nelle elezioni del 1742 e deceduto tre anni più
tardi, la politica britannica vide l’ascesa di un altro esponente whig dal temperamento as-
sai diverso rispetto al vecchio Primo ministro. Si trattava di William Pitt, che da tempo sede-
va alla Camera dei Comuni e che, dopo l’addio di Walpole, cominciò ad assumere incarichi
di governo sempre più importanti. Se Walpole aveva fatto del vivere in pace e guadagnare
quasi uno slogan politico, Pitt si dimostrò invece poco avvezzo ai compromessi. Mise dun-
que da parte la proverbiale prudenza in politica estera del suo predecessore e rafforzò il
profilo imperiale della Gran Bretagna, muovendo alla conquista del Canada e dell’India e
infliggendo alla storica rivale, la Francia, nuove e definitive sconfitte in entrambi i teatri di
guerra d’oltreoceano.
Più volte ministro della guerra nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, Pitt divenne
primo ministro solamente per un breve periodo tra il 1766 e il 1768. Tuttavia, la sua forte
influenza in politica estera trovò concreta espressione in un uso pronto ed efficace della
potente marina inglese, che si impadronì nel 1763, al termine della guerra dei Sette anni
(iniziata nel 1756), di quasi tutte le colonie francesi in America e in India e di alcune fortifi-
cazioni lungo la costa africana.
L’azione navale fu decisiva nella conquista di Fort St. Louis in Senegal nel 1758 e di
Goree, l’altro principale insediamento francese nell’Africa occidentale. L’occupazione del
Quebec guidata da James Wolfe nel 1759 segnò la fine del controllo di Parigi sul Canada,
anche se non la morte della lingua, della cultura e delle aspirazioni politiche dei francesi
che vi risiedevano. L’esercito di Wolfe era più piccolo di quelle nemico e ancora una volta
l’aiuto della marina fu decisivo per la vittoria. Nel 1760 cadde anche la ricca isola di Gua-
dalupa nei Caraibi, garantendo agli inglesi un territorio che all’epoca essi giudicarono più
importante del Quebec. Due anni dopo si impadronirono di Pondicherry, capitale francese
dell’India. E anche in quel frangente l’inferiorità della flotta francese nelle acque indiane
finì per fare la differenza a favore degli inglesi.
Dopo la guerra dei Sette anni la Gran Bretagna raggiunse un nuovo apice e sviluppò una
vera e propria coscienza imperiale fondata sul dominio dei mari. A Occidente, esercitava
una effettiva egemonia in Nord America, dove le sue colonie si estendevano dal Canada a
nord alla Florida a sud e al Mississippi a ovest. A Oriente, si era assicurata lo sfruttamento
in esclusiva delle ricchezze del Bengala.
Capitolo 2. La costruzione della supremazia mondiale britannica 67

Sugli equilibri europei, invece, la guerra non ebbe molte ripercussioni, almeno in termi-
ni di mutamenti territoriali. L’unica novità di rilievo era l’emergere di una nuova potenza, la
Prussia, guidata da Federico II Hohenzollern (detto Federico il Grande). Il Regno di Prussia,
che esisteva ufficialmente dal 1701, si era sviluppato a partire da uno dei più importanti
principati che componevano il Sacro Romano Impero: il Brandeburgo, con capitale Ber-
lino. Durante la guerra dei Sette anni la Prussia avviò – grazie al fondamentale appoggio
britannico – un lungo braccio di ferro con gli Asburgo d’Austria (a loro volta sostenuti dalla
Francia) per il predominio sull’area tedesca. Una contesa che si risolverà a favore della
Prussia solamente nel secolo successivo, ma che intanto confermava un sempre più spic-
cato protagonismo in politica estera da parte della monarchia britannica, del resto guidata
da sovrani provenienti dalla Casa di Hannover, strettamente imparentati con gli Hohenzol-
lern (la madre di Federico il Grande era una Hannover).
Nonostante tutti i suoi trionfi, in pace e in guerra, l’Impero britannico così come si pre-
sentava nel 1763 non mancava di punti deboli. Era composto da parti talmente diverse
l’una dall’altra da rendere impossibile un disegno politico unitario e un piano di governo
che andasse al di là del semplice intreccio degli scambi economici. Benché fosse un impe-
ro unificato dal mare, pur tuttavia rimaneva quasi impossibile controllarlo e tanto meno
governarlo.
La popolazione delle colonie del Nord America stava aumentando in modo rapidissimo
(dal 1700 al 1760 era sestuplicata) e cominciavano ad emergere divergenze di interessi con
la madrepatria. Il governo londinese ritenne che per ragioni di difesa si dovesse mantenere
in America un esercito permanente di circa dieci mila uomini e che la popolazione ameri-
cana dovesse essere tassata per coprirne il costo. Inoltre, dal momento che la prosperità
delle colonie continuava ad aumentare, Londra si sentì autorizzata ad applicare nuove tas-
se volte ad attenuare l’aumento del debito pubblico causato dalla guerra appena conclusa.
Per tutta risposta aumentò l’irritazione nell’opinione pubblica delle colonie, sempre più
tassata ma esclusa dalla rappresentanza parlamentare; un contrasto che sarebbe sfociato
nella guerra d’Indipendenza americana iniziata nel 1775.
Anche la situazione indiana presentava nuove criticità. Una volta sconfitta la concorren-
za della Francia i rappresentanti commerciali britannici entrarono in conflitto con le autori-
tà locali, sempre più preoccupate per la minaccia straniera all’integrità e all’indipendenza
del loro paese. Il sovrano del Bengala cercò di scacciare gli inglesi dalla base di Calcutta,
ma senza successo. Accadde invece il contrario: nel 1765 la Compagnia delle Indie orientali
costrinse le autorità bengalesi a riconoscerle il diritto di esazione delle imposte in tutta la
regione. In poco tempo la Compagnia sarebbe diventata l’effettivo sovrano del Bengala.
Il consolidamento del potere inglese in India fu quindi il risultato non di una invasione
militare, ma piuttosto di una progressiva conquista politica e commerciale. La stessa logi-
ca si sarebbe ripetuta nei decenni successivi, durante i quali il dominio inglese si allargò a
tutto il subcontinente indiano, utilizzando le risorse economiche offerte dai territori della
zona del Gange, che permisero alle forze coloniali di ampliare progressivamente la pro-
pria influenza economica e politica.
Questa attività espansionistica non era però priva di inconvenienti per i governanti bri-
tannici. La madrepatria, infatti, non sempre aveva effettivo controllo sull’operato dei coloni
e delle compagnie commerciali che in giro per il mondo reclamavano territori in nome del-
la Gran Bretagna. Il Bengala, ad esempio, era guidato dai funzionari e dagli azionisti della
Compagnia delle Indie orientali, che sfruttava quei territori senza preoccuparsi troppo di
quali fossero i reali interessi britannici.
68 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Era diventata sempre più evidente e insopportabile l’anomalia di un grande impero go-
vernato, in alcune sue parti importanti, da una compagnia commerciale. Tutta l’Inghilterra
– quella agricola, quella industriale, quella commerciale – abbondava di denaro e avrebbe
voluto trovare per esso forme di investimento convenienti. Per questo, l’esclusività conces-
sa a una piccola oligarchia finanziaria e mercantile di trarre profitti dal commercio indiano
era generalmente sentita come un affronto. Inoltre, non pochi cittadini inglesi, liberi com-
mercianti, avevano cominciato a recarsi in India per conto proprio, a cercar fortuna, ma
appena il loro lavoro o i loro profitti sembravano minacciare quelli della Compagnia, essi si
vedevano sequestrare i loro beni, proibire il loro commercio: insomma venivano scacciati.
In pratica, gli agenti della Compagnia aveva invaso tutta l’attività economica della lon-
tana colonia e questo monopolio stava cominciando a danneggiare la madrepatria, oltre
naturalmente a impoverire la società indiana.
Così, a partire dal 1784, il governo di Londra cominciò a imporre severi controlli alla
Compagnia delle Indie orientali; un cambio di registro che preludeva al suo completo
smantellamento, che si compirà nel secolo successivo. Alla presidenza del Comitato di
controllo della Compagnia venne designato un ministro, responsabile degli affari indiani
davanti al parlamento. Inoltre nel dibattito interno alla classe dirigente britannica comin-
ciarono a porsi le basi affinché in India si istituissero una suprema corte di giustizia e un
governatorato generale. Ai nuovi organi del potere giudiziario e del potere esecutivo, di-
rettamente dipendenti dalla corona, avrebbero dovuto naturalmente sottostare tutte le
attività commerciali.
Nonostante questi problemi di non poco conto, l’Impero britannico continuò a crescere
e la scoperta dell’Australia, avvenuta nel 1770 grazie ai viaggi di James Cook, aggiunse un
enorme e ancora inesplorato territorio ai possedimenti oltreoceano. Partito alla volta dei
mari del Sud su incarico della Royal Society, Cook raggiunse dapprima Tahiti, dove costruì
un forte e un osservatorio astronomico, poi proseguì verso la Nuova Zelanda e continuò la
navigazione alla ricerca del mitico continente denominato Terra Australis, sull’esistenza
del quale egli nutriva molti dubbi ma che negli ambienti della società scientifica britannica
si sosteneva dovesse esistere.
Giunto effettivamente in Australia, anche grazie alle indicazioni di un indigeno tahitia-
no, ne esplorò la costa orientale, fino a quando nel giugno del 1770 la sua barca si arenò
sulla grande barriera corallina, oggi patrimonio dell’umanità. Insieme al suo equipaggio
riuscì a riparare l’imbarcazione e a proseguire la navigazione verso la Nuova Guinea. Con il
sostegno della Royal Society, Cook continuò a viaggiare intorno all’Australia e nell’Oceano
Pacifico quasi ininterrottamente per dieci anni, attraverso l’organizzazione di tre differenti
spedizioni.
Nel 1778 fu il primo europeo a visitare le isole Hawaii, raggiungendo poi da oriente le
coste americane, che cartografò attentamente dal Canada fino alla California. I suoi diari
pubblicati al ritorno in Gran Bretagna lo resero una sorta di eroe nella comunità scientifica,
dal momento che aveva consentito con quei lunghi viaggi di esplorazione scoperte astro-
nomiche, botaniche e geografiche senza precedenti. Ad alimentarne il mito anche le circo-
stanze misteriose della morte, avvenuta durante un nuovo soggiorno alle Hawaii, dove era
stato inizialmente venerato come un dio, ma dove finì i suoi giorni accoltellato in un alterco
con gli indigeni.
Entro la fine del secolo, la marina da guerra britannica fondò in Australia una colonia
penale: una enorme prigione a cielo aperto a dodicimila miglia dalla madrepatria, a testi-
monianza di quanto l’Impero britannico fosse capace di allargarsi sul mondo. Tra i primi
Capitolo 2. La costruzione della supremazia mondiale britannica 69

insediamenti inglesi sulla costa nord-orientale dell’Australia è da ricordare quello stabilito


nel 1788 nella zona corrispondente all’attuale città di Sydney.

2.5. Londra, capitale dell’economia mondiale

Fin dal XIV secolo Londra aveva visto aumentare la sua popolazione e la sua ricchezza in
misura assai superiore a quella delle altre città inglesi, grazie soprattutto al rapido sviluppo
dell’industria della lana. Pur coinvolta nelle lotte civili e religiose del Cinquecento, aveva
continuato a svilupparsi quale capitale e centro commerciale di un grande Stato unitario.
Con il regno di Elisabetta I (1558-1603), Londra raggiunse il primo posto fra le metropoli
europee per numero di abitanti. Nel corso del Seicento il tonnellaggio della flotta mer-
cantile e il movimento portuale della capitale conobbero un rapido incremento, tanto che
nella seconda metà del secolo il suo porto superò per importanza quello di Amsterdam. Lo
sviluppo della città non conobbe interruzioni e il primato commerciale di Londra si rafforzò
con il sorgere delle grandi compagnie impegnate nei traffici coloniali e con lo sviluppo di
un sistema bancario e finanziario che garantiva possibilità di credito e di investimenti. Nel
XVIII secolo crebbe ulteriormente d’importanza l’attività commerciale, per l’aumentata in-
tensità dei traffici con l’America e con l’India.
Lo sviluppo di Londra dal 1500 al 1700 fu, insomma, l’aspetto più spettacolare della cre-
scita della società urbana inglese ed europea. La città era posta al centro della rete delle
principali vie di scambio del paese, inoltre era in una posizione strategica come porto sul
più grande fiume d’Inghilterra, non troppo lontana dal mare da impedire l’accesso delle
navi mercantili, ma non tanto vicina da essere esposta facilmente all’attacco di flotte nemi-
che. Infine godeva di una posizione importante nel processo manifatturiero, anche grazie
ai facili contatti con le Fiandre, la Germania, la Francia e con l’Atlantico e il Baltico.
La presenza della corte e del parlamento faceva sì che la città attirasse, oltre a mer-
canti, artigiani e imprenditori, anche funzionari, professionisti e tutti coloro che avevano in
qualche modo a che fare con le attività politiche o con la vita amministrativa e giudiziaria
del regno. La dimensione politica e amministrativa di Londra implicò un enorme sviluppo
del settore dei servizi e la popolazione della zona centrale (la city) passò da 40 mila abitan-
ti nel 1500 a 300 mila nel 1700.
A Londra, come detto, si concentrarono le sedi di tutte le grandi compagnie mercantili.
La dimensione economica della capitale britannica non si limitava però agli scambi com-
merciali, ma vedeva la presenza di produzioni manifatturiere legate soprattutto all’attività
del porto. Costruzioni navali in numerosi cantieri grandi e piccoli, raffinerie di zucchero e
trattamento di altri prodotti coloniali, oltre a settori produttivi tradizionali come l’orefice-
ria. Lo sviluppo urbano costituiva inoltre un motivo di forte stimolo per l’edilizia.
Fino al 1750, London Bridge era il solo ponte che attraversava il Tamigi, ma in quell’an-
no venne aperto al transito Westminster Bridge. Dieci anni più tardi vennero abbattute le
vecchie mura e la città si espanse assai rapidamente al di là dei suoi limiti originari. Nuovi
quartieri come Mayfair vennero costruiti per la parte più facoltosa della popolazione e la
costruzione di nuovi ponti sul Tamigi consentì lo sviluppo della zona meridionale della cit-
tà, mentre il porto si allungava verso il mare. Il benessere si manifestava in sontuosi edifici,
ampie strade e in una intensa vita teatrale. Nel 1762 Giorgio III acquistò Buckingham Pa-
70 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

lace, che sarà poi ingrandito diventando nell’Ottocento la residenza principale dei sovrani
britannici a Londra.
Per tutte le ragioni ricordate fino a ora, Londra assunse nel corso del Settecento una
crescente importanza come centro di consumi. Del resto, il suo agglomerato urbano “pe-
sava” all’interno dell’Inghilterra molto più delle altre capitali europee rispetto ai propri
paesi. Nel 1750, infatti, circa l’11% della popolazione inglese viveva a Londra, mentre la
popolazione di Parigi non raggiungeva il 3% degli abitanti della Francia. Una tale con-
centrazione demografica rappresentò un elemento determinante nella storia economica
e sociale britannica.
La domanda di prodotti alimentari generata dall’agglomerazione londinese ebbe
un’immediata influenza sulla crescita agricola delle contee del Sud, mentre la richiesta
di energia stimolò l’industria mineraria del Nord e le comunicazioni interne, in particolare
il trasporto lungo la costa di ingenti quantità di carbone e la produzione di navi adatte a
questo scopo. L’eccezionale sviluppo dei trasporti nel corso del Settecento rimpicciolì il
paese; Londra era direttamente e regolarmente collegata a numerose città grazie all’opera
di grandi imprese di trasporto che, ancor prima dell’avvento della ferrovia, avevano ridotto
notevolmente i tempi di viaggio: da Londra si poteva raggiungere Bristol in dodici ore o
Manchester in diciotto. Questa integrazione del territorio favorì la mobilità geografica del-
la popolazione e una massiccia frequentazione della capitale.
Dalla provincia si raggiungeva Londra per tutti i consumi alla moda: quadri, libri, ce-
ramiche, artigianato classico, teatro. I teatri sorsero negli ultimi decenni del XVIII secolo
e potevano contenere fino a tre-quattro mila persone, a testimonianza di un significativo
ampliamento del pubblico. Vi erano poi le prime vetrine commerciali, che mostravano i
riflessi di uno spettacolo del consumo ancora nelle fasi iniziali.
È stato calcolato che nel Settecento circa un inglese su sei abbia passato almeno un
periodo della sua vita a Londra. Si può dunque parlare di una vera e propria funzione di
mediazione culturale verso la modernità svolta dalla capitale britannica a favore dell’in-
tero paese.
Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea:
dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra
di Carlo De Maria
Roma (BraDypUS) 2018
ISBN 978-88-98392-70-4
pp. 71-82

Capitolo 2. La costruzione della


supremazia mondiale britannica
Approfondimenti

Profili
Robert Walpole

Figlio di un rappresentante whig alla Camera dei Comuni, la carriera politica di Walpole ini-
ziò nel 1701, a venticinque anni, quando venne eletto nella circoscrizione di Castle Rising,
nei pressi di Norfolk nell’Inghilterra orientale, che era stato per anni il feudo elettorale di
suo padre (deceduto pochi mesi prima). Militò nello stesso partito del padre e grazie alle
sue doti di abile politico e attento amministratore fece una rapida carriera istituzionale
che lo condusse nel 1721 a ricoprire simultaneamente le cariche di ministro del Tesoro e di
ministro delle Finanze, oltre a essere il leader della maggioranza liberale alla Camera dei
Comuni. Si data di solito da questo momento la sua ascesa, de facto, alla carica di Primo mi-
nistro. Se è vero infatti che la posizione di premier non era ancora sancita dall’ordinamento
britannico, l’influenza di Walpole all’interno del consiglio dei ministri, e la evidente estra-
neità dei sovrani della casa di Hannover rispetto alla vita pubblica britannica, lo rendevano
a tutti gli effetti il leader dell’esecutivo.
Per lungo tempo Walpole si assicurò un largo sostegno nell’opinione pubblica e nel
Parlamento, grazie alla sua linea politica tesa a evitare conflitti in Europa e nel mondo. Una
condotta che gli consentì, tra le altre cose, di scongiurare spese pubbliche straordinarie e
di abbassare le tasse.
Tra le eredità lasciate da Walpole va ricordata anche la residenza di Downing Street.
Fu Giorgio II a offrirgliela come dono personale nel 1732, ma Walpole la accettò solo come
residenza ufficiale nella sua veste di leader di governo. I suoi successori non sempre vi
dimorarono, preferendo spesso abitare nelle loro più ampie tenute private. Ma la casa di
Downing Street si sarebbe affermata comunque, nel secolo successivo, come la residenza
ufficiale del Primo ministro; una tradizione arrivata fino a oggi.
Dal momento che per oltre vent’anni detenne un potere politico fino ad allora inedito
nella storia britannica, suscitando con il passare del tempo sospetti di morboso attacca-
mento alla carica di governo e di eccesivi cedimenti e pratiche illecite per mantenersi una
stabile maggioranza parlamentare, Walpole fu oggetto, soprattutto nella parte terminale
72 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

della sua carriera, di contrastanti sentimenti pubblici e non fu risparmiato dalla satira e
dalle parodie di importanti personalità della cultura dell’epoca: da Jonathan Swift, maestro
della prosa satirica, al poeta e traduttore Alexander Pope fino a Henry Fielding, uno dei
fondatori del romanzo realista britannico.

Luoghi simbolo
Il Tamigi e il porto di Londra

Il percorso del Tamigi si estende per poco più di trecento chilometri, ma al breve tragit-
to corrisponde un importante carico di storia. Dopo aver attraversato Oxford, penetra nel
bacino di Londra, attraversa il grande agglomerato urbano della capitale e, a una trentina
di chilometri dal centro di questa, si apre in un lungo estuario a imbuto e termina nel Mare
del Nord. Per il suo regime regolare è sempre stato navigabile per buona parte del suo
corso.
Il Tamigi è indissolubilmente legato alla storia di Londra. Su questo fiume nacque nel
Cinquecento la Royal Navy, la flotta da guerra inglese. Per secoli ha rappresentato la mag-
giore arteria commerciale della città. Era il fiume che proteggeva contro i nemici e che
portava nella capitale le merci provenienti dallo sterminato impero britannico. Possedere
una casa che si affacciava sulle sue sponde conferiva prestigio e confermava una posizione
di vertice nella vita pubblica del regno.
Sviluppatosi lungo il Tamigi, il porto di Londra era il centro del commercio mondiale
e aveva una posizione di assoluta preminenza in Inghilterra: l’80% delle importazione bri-
tanniche passava da lì, in particolare i prodotti esotici provenienti dalle colonie. Questa
funzione di intermediazione commerciale con le colonie occidentali e orientali diede un
contributo decisivo alla crescita urbana e alla qualificazione della città come centro di
commercializzazione di nuovi beni di consumo. La continua crescita del volume di questi
scambi portò alla creazione all’inizio dell’Ottocento dei docks, i bacini che divennero un
elemento centrale della morfologia urbana londinese e incentivarono le industrie di lavo-
razione alimentare dell’East End: distillerie, birrerie, raffinerie di zucchero.

Costituzione e cittadinanza
L’equilibrio dei poteri

Una parte importante della storia costituzionale dei paesi occidentali si trova nella dot-
trina della divisione e dell’equilibrio dei poteri (balance of power) contenuta nel modello
istituzionale inglese del Settecento, e descritta da Montesquieu nel trattato sullo Spirito
delle leggi del 1748.
Si partiva dalla consapevolezza – maturata in Inghilterra nel corso delle guerre civili e
delle rivoluzioni del XVII secolo – di come fosse assolutamente necessario regolare l’eser-
cizio del potere, dividendolo e frazionandolo tra diverse autorità pubbliche. Solo così sa-
rebbe stato possibile porre un freno a quella che è la tendenza insita nel potere medesimo
Capitolo 2. Approfondimenti 73

(in ogni potere), di abusare delle proprie prerogative, di prevaricare sulla società civile e di
limitare gravemente o addirittura distruggere le libertà dei cittadini.
Pertanto si distinsero sempre più nettamente le funzioni legislative, esecutive e giudi-
ziarie, che non potevano mai essere unite nella stessa persona o nello stesso corpo politico;
ove questo fosse avvenuto, sarebbe mancato quel reciproco controllo fra le singole parti
che era ormai convinzione diffusa fosse la conditio sine qua non per evitare il dispotismo.
Proseguendo lungo questa via, la monarchia parlamentare inglese fu capace di rag-
giungere un opportuno bilanciamento dei vari poteri che la componevano, nel senso che
l’uno limitava l’altro senza prevaricare su di esso. In virtù di questo delicato equilibrio
ciascun potere non agiva arbitrariamente, ma osservava regole ben precise e si muoveva
all’interno di confini ben delineati.
Il parlamento, ad esempio, era diviso in due parti: la Camera alta, o Camera dei Lord,
rappresentava gli interessi dell’alta nobiltà che vi accedeva per diritto ereditario; mentre
la Camera bassa, o Camera dei Comuni, eletta dal popolo a suffragio ristretto, era per lo
più espressione dei ceti borghesi e imprenditoriali. Le due Camere si temperavano tra loro,
grazie alla reciproca facoltà di veto sulle loro proposte legislative.
Le leggi, d’altro canto, non entravano in vigore se non venivano approvate anche dal
re. La facoltà di applicarle, poi, spettava al governo, guidato dal Primo ministro, mentre
le contravvenzioni venivano giudicate da una magistratura indipendente sia rispetto al
potere esecutivo che al potere legislativo. Ciò significava che l’intero sistema politico non
poteva funzionare senza l’assenso e il concorso dei vari elementi che lo componevano
(monarca, consiglio dei ministri, Camera alta, Camera bassa), e che bastava il dissenso di
uno di questi per incepparlo.
Ma proprio qui stava la miglior garanzia di un governo liberale, in cui nessun interesse
particolare e nessuna frazione della società era in grado di imporre la propria volontà con-
tro quella degli altri. Il governo britannico era dunque in grado di tenere, almeno tenden-
zialmente, conto della molteplicità e della diversità degli interessi, riuscendo a trovare un
punto di equilibrio o di compromesso fra loro. Su questa base era sorto un sistema di civile
convivenza, che poteva far sperare sul fatto che fossero rispettati i diritti e gli interessi di
tutti e fosse bandito ogni atto di forza e ogni abuso politico.
Storicamente, l’alternativa a tutto questo era il governo dispotico, cioè l’assolutismo
politico, in cui il sovrano riuniva nella propria persona tutto o comunque gran parte del po-
tere. Un tipo di governo che annullava i diritti dei sudditi e si fondava sulla paura, anziché
sul confronto dialettico e sulla battaglie delle idee. In esso i sudditi dovevano al despota
un’obbedienza incondizionata, quale che fosse la sua volontà o quali che fossero i suoi ca-
pricci. Erano impossibili accomodamenti, controproposte, discussioni e accordi.
L’influsso del principio dell’equilibrio dei poteri sul pensiero politico e sulla storia politica
è stato enorme. Le prime costituzioni scritte – la Costituzione americana del 1776 e quella
francese del 1791 – ne rappresentarono in sostanza delle applicazioni.
74 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Fonti e documenti
Le pagine di Montesquieu sull’Inghilterra

Introduzione
Nato in Francia nel 1689, Charles-Luis de Secondat, barone di Montesquieu, trascorse in
Inghilterra anni centrali di studio e maturazione, tra il 1729 e il 1731. Non a caso, un intero
capitolo della sua opera principale, Lo spirito delle leggi (1748), è dedicato alla costituzio-
ne inglese e delinea uno statuto giuridico della libertà del cittadino basato sulla distinzione
dei poteri.
In conformità con l’esempio inglese Montesquieu propone che i tre poteri dello Stato
(legislativo, esecutivo e giudiziario) siano separati e distribuiti fra tre organi differenti, pur
se legati tra di loro. Questa limitazione costituzionale dei poteri appare l’unica garanzia
per la libertà dei cittadini, che sarebbe invece messa in pericolo dall’accumulo o dalla con-
fusione dei poteri.
Se è vero che per Montesquieu l’Inghilterra era il paese più libero del mondo perché
il potere del sovrano era limitato dalla legge e dal parlamento, nella sua analisi emerge
anche un’altra consapevolezza. Una volta che si è posto rimedio al dispotismo del sovrano
occorre, per un altro verso, evitare lo strapotere dell’assemblea legislativa che potrebbe
finire per bloccare l’azione del governo. In effetti, negli anni in cui Montesquieu scriveva,
l’equilibrio costituzionale britannico si stava ulteriormente evolvendo in direzione di un
regime parlamentare incentrato sul rapporto di fiducia tra il premier e il parlamento. Stava,
cioè, emergendo in tutta la sua ampiezza il potere politico della maggioranza parlamen-
tare.
Tra i grandi temi affrontati dalle riflessioni sull’Inghilterra di Montesquieu un posto di
rilievo va assegnato al potere giudiziario, del quale il filosofo francese sottolinea l’auto-
nomia e l’indipendenza. L’ordinamento giuridico britannico prevedeva, unico in Europa,
processi con giuria. Il giudice, cioè, presiedeva come un arbitro in una partita, assistendo
agli sforzi degli avvocati dell’accusa e della difesa impegnati a persuadere una giuria di
persone comuni sullo svolgimento dei fatti in questione e sull’innocenza o colpevolezza
dell’imputato. I membri della giuria erano (e sono tuttora) dei profani e non degli esperti
di diritto.
Tale principio era in netto contrasto con il funzionamento dei tribunali del resto d’Eu-
ropa, in cui gli avvocati dissertavano di fronte a un giudice o ad un collegio di giudici che
alla fine stabilivano l’esito della causa. Nella maggior parte del Vecchio continente, quindi,
i fatti oggetto di un processo e la sentenza erano determinati esclusivamente da esperti
che avevano una investitura e una autorità ufficiali. In Inghilterra (così come sarà negli Stati
Uniti e in altri paesi di diritto anglosassone) era invece la gente comune, idealmente rap-
presentata dai giurati, a decidere il destino dell’imputato. In linea generale, questo rendeva
più difficile per il potere pubblico accusare e imprigionare arbitrariamente i cittadini. In-
fatti, laddove negli Stati europei ciò poteva esser fatto semplicemente per ordine di giudici
nominati dallo Stato, in Inghilterra era necessario l’assenso di una giuria popolare.
Capitolo 2. Approfondimenti 75

Da Lo spirito delle leggi di Montesquieu (1748)


Significati diversi dati alla parola libertà
Non vi è parola che abbia ricevuto maggior numero di significati diversi, e che abbia colpi-
to la mente in tante maniere come quella di libertà. Gli uni l’hanno intesa come la felicità
di deporre colui a cui avevano conferito un potere tirannico; gli altri, come la facoltà di
eleggere quelli a cui dovevano obbedire; altri ancora, come il diritto di essere armati e di
poter esercitare la violenza; altri infine come il privilegio di non essere governati che da un
uomo della propria nazione, o delle proprie leggi. Certo popolo ha preso per molto tempo
la libertà per l’uso di portare la lunga barba (i Moscoviti non potevano sopportare che lo
zar Pietro gliela facesse tagliare). Alcuni hanno dato questo nome a una forma di governo
e ne hanno escluso le altre. Coloro che avevano gradito il governo repubblicano, l’hanno
messa nella repubblica; quelli che avevano goduto del governo monarchico, nella monar-
chia. Infine ciascuno ha chiamato libertà il governo conforme alle proprie consuetudini o
alle proprie inclinazioni [...] fino a confondere il potere del popolo con la libertà del popolo.

Che cos’è la libertà


È vero che nelle democrazie sembra che il popolo faccia ciò che vuole; ma la libertà politi-
ca non consiste affatto nel fare ciò che si vuole. In uno Stato, vale a dire in una società dove
ci sono delle leggi, la libertà può consistere soltanto nel poter fare ciò che si deve volere, e
nel non essere costretti a fare ciò che non si deve volere.
Bisogna fissarsi bene nella mente che cosa è l’indipendenza, e che cosa è la libertà. La li-
bertà è il diritto di fare tutto quello che le leggi permettono; e se un cittadino potesse fare
quello che esse proibiscono, non vi sarebbe più libertà, perché tutti gli altri avrebbero del
pari questo potere. [...]
È una esperienza eterna che qualunque uomo che ha un certo potere è portato ad abu-
sarne; va avanti finché trova dei limiti. Chi lo direbbe! Perfino la virtù ha bisogno di limiti.
Perché non si possa abusare del potere bisogna che, per la disposizione delle cose, il potere
arresti il potere. Una costituzione può essere tale che nessuno sia costretto a fare le cose
alle quali la legge non lo obbliga, e a non fare quelle che la legge permette.
Dell’oggetto dei diversi Stati
Per quanto tutti gli Stati abbiano, in generale, uno stesso fine, che è quello di conservarsi,
ogni Stato ne ha tuttavia uno che gli è particolare. L’ingrandimento era il fine di Roma; la
guerra, quello di Sparta; la religione, quello delle leggi giudaiche; il commercio, quello di
Marsiglia; la tranquillità pubblica, quello delle leggi della Cina; la navigazione, quello della
legge dei Rodii; la libertà naturale è il fine dell’ordinamento dei selvaggi; in generale, il
piacere del principe, quello degli Stati dispotici; la gloria sua, e dello Stato, quello delle mo-
narchie; l’indipendenza di ogni privato è il fine delle leggi della Polonia, e in conseguenza,
l’oppressione di tutti.
Vi è anche una nazione al mondo, l’Inghilterra, che ha per fine diretto della propria costitu-
zione, la libertà politica. Esamineremo i principi su cui si fonda. [...]

Della costituzione dell’Inghilterra


La libertà politica per un cittadino consiste in quella tranquillità di spirito che proviene
dall’opinione che ciascuno ha della propria sicurezza; e perché si abbia questa libertà, biso-
gna che il governo sia tale che un cittadino non possa temere un altro cittadino. Quand’an-
76 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

che un uomo avesse, in Inghilterra, tanti nemici quanti capelli in testa, non gli avverrebbe
nulla; ciò è molto, perché la salute dello spirito è altrettanto necessaria che quella del
corpo.
Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura il potere legislativo è
unito al potere esecutivo, non vi è libertà, poiché si può temere che lo stesso monarca, o lo
stesso senato, facciano leggi tiranniche per eseguirle tirannicamente.
Non vi è nemmeno libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e
dall’esecutivo. Se fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e la libertà dei cittadi-
ni sarebbe arbitrario: infatti il giudice sarebbe legislatore. Se fosse unito al potere esecuti-
vo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore.
Tutto sarebbe perduto se lo stesso uomo, o lo stesso corpo di maggiorenti, o di nobili, o di
popolo, esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le decisioni
pubbliche, e quello di giudicare i delitti o le controversie dei privati. [...]. Presso i Turchi,
dove i tre poteri sono riuniti nella persona del sultano, regna un orribile dispotismo.
Nelle repubbliche italiane, dove questi tre poteri sono riuniti, la libertà è minore che nelle
nostre monarchie. Perciò il governo ha bisogno, per mantenersi, di mezzi altrettanto vio-
lenti di quelli del governo dei turchi; ne fanno testimonianza gli inquisitori di Stato a Vene-
zia, e la cassetta in cui qualunque delatore può, in qualunque momento, gettare mediante
un biglietto la sua accusa.
Considerate quale possa essere la condizione di un cittadino in queste repubbliche. Lo stes-
so corpo di magistratura ha, come esecutore delle leggi, tutto il potere che si è dato come
legislatore. Può devastare lo Stato con le sue volontà generali, e, siccome ha altresì il pote-
re di giudicare, può distruggere ogni cittadino con le sue volontà particolari.
Perciò i principi che hanno voluto farsi dispotici, hanno cominciato sempre col riunire nella
propria persona tutte le magistrature; e parecchi re d’Europa, tutte le grandi cariche dello
Stato. [...].
Il potere giudiziario non dev’essere affidato a un senato permanente, ma dev’essere eser-
citato da persone tratte dal grosso del popolo come in Atene, in dati tempi dell’anno, nella
maniera prescritta dalla legge, per formare un tribunale che duri soltanto quanto lo richie-
de la necessità.
In tal modo il potere giudiziario, così terribile fra gli uomini, non essendo legato né a un
certo stato né a una certa professione, diventa, per così dire, invisibile e nullo. Non si hanno
continuamente dei giudici davanti agli occhi, e si teme la magistratura e non i magistrati.
Bisogna inoltre che, nelle accuse gravi, il colpevole, d’accordo con le leggi, si scelga i giu-
dici; o per lo meno che possa rifiutarne un numero tale che quelli che rimangono siano
reputati essere di sua scelta.
Gli altri due poteri potrebbero esser conferiti piuttosto a magistrati o ad organismi perma-
nenti, poiché non vengono esercitati nei riguardi di alcun privato: non essendo, l’uno, che la
volontà generale dello Stato, e l’altro che l’esecuzione di questa volontà.
Ma se i tribunali non devono essere fissi, i giudizi devono esserlo a un punto tale da costi-
tuire sempre un preciso testo di legge. Se fossero una opinione particolare del giudice, si
vivrebbe nella società senza conoscere esattamente gli impegni che vi si contraggono.
Bisogna altresì che i giudici siano della stessa condizione dell’accusato, o suoi pari, affin-
ché egli non possa mettersi in mente d’esser caduto nelle mani di persone inclini a usargli
violenza.
Capitolo 2. Approfondimenti 77

Se il potere legislativo concede a quello esecutivo il diritto d’imprigionare i cittadini che


possono dare cauzione della loro condotta, non v’è più libertà, a meno che non siano ar-
restati per rispondere senza indugio a un’accusa che la legge ha reso suscettibile di pena
capitale; nel qual caso sono realmente liberi, perché non sono sottomessi che al potere
della legge.
Ma se il potere legislativo si credesse in pericolo per qualche congiura segreta contro lo
Stato, o qualche intelligenza con i nemici esterni, potrebbe permettere al potere esecutivo,
per un periodo di tempo breve e limitato, di far arrestare i cittadini sospetti, i quali perde-
rebbero la libertà per un periodo di tempo, soltanto per conservarla per sempre. [...].
Poiché, in un Stato libero, qualunque individuo che si presume abbia lo spirito libero deve
governarsi da se medesimo, bisognerebbe che il corpo del popolo avesse il potere legi-
slativo. Ma siccome ciò è impossibile nei grandi Stati, e soggetto a molti inconvenienti nei
piccoli, bisogna che il popolo faccia per mezzo dei suoi rappresentanti tutto quello che non
può fare da sé.
Si conoscono molto meglio i bisogni della propria città che quelli delle altre città, e si giu-
dica meglio la capacità dei propri vicini che quella degli altri compatrioti. Non bisogna
dunque, che i membri del corpo legislativo siano tratti in generale dal corpo della nazione,
ma conviene che in ogni luogo principale gli abitanti si scelgano un rappresentante.
Il grande vantaggio dei rappresentanti è che sono capaci di discutere gli affari. Il popolo
non vi è per nulla adatto, il che costituisce uno dei grandi inconvenienti della democrazia.
Non è necessario che i rappresentanti, che hanno ricevuto da chi li ha scelti una istruzione
generale, ne ricevano una particolare su ciascun affare, come si pratica nelle diete della
Germania. È vero che, in tal modo, la parola dei deputati sarebbe più diretta espressione
della voce nazionale; ma farebbe incappare in lungaggini infinite, renderebbe ogni depu-
tato padrone di tutti gli altri, e, nei casi più urgenti, tutta la forza della nazione potrebbe
essere arrestata da un capriccio. […].
Tutti i cittadini, nei vari distretti, devono avere il diritto di dare il loro voto per scegliere il
rappresentante, eccetto quelli che sono in uno stato di inferiorità tale da esser reputati privi
di volontà propria.
La maggior parte delle antiche repubbliche aveva un grave difetto: il popolo, cioè, detene-
va il diritto di prendervi delle risoluzioni attive, che comportano una certa esecuzione, cosa
di cui è completamente incapace. Esso non deve entrare nel governo che per scegliere i
propri rappresentanti, il che è pienamente alla sua portata. Infatti, se poche sono le per-
sone che conoscono l’esatto grado di capacità degli uomini, ciascuno tuttavia è in grado
di sapere, in generale, se colui che sceglie è più illuminato della maggior parte degli altri.
Il corpo rappresentativo non dev’essere scelto nemmeno per prendere qualche risoluzione
attiva, cosa che non farebbe bene, ma per emettere le leggi, o per vedere se sono state
eseguite a dovere quelle che ha emesso, cosa che può fare benissimo; anzi, non c’è che lui
che possa farla bene.
Ci sono sempre, in uno Stato, persone che si distinguono per la nascita, la ricchezza o gli
onori; ma qualora venissero confuse con il popolo e non avessero che un voto come gli
altri, la libertà comune sarebbe la loro schiavitù, ed esse non avrebbero nessun interesse a
difenderla, perché la maggior parte delle risoluzioni sarebbero contro di loro. La parte che
hanno nella legislazione deve essere dunque proporzionata agli altri vantaggi che godono
78 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

nello Stato: il che avverrà se formano un corpo che abbia il diritto di arrestare le iniziative
del popolo, come il popolo ha il diritto di arrestare le loro.
Perciò il potere legislativo verrà affidato e al corpo dei nobili e al corpo che verrà scelto per
rappresentare il popolo, ciascuno dei quali avrà le proprie assemblee e le proprie delibera-
zioni a parte, e vedute e interessi distinti.
Dei tre poteri di cui abbiamo parlato, quello giudiziario è in qualche senso nullo. Non ne
restano che due; e siccome hanno bisogno di un potere regolatore per temperarli, la parte
del corpo legislativo composta di nobili è adattissima a produrre questo effetto.
Il corpo dei nobili dev’essere ereditario. Lo è prima di tutto per sua natura; e d’altra parte
bisogna che abbia un grandissimo interesse a conservare le sue prerogative, odiose di per
sé, e che, in uno Stato libero, devono essere sempre in pericolo.
Ma poiché un potere ereditario potrebbe essere indotto a seguire i propri interessi partico-
lari e a dimenticare quelli del popolo, bisogna che in quelle cose in cui si ha sommo interes-
se a corromperlo, come nelle leggi sull’esazione dei tributi, esso partecipi alla legislazione
soltanto con la sua facoltà di impedire, e non con quella di statuire.
Chiamo facoltà di statuire il diritto di ordinare da sé, o di correggere quello che è stato or-
dinato da un altro. Chiamo facoltà di impedire il diritto di annullare una risoluzione presa
da qualcun altro; ed era questo il potere dei tribuni romani. E per quanto colui che ha la
facoltà d’impedire possa avere anche il diritto di approvare, in tal caso questa approvazio-
ne non è altro che una dichiarazione di non fare uso della facoltà d’impedire, e deriva da
questa facoltà.
Il potere esecutivo dev’essere nelle mani d’un monarca perché questa parte del governo,
che ha bisogno quasi sempre d’una azione istantanea, è amministrata meglio da uno che
da parecchi; mentre ciò che dipende dal potere legislativo è spesso ordinato meglio da
parecchi anziché da uno solo.
Infatti, se non vi fosse monarca, e il potere esecutivo fosse affidato a un certo numero di
persone tratte dal corpo legislativo, non vi sarebbe più libertà, perché i due poteri sareb-
bero uniti, le stesse persone avendo talvolta parte, e sempre potendola avere, nell’uno e
nell’altro.
Se il corpo legislativo rimanesse per un tempo considerevole senza riunirsi, non vi sarebbe
più libertà. Infatti vi si verificherebbe l’una cosa o l’altra: o non vi sarebbero più risoluzioni
legislative, e lo Stato cadrebbe nell’anarchia; o queste risoluzioni verrebbero prese dal
potere esecutivo, il quale diventerebbe assoluto.
Sarebbe inutile che il corpo legislativo fosse sempre riunito. Ciò sarebbe scomodo per i
rappresentanti, e d’altra parte impegnerebbe troppo il potere esecutivo, il quale non pen-
serebbe più a eseguire, ma a difendere le sue prerogative e il diritto che ha di eseguire.
Di più, se il corpo legislativo fosse riunito in permanenza, potrebbe capitare che non si
facesse che sostituire nuovi deputati a quelli che muoiono; e in questo caso, una volta che
il corpo legislativo fosse corrotto, il male sarebbe senza rimedio. Quando diversi corpi legi-
slativi si susseguono gli uni agli altri, il popolo, che ha cattiva opinione del corpo legislativo
attuale, trasferisce, con ragione, le proprie speranze su quello che succederà. Ma se si trat-
tasse sempre dello stesso corpo, il popolo, una volta vistolo corrotto, non spererebbe più
niente dalle sue leggi, s’infurierebbe o cadrebbe nell’apatia.
Il corpo legislativo non deve riunirsi di sua iniziativa; infatti si ritiene che un corpo non
abbia volontà se non quando è riunito, e se non si riunisse per decisione unanime non si ri-
Capitolo 2. Approfondimenti 79

uscirebbe a dire quale parte sia veramente il corpo legislativo: quella che è riunita o quella
che non lo è. E se avesse il diritto di aggiornare da sé le proprie riunioni, potrebbe accadere
che non le aggiornasse mai; il che sarebbe pericoloso, qualora volesse attentare al potere
esecutivo. D’altra parte, vi sono periodi più opportuni di altri per la convocazione del corpo
legislativo: bisogna dunque che sia il potere esecutivo a regolare il periodo della convoca-
zione e la durata di queste assemblee, in rapporto alle circostanze che gli sono note.
Se il potere esecutivo non ha il diritto di bloccare le iniziative del corpo legislativo, questo
diventerà dispotico; poiché, siccome potrà darsi tutto il potere che potrà immaginare, an-
nienterà tutti gli altri poteri.
Non bisogna però che il potere legislativo abbia reciprocamente la facoltà di bloccare il
potere esecutivo. Infatti, poiché l’esecuzione ha i suoi limiti per la sua stessa natura, è inuti-
le limitarla; oltre che il potere esecutivo si esercita sempre su cose del momento.
Ma se, in uno Stato libero, il potere legislativo non deve avere il diritto di bloccare il potere
esecutivo, ha il diritto, e deve avere la facoltà, di esaminare in qual modo siano state ese-
guite le leggi che ha fatto […].
Sebbene, in generale, il potere giudiziario non debba essere unito a nessuna parte di quello
legislativo, tre sono le eccezioni, basate sull’interesse particolare di chi dev’essere giudicato.
I grandi sono sempre esposti all’invidia; e, se fossero giudicati dal popolo, potrebbero tro-
varsi in pericolo, e non godrebbero del privilegio che, in uno Stato libero, ha l’ultimo dei
cittadini, d’essere giudicato dai suoi pari. Bisogna dunque che i nobili non siano chiamati a
comparire davanti ai tribunali ordinari della nazione, ma davanti a quella parte del corpo
legislativo che è composta di nobili.
Potrebbe accadere che la legge, la quale è allo stesso tempo chiaroveggente e cieca, fosse,
in certi casi, troppo severa. Ma i giudici della nazione sono soltanto, come abbiamo detto, la
bocca che pronuncia le parole della legge: esseri inanimati, che non possono regolarne né
la forza né la severità. Dunque la parte del corpo legislativo che, lo abbiamo detto or ora, è
un tribunale necessario in altra occasione, lo è anche in questa: spetta alla sua suprema au-
torità di moderare la legge a favore della legge stessa, pronunciandosi meno severamente.
Potrebbe anche accadere che qualche cittadino, negli affari pubblici, violasse i diritti del
popolo e commettesse delitti che i magistrati costituiti non sapessero o non volessero puni-
re. Ma, in generale, il potere legislativo non può giudicare; e ancor meno lo può fare in que-
sto caso particolare, in cui rappresenta la parte interessata, che è il popolo. Esso dunque
non può essere che accusatore. Ma davanti a chi accuserà? Andrà ad abbassarsi davanti ai
tribunali della legge, i quali sono suoi inferiori, e del resto composti di persone che, essen-
do popolo anch’esse, sarebbero trascinate dall’autorità di un così grande accusatore? No:
bisogna, per conservare la dignità del popolo e la sicurezza del particolare, che la parte
legislativa del popolo accusi davanti alla parte legislativa dei nobili, la quale non ha né i
suoi stessi interessi, né le sue stesse passioni.
Questo è il vantaggio di un simile governo sulla maggior parte delle repubbliche antiche,
nelle quali vigeva l’abuso che il popolo fosse allo stesso tempo e giudice e accusatore.
Il potere esecutivo, come dicemmo, deve prender parte alla legislazione con la sua facoltà
d’impedire; senza di che in breve sarebbe spogliato delle sue prerogative. Ma se il potere
legislativo prende parte all’esecuzione, il potere esecutivo sarà ugualmente perduto.
80 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Se il monarca prendesse parte alla legislazione con la facoltà di statuire, non vi sarebbe più
libertà. Ma siccome è necessario che abbia parte nella legislazione per difendersi, bisogna
che vi partecipi con la sua facoltà d’impedire.
Ecco dunque la costituzione fondamentale del governo di cui stiamo parlando. Il corpo
legislativo essendo composto di due parti, l’una terrà legata l’altra con la mutua facoltà
d’impedire. Tutte e due saranno vincolate dal potere esecutivo, che lo sarà a sua volta da
quello legislativo.
Questi tre poteri dovrebbero rimanere in stato di riposo, o di inazione. Ma siccome, per
il necessario movimento delle cose, sono costretti ad andare avanti, saranno costretti ad
andare avanti di concerto.
Il potere esecutivo, non facendo parte del legislativo che per la sua facoltà di impedire, non
potrebbe ingerirsi nel dibattito degli affari. Non è nemmeno necessario che proponga, poi-
ché, potendo sempre disapprovare le risoluzioni, può respingere le decisioni delle proposte
che avrebbe voluto non si fossero fatte. […].
Se il potere esecutivo statuisce sull’esazione del denaro pubblico altrimenti che attraverso
il proprio consenso, non vi sarà più libertà, perché quel potere diverrà legislativo nel punto
più importante della legislazione.
Se il potere legislativo statuisce, non d’anno in anno, ma per sempre, sull’esazione del dena-
ro pubblico, corre il rischio di perdere la sua libertà, perché il potere esecutivo non dipende
più da esso; e quando si detiene per sempre un simile diritto, è più o meno indifferente che
lo si detenga da se stesso o da un altro. Lo stesso avviene se statuisce, non d’anno in anno,
ma per sempre, sulle forze terrestri e marittime che deve affidare al potere esecutivo.
Affinché chi eseguisce non possa opprimere, bisogna che gli eserciti che gli si affidano ven-
gano dal popolo, e abbiano lo stesso spirito del popolo […]. E perché ciò sia così, non ci sono
che due mezzi: o che coloro che vengono reclutati nell’esercito abbiano beni sufficienti per
rispondere della propria condotta agli altri cittadini, e che siano arruolati soltanto per un
anno, come si faceva a Roma; oppure, se c’è un corpo di truppa permanente in cui per di
più i soldati siano una delle parti più basse della nazione, bisogna che il potere legislativo
possa scioglierlo quando vuole; che i soldati abitino con i cittadini, e che non vi siano né
accampamenti separati, né caserme, né piazze d’armi.
Una volta costituito l’esercito, questo non deve dipendere direttamente dal corpo legislati-
vo, ma dal potere esecutivo; e ciò per la natura stessa della cosa; perché la sua caratteristi-
ca consiste più nell’azione che nella deliberazione.
È proprio nel modo di pensare degli uomini che si faccia maggior caso del coraggio che
della timidezza; della prontezza che della prudenza; della forza che dei consigli. L’esercito
disprezzerà sempre un senato e rispetterà i propri ufficiali. Terrà poco conto degli ordini
che gli saranno inviati da parte di un corpo composto di persone che riterrà timorose, e
indegne perciò di comandarlo. Quindi, non appena l’esercito dipenderà unicamente dal
corpo legislativo, il governo diverrà militare. E se mai è avvenuto il contrario, è stato per
effetto di qualche circostanza straordinaria; perché l’esercito vi è sempre separato; perché
è composto di parecchi corpi che dipendono ciascuno dalla loro provincia particolare; per-
ché le capitali sono eccellenti piazze forti che si difendono con la loro sola situazione e
dove non stanziano truppe. […].
Capitolo 2. Approfondimenti 81

Siccome tutte le cose umane hanno una fine, lo Stato di cui parliamo perderà la sua libertà,
perirà. Roma, Sparta e Cartagine sono pur perite. Perirà quando il potere legislativo sarà
più corrotto di quello esecutivo.
Non sta a me di esaminare se gli Inglesi godono attualmente di questa libertà, o no. Mi
basta dire che essa è stabilita dalle loro leggi, e non chiedo di più.
Non pretendo con ciò di avvilire gli altri governi, né dichiarare che questa libertà politica
estrema debba mortificare quelli che ne hanno soltanto una moderata. Come potrei dirlo
io, che credo che non sia sempre desiderabile nemmeno l’eccesso della ragione; e che gli
uomini si adattino quasi sempre meglio alle istituzioni di mezzo che a quelle estreme?
Montesquieu, Lo spirito delle leggi, trad. di B. Boffito Serra, introduzione di G. Barni, Milano,
Rizzoli, 1967, pp. 204-218.
Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea:
dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra
di Carlo De Maria
Roma (BraDypUS) 2018
ISBN 978-88-98392-70-4
pp. 83-90

Capitolo 3. Gli Stati dell’Europa


orientale
Profilo storico

3.1. La Russia di fronte al problema dell’arretratezza

Il primo aspetto dell’Impero russo a balzare agli occhi degli osservatori stranieri era l’e-
stensione territoriale. Si trattava di una caratteristica di quella compagine statale fin dal-
la sua prima apparizione, al tempo del principato di Kiev (X-XIII secolo), che si estendeva
indicativamente dall’Ucraina a sud alla Bielorussia a nord, dai monti Urali a est fino alla
Polonia e alle regioni baltiche a ovest. Nei secoli successivi la maggior parte dell’area ap-
pena descritta era stata inglobata dal nuovo principato di Mosca, che a partire dal Cin-
quecento aveva iniziato a includere tra i suoi possedimenti anche ampi territori orientali e
meridionali (la cosiddetta Russia asiatica), le cui popolazioni non appartenevano al ceppo
originario slavo-orientale. Il principato russo-moscovita si era così trasformato in un vero e
proprio impero.
La Russia di fine Seicento si estendeva ormai dal Dniepr – il lungo fiume che attraversa
da nord a sud Bielorussia e Ucraina – fino all’Oceano Pacifico. Rispetto al periodo medie-
vale, però, aveva perduto i territori baltici e polacchi, che non a caso furono i principali
obiettivi di conquista dell’Impero russo durante il regno di Pietro I (1682-1725) e poi di
Caterina II (1762-1796).
Oltre alla sterminata estensione territoriale, un altro elemento di natura socio-econo-
mica e culturale colpiva i pochi viaggiatori occidentali che si avventuravano in quelle terre
lontane. Esisteva una distanza abissale tra la capitale imperiale, San Pietroburgo, fondata
nel 1703 sul Mar Baltico per volontà di Pietro il Grande, e gli sperduti microcosmi rap-
presentanti dalle campagne russe. Sembravano costituire due mondi separati e venivano
indicati, infatti, come le “due Russie”. Da una parte lo Stato imperiale e la sua organizza-
zione burocratica, attenta ai modelli occidentali, dall’altra una dimensione folcloristico-
localistica popolata di piccoli nobili e di una massa di contadini penosamente legati alla
terra dei loro padroni.
Le diversità etnico-culturali si sommavano a quelle economiche in una società, quella
russa, che si presentava come una originale mescolanza di modernità e arretratezza: di
aspetti appartenenti a epoche e paesi diversi. Lo scrittore francese Stendhal ebbe a scrivere
84 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

in uno dei suoi più celebri romanzi, Il Rosso e il Nero del 1831: «I russi copiano i costumi
francesi ma sempre a cinquant’anni di distanza». Rispetto all’Europa occidentale, cioè, la
Russia era – anche nei suoi gruppi sociali più dinamici – in costante ritardo e affannosa
rincorsa sulla strada della modernizzazione.
Quando – nel primo quarto del Settecento – Pietro I si impegnò ad adeguare il proprio
paese agli standard culturali e istituzionali europei, fu inevitabile assemblare idee e mo-
delli importati da Occidente e, in particolare, dall’assolutismo francese (centralizzazione
amministrativa, esercito permanente, mercantilismo di Stato, intervento pubblico per lo
sviluppo commerciale e manifatturiero, controllo statale sulle gerarchie ecclesiastiche),
con elementi premoderni, tenacemente radicati nella società russa. Non è inutile notare,
a questo proposito, che Pietro fu il primo monarca russo ad assumere il titolo occidentale
di “imperatore”, preferendolo a quello tradizionale di “zar”, che era stato usato dai suoi
predecessori e che rimase tuttavia nell’uso comune anche successivamente.
Se con le riforme pietrine l’amministrazione imperiale perse largamente il suo carat-
tere arcaico e patriarcale (fondato sulla devozione personale nei confronti del sovrano),
assumendo le forme europee di una burocrazia razionalmente articolata, nello stesso tem-
po si confermava, e anzi si rafforzava, il carattere cetuale e immobilistico della società
tradizionale. Gli esempi più significativi di questo contraddittorio riformismo si incontrano
misurando le continuità e le trasformazioni che caratterizzarono sia l’istituto della servitù
contadina, sia l’obbligo del servizio di Stato per la nobiltà e i mercanti.
I costi finanziari delle riforme pietrine si sostennero, in pratica, sul lavoro servile dei
contadini russi, la condizione dei quali non fece che inasprirsi. Dovendo far fronte alle cre-
scenti richieste degli apparati statali, l’esazione fiscale divenne una macchina sempre più
inesorabile ed efficiente ma continuò a basarsi su tributi arcaici il cui peso ricadeva es-
senzialmente sulla popolazione rurale. I contadini-servi provvedevano di fatto al sosten-
tamento dei quadri militari e civili (funzioni riservate ai nobili) all’interno di una economia
agricola ancora di tipo signorile. In più, il nuovo esercito permanente reclutava i suoi sol-
dati attraverso una “leva nazionale contadina”, togliendo braccia a quegli stessi nuclei fa-
miliari che erano già impegnati nel lavoro dei campi. Dopo le riforme di Pietro I, insomma,
l’istituto servile in Russia venne a configurarsi come un vero e proprio sistema nazionale di
lavoro coatto organizzato dallo Stato, che ne traeva diretto giovamento; qualcosa di più e
di diverso rispetto a una semplice sopravvivenza dell’epoca feudale.
L’imperatore si mosse anche in un’altra direzione, obbligando al servizio di Stato le élite
nobiliari ed economiche del paese. Il servizio pubblico obbligatorio era teso a piegare i
privilegi e le istanze di autonomia proprie di quegli ambienti sociali alle esigenze e all’au-
torità assoluta dello Stato. I ranghi più elevati dell’amministrazione civile e militare furono
riservati alla nobiltà, mentre al ceto mercantile restavano funzioni pubbliche inferiori, da
svolgere a livello amministrativo locale: esazione di tasse, dazi interni, compiti nell’am-
ministrazione cittadina. In definitiva, il contenuto innovatore dell’opera di Pietro appare
anche qui modesto, dal momento che la sistemazione giuridica della nobiltà nei quadri del
servizio statale non stimolò né permise nessuna mobilità sociale verso l’alto, ma rappre-
sentò solamente l’entrata forzata nei ranghi del potere pubblico di uno strato tradizionale
di proprietari terrieri.
Lo stesso accadeva, benché a livelli inferiori, alle già esigue élite economiche e questo
faceva sì che in Russia le moderne nozioni di Stato e società civile si presentassero del tutto
sovrapposte. E che anzi una vera e propria società civile stentasse proprio ad emergere.
Questa circostanza rappresenta, probabilmente, la differenza più importante della Russia
rispetto ai paesi dell’Europa occidentale. Del resto, la forma militare-burocratica creata
Capitolo 3. Gli Stati dell’Europa orientale 85

da Pietro, sulle basi della preesistente strutturale sociale di tipo patrimoniale, sembrava
letteralmente schiacciare sia la popolazione rurale che il popolino urbano, lasciandoli
bloccati nelle loro consuetudini arcaiche e consolidando quel gap storico-antropologico
che li separava irrimediabilmente – come dei veri e propri estranei – rispetto al sistema
istituzionale del paese.

3.2. Da Pietro I a Caterina II

Dalla morte di Pietro (1725) e per tutto il XVIII secolo una politica di costanti riforme riuscì
a proseguire nel difficile avvicinamento dello Stato russo e delle sue classi superiori agli
standard culturali e politici europei. Di particolare importanza fu il governo di Caterina
II che, oltre a continuare sulla strada del consolidamento interno e del rafforzamento in
politica estera, si segnalò anche per alcune importanti discontinuità rispetto ai suoi prede-
cessori.
Il riferimento è, in particolare, agli atti legislativi del 1763 e del 1785, con i quali la nobil-
tà fu emancipata dall’obbligo del servizio di Stato introdotto da Pietro. Così facendo, Cate-
rina accolse le richieste provenienti dalla stessa nobiltà, ma assecondò anche la speranza
(decisamente ottimistica) che una parte dei nobili si potesse trasformare in una classe di
efficienti imprenditori agrari. In realtà, i rampolli della nobiltà continuarono ad arruolarsi
in gran numero nell’amministrazione statale e nell’esercito, puntando su quelle carriere
pubbliche che le riforme pietrine aveva riservato esclusivamente a loro.
Del resto, nonostante i tentativi di razionalizzazione e modernizzazione che erano stati
compiuti negli ultimi decenni, l’amministrazione dello Stato continuava a essere debole e
insufficiente. Alla fine del XVIII secolo c’erano in Russia poco più di 5.000 funzionari civili:
un numero del tutto inadeguato per un paese tanto vasto. La debolezza della struttura
amministrativa spiegava anche l’estensione della corruzione, il continuo prevalere di inte-
ressi particolari (localistici o corporativi) e, in definitiva, quella incessante e sorda lotta di
camarille che caratterizzava la vita pubblica dell’Impero russo.
In cerca di un rimedio, Caterina II si distinse per attivismo legislativo, indirizzandosi
verso un rinnovamento dei rapporti tra centro e periferia. Con il nuovo ordinamento am-
ministrativo introdotto nel 1775, e attuato per gradi nel corso dei due decenni successivi,
l’imperatrice cercò di sveltire il funzionamento degli uffici centrali e di liberare il potenzia-
le delle sterminate province russe, dando maggiore autonomia alle comunità locali e re-
sponsabilizzando i nobili nella loro gestione. Tuttavia, il governo provinciale rimase debole
e gli interessi particolari dei proprietari terrieri continuarono ad avere un peso maggiore
rispetto alle istanze di buona amministrazione.
Caterina manifestò inoltre un vivace interesse per la politica sociale. Era perfettamente
consapevole del fatto che la potenza del suo impero passasse anche attraverso una ade-
guata crescita demografica. E non le sfuggiva lo stretto legame che esisteva tra l’incremen-
to della popolazione e le questioni sanitarie, assistenziali ed educative. Furono istituiti al-
cuni orfanotrofi, costruiti ospedali e promosse vaccinazioni contro il vaiolo. Mostrando una
strategia comunicativa estremamente moderna, Caterina fece vaccinare pubblicamente sé
e il figlio Paolo per combattere la diffidenza popolare nei confronti delle nuove pratiche
mediche. Con lo statuto di polizia del 1782 introdusse dei comitati per l’assistenza sociale,
86 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

che avevano ampie responsabilità a livello locale. Vennero fondate nuove colonie nell’a-
rea del Mar Nero e del fiume Volga, dove trovarono casa e lavoro migliaia di nullatenenti.
Questa azione multiforme trovò ostacoli soprattutto nella mancanza di stanziamenti suffi-
cienti e di funzionari preparati.
Un altro tema cruciale per la modernizzazione del paese era quello della legalità e,
dunque, anche di una precisa codifica delle leggi. Dall’epoca di Pietro il Grande ogni go-
verno di una certa importanza aveva cercato di affrontare lo spinoso problema delle leggi
russe e di una loro sistemazione razionale. Caterina si spese in prima persona convocando
una nuova commissione legale per la quale lei stessa scrisse una serie di principi guida. L’o-
biettivo era quello di redigere una raccolta completa delle leggi russe. Non venne raggiun-
to, ma i documenti e le bozze della commissione fornirono comunque una gran quantità
di informazioni sulle problematiche locali e sui bisogni nazionali; indicazioni che Caterina
tenne costantemente presente nella sua azione politica e sociale.
In definitiva, Caterina II si dimostrò una riformatrice della stessa tenacia di Pietro I. Il
titolo “Grande” (Caterina la Grande), che le fu offerto dalla commissione legale nel 1767 e
che la parificava al suo predecessore, rimase per sempre legato al suo nome, pur essendo
da lei ufficialmente rifiutato.

3.3. L’egemonia austriaca sui Balcani e il declino dell’Impero


ottomano

Fin dai tempi di Leopoldo I d’Asburgo, che regnò sul Sacro Romano Impero dal 1658 al
1705, la dinastia austriaca – pur non rinunciando a un ruolo europeo più ampio – concentrò
i propri interessi soprattutto sui territori dell’Europa centro-orientale e balcanica. Era ormai
tramontata, infatti, la speranza degli Asburgo di unificare in una salda compagine politico-
territoriale, di impronta cattolica, i circa 350 principati e “staterelli” che componevano l’Im-
pero germanico. Di conseguenza Vienna aveva deciso di puntare su un ambito territoriale
di cui poteva costituire l’effettivo baricentro.
Si trattava, anche in quel caso, di regioni che non era facile governare unitariamente, in
quanto caratterizzate da uno spiccato pluralismo etnico. Se in Austria, Tirolo, Stiria, Carin-
zia e Slesia predominava l’elemento tedesco, in Boemia erano gli slavi a prevalere. Un di-
scorso a parte meritava, poi, l’Ungheria, dove stava emergendo un problema religioso, dal
momento che tra i magiari si era largamente diffuso il protestantesimo. Leopoldo I rispose
imponendo con forza la religione cattolica, ma la situazione non trovò una sistemazione
duratura e la nobiltà ungherese si dimostrò sempre pronta a insorgere per conquistare il
diritto all’autodeterminazione. A più riprese l’esercito imperiale soffocò nel sangue ogni
dissenso, costringendo molti protestanti all’esilio.
Non c’era dubbio, comunque, che la minaccia più pesante a gravare sugli Asburgo fosse
costituita dall’Impero ottomano. Dopo aver conquistato oltre due terzi dell’Ungheria, tutta
la Transilvania e la Croazia, i turchi arrivarono a porre nuovamente sotto assedio la città
di Vienna nel 1683. Come già in occasione del fallito attacco del 1529, era chiaro che se la
città fosse caduta le truppe musulmane avrebbero avuto la strada spianata verso il cuore
dell’Europa. E questa prospettiva costituiva un autentico trauma per tutto il mondo cristia-
no. La gravità del momento fu pienamente percepita dal re polacco, Jan Sobieski (1674-
Capitolo 3. Gli Stati dell’Europa orientale 87

1696), che affrontò e sconfisse l’esercito turco alle porte di Vienna, liberando gli Asburgo
dalla morsa dell’assedio.
Leopoldo I passò quindi al contrattacco costituendo una alleanza militare a carattere
religioso, la Lega santa, a cui oltre all’Austria e alla Polonia presero parte altri storici ne-
mici dei turchi. Si mobilitarono le forze veneziane, quelle pontificie e poi, in maniera più
massiccia, l’esercito russo. Dopo una guerra di oltre dieci anni, la vittoria di Zenta (1697) e
la pace di Karlowitz (1699), due località serbe, sancirono l’affermazione della monarchia
austriaca sull’Europa centro-orientale e balcanica. Da quel momento in avanti i domini
asburgici – che ora si allargavano all’intera Ungheria, alla Transilvania e alla Croazia –
andarono a costituire quello che verrà presto definito come Impero austriaco o austro-
ungarico.
Vienna assunse rapidamente il volto di una grande capitale, grazie all’ingrandimen-
to delle residenze di corte e alla costruzione di numerosi palazzi da parte della nobiltà.
Uscendo dall’ambiente urbano, tuttavia, rimaneva immutata l’arretratezza complessiva
di un sistema economico e di una società rurale basati ancora sul servaggio contadino e
sull’immobilismo delle grandi tenute agricole signorili. Una situazione che, per certi aspet-
ti, avvicinava l’Austria più alla Russia che non all’Europa occidentale.
La potenza ottomana cominciò lentamente a declinare. La manifestazione più imme-
diata della crisi furono proprio le ripetute sconfitte militari. A quelle appena ricordate biso-
gna aggiungere la terribile batosta inflitta ai turchi da Pietro il Grande, che nel 1696 riuscì a
conquistare la città di Azov, una importante fortezza sul fiume Don, collocata a brevissima
distanza dal Mar Nero e, dunque, in posizione strategica per il controllo dei traffici com-
merciali tra Europa e Asia.
Dopo più di due secoli di vittorie pressoché ininterrotte gli eserciti ottomani vacillavano
paurosamente. Su questo evidente indebolimento pesavano alcune questioni di fondo. La
scoperta di nuove vie marittime per l’Oriente aveva reso sempre più stagnanti i grandi mer-
cati ottomani, che vivevano soprattutto sui commerci terrestri. In passato la città di Bursa,
situata tra il Mar Nero e il Mar Egeo, era stata uno dei più importanti centri commerciali
del Mediterraneo, dove le spezie e il cotone dell’India venivano scambiati con le lane di
Firenze, le sete dell’Iran e i broccati locali. Ma ora il controllo del Mediterraneo orientale
cominciava a sfuggire dalle mani dei turchi, e nell’Oceano Indiano le flotte musulmane non
riuscivano a scacciare i nuovi arrivati europei (prima i portoghesi, poi i francesi e gli inglesi).
Parallelamente, l’espansione russa stava bloccando le vie terrestri verso l’Asia centrale,
dove cominciava a farsi sentire anche l’attivismo dei principi persiani. Per tutte queste ra-
gioni, il culmine del potere ottomano era ormai cosa del passato.
All’inizio del Settecento, il riconoscimento della superiorità militare dei paesi dell’Eu-
ropa occidentale e l’esempio delle trasformazioni avviate in Russia sotto Pietro il Grande
portarono a prendere in considerazione anche a Istanbul alcune prospettive di occidenta-
lizzazione. Ma una spiccata e diffusa presunzione della superiorità della civiltà musulmana
sui modelli occidentali bloccò di fatto ogni processo di rinnovamento. Basti l’esempio della
produzione di libri e di periodici a stampa: finalmente autorizzata nel 1726, venne sospesa
nel 1742, dopo la produzione di meno di venti titoli, troncando sul nascere ogni speranza
circa la nascita di una opinione pubblica informata e consapevole.
Intanto continuarono ad accumularsi umilianti sconfitte militari: con la pace di Passa-
rowitz (1718) gli ottomani persero la Serbia settentrionale e parte della Valacchia, che pas-
sarono all’Austria. Infine, nella seconda metà del Settecento, l’allargamento del control-
lo russo sull’intera costa settentrionale del Mar Nero e sulla penisola di Crimea (la prima
88 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

importante perdita di un territorio culturalmente musulmano) pose l’Impero ottomano di


fronte a una prospettiva di netta subalternità e progressivo sfaldamento.

3.4. Il nuovo assetto politico nell’area baltica. Dalla Guerra del


Nord alla questione polacca

Sul finire del Seicento salì sul trono di Svezia il giovane e intraprendente Carlo XII. L’atteg-
giamento spavaldo del nuovo sovrano confermò le ambizioni di un paese che aveva già
avuto un ruolo di primo piano nella Guerra dei Trent’anni e nella pace di Vestfalia, quando
si erano poste le basi della sua egemonia sul Mar Baltico.
Ben presto, però, la posizione dominante di Stoccolma in quella regione venne attac-
cata simultaneamente da tre parti, dando inizio alla cosiddetta Guerra del Nord. Nel giro
di appena un anno, tra il 1699 e il 1700, si mossero sia la storica rivale scandinava, la Dani-
marca di Federico IV, sia la Russia di Pietro il Grande (sempre più proiettata politicamente
e culturalmente verso l’Europa), sia infine il regno di Polonia, guidato da Federico Augusto
di Sassonia. Costui era un ricco principe tedesco che aveva recentemente aggiunto ai suoi
possedimenti in Germania anche la corona di Cracovia, salendo al trono con il nome di
Augusto II.
Nel 1699 le truppe danesi invasero il ducato di Holstein, situato nella Germania setten-
trionale ma posto sotto il controllo della Svezia. L’anno successivo l’esercito russo cinse
d’assedio la fortezza svedese di Narva in Livonia, una regione baltica compresa tra Estonia
e Lettonia. Nella stessa zona portarono un massiccio attacco anche i polacchi. La risposta
svedese fu fulminea e si espresse, innanzi tutto, con uno sbarco navale in Danimarca. La
marcia vittoriosa su Copenaghen costrinse subito Federico IV a chiedere una pace sepa-
rata. Dopodiché gli svedesi si impegnarono ad alleggerire la pressione di russi e polacchi
sulla Livonia, liberando Narva e Riga.
Sullo slancio di queste facili vittorie, Carlo XII decise di non fermarsi e di proseguire
invadendo la Polonia, che riuscì a occupare dopo alcuni anni di guerra (1705). Così facen-
do però le truppe svedesi mostrarono il fianco all’avanzata dell’esercito russo. Le truppe
di Pietro I occuparono due regioni baltiche controllate dalla Svezia, la Carelia e l’Ingria.
Qui, sul delta del fiume Neva, cominciò (1703) la costruzione della nuova capitale impe-
riale, San Pietroburgo, fortemente voluta dallo zar. Si apriva finalmente quella finestra a
settentrione sul Baltico e sull’Europa, che la Russia cercava da tempo. Il dominio svedese,
che minacciava di tagliarla fuori da ogni commercio marittimo con il mondo occidentale,
era definitivamente incrinato. Nel tentativo di reagire, il sovrano svedese rispose con un
attacco frontale alla Russia; una campagna militare che, iniziata nel settembre 1707, gli
risulterà velocemente fatale.
Adottando per la prima volta una strategia che risulterà vittoriosa anche nei secoli suc-
cessivi (contro Napoleone nell’Ottocento e contro Hitler nel Novecento), l’esercito russo
non accettò il combattimento campale, ritirandosi invece progressivamente verso l’interno
e limitandosi a logorare con brevi incursioni l’avanzata nemica. I soldati di Pietro I, inoltre,
distruggevano ogni cosa sul loro percorso, facendo terra bruciata e lasciando così il nemico
privo di ricovero e di vettovaglie. Il piano del giovane re svedese venne completamen-
te scompaginato: un solo inverno in Russia non sarebbe stato sufficiente per arrivare alla
Capitolo 3. Gli Stati dell’Europa orientale 89

vittoria ed era necessario far fronte a una guerra molto più lunga di quella che egli aveva
preventivato.
Nella primavera 1709, alla guida di soldati ormai laceri e affamati, Carlo XII decise di
attaccare la fortezza di Poltava in Ucraina, dove erano custodite grosse riserve alimentari.
Ormai privo di artiglierie da assedio (abbandonate lungo la strada in seguito alla morte
di quasi tutti i cavalli da traino) quella impresa era una follia. Ma ormai gli svedesi erano
arrivati alla disperazione e Poltava sembrava l’ultima occasione per rifarsi.
Proprio in quel momento Pietro I decise di attaccare i nemici con un contingente di
oltre 50 mila uomini, ben riposati, e quasi 100 pezzi di artiglieria. Le truppe svedesi furono
presto schiacciate. Carlo XII, ferito, riuscì a riparare in territorio ottomano, ma il suo eser-
cito non esisteva più. A Poltava finì per sempre la spinta propulsiva della potenza svedese,
che aveva caratterizzato per quasi un secolo la storia dell’Europa nord-orientale. L’avan-
zata russa proseguì negli anni successivi, consolidando il controllo sulle regioni baltiche e
impadronendosi anche della Finlandia, precedentemente in mano agli svedesi. La vittoria
di Poltava del 1709 creò le condizioni per il pieno inserimento dell’impero di Pietro I nel
sistema diplomatico europeo.
Il consolidamento delle frontiere russe verso Occidente richiamava anche il destino
della Polonia. Il legittimo sovrano, Augusto II, venne ristabilito sul trono dai russi dopo la
sconfitta della Svezia, ma il suo regno continuava a presentarsi come una entità politico-
territoriale piuttosto fragile e facilmente conquistabile. La diplomazia russa, dapprima,
cercò e trovò una soluzione a questo problema nella trasformazione della Polonia in uno
Stato satellite, ma in seguito, come vedremo, finì per inglobarne una parte consistente nella
propria compagine imperiale.
In Polonia, del resto, era diffuso un certo scontento nei riguardi del sovrano sassone.
Augusto II avrebbe potuto dare alla costituzione politica del paese quella spina dorsale
che mancava; avrebbe potuto emanciparsi dalla tutela russa. E, invece, da una parte la
Russia considerava ormai la Polonia come una sua riserva di caccia e dall’altra Augusto II,
durante trent’anni e più di regno, non aveva fatto che esasperare il risentimento nazionale,
conferendo le cariche più onorifiche e più lucrose a nobili di origine tedesca e ammassando
truppe provenienti dalla Sassonia sul territorio polacco.
Fu la morte di Augusto II, nel 1733, a mostrare la complessità del problema. Di fronte
alla necessità di trovare una soluzione alla successione polacca il quadro diplomatico eu-
ropeo si polarizzò drasticamente: da una parte si schierò l’alleanza tra la Russia e l’Austria,
cementata nel tempo dalla comune opposizione all’Impero ottomano; dall’altra la coali-
zione tra i regni di Francia e Spagna, che erano entrambi retti dal casato dei Borbone.
La prima mossa venne compiuta dal re francese Luigi XV, che sostenne per la successio-
ne al trono un principe polacco a lui strettamente legato; ma un immediato intervento mili-
tare della Russia (che occupò in forze la Polonia) impose la candidatura di Augusto III, figlio
del sovrano tedesco appena scomparso e dunque gradito sia all’Austria che alla Prussia.
La fuga del candidato francese fu un esito mortificante per la Francia che non tardò a
reagire scatenando un’offensiva bellica proprio contro l’Austria, sua eterna rivale. La Guer-
ra per la successione polacca proseguì, dunque, su altri teatri: principalmente in Italia e
lungo il confine tra Francia e Sacro Romano Impero. Quel che importa qui sottolineare è
che, con l’uscita di scena della Francia, il trono polacco passò definitivamente sotto il con-
trollo di Austria, Prussia e Russia. Questi stessi paesi pochi decenni più tardi si sarebbero
letteralmente spartiti, in momenti successivi (1772, 1793 e 1795), il territorio della Polonia,
fino alla sua completa eliminazione come entità statale.
90 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

L’annessione della Polonia orientale, come quelle – quasi contemporanee – dell’Ucrai-


na meridionale e della Crimea, ai danni dei turchi, fornirono all’Impero di Caterina II vaste
distese di terreni fertili e posero le basi dello sviluppo di una flotta anche nel Sud. Il confine
meridionale della Russia ora seguiva, infatti, le coste settentrionali del Mar Nero e i turchi
non erano più nelle condizioni di rifiutare alle navi russe l’accesso al Mediterraneo attra-
verso lo stretto dei Dardanelli.
Perfino l’Impero britannico cominciò a guardare con inquietudine il protagonismo rus-
so. Si profilava, infatti, un nuovo temibile concorrente sia sul Baltico che nel Mediterraneo.
Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea:
dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra
di Carlo De Maria
Roma (BraDypUS) 2018
ISBN 978-88-98392-70-4
pp. 91-102

Capitolo 3. Gli Stati dell’Europa


orientale
Approfondimenti

Profili
Caterina II

Le turbolenze e le lotte di palazzo che seguirono la morte di Pietro I nel 1725 non alteraro-
no la posizione internazionale della Russia, né ostacolarono la sua costante ascesa verso
il ruolo di grande potenza. La Russia, infatti, era ormai ben inserita nei giochi di potere eu-
ropei e non doveva più temere la marginalità che l’aveva segnata fino alla fine del secolo
precedente.
A Pietro successe la moglie Caterina I, che morì solamente due anni più tardi, desi-
gnando come erede un nipote, Pietro II, il quale a sua volta morì velocemente di vaiolo nel
1730. L’assenza di candidati maschi convincenti e la convulsa lotta allora in atto tra diverse
frazioni nobiliari e militari – che dunque prediligevano figure ritenute deboli e facilmente
manovrabili – portarono sul trono prima Anna Ivanovna poi, dal 1741, Elisabetta Petrovna,
rispettivamente nipote e figlia di Pietro il Grande.
Alla morte di Elisabetta nel 1761 salì al trono Pietro III, un nobile tedesco proveniente
dalla regione dell’Holstein ma imparentato con la dinastia dei Romanov. Il nuovo sovrano
non seppe gestire i suoi appoggi politici e nel giro di sei mesi venne deposto dalla mo-
glie, che prese il potere con il nome di Caterina II, segnando con la sua personalità oltre
trent’anni di storia russa. Il colpo di Stato fu reso possibile dall’appoggio della guardia im-
periale e delle alte gerarchie dell’esercito. Secondo le parole sarcastiche di Federico II di
Prussia, Pietro fu deposto “come si manda a letto un bambino”. Egli morì poco dopo, uffi-
cialmente per una colica, in realtà a causa delle percosse subite in una rissa con le guardie
che lo custodivano.
La responsabilità delle faide che caratterizzarono a più riprese, in quegli anni, la vita nei
palazzi del potere era ascrivibile almeno in parte a una delle riforme attuate da Pietro il
Grande. Egli, infatti, dopo aver condannato a morte nel 1718 il proprio figlio Aleksey, che si
era opposto alle riforme paterne ed era diventato la figura-guida dei gruppi più conserva-
tori, aveva cambiato le regole di successione al trono. La nuova legge cancellava il tradizio-
nale principio di ereditarietà dinastica e prevedeva, invece, che lo stesso imperatore o, in
92 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

subordine, le élite politiche e militari potessero scegliere il successore ritenuto più capace
e adatto ad affrontare le difficoltà del momento. In questo modo Pietro I aveva finito per
desacralizzare la monarchia e i sovrani potevano ora essere deposti, anche con futili prete-
sti, da rivali più abili e meglio organizzati, aprendo potenzialmente la strada a una serie di
scontri senza quartiere, che infatti durarono per quasi quarant’anni fino all’incoronazione
di Caterina II.
Inaugurato con l’assassinio del marito, il suo regno fu un periodo di prosperità e forza
per la Russia, che vide placarsi gli intrighi di palazzo e rafforzarsi il potere assoluto del
sovrano. Caterina dichiarò di prendere il potere per volontà del popolo e in nome della
Chiesa ortodossa, sebbene non fosse né particolarmente religiosa né tantomeno disposta
ad aperture verso un governo più liberale e partecipato.
L’età di Caterina è stata tradizionalmente vista come l’età dell’oro per la nobiltà russa
che ottenne dall’imperatrice anche l’abolizione del servizio di Stato obbligatorio. La corte
di San Pietroburgo, istruita e vivace, visse una vera e propria fioritura culturale. I costumi
spesso ancora selvaggi dell’epoca di Pietro I furono sempre meno accettati nell’alta socie-
tà. Caterina patrocinò arti come il teatro, l’opera, la letteratura (lei stessa fu autrice proli-
fica), l’architettura e la pittura: fece costruire una enorme quantità di edifici e fu una avida
collezionista, fondando l’attuale collezione dell’Ermitage a San Pietroburgo.
Negli ultimi anni del suo regno divenne acerrima nemica della Rivoluzione francese, le
cui idee mettevano in discussione la monarchia assoluta da lei rappresentata.

Parole-chiave
Ortodossia

La Chiesa ortodossa russa si era staccata dall’autorità di Roma ai tempi remoti del principa-
to di Kiev nell’XI secolo. La scelta di abbracciare la religione cristiana di rito greco ortodos-
so (compiuta dai principi pagani di Kiev intorno al 988) derivava dalla volontà di rafforzare
i rapporti economici e diplomatici con l’Impero bizantino, poi sopraffatto dai Turchi nel
corso del XV secolo. Risaliva a queste vicende lontane anche una delle ragioni culturali più
profonde della rivalità russo-turca, che sarebbe esplosa tra XVII e XVIII secolo.
Fino al regno di Pietro il Grande, la Chiesa ortodossa russa rimase sotto la guida di un
unico capo, il patriarca di Mosca. Il nuovo Regolamento ecclesiastico del 1721 pose, invece,
in cima alla gerarchia ortodossa il Santo Sinodo, una assemblea composta da ecclesiastici,
ma soggetta al controllo di un laico, il procuratore del Santo Sinodo, che rappresentava il
sovrano. Pietro I volle, cioè, sottomettere totalmente la Chiesa al potere dello Stato. E in
questo fu molto influenzato da quanto aveva visto nei paesi protestanti, visitati durante un
lungo viaggio in Europa compiuto in gioventù.
Sia Pietro I che Caterina II, inoltre, si dimostrarono molto ostili nei confronti dei monaci
e dei monasteri, che ritenevano figure e istituzioni completamente inutili e, soprattutto, pe-
ricolosamente svincolate dal potere pubblico. Ma i loro sforzi non riuscirono a cancellare
l’esperienza monastica, che era di particolare importanza nella Chiesa ortodossa e profon-
damente radicata nella sensibilità religiosa del popolo russo.
Il regime ecclesiastico stabilito da Pietro e Caterina continuò fino al 1917, quando la
rivoluzione comunista sciolse il Santo Sinodo e perseguitò molti membri del clero, incarce-
Capitolo 3. Approfondimenti 93

randoli o uccidendoli, perché considerati parte della fazione anti-bolscevica. Con la rivolu-
zione d’ottobre venne formalmente restaurata la figura del patriarca di Mosca, una carica
che però rimase vacante fino al 1943, quando in piena Seconda guerra mondiale anche i
riferimenti religiosi furono ritenuti importanti per compattare il fronte interno.

Focus
La scomparsa di un grande Stato: il destino della Polonia

Per comprendere le drammatiche vicissitudini che segnarono la storia polacca del Sette-
cento, si rende necessario fornire qualche cenno sul particolare modello di monarchia che
caratterizzava la Polonia. In caso contrario, molti aspetti della vicenda di questo paese, a
partire dalla guerra di successione iniziata nel 1733, resterebbe di difficile comprensione.
Nella seconda metà del Cinquecento, con la morte senza eredi legittimi di Sigismondo II
Augusto, si era estinta la dinastia Jagelloni, di origine lituana, che sedeva sul trono polacco
da circa due secoli. Accantonato il tradizionale principio dell’ereditarietà dinastica, si era
inaugurato il periodo dei “re eletti”. Da quel momento in avanti, cioè, si alternarono sul tro-
no sovrani appartenenti a dinastie polacche, francesi, svedesi e tedesche, i quali venivano
eletti di volta in volta da una assemblea della nobiltà polacca.
Si comprende, dunque, facilmente come nel 1733 il problema legato alla successione
di Augusto II potesse scatenare l’interesse delle dinastie regnanti di mezza Europa, che si
impegnarono a installare sul trono un monarca che facesse gravitare la Polonia in una certa
zona di influenza piuttosto che in un’altra e che, al momento opportuno, in caso di conflitto
o di negoziati diplomatici, aumentasse il peso di un’alleanza piuttosto che di un’altra. In
sostanza, si trattava ormai di installare sul trono polacco un monarca, diremmo oggi, a so-
vranità limitata, ovvero, sotto tutela.
Per arrivare da questa condizione di subalternità fino al totale smembramento del Re-
gno di Polonia (1795) il passo da compiere non era poi così lungo. In seguito a tre successivi
accordi diplomatici, racchiusi in poco più di vent’anni (dal 1772 al 1795), la Polonia venne
spartita fra le tre potenze più influenti dell’Europa centro-orientale (Austria, Prussia e Rus-
sia) e cancellata per lungo tempo dalle carte geografiche come Stato autonomo.
Il movimento nazionale polacco, tuttavia, non venne soffocato. Parigi e Londra raccol-
sero gran parte dell’emigrazione politica polacca e, proprio a partire dalla capitale france-
se e da quella britannica, gli esuli si adoperano per porre davanti alla coscienza dell’opi-
nione pubblica europea il problema dell’indipendenza della Polonia. La questione polacca
divenne anzi un simbolo e una bandiera per i movimenti patriottici dell’Ottocento e per
ogni rivendicazione di autonomia dei popoli.
94 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Fonti e documenti
Lo “Stato contadino”: contadini e servi della gleba

Introduzione
Il concetto di “Stato contadino” è applicato dagli studiosi a paesi con governi autoritari,
popolazioni prevalentemente contadine e un mercato poco sviluppato. Nel Settecento, in
Russia, la popolazione urbana era circa il 4% del totale e le categorie esenti da tasse (nobili,
funzionari civili, clero, esercito) formavano nel complesso circa il 6% degli abitanti. I con-
tadini, insomma, rappresentavano il 90% del paese e ne sostenevano quasi interamente il
bilancio pubblico.
È difficile fare dei discorsi generali sulla società contadina russa, dal momento che le
sue caratteristiche, nonostante i tratti in comune, variavano enormemente a seconda dei
luoghi. Nelle regioni centrali e settentrionali, dove l’agricoltura era più povera, le attività
non agricole (artigianato, commercio, trasporto, vendita di legname) indebolirono il legame
con la terra e resero i contadini più dinamici. Una parte dei servi della gleba – letteralmen-
te, servi della terra – lavorava direttamente per il padrone ed era strettamente legata alle
sue proprietà, nelle quali coltivava i campi o svolgeva servizi domestici. Ma una parte dei
contadini-servi era invece “a canone”, cioè pagava al padrone un canone annuo, in cambio
del quale poteva lavorare per conto proprio, svolgendo anche piccole attività commerciali.
Questi contadini godevano, dunque, di una certa libertà di movimento rispetto agli altri.
Benché raramente, emersero alcuni imprenditori-contadini di successo. Per accumulare
capitale era necessaria la benevola protezione di un signore, che poteva anche acconsen-
tire – dietro il pagamento di una forte somma di denaro (riscatto) – di riconoscere, una
volta per tutte, ai contadini più intraprendenti lo status di uomo libero. Una soluzione non
sempre auspicata da parte degli stessi contadini, che si sentivano comunque protetti nel
piccolo universo del villaggio, dove vigevano alcune leggi consuetudinarie: il padrone, ad
esempio, era tenuto a proteggere i contadini dai briganti e a dare loro da mangiare in caso
di carestia.
La casa del contadino (isba) era in genere una capanna di un solo piano. Nel sud erano
diffuse costruzioni in fango e argilla imbiancate a calce, con il tetto di paglia. Invece, nelle
foreste più a nord l’edilizia contadina adoperava quasi esclusivamente il legno ed era in-
dubbiamente più solida. Solitamente i contadini vivevano in famiglie allargate e un gran
numero di persone era stipato in piccole abitazioni infestate da insetti, senza privacy (si
viveva e si dormiva negli stessi ambienti) e in condizioni igieniche a dir poco precarie. Le
malattie erano all’ordine del giorno e la mortalità infantile molto elevata.
La maggior parte dei possidenti non viveva sui propri terreni (erano lontani a prestare
servizio allo Stato o preferivano vivere in città, oppure avevano più di una proprietà) e la
gestione della terra da parte di un amministratore era in genere meno favorevole ai con-
tadini, in quanto costui sfruttava ancora più brutalmente il lavoro servile per crearsi dei
margini di guadagno anche per sé.
Un altro aspetto che incideva pesantemente sulla vita contadina era l’arruolamento
coatto nell’esercito. La riforma militare introdotta da Pietro il Grande prevedeva che il re-
clutamento dei soldati avesse come effetto di liberarli dalla servitù della gleba, sottopo-
nendoli però de facto a una nuova servitù, quella allo Stato e all’esercito, fino alla morte o
alla invalidità.
Capitolo 3. Approfondimenti 95

La cultura contadina era analfabeta e ha lasciato poche tracce scritte, per questo bisogna
fare riferimento a testimonianze “esterne”, prodotte ad esempio da intellettuali e scrittori.
La raccolta di racconti di Turgenev, Memorie di un cacciatore, da cui sono tratte le pagine
che seguono, documenta la complessa realtà contadina russa nei suoi aspetti politico-socia-
li e nelle sue sfumature psicologiche. Emergono i personaggi più diversi: ci sono i contadini,
separati talvolta tra loro da condizioni di vita così differenti da farli sembrare appartenenti
a classi diverse; ci sono i proprietari, con i loro diversi atteggiamenti nei confronti dei servi,
ma con il comune desiderio di acquisire ed esibire (talvolta in modo grottesco) le abitudini
occidentali; ci sono, infine, figure intermedie, spesso ambigue, come i burmìstr, sorta di inten-
denti ai quali i grandi proprietari delegavano la gestione dei loro fondi.
Dalle pagine di Turgenev emerge inoltre la varietà del paesaggio russo, dai boschi alle
steppe, e lo stretto nesso che si stabiliva tra la differenza degli ambienti naturali e la vita
degli uomini che li abitavano. Una vera e propria comunione con la natura, talvolta positi-
va, ma spesso drammatica e senza speranza. La spiccata sensibilità per l’indagine sociale
che Turgenev dimostrò nella costruzione dei suoi racconti fanno del suo lavoro non solo
un’opera letteraria giustamente considerata come un classico ma anche un documento
storico di indubbia importanza.

Dalle Memorie di un cacciatore di Ivan S. Turgenev (1847)


Un contadino “a canone” e il suo mondo
Chi ha avuto occasione di passare dal distretto di Bolchov in quello di Zìsdra è rimasto
probabilmente colpito dalle netta differenza esistente tra la gente della provincia di Oriòl
e la gente di Kaluga [due località della Russia europea: Oriòl più a sud e Kaluga più a nord].
Il contadino di Oriòl è di bassa statura, un po’ curvo, tetro; guarda di sotto in su, vive in
meschine casucce di tremula, va a lavorare per il padrone, non commercia, mangia male,
porta i lapti [calzature di corteccia]; il contadino di Kaluga, che è a canone, abita in spaziose
isbe di pino, è alto, guarda in modo ardito e allegro, ha il viso pulito e bianco, traffica in olio
e catrame, e nei giorni di festa porta gli stivali. Un villaggio della zona di Oriòl (parliamo
della parte orientale della provincia di Oriòl) è situato solitamente in mezzo ai campi arati,
presso un burrone più o meno trasformato in sudicio stagno. All’infuori dei pochi citisi [ar-
busti], che non mancano mai, e di due o tre magre betulle, non vedi un albero intorno per
una versta [circa un chilometro]; le isbe sono appiccicate l’una all’altra, i tetti son coperti di
paglia fradicia... Il villaggio della zona di Kaluga invece è perlopiù circondato dal bosco. Le
isbe sono più distanti l’una dall’altra e più dritte, e son coperte di tavole; il portone chiude
bene, il recinto dietro la corte non va in pezzi e non casca in fuori, non invita ogni maiale
di passeggio ad entrare... Anche pel cacciatore, in provincia di Kaluga è meglio. Nella pro-
vincia di Oriòl le ultime foreste e spianate [macchie di arbusti] tra un cinque anni saranno
sparite, e di paludi non è rimasta neppur traccia; in quella di Kaluga invece i boschi riservati
si stendono per centinaia, le paludi per decine di verste, e non s’è ancora perduta la nobile
razza del gallo cedrone, vi alligna il tordo bonario, e la pernice affaccendata col suo volo a
scatti rallegra e impaurisce il tiratore e il cane.
Frequentando come cacciatore il distretto di Zìsdra, m’incontrai in un campo e feci cono-
scenza con un piccolo possidente di Kaluga, Polutikin, [...] che aveva introdotto in casa sua
la cucina francese, il cui segreto, secondo le idee del suo cuoco, consisteva nel totale cam-
biamento del gusto naturale di ciascuna vivanda: la carne, manipolata da questo esperto,
sapeva di pesce, il pesce di funghi, i maccheroni di polvere da sparo; in cambio neppure una
carota finiva nella minestra senz’aver assunto la forme di rombo o di trapezio. [...].
96 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Fin dal primo giorno della mia conoscenza col signor Polutikin, egli m’invitò a passare la
notte in casa sua.
– Di qui a casa mia ci saran cinque verste – aggiunse – a piedi è lunga; passiamo prima da
Chor.
– E chi è Chor?
– Un mio contadino... Di qui è vicinissimo...
Ci avviammo da lui. In mezzo a un bosco, in una radura rastrellata e coltivata, sorgeva
solitaria la masseria di Chor. Essa si componeva di alcune costruzioni di pino, unite da stec-
conati; davanti all’isba principale si stendeva una tettoia, sorretta da sottili pilastrini. En-
trammo. Ci venne incontro un giovane sui vent’anni, alto e bello.
– Ah, Fedia. È in casa Chor? – gli domandò il signor Polutikin.
– No, Chor è andato in città – rispose il giovanotto, sorridendo e mostrando una fila di denti
bianchi come la neve.
– Ordinate di attaccar la carretta?
– Sì, fratello, la carretta. E portaci del kvas [bevanda simile alla birra].
Entrammo nell’isba. Neppure un’oleografia di Susdàl [città russa famosa per l’industria
oleografica] era incollata sulle pulite pareti di travi; in un angolo, davanti a una pesante
immagine in cornice d’argento, ardeva un lumino; una tavola di tiglio era raschiata e lavata
da poco; fra le travi e sugli stipiti delle finestre non vagavano blatte vivaci, non si celavano
pensosi scarafaggi. Il giovanotto comparve ben presto con un grosso boccale bianco, pieno
di buon kvas, un’enorme fetta di pane di frumento e una dozzina di cetrioli salati in una
ciotola di legno. Egli posò tutte queste provvigioni sulla tavola, si appoggiò alla porta, e si
mise a guardarci con un sorriso. Ancora non avevamo finito il nostro spuntino che si sentì
il rumore della teliega [il carro dei contadini russi] davanti alla scaletta. Uscimmo. Un ra-
gazzo sui quindici anni, ricciuto e rubicondo, sedeva a cassetta e tratteneva a fatica un ben
pasciuto stallone pezzato. Intorno alla teliega stavano sei giovani giganti, molto simili l’uno
all’altro e Fedia.
– Tutti figli di Chor! – osservò Polutikin.
– Tutti Choretti – soggiunse Fedia, che era uscito dietro di noi sul terrazzino – e non ci sono
ancora tutti: Potàp è nel bosco, e Sidor è andato in città col vecchio Chor... Dunque guarda,
Vassia – proseguì, volgendosi al cocchiere – va di carriera: porti il signore. Ma bada, rallenta
ai sobbalzi, ché rovineresti la teliega e disturberesti le viscere al signore. [...].
Salimmo in teliega e di lì a mezz’ora entravamo già nel cortile della casa padronale.
– Dite, per favore – domandai a Polutikin, a cena – perché Chor vive separato dagli altri
vostri contadini?
– Ecco il perché: lui è un contadino intelligente. Circa venticinque anni fa la sua isba prese
fuoco. E lui se ne viene da mio padre buon’anima e dice: “Permettetemi, Nikolàj Kuzmìc’,
di stabilirmi nel bosco da voi, sul padule. Vi pagherò un buon canone”. “Ma perché vuoi
stabilirti sul padule?”. “Ma così; soltanto, bàtiuska Nikolàj Kuzmìc’ [bàtiuska era una forma
di cortesia], vi pregherei di non impegnarmi più in nessun lavoro, e fissatemi il canone,
voi sapete che canone fissarmi”. “Cinquanta rubli all’anno!” “Accettato”. “Ma senz’arretrati,
bada!”. “Senz’arretrati, si sa...”. Ed ecco che si stabilì sul padule. Da allora lo soprannomina-
rono Chor.
– E si arricchì? – domandai.
Capitolo 3. Approfondimenti 97

– Si arricchì. Ora mi paga cento rubli d’argento di canone, e forse gliel’aumenterò ancora.
Già gliel’ho detto più di una volta: riscattati, Chor, riscattati!... E lui, il furfante, mi assicura
che non ne ha i mezzi; denari, dice, non ne ha... Questo, poi! [...].
Il giorno dopo il signor Polutikin fu costretto a recarsi in città, per una causa che aveva col
vicino Piciukòv. Il vicino Piciukòv, arando, aveva usurpato un po’ del suo terreno, e sulla ter-
ra usurpata aveva frustato una contadina dello stesso Polutikin. Andai a caccia solo e verso
sera passai da Chor. Sulla soglia dell’isba mi venne incontro un vecchio – calvo, di bassa
statura, largo di spalle e robusto – Chor in persona. Guardai con curiosità questo Chor. L’in-
sieme del suo volto rammentava Socrate: la stessa fronte alta, bitorzoluta, gli stessi piccoli
occhietti, lo stesso naso camuso. Entrammo insieme nell’isba. Quello stesso Fedia mi portò
del latte con pane scuro. Chor sedette su una panca e, lisciandosi tranquilli tranquillo la
barba ricciuta, entrò in discorso con me. Pareva che sentisse la sua dignità, parlava e si
moveva adagio, di tanto in tanto rideva sotto i suoi lunghi baffi.
Ragionammo della semina, del raccolto, della vita contadina... Pareva che consentisse sem-
pre con me; solo che dopo io provavo un po’ di disagio, e sentivo di non dire giusto... Ne
veniva fuori un non so che di strano. Chor si esprimeva a volte in modo complicato, certo
per prudenza... Eccovi un campioncino della nostra conversazione:
– Senti un po’, Chor – gli dicevo – perché non ti riscatti dal tuo padrone?
– E perché dovrei riscattarmi? Ora io conosco il mio padrone e conosco il mio canone... Il
nostro è un buon padrone.
– Ma è sempre meglio esser liberi – osservai. Chor mi guardò di traverso.
– Certamente – disse.
– E allora perché non ti riscatti?
Chor storse un po’ la testa:
– Con che cosa, bàtiuska, vuoi che mi riscatti?
– Be’, lasciamo stare, vecchio mio...
– Ecco Chor passato negli uomini liberi – continuò a mezza voce, come tra sé –, comunque
chi vive senza barba comanderà a Chor [i contadini russi usavano portare la barba, mentre
fin dai tempi di Pietro il Grande, che aveva costretto i nobili a tagliarsela, le persone delle
classi superiori si radevano regolarmente secondo l’uso occidentale].
– Che è la barba? La barba è come l’erba: si può falciare. E tagliati la barba anche tu. Eb-
bene, allora?
– Ma Chor potrebbe anche passare senz’altro ai mercanti; i mercanti fanno buona vita, e
anche loro portano la barba.
– Traffichi un poco anche tu, non è vero? – gli domandai.
– Traffichiamo qualche cosuccia in olio, in catrame... Comandi, bàtiuska, di attaccar la car-
retta?
“Tieni la lingua a posto e sei un volpone”, pensai.
– No – dissi ad alta voce – la carretta non mi serve; domani me n’andrò un po’ attorno alla
tua masseria e, se permetti, mi fermerò a passar la notte nel tuo fienile.
– Benvenuto. Ma ti ci troverai bene, nel fienile? Dirò alle donne di stenderci un lenzuolo e
di metterci un guanciale.
98 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

– Ehi, donne! – gridò, alzandosi da sedere – qua, donne!... E tu, Fedia, va col signore. Le don-
ne, si sa, sono una razza sciocca. [...].
Chor s’innalzava fino a guardar la vita da un punto di vista ironico. Egli aveva veduto molto,
sapeva molto, e io da lui ho imparato molte cose.
Per esempio, dai suoi racconti ho saputo che ogni estate prima della falciatura compare
nei villaggi una piccola carretta di aspetto speciale. Su questa carretta sta un uomo in caf-
fettano e vende falci. A contanti le fa un rublo e venticinque copeche, un rublo e mezzo di
carta; a credito tre rubli di carta e un rublo d’argento. Tutti i contadini, s’intende, prendono
a credito. Dopo due, tre settimane egli riappare e chiede i denari. Il contadino ha appena
falciato l’avena, perciò ha con che pagare: va col mercante all’osteria, e là regola il conto.
Alcuni proprietari pensarono di comprare essi stessi le falci in contanti e distribuirle a cre-
dito ai contadini per lo stesso prezzo; ma i contadini rimasero scontenti e si scoraggiarono
perfino; erano privati del piacere di far scattare le dita sulla falce, di ascoltarne il suo-
no, di rigirarsela tra le mani e di domandare una ventina di volte al furbo venditore: “Ma,
giovanotto, è poi davvero buona questa falce?”. Gli stessi maneggi avvengono anche alla
compera dei falcini, con la sola differenza che qui nella faccenda si mescolano le donne
e mettono a volte il venditore nella necessità di picchiarle un po’ per il loro proprio bene.
Ma ecco in quale occasione più di tutto le donne ci rimettono. I fornitori di materiale alle
cartiere incaricano dell’incetta di stracci una speciale categoria d’uomini che in certi di-
stretti son chiamati “aquile”. L’“aquila” riceve dal mercante un paio di centinaia di rubli-
carta e si dirige alla volta della preda. Ma, all’opposto del nobile uccello di cui ha preso il
nome, non si avventa apertamente e audacemente; al contrario: l’“aquila” ricorre all’astu-
zia e alla malizia. Lascia la sua carretta da qualche parte, fra i cespugli, fuori del villaggio, e
si avvia passando dietro le aie e le case come un passante qualunque, o come un semplice
bighellone. Le donne indovinano d’istinto il suo avvicinarsi e gli vanno incontro alla cheti-
chella. In fretta si fanno i patti. Per alcune monete di rame la donna consegna all’“aquila”
non solo ogni cencio inutile, ma spesso anche la camicia del marito e la propria gonna. Ne-
gli ultimi tempi le donne trovarono vantaggioso privare se stesse e far smercio in tal modo
della canapa, e specialmente della stoppa, con notevole incremento e perfezionamento
dell’industria dell’“aquila”! Ma i contadini, a loro volta, si sono scaltriti e al minimo sospetto,
al più lontano sentore d’una comparsa dell’“aquila”, procedono con rapidità ed energia ad
interventi correttivi e preventivi. E infatti, non c’era da adontarsi? Vender la canapa è cosa
loro, ed essi appunto la vendono, non in città – in città dovrebbero trascinarsi di persona –
ma ai mercati forestieri, i quali, per mancanza di stadera [bilancia], calcolano il pud [unità
di misura che equivale circa a 16 chili] a quaranta manate, e voi sapete cosa siano il pugno
e la palma di un russo, specialmente quando “ci si mette d’impegno”! [...].

La tirannia di un padrone assenteista e del suo intendente


A una quindicina di verste dal mio podere abita un mio conoscente, un giovane proprie-
tario, ufficiale della guardia a riposo, Arkadi Pavlic’ Piénockin. Nella sua tenuta c’è molta
selvaggina, la casa è costruita secondo i disegni d’un architetto francese, i domestici porta-
no divise di foggia inglese; egli dà pranzi eccellenti, riceve gli ospiti con molta gentilezza,
e tuttavia si va da lui malvolentieri. È un uomo assennato e serio, ha ricevuto, come d’uso,
un’ottima educazione, è stato in servizio, ha frequentato l’alta società, e ora si occupa con
molto buon esito della sua amministrazione. Arkadi Pavlic’, per dirla con le sue stesse pa-
role, è severo, ma giusto, ha cura del bene dei suoi sottoposti e li punisce per il loro stesso
Capitolo 3. Approfondimenti 99

bene. “Bisogna trattarli come bambini”, dice in simili casi, “ignoranza, mon cher; il faut pren-
dre cela en considération” [caro, bisogna tenerla presente]. [...].
Nonostante la mia avversione per Arkadi Pavlic’, mi capitò una volta di passar la notte da
lui. Il giorno dopo, di buon mattino, ordinai di attaccare la mia carrozza, ma egli non volle
lasciarmi partire senz’aver fatto colazione all’uso inglese, e mi condusse nel suo studio.
Insieme col tè ci servirono costolette, uova da bere, burro, miele, formaggio ecc. Due ca-
merieri, in candidi guanti bianchi, svelti e silenziosi prevenivano i nostri minimi desideri.
Eravamo seduti su un divano persiano. Arkadi Pavlic’ indossava ampi calzoni di seta, una
giacchetta di velluto nero, un bel fez dal fiocco turchino e babbucce cinesi gialle. Egli be-
veva il tè, rideva, si esaminava le unghie, fumava, si accomodava i cuscini sotto il fianco, e
in generale si sentiva d’umore eccellente. Dopo aver mangiato copiosamente e con visibile
piacere, Arkadi Pavlic’ si versò un bicchierino di vino rosso, lo portò alle labbra e d’un tratto
si accigliò:
– Perché il vino non è riscaldato? – domandò in tono abbastanza brusco a uno dei camerieri.
Il cameriere si turbò, rimase lì come inchiodato e impallidì.
– Lo domando a te, mio caro – proseguì calmo Arkadi Pavlic’ , senza levargli gli occhi di dosso.
Il disgraziato cameriere si fece piccino, rigirò il tovagliuolo e non disse nemmeno una paro-
la. Arkadi Pavlic’ chinò il capo e lo guardò pensieroso di sotto in su.
– Pardon, mon cher [scusa, caro] – proferì con un piacevole sorriso, toccandomi amichevol-
mente un ginocchio con la mano, e tornò a fissare lo sguardo sul cameriere.
– Be’, va pure – aggiunse dopo un breve silenzio, inarcò le sopracciglia e sonò.
Entrò un uomo grosso, bruno, dai capelli neri, con una fronte bassa e gli occhi totalmente
affogati nel grasso.
– Per Fiodor... provvedere – disse Arkadi Pavlic’ a mezza voce e con perfetta padronanza di sé.
– Obbedisco – rispose l’uomo grasso, e uscì.
– Voilà, mon cher, les désagrements de la campagne [caro, ecco gli inconvenienti della
campagna] – osservò in tono allegro Arkadi Pavlic’. [...].
Più tardi, uscendo dalla rimessa, vedemmo il seguente spettacolo. A pochi passi dall’uscio,
presso una fangosa pozzanghera, dove spensieratamente diguazzavano tre anatre, stava-
no ritti due contadini; uno era un vecchio di circa sessant’anni, l’altro un giovane sulla ven-
tina, tutt’è due in camicie casalinghe rattoppate, a piedi scalzi e cinti alla vita da cordicelle.
Lo scrivano Fedosieic’ si dava un gran da fare con loro e probabilmente sarebbe riuscito a
persuaderli ad allontanarsi, se noi ci fossimo attardati nella rimessa; ma, vedendoci, si mise
sull’attenti e restò immobile. Arkadi Pavlic’ aggrottò le sopracciglia, si morse le labbra e si
accostò ai postulanti. I due, in silenzio, gli s’inchinarono fino a terra.
– Che volete? Che cosa chiedete? – domandò egli con voce severa e un poco nasale. (I con-
tadini si scambiarono un’occhiata e non fiatarono, ma solo strinsero le palpebre, come per
effetto del sole, e il loro respiro si fece affrettato).
– Ebbene? – continuò Arkadi Pavlic’, e poi subito si volse a Sòfron: Di che famiglia sono?
– Della famiglia Toboliejev – rispose lentamente il burmìstr.
– Su, che cosa volete? – disse di nuovo il signor Piénockin – non avete la lingua forse? Dì,
tu, che cosa vuoi? – soggiunse facendo un cenno con la testa al vecchio – Non aver paura
sciocco.
100 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Il vecchio tese il suo collo bruno e raggrinzito, storse le labbra illividite, proferì con voce
rauca: “Difendici, signore!”, e tornò a toccar con la fronte per terra. Il giovane contadino
s’inchinò anche lui. Arkadi Pavlic’ con aria dignitosa guardò le loro nuche, gettò indietro il
capo e divaricò un poco le gambe.
– Che c’è? Di chi ti lagni?
– Abbi pietà, signore! Lasciaci respirare... Siamo proprio sfiniti. – (Il vecchio parlava a stento).
– E chi ti ha sfinito?
– Sofròn Jàkovlic’, bàtiuska.
– Arkadi Pavlic’ tacque un istante.
– Come ti chiami?
– Antìp, bàtiuska.
– E costui chi è?
– Mio figlio, bàtiuska.
Arkadi Pavlic’ tacque di nuovo e mosse i baffi.
– Di’ su, com’è che t’ha sfinito? – riprese, guardando il vecchio attraverso i baffi.
– Bàtiuska, ci ha rovinati del tutto. Ha fatto arruolare due miei figli, bàtiuska, fuori turno,
e adesso mi toglie anche il terzo. Ieri, bàtiuska, mi portò via l’ultima vacca dalla stalla e
picchiò la mia donna: ecco, lui, sua grazia.
– Uhm! – fece Arkadi Pavlic’.
– Non lasciarmi andare in rovina del tutto, benefattore nostro!
Il signor Piénockin si accigliò.
– Che cosa significa, comunque, questa faccenda? – domandò al burmìstr, a mezza voce e
con aria scontenta.
– È un ubriacone, signore – rispose questi, usando per la prima volta la parola “signore” –
non gli va di lavorare. Sono già cinque anni che non si libera degli arretrati.
– Sofròn Jàkovlic’ ha pagato gli arretrati per me, bàtiuska – continuò il vecchio –, ecco or-
mai il quinto anno che li ha pagati, e da quando li ha pagati mi tiene schiavo, bàtiuska, ed
ecco anche...
– E tu perché avevi lasciato degli arretrati? – domandò in tono minaccioso il signor Piéno-
ckin. (Il vecchio chinò il capo). – Ti piace ubriacarti, andar in giro per le bettole? – (Il vecchio
stava per aprir la bocca). – Vi conosco io – continuò con foga Arkadi Pavlic’ – non fate altro
che bere, e starvene distesi sulla stufa, e il bravo contadino deve rispondere per voi.
– Ed è anche un insolente – interloquì il burmìstr.
– Eh, già, questo s’intende da sé. È sempre così; l’ho notato più d’una volta. Tutto l’anno fa
stravizi, insolentisce, e ora ti si butta ai piedi.
– Bàtiuska, Arkadi Pavlic’ – proruppe con disperazione il vecchio – di grazia, difendici, io
insolente? Sono stremato, come davanti al Signore Iddio, lo dico. Mi ha preso a malvolere,
Sofròn Jàkovlic’; per che cosa mi abbia preso a malvolere il Signore gli è giudice! Ci rovina
del tutto, bàtiuska... L’ultimo figliuolo... anche quello – (Negli occhi gialli e rugosi del vec-
chio luccicò una lacrima). – Di grazia, signore, difendici...
– E non siamo noi soli – incominciò il giovane contadino.
Arkadi Pavlic’ di botto s’infiammò:
Capitolo 3. Approfondimenti 101

– Chi ti interroga, te? Non ti si interroga, dunque zitto... Ma che è questo? Zitto, ti si dice!
zitto!... Ah, Dio mio! Ma è una rivolta, questa! No, fratello; con me non ti consiglio di far
rivolte... con me... – (Arkadi Pavlic’ fece un passo avanti, ma, rammentandosi probabilmente
della mia presenza, si volse e mise le mani in tasca...).
– Je vous demande bien pardon, mon cher [vogliate veramente scusarmi, mio caro] – diss’e-
gli con un sorriso forzato, abbassando significativamente la voce – C’est le mauvais côté de
la médaille [è il rovescio della medaglia]... Be’, va bene, va bene – continuò, senza guardare
i contadini – darò ordine... va bene, andate – (I contadini non si alzavano) – Su, vi ho pur
detto, che... va bene. Andate dunque, darò ordine, vi sto dicendo.
Arkadi Pavlic’ volse loro le spalle.
– Sempre dispiaceri – disse fra i denti, e si avviò a gran passi verso casa. Sofròn lo seguì. [...].
Un paio d’ore dopo ero già a Riàbovo e, insieme con Anpadìst, un contadino di mia cono-
scenza, mi preparavo ad andare a caccia. Fin proprio alla mia partenza Piénockin aveva
tenuto il broncio a Sofròn. Io cominciai a parlare con Anpadìst dei contadini di Scipìlovka,
del signor Piénockin, e gli domandai se non conoscesse il burmìstr del luogo.
– Sofròn Jàkovlic’?... Come no?
– Che uomo è?
– Un cane, non un uomo: un cane simile non lo troverai di qui a Kursk.
– Ma perché?
– Gli è che Scipìlovka solo di nome appartiene a quel, come lo chiamano? sì, a Piénockin;
ebbene, non è lui il padrone: il padrone è Sofròn.
– Possibile?
– Padrone come di roba sua. I contadini son tutti indebitati con lui; lavorano per lui come
braccianti: lui li manda chi coi carri, chi di qua, chi di là... Li ha angariati ben bene. [...]. Ma lui
non si occupa di sola terra; traffica in cavalli, e in bestiame, e in catrame, e burro, e canapa,
e in questo e quello... È intelligente, molto intelligente, e ricco poi, il briccone! Ma ci ha il
difetto che picchia. È una belva, non un uomo; l’ho detto: un cane, un cagnaccio, assoluta-
mente un cagnaccio.
– Ma perché non reclamano contro di lui?
– Eh, sì! Al padrone che gliene importa? Arretrati non ce n’è, quindi che gli fa? Sì – aggiunse
dopo un breve silenzio – va a reclamare. Sai come ti... va, provati... No, no, ti riduce che...
– Io mi rammentai di Antìp e gli raccontai quello che avevo visto.
– Ebbene – disse Anpadìst – adesso lui lo sbranerà; se lo mangerà vivo. Che disgraziato, pen-
sa un po’, che poveraccio! E perché, poi, soffre... Litigò con lui a un raduno, sì, col burmìstr; si
vede che non ne poteva più... Gran fatto! Ecco che quello cominciò a beccarlo, Antìp. Ades-
so lo finirà. È un tal cane, sapete, un cagnaccio, che il Signore mi perdoni il mio peccato; sa a
chi dare addosso. I vecchi più ricchi, quelli che hanno più famiglia, non li tocca, quel diavolo
calvo, e qui invece è andato in bestia! I figli di Antìp li ha fatti arruolare, sapete, fuori turno,
quel furfante inesorabile, quel cane, che il Signore mi perdoni il mio peccato!
Andammo a caccia.
Ivan S. Turgenev, Memorie di un cacciatore, introduzione di E. Bazzarelli, traduzione di S. Pol-
ledro, Milano, Rizzoli, 2007, pp. 9-19, 134-137, 144-148.
Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea:
dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra
di Carlo De Maria
Roma (BraDypUS) 2018
ISBN 978-88-98392-70-4
pp. 103-112

Capitolo 4. L’Italia dall’egemonia


spagnola a quella austriaca
Profilo storico

4.1. Una terra di conquista

All’inizio del Settecento l’Italia aveva alle spalle oltre un secolo e mezzo di dominio spa-
gnolo. Alla corona di Spagna appartenevano il ducato di Milano e i regni di Napoli, Sicilia
e Sardegna, ma nella sua orbita si muovevano anche gli altri Stati della penisola, con rare
eccezioni. Questo scenario venne repentinamente sconvolto nel giro di pochi decenni da
tre conflitti dinastici di portata europea: le guerre di successione spagnola (1701-1713), po-
lacca (1733-1738) e austriaca (1741-1748). La penisola trovò una sistemazione sufficiente-
mente stabile con la pace di Aquisgrana del 1748, quando si definì la simultanea presenza
in Italia sia degli Asburgo d’Austria – che acquisirono il controllo diretto della Lombardia
e allargarono la loro egemonia anche su altre importanti regioni del Centro-Nord, come
il granducato di Toscana – sia di un ramo spagnolo dei Borbone, che si insediò, dopo una
breve parentesi austriaca, a Napoli e in Sicilia.
Nel passaggio da un secolo all’altro, la caratteristica costante dell’Italia rimaneva dunque
la frammentazione politica e territoriale. La penisola era un laboratorio dove si misuravano
le ambizioni di diverse dinastie europee; il campo di battaglia e la posta in gioco nella lotta
fra le più importanti case reali del Vecchio continente. In una prima fase, prevalsero gli Asbur-
go di Spagna, che furono sul trono di Madrid dal 1516 al 1700, e che in Italia fronteggiarono
con successo la costante rivalità di due dinastie francesi: i Valois e i Borbone, avvicendatesi
sul trono di Parigi nel 1589. Più tardi, con l’estinzione del ramo spagnolo degli Asburgo e la
conseguente Guerra di successione spagnola, l’Italia venne contesa tra gli Asburgo d’Austria
e i Borbone, che ora sedevano sia sul trono di Francia che su quello di Spagna.
Tutto ciò faceva sì che l’attenzione dei vari Stati della penisola fosse quasi sempre con-
centrata su questioni extra-italiane e che i disegni diplomatici dei loro governanti superas-
sero regolarmente le frontiere naturali dell’Italia: si può dire anzi che esse non interessas-
sero. Questo discorso valeva anche per le realtà territoriali che non erano direttamente
assoggettate al dominio straniero. Gli esempi sono molteplici, a cominciare dallo Stato
pontificio, che era collocato nell’Italia centrale, ma aveva interessi ecclesiastici planetari.
Si pensi, poi, alla repubblica di Venezia che, oltre al Veneto, controllava parte della costa
104 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

dei Balcani e le isole greche dello Ionio. E ancora al ducato di Savoia, che si estendeva a ca-
vallo dell’arco alpino tra l’Italia e la Francia e aveva avuto la sua prima capitale, Chambéry,
in territorio francofono. Si consideri, infine, che uno degli esponenti più celebri di quella
dinastia, il principe Eugenio di Savoia, comandò tra Sei e Settecento le truppe degli Asburgo
d’Austria nelle più importanti guerre europee: prima contro i turchi nella vittoria di Zenta
del 1697, poi contro i francesi nella Guerra di successione spagnola.
Sotto alcuni aspetti la situazione italiana appariva ancora meno favorevole alle aspira-
zioni di unità nazionale di quanto non fosse quella tedesca. Se è vero infatti che la Germa-
nia era ben più frammentata e divisa (in oltre trecento Stati) rispetto alla penisola italiana,
tuttavia nel caso tedesco il Sacro Romano Impero forniva almeno una qualche apparenza
di unità politica. L’Italia del Settecento, invece, era una espressione geografica senza il mi-
nimo significato politico.
Alcune deboli prove dell’esistenza di un ideale unitario si erano avute nel Cinquecento,
quando Machiavelli aveva denunciato il papato come l’ostacolo principale all’unificazione
politica, e aveva esortato qualche principe ad agire per promuoverla. Le classi colte, inol-
tre, erano consapevoli di una comune tradizione letteraria e della loro identità italiana, ma
non c’era – e questo era un fatto di importanza decisiva – una sola società culturale o un
solo giornale che fossero diffusi da Nord a Sud.
Oltre alla frammentazione, un’altra piaga che segnava l’Italia era l’arretratezza eco-
nomica. Dal XII al XV secolo gran parte della penisola era stata relativamente prospera e
popolosa, con una economia tra le più avanzate d’Europa. C’erano state un gran numero
di città fiorenti e una vigorosa vita comunale. Tuttavia a partire dal Cinquecento gli Stati
italiani non erano più riusciti a competere con le grandi monarchie nazionali dell’Europa
occidentale (dalla Spagna all’Inghilterra), che si stavano consolidando anche grazie alle
ricchezze coloniali e ai commerci transoceanici. Nel Seicento, lo sfruttamento sempre più
intenso delle nuove rotte marittime da parte dei paesi che si affacciavano sull’Oceano At-
lantico aveva fatto sì che le manifatture e i commerci italiani fossero definitivamente spiaz-
zati dai traffici mercantili di Francia, Inghilterra e Olanda. Le trasformazioni del commercio
internazionale penalizzarono pesantemente i porti di Genova e di Venezia. Il baricentro
degli scambi non era più il Mediterraneo.
Ma c’era di più: con l’affermazione del mercantilismo di Stato, l’espansione economica
e la potenza militare andavano ormai di pari passo, tagliando fuori da ogni possibilità di
sviluppo piccole realtà politico-territoriali come quella genovese e veneziana. Basti dire
che nel 1684 la città di Genova fu addirittura bombardata dalla flotta da guerra francese,
per ordine di Luigi XIV, che era interessato a sostenere il porto di Marsiglia nella competi-
zione commerciale per il controllo dei traffici nel Mediterraneo occidentale. E nel secolo
successivo la Francia avrebbe acquisito anche il controllo della Corsica, a lungo nelle mani
dei genovesi.
Parlando di arretratezza non si può poi dimenticare il fatto che, dalla prima metà del
Cinquecento all’inizio del Settecento, la dominazione spagnola su gran parte della peni-
sola subordinò l’Italia a un impero che incarnava, dal punto di vista economico, il mero
sfruttamento delle ricchezze coloniali e l’assenza di ogni iniziativa d’impresa, e dal punto
di vista culturale e religioso, lo spirito più intransigente della Controriforma. Dove c’era
vivacità di pensiero e d’azione, qualità diffuse nell’Italia del Rinascimento, si imposero uni-
formità e silenzio. La cultura italiana perse la posizione di predominio tenuta per circa due
secoli in Europa e cessò di essere un fattore trainante della storia del Vecchio continente.
Come unica alternativa alla preponderanza spagnola rimase, in quel periodo, solamente
un certo attivismo diplomatico della Francia. Questo significava la possibilità per gli Stati
Capitolo 4. L’Italia dall’egemonia spagnola a quella austriaca 105

italiani non direttamente sottoposti al governo di Madrid di oscillare fra l’una e l’altra poten-
za. Una mediocrità esemplificata dal detto popolare “o Franza o Spagna, purché se magna”,
che venne coniato proprio nel Cinquecento.
All’inizio del Settecento l’Italia era ancora relativamente popolosa e urbanizzata. Ma
tutt’altro che prospera.

4.2. La dinastia dei Savoia e il Regno di Sardegna

Il ducato di Savoia era sempre riuscito a conservare la propria indipendenza grazie alla
rivalità e all’equilibrio di forze che esisteva fra le monarchie di Francia e di Spagna che lo
serravano ai fianchi. Si consideri, infatti, che il piccolo Stato sabaudo confinava a ovest con
il territorio francese e a est con il ducato di Milano, a lungo in mano agli spagnoli.
Per la verità, nella seconda metà del Seicento, le pressioni della Francia si erano fatte
spesso asfissianti, tanto da configurare un vero e proprio rapporto di vassallaggio, che non
poteva che indispettire i Savoia. L’esempio più eclatante lo fornì l’attacco militare alla co-
munità protestante valdese, da tempo insediata nelle valli del Piemonte. Nel 1686, Luigi
XIV – che aveva appena abolito in Francia l’editto di Nantes, revocando la libertà religiosa
ai protestanti – spinse anche i Savoia a seguirlo sulla strada della repressione nei confronti
della libertà di culto. Sotto l’urto delle truppe franco-piemontesi, e dopo una resistenza
eroica, i valdesi furono imprigionati e deportati. Tuttavia, pochi anni dopo, muovendo dal
Cantone di Vaud in Svizzera e compiendo una lunga marcia attraverso le valli savoiarde,
riuscirono a rientrare in Piemonte e a raggiungere un accordo con il governo di Torino.
L’attivismo di Luigi XIV in territorio italiano aveva come scopo ultimo quello di sosti-
tuirsi alla Spagna nel controllo della penisola. Una ghiotta occasione venne offerta al Re
Sole dai contrasti politico-diplomatici apertisi nel 1700 intorno alla successione spagnola.
Morto senza figli Carlo II, ultimo esponente degli Asburgo di Spagna, si scatenarono verso
il trono di Madrid le ambizioni tanto dei Borbone di Francia quanto degli Asburgo d’Austria.
Si impugnarono le armi e il lungo conflitto che ne scaturì (passato alla storia con il nome di
Guerra di successione spagnola) interessò pesantemente anche l’Italia.
Sul ducato di Savoia incombeva la minaccia di una stabile alleanza franco-spagnola che,
sotto il comando dei Borbone, potesse stringere in una tenaglia il Piemonte. Questa prospet-
tiva avrebbe ribaltato il precedente equilibrio di potere nell’Italia settentrionale mettendo a
serio repentaglio l’indipendenza dello Stato sabaudo. Per questo il duca di Savoia, Vittorio
Amedeo II, decise di appoggiare gli Asburgo d’Austria. Ottenne in cambio la promessa di im-
portanti acquisizioni territoriali in quella parte del Piemonte che ancora non apparteneva al
piccolo ducato: il Monferrato, le Langhe, la Valsesia, fino alla Lomellina in Lombardia.
Inizialmente l’avanzata dei francesi fu fulminea e portò all’occupazione di quasi tutte le
terre di Vittorio Amedeo II: la Savoia, Susa, Ivrea e Vercelli (1704), arrivando a cingere d’as-
sedio Torino nel maggio 1706. In quattro mesi la città fu ridotta allo stremo, ma l’esercito
piemontese riuscì a resistere finché sopravvenne in soccorso il principe Eugenio di Savoia,
comandante in capo delle forze asburgiche, che in settembre mise in rotta le truppe nemi-
che impegnate nell’assedio. Liberato il Piemonte, gli austriaci occuparono i ducati di Mila-
no e Mantova. Puntarono poi verso sud e conquistarono velocemente Napoli e la Sicilia.
106 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

La pace di Utrecht del 1713 sancì il passaggio all’Austria di tutti i domini spagnoli in
Italia, mentre a livello europeo Filippo V di Borbone, nipote di Luigi XIV, otteneva il trono di
Spagna. Rimanendo alla situazione italiana, alcuni accordi separati riconobbero allo Stato
sabaudo, oltre alle terre piemontesi già ricordate, anche il regno di Sicilia. Vittorio Amedeo II
acquisiva, così, il titolo regio. Nel complesso, i risultati della Guerra di successione spagnola
furono per l’Italia assai notevoli. Al dominio spagnolo si sostituì (benché con aggiustamenti
successivi) quello austriaco, che si farà preferire dal punto di vista amministrativo. Lo Stato
sabaudo, inoltre, venne elevato con il titolo di regno a prima potenza d’Italia dopo l’Austria.
Il passaggio dall’egemonia spagnola a quella austriaca fu una svolta di tale portata da
disorientare le aristocrazie della penisola. La Spagna provò ad approfittare subito della
situazione di incertezza, attaccando nel 1717-18 i due regni di Sardegna e Sicilia, che riuscì
a occupare facilmente. Tuttavia le pressioni congiunte di Inghilterra, Olanda e Austria (già
alleate contro i Borbone nella Guerra di successione spagnola) ottennero il ritiro delle trup-
pe spagnole. Si ritornò alla situazione precedente, se si eccettua uno scambio territoriale
che intercorse tra gli Asburgo e i Savoia: i primi presero la Sicilia in cambio della Sardegna,
più vicina al Piemonte e dunque più controllabile dal governo di Torino. Nel 1720, dunque,
si formava quel Regno di Sardegna, guidato dai Savoia, che sarà protagonista nel secolo
successivo del processo di unificazione italiana.
Come stiamo per vedere in dettaglio, lo Stato sabaudo continuò ad allargare i suoi con-
fini anche nelle successive guerre dinastiche europee: la Guerra di successione polacca e
quella austriaca. I Savoia conquistarono dapprima Novara e Tortona (1738) e poi Vigevano
e l’Oltrepò pavese (1748). Venne confermato il dominio austriaco sulla Lombardia, mentre
i regni di Napoli e Sicilia passarono, nel 1734, sotto il controllo di Carlo III di Borbone, figlio
del sovrano spagnolo Filippo V.

4.3. Tra gli Asburgo e i Borbone

Nel 1730 il re di Sardegna Vittorio Amedeo II, stanco della vita politica e delle responsa-
bilità di governo, passò le redini al figlio Carlo Emanuele III. Costui ben presto dovette af-
frontare le pesanti ripercussioni che la Guerra di successione polacca, scoppiata nel 1733,
ebbe anche in Italia.
Lo Stato sabaudo stava gestendo alcune delicate vertenze con l’Austria, relative ad
esempio al diritto di fortificare le città di Alessandria e Valenza, recentemente acquisite.
Queste tensioni favorirono un riavvicinamento dei Savoia con i Borbone. Il miglioramento
dei rapporti diplomatici con Francia e Spagna si rivelò proficuo, dal momento che Madrid
non aveva mai rinunciato del tutto ai vecchi possedimenti in Italia e per contenderli all’Au-
stria era pronta a riconoscere ai Savoia, in cambio del loro appoggio, Milano e la Lom-
bardia, da tempo nelle mire dei sovrani piemontesi, che avrebbero così potuto dominare
sull’Italia del Nord.
I contrasti che si accesero per la successione polacca tra la Francia, da una parte, e
l’Austria e la Russia, dall’altra, portarono anche i francesi a firmare nel 1733, a Torino, un
trattato di alleanza con i Savoia, naturalmente in funzione antiaustriaca. A Vienna, però, si
continuava a sottovalutare il pericolo rappresentato da questa nuova coalizione, poiché si
Capitolo 4. L’Italia dall’egemonia spagnola a quella austriaca 107

giudicava impossibile che piemontesi, francesi e spagnoli – i quali in fondo si contendevano


lo stesso bottino, cioè l’Italia austriaca – potessero battersi a lungo gli uni accanto agli altri.
In tali condizioni si ebbe il primo colpo di scena. Una armata francese di circa 40 mila
uomini entrò in Piemonte, e congiuntasi con i 20 mila soldati di Carlo Emanuele III, invase
senza tante difficoltà la Lombardia. Il governatore austriaco, del resto, aveva a disposizio-
ne appena 12 mila uomini, che concentrò per la maggior parte nella fortezza di Mantova,
giudicata quasi inespugnabile. Così facendo però lasciò via libera ai franco-piemontesi, che
assediarono le piccole guarnigioni austriache di Vigevano, Novara, Tortona, Pavia e l’11
dicembre 1733 entrarono trionfalmente a Milano.
Secondo piani prestabiliti, gli spagnoli – che non avevano partecipato alla guerra nell’I-
talia del Nord – si prepararono ad attaccare l’altro grande dominio austriaco nella peni-
sola, rappresentato dai regni di Napoli e Sicilia. Questa operazione militare cominciò nei
primi mesi del 1734 e si concluse vittoriosamente nel giro di pochi mesi, anche qui a causa
delle esigue forze austriache poste a difesa del territorio. Nessuno avrebbe ritenuto possi-
bile una sconfitta così clamorosa da parte dell’Austria. Alla fine dell’anno tutto il Napoleta-
no e la Sicilia erano nelle mani di Carlo III di Borbone.
Il dominio sull’Italia del Sud gli venne ufficialmente riconosciuto dal trattato di Vienna
del 1738, che poneva fine alla Guerra di successione polacca. Forte dei successi ottenuti ne-
gli altri teatri di guerra e del suo forte peso diplomatico, l’Austria conservava – nonostante
le sconfitte subite in Italia – la Lombardia e la Toscana (la prima governata direttamente
da Vienna, la seconda retta da un governo separato), mentre Carlo Emanuele III di Savoia,
dopo aver regnato per alcuni anni su Milano, precisamente dal 1734 al 1737, dovette ac-
contentarsi di più modeste benché significative acquisizioni: Novara e Tortona.
Il trattato di Vienna ribadì il riconoscimento della Prammatica sanzione, cioè dell’atto
di successione dinastica con cui l’imperatore austriaco Carlo VI aveva attribuito l’eredità
dei territori asburgici alla sua discendenza diretta anche femminile, e dunque alla figlia
Maria Teresa. Ma quando egli morì, nell’ottobre 1740, si levarono una serie di pretendenti,
tra cui il principe di Baviera, Carlo Alberto, e il re di Prussia, Federico II, entrambi inte-
ressati a contendere agli Asburgo d’Austria l’egemonia sul Sacro Romano Impero. Proprio
l’esercito prussiano iniziò per primo le ostilità, nel dicembre 1740, occupando la Slesia, una
regione posta sotto il dominio austriaco. Alla coalizione formata da Baviera e Prussia si
aggiunsero sia la Spagna, che puntava ancora una volta alla riconquista della Lombardia,
sia la Francia. Solo l’Inghilterra appoggiò Maria Teresa, confermando la più che secolare
rivalità con i Borbone.
In Italia, Carlo Emanuele III di Savoia dapprima aderì alla coalizione contro Maria Tere-
sa; ma poi visto che la Spagna si preparava ad invadere la Lombardia, preferì allearsi con
gli Asburgo (febbraio 1742) per scongiurare la minaccia di essere chiuso in una tenaglia
di terre borboniche. Si delineò, dunque, una prova di forza fra austro-piemontesi e franco-
spagnoli, che si trascinò con alterne vicende per alcuni anni.
Dapprima le truppe francesi riuscirono a occupare parte del Piemonte (Tortona, Asti
e Casale), mentre gli spagnoli facevano addirittura il loro ingresso trionfale a Milano. Gli
austro-piemontesi replicarono riuscendo a liberare il Piemonte e impadronendosi nel set-
tembre 1746, con l’aiuto della flotta inglese, di Genova, che si era schierata dalla parte dei
Borbone e che era da sempre ostile alle aspirazioni sabaude di dominio sulla costa ligure.
Per quattro mesi la città dovette sopportare ogni sorta di umiliazioni e prepotenze da par-
te degli occupanti, ma alla fine una delle tante provocazioni dei soldati austriaci accese
una sollevazione popolare e dopo cinque giorni di lotta gli invasori vennero cacciati (5-10
108 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

dicembre 1746). Genova mostrò una capacità di risposta alle difficoltà non indifferente,
confermando un forte attaccamento alle tradizioni di libertà e autodeterminazione.
Le sconfitte subite dai francesi in Piemonte e l’uscita dal conflitto sia della Baviera che
della Prussia, infine l’intervento della Russia a favore dell’Austria, portarono alla pace di
Aquisgrana (1748).
La Prammatica sanzione venne riconfermata e Maria Teresa si vide riconosciuto il trono
di Vienna. Per quanto riguarda l’Italia, Carlo Emanuele III ottenne Vigevano e Voghera con-
solidando le sue posizioni al confine con la Lombardia. Gli spagnoli rinunciarono a Milano,
ma ottennero il ducato di Parma e Piacenza, dove si insediò Filippo I di Borbone, figlio del
sovrano di Spagna e fratello del re di Napoli e Sicilia.

4.4. L’Italia dal 1748 al 1796

Frammentazione politica ed egemonia straniera continuavano a caratterizzare l’Italia an-


che dopo Aquisgrana. Tuttavia confrontando la carta d’Italia del 1748 con quella di cin-
quant’anni prima si potevano intravedere alcuni cambiamenti non privi di significato.
La dominazione straniera diretta si era ridotta solamente alla Lombardia, che era nelle
mani dell’Austria. A Sud, invece, dopo oltre due secoli di controllo diretto della Spagna e
una breve parentesi austriaca, i regni di Napoli e Sicilia erano formalmente indipendenti da
Madrid, anche se governati da un ramo spagnolo della dinastia Borbone, che comunque si
italianizzò – o meglio napoletanizzò – molto rapidamente.
Si notava, inoltre, un processo di assorbimento di feudi e piccoli principati da parte dei
maggiori Stati italiani: il Monferrato e le Langhe passarono ai Savoia; Mantova venne riuni-
ta a Milano nella Lombardia austriaca; il marchesato di Finale passò a Genova; Mirandola e
Concordia al ducato di Modena, a cui prestò si sarebbe accorpato anche il ducato di Massa
e Carrara; il granducato di Toscana assorbì le contee di Pitigliano e Santa Fiora; lo Stato
pontificio incamerò Ferrara, Urbino e Castro.
Naturalmente questa concentrazione territoriale non significò necessariamente un au-
mento di prosperità per i territori assorbiti; in taluni casi (Mantova, Ferrara e Urbino) può
dirsi piuttosto il contrario. Anche per gli altri cambiamenti territoriali, alle considerazioni di
carattere positivo altre se ne potevano contrapporre di segno contrario.
Lo Stato sabaudo aveva perduto, in cambio di arrotondamenti locali e acquisti eccentri-
ci (prima la Sicilia, poi la Sardegna), il suo maggior obiettivo politico: la Lombardia. Questa
era passata sotto un dominio straniero, migliore, ma altresì più solido di quello della Spa-
gna. L’Austria, inoltre, aveva riaffermato il suo alto potere sulla Toscana (dove regnavano,
sia pure con un governo separato da Vienna, gli stessi Asburgo), e più in generale la sua
capacità di determinare gli equilibri politici italiani.
La repubblica di Venezia era priva ormai nelle faccende italiane di ogni influenza, di
ogni voglia e capacità di contrastare o equilibrare il potere straniero. La spinta politica ed
economica della città lagunare era terminata. Le sue élite investivano sempre meno nel
settore mercantile (dove cominciava a farsi sentire anche la concorrenza del porto asbur-
gico di Trieste) e spendevano i loro soldi nell’acquisto di proprietà fondiarie e nella costru-
zione di palazzi di rappresentanza. Nel corso del XVIII secolo Venezia divenne una delle
più raffinate città europee, proprio grazie all’edilizia di pregio finanziata dai capitali privati
Capitolo 4. L’Italia dall’egemonia spagnola a quella austriaca 109

precedentemente accumulati con il commercio. In città cominciarono ad affluire visitatori


stranieri, soprattutto ricchi inglesi, che spesso finivano per stabilirvisi (a metà Settecento,
su 140 mila abitanti, 30 mila erano stranieri). Era questa una vera e propria peculiarità a li-
vello europeo, che contribuì a fare di Venezia un importante centro culturale ed editoriale,
attento alle novità e al dibattito internazionale. L’antica repubblica, insomma, cessò di con-
tare come potenza, ma ebbe le risorse per riconvertirsi a polo di attrazione della cultura e
della mondanità, costruendosi in questo una fama duratura.
Anche lo Stato pontificio pesava ormai molto poco dal punto di vista politico. Nessu-
na riforma fu compiuta, a fronte di una amministrazione pubblica che era probabilmente
la peggiore d’Europa e di una economia misera e stagnante in tutti settori: agricoltura,
manifattura e commercio. Infine, nei regni di Napoli e Sicilia, come nel ducato di Parma e
Piacenza, le nuove dinastie borboniche erano portate dallo strettissimo vincolo parentale a
stringersi alla Spagna e a seguirne le direttive, soprattutto sulle questioni di politica estera.
Ma, al di là di queste considerazioni particolari, il fatto capitale era che le trasformazio-
ni avvenute nell’assetto italiano, dall’inizio del secolo fino al 1748, non erano state se non
in minima parte opera di forze indigene: ancora una volta, cioè, le sorti della penisola erano
state decise dalle potenze straniere, che ne avevano fatto il proprio campo di battaglia.
Dopo Aquisgrana e per quasi cinquant’anni, fino all’invasione francese del 1796, l’Italia
visse il più lungo periodo di pace e stabilità che si ricordasse negli ultimi due o tre se-
coli. Finalmente ci fu la possibilità per un rinnovamento della struttura amministrativa e
produttiva di alcuni suoi importanti territori. Questo impegno riformatore consentì di av-
viare un processo di modernizzazione che portò al superamento della precedente fase di
stagnazione. In nessuno degli Stati della penisola, tuttavia, vennero introdotte istituzioni
rappresentative che permettessero una qualche partecipazione e un effettivo controllo del
potere da parte della cittadinanza.

4.5. La stagione delle riforme

Procedendo da nord a sud, i centri che mostrarono una più spiccata predisposizione alle
riforme furono Milano, Firenze e Napoli.
La Lombardia cominciò a essere interessata da un forte rinnovamento istituzionale du-
rante il regno di Maria Teresa d’Austria, che sedette sul trono di Vienna dal 1740 al 1780.
Venne riorganizzata l’amministrazione pubblica, razionalizzato il sistema dei dazi, miglio-
rata la procedura giudiziaria, incoraggiata l’agricoltura e la produzione manifatturiera.
L’Inquisizione fu abolita e soppressa la censura ecclesiastica. Vennero fondate istituzioni
di beneficenza, aperte scuole, teatri e biblioteche; oggetto di particolari cure fu l’università
di Pavia. Nel 1760 entrò in vigore il catasto, cioè il censimento delle proprietà fondiarie a
fini fiscali, uno strumento attraverso il quale vennero fortemente ridotti i privilegi fiscali
dell’aristocrazia e della Chiesa.
Giuseppe II – che guidò la monarchia austriaca, e quindi anche la Lombardia, dal 1780
al 1790 – fu più drastico di sua madre, soprattutto nel colpire l’organizzazione ecclesiasti-
ca. Soppresse i monasteri degli ordini contemplativi, rese il matrimonio civile e dissolubile,
riformò il sistema scolastico ponendolo sotto il controllo statale, proibì le processioni e i
pellegrinaggi, concesse tolleranza religiosa ai protestanti.
110 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Suo fratello, Pietro Leopoldo, perseguì un programma simile in Toscana (dove regnò
dal 1765 al 1790), anche se con maggior tatto e sensibilità nei confronti delle tradizioni
popolari e religiose. Il granduca di Toscana riuscì, tuttavia, a essere più incisivo nell’am-
ministrazione della giustizia, promulgando nel 1786 un codice penale assai progredito, un
vero e proprio capolavoro legislativo, grazie al quale la Toscana fu il primo Stato al mondo
ad abolire la pena di morte, oltre al delitto di lesa maestà, alla tortura e alla confisca dei
beni del condannato.
I due rami spagnoli del casato dei Borbone regnanti a Parma e a Napoli batterono
anch’essi la via delle riforme, ma con risultati più incerti e meno duraturi. Nel ducato di
Parma e Piacenza, Filippo I di Borbone (che regnò dal 1748 al 1765) si giovò dell’opera di
un valente ministro, il francese Guglielmo Du Tillot, dando grande impulso alla cultura,
tanto che Parma meritò di essere chiamata “l’Atene d’Italia”. Alla morte di Filippo salì sul
trono suo figlio Ferdinando I, ancora minorenne. Il Du Tillot, pertanto, poté proseguire la
sua opera ancora per qualche anno, ma venne presto (1771) messo da parte dallo stesso
Ferdinando, che si rivelò così reazionario e bigotto fino al punto da reintrodurre a Parma
nel 1786 l’Inquisizione.
Il Regno di Napoli cominciò a risollevarsi dopo secoli di stagnazione grazie a Carlo III di
Borbone, che salì sul trono nel 1734. Coadiuvato da un abile ministro, il toscano Bernardo
Tanucci, cercò di riordinare l’amministrazione, di codificare le leggi, di abolire molti privilegi
della nobiltà e del clero. Speciali cure dedicò alla città di Napoli, ove innalzò il teatro San
Carlo e il palazzo di Capo di Monte; fece iniziare gli scavi di Pompei ed Ercolano; incominciò
la costruzione del palazzo reale di Caserta. Fu nel 1754 che, sempre per volontà di Carlo III,
venne istituita a Napoli la prima cattedra europea di economia politica, affidata ad Antonio
Genovesi (1713-1769), sostenitore della libera circolazione delle merci e famoso anche per
essere stato il primo docente universitario a fare lezione in italiano, anziché in latino.
Nel 1759 Carlo III passò sul trono di Spagna, cedendo le redini del regno di Napoli al
figlio Ferdinando IV, che minorenne venne affiancato da un consiglio di reggenza nel quale
fu ancora protagonista il Tanucci. Le riforme civili ed ecclesiastiche poterono così conti-
nuare per un altro ventennio, fino a quando la scarsa tempra di Ferdinando portò a una
interruzione del processo riformatore.
Formalmente distinti, i regni di Napoli e Sicilia erano tuttavia riuniti sotto la medesima
corona, quella di Carlo III e dei suoi successori. Il centro del potere regio era Napoli, mentre
il governo della Sicilia veniva affidato a dei viceré, spesso condizionati dalla nobiltà dell’i-
sola che ne frenava ogni tentativo di rinnovamento.
Benché la storia dell’Italia contemporanea ci abbia abituato alla divisione tra un Nord
ricco, industrializzato e progressista e un Sud povero, rurale e conservatore, in realtà an-
cora fino a buona parte dell’Ottocento Napoli e la Sicilia erano famose ovunque per l’ab-
bondanza delle loro ricchezze naturali. Quello formato dai due regni di Napoli e Sicilia era
lo Stato più grande d’Italia. Il livello di vita era mediamente più alto che nel Nord, anche
grazie al clima più mite e all’agricoltura più ricca. C’erano tuttavia fattori di arretratezza
che si sarebbero acuiti con il passare del tempo e che erano riconducibili al fatto che il Sud
non aveva partecipato allo sviluppo produttivo e commerciale che era stato caratteristico
della civiltà comunale del Centro-Nord.
Napoli, che era la più grande città della penisola nel XVIII secolo, non fu mai un fiorente
centro economico. La città campana non aveva neppure un palazzo municipale, mentre
a corte i grandi proprietari terrieri spendevano il loro denaro in modo improduttivo, privi-
legiando il rapporto con artisti e intellettuali, a quello con gli uomini d’affari. Mancavano
insomma le basi culturali e materiali per uno sviluppo produttivo autonomo.
Capitolo 4. L’Italia dall’egemonia spagnola a quella austriaca 111

La stagione delle riforme ebbe esiti molto deboli anche nello Stato sabaudo. Se, infatti,
Carlo Emanuele III fece parecchio per la Sardegna – cercando di risollevarne le condizioni
economiche e fondando le università di Cagliari e Sassari tra il 1764 e il 1769 –, in Piemonte
si realizzarono riforme modeste e soprattutto, contrariamente a quanto avvenne a Milano,
Firenze e Napoli, senza toccare i privilegi della Chiesa. Il figlio di Carlo Emanuele, Vittorio
Amedeo III (1773-1796), si occupò esclusivamente dell’esercito, organizzandolo e arman-
dolo sul modello prussiano; e con la Prussia iniziò regolari relazioni diplomatiche.
Gli ultimi provvedimenti presi nel settore della cultura e dell’istruzione restarono quelli
introdotti nella prima metà del secolo da Vittorio Amedeo II, che aveva dato, tra le altre
cose, una nuova sede all’università di Torino.
Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea:
dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra
di Carlo De Maria
Roma (BraDypUS) 2018
ISBN 978-88-98392-70-4
pp. 113-122

Capitolo 4. L’Italia dall’egemonia


spagnola a quella austriaca
Approfondimenti

Profili
Pietro Leopoldo di Lorena

Pietro Leopoldo fu indubbiamente il più grande dei principi riformatori italiani. Figlio di
Francesco di Lorena, imperatore del Sacro Romano Impero, e di Maria Teresa, regina d’Au-
stria, salì sul trono del granducato di Toscana nel 1765, con il nome di Leopoldo I. Grazie
alla collaborazione di ottimi ministri, riorganizzò l’amministrazione pubblica e riformò il
sistema tributario, introducendo l’uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alle imposte (ven-
nero, dunque, eliminati i privilegi fiscali di nobili e clero). Rese più trasparenti le spese dello
Stato, dando pubblico conto dei bilanci, e pur senza imporre nuove tasse riuscì a migliorare
le condizioni dell’erario, così da poter sostenere ingenti spese per la bonifica della Val di
Chiana e della Maremma. L’agricoltura, che rappresentava il nerbo della vita economica,
ebbe un magnifico sviluppo con lo spezzamento del latifondo, l’incremento della piccola
proprietà e l’abolizione delle servitù feudali. La soppressione delle dogane interne favorì
poi lo sviluppo del commercio dei prodotti agricoli.
Pietro Leopoldo fu il primo principe d’Europa ad abbandonare la tradizione politica
mercantilistica e protezionistica e a favorire il libero scambio delle merci. Sempre nell’ot-
tica di ridurre il più possibile i vincoli alla libera iniziativa individuale abolì, nel 1770, le
corporazioni di arti e mestieri.
Molto ardite furono, inoltre, le sue riforme nell’amministrazione della giustizia: abolì,
primo fra i principi europei, la pena di morte, la tortura e rese spedita e uguale per tutti
la procedura giudiziaria. Promosse la cultura, riformando le università di Pisa e di Siena,
fondando scuole, accademie e musei. Fu soppressa l’Inquisizione, vennero espulsi i gesuiti
e si avviò una ambiziosa (e incompiuta) riflessione sulla riforma dell’organizzazione eccle-
siastica, nel senso di dare più voce ai fedeli e diminuire il potere delle gerarchie.
Nel 1790, Pietro Leopoldo salì sul trono del Sacro Romano Impero e gli succedette in To-
scana il figlio Ferdinando III, che continuò degnamente l’opera del padre.
114 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Luoghi simbolo
La Milano asburgica e la Torino sabauda

Sia per la storia di Milano che per quella di Torino il Settecento ebbe una importanza de-
cisiva. La città lombarda, grazie alla buona amministrazione austriaca, pose le basi di uno
sviluppo economico e sociale che nei secoli successivi si farà sempre più rilevante. La città
piemontese passò dalla condizione di capitale di un piccolo ducato a quella di centro ne-
vralgico di un regno che diventerà protagonista di primo piano nella storia d’Italia.
Il ducato di Milano entrò tra i possedimenti degli Asburgo d’Austria nel 1713, al termine
della Guerra di successione spagnola. I sovrani di Vienna regnarono sulla Lombardia per
quasi un secolo, fino alla conquista francese, compiuta da Napoleone Bonaparte nel 1796.
Il periodo austriaco fu caratterizzato da rilevanti riforme amministrative, sociali ed econo-
miche: dall’introduzione del catasto alla soppressione della censura ecclesiastica, fino al
rilancio delle attività manifatturiere e, in particolare, dell’industria della seta. Tali misure
sono unanimemente riconosciute come uno dei presupposti che nei secoli successivi per-
misero a Milano e alla Lombardia di divenire il principale “motore” economico dell’Italia.
La città di Torino era capitale del ducato di Savoia dal 1559 (pace di Cateau Cambrésis),
quando aveva preso il posto della francese Chambéry. Il centro urbano venne allora dotato
di mura moderne e di una cittadella pentagonale; fortificazioni che più tardi permisero a
Torino di sopportare un lungo assedio portato dalle truppe franco-spagnole (1706). In quel
drammatico frangente i Savoia poterono salvare la loro capitale anche grazie al generoso
sacrificio di Pietro Micca, un soldato semplice dell’esercito piemontese passato alla storia
per aver perso eroicamente la vita bloccando da solo una incursione a sorpresa delle forze
nemiche (fece saltare una riserva di polvere da sparo, pur consapevole che l’esplosione
difficilmente gli avrebbe lasciato scampo).
Nel 1713, i duchi di Savoia ottennero il titolo di re, prima di Sicilia e poi (dal 1720) di
Sardegna. Torino divenne la capitale del regno e negli anni successivi fu adeguatamente
valorizzata. Vittorio Amedeo II favorì gli studi, dando degna sede all’università e creando
il collegio delle Province (oggi collegio Carlo Alberto). Abbellì, inoltre, la capitale, consoli-
dandone la posizione di avanguardia nell’urbanistica del tempo.

Focus
L’introduzione del catasto nella Lombardia austriaca

Il catasto fu il risultato più importante della politica asburgica in materia tributaria. Si trattava
di un censimento sistematico delle proprietà fondiarie realizzato da funzionari pubblici (per
evitare il rischio di dichiarazioni mendaci o parziali da parte dei singoli proprietari), in cui
venivano indicati la destinazione d’uso e la stima del valore commerciale, allo scopo di una
compiuta valutazione fiscale e, in definitiva, di un incremento delle entrate dello Stato. Le
maggiori resistenze alla sua applicazione vennero naturalmente dai nobili, che erano i pos-
sessori della maggior parte dei terreni e che per diritto di sangue erano sempre stati esentati
dalle tasse.
Capitolo 4. Approfondimenti 115

Dopo circa quarant’anni di lavori preparatori, il catasto venne applicato per la prima
volta nel 1760, sotto la direzione di una commissione regia presieduta dal giurista tosca-
no Pompeo Neri, uno dei valenti ministri a cui Maria Teresa si affidò per il governo della
Lombardia. Il catasto teresiano, oltre a fornire alle autorità una mappa realistica dei beni
fondiari, costituì anche uno strumento di conoscenza del territorio, permettendo dunque
importanti interventi di riqualificazione agraria: dalle opere di bonifica alla costruzione di
canali d’irrigazione.

Costituzione e cittadinanza
La riforma del codice penale in Toscana e l’abolizione della pena
di morte

Il 30 novembre 1786 fu emanata a Firenze la riforma della legislazione penale toscana,


conosciuta come “Codice Leopoldino”. Fortemente voluto dal granduca Pietro Leopoldo, il
nuovo provvedimento si inseriva pienamente nella tendenza alla codificazione e alla ra-
zionalizzazione che fu tipica, nella seconda metà del Settecento, della cultura illuministica
italiana ed europea.
Le norme più importanti appaiono ispirate dal pensiero di Cesare Beccaria, la cui opera
Dei delitti e delle pene era stata pubblicata in Toscana nel 1764. Il riferimento è, in primo
luogo, all’abolizione della pena di morte, che venne decisa dopo un lungo dibattito tra i
consiglieri di Pietro Leopoldo. Benché fosse la prima volta in Europa che la pena di morte
veniva ufficialmente abolita, in realtà questa norma codificava una prassi già consolidata
a livello locale, dal momento che a Firenze erano ormai dieci anni che non si eseguivano
più condanne capitali.
Il Codice penale introduceva molti principi di garanzia: aboliva la tortura e il diritto di
lesa maestà (che impediva di fatto ogni critica del potere e di chi lo esercitava), sosteneva
una equilibrata proporzione tra le pene da scontare e le trasgressioni commesse, separa-
va le competenze della polizia da quelle giudiziarie, sopprimeva la denuncia anonima,
limitava l’uso del carcere preventivo, istituiva un difensore d’ufficio per gli imputati che
non potevano permettersi l’avvocato, stabiliva il diritto ad avere un processo celere, che
liberasse rapidamente (con eventuale indennizzo) l’imputato innocente. Queste garanzie
erano accompagnate da norme che dovevano assicurare anche il pronto risarcimento del-
le persone offese dal crimine e la certezza della pena. Al posto della esecuzione capitale,
per i delitti più gravi erano previsti “i lavori pubblici” a vita.
Il Codice penale, nonostante fosse espressione delle più illuminate concezioni nel cam-
po del diritto, trovò gran parte della popolazione toscana scettica, quando non apertamen-
te contraria. Pochi anni dopo la pubblicazione alcune delle sue norme fondamentali, come
l’abolizione della pena di morte, vennero rinnegate dallo stesso Pietro Leopoldo, sull’onda
dei primi fatti della Rivoluzione francese, che sembravano minacciare direttamente la sta-
bilità delle monarchie.
Il Codice Leopoldino fu, comunque, una normativa d’avanguardia, capace di porre prin-
cipi che anticiparono i criteri applicati nelle costituzioni moderne. Lo Stato italiano, nato nel
1861, abolì la pena di morte (tranne che per il regicidio) nel 1889 con il Codice Zanardelli. Il
116 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

fascismo la reintrodusse nel 1926 per i reati contro lo Stato, ma essa fu abolita definitivamen-
te con la Costituzione repubblicana del 1948.
Nel 2007, infine, la pena capitale è stata completamente cancellata in Italia anche per
quanto riguarda le leggi militari di guerra.

Fonti e documenti
Contro le ingiustizie della Giustizia. Cesare Beccaria e la riforma
della legislazione penale

Introduzione
Il più celebre rappresentante della cultura illuministica in Italia fu il milanese Cesare Bec-
caria (1738-1794). Il suo trattato Dei delitti e delle pene, pubblicato a Livorno nel 1764, di-
venne uno dei testi di riferimento, in tutta Europa, per chi era impegnato ad abolire la pena
di morte e a mitigare la severità del diritto penale. Si partiva dalla convinzione che l’attività
dei tribunali non dovesse avere carattere vendicativo, ma di semplice difesa sociale.
Beccaria frequentava l’ambiente culturale che si raccoglieva intorno ai fratelli Pietro e
Alessandro Verri, i fondatori del giornale “Il Caffè”, che si pubblicò a Milano tra il 1764 e il
1766. Si trattava di un circolo intellettuale all’interno del quale l’erudizione lasciava spazio
all’impegno civile e alla discussione di idee e di problemi attuali. Per questo, “Il Caffè” – un
giornale di tipo nuovo, mutuato da modelli inglesi – diventò il principale punto di riferimen-
to di quelle correnti riformatrici che guardavano con favore al governo di Maria Teresa e di
suo figlio Giuseppe II. Fu proprio Pietro Verri a suggerire a Beccaria di dedicarsi a uno studio
critico sulla legislazione penale.
Dei delitti e delle pene non è tanto l’opera di un giurista (pur essendo Beccaria laureato
in legge all’università di Pavia), ma piuttosto quella di un acuto osservatore della società,
di un uomo che aborriva il sangue e la violenza, e che guardava il mondo sotto l’angolo
visuale del bene collettivo e della difesa della libertà di ciascuno.
Per Beccaria la vera misura dei delitti doveva essere il danno effettivamente subito
dalla società e non l’intenzione di chi commetteva il reato. Quest’ultima, infatti, poteva
dipendere dall’età (l’irruenza e la naturale ribellione delle giovani generazioni) o dalle cir-
costanze (povertà e disperazione) in cui ciascuno si può trovare a vivere.
I capitoli più celebri del libro sono comunque quelli dedicati alla tortura e alla pena
di morte. Le esecuzioni capitali erano allora praticate di regola in tutti gli Stati europei e
spesso in forme atroci; ma in realtà non destavano riluttanza nel popolo, che anzi – osserva
lo stesso Beccaria – assisteva alle esecuzioni come a una occasione per rompere la mono-
tonia delle proprie giornate.
Il libro ebbe un enorme successo. Fu subito tradotto in francese e la sua fama arrivò fino
in Russia, tanto che Caterina II invitò Beccaria a recarsi a San Pietroburgo per collaborare
alla riforma della legislazione di quel paese. Ma egli rifiutò perché non amava allontanarsi
da Milano, città alla quale rimase sempre legatissimo e dove lavorò, come semplice funzio-
nario pubblico, per tutta la vita.
Capitolo 4. Approfondimenti 117

Da Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria (1764)


Proporzione fra i delitti e le pene
Non solamente è interesse comune che non si commettano delitti, ma che siano piú rari a
proporzione del male che arrecano alla società. Dunque piú forti debbono essere gli osta-
coli che risospingono gli uomini dai delitti a misura che sono contrari al ben pubblico, ed
a misura delle spinte che gli portano ai delitti. Dunque vi deve essere una proporzione fra
i delitti e le pene.
È impossibile di prevenire tutti i disordini nell’universal combattimento delle passioni uma-
ne. Essi crescono in ragione composta della popolazione e dell’incrocicchiamento degl’in-
teressi particolari che non è possibile dirigere geometricamente alla pubblica utilità. [...].

Errori nella misura delle pene


Le precedenti riflessioni mi danno il diritto di asserire che l’unica e vera misura dei delitti
è il danno fatto alla nazione, e però errarono coloro che credettero vera misura dei delitti
l’intenzione di chi gli commette. Questa dipende dalla impressione attuale degli oggetti
e dalla precedente disposizione della mente: esse variano in tutti gli uomini e in ciascun
uomo, colla velocissima successione delle idee, delle passioni e delle circostanze. Sarebbe
dunque necessario formare non solo un codice particolare per ciascun cittadino, ma una
nuova legge ad ogni delitto. Qualche volta gli uomini colla migliore intenzione fanno il
maggior male alla società; e alcune altre volte colla piú cattiva volontà ne fanno il maggior
bene. [...].

Della tortura
Una crudeltà consacrata dall’uso nella maggior parte delle nazioni è la tortura del reo
mentre si forma il processo, o per costringerlo a confessare un delitto, o per le contradizioni
nelle quali incorre, o per la scoperta dei complici, o per non so quale metafisica ed incom-
prensibile purgazione d’infamia, o finalmente per altri delitti di cui potrebbe esser reo, ma
dei quali non è accusato.
Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può toglier-
li la pubblica protezione, se non quando sia deciso ch’egli abbia violati i patti coi quali le
fu accordata. Quale è dunque quel diritto, se non quello della forza, che dia la podestà ad
un giudice di dare una pena ad un cittadino, mentre si dubita se sia reo o innocente? Non
è nuovo questo dilemma: o il delitto è certo o incerto; se certo, non gli conviene altra pena
che la stabilita dalle leggi, ed inutili sono i tormenti, perché inutile è la confessione del reo;
se è incerto, e’ non devesi tormentare un innocente, perché tale è secondo le leggi un uomo
i di cui delitti non sono provati. Ma io aggiungo di più, ch’egli è un voler confondere tutt’i
rapporti l’esigere che un uomo sia nello stesso tempo accusatore ed accusato, che il dolore
divenga il crociuolo della verità, quasi che il criterio di essa risieda nei muscoli e nelle fibre
di un miserabile. Questo è il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i
deboli innocenti. Ecco i fatali inconvenienti di questo preteso criterio di verità, ma criterio
degno di un cannibale, che i Romani, barbari anch’essi per più d’un titolo, riserbavano ai
soli schiavi [...].
L’esame di un reo è fatto per conoscere la verità, ma se questa verità difficilmente scuo-
presi all’aria, al gesto, alla fisonomia d’un uomo tranquillo, molto meno scuoprirassi in un
uomo in cui le convulsioni del dolore alterano tutti i segni, per i quali dal volto della mag-
118 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

gior parte degli uomini traspira qualche volta, loro malgrado, la verità. Ogni azione violen-
ta confonde e fa sparire le minime differenze degli oggetti per cui si distingue talora il vero
dal falso.
Queste verità sono state conosciute dai romani legislatori, presso i quali non trovasi usata
alcuna tortura che su i soli schiavi, ai quali era tolta ogni personalità; queste dall’Inghilter-
ra, nazione in cui la gloria delle lettere, la superiorità del commercio e delle ricchezze, e
perciò della potenza, e gli esempi di virtù e di coraggio non ci lasciano dubitare della bontà
delle leggi. La tortura è stata abolita nella Svezia, abolita da uno de’ più saggi monarchi
dell’Europa, che avendo portata la filosofia sul trono, legislatore amico de’ suoi sudditi, gli
ha resi uguali e liberi nella dipendenza delle leggi, che è la sola uguaglianza e libertà che
possono gli uomini ragionevoli esigere nelle presenti combinazioni di cose. [...].
Questa verità è finalmente sentita, benché confusamente, da quei medesimi che se ne al-
lontanano. Non vale la confessione fatta durante la tortura se non è confermata con giura-
mento dopo cessata quella, ma se il reo non conferma il delitto è di nuovo torturato. Alcuni
dottori ed alcune nazioni non permettono questa infame petizione di principio che per tre
volte; altre nazioni ed altri dottori la lasciano ad arbitrio del giudice: talché di due uomini
ugualmente innocenti o ugualmente rei, il robusto ed il coraggioso sarà assoluto, il fiacco
ed il timido condannato in vigore di questo esatto raziocinio: Io giudice dovea trovarvi rei
di un tal delitto; tu vigoroso hai saputo resistere al dolore, e però ti assolvo; tu debole vi hai
ceduto, e però ti condanno. Sento che la confessione strappatavi fra i tormenti non avrebbe
alcuna forza, ma io vi tormenterò di nuovo se non confermerete ciò che avete confessato.
Una strana conseguenza che necessariamente deriva dall’uso della tortura è che l’innocen-
te è posto in peggiore condizione che il reo; perché, se ambidue sieno applicati al tormento,
il primo ha tutte le combinazioni contrarie, perché o confessa il delitto, ed è condannato,
o è dichiarato innocente, ed ha sofferto una pena indebita; ma il reo ha un caso favorevole
per sé, cioè quando, resistendo alla tortura con fermezza, deve essere assoluto come in-
nocente; ha cambiato una pena maggiore in una minore. Dunque l’innocente non può che
perdere e il colpevole può guadagnare. [...].

Prontezza della pena


Quanto la pena sarà più pronta e più vicina al delitto commesso, ella sarà tanto più giusta
e tanto più utile. Dico più giusta, perché risparmia al reo gli inutili e fieri tormenti dell’incer-
tezza, che crescono col vigore dell’immaginazione e col sentimento della propria debolez-
za; più giusta, perché la privazione della libertà essendo una pena, essa non può precedere
la sentenza se non quando la necessità lo chiede. [...].
Ho detto che la prontezza delle pene è più utile, perché quanto è minore la distanza del
tempo che passa tra la pena ed il misfatto, tanto è più forte e più durevole nell’animo uma-
no l’associazione di queste due idee, delitto e pena, talché insensibilmente si considerano
uno come cagione e l’altra come effetto necessario immancabile. [...].
Egli è dunque di somma importanza la vicinanza del delitto e della pena, se si vuole che
nelle rozze menti volgari, alla seducente pittura di un tal delitto vantaggioso, immediata-
mente riscuotasi l’idea associata della pena. Il lungo ritardo non produce altro effetto che
di sempre più disgiungere queste due idee, e quantunque faccia impressione il castigo d’un
delitto, la fa meno come castigo che come spettacolo, e non la fa che dopo indebolito negli
animi degli spettatori l’orrore di un tal delitto particolare, che servirebbe a rinforzare il
sentimento della pena. [...].
Capitolo 4. Approfondimenti 119

Dolcezza delle pene


Ma il corso delle mie idee mi ha trasportato fuori del mio soggetto, al rischiaramento del
quale debbo affrettarmi. Uno dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene,
ma l’infallibilità di esse, e per conseguenza la vigilanza dei magistrati, e quella severità
di un giudice inesorabile, che, per essere un’utile virtù, dev’essere accompagnata da una
dolce legislazione. La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore
impressione che non il timore di un altro più terribile, unito colla speranza dell’impunità;
perché i mali, anche minimi, quando son certi, spaventano sempre gli animi umani, e la spe-
ranza, dono celeste, che sovente ci tien luogo di tutto, ne allontana sempre l’idea dei mag-
giori, massimamente quando l’impunità, che l’avarizia e la debolezza spesso accordano, ne
aumenti la forza. L’atrocità stessa della pena fa che si ardisca tanto di più per ischivarla,
quanto è grande il male a cui si va incontro; fa che si commettano più delitti, per fuggir
la pena di un solo. I paesi e i tempi dei più atroci supplicii furon sempre quelli delle più
sanguinose ed inumane azioni, poiché il medesimo spirito di ferocia che guidava la mano
del legislatore, reggeva quella del parricida e del sicario. Sul trono dettava leggi di ferro
ad anime atroci di schiavi, che ubbidivano. Nella privata oscurità stimolava ad immolare i
tiranni per crearne dei nuovi.
A misura che i supplicii diventano più crudeli, gli animi umani, che come i fluidi si mettono
sempre a livello cogli oggetti che gli circondano, s’incalliscono, e la forza sempre viva delle
passioni fa che, dopo cent’anni di crudeli supplicii, la ruota spaventi tanto quanto prima la
prigionia. [...].
Chi nel leggere le storie non si raccapriccia d’orrore pe’ barbari ed inutili tormenti che da
uomini, che si chiamavano savi, furono con freddo animo inventati ed eseguiti? Chi può non
sentirsi fremere tutta la parte la più sensibile nel vedere migliaia d’infelici che la miseria,
o voluta o tollerata dalle leggi, che hanno sempre favorito i pochi ed oltraggiato i molti,
trasse ad un disperato ritorno nel primo stato di natura, o accusati di delitti impossibili e
fabbricati dalla timida ignoranza, o rei non d’altro che di esser fedeli ai propri principii, da
uomini dotati dei medesimi sensi, e per conseguenza delle medesime passioni, con medita-
te formalità e con lente torture lacerati, giocondo spettacolo di una fanatica moltitudine?

Della pena di morte


Questa inutile prodigalità di supplicii, che non ha mai resi migliori gli uomini, mi ha spinto
ad esaminare se la morte sia veramente utile e giusta in un governo bene organizzato. Qual
può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non certamente
quello da cui risulta la sovranità e le leggi. Esse non sono che una somma di minime porzio-
ni della privata libertà di ciascuno; esse rappresentano la volontà generale, che è l’aggre-
gato delle particolari. Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio di
ucciderlo? Come mai nel minimo sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del
massimo tra tutti i beni, la vita? E se ciò fu fatto, come si accorda un tal principio coll’altro,
che l’uomo non è padrone di uccidersi, e doveva esserlo se ha potuto dare altrui questo
diritto o alla società intera?
Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre ho dimostrato che tale essere non può,
ma è una guerra della nazione con un cittadino, perché giudica necessaria o utile la di-
struzione del suo essere. Ma se dimostrerò non essere la morte né utile né necessaria, avrò
vinto la causa dell’umanità.
120 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

La morte di un cittadino non può credersi necessaria che per due motivi. Il primo, quando
anche privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza che interessi la sicurez-
za della nazione; quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa nella
forma di governo stabilita. La morte di qualche cittadino divien dunque necessaria quando
la nazione ricupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell’anarchia, quando i disordini
stessi tengon luogo di leggi; ma durante il tranquillo regno delle leggi, in una forma di
governo per la quale i voti della nazione siano riuniti, ben munita al di fuori e al di dentro
dalla forza e dalla opinione, forse piú efficace della forza medesima, dove il comando non
è che presso il vero sovrano, dove le ricchezze comprano piaceri e non autorità, io non veg-
go necessità alcuna di distruggere un cittadino, se non quando la di lui morte fosse il vero
ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti, secondo motivo per cui può
credersi giusta e necessaria la pena di morte. [...].
La pena di morte diviene uno spettacolo per la maggior parte e un oggetto di compassione
mista di sdegno per alcuni; ambidue questi sentimenti occupano piú l’animo degli spetta-
tori che non il salutare terrore che la legge pretende inspirare.
Perché una pena sia giusta non deve avere che quei soli gradi d’intensione che bastano
a rimuovere gli uomini dai delitti; ora non vi è alcuno che, riflettendovi, scieglier possa la
totale e perpetua perdita della propria libertà per quanto avvantaggioso possa essere un
delitto: dunque l’intensione della pena di schiavitù perpetua sostituita alla pena di morte
ha ciò che basta per rimuovere qualunque animo determinato; aggiungo che ha di piú: mol-
tissimi risguardano la morte con viso tranquillo e fermo, chi per fanatismo, chi per vanità,
che quasi sempre accompagna l’uomo al di là dalla tomba, chi per un ultimo e disperato
tentativo o di non vivere o di sortir di miseria; ma né il fanatismo né la vanità stanno fra i
ceppi o le catene, sotto il bastone, sotto il giogo, in una gabbia di ferro, e il disperato non
finisce i suoi mali, ma gli comincia. L’animo nostro resiste piú alla violenza ed agli estremi
ma passeggieri dolori che al tempo ed all’incessante noia; perché egli può per dir cosí con-
densar tutto se stesso per un momento per respinger i primi, ma la vigorosa di lui elasticità
non basta a resistere alla lunga e ripetuta azione dei secondi. [...].
Non è utile la pena di morte per l’esempio di atrocità che dà agli uomini. Se le passioni o
la necessità della guerra hanno insegnato a spargere il sangue umano, le leggi moderatrici
della condotta degli uomini non dovrebbono aumentare il fiero esempio, tanto piú funesto
quanto la morte legale è data con istudio e con formalità. Parmi un assurdo che le leggi,
che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne
commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un
pubblico assassinio. Quali sono le vere e le piú utili leggi? Quei patti e quelle condizioni che
tutti vorrebbero osservare e proporre, mentre tace la voce sempre ascoltata dell’interesse
privato o si combina con quello del pubblico. Quali sono i sentimenti di ciascuno sulla pena
di morte? Leggiamoli negli atti d’indegnazione e di disprezzo con cui ciascuno guarda il
carnefice, che è pure un innocente esecutore della pubblica volontà, un buon cittadino che
contribuisce al ben pubblico, lo stromento necessario alla pubblica sicurezza al di dentro,
come i valorosi soldati al di fuori. Qual è dunque l’origine di questa contradizione? E perché
è indelebile negli uomini questo sentimento ad onta della ragione? Perché gli uomini nel
piú secreto dei loro animi, parte che piú d’ogn’altra conserva ancor la forma originale della
vecchia natura, hanno sempre creduto non essere la vita propria in potestà di alcuno fuori
che della necessità, che col suo scettro di ferro regge l’universo. [...].
Se mi si opponesse l’esempio di quasi tutt’i secoli e di quasi tutte le nazioni, che hanno data
pena di morte ad alcuni delitti, io risponderò che egli si annienta in faccia alla verità, con-
Capitolo 4. Approfondimenti 121

tro della quale non vi ha prescrizione; che la storia degli uomini ci dà l’idea di un immenso
pelago di errori, fra i quali poche e confuse, e a grandi intervalli distanti, verità soprannuo-
tano. Gli umani sacrifici furon comuni a quasi tutte le nazioni, e chi oserà scusargli? Che al-
cune poche società, e per poco tempo solamente, si sieno astenute dal dare la morte, ciò mi
è piuttosto favorevole che contrario, perché ciò è conforme alla fortuna delle grandi verità,
la durata delle quali non è che un lampo, in paragone della lunga e tenebrosa notte che
involge gli uomini. Non è ancor giunta l’epoca fortunata, in cui la verità, come finora l’erro-
re, appartenga al piú gran numero, e da questa legge universale non ne sono andate esenti
fin ora che le sole verità che la Sapienza infinita ha voluto divider dalle altre col rivelarle.

Delle scienze
Volete prevenire i delitti? Fate che i lumi accompagnino la libertà. I mali che nascono dal-
le cognizioni sono in ragione inversa della loro diffusione, e i beni lo sono nella diretta.
Un ardito impostore, che è sempre un uomo non volgare, ha le adorazioni di un popolo
ignorante e le fischiate di un illuminato. Le cognizioni facilitando i paragoni degli oggetti
e moltiplicandone i punti di vista, contrappongono molti sentimenti gli uni agli altri, che si
modificano vicendevolmente, tanto piú facilmente quanto si preveggono negli altri le me-
desime viste e le medesime resistenze. In faccia ai lumi sparsi con profusione nella nazione,
tace la calunniosa ignoranza e trema l’autorità disarmata di ragioni, rimanendo immobile
la vigorosa forza delle leggi; perché non v’è uomo illuminato che non ami i pubblici, chiari
ed utili patti della comune sicurezza, paragonando il poco d’inutile libertà da lui sacrificata
alla somma di tutte le libertà sacrificate dagli altri uomini, che senza le leggi poteano di-
venire conspiranti contro di lui. Chiunque ha un’anima sensibile, gettando uno sguardo su
di un codice di leggi ben fatte, e trovando di non aver perduto che la funesta libertà di far
male altrui, sarà costretto a benedire il trono e chi lo occupa. [...].
Chiunque riflette sulle storie, le quali dopo certi intervalli di tempo si rassomigliano quanto
all’epoche principali, vi troverà piú volte una generazione intera sacrificata alla felicità di
quelle che le succedono nel luttuoso ma necessario passaggio dalle tenebre dell’ignoranza
alla luce della filosofia, e dalla tirannia alla libertà, che ne sono le conseguenze. Ma quan-
do, calmati gli animi ed estinto l’incendio che ha purgata la nazione dai mali che l’oppri-
mono, la verità, i di cui progressi prima son lenti e poi accelerati, siede compagna su i troni
de’ monarchi ed ha culto ed ara nei parlamenti delle repubbliche, chi potrà mai asserire
che la luce che illumina la moltitudine sia piú dannosa delle tenebre, e che i veri e semplici
rapporti delle cose ben conosciute dagli uomini lor sien funesti?
Se la cieca ignoranza è meno fatale che il mediocre e confuso sapere, poiché questi ag-
giunge ai mali della prima quegli dell’errore inevitabile da chi ha una vista ristretta al di
qua dei confini del vero, l’uomo illuminato è il dono piú prezioso che faccia alla nazione ed
a se stesso il sovrano, che lo rende depositario e custode delle sante leggi. Avvezzo a ve-
dere la verità e a non temerla, privo della maggior parte dei bisogni dell’opinione non mai
abbastanza soddisfatti, che mettono alla prova la virtù della maggior parte degli uomini,
assuefatto a contemplare l’umanità dai punti di vista piú elevati, avanti a lui la propria na-
zione diventa una famiglia di uomini fratelli, e la distanza dei grandi al popolo gli par tanto
minore quanto è maggiore la massa dell’umanità che ha avanti gli occhi. I filosofi acqui-
stano dei bisogni e degli interessi non conosciuti dai volgari, quello principalmente di non
ismentire nella pubblica luce i principii predicati nell’oscurità, ed acquistano l’abitudine di
amare la verità per se stessa. Una scelta di uomini tali forma la felicità di una nazione, ma
122 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

felicità momentanea se le buone leggi non ne aumentino talmente il numero che scemino
la probabilità sempre grande di una cattiva elezione.

Educazione
Finalmente il più sicuro ma più difficil mezzo di prevenire i delitti si è di perfezionare l’e-
ducazione, oggetto troppo vasto e che eccede i confini che mi sono prescritto, oggetto,
oso anche dirlo, che tiene troppo intrinsecamente alla natura del governo perché non sia
sempre fino ai più remoti secoli della pubblica felicità un campo sterile, e solo coltivato
qua e là da pochi saggi.
Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, introduzione di A.C. Jemolo, a cura di G. Carnazzi,
Rizzoli, Milano, 1994, pp. 72, 75, 91, 101, 114, 117, 154, 158 e ss.
II. L’accelerazione dell’Occidente
nel Settecento
Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea:
dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra
di Carlo De Maria
Roma (BraDypUS) 2018
ISBN 978-88-98392-70-4
pp. 125-140

Capitolo 5. Illuminismo, circolazio-


ne delle idee e nascita di una opi-
nione pubblica europea
Profilo storico
5.1. I riferimenti culturali dell’illuminismo

L’età dell’illuminismo coincide in larga parte con la storia d’Europa del XVIII secolo. Più
esattamente è compresa tra la conclusione delle guerre di religione del Seicento, da un
lato, e la Rivoluzione francese del 1789 dall’altro. La metafora della luce contenuta nel ter-
mine – illuminismo – fa riferimento all’evoluzione delle idee che caratterizzò quel periodo,
in fatto di religione, scienza, filosofia, politica, economia. Il trionfo della ragione contro le
tenebre del fanatismo e della superstizione costituì una immagine ricorrente e caratteri-
stica di tutto il secolo. “La luce che scaccia le tenebre” riportava alle pagine della Bibbia,
ma nel caso dell’illuminismo non era più la luce della rivelazione divina, bensì quella della
filosofia e della scienza; non erano più le tenebre del peccato, ma quelle dell’ignoranza.
In altre parole, l’antica metafora religiosa della luce divina e dell’illuminazione delle
menti venne reinterpretata in chiave laica, con riferimento a uno spirito critico che investì
tutti i campi del sapere umano. Secondo il grande filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-
1804), l’illuminismo rappresentò “l’entrata dell’uomo nell’età adulta” e “l’esigenza di pen-
sare con la propria testa”. Non mancava nelle sue parole una certa accentuazione enfatica
e retorica, ma essa rispecchiava la volontà dell’illuminismo di incidere – per quanto fosse
possibile – sul dibattito politico-culturale dell’epoca.
L’idea di emancipazione, o di uscita dell’uomo dallo stato di minorità, richiamava chia-
ramente i concetti di libertà individuale e di progresso sociale. Gli illuministi intendevano
combattere, in questo modo, tutti i pregiudiziali atteggiamenti di decadenza e pessimismo.
Erano, infatti, ben consapevoli che la concezione secondo cui il mondo è in regresso verso
il peggio, e non in progresso verso il meglio, e secondo cui l’uomo è per sua natura incapace
di fare il bene, non avrebbe fatto altro che favorire il persistere di politiche conservatrici,
rinviando all’infinito le prospettive di trasformazione e di miglioramento.
Proprio in virtù di questa spinta verso il futuro, la stagione culturale dell’illuminismo
ebbe uno straordinario rilievo storico e si caratterizzò per una incalzante critica della tradi-
zione, per la valorizzazione della libera ricerca intellettuale in ogni sfera della conoscenza e
per il rifiuto del principio di autorità. Esisteva, del resto, una forte continuità tra l’illuminismo
126 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

settecentesco e le acquisizioni della Rivoluzione scientifica del secolo precedente, che ave-
vano portato alla maturazione del metodo sperimentale e all’intreccio tra razionalismo ed
empirismo: i ragionamenti astratti, cioè, venivano sempre passati al vaglio dell’esperienza.
Non è dunque un caso che nella grande Encyclopédie diretta dal filosofo Denis Diderot
(1713-1784) e dal matematico Jean Le Rond d’Alembert (1717-1783) – senza dubbio la più
celebre realizzazione editoriale dell’illuminismo, pubblicata tra il 1751 e il 1772 – si ritrovi
l’eredità sia di Cartesio che di Newton e si percepisca, altresì, l’importanza di un altro au-
tore seicentesco, John Locke, con il suo modello costituzionale e l’attenzione alla libertà
individuale. Nell’età dei lumi erano ancora recenti le ferite inferte alla coscienza europea
dalle guerre di religione del Cinque e Seicento. Locke rappresentava per questo un campio-
ne della lotta contro il fanatismo settario e della tolleranza tra fedi e confessioni diverse;
attraverso di lui l’illuminismo si nutrì della grande cultura filosofica e politica sviluppatasi
nel XVII secolo in Inghilterra e Olanda.
Grazie a queste radici culturali, l’Enciclopedia (o Dizionario ragionato delle scienze,
delle arti e dei mestieri) riuscì a connettere la riflessione sulle scienze pure, le arti mec-
caniche e la tecnologia con un preciso programma di sviluppo economico e civile. Emer-
geva, cioè, una netta impronta politica, che fu tipica dell’illuminismo e che si caratterizzò
per l’impegno riformistico e per il tentativo di mutare i rapporti sociali a favore di quella
borghesia che stava emergendo nei commerci e nella manifattura, specialmente in alcuni
paesi dell’Europa occidentale, dalla Gran Bretagna alla Francia.
Sotto lo stimolo dei testi di Locke, due autori francesi del calibro di Montesquieu e Vol-
taire diedero avvio a un vivace movimento di opinione a favore della diffusione in Francia
e nel resto d’Europa delle libertà e delle garanzie costituzionali inglesi. Per entrambi la
conoscenza diretta della società britannica fu d’importanza fondamentale e costituì una
tappa decisiva nel percorso di maturazione culturale.
Costretto a rifugiarsi in Inghilterra per sfuggire al carcere, Voltaire sfruttò il forzato esi-
lio (che durò all’incirca tre anni, dal 1726 al 1729) per stringere rapporti con scienziati, scrit-
tori e uomini politici di tendenza liberale. Tornato in patria, si impegnò con moltiplicata
energia in un’opera di divulgazione delle idee di Locke e di Newton, all’interno di una com-
plessiva proposta di rinnovamento culturale e politico che guardava all’Inghilterra come
modello di società. Nei lunghi decenni della sua indefessa militanza civile – conclusasi solo
con la morte nel 1778 – Voltaire combatté il dogmatismo e il fanatismo religioso, esaltando
il valore della tolleranza; contestò ogni forma di potere arbitrario, in nome della libertà; in-
dicò prospettive riformatrici nell’organizzazione della convivenza sociale, avvertendo che
“la marcia del progresso dipende dalle gambe degli uomini”.
Autore di opuscoli e libelli spesso anonimi sui temi dei diritti umani, intervenne a caldo
con memorabili campagne d’opinione a favore di vittime di persecuzioni giudiziarie, met-
tendo in ridicolo con grande verve gli abusi giuridici e amministrativi del governo francese.
Fronteggiò coraggiosamente la censura, che era nel Settecento, in Francia come altrove,
una istituzione piuttosto inefficiente e non ancora sistematica, ma che costituiva pur sem-
pre una minaccia. Per questo, Voltaire si fece costruire una casa a Ferney sulla frontiera
tra la Francia e la Svizzera, così che poteva velocemente espatriare, saltando da un paese
all’altro. Usò anche altre scappatoie, come l’anonimato, l’uso di pseudonimi e di false indi-
cazioni di località di stampa sui frontespizi dei libri.
Grazie alle sue straordinarie doti di pubblicista riuscì ad accreditare le nuove idee illu-
ministe presso i sovrani dell’epoca, contribuendo a sviluppare il fenomeno del cosiddetto
“dispotismo” o “assolutismo illuminato”. Fu in corrispondenza con molti capi di Stato euro-
pei – da papa Benedetto XIV a Federico di Prussia, da Caterina di Russia a numerosi principi
Capitolo 5. Illuminismo, circolazione delle idee e nascita di una opinione pubblica europea 127

tedeschi – ai quali raccomandò l’abolizione della pena di morte, le riforme economiche e


giudiziarie, la liberalizzazione del commercio dei grani, la liberazione dei servi della gleba,
l’eliminazione dei privilegi fiscali. Voltaire fu, insomma, la figura-chiave dell’illuminismo
militante.
Benché con accenti e toni diversi, anche Montesquieu indicò nel modello inglese una
teoria costituzionale destinata a influenzare la cultura e le scelte politiche delle genera-
zioni successive. Le istituzioni d’oltremanica, per Montesquieu, garantivano la libertà dei
cittadini poiché impedivano gli abusi del potere attraverso un sistema di pesi e contrappesi,
calibrato in modo che le diverse autorità pubbliche si limitassero a vicenda. Un simile equi-
librio era impossibile laddove il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario fossero concentrati
nella stessa persona o apparato. Recuperando e sviluppando tesi di Locke, egli affermò
pertanto – nelle sua opera principale, Lo spirito delle leggi (1748), sulla quale ci siamo
soffermati anche nel capitolo secondo – la necessità di separare le diverse funzioni dello
Stato, attribuendole a organi distinti, per mettere al riparo i diritti degli individui dalla mi-
naccia del dispotismo.
La battaglia culturale e politica impostata da Voltaire e Montesquieu avrebbe avuto,
pochi decenni più tardi, tra i suoi esiti principali la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino, emanata in Francia nel 1789. In quel documento giuridico, che rappresenta l’an-
tenato delle moderne costituzioni, erano contenute le norme fondamentali che dovevano
regolare la vita dei cittadini e dello Stato. Si partiva affermando il principio dell’uguaglian-
za tra tutti gli esseri umani e si proseguiva con l’elencazione dei diritti naturali (inalienabili)
dell’uomo: la libertà della persona, la tutela della sua sicurezza e la salvaguardia della pro-
prietà privata. Di grande importanza era anche il principio della sovranità popolare, in base
al quale “ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione”. Venivano, altresì, fissati i
limiti della libertà di ciascuno (“l’esercizio di un diritto non può nuocere ad un diritto altrui...
la legge può limitare i diritti solo nel caso in cui nocciano alla società”) per poi passare alla
definizione dei rapporti fra cittadino e Stato, con particolare attenzione alle garanzie da
riconoscere alle persone imputate davanti alla legge.
La cultura dei lumi ebbe un peso analogo anche sulla Dichiarazione d’indipendenza
americana, che fu emanata pochi anni prima (1776), sancendo la separazione dalla madre-
patria delle tredici colonie britanniche del Nord America, da cui nacquero gli Stati Uniti.
Nella prima parte della Dichiarazione d’indipendenza si trovavano, infatti, importanti rife-
rimenti ai principi illuministici: ad esempio, le affermazioni solenni in difesa della libertà
religiosa, di parola e di stampa. Vi si faceva, inoltre, riferimento al diritto del popolo di ri-
bellarsi all’autorità costituita (nel caso questa si rivelasse dispotica); un diritto che era stato
formulato da Locke nel secolo precedente.
Il teorico più importante della Rivoluzione americana fu Thomas Paine (1737-1809),
saggista e agitatore inglese che visse sia in Nord America che in Francia, a stretto contatto
con il mutamento sociale e civile su entrambe le sponde dell’Atlantico. Nella sua opera di
maggiore spessore, dedicata ai Diritti dell’uomo (1791), mise al centro dell’analisi il tema
dell’uguaglianza e la critica di ogni privilegio ereditario. In nome della ragione, che è co-
mune a tutti gli uomini, denunciò i privilegi di casta, le inique imposizioni ed esenzioni fi-
scali, il diverso trattamento che la legge e i procedimenti giudiziari prevedevano a seconda
delle condizioni dei cittadini. Smentì, in particolare, l’asserita superiorità dei nobili rispetto
alla gente comune, affermando il principio che ogni uomo ha dei diritti naturali che non
devono essere condizionati né dalla ricchezza né dalla nascita.
Secondo Paine, la mobilità sociale e la selezione delle classi dirigenti dovevano avveni-
re attraverso una libera competizione di abilità e talenti. Era questo l’unico modo per con-
128 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

sentire una piena fioritura delle attività dei singoli in tutti i settori della vita sociale. Paine
e, in generale, tutti gli illuministi, si pronunciarono per una uguaglianza meritocratica, cioè
misurata sul merito e il lavoro: base e garanzia della libertà dei cittadini.
I principi fondamentali fissati nei documenti delle due grandi rivoluzioni di fine Sette-
cento, quella americana e quella francese (sulle quali torneremo anche nei capitoli suc-
cessivi), guidano ancora oggi le società progredite del mondo occidentale. Si può, dunque,
affermare che l’attualità dell’illuminismo è incontestabile e costituisce, anzi, una eredità
culturale da salvaguardare e sviluppare.

5.2. Tra riforme e rivoluzione

Il centro di irradiamento dell’illuminismo era collocabile nell’area culturale anglo-francese.


E proprio usando un termine francese i suoi esponenti erano spesso chiamati philosophes,
cioè filosofi o, in senso lato, uomini di cultura. Questo non significava che essi condividesse-
ro una determinata dottrina filosofica. Ciò che li accumunava era la maniera di concepire
e praticare l’attività intellettuale; il modo di intendere la funzione sociale del filosofo. Tale
non era, agli occhi degli illuministi, l’erudito ripiegato nell’universo speculativo della sua
dottrina. La riflessione filosofica doveva, al contrario, restare ancorata alla realtà empirica
e ai problemi dell’oggi.
Il philosophe era dunque un intellettuale poligrafo ed eclettico, impegnato nella critica
razionale di miti e superstizioni di ogni genere, organizzatore di un sapere che ambiva a
incidere sulla pratica, votato spesso a un lucido e responsabile impegno riformatore in
ambito politico.
Entro quest’ottica, il valore della riflessione teorica, dell’indagine scientifica, dell’ela-
borazione ideale era misurato col metro dell’utilità pratica, cioè del beneficio recato alla
società. La bussola della filo-sofia doveva essere la fil-antropia: il desiderio di contribui-
re alla felicità degli uomini, additando gli ostacoli che ne impedivano il perseguimento e
progettando gli strumenti del loro superamento. L’uomo e il mondo erano gli oggetti del
sapere che importava coltivare.
L’illuminismo accelerò e incrementò il processo di laicizzazione della cultura avviatosi
con l’Umanesimo, il Rinascimento e la Rivoluzione scientifica. L’egemonia teologica sulla
riflessione morale e politica si sgretolò definitivamente. Accantonati – come estranei al
dominio della ragione – i problemi religiosi della salvezza ultraterrena e della giustizia
divina, i philosophes si occuparono della giustizia tra gli uomini e della felicità su questa
terra. Pertanto, ogni aspetto della realtà sociale fu messo in discussione.
Dal riconoscimento del carattere intangibile della dignità e della autonomia della per-
sona discendeva, ad esempio, una concezione dello Stato antitetica rispetto a quella ac-
creditata dalla tradizione. Si passava, cioè, da una cieca obbedienza imposta ai sudditi al
dovere del sovrano di rispettare e proteggere i diritti dei cittadini. Da qui, la valorizzazione
delle teorie sulla sovranità della legge, sulla divisione dei poteri e sulla rappresentanza
politica, che gli illuministi ereditavano – come si è visto – dal più avanzato pensiero politico
del Seicento.
La cultura dei lumi attaccò con veemenza anche le istituzioni ecclesiastiche, contestan-
done i privilegi e il potere. Imputò, altresì, alla chiesa e al suo primato nel sistema educativo
Capitolo 5. Illuminismo, circolazione delle idee e nascita di una opinione pubblica europea 129

(un settore di intervento a lungo trascurato dal potere pubblico) la responsabilità dell’igno-
ranza popolare, che frenava il progresso civile, favorendo il perdurare delle iniquità sociali.
Alla metà del XVIII secolo, l’illuminismo era ormai un fiume in piena, il cui impeto spa-
ventava i poteri costituiti. Emblematici appaiono i tentativi di fermare la grande impresa
editoriale e culturale dell’Enciclopedia, che sotto la direzione di Diderot e d’Alembert si
avvalse della collaborazione di quasi duecento autori di tutta Europa.
Alla fine del 1750 l’editore parigino Le Breton distribuì il Prospectus dell’opera e si
cominciarono a raccogliere le sottoscrizioni, che furono assai numerose fin dal principio.
Esisteva un folto pubblico desideroso di documentarsi sulle nuove acquisizioni della co-
noscenza, incoraggiato anche dalla promessa che sarebbe stato adottato un linguaggio
accessibile e non specialistico. I gruppi più avanzati dell’amministrazione pubblica, del
commercio e delle professioni sostennero subito l’iniziativa.
Il modello culturale proposto era di tipo schiettamente democratico, sottratto all’ege-
monia sia degli ambienti ecclesiastici sia di ristretti gruppi di dotti, e rivolto invece se non
a tutti certamente a molti di coloro che sapevano leggere e scrivere. I redattori delle va-
rie voci, ben consapevoli del rapporto fondamentale tra sapere e società, insistettero con
lucida determinazione sull’importanza della divulgazione, mostrando davvero la volontà
di “rischiarare” – secondo la terminologia dell’epoca – “la coscienza del popolo con i lumi
della ragione”.
L’opera divenne il più noto e celebrato dizionario del sapere occidentale e raggiunse
25 mila abbonati, la metà dei quali viveva fuori del suolo francese. Un pubblico di lettori
socialmente eterogeneo, che comprendeva, accanto ai più fini intellettuali, le società di
lettura delle piccole città e le famiglie del ceto medio istruito. Nell’illustrare agli acquirenti
le potenzialità dell’opera, Diderot rappresentò i lettori come persone attivamente parte-
cipi alle scoperte scientifiche e umanistiche. Da un lato essi potevano usare l’Enciclopedia
come strumento di occasionale consultazione, ma potevano anche giovarsene in maniera
più profonda, creando le premesse di un proprio percorso di approfondimento e ricerca
intellettuale.
Nel 1752 erano già usciti i primi due volumi dell’opera. Ma il contenuto non piacque agli
ambienti più conservatori: proteste contro toni irreligiosi e spinte politiche radicali giun-
sero fino al re, Luigi XV, tanto che la pubblicazione dell’opera fu sospesa. Quando l’anno
successivo l’Enciclopedia apparve di nuovo in libreria, fu d’Alembert a firmare la prefazione
al terzo volume, criticandovi i detrattori che sfruttavano pretesti religiosi per danneggiare
l’opera. Spinto dal timore di perdere sottoscrittori, d’Alembert faceva appello al senso di
lealtà dei lettori affinché salvassero l’Enciclopedia, strategia che sottintendeva la legitti-
mazione del gusto popolare, piuttosto che dell’autorità politica e religiosa, come unico
arbitro dei valori culturali.
Dopo l’uscita nel 1759 del settimo volume, la pubblicazione dell’Enciclopedia venne
nuovamente bloccata. Il governo francese intendeva, questa volta, stabilire una interdizio-
ne permanente. E tuttavia nel 1765, anche grazie a contatti e amicizie personali di Dide-
rot presso l’Ufficio censura, gli ultimi dieci volumi apparvero contemporaneamente. Nella
nota di prefazione all’ottavo volume Diderot ritornò sul principio dell’approvazione del
pubblico come unico criterio di giudizio riguardo alla pericolosità vera o fittizia dell’Enci-
clopedia. Nel 1772, quella grande impresa editoriale fu completata da undici volumi di ta-
vole e disegni, dedicati soprattutto all’illustrazione dei mestieri artigiani e dei loro “segreti”.
Le polemiche, comunque, non si placarono. Dagli ambienti ecclesiastici, cortigiani e
istituzionali continuò a levarsi a più riprese la denuncia delle idee circolanti nei volumi
dell’opera, il cui carattere eterodosso era percepito come una insidia per l’ordine religioso
130 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

e politico. Effettivamente, in molte pagine dell’Enciclopedia traspariva l’insistita polemica


contro la chiesa cattolica e l’avversione all’assolutismo monarchico, eroso nei suoi con-
trafforti ideologici da un discorso politico che poneva il consenso dei cittadini a principio
di legittimazione del potere e propugnava l’introduzione di istituzioni rappresentative a
fianco dell’autorità regia.
Numerose voci relative alla classificazione delle forme di governo e ad altri temi di
teoria politica ricalcavano i Trattati sul governo di Locke e lo Spirito delle leggi di Monte-
squieu. Nella voce “Autorità politica”, Diderot in persona argomentò contro il potere per
diritto divino, pronunciandosi a favore di una autorità politica che trovasse fondamento
nella comunità nazionale; dunque negando implicitamente i principi assolutistici sui quali
la monarchia francese si basava.
Gli autori dell’Enciclopedia erano, generalmente, schierati su un fronte comune, che
invocava riforme parziali promosse dall’alto, ossia da sovrani illuminati. Solamente più tar-
di Diderot avrebbe fatto proprie posizioni apertamente antimonarchiche. Questo accadde
dopo l’insuccesso delle riforme promosse in Francia, tra anni Sessanta e Settanta, dai mi-
nistri Maupeou e Turgot. Un fallimento che avrebbe fatto precipitare la crisi della società
francese verso la rivoluzione.
La Francia era uscita dalla Guerra dei sette anni (1756-63) umiliata militarmente e in
condizioni finanziarie disastrose. Negli anni successivi, l’ultima parte del regno di Luigi XV
(1715-1774) e la prima fase di quello di Luigi XVI (1774-1791) furono caratterizzati dal pro-
tagonismo di alcuni ministri che erano in contatto con gli ambienti illuministi e riformatori.
Tra questi spiccarono René-Nicolas Maupeou e Robert-Jacques Turgot, che perseguirono il
risanamento del bilancio statale, ponendo in essere un drastico contenimento della spesa
pubblica, e si impegnarono per una maggiore giustizia tributaria che contenesse i privilegi
di nobili e clero. Essi adottarono, inoltre, una serie di provvedimenti di politica economica
tesi a rilanciare il commercio e la produzione: vennero proclamate la libera circolazione
e importazione dei cereali, fu abolito il lavoro servile (utilizzato in Francia soprattutto per
la costruzione e la manutenzione delle strade) e soppresse le corporazioni di arti e me-
stieri, che avevano regolato per secoli – ma in maniera troppo vincolante agli occhi dei
riformatori del Settecento – le attività degli appartenenti alle varie categorie artigiane o
professionali.
I provvedimenti suscitarono l’opposizione dei gruppi sociali maggiormente colpiti dalle
riforme: appaltatori delle imposte, clero e nobiltà. A questi si aggiunse, però, anche il mal-
contento popolare causato dall’aumento del prezzo del grano, che era dovuto in realtà
a una annata di cattivo raccolto, ma che venne da molti attribuito agli effetti della libera
circolazione.
Di fronte al montare della protesta, Luigi XVI interruppe nel 1776 – in modo assoluta-
mente miope – i tentativi di rinnovamento del sistema istituzionale e sociale. Negli anni
successivi la Francia vide approfondirsi quegli elementi di crisi che avrebbero portato alla
fine della monarchia, mentre gli ambienti illuministi radicalizzavano le loro posizioni, ab-
bandonando la collaborazione con i sovrani precedentemente auspicata.
Fallimentare in Francia, l’esperienza dell’assolutismo illuminato ebbe, negli stessi anni,
effetti più apprezzati e duraturi in altri paesi europei.
Capitolo 5. Illuminismo, circolazione delle idee e nascita di una opinione pubblica europea 131

5.3. L’assolutismo illuminato

La storia dell’assolutismo monarchico conobbe due grandi stagioni. La prima, tra Sei e Set-
tecento, ebbe come emblema la Francia di Luigi XIV, mentre la seconda – nota con la defi-
nizione di “assolutismo illuminato” o “età delle riforme” – si identificò soprattutto con l’Au-
stria di Maria Teresa e Giuseppe II e con la Prussia di Federico II, ma anche con l’esperienza
di Stati più piccoli come la Toscana di Pietro Leopoldo di Lorena, segnando nel complesso
la storia europea dalla pace di Aquisgrana (1748) fino alla Rivoluzione francese (1789).
Un carattere comune dell’assolutismo, in tutte le sue declinazioni, fu il rafforzamento
del potere dello Stato: la nascita e lo sviluppo di amministrazioni statali centralizzate, a
cui corrisposero la limitazione e la scomparsa di autonomie e privilegi di origine feudale.
Anche sul piano religioso, l’assolutismo cercò di esaltare il ruolo del potere pubblico, im-
ponendo il proprio controllo sulla organizzazione ecclesiastica. Queste linee di tendenza
vennero arricchite durante il periodo dell’assolutismo illuminato con importanti spunti di
rinnovamento, sia sul piano politico-istituzionale che su quello socio-economico.
In forme diverse, nei vari centri dell’illuminismo europeo – dalla Parigi dell’Enciclope-
dia di Diderot e d’Alembert alla Milano del giornale “Il Caffè” dei fratelli Verri e di Beccaria,
dalla Napoli degli economisti e dei giuristi (Antonio Genovesi e Gaetano Filangeri) alla
Berlino di Federico II, amico di Voltaire, fino a San Pietroburgo con la corte di Caterina la
Grande – si formarono piccoli nuclei di intellettuali, promotori di movimenti di riforma e
consiglieri dei despoti illuminati. Dal momento che il potere esecutivo era ancora nelle
mani esclusive dei sovrani (salvo poche eccezioni, come Gran Bretagna e Olanda), la sorte
dei programmi riformatori continuava a dipendere dalle loro decisioni.
A ben vedere, la seconda metà del Settecento rappresentò una stagione di transizione
nella quale si affacciarono con forza istanze culturali e sociali che avrebbero portato –
attraverso un percorso complesso e non lineare – alla crisi dell’assolutismo monarchico e
all’affermazione di tendenze politiche liberali e democratiche. Da questo punto di vista le
riforme, o i tentativi di riforma, ebbero soprattutto il merito di promuovere una più vigorosa
coscienza civile e politica nella borghesia e nei ceti medi; quegli strati sociali che divennero
pienamente protagonisti della storia europea proprio tra Sette e Ottocento.
In linea generale, la più importante conseguenza dell’assolutismo illuminato fu un cre-
scente intervento dei governi nella vita sociale dei loro sudditi. Questo accadde, ad esem-
pio, nel campo dell’istruzione, delle pratiche religiose e dell’attività economica. Ma per
approfondire i termini del discorso, è necessario vedere in dettaglio chi furono i principali
protagonisti di quella stagione e quale influsso ebbero specifici filoni di pensiero sulle po-
litiche effettivamente attuate.

5.3.1. L’Austria di Maria Teresa e Giuseppe II.


Il periodo dell’assolutismo illuminato si fa convenzionalmente iniziare con la pace di Aqui-
sgrana, che nel 1748 pose fine alla Guerra di successione austriaca e confermò sul trono di
Vienna Maria Teresa d’Asburgo. Grazie alle numerose riforme attuate durante il suo regno,
Maria Teresa è comunemente considerata il primo esempio di sovrano illuminato.
Dopo aver razionalizzato l’amministrazione statale – che fu divisa in sei dipartimenti
coordinati da un consiglio di Stato – e dopo aver riformato il sistema fiscale anche grazie
all’introduzione del catasto (si veda su questo punto il capitolo quarto), Maria Teresa intro-
dusse nel 1774 l’istruzione primaria obbligatoria, finanziando le relative spese con i beni
requisiti all’ordine dei gesuiti, espulso dal paese qualche tempo prima. Si trattava, da parte
132 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

sua, di una precisa scelta di campo a favore di un maggiore impegno pubblico nel campo
dell’educazione. Bisogna tener presente, infatti, che la Compagnia di Gesù aveva fatto pro-
prio dell’attività di insegnamento uno dei suoi settori di intervento privilegiati.
Questa politica scolastica rispondeva, del resto, a una convinzione assai diffusa negli
ambienti illuministi: il controllo dell’istruzione doveva essere trasferito dalla Chiesa allo
Stato. Una linea di condotta verso la quale l’assolutismo illuminato si mostrò particolar-
mente attento dal momento che, insieme al controllo del sistema educativo, era in gioco la
lealtà allo Stato (e al sovrano) delle giovani generazioni. È significativo che negli stessi anni
il governo di Vienna abolisse anche l’Inquisizione e trasferisse la censura su libri e giornali
nelle mani degli apparati pubblici.
Quando nel 1780 Maria Teresa morì, il figlio maggiore Giuseppe prese le redini del
governo austriaco, incentivando ulteriormente gli indirizzi riformatori già promossi dalla
madre. Giuseppe era un teorico coraggioso con idee molto borghesi in merito all’ordine e
alla regolarità amministrativa. Egli era perfettamente consapevole che uno Stato moderno
non poteva essere governato da dilettanti scelti tra i favoriti del monarca, nell’ambiente
ristretto della corte. Si sentiva, invece, la necessità di una burocrazia esperta; un ceto di
funzionari competenti, in grado di accogliere le istanze di rinnovamento ma consapevoli
nello stesso tempo del peso delle questioni organizzative e finanziarie.
I primi provvedimenti di Giuseppe II furono diretti a limitare i poteri dei signori feudali.
Egli abolì, infatti, la servitù personale dei contadini e le prestazioni di lavoro non retribuite
(corvées); consentì, inoltre, un più ampio ricorso ai tribunali dello Stato contro la giurisdi-
zione signorile. Per apprezzare appieno la portata di questi cambiamenti, conviene preci-
sare cosa si intendeva per “giurisdizione signorile”. La signoria fondiaria, cioè il dominio su
determinate terre, conferiva tradizionalmente al signore un potere su coloro che vivevano
all’interno dei suoi possedimenti. Nei loro confronti, egli si trovava investito di alcune pre-
rogative riassumibili nel potere di comando e di coercizione. Il signore feudale, in pratica, si
sostituiva al sovrano esercitando in proprio alcune facoltà appartenenti alla sfera pubblica,
e in particolare l’amministrazione della giustizia. Si trattava naturalmente di un assetto
medievale del tutto inaccettabile per le ambizioni di controllo e uniformità dello Stato mo-
derno; e per questo venne scardinato, o almeno limitato, dalle politiche dell’assolutismo
illuminato.
Giuseppe II proseguì impegnandosi nella creazione di un articolato sistema di scuole
laiche e aprì ai laici l’accesso all’insegnamento universitario. Molto incisiva fu anche la
sua politica ecclesiastica, che prese il nome di “giuseppinismo”, proprio a sottolinearne la
carica innovativa e la spinta volontaristica.
Il tentativo di Giuseppe II fu quello di adeguare la vita religiosa alle esigenze della
filosofia dei lumi. Egli promulgò leggi che limitavano pratiche e consuetudini considera-
te nocive per l’equilibrio sociale e il progresso economico: il numero eccessivo di monaci
e suore; la proliferazione delle festività religiose nel calendario; l’eccessiva ostentazione
nelle funzioni religiose, che spesso si trasformavano in occasioni di sperpero, quando non
provocavano veri e propri disordini. Si proibì, inoltre, agli ordini religiosi che non svolgeva-
no funzioni socialmente utili (ad esempio, nel campo dell’assistenza) di accettare novizi: di
conseguenza, molti istituti religiosi furono chiusi.
All’origine di queste misure vi erano ragioni di varia natura, ma tutte riconducibili alla
volontà di salvaguardare gli interessi dello Stato. Oltre alle considerazioni di ordine sociale
(la speranza di controllare i comportamenti smodati che accompagnavano certe cerimo-
nie religiose), si potrebbero elencare motivazioni di ordine giuridico (l’ampliamento della
giurisdizione della monarchia a spese di quella ecclesiastica), militare (la diminuzione del
Capitolo 5. Illuminismo, circolazione delle idee e nascita di una opinione pubblica europea 133

numero di novizi metteva a disposizione dell’esercito un numero maggiore di reclute) e


soprattutto di ordine economico: la volontà di destinare le risorse della chiesa a usi più pro-
duttivi; la convinzione che il mercato fondiario fosse sottosviluppato e la produttività agri-
cola frenata dalla presenza di un latifondista come la chiesa; infine, l’impressione che gli
ordini monastici sottraessero manodopera al lavoro nelle campagne e nelle manifatture.
Uno dei provvedimenti più rilevanti del “giuseppinismo” fu l’editto di tolleranza, con
il quale il re cattolico concesse ai protestanti e ai greci ortodossi la libera pratica del loro
culto. Una decisione che, in fondo, conciliava la cultura dei lumi con la ragion di Stato, dal
momento che la libertà di culto era il mezzo più idoneo per avvicinare alla monarchia
asburgica anche i sudditi non cattolici. E la storia dei secoli precedenti stava lì a dimostrare
che costringere le minoranze religiose a emigrare o comunque a vivere in condizioni di
subalternità finiva per danneggiare le prospettive di coesione e crescita di un paese.
Nell’impegno per affermare la tolleranza religiosa era in gioco la transizione dall’idea
di uno Stato monarchico come organismo che necessariamente richiedeva una comunità
di credenti unita nella stessa fede (con tutte le lacerazioni interne che questa impostazione
poteva comportare a causa dell’oppressione delle minoranze) all’idea di uno Stato in cui
l’adesione religiosa poteva essere distinta dalla fedeltà al potere pubblico, che non veniva
quindi intaccata anche nel caso di una compresenza di culti diversi. Idea, quest’ultima, ti-
picamente moderna.

5.3.2. Federico II di Prussia.


In tema di tolleranza, ancor prima di Giuseppe II, si distinse Federico II Hohenzollern, che
– salito al trono nel 1740 – interpretò il suo ruolo come quello di un conciliatore dei diversi
gruppi religiosi presenti in Prussia e arrivò persino a stanziare fondi statali per la costruzio-
ne di una nuova cattedrale cattolica nella capitale, Berlino, quando invece la maggioranza
della popolazione era luterana. Furono vietati i processi per eresia e la pubblicazione di
polemiche e dispute religiose. Lo stesso Federico, che non era credente, scrisse in una fa-
mosa lettera del 1740: “Tutti devono essere tolleranti... qui ciascuno deve avere la possibi-
lità di scegliere la strada per la propria salvezza”.
Il re prussiano rappresentò (anche in virtù di un percorso biografico complesso e turbo-
lento) l’esempio più celebre di principe illuminato e arrivò fino al punto di definirsi come
un “servitore” dei propri sudditi, interessato unicamente alla loro felicità. Ma al di là di
questi proclami, nella realtà Federico II come tutti i suoi colleghi – teste coronate – di quel
periodo mirò al potenziamento dell’autorità statale all’interno di una società che si andava
progressivamente secolarizzando: con il potere civile, cioè, che si sostituiva gradualmente
a quello ecclesiastico in molti ambiti della vita culturale, politica ed economica.
Indubbiamente egli aveva manifestato, fin da giovane, interessi culturali e una sensibili-
tà filosofica fuori dal comune; tali da apparire a suo padre, Federico Guglielmo I, noto come
il “Re Sergente” e famoso per l’impronta militarista, in netto contrasto con le qualità di un
sovrano. Ne era disceso un rapporto difficile e contrastato tra i due.
Prima di salire sul trono, a 18 anni, Federico tentò addirittura di fuggire in Inghilterra
insieme a un giovane ufficiale suo amico. Scoperti e arrestati, il re fece decapitare sotto gli
occhi del figlio il suo compagno di fuga. Lo stesso Federico fu radiato dall’esercito e impri-
gionato. Dovette piegarsi alla volontà del padre, redimersi attraverso il faticoso esercizio
di impieghi civili e militari, che lo resero esperto amministratore e buon comandante. Egli
non rinnegò tuttavia la passione per la letteratura e la filosofia e, una volta salito al potere,
entrò in contatto con i migliori uomini di cultura della sua epoca, legandosi soprattutto a
134 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Voltaire, che fu suo ospite nella residenza di corte di Potsdam (vicino a Berlino) dal 1750
al 1753.
L’incontro e la collaborazione tra il principe e il filosofo non furono, comunque, facili o
privi di contrasti e incomprensioni. In effetti, se indiscutibili furono le doti politiche e intel-
lettuali del monarca prussiano, le sue riforme seguirono soltanto superficialmente lo spi-
rito che animava gli illuministi. Ciò che egli perseguì con abilità e fermezza fu soprattutto
una politica di ingrandimento e di potenza per il suo paese.
Il fatto che suonasse il liuto, che componesse rime in francese e che coltivasse l’amicizia
con Voltaire non furono un indice attendibile del suo atteggiamento nelle questioni vera-
mente importanti. Atteggiamento che è meglio espresso dai troppo timidi provvedimenti a
favore dei contadini (ancora soggiogati ai proprietari terrieri) e dalla mancanza di un vero
interesse per lo sviluppo dell’istruzione pubblica.

5.3.3. Un segno dei tempi: la soppressione dell’ordine dei gesuiti.


Dalla Spagna all’Austria, dalla Francia all’Italia, tutti i sovrani cattolici d’Europa cercarono
di stabilire, nella seconda metà del Settecento, una maggiore indipendenza dei loro go-
verni rispetto all’autorità del papa. In gioco c’era la piena sovranità dello Stato, che essi
vedevano minacciata, o comunque limitata, dalla potenza temporale e spirituale delle ge-
rarchie ecclesiastiche. Perfino la nomina dei vescovi era questione che sempre più malvo-
lentieri veniva lasciata nelle mani del pontefice.
L’esempio più drammatico della tensione tra i paesi cattolici e la chiesa di Roma è costi-
tuito dalla battaglia politica e culturale che si combatté intorno al destino della Compagnia
di Gesù. Il riferimento è all’espulsione dei gesuiti decretata da molti Stati cattolici tra anni
Sessanta e Settanta del XVIII secolo. Un provvedimento che andava a colpire un ordine reli-
gioso che per oltre due secoli era stato il più valido strumento di azione della curia papale
nella difesa dell’ortodossia controriformistica e nella diffusione del cattolicesimo romano.
Fu soprattutto l’espulsione decretata dalla Francia, nel 1761, ad avere vasta risonanza
in tutta Europa. Il pretesto era stato fornito da un grosso scandalo provocato da alcune spe-
culazioni commerciali condotte dai gesuiti in una colonia francese dei Caraibi, la Martinica.
Quei fatti suscitarono a Parigi una forte mobilitazione dell’opinione pubblica contro la po-
tenza e i metodi spregiudicati della Compagnia di Gesù. L’indignazione era tale che Luigi
XV fu indotto ad allontanare i gesuiti dal suolo francese. Si può dire, del resto, che il terreno
fosse stato preparato, negli anni precedenti, dalle polemiche degli illuministi contro il po-
tere curiale e che quella decisione assecondasse, in fondo, anche le posizioni antiromane
tradizionalmente forti nella chiesa francese.
Negli anni successivi, seguirono espulsioni da molti altri Stati cattolici, fino a quan-
do papa Clemente XIV fu messo alle corde e si vide costretto a decretare la soppressio-
ne dell’ordine nel 1773. L’abolizione della Compagnia di Gesù (poi ripristinata all’inizio
dell’Ottocento) rappresentò certamente un segno evidente dei tempi nuovi, ai quali la ri-
voluzione culturale portata dall’illuminismo aveva dato un contributo importante, e può
essere considerato il simbolo più efficace della gravissima crisi di prestigio e di influenza
che la Chiesa cattolica e lo Stato pontificio attraversarono nel secolo dei lumi.
Capitolo 5. Illuminismo, circolazione delle idee e nascita di una opinione pubblica europea 135

5.4. Istruzione e alfabetizzazione. Giornali e lettori

La circolazione internazionale delle idee illuministiche sfruttò una molteplicità di veicoli


comunicativi. Giocarono un ruolo importante le istituzioni culturali e i nuovi luoghi della
socialità borghese. Si moltiplicarono le accademie, le società scientifiche, i salotti intel-
lettuali, i caffè, che mettevano a contatto uomini, esperienze, saperi diversi, favorendo le
opportunità di dialogo e di lettura. Il mercato librario si espanse considerevolmente be-
neficiando dei progressi della scolarizzazione e dell’alfabetismo. Crebbe in particolare la
produzione e il commercio di opere di divulgazione che facilitavano l’accesso ai più diversi
campi della conoscenza. La stampa periodica, con la sua agilità e la sua fruibilità, si impose
quale principale strumento di informazione e formazione a partire da modelli inglesi come
“The Spectator” e “The Review”.
“The Spectator” era il nome di un quotidiano londinese che uscì dal marzo 1711 al di-
cembre 1712. Un periodo breve, e tuttavia sufficiente a fare epoca nella storia del giorna-
lismo. Il suo fondatore, Joseph Addison, uomo politico, ma anche scrittore e drammaturgo,
orientò l’attenzione del giornale sui cambiamenti sociali e politici che interessarono in
quegli anni la Gran Bretagna, dando spazio ogni giorno a molteplici punti di vista.
Aveva invece periodicità diversa “The Review”, che usciva ogni tre settimane e che ebbe
una vita molto più lunga (si pubblicò dal 1704 al 1713). Diretta dallo scrittore e romanziere
Daniel Defoe, la rivista condivideva con “The Spectator” l’approccio politico liberale, l’at-
teggiamento mai banale o conformista e il pubblico ai cui si rivolgeva: la nascente borghe-
sia commerciale e gli strati più dinamici e produttivi della società inglese.
Pur senza trascurare il successo popolare di “The Review” fu in effetti lo “Spectator”, in
ragione del fatto che era un quotidiano, a essere considerato il primo esempio di giornali-
smo moderno. Rispetto alle tradizionali gazzette – che si limitavano a riportare notizie pri-
ve di analisi o di commento e avevano anzi uno spiccato carattere celebrativo nei confronti
di re e principi – il giornale di Addison si caratterizzò per una linea editoriale incentrata
sull’analisi disincantata di questioni di attualità e problemi aperti. Grazie a questa proposta
innovativa, “The Spectator” riuscì in poco tempo a conquistare molti lettori, raggiungendo
una tiratura di oltre 10 mila copie, un record per l’epoca. E, secondo le stime di Addison,
il giornale veniva letto addirittura da 60 mila persone, ossia un decimo della popolazione
della Londra di inizio Settecento.
Utilizzando uno stratagemma narrativo, ogni numero dello “Spectator” era idealmente
ambientato in un club, dove venivano messe a confronto le opinioni delle diverse categorie
sociali che in quei luoghi normalmente si incontravano: professionisti, commercianti, poli-
tici e letterati. Al giornalista era assegnato il ruolo imparziale di spettatore (spectator, per
l’appunto). Il principio di fondo che animava le pagine del giornale consisteva nell’idea che
il dialogo sociale fosse garanzia di benessere e miglioramento della società stessa, e che in
questo dialogo il giornalismo dovesse avere il ruolo di contribuire alla creazione dell’opi-
nione pubblica, mostrando e, se necessario, criticando, i diversi punti di vista.
Il successo dello “Spectator” fu tale che superò i confini dell’Inghilterra: anche in seguito
alla chiusura, alla fine del 1712, le ristampe che raccoglievano in volume i numeri del gior-
nale inglese circolarono in molte copie in Europa, generando numerosi tentativi di emula-
zione. Per quanto riguarda l’Italia, si possono ricordare almeno due esempi di periodici con
dichiarati riferimenti all’opera di Addison: “La frusta letteraria”, edita a Venezia tra il 1763
e il 1765 per iniziativa dello scrittore e polemista Giuseppe Baretti, e “Il Caffè”, la testata
milanese dei fratelli Verri di cui si è già avuto occasione di parlare (uscì tra il 1764 e il 1766).
136 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Nelle varie città europee, gli uomini di cultura si riunivano intorno a queste iniziative
editoriali sulla base di una vicinanza e di un comune sentire. Le riviste nascevano spesso
come conseguenza delle discussioni portate avanti in una cerchia di amici. E proprio l’ami-
cizia fu un sentimento molto celebrato dagli illuministi, fin dai primi numeri dello “Specta-
tor”, dove si affermava il grande “beneficio dell’amicizia, elisir della vita”.

5.4.1. Libertà di stampa e opinione pubblica.


Una miriade di gazzette politiche e giornali letterari proliferò in tutta Europa, favorendo,
con l’esercizio della libertà critica, la nascita di una opinione pubblica indipendente, che
almeno in alcuni casi cominciò a far sentire il proprio peso sulle scelte dei governi.
Il concetto di opinione pubblica è difficile da definire rigorosamente. Si tratta dell’opi-
nione del pubblico, cioè della collettività dei cittadini capaci di pensare e di esprimersi po-
liticamente. Essa è distinta dallo Stato e, talvolta, può essere anche contrapposta ai poteri
costituiti.
L’opinione pubblica nacque, di fatto, insieme alla stampa periodica e alle prime forme
di associazionismo culturale e politico (circoli, club, salotti e caffè). Si può, anzi, dire che
essa coincide con i suoi canali di espressione (la stampa e, più tardi, gli altri mass-media) e
con i suoi luoghi privilegiati: circoli intellettuali e organizzazioni politiche.
A questo proposito, è bene ricordare che l’Europa del Settecento conosceva due regimi
di libertà di stampa fortemente contrastanti, e quindi condizioni molto diverse per il raf-
forzamento dell’opinione pubblica. Se in Gran Bretagna e Olanda newspapers e journals si
erano emancipati dalla censura e dall’obbligo dell’autorizzazione preventiva alla pubbli-
cazione, altrove imperversava ovunque la censura, benché talvolta temperata negli effetti
pratici. Così le numerose pubblicazioni, soprattutto periodiche, dei cenacoli illuministici
dovevano affrontare non poche difficoltà per far giungere la loro voce al pubblico.
Nonostante i molti ostacoli, il movimento dei lumi si inserì nel processo di sviluppo
della società civile, promuovendolo e indirizzandolo. I philosophes si rivolgevano diretta-
mente all’opinione pubblica, scrivendo di questioni inerenti alla collettività con intenzione
formativa e pedagogica. Impegnati a costruire una coscienza comune avvertita e affranca-
ta dalla tutela dei poteri tradizionali, gli illuministi incarnarono il prototipo del moderno
intellettuale, che impegna nella battaglia delle idee la propria capacità riflessiva.
La fiducia nel progresso dell’uomo e della società costituiva lo stimolo ulteriore all’im-
pegno per la formazione di élite intellettuali capaci di favorire un generale rinnovamento
non solo del pensiero, ma anche della società. Deve essere intesa in questo senso la precisa
volontà da parte degli illuministi di rappresentare una cultura pubblica.
Maturò, insomma, il convincimento che il dibattito culturale non doveva coinvolgere
solamente un ristretto numero di specialisti, ma diffondersi, nelle sue linee essenziali, al più
largo numero di persone. La divulgazione cominciò a essere intesa come un preciso com-
pito per i migliori conoscitori delle singole discipline: l’esempio più luminoso, ma non certo
l’unico, fu l’Enciclopedia. Una divulgazione che spaziava dalle scienze propriamente dette
alle discipline morali e politiche, assumendo dunque un significato immediatamente civile.

5.4.2. Scuola ed educazione.


Nel corso del Settecento l’importanza e lo spazio riservati all’educazione aumentarono.
Dalle teorie ai progetti, dalle polemiche alle difese, tutti sembravano voler scrivere su que-
sto argomento, componendo una letteratura sempre più ricca. L’istruzione entrava ormai
Capitolo 5. Illuminismo, circolazione delle idee e nascita di una opinione pubblica europea 137

a buon diritto nella grande storia politica e delle idee, nella storia delle istituzioni e degli
Stati. Alla base di questo mutamento stava un insieme di ragioni, materiali non meno che
ideali.
Mentre in passato si era discusso di educazione soprattutto da un punto di vista religio-
so e da parte di religiosi, gli uomini del XVIII secolo posero in primo piano fattori d’ordine
sociale ed economico. Non poco contò la chiusura della possente rete di scuole gesuitiche,
ramificatasi nel corso di due secoli fino a coprire l’intera Europa cattolica. La soppressione
dell’ordine liberò risorse e spazi, imponendo provvedimenti di riforma. D’altro canto l’e-
mergere di una nuova filosofia dell’uomo e della natura aveva aperto prospettive radical-
mente diverse. La teoria empirica della conoscenza conteneva infatti in sé i germi di una
vera rivoluzione pedagogica, che proprio gli uomini dell’illuminismo esplorarono in tutte
le sue conseguenze.
Si partiva dall’assunto che l’individuo alla nascita fosse come una tabula rasa nella qua-
le i contenuti morali e intellettuali sarebbero stati determinati dall’esperienza sensibile
e dagli insegnamenti impartiti. Di conseguenza, l’educazione vedeva accrescere enorme-
mente il proprio ruolo e i propri confini: il compito che poteva esserle affidato era quello di
plasmare una nuova umanità, conforme ai modelli più ottimistici e utopici. In questo senso,
la valorizzazione dell’infanzia fu una vera e propria scoperta compiuta dall’illuminismo.
La precedente visione, al contrario, considerava la prima fase dell’esistenza uno stato pre-
cario e transitorio, da cui era necessario uscire al più presto per raggiungere la maturità.
Dal lato pratico, il programma in cui si riconoscevano gli illuministi ruotava intorno a
una rivendicazione fondamentale: quella di una educazione che si voleva nazionale e veni-
va concepita, dunque, come un dovere pubblico. Per la prima volta la scuola fu riconosciuta
come strumento per realizzare l’unità morale della nazione; e per la prima volta allo Stato
venne attribuito il compito di dirigere quello che doveva diventare un settore-chiave della
vita associata.
Per molti degli illuministi il problema dell’istruzione si collegava strettamente al con-
cetto di pubblica felicità: l’educazione doveva cioè facilitare l’organizzazione più armo-
niosa del corpo sociale e avere come obiettivo fondamentale il bene comune. Per questo
motivo la scuola non poteva essere affidata a congregazioni private, che agivano senza
alcuna uniformità di metodi e unità d’intenti, ma allo Stato, naturale garante del bene
pubblico. Per questo, inoltre, la scuola non poteva essere privilegio di pochi, ma – almeno
in linea di principio – estesa a ogni giovane per formarlo come membro responsabile della
comunità nazionale.
Gli illuministi si preoccuparono anche di intervenire nel merito di metodi e contenuti
didattici. La rivalutazione dell’infanzia come momento ricco di potenzialità li indusse a
liberare il bambino dal recinto delle lettere antiche, nel quale era isolato dalla pedagogia
tradizionale, moltiplicando al contrario i contatti formativi con l’universo contemporaneo.
Due motivi si intrecciavano e si fondevano su questo terreno: l’uno, già individuato, era
formare i giovani come cittadini, consapevoli delle leggi e dei meccanismi della società in
cui vivevano; l’altro era quello di preparare le generazioni future alle attività e alle profes-
sioni che la società stessa richiedeva. In tale prospettiva si propugnava l’uso della lingua
nazionale, si puntava sulla semplicità del metodo sperimentale e veniva offerto più ampio
spazio sia alle discipline storico-geografiche (che dovevano aprire la mente al confronto
con società diverse) sia alle scienze, che permettevano di verificare il rapporto tra astratto
e concreto, tra ragionamento ed esperienza.
Lo spirito riformista spesso si arrestò davanti al problema dell’educazione femminile,
dal momento che i philosophes continuarono a relegare donne e bambine nello spazio e
138 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

nelle competenze domestiche, suggerendo per le fanciulle una formazione specifica e ben
delimitata, soprattutto mirata alla felicità e al benessere dello sposo e dei figli. Si puntava,
dunque, su un insegnamento incardinato intorno a materie come: religione, alfabeto, lavori
donneschi e capacità di intrattenimento.
Considerando la complessa natura dell’illuminismo, la sua volontà di intervenire nel
mondo concreto non meno che nella sfera delle idee, si tratta ora di capire come e in quale
misura teorie, discussioni, polemiche elaborate in questo tempo o influenzate da tale mo-
vimento incidessero fattivamente sui processi educativi. Naturalmente le idee-forza dell’il-
luminismo vennero filtrate attraverso molteplici compromessi e mediazioni e finalizzate
dai sovrani all’obiettivo primario del controllo dall’alto sulla scuola. Tuttavia, nel corso del
secolo, si registrò una sensibile crescita del numero di alfabetizzati; crescita non omoge-
nea né regolare, soggetta a fluttuazioni e arresti, ma apprezzabile ovunque nei suoi esiti.
Si ebbe, altresì, un perfezionamento significativo delle tecniche e dei metodi didattici e un
impegno evidente per meglio selezionare e formare i maestri.
I progressi, però, si registrarono soprattutto in ambito urbano, approfondendo di fatto il
divario fra classi rurali e urbane. Rimaneva, in definitiva, intatta l’estraneità di larga parte
degli strati popolari nei confronti del sistema scolastico.

5.5. La borghesia in primo piano

Storicamente, la cultura dei lumi e il programma di rinnovamento civile a essa sotteso ac-
compagnarono ovunque la crescente egemonia dei ceti borghesi (nei commerci, nelle pro-
fessioni, nelle manifatture) e la loro lotta con le strutture del sopravvivente mondo feudale.
Nel carattere progressivo e riformatore del movimento illuminista era contenuto un
atteggiamento nei confronti della vita che fu in grado di interpretare alla perfezione i bi-
sogni e le aspirazioni della società civile del XVIII secolo. Si potrebbe parlare di tendenza
“antimetafisica”, con riferimento alla volontà di porre bene in evidenza la centralità del
mondo terreno, inteso come luogo in cui realizzare la felicità, sia pubblica che individuale.
La borghesia settecentesca voleva un mondo in cui le pretese ereditarie di superiorità
venissero ignorate a favore della capacità e del duro lavoro e dove le scelte dei passati
regimi non continuassero a gravare sul presente come un fardello insopportabile. A finire
sotto accusa erano i vincoli feudali, così come i sistemi annonari e le politiche mercantili-
stiche del secolo precedente, che dovevano essere finalmente superati da un programma
riformatore centrato sulla libera iniziativa economica e il libero scambio.
Nonostante i contrasti sociali appena delineati, rappresentare l’illuminismo come una
rivolta della borghesia contro la nobiltà sarebbe in gran parte sbagliato. Tra i sostenitori
della cultura dei lumi si trovavano tanti aristocratici e perfino alcuni sovrani. I despoti il-
luminati di Austria, Prussia e Russia stavano lì a dimostrare che i tentativi di rinnovamento
venivano anche dall’alto.
Fatto sta che ogni proposito di riforma, soprattutto quando relativo alla proprietà fon-
diaria e alle politiche fiscali, si scontrò con la tenace opposizione dei settori a vario titolo
privilegiati: la nobiltà terriera, anzitutto, gelosa della giurisdizione signorile e delle varie
esenzioni in materia di tassazione; e il clero, che lottava per mantenere il suo peso nella
Capitolo 5. Illuminismo, circolazione delle idee e nascita di una opinione pubblica europea 139

formazione delle coscienze, ma che era legato anche ai suoi privilegi fiscali. Un peso non
indifferente ebbe, inoltre, il naturale conservatorismo delle masse popolari.
Tuttavia, se è vero che il processo riformatore non produsse molto più di una lieve incri-
natura dei vecchi rapporti sociali, cominciarono comunque ad aprirsi spazi di manovra più
ampi per le classi non privilegiate e, in primo luogo, per la borghesia. Si è visto, ad esempio,
come nelle città europee acquisisse un peso via via maggiore l’opinione pubblica, con i suoi
luoghi d’incontro e i suoi strumenti d’informazione.
Tutto ciò favorì una maggiore consapevolezza della società civile rispetto alla scelte
compiute dal potere pubblico. La necessità maggiormente sentita era quella di liberare le
potenzialità delle forze sociali più vive, moderne e dinamiche. La strada da seguire era in-
dicata dalla Gran Bretagna e dalla sua economia, ormai avviata alla leadership mondiale.
Su queste basi, e attraverso un attento riesame dei precedenti modelli feudali e asso-
lutistici, prese forma in tutta Europa un profondo rinnovamento del pensiero economico,
che trovò il suo rappresentante più significativo nel filosofo ed economista scozzese Adam
Smith, il quale nel 1776 pubblicò il libro Ricerche sulla natura e le cause della ricchezza
delle nazioni (noto in breve come Ricchezza delle nazioni).
La vita di Smith mostrava come nell’età dei lumi il passaggio dagli studi di teologia e
di morale a quelli di economia politica fosse se non comune, comunque non inconsueto.
Egli fu professore di retorica e letteratura a Glasgow, raggiungendo una certa notorietà in
quelle discipline, prima di dedicarsi alla stesura del suo capolavoro.
Non è un caso che proprio in Gran Bretagna, cioè nel paese in cui era più avanzato il
processo di sviluppo capitalistico, apparisse un testo che indicava nella divisione e nella
produttività del lavoro la base del sistema economico. Le posizioni di Smith possono essere
sintetizzate in tre punti: il lavoro è la vera fonte della ricchezza umana; il lavoro, se orga-
nizzato in un certo modo, è fattore di progresso per l’intera società; il lavoro determina il
valore dei beni.
Non va trascurato un altro aspetto storicamente rilevante delle dottrine di Smith: la
teoria secondo la quale la ricerca del profitto individuale finisce per coincidere con gli in-
teressi di tutta la comunità, conducendo a una sorta di armonia universale guidata da una
benefica e demiurgica “mano invisibile”, rappresentata dal mercato. Posizioni come questa
hanno per lungo tempo sostenuto una totale fiducia nella libera concorrenza e nel primato
dell’iniziativa privata. Tutto ciò, del resto, rispondeva largamente alle esigenze delle for-
ze ascendenti del capitalismo borghese e andava inquadrato nella già ricordata polemica
contro i vincoli della politica mercantilistica.
Uno degli imperativi morali e sociali più diffusi tra i filosofi illuministi fu quello di otte-
nere, attraverso l’applicazione delle riforme, “la maggiore felicità divisa nel maggior nu-
mero” (le parole citate sono di Cesare Beccaria). Questa sorta di slogan – assolutamente
moderno e, per certi versi, sempre attuale – dava voce alla mentalità e alle esigenze dei
ceti intellettuali e mercantili emergenti, al loro desiderio di guadagnare una migliore con-
dizione di vita, alla loro volontà di partecipare alle decisioni riguardanti il governo e di
discutere a viso aperto la riforma delle leggi e delle istituzioni.
Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea:
dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra
di Carlo De Maria
Roma (BraDypUS) 2018
ISBN 978-88-98392-70-4
pp. 141-150

Capitolo 5. Illuminismo, circolazio-


ne delle idee e nascita di una opi-
nione pubblica europea
Approfondimenti
Profili
Jean-Jacques Rousseau

Nato a Ginevra nel 1712, rimasto presto orfano, si allontanò dalla sua città ancora adole-
scente senza una meta precisa. Povero e vagabondo, ma con una buona cultura costruita
attraverso letture di ogni tipo, Rousseau osservò la società europea da tutti i lati e da tutti
i livelli. Fu novizio in un convento e cameriere al servizio di aristocratici; segretario di un
ambasciatore a Venezia; assistente di una scrittrice di provincia e amante di grandi dame
parigine; infine compositore di successo, vincitore di premi letterari e amico degli enciclo-
pedisti.
Nonostante le molte vicissitudini della sua vita, Rousseau diventò il pensatore più in-
fluente del XVIII secolo, superando perfino Voltaire, soprattutto agli occhi della giovane
generazione che sarà protagonista della Rivoluzione francese (che egli non riuscì a vedere,
dal momento che morì nel 1778). Pur appartenendo alla schiera degli illuministi, egli se ne
distaccò almeno in parte, affermando che i bisogni dell’uomo andavano oltre l’utilità e la
razionalità.
Quello che le opere di Rousseau offrirono ai contemporanei fu il riconoscimento di bi-
sogni che tutti i ragionamenti geometrici trascuravano: sentimenti, passioni e religiosità.
L’uomo non vive solo di calcoli, ma anche di senso morale. L’arte e la saggezza di Rousseau
consistettero nel connettere la realtà interiore dell’uomo in carne e ossa con le idee critiche
e le istanze di rinnovamento della cultura illuminista.
Nel suo originale percorso di scrittore e saggista affrontò l’esistenza umana sotto di-
verse angolature. Si occupò, ad esempio, di infanzia e di formazione morale dell’individuo
(Emilio o Dell’educazione), anticipando alcune acquisizioni della moderna pedagogia. In
particolare rivendicò l’autonomia e la peculiarità dell’infanzia rispetto all’età adulta, soste-
nendo che i bambini hanno modi di vedere, di pensare e di sentire del tutto speciali e non
riconducibili a quelli degli adulti.
Nel romanzo Giulia o La nuova Eloisa descrisse le tempeste e le tentazioni dell’amore,
ma anche le caratteristiche di una vita decorosa e semplice: lo sport all’aria aperta anziché
142 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

il gioco e l’ubriachezza; il duro lavoro e una modesta socievolezza al posto di fronzoli e


atteggiamenti sofisticati.
Rousseau trattò, inoltre, temi propriamente politici (Il contratto sociale) e le sue conce-
zioni lo portarono a sostenere la democrazia rappresentativa come lo strumento migliore
per salvaguardare sia i diritti individuali che il benessere generale. Infine nelle sue Confes-
sioni, una delle più intense opere autobiografiche che siano mai state scritte (pubblicata
postuma tra il 1782 e il 1789), tornò a una riflessione sulla essenza della vita e cercò di
mostrare come pensiero e sentimenti alimentino insieme l’energia vitale dell’uomo.
Con l’opera di Rousseau ci si trova già oltre quelle prospettive di tipo riformistico che
furono così diffuse negli ambienti dei philosophes e che si tradussero in battaglie per i
diritti civili e per la tolleranza politica e religiosa. Rousseau introdusse nella riflessione
illuministica tendenze di tipo più schiettamente democratico e repubblicano. Nella sua
visione filosofica e politica, il potere politico è fondato sul popolo, di cui i governanti sono i
funzionari, e la sovranità popolare esprime la volontà generale dei cittadini. Il potere legi-
slativo prevale su quello esecutivo e la figura del sovrano scompare.
A partire dalla Francia, i principi del contrattualismo rousseauiano e della sovranità po-
polare ebbero larga diffusione e da essi derivarono tematiche fondamentali della moderna
cultura civile.

Focus
Adam Smith e il libero scambio

Da molti definito il padre della scienza economica, Adam Smith nacque nel 1723 in un pic-
colo porto scozzese non lontano da Edimburgo. Suo padre era controllore delle dogane ed
esattore del dazio. Incarnava, per ironia della sorte, quella politica protezionistica e mercan-
tilistica che sarebbe stata fortemente criticata dal figlio.
Dopo aver studiato nelle università di Glasgow e Oxford, il giovane Smith cominciò a
insegnare retorica e letteratura a Edimburgo, poi logica e filosofia morale nella stessa Gla-
sgow. Nel 1759 pubblicò La teoria dei sentimenti morali, dove approfondì i corsi tenuti
all’università, introducendo nel dibattito filosofico il “principio di simpatia”.
Per simpatia, sentimento innato nell’uomo, Smith intendeva la capacità di identificarsi
nell’altro, di mettersi al suo posto e di comprenderne gli stati d’animo, in modo da poter-
ne ottenere l’apprezzamento e l’approvazione. Attraverso questi rapporti intersoggettivi si
formava la coscienza morale degli individui. La “metodologia” smithiana insisteva, dunque,
sulla complessità delle motivazioni all’origine dei comportamenti umani, mentre diffidava
dell’idea di rigide leggi naturali.
La pubblicazione del libro procurò a Smith una certa notorietà, che gli consentì nel de-
cennio successivo – durante un soggiorno in Svizzera e in Francia – di essere ammesso nei
migliori salotti di Ginevra e Parigi, dove conobbe Voltaire, d’Alembert e altri esponenti del-
la cultura dei lumi. Di ritorno in Gran Bretagna, nel 1767 cominciò la stesura di La ricchezza
delle nazioni, che uscì circa dieci anni dopo ottenendo una risonanza internazionale. Prima
di allora, infatti, nessuno era stato in grado di fornire in un’unica opera il quadro generale
delle forze che determinano la crescita e lo sviluppo delle economie nazionali.
Capitolo 5. Approfondimenti 143

Nel libro, Smith definì alcune proposte pratiche che divennero sempre più popolari nel
corso del secolo successivo. L’autore scozzese giudicava il sistema mercantilistico niente
altro che un anacronismo, che era stato dettato nel Seicento dalle esigenze delle frequenti
guerre e dall’egoismo di compagnie e gruppi mercantili. Era assurdo continuare a imporre
dazi di importazione, tasse e balzelli al commercio e alla distribuzione dei beni di consumo,
con il solo scopo di arricchire le casse pubbliche. Così facendo, infatti, non si faceva che
alzare i prezzi e impoverire la popolazione.
Al mercantilismo, Smith contrapponeva il libero scambio, cioè la libera circolazione
delle merci tra tutti i paesi tramite l’eliminazione dei dazi e delle frontiere. L’applicazione
di questo rimedio avrebbe portato la pace e avrebbe consentito il ritorno dell’economia al
saggio governo della natura, senza intromissioni del potere pubblico.
Nelle pagine di La ricchezza delle nazioni tornava anche il principio di simpatia, che
soggiaceva infatti allo scambio economico e al mercato. Il tipico esempio portato da Smith
era il seguente: il panettiere produce pane non per farne dono (benevolenza), ma per ven-
derlo (perseguimento del proprio interesse); tuttavia, il panettiere produce quel pane an-
che perché suppone che sia desiderato, apprezzato, dal cliente. In altri termini, il panettiere
cerca l’apprezzamento del suo cliente, senza il quale egli non potrà vendere il proprio
pane né soddisfare i propri interessi.
In definitiva, gli individui, mossi dal principio di simpatia, vanno alla ricerca dell’ap-
prezzamento degli altri, ed iniziano a lavorare, a costruire e ad accumulare, favorendo di
conseguenza la produzione economica. Milioni di decisioni e iniziative economiche, prese
autonomamente, creano il libero mercato.

Costituzione e cittadinanza
La lezione sull’uguaglianza di Voltaire

François-Marie Arouet detto Voltaire (1694-1778) seppe fare del pamphlet un’arma stra-
ordinariamente efficace per la divulgazione delle idee e per le controversie politiche e
giuridiche. In una breve raccolta di articoli intitolata Dizionario filosofico portatile (1764),
sotto il tono di una chiacchierata faceta, trattò gli argomenti più diversi, denunciandovi
puntualmente gli abusi politici e sociali. Il piccolo Dizionario si presentava come una sorta
di compendio della voluminosa Enciclopedia di Diderot e d’Alembert, facile da maneggiare
e da nascondere.
Sotto la voce “eguaglianza” Voltaire scriveva: “Che cosa deve un cane a un altro cane o
un cavallo a un altro cavallo? Nulla. Nessun animale dipende da un suo simile. Ma l’uomo,
avendo ricevuto da Dio la luce che chiamiamo ragione, per suo mezzo ha fatto di se stes-
so – che cosa? – uno schiavo quasi ovunque... Tutti gli uomini sarebbero necessariamente
eguali se fossero liberi dal bisogno. È il bisogno che assoggetta un uomo a un altro – non
che l’ineguaglianza sia un male in sé, ma la dipendenza lo è. Non ha importanza se uno vie-
ne chiamato Vostra Altezza e un altro Sua Santità, ciò che è grave è essere schiavi dell’uno
o dell’altro”.
La lezione sull’uguaglianza di Voltaire procedeva approfondendo l’esame della condi-
zione umana. Secondo il filosofo francese (che riprendeva le riflessioni di Locke), l’uomo
nasceva libero e poi rinunciava a parte della sua libertà per il vantaggio di una mutua pro-
144 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

tezione all’interno della società. Conservava, però, alcuni diritti inalienabili: il diritto alla
vita e alla proprietà; il diritto all’educazione e a veder tollerata la propria fede religiosa; il
diritto alla completa libertà di parola e di stampa. Egli era soggetto alle leggi, ma con la
garanzia che esse fossero uguali per tutti e amministrate senza riguardo a privilegi perso-
nali. Egli inoltre doveva avere la possibilità di partecipare al governo del proprio paese o
di controllarne ed eventualmente criticarne l’operato. Principi siffatti avrebbero condotto
alla liberazione da quello stato di servitù che ancora predominava nel mondo.
Così facendo, Voltaire delineava una dichiarazione dei diritti molto simile a quelle che
figureranno pochi decenni più tardi nelle costituzioni degli Stati Uniti e della Francia rivo-
luzionaria. Con le grandi rivoluzioni di fine Settecento l’uguaglianza, da tema di dibattito
teorico, si fece passione politica dominante, in tutte le sue declinazioni: uguaglianza di
fronte alla legge, parità di diritti politici, rivendicazione del diritto alla sussistenza e alla
felicità comune. In definitiva, come vero fondamento della libertà.

Fonti e documenti
L’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert come specchio di un
secolo

Introduzione
L’Enciclopedia rappresentò una vera e propria istituzione della cultura illuministica, ma
nacque quasi per caso. Nel 1747 un giovane letterato francese, Denis Diderot, fu invitato
da un editore parigino a curare la pubblicazione di una enciclopedia. Doveva essere un
semplice lavoro editoriale, seppure di una certa mole, ma nel preparare il piano dell’opera,
Diderot ebbe l’idea di servirsi di quella pubblicazione per diffondere le nuove idee dell’il-
luminismo.
In base al progetto editoriale da lui ideato in collaborazione con il matematico Jean
Le Rond d’Alembert, e grazie a un lavoro condotto per anni con grande caparbietà, i volu-
mi dell’Enciclopedia accolsero, tra il 1751 e il 1772, una straordinaria miniera di fatti e di
opinioni che si diffusero per tutta Europa, insegnando alla società del Vecchio continente
cos’erano, o cosa avrebbero dovuto essere, la “ragione”, i “diritti”, l’“autorità”, il “governo”,
la “libertà”, l’“eguaglianza” e analoghi principi sociali.
L’opera era sovversiva come tendenza, non come impianto. Era una vera e propria en-
ciclopedia, non una raccolta di dichiarazioni provocatorie. E tuttavia si davano per scontati
il principio di tolleranza, il progresso dello spirito e della scienza, il comune impegno per il
bene di tutto il popolo. Affermazioni di portata rivoluzionaria.
Il titolo completo dell’opera era Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences,
des arts et des métiers. L’ultimo dei tre argomenti – i mestieri – non era il meno impor-
tante. Diderot era figlio di un coltellinaio e pertanto molto interessato all’artigianato e
alla meccanica. Durante la preparazione dell’Enciclopedia, molte delle sue ore di lavoro
le trascorse in laboratori di artigiani, studiando quegli strumenti che poi i suoi illustratori
disegnarono per arricchire la pubblicazione. Gli undici volumi di tavole erano di per sé una
novità prorompente, in quanto rendevano pubblico ciò che fino ad allora era stato tenuto
Capitolo 5. Approfondimenti 145

segreto dalle corporazioni e dai singoli artigiani, dando così sostegno alla convinzione se-
condo la quale la diffusione della conoscenza era la strada maestra verso l’emancipazione
e il progresso sociale.
Un altro aspetto dell’Enciclopedia era degno di nota: per completare l’opera Diderot
si affidò a decine e decine di collaboratori sparsi per l’Europa. Ciò significava che verso la
metà del secolo i principi dell’illuminismo erano già diffusi in molte parti del continente,
a delineare veramente, secondo le parole usate da Diderot, “una società di uomini legati
dall’interesse generale del genere umano e da un sentimento di reciproca benevolenza”.
Prima di allora una impresa del genere sarebbe stata praticamente impossibile, sia per la
mancanza degli adeguati strumenti critici, sia per il relativo isolamento che aveva caratte-
rizzato la vita degli uomini di cultura.
La fortuna dell’Enciclopedia durò diversi decenni e si propagò in molti paesi: Francia,
Svizzera, Italia, Germania, Inghilterra, Russia e America, offrendo un’altra prova tangibile
della pervasiva diffusione delle idee nell’Europa dei lumi.

Dal Discorso preliminare dell’Encyclopédie (1751)


L’Enciclopedia, come suona il titolo, è opera di una società di scrittori. Se non ne faces-
simo parte anche noi, potremmo affermare che sono favorevolmente noti o meritano di
esserlo. Ma, senza voler anticipare un giudizio che soltanto i dotti dovranno pronunziare,
è nostro dovere almeno prevenire fin da ora l’obiezione che più di ogni altra può nuocere
al successo d’una così grande impresa. Dichiariamo che non siamo stati così temerari da
addossarci da soli un peso tanto superiore alle nostre forze, e che la nostra funzione di
curatori consiste soprattutto nell’ordinamento dei materiali fornitici in massima parte da
altre persone. [...].
L’opera che iniziamo – e che speriamo di portare a termine – ha due scopi: in quanto “en-
ciclopedia”, deve esporre nel modo più esatto possibile l’ordine e la connessione delle
conoscenze umane; in quanto “dizionario ragionato delle scienze, arti e mestieri”, deve
spiegare i principi generali su cui si fonda ogni scienza e arte, liberale o meccanica, e i più
autorevoli particolari che ne costituiscono il corpo e l’essenza. Il duplice angolo visuale
dell’“enciclopedia” e del “dizionario ragionato” fornirà il piano e la partizione di questo
discorso introduttivo. Seguiremo le due prospettive l’una dopo l’altra, rendendo conto dei
mezzi che si sono usati per soddisfare il duplice scopo.
Basta appena riflettere sui reciproci nessi che sussistono tra le invenzioni umane per ren-
dersi conto che scienze e arti si aiutano le une con le altre, e che v’è una catena che le
unisce. Ma molto spesso è arduo ridurre una singola scienza o arte a poche regole o nozioni
generali; non meno arduo è saldare in un solo sistema i rami infinitamente molteplici della
scienza umana.
Il primo passo da fare in tale ricerca è esaminare, ci si passi il termine, la genealogia o
filiazione delle conoscenze, le loro cause, i loro caratteri distintivi; risalire, in breve, all’o-
rigine ad alla genesi stessa delle nostre idee. Esame – a parte l’utilità che ne trarremo per
l’enumerazione enciclopedica delle scienze o arti – non certo fuor di luogo all’inizio di un
dizionario ragionato delle conoscenze umane.

L’esistenza umana e la nascita della società.


Possiamo distinguere tutte le nostre conoscenze in dirette e riflesse. Dirette sono quelle
che riceviamo immediatamente senza intervento della volontà e che, trovando aperte, se
146 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

così si può dire, tutte le porte della nostra anima, vi entrano senza sforzo e senza incontrare
resistenza. Riflesse sono le conoscenze che lo spirito ottiene operando su quelle dirette,
unificandole e combinandole.
Tutte le nostre conoscenze dirette si riducono a quelle che riceviamo attraverso i sensi: ne
consegue che tutte le nostre idee provengono dalle sensazioni. [...]. La prima cosa che le
nostre sensazioni ci insegnano, e che neppure si distingue da esse, è la nostra esistenza.
Ne segue che le nostre prime idee riflesse riguardano noi, ossia il principio pensante che
costituisce la nostra natura, e che non si distingue da noi stessi. La seconda conoscenza che
dobbiamo alle nostre sensazioni è l’esistenza degli oggetti esterni, tra i quali va compreso
anche il nostro corpo, giacché esso resta, per così dire, esteriore a noi, anche prima che ci
si renda conto della natura del principio pensante. Tali oggetti innumerevoli producono su
di noi un effetto così possente e continuo, e noi ci immedesimiamo talmente in essi che, se
in un primo tempo le idee riflesse ci fanno rientrare in noi stessi, subito le sensazioni che
ci assediano da tutte le parti e ci sottraggono alla solitudine, nella quale senza di esse ci
troveremmo, ci obbligano a uscire di nuovo fuori di noi. La molteplicità di tali sensazioni,
l’accordo che possiamo notare tra le loro testimonianze, le sfumature che vi cogliamo, le
affezioni involontarie che esse ci fanno provare, paragonate con l’atto di volontà che pre-
siede alle nostre idee riflesse ed opera soltanto sulle nostre sensazioni; tutto ciò determina
in noi una tendenza irresistibile ad asserire l’esistenza degli oggetti ai quali riferiamo tali
sensazioni e che ci appaiono esserne la causa. [...].
Tra i vari oggetti che producono in noi affezioni, più di tutti ci colpisce l’esistenza del nostro
corpo, che ci appartiene nel modo più intimo: ma non appena percepiamo l’esistenza del
nostro corpo, ci rendiamo conto dell’attenzione che esso esige da noi per poter schivare i
pericoli che lo minacciano. Soggetto a mille bisogni ed estremamente sensibile all’azione
dei corpi esterni, sarebbe subito distrutto se noi non vigilassimo alla sua conservazione.
Non che tutti i corpi esterni ci facciano provare sensazioni sgradevoli; alcuni sembrano
compensarci con il piacere che ci procurano. Ma tale è l’infelicità della condizione umana,
che il sentimento più energico in noi è quello del dolore; assai meno ci commuove il piace-
re, che non basta a consolarci di quello. Invano certi filosofi, trattenendo le urla negli strazi,
sostennero che il dolore non è un male; inutilmente altri posero la felicità estrema nella
voluttà, che tuttavia fuggivano per paura delle sue conseguenze. Tutti costoro avrebbero
avuto una conoscenza migliore della natura umana, se si fossero limitati a considerare la
privazione del dolore come il maggior bene della vita presente; e se avessero ammesso
che, non potendo noi raggiungere quel sommo bene, ci è consentito soltanto accostarci
più o meno ad esso, a seconda del nostro impegno in tal senso. Riflessioni così naturali
s’imporranno indubbiamente ad ogni uomo che sia lasciato a se stesso, libero da pregiudizi
d’educazione o di studi. Esse seguono la prima impressione che costui riceve dagli oggetti,
e si possono annoverare tra quei primi moti dell’animo, che sono preziosi ai veri savi e de-
gni di esser da loro studiati, ma sono ignorati e negletti dalla comune filosofia, della quale
i savi quasi sempre smentiscono gli assiomi.
La necessità di preservare il nostro corpo dal dolore e dalla distruzione ci induce a consi-
derare quali, tra gli oggetti esteriori, possano esserci utili o nocivi, onde ricercare gli uni
e schivare gli altri. Ma non appena cominciamo a passare in rassegna tali oggetti, ne in-
dividuiamo un gran numero che ci appaiono del tutto simili a noi, ossia di forma analoga
alla nostra, e che ci sembrano possedere, per quanto possiamo giudicare a prima vista, le
medesime nostre percezioni. Tutto ci fa dunque ritenere che abbiano i medesimi nostri
bisogni, e di conseguenza il nostro medesimo impulso a soddisfarli. Ne risulta che a noi
Capitolo 5. Approfondimenti 147

sarà assai vantaggioso unirci con loro per individuare ciò che in natura ci è utile o nocivo.
Presupposto e sostegno di questa unione è la comunione delle idee, che esige naturalmen-
te l’invenzione dei segni. Ecco dunque l’origine delle società, nelle quali probabilmente
nacquero le lingue. [...].

Le scienze, le arti e i mestieri.


L’impero delle scienze e delle arti è un mondo remoto dal volgo, dove ogni giorno si scopre
qualcosa di nuovo, ma del quale si hanno molte notizie fantastiche. Era importante confer-
mare quelle autentiche, prevenire quelle false, fissare i punti di partenza e facilitare così
la ricerca di ciò che resta da scoprire. Si citano fatti, si paragonano esperienze, si trovano
metodi soprattutto per spronare l’intelligenza ad aprirsi strade ignote, a compiere nuove
scoperte, prendendo come punto di partenza il punto di arrivo cui sono giunti i grandi uo-
mini. Questo è il fine che ci siamo proposti, associando ai principi delle scienze e delle arti
liberali la storia della loro origine e dei loro successivi progressi. E, se l’abbiamo conseguito,
molte persone intelligenti non si preoccuperanno più di indagare che cosa si sapeva pri-
ma di loro. Sarà facile distinguere nelle opere che saranno pubblicate da ora in poi sulle
scienze e sulle arti liberali i contributi originali degli inventori da ciò che invece essi hanno
ereditato dai loro predecessori: verranno apprezzati i lavori originali e saranno ben pre-
sto smascherati tutti coloro che, avidi di fama e privi di genio, pubblicano vecchi sistemi
facendoli passare audacemente come idee nuove. Ma per arrivare a simili risultati è stato
necessario dare a ciascuna materia una estensione conveniente, insistere sull’essenziale,
trascurare le minuzie, evitare un difetto piuttosto comune, cioè il dilungarsi su ciò che non
richiede che una parola, il dimostrare l’incontestabile e commentare ciò che è chiaro. Non
abbiamo risparmiato né prodigato i chiarimenti. [...].
Gli articoli concernenti gli elementi delle scienze sono stati elaborati con la massima cura;
sono, in realtà, la base e il fondamento degli altri. Per questa ragione gli elementi di una
scienza possono essere trattati bene soltanto da chi l’ha coltivata a fondo; poiché racchiu-
dono il sistema dei principi generali che si estendono alle diverse parti della scienza; e per
conoscere il modo migliore di presentare tali principi bisogna averne fatto una pratica
varia e approfondita. [...].
La parte delle arti meccaniche non richiedeva meno particolari né meno cure. Forse non v’è
mai stato un tal cumulo di difficoltà e così pochi ausilii, nei libri, per superarle. Si è scritto
troppo sulle scienze; non si è scritto abbastanza degnamente sulla maggior parte delle arti
liberali; non si è scritto quasi nulla sulle arti meccaniche: che cos’è infatti quel poco che si
trova negli autori, rispetto alla vastità e fecondità dell’argomento? Tra coloro che ne hanno
trattato, l’uno non aveva sufficiente conoscenza di ciò che doveva dire, ed ha dimostrato
piuttosto la necessità di un’opera migliore, che non raggiunto il suo scopo; un altro ha ap-
pena sfiorato la materia, trattandola da grammatico o da letterato anziché da artigiano; un
terzo è magari meglio fornito e più artigiano, ma è nel medesimo tempo talmente conciso,
che le operazioni degli artigiani e la descrizione delle macchine, materia che da sola può
fornire materiale per opere voluminose, non occupano che una piccolissima parte della
sua opera. [...].
Tutto c’induceva dunque a ricorrere agli artigiani. Ci siamo rivolti ai più abili di Parigi e
del regno. Ci siamo presi la pena di andare nei loro opifici, interrogarli, scrivere sotto loro
dettatura, sviluppare i loro pensieri, trovare termini adatti ai loro mestieri, tracciare le re-
lative tavole e definirle, parlare con coloro dai quali avevamo ottenuto memorie scritte, e
148 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

(precauzione quasi indispensabile) rettificare in lunghi e ripetuti colloqui con alcuni, ciò
che altri avevano spiegato insufficientemente, oscuramente, talvolta non fedelmente. Certi
artigiani sono anche letterati, e potremmo citarne qui, ma il loro numero sarebbe limitatis-
simo. La maggior parte di coloro che esercitano le arti meccaniche le hanno abbracciate
solo per necessità, e operano per istinto. Tra mille, se ne trova appena una dozzina capaci
di esprimersi in modo abbastanza chiaro sugli argomenti che impiegano e sugli oggetti che
fabbricano. Abbiamo visto operai che lavoravano da quarant’anni senza conoscere affatto
le loro macchine. È stato necessario esercitare con essi la funzione della quale Socrate si
gloriava, la funzione ardua e delicata di far partorire gli animi: obstetrix animorum.
Ma esistono strumenti così singolari e manovre così complesse che chi non abbia lavorato
personalmente, azionato una macchina con le proprie mani e visto formarsi l’opera sotto i
propri occhi, ben difficilmente può descriverli in modo preciso. È stato pertanto necessario
procurarsi più volte le macchine, costruirle, por mano all’opera, diventare per così dire ap-
prendisti, eseguire noi stessi pessimi lavori per insegnare agli altri a farne di buoni.
Così ci siamo resi conto della nostra ignoranza riguardo alla maggior parte degli oggetti
che ci servono nella vita, e della necessità di uscire da tale ignoranza. Così abbiamo potuto
dimostrare che il letterato che sappia meglio di tutti la lingua non conosce neppure la ven-
tesima parte delle parole; che sebbene ogni arte abbia una sua lingua, essa è ancora molto
imperfetta; che se gli operai si comprendono tra loro, ciò avviene per l’abitudine che hanno
di conversare, frequentemente, e molto più per la ripetizione delle medesime situazioni
che non per l’uso dei termini. In un opificio è il momento, non l’artigiano, che parla.
Ecco gli il metodo che si è seguito per ogni arte. Si è trattato:
1. Della materia, dei luoghi dove si trova, della maniera in cui va preparata, delle sue buone
e cattive proprietà, delle sue varie specie, e delle lavorazioni attraverso le quali la si fa
passare, sia prima di usarla, sia quando la si pone in opera.
2. Dei principali oggetti che si possono fabbricare e della maniera di farli.
3. Si è dato il nome, la descrizione e la figura degli strumenti e delle macchine, pezzo per
pezzo e nell’insieme, la sezione dei modelli ed altri strumenti dei quali era interessante
conoscere l’interno, i profili ecc.
4. Si sono spiegate la manodopera e le principali operazioni in una o più incisioni, in cui si
vedono sia le sole mani dell’artigiano al lavoro, sia l’artigiano stesso mentre esegue l’ope-
razione più importante dell’arte sua.
5. Si sono raccolti e definiti più esattamente possibile i termini propri dell’arte.
Ma la scarsa abitudine di scrivere e leggere gli scritti sulle arti rende difficile spiegare le
cose in maniera intellegibile, donde la necessità delle figure. Si potrebbe dimostrare con
mille esempi che un dizionario di pure e semplici definizioni, per quanto sia fatto bene, non
può fare a meno delle figure senza cadere in descrizioni vaghe e oscure. Dunque a maggior
ragione tale ausilio è per noi indispensabile. Un’occhiata all’oggetto o alla figura dice di più
che una pagina di testo.
Si sono mandati i disegnatori negli opifici. Si sono fatti schizzi di macchine e strumenti. Non
è stato omesso nulla di ciò che poteva servire a visualizzarli con chiarezza. Nel caso che
una macchina meriti di essere vista nei particolari per l’importanza della sua funzione e il
gran numero delle parti, dal semplice siamo passati al composto. Abbiamo cominciato con
il riunire, in una prima figura, quegli elementi che si potevano osservare senza far confu-
sione. In una seconda figura si vedono gli stessi elementi con alcuni altri. E così si è via via
Capitolo 5. Approfondimenti 149

formata la macchina più complicata senza nessuna difficoltà per la mente né per gli occhi.
Talvolta bisogna risalire dalla conoscenza di un lavorato a quella della macchina, altre
volte discendere dalla conoscenza della macchina a quella dell’oggetto. Nell’articolo Arte
si troveranno alcune riflessioni filosofiche sui vantaggi di quei metodi e sulle occasioni in
cui conviene preferire l’uno o l’altro. [...].
Del resto è la pratica che fa l’artigiano, e non è certo nei libri che la si può imparare. L’arti-
giano troverà nella nostra opera solamente istruzioni che non avrebbe mai avuto e osser-
vazioni che avrebbe fatto soltanto dopo molti anni di lavoro. Offriremo al lettore studioso
ciò ch’egli, per soddisfare la sua curiosità, avrebbe imparato da un artigiano vedendolo
all’opera; e l’artigiano ciò ch’esso dovrebbe apprendere dal filosofo per progredire verso
la perfezione. [...].
Nonostante i contributi e i lavori che abbiamo passato or ora in rassegna, noi dichiariamo
apertamente, a nome nostro e dei nostri colleghi, che saremo sempre disposti ad ammette-
re la nostra insufficienza e ad approfittare degli illuminati consigli che ci verranno offerti.
Li accetteremo con riconoscenza, perché siamo convinti che l’ultima perfezione di un’en-
ciclopedia è opera di secoli. Ci sono voluti secoli per cominciare, altri ce ne vorranno per
finire: ma ci basterà aver contribuito a porre le basi di un’opera utile.
Ciononostante avremo la soddisfazione interiore di non aver risparmiato nulla per riuscire:
una delle prove che addurremo è che nelle scienze e nelle arti certe parti sono state rifatte
perfino tre volte. Non possiamo fare a meno di dire, a onore dei librai associati, che essi
non hanno mai ricusato di prestarsi a ciò che poteva contribuire a perfezionarle tutte. È da
sperare che il concorso di un così gran numero di circostanze, come i lumi di quanti hanno
lavorato a quest’opera, il contributo di quanti vi si sono interessati e l’emulazione degli
editori e dei librai, produrrà qualche buon effetto.
Si può intendere da quanto precede che, nell’opera che presentiamo, si sono trattate le
scienze e le arti in maniera tale da non supporre nessuna conoscenza preliminare; che vi
è esposto tutto ciò ch’è interessante sapere su ogni argomento; che gli articoli si spiegano
gli uni con gli altri, e di conseguenza la difficoltà della nomenclatura non dà assolutamen-
te fastidio. Ne concludiamo che quest’opera potrà, almeno in avvenire, far le veci di una
biblioteca su ogni argomento che interessi un uomo di mondo; in ogni argomento, eccetto
il suo, per un dotto di professione; che svilupperà i veri principi delle cose; che ne metterà
in rilievo i rapporti; che contribuirà alla saldezza e ai progressi delle conoscenze umane e,
moltiplicando il numero dei veri dotti, degli artigiani eminenti e degli amatori illuminati,
diffonderà nella società nuovi beni.
Enciclopedia, o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri, ordinato da Dide-
rot e d’Alembert, traduzione e cura di P. Casini, Bari, Laterza, 1968, pp. 3-8, 96-97, 99-105.
Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea:
dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra
di Carlo De Maria
Roma (BraDypUS) 2018
ISBN 978-88-98392-70-4
pp. 151-164

Capitolo 6. La nascita degli Stati


Uniti d’America
Profilo storico

6.1. La popolazione nordamericana tra Sei e Settecento: indiani,


coloni europei e neri africani

Si calcola che nel XVII secolo fossero presenti in tutto il Nordamerica circa 4 milioni e mez-
zo di pellerossa. Il fatto che gran parte delle nazioni indiane avesse una concezione della
terra come proprietà collettiva, anziché individuale, e non avesse formato strutture stan-
ziali né praticato l’agricoltura, produsse negli europei la falsa percezione dell’America set-
tentrionale come un continente vuoto che chiunque avrebbe potuto modellare a proprio
piacimento nell’area dove si fosse trasferito. Per dare fondamento al diritto di occupazione
i coloni europei si avvalsero di un argomento della tradizione giuridica europea noto come
res nullius, secondo il quale tutte le “cose vuote”, incluse le terre libere, restano comune
proprietà dell’umanità intera fino a quando vengano destinate stabilmente a un certo uso:
il primo a usare la terra (di solito per scopi agricoli) ne diventa il proprietario. In effetti, sta-
va accadendo proprio questo, dal momento che i coloni si stabilivano in territori sui quali
solitamente gli indiani non avevano fatto altro che andare a caccia e, dunque secondo la
logica europea, i nuovi arrivati potevano recintarli e acquisirne i diritti di proprietà.
A partire dai primi insediamenti di inizio Seicento, e per almeno cinquant’anni, le colo-
nie inglesi in Nordamerica nacquero per iniziativa del tutto spontanea di compagnie com-
merciali e di minoranze religiose. Mercanti e uomini d’affari erano attirati in America dalle
prospettive di guadagno che si potevano realizzare con i traffici tra il Vecchio continente e
il Nuovo mondo. I gruppi puritani e cattolici, da parte loro, fuggivano dai continui contrasti
con la chiesa anglicana e cercavano al di là dell’Atlantico la possibilità di una nuova vita
all’interno di comunità guidate da determinati principi religiosi. Con questo intento i “padri
pellegrini” puritani si stabilirono nel 1620 in Massachusetts e, poco più tardi, nel 1632, un
certo numero di coloni cattolici si insediò nel Maryland. Sia gli uni che gli altri ottennero il
beneplacito della madrepatria solamente a cose fatte. Le autorità inglesi cercavano così di
governare e riportare sotto il proprio controllo un fenomeno di natura privata e non statale.
A metà del XVII secolo si contavano in Nordamerica già oltre 30 mila coloni inglesi.
Dopo il 1660, con la restaurazione degli Stuart sul trono d’Inghilterra e la loro volontà di
152 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

rafforzare la monarchia in seguito alla breve parentesi repubblicana (1649-60), il controllo


degli organi di governo inglesi sulle colonie fu maggiore e più diretto. La fondazione di una
nuova colonia poteva avvenire solo con la preventiva autorizzazione della corona inglese,
pur senza negare agli insediamenti americani un certo grado di autonomia amministrativa
e, soprattutto, la possibilità di sviluppare in piena libertà le proprie istituzioni culturali e
religiose. Ne fu una chiara dimostrazione la nascita in Pennsylvania, nel 1683, di una impor-
tante comunità quacchera, che rappresentò un approdo sicuro per quel piccolo movimento
protestante, nato pochi decenni prima in Inghilterra su posizioni di dissenso rispetto alla
chiesa anglicana.
L’abbondanza e fertilità delle terre favorirono una considerevole espansione demogra-
fica, essenzialmente alimentata da tre fattori: i flussi migratori provenienti dall’Europa, la
crescita naturale della popolazione e la deportazione di schiavi africani. I 250 mila abitanti
delle colonie inglesi all’inizio del Settecento divennero circa 2 milioni e mezzo nel 1760,
ancora tutti concentrati nella lunga fascia costiera che si affacciava sull’Oceano Atlantico:
dal New Hampshire a nord, confinante con il Canada, fino alla Georgia a sud, non lontana
dal Golfo del Messico (la “conquista del West”, cioè l’occupazione dei territori della parte
centro-occidentale del Nordamerica, sarebbe cominciata solo più tardi). Simili tassi di in-
cremento si mantennero immutati anche nei decenni successivi e nel corso dell’Ottocento.
Poiché si trattava di insediamenti in territori già abitati da una popolazione autoctona si
pose ben presto il problema del rapporto tra i coloni europei e gli indiani d’America. Anche
se inizialmente i piccoli e sparsi insediamenti coloniali riuscirono a coesistere con il vecchio
sistema tribale, a mano a mano che crebbe il numero dei coloni e si estese l’occupazione
del territorio lo scontro si fece quasi inevitabile e spesso cruento, portando alla cacciata o
alla distruzione dei nativi americani. La eliminazione assumerà aspetti drammatici soprat-
tutto nell’Ottocento quando i coloni si lanciarono verso occidente, in direzione dell’Oceano
Pacifico, sottraendo le ultime terre alle popolazioni indigene. Ciò significò la quasi totale
scomparsa e, nel migliore dei casi, la completa emarginazione degli originari abitanti di
quelle regioni. Da magnifici guerrieri quali erano, gli indiani provarono a opporre resisten-
za; ma gli sforzi furono vani di fronte allo strapotere militare degli “uomini bianchi”.

6.1.1. Il primo insediamento inglese a Jamestown (Virginia).


Nel 1607 una spedizione della Virginia Company, società per azioni inglese nata l’anno
precedente, raggiunse la costa americana in corrispondenza dell’odierno Stato della Vir-
ginia (dal nome della compagnia), con tre navi e un centinaio di uomini, che riuscirono a
costruire il primo insediamento stabile del Nordamerica.
Il villaggio venne chiamato Jamestown ed era inizialmente costituito da poche case di
legno e una chiesa, circondate da alte palizzate di difesa. Nei primi tempi si sviluppò un
clima di cooperazione con i pellerossa, soprattutto grazie al rapporto privilegiato che si
instaurò tra John Smith, il capitano che guidava i coloni inglesi, e Pocahontas, la figlia del
capo tribù locale (alla loro vicenda sono state dedicate diverse versioni romanzate, tra le
quali il celebre film della Disney). I coloni furono addirittura salvati da una carestia grazie
ai viveri forniti dagli indigeni. Tuttavia, con la successiva espansione dell’insediamento, gli
indiani cominciarono a temere per le loro terre, ed i conflitti si fecero sempre più frequenti.
Nel 1622 i coloni di Jamestown superavano ormai il migliaio. L’economia della loro co-
lonia si basava sulla coltivazione dei cereali per la sussistenza e del tabacco per l’esporta-
zione. Pochi anni prima, nel 1617, avevano inviato il primo carico di tabacco in Inghilterra,
rendendosi subito conto di quanto potesse essere redditizio quel commercio. Era altresì
Capitolo 6. La nascita degli Stati Uniti d’America 153

evidente il fatto che avessero impellente bisogno di manodopera per lavorare coltivazioni
sufficientemente estese.
La soluzione più agevole per gli abitanti di Jamestown sarebbe stata quella di costrin-
gere gli indiani a lavorare per loro. Ma i coloni erano inferiori di numero. E se, forse, pote-
vano uccidere gli indiani uno a uno grazie alla superiorità accordata dalle armi da fuoco
(sconosciute agli indigeni), non avevano sicuramente la consistenza numerica necessaria
per soggiogarli.
Così, fin dal 1619 cominciarono ad arrivare a Jamestown i primi schiavi africani, portati
fin lì e venduti da trafficanti olandesi. Del resto, nel corso del secolo precedente, già un
milione di africani era stato portato nel Centro e Sudamerica a lavorare in condizione ser-
vile nelle colonie spagnole e portoghesi. Agli occhi degli europei, i neri recavano ormai il
marchio della schiavitù, perciò fu quasi naturale che i primi venti africani trasportati a forza
a Jamestown fossero considerati in quel modo e, dunque, venduti alla stregua di oggetti a
coloni impazienti di disporre di manodopera sicura.
Era relativamente facile tenerli soggiogati. Mentre, infatti, gli indiani erano sulla propria
terra e questo li rendeva consapevoli e sicuri di se stessi, i neri erano stati strappati dai loro
paesi e costretti in una situazione di cattività, in cui il retaggio delle loro tradizioni e con-
suetudini (lingua, abbigliamento, rapporti famigliari) veniva cancellato pezzo per pezzo.
La civiltà africana era a suo modo avanzata e sarebbe del tutto arbitrario affermare
che essa fosse inferiore a quella europea. L’Africa era allora abitata da una popolazione
di cento milioni di persone, che utilizzavano utensili di ferro e praticavano, dove possibile,
l’agricoltura. Gli africani avevano fondato centri abitati di notevoli proporzioni e raggiunto
livelli avanzati nella tessitura, nella ceramica e nella scultura. Non disponevano, però, di
armi da fuoco e di altre tecnologie belliche diffuse in Europa, come le navi da guerra.
I viaggiatori europei del Cinquecento erano rimasti impressionati dalla stabilità e
dall’organizzazione dei regni di Timbuctu e del Mali, in un’epoca in cui gli Stati europei
avevano appena cominciato a strutturarsi in grandi monarchie nazionali. In Africa vigeva
una sorta di feudalesimo, simile a quello europeo, con gerarchie di signori e vassalli. Con-
trariamente all’Europa, però, esisteva ancora l’antica vita tribale, caratterizzata da vincoli
comunitari molto forti e dalla mancanza di una precisa idea di proprietà privata. E que-
sto rappresentava un elemento dirimente, dal momento che la libera proprietà personale
fu decisiva per lo sviluppo economico della civiltà occidentale, permettendo il definitivo
superamento del feudalesimo e l’affermarsi dei meccanismi politici ed economici di una
società borghese dinamica e prospera.
Considerando tutti gli elementi esposti fino ad ora: la potenza delle armi europee, il
bisogno disperato di manodopera dei coloni, l’impossibilità di utilizzare gli indiani e la mas-
siccia disponibilità di neri offerti da un fiorente mercato di schiavi già sperimentato da tem-
po, si comprende bene la rapida crescita della schiavitù nelle piantagioni nordamericane.
Nel 1700 in Virginia gli schiavi erano oltre seimila, un dodicesimo dell’intera popolazione
(esclusi gli indiani che non venivano mai considerati nelle valutazioni demografiche, per-
ché ritenuti del tutto estranei alla vita coloniale). Il loro numero continuò a crescere sia in
termini assoluti che relativi e nel 1763 erano centosettantamila, circa la metà della popo-
lazione della Virginia.
154 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

6.1.2. Lo sviluppo delle colonie britanniche nel Settecento.


Nel XVIII secolo gli insediamenti britannici sulla costa atlantica crebbero rapidamente. Si
trattava di tredici colonie: New Hampshire, Massachusetts, Connecticut, Rhode Island, New
York, Pennsylvania, New Jersey, Delaware, Maryland, Virginia, North Carolina, South Caro-
lina e Georgia. Ai coloni inglesi si aggiunsero immigrati scozzesi, irlandesi e tedeschi. L’au-
mento degli schiavi, già verificato per la Virginia, fu generalizzato: nel 1690 i neri erano l’8
per cento della popolazione, nel 1770 il 21 per cento, ma con variazioni territoriali notevoli:
si andava da un dato compreso tra il 3 e il 7 per cento nelle colonie del Nord e del Centro,
fino a oltre il 40 per cento in quelle del Sud.
Le colonie settentrionali – New Hampshire, Massachusetts, Connecticut, Rhode Island
– erano indicate nel loro complesso come New England. Meno ricche e popolate di quel-
le del Sud, avevano una economia incentrata sulla produzione e sulla esportazione verso
l’Europa di prodotti navali e cantieristici, di derivati della pesca e dell’industria baleniera;
attività produttive che si erano aggiunte nel corso del tempo ai primi commerci in legname
e pellicce. La popolazione era prevalentemente urbana e si componeva, per lo più, di lavo-
ratori manuali, artigiani, negozianti e mercanti.
Le stesse caratteristiche si riscontravano nelle colonie del Centro (New York, Pennsyl-
vania, New Jersey, Delaware), mentre il panorama cambiava completamente nelle regioni
a Sud (Maryland, Virginia, Carolina del Nord e del Sud, Georgia), dove si concentrava la
massima parte della popolazione e della ricchezza. Si trattava di territori che si erano ve-
locemente specializzati nelle grandi coltivazioni di cereali, di riso, e soprattutto di cotone
e di tabacco. Proprio all’imponente sviluppo delle colture del tabacco e del cotone, assai
redditizie, si dovevano alcune peculiarità delle colonie meridionali: il sistema delle grandi
piantagioni, la presenza di forti concentrazioni di ricchezza nelle mani di potenti élite ter-
riere (del tutto sconosciute al Centro-Nord) e il massiccio impiego da parte loro di mano-
dopera ridotta in schiavitù.
Dal punto di vista religioso le colonie si presentavano come un vero e proprio mosaico.
A Nord, nel New England, predominava il puritanesimo, mentre a Sud si era consolidata la
chiesa anglicana, con la sola eccezione del Maryland, che conosceva una ampia presenza
cattolica. La situazione più variegata si riscontrava nelle colonie del Centro, dove convi-
vevano una infinità di gruppi religiosi: presbiteriani scozzesi, cattolici gallesi, irlandesi e
tedeschi, luterani svedesi e tedeschi, calvinisti olandesi, nonché una consistente comunità
quacchera in Pennsylvania. Vi erano, d’altronde, delle precise ragioni storiche che giustifi-
cavano un tale pluralismo. Non bisogna dimenticare, infatti, che la città di New York era
stata fondata nel 1624 dagli olandesi, con il nome di Nuova Amsterdam, e che solo qua-
rant’anni più tardi sarebbe stata conquistata da un contingente militare inglese, guidato
dal Duca di York (da cui il nome di New York dato sia alla città che alla regione nella quale
essa si trova). In modo analogo, nel Delaware si erano avvicendati intorno alla metà del
Seicento coloni svedesi e olandesi, prima che il controllo di tutta la costa atlantica, nella
seconda metà del secolo, passasse nelle mani degli inglesi.
Il sistema politico di tutte e tredici le colonie era caratterizzato dalla presenza di istitu-
zioni di autogoverno locale, concesse dalla monarchia britannica attraverso l’emanazione
di statuti o “carte” coloniali. Queste autonomie comprendevano una gradazione di consigli
cittadini e di contea che culminavano nella assemblea rappresentativa o parlamento loca-
le eletto dai cittadini di ciascuna colonia. Al diritto di voto erano posti dei limiti censitari
analoghi a quelli esistenti in Inghilterra, ma visto che il benessere economico era mag-
giormente distribuito nelle colonie rispetto alla madrepatria, accadeva che in America vo-
Capitolo 6. La nascita degli Stati Uniti d’America 155

tasse una quota di popolazione all’incirca quadrupla rispetto alla Gran Bretagna. L’ampia
partecipazione elettorale dava alle assemblee locali un grado di rappresentatività molto
rilevante, tanto da renderle uno specchio fedele della società e degli interessi coloniali.
Va detto, però, che il vero fulcro del sistema politico delle colonie non era costituito dai
parlamenti locali (pur importanti dal punto di vista simbolico e culturale), bensì dai gover-
natori di nomina regia, che detenevano il supremo potere civile e militare, rappresentando
l’autorità imperiale della madrepatria. Spettavano solo a loro, senza che fossero ammesse
interferenze dei parlamenti coloniali, le decisioni in materia di: amministrazione doganale,
imposizione fiscale, nomina dei funzionari di ogni ordine e grado, conduzione degli affari
interni in pace e in guerra. Assistiti da un consiglio ristretto, anch’esso di nomina regia, i
governatori avevano insomma poteri e prerogative addirittura superiori a quelle esercitate
in patria dalla corona inglese. Ciò urtava la sensibilità dell’opinione pubblica coloniale, che
conosceva da vicino il sistema costituzionale britannico ed era legatissima all’idea che la
tutela delle libertà fondamentali risiedesse nel rispetto del parlamento.
L’insofferenza crebbe soprattutto dopo la Rivoluzione gloriosa del 1688, quando anche
i piccoli parlamenti delle colonie americane cominciarono a reclamare l’esercizio di un au-
tonomo potere legislativo e il riconoscimento di un sistema rappresentativo che avesse per
scopo la difesa dei diritti dei cittadini. Si creò così un clima di conflitto latente tra gli organi
locali e l’autorità imperiale. In quel contesto i parlamenti coloniali riuscirono a espandere
gradualmente le proprie competenze, andando ben al di là del semplice potere di regola-
mentazione locale, che era l’unico a loro inizialmente riconosciuto.
L’alto grado di partecipazione e di consapevolezza politica che caratterizzava la vita
pubblica delle colonie era testimoniato dalla presenza, soprattutto nelle regioni maggior-
mente urbanizzate, come l’area di New York, la Pennsylvania (con Filadelfia) e il Massa-
chusetts (con Boston), di una stampa periodica e di una editoria molto impegnate nella
battaglia delle idee, anche grazie alla sostanziale libertà di stampa che vigeva nei territori
britannici.

6.1.3. Nuove ricchezze e diseguaglianze sociali.


Al Sud cresceva la produzione agricola e si allargavano le piantagioni, al Centro-Nord si
sviluppavano le attività manifatturiere e commerciali, ovunque i traffici marittimi erano in
espansione. La popolazione delle grandi città – Boston, New York, Filadelfia – raddoppiava
o triplicava nel giro di pochi decenni. La ricchezza americana lievitava a ritmi invidiabili;
non mancavano, però, brutali esempi di sfruttamento e ingiustizia sociale. Un benessere
mediamente più diffuso che in Europa conviveva, nella società americana, con spaccature
sociali forse più profonde e brusche che non altrove: tra servi e padroni, tra indipendenza
economica e cupa subordinazione. All’oppressione nei confronti dei pellerossa e alla schia-
vitù dei neri, si aggiungevano forme di lavoro servile che colpivano anche una parte dei
coloni di origine europea.
Molti di loro provenivano dalla stessa Inghilterra, dove la recinzione delle terre e lo
sviluppo del capitalismo avevano staccato dalle comunità di origine e ammassato nelle
città molte persone che doveva affrontare molteplici difficoltà di vita e di inserimento nel
nuovo contesto urbano, in cui si trovavano spesso in condizioni di indigenza, privi di tutele
sociali e senza fissa dimora. Sperando in nuove opportunità di vita, o allettati da promesse
e menzogne, non pochi decidevano di partire per l’America, mettendosi però nelle mani di
trafficanti e capitani di navi per i quali rappresentavano una occasione di profitto. Solita-
mente firmavano un contratto con il quale si impegnavano a ripagare il passaggio in nave
156 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

lavorando sotto padrone per almeno cinque anni e all’arrivo venivano comprati e venduti
in modo non molto differente da quanto accadeva agli schiavi africani.
Se alcuni di loro, quando riacquistavano la libertà al termine del periodo di lavoro for-
zato, riuscivano a raggiungere un buon livello di vita, sfruttando le occasioni fornite da
una società in espansione come quella americana, la maggior parte continuava a essere
nullatenente e ad arrangiarsi come poteva, ingrossando i ranghi della marginalità sociale.
Tutte le città americane avevano ospizi per i poveri. Quello di New York, costruito per
ospitare cento persone, ne alloggiava a metà del XVIII secolo più di quattrocento.
Oltre al pericolo rappresentato dall’ostilità degli indiani e dalle possibili rivolte degli
schiavi, l’élite coloniale doveva affrontare anche la rabbia dei bianchi poveri: i servi, gli
affittuari, i ceti più miseri delle città. Il livello di violenza cresceva, i disordini si moltiplica-
vano, e il problema del controllo sociale si faceva sempre più grave.
In questa situazione, la guerra d’indipendenza ebbe l’effetto di compattare la comunità
bianca americana e di dare il via a una serie di riforme politiche e sociali che segnarono
in positivo la storia degli Stati Uniti d’America. Fino all’indipendenza, i coloni tendevano a
considerarsi più virginiani, newyorchesi, bostoniani, pennsilvani, che americani. La vittoria
contro la Gran Bretagna e la costruzione di una repubblica federale rappresentarono an-
che il superamento di queste frammentate forme di identificazione, lasciando spazio a un
sentimento di appartenenza più ampio.

6.2. La rivoluzione americana

La ribellione alla Gran Bretagna ebbe origine come protesta contro la sottomissione alla
madrepatria da parte di colonie abitate da una popolazione che era in buona parte della
stessa nazionalità, inglese, ma che non accettava più uno stato di inferiorità all’interno
dell’impero britannico.
Lo scontento covava da lungo tempo, ma l’inizio dello strappo definitivo si può collocare
in corrispondenza della Guerra dei Sette anni (1756-63). Al termine di quel conflitto, la Gran
Bretagna riuscì a sottrarre alla Francia sia il Canada sia tutto il territorio che si estendeva
tra i monti Appalachi e il fiume Mississippi: una regione che i francesi avevano denominato
nel suo complesso Louisiana (in onore di Luigi XIV), ma che era ben più ampia dell’odierno
Stato della Louisiana, estendendosi dall’Illinois a nord fino alla foce del Mississippi a sud,
subito alle spalle della fascia costiera occupata dalle tredici colonie britanniche.
La Francia fu in pratica espulsa dal Nordamerica come antagonista militare e come
concorrente commerciale. Del resto, la colonizzazione francese era stata molto più su-
perficiale e meno massiccia rispetto a quella inglese. Esploratori e mercanti di pellicce,
piuttosto che coloni e agricoltori, gli immigrati francesi avevano controllato le terre lungo
il Mississippi per circa un secolo, ma in maniera nominale più che effettiva.
Nonostante l’importante vittoria conseguita, la Gran Bretagna ereditò dalla pace del
1763 innumerevoli problemi. Oltre alle questioni amministrative e fiscali legate al ripia-
namento dei costi della guerra, si manifestarono contraccolpi del tutto inaspettati nei già
delicati equilibri politici tra colonie e madrepatria. Con l’uscita di scena della Francia veni-
va meno il pericolo di una invasione delle colonie inglesi da parte di una potenza nemica;
minaccia che aveva a lungo aiutato a mantenere quei territori sotto il controllo di Londra.
Capitolo 6. La nascita degli Stati Uniti d’America 157

L’aver contribuito alla sconfitta dei francesi rafforzò, altresì, nei coloni americani l’aspira-
zione a una maggiore autonomia.
Il governo britannico cercò immediatamente di puntellare il proprio controllo sulle in-
docili colonie. Non erano ammissibili concessioni o cedimenti, soprattutto perché il com-
mercio con il Nordamerica era sempre più importante e redditizio per la Gran Bretagna.
Da un volume di affari di circa cinquecentomila sterline nel 1700, si era passati a quasi due
milioni e ottocentomila. Una ricchezza assolutamente indispensabile per Londra in quel
difficile dopoguerra.
Allo scopo di tranquillizzare gli indiani ed evitare altre contese, un proclama reale del
1763 stabilì che i territori a ovest degli Appalachi (dunque anche quelli appena strappati
alla Francia) erano preclusi ai bianchi. Una decisione che certo non poteva entusiasmare
l’opinione pubblica delle colonie americane, sempre affamata di nuove terre su cui met-
tere le mani. La Gran Bretagna, inoltre, si trovò nella necessità di incrementare le entrate
fiscali per rientrare delle spese di guerra e fece ricadere gran parte degli aggravi sulle
colonie d’oltreatlantico.
Dal punto di vista politico ed economico si stavano creando, in questo modo, le premes-
se di un conflitto insanabile.

6.2.1. La rivolta fiscale: “No taxation without representation”.


Per far fronte al deficit lasciato dalla Guerra dei Sette anni, il governo britannico applicò
nel 1764 una tariffa doganale sullo zucchero, la melassa e il rum che le colonie america-
ne importavano dai Caraibi e dal Sudamerica. L’applicazione dello Sugar Act (Legge sullo
zucchero) comportò la riorganizzazione dell’intero meccanismo doganale ed ebbe come
corollario numerosi processi per contrabbando. A creare ulteriore subbuglio arrivò, nel
1765, lo Stamp Act (Legge sul bollo), che impose alle colonie una tassa su giornali, opuscoli
e documenti legali.
Se lo Sugar Act era impopolare nel mondo del commercio, lo Stamp Act suscitò una
ostilità popolare ancora più diffusa, che portò al boicottaggio dei prodotti britannici e a
episodi di disobbedienza civile. A New York si costituì spontaneamente un Congresso per la
legge sul bollo, che negò alla Gran Bretagna il diritto di tassare le colonie in assenza di loro
rappresentanti in parlamento (i coloni americani non partecipavano alle elezioni britanni-
che e non avevano, dunque, alcuna rappresentanza a Londra).
La reazione degli americani e la loro capacità di rappresaglia economica colsero di sor-
presa le autorità britanniche. Dopo accese discussioni, nel 1766 lo Stamp Act venne abroga-
to. Tuttavia, il parlamento di Westminster tenne a precisare, in una dichiarazione ufficiale
(Declaratory Act), il suo illimitato diritto a legiferare per le colonie. In questo modo, un
passo indietro che poteva contribuire a stemperare le tensioni finì, invece, per determinare
un ulteriore peggioramento dei rapporti tra colonie e madrepatria.
La controversia assunse aspetti estenuanti nel 1767, quando il governo britannico cercò
nuovamente di accrescere il gettito fiscale di provenienza americana con i Townshend Acts.
I nuovi provvedimenti, che prendevano nome dal ministro britannico Charles Townshend,
introducevano un dazio su numerosi prodotti di importazione. La reazione americana,
come prevedibile, fu uguale a quella provocata dallo Stamp Act. E ancora una volta Lon-
dra dovette fare marcia indietro, lasciando però in vigore, quasi per ripicca, una tassa sul
consumo del tè.
Alle questioni fiscali se ne aggiungevano altre di natura militare. La perdurante pre-
senza dell’esercito inglese sul suolo americano era ormai vissuta come un elemento di
158 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

costante provocazione. Il pretesto che Londra adduceva per mantenere truppe in Ameri-
ca, anche dopo la fine della guerra contro i francesi, era quello di garantire la pace alle
frontiere. Ma appariva sempre più chiaro che i soldati britannici si tenevano pronti a in-
tervenire anche in caso di disordini interni. In un clima già teso, non tardarono a verificarsi
scaramucce e scontri tra coloni e militari, che culminarono il 5 marzo 1770, nel cosiddetto
“massacro di Boston”.
Da circa due anni alcune migliaia di soldati erano acquartierati nella capitale del Mas-
sachusetts, che era diventata il principale presidio britannico in Nordamerica. Non essendo
impegnati in alcuna missione operativa, i militari venivano utilizzati dall’autorità imperiale
in lavori manuali e funzioni civili. Così facendo, essi cominciarono a sottrarre il lavoro ai
marinai e agli operai della città. La situazione si fece via via più critica, fino a quando all’i-
nizio di marzo il risentimento dei cordai (i lavoratori addetti alla fabbricazione di corde per
le navi) sfociò nello scontro fisico. Durante una protesta di massa, i lavoratori vennero a
contatto con le truppe che aprirono il fuoco, uccidendo alcuni manifestanti. L’impressione
destata nella popolazione fu enorme e al corteo funebre parteciparono circa diecimila
persone. L’ostilità contro gli inglesi montò ulteriormente alla notizia dell’assoluzione dei
militari responsabili di quel fatto di sangue.
Boston fu di nuovo teatro del malcontento antibritannico nel 1773. Per cercare di al-
leviare le difficoltà finanziarie della Compagnia delle Indie orientali, le autorità di Lon-
dra approvarono quell’anno il Tea Act (Legge sul tè), un provvedimento grazie al quale
la compagnia commerciale britannica otteneva il monopolio dell’importazione del tè in
Nordamerica. La risposta dei coloni fu risoluta e si manifestò, nel dicembre 1773, con un
clamoroso atto dimostrativo noto come Boston Tea Party: i ribelli si impossessarono del
carico di tè stivato in alcune navi e lo gettarono nelle acque del porto.
Di fronte a un tale gesto di sfida il parlamento di Londra approvò una serie di misure
punitive, passate alla storia come Intolerable Acts (Leggi intollerabili), che determinarono
la chiusura del porto di Boston fino a che la città non avesse risarcito il carico di tè distrutto.
Nello stesso tempo il Quebec Act (Legge sul Quebec) assegnava alla provincia del Canada
i territori a nord e a ovest del fiume Ohio, che fino al 1763 erano stati in mano ai francesi. Si
trattava di un vero e proprio affronto per le colonie del New England, che da tempo recla-
mavano quelle terre di confine. Evidentemente Londra aveva voluto premiare le più docili
colonie canadesi.
Gli Intolerable Acts rafforzarono nei patrioti americani la convinzione che il parlamento
inglese non avesse alcun diritto costituzionale per imporre tasse o per legiferare sulle co-
lonie. Questo punto di vista fu sostenuto con molta energia, nel corso del 1774, da rilevanti
figure politiche come Thomas Jefferson in Virginia, James Wilson in Pennsylvania, Alexan-
der Hamilton a New York e John Adams nel Massachusetts. Gli Intolerable Acts ottennero
quello che non erano riusciti a produrre dieci anni di faticosa propaganda rivoluzionaria,
cioè l’unione tra le tredici colonie
Il 1° settembre 1774 si riunì a Filadelfia, su mandato dei tredici parlamenti coloniali, un
nuovo Congresso americano (che faceva seguito a quello riunitosi, con minore ufficialità, a
New York una decina di anni prima). Prevalsero le più radicali posizioni antibritanniche e si
decise di iniziare un altro boicottaggio delle merci provenienti dalla madrepatria. Ma non
ci si fermò a questo. Il Congresso dichiarò anche che le colonie si trovavano in una posizio-
ne di legittima difesa di fronte alla prepotenza britannica e decise, pertanto, di riconvocarsi
nel maggio 1775, se per allora i torti subiti non fossero stati riparati.
Con il contingente britannico ormai in stato di guerra e le milizie delle colonie che si or-
ganizzavano spontaneamente, esercitandosi, marciando e facendo scorte di armi e muni-
Capitolo 6. La nascita degli Stati Uniti d’America 159

zioni, lo scoppio della guerra era ormai questione di tempo. E arrivò infatti nell’aprile 1775,
quando alcune unità britanniche in avanscoperta, alla ricerca di sovversivi, si scontrarono
con un centinaio di miliziani a Lexington, nel Massachusetts. Ebbero la meglio le truppe
regolari, che proseguirono verso la città di Concord distruggendo alcuni depositi militari
dei ribelli. La marcia di ritorno in direzione della costa (dove era situato il forte britannico)
si trasformò, però, in una ritirata frenetica, durante la quale i soldati di Sua Maestà vennero
attaccati a più riprese, subendo diverse perdite.
Da quel momento in avanti, e per circa un anno, fino al 4 luglio 1776, gli americani com-
batterono contro le truppe britanniche senza proclamare ufficialmente la propria indipen-
denza. Quei mesi servirono a dimostrare che le milizie americane non erano una plebaglia
in armi (come si sperava a Londra), ma il nucleo di un esercito ben disciplinato e ancor più
determinato.
Il Congresso americano designò come comandante in capo George Washington, ricco
proprietario della Virginia, che aveva acquistato una grande esperienza militare al coman-
do della milizia della sua colonia durante la guerra contro i francesi. Gli americani pote-
rono fronteggiare alla pari l’esercito britannico perché erano un popolo già preparato a
combattere: quasi ogni colono possedeva un fucile e sapeva usarlo.

6.2.2. La Dichiarazione d’indipendenza del 1776.


Nel marzo 1776 Washington ottenne a Boston una vittoria molto importante dal punto di
vista simbolico, costringendo gli inglesi a lasciare la città. Negli stessi mesi un pamphlet
del repubblicano Thomas Paine, intitolato Common sense, registrò un largo successo po-
polare. In poche e semplici pagine, Paine fu in grado di dare una giustificazione teorica
alla rivoluzione, attaccando la monarchia come istituzione e auspicando una netta svol-
ta politica. Una dopo l’altra le città americane si dichiararono indipendenti dalla Gran
Bretagna e i leader politici della rivolta non fecero altro che raccogliere i frutti di quella
mobilitazione dal basso.
Nel giugno 1776 venne approvata dal Congresso americano una risoluzione secondo la
quale le “Colonie unite” dovevano essere “Stati liberi e indipendenti”. L’assemblea nominò
una commissione ristretta guidata da Thomas Jefferson, incaricandola di preparare una di-
chiarazione che annunciasse al mondo l’indipendenza americana. Il testo redatto da Jeffer-
son, che aveva allora poco più di trent’anni, sanciva la rottura dei legami politici delle colonie
con la Gran Bretagna e affermava la sovranità americana, fondandola sul consenso popolare.
La Dichiarazione d’indipendenza venne approvata dal Congresso di Filadelfia il 4 luglio
1776. Il documento raccoglieva molti ideali espressi dall’illuminismo, tra i quali l’impegno
pubblico per la più ampia diffusione della felicità. Si ricordi, a questo proposito, la frase con
la quale Cesare Beccaria aveva espresso l’obiettivo ultimo di ogni legislatore: “la massima
felicità divisa nel maggior numero”. La Dichiarazione del 1776 recuperava tali spunti riaf-
fermandoli nel suo preambolo, dove si assicurava a tutta l’umanità il diritto alla vita, alla
libertà e alla ricerca della felicità. Erano parole dalle quali discendeva anche un principio
d’uguaglianza, che non significava naturalmente che gli uomini dovessero essere identici,
ma rappresentava piuttosto un auspicio verso le pari opportunità e verso la piena parteci-
pazione (economica, politica e sociale) di ogni cittadino alla vita della comunità nazionale.
Su queste basi, nascevano gli Stati Uniti d’America, che ebbero come primo nucleo ter-
ritoriale le ex colonie britanniche della costa atlantica, ancora oggi ricordate dalle tredici
strisce orizzontali della bandiera americana. In tutti gli Stati dell’Unione vennero avviati
dei processi costituenti, sollecitati anche da una raccomandazione ufficiale del Congresso,
160 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

che già nel maggio 1776 si era espresso affinché ognuno dei tredici Stati si dotasse celer-
mente di una costituzione scritta.
Nelle nuove carte costituzionali trovò espressione una cultura politica imbevuta di re-
pubblicanesimo e di principi quali la sovranità popolare, il governo della legge, l’ugua-
glianza dei diritti. Venne confermato il principio censitario del suffragio (il diritto di voto,
cioè, continuava a essere riconosciuto solamente in base a un determinato ammontare
di tasse pagate o di proprietà possedute), ma in molti casi i requisiti economici richiesti
vennero abbassati, ampliando di conseguenza la percentuale degli aventi diritto al voto
rispetto alla fase coloniale. Gli esempi più democratici e avanzati erano Pennsylvania e
New York, che riconobbero il suffragio a tutti i contribuenti e anche ai neri liberi. Ancora
escluse, invece, le donne.
Il potere esecutivo fu affidato a governatori eletti dai parlamenti locali o direttamente
dai cittadini. I nuovi sistemi politici furono, comunque, contraddistinti dalla netta premi-
nenza delle assemblee legislative. Era questa una conseguenza sia del lungo antagonismo
con il potere imperiale, sia dell’eredità lasciata dalla monarchia parlamentare britannica.

6.2.3. La fine della guerra di indipendenza e i trattati di pace.


La guerra contro la Gran Bretagna, iniziata nel 1775, si prolungò fino al 1782. Per quanto
riguarda l’andamento delle operazioni militari, la prima fase del conflitto, svoltasi in pre-
valenza nei territori centro-settentrionali, fu tutto sommato favorevole agli inglesi, se si
eccettua la vittoria riportata dalle truppe americane a Boston nel marzo 1776.
L’esercito britannico si rinforzò reclutando in Europa migliaia di mercenari tedeschi
(non si dimentichi, infatti, che il sovrano di Gran Bretagna, Giorgio III di Hannover, era di ori-
gine tedesca). Le forze di Sua Maestà riuscirono pertanto a occupare New York, nell’estate
del 1776, e Filadelfia circa un anno più tardi. Il loro piano militare puntava a isolare il New
England, considerato il cuore della ribellione. Ma il tentativo di accerchiamento fallì, grazie
alla resistenza opposta dalle truppe americane del generale Horatio Gates, che ottennero
un successo fondamentale nei pressi di Saratoga (ottobre 1777).
La vittoria di Saratoga permise di riconquistare Filadelfia, sede del Congresso ameri-
cano. Accelerò, inoltre, la conclusione dell’alleanza con la Francia, che era in cerca di una
occasione di rivincita contro la Gran Bretagna, da far pesare sugli equilibri di potenza in
Europa. L’accordo diplomatico e militare fu merito soprattutto di Benjamin Franklin, già
collaboratore di Jefferson nella stesura della Dichiarazione d’indipendenza e principale
ambasciatore americano in Europa.
L’aiuto portato dal contingente francese, comandato dal generale La Fayette, risultò
alla lunga decisivo. Tuttavia, almeno fino al 1780, la guerra d’indipendenza proseguì in
sostanziale equilibrio. In quella fase, infatti, i britannici riuscirono a conquistare Georgia e
South Carolina, sfruttando il sentimento lealista ancora presente negli Stati meridionali. Il
lealismo filobritannico si basava su legami personali e di potere, e su forme di fedeltà alla
corona piuttosto radicate tra i grandi proprietari terrieri del Sud. Non pochi di loro vede-
vano nelle trasformazioni di segno repubblicano e nelle rivendicazioni popolari connesse
alla rivoluzione americana le premesse di una generale destabilizzazione sociale; esiste-
vano, d’altra parte, posizioni differenti in proposito, come mostrava la scelta antibritannica
compiuta da Jefferson e Washington, entrambi di origine virginiana.
Il 1780 fu l’anno peggiore per l’esercito di George Washington e per le sorti dell’indipen-
denza americana. Alle sconfitte sul campo corrisposero gravi manifestazioni di sfiducia tra i
ranghi, ammutinamenti e diserzioni. Per completare la conquista del Sud, le truppe britan-
Capitolo 6. La nascita degli Stati Uniti d’America 161

niche attaccarono anche la Virginia. Ma quell’operazione, che avrebbe potuto rappresen-


tare la fine delle speranze americane, fallì grazie all’intervento delle forze alleate. Mentre
i britannici erano attestati sulla costa, a Yorktown, furono circondati sia dalle truppe di
Washington e La Fayette che dalle navi francesi. Cominciò un bombardamento incrociato
che non lasciò scampo all’esercito nemico.
La sconfitta di Yorktown (1781) diede voce a quella parte dell’opinione pubblica britan-
nica che chiedeva la fine di una guerra sempre più costosa in termini umani e materiali. Nel
novembre 1782 Benjamin Franklin firmò i preliminari di pace, con i quali la Gran Bretagna
riconobbe l’indipendenza degli Stati Uniti. Nel settembre 1783 gli accordi vennero ratificati
con un trattato concluso a Parigi. Gli Stati Uniti erano finalmente riconosciuti come una
nazione indipendente davanti al consesso internazionale.

6.2.4. Tra istanze di rinnovamento e spinte conservatrici.


Come guerra di indipendenza e anticoloniale, la rivoluzione americana ebbe fine con il
trattato di Parigi. Come trasformazione politica e sociale, la rivoluzione proseguì ben al di
là degli anni 1775-1783. Non senza mostrare, però, profonde contraddizioni.
Indubbiamente, la conquista dell’indipendenza liberò un notevole potenziale di ener-
gie economiche e sociali, sia grazie al crollo dei vecchi sistemi fiscali e doganali, sia per il
profondo ricambio di personale nelle strutture amministrative, a tutti i livelli. Inoltre, l’im-
missione sul mercato delle terre confiscate ai più accesi tra i conservatori filobritannici
(molti dei quali emigrarono in Canada o tornarono in Gran Bretagna) favorì in qualche
misura la mobilità sociale.
Rimaneva, però, evidente il fatto che quanto era affermato nella Dichiarazione di indi-
pendenza – ad esempio, con le parole “tutti gli uomini sono creati eguali” – non descrivesse
certo con esattezza l’America di fine Settecento, dove mezzo milione di persone viveva in
stato di schiavitù.
La guerra aveva avviato negli Stati del Nord un movimento abolizionista, ma nessuno
degli Stati meridionali, dove si trovava la maggior parte degli schiavi (circa l’85 per cento),
prese provvedimenti contro quella pratica. Alcune personalità del Sud, come gli stessi Wa-
shington e Jefferson, confessarono apertamente la loro avversione per la schiavitù e il loro
fermo proposito di farla cessare. Ci si rendeva conto, però, che il clima generale dell’opinio-
ne pubblica non fosse propizio a una riforma così radicale.
Negli Stati meridionali il numero degli schiavi continuava ad aumentare per soddisfare
la crescente richiesta di manodopera. Si pensi, infatti, che mentre nel 1790 venivano pro-
dotte ogni anno mille tonnellate di cotone, nel 1860 le tonnellate erano un milione. Nello
stesso arco di tempo gli schiavi passarono da cinquecentomila a quattro milioni. In quelle
zone, la difesa della schiavitù coincideva, in pratica, con la difesa della proprietà e dell’or-
dine sociale vigente. Essa finì, anzi, per sovrapporsi con la difesa dell’autodeterminazione
dei singoli Stati contro l’invadenza del potere federale. E rappresentava, perciò, un proble-
ma costituzionale molto serio per l’Unione.
Le parole contenute nella Dichiarazione di indipendenza non erano, comunque, prive di
significato e di importanza. Pur non producendo, in molti casi, immediati effetti concreti, esse
costituirono una sorta di “lievito egualitario” che agì nel corso del tempo. Come avrebbe det-
to il leader repubblicano Abraham Lincoln, ricordando nel 1857 la generazione di Jefferson:
“Essi volevano stabilire una norma che costituisse la base per una società libera, alla quale si
dovesse costantemente guardare, per la quale si dovesse costantemente lavorare, e che, pur
non essendo mai perfettamente realizzata, doveva essere un obiettivo al quale costantemen-
162 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

te avvicinarsi; una società che quindi diffondesse e approfondisse la sua influenza, accrescen-
do la felicità e il valore della vita per tutti i popoli di tutti i colori, dappertutto”.
Si procedette, in effetti, a piccoli passi. Entro la fine del Settecento in molti Stati centro-
settentrionali (Pennsylvania, Rhode Island, Connecticut, New York e New Jersey) vennero
approvate leggi che proibivano la tratta e favorivano una graduale emancipazione dei neri.
Questi provvedimenti comportarono solo un tenue miglioramento delle condizioni econo-
miche e sociali degli ex schiavi; tuttavia costituirono una prima breccia nel muro rappre-
sentato dalla schiavitù.
A partire dal 1808 l’importazione di schiavi divenne illegale in tutti gli Stati Uniti. Le coste,
però, non furono adeguatamente sorvegliate e la legge non fu rispettata. Gli schiavi conti-
nuarono a essere trasportati e venduti illegalmente da trafficanti allettati dai facili guadagni.
La schiavitù sarebbe stata abolita solamente nella seconda metà dell’Ottocento, in se-
guito alla Guerra civile americana. Molto si dovette all’abilità politica di Lincoln. Egli riuscì
a dare voce agli interessi e alle aspirazioni delle élite economiche emergenti del Centro-
Nord, che erano legate al mondo dell’industria e del commercio, piuttosto che a quello
delle piantagioni, e desideravano una modernizzazione dell’economia e della società che
non prevedesse vincoli al mercato del lavoro e al libero scambio.

6.3. Gli Stati Uniti e i primi passi della politica federale

Dopo la Dichiarazione d’indipendenza del 1776 e dopo la stesura delle carte costituzionali
dei singoli Stati, il processo costituente proseguì con il varo della Costituzione federale.
Nei primi mesi del 1787 venne convocata a Filadelfia una assemblea costituente (nota
come Convenzione di Filadelfia) che raccolse una cinquantina di deputati nominati dai par-
lamenti dei tredici Stati dell’Unione. La Costituzione degli Stati Uniti, ancora oggi in vigore,
venne approvata dalla Convenzione nel settembre 1787 e ratificata nel corso dell’anno
successivo dai parlamenti locali. In virtù della nuova carta costituzionale la lega di Stati
sovrani nata nel 1776 si trasformava in una vera e propria repubblica federale di tipo pre-
sidenziale.
Il compito dei “padri fondatori” (come vennero indicati i deputati della Convenzione)
non fu semplice. Innanzi tutto, fu necessario trovare un equilibrio funzionale tra i poteri del
governo federale e quelli dei singoli Stati. Si decise che il primo dovesse essere competente
per quanto concerneva la difesa e la politica estera, le finanze e il commercio internaziona-
le, mentre i secondi erano sovrani per quello che riguardava le comunicazioni interne, gli
affari di culto, l’amministrazione della giustizia e l’organizzazione della polizia.
Il presidente degli Stati Uniti era il capo supremo dell’Unione e la guida del governo
federale. Come titolare del potere esecutivo, egli nominava i segretari di Stato (ministri),
che insieme a lui erano responsabili dei vari dipartimenti dell’amministrazione federale.
Il potere legislativo era esercitato dal Congresso, formato da due Camere: la Camera
dei rappresentanti – i cui deputati erano eletti ogni due anni in numero proporzionale agli
abitanti di ogni Stato – e il Senato, composto da due membri per ogni Stato nominati dai
parlamenti locali.
Anche al presidente era accordato un moderato potere legislativo, sia di veto rispetto
a quanto proposto dal Congresso (un veto che era, comunque, superabile da una maggio-
Capitolo 6. La nascita degli Stati Uniti d’America 163

ranza di due terzi in ogni Camera), sia di proposta su specifici progetti di legge attraverso
le cosiddette “raccomandazioni”.
Non diversamente da quanto accade oggi, il momento culminante della politica ame-
ricana era costituito dalle elezioni presidenziali, fissate ogni quattro anni. Non si tratta-
va di elezioni dirette. Allora come oggi, i cittadini sceglievano un determinato numero di
“elettori”, i quali formavano lo United States Electoral College. Spettava a loro scegliere il
presidente e il suo vice. Gli “elettori” potevano assegnare il proprio voto a chiunque fosse
cittadino americano, tuttavia, salvo rare eccezioni, votavano (e votano) per i candidati pre-
cedentemente designati dai partiti.
L’operato del presidente era sottoposto al controllo costituzionale della Corte supre-
ma, organo principale del sistema giudiziario americano. Il leader degli Stati Uniti poteva
essere destituito se colpevole di tradimento, corruzione o altri reati gravi.
La Costituzione prevedeva che il testo approvato nel 1787 potesse essere completato
e arricchito attraverso la procedura degli emendamenti. Fu stabilito che gli emendamenti
dovessero effettuarsi su proposta di due terzi del Congresso e con l’approvazione dei tre
quarti degli Stati. La carta costituzionale era, dunque, perfettibile e la mancata enunciazio-
ne di alcuni diritti o la insufficiente trattazione di certi temi non era da interpretarsi come
negazione definitiva o lacuna irrimediabile.
Il testo del 1787, ad esempio, non faceva cenno al tema controverso della “schiavitù”,
preferendo evitare pronunciamenti e prese di posizione esplicite. L’unico passaggio che ri-
chiamava indirettamente il problema della tratta era quello in cui si affermava che, fino al
1808, il Congresso avrebbe evitato di legiferare sui temi relativi “l’immigrazione o l’introdu-
zione di quelle persone che gli Stati attualmente esistenti possono ritenere conveniente di
ammettere”. Proprio allo scadere di quel periodo trentennale, come si è visto nel paragrafo
precedente, il Congresso si pronunciò contro il commercio degli schiavi.
Il primo presidente degli Stati Uniti fu George Washington, eletto nel 1789. Il suo segre-
tario al Tesoro, Alexander Hamilton, elaborò un piano nazionale per lo sviluppo dell’indu-
stria, del commercio e delle finanze che rafforzò gli USA, gettando le basi del capitalismo
americano. In politica estera si affermò fin dall’inizio una tendenza all’isolazionismo, cioè a
una attività diplomatica limitata al continente americano e restia ad impegnarsi in allean-
ze durevoli con gli Stati europei.
Washington rimase in carica per due mandati, fino al 1797. Al suo nome venne dedicata
la nuova capitale degli Stati Uniti, che fu costruita al confine tra Maryland e Virginia, in
base a un piano regolatore ispirato al parco di Versailles (omaggio alla Francia, alleata
nella guerra di indipendenza). A partire dal 1800, la città di Washington ospitò la sede della
presidenza, la Casa Bianca, e del Congresso, il Campidoglio. Precedentemente la capitale
degli USA era stata Filadelfia.

6.4. Il mito della frontiera: l’espansione verso ovest

A partire dall’inizio dell’Ottocento, con la presidenza di Thomas Jefferson (1801-1809) le


energie e gli interessi degli Stati Uniti si indirizzarono verso la “conquista del West”. Un
tipo di espansione territoriale e di colonizzazione interna che fu reso possibile dalla immi-
grazione sempre più massiccia proveniente dall’Europa.
164 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Fin dagli anni 1784-87 il Congresso aveva stabilito con alcune ordinanze (promosse
dallo stesso Jefferson) la sovranità degli Stati Uniti sui territori dell’Ovest. Questi provve-
dimenti fissavano un modello per il censimento e la vendita pubblica delle terre: i coloni
e le società commerciali potevano ottenere dal governo nuova terra dietro pagamento di
un canone legale minimo (circa due dollari per acro). Si indicavano, altresì, le modalità da
seguire per un ampliamento controllato delle frontiere attraverso la formazione di nuove
comunità – prima sotto giurisdizione federale e successivamente dotate di autogoverno – e
la creazione di nuovi Stati a struttura costituzionale repubblicana da ammettere gradual-
mente nell’Unione.
I primi Stati ad aggiungersi agli USA furono quelli sorti nelle regioni che fino a pochi de-
cenni prima erano state in mano ai francesi: Kentucky (1792), Ohio (1803), Louisiana (1812),
Indiana (1816), Mississippi (1817), Illinois (1818) e Alabama (1819). Una ampia fascia territo-
riale che si estendeva dal confine canadese al golfo del Messico, lungo il confine occiden-
tale delle ex colonie britanniche.
Ad alimentare il mito della frontiera, cioè il desiderio di nuove terre e la speranza di
ulteriori possibilità di sviluppo, rimanevano comunque gli immensi territori compresi tra
il Mississippi e la costa del Pacifico, che equivalevano a circa due terzi degli attuali Stati
Uniti. In quella direzione continuarono ad accorrere nel corso dell’Ottocento centinaia di
migliaia di coloni. Le tribù indiane vennero spinte con la violenza o con l’inganno (le tante
promesse, mai mantenute, di terre che sarebbero state lasciate a loro disposizione) sempre
più a ovest.
Si comprende bene, dunque, perché durante la guerra d’indipendenza quasi tutte le na-
zioni indiane avessero sperato in una vittoria degli inglesi. Del resto, che significato poteva
rivestire la rivoluzione americana per gli indiani? Le elevate parole della Dichiarazione
d’indipendenza li avevano del tutto ignorati e sicuramente non erano considerati come
uguali ai bianchi. Era stato facile prevedere che una sconfitta della Gran Bretagna avrebbe
dato il via all’invasione delle terre occidentali. In effetti, tolti di mezzo gli inglesi e i loro
accordi diplomatici, i coloni diedero inizio a un processo inesorabile di estromissione dei
nativi dalle loro terre, uccidendoli se opponevano resistenza. Dopo aver combattuto a est
contro il dominio imperiale britannico, cominciarono a riversarsi a ovest per alimentare il
proprio imperialismo.
Ma se la conquista del West ebbe indubbiamente elementi di violenza e sopraffazione,
rappresentò altresì una grande epopea popolare e fu per molti occasione di emancipa-
zione dal giogo della miseria e di maggiore libertà politica e civile. Dato che sulla costa
atlantica le terre erano già tutte in mano a piccoli o grandi proprietari, i poveri delle città
americane e, soprattutto, i nuovi immigrati provenienti dall’Europa furono portati a spin-
gersi verso ovest alla ricerca di terreni a buon mercato, da coltivare. Si trattava spesso di
interi nuclei familiari (di origine britannica, irlandese, scandinava o tedesca) alla ricerca di
una vita migliore rispetto a quella che avevano lasciato nelle campagne o nelle città del
Vecchio continente.
Vivendo “sulla frontiera” divennero loro i primi bersagli degli indiani, in una dura e com-
plessa battaglia per la sopravvivenza.
Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea:
dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra
di Carlo De Maria
Roma (BraDypUS) 2018
ISBN 978-88-98392-70-4
pp. 165-174

Capitolo 6. La nascita degli Stati


Uniti d’America
Approfondimenti

Profili
Thomas Jefferson

Proprietario terriero del Sud, rampollo di una ottima famiglia della Virginia, Thomas Jef-
ferson (1743-1826) era un raffinato uomo di mondo e un tipo di rivoluzionario assai parti-
colare. La ricchezza e l’agio che gli consentirono, tra le altre cose, di impegnarsi in politica
a tempo pieno, lottando da assoluto protagonista per l’indipendenza degli Stati Uniti, si
reggevano – a ben vedere – sul lavoro di un centinaio di schiavi: quelli impegnati nella
coltivazione delle sue terre.
Se da una parte, dunque, è riconosciuto come la figura centrale della politica ameri-
cana tra Sette e Ottocento, per altri versi la sua vita mostra ambiguità e contraddizioni
difficilmente decifrabili. Anche il suo aspetto fisico, alto e allampanato, con i capelli rossi,
contribuiva a farne una persona del tutto originale.
Jefferson esordì come scrittore di cose politiche nel 1774, pubblicando un libello ano-
nimo intitolato Esposizione sommaria dei diritti dell’America britannica, nel quale giusti-
ficava le rivendicazioni delle colonie, in base all’idea che i coloni americani, dopo oltre
un secolo e mezzo di vita nel Nuovo mondo, avessero storicamente maturato il diritto
all’autodeterminazione. Nel 1776, con la Dichiarazione d’indipendenza, da lui redatta su
mandato del Congresso americano, precisò alcuni diritti primari: alla vita, alla libertà e
alla felicità, per ciascun individuo.
Negli anni successivi la sua riflessione continuò a ruotare intorno ai temi relativi ai diritti
naturali, alla sovranità popolare, alle virtù repubblicane, alla tolleranza religiosa e alla denun-
cia dei privilegi ereditari. In questo modo, Jefferson – complesso e aristocratico proprietario
di schiavi – diventò uno degli apostoli più importanti dell’idealismo democratico nella storia
americana, meritandosi l’elezione alla presidenza degli Stati Uniti all’inizio dell’Ottocento.
Sui temi economici, relativi dunque anche all’impiego degli schiavi, il suo percorso in-
tellettuale conobbe una sofferta evoluzione. Pur restando legato alla centralità dell’agri-
coltura, si pronunciò a favore del superamento del tradizionale modello della piantagione,
fondata sul lavoro servile. Come alternativa prefigurò, da una parte, la diffusione – soprat-
166 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

tutto nel West – di un modello sociale basato sul piccolo farmer (piccolo proprietario che
coltiva in proprio la terra in una dimensione familiare) e, dall’altra, fu d’accordo nell’in-
centivare un controllato sviluppo delle manifatture e della produzione industriale nelle
regioni centro-settentrionali.
Modernità e tradizione, innovazione e conservazione si mescolavano, a volte confu-
samente, nell’attività politica e culturale di questo grande “patrizio” repubblicano. In de-
finitiva, si può dire che il suo generoso tentativo, in gran parte riuscito, fu quello di fare i
conti con una società in tumultuosa trasformazione, senza evitare le sfide portate dalla
partecipazione popolare.

Costituzione e cittadinanza
Federalismo e divisibilità del potere. La Costituzione degli Stati
Uniti

La Costituzione americana riuscì a superare un ostacolo che la teoria politica moderna


aveva ritenuto fino ad allora quasi insormontabile, ossia il fatto che la sovranità dovesse
essere per forza di cose indivisibile. La soluzione adottata dagli Stati Uniti risiedeva in
alcuni principi tra loro complementari: l’idea di una sovranità divisa tra l’Unione e i tredi-
ci Stati che la componevano; l’indiscutibile supremazia della Costituzione federale sugli
interessi particolari; infine, la sovranità popolare, intesa come autentica chiave di volta
della costruzione federalista.
L’autorità centrale e quelle statali non si trovavano tra loro in un rapporto gerarchico,
ma esisteva piuttosto una chiara divisione delle competenze. La sovranità di ogni governo
locale era suprema nella propria sfera di intervento e parallela a quella degli altri Stati
nella comune subordinazione alla Costituzione federale. Era, infatti, la carta costituzionale
degli Stati Uniti, legittimata dal consenso popolare, a specificare i limiti d’azione dei singoli
Stati. Questi ultimi, in estrema sintesi, non potevano: intrattenere relazioni diplomatiche,
entrare in guerra, battere moneta e introdurre dazi doganali. Tali materie erano affidate al
governo federale e al Congresso.
Lo strumento principale per dotare l’Unione di un potere parzialmente autonomo e
indipendente da quello degli Stati fu di farlo poggiare non sugli Stati medesimi, bensì di-
rettamente sul consenso dei cittadini americani. Tutto ciò consentiva di liquidare veloce-
mente l’obiezione di chi vedeva nell’Unione una espropriazione della sovranità degli Stati;
in realtà, gli Stati non potevano perdere una sovranità che apparteneva non a loro, bensì al
popolo; ed era il popolo, unica sua fonte legittima, che ne trasferiva parte agli Stati e parte
all’Unione. In questo modo, il federalismo si caratterizzava come creazione politica nuova
basata sulla sovranità popolare.
Erano diversi gli aspetti di innovazione introdotti dal costituzionalismo americano ri-
spetto alla dottrina britannica. Cambiava, in primo luogo, l’accezione stessa di costituzio-
ne: non più un insieme di principi storici modellati dalla tradizione e perciò di definizione
incerta e variabile, bensì un documento scritto, chiaramente legittimato dal consenso po-
polare e affidato alla tutela della Corte suprema (massimo organo giudiziario dell’Unione).
Almeno un’altra novità è poi da mettere in evidenza. Nel caso statunitense, la rappre-
sentanza bicamerale non discendeva da una idea costituzionale basata su presupposti so-
Capitolo 6. Approfondimenti 167

ciali e su un delicato equilibri tra ordini. Se nel parlamento britannico la Camera dei Lords
era una sorta di senato aristocratico, attraverso il quale si riconosceva all’antica nobiltà
terriera uno status distinto rispetto ai ceti borghesi (rappresentati dalla Camera dei Comu-
ni), la situazione era molto diversa nel Congresso degli Stati Uniti, dove il bicameralismo
rispondeva a esigenze funzionali. Esso consentiva, da una parte, di inserire i rappresentanti
del popolo in una procedura decisionale (grazie alla Camera dei rappresentanti) e, dall’al-
tra, di garantire (con il Senato) una rappresentatività territoriale egualitaria, che servisse a
tutelare gli interessi degli Stati minori da quelli degli Stati più grandi e popolosi.
In questo modo il federalismo americano era, a un tempo, rappresentativo – in quanto
radicato nel mandato popolare sia dei deputati della Camera dei Rappresentanti sia del
presidente degli Stati Uniti – e territoriale, dal momento che prevedeva in Senato una rap-
presentanza fissa di tutte le entità statali.
La separazione dei poteri e i sistemi di reciproco controllo previsti dalla Costituzione,
sulla scia degli insegnamenti di Montesquieu e del modello britannico, proteggevano dal
rischio di pericolosi sbilanciamenti e salvaguardavano i presupposti della libertà. In par-
ticolare, il potere dei giudici della Corte suprema di dichiarare nulla una legge contraria
alla Costituzione, rappresentava il completamento dell’Unione: la suprema garanzia che
né l’esecutivo né il legislativo federali avrebbero potuto infrangere le libertà tanto degli
Stati quanto dei cittadini.

Accelerazioni della storia


Nascita di una grande democrazia fuori dall’Europa

Nel giro di poco più di vent’anni, quelli intercorsi tra la conclusione della Guerra dei Sette
anni (1763) e l’approvazione della Costituzione degli Stati Uniti d’America (1787), tredici
colonie appartenenti alla Gran Bretagna si trasformarono in uno Stato indipendente re-
pubblicano e federale, che si fondava sulla sovranità popolare e su una idea avanzata dei
diritti dell’uomo.
I paesi europei, che fino ad allora avevano visto nell’America una terra di conquista
e di sfruttamento, si trovarono di fronte a un’esperienza politica senza precedenti. Non
a caso si parlò subito di “rivoluzione”. La rivoluzione americana fu la prima delle gran-
di trasformazioni di segno democratico dalle quali è scaturita la fisionomia dell’odierno
mondo occidentale. Essa ha dunque un significato storico universale e non semplicemente
nazionale o relativo al mondo anglofono.
Sugli sviluppi politici vissuti così rapidamente dal Nordamerica ebbero un peso notevo-
le le peculiarità di una popolazione composta da gruppi eterogenei, sia dal punto di vista
della provenienza geografica sia dal punto di vista del bagaglio culturale e dell’apparte-
nenza religiosa. Minoranze spesso caratterizzate da esperienze di dissenso e di persecuzio-
ne. Elementi questi che impressero agli ambienti coloniali caratteri di maggiore apertura e
libertà nei modi della vita politica e nei costumi sociali e religiosi.
L’aspetto demografico assunse un rilievo centrale nella storia delle colonie e della loro
indipendenza. Quella americana era una popolazione strutturalmente giovane, di fresca
immigrazione e appartenente in prevalenza agli strati medio-bassi della società. Si trattava
di persone che avevano la concreta speranza di conquistare in America ciò che probabil-
168 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

mente mai sarebbe stato possibile ottenere in Europa, ad esempio una ampia proprietà
terriera indipendente. La notevole disponibilità di terra e le buone prospettive di ascesa
sociale costituirono il presupposto di un elevato grado di mobilità, di diffuso benessere e di
maturazione di quelle forme di vita politica e civile che impressero un marchio peculiare
alla società americana.

Fonti e documenti
La fase costituente degli Stati Uniti d’America (1776-1787)

Introduzione
La fase costituente degli USA durò almeno un decennio, dalla proclamazione dell’indipen-
denza (1776) fino all’approvazione e al varo della Costituzione federale (1787-88).
Nella Dichiarazione d’indipendenza i rivoluzionari americani intesero motivare e giusti-
ficare l’atto di ribellione contro la Gran Bretagna. Evidenziarono le colpevoli inadempienze
e le ingiustificate violenze che essi attribuivano alla corona inglese e, per contro, fissarono
i principi ai quali avrebbe dovuto ispirarsi un giusto governo. Nel documento si intreccia-
vano influenze culturali e politiche diverse, provenienti sia dalla tradizione costituzionale
inglese, sia dalle esperienza di autogoverno praticate nelle colonie, che, infine, dal movi-
mento illuminista diffusosi largamente in Europa.
Dieci anni più tardi, la Costituzione degli Stati Uniti d’America si propose di conciliare
gli interessi e la vocazione autonomistica dei vari Stati che componevano l’Unione con le
esigenze amministrative, finanziarie e militari della nuova entità politica nata dalla guerra
contro la Gran Bretagna. Prevalse, dunque, la soluzione federale con l’attribuzione di im-
portanti poteri al governo centrale.

Testo n. 1
La Dichiarazione d’indipendenza americana (1776)
L’unanime dichiarazione dei tredici Stati Uniti d’America.
Quando nel corso di eventi umani, sorge la necessità che un popolo sciolga i legami politici
che lo hanno stretto ad un altro popolo ed assuma tra le potenze della terra lo stato di po-
tenza separata ed uguale a cui le leggi della natura e del Dio della natura gli danno diritto,
un conveniente riguardo alle opinioni dell’umanità richiede che quel popolo dichiari le
ragioni per cui è costretto alla secessione.
Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati
eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono
la vita, la libertà, e la ricerca della felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli
uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qual-
volta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutar-
la o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali principi e di organizzare i poteri
nella forma che sembri al popolo meglio atta a procurare la sua sicurezza e la sua felicità.
Capitolo 6. Approfondimenti 169

Certamente, prudenza vorrà che i governi di antica data non siano cambiati per ragioni
futili e peregrine; e in conseguenza l’esperienza di sempre ha dimostrato che gli uomini
son disposti a sopportare gli effetti d’un malgoverno finché siano sopportabili, piuttosto
che farsi giustizia abolendo le forme cui sono abituati. Ma quando una lunga serie di abusi
e di malversazioni, volti invariabilmente a perseguire lo stesso obiettivo, rivela il disegno di
ridurre gli uomini all’assolutismo, allora è loro diritto, è loro dovere rovesciare un siffatto
governo e provvedere nuove garanzie alla loro sicurezza per l’avvenire. Tale è stata la
paziente sopportazione delle Colonie e tale è ora la necessità che le costringe a mutare
quello che è stato finora il loro ordinamento di governo. Quella dell’attuale re di Gran Bre-
tagna [Giorgio III] è storia di ripetuti torti e usurpazioni, tutti diretti a fondare un’assoluta
tirannia su questi Stati. Per dimostrarlo ecco i fatti che si sottopongono all’esame di tutti gli
uomini imparziali e in buona fede.
- Egli ha rifiutato di approvare leggi sanissime e necessarie al pubblico bene.
- Ha proibito ai suoi governatori di approvare leggi di immediata e urgente importanza, se
non a condizione di sospenderne l’esecuzione finché non si ottenesse l’approvazione di lui,
mentre egli trascurava del tutto di prenderle in considerazione. [...].
- Ha tentato di impedire il popolamento di questi Stati, opponendosi a tal fine alle leggi di
naturalizzazione di forestieri, rifiutando di approvarne altre che incoraggiassero la immi-
grazione, e ostacolando le condizioni per nuovi acquisti di terre.
- Ha fatto ostruzionismo all’amministrazione della giustizia rifiutando l’approvazione a leg-
gi intese a rinsaldare il potere giudiziario.
- Ha reso i giudici dipendenti solo dal suo arbitrio per il conseguimento e la conservazione
della carica, e per l’ammontare e il pagamento degli stipendi.
- Ha istituito una quantità di uffici nuovi, e mandato qui sciami di impiegati per vessare il
popolo e divorarne gli averi.
- Ha mantenuto tra noi, in tempo di pace, eserciti stanziali senza il consenso dell’autorità
legislativa.
- Ha cercato di rendere il potere militare indipendente dal potere civile, e a questo superiore.
- Ha assoggettato le Colonie a una giurisdizione aliena dai nostri statuti e non riconosciuta
dalle nostre leggi, dando la sua approvazione a disposizioni legislative miranti a:
a) acquartierare tra noi grandi corpi di truppe armate;
b) proteggerle, con processi di burla, dalle pene in cui incorressero per assassinii commessi
contro gli abitanti di questi Stati;
c) interrompere il nostro commercio con tutte le parti del mondo;
d) imporci tasse senza il nostro consenso;
e) privarci in molti casi dei benefici del processo per mezzo di giuria;
f) trasportarci oltremare per essere processati per pretesi crimini;
g) abolire il libero ordinamento di leggi inglesi in una provincia attigua [il Canada], isti-
tuendovi un governo arbitrario, ed estendendone i confini sì da farne nello stesso tempo un
esempio e un adatto strumento per introdurre in queste Colonie lo stesso governo assoluto;
h) sopprimere le nostre carte statutarie, abolire le nostre validissime leggi, e mutare dalle
fondamenta le forme dei nostri governi;
170 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

i) sospendere i nostri corpi legislativi, e proclamarsi investito del potere di legiferare per noi
in ogni e qualsiasi caso.
Egli ha abdicato al suo governo qui, dichiarandoci privati della sua protezione e facendo
guerra contro di noi.
Egli ha predato sui nostri mari, ha devastato le nostre coste, ha incendiato le nostre città, ha
distrutto le vite del nostro popolo.
Egli sta trasportando, in questo stesso momento, vasti eserciti di mercenari stranieri per
completare l’opera di morte, di desolazione e di tirannia già iniziata con particolari casi di
crudeltà e di perfidia che non trovano eguali nelle più barbare età, e son del tutto indegni
del capo di una nazione civile.

Testo n.2
I primi articoli della Costituzione degli Stati Uniti d’America (1787)
Preambolo
Noi, popolo degli Stati Uniti, allo scopo di perfezionare ancor più la nostra Unione, di garan-
tire la giustizia, di assicurare la tranquillità all’interno, di provvedere alla comune difesa, di
promuovere il benessere generale e di salvaguardare per noi stessi e per i nostri posteri il
dono della libertà, decretiamo e stabiliamo questa Costituzione degli Stati Uniti d’America.

Articolo I
Sezione 1.
Tutti i poteri legislativi conferiti col presente atto sono delegati ad un Congresso degli Stati
Uniti, composto di un Senato e di una Camera dei Rappresentanti.

Sezione 2.
1. La Camera dei Rappresentanti sarà composta di membri eletti ogni due anni dal popolo
dei vari Stati, e gli elettori di ciascuno Stato dovranno avere i requisiti richiesti per essere
elettori della Camera più numerosa del Parlamento dello Stato.
2. Non può essere rappresentante chi non abbia raggiunto l’età di 25 anni, non sia da sette
anni cittadino degli Stati Uniti e non sia, nel periodo delle elezioni, abitante dello Stato in
cui sarà eletto.
3. I Rappresentanti e le imposte dirette saranno ripartiti tra i diversi Stati che facciano parte
dell’Unione secondo il numero dei loro abitanti [...].

Sezione 3.
1. Il Senato degli Stati Uniti sarà composto da due Senatori per ogni Stato, eletti dal Par-
lamento locale per un periodo di sei anni [a partire dal 1913 si stabilì che anche i senatori
dovevano essere eletti con voto diretto della popolazione di ogni Stato].
2. Immediatamente dopo la riunione successiva alla prima elezione, i Senatori saranno di-
visi in tre classi, in numero possibilmente eguale. I seggi dei Senatori della prima classe
diverranno vacanti allo scadere del secondo anno, quelli della seconda classe allo scadere
del quarto anno, quelli della terza allo scadere del sesto anno, in modo che ogni due anni
venga rieletto un terzo del Senato.
Capitolo 6. Approfondimenti 171

3. Non potrà essere Senatore chi non abbia compiuto l’età di 30 anni, non sia da nove anni
cittadino degli Stati Uniti, e non sia, nel periodo della elezione, abitante dello Stato in cui
debba essere eletto. [....]
Sezione 6.
1. I Senatori e i Rappresentanti riceveranno per le loro funzioni un’indennità che verrà de-
terminata per legge e pagata dal Tesoro degli Stati Uniti. In nessun caso, salvo che per
tradimento, fellonia e turbamento della quiete pubblica, essi potranno essere arrestati, sia
durante la sessione, sia nel recarsi a questa o nell’uscirne; né per i discorsi pronunziati o per
le opinioni sostenute nelle rispettive Camere potranno essere sottoposti a interrogatori in
alcun altro luogo.
2. Nessun Senatore e Rappresentante, per tutto il periodo per cui è stato eletto, potrà es-
sere chiamato a coprire un qualsiasi ufficio civile alle dipendenze degli Stati Uniti che sia
stato istituito, o la cui retribuzione sia stata aumentata durante detto periodo; e nessuno
che abbia un impiego alle dipendenze degli Stati Uniti potrà essere membro di una delle
due Camere finché conservi tale impiego.

Sezione 7.
1. Tutti i progetti di legge relativi all’imposizione di tributi debbono avere origine nella
Camera dei Rappresentanti; il Senato però può concorrervi, come per gli altri progetti di
legge, proponendo emendamenti.
2. Qualsiasi progetto di legge che abbia ottenuto l’approvazione del Senato e della Camera
dei Rappresentati deve essere presentato, prima di divenire legge, al Presidente degli Stati
Uniti. Questi, qualora lo approvi, vi apporrà la firma; in caso contrario, lo rinvierà con le sue
osservazioni alla Camera da cui è stato proposto, e questa inserirà integralmente a verbale
tali osservazioni e discuterà di nuovo il progetto. Se dopo questa seconda discussione, due
terzi dei membri della Camere interessata si dichiarano in favore del progetto, questo sarà
mandato, insieme con le osservazioni del Presidente, all’altra Camera, da cui verrà discusso
in maniera analoga; e se anche in questa sarà approvato con una maggioranza di due terzi,
diverrà legge. In tali casi, però, i voti di entrambe le Camere debbono esser dati per appello
nominale, e i nomi dei votanti pro e contro saranno annotati nei verbali delle rispettive
Camere. Se entro dieci giorni (escluse le domeniche) dal momento in cui gli sarà stato pre-
sentato, il Presidente non restituirà un progetto di legge, questo acquisterà forza di legge
come se egli lo avesse firmato, a meno che il Congresso, aggiornandosi, non renda impos-
sibile che il progetto stesso gli sia rinviato; nel qual caso il progetto non diventerà legge.
3. Tutte le ordinanze, deliberazioni o voti, per i quali sia necessario il concorso delle due
Camere (salvo che si tratti di aggiornamento) debbono essere sottoposti al Presidente degli
Stati Uniti, e da lui approvati prima che entrino in vigore; oppure, se egli li respinge, debbo-
no nuovamente essere approvati da due terzi delle due Camere, conformemente a quanto
prescritto per i progetti di legge.

Sezione 8.
Il Congresso avrà facoltà:
1. Di imporre e percepire tasse, diritti, imposte e dazi; di pagare i debiti pubblici e di prov-
vedere alla difesa comune e al benessere generale degli Stati Uniti. I diritti, le imposte, le
tasse e i dazi dovranno, però, essere uniformi in tutti gli Stati Uniti;
172 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

2. Di contrarre prestiti per conto degli Stati Uniti;


3. Di regolare il commercio con le altre nazioni, e fra i diversi Stati e con le tribù indiane;
4. Di fissare le norme generali per la naturalizzazione, e le leggi generali in materia di fal-
limenti negli Stati Uniti;
5. Di battere moneta, di stabilire il valore di questa e quello delle monete straniere, e di
fissare i vari tipi di pesi e di misure;
6. Di provvedere a punire ogni contraffazione dei titoli e della moneta corrente degli Stati Uniti;
7. Di stabilire uffici e servizi postali;
8. Di promuovere il progresso della scienza e delle arti utili, garantendo per periodi limitati
agli autori e agli inventori il diritto esclusivo sui loro scritti e sulle loro scoperte;
9. Di costituire tribunali di grado inferiore alla Corte suprema;
10 Di definire e di punire gli atti di pirateria e di fellonia compiuti in alto mare, nonché le
offese contro il diritto delle genti;
11. Di dichiarare la guerra, di concedere permessi di preda e rappresaglia e di stabilire
norme relative alle prede in terra e in mare;
12. Di reclutare e mantenere eserciti; nessuna somma, però, potrà essere stanziata a questo
scopo per più di due anni;
13. Di creare e mantenere una marina militare;
14. Di stabilire regole per l’amministrazione e l’ordinamento delle forze di terra e di mare;
15. Di provvedere a che la milizia sia convocata per dare esecuzione alle leggi dell’Unione,
per reprimere le insurrezioni e per respingere le invasioni;
16. Di provvedere a che la milizia sia organizzata, armata e disciplinata e di disporre di
quella parte di essa che possa essere impiegata al servizio degli Stati Uniti, lasciando ai
rispettivi Stati la nomina degli ufficiali e la cura di addestrare i reparti secondo le norme
disciplinari prescritte dal Congresso;
17. Di esercitare esclusivo diritto di legiferare in qualsiasi caso in quel distretto (non ec-
cedente le dieci miglia quadrate) che per cessione di Stati particolari, e per consenso del
Congresso, divenga sede del governo degli Stati Uniti; e di esercitare analoga autorità su
tutti i luoghi acquistati, con l’assenso del Parlamento dello Stato in cui si trovano, per la
costruzione di fortezze, di depositi, di arsenali, di cantieri e di altri edifici di utilità pubblica;
18. Di fare tutte le leggi necessarie e adatte per l’esercizio dei poteri di cui sopra, e di tutti
gli altri poteri di cui la presente Costituzione investe il Governo degli Stati Uniti, o i suoi
Dicasteri ed uffici.

Sezione 9.
1. L’immigrazione o l’introduzione di quelle persone che gli Stati attualmente esistenti pos-
sono ritenere conveniente di ammettere, non potrà essere vietata dal Congresso prima
dell’anno 1808; ma può essere imposta sopra tale introduzione una tassa o un diritto non
superiore a dieci dollari per persona.
2. Il diritto dell’habeas corpus [in base al quale una persona può difendersi da un arresto
illegittimo] non sarà sospeso se non quando, in caso di ribellione o di invasione, lo esiga la
sicurezza pubblica.
Capitolo 6. Approfondimenti 173

3. Non potrà essere approvato alcun decreto di limitazione dei diritti del cittadino, né alcu-
na legge penale retroattiva.
4. Non potrà essere disposto testatico [imposta pubblica individuale] o altro tributo diretto,
se non in proporzione del censimento e della valutazione degli averi di ciascuno.
5. Nessuna tassa e nessun diritto potrà essere stabilito sopra merci esportate da uno qua-
lunque degli Stati.
6. Nessuna preferenza dovrà essere data dai regolamenti commerciali o fiscali ai porti uno
Stato rispetto a quelli di un altro; e le navi dirette ad uno Stato o provenienti dai suoi porti
non potranno essere costrette ad entrare in quelli di un altro Stato o a pagarvi alcun diritto.
7. Nessuna somma dovrà essere prelevata dal Tesoro, se non in seguito a stanziamenti de-
cretati per legge; e dovrà essere pubblicato periodicamente un rendiconto regolare delle
entrate e delle spese pubbliche.
8. Gli Stati Uniti non conferiranno alcun titolo di nobiltà; nessuna persona che occupi un
posto retribuito o di fiducia alle dipendenze degli Stati Uniti potrà, senza il consenso del
Congresso, accettare doni, emolumenti, incarichi o titoli da un sovrano, da un principe o da
uno Stato straniero.

Sezione 10.
1. Nessuno Stato potrà concludere trattati, alleanze o patti confederali; o accordare per-
messi di preda o rappresaglia; o battere moneta; o emettere titoli di credito; o consentire
che il pagamento dei debiti avvenga in altra forma che mediante monete d’oro o d’argento;
o approvare alcun decreto di limitazione dei diritti del cittadino, alcuna legge penale retro-
attiva, ovvero leggi che portino deroga alle obbligazioni derivanti da contratti; o conferire
titoli di nobiltà.
2. Nessuno Stato potrà, senza il permesso del Congresso, stabilire imposte o diritti di qualsi-
asi genere sulle importazioni e sulle esportazioni, ad eccezione di quanto sia assolutamen-
te indispensabile per dare esecuzione alle proprie leggi di ispezione; e il gettito netto di
tutti i diritti e di tutte le contribuzioni imposte da qualsiasi Stato sulle importazioni e sulle
esportazioni sarà a disposizione della Tesoreria degli Stati Uniti; e tutte le leggi relative
saranno soggette a revisione e a controllo da parte del Congresso.
3. Nessuno Stato potrà, senza il Consenso del Congresso, imporre alcuna imposta sulle navi
in base al tonnellaggio, mantenere truppe o navi da guerra in tempo di pace, concludere
trattati o unioni con altri Stati o con potenze straniere, o impegnarsi in una guerra, salvo in
caso di invasione o di pericolo così imminente da non ammettere indugio.

Articolo II
Sezione 1.
1. Il Presidente degli Stati Uniti d’America sarà investito del potere esecutivo. Egli rimarrà
in carica per il periodo di quattro anni, e la sua elezione e quella del Vice-Presidente, eletto
per lo stesso periodo, avranno luogo nel modo seguente:
2. Ogni Stato nominerà, nel modo che verrà stabilito dai suoi organi legislativi, un numero
di elettori, pari al numero complessivo dei Senatori e dei Rappresentanti che lo Stato ha
diritto di mandare al Congresso; nessun Senatore o Rappresentante, però, né alcuna per-
174 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

sona che abbia un pubblico incarico o un impiego retribuito dagli Stati Uniti, potrà essere
nominato elettore.
Gli elettori si riuniranno nei rispettivi Stati e voteranno a scrutinio segreto per due persone,
delle quali una almeno non dovrà appartenere allo stesso Stato degli elettori. Essi compile-
ranno una lista di tutti coloro che hanno ottenuto voti e del numero dei voti raccolti da cia-
scuno; questa lista sarà da essi firmata, autenticata e trasmessa, sotto sigillo, alla sede del
Governo degli Stati Uniti, indirizzata al Presidente del Senato. Il Presidente del Senato, in
presenza del Senato e della Camera dei Rappresentanti, aprirà le liste autenticate e quindi
si procederà al computo dei voti. La persona che avrà ottenuto il maggior numero dei voti
sarà Presidente, sempre che questo numero rappresenti la maggioranza del numero totale
degli elettori nominati: e se vi sarà più di uno che abbia ottenuto tale maggioranza, con
un egual numero di voti, allora la Camera dei Rappresentati procederà immediatamente
a scegliere uno di essi per Presidente, mediante scrutinio segreto; qualora invece nessuno
raccogliesse la maggioranza, la Camera procederà in modo analogo a eleggere il Presiden-
te tra i cinque che abbiano raccolto il maggior numero di voti.
Nell’elezione del Presidente i voti saranno dati per Stato e la rappresentanza di ciascuno
Stato avrà un solo voto. Il numero legale sarà costituito da due terzi degli Stati, ma per la
validità dell’elezione saranno necessari i voti della metà più uno di tutti gli Stati. Dopo l’e-
lezione del Presidente, la persona che abbia raggiunto il maggior numero di voti degli elet-
tori sarà nominata Vice Presidente. Se due o più candidati si trovassero con egual numero
di voti, il Senato eleggerà fra questi il Vice Presidente a scrutinio segreto.
3. Il Congresso può determinare l’epoca per la designazione degli elettori, e il giorno in cui
questi dovranno dare i loro voti; giorno che dovrà essere lo stesso per tutti gli Stati Uniti.
4. Nessuna persona, che non sia per nascita o comunque cittadino degli Stati Uniti nel mo-
mento in cui questa Costituzione sarà adottata, potrà essere eleggibile alla carica di Presi-
dente; né potrà essere eleggibile a tale carica chi non abbia raggiunto l’età di 35 anni e non
sia residente negli Stati Uniti da 14 anni.
5. In caso di rimozione del Presidente dalla carica, o di morte, o di dimissioni, o di inabilità
ad adempiere le funzioni i doveri inerenti alla sua carica, questa sarà affidata al Vice-Presi-
dente, ed il Congresso potrà provvedere mediante legge, in caso di rimozione, di morte, di
dimissioni o di inabilità sia del Presidente che del Vice-Presidente, dichiarando quale pub-
blico funzionario dovrà adempiere le funzioni di Presidente e tale funzionario le adempirà
fino a quando la causa di inabilità cessi, o venga eletto il nuovo Presidente.
6. Il Presidente riceverà per i suoi servizi, a epoche stabilite, un’indennità che non potrà
essere aumentata né diminuita durante il periodo per il quale egli è stato eletto; ed egli
non dovrà percepire, durante tale periodo, alcun altro emolumento dagli Stati Uniti o da
uno qualsiasi degli Stati.
7. Prima di entrare in carica, il Presidente dovrà fare la seguente dichiarazione, con giura-
mento o impegnando la sua parola d’onore: “Giuro (o affermo) solennemente che adempi-
rò con fedeltà all’ufficio di Presidente degli Stati Uniti e che con tutte le mie forze preser-
verò, proteggerò e difenderò la Costituzione degli Stati Uniti”.
F. Gaeta - P. Villani, Documenti e testimonianze. I grandi problemi della storia medioevale e
moderna nei testi originali e nelle interpretazioni critiche, Milano, Principato, 1978, pp. 875-884.
III. Il protagonismo della Francia
Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea:
dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra
di Carlo De Maria
Roma (BraDypUS) 2018
ISBN 978-88-98392-70-4
pp. 177-198

Capitolo 7. La Rivoluzione francese


Profilo storico

7.1. 1789: il rovesciamento del vecchio ordine

Benché la Francia di fine Settecento fosse un paese relativamente ricco, il suo governo
lamentava una situazione finanziaria sull’orlo della bancarotta. Le entrate fiscali, infatti,
si rivelavano insufficienti a mantenere i costi dello Stato, sia a causa delle esenzioni e dei
privilegi di cui beneficiavano nobiltà e clero, sia perché il tasso di sviluppo e il dinamismo
dell’economia francese lasciavano molto a desiderare. Se, nell’ultimo secolo, i volumi del
commercio internazionale si erano moltiplicati, grazie principalmente ai traffici coloniali
con le Antille e l’Estremo Oriente, non altrettanto si poteva dire per i tassi di crescita rela-
tivi all’attività manifatturiera, che erano molto meno sostenuti (a eccezione del fortunato
settore dell’industria tessile). La stagnazione che si registrava nella quantità dei prodotti
lavorati immessi sul mercato faceva il paio con una agricoltura incapace di migliorare in
modo significativo la produttività di terre e colture.

7.1.1. La crisi fiscale e la convocazione degli Stati generali.


I conflitti bellici che la Francia aveva sopportato negli ultimi decenni, segnatamente la
guerra dei Sette anni (1756-1763) e la guerra di indipendenza americana (1775-1782), en-
trambi combattuti contro gli storici rivali inglesi, erano andati ad aggravare la situazione
dei conti pubblici. Effetti pesantissimi ebbe soprattutto il sostegno militare alla rivoluzione
americana, indubbiamente un successo prestigioso a livello internazionale, che aprì però
nelle finanze una voragine di dimensioni tali da costringere il governo a una politica di
sistematico ricorso al credito. Il debito pubblico francese divenne ipertrofico, triplicando
nel giro di una decina d’anni.
Poco ci si poteva attendere dalle imposte, il cui gettito era aumentato molto lentamen-
te negli ultimi anni, anche a causa della stagnazione economica. Sarebbe stato necessario
prendere i soldi laddove stavano, fra i beneficiari della rendita fondiaria; ma ciò avrebbe
presupposto l’energia e il coraggio di imporre la messa in discussione di un sistema fiscale,
o meglio di un intero ordinamento sociale, che aveva tra i suoi fondamenti l’esenzione da
ogni tassa dell’aristocrazia.
178 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Nel 1787 il disavanzo pubblico era giunto a un tale punto di gravità da indurre il so-
vrano Luigi XVI a convocare una assemblea di notabili – centoquaranta esponenti, laici
ed ecclesiastici, dell’aristocrazia francese – per discutere con loro un piano complessivo
di riordino dell’intera struttura amministrativa e finanziaria dello Stato. I ministri di Luigi
XVI avevano preparato un ambizioso progetto di riforma che prevedeva l’abolizione delle
dogane interne, la liberalizzazione del commercio del grano e la costituzione di assem-
blee elettive (municipali, distrettuali e provinciali) con compiti consultivi; ma, soprattutto,
si erano impegnati a definire il piano di risanamento finanziario. Esso era fondato su una
nuova imposta, denominata “sovvenzione territoriale”, proporzionale al reddito fondiario e
soprattutto universale, in quanto tutte le proprietà vi erano soggette.
Divenne presto evidente che il principale ostacolo che si trovava davanti l’assolutismo
francese era di ordine sociale, ancor prima che fiscale. La monarchia, cioè, era prigioniera
proprio di coloro, nobili ed ecclesiastici, che abitualmente le si dichiaravano più fedeli, ma
che non intendevano retrocedere dai loro privilegi. Era questa la contraddizione fonda-
mentale in cui si dibatteva il governo di Luigi XVI, che faticava a imporre la strada della
razionalizzazione e delle riforme dall’alto – secondo il modello del dispotismo illumina-
to – a una base sociale rigidamente legata alla difesa dell’esistente. Si può anzi dire che
la Rivoluzione francese ebbe alla sua origine proprio l’atteggiamento riottoso dei gruppi
sociali privilegiati, di fronte alle intenzioni di riforma portate avanti troppo timidamente
dalla corona.
Per prendere tempo di fronte alle pressioni del sovrano, l’assemblea dei notabili chiese
la convocazione degli Stati generali, l’antico organo consultivo che rappresentava il clero,
la nobiltà e i ceti borghesi e popolari, sostenendo che solo in quella sede sarebbe stato
possibile occuparsi legittimamente della crisi fiscale. Era da oltre un secolo e mezzo che
la monarchia non convocava più gli Stati generali (precisamente dal 1614) e risultava evi-
dente che quella richiesta non esprimesse altro che la volontà di resistenza a oltranza da
parte dell’aristocrazia.
La procedura di elezione degli Stati generali era lunga e complessa. Essa prevedeva,
per giunta, la possibilità per le assemblee elettorali riunite in tutto il territorio del regno di
esprimere richieste o manifestare proteste attraverso la redazione di cahiers de doléances
(quaderni di lamentele), poi affidati al rappresentante eletto affinché li presentasse al so-
vrano. Nella situazione già problematica di fine Settecento, il risultato fu che il dibattitto
pubblico si animò in maniera tumultuosa dentro e fuori le sedi istituzionali, coinvolgendo
anche le comunità rurali e gli ambienti popolari delle città.
Erano chiamati ad esprimere il proprio voto tutti i contribuenti maschi che avessero
compiuto il venticinquesimo anno di età. Le regole elettorali, però, variavano all’interno
dei tre ordini in cui era rigidamente divisa la società: il clero, la nobiltà e il cosiddetto “ter-
zo stato”, che raccoglieva il mondo variegato dei ceti non privilegiati, cioè la stragrande
maggioranza della popolazione (dai borghesi ai contadini). Mentre, infatti, nobili ed ec-
clesiastici eleggevano i propri rappresentanti a suffragio diretto, nel terzo stato il sistema
elettorale prevedeva due o tre livelli.
Per la precisione, i livelli erano due nelle comunità rurali. Qui, i contadini si riunivano in
assemblee parrocchiali e, in prima battuta, designavano due rappresentanti ogni duecento
“focolari” (nuclei familiari). Costoro accedevano all’assemblea elettorale della circoscrizio-
ne provinciale, che poi eleggeva i deputati da mandare a Parigi.
I passaggi elettorali erano addirittura tre nelle città. Il primo step prevedeva che ogni
corporazione scegliesse uno o due rappresentanti ogni cento membri: la proporzione era di
uno a cento per le corporazioni artigiane e di uno a cinquanta per i corpi superiori (mercan-
Capitolo 7. La Rivoluzione francese 179

ti e arti liberali). Costoro formavano l’assemblea elettorale della città, che successivamente
sceglieva i propri rappresentanti per l’assemblea della circoscrizione provinciale, la stessa
dove confluivano anche gli eletti delle comunità rurali. Solo a questo punto, come detto, si
procedeva all’elezione dei deputati da mandare agli Stati generali.
La varietà delle situazioni sociali si rifletteva nei cahiers. Il cahier di un villaggio medio
della Francia rurale, ad esempio, individuava solitamente come principale avversario il
signore locale. Le più frequenti lamentele riguardavano la “decima” da pagare alla Chiesa,
le corvée e i lavori gratuiti imposti dai proprietari terrieri, il servizio militare obbligatorio
e la fiscalità regia. E tuttavia resisteva una fiducia totale nelle capacità provvidenziali del
re (che rimaneva, agli occhi dei contadini, sovrano per diritto divino). I cahiers compilati
in ambiente urbano, invece, contenevano rivendicazioni più apertamente politiche. Pur su
un fondo di lealismo monarchico, in essi emergeva spesso una condanna dell’assolutismo.
Vi si accennava, inoltre, a temi quali la garanzia delle libertà individuali (d’opinione e di
culto), arrivando fino ad auspicare la scrittura di una costituzione e l’elezione di una as-
semblea legislativa per limitare e bilanciare il potere del sovrano.
Per effetto di tutte queste istanze di rinnovamento, talune più semplici e istintive altre
più meditate e complesse, la convocazione degli Stati generali ebbe un risultato non previ-
sto: quello di dare una rappresentazione ufficiale, chiara e ineludibile, dei conflitti sociali e
dei fermenti politici che percorrevano il paese.
Alla fine i deputati eletti furono 1.139, divisi all’incirca a metà fra il terzo stato e i ceti
privilegiati, ossia 578 rappresentanti dei ceti borghesi e popolari, 291 per il clero e 270 per
la nobiltà. In passato, la proporzione era stata di un terzo dei deputati per ogni ordine, ma
Luigi XVI aveva acconsentito a raddoppiare la rappresentanza popolare per andare incon-
tro, almeno in parte, alle rivendicazioni che si alzavano dalla società francese.
Il terzo stato contava fra le sue file quasi 300 uomini di legge, perlopiù avvocati: era
questo il gruppo professionale di gran lunga più numeroso. Nel complesso, le professio-
ni liberali coprivano ben più della metà dei seggi riservati al terzo stato. Seguivano un
centinaio tra mercanti, uomini di finanza e imprenditori, cioè quella che si sarebbe potuta
definire come la “borghesia produttiva”: piuttosto esigua per la verità, e non c’era da sor-
prendersene visti i dati economici del paese. Completavano il quadro una cinquantina di
proprietari terrieri (senza titoli di nobiltà) e alcune decine di scrittori, scienziati e astronomi.
Erano, invece, del tutto assenti artigiani e contadini, evidentemente esclusi nel corso del
processo elettorale a favore di candidati più istruiti e agiati.
Poiché gli Stati generali esprimevano tradizionalmente il loro voto per ordini e non per
testa, i rappresentanti di clero e nobiltà erano sicuri di poter sempre prevalere sul terzo sta-
to (due voti contro uno), nonostante l’inferiorità numerica. I borghesi più consapevoli, e al-
cuni loro alleati appartenenti ai ceti privilegiati ma orientati su posizioni radicali, chiesero
che le votazioni si svolgessero nominalmente, come in un parlamento liberale, anziché per
corpi sociali. Naturalmente, la richiesta venne rifiutata dal sovrano e, tuttavia, il semplice
fatto di averla sollevata preludeva a sviluppi rivoluzionari.
Quando nel maggio 1789, a Versailles, gli Stati generali cominciarono finalmente i la-
vori, Luigi XVI ribadì ai deputati che l’assemblea aveva un solo scopo, quello di risolvere
i problemi finanziari del governo. Le sue parole, però, si rivelarono ben presto vane. Da
una parte, infatti, i ceti privilegiati erano sempre più determinati nel portare avanti la loro
rivolta aristocratica; dall’altra, i rappresentanti del terzo stato ritenevano loro compito –
proprio sulla base di quanto si chiedeva in molti cahiers de doléances – di preparare una
costituzione scritta per la Francia moderna.
180 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Dopo settimane di convulso dibattito, avvennero tre fatti di grande importanza. Il 17


giugno 1789 il terzo stato si costituì autonomamente in Assemblea nazionale costituente,
sollecitando i membri degli altri ordini a farne parte. Tre giorni più tardi, il 20 giugno, avven-
ne il cosiddetto “giuramento della pallacorda”: i membri della nuova Assemblea, riunitisi
nella sala di Versailles abitualmente riservata al gioco della pallacorda, giurarono che non
si sarebbero sciolti fino a quando la Francia non avesse avuto una costituzione. Una setti-
mana dopo, il 27 giugno, Luigi XVI provò a riprendere il controllo degli accadimenti, ordi-
nando a clero e nobiltà di unirsi al terzo stato, con la speranza di stemperare gradualmente
la portata rivoluzionaria dell’Assemblea nazionale costituente.

7.1.2. La presa della Bastiglia e la nascita della Guardia nazionale.


All’inizio di luglio alcuni movimenti di truppe nei dintorni di Parigi fecero sorgere il so-
spetto che il re volesse retrocedere rispetto alle concessioni fatte nel corso del mese pre-
cedente e si preparasse a usare la forza per liberarsi della Costituente. Una forte pre-
occupazione pervase la popolazione parigina, con particolare riferimento a quella vasta
area sociale formata da strati popolari e ceti intermedi (operai e artigiani, commercianti e
impiegati) che con crescente consapevolezza si contrapponevano al sistema assolutistico.
Erano i cosiddetti “sanculotti”, dal francese sans-culottes, coloro cioè che non portavano
i tipici pantaloni sotto il ginocchio (le culottes), regolarmente indossati dalla nobiltà del
tempo, preferendo indossare dei più semplici e comodi pantaloni lunghi da lavoro.
In quelle settimane, il malumore politico si mescolò con il disagio sociale. Il raccolto era
stato molto scarso e il prezzo del pane stava crescendo, alimentando inquietudine e rabbia.
A Parigi scoppiarono numerosi tumulti, talvolta spontanei, ma in altri casi organizzati da
leader dell’Assemblea costituente o da capipopolo a essi legati.
Il 14 luglio 1789 uno di questi torbidi si trasformò in qualcosa di più significativo. Una
nutrita folla si recò alla Bastiglia, una vecchia prigione fortificata che sorgeva nel cuore di
Parigi, dove c’era la speranza di trovare armi e munizioni con cui difendere l’Assemblea
costituente contro i propositi del re. La guarnigione posta a difesa della prigione cercò di
resistere con ogni mezzo all’assalto popolare. Ben presto le difese cedettero e il coman-
dante, catturato e trascinato in strada, fu brutalmente ucciso: la sua testa, infilata su una
lancia, venne portata in trionfo per la città.
La presa della Bastiglia del 14 luglio 1789 è l’avvenimento più noto nella storia della
Rivoluzione francese. Essa esemplifica l’assalto popolare contro un simbolo della tirannide
regia, ma è anche testimonianza (e si tratta forse dell’elemento più significativo) della fer-
ma volontà della cittadinanza parigina di difendere i lavori dell’Assemblea costituente. In
questo senso il 14 luglio fu un giorno determinante, perché dimostrò che il popolo di Parigi
era consapevole del cambiamento istituzionale in atto. E lo appoggiava.
Per indicare gli avvenimenti pubblici di quei giorni, i contemporanei cominciarono a
parlare apertamente di “rivoluzione”. Per evitare il rischio che le trasformazioni in corso
potessero degenerare in puro e semplice disordine sociale, si costituirono per volontà
dell’Assemblea costituente, e con l’avvallo del re, delle milizie volontarie: la Guardia na-
zionale, a cui si attribuì il compito di garantire un ordinato svolgimento della vita civile. Il
comando della Guardia venne affidato al marchese La Fayette, che aveva guidato il con-
tingente francese nella guerra di indipendenza americana, osservando dunque da vicino il
processo costituzionale degli Stati Uniti. Egli era un convinto fautore del modello monar-
chico-costituzionale, ma all’interno della Guardia nazionale le sue posizioni riformatrici
vennero ben presto superate da altre più radicali.
Capitolo 7. La Rivoluzione francese 181

7.1.3. I lavori dell’Assemblea nazionale costituente.


A partire dall’agosto 1789, la Costituente cominciò a colpire i privilegi dell’aristocrazia, a
smontare il vecchio assetto istituzionale e a delineare nuovi equilibri sociali, con partico-
lare riguardo alle rivendicazioni delle classi popolari urbane e dei lavoratori delle cam-
pagne. Il primo importante provvedimento dell’Assemblea, approvato il 4 agosto 1789, fu
l’abolizione del sistema feudale. Ma che cosa intendevano precisamente i giuristi della
Costituente per “feudalità”?
In primo luogo tutto ciò che portava all’assoggettamento personale di un individuo a
un altro. L’esempio alternativo che i deputati francesi avevano davanti agli occhi era quello
della Gran Bretagna, dove i contadini – quelli che non si erano già trasferiti in città a lavo-
rare nelle manifatture – erano liberi da vincoli personali verso i padroni o verso la terra e
si muovevano nel quadro di una agricoltura capitalistica regolata dai prezzi di mercato.
Vennero cancellati completamente alcuni obblighi che i contadini avevano sia verso i
signori locali (tributi in denaro o in natura e servitù personali) sia verso le gerarchie eccle-
siastiche (la decima, cioè la tassa pari a 1/10 del raccolto tradizionalmente destinata alla
Chiesa). Inoltre, vennero cancellati i privilegi fiscali e sciolti i tribunali signorili, e con loro
ogni forma di giurisdizione separata. D’allora in poi tutti avrebbero dovuto pagare le tasse,
in misura della loro ricchezza, e sottostare alle stesse leggi. Queste decisioni guadagnaro-
no all’Assemblea parigina il sostegno incondizionato delle popolazioni rurali, placando la
grande inquietudine che aveva percorso la Francia rurale nelle settimane precedenti, con
assalti, incendi e saccheggi diretti contro i castelli e le residenze nobiliari.
L’Assemblea costituente dimostrò di essere in grado di parlare alle campagne, ma na-
turalmente si rivolse anche agli ambienti urbani. Si stabilì, ad esempio, che tutti i cittadini
senza distinzione di nascita potevano ambire a ogni incarico pubblico. Un provvedimento,
questo, che interessava in primo luogo i ceti medi delle città, per i quali si aprivano final-
mente nuove prospettive di mobilità sociale.
In soli tre mesi, dal giugno all’agosto 1789, la Rivoluzione francese mostrò tutta la
sua forza dirompente, ma anche la sua grande complessità. Ragionando per immagini, si
susseguirono in quelle settimane almeno tre avvenimenti esemplari: il giuramento della
Pallacorda, simbolo della rivoluzione borghese; la presa della Bastiglia, esplosione della
rivoluzione dei ceti popolari urbani; infine i provvedimenti del 4 agosto, eco della rivolu-
zione contadina e delle sofferenze patite nelle campagne francesi, ancora schiacciate dai
prelievi feudali.
Un intero mondo crollava e se ne intravedeva nascere uno nuovo: mentre scompariva
la società dei corpi cetuali distinti, si delineavano i contorni di una organizzazione sociale
fondata sull’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge e sull’uniformità ed equità degli
apparati dello Stato. Una svolta epocale rimarcata dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo
e del cittadino, approvata dall’Assemblea verso la fine di agosto del 1789. Un documento
con il quale le idee della Rivoluzione francese si sarebbero diffuse nel mondo.
Sul finire dell’estate, Luigi XVI infastidito e preoccupato dal protagonismo dell’Assem-
blea costituente cercò di riprendere in mano l’iniziativa politica. Bloccò di fatto i lavori
dell’organo legislativo negando la firma di approvazione ai provvedimenti del 4 agosto
e alla Dichiarazione dei diritti. Inoltre convocò a Versailles un reggimento dell’esercito,
minacciando implicitamente di sciogliere l’Assemblea con la forza.
La situazione di stallo venne rotta da un evento inaspettato. Il 5 ottobre 1789 alcune
donne dei mercati centrali di Parigi, soprattutto pescivendole e bottegaie, si recarono al
Municipio per chiedere pane; non ottenendo risposte soddisfacenti, decisero di dirigersi
182 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

a Versailles per presentare le loro richieste direttamente all’Assemblea nazionale e al re.


Nel tragitto il loro corteo si ingrossò con l’aggiunta di ben 20 mila volontari della Guardie
nazionali. La sera del 5 ottobre l’arrivo al palazzo reale di questa folla non propriamente
benevola convinse il sovrano ad approvare i documenti legislativi in sospeso. La pressione
esercitata dalla popolazione parigina ebbe anche l’effetto di indurre sia la corte che l’As-
semblea a lasciare Versailles, da sempre simbolo dell’assolutismo, per trasferirsi a Parigi.
Spaventati dalla piega presa dagli avvenimenti, molti aristocratici cominciarono a emigra-
re all’estero con le loro famiglie, rifugiandosi prevalentemente in Austria o in qualche prin-
cipato tedesco.
Intanto, sistematasi a Parigi, presso il Palazzo delle Tuileries, l’Assemblea nazionale
poté mettersi più tranquillamente al lavoro. Per prima cosa ridisegnò la geografia dell’am-
ministrazione pubblica del paese: le vecchie unità amministrative, assai variegate tra loro,
furono cancellate e sostituite da una gerarchia uniforme di enti territoriali ai cui vertici
stavano i “dipartimenti”, suddivisi in “distretti”, a loro volta composti da “cantoni”. Tra il
novembre 1789 e l’agosto 1790 venne poi riorganizzata l’amministrazione giudiziaria, por-
tando a termine l’opera iniziata in agosto con l’abolizione dei tribunali signorili. Fu previsto
l’insediamento di un giudice di pace per ogni cantone e di un tribunale civile e penale in
ogni distretto. A tutela dell’imputato, e per garantire il migliore approfondimento dei fatti,
si introdussero tre gradi di giudizio: un processo discusso in prima istanza in un tribunale
distrettuale, poteva essere ridiscusso in appello (secondo grado di giudizio) in un tribunale
di un distretto vicino; infine, la terza e ultima istanza di giudizio spettava alla Corte di Cas-
sazione di Parigi.
Contrariamente ai precetti più avanzati dell’illuminismo, la pena di morte non venne
abolita. Fu, anzi, stabilita una nuova modalità di esecuzione capitale, scelta per la sua rapi-
dità ed efficienza. Si trattava della “ghigliottina”, un macchinario per la decapitazione del
condannato progettato e perfezionato da due medici, uno dei quali, Joseph-Ignace Guil-
lotin (che diede il nome al nuovo strumento di morte) era anche deputato all’Assemblea
nazionale.
Dopo che il 4 agosto 1789 erano stati aboliti i privilegi feudali, nella primavera 1790
furono soppressi i titoli nobiliari e cancellati i diritti di primogenitura: un aspetto del diritto
successorio medievale, in base al quale il feudo, o comunque il patrimonio familiare, era
considerato indivisibile e poteva essere trasmesso solo al primogenito maschio, conceden-
do agli altri discendenti benefici minori o semplici prebende. L’obiettivo era la conserva-
zione dell’intero patrimonio in una sola linea di discendenza, preservando così la solidità
della famiglia e la sua potenza. Da quel momento in avanti, invece, la divisione di proprietà
e risorse doveva avvenire in quote uguali tra i figli e le figlie, fatta salva una parte minore
di cui il genitore poteva disporre come voleva attraverso il testamento. In questo modo si
puntava a intaccare le posizioni di privilegio e a favorire una maggiore circolazione sul
mercato di beni e terre.
Un sentimento generale di rivolta contro la società del passato, strutturata in corpi
sociali e ordini giuridici, portò il legislatore a intervenire anche nel campo delle attività
produttive con la decisione di abolire le corporazioni. Da allora in poi ogni artigiano sa-
rebbe stato libero di esercitare il proprio mestiere senza passare attraverso l’iscrizione a
una corporazione. Si arrivò all’eccesso della legge Le Chapelier (dal nome del deputato
dell’Assemblea nazionale che la propose), con la quale si proibirono sia le associazioni di
lavoratori che quelle dei datori di lavoro, così come ogni forma di contrattazione sindacale.
Particolarmente importanti, per le conseguenze immediate che comportarono, furono
le norme riguardanti i beni e le istituzioni ecclesiastiche. Già alla fine del 1789, le proprietà
Capitolo 7. La Rivoluzione francese 183

della Chiesa erano state confiscate dallo Stato, che usò quelle risorse per alleviare la situa-
zione della finanza pubblica: le proprietà ecclesiastiche, infatti, servirono da garanzia per
l’emissione di titoli di Stato. Nel febbraio 1790, inoltre, vennero aboliti gli ordini religiosi,
con l’eccezione di quelli impegnati in attività educative e assistenziali. E nel luglio dello
stesso anno l’Assemblea approvò l’ordinamento civile del clero. La legge cambiava, innanzi
tutto, la geografia delle diocesi, che vennero fatte corrispondere ai dipartimenti. Questo
provvedimento, che in sostanza sovrapponeva le circoscrizioni ecclesiastiche a quelle sta-
tali, non aveva solo un intento di semplificazione amministrativa, ma era coerente con il
resto delle norme che venivano introdotte in quei giorni, le quali stabilivano che i parroci e i
vescovi fossero eletti dalle assemblee rappresentative locali, anziché nominati dalle gerar-
chie religiose, e che tutti gli ecclesiastici dovessero giurare fedeltà alla Costituzione dello
Stato francese, pena la sospensione delle proprie funzioni. In cambio, lo Stato si assumeva
l’onere del loro mantenimento economico.
Questa complessa riforma si muoveva nel solco di una politica che i sovrani di Francia
avevano tentato di mettere in atto anche in passato, con l’obiettivo di trasformare parroci
e vescovi in funzionari statali, direttamente dipendenti dal potere pubblico, invece che da
una autorità esterna quale il papa.
Se la metà circa dei parroci accettarono di giurare, solo il 5% dei vescovi si piegò all’au-
torità statale. La spaccatura si approfondì quando, nel marzo 1791, papa Pio VI condannò
pubblicamente i principi della Rivoluzione e, in particolare, l’ordinamento civile del clero.
Ma quel che doveva preoccupare di più le autorità di Parigi era il fatto che in molte zone
rurali del paese gli ecclesiastici refrattari al giuramento vennero appoggiati dalla popo-
lazione e le loro messe, celebrate privatamente, risultavano più partecipate di quelle dei
preti “ufficiali”.
Nella delicata materia religiosa, l’Assemblea intervenne anche su un aspetto diretta-
mente legato ai diritti civili, autorizzando la libertà di tutti i culti religiosi e abolendo le
discriminazioni esistenti per gli ebrei e per i protestanti, che divennero, a tutti gli effetti,
cittadini francesi.
Questo attivismo legislativo culminò con l’approvazione della Costituzione francese,
sancita dall’Assemblea il 3 settembre 1791. Al sovrano venivano ancora riconosciuti il con-
trollo del potere esecutivo e il comando dell’esercito. I ministri dovevano rispondere del
loro operato alla corona e non al parlamento. Nello stesso tempo, però, veniva salvaguar-
data l’indipendenza del potere legislativo. Il re, infatti, poteva intervenire solo con un veto
sospensivo rispetto alle decisioni del parlamento, tuttalpiù rimandando, ma non impeden-
do la promulgazione delle leggi votate dalla maggioranza dei deputati.
Le elezioni politiche sarebbero avvenute per suffragio censitario indiretto. In prima bat-
tuta, potevano votare tutti coloro che pagavano una imposta annua pari a tre giornate di
lavoro (la soglia censitaria era, cioè, molto bassa ed escludeva in pratica solo disoccupati e
vagabondi). Costoro sceglievano un certo numero di grandi elettori, selezionati tra proprie-
tari terrieri e cittadini benestanti. In una seconda tornata elettorale, questi ultimi eleggeva-
no i deputati da mandare all’assemblea legislativa. Si trattava di norme piuttosto selettive,
che garantivano di fatto che i deputati appartenessero ai ceti medio-alti della società.
Se è vero che la Costituzione del 1791 conservava ancora molti poteri al re, lo spirito
che la informava era del tutto inconciliabile con la tradizione dell’assolutismo, poiché –
come chiarirono esplicitamente i costituenti – la carta fondamentale era l’espressione del-
la volontà generale della nazione e non una concessione del sovrano. In questo senso, il re
doveva essere considerato un rappresentante della nazione e aveva, dunque, l’obbligo di
giurare lui stesso fedeltà alla legge e agli ordinamenti dello Stato.
184 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Profondamente turbato dal sentore delle misure costituzionali che presto ne avreb-
bero limitato l’autorità, e per giunta condizionato dalle proteste del papa contro i pesanti
provvedimenti presi dall’Assemblea in materia ecclesiastica e religiosa, Luigi XVI cercò di
fuggire con la famiglia dalla Francia ancor prima che la Costituzione fosse ufficialmente
varata. La sua fuga maldestra (giugno 1791) terminò a Varennes, vicino al confine tedesco,
dove giunse travestito da cocchiere. Riconosciuto, fu catturato e ricondotto a Parigi.
Vale la pena lasciare spazio a una breve cronaca di quelle ore. La famiglia reale fuggì
dal Palazzo delle Tuileries in carrozza attraverso una porta incustodita. Come detto, i reali
di Francia erano camuffati con abiti non loro. Alcuni picchetti armati di fedelissimi avreb-
bero dovuto assicurare una minima scorta al convoglio. Fu il figlio di un mastro di posta a
riconoscere il re nei pressi di Varennes. Il procuratore del comune fu avvertito dell’inatteso
passaggio. Scattò l’inevitabile verifica e il re fu costretto a rivelare la propria identità e a
fermarsi. Tre emissari della Costituente ricondussero a Parigi il corteo reale, accolto da due
ali di folla irrigidita in una silenziosa riprovazione. Anche le campagne furono percorse da
fremiti di indignazione: il re-padre dei cahiers de doléances era ormai morto, almeno da un
punto di vista simbolico, davanti agli occhi di molti dei suoi sudditi. Per molti versi il mesto
ritorno da Varennes rappresentò il funerale della monarchia.
Dopo che i costituenti avevano lavorato per mesi a delineare i contorni di una monar-
chia costituzionale, il gesto di Luigi XVI rendeva evidente il fatto che il sovrano non fosse
intenzionato ad accettare lealmente il cambiamento in atto. Egli continuava a ritenersi un
sovrano per diritto divino. Si innescò, così, un acceso dibattito tra quanti sostenevano che il
re dovesse essere comunque perdonato e quanti sostenevano, invece, che Luigi XVI non era
degno di fiducia, e che era quindi necessario fare della Francia una repubblica.
È lecito dire che fu la fuga di Varennes a rendere il movimento repubblicano france-
se, fino ad allora nettamente minoritario, una forza politica importante. Per il momento,
comunque, Luigi XVI riuscì a salvare il trono dichiarando, almeno formalmente, di voler
rispettare la Costituzione.
La Rivoluzione francese si impose come fenomeno europeo proprio durante il 1791,
sotto il duplice impatto derivante dall’approvazione della Costituzione e dalla tentata fuga
del re. Le élite culturali e politiche europee più vicine al movimento illuminista manifesta-
rono grande simpatia per l’esperienza rivoluzionaria. Si andava dalle reazioni entusiastiche
dei filosofi idealisti tedeschi, Kant e Fichte, all’esultanza per le conquiste rivoluzionarie dei
maggiori poeti inglesi: Blake, Coleridge, Wordsworth. Non furono pochi gli scrittori e i sag-
gisti che raggiunsero di persona Parigi, andando a rinforzare l’intellettualità rivoluzionaria
della capitale. Il nome più celebre è probabilmente quello del repubblicano Thomas Paine,
già protagonista dell’indipendenza americana.
Il movimento di curiosità intellettuale si allargò talvolta a fette più ampie dell’opinio-
ne pubblica: in Inghilterra, un certo numero di esponenti whig, su posizioni apertamente
liberali, si raggrupparono in un club di simpatizzanti per la Rivoluzione francese: la Consti-
tutional Society di Manchester; mentre in alcune città tedesche, ad esempio ad Amburgo,
la borghesia celebrava fastosamente l’anniversario della presa della Bastiglia. Ci furono
naturalmente anche intellettuali ferocemente ostili alla Rivoluzione: nel novembre 1790
uscirono le Reflexions on the French Revolution del britannico Edmund Burke, vero e pro-
prio vangelo dell’ideologia controrivoluzionaria, che additava quanto stava succedendo in
Francia come una rivolta contro la tradizione e la legittima autorità.
Capitolo 7. La Rivoluzione francese 185

7.1.4. Il nuovo parlamento e il confronto fra Destra e Sinistra.


Sulla base delle norme fissate dalla carta fondamentale, nel settembre 1791 si tennero
le elezioni per il parlamento. La nuova Assemblea legislativa si riunì per la prima volta in
ottobre e al suo interno si contrapposero subito visioni politiche profondamente differenti.
I deputati che sostenevano posizioni radicali e repubblicane presero l’abitudine di di-
sporsi sugli scranni alla sinistra del presidente dell’Assemblea, mentre quelli più moderati e
filomonarchici si sedevano sulla destra. Era la nascita di una distinzione che sarebbe entra-
ta a far parte in modo permanente del lessico politico: la distinzione tra una destra mode-
rata o conservatrice e una sinistra più incline alla trasformazione sociale. Al tempo stesso,
anche fuori dall’Assemblea cominciarono a formarsi club e associazioni che sostenevano
all’interno della società le posizioni assunte dall’uno o dall’altro gruppo parlamentare, pre-
figurando la forma dei moderni partiti politici. I nomi di questi sodalizi derivavano dalle
sedi nelle quali si riunivano, che erano di solito degli ex conventi confiscati alla Chiesa.
Uno dei primi a formarsi, e anche uno dei più importanti, fu il club dei giacobini (sede delle
loro riunioni era il convento di San Giacomo). Se i giacobini assunsero ben presto una chia-
ra connotazione democratico-radicale, il club dei foglianti (dal nome dei cistercensi nel
cui convento si riunivano) era il principale raggruppamento di destra. Nacque anche una
associazione di sinistra estrema, quella dei cordiglieri (per il convento dei francescani che
elessero a loro sede), i quali avevano come leader personaggi di notevole carisma come
Jean-Paul Marat e Jacques-René Hébert.
Le elezioni del settembre 1791 consegnarono un parlamento dove prevalevano, nel
complesso, le posizioni centriste e moderate. Su un totale di 745 deputati pesava, infatti, in
maniera determinante un consistente gruppo di centro, forte di 345 membri, che su molte
questioni era privo di un preciso orientamento politico ma che si schierava comunque a
favore dell’assetto esistente: la monarchia costituzionale retta dai Borbone. Ai due lati si
potevano individuare, da una parte, la destra del club dei foglianti (264 membri), guidata
da La Fayette; mentre dall’altra trovava spazio una più esigua e composita formazione di
sinistra (136 membri in tutto) animata da cordiglieri e giacobini. Questi ultimi, che formava-
no la parte più cospicua dello schieramento di sinistra, erano guidati in parlamento da Jac-
ques-Pierre Brissot, un deputato del dipartimento della Gironda (la regione con capoluogo
Bordeaux), e dai suoi luogotenenti, nel complesso definiti girondini, proprio a indicarne la
provenienza geografica.
Una grossa parte dell’attività legislativa dell’Assemblea fu riservata a questioni relative
al diritto civile. Una legge del 1792 istituì l’anagrafe, con la quale la registrazione dei dati
sugli eventi fondamentali della vita della comunità (nascite, matrimoni, morti), fino ad al-
lora tenuta dai preti sui registri parrocchiali, venne affidata agli uffici comunali. Al tempo
stesso si introdusse il matrimonio civile, l’unico ad aver rilievo ai fini della legge: solo dopo
essersi sposata civilmente la coppia poteva far celebrare anche un matrimonio religioso.
La nuova legislazione francese prevedeva anche il divorzio, fino ad allora proibito, e nella
divisione del patrimonio e nella custodia dei figli la legge non prevedeva preferenze tra i
sessi. Era chiaro l’intento di laicizzazione della società francese, una linea di condotta lar-
gamente condivisa sia a destra che a sinistra.
Ben presto, però, l’attenzione dell’opinione pubblica e dei parlamentari fu portata su
altre e più drammatiche questioni. Incombeva la minaccia di un attacco militare da parte di
Austria e Prussia, che sembravano intenzionate ad approfittare del momento di incertezza
e di profondi cambiamenti vissuto dalla Francia, per sferrarle un colpo decisivo. I monar-
chi assoluti del Vecchio continente erano inquieti di fronte alla prospettiva di una Francia
186 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

rivoluzionaria che avesse tempo e modo di consolidare la propria posizione nel contesto
internazionale. Essi temevano che anche la stabilità interna dei loro paesi potesse essere
messa a repentaglio da una diffusione dell’esperimento francese.
A gettare olio sul fuoco contribuivano sicuramente gli esponenti controrivoluzionari
emigrati all’estero. Una prima ondata di aristocratici aveva lasciato la Francia tra l’estate
e l’autunno del 1789; durante il 1791, poi, la marea era aumentata nutrendosi anche di
una “emigrazione militare” composta da quadri dell’esercito. Si formarono così dei nuclei
controrivoluzionari sparsi in Austria e Svizzera, in Renania, Catalogna, Piemonte, e in città
come Londra e Bruxelles, molto abili nel far rumore e nell’orientare verso la guerra i sovra-
ni europei.
All’interno della stessa Francia, sul fronte opposto, c’erano due gruppi particolarmente
ansiosi di scendere in guerra: i girondini di Brissot, che vedevano in una guerra di popolo
il modo per liberarsi della monarchia a favore di un regime repubblicano, e i sostenitori di
Luigi XVI, i quali pensavano che la guerra non potesse che tornare utile alla corona. Secon-
do loro, se il re avesse portato la Francia alla vittoria, il suo prestigio sarebbe aumentato
in modo determinante, mentre se la Francia avesse perduto gli alleati avrebbero comun-
que preferito rafforzare la legittimità dei Borbone piuttosto che dare corda alle istanze
monarchico-costituzionali, o peggio repubblicane; opzioni politiche che, diffondendosi, per
l’Europa avrebbero minato le fondamenta di tutte le dinastie. Poco propensa ad accettare
una scelta di guerra rimase, invece, la componente dei giacobini guidata da Maximilien
Robespierre, già rappresentante del terzo stato nel 1789 e poi elemento di spicco all’in-
terno dell’Assemblea nazionale costituente. Robespierre e i suoi temevano che una guerra
europea potesse portare il paese nel baratro.
Alla fine, la Francia finì per anticipare i suoi avversari. Il 20 aprile 1792, forte del largo
sostegno creatosi in parlamento, Luigi XVI firmò la dichiarazione di guerra contro l’Austria;
al fianco di Vienna, come previsto, si schierò subito la Prussia.

7.2. Dalla monarchia alla repubblica

Nelle prime fasi della guerra, le cose per la Francia andarono male. Le sue truppe furono
sconfitte e messe in fuga. Nell’esercito regnava il caos e la situazione era aggravata dal fat-
to che tra le molte migliaia di nobili che avevano deciso di abbandonare la Francia c’erano
ben due terzi degli ufficiali dell’esercito. Visti i precedenti, fu quasi inevitabile che nell’o-
pinione pubblica si diffondesse il sospetto di un tradimento da parte delle alte gerarchie
militari e della corona. Solo così, si pensava, potevano spiegarsi quelle ripetute sconfitte.
Una impressione che si rafforzò ulteriormente quando il comandante in capo dell’esercito
austro-prussiano emanò un proclama piuttosto singolare: si minacciava che, in caso di mal-
trattamenti a Luigi XVI e alla sua famiglia, Parigi sarebbe stata completamente distrutta.
Rimanevano ormai pochi dubbi sul fatto che il re stesse dalla parte del nemico e che l’espe-
rimento della monarchia costituzionale fosse, quindi, del tutto fallito. Era necessaria una
nuova costituzione e questa consapevolezza aprì, in modo repentino, la fase democratica
della Rivoluzione.
A Parigi regnavano preoccupazione e malcontento, che si tradussero in ripetute e cla-
morose manifestazioni contro il re e contro i capi dell’esercito. C’era la diffusa sensazione
Capitolo 7. La Rivoluzione francese 187

che stesse per accadere qualcosa di decisivo per le sorti della Francia. Ai primi di luglio
cominciarono ad arrivare in città, provenienti da tutta la Francia, diversi battaglioni della
Guardia nazionale, dove ormai prevalevano le posizioni repubblicane. Uno dei battaglione
più importanti, quello di Marsiglia, giunse in città cantando una canzone di guerra antiau-
striaca e antimonarchica che divenne ben presto nota come La Marsigliese, guadagnandosi
una popolarità tale che da essere scelta, nel 1795, come inno nazionale.
L’esponente politico più rapido a leggere la situazione e a proporre le direttive per un
nuovo corso politico fu Robespierre, il quale parlando alla fine di luglio davanti ai sosteni-
tori del suo partito, attaccò duramente sia il governo sia il parlamento, delineando un pro-
gramma alternativo in tre punti: abbattere la monarchia, eleggere una nuova assemblea
legislativa a suffragio universale maschile ed epurare dagli incarichi pubblici tutti i traditori
e i venduti.
Le associazioni giacobine e i battaglioni della Guardia nazionale pianificarono un vero
e proprio colpo di mano, attaccando (il 10 agosto 1792) il Palazzo delle Tuileries, dove si
trovava il re e aveva sede il parlamento. Luigi XVI fu imprigionato insieme ai suoi familiari e
i deputati moderati immediatamente esautorati. I giacobini erano padroni della situazione
e anche il gruppo interno dei girondini appoggiò l’azione orchestrata da Robespierre.
Le elezioni si svolsero in un clima di forte disorientamento per i recenti accadimenti,
tanto che si recò alle urne solo il 10% degli aventi diritto. La sinistra controllava la mag-
gioranza del nuovo organo legislativo e costituente, denominato Convenzione nazionale.
Indubbiamente la bassa percentuale dei votanti inficiava agli occhi di molti la rappresenta-
tività di questa assemblea, e tuttavia, appena insediatasi, la Convenzione proclamò la fine
della monarchia e l’instaurazione della repubblica (21-22 settembre 1792). Nasceva così il
primo regime repubblicano della storia francese.
Il gruppo parlamentare dei giacobini era sempre diviso al suo interno tra la corrente dei
girondini e quella dei militanti vicini alle posizioni di Robespierre. Questi ultimi vennero
denominati “montagnardi”, o “uomini della montagna”, per l’abitudine di sedere nei banchi
in alto, alla sinistra del presidente. A prevalere numericamente erano ancora i girondini di
Brissot, che in sostanza controllavano la maggioranza della Convenzione e il governo del
paese.
Sia gli uni che gli altri erano su posizioni repubblicane. I girondini, però, consideravano
l’instaurazione della repubblica come la conclusione del movimento rivoluzionario, men-
tre erano tendenzialmente prudenti per quanto riguardava ulteriori interventi nella sfera
socio-economica, temendo un eccessivo protagonismo del governo centrale a scapito del-
le autonomie locali.
I montagnardi, al contrario, vedevano nell’instaurazione della repubblica il vero inizio
della Rivoluzione. Non condividevano i timori dei girondini sull’intervento dello Stato nel-
la vita economica e sociale; ritenevano anzi necessaria una profonda trasformazione del
paese, che doveva essere guidata dalla sua parte politicamente più avanzata e, cioè, dagli
ambienti rivoluzionari di Parigi. Si trattava di due visioni antitetiche del modello repubbli-
cano: l’una centralista, l’altra federalista. E se in un primo momento, fino al 1792, le due
posizioni avevano potuto convivere all’interno del club dei giacobini, ora che si trattava
di dare corpo concretamente al regime repubblicano le differenze si facevano sempre più
inconciliabili. Tanto che i girondini si definirono come gruppo politico a sé stante e solo i
montagnardi continuarono a essere indicati con il nome di giacobini.
La Convenzione aveva appena iniziato i suoi lavori quando arrivò la notizia della vitto-
ria di Valmy (20 settembre 1792), uno scontro che vide la ritirata dei prussiani a causa di
condizioni nettamente sfavorevoli – le cronache parlano di una fitta nebbia e, per giunta, di
188 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

una epidemia di dissenteria che colpì le truppe tedesche –, ma che i francesi lessero piutto-
sto come una schiacciante vittoria riportata sul nemico.
In ogni caso fu un inizio propizio: dopo tante sconfitte legate al passato regime mo-
narchico, sembrava infatti che la repubblica e la vittoria andassero di pari passo. L’effetto
propagandistico e il valore simbolico della notizia furono enormi e immediati. L’esercito
francese era composto per poco meno della metà dei suoi effettivi da volontari, che com-
battevano non perché pagati o reclutati a forza, ma per difendere le ragioni della Rivolu-
zione. Questo esercito di “cittadini”, secondo la retorica dell’epoca, era riuscito a sconfigge-
re un esercito di mercenari al soldo dei monarchi assoluti di Austria e Prussia.
La nuova stagione repubblicana sembrava iniziare nel migliore dei modi. In realtà, la
Convenzione avrebbe dovuto presto affrontare infinite difficoltà: alla guerra contro i nemi-
ci esterni, si aggiunsero la guerra civile tra repubblicani e lealisti, e lo scontro intestino tra
le diverse componenti della sinistra.
Dopo alcuni facili entusiasmi, la guerra all’esterno si fece sempre più critica, soprattutto
all’inizio del 1793, quando la coalizione avversaria si rinforzò notevolmente, grazie all’in-
tervento della Gran Bretagna, che schierò contro la Francia la sua potentissima marina
da guerra. L’instaurazione della repubblica, il radicalismo politico e le intenzioni bellicose
mostrate dalla Convenzione finirono per stringere in una coalizione antifrancese pratica-
mente tutti i più importanti Stati europei: all’Austria e alla Prussia, si aggiunsero via via
Gran Bretagna, Spagna e Province Unite.
Mentre combattevano contro tutta Europa, i repubblicani doveva difendersi dalle forze
interne rimaste fedeli alla monarchia. Questo conflitto si fece più aspro dopo l’esecuzione
capitale di Luigi XVI, avvenuta nel gennaio 1793. In dicembre, la Convenzione aveva deci-
so di sottoporlo a processo con l’accusa di tradimento, imputandogli i suoi collegamenti
con gli aristocratici emigrati e con i monarchi nemici. La Convenzione stessa si costituì in
tribunale supremo e con una decisione sofferta optò per la condanna a morte (387 voti fa-
vorevoli e 334 contrari). Se i giacobini di Robespierre votarono in blocco per mandare il re
sul patibolo, molti girondini si opposero a questo esito cruento. Il 21 gennaio 1793 la testa
di Luigi XVI cadde sotto la lama della ghigliottina. Alla moglie, Maria Antonietta d’Asburgo-
Lorena, toccò lo stesso destino alcuni mesi dopo.
Ma i problemi per il nuovo governo non sembravano avere fine. Per rinforzare l’esercito
francese, impegnato su più fronti, si rese presto necessaria una massiccia leva obbligatoria.
I 228.000 soldati, in buona parte volontari, di cui la repubblica poteva disporre all’inizio del
1793, non erano più sufficienti. La Convenzione riteneva che ne servissero altri 300 mila. Il
reclutamento venne fissato sulla base di contingenti per dipartimento. Le amministrazioni
locali dovevano provvedere a un accurato esame anagrafico per individuare i soldati da
reclutare. In linea di massima, tutti gli uomini tra i 18 e i 40 anni, celibi o vedovi senza figli,
dovevano ritenersi in stato di mobilitazione permanente.
In molti dipartimenti la reazione a questa imposizione governativa non fu affatto positi-
va, provocando in più di una occasione gravissime rivolte. Il caso esemplare è quello della
Vandea, nella Francia occidentale, ma violente reazioni al provvedimento si registrarono
anche nella vicina Bretagna. Alla fine affluirono nei ranghi dell’esercito francese solo 150
mila nuove unità, la metà di quelle previste. Indubbiamente un grave smacco per la Con-
venzione.
Sia a causa della crisi interna, sia per la inefficiente condotta militare di alcuni generali,
la guerra segnava in quei mesi momenti drammatici per la Francia. In particolare, il 16
marzo 1793, l’armata francese comandata dal generale Charles Dumouriez, noto per esse-
re stato il condottiero della fortunata battaglia di Valmy, venne pesantemente sconfitta in
Capitolo 7. La Rivoluzione francese 189

Belgio, e lo stesso Dumouriez decise addirittura di disertare e di passare al nemico. Un atto


clamoroso che ebbe ripercussioni politiche pesantissime, dal momento che il generale era
notoriamente legato ai girondini. Fu quasi inevitabile che le divisioni e le rivalità interne
alla sinistra si approfondissero.
Intanto, a Parigi e in tutta la Francia, saliva nuovamente il malcontento dei ceti popo-
lari, che giudicavano blanda e insufficiente la politica messa in atto dal governo girondino
di fronte alla crisi economica che attanagliava il paese. Il problema principale era l’infla-
zione. Per finanziare lo sforzo bellico si era consentita una eccessiva emissione di carta
moneta. Così facendo però il valore del denaro si era abbassato, provocando un aumento
del prezzo delle merci. Molti agricoltori e commercianti cominciarono a speculare sulla si-
tuazione. Fecero incetta di prodotti alimentari, accumulando grandi riserve senza metterle
in vendita, in attesa di farlo quando i prezzi fossero ulteriormente cresciuti. Tale condotta
ebbe naturalmente l’effetto di far aumentare in modo esponenziale i prezzi, mettendo in
ginocchio la popolazione delle città.
Da tempo i sanculotti e i loro rappresentanti giacobini chiedevano rimedi estremi a
questa situazione e, dopo molte resistenze da parte dei girondini, nel maggio 1893 la Con-
venzione approvò finalmente l’introduzione di un calmiere dei prezzi per cereali e farina e
decretò un prestito forzoso a carico dei più ricchi, una sorta di tassa patrimoniale.
A questo punto, però, il gruppo girondino ritenne che fosse arrivato il momento di sot-
trarsi alle continue pressioni della sinistra radicale e imboccò la strada di una resa dei
conti. Iniziò così una azione repressiva nei confronti dei gruppi sanculotti e degli ambienti
giacobini più irrequieti, con arresti a ripetizione e chiusura di sedi e associazioni politiche.
Se in diverse città della Francia l’atto di forza dei girondini riuscì, a Parigi però le cose an-
darono diversamente.
Il 31 maggio 1793, infatti, una nutrita folla di sanculotti assaltò, armi in pugno, la Con-
venzione. I rivoltosi portavano un preciso elenco di richieste, tra cui l’espulsione dei giron-
dini dall’assemblea legislativa e dal governo e una serie di misure sociali a favore della
popolazione più povera. Il 2 giugno la Convenzione, assediata da oltre 80 mila sanculotti,
fu costretta a cedere: una trentina di deputati e alcuni ministri girondini furono arrestati, gli
altri semplicemente esautorati. Le istituzioni passarono sotto il controllo dei giacobini e del
loro leader, Maximilien Robespierre.
Al di là dell’assalto armato alla Convenzione, in sede di analisi storica è possibile dire
che la vittoria giacobina del giugno 1793 dipese in gran parte dal discredito in cui erano ca-
duti i girondini a causa di sospetti di tradimento (da Dumouriez in poi) e scandali finanziari
(arricchimenti illeciti e legami con gli speculatori) che avevano macchiato la reputazione
di una parte del loro gruppo dirigente.

7.3. Robespierre e il governo dittatoriale (1793-1794)

La fase giacobina fu la più radicale e la più drammatica della Rivoluzione, passando alla
storia come Repubblica del Terrore. È pur vero che le prime settimane del nuovo regime
regalarono alcune illusioni ai sostenitori di una democrazia repubblicana. Infatti, venne
immediatamente approvato il nuovo Atto costituzionale (24 giugno 1793) basato sul suffra-
190 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

gio universale maschile, sulla garanzia delle libertà civili e su una grande attenzione verso
forme di assistenza sociale rivolte agli strati inferiori della popolazione.
Tuttavia la nuova carta fondamentale non entrò mai in vigore. Mentre la Convenzione,
epurata degli elementi politici non più graditi, restava in carica come organo legislativo
provvisorio, il potere esecutivo venne assunto da un Comitato di salute pubblica composto
da tre elementi: Robespierre, vero e proprio leader di governo, Louis Antoine de Saint-
Just, giovane intellettuale radicale eletto deputato alla Convenzione ad appena 25 anni,
e Georges Couthon, già membro dell’Assemblea legislativa del 1791, uno dei massimi col-
laboratori di Robespierre.
Di fatto i giacobini instaurarono una vera e propria dittatura, sostenuti dalla convinzio-
ne che una piccola minoranza politica d’avanguardia (i militanti giacobini non erano più
di 100 mila in tutta la Francia) potesse assumersi il diritto di trasformare dall’alto un intero
paese, cambiandone la mentalità e l’etica. Gli esponenti girondini che in giugno erano sfug-
giti all’arresto cercarono di rispondere e lo fecero animando, in molti dipartimenti, rivolte
di stampo federalista. Nello stesso tempo, si aggravavano le insurrezioni filomonarchiche
che erano in corso da alcuni mesi in Vandea e in Bretagna. Tutto ciò mentre alle frontiere
continuava la guerra contro i nemici esterni.
A ben vedere, la politica del terrore poteva alimentarsi solo in un contesto simile. Le
paure suscitate dalla guerra e dalle rivolte interne spiegano almeno in parte quello che
accadde tra il 1793 e il 1794: la repressione di ogni dissenso, i giudizi sommari, le migliaia
di esecuzioni sulla ghigliottina.
Bastava nulla per essere denunciati al “tribunale rivoluzionario”: era un destino che toc-
cava non solo a chi fosse sospettato di aver commesso azioni contro la Repubblica, ma
anche a chi veniva accusato semplicemente di non aver fatto abbastanza per proteggere
e sostenere il regime repubblicano. I numeri sono impressionanti: tra giustiziati e deceduti
in prigione i morti nel periodo della dittatura giacobina (giugno 1793 - luglio 1794) furono
all’incirca 35-40 mila.
Oltre ai capi girondini, tra i quali Brissot, caddero sotto la lama della ghigliottina anche
esponenti dei gruppi politici più vicini a Robespierre e ai giacobini. È significativo, ad esem-
pio, quanto accadde nel marzo 1794, quando vennero condannati a morte Hébert e i suoi
seguaci, militanti saldamente attestati su posizioni ultra-rivoluzionarie. Finirono sul patibo-
lo perché Robespierre temeva che il violento ateismo che caratterizzava la loro propagan-
da potesse intaccare il consenso popolare che ancora sosteneva il regime repubblicano.
Il mese successivo toccò a Georges Danton e ai suoi sostenitori, che erano denominati
“indulgenti”, per via del fatto che avanzavano delle riserve sulla politica del terrore. Già
elemento di spicco dei montagnardi tra il 1792 e il 1793, Danton finì giustiziato come con-
trorivoluzionario. Un paradosso per giustificare il quale gli vennero rivolte accuse di corru-
zione e arricchimento indebito, indicandolo come nemico di quella pubblica moralità e di
quelle virtù repubblicane di cui il governo di Robespierre si faceva intransigente paladino.

7.3.1. Alla ricerca di una nuova religione civile.


Nonostante si susseguissero settimane e mesi fatti di guerre, fanatismo politico e conflitti
intestini, il governo giacobino riuscì comunque a introdurre alcune misure legislative non
prive di significato. I provvedimenti più importanti furono il sostegno all’istruzione pubbli-
ca gratuita e l’abolizione della schiavitù nelle colonie (lo stesso Robespierre faceva parte
della Société des Amis des Noirs, che mirava all’emancipazione degli schiavi). Per organiz-
zare l’economia di guerra e tutelare i gruppi sociali più esposti, i giacobini introdussero il
Capitolo 7. La Rivoluzione francese 191

razionamento obbligatorio, ampliarono il controllo sui prezzi, fissarono dei livelli minimi
salariali e combatterono duramente la speculazione, che divenne un crimine punibile con
la morte. Tutti i comuni della Repubblica redassero degli “elenchi di patrioti indigenti”, i
quali sarebbero stati concretamente aiutati attraverso la redistribuzione delle proprietà
confiscate ai traditori e ai nemici della Rivoluzione.
L’obiettivo più ambizioso e visionario dei giacobini fu quello di costruire una nuova reli-
gione civile, capace di educare tutti i cittadini al culto dei valori repubblicani. Faceva parte
di questo disegno l’introduzione del calendario rivoluzionario (ottobre 1793), in base al qua-
le il giorno di fondazione della repubblica, il 22 settembre 1792, divenne retroattivamente
il primo giorno del primo mese dell’Anno Primo, con la volontà di rimarcare l’inizio di una
nuova epoca. I giacobini si impegnarono poi a sostituire la liturgia cattolica con pratiche
religiose vagamente ispirate alla cultura illuminista. Tra queste, il culto della Dea Ragione:
alla nuova divinità venne addirittura consacrata Notre-Dame, la più importante chiesa di
Parigi.
Si allestì, infine, un complesso sistema di feste pubbliche, dedicate a vittorie militari o a
conquiste civili, che avrebbero dovuto coinvolgere emozionalmente il popolo, avvicinan-
dolo in tal modo ai valori della nuova società sorta con la Rivoluzione. Erano feste ufficiali,
decise dagli organi di governo e pianificate sulla base di scenografie molto elaborate, alla
cui realizzazione lavoravano i migliori artisti del paese.

7.3.2. La guerra continua.


Dal punto di vista dell’organizzazione militare, il Comitato di salute pubblica procedette a
un ulteriore ampliamento degli effettivi dell’esercito e a una decisa politicizzazione delle
truppe.
A molti osservatori europei sembrava, comunque, inevitabile che la Francia dovesse
prima o poi soccombere di fronte alla grande coalizione che le si contrapponeva. Certo la
sproporzione delle forze in campo era evidente; però bisognava fare i conti con il morale
delle truppe francesi, che si dimostrava molto alto di fronte al pericolo che minacciava il
loro paese. Esse combattevano con uno spirito diverso rispetto a quello dei vecchi eserciti
regi, nei quali si andava incontro al nemico solo per il soldo (nel caso di mercenari) o co-
munque solo per realizzare le personali ambizioni dei sovrani.
È vero che il volontariato militare del 1792, ormai insufficiente, aveva lasciato il posto
– già durante il governo girondino – all’arruolamento di massa (levée en masse) di tutti i
giovani in età di leva. Ma l’introduzione del reclutamento forzato si abbinò a una insistente
propaganda sull’idea della “nazione in armi”, affinché ogni recluta potesse sentirsi parte di
un esercito di cittadini che combattevano per la libertà della patria e quindi per il proprio
più intimo interesse. Il Comitato di salute pubblica inviò presso i vari reparti dell’esercito
dei commissari politici, con il compito di verificare che la vita militare fosse informata allo
spirito rivoluzionario e repubblicano. Non meno importante fu l’immissione nei ranghi di
nuovi ufficiali, giovani e motivati, per sostituire i nobili che avevano disertato e lasciato il
paese.
La propaganda del governo repubblicano non interessò solamente i soldati e i graduati,
ma fu capace di suscitare una mobilitazione generale che diede a tutti i settori della popo-
lazione un forte senso di partecipazione nei confronti della comunità nazionale impegnata
in guerra. Secondo uno dei più famosi decreti repubblicani, a ogni cittadino era affidato un
preciso ruolo, e ciascuno doveva sentirsi a suo modo indispensabile: “Gli uomini giovani
andranno in battaglia; gli uomini sposati forgeranno armi e trasporteranno provviste; le
192 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

donne faranno tende e abiti, e serviranno negli ospedali; i bambini strapperanno vecchie
lenzuola per farne garze; i vecchi si recheranno in massa nei luoghi pubblici per stimolare
il coraggio dei combattenti e per predicare l’unità della Repubblica e l’odio per i re”.
La riorganizzazione dell’esercito e il lavoro di propaganda diedero buoni frutti dal
punto di vista dell’efficienza militare e della combattività delle truppe. Le forze nemiche
vennero cacciate dal suolo francese, dove nei mesi precedenti erano riuscite a penetrare.
L’esercito repubblicano riuscì a liberare Dunkerque, da tempo assediata dagli inglesi, a
ricacciare l’esercito spagnolo oltre i Pirenei e quello sabaudo oltre le Alpi. Infine, sconfisse
ripetutamente gli austriaci sul confine orientale.

7.3.3. Il colpo di Stato del 9 Termidoro.


I successi militari, uniti alla efficace repressione delle rivolte interne, avrebbero potuto con-
sentire un ammorbidimento della politica del terrore. Al contrario, Robespierre e i suoi,
ormai prigionieri di una tecnica di governo fondata sulla repressione, resero ancora più
implacabile la loro azione. In due mesi, tra il giugno e il luglio del 1794, a Parigi vennero
giustiziate oltre 2.500 persone.
Si trattava di una condotta apertamente irragionevole e sanguinaria che neppure molti
sostenitori di un tempo erano più disposti ad accettare. I sanculotti, ad esempio, avevano
ormai un atteggiamento ostile verso il Comitato di salute pubblica, colpevole tra l’altro di
avere giustiziato uno dei loro capi più amati, Hébert. Ancor più desiderose di liberarsi dei
giacobini erano le classi medie (professionisti, commercianti e imprenditori), che aveva-
no ancora una larga rappresentanza alla Convenzione. La stessa posizione di insofferenza
verso Robespierre si era radicata in molti ambienti dell’esercito e nella stessa Guardia na-
zionale.
L’opposizione, insomma, era così diffusa che non fu difficile organizzare un colpo di Sta-
to. Esso si consumò il 27 luglio 1794 (9 Termidoro dell’Anno Secondo). Robespierre, Saint-
Just, Couthon e una ventina di capi giacobini meno noti vennero arrestati e giustiziati senza
alcun processo. Era la fine del Terrore e dell’esperimento politico giacobino, ma non della
repubblica nata nel 1792.

7.4. Gli anni del Direttorio e l’ascesa di Bonaparte (1795-1799)

La cosiddetta “reazione termidoriana” si tradusse nella chiusura delle associazioni giacobi-


ne in tutto il paese, nell’arresto di militanti e dirigenti di quel partito e, talvolta, in violente
rese dei conti, con aggressioni e massacri ai loro danni. Dal punto di vista istituzionale, si
assistette all’annullamento di molti provvedimenti varati dal governo di Robespierre, can-
cellando quasi ogni traccia della sua esperienza di governo.
Gli effetti furono, in certi casi, controproducenti. La soppressione, ad esempio, delle
misure economiche introdotte tra il 1793 e il 1794 per calmierare i prezzi ebbe immedia-
tamente effetti gravissimi. L’inflazione subì una potentissima spinta verso l’alto, raggiun-
gendo livelli mai visti in precedenza, con ripercussioni pesanti e complesse sulla società
francese. Coloro che vivevano di un reddito fisso, stipendiati e salariati, o i possessori di
titoli del debito pubblico, si impoverirono repentinamente; mentre quegli attori sociali che
Capitolo 7. La Rivoluzione francese 193

erano in grado di decidere i prezzi (commercianti, appaltatori e imprenditori) spesso si


arricchirono altrettanto rapidamente.
In questa situazione di instabilità socio-economica, la nuova classe dirigente cercò al-
meno di placare l’inquietudine politica lasciata in eredità dalla Repubblica giacobina. A
tale scopo fu studiata una modifica degli assetti costituzionali. La carta del 1793, mai at-
tuata e comunque troppo democratica per i nuovi equilibri politici, venne sostituita da una
costituzione approvata nell’agosto 1795, nettamente più conservatrice.
Il diritto di voto fu nuovamente limitato in base al censo. Per giunta venne introdotta
una disposizione in base alla quale si prevedeva che, in occasioni delle prime elezioni ge-
nerali, gli elettori dovessero scegliere almeno i 2/3 dei deputati tra i membri uscenti della
Convenzione. In altre parole, il personale politico che aveva rovesciato Robespierre e scrit-
to la nuova Costituzione non voleva assolutamente veder messo in discussione il potere
appena conquistato. Questa norma era in parte mitigata dal fatto che si prevedevano, poi,
a cadenza annuale elezioni per il rinnovo parziale del parlamento, nella misura di un terzo
dei deputati ogni anno.
Al parlamento spettava l’elezione di un organo esecutivo di cinque membri, il Diretto-
rio, al quale era affidato il governo del paese e che, a sua volta, era soggetto annualmente
a un parziale ricambio (ogni dodici mesi uno dei “direttori” doveva essere sostituito).
Per lungo tempo, la figura più rilevante del Direttorio fu senza dubbio quella di Paul
Barras, nominato nell’organo esecutivo in seguito alla prima tornata elettorale dell’otto-
bre 1795 e restato in carica fino al novembre del 1799. Si trattava di un esponente della
piccola nobiltà di provincia, che negli anni precedenti aveva saputo mantenere una non
comune autonomia di giudizio senza mai aderire pedissequamente a questa o quella parte
politica. Dopo aver preso parte all’assalto della Bastiglia (1789), era stato membro della
Convenzione, dove si era avvicinato ai giacobini votando a favore dell’esecuzione del re.
Impressionato negativamente dalla politica del terrore, si era però ben presto allontanato
da Robespierre, contribuendo nel 1794 alla sua destituzione. Era dunque un protagonista
di primo piano della Rivoluzione francese e questo lo legittimò come vero e proprio leader
del Direttorio.
Barras si trovò di fronte a un compito estremamente difficile, anche a causa dello scarso
consenso popolare che circondava i nuovi organi istituzionali. Il carattere oligarchico, com-
plicato e macchinoso della Costituzione del 1795 balzava agli occhi e venne criticato da
larga parte dell’opinione pubblica francese. L’insoddisfazione era profonda e accomunava
settori diversi della società, ciascuno dei quali esprimeva determinati motivi di scontento.
Le classi popolari lamentavano, in particolare, l’abbandono della politica di contenimento
dell’inflazione e di controllo dei redditi, mentre la destra filomonarchica era insoddisfatta
per la conferma dell’assetto repubblicano.
L’inquietudine politica, dunque, anziché placarsi si espresse in maniera sempre più cla-
morosa, con insurrezioni e congiure di diversa matrice politica. A sinistra si cominciò con
due tentativi insurrezionali promossi dai sanculotti di Parigi tra l’aprile e il maggio 1795,
entrambi velocemente repressi nel sangue dalle truppe. Un anno più tardi (maggio 1796)
venne scoperta una congiura coordinata da un ex giacobino, François Babeuf, il quale pun-
tava a rovesciare il Direttorio per imporre un regime di tipo nuovo: una società comunistica
dove fosse abolita la proprietà privata. Processato e condannato, Babeuf venne giustiziato
nel maggio 1797, ma il suo tentativo – noto come la Congiura degli Eguali – lasciò un segno
indelebile nella storia politica della Francia, e non solo.
Per la prima volta, le aspirazioni di uguaglianza sociale, che costituivano da sempre un
filone vivo nella storia delle teorie politiche, si trasferirono sul piano concreto dell’organiz-
194 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

zazione cospirativa. Un livello d’azione mai raggiunto in precedenza, neppure dai levellers
inglesi dell’età di Cromwell; e che anticipava piuttosto tendenze proprie dei movimenti
rivoluzionari otto-novecenteschi.
Se la sinistra di ascendenza giacobina si dimostrava ancora attiva, anche l’inquietudi-
ne delle forze di destra conobbe nuove espressioni, che si legavano comunque a luoghi e
figure simbolo degli anni precedenti. Un movimento filomonarchico riaffiorò in Vandea
dove, fra il giugno e il luglio del 1795, sbarcò un corpo di spedizione finanziato da espo-
nenti aristocratici emigrati all’estero. Il tentativo di ravvivare l’insurrezione in quelle terre
tormentate fu però rapidamente bloccato e disperso.
Pochi mesi dopo, in ottobre, scoppiò a Parigi un’altra rivolta promossa da forze ostili
alla repubblica. In quel caso, i sostenitori della monarchia furono abili a sfruttare l’insof-
ferenza popolare contro le nuove regole elettorali che – come detto – imponevano di sce-
gliere la maggioranza dei deputati tra quelli già precedentemente in carica. Per reprimere
le agitazioni di piazza, il governo si affidò all’azione di un giovane generale, Napoleone
Bonaparte, che non esitò a usare i cannoni contro i civili.
L’opposizione al Direttorio continuò a crescere, tanto che, due anni più tardi, le elezioni
del 1797 fecero registrare un netto successo della destra monarchica. In entrambe le ca-
mere del parlamento si delineò una maggioranza di fatto contraria agli orientamenti del
governo in carica. Il Direttorio reagì affidandosi ancora al sostegno dei generali. Il 4 settem-
bre 1797, le truppe occuparono Parigi, annullando l’elezione dei deputati di opposizione,
arrestandone alcune decine e chiudendo la stampa filomonarchica.
Appena un anno dopo, nell’aprile del 1798, le consultazioni elettorali diedero nuova-
mente un risultato sfavorevole al Direttorio. Questa volta era la sinistra radicale e neo-
giacobina ad aver ottenuto un grande successo. La risposta delle autorità fu la stessa: la
rimozione, con vari pretesti e sotto la minaccia dell’intervento dell’esercito, di un centinaio
di deputati non allineati alle posizioni governative.
Era sempre più evidente che le forze armate – già legittimate dalla lunga guerra che
contrapponeva la Francia al resto d’Europa – stessero assumendo un ruolo determinante
anche nella lotta politica interna. Molte cose erano cambiate negli ambienti militari dopo
il 1789. Prima di allora, solo i rampolli della grande nobiltà potevano ambire ai più alti
gradi dell’esercito. Fu necessaria la Rivoluzione per mettere in discussione quelle rigide
gerarchie sociali. Un deciso rinnovamento fu poi favorito dall’espatrio di moltissimi ari-
stocratici, che aprì possibilità di carriera impensate anche per i giovani ufficiali che non
avevano origini particolarmente altolocate. A partire dal 1792-93, chi sapeva mostrare le
proprie qualità di comando aveva buone probabilità di scalare velocemente le gerarchie
militari; soprattutto se era dotato di un buon fiuto politico, per interpretare tempestiva-
mente i mutevoli equilibri di potere che via via si affermavano a Parigi.
Si prenda il caso esemplare di Napoleone Bonaparte. Nato nel 1769 ad Ajaccio, da una
famiglia della piccola nobiltà corsa, nel 1793 fece un balzo di carriera repentino dal grado
di sottotenente a quello di generale. Sicuramente il giovane Bonaparte si era positivamen-
te distinto nell’assedio di Tolone, che in quel frangente i francesi riconquistarono agli ingle-
si, ma per l’importante e fulminea promozione gli giovarono, anche e soprattutto, i rapporti
di amicizia stretti in quei mesi con Paul Barras e con Augustin Robespierre, fratello di Ma-
ximilien, entrambi commissari politici nello stesso battaglione dove egli prestava servizio.
Bonaparte e gli altri generali di fresca nomina si trovarono a comandare su reparti mi-
litari fortemente motivati e appassionatamente coinvolti nelle vicende politiche del paese.
Anche per questa ragione, il loro ruolo fu immediatamente politico e non solo militare.
Capitolo 7. La Rivoluzione francese 195

Se è vero che tra i ranghi dell’esercito non mancarono momenti di malcontento e di sco-
raggiamento, episodi di renitenza e diserzione, resta comunque il fatto che l’armata repub-
blicana avesse veramente qualcosa di speciale: la volontà di combattere con particolare
ardore contro la prospettiva di una restaurazione dell’assolutismo monarchico imposta da
armi straniere.
Proprio grazie al sostegno e alla spinta delle forze armate, il Direttorio fu capace di du-
rare, anno dopo anno, più a lungo di tutti i governi rivoluzionari precedenti, potendo altresì
rivendicare conquiste militari prestigiose.

7.4.1. La campagna d’Italia.


L’espansionismo francese ebbe un carattere indubbiamente ambiguo. Da una parte, esso
venne condotto in nome della libertà, della quale dovevano essere partecipi anche i “popo-
li fratelli, gementi sotto il giogo della tirannia” (queste le parole dei proclami repubblicani).
Dall’altra parte, però, sia le aree annesse direttamente alla Francia sia le cosiddette “re-
pubbliche sorelle” di nuova formazione (solitamente modellate sulla Costituzione francese
del 1795) erano sottoposte a un rigido controllo politico e militare da parte delle truppe
francesi. La retorica della libertà lasciava così spazio alla dura realtà: quella di un nuovo
espansionismo, non più dinastico, ma repubblicano e nazional-patriottico.
All’inizio del 1796 il Direttorio decise di organizzare una importante offensiva militare,
con l’obiettivo di mettere in ginocchio l’Austria. L’attacco si distribuì su due fronti: quello
tedesco e quello italiano. Benché, nei piani francesi, il primo dovesse costituire il teatro
principale di guerra, in realtà fu in Italia che le truppe transalpine, comandate dal gene-
rale Bonaparte, colsero i successi più importanti. Esse andarono molto al di là di quanto
pianificato dal Direttorio, non limitando il campo d’azione alla parte settentrionale della
penisola, ma scendendo rapidamente lungo lo stivale.
L’Italia invasa da Bonaparte sembrava mummificata in vecchie rivalità dinastiche. Al
Nord, ben sette sovranità diverse si dividevano la Pianura Padana e i contrafforti delle Alpi.
Un mosaico nel quale risaltavano due entità territoriali più consistenti: la Lombardia, sog-
getta direttamente all’Austria, e il Piemonte, dove regnava la dinastia dei Savoia. Per il re-
sto, si contavano le due repubbliche oligarchiche di Genova e Venezia, che sopravvivevano
al proprio passato splendore; i due ducati emiliani, quello di Parma e Piacenza e quello di
Modena e Reggio, dove regnavano rispettivamente esponenti di secondo piano delle dina-
stie dei Borbone e degli Asburgo; infine la parte restante del territorio emiliano e romagno-
lo, organizzato in quattro Legazioni (Bologna, Ferrara, Ravenna e Forlì), che costituivano
l’appendice settentrionale dello Stato pontificio.
Scendendo nell’Italia centrale, si rilevava uno stridente contrasto fra il dinamico Gran-
ducato di Toscana, dove governava un sovrano illuminato come Ferdinando d’Asburgo,
degno erede di Pietro Leopoldo, e lo Stato pontificio, che era diviso dall’Appennino in due
zone diversissime sia sotto il profilo geografico che dal punto di vista sociale: dal lato del
Tirreno, c’erano i territori del Lazio, perlopiù arretrati e poveri; dal lato dell’Adriatico, si
incontravano invece le Marche e le Legazioni, con un tessuto sociale più vitale e mag-
giormente aperto agli influssi culturali provenienti dal resto d’Europa. Procedendo ancora
verso sud, ci si imbatteva nei vasti territori di Napoli e della Sicilia, due regni teoricamente
distinti, ma uniti sotto il medesimo scettro, quello cioè di Ferdinando IV di Borbone.
Tra la primavera 1796 e l’aprile 1797, Bonaparte riuscì a guidare vittoriosamente i suoi
soldati sia contro l’esercito sabaudo che contro quello austriaco, occupando il Piemonte, il
Ducato di Milano e la Repubblica di Venezia. Si arrivò così al trattato di Campoformio (17
196 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

ottobre 1797), con il quale l’Austria riconosceva l’occupazione francese dell’Italia setten-
trionale, ad eccezione dei territori di Venezia che passarono sotto il controllo di Vienna.
Nei due anni successivi l’egemonia militare francese venne estesa a tutta quanta la
penisola, che vide cambiare radicalmente il suo assetto geopolitico. Degli antichi Stati ita-
liani restavano solo pochi frammenti. Se si escludevano Venezia (in mano agli austriaci), la
Sardegna (dove si erano rifugiati i Savoia) e la Sicilia (dove trovò riparo la corte dei Borbone
di Napoli), il resto dell’Italia era diviso fra territori direttamente controllati da Parigi (Pie-
monte e Toscana) e nuove “repubbliche sorelle” (Ligure, Cisalpina, Romana e Napoletana,
oltre alla più piccola Repubblica di Lucca).
Una parte della popolazione italiana accolse i francesi con dichiarata ostilità. Le comu-
nità rurali, ad esempio, guardarono generalmente con sospetto i nuovi venuti, che erano
considerati un pericoloso turbamento nel normale ordine delle cose. Assai spaventati era-
no poi gli ecclesiastici, inquieti davanti alla possibilità che i francesi portassero provvedi-
menti antireligiosi o comunque volti a limitare l’influenza della Chiesa sulla società. La loro
inquietudine si trasformò in panico quando papa Pio VI fu costretto ad abbandonare Roma
per essere deportato come prigioniero politico a Valence, in Francia, dove morì nell’agosto
1799, poche settimane dopo il suo arrivo.
Al contrario, un’altra parte della popolazione, soprattutto i ceti borghesi e popolari del-
le città, più avvezzi al cambiamento e alla modernità, accolsero con entusiasmo l’arrivo
dei francesi. Le amministrazioni provvisorie e i governi delle nuove repubbliche vararono
norme ispirate alla legislazione rivoluzionaria, incentivando la circolazione dei beni e la
mobilità sociale, e contribuendo a smantellare vecchi equilibri e gerarchie del passato.
Venne introdotta la libertà di stampa e di opinione, in molti casi sconosciuta. Si pubblica-
rono un numero sorprendente di giornali e di pamphlets, attraverso i quali si svilupparono
animate discussioni su possibili riforme politiche e sociali. Per la prima volta, tra i settori più
avanzati dell’opinione pubblica, si affacciò l’idea di uno Stato unitario italiano.
Nel complesso, il sommovimento istituzionale e culturale provocato dall’arrivo delle
armate rivoluzionarie fu tale da essere successivamente definito come “triennio giacobino”
(1796-1799), a sottolineare una esperienza di grande significato per i ceti più dinamici della
società italiana.
Tuttavia, come si diceva, l’autonomia delle nuove repubbliche italiane era solo appa-
rente. I loro organismi politici erano strettamente controllati dalle autorità militari e civili
francesi, che per giunta imposero a tutti i territori italiani una tassazione pesantissima e ri-
petute requisizioni, finalizzate al mantenimento delle truppe di occupazione. Molti uomini
di cultura italiani si sentirono, poi, gravemente offesi dal saccheggio di opere d’arte opera-
to dagli uomini di Napoleone. Dall’Italia occupata partirono per la Francia molte centinaia
di pezzi unici, di cui solo una parte verrà successivamente restituita. Questa razzia doveva
testimoniare a Parigi e a tutta la Francia l’importanza delle vittorie ottenute e la forza cre-
scente della Repubblica.
Va detto che dietro l’atto di forza compiuto dalle autorità francesi era anche rintraccia-
bile un progetto culturale in larga misura innovativo: il desiderio di raccogliere importanti
opere d’arte in spazi museali ed espositivi aperti al pubblico, e non più riservati come in
precedenza a ricchi proprietari. In Francia nacquero, infatti, musei d’arte, biblioteche e ar-
chivi liberamente accessibili alla cittadinanza per fini di ricreazione, istruzione e ricerca.
Basti ricordare il Louvre di Parigi, che già in precedenza ospitava la collezione reale, ma
che a partire dal 1793 divenne museo pubblico, costantemente arricchito da opere d’arte
provenienti da tutto il mondo.
Capitolo 7. La Rivoluzione francese 197

7.4.2. La spedizione in Egitto.


All’inizio del 1798, dopo aver sconfitto l’Austria, la Francia non aveva davanti a sé che un
solo vero nemico: la Gran Bretagna. Il Direttorio affidò così a Napoleone il compito di at-
taccare la storica rivale. Dal momento che uno sbarco in Inghilterra era impensabile, per la
forza soverchiante della marina britannica, Napoleone mise a punto un altro piano, appa-
rentemente eccentrico. Il generale, infatti, pensò di attaccare l’Egitto, che era allora sotto
il controllo dell’Impero ottomano. Così facendo, la Francia avrebbe potuto acquisire il con-
trollo di un’area strategica del Mediterraneo, da dove interferire pesantemente nei traffici
commerciali inglesi.
Bonaparte organizzò la spedizione in grande stile, non solo dal punto di vista militare,
ma anche sotto l’aspetto culturale. Arruolò, infatti, insieme alle sue truppe poco meno di
200 studiosi, tra cartografi, linguisti, archeologi ed esperti d’arte, con l’intenzione di affian-
care – come aveva già fatto in Italia – l’affermazione della potenza delle armi al raggiun-
gimento di obiettivi culturalmente prestigiosi per sé e per la Francia. Era la prima volta che
degli studiosi europei avevano la possibilità di indagare da vicino, e in modo sistematico,
l’Egitto e l’Oriente islamico.
Battute le truppe turche nella battaglia delle Piramidi (luglio 1798), Bonaparte e il suo
esercito occuparono velocemente l’Egitto, sconfinando anche in Siria, dove sconfissero
nuovamente l’esercito ottomano. I problemi, però, arrivarono dal mare. La flotta britannica,
guidata dall’ammiraglio Horatio Nelson, colse di sorpresa quella francese, all’ancora nella
rada di Abukir, e la distrusse completamente (agosto 1798). Le forze di terra di Napoleone
si trovarono isolate in Egitto e l’ambizione di contrastare sui mari la flotta inglese svanì
bruscamente. La sconfitta di Abukir trasformò, in modo repentino, una missione militare e
culturale di successo in un sostanziale fallimento strategico.

7.4.3. Il colpo di Stato del 18 Brumaio 1799 e la fine della Rivoluzione.


Tra gli ultimi mesi del 1798 e l’inizio del 1799, mentre buona parte delle forze armate fran-
cesi era impiegata in Egitto, le truppe austriache (con l’appoggio di reparti russi) riuscirono
a contrattaccare in Italia, cavalcando il diffuso malcontento delle popolazioni rurali nei
confronti dell’occupazione francese.
Nel marzo 1799, l’avanzata austriaca nella Pianura Padana venne agevolata da una
serie di insurrezioni popolari. I motivi scatenanti erano sempre gli stessi e corrispondevano
al desiderio di difendere determinati aspetti della vita sociale e delle tradizioni locali: li-
turgie e valori della Chiesa cattolica, usi e consuetudini delle comunità rurali. Aspetti che i
provvedimenti di importazione francese contestavano talvolta alla radice.
Ribellioni popolari di questo tipo si ebbero anche in Toscana, dove operavano le ar-
mate popolari dei “Viva Maria”, e nel Napoletano. Qui, il cardinale Fabrizio Ruffo riuscì a
costituire una armata, detta della Santafede, composta per lo più da contadini, e a condurla
vittoriosamente in una lunga marcia dalla Calabria a Napoli.
Le istituzioni repubblicane vennero abbattute ovunque con sconcertante rapidità, tanto
che nel dicembre 1799 la presenza francese era limitata alla sola città di Genova. Nel resto
della penisola si erano insediati nuovamente gli antichi sovrani.
Intanto in Francia, il Direttorio, già sotto pressione per i rovesci militari, subiva una nuo-
va sconfitta elettorale (aprile 1799). In quel frangente, venne meno anche l’esperienza di
Barras, che fu costretto a lasciare il governo, per via del periodico ricambio previsto dalla
Costituzione. Il Direttorio passò sotto la guida di Emmanuel-Joseph Sieyès, che di fronte
198 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

alla conclamata instabilità del sistema politico, si convinse della necessità di un colpo di
Stato militare, attraverso il quale arrivare all’approvazione di una nuova carta costituziona-
le, più autoritaria della precedente. L’uomo sul quale egli decise di puntare era Napoleone
Bonaparte, fortunosamente rientrato dall’Egitto dopo aver eluso il blocco navale inglese.
Tra il 9 e il 10 novembre 1799 (18-19 Brumaio dell’Anno VIII), con il sostegno delle forze
armate, Bonaparte sciolse il parlamento; come prevedibile, però, non si limitò a recitare la
parte del copione assegnatagli da Sieyès. Questa volta il giovane generale intese assumere
un esplicito ruolo politico-istituzionale e impose un organo di governo provvisorio, deno-
minato Consolato, formato da tre membri, tra i quali lui stesso.
I nuovi equilibri di forza divennero chiari a tutti, quando nel dicembre 1799, fu emanata
una nuova Costituzione, sulla base della quale Bonaparte ottenne il ruolo di primo console
e poté concentrare sulla sua persona gran parte del potere.
Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea:
dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra
di Carlo De Maria
Roma (BraDypUS) 2018
ISBN 978-88-98392-70-4
pp. 199-218

Capitolo 7. La Rivoluzione francese


Approfondimenti

Profili
Robespierre

Originario di Arras, piccola città della Francia settentrionale, Maximilien Robespierre nac-
que nel 1758 dal matrimonio tra un avvocato di provincia e la figlia di un birraio. Borsista
al collegio Louis-le Grand di Parigi, terminati gli studi in giurisprudenza tornò nella sua
terra, l’Artois, per esercitare l’avvocatura. Nel 1789, a 31 anni, fu eletto deputato agli Stati
generali e si aprirono per lui nuove prospettive di vita. Si trasferì nuovamente nella capitale
e iniziò una fulminante carriera politica.
L’intransigenza dei suoi principi democratici servì a metterlo subito in luce. Durante i
lavori dell’Assemblea costituente, Robespierre si espresse su tutte le maggiori questioni,
conquistando una certa fama presso i ceti popolari parigini. Contemporaneamente cresce-
va la sua influenza nel club dei giacobini, di cui divenne presidente nel 1790.
Fu abile anche distinguersi dalla corrente girondina, marcando le distanze soprattutto
sui temi della politica estera e della guerra. Nel 1792, attaccò la propaganda bellicosa con-
dotta da Brissot, proprio perché temeva il formarsi di una coalizione europea antifrancese:
cosa che puntualmente si verificò. I primi insuccessi militari confermarono agli occhi di
molti la giustezza delle sue critiche.
La popolazione parigina lo elesse deputato alla Convenzione (settembre 1792), dove
sedette nelle file della Montagna, guidando l’aspra lotta, politica e ideologica, contro i gi-
rondini. Dopo la condanna di Luigi XVI, da lui fortemente voluta, intensificò gli attacchi al
governo girondino fino ad avviare l’insurrezione popolare che, tra il 31 maggio e il 2 giugno
1793, rovesciò l’esecutivo guidato da Brissot.
Il 27 luglio 1793 entrò nel nuovo organo rivoluzionario, il Comitato di salute pubblica,
imprimendovi una rigidissima pratica di governo. Soffocate le sommosse girondine e filo-
monarchiche che erano andate diffondendosi nel paese, eliminò anche i gruppi politici a
lui più vicini: prima la fazione hebertista, di cui avversava l’ateismo e un certo radicalismo
socialistico (Robespierre era un difensore della piccola proprietà privata); poi Danton e i
suoi seguaci, fautori di una politica più moderata.
200 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Una serie di atti estremi e visionari (dalle sanguinose repressioni all’imposizione del
culto di nuove divinità, come la Ragione e l’Essere Supremo) ne minarono il consenso popo-
lare, fino a quando – con l’attenuarsi della minaccia esterna portata dagli eserciti stranieri
–, le opposizioni poterono saldarsi insieme e rovesciarne la dittatura (27 luglio/9 termidoro
1794). Posto sotto accusa e arrestato, fu subito giustiziato.

Luoghi simbolo
Vandea

Quel che accadde nel dipartimento della Vandea, nella Francia occidentale, tra il 1793 e il
1795 rappresenta una tipica rivolta rurale dell’Europa sette-ottocentesca. Al fondo vi era il
conflitto tra città e campagna: da una lato la dimensione urbana, nel caso specifico Parigi,
dove si elaboravano le linee politiche del paese e dove si muovevano avanguardie intel-
lettuali in continuo confronto con l’opinione pubblica e gli ambienti più colti e impegnati;
dall’altro i mondi contadini, ancora sostanzialmente impermeabili alla circolazione dei
testi scritti a causa del diffuso analfabetismo, e caratterizzati da propri linguaggi, identità
e tradizioni.
I contadini di Vandea avevano partecipato appassionatamente ai dibattiti preparatori
per la convocazione degli Stati generali (1789). Lo stesso anno avevano apprezzato l’a-
bolizione dei privilegi nobiliari e del sistema feudale e, all’inizio del 1793, non erano stati
turbati più di tanto dalla notizia dell’esecuzione del re. I problemi insorsero nei mesi suc-
cessivi, durante la Repubblica giacobina, quando l’imposizione del reclutamento militare
obbligatorio fu vissuta come una insopportabile intrusioni del potere centrale nel cuore di
una comunità legata a forti tradizioni di autonomia. Per reazione alle politiche del governo
repubblicano, i contadini connotarono la loro ribellione all’insegna di un forte lealismo
filomonarchico e di una rivendicazione delle radici cattoliche e della fedeltà alla Chiesa
di Roma.
Nell’estate 1793, gruppi di contadini armati cominciarono ad aggredire e uccidere i fun-
zionari incaricati di far applicare la leva obbligatoria. Questi episodi isolati si trasforma-
rono nel giro di poche settimane in una vasta insurrezione, anche grazie all’intervento a
sostegno dei contadini di diversi signori locali che offrivano la loro competenza militare e i
loro mezzi economici per organizzare e guidare le bande armate.
Il governo di Robespierre decise di rispondere con mano dura. Ma non fu facile avere
ragione della Vandea, in quanto i rivoltosi armati erano circa 40 mila e potevano contare,
naturalmente, su una perfetta conoscenza del territorio e su un largo sostegno della popo-
lazione locale. Il governo giacobino diede ordine ai soldati di sparare a vista e sterminare i
rivoltosi senza pietà. Si trattò di una vera e propria guerra civile, costellata di massacri col-
lettivi. La Vandea venne devastata: villaggi bruciati, foreste tagliate, bestiame abbattuto. Le
persone uccise nel corso della repressione furono quasi 100 mila.
Tuttavia, la resistenza della popolazione non si piegò mai del tutto e si arrivò a una con-
clusione del conflitto solamente per via diplomatica, nel 1795, quando il governo formatosi
dopo la caduta dei giacobini, il Direttorio, decise di trattare con i capi ribelli. In base ai
trattati che vennero firmati tra febbraio e maggio di quell’anno, i Vandeani riconoscevano
la Repubblica e, in cambio, il governo si impegnava a non chiedere alla regione né soldati
Capitolo 7. Approfondimenti 201

né imposte per dieci anni, cercando così di ricomporre la frattura profonda che si era creata
tra la capitale e la popolazione di quell’area.

Parole-chiave
Giacobinismo

Il termine “giacobino” è stato coniato nel corso della Rivoluzione francese, insieme a una
gran quantità di vocaboli che designavano le fazioni impegnate nella lotta politica. Ma, a
differenza di tanti altri – foglianti, hebertisti, cordiglieri – che oggi sono compresi solo dagli
storici specialisti del periodo, i termini “giacobino” e “giacobinismo” hanno avuto una fortu-
na straordinaria nel lessico politico europeo dell’Otto e del Novecento.
Nel corso del tempo il giacobinismo ha assunto una nebulosa di significati. Talvolta
esso è stato celebrato come emblema dell’energia patriottica, del senso dello Stato e del
gusto per l’indipendenza nazionale. Tuttavia, l’elemento che appare oggi come il nocciolo
del concetto di giacobinismo è il centralismo politico, cioè la concentrazione in uno stesso
luogo e in una stessa mano del potere di dirigere gli interessi comuni a tutte le parti della
nazione. Non si tratta certamente di una invenzione giacobina, ma è stata la forte dramma-
ticità degli eventi rivoluzionari a svolgere un ruolo determinante nel concentrare in questo
termine atteggiamenti e tendenze politiche che hanno una storia più profonda.
Nel corso del XIX e del XX secolo, il partito giacobino è divenuto, altresì, un punto di
riferimento (amato e criticato) per tutti quei movimenti rivoluzionari che hanno creduto
nella trasformazione del mondo e sperato nella nascita dell’uomo nuovo. Lo stesso Lenin
si nutrì, in qualche misura, dell’esempio di Robespierre e questo ha portato gli studiosi a
costruire un parallelo tra giacobinismo e bolscevismo. Due dittature caratterizzate da una
violenza che parte dalla presunzione ideologica (una certa interpretazione dell’illumini-
smo, in un caso, e del comunismo nell’altro) e perviene alla pratica criminale. In questo
modo il giacobinismo è stato visto addirittura come un possibile antenato del totalitarismo
novecentesco, assumendo così la sua accezione più negativa.

Costituzione e cittadinanza. Le fonti


I principi rivoluzionari del 1789 e la loro evoluzione

Introduzione
La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino fu discussa all’Assemblea nazionale
costituente nelle prime settimane dell’agosto 1789 e approvata il 26 di quel mese. Leggen-
dola si sentono riecheggiare certi passi della Dichiarazione d’indipendenza americana del
1776 (cap. 6). Si trattava, del resto, di un punto di riferimento pienamente riconosciuto dai
costituenti francesi.
202 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Il primo elemento ad essere fissato fu l’uguaglianza in partenza delle possibilità di tutti i


cittadini (in altre parole, le loro pari opportunità) e, pertanto, anche il libero accesso a ogni
tipo di impiego: “Gli uomini nascono e rimangono liberi ed uguali nei diritti, le distinzioni
sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune”.
Proseguendo si trovavano energicamente affermati i fondamentali diritti dei cittadi-
ni: la loro uguaglianza di fronte alla legge e la libera espressione delle proprie posizioni
politiche e religiose. Per la prima volta venivano integrati nella comunità nazionale an-
che coloro che nei secoli precedenti erano stati emarginati per motivi religiosi: protestanti
ed ebrei. Infine, la Dichiarazione sanciva il diritto inviolabile alla proprietà privata, intesa
come garanzia di libertà individuale (testo n. 1).
La prima Costituzione francese, approvata il 3 settembre 1791, avrebbe dovuto ispirarsi
alla Dichiarazione del 1789 e tradurne le aspirazioni in altrettanti articoli. Questo accadde
solo in parte. Per rendersene conto basterà soffermarsi su una questione fondamentale:
nonostante si riconfermassero le asserzioni circa l’uguaglianza di tutti gli uomini, che “na-
scono e rimangono liberi ed uguali nei diritti”, nella carta costituzionale veniva fissata una
distinzione dei cittadini in attivi (ossia forniti dei diritti elettorali) e passivi (che non fruivano
di tali diritti). Il corpo elettorale era selezionato in base a un criterio censitario e l’elezione
dei deputati non era diretta, ma prevedeva un sistema articolato su due livelli, dettagliata-
mente spiegato nel Titolo III della Costituzione (testo n. 2).
Nell’intenzione dell’Assemblea costituente, la carta del 1791 non avrebbe dovuto subi-
re modifiche per tre legislature consecutive. Invece, neppure un anno più tardi, il 10 agosto
1792, fu annullata da un colpo di Stato organizzato dai giacobini di Robespierre. Si arrivò
velocemente all’elezione a suffragio universale maschile di un nuovo parlamento, la Con-
venzione nazionale, e alla proclamazione della repubblica.
I mesi successivi furono dominati dal violento contrasto, interno al campo repubblica-
no, tra i girondini di Brissot e i giacobini di Robespierre; una disputa politica che assunse
toni sempre più accentuati e drammatici. Mentre i primi, che controllavano la maggioranza
dell’assemblea, miravano a rafforzare l’autonomia dei dipartimenti per cercare in tal modo
di impedire che la volontà del governo centrale finisse per uniformare dall’alto la vita di
tutta la Francia, i secondi – in maniera diametralmente opposta – intendevano creare un
potere pubblico il più possibile accentrato, in grado di spezzare eventuali resistenze al
cambiamento che potessero venire dalla periferia. I giacobini vedevano in Parigi la città-
guida della rivoluzione, i girondini difendevano la varietà di tradizioni e culture politiche
presenti nel resto del territorio francese.
Una nuova insurrezione giacobina, quella del 31 maggio 1793, impedì la votazione del
progetto di costituzione voluto dai girondini. Si formò, invece, un comitato costituente domi-
nato dai giacobini che portò a termine con grande rapidità il proprio compito, varando prima
della fine di giugno un sintetico Atto costituzionale, preceduto da una nuova Dichiarazione
dei diritti dell’uomo e del cittadino (testo n. 3).
Rispetto alla versione precedente, la Dichiarazione del 1793 si caratterizzava per alcu-
ne novità. Tanto per cominciare, la netta esplicitazione di una tendenza accentratrice dello
Stato (all’art. 25 si parla di sovranità unica e indivisibile, mentre non si fa cenno al principio
di divisibilità del potere). A ciò si affiancava la decisa e inequivocabile affermazione circa il
diritto popolare all’insurrezione (art. 35), una sorta di giustificazione costituzionale al colpo
di mano antigirondino di qualche settimana prima. Infine la Dichiarazione del 1793 pone-
va il tema dei diritti sociali (art. 21), oltre che dei diritti civili e politici; in questo modo le
istanze egualitarie si facevano sentire più forti che in precedenza. Da questo punto di vista
– cioè, per quanto concerne le garanzie sociali riservate agli strati inferiori della popolazio-
Capitolo 7. Approfondimenti 203

ne – è lecito dire che l’elaborazione costituzionale dei giacobini rappresenti il momento


culminante della rivoluzione.
Peccato che al posto del governo democratico promesso dall’Atto costituzionale (dove
si confermava il suffragio universale, si introduceva il referendum popolare e si rafforzava il
potere legislativo), si affermasse invece un “governo rivoluzionario” – secondo la definizione
coniata da Robespierre e Saint-Just – che sotto la pressione della guerra e dei conflitti interni
si trasformò in una vera e propria dittatura.

Testo n. 1
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789)
I rappresentanti del Popolo Francese, costituiti in Assemblea Nazionale, considerando che
l’ignoranza, la dimenticanza o il disprezzo dei diritti dell’uomo sono le sole cause delle sven-
ture pubbliche e della corruzione dei governi, hanno stabilito di esporre, in una Dichiara-
zione solenne, i diritti naturali, inalienabili e sacri dell’uomo, affinché questa Dichiarazione,
costantemente presente a tutti i membri del corpo sociale, rammenti loro incessantemente i
loro diritti e i loro doveri; affinché gli atti del Potere legislativo e quelli del Potere esecutivo,
potendo essere in ogni momento paragonati con il fine di ogni istituzione politica, siano più
rispettati; affinché i reclami dei cittadini, fondati d’ora innanzi su principi semplici e inconte-
stabili, si rivolgano sempre alla conservazione della Costituzione e alla felicità di tutti.
In conseguenza, l’Assemblea Nazionale riconosce e dichiara, in presenza e sotto gli auspici
dell’Essere Supremo, i Diritti seguenti dell’Uomo e del Cittadino.
1. Gli uomini nascono e rimangono liberi ed uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non pos-
sono essere fondate che sull’utilità comune.
2. Lo scopo di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e impre-
scrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza
all’oppressione.
3. Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo, nessun
individuo può esercitare un’autorità che da essa non emani espressamente.
4. La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri: così l’esercizio dei diritti
naturali di ciascun uomo non ha altri limiti che quelli che assicurano agli altri membri della
società il godimento di questi stessi diritti. Questi limiti non possono essere determinati che
dalla Legge.
5. La Legge non ha diritto di vietare che le azioni nocive alla società. Tutto ciò che non è
vietato dalla Legge non può essere impedito e nessuno può essere costretto a fare ciò che
essa non ordina.
6. La Legge è l’espressione della volontà generale. Tutti i cittadini hanno il diritto di con-
correre personalmente o per mezzo di loro rappresentanti alla sua formazione. Essa deve
essere la stessa per tutti, sia che protegga, sia che punisca. Tutti i cittadini, essendo uguali
ai suoi occhi, sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti ed impieghi pubblici se-
condo la loro capacità e senz’altra distinzione che quella della loro virtù e del loro ingegno.
7. Nessun uomo può essere accusato, arrestato o detenuto che nei casi determinati dalla
Legge, e secondo le forme ch’essa ha prescritte. Quelli che sollecitano, spediscono, eseguo-
no o fanno eseguire ordini arbitrari devono essere puniti; ma ogni cittadino che sia citato
o tratto in arresto in virtù della Legge deve ubbidire istantaneamente: si rende colpevole
opponendo resistenza.
204 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

8. La Legge non deve stabilire che pene strettamente ed evidentemente necessarie e nes-
suno può essere punito che in virtù di una legge stabilita e promulgata anteriormente al
delitto, e legalmente applicata.
9. Poiché ogni uomo è presunto innocente sino a quando non sia stato dichiarato colpevole,
se si giudica indispensabile arrestarlo, ogni rigore che non sarà necessario per assicurarsi
della sua persona deve essere severamente represso dalla Legge.
10. Nessuno deve essere molestato per le sue opinioni, anche religiose, purché la loro ma-
nifestazione non turbi l’ordine pubblico stabilito dalla Legge.
11. La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei più preziosi diritti degli
uomini; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere e pubblicare liberamente, salvo a ri-
spondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla Legge.
12. La garanzia dei diritti dell’uomo e del cittadino ha bisogno di una forza pubblica; questa
forza è dunque stabilita per il vantaggio di tutti, e non per l’utilità particolare di coloro ai
quali è affidata.
13. Per il mantenimento della forza pubblica, e per le spese di amministrazione, è indi-
spensabile una contribuzione comune. Questa deve essere ugualmente ripartita fra tutti i
cittadini, in ragione della loro facoltà.
14. Tutti i cittadini hanno il diritto di constatare da loro stessi, o per mezzo di loro rappre-
sentanti, la necessità dei contributi pubblici, di consentirli liberamente, di seguirne l’impie-
go e di determinarne la quantità, la ripartizione, la riscossione e la durata.
15. La società ha il diritto di domandare conto a ogni agente pubblico della sua ammini-
strazione.
16. La società, nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei
poteri determinata, non ha Costituzione.
17. Poiché la proprietà è un diritto inviolabile e sacro, nessuno può esserne privato, se non
quando la pubblica necessità, legalmente constatata, lo esige evidentemente, e sotto la
condizione d’una giusta e previa indennità.
Da Le carte dei diritti, a cura di Felice Battaglia, Firenze, Sansoni, 1934, pp. 119-123.

Testo n. 2
Costituzione francese (1791)
L’Assemblea Nazionale, volendo stabilire la Costituzione francese sui principi ch’essa ha
riconosciuto e dichiarato, abolisce irrevocabilmente le istituzioni che ferivano la libertà
e l’uguaglianza dei diritti. Non vi è più né nobiltà. né paria, né distinzioni ereditarie, né
distinzioni d’ordine, né regime feudale, né giustizie patrimoniali, né alcuno dei titoli, de-
nominazioni e prerogative che ne derivano, né alcun ordine cavalleresco, né alcuna delle
corporazioni o decorazioni, per le quali si esigevano delle prove di nobiltà, o che suppone-
vano delle distinzioni di nascita, né alcun’altra superiorità, all’infuori di quella dei funzio-
nari pubblici nell’esercizio delle loro funzioni. Non vi è più né venalità, né eredità d’alcun
ufficio pubblico. Non vi è più, per nessuna parte della Nazione, né per alcun individuo,
alcun privilegio o eccezione al diritto comune di tutti i Francesi. Non vi son più né giurande
[le cariche di console nelle corporazioni], né corporazioni di professioni, arti e mestieri. La
Legge non riconosce più né voti religiosi, né alcun altro legame che sia contrario ai diritti
naturali, o alla Costituzione.
Capitolo 7. Approfondimenti 205

Titolo I.
Disposizioni fondamentali garantite dalla Costituzione
La Costituzione garantisce, come diritti naturali e civili: 1) Che tutti i cittadini sono ammis-
sibili ai posti e agli impieghi, senza altra distinzione che quelle delle virtù e delle capacità;
2) Che tutti i contributi saranno ugualmente ripartiti fra tutti i cittadini in proporzione delle
loro sostanze; 3) Che gli stessi delitti saranno puniti con le stesse pene, senza alcuna distin-
zione delle persone.
La Costituzione garantisce parimenti, come diritti naturali e civili: la libertà a ogni uomo d’an-
dare, di restare, di partire, senza poter essere arrestato, né detenuto, se non secondo le forme
determinate dalla Costituzione; la libertà a ogni uomo di parlare, di scrivere, di stampare e di
pubblicare i propri pensieri, senza che gli scritti possano essere sottomessi ad alcuna censura
o ispezione prima della pubblicazione, e di esercitare il culto religioso al quale aderisce; la
libertà ai cittadini di riunirsi pacificamente e senza armi, sottoponendosi alle leggi della po-
lizia; la libertà di indirizzare alle autorità costituite delle petizioni firmate individualmente.
Il Potere legislativo non potrà fare leggi che menomino ed ostacolino l’esercizio dei diritti
naturali e civili esposti nel presente titolo, e garantiti dalla Costituzione; ma poiché la liber-
tà consiste solo nel poter fare tutto ciò che non nuoce né ai diritti altrui, né alla sicurezza
pubblica, la legge può stabilire delle pene contro gli atti che, attaccando o la sicurezza
pubblica o i diritti altrui, sarebbero nocivi alla società.
La Costituzione garantisce l’inviolabilità della proprietà, o la giusta e previa indennità di
quelle delle quali la necessità pubblica, legalmente constatata, esiga il sacrificio. I beni
destinati alle spese del culto e a tutti i servizi d’utilità pubblica appartengono alla Nazione,
e sono sempre a sua disposizione.
La Costituzione garantisce le alienazioni che sono state o saranno fatte seguendo le forme
stabilite dalla Legge.
I cittadini hanno il diritto di eleggere o scegliere i ministri dei loro culti.
Sarà creato e organizzato un Istituto generale di Soccorsi pubblici, per allevare i bambini
abbandonati, sollevare i poveri infermi, e fornire lavoro ai poveri invalidi che non abbiano
potuto procurarsene.
Sarà creata e organizzata una Istruzione pubblica, comune a tutti i cittadini, gratuita nelle
parti d’insegnamento indispensabili a tutti gli uomini, e i cui istituti saranno distribuiti gra-
dualmente, in una proporzione combinata con la divisione del Regno.
Saranno stabilite delle feste nazionali per conservare il ricordo della Rivoluzione francese,
mantenere la fraternità fra i cittadini, e legarli alla Costituzione, alla Patria e alle Leggi.
Sarà fatto un codice di leggi civili comuni a tutto il Regno. [...]

Titolo III.
Dei poteri pubblici
Capitolo 1. Dell’Assemblea nazionale legislativa
Assemblee primarie. Nomina degli elettori
Art. 1. Per formare l’Assemblea nazionale legislativa, i cittadini attivi si riuniranno ogni due
anni in Assemblee primarie nelle città e nei cantoni. Le Assemblee primarie si formeranno
di pieno diritto la seconda domenica di marzo, se non sono state convocate prima dai fun-
zionari pubblici determinati dalla Legge.
206 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Art. 2. Per essere cittadino attivo, occorre: Essere nato o divenuto Francese; Essere in età di
venticinque anni compiuti; Essere domiciliato nella città o nel cantone dal tempo determi-
nato dalla Legge; Pagare, in un luogo qualunque del Regno, un contributo diretto almeno
uguale al valore di tre giornate di lavoro, e presentarne la quietanza; Non essere in uno sta-
to di domesticità, cioè di servitore salariato; Essere iscritto, nella municipalità del proprio
domicilio, nel ruolo delle guardie nazionali; Avere prestato il giuramento civico.
Art. 3. Ogni sei anni il Corpo legislativo fisserà il minimum e il maximum del valore della
giornata di lavoro, e gli amministratori dei dipartimenti ne faranno la determinazione lo-
cale per ogni distretto.
Art. 4. Nessuno potrà esercitare i diritti di cittadino attivo in più di un luogo, né farsi rappre-
sentare da un altro.
Art. 5. Sono esclusi dall’esercizio dei diritti di cittadino attivo: Quelli che sono in stato di
accusa; Quelli che, dopo essere stati riconosciuti in stato di fallimento o d’insolvibilità, pro-
vato da documenti autentici, non presentano una quietanza dei loro creditori.
Art. 6. Le Assemblee primarie nomineranno degli elettori in proporzione del numero dei
cittadini attivi domiciliati nella città o nel cantone. Sarà nominato un elettore in ragione di
cento cittadini attivi presenti, o no, all’Assemblea. Ne saranno nominati due da centocin-
quantuno fino a duecentocinquanta, e così di seguito.
Art. 7. Nessuno potrà essere nominato elettore, se egli non riunisce alle condizioni neces-
sarie per essere cittadino attivo, le seguenti: Nelle città al di sopra di seimila anime, quella
di essere proprietario o usufruttuario di un bene valutato sui ruoli di contribuzione a una
rendita pari al valore locale di duecento giornate di lavoro, o essere locatario di un’abita-
zione valutata sui medesimi ruoli a una rendita pari al valore di centocinquanta giornate di
lavoro. Nelle città al di sotto di seimila anime, quella di essere proprietario o usufruttuario
di un bene valutato sui ruoli di contribuzione a una rendita pari al valore locale di centocin-
quanta giornate di lavoro, o di essere locatario di un’abitazione valutata sui medesimi ruoli
a una rendita pari al valore di cento giornate di lavoro. E nelle campagne, quella di essere
proprietario o usufruttuario di un bene valutato sui ruoli di contribuzione a una rendita
pari al valore locale di centocinquanta giornate di lavoro, o di essere fittavolo o mezzadro
di beni stimati sui medesimi ruoli al valore di quattrocento giornate di lavoro. Riguardo a
quelli che saranno ad un tempo proprietari o usufruttuari da una parte, o locatari, fittavoli o
mezzadri dall’altra, le loro sostanze sotto questi diversi titoli saranno cumulate fino al tasso
necessario per stabilire la loro eleggibilità.

Assemblee elettorali. Nomina dei rappresentanti


Art. 1. Gli elettori nominati in ogni dipartimento si riuniranno per scegliere il numero dei
rappresentanti, la cui nomina sarà attribuita al loro dipartimento, e un numero di supplenti
uguale al terzo di quelli dei rappresentanti. Le Assemblee elettorali si costituiranno di pie-
no diritto l’ultima domenica di marzo, se non sono state convocate prima dai funzionari
pubblici determinati dalla Legge.
Capitolo 7. Approfondimenti 207

Art. 2. I rappresentanti e i supplenti saranno eletti alla maggioranza assoluta dei suffragi, e
potranno essere scelti solo fra i cittadini attivi del dipartimento.
Art. 3. Tutti i cittadini attivi, qualunque sia il loro stato, professione o contributo, potranno
essere eletti rappresentanti della Nazione.
R. Romeo - G. Talamo (a cura di), Documenti storici. L’età moderna, Torino, Loescher, 1966,
pp. 163 e ss.; F. Gaeta - P. Villani, Documenti e testimonianze. I grandi problemi della storia
medioevale e moderna nei testi originali e nelle interpretazioni critiche, Milano, Principato,
1978, pp. 902 e ss.

Testo n. 3
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1793)
Il popolo francese, convinto che l’oblio e il disprezzo dei diritti naturali dell’uomo sono le
sole cause delle sventure del mondo, ha deciso di esporre in una dichiarazione solenne
questi diritti sacri e inalienabili, affinché tutti i cittadini potendo paragonare incessante-
mente gli atti del Governo con il fine di ogni istituzione sociale, non si lascino opprimere
ed avvilire dalla tirannia, affinché il popolo abbia sempre davanti agli occhi le basi della
sua libertà e della sua felicità, il magistrato la regola dei suoi doveri; il legislatore l’oggetto
della sua missione. Di conseguenza, esso proclama, al cospetto dell’Essere Supremo, la se-
guente dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino.
Art. 1. Lo scopo della società è la felicità comune. Il Governo è istituito per garantire all’uo-
mo il godimento dei suoi diritti naturali e imprescrittibili.
Art. 2. Questi diritti sono l’uguaglianza, la libertà, la sicurezza, la proprietà.
Art. 3. Tutti gli uomini sono uguali per natura e davanti alla legge.
Art. 4. La Legge è l’espressione libera e solenne della volontà generale; essa è la stessa per
tutti, sia che protegga, sia che punisca; può ordinare solo ciò che è giusto e utile alla socie-
tà; non può vietare se non ciò che le è nocivo.
Art. 5. Tutti i cittadini sono ugualmente ammissibili agli impieghi pubblici. I popoli liberi non
conoscono altri motivi di preferenza nelle loro elezioni, che le virtù e le capacità.
Art. 6. La libertà è il potere che appartiene all’uomo di fare tutto ciò che non nuoce ai diritti
degli altri; essa ha per principio la natura, per regola la giustizia, per salvaguardia la Legge;
il suo limite morale è in questa massima: “Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te”.
Art. 7. Il diritto di manifestare il proprio pensiero e le proprie opinioni, sia con la stampa, sia
in tutt’altra maniera, il diritto di riunirsi in assemblea pacificamente, il libero esercizio dei
culti, non possono essere interdetti.
La necessità di enunciare questi diritti presuppone o la presenza o il ricordo recente del
despotismo.
Art. 8. La sicurezza consiste nella protezione accordata dalla società ad ognuno dei suoi
membri per la conservazione della sua persona, dei suoi diritti e delle sue proprietà.
Art. 9. La Legge deve proteggere la libertà pubblica e individuale contro l’oppressione di
quelli che governano.
Art. 10. Nessuno deve essere accusato, arrestato né detenuto, se non nei casi determinati
dalla Legge e secondo le forme da essa prescritte. Ogni cittadino citato o arrestato dall’au-
torità della Legge deve ubbidire sull’istante; egli si rende colpevole con la resistenza.
208 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Art. 11. Ogni atto esercitato contro un uomo fuori dei casi e senza le forme che la legge de-
termina è arbitrario e tirannico; colui contro il quale lo si volesse eseguire con la violenza,
ha il diritto di respingerlo con forza.
Art. 12. Coloro che procurano, spediscono, firmano, eseguiscono o fanno eseguire degli atti
arbitrari, sono colpevoli, e devono essere puniti.
Art. 13. Ogni uomo essendo presunto innocente fino a quando non sia stato dichiarato col-
pevole, se si giudica indispensabile arrestarlo, ogni rigore che non fosse necessario per
assicurarsi della sua persona deve essere severamente represso dalla Legge.
Art. 14. Nessuno deve essere giudicato e punito se non dopo essere stato ascoltato o le-
galmente citato, e in virtù di una legge promulgata anteriormente al delitto. La legge che
punisse dei delitti commessi prima che essa esistesse, sarebbe una tirannia; l’effetto retro-
attivo dato alla legge, sarebbe un crimine.
Art. 15. La Legge deve decretare solo pene strettamente ed evidentemente necessarie: le
pene devono essere proporzionate al delitto, e utili alla società.
Art. 16. Il diritto di proprietà è quello che appartiene ad ogni cittadino di godere e di disporre a
suo piacimento dei suoi beni, delle sue rendite, del frutto del suo lavoro e della sua operosità.
Art. 17. Nessun genere di lavoro, di cultura, di commercio, può essere interdetto all’opero-
sità dei cittadini.
Art. 18. Ogni uomo può impegnare i suoi servizi, il suo tempo; ma non può vendersi, né può
essere venduto; la sua persona non è una proprietà alienabile. La Legge non riconosce
domesticità; può esistere solo un vincolo di cure e di riconoscenza tra l’uomo che lavora e
quello che lo impiega.
Art. 19. Nessuno può essere privato della benché minima parte della sua proprietà, senza il
suo consenso, tranne quando la necessità pubblica legalmente constata lo esige, e sotto la
condizione di una giusta e preventiva indennità.
Art. 20. Nessun contributo può essere stabilito se non per l’utilità generale. Tutti i cittadini
hanno il diritto di concorrere alla determinazione dei contributi, di sorvegliarne l’impiego,
e di esigerne il rendiconto.
Art. 21. I soccorsi pubblici sono un debito sacro. La società deve la sussistenza ai cittadini
disgraziati, sia procurando loro del lavoro, sia assicurando i mezzi di esistenza a quelli che
non sono in età di poter lavorare.
Art. 22. L’istruzione è il bisogno di tutti. La società deve favorire con tutto il suo potere i
progressi della ragione pubblica, e mettere l’istruzione alla portata di tutti i cittadini.
Art. 23. La garanzia sociale consiste nell’azione di tutti, per assicurare a ognuno il godimen-
to e la conservazione dei suoi diritti; questa garanzia riposa sulla sovranità nazionale.
Art. 24. Essa non può esistere, se i limiti delle funzioni pubbliche non sono chiaramente
determinati dalla Legge, e se la responsabilità di tutti i funzionari non è assicurata.
Art. 25. La sovranità risiede nel popolo; essa è una e indivisibile, imprescrittibile e inalienabile.
Art. 26. Nessuna parte di popolo può esercitare il potere del popolo intero; ma ogni sezione
del Sovrano riunito in assemblea deve godere del diritto di esprimere la sua volontà con
una completa libertà.
Art. 27. Ogni individuo che usurpa la sovranità, sia all’istante messo a morte dagli uomini
liberi.
Capitolo 7. Approfondimenti 209

Art. 28. Un popolo ha sempre il diritto di rivedere, riformare e cambiare la propria Costitu-
zione. Una generazione non può assoggettare alle sue leggi generazioni future.
Art. 29. Ogni cittadino ha un eguale diritto di concorrere alla formazione della Legge ed
alla nomina dei suoi mandatari o dei suoi agenti.
Art. 30. Le funzioni pubbliche sono essenzialmente temporanee; esse non possono essere
considerate come distinzioni né come ricompense, ma come doveri.
Art. 31. I delitti dei mandatari del popolo e dei suoi agenti non devono mai essere impuniti.
Nessuno ha il diritto di considerarsi più inviolabile degli altri cittadini.
Art. 32. Il diritto di presentare quelle petizioni ai depositari dell’autorità pubblica non può,
in nessun caso, essere interdetto, sospeso né limitato.
Art. 33. La resistenza all’oppressione è la conseguenza degli altri diritti dell’uomo.
Art. 34. Vi è oppressione contro il corpo sociale quando uno solo dei suoi membri è oppres-
so. Vi è oppressione contro ogni membro quando il corpo sociale è oppresso.
Art. 35. Quando il Governo viola i diritti del popolo, l’insurrezione è per il popolo e per cia-
scuna parte del popolo il più sacro dei diritti e il più indispensabile dei doveri.
Gaeta - Villani, Documenti e testimonianze. I grandi problemi della storia medioevale e mo-
derna nei testi originali e nelle interpretazioni critiche, cit., pp. 946 e ss.

Dibattito storiografico
Una nuova epoca? La Rivoluzione francese tra cesure e
continuità.

Introduzione
Lo storico americano George Taylor, intorno alla metà degli anni Sessanta del secolo scor-
so, criticò per la prima volta una consolidata interpretazione della Rivoluzione francese,
quella che definiva il 1789 come una “rivoluzione borghese”. Si trattava di una lettura che, a
suo parere, aveva teso a semplificare l’evoluzione storica riducendola – secondo lo schema
marxista allora in voga – al conflitto tra classi sociali: nel caso specifico, borghesia versus
aristocrazia. Taylor riuscì a contestarne alla radice l’approssimazione grazie a una appro-
fondita verifica della realtà sociale francese del XVIII secolo; una realtà nella quale la bor-
ghesia capitalista e imprenditoriale era assai debole. L’analisi da lui condotta sulla consi-
stenza e sulla provenienza della ricchezza chiarisce che nei settori benestanti del Terzo
stato, proprio come in quelli nobiliari, il patrimonio terriero sopravanzava sostanzialmente
il capitale commerciale e industriale, ancora assai esiguo nel paese; pertanto la borghesia
e l’aristocrazia costituivano due ceti distinti soprattutto dal punto di vista giuridico e politi-
co, piuttosto che dal punto di vista del modello economico e sociale di riferimento, che era
per entrambi legato al possesso della terra (testo n. 1).
Quella francese fu dunque una rivoluzione politica con conseguenze sociali, e non vi-
ceversa. Le profonde trasformazioni avvenute in quegli anni, e la passione rivoluzionaria
che caratterizzò le biografie dei protagonisti, non devono poi offuscare lo sguardo rispetto
210 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

alle indubitabili continuità che percorrono la storia francese prima e dopo il 1789. Lo hanno
rilevato i lavori che François Furet, uno dei più celebri studiosi della storia politica moderna
e contemporanea, pubblicò tra anni Settanta e Ottanta. A sostegno della sua lettura, egli
portò come esempio decisivo il predominio del centralismo statale sulla vita delle comu-
nità locali: una tendenza di lungo periodo nella vicenda storica della Francia, che a partire
almeno da Richelieu, arriva al progetto politico di Robespierre e dei giacobini, proseguen-
do fino a Napoleone Bonaparte, e oltre (testo n. 2).
A fianco dei grandi dibattiti sulle interpretazioni generali della Rivoluzione francese,
è andato approfondendosi lo studio minuto degli attori sociali in essa coinvolti. Nel fuoco
della lotta rivoluzionaria, infatti, si assistette alla trasformazione dei sudditi in cittadini,
e dei cittadini in militanti. La nuova figura sociale del sanculotto come militante politico
è stata studiata da Michel Vovelle, che ha provato a descriverne estrazione e mentalità,
e a comprenderne idee e aspirazioni (testo n. 3). I lavori principali di Vovelle, editi negli
anni Ottanta, attingono a opere precedenti di studiosi come Albert Soboul, anch’egli fran-
cese, che studiò in particolare la composizione sociale dei movimenti popolari parigini, e
Richard Cobb, storico inglese che approfondì il ruolo politico delle armate rivoluzionarie.
Fino ad anni recenti la storia culturale della Rivoluzione francese ha continuato a sug-
gerite molteplici piste di ricerca, ad esempio quelle relative alla pedagogia rivoluzionaria.
Il periodo rivoluzionario fu costellato da una serie di feste pubbliche, che soddisfacevano
da un lato la necessità di mettere ordine tra gli usi e le abitudini delle comunità locali,
in subbuglio per l’introduzione del calendario rivoluzionario, e dall’altra promuovevano
l’ideale di una educazione nazionale. Per gli storici della mentalità rivoluzionaria, come la
caposcuola Monia Ozouf (testo n. 4), la festa fu un vero e proprio strumento per celebrare,
e perfino sacralizzare, gli avvenimenti rivoluzionari. Nelle ricerche della studiosa francese
la storia si intreccia con gli studi antropologici, aprendo la strada a un approccio interdisci-
plinare oggi ormai consueto nelle scienze sociali.

Testo n. 1
George V. Taylor
Il 1789 fu davvero una rivoluzione borghese?
Chiamare la Rivoluzione francese del 1789 una “rivoluzione borghese” significa evocare
idee che, per comune consenso, sono inseparabile da tale definizione. Implica, ad esempio,
una classe sociale creata e alimentata dal capitalismo, e caratterizzata da una ricchezza
fondamentalmente capitalistica nella sua forma e funzione e da valori largamente derivati
dal capitalismo. Privata di questi collegamenti, la formula “rivoluzione borghese” (oppure
“borghesia rivoluzionaria”) perde la maggior parte del suo valore interpretativo, inclusa in
particolar modo la sua implicazione con un concetto di cambiamento economico e di lotta
di classe [...].
La questione fondamentale è certamente questa: la borghesia del 1789, comunque la si
possa definire, aveva una consistenza economica tale da opporla ad altre classi legate a
differenti forme di ricchezza?
Non esiste alcun metodo definitivo per una stima comparata delle rispettive masse di va-
lore proprie della ricchezza proprietaria e commerciale nella Francia pre-rivoluzionaria. A
partire da quelle che allora si facevano passare per statistiche, si può giungere alla conclu-
sione che le forme tradizionali di proprietà – terre, edifici, cariche e rendite – costituivano
più dell’80% della ricchezza privata in Francia. Ciò indica una preponderanza sostanziale
Capitolo 7. Approfondimenti 211

del settore proprietario, e non sorprende affatto. Il giorno di pesanti investimenti nelle fab-
briche e nelle strade ferrate, che avrebbero alterato questo equilibrio, era ancora lontano.
Frattanto la maggioranza dei francesi viveva della terra, che produceva la maggior parte
del reddito tassabile e del prodotto nazionale lordo
Per i nostri scopi è desiderabile conoscere il peso relativo delle due forme di capitale non
solo riguardo alla società nel suo insieme, ma allo strato superiore del terzo stato. Sfortu-
natamente, lo studio dei registri notarili non è sufficientemente ampio per consentire ciò.
Per il momento, tutto ciò che si può fare è contare le persone; da questo conteggio risulta
che persino nelle città più altamente commerciali, i proprietari ed i professionisti, all’inter-
no del terzo stato, superavano i mercanti. A Bordeaux, secondo porto attivo della Francia,
vi erano 1100 funzionari, professionisti, rentiers e proprietari contro soltanto 700 mercanti,
mediatori e raffinatori di zucchero.
A Rouen, centro primario dell’industria, delle banche, e del commercio marittimo ed all’in-
grosso, i funzionari amministrativi e giudiziari, i proprietari e i rentiers superavano i mer-
canti ed i mediatori per più di 3 a 1. A Tolosa, capitale dell’agricoltura, della professione
legale ed ecclesiastica, il rapporto era circa 11 a 4, ma i 4 includevano mercanti che com-
merciavano per lo più in piccolo, ed avevano molte attività al minuto, tali da rendere dub-
bia la loro definizione come capitalisti. Vi è da fare, tuttavia, un’ulteriore considerazione.
Poiché mercanti ed industriali possedevano, unitamente al capitale commerciale, conside-
revoli ricchezze proprietarie, si potrebbe, coll’aiuto di dati più accurati, frazionarli fra i due
settori, e, in tal modo, la quota di capitale commerciale ed industriale nello strato superiore
del terzo stato apparirebbe molto più bassa di quanto non appaia contando per persone.
Sondaggi del genere sono come esili fuscelli trasportati dal vento ma si lasciano traspor-
tare tutti nella stessa direzione. Essi confermano ciò che sembra fosse implicito nella co-
scienza francese del XVIII secolo, cioè che anche nel terzo stato benestante la ricchezza
proprietaria sopravanzava sostanzialmente il capitale commerciale ed industriale. La qual
cosa non avrebbe affatto sorpreso un francese dell’epoca dell’antico regime, e non dovreb-
be sorprendere neppure noi. La ragione per cui viene qui sottolineata sta nella volontà di
portare la base per un’asserzione fondamentale nell’analisi delle cause della rivoluzione:
esisteva, fra la maggioranza della nobiltà e del settore proprietario delle classi intermedie,
una continuità di forme di investimento e di valori socio-economici che ne faceva, econo-
micamente, un unico gruppo. Essi avevano lo stesso ruolo nei rapporti di produzione. La
differenza reciproca non era in alcun senso di ordine economico; bensì d’ordine giuridico e
tale situazione non ha ricevuto in pratica seria attenzione da parte della storiografia della
rivoluzione, e rimane, per definirla col linguaggio orwelliano, un “unfact”. La ragione di ciò
è che essa non porta alcun sostegno a quella che Cobban giustamente definisce “la teoria
ufficiale della Rivoluzione francese”, ossia la teoria secondo la quale la rivoluzione fu il
trionfo del capitalismo sul feudalesimo. In quel contesto non trova posto la configurazione
della ricchezza proprietaria che comprendeva tanto il secondo che il terzo stato, che viene
respinta e non utilizzata, rimanendo così praticamente sconosciuta.
Essa merita, tuttavia, di essere riconosciuta e le sue asserzioni portano con sé un secondo
“unfact”: cioè che un numero consistente di nobili erano presenti come imprenditori nel
commercio, nell’industria e nella finanza. Esisteva in effetti, prima della rivoluzione, una
noblesse commerçante. I nobili di provincia, della carriera militare, e di corte, i pari e i
membri della famiglia reale facevano investimenti nella Ferme Génerale [l’impresa che
gestiva l’appalto di tutte le imposte], speculavano in Borsa, e sviluppavano lo sfruttamento
di miniere, canali, e stabilimenti metallurgici, compresa la grande fonderia di Le Creusot.
212 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Dall’altro lato si trovava, invertendo l’espressione, un commerce anobli (cioè un commer-


cio nobilitato), un gruppo piuttosto grande di mercanti fatti nobili tramite le cariche muni-
cipali di determinate città e le due migliaia o più di cariche venali che conferivano nobiltà
ai compratori. Per lo più, queste famiglie nobilitate di mercanti si trovavano in una fase di
transizione. Colla liquidazione delle imprese, o col crescere di una generazione non più
adatta agli affari, esse si ponevano al di fuori del commercio per vivere di rendita, come gli
altri nobili. Tutti uguali a questo riguardo, mercanti o no, essi erano nobili e sedevano nelle
assemblee nobiliari del 1789. In sintesi, c’erano dei nobili che erano capitalisti e c’erano dei
mercanti che erano nobili. Mentre la ricchezza proprietaria identificata tradizionalmente
coll’aristocrazia si estendeva considerevolmente nel terzo stato, così come il capitalismo
tradizionalmente identificato coi ricchi del terzo stato penetrava anche nel secondo (la
nobiltà), proprio ai livelli più elevati.
Ciò significa che il vecchio diagramma con cui raffiguriamo la società pre-rivoluzionaria
va mutato. Esisteva giuridicamente una linea chiara di confine che separava i nobili dai
plebei, ed un plebeo poteva oltrepassarla colla registrazione di un documento legale, la
lettera di nobiltà. D’altro canto, il confine fra ricchezza proprietaria e ricchezza capitalista
attraversava verticalmente ambedue gli ordini. La linea orizzontale segnava una dicotomia
legale, la linea verticale una dicotomia di ordine economico. Ritenere queste due linee,
seppur approssimativamente, coincidenti, significa non comprendere affatto la situazione.
Il concetto di due classi, separate tanto economicamente che giuridicamente, può essere
sostenuto solo ignorando il peso della ricchezza proprietaria nel terzo stato e quello del
capitalismo nel secondo stato, ossia in altri termini, continuando a porre al bando questi
fatti come fossero inesistenti.
Da ciò discendono due importanti conclusioni. La prima è che quando il termine bourgeois
viene usato per indicare un gruppo non nobile che ricopre un ruolo capitalistico nei rapporti
di produzione esso include meno della metà della parte ricca del terzo stato ed esclude i
gruppi proprietari che costituirono l’87% della deputazione del terzo stato agli stati generali.
La seconda conclusione è che noi non possediamo alcuna spiegazione economica per la
cosiddetta “rivoluzione borghese”, ossia l’assalto della parte superiore del terzo stato con-
tro l’assolutismo e l’aristocrazia. Il nostro punto di vista è che ormai ne sappiamo abbastan-
za per escludere una simile spiegazione, per capire che la divisione degli elementi ricchi
della società pre-rivoluzionaria in un’aristocrazia feudale e in una borghesia capitalistica è
basata sull’occultamento di troppe prove documentarie, e che l’intero concetto classico di
rivoluzione borghese si è rivelato impossibile da sostenere.
G.V. Taylor, Ricchezza non capitalistica e le cause della Rivoluzione francese, in M. Terni (a
cura di), Il mito della Rivoluzione francese, Milano, Il Saggiatore, 1981, pp. 62-87.

Testo n. 2
François Furet
Ripensare la rivoluzione come continuità
Ciò che v’è di irrimediabilmente confuso, nella vulgata “marxista” della Rivoluzione france-
se, è la giustapposizione della vecchia idea dell’avvento di un’era nuova – idea costitutiva
della Rivoluzione, appunto – e di una dilatazione del campo storico tipica del marxismo. Il
marxismo, infatti – o per meglio dire quel marxismo che si annette, con Jean Jaurès [autore
dell’Histoire socialiste de la Révolution française edita nel 1901], la storia della Rivoluzione
–, sposta il centro di gravità del problema della Rivoluzione sull’economico e il sociale, e
Capitolo 7. Approfondimenti 213

nel suo tentativo di attribuire allo sviluppo del capitalismo l’apoteosi dell’89 e la gradua-
le promozione del Terzo stato allarga il mito della rottura rivoluzionaria anche alla vita
economica e al sociale tutto: prima, il feudalesimo e la nobiltà, dopo il capitalismo e la
borghesia. Ma poiché queste proposizioni non sono dimostrabili, né verosimili, del resto, e
comunque esorbitano dal quadro cronologico canonico, il marxismo si limita a giustappor-
re un’analisi di carattere economico e sociale delle cause a una storia di carattere politico
e ideologico dei fatti.
Quest’incoerenza ha comunque il vantaggio di sottolineare uno dei problemi fondamentali
della storiografia rivoluzionaria, quello cioè della connessione fra le tesi interpretative e
la cronologia dell’evento. Se si vuole sostenere a ogni costo l’idea di una rottura obiettiva
nel tempo storico, facendo di tale rottura l’alfa e l’omega della storia della Rivoluzione, si
finisce col dire delle assurdità, qualunque sia l’interpretazione proposta. Ma queste assur-
dità sono tanto più necessarie quanto più l’interpretazione è ambiziosa e quanti più livelli
concerne. Si può dire, ad esempio, che fra l’89 e il ’94 tutto il sistema politico francese si è
bruscamente trasformato perché la vecchia monarchia è scomparsa; ma l’idea che, fra que-
ste due date, il tessuto sociale o economico della nazione si sia rinnovato da cima a fondo,
è ovviamente molto meno verosimile: la “Rivoluzione” è un concetto che non ha molto
senso, rispetto ad affermazioni di questo genere, anche se le sue cause non sono tutte di
natura politica o intellettuale.
In altre parole, qualunque concettualizzazione della storia rivoluzionaria non può prescin-
dere da una critica dell’idea di Rivoluzione quale la vissero i suoi attori e la tramandarono
i loro eredi, ovvero come una radicale trasformazione e l’origine di un’era nuova. Finché in
una storia della Rivoluzione mancherà questa critica, la sovrapposizione di un’interpreta-
zione di carattere più economico o più sociale a un’altra puramente politica non cambierà
affatto ciò che accomuna tutte queste storie, ovvero la loro fedeltà al vissuto rivoluzionario
[...].
È qui che mi unisco a Tocqueville e ne misuro il genio. Credete veramente – dice egli ai suoi
contemporanei – che la Rivoluzione francese sia una improvvisa rottura della nostra storia
nazionale? Essa è in realtà lo sboccio del nostro passato, il compimento per certi aspetti
dell’opera della monarchia; è tutt’altro che una rottura, ed è comprensibile soltanto nella
continuità storica e grazie alla continuità storica, che realizza nei fatti nonostante che le
coscienze la sentano come una rottura.
Tocqueville ha dunque elaborato una critica radicale di tutte le storie della Rivoluzione fon-
date sul vissuto dei rivoluzionari, e questa critica è tanto più acuta in quanto si tiene al piano
politico – i rapporti tra i francesi e il potere –, ossia proprio quello che apparentemente fu
più trasformato dalla Rivoluzione. Il problema di Tocqueville è il predominio del potere am-
ministrativo sulle comunità e sulla società civile, dopo l’estensione dello Stato centralizzato.
E quest’annessione del corpo sociale da parte dell’amministrazione non è soltanto una ca-
ratteristica permanente che collega il “nuovo” regime all’“antico”, Bonaparte a Luigi XIV, ma
anche ciò che spiega, attraverso una serie di mediazioni, la penetrazione dell’ideologia “de-
mocratica” (ossia egualitaria) nella vecchia società francese: in altre parole, la “Rivoluzione”,
in ciò che ai suoi occhi ha di costitutivo (lo Stato amministrativo padrone di una società a
ideologia egualitaria), era già stata fatta in gran parte dalla monarchia, prima d’essere ter-
minata dai giacobini e dall’Impero. E la cosiddetta “Rivoluzione francese” – quest’evento re-
gistrato, datato, magnificato come un’aurora – altro non è che un’accelerazione della prece-
dente evoluzione politica e sociale. Abolendo non l’aristocrazia, ma il principio aristocratico
214 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

nella società, essa sopprime la legittimità della resistenza sociale allo Stato centralizzato.
Ma il primo esempio l’avevano dato Richelieu e Luigi XIV. [...]
Ecco perché L’Ancien Régime e la Révolution [il saggio di Alexis de Tocqueville edito nel
1856] è, secondo me, il testo fondamentale di tutta la storiografia rivoluzionaria; ed ecco
inoltre perché, da più di un secolo, è sempre stato il parente povero di questa storiografia,
più citato che letto e più letto che capito. Di destra o di sinistra, monarchico o repubblicano,
conservatore o giacobino che sia, lo storico della Rivoluzione francese prende il discorso
rivoluzionario per moneta sonante perché ci si cala dentro, continuando così ad attribuire
alla Rivoluzione i vari volti ch’essa stessa si è dati, in un commento interminabile di uno
scontro in cui essa, attraverso i suoi eroi, avrebbe detto il significato una volta per tutte.
Poiché essa lo afferma, bisogna dunque che lo storico creda che la Rivoluzione ha abolito
la nobiltà, mentre ne ha semplicemente negato il principio; che ha fondato una società,
mentre ha soltanto affermato certi valori, e che è un’origine della storia, mentre ha solo
parlato di rigenerare l’uomo. In questo gioco degli specchi, in cui lo storico e la Rivoluzione
si credono sulla parola, visto che la Rivoluzione è diventata il principale personaggio della
storia, l’insospettabile Antigone dei tempi nuovi, Tocqueville insinua il dubbio alla radice: e
se ci fosse soltanto l’illusione del cambiamento, in questo discorso della rottura?
La risposta a quest’interrogativo è tutt’altro che semplice, e l’interrogativo stesso non con-
tiene tutta la storia della Rivoluzione, ma è probabilmente indispensabile a una concet-
tualizzazione di tale storia. La sua importanza si misura per difetto: se non se lo pone, lo
storico cade inevitabilmente nell’esecrazione o nella celebrazione, due modi entrambi di
commemorare.
F. Furet, Critica della Rivoluzione francese, Roma-Bari, Laterza, 1980, pp. 18-22.

Testo n. 3
Michel Vovelle
Che cos’è un sanculotto?
Oggi più di ieri ci si interessa alla personalità del rivoluzionario medio, il che ci obbliga a
definirne subito il profilo sociologico, onde evitare ogni facile generalizzazione. Chi ha vis-
suto attivamente la Rivoluzione? Senz’altro una minoranza, molto variabile a seconda del
momento. Più che sul discutibile metro dei risultati degli scrutini elettorali (su cui grava il
peso del sistema censitario, prima, e del difficile apprendistato al suffragio universale poi)
questo impegno può essere misurato nel quadro delle istanze del movimento sanculotto
tra 1791 e 1794, quindi nei club o nelle assemblee delle “sezioni” urbane. [...]
Prendiamoci carico di qualche rischio e, senza ignorare quanto possano essere abusive le
nostre semplificazioni, cerchiamo di rispondere all’impertinente domanda: “Che cos’è un
sanculotto?”, cominciando, se possibile, con il misurare le dimensioni globali del gruppo.
A Parigi, Soboul valuta intorno all’8-9% la percentuale media dei parigini adulti che fre-
quentano la sezione tra 1792 e 1793 (percentuale che raramente scende sotto il 5%, ma
che non supera mai il 20%). A Marsiglia, un’analisi più precisa delle stesse fonti suggerisce
delle percentuali maggiori, e i dati globali per l’intero periodo rivelano che da un quarto
alla metà degli uomini adulti si sono fatti vedere in sezione almeno una volta. Ma se, con
un criterio abbastanza lassista, consideriamo come “militanti” solo coloro che compaiono
almeno una decina di volte, constatiamo che la loro media ammonta quasi sempre a un
quinto dei sezionali e quindi a un decimo di tutti gli uomini adulti, come a Parigi. Questo
primo test, anche se crudele, è essenziale per evidenziare come nella sua fase più attiva la
Capitolo 7. Approfondimenti 215

Rivoluzione abbia interessato solo un decimo dei cittadini adulti. Ma, a pensarci bene, non
si tratta forse di un tasso di politicizzazione tutt’altro che mediocre?
Dopo le analisi di Soboul, la sociologia del gruppo sanculotto parigino non ha più misteri: si
sa che intorno al solido nucleo dei produttori indipendenti, artigiani e commercianti, si col-
loca da una parte una non trascurabile partecipazione “borghese”, e dall’altra una limitata
mobilitazione dell’élite dei salariati, con una percentuale per ogni gruppo fra i militanti
parigini rispettivamente del 57, del 18 e del 20%. La situazione marsigliese, su una base sta-
tistica molto più ampia (5000 sezionali studiati) suggerisce differenziazioni e conferme: dal
40 al 50% di artigiani e di commercianti, dal 30 al 40% di borghesi, un 20% di salariati; ma
a Marsiglia, come anche a Parigi, passando al gruppo dei responsabili (i commissari civili e
rivoluzionari) l’elemento proletario si rarefà.
Tra i parigini studiati da Albert Soboul, la percentuale dei salariati si riduce della metà
(passando dal 20 al 10%) tra i commissari rivoluzionari e diventa infima tra i commissari
civili, mentre rentiers e proprietari, persone che quindi vivevano del proprio patrimonio e
potevano dedicarsi a tempo pieno all’attività rivoluzionaria, facilitati anche dal loro status
culturale, vedono aumentare la loro percentuale dal 2 a più del 25%. Resta quindi tanto più
considerevole il ruolo costante di artigiani e commercianti come cardini della sanculotte-
ria, anche se progredendo nella gerarchia delle responsabilità l’equilibrio interno di questo
gruppo si modifica a vantaggio dei commercianti più ricchi.
A Marsiglia, una base statistica molto più allargata e il vantaggio di poter confrontare la so-
ciologia del gruppo sanculotto con la sociologia globale della città permettono di andare
più lontano. Diventa possibile misurare quanto sia stata ineguale la mobilitazione rivolu-
zionaria nei vari gruppi sociali: i contadini e i pescatori sono, come i salariati, quasi assenti
nelle assemblee sezionali, mentre borghesi e commercianti – ma anche quadri medi (come
i commessi) o superiori – in proporzione frequentano molto più le loro sezioni. La percen-
tuale degli artigiani sembra rimanere la stessa nelle sezioni e nell’intera città, e aggirarsi
intorno al 40%, ma a prezzo in realtà di una deformazione o di uno slittamento interno alla
categoria, che gonfia considerevolmente il ruolo dei padroni, mentre riduce di molto quel-
lo dei compagnons [cioè dei dipendenti]. Come a Parigi, più si sale nella gerarchia dell’at-
tivismo rivoluzionario e più si riduce la parte di chi si è fatto coinvolgere solo superficial-
mente dalla militanza politica: contadini e pescatori frequentano solo occasionalmente le
assemblee, e la percentuale degli stessi artigiani si riduce in modo molto significativo (dal
37 al 28%), quando si passa dai militanti “occasionali”, che si sono fatti vedere in sezione
un’unica volta, ai quadri più fedeli. Anche qui il loro posto viene preso dai borghesi o dai
commercianti più ricchi e dai loro commessi. [...]
Questo militantismo di artigiani e di commercianti è rappresentato da uomini adulti e a
torto, a nostro parere, lo si crede giovanile: a Parigi, l’età media dei sanculotti è sui qua-
rant’anni, mentre a Marsiglia varia con una notevole costanza dai 43 ai 44 anni, secondo le
sezioni. A ulteriore conferma, si tratta almeno per i 2/3 e spesso per i 4/5 di uomini sposati, e
di padri di famiglia nel 40-60% dei casi. Senza imprigionare i nostri militanti negli schemi di
un determinismo semplicistico, questi tratti definiscono già una mentalità specifica, quella
di una Rivoluzione (a prima vista sorprendente) fatta dai padri di famiglia. Ma i giovani
dove sono? Come si può verificare, il salasso della chiamata alle armi pesa soprattutto e
rudemente sulla fascia d’età dai 20 ai 30 anni. [...]
Sulla base di fonti convergenti come i discorsi, le dichiarazioni e i proclami Richard Cobb e
Albert Soboul ci danno della mentalità dei sanculotti due immagini tra loro contrastanti. Lo
216 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

storico inglese cerca di tracciare a pennellate impressionistiche un ritratto dal “vero” del
sanculotto, descrivendolo nella sua breve esistenza, durata tre-quattro anni (dal 1792 al
1796), di militante del tutto consapevole di vivere in un momento eccezionale. Cobb non ne
dà una descrizione molto lusinghiera, trovandolo troppo altero, sovente pieno di un senso
di superiorità tipicamente parigino, facile a farsi confondere dalle parole, puritano negli
atteggiamenti e negli affetti malgrado un’evidente debolezza per la bottiglia. Cobb insiste
sulla dabbenaggine di un gruppo la cui formazione politica si compie nel corso stesso della
Rivoluzione su un fondo di ignoranza, e in cui la convinzione dell’esistenza di un multifor-
me complotto crea una vigilanza impaziente ma del tutto cieca. Tra i sanculotti il conformi-
smo è incoraggiato dalle forme stesse del dibattito e dello scrutinio pubblico, e di traduce
in un’unanimità forzata che cela a fatica le aspre lotte tra clan. Il sanculotto è di fondo un
violento e il sentimento vissuto del Terrore necessario ha su di lui un’influenza considere-
vole: ecco allora assumere importanza la delazione, la caccia ai latitanti, la vigilanza sui
discorsi, e in definitiva anche la ferocia di un programma repressivo auspicato in cui la
“Santa Ghigliottina” (come viene chiamata a Lione e altrove) ha un ruolo essenziale. [...].
Il rivoluzionario descritto da Cobb non resisterà alla stanchezza lasciata dalla repubblica
robespierrista e tornerà nella maggioranza dei casi alle sue pantofole e al suo biliardo. [...]
Questo ritratto poco lusinghiero del sanculotto presenta tratti molto pertinenti e ha il merito
di rinnovarne l’immagine tradizionale, ma lascia l’impressione di aver visto solo un aspetto
delle cose, e non sempre il più essenziale e il più profondo.
Così come ce lo presente Soboul, in un ritratto privo di indulgenza ma che non cade nella
denigrazione, il sanculotto parigino ha un aspetto diverso. La sua attività politica, la sua
vita quotidiana, la sua etica, il suo comportamento e il suo stesso modo di vestire vanno a
formare una “visione del mondo” e un atteggiamento davanti alla vita, tutti elementi che
mancano nella descrizione di Cobb. È il sogno vissuto dell’uguaglianza che si incarna nella
Carmagnole [una canzone antimonarchica dell’epoca], nel darsi del tu, nelle formule come
“il tuo eguale in diritto”, nell’attaccamento geloso alla democrazia sezionale diretta. È la
fraternità messa in atto, anche altrimenti che nei banchetti fraterni, nella pratica sociale
quotidiana, nella difesa del pane e del vino per tutti, nel calmiere degli affitti e nella limi-
tazione del diritto di proprietà. È anche indubbiamente l’austerità e un linguaggio spartano
ma non puritano, che sfocia in una nuova morale “naturale”, prima di pregiudizi e che arri-
va fino ad ammettere la libera unione, senza tuttavia sbarazzarsi di un vecchio e incallito
fondo maschilista. È infine una militanza che non si risparmia e che si pone al servizio del
nuovo mondo sognato, arrivando senz’altro fino all’intolleranza. Il sogno di unità che esclu-
de le discussioni nelle assemblee sezionali, e la violenza simboleggiata dalla picca sono
altrettanti elementi su cui tutte le analisi convergono e che sarebbe assurdo ignorare. [...]
Contrapponendo in un dibattito accademico l’immagine del sanculotto vista da Cobb e
quella data Soboul, potremmo essere accusati di faciloneria, anche se così siamo in fin
dei conti riusciti a evidenziare molte sfaccettature di questo complesso personaggio. È da
dire che ne emerge anche l’obiettiva difficoltà di analizzare dall’interno l’universo mentale
dei componenti il gruppo sanculotto, non solo per la sua relativa eterogeneità ma ancora
di più per la scarsezza di fonti. Soboul e Cobb hanno dato grande importanza alle fonti
fornite dai proclami (appelli, petizioni, autodefinizioni) ma ancora più forse ai documenti
della repressione a caldo, forniti dai processi riguardanti le giornate rivoluzionarie o dalla
repressione del movimento hebertista nella primavera 1794 o, in seguito, dalla persecuzio-
ne antigiacobina dopo Termidoro. Si tratta di fonti preziose ma che forzatamente rispec-
chiano, in un senso o nell’altro, dei punti di vista parziali. Si apprezza allora tanto più, per
Capitolo 7. Approfondimenti 217

la sua stessa rarità, un documento che si presenti come una confessione spontanea, quale
un libro-giornale o un diario: per esempio, il Livre de ma vie del vetraio parigino Ménétra
(pubblicato di recente da D. Roche), cronaca dei suoi anni di vagabondaggio come compa-
gnon, fino alla sua installazione a Parigi, il che per lui significa non solo la sistemazione ma
lo rende anche uno dei protagonisti oscuri e a tratti attivi di una rivoluzione di quartiere
parigina. Fedele a una militanza girondina che gli crea talvolta dei fastidi e che lo pone co-
munque in una posizione vulnerabile, Ménétra ci ha lasciato una cronaca della rivoluzione
vista “dal basso”, testimonianza preziosa anche perché evidenzia quanto sia difficile per
un militante di base comprendere giorno per giorno cosa accade; infatti, tanto è limpido
il racconto degli anni di apprendistato e tanto in seguito tutto si complica, dando spesso
l’impressione che il nostro eroe viva sì la Rivoluzione, ma senza spesso comprenderne le
reali finalità (cosa più facile per noi storici, che sappiamo com’è andata a finire). Ma simili
testimonianze sono forse tanto più preziose, nei loro stessi limiti, intanto perché non sono
molte, e soprattutto perché rivelano come il popolo abbia percepito la Rivoluzione vissuta.
Quando il tessitore avignonese Coulet, un altro tra i pochi cronisti popolari, scrive in tutta
semplicità, parlando del corteo della dea Ragione: “Oggi hanno portato in processione la
madre della Patria vivente”, ci sembra di capire meglio il modo tutto sommato naturale
in cui la scristianizzazione ha potuto essere vissuta senza grossi traumi da una parte del
popolino urbano.
M. Vovelle, La mentalità rivoluzionaria, Roma-Bari, Laterza, 1987, pp. 111-124.

Testo n. 4
Monia Ozouf
Le feste repubblicane e la pedagogia rivoluzionaria
Nel corso della Rivoluzione non esiste dibattito sull’istruzione in cui non venga toccato il
problema delle feste, né dibattito sulle feste in cui non si affermi che queste devono servire
all’istruzione. In sostanza appare aberrante rivolgere tante cure all’istruzione dei bambini
quando li si abbandona poi, da adulti, a tutti i casi fortuiti dell’esistenza. Con cosa è possi-
bile prolungare, al di fuori della cerchia scolastica, l’insegnamento del maestro o dei libri?
E soprattutto con cosa sostituirlo, per quelle generazioni che non sono istruite e che non
andranno mai a scuola! (Nuovo problema, ancor più arduo, in quanto queste generazioni,
prive di educazione repubblicana, hanno ricevuto una differente formazione). La festa for-
nisce una risposta a questa duplice preoccupazione. Senza le feste la generazione attuale
è ineducabile; senza di esse l’istruzione pubblica è condannata ad essere una specie di tela
di Penelope che viene disfatta man mano che si succedono le generazioni. Senza le feste è
inutile sperare di “colare in uno stampo la nazione”.
Le feste sono dunque un supplemento, o meglio un sostituto di educazione. Qualcosa di più,
in quanto forniscono un insegnamento diverso da quello che la scuola può dare. Questa si
propone solo di formare lo spirito [...] le feste, al contrario, si rivolgono non all’intelligen-
za ma all’uomo nella sua totalità e coinvolgono l’intera comunità. Le scuole rientrano nel
campo dell’istruzione pubblica, le feste in quello dell’educazione nazionale. Ragione più
che sufficiente per fare delle scuole una preoccupazione prioritaria, come spiega un depu-
tato del 1789: “L’istruzione pubblica è il retaggio di alcuni, l’educazione nazionale l’alimen-
to necessario a tutti. Esse sono sorelle ma l’educazione nazionale è la maggiore. Che dico?
Essa è anzi la madre comune di tutti i cittadini, che nutre tutti con lo stesso latte, li alleva e
li tratta come fratelli e, attraverso la comunanza delle sue cure, dà loro quella somiglianza
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e quell’impronta di famiglia che distingue un popolo così allevato da tutti gli altri popoli
della terra; la sua dottrina consiste dunque nell’impadronirsi dell’uomo fin dalla culla, ad-
dirittura prima della sua nascita, in quanto il bambino non ancora nato appartiene già alla
patria. Essa si impadronisce dell’uomo senza mai abbandonarlo, di modo che l’educazione
nazionale non è una istituzione per l’infanzia, ma per l’intera esistenza”.
In che modo le feste possono pretendere di garantire questa formazione permanente?
Come possono agire sull’uomo e con quali mezzi? In primo luogo è la regolarità delle feste
a dover far da sostegno all’esistenza individuale: la festa richiede un uditorio attento, una
presenza assidua, condizioni essenziali qui come a scuola all’efficacia dell’insegnamento
impartito; di modo che il problema fondamentale della festa è, come nella scuola, quello
della “frequenza”.
D’altra parte le feste sono delle scuole già per il semplice fatto di riunire gli uomini: occorre
in primo luogo stabilire, per la festa come per la scuola, un luogo che serva da punto di
riunione per l’esercizio delle virtù sociali. In un tale centro, privilegiato e sovradeterminato,
il semplice venire a contatto degli individui diventa una istruzione civica. Gli uomini del-
la Rivoluzione conferiscono alla “riunione” – ben diversa dall’attruppamento come anche
dall’assembramento – una virtù immediata. Quasi sempre essi ascrivono all’isolamento de-
gli individui la causa dell’indebolimento dello spirito pubblico, da questa constatazione
nasce una complessa geografia politica. I paesi frazionati, i boschetti, le scarpate, le siepi
producono, a loro avviso, i nemici della Repubblica, come se il frazionamento fisico fosse
un federalismo della natura, atto a generane un altro. Mentre, al contrario, il paese aperto,
che lascia liberamente spaziare lo sguardo, tempra lo spirito repubblicano. Forse perché
la sorveglianza rivoluzionaria può esercitarvisi meglio? Ma, interpretazioni pessimistiche
a parte, è vero anche che lo spaziare dello sguardo, lo scambio dei sentimenti e delle idee
sembrano apportatori di un insegnamento diretto: la città, luogo dello scambio commer-
ciale, è anche il luogo dello scambio culturale; la festa luogo dell’agglomerato umano deve
essere insieme il focolare dei lumi: “Un popolo numeroso, e per ciò stesso meno supersti-
zioso”, scrive, con eloquente sintesi, un commissario del dipartimento del Rhône.
Nella riunione festiva, sotto lo sguardo di una comunità dalla quale non può essere scisso,
l’uomo fatto ritrova se stesso allievo e bambino, tenuto per mano, sorvegliato da vicino. La
festa repubblicana, come la scuola, è ordinata severamente, religiosamente osservata. La
festa, allo stesso modo della scuola, si appropria dell’esperienza privata e la rende pubbli-
ca in modo definitivo.
M. Ozouf, La festa rivoluzionaria, Bologna, Pàtron, 1982, pp. 302-308.
Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea:
dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra
di Carlo De Maria
Roma (BraDypUS) 2018
ISBN 978-88-98392-70-4
pp. 219-234

Capitolo 8. Dall’imperialismo na-


poleonico al Congresso di Vienna
Profilo storico

8.1. La Francia tra guerre, autoritarismo e impero

Il colpo di Stato del 18 Brumaio 1799, che portò Napoleone Bonaparte al potere, fu possibi-
le perché la Francia era stanca dell’instabilità politica iniziata con la Rivoluzione del 1789 e
perché l’esercito, durante gli anni del Direttorio, aveva conquistato una importanza decisi-
va nella vita del paese. Inoltre, il generale Bonaparte, nonostante la fallimentare spedizio-
ne militare in Egitto, rimaneva nell’immaginario popolare l’eroe della campagna d’Italia.
Tuttavia, affermare che la Rivoluzione francese si risolvette in una dittatura militare non
sarebbe corretto. La natura del regime napoleonico, infatti, fu ben più ricca e complessa.
Per molti aspetti, come vedremo, Bonaparte rifiutò l’eredità rivoluzionaria (ad esempio,
cancellando progressivamente la rappresentanza parlamentare e l’idea di libere elezioni po-
litiche), ma per altri versi fu il continuatore della Rivoluzione e ne diffuse alcuni aspetti in
Europa. Del resto, il fatto stesso che un ufficiale proveniente da una famiglia della piccola no-
biltà corsa potesse fondare, a poco più di trent’anni, un nuovo regime politico sarebbe stato
inconcepibile e inspiegabile senza le trasformazioni portate dalla rivoluzione; trasformazioni
che avevano abbattuto vecchie gerarchie sociali, creato aspettative inedite di mobilità socia-
le, sollecitato l’azione di ampi strati popolari e formato un nuovo spirito nazionale.
Dal punto di vista sociale Bonaparte era un grande parvenu della Rivoluzione, come lo
era stato Robespierre.
Nessun dubbio, naturalmente, sul carattere autoritario del regime napoleonico; nello
stesso tempo, però, il governo di Bonaparte fu capace di confermare e rafforzare con la sua
opera legislativa e i suoi codici – che si ricollegavano in buona parte ai provvedimenti del
1789 – un significativo progresso sociale. Si pensi all’abolizione di tutti i privilegi legati al
rango nobiliare, all’apertura delle carriere pubbliche e private al talento, all’eguaglianza di
tutti i cittadini davanti alla legge, alla regolarità e alla trasparenza dei processi, alla difesa
della proprietà privata e della libertà d’impresa. A tutto ciò bisognava aggiungere, per giu-
stificare il grande consenso raccolto in patria, la gloria e il prestigio delle vittorie militari.
Anche rispetto all’Europa Napoleone non si presentò con un aspetto univoco. Se da una
parte introdusse nei paesi conquistati più moderne ed efficienti forme organizzative della
220 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

vita pubblica; per altri versi era il tiranno che prelevava pesantissimi tributi e imponeva
arbitrariamente un nuovo ordine politico e sociale.

8.1.1. La Costituzione consolare.


La Costituzione promulgata a Parigi il 25 dicembre 1799 – anno VIII della Repubblica – era
la quarta carta costituzionale francese dopo quelle del 1791, 1793 e 1795. Essa fissava i
nuovi equilibri politici scaturiti dal colpo di Stato attuato da Bonaparte il mese preceden-
te. Non sorprende, quindi, la preminenza data all’uomo forte della situazione, che il testo
costituzionale nominava espressamente “primo console” (da qui il nome di “Costituzione
consolare”).
In carica per dieci anni, il primo console aveva prerogative notevolissime. A lui spettava,
infatti, non solo l’esercizio del potere esecutivo, ma anche l’iniziativa legislativa. Continua-
va a esistere un parlamento bicamerale, ma le sue funzioni erano assai limitate. Alla Came-
ra bassa spettava il compito di discutere i progetti di legge proposti dal primo console, che
in caso di approvazione passavano alla Camera alta che aveva il compito di approvarli o
respingerli in via definitiva. Né l’una né l’altra assemblea poteva proporre leggi o modifica-
re quelle avanzate dal primo console, ma semplicemente approvare o respingere i progetti
governativi.
I deputati erano eletti con un sistema solo parzialmente democratico, articolato su
due livelli. In un primo momento, si votava a suffragio universale maschile per definire
delle liste di “eleggibili”. Interveniva, poi, un altro organo costituzionale – il Senato – che
sceglieva tra questi candidati coloro che potevano sedere in parlamento. Il fatto è che la
composizione del Senato era decisa dal primo console, che dunque indirettamente con-
trollava anche l’elezione del parlamento.
Solo dopo che la costituzione era entrata in vigore venne organizzato un plebiscito
di approvazione, cioè una votazione con la quale il corpo elettorale poté esprimersi (a
suffragio universale maschile) a favore o contro la nuova carta fondamentale. Le modalità
di voto – e in particolare la scelta del voto palese, anziché segreto – non lasciarono, in pra-
tica, spazio alle voci di opposizione, che avrebbero dovuto schierarsi apertamente contro
Bonaparte e contro il suo esercito.

8.1.2. Dalla riconquista dell’Italia alla proclamazione dell’Impero.


Il primo console dovette immediatamente occuparsi della situazione militare. La posizione
della Francia si era fatta critica, soprattutto a causa delle sconfitte subite in Italia nel 1799,
durante i mesi in cui lo stesso Bonaparte – come si ricorderà – era rimasto isolato con i suoi
uomini in Egitto.
Nella primavera del 1800 i francesi attaccarono nuovamente gli austriaci nell’Italia
settentrionale, battendoli a Marengo, nei pressi di Alessandria. Grazie a quella vittoria, la
Francia riacquistò velocemente il controllo delle regioni italiane del Centro-Nord, cioè di
buona parte dei territori persi nel corso dell’anno precedente.
Dai nuovi successi in Italia il prestigio di Bonaparte come capo di governo uscì poten-
temente rafforzato. Il generale non perse tempo e sfruttò la situazione favorevole per far
introdurre una modifica costituzionale grazie alla quale diventò primo console a vita, con
il diritto di nominare il proprio successore. Il cambiamento fu sanzionato da un secondo
plebiscito, che si tenne nel 1802.
Capitolo 8. Dall’imperialismo napoleonico al Congresso di Vienna 221

Ridimensionata la presenza austriaca nell’Europa meridionale, riemergeva il conflitto


con la Gran Bretagna per il controllo del Mediterraneo. La tensione tra i due paesi crebbe
fino al punto da indurre Londra, nel maggio 1803, a dichiarare guerra alla Francia. Questa
volta Bonaparte non pensò di rivolgersi verso obiettivi secondari, come era successo alcuni
anni prima con l’occupazione dell’Egitto, ma avviò i preparativi per un grande attacco via
mare alle coste inglesi. Forze terrestri e navali cominciarono a radunarsi presso Boulogne-
sur-Mer, sullo stretto di Calais, a circa 50 chilometri dalle scogliere del Kent.
I britannici, oltre a prepararsi alla difesa militare, tentarono una carta particolare per
liberarsi dal pericolo: un complotto per uccidere Bonaparte. I congiurati, però, vennero
scoperti e arrestati prima che potessero attuare il loro piano (febbraio-marzo 1804). La
vicenda suscitò una viva emozione nell’opinione pubblica francese e venne sfruttata da
Bonaparte per un ulteriore e decisivo mutamento della Costituzione. Nel maggio 1804 il
Senato ratificò un testo costituzionale che proclamava lui e i suoi discendenti titolari della
dignità imperiale. Il generale Bonaparte, primo console di Francia, era ormai superato; il
nuovo imperatore assunse semplicemente il nome di Napoleone.
Tornava in scena un rito medievale, quello dell’incoronazione imperiale, con il quale il
regime napoleonico abbandonava la cornice repubblicana e assumeva un carattere neo-
monarchico. Sull’imperatore si concentrò, in modo ancora più netto che in precedenza,
tutto il potere politico e militare, mentre gli organi di rappresentanza previsti dalla Costi-
tuzione del 1799 scomparivano sullo sfondo. Il terzo plebiscito in pochi anni intervenne a
confermare il nuovo assetto istituzionale.

8.1.3. Un nuovo modello di potere.


La dittatura di Napoleone trovò la propria base sociale nella riconciliazione – in nome
della grandezza della Francia – tra i vecchi ceti nobiliari politicamente spodestati ed eco-
nomicamente indeboliti e le nuove forze dirigenti borghesi che emergevano nell’esercito,
nella burocrazia e nella società civile. Sia come primo console che come imperatore, Napo-
leone ebbe una ben precisa visione del suo ruolo: strappare il paese alle discordie civili; e fu
sempre sostenuto dalla convinzione che la debolezza del potere politico fosse la peggiore
calamità dei popoli.
La cronica instabilità e le ripetute violazioni della legalità istituzionale che avevano
caratterizzato il regime del Direttorio (1795-99) avevano indotto Bonaparte a guardare con
indifferenza, anzi con disprezzo, alle regole costituzionali. L’aspirazione a un governo auto-
ritario si basava in fondo sulla stessa motivazione che aveva giustificato la sua adesione al
governo giacobino del 1793-94: la convinzione cioè che solo una dittatura fosse in grado di
assicurare l’ordine e la coesione nazionale e di condurre vittoriosamente la guerra contro
le potenze europee.
Interrogandosi sulla natura del regime napoleonico, si può senz’altro affermare che
esso non fu una pura e semplice restaurazione monarchica. Il regime personale del “gene-
rale” che si fece proclamare “imperatore” assomigliava solo lontanamente a una monar-
chia assoluta classica, sul modello per intendersi di quella borbonica, nei confronti della
quale la rottura continuò a essere evidente.
La verità è che la Francia stava sperimentando un tipo nuovo di potere, fondato su basi
plebiscitarie. In qualche misura Napoleone fu capace di interpretare e riassorbire, in una
cornice autoritaria, le istanze democratiche e di partecipazione popolare che si erano ma-
nifestate negli anni della Rivoluzione francese.
222 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Egli ritenne che un potere dittatoriale potesse trovare la propria legittimazione popo-
lare nel plebiscito, una investitura attraverso la quale il popolo trasferiva la sua sovranità a
un uomo che si poneva perciò come immediato rappresentante della nazione, autorizzato
a legiferare e ad agire in suo nome. In effetti tutti i momenti decisivi della storia politica e
istituzionale del regime napoleonico – la Costituzione consolare del 1799, il consolato a
vita del 1802, la dignità imperiale del 1804 e, infine, l’effimera Costituzione del 1815 che
precedette la definitiva sconfitta di Waterloo – furono segnati dal ricorso al plebiscito. Si
può anzi affermare che la pratica plebiscitaria, nella tipica forma del pronunciamento po-
polare su una persona, rappresentò il primo elemento costitutivo del modello bonapartista.
Era dunque chiaro che ogni tentativo di dare una rappresentanza parlamentare alla
nazione diventasse del tutto inutile agli occhi di Napoleone: “Non ci sono rappresentanti
in Francia all’infuori di me. Cinque milioni di votanti mi hanno portato successivamente al
Consolato, al Consolato a vita, all’Impero. Se c’è un’autorità o un individuo che possa dire
altrettanto, che si presenti, egli potrà rivaleggiare con me”.
La pratica del plebiscito ebbe l’effetto di cancellare la principale conquista politica del
periodo rivoluzionario: il diritto di rappresentanza attraverso libere elezioni, e comportò il
completo svuotamento del potere legislativo. L’antiparlamentarismo costituisce senza dub-
bio un’altra componente essenziale del bonapartismo.
In virtù del trasferimento di sovranità realizzato attraverso il plebiscito, il potere bona-
partista pretendeva di incarnare i supremi interessi della nazione, e si poneva pertanto per
sua natura al di sopra della lotta fra le parti politiche. A questa prerogativa si collegava qua-
si inevitabilmente la tendenza a una politica estera aggressiva: la guerra serviva da un lato
ad accrescere il carisma del capo, dall’altro a fornire una valvola di sfogo alle tensioni inter-
ne e a ricompattare tutte le energie della società intorno all’obiettivo della vittoria militare.

8.2. Lo Stato napoleonico

8.2.1. Amministrazione, sistema giudiziario e finanze.


L’importanza dell’esperienza napoleonica risiede in larga misura nella riorganizzazione
dello Stato compiuta nei primi anni del XIX secolo, e soprattutto tra il 1800 e il 1804, nella
fase in cui Bonaparte era primo console. Le norme introdotte in questo periodo portarono
a un rafforzamento del potere centrale dello Stato, secondo una linea di tendenza iniziata
in Francia fin dal Seicento con Richelieu.
La volontà di creare una macchina amministrativa semplice e razionale rifletteva per-
fettamente la formazione illuministica di Bonaparte. Egli si circondò di alti funzionari che
potessero garantire competenze specifiche nell’amministrazione della cosa pubblica. Un
ruolo fondamentale spettava al Consiglio di Stato, istituzione all’interno della quale Bo-
naparte era pronto a tollerare anche divergenze e opposizioni rispetto alle sue direttive.
Nelle varie sezioni del Consiglio – dedicate alle questioni legislative, agli affari interni, alla
politica estera, alla guerra e ai problemi finanziari – si elaboravano tutti i codici e le riforme
legislative.
Dal “centro” si diramava poi una rete capillare di funzionari, tutti di nomina governativa
(prefetti, sottoprefetti, sindaci), che assicuravano un serrato controllo sulla società. Le istru-
Capitolo 8. Dall’imperialismo napoleonico al Congresso di Vienna 223

zioni generali predisposte per il Ministero dell’Interno nel 1812 rendono bene la volontà di
efficienza e potenza che caratterizzava il sistema: “Bisogna che al centro si sappia tutto ciò
che si fa, bene o male”.
Il ganglio principale dell’amministrazione era la figura del prefetto, introdotta nel 1800
come incarnazione a livello locale del modello bonapartista. Si trattava del funzionario
posto a capo delle principali articolazioni amministrative periferiche: i dipartimenti. Aveva
il compito di controllare l’ordine pubblico, provvedere all’applicazione delle leggi dello
Stato e stimolare lo sviluppo delle attività economiche. Più in generale, presiedeva e vigi-
lava su tutte le manifestazioni della vita civile e politica che interessavano il suo territorio.
Gli era attribuito inoltre l’incarico di raccogliere e trasmettere al governo informazioni sta-
tistiche sui più vari aspetti della vita del dipartimento. Questo aspetto corrispondeva a un
tratto tipico del potere napoleonico, che intendeva prendere le proprie decisioni fondan-
dole sulla migliore conoscenza possibile delle condizioni dei diversi contesti provinciali.
Le riforme amministrative interessarono anche il sistema giudiziario. Alla stregua degli
altri funzionari pubblici, anche i magistrati divennero tutti di nomina governativa. A loro
si riconosceva il diritto all’inamovibilità, cioè alla non licenziabilità, garanzia essenziale
affinché potessero esercitare le loro funzioni in modo indipendente.
Un processo di riorganizzazione coinvolse anche il sistema scolastico, soprattutto per
quanto riguardava i livelli educativi superiori e universitari. L’asse portante dei percorsi scola-
stici di eccellenza era individuato nei licei, istituti pubblici dove a insegnare dovevano essere
esclusivamente dei docenti selezionati e stipendiati dallo Stato. Un ruolo marginale avevano
le scuole private, comunque sottoposte a controlli e verifiche periodiche da parte di funzio-
nari pubblici. Alternativa che non esisteva a livello universitario, dove si prevedeva un mono-
polio assoluto dello Stato.
In campo finanziario Napoleone si limitò a introdurre un maggior rigore e ad avviare
una riorganizzazione dell’amministrazione in modo da rimediare al caos che aveva ca-
ratterizzato il regime del Direttorio. Sul piano istituzionale innovazioni importanti furono
la creazione della Banca di Francia (1800) e della Corte dei Conti (1807). Per sovvenire ai
bisogni del Tesoro, sempre crescenti a causa delle spese militari, Napoleone puntò, più che
sulle imposte dirette (la più importante delle quali era quella fondiaria), sulle imposte in-
dirette, che gravavano su prodotti di largo consumo e quindi sulle tasche di tutti i cittadini.
La riconciliazione con i ceti privilegiati, già colpiti dai provvedimenti del 1789, imponeva
ora un certo riguardo nei loro confronti, a scapito naturalmente di una distribuzione equa
e progressiva dei carichi fiscali in base alla ricchezza.

8.2.2. Il Concordato con la Chiesa.


Come le istituzioni monarchiche e i gruppi nobiliari, anche la Chiesa cattolica aveva su-
bito colpi durissimi dalla normativa rivoluzionaria del decennio precedente. Mentre però
la monarchia borbonica era caduta di colpo e l’aristocrazia si era in buona parte dispersa
attraverso il fenomeno dell’emigrazione politica, la Chiesa e i suoi sacerdoti erano rimasti
una istituzione viva sul territorio e vicina a tante persone. Bonaparte si rese, dunque, conto
della necessità di trovare un punto di accordo con il pontefice, avviando subito delle tratta-
tive che ebbero come esito il Concordato tra Santa Sede e Stato francese del 16 luglio 1801.
In quel documento, papa Pio VII riconobbe ufficialmente il regime repubblicano uscito
dalla Rivoluzione. Accettò, altresì, la validità della vendita dei beni espropriati agli enti
ecclesiastici e non si oppose al fatto che tutti i vescovi in carica venissero destituiti e che
i nuovi porporati fossero nominati dal primo console, e solo successivamente consacrati
224 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

dal pontefice. Il testo dell’accordo prevedeva, inoltre, che ai vescovi spettasse il compito
di nominare i parroci delle rispettive diocesi e che costoro dovessero giurare fedeltà agli
ordinamenti repubblicani; un atto in cambio del quale ricevevano uno stipendio statale.
Anche in termini di riconoscimenti formali, il Concordato non era certo generoso nei
confronti del cattolicesimo, che veniva definito semplicemente come la “religione della
maggior parte dei francesi”: una espressione che ne limitava l’influenza, non riconoscendo
quella cattolica come religione di Stato e mettendola sostanzialmente sullo stesso piano
delle altre confessioni.
Il Concordato, dunque, esaltava il potere pubblico di Bonaparte, ben più che l’influenza
della Chiesa di Roma sulla società francese. Tuttavia, grazie a questo accordo, il pontefice
riconquistava un ruolo di interlocutore ufficiale dello Stato francese, dopo anni di completa
rottura tra Roma e Parigi.

8.2.3. Il Codice civile.


L’atto normativo più ambizioso dell’epoca napoleonica fu senz’altro il Codice civile, dove
si fissarono le disposizioni che regolavano i rapporti tra i cittadini e lo Stato. Si trattò di un
lavoro di lunga lena, tanto che la commissione di giuristi incaricata di prepararlo cominciò
a lavorare nell’agosto del 1800 e terminò i lavori nel marzo 1804, quando il testo venne
definitivamente approvato.
Si può dire che il Codice civile esprimesse appieno la natura e la funzione storica del
regime napoleonico: l’esigenza di assicurare la coesione nazionale e l’ordine sociale, ga-
rantendo nel contempo le conquiste civili del periodo rivoluzionario (uguaglianza giuridica
dei cittadini, laicità dello Stato, libertà di iniziativa economica).
La raccolta normativa del 1804 consacrò indubbiamente l’affermazione nella vita so-
ciale dei valori e degli interessi della classe borghese. A questo riguardo, però, è necessa-
ria qualche precisazione per evitare di attribuire all’azione del regime una modernità che
esso, in realtà, non ebbe in modo così marcato. Tanto per cominciare il Codice civile guar-
dava ancora a una società prevalentemente rurale, mostrando un interesse assai limitato
per le nuove forme della proprietà industriale e per il problema del credito alle imprese.
Nei suoi articoli, cioè, non trovò molto spazio la borghesia capitalistica e, del resto, lo svi-
luppo industriale della Francia continuava a essere piuttosto limitato, come lo era stato
alla vigilia dell’Ottantanove.
Le élite francesi trovavano ancora la loro legittimazione nella proprietà terriera, conce-
pita come garanzia di ordine e di stabilità. Si trattava di una borghesia piuttosto tradiziona-
le fatta di funzionari pubblici, ufficiali e professionisti, che spesso estesero le loro proprietà
approfittando dell’immissione sul mercato delle terre provenienti dalla dismissione dei
beni ecclesiastici.
A conferma di certi elementi tradizionalisti e retrogradi presenti nella società francese,
vale la pena ricordare che dopo il 1804, nel tentativo di dare spessore alla svolta imperiale
e formare una nuova corte intorno al suo trono, Napoleone decise di reintrodurre i titoli
nobiliari sotto forma di “titoli imperiali” (così come vennero definiti da un decreto del 1°
marzo 1808).
L’intenzione era quella di popolare la corte imperiale di una élite di persone che si fossero
particolarmente distinte per i loro servizi allo Stato. Tra il 1808 e il 1814 Napoleone concedet-
te 3.350 titoli, di cui il 58% a nuovi nobili e il resto a individui che già prima della Rivoluzione
erano aristocratici. Nel complesso, i nobili imperiali erano per il 40% funzionari pubblici e per
Capitolo 8. Dall’imperialismo napoleonico al Congresso di Vienna 225

il 60% militari. La composizione della nuova nobiltà confermava quali fossero gli strumenti
sui quali Napoleone appoggiava la sua autorità: l’esercito e gli apparati dello Stato.

8.3. L’Europa di Napoleone

8.3.1. Le grandi vittorie e le prime sconfitte.


Se il periodo 1800-1804 fu caratterizzato dal consolidamento del potere politico di Bona-
parte e da una alacre attività legislativa, la fase che seguì l’incoronazione a imperatore si
caratterizzò invece per una incessante catena di guerre. I conflitti furono provocati dalle
altre potenze europee, che volevano assolutamente ridimensionare il peso acquistato dal-
la Francia e allontanare l’usurpatore dal trono. In questi termini, né più né meno, era visto il
nuovo monarca francese dalle maggiori dinastie regnanti del Vecchio continente.
Nel 1805, dunque, si rinsaldò l’alleanza tra Austria, Russia e Gran Bretagna, già sperimen-
tata nel corso del decennio precedente. La prospettiva della guerra venne prontamente ac-
cettata anche dalla Francia, rinfocolando le ambizioni napoleoniche di egemonia europea.
Tra le antagoniste, la più tenace era sicuramente la Gran Bretagna. I preparativi per un
possibile attacco navale, curati da Napoleone e dai suoi generali per tutto il 1804, vennero
alla fine abbandonati. Anche a un condottiero temerario quale era il generale francese
l’idea di affrontare la fortissima flotta britannica nella Manica parve troppo rischiosa.
E quanto fossero giustificati questi timori divenne chiaro a tutti dopo la disastrosa scon-
fitta che la flotta francese subì il 21 ottobre 1805 a Trafalgar, nei pressi di Cadice, lungo
la costa atlantica della Spagna. Per la seconda volta, dopo Abukir in Egitto, l’ammiraglio
Nelson mostrò la grande superiorità della flotta da guerra britannica su quella nemica. Ma
proprio a Trafalgar Nelson, colpito da una fucilata, pagò la storica vittoria con la vita.
Se per mare i britannici non avevano rivali, sul continente l’esercito imperiale francese
era una portentosa macchina da guerra. Negli stessi giorni in cui l’ammiraglio francese Vil-
leneuve andava incontro alla drammatica sconfitta di Trafalgar, Napoleone volgeva le sue
forze di terra contro gli austriaci e il 20 ottobre 1805 li sconfiggeva pesantemente a Ulm,
nella Germania meridionale. Tre settimane più tardi i francesi entravano a Vienna.
Il 2 dicembre, l’estrema resistenza dell’esercito austriaco, rinforzato da un contingente
russo, fu stroncata ad Austerlitz, sotto gli occhi attoniti dell’imperatore austriaco e dello
zar di Russia, che videro trionfare Napoleone alla guida dell’armata francese (per questo lo
scontro di Austerlitz è noto anche come la “battaglia dei tre imperatori”).
In seguito ai trattati di pace franco-austriaci, la gran parte degli Stati tedeschi ruppero i
rapporti diplomatici con Vienna e si dichiararono alleati della Francia. Tanto che nel 1806
il Sacro romano impero venne sciolto e il suo posto preso dalla Confederazione del Reno.
Il nuovo organismo territoriale escludeva l’Austria ed era posto invece sotto la protezione
dell’Impero francese.
A quel punto fu la Prussia a illudersi di poter costituire il contraltare della Francia
nell’Europa centrale. Nel settembre 1806, Berlino notificava a Parigi una formale dichia-
razione di guerra. Ma non passò nemmeno un mese prima che l’esercito prussiano venisse
sbaragliato a Jena dall’armata napoleonica. Il 27 ottobre i francesi facevano il loro ingresso
anche a Berlino.
226 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Tra il 1807 e il 1808, dopo i trionfi in Europa centrale, l’imperatore francese decise di
spostare gran parte delle sue truppe verso la penisola iberica. L’obiettivo era il Portogallo,
da tempo alleato della Gran Bretagna e punto di appoggio fondamentale sul continente
europeo per le navi britanniche. Tuttavia, quella operazione militare, apparentemente faci-
le e circoscritta, si complicò oltremisura, a causa di una crisi interna che nel corso del 1808
travolse la monarchia spagnola, fino al allora alleata della Francia.
Nel marzo 1808 scoppiò, infatti, in Spagna una sommossa popolare che aveva come
obiettivo la politica filofrancese del re, Carlo IV di Borbone, colpevole agli occhi dei più di
non difendere gli interessi nazionali. Le ripercussioni interne furono tali da creare un vuoto
di potere che Napoleone cercò di colmare mettendo definitivamente da parte la dinastia
dei Borbone e affidando il trono di Madrid a suo fratello Giuseppe Bonaparte. Il colpo di
mano ebbe come effetto quello di esacerbare il malcontento popolare, che si tradusse
nello scoppio di una vera e propria guerriglia condotta da bande irregolari formatesi in
tutta la Spagna.
I rivoltosi insediarono a Cadice un governo provvisorio che trovò subito l’appoggio della
Gran Bretagna. Se al suo interno non mancavano tendenze filoborboniche e tradizionaliste
(preoccupate, cioè, della difesa della casa reale e della salvaguardia delle tradizioni religio-
se del paese), la resistenza antifrancese fu caratterizzata soprattutto da posizioni radicali di
natura liberal-democratica e patriottica, che puntavano a trasformare quella lotta armata
nell’occasione di dare alla Spagna una carta costituzionale capace di garantire le libertà di
tutti i cittadini.
Gli anni 1808 e 1809 segnarono un momento decisivo nella parabola dell’imperialismo
napoleonico. Ai successi cominciarono ad affiancarsi sintomi di affanno, che alludevano a
un possibile declino.
Nell’area tedesca, tuttavia, Napoleone continuava a mietere vittorie. L’Austria cercò di
sfruttare le difficoltà francesi in Spagna per rialzare il capo, ma l’esercito asburgico andò
incontro a una nuova sconfitta a Wagram, poco lontano da Vienna (luglio 1809). Per cerca-
re di stabilizzare una volta per tutte i rapporti burrascosi tra Parigi e Vienna, sia Napoleone
che gli Asburgo pervennero alla decisione di creare un legame dinastico tra l’impero au-
striaco e quello francese. Napoleone decise allora di ripudiare la moglie Giuseppina – che,
fra l’altro, non gli aveva ancora dato un erede – per sposare Maria Luisa d’Austria, figlia
dell’imperatore austriaco Francesco I. Quest’ultimo fino al 1806 era stato anche imperatore
del Sacro romano impero ed era dunque uno dei grandi sovrani europei che aveva visto la
propria potenza pesantemente ridimensionata da Napoleone.
Dopo la vittoria di Wagram il potere napoleonico era al culmine. Il continente europeo,
se si escludevano l’Impero ottomano e la Russia, era sotto il controllo diretto o indiretto della
Francia. Ma l’egemonia francese si stava incrinando pericolosamente e lo mostrava, in quegli
stessi mesi, la ribellione scoppiata nella penisola iberica.

8.3.2. Le caratteristiche del dominio napoleonico.


Uno dei tratti più appariscenti del sistema napoleonico fu la gestione familiare e clien-
telare del potere imperiale. Ben cinque degli Stati-satellite creati sull’onda delle vittorie
francesi vennero affidati a fratelli e sorelle di Napoleone: Giuseppe Bonaparte fu re di Na-
poli dal 1806 al 1808, per essere poi nominato sul trono di Spagna; Girolamo Bonaparte
regnava nel principato tedesco di Vestfalia e Luigi Bonaparte in Olanda; Elisa Bonaparte
era principessa di Lucca, mentre l’altra sorella Carolina (moglie di Gioacchino Murat, uno
dei più importanti generali francesi) regina di Napoli dal 1808. A loro bisognava aggiungere
Capitolo 8. Dall’imperialismo napoleonico al Congresso di Vienna 227

Eugenio de Beauharnais, figlio di primo letto di Giuseppina, la prima moglie di Napoleone,


che dal 1805 ricoprì la carica di viceré d’Italia.
Ma se l’imperialismo napoleonico segnò in profondità la storia europea del XIX secolo
lo si dovette piuttosto ad altri aspetti più significativi, che agirono in due direzioni princi-
pali. Da una parte, in molte aree del continente europeo le istituzioni francesi funsero da
modello, influenzando in maniera duratura l’organizzazione amministrativa di diversi pa-
esi. Dall’altra, l’occupazione napoleonica o la semplice minaccia di invasione suscitarono
reazione difensive che diedero un potente impulso alla diffusione di sentimenti nazional-
patriottici. Se è vero che l’idea politica di nazione aveva iniziato a formarsi nel corso della
Rivoluzione francese (si pensi alla “nazione in armi” repubblicana e giacobina), ora essa
diventava – quasi paradossalmente – un modello di resistenza culturale, e talvolta anche
armata, all’imperialismo napoleonico.
Una delle sue prime espressioni letterarie è individuabile nelle Ultime lettere di Jacopo
Ortis, il romanzo epistolare di Ugo Foscolo pubblicato a Milano nel 1802. Il libro ottenne
grande successo nel pubblico dei lettori, proprio mentre si costituivano in varie parti della
penisola associazioni segrete con intenti filounitari e antibonapartisti.

8.3.3. La situazione italiana.


Nell’Italia napoleonica si formarono due Stati formalmente autonomi da Parigi. Il primo fu
la Repubblica Cisalpina, già esistente nel triennio 1796-99 e ricostituitasi dopo la battaglia
di Marengo (1800). Essa si trasformò poi in Repubblica italiana (1802) e quindi in Regno
d’Italia nel 1805. Nel momento di massima espansione, questa compagine statale arrivò
a comprendere gli attuali territori di Trentino, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna (senza
Parma e Piacenza) e Marche per un totale di 6 milioni e mezzo di abitanti. Lo stesso Na-
poleone ne fu presidente (nella fase repubblicana) e poi sovrano, con il titolo di re d’Italia.
Nel 1802 la Repubblica fu dotata di una costituzione non dissimile da quella “consola-
re” dell’anno VIII. Il testo limitava il diritto di voto ai membri di tre Collegi elettorali, com-
posti rispettivamente da 300 possidenti, 200 commercianti e 200 dotti. Quella di “elettore”
era una carica a vita, la cui designazione spettava allo stesso Bonaparte.
Assai complicate risultavano le procedure elettorali. La Censura, un organo di 21 mem-
bri eletti dai Collegi, sceglieva i membri della Consulta e del Corpo legislativo. La Consul-
ta nominava il presidente della Repubblica e lo assisteva nel governo, mentre il Corpo
legislativo aveva funzioni assai limitate. La presentazione delle proposte di legge, infatti,
era riservata a un altro “consiglio legislativo” nominato in modo pienamente discrezionale
dal presidente; al Corpo legislativo rimaneva solo la facoltà di approvarne o respingerne i
progetti. In pratica la moltiplicazione degli organi e la complessità dei meccanismi istitu-
zionali non sembrava avere altro scopo che di rafforzare la figura del presidente, il quale
nominava il vicepresidente e tutte le principali cariche statali, esercitando di fatto una vera
e propria dittatura.
L’altro grande Stato-satellite della Francia nella penisola italiana era il Regno di Napoli,
controllato dai francesi a partire dal 1806. Esso comprendeva circa 5 milioni di abitanti e fu
affidato da Napoleone dapprima al fratello Giuseppe e poi al cognato Gioacchino Murat.
Il regno di Giuseppe Bonaparte (1806-1808) rappresentò un periodo di vera e propria
occupazione militare. La vita pubblica fu sempre condizionata dalla presenza di un forte
distaccamento dell’esercito francese, che aveva il compito prioritario di rintuzzare possibili
tentativi di riscossa della dinastia borbonica appoggiata dagli inglesi, ma che si applicava
anche al mantenimento dell’ordine interno. Nonostante la presenza di una costituzione
228 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

che prevedeva una assemblea legislativa articolata in cinque ordini (clero, nobili, possiden-
ti, dotti e commercianti) – peraltro mai entrata in vigore –, quello del Regno di Napoli fu di
fatto un regime assoluto, posto agli ordini della Francia.
Negli anni successivi, anche il governo di Gioacchino Murat (1808-1815), che pure ma-
nifestò più volte la sua insofferenza nei confronti dello strapotere di Parigi, non fu in grado
di assumere alcuna iniziativa che prescindesse dalla volontà di Napoleone, almeno fino al
declino dell’imperatore.
Rispetto al Regno d’Italia e al Regno di Napoli, fu nettamente inferiore l’importanza di
una piccola compagine statale come il principato di Lucca e di Piombino (successivamente
ingrandito con l’aggiunta di Massa e Carrara e della Garfagnana), creato da Napoleone nel
1805 e affidato alla sorella Elisa. Anche per il fatto di essere ai margini dei grandi equilibri
di potere, il principato toscano poté godere di una maggiore autonomia da Parigi e non
venne sottoposto alla leva obbligatoria.
Tutti gli altri territori della penisola, ad eccezione della Sicilia e della Sardegna (dove
si erano rifugiati, sotto la protezione inglese, i Borbone e i Savoia), entrarono a far parte in
tempi diversi dell’Impero francese. Essi, cioè, furono sottoposti alla diretta amministrazione
francese: i prefetti nominati su questi territori dipendevano direttamente da Parigi.
Il primo territorio a essere annesso fu il Piemonte nel settembre 1802. A partire da
quell’anno la stessa sorte toccò al ducato di Parma e Piacenza, benché l’annessione venis-
se proclamata ufficialmente solo nel 1808. La Repubblica ligure, risorta nel 1802 e dotata
di una costituzione simile a quella della Repubblica italiana, fu assorbita dall’Impero nel
1805. La Toscana (con l’eccezione del principato di Lucca e Piombino) entrò a far parte
della compagine imperiale due anni più tardi, nel 1807, dopo una breve parentesi durante
la quale era stata costituita in Regno d’Etruria. Infine Lazio e Umbria vennero annesse nel
1809, dopo lo smembramento dello Stato pontificio.
Nel complesso furono sottoposti alla diretta amministrazione francese oltre 5 milioni di
persone. E del resto, come si è visto, anche l’autonomia del Regno d’Italia e del Regno di Na-
poli fu meramente formale. I due Stati vassalli si trovarono, cioè, in una condizione non trop-
po dissimile da quella dei territori annessi all’Impero e furono costretti ad adeguarsi com-
pletamente, salvo qualche cambiamento marginale, alle direttive provenienti dalla Francia.
Si consideri, ad esempio, che quando – alla fine del 1804 – la Repubblica consolare si
trasformò in Impero, nel giro di pochi mesi anche in Italia venne abbandonata la forma
repubblicana (Repubblica Cisalpina, poi Repubblica italiana) per lasciar spazio al Regno
d’Italia. A questo mutamento della forma di governo corrispose lo scioglimento del Corpo
legislativo e la cancellazione, dunque, dell’unico organismo che poteva dare voce in qual-
che modo all’opinione pubblica locale.
Naturalmente è nell’organizzazione amministrativa, nei codici e nella legislazione che
bisogna cercare i lasciti più importanti e duraturi della dominazione napoleonica nella
penisola. L’entrata in vigore del Codice civile francese, ad esempio, portò il pieno ricono-
scimento anche negli Stati vassalli della libertà economica, cioè l’eliminazione di tutti gli
ostacoli all’iniziativa privata, favorendo lo sviluppo produttivo e l’ascesa della borghesia.
L’impatto fu particolarmente forte nel Regno di Napoli, dove il sistema feudale eserci-
tava ancora un peso notevolissimo sulla vita economica e sulla realtà sociale. Come già si
era tentato di fare all’epoca della prima occupazione francese di fine Settecento, il Regno
di Napoli emanò nel 1806 una legge eversiva della feudalità che si ispirava direttamente ai
decreti rivoluzionari dell’agosto 1789: il provvedimento aboliva la giurisdizione feudale e
tutte le prestazioni servili imposte ai contadini, cercando di agevolare la formazione di uno
strato di piccoli e medi proprietari contadini. Rispetto al primo tentativo di modernizzazio-
Capitolo 8. Dall’imperialismo napoleonico al Congresso di Vienna 229

ne delle campagne meridionali compiuto durante il “triennio giacobino”, la riforma ebbe


questa volta più tempo per attecchire e, tuttavia, non fu sufficiente per imprimere un colpo
decisivo alla vecchia aristocrazia di stampo feudale, che caratterizzerà ancora per lungo
tempo la vita del Mezzogiorno.
Dal punto di vista della riorganizzazione degli apparati pubblici, l’introduzione del mo-
dello francese diede impulso alla formazione di un sistema amministrativo più uniforme
e razionale che in passato. Anche negli Stati italiani cominciò a strutturarsi quell’ordine
gerarchico degli uffici e delle funzioni pubbliche che, a partire dai ministeri, si articolava
poi sul territorio intorno alla figura del prefetto, o “intendente” (così come venne chiamato
nel Regno di Napoli). Inoltre, si delineò per la prima volta un sistema di istruzione pubbli-
ca che dalla scuola elementare, gratuita e obbligatoria, arrivava fino agli istituti superiori
incaricati di formare i quadri della burocrazia e dell’esercito. Anche la magistratura venne
riorganizzata secondo una gerarchia simile a quella francese: con tribunali di prima istan-
za, corti d’appello e corte di cassazione.
Significativi progressi furono realizzati nel campo dell’amministrazione finanziaria,
anche perché essa era uno strumento indispensabile per trarre dagli Stati vassalli e dai
territori annessi le risorse destinate a mantenere l’enorme apparato militare e politico
dell’Impero. I governi napoleonici ebbero il merito di rimpiazzare i complicati e caotici si-
stemi fiscali degli Stati d’antico regime con una organizzazione più strutturata ed efficien-
te. Punto d’arrivo di questo sforzo di ammodernamento fu la creazione nelle due capitali,
Milano e Napoli, di una Corte dei conti incaricata di controllare le modalità di riscossione
e la contabilità pubblica.
La principale imposta diretta era quella fondiaria, che garantiva circa un terzo delle
entrare. Tuttavia, coerentemente alla tendenza del regime napoleonico a non far pesare
troppo la pressione fiscale su nobili e proprietari terrieri, anche in Italia la maggior parte
del gettito fu assicurata dalle imposte indirette, che gravavano soprattutto sui consumi del-
le classi popolari. Furono, così, queste imposte a garantire il notevole aumento del gettito
(circa il 20% in più) realizzato nell’Italia napoleonica fra il 1805 e il 1814.
Non poteva, dunque, sorprendere che il malessere degli strati popolari esplodesse sem-
pre più spesso, con episodi di aperta ribellione sovente fomentati dal clero. Nel 1809 il ten-
tativo di imporre una imposta sul macinato (cioè sui cereali macinati nei mulini) provocò
violente rivolte nelle campagne, che obbligarono le autorità a ritirare il provvedimento. Un
caso particolare fu la sollevazione della Calabria, dove i contadini combatterono tra il 1806 e
il 1810 una vera e propria guerra contro l’esercito francese. Ma tutta l’età napoleonica fu ca-
ratterizzata da ricorrenti episodi di insorgenze popolari, alla radice delle quali c’erano molte-
plici fattori: fame e miseria, insofferenza contro l’autoritarismo degli occupanti e soprattutto
contro la coscrizione militare da loro imposta; e ancora la difesa delle tradizioni religiose e di
usi e costumi locali spesso contestati dalla legislazione napoleonica.
Buona parte delle risorse finanziarie drenate nella penisola fu impiegata per esigenze
militari e segnatamente per mantenere le truppe francesi e organizzare gli eserciti del
Regno d’Italia e del Regno di Napoli. Questi ultimi raggiunsero rispettivamente 80 mila e
60 mila effettivi, con progressi costanti sul piano organizzativo e della qualità degli ufficia-
li. Rigorosamente subordinati alle esigenze militari della Francia, gli eserciti dei due Stati
vassalli diedero un contributo di sangue notevole alle campagne napoleoniche. Nel 1812,
ad esempio, partirono per la Russia ben 27 mila soldati del Regno d’Italia e solo poche
centinaia tornarono. La formazione di una forza militare italiana, anche se inquadrata nei
ranghi dell’Impero, rappresentò indubbiamente un potente fattore di educazione naziona-
230 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

le. Non a caso proprio dalle file degli ufficiali napoleonici sarebbero usciti molti dei patrioti
protagonisti dei primi moti del Risorgimento nazionale.
Nonostante la forme di censura fossero ovunque in vigore, attraverso un rigoroso con-
trollo sulla stampa e sulla vita artistica e letteraria, anche sul piano culturale cominciarono a
porsi le basi per le istanze unitarie. La parte più viva della cultura italiana, pur collaborando
in vario modo con il regime (spesso considerato un male minore rispetto alla prospettiva di
un ritorno degli antichi sovrani), si impegnò in un lavoro di educazione e formazione cultura-
le della nazione, grazie al quale si posero le basi del futuro Risorgimento politico dell’Italia.
I primi anni dell’Ottocento furono caratterizzati da un vigoroso moto di rivalutazione
della storia, della cultura e della lingua italiana, spesso in dichiarata contrapposizione ri-
spetto all’egemonia intellettuale e linguistica della potenza conquistatrice. La figura cen-
trale è quella del Foscolo, per il quale il culto della memoria (si leggano I sepolcri del 1807)
nasceva dalla volontà di difendere e sviluppare quel prezioso patrimonio storico e cultu-
rale che rappresentava l’unico punto di riferimento per poter continuare a tenere in vita il
progetto unitario e indipendentistico.
Nel complesso si può riconoscere nel periodo napoleonico un passaggio di decisiva
importanza nella storia d’Italia. Sotto diversi punti di vista – amministrativo, militare e cul-
turale – vennero impiantate alcune basi essenziali sulle quali si resse il progetto unitario.

8.4. La fine dell’imperialismo napoleonico

Napoleone Bonaparte aveva costruito in Europa un impero dalle proporzioni vastissime,


esteso su circa due terzi del continente, ma anche estremamente fragile. A rivelarne la vul-
nerabilità fu, per prima, l’insurrezione spagnola, che dimostrò come la via di opposizione
più efficace all’Empire fosse quella della resistenza nazionale. Un insegnamento che venne
accolto con entusiasmo dalla nuova generazione di patrioti europei vicini al liberalismo.
Tra il 1809 e il 1811, i rivoltosi spagnoli riportarono perfino importanti successi militari,
anche grazie all’efficace aiuto navale garantito dagli inglesi. Si trattava di una lotta popo-
lare, i cui protagonisti erano borghesi, contadini, mugnai, pastori, garzoni di scuderia, che
non si limitavano a combattere, ma stavano apprendendo a governarsi da sé. Le giunte
rivoluzionarie locali elessero, in piena guerra con la Francia, una rappresentanza naziona-
le. E le elezioni si svolsero sulla base del suffragio universale. Questa assemblea, riunitasi
per la prima volta a Cadice nel gennaio 1810, arrivò all’approvazione, due anni più tardi,
di una costituzione molto avanzata, che sarebbe rimasta, almeno per un paio di decenni, il
principale punto di riferimento dei liberali europei più progressisti.
Negli stessi anni, la rivolta contro l’imperialismo napoleonico si dimostrò viva anche in
Germania, a partire dalla Prussia, a nord-est, fino ad arrivare ai vari stati che componeva-
no la Confederazione renana, a sud-ovest. Il patriottismo tedesco, specialmente in Prussia,
trovò alimento nel contributo degli intellettuali, fino a ieri imbevuti di cultura francese e
che ora si orientavano, invece, verso il culto delle tradizioni nazionali, con particolare rife-
rimento alle leggende del medioevo germanico, che ispirarono lo sviluppo del romantici-
smo.
Capitolo 8. Dall’imperialismo napoleonico al Congresso di Vienna 231

Dalla Germania il movimento romantico si irradiò in tutta la cultura europea. Esaltando


le individualità nazionali, esso rinvigorì dovunque i germi di ribellione contro il dominio
francese.
Il “dramma di Jena”, la dura sconfitta subita dai prussiani nel 1806, aveva costituito un
vero e proprio shock per i ceti dirigenti prussiani; non solo per il monarca, per la sua corte
e per i militari, ma anche per funzionari e intellettuali. Nessuno immaginava che le armate
francesi fossero così forti, né tantomeno che il decantato esercito prussiano fosse così de-
bole. Si trattò insomma di una trauma collettivo che spinse importanti intellettuali a solle-
citare una pronta rinascita dello spirito nazionale tedesco. Così fece, ad esempio, il filosofo
Johann Gottlieb Fichte nei suoi Discorsi alla nazione tedesca tenuti all’Accademia di Berlino
tra il dicembre 1807 e il marzo 1808. Nello stesso tempo i ministri di Federico Guglielmo III
cercarono di introdurre ambiziose riforme sociali, orientate soprattutto verso le comunità
rurali. La sconfitta militare aveva rivelato, infatti, uno scollamento tra gli apparati statali e il
popolo prussiano; una situazione ben diversa dall’idea di “nazione in armi” di stampo fran-
cese, che alludeva a una forte e solidale alleanza tra opinione pubblica e autorità politica.
Contrariamente a quanto avveniva in Francia e Gran Bretagna, nella società prussiana sia i
borghesi che i contadini erano semplici destinatari dell’azione politica e amministrativa del
governo, piuttosto che soggetti partecipi in qualche misura della vita delle istituzioni. Era
necessario trasformare almeno una parte di costoro da sudditi del re a cittadini dello Stato,
per diffondere uno spirito nazionale fatto di vera e profonda fedeltà alla monarchia.
Per avviare questo processo di riforma occorreva intervenire soprattutto sulle istituzioni
rurali, dal momento che nelle campagne i rapporti tra nobiltà e contadini erano ancora di
stampo feudale e servile. Ed era dunque difficile che contadini trattati come servi potessero
poi guardare alle istituzioni statali con simpatia e lealtà, o anche solo con qualche interes-
se. Per cancellare questa situazione venne emanato nell’ottobre 1807 l’Atto di emancipa-
zione che aboliva la servitù della gleba e rendeva liberamente commerciabili le proprietà
terriere. Nell’agosto 1810 vennero poi abolite tutte le esenzioni fiscali riconosciute alla
nobiltà. Si pensò di eliminare anche le giurisdizioni feudali e dunque i tribunali signorili,
direttamente dipendenti dai nobili proprietari terrieri, ma quando si stava per varare la
relativa ordinanza, nel 1812, il processo riformatore venne sospeso perché era scoppiata
una nuova stagione di guerra, che presto avrebbe coinvolto anche la Prussia.
Nel giugno 1812 Napoleone, ormai divorato da un’ambizione insaziabile, iniziò la sua
corsa verso l’abisso, decidendo di attaccare la Russia, nel cuore stesso del suo territorio:
una immensa pianura ingombra di foreste e costellata di paludi. I generali russi ritardarono
il più possibile il momento dello scontro campale, attirando invece il nemico molto lonta-
no dalle sue basi di partenza, privandolo di ogni possibilità di rifornimento, devastando e
incendiando il territorio circostante. L’esercito dello Zar accettò la battaglia aperta solo
davanti a Mosca (settembre 1812). La vittoria andò ai francesi, ma il loro successo sarebbe
risultato a conti fatti stentato ed estremamente dispendioso. Iniziava, intanto, il terribile
inverno russo e neppure a Mosca le truppe francesi trovarono vettovaglie e riparo, dal mo-
mento che il governatore della città, prima di ritirarsi, l’aveva data alle fiamme.
Ormai stremato l’esercito francese batté in ritirata. Il percorso a ritroso fu tremendo per
gli invasori, stretti nella morsa del gelo e della fame, colpiti dall’odio e dalla sete di ven-
detta dei contadini russi, che ne avevano subito, poco prima, l’avanzata. Dei quasi 500 mila
uomini che componevano la Grande Armée al momento dell’ingresso in Russia, avrebbero
fatto ritorno solamente poche migliaia di soldati: 130 mila rimasero prigionieri; il conto di
morti e dispersi ammontava a 280 mila; mentre 50 mila erano i disertori. Tutte le artiglierie,
232 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

le riserve di munizioni, la cavalleria e persino il tesoro di guerra (accumulato durante l’a-


vanzata) erano andati perduti. Come perduto era il prestigio napoleonico.
Ora tutta l’Europa era decisa a dare addosso al nemico in rotta. Alla sua testa, ovviamente
la Russia, con al fianco Prussia e Austria. Napoleone venne sconfitto a Lipsia, in Sassonia,
nell’ottobre 1813. Nello stesso periodo, truppe anglo-spagnole valicavano i Pirenei. La Fran-
cia si trovava, ormai, cinta d’assedio sia sul fronte meridionale che su quello orientale. Era un
paese in ginocchio. Il 31 marzo 1814 Parigi capitolò. Le avanguardie degli eserciti coalizzati
fecero il loro ingresso nella capitale dell’Impero e il Senato francese deliberò la creazione di
un governo provvisorio, esautorando Napoleone, che veniva confinato all’Isola d’Elba.
La Francia rinunciò a tutte le conquiste imperiali e accettò di ridursi nei vecchi confini
pre-1789. Della sorte di tutti gli altri paesi che avevano fatto parte dell’Impero napoleoni-
co avrebbe deciso un congresso generale europeo, destinato a rimettere ordine nel caos
della guerra. Ben presto, tuttavia, sia in Francia che altrove, molti cominciarono a rimpian-
gere Napoleone. La fine dell’Impero francese, infatti, stava gettando sul lastrico migliaia
di ufficiali e di funzionari civili, dal momento che molti apparati amministrativi e militari
venivano liquidati o ridimensionati. Tanti soldati smobilitati tornavano a casa a mani vuote
e senza prospettive per il futuro.
L’Isola d’Elba, del resto, era a un passo dai teatri di guerra che l’avevano visto protago-
nista e Napoleone poté facilmente rendersi conto di avere una base sociale che invocava
il suo ritorno. Dopo neppure un anno di confino, nel marzo 1815 sbarcava sulle coste della
Provenza e si metteva di nuovo alla guida dell’esercito francese. Il fronte nemico, però, si
dimostrava ancora compatto e la sconfitta definitiva arrivava, in giugno, nella battaglia di
Waterloo, in Belgio. Ne seguì una nuova deportazione, ma questa volta il più lontano possi-
bile dal mondo abitato, in mezzo all’Oceano Atlantico, sull’orlo di un cratere spento: l’isola
di Sant’Elena, a circa duemila chilometri dalle coste africane.

8.5. Il Congresso di Vienna

Fin dal 1814, dopo la caduta di Parigi, la coalizione antinapoleonica si impegnò a ridisegnare
il volto politico dell’Europa. Le potenze vincitrici stabilirono il nuovo assetto del continente
in base agli interessi delle grandi dinastie: Asburgo d’Austria, Romanov di Russia, Hannover
di Gran Bretagna, Hohenzollern di Prussia, Borbone di Francia. La sede diplomatica fu quella
del Congresso di Vienna, dove confluirono i delegati di tutti gli Stati europei. Se è vero che con
il nome di Restaurazione si indica comunemente il periodo che va dal 1815 al 1830, è altret-
tanto vero che la sistemazione territoriale dell’Europa stabilita nel 1814-15 rimase sostan-
zialmente immutata fino agli anni 1859-71, quando sarebbe stata profondamente modificata
dalla formazione dello Stato unitario italiano e di quello tedesco.
L’assetto geopolitico fissato dal Trattato di Vienna (1815) non era privo di intelligenza
diplomatica, intrecciando i principi della legittimità dinastica e dell’equilibrio tra le poten-
ze. La Francia, benché pesantemente sconfitta, non venne mortificata e ritornò semplice-
mente ai confini che aveva prima della rivoluzione dell’89. La creazione del nuovo Regno
dei Paesi Bassi e il rafforzamento della Svizzera tesero a limitare i suoi contatti diretti con
la Confederazione germanica, a capo della quale era posta l’Austria. In modo analogo,
l’ampliamento dello Stato sardo-piemontese ebbe l’effetto di frapporre un cuscinetto tra
Capitolo 8. Dall’imperialismo napoleonico al Congresso di Vienna 233

la stessa Francia e l’Austria, accresciuta di forza e di mole dalle risoluzioni di Vienna. Nella
regione tedesca, l’astro nascente rappresentato dalla Prussia, visto come una potenziale
minaccia per il futuro ordine europeo, veniva sì ingrandito rispetto all’epoca prerivoluzio-
naria ma anche accuratamente circoscritto, sui confini orientali, dalle presenza dell’im-
menso Impero russo.
Vale la pena soffermarsi con attenzione sul complesso assetto istituzionale dell’area
germanica. Dopo la fine, nel 1806, del Sacro romano impero, anche la Confederazione del
Reno creata da Napoleone venne cancellata e sostituita dalla Confederazione germani-
ca. Il nuovo organismo raggruppava 39 Stati, tra cui l’Austria, la Prussia e alcune impor-
tanti compagini regionali come Baviera, Hannover, Sassonia, Württemberg; e poi ancora 7
granducati, 9 ducati, 11 principati minori e 4 città autonome (Amburgo, Brema, Francoforte
sul Meno e Lubecca). Per governare questa complessità era previsto un organo centrale
di coordinamento, la Dieta della Confederazione, costituita dagli ambasciatori degli Stati
membri. La presidenza era affidata in modo permanente all’Austria e la vicepresidenza alla
Prussia. Il ruolo della Dieta era quello di orchestrare la politica militare e commerciale del-
la Confederazione, ma a questo obiettivo ambizioso non corrispondevano adeguati poteri
esecutivi. Gli accordi prevedevano, infatti, l’applicazione solo di quelle risoluzioni che aves-
sero ricevuto il benestare di tutti i rappresentanti degli Stati membri. Di conseguenza, veti
incrociati potevano bloccare in ogni momento l’operatività delle istituzioni confederali.
Nell’autunno 1815, i governi di Russia, Austria e Prussia firmarono il patto della San-
ta Alleanza, che conciliando aspetti paternalistici e repressivi avrebbe dovuto garantire
il mantenimento dell’ordine politico e sociale nell’intera Europa. Successivamente vi ade-
rirono anche Francia, Regno di Sardegna, Svezia e Olanda. Dal punto di vista operativo
l’accordo prevedeva che le truppe dei paesi aderenti potessero intervenire per mantenere
l’ordine stabilito a Vienna ovunque fosse necessario, interferendo senza problemi negli af-
fari interni di ogni altro paese che violasse il principio di legittimità dinastica.
Tuttavia, il tentativo di ristabilire l’antico stato delle cose, benché tenacemente perse-
guito, non teneva conto proprio di quelle novità che si erano manifestate durante la lotta
all’imperialismo napoleonico: il riferimento è, in primo luogo, all’idea di nazione che si era
andata diffondendo negli ambienti liberali europei.
Ben presto sarebbe arrivata l’ondata di una nuova rivoluzione. I sostenitori delle riven-
dicazioni nazionali erano contrari ai regimi monarchici assoluti e reclamavano, invece, dei
regimi costituzionali. Solo la conquista di una costituzione, infatti, avrebbe consentito di
compiere il passaggio da «sudditi» a «cittadini», portando con sé la libertà di stampa e
di riunione e permettendo, in definitiva, la partecipazione alla vita pubblica e il controllo
dell’esercizio del governo. Si trattava delle aspirazioni che l’Illuminismo aveva esaltato e
la Rivoluzione francese reso popolari tra le classi colte, ma anche tra i ceti artigiani urbani.
Nel patriottismo risorgimentale, nazione, libertà e «universale sentire» (per usare l’espres-
sione di Benedetto Croce) formavano un solido intreccio che, al contrario, sarebbe stato
spesso negato dai nazionalismi, autoritari e sciovinisti, del XX secolo.
Costituzione era la parola nuova, la parola d’ordine della rivoluzione, il grido che rie-
cheggiava dalla Spagna all’Italia, dalla Germania alla Russia. Negli anni della Restaura-
zione tutte le contrade europee furono percorse da agitazioni di ogni genere: congiure,
tumulti, insurrezioni, repressioni. Le notizie di un moto rivoluzionario in un angolo d’Europa
accendevano immediatamente altri focolai di rivolta altrove. E l’Italia vi si trovò sempre
coinvolta: sia nel 1820-21, che nel 1830-31, che nel 1848-49, a testimoniare una singolare
instabilità degli assetti socio-politici della penisola.
234 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Nel periodo napoleonico l’assetto territoriale e istituzionale italiano si era semplificato,


portando a un avvicinamento, per così dire, degli italiani tra loro. Come si è visto, i cam-
biamenti principali avevano interessato il Nord e il Centro, con le regioni occidentali e
tirreniche (Piemonte, Liguria, Toscana e Lazio) incluse direttamente nell’Impero francese
e la parte restante dell’Italia centro-settentrionale (Trentino, Lombardia, Veneto, Emilia-
Romagna e Marche) riunita nel Regno d’Italia. Al contrario, nelle regioni meridionali non
molto era mutato: semplicemente il Regno di Napoli aveva cambiato padrone, passando
dai Borbone (rifugiatisi in Sicilia) a Giuseppe Bonaparte e, poi, a Gioacchino Murat.
Con il 1815 la penisola tornò a sfrangiarsi in un complesso di unità statali. Pur con rare
eccezioni, l’Italia della Restaurazione venne modellata in nome del principio di legittimità
e con la volontà di considerare il periodo 1796-1814 alla stregua di una parentesi da can-
cellare. Molti dei nuovi Stati ricalcavano semplicemente quelli tardo-settecenteschi, men-
tre in altri casi subentrarono alcune alchimie territoriali.
La tripartizione napoleonica della penisola sotto leggi e istituzioni comuni (Regno d’Italia,
Regno di Napoli e Impero) risultò presto vanificata. Tanto per cominciare, tornarono sul trono
i Savoia e i Borbone, che in età napoleonica erano stati confinati rispettivamente in Sardegna
e in Sicilia. I primi poterono ora aggiungere la Liguria ai propri precedenti domini, mentre i
secondi si videro riconsegnati esattamente i territori che avevano costituito prima del 1806
il loro regno nell’Italia meridionale, ora denominato Regno delle Due Sicilie. Nello stesso
modo, il vecchio Stato pontificio si ricostituiva sotto lo scettro papale, in quel vasto territorio
che comprendeva Bologna e la Romagna, le Marche e l’Umbria e, naturalmente, il Lazio.
Nella fascia centro-occidentale della penisola, tra Emilia e Toscana, ben cinque Stati
componevano un’area policentrica che vedeva risorgere i due ducati padani, quello di Par-
ma e Piacenza e quello di Modena e Reggio, ai quali si aggiungevano il Ducato di Lucca,
i territori di Massa e Carrara e il Granducato di Toscana. Il Congresso di Vienna insediò, a
Parma, Maria Luigia d’Asburgo, a Modena Francesco IV d’Austria-Este – che nel 1829 poté
annettersi anche Massa e Carrara, fino ad allora governate dalla madre, Maria Beatrice d’E-
ste, vedova dell’arciduca Ferdinando d’Asburgo –, a Lucca Maria Luisa di Borbone e, infine,
a Firenze Ferdinando III d’Asburgo-Lorena.
La presenza asburgica si esercitava, quindi, in maniera indiretta, attraverso linee laterali
della famiglia, diversamente da quanto accadeva in Lombardia e nel Nord-Est. Qui, infat-
ti, sorgeva il Regno Lombardo-Veneto, affidato a un viceré che apparteneva direttamente
alla famiglia reale. Del resto, l’egemonia degli Asburgo sulla penisola non si esauriva in
questi legami dinastici. Gli accordi stipulati a Vienna facevano della Casa d’Austria la vera
e propria garante dell’ordine politico-territoriale italiano. Da qui, discendeva la prerogativa
di un controllo militare più esteso, che consentiva agli austriaci di mantenere e spostare
propri contingenti militari su tutto il territorio italiano, esercitando dovunque una pesante
e obbligante tutela.
Il cancelliere dell’impero d’Austria, Klemens von Metternich, era colui che deteneva le
chiavi dell’intera vita politico-istituzionale della penisola italiana. In qualche modo, egli uni-
ficò, nella soggezione all’Austria, tutti i sovrani. In questo senso, paradossalmente, favorì il
rafforzamento del patriottismo italiano, portandolo a raccogliersi contro un solo bersaglio.
Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea:
dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra
di Carlo De Maria
Roma (BraDypUS) 2018
ISBN 978-88-98392-70-4
pp. 235-242

Capitolo 8. Dall’imperialismo napo-


leonico al Congresso di Vienna
Approfondimenti

Profili
L’ammiraglio Nelson

Nato nel 1758 in un piccolo villaggio costiero del Norfolk in Inghilterra, si può dire che Ho-
ratio Nelson avesse il mare e la navigazione nel suo destino. Grazie all’appoggio di uno zio
materno, che era ufficiale della Royal Navy, entrò nella marina militare britannica come
semplice inserviente (“domestico del comandante”) a soli 12 anni. Pochi anni dopo conob-
be per la prima volta la battaglia, partecipando alle operazioni navali della guerra di indi-
pendenza americana (1775-1782). Accumulò, così, un bagaglio di esperienze sul campo che
gli permisero, nel 1781, di raggiungere la nomina a comandante di fregata. Aveva 23 anni.
Da quel momento in avanti, nonostante avesse scoperto ben presto di soffrire di mal di
mare – un problema che lo avrebbe tormentato per tutta la vita –, continuò a perfezionare
le sue abilità di navigatore e stratega.
Nel corso della guerra contro la Francia rivoluzionaria, partecipò alla conquista della
città portuale di Tolone (1793), lo stesso teatro bellico dove – sull’altro fronte – comincia-
vano a mostrarsi le qualità di comando di un giovane militare corso, Napoleone Bonaparte,
allora ufficiale di artiglieria.
Nel 1798, dopo un periodo di convalescenza di alcuni mesi seguito all’amputazione
di un braccio ferito in battaglia, Nelson fu capace di riportare una strepitosa vittoria sui
francesi nella baia di Abukir, provocando di fatto il completo fallimento della campagna
napoleonica in Egitto. Da allora in poi divenne noto in tutta Europa come “l’ammiraglio
Nelson”, il solo condottiero capace di fronteggiare con successo l’armata francese. All’ini-
zio dell’Ottocento arrivò la prestigiosa nomina a comandante in capo della flotta britan-
nica nel Mediterraneo; un incarico che lo metteva, ancora una volta, faccia a faccia con le
mire espansionistiche di Napoleone.
Nel 1804, lo scacchiere dell’Europa meridionale si andò complicando per gli inglesi con
l’entrata in guerra della Spagna, che decise di appoggiare la Francia offrendo a Napoleone la
sua flotta e i suoi porti. Tuttavia Nelson si tenne pronto a sferrare il colpo decisivo. Nell’ottobre
1805, informato che la flotta francese stava per lasciare il porto spagnolo di Cadice, Nelson ri-
236 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

uscì a sfruttare le difficili condizioni metereologiche in cui si imbatterono le navi nemiche per
raggiungerle e attaccarle repentinamente. La battaglia avvenne al largo di Capo Trafalgar,
lungo la costa sud-occidentale della penisola iberica. La sconfitta francese fu pesantissima e
irrimediabile.
Durante quel drammatico scontro lo stesso Nelson morì, raggiunto da un colpo di mo-
schetto tirato da un fuciliere scelto francese, ma visse abbastanza per sapere della vittoria
inglese. Si trattò della più grande battaglia della storia della marina velica: un’epoca che
stava ormai tramontando, dal momento che pochi decenni più tardi cominciarono a essere
utilizzate le più veloci e potenti navi a vapore.
Nelson fu sepolto a Londra nella cattedrale di San Paolo ed è considerato uno dei più
celebri eroi nazionali inglesi.

Luoghi simbolo
Waterloo

Nella cittadina belga di Waterloo, a pochi chilometri da Bruxelles, si combatté il 18 giugno


1815 la battaglia che sancì la sconfitta finale di Napoleone Bonaparte ad opera delle trup-
pe inglesi guidate dal duca di Wellington e di quelle prussiane comandate dal maresciallo
Blücher. Fu uno degli scontri più cruenti del XIX secolo, con poco meno di 50 mila vittime
in una sola giornata di combattimenti, dall’esito incerto fino alla fine. La sua importanza
storica e la sua valenza epica furono tali che finirono per dare una fama imperitura a un
borgo altrimenti sconosciuto della campagna belga: ancora oggi Waterloo sta a indicare,
nel senso comune, una sconfitta definitiva, un fallimento totale specialmente di iniziative
comportanti rischi e conflitti. Storicamente, non rappresentò solo la sconfitta di Napoleo-
ne e della Francia, ma quella di una intera generazione di giovani (per lo più francesi, ma
non solo) che combatterono agli ordini dell’Imperatore mossi da uno slancio idealistico e
da desideri di gloria. Dopo quella battaglia, ci sarebbe stato, per molti di loro, un riflusso
all’interno di gerarchie sociali consolidate e il ritorno a un ordine delle cose segnato dalla
tradizione dell’ancien régime.

Parole-chiave
Plebiscito

La parola deriva dal latino, plebiscitum, che significa “ordine del popolo”. In epoca moderna
è stata utilizzata per indicare votazioni popolari su questioni aventi rilevanza costituzionale.
Più precisamente, il plebiscito entrò nel lessico politico grazie a Napoleone Bonaparte che
ricorse più volte a simili consultazioni, ad esempio nell’atto di divenire console a vita (1802)
e imperatore (1804). Concretamente, il plebiscito serviva a confermare un fatto compiuto,
rafforzandolo con la legittimazione popolare. Per questa ragione esso ha assunto spesso una
connotazione deteriore, alludendo a una forma di partecipazione politica più passiva che
Capitolo 8. Approfondimenti 237

attiva, più demagogica che democratica, essenzialmente legata alle esigenze di un regime
autoritario.
In buona parte diverso è il caso dei plebisciti messi in atto per approvare annessioni ter-
ritoriali. Il principio secondo il quale una determinata popolazione deve essere chiamata a
esprimersi su un cambiamento di sovranità del territorio da essa abitato si è affermato tra
Otto e Novecento insieme al principio di nazionalità. Il plebiscito, in questa accezione, fu
applicato ad esempio nel processo di formazione dello Stato unitario italiano, quando gli
abitanti dei vecchi Stati nei quali era divisa la penisola vennero chiamati a sancire l’incor-
porazione dei loro territori al Regno di Sardegna e poi al Regno d’Italia. Questi plebisciti
furono strumenti di libertà e di indipendenza nazionale.

Focus
Arte e propaganda. Le rappresentazioni dei fasti imperiali

Nella Francia napoleonica si assistette al trionfo dell’estetica neoclassica, il cui massimo


rappresentante in pittura fu Jacques-Louis David. A questo artista è legata l’immagine del
potere imperiale di Napoleone, che ai segni e ai simboli della romanità affidò la consacra-
zione dei suoi successi politico-militari. L’ammirazione entusiastica per gli antichi era mos-
sa da interessi morali, oltreché estetici, che portavano a cercare negli eroi greci e romani
altrettanti esempi di virtù civile. Anche grazie alle opere di David, molti francesi videro in
Napoleone l’incarnazione di un ideale eroico. Tra le tele più significative è sicuramente
da annoverare l’Incoronazione, realizzata tra il 1805 e il 1807 e oggi conservata al Louvre.
Il tema dell’opera è la cerimonia dell’incoronazione imperiale svoltasi nella cattedrale
di Nôtre-Dame a Parigi, il 2 dicembre 1804. Una parte della cerimonia seguì la procedura
tradizionale. Napoleone prestò il giuramento che i sovrani francesi erano soliti pronuncia-
re durante la consacrazione; poi lui e sua moglie, Giuseppina de Beauharnais, inginocchiati
davanti al papa, vennero unti con l’olio impiegato per l’ordinazione degli ecclesiastici, come
segno di sacralizzazione del potere imperiale.
A questo punto, però, Napoleone impose a Pio VII una radicale innovazione dell’etichetta.
Non fu il papa, infatti, a mettere la corona imperiale sulla testa della coppia inginocchiata
davanti a lui, come era d’uso. Ma fu Napoleone ad alzarsi in piedi e a prendere la corona dalle
mani del pontefice; poi voltandosi verso il pubblico (e dando le spalle al papa) a incoronare
se stesso. Dopodiché pose la corona anche sulla testa della moglie, rimasta in ginocchio.
Questo fu il momento immortalato dal pittore: un frangente nel quale il ruolo di Pio VII risul-
tava assolutamente marginale.
Se dunque il potere imperiale conservava un carattere sacro, tale sacralità non derivava
solo da una investitura divina mediata dal papa, ma scaturiva anche e soprattutto dalla for-
za terrena del nuovo imperatore, legittimato da vittorie militari, colpi di Stato e plebisciti.
Bonaparte era ormai così forte da poter incoronare se stesso e la moglie, mentre il pontefi-
ce diventava una semplice comparsa.
Non è inutile notare il fatto che la coppia imperiale si era unita in matrimonio religioso
solo il giorno prima, mentre in precedenza Bonaparte e la consorte erano sposati solo civil-
mente, come consentito dalla legislazione post-1789. Si aveva conferma, una volta di più,
238 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

di come nella cerimonia dell’incoronazione convivessero elementi diversi: laici e religiosi,


medievali e moderni, rivoluzionari e neo-monarchici.

Fonti e documenti
Testi e discorsi di Napoleone - Il Trattato della Santa Alleanza

Introduzione
I primi due documenti che si propongono all’analisi sono relativi all’atteggiamento politico
e alla personalità di Napoleone. Si tratta, in particolare, del discorso tenuto in occasione
dell’assunzione della corona imperiale nel 1804 e del messaggio alle sue truppe dopo la
grandiosa vittoria di Austerlitz (1805), uno dei momenti culminanti del suo potere.
Il discorso di Napoleone al corpo legislativo subito dopo l’assunzione della corona
imperiale rivela non solo l’alto concetto di sé dell’uomo chiamato «dalla provvidenza e
dalla volontà della nazione» a salire sul trono di Francia, ma alcune linee essenziali della
ideologia e della politica napoleonica: la volontà di realizzare un «governo forte e pater-
no» e la convinzione che la «debolezza del potere supremo» equivalesse alla peggiore
«calamità dei popoli». Napoleone esprimeva anche un «desiderio di pace», ma richiamava
altresì la necessità della guerra per assicurare integrità, grandezza e gloria alla Francia
imperiale (testo n. 1).
Uno dei motivi che portò alla leggendaria popolarità di Napoleone presso i suoi soldati
– un attaccamento al capo fatto di fiducia e devozione sconfinate – furono i celebri ordi-
ni del giorno che il generale era solito lanciare all’esercito nei momenti decisivi delle sue
campagne. Tra questi documenti, dallo stile conciso e brillante, il più celebre è l’ordine del
giorno lanciato all’armata francese dopo la più grande delle vittorie napoleoniche, quella di
Austerlitz del 2 dicembre 1805 (testo n. 2).
Il terzo documento qui proposto, il trattato della Santa Alleanza, segna invece un profon-
do cambiamento di fase nella storia europea, aprendo la stagione della Restaurazione. Ispi-
rato dalle tendenze mistico-religiose dello zar Alessandro I e sottoscritto da Russia, Austria
e Prussia nel settembre 1815, il trattato affermò il principio che i tre sovrani – rappresentanti
delle confessioni ortodossa, cattolica e protestante – dovevano restare sempre uniti come
fratelli e governare i popoli europei con paterna sollecitudine per alimentare in essi lo spiri-
to di fratellanza evangelica, l’amore per la religione e per l’ordine sociale (testo n. 3).
Il re francese, Luigi XVIII, aderì alla Santa Alleanza poche settimane più tardi, nel no-
vembre 1815, e altrettanto fecero i sovrani di Sardegna, Svezia e Olanda. Al contrario, non
aderirono al patto né la Gran Bretagna, né lo Stato pontificio: la prima poco attratta da
un documento caratterizzato da contenuti nettamente antiliberali e il secondo a disagio
di fronte a un trattato con forti connotazioni religiose al quale però partecipavano anche
sovrani non cattolici. La Santa Alleanza fu una intesa generalissima e di principio, piuttosto
che un concreto strumento diplomatico, che tuttavia fu in grado di avviare una cooperazio-
ne delle grandi potenze nella difesa dell’ordine costituito in Europa. Fu questo il principio
di intervento più volte applicato negli anni successivi.
Capitolo 8. Approfondimenti 239

Testo n. 1
Discorso dell’imperatore all’apertura della sessione legislativa
Parigi, 6 nevoso anno XIII [27 dicembre 1804]
Signori deputati dei dipartimenti al corpo legislativo, Signori tribuni e membri del mio con-
siglio di Stato, io m’accingo a presiedere l’apertura della vostra sessione. Voglio imprimere
così un carattere più imponente ed augusto ai vostri lavori.
Principe, magistrati, soldati e cittadini noi tutti non abbiamo nella nostra carriera che un
fine solo, l’interesse della patria. Se questo trono, sul quale la Provvidenza e la volontà
della nazione mi hanno fatto salire, è caro ai miei occhi, è perché esso solo può difendere e
conservare gli interessi più sacri del popolo francese. Senza un governo forte e paterno, la
Francia potrebbe temere il ritorno dei mali che ha già sofferto.
La debolezza del potere supremo è la peggiore calamità dei popoli. Soldato o Primo Con-
sole, io non ho avuto che un pensiero; Imperatore io non ne ho altro: la prosperità della
Francia. Sono stato così fortunato da celebrarla con le vittorie, da consolidarla con i trattati,
da strapparla alle discordie civili e preparare la rinascita dei costumi, della società, della
religione. Se la morte non mi sorprende a mezzo del mio lavoro, spero di lasciare alla po-
sterità un ricordo che serva per sempre d’esempio e di sprone ai miei successori.
Il mio ministro vi esporrà la situazione dell’Impero. Gli oratori del mio Consiglio di Stato vi
presenteranno le varie necessità della legislazione. Ho ordinato che vi si sottopongano i
conti presentatimi dai ministri sulla gestione dei loro dicasteri. Sono soddisfatto del prospe-
ro stato delle nostre finanze. Tutte le spese sono coperte dalle entrate; per quanto grandi
siano stati gli apprestamenti bellici nei quali siamo impegnati, non chiederò al mio popolo
nessun altro sacrificio.
Sarei stato lieto, in un’ora così solenne, di veder regnare la pace nel mondo; ma i principi
politici dei nostri nemici, la loro recente condotta verso la Spagna ce ne fanno ben cono-
scere la difficoltà. Io non voglio accrescere il territorio della Francia, ma conservarne l’in-
tegrità. Non ho l’ambizione di esercitare in Europa una maggiore influenza, ma non voglio
indebolire quella che ho acquistata.
Nessuno Stato sarà incorporato nell’Impero, ma non sacrificherò i miei diritti né i vincoli
che mi legano agli Stati che ho creato.
Offrendomi la corona il mio popolo ha preso l’impegno di fare ogni sforzo richiesto dalle
circostanze per conservarle quello splendore che è necessario alla sua prosperità e alla
sua gloria, come alla mia.
Ho piena fiducia nell’energia della Nazione e nei suoi sentimenti verso di me.
I suoi più cari interessi sono l’oggetto costante delle mie cure.
F. Gaeta - P. Villani, Documenti e testimonianze. I grandi problemi della storia medioevale e
moderna nei testi originali e nelle interpretazioni critiche, Milano, Principato, 1978, pp. 970-971.

Testo n. 2
Napoleone al suo esercito
Austerlitz, 12 frimaio anno XIV [3 dicembre 1805]
Soldati, io sono contento di voi. Nella giornata di Austerlitz voi avete giustificato tutto
ciò che mi attendevo dalla vostra intrepidezza; voi avete decorato le vostre aquile di una
gloria immortale. Un esercito di 100.000 uomini, comandato dagli imperatori di Russia e
240 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

d’Austria, in meno di quattr’ore è stato fatto a pezzi o disperso. Coloro che sono sfuggiti
alle vostre armi si sono annegati nei laghi. Quaranta bandiere, gli stendardi della guardia
nazionale di Russia, centoventi cannoni, venti generali, più di 30.000 prigionieri, sono il
risultato di questa giornata, che resterà celebre per sempre. Questa fanteria così vantata,
e in numero superiore, non ha potuto resistere al vostro urto, e ormai voi non avete più
da temere rivali. Così, in due mesi, questa terza coalizione è stata vinta e dissolta. La pace
non può più essere lontana; ma, come ho promesso al mio popolo prima di passare il Reno,
io farò solo una pace che ci dia delle garanzie, e che assicuri ricompense ai nostri alleati.
Soldati, quando il popolo francese pose sulla mia testa la corona imperiale, io mi affidai a
voi per mantenerla sempre in quell’alto splendore di gloria che solo poteva darle pregio ai
miei occhi. Ma nello stesso momento i nostri nemici pensavano a distruggerla e ad avvilirla!
E quella corona di ferro, conquistata col sangue di tanti francesi, volevano obbligarmi a
porla sulla testa dei nostri più crudeli nemici! Progetti temerari e insensati che, nel giorno
stesso dell’anniversario dell’incoronazione del vostro imperatore, voi avete annientati e
confusi! Voi avete insegnato loro che è più facile sfidarci e minacciarci che non vincerci.
Soldati, quando tutto ciò che è necessario per assicurare la felicità e la prosperità della
nostra patria sarà compiuto, io vi ricondurrò in Francia; là voi sarete l’oggetto delle mie più
tenere sollecitudini. Il mio popolo vi rivedrà con gioia, e vi basterà dire Io ero alla battaglia
di Austerlitz, perché si risponda, Ecco un valoroso.
R. Romeo - G. Talamo (a cura di), Documenti storici. L’età moderna, Torino, Loescher, 1966, p. 195.

Testo n. 3
Il Trattato della Santa Alleanza (1815)
In nome della Santissima e Indivisibile Trinità le Loro Maestà l’Imperatore d’Austria, il Re di
Prussia e l’Imperatore di tutte le Russie, in conseguenza dei grandi avvenimenti che hanno
contrassegnato in Europa il corso dei tre ultimi anni e principalmente delle grazie che è
piaciuto alla Divina Provvidenza di spargere sugli Stati i cui Sovrani hanno riposto in Lei
sola la loro fiducia e la loro speranza, avendo acquistato l’intima convinzione che è neces-
sario di stabilire il cammino da seguire dalle Potenze nei loro scambievoli rapporti sulle
sublimi verità che ci insegna l’eterna religione di Dio Salvatore;
Dichiarano solennemente che il presente Atto non ha per scopo che di manifestare la loro
ferma determinazione di non prendere per norma della loro condotta, sia nell’ammini-
strazione dei loro rispettivi Stati, sia nei loro politici rapporti con qualunque altro governo,
che i precetti di questa santa religione, precetti di giustizia, di carità e di pace, i quali, lungi
dall’essere unicamente applicabili alla vita privata, devono, al contrario, influire diretta-
mente nelle risoluzioni dei Principi e guidare tutti i loro passi, essendo il solo mezzo di
consolidare le umane istituzioni e di rimediare alle loro imperfezioni.
In conseguenza le LL.MM. sono convenute negli articoli seguenti:
Art. 1 - Conformemente alle parole della Sacre Scritture, le quali comandano a tutti gli
uomini di riguardarsi come fratelli, i tre Monarchi contraenti resteranno uniti coi legami di
una vera e indissolubile fratellanza e considerandosi come compatrioti in qualunque occa-
sione ed in qualunque luogo, si presteranno assistenza, aiuto e soccorso; e considerandosi
verso i loro sudditi ed eserciti come padri di famiglia, li dirigeranno col medesimo spirito di
fratellanza, da cui sono animati per proteggere la religione, la pace, la giustizia.
Capitolo 8. Approfondimenti 241

Art. 2 - In conseguenza, il solo principio in vigore, sia tra detti governi, che tra i loro sudditi,
sarà quello di rendersi reciprocamente servizio, di manifestarsi con una benevolenza inal-
terabile la scambievole affezione da cui devono essere animati, di considerarsi tutti come
membri di una medesima nazione cristiana, riguardandosi i tre principi alleati essi stessi
come delegati della Provvidenza a governare tre rami di una stessa famiglia, cioè: l’Austria,
la Prussia e la Russia, dichiarando così che la nazione cristiana di cui Eglino e i loro popoli
fan parte, non ha realmente altro sovrano se non quello a cui solo appartiene in proprio il
Potere perché in lui solo si trovano tutti i tesori dell’amore, della scienza e della saggezza
infinita, cioè a dire Dio, il nostro Salvatore Gesù Cristo, il Verbo dell’Altissimo, la parola di
vita. Le LL.MM. raccomandano in conseguenza con la più grande sollecitudine ai loro po-
poli come unico mezzo per godere di quella pace che nasce dalla buona coscienza e che
sola è durevole, di fortificarsi ogni giorno di più nei principii e nell’esercizio dei doveri che
il Divin Salvatore ha insegnato agli uomini.
Art. 3 - Tutte le Potenze che vorranno solennemente confessare i sacri principi che hanno
dettato il presente Atto e che riconosceranno quanto importa alla felicità delle nazioni,
troppo a lungo agitate, che queste verità esercitino ormai sui destini umani tutta l’influenza
che ad esse appartiene, saranno accolte con altrettanta sollecitudine quanta affezione in
questa Santa Alleanza.
R. Romeo - G. Talamo (a cura di), Documenti storici. L’età moderna, cit., pp. 201-204.
IV. Da sudditi a cittadini: l’impatto
degli ideali rivoluzionari sul Conti-
nente europeo
Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea:
dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra
di Carlo De Maria
Roma (BraDypUS) 2018
ISBN 978-88-98392-70-4
pp. 245-268

Capitolo 9. Nazione e moti costitu-


zionali in Europa. Verso un nuovo
equilibrio politico continentale
Profilo storico
9.1. Idea di nazione e Romanticismo

Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento entrò nel discorso politico europeo un
nuovo concetto: l’idea di nazione. Fino ad allora il termine “nazione” aveva fatto riferimen-
to a realtà geografiche e culturali poco definite. Nei decenni a cavallo del 1800 invece esso
cominciò ad assumere un preciso significato politico, indicando le collettività che avevano
o, meglio, rivendicavano il diritto di esercitare la sovranità su un determinato territorio.
Questa evoluzione nel significato della parole “nazione” avvenne durante la Rivoluzione
francese. Fu, infatti, nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 che,
all’art. 3, si affermò per la prima volta: “Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente
nella Nazione”. La diffusione del linguaggio nazionale oltre i confini della Francia fu assicu-
rato da due processi che si susseguirono rapidamente. Dapprima, in tutta Europa, gli oppo-
sitori dell’assolutismo monarchico cominciarono a imitare i rivoluzionari francesi, parlando
il linguaggio della nazione che costoro per primi avevano adottato. Poco più tardi, quando
le armate napoleoniche occuparono gran parte del continente europeo, le élite politiche e
culturali dei paesi conquistati trovarono spesso nell’idea di nazione un simbolo di riscossa.
Nel corso di questa dinamica storica, all’idea di nazione venne ad associarsi un ele-
mento identitario che la connotò in modo permanente anche in futuro: coloro che vi si
richiamavano, infatti, cominciarono a considerare la nazione come una comunità compo-
sta essenzialmente da tutti coloro che condividevano la stessa storia, la stessa lingua e la
stessa cultura. Una comunanza di tratti identitari che spesso forzava la realtà dei fatti. In
Francia, per esempio, in molti villaggi rurali non si parlava che qualche dialetto locale e
non si capiva minimamente il francese. Nella penisola italiana, coloro che parlavano cor-
rentemente l’italiano come prima lingua, non erano che una minoranza quantificabile nel
10% della popolazione. Per non parlare delle tante aree di confine in tutta Europa, dove
gruppi linguisticamente e culturalmente diversi si mescolavano.
Dopo il 1815 l’idea di nazione venne duramente osteggiato dalle grandi potenze, poi-
ché appariva minacciosamente eversiva rispetto all’ordine europeo fissato dal Congresso
di Vienna. I sostenitori delle rivendicazioni nazionali, infatti, volevano mutamenti radicali
246 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

sia nella carta geopolitica, criticando i grandi imperi che soffocavano la libertà e l’autode-
terminazione dei popoli, che negli assetti istituzionali. Le istanze nazionali si intrecciaro-
no, infatti, con quelle liberaldemocratiche, puntando a un allargamento dei diritti politici.
I democratici più convinti sostenevano la prospettiva repubblicana, anziché monarchica,
poiché ritenevano che la repubblica desse uno sviluppo più coerente all’idea secondo la
quale la sovranità politica spetta a tutti i cittadini di una nazione, senza interferenze di
poteri di altro tipo, diversamente legittimati. Nella stessa prospettiva si muoveva natural-
mente l’idea di una progressiva estensione del diritto di voto, fino ad arrivare al suffragio
universale maschile (salvo eccezioni, il voto alle donne nella prima metà dell’Ottocento
non era ancora all’ordine del giorno del dibattito politico).
Le idealità nazionali strinsero uno stretto rapporto con la stagione culturale e letteraria comune-
mente nota con il termine Romanticismo. Dei molti aspetti che connotarono l’esperienza romantica
uno merita di essere qui messo in rilievo: l’idea di un’arte per il popolo, di un’arte cioè fruibile dal più lar-
go numero possibile di persone, prodotta da artisti e letterati non più chiusi dentro gli ambienti ristretti
e privilegiati della corte o dei palazzi nobiliari, ma sempre più a contatto con la comunità nazionale.
Il rilievo assunto dal sentimento nazionale si intrecciava con un altro elemento pro-
prio del Romanticismo: la reazione contro le tendenze universalizzanti dell’Illuminismo
e, dunque, la rivalutazione delle singolarità e della peculiarità storica delle varie nazioni
e il desiderio di ricercarne le prove nella lingua, nei costumi e nelle tradizioni del passato.

9.2. Società segrete e insurrezioni tra anni Venti e Trenta

9.2.1. I moti costituzionali del 1820-21: Spagna, Regno delle Due Sicilie e
Piemonte.
Nei paesi che non conoscevano libertà di stampa e garanzie costituzionali – e, cioè, prati-
camente tutti gli Stati europei ad eccezione della Gran Bretagna e, in maniera più incerta,
della Francia – le aspirazioni liberali furono mantenute vive attraverso l’organizzazione
clandestina di società segrete. I più convinti portavoce dei programmi costituzionali e an-
tiassolutistici erano solitamente riconducibili a due gruppi sociali. Il primo era formato da
ufficiali ed ex-combattenti delle guerre napoleoniche, perlopiù di estrazione borghese e
popolare. Costoro avevano ormai strappato alla vecchia aristocrazia il privilegio delle armi,
trovando una piena legittimazione nel corso degli oltre quindici anni nei quali l’Europa era
stata percorsa da potenti eserciti. Il secondo riconosceva la sua base negli studenti o nei
giovani ex-studenti formatisi all’inizio del secolo, plasmati dai fermenti del Romanticismo e
ormai avvezzi alla propaganda liberale e nazionale. Erano queste le due categorie sociali,
sovranazionali, che incarnavano il cambiamento e che spesso animavano quelle società
segrete (come la Carboneria italiana) che dopo aver lavorato per indebolire l’imperialismo
napoleonico, ora si rivolgevano contro i nuovi dispotismi.
Non è dunque un caso che fosse una insurrezione militare a dare il via, nel gennaio 1820,
a una serie di tumulti che percorsero l’Europa. I fatti di cui si parla ebbero origine in Spagna,
dove re Ferdinando VII di Borbone, con l’intenzione di restaurare un rigido regime assolutista,
aveva revocato nel 1814 la costituzione di Cadice, emanata due anni prima. Così facendo il
monarca spagnolo scontentò gran parte dell’opinione pubblica del suo paese, e certamente
Capitolo 9. Nazione e moti costituzionali in Europa. Verso un nuovo equilibrio politico continentale 247

molti tra quelli che si erano battuti contro l’invasione napoleonica proprio in nome della
costituzione. Ai loro occhi, lo spirito della guerra di liberazione contro il dispotismo francese
era stato tradito.
Il malcontento dell’opinione pubblica spagnola venne accresciuto dalla ribellioni che
scuotevano le colonie americane, insofferenti rispetto alla pesante tassazione imposta da
Madrid. Per reprimere le rivolte coloniali, il re di Spagna decise di inviare in Sud America
un corpo d’armata, senza considerare la delusione e la rabbia che già serpeggiavano fra
le truppe. I reparti in partenza per l’America Latina, concentrati nel porto di Cadice (un
luogo simbolo per il movimento costituzionale spagnolo), si ribellarono all’autorità regia il
1° gennaio 1820, sotto la guida di alcuni colonnelli veterani della guerra antinapoleonica.
Il loro programma era molto chiaro: il ripristino della Costituzione del 1812 e l’immediata
convocazione delle elezioni per il parlamento.
Le numerose società segrete esistenti in Spagna favorirono il diffondersi della ribellione
alle guarnigioni di altre città. Per cercare di governare una situazione che sembrava ormai
fuori controllo, il re accettò le richieste degli insorti. Ben presto, però, il movimento uscito
vittorioso dalla rivoluzione si mostrò fortemente disunito. Ai liberali più moderati, cui ba-
stava preservare le garanzie costituzionali, si aggiunsero posizioni apertamente democra-
tiche, che intendevano introdurre riforme politiche e sociali più avanzate, fino ad arrivare
alla requisizione e alla redistribuzione delle grandi proprietà terriere. Queste divisioni in-
terne al fronte progressista finirono per bloccare il funzionamento delle istituzioni, dando
voce – sia all’interno di alcuni ambienti dell’esercito sia in ampie zone rurali del paese – ai
sostenitori di un ritorno all’ordine e all’assolutismo regio.
Intanto le spinte rivoluzionarie si erano propagate ad altre parti dell’Europa meridiona-
le, sempre con le medesime modalità. Nel luglio 1820 si sollevarono alcuni reparti militari
del Regno delle Due Sicilie. Per la precisione, fu la guarnigione di Avellino a insorgere e a
marciare sulla capitale del regno, Napoli, costringendo i Borbone ad adottare una costi-
tuzione mutuata dall’esempio spagnolo. La rivolta si propagò velocemente in Sicilia, con
la differenza che, mentre a Napoli il malcontento aveva coinvolto solo i ceti medio-alti,
a Palermo il moto insurrezionale agitò anche le corporazioni artigiane, assumendo una
connotazione più radicale. Cominciò ad aleggiare la minaccia dell’indipendenza sicilia-
na, avversata anche dai liberali napoletani, mentre l’aristocrazia dell’isola, pur favorevole
alla costituzione e all’indipendenza da Napoli, si allarmò di fronte al crescente radicalismo
delle maestranze. In buona sostanza, anche nell’Italia meridionale molte divergenze co-
minciarono a dividere i rivoluzionari e, ben presto, il re delle Due Sicilie, Ferdinando I, ne
approfittò per chiedere alle potenze europee della Santa Alleanza di aiutarlo a ristabilire
lo status quo.
Mentre reparti militari austriaci scendevano la penisola per schiacciare i costituziona-
listi napoletani, un’altra rivolta scoppiò in Piemonte, dove gruppi di carbonari formularono
un programma articolato in due punti: 1) la concessione di una costituzione nel Regno di
Sardegna; 2) la guerra all’Austria per la liberazione del Lombardo-Veneto e la formazione
di un Regno dell’Alta Italia sotto la casa regnante dei Savoia. Nel marzo 1821 la guarni-
gione di Alessandria innalzò la bandiera tricolore e nel giro di pochi giorni altre città si
unirono alla sollevazione. Il re Vittorio Emanuele I di Savoia abdicò. Il giovane principe
Carlo Alberto, in qualità di reggente, concesse la costituzione e, forzato dalla situazione
che si era creata, aderì al programma rivoluzionario. Tuttavia, in primavera, un altro corpo
di spedizione austriaco, insieme a truppe sabaude rimaste leali al vecchio ordine, pose fine
al moto patriottico, sconfiggendo a Novara il piccolo esercito costituzionale, che era guida-
to da Santorre di Santarosa, ministro della Guerra del governo provvisorio torinese. I mesi
248 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

seguenti furono scanditi da fughe in esilio, retate, processi ed esecuzioni che colpirono i
liberali piemontesi.
Anche in Lombardia nel corso del 1821 vennero celebrati diversi processi contro con-
giurati in qualche modo legati agli insorti piemontesi. Del resto, a Milano, la politica re-
pressiva dell’Austria si era chiaramente manifestata fin dal 1819 con la soppressione del
“Conciliatore”. Intorno a questo periodico si era riunito un gruppo di liberali moderati, i
quali erano guardati con sospetto dalle autorità per la loro apertura culturale e per aver
avviato un dibattito sul Romanticismo e sulle tradizioni indipendentistiche del medioevo
comunale; suggestioni che potevano preludere a posizioni apertamente patriottiche. La
scoperta poi, nel 1820, di un gruppo carbonaro a Milano portò a vari processi nei quali si
trovarono implicati proprio alcuni collaboratori del “Conciliatore” e tra essi Silvio Pellico,
divenuto poi famoso con il libro Le mie prigioni (1832). Fino ad arrivare agli arresti del 1821,
quando finì dietro le sbarre anche un esponente illustre dell’aristocrazia milanese, il conte
Federico Confalonieri, accusato di cospirare in favore di una nuova monarchia costituzio-
nale capace di riunire Lombardo-Veneto e Piemonte: lo stesso programma, come si è visto,
dei gruppi carbonari piemontesi.
Tra il 1822 e il 1823, sempre su mandato della Santa Alleanza, toccò alla Francia il com-
pito di stroncare con un esercito di 100 mila uomini la rivoluzione spagnola, riportando in
quel paese una cupa monarchia conservatrice. Furono dunque le truppe francesi a chiude-
re il ciclo rivoluzionario del 1820-21, segnando con questo intervento repressivo anche un
cambiamento di clima politico all’interno dello stesso governo di Parigi.
In Francia, infatti, la costituzione concessa nel 1814 da Luigi XVIII di Borbone (fratello
minore di Luigi XVI, il re ghigliottinato nel 1793) aveva garantito, almeno fino al 1820, spazi
di libertà sufficienti per un confronto politico costruttivo tra le posizioni liberali e quelle
conservatrici. Ma gli avvenimenti europei del 1820 e del 1821 e il conseguente timore che
anche il territorio francese potesse essere coinvolto in agitazioni e insurrezioni popolari,
avevano dato maggior forza alle posizioni della destra ultra-conservatrice le cui istanze
antiliberali sarebbero state presto incoraggiate e rafforzate dal nuovo sovrano, Carlo X di
Borbone, che salì al trono nel 1824, prendendo il posto del defunto Luigi XVIII.

9.2.2. La lotta di indipendenza greca e la situazione dei Balcani.


All’inizio degli anni Venti la penisola balcanica si dimostrò altrettanto turbolenta di quella
iberica e di quella italiana. Il riferimento è ai territori controllati dall’Impero ottomano e, in
particolare, a Serbia e Grecia. Alcuni esponenti delle classi dirigenti di quei paesi avevano
potuto viaggiare nell’Europa centro-occidentale conoscendo direttamente o indirettamen-
te l’esperienza della Rivoluzione francese e le prime elaborazioni del nazionalismo roman-
tico. Fecero tesoro di quelle esperienze e cercarono di trasferirne pratiche e ideali in patria.
Alcuni mercanti greci, ad esempio, fondarono una società segreta che aveva l’obiet-
tivo di raccogliere tutti i cristiano-ortodossi animati da sentimenti indipendentisti e anti-
ottomani. Quando, tra 1821 e 1822, i congiurati greci decisero di passare all’azione, la loro
rivolta ebbe successo anche grazie a un forte sostegno popolare, incoraggiato dalle po-
sizioni nettamente anti-ottomane del clero cristiano-ortodosso. Si giunse, così, nel 1822
alla proclamazione dell’indipendenza della Grecia, senza peraltro che questo atto ufficiale
ponesse fine alla guerra contro i turchi, che proseguì anche negli anni successivi.
La causa greca suscitò subito un grandissimo entusiasmo negli ambienti liberali euro-
pei. Centinaia di volontari francesi, inglesi, italiani e tedeschi (in tutto circa 1.200) partirono
per la Grecia con la volontà di combattere a fianco degli insorti. Ma anche le grandi di-
Capitolo 9. Nazione e moti costituzionali in Europa. Verso un nuovo equilibrio politico continentale 249

plomazie cominciarono a interessarsi a un conflitto che prometteva di limitare sensibil-


mente l’influenza ottomana sui Balcani. Si giunse a una svolta decisiva quando, nel 1827,
Gran Bretagna, Francia e Russia firmarono a Londra un trattato nel quale si impegnavano
a garantire l’autonomia della Grecia. I tre Stati firmatari inviarono una flotta che distrusse
completamente quella turco-egiziana. L’anno successivo un corpo di spedizione francese
occupò il Peloponneso, mentre l’esercito russo arrivava fino alle porte di Istanbul.
Nel 1829 venne firmata la pace di Adrianopoli, nella quale l’Impero ottomano riconob-
be la formazione di uno Stato greco indipendente. Una indipendenza che, tuttavia, fu fin
dall’inizio fortemente condizionata dal controllo delle potenze europee, che imposero alla
Grecia una sorta di protettorato. Gli accordi di Adrianopoli riconobbero anche la forma-
zione di un Principato di Serbia autonomo da Istanbul, ma posto nell’aerea di influenza
dell’Impero russo. Ancor più che una autentica affermazione nazionale di greci e serbi, la
pace di Adrianopoli segnò una tappa fondamentale nel processo di dissoluzione dell’Impe-
ro ottomano, che conobbe in quegli anni una impressionante accelerazione.

9.2.3. Luglio 1830: l’insurrezione di Parigi.


La stessa natura diffusiva che aveva caratterizzato le agitazioni politiche del 1820-21 fu
una caratteristica anche della seconda fase rivoluzionaria, che si manifestò all’inizio degli
anni Trenta, con il medesimo obiettivo di dieci anni prima: conquistare costituzioni moder-
ne, cioè conflittuali rispetto all’istituto della monarchia di diritto divino.
Nel luglio 1830, a Parigi, una larga insurrezione di popolo abbatté il regno di Carlo X
e portò al trono Luigi Filippo d’Orléans, fautore di un governo liberale, di una monarchia
rispettosa delle libertà costituzionali. A partire dalla metà degli anni Venti i Borbone aveva-
no puntato sulla restaurazione quanto più integrale possibile degli assetti della monarchia
assoluta: una linea di condotta che non era stata accolta positivamente dall’opinione pub-
blica francese, molto legata alla libertà di stampa e di opinione. Carlo X ritenne di risolvere
questo conflitto latente con la mano pesante e con una serie di ordinanze antiliberali, che
tra le altre cose prevedevano la chiusura di tutti i giornali di opposizione. La reazione a
questi provvedimenti fu inattesa e decisa. Il popolo di Parigi scese in piazza, erigendo bar-
ricate per opporsi all’esercito. Gli scontri durarono tre giorni, dal 27 al 29 luglio 1830, e alla
fine i rivoltosi riuscirono a controllare la capitale.
Il 30 luglio i capi liberali, tra i quali il giornalista e storico Adolphe Thiers, timorosi che
il conflitto sociale potesse avere esiti repubblicani e democratici, cancellando nuovamente
le istituzioni monarchiche (dopo quanto era già accaduto durante la Rivoluzione francese),
designarono a capo di un governo provvisorio Luigi Filippo d’Orléans. Quest’ultimo, cugino
di Carlo X, era però ben diverso dal predecessore negli orientamenti politici.
Il suo primo atto di governo fu la nomina di una commissione incaricata di redigere
una nuova costituzione. Promulgata il 14 agosto 1830, la carta costituzionale confermava
la forma monarchica dello Stato francese (e l’unica persona che aveva i titoli dinastici per
diventare re era proprio Luigi Filippo) ma stabiliva tutta una serie di garanzie liberali: il po-
tere legislativo era attribuito al parlamento; si prevedevano regolari elezioni politiche per
la nomina dei deputati (a suffragio ristretto in base al censo); la censura sulla stampa era
proibita; la religione cattolica non era più religione di Stato; il tricolore rosso-bianco-blu
veniva adottato come bandiera nazionale francese al posto del drappo borbonico, bianco
con i gigli d’oro.
Era in Francia dunque (e dove altrimenti!) che si registrava il primo successo concreto
dello spirito rivoluzionario, dopo la restaurazione del 1814-15. Da quel momento in poi –
250 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

secondo quanto scrisse il repubblicano italiano Giuseppe Mazzini – il movimento liberale e


democratico si sarebbe diffuso con velocità prima impensabile nelle popolazioni europee,
non più solo tra le persone colte e agiate, ma cominciando a far breccia (e non in modo oc-
casionale) anche in quei milioni di lavoratori manuali e di persone umili che fino ad allora
era stati solo spettatori dei cambiamenti politici.
Soprattutto tra le nuove generazioni, dopo le giornate parigine del luglio 1830, sarebbe
stato difficile pensare a una generale adesione ai dettami della tradizione monarchico-
legittimista.

9.2.4. La rivolta del Belgio e della Polonia.


Qualche cosa di analogo a quanto era accaduto in Francia si manifestò poco dopo, tra
agosto e settembre, nel Regno dei Paesi Bassi. Nato nel 1815, questo regno raccoglieva le
provincie belghe (precedentemente poste sotto il dominio austriaco) e quelle olandesi (l’ex
Repubblica di Olanda), più il Lussemburgo. Il sovrano Guglielmo I d’Orange era riuscito, nel
giro di pochi anni, a creare un enorme malcontento nella parte più popolosa e industria-
lizzata del suo regno. Egli stava, infatti, sistematicamente penalizzando gli interessi del
Belgio a favore di quelli dell’Olanda, soprattutto in termini di rappresentanza negli appa-
rati civili e militari, dove l’insediamento di funzionari e ufficiali olandesi era nettamente
sovradimensionato rispetto a quello su cui poteva contare il Belgio, ma anche in termini
di politiche fiscali, che salvaguardavano le rendite finanziarie dei commercianti olandesi
colpendo invece con crescenti imposte sui consumi alimentari (carne e pane) la vita quoti-
diana della popolazione operaia belga.
La situazione era già molto tesa quando, nell’estate del 1830, la notizia della rivoluzio-
ne scoppiata a Parigi fece il resto, portando alla rivolta aperta. Il movimento di opposizione
era guidato dai repubblicani, fortemente legati ai ceti popolari e operai. Dopo uno scontro
rapidamente vittorioso con le truppe regie, svoltosi per le strade di Bruxelles, si giunse alla
proclamazione di un governo provvisorio. Il destino istituzionale del Belgio, che intanto
aveva proclamato la sua indipendenza dalla monarchia olandese, venne affidato a una
assemblea costituente, eletta ad ampio suffragio.
Nel voto le posizioni filo-monarchiche riuscirono a ottenere la maggioranza su quelle
repubblicane e, pertanto, si giunse a una soluzione di compromesso, avvallata dalle mag-
giori potenze europee: il Belgio rimase una monarchia (la corona venne offerta a Leopoldo
di Sassonia, un principe tedesco gradito alla Gran Bretagna), ma indipendente dall’Olanda e
dotata di una costituzione più avanzata di quella francese. A questo proposito, vale la pena
notare che la carta belga introduceva, per la prima volta, l’indennità per i deputati, facendo
così in modo che l’esercizio delle funzioni legislative non fosse più appannaggio delle sole
persone agiate.
Mentre la rivolta belga era in pieno svolgimento, nell’Europa orientale, e precisamente
in Polonia, scoppiava un’altra insurrezione. Il Congresso di Vienna aveva sostanzialmente
confermato lo smembramento della Polonia tra Austria, Prussia e Russia (avvenuto, come
si ricorderà, negli ultimi decenni del Settecento), creando però anche un piccolo Regno di
Polonia affidato al controllo dello zar di Russia. Inizialmente al Regno polacco erano state
riconosciute istituzioni proprie e una certa autonomia, ma la situazione cambiò quando lo
zar Nicola I prese la decisione di nominare un alto dignitario russo alla carica di governato-
re, offendendo i sentimenti patriottici delle classi dirigenti polacche.
Il conflitto finì per esplodere apertamente il 29 novembre 1830, quando un gruppo di
allievi della scuola ufficiali di Varsavia prese le armi e attaccò il palazzo del governatore.
Capitolo 9. Nazione e moti costituzionali in Europa. Verso un nuovo equilibrio politico continentale 251

La rivolta costrinse il funzionario russo alla fuga, mentre gran parte dell’esercito polacco si
schierava a fianco dei rivoltosi. Nel gennaio 1831 il governo provvisorio polacco proclamò
l’indipendenza dalla Russia. La reazione dello zar non si fece attendere: il mese successivo
un esercito forte di 115.000 uomini marciò su Varsavia. Incontrò la strenua resistenza dell’e-
sercito polacco, i cui comandanti sperarono fino all’ultimo che la Francia di Luigi Filippo
o la Gran Bretagna potessero sostenere quella ribellione al dispotismo russo. La speranza
rimase vana e l’esercito dello zar, pur al prezzo di migliaia di morti, stroncò la resistenza
polacca. Nel settembre 1831 la Russia riprese il controllo del Regno di Polonia, mentre
almeno 10.000 patrioti polacchi fuggirono in altri paesi per evitare la feroce repressione
zarista.

9.2.5. I moti italiani del 1831.


Il fatto che la rivolta polacca si risolvesse in un bagno di sangue intaccava solo in parte
la portata del cambiamento prodotto negli equilibri europei dalle rivoluzioni di Francia
e Belgio. Pensando all’Italia, esisteva ora la possibilità di un sostegno francese ai tentativi
indipendentisti promossi nella penisola.
Con questa speranza, sollevazioni costituzionaliste scoppiarono nei ducati di Parma e
Modena, e all’interno dello Stato pontificio: a Bologna e in Romagna, poi altrove fino a coin-
volgere quasi tutto il territorio controllato dal papa. Molto spesso il disegno di nazione a
cui si pensava allora era ancora definito lungo linee napoleoniche e comprendeva, quindi,
il Nord o il Sud dell’Italia, piuttosto che l’intera penisola. Ma esistevano anche eccezioni, la
più importante delle quali fu quella rappresentata dall’emiliano Ciro Menotti, che si dimo-
strò capace di adottare una prospettiva di patria molto ampia, non più limitata ad ambiti
regionali o sovraregionali.
La figura di Menotti esprimeva al meglio le aspirazioni di una nuova borghesia impren-
ditoriale, ancora ristretta dal punto di vista numerico, ma desiderosa d’azione e di progres-
so. Si trattava di ambienti nei quali l’attività economica e la maturazione politica, in senso
liberale e nazionale, procedevano di pari passo.
Il nome di Menotti era diventato celebre, nel Ducato di Modena, grazie al clamore che
aveva fatto l’impiego delle macchine a vapore nella sua filanda di Saliceto Panaro, già
nella prima metà degli anni Venti, e poi lo sviluppo da lui impresso alla manifattura dei
cappelli di truciolo a Carpi. Quasi parallelamente Menotti si avvicinò agli ambienti cospi-
rativi che organizzarono l’insurrezione del 1831.
Per comprendere le origini di quel tentativo rivoluzionario, conviene risalire ad almeno
cinque anni prima, quando un giovane avvocato di Modena, Enrico Misley, aveva comin-
ciato a stabilire dei contatti con il duca Francesco IV d’Austria-Este. Il piano era quello di
coinvolgere il sovrano in una congiura che portasse alla formazione di un grande Stato
monarchico-costituzionale nell’Italia centro-settentrionale, posto sotto la sua corona. Il
rischioso progetto faceva leva sulle note ambizioni del sovrano, ma non teneva sufficien-
temente conto della sua scarsa simpatia per le idee liberali. In ogni caso, dal 1826 al 1830,
mentre Misley manteneva i rapporti con il duca d’Austria-Este, la rete cospirativa si era
allargata verso Bologna e la Romagna ed era arrivata a coinvolgere anche gli esuli italiani
a Parigi e Londra.
Nell’estate 1830, lo scoppio delle rivoluzioni in Francia e Belgio ebbe l’effetto di indurre
un intimorito Francesco IV a ritrarsi dalle ambizioni espansionistiche. Fu a questo punto, nel
settembre 1830, che salì in primo piano la figura di Ciro Menotti, il quale era entrato a far
parte della congiura solo l’anno precedente.
252 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

La rinuncia del duca imponeva, ora, di progettare una vera e propria insurrezione ar-
mata. In questa direzione Menotti indirizzò tutte le sue energie, promuovendo comitati
insurrezionali in diverse città dell’Emilia, della Romagna e a Firenze. Il suo programma
politico, elaborato sul finire del 1830, trovò espressione in un documento intitolato: Idee
per organizzare delle intelligenze fra tutte le città d’Italia per la sua indipendenza, unione
e libertà, che delineava un quadro della penisola essenzialmente monarchico, costituzio-
nale e unitario.
Francesco IV, informato degli sviluppi cospirativi, riuscì a fare arrestare Menotti il 3 feb-
braio 1831, ma l’organizzazione approntata dallo stesso Menotti era già scattata negli altri
centri urbani e si estese a macchia d’olio, tra il 6 e il 15 febbraio, da Modena a Parma, a Bo-
logna, fino alle Marche e all’Umbria. Tanto che Francesco IV fu costretto ad abbandonare
Modena e a rifugiarsi nel Lombardo-Veneto austriaco, trascinando però con sé Menotti in
ostaggio.
Alcuni contrasti di carattere municipalistico misero presto a repentaglio la possibilità
di un pieno accordo tra le città insorte. Tuttavia, una assemblea convocata a Bologna il 26
febbraio riuscì a riunire i rappresentanti dei vari governi provvisori nati in quelle settimane
e a elaborare uno statuto, poi pubblicato all’inizio di marzo. Si prevedeva un percorso che
avrebbe portato, appena possibile, alla elezione di una assemblea costituente incaricata
di scrivere la carta fondamentale del nuovo Stato, denominato per ora “Governo delle
province unite italiane”.
Da Parigi arrivava il plauso degli esuli raccolti in una “Giunta liberatrice italiana”, appe-
na costituita. Alcuni di loro tentarono una improbabile invasione della Savoia, tempestiva-
mente fermata dal governo francese, mentre a Marsiglia veniva bloccata una nave di armi
destinate ai ribelli italiani. Anche in ragione di questi falliti tentativi di portare sostegno ai
rivoltosi, la situazione della penisola venne normalizzata molto rapidamente.
Già il 4 marzo gli austriaci, comandati da Francesco IV, si diressero verso Modena, dove
entrarono il 9. Negli stessi giorni anche Parma veniva occupata con facilità. Le truppe del
governo provvisorio erano spesso senza divise e male armate. Come i polacchi, anche i
patrioti italiani sperarono in un intervento della Francia; ma proprio ai primi di marzo il
governo francese annunciò di non voler interferire in alcun modo con l’iniziativa militare
che l’Austria aveva deciso di mettere in atto per stroncare l’insurrezione.
L’avanzata degli austriaci giunse a Bologna il 20 marzo. Dalla città emiliana il governo
unitario si trasferì ad Ancona, dove a fine mese non rimase altra possibilità ai ribelli che
firmare la capitolazione. Ci fu appena il tempo per un combattimento, vicino a Rimini, tra la
retroguardia dell’esercito italiano, in ripiegamento verso Fano, e le avanguardie austriache.
In soli due mesi la repressione austriaca raggiunse i suoi scopi, ristabilendo l’ordine. Ne
seguì, specie nel Ducato di Modena, una dura repressione che portò alla condanna a morte,
davanti al tribunale militare, di Ciro Menotti e Vincenzo Borelli, il notaio che aveva redatto
il documento di decadenza del duca. I due vennero impiccati su un bastione della cittadella
di Modena il 26 maggio 1831.
Le carceri si riempirono di prigionieri politici, mentre notevole fu il fenomeno del fuo-
ruscitismo, cioè dell’esilio per motivi politici. Abbandonarono lo Stato di Modena alcuni
condannati alla forca o alla galera a vita, ma anche tante persone che avrebbero dovuto
scontare pene più lievi.
Dopo il 1831, i sovrani della Restaurazione – e tra loro Francesco IV a Modena – vide-
ro ulteriormente diminuita la loro autorevolezza e apparvero, agli occhi della nascente
opinione pubblica liberale, come burattini manovrati da una potenza straniera, l’Austria, e
come incarnazioni della tirannia.
Capitolo 9. Nazione e moti costituzionali in Europa. Verso un nuovo equilibrio politico continentale 253

Diversamente da dieci anni prima, i moti italiani del 1831 non furono opera dell’eser-
cito, ma iniziative promosse da forze cittadine e municipali. Tuttavia, anche all’inizio degli
anni Trenta, alla rivoluzione continuò a mancare quella dimensione di massa che, in Italia,
la mobilitazione politica avrebbe assunto, per la prima volta, solamente nel 1848-49, quan-
do nelle principali città le piazze si sarebbero riempite di manifestanti in nome dell’indi-
pendenza nazionale.

9.3. La Francia di Luigi Filippo

Nella Francia degli anni Trenta e Quaranta del XIX secolo il fermento per la democratizza-
zione delle istituzioni raggiunse livelli altissimi. La cosa non può sorprendere, dal momento
che la storia civile francese aveva dietro di sé il fondamentale precedente del 1789, immen-
so laboratorio di programmi e di idee. Come se non bastasse, i diciassette anni che corrono
dal 1831 al 1848 erano stati introdotti dal rivolgimento del luglio 1830, non un semplice
cambiamento di dinastia, ma qualcosa che aveva agito in profondità, come avvertirono
per primi gli stessi contemporanei. Tutti gli sforzi compiuti nel corso degli anni Venti per la
restaurazione dell’antico ordine di cose mostrarono di essere falliti. L’aristocrazia, i grandi
proprietari terrieri e il clero più conservatore furono sconfitti, mentre emergeva una nuova
alleanza sociale, formata dalla piccola e media borghesia dei commerci, delle manifatture,
delle professioni e dai lavoratori manuali. Una coalizione di produttori che si mostrava
spesso assai spregiudicata, repubblicaneggiante, anticlericale, perfino irreligiosa, e che si
rafforzò nel corso degli anni Trenta anche grazie al sensibile sviluppo economico vissuto
dalla Francia.
Una parte numerosa, e rumorosa, della società francese era rimasta delusa dagli esiti
della “rivoluzione di luglio” e voleva spingersi oltre. Le rivendicazioni erano molteplici, a
partire dall’allargamento del suffragio. Il corpo elettorale, infatti, non arrivava a compren-
dere neppure l’1% della popolazione ed era, in pratica, limitato ai possidenti. Luigi Filippo,
però, si mostrò indisponibile a confrontarsi con i movimenti sociali più avanzati, che del
resto minacciavano la stabilità stessa del suo trono. Il monarca si limitò a intraprendere
una politica di pura resistenza al malcontento. A ciò si aggiunse una scelta di disimpegno
in politica estera, che rese la Francia sorda agli appelli dei liberali polacchi e italiani e
subalterna al sistema metternichiano (il sistema di potere europeo che aveva come perno
l’Austria del cancelliere Metternich).
Il governo francese ignorò sistematicamente le esigenze e le rivendicazioni del “paese
reale”, calibrando unicamente la propria azione di governo sul “paese legale”, cioè i due-
centomila elettori a cui la costituzione del 1831 accordava i pieni diritti politici. Di essi ci
si sforzò, con concessioni di ogni genere (individuali, collettive e locali), di conquistare il
favore per ottenere in cambio l’elezione di un grosso numero di deputati filo-ministeriali.
Intanto, nella società si urtavano vaste correnti sotterranee. Da una parte i legittimisti,
cioè i francesi rimasti legati alla monarchia assoluta (il riferimento è, soprattutto, all’antica
nobiltà, all’alto clero e ai gesuiti), dall’altra i repubblicani, che costituivano la maggior forza
di opposizione. In realtà, la galassia repubblicana non aveva confini definiti e comprendeva
un ampio spettro di collocazioni politiche che andava dai liberali più avanzati (favorevoli
254 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

all’ampliamento del suffragio) fino ai primi nuclei socialisti, passando attraverso i gruppi
democratici di tradizione repubblicana e giacobina.
Nel paese si agitava anche un rinato movimento bonapartista, che doveva gran parte
della sua nuova popolarità alla stagnante politica estera francese degli ultimi decenni, non
certo paragonabile ai fasti napoleonici. La memoria dell’Imperatore appariva ora a molti
purificata dalle sue scorie e l’esule di Sant’Elena sembrava incarnare di nuovo al meglio
l’onore nazionale e il destino storico della Francia. A richiamare concretamente i francesi
a quella memoria era un erede del Bonaparte, Luigi Napoleone, ambizioso ufficiale d’arti-
glieria, figlio di un fratello di Napoleone I.
Il vivace panorama politico si rispecchiava nella vitalità della stampa periodica, che si
giovava anche di un allentamento dei freni della censura: i giornali acquisirono popolarità
e diffusione inedite presso una opinione pubblica sempre più larga. L’elenco delle pubbli-
cazioni periodiche di quegli anni sarebbe lunga da fare e coprirebbe un ventaglio politico
ampissimo: orleanisti, repubblicani, socialisti e cattolici (sia conservatori che liberali) usci-
vano regolarmente con riviste e giornali di schieramento.
Si moltiplicavano poi le dimostrazioni pubbliche, che talvolta sfociavano in tentativi
insurrezionali: rivolte legittimiste, a favore dei Borbone; moti repubblicani e anticlericali;
agitazioni operaie e socialiste, come quella del dicembre 1831 a Lione, provocata da un
peggioramento delle condizioni dei lavoratori tessili di quella città. Di fronte a tutto ciò, il
governo si dimostrava quasi immobile e non riusciva a raggiungere risultati che andassero
aldilà di qualche riforma di scarsa portata. Eppure l’influenza di questi diciassette anni
sulla storia francese e, anzi, sulla storia europea furono enormi. In Francia, infatti, dal 1831
al 1848, si consolidò e si irrobustì una coscienza democratica; maturarono programmi e
idee che avevano fatto capolino con il 1789, ma poi non erano riusciti a prendere forma.
Di impronta democratica e repubblicana era anche la grande letteratura francese di
questo periodo, che fece scuola in tutta Europa: basti ricordare i nomi di Balzac e Hugo.
In definitiva, gli occhi speranzosi di molta gioventù europea, così come quelli (assai pre-
occupati) di tutta la diplomazia della Restaurazione, erano fissi sulla Francia uscita dalla
“rivoluzione di luglio”. In essa si scorgeva, a seconda dei punti di vista, un orizzonte irradiato
di luce o un pericoloso incendio che non si riusciva a spegnere.

9.4. L’Inghilterra delle riforme

La Gran Bretagna continuò, nel corso degli anni Trenta, a consolidare il proprio sistema
parlamentare. Nel 1830 si insediò il governo guidato dal liberale Charles Grey, con il quale
si interrompeva una lunga serie di governi conservatori. Questi ultimi avevano retto per de-
cenni la Gran Bretagna, rendendosi protagonisti della grandiosa vittoria contro la Francia
napoleonica, ma anche responsabili del giro di vite sulle libertà civili attuato nei primi anni
della Restaurazione.
Tra fine Settecento e inizio Ottocento, infatti, lo schieramento parlamentare conserva-
tore si era proposto con successo come il più deciso guardiano della identità e delle tradi-
zioni britanniche, assecondando i sentimenti patriottici antifrancesi presenti in larga parte
dell’opinione pubblica d’oltremanica; al contrario, lo schieramento liberale aveva pagato
in termini elettorali proprio l’iniziale simpatia per la Rivoluzione francese. Questi equilibri
Capitolo 9. Nazione e moti costituzionali in Europa. Verso un nuovo equilibrio politico continentale 255

elettorali cambiarono quando l’opposizione liberale riuscì a trovare un tema politico in


grado di creare una significativa mobilitazione in ampi strati sociali. La svolta decisiva, in
questo senso, fu la battaglia d’opinione per una riforma delle norme che disciplinavano
l’elezione dei deputati alla Camera dei Comuni. I liberali compresero che era arrivato il mo-
mento di coinvolgere maggiormente nella vita delle istituzioni i protagonisti della rivolu-
zione industriale – imprenditori, tecnici, mercanti, banchieri – cioè quell’insieme di soggetti
che costituiva la middle class (classe media).
Un chiaro segnale di cambiamento, voluto dallo stesso sovrano Guglielmo IV, arrivò con
la nuova legge elettorale del 1832, che ampliò significativamente il suffragio, raddoppian-
do il numero degli elettori da 400 a 800 mila (passando dal 2 al 4% della popolazione). Con-
testualmente – ed era il passaggio più importante della riforma – venne riformata anche
la distribuzione dei collegi elettorali, premiando i maggiori centri industriali del nord-ovest
(che ricevevano per la prima volta la possibilità di avere uno o due seggi in parlamento)
e ridimensionando le rappresentanze provenienti dalle contrade rurali del sud-est, ormai
spopolate per effetto dei processi di industrializzazione e urbanizzazione. Si trattava di
interventi che davano un maggior rilievo nella vita pubblica ai ceti borghesi e che compor-
tavano, invece, un ridimensionamento del peso politico della proprietà fondiaria.
Tra il 1833 e il 1835 venne attuata una revisione anche degli ordinamenti locali, toc-
cando la parte forse più delicata dell’organizzazione amministrativa britannica, da sempre
attenta al decentramento e alla divisione dei poteri. Fino a quel momento i vecchi borghi
erano stati amministrati da gruppi ristretti di grandi proprietari terrieri, che si nominavano
a vicenda per cooptazione, e si consideravano come un ceto inamovibile. In seguito alla
riforma si istituirono invece dei consigli elettivi con suffragio esteso a tutti i contribuenti.
Questi consigli municipali vennero introdotti anche in quelle nuove città (industriali e com-
merciali) che non avevano mai goduto del privilegio, spettante agli antichi centri urbani, di
una amministrazione autonoma.
Ancora più densa di conseguenze doveva essere un’altra riforma di genere diversissimo:
la New Poor Law, la nuova legge sui poveri del 1834. L’assistenza pubblica in Inghilterra era
regolata da norme che risalivano al XVII secolo, per le quali i poveri dovevano essere assi-
stiti dalle parrocchie anglicane (vere e proprie circoscrizioni amministrative, oltreché ec-
clesiastiche), che provvedevano a loro mediante una imposta pagata dalle famiglie agiate
del territorio. Questo sistema aveva creato una massa di assistiti che pesava enormemente
sull’economia del paese, con oltre un milione e mezzo di indigenti da soccorrere. La legge
dell’agosto 1834 abolì invece ogni forma di sussidio locale e il problema fu preso in carico
dallo Stato, che dispose il ricovero dei poveri in case di lavoro (Workhouses), dove essi
avrebbero trovato da mangiare, ma sarebbero stati costretti altresì a lavorare duramen-
te, nonché a rispettare un severissimo regolamento disciplinare, a cui faceva riscontro un
trattamento economico inferiore al salario operaio minimo. Gli effetti furono immediati:
il numero di candidati alle misure di assistenza cadde subito del 50% e le spese relative si
ridussero notevolmente. Questi “nuovi” disoccupati, però, si riversarono a chiedere lavoro
nelle fabbriche, provocando con l’abbondanza dell’offerta una contrazione generalizzata
dei salari.
In questo modo, la nuova legge sui poveri finì per accendere le agitazioni operaie, che
si precisarono in un programma di intenti, la “Carta del popolo” (People’s Charter). In quel
documento, redatto nel 1838 all’interno di una associazione operaia di Londra (London
Working Men’s Association), si elencavano una serie di rivendicazioni sociali e politiche.
Oltre al suffragio universale maschile e a una indennità economica per gli eletti in parla-
mento, si chiedevano l’aumento dei salari e una sostanziale modifica della stessa legge sui
256 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

poveri. Tale movimento sarebbe passato alla storia con il nome di Cartismo, distinguendosi
rispetto alle precedenti manifestazioni del radicalismo politico anglosassone per il fatto
che affiancava alla richiesta di riforme istituzionali, istanze prettamente sindacali e la vo-
lontà di lottare per una trasformazione del regime di fabbrica. La protesta cartista traeva
grosso impulso dai gruppi sociali ancora esclusi dal voto politico: operai, piccoli commer-
cianti, artigiani, portuali. Tutti loro trovarono un primo terreno di partecipazione alla vita
pubblica nelle Trade Unions, le unioni di mestiere a carattere sindacale.
Le esigenze popolari ricevettero una qualche risposta, anche se in modo indiretto, gra-
zie a un profondo cambiamento di politica economica che ebbe come perno il progressi-
vo alleggerimento delle tariffe doganali. Queste ultime erano state rafforzate dai governi
conservatori di inizio Ottocento con il fine di proteggere la produzione agricola britannica,
mantenendo elevato il prezzo del grano sul mercato interno e favorendo dunque gli inte-
ressi delle élite terriere (elettorato di riferimento dei conservatori). Da tempo gli industriali
inglesi lottavano per una politica commerciale più libera. L’abbassamento dei dazi sul gra-
no avrebbe facilitato l’importazione di maggiori quantitativi di cereali dall’estero, a prezzi
competitivi rispetto a quelli britannici, producendo dunque un abbassamento significativo
del prezzo del pane e dei prodotti alimentari in genere. Ciò avrebbe stimolato i consumi
delle classi popolari e dunque il dinamismo dell’intero sistema economico; in particolare,
avrebbe consentito una maggiore capacità di acquisto verso i prodotti manifatturieri, incre-
mentando in questo modo anche la richiesta di lavoro nel settore industriale.
In effetti, l’agitazione per il libero-scambio mosse dai maggiori centri manifatturieri bri-
tannici e fu guidata da un commerciante in cotoni, Richard Cobden, che era anche deputato
liberale. Essa si fece sempre più vivace fino ad attaccare il simbolo stesso del mercantili-
smo inglese, le Corn Laws, le leggi protettive del grano indigeno.
La battaglia fu lunga, ma sotto la pressione degli industriali liberisti, appoggiati da un
vasto movimento popolare, le grandi riforme fiscali ebbero inizio nel 1842 per merito del
governo conservatore di Robert Peel, uno degli esponenti del suo schieramento più aperto
alle nuove posizioni e ormai consapevole che gli equilibri politici ed economici del paese
si erano spostati verso il mondo cittadino e industriale. Tra i passaggi fondamentali della
battaglia riformatrice è da ricordare quello del 1843, quando venne introdotta una nuova
imposta destinata a una larga diffusione: l’imposta progressiva sul reddito, Income Tax, che
andava nella direzione di una maggiore equità fiscale. Tra il 1846 e il 1849 si arrivò, infine,
all’abolizione delle Corn Laws.
Con tutto ciò, non solo il lavoro e il commercio furono incoraggiati, non solo le classi
povere ottennero il pane a buon mercato, ma avvenne un significativo spostamento nella
distribuzione del carico fiscale. Fino al 1840 nel bilancio dello Stato le imposte dirette in-
cidevano per il 15%; quelle indirette (che colpivano indistintamente tutte le classi sociali
penalizzando soprattutto i consumi degli strati popolari) per l’85%; dopo le riforme di Peel
le prime salivano a 22,80% e le seconde scendevano al 77,20%.
Nel frattempo era iniziato il lunghissimo regno della regina Vittoria che, salita al trono
nel 1837, vi rimase fino al 1901: anni spesso trionfali per la borghesia liberale inglese.
Capitolo 9. Nazione e moti costituzionali in Europa. Verso un nuovo equilibrio politico continentale 257

9.5. Il 1848 tra dimensione locale ed europea

Nel 1846-47, l’Europa fu colpita da una crisi economica spaventosa. Alcuni cattivi raccolti
provocarono la carenza di pane, patate e altri prodotti alimentari; ne conseguì l’aumento
dei prezzi dei generi di prima necessità e, infine, una caduta generalizzata nella domanda
dei beni di consumo, con pesanti ripercussioni sul settore industriale e commerciale. La crisi
colpì, dunque, in modo ampio le società europee, causando sofferenze diffuse e un profon-
do malcontento popolare, mentre i movimenti di opposizione ricevevano nuova linfa e le
istanze di cambiamento politico e sociale tornavano all’ordine del giorno quasi ovunque.
In Italia, in particolare, con l’elezione al soglio pontificio di papa Pio IX, nel 1846, l’opinio-
ne pubblica liberale sembrava aver trovato un interlocutore importante. Il suo pontificato,
infatti, iniziò con alcune riforme (l’amnistia ai detenuti politici e agli esiliati e l’istituzione di
commissioni di studio per l’introduzione di riforme istituzionali nello Stato pontificio) che
fecero sperare nella figura di un papa liberale, sensibile agli ideali costituzionali e patriot-
tici. Le aspettative riposte in Pio IX furono tali che prese piede, in alcuni settori del mondo
politico e culturale, la prospettiva “neoguelfa” teorizzata nel corso degli anni Quaranta dal
sacerdote piemontese Vincenzo Gioberti. Il neoguelfismo consisteva nella convinzione che
si sarebbe giunti alla libertà e all’indipendenza dell’Italia valorizzando il ruolo di coordina-
mento politico-spirituale del papa e riunendo intorno alla sua autorità una confederazione
formata dagli Stati già esistenti nella penisola.

9.5.1. Il Quarantotto in Italia e la Prima guerra di indipendenza.


Il 12 gennaio 1848 scoppiò a Palermo, nella Sicilia governata dai Borbone, un nuovo moto
costituzionale animato da ceti popolari e intermedi. La rivolta – che affondava le radici
negli avvenimenti del 1820-21 e nella diffusione sull’isola, fin dall’inizio del secolo, di idee
liberali e società segrete – si propagò in Calabria, arrivando alla capitale del Regno delle
Due Sicilie, Napoli.
Come rispondendo a un comune segnale, si sollevò anche il Piemonte, dove il re Carlo
Alberto, che si era fatto conoscere negli ultimi anni come feroce persecutore dei liberali e
dei mazziniani, fiutò che i tempi stavano cambiando e concesse uno statuto che prese il suo
nome: lo Statuto albertino. La stessa cosa accadde nel Granducato di Toscana e nello Stato
pontificio di Pio IX, dove entrarono in vigore altre due carte costituzionali.
L’agitazione si trasmise al Lombardo-Veneto austriaco. A Venezia il 17 e il 18 marzo
1848 si tennero manifestazioni indipendentiste che ebbero come esito la cacciata delle
forze occupanti; il 18 marzo Milano insorse e dopo cinque giorni di scontri durissimi (pas-
sati alla storia come le “cinque giornate di Milano”) i patrioti, armati alla meglio e protetti
da barricate improvvisate, riuscirono a liberare la città dalla guarnigione austriaca, che
si ritirò nel cosiddetto “quadrilatero”, la zona compresa tra le quattro città fortificate di
Mantova, Verona, Legnago e Peschiera.
Rispetto a quanto accaduto nel 1820-21 e nel 1831, il fatto più saliente era che il movi-
mento liberale e costituzionale investiva, questa volta, tutta la penisola e si cominciava a
profilare all’orizzonte la possibilità di un completo rivolgimento politico dell’assetto dell’I-
talia, con la cacciata degli austriaci e il raggiungimento dell’indipendenza nazionale.
Il 23 marzo 1848 il re di Sardegna, Carlo Alberto, dichiarò guerra all’Austria, con la vo-
lontà di conquistare l’egemonia nell’Italia settentrionale. Iniziava così la Prima guerra di in-
dipendenza italiana. Il 26 marzo le truppe sabaude erano già a Milano, accolte festosamen-
258 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

te dalla popolazione. Alle truppe di Carlo Alberto si unirono corpi misti di soldati regolari e
di volontari provenienti dalla Toscana, dallo Stato pontificio e dal Regno delle Due Sicilie.
Ma ben presto, alla fine di aprile, Pio IX si sottrasse alla lotta per l’indipendenza dell’I-
talia, rifiutando di schierarsi fino in fondo in una guerra che opponeva italiani e austria-
ci, cioè cattolici contro altri cattolici. Tramontava bruscamente il sogno neoguelfo di una
confederazione di Stati italiani guidati dal papa e una cocente delusione attanagliò molti
settori liberali.
Insieme a quelle del papa si ritirarono le truppe provenienti dal Regno delle Due Sicilie
e dal Granducato di Toscana. Carlo Alberto cercò, comunque, di sfruttare la situazione di
grave crisi dell’Impero austriaco per coronare una ambizione da tempo coltivata dalla di-
nastia dei Savoia, ovvero quella di impadronirsi di Lombardia e Veneto. Nel condurre que-
sta impresa espansionistica fece propri gli ideali e i simboli nazional-patriottici, al punto
da adottare come bandiera per le proprie truppe il tricolore rosso, bianco e verde, con al
centro lo stemma dei Savoia (croce rossa su campo bianco e bordo azzurro).
Dopo una prima fase della guerra favorevole all’esercito del Regno di Sardegna, gli
austriaci riuscirono a riorganizzare le proprie forze e a lanciare una controffensiva che
culminò con la sconfitta dell’esercito sabaudo a Custoza il 25 luglio 1848, in seguito alla
quale le truppe austriache ripresero possesso della Lombardia e di Milano. Quasi un anno
più tardi, nel marzo 1849, contando sulle persistenti difficoltà dell’Austria a tenere unito il
proprio impero multinazionale, l’esercito sabaudo tentò un nuovo attacco alle postazioni
austriache, ma venne subito sconfitto a Novara il 23 marzo 1849.
Pochi mesi più tardi sarebbe terminata anche l’esperienza della Repubblica di Venezia,
che durava dal marzo 1848 e che aveva avuto nel patriota Daniele Manin il suo esponente
di punta. La città lagunare, infatti, venne riconquistata dagli austriaci nell’agosto 1849.

9.5.2. La Repubblica romana e la breve esperienza democratica in Toscana.


Non ebbe miglior sorte la Repubblica romana, nata in seguito ai contraccolpi prodotti negli
ambienti liberali e democratici dal voltafaccia di Pio IX. Nel novembre 1848 le turbolente
proteste dell’opinione pubblica più vicina alle istanze patriottiche portarono il papa a fug-
gire da Roma per recarsi a Gaeta sotto la protezione del sovrano delle Due Sicilie.
A Roma, in sua assenza, su pressione dei circoli popolari e delle associazioni demo-
cratiche, venne convocata l’elezione di una assemblea costituente, a suffragio universale
maschile. Il nuovo organismo proclamò (il 9 febbraio 1849) l’istituzione della Repubblica
romana e attribuì il potere esecutivo a un triumvirato guidato da Giuseppe Mazzini, affian-
cato da Carlo Armellini e Aurelio Saffi. Il governo repubblicano adottò una legislazione
sociale che prevedeva misure decisamente radicali, come la nazionalizzate delle proprietà
ecclesiastiche, che sarebbero state divise in piccoli appezzamenti e date in affitto perma-
nente in cambio di un modesto canone ai contadini poveri. Il provvedimento però non riuscì
a entrare in vigore a causa del drammatico evolvere della situazione militare.
Alla fine di aprile, infatti, una guarnigione francese sbarcò a Civitavecchia con l’inten-
zione di liberare Roma dagli insorti e di restituirla al papa. In quel modo, Luigi Napoleone
Bonaparte, appena eletto presidente della Repubblica francese, intendeva conquistarsi la
simpatia di quei settori moderati e clericali che erano ben rappresentati nel parlamento
di Parigi. Per tutta risposta, Mazzini incitò alla resistenza a oltranza, mentre a Roma afflu-
ivano alcune centinaia di volontari provenienti da altre parti d’Italia, fra i quali spiccava la
figura di Giuseppe Garibaldi. L’assedio francese, meno facile del previsto, durò dalla fine di
aprile fino al 3 luglio 1849, quando i soldati transalpini riuscirono a entrare in città.
Capitolo 9. Nazione e moti costituzionali in Europa. Verso un nuovo equilibrio politico continentale 259

Qualcosa di analogo accadde in Toscana. Dopo aver nominato sotto la pressione della
piazza un governo di orientamento democratico, guidato da Giuseppe Montanelli e Fran-
cesco Domenico Guerrazzi, il granduca Leopoldo II fuggì (nel febbraio 1849) a Gaeta, rag-
giungendo Pio IX. Il suo volontario esilio durò poco: appena tre mesi più tardi, un corpo di
spedizione austriaco ristabilì in Toscana il vecchio assetto di potere.
Tutte le costituzioni concesse in Italia nel 1848-49 vennero revocate; tranne una, quel-
la del Regno di Sardegna. All’indomani della bruciante sconfitta di Novara, Carlo Alberto
abdicò a favore del figlio, Vittorio Emanuele II, il quale annunciò comunque che non inten-
deva privare il suo regno delle garanzie costituzionali concesse dal padre l’anno prima. Lo
Statuto albertino restava pertanto in vigore.

9.5.3. Il Quarantotto a Vienna, Budapest e Praga.


Mentre in Italia, nel marzo 1848, la situazione per gli austriaci sembrava precipitare, il go-
verno di Vienna cercò almeno di depotenziare le tensioni che stavano crescendo in Unghe-
ria e nell’area slava dell’Impero. Il principio di nazionalità metteva a repentaglio l’esistenza
stessa dell’Impero asburgico che, piantato nel cuore dell’Europa, si allargava come una
enorme piovra su paesi tedeschi, magiari, romeni, slavi e italiani.
In quelle settimane della primavera 1848, si sollevò perfino la capitale imperiale, Vien-
na. Una grande manifestazione di studenti e lavoratori costrinse l’imperatore Ferdinando I
a licenziare il vecchio cancelliere Metternich, a formare un governo liberale e a indire del-
le elezioni a suffragio universale maschile per la creazione di una assemblea costituente.
Quasi contemporaneamente a Budapest esplodeva un moto per l’indipendenza dell’Un-
gheria, mentre Praga diventava la città-simbolo delle rivendicazioni slave.
Tra l’aprile e il maggio 1848 l’imperatore concesse al governo ungherese il riconosci-
mento di una larga autonomia e annunciò la convocazione di una assemblea costituente
imperiale per cercare di frenare i moti centrifughi che coinvolgevano sempre più le po-
polazioni soggette all’Austria. Quella decisione non sortì l’effetto sperato, se è vero che
il 2 giugno 1848 si autoconvocò a Praga un Congresso dei popoli slavi dell’Impero (croati,
sloveni, slovacchi, cechi e polacchi), che puntavano a trasformare la compagine imperiale
in una federazione di Stati nazionali dotati di larghe autonomie.
Laddove la diplomazia di Vienna non riuscì a ottenere risultati, furono le armi a spegne-
re i movimenti politici autonomisti e costituzionali. A cominciare da Praga, dove i lavori del
Congresso dei popoli slavi durarono poco, così come le speranze di cambiare l’ordinamen-
to dell’Impero asburgico. Intorno alla metà di giugno, le truppe imperiali circondarono la
città boema e risposero alla mobilitazione della popolazione praghese (che aveva comin-
ciato a erigere barricate per le strade per difendersi dall’assalto dei fanti e della cavalleria)
prendendo a cannonate il centro urbano prima di sferrare l’assalto decisivo.
Il 2 dicembre 1848 l’imperatore Ferdinando, la cui autorità era ormai logorata dagli av-
venimenti degli ultimi mesi, abdicò a favore del nipote Francesco Giuseppe, il quale chiarì
subito le sue intenzioni, definendosi “imperatore per grazia di Dio”. Un gesto simbolico che
mostrava il suo desiderio di far piazza pulita delle garanzie costituzionali concesse dal suo
predecessore. Pacificate con la forza delle armi sia Praga che Vienna, rimaneva da affron-
tare il problema dell’indipendenza ungherese.
Per stroncare le speranze autonomiste di Budapest, Francesco Giuseppe chiese aiuto
alla Russia, stringendo l’Ungheria in una terribile tenaglia militare. La resistenza ungherese
capitolò definitivamente nell’agosto 1849, al termine di una guerra costata complessiva-
mente 100.000 morti, tra austriaci, magiari e russi.
260 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

9.5.4. La Francia: dalla “rivoluzione di febbraio” all’ascesa di Luigi Napoleone


Bonaparte.
Tra i principali fuochi del Quarantotto europeo ci fu sicuramente Parigi. Nella capitale fran-
cese, sotto l’urto di una grande manifestazione indetta a favore della riforma elettorale,
rapidamente trasformatasi in una vera e propria rivolta guidata dai repubblicani, la monar-
chia costituzionale nata nel 1830 venne sostituita da una repubblica democratica.
Da tempo in Francia una parte cospicua dell’opinione pubblica aveva preso le distanze
dal re Luigi Filippo e dalla classe dirigente liberal-moderata, avanzando richieste di am-
pliamento del suffragio che consentissero a fette più grosse della popolazione di prendere
parte alla vita politica. C’erano anche gruppi che si spingevano oltre e che miravano a rin-
verdire i fasti repubblicani del 1792. E altri ancora che facevano circolare la parola d’ordine
della “repubblica sociale”, desiderando uno Stato che, oltre ai diritti politici, garantisse a
tutti un lavoro e la possibilità di sfamarsi.
Tra la fine del 1847 e l’inizio del 1848, i gruppi politici di opposizione (liberali progres-
sisti, repubblicani e radical-socialisti) cominciarono a organizzare una campagna di ban-
chetti per raccogliere consensi a favore di una riforma della legge elettorale. Il governo de-
cise di proibire una di queste iniziative pubbliche, quella prevista a Parigi per il 22 febbraio
1848, ma le frange più radicali del movimento popolare decisero ugualmente di scendere
in piazza.
Si trattava di qualche migliaio di persone – tra studenti, operai e militanti politici – che
vennero affrontati con brutalità esagerata dall’esercito. I militari aprirono il fuoco, ucci-
dendo una cinquantina di dimostranti. Inevitabilmente la protesta si infiammò, centinaia
di barricate comparvero nelle vie di Parigi, mentre i dimostranti si armavano in ogni modo.
Il governo perse il controllo della situazione e Luigi Filippo decise di abdicare, lasciando il
suolo francese. La folla dei dimostranti circondò il parlamento e impose l’insediamento di
un governo provvisorio a maggioranza repubblicana, all’interno del quale entravano anche
due socialisti: l’intellettuale Louis Blanc e l’operaio Alexandre Martin.
Il nuovo governo proclamò subito la repubblica: si trattava della Seconda Repubblica
francese dopo quella del 1792. Nelle settimane successive venne introdotto il suffragio
universale maschile e furono organizzati degli Ateliers Nationaux, cioè delle fabbriche di
proprietà pubblica, dove poter impiegare i disoccupati.
Quello basato sugli Ateliers Nationaux era un modello di sviluppo industriale propugnato
dal socialista Blanc e dai suoi seguaci, che vedevano nell’intervento dello Stato uno strumen-
to essenziale per la rifondazione della società su basi socialiste. I nuovi stabilimenti pubblici,
secondo Blanc, avrebbero presto dimostrato la loro superiore razionalità rispetto alle azien-
de private. Queste ultime, con il tempo, sarebbero scomparse o si sarebbero fuse con gli sta-
bilimenti di Stato, e in tal modo la società francese avrebbe raggiunto l’obiettivo di azzerare
la disoccupazione.
In realtà l’esperimento durò pochissimo. Per finanziare gli Ateliers Nationaux il governo
dovette imporre una pesante sovrattassa sulle proprietà terriere, che suscitò subito reazio-
ni negative tra proprietari e contadini. Tanto che pochi mesi dopo, nel giugno 1848, l’esecu-
tivo tornò sui propri passi, decidendo di chiudere gli Ateliers per poter alleggerire la pres-
sione fiscale sul mondo rurale. Le modalità scelte furono repentine e risultarono per molti
incomprensibili. Venne semplicemente annunciato che tutti i lavoratori degli stabilimenti
pubblici si sarebbero trovati nuovamente disoccupati, e per sbarcare il lunario avrebbero
potuto arruolarsi nell’esercito o trovare impiego in campagna come braccianti agricoli.
Capitolo 9. Nazione e moti costituzionali in Europa. Verso un nuovo equilibrio politico continentale 261

Le istanze sociali della rivoluzione apparvero del tutto tradite. La delusione dei sociali-
sti si espresse in alcuni moti popolari che scossero la capitale, fino all’insurrezione operaia
del 23-26 giugno 1848. Circa 40-50.000 persone (operai e disoccupati, ma anche borghesi
e studenti di simpatie radicali) si riversarono nelle strade di Parigi. La protesta si trasformò
in rivolta, e questa volta l’esercito guidato dal generale Louis-Eugène Cavaignac, ministro
della Difesa e uomo forte del governo, non si fece sorprendere, rispondendo ai manifestanti
in maniera durissima. Dopo alcuni giorni di vera e propria battaglia, rimasero sul terreno
diverse migliaia di morti e gli arrestati furono oltre 10.000.
In un clima segnato dalla brutale repressione, con fucilazioni sommarie o deportazio-
ne dei condannati nelle colonie francesi del Pacifico meridionali (segnatamente in Nuova
Caledonia), prendeva forma la nuova costituzione repubblicana, assai meno democratica
di quanto non avessero fatto sperare i proclami del febbraio precedente. All’interno di una
opinione pubblica confusa e intimorita, il bonapartismo guadagnava rapidamente terreno
e Luigi Napoleone Bonaparte, eletto deputato alla assemblea costituente, era nella posi-
zione di raccogliere intorno alla sua persona vasti consensi.
L’erede di Napoleone I aveva un passato politico molto variegato e ondivago che, in
definitiva, gli consentiva di vantare qualche credenziale presso tutti i settori dell’opinione
pubblica. Aveva partecipato al moto insurrezionale italiano del 1831, schierandosi dunque
per la libertà dei popoli contro l’assolutismo austriaco; era stato uno strenuo oppositore
della monarchia liberale di Luigi Filippo e aveva plaudito alla rivoluzione repubblicana del
febbraio 1848, schierandosi però subito tra i difensori dell’ordine contro le istanze radicali
e socialiste. Tuttavia, la sua vera forza stava nel proporsi come il continuatore della me-
moria del grande Napoleone, una figura che aveva conservato in Francia una straordinaria
aura mitica, recentemente ravvivata dall’esumazione del corpo. Originariamente seppel-
lite nell’isola di Sant’Elena, le spoglie di Napoleone Bonaparte erano state trasportate a
Parigi, nel dicembre 1840, e collocate – nel corso di una grandiosa cerimonia pubblica – in
una imponente cripta presso Les Invalides.
La carta costituzionale promulgata il 4 novembre 1848 assegnava poteri notevolissimi
al presidente della repubblica, che era investito della facoltà di nominare senza alcun con-
trollo tutti i funzionari (civili e militari) e di scegliere e revocare i ministri senza il consenso
dell’assemblea legislativa. Egli veniva così a disporre di tutta la enorme macchina del po-
tere esecutivo, che l’Impero napoleonico aveva reso precisa ed efficiente. Inoltre, il presi-
dente non sarebbe stato scelto dall’assemblea, ma direttamente dal popolo, in un rapporto
diretto tra leader e masse popolari. Nello stesso tempo, però, sarebbe durato in carica solo
quattro anni e non poteva essere rieletto. Era questa, rispetto all’aurea di onnipotenza de-
rivante dalle precedenti disposizioni, una forte contraddizione, che sarebbe stata foriera di
gravi conseguenze.
Presentatosi alle elezioni presidenziali del 10 dicembre 1848, il nipote di Napoleone
Bonaparte ottenne oltre 5 milioni di voti, mentre i candidati socialisti e repubblicani non ne
raccolsero nemmeno un quinto. I più acuti osservatori della vita politica francese compre-
sero fin da allora che una nuova monarchia imperiale era ormai alle porte. Si può dire che
il suffragio universale avesse finito per tradire le aspettative di progressisti e rivoluzionari:
le campagne, tradizionalmente moderate, ebbero la meglio sulle città, solitamente carat-
terizzate da posizioni politiche e culturali più avanzate.
262 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

9.5.5. La Prussia e la Confederazione germanica.


Nella primavera 1848, l’ondata rivoluzionaria dalla Francia valicò il Reno, interessando la
Prussia e quasi tutti gli Stati della Confederazione germanica. In molte città tedesche di-
mostrazioni popolari reclamarono la nascita di uno Stato federale unitario, dotato di ampie
garanzie costituzionali. Il 25 marzo il re di Prussia, Federico Guglielmo IV, per non farsi
sfuggire la situazione di mano autorizzò l’elezione a suffragio universale maschile di una
assemblea costituente e fece issare per la prima volta sui palazzi delle istituzioni la ban-
diera del movimento nazionale tedesco: un drappo nero, rosso e oro a bande orizzontali.
Nelle settimane successive, la maggior parte degli Stati della Confederazione germanica
elesse (solitamente a suffragio censitario) dei delegati da inviare a Francoforte, dove era
stata convocata una Assemblea nazionale tedesca.
Le notizie di quanto stava accadendo a Berlino e Francoforte ebbero l’effetto di mobili-
tare anche i nazionalisti polacchi, che chiesero alla Costituente prussiana e all’Assemblea
nazionale tedesca di riconoscere una larga autonomia alla Posnania (cioè, ai territori po-
lacchi inglobati dalla Prussia), come premessa della ricostituzione dello Stato polacco. Si
manifestò qui la prima drammatica contraddizione del Quarantotto europeo. Infatti, i costi-
tuenti prussiani e i deputati di Francoforte, dopo qualche timida espressione di simpatia per
le istanze provenienti dalla Polonia, non ne sostennero la battaglia indipendentista e anzi
non si opposero all’invio di un contingente di 30.000 soldati che in aprile sbaragliò le esigue
forze avversarie.
Profondamente divisa al suo interno tra le componenti moderate e quelle radicali, e
più in generale poco attrezzata per assumere pesanti responsabilità politiche, l’assemblea
costituente prussiana ebbe vita breve e incerta, fino a quando nel dicembre 1848 Federico
Guglielmo IV non la sciolse d’autorità, senza incontrare forti opposizioni. Quasi a sottoline-
are l’inefficacia di quella esperienza, lo stesso sovrano procedette all’emanazione di una
costituzione redatta direttamente dai suoi collaboratori. Essa attribuiva al re il potere ese-
cutivo, riservando il legislativo a un parlamento bicamerale, solo parzialmente elettivo. La
Camera alta era composta dai principi reali e dai nobili prussiani, mentre la Camera bassa
era eletta con un complesso sistema che garantiva una rappresentanza preponderante alle
classi sociali più elevate. Il sovrano conservava peraltro il potere di veto sulle decisioni del
parlamento e la possibilità di legiferare per decreto.
A Francoforte le cose non andarono molto meglio. Dopo lunghe discussioni e infiniti
contrasti sull’assetto da dare al futuro Stato tedesco, l’Assemblea nazionale decise per la
costituzione di una monarchia federale la cui corona fosse affidata al più forte Stato ger-
manico: la Prussia. Ma il clima in Europa era profondamente cambiato rispetto a pochi
mesi prima, e Federico Guglielmo IV rifiutò sprezzantemente la proposta affermando che
lui, sovrano per diritto di discendenza, non intendeva ricevere una corona offertagli da una
accozzaglia di “professori e bottegai”, alludendo naturalmente alla composizione sociale
prevalentemente borghese dell’assemblea di Francoforte. Con questo smacco si chiudeva
l’esperienza costituente tedesca e poteva dirsi svanita ogni possibilità di unificazione “dal
basso” della Germania, a opera cioè di un movimento liberale e democratico.
Capitolo 9. Nazione e moti costituzionali in Europa. Verso un nuovo equilibrio politico continentale 263

9.6. Dal socialismo utopistico al Manifesto di Marx ed Engels

Il 1848 fu anche l’anno in cui venne pubblicato a Londra Il Manifesto del Partito comuni-
sta, scritto dal filosofo tedesco Karl Marx con la collaborazione del connazionale Friedrich
Engels. Nelle pagine di quel fortunato pamphlet si illustrava la dinamica storica che aveva
portato al trionfo della civiltà borghese, celebrandone le conquiste politiche e culturali.
Nello stesso tempo, però, Il Manifesto denunciava iniquità e vizi della società borghese,
concludendo con un appello all’azione rivolto alla nascente classe operaia – considerata
da Marx il nuovo vettore del progresso sociale – affinché scalzasse la borghesia dalle sue
posizioni di dominio economico e politico, impadronendosi dello Stato: “I proletari non
hanno da perdere che le loro catene. Hanno un mondo da guadagnare. Lavoratori di tutto
il mondo, unitevi!”.
Il Manifesto conobbe una grande diffusione e il pensiero marxista, sistematizzato più
tardi in un poderoso trattato economico, il Capitale (il cui primo volume apparve nel 1867),
diventò nei decenni successivi una vera e propria ortodossia nel campo socialista, rischian-
do così di schiacciare e far dimenticare l’iniziale varietà che caratterizzava i movimenti di
emancipazione.
Un esempio calzante è quello del “socialismo utopistico”, secondo la definizione sprez-
zante che Marx e i suoi seguaci diedero al pensiero e alle pratiche di autori a loro pre-
cedenti, come Saint-Simon, Fourier, Owen e altri grandi utopisti e riformatori sociali, che
vennero considerati superati dal cosiddetto “socialismo scientifico” di stampo marxista (de-
finito “scientifico” in quanto si basava su una supposta oggettività di analisi delle dinamiche
socio-economiche).
Il socialismo utopistico (questa definizione, perdendo l’iniziale tono polemico, venne
fatta propria dalla storiografia) si era sviluppato a partire dagli anni Venti e Trenta del XIX
secolo e le sue radici si potevano rintracciare nel pensiero illuminista del Settecento. Dall’il-
luminismo il socialismo utopistico aveva ereditato la fiducia nelle possibilità realizzative di
una profonda attività riformatrice e l’ottimismo antropologico: la convinzione, cioè, della
sostanziale bontà dell’uomo e della sua capacità di miglioramento e perfezionamento.
Ma se il retroterra illuminista era sicuramente importante, le origini del socialismo uto-
pistico rimanevano strettamente legate alla nuova realtà economica europea della prima
metà dell’Ottocento. Il riferimento è allo sviluppo della manifattura e del commercio e alla
accumulazione di nuove ricchezze; tutto ciò delineava una fase di transizione nella quale i
cambiamenti imposti dalla rivoluzione industriale si incontravano e si scontravano, a parti-
re dall’Inghilterra, con le culture artigiane e rurali dell’economia preindustriale. Su queste
contraddizioni e fratture sociali si inserivano i progetti del socialismo utopistico.
Il primo autore di questa “scuola” fu il francese Claude Henri de Saint-Simon (1760-
1825). Egli riteneva che la più grave contraddizione della società fosse la subordinazione
politica che soffriva la sua parte maggiormente attiva e industriosa. I ceti produttori (in
primo luogo, imprenditori, operai e artigiani) erano generalmente subordinati negli ordi-
namenti dell’Europa della Restaurazione a quelli che Saint-Simon definiva gli “oziosi”: la
nobiltà e la borghesia parassitaria degli alti funzionari pubblici e dei grandi proprietari che
vivevano di rendita. Per superare questa contraddizione il potere politico andava assegna-
to ai produttori, puntando sulle loro capacità tecniche e competenze professionali. La mas-
sima attenzione dei nuovi governanti sarebbe stata riservata alla situazione delle classi più
numerose e più povere, cioè ai lavori manuali, ai quali si dovevano garantire condizioni di
vita e di lavoro soddisfacenti, incentivando forme di associazionismo e di mutuo appoggio.
264 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Quella prefigurata da Saint-Simon era una alleanza interclassista tra i produttori che egli
arrivò a descrivere come la definitiva realizzazione del messaggio evangelico nella società
industriale.
Dopo la morte di Saint-Simon, si imposero all’attenzione dei settori più progressisti
dell’opinione pubblica europea le visioni comunitarie dell’inglese Robert Owen (1771-
1858), esempio di imprenditore illuminato e riformista, e di un altro teorico francese, Char-
les Fourier (1768-1830). Entrambi pensarono a una rigenerazione sociale prodotta dall’e-
sempio di piccole comunità. Owen creò nel 1826, negli Stati Uniti, una colonia denominata
New Harmony, cercando di realizzarvi quei principi associativi e cooperativi che impronta-
vano la sua visione socialista. La difficile esperienza durò due anni, ma l’impegno di Owen
per promuovere l’associazionismo operaio proseguì anche nei decenni successici lascian-
do una forte impronta nel socialismo inglese tra Otto e Novecento.
In modo simile, Fourier immaginò un nuovo ordine sociale che avesse come cellula base
il “falansterio”, una comunità alloggiata in un grande complesso di edifici forniti di servizi
comuni (dalle cucine alla biblioteca, al teatro) e posti a centro di un ampio terreno agricolo.
Se Saint-Simon aveva calcato l’accento sullo sviluppo industriale, il mondo immaginato da
Fourier e Owen non prevedeva la grande industria, ma sistemi economici basati su piccole
manifatture e sul lavoro agricolo. In tutti questi autori la proprietà privata non sarebbe sta-
ta abolita, così come non sarebbero state eliminate in maniera coercitiva le diseguaglianze
sociali, che però dovevano essere mitigate dalle pratiche cooperative e associazionistiche.
Fu proprio questa loro caratteristica utopico-comunitaria, lontana da ogni idea di con-
flitto sociale, che avrebbe indotto Marx ed Engels a liquidarli come socialisti “utopisti”.
Marx tacciò di anacronismo anche il socialismo di Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865),
un tipografo francese autodidatta, che s’impose all’attenzione del dibattito culturale eu-
ropeo all’inizio del decennio 1840. Proudhon era un difensore della piccola proprietà in-
dividuale e si opponeva al sistema della grande industria fondato sullo sfruttamento dei
salariati. Nella sua visione la vittoria definitiva dei lavoratori si sarebbe ottenuta non neces-
sariamente con la rivoluzione, ma gradualmente attraverso alcune riforme di importanza
decisiva come l’istituzione di un sistema di credito gratuito che avrebbe liberato i piccoli
produttori dalla tirannia degli usurai e permesso di soddisfare i bisogni di ciascuno. Più in
particolare, Proudhon pensava a una banca di scambio in grado di assicurare ai lavoratori
singoli o associati, senza applicare interessi, i capitali necessari per riscattare dai proprie-
tari il possesso dei mezzi di produzione. In questo modo i contadini privi di terra (affittuari,
coloni, braccianti) si sarebbero trasformati in piccoli proprietari, e i lavoratori dell’industria
si sarebbero uniti in libere associazioni produttive. Tale processo di trasformazione sociale
avrebbe portato a una progressiva conciliazione tra le classi fino alla creazione – secondo
le parole di Proudhon – di una unica classe media “che non ha, a parlare propriamente, né
rendita, né salario, ma inventa, intraprende, valorizza, produce, scambia”.
Si trattava di una visione socialista improntata all’autogestione e alla cooperazione, del
tutto lontana dalla prospettiva del socialismo di Stato di un Louis Blanc o di un Karl Marx.
L’accentuazione dell’autonomia del sociale rispetto al potere pubblico portò Proudhon a
definirsi, per primo nella storia del pensiero politico, come “anarchico” e a teorizzare una
società senza Stato organizzata dal basso attraverso libere associazioni.
Capitolo 9. Nazione e moti costituzionali in Europa. Verso un nuovo equilibrio politico continentale 265

9.7. Paura della modernità: reazionari e conservatori

La sequenza di rivoluzioni e tentativi insurrezionali che percorse l’Europa dal 1789 al 1848,
con la contestazione radicale di ogni autorità costituita, sollecitò per tutta risposta l’elabo-
razione di una corrente di pensiero politico che faceva del principio della tradizione il solo
fondamento della vita collettiva capace di garantire pace internazionale e ordine interno.
Questo orientamento ideale diede un considerevole sostegno teorico alle scelte compiute
al Congresso di Vienna, tutte tese a rinforzare il legittimismo dinastico, ma il suo influsso
nella cultura europea proseguì anche nei decenni successivi.
La Restaurazione ebbe, dunque, i suoi teorici appassionati e intransigenti, i quali elabo-
rarono una cultura politica seccamente ostile alle istanze liberali e democratiche. A loro
avviso la causa profonda degli sconvolgimenti politici e sociali del recente passato stava
nel processo di secolarizzazione della società, cioè nella pretesa di sostituire all’opera in-
fallibile di Dio quella fragile dell’uomo. Auspicavano pertanto il ristabilimento di un ordine
monarchico e teocratico, retto da sovrani assoluti legittimati direttamente da Dio attraver-
so la mediazione della Chiesa. Fra questi scrittori possiamo ricordare Joseph de Maistre
(1753-1821), il nobile savoiardo che sognava un nuovo ordine mondiale in cui tutti i principi
fossero posti sotto la supremazia del papa, e il visconte Louis de Bonald (1754-1840), pro-
pugnatore del valore civile della tradizione cattolica.
Un posto di assoluto rilievo spetta poi al prete e filosofo francese Félicité de Lamennais
(1782-1854), di una generazione più giovane rispetto ai due precedenti. Inizialmente fauto-
re anch’egli di un programma di restaurazione teocratica, giunse poi ad accettare una par-
te dei risultati della Rivoluzione francese fino al punto di farsi promotore di un movimento
nuovo: il cattolicesimo liberale. Questa corrente di pensiero affermava la piena compatibi-
lità tra cattolicesimo e libertà, e rivendicava pertanto la libertà di stampa, di insegnamento
e di associazione e l’allargamento del diritto di voto.
Il progetto di Lamennais fu condannato dalle gerarchie cattoliche e il pensatore fran-
cese nel corso degli anni Trenta fu portato a staccarsi dalla Chiesa di Roma. Tuttavia la
sua riflessione eserciterà una profonda influenza sul cattolicesimo europeo e sulle idee
politiche e sociali della seconda metà dell’Ottocento, contribuendo a superare le posizioni
più retrograde.

9.8. Verso un nuovo equilibrio continentale (1849-1871)

I duri colpi di una “seconda restaurazione” colpirono, dopo il 1848-49, i movimenti per l’u-
nificazione nazionale che avevano trovato espressione, nel biennio rivoluzionario, sia in
Italia che in Germania. Le costituzioni adottate in alcuni stati tedeschi e italiani vennero
abrogate o rivedute in senso restrittivo delle libertà e dei diritti politici. Fin dal 1849 la
reazione infuriò in tutti i paesi che erano stati teatro di violente convulsioni politiche e so-
ciali. Anche in Francia, dopo una breve esperienza repubblicana e democratica, si instaurò
un regime autoritario guidato da Luigi Napoleone, che si dimostrò capace sia di attirare
il consenso popolare sia di rassicurare le forze conservatrici, garantendo l’ordine sociale.
Il colpo di Stato bonapartista avvenne il 2 dicembre 1851. Quel giorno, Luigi Napoleone
sciolse l’assemblea legislativa facendola occupare dai soldati. Dopodiché annunciò al po-
266 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

polo, il solo giudice che egli dichiarasse di riconoscere, un nuovo progetto costituzionale
che non prevedeva limitazioni temporali alla carica presidenziale. I cittadini francesi ven-
nero chiamati ad esprimere il proprio giudizio e appoggiarono a grandissima maggioranza
questa svolta autoritaria. Un anno più tardi, il 20 novembre 1852, attraverso un altro plebi-
scito, Luigi Napoleone trasformò la Repubblica in Impero, assumendo il titolo di Napoleone
III (l’unico figlio di Napoleone I era morto nel 1832). Si trattava del Secondo Impero france-
se, dopo quello proclamato dallo zio nel 1804 e terminato nel 1814.
In Italia, l’unica oasi di libertà costituzionale rimase il Regno sardo-piemontese, dove
spesso si rifugiarono gli esuli in fuga dal resto della penisola. Il nuovo sovrano, Vittorio
Emanuele II, si circondò di ministri liberali. Il più importante tra questi, Camillo Benso con-
te di Cavour, assunse nel 1852 la carica di primo ministro. Abilissimo diplomatico, Cavour
riuscì a guadagnare la promessa di un appoggio del governo francese in caso di una even-
tuale guerra mossa dall’Austria contro il Piemonte (accordi di Plombières dell’estate 1858).
In cambio dell’intervento militare, alla Francia sarebbero andate Nizza e la Savoia, due
regioni che facevano parte dello Stato sabaudo, ma che erano tradizionalmente francesi.
La guerra franco-sardo-austriaca scoppiò nell’aprile 1859 e, sulla scia delle notizie bel-
liche che giungevano dal Piemonte e dal Lombardo-Veneto, insorsero la Toscana, Parma,
Modena, Bologna e la Romagna. I sovrani filoaustriaci e le autorità pontificie abbandonaro-
no questi territori e il Piemonte inviò commissari regi e truppe a sostegno dei governi prov-
visori. A tutto ciò si aggiunse, l’anno successivo, una impresa militare non convenzionale:
quella capeggiata da Giuseppe Garibaldi che alla testa di un migliaio di patrioti sbarcò in
Sicilia ed ebbe la meglio sull’esercito borbonico, arrivando a liberare tutto il Mezzogiorno
d’Italia, Napoli compresa. Plebisciti popolari segnarono l’adesione dei territori liberati al
Piemonte e nel 1861 venne proclamato il Regno d’Italia.
Se le questioni legate al processo di unificazione dell’Italia verranno approfondite nel
prossimo capitolo, quel che importa ora notare, tracciando il quadro della situazione euro-
pea, è il fatto che con il 1861 venne definitivamente sovvertito l’ordine geopolitico fissato
al Congresso di Vienna, che aveva affidato all’Austria il controllo della penisola italiana. Il
colpo di grazia al vecchio assetto continentale arrivò pochi anni dopo, tra il 1866 e il 1871,
con l’unificazione della Germania.
Già a partire dal 1862, il nuovo primo ministro prussiano, Otto von Bismarck, pur essendo
assolutamente ostile alle idee liberaldemocratiche e alla volontà di trasformare la Prussia
in monarchia parlamentare, si impegnò nella ripresa di una politica nazionale. In pratica,
contrariamente ai progetti e agli ideali del 1848, il suo obiettivo era l’unificazione del popolo
germanico ma in chiave autoritaria e antiliberale.
La Prussia stava conoscendo una fase di forte sviluppo economico. L’abbondanza di
carbon fossile alimentava il funzionamento dei grandi altiforni dell’industria siderurgica,
mentre lo Stato cominciava a investire ingenti somme sia nella costruzione della rete fer-
roviaria che nella fabbricazione di armi pesanti: una forma di capitalismo dall’alto, cioè
incentivato e indirizzato dai soldi pubblici, che permise alla Prussia di raggiungere tassi di
crescita economica molto elevati.
Le ambizioni bismarckiane trovarono un primo banco di prova davanti alle sempre più
insistenti invocazioni irredentiste che venivano dalla popolazione di lingua tedesca dei du-
cati danesi dello Schleswig-Holstein e del Lauenburg. Dopo la morte del sovrano Federico
VII di Danimarca, Bismarck intravide la possibilità di porre sotto la tutela della Prussia que-
sti territori, dimostrando particolare interesse per lo Schleswig, che offriva la grande op-
portunità militare rappresentata dal porto di Kiel, base ideale per una flotta da guerra sul
Baltico. L’operazione militare contro la Danimarca, velocemente vittoriosa, venne attuata
Capitolo 9. Nazione e moti costituzionali in Europa. Verso un nuovo equilibrio politico continentale 267

nel 1864 con l’appoggio dell’Austria, che partecipò alle operazioni militari in cambio del
controllo di una parte dei territori conquistati.
L’equivoca comproprietà dei ducati danesi sarebbe presto diventata fonte di inevitabili
controversie, anche tenendo conto del fatto che l’obiettivo successivo di Bismarck era quel-
lo di eliminare ogni influenza austriaca sulla Confederazione germanica, che doveva diven-
tare invece terreno di esclusiva egemonia prussiana. Ormai annunciata, la guerra contro
Austria si svolse, con rapidità fulminante, nel 1866 e si risolse in un saggio di potenza ed
efficacia dell’esercito prussiano, armato in maniera eccellente e abile a utilizzare i traspor-
ti ferroviari per velocizzare gli spostamenti delle truppe. Come vedremo meglio nel cap. 10,
al conflitto partecipò marginalmente anche l’Italia, in posizione antiaustriaca.
In seguito alla vittoria, il Regno di Prussia poté ingrandirsi notevolmente, inglobando
alcuni territori limitrofi (tra cui i ducati danesi), ma non solo. Esso si poneva a capo, più o
meno direttamente, degli altri Stati tedeschi, riuniti in una Confederazione del Nord (pre-
sieduta dal re di Prussia, Guglielmo I Hohenzollern e governata da Bismarck, in veste di
cancelliere federale) e in una Confederazione del Sud (indipendente, ma legata da accordi
diplomatici ed economici con quella del Nord), mentre l’Austria abbandonava ogni pretesa
di influenza sull’intera regione.
L’ostacolo maggiore al definitivo compimento dell’unificazione tedesca era adesso costitui-
to dal veto posto da Napoleone III a una espansione della Prussia oltre la linea del fiume Meno
che separava la Germania settentrionale da quella meridionale.
La possibilità di riunire i territori delle due confederazioni, ridisegnando gli equilibri nel
cuore dell’Europa, fu data a Bismarck nel 1870, quando si presentò l’occasione di muovere
guerra alla Francia. Il sostegno prussiano alla candidatura di Leopoldo Hohenzollern per
il trono spagnolo, vacante dopo l’abdicazione della regina Isabella II di Borbone, venne
vissuta da parte di Napoleone III come una provocazione che avrebbe messo la Francia
in una tenaglia diplomatica e militare nelle mani della casa regnante di Prussia. La guerra
franco-prussiana scoppiò nel luglio 1870 e a dichiararla fu la stessa Francia, ormai esaspe-
rata dalla politica estera del rivale tedesco.
La provocazione di Bismarck aveva raggiunto in pieno il suo effetto. Anche gli Stati
della Confederazione del Sud aderirono spontaneamente, in un impeto patriottico, allo
sforzo bellico prussiano, nella convinzione che il sangue versato per far fronte all’attacco
francese avrebbe cementato definitivamente l’unità tedesca. Neppure due mesi dopo, la
sconfitta francese a Sedan (1° settembre 1870), nelle Ardenne, decretava la capitolazione
di Napoleone III e la fine del Secondo Impero. A Parigi una rivoluzione pacifica proclamava
nuovamente la repubblica: la Terza repubblica, dopo le esperienze del 1792-1804 e del
1848-1852.
Dal compimento del progetto di unità nazionale voluto dalla Prussia nasceva, invece,
nel gennaio 1871, il nuovo Impero tedesco (denominato anche Secondo Reich, perché inte-
so – non senza forzature – come successore di quel Sacro romano impero che si era dissolto
durante le guerre napoleoniche). La Germania era saldamente posizionata al centro del
continente e irrobustita dall’annessione di due regioni sottratte alla Francia: l’Alsazia e la
Lorena, ricche di risorse naturali.
L’esordio della Terza repubblica francese fu assai tempestoso. Quando il primo marzo del
1871 il governo provvisorio guidato da Thiers accettò le umilianti condizioni di pace imposte
dalla Germania (pesanti indennità di guerra e cessione dell’Alsazia e della Lorena all’Impero
tedesco), il popolo parigino decise di respingere quella capitolazione, alimentando un movi-
mento insurrezionale di impronta giacobina.
268 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Il potere rivoluzionario che si instaurò in città dopo l’insurrezione del 18 marzo passò
alla storia come “la Comune di Parigi”. Pur nella sua breve durata, la Comune fece propri
i principi della democrazia socialista: elettività di tutte le cariche pubbliche, salari uguali
per tutti, gestione sociale delle imprese, interruzione dei finanziamenti pubblici alla chiesa.
Nonostante la generosa resistenza popolare, le truppe del generale MacMahon riconqui-
starono la città il 21 maggio. Il tributo di sangue fu pesante: non meno di 30.000 i morti e
circa 10.000 le condanne al carcere e alla deportazione in Nuova Caledonia.
Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea:
dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra
di Carlo De Maria
Roma (BraDypUS) 2018
ISBN 978-88-98392-70-4
pp. 269-288

Capitolo 9. Nazione e moti costitu-


zionali in Europa. Verso un nuovo
equilibrio politico continentale
Approfondimenti
Profili
Metternich

La rivoluzione del 1848 costrinse alle dimissioni e al temporaneo esilio il cancelliere au-
striaco Klemens von Metternich, che era stato per oltre trent’anni il principale arbitro del-
la politica europea. Probabilmente non poteva esserci segnale più esplicito del fatto che
la storia d’Europa stava per voltare definitivamente pagina.
Nato a Coblenza nel 1773, Metternich si era formato tra Francia e Germania, studiando
nelle università di Strasburgo e Magonza. Negli anni successivi aveva viaggiato in Belgio e
in Inghilterra, per poi stabilirsi a Vienna e intraprendere la carriera diplomatica. Ambascia-
tore austriaco a Berlino, aveva lavorato tra il 1803 e il 1805 alla costruzione dell’alleanza
antinapoleonica tra Austria, Russia e Prussia. L’incarico successivo era stato all’ambasciata
di Parigi, dove le sue relazioni personali con Napoleone si erano fatte sempre più tese. Tor-
nato a Vienna, nel 1809 aveva assunto la guida del ministero degli Esteri. Nel 1821, infine,
sarebbe giunta la nomina a cancelliere di Stato dell’Impero austriaco.
Tuttavia, la sua consacrazione internazionale era già arrivava con il Congresso di Vien-
na, dove Metternich si era impegnato a modellare la carta politica dell’Europa alla ricerca
di un difficile equilibrio tra le potenze, che fosse finalmente in grado, dopo le tempeste
dell’età rivoluzionaria e napoleonica, di assicurare la tranquillità al vecchio continente,
anche a costo di abbracciare un retrivo conservatorismo politico e sociale. Nel cosiddetto
“sistema metternichiano”, l’interesse generale europeo coincideva con quello particolare
austriaco, e secondo questa logica anche il predominio della Casa d’Austria in Germania e
in Italia trovava piena giustificazione.
La rivoluzione napoletana del 1820 aveva offerto a Metternich l’occasione per affer-
mare concretamente il principio dell’intervento austriaco contro i tentativi di sovverti-
mento politico nella penisola. Dieci anni più tardi, però, il principio della legittimità dina-
stica (uno dei cardini della Restaurazione) subiva un grave scacco in Francia e in Belgio,
con Metternich costretto a riconoscere Luigi Filippo d’Orléans, re dei Francesi, e Leopoldo
di Sassonia, re dei Belgi. Proprio a partire dagli anni Trenta si assistette al progressivo tra-
270 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

monto dell’influenza del cancelliere austriaco in politica estera; un declino che proseguì
fino all’esilio del 1848.
Ritornato a Vienna nel 1851, Metternich fu prodigo di consigli verso il giovane impera-
tore Francesco Giuseppe, ma le sue indicazioni, sia che vertessero sull’inopportunità della
politica austriaca nella questione di Crimea sia che dissuadessero dall’ultimatum del 1859
al Piemonte, non trovarono ascolto. Il vecchio cancelliere morì a Vienna nel giugno 1859,
proprio alla vigilia dell’unità d’Italia e del conseguente crollo di quel sistema politico che
egli aveva contribuito a fissare nel 1815.

Profili
Napoleone III

Nel 1848, al momento dell’elezione a presidente della Repubblica, Luigi Napoleone Bo-
naparte aveva 40 anni e alle spalle una vita decisamente avventurosa. Del resto, come
principale erede della tradizione bonapartista, il suo destino era stato segnato fin dalla
giovinezza. Suo padre, che aveva seduto sul trono d’Olanda, era infatti il fratello minore di
Napoleone I.
Allevato dalla madre, Ortensia de Beauharnais, nella fede nei principi liberali e na-
zionali del 1789, il giovane Luigi Napoleone si era mostrato ben presto ostile al sistema
di potere fissato in Europa dal Congresso di Vienna. A poco più di vent’anni tramava coi
carbonari italiani, partecipando al movimento insurrezionale in Romagna (marzo 1831).
Pochi anni dopo, trasferitosi in Francia, tentava la restaurazione imperiale con due colpi di
mano militari (ottobre 1836 e agosto 1840). Condannato all’ergastolo e rinchiuso nel forte
di Ham, in Piccardia, era riuscito a fuggire in Inghilterra nel maggio 1846. A quel punto, la
sua figura riscuoteva già una larga popolarità.
Dopo la caduta di Luigi Filippo d’Orléans, nelle elezioni per l’assemblea costituente del
settembre 1848, venne eletto in molti collegi, forte del sostegno dell’opinione pubblica
moderata, che era preoccupata dalle dimostrazioni popolari dei mesi precedenti. Eletto il
10 dicembre alla presidenza della Seconda repubblica, seppe mostrarsi superiore ai partiti,
muovendosi in maniera spregiudicata e approfittando della sfiducia di molti francesi per
il parlamentarismo. Cosa non secondaria conquistò la fiducia della Chiesa, grazie soprat-
tutto alla “Legge Falloux” (1850) sulla libertà d’insegnamento. La via al colpo di Stato del
2 dicembre 1851 e alla restaurazione dell’Impero era ormai spianata. Legittimato da due
plebisciti trionfali, nel dicembre 1852 Napoleone III diventava “imperatore dei Francesi per
grazia di Dio e volontà della nazione”.
Il Secondo Impero si caratterizzò per una politica autoritaria (soppressione della libertà
di stampa, proscrizione e requisizione dei beni per gli avversari politici), che si coniugava
tuttavia con un benevolo paternalismo verso le classi umili. In politica estera, Napoleone III
inseguì un nuovo prestigio e una nuova centralità della Francia, sulla base di un progetto
piuttosto chiaro: costruire una Europa basata sul principio delle nazionalità, in antitesi col
sistema continentale austro-russo-prussiano. Il primo decennio di potere fu confortato, in
questo senso, da alcuni successi di rilievo: Napoleone III intervenne con l’Inghilterra contro
la Russia (guerra di Crimea), e fece da arbitro e mediatore nel congresso di Parigi (febbraio-
marzo 1856); quindi, scese in guerra col Piemonte contro l’Austria (aprile-luglio 1859).
Capitolo 9. Approfondimenti 271

Con gli anni Sessanta si registrò un graduale superamento del regime autoritario e la
nascita del cosiddetto “impero liberale”. Nel 1860 furono ripristinate alcune prerogative
tradizionali del parlamento, quattro anni più tardi vennero riconosciuti i diritti di sciopero
e di associazione e nel 1868 fu concessa una limitata libertà di stampa. Spintosi impruden-
temente nella guerra contro la Prussia, Napoleone III rimase vinto e prigioniero a Sedan,
mentre il suo regime veniva rovesciato. Liberato nel marzo 1871 dalla prigionia in Germa-
nia, si ritirò in Inghilterra e vi morì due anni più tardi.

Profili
Karl Marx

Formatosi come filosofo alla scuola hegeliana di Berlino, Karl Marx (1818-1883) individuò
nelle condizioni materiali, e più precisamente nell’economia, la forza motrice dell’evolu-
zione sociale. Questa interpretazione della storia, denominata “materialismo storico”, fu
alla base della sua intera opera. Secondo Marx, il processo produttivo mostra sempre un
carattere conflittuale: esso determina, cioè, il formarsi di gruppi sociali – le classi – in lotta
fra loro. Così come l’ascesa della borghesia aveva segnato la fine della società feudale,
nello stesso modo lo sviluppo del proletariato avrebbe determinato il superamento della
società borghese.
Espulso dalla Germania nel 1843 per le sue idee radicali, Marx approdò prima a Parigi
poi a Londra. Nel 1844 incontrò Friedrich Engels, il figlio di un ricco mercante tedesco che
si trovava a Londra per rappresentare la ditta del padre in Inghilterra. In realtà, Engels si
stava dedicando soprattutto allo studio delle condizioni della classe operaia nella nuova
società industriale e il suo esempio portò Marx ad approfondire l’analisi di quel sistema
economico.
Con lo sguardo rivolto all’Inghilterra e al mondo della grande industria, si precisò agli
occhi di Marx uno scenario sociale dominato dallo scontro tra una classe sfruttatrice, la
borghesia, e una classe di sfruttati, i proletari. Questa contraddizione rendeva inevitabile
una rivoluzione, condotta dalla classe operaia, che avrebbe dovuto togliere il potere po-
litico alla borghesia e affidare al controllo dello Stato i mezzi di produzione, avviando la
trasformazione verso il comunismo. La dittatura proletaria sarebbe terminata quando si
fosse giunti a una società di eguali, senza proprietà privata e distinzioni di classe.

Parole-chiave
Società segrete

A partire dall’inizio del secolo XIX, molte società segrete nacquero dappertutto in Europa
per realizzare un’efficace opposizione ai regimi dispotici e per sfuggirne l’azione repres-
siva. Riconoscevano solitamente legami e affinità con la Massoneria, una organizzazione
clandestina che si era diffusa nell’Europa occidentale e in America del Nord già nel corso
del Settecento (il nome alludeva alle corporazioni dei maestri muratori, “mason” in inglese,
272 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

costruttori di un nuovo ordine). Vicine al pensiero illuminista e alle pratiche riformatrici, le


logge massoniche cominciarono ad adottare obiettivi più chiaramente politici e rivoluzio-
nari nel momento in cui la Prima Repubblica francese (1792-1804) si trasformò in Impero,
tradendo sia le speranze dei giacobini in un rivolgimento sociale, sia le aspettative d’indi-
pendenza diffuse in quei paesi, come l’Italia, che le truppe napoleoniche avevano appena
liberato dai regimi assolutistici.
Per almeno una trentina d’anni l’importanza delle società segrete fu notevole, non solo
per i movimenti insurrezionali a cui diedero impulso (a Napoli e in Piemonte nel 1820-21
e in Francia, Belgio e Italia nel 1830-31, solo per ricordarne alcuni), ma anche per la circo-
lazione di idee che alcune di esse promossero in Europa. Il riferimento è in particolare alla
Carboneria, che era nata nell’Italia meridionale durante il periodo napoleonico e doveva il
proprio nome a simbolismi e rituali mutuati dall’antico mestiere dei carbonai.
Dopo essersi diffusa negli anni Venti e Trenta nel resto della penisola, oltre che in Spa-
gna e Francia, l’incidenza della Carboneria (come quella di tutte le società segrete) si esaurì
o comunque si affievolì intorno alla metà del XIX secolo, con il declinare dell’assolutismo
e con la scoperta da parte di intellettuali e attivisti politici del valore fondamentale dell’a-
gitazione pubblica.

Fonti e documenti
Le istanze democratiche e popolari nel dibattito pubblico
europeo (1830-1848)

Introduzione
La fiducia nell’iniziativa “dal basso”, nell’iniziativa popolare, per la conquista della libertà
e indipendenza delle nazioni oppresse caratterizzò la riflessione dell’intellettuale e agi-
tatore repubblicano Giuseppe Mazzini (1805-1872). Pur partendo dal caso italiano, il suo
progetto di emancipazione fu in grado di abbracciare l’intera Europa dei popoli e delle
nazionalità. La rivoluzione europea necessitava di popoli che si facessero “iniziatori” delle
trasformazioni politiche e che sapessero raccogliere il testimone dalla Francia del 1789. La
parola d’ordine lanciata da Mazzini a metà degli anni Trenta era quella dell’associazione,
perché in essa trovavano concreta espressione le istanze rivoluzionarie: libertà, uguaglian-
za e fraternità (testo n. 1).
Il più imponente movimento popolare della prima metà del XIX secolo fu quello carti-
sta inglese. La Carta del Popolo fu presentata alla Camera dei Comuni britannica nel 1839
con oltre un milione di firme a sostegno. La principale rivendicazione in essa contenuta
era il suffragio universale maschile. Gli altri punti di quella prima petizione richiedevano: il
voto segreto (la riforma del 1832, di cui si denunciavano i persistenti limiti, contemplava an-
cora votazioni “aperte”), il rinnovo annuale del parlamento, l’abolizione di ogni requisito di
proprietà per i deputati e la remunerazione per gli eletti, in modo che tutti, e non solo i be-
nestanti, potessero allontanarsi dalle loro occupazioni usuali e ricoprire il ruolo di deputati.
La Carta fu respinta dal parlamento, ma nel 1842 arrivò una seconda petizione (testo n.
2) con un numero ancora più consistente di firme, oltre tre milioni, dimostrando la grande
Capitolo 9. Approfondimenti 273

capacità di mobilitazione sulla quale poteva contare il movimento cartista, soprattutto tra
operai e artigiani. La petizione del 1842 aveva un tono più deciso ed era portatrice di istan-
ze più radicali – non solo relative ai diritti politici, ma anche ai diritti sociali, ad esempio in
materia di salari e condizioni di lavoro – rispetto a quella di tre anni prima. Non sorprende
allora che essa venisse respinta dall’assemblea legislativa con una maggioranza ancora
più larga.
Tuttavia, il Cartismo merita di essere ricordato almeno per due ragioni: la forza del mo-
vimento di opinione che riuscì a organizzare e a mantenere vivo per alcuni anni; il grande
significato delle richieste allora avanzate che rimasero punti fermi nella lotta per la con-
quista di un regime politico più democratico.
Dopo che le rivoluzioni del 1830 in Francia e Belgio avevano segnato la sconfitta dell’as-
solutismo, il ventaglio di moti rivoluzionari che si aprì in Europa nel 1848 mise in risalto
che accanto alle aspirazioni nazionali erano ormai presenti istanze popolari di mutamento
sociale. Dalle memorie di Tocqueville dedicate ai fatti accaduti in Francia nel 1848 (testo
n. 3) emerge in modo chiaro il carattere nuovo della rivoluzione parigina di febbraio: la
presenza attiva e determinante dei ceti popolari e operai.

Testo n. 1
Giuseppe Mazzini
Dell’iniziativa rivoluzionaria in Europa (1834)
Come avviene che noi, figli del XIX secolo, più inoltrati dei nostri padri del XVIII in tutti i
rami della conoscenza umana, possedendo per tutti i problemi sociali soluzioni, previsio-
ni almeno, più vaste, più esplicite, più organiche, più profondamente filosofiche, presti al
sacrificio, educati da quei lunghi patimenti morali che sono battesimo a tutte le grandi
iniziazioni, ci troviamo nondimeno inferiori ad essi di forza e potenza d’azione? Come av-
viene che ci trasciniamo di lotta in lotta senza avanzare, senz’aver potuto, dopo venti anni
di tentativi, liberarci dagli ostacoli che ci ingombrano la via, mentre in un breve spazio di
tempo i nostri padri riuscirono a distruggere credenze avverse, a rovesciare molti troni, a
immedesimare il loro fine in un popolo, a combattere, a vincere, e a collocare sulle rovine
d’un mondo l’individualità umana trionfante sotto la bandiera della libertà, dell’eguaglian-
za, della fratellanza? [...]
L’iniziativa è smarrita in Europa; e mentre ciascuno di noi dovrebbe lavorare a riconqui-
starla, tentiamo ostinatamente noi tutti di persuadere ai popoli ch’essa viva tuttavia attiva
e potente. Esiste, dal 1814 in poi, un vuoto in Europa; e invece d’operare a colmarlo, noi lo
neghiamo. Non v’è più, dal 1814 in poi, popolo iniziatore; e noi persistiamo a dichiarare che
il popolo francese è tale. [...].
Libertà, eguaglianza: belle e sante parole; ma come possiamo noi conquistarle e far sì che
trapassino nella vita reale dei popoli? per quali vie potranno, scese nella sfera dei fatti, im-
medesimarsi nella vita delle società europee? Perché siffatto, e non altro, è il problema. La
fede in quelle due cose siede or già dominatrice sull’anime: pochi contrastano la verità del
principio. La libertà è la Grecia, è Roma: l’eguaglianza è il Cristianesimo. Roma e la Grecia
non ordinarono, è vero, la libertà fuorché per una minoranza, pur nondimeno come concet-
to, essa escì dalle loro mani perfetta: essa è nostra conquista da allora in poi e noi siam tutti
figli d’un mondo, il cui germe fu raccolto dalla Grecia alle falde del Caucaso. E da quando
apparve Gesù, da quando ei diede di sulla Croce il verbo dell’uguaglianza a tutti gli uomini,
non visse un monaco di Wittemberg [Lutero] che ne trasmise la formola all’intelletto? non
274 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

si raccolse due secoli dopo un Concilio sotto nome di Convenzione [la Convenzione fran-
cese del 1792, alla quale si deve la proclamazione della repubblica], che compendiando il
lungo lavoro della Grecia, di Roma e di Cristo, decretò solennemente, tra plauso dell’Euro-
pa, l’emancipazione? Dalla dichiarazione dei Diritti in poi, la libertà e l’eguaglianza sono
elementi della natura umana. Ma la fede in esse, viva per ogni dove, aspetta tuttavia un
segnale per rivelarsi, per incarnarsi nei fatti: essa aspetta che la forza si manifesti nei popoli
per definirsi, formola conquistatrice, sulla loro bandiera e movere innanzi con essi in cerca
d’altre idee, d’altre rivelazioni, che accennano a un fine più vasto, pel quale la libertà e
l’eguaglianza non saranno se non mezzi e condizioni necessarie. È dunque indispensabile,
urgente l’agire più che il discutere; è necessario conquistare l’espressione materiale del
nostro diritto, tradurre in fatto terrestre il pensiero di Dio. [...]
Bisogna dunque assalire il problema di fronte, collocarsi al sommo della questione Euro-
pea, trascinare i popoli su terra vergine inesplorata, svelare ad essi tutta quanta la loro
missione con tutti i suoi doveri e tutte le sue conseguenze; poi dir loro: “È quello il da farsi,
l’intento: solo il lavoro di tutti può compirlo, ma ciascuno è capace di cominciare, e il primo
tra voi che darà il segnale del lavoro comune sarà il popolo iniziatore dell’Epoca e i suoi
fratelli lo saluteranno per lunghi secoli d’un nome di gloria e d’amore”.
Bisogna dire ad alta voce e ripetere con insistenza, che un’Epoca sta per conchiudersi, che
un’altra comincia, che il passato deve somministrare il punto di mossa, ma soltanto perché
le generazioni possano, nella fratellanza degli eguali, avanzarsi verso terre ignote dell’U-
manità, terre oggi incolte, intravvedute dagli intelletti, presentite dalle moltitudini, ma non
corse finora da popolo alcuno. Bisogna convincere se stessi e i popoli che la prima grande
epoca del mondo Europeo, dai primi tempi della Grecia fino ai cominciamenti del XIX se-
colo, ebbe missione di sviluppare l’individuo sotto ogni aspetto, l’io umano con tutte le sue
conseguenze che aveva a programma: Dio e l’Uomo, e che lo compì. Bisogna dire ai popoli
che la Francia, dopo d’avere essa sola, e prima fra le nazioni moderne, compito la propria
interna missione fondando nazionalità e forza sull’Unità – dopo d’aver compito parte della
propria missione esterna appoggiando del suo braccio per più secoli la Chiesa nel suo la-
voro cattolico – seppe compirla intera colla sua rivoluzione del 1789, riducendo a formola
della Dichiarazione dei Diritti i risultati dell’Epoca Cristiana, ponendo fuor d’ogni dubbio e
innalzando a dogma politico la libertà conquistata nella sfera dell’idea dal mondo greco-
romano, l’eguaglianza conquistata dal mondo cristiano e la fratellanza, ch’è conseguenza
immediata di quei due termini ma che non deve confondersi con l’associazione, della quale
essa non è in certo modo che la materia prima, la base.
E bisogna finalmente dir loro che l’Epoca individuale, avendo raggiunto la sua più alta
espressione, avendo ricevuto applicazione teorica a tutti i rami della conoscenza umana e
manifestato il proprio spirito in religione e in filosofia, in morale e in politica, in letteratura
e in economia politica, un altro sole comincia a splendere, un altro fine a rivelarsi; – che
l’Epoca sociale è oggimai quel fine: Dio e l’Umanità il suo programma: – che la nuova sin-
tesi deve rinnovare, ringiovanire ogni cosa e abbracciar tutto nella sua vasta equazione;
che i popoli devono guardare, non a ciò che fu, ma a quell’intento tuttavia inesplorato; che
devono cercare in se stessi e non in un lavoro che compendia il passato la soluzione del
problema; che hanno tutti, non solamente il diritto, ma il dovere, la missione, la necessità
di consacrarsi a quella ricerca; e che il primo al quale verrà fatto di scoprire il Vero su quel
problema dovrà, colla certezza d’essere seguito da tutti, annunziarlo altamente a tutti, non
solamente nella sfera delle idee, ma i quella dei fatti. [...]
Capitolo 9. Approfondimenti 275

È tempo di rinsavire. È tempo che, respingendo illusioni e suggerimenti codardi, una voce
si levi e dica: Su, destatevi! non udite sotterra un romore come di nave sfasciata nella tem-
pesta, un romor di rovina imminente? È la vecchia Europa che crolla; è il tempo che rode
un’epoca. E non udite sulla terra un fremito ignoto, un mormorio come di fermento segreto,
un soffio misterioso che scote e passa come brezza sul mare, come quell’alito che sfiora le
cime della foresta fra l’alba e il sorger del sole? È la giovine Europa che sorge: è il nascer
d’un’Epoca; è il soffio di Dio annunziatore del Sole dell’Umanità ai popoli. Figli di Dio e
dell’Umanità, levatevi e movete. L’ora suonò. La libertà vive in voi; l’eguaglianza che un
giorno s’aspettava in cielo passeggia oggi sulla terra che voi calcate, e al di sopra della re-
denzione individuale s’innalza la redenzione sociale. Sappiate compirla: mostratevi egua-
li all’impresa. Non dubitate del successo; non dite: siam deboli; quando Dio assegna una
missione ei v’aggiunge le forze necessarie a compirla. Ora, una missione v’è data: in nome
suo, siete fratelli ed eguali. Raggi dell’Umanità, voi movete tutti dalla stessa circonferenza
per convergere a un centro solo. Avanzate dunque tutti. La libertà di tutti deve essere con-
quista di tutti. Senza questa partecipazione comune nell’impresa come s’accetterebbe la
vostra missione? A qual titolo sareste ammessi nella grande federazione dei popoli che sta
preparandosi, nel Concilio futuro dell’Umanità? L’Unità europea come l’intese il passato è
disciolta: essa giace nel sepolcro di Napoleone. L’Unità europea, com’oggi può esistere, non
risiede più in un popolo: essa risiede e governa suprema su tutti. La legge dell’Umanità non
ammette monarchia d’individuo o di popolo; ed è questo il segreto dell’Epoca che aspetta
l’iniziatore. Quegli che tra voi, popoli, ha più patito e più lavorato sia tale. Il suo grido sarà
ascoltato da tutta Europa, e la palma ch’ei coglierà stenderà l’ombra sua su tutte le Nazio-
ni. Ed è tempo che in Francia gli uomini che si sentono degni del sacerdozio dell’avvenire si
levino, s’affratellino e dicano a quel popolo che fu maraviglia nel mondo, a quella gioventù
che sarà tale un giorno: l’iniziativa non è dietro a voi: essa v’è innanzi. Non è più racchiusa
nella teoria dei diritti, formola d’emancipazione individuale che i vostri padri conquista-
rono, conchiudendo un’Epoca: non è più nelle parole libertà, eguaglianza, traduzione del
doppio aspetto, subbiettivo e obbiettivo, vita propria e di relazione dell’io: non è più in quel-
la fratellanza, figlia dell’eguaglianza, religione individuale, espressione d’un fato anziché
definizione d’un principio, che unisce senza associare, connette due termini senza dirigere
la loro attività collettiva verso la conquista d’un terzo, e santifica il presente senza creare il
futuro. L’iniziativa è nell’Umanità, nuovo concetto, programma non veduto dai vostri padri,
nell’Umanità che ha per suo metodo il Progresso, come il Progresso ha per suo metodo
l’Associazione. In essa è riposta la religione dell’avvenire. Non v’addormentate nella tenda
che v’innalzarono i vostri padri: il mondo s’è mosso: movete con esso. Non rimproverate
d’ingratitudine le razze perché disertano la vostra bandiera del 1789 e salutano una ban-
diera, quella della loro madre comune, al di là. Non preparaste voi stessi l’emancipazione
che invocano? Non li guidaste al limite ch’oggi tendono ad oltrepassare? Oltrepassatelo
con esse. Voi operaste grandi cose nel vecchio mondo: preparatevi ad altre. Non cercate la
sovranità nel passato: tentate di coglierla nell’avvenire.
F. Gaeta - P. Villani, Documenti e testimonianze. I grandi problemi della storia contemporanea
nei testi originali e nelle interpretazioni critiche, Milano, Principato, 1979, pp. 133-136.
276 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Testo n. 2
Il movimento cartista in Gran Bretagna: la petizione nazionale del 1842
I latori di questa petizione sostengono che la vostra onorevole Camera non è stata eletta dal
popolo, che la popolazione di Gran Bretagna e Irlanda è oggi di circa 26 milioni di persone,
e nondimeno solo 900.000 persone o poco più hanno avuto il diritto di eleggere la Camera
dei rappresentanti che delibera le leggi che governano tutto il popolo. Lo stato attuale della
rappresentanza è non soltanto estremamente limitato e ingiusto, ma inegualmente diviso,
cosicché conferisce influenza preponderante agli interessi della terra e della finanza esclu-
dendo quelli del piccolo commercio e del lavoro. La circoscrizione di Guildford con una
popolazione di 3920 persone elegge al parlamento tante persone quante Tower Hamlets
che ha una popolazione di 300.000; Evesham con 3.998 abitanti tanti quanti Manchester che
pur conta 200.000 anime... e questi non sono che pochi esempi delle enormi disuguaglianze
presenti in quello che viene definito il sistema rappresentativo di questo paese. [...].
Migliaia di persone stanno morendo di fame in Inghilterra, in Irlanda, in Scozia e nel Galles;
e i latori di questa petizione, coscienti che la povertà è la causa del delitto, osservano con
stupore e allarme quanto poco si fa in questo paese per i poveri, i vecchi e gli infermi; e pa-
rimenti s’indignano per l’ostinazione della vostra onorevole Camera a mantenere la nuova
legge dei poveri nonostante le molte prove che la triste esperienza ha offerto del carattere
anticostituzionale della legge, della sua natura anticristiana e dei suoi effetti crudeli sui
salari dei lavoratori e sulle vite dei sudditi di questo regno. I latori di questa petizione vor-
rebbero indirizzare l’attenzione della vostra onorevole Camera sulla disparità esistente fra
i salari dei milioni che producono e le entrate di coloro la cui utilità sociale dovrebbe esser
messa in discussione: donde ne consegue che ricchezza e lusso prevalgono fra i governanti,
povertà e miseria fra i governati. I latori di questa petizione, con tutto il dovuto rispetto e
la dovuta lealtà, paragonano il reddito quotidiano della Sovrana Maestà con quello di mi-
gliaia di lavoratori di questa nazione: così essi hanno appreso e accertato che mentre Sua
Maestà riceve per uso privato la somma giornaliera di 164 sterline, 17 scellini e 10 soldi,
migliaia di famiglie di lavoratori ricevono soltanto tre soldi e mezzo a testa, e mentre Sua
Altezza Reale il principe Alberto riceve 104 sterline e 2 scellini al giorno migliaia vivono
con tre soldi per giorno. I latori di questa petizione hanno inoltre appreso con stupore che
il re di Hannover riceve 57 sterline e 10 scellini al giorno mentre migliaia di contribuenti di
questo impero vivono con due soldi e tre quarti a testa e che l’arcivescovo di Canterbury
riceve giornalmente 52 sterline e 10 scellini, mentre migliaia di poveri devono mantenere
la loro famiglia con un reddito non eccedente i 2 scellini al giorno.
I latori di questa petizione sanno che è indiscusso diritto costituzionale del popolo quello
di riunirsi liberamente e lamentano che questo diritto sia stato anticostituzionalmente vio-
lato e che 500 persone ben intenzionate sono state arrestate, eccessive garanzie richieste,
giudicate da giurie precostituite, buttate in prigione e trattati come felloni della peggior
specie. Una polizia non costituzionale è sparsa in tutto il paese con enormi costi, per pre-
venire l’esercizio dei diritti del popolo. E i latori di questa petizione sono convinti che le
bastiglie della legge dei poveri e le guarnigioni di polizia sono il frutto della stessa causa,
l’accresciuto desiderio dei pochi irresponsabili di opprimere e ridurre alla fame i molti. [...].
I latori di questa petizione lamentano che le ore di lavoro, in particolare fra i lavoratori di
fabbrica, sono protratti oltre i limiti della umana sopportazione, e che i salari guadagnati
a seguito di un lavoro innaturale in officine caldissime e insalubri, non sono adeguati a
sostenere quella salute ed a offrire quei conforti che sono così necessari dopo un eccessivo
Capitolo 9. Approfondimenti 277

dispendio di energie fisiche. I latori di questa petizione inoltre dirigono l’attenzione della
vostra onorevole Camera sui salari di fame dei lavoratori agricoli ed osservano con orrore
e indignazione l’ignobile salario di coloro che pur producono gli alimenti fondamentali del
popolo intero.
I latori di questa petizione lamentano inoltre che oltre nove milioni di sterline vengono
ingiustamente sottratte annualmente al popolo per mantenere una Chiesa di Stato e vi
invitiamo a confrontare il comportamento di questa con la condotta del fondatore della
religione cristiana...
G. Bianco - E. Grendi, La tradizione socialista in Inghilterra. Antologia di testi politici 1820-
1852, Torino, Einaudi, 1970, pp. 346-348.

Testo n. 3
Alexis de Tocqueville
Memorie sul febbraio 1848 in Francia
La rivoluzione di febbraio come tutti gli altri avvenimenti di questo genere, nacque da cau-
se generali fecondate – se così si può dire – da accidenti; e sarebbe altrettanto superficiale
farla derivare del tutto dalle prime, come l’attribuirla unicamente ai secondi.
La rivoluzione industriale che da trent’anni aveva fatto di Parigi la prima città industriale
di Francia ed aveva attirato fra le sue mura tutto un popolo d’operai al quale i lavori delle
fortificazioni avevano aggiunto un altro popolo di coltivatori, che ora si trovavano senza
lavoro; la bramosia dei godimenti materiali, che sotto lo stimolo del governo stesso ecci-
tava sempre più tale moltitudine; il malessere democratico dell’invidia che sordamente la
tormentava; le teorie economiche e politiche, che cominciavano a penetrare e che tende-
vano a farle credere che le miserie umane siano opera delle leggi e non della provvidenza,
e che si sarebbe potuta sopprimere la povertà cambiando le assisi sociali; il disprezzo in cui
era caduta la classe che governava e soprattutto gli uomini che la capeggiavano, disprezzo
così generale e profondo che paralizzò la resistenza di quelli stessi che avevano il maggio-
re interesse a mantenere il potere che veniva rovesciato; la centralizzazione, che riduceva
tutta l’opera rivoluzionaria a rendersi padroni di Parigi e a mettere la mano sulla macchina
bell’e montata del governo; infine la mobilità di tutte le cose: istituzioni, idee, costumi ed
uomini in una società mobile, che è stata scossa da sette grandi rivoluzioni in meno di ses-
sant’anni, senza contare una moltitudine di piccole cose secondarie: questo, dico, furono le
cause generali, senza le quali la rivoluzione di febbraio sarebbe stata impossibile. Gli acci-
denti principali che la provocarono furono poi le passioni della opposizione dinastica, che
preparò una sommossa volendo fare una riforma; la repressione di tale sommossa, prima
eccessiva poi rilasciata; la scomparsa improvvisa degli antichi ministri che venne d’un trat-
to a spezzare la continuità del potere, che i ministri nuovi, nel loro turbamento non seppero
né riaffermare, né riannodare; gli errori e il disordine spirituale di quei ministri così incapaci
nel riedificare quel che erano stati capaci di scuotere; le esitazioni dei generali, l’assenza di
quei principi che soli avevano popolarità e vigore, ma soprattutto una specie di imbecillità
senile del re Luigi Filippo, debolezza che nessuno avrebbe potuto prevedere, e che ancora
oggi, dopo l’avvenimento che ce l’ha svelata, resta quasi incredibile.
Io mi sono chiesto diverse volte che cosa mai avesse potuto produrre nell’animo del re
quell’inaudito e improvviso accasciamento. Luigi Filippo aveva passato la vita in mezzo
alle rivoluzioni, e certamente non gli mancava né l’esperienza, né il coraggio, né lo spirito,
sebbene quel giorno gli siano venuto completamente a mancare. Penso che la sua debo-
278 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

lezza sia venuta dall’eccesso di sorpresa; restò atterrito prima di aver capito. La rivoluzione
di febbraio fu imprevista per tutti, ma per lui più che per tutti gli altri: nessun segno esterno
lo aveva preparato, perché già da molti anni l’animo suo si era chiuso in quella specie di
orgogliosa solitudine, nella quale finisce quasi sempre per vivere l’intelligenza dei principi
lungamente felici, che ritenendo genio la loro fortuna, non vogliono ascoltare più nulla,
perché credono di non aver più nulla da imparare da nessuno. D’altronde Luigi Filippo era
stato ingannato, come già dissi che lo erano stati i suoi ministri, da quella ingannevole luce
che getta la storia dei fatti anteriori sul tempo presente.
Si potrebbe fare un quadro ben singolare di tutti gli errori che si sono generati gli uni dagli
altri senza rassomigliarsi: ecco Carlo I [il sovrano inglese decapitato nel 1649] spinto all’ar-
bitrio ed alla violenza per aver visto i progressi che aveva fatto lo spirito d’opposizione in
Inghilterra sotto il mite regno di suo padre; ecco Luigi XVI deciso a tollerare qualunque
cosa perché Carlo I era morto non volendo sopportare nulla; ecco Carlo X provocare la
rivoluzione, perché aveva sotto gli occhi la debolezza di Luigi XVI; ecco finalmente Luigi
Filippo, il più perspicace di tutti, il quale immaginava che per restare sul trono bastasse
falsare la legalità senza violarla, e che, a patto ch’egli s’aggirasse nel cerchio della Carta,
la nazione non ne sarebbe uscita neppur essa. Sviare lo spirito della costituzione senza
cambiarne la lettera, porre i vizi del paese gli uni contro gli altri, sommergere dolcemente
la passione rivoluzionaria nella bramosia dei godimenti materiali, questo era stato il pen-
siero di tutta la sua vita; e pian piano era divenuto non solo il primo ma l’unico; in esso si
era chiuso, in esso aveva vissuto. E quando si accorse d’un colpo che era falso, gli avvenne
come a colui che svegliato la notte da un terremoto, e sentendo tra le tenebre crollare la
casa, ed avendo l’impressione che il suolo medesimo crolli, sotto i suoi piedi, resta smarrito
nella rovina universale e imprevista.
Passai tutto il pomeriggio a passeggiare per Parigi: due cose mi colpirono sopra tutto: pri-
ma il carattere – non dico principalmente – ma unicamente ed esclusivamente popolare
della rivoluzione che avveniva; l’onnipotenza che essa aveva dato al popolo propriamente
detto, cioè alle classi che lavorano colle loro mani, sopra tutte le altre. La seconda fu la
scarsità di passioni astiose, anzi a dir vero di qualsiasi passione viva che il basso popolo,
divenuto d’un colpo padrone di Parigi, mostrò in quel primo momento.
Sebbene le classi operaie avessero spesso avuto la parte principale negli avvenimenti della
prima repubblica, non erano mai state le conduttrici e le uniche padrone dello stato né in
fatto né in diritto; la Convenzione probabilmente non aveva in sé un sol uomo del popolo;
era piena di borghesi e di letterati. La guerra tra la Montagna e la Gironda fu condotta, da
una parte e dall’altra, da membri della borghesia, ed il trionfo della prima non fece mai
arrivare il potere nelle sole mani del popolo. La rivoluzione di luglio era stata fatta dal
popolo, ma la classe media l’aveva suscitata e condotta e ne aveva raccolto i frutti princi-
pali. La rivoluzione di febbraio, al contrario, sembrava esser fatta esclusivamente al di fuori
della borghesia e contro di essa.
In questo grande cozzo, le due parti che componevano principalmente in Francia il corpo
sociale, avevano in qualche modo finito di separarsi, ed il popolo una volta separatosi era ri-
masto padrone del potere. Nulla era più nuovo nei nostri annali; rivoluzioni analoghe erano
in verità avvenute, in altri paesi e in altri tempi, perché la storia stessa dei nostri giorni, per
nuova e imprevista che sembri, appartiene sempre, in fondo, alla vecchia storia dell’uma-
nità, e quelli che noi chiamiamo fatti nuovi non sono il più delle volte che fatti dimenticati.
Firenze, specialmente sul finire del medioevo aveva presentato in piccolo uno spettacolo
simile al nostro; alla classe dei nobili era succeduta in un primo momento la classe dei bor-
Capitolo 9. Approfondimenti 279

ghesi, poi un giorno questa era stata a sua volta cacciata dal governo e s’era visto un gonfa-
loniere marciare a piedi nudi alla testa del popolo e guidare in tal modo la repubblica. Ma
a Firenze, tale rivoluzione popolare era stata prodotta da cause passeggere e particolari,
mentre qui era stata prodotta da cause così permanenti e generali che, dopo aver agitato la
Francia, c’era da credere avrebbe sommosso tutto il resto d’Europa. Questa volta, non si trat-
tava solo di fare trionfare un partito; si aspirava a fondare una scienza sociale, una filosofia
[il riferimento è al socialismo], sto per dire una religione adatta ad essere appresa e seguita
da tutti gli uomini. Era questa la parte realmente nuova del vecchio quadro.
F. Gaeta - P. Villani, Documenti e testimonianze. I grandi problemi della storia contemporanea
nei testi originali e nelle interpretazioni critiche, Milano, Principato, 1979, pp. 200-203.

Dibattito storiografico
Che cos’è una nazione?

Introduzione
Il concetto di “nazione” non è privo di ambiguità e contorsioni di significato. Per comin-
ciare a far chiarezza è opportuno, da una parte, marcare la differenza tra nazione e Stato,
dall’altra individuare i differenti fondamenti che può avere il sentimento di appartenenza
nazionale. Di questo si occupano i saggi del sociologo Ernest Gellner (testo n. 1) e del poli-
tologo James Kellas (testo n. 2).
Se gli europei tendono a far coincidere la nazione con una popolazione nata in un luo-
go da molte generazioni, questo approccio non si applica al caso degli Stati Uniti, dove tut-
tavia esiste un radicato sentimento nazionale basato non sulla razza o sulle comuni origini
culturali, ma su principi di vita associata condivisi. Nell’ambito di una trattazione a tutto
campo della letteratura sul concetto di nazione, Kellas presenta tre differenti aspetti del
sentimento di appartenenza nazionale: il “nazionalismo etnico”, fondato sulla comune di-
scendenza; il “nazionalismo sociale”, costruito intorno a una comune cultura; infine, il “na-
zionalismo ufficiale”, proprio degli Stati nei quali convivono più culture ed etnie. Quest’ul-
timo può essere contestato al suo interno da movimenti che si rifanno al fanatismo della
“purezza della razza” oppure, all’opposto, aprirsi a un vago multiculturalismo che rischia di
minare le fondamenta della convivenza sociale.
Come riassume Vera Zamagni (testo n. 3), possiamo affermare con sicurezza che Stato
e nazione non sono concetti sovrapponibili, il primo facendo riferimento ad uno spazio le-
gislativo e politico comune, senza implicazioni riguardo alle caratteristiche delle persone
che lo popolano, e il secondo, invece, facendo coincidere lo Stato con una “particolare”
popolazione, identificata da una comunità di lingua, cultura, storia, quando non addirittura
di religione e di etnia.
L’Italia rappresenta un caso emblematico di come, per molti secoli, la dimensione del
potere pubblico non abbia coinciso con quella “nazionale”. Il patriottismo italiano nacque,
tra XVIII e XIX secolo, con forti venature politico-culturali e seppe unire, secondo le clas-
siche pagine di Benedetto Croce (testo n. 4), “religione, letteratura, vigore di pensiero e di
studi severi, apostolato di redenzione nella libertà, semplice e generoso cuore popolare-
280 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

sco...”. A rendere il Risorgimento qualcosa di più di un movimento elitario di intellettuali e


scrittori furono figure come quella di Giuseppe Garibaldi, “ingrediente essenziale” – secon-
do le parole di Denis Mack Smith (testo n. 5) – nel guadagnare molta gente comune a una
causa nazionale che a tanti sarebbe altrimenti sembrata remota e senza vantaggi di sorta.

Testo n. 1
Ernest Gellner
Stato e nazione
La definizione di nazione presenta difficoltà ancora maggiori di quelle che accompagna-
no la definizione di Stato. Sebbene l’uomo moderno tenda a dare per scontato lo Stato
centralizzato (e, più specificatamente, lo Stato nazionale centralizzato), egli è, tuttavia,
capace, con uno sforzo relativamente piccolo, di vederne la contingenza, e di immaginare
una situazione sociale in cui lo Stato sia assente. Inoltre, dispone delle nozioni necessarie
a visualizzare lo “stato di natura”. L’antropologo può spiegargli che la tribù non è neces-
sariamente uno Stato su piccola scala, e che esistono forme di organizzazione tribale cui
lo Stato rimane assolutamente estraneo. Viceversa, l’idea di un uomo senza nazione sem-
bra imporre uno sforzo troppo grande all’immaginazione dell’uomo moderno. Chamisso,
un emigré francese in Germania durante il periodo napoleonico, scrisse un significativo
romanzo proto-kafkiano su un uomo che aveva perso la sua ombra: sebbene parte dell’ef-
ficacia di questo romanzo s’imperni indubbiamente sull’intenzionale ambiguità della pa-
rabola, è difficile non sospettare che, per lo scrittore, l’Uomo senza Ombra fosse l’Uomo
senza Nazione. [...].
L’uomo deve avere una nazionalità come deve avere un naso e due orecchi; una deficienza
in uno qualunque di questi particolari non è inconcepibile, e di tanto in tanto si verifica, ma
solo in conseguenza di qualche sciagura, ed è essa stessa una specie di sciagura. Tutto ciò
sembra ovvio, anche se, ahimè, non è vero. Ma che sia finito per sembrare tanto ovviamente
vero è certo un aspetto, o forse il nocciolo stesso, del problema del nazionalismo. Avere
una nazione non è un attributo intrinseco dell’uomo, ma oggi è arrivato ad apparire tale.
Di fatto, le nazioni, come gli Stati, sono una contingenza, non una necessità universale. Né
le nazioni né gli Stati sono esistiti in tutti i tempi e in tutte le circostanze. E inoltre, nazioni
e Stati e non sono la stessa contingenza. Il nazionalismo sostiene che nazione e Stato sono
fatti l’una per l’altro; che l’una senza l’altro rappresenta qualcosa di incompleto e crea una
tragedia. Ma prima che si potesse stabilire questo connubio, l’una e l’altra hanno dovuto
emergere, e il loro emergere è stato indipendente e contingente. Lo Stato è certamente
emerso senza l’aiuto della nazione. Alcune nazioni sono certamente emerse senza la bene-
dizione dei propri Stati. [...].
Che cos’è dunque questa idea contingente di nazione che, però, nella nostra epoca pare
essere trasversale e normativa? La discussione di due definizioni provvisorie e improvvisate
aiuterà a individuare con esattezza questo elusivo concetto.
1. Due uomini sono della stessa nazione se e soltanto se condividono la stessa cultura, dove
cultura significa a sua volta un sistema di idee, di segni, di associazioni e di modi di compor-
tamento e di comunicazione.
2. Due uomini sono della stessa nazione se e soltanto se si riconoscono reciprocamente
appartenenti alla stessa nazione. In altri termini, “è l’uomo che fa le nazioni”; le nazioni
sono i manufatti delle convinzioni, delle lealtà, delle solidarietà degli uomini. Una semplice
categoria di persone (gli occupanti, diciamo, di uno stesso territorio, coloro che parlano la
Capitolo 9. Approfondimenti 281

stessa lingua, ecc.) diventa una nazione se e quando i membri della categoria riconoscono
compatti alcuni reciproci diritti e doveri di virtù della comune appartenenza ad essa. È il
loro vicendevole riconoscimento come consociati di questo tipo ciò che li trasforma in una
nazione, e non altri attributi comuni, quali che siano, che distinguono questa categoria da
coloro che non ne sono membri.
Ciascuna di queste definizioni provvisorie, la culturale e la volontaristica, possiede alcuni
meriti. Ciascuna mette in luce un elemento che è di reale importanza per la comprensione
del nazionalismo. Ma nessuna delle due è adeguata. [...].
Senza dubbio la volontà o il consenso costituiscono un fattore importante nella formazio-
ne della maggioranza dei gruppi, grandi e piccoli. L’umanità è sempre stata organizzata
in gruppi, di forme e dimensioni di tutti i tipi, talvolta nettamente definiti talaltra vaghi,
talvolta collocati in un posto preciso talaltra con tendenza a sovrapporsi e a intrecciarsi.
La varietà di queste possibilità, e dei principi in base ai quali questi gruppi vennero reclu-
tati e si mantennero, è infinita. Ma due agenti o catalizzatori generali della formazione e
del mantenimento dei gruppi sono ovviamente cruciali: la volontà, l’adesione volontaria
e l’identificazione, la lealtà, la solidarietà da un lato; e dall’altro, la paura, la coercizione,
l’obbligo. Queste due possibilità costituiscono i poli estremi di una specie di spettro. Alcune
comunità si possono basare esclusivamente, o prevalentemente, sull’uno o sull’altro, ma in
genere sono rare. I gruppi più duraturi si basano su un misto di lealtà e identificazione (su
una identificazione voluta) e di incentivi estranei, positivi o negativi, su speranze e paure.
Se definiamo le nazioni come gruppi che vogliono durare come comunità, la rete-definizio-
ne che abbiamo gettato in mare ci frutterà una pescata di gran lunga troppo ricca. Insomma,
ammesso pure che la volontà sia la base di una nazione, essa è la base di talmente tanti altri
aggregati che non è ragionevolmente possibile definire la nazione in questa maniera. [...].
Qualsiasi definizione di nazione in termini di cultura comune è un’altra rete che frutta una
pescata di gran lunga troppo ricca. La storia umana è, e continuerà a essere, abbondan-
temente dotata di differenziazioni culturali. I confini culturali sono talvolta netti talaltra
confusi; i modelli sono talvolta chiari e semplici talaltra tortuosi e complessi. [...].
Se, per tali ragioni stringenti, queste due vie apparentemente promettenti verso la defini-
zione della nazionalità non sono percorribili, ne esiste forse un’altra?
Il grande, ma valido, paradosso è questo: è l’età del nazionalismo che definisce le nazioni e
non l’inverso, come potrebbe sembrare più logico. Ciò non significa che l’“età del nazionali-
smo” sia una mera somma di risveglio e autoaffermazione di questa, quella o di quell’altra
nazione. Piuttosto quando le condizioni sociali generali favoriscono culture superiori stan-
dardizzate, omogenee, sostenute centralmente, che si estendono a intere popolazioni e non
solo a minoranze, si viene allora a creare una situazione in cui le culture unificate, garantite
dai meccanismi educativi e ben definite, costituiscono quasi l’unico tipo di unità con cui gli
uomini si identificano volentieri, e spesso con entusiasmo. Le culture appaiono ora come le
naturali depositarie della legittimità politica. Soltanto in questo momento diventa chiaro
che ogni violenza sui loro confini da parte delle unità politiche costituisce uno scandalo.
In queste condizioni, sebbene in queste condizioni soltanto, le nazioni possono veramente
essere definite in termini sia di volontà sia di cultura, e veramente si può parlare di conver-
genza dell’una e dell’altra con le unità politiche. In queste condizioni gli uomini esprimono
la volontà di essere politicamente uniti con quelli, e con quelli soltanto, che condividono la
loro cultura. Gli Stati esprimono allora la volontà di estendere i propri confini fino ai limiti
delle proprie culture, e di proteggere e imporre le proprie culture fin là dove arriva il loro
282 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

potere. La fusione di volontà, cultura e Stato diventa la norma, e una norma non facilmente
o frequentemente trasgredita.
E. Gellner, Nazioni e nazionalismo, Roma, Editori Riuniti, 1985, pp. 8-10, 61-64.

Testo n. 2
James G. Kellas
Nazioni ed etnie
L’idea del nazionalismo e l’ideale della nazione-Stato non erano necessariamente basate
sulla etnicità; l’elemento saliente era piuttosto l’unione volontaria degli individui in uno
Stato con una cultura condivisa. Questo è il punto di vista di Gellner sul carattere delle
nazioni-Stato. [...].
Tuttavia, in epoca moderna, soprattutto nel ventesimo secolo, l’etnicità è diventata più im-
portante nel campo politico, e il nazionalismo etnico (o “etnonazionalismo”) è stato un
aspetto tipico di una forma di nazionalismo. Si tratta essenzialmente di un nazionalismo
“esclusivo”, dato che esclude dall’appartenenza alla nazione quelle persone che non con-
dividono la comune etnicità, che di solito significa una comune discendenza.
Una forma più aperta di nazionalismo è quella che qui viene chiamata “nazionalismo so-
ciale”. Questa è basata su una cultura nazionale condivisa, ma non su una comune discen-
denza. È “inclusiva”, in quanto chiunque può adottare quella cultura e entrare a far parte
di quella nazione, anche se non è considerato un membro della “nazione etnica”. Il “nazio-
nalismo sociale” può quindi essere distinto dal “nazionalismo etnico” da una parte e dal
“nazionalismo ufficiale o di Stato” dall’altra parte: il secondo è essenzialmente basato sul
patriottismo, e non comporta necessariamente una base etnica o culturale.
In pratica queste categorie non sempre si escludono a vicenda, e il loro significato potrà
essere chiarito ulteriormente da alcuni esempi reali, che mostrano in quale modo queste
categorie possono essere applicate nel mondo contemporaneo.
Nazionalismo etnico: è il nazionalismo di gruppi etnici come i Curdi, i Lettoni, i Tamil, che
definiscono la propria nazione in termini esclusivi, per lo più in base a una comune di-
scendenza. In questo tipo di nazionalismo, nessuno può “diventare” curdo, lettone o tamil
adottando gli usi di uno di quei paesi.
Nazionalismo sociale: è il nazionalismo di una nazione che si definisce attraverso i legami
sociali e la cultura piuttosto che attraverso una comune discendenza. Questo tipo di nazio-
nalismo dà importanza al comune senso di identità nazionale e alla vita sociale e culturale
della nazione, ma gli estranei possono entrare a far parte della nazione se si identificano
con essa e ne adottano le caratteristiche sociali. [...].
Nazionalismo ufficiale: è il nazionalismo dello Stato, e abbraccia tutti coloro che hanno
legalmente il diritto di essere cittadini, indipendentemente dalla loro etnicità, identità na-
zionale o cultura. Alcuni Stati vengono correttamente chiamati “Stati-nazione”, perché lo
Stato è formato esclusivamente da una nazione etnica o da una nazione sociale. Nella
maggior parte dei casi, però, gli Stati sono multietnici e multinazionali. Per esempio, il Re-
gno Unito è formato da quattro nazioni (Inghilterra, Scozia, Galles e una parte dell’Irlanda);
ma si può anche parlare di una nazione britannica e di un nazionalismo britannico. Questa
nazione ufficiale e questo nazionalismo ufficiale sono basati sui cittadini britannici e sul
loro patriottismo. Però all’interno della Gran Bretagna esistono anche nazionalismi socia-
li, in Scozia e nel Galles, dove ci sono partiti nazionalisti che rivendicano la condizione
Capitolo 9. Approfondimenti 283

di Stato per queste nazioni. Nell’Irlanda del Nord, gli irlandesi perseguono l’unificazione
dell’Irlanda, che dovrebbe includere tutta la popolazione dell’isola, senza considerare la
religione o l’etnicità. In Gran Bretagna esistono alcuni nazionalisti etnici i cui obiettivi sono
“l’Inghilterra agli inglesi”, “la Scozia agli scozzesi”, “il Galles ai gallesi” e “l’Irlanda agli irlan-
desi”. Questi nazionalisti sono o politicamente di estrema destra, o interessati soprattutto a
promuovere il nazionalismo culturale.
Gli Stati Uniti sono uno Stato multietnico formato da un’unica nazione sociale. Se da una
parte si può sostenere che il nazionalismo statunitense è solo patriottismo, cioè un na-
zionalismo ufficiale piuttosto che un nazionalismo sociale, dall’altra parte di fatto esso
comporta qualcosa di più di una esibizione di fedeltà allo Stato: significa l’adozione della
cultura nazionale statunitense nella lingua, nell’istruzione, nel mezzi di comunicazione e
nel comportamento sociale. In altri termini, il patriottismo e l’omogeneità culturale vanno
di pari passo. Anche la Gran Bretagna, pur avendo il proprio nazionalismo ufficiale, è in par-
te una nazione etnica e sociale. Ci sono molti matrimoni misti tra i gruppi etnici, particolar-
mente tra gli scozzesi, i gallesi, gli inglesi e gli irlandesi, per cui ora le loro etnicità separate
sono diventate alquanto confuse. [...]. La “nazione sociale” in Gran Bretagna è rappresentata
dalla comune cultura britannica, soprattutto nei mass media, nell’istruzione, negli affari e
nella politica.
I nazionalismi etnici e sociali costituiscono una minaccia per qualsiasi Stato che non abbia
un’etnicità comune o una identità e una cultura condivise. Per superare questo problema,
lo Stato deve diventare o uno Stato-nazione etnico, o uno Stato-nazione sociale o uno Stato
multinazionale che garantisce diritti etnici o sociali alle nazioni al suo interno. Quest’ulti-
mo tipo di Stato riconosce ufficialmente il pluralismo culturale.
J.G. Kellas, Nazionalismi ed etnie, Bologna, il Mulino, 1993, pp. 73-75.

Testo n. 3
Vera Zamagni
L’Italia come Stato nazionale
Stato e Nazione non sono concetti coestensivi, il primo facendo riferimento ad uno spazio
di legislazione e di politica comuni senza nulla implicare riguardo alle caratteristiche delle
persone che popolano lo Stato, e il secondo, invece, facendo coincidere lo Stato con una
“particolare” popolazione, identificata da una comunità di lingua, cultura, storia, quando
non addirittura di religione e di etnia. Nell’Ottocento e in parte del Novecento, la mancanza
di libertà in molti Stati europei fece ritenere che gli Stati dovessero essere “nazionali” per
poter dar voce al popolo e dunque ci furono diffuse lotte di “liberazione” basate sull’idea
di Stato nazionale. Molti degli economisti italiani parteciparono attivamente a questo mo-
vimento, contribuendo a delineare il destino di riscatto economico che il desiderato Stato
nazionale italiano avrebbe dovuto perseguire, un riscatto economico che doveva tornare a
vantaggio di tutti attraverso la realizzazione di una via “nazionale” alla politica economica.
Come ha scritto lo storico dell’economia Roberto Romani: “L’economia politica raffigurava
l’Italia come avrebbe dovuto essere – libera politicamente, percorsa da ferrovie e canali, fe-
condata da capitali di rischio, aperta al commercio col resto dell’Europa – diventando così
vessillo di battaglia, sapere in sé moderno”. Il fatto stesso che alcuni fra i principali attori
dell’unificazione italiana fossero economisti – Cavour, Scialoja, Minghetti, Luzzatti, per non
citare che i più importanti – dimostra quanto detto senza ombra di dubbio.
284 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Lo Stato moderno nato dal machiavellismo e dal contrattualismo comprendeva già un


paio di importanti dimensioni economiche: in primo luogo la fiscalità e in secondo luogo
le regole di funzionamento del mercato. Non si può esercitare alcuna sovranità senza un
adeguato sistema fiscale che permetta ai governi di disporre di una potenza militare e
di costruire le infrastrutture di base (porti e strade) per l’ordinato svolgersi dei commerci.
Questa fiscalità diventò un grave argomento di tensione fra potere politico e sudditi, con
l’Inghilterra fortemente orientata a farne oggetto di condivisione del potere tra monarca e
parlamento (no taxation without representation), non senza passi indietro e rivolte, mentre
gli Stati continentali furono molto più assolutisti fino alla Rivoluzione francese, che ebbe
origine proprio da un tentativo dei re francesi di alzare unilateralmente la tassazione senza
approvazione da parte del “Terzo Stato”. Quanto alle regole di funzionamento del mercato,
la tendenza era a piegarle alla “ragion di Stato”, con il mercantilismo, generando un movi-
mento contrario a partire dalla seconda metà del Settecento, quando l’Illuminismo diffuse
i principi della sovranità popolare e dell’industrialismo. Il welfare non era all’epoca una di-
mensione dello Stato, bensì veniva esercitato direttamente dalla società civile organizzata,
con le numerose istituzioni finanziate ed amministrate da associazioni ed opere pie; solo
in qualche caso c’era un diretto interessamento delle amministrazioni locali (come nelle
Poor laws inglesi).
Nel XVIII secolo il concetto di nazione verrà ampiamente accreditato come caratteristica
superiore dello Stato, ma incominciò ad assumere una espressione politica con la rivo-
luzione olandese e con i rivolgimenti politici portati dalle armate napoleoniche in varie
parti dell’Europa. Lo Stato nazionale aggiunge al concetto di Stato sovrano un significato
culturale, linguistico, di storia e tradizioni condivise, talora (ma non sempre) di religione
comune, con la “etnia o razza” in un sottofondo popolato spesso di fantasmi. Anche la “co-
scienza” di essere nazione e/o la “volontà” di esserlo vengono ritenuti elementi soggettivi
qualificanti dello Stato nazionale. Le molte contraddizioni che un simile concetto di Stato
viene ad assumere quando si scontra con popolazioni “nazionali” abitanti territori non con-
tigui, con minoranze sparse qua e là e con storie che presentano una mancanza di linearità
non possono essere qui trattate. Quello che ci interessa è vedere quali sono le dimensioni
economiche che un tale concetto di Stato nazionale aggiunge rispetto a quello di Stato
tout court. Almeno tre sono le dimensioni significative: libertà e autodeterminazione dei
“popoli nazionali”, con il loro seguito di volontà di unificazione e di affermazione econo-
mica; l’anelito a diffondere il progresso nelle classi popolari; la ricerca delle vie “nazionali”
alla prosperità economica (ricerca dell’identità, anche in economia). Ciò che cercheremo
di illustrare è come il pensiero economico italiano abbia interpretato queste nuove dimen-
sioni dello Stato nazionale, senza escludere osservazioni anche sui più consolidati ruoli
economici che uno Stato moderno deve giocare.
L’Italia rappresenta un caso assai interessante di come la dimensione statuale non abbia
coinciso con quella “nazionale” per molti secoli. Inizialmente, la repubblica, poi impero, dei
romani comprendeva assai più dei popoli “latini” che la fondarono; dopo il disfacimento
dell’impero, ciò che risorse dalle sue ceneri fu la civiltà di città gelose della propria libertà
ed autonomia al punto da contrastare a lungo qualunque forma di collaborazione/coordi-
namento fra di loro. I loro conflitti finirono col coinvolgere alleanze con potenze straniere
che talora assoggettarono i territori italiani al loro dominio, producendo un forte arretra-
mento politico e civile e un mosaico di staterelli dall’economia asfittica e dal dubbio futuro
politico. Fu così che, con poche eccezioni, tutti i migliori economisti italiani a partire dalla
Capitolo 9. Approfondimenti 285

fine del XVIII secolo furono a favore dell’unificazione nazionale e della formazione di uno
“Stato nazionale”.
V. Zamagni, Stato nazionale, in Il pensiero italiano. Economia, a cura di V. Zamagni e P. Porta,
Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana Treccani, 2012.

Testo n. 4
Benedetto Croce
Risorgimento e patriottismo culturale
L’opera nazionale e politica, giunta a termine nel 1870, è stata più volte, e dagli stranieri più
che dagli italiani, giudicata mirabile; quale (si disse) soltanto la genialità italiana, ardita e
sennata, idealistica e insieme realistica, poteva delineare ed eseguire, imprimendole, come
alle grandi opere della sua arte, il suggello della innata classicità. Queste espressioni e
modi immaginosi, nati da meraviglia e ammirazione, e perciò lirici e poetici, disconvengo-
no, non meno di quelli satirici, al calmo pensiero indagante e intendente, che non conosce
se non processi logici o “naturali”. E nondimeno, anche alla più fredda critica, quel “Ri-
sorgimento” d’Italia, quel suo impeto nazionale, quel suo rapido raccogliersi e fondersi in
unità statale, si dimostra una delle più felici, delle più chiare attuazioni di quanto lo spirito
europeo, da oltre un mezzo secolo, si era proposto a fine dell’opera sua e amava come la
bella creatura del suo sogno.
Preparato nel moto delle riforme del secolo precedente, aveva acquistato coscienza nel-
le esperienze della Rivoluzione francese e dei rivolgimenti che le tennero dietro in Italia;
da illuministico e cosmopolitico era diventato nazionale, senza perdere nobiltà di umano
e universale sentire; aveva provato i mezzi delle sette e delle congiure, e, ritrovatili non
abbastanza efficaci e moralmente non giovevoli, aveva messo al loro luogo l’aperta cospi-
razione della cultura e la preparazione delle menti e degli animi; aveva persistito per alcun
tempo a vagheggiare la repubblica unitaria di tradizione giacobina, ma si era discostato
da quella idea per risvegliato senso storico, che lo portava a tentare la federazione dei
molteplici e tradizionali Stati italiani, tra i quali era quello del pontefice; aveva, in ultimo,
abbandonato anche l’idea federale per effetto delle esperienze del Quarantotto e pel ma-
turato senno politico, stringendosi attorno alla monarchia dei Savoia.
Religione, letteratura, vigore di pensiero e di studi severi, apostolato di redenzione nel-
la libertà, semplice e generoso cuore popolaresco, chiaroveggenza di uomini politici dal
sagacissimo intelletto, sangue e sofferenza di martiri e sacrifici di ogni sorta, cautela di
diplomatici, cavalleresco intervento guerriero di una vecchia stirpe regia con l’esercito a
lei devoto, idealità monarchica e idealità repubblicana, queste varie e diverse forze e virtù
avevano concorso con concorde discordia all’opera; e l’Europa guardava con commosso
compiacimento l’Italia cogliere il frutto dei suoi lunghi e nobili sforzi, congiungere al suo
passato di gloria un vivo presente.
B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari, Laterza, 1928, pp. 27-28.
286 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Testo n. 5
Denis Mack Smith
Garibaldi e la questione nazionale
Negli anni 1859 e 1860 Garibaldi cessò di essere ciò che fino ad allora era via via stato – ma-
rinaio, pirata, agricoltore, rivoluzionario radicale – e divenne lo stilizzato eroe nazionale
d’innumerevoli testi di storia.
Aveva appena passato i cinquant’anni. Nel tardo 1859 il ministro inglese Hudson si recò a
visitarlo su suo invito; la sua prima impressione fu quella di “un uomo alto circa un metro e
settantadue, di aspetto soldatesco, dalle spalle larghe, il torace profondo e i fianchi sottili,
che camminava lestamente, con grandi e miti occhi color nocciola e la voce profonda”. Il
viso, ruvido ma espressivo, era stato abbronzato e indurito dalla vita all’aria aperta; “ed
era lo specchio di un cuore gentilissimo e generoso”, disse John Bright la prima volta che
lo vide. Di maniere aperte e cortesi, senza alcuna presunzione evidente; aveva tuttavia,
accanto a un’ingenuità infantile, anche il tono imperioso di chi è abituato a comandare e
ad essere ubbidito. Parlava poco, ma bene. Era semplice e diretto, invitava alla confidenza;
al fascino della sua personalità non ci si poteva sottrarre.
Un altro inglese che lo vide qualche volta quell’anno fu l’attaché militare colonnello Cado-
gan. Siccome l’influsso di Garibaldi poteva essere forte in futuro, era importante prendere
conoscenza delle sue qualità; tanto che accurati commenti vennero inviati al governo di
Londra. Come gli altri, anche Cadogan fu impressionato dal fascino reale di quelle maniere
e di quella voce. Lo si paragonò a George Washington per la grande serietà di proposito, la
grande energia d’esecuzione, l’amore disinteressato per il proprio paese senza ambizioni
personali. Tutti facevano commenti su questo magnanimo disinteresse. Garibaldi era pro-
fondamente sincero e possedeva “un carattere semplice, con illusioni quasi puerili sulla
natura umana”. Abbiamo di nuovo un riferimento all’aspetto infantile della sua mentalità.
Le classi più povere lo chiamavano “il padre d’Italia”. “Le sue idee, benché larghe e oneste,
di rado si sollevano al di sopra delle trite generalità popolaresche. Ma forse proprio per
questa ragione egli esercita sulla gente comune un influsso che un’intelligenza più coltiva-
ta potrebbe non riuscire a produrre”. Il commento era incisivo e giusto.
Garibaldi non aveva un carattere che si facesse notare per complicatezza; ma anche la
monolitica integrità della gente semplice è talvolta venata da inclinazioni rivali e contrarie.
Nel 1859, riconosciamolo, egli era soprattutto un patriota che aveva appreso da Mazzini
e dalla propria coscienza come la redenzione del suo paese diviso e arretrato fosse il più
nobile dei fini. Ma era quasi altrettanto un internazionalista che non permetteva mai al
patriottismo locale di oscurare l’affetto per l’umanità in genere. Nutriva profonda ammira-
zione per altri paesi, specie per gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Svizzera; i suoi pensieri
correvano spesso a progetti di Stati Uniti d’Europa e d’una utopistica condizione di pace e
fratellanza universale.
Un’altra contraddizione apparente è quella fra la continua adesione al repubblicanesimo
come miglior forma di governo e la ferma lealtà di quasi tutta la sua vita verso la corona
piemontese. Se la Real Casa di Savoia finì per trionfare su tutte le altre possibili soluzioni
della questione italiana – per esempio, su quelle repubblicana o d’una penisola divisa o
federata –, lo si dovette a Garibaldi almeno quanto a chiunque altro.
Al di sotto di tutti questi contrasti apparenti c’è un fatto costante: i principi fondamentali di
Garibaldi erano ammirevoli e restavano fermi malgrado ogni sua instabilità o stravaganza
pratica. Tutto il suo guerreggiare e tutta la sua attività politica poggiavano su di un saldo
Capitolo 9. Approfondimenti 287

umanitarismo e su di un inflessibile amore per la libertà. Essenzialmente, lo si può chiama-


re radicale e democratico, perché questi termini descrivono qualcosa di tipico e di inalte-
rabile nel suo carattere. Mazzini parlò di lui come della “vivente incarnazione delle libertà
popolari”. Egli non usò il “lei” se non rivolgendosi a re Vittorio Emanuele; proibì espressa-
mente, ogni volta che gli fu possibile, il degradante abito di baciar la mano a un uomo e
l’uso ossequioso di titoli onorifici. Tutti gli uomini sono nati liberi e uguali agli occhi di Dio.
Era l’archetipo dell’uomo comune; e gli uomini comuni da New York a Newcastle e a Pa-
lermo subito si riconobbero in lui, con l’aggiunta che egli aveva fatto strada migliorando la
condizione di tutti. Quasi letteralmente, divenne il loro santo protettore; troviamo perfino
una stampa popolare che mostra un Garibaldi-Cristo con la mano alzata a benedire. I suoi
tratti forti e benevoli coi capelli alla nazzarena, contribuivano all’illusione; ci furono con-
tadini che, vedendolo, credettero realmente in un’apparizione o in un secondo avvento.
I movimenti nazionali del secolo decimonono avevano bisogno di un tal tipo di persona,
trascendente e idealizzato ma fortemente individualistico. La notorietà e l’éclat di Gari-
baldi furono un ingrediente essenziale nel guadagnare molta gente comune a una causa
nazionale che sarebbe altrimenti sembrata remota e senza vantaggi, se pur la capivano. La
formazione dell’Italia risultò una vittoria degli intellettuali, dei liberali, delle classi medie;
non certo degli ignoranti, che a stento sapevano il significato della parola Italia; non dei
poveri, che ne sentirono la presenza solo in tasse e coscrizioni; non di quanti persero un
ordine sociale paternalistico e protettivo per passare ad aspre competizioni dove falliva il
più debole; non delle masse cattoliche, che videro il papa spogliato del potere temporale,
i monasteri dissolti e le proprietà ecclesiastiche confiscate. Non c’è dubbio che il prestigio
di Garibaldi fra la gente ordinaria contribuì a nascondere quello che stava realmente acca-
dendo finché fu troppo tardi per opporsi a esso.
L’individualismo delle sue idee ed azioni, in pratica, era anch’esso un’inattesa fortuna per la
causa del Risorgimento. Retrospettivamente, l’unificazione italiana può sembrare pianifi-
cata e inevitabile; di fatto allora molte cose si decidevano un po’ come venivano; lungi anzi
dallo sviluppare piani preconcetti, non c’era stata mai molta coordinazione e direzione
intelligente da parte di qualcuno. Fu dunque prezioso Garibaldi con quel suo spensierato
prender la legge in mano senza calcolare il costo e le conseguenze; come fu preziosa la sua
non critica ma intuitiva fiducia, incrollabile dal 1849 in poi, che “l’Austria era un colosso di
creta cadente a pezzi”. Con una simile fede cieca e irragionevole e con il coraggio di assurdi
convincimenti, un uomo può muovere le montagne o spostare una frontiera.
Dall’altro canto Cavour, più tardi innalzato ad architetto dell’unificazione nazionale, era
invece rimasto scettico fin quasi all’ultimo istante. Ci voleva l’attività pericolosa e irrespon-
sabile di gente come Garibaldi per convincerlo della praticità politica del patriottismo. Ca-
vour era capace di calcolare i costi e di paventare i pericoli; mentre Garibaldi cominciava
una rivoluzione senza pensarci sopra, pronto a essere rinnegato se falliva o sfruttato dal
governo se gli andava bene. Infine Cavour, quando alfine si mise alla testa dei patrioti, lo
fece perché temeva che Garibaldi e i radicali non solo monopolizzassero il patriottismo ma
lo rendessero rivoluzionario in politica sia interna che estera. Per restare primo ministro e
in un’Italia conservatrice, dovette in parte far proprio il programma di Garibaldi.
Cavour e Garibaldi erano entrambi necessari ai successi del 1859-60. Le due ali del movi-
mento nazionale, la conservatrice e la radicale, si trovavano di fatto in parziale alleanza
pur continuando a diffidare una dell’altra. Era in gran parte opera di Daniele Manin, ve-
neziano, esule a Parigi, il quale fondò la Società Nazionale per diffondere la dottrina che
288 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

rivoluzionari e monarchici dovevano formare un fronte unitario. Garibaldi si iscrisse alla


società e Cavour si tenne in contatto.
Già nel 1854 Garibaldi diceva che non avrebbe più dato il suo appoggio a sporadici moti
mazziniani ove mancasse quello della monarchia piemontese. Il Piemonte aveva un eserci-
to di quarantamila uomini e risorse senza le quali sarebbe stato problematico riuscire; ave-
va inoltre un monarca ambizioso, il cui desiderio di espandere il Piemonte stesso poteva
trasformarsi nel desiderio di creare una nazione affatto nuova, l’Italia unificata. Garibaldi
insisteva pertanto che tutte le fazioni si unissero al Piemonte come all’elemento più forte
nella penisola. Pur restando in teoria un repubblicano convinto, giudicava la società italia-
na ancor troppo arretrata e corrotta per la repubblica ed era pronto a servire fedelmente
e senza riserve re Vittorio Emanuele. Questo fatto ebbe un’importanza enorme. Il nome di
Garibaldi era già magico; la sua adesione alla strada intermedia della Società Nazionale fu
un momento decisivo nella storia d’Italia.
D. Mack Smith, Garibaldi, Bari, Laterza, 1970, pp. 65-69.
Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea:
dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra
di Carlo De Maria
Roma (BraDypUS) 2018
ISBN 978-88-98392-70-4
pp. 289-302

Capitolo 10. Il Risorgimento e


l’unificazione dell’Italia
Profilo storico

L’unificazione italiana diede forma unitaria di Stato a una entità geografica che il nome
“Italia” aveva avuto quasi due millenni prima, al tempo della tarda repubblica e poi dell’im-
pero romano, quando la penisola era riunita sotto il dominio di Roma. Tuttavia, a partire
dalla discesa dei Longobardi nel 568 l’Italia non era più stata unita dal punto di vista poli-
tico. Per ben tredici secoli, la sua storia si era presentata come un susseguirsi di diverse e
frammentate forme politiche, almeno in parte condizionate da ruolo assunto da potenze
extra-italiane. La presenza straniera aveva preso, a seconda dei periodi, le sembianze del
dominio germanico, bizantino, arabo, francese, spagnolo, austriaco. Nonostante ciò un nes-
so unitario e nazionale particolarmente forte aveva resistito nella cultura e nella produzio-
ne letteraria: si pensi, ad esempio, a Dante, Boccaccio, Tasso e Ariosto.
La nascita di uno Stato nazionale italiano si affermò come obiettivo primario presso im-
portanti gruppi sociali e culturali della penisola fin dal 1796, nella fase espansiva della Ri-
voluzione francese. Questo obiettivo politico rimase vivo negli anni della Restaurazione e
animò molti protagonisti della Prima guerra di indipendenza e dei moti democratici del 1848-
49. L’Unità del paese fu concretamente raggiunta tra il 1861, con la proclamazione del Regno
d’Italia, e il 1870, l’anno della presa di Roma.
Il termine “risorgimento” entrò in uso verso la metà del secolo XIX per indicare nel dibat-
tito pubblico e nella lotta politica il movimento patriottico e liberale sviluppatosi in Italia
nei cinquant’anni precedenti. L’immagine risorgimentale implicava, evidentemente, l’idea
di una ripresa delle energie vitali della nazione dopo un periodo di eclissi. I riferimenti a
un passato esemplare, a cui richiamarsi, facevano appello a diversi periodi storici: la Roma
repubblicana o imperiale, la Roma cristiana e cattolica, l’Italia dei liberi comuni, l’Italia del
Rinascimento; a tutte queste immagini era comune la convinzione che l’italianità non fosse
un fatto recente, ma che la nazione italiana avesse dietro di sé un lungo e glorioso passato.
Il Risorgimento, dunque, aveva il compito di rivendicare all’Italia il diritto all’indipendenza
nel contesto delle grandi nazioni europee: era diffusa la certezza che questo fosse un dirit-
to storicamente acquisito e moralmente incontrovertibile.
Più di quanto avvenne in Germania, l’aspirazione all’indipendenza della “patria” si arricchì
di istanze volte a una trasformazione profonda del quadro istituzionale del paese in senso
liberale e democratico. Non mancarono, infatti, differenze notevoli nei progetti di unificazione
290 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

e nel disegno delle forme di rappresentanza. Più precisamente, i gruppi liberali e moderati,
che si strinsero sempre più intorno a Camillo Benso di Cavour e al Regno di Sardegna, im-
maginavano un paese indipendente, con una monarchia costituzionale e un parlamento che
fosse espressione di un numero ristretto di elettori appartenenti ai ceti più colti e agiati. L’altro
grosso filone del movimento risorgimentale, largamente egemonizzato dal pensiero e dalle
strategie politiche di Giuseppe Mazzini, sosteneva invece l’opzione repubblicana e il suffragio
universale maschile (il voto alle donne cominciò a essere motivo di dibattito all’interno degli
ambienti più progressisti della politica italiana solo sul finire dell’Ottocento).
Una evidente crisi interna degli Stati italiani si era già manifestata nel triennio rivoluzio-
nario di fine Settecento (1796-1799) e poi nei moti del 1820-21, 1831 e 1848-49. L’immobi-
lismo politico, le scelte repressive e la gestione poliziesca dell’ordine pubblico, con la sola
eccezione del Piemonte costituzionale, approfondirono ovunque la frattura tra i sovrani e le
forze sociali che chiedevano libertà di espressione, diritti politici e l’indipendenza da poten-
ze straniere. In quel contesto, il Regno di Sardegna funzionò da catalizzatore di una vivace
e attenta emigrazione politica. Si può stimare che il numero medio dei rifugiati nel periodo
compreso tra il 1850 e il 1858 oscillasse tra i 20 e i 30 mila, provenienti per la maggior parte
dal Lombardo-Veneto austriaco, ma in misura minore anche da tutti gli altri Stati italiani.

10.1. La politica estera di Cavour e gli ultimi tentativi mazziniani


10.1.1. Il Piemonte costituzionale e la guerra di Crimea.
Furono le scelte di politica estera compiute da Cavour, che divenne primo ministro del
Regno di Sardegna nel 1852, a proiettare lo Stato sabaudo in una dimensione politica pie-
namente europea, consentendo sviluppi diplomatici decisivi anche per quanto concerneva
i piani di unificazione politica della penisola. Cavour cercò soprattutto di conquistare l’ap-
poggio diplomatico e militare di Luigi Napoleone, che con il colpo di Stato del 2 dicembre
1851 aveva rinverdito in Francia i fasti imperiali di inizio Ottocento e che – proprio per la
tradizione napoleonica a cui si richiamava – era ostile all’Austria e a quel che rimaneva
dell’ordinamento europeo fissato a Vienna nel 1814.
Per attuare le aspirazioni cavouriane occorreva un cambiamento della situazione interna-
zionale. L’occasione venne fornita dalla guerra scoppiata, nel marzo 1854, in Europa orientale
fra la Russia, da una parte, e la Francia e l’Inghilterra, dall’altra. L’anno precedente lo zar Ni-
cola I aveva attaccato l’Impero turco con la volontà di riprendere l’espansione verso i Balcani
e il Mediterraneo orientale. La pronta reazione di Inghilterra e Francia al tentativo russo di
alterare gli equilibri di potenza nel Vecchio continente condusse a quella che venne chiama-
ta “guerra di Crimea”, per il fatto che i combattimenti si svolsero soprattutto nell’omonima
penisola del Mar Nero.
Francia e Inghilterra cercarono l’appoggio dell’Austria e, per spingere Vienna a interve-
nire, pensarono che occorresse garantirla alle spalle da un possibile attacco del Regno di
Sardegna (non erano, infatti, passati molti anni dalla Prima guerra di indipendenza). Perciò
la diplomazia francese e quella inglese premettero sul Piemonte affinché partecipasse a sua
volta alla guerra. Gran parte dell’opinione pubblica italiana non comprese i motivi per i quali
ci si doveva andare a battere così lontano da casa per una causa non italiana, e per giunta in
una coalizione a cui partecipava anche l’Austria. Cavour invece vi intravide la possibilità di far
Capitolo 10. Il Risorgimento el’unificazione dell’Italia 291

entrare il Piemonte nel vivo degli equilibri della politica europea. Così, concluso velocemente
un trattato di alleanza con Francia e Inghilterra, nel gennaio 1855 il Regno di Sardegna inviò
in Crimea 15 mila soldati, che diedero ottima prova di sé sul campo di battaglia.
Al principio dell’anno seguente il nuovo zar russo, Alessandro II, fu costretto, di fronte a una
alleanza militare così estesa, a chiedere la pace. Per definirne i termini fu convocato a Parigi, nel
febbraio 1856, un congresso internazionale, al quale venne ammesso, nonostante l’opposizione
dell’Austria, anche il Piemonte, rappresentato proprio da Cavour.
Benché la guerra di Crimea non producesse nell’immediato vantaggi di rilievo per il
Regno di Sardegna, essa ebbe però l’effetto di accreditare, agli occhi di Francia e Inghilter-
ra, il governo di Torino come un interlocutore affidabile nel difficile scenario italiano. La
situazione della penisola, infatti, era giudicata pericolosamente instabile sia dai diploma-
tici francesi che da quelli inglesi. E ciò che intimoriva di più le segreterie di Stato di Parigi e
Londra era la possibilità che in Italia potesse prendere piede, fuori dal loro controllo, una
rivoluzione repubblicana e democratica promossa da Giuseppe Mazzini, il quale continua-
va a svolgere una attiva azione di propaganda e proselitismo.

10.1.2. Carlo Pisacane e la spedizione di Sapri.


Già promotore fin dagli anni Trenta di diverse organizzazioni patriottiche (tra le quali, ri-
cordiamo la Giovine Italia e la Giovine Europa), Mazzini aveva creato nel 1853 il Partito
d’Azione, aperto a tutti coloro che fossero contrari o scettici verso le modalità – esclusiva-
mente diplomatiche ed elitarie – assunte dall’iniziativa nazionale del Regno di Sardegna e
di Cavour. Tra i militanti repubblicani che risposero al suo appello, una delle figure di mag-
gior rilievo fu quella del napoletano Carlo Pisacane, già protagonista della difesa militare
della Repubblica romana nel 1849.
Pisacane pensò di spostare l’iniziativa risorgimentale verso il Mezzogiorno, con l’obiet-
tivo di sollevare le popolazioni meridionali e dare vita a una rivoluzione anti-borbonica e
nazionale, non priva di forti connotazioni sociali. Dopo aver attecchito nel Sud la rivolta si
sarebbe propagata verso Nord, riuscendo così a condizionare anche l’atteggiamento del
Regno di Sardegna.
Mazzini decise di appoggiare il tentativo insurrezionale del patriota napoletano. Pisacane
partì con una piccola spedizione navale da Genova nel giugno 1857 e approdò sulle coste saler-
nitane presso Sapri. Lui e i suoi uomini (circa trecento) vennero però catturati velocemente dai
borbonici con l’appoggio degli stessi contadini campani, che – del tutto isolati e ignari rispetto
al dibattito culturale nazionale – non compresero il grido di riscossa portato da quei patrioti:
“Viva l’Italia! Viva la Repubblica!”, e ne furono anzi spaventati. Pisacane, sopraffatto dal falli-
mento, si uccise nel luglio 1857.
La tragedia di Sapri affossò almeno per il momento le speranze repubblicane e aprì
molti spazi a quell’ala del movimento democratico che, pur di raggiungere l’obiettivo
dell’indipendenza nazionale, era disposta a sposare sempre più convintamente le tesi mo-
narchiche e filosabaude. Queste posizioni confluirono nella Società nazionale, che nacque
in Piemonte nel 1857 trovando un forte insediamento tra i rifugiati politici che vivevano
ormai da anni sotto la protezione del governo costituzionale di Torino. Alla scelta filopie-
montese approdò anche Giuseppe Garibaldi, già seguace della Giovine Italia e stimato con-
dottiero dei moti democratici del Quarantotto; mentre all’opzione monarchica rimasero
seccamente ostili Mazzini e i suoi sostenitori più stretti.
292 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Il sacrificio di Pisacane servì comunque a rafforzare il movimento unitario, funzionando


da pungolo all’azione per Cavour e come monito ai capi di Stato europei circa il fermento
indipendentista sempre vivo in Italia.

10.1.3. L’attentato di Orsini e gli accordi di Plombières.


Era soprattutto la Francia a preoccuparsi in modo crescente del destino italiano. Un fatto
non secondario in questo senso fu l’attentato che Napoleone III e la moglie subirono a
Parigi nel gennaio 1858 a opera di un gruppo di patrioti italiani, guidati dal repubblicano
romagnolo Felice Orsini, che volevano vendicare l’azione militare condotta da Luigi Napo-
leone contro la Repubblica romana nel 1849. Benché la coppia imperiale uscisse indenne
dall’atto terroristico, l’azione degli attentatori fu così brutale e disperata (vennero gettate
diverse bombe a mano contro il convoglio dell’imperatore, proprio nel cuore di Parigi) da
mettere in guardia lo stesso Napoleone III dall’assumere per il futuro atteggiamenti aper-
tamente ostili al patriottismo italiano.
Paradossalmente la strategia di Cavour, che certo non simpatizzava per attentati di questo
tipo, trasse giovamento dalla situazione prodotta dall’azione di Orsini, riuscendo ad arrivare
– sulla scia dell’alleanza già stretta durante la guerra di Crimea – a un vero e proprio trattato
politico-militare con Napoleone III, in funzione antiaustriaca.
Il trattato venne siglato nel gennaio 1859 e fu preceduto da un incontro tra i due capi
di Stato che si tenne a Plombières, nella regione francese della Lorena, nel luglio 1858. In
quella occasione Napoleone III diede la sua disponibilità ad aiutare militarmente il Regno
di Sardegna in una guerra contro l’Austria, allo scopo di giungere a un riassetto complessi-
vo della penisola, che l’imperatore francese immaginava ancora sotto forma di una confe-
derazione di Stati guidati dal papa, sulla falsariga del progetto neoguelfo di Gioberti (cap.
9, par. 5).
I termini del patto si precisarono nel gennaio successivo. L’aiuto militare promesso dai
francesi venne definito nell’invio di un contingente di 200 mila soldati; in cambio di questa
mobilitazione militare alla Francia sarebbero andate Nizza e la Savoia (territori allora ap-
partenenti al Regno di Sardegna), mentre il Lombardo-Veneto, strappato all’Austria, avreb-
be formato con il Piemonte un nuovo Regno dell’Alta Italia, sempre guidato dai Savoia e
capace di giocare un ruolo di primo piano nella futura confederazione italiana – rispetto
all’assetto della quale il trattato non diceva nulla di esplicito.
C’era però una condizione fondamentale per attivare l’aiuto militare della Francia: non
poteva essere il Piemonte a dichiarare guerra all’Austria, ma quest’ultima ad attaccare lo
Stato sabaudo, in modo che all’opinione pubblica internazionale la Francia potesse ap-
parire come la paladina di un piccolo regno costituzionale minacciato dall’imperialismo
asburgico.

10.2. La guerra contro l’Austria del 1859 e le insurrezioni


nell’Italia centrale

La situazione di tensione tra Regno di Sardegna e Impero austriaco venne alimentata di


proposito dal governo di Cavour nei primi mesi del 1859, con una mobilitazione crescente
dell’esercito alle frontiere e con l’arruolamento di alcune migliaia di volontari provenienti
Capitolo 10. Il Risorgimento el’unificazione dell’Italia 293

da tutta Italia affidati al comando di Giuseppe Garibaldi. Si arrivò, quasi inevitabilmente, a


un ultimatum militare che Vienna notificò a Torino nell’aprile 1859. Era l’inizio della Secon-
da guerra di indipendenza.
Come pattuito, le truppe francesi, guidate da Napoleone III in persona, intervennero a
sostegno di quelle piemontesi e lo sforzo congiunto dei due eserciti contro l’Austria fu rapi-
damente vittorioso, portando alla conquista della Lombardia. Per la verità, il comando au-
striaco cercò di attaccare subito le posizioni piemontesi, cercando di anticipare l’arrivo del
grosso delle forze francesi. Ma l’operazione non riuscì: la cavalleria piemontese, insieme ad
alcuni reparti francesi, riuscì a fermare gli austriaci a Montebello (20 maggio 1859), mentre
Garibaldi e i suoi Cacciatori delle Alpi – questa la denominazione assunta dai volontari al
suo comando – dopo aver occupato Varese, arrivarono fino a Como, sconfiggendo più volte
i nemici sul campo di battaglia. Il 30 e il 31 maggio l’esercito piemontese occupò Palestro,
vicino a Pavia, e il 4 giugno forze francesi e sabaude sconfissero gli austriaci a Magenta,
non lontano da Milano, tanto che l’8 giugno Napoleone III e Vittorio Emanuele II potevano
fare il loro ingresso nella capitale lombarda. Quattro giorni dopo i Cacciatori delle Alpi
occuparono Brescia.
In avanzata verso est, il 24 giugno l’esercito franco-piemontese si scontrò duramente
con gli austriaci nelle battaglie di Solferino e San Martino. Nella prima località si fron-
teggiarono circa 80.000 francesi e 90.000 austriaci; nella seconda, circa 30.000 piemontesi
contro altrettanti austriaci. Entrambe le battaglie vennero vinte dai franco-piemontesi, che
così si aprivano la strada verso Verona e il cuore del Veneto; ma gli scontri furono estrema-
mente cruenti, sottoponendo a gravi perdite soprattutto il contingente francese, che contò
oltre 1.600 morti (meno della metà furono le perdite tra i piemontesi).
Quando anche la conquista del Veneto sembrava a portata di mano, in maniera inaspetta-
ta l’imperatore francese decise di interrompere la guerra e di stipulare un armistizio separato
con gli austriaci, firmato a Villafranca nel luglio 1859. La Seconda guerra di indipendenza ri-
maneva così incompiuta (troppo debole il Regno di Sardegna per proseguirla da solo), susci-
tando un profondo sconcerto nei patrioti italiani.
A determinare la scelta di Napoleone III furono diversi fattori. L’alto numero di vittime
che la guerra stava costando al corpo di spedizione francese aveva provocato un forte ma-
lumore nell’opinione pubblica transalpina. Inoltre, alcuni movimenti di truppe prussiane al
confine con la Francia fecero temere un possibile attacco nemico sul fronte del Reno, pro-
prio mentre una buona parte dei reparti francesi e lo stesso imperatore erano impegnati in
Italia. Infine, le sollevazioni popolari che, sotto l’influsso della Società nazionale, si stavano
verificando in alcune aree centro-settentrionali della penisola e segnatamente nei ducati
di Modena e Parma, a Bologna e in Romagna e nel granducato di Toscana, prefiguravano
uno scenario ben diverso da quello delineato a Plombières.
Infatti, la cacciata del duca di Modena, della duchessa di Parma, delle autorità pontifi-
cie insediate a Bologna e nelle città romagnole, e del granduca di Toscana, aveva lasciato
campo aperto a governi provvisori favorevoli all’unione di quei territori con il nuovo Stato
sabaudo, già ingrandito dall’annessione della Lombardia. In altre parole, alla confedera-
zione di Stati delineata a Plombières si stava sostituendo l’egemonia sulla penisola italiana
di un grande regno centro-settentrionale in mano ai Savoia; un esito che poteva mettere in
discussione l’influenza che Napoleone III sperava di continuare a esercitare in Italia.
I governi provvisori costituitisi in Emilia, Romagna e Toscana convocarono plebisciti di
annessione che si tennero l’11 e 12 marzo 1860, durante i quali gli elettori decisero se unirsi
alla monarchia costituzionale dei Savoia oppure formare un regno separato. Vennero chia-
mati alle urne tutti i maschi adulti che avessero compiuto i 21 anni, e la partecipazione fu
294 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

notevole. Nel complesso su 1.060.218 aventi diritto si recarono alle urne 813.957 elettori,
tra i quali appena 21.380 furono contrari all’annessione.
Il 25 marzo 1860 in Piemonte, Sardegna, Lombardia, Emilia-Romagna e Toscana si ten-
nero le elezioni per il parlamento di Torino, con le regole fissate dalla legge elettorale del
Regno di Sardegna, che prevedeva il suffragio ristretto. Ne sortì una solida maggioranza
liberale favorevole a Cavour, che manteneva così in accordo con re Vittorio Emanuele II la
guida del governo.

10.3. Il colpo di scena: Garibaldi e i Mille

Mentre erano in corso di svolgimento plebisciti ed elezioni, Giuseppe Garibaldi cominciò a


raccogliere a Genova, con il sostegno di Mazzini, alcune centinaia di volontari che fossero
disposti a seguirlo in una impresa militare apparentemente disperata: la liberazione del
Sud dal governo borbonico. Tra il 5 e il 6 maggio 1860 partirono dallo scoglio di Quarto
presso Genova, imbarcati su due piroscafi, un migliaio di uomini male armati e scarsamente
equipaggiati.
L’iniziativa di Garibaldi nasceva negli ambienti democratici e repubblicani, in maniera
del tutto autonoma rispetto al governo di Torino, che tuttavia quando ne venne a conoscen-
za decise di consentirne i preparativi e la realizzazione. I Mille riuscirono a compensare la
scarsità di armi e munizioni con la passione e lo slancio ideale, ma anche con la capacità e
l’esperienza. Molti di loro erano veterani della guerra antiaustriaca dell’anno precedente, e
alcuni di questi avevano già combattuto con Garibaldi nel 1848. Erano uomini politicizzati
e altamente motivati provenienti da diversi ambienti sociali: studenti universitari, giovani
borghesi e aristocratici, artigiani di città accesi d’ardore democratico. Proprio per la loro
esperienza sul campo e per il loro spirito di iniziativa erano in grado, diversamente dai
soldati regolari, non solo di eseguire gli ordini del loro generale, ma anche di assumere se
necessario responsabilità di comando. Potevano, perciò, diventare – come in effetti avven-
ne – i quadri di un esercito molto più ampio.
Sbarcati a Marsala, nella Sicilia occidentale, l’11 maggio 1860, nelle settimane succes-
sive le truppe di Garibaldi si ingrossarono rapidamente fino a raggiungere le 40-50 mila
unità. Riuscirono, così, una battaglia dopo l’altra a sbaragliare l’esercito borbonico: da Pa-
lermo a Messina, dalla Calabria fino ad arrivare Napoli, la capitale del Regno delle Due
Sicilie, dove i garibaldini entrano trionfalmente il 7 settembre 1860.
Il fatto che un manipolo di soldati irregolari (anche se sensibilmente aumentati di nu-
mero lungo il percorso) riuscisse a sbaragliare l’esercito professionale napoletano, che era
all’epoca il più forte esercito stanziale della penisola con i suoi 100 mila uomini – cioè,
quasi il doppio di quelli su cui poteva contare il Piemonte –, ha sempre suscitato meraviglia.
Garibaldi era sicuramente un generale straordinario, particolarmente portato nel condur-
re un tipo di lotta in cui forze relativamente ridotte ingaggiano brevi scontri con truppe
regolari, secondo la modalità della guerriglia. Inoltre era abilissimo nell’interpretare le si-
tuazioni locali e l’umore della gente. La sua personalità esercitava un fascino non comune
sul campo di battaglia e perfino il suo abbigliamento era diventato un simbolo indelebile:
il generale in jeans da marinaio e camicia rossa appariva, nello stesso tempo, cordiale e
magnanimo, così come invulnerabile e invincibile.
Capitolo 10. Il Risorgimento el’unificazione dell’Italia 295

Detto questo, non bisogna tacere il fatto che un peso rilevante ebbero l’inettitudine
dell’alto comando napoletano e la diffusa disaffezione (quando non il tradimento) da parte
di numerosi ufficiali borbonici, che dopo le prime vittorie garibaldine furono più ansiosi di
assicurarsi un futuro, prendendo contatti per entrare nell’esercito del futuro Stato unitario,
che non di difendere il loro re.
Lungo il percorso dei garibaldini non mancarono difficoltà, dettate più dalla drammatica
situazione sociale del Sud, che dalla effettiva capacità di resistenza delle truppe nemiche.
Ben presto, infatti, soprattutto in Sicilia, scoppiarono qua e là rivolte e occupazioni di terre,
che in alcuni casi, come a Bronte, un centro agricolo non lontano da Catania, degenerarono
in forme brutali di violenza verso i proprietari terrieri e i notabili del luogo. Temendo di per-
dere il controllo della situazione, Garibaldi e i suoi luogotenenti decisero di garantire l’ordi-
ne sociale, anche a costo di applicare il pugno duro nei confronti dei movimenti contadini,
che vennero duramente repressi. A Bronte fu Nino Bixio, uno dei principali collaboratori di
Garibaldi, a stroncare la rivolta e a procedere a esecuzioni sommarie dei rivoltosi.
Per evitare insanabili fratture nel processo di unificazione nazionale, Garibaldi non die-
de ascolto a chi (soprattutto nell’ambiente mazziniano) lo spingeva alla convocazione di
una assemblea costituente che decidesse il profilo costituzionale del nuovo Stato, metten-
do così in forse l’ordinamento monarchico e la leadership del Regno di Sardegna. Dispose,
invece, che il 21 ottobre 1860 si tenessero in tutto il Mezzogiorno plebisciti di annessione
del tutto simili a quelli che si erano celebrati in Emilia, Romagna e Toscana. I risultati furo-
no ancora una volta nettissimi: in Sicilia su circa 575.000 aventi diritto votarono in 432.720
e i contrari alla prospettiva di una annessione al regno costituzionale dei Savoia risultarono
solo 667; nel Mezzogiorno continentale, su circa 1.650.000 elettori, si recarono alle urne in
1.312.366, tra i quali si contarono 10.302 voti contrari.
Nel frattempo l’esercito piemontese era sceso lungo l’Italia centrale, passando attra-
verso Marche e Abruzzo, in direzione di Napoli. L’incontro tra Vittorio Emanuele II e Gari-
baldi avvenne a Teano, a nord di Capua, il 26 ottobre. Sulla base dei risultati dei plebisciti
avvenuti appena cinque giorni prima, Garibaldi cedette alla dinastia dei Savoia la sovranità
sulle terre conquistate. Il 7 novembre 1860 Vittorio Emanuele II fece il suo ingresso a Napoli
come re del nuovo Stato unitario. Tre giorni prima si erano svolti i plebisciti di annessione di
Marche e Umbria (precedentemente appartenenti allo Stato pontificio), che andavano così
a collegare il Nord e il Sud dell’Italia.
Benché mancassero ancora all’appello la città di Roma e tutto il Lazio, governati dal
papa, così come Mantova, Venezia e i territori del Triveneto (Veneto, Trentino, Friuli e Vene-
zia-Giulia), rimasti in mano agli austriaci, nel giro di un anno e mezzo – dall’aprile 1859 al
novembre 1860 – era accaduto qualcosa di impensabile: la formazione di uno Stato italiano
unitario, disteso su tutta la penisola da Nord a Sud.

10.4. Dalla proclamazione del Regno d’Italia al completamento


dell’unità (1861-1870)

Il primo parlamento del nuovo Stato italiano si riunì a Torino il 18 febbraio del 1861. La città
piemontese diventò la prima capitale del Regno d’Italia e, quindi, la sede del governo na-
zionale. Tre anni più tardi, nel 1864, la capitale sarebbe stata trasferita a Firenze (nell’am-
296 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

bito di una aspra rivalità tra le vecchie capitali degli Stati preunitari), e poi nel 1871 defi-
nitivamente a Roma, probabilmente l’unica città italiana la cui storia non si identificava in
un orizzonte municipale o regionale ma poteva veramente rappresentare l’intera penisola.
La legislatura che si aprì nel 1861 venne indicata come VIII legislatura del Regno d’Ita-
lia, continuando la numerazione delle legislature del Regno di Sardegna. In modo analogo,
il primo re d’Italia, Vittorio Emanuele, mantenne la numerazione interna alla dinastia dei
Savoia: e dunque Vittorio Emanuele II, anziché I come sarebbe stato logico aspettarsi. In-
fine lo Statuto albertino venne applicato al nuovo regno senza alcun dibattito, modifica o
adeguamento. Si volle insomma rimarcare da parte della classe dirigente piemontese la
diretta continuità fra Regno di Sardegna e Regno d’Italia, una scelta che le componenti
repubblicane e democratiche del movimento risorgimentale guardarono in modo ostile,
esprimendo forte insoddisfazione.
Al nuovo Stato venne a mancare molto presto il leader di governo. Cavour, infatti, che
era la guida riconosciuta della maggioranza liberale, morì nel giugno 1861. Oltre all’abile
regia del processo di unificazione, egli lasciava in eredità all’Italia una chiara impostazio-
ne in politica economica. Il riferimento è al liberoscambismo, alla convinzione cioè che
merci e servizi dovessero circolare liberamente attraverso i confini nazionali, senza l’ap-
plicazione di barriere doganali o comunque con tariffe protettive molto ridotte. All’Italia
appena unificata fu, così, estesa la tariffa doganale già in vigore nel Regno di Sardegna
(sensibilmente abbassata da Cavour nel corso degli anni Cinquanta) e applicati gli stessi
trattati di commercio che erano stati stretti dal governo piemontese. Successivamente, con
la convenzione di navigazione del 1862 e il trattato di commercio del 1863 con la Francia, i
dazi conobbero una ulteriore riduzione, tanto che gli osservatori dell’epoca ritenevano che
l’Italia potesse contare nel complesso sulle tariffe doganali più basse tra quelle applicate
dai paesi europei.
Le scelte libero-scambiste erano state favorite dalla vicinanza culturale di Cavour al
liberalismo britannico (attento osservatore del dibattito europeo, lo statista italiano aveva
compiuto numerosi viaggi in Inghilterra), ma anche dall’inevitabile necessità di pagare il
prezzo degli aiuti politico-militari che Gran Bretagna e Francia avevano dato al processo di
unificazione: c’era quindi l’esigenza di aprire il mercato italiano all’industria di questi paesi.
Pesava, infine, la volontà di attirare verso l’Italia le correnti internazionali di investimenti e
di progresso tecnico.
Su queste basi, il processo di costruzione e consolidamento del giovane regno venne
portato avanti da un raggruppamento politico di ispirazione liberal-moderata, la Destra
storica, composto da seguaci della linea cavouriana. Li contraddistingueva una visione eli-
taria della politica, che essi ritenevano dovesse essere riservata agli uomini più ricchi e
colti. Coerentemente con questo assunto, che era del resto in linea con la cultura politica
del liberalismo ottocentesco, venne approvata una legge elettorale simile a quella già in
vigore nel Regno di Sardegna, con la quale si ammetteva al voto solo un ristretto numero di
elettori, grosso modo il 2% della popolazione del Regno d’Italia: i maschi con più di 25 anni
che sapevano leggere e scrivere e pagavano ogni anno imposte dirette per il (notevole)
valore di almeno 40 lire.
Un’altra caratteristica della Destra che disturbava non poco gli ambienti mazziniani
e garibaldini, era la cautela mostrata nei confronti della possibile annessione di Roma. I
liberali, infatti, erano contrari ad attacchi militari e ad azioni di forza, che avrebbero potuto
provocare, come era già accaduto in passato (segnatamente nel 1849), l’intervento delle
grandi potenze, e in particolare della Francia di Napoleone III, in difesa dello Stato pon-
Capitolo 10. Il Risorgimento el’unificazione dell’Italia 297

tificio. Questa eventualità avrebbe potuto mettere a rischio la stessa esistenza del nuovo
Stato unitario.
Prudenze che non erano condivise da Garibaldi e dai suoi seguaci, che continuarono a
puntare alla conquista di Roma organizzando colpi di mano simili all’impresa dei Mille. Un
tentativo in questo senso avvenne nel 1862, quando il generale organizzò una spedizione
che, partendo dalla Sicilia, giungesse a Roma. Il richiamo simbolico a quanto avvenuto nel
1860 era molto chiaro: si intendeva risalire nuovamente la penisola, questa volta andando
fino in fondo e arrivando, cioè, a conquistare la futura capitale d’Italia. Ma l’iniziativa di
Garibaldi era del tutto illegale e l’esercito del Regno d’Italia decise di bloccarla fronteg-
giandola sull’Aspromonte, in Calabria, e disperdendo facilmente i garibaldini, che proba-
bilmente non si aspettavano l’attacco. In quella occasione lo stesso Garibaldi, ferito a un
piede, venne catturato e rinchiuso in carcere, dove rimase per circa un mese prima che
intervenisse un provvedimento di amnistia. Peggiore fu la sorte di quei giovani volontari
che per partecipare all’impresa avevano abbandonato i ranghi dell’esercito: vennero con-
siderati disertori e giustiziati sul posto.

10.4.1. La distanza tra paese “reale” e paese “legale”.


L’epopea risorgimentale era ormai un ricordo del passato; ora si imponevano le urgenze e
le difficoltà relative all’organizzazione delle strutture portanti del nuovo Stato. Uno sforzo
complessivo che riguardava il potenziamento delle infrastrutture di comunicazione (fer-
rovie, strade, porti), l’uniformazione delle strutture amministrative centrali e periferiche
(ministeri, prefetture, province e comuni), la riforma del sistema scolastico (con l’obbliga-
torietà su tutto il territorio nazionale dei primi due anni dell’istruzione elementare), fino ad
arrivare a questioni minute ma fondamentali come l’aggiornamento del catasto, cioè del
sistema di censimento delle proprietà terriere e dei beni immobili.
Cimentandosi con questo difficile compito, la Destra optò per un modello amministra-
tivo accentrato, ritenendo che l’unica strada per garantire l’esistenza di uno Stato ancora
precario e debole, scaturito dalla successiva annessione di realtà regionali assai diverse tra
loro, fosse quella di prendere la maggior parte delle decisioni a livello governativo, lascian-
do agli enti locali limitatissime autonomie e sottoponendo la vita dei territori al controllo
di funzionari statali dipendenti direttamente dal governo: i prefetti.
A essere adottato fu cioè il modello napoleonico. Come fulcro del sistema amministrati-
vo periferico venne individuata la provincia, sede della prefettura, ufficio al quale spettava
anche il comando in loco delle forze dell’ordine. I sindaci erano nominati dal re e non dai
consigli comunali; questi ultimi erano eletti con suffragio censitario e sottoposti al control-
lo prefettizio.
Non mancarono le proposte alternative, sia da parte repubblicana (con i progetti di co-
stituzione federale sostenuti da Carlo Cattaneo, studioso e uomo politico già protagonista
dell’insurrezione di Milano nel 1848), sia da parte liberale. Fu, in particolare, Marco Minghetti,
esponente bolognese della Destra storica, a presentare nel 1860-61 progetti amministrativi
ispirati a criteri di largo decentramento regionale; ma essi risultarono perdenti nel confronto
interno alla sua stessa parte politica.
Alla questione del mancato decentramento si legarono, almeno in parte, problemi e pro-
teste che emersero nel Mezzogiorno. Da più parti si ritenne, infatti, inopportuno applicare
meccanicamente nel Sud leggi e ordinamenti creati per il Piemonte e l’Alta Italia. Il mal-
contento per l’accentramento amministrativo imposto dal nuovo Stato a egemonia sabauda
298 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

finì per accrescere i ranghi delle bande armate che, all’indomani dell’Unità, cominciarono a
percorrere le campagne meridionali.
Tra il 1861 e il 1867, con un picco di intensità nei primissimi anni post-unitari (1861-63),
gran parte dell’Italia del Sud venne attraversata da bande di contadini ed ex-soldati dell’e-
sercito borbonico che sottoponevano a saccheggio beni e proprietà dei signori locali, decisi
sia a vendicare antichi soprusi sociali, sia a opporsi con ogni mezzo al nuovo Stato, che sem-
brava non dare loro nessuna prospettiva e nessuna risposta. Cresciuti progressivamente di
numero, i cosiddetti “briganti” poterono contare sull’appoggio di ampi settori della società
rurale, di cui riuscivano a rappresentare rivendicazioni ed esigenze elementari di sopravvi-
venza. Al tempo stesso ottennero il sostegno dell’ex re, Francesco II di Borbone, che rifugia-
tosi a Roma sperava di cavalcare il fenomeno del brigantaggio per fomentare una rivolta
popolare in grado di riportarlo sul trono. Anche gli ambienti ecclesiastici meridionali non
mancarono di sostenere le bande – in chiave antiunitaria e antiliberale – soprattutto grazie
all’opera di protezione e aiuto che i conventi sparsi sul territorio garantivano ai briganti.
Nel brigantaggio meridionale si intrecciavano dunque profonde (ancorché confuse)
istanze di giustizia sociale, avversione ai nuovi ordinamenti della vita pubblica imposti dai
“piemontesi” e ideologie arcaiche e reazionarie proprie degli ambienti borbonici: assolu-
tismo e legittimismo monarchico. La macchina repressiva dello Stato unitario rispose in
maniera feroce. Fu impegnato nelle regioni meridionali quasi metà dell’esercito italiano,
applicando lo stato d’assedio nelle aree maggiormente battute dal brigantaggio. Nel com-
plesso, furono circa 3.500 i morti che si contarono tra i briganti e 300 le perdite subite dal
regio esercito.
Soprattutto al Sud, ma non solo lì, la nuova compagine statale si presentò, insomma,
agli occhi di buona parte della popolazione, con il volto dell’imperio e della forza militare.
Questa impostazione militare e burocratica acuì la distanza tra il “paese legale” (gli am-
bienti istituzionali e le élites sociali ammesse al voto) e il “paese reale”, i milioni di cittadini
comuni che, nella loro vita quotidiana, si trovavano sottoposti a disposizioni e ordinamenti
che non sempre comprendevano. Si pensi, ad esempio, alla coscrizione obbligatoria con
la quale lo Stato unitario sottraeva per ben cinque anni le giovani braccia da lavoro alle
famiglie contadine.
A tutto ciò si aggiungeva una tassazione iniqua, e più aspra che in passato. La costruzio-
ne delle strutture logistiche e amministrative del nuovo Stato comportò, infatti, un grande
sforzo finanziario, reso ancora più complesso dal fatto che il Regno d’Italia si accollò tutti i
debiti contratti dai governi degli Stati preunitari. Per far fronte alla spesa pubblica e ai de-
biti pregressi, i governi della Destra decisero di fare largo uso delle imposte indirette, cioè
di quelle tasse che anziché essere direttamente legate al reddito o al patrimonio, colpi-
scono i consumi di tutti indistintamente (generi alimentari, sale, tabacchi), esercitando na-
turalmente un peso più gravoso sulle famiglie povere rispetto a quelle ricche. Con questa
scelta, la classe politica liberale adottava una politica fiscale che salvaguardava il proprio
elettorato, colpendo invece la stragrande maggioranza della popolazione, che già versava
in difficili condizioni economiche.
Così, quando nel 1868 il governo decise di introdurre una nuova tassa sul grano macina-
to (cioè sulla farina), che aveva l’effetto di far ulteriormente aumentare il prezzo del pane,
un forte malcontento si diffuse nelle campagne di tutto il paese provocando lo scoppio di
tumulti, i “moti del macinato”, repressi duramente dall’esercito con diverse centinaia di
morti tra i civili.
Fu un passaggio assai critico per i gruppi dirigenti della Destra, che erano già usciti mal-
conci due anni prima da una nuova guerra contro l’Austria.
Capitolo 10. Il Risorgimento el’unificazione dell’Italia 299

10.4.2. L’Italia e la guerra austro-prussiana del 1866.


All’inizio del 1866 il governo italiano si accordò con quello prussiano per la preparazione di
una imminente guerra da condurre insieme contro l’Austria. Berlino intendeva contendere
a Vienna l’egemonia sulla Confederazione germanica (cap. 9, par. 8), mentre il Regno d’Ita-
lia intravedeva la possibilità di sfruttare il conflitto austro-prussiano per annettersi almeno
una parte del Triveneto, la cui conquista era sfumata durante la Seconda guerra di indipen-
denza a causa dell’improvviso disimpegno di Napoleone III.
La Terza guerra di indipendenza (così come venne denominata dagli italiani) scoppiò in
giugno. Nonostante le forze armate mobilitate da Vittorio Emanuele II potessero contare
su una consistente superiorità numerica rispetto a quelle austriache (in gran parte schiera-
te contro la Prussia), la guerra venne condotta molto male dagli alti comandi militari tanto
da portare a due gravi sconfitte. La prima avvenne sulla terraferma, a Custoza, nel giugno
1866 e fu particolarmente bruciante perché era la seconda volta che quella piccola località
non lontana da Verona vedeva la vittoria degli austriaci contro gli italiani (era già capitato
durante la Prima guerra di indipendenza nel luglio 1848). Una nuova sconfitta per l’Italia
arrivò il mese successivo nella battaglia navale di Lissa, al largo della costa dalmata, quan-
do la flotta italiana venne piegata da quella austriaca.
Gli unici successi arrivarono grazie a Garibaldi che ancora una volta, alla guida di quasi
quarantamila volontari, condusse una guerra parallela rispetto a quella combattuta dall’e-
sercito ufficiale, riportando una serie di vittorie contro gli austriaci in Trentino. Una impresa
militare che, però, fu vanificata dalla tregua sottoscritta da italiani e austriaci alla fine di
luglio, pochi giorni dopo Lissa, che prevedeva tra le altre cose il ritiro dei garibaldini.
Grazie alle vittorie prussiane in Europa centrale, l’Austria usciva nel complesso scon-
fitta dalla guerra del 1866, ma proprio i successi conseguiti in Italia permisero al governo
di Vienna di perdere sul versante italiano solamente la provincia di Mantova, il Veneto e
la parte centro-occidentale del Friuli (Udine e Pordenone), conservando invece il Trentino,
la parte orientale del Friuli (Gorizia) e la Venezia-Giulia, che sarebbero rimaste in mano
austriaca fino alla fine della Prima guerra mondiale.
Negli accordi di pace, inoltre, l’Austria poté imporre una clausola umiliante per gli ita-
liani, secondo la quale il Veneto e le province di Mantova, Udine e Pordenone non venivano
cedute all’Italia in modo diretto, bensì attraverso la mediazione di Napoleone III. A rimarca-
re il fatto che l’esercito italiano non era riuscito a conquistare quelle terre, ma ne entrava in
possesso in virtù di complessi accordi diplomatici tra le potenze europee (Austria, Francia
e Prussia).
Subito dopo, nei territori del Nord-Est, si celebrò il plebiscito di annessione e come nei
casi precedenti una grandissima maggioranza si dichiarò favorevole all’ingresso nel Regno
d’Italia. Tuttavia rimaneva nell’opinione pubblica del paese una enorme delusione per l’esi-
to mediocre della Terza guerra di indipendenza, che denunciava la pochezza dell’esercito
italiano e, più in generale, le difficoltà del nuovo Stato unitario.

10.4.3. I delusi del Risorgimento: mazziniani e garibaldini.


Nel 1867 si assistette al secondo tentativo garibaldino di conquistare Roma. Questa volta
Garibaldi venne bloccato a Mentana, a poche decine di chilometri dall’obiettivo, per l’in-
tervento del corpo di spedizione francese che Napoleone III aveva schierato a difesa del
pontefice fin dal 1849. Considerata totalmente illegittima anche dal governo italiano, que-
sta iniziativa portò nuovamente Garibaldi in prigione. Si replicò, cioè, il paradosso secondo
300 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

il quale la Destra, per timore di veder compromessi i rapporti diplomatici con la Francia,
preferiva dissociarsi dalle iniziative dell’eroe più rappresentativo e internazionalmente ri-
conosciuto del Risorgimento italiano. Liberato dopo venti giorni di galera, Garibaldi decise
infine di dimettersi dalla carica di deputato del parlamento italiano. E molti suoi seguaci e
simpatizzanti, sinceri patrioti e generosi combattenti, lo seguirono in questo atteggiamento
di crescente distacco nei confronti delle istituzioni del nuovo Stato.
Non era diverso il sentimento che animava i militanti repubblicani vicini a Mazzini. Ai
loro occhi il processo di unificazione aveva avuto un difetto fondamentale: la formazio-
ne del Regno d’Italia era avvenuta senza conoscere una fase costituente. Il popolo aveva
partecipato ai plebisciti, è vero, ma senza la possibilità di esprimersi sugli ordinamenti del
nuovo Stato. Per Mazzini, che aveva a lungo insistito per la convocazione di una assemblea
costituente eletta a suffragio universale maschile, l’unificazione si era dunque risolta in
una pura e semplice annessione da parte del Regno di Sardegna delle terre man mano
conquistate.
Di conseguenza i mazziniani negavano legittimità alle istituzioni dello Stato italiano e
manifestavano questa loro posizione non partecipando alle elezioni politiche e non can-
didandosi per la Camera dei deputati, dal momento che entrare in parlamento avrebbe
comportato il giuramento di fedeltà al sovrano e alla monarchia. Gli ultimi anni della vita
di Mazzini testimoniano di questa frattura politica. Ancora nel 1870 egli lavorò all’orga-
nizzazione di una insurrezione repubblicana in Sicilia, rimasta incompiuta, scontando per
questo due mesi di carcere nella fortezza di Gaeta. Liberato grazia a una amnistia, riparò
in Svizzera e poi a Londra, per ritornare in Italia clandestinamente poco più tardi e morire
sotto falso nome a Pisa nel 1872.
Centinaia di migliaia di persone lo commemorarono in varie città italiane, ma dalle
cariche istituzionali non venne neppure una parola di cordoglio.

10.4.4. Lo Stato italiano e la Chiesa di Roma.


Non furono soltanto le componenti democratiche del movimento risorgimentale (garibal-
dini e mazziniani) a non accettare l’esito del processo di unificazione, ma anche un’altra
importante area dell’opinione pubblica italiana, quella dei cattolici, e in particolare dei
fedeli che decisero di identificarsi pienamente con le posizioni “politiche” di papa Pio IX.
Come si è visto, tra il 1859 e il 1860 una gran parte dei territori dello Stato pontificio
(Bologna e la Romagna, le Marche e l’Umbria) erano stati sottratti alla giurisdizione del
papa entrando a far parte del nuovo Stato italiano. Fin da allora la reazione di Pio IX aveva
assunto toni durissimi, articolandosi in una serie di provvedimenti apertamente conflittuali:
già nel marzo 1860 venne lanciata una scomunica nei confronti di tutti coloro che avevano
concorso all’usurpazione delle terre appartenenti allo Stato pontificio; nel 1864 fu poi la
volta del Sillabo degli errori del nostro tempo, un elenco puntiglioso dove si condannava il
liberalismo al pari del socialismo, del razionalismo e dell’ateismo; fino ad arrivare al Conci-
lio Vaticano del 1870 con la proclamazione dell’infallibilità del pontefice.
Proprio nel 1870, lo scoppio della guerra franco-prussiana indusse Napoleone III a riti-
rare il contingente militare stanziato a protezione del papa. Il governo italiano approfittò
prontamente della situazione e occupò Roma, che venne presa il 20 settembre 1870, dopo
un breve combattimento con le truppe pontificie a Porta Pia. Il mese successivo si svolse in
tutto il Lazio il plebiscito di annessione.
La conquista di Roma e lo spostamento della capitale nella “città eterna” (il 1° luglio
1871) rappresentarono indubbiamente un grande successo per il giovane Stato italiano e,
Capitolo 10. Il Risorgimento el’unificazione dell’Italia 301

tuttavia, aprirono non pochi problemi. Come prevedibile, le prese di posizione del pontefi-
ce si inasprirono ulteriormente. Pio IX si definì “prigioniero” del Regno d’Italia e nemmeno
la legge delle Guarentigie, approvata dal parlamento italiano nel maggio 1871, fu suffi-
ciente ad avviare una riconciliazione tra Stato e Chiesa.
Le Guarentigie (garanzie) riconosciute al papa dalla classe dirigente liberale prevede-
vano: l’inviolabilità della persona del pontefice, di cui si proclamava lo status di sovrano;
l’extraterritorialità di alcuni palazzi romani (tra i quali gli edifici del Vaticano e del Late-
rano) e della villa di Castelgandolfo, che non venivano considerati appartenenti allo Stato
italiano ma posti sotto la sovranità del papa; la piena libertà di comunicazione e di movi-
mento per i membri della Santa sede; infine, un finanziamento annuo elargito dallo Stato.
Rifiutandosi di riconoscere il Regno d’Italia, il papa rifiutò anche di accettare le garanzie
che gli venivano concesse, e tuttavia, di fatto, la Santa sede se ne giovò negli anni successivi
per la propria attività di governo e pastorale.
Ma la questione cruciale era rappresentata dal fatto che le resistenze del pontefice eb-
bero enormi conseguenze di carattere politico. L’opinione pubblica italiana di fede catto-
lica si divise: mentre una parte seguì l’idea secondo la quale il rispetto del magistero spiri-
tuale del papa non doveva necessariamente comportare fedeltà assoluta alle sue direttive
politiche, un’altra parte – i cosiddetti cattolici-intransigenti – seguirono in tutto e per tutto
l’indirizzo papale e decisero, perciò, di non riconoscere la legittimità delle nuove istituzioni
e di non partecipare alle elezioni politiche, indebolendo ulteriormente la legittimità dello
Stato unitario e dei suoi gruppi dirigenti.
Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea:
dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra
di Carlo De Maria
Roma (BraDypUS) 2018
ISBN 978-88-98392-70-4
pp. 303-312

Capitolo 10. Il Risorgimento e


l’unificazione dell’Italia
Approfondimenti

Profili
Giuseppe Garibaldi

Nato nel 1807 a Nizza, a quell’epoca parte del Regno di Sardegna, Garibaldi era figlio di un
capitano della marina mercantile. Fin da ragazzo, come semplice mozzo sulle navi, coltivò
la passione per la navigazione, le avventure per mare e le mete esotiche. I problemi con la
giustizia, che seguirono alla decisione di aderire alla Giovine Italia di Mazzini nel 1833, lo
portarono a lasciare l’Italia e a dirigersi in America del Sud, dove si fermò per oltre dieci anni.
A Rio de Janeiro continuò a partecipare, insieme ad altri esuli italiani in Brasile, al dibat-
tito interno all’organizzazione repubblicana. Lottò contro il governo imperiale brasiliano,
appoggiando la rivolta di stampo democratico e secessionista della provincia del Rio Gran-
de do Sul. Poi passò in Uruguay, dove la guerra civile esplosa subito dopo il raggiungimento
dell’indipendenza dall’Argentina, con la contrapposizione interna tra progressisti e conser-
vatori, e l’appoggio fornito a questi ultimi dalla dittatura argentina (che tentò nuovamente
di invadere il territorio uruguaiano), furono tutti fattori in grado di polarizzare l’impegno
di Garibaldi e di molti altri esuli repubblicani, che diedero vita sotto il suo comando a una
Legione italiana che arrivò a contare 600 uomini e fu molto attiva nel conflitto. Al termine
della guerra civile, che vide la vittoria delle forze indipendentiste e democratiche, Gari-
baldi fu nominato comandante supremo delle forze armate uruguaiane, acquisendo per
questo fama internazionale.
Decise di rientrare in Italia all’inizio del 1848, quando gli giunse notizia dell’insurrezio-
ne di Palermo. Oltre che una grande esperienza militare, dal Sudamerica portava con sé
anche alcuni elementi esteriori che sarebbero diventati presto leggendari, come la camicia
rossa usata quale divisa di combattimento. Originariamente, Garibaldi l’aveva scelta per
equipaggiare la Legione italiana in Uruguay, utilizzando una partita di stoffa destinata ai
lavoranti dei mattatoi.
Approdò a Nizza, proprio mentre il Piemonte si preparava a intervenire contro l’Austria
nella Prima guerra di indipendenza. L’anno successivo partecipò all’esperienza della Re-
pubblica romana, dove ricevette da Mazzini un incarico di comando nella difesa della città
304 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

contro l’avanzata francese. Dopo una strenua quanto inutile resistenza, cercò nuovamente
riparo all’estero.
Durante la fuga da Roma, attraversò diagonalmente l’Italia centro-settentrionale, giun-
gendo sulla costa romagnola, da dove cercò di salpare per Venezia, ancora libera. Braccato
dagli austriaci, in mezzo alle valli di Comacchio, vide morire tra le sue braccia la moglie
Anita, conosciuta in Sudamerica. Riuscì infine ad arrivare in Piemonte e da qui lasciò l’Italia.
Attraversò l’Oceano Atlantico, imbarcandosi a Liverpool, e lavorò come operaio in una
fabbrica di candele a New York, prima di scendere nuovamente in America del Sud e, infine,
attraversare il Pacifico arrivando in Australia e in Cina. Rientrò in Italia nel 1854 e, susci-
tando la contrarietà di Mazzini, decise di appoggiare la monarchia sabauda, almeno finché
questa dimostrasse di credere fermamente nella causa italiana. Aderì alla Società nazio-
nale e alla vigilia della Seconda guerra d’indipendenza, nel marzo 1859, s’incontrò con
Cavour per accordarsi sull’organizzazione dei volontari. Al comando dei Cacciatori delle
Alpi, ottenne importanti successi, tra i quali spicca la vittoria di Varese contro gli austriaci.
Dopo l’annessione, da parte del Piemonte, di Lombardia, Emilia, Romagna e Toscana,
Garibaldi ebbe il merito decisivo di estendere verso le regioni del Sud il processo di unifica-
zione. L’impresa dei Mille consentì di saldare politicamente il Mezzogiorno alla parte cen-
tro-settentrionale del paese e quindi di giungere alla costituzione del Regno d’Italia (1861).
L’anno successivo, da Palermo, Garibaldi lanciò un proclama contro la Francia e, al gri-
do di “Roma o morte”, marciò verso la città eterna. Sull’Aspromonte, il 29 agosto 1862, fu
ferito e fatto prigioniero dall’esercito italiano. Amnistiato, nel marzo 1864 lasciò l’Italia per
Londra, dove si riavvicinò a Mazzini, ed ebbe occasione di misurare la propria straordinaria
popolarità internazionale: era ormai diffuso l’appellativo di “eroe dei due mondi”.
Scoppiata la Terza guerra d’indipendenza, nel 1866, accettò il comando dei volontari
che affiancarono ancora una volta l’esercito sabaudo; entrò con essi nel Trentino e li con-
dusse alla vittoria contro gli austriaci. Un anno più tardi, alla testa di un manipolo di uomini,
provò nuovamente a conquistare Roma, ma fu fermato a Mentana, dove le truppe francesi
e pontificie lo costrinsero alla ritirata.
Arrestato e condotto nella fortezza del Varignano, fu imbarcato per Caprera, l’isola sar-
da dove da tempo Garibaldi viveva nei brevi periodi in cui non era impegnato per mare o
sul campo di battaglia. Negli ultimi anni della sua vita si mosse raramente dall’isola (dove
morì nel 1882) e inclinò sempre più a un socialismo di tipo umanitario e internazionalista;
posizioni politiche che tra anni Sessanta e Settanta cominciarono ad attecchire anche in
Italia sotto la spinta dei problemi sociali che attraversavano il paese.

Costituzione e cittadinanza
Lo Statuto albertino e la libertà di associazione

Lo Statuto albertino è il documento fondativo della storia costituzionale italiana, e rimase


in vigore per un secolo esatto, dal 1848 fino al 1948, quando venne sostituito dall’attuale
costituzione repubblicana.
Il fatto che la validità dello Statuto venisse confermata anche dopo l’esito infelice della
Prima guerra di indipendenza (1848-49) diede alla monarchia sabauda un forte prestigio
presso l’opinione pubblica italiana, consentendole di presentarsi come garante di una so-
Capitolo 10. Approfondimenti 305

luzione liberale e moderata al problema dell’unificazione nazionale. Il Regno di Sardegna


divenne il centro di raccolta e di riunione, si potrebbe dire la “palestra”, di una nuova classe
dirigente liberale i cui componenti, pur con una netta prevalenza dei piemontesi, proveni-
vano da ogni parte della penisola.
Lo Statuto autorizzò con l’art. 32 la libertà di associazione, che poi si diffuse con l’unifi-
cazione nazionale nel resto d’Italia, permettendo una crescita consistente della società ci-
vile, in termini di vitalità e di iniziative politiche, culturali ed economiche. Lo Statuto inoltre,
grazie a una certa flessibilità nella sua formulazione, non intralciò nei decenni successivi
lo sviluppo delle istituzioni politiche in un senso sempre più spiccatamente parlamentare,
secondo il quale il governo doveva ottenere la propria legittimazione in parlamento, prima
ancora che dalla corona.
Sottolineati i meriti dello Statuto albertino, ne vanno messi in rilievo anche i limiti. La
lettera dello Statuto riservava ancora al monarca poteri che erano in contrasto con il pieno
esercizio della sovranità popolare e che permettevano al sovrano e alla corte interventi
arbitrari nella vita politica del paese. Lo Statuto, ad esempio, consentiva al re di dichiarare
guerra e di nominare e revocare i ministri senza alcun bisogno della sanzione parlamen-
tare. Per questa ragione le norme statutarie poterono convivere, pur con molte forzature,
anche con la svolta autoritaria e liberticida impressa dal fascismo all’assetto politico e co-
stituzionale italiano a partire dal 1922.

Il documento. I primi articoli dello Statuto albertino


Sanzionato e promulgato da Sua Maestà qual legge fondamentale, perpetua ed irrevocabi-
le della monarchia, che avrà il suo pieno effetto dal giorno della prima riunione delle due
camere,
Carlo Alberto, per la grazia di Dio Re di Sardegna, di nostra certa scienza, regia autorità,
avuto il parere del Nostro consiglio, abbiamo ordinato e ordiniamo in forza di statuto e
legge fondamentale, perpetua e irrevocabile della monarchia quanto segue:
Art. 1. La religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato. Gli altri
culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi.
Art. 2. Lo Stato è retto da un governo monarchico rappresentativo. Il trono è ereditario
secondo la legge salica.
Art. 3. Il potere legislativo sarà collettivamente esercitato dal re e da due camere; il senato
e quella dei deputati.
Art. 4. La persona del re è sacra e inviolabile.
Art. 5. Al re solo appartiene il potere esecutivo. Egli è il capo supremo dello Stato; coman-
da tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra; fa i trattati di pace, d’alleanza, di
commercio ed altri, dandone notizia alle camere tosto che l’interesse e la sicurezza dello
Stato il permettano, ed unendovi le comunicazioni opportune. I trattati che importassero
un onere alle finanze, o variazioni di territorio dello Stato, non avranno effetto se non dopo
ottenuto l’assenso delle camere.
Art. 6. Il re nomina a tutte le cariche dello Stato; e fa i decreti e regolamenti necessarii per
l’esecuzione delle leggi, senza sospenderne l’osservanza, o dispensarne.
Art. 7. Il re solo sanziona le leggi e le promulga.
Art. 8. Il re può far grazia, e commutare le pene.
306 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Art. 9. Il re convoca in ogni anno le due camere; può prorogarne le sessioni e disciogliere
quella dei deputati; ma in questo ultimo caso ne convoca un’altra nel termine di quattro mesi.
Art. 10. La proposizione delle leggi apparterrà al re e a ciascuna delle due camere. Però
ogni legge d’imposizione di tributi, o di approvazione dei bilanci e dei conti dello Stato sarà
presentata alla camera dei deputati. [...].

Dei diritti e dei doveri dei cittadini


Art. 24. Tutti regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge.
Tutti godono egualmente i diritti civili e politici e sono ammessi alle cariche civili e militari,
salve le eccezioni determinate dalle leggi.
Art. 25. Essi contribuiscono indistintamente, nella proporzione dei loro averi, ai carichi dello
Stato.
Art. 26. La libertà individuale è garantita. Niuno può essere arrestato, o tradotto in giudizio,
se non nei casi previsti dalla legge, e nelle forme che essa prescrive.
Art. 27. Il domicilio è inviolabile. Niuna visita domiciliare può aver luogo se non in forza
della legge, e nelle forme ch’essa prescrive.
Art. 28. La stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi. Tuttavia le bibbie, i ca-
techismi, i libri liturgici e di preghiere non potranno essere stampati senza il preventivo
permesso del vescovo.
Art. 29. Tutte le proprietà senza alcuna eccezione sono inviolabili. Tuttavia quando l’inte-
resse pubblico legalmente accertato lo esiga, si può essere tenuti a cederle in tutto ed in
parte, mediante una giusta indennità conformemente alle leggi.
Art. 30. Nessun tributo può essere imposto o riscosso se non è stato consentito dalle camere
e sanzionato dal re.
Art. 31. Il debito pubblico è garantito. Ogni impegno dello Stato verso i suoi creditori è
inviolabile.
Art. 32. È riconosciuto il diritto di adunarsi pacificamente e senza armi, uniformandosi alle
leggi che possano regolare l’esercizio nell’interesse della cosa pubblica. Questa disposizio-
ne non è applicabile alle adunanze in luoghi pubblici o aperti al pubblico, i quali rimango-
no intieramente soggetti alle leggi di polizia.
F. Gaeta - P. Villani, Documenti e testimonianze. I grandi problemi della storia contemporanea
nei testi originali e nelle interpretazioni critiche, Milano, Principato, 1979, pp. 88-90.

Fonti e documenti
Il Risorgimento italiano nelle parole dei protagonisti

Introduzione
Irriconciliabili, ma alla fine convergenti nel promuovere l’unità italiana, furono le posizio-
ni espresse da Cavour e da Mazzini. Semplificando drasticamente si potrebbe affermare
che il primo rappresentò la ragion di Stato, la monarchia sabauda e la diplomazia, mentre
Capitolo 10. Approfondimenti 307

il secondo incarnò l’iniziativa popolare, la repubblica e le istanze associative. In effetti il


disegno cavouriano non andava inizialmente oltre la realistica possibilità di costituire per
i Savoia un ampio regno dell’Italia settentrionale, ma è altresì vero che egli seppe poi asse-
condare le circostanze finendo per avvalersi dell’iniziativa stessa dei democratici, di Maz-
zini e Garibaldi. Ruppe così gli indugi e inviò nel 1860 l’esercito piemontese verso Napoli,
attraversando i territori dello Stato pontificio, precedentemente considerati come inviola-
bili, perché protetti dall’alleato Napoleone III.
L’attività parlamentare e ministeriale di Cavour coprì l’arco cronologico che va dal 1848
al 1862, cioè dalla Prima guerra di indipendenza fino ai primi passi dello Stato unitario. Il
discorso tenuto davanti al parlamento di Torino il 16 aprile 1858 mostra appieno il reali-
smo, l’abilità politica e forza argomentativa dello statista piemontese (testo n. 1). Cavour
comprese perfettamente che il Piemonte da solo non avrebbe mai potuto vincere contro
l’Austria; nello stesso modo vedeva con grande lucidità i pericoli che l’ordinamento mo-
narchico costituzionale avrebbe attraversato nel caso di una insurrezione democratica e
popolare. Egli dunque puntò, grazie a una attenta politica estera, ad accreditare sul piano
internazionale il Regno di Sardegna come guida del movimento nazionale italiano. E di
quel movimento intendeva che l’iniziativa rimanesse al governo sabaudo, assicurando la
preservazione della monarchia e del costituzionalismo liberal-moderato.
Il contrasto fra la sua politica e quella del Mazzini era profondo; e fra i due uomini esi-
steva anche una viva avversione personale (testo n. 2). Se l’azione di Cavour si espresse pre-
valentemente nell’aula parlamentare e nell’opera di governo, Mazzini operò soprattutto
attraverso una instancabile attività di agitatore e propagandista (manifesti, articoli, appelli,
programmi) e una capillare rete di contatti negli ambienti democratici italiani ed europei
coltivata attraverso un imponente epistolario.

Testo n. 1
Camillo Benso di Cavour
La politica del Regno sardo dopo il 1849 (16 aprile 1858)
Signori, dopo il disastro di Novara [28 marzo 1849] e la pace di Milano [6 agosto 1849], due
vie politiche si aprivano davanti a noi. Noi potevamo, piegando il capo avanti a un fato
avverso, rinunziare in modo assoluto a tutte le aspirazioni che avevano guidato negli ultimi
anni il magnanimo Re Carlo Alberto; poi potevamo rinchiuderci strettamente nei confini
del nostro paese, e, chinando gli occhi a terra per non vedere quanto succedeva oltre Ticino
e oltre la Magra, dedicarci esclusivamente agl’interessi materiali e morali del nostro paese;
noi potevamo in certo modo ricominciare a continuare la politica in vigore prima del 1848,
che non si preoccupava che delle cose interne. [...].
L’altro sistema invece consisteva nell’accettare i fatti compiuti, nell’adattarsi alle dure
condizioni dei tempi, ma nel conservare ad un tempo viva la fede che inspirato aveva le
magnanime gesta di Re Carlo Alberto. Consisteva nel dichiarare la ferma intenzione di ri-
spettare i trattati, di mantenere i patti giurati; ma di contenere nella sfera della politica
l’impresa che andò fallita sui campi di battaglia.
Il primo sistema presentava certamente molti e segnalati vantaggi; applicandolo si poteva-
no rendere meno gravi le conseguenze della funesta guerra del 1848 e 1849; si potevano
ricondurre più prontamente le finanze in florido stato, ed esimere i popoli da tanti nuovi
tributi.
308 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Ma l’adozione di questo sistema importava una rinuncia assoluta ad ogni idea d’avvenire,
imponeva d’abbandonare le gloriose tradizioni della Casa di Savoia, di ripudiare sdegnosa-
mente la dolorosa ma gloriosa eredità di Re Carlo Alberto!
Il generoso suo figlio [Vittorio Emanuele II] non poteva esitare e, quantunque assai più diffi-
cile, egli scelse il secondo. E per attuarlo, o signori, pochi giorni dopo d’esser salito al trono,
chiese a sedere a capo de’ suoi consigli un illustre italiano, il cui nome equivaleva ad un
programma liberale ed italiano, Massimo d’Azeglio [primo ministro del Regno di Sardegna
dal 1849 al 1852].
Il Ministero d’Azeglio applicò e praticò il secondo sistema, i cui principali scopi erano i
seguenti: in primo luogo dimostrare all’Europa che i popoli italiani erano capaci di gover-
narsi a libertà, che era possibile conciliare un sistema di libertà lealmente ma largamente
praticato nel rispetto di quei grandi principii d’ordine sociale che erano minacciati allora in
altre parti d’Europa. Ciò fatto, doveva cercare in secondo luogo di propugnare nel campo
della diplomazia gli interessi delle altre parti d’Italia.
Dico che il Ministero d’Azeglio perseguì, prudentemente sì, ma risolutamente, questo dop-
pio scopo. Esso a poco a poco raggiunse il primo, e, innanzi che lasciasse il potere, Massimo
d’Azeglio ebbe la consolazione di vedere come la lealtà e la schiettezza della sua ammini-
strazione fossero state riconosciute da tutti i governi d’Europa. Con ciò Massimo d’Azeglio
rese un gran servigio allo Stato e meritò la comune riconoscenza.
I ministri chiamati a succedere a quell’illustre uomo di Stato non mutarono politica, solo
cercarono di applicarla con maggiore estensione, con maggiore vigore, e ciò non perché
fossero mutati gli uomini, ma perché il sistema seguito da alcuni anni aveva già prodotto i
suoi frutti ed era giunto il tempo in cui potevasi, senza imprudenze, imprimergli ulteriore e
più energico svolgimento. Quindi in questi ultimi anni ci siamo applicati a far scomparire le
ultime prevenzioni che esistevano a nostro riguardo, e d’altro lato noi abbiamo sempre cer-
cato tutte le occasioni per farci interpreti e difensori delle altre parti d’Italia. Questo nostro
sistema trovò un’occasione propizia per essere largamente svolto nella guerra d’Oriente
[cioè, la guerra di Crimea].
Se è vero che il Piemonte partecipò alla guerra di Oriente perché la considerava guerra giu-
sta, guerra di equilibrio, e se anche si voglia, fino ad un certo punto guerra di civiltà, posso
accertarlo però che vi partecipò altresì collo scopo di accrescere la fama in cui la Sardegna
era tenuta, e di acquistare nuovi diritti per poter propugnare nel seno dei congressi europei
la causa d’Italia. E rispetto al primo punto a cui vengo accennando, cioè all’acquisto del
credito che venne alla Sardegna dalla sua partecipazione alla guerra d’Oriente, le nostre
speranze non andarono fallite. Ciò, mi affretto a dirlo, non è dovuto che in piccolissima par-
te alla nostra diplomazia, ai nostri atti politici. Il merito di questo gran fatto, il merito di aver
ottenuto che la Sardegna uscisse dalla guerra molto più stimata, molto più onorata dalle
altre nazioni europee, è in gran parte dovuto alla mirabile condotta, al sublime contegno
del nostro esercito sui campi di Crimea.
Nel congresso che pose fine alla guerra noi cercammo di raggiungere il secondo scopo che
ci eravamo prefisso, di applicare la seconda delle nostre massime politiche. Noi abbiamo
colto questa grande occasione in cui si trovavano riuniti i rappresentanti di tutte le primarie
nazioni di Europa per difendere la causa d’Italia. [...].
Noi abbiamo ottenuto che la nostra nazione sia cresciuta grandemente in istima ed in repu-
tazione presso tutte le altre nazioni del mondo; noi abbiamo ottenuto di poter proclamare
in faccia all’Europa ed al mondo che le condizioni dell’Italia erano gravissime, che esse
Capitolo 10. Approfondimenti 309

richiedevano energici rimedi, che la pace d’Europa non sarebbe mai stabilmente assicurata
finché queste condizioni duravano.
E per vero dire non fummo contraddetti. Ed io oso asserire che in ora non vi è quasi persona
illuminata in Europa che non confessi questo stato di cose in Italia, che non riconosca che
sarebbe non solo opportuno ma necessario portarvi rimedio. Noi non abbiamo ottenuti
risultati materiali, ma abbiamo ottenuto un grande risultato morale.
F. Gaeta - P. Villani, Documenti e testimonianze. I grandi problemi della storia contemporanea
nei testi originali e nelle interpretazioni critiche, Milano, Principato, 1979, pp. 111-113.

Testo n. 2
Giuseppe Mazzini
Garibaldi e Cavour (25 luglio 1860)
Due uomini si contendono oggi i fati d’Italia: due uomini, due sistemi. Garibaldi e Cavour. La
questione non è, fra i due, di principio, non s’aggira sulla forma politica: è questione di mez-
zi, questione sul come possa raggiungersi un fine che i due affermano aver comune: l’Uni-
tà nazionale. Cavour rappresenta officialmente la monarchia: Garibaldi l’accetta e crede
ch’essa possa dar battesimo e consacrazione all’Italia Una. Non è tra i due, se accettiamo
come sincere – noi nol facciamo, ma gran parte dell’Italia lo fa – le frequenti dichiarazioni
di Cavour, se non una differenza di metodo. Ma questa differenza è tale, siffattamente gra-
ve, che i due uomini, lo sappiano o no, sono irreconciliabilmente divisi. È necessario che fra
i due l’uno cada, l’altro trionfi.
Garibaldi segue la via diritta: Cavour l’obliqua. Il primo è istintivamente ispirato dalla logica
della rivoluzione; il secondo adotta deliberatamente la tattica opportuna a conquistare
riforme. Cavour sommò infatti il proprio programma davanti all’Europa, quando, con piglio
visibilmente ostile alla rivoluzione disse: o riforma o rivoluzione; Garibaldi ha per formola:
non riforme, ma rivoluzione: una Italia libera, invece di più Italie serve e divise.
Escito dalla aristocrazia del paese e aristocratico per indole, scettico, senza fede, senza
teoria, senza scienza fuorché quella, desunta da Machiavelli, degli interessi, Cavour non
crede nel popolo, non ama il popolo. Nato di popolo, democratico per abitudini, educato
dalla Giovine Italia al culto delle idee, dei principii, Garibaldi ama il popolo e crede in esso.
Cavour, quindi, aborrendo dall’intervento popolare, è costretto a cercare altrove un soste-
gno all’opera propria; e lo cerca in una potenza straniera, scegliendo fra tutte quella alla
quale gli interessi proprii possono suggerire ostilità contro l’Austria e le necessità della pro-
pria esistenza suggerire opposizione dichiarata a ogni cosa ch’è popolo e rivoluzione; nella
Francia imperiale. Garibaldi cerca la propria forza in Italia, nel suo popolo, nella mirabile
attitudine guerresca della sua gioventù, nella sua sete di Patria, nella potenza iniziatrice
dell’insurrezione, nelle immense forze d’un paese chiamato a salvar se stesso.
Cavour non è quindi libero, ov’anche volesse, di fare il bene. Cavour non è libero agente
d’una idea nazionale. Cavour è aggiogato a un concetto straniero, ch’ei può tentare al più
di modificare, ma ch’ei non può cancellare. E questo concetto straniero è negazione della
nostra Unità. Luigi Napoleone dichiarava follia l’Unità italiana prima di scendere a guerra
coll’Austria; firmava la pace di Villafranca, perché i moti del Centro lo avvertivano che, du-
rando la guerra, tutte le province italiane insorgerebbero a ricongiungersi; prevaleva sul re
di Napoli perché allontanasse colle concessioni locali il pericolo dell’insurrezione unitaria;
dava per base alla propria politica un sistema di compensi territoriali per la Francia ad
310 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

ogni ingrandimento successivo della monarchia piemontese; e mantiene, malgrado le cen-


to promesse, malgrado l’ordinamento dell’esercito pontificio, che gli toglie perfino l’iniquo
pretesto, la soldatesca straniera nel core della nostra Nazione.
Garibaldi non è vincolato fuorché dal proprio affetto al paese, non raccoglie le ispirazioni
da Parigi o da altro centro di dispotismo europeo, non ha ragioni da rendere fuorché a Dio,
alla propria coscienza, alla Patria. Ei può errare, non può tradire.
Manca a Cavour ogni virtù iniziatrice; come averla quand’egli, Fausto politico, è incatenato
dal patto con Mefistofele? Cavour nulla ha iniziato; non il moto degli animi in Italia, frutto
d’un apostolato anteriore di gran lunga alla sua carriera politica; non il favore con che l’o-
pinione europea guarda alle cose nostre, cresciuto mercé i nostri martiri, mercé le nostre
lotte incessanti, mercé la predicazione insistente dei nostri esuli su tutte contrade; non la
guerra lombarda voluta, per fini non nostri, da Luigi Napoleone e rotta imprudentemente
dall’Austria; non l’emancipazione e la riunione delle province centrali, risultato d’una perti-
nace volontà popolare, combattuta nell’alte sfere, aiutata dagli uomini di parte nostra; non
il moto di Sicilia, avversato, indugiato dai faccendieri ministeriali, promosso, confortato di
mezzi da noi; non la mossa generosa di Garibaldi, la cui azione egli si studia d’inceppare
quanto più può; non il fermento unitario di Napoli che le sue pratiche cogli inviati del re
tendono a raffreddare.
La vita di Garibaldi è una serie di iniziazioni, interrotte, talora per prepotenza di circostanze
o debolezza verso influenze esterne, pur sempre giovevoli a spronare oltre d’un passo il
paese sulla via diritta.
Sta ordinata dietro Cavour l’Italia officiale, la turba dei raggiratori per amor di lucro e po-
tere, degli adoratori idolatri d’ogni forza che sia, degli uomini governativi che furono, sono
o sperano di essere, dei Comitati addormentatori, dei tiepidi per animo volgare o cieco
intelletto, dei faccendieri di polizie straniere e dei diplomatici di secondo e terzo ordine.
Sta dietro Garibaldi l’Italia non officiale, l’Italia del popolo, l’Italia dei volontari, l’Italia dei
giovani, l’Italia di quanti non guardano che al Dovere, sacrificano, combattono e vincono;
l’Italia che freme l’Unità, l’Italia dell’avvenire.
Cavour ha rapito Nizza all’Italia; Garibaldi ha dato all’Italia la Sicilia. Cavour è forzatamen-
te il Ministro dello straniero; Garibaldi è il soldato cittadino della Patria italiana. E nel mo-
mento in cui scriviamo, Garibaldi agita nell’animo il disegno di compier con armi italiane
l’impresa italiana; Cavour tenta ogni modo per incepparlo e stornarlo, lo ricinge d’agenti
avversi a lui e all’Unità, e cerca strappargli, con l’annessione immediata, la libertà degli atti
e la base d’operazioni. Garibaldi raccoglie, invoca armi, danaro ed uomini per l’emancipa-
zione di tutta l’Italia, Cavour move guerra d’inciampi, gelosie e calunnie a chi fu preposto
da Garibaldi all’intento. Garibaldi grida all’Italia d’insorgere; Cavour manda circolari alle
sue milizie e a’ suoi Intendenti, perché impediscano colla forza ogni aiuto che i fratelli ten-
tassero prestare ai fratelli oppressi per emanciparsi.
Fra i due non è dunque accordo possibile. È tempo che l’Italia lo intenda e scelga fra i due.
È tempo che l’Italia, lasciando ogni tentennamento, ogni esitanza funesta, s’annodi tutta
intorno all’una o all’altra delle due bandiere. La prima porta scritto: Azione; il paese salvi
il paese; battaglia di tutti, vittoria per tutti; Indipendenza da ogni straniero; Unità: Roma,
Varese, Palermo – Garibaldi.
Capitolo 10. Approfondimenti 311

La seconda: Diplomazia; il paese abdichi e fidi ciecamente nell’arti governative; alleanza


col dispotismo straniero; Roma al Papa, al Protettorato imperiale, federazione di principi;
Plombières, Villafranca, Nizza – Cavour.
Può esser dubbia la scelta?
F. Gaeta - P. Villani, Documenti e testimonianze. I grandi problemi della storia contemporanea
nei testi originali e nelle interpretazioni critiche, Milano, Principato, 1979, pp. 150-152.
V. Una pluralità irriducibile. Le tra-
sformazioni mondiali tra Otto e
Novecento
Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea:
dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra
di Carlo De Maria
Roma (BraDypUS) 2018
ISBN 978-88-98392-70-4
pp. 315-328

Capitolo 11. Colonialismo e aspi-


razioni all’indipendenza: America
Latina, Africa e Asia
Profilo storico
11.1. Le guerre di liberazione in Sudamerica

11.1.1. L’indipendenza delle colonie spagnole e il progetto federale di Simón


Bolívar.
In appena vent’anni, tra il 1808 e il 1826, i paesi sudamericani colonizzati dalla Spagna
riuscirono a raggiungere l’indipendenza. I movimenti di liberazione approfittarono della
debolezza del governo di Madrid, causata prima dall’invasione francese della penisola
iberica (1808) e poi dalla precarietà della restaurazione dinastico-assolutistica sancita dal
Congresso di Vienna.
Il segnale di riscossa venne dal Venezuela. Nel 1810 a Caracas, su impulso del colon-
nello Simón Bolívar, fu varata una giunta esecutiva che preparò la convocazione del primo
parlamento sudamericano. Eletto deputato, Bolívar fu autore della petizione con la quale,
l’anno successivo, venne proclamata l’indipendenza del paese. A partire dal 1812, la nuova
repubblica venezuelana dovette fronteggiare una guerra contro la Spagna che si concluse
due anni più tardi con la vittoria delle forze indipendentiste guidate dallo stesso Bolívar.
In una situazione politica ancora fortemente instabile, il colonnello venezuelano si im-
pegnò a organizzare le istituzioni repubblicane, costituendo un consiglio di Stato e preve-
dendo tre soli ministeri: Interni-Esteri-Finanze, Marina-Guerra, Giustizia-Polizia. Dopodiché
nel 1819 rassegnò le dimissioni dal comando civile e militare del Venezuela, per guidare
una spedizione di patrioti che dopo pochi mesi di battaglia liberò la Colombia dal domi-
nio spagnolo. Stabilito un governo provvisorio a Bogotà, e riorganizzata l’amministrazione
pubblica del paese, Bolívar tornò in Venezuela dove propose l’unione di tutti i territori libe-
rati (Venezuela e Colombia) nella nuova Repubblica della Grande Colombia. Il nuovo Stato,
che si estendeva sull’intera fascia settentrionale del Sudamerica, venne ufficialmente costi-
tuito nel 1820, e Bolívar ne fu nominato presidente.
Con il suo primo proclama presidenziale il condottiero venezuelano annunciò una nuo-
va campagna militare che aveva per obiettivo l’indipendenza di altri due paesi limitrofi:
Ecuador e Perù. Si passò velocemente dalle parole ai fatti e nel giugno 1822, scendendo lun-
316 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

go il versante occidentale del continente, le truppe comandate da Bolívar entrarono nella


capitale ecuadoriana Quito. Ancora una volta Bolívar si dedicò in prima persona al lavoro di
organizzazione amministrativa: l’Ecuador venne suddiviso in tre provincie e il governo affi-
dato a un suo luogotenente. Sulla spinta dei successi ottenuti in Ecuador, pochi mesi dopo
Bolívar alla guida dell’esercito della Grande Colombia liberò dagli spagnoli anche il Perù.
Nel corso degli anni Venti quello che era ormai indicato come il “Liberatore del Suda-
merica” ampliò sempre più la sua azione diplomatica e inviò rappresentanti anche nella
parte meridionale del continente – segnatamente in Cile e Argentina, paesi che si erano
già liberati dal controllo spagnolo tra il 1816 e il 1818 sotto la guida di un altro condottie-
ro sudamericano, l’argentino José de San Martin – per trattare la formazione di una lega
fra tutte le nuove repubbliche ispano-americane. Bolívar sognava la nascita di una grande
federazione che potesse fare da contraltare sia agli Stati Uniti d’America che alla Santa
Alleanza europea.
Nell’Alto Perù, intanto, si formava in suo onore una piccola Repubblica Bolívar (l’odier-
na Bolivia), di cui il colonnello venezuelano fu nominato primo presidente. A lui fu chiesto
di redigere la costituzione, che venne approvata dal congresso boliviano nel 1826. Bolívar
considerava quel documento, che sperava potesse essere adottato anche dagli altri paesi,
come il primo passo verso il coordinamento e l’unione delle repubbliche ispano-america-
ne. Ma mentre egli perseguiva con crescente determinazione la realizzazione del progetto
federale, cominciarono a emergere agitazioni e dissensi contro la sua leadership politica. Il
malcontento esplose proprio nel Venezuela, in quello cioè che poteva essere considerato il
cuore del movimento indipendentista sudamericano. Contro il “Liberatore”, ormai da lungo
tempo lontano dalla sua terra, si levarono sentimenti di ostilità, quando non di odio, dettati
dal fatto che parte dell’opinione pubblica venezuelana sentiva sempre più sacrificate e
sminuite le proprie istanze patriottiche all’interno della Grande Colombia.
Nel 1829 un movimento nazionalista si pronunciò per la separazione del Venezuela
dalla repubblica colombiana. L’autorità di Bolívar era ormai scossa e misconosciuta e, nel
1830, di fronte al tramonto del suo progetto federale egli decise di rimettere tutte le cari-
che politiche e di lasciare il Venezuela.
Nei decenni successivi, in tutte le ex colonie spagnole la fragilità del potere civile e
l’instabilità istituzionale accrebbero la centralità politica – già in parte acquisita durante le
guerre d’indipendenza – delle élites militari, la cui ingombrante presenza ostacolò a lungo
lo sviluppo della democrazia. Si manifestò, cioè, la tendenza verso il cosiddetto caudilli-
smo, un fenomeno diffuso in tutta l’America Latina secondo il quale la direzione politica di
un paese veniva abitualmente affidata al capo militare che si era impadronito del potere
con un colpo di Stato.

11.1.2. La nascita del Brasile.


Solo parzialmente diversa è la vicenda del Brasile, colonia portoghese anziché spagnola,
dove il figlio del re di Portogallo, nel 1822, proclamò la costituzione di un impero sotto la
sua sovranità, spezzando così i vincoli coloniali con la madrepatria. Nonostante la costitu-
zione relativamente liberale promulgata da Pietro I nel 1824, i primi anni di vita del nuovo
Stato furono convulsi. Dopo la ribellione della provincia Cisplatina, che ottenne l’indipen-
denza come Repubblica dell’Uruguay, l’imperatore fu costretto ad abdicare nel 1831, in
seguito a una rivolta popolare fiancheggiata dall’esercito.
La crisi si aggravò negli anni successivi, con una serie di sommosse e disordini che mi-
sero a repentaglio la stessa unità del paese, ricomponendosi soltanto quando il potere
Capitolo 11. Colonialismo e aspirazioni all’indipendenza: America Latina, Africa e Asia 317

monarchico riuscì a rinsaldarsi grazie a Pietro II, figlio del precedente sovrano. Il suo re-
gno (1840-89) fu un periodo di crescita e modernizzazione: vennero riprese le esplorazioni
nell’interno, intensificata la produzione agricola, create le prime ferrovie e sviluppata la
marina mercantile; ebbe inizio una vasta corrente di immigrazione proveniente dall’Eu-
ropa, che fornì nuove energie e nuova spinta economica al grande paese sudamericano.
Il principale problema sociale e politico che restava da risolvere era la questione della
schiavitù. Gran parte dell’opinione pubblica brasiliana premeva per la sua abolizione, guar-
dando con favore a un rinnovamento della struttura sociale del paese, mentre la classe dei
proprietari terrieri vi si opponeva, e quando, dopo una serie di misure parziali, l’emancipa-
zione degli schiavi fu decisa (1888), il venir meno del sostegno alla corona da parte delle
élites rurali contribuì alla definitiva caduta della monarchia. Una rivolta militare portò,
infatti, nel 1889, all’abdicazione di Pietro II e alla proclamazione della repubblica, il cui
primo presidente fu il generale Deodoro da Fonseca. Nel 1891 venne varata una costitu-
zione federalista, ricalcata sul modello di quella statunitense; ma la situazione del paese,
a causa del governo dittatoriale dei primi presidenti, tutti militari di carriera, rimase per
lungo tempo instabile.

11.2. Il Messico e il Centro America

Parallelamente a quanto accaduto nel Sud, in America centrale il processo di disgrega-


zione del vicereame della Nuova Spagna – che era stato creato in quella zona nel XVI
secolo – portò alla nascita di sei nuovi Stati: Messico, Guatemala, Honduras, San Salvador,
Nicaragua e Costa Rica.
Fu il Messico, il paese più vasto e importante dell’area centroamericana, vero e proprio
anello di congiunzione con il Nord America, a dare il via a un periodo di forti turbolenze
politiche e sociali. Dopo quasi tre secoli di dominio spagnolo (iniziato intorno al 1520 con
la sottomissione dell’impero azteco), una rivolta guidata da Miguel Hidalgo, sacerdote di
origine europea ma nato in Messico, riuscì a sollevare le classi più umili della popolazione,
trasformando i moti indipendentisti in una violenta protesta sociale. Gli obiettivi di Hidal-
go (abolizione della schiavitù per gli indios, ridistribuzione della terra, difesa del cattoli-
cesimo) furono ripresi l’anno successivo da un altro parroco di campagna, José Morelos,
sotto la cui guida si arrivò, nel 1813, alla proclamazione di una (effimera) dichiarazione
d’indipendenza e di una costituzione repubblicana. Dopo la sconfitta di Morelos da parte
delle forze filospagnole (1815), solo alcuni guerriglieri proseguirono isolatamente la lotta
al dominio coloniale.
Ma l’indipendenza messicana fu solo rimandata di alcuni anni. Nel 1824, al comando
del generale Antonio López de Santa Ana, il movimento di liberazione nazionale riuscì a
imporsi e il Messico divenne una repubblica federale organizzata in 19 Stati. Si trattò in-
dubbiamente di una svolta decisiva nella storia messicana; tuttavia il nuovo ordinamen-
to repubblicano conservava ancora aspetti retrogradi e contradditori: si prevedevano, ad
esempio, tribunali riservati per la Chiesa e l’esercito; inoltre, pur abolendo formalmente la
schiavitù e ogni distinzione razziale, il legislatore non interveniva per far sì che gli indios
potessero effettivamente integrarsi nella società messicana, uscendo dalla condizione di
sfruttamento e marginalità nella quale erano stati relegati dai conquistatori spagnoli.
318 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Nel corso degli anni Trenta, López de Santa Ana impose un governo fortemente centra-
lizzato e illiberale. La risposta più decisa a questa linea politica venne dai coloni di origine
europea insediati nel Texas, allora parte del Messico, che nel 1836 combatterono con suc-
cesso per l’indipendenza del territorio da essi occupato. Più tardi, l’annessione del Texas
da parte degli Stati Uniti (1845) e la politica espansionistica nordamericana portarono alla
guerra messicano-statunitense del 1846-48. Sconfitto, il Messico fu costretto a cedere al
governo di Washington gli immensi territori a nord del Río Grande, tra i quali parte della
California e dell’Arizona.
Rovesciato definitivamente Santa Ana nel 1854, si affermò alla guida del paese il partito
liberale, che intraprese un programma di interventi radicali in campo politico, economico
e religioso. I conservatori reagirono scatenando tre anni di guerra civile (1858-61) durante
i quali tuttavia il governo liberale proseguì l’opera riformatrice riuscendo infine a sconfig-
gere sul campo gli oppositori.
Il rifiuto dei liberali, guidati da Benito Juárez (primo indio nella storia dell’intero conti-
nente americano a diventare capo di Stato), di riconoscere i debiti contratti con alcuni paesi
europei dal governo Santa Ana suscitò le proteste di Francia, Gran Bretagna e Spagna, che
agirono congiuntamente occupando nel gennaio 1862 alcuni centri nevralgici del paese.
Mentre inglesi e spagnoli, accettate le proposte di conciliazione del governo, abbandonan-
do velocemente il Messico, la Francia di Napoleone III con il sostegno dei conservatori locali
continuò l’occupazione militare. Nel 1864, mentre il governo Juárez entrava in clandestinità,
un’assemblea di notabili offrì la corona a Massimiliano d’Asburgo, fratello dell’imperatore
austriaco Francesco Giuseppe: agli ambienti conservatori europei pareva quella la soluzio-
ne ideale per imporre in Messico un sistema monarchico moderato che si facesse garante
dell’ordine sociale. Nel 1867, su richiesta degli Stati Uniti, le truppe francesi lasciarono il
Messico; privato del suo unico supporto, Massimiliano fu catturato e fucilato dalle opposi-
zioni interne, che mai avevano riconosciuto il potere del sovrano venuto dall’Europa.
Tornati nuovamente alla guida del paese, i liberali di Juárez ristabilirono l’ordinamento
repubblicano e ripresero il programma riformatore riducendo drasticamente le forze arma-
te e le spese dello Stato. Scelte che indispettirono le gerarchie militari, conducendo nel 1876
al colpo di Stato del generale Porfirio Díaz, il quale instaurò nel paese un regime autoritario.
La dittatura di Díaz fece del progresso economico il suo obiettivo principale, puntando ad
attirare in Messico massicci investimenti di capitale straniero (soprattutto nel settore mi-
nerario, in quello dell’estrazione del petrolio e della costruzione delle ferrovie). La crescita
economica non fu però accompagnata dal necessario rinnovamento politico e sociale: il re-
gime di Díaz finì, così, per identificarsi completamente con la difesa degli interessi dei grandi
proprietari terrieri, sia a spese degli indios che dei piccoli proprietari e dei ceti intermedi.
In occasione delle elezioni del 1910, si costituì attorno a Francisco Madero, ricco latifondi-
sta di idee progressiste, un movimento di opposizione che iniziò forme di resistenza armata;
quasi parallelamente il guerrigliero Emiliano Zapata diede vita nello Stato meridionale di Mo-
relos a una rivolta contadina. Attaccato da più parti, il regime di Díaz cadde nel maggio 1911.
Eletto presidente, Madero concentrò le proprie energie a combattere le frange di estre-
ma sinistra, reprimendo con la forza le rivendicazioni agrarie degli zapatisti, ma fu invece
colpito a morte (nel 1913) da un attentato organizzato dai militari, che non gli avevano per-
donato l’opposizione a Díaz. Ne seguì la ripresa della rivoluzione armata con i contadini di
Zapata al Sud e con i seguaci di un altro rivoluzionario, Pancho Villa, al Nord. Quest’ultimo
fu capace di raccogliere un eterogeneo esercito di peones: lavoratori giornalieri, disoccu-
pati e piccoli proprietari caduti in miseria, con cui arrivò a infastidire, con azioni lungo la
frontiera settentrionale, perfino i potenti Stati Uniti. Dopo due anni di guerra civile – du-
Capitolo 11. Colonialismo e aspirazioni all’indipendenza: America Latina, Africa e Asia 319

rante i quali gli Usa presero apertamente posizione contro il movimento dei guerriglieri,
inviando una spedizione militare con il preciso obiettivo di combattere le forze di Villa –
riuscì a imporsi la figura di un nuovo leader del partito liberale, Venustiano Carranza.
Nella nuova costituzione messicana, approvata nel 1917, trovarono spazio alcune rifor-
me sociali rivendicate dai rivoluzionari sconfitti (suffragio universale maschile, legislazione
del lavoro, nazionalizzazione dei beni del sottosuolo, ripartizione dei latifondi in piccole
proprietà), che rimasero però, in gran parte, lettera morta sia durante la presidenza Car-
ranza, durata fino al 1920, sia nei quindici anni successivi alla sua cruenta deposizione, che
furono caratterizzati da un regime nuovamente controllato dai militari.

11.3. L’imperialismo europeo in Africa

All’inizio dell’Ottocento le sterminate regioni centrali del continente africano erano ancora
isolate dal resto del mondo. Le modalità secondo le quali era stato condotto il traffico degli
schiavi avevano infatti scoraggiato la penetrazione da parte degli occidentali: i potenziali
compratori non avevano bisogno di spingersi all’interno, in quanto erano gli stessi interme-
diari africani a compiervi razzie e ad avviare verso la costa gli indigeni per venderli come
schiavi agli occidentali (cap. 2, par. 3.3).
L’abolizione del traffico degli schiavi nell’Oceano Atlantico, al quale aderirono quasi
tutti gli Stati europei durante i primi due decenni del secolo XIX, segnò l’inizio di un nuovo
rapporto degli occidentali con l’Africa tropicale. L’attività dei missionari cristiani si intensifi-
cò e venne intrapresa l’esplorazione sistematica dell’entroterra. Alcuni prodotti – tra i primi
l’olio di palma e la gomma – acquistarono crescente importanza per l’esportazione, mentre
cominciavano a diffondersi le prime piantagioni di cotone.
Se è vero che, intorno al 1880, i territori africani governati dagli europei non erano mol-
to più vasti rispetto a ottant’anni prima, tuttavia fu in quel lasso di tempo che si posero le
basi della successiva competizione imperialistica. Questo discorso valeva soprattutto per
l’Africa occidentale, la zona cioè che per secoli era stata battuta dal commercio “trian-
golare” (tra Europa, Africa e America) delle navi negriere. Fu sulla costa occidentale che
si formarono gradualmente sfere d’influenza commerciale e aree non ufficiali di dominio
imperiale. Gli inglesi, ad esempio, cominciarono a considerare di loro proprietà il basso ba-
cino del Niger (tanto che nel 1861 Lagos, attuale capitale economica della Nigeria, venne
annessa come colonia della corona britannica) e i francesi iniziarono a risalire la valle del
fiume Senegal, nel tentativo di assicurarsi lo sfruttamento di quella regione.
Fino agli anni Ottanta del XIX secolo una colonizzazione vera e propria da parte degli
europei si registrava solo in due zone del continente: l’Algeria e il Sudafrica. Conquistato
nel 1830 dai francesi, il territorio algerino aveva visto svilupparsi una lunga lotta tra l’eser-
cito occupante e la popolazione indigena del Berberi. Quando infine, intorno alla metà del
secolo, la Francia riuscì a soffocarne la resistenza, l’Algeria divenne una colonia sostan-
zialmente assimilata e legata in modo stretto alla madrepatria. All’incirca negli stessi anni,
l’influenza di Parigi andò aumentando anche in Marocco, Tunisia ed Egitto.
Per trovare il secondo esempio di dominio diretto da parte degli europei era necessario
saltare all’estremo meridionale del continente: il riferimento è al dominio britannico sulla
Colonia del Capo (parte dell’attuale Sudafrica), che cominciò a stabilirsi in seguito al trat-
320 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

tato anglo-olandese del 1814. Un paio di decenni più tardi, il crescente malcontento verso
il governo di Londra da parte dei coloni boeri (i discendenti dei primi contadini di lingua
olandese che si erano insediati nella zona del Capo di Buona Speranza fin dalla fine del
Seicento) spinse questi ultimi a lasciare, nel 1836-37, la colonia britannica e a fondare in
territori limitrofi proprie repubbliche indipendenti: il Libero Stato d’Orange e il Transvaal.
Salvo questi casi isolati, la vera e propria “corsa all’Africa” sarebbe iniziata solamente
nell’ultimo quarto dell’Ottocento, quando si acuirono le rivalità economiche e politiche
tra le potenze europee. A giocare un ruolo non irrilevante fu l’ingresso nella competizione
africana, accanto a Gran Bretagna e Francia, di due nuovi protagonisti: il Belgio di Leopoldo
II e la Germania di Bismarck.
Al Belgio si presentò l’occasione di entrare nella “corsa all’Africa” nel 1877, quando
Henry Morton Stanley tornò dal suo viaggio d’esplorazione lungo il fiume Congo. Dapprima
l’esploratore gallese offrì le proprie scoperte alla Gran Bretagna, ma dopo il rifiuto degli
inglesi trovò protezione e sostegno presso re Leopoldo, che da molto tempo attendeva
l’occasione di realizzare le sue personali ambizioni imperiali. Davanti a quella opportunità
unica che gli si presentava, Leopoldo assunse Stanley al proprio servizio, incaricandolo di
costruire una strada che congiungesse l’ampio bacino dello Stanley Pool, collocato lungo
il grande fiume africano, fino al mare. Il progetto allarmò i francesi, che diedero mandato
a un altro esploratore, Savorgnan di Brazzà, di stipulare trattati con quelle popolazioni
indigene che abitavano le regioni attigue al fiume Congo, laddove cioè Leopoldo contava
di imporre il controllo del Belgio.
Vale la pena notare che analoghi conflitti diplomatici si innescarono negli anni imme-
diatamente successivi in altre due aree del continente africano, contrapponendo in en-
trambi i casi Gran Bretagna e Francia. Nel 1882 gli inglesi occuparono l’Egitto, allo scopo
di proteggere il canale di Suez e la rotta verso l’India, la più importante colonia britannica.
La mossa del governo di Sua Maestà suscitò il risentimento e l’allarme dei francesi, convinti
che l’Egitto facesse parte della loro sfera d’influenza (fin dalla spedizione di Napoleone
Bonaparte del 1798). Come se non bastasse, anche nella zona del basso Niger le relazioni
tra inglesi e francesi si stavano deteriorando, in questo caso per via del monopolio che la
britannica United African Company cercò di imporre sul commercio in quell’area, tagliando
fuori la concorrenza delle ditte e delle compagnie francesi.
Il secondo protagonista a fare il suo ingresso sulla scena africana intorno al 1880 fu
la Germania. Berlino si mosse sia per il desiderio del suo governo di incunearsi sul piano
politico-diplomatico tra Francia e Gran Bretagna, cercando di contrastare la superiorità
oltremare dei due grandi rivali europei, sia per assecondare le pressioni provenienti dalla
stessa opinione pubblica tedesca: umori sempre più diffusi nei quali trovavano espressione
interessi commerciali e manifatturieri privati e un diffuso entusiasmo colonialista tipico di
un paese in forte crescita economica. Tra il 1884 e il 1885, la Germania dichiarò il proprio
protettorato su quattro tratti della costa africana che ancora non erano stati rivendicati
dalle altre potenze: l’Africa sudoccidentale, la costa orientale tra il Mozambico e il futuro
Kenya, il Togo e il Camerun nell’Africa occidentale.
In uno scenario ormai in caotica ebollizione, fu il Portogallo, “vecchia” potenza decadu-
ta del colonialismo europeo quattro-cinquecentesco, a richiamare la necessità di un princi-
pio d’ordine, con la speranza di salvaguardare quel che rimaneva dei propri possedimenti
oltremare (ad esempio, gli insediamenti e le basi commerciali in Angola e Mozambico). Il
governo di Lisbona propose la convocazione di una conferenza internazionale allo scopo
di discutere le modalità secondo le quali accettare o respingere le rivendicazioni di volta in
volta avanzate dai paesi europei sui vari territori africani. L’idea fu subito raccolta dal can-
Capitolo 11. Colonialismo e aspirazioni all’indipendenza: America Latina, Africa e Asia 321

celliere tedesco Bismarck, e una conferenza (formalmente ristretta all’Africa occidentale)


si riunì effettivamente a Berlino dal novembre 1884 al febbraio 1885. Vi presenziarono tutti
gli Stati europei interessati al continente africano, con l’aggiunta degli Stati Uniti.
Le decisioni prese in quella sede, sancite nel trattato di Berlino del 1885, riconobbero
l’autorità del Belgio sul Congo, dichiararono i bacini dei fiumi Niger e Senegal aree di libero
commercio e ribadirono, infine, la volontà da parte di tutti i firmatari di abolire la schiavitù.
Grande importanza acquistarono due clausole con cui si stabilivano le procedure che le
potenze imperiali dovevano seguire per rivendicare il possesso di un territorio. Da allora in
avanti, le nuove acquisizioni territoriali si sarebbero dovute annunciare in modo formale,
e il riconoscimento internazionale era subordinato alla dimostrazione che la zona di cui si
rivendicava il possesso fosse affettivamente occupata militarmente. Così, benché la confe-
renza di Berlino sull’Africa occidentale non fosse stata convocata per dividersi il continen-
te, essa finì con l’essere il segnale di avvio della spartizione. Nel giro di trent’anni, a partire
proprio dal 1885, l’intero continente africano, ad eccezione di Etiopia e Liberia, passò in una
forma o nell’altra sotto il dominio europeo, con l’invio sul posto di uomini e armi.
Nella zona occidentale i francesi accrebbero la loro influenza sulla Guinea, la Costa
d’Avorio, il Dahomey (l’attuale Benin) e il Gabon, continuando la risalita della valle del
Senegal, già intrapresa nei decenni precedenti, fino al Mali. Gli inglesi stipularono diversi
trattati nel bacino del basso Niger, si assicurarono il controllo della costa dal Camerun a
Lagos, occuparono l’Ashanti (l’attuale Ghana), presero possesso della zona settentrionale
della Costa d’Oro ed estesero la loro presenza fino all’interno della Sierra Leone. Nell’Afri-
ca orientale, gli accordi intercorsi nel 1886 e nel 1890 tra Gran Bretagna e Germania asse-
gnarono Zanzibar, Uganda e Kenya alla sfera d’influenza britannica, e Tanzania, Ruanda
e Burundi alla Germania. Nell’Africa centrale, la britannica South Africa Company prese
possesso della Rhodesia (dal nome di Cecil Rhodes, capo di quella compagnia commercia-
le), mentre il Congo belga si ingrandiva sempre più verso l’interno. Gli italiani, infine, ultimi
arrivati in Africa, occuparono tra il 1885 e il 1890 l’Eritrea, sul Mar Rosso.
Questa fase espansiva dell’imperialismo europeo incontrò crescente resistenza da par-
te delle popolazioni africane, alle quali era ormai chiaro che gli invasori intendevano occu-
pare stabilmente i loro territori. Gli indigeni cominciarono perciò a lottare contro le annes-
sioni con violenta determinazione, anche perché la presenza degli europei gravava sempre
più pesantemente sulla loro vita quotidiana. La costituzione di amministrazioni coloniali, il
pagamento dei salari a funzionari coloniali, soldati e forze di polizia, la costruzione di stra-
de, ferrovie, ponti e porti, tutto ciò costava molto denaro e i governi europei pretendevano
che le colonie africane diventassero al più presto finanziariamente indipendenti. Le ammi-
nistrazioni coloniali imposero, quindi, sistemi di tassazione spropositati, che costringevano
spesso gli indigeni a vendere totalmente il raccolto dei campi o i gli altri prodotti del loro
lavoro solamente per pagare le tasse. E coloro che non riuscivano a saldare i debiti fiscali
venivano costretti a lavorare gratuitamente.
Il sistema del lavoro coatto si diffuse ampiamente in Africa. Talvolta, come nel Congo,
i lavoratori venivano arruolati su vasta scala e costretti, in condizioni di quasi schiavitù,
a costruire ferrovie, dissodare piantagioni e raccogliere prodotti della giungla. Per que-
ste ragioni il risentimento contro gli europei andò acuendosi sempre più. Guerre e rivolte
scoppiarono in tutto il continente. I francesi dovettero impegnarsi a fondo per piegare la
resistenza del Dahomey e del Madagascar, e la loro avanzata fu duramente contrastata an-
che in Mali. I tedeschi si videro costretti a combattere selvaggiamente nell’Africa sudocci-
dentale e in Tanzania. Gli inglesi dovettero venire a capo delle rivolte in Rhodesia, in Sierra
Leone e nell’Ashanti. Comunque, soprattutto grazie alle armi più potenti e alle migliori doti
322 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

organizzative, gli eserciti occidentali riuscirono a vincere questi conflitti e altri ancora. Solo
in un caso la resistenza africana risultò vittoriosa: avvenne nel 1896, quando il tentativo ita-
liano di stabilire un protettorato sull’Etiopia fu stroncato nella battaglia di Adua, per mano
dell’imperatore etiope Menelik II.
Tuttavia, la guerra più sanguinosa combattuta sul suolo africano, quella che per molti
aspetti segnò l’apice dell’imperialismo nel continente, non fu combattuta dai bianchi con-
tro i neri, bensì tra soli bianchi. Si trattò della guerra anglo-boera combattuta in Sudafrica,
dove nell’ultimo quarto del diciannovesimo secolo erano stati scoperti campi diamantiferi
e miniere d’oro. Per non lasciarsi sfuggire quella inaspettata ricchezza, la Colonia britanni-
ca del Capo decise di annettersi le vicine repubbliche boere. La guerra con il Transvaal e il
Libero Stato d’Orange iniziò nel 1899 e si protrasse fino al 1902, quando l’intero Sudafrica
entrò a far parte dell’Impero britannico.
Resta da chiedersi che cosa spinse l’Europa ad avventarsi sull’Africa dopo averla tanto
a lungo trascurata. Certamente alle nazioni industriali occorrevano nuovi paesi nei quali
investire i capitali derivanti dallo sviluppo economico, e c’era perfetta consapevolezza del
fatto che queste risorse finanziarie potevano affluire senza rischi solo verso territori diret-
tamente controllati dagli europei. Tuttavia, alla prova dei fatti, furono esigui i capitali che
vennero investiti in Africa, anche dopo il diffondersi in quel continente di numerosi regimi
coloniali. Investitori e speculatori, infatti, continuarono a trovare più allettanti le prospetti-
ve offerte da altre aree del globo: soprattutto Canada, Australia e America Latina.
Ciò non toglie che l’atteggiamento degli imperialisti fosse proprio quello di chi vedeva
nel continente africano un bottino da accaparrarsi, salvo ricredersi più tardi, almeno in
molti casi, sull’effettivo potenziale economico di quei territori. Nella mentalità dei gover-
nanti europei era radicata la convinzione che solo l’espansione oltremare potesse garan-
tire il futuro rango del loro paese nel contesto mondiale. Da questo punto di vista, l’Africa
poteva essere l’occasione per nuovi prestigiosi successi. Tanto per fare un esempio, in molti
ambienti parigini si sperava di recuperare in Africa quanto si era perso in India nel secolo
precedente. Una parte importante giocò anche l’ambizione dei militari di carriera: per ri-
manere alla Francia, la conquista del Mali e del Sahara non fu progettata a livello centrale,
quanto piuttosto da ufficiali dell’esercito dislocati sul posto.
In altre parole, e non solo nel caso francese, le annessioni e il conseguente amplia-
mento delle sfere di influenza venivano spesso autorizzate dal governo della madrepatria
solo a cose fatte. Le iniziative partivano spesso da alti funzionari coloniali, o da compagnie
commerciali, in cerca di visibilità, ricompense e guadagni.

11.4. L’India sotto il dominio britannico

Nel 1858 l’amministrazione dell’India passò definitivamente dalla Compagnia delle Indie
Orientali, che si era insediata in quei territori fin dal Seicento, allo Stato britannico, che la
esercitò attraverso un governatore generale. Per la verità, già dalla fine del Settecento la
corona inglese e il parlamento di Londra avevano cominciato a combattere lo strapotere
della grande compagnia commerciale, i cui interessi non sempre coincidevano con quelli
del potere pubblico. Il periodo di transizione durò alcuni decenni, e del resto serviva tempo
Capitolo 11. Colonialismo e aspirazioni all’indipendenza: America Latina, Africa e Asia 323

per sostituire a una gestione sostanzialmente privata e discrezionale una struttura ammini-
strativa più formalizzata e affidabile (cap. 2, par. 4.3).
Per coadiuvare l’azione del governatore generale venne creato l’Indian Civil Service, uno
straordinario apparato burocratico, efficiente e snello, che era composto da un migliaio di
funzionari britannici, i quali rivestivano tutte le maggiori cariche amministrative ed esecu-
tive della colonia. Se è vero che nei ranghi inferiori della burocrazia gli uffici erano quasi
totalmente occupati – anzi affollati – da impiegati indiani, risultava altrettanto evidente che
nessuno di questi posti offriva né il fascino né il prestigio del Civil Service, tanto che esso
divenne in breve tempo uno dei simboli più importanti delle aspirazioni politiche indiane.
L’India britannica venne suddivisa a scopi amministrativi in distretti, ognuno dei quali
contava una popolazione di circa un milione di abitanti ed era affidato al controllo di un
responsabile distrettuale, che godeva di larga autonomia. Neppure i governatori generali
più energici riuscivano a far attuare misure che non riscuotessero il consenso di questi alti
funzionari del Civil Service. Del resto, costoro potevano vantare una profonda conoscenza
del territorio e della realtà sociale del paese, mentre solitamente i governatori generali,
prima di arrivare in Asia su mandato del parlamento, ignoravano pressoché totalmente le
condizioni dell’India. E solitamente si fermavano a Calcutta non più di cinque o sei anni,
prima di essere destinati ad altri incarichi.
Nel corso del tempo tra i ceti medi indiani – spesso formatisi in scuole di impronta
occidentale – si fece sempre più pressante la richiesta di libero accesso nei ranghi dell’am-
ministrazione creata dagli inglesi. Secondo l’opinione di molti il diritto a questa parteci-
pazione era stato acquisito non soltanto con l’assimilazione della cultura occidentale, ma
anche con il pronto e generalizzato riconoscimento dei benefici che il dominio britannico
aveva recato all’India. La richiesta fu infine accolta sotto l’amministrazione di Lord Ripon,
il governatore generale nominato nel 1880 dal primo ministro liberale William Gladstone.
L’apertura verso una maggiore mobilità sociale per la popolazione locale e l’introdu-
zione di una più ampia libertà di stampa indicavano la direzione verso cui intendevano
muoversi i liberali britannici. Ma il loro tentativo di abolire anche le restrizioni che limitava-
no i processi a cittadini europei da parte di tribunali indiani scatenò la ferma opposizione di
molti funzionari dello stesso Civil Service e degli ambienti commerciali britannici in India.
Il provvedimento fu ritirato, e, dopo la partenza di Ripon nel 1884, il governo abbandonò
questa linea politica ritornando a una netta chiusura verso le rivendicazioni dei settori più
avanzati della società indiana.
Il diffuso risentimento suscitato dalla strenua difesa di leggi discriminatorie da parte
della comunità britannica, e inoltre le aspettative (poi disattese) alimentate dal liberalismo
di Gladstone, portarono alla costituzione di diverse organizzazioni popolari che si propo-
nevano di veicolare le istanze dell’opinione pubblica indiana. Gran parte di queste forme
associative ebbe soltanto risonanza locale e vita breve, ma nel 1885 i loro principali leader
si accordarono per dare vita all’organismo politico che divenne noto con il nome di Con-
gresso nazionale indiano.
Fin dall’inizio, il Congresso si schierò in difesa degli interessi di un importante settore
sella società indiana, quello dei nuovi ceti professionali sorti sotto il dominio britannico:
avvocati, medici, giornalisti, docenti universitari, nonché i tanti studenti che cominciavano
a frequentare gli istituti di istruzione superiore. Questi ultimi divennero i nuovi quadri del
Congresso nazionale indiano e, anche grazie alla loro capacità di raccogliere e rappresen-
tare le aspirazioni di settori più vasti della popolazione, influenzarono in maniera decisiva
lo sviluppo del movimento di indipendenza indiano, che acquisterà nella prima metà del
Novecento, sotto la guida di Ghandi, una dimensione di massa e una fama mondiale.
324 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

11.5. La Cina: fine dell’isolamento internazionale e crollo della


dinastia Manciù

La cosiddetta “guerra dell’oppio” del 1839-42 fu la prima scintilla a crearsi nei rapporti tra
Cina e Occidente e si può ritenere paradigmatica del lungo conflitto che si sviluppò nei
decenni successivi tra due civiltà estremamente diverse tra loro.
La causa diretta della guerra fu l’attività commerciale faticosamente sviluppata in Cina
dalle compagnie europee. I funzionari cinesi consideravano, infatti, i mercanti alla stregua
di parassiti; persone che agivano solo in vista di un guadagno materiale sfruttando il lavoro
altrui, senza in fondo produrre nulla di valore. Come se non bastasse gli stranieri erano
ritenuti dei barbari, ignari dei precetti etici su cui si fondavano la civiltà imperiale cinese e
tutta la tradizione sociale e intellettuale confuciana.
I mercanti europei erano quindi particolarmente disprezzati e il commercio navale con
l’Occidente ristretto al solo porto di Canton. A partire dall’ultimo quarto del Settecento,
grosso modo quando il tè divenne la bevanda nazionale inglese, furono le navi britanniche
a conquistare il controllo dei traffici in quello scalo. Nel corso del tempo, in cambio delle
forti esportazioni di tè dirette in Gran Bretagna, gli inglesi registrarono un crescente inte-
resse dei cinesi per l’oppio che le navi di Sua Maestà imbarcavano in India. Il commercio
dell’oppio crebbe a tal punto, che negli anni Venti dell’Ottocento i governanti della dinastia
Manciù cominciarono a preoccuparsi, sia per gli effetti debilitanti che la droga aveva sulla
popolazione cinese, sia per il fatto che le crescenti quantità di oppio vendute dai mercanti
britannici avevano come contropartita non solo del tè ma anche grosse quantità di argento,
prefigurando una situazione nella quale la Cina rischiava di impoverirsi di metalli preziosi.
Nel 1838 Pechino decise di stringere i freni e lo fece in maniera drastica: venne pro-
mulgata la pena di morte per chiunque commerciasse l’oppio. I mercanti inglesi e il so-
vrintendente britannico al commercio di stanza a Canton considerarono intollerabile una
tale negazione della libertà di commercio. Il passaggio dall’attrito diplomatico allo scontro
militare fu quasi inevitabile. Quando i funzionari cinesi confiscarono e distrussero l’oppio di
proprietà delle compagnie commerciali, rifiutandosi per giunta di pagare un indennizzo, la
tensione crebbe ulteriormente, fino a quando nel novembre 1839 una flotta cinese scambiò
alcune scariche di cannone con unità da guerra britanniche al largo di Canton. Iniziava così
la guerra dell’oppio, e con essa un secolo di sconfitte e di umiliazioni per la Cina.
Le armi e la marina britannica dimostrarono subito la loro superiorità e nel 1842, pur
con grande riluttanza, il governo Manciù si rassegnò a firmare dei trattati con i quali cedeva
Hong Kong alla Gran Bretagna, apriva altri cinque porti costieri al commercio internaziona-
le, abbassava le tariffe doganali e accordava particolari immunità agli stranieri in Cina, che
non sarebbero stati più sottoposti alla giustizia locale. Questi furono i primi di una lunga
serie di “trattati diseguali” imposti alla Cina dalle potenze occidentali.
Per qualche tempo il grande impero asiatico tentò di sottrarsi all’applicazione degli
impegni presi, ma dopo essere stato sconfitto in una nuova guerra dell’oppio (1856-1860)
fu costretto a rispettare le clausole dei trattati e a subire altre imposizioni, come la legaliz-
zazione del traffico dell’oppio, il permesso all’ingresso di missionari cristiani all’interno del
paese, la formalizzazione di rapporti diplomatici con gli Stati esteri secondo criteri europei
(con l’apertura di ambasciate e l’ingresso delle relative delegazioni).
Per quanto fossero duri i colpi già ricevuti, i rischi maggiori per l’indipendenza e l’inte-
grità territoriale della Cina dovevano ancora arrivare. Essi non provennero da Occidente,
bensì dall’Estremo Oriente. Infatti, il culmine della crisi cinese corrispose probabilmente
Capitolo 11. Colonialismo e aspirazioni all’indipendenza: America Latina, Africa e Asia 325

con la disastrosa disfatta a cui il paese andò incontro nella guerra contro il Giappone del
1894-95. Le condizioni di pace imposte dai vincitori furono estremamente dure: un’elevata
indennità di guerra, il diritto da parte dei giapponesi di costruire industrie nei principali
porti cinesi, la cessione dell’isola di Formosa e il riconoscimento dell’indipendenza della
Corea, che il Giappone si annetterà nel 1910.
Di fronte al concreto timore di una spartizione della Cina da parte delle potenze stranie-
re, la classe dirigente Manciù intraprese un ultimo tentativo di resistenza, fomentando nel-
le campagne e nelle periferie urbane una rivolta antioccidentale, passata alla storia come
“guerra dei boxer”. Le avanguardie armate che animarono questo movimento provenivano
spesso dalle scuole di kung fu – identificate semplicisticamente dagli europei come “scuole
di pugilato”; da qui il nome assegnato alla rivolta dalla storiografia occidentale. Nel 1900,
una massa disorganizzata ma pugnace di rivoltosi entrò a Pechino, cingendo d’assedio il
quartiere riservato agli stranieri e mettendo a repentaglio la sicurezza delle delegazioni
diplomatiche. Ma ben presto truppe europee (soprattutto britanniche) marciarono sulla ca-
pitale rompendo l’assedio, mentre unità militari russe approfittavano della situazione per
occupare la Manciuria e sottrarre alla Cina un’altra importante regione di confine.
Era la fine della dinastia Manciù, che venne definitivamente travolta da un moto rivolu-
zionario scoppiato all’interno del paese. Già da alcuni anni, piccoli gruppi di rivoluzionari
anti-mancesi fomentavano rivolte soprattutto nella Cina meridionale. Il capo dei rivoluzio-
nari era Sun Yat-sen, intellettuale di origine contadina ma educato in scuole di impronta
occidentale. Le sue teorie politiche, estremamente concrete e in grado di far breccia sia
nelle forze armate che tra gli strati sociali più umili delle campagne, prevedevano una nuo-
va Cina fondata su quelli che egli definiva i “tre principi del popolo”: nazione, democrazia
e diritti sociali (ovverosia, un livello minimo di sussistenza garantito a tutti). Si trattava di
principi evidentemente mutuati da dottrine politiche e sociali di provenienza europea, che
Sun Yat-sen aveva appreso nel suo percorso formativo.
Nell’ottobre 1911, l’insurrezione del presidio militare della città di Wuchang scatenò la
rivoluzione che avrebbe segnato una volta per tutte la fine del dominio dinastico. Nel giro
di due mesi la maggior parte delle province meridionali e centrali dichiarò la propria indi-
pendenza dal governo centrale. L’unica scelta che rimase ai Manciù fu quella di abdicare
(febbraio 1912), evitando la prospettiva di una sanguinosa guerra civile. All’ultimo impera-
tore, il giovanissimo Pu Yi, fu assegnato un appannaggio sufficiente a continuare a vivere
nel Palazzo Imperiale, mentre la Cina si trasformava in una repubblica.

11.6. Il nuovo corso giapponese. Dalla crisi del regime Tokugawa


alla modernizzazione del paese

Fin dal XII secolo, la corte imperiale di Kyoto, allora capitale del Giappone, affidò al capo
dell’aristocrazia militare, indicato con il nome di shogun, la direzione effettiva del paese.
Gradualmente, l’imperatore perse la possibilità di esercitare il potere esecutivo e lo sho-
gun divenne un vero e proprio dittatore militare, la cui carica si tramandava in maniera
ereditaria. In Giappone prese così forma una sorta di feudalesimo centralizzato, nel quale
governatori locali (chiamati daimyo), vassalli dello shogun, amministravano il territorio su
mandato del loro signore.
326 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

A partire dal XV secolo iniziarono a espandersi i traffici commerciali. Sorsero i primi


centri mercantili e alcune città portuali avviarono rapporti con l’impero cinese. Nel secolo
successivo si affacciarono sulle coste del Giappone i primi missionari portoghesi e, sulla
loro scia, alcuni mercanti europei che oltre a oggetti di lusso introdussero nell’arcipelago
nipponico le armi da fuoco.
Nel 1600 il potere militare (shogunato) passò nelle mani della dinastia Tokugawa che,
dopo aver sconfitto una coalizione avversa, confiscò i possedimenti di circa 90 daimyo. Tali
acquisizioni consentirono ai Tokugawa di incrementare le rendite del loro casato, di pre-
miare i daimyo fedeli e di rinsaldare così i legami di tipo feudale con i propri vassalli. Negli
anni successivi la capitale venne spostata a Tokyo e si pose mano a una profonda riorga-
nizzazione istituzionale, con la quale si intese rafforzare l’autorità del governo centrale.
I Tokugawa, che avrebbero governato l’impero fino al 1868, fecero dell’etica sociale
confuciana la base del loro potere. I rapporti sociali e politici si fondavano sulle virtù affer-
mate dal confucianesimo, tra le quali primeggiavano la relazione fra signore e suddito e le
virtù di lealtà e obbedienza. Su questi principi si fondava la gerarchia sociale che, oltre agli
hinin (i “non uomini”, discriminati socialmente in quanto erano criminali o svolgevano me-
stieri “impuri”), prevedeva l’esistenza di ben definite classi sociali: i mercanti, gli artigiani, i
contadini e, nelle posizioni di vertice, i nobili e i guerrieri.
Se i contadini erano riconosciuti come l’asse portante della società, al contrario i mer-
canti, secondo la tradizione confuciana, venivano appena tollerati in quanto considerati
come classe non produttiva, dedita al semplice trasferimento di merci prodotte dal lavoro
altrui: essi dovevano risiedere e operare in appositi quartieri urbani loro destinati, e si tro-
vavano dunque ghettizzati all’interno del tessuto sociale giapponese. Spostandosi verso i
piani alti della piramide sociale va rilevato che i daimyo governavano i loro feudi con l’ausi-
lio di funzionari-guerrieri, i samurai, che nei due secoli e mezzo di egemonia dei Tokugawa
si trasformarono in veri e propri amministratori.
Nei rapporti con l’esterno, a partire dal 1641, i Tokugawa misero in atto la politica del
sakoku, cioè del “paese chiuso”. Tale scelta fu determinata da considerazioni di carattere
politico e sociale. Da un lato, infatti, i Tokugawa erano preoccupati dalla possibilità che al-
cuni daimyo potessero procurarsi, tramite i mercanti occidentali, armi da fuoco e, dunque,
acquisire una potenza incontrollabile. Dall’altro, il postulato cristiano dell’uguaglianza fra
gli uomini, portato dai missionari occidentali, minacciava i fondamenti dell’etica confucia-
na, che esigeva invece l’obbedienza dell’inferiore non ad altri che al superiore e il manteni-
mento di una rigida gerarchia sociale. Tutti gli stranieri furono espulsi dal Giappone (a ec-
cezione degli olandesi, confinati nell’isolotto artificiale di Deshima, nella Baia di Nagasaki)
e il commercio estero limitato a poche navi all’anno.
Ristretti in questo modo gli introiti doganali, le finanze pubbliche si reggevano quasi
esclusivamente sulla tassazione delle rendite fondiarie dei grandi feudatari. Sottoposti al
controllo di intendenti fiscali inviati dal potere centrale, i daimyo si rifacevano a loro volta
sulle comunità di villaggio, che dovevano provvedere al versamento delle tasse direttamente
nelle tasche del proprio signore. Anche per questa ragione le comunità rurali costituivano
corpi intermedi fondamentali per la tenuta del sistema sociale giapponese. Esse si autogo-
vernavano attraverso proprie istituzioni (il capo del villaggio e l’assemblea degli anziani),
ma erano vincolate alle autorità esterne da un principio di corresponsabilità, cioè dovevano
rispondere collettivamente delle inadempienze o dei reati commessi da un proprio membro.
Mentre la vita di chi lavorava la terra era spesso stentata, paradossalmente le cose
potevano andare diversamente per i mercanti. Proprio il diffuso disprezzo che li circonda-
va, portò nel corso del tempo all’arricchimento di alcuni di loro che – senza temere con-
Capitolo 11. Colonialismo e aspirazioni all’indipendenza: America Latina, Africa e Asia 327

correnza (dal momento che il ruolo sociale che ricoprivano non era per nulla ambito, ma
purtuttavia necessario) –, cominciarono a trarre forti guadagni dal commercio del riso e di
altri prodotti agricoli e artigianali, concentrando la propria attività soprattutto intorno ai
poli urbani di Tokyo e a Osaka.
Fra Settecento e Ottocento, cominciarono a mutare anche le condizioni nelle campa-
gne. In alcune aree del paese, l’introduzione di nuovi prodotti e tecnologie (fertilizzanti
marini, migliori strumenti di lavoro) favorì sia l’incremento della produttività che gli inve-
stimenti in attività legate all’agricoltura. Venne così a delinearsi una differenziazione tra
pochi contadini più intraprendenti e benestanti e una massa di lavoratori agricoli a reddito
medio-basso, che nei tempi morti previsti dalla risicoltura cercavano impiego nelle nuove
attività manifatturiere proto-industriali.
Queste trasformazioni favorirono indubbiamente la transizione del Giappone dal feuda-
lesimo al capitalismo, ma il dissolvimento del regime dei Tokugawa e il passaggio a un’or-
ganizzazione economico-sociale borghese furono determinati anche da cause esterne. A
conclusione della prima guerra dell’oppio (1842), era iniziata la penetrazione occidentale in
Cina e l’arcipelago giapponese, situato sulle rotte marittime tra California e Asia, costituiva
un’utile base di approdo per le navi statunitensi. Fu un commodoro americano che, giunto
nella Baia di Uraga nel 1853, al comando di uno squadrone di navi da guerra, costrinse, sotto
la minaccia dei cannoni, il Giappone ad aprirsi al commercio internazionale.
A tale pressione esterna corrispose all’interno del Giappone l’ascesa di un partito favo-
revole ai rapporti con gli occidentali, che dopo alcuni anni di battaglia politica e militare
prevalse sui fautori dell’isolamento. La coalizione vincente, finanziata dai grandi mercanti
giapponesi, riuscì a sconfiggere definitivamente l’esercito dello shogun (1867), e ad avviare
un processo riformatore sostenuto dal giovane imperatore Mutsuhito. Quest’ultimo regnò
sul paese dal 1868 al 1912, un periodo 44 anni che nella tradizione giapponese è indicato
come periodo Meiji (“periodo del regno illuminato”). Dopo secoli, la figura dell’imperatore
assurgeva nuovamente a un ruolo fondamentale, come simbolo dell’unità e dell’indipen-
denza della nazione e come garante di riforme radicali.
La classe dirigente Meiji si pose l’obiettivo di trasformare l’economia giapponese e di
istituire un esercito moderno, in grado di competere con quelli occidentali. Lo scopo venne
raggiunto nell’arco di un ventennio, attraverso cambiamenti introdotti dall’alto che rivolu-
zionarono l’organizzazione economico-sociale e le istituzioni dello Stato. In campo sociale
furono aboliti i privilegi della classe dei guerrieri e le limitazioni alla mobilità sociale. In
economia il nuovo governo stimolò lo sviluppo industriale con finanziamenti ai privati e
con la creazione di industrie pubbliche “modello”. Una delle riforme più incisive riguardò
le campagne: i latifondi dei daimyo vennero divisi e distribuiti in proprietà ai contadini. Il
governo non trascurò il settore dell’istruzione, in ciò favorito dall’esistenza, già nel regime
Tokugawa, di una diffusa rete di scuole e dalla presenza di oltre un milione e mezzo di
samurai acculturati, parte dei quali – dovendo ricollocarsi nella nuova società giapponese
– scelse la via dell’insegnamento. La scuola primaria venne resa obbligatoria e il sistema
formativo superiore fu articolato fino al livello universitario.
Queste trasformazioni suscitarono una serie di reazioni, in genere di segno conservato-
re. Scoppiarono, ad esempio, rivolte contro l’introduzione del calendario gregoriano, con-
tro l’istituzione dell’obbligo scolastico e contro l’incremento della pressione fiscale (neces-
sario per finanziare le innovazioni che venivano via via introdotte). Ma il rischio maggiore
che il governo dovette affrontare fu costituito, nel 1877, dalla rivolta di stampo tradizio-
nalista di alcune migliaia di samurai, che il nuovo esercito di coscritti riuscì comunque a
soffocare nel sangue.
328 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

A favore dell’oligarchia Meiji giocò invece il rapido processo di nazionalizzazione del


popolo giapponese, agevolato dal ricorso a una abile propaganda che faceva leva anche
su stereotipi collettivi: l’identificazione fra nazione e stirpe, la riproposizione della figura
dell’imperatore quale discendente di un’ininterrotta linea divina, la priorità del rafforza-
mento economico e militare del Giappone per raggiungere la pari dignità con le potenze
occidentali.
La prima fase dell’industrializzazione forzata del Giappone poté dirsi completata nel
1881-85, quando le industrie statali create nel decennio precedente, esaurito il loro ruolo
propulsivo, furono vendute a prezzi stracciati a uomini d’affari politicamente protetti, eredi
di quei mercanti dell’epoca Tokugawa che avevano contribuito con i loro finanziamenti
alla vittoria delle forze modernizzatrici. Con questa decisione, il governo Meiji pose le basi
dello sviluppo dei futuri zaibatsu, concentrazioni di capitale finanziario, industriale e com-
merciale a controllo familiare che sarebbero diventate i colossi dell’economia giapponese
del XX secolo.
In campo sociale, alcuni valori dell’etica confuciana (lealtà e obbedienza, pietà filia-
le, armonia collettiva) furono mantenuti quali punti di riferimento della vita quotidiana
del nuovo Giappone. Essi vennero ribaditi dall’Editto imperiale sull’educazione del 1890, e
promossi con una capillare organizzazione del consenso attuata attraverso i contenuti dei
programmi scolastici e il controllo sui mezzi di comunicazione.
Nel 1889 venne promulgata la costituzione dell’impero giapponese. “Donata” dall’im-
peratore ai suoi sudditi, la carta fondamentale non fu il risultato di un’elaborazione as-
sembleare, ma il frutto del lavoro di una commissione ristretta di alti funzionari. Il potere
supremo rimaneva al sovrano, la cui persona era definita “sacra e inviolabile”. Suo era il
comando delle forze armate; inoltre i ministri rispondevano della loro azione di governo
alla corona e non al parlamento. Quest’ultimo era costituito da due camere: quella dei
nobili (composta in parte da membri di diritto e in parte da membri di nomina imperiale) e
quella dei deputati, eletta con un sistema censitario estremamente ristretto: nelle elezioni
del 1890 poté votare appena l’1% della popolazione.
Consolidato il sistema economico e politico interno, la classe dirigente giapponese av-
viò un processo di espansionismo militare. Nel 1894-95, come già ricordato nel paragrafo
precedente, il Giappone sconfisse il declinante impero cinese; con il Trattato di Shimone-
seki ottenne Taiwan, il riconoscimento dei propri interessi in Corea (fino ad allora Stato
tributario della Cina) e una forte indennità di guerra che gli consentì di rafforzare la propria
moneta. Dopo aver partecipato alla spedizione in Cina per la repressione della “rivolta
dei boxer” (1900), nel 1902 il governo giapponese siglò un trattato di amicizia con la Gran
Bretagna. Il riconoscimento dell’allora maggiore potenza mondiale permise al Giappone
di affrontare nel 1904-1905 una guerra vittoriosa con un comune avversario nell’area del
Pacifico, la Russia. Sconfitta la flotta zarista nella battaglia di Tsushima e conquistata la
piazzaforte di Port Arthur nella penisola cinese del Liaodong, il Giappone con il Trattato
di Portsmouth ottenne anche la metà meridionale dell’Isola di Sachalin e la cessione della
ferrovia sud-manciuriana: nuovo strumento di penetrazione degli investimenti giapponesi
nel continente asiatico.
Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea:
dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra
di Carlo De Maria
Roma (BraDypUS) 2018
ISBN 978-88-98392-70-4
pp. 329-344

Capitolo 11. Colonialismo e aspi-


razioni all’indipendenza: America
Latina, Africa e Asia
Approfondimenti
Profili
Simón Bolívar

Nato nel 1783 a Caracas (Venezuela), Simón Bolívar si formò a stretto contatto con la cul-
tura europea. Nel 1799 il giovane s’imbarcò per la Spagna e completò la sua istruzione su-
periore a Madrid. Successivamente viaggiò nella parte settentrionale della penisola iberica
e in Francia. Era ancora in Europa nel 1804, quando assistette a Parigi all’incoronazione di
Napoleone Bonaparte. L’anno dopo visitò l’Italia. Dalla Francia attraversò le Alpi giungen-
do a Torino; quindi toccò Milano, Venezia, Firenze, Roma e Napoli. Ripercorse poi a ritroso
lo stivale, attraversò la Germania e raggiunse il Nord Europa; lì s’imbarcò per l’America
settentrionale. Visitò alcune città degli Stati Uniti; infine tornò in Venezuela, dove proseguì
una brillante carriera militare che lo portò in pochi anni al grado di colonnello.
Le esperienze di viaggio compiute a cavallo del 1800 ebbero un peso decisivo nella ma-
turazione della sua personalità. In Europa, Bolívar assorbì la cultura romantica e l’idea di
nazione che stavano allora prendendo piede nel Vecchio continente, mentre in America del
Nord poté constatare la vitalità di una società, quella statunitense, che da appena trent’an-
ni aveva guadagnato la propria indipendenza. Da questi spunti scaturirono gli intendimenti
politici che ne avrebbero presto fatto il “liberatore” delle colonie spagnole del Sudamerica.
Il momento opportuno per agire giunse nel 1808 insieme alle notizie dell’occupazione
di Madrid da parte dell’armata napoleonica. In pochi anni di intense battaglie politiche e
militari, combattute prima in Venezuela, poi in Colombia, Ecuador e Perù, si precisò il pro-
getto istituzionale di Bolívar: l’unione federale fra gli Stati ispano-americani.
Già nel 1815 quell’idea fece capolino in alcuni suoi scritti e nel corso degli anni Venti
sembrò a un passo dal realizzarsi. Bolívar dapprima pensò a una federazione di tutta l’A-
merica meridionale spagnola; successivamente, lasciando fuori dal suo progetto il Cile e
l’Argentina (paesi sui quali egli non riuscì mai a esercitare una influenza diretta), concepì
l’unione tra Bolivia, Perù, Venezuela e Colombia. La grande repubblica federale sarebbe
stata governata da un presidente eletto dal popolo e retta dalla costituzione boliviana,
330 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

scritta dallo stesso Bolívar. Avrebbe avuto un solo esercito e la capitale sarebbe stata fissa-
ta in una località centrale del Sudamerica.
Sul finire degli anni Venti i primi conflitti nazionalistici tra venezuelani e colombiani mi-
narono alla radice il sogno unitario del condottiero sudamericano, che ne ricavò un’amara
disillusione. Nel 1830 lasciò il suo paese, ormai in balia di faide interne. In precarie condi-
zioni di salute e ormai svuotato di ogni energia, Bolívar morì pochi mesi dopo, nelle vicinan-
ze di Santa Marta, in Colombia. Le sue spoglie furono trasportate a Caracas solo nel 1842.

Italia-Europa-Mondo
L’apertura del canale di Suez

Il canale di Suez è un canale artificiale navigabile situato in Egitto; esso si estende per deci-
ne e decine di chilometri tra Porto Said sul Mediterraneo e la città di Suez sul Mar Rosso. Da
secoli la sua realizzazione rappresentava un sogno per i mercanti e i viaggiatori europei.
Già all’inizio del XVI secolo, infatti, alcuni mercanti veneziani avevano proposto ai sultani
dell’Egitto di collegare il Mar Rosso con il Mediterraneo tagliando l’istmo di Suez. La stessa
idea balenò nella mente di Napoleone Bonaparte alla fine del Settecento, ma l’insuccesso
della spedizione francese in Egitto fermò le ricerche avviate.
L’iniziativa rimase comunque in mano ai francesi, tanto che il primo dettagliato pro-
getto venne presentato alle autorità egiziane nel 1833 da un ingegnere parigino, Prosper
Enfantin. Nonostante la sua proposta non incontrasse alcun interesse al Cairo, la capar-
bietà di Enfantin e di altri professionisti europei portò alla creazione negli anni Quaranta
dell’Ottocento di una Société d’étude pour le canal de Suez. La lunga riflessione sugli aspet-
ti tecnici ed economici di quella impresa condusse, nel decennio successivo, al progetto
definitivo redatto da Luigi Negrelli, un ingegnere di lingua italiana originario del Trentino,
allora territorio austriaco.
Negli anni precedenti, Negrelli si era costruito una fama di livello europeo come pro-
gettista di linee ferroviarie (una esperienza grazie alla quale sarebbe presto stato nomina-
to direttore generale delle ferrovie dell’Impero austriaco), ma nel 1845 – mentre lavorava
al collegamento delle ferrovie austriache con quelle della Svizzera settentrionale – entrò
in contatto con Enfantin, allora direttore della ferrovia Parigi-Lione, che lo sensibilizzò sul
progetto del taglio dell’istmo di Suez.
Negrelli fu subito coinvolto dal collega nel progetto Suez e ufficialmente invitato a far
parte della Società di studi per il canale. Più precisamente gli furono affidati alcuni studi
specifici: la rilevazione del piano della costa mediterranea dell’istmo, i sondaggi del fondo
marino, la progettazione del molo e del porto atti ad assicurare un ingresso sicuro e agevole
all’imbocco del canale in ogni stagione. Che il suo impegno professionale si stesse allargan-
do dalle strade ferrate alle vie d’acqua era confermato dal fatto che, mentre lavorava al pro-
getto del canale di Suez, l’ingegnere trentino ottenne anche la presidenza, nel Lombardo-
Veneto, della commissione preposta allo sviluppo della navigazione sul fiume Po.
Nel 1854, la delegazione diplomatica francese in Egitto ottenne il via libera delle auto-
rità locali per la costituzione di una società azionaria che costruisse un canale marittimo
aperto a navi di ogni nazione e ne garantisse la successiva gestione. Era previsto che circa
metà delle azioni rimanessero in mano al governo egiziano, e così fu almeno per il momen-
Capitolo 11. Approfondimenti 331

to, mentre le rimanenti finirono divise tra più di 20.000 azionisti pubblici e privati, per la
maggioranza francesi.
Si passò, finalmente, dalla fase di studio a quella attuativa, e in quel delicato frangen-
te vennero prese come punto di riferimento proprio le idee di Negrelli. Quest’ultimo, nel
novembre 1855, partì per l’Egitto assieme ad altri quattro membri della commissione di
studio, e viaggiò per alcune settimane nell’Alto Egitto, dedicandosi all’esplorazione scien-
tifica dell’istmo.
Il suo progetto per la costruzione del canale prevedeva una linea diretta da Suez al
Mediterraneo. Egli riteneva, infatti, che per scavare il canale fosse sufficiente restituire alla
sua antica funzione la depressione dell’istmo, un tempo invasa dalle acque e poi colmata
nel corso dei millenni dagli insabbiamenti. Tuttavia, nonostante i verbali delle sedute della
commissione provino in maniera inconfutabile il fatto che la scelta dei costruttori cades-
se sul progetto Negrelli, l’equivoco sulla paternità intellettuale – indotto dal tentativo di
creare confusione tra l’ingegnere meritevole di aver pensato ed elaborato il progetto e
il tecnico esecutore (Aristide Lieussou) incaricato degli accertamenti pratici effettuati per
completare quelli già eseguiti da Negrelli – iniziò con lui ancora vivo e si alimentò a lungo
dopo la sua scomparsa, tra molte polemiche.
La prima nave attraversò il canale nel febbraio 1867, ma l’inaugurazione ufficiale al
traffico marittimo avvenne verso la fine del 1869. Quella grande opera mostrò immedia-
tamente un effetto decisivo sullo sviluppo dei commerci verso l’Africa orientale e l’Ocea-
no indiano. Il canale, infatti, permetteva la navigazione dall’Europa all’Asia senza più la
necessità di circumnavigare l’Africa lungo la costa atlantica sulla rotta del Capo di Buona
Speranza, come si era fatto fino ad allora (l’unica alternativa era scaricare le navi a Porto
Said sul Mediterraneo e trasportare le merci via terra fino al Mar Rosso, o viceversa).
Gli equilibri politici intorno al canale, che inizialmente premiavano i francesi, cambiarono
molto presto di segno. Nel 1875, infatti, il debito estero dell’Egitto costrinse le autorità del Cai-
ro a vendere per 4 milioni di sterline la quota del loro paese alla Gran Bretagna, che così diven-
tava il maggior azionista del canale, assicurandosi il controllo della rotta per le Indie orientali.
Se alla costruzione il canale misurava 164 km di lunghezza, 8 m di profondità, 52 m di
larghezza, nel corso del XX e del XXI secolo lavori di adeguamento lo hanno notevolmente
ampliato fino alle misure odierne: 193,30 km di lunghezza, 24 m di profondità, 205/225
metri di larghezza.

Parole-chiave
Confucianesimo

Con il termine confucianesimo si indica il sistema di dottrine elaborate dal filosofo Con-
fucio, vissuto in Cina tra il 551 e il 479 a.C. Il confucianesimo non è propriamente da con-
siderarsi una religione, mancando in essa l’interesse per la dimensione metafisica, ma più
semplicemente un sistema morale ed etico, interessato in primo luogo al mantenimento
dell’ordine sociale e politico.
La dottrina confuciana costituisce l’asse del pensiero cinese classico e tuttavia la sua in-
fluenza non si limitò al grande impero asiatico: il confucianesimo ha un avuto un peso gran-
dissimo anche in Giappone, Corea e Vietnam, mostrando la capacità di modellarsi a diverse
332 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

situazioni locali. Malgrado le differenze, tutte le sue forme presentano alcuni tratti in comu-
ne: il rilievo dato ai rapporti sociali e soprattutto alle gerarchie sociali; il rigetto di ogni egua-
litarismo; l’esaltazione dell’interiorità, come possibile terreno di riscatto anche per gli strati
più umili della popolazione, e la convinzione della fondamentale educabilità di ogni uomo.
Al primo posto tra i doveri sociali, per i confuciani, si trovava la pietas verso i genitori e
gli avi. Il gruppo famigliare era considerato la pietra angolare della società e il primo ga-
rante dell’ordine della comunità. Nell’ottica del confucianesimo era pressoché impossibile
per il singolo sottrarsi ai suoi obblighi sociali, e in ogni caso si trattava di eccezioni.

Fonti e documenti
Le grandi diplomazie europee all’opera

Introduzione
L’apertura del canale di Suez, nel 1869, facilitò enormemente la navigazione verso l’Oce-
ano indiano. L’iniziativa e i capitali impegnati nei lavori furono soprattutto francesi. Ma
alla metà degli anni Settanta la Gran Bretagna approfittò prontamente di alcune difficoltà
finanziarie dell’Egitto per acquistare le azioni di proprietà egiziana della compagnia che
gestiva il canale di Suez. Il governo di Londra riuscì così ad assicurarsi una forte posizione
nella gestione di quel passaggio strategico (testo n. 1). Da allora l’impegno inglese in Egitto
divenne sempre più intenso, fino ad arrivare all’occupazione militare del paese nel 1882.
Tra il 1878 e il 1882, la Francia, l’altra grande potenza coloniale europea dopo la Gran
Bretagna, occupò posizioni economiche e politiche sempre più importanti in Tunisia. Di
fatto, lo Stato nordafricano aveva già perduto la piena indipendenza a causa di un forte
indebitamento pubblico: dal 1875, si trovava per questo sottoposto al controllo di una com-
missione internazionale nella quale erano rappresentati interessi francesi, inglesi e italiani.
Il governo francese fu, però, il più abile ad approfittare della situazione, assicurandosi nel
1881, con la formalizzazione di un protettorato, la preminenza politica in Tunisia.
Il trattato tra Francia e Tunisia può essere considerato un esempio tipico di protettorato
coloniale (testo n. 2). Il Bey di Tunisi e la sua amministrazione erano mantenuti al loro posto,
e anzi il governo francese assumeva l’esplicito impegno di difendere il sovrano tunisino. Ma
il Bey rinunciava in buona parte alle sue prerogative, acconsentendo che gli interessi della
Tunisia sul piano internazionale fossero rappresentati da agenti diplomatici della Francia.
Anche nella amministrazione interna ben scarsi poteri rimanevano alle autorità tunisine,
che erano assoggettate al controllo militare della potenza occupante.
La relazione redatta dall’ambasciatore francese in Gran Bretagna, nel gennaio 1898,
dopo un suo colloquio con il premier inglese (testo n. 3) è un documento particolarmente
significativo perché mostra la prospettiva nella quale erano trattati dalle grandi diploma-
zie europee gli interessi e il futuro di un immenso paese asiatico come la Cina, che contava
già allora quattrocento milioni di abitanti. Quel colloquio si svolse in un momento molto
delicato della questione cinese. All’inizio del 1898 la situazione era ancora molto fluida e
le diverse potenze cercavano di assicurarsi le migliori posizioni sulle coste cinesi. La Gran
Bretagna era avvantaggiata da più antichi e solidi legami stabiliti da tempo con la Cina, ma
la Francia, la Germania e la Russia erano presenti e vigilanti. Sul finire del 1897 i tedeschi
Capitolo 11. Approfondimenti 333

avevano occupato il porto di Kiao-chow e i russi avevano già dichiarato, e si apprestavano


a realizzare il proposito di occupare Port Arthur, in Manciuria.
Ben presto sarebbero intervenuti anche gli Stati Uniti, mentre cresceva in quella stessa
area geografica la potenza del Giappone. Proprio la guerra cino-giapponese del 1894-95
aveva dimostrato come la Cina non fosse in grado di opporsi su un piano di parità a uno
Stato come il Giappone che, negli ultimi decenni, si era andato modernizzando e industria-
lizzando a ritmo molto rapido. Solo l’intervento diplomatico delle potenze europee aveva
impedito che i giapponesi potessero sfruttare fino in fondo quella schiacciante vittoria, ac-
quistando una preponderante influenza in Cina.
Probabilmente fu questo contrasto di interessi, e la conseguente difficoltà ad accordarsi
su una spartizione che accontentasse tutti gli interessi in gioco, che valsero a preservare,
almeno parzialmente, l’integrità territoriale della Cina, e una sua relativa autonomia poli-
tica ed economica.

Testo n. 1
La Gran Bretagna acquista le azioni del canale di Suez
Due lettere del primo ministro Disraeli alla regina Vittoria
18 novembre 1875
Il Khedive [Ismail], sull’orlo della bancarotta, appare desideroso di cedere le sue azioni del
Canale di Suez e si è messo in contatto, confidenzialmente, col generale Stanton. C’è una
Compagnia francese in trattative con il Khedive, ma essi si propongono soltanto di fare
approcci con accordi complicati.
Questo è un affare di milioni di sterline; circa quattro almeno: ma darebbe al possessore
delle azioni un’immensa, per non dire preponderante, influenza nella gestione del Canale.
È cosa vitale per l’autorità e il potere di Vostra Maestà in questo critico momento che il
Canale appartenga all’Inghilterra e su questo punto io fui così risoluto e autoritario col mi-
nistro degli Affari esteri, Lord Derby, che egli finì con l’accettare il mio punto di vista e ieri
ha presentato la questione al Consiglio dei ministri. Il Gabinetto fu unanime nel decidere
che ci si dovesse procurare, se possibile, la partecipazione azionaria del Khedive e noi tele-
grafammo in tal senso. Il Khedive ora dice che è assolutamente necessario che egli riceva
da tre a quattro milioni di sterline per il 30 di questo mese!
Quasi non c’è tempo per respirare! Ma la cosa dev’essere portata a termine.

24 novembre 1875
La faccenda è appena sistemata: è fatto, Signora. Il governo francese è stato giocato. Essi
osarono troppo, offrendo prestiti ad un tasso usuraio ed a condizioni che avrebbero loro
dato virtualmente il governo dell’Egitto.
Il Khedive, disperato e disgustato, ha offerto al governo di Vostra Maestà di acquistare le
sue azioni in blocco.
Prima non avrebbe mai ascoltato una simile proposta. Quattro milioni di sterline! e quasi
subito. C’era una sola ditta in grado di fare ciò: i Rothschild. Si sono comportati in modo
ammirevole; anticipando il denaro ad un basso tasso e l’intera partecipazione azionaria del
Khedive è ora vostra, Signora.
Ieri il Gabinetto è stato in seduta più di quattro ore su tale questione, e il Disraeli non ha
avuto un momento di riposo oggi; perciò vogliate scusare la rapidità di questa comunica-
334 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

zione, dato che la sua testa è piuttosto debole. Egli vi racconterà domani tutta la meravi-
gliosa storia.
M. Bendiscioli, A. Gallia, Documenti di storia contemporanea, 1815-1970, Milano, Mursia, 1972,
pp. 204-205.

Testo n. 2
Il protettorato francese sulla Tunisia (1881)
Art. 1. I trattati di pace, di amicizia e di commercio, e tutte le altre convenzioni esistenti
attualmente fra la Repubblica francese e Sua Altezza il Bey di Tunisi sono espressamente
rinnovati e confermati.
Art. 2. In vista di facilitare al Governo della Repubblica francese il compimento delle misure
che deve prendere per raggiungere lo scopo che si propongono le parti contraenti, Sua
Altezza il Bey di Tunisi consente che l’autorità militare francese faccia occupare i punti che
essa giudicherà necessari per assicurare il ristabilimento dell’ordine e la sicurezza delle
frontiere e del litorale.
Questa occupazione cesserà quando le autorità militari francesi e tunisine avranno ricono-
sciuto di comune accordo, che l’amministrazione locale è in grado di garantire il manteni-
mento dell’ordine.
Art. 3. Il Governo della Repubblica francese assume l’impegno di prestare un costante ap-
poggio a Sua Altezza il Bey di Tunisi contro ogni pericolo che minacciasse la persona o la
dinastia di Sua Altezza o che potesse compromettere la tranquillità dei suoi Stati.
Art. 4. Il Governo della Repubblica francese si porta garante dell’esecuzione dei trattati
attualmente esistenti tra il Governo della Reggenza e le diverse Potenze europee.
Art. 5. Il Governo della Repubblica francese sarà rappresentato presso Sua Altezza il Bey
di Tunisi da un ministro residente che curerà l’esecuzione del presente atto e che sarà l’in-
termediario dei rapporti del Governo francese con le autorità tunisine per tutti gli affari
comuni ai due paesi.
Art. 6. Gli agenti diplomatici e consolari della Francia nei paesi stranieri saranno incaricati
della protezione degli interessi tunisini e dei nazionali della Reggenza. Da parte sua, il Bey
di Tunisi si impegna a non concludere alcun atto avente un carattere internazionale senza
averne data conoscenza al Governo della Repubblica francese e senza essersi inteso pre-
ventivamente con esso.
Art. 7. Il Governo della Repubblica francese e il Governo di Sua Altezza il Bey di Tunisi si
riservano di fissare di comune accordo le basi di una organizzazione finanziaria della Reg-
genza che sia tale da assicurare il servizio del debito pubblico e da garantire i diritti dei
crediti di Tunisia.
F. Gaeta - P. Villani, Documenti e testimonianze. I grandi problemi della storia contemporanea
nei testi originali e nelle interpretazioni critiche, Milano, Principato, 1979, pp. 315-316.

Testo n. 3
La questione cinese nel 1898
Rapporto dell’ambasciatore francese a Londra, dopo un colloquio con il primo ministro
britannico, Lord Salisbury.
Capitolo 11. Approfondimenti 335

Lord Salisbury convenne di non essere un sostenitore delle amministrazioni internazionali,


considerandole destinate al disordine e al malfunzionamento.
Tuttavia, ribattei, qualche volta è pericoloso fare da soli. La buona intesa tra le Potenze è la
garanzia migliore per mantenere la pace. Ma per intendersi bisogna parlarsi. Orbene, se si
crede ai giornali, voi siete sul punto di fare in Cina, senza passar parola a nessuno, qualcosa
di ben vasto, che potrebbe essere molto inquietante per le altre Potenze. Non so ciò che
potrete dirmi a questo proposito, ma i progetti di cui fan scrivere i giornali rassomigliano
molto a una presa di possesso delle dogane sia marittime che interne della Cina, cioè in
realtà dell’insieme dell’amministrazione di un paese di quattrocento milioni di abitanti. È
difficile supporre che le altre Potenze assistano a tale spettacolo senza che la loro suscet-
tibilità sia toccata. Certamente, se ogni volta che noi dovremo indirizzare un reclamo alla
Cina o intraprendere con essa un negoziato relativo a qualche tariffa doganale o a qualche
regolamento di imposte, dovremo passare per un consiglio superiore presieduto da un in-
glese, rivolgerci cioè alla stessa Inghilterra, i cui interessi possono essere in contrasto coi
nostri, la situazione ci apparirà dura.
Continuai per un po’ in questo ordine di idee, tentando di ottenere dal marchese di Sali-
sbury qualche confidenza che mi illuminasse almeno sulla natura dei suoi progetti. Egli si
chiuse in un mutismo interrotto appena da qualche monosillabo. M’aveva detto fin dall’i-
nizio che nulla di ciò che aveva visto sui giornali gli sembrava potesse ferire le altre Po-
tenze, né ledere i loro legittimi interessi. Aveva poi un po’ attenuato questa affermazione
assoluta, lasciandomi intendere che i resoconti dei giornali erano inesatti e non dovevano
servire di base a una valutazione. Allora gli parlai del discorso pronunciato a Swansea dal
Cancelliere dello Scacchiere [il ministro delle finanze britannico], il quale aveva dichiarato
che l’Inghilterra avrebbe sostenuto, se necessario anche con la guerra, la difesa dei suoi in-
teressi commerciali in Cina. Tali parole, dissi, possono avere l’effetto di rimbombare come
un colpo di cannone nel cuore della pacifica Europa. Non si sa a che mirino, né a quale
provocazione rispondano.
Lord Salisbury riconobbe che le espressioni del suo collega erano state inopportune. [...].
Ciò mi condusse a dirgli che al di là del pericolo reale che vi sarebbe nell’eccitare la gelosia
e il malvolere delle altre Potenze, ricercando per l’Inghilterra una influenza esclusiva, po-
litica e amministrativa, in Cina, la questione di forma e le apparenze non erano indifferenti
e potevano agire fortemente sull’opinione dei vari paesi. La Francia e l’Inghilterra si erano
più volte associate per ottenere il libero accesso ai porti dove il loro commercio penetrava
attualmente. Quest’apertura era loro opera comune, e la Francia non avrebbe malvisto che
fosse proseguita. Ma io ero colpito nel vedere che i due porti dei quali parlavano i giornali
erano Ta-Lien-Quan e Nan-Ning: il primo nei pressi di Port-Arthur, e in qualche modo com-
plemento di quella posizione [che era già occupata dalla Russia]; il secondo sulla costa
occidentale a nord di Pakhai e manifestamente nel raggio del Tonchino francese. Non si ha
l’impressione che questi due porti potrebbero essere scelti, con l’esclusione di molti altri
sulle coste cinesi, per dare scacco da un capo all’altro della Cina, da una parte alla Russia
dall’altra alla Francia? Vi era in ciò, quanto meno, quella che io ho chiamato una brutta
apparenza, una provocazione contro due Potenze [...].
Discutemmo un po’ su Nan-Ning. Lord Salisbury mi dichiarò che non riconosceva alla Francia
nessuna sfera d’azione riservata in Cina; che egli voleva la libertà commerciale per tutti, che
combatteva dappertutto contro l’esclusivismo, mentre la Francia là dove si stabiliva subito
elevava barriere e divieti. Finì col dirmi che probabilmente non si sarebbe affatto trattato di
336 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Nan-Ning, che non aveva bisogno di stipulare alcunché a questo riguardo, perché da oltre un
anno la Cina si era impegnata con lui per questa città. Replicai che la Cina aveva preso molti
impegni con diverse Potenze. Egli riconobbe che in effetti se la Cina fosse stata messa un gior-
no di fronte a tutti gli impegni più o meno segreti che aveva contratto si sarebbe forse trovata
in imbarazzo, ma che la cosa più probabile era che non ne avrebbe soddisfatto nessuno.
L’impressione che io ho tratto da questo lungo e poco fruttuoso colloquio, è che il Governo
inglese ha fretta di assestare un gran colpo in Cina; che abbraccia vaste prospettive nei suoi
progetti, che ha potenti mezzi di azione a Pechino, che è forse sul punto di concludere, ma
che non si è assicurato niente.
Ciò che tuttavia è indubbio è l’ardore che vi porta il gabinetto di Londra. Senza dubbio il
Cancelliere dello Scacchiere è allettato dalla speranza di una operazione finanziaria frut-
tuosa per il Tesoro inglese. Ma l’interesse politico domina di gran lunga in questo affare.
L’opinione pubblica è fortemente interessata. Attende dal Governo un colpo audace ed il
successo. È giunta a un diapason di ambizione, di orgoglio patriottico, di passione per il
dominio materiale del mondo, di cui le Potenze continentali difficilmente si fanno un’idea.
Ogni passo avanti compiuto da un’altra Potenza è considerato qui come un affronto all’In-
ghilterra e come un’azione ingiusta per lei pregiudizievole.
F. Gaeta - P. Villani, Documenti e testimonianze. I grandi problemi della storia contemporanea
nei testi originali e nelle interpretazioni critiche, Milano, Principato, 1979, pp. 321-324.

Dibattito storiografico
Come nacque l’imperialismo?

Introduzione
Coniato in Francia ai tempi del Secondo Impero, in riferimento ai disegni egemonici di Na-
poleone III, il termine “imperialismo” si affermò in Inghilterra, alla fine degli anni Settanta
del XIX secolo, per indicare il programma di espansione coloniale dei governi conservatori
dell’epoca, ed entrò poi nell’uso comune come sinonimo di politica di potenza e di conqui-
sta territoriale su scala mondiale.
In generale, l’imperialismo rappresentò la tendenza degli Stati europei a proiettare più
aggressivamente verso l’esterno i propri interessi economici, le proprie esigenze di difesa,
la propria immagine nazionale e la propria cultura: la fusione di queste diverse componenti
(economiche, politiche, ideologiche) si tradusse in una politica di dominio su scala mon-
diale, realizzata con la forza e spesso perseguita come fine in sé. Benché le origini lontane
dell’imperialismo possano essere rintracciate nella espansione commerciale europea tra
Sei e Settecento, solo a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento – come spiega Giampie-
ro Carocci (testo n. 1) – si può parlare propriamente di “età dell’imperialismo”.
Nel tentativo di identificare le forze profonde che erano alla base di questi sviluppi, molte
delle teorie sull’imperialismo avanzate fin dall’inizio del Novecento – soprattutto da parte
di studiosi e politici marxisti, tra i quali il grande storico britannico Eric Hobsbawm (testo n.
2) – hanno posto l’accento sui suoi moventi economici (la ricerca di materie prime a buon
mercato e di nuovi sbocchi per le merci e per i capitali in eccedenza) e sui suoi legami con le
Capitolo 11. Approfondimenti 337

trasformazioni “interne” del sistema capitalistico (la svolta protezionistica, le concentrazioni


industriali e finanziarie).
Oltre a lasciare in secondo piano gli aspetti culturali e politico-militari, il limite più evi-
dente di queste letture è riscontrabile nell’esclusivo approccio eurocentrico e nella sostan-
ziale mancanza di interesse verso un approfondimento del ruolo svolto dalle “periferie”
del mondo. A ben vedere, come argomenta lo studioso neozelandese David Fieldhouse
(testo n. 3), l’imperialismo consistette spesso nella somma di una serie di soluzioni politico-
diplomatiche scaturite dall’incontro dei paesi occidentali con situazioni locali assai varie-
gate. Gli interventi militari di solito iniziarono come reazione a problemi determinatisi alla
periferia, piuttosto che come risultato di una deliberata politica imperialistica decisa dalla
madrepatria. I fattori economici del capitalismo avanzato, dunque, non portarono neces-
sariamente, e da soli, all’esigenza o al desiderio di creare delle colonie: nelle dinamiche
che portarono alla conquista territoriale ebbero un peso sia le aspettative e le ambizioni di
mercanti e funzionari coloniali (talvolta più determinanti della stessa volontà dei governi
centrali), sia risposte e criticità emerse all’interno delle comunità indigene.

Testo n. 1
Giampiero Carocci
L’imperialismo come fenomeno epocale
Per età dell’imperialismo si intende solitamente la storia mondiale durante gli anni com-
presi tra la guerra franco-prussiana (1870) e la prima guerra mondiale (1914-18). Furono, se
si eccettuano alcune guerre di minore entità, anni di pace che coincisero con una espansio-
ne politica ed economica di dimensioni prima mai viste delle principali potenze europee,
oltre che degli Stati Uniti e del Giappone. In quegli anni la storia del mondo [...] cessò di
essere la somma più o meno giustapposta di problemi eterogenei e si pose come problema
unitario. Ciò avvenne grazie all’imperialismo, che non solo diede il nome all’età, ma unificò
il mercato mondiale e stampò ovunque l’impronta del dominio e della cultura d’Europa.
La parola “imperialismo”, nella sua accezione moderna corrente, fu introdotta in Inghilter-
ra tra la fine del 1878, nei mesi successivi al congresso di Berlino, e la prima metà degli anni
’80, per indicare la conquista e l’amministrazione di colonie. Successivamente, ad opera
soprattutto di politici e di intellettuali marxisti, il significato, anzi i significati della parola
sono andati sempre più dilatandosi [...]. È perciò opportuno premettere alcune rapide anno-
tazioni intese a chiarire i termini del problema e a dissolvere gli equivoci cui può dar luogo.
Uno degli aspetti più vistosi, se non più proficui, del dibattito sull’imperialismo verte intorno
all’importanza e al significato da attribuire al cosiddetto fattore economico. Una conclusio-
ne valida cui la recente storiografia è pervenuta circa il ruolo del fattore economico è che
questo è spesso un prerequisito, non una causa immediata dell’imperialismo; un prerequisi-
to non nel senso che la sua presenza è indispensabile ma nel senso che la sua presenza fa-
vorisce l’imperialismo. Sarebbe tuttavia errato distinguere in misura eccessiva l’economia
dalla politica, collocare da una parte l’imperialismo come frutto delle pressioni di uomini
di affari, di banchieri, di industriali (grandi o meno grandi, imprenditorialmente attivi o pa-
rassiti); da un’altra parte l’imperialismo come frutto dell’azione dei governi. Come è stato
più volte osservato, nell’imperialismo la natura profonda della economia e della politica è
identica e il loro rapporto è dialettico. Il frutto di questo rapporto dialettico è la potenza.
L’imperialismo, dunque, è potenza. Quando si parla di potenza il pensiero corre, per abitudi-
ne, alla politica estera. Come tale infatti l’imperialismo è stato ed è studiato da molti storici
338 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

[...]. Dopo quanto abbiamo detto sopra, sarebbe però sbagliato ridurre l’imperialismo a politi-
ca estera intesa nella sua accezione tradizionale. L’imperialismo è, sì, politica estera, ma solo
nella misura in cui questa è legata, oltre che alla situazione internazionale, a quella interna
(economica, sociale, politica, culturale) dei singoli Stati e paesi e ai loro reciproci rapporti.
L’imperialismo è l’insieme di rapporti che viene a stabilirsi nel mondo fra le potenze e fra
queste e i paesi dipendenti; è un insieme di squilibri a livello mondiale, generatore alla lun-
ga di conflitti fra le potenze e di conflitti o tensioni fra queste e i paesi dipendenti. Mai non
ci sforzeremo anche di non dimenticare mai che quando, come nell’imperialismo, il ruolo
dello Stato è esaltato per condurre una politica estera di potenza, esso è esaltato anche in
politica interna come apparato di coercizione, di mediazione, di mobilitazione del consen-
so e di garante dell’ordine sociale; che l’imperialismo si manifesta non solo come potenza
in politica estera ma anche come potere in politica interna.
Spesso si è scambiato il solo colonialismo o il solo militarismo per l’imperialismo, dando di que-
sto una visione riduttiva e deformata. L’imperialismo, infatti, è un fenomeno assai più comples-
so che non la conquista di colonie o le guerre di aggressione. L’imperialismo come fenomeno
“epocale” ha cominciato a delinearsi nel corso degli anni ’70 ed ha avuto una sua prima precisa-
zione nel corso degli anni ’80 sotto forma prevalente di espansione coloniale. Ma è solo nel cor-
so degli anni ’90 e, ancor più, dopo il 1900 che esso ha dato le sue manifestazioni più compiute.
Mentre, per un verso, bisogna attendere il 1900 per avere l’imperialismo nella sua forma com-
piuta, per un altro verso ormai molti studiosi sono indotti a antidatare di oltre mezzo secolo, se
non la vera e propria nascita, quanto meno le origini dell’imperialismo stesso. Le origini risali-
rebbero non tanto al 1870-80, quando numerose potenze industriali in concorrenza fra loro si
affermarono sulla scena mondiale, bensì risalirebbero alla rivoluzione industriale dell’Inghil-
terra e all’affermarsi di questo paese, privo di concorrenti, come “officina del mondo”.
È vero – si afferma oggi – che l’imperialismo inglese nei decenni anteriori al 1870-80, lungi
dall’avere il tipico carattere aggressivo dell’imperialismo, inteso alla conquista di colonie
e territori o al conflitto fra le potenze, ebbe sostanzialmente (pur con molte eccezioni, la
principale delle quali è l’India) un carattere di pacifica penetrazione commerciale, rispetto-
sa dell’indipendenza degli altri paesi. Ma – si prosegue – ciò non fa che confermare la com-
plessa dell’imperialismo, che non fu solo quello “formale”, inteso cioè alla vera e propria
conquista dei territori, ma fu anche (prima e dopo il 1870-80) quello “informale”, inteso cioè
alla semplice penetrazione economica priva di esplicita sanzione politica.
La distinzione e l’articolazione tra imperialismo formale e imperialismo informale, tra con-
quista territoriale e penetrazione economica, è quanto mai feconda. Se si accetta – come
a noi pare giusto – questa ottica, bisogna stare attenti a evitarne i pericoli, a non sottova-
lutare le differenze radicali (di ordine non solo economico, ma anche politico, sociale, cul-
turale) fra il capitalismo dominato dalla libera concorrenza fino agli anni ’70 e quello dei
decenni successivi. Bisogna sottolineare che, se le origini lontane dell’imperialismo sono da
rintracciare nella espansione commerciale inglese prima del 1870, solo dopo questa data
si può parlare di “età dell’imperialismo”. Solo dopo il 1870 e, ancor più, dopo il 1890-1900,
l’economia, la società, la politica, l’ideologia, la cultura diventano sempre più funzionali
all’imperialismo, diventano sempre più causa e conseguenza di questo.
G. Carocci, L’età dell’imperialismo, Bologna, il Mulino, 1979, pp. 7-11.
Capitolo 11. Approfondimenti 339

Testo n. 2
Eric J. Hobsbawm
Espansionismo coloniale e ricerca di nuovi mercati
Il periodo che esaminiamo è l’età di un nuovo tipo di impero, quello coloniale. La suprema-
zia economica e militare dei paesi capitalistici era da un pezzo fuori discussione; ma tra la
fine del XVIII secolo e l’ultimo venticinquennio del XIX non si era fatto nessun tentativo si-
stematico di tradurla in conquiste, annessioni e amministrazioni formali. Fra il 1880 e il 1914
il tentativo fu fatto, e la maggior parte del mondo extraeuropeo, ad eccezione delle Ameri-
che, fu formalmente spartito in territori soggetti al governo esplicito, o all’implicito dominio
politico dell’uno o dell’altro di un manipolo di Stati: principalmente Gran Bretagna, Francia,
Germania, Italia, Olanda, Belgio, Stati Uniti e Giappone. Vittime di questo processo furono in
qualche misura gli antichi, preindustriali imperi superstiti di Spagna e Portogallo. [...]
Questa spartizione del mondo fra un pugno di Stati era l’espressione più vistosa della cre-
scente divisione del globo in forti e deboli, “avanzati” e “arretrati”. Era altresì un fenomeno
singolarmente nuovo. Fra il 1875 e il 1915 circa un quarto della superficie terrestre del globo
fu distribuito e redistribuito sotto specie coloniale fra una mezza dozzina di Stati. La Gran Bre-
tagna accrebbe i propri territori di circa 10 milioni di kmq, la Francia di circa 9, la Germania ne
acquistò circa 3 milioni, Belgio e Italia più di 2,5 milioni ciascuno. Gli Stati Uniti ne acquistaro-
no da 250 a 500.000 circa dalla Spagna, il Giappone oltre 500.000 da Cina, Russia e Corea. [...]
Il primo compito dello storico è ristabilire il fatto ovvio (e che nessuno negli anni 1890 avreb-
be negato) che la divisione del globo aveva una dimensione economica. Dimostrare questa
realtà di fatto non equivale a risolvere tutti i problemi relativi all’imperialismo di questo
periodo. Lo sviluppo economico non è una sorta di ventriloquo a cui tutto il resto della storia
funge da pupazzo. E neanche l’uomo d’affari più unilateralmente dedito a trarre profitto,
poniamo, dalle miniere d’oro e di diamanti del Sudafrica può essere considerato soltanto
come una macchina per far soldi. Costui non era immune dalle suggestioni politiche, emoti-
ve, ideologiche, patriottiche o magari razziali così manifestamente legate all’espansione im-
periale. Nondimeno anche i moventi apparentemente estranei all’economia, come i calcoli
strategici delle potenze rivali, vanno analizzati tenendo presente la dimensione economica.
Anche oggi la politica medio-orientale, tutt’altro che spiegabile su basi puramente economi-
che, non può essere studiata seriamente senza tenere presente il petrolio.
Ora, il dato principale riguardo al XIX secolo è la creazione di un’unica economia globale,
man mano estesa agli angoli più remoti del mondo, e la rete sempre più fitta di operazioni
economiche, di comunicazioni e di movimenti di merci, denaro e persone che collegava i
paesi sviluppati gli uni con gli altri e con il mondo sottosviluppato. Senza di ciò, non ci sareb-
be stato motivo che gli Stati europei si interessassero se non fugacemente delle faccende,
poniamo, del bacino del Congo, o si impegnassero in dispute diplomatiche riguardo a un
atollo del Pacifico. Questa globalizzazione dell’economia non era nuova, ma si era accele-
rata considerevolmente nei decenni di mezzo del secolo. Fra il 1875 e il 1914 essa continuò
a crescere; meno vistosamente in termini relativi, ma in modo più massiccio in termini nume-
rici e di volume. È vero che le esportazioni europee si erano più che quadruplicate dal 1848
al 1875, mentre si raddoppiarono soltanto da questa data al 1915. Ma fra il 1840 e il 1870 il
naviglio mercantile mondiale aumentò soltanto da 10 a 16 milioni di tonnellate, mentre si
raddoppiò nel quarantennio successivo, e la rete ferroviaria mondiale passò da poco più di
200.000 chilometri (1870) a oltre un milione alla vigilia della Prima guerra mondiale. Questa
rete di trasporti sempre più fitta attirò anche le zone arretrate e prima marginali dell’econo-
340 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

mia mondiale, e creò nei vecchi centri della ricchezza e dello sviluppo un interesse nuovo
verso queste aree remote. Anzi, molte di queste regioni, adesso che erano divenute accessi-
bili, sembrarono a prima vista potenziali estensioni del mondo sviluppato [...].
Movente generale dell’espansione coloniale è la ricerca di mercati. Il fatto che questa fosse
spesso delusa è irrilevante. Gli uomini d’affari, sempre inclini a riempire di potenziali clienti
gli spazi vuoti della mappa del commercio mondiale, guardavano naturalmente a queste
aree non sfruttate: una di quelle che assillava la fantasia dei commercianti era la Cina (se
ognuno di quei 300 milioni di cinesi avesse comprato anche solo una scatola di bullette
stagnate...); l’Africa, il continente sconosciuto, era un’altra. Le Camere di Commercio inglesi,
nel clima di depressione dei primi anni 1880, si indignavano al pensiero che i negoziati di-
plomatici potessero precludere ai loro membri l’accesso al bacino del Congo, che si crede-
va offrisse smisurate prospettive di vendita; tanto più che il suo “sviluppo” era curato da un
uomo d’affari con tanto di corona, re Leopoldo II del Belgio. (In realtà, il metodo di sfrutta-
mento prediletto da questo sovrano, a base di lavoro forzato, non era fatto per promuovere
un alto livello di acquisti pro capite; anche quando non riduceva addirittura il numero dei
potenziali clienti con la tortura e i massacri).
Ma il nodo della situazione economica globale era che una serie di economie sviluppate
sentivano simultaneamente lo stesso bisogno di nuovi mercati. Se queste economie erano
abbastanza forti, il loro ideale era la “porta aperta” sul mercato del mondo sottosviluppa-
to; ma, se non lo erano, speravano di ritagliarsi una fetta di territori che in virtù del diritto
di proprietà dessero agli imprenditori nazionali una posizione di monopolio, o almeno un
sostanziale vantaggio. La spartizione delle zone non occupate del Terzo Mondo fu la logica
conseguenza; derivata, in un certo senso, dal protezionismo che dal 1879 aveva guadagna-
to terreno quasi dappertutto. [...].
In questa misura il “nuovo imperialismo” fu il sottoprodotto di una economia internaziona-
le basata sulla rivalità di varie economie industriali concorrenti, intensificata dalle tensio-
ni economiche degli anni 1880. Non ne consegue che questa o quella colonia fosse vista
come un futuro eldorado (anche se tale fu effettivamente il caso del Sudafrica, che diventò
il massimo produttore d’oro del mondo). Le colonie potevano semplicemente costituire
una base conveniente, un trampolino per una penetrazione commerciale regionale.
A questo punto diventa difficile districare il movente economico per l’acquisto di territori
coloniali dall’azione politica necessaria allo scopo, dato che il protezionismo di qualsiasi
specie ha bisogno dell’aiuto della politica per funzionare in sede economica. La spinta stra-
tegica alla colonizzazione era evidentemente più forte che altrove in Inghilterra, che aveva
da tempo istituito colonie situate in posizione chiave per controllare l’accesso a varie zone
terrestri e marittime considerate vitali per gli interessi commerciali e marittimi inglesi; o,
con l’avvento delle navi a vapore, come porti di carbonamento. (Gibilterra e Malta erano
vecchi esempi del primo caso, le Bermude e Aden si dimostrarono utili esempi del secondo).
C’era anche l’importanza simbolica o reale che ai predoni toccasse una porzione adegua-
ta del bottino. Quando le potenze rivali cominciarono a suddividersi la carta dell’Africa o
dell’Oceania, ognuna cercò naturalmente di evitare che una quota eccessiva (o un boccone
particolarmente appetitoso) toccasse alle altre. Una volta che il rango di grande potenza
venne così a essere associato al fatto di inalberare la propria bandiera su qualche spiaggia
orlata di palme (o più spesso su aride sterpaglie), l’acquisto di colonie diventò di per sé uno
status symbol, indipendentemente dal loro valore. [...]
Capitolo 11. Approfondimenti 341

È nondimeno innegabile che l’idea della superiorità su un mondo remoto di pelli scure,
e del dominio sulle medesime, era genuinamente popolare, e quindi giovava alla politi-
ca dell’imperialismo. Nelle sue grandi Esposizioni Internazionali la civiltà borghese si era
sempre gloriata del triplice trionfo della scienza, della tecnologia e dell’industria. Nell’Età
imperiale essa si gloriava anche delle sue colonie. Alla fine del secolo i “padiglioni colonia-
li”, prima praticamente ignoti, si moltiplicarono: diciotto fecero da complemento alla torre
Eiffel nel 1889, quattordici attrassero i turisti a Parigi nel 1900. Si trattava senza dubbio di
una pubblicità programmata, ma come ogni propaganda realmente efficace, commerciale
o politica, essa aveva successo perché toccava corde sensibili nell’animo della gente. Le
esposizioni coloniali erano una grande attrattiva.
E.J. Hobsbawm, L’Età degli imperi. 1875-1914, Roma-Bari, Laterza, 1987, pp. 67-83.

Testo n. 3
David A. Fieldhouse
Oltre la storiografia eurocentrica
Ciò che è da spiegare è come mai le tendenze esistenti all’espansione coloniale si accele-
rarono e ampliarono tanto drammaticamente negli anni dopo il 1880. Abbiamo esaminato
alcune spiegazioni correnti “eurocentriche” di questa tendenza: la necessità per il capita-
lismo avanzato di nuove aree in cui investire il “surplus” di capitale; la necessità di nuo-
vi mercati causata dall’intensificarsi del protezionismo; le conseguenze diplomatiche dei
nuovi rapporti politici internazionali; il nazionalismo. Di nuovo trovammo che tutte queste
spiegazioni erano in una certa misura inadeguate, anche se ognuna conteneva alcuni ele-
menti validi. L’alternativa logica a tutte queste ipotesi “eurocentriche” era un approccio
basato in buona parte sul verificarsi di coincidenze alla periferia. Il termine “imperialismo”
rappresenta semplicemente un concetto che rinvia a una agglomerazione di eventi non
correlati causalmente e che si trovarono ad accadere grosso modo nello stesso periodo in
varie parti del mondo? Se è così, come mai il periodo critico dell’imperialismo si venne a
verificare nei trent’anni dopo il 1880?
Di nuovo, senza tornare a ricapitolare i vari elementi della dimostrazione, è evidente che
verso il 1880 numerosi problemi periferici, scaturenti tutti da condizioni locali e dissimili,
richiesero contemporaneamente l’intervento o decisioni delle potenze europee interessate.
Il fatto importante è che, per la prima volta nella storia moderna, questi problemi locali
erano così diffusi e le potenze europee interessate così numerose, che collettivamente rap-
presentarono una crisi generale nei rapporti tra l’Europa e il mondo meno sviluppato. Non
sarebbe giustificato storicamente l’asserire che il risultato avrebbe potuto essere solo una
colonizzazione rapida e universale, perché in passato molti problemi analoghi di carattere
locale erano stati affrontati isolatamente e non avevano comportato una corsa generale
alle colonie. La vera novità degli anni intorno al 1880 fu quindi che in quel caso i governanti
europei adottarono soluzioni politiche attive e generali e non palliativi. Come mai? I sosteni-
tori di spiegazioni “globali” dell’imperialismo hanno insistito, naturalmente, sulla inevitabili-
tà di questa decisione: gli uomini di Stato dovettero procedere alle annessioni per soddisfare
i bisogni della nazione nel settore degli investimenti, per assicurarsi fonti di materie prime,
mercati e così via. Gli elementi disponibili suggeriscono però che le decisioni vennero prese
con molta più esitazione di quanto ci si sarebbe potuto aspettare da uomini che operavano
essendo sottoposti a pressioni enormi e con obiettivi chiari. In realtà l’imperialismo dei primi
anni del decennio 1880-90 consistette piuttosto nella somma di una serie di soluzione ad
342 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

hoc, in gran parte non collegate tra loro, di problemi diversi, che acquisivano il loro signifi-
cato collettivo solo venendo viste retrospettivamente come un tutto.
Non ci si deve però rifugiare nell’oscurantismo. Anche se gli statisti, i mercanti, i banchie-
ri, i missionari e gli esploratori non avevano una visione chiara dell’Impero come un tutto
e inseguivano a tentoni soluzione frammentarie di problemi specifici, alla base dell’intero
processo c’era un elemento innegabile di determinismo storico. Queste molteplici crisi e il
momento in cui si verificarono furono semplicemente i sintomi di un profondo mutamento
nella patologia dei rapporti internazionali. La crisi mondiale era reale e una soluzione an-
dava trovata. Intorno al 1880 c’era unno squilibrio fondamentale tra l’Europa e la maggior
parte delle aree del mondo meno sviluppato. Mai nessun continente aveva avuto un vantag-
gio così immenso nei rapporti di forza con gli altri, né aveva avuto contatti così stretti con
loro. I due poli non potevano non generare una nuova sintesi. Sarebbe errato sostenere che
questa avrebbe necessariamente dovuto essere l’imposizione di colonie: in realtà una tutela
di fatto basata su trattati rappresentò una soddisfacente alternativa permanente in molte
parti del mondo, e venne sperimentata in varie zone che divennero più tardi dipendenze
in senso proprio. Ma ciò richiedeva circostanze particolarmente favorevoli. Quando queste
non esistevano – per esempio quando gli Stati indigeni erano troppo deboli per assicurare
un quadro soddisfacente all’attività europea e quando la rivalità tra Stati europei era ecces-
siva – l’annessione unilaterale sembrava la soluzione migliore e forse l’unica soddisfacente.
Ciò implica forse che il governo imperiale venne imposto in ogni caso per il motivo in buona
parte negativo, che le potenze europee non erano in grado di affrontare collettivamente i
problemi di comune interesse? Non c’era alcun desiderio di possedere colonie come mezzo
necessario a raggiungere specifici obiettivi nazionali in territorio estero? Gli elementi esa-
minati indicano che questo desiderio esisteva, ma che era assai meno comune e importante
verso il 1880, prima che l’annessione unilaterale divenisse la tecnica corrente, di quanto non
si sia ritenuto comunemente. Le richieste più decise per l’imposizione di colonie pervennero,
in questo periodo, da una piccola minoranza di intellettuali imperialisti del continente che,
prendendo a modello le colonie inglesi d’insediamento e l’India, ritenevano che la piena
annessione dei territori esteri allo Stato fosse un requisito essenziale per poterli utilizzare
per gli scopi che si erano prefissi – l’emigrazione, la produzione di piantagioni, la creazione
di mercati protetti e così via. Dopo il 1890 l’orgoglio del possesso divenne una forza aggiun-
tiva operante a favore del controllo formale, dato che i sentimenti popolari furono, a vari
intervalli, sciovinistici. Ma nel decennio cruciale dopo il 1880, quando la spartizione ebbe
luogo, è difficile indentificare molti casi in cui l’annessione può esser fatta risalire all’opi-
nione decisa di un uomo di Stato europeo che solo il possesso assoluto – e nulla di meno
– avrebbe servito agli interessi nazionali. Prescindendo da quanto abbiano potuto dire dopo
per razionalizzare e giustificare la propria politica, la maggior parte degli uomini di governo
ritennero necessario formare degli imperi, perché la marea degli eventi li spinse lontano
da tutte le soluzioni alternative, al centro di crisi della periferia che si andavano facendo
sempre più gravi. Il colonialismo non era una aspirazione, ma una soluzione obbligata. [...]
I termini molto generali le relazioni esistenti tra europei e non europei stavano diventan-
do intrinsecamente instabili e sembra chiaro retrospettivamente che era necessaria una
qualche forma di riassetto. Allo stesso tempo il proliferare delle attività europee nel mondo
esterno, specialmente nelle zone in cui le strutture politiche erano insufficienti a mantenere
l’ordine tra gli europei rivali, faceva sorgere l’urgenza di controlli efficaci. La risultante di que-
ste e di altre forze fu che verso il 1880 c’era un numero cospicuo di aree di tensione o in crisi
nelle quali era coinvolto un numero senza precedenti di potenze europee. Questi problemi
Capitolo 11. Approfondimenti 343

avrebbero potuto essere risolti in altri modi, ma in effetti le potenze ritennero opportuno o
necessario risolverne molti con la divisione territoriale e il possesso più o meno formale.
Se adottiamo questa interpretazione generale c’è poco da discutere sulla relativa impor-
tanza causale dei fattori “eurocentrici” o “periferici” nel produrre l’espansione coloniale.
Anche se gli atteggiamenti europei vennero spesso influenzati da forze interne i fatti sugge-
rirono che gli interventi di solito iniziarono piuttosto come reazioni a problemi o occasioni
determinatisi alla periferia, che non come risultato di una deliberata politica imperialistica.
Tra il 1890 e la fine del secolo questo rapporto tra influenze esterne e interne mutò, quando
i governanti e l’opinione pubblica europei cominciarono a ritenere che ogni Stato dovesse
avanzare le proprie rivendicazioni o veder danneggiare gli interessi del paese. Ma questo
tipo di imperialismo metropolitano derivava dall’esperienza del decennio precedente più
che dall’assoluto bisogno dell’Europa di colonie. In termini generalissimi dobbiamo conclu-
dere che l’Europa fu spinta all’imperialismo dalla forza magnetica della periferia. [...]
Uno dei fattori più evidenti dell’espansionismo degli imperi europei fu la tendenza dei
possedimenti ad espandersi mediante l’occupazione delle zone circostanti. Si possono de-
lineare due soluzioni tipiche, una propria delle colonie di immigrazione europea, l’altra
propria delle colonie nelle quali una minuscola minoranza europea amministrava un corpo
sociale indigeno. L’espansione per il tramite di coloni immigrati risaliva alla colonizzazione
europea più antica. Qualsiasi gruppo di emigranti che si stabilisse in un’area costiera ame-
ricana, sudafricana o australiana considerava l’entroterra come una dotazione provviden-
ziale per la propria sopravvivenza futura e per il proprio sviluppo. Nel mondo coloniale le
regioni più chiaramente utilizzabili per una futura colonizzazione da insediamento erano
l’Australia, l’Africa meridionale e centrale, il Pacifico meridionale, la Siberia meridionale
e il Nord Africa. Durante il periodo analizzato nel presente studio queste tendenze erano
alla radice dei molti problemi che i governi metropolitani si trovavano a dover affrontare in
periferia ed erano la causa principale dell’espansione territoriale in queste regioni.
Il sub-imperialismo da insediamento è un fenomeno ovvio. Era invece meno ovvia la ten-
denza di quasi tutte le colonie europee e perfino delle piccole basi commerciali africane o
asiatiche a espandersi nelle aree circostanti, prescindendo dai bisogni o dalla volontà della
potenza coloniale. I motivi cambiavano col mutare delle caratteristiche dei vari territori:
la mancanza di sicurezza, reale o immaginaria, dei confini; la necessità di incrementare le
entrate, derivanti dalla imposizione di tariffe doganali nei porti circostanti; il desiderio di
controllare aree produttive o traffici commerciali dai quali l’economia coloniale dipende-
va; le ambizioni o gli ideali di amministratori, soldati, missionari o altri europei impiegati
temporaneamente nella zona. Altrettanto importante è il fatto che molti funzionari co-
loniali, e forse la maggior parte di essi, finivano col vedere i problemi locali dal punto di
vista locale e non da quello metropolitano, reagendo mimeticamente con atteggiamenti
da sub-imperialismo di frontiera, che prescindevano dalla politica ufficiale del governo
coloniale. In tal modo all’atteggiamento ufficiale della madre patria faceva riscontro un
atteggiamento locale diverso praticamente in ogni trascurabile possedimento tropicale o
sub-tropicale, ed ognuno dava vita ad una forma propria di imperialismo autoctono.
Per quanto fosse una forza importante nell’espansione del colonialismo, il sub-imperialismo
che abbiamo riscontrato nelle colonie europee esistenti non esaurisce le possibili spiegazioni
periferiche dell’imperialismo. In molti casi la chiave degli eventi sta nell’analisi degli atteggia-
menti dei non europei o degli effetti dei contatti tra europei e società e governi indigeni. [...]
344 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Per riassumere le nostre tesi senza fare generalizzazioni troppo ampie o indulgere in iper-
boli, la risposta alla questione originaria – il ruolo dei fattori economici nell’imperialismo
europeo tra il 1830 e il 1914 – si può riformulare con una serie di semplici proposizioni.
I fattori economici furono presenti e in varia misura influenti in quasi tutte le situazioni al
di fuori dell’Europa che portarono come risultato ultimo alla colonizzazione; e il valore
specifico di molti di questi territori per gli europei stava nelle opportunità commerciali e
d’investimento o in altre forme di attività economica.
Ma i fattori economici non portarono necessariamente e neppure comunemente, da soli,
all’esigenza o al desiderio di creare delle colonie. Il vero “imperialismo economico” dei
mercanti e dei finanzieri europei fu spesso sordo ai fattori politici. Il dominio formale sul
territorio fu raramente essenziale o addirittura opportuno per l’attività economica e in al-
cuni luoghi avrebbe potuto avere conseguenze decisamente negative per commercianti,
piantatori, speculatori e altri. Gli ambienti ufficiali europei invece ritennero a lungo che
gli interessi economici avrebbero dovuto curarsi da soli senza interventi diretti dello Stato.
Il legame vitale tra economia e colonizzazione non fu dunque né la necessità economica
di colonie da parte della metropoli né le esigenze degli interessi economici privati, ma la
conseguenza secondaria dei problemi creati alla periferia dall’attività economica e extra-
economica europea e per i quali non esisteva una semplice soluzione economica. A un
estremo questi problemi influenzavano direttamente interessi nazionali che gli ambienti
europei consideravano preminenti. All’altro causavano difficoltà politiche marginali, come
l’instabilità di un regime politico indigeno o gli ostacoli frapposti da altri europei a un sod-
disfacente svolgimento dell’attività commerciale o di investimento. Ma in quasi tutti i casi
la spiegazione ultima dell’annessione fu che il problema economico originale si era in cer-
ta misura “politicizzato” e quindi richiedeva una soluzione politica.
Nei termini più grezzi, perciò, sembrerebbe che la formazione di imperi ebbe luogo su sca-
la così ampia negli ultimi due decenni del secolo diciannovesimo, e non in qualche periodo
precedente, e toccò parti dell’Asia, dell’Africa e il Pacifico e non altre regioni perché fu in
quel periodo e in quelle regioni che i rapporti tra i rappresentanti delle economie avanzate
dell’Europa e le altre società meno sviluppate divennero fondamentalmente instabili. Que-
sto fatto può essere spiegato in base agli assunti iniziali. Per i neomarxisti esso rispecchia
la crisi crescente del capitalismo avanzato, che potette sopravvivere solo assorbendo e
sfruttando le regioni meno sviluppate del mondo. Per altri può indicare che, per una coin-
cidenza, le attività degli europei divennero allora sempre meno compatibili con la conser-
vazione di sistemi economici, politici e culturali indigeni in queste aree. Probabilmente,
come sostennero i neomarxisti, anche se non per i motivi indicati da loro, l’intero processo
fu storicamente inevitabile. Se è così, fu inevitabile solo come espediente temporaneo, per
colmare il divario storico esistente tra una Europa “modernizzata” e la periferia precapita-
listica. E per lo stesso motivo l’Impero finì per poi dissolversi da solo. Mezzo secolo dopo
il 1914 l’Europa potette ritirare le sue armate con la ragionevole certezza che i problemi
fondamentali dei rapporti internazionali che avevano dato vita all’imperialismo del tardo
Ottocento non esistevano più. Nella seconda metà del ventesimo secolo i mercanti e gli
investitori europei possono operare in maniera soddisfacente, nel quadro politico assicu-
rato dalla maggior parte dei ricostituiti Stati indigeni, come i loro predecessori avrebbero
preferito fare un secolo prima, senza dover fronteggiare quei problemi che hanno reso
necessaria in passato la formazione degli imperi coloniali.
D.A. Fieldhouse, L’età dell’imperialismo 1830-1914, Roma-Bari, Laterza, 1975, pp. 538-558 passim.
Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea:
dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra
di Carlo De Maria
Roma (BraDypUS) 2018
ISBN 978-88-98392-70-4
pp. 345-358

Capitolo 12. Società e cultura nei


paesi industriali
Profilo storico

12.1. Il socialismo europeo dalla Prima alla Seconda


Internazionale

12.1.1. Marx e Bakunin.


Nel 1864 nacque, a Londra, l’Associazione internazionale dei lavoratori (AIL), poi passata
alla storia come Prima Internazionale. Oltre ai seguaci di Karl Marx, il rivoluzionario tede-
sco già noto per aver dato alle stampe nel 1848 Il manifesto del Partito comunista (cap. 9,
par. 6), alla nuova associazione aderirono esponenti di varie correnti della sinistra europea.
Tra loro, gli anarchici vicini a Pierre-Joseph Proudhon e i repubblicani mazziniani. Per tene-
re insieme le diverse anime che la componevano, lo statuto della Prima Internazionale si
limitava a fissare i contorni di un luogo di comunicazione e di cooperazione tra le società
operaie dei diversi paesi, individuando come scopi: il mutuo appoggio, il progresso e la
piena emancipazione della classe operaia, in un ampio – e se si vuole generico – richiamo
all’“umanità” per riformare la “società”.
A rilanciare l’iniziativa democratica e radicale dopo il fallimento delle rivoluzioni del
1848-49 aveva contribuito in maniera significativa l’impresa non convenzionale guidata nel
1860 da Giuseppe Garibaldi, alla testa dei suoi volontari, per liberare le regioni dell’Italia
del Sud dal dominio borbonico. L’epopea garibaldina suscitò, infatti, un grande clamore in
tutta Europa e anche fuori dal Vecchio continente.
Attirato dal mito di Garibaldi, nel 1864, arrivò in Italia il rivoluzionario russo Michail
Bakunin (1814-1876), reduce da una rocambolesca fuga dalla Siberia, dove era stato con-
finato dalle autorità zariste. Dopo essersi fermato brevemente a Firenze, Bakunin si stabilì
a Napoli per un paio di anni; poi nel 1867 si trasferì in Svizzera, mantenendo comunque un
canale preferenziale di comunicazione con la penisola. In quel torno di tempo egli pose le
basi del movimento internazionalista in Italia, facendo sentire la propria influenza anche in
altri paesi dell’Europa mediterranea, ad esempio in Spagna.
346 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Se Marx riteneva che lo sviluppo del movimento socialista dovesse passare attraverso la
formazione, in ciascun paese, di organizzazioni politiche ben strutturate allo scopo di pre-
parare gradualmente le condizioni per la conquista del potere pubblico (e, una volta preso
il potere, i capi rivoluzionari avrebbero trasformato dall’alto il sistema produttivo e l’intera
struttura sociale esercitando la cosiddetta “dittatura del proletariato”), Bakunin sviluppò
piuttosto le prospettive teoriche precedentemente aperte dall’opera di Proudhon (cap. 9,
par. 6), diventando l’esponente di punta della componente anarchica del movimento so-
cialista. Per Bakunin e gli anarchici la rivoluzione doveva essere preparata da avanguardie
consapevoli attraverso la propaganda e azioni dimostrative esemplari – i cosiddetti tentativi
insurrezionali –, ma poi doveva scoppiare e svilupparsi spontaneamente tra le masse po-
polari, senza che ci fosse un partito-guida a tracciare la strada e a impossessarsi del potere
pubblico. Anzi, la via di una autentica rivoluzione non poteva passare che dall’abolizione
del moderno Stato centralizzato, sostituendo a esso una architettura istituzionale federale
formata da libere comunità autogestite.
Le divergenze teoriche tra marxisti e anarchici si tradussero in un duro scontro politi-
co, che portò rapidamente le due componenti principali del movimento socialista a una
traumatica scissione (i mazziniani, in netta minoranza e contrari a ogni discorso sulla rivo-
luzione sociale, se ne erano già andati). Al congresso dell’Associazione internazionale dei
lavoratori apertosi all’Aja, in Olanda, il 2 settembre 1872, Bakunin venne espulso su iniziati-
va di Marx. Per tutta risposta, nella contro riunione degli anarchici che si svolse dopo pochi
giorni a Saint-Imier, in Svizzera, nasceva il movimento anarchico internazionale.
La scissione del 1872 indebolì l’Associazione internazionale dei lavoratori che finì per
sciogliersi nel 1876.

12.1.2. La nascita del Partito socialdemocratico tedesco e la diffusione della


forma partito.
Prima della fine dell’AIL, tuttavia, le indicazioni politiche di Marx vennero raccolte dai capi
del movimento operaio tedesco, che nel 1875 fondarono il primo partito socialista della
storia europea: il Partito socialista dei lavoratori di Germania (dal 1891, Partito socialde-
mocratico tedesco). Il nuovo partito, nonostante la legislazione repressiva del cancelliere
Bismarck, riuscì velocemente a imporsi come una realtà politica di massa, arrivando a con-
tare alla fine del secolo quasi mezzo milione di iscritti: un numero assolutamente conside-
revole e nettamente superiore a quanto potesse vantare ogni altra organizzazione politica
esistente nell’Europa di allora.
L’esempio della socialdemocrazia tedesca si diffuse rapidamente nel resto d’Europa.
Nel 1880 venne fondato il Partito operaio francese, nel 1889 il Partito socialdemocratico
austriaco, nel 1892 il Partito dei lavoratori italiani (dal 1895, Partito socialista italiano), nel
1898 il Partito operaio socialdemocratico russo, e così via. Nel complesso ciò che appare
come il tratto fondamentale degli anni Ottanta e Novanta del XIX secolo è il sorgere e con-
solidarsi in quasi tutti gli Stati europei di organizzazioni autonome della classe operaia, sia
sul piano politico che su quello sindacale.
Benché lo sviluppo dei singoli partiti socialisti avvenisse entro le singole cornici nazio-
nali, essi continuarono a presentarsi come organismi a vocazione internazionalista, legati
da una fratellanza culturale e da una comunanza di intendimenti che non riconosceva,
almeno sul piano ideale, confini territoriali né etnici. Questo fondamento identitario, che si
riallacciava all’esperienza dell’Associazione internazionale dei lavoratori, venne rinnovato
con la nascita a Parigi nel 1889 di una nuova associazione sovranazionale, denominata
Capitolo 12. Società e cultura nei paesi industriali 347

Internazionale socialista, ma meglio nota come Seconda Internazionale. Essa assunse la


forma di una federazione tra i partiti socialisti di orientamento marxista e, pur non avendo
alcun particolare potere sulla loro linea di condotta sul piano nazionale, costituì un im-
portante luogo di discussione e di confronto sui mutamenti della società e della politica a
livello continentale.
Tra le risoluzioni più importanti prese dagli organi dirigenti della Seconda Internazio-
nale, vanno ricordate la proclamazione del Primo Maggio come giornata mondiale dedi-
cata all’emancipazione dei lavoratori e la richiesta di ridurre l’orario di lavoro a otto ore
giornaliere (40 ore alla settimana), anziché di 10 o 12 per 6 giorni alla settimana come era
normale allora.

12.1.3. Verso la società di massa.


Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, la presenza sulla scena pubblica e la
partecipazione politica dei lavoratori organizzati divennero aspetti caratterizzanti della
nascente “società di massa”, insieme alla diffusione della grande industria, alla crescita
urbana e allo sviluppo dei consumi. Parlando di “società di massa” ci si riferisce a masse
essenzialmente urbane, composte di ceti medi e strati popolari, che si addensavano – per
vivere e lavorare – nei centri cittadini e nelle periferie industriali, abbandonando spesso le
campagne di origine.
Di fronte a queste trasformazioni epocali, le amministrazioni pubbliche furono chia-
mate a risolvere problemi di diversa natura: dalla costruzione di alloggi economici per i
lavoratori alla organizzazione dei trasporti; dai servizi educativi alla lotta alla criminalità.
Anche l’assetto delle città ne venne profondamente influenzato, con la crescita di aree
industriali, centri commerciali, reti stradali e ferroviarie, quartieri operai e popolari, che
spinsero tante aree urbane a oltrepassare per la prima volta le antiche cinte murarie (le
quali vennero spesso abbattute per fare spazio alla “modernità”). I progettisti e i tecnici più
vicini alle esigenze di riforma sociale e di crescita civile, con l’appoggio delle amministra-
zioni locali più avanzate (solitamente a maggioranza democratica e socialista), cercarono
di mettere in atto i primi esempi di pianificazione urbana, programmando, ad esempio, la
realizzazione di case popolari e di servizi socio-sanitari (asili per l’infanzia, presidi medici)
in grado di accogliere e assistere, in maniera decorosa, i lavoratori e le loro famiglie o le
tante persone – spesso sole – che ogni anno migravano dalle campagne in cerca di nuove
opportunità di lavoro e di vita.
Un tema centrale del diciannovesimo e dei primi anni del ventesimo secolo è quello
della progressiva trasformazione della società rurale del passato – caratterizzata da ambiti
di scala ridotti e da strette relazioni di comunità basate sui legami di consanguineità e di
parentela – verso la società prevalentemente urbana e industriale del XX secolo.
Davanti ai nuovi bisogni sociali e di fronte allo spaesamento che vivevano i tanti lavora-
tori recentemente inurbati, le sezioni di partito e sindacali, ma anche le fabbriche e le offi-
cine, tendevano a rappresentare delle nuove comunità: luoghi dove si intrecciavano legami
interpersonali, si condividevano esperienze a partire dal lavoro, si stabilivano valori. E que-
sto aspetto contribuiva a conferire alle espressioni organizzative del movimento socialista
una forte legittimazione popolare.
348 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

12.1.4. Revisionismo, ortodossia e nuove spinte rivoluzionarie.


Intorno al 1900, all’interno della socialdemocrazia tedesca, si profilarono idee diverse sulle
modalità e sulle finalità della lotta politica. In un saggio pubblicato nel 1899 un dirigente
di quel partito, Eduard Bernstein (1850-1932), presentò una interpretazione degli sviluppi
in corso nella società tedesca che non si poteva certo definire marxista. Bernstein fece
osservare che la previsione di Marx secondo la quale i progressi dell’industrializzazione
avrebbero accentuato la polarizzazione della struttura sociale, dividendola tra proletari e
capitalisti, si stava mostrando infondata. Anzi si poteva apprezzare un significativo miglio-
ramento delle condizioni di vita di una parte consistente della classe operaia, che si giova-
va essa stessa (grazie a un miglioramento dei salari e dei servizi) dello sviluppo economico
e industriale del paese. Stando così le cose, secondo Bernstein, il Partito socialdemocratico
non doveva puntare tanto a fare la rivoluzione sociale (prospettiva che del resto era allon-
tanata di fatto dal crescente benessere sociale), quanto piuttosto a ottenere riforme che
migliorassero ulteriormente le condizioni di vita degli strati popolari. Percorrere questa
strada, definita riformista o “revisionista” (perché riteneva di correggere alcuni punti speci-
fici del pensiero di Marx), avrebbe portato a collaborare, in maniera non episodica ma siste-
matica, con quelle forze politiche democratiche che pur non essendo socialiste ammette-
vano una progressiva inclusione delle classi popolari nella sfera dei diritti politici e sociali.
All’interno del movimento socialista europeo, la posizione di Bernstein si confrontò con
diverse altre linee politiche, tra le quali almeno due sono da ricordare. La prima, che si
rivelò largamente maggioritaria, in Germania come in quasi tutti gli altri partiti socialisti
europei, è quella sostenuta dall’intellettuale tedesco Karl Kautsky (1854-1938), il quale si
mantenne sostanzialmente su posizioni ortodosse rispetto ai dettami marxisti. Kautsky, in-
fatti, continuò a identificare nella rivoluzione l’obiettivo di fondo del movimento socialista,
ritenendo altresì che fosse necessario avvicinarsi per piccoli passi allo scontro frontale tra
borghesia e proletariato, operando in parlamento e all’interno delle istituzioni per conqui-
stare riforme circoscritte e concrete che agevolassero la crescita sociale e culturale della
classe operaia.
L’altra linea politica si distingueva nettamente dalle prime due. Essa, infatti, non discen-
deva dalle teorie di Marx ma recuperava invece elementi della tradizione e dell’elabo-
razione anarchica. Il riferimento è al cosiddetto “sindacalismo rivoluzionario”, diffuso so-
prattutto nelle organizzazioni operaie francesi e spagnole, ma con un buon insediamento
anche in Italia. Secondo i sindacalisti rivoluzionari (il principale teorico fu probabilmente il
francese Georges Sorel, 1847-1922) l’esperienza che avrebbe rivelato la forza delle masse
operaie conducendole alla rivoluzione sarebbe stato lo sciopero generale: un’astensione
dal lavoro estesa a tutti i settori che bloccando ripetutamente il funzionamento dell’appa-
rato produttivo capitalista ne avrebbe determinato il crollo. Se non riuscirono mai a impor-
si come corrente maggioritaria del movimento socialista in nessun paese (tranne forse la
Spagna), i gruppi sindacalisti rivoluzionari svolsero, specie nei paesi dell’Europa mediterra-
nea, un ruolo di rilievo nei conflitti sociali del primo Novecento.

12.1.5. Le peculiarità del socialismo anglosassone.


Dal quadro complessivo dell’Europa continentale si distaccava il mondo anglosassone. Sia
nel caso britannico che in quello statunitense la traiettoria del socialismo ha caratteristi-
che sostanzialmente diverse da quelle emerse nel continente europeo, e comunque lonta-
ne dal marxismo.
Capitolo 12. Società e cultura nei paesi industriali 349

Tramontata l’esperienza del cartismo (cap. 9, par. 4), una parte importante della classe
operaia britannica riconobbe nel liberalismo di William Gladstone, con la sua promessa di
riforme politiche e istituzionali, un punto di riferimento significativo, avvicinandosi spesso
alle associazioni politiche nate intorno ai maggiori esponenti liberali. È in un contesto di
questo genere che nel 1884 venne promossa da intellettuali di estrazione borghese come
George Bernard Shaw (1856-1950) e i coniugi Sidney (1859-1947) e Beatrice Webb (1858-
1943) un’organizzazione denominata Fabian Society (Società fabiana). La scelta del nome
era ispirata alla figura di Fabio Massimo il Temporeggiatore, che nel III secolo a.C. aveva
combattuto contro Annibale applicando una strategia esemplificata dal motto: “Aspetta il
momento giusto, ma quando il tempo viene, colpisci duro, sennò il tuo attendere sarà stato
vano”. In effetti, i membri della Fabian Society sostenevano una visione gradualista dell’av-
vento del socialismo, all’interno di una cornice parlamentare e costituzionale, nell’ambito
della quale condurre in maniera serrata e radicale battaglie politiche e di opinione sui di-
ritti civili e sociali. Pur non trasformandosi in un vero movimento politico, la Fabian Society
riuscì a esercitare una notevole influenza sull’opinione pubblica britannica, attraverso la
pubblicazione di saggi e pamphlet venduti in decine di migliaia di copie.
Ancora più importante è l’azione svolta dai sindacati operai, soprattutto a partire dal
1868, quando le diverse associazioni sindacali si coordinarono attraverso la costituzione
del Trades Union Congress. Tre anni più tardi il governo Gladstone approvò il Trade Union
Act, dando pieno riconoscimento ai sindacati e ponendo le basi per una proficua collabora-
zione tra l’esecutivo e le rappresentanze dei lavoratori. Negli anni seguenti il Partito libe-
rale riuscì sempre a fare eleggere un piccolo numero di sindacalisti come deputati liberali
indipendenti alla Camera dei Comuni.
Sul finire dell’Ottocento, la continua crescita del movimento sindacale indusse James
Keir Hardie (1856-1915), un operaio sindacalista eletto nel 1892 alla Camera dei Comuni
come indipendente, a fondare un partito autonomo dei lavoratori, l’Independent Labour
Party (Partito laburista indipendente). La nuova formazione politica nacque nel 1893 e alla
prima tornata elettorale a cui partecipò (1895) non riuscì a mandare in parlamento alcun
deputato. Nonostante l’inizio poco incoraggiante, Hardie ottenne comunque dai sindacati
la disponibilità a convocare una conferenza nazionale incaricata di riorganizzare l’azione
politica dei lavoratori. Negli anni intorno al 1900, infatti, il tradizionale alleato delle Trade
Unions, il Partito liberale, stava vivendo un periodo di acuta crisi politica che lo portava a
perdere sistematicamente le sfide elettorali contro il Partito conservatore, il quale a sua
volta era del tutto indisponibile a confrontarsi con i lavoratori su temi cari ai sindacati,
quali la giornata lavorativa di otto ore, gli aumenti salariali e le provvidenze pensionistiche.
La conferenza si tenne a Londra nel 1900 ed ebbe come esito la nomina di un Comitato per
la rappresentanza dei lavoratori, composto da delegati del partito di Hardie, della Fabian
Society e soprattutto dei sindacati; questi ultimi avevano al suo interno la maggioranza.
Nel 1903 si strinse un rinnovato accordo elettorale tra il Partito liberale e il segretario del
Comitato, James Ramsay MacDonald (1866-1937), che ebbe come esito, in occasione delle
elezioni del 1906, la vittoria del fronte liberale-laburista contro i conservatori. Vennero
eletti alla Camera dei Comuni una trentina di deputati provenienti dal Comitato per la
rappresentanza dei lavoratori; costoro decisero di costituirsi in un gruppo parlamentare
autonomo rispetto ai liberali e di fondare il Partito laburista (Labour Party). Il programma
del nuovo partito era in linea con le posizioni precedentemente espresse dal movimento
laburista e sindacale britannico, e dunque riformista e rispettoso dell’azione parlamentare.
Anche negli anni successivi, proseguirono pertanto gli accordi elettorali e l’alleanza parla-
mentare con il Partito liberale.
350 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Ancora meno toccati dal socialismo marxista furono gli Stati Uniti, che rimasero quasi
estranei alla vita dell’internazionalismo socialista (si può affermare, a questo proposito,
che la Prima e la Seconda Internazionale furono fenomeni sostanzialmente europei). Del
resto, la classe operaia americana era attraversata da notevoli divisioni interne, soprattut-
to di natura etnica. Le componenti bianche anglosassoni, di solito quelle meglio integrate
nella società statunitense, erano pienamente partecipi del mito americano della mobilità
sociale, ovvero aderivano all’idea che una vita di duro e serio lavoro potesse consentire
una buona ascesa sociale per sé e i propri figli. Essi si iscrivevano al sindacato, l’Ameri-
can Federation of Labour, ma non per cambiare la società, quanto piuttosto per arrivare a
quelle condizioni retributive e di vita che avrebbero consentito il coronamento del “sogno
americano”. Un elemento culturale al quale è da attribuire indubbiamente un forte effetto
di stabilizzazione politica.
Generalmente, dunque, i lavoratori americani si inserivano senza difficoltà nel sistema
bipartitico tipico degli Stati Uniti, dove erano attivi il Partito repubblicano e quello demo-
cratico (entrambi di estrazione liberale, benché l’uno più conservatore e l’altro più pro-
gressista) e dove, invece, un’autonoma forza politica d’ispirazione socialista o laburista non
riuscì mai a trovare spazio.
L’unica eccezione degna di nota è quella rappresentata dagli Industrial Workers of the
World (IWW), una organizzazione vicina al sindacalismo rivoluzionario europeo, che venne
fondata nel 1905. L’IWW riuscì a guadagnare un buon insediamento tra i lavoratori europei
di più recente immigrazione (italiani, spagnoli, greci) e tra gli operai afroamericani, cioè
in fasce sociali che faticavano a integrarsi nella società americana per motivi linguistici,
culturali, o di aperta discriminazione razziale.
Sottoposta a dura repressione dalle forze dell’ordine, questa sigla sindacale esaurì la
propria parabola nei due decenni successivi, lasciando tuttavia la propria impronta nella
storia sociale e culturale americana del primo Novecento.

12.2. Il cattolicesimo davanti alla questione sociale: l’enciclica


Rerum Novarum

Lo stesso anno, il 1891, in cui Kautsky redigeva il programma di Erfurt, la piattaforma ufficia-
le del Partito socialdemocratico tedesco che influenzò profondamente il pensiero marxista
della Seconda Internazionale, papa Leone XIII pubblicò l’enciclica Rerum Novarum, con la
quale anche la Chiesa affrontava la questione dei rapporti tra capitale e lavoro, cercando
di promuovere – anziché lo sviluppo della lotta di classe – i termini di un accordo sociale.
Proprio per questo la nuova enciclica ebbe una importanza che andava oltre l’ambito del
cattolicesimo, per porsi come fatto storico obbiettivamente decisivo.
La parte più ricca del testo di Leone XIII era quella relativa al movimento associazioni-
stico e mutualistico cattolico, che si auspicava autonomo e libero rispetto al potere statale.
A essere richiamata era la tradizione corporativa medievale, riconoscendo, però, la neces-
sità di un suo aggiornamento rispetto ai bisogni della modernità, che vedevano ormai la
presenza sempre più massiccia di organizzazioni esclusivamente operaie.
La Rerum Novarum stimolò una vivace elaborazione culturale che trovò espressione in
un pullulare di giornali e riviste, attraverso cui il cattolicesimo sociale di fine secolo rispose
Capitolo 12. Società e cultura nei paesi industriali 351

alle sollecitazioni provenienti dalle nuove scienze della società: l’economia, la sociologia
e le scienze sociali quantitative (demografia e statistica). Fu un momento, quello dei de-
cenni a cavallo del 1900, di particolare vivacità per l’insieme della cultura cattolica, sotto
lo stimolo del confronto fattosi più stringente con le trasformazioni sociali in atto e con
l’avanzata socialista.
Se, fino all’inizio degli anni Novanta del XIX secolo, il movimento cattolico aveva fatica-
to a comprendere la rapida disgregazione della società tradizionale e l’emergere di nuovi
bisogni, la Rerum Novarum di Leone XIII costituì una spinta dall’alto tesa a rinnovare e
rimodulare l’associazionismo devoto tradizionale, quello che era rappresentato, per inten-
derci, dalle confraternite, dalle congregazioni mariane e dalle opere benefiche. L’enciclica
rappresentò, in altre parole, una decisiva indicazione programmatica di svecchiamento del
movimento, sollecitando i cattolici a impegnarsi attivamente nell’organizzazione operaia,
dando vita a proprie associazioni a carattere confessionale.
Sul tronco dell’organizzazione operaia si innestò anche il principio della cooperazio-
ne, come alternativa al lavoro salariato nell’impresa capitalistica. Tra i protagonisti della
nuova riflessione economica e sociale all’interno del cattolicesimo europeo è sicuramente
da segnalare la figura dell’intellettuale italiano Giuseppe Toniolo (1845-1918). Egli fondò
a Roma nel 1893 la «Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie», che di-
venne negli anni successivi un luogo fondamentale di dibattito nel processo di formazione
della sociologia cattolica.
In questa fase di rinnovamento della loro presenza nella società i cattolici attivarono
una serie di iniziative pratiche che si proponevano di affrontare da un punto di vista cri-
stiano la condizione degli operai, dei contadini e dei lavoratori in genere. Nacquero così
casse di risparmio e di credito, cooperative di produzione e di consumo, nel tentativo di
temperare le ingiustizie sociali conseguenti alla modernizzazione ed insite nello sviluppo
capitalistico.

12.3. La parabola del positivismo e le nuove forme di


individualismo

12.3.1. Dall’idea di progresso di Comte all’evoluzionismo di Darwin.


La visione ottimistica che scaturiva dai processi di industrializzazione e di urbanizzazione e
dall’avanzamento delle scienze sperimentali trovò la sua espressione culturale nell’elabo-
razione dell’idea di progresso da parte di pensatori come il francese Auguste Comte (1798-
1852) e l’inglese Herbert Spencer (1820-1903). Dalla loro riflessione prese corpo quella
impostazione filosofica nota con il nome di “positivismo”, perché legata all’idea di una evo-
luzione progressiva della storia umana.
La fiducia nell’inizio di una età positiva per l’umanità cominciò ad affermarsi nell’opi-
nione pubblica europea intorno alla metà dell’Ottocento e improntò di sé il clima culturale
fino ai primi anni del Novecento. Fu, in particolare, nel ventennio tra il 1850 e il 1870, che
maturarono idee, concezioni, visioni del mondo che, pur nella varietà degli accenti, del-
le ispirazioni e delle aspettative, condividevano un sostanziale ottimismo giustificato dal
352 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

nuovo prestigio della scienza. Dal positivismo di Comte al socialismo di Marx, le nuove
elaborazioni culturali e sociali aspiravano soprattutto a essere “oggettive” e “scientifiche”.
Il prestigio della scienza era enormemente aumentato grazie alle ricerche e ai risultati
conseguiti nel campo della fisica, della chimica e della biologia. Effetti immediati sull’o-
pinione pubblica ebbero, ad esempio, alcune ricerche che conobbero una rapida appli-
cazione pratica, come le scoperte dello scienziato francese Louis Pasteur (1822-1895). Da
lui prese il nome il processo della “pastorizzazione”, che impediva la fermentazione con-
sentendo una più lunga conservazione di alcuni prodotti alimentari; inoltre, l’analisi della
decomposizione a opera dei batteri svolta da Pasteur portò nel campo medico alle misure
antisettiche ora comunemente usate per prevenire e combattere le infezioni.
A dare ulteriore sostegno scientifico alla scuola filosofica positivista arrivò nel 1859
la pubblicazione di un libro che fece epoca: L’origine delle specie del naturalista inglese
Charles Darwin (1809-1882). Egli formulò una “teoria dell’evoluzione” nella quale rifletteva
sull’origine della vita e sui processi che hanno prodotto gli organismi attuali. Secondo le
fondamentali acquisizioni di Darwin, sulla Terra apparvero dapprima organismi semplici,
dai quali sono poi derivati quelli più complessi, attraverso un processo di differenziazione
e “selezione naturale”, in base al quale solo le forme biologiche più adatte all’ambiente
sopravvivono e si riproducono.
L’elaborazione darwiniana, indubbiamente di grande importanza scientifica, assunse
però ben presto anche un ambiguo peso culturale. Essa venne, infatti, arbitrariamente ap-
plicata alla storia comparata delle civiltà umane. Una operazione autorizzata dallo stesso
Darwin, che così facendo avvallò l’asserzione di un primato della “razza bianca” (cioè, del-
le popolazioni dei paesi occidentali industrializzati) sulle altre economicamente e social-
mente meno avanzate. Di fatto, Darwin offriva un sostegno pseudo-scientifico a un senso
comune già largamente diffuso in Occidente, inserendo elementi inquietanti, sempre più
vicini al razzismo, nella orgogliosa celebrazione del progresso della civiltà occidentale.
Nella parte conclusiva di un suo libro del 1871, intitolato l’Origine dell’uomo, egli ag-
giungeva altre due considerazioni suscettibili di pericolosi sviluppi sociali. La prima allu-
deva al fatto che un’attenta selezione sessuale, cioè un controllo medico e sanitario sulle
persone che si accoppiano, avrebbe potuto portare a un significativo miglioramento del-
la specie umana. Erano queste le premesse dell’eugenetica, la teoria (poi sviluppata, ad
esempio, nella Germania nazista) che si proponeva di ottenere un miglioramento della
specie umana, attraverso le generazioni, in modo analogo a quanto si fa per gli animali e le
piante in allevamento: distinguendo, cioè, i caratteri ereditari in favorevoli e sfavorevoli, e
cercando di favorire la diffusione dei primi e di impedire quella dei secondi.
La seconda osservazione di Darwin era relativa alla selezione naturale e, più precisa-
mente, al fatto che essa comporterebbe una “lotta per l’esistenza” in cui i più adatti (o i
migliori) sono destinati a imporsi e a sopravvivere, mentre gli altri a soccombere. Si trattava
di un principio che Darwin ricavava dall’osservazione delle relazioni tra specie animali,
ma che applicata all’uomo sembrava giustificare, sul piano economico, la concorrenza più
sfrenata e, sul piano politico-militare, il principio secondo il quale lo Stato militarmente più
forte ha tutte le ragioni di imporsi sugli altri.

12.3.2. Nuovi orientamenti culturali e artistici al passaggio del secolo.


Fra l’ultimo decennio dell’Ottocento e il primo del Novecento importanti novità maturaro-
no in ogni campo della cultura europea, mentre il positivismo ottocentesco entrava in crisi.
Contro una visione della modernità tutta interna alla cultura positivista, e che sembrava
Capitolo 12. Società e cultura nei paesi industriali 353

prefigurare, grazie allo sviluppo della scienza e della tecnica, l’avvento di una età felice
per l’intera umanità, sullo scorcio del XIX secolo iniziò a diffondersi nella letteratura eu-
ropea una poetica conosciuta con il termine di “decadentismo”. Quello che accomunava
i circoli artistici, soprattutto francesi, che vi aderivano era l’intima convinzione di essere
entrati in un momento storico di decadenza della civiltà. L’affermazione della borghesia e
del sistema capitalistico avevano instaurato il dominio di una mentalità produttivistica, e
di una morale improntata ai valori della piatta efficienza; in questo contesto, sentito come
degradante per la complessità dell’uomo, perché spogliato di idealità e standardizzato, an-
che lo scrittore rischiava di essere relegato a un ruolo di semplice intrattenitore del grande
pubblico. Erano questi i temi della poetica di Charles Baudelaire (1821-1867), precursore
di questo filone ideale, e di altri poeti più giovani da lui influenzati come Arthur Rimbaud
(1854-1891) e Paul Verlaine (1844-1896).
Sono gli stessi anni in cui il pensiero del filosofo tedesco Friedrich Nietzsche (1844-1900)
e il suo appello a forze nuove e fresche, rispetto a una civiltà decadente e consunta, conqui-
stavano gli animi più irrequieti. Gli anni in cui dominava, nel dibattito culturale francese, il
pensiero di Henri Bergson (1859-1941), che respingeva ogni interpretazione meccanicistica
dei processi mentali, pervenendo al concetto di “slancio vitale”.
Un’eco profonda della lezione bergsoniana si ritrovava nell’opera letteraria di Marcel
Proust (1871-1922), e più precisamente nel suo grande romanzo Alla ricerca del tempo
perduto, in cui il vissuto è tutto riportato alla dimensione della memoria individuale, in una
originale scomposizione e ricomposizione del tempo. Qualcosa di analogo avveniva nelle
arti figurative, fin dagli anni Settanta del XIX secolo, con Claude Monet (1840-1926) e gli im-
pressionisti, che rifiutavano ogni nozione acquisita dell’oggetto per affidarsi all’immediata
impressione dell’artista: gli effetti di luce e i colori sovrastavano, così, nell’opera pittorica,
il disegno preciso delle figure.
Anche nel campo della fisica i concetti di tempo e di spazio si modificarono profonda-
mente. Si configurò il passaggio dal basilare e tradizionale concetto di “materia” a quello
di “energia”. Albert Einstein (1879-1955) formulò, nel 1905, la teoria della relatività, dissol-
vendo antiche certezze: “La posizione spaziale e temporale di un corpo può essere definita
soltanto in relazione a quella di un altro corpo”.
Nel 1900, infine, Sigmund Freud (1856-1939) pubblicò L’interpretazione dei sogni, opera
nella quale applicava la sua attività di medico e di ricercatore allo studio dell’inconscio
e, dunque, di quei processi psichici di cui il soggetto non è consapevole. La psicoanalisi
freudiana scopriva, così, una inesplorata dimensione dell’uomo, quella “notturna” e irrazio-
nale. Insieme alla sua opera, le varie tendenze della psicologia e lo studio delle strutture
mentali influirono in ogni campo della attività umana, dai sistemi educativi alla letteratura,
contribuendo alla formazione di una nuova visione del mondo e di nuovi comportamenti
pubblici e privati.
354 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

12.4. La Belle époque e l’ascesa della classe media

12.4.1. La figura del cittadino-consumatore.


Nel corso del XIX secolo si misero in moto due processi che influirono sulla composizione
sociale di tutti i paesi occidentali. In primo luogo lo sviluppo del proletariato industria-
le, che crebbe parallelamente alla diffusione del sistema manifatturiero e della fabbrica
meccanizzata; in secondo luogo, la crescita della piccola e media borghesia dei tecnici e
degli impiegati che trovarono lavoro sia nell’apparato produttivo, sia nei servizi (pubblici e
privati), che nel commercio. Il riferimento è a tutte le attività connesse alle relazioni inter-
ne ai mercati (banche, trasporti, vendita all’ingrosso) o all’incremento di servizi urbani e di
infrastrutture pubbliche (strade, ferrovie, tubature, cavi elettrici) che innervavano sempre
più le città, collegandole tra loro.
Queste trasformazioni fecero sì che le società occidentali mostrassero strutture sociali
via via più complesse e articolate. Volendo semplificarne, per quanto possibile, la rappre-
sentazione, alla base della piramide sociale si trovava un largo numero di operai, braccian-
ti e contadini non qualificati; nel mezzo il variegato mondo dei ceti medi, prevalentemente
urbani, composti da impiegati pubblici e privati, tecnici e quadri delle industrie, agenti di
commercio, negozianti e addetti alla vendita (con un numero crescente di donne, che usci-
te da istituti professionali e magistrali, andavano a lavorare come commesse, segretarie,
infermiere e maestre elementari); infine una élite di professionisti e alti funzionari, impren-
ditori e banchieri, con una quasi esclusiva presenza maschile.
I redditi dei ceti medi erano buoni, ma anche i salari degli operai attraversavano una
fase di crescita non irrilevante, permettendo ai lavoratori più intraprendenti e specializzati
– grazie all’espansione produttiva che caratterizzò il tardo Ottocento e il primo Novecento
– di assumere uno stile di vita e di conquistare un decoro domestico sempre più simile a
quello borghese.
Nel complesso aumentò il numero di famiglie dei ceti popolari che poteva destinare
una quota di reddito all’acquisto di beni non di prima necessità. In altre parole, dopo aver
comprato pane, carne e vino a buon mercato, ci si poteva permettere di riempire la borsa
della spesa anche con formaggi, zucchero, frutta; e poi di acquistare vestiti nuovi, e magari
“beni di consumo durevole” come una bicicletta, una macchina da cucire, un orologio. E
ancora ci si poteva permettere un contratto per la fornitura domestica di energia elettrica;
e magari migliorare l’arredamento di casa.
Cominciava, insomma, a ingrossarsi il numero dei consumatori e a delinearsi un vero e
proprio mercato di massa, con riferimento al fatto che i nuovi compratori erano molto più
numerosi delle tradizionali élite della ricchezza (nobili, grandi funzionari, ecc.), che già da
secoli potevano permettersi, sole o quasi, il godimento di beni voluttuari e superflui.
Gli imprenditori e i commercianti più svegli ne approfittarono accrescendo il proprio
giro di affari, aprendo nuovi esercizi commerciali e inventando nuovi luoghi del consumo di
massa, come i primi grandi magazzini, che nacquero nella seconda metà dell’Ottocento a
Parigi, Londra e Berlino. Queste dinamiche commerciali consentirono di abbassare ulterior-
mente i prezzi (vendendo un grande volume di merce si potevano contenere i margini di
profitto) allargando ulteriormente la clientela. Si diffuse la pubblicità, affidata a immagini
e testi pubblicati sui giornali o a manifesti affissi ai muri.
Aumentarono, a loro volta, le tirature dei quotidiani, indispensabili per informarsi sulle
vicende politiche ed economiche di un mondo che sembrava cambiare sempre più in fretta,
Capitolo 12. Società e cultura nei paesi industriali 355

così come si moltiplicava, nelle edicole, l’offerta di accattivanti riviste illustrate. In Italia ne
uscivano due a larga tiratura: l’“Illustrazione italiana”, che esisteva fin dal 1873, e la “Dome-
nica del Corriere”, nata nel 1899 come supplemento del quotidiano il “Corriere della Sera”.
A livello continentale conviene ricordare almeno il periodico inglese “Daily Mail”, che po-
neva al centro della sua linea editoriale il pettegolezzo politico o mondano, la cronaca
nera e lo sport, oppure certi periodici parigini di larga tiratura come “Le Petit Parisien”, “Le
Petit Journal” e “Le Matin”.
Ma i nuovi consumatori potevano anche concedersi, specie se abitavano in centro città,
uno spettacolo teatrale o cinematografico. Se ci si accontentava del loggione, cioè il balco-
ne più alto del teatro, il biglietto per un’opera lirica era alla portata di operai e impiegati.
Nella seconda metà dell’Ottocento, con l’aumentare del pubblico, i teatri si diffusero anche
nei piccoli centri abitati, fino a quando all’inizio del Novecento il melodramma incontrò
un competitore piuttosto insidioso, il cinema: proprio allora infatti cominciarono a venir
costruite in Europa le prime sale cinematografiche.
C’erano, infine, gli spettacoli sportivi. Tra fine Ottocento e inizio Novecento si impose
un cambiamento che ancora oggi fa sentire i suoi potenti effetti: lo sport non fu più solo
una pratica per esercitare e mettere alla prova il proprio fisico, ma diventò a sua volta
uno spettacolo. Sempre più spesso ci si interessava alle attività sportive senza praticarle,
semplicemente seguendo le imprese di qualche squadra o di qualche atleta in particolare.
Alcuni imprenditori capirono allora che la costruzione di uno stadio e la commercializza-
zione degli eventi sportivi era diventato un buon affare, anche grazie al miglioramento dei
mezzi di circolazione, come tram e ferrovie, che permettevano al pubblico di raggiungere
con relatività facilità gli impianti, di solito collocati nelle periferie delle città. In Europa, lo
spettacolo sportivo per eccellenza fu fin dall’inizio il calcio. Nel 1888 nacque in Inghilterra
la Football League, che sancì la professionalizzazione dello sport: chi giocava riceveva un
compenso; chi guardava pagava un biglietto. Seguendo l’esempio inglese, le prime squadre
professionistiche italiane vennero fondate nei decenni a cavallo del 1900.
Oltre alla diffusione dei consumi si assistette a una radicale trasformazione della frui-
zione del tempo. Per secoli, la società contadina era vissuta in una dimensione temporale
unitaria, nella quale non vi era netta distinzione tra il tempo del lavoro e il tempo dello
svago: il flusso delle stagioni conosceva, naturalmente, feste religiose e comunitarie, pe-
riodi di lavoro nei campi e altri di relativo riposo, ma nella civiltà urbana di fine Ottocento
si manifestò qualcosa di nuovo: al “tempo del lavoro” si affiancò compiutamente il “tempo
libero”, inteso come possibilità di scelta e di consumo. Organizzare il tempo libero diven-
ne un impegno per le famiglie e per gli individui, ma anche un nuovo campo di iniziative
imprenditoriali e di investimenti che fecero nascere una industria dello spettacolo e dello
svago. E lo svago divenne a sua volta consumo, non solo nel senso che il tempo libero ven-
ne dedicato agli acquisti nei grandi magazzini, ma anche nel senso che l’impiego del tempo
libero generò nuovi tipi di consumo che potremmo definire “culturali”: la fruizione degli
sport e la loro pratica, il cinema, la visita alle città d’arte, la gita naturalistica, la lettura.
Proprio a sottolineare una sempre più diffusa prosperità economica e una vita quotidia-
na mai così spensierata e gaia, il periodo tra la fine del XIX secolo e il principio del XX, viene
solitamente indicato prendendo a prestito l’espressione francese belle époque.
356 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

12.4.2. L’allargamento del suffragio elettorale.


L’industria dello svago e dello spettacolo si intrecciò strettamente con la massificazione
della politica. La comparsa, nelle strade delle città, della figura del cittadino-consumatore
si combinò, quasi contemporaneamente, con il suo ingresso sulla scena politica, grazie
all’estensione del diritto di voto. In effetti, tra Ottocento e Novecento, il problema centrale
degli Stati occidentali fu quello di rispondere alla domanda di partecipazione politica e di
inclusione sociale proveniente dai nuovi gruppi sociali, che lo sviluppo economico aveva
generato e immesso sulla scena pubblica.
Fino al 1870 il sistema politico più diffuso in Europa risultava essere quello della mo-
narchia costituzionale, nel quale il diritto di voto era limitato a una porzione ristretta di
maschi adulti, scelti in base al censo e all’istruzione. Le competizioni elettorali rimanevano
appannaggio di ristrette élite – in genere grandi proprietari fondiari o alti funzionari – che
avevano un rapporto diretto con i propri elettori. I partiti nei quali questa classe politica
si muoveva non erano formazioni politiche organizzate, ma più precisamente dei comitati
elettorali che venivano attivati in occasione delle elezioni dai notabili dei diversi collegi.
Da quella data e nei cinquant’anni successivi il sistema politico appena descritto conob-
be una radicale trasformazione. Se gli Stati Uniti avevano introdotto il suffragio universale
maschile fin dall’indipendenza, alla fine del Settecento, in Europa i primi paesi ad approva-
re questa riforma furono Francia, Svizzera e Germania, a partire dagli anni Settanta del XIX
secolo. Tra la fine dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale quasi tutti i paesi dell’Europa
occidentale approvarono leggi che allargavano il corpo elettorale fino a comprendervi la
totalità o la stragrande maggioranza dei cittadini maschi maggiorenni: la Gran Bretagna
nel 1885-86, la Spagna nel 1890, il Belgio nel 1893, la Norvegia nel 1898, l’Austria e la Fin-
landia nel 1907, l’Italia nel 1912, l’Inghilterra e l’Olanda subito dopo la guerra.
Alla vigilia della Prima guerra mondiale in Europa votavano circa 50 milioni di per-
sone. Trenta o quarant’anni prima erano meno della metà gli aventi diritto. La dilatazio-
ne notevole della partecipazione politica a nuovi soggetti sociali prefigurò il progressivo
passaggio dallo Stato liberale, elitario e notabilare, alla democrazia di massa, superando
la forma di lotta politica fondata sullo scontro di notabili locali per consegnarla a grandi
partiti organizzati. Furono i socialisti, come si è visto, i primi a dotarsi di strutture più arti-
colate rispetto ai “partiti elettorali” di origine liberale, seguiti in questo dai cattolici, specie
in Germania e Italia (il primo partito cattolico di massa fu il Zentrum, nato in Germania
già negli anni Settanta dell’Ottocento; solamente più tardi, in Italia, sarebbe nato il Partito
popolare italiano, fondato da Luigi Sturzo nel 1919, che aveva però la sua prima radice nel
movimento della Democrazia cristiana, creato all’inizio del Novecento da Romolo Murri).
All’interno della questione dell’allargamento del suffragio elettorale emerse anche la
domanda di diritti politici da parte delle donne. Molte di loro, infatti, stavano prendendo
coscienza, attraverso una migliore istruzione e l’accesso al mondo del lavoro, delle disu-
guaglianze e delle soggezioni cui era sottoposta la condizione femminile.
Capitolo 12. Società e cultura nei paesi industriali 357

12.5. I cambiamenti nella condizione femminile: educazione e


nuove professioni

Le grandi rivoluzioni di fine Settecento, quella americana e quella francese, avevano di


fatto escluso dall’affermazione della validità universale dei diritti il mondo femminile. Fu
solamente più tardi, intorno alla metà dell’Ottocento, che in alcuni circoli radicali e socia-
listi inglesi e francesi comparve alla ribalta il tema dell’uguaglianza dei diritti civili, politici
e sociali tra uomini e donne. In altre parole, la questione dell’emancipazione femminile.
In un articolo intitolato L’emancipazione delle donne (1851), l’inglese Harriet Taylor
rivendicò “l’ammissione, giuridica e di fatto, delle donne all’uguaglianza di tutti i diritti poli-
tici, civili e sociali, con i cittadini maschi”. Dopo la sua morte, in alcuni discorsi tenuti in par-
lamento tra il 1865 e il 1868, il marito John Stuart Mill, filosofo liberale, si fece promotore
della richiesta di estensione del diritto di voto alle donne. Proposta che non venne accolta.
A quel punto, Helen Taylor, figlia di Harriet, promosse la Società nazionale per il suffragio
femminile e cominciò a portare il tema dei diritti civili e politici delle donne all’attenzione
dell’opinione pubblica con una serie di manifestazioni, che pur non avendo affetti imme-
diati, ebbero il valore di porre la questione davanti agli occhi di tutti.
Ancora alla fine dell’Ottocento le donne erano dappertutto escluse dall’elettorato at-
tivo e passivo. I primi cambiamenti nella condizione femminile si registrarono, prima an-
cora che sul piano politico, nella realtà sociale. Durante la seconda metà del XIX secolo
un numero limitato, ma non irrilevante, di giovani donne cominciò a coltivare l’ambizione
di poter accedere agli studi superiori. Una ambizione ancora contrastata dalla cultura do-
minante, in base alla quale si riteneva che il destino di una donna fosse esclusivamente
la maternità e l’allevamento dei figli, non certo un percorso di studi che portasse a una
professione qualificata.
Lentamente e non senza difficoltà quasi tutti i sistemi universitari cominciarono ad
aprirsi alle studentesse, il numero delle quali tuttavia restò a lungo esiguo. A questo pro-
posito si deve osservare una netta differenza tra le università anglo-americane e quelle
dell’Europa continentale. Negli Stati Uniti, infatti, nel 1910-11 le ragazze iscritte all’uni-
versità erano già il 35% del totale degli iscritti e in Gran Bretagna il 26%, mentre invece le
percentuali si abbassavano di molto in Francia, Italia e Germania, dove oscillavano intorno
al 5-6%.
Il notevole divario andava attribuito, almeno in parte, alla presenza in Gran Bretagna e
negli Stati Uniti di gruppi protestanti che da tempo avevano aperto alle donne alcune prati-
che religiose: dalla predicazione alla lettura della Bibbia, fino al catechismo. Ciò favorì una
apertura più complessiva del sistema educativo alle ragazze, con il beneplacito di buona
parte dell’opinione pubblica progressista.
Superati, in un modo o nell’altro, gli sbarramenti che si frapponevano al loro percorso
formativo, le donne che uscivano dalle scuole superiori e dalle università si trovavano di
fronte a nuovi ostacoli nell’accesso a molte professioni. Ciò accadeva, ad esempio, alle lau-
reate in giurisprudenza, che aspiravano a diventare avvocati o magistrati, o alle laureate
in medicina che volessero lavorare in strutture ospedaliere. Barriere normative che a poco
a poco vennero abbattute: prima negli Stati Uniti, dove questo rinnovamento avvenne sul
finire dell’Ottocento, poi nei paesi europei, dove una maggiore apertura alle donne nel
mondo del lavoro si manifestò solamente nel corso dei primi vent’anni del nuovo secolo.
Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea:
dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra
di Carlo De Maria
Roma (BraDypUS) 2018
ISBN 978-88-98392-70-4
pp. 359-368

Capitolo 12. Società e cultura nei


paesi industriali
Approfondimenti

Profili
Marie Curie

Il fatto che, nella comune visione del mondo ancora prevalente a fine Ottocento, la vita
delle donne fosse relegata quasi esclusivamente nella sfera domestica, fece sì che quelle
poche giovani che tentavano la scalata all’istruzione superiore e a una professione quali-
ficata fossero non di rado figure eccezionali per determinazione e intelligenza. È il caso,
ad esempio, di Maria Sklodowska, meglio nota come Marie Curie (1867-1934), scienziata
francese di origine polacca.
Nata a Varsavia, nella Polonia russa, da una famiglia di insegnanti, Maria frequentò le
scuole superiori nella sua città, ma decise presto di abbandonare il paese di origine, dove
non era consentito alle donne di intraprendere gli studi universitari. Nel 1891 si iscrisse
all’Università di Parigi, La Sorbona, studiando matematica, fisica e chimica. Nonostante
lavorasse anche come governante per mantenersi agli studi, il suo percorso universitario
avanzò in maniera fulminante: nel 1893 si laureò in fisica, l’anno successivo in matematica.
Fu allora che conobbe Pierre Curie, importante fisico francese, che sposò nel 1895. I co-
niugi Curie cominciarono a lavorare insieme approfondendo la ricerca sul fenomeno della
radioattività. Grazie alle loro ricerche su questo argomento ricevettero, nel 1903, il premio
Nobel per la fisica. Dopo la scomparsa del marito (1906), Marie crebbe da sola le due figlie
piccole, ma senza rinunciare al lavoro di ricerca, che la condurrà nel 1911 a un secondo pre-
mio Nobel, questa volta in chimica. In quel periodo, ottenne la cattedra di Fisica alla Facoltà
di Scienze della Sorbona, prima donna ad avere un insegnamento universitario in Francia.
Consapevole della eccezionalità della propria biografia, ma anche dei cambiamenti più
generali che stavano prendendo piede nelle società occidentali, Marie Curie dedicò, nel
corso di una intervista, un pensiero alle tante donne che cominciavano ad avvicinarsi agli
studi superiori e alle professioni: “Non è necessario condurre una vita innaturale come la
mia. Quello che io desidero per le donne e per le giovani è una semplice vita familiare e un
lavoro che le interessi”. I tempi stavano cambiando per le donne: non solo mogli e madri,
ma donne realizzate nel lavoro.
360 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Parole-chiave
Internazionalismo

Il termine entrò nel vocabolario politico nella seconda metà dell’Ottocento soprattutto
attraverso il movimento socialista, che fece dell’internazionalismo – inteso come volontà
di unire, al di sopra delle differenze nazionali, forze individuali e collettive in una solida-
rietà d’azione e d’intenti – uno dei suoi tratti salienti e caratteristici. Le radici del concetto
di internazionalismo, tuttavia, affondavano nel cosmopolitismo illuministico settecentesco
e nell’approccio universalista, in tema di diritti dell’uomo, affermatosi con le due grandi
rivoluzioni della fine del XVIII secolo. Se, però, il messaggio lanciato dagli intellettuali illu-
ministi era stato eminentemente culturale e tutto sommato elitario (il diritto degli uomini
di cultura a definirsi «cittadini del mondo») e i principi fondamentali fissati, per tutta l’uma-
nità, dai documenti delle rivoluzioni americana e francese ebbero soprattutto un valore
filosofico-giuridico, l’internazionalismo socialista ottocentesco cominciò ad assumere, in-
vece, spiccati contenuti politici e popolari.
Mostrava qualche affinità con questi intendimenti anche il repubblicanesimo di Giuseppe
Mazzini, che fu – è vero – un grande assertore del principio di nazionalità, ma sempre nel
quadro di un ideale di fratellanza universale volta alla libertà e all’indipendenza dei popoli. A
tal fine Mazzini fondò nel 1834 la Giovine Europa, con la speranza di poter coordinare i grup-
pi di patrioti che all’interno delle singole nazioni erano impegnati nella lotta di liberazione
dall’assolutismo monarchico, e non è dunque un caso che, trent’anni più tardi, nel 1864, egli
decidesse di aderire, pur brevemente, all’Associazione internazionale dei lavoratori guidata
da Karl Marx.
La più nota formulazione dell’internazionalismo (e non solo di quello socialista) rimane
proprio il Manifesto del partito comunista pubblicato nel 1848 da Marx ed Engels. Nel for-
tunato pamphlet si sosteneva che l’epoca della borghesia, segnata dallo sviluppo mondiale
dei mercati, stava volatilizzando tutto ciò che vi era di stabile, comprese le barriere nazio-
nali. Da qui discendeva l’esigenza di unificare la lotta dei lavoratori di tutti i paesi contro
l’organizzazione mondiale del capitalismo. L’appello: “Proletari di tutto il mondo unitevi!”,
con il quale si concludeva il Manifesto, esprimeva efficacemente questo progetto politico.
Dopo le esperienze della Prima (1864-1876) e della Seconda Internazionale (1889-1916)
– esauritesi, la prima, a causa dei contrasti interni tra marxisti e anarchici e, la seconda, in
seguito allo scoppio della Grande Guerra (1914-18) –, il Novecento vide affermarsi due
modelli alternativi di internazionalismo. Da una parte, l’Internazionale comunista, fondata
a Mosca nel 1919, come organo di coordinamento del progetto rivoluzionario mondiale ba-
sato sul modello del bolscevismo russo (il cui destino sarà, quindi, sempre legato all’Unione
Sovietica); dall’altra, la Società delle Nazioni, nata anch’essa nel 1919, su proposta del pre-
sidente americano Woodrow Wilson, basata invece su ideali di cooperazione e sicurezza
internazionale di stampo liberal-democratico.
Erede della Società delle Nazioni è l’odierna Organizzazione delle nazioni unite (ONU),
nata nel 1945 al termine della Seconda guerra mondiale.
Capitolo 12. Approfondimenti 361

Costituzione e cittadinanza
Le suffragette e il diritto di voto

Dopo che l’Illuminismo aveva favorito l’inizio di un dibattito sull’istruzione femminile e


che, con la Rivoluzione francese, si era assistito a una prima partecipazione delle donne al
confronto politico, solamente nella seconda metà dell’Ottocento cominciò a svilupparsi un
vero e proprio movimento di emancipazione femminile, con lo scopo di ottenere la parità
giuridica e politica tra donne e uomini.
In un libro pubblicato nel 1869 (On the subjection of women) il filosofo inglese John
Stuart Mill, riprendendo i contenuti della battaglia condotta da sua moglie, Harriet Taylor
(1807-1858), iniziatrice del movimento femminista inglese, sostenne che il grado di eleva-
zione delle donne era un sintomo della civiltà di una nazione e rivendicò per loro la parità
di diritti civili e politici e l’ammissione a tutte le funzioni pubbliche e occupazioni lavorative.
La lotta politico-culturale per ottenere, da parte di opinione pubblica e istituzioni, una
sufficiente attenzione e considerazione su questi temi fu però assai lunga e difficile. Dopo
l’esperienza della Società nazionale per il suffragio femminile, promossa da Helen Tay-
lor, figlia di Harriet e del suo primo marito (John Taylor, uomo d’affari vicino al radicali-
smo liberale), sarebbe stata la Lega per il diritto di voto alle donne, fondata da Emmeline
Goulden Pankhurst (1858-1928) insieme al marito Richard Pankhurst, a portare tra la fine
dell’Ottocento e l’inizio del Novecento a risultati politici concreti. Sia nel caso della fami-
glia Taylor-Mill che nel caso dei coniugi Pankhurst, il movimento di emancipazione scaturì
dagli ambienti della borghesia liberale politicamente più avanzata e riconobbe come le-
ader donne che in virtù della loro ottima preparazione culturale sentivano in maniera più
acuta l’ingiustizia legata alla subordinazione politica e sociale che il loro genere doveva
sopportare rispetto a quello maschile.
Il termine suffragette fu coniato, proprio in quegli anni, dal giornale inglese “Daily Mail”,
espressione delle posizioni più conformiste e moderate, come etichetta denigratoria da
applicare alle militanti del movimento suffragista. Ma, invece che respingerlo, le militanti
se ne fregiarono e presero a riferirsi alle loro compagne negli stessi termini. Nel 1894 arrivò
il primo storico successo delle suffragette, con l’ottenimento del diritto al voto per le donne
nelle elezioni locali.
Il movimento si sviluppò velocemente in tutti i paesi di cultura anglosassone e in par-
ticolare in Gran Bretagna, negli Stati Uniti, in Australia e Nuova Zelanda, ma si radicalizzò
soprattutto in Inghilterra, dove si assistette spesso alla repressione violenta delle mani-
festazioni femministe con cariche della polizia e arresti. Le suffragette inglesi passarono,
del resto, a forme di protesta sempre più dure danneggiando, ad esempio, durante la co-
siddetta “guerra delle vetrine” del 1912, moltissimi negozi di Londra con sassi, spranghe e
perfino ordigni esplosivi. Nel 1913 il movimento inglese ebbe anche la sua prima martire:
l’insegnante e attivista Emily Davinson (1872-1913), che si gettò verso il cavallo di re Gior-
gio V, durante l’importante gara ippica di Epsom, rimanendo travolta e uccisa. L’intenzione
della Davinson era quella di attaccare la bandiera (viola, bianca e verde) delle suffragette
inglesi alle briglie del cavallo del re, in modo che sventolasse fino al traguardo, dando così
grande visibilità alla causa femminista in occasione di un avvenimento mondano tra i più
importanti della Gran Bretagna.
Dopo l’incidente, Giorgio V si interessò alla sorte di cavallo e fantino, ma non si preoccupò
affatto per le condizioni della donna. Le militanti femministe in carcere, a seguito di quanto
accaduto, iniziarono uno sciopero della fame che scosse il paese.
362 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Le suffragette inglesi vinsero la loro guerra cinque anni più tardi. Nel 1918 il parlamento
britannico approvò infatti la riforma del diritto di voto alle donne, limitandolo inizialmente,
però, alle mogli dei capifamiglia al di sopra dei trent’anni. Nel 1928 il suffragio fu esteso a
tutte le donne.
La Gran Bretagna non arrivava comunque per prima. Infatti, il primo paese in cui le don-
ne ottennero il diritto di voto fu l’Australia, nel 1902. Nell’Europa continentale, anche sotto
la scorta di quanto avveniva in Inghilterra, una prima apertura verso il suffragio femminile
si manifestò in seguito alla Grande Guerra (dopo che negli anni del conflitto, tra il 1914 e il
1918, le donne avevano sostituito gli uomini impegnati al fronte in molti lavori tradizional-
mente maschili); tuttavia, in paesi importanti come Francia e Italia le donne votarono per
la prima volta solo dopo la fine della Seconda guerra mondiale.

Fonti e documenti
Questione sociale e movimento operaio

Introduzione
La Federazione italiana dell’Associazione internazionale dei lavoratori venne fondata uf-
ficialmente nel 1872 da alcuni giovani militanti anarchici allievi di Bakunin. Tra loro Carlo
Cafiero, Errico Malatesta e Andrea Costa. I primi due provenivano dall’Italia del Sud e, più
precisamente, potevano dirsi legati all’ambiente politico e culturale napoletano, dove ne-
gli anni precedenti aveva profondamente inciso la propaganda bakuninista; mentre Costa
era nato a Imola, in Romagna, una regione già sottoposta al dominio dello Stato pontificio
(fino al 1859), dove si era radicata nel corso dell’Ottocento una forte cultura politica di
opposizione, marcatamente repubblicana e anticlericale. Nel bagaglio politico-culturale
degli internazionalisti italiani ebbero, dunque, un posto rilevante sia il pensiero anarchico
che l’eredità garibaldina e repubblicana, mentre scarsa fu l’incidenza del marxismo. Il do-
cumento qui proposto (testo n. 1), risalente al 1876, mostra appieno gli elementi libertari e
federalisti del primo socialismo italiano, attento alla libertà dei singoli e dei gruppi e non
solo al fattore economico e alla «giustizia sociale».
Oltre dieci anni dopo che i dissidi interni avevano portato alla fine della Prima Interna-
zionale, nacque a Parigi, nel 1889, la Seconda Internazionale, grazie a una riorganizzazio-
ne delle forze operaie di orientamento marxista. Essa fu dominata dall’influsso del Partito
socialdemocratico tedesco, che precisò compiutamente il proprio programma politico nel
1891, sotto la direzione di Karl Kautsky. Riaffermati i capisaldi dell’analisi marxiana della
società capitalistica, il programma della socialdemocrazia tedesca (testo n. 2) proclamava
che il proletariato, emancipando se stesso, avrebbe emancipato tutta l’umanità. La lotta
economica della classe operaia era anche lotta politica, da condursi sia sul piano nazionale
che internazionale.
L’enciclica Rerum Novarum (testo n. 3), emanata da papa Leone XIII il 15 maggio 1891,
fu la più compiuta espressione della dottrina sociale cristiana. Il punto di vista della Chiesa
sul problema sociale era fortemente polemico sia nei confronti dei liberali che dei sociali-
sti. L’individualismo esaltato dal liberalismo, trasferito sul terreno economico, aveva por-
tato a una più accentuata differenziazione sociale con l’arricchimento di pochi e uno stato
Capitolo 12. Approfondimenti 363

di miseria per gli altri; il socialismo, per reazione, proponeva l’abolizione della proprietà
privata e la conseguente socializzazione dei beni. Diversamente, per i cattolici la soluzio-
ne del problema del rapporto tra datori di lavoro e lavoratori non poteva essere data dal
prevalere degli interessi degli uni o degli altri, non poteva essere cioè capitalistica o so-
cialistica, ma caratterizzata da una cooperazione tra capitale e lavoro, indispensabile per
uno sviluppo ordinato della società, basato sul riconoscimento dei rispettivi diritti e doveri.

Testo n. 1
“Agli Operai, alle Operaie, alla gioventù d’Italia” (1876)
I caratteri libertari della Prima Internazionale in Italia
Vi hanno detto e ripetuto che le parole Federalismo, Anarchia, Collettivismo e Liquidazione
sociale vogliono dire carneficina, saccheggio e incendio; non date ascolto ai calunniatori
del popolo.
Ecco ciò che quelle parole significano:
Federalismo. Sino ai giorni nostri lo spirito d’autorità qualunque si fosse – clericale, monar-
chico o repubblicano – ha sempre soffocato le forze dell’Umanità in nome del suo Dio e
delle sue idee preconcette. I federalisti vogliono che i gruppi regionali e comunali, tanto
politici quanto economici, conservino la libera disposizione di se stessi e concorrano libe-
ramente a sostenere i carichi sociali, che sono di un generale interesse.
Anarchia, che letteralmente vuol dire nessun governo, nessuna autorità, non è altra cosa
che il federalismo spinto alle sue ultime conseguenze politiche e sociali. È la sostituzione
della ispirazione popolare alla ragione di Stato. In istato di anarchia, i gruppi si governano
da loro stessi e si federano liberamente fra di loro, a seconda dei loro comuni interessi.
Collettivismo. I pensatori generosi e le masse oppresse non hanno mai cessato di protesta-
re contro la forma essenzialmente ingiusta della proprietà. Da questa protesta nacque il
Comunismo, di cui si riscontrano le tracce nei secoli passati, e persino nel cristianesimo pri-
mitivo. Ai giorni nostri, politici e socialisti riconobbero che il Comunismo, sacrificando tutto
alla Società nell’interesse di tutti, non teneva calcolo sufficiente della libertà individuale,
e si cercò un termine medio che assicurasse la solidarietà sociale e garantisse la libertà
individuale. Come forma modificabile, ma esperimentabile, venne nei Congressi dell’Inter-
nazionale preconizzato il Collettivismo1. [...].
Liquidazione sociale. Trasformazione inevitabile, e in un tempo indeterminato, della pro-
prietà che verrà divisa in proprietà collettiva (i capitali) e in proprietà individuale (le cose
prodotte).
Il carattere di questa liquidazione dipenderà dalle classi dirigenti; se esse vorranno rico-
noscerne la legittimità, sarà tenuto conto dei diritti del passato e si procederà per via di
riscatto in forma amichevole.
In caso contrario, la liquidazione sociale si farà rivoluzionariamente; e nessuno potrebbe
ora determinarne il carattere.

1
  Socializzazione della proprietà capitalista, ma distribuzione «a ciascuno secondo il suo lavoro» o,
in altre parole, «a ciascuno il prodotto del suo lavoro». Mentre il «comunismo» prevedeva, oltre alla
socializzazione della proprietà, la distribuzione egualitaria dei prodotti, senza valutazioni in merito
al contributo dato da ciascuno.
364 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Compagni, compagne, gioventù d’Italia, ecco ciò che abbiamo creduto di dovervi dire!
Costretti ad essere brevi, le nostre parole non riesciranno forse abbastanza chiare su qual-
che punto; ma noi vi richiamiamo allo studio e alla associazione, perché completiate da
voi stessi ciò che noi vi abbiamo troppo imperfettamente esposto. Noi non ci atteggiamo
dunque a vostri direttori. Il tempo dei direttori è passato2. Noi abbiamo voluto dirvi:
Uniamoci coi nostri compagni già aggruppati, per istudiare insieme e difendere i nostri
comuni interessi.
Compagni e compagne, noi vi stringiamo la mano.
Viva l’Internazionale! Viva l’Umanità!
La Federazione italiana dell’Associazione internazionale dei lavoratori. Atti ufficiali, 1871-
1880, a cura di P.C. Masini, Milano, Edizioni Avanti!, 1963, pp. 260-262.

Testo n. 2
Il programma della socialdemocrazia tedesca (1891)
L’evoluzione economica della società borghese, con la necessità delle leggi di natura, con-
duce alla rovina la piccola gestione il cui fondamento è la proprietà privata degli strumenti
di produzione, che il lavoratore possiede. Essa separa il lavoratore dai mezzi di produzione
e lo trasforma in un proletario che non possiede nulla; i mezzi di produzione divengono il
monopolio di un numero relativamente piccolo di capitalisti e di grandi proprietari.
A questa monopolizzazione dei mezzi di produzione sono intimamente legati l’eliminazio-
ne, per via di gestioni colossali, delle piccole gestioni spezzettate, la trasformazione dello
strumento in macchina, e infine un prodigioso accrescimento del lavoro umano. Ma tutti i
vantaggi di questa trasformazione sono monopolizzati dai capitalisti e dai grandi proprie-
tari fondiari. Per il proletariato e i ceti sottomessi intermedi – piccoli borghesi, contadini
– significa un aumento crescente di incertezza dell’esistenza, di miseria, di oppressione, di
avvilimento, di umiliazione, di spoliazione.
Il numero dei proletari diventa sempre maggiore, sempre più considerevole l’armata degli
operai inutilizzabili, sempre più profonda l’opposizione tra sfruttatori e sfruttati, sempre
più esasperata la lotta di classe della borghesia e del proletariato, lotta che divide la socie-
tà moderna in due campi ostili e che è la caratteristica comune di tutti i paesi industriali.
L’abisso che separa i proprietari e i nulla-tenenti è ancora aggravato dalle crisi che hanno il
loro principio nell’insieme del sistema di produzione capitalista, crisi che diventano sempre
più estese e devastatrici, che fanno dell’incertezza generale lo stato normale della società
e danno la prova che le forze produttrici della società moderna si sono ingrandite troppo
per questa società, che la proprietà privata dei mezzi di produzione è diventata inconcilia-
bile con un saggio impiego e col pieno svolgimento di questi mezzi di produzione.
La proprietà privata dei mezzi di produzione, che prima serviva ad assicurare al produtto-
re la proprietà del prodotto, serve oggi ad espropriare i contadini, gli artigiani e i piccoli
commercianti e a dare ai non lavoratori – capitalisti, grandi proprietari – il possesso del
prodotto dei lavoratori. Solo la trasformazione della proprietà privata capitalista dei mezzi
di produzione – suolo, miniera, materie prime, utensili, macchine, mezzi di trasporto – in

  Il riferimento è agli anni del Direttorio durante la Rivoluzione francese.


2
Capitolo 12. Approfondimenti 365

proprietà sociale e la trasformazione della produzione delle merci in produzione socialista,


in produzione effettuata per e dalla società, farà sì che la grande gestione e la produttivi-
tà costantemente crescente del lavoro sociale divengano, per le classi finora sfruttate, da
cause di miseria e di oppressione come sono oggi, cause di un maggiore benessere e di un
perfezionamento armonico e universale.
Questa trasformazione sociale significa l’emancipazione non solo del proletariato, ma di
tutto il genere umano che soffre dello stato presente. Essa non può che essere l’opera della
classe operaia, perché tutte le altre classi, nonostante gli urti di interessi che le separano,
sono poste sul terreno della proprietà privata dei mezzi di produzione e hanno quale scopo
comune il mantenimento delle basi della società attuale.
La lotta della classe operaia contro lo sfruttamento capitalista è fatalmente lotta politica.
La classe operaia non può condurre le sue lotte economiche e non può sviluppare la sua
organizzazione economica senza diritti politici. Non può realizzare il passaggio dei mezzi
di produzione in possesso della collettività senz’essere entrata in possesso del potere po-
litico.
Rendere questa lotta della classe operaia consapevole e unitaria e indicarle lo scopo ne-
cessario, questo è il compito del partito democratico e socialista.
Gli interessi della classe operaia sono gli stessi in tutti i paesi in cui esiste il sistema di pro-
duzione capitalista.
A mano a mano che il commercio internazionale si estende e si sviluppa la produzione
per il mercato mondiale, la condizione degli operai di un paese dipende sempre più dalla
condizione degli operai degli altri paesi. L’emancipazione della classe operaia è dunque
un’opera a cui sono egualmente interessati gli operai di tutti i paesi civilizzati. In considera-
zione di questo fatto, il Partito democratico-socialista della Germania si dichiara in perfetta
unione con gli operai di tutti gli altri paesi che hanno la coscienza di classe.
Il Partito democratico-socialista della Germania non lotta dunque per nuovi privilegi di
classe, ma per la soppressione del dominio di classe e delle stesse classi, e per diritti e
doveri eguali per tutti, senza eccezione di sesso o di razza. Muovendo da questi principi,
combatte nella società presente non solo lo sfruttamento e l’oppressione dei lavoratori
salariati, ma ogni specie di sfruttamento e di oppressione diretta, contro una classe, un
partito, un sesso, una razza.
G. Perticone, Le tre Internazionali, Roma, Atlantica, 1945, pp. 123-125; F. Gaeta, P. Villani, Docu-
menti e testimonianze. I grandi problemi della storia contemporanea nei testi originali e nelle
interpretazioni critiche, Milano, Principato, 1979, pp. 250-251.

Testo n. 3
L’enciclica Rerum Novarum (1891)
Gravità della questione operaia.
L’ardente brama di novità che da gran tempo ha incominciato ad agitare i popoli doveva
naturalmente dall’ordine politico passare nell’ordine congenere dell’economia sociale. E
di fatti i portentosi progressi delle arti e i nuovi metodi dell’industria, le mutate relazioni tra
padroni e operai, l’essersi in poche mani accumulata la ricchezza e largamente estesa la
povertà, la coscienza della propria forza divenuta nelle classi lavoratrici più viva e l’unione
tra loro più intima, questo insieme di cose e i peggiorati costumi han fatto scoppiare il con-
flitto. Il quale è di tale e tanta gravità che tiene in trepida aspettazione sospesi gli animi ed
366 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

affatica l’ingegno dei dotti, i congressi dei savi, le assemblee popolari, le deliberazioni dei
legislatori, i Consigli dei principi, in guisa che oggi non v’ha questione che maggiormente
interessi il mondo. Ciò pertanto che a bene della Chiesa ed a comune salvezza facemmo
altre volte, Venerabili Fratelli, colle nostre lettere encicliche sui poteri pubblici, la libertà
umana, la costituzione cristiana degli Stati ed altri siffatti argomenti, che ci parvero oppor-
tuni ad abbattere errori funesti, il medesimo crediamo per gli stessi motivi di dover fare
adesso sulla questione operaia. Toccammo già di questa materia, come ce ne venne occa-
sione, più di una volta; ma la coscienza dell’apostolico nostro ministero ci muove a trattarla
ora di proposito e pianamente, a fin di mettere in rilievo i principii, con cui secondo giustizia
ed equità risolvere la questione...

La soluzione socialista che nega il diritto di proprietà è falsa ed ingiusta.


A rimedio di questi disordini, i socialisti, attizzando nei poveri l’odio dei ricchi, pretendo-
no doversi abolire la proprietà e far di tutti i particolari patrimoni un patrimonio comune,
da amministrarsi per mano del municipio o dello Stato. Con questa trasformazione della
proprietà da personale a collettiva e con l’eguale distribuzione degli utili e degli agi tra i
cittadini, credono radicalmente riparato il male. Ma questa via, non che risolvere la con-
tesa, non fa che danneggiare gli stessi operai ed è inoltre per molti titoli ingiusta, giacché
manomette i diritti dei legittimi proprietari, altera le competenze e gli offici dello Stato e
scompiglia tutto l’ordine sociale.

Perché nuoce agli stessi operai


Ed invero non è difficile capire che lo scopo del lavoro, il fine prossimo che si propone
l’artigiano è la proprietà privata; imperocché, se egli impiega le sue forze, la sua industria a
vantaggio altrui, lo fa per procacciarsi il necessario alla vita; perciò col suo lavoro acquista
vero e perfetto diritto, non pur di esigere, ma d’investire, come vuole, la dovuta mercede.
Se dunque con le sue economie venne a far dei risparmi e, per meglio assicurarli, gli investì
in un terreno, questo terreno non è infine altra cosa, che la mercede medesima travestita
di forma e conseguentemente proprietà sua, né più né meno che la stessa mercede. Ora in
questo appunto, come sa ognuno, consiste la proprietà, sia mobile, sia immobile. Con l’ac-
comunare pertanto ogni proprietà particolare, i socialisti, togliendo all’operaio la libertà di
investire le proprie mercedi, gli rapiscono il diritto e la speranza di vantaggiare il patrimo-
nio domestico e di migliorare il proprio stato e ne rendono perciò più infelice la condizione.

e offende i diritti naturali.


Il peggio si è che il rimedio da costoro proposto è una patente ingiustizia, giacché diritto
di natura è la proprietà privata. Poiché anche in questo passa gran divario tra l’uomo e
il bruto; il bruto non governa se stesso; ma due istinti lo reggono e lo governano, i quali
d’una parte ne tengono desta l’attività e ne svolgono le forze, dall’altra, determinano e
circoscrivono ogni suo movimento, cioè l’istinto della conservazione propria e l’istinto della
conservazione della propria specie. A conseguire questi due fini, a lui basta l’uso di quei
determinati mezzi, che trova intorno a sé; né potrebbe mirar più lontano, perché mosso
unicamente dal senso e dal particolare sensibile. Ben diversa è la natura dell’uomo; posse-
dendo egli nella sua pienezza la vita sensitiva, da questo lato anche a lui è dato, almeno
quanto agli altri animali, di usufruire dei beni della natura materiale. Ma l’animalità in tutta
la sua estensione lungi dal circoscrivere la natura umana, le è di gran lunga inferiore e fatta
Capitolo 12. Approfondimenti 367

per esserle soggetta. Il gran privilegio dell’uomo, ciò che lo costituisce tale e lo distingue
essenzialmente dal bruto, è l’intelligenza ossia la ragione; e appunto perché ragionevole si
deve concedere all’uomo sui beni della terra qualche cosa di più che il semplice uso, comu-
ne anche agli altri animali, e questo non può essere altro che il diritto di proprietà stabile,
né proprietà soltanto di quelle cose, che si consumano usandole, ma eziandio di quelle che
l’uso non consuma...

Impossibile togliere dal mondo le disparità sociali.


Stabiliscasi dunque in primo luogo questo principio, doversi sopportare la condizione pro-
pria dell’umanità: togliere dal mondo le disparità sociali esser cosa impossibile. Lo tentano,
è vero, i socialisti; ma ogni tentativo contro la natura delle cose riesce inutile; imperocché
grande varietà vi ha per natura negli uomini: non tutti posseggono lo stesso ingegno, la
stessa solerzia, non la sanità, non le forze in pari grado, e da queste inevitabili differenze
nasce di necessità la differenza delle condizioni sociali e ciò torna a vantaggio sì dei par-
ticolari, sì del civile consorzio, perché la vita sociale abbisogna di attitudini varie e di uffici
diversi e l’impulso principale che muove gli uomini ad esercitare tali uffici è la disparità di
stato...

Lo Stato intervenga a tutela di tutti, con speciale riguardo ai deboli.


Non è giusto che il cittadino, che la famiglia siano assorbiti dallo Stato; giusto è invece che
si lasci all’uno e all’altra tanta indipendenza di operare, quanta se ne può, salvo il bene
comune e gli altrui diritti. Tuttavia debbono i governanti tutelare la società e le sue parti
[...]. I diritti vanno debitamente protetti in chiunque ne abbia, e il pubblico potere deve as-
sicurare a ciascuno il suo con impedirne o punirne le violazioni. Se non che nel tutelare le
ragioni dei privati, vuolsi avere un riguardo speciale ai deboli e ai poveri. Il ceto dei ricchi,
forte per se stesso, abbisogna meno della pubblica difesa; le misere plebi, che mancano
di sostegno proprio, hanno specialmente necessità di trovarlo nel patrocinio dello Stato,
perciò agli operai, che sono nel numero dei deboli e bisognosi, deve lo Stato a preferenza
rivolgere le cure e la provvidenza sua...

Le associazioni operaie
Certe associazioni diversissime, soprattutto di operai, vanno oggi moltiplicandosi più che
mai. Di molte fra queste non è qui luogo d’indagare l’origine, lo scopo, i procedimenti. È
opinione comune però, confermata da molti indizi, che il più delle volte sono rette da capi
occulti, con organizzazione contraria allo spirito cristiano e al bene pubblico, i quali col
monopolio delle industrie costringono chi rifiuta di accomunarsi seco, a pagar caro il rifiu-
to. In tale stato di cose gli operai cristiani non hanno che due partiti: o iscriversi a società
pericolose alla religione, o formarne di proprie e unire così le loro forze, per sottrarsi fran-
camente da sì ingiusta e intollerabile oppressione. Or come esitare sulla scelta di questo
secondo partito, chi non voglia mettere in pericolo il sommo bene dell’uomo?

è ottima cosa suscitarne di spirito cristiano


Degnissimi d’encomio son molti tra i cattolici, che, conosciute le esigenze dei tempi, fanno
ogni sforzo, a fine di migliorare onestamente la condizione degli operai e, presane in mano
la causa, si studiano di accrescerne il benessere individuale e domestico, di regolare se-
condo equità le relazioni tra lavoratori e padroni, di tener viva e profondamente radicata
368 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

negli uni e negli altri la memoria del dovere e l’osservanza dei precetti evangelici, precet-
ti che, ritraendo l’anima da ogni sorta di eccessi, lo riducono a moderazione e tra la più
grande diversità di persone e di cose mantengono nel civile consorzio l’armonia. A tal fine
vediamo spesso adunarsi dei congressi, dove uomini egregi si comunicano le idee, uniscono
le forze, si consultano intorno agli esperimenti migliori; altre s’ingegnano di stringere ac-
conciamente in società [cioè, in associazione] le varie classi operaie, le aiutano di consigli
e di mezzi, procurano loro onesto e lucroso lavoro. Coraggio e patrocinio aggiungono i
vescovi e sotto la loro dipendenza molti dell’uno e dell’altro clero attendono con zelo al
bene spirituale degli associati. Non mancano finalmente cattolici doviziosi, che fatta quasi
causa comune coi lavoratori, non risparmiano spese, per fondare e largamente diffondere
associazioni, che aiutino l’operaio non solo a provvedere col suo lavoro ai bisogni presenti,
ma ad assicurarsi ancora per l’avvenire onorato e tranquillo riposo. I vantaggi, che tanti e sì
volonterosi sforzi ha recato al pubblico bene, son così noti che non occorre parlarne. Di qui
pigliamo augurio a sperar bene dell’avvenire, purché tali società fioriscano sempre più e
siano saviamente ordinate. Lo Stato difenda queste associazioni legittime dei cittadini; non
si intrometta però nell’intimo della loro organizzazione e disciplina, perché il movimento
vitale nasce da intrinseco principio e gli impulsi esterni lo soffocano.

e con organizzazione libera.


Questa savia organizzazione e disciplina è assolutamente necessaria, purché vi sia unità
d’azione e di indirizzo. Se hanno pertanto i cittadini, come l’hanno di fatto, libero diritto di
legarsi in società, debbono avere altresì egual diritto di scegliere pei loro consorzi quell’or-
dinamento che giudicano più confacente al loro fine. Qual esso debba essere sulle singole
sue parti, non crediamo si possa definire con regole certe e precise, dovendosi piuttosto
determinare dall’indole di ciascuno popolo; dall’esperienza e dall’uso, dalla qualità e dal-
la produttività del lavoro, dallo sviluppo commerciale, nonché da altre circostanze, delle
quali la prudenza deve tener conto; in sostanza si può stabilire come regola generale e
costante, doversi le associazioni degli operai ordinare e governare in modo da sommini-
strare i mezzi più adatti e spediti al conseguimento del fine, il quale consiste in questo,
che ciascuno degli associati ne tragga il maggior aumento possibile di benessere fisico,
economico e morale. È evidente poi che conviene avere in mira, come scopo precipuo,
il perfezionamento religioso e morale e che a questo perfezionamento vuolsi indirizzare
tutta la disciplina sociale, altrimenti tali associazioni tralignerebbero in altra natura e non
si vantaggerebbero molto da quelle in cui della religione non suol tenersi conto alcuno.
Chiesa e Stato attraverso i secoli, documenti raccolti e commentati da S.Z. Ehler e J.B. Morrall,
introduzione di G. Soranzo, Milano, Vita e pensiero, 1958, pp. 369 e ss.; Documenti storici. An-
tologia. Vol. III - L’età contemporanea, a cura di R. Romeo e G. Talamo, Torino, Loescher, 1966,
pp. 141-152.
Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea:
dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra
di Carlo De Maria
Roma (BraDypUS) 2018
ISBN 978-88-98392-70-4
pp. 369-372

Capitolo 13. L’inizio del declino


inglese
Profilo storico

13.1. La Gran Bretagna vittoriana

Il lunghissimo regno della regina Vittoria (1837-1901) è già stato affrontato sotto alcuni
suoi aspetti nei capitoli precedenti. Si ricordi, ad esempio, che tra anni Trenta e Quaranta,
cioè alla vigilia e nelle fasi iniziali dell’epoca vittoriana, la classe dirigente britannica aveva
dovuto confrontarsi con le rivendicazioni politiche, aspre ma legittime, di quei vasti gruppi
sociali che, pur essendo dei protagonisti di primo piano dell’economia industriale e com-
merciale inglese, si trovavano ancora esclusi dalla vita politica del paese. Il riferimento è
sia alla composita classe media degli imprenditori e degli operatori finanziari, dei tecnici
e degli impiegati, sia agli ampi strati popolari urbani formati dalle diverse categorie di
lavoratori manuali (operai, artigiani, portuali). Le riforme politico-elettorali realizzate tra il
1832 e il 1835 e quelle economiche e fiscali degli anni Quaranta riuscirono ad andare, al-
meno in parte, incontro a queste esigenze di rinnovamento, rinforzando nel suo complesso
il sistema istituzionale britannico (cap. 9, par. 4).
Quest’opera di integrazione sociale e politica venne proseguita, nella seconda metà
del secolo, grazie a un ulteriore allargamento del suffragio elettorale e alle scelte politi-
che di stampo liberal-democratico volute da William Gladstone, più volte primo ministro
britannico, che contribuirono a far entrare compiutamente le istanze della classe operaia
nel dibattito parlamentare, evitando di fatto che le forze socialiste e sindacali potessero
assumere posizioni anti-sistema o, comunque, segnate da un radicalismo esacerbato (cap.
12, par. 1.5).
La Gran Bretagna vittoriana consolidò così la sua immagine di monarchia parlamentare
modello, con una corona che sempre più “regnava” ma non “governava”, e un esecutivo
direttamente responsabile davanti al parlamento e all’opinione pubblica. Nel frattempo,
l’impero britannico toccava l’apogeo: tra anni Settanta e Ottanta, i suoi domini giunsero a
coprire oltre un quarto della superficie della Terra e tale potenza venne sancita, nel 1876,
dall’attribuzione alla regina Vittoria del titolo onorifico di “imperatrice dell’India”. In estre-
ma sintesi è possibile affermare che ciò che la monarchia stava perdendo in potere politico
sembrava riacquistare in autorità simbolica e in prestigio.
370 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Del resto, la perdita di peso politico non era in alcun modo imputabile a errori di con-
dotta della Corona, ma era dovuta proprio a quei cambiamenti più complessivi del quadro
politico britannico che si sono appena ricordati: le riforme elettorali e la più ampia parteci-
pazione politica fecero sì che la scelta dei primi ministri non potesse più dipendere, in alcun
modo, da preferenze personali o politiche del sovrano, ma fosse indirizzata dal consenso
elettorale e parlamentare ottenuto dagli schieramenti in campo. Pertanto le possibilità di
intervento nel determinare l’azione di governo da parte di Buckingham Palace si ridussero
progressivamente.
Nello stesso tempo, come si diceva, il culto della monarchia divenne un elemento im-
portante di quel sentimento nazional-imperialistico che, in quei decenni, trovò sempre
maggiore diffusione nell’opinione pubblica britannica. Le occasioni cerimoniali che accom-
pagnavano le uscite pubbliche di Vittoria acquistarono una risonanza senza precedenti e
raggiunsero il culmine sia in occasione del giubileo d’oro del 1887 (50 anni di regno) sia
per quello di diamante del 1897 (60 anni di regno): in entrambi i casi i festeggiamenti per
Vittoria, “madre della nazione”, furono particolarmente fastosi.
Stringendosi intorno all’autorità simbolica della regina, cittadini e governanti cercava-
no una conferma di quella superiorità britannica che, al volgere del secolo, alcune difficol-
tà economiche, incertezze politiche e veri e propri insuccessi militari cominciarono invece
a minare.

13.2. Tra conservatori e liberali: i governi Disraeli e Gladstone

Lo scenario politico britannico tra gli anni Sessanta e Ottanta dell’Ottocento fu caratte-
rizzato da una serrata alternanza al governo dei due raggruppamenti politici principali: i
conservatori, guidati da Benjamin Disraeli, e i liberali, guidati da William Gladstone. Questo
intenso confronto politico portò all’approvazione di due riforme elettorali (nel 1867 e nel
1884-85), in conseguenza delle quali, pur senza approdare ancora al suffragio universale
maschile, si ampliarono considerevolmente le dimensioni del corpo elettorale britannico,
portando gli aventi diritto al voto prima all’8 poi al 16% sul totale della popolazione.
La crescita dell’elettorato condusse, a partire dagli anni Settanta, sia i conservatori che
i liberali a strutturare maggiormente la propria presenza sul territorio, dotandosi di forme
organizzative permanenti che trasformarono le due formazioni parlamentari in veri e pro-
pri partiti politici moderni: il Partito liberale e il Partito conservatore. Questa evoluzione
può essere considerata – insieme alla nascita del Partito socialdemocratico tedesco, fonda-
to nel 1875 e meglio definitosi nelle sue linee programmatiche all’inizio degli anni Novanta
(cap. 12, par. 1.2) – uno dei momenti che segnarono la prima comparsa, in Europa, dei partiti
di massa: cioè, di strutture organizzative stabili, attive dentro e fuori il parlamento, dotate
di organi direttivi, di statuti e programmi e caratterizzate da un vincolo di fedeltà di mili-
tanti e deputati alla linea fissata dai dirigenti.
Il contesto inglese della seconda metà dell’Ottocento era portatore di un’ulteriore novi-
tà. Il riferimento è al carattere dello scontro che si stabilì tra le due opposte figure-simbolo
di Gladstone e Disraeli, due capi politici in grado di riassumere nella loro persona, nelle
loro opinioni e nelle loro scelte l’intero orientamento dei rispettivi schieramenti politici. Se
individualità di spicco non erano certo mancate nella vita politica britannica ed europea
Capitolo 13. L’inizio del declinoinglese 371

dei decenni precedenti, era la prima volta che il confronto politico-parlamentare subiva
una personalizzazione di quel tipo; un confronto non elitario e di stampo notabilare (come
accadeva quando il suffragio era estremamente ristretto) ma fondato su un ampio seguito
popolare. Anche qui evidentemente si era di fronte a prime manifestazioni della politica di
massa che sarebbero state dense di futuro.
Il leader conservatore e quello liberale potevano essere tratteggiati velocemente nei
loro aspetti caratteristici. Disraeli, che fu a capo del governo britannico in due periodi di-
stinti (uno assai breve nel 1868 e l’altro, invece, più lungo e caratterizzante nel 1874-1880),
è ricordato come il campione di un “conservatorismo sociale” lungimirante, favorevole a
un cauto allargamento del suffragio – fu lui a portare al successo, come ministro, la legge
elettorale del 1867 – e all’articolazione di un piano di interventi sociali. Tra le riforme dei
suoi governi in questo campo, vanno ricordate la limitazione della giornata lavorativa a 10
ore (anziché 12, o più, come in precedenza) e il riordinamento del sistema sanitario con un
rafforzamento dell’assistenza verso i poveri. Nello stesso tempo, Disraeli si impegnò per il
consolidamento e l’espansione della presenza britannica nel mondo, incentivando azioni
militari in Africa e Asia. Si attirò, così, le critiche più accese da parte dei liberali, che erano
poco inclini alle avventure coloniali.
Da parte sua Gladstone, che fu primo ministro per quattro volte (1868-1874, 1880-1885,
1886, 1892-1894), poteva mettere sul piatto della bilancia, insieme a grandi doti di eloquen-
za e comunicazione, il programma di un liberalismo popolare e riformista attento a costru-
ire una stabile alleanza con le forze socialiste e sindacali, contrario alle imprese imperiali-
ste e sensibile, invece, alle istanze di libertà e indipendenza delle nazioni europee oppresse
(con riferimento soprattutto alle nazioni balcaniche, ma anche all’Italia prima del 1861).
In tutta la sua esperienza politica, Gladstone dedicò una parte importante dell’azio-
ne di governo a cercare di risolvere la questione irlandese. In particolare, nel 1886, egli
riuscì a varare il suo terzo esecutivo grazie a una alleanza con i nazionalisti irlandesi, che
contavano una novantina di deputati alla Camera dei Comuni. Quello stesso anno Gladsto-
ne presentò all’aula una proposta di legge che accordava piena autonomia all’Irlanda, ri-
conoscendo al paese il diritto di eleggere un proprio parlamento. Oltre a incontrare la
prevedibile opposizione dei conservatori, da sempre difensori a oltranza delle prerogative
imperiali e della supremazia di Londra, la proposta provocò una scissione interna al partito
liberale, una parte del quale si alleò con i conservatori in nome della salvaguardia dell’u-
nità dell’impero. Il progetto di Gladstone venne così respinto dalla Camera dei Comuni e il
suo terzo governo cadde dopo neppure sei mesi di vita.
A buona parte dell’opinione pubblica inglese l’eventuale autonomia dell’Irlanda si pro-
spettava come la prima tappa verso la dissoluzione del glorioso impero britannico. E que-
sto, per giunta, in un momento nel quale la crescente potenza economica e commerciale
di Stati Uniti e Germania sembrava minacciare quella supremazia europea e mondiale che
la Gran Bretagna deteneva dall’inizio del Settecento. Per tali motivi, il partito liberale andò
incontro, sempre nel 1886, a una secca sconfitta elettorale e i conservatori tornarono al
potere sotto la guida di Robert Salisbury (Disraeli era morto cinque anni prima).
Quanto fosse penalizzante sul piano del consenso politico il tentativo (autenticamente ri-
formatore) di risolvere attraverso l’autonomia il problema del nazionalismo irlandese lo dimo-
strò il fatto che, tornati al governo nel 1892, Gladstone e i suoi compagni di partito caddero di
nuovo, due anni più tardi, ancora sulla questione irlandese.
372 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

13.3. Il disastro della “guerra boera”

Nell’ambito della spartizione dell’Africa che l’imperialismo europeo attuò nell’ultimo quar-
to dell’Ottocento (cap. 11, par. 3), l’area di influenza che la Gran Bretagna ritenne in assolu-
to più importante fu quella del Sudafrica, perché collocata in un punto strategico per il con-
trollo delle rotte commerciali verso l’Asia e perché estremamente ricca di risorse naturali.
La presenza britannica in quella zona risaliva ai primi decenni del secolo, quando per
fondare la Colonia del Capo (1814) gli inglesi avevano dovuto vincere la resistenza dei
boeri, gli eredi dei vecchi coloni olandesi insediatisi nell’estremo Sud africano a partire dal
Seicento. Presto la convivenza con gli inglesi divenne per i boeri motivo di frustrazione,
spingendo molti di loro – a partire dagli anni Trenta – a emigrare verso le regioni limitrofe
dell’Orange e del Natal, dove piegarono l’opposizione dei nativi Zulu.
Dopo vent’anni di tensioni diplomatiche e di incertezze nella delimitazione dei rispetti-
vi confini, finalmente a metà Ottocento la situazione sembrò stabilizzarsi con la creazione
di due repubbliche boere, quella del Transvaal e quella del Libero Stato d’Orange. Anche
grazie al sostegno dei tedeschi (stanziati in forze in Africa occidentale), i boeri ritrovarono
gradualmente una certa sicurezza politica e militare. Tuttavia, la forte crescita delle comu-
nità straniere all’interno delle due giovani repubbliche, e in particolare l’immigrazione di
tanti inglesi attirati dallo sviluppo dell’industria mineraria (giacimenti auriferi e diaman-
tiferi), lasciava prevedere che, presto o tardi, la Gran Bretagna avrebbe avanzato nuove
pretese territoriali.
Nel 1890, la nomina di Cecil Rhodes alla guida della Colonia del Capo accelerò gli even-
ti. Rhodes era, infatti, un ricco imprenditore minerario nel quale si intrecciavano ambizioni
industriali e imperialistiche. Egli vagheggiava per la Gran Bretagna un grande impero co-
loniale africano che dal Sudafrica arrivasse alla Valle del Nilo: da Città del Capo al Cairo.
Un disegno espansionistico molto più ardito rispetto a quanto lo stesso governo inglese
ritenesse possibile e prudente realizzare. Era pur sempre necessario, infatti, tener conto
degli interessi africani degli altri paesi europei e, in particolare, di Francia e Germania.
Nel 1899, una rivolta delle comunità inglesi nel Transvaal (ai cui membri non erano
riconosciuti i diritti politici) venne colta al volo da Rhodes per organizzare un attacco mili-
tare contro i boeri; un tentativo militare che si tradusse, però, in una mediocre prova dell’e-
sercito britannico, che venne letteralmente umiliato. Aumentarono, di conseguenza, alcuni
timori già latenti nell’opinione pubblica inglese, all’interno della quale cominciò a diffon-
dersi una vaga ma diffusa sensazione di incertezza e precarietà. Di fronte a tracolli di quel
genere, si temeva che la Gran Bretagna non sarebbe stata a lungo in grado di fronteggiare,
da paese dominante quale ci si attendeva che fosse, in Africa e altrove, la concorrenza por-
tata dagli altri competitori europei ed extra-europei.
In realtà, tra astuzie e tatticismi, e pur non cancellando lo scacco subito nel 1899, la
guerra anglo-boera si concluse due anni dopo (1901) con la vittoria inglese. Nel 1910, tutti
i territori britannici, compresi quelli che avevano costituito le repubbliche boere furono
riuniti nell’Unione Sudafricana. La nuova colonia britannica si estendeva fino alla Rhodesia
(oggi Zambia e Zimbabwe), dove Rhodes – attraverso la South Africa Company, la compa-
gnia commerciale da lui diretta – aveva posto le basi per un intenso sfruttamento minerario
e per la creazione di una amministrazione unitaria.
Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea:
dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra
di Carlo De Maria
Roma (BraDypUS) 2018
ISBN 978-88-98392-70-4
pp. 373-378

Capitolo 13. L’inizio del declino


inglese
Approfondimenti

Profili
La regina Vittoria

Figlia di Edoardo, duca di Kent, quartogenito di Giorgio III di Hannover (che aveva regnato
sulla Gran Bretagna dal 1801 al 1820), Vittoria salì al trono appena diciottenne, nel 1837,
in un periodo di trasformazioni sociali e politiche profonde. La riforma elettorale del 1832
aveva aperto le porte del parlamento ai ceti medi del mondo industriale e commerciale,
ridimensionando il ruolo dirigente della grande aristocrazia terriera, mentre da lì a poco le
rivendicazioni operaie avrebbero preso forma nel movimento cartista e la questione irlan-
dese si sarebbe posta in maniera sempre più urgente all’attenzione dell’agenda di governo.
Se nell’opinione pubblica inglese erano ancora vivi i ricordi delle delle liti coniugali
e dell’impetuosa vita mondana di Giorgio IV (in carica dal 1820 al 1830) e la condotta di-
staccata dell’anziano Guglielmo IV (1830-1837), due sovrani che per motivi opposti non
erano mai riusciti a guadagnare grande popolarità tra i loro sudditi, la giovane Vittoria
seppe costruirsi, invece, una immagine pubblica forte ed equilibrata. Il decoro della sua
vita privata – la regina sposò nel 1840 il principe Alberto di Sassonia-Coburgo e la coppia,
sinceramente affiatata, ebbe nove figli – fece della corte vittoriana un modello di rispetta-
bilità capace di esercitare un grande influsso sulle idee morali dell’Inghilterra della secon-
da metà dell’Ottocento.
In politica interna, le simpatie di Vittoria andarono soprattutto ai conservatori, e il suo
ministro prediletto fu Disraeli, artefice dell’ultima grande fase dell’imperialismo inglese,
ma la regina rispettò sempre le dinamiche elettorali e parlamentari senza ostacolare i go-
verni liberali di Gladstone.
Negli anni Settanta e Ottanta, gli ultimi fasti imperiali si intrecciarono con l’ulteriore
allargamento del suffragio elettorale e con gli interventi pubblici nei confronti degli strati
operai e popolari a delineare l’immagine di quell’“imperialismo sociale” che era perfetta-
mente incarnato dalla figura a un tempo autorevole e materna di Vittoria.
La grandiosità dei festeggiamenti pubblici che caratterizzarono gli ultimi anni del suo
regno contribuirono a innalzare, agli occhi del popolo inglese, la personalità di Vittoria
374 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

all’altezza della grande Elisabetta. La stessa Vittoria, parlando della sfilata in carrozza in
occasione del giubileo del 1897 (per i 60 anni di regno), ebbe a dire: “A nessuno, ritengo,
è mai stata tributata un’ovazione come quella che mi ha accompagnato per sei miglia di
strada... La folla era veramente indescrivibile, e il suo entusiasmo era magnifico, profonda-
mente commovente”.

Costituzione e cittadinanza
Bipartitismo e alternanza nel sistema politico inglese

La Gran Bretagna è considerata la patria del bipartitismo o bipolarismo, cioè il sistema po-
litico che, in una democrazia parlamentare, si basa sull’alternarsi al governo di due partiti,
o coalizioni, principali. In buona sostanza, il bipartitismo (ma lo stesso discorso di potrebbe
fare per il bipolarismo) è il risultato della distribuzione delle forze politiche e sociali su due
grandi schieramenti, che si differenziano secondo le ripartizioni classiche di sinistra-destra
e progresso-conservazione.
In Gran Bretagna, tra Ottocento e Novecento, si sono succeduti due bipartitismi diversi:
quello tra liberali e conservatori, che caratterizzò il sistema politico britannico fino al 1914,
e successivamente quello tra conservatori e laburisti, che ha orientato la storia inglese per
gran parte del XX secolo, fino a oggi. Come avvenne questa trasformazione negli attori
fondamentali del bipartitismo?
Una componente laburista esisteva da tempo (almeno fin dagli anni Settanta dell’Ot-
tocento) nell’orbita del Partito liberale; questa pattuglia di esponenti liberal-laburisti in-
dipendenti, cresciuta progressivamente di numero, si costituì ufficialmente in Partito la-
burista nel 1906 (cap. 12, par. 1.5). Proprio sui rapporti da tenere con i sindacati e le forze
socialiste, ma anche su problemi di politica estera come la questione irlandese, il Partito
liberale stava vivendo in quel periodo – i decenni a cavallo del 1900 – una profonda crisi
politica, che portò una parte consistente dei suoi aderenti ad avvicinarsi sempre più al Par-
tito conservatore. Tanto che è possibile affermare che il Partito conservatore britannico del
XX secolo sia stato, in realtà, un partito liberale-conservatore nato dalla fusione di com-
ponenti essenziali dei due grandi partiti del XIX secolo. Nonostante la denominazione di
“conservatore”, la sua impostazione politico-ideale era piuttosto improntata al liberalismo,
sia politico che economico.
In linea di principio, nonostante gli slittamenti e le trasformazioni che si sono manife-
stati anche nel sistema politico britannico, il bipartitismo di tipo inglese poggia su partiti
rigidi, nei quali, cioè, vige una chiara disciplina di voto. In tutti i passaggi più importanti
della vita parlamentare (investitura del governo, fiducia allo stesso, ecc.), tutti i deputati del
partito sono richiamati a un voto compatto, che segua rigorosamente le direttive stabilite
dagli organismi dirigenti. Una relativa libertà di voto del singolo deputato è tollerata, tal-
volta, nella misura in cui non comprometta l’azione del governo. In altre parole, si ammette
che qualche membro del partito si astenga, o si pronunci diversamente dal suo partito, solo
se l’astensione non modifica il risultato del voto.
In tal modo il leader del partito di maggioranza, che è al tempo stesso primo ministro,
è sicuro di restare al potere per tutta la durata della legislatura e di fare adottare dal par-
lamento tutti i progetti che fanno parte del programma politico presentato agli elettori o
Capitolo 13. Approfondimenti 375

che, comunque, egli ritenga importante applicare nel corso del suo mandato. Il governo e
la maggioranza parlamentare formano, in sostanza, un blocco omogeneo e solido, di fronte
al quale l’opposizione può solo esprimere le sue critiche, ma molto difficilmente sperare di
approfittare in cedimenti o scissioni interne alla maggioranza. Non è esagerato affermare
che durante i quattro o cinque anni della legislatura – pur all’interno delle regole del siste-
ma parlamentare – la maggioranza al potere sia quasi onnipotente.
Oltre a essere stabili e forti, i governi di tal genere sono in pratica designati dai cittadini.
Poiché ogni partito costituisce un’organizzazione disciplinata con un leader riconosciuto,
che diventa primo ministro in caso di vittoria elettorale, le elezioni legislative designano in
realtà non soltanto i deputati, ma anche il capo del governo. Questo sistema presuppone,
ovviamente, che i due partiti siano d’accordo sulle regole fondamentali della democrazia.
Se si trovassero di fronte in Gran Bretagna, non un Partito conservatore e uno laburista, ma
– sia concesso questo esempio estremo – un partito rivoluzionario e un partito di stampo
fascista, il bipartitismo non durerebbe a lungo: il vincitore si affretterebbe, infatti, a soppri-
mere il proprio avversario e a governare da solo.
Al contrario, nel suo normale funzionamento, il meccanismo del bipartitismo britannico
tende a “moderare” entrambi i partiti. Per vincere, i laburisti hanno bisogno di conquista-
re non i voti dei laburisti convinti, voti che avranno sempre e comunque, ma quelli degli
elettori esitanti (i cosiddetti “indecisi”, solitamente “moderati” e “centristi”), che decidono
della vittoria a seconda che si riversino sull’una o sull’altra parte. Su questo stesso settore
dell’elettorato, e per le stesse ragioni, anche i conservatori concentreranno i loro sforzi di
persuasione. La conseguenza è che in entrambi i partiti prevarranno, di solito, le forze mo-
derate e centriste: per questa ragione, si dice comunemente che un buon leader laburista è
“il più a destra degli uomini di sinistra”; e che un buon leader conservatore è “il più a sinistra
degli uomini di destra”.
Un tal sistema, spingendo ognuno dei due partiti in direzione moderata, è dunque in
grado di garantire contro l’avvento di forze estremiste. Bisogna essere consapevoli, però,
che queste dinamiche politiche non presentano unicamente dei vantaggi. Esse, infatti, ten-
dono inevitabilmente a frenare e sclerotizzare la dialettica interna ai partiti e possono fini-
re per ridurre all’impotenza i suoi elementi innovatori, obbligati perpetuamente a piegarsi
davanti agli elementi più moderati per non impaurire l’elettorato.

Fonti e documenti
La questione irlandese (dalle origini alla dichiarazione di
indipendenza del 1916)

Introduzione
L’Irlanda venne ufficialmente congiunta alla Gran Bretagna nel 1801 con la formazione
del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda, ma la sua soggezione alla corona inglese era
iniziata ben prima, fin dalla fine del XV secolo.
Nel corso dell’Ottocento si precisarono e approfondirono alcuni motivi di contrasto tra
inglesi e irlandesi, sia dal punto di vista economico – buona parte delle proprietà terriere,
376 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

in particolare nel Nord dell’Irlanda (Ulster), finirono per concentrarsi nelle mani di grandi
proprietari britannici – sia dal punto di vista culturale e religioso. Gli inglesi, infatti, erano in
maggioranza protestanti, mentre gli irlandesi profondamente cattolici (e l’anglicanesimo
era considerata religione di Stato in tutto il Regno Unito). Non era da trascurare neppure
l’aspetto linguistico, l’inglese venne imposto come lingua ufficiale anche nelle campagne
irlandesi, dove invece tradizionalmente si parlava il gaelico.
La riscossa irlandese, per così dire, iniziò proprio dal punto di vista culturale e linguisti-
co. Sin dalla prima metà dell’Ottocento, infatti, si formarono in Irlanda associazioni politi-
co-culturali che, mentre rilanciavano l’uso del gaelico e le tradizioni letterarie e folkloriche
autoctone (musica, poesia, storia locale), cominciarono ad avanzare richieste politiche di
autonomia e perfino di indipendenza da Londra.
I nazionalisti irlandesi si organizzarono compiutamente nella seconda metà del secolo
e, nel 1880, riuscirono a eleggere sessanta deputati alla Camera dei Comuni. Il loro leader
era Charles Parnell, il quale guadagnò rapidamente un credito politico che gli permise di
avviare un dialogo proficuo con il governo liberale di Gladstone. Del resto, i liberali, da
sempre più sensibili dei conservatori in merito alle istanze di libertà e indipendenza delle
nazioni oppresse, si erano già confrontati tra anni Venti e Trenta con Daniel O’Connel, il
primo vero leader del movimento indipendentista irlandese; un confronto che aveva por-
tato ad alcuni risultati significativi in termini di parità dei diritti civili e politici tra cattolici
e protestanti.
Nel 1886, Gladstone per varare il suo terzo governo si trovò davanti alla necessità di
guadagnare il completo appoggio dei deputati irlandesi (ulteriormente saliti di numero).
Annunciò, dunque, a sorpresa di voler concedere all’Irlanda una larga autonomia politica
e amministrativa, pur considerando il paese ancora all’interno della cornice istituzionale
del Regno Unito. Ma a questo ambizioso disegno mancarono i necessari voti parlamentari,
a causa della dura opposizione dei conservatori e di una scissione interna allo stesso schie-
ramento liberale.
Fallita la via delle riforme istituzionali la situazione in Irlanda si fece sempre più incan-
descente. In particolare, si andò approfondendo il solco economico e politico che divideva
l’Irlanda del Nord dal resto del paese. L’Ulster, che era ormai a maggioranza inglese e pro-
testante, divenne sempre più marcatamente una piattaforma agricola e industriale della
Gran Bretagna; al contrario gli interessi economici inglesi non riuscirono mai a penetrare
nel chiuso mondo rurale dell’Irlanda centro-meridionale, a maggioranza cattolica: “mondo
industriale” e “mondo rurale” divennero sinonimi rispettivamente di “mondo protestante” e
“mondo cattolico”.
In un paese diviso e in una situazione politica bloccata dai contrasti interni alle forze
politiche inglesi, i nazionalisti irlandesi cercarono di imprimere una sterzata improvvisa
prendendo le armi. Si giunse, così, alla rivolta antibritannica del 24 aprile 1916, la cosiddet-
ta “rivolta di Pasqua”, organizzata a Dublino da un insieme di forze indipendentiste e re-
pubblicane tra le quali il Sinn Féin. In quella occasione, benché in maniera effimera, venne
proclamata per la prima volta la Repubblica d’Irlanda. Tra i firmatari della dichiarazione
di indipendenza, i due principali leader della rivolta, Pádraig Pearse e James Connolly. Il
sogno dell’indipendenza non durò più di ventiquattro ore. La notte del 25 aprile le forze
militari britanniche intervennero reprimendo nel sangue il colpo di mano irlandese. Si con-
tarono, tra i rivoltosi, 256 morti, circa 2.000 feriti e 2.500 prigionieri disseminati nelle carceri
inglesi, diverse decine dei quali finirono fucilati nei mesi successivi.
Ma anche l’illusione inglese di una pacificazione fondata sulle armi mostrò ben presto
i suoi limiti. Per sedare la minaccia di una guerra intestina, nel 1921 Londra acconsentì
Capitolo 13. Approfondimenti 377

alla costituzione dello Stato libero d’Irlanda, come dominion semi-autonomo della corona
britannica. La nuova compagine statale, però, non comprendeva l’intera isola: buona parte
dell’Ulster, infatti, venne staccata politicamente dal resto del paese, entrando a far parte
integrante del Regno Unito (da allora denominato Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda
del Nord); una circostanza che continuò a generare tensioni e conflitti, per buona parte del
XX secolo, tra i nazionalisti irlandesi e il governo inglese.
Nel 1937, la Repubblica d’Irlanda divenne a tutti gli effetti uno Stato sovrano e indipen-
dente.

Dichiarazione di indipendenza irlandese


(proclama del 24 aprile 1916)
The provisional government of the Irish Republic
to the People of Ireland

Irishmen and Irishwomen:


In the name of God and of the dead generations from which she receives her old tradition
of nationhood, Ireland, through us, summons her children to her flag and strikes for her
freedom.
Having organised and trained her manhood through her secret revolutionary organisation,
the Irish Republican Brotherhood, and through her open military organisations, the Irish
Volunteers and the Irish Citizen Army, having patiently perfected her discipline, having re-
solutely waited for the right moment to reveal itself, she now seizes that moment, and,
supported by her exiled children in America and by gallant allies in Europe, but relying in
the first on her own strength, she strikes in full confidence of victory.
We declare the right of the people of Ireland to the ownership of Ireland, and to the unfet-
tered control of Irish destinies, to be sovereign and indefeasible. The long usurpation of that
right by a foreign people and government has not extinguished the right, nor can it ever be
extinguished except by the destruction of the Irish people. In every generation the Irish pe-
ople have asserted their right to national freedom and sovereignty; six times during the last
three hundred years they have asserted it to arms. Standing on that fundamental right and
again asserting it in arms in the face of the world, we hereby proclaim the Irish Republic
as a Sovereign Independent State, and we pledge our lives and the lives of our comrades-
in-arms to the cause of its freedom, of its welfare, and of its exaltation among the nations.
The Irish Republic is entitled to, and hereby claims, the allegiance of every Irishman and
Irishwoman. The Republic guarantees religious and civil liberty, equal rights and equal op-
portunities to all its citizens, and declares its resolve to pursue the happiness and prosperity
of the whole nation and all of its parts, cherishing all of the children of the nation equally
and oblivious of the differences carefully fostered by an alien government, which have di-
vided a minority from the majority in the past.
Until our arms have brought the opportune moment for the establishment of a permanent
National, representative of the whole people of Ireland and elected by the suffrages of all
her men and women, the Provisional Government, hereby constituted, will administer the
civil and military affairs of the Republic in trust for the people.
We place the cause of the Irish Republic under the protection of the Most High God. Whose
blessing we invoke upon our arms, and we pray that no one who serves that cause will di-
378 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

shonour it by cowardice, in humanity, or rapine. In this supreme hour the Irish nation must,
by its valour and discipline and by the readiness of its children to sacrifice themselves for
the common good, prove itself worthy of the august destiny to which it is called.
L. Salvadori, C. Villi, La questione irlandese dal passato al presente, Padova, Il Poligrafo, 1997,
pp. 279-280.
Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea:
dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra
di Carlo De Maria
Roma (BraDypUS) 2018
ISBN 978-88-98392-70-4
pp. 379-394

Capitolo 14. Nel cuore dell’Europa.


L’emergere di profondi squilibri
Profilo storico

14.1. La Germania guglielmina

14.1.1. La struttura istituzionale del Reich.


L’unificazione della Germania si era compiuta nel 1871 sotto la direzione politica e diplo-
matica del primo ministro prussiano Otto von Bismarck (cap. 9, par. 8), che rimase poi in
carica come cancelliere imperiale fino al 1890. La lunga stagione di governo di Bismarck
coincise, pertanto, quasi esattamente con il regno di Guglielmo I, detto “Guglielmo il Gran-
de”, re di Prussia dal 1861, poi imperatore di Germania fino alla morte, nel 1888.
Il sistema istituzionale del nuovo Impero (Reich) tedesco ebbe come base giuridica la
costituzione varata nel maggio 1871. Secondo il disegno costituzionale, la Germania gu-
glielmina si presentava come un impero costituito dalla federazione di 25 Stati; questi ul-
timi mantenevano un certo grado di autonomia, ma erano sottoposti tuttavia alle norme e
alle decisioni fondamentali prese a livello centrale. La strutturale federale dell’Impero te-
desco riconosceva, inoltre, la supremazia della Prussia, la quale occupava, del resto, quasi
i due terzi del territorio imperiale e disponeva di un apparato produttivo, amministrativo e
militare incomparabilmente superiore a quello degli altri Stati tedeschi.
La costituzione prevedeva che il sovrano della Prussia fosse automaticamente l’impe-
ratore dell’intero Reich. All’imperatore erano affidati il comando delle forze armate e il
potere esecutivo; prerogative che egli esercitava attraverso la figura del cancelliere, l’alto
funzionario che l’imperatore nominava a capo del governo prussiano e, nello stesso tempo,
a capo della cancelleria imperiale.
La costituzione attribuiva, in sostanza, al cancelliere una funzione di collegamento tra
l’imperatore e la macchina amministrativa civile e militare del Reich, e tra il Regno di Prus-
sia e il resto dell’Impero. A questo scopo erano poste nelle mani dello stesso cancelliere sia
la presidenza del Consiglio federale (Bundesrat), organismo non elettivo che raccoglieva
i delegati dei vari governi degli Stati federati, sia una ampia possibilità di controllo sul
Parlamento imperiale (Reichstag), formato da rappresentanti eletti a suffragio universale
maschile da tutta la nazione tedesca.
380 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Il Reichstag, infatti, poteva proporre e approvare leggi – che, comunque, per entrare in
vigore dovevano essere approvate anche dal Consiglio federale e controfirmate dal can-
celliere – ma non poteva in nessun caso votare la sfiducia al cancelliere, che rispondeva del
proprio operato solo davanti all’imperatore.
Nel contesto di un sistema istituzionale dominato dalle élite conservatrici prussiane,
come quello appena descritto, poteva sorprendere il riconoscimento, tutto sommato preco-
ce rispetto ad altri paesi europei, del suffragio universale maschile. In realtà, la democratiz-
zazione del diritto di voto era stata fortemente voluta dallo stesso Bismarck, che la conside-
rava uno strumento funzionale a produrre stabili maggioranze conservatrici. Era propria del
cancelliere, infatti, la convinzione che gli elettori delle vaste aree rurali del paese avrebbero
votato compattamente per i loro “capi naturali”, cioè le élite nobiliari e terriere.

14.1.2. La vita politica tedesca e le scelte di Bismarck.


Nei suoi lunghi anni di governo Bismarck si pose due obiettivi principali di politica interna,
collegati tra loro. Da una parte, egli lavorò per cementare l’egemonia prussiana all’interno
del Reich e si mosse, quindi, per limitare il più possibile lo spazio di azione politica del par-
lamento (che era espressione di tutta la Germania) esaltando invece il ruolo dell’esecutivo
(di matrice prussiana). Dall’altra, si impegnò a contrastare con ogni mezzo l’influenza, sia
fuori che dentro il parlamento, di quelle che furono – in tempi diversi – le principali forze di
opposizione: cattolici e socialisti.
Se il primo obiettivo fu nella sostanza raggiunto, sebbene il controllo prussiano del Rei-
chstag non poté mai dirsi ottenuto una volta per tutte, per quanto concerne il secondo
obiettivo Bismarck non solo accumulò una lunga serie di insuccessi, ma finì paradossal-
mente per consolidare le forze che intendeva sconfiggere.
Le prime difficoltà Bismarck le incontrò nella lotta contro i cattolici, che iniziò subito
dopo la vittoria nella guerra franco-prussiana del 1870. Gli obiettivi erano chiari, benché
non facilmente raggiungibili. Il governo di Berlino intendeva, da una parte, germanizzare le
aree geografiche a prevalenza cattolica comprese nella nuova compagine imperiale – con
riferimento sia ai territori polacchi già annessi alla Prussia alla fine del Settecento sia alle
regioni appena strappate alla Francia (Alsazia e Lorena) – e dall’altra combattere le residue
influenze politico-culturali dell’Austria cattolica sul Reich guidato dalla Prussia luterana.
La minoranza cattolica, proprio per le caratteristiche di un insediamento territoriale
che la vedeva concentrata in aree ben delimitate dell’Impero tedesco (la Baviera, le regioni
occidentali renane e i territori un tempo appartenenti alla Polonia), era percepita come
una temibile sostenitrice delle autonomie e dei particolarismi locali, e dunque nemica na-
turale del centralismo prussiano.
Per tutte queste ragioni, tra il 1872 e il 1875, venne varata una legislazione ispirata a
un laicismo oltranzista, che prevedeva uno stretto controllo sull’attività del clero cattolico,
l’espulsione e lo scioglimento di alcuni ordini religiosi, la limitazione della giurisdizione ec-
clesiastica e l’obbligo del matrimonio civile. Bismarck presentò questi provvedimenti come
capitoli di una vera e propria battaglia culturale e di civiltà (Kulturkampf). L’avversario non
era però dei più facili.
Già alla fine del 1870 era nato in Germania un partito cattolico denominato Zentrum
(Centro), che alle elezioni del 1871 aveva ottenuto un sorprendente successo conquistan-
do 63 seggi al Reichstag (circa il 16% del totale dei deputati). Un risultato che era stato
conseguito quasi esclusivamente nelle poche aree di insediamento già ricordate, dove per-
tanto il partito cattolico stava assumendo una posizione dominante. Questi dati elettorali
Capitolo 14. Nel cuore dell’Europa. L’emergere di profondi squilibri 381

si mantennero e, anzi, crebbero ulteriormente anche nel periodo più duro della battaglia
bismarckiana, durante la quale l’opinione pubblica cattolica reagì a ciò che considerava alla
stregua di una ingiustificata aggressione stringendosi a sostegno del proprio partito. Tanto
che nelle elezioni per il Reichstag del 1878 lo Zentrum ottenne un altro ottimo risultato.
L’evidente sconfitta delle politiche anticattoliche e la nascita, nel 1875, del Partito so-
cialista dei lavoratori di Germania (poi Partito socialdemocratico tedesco) suggerirono a
Bismarck un mutamento di indirizzo: dal momento che non era possibile ridurli ai margini,
i cattolici potevano almeno rivelarsi degli utili alleati nella lotta antisocialista.
Questa nuova elaborazione tattica produsse conseguenze rilevanti sugli equilibri po-
litici e di governo. Il Partito nazional-liberale e una parte dei conservatori, che fino a quel
momento avevano sostenuto il governo Bismarck, ritirarono il loro appoggio alle politi-
che del cancelliere, in quanto contrari alla prospettiva, che si veniva ormai delineando,
di un accordo con i cattolici. Per trovare un’altra solida maggioranza, Bismarck fu dunque
costretto ad appoggiarsi alle forze più apertamente conservatrici e antiprogressiste, soli-
tamente legate alle realtà agrarie meno dinamiche. Ciò comportò uno spostamento della
sua azione di governo verso politiche economiche protezioniste; un cambiamento che finì
per scontentare il mondo industriale e finanziario, che stava vivendo invece una fase di
forte espansione internazionale. Tali difficoltà contribuirono a rendere il cammino del can-
celliere sempre più accidentato.
Come se non bastasse, anche la campagna antisocialista di Bismarck si risolse, almeno
in parte, in un fallimento. Ma quale ne era stato il motivo scatenante?
Nelle elezioni politiche del 1878 il giovane partito socialista tedesco era riuscito a man-
dare una dozzina di deputati al Reichstag. Si trattava sicuramente di un buon risultato,
che tuttavia non avrebbe rappresentato nulla di clamoroso o di strano all’interno di un
normale sistema parlamentare. Il problema era, però, che Bismarck semplicemente non
tollerava la presenza, negli organi istituzionali dello Stato, di una pur piccola forza poli-
tica i cui intendimenti erano in aperto conflitto con l’ordine costituito. Cercò, dunque, di
estirparla muovendosi su due fronti, uno puramente negativo e repressivo, che si rivelò del
tutto controproducente, l’altro propositivo e, per certi versi, innovativo, che diede risultati
concreti e duraturi.
Il primo versante lungo il quale si mosse il cancelliere consistette in una serie di prov-
vedimenti legislativi emanati a partire dal 1878 (e rimasti in vigore per tutto il decennio
successivo) che stabilirono una serie di limitazioni alla libertà di stampa e di riunione, co-
stringendo sostanzialmente i socialisti a una condizione di semi-clandestinità. Le cosiddet-
te “leggi antisocialiste” prevedevano la proibizione delle assemblee, delle manifestazioni e
delle pubblicazioni a stampa che avessero lo scopo di incitare al rovesciamento dell’ordine
statale e sociale del Reich tedesco. Il riferimento era chiaramente agli obiettivi di trasfor-
mazione sociale che erano propri del movimento socialista, in Germania e altrove.
Le enormi difficoltà che si trovò ad affrontare il Partito socialista imposero, al suo inter-
no, per garantire la pura sopravvivenza, l’adozione di accorgimenti e strategie che avreb-
bero avuto l’effetto di favorirne, negli anni successivi, una crescita strepitosa. La condizione
di semi-clandestinità indusse una fiducia assoluta nell’organizzazione capillare del partito
e una grande cura nella costruzione e nel rafforzamento di una rete di sostenitori e simpa-
tizzanti in grado di far circolare la stampa di partito. Inoltre, l’immunità di cui continuarono
a godere, anche nel pieno della repressione, i deputati socialisti – secondo garanzie previ-
ste dall’ordinamento costituzionale – tagliò le ali a qualunque tentazione ribellistica che
potesse portare verso colpi di mano o azioni illegali: la battaglia politica andava condotta
all’interno della cornice istituzionale, anche se essa era momentaneamente sfavorevole.
382 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

E quanto i socialisti si fossero rafforzati e avessero allargato i propri consensi, nono-


stante le leggi contro di loro, fu a tutti evidente nelle elezioni del 1890, che assegnarono al
Partito socialdemocratico 35 deputati, circa tre volte tanto rispetto a quelli su cui potevano
contare nel 1878, quando era iniziata l’azione repressiva del governo.
In confronto a questo evidente scacco, il secondo versante dell’azione antisocialista
di Bismarck ebbe, invece, ben altra portata storica. Se non servì neppure esso a fermare
la crescita del partito dei lavoratori, ebbe comunque l’effetto di aprire, per la prima volta,
all’intervento dello Stato nel settore della previdenza sociale, cercando in qualche modo
di dare risposte alle domande poste dal movimento socialista: quelle relative, ad esempio,
al miglioramento della condizione dei ceti subalterni.
Il piano di leggi sociali voluto da Bismarck venne approvato tra il 1883 e il 1889 e, nei
decenni successivi, costituì un importante modello di riferimento a livello europeo. Esso
prevedeva un sistema di assicurazione obbligatoria per le malattie e gli infortuni sul lavoro
e un sistema di pensioni di anzianità per i lavoratori. Le coperture finanziarie erano garan-
tite in parte attraverso il versamento di contributi obbligatori di lavoratori e datori di lavoro
e in parte da risorse erogate direttamente dallo Stato.
La Germania di Bismarck inaugurava così in Europa l’istituzione dell’assicurazione so-
ciale obbligatoria. Essa rispondeva a preoccupazioni non solo di prevenzione del disagio
ma anche di vero e proprio controllo sociale da parte del potere pubblico (e dunque non
era strano che si abbinasse a misure repressive). Indubbiamente, comunque, favorì la na-
scita di un sistema di integrazione sociale che verrà sviluppato nel corso del Novecento in
forme più compiute di Stato sociale.

14.2. Dalla politica estera bismarckiana alla rottura dell’equilibrio


europeo

Se i tentativi di Bismarck di ridurre ai minimi termini le opposizioni interne non riuscirono,


decisamente più fortunata fu, tra anni Settanta e Ottanta, la sua politica estera. Essa si
concentrò in primo luogo sullo scacchiere europeo ed ebbe come imperativo quello di
isolare la Francia. Il cancelliere intendeva, infatti, scongiurare la possibilità di una riscossa
francese, ben sapendo quanto bruciassero a Parigi il ricordo della sconfitta del 1870 e la
perdita dell’Alsazia-Lorena.
Rientrava in questa strategia la costituzione della Lega dei tre imperatori, promossa dal
cancelliere tedesco nel 1873. Si trattava di un patto diplomatico che riuniva, intorno all’im-
pegno di mantenere lo status quo in Europa, gli imperatori di Austria, Russia e Germania. La
creatura di Bismarck durò solo alcuni anni, ma ebbe in quel frangente una importanza di
rilievo nel mantenimento della pace in Europa.

14.2.1. La questione balcanica: Bismarck arbitro tra le potenze.


Nel corso degli anni Settanta i problemi maggiori per la stabilità continentale vennero
dall’Europa orientale e dai Balcani, a causa delle numerose ribellioni anti-ottomane che
scoppiarono, una dopo l’altra, in Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Bulgaria (1875-76). Era-
no avvenimenti che l’opinione pubblica europea seguiva con molta attenzione e crescente
inquietudine, per via delle dure repressioni che l’Impero ottomano faceva regolarmente
Capitolo 14. Nel cuore dell’Europa. L’emergere di profondi squilibri 383

seguire ai tentativi di indipendenza, accanendosi in maniera sanguinaria contro popolazio-


ni prevalentemente cristiane.
Quanto stava accadendo assumeva, poi, un significato particolarmente delicato agli
occhi di Bismarck e della Germania, perché aveva l’effetto di aumentare pericolosamente
le divergenze tra Russia e Austria, interessate a contendersi – di fronte alla progressiva im-
plosione dell’Impero ottomano – l’egemonia sui Balcani. E ogni contrasto tra Vienna e San
Pietroburgo, come ben sapeva il cancelliere tedesco, poteva mettere in pericolo la coesio-
ne della Lega dei tre imperatori e consentire alla Francia di rompere il proprio isolamento
diplomatico.
Per questo i rappresentanti della Lega affrontarono la questione balcanica in un vertice
che si tenne a Berlino per iniziativa dello stesso Bismarck. Il leader tedesco seppe guada-
gnarsi così il ruolo di arbitro tra le potenze europee e di principale garante dell’equilibrio
politico-diplomatico nel Vecchio continente. L’incontro si tenne nel giugno-luglio 1878 ed
ebbe per protagonisti, oltre ai “tre imperatori” di Germania, Austria e Russia, il primo mini-
stro britannico Disraeli e i delegati di Francia, Italia e Turchia.
Nei mesi immediatamente precedenti la situazione balcanica aveva conosciuto rapidi
e importanti sviluppi. In seguito al trattato di Santo Stefano del marzo 1878, che aveva
posto fine alla breve guerra russo-turca del 1877-78, la Russia aveva guadagnato, benché
indirettamente, un netto predominio nei Balcani, proprio a scapito del governo di Istanbul.
Se le acquisizioni territoriali della Russia non erano state di grande rilievo (limitandosi ad
alcune zone a oriente del Mar Nero), molti gruppi nazionali precedentemente sottoposti
al dominio turco avevano guadagnato l’indipendenza proprio grazie alla vittoria russa, e
stavano quindi entrando stabilmente nella sfera di influenza di San Pietroburgo. Segnata-
mente, il trattato di Santo Stefano riconosceva l’indipendenza al Montenegro, alla Serbia
e alla Romania; creava, inoltre, una “grande Bulgaria” (accresciuta dall’annessione della
Macedonia) come principato autonomo, formalmente ancora tributario del sultano turco,
ma in realtà legato alla tutela dello zar.
L’ascesa diplomatica russa nei Balcani indispettì sia l’Inghilterra che l’Austria che, attra-
verso la mediazione di Bismarck, richiesero la convocazione di un congresso che correg-
gesse almeno in parte gli accordi del trattato di Santo Stefano. E così accadde. A Berlino
si decise per un ridimensionamento della Bulgaria (con il ritorno della Macedonia sotto il
diretto dominio turco), mentre si confermava l’indipendenza di Serbia, Montenegro e Ro-
mania. Inoltre, per stemperare il malcontento di austriaci e inglesi, la Bosnia-Erzegovina,
pur nominalmente soggetta alla sovranità turca, fu sottoposta al controllo di Vienna, e in
modo analogo un altro dominio turco, l’isola di Cipro, passò sotto la tutela di Londra.
Grazie alla sapiente mediazione di Bismarck si era ristabilita una calma apparente, sem-
pre a scapito dell’Impero ottomano, ma il fuoco continuava a covare sotto la cenere, nei
Balcani e altrove, prefigurando nuove insidie alla pace europea.

14.2.2. Il “nuovo corso” di Guglielmo II e l’uscita di scena di Bismarck.


Forse ancora di maggior rilievo fu il secondo vertice internazionale che si tenne a Berlino
alcuni anni più tardi, e precisamente tra la fine del 1884 e l’inizio del 1885. Il riferimento è
alla cosiddetta Conferenza sull’Africa occidentale, in occasione della quale Bismarck di fat-
to ratificò la partecipazione del suo paese alle occupazioni coloniali e fissò insieme ai rap-
presentanti di una dozzina di paesi europei, più gli Stati Uniti, i criteri politico-diplomatici
che dovevano regolare la spartizione del continente africano (cap. 11, par. 3).
384 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Per Bismarck, da sempre poco interessato a imbarcarsi in avventure oltremare, si trattò


di una (tardiva) concessione alle pulsioni imperialistiche di buona parte della classe diri-
gente tedesca; ambizioni espansionistiche che sarebbero state presto condivise e incenti-
vate dal nuovo sovrano, Guglielmo II, salito al trono nel 1888.
Fautore di un “nuovo corso” politico (Neuer Kurs), Guglielmo II approfittò del successo
socialista alle elezioni del 1890, e dell’evidente fallimento di alcuni aspetti della politica
interna bismarckiana, per costringere alle dimissioni il vecchio cancelliere, ormai giudicato
una presenza troppo ingombrante e, soprattutto, poco in linea – per il suo culto dell’equili-
brio di potenza nelle relazioni internazionali – con la nuova stagione che si intendeva aprire.
I successivi cancellieri del Reich provennero esclusivamente dall’entourage di Gugliel-
mo II e furono, dunque, pronti ad assecondare un indirizzo di politica estera più apertamen-
te bellicista.
Come detto, la missione imperiale tedesca non rappresentava solo il sogno di un sovrano
ambizioso e spregiudicato, ma esprimeva gli interessi della nuova borghesia industriale e fi-
nanziaria tedesca, meno interessata di quanto non fossero state le vecchie élite agrarie agli
equilibri europei e più propensa, invece, a muovere una sfida su vasca scala nei confronti dei
principali concorrenti economici europei (Francia e, soprattutto, Gran Bretagna). Nel mito di
una “grande Germania, inoltre, si riconosceva una parte crescente delle nuove classi medie,
che si rivelarono sempre più attratte dal nazionalismo aggressivo del proprio imperatore.
Questi orientamenti dell’opinione pubblica si riflettevano nel dibattito politico interno,
dove cominciò ad affermarsi un richiamo all’unità di intenti, una sorta di solidarietà nazio-
nale in nome dell’affermazione dell’impero, che contribuì a mitigare le precedenti tensioni
politico-istituzionali: quelle tra il Reichstag e la corona e tra le forze di maggioranza e il
Partito socialdemocratico. La politica di espansione, che blandiva il sentimento nazionale
di un intero popolo esaltato dalla crescita economica e sociale del proprio paese, finì per
cementare le relazioni tra i partiti e mitigare l’opposizione socialista molto più efficace-
mente delle leggi repressive sperimentate per quasi quindici anni da Bismarck.
Già forte nei suoi reparti militari di terra, la Germania mirò a dotarsi – nei decenni a caval-
lo del 1900 – di una flotta capace di rivaleggiare con i paesi di più antiche tradizioni navali. In
breve tempo la marina militare tedesca guadagnò una posizione che, a livello mondiale, era
seconda solo a quella britannica, mentre fin dagli anni Novanta la Germania aveva superato
anche l’Inghilterra nella produzione di acciaio, conquistando in questo settore (fondamen-
tale per una moderna potenza economica e militare) il primato internazionale.
I timori suscitati dalla crescita politica, militare e produttiva della Germania spinsero
Francia e Gran Bretagna, benché fossero rivali di vecchia data, a firmare nel 1904 un ac-
cordo politico-diplomatico di reciproco sostegno, denominato “entente cordiale”. L’intesa
franco-britannica divenne il nucleo di una alleanza più ampia che arrivò a comprendere
anche la Russia. Quest’ultima, infatti, era già legata alla Francia da un patto militare firma-
to nel 1894 e si avvicinò, più tardi, alla Gran Bretagna con un analogo accordo del 1907: si
chiudeva così il cerchio della Triplice intesa anglo-franco-russa.
Si stava, cioè, avverando quello che era stato il peggior incubo di Bismarck: un nuovo
protagonismo politico-diplomatico della Francia e un suo accostamento a Russia e Gran
Bretagna. Ma come erano stati possibili questi sviluppi?
Fin dalla fine degli anni Settanta, a causa dei ripetuti contrasti con l’Austria nei Balcani,
la Russia aveva deciso di sfilarsi dalla Lega dei tre imperatori, pur non rompendo i rapporti
con la Germania di Bismarck. Nel 1879, dunque, si era passati da una “lega tripartita” alla
“duplice alleanza” tra Germania e Austria, alla quale presto si aggiunse l’adesione dell’Italia,
a formare la cosiddetta Triplice alleanza (1882).
Capitolo 14. Nel cuore dell’Europa. L’emergere di profondi squilibri 385

Nonostante il nuovo asse diplomatico, Bismarck continuò a ritenere fondamentale


per il mantenimento della stabilità europea una qualche forma di accordo e di intesa tra
Germania e Russia. E, in effetti, un trattato segreto russo-tedesco venne firmato nel 1887,
nell’ultima fase del cancellierato di Bismarck, ma non fu più rinnovato da Guglielmo II dopo
l’uscita di scena del cancelliere. Una scelta imprudente che avrebbe permesso negli anni
successivi la formazione dell’Intesa anglo-franco-russa.
La situazione di accerchiamento della Germania, stretta a occidente tra Francia e Gran
Bretagna e a oriente dalla Russia, situazione che Bismarck aveva sempre cercato di evitare,
finì così per realizzarsi. Ma la “locomotiva” tedesca, lanciata ormai a tutta velocità, non
sembrava più preoccuparsene.
Come conseguenza delle manovre diplomatiche qui appena tratteggiate, l’Europa del
primo Novecento presentava due sistemi di alleanze contrapposte: la Triplice alleanza
(Germania, Austria e Italia) e la Triplice intesa (Francia, Russia e Gran Bretagna). Non si trat-
tava di due schieramenti destinati per forza a scontrarsi, ma certo la presenza di persistenti
focolai di crisi come quello che continuava ad agitare il quadrante balcanico – di fronte
al crollo dell’Impero ottomano e agli interessi contrapposti che in quell’area coltivavano i
due schieramenti – rendeva la situazione indubbiamente esplosiva.

14.3. La Terza repubblica francese. Rafforzamento delle


istituzioni e tentativi autoritari

Dopo la rovinosa sconfitta di Napoleone III nella guerra contro la Prussia (1870) e la san-
guinosa repressione della Comune di Parigi (1871), ai francesi che chiedevano ordine, fu il
vecchio orleanista Adolphe Thiers, presidente della Repubblica dal 1871 al 1873, a dare
alcune garanzie di affidabilità. Del resto, come antico fautore di una monarchia liberale,
ora adattatosi alla realtà repubblicana, Thiers esprimeva bene le contraddizioni politiche e
istituzionali che percorsero gli esordi della Terza repubblica (cap. 9, par. 2.3 e par. 8).
Bisogna partire dalla constatazione che la classe politica francese dei primi anni Set-
tanta era prevalentemente conservatrice e monarchica, non repubblicana. Tanto che è le-
cito dire che la Repubblica poté reggersi, in quel frangente, solo grazie alle divisioni che
percorrevano lo schieramento monarchico: da una parte, i legittimisti, fautori di un impro-
babile ritorno al vecchio regime assoluto di stampo borbonico; dall’altra, gli orleanisti, che
si richiamavano all’esperienza della monarchia costituzionale di Luigi Filippo d’Orléans.
Fratture profonde che rendevano determinante la minoranza repubblicana e che porta-
rono alla formazione di una maggioranza parlamentare composita – una sorta di “grande
centro” – che comprendeva orleanisti e repubblicani moderati, lasciando isolati alle due
ali estreme i legittimisti e i repubblicani radicali (di solito indicati semplicemente come
“radicali”).
Le leggi costituzionali approvate dall’Assemblea nazionale nel 1875 – quando a Thiers
era ormai succeduto alla guida della Repubblica il generale MacMahon, convinto monar-
chico, già al comando delle truppe che avevano schiacciato la Comune – rispecchiavano
l’anomalia di una repubblica conservatrice, con chiare influenze monarchiche. I poteri del
presidente della repubblica, ad esempio, erano quelli di un sovrano costituzionale. Titolare
del potere esecutivo, il presidente nominava e revocava liberamente i ministri (e tra loro
386 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

il primo ministro), ma poteva esercitare una grossa influenza anche sul potere legislativo,
rinviando al parlamento per una seconda lettura le leggi che non gradiva e, addirittura,
arrivando a sciogliere la Camera dei deputati.
L’Assemblea nazionale era bicamerale. Oltre alla Camera dei deputati, eletta a suffra-
gio universale maschile (ma, come detto, sottoposta all’eventualità di uno scioglimento
arbitrario), era previsto un Senato eletto non dal popolo ma dai rappresentanti delle muni-
cipalità; organo che nelle intenzione del legislatore doveva dare voce alla Francia rurale e
conservatrice. Le due camere, in seduta congiunta, eleggevano a maggioranza assoluta il
presidente della Repubblica, che restava in carica sette anni.
Il sistema fu sperimentato per la prima volta nelle elezioni del 1876 e diede i risultati
che tutto sommato ci si poteva attendere: al Senato si imposero i monarchici, mentre alla
Camera dei deputati la maggioranza era repubblicana. I conflitti tra i due rami del par-
lamento, e tra la Camera dei deputati e la presidenza della Repubblica, dove era stato
confermato MacMahon, non tardarono a manifestarsi. Tanto che nel 1877, con una decisio-
ne inesattamente definita “colpo di Stato”, lo stesso MacMahon rimosse il primo ministro,
espressione della maggioranza repubblicana alla Camera, per sostituirlo addirittura con
il capo dei legittimisti, il duca de Broglie. Alle reazioni di indignazione dei repubblicani il
presidente rispose sciogliendo la Camera dei deputati.
Si scontravano, a ben vedere, due letture diverse delle prerogative del parlamento e del
presidente: una, nettamente conservatrice, legata in senso stretto alle norme fissate dalle
leggi costituzionali del 1875; l’altra, democratica e progressista, che difendeva le preroga-
tive della maggioranza politica espressa dal suffragio universale. Un contrasto politico-isti-
tuzionale che venne sciolto dalle elezioni anticipate per la Camera dei deputati del 1877.
Dopo una campagna elettorale molto accesa, i risultati confermarono la maggioranza
repubblicana alla Camera, alla quale si aggiunse, due anni più tardi, la vittoria dei repub-
blicani anche al Senato. A quel punto arrivarono le dimissioni di MacMahon, sostituito dal
repubblicano moderato Jules Grévy; un passaggio di consegne che segnò, nel 1879, la fine
delle incertezze costituzionali (tra forma monarchica e forma repubblicana) e il vero inizio
della Terza repubblica.
La centralità assunta dalla Camera dei deputati dopo gli avvenimenti del 1877-79 e la
riprovazione che il “colpo di Stato” di MacMahon aveva suscitato nell’opinione pubblica
francese – tanto che nessun altro presidente della Repubblica sarebbe più ricorso allo scio-
glimento della Camera – fecero sì che la Terza repubblica trovasse nuove basi politiche. In
effetti, nei vent’anni successivi la guida del paese fu nelle mani dei repubblicani. E arriva-
rono subito segnali incoraggianti, come il pieno riconoscimento della libertà di stampa e
del diritto di associazione, o come l’attenuazione dei controlli di polizia su raduni pubblici
e manifestazioni politiche.
Nel 1882, inoltre, vennero democratizzate le procedure per l’elezione dei sindaci in tutti
i comuni, consentendo una importante apertura verso la partecipazione popolare alla vita
amministrativa locale. Una dimensione, quella municipale, nella quale cominciò ad affer-
marsi anche un nuovo soggetto politico: il movimento socialista. Il Partito operaio francese
era nato, infatti, due anni prima.

14.3.1. Il generale Boulanger e il revanchismo francese.


La continuità di governo da parte dei repubblicani non fu sufficiente a evitare il profilarsi di
nuove spinte antidemocratiche, che si incarnarono nella seconda metà degli anni Ottanta
nella figura del generale Georges Boulanger.
Capitolo 14. Nel cuore dell’Europa. L’emergere di profondi squilibri 387

Leader di un movimento politico di carattere nazionalista e repubblicano (Ligues des


patriotes), già ministro della Guerra tra il 1886 e il 1888, Boulanger riuscì a raccogliere – in
occasione delle elezioni politiche del 1889 – uno straordinario successo personale presso
un elettorato assai composito e trasversale, che andava dai conservatori ai radicali. Quel
consenso si spiegava soprattutto con il piano di riorganizzazione e rinnovamento dell’e-
sercito, in funzione dichiaratamente antitedesca, di cui il generale si era fatto promotore
durante il suo incarico ministeriale. Agli occhi di una opinione pubblica ancora ferita per
l’esito della guerra franco-prussiana e per la cessione dell’Alsazia-Lorena al Reich – dun-
que carica di risentimento contro l’Impero tedesco – l’iniziativa di Boulanger sembrava
porre le premesse per una possibile revanche (rivincita) militare e patriottica.
Nel discorso politico boulangista andavano però emergendo implicazioni ulteriori, con
l’accentuazione di una retorica fortemente antiparlamentare e la ricerca di un rapporto
diretto con il popolo, in perfetto stile bonapartista. Tutto ciò lo trasformò rapidamente in
un temibile avversario per il gruppo dirigente repubblicano, che dopo averlo allontanato
dal governo nel 1888 tentò di emarginarlo dalla scena pubblica.
A quel punto, sull’onda della larga popolarità conquistata e dell’exploit elettorale del
1889, alcuni settori nazionalisti spinsero il generale a tentare un colpo di Stato; una pro-
spettiva verso la quale, per la verità, lo stesso Boulanger, fondamentalmente legato al prin-
cipio di legalità, nutriva non poche resistenze. Per tutta risposta il governo repubblicano,
informato tempestivamente di quelle manovre, chiamò il generale a rispondere dell’accu-
sa di attentato alla sicurezza dello Stato.
Quasi travolto da una situazione che non aveva appieno controllato, Boulanger riparò
in Belgio e lì nel 1891 si tolse la vita. Pose, così, fine a una vicenda che, se non lasciava segni
concreti, riportava però in auge atteggiamenti e pulsioni che la Terza repubblica sperava
di aver archiviato.

14.3.2. L’affaire Dreyfus e l’ascesa al governo dei radicali.


Le fratture che attraversavano la scena pubblica francese riemersero intorno alla metà
degli anni Novanta con il “caso”, prima giudiziario e poi politico, che coinvolse un ufficiale
dell’esercito di origine ebraica, Alfred Dreyfus.
Nel 1894 il capitano Dreyfus fu accusato di tradimento per aver fornito informazioni
riservate alle autorità tedesche e sottoposto a processo da un tribunale militare. Dopo un
procedimento sommario, venne degradato e condannato alla deportazione a vita nella
colonia penale della Guyana francese.
Benché nel 1896 nuove prove rivelassero che un altro, e non Dreyfus, era l’ufficiale tradi-
tore, le alte gerarchie dell’esercito si rifiutarono di riaprire il processo. L’“ebreo” Dreyfus era,
infatti, il capro espiatorio ideale per gli ambienti più strettamente nazionalisti. L’allusione
era naturalmente al pur lontano retroterra religioso e culturale dell’imputato, comunque
tale da renderlo – secondo una retorica che diventava apertamente antisemita – un estra-
neo, o peggio un pericoloso infiltrato e doppiogiochista, rispetto alla comunità nazionale.
Questa patente violazione dello Stato di diritto, che i militari con la complicità di una
parte del governo cercarono di nascondere o minimizzare, riuscì fortunatamente a trape-
lare e a essere posta all’attenzione dell’opinione pubblica; per essere, infine, valutata in
tutta la sua gravità.
Il merito fu soprattutto di un famoso articolo dello scrittore Emile Zola pubblicato, all’i-
nizio del 1898, sul giornale radicale “L’Aurore” e passato alla storia con il titolo di J’accuse.
Nella forma di una lettera aperta al presidente della Repubblica, Zola denunciava puntual-
388 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

mente le menzogne e le omissioni delle autorità militari e governative che avevano portato
alla condanna di un innocente. L’articolo valse a Zola una denuncia per diffamazione da
parte del ministro della Guerra, ma il processo contro di lui, tenutosi nel febbraio 1898,
permise di fatto di riaprire il caso Dreyfus e di riconoscerne pubblicamente l’innocenza.
L’intenso dibattito culturale e politico accesosi intorno all’affaire Dreyfus ebbe effetti
anche sugli equilibri elettorali e di governo, segnando una avanzata delle forze radicali e
socialiste, che più si erano impegnate a favore dell’imputato. Finì la stagione delle mag-
gioranze repubblicano-moderate e iniziò la lunga fase di governo dei radicali, che sarebbe
durata, salvo qualche breve parentesi, fino al 1940.
In quei decenni, il radicalismo francese riuscì ad affermarsi come espressione maggio-
ritaria dei ceti medi urbani e rurali, incarnando compiutamente una concezione laica e
democratica dello Stato. Tra i provvedimenti più importanti presi nei primi anni di questa
nuova stagione politica possono essere ricordati la legge del 1901 sulla laicità della pubbli-
ca istruzione (con la quale si limitava drasticamente il raggio d’azione in campo educativo
e culturale delle congregazioni religiose) e la legge di separazione tra Stato e Chiesa del
1905, che abrogava il concordato napoleonico del 1801 e poneva fine a ogni legame prefe-
renziale tra cattolicesimo e Stato francese.

14.4. Il tramonto dell’impero di Francesco Giuseppe

A differenza di quanto accaduto nel 1848-49, quando le gravissime tensioni che avevano
scosso l’Impero austriaco non produssero alcun significativo mutamento costituzionale,
ben più profondo fu l’impatto, circa vent’anni più tardi, della guerra austro-prussiana.
Infatti, dopo la sconfitta militare subita dagli Asburgo contro la Prussia nel 1866, una
vera e propria riforma costituzionale (1867) portò al superamento del vecchio Impero au-
striaco, creando una “monarchia dualistica” denominata Impero austro-ungarico, basata
cioè sulla formazione di due regni distinti (Austria e Ungheria), dotati di istituzioni proprie,
ma uniti sotto l’autorità sovrana dell’imperatore Francesco Giuseppe, in carica fin dal 1848.
Tecnicamente la struttura costituzionale “dualistica” era abbastanza complessa. I due
Stati, come detto, avevano un unico sovrano e possedevano in comune tre ministeri (Guer-
ra, Finanze e Affari esteri), i cui titolari erano nominati dall’imperatore. Accanto a questo
governo imperiale, esistevano due esecutivi separati, uno per l’Austria e l’altro per l’Un-
gheria, in cui sedevano i ministri competenti per le altre materie. Nello stesso modo erano
previsti due parlamenti, uno a Vienna e l’altro a Budapest, che però, coerentemente con
quanto si è detto, non si occupavano né di politica estera né di questioni finanziarie, com-
petenze esclusive del governo imperiale.
Fin dagli anni immediatamente successivi alla riforma costituzionale del 1867, le difficol-
tà maggiori per la stabilità interna del nuovo assetto imperiale vennero dall’insoddisfazione
manifestata a Praga, e in tutta la Boemia e la Moravia, dai gruppi nazionalisti cechi che, di
fronte al riconoscimento statuale dell’Ungheria, sopportavano con ancora maggiore difficol-
tà la mancanza di autonomia della nazione ceca all’interno dell’impero. Il malcontento creb-
be progressivamente fino a quando, nel 1908, il governo imperiale fu costretto a proclamare
lo stato d’assedio in Boemia.
Capitolo 14. Nel cuore dell’Europa. L’emergere di profondi squilibri 389

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento si consolidarono anche i movimenti


nazionalisti croato e serbo. Il primo era ulteriormente diviso al suo interno e si articolava in
almeno due componenti: una, più moderata, favorevole all’unione di tutte le popolazioni
slave dell’Impero in uno Stato federale ancora interno alla compagine imperiale ma au-
tonomo (esso si sarebbe dovuto chiamare Iugoslavia, letteralmente “terra degli slavi del
sud”); l’altra, più radicale e sciovinista, legata invece alla prospettiva di una Grande Croazia
indipendente.
Rispetto ai croati, la presenza serba all’interno dell’Impero era quantitativamente meno
rilevante (circa due milioni di serbi contro gli oltre tre milioni di croati), ma i serbi potevano
contare su un importante punto di riferimento esterno: il Regno di Serbia, che dal 1878 era
uno Stato indipendente. Proprio per questo (l’aiuto dello Stato serbo ai gruppi nazionalisti
interni all’Impero era sia politico che finanziario) le organizzazioni serbe furono tra le più
attive, determinate e pericolose per l’autorità imperiale, come si incaricheranno di dimo-
strare, nel 1914, i fatti che portarono allo scoppio della Prima guerra mondiale. Oltre che in
conflitto con la dinastia Asburgo, le minoranze croate e serbe erano anche in contrasto tra
loro per motivi di carattere culturale e religioso (professando i serbi la religione cristiano-
ortodossa, mentre i croati quella cattolica), a delineare un quadro complessivo di conviven-
za quanto mai complicato.
Nonostante, dunque, la riforma costituzionale del 1867 e i tentativi di rinnovamento
seguiti alla guerra austro-prussiana, all’interno dell’Impero asburgico le fratture etniche e
politico-culturali si moltiplicavano e sembravano non esserci soluzioni condivise per uscire
da una situazione che continuava ad avvitarsi su se stessa. Alle crescenti turbolenze dei
gruppi nazionalisti (cechi, croati, serbi, sloveni, ecc.) faceva riscontro l’azione di partiti in
netto contrasto tra loro sulle linee di politica generale e in totale disaccordo sul modo di ri-
solvere le questioni nazionali. Si trattava, in particolare, di tre formazioni politiche: il Movi-
mento pangermanico, costituitosi nel 1885, che era addirittura favorevole alla dissoluzione
dell’Impero austro-ungarico e alla confluenza della sua parte tedesca all’interno del Reich;
il Partito socialdemocratico unificato, fondato dai marxisti austriaci nel 1889, che sostene-
va la necessità di trasformare l’impero in una entità federale basata sul riconoscimento di
ampie autonomie ai vari gruppi nazionali; infine, il Partito cristiano-sociale, nato nel 1893,
fedele invece alla dinastia degli Asburgo e favorevole a una linea politica sostanzialmente
conservatrice.
Il confronto politico tra queste diverse opzioni si sviluppò soprattutto nel parlamento di
Vienna, che a partire dal 1906 venne eletto a suffragio universale maschile; mentre il dibat-
tito tra le forze politiche rimase molto più compresso a Budapest, dove la legge elettorale,
ancora rigorosamente censitaria, limitava in sostanza il diritto di voto ai grandi proprietari
magiari (cioè, di etnia ungherese), concedendo dunque una scarsa rappresentanza alle mi-
noranze nazionali e alle forze di opposizione.
Le fastose celebrazioni della monarchia asburgica e la personale popolarità dell’im-
peratore Francesco Giuseppe potevano fare ben poco per ricompattare un quadro sociale
e politico così composito e disgregato. I giubilei d’oro e di diamante che, nel 1898 e nel
1908, festeggiarono il cinquantesimo e il sessantesimo anniversario del regno di Francesco
Giuseppe, per quanto sfarzosi, non superarono i risentimenti e le insoddisfazioni delle mi-
noranze nazionali e i profondi contrasti tra le forze politiche.
390 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

14.5. Il problema dell’arretratezza. Dall’Austria-Ungheria alla


penisola iberica

Profondamente diseguale, all’interno dell’Impero austro-ungarico, fu anche lo sviluppo


economico. Il settore industriale, pur conoscendo una espansione significativa sia in settori
tradizionali (i comparti minerario, tessile, zuccheriero) sia in altri più moderni (petrolifero,
chimico ed elettrico), in entrambi i casi rimase, però, confinato all’interno di aree geogra-
fiche piuttosto ristrette, concentrandosi essenzialmente intorno a Vienna e nella Stiria, in
Boemia e Moravia, e nella zona di Budapest (per le sole attività di trasformazione dei pro-
dotti alimentari).
Questi squilibri ebbero almeno due conseguenze. La prima fu il mantenimento di livelli
di ricchezza assai diversi nelle varie regioni: il reddito pro-capite nel 1911-13 era di 790
corone in Austria, di 630 in Boemia e Moravia, ma solo di 250-300 corone in zone arretrate
dell’impero come la Slovenia e la Dalmazia o la Galizia e la Bucovina. La seconda conse-
guenza fu la forte mobilità delle popolazioni più povere, con fenomeni massici di emigra-
zione interna verso i centri industriali di Praga, Pilsen e Budapest, e per converso l’ulteriore
indebolimento sociale e demografico delle aree di partenza.
Ampie parti dell’Impero austro-ungarico rappresentavano, dunque, delle vere e proprie
periferie arretrate d’Europa, che non riuscirono ad agganciarsi all’onda di sviluppo di fine
Ottocento. Qualcosa del genere stava accadendo nella penisola iberica, sia in Spagna –
dove gli unici poli industriali della Catalogna e dei Paesi Baschi quasi “annegavano” nel
contesto di una economia agricola arretrata dominata da enormi latifondi – sia in Portogal-
lo, dove il panorama economico era, se possibile, ancora meno dinamico.
La stessa posizione geografica di Spagna e Portogallo, che un tempo aveva proiettato
questi paesi verso l’Atlantico e il Nuovo mondo, sembrava ora relegarli, anche fisicamen-
te, in un angolo morto del Vecchio continente. Nei due Stati iberici, peraltro, il problema
dell’arretratezza si intrecciava con quello dell’instabilità politico-istituzionale e, nel caso
spagnolo, anche con spinte indipendentistiche (catalane e basche) difficilmente governabili.

14.6. L’Impero ottomano, grande “malato d’Europa”, e l’instabilità


dei Balcani

La sconfitta militare subita dall’Impero ottomano nella guerra contro la Russia del 1877-78
e l’umiliazione diplomatica aggiuntasi al successivo congresso di Berlino (di cui si è detto
nel par. 2) ebbero gravi ripercussioni politiche. La principale di queste fu una netta chiusura
su se stesse delle autorità imperiali, all’insegna della pura e semplice auto-conservazione,
con la decisione da parte della dinastia ottomana di sospendere la costituzione emanata
nel 1876 e di non convocare più il parlamento. L’effetto complessivo fu quello di una rovi-
nosa marcia indietro rispetto ai timidi segnali di liberalizzazione e di modernizzazione del-
le strutture istituzionali che si erano affermati, nella compagine imperiale, fin dalla prima
metà del XIX secolo.
Nei decenni successivi, l’Impero ottomano continuò a vivere in un clima di progressi-
vo sfaldamento, pressato e accerchiato com’era dalle rivendicazioni dei gruppi nazionali
Capitolo 14. Nel cuore dell’Europa. L’emergere di profondi squilibri 391

dell’Europa sud-orientale e dalle mire delle grandi potenze, sempre più ansiose di spartir-
si un pingue bottino territoriale. Di fronte a quella spirale di decomposizione territoriale,
arretratezza economica e autoritarismo politico trovarono nuovamente voce le esigenze
di una trasformazione in senso liberale della società e delle istituzioni ottomane. Il nuovo
strumento sul quale confluirono le speranze di rinnovamento furono i Comitati di unità e
progresso, che si formarono a partire dal 1899 negli ambienti dell’esercito e dell’ammini-
strazione statale, e i cui componenti si definirono Giovani Turchi.
Costoro diedero vita a un vero e proprio movimento politico con l’obiettivo di portare il
sultano a ripristinare la costituzione del 1876. Ma le dinamiche interne venivano continua-
mente complicate e inasprite dai problemi di politica estera: nei primi anni del Novecento,
l’Austria decise di annettersi completamente la Bosnia-Erzegovina; la Bulgaria si dichiarò
pienamente indipendente, inglobando per giunta nei propri confini la Rumelia; e l’isola di
Creta, dopo una ribellione anti-ottomana, scelse di unirsi alla Grecia.
In questo difficilissimo contesto era impossibile agire gradualmente sulla strada delle
riforme. Il colpo di Stato militare a cui i Giovani Turchi arrivarono nel 1908-1909 ebbe il
merito di forzare gli avvenimenti conducendo ad alcuni cambiamenti significativi, come la
riduzione dei poteri del sultano, la riconvocazione del parlamento e un profondo ripensa-
mento nell’organizzazione del governo, i cui ministri dovevano rispondere alla maggioran-
za parlamentare e non al sovrano.
Per rinsaldare il nuovo corso sarebbe servito un periodo di pace e stabilità; al contrario,
i colpi che provenivano dall’esterno continuavano a essere incessanti. Nel 1911 l’Italia in-
vase le province ottomane di Tripoli e Bengasi; nel 1912 Bulgaria, Serbia, Grecia e Montene-
gro, unite nella Lega balcanica, attaccarono la Turchia, dando inizio a quella che sarebbe
stata ricordata come la “prima guerra balcanica”.
La sconfitta dell’Impero ottomano fu sancita dal trattato di Londra del maggio 1913, al
quale seguì, peraltro, l’appendice di una “seconda guerra balcanica” provocata dalla Bul-
garia, che – insoddisfatta di quanto le era stato riconosciuto a Londra – decise di attaccare,
senza successo, i precedenti alleati (ai quali si erano unite questa volta anche la Romania
e la stessa Turchia).
In seguito alle due guerre balcaniche e ai rispettivi trattati di pace di Londra e Bucarest
– quest’ultimo si tenne nell’agosto 1913, ad appena tre mesi di distanza dal precedente –,
l’Impero ottomano perse quasi tutti i suoi territori europei. La Macedonia venne divisa tra
Serbia e Grecia; Romania e Bulgaria allargarono ulteriormente i loro confini; e per finire
nacque, sempre su territorio ex-ottomano, un nuovo Stato indipendente, l’Albania.
La fine di questo vecchio impero, nato circa sei secoli prima, lungamente temuto e ri-
spettato, ma ormai ridotto ai minimi termini, era solo questione di tempo.

14.7. La Russia tra dispotismo e rivoluzione

Nell’Impero russo la gestione del potere continuava a essere di natura dispotica. Per forza
di cose, dunque, la discussione politica diveniva una pratica segreta e cospirativa, che po-
teva sfociare in atti estremi o in azioni terroristiche.
Fu questo il caso del populismo, un movimento politico che si affacciò in Russia negli
anni Settanta del XIX secolo, opponendosi sia all’assolutismo zarista sia alla pur lenta pe-
392 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

netrazione nel paese del capitalismo industriale e finanziario. I populisti vagheggiavano la


prospettiva di una Russia rurale e comunitaria, dove una rivoluzione agraria avrebbe rea-
lizzato una redistribuzione delle terre ai contadini. Un progetto politico che li avvicinava,
per certi versi, a posizioni radicalmente antistatali e anarchiche.
Esacerbato dalla mancanza di spazi di confronto e dalle repressioni poliziesche, il mo-
vimento prese la via del terrorismo, arrivando a colpire lo zar Alessandro II, che rimase
ucciso in un attentato nel 1881. La sua morte chiudeva drammaticamente un periodo di
importanti (ma, secondo i populisti, insufficienti) riforme sociali, la più significativa delle
quali era stata, nel 1861, l’abolizione della servitù della gleba, cioè della condizione servile
che aveva legato per secoli i contadini alla terra.
Durante il regno dei suoi successori, Alessandro III (1881-1894) e Nicola II (1894-1917),
si accentuarono i caratteri autoritari e polizieschi del regime russo, che si abbinarono, tut-
tavia, ad alcune forme di modernizzazione economica favorite dallo Stato. Ne furono degli
esempi il programma di potenziamento delle infrastrutture stradali e ferroviarie e il piano
di sostegno allo sviluppo industriale.
Del resto, gli incentivi statali alla produzione nazionale, con particolare riferimento a
quei comparti (come il siderurgico e il meccanico) che potevano assicurare adeguate forni-
ture di armi e mezzi per l’esercito russo, erano riconducibili anche alle esigenze di una po-
litica di potenza. Le principali direttrici lungo le quali si orientarono l’iniziativa diplomatica
e militare russa furono tre: l’Europa balcanica, da tempo ambita anche in considerazione
dell’ipotesi di una unificazione dei popoli slavi sotto una Grande Russia (panslavismo); l’E-
stremo Oriente, segnatamente Manciuria e Corea, dove la Russia era destinata a scontrarsi
presto con le ambizioni giapponesi; infine, l’area centro-asiatica della Persia e dell’Afgha-
nistan.
I progetti imperialistici non riuscirono, però, a produrre quella unità di intenti e quel-
la coesione politica e sociale che si registravano in altri contesti nazionali. Esauritasi nel
sangue degli attentati e della repressione la breve stagione del populismo rivoluziona-
rio, si vennero definendo nella società russa alcune, più compiute, alternative politiche
all’assolutismo degli zar. L’esigua pattuglia dei liberali, ad esempio, si organizzò nel 1902
nell’Unione della liberazione, poi Partito dei cadetti. Lo stesso anno nasceva dall’esperien-
za populista e anarchica il Partito socialista rivoluzionario. Pochi anni prima, nel 1898, si
era formato il Partito operaio socialdemocratico russo, di impronta marxista, che nel 1903
si scisse in due gruppi politici distinti: quello dei bolscevichi guidati da Vladimir Ilic Ulja-
nov, detto Lenin, basato sull’idea di un partito ristretto, fatto di rivoluzionari di professione,
molto gerarchizzato e clandestino, e quello dei menscevichi che puntavano, invece, a un
lavoro politico-culturale più disteso e paziente in vista di una graduale trasformazione in
senso democratico e socialista del paese.
Non si trattava semplicemente di élite politiche e culturali senza possibilità di un reale
seguito popolare. Al contrario, i settori della società russa insoddisfatti dal regime zarista
erano molti: le centinaia di migliaia di operai delle industrie in espansione, che si trovavano
concentrati soprattutto nei grandi centri urbani della Russia europea (San Pietroburgo e
Mosca) ed erano privi di qualunque tutela legislativa che rendesse minimamente accetta-
bili le loro condizioni di lavoro; i molti milioni di contadini ex servi della gleba, che anziché
avere possibilità di mobilità o ascesa sociale erano diventanti dei puri e semplici braccianti
salariati, ma con meno garanzie di sussistenza rispetto a prima, quando la condizione di
servitù obbligava comunque i proprietari terrieri a garantirne il sostentamento; una parte
almeno degli stessi proprietari, stanchi di un prelievo fiscale che non faceva che aumenta-
re e che era destinato a finanziare politiche industriali e militari decise a San Pietroburgo;
Capitolo 14. Nel cuore dell’Europa. L’emergere di profondi squilibri 393

infine, le pur esigue classi medie urbane che si sentivano sempre più vicine al programma
di rinnovamento dei liberali.
In una situazione istituzionale bloccata dal dispotismo, ma con un panorama politico
e sociale che – come si è visto – era in notevole fermento, ebbe gravissime ripercussioni
per il regime zarista l’inaspettata sconfitta a cui la Russia andò incontro nella guerra con il
Giappone del 1904: un gravissimo colpo al prestigio interno e internazionale del governo
di San Pietroburgo.
Maturò in questo clima la rivoluzione russa del 1905. Nel gennaio di quell’anno, l’As-
semblea dei lavoratori di fabbrica di San Pietroburgo, associazione popolare fondata da un
sacerdote della Chiesa ortodossa con il permesso e la benevolenza delle autorità, presentò
un appello allo zar Nicola II. Le richieste che gli operai rivolsero al sovrano contenevano i
punti fondamentali del programma liberale: garanzie costituzionali, organi di rappresen-
tanza, libertà civili, imposta progressiva sul reddito, oltre a una serie di miglioramenti delle
condizioni di lavoro e di retribuzione.
Benché non fosse una folla ostile, quella che il 9 gennaio 1905 si diresse al Palazzo
d’Inverno per consegnare a Nicola II la suddetta petizione, venne comunque respinta a
fucilate dalle forze dell’ordine. Rimasero sulla strada, senza vita, più di cento persone iner-
mi. La protesta crebbe, si allargò ad altre città e causò scontri a ripetizione, arrivando a
toccare anche le campagne. Si costituirono tra gli operai i primi soviet (consigli), organi
di rappresentanza dei lavoratori che si proponevano come strumenti di autogestione e di
democrazia diretta.
Per evitare che l’urto della rivoluzione diventasse insostenibile, lo zar fu costretto ad
alcune concessioni, come la libertà di associazione e di stampa e la convocazione di un
parlamento elettivo, la Duma.
In realtà, appena un anno più tardi, nel 1906, dopo aver imprigionato le personalità
più in vista del movimento rivoluzionario, l’autorità zarista era nuovamente padrona della
scena, mentre la Duma ogniqualvolta esprimeva maggioranze sgradite allo zar veniva ine-
sorabilmente sciolta per decreto imperiale.
Gli anni che precedettero lo scoppio della Prima guerra mondiale videro una alternan-
za di agitazioni contadine e operaie e di interventi brutalmente repressivi, in un contesto
di crescente scollamento tra istituzioni statali e dinamiche sociali nel quale si preparavano
nuovi epocali sviluppi.
Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea:
dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra
di Carlo De Maria
Roma (BraDypUS) 2018
ISBN 978-88-98392-70-4
pp. 395-412

Capitolo 14. Nel cuore dell’Europa.


L’emergere di profondi squilibri
Approfondimenti

Focus
Emile Zola e la figura dell’intellettuale impegnato

Quando, il 13 gennaio 1898, Emile Zola pubblicò sul quotidiano radicale di Parigi “L’Aurore”
la sua lettera aperta al presidente della Repubblica in merito all’affaire Dreyfus era già
uno scrittore affermato. Nato nella capitale francese nel 1840, Zola era il teorico e il ma-
estro riconosciuto del naturalismo. Tra il 1871 e il 1893 con il ciclo Les Rougon-Macquart,
histoire naturelle et sociale d’une famille sous le Second Empire – un’opera narrativa che
comprendeva capolavori come L’assommoir (1877) e Germinal (1885) – aveva composto un
grande affresco della società francese del tempo, da lui descritta attraverso una scrupolosa
ricognizione storica, sociologica e linguistica.
Di convinzioni repubblicane, Zola si calò nel caso Dreyfus guidato da un imperativo
morale, la ricerca della verità e della giustizia, ma anche da un obiettivo più esplicitamente
politico, quello di combattere l’antisemitismo e tutte le forme di nazionalismo esasperato e
sciovinista. In effetti, il suo articolo di denuncia, universalmente noto con il titolo di J’accu-
se, acquisì una vera e propria valenza politica, contribuendo a dare una fisionomia nuova e
meglio definita alla sinistra democratica e radicale francese.
Il gesto ardito di Zola, che gli valse un processo per diffamazione e una condanna, non
fu isolato. Costituì la più significativa e coraggiosa presa di posizione a favore della revisio-
ne del processo a carico di Dreyfus, ma non l’unica. Non si dimentichi, infatti, che la vicenda
del capitano ebreo accusato di attività spionistica filo-tedesca scosse tutta la Francia e fu
un caso giudiziario e poliziesco di grande importanza pubblica, ricevendo dalla stampa
una straordinaria amplificazione. Ma allora perché si ricorda solo l’articolo di Zola e non si
menzionano neppure i tanti altri interventi?
Il fatto è che Zola, forte della propria notorietà e autorevolezza come uomo di cultura,
scelse di rivolgersi direttamente, attraverso le colonne di un importante giornale, al presi-
dente della Repubblica, cioè al capo dello Stato, formulando accuse specifiche e serrate
(quel j’accuse ripetuto più volte nel testo) verso tutti i responsabili, a vario titolo, della
396 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

macchinazione giudiziaria ai danni di Dreyfus. Si trattava, del resto, di un’ingiustizia che si


trascinava ormai da diversi anni e per questo divenuta ancor più intollerabile.
Il capitano ebreo, infatti, era stato condannato alla deportazione a vita nel dicembre
1894 sulla base di prove molto fragili, corroborate però da un dossier segreto preparato
appositamente dai vertici militari. Nonostante le forzature risultassero evidenti fin dall’ini-
zio, il caso si sarebbe chiuso lì, se nel marzo 1896 non fosse emerso in modo incontrover-
tibile, sulla base di nuove prove, il nome del vero responsabile dell’azione di spionaggio.
Si trattava del maggiore Esterházy, il cui doppio gioco venne smascherato dal nuovo capo
del servizio di informazione dell’esercito francese, il maggiore Picquart. Quest’ultimo, però,
dovette fare i conti con le resistenze dello stato maggiore e del ministero della Guerra a
riaprire il caso: le autorità militari trasferirono Picquart ad altro incarico e nel frattempo
produssero un secondo dossier, ancora una volta falso e tendenzioso, ai danni di Dreyfus,
mentre il vero colpevole, Esterházy, era clamorosamente assolto da un tribunale militare.
Fu a questo punto, nel gennaio 1898, che Zola prese carta e penna e, sulla base delle no-
tizie che erano trapelate, rese l’affaire Dreyfus noto al mondo intero, producendo in Fran-
cia una straordinaria mobilitazione politica e civile che avrebbe aperto la lunga stagione
dei governi radicali.

Parole-chiave
Balcanizzazione

Con questo termine si indica solitamente un processo storico-politico che porta una deter-
minata area geografica (ma, in senso lato, una qualunque struttura a carattere territoriale)
in condizioni di grave e quasi endemica instabilità, a causa di contrasti tra gruppi nazionali
od opzioni politico-ideologiche in violenta opposizione tra loro.
Il processo culturale che ha attribuito, soprattutto nell’immaginario europeo “occiden-
tale”, questi particolari connotati semantici ai Balcani iniziò nel corso del XIX secolo con la
lenta dissoluzione dell’Impero ottomano. Come si è visto, infatti, in quel periodo la penisola
balcanica divenne oggetto di infiniti contenziosi, nei quali si intrecciavano e si scontravano
le ambizioni imperiali delle potenze limitrofe (Russia e Austria-Ungheria) e le istanze di
indipendenza delle diverse comunità nazionali sottoposte al dominio turco. Tutto ciò rese
i Balcani quella “polveriera d’Europa” nella quale, non a caso, si sprigionò la scintilla che
fece divampare la Prima guerra mondiale.
L’attribuzione di caratteristiche geopolitiche negative che risulterebbero essere proprie
di quella regione trovò una conferma – a circa un secolo di distanza – nelle guerre jugo-
slave che, nel corso degli anni Novanta del Novecento, hanno sconvolto e frammentato
il quadro politico dell’Europa sud-orientale. Successivamente, però, specie nel linguaggio
politico e giornalistico degli ultimi anni, il termine “balcanizzazione” è stato utilizzato in
maniera del tutto scollegata dal riferimento geografico d’origine: ad esempio, per denun-
ciare le tensioni che percorrono il Regno Unito o le tendenze separatiste ancora vive in
Spagna; ma anche per indicare i conflitti interni a strutture territoriali non statali come
partiti o schieramenti politici.
In seguito alla crisi economica iniziata nel 2008 e ai suoi molteplici contraccolpi, si è
infine arrivati a parlare di un pericolo di “balcanizzazione” per l’intera Unione europea.
Capitolo 14. Approfondimenti 397

Parole-chiave
Antisemitismo

L’avversione contro gli ebrei ha origini antiche. Essa prese forma inizialmente come ostilità
di carattere religioso (antigiudaismo) in relazione all’accusa di deicidio, ricorrente fin dai
primi secoli del cristianesimo. Questo antiebraismo di matrice religiosa e culturale portò
con sé, già tra epoca medievale e moderna, numerose restrizioni nella vita quotidiana delle
minoranze ebraiche sparse per l’Europa. Il fatto che gli ebrei fossero solitamente segregati
all’interno di spazi urbani a loro riservati (ghetti), fece sì che essi si configurassero come
gruppi sociali separati e a sé stanti. A causa di ciò, la diffidenza nei confronti delle comunità
israelitiche assunse sempre più chiaramente una curvatura economico-sociale. All’interno
dei ghetti, infatti, gli ebrei si andarono specializzando in ben determinate attività com-
merciali, finanziarie e creditizie – e, in modo particolare, nel prestito di denaro a interesse
–, dovendo del resto fare i conti con i numerosi divieti a loro imposti, ad esempio quelli di
possedere proprietà terriere e di svolgere professioni liberali.
A partire dalla fine del Settecento, con l’affermarsi delle idee illuministiche sulla libertà
e i diritti dell’uomo, con la vittoria della Rivoluzione francese, poi con l’introduzione dei
codici di Napoleone, la condizione degli ebrei europei cambiò radicalmente. Dopo secoli
di discriminazione e segregazione, caddero le mura dei ghetti e si andò verso una effettiva
parità nei diritti civili.
Proprio allora, però, profonde resistenze culturali e sociali ai processi di modernizza-
zione in atto diedero vigore a nuove forme di antiebraismo. Fu durante il XIX secolo, infatti,
che entrò in uso il termine “antisemitismo”, che indicava una contrapposizione non solo e
non tanto religiosa o sociale, ma propriamente razziale. L’antisemitismo, cioè, si richiama-
va a pretesi fondamenti scientifici (in realtà, semplici credenze pseudo-scientifiche) secon-
do cui a determinate caratteristiche biologiche, legate alla stirpe o etnia di provenienza,
corrispondevano necessariamente certi comportamenti e attitudini sociali. E così tornava-
no in circolazione, ammantati da una nuova legittimazione, vecchi e consunti stereotipi:
“gli ebrei sono avari, degli usurai che si arricchiscono con i soldi degli altri”; “gli ebrei non
vogliono integrarsi nel mondo cristiano-occidentale e sono, anzi, suoi nemici”, ecc.
In buona sostanza, l’antisemitismo si presentava come una delle declinazioni maggior-
mente pervasive del moderno razzismo, penetrando con particolare forza negli ambienti
nazionalisti più fanatici, specie francesi e tedeschi, per la radicata convinzione che gli ebrei,
seppur ormai pienamente integrati nel tessuto sociale, rimanessero sostanzialmente estra-
nei alle rispettive comunità nazionali, indebolendone la compattezza e l’organicità.
I tempi e i modi della diffusione dell’antisemitismo furono ritmati da alcune uscite edi-
toriali particolarmente significative. Fra il 1853 e il 1855 videro la luce i quattro tomi di uno
dei testi fondamentali del razzismo ottocentesco: l’Essai sur l’inégalité des races humaines
(Saggio sulla diseguaglianza delle razze umane) di Joseph-Arthur de Gobineau. Sull’argo-
mentazione razzista posta da di Gobineau, secondo la quale gli uomini sono divisi in razze
gerarchicamente ordinate, si impiantò la successiva opera di Edouard Drumont, La France
juive (La Francia ebraica) del 1886. Cattolico e repubblicano, Drumont imbastì nelle oltre
mille pagine del suo saggio una sintesi fra antigiudaismo cristiano, antiebraismo economico
e razzismo, delineando i contorni di una lotta inevitabile fra ebrei e non ebrei. La France
juive diventò un best-seller e vendette in un solo anno 150 mila copie. Pochi anni più tardi,
nel 1894, iniziava in Francia il caso Dreyfus (cap. 14, par. 3.2). Ingiustamente accusato di
398 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

spionaggio, Alfred Dreyfus, ufficiale francese di origine ebraica, avrebbe dovuto attendere
vent’anni per vedere riconosciuta la propria innocenza.
Tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, la vasta fenomeno-
logia antisemita assunse forme diverse e investì aree geografiche differenti, localizzate
soprattutto nell’Europa centrale e orientale e nella Russia zarista. Nel 1879, l’uomo politico
tedesco Wilhelm Marr diede alle stampe un libello intitolato Der Sieg des Judentums über
des Germanentum (La vittoria del giudaismo sul germanesimo), che conobbe numerose
riedizioni. In quel torno di tempo nacque in Germania, con l’appoggio del cancelliere Bi-
smarck, un partito cristiano-sociale, il cui leader, Adolf Stöcker, fece proprie posizioni dura-
mente antiebraiche. Su quest’onda, nel 1892 si svolse a Dresda un congresso internazionale
antisemita, al quale parteciparono rappresentanti provenienti dalla Germania, dall’impero
austro-ungarico e da quello russo, allora percorso da terribili ondate di pogrom: vere e pro-
prie stragi di ebrei perpetrate dalla popolazione locale con la connivenza delle autorità.
Dopo il congresso di Dresda ebbe inizio, nonostante tutto, una fase calante nella diffu-
sione dell’antisemitismo, anche grazie al formarsi, nel tessuto connettivo delle società eu-
ropee, di alcuni “anticorpi”. Sempre negli anni Novanta del XIX secolo nacque, ad esempio,
in Germania una grande associazione per la lotta all’antisemitismo, capace di raccogliere
migliaia di adesioni e di svolgere una intensa attività culturale verso l’opinione pubblica.
Alla battaglia contro gli antisemiti diedero un contributo importante il Partito socialde-
mocratico tedesco e tutto il movimento socialista europeo. In quegli anni, l’Internazionale
socialista condannò più volte l’antisemitismo, ribadendo come per la classe operaia non
potessero esistere rivalità di razza, religione e nazionalità. Qualcosa di non molto diverso
accadeva in Francia, dove, nel 1898, gli intellettuali democratici schierati a sostegno di
Dreyfus diedero vita alla Ligue des droits de l’homme et du citoyen (Lega dei diritti dell’uo-
mo e del cittadino). E dopo una lunga battaglia pubblica, nel 1906, il capitano francese fu
finalmente reintegrato nei ranghi dell’esercito.
Tuttavia, il declino delle espressioni più violente e manifeste di antisemitismo non si-
gnificò la sua scomparsa. Si sarebbero incaricati di dimostrarlo, in maniera drammatica, i
decenni tra le due guerre mondiali, in una Europa largamente dominata da regimi nazio-
nalisti e dittatoriali.

Costituzione e cittadinanza
L’introduzione della legislazione sociale nella Germania di
Bismarck

Per far fronte compiutamente a quella che era vissuta come “la minaccia socialista”, il go-
verno Bismarck comprese la necessità di conquistare, o comunque avvicinare, i lavoratori
alle istituzioni dello Stato tedesco. Per questa ragione l’ampio dibattito parlamentare che
accompagnò il voto a favore della legislazione sociale vide il cancelliere impegnato a pro-
muovere tali provvedimenti in nome proprio della ragion di Stato. Era il potere pubblico, in
altri termini, che doveva farsi carico della soluzione di problemi che potevano altrimenti
diventare una minaccia contro l’ordine costituito e la stabilità interna. Lavoratori e operai
non si sarebbero rivoltati contro l’assetto sociale esistente se da esso traevano benefici e
si sentivano garantiti.
Capitolo 14. Approfondimenti 399

Nel 1883 si giunse, dunque, alla ratifica della legge relativa all’assicurazione contro
le malattie, seguita da quella sugli infortuni del 1884 e, infine, da quella sulla vecchiaia e
l’invalidità del 1889. Con queste nuove misure, Bismarck, da sempre contrario ai principi
liberisti di auto-regolazione delle dinamiche sociali (laissez faire, laissez aller), optò per
una politica lungimirante di inserimento – controllato e guidato dall’alto – delle masse
nella “sfera pubblica”, non solo in termini di diritti politici (il suffragio universale maschile
in vigore fin dai primi anni Settanta) ma anche in termini di diritti sociali.
In effetti, anche se non riuscì mai a conquistare le simpatie dei militanti socialisti alla
causa della sua visione monarchico-sociale, la costruzione di un apparato previdenziale,
pur ancora incompleto, si rivelò comunque un grande passo avanti, che dalla Germania si
pose all’attenzione del resto d’Europa.
Per avere conferma del carattere innovativo della sfida lanciata da Bismarck sul terre-
no della legislazione sociale è utile leggere un passaggio del suo discorso al Reichstag del
2 aprile 1881. In quei giorni erano in discussione i provvedimenti poi approvati negli anni
successivi:

[C’è chi] ci mette in guardia circa la responsabilità che lo Stato assume per quel che fa,
entrando oggi in questo campo di attività. Signori, per mio conto io penso che lo Sta-
to può esser tenuto responsabile anche delle sue omissioni. Non sono del parere che il
laissez faire, laissez aller, che la “scuola di Manchester”, pura e semplice, in politica, che
la formula “ciascun se la veda lui come debba fare”, non sono del parere, ripeto, che tale
dottrina possa trovare la propria applicazione in uno Stato e soprattutto in uno Stato
monarchico governato paternamente.
Credo invece che coloro che aborrono l’intervento statale volto alla protezione del de-
bole, si espongano per lor parte al sospetto di voler servirsi della forza che posseggono,
sia essa il capitale, sia il talento oratorio, sia qualunque altra cosa, per guadagnare ade-
renti, per schiacciare gli avversari, per aprirsi la via a una dominazione di partito, e per
ciò d’esser malcontenti non sì tosto una qualsiasi azione di governo venga a contrariare
la loro intrapresa. [...]
La legge d’assistenza, che esiste di già presso di noi, preserva l’operaio invalido dal mo-
rire di fame. Ciò però non basta perché un uomo possa pensare alla propria vecchiaia
e al proprio avvenire con soddisfazione; senza contare che questa legge tende anche a
tener vivo il sentimento dell’umana dignità nel più povero dei tedeschi, pel fatto che esso
non sarà più privato d’ogni diritto, come accade di chi riceve una semplice elemosina. [...]
Ma questa legge è anzitutto una specie di prova, che facciamo, e quasi uno scandaglio
gettato a misurare la profondità delle acque finanziarie entro le quali ci proponiamo di
immettere lo Stato e il paese. [...]
Compito del Governo è quello di prospettare tranquillamente e senza paura, i pericoli,
ma anche di far cadere, per quanto ci sia possibile, le premesse che servono ad eccitare
le masse e le rendono accessibili a dottrine criminose. Che voi chiamate o no questa
tendenza socialismo, mi è abbastanza indifferente. [...]
Venir a questo proposito a gridar al socialismo è un po’ divertirsi abbastanza a buon mer-
cato col gioco delle ombre sul muro! Se si dovesse trovare un nome alla nostra direttiva,
accetterei volentieri questo: “cristianesimo pratico”. [...]
Ho già risposto al rimprovero di far del socialismo indigeno. Viene in seguito “l’in-
trepidità” che caratterizzerebbe il Governo; traduco la frase a uso dei miei in-
timi con “la disinvoltura sconsiderata” colla quale il Governo tratta queste fac-
400 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

cende. Miei signori, la nostra intrepidità poggia sopra la buona coscienza, sulla
convinzione che quello che vi presentiamo è il risultato di un esame scrupolosamen-
te fatto, conformemente al nostro dovere e non ha il benché minimo colorito di par-
tigianeria politica. E in ciò sta il nostro vantaggio su quelli che ci attaccano, perché
appunto gli avversari mai potranno liberarsi del loro difetto di origine, mai staccar-
si dal terreno delle lotte di partito, cui le suole delle lor scarpe restano appiccicate.
(da F. Cammarano, M.S. Piretti, a cura di, Fonti e documenti della storia d’Europa, 1860-
1914, Roma, Carocci, 2005, pp. 89-91).

Dopo che nel 1878 Bismarck aveva formalizzato, con l’approvazione delle leggi antisocia-
liste, la volontà del governo di contrastare la crescita del partito dei lavoratori (considerato
alla stregua di un nemico di Stato), agli inizi degli anni Ottanta lo stesso cancelliere fu
accusato di essersi convertito a una sorta di “socialismo di Stato” che puntava a un miglio-
ramento delle condizioni di vita dei lavoratori attraverso un inedito intervento del potere
pubblico in ambito sociale.
Le perplessità venivano sia dai settori liberali, legati alla tradizionale idea di uno Stato
leggero poco propenso a entrare nella sfera economico-sociale, sia dalla pattuglia parla-
mentare socialdemocratica che avrebbe preferito che provvedimenti simili fossero scaturi-
ti dalle lotte operaie piuttosto che da concessioni venute dall’alto. A quelli che il cancellie-
re tedesco leggeva come meri interessi di parte, la Germania bismarckiana rispose con una
innovazione legislativa che indubbiamente fece epoca.

Fonti e documenti
La rivoluzione russa del 1905

Introduzione
Il conflitto di natura imperialistica che tra il febbraio 1904 e il settembre 1905 vide con-
trapporsi Russia e Giappone per il controllo della Manciuria e della Corea, concludendosi
con la disfatta dell’esercito zarista, portò a un sensibile aggravamento delle già difficili
condizioni di vita del popolo russo.
In quella situazione, i lavoratori di San Pietroburgo tentarono, nel gennaio 1905, di pre-
sentare allo zar Nicola II una petizione con la quale chiedevano di avere finalmente voce. Nel
documento si sommavano rivendicazioni economiche e politiche, ed erano queste ultime, di
chiara impronta liberale, a costituire una importante novità nel quadro della Russia zarista.
Il grande Impero russo, infatti, era sostanzialmente privo di una “sfera politica” forma-
lizzata. L’apparato burocratico sostituiva del tutto la dimensione politica: ogni decisione
era presa a livello centrale dalla cancelleria dello zar e trasmessa alla periferia lungo la
catena gerarchica di una amministrazione che si dimostrava, per giunta, scarsamente effi-
ciente. Non a caso, un passaggio della petizione, qui riportato, faceva esplicito riferimento
al potere arbitrario dei burocrati e alla necessità di affiancare a essi una rappresentanza
popolare liberamente eletta (testo n. 1).
Capitolo 14. Approfondimenti 401

Molti dei lavoratori e dei cittadini di San Pietroburgo che il 9 gennaio 1905 si misero
pacificamente in marcia verso il Palazzo d’Inverno per incontrare Nicola II interpretavano
ancora la figura dello zar come una suprema autorità paternamente preoccupata della
condizione dei suoi sudditi e disposta ad ascoltare le loro richieste. Il corteo, guidato da un
sacerdote della Chiesa ortodossa, il pope Gapon, principale estensore della petizione, fu
però accolto dall’esercito, che sparò sulla folla disarmata causando una carneficina.
Quel massacro, come si è visto nel profilo, provocò l’estensione dei disordini ad altre
città e ad altri territori dell’impero. Si accese una vera e propria rivoluzione, caratterizzata
dalla nascita, nei grandi centri industriali della Russia europea, di assemblee spontanee
tra i lavoratori delle fabbriche, i soviet o consigli operai. Questi divennero luoghi di acceso
dibattito politico, ma anche di puntuali rivendicazioni economiche e sindacali che si inse-
rivano in un quadro sociale sempre più critico: vi si parlava, ad esempio, di miglioramento
delle condizioni nei luoghi di lavoro, aumento dei salari e riduzione dell’orario di lavoro.
Fra tutti i consigli operai che si costituirono in quei mesi, il soviet di San Pietroburgo fu il
primo e il più significativo (testo n. 2). Sorto nell’ottobre 1905, durò poco meno di due mesi
prima di essere sciolto con la forza dall’esercito zarista. Nel momento del suo massimo
sviluppo contò più di 500 delegati in rappresentanza di 250.000 lavoratori e per qualche
tempo costituì in pratica il vero governo della capitale. Il più importante dei suoi anima-
tori fu Lev Trotsky, che era già allora un esponente di rilievo del Partito socialdemocratico
russo e che, una dozzina di anni più tardi, sarà uno dei capi della Rivoluzione comunista.
La sua narrazione dei fatti, che risale in prima stesura al 1907-1909, ma che poi egli ri-
visitò all’inizio degli anni Venti, risente evidentemente dell’epopea rivoluzionaria successi-
va, ma costituisce comunque un documento interessante sull’esperienza dei primi consigli
operai. Trotsky vi sottolineava l’originalità dei soviet come forma embrionale di governo
popolare e primo esempio di potere democratico nella storia russa.

Testo n. 1
La petizione popolare del 9 gennaio 1905
Sovrano!
Noi, lavoratori e abitanti della città di S. Pietroburgo, le nostre mogli, figli e indifesi vecchi
genitori, siamo venuti a te, Sovrano, per chiedere giustizia e protezione.
Noi siamo poveri e oppressi, siamo gravati di lavoro, e veniamo insultati. Siamo trattati non
come esseri umani, ma come schiavi i quali devono soffrire di un amaro destino e rima-
nere in silenzio. E abbiamo sofferto ma veniamo spinti sempre più in un abisso di miseria,
ignoranza e assenza di diritti. Il dispotismo e l’arbitrarietà ci stanno soffocando, stiamo
annaspando. Sovrano, non abbiamo più forze. Abbiamo raggiunto il limite della pazienza.
Siamo arrivati a quel terribile momento in cui è meglio morire piuttosto che continuare a
subire sofferenze insopportabili.
E quindi abbiamo lasciato il nostro lavoro e dichiarato ai nostri datori di lavoro che non lo
riprenderemo fino a che non ascolteranno le nostre richieste. Non chiediamo molto; voglia-
mo solo le cose senza le quali la vita è dura fatica ed eterna sofferenza. La nostra prima
richiesta è stata che i nostri datori di lavoro discutessero assieme a noi i nostri bisogni. Ma
loro hanno rifiutato di farlo; ci hanno negato il diritto di parlare dei nostri bisogni, sulla base
del fatto che la legge non ci accorda tale diritto. Anche le nostre altre richieste sono state
considerate illegali: di ridurre la giornata lavorativa a otto ore; di stabilire insieme i salari
e con il nostro accordo; di esaminare le nostre dispute con i quadri inferiori di fabbrica; di
402 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

aumentare i salari dei lavoratori non specializzati e delle donne a un rublo al giorno; di
abolire gli straordinari; di fornire cure mediche; di costruire officine così da rendere possi-
bile il lavoro e non dover rischiare la morte a causa delle tremende correnti, della pioggia
e della neve.
I nostri datori di lavoro e i quadri di fabbrica hanno considerato tutto ciò illegale: ognuna
delle nostre richieste era un crimine e il nostro desiderio di migliorare la nostra condizione
una insolenza calunniosa. [...]
La Russia è troppo grande, i suoi bisogni troppi e troppo diversi tra loro, perché sia gover-
nata solo da burocrati. Abbiamo bisogno di una rappresentanza popolare; è necessario
che il popolo aiuti se stesso e si amministri. Dopotutto solo la gente conosce i propri veri
bisogni. Non respingete il suo aiuto, accettatelo e ordinate immediatamente che tutti i rap-
presentanti della terra russa di tutte le classi, e tutti gli stati del reame vengano convocati,
inclusi i rappresentanti dei lavoratori. Lasciate che sia presente il capitalista e il lavoratore
e il burocrate e il prete e il medico e l’insegnante, lasciate che tutti, chiunque essi siano,
eleggano i propri rappresentanti. Lasciate che tutti siano liberi ed eguali nei loro diritti di
voto, e che per quel fine vengano condotte elezioni all’Assemblea costituente, con suffra-
gio universale, segreto e uguale.
F. Cammarano, M.S. Piretti (a cura di), Fonti e documenti della storia d’Europa (1860-1914),
Roma, Carocci, 2005, pp. 190-193.

Testo n. 2
Il soviet di San Pietroburgo del 1905
La storia del soviet dei deputati operai di San Pietroburgo è la storia di un periodo di cin-
quanta giorni. Il 13 ottobre 1905 si teneva l’assemblea costitutiva del soviet. Il 3 dicembre
la seduta del soviet era interrotta dai soldati del governo. Non v’erano alla prima seduta
che alcune decine d’uomini; verso la seconda metà di novembre, il numero dei deputati si
elevava a 562, fra cui 6 donne. La maggioranza dei deputati – 351 – rappresentava l’indu-
stria metallurgica. [...]
Quale era il carattere essenziale di questa istituzione che in breve tempo conquistò un
posto così importante nella rivoluzione? Il soviet organizzava le masse operaie, dirigeva
gli scioperi e le manifestazioni, armava gli operai, proteggeva la popolazione. Ma altre or-
ganizzazioni rivoluzionarie avevano lo stesso scopo prima, contemporaneamente e dopo
di esso: non ebbero tuttavia l’influenza che ebbe il soviet. Il segreto di tale influenza sta
in ciò: questa assemblea uscì organicamente dal proletariato nel corso della lotta diretta.
Se i proletari da una parte e la stampa dall’altra diedero al soviet il titolo di “governo pro-
letario”, il fatto è che appunto questa organizzazione non era altro che l’embrione di un
governo rivoluzionario. Il soviet costituiva il potere per quel tanto che glielo consentiva la
potenza rivoluzionaria dei quartieri operai; lottava direttamente per la conquista del po-
tere, perché quest’ultimo era ancora nelle mani di una monarchia militare e poliziesca. [...]
Nella sua lotta per il potere il soviet non dimenticava mai di guidare in tutti i modi l’azione
spontanea della classe operaia: esso non soltanto contribuiva all’organizzazione dei sin-
dacati, ma interveniva perfino nei conflitti particolari tra operai e padroni. Proprio come
rappresentanza democratica del proletariato nell’epoca rivoluzionaria, esso era la centro
di tutti gli interessi di questa classe; proprio per questa ragione il soviet subì fin dal principio
l’influenza onnipresente della socialdemocrazia. [...]
Capitolo 14. Approfondimenti 403

Il principale metodo di lotta applicato dal soviet fu lo sciopero politico generale. L’effica-
cia rivoluzionaria di questo tipo di sciopero sta in questo, che, urtandosi contro il capitale,
disorganizza il potere governativo. Più l’“anarchia” che esso suscita è grande e con obiettivi
vari, più lo sciopero di avvicina alla vittoria. [...]
Nell’istituto del soviet, noi troviamo per la prima volta, sul terreno storico della nuova Rus-
sia, un potere democratico. Il soviet, per mezzo dei suoi membri, con i deputati che gli ope-
rai hanno eletto, presiede direttamente a tutte le manifestazioni sociali del proletariato,
organizza la sua attività, gli dà una parola d’ordine e una bandiera. [...]
Fra gli intellettuali, così numerosi a San Pietroburgo, il soviet aveva più amici che nemici.
La gioventù delle scuole, costituita da migliaia di persone, riconosceva la direzione politica
del soviet e lo sosteneva ardentemente in tutti i suoi atti. Quali erano i suoi avversari? I
rappresentanti del saccheggio capitalista, gli uomini di borsa che giocavano al rialzo, gli
imprenditori, i fornitori del volgo ricco, il sindacato dei proprietari di case, l’alta burocrazia,
gli uomini pubblici largamente mantenuti, la polizia. [...]
Il soviet era l’organo della stragrande maggioranza della popolazione. I nemici ch’esso
poteva avere nella capitale non sarebbero stati pericolosi per la sua dominazione politica,
se non avessero trovato un protettore nell’assolutismo ancor vivo e che s’appoggiava sugli
elementi più retrogradi dell’esercito.
L.D. Trotsky, Millenovecentocinque, Roma, Samonà e Savelli, 1969 (edizione originale in russo
1922).

Dibattito storiografico
Cosa si intende per nazionalizzazione delle masse?

Introduzione
Gli Stati dell’Europa ottocentesca riconoscevano, in genere, come riferimento normativo il
modello dello “Stato di diritto”. All’interno del loro territorio, cioè, le leggi erano – almeno
formalmente – valide nei confronti di tutti, e per tutti allo stesso modo. Ciò significava che
non potevano essere ufficialmente ammessi privilegi giuridici, ceti che li detenessero e leg-
gi, statuti o decreti che ne stabilissero i contorni formali. Tutti i cittadini, in linea di principio,
erano uguali davanti alla legge.
È su questa base di uguaglianza (per la verità ancora molto parziale e precaria) che di-
venne possibile una diffusione del sentimento nazionale. La nazionalizzazione delle mas-
se, infatti, presupponeva un’idea di “nazione” intesa come compatta comunità di destino e
di interessi; ed è evidente che un tale sentimento di coesione poteva essere immaginato e
vissuto solo a partire da una condivisione di diritti e doveri.
Erano state le grandi rivoluzioni di fine Settecento ad affermare il principio che le istitu-
zioni politiche dovessero essere espressione del popolo-nazione, superando o ridimensio-
nando il primato della potestà del monarca. Si comprende, dunque, alla perfezione come
il principio di nazionalità stesse diventando il più importante strumento di legittimazione
degli organi dello Stato.
404 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Tutte le élites socio-politiche europee si convinsero allora – come illustra Alberto Mario
Banti nel testo n. 1 – che dovevano fare lo sforzo di “insegnare la nazione” a contadini, brac-
cianti, artigiani, operai, alfabeti o analfabeti; che dovevano convincere persone che spesso
non vedevano più in là del loro villaggio, o del loro quartiere, di esser parte di più ampie,
e invisibili, comunità nazionali; che dovevano far capire loro quali erano i princìpi che ani-
mavano la vita di queste comunità; e, infine, che questa comune appartenenza nazionale
implicava un atto di lealtà e di consenso alle istituzioni pubbliche che disciplinavano la
vita di tutti.
Gli strumenti che il potere pubblico usò per “costruire le nazioni” furono molteplici. Si
partì, ad esempio, dall’istruzione e, in particolare, dall’istruzione elementare. Non è, dun-
que, un caso che il livello elementare del sistema educativo cominciasse a diventare ob-
bligatorio quasi dovunque, nel mondo occidentale, proprio nella seconda metà dell’Otto-
cento. Ma se la scuola era importante, un altro strumento si segnalò per un contributo non
meno rilevante al radicamento delle identità nazionali: l’esercito o, per meglio dire, la leva
obbligatoria. A questo si aggiunsero, parate, inni e feste nazionali, ovvero i rituali pubblici
pensati appositamente per celebrare la nazione.
A ben vedere, inoltre, un tratto certo non secondario della nazionalizzazione delle mas-
se fu costituito da decisioni e pratiche di carattere prettamente economico. In particolare,
uno stretto rapporto con la costruzione delle identità nazionali ebbe il mutamento negli
indirizzi di politica economica che molti paesi dell’Europa continentale adottarono a parti-
re dagli anni Settanta-Ottanta dell’Ottocento. Il riferimento è a misure come i dazi doganali
e le protezioni tariffarie, finalizzate a difendere la produzione nazionale dalla concorrenza
straniera, e a quei sostegni finanziari diretti o indiretti che gli Stati riconoscevano a deter-
minati settori produttivi per favorirne la crescita, con un occhio di particolare riguardo alle
produzioni belliche.
Nella lettura di Giovanni Montroni (testo n. 2) lo sviluppo dei processi di nazionalizza-
zione delle masse trovò un alleato e un elemento propulsore proprio nella nuova coscien-
za politica dei ceti medi cresciuti in sintonia con i processi di modernizzazione economi-
ca. In quel contesto, presero maggiore vigore anche le richieste di partecipazione politica
provenienti dai gruppi sociali intermedi e popolari, fino al punto che il suffragio universale
(maschile) diventò uno degli obiettivi più concreti di mobilitazione politica: inizialmente
presso gli ambienti democratici e socialisti, ma poi anche in settori sempre più ampi del
mondo liberale e moderato.
Significativamente, la seconda metà del XIX secolo segnò l’inesorabile declino di quelle
entità statali che non potevano contare, per superare ostacoli e difficoltà, su una mobili-
tazione dei sentimenti nazionali. Fu il caso, ad esempio, dell’Austria-Ungheria. Lo rileva
opportunamente Pasquale Villani nel testo n. 3. L’esplosione dei contrasti tra le varie na-
zionalità fu causa della debolezza e della finale disgregazione dell’Impero asburgico, dopo
che per alcuni secoli esso aveva dominato la scena politica dell’Europa centrale.

Testo n. 1
Alberto Mario Banti
La nazionalizzazione delle masse: modalità e problemi
Il pensiero liberale ottocentesco immaginava che solo a ristrette élites dovesse essere ri-
servato il diritto di agire da nazione politicamente attiva, poiché solo le classi “intelligenti”
(i colti e ricchi contribuenti) potevano far buon uso delle libertà politiche. Nella seconda
metà del secolo vi fu chi propose di ammettere anche altri stati della popolazione all’eser-
Capitolo 14. Approfondimenti 405

cizio di tali libertà: era l’ipotesi della democratizzazione dei sistemi politici; e fu il tempo
della formazione di movimenti alternativi, principale fra i quali quello socialista. Quali fu-
rono i diversi aspetti di questo processo? Che cosa lo favorì? [...]
Dal XVIII secolo in poi, e in particolare dall’esperienza della Rivoluzione francese in avanti,
vigeva l’idea che le istituzioni (governi, magistrature e parlamenti, là dove esistevano) doves-
sero essere espressione del popolo-nazione. Il principio di nazionalità stava diventando così il
più potente, efficace e convincente strumento di legittimazione delle élites e delle istituzioni.
E così, nell’Ottocento, molto inchiostro fu versato per spiegare che l’esistenza di una na-
zionalità era il fondamento vero e ultimo di uno Stato; e molti sostenevano che là dove
vi erano nazionalità che non possedevano un proprio Stato, ogni mezzo era lecito – lotta
terroristica compresa – perché questa anomalia fosse corretta, e si ritornasse al “naturale”
stato delle cose: da qui nacquero molte delle turbolenze politiche che scossero l’Europa
del XIX secolo, da qui nacque la cosiddetta lotta delle nazionalità. D’altro canto era in
nome dei sacri diritti della nazione che dal 1792 (guerra della Francia rivoluzionaria contro
Austria e Prussia) si combattevano le guerre tra gli Stati; era in nome di quel principio che
dai primi dell’Ottocento in poi si costruivano gli imperi coloniali; la missione di civiltà che
l’una o l’altra nazione attribuì a se stessa per bocca dei suoi intellettuali o dei suoi politici,
diventò un formidabile strumento retorico di convinzione e auto-convinzione per inseguire
corposi interessi economico-militari in Africa o in Asia o altrove e per poter chiudere gli
occhi con sollievo di fronte a qualche massacro di indigeni che qua e là si fossero messi in
mezzo al cammino della civiltà delle nazioni.
In ogni caso, il principio di nazionalità stava diventando un criterio fondamentale della
lotta politica europea nel corso dell’Ottocento. [...].
Tutte le élites socio-politiche europee si convinsero che dovevano fare lo sforzo di “in-
segnare la nazione” a contadini, braccianti, artigiani, operai, abitanti di aree rurali e non
alfabetizzate; che dovevano convincere “masse”, che spesso non vedevano più in là del
loro villaggio o del loro quartiere, di esser parte di più ampie, e invisibili, comunità nazio-
nali; che dovevano far capire loro quali erano i princìpi che animavano la vita di queste
comunità; e – cosa più difficile e controversa – che questa comune appartenenza nazio-
nale implicava un atto di lealtà e di consenso alle istituzioni pubbliche che disciplinavano
la vita di tutti. Una frase attribuita a Massimo D’Azeglio esprime nel modo migliore e più
sintetico questo tipo di problema: “fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”; costruito uno Stato
(qualunque Stato di quelli esistenti nell’Europa del XIX secolo) sui principi della nazione,
diventava giocoforza far sì che la nazione come compatta comunità di destino e di interessi
prendesse corpo e anima.
Quali furono gli strumenti per “costruire le nazioni”? Un ruolo importante lo ricoprì l’istru-
zione, e in particolare l’istruzione elementare. Si trattava di educare numerose popolazioni
analfabete alla tecnica del leggere e dello scrivere, ed è per questo che il livello elementa-
re del sistema educativo cominciò a diventare obbligatorio quasi dovunque nella seconda
metà dell’Ottocento. Insegnare a leggere e scrivere, dunque. Dare la possibilità a milioni
di persone di informarsi, di imparare qualche fondamentale rudimento scientifico, delle
tecniche, delle pratiche di lavoro. Ma non si trattava solo di questo: nelle aule delle scuole
primarie d’Europa in questi anni si educavano bambini e bambine a pensarsi come parte
della comunità nazionale. L’insegnamento dei “monumenti” storici e letterari che avevano
scandito il passato della Gran Bretagna o della Francia, della Germania o dell’Italia divenne
allora fondamentale (del resto storici e letterati erano stati tra i fondamentali costruttori
406 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

delle ideologie nazionali). Lo studio della geografia era uno studio di confini, in primo luo-
go: chi confina con chi, cosa si differenzia da cosa. E non sarà stato un caso che il principale
“monumento” letterario al patriottismo italiano, Cuore di Edmondo De Amicis (del 1886),
fosse ambientato in una classe terza di una scuola elementare.
Ma se la scuola era importante, c’era un altro strumento che dette un contributo non meno
rilevante al radicamento delle identità nazionali: l’esercito. Il sistema della coscrizione per
classi di età, e della dislocazione dei contingenti dei coscritti in aree geografiche lontane
da quelle di origine, come nel caso dell’esercito italiano, era un sistema deliberatamen-
te pensato per facilitare l’incontro fra cittadini di uno stesso paese, tutti figli della stessa
madre-nazione (e, da questo punto di vista, si dovrò ricordare che molto spesso la rap-
presentazione figurale di Britannia o della francese Marianna o di Germania o di Italia
è – in essenza – quella di una donna, talora armata, vestita con un peplo leggero e a seno
scoperto, a sottolineare che è la nazione che nutre i suoi figli). Non sempre, per la verità, il
sistema della coscrizione dette buoni frutti. Specie quando esso venne introdotto per la pri-
ma volta in aree che non lo avevano mani sperimentato prima, le reazioni furono di rifiuto:
si fuggiva, ci si dava alla macchia, ci si univa a gruppi di briganti, si diventava dei fuorilegge.
È ciò che capitò – per esempio – nell’Italia meridionale subito dopo l’unità, quando il rifiu-
to della leva obbligatoria alimentò lo sconvolgente fenomeno del grande brigantaggio.
Nondimeno, superati i primi traumatici momenti di adattamento, il sistema sembrò avere
qualche non trascurabile effetto. Molti giovani si trovarono a sperimentare di persona ciò
che avevano sentito ripetere quand’erano sui banchi di scuola: che la nazione era una co-
munità di eroi; che era un corpo compatto e disciplinato, espressione di un’unica volontà;
e che l’apoteosi dell’eroismo nazionale stava proprio nella forza e nella capacità d’azione
del suo esercito. Non è detto che tutti i soldati abbiano creduto fino in fondo a retoriche di
questo tipo: ma certo il messaggio era martellato in tutte le occasioni, in tutte le forme, in
tutte le circostanze.
E tra queste, particolarmente appropriate per il dispiegamento di tali autorappresentazio-
ni, erano le feste nazionali, ovvero i rituali pubblici pensati appositamente per celebrare (e
per quella via continuare a illustrare) la nazione. Nessuna meraviglia nell’osservare che le
feste nazionali furono un’invenzione dell’Ottocento. Nel Regno d’Italia il rito nazionale uffi-
ciale fu la festa dello Statuto, che celebrava i fasti del Risorgimento; nella Francia della Ter-
za repubblica fu la commemorazione della presa della Bastiglia, che ricordava il momento
fondativo del popolo in nazione; nella Germania imperiale fu la ricorrenza della vittoria di
Sedan, scelta come momento simbolico in cui la nazione tedesca si faceva Reich. Col che
si deve osservare che ciascuna celebrazione nazionale sceglieva un rappresentazione di se
stessa non certo del tutto conforme a quella delle altre: risonanze democratiche si colgono
nel 14 luglio francese, mentre nella celebrazione tedesca di Sedan non c’era nient’altro
che l’esaltazione della forza militare della nazione all’atto della sua nascita come impero.
Sia come sia, e con tutte le varianti specifiche che solo analisi comparative di dettaglio per-
metterebbero di apprezzare a fondo, ciò che si celebrava qui era la nazione una e indivisibi-
le. Una dimensione presto tradotta in immagini: non solo la figura di donna che rappresenta
le nazioni, e che si ricordava prima; ma le bandiere, gli inni, i monumenti e i personaggi-
simbolo furono gli strumenti di queste “sacre-laiche” rappresentazioni. E una rapida pano-
ramica sulle date di nascita delle bandiere o degli inni nazionali ci convince del fatto che
tutto questo repertorio simbolico era qualcosa che aveva a che fare con la recente esperien-
za della definizione delle nazioni, anzi ne fu addirittura una delle manifestazioni primarie,
espressivamente e cronologicamente: l’inno Rule Britannia è del 1740, mentre God save the
Capitolo 14. Approfondimenti 407

king è del 1743; il Chant de l’armée du Rhin, meglio noto come Marsigliese, è del 1792; la
Marcia reale dei Savoia è del 1834 (ma anche l’Inno di Mameli, adottato come inno naziona-
le solo dopo la Seconda guerra mondiale, è del 1847-48); Deutschland über alles è del 1841.
Sebbene questi aspetti culturali del “costruire nazioni” siano stati importanti, un tratto cer-
to non secondario di questo fenomeno fu costituito da decisioni e pratiche assai più imme-
diatamente concrete. In particolare, uno stretto rapporto con la costruzione delle identità
nazionali ebbe il mutamento negli indirizzi di politica economica che molti Paesi dell’Eu-
ropa continentale adottarono a partire dagli Settanta-Ottanta dell’Ottocento. Si trattava di
una profonda inversione di rotta rispetto alla dottrina economica dominante nei decenni
precedenti, radicalmente liberista. Il mentore teorico del nuovo sistema fu l’economista
tedesco Friedrich List (1789-1846), che andò a soppiantare Adam Smith (1723-90) nell’olim-
po dei riferimenti cui ricorrevano politici, giornalisti e intellettuali per giustificare le nuove
soluzioni proposte. Si trattava di una dottrina particolarmente adatta per i paesi cosiddetti
second o late comers, ovvero quelli che – a metà Ottocento – avevano raggiunto un livello
di sviluppo economico ancora modesto, certo molto inferiore allo sviluppo già raggiun-
to dal colosso dell’economia primo-ottocentesca, l’Inghilterra. Dunque – recitava il nuovo
“credo” economico – per difendersi dalla concorrenza dei prodotti che venivano dalle aree
più sviluppate (merci prodotte con tecnologie avanzate, a costi più bassi, e quindi altamen-
te competitive), era giusto che i paesi meno sviluppati introducessero misure per difendere
i mercati interni, così come provvidenze per favorire le produzioni interne. Lo strumento
fondamentale per compiere questa operazione fu quello dei dazi doganali, imposizioni
fiscali sulle merci importate che ne aumentavano il prezzo sul mercato di destinazione, e
che quindi ne diminuivano la competitività a confronto con i prodotti interni. D’altro canto,
a fianco delle protezioni tariffarie, anche altri strumenti vennero adottati per sostenere
le produzioni nazionali, sotto forma di sostegni finanziari statali diretti o indiretti, di leggi
particolarmente favorevoli a un settore o a un altro, di connessioni immediate tra lo Stato
nella sua veste di cliente e le aziende produttrici (una relazione di enorme importanza per
tutto ciò che concerneva le produzioni belliche, dai fucili ai proiettili, alle corazze di accia-
io per le navi della marina militare, agli indumenti per i soldati). [...].
Misure di questo genere vennero ovunque illustrate e difese attraverso un’aggressiva re-
torica degli “interessi nazionali”: proteggere il mercato interno, aiutare i produttori interni,
erano tutti obiettivi presentati sotto la luce della difesa del “lavoro della nazione”; era il
sacro egoismo patriottico che imponeva un intervento attivo degli Stati nell’economia, e il
corto circuito più travolgente tra retoriche nazionaliste e interessi si ebbe soprattutto lad-
dove si trattava di aiutare, o di costruire dal nulla, un’industria bellica che potesse rendere
la nazione autosufficiente in un settore così essenziale per la sua identità simbolica, non
meno che per la sua sopravvivenza materiale. [...].
Nel contesto degli Stati-nazione, quali erano i diritti di cittadinanza delle masse “nazio-
nalizzande”? Gli Stati dell’Europa dell’Ottocento ambivano a costituirsi in “Stati di diritto”,
ovvero in Stati all’interno del cui territorio le leggi fossero valide nei confronti di tutti, e per
tutti allo stesso modo. Questo principio aveva soprattutto un significato: voleva dire che –
negli assetti istituzionali dell’Europa post-rivoluzionaria, post-napoleonica – non potevano
esserci privilegi, e ceti che li detenessero, e leggi o statuti o decreti che ne stabilissero i
contorni formali. Tutti i cittadini erano uguali davanti alla legge. Ma, enunciato il principio,
c’erano anche numerose eccezioni, la più importante delle quali riguardava i diritti politici.
Anzi, il liberalismo costituzionale ottocentesco, la corrente d’opinione che con più forza
e convinzione aveva sostenuto la necessità di costruire Stati di diritto dotati di istituzioni
408 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

rappresentative (di parlamenti, cioè), aveva tra i suoi presupposti fondativi l’idea secondo
la quale non tutti potessero godere di diritti politici attivi.
Il parlamento – si diceva – esprime la volontà della nazione; ma tale volontà può essere
interpretata ed espressa solo da coloro che abbiano gli strumenti adeguati per poter assol-
vere a tale funzione. Dunque era chiaro che i soggetti “naturalmente” immaturi dovevano
essere esclusi dalla partecipazione alla vita pubblica: i bambini e le donne, intanto. Ma
anche coloro che non avevano un adeguato grado di istruzione o un adeguato grado di au-
tonomia economica dovevano essere dispensati dal compito di occuparsi dei destini della
nazione. Come avrebbero potuto farlo adeguatamente? Analfabeti, non avrebbero potuto
leggere i testi, raccogliere le informazioni necessarie, partecipare alla stesura delle leggi.
Poveri, avrebbero potuto essere esposti alle lusinghe della corruzione, farsi comprare da
altri, più potenti e privi di scrupoli; e d’altro canto, il loro stato di povertà li avrebbe privati
del tempo libero necessario per studiare, leggere e informarsi; tutto ciò che era necessario
per poter esprimere pareri saggi e autonomi sulla cosa pubblica. In tal modo, nella tra-
dizione liberale dominante nell’Europa del XIX secolo, passò l’idea che se il corpo della
nazione includeva tutti coloro che, vivendo sul territorio nazionale, possedevano i requi-
siti etno-culturali che ne facevano in senso proprio dei cittadini, pure la volontà di questo
corpo nazionale poteva essere interpretata solo da una sua più piccola sezione, la sanior
et melior pars, in un certo qual modo, ovvero i ricchi e i colti. È bene sottolineare che se
in questa distribuzione dei diritti politici emergeva un’evidente distinzione di classe, pure
le argomentazioni che la sorreggevano non avevano un immediato carattere classista. La
politica era cosa per i ricchi e per i colti, perché solo costoro potevano sviluppare le compe-
tenze necessarie per interpretare i voleri della nazione ed essere, al tempo stesso, immuni
dalle sirene della corruzione. [...].
La profonda contraddizione che stava alla base degli Stati-nazione ottocenteschi, soprat-
tutto man mano che si dotavano di istituzioni rappresentative e man mano che il processo
di educazione delle masse alla nazione andava avanti, non si poteva nascondere troppo a
lungo. [...]. Com’era possibile che l’appartenenza ad un comune ceppo etno-culturale, l’ap-
partenenza a una medesima comunità di destino, non potesse avere come ovvia conse-
guenza l’eguale partecipazione di tutti all’elaborazione delle linee che dovevano guidare
la vita della nazione?
[...]. Alcuni conservatori (forse perfino più spesso dei liberali ortodossi) ritenevano che l’in-
troduzione di istituzioni politiche democratiche (il suffragio universale maschile, ad esem-
pio) avrebbe avuto un esito esattamente opposto a quello che molti temevano: un assetto
democratico della rappresentanza – magari corretto da qualche opportuno aggiustamento
– non avrebbe potuto avere che implicazioni positive: per esempio, avrebbe rafforzato in
tutti i cittadini il sentimento di lealtà nei confronti delle istituzioni e delle élites, che sa-
rebbero uscite da un procedimento di selezione a cui tutti (ma sempre con l’esclusione dei
giovani e delle donne), in un modo o nell’altro, avrebbero partecipato. [...].
Allora, cosa poteva impedire che il processo di “nazionalizzazione delle masse” avesse
il suo degno completamento con l’estensione a tutti dei diritti di voto? I sostenitori della
tradizione liberale classica facevano notare che – fin dalla prima metà dell’Ottocento – si
erano andati formando movimenti che non chiedevano solo trasformazioni di carattere
politico; tali movimenti avevano come obiettivo la riforma profonda del sistema econo-
mico e sociale e, a rimarcare un polemico dissenso di natura quasi antropologica, si ri-
chiamavano non tanto a principi nazionali, ma a una fratellanza internazionale di tutti gli
oppressi: erano i socialisti che spaventavano. In altri casi al timore dei “rossi” si univa il ti-
Capitolo 14. Approfondimenti 409

more dei “neri”, ovvero dei cattolici papisti, di coloro che riconoscevano nel papa non solo
una guida spirituale, ma anche una guida politica. La preoccupazione era particolarmente
forte nel caso italiano, dove il compimento dell’unificazione aveva significato l’abolizione
del potere temporale del papa, e una durissima reazione di Pio IX, che si era rifiutato di
riconoscere la legittimità delle istituzioni del nuovo Stato (oltre a condannare anche il
liberalismo come uno degli “errori del tempo”; l’enciclica Quanta cura con il Sillabo degli
errori del nostro tempo è del 1864), raccogliendo su questa strada numerosi seguaci, ov-
vero tutti quei cattolici che si chiamarono “intransigenti” e che dal 1875 si organizzarono
in un movimento socio-politico dai tratti vistosamente anti-liberali, l’Opera dei Congressi.
Insomma – con tutte le possibili varianti specifiche che ebbe questo processo – era comune
nelle opinioni di orientamento liberale il timore che una democratizzazione del sistema po-
litico avrebbe potuto dare quest’ultimo in ostaggio a movimenti che avevano come obietti-
vo di chiarato un mutamento degli assetti costituzionali, se non dello stesso sistema sociale
ed economico. Le due posizioni – pro e contro la democratizzazione – erano entrambe
dotate di buoni fondamenti. E la soluzione del contrasto fu diversa da sistema a sistema.
In alcuni casi, come nella Germania guglielmina, a una precoce concessione del suffragio
universale maschile per l’elezione dei membri del Reichstag (1871) fece da contrappeso
una complessiva architettura costituzionale che attribuiva vasti poteri all’imperatore e al
cancelliere (il capo del governo). In altri casi il suffragio universale venne introdotto come
premessa a una vera e propria democratizzazione del sistema politico, come nella Francia
della Terza Repubblica [...]. In altri casi ancora il processo di allargamento fu più graduale e
dilazionato nel tempo. Nel Regno Unito gli ampliamenti del corpo elettorale del 1867 e del
1884-85 portarono gli elettori al 7,7% del totale della popolazione, dopo la prima riforma, e
al 16% circa, dopo la seconda; il suffragio universale maschile venne introdotto nel 1918. In
Italia un primo ampliamento del suffragio si ebbe nel 1882, quando gli elettori diventarono
il 6,9% sul totale della popolazione; nel 1912 venne approvata una legge che introduceva
il suffragio universale maschile, seppure con un certo numero di limitazioni (poi eliminate
nel 1918).
Vista con gli occhi di molti liberali o conservatori europei la democratizzazione dei sistemi
politici ottocenteschi era apparsa con i tratti minacciosi di un imprevedibile salto nel buio.
Ma osservata da un’altra postazione, da quella dei leader o dei militanti del nascente mo-
vimento socialista, questo passaggio poteva anche essere considerato come la prima fase
di una trasformazione epocale, che avrebbe modificato i modi di produzione, eliminato le
disuguaglianze sociali, cancellato sfruttamento e povertà.
A.M. Banti, La nazionalizzazione delle masse, in AA.VV., Storia contemporanea, Roma, Donzel-
li, 1997, pp. 151, 161-170.

Testo n. 2
Giovanni Montroni
La metamorfosi del nazionalismo
Nel 1848 erano arrivati a maturazione alcuni elementi culturali e politici non del tutto nuovi
che, dopo quella data, avrebbero determinato cambiamenti assai importanti. Lo sviluppo
del movimento nazionalista, embrionale all’inizio del secolo, trovò un alleato e un elemen-
to propulsore nella nuova coscienza politica della piccola borghesia terriera e di un ceto
medio che cresceva in sintonia con i processi di modernizzazione economica. Tra coloro
che si dimostrarono sensibili al fenomeno nazionalista vi furono professori, amministratori,
410 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

intellettuali, in breve i gruppi a più alto livello culturale. Sembra di poter dire che il fenome-
no nazionalista fosse direttamente proporzionale ai livelli di istruzione. Anche per il forte
analfabetismo che caratterizzava l’intera Europa della prima metà dell’800, il nazionalismo
non interessò gli strati popolari se non in Francia, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna e – per
ragioni diverse – in Irlanda. In quest’ultima, il nazionalismo si saldava con il forte sentimento
religioso e anglofobo che già negli anni ’20 aveva trovato in Daniel O’Connell un leader
capace di condurre un vasto movimento alla vittoria della “emancipazione” cattolica (1829).
Il nazionalismo si intrecciava con il processo di formazione dello Stato nazionale e sovrano.
A modificare profondamente il quadro politico europeo negli anni delle rivoluzioni fu la
transizione da forme statali di tipo assolutistico, in cui la potestà apparteneva al monarca,
ad altre in cui l’autorità si fondava sul popolo sovrano. Il principio della sovranità popola-
re, che si diffondeva nella società dall’alto, a partire dai gruppi borghesi più ricchi fino ai
gruppi popolari, contribuì a definire una nuova immagine dello Stato: quest’ultimo, infatti,
aveva anzitutto il compito di garantire ai cittadini – non più sudditi – benessere collettivo
e tutela delle libertà individuali. Il principio nazionale e il cambiamento profondo della
natura dello Stato davano vigore alle richieste di partecipazione politica provenienti dai
gruppi sociali più bassi della gerarchia. Il suffragio universale, già sperimentato nel ’48 in
numerosi paesi, diventò l’obiettivo politico più concreto di mobilitazione. La diffusione del
nazionalismo fu in gran parte una conseguenza dello sviluppo economico e dei processi di
industrializzazione, che dilatavano lo spazio cui gli individui facevano riferimento e ridu-
cevano la rilevanza economica – ma anche sociale e politica – delle comunità locali. Nel
contesto appena descritto, le aspettative e le pretese degli individui nei confronti dello
Stato non potevano che aumentare.
Il 1848 segnò un passaggio storico fondamentale del nazionalismo. Fino a quella data,
grosso modo, il nazionalismo aveva mantenuto un registro internazionalista assai accen-
tuato. Dopo quella data, e più visibilmente dopo l’unificazione tedesca, il principio nazio-
nale si affermava all’interno degli Stati e tra quelle nazioni che erano rinchiuse in contesti
statuali plurinazionali.
La guerra di Crimea mostra in maniera sufficientemente chiara il diverso contenuto acqui-
sito dal nazionalismo. La guerra iniziò col rifiuto della Sublime Porta (l’Impero ottomano)
di riconoscere il protettorato che i russi volevano imporre ai cristiani ortodossi della Va-
lacchia e della Moldavia. Da qui una pesante sconfitta navale inflitta dai russi all’Impero
ottomano (1853) e il sostegno fornito da Francia e Gran Bretagna ai turchi. La guerra, che
vide anche la partecipazione del Piemonte a fianco di Francia e Gran Bretagna, impanta-
nata nel lungo assedio di Sebastopoli, finì solo nel 1855. L’anno successivo, il congresso di
Parigi imponeva alla Russia il rispetto dei confini dell’Impero ottomano. Il carattere nazio-
nalistico dell’avvenimento è dovuto anzitutto al ruolo assunto dal popolo nello scontro e
all’intensa attività di propaganda antirussa che toccava in Gran Bretagna punte di estrema
vivacità e aggressività. La corrente di russofobia popolare che percorse la Gran Bretagna
coincise, infatti, con una fiammata patriottica. Da parte sua, il Piemonte volle incassare il
premio per la sua partecipazione, richiamando – nel congresso di Parigi – l’attenzione sul
problema della nazionalità italiana.
Il logoramento progressivo dell’Impero ottomano e le aspirazioni delle nazioni danubiano-
balcaniche a rendersi autonome spinsero le grandi potenze europee – Russia e Austria in
particolare – a definire su nuove basi i confini dei territori sotto il controllo della Sublime
Porta. In tal modo, si creavano le premesse di una conflittualità continua e la cronicizzazio-
ne di quella che si usa chiamare “questione d’oriente”. La guerra di Crimea è stata un epi-
Capitolo 14. Approfondimenti 411

sodi di una serie lunga e sempre più destabilizzante degli equilibri europei. Il nazionalismo
crescente, inoltre, degli Stati della Confederazione germanica e della penisola italiana pre-
parava conflitti che avrebbero inciso profondamente sugli assetti territoriali e non meno
sui sentimenti collettivi delle popolazioni europee.
G. Montroni, Scenari del mondo contemporanea dal 1815 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2005,
pp. 21-22.

Testo n. 3
Pasquale Villani
Il nazionalismo: elemento di coesione nel Reich, di disgregazione nell’Impero
asburgico
La politica repressiva di Bismarck contro la socialdemocrazia fu un fallimento; non altret-
tanto può dirsi dei provvedimenti protezionistici votati in quegli stessi anni e nello stesso
clima, che costituirono le basi di quell’arroccamento nazionalistico, di quella politica di po-
tenza che doveva dimostrarsi un ostacolo insuperabile per l’internazionalismo socialista e
che, congiungendosi alla capacità di espansione del capitalismo industriale, avrebbe prima
portato all’espansione imperialistica e poi al conflitto mondiale.
La collaborazione tra il cancelliere Bismarck, avvezzo a dominare la politica del Reich da
un ventennio, e il nuovo imperatore Guglielmo II, deciso a imporre la sua volontà, era im-
possibile. Il risultato delle elezioni del 1890, nelle quali il partito socialdemocratico con-
quistò il 20% degli elettori e sarebbe diventato il gruppo parlamentare più forte nel Rei-
chstag se fosse stato in vigore il sistema proporzionale, furono una nuova conferma della
inefficacia delle leggi antisocialiste che Bismarck intendeva invece rendere più rigide e
permanenti. Lo scacco elettorale, insieme con divergenze sui rapporti con la Russia, for-
nirono l’occasione a Guglielmo II per liberarsi del vecchio uomo di Stato. Era chiamato a
succedergli il generale von Caprivi; il nuovo cancelliere non apparteneva all’aristocrazia
prussiana, aveva capacità di mediazione e impostò una linea di governo che tenesse mag-
gior conto della volontà dei partiti e del parlamento ed eliminasse i contrasti più stridenti
tra l’ordinamento costituzionale del Reich e quello della Prussia.
La resistenza prussiana fu irriducibile; la posizione di Caprivi divenne insostenibile quando
egli cercò anche di attenuare le misure protezionistiche, scatenando contro di sé il Bund
der Landwirte, la lega degli agricoltori nella quale i grandi proprietari conservatori era-
no riusciti ad unire anche i coltivatori diretti in nome della difesa degli interessi agricoli.
Nel 1894 Caprivi si dimise e Guglielmo II scelse come cancelliere il principe di Hohenlohe,
il quale, nei propositi dei circoli di corte, doveva coprire, col suo passato di liberale, una
svolta decisamente reazionaria, ripristinando le leggi antisocialiste e limitando la libertà
d’associazione. Questi piani fallirono per la resistenza del Reichstag.
Acquistavano intanto posizione di forza nel governo l’ammiraglio Tirpitz e il barone von
Bülow. Von Tirpitz lanciava nel 1898, promuovendo una legge per il potenziamento della
marina, il programma di armamento navale che finì per contrapporre la Germania all’In-
ghilterra. Von Bülow, che presto ottenne la piena fiducia di Guglielmo II e assunse la carica
di cancelliere, sembrò inclinare verso forme di parlamentarismo. Nei primi anni del No-
vecento fu infatti superato il contrasto che fino allora aveva caratterizzato i rapporti tra
governo e assemblea elettiva. Il richiamo alla solidarietà nazionale, in nome della politica
di potenza mondiale, si rivelava più efficace delle leggi antisocialiste e della contrappo-
sizione dell’autorità del cancelliere imperiale agli orientamenti dei partiti del Reichstag.
412 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

L’imperialismo trovava largo consenso nei partiti e nell’opinione pubblica. Il compito di


isolare i socialdemocratici diventava più facile. Lo si vide, ad esempio, nelle elezioni del
1907 quando i socialdemocratici furono puniti dall’elettorato per essersi opposti alla re-
pressione della rivolta degli ottentotti nella colonia tedesca dell’Africa sud-occidentale.
Su una mobilitazione dei sentimenti nazionali per superare difficoltà interne, promuoven-
do una politica di espansione e di potenza, non poteva invece contare l’Austria-Ungheria.
L’esplosione, anzi, dei contrasti tra le varie nazionalità fu causa della debolezza e della
finale disgregazione dell’Impero asburgico, che per alcuni secoli aveva dominato nell’Eu-
ropa centrale. Un episodio significativo, e quasi aneddotico, dei contrastanti orientamenti e
sentimenti esistenti tra le popolazioni dell’impero è il fatto che tra il 1876 e il 1877, mentre
i cittadini di Budapest offrivano una spada al vincitore turco dei serbi, i cechi ne offrivano
una al condottiero serbo sconfitto.
La necessità di trovare qualche soluzione al problema delle autonomie nazionali aveva
portato al “compromesso” del 1867 che dava vita alla “monarchia dualistica”. Si riconosce-
va la preminenza politica dei due gruppi nazionali più forti, che contavano all’incirca dieci
milioni ciascuno, i tedeschi nella parte austriaca e i magiari nella parte ungherese. Ma la
popolazione totale dell’impero ammontava ad oltre 45 milioni di abitanti e, in cifre tonde,
considerando solo le nazionalità più numerose, vi erano oltre 6 milioni di cechi, quasi 5
milioni di polacchi, poco meno di 4 milioni di ruteni, 3 milioni di romeni, quasi 2 milioni di
slovacchi, minoranze serbe, croate e slovene ciascuna tra 1 e 2 milioni. Gli italiani erano
circa 700.000, ma costituivano un problema di non minor rilievo politico, date l’attrazione
del Regno d’Italia da poco unificato e la forte pressione che in esso si manifestava per la
liberazione delle “terre irredente”.
P. Villani, La civiltà europea nella storia mondiale. III. L’età contemporanea, Bologna, Il Mulino,
1983, pp. 232-235.
Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea:
dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra
di Carlo De Maria
Roma (BraDypUS) 2018
ISBN 978-88-98392-70-4
pp. 413-426

Capitolo 15. Il primo cinquantennio


post-unitario
Profilo storico

Il problema fondamentale dell’Italia post-unitaria fu quello del consolidamento delle struttu-


re statali e della compagine nazionale. A differenza dei paesi europei di più antica tradizione
unitaria, come Francia e Inghilterra, dove la formazione di una comunità nazionale aveva se-
guito lentamente la costituzione degli organismi statali, in Italia i processi di statalizzazione e
di nazionalizzazione procedettero in maniera contratta, e senza poter contare – a differenza
della Germania, l’altro grande Stato di recente unificazione – su un possente nucleo burocra-
tico e militare (quale era la Prussia all’interno dell’area germanica) intorno al quale costruire
lo Stato-nazione.
Nel caso italiano, non fu dunque semplice colmare le tante e profonde fratture che di-
videvano le differenti aree regionali (dove erano stati a lungo in vigore ordinamenti politici
e sociali talvolta profondamente diversi) e amalgamare classi dirigenti fortemente legate
alle proprie realtà territoriali e ai relativi interessi particolari, spesso legittimi, ma che ora
era necessario riuscire a comporre in una sintesi nazionale. Per non parlare di un problema
aggiuntivo di non poco conto, come la separatezza che, fino all’inizio del Novecento, parte
del mondo cattolico mantenne rispetto alle istituzioni dello Stato unitario e ai progetti
della società liberale (cap. 10, par. 4.4).
La nazionalizzazione della politica procedette lungo diverse strade, ma si realizzò so-
prattutto grazie al progressivo allargamento del suffragio elettorale, sia politico che ammini-
strativo, e cioè grazie allo scambio tra centro e periferia – tra governo e territori – che riuscì
a incanalare e far incontrare, un poco alla volta, gli interessi particolari e locali con i centri
istituzionali e le esigenze più generali del paese.
Proprio a causa delle condizioni di partenza, lo Stato italiano avrebbe comunque man-
tenuto a lungo caratteri di debolezza e precarietà non riscontrabili in egual misura nelle
altre potenze europee.
414 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

15.1. I governi della Destra storica e il pareggio di bilancio

Le due parti politiche principali che caratterizzarono la vita parlamentare nei primi decenni
post-unitari, la Destra storica e la Sinistra liberale, ricalcavano una divisione che risaliva, in
buona misura, alle lotte risorgimentali. La distinzione, cioè, tra chi aveva voluto “fare l’Italia”
in stretto accordo con la monarchia sabauda – la Destra, al potere dal 1861 al 1876 – e chi
invece era stato più vicino all’iniziativa democratica e popolare, accettando in seguito di
agire nella cornice istituzionale del nuovo Stato liberale e monarchico: la Sinistra, che guidò
il paese dal 1876 al 1887.
In realtà, dopo il 1870, con l’annessione di Roma e il completamento quasi definitivo del
processo di unificazione (mancavano ancora all’appello, per la verità, il Trentino, parte del
Friuli e la Venezia Giulia), tale distinzione era in gran parte superata dagli avvenimenti. Ri-
mase, tuttavia, ben visibile tra i due schieramenti una contrapposizione politico-culturale,
in base alla quale era possibile tracciare alcune linee di demarcazione: la Destra rappre-
sentava – pur con alcuni aggiustamenti – la continuazione della linea politica cavouriana,
rispettosa custode delle libertà individuali, ma sostanzialmente elitaria nella sua conce-
zione della vita pubblica e legata, in particolare, a un suffragio elettorale fortemente ri-
stretto (con il corollario di una certa diffidenza verso la democrazia e le masse popolari); al
contrario, la Sinistra mostrava in genere un carattere più progressista, favorevole all’allar-
gamento del suffragio, e maggiormente aperto al confronto con le posizioni politiche non
ortodosse dal punto di vista monarchico-costituzionale: dai repubblicani ai primi gruppi
socialisti.
Sulla condotta dei governi della Destra storica tra il 1861 e il 1870 si rimanda a quanto
scritto in un precedente capitolo (cap. 10, par. 4). Negli anni immediatamente successivi, la
questione cruciale che si pose davanti a essi fu quella rappresentata dalla situazione finan-
ziaria. Sulla gravità del disavanzo statale pesavano i debiti pubblici degli Stati preunitari, ma
anche le ulteriori spese straordinarie affrontate dall’Italia per la guerra del 1866. Come se
non bastasse, le difficoltà di bilancio stridevano con l’urgente necessità di trovare risorse per
costruire o completare le infrastrutture indispensabili (strade, ferrovie, porti, ecc.) alla moder-
nizzazione del paese.
Tutto ciò fece sì che il raggiungimento del pareggio di bilancio e, dunque, il risanamen-
to dei conti pubblici divenisse nell’agenda di governo della Destra l’obiettivo prioritario da
realizzare, per porre le premesse di nuovi investimenti pubblici e per guadagnare, contem-
poraneamente, la stima e la considerazione degli altri paesi europei. A partire dal 1869-70
fu questa la linea perseguita dagli esecutivi guidati dal piemontese Giovanni Lanza (1869-
1873) e dall’emiliano Marco Minghetti (1873-1876). L’obiettivo fu raggiunto con Minghetti
nel 1875, ma soprattutto grazie al lavoro compiuto negli anni precedenti dal biellese Quin-
tino Sella, ministro delle Finanze nel governo Lanza.
Si trattò di un importante successo per la Destra storica, proprio in quanto non fu un
semplice richiamo all’austerità, bensì un disegno più complessivo di crescita del paese. Esso
dimostrava, oltretutto, la capacità dei Lanza e dei Minghetti di rivisitare e rinnovare il li-
berismo di ascendenza cavouriana, adottando una linea politica che presentava caratteri
parzialmente interventisti. Un nuovo modo di concepire la funzione del potere pubblico,
come stimolo e impulso delle dinamiche economiche e sociali, di fronte a una società civile
percepita come debole e disgregata.
Questa evoluzione, che era evidentemente dettata dalle necessità del paese, incontrò
però ostacoli interni fortissimi. La crisi della Destra storica maturò, infatti, tra il 1875 e il
Capitolo 15. Il primo cinquantennio post-unitario 415

1876 proprio sui temi della difesa del liberismo economico. Attorno a questa “bandiera” si
ritrovarono alcune parti della classe dirigente moderata, che si opposero, ad esempio, al
provvedimento di statalizzazione delle ferrovie, fortemente voluto dal governo Minghetti.
Un provvedimento che sicuramente avrebbe favorito la crescita infrastrutturale ed econo-
mica della penisola, ma che altrettanto certamente avrebbe danneggiato le compagnie
private che gestivano allora, con criteri poco uniformi e non in sinergia tra loro, sia la rete
ferroviaria che il trasporto su ferro. E si trattava di aziende che avevano forti legami con la
politica e con la maggioranza di governo.
A causa di ostacoli e conflitti di tale natura, la statalizzazione delle ferrovie italiane
sarebbe stata realizzata solamente trent’anni più tardi, in epoca giolittiana, e precisamente
nel 1905.

15.2. Tra “rivoluzione parlamentare” e “trasformismo”: la Sinistra


liberale al governo

Nel marzo 1876, in seguito alla crisi del governo Minghetti sulla questione ferroviaria, si
insediò il primo governo espressione della Sinistra liberale. Era guidato dall’esponente po-
litico piemontese Agostino Depretis, leader riconosciuto di quello schieramento, nel quale
emergevano peraltro altre figure di rilievo, come Benedetto Cairoli e Giuseppe Zanardelli,
entrambi lombardi, ma anche uomini politici meridionali (più rari invece ai vertici della
Destra storica) come Giovanni Nicotera, calabrese, e Francesco Crispi, siciliano, che riven-
dicavano un maggiore peso del Sud alla guida del paese.
Si parlò di una “rivoluzione parlamentare”, ma il cambiamento fu, da questo punto di
vista, meno netto rispetto a quanto la parola “rivoluzione” potesse alludere. La base che
reggeva la nuova maggioranza era infatti molto eterogenea e comprendeva anche deputa-
ti che avevano precedentemente sostenuto la Destra. È il caso di ricordare, infatti, che non
esistevano ancora, in questa fase della storia politica italiana, partiti veri e propri, dotati
cioè di una struttura organizzativa articolata e di precise regole interne; a confrontarsi in
parlamento erano raggruppamenti di notabili, di singole personalità, che si formavano e
si alleavano in quella sede sulla base di affinità politico-culturali e di interessi comuni (di
natura economica, territoriale, elettorale, ecc.). Pertanto, non era sorprendente che la dia-
lettica tra i gruppi si manifestasse in certi frangenti come molto fluida e soggetta a rapide
scomposizioni e abili riposizionamenti.
Benché tra anni Sessanta e Settanta si fosse delineato un confronto piuttosto netto e
serrato tra Destra e Sinistra – la prima al governo, la seconda all’opposizione – è possibile
affermare che in Italia non si realizzò mai un regime parlamentare di tipo inglese, basato
cioè sull’alternanza di due formazioni politiche secondo il modello del bipartitismo (cap.
13, Costituzione e cittadinanza). Questa diversità del contesto politico italiano si chiarì a
partire dagli anni Ottanta del XIX secolo, quando – come si sta per vedere – da una parte
nacquero altri raggruppamenti e partiti di carattere radicale, repubblicano e socialista, e
dall’altra i due schieramenti principali si rivelarono sempre meno alternativi tra loro.
Fu la riforma elettorale del 1882, preceduta da un intenso dibattito iniziato fin dal 1876, a
portare per tanti versi a una svolta. L’allargamento del suffragio era stato fortemente voluto
da Depretis e dagli uomini della Sinistra, che lo avevano difeso come un elemento distinti-
416 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

vo e caratterizzante del loro programma, indispensabile per allargare le basi sociali dello
Stato. Nello stesso tempo, però, la nuova legge elettorale – per il dettaglio della quale si
rinvia al par. 3 – destava più di una preoccupazione tra i suoi stessi fautori e nell’intera clas-
se dirigente liberale. Agli occhi di moderati e progressisti era quanto meno consigliabile,
se non necessario, fare in modo che le ali estreme “antisistema”, repubblicane e socialiste
(al momento poco o per nulla presenti in parlamento, ma piuttosto attive nella società),
non potessero sfruttare l’ampliamento del suffragio per incidere in maniera determinante
sulla vita politica. In concreto, rispetto alle temute conseguenze dell’ampliamento del voto,
Sinistra e Destra finirono per mettere in pratica una sorta di reazione difensiva che portò a
una larga confluenza dei due “partiti liberali” in un grande Centro e, in sostanza, alla loro
scomparsa come schieramenti distinti.
L’operazione fu diretta da Depretis attraverso la parola d’ordine della “trasformazione
dei partiti”, da lui proposta con forza crescente a partire dal 1882, ma già contenuta in nuce
in suoi precedenti discorsi politici. La modalità operativa consistette in accordi elettorali e
liste comuni tra i liberali di Destra e di Sinistra, in modo da togliere spazio alle opposizioni.
Significativamente, come risposta a questo disegno unificante, all’interno della Sinistra
liberale emerse, fin dalla fine degli anni Settanta, una sinistra “nuova” e “radicale” che, in
contrapposizione alla componente storica, portò una più decisa attenzione sui temi del
rinnovamento istituzionale e sociale, incentrando su di essi vigorose battaglie di opinione.
Anche grazie all’ampio dibattito in corso sull’allargamento del suffragio elettorale, i grandi
dibattiti ideali che investivano temi come il rapporto dello Stato con i cittadini, la scuola
pubblica, le autonomie locali, la difesa delle libertà fondamentali, cominciavano a uscire
dagli ambienti ristretti della classe politica avviandosi a diventare campo d’azione e di
propaganda nella società.
Gli esponenti di questo nuovo raggruppamento parlamentare e politico – il cui espo-
nente principale fu probabilmente il milanese Felice Cavallotti – presero il nome di “Ra-
dicali” e divennero la componente più numerosa di uno schieramento variegato ma effer-
vescente, denominato “Sinistra estrema” o, semplicemente, “Estrema”, che comprendeva,
oltre a loro, i deputati repubblicani, capeggiati da Agostino Bertani, e quelli socialisti. Nelle
elezioni del 22 ottobre 1882, infatti, per la prima volta nella storia del parlamento italiano,
venne eletto anche un deputato socialista, il romagnolo Andrea Costa, leader del Partito
socialista rivoluzionario di Romagna, una formazione politica a base regionale, da lui fon-
data l’anno precedente, che sarebbe confluita, all’inizio del decennio successivo, all’interno
del Partito socialista italiano, nato nel 1892.
Furono loro, i Bertani, i Cavallotti e i Costa – insieme alle poche decine di deputati
dell’Estrema – i principali critici del “trasformismo”; un termine che derivava proprio dallo
slogan di Depretis, ma che venne adottato sempre più spesso in senso negativo per riferirsi
polemicamente al clima di opportunismo e di cinismo che sembrava accompagnare quella
fase politica.
Si criticava soprattutto chi, precedentemente di Destra e quindi teoricamente all’oppo-
sizione, era ora pronto a rivedere la propria collocazione politica pur di poter restare all’in-
terno della maggioranza; si criticava la mancata formazione all’interno dello schieramento
liberale di moderni partiti politici, con posizioni nette e limpide; si criticava, infine, il ricorso ad
accordi di pura convenienza per la raccolta del consenso e, in generale, il grave scadimento
morale che rischiava di derivarne.
Capitolo 15. Il primo cinquantennio post-unitario 417

15.3. La legge elettorale del 1882 e le altre riforme della Sinistra

Se gli aspetti di continuità non mancarono e se è vero che il “trasformismo” rese vana, nel
giro di pochi anni, la distinzione tra Destra storica e Sinistra liberale (ormai priva di un
reale significato già nella seconda metà degli anni Ottanta), tuttavia la “rivoluzione par-
lamentare” del 1876 e l’attuazione delle riforme contenute nel programma della Sinistra
rappresentarono una importante svolta per la storia dell’Italia postunitaria, segnando un
avvicinamento tra “paese legale” e “paese reale” (una distinzione per la quale si rimanda
al cap. 10, par. 4.1).
Con i tre esecutivi di Depretis (1876-1878, 1878-1879, 1881-1887), intervallati dai due
brevi ministeri Cairoli (1878, 1879-1881) l’esperienza di governo della Sinistra presentò,
infatti, significative fasi riformatrici. Si partì nel 1877 con la legge Coppino, che rese l’i-
struzione elementare gratuita e obbligatoria; un primo passo per contrastare l’altissimo
tasso di analfabetismo (intorno all’80%), dovuto anche al fatto che negli Stati preunitari
non esisteva l’obbligo scolastico. Si proseguì nel 1882 con la più importante delle riforme:
l’allargamento del suffragio elettorale. Una riforma che introduceva tre cambiamenti nor-
mativi: anticipava il diritto di voto dai 25 ai 21 anni; dimezzava il censo, cioè il patrimonio
richiesto; e soprattutto fissava come requisito alternativo al censo quello dell’alfabetismo,
estendendo il diritto di voto ai maschi adulti che dimostrassero di saper leggere e scrivere
o che avessero conseguito la licenza della seconda classe elementare.
Per effetto della nuova legge elettorale, gli elettori crebbero da mezzo milione a tre mi-
lioni, cioè dal 2,2 al 6,9% della popolazione. Di fatto, acquistarono il diritto di voto gran parte
degli operai e degli abitanti delle città, ma non le masse contadine ancora largamente anal-
fabete. Combinata con la riforma dell’istruzione elementare, che faceva del saper leggere e
scrivere un diritto e un obbligo per tutti i futuri cittadini del Regno, la riforma elettorale del
1882 aveva un forte potenziale di inclusività, dal momento che conteneva in sé le premesse
del suffragio universale.
Negli anni successivi l’azione riformatrice dei governi guidati dalla Sinistra proseguì
più blandamente, attuando comunque alcune riforme tributarie, tra le quali l’abolizione
dell’imposta sul macinato (soppressione disposta nel 1880, ma con pieno effetto solo dal
1884), e spingendosi anche sul terreno della legislazione sociale con l’approvazione nel
1885-86 di leggi relative all’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e al divieto del
lavoro dei bambini. Misura, quest’ultima, che si ricollegava naturalmente alla legge Cop-
pino del 1877.

15.4. L’Italia crispina e la stretta autoritaria di fine secolo

15.4.1. Il primo governo Crispi, 1887-1891.


Quando nel 1887, alla morte di Depretis, Francesco Crispi prese il posto del vecchio sta-
tista piemontese alla guida del governo, egli si presentò come il deciso assertore di un
ammodernamento dell’amministrazione dello Stato, che egli tuttavia interpretò prevalen-
temente in chiave autoritaria. I suoi obiettivi principali erano quelli di rafforzare il potere
418 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

pubblico – nelle sue funzioni di controllo, di intervento, ma anche di repressione – e di far


fronte al profondo malessere delle masse popolari, senza però tollerare forme di opposi-
zione organizzata da parte dei socialisti e delle altre forze popolari.
Il richiamo al modello bismarckiano, con riferimento alla volontà di intrecciare tenden-
ze centralistiche e autoritarie con forme pubbliche di tutela sociale, è rintracciabile con
una certa chiarezza. Soprattutto a partire dal 1889, Crispi prese a sottolineare con grande
enfasi l’importanza e la necessità di una più decisa politica sociale, indicandola al parla-
mento come il mezzo più adatto per l’integrazione delle classi inferiori nella compagine
dello Stato, ma il complesso delle iniziative da lui assunte in questo senso – e limitate in
sostanza al codice di igiene pubblica del 1888 e alla legge sulle istituzioni di beneficenza
del 1890 – risultò troppo al di sotto delle affermazioni di principio e del modello originale
(quello del cancelliere tedesco) per dare risultati significativi.
Pur provenendo dalle fila della Sinistra liberale, e prima ancora dagli ambienti garibal-
dini, Crispi giunse al potere quando ormai le divisioni di matrice risorgimentale tra Destra
e Sinistra non avevano più riscontro nella realtà politica e i suoi governi si fecero interpreti
di un progetto politico decisamente distante dal liberalismo progressista dei Depretis e dei
Cairoli.
Elementi contradditori emersero con evidenza fin dalla legge sull’ordinamento comu-
nale e provinciale del 1889. Essa, da un lato, conteneva misure proprie di un programma
liberale avanzato, come l’estensione della riforma del voto politico anche alle elezioni co-
munali e provinciali, che erano rimaste ancorate alle limitazioni pre-1882, o come l’intro-
duzione dell’elettività dei sindaci (prima di nomina governativa, mentre a partire dal 1889
eletti dai consigli comunali); dall’altro lato, però, la riforma degli ordinamenti locali istitu-
iva in ogni prefettura un nuovo organo, la Giunta provinciale amministrativa, che aveva la
facoltà di esaminare e respingere, sotto l’egida del prefetto, qualsiasi provvedimento preso
dai consigli comunali e dai sindaci.
In maniera simile, il nuovo codice penale del 1890 conteneva elementi progressisti e
civili, ad esempio l’abolizione della pena di morte, e tuttavia comprimeva la libertà del-
le manifestazioni politiche, consentendo un intervento largamente discrezionale da parte
delle autorità di pubblica sicurezza, per limitarle o scioglierle.
Il peso delle ambizioni colonialiste in Africa orientale, parte integrante della politica
crispina (vedi gli Approfondimenti), e il considerevole aumento delle spese per l’esercito
provocarono tra anni Ottanta e Novanta un riacutizzarsi della questione finanziaria, che
dopo il difficile risanamento operato dalla Destra negli anni Settanta non era più stata al
centro delle preoccupazioni di governo. Fu proprio l’incremento fuori controllo del disa-
vanzo pubblico a portare, nel 1891, alla temporanea caduta di Crispi.

15.4.2. L’entrata sulla grande scena politica di Giolitti.


I due brevi governi di Antonio Di Rudinì (1891-1892) e Giovanni Giolitti (1892-1893) diedero
espressione alle diverse componenti che, all’interno dello schieramento liberale, animava-
no l’opposizione a Crispi. Di Rudinì, le cui posizioni erano a grandi linee in sintonia con la
tradizione della Destra storica, puntò su un risanamento del bilancio mediante una drastica
riduzione delle spese militari. Su questo punto, però, si scontrò con il re, Umberto I, e con
gli ambienti di corte, favorevoli invece ai progetti di rafforzamento militare ed espansione
coloniale che erano stati di Crispi. E proprio questi contrasti con la corona posero fine anzi-
tempo all’esperienza dell’esecutivo Di Rudinì.
Capitolo 15. Il primo cinquantennio post-unitario 419

È bene notare, per inciso, che proprio l’assenza di una dialettica politica formalizzata
tra uno schieramento moderato e uno schieramento progressista – quali avrebbero potuto
essere, ad esempio, la Destra storica e la Sinistra liberale – finiva per dare in Italia un con-
sistente peso politico alla monarchia; un ruolo attivo negli indirizzi di governo che ormai in
Gran Bretagna, dove lo spazio politico era saldamente occupato dai due partiti principali,
non veniva più riconosciuto al sovrano.
Chiusa la parentesi Di Rudinì, apparve subito più ambizioso e innovatore il successivo
governo guidato da Giovanni Giolitti, personaggio destinato ad avere grande rilievo nella
vita pubblica italiana del primo Novecento. La sua linea di condotta si contraddistinse per
uno spiccato pragmatismo e, al contempo, per una visione politica aperta alla prospettiva
democratica. Qualità grazie alle quali si assicurò, da una parte, l’appoggio della monarchia,
con l’impegno a non toccare il bilancio delle forze armate, ma dall’altra anche una certa
attenzione e apertura di fiducia da parte delle forze dell’Estrema sinistra. Sul piano politico,
infatti, non mostrò verso le organizzazioni socialiste e operaie quella fobia che contrasse-
gnava gran parte del ceto politico liberale; e sul piano fiscale dichiarò di voler procedere
con tasse che non pesassero ulteriormente sui meno abbienti, colpendo invece la rendita.
La fine precoce della sua prima esperienza di governo fu determinata da una serie di
fattori concomitanti. Tanto per cominciare, pesò l’opposizione che fin dall’inizio alcuni set-
tori parlamentari conservatori espressero verso le sue aperture liberal-democratiche. A ciò
si aggiunse, ben più grave, l’esplosione della crisi del sistema bancario. Circostanza che
era connessa alla difficile situazione dei conti dello Stato, ma che fu aggravata, agli occhi
dell’opinione pubblica, da fenomeni di malversazione che emersero, in particolare, nel si-
stema di emissione della cartamoneta. Una situazione alla quale Giolitti cercò di rimediare,
nel 1893, con la legge che istituiva la Banca d’Italia, accentrando così sotto il controllo del
governo l’attività di emissione, fino ad allora affidata dallo Stato ad alcuni istituti di credito
privati. Questo provvedimento, indubbiamente lungimirante, non fu sufficiente a fermare
lo scandalo, che anzi si amplificò quando venne alla luce un sistema di finanziamenti ille-
citi a esponenti politici (tra cui lo stesso Giolitti) a cui la Banca romana, uno dei principali
istituti di emissione, era ricorsa per guadagnarsi delle coperture politiche.
Con una leadership ormai vacillante, il colpo di grazia al primo governo Giolitti venne
dall’accusa di debolezza, mossa all’esecutivo da più parti, di fronte alle avvisaglie di un
grande moto popolare che si stava sviluppando nell’Italia meridionale, quello dei Fasci
siciliani. Si trattava di un movimento largamente spontaneo animato da contadini e lavo-
ratori urbani che, tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, avevano cominciato
a organizzarsi in “fasci”, o unioni operaie, per portare avanti forme di rivendicazione e di
lotta, rispetto alla situazione di miseria, sfruttamento e ignoranza in cui versavano.
Fedele alla sua impostazione di governo, Giolitti si rifiutò di applicare, anche nel caso
siciliano, misure eccezionali per la salvaguardia dell’ordine pubblico. A quel punto la parte
maggioritaria dello schieramento liberale cominciò a vedere con favore il ritorno alla gui-
da del governo di un “uomo forte e risoluto” come Francesco Crispi, che infatti ottenne di
nuovo la carica di primo ministro nel dicembre 1893.

15.4.3. Il secondo governo Crispi, 1893-1896.


Appoggiato dalla corona, il nuovo esecutivo di Crispi agì in un clima di diffuso discredito del
parlamento per i recenti scandali che avevano coinvolto banche e politica. Contro i Fasci si-
ciliani e contro i moti popolari e gli scioperi che per solidarietà si verificarono anche altrove
(soprattutto in Lunigiana nel gennaio 1894, a opera dei gruppi anarchici), Crispi procedette
420 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

con il pugno di ferro, facendo largo uso dello stato d’assedio: una misura tristemente famo-
sa nell’Italia di fine secolo, in base alla quale le autorità civili cedevano i loro poteri alle au-
torità militari e l’esercito veniva utilizzato per mantenere l’ordine pubblico. Uno strumento,
cioè, preposto alla difesa esterna e alla guerra, come l’esercito, luogo dell’unità nazionale,
veniva schierato contro una parte della popolazione civile. A rimarcare, se ce ne fosse stato
bisogno, la drammatica frattura tra classe dirigente e movimenti popolari.
Nel luglio 1894 Crispi presentò in Parlamento tre leggi eccezionali, definite “antianar-
chiche”, ma in realtà rivolte contro tutte le opposizioni. Una di queste – rimasta in vigore
fino al 31 dicembre 1895 – autorizzava il governo a sciogliere le associazioni politiche con-
siderate sovversive. E Crispi la usò, in particolare, contro il Partito socialista dei lavoratori
italiani (fondato a Genova due anni prima), che nell’ottobre 1894 venne temporaneamente
sciolto dalle autorità. Dal momento che la magistratura considerò insussistenti le accuse di
sovversione, il partito tornò comunque in attività pochi mesi dopo, adottando la denomina-
zione definitiva di Partito socialista italiano (PSI).
Insieme alla tendenze autoritarie, l’espansionismo coloniale rimase l’unico tratto ca-
ratterizzante del secondo governo Crispi, rivelando quindi una scarsa spinta realizzativa ri-
spetto a quanto era accaduto durante la prima esperienza del 1887-1891, dove si erano pur
mostrati alcuni aspetti riformatori, benché timidi o contraddittori. Era decisamente troppo
poco per garantire una sufficiente vitalità all’esecutivo. Non fu dunque sorprendente che
l’ennesima sconfitta delle truppe italiane in Africa orientale (e precisamente nella batta-
glia di Adua del 1896) conducesse alle dimissioni dell’uomo politico siciliano che lasciava,
questa volta definitivamente, la guida del governo.

15.4.4. Il 1898, come culmine della crisi di fine secolo.


Il successore di Crispi, Antonio Di Rudinì (1896-1898), alla sua seconda esperienza di gover-
no, dovette affrontare una serie ininterrotta di agitazioni agrarie e urbane che percorsero
da un capo all’altro l’intera penisola. Una situazione di fermento provocata dai rincari del
prezzo del pane, dai bassi salari e dalla disoccupazione, ma che trovava motivo di forza e
di continuità nel lavoro organizzativo e propagandistico realizzato negli anni precedenti
da anarchici, repubblicani e socialisti.
Si trattò di una ondata di protesta e di partecipazione popolare estremamente poli-
centrica. Fin dall’estate del 1897 la situazione sociale si era andata aggravando in tutto il
paese, con sempre più frequenti agitazioni per il caropane. La penosa condizione alimen-
tare della popolazione era una conseguenza non solo della scarsità dei raccolti, ma anche
dell’aumento del dazio protettivo deciso dal governo. Forti dell’appoggio del presidente del
Consiglio, Di Rudinì, uno dei principali latifondisti della Sicilia, e del ministro delle Finan-
ze, Ascanio Branca, rappresentante dei grandi proprietari della Basilicata, gli agrari erano
riusciti a strappare un nuovo aumento delle tariffe doganali sui grani di importazione. Ciò
penalizzava la concorrenza dei cereali provenienti dall’estero e consentiva artificiosamente
ai produttori locali di mantenere prezzi alti e guadagni consistenti, a danno dei consumatori.
A partire dalla Sicilia e procedendo verso Nord, le scosse politiche e sociali del 1897-98
ebbero i loro momenti culminanti ad Ancona nel gennaio 1898, dove il movimento popola-
re era guidato dall’anarchico Errico Malatesta e trovava il suo insediamento principale tra
i lavoratori del porto, e pochi mesi dopo a Milano, dove operava una figura del calibro di
Filippo Turati, leader del socialismo riformista italiano e fondatore del PSI.
L’onda tellurica del Novantotto arrivò in Lombardia all’inizio di maggio. Tardivamente,
il 3 maggio 1898, il governo sospese il dazio sul grano d’importazione. Ma pochi giorni
Capitolo 15. Il primo cinquantennio post-unitario 421

dopo (tra il 6 e il 7 maggio) a Milano la situazione precipitò in seguito all’arresto di alcuni


operai della Pirelli colpevoli di diffondere un manifestino del Partito socialista. Alla notizia
dell’arresto, molte fabbriche entrarono in sciopero. Dopo i primi scontri tra manifestanti e
forza pubblica venne proclamato lo stato d’assedio. Dal 7 al 10 maggio, si svolsero com-
battimenti per le strade della città, cosparse di barricate. L’artiglieria, a cui era stato dato
l’ordine di sparare sulla folla, lasciò sulle strade un centinaio di morti e circa mille feriti.
Il re Umberto I si inserì nella crisi con un vero e proprio progetto reazionario, che pur
senza abolire formalmente il parlamento, prevedeva la sostanziale delega dei poteri legi-
slativi all’esecutivo. L’uomo incaricato di questi interventi fu il successore del marchese Di
Rudinì, il generale Luigi Pelloux, già ministro della Guerra e uomo di fiducia della corona,
che restò in carica dal giugno 1898 al giugno 1900.
La parola d’ordine fu quella del “ritorno allo Statuto”, con riferimento, cioè, alla piena
restaurazione della monarchia costituzionale e all’abbandono della centralità del parla-
mento. Si trattava, dunque, di abbandonare la prassi politica introdotta da Cavour circa
quarant’anni prima, secondo la quale i governi si formavano in base alla maggioranza po-
litica espressa dalla Camera dei deputati, per tornare a una interpretazione letterale dello
Statuto albertino, che voleva i governi responsabili solo nei confronti del re. Tornare allo
Statuto e porre il re al centro del sistema politico significava, insomma, mettere in atto una
decisa svolta antiparlamentare.
Le motivazioni teorico-politiche erano state fornite da Sidney Sonnino, esponente di
primo piano del liberalismo di destra, già collaboratore di Crispi, che le aveva espresse in
un articolo intitolato, appunto, Torniamo allo Statuto, pubblicato nel 1897. In quello scritto,
l’argomentazione di Sonnino muoveva dalle incertezze della situazione politica italiana, di
cui il parlamentarismo era, a suo dire, la causa principale. Il parlamento dava voce, infatti,
a interessi particolari, di determinati gruppi e territori, e intaccava dunque la capacità del
governo di esprimere “una alta direzione della cosa pubblica”, che interpretasse effetti-
vamente l’interesse collettivo e generale. Il rimedio poteva trovarsi solamente nel rigido
rispetto dello Statuto albertino, limitando cioè i poteri della Camera elettiva e rafforzando
quelli della corona, dell’esecutivo e del Senato di nomina regia, che erano istituzioni indi-
pendenti dalla volontà popolare e dagli interessi particolari. La stabilità dell’azione di go-
verno sarebbe stata favorita inoltre (e in questo Sonnino coglieva sicuramente nel segno)
dalla formazione di un forte partito liberale, che rispondesse, anche in termini organizza-
tivi, alla nascita del Partito socialista e di altri movimenti e partiti popolari, come il Partito
repubblicano (1894) e il Partito radicale. Quest’ultimo nacque ufficialmente solo nel 1904,
ma aveva alle spalle la precedente esperienza dell’Estrema sinistra, all’interno della quale
i Radicali erano stati la presenza più consistente e determinante.
Al di là delle intenzioni e delle argomentazioni, assolutamente non banali, l’appello
di Sonnino servì nell’immediato come piattaforma programmatica per un nuovo raggrup-
pamento di destra che tentò di attuare a tutti gli effetti una svolta autoritaria. Di fronte a
questo disegno politico, il grande Centro liberale formatosi negli anni del “trasformismo” di
Depretis si spezzò definitivamente: la sinistra liberal-democratica di Zanardelli e di Giolitti
assunse, infatti, un netto atteggiamento di opposizione rispetto alla maggioranza governa-
tiva. Nello stesso tempo, l’Estrema sinistra (radicale, repubblicana e socialista) complicava
ulteriormente la vita all’esecutivo mettendo in atto forme di ostruzionismo parlamentare
che riuscirono a rallentare l’approvazione dei provvedimenti voluti dal governo Pelloux.
L’azione concorde dei tre partiti dell’Estrema sinistra e dell’area liberale giolittiana –
sinergia che esprimeva in sostanza una inedita alleanza sociale tra il ceto medio liberale
e una parte consistente delle classi popolari – riuscì infine a mettere in scacco il tentativo
422 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

di instaurare leggi liberticide. Le elezioni politiche indette nel giugno 1900 rafforzarono,
infatti, le opposizioni e consegnano a Pelloux una maggioranza molto modesta. Era il se-
gno che una parte importante dell’elettorato italiano non gradiva il tentativo di stretta
reazionaria.
Il risultato delle urne consigliò, dunque, l’adozione di scelte di pacificazione e di ritorno
alle libertà sancite dalla prassi costituzionale. Questo indirizzo venne rafforzato dall’asce-
sa al trono di Vittorio Emanuele III, in seguito all’attentato in cui l’anarchico Gaetano Bresci,
a Monza il 29 luglio 1900, colpì a morte Umberto I, con l’intenzione di vendicare le vittime
del 1898.
L’orientamento del nuovo sovrano favorì una svolta liberal-democratica. Venne così
formato un governo presieduto da una figura storica del liberalismo di sinistra, Giuseppe
Zanardelli, che rimase in carica dal 1900 al 1903. All’interno del suo esecutivo la personali-
tà politica più dinamica si dimostrò essere quella del ministro dell’Interno Giovanni Giolitti.

15.5. L’epoca giolittiana, 1900-1914

Dal ritiro, a quasi ottant’anni, di Zanardelli, nell’ottobre 1903, fino alla Prima guerra mon-
diale, la politica governativa fu quasi sempre diretta – e quando non diretta, comunque
controllata – da Giovanni Giolitti, già assoluto protagonista della scena pubblica fin dal
1900.
La presenza di Giolitti al potere caratterizzò dunque quasi un quindicennio della storia
d’Italia, anche se i suoi governi conobbero alcune interruzioni. Se si eccettua la breve espe-
rienza degli anni Novanta, egli fu presidente del Consiglio in tre fasi: dal 1903 al 1905, dal
1906 al 1909 e dal 1911 al 1914. In quegli anni di inizio secolo, il suo antagonista di maggior
rilievo fu il conservatore Sidney Sonnino, che resse il governo per due volte, nel 1906 e nel
1909, in entrambi i casi per brevi periodi, e senza che la sua presenza potesse essere consi-
derata una rottura profonda rispetto al predominio dell’uomo politico piemontese.
L’indirizzo liberal-democratico e riformatore impersonato da Giolitti cercò appoggio,
oltre che tra i ceti medi e nei gruppi della borghesia industriale in ascesa, anche in alcuni
settori delle tradizionali opposizioni allo Stato liberale: i socialisti e i cattolici. Non a caso, a
partire dal 1903, oltre a rafforzare il quadro della legislazione sociale (con provvedimenti
di tutela in materia di infortuni, invalidità e vecchiaia), Giolitti attivò, a livello ministeriale,
un comitato consultivo per affrontare i problemi del lavoro, denominato Consiglio superio-
re del lavoro, a cui furono chiamati a partecipare, insieme a funzionari dell’amministrazio-
ne centrale e a rappresentanti dei datori di lavoro, anche esponenti provenienti dal movi-
mento sindacale, dal Partito socialista e dalle aree del cattolicesimo sociale. Nello stesso
periodo, il settore dei lavori pubblici ricevette nuovo slancio, e nelle gare d’appalto furono
ammesse le cooperative di lavoratori, quasi tutte di matrice socialista e cattolica, con l’o-
biettivo di allargare il consenso verso questi ambienti popolari tradizionalmente distanti
dalla classe dirigente liberale.
Sempre nel 1903 fu approvata l’importante legge sull’assunzione dei servizi pubblici da
parte dei comuni: la cosiddetta “municipalizzazione”. La crescita generalizzata dei centri
urbani, connessa allo sviluppo economico, stava rendendo via via più complesse le funzioni
pubbliche in ambito locale. L’entità dei servizi che si profilavano, come la distribuzione del
Capitolo 15. Il primo cinquantennio post-unitario 423

gas, dell’acqua, poi quella dell’energia elettrica, facevano sì che i regimi in concessione a
privati con i quali si era provveduto fino ad allora sembrassero ormai inaccettabili, perché
troppo onerosi e affaristici. Ci si orientava, dunque, sempre più spesso per un intervento
diretto dei comuni. La legge del 1903, presentata al parlamento da Giolitti, fu però par-
ticolarmente caldeggiata dai socialisti e dai cattolici, i quali grazie all’allargamento del
suffragio amministrativo del 1889 si stavano affermando come forze di governo in diverse
amministrazioni locali e chiedevano, dunque, nuovi strumenti d’azione.
In un paese in rapida crescita economica e sociale, percorso da forti tensioni e da spinte
contrapposte (ad esempio, lo sviluppo dei sindacati dei lavoratori, da una parte, e la nascita
della Confederazione dell’industria o Confindustria, avvenuta nel 1910, dall’altra), l’obietti-
vo principale di Giolitti fu quello di assicurare la pace sociale. Battuta la linea apertamente
repressiva del 1894-1898, il significato dell’epoca giolittiana nel quadro della vicenda stori-
ca del nostro paese può essere indicato nella capacità di affrontare gli squilibri della società
e i conflitti che ne derivavano senza venir meno alla fedeltà al sistema parlamentare e al
metodo liberale.
Le grandi maggioranze giolittiane, ad esempio quelle uscite dalle elezioni politiche del
1904 e del 1909, erano composte di conservatori, di liberali progressisti e di radicali. Per
questa ragione si parlò di “neo-trasformismo” e si sarebbe potuto osservare, per giunta, che
il gruppo politico-parlamentare dei Radicali, nato in opposizione al trasformismo di De-
pretis, accettava ora di partecipare a una maggioranza altrettanto composita come quella
giolittiana. Ma naturalmente tante cose erano successe nel frattempo: la crisi di fine secolo
aveva messo a serio rischio i progressi della monarchia parlamentare e, anche per questo,
la svolta liberal-democratica di inizio Novecento aveva avuto un profondo significato poli-
tico e sociale che non poteva lasciare indifferente un partito, come quello radicale, che era
caratterizzato dalla fiducia nella evoluzione naturalmente democratica del liberalismo e
dall’insistenza sulla modernizzazione del paese.
Così, fino a quando le forze liberali giolittiane riuscirono ad appoggiarsi sia a destra, sui
conservatori, sia a sinistra, sui radicali, senza sbilanciarsi né da una parte né dall’altra, la
leadership di Giolitti non fu mai messa in discussione. L’equilibrio si spezzò tra il 1911 e il
1913, quando prima la guerra di Libia e l’inasprirsi dell’opposizione socialista, poi le prime
elezioni con il suffragio universale maschile e il fenomeno del clerico-moderatismo, pro-
dussero un profondo cambiamento del quadro politico.

15.5.1. Il movimento socialista tra istanze riformiste e slanci rivoluzionari.


Nell’agosto 1892, al Congresso dei lavoratori italiani di Genova, si era ufficializzata la scis-
sione tra socialisti e anarchici. I primi fondavano il Partito dei lavoratori italiani (dal 1893
Partito socialista dei lavoratori italiani e, infine, dal 1895 Partito socialista italiano), mentre
i secondi rimanevano su posizioni “anti-legalitarie”, come si diceva all’epoca, e cioè contra-
rie a una azione graduale all’interno delle istituzioni pubbliche e, in particolare, all’interno
del parlamento.
All’inizio del XX secolo, in conseguenza del mutamento del quadro politico determina-
to dalla formazione del governo Zanardelli-Giolitti, il Partito socialista consolidò la propria
attitudine riformista e, sotto la guida di Filippo Turati, decise di appoggiare l’esecutivo.
In quegli anni, l’opposizione interna al riformismo fu rappresentata da gruppi e tenden-
ze che negavano l’opportunità dell’alleanza con la borghesia progressista e che sostene-
vano una linea intransigente di lotta, tanto sul versante sindacale quanto su quello politico.
Queste posizioni, denominate appunto “intransigenti”, fecero presa su molti militanti del
424 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Partito e riuscirono a imporsi, mettendo in minoranza la corrente riformista, al congresso


nazionale socialista di Bologna, tenutosi nell’aprile 1904.
Lo stesso anno la nuova direzione del PSI promosse il primo sciopero generale dei lavo-
ratori italiani (16-21 settembre). L’adesione fu ampissima e testimoniò il forte ascendente
che il movimento operaio stava acquistando in Italia, ma a ben vedere si risolse in una
sconfitta politica, dal momento che non portò a risultati concreti per i lavoratori. Come d’a-
bitudine, Giolitti affrontò quell’avvenimento con grande moderazione e prudenza sul piano
della gestione dell’ordine pubblico; cionondimeno utilizzò l’impressione e il disappunto su-
scitati dallo sciopero generale negli ambienti liberali per ottenere, alle successive elezioni
politiche (indette nel novembre 1904), il confluire nello schieramento filo-governativo di
tutte le forze moderate, tra le quali per la prima volta anche il voto cattolico.
La sconfitta politica degli intransigenti fu seguita da una accentuata conflittualità inter-
na al Partito socialista e alle organizzazioni sindacali, ma sostanzialmente si risolse in una
riaffermazione dei riformisti in tutte le istanze del movimento, nello stesso PSI come nella
neonata Confederazione generale del lavoro (CGL), sorta nel 1906 come organo centrale
di coordinamento di tutte le strutture sindacali di orientamento socialista. Da allora in poi,
la linea unitaria adottata dai riformisti fu quella di non concedere la fiducia ai governi
“borghesi” (il sostegno dato al governo Zanardelli rimase, quindi, un caso isolato), ma di
appoggiarli su singole questioni, nel caso di disegni di legge in sintonia con il programma
democratico e socialista.
Questo nuovo equilibrio resse fino al 1911-1912, quando, in corrispondenza della guer-
ra mossa dall’Italia alla Turchia per la conquista della Libia, all’interno della CGL si assi-
stette alla scissione dei sindacalisti rivoluzionari che formarono una loro organizzazione
autonoma, l’Unione sindacale italiana (USI), a cui si avvicinò anche il movimento anarchico,
e all’interno del PSI riprese vigore una linea rivoluzionaria e radicalmente antimilitarista,
che riuscì a scavalcare le posizioni riformiste. In quel frangente, anarchici, sindacalisti e
socialisti rivoluzionari marcarono efficacemente la loro distanza dai riformisti (a loro volta
contrari alla guerra, salvo poche eccezioni) proprio sul terreno dell’opposizione al milita-
rismo, alle istituzioni militari e alla guerra coloniale, a cui intendevano rispondere con la
rivoluzione sociale, e non con puntuali critiche, graduali cambiamenti e misurate riforme.
Al congresso nazionale socialista di Reggio Emilia del luglio 1912, come accaduto a
Bologna otto anni prima, i riformisti si trovarono nuovamente in minoranza e dovettero
cedere il controllo del partito a un nuovo gruppo dirigente, assai composito, in cui si affian-
cavano assertori di un profondo rinnovamento programmatico del partito, come Giacinto
Menotti Serrati, vecchi operaisti intransigenti, come Costantino Lazzari, e giovani estremi-
sti, come l’agitatore romagnolo Benito Mussolini, giornalista e militante socialista, a cui fu
affidata la direzione del quotidiano del partito, l’“Avanti!”.

15.5.2. Il suffragio universale maschile e la risposta clerico-moderata.


Nel giugno 1912, a guerra di Libia ancora in corso, Giolitti fece approvare una nuova rifor-
ma elettorale, a trent’anni esatti da quella voluta dalla Sinistra storica di Depretis. Anche in
un momento di forti tensioni interne ed esterne, il capo del governo intese dare un deciso
segnale di continuità lungo quella strada di apertura democratica delle istituzioni intrapre-
sa all’inizio del secolo.
In virtù della nuova legge il diritto di voto – sempre esclusivamente maschile – venne at-
tribuito, oltre a coloro che potevano già esercitarlo in virtù delle regole del 1882 (e dunque,
in sostanza, chi sapeva leggere e scrivere), anche a quanti avessero semplicemente adem-
Capitolo 15. Il primo cinquantennio post-unitario 425

piuto agli obblighi del servizio militare o raggiunto i trent’anni di età. In pratica, si trattava
di una forma leggermente modificata di suffragio universale maschile, per la quale anche
gli analfabeti, ancora molto numerosi (specie nelle campagne), potevano votare e dove-
vano tutt’al più aspettare il trentesimo anno di età per farlo. Per effetto della riforma, gli
aventi diritto al voto più che raddoppiarono, salendo da tre milioni e mezzo a otto milioni.
Le prime elezioni a suffragio universale maschile si tennero nel 1913. Lo stesso Giolitti,
pur essendo il principale promotore della riforma, da lui strenuamente difesa come una
necessità politica che aveva l’obiettivo di assicurare una migliore integrazione delle masse
nello Stato, si rendeva altresì conto che essa poteva dare, per così dire, dei “frutti avvelena-
ti” per la tenuta del sistema liberale. Il rischio era quello che i socialisti, ora su posizioni ri-
voluzionarie, aumentassero in modo consistente i propri consensi e, soprattutto, potessero
approfittare dell’eventualità di maggioranze governative poco consistenti e coese per con-
dizionare pesantemente la vita delle istituzioni. L’indirizzo politico preso dal PSI rendeva
chiaro, infatti, che difficilmente si sarebbero potuti trovare ancora spazi di collaborazione
con quel partito.
Per cercare di correre ai ripari, alla classe dirigente liberale sembrò necessario fare di
tutto per saldare il fronte moderato e garantire all’area giolittiana una solida maggioran-
za che potesse fronteggiare senza affanni l’intransigenza socialista. Con il beneplacito di
Giolitti, dunque, in molti collegi elettorali, i candidati liberali strinsero segretamente degli
accordi con il mondo cattolico, contrattando voti e programmi.
Già da una decina d’anni, del resto, era in buona parte caduto il non expedit, cioè il
divieto di partecipare alle elezioni politiche che il papa e le gerarchie ecclesiastiche – in
aperto conflitto con il nuovo Stato unitario – avevano imposto ai cattolici praticanti a par-
tire dal 1874. Tale divieto, già affievolitosi in occasione delle elezioni del 1904 (quelle che
avevano fatto seguito allo sciopero generale promosso dai socialisti intransigenti), di fatto
scomparve completamente alle elezioni del 1913.
Fece, però, scandalo all’indomani delle elezioni, una dichiarazione di Filippo Gentiloni,
presidente dell’Unione elettorale cattolica (la struttura che coordinava la partecipazione
politica dei cattolici organizzati), il quale rivelò all’opinione pubblica quanto era accaduto
nelle segrete stanze della politica: ovverosia il fatto che un consistente numero di deputati,
eletti sotto l’etichetta liberale, aveva in realtà sottoscritto dei patti riservati con le organiz-
zazioni elettorali cattoliche, prendendo un impegno segreto ad adeguarsi ai loro program-
mi, al fine di riceverne i voti.
In effetti, grazie al “patto Gentiloni” – espressione con cui i giornali designarono l’ac-
cordo politico appena esposto – le elezioni segnarono un grande successo dei liberali, che
conquistarono il 60% dei seggi. A essere eletti grazie alle discutibili modalità del “patto”
furono oltre 200 deputati liberali, sui complessivi 362 della maggioranza giolittiana.
Al netto dello scandalo e delle conseguenti polemiche, i risultati erano in apparenza
favorevoli al capo del governo, che aveva raggiunto l’obiettivo di una maggioranza for-
te, almeno numericamente. In realtà la situazione politica si rivelò presto estremamente
complessa. Sebbene Giolitti, almeno a parole, avesse cercato tardivamente di prendere le
distanze dalla condotta dei deputati coinvolti negli accordi segreti, la folta pattuglia dei
radicali (composta da 73 deputati) decise di passare all’opposizione, perché nettamente
contraria alla convergenza clerico-moderata tra liberali e cattolici.
A quel punto la situazione si fece quasi insostenibile per Giolitti, dal momento che il
consueto equilibrio politico sul quale si erano sempre rette le sue maggioranze venne a
perdere, per così dire, l’ala sinistra. Con l’uscita dei radicali il governo rischiava di appiat-
426 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

tirsi sulle posizioni clerico-moderate; e, nello stesso tempo, ipotizzando di fare a meno dei
deputati eletti con il “patto Gentiloni”, l’esecutivo sarebbe rimasto senza maggioranza.
Alla fine Giolitti decise di uscire da quello che si presentava come uno stallo potenzial-
mente logorante, e diede, all’inizio del 1914, le proprie dimissioni. Venne sostituito da un
esponente della destra liberale, Antonio Salandra. In cuor suo lo statista piemontese era
sicuro di tornare presto in sella; in realtà, pochi mesi dopo sarebbe scoppiata la Prima guer-
ra mondiale, e con essa si aprì uno scenario di tensioni politiche e sociali nel quale andò
definitivamente in frantumi il delicato sistema di mediazioni sul quale si era retta l’epoca
giolittiana.
Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea:
dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra
di Carlo De Maria
Roma (BraDypUS) 2018
ISBN 978-88-98392-70-4
pp. 427-440

Capitolo 15. Il primo cinquanten-


nio post-unitario
Approfondimenti

Focus
Andrea Costa e le origini del socialismo italiano

Nato a Imola nel 1851, Costa frequentò per alcuni anni la Facoltà di Lettere all’Università
di Bologna prima di dedicarsi interamente alla militanza politica. Nei primi anni Settanta
fu tra i fondatori della Federazione italiana dell’Associazione internazionale dei lavora-
tori, la prima organizzazione socialista italiana, che – sotto l’influenza di Michail Bakunin
– assunse un orientamento anarchico e insurrezionalista (cap. 12, par. 1). Costa ne divenne
l’elemento di punta e come segretario della “commissione di corrispondenza” cominciò a
tessere una fitta trama di rapporti politici a livello nazionale ed europeo. Studiò il francese,
l’inglese e il tedesco, apprese qualche rudimento della lingua russa, e visse all’estero – tra
Svizzera, Francia e Belgio, inseguito dalle polizie di mezza Europa – anni fondamentali per
la sua formazione personale e politica.
Il nascente movimento socialista italiano conservò per alcuni anni un approccio settario,
di totale opposizione all’esistente e lontano dalla vita concreta degli strati popolari. Sola-
mente alla fine degli anni Settanta, e precisamente nel 1879, la complessa “svolta” politica
promossa da Andrea Costa inaugurò una nuova stagione basata sulla scelta di abbandonare
la lotta clandestina e di puntare invece sullo sviluppo delle autonomie sociali e territoriali.
In altre parole, Costa indicò al movimento socialista, come obiettivi primari, la promozione
dell’associazionismo popolare e l’ampliamento delle libertà locali, in particolare dell’auto-
nomia comunale. Ai suoi occhi, infatti, i comuni e le diverse forme associazionistiche rappre-
sentavano spazi politici nei quali il socialismo avrebbe potuto radicarsi e crescere, a stretto
contatto con i bisogni dei lavoratori e con il loro desiderio di emancipazione politica, eco-
nomica e sociale. La precedente ispirazione anarchica e libertaria non veniva negata, essa
in parte rimaneva nell’approccio autonomista e anti-centralistico che Costa continuò a di-
fendere e promuovere; a essere abbandonata, invece, era la prospettiva insurrezionale e an-
tistatale, che cedette via via il passo all’accettazione di una lotta graduale all’interno delle
istituzioni pubbliche e del parlamento.
428 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Non è un caso che questa evoluzione politica avvenisse proprio sul finire degli anni Set-
tanta. Il rivolgimento parlamentare del 1876 e l’avvento della Sinistra al potere produssero
un cambiamento di prospettiva per i movimenti popolari e, perfino, una piccola apertura
di credito da parte loro verso lo Stato liberale. Il dibattitto allora in corso sull’allargamento
del suffragio elettorale (una riforma annunciata dalla Sinistra di Depretis fin dal 1876) sta-
va aprendo nuove possibilità per il socialismo italiano, il cui potenziale elettorato, quello
dei ceti popolari urbani e rurali, non sarebbe stato più completamente escluso dal voto.
La «svolta» di Costa coincise, poi, con un mutato atteggiamento da parte sua e dell’intero
movimento socialista nei confronti di importanti fenomeni sociali, allora emergenti, come
quello rappresentato dalle Società di mutuo soccorso. Si trattava di sodalizi popolari che,
grazie alla libertà di associazione riconosciuta dallo Statuto albertino, si stavano diffonden-
do spontaneamente e con rapidità straordinaria in larga parte del paese, tanto che se ne
contavano ormai quasi cinquemila a livello nazionale. Avevano, solitamente, una ispirazio-
ne politica liberale o democratica e si ponevano lo scopo di supplire, attraverso la creazione
di una cassa comune alimentata da versamenti periodici dei soci, a quelle forme di tutela e
ai quei servizi sociali a cui lo Stato e le istituzioni pubbliche ancora non provvedevano.
Oltre a sviluppare forme di reciproca garanzia e assistenza rispetto a gravi eventualità
della vita come malattia e infermità, le Società di mutuo soccorso si posero all’origine di tan-
te iniziative nel campo del piccolo credito (casse operaie di prestiti e risparmi, banche agri-
cole e artigiane), dell’educazione infantile, elementare e professionale (asili, scuole serali e
domenicali, biblioteche popolari), dell’edilizia popolare (società edificatrici di case opera-
ie), dei consumi (cucine economiche, magazzini e spacci sociali), fino ad arrivare all’azione
sindacale (leghe di resistenza e camere del lavoro), rispondendo a precise esigenze della
società civile. Si trattava, insomma, di organismi di base, autogestiti, di piccole dimensioni,
capillarmente diffusi sul territorio e dotati di un apparato amministrativo ridotto al minimo.
Agli occhi di Costa, l’iniziale sottovalutazione per le esperienze del mutualismo e della
cooperazione, viste come forme di autodifesa del tutto inefficaci al fine della trasforma-
zione sociale, lasciò il posto a un confronto serrato con queste realtà, delle quali il leader
socialista romagnolo diventò presto un paladino, scoprendone i valori di fondo: la produ-
zione sociale del diritto (pensiamo agli statuti e ai regolamenti associativi) e, dunque, l’idea
di una autonomia del sociale rispetto allo Stato.
La tanto attesa riforma elettorale giunse finalmente a compimento nel 1882. Essa tripli-
cava l’elettorato attivo e nelle elezioni politiche che si tennero nell’ottobre di quell’anno
Costa risultò il candidato più votato nel collegio di Ravenna, diventando il primo deputa-
to socialista italiano. L’accettazione della partecipazione all’attività parlamentare, dentro
una istituzione dello Stato “borghese”, avvenne in maniera tormentata e sofferta da parte
di un ex anarchico come lui, ma era percepita ormai come indispensabile per l’avanzamen-
to della lotta politica.
La battaglia politica di Costa si dispiegò, infatti, compiutamente negli anni successivi.
Nel 1883, l’agitazione pubblica per la conquista elettorale dei Comuni, da lui guidata con lo
slogan “Impadroniamoci dei Comuni!”, si caratterizzò per tre rivendicazioni fondamentali: il
suffragio universale amministrativo, la riforma in senso autonomistico della legge comunale
e provinciale e l’abolizione delle prefetture.
Con l’ingresso in parlamento e con la campagna politica del 1883 iniziava a tutti gli ef-
fetti una nuova stagione politica nella sinistra italiana, che porterà nel 1889 alla prima vit-
toria socialista nelle elezioni comunali (a Imola, la città natale di Costa) e poi, nei decenni a
cavallo del 1900, all’affermarsi di amministrazioni socialiste in centinaia di comuni italiani.
Capitolo 15. Approfondimenti 429

A questo proposito, non è superfluo sottolineare la contorsione di principio insita nel


forte ritardo con il quale l’allargamento del suffragio per la Camera dei deputati (1882)
venne recepito anche per le elezioni amministrative. Il fatto è che nella classe politica libe-
rale, sia di Destra che di Sinistra, era forte il timore che non pochi comuni potessero passare
sotto il controllo delle coalizioni formate da socialisti, repubblicani e radicali; timore che,
del resto, si concretizzò puntualmente. Fu per questa ragione che all’equiparazione dell’e-
lettorato locale si pervenne con ben sette anni di ritardo, attraverso la riforma del 1888,
ricompresa nel testo unico della legge comunale e provinciale del 1889 e applicata per la
prima volta per le elezioni amministrative di quell’anno.
L’attività politico-parlamentare di Costa proseguì con immutata intensità nei decenni a
cavallo del 1900. Nella veste di deputato denunciò con forza la guerra coloniale in Africa
(1895-96) e si oppose, al volgere del secolo, alla svolta antiliberale del governo.
Nel 1909, a coronamento di un impegno quasi trentennale nelle istituzioni rappresen-
tative, venne eletto vice-presidente della Camera. Da tempo minato nelle condizioni di
salute, morì l’anno successivo nella sua città, Imola.

Italia-Europa-Mondo
La politica estera italiana dall’Unità alla vigilia della Grande
Guerra

La formazione dello Stato unitario chiuse definitivamente l’epoca caratterizzata dall’equi-


librio fra le potenze così come era stato sancito dal Congresso di Vienna. L’Italia era la nuo-
va “sesta potenza” che si aggiungeva a Gran Bretagna, Francia, Impero asburgico, Russia e
Prussia.
Lo Stato italiano si presentava dunque sulla scena internazionale come una incognita,
anche perché il processo di unificazione era stato il prodotto di un movimento comples-
so in cui all’iniziativa diplomatica e militare dello Stato piemontese si era accompagnata
quella democratica e popolare dei repubblicani mazziniani e dei garibaldini. Ciò consigliò
alla classe dirigente del Regno d’Italia di adoperarsi subito per ottenere credito e fiducia
presso i custodi dell’ordine continentale.
Il primo decennio postunitario, tra il 1861 e il 1870, fu così contraddistinto sul piano eu-
ropeo da una stretta alleanza con la Francia di Napoleone III, retaggio della Seconda guer-
ra di indipendenza combattuta assieme contro l’Austria. L’asse diplomatico italo-francese
si ruppe, però, nel 1870, quando l’Italia, approfittando della sconfitta francese a opera dei
prussiani, mosse alla conquista di Roma e dello Stato pontificio, fino ad allora protetti dalle
truppe dell’imperatore francese.
Questa circostanza portò naturalmente alla fine dell’alleanza con la Francia e contribuì
a determinare un progressivo avvicinamento dell’Italia alla Germania. Un secondo tornan-
te decisivo per il riassetto della politica estera italiana fu, nel 1881, il protettorato imposto
dalla Francia alla Tunisia, paese che fino ad allora era rimasto nell’orbita dell’Impero turco.
Ciò avveniva proprio di fronte alle estreme propaggini meridionali dell’Italia, che aveva
sperato di esercitare in quella regione la propria influenza.
Si accentuò così, da parte italiana, la convinzione che fosse giunto il momento di forma-
lizzare nuove alleanze. La ricerca di appoggi internazionali trovò presto il suo sbocco nella
430 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Triplice alleanza, sottoscritta dall’Italia, nel 1882, insieme a Germania e Austria-Ungheria,


già tra loro unite da accordi diplomatici. La Triplice alleanza costituì il cardine della politica
estera italiana fino alla Prima guerra mondiale.
Rassicurata dall’alleanza con i cosiddetti “imperi centrali” (tedesco e austro-ungarico),
la classe dirigente liberale avvertì in modo sempre più forte anche il richiamo dell’espan-
sione coloniale, ritenuta necessaria per difendere il ruolo internazionale dell’Italia.
L’uomo politico che maggiormente incarnò, nell’Italia liberale, l’emergere di queste
tendenze imperialistiche fu Francesco Crispi. Prima di lui, il nostro paese si era limitato
a occupare, per interessi eminentemente commerciali, la fascia costiera dell’Eritrea; ma
a partire dal 1885 e in maniera più decisa negli anni dei governi Crispi (1887-1891, 1893-
1896) l’Italia tentò di imporre un vero e proprio protettorato sull’Impero di Abissinia, l’o-
dierna Etiopia. Nel giro di dieci anni, tuttavia, le truppe italiane andarono incontro a nu-
merose sconfitte contro le forze indigene, l’ultima delle quali nella battaglia di Adua del
marzo 1896. Lo smacco fu così grave, che l’Italia si vide costretta a riconoscere ufficial-
mente, nell’ottobre dello stesso anno, l’indipendenza dell’Impero abissino. Al volgere del
secolo, i possedimenti coloniali italiani rimanevano circoscritti ad alcune parti litoranee
dell’Eritrea e della Somalia.
L’epoca giolittiana si caratterizzò almeno inizialmente per un desiderio di raccoglimen-
to e di pace sulle questioni di politica estera. Il caposaldo dell’indirizzo che si venne enu-
cleando all’inizio del Novecento fu costituito dalla conservazione della Triplice alleanza,
accompagnata però da una azione distensiva verso la Francia e dal mantenimento di buoni
rapporti con la Gran Bretagna. Una linea prudente che lasciava cadere in buona parte le
ambizioni colonialiste e che puntava a fare dell’Italia una sorta di ago della bilancia della
politica continentale, in una fase storica di divaricazione crescente tra i due grandi schiera-
menti in campo: l’Intesa franco-russa, a cui si aggiunse la Gran Bretagna, e la Triplice alle-
anza, di cui l’Italia continuava a far parte, come detto, ma che riconosceva indubbiamente
il suo nucleo centrale nell’asse tra i due imperi, tedesco e austro-ungarico.
Questa nuova stagione diplomatica, seguita alla fine delle avventure coloniali crispi-
ne, non poteva però trascurare quegli obiettivi militari e commerciali che costituivano, da
sempre, interessi primari per la politica estera italiana. Si trattava principalmente della
necessità per l’Italia di non abbandonare tutta la sponda meridionale del Mediterraneo in
mani altrui. Dopo la vicenda tunisina del 1881, nella quale le mire di Roma erano state fru-
strate dall’intervento francese, sulle coste dell’Africa settentrionale rimanevano appetibili
solamente la Tripolitania e la Cirenaica, che appartenevano ancora a quell’Impero otto-
mano ormai avviato al completo disfacimento. Da tempo era iniziata una penetrazione di
investimenti e capitali italiani in questi territori, e la volontà di garantirne la tutela, rispetto
a una possibile implosione dell’ordinamento interno, divenne il pretesto per l’aggressione
dell’Italia alla Turchia nel settembre 1911.
L’impresa, non particolarmente brillante dal punto di vista militare, incontrò una vivace
e imprevista opposizione da parte delle popolazioni arabe locali. Gli italiani non andarono
oltre l’occupazione di limitate strisce di territorio costiero, ma vollero comunque procla-
mare la completa annessione delle due regioni, che riunirono in un’unica colonia deno-
minata Libia. Contestualmente, l’esercito italiano si impadronì di alcuni altri possedimenti
turchi nel Mediterraneo, come l’isola di Rodi e una parte delle Sporadi (Dodecaneso).
Nel contesto della politica estera dell’Italia giolittiana, la guerra di Libia potrebbe ap-
parire come una scelta improvvisa ed estranea alle prudenti linee di condotta fino ad allora
adottate. In realtà, a ben vedere, dal momento che la Libia non costituiva un vero obiettivo
per nessun’altra delle potenze europee, la guerra italo-turca del 1911-12 non pregiudicava
Capitolo 15. Approfondimenti 431

di per sé il ruolo di mediazione e di equilibrio che Giolitti aveva ritagliato per l’Italia e, nello
stesso tempo, si rivelava in qualche modo coerente con le trasformazioni più complessive
che il paese stava vivendo: la sensibile crescita economica e civile della penisola nell’ul-
timo decennio, pur tra mille contraddizioni, sembrava richiedere che i risultati venissero
spesi anche sul piano dell’accrescimento della potenza internazionale.
A peggiorare progressivamente era, invece, lo scenario europeo nel suo complesso, or-
mai diviso in fronti diplomatici e militari contrapposti. Molto presto all’Italia non sarebbe
restata che la possibilità di decidere, una volta per tutte, da che parte stare, nella Grande
Guerra che si stava preparando.

Fonti e documenti
La sovranità popolare. Il progetto politico giolittiano e la riforma
elettorale del 1912

Introduzione
Attraverso le parole di Giovanni Giolitti, tratte dalle sue Memorie del 1922, è possibile com-
prendere appieno le motivazioni che spinsero lo statista piemontese a calcolare il rischio
di un allargamento del suffragio, e a correrlo, sicuro che quella fosse la strada giusta da se-
guire. Giolitti comprese, infatti, come l’inserimento delle masse nella vita politica del paese
avrebbe significato far loro comprendere i problemi dello Stato, avvicinandoli a essi. Così, il
30 giugno 1912, forte della sua maggioranza parlamentare, il governo riuscì a far arrivare in
porto la nuova legge elettorale, che in sostanza introduceva il suffragio universale maschile.
Il progetto di riforma elettorale aveva però incontrato numerose opposizioni e resisten-
ze. Non solo, come era lecito attendersi, da parte dei gruppi moderati e conservatori – che
accusavano il capo del governo di venire a patti con le forze radical-socialiste, nemiche
delle istituzioni, mettendo in tal modo in pericolo lo stesso ordinamento liberale –, ma
anche da parte dei partiti dell’Estrema. Radicali, repubblicani e socialisti, infatti, ebbero
l’impressione che Giolitti volesse sottrarre loro l’iniziativa in tema di diritti politici; giudi-
carono, inoltre, il progetto governativo per molti versi insufficiente e incompiuto, come
ricorda puntualmente lo stesso Giolitti.
C’era poi da considerare il particolare momento che stava vivendo l’Italia; la guerra di
Libia aveva riacceso gli animi e molti si chiedevano, specie negli ambienti liberali, se quello
fosse davvero il momento opportuno per una riforma che portava “il popolo” a esprimere
un delicato voto politico.
Nei fatti, l’inserimento di circa cinque milioni di nuovi elettori nella sfida delle urne
rappresentava per tutti una straordinaria incognita, alla quale alcune forze politiche guar-
davano con grande timore, mentre altre – e soprattutto chi cominciava a essere dotato di
forme partitiche sufficientemente articolate sul territorio, come i socialisti – con forti spe-
ranze di crescita nei consensi elettorali.
Il grande assente nel panorama dei partiti strutturati continuava a essere quello libera-
le, cioè il partito di governo per eccellenza; un particolare che rendeva, agli occhi di molti,
la riforma giolittiana ancora più temeraria.
432 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Dalle Memorie della mia vita (1922)


di Giovanni Giolitti
1. La sicurezza sociale e la ricchezza economica del paese a me erano sempre parse stretta-
mente collegate col benessere e con l’elevazione materiale e morale delle classi popolari;
aiutando questa elevazione le classi dirigenti compivano dunque una opera in cui il dovere
morale della solidarietà umana era in pieno accordo col loro stesso bene inteso interesse.
Se esse si fossero opposte al movimento di ascensione delle classi più numerose della so-
cietà, sarebbero state, prima o dopo, inesorabilmente travolte; se invece, adempiendo al
dovere della solidarietà umana, avessero assunto la tutela dei diritti e degli interessi del
proletariato; se con sapienti leggi avessero provveduto al suo benessere materiale e mo-
rale; se lo avessero spontaneamente chiamato a prendere il suo posto nell’esercizio della
sovranità popolare, esse avrebbero conseguito il vanto di sostituire alla lotta delle classi la
loro collaborazione, assicurando nello stesso tempo un progresso regolare e benefico alla
intera società, ed un incremento della potenza e della dignità dell’Italia fra le altre nazioni.
Per cui quando vi fu chi mi rimproverò di essere andato spontaneamente incontro ai partiti
estremi; di avere offerto in regalo ai socialisti più di quanto essi osassero domandare e si
aspettassero di poter ottenere, io ritorsi questa accusa, facendone un vanto, non personale
mio, ma del partito e del governo liberale, il quale, invece di resistere ad esigenze giuste,
le soddisfaceva spontaneamente, mostrandosi superiore agli interessi particolari, e quindi
veramente degno di regolare i destini della nazione. [...]
L’opposizione diretta alla legge per l’allargamento del suffragio non era facile; gli uomini
politici, i deputati che vi si fossero impegnati dovevano sentire si esporsi, quando la legge
fosse approvata, alla rappresaglia elettorale di coloro a cui essi avessero tentato di sbar-
rare la strada al conseguimento dei diritti politici; e questa preoccupazione era per me
un tacito omaggio al progetto stesso, ed un riconoscimento sia pure dissimulato, che le
condizioni per la sua adozione erano già mature nella coscienza politica del paese. Una
delle manovre più interessanti per l’osservatore in questa battaglia consisteva, non solo
nel non avversare la riforma, ma nel cercare anzi di svalutarla dichiarandola insufficiente;
e non è ormai scienza occulta, dopo tanto scaltrimento parlamentare, che uno dei modi più
efficaci per combattere una proposta, consiste nell’esagerarla. E ricordo che vi fu allora chi
propose di allargare il suffragio al di là dei miei intendimenti, con togliere quel limite dei
trent’anni che io avevo fissato per gli illetterati; altri che propose di dare senz’altro anche
il voto alle donne; mentre altri ancora proponevano l’adozione dello scrutinio di lista, o
l’applicazione del sistema proporzionale, tutti mezzi sicuri per raddoppiare gli ostacoli e
rendere più difficile al governo di condurre la legge in porto [...]. Ora io ammetto che nelle
leggi la massima semplicità sia l’ideale; ma esso non è sempre raggiungibile, perché le
leggi devono tenere conto anche dei difetti e delle manchevolezze di un paese, come nel
nostro caso era l’analfabetismo, ed adattarsi ad essi. Un sarto che deve tagliare un abito a
un gobbo deve fare la gobba all’abito.

2. Non era ammissibile che in uno Stato sorto dalla rivoluzione e costituito dai plebisciti,
dopo cinquant’anni dalla sua formazione si continuasse ad escludere dalla vita politica la
classe più numerosa della società, la quale dava i suoi figli per la difesa del paese, e sotto la
Capitolo 15. Approfondimenti 433

forma delle imposte indirette concorreva in misura larghissima a sostenere le spese dello
Stato. [...]
L’elevazione del quarto stato ad un più alto grado di civiltà era per noi ormai il problema
più urgente, e per molti punti di vista. Anzitutto per la stessa sicurezza sociale, in quanto
che l’esclusione delle masse dei lavoratori, non solo dalla vita politica, ma anche da quella
amministrativa del paese, togliendo loro ogni influenza legale, ha sempre per effetto di
esporle alle suggestioni dei partiti rivoluzionari e delle idee sovvertitrici: infatti dove le
masse sanno di non potere col loro voto e con la legale azione politica modificare le leggi
che siano proposte ed elaborate a loro danno, è ovvio che esse si lascino persuadere che i
soli messi per mutare un tale stato di cose sono i mezzi rivoluzionari.
Partecipando invece alla vita politica, le masse, nelle quali il buon senso finisce sempre
alla lunga col prevalere, possono, non solo rendersi conto delle difficoltà che lo Stato deve
superare per aiutare il loro incremento, ma anche dei limiti che le condizioni generali del
paese e del tempo pongono alla soddisfazione delle loro richieste, e così esse vengono ad
essere interessate al mantenimento dello Stato.
In secondo luogo, tale elevamento è desiderabile, anzi necessario per un altro aspetto, e cioè
quello della convenienza economica, perché la partecipazione attiva ad ogni forma di pro-
gresso, da parte di tutti è strettamente connessa con l’incremento delle ricchezze di un paese.
G. Giolitti, Memorie della mia vita, Milano, Treves, 1922, ora in F. Cammarano, M.S. Piretti (a
cura di), Fonti e documenti della storia d’Europa (1860-1914), Roma, Carocci, 2005, pp. 180-
181, 224-225.

Dibattito storiografico
L’Italia giolittiana fu una vera democrazia?

Introduzione
L’obiettivo di fondo di Giovanni Giolitti fu quello di salvaguardare e rafforzare le libertà isti-
tuzionali e civili inserendo le masse popolari nello Stato liberale e sostenendo lo sviluppo
produttivo. La sua condotta politica fu però condizionata dalla mancata formazione di un
autentico partito liberal-democratico, che fosse capace di sostenere saldamente l’azione
di governo.
Se questo dato di fatto esaltò, per un verso, la paziente arte della mediazione e il prag-
matico realismo che erano propri di Giolitti, portò però, nello stesso tempo, lo statista pie-
montese a rinunciare alla realizzazione di alcuni obiettivi qualificanti del suo programma
politico – ad esempio la riforma tributaria in senso progressivo –, che avrebbero rischiato di
frantumare la composita maggioranza di governo sulla quale egli si sosteneva.
Nell’analisi di Raffaele Romanelli (testo n. 1), proprio la condotta esitante e talvolta
poco limpida – si pensi ai tanti accordi di potere di tipo trasformistico stretti da Giolitti –
offuscarono l’immagine del sistema di potere giolittiano presso ampi settori dell’opinione
pubblica e, soprattutto, tra quegli intellettuali e uomini di cultura, di tendenza socialista
e democratica, ma non solo, che avrebbero desiderato decisioni più nette, coraggiose e
chiare.
434 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

Per i critici più severi, il mancato impegno da parte di Giolitti nel favorire la formazione
di un compiuto sistema di partiti e, tutto sommato, la sua preferenza ad affidarsi a reti di
relazioni personali nell’orchestrare gli equilibri di governo, finirono per svalutare il ruolo
del parlamento, facendo emergere addirittura, in determinate situazioni, un certo autori-
tarismo personale del capo dell’esecutivo. È questa l’opinione espressa da Luigi Salvato-
relli (testo n. 2), che riconobbe nondimeno a Giolitti il merito di aver compiuto sul piano
politico-amministrativo una notevole opera quotidiana a incremento delle condizioni di
vita della comunità nazionale.
Il sistema giolittiano fu, in definitiva, un tentativo, solo parzialmente riuscito, di moder-
nizzazione del paese, sorretto da una ottimistica fiducia nella lenta evoluzione in senso
progressivo delle società avanzate. Insieme alla consapevolezza dei limiti della sua azione
di governo, a Giolitti vanno sicuramente riconosciuti alcuni successi di grande significato,
e perfino epocali. Rientra, tra questi, l’essere riuscito a limitare e respingere le spinte rea-
zionarie, pur così forti nell’Italia di allora, così come l’aver impostato una linea di governo
sensibile ad alcune delle istanze espresse dai movimenti e dai partiti popolari; e l’aver,
insomma, posto le condizioni grazie alle quali, per la prima volta nella storia d’Italia, l’in-
dirizzo politico ed economico-sociale della nazione non fosse foggiato esclusivamente ad
uso e consumo delle sole classi superiori.
Non bisogna dimenticare, del resto, che il processo di crescita economica e sociale del
periodo giolittiano si svolgeva in un paese di recente unificazione, che si reggeva su equili-
bri politici ancora precari. Entro questa cornice, era già molto che l’Italia giolittiana – con-
cludendo con Alberto Acquarone (testo n. 3) – fosse, se non una democrazia perfetta, una
democrazia in cammino.

Testo n. 1
Raffaele Romanelli
Il nuovo secolo
Il nuovo secolo si aprì all’insegna di una netta svolta politica, rappresentata dalla figura
di Giovanni Giolitti, che fu prima ministro dell’Interno con Zanardelli e poi a più riprese
presidente del Consiglio nel decennio successivo. Piemontese, proveniente dalla pubblica
amministrazione, Giolitti aveva già anticipato le linee di un programma più avanzato quan-
do era stato primo ministro negli anni di Crispi, tra il 1892 e il 1893. Egli rilanciò ora a livello
di governo l’alleanza tra liberal-democratici, radicali e socialisti che aveva vinto nella “crisi
di fine secolo”, ma non riuscì, come avrebbe voluto, a trasformare in partecipazione alla
compagine ministeriale l’appoggio parlamentare che ricevette dai leader socialisti (come
Turati e Treves) che più inclinavano verso il riformismo. L’obiettivo di fondo era quello di
salvaguardare e rafforzare le libertà istituzionali e civili inserendo le masse popolari nello
Stato liberale e sostenendo lo sviluppo produttivo che si era già avviato in Italia da qualche
anno con caratteri marcati, tali da far parlare di vero e proprio “decollo industriale”. [...].
Il processo di espansione economica degli anni 1896-1914 (ovvero, soprattutto, del 1896-
1907) è legato a una serie di condizioni favorevoli. La politica giolittiana fu una di queste.
In un’ottica produttivistica, Giolitti fu infatti favorevole a politiche di alti salari che allar-
gassero il mercato interno; egli si fece perciò paladino delle libertà sindacali e annunciò la
neutralità dei poteri pubblici nei conflitti tra capitale e lavoro che esplosero in quell’inizio
di secolo con un’intensità senza precedenti. Il processo culminò nel 1906 con la costituzio-
ne della Confederazione generale del lavoro, di ispirazione socialista-riformista. Pur man-
cando gli obiettivi più qualificanti – introdurre una riforma tributaria in senso progressivo
Capitolo 15. Approfondimenti 435

e coinvolgere direttamente nel governo socialisti e radicali – la svolta giolittiana fu inizial-


mente efficace: furono votate rilevanti riforme sociali (una legge tutelò il lavoro minorile
e femminile, venne istituito un Ufficio del lavoro e un Consiglio superiore del lavoro, fu
introdotta la municipalizzazione dei servizi pubblici). [...]
La mancata formazione di autentici partiti borghesi – fossero liberali o conservatori – e la
dissoluzione dei gruppi politici nell’amalgama trasformistico sono rivelatrici di una carat-
teristica di fondo del sistema politico italiano del tempo, imperniato su singole personalità,
a livello nazionale o locale, e sulla loro capacità di aggregare e di mediare di volta in volta
in sede parlamentare i diversi interessi.
Di quest’arte della mediazione Giolitti, con il suo pragmatico realismo, fu maestro, come
era stato prima di lui Agostino Depretis. E non a caso la “dittatura parlamentare” di Giolitti,
così come il “trasformismo depretisino”, ottenne i suoi successi accantonando i punti più
controversi dei programmi iniziali e non espresse mai aperti progetti ideologici. Per la sua
capacità di guadagnare consensi e di manovrare le elezioni – anche attraverso brogli e
violenze laddove, come in certe province meridionali, i conflitti erano più acuti – Giolitti
fu definito dallo storico socialista Gaetano Salvemini addirittura “ministro della malavita”.
Anche in questo caso, come già con Depretis, il governo non guadagnò il consenso degli
intellettuali, e se si fanno alcune importanti eccezioni – prima fra tutte quella del filosofo
napoletano Benedetto Croce, che dopo una giovanile adesione al marxismo fu poi sempre
equanime osservatore delle cose d’Italia – si può dire che la cultura fu tutta antigoverna-
tiva, come del resto quasi sempre nella storia d’Italia, si trattasse allora degli intellettuali
democratici orientati al socialismo, di liberali liberisti, o infine degli esponenti dei nuovi
orientamenti variamente idealistici e nazionalisteggianti – questi anche tendenzialmente
antiparlamentari – che fecero allora la loro apparizione.
R. Romanelli, L’Italia liberale, in AA.VV., Storia contemporanea, Roma, Donzelli, 1997, pp. 189-
192.

Testo n. 2
Luigi Salvatorelli
Il periodo giolittiano
La politica governativa dal ritiro dello Zanardelli nell’ottobre 1903 alla guerra fu quasi
sempre diretta – e quando non diretta, controllata – da Giovanni Giolitti (1842-1928). Que-
sti fu a capo del governo nel 1903-905, 1906-909, 1911-14; lo sostituirono negli intervalli il
Fortis e il Luzzatti, come nuovi capi temporanei della maggioranza governativa, e il Sonni-
no – in due ministeri di cento giorni, nel 1906 e nel 1909-10 – come capo dell’opposizione,
ma senza base parlamentare. Le grandi maggioranze giolittiane uscite dalle elezioni del
1904 e del 1909 erano composte di conservatori, di liberali, di radicali, onde si parlò di
“neotrasformismo”. L’indirizzo di governo giolittiano fu, pur con empirismo opportunistico,
sostanzialmente liberale; ma non promosse una formazione organica di partiti, e venne a
favorire in una certa misura la svalutazione del parlamento e l’autoritarismo personale.
Notevole fu l’opera quotidiana politico-amministrativa a incremento delle condizioni na-
zionali. Ciò appare già dagli aumenti di taluni bilanci, come quello (tra il 1900 e il 1907)
dell’istruzione da 49 a 85 milioni, dei lavori pubblici da 79 a 117, dell’agricoltura da 13 a 27.
Lo Stato per una spinta irresistibile estendeva sempre più le sue mansioni: così nel 1905-
1906 assunse l’esercizio diretto delle ferrovie, che furono migliorate e accresciute, e nel
1910 le scuole elementari. Si ebbe tutto un complesso di provvedimenti con leggi speciali
436 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

in favore del Mezzogiorno e anche dell’Italia centrale, cioè delle regioni che più avevano
bisogno di un appoggio dello Stato per raggiungere il livello delle altre. La legislazione
sociale riguardò campi svariatissimi: la sanità pubblica, le opere pie, le case economiche
popolari, le società cooperative e agricole, gli infortuni sul lavoro e la cassa d’invalidità e
vecchiaia, il lavoro delle donne e dei fanciulli, quello notturno e il riposo festivo, gli uffici
del lavoro. Al tempo stesso si provvide alla difesa nazionale con un forte aumento di spese
militari per cui il bilancio della guerra salì da 281 a 376 milioni e quello della marina mili-
tare da 135 a 167. [...]
La guerra libica, assai popolare, si effettuò sotto il quarto ministero Giolitti (esteri, Di San
Giuliano). Il Giolitti, preparando e dirigendo l’impresa coloniale, mirò a mantenere al tem-
po stesso il corso liberal-democratico della politica interna. Fece votare la statizzazione
delle assicurazioni sulla vita e una riforma elettorale quasi equivalente al suffragio univer-
sale (1912). Per essa il diritto elettorale venne attribuito, oltre ai forniti dei titoli della legge
del 1882, a quanti avessero adempiuto agli obblighi del servizio militare o avessero rag-
giunto i trenta anni d’età. Gli elettori salirono da tre milioni e mezzo a otto milioni. Il Giolitti
tuttavia non riuscì ad evitare, né forse avvertì a sufficienza, una trasformazione interna
dei partiti e degli spiriti che portò a un rincrudimento della lotta politica e a un rigoglio di
tendenze antiliberali. In una parte del socialismo vi fu un ritorno alla tendenza combattiva,
rivoluzionaria, e se ne fece capo Benito Mussolini (1883-1945), dal dicembre 1912 direttore
dell’“Avanti!”. Questa tendenza, vittoriosa nel congresso del partito a Reggio Emilia del
1912, provocò la scissione dei riformisti più decisi, che sotto il Bissolati fondarono il partito
socialista riformista. Dall’altra parte sorse il movimento nazionalistico a tendenze imperia-
listiche e autoritarie, nemico non meno del liberalismo tradizionale che dei partiti estremi,
il quale fece alleanza con taluni elementi cattolici.
Le elezioni dell’ottobre-novembre 1913, le prime col nuovo suffragio, portarono alla Ca-
mera una Estrema sinistra assai aumentata – i socialisti erano raddoppiati – e ridivenuta
aggressiva. Dichiaratasi anche nel partito radicale la tendenza antiministeriale, Giolitti si
dimise e il nuovo gabinetto fu costituito, senza partecipazione dei radicali, da Antonio Sa-
landra, un sonniniano passato al campo giolittiano (marzo 1914).
L. Salvatorelli, Sommario della storia d’Italia dai tempi preistorici ai nostri giorni, 7a ed. rivedu-
ta e accresciuta, Torino, Einaudi, 1955, pp. 573-576.

Testo n. 3
Alberto Acquarone
Il sistema giolittiano
Con gli ultimi anni dell’Ottocento il processo di crescita della società italiana acquistò sen-
za dubbio più vasto respiro, le sue pulsazioni si fecero più rapide e marcate. E ciò a tutti
i livelli: delle formazioni politiche e sociali (si pensi all’ascesa del partito socialista e del
movimento sindacale e operaio, ai nuovi fermenti del movimento cattolico con la nascita
della prima democrazia cristiana); dello sviluppo economico (il vero e proprio decollo in-
dustriale data appunto dagli anni immediatamente successivi alla crisi del 1893-94); della
vita culturale (si pensi, al di là del nuovo rigoglio artistico e letterario, alla grande fioritura
di studi economici, storici, filosofici, politici). L’Italia recideva gli ultimi legami con l’espe-
rienza politica e morale del Risorgimento e s’inoltrava decisamente lungo le accidentate
vie dell’età contemporanea sotto la guida al tempo stesso burbanzosa e amorevole, scetti-
ca e ferma, competente e approssimativa, di Giovanni Giolitti.
Capitolo 15. Approfondimenti 437

Con l’età giolittiana ci troviamo veramente al centro, e non solo in senso estrinsecamente
temporale, dei cento anni o poco più di vita italiana unitaria. È un’età cerniera, che se-
gna da un lato il superamento definitivo dell’era che si può definire risorgimentale, e pone
dall’altro le premesse effettive dell’Italia contemporanea, industriale, campo di battaglia
di forze politiche nuove, nuove per lo meno nel peso della loro partecipazione diretta alla
vita pubblica e nella loro comune, anche se discorde, opera di erosione della semisecolare
preminenza della borghesia liberale: socialisti, cattolici, nazionalisti. E un’età, naturalmen-
te, che attraverso l’ingigantirsi dei maggiori gruppi industriali e finanziari, vede alterarsi
profondamente il rapporto fra potere politico e potere economico, fra pubblica ammini-
strazione e iniziativa privata. Un’età, infine, a cominciare dalla quale il discorso sulla origi-
ne del fascismo comincia ad assumere una qualche ragionevole plausibilità.
Lo scomposto furore antigiolittiano di tanti contemporanei, anche di nobile intelletto e di
tratti signorile in altre circostanze, un furore che non di rado perdeva qualsiasi carattere
di razionale opposizione politica per acquistare quello di delirante paranoia scatenata da
ossessive visioni di male assoluto, pur rimanendo sempre uno degli episodi più singolari ed
inafferrabili del costume morale e del folklore politico italiano, si può forse in parte spiega-
re con la sensazione diffusa e invero giustificata che in quegli anni per l’appunto si stessero
decidendo il posto e la fisionomia che la società italiana avrebbe avuto, per parecchie ge-
nerazioni, nel mondo moderno. Senza dimenticare, peraltro, la savia osservazione di quel
pur antigiolittiano, ma non viscerale, che fu Piero Gobetti: “L’Italia è ancora un paese trop-
po pien di rettorica per non essere antigiolittiano per definizione”. In effetti, l’apparizione
sulla scena della vita pubblica italiana di un uomo di governo contraddistinto dall’insolita
caratteristica di avere un’idea abbastanza chiara e non troppo assurda dei fini da proporsi
e dei mezzi per conseguirli, e una concezione della politica che non era né mero opportuni-
smo spicciolo, né magniloquente pretesa di totale rigenerazione nazionale, provocò negli
ambienti più diversi turbini di costernazione. [...]
Il sistema giolittiano fu, in sostanza, un tentativo, solo parzialmente riuscito, di moderniz-
zazione del paese; o, per meglio dire, uno sforzo diretto a far sì che le istituzioni politiche
liberali – viste naturalmente non solo come princìpi di libertà e d’ordine, ma come strumen-
ti potere in un ben definito contesto di equilibri sociali – riuscissero a tener il passo con il
prorompente dinamismo di un’economia in espansione non solo quantitativa, ma qualita-
tiva. Questo sforzo di modernizzazione si proiettava in due direzioni: il superamento dello
Stato risorgimentale mediante la graduale e prudente acquisizione al regime liberale bor-
ghese, grazie a un processo di assorbimento molecolare, di quegli strati più avanzati delle
masse popolari del cui buon comportamento si rendessero mallevatori i dirigenti socialisti
riformisti da un lato, i più aperti e lungimiranti notabili clerico-moderati dall’altro; la pro-
fessionalizzazione della vita politica, resa indispensabile da quel nuovo rapporto fra Stato
e società civile, fra amministrazione ed economia, fra pubblici poteri ed iniziativa privata,
caratteristico di un paese ormai avviato verso l’industrializzazione. [...]
Fu lo stesso Giustino Fortunato, il quale non era proprio particolarmente portato a veder le
cose in color rosa, a denunciare nel 1912 come affatto ingiuste le ricorrenti deplorazioni sul
presunto continuo deterioramento del grado di onestà, cultura e competenza dei deputati,
asserendo invece che il livello medio di questi ultimi si era con gli anni innalzato, specie
per quanto riguardava la deputazione del Mezzogiorno, e che comunque, contrariamente
al diffuso luogo comune, era la Camera ad essere migliore del paese, e non viceversa. [...]
In effetti, si può imputare allo statista piemontese l’essersi sempre rifiutato di mettere a
repentaglio gli equilibri politici e sociali del paese (quegli equilibri che malgrado tutto sta-
438 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

vano dando all’Italia – grazie anche ad una favorevole congiuntura internazionale – una
prosperità limitata ma tuttavia senza precedenti, insieme a mai previamente sperimentate
possibilità di avanzamento politico ed economico di parte almeno delle masse popolari),
per partire in crociata alla conquista della Gerusalemme della rigenerazione del Sud. Una
rigenerazione, oltre tutto, i cui mezzi politici e tecnici più idonei allo scopo non erano certo
di facile individuazione ed applicazione allora, così come continuano a non esserlo del
tutto oggi, pur dopo esperienze molto diverse e sotto certi aspetti indubbiamente fruttuose
(ma fruttuose più in termini di confronto con la precedente situazione meridionale, che in
termini relativi, commisurati al generale progresso civile della nazione).
Vi possono essere pochi dubbi che la strategia, o se si preferisce, la naturale propensione
di Giolitti nella sua azione politico-amministrativa fosse quella di seguire la linea di minor
resistenza. Alla base di questo suo atteggiamento si possono probabilmente indicare due
fattori, l’uno di carattere più istintivo e temperamentale, l’altro di natura più consapevole
e riflessa. In primo luogo, una concezione alquanto pessimistica della natura umana in ge-
nerale ed un radicato scetticismo sulla maturità politica e sulla fibra morale degli italiani
in particolare: ne derivava la convinzione che certi mali fossero in parte permanenti e in
parte sradicabili, nel migliore dei casi, solo attraverso un’azione paziente di generazioni
e che pertanto il ricorso a mezzi estremi e rivoluzionari non avrebbe che peggiorato le
cose, mettendo a nudo gli aspetti più deteriori delle situazioni obiettive e delle passio-
ni soggettive. In secondo luogo, invece, una ottimistica fiducia nella lenta evoluzione in
senso progressivo delle società avanzate, purché non si tentasse di bruciare le tappe, di
coartare con misure eccessive ed inopportune il naturale corso delle cose, ma si lasciasse
invece che i tempi guidassero gli uomini, e gli uomini guidassero i tempi, trovando insieme
il ritmo giusto all’insegna di un pacato riformismo fatto di piccoli, ma concreti e duraturi
avanzamenti. Il cemento unificatore di questi due momenti della personalità intellettuale
e morale di Giolitti era un sostanziale conservatorismo: un conservatorismo, però, si badi
bene, non all’interno del sistema borghese, ma proiettato verso l’esterno, come tutela ap-
punto di quel sistema – suscettibile esso stesso di desiderabili trasformazioni nel senso di
una maggiore democratizzazione – dalle forze e dalle ideologie eversive esterne, dirette a
scompaginare ed abbattere la monarchia costituzionale borghese.
L’atteggiamento di Giolitti nei confronti del movimento operaio e socialista può essere con-
siderato meramente di comodo e strumentale (nel senso di furbesca ipocrisia diretta a ce-
lare intenzioni diametralmente opposte a quelle messe in mostra) solo da chi neghi in linea
di principio la qualifica di progressiva a qualsiasi politica che non si prefigga come obiettivo
l’instaurazione di un regime fondato sulla proprietà socialista dei mezzi di produzione.
Quanto all’accusa, o se si preferisce, alla messa a punto salveminiana, che cioè tutto il pro-
gresso è democratico – materiale, politico, morale – realizzato dall’Italia nel corso dei due
o tre lustri precedenti la Prima guerra mondiale fu un progresso non già dall’alto, grazie
alle “concessioni” giolittiane, ma dal basso, strappato alla classe dirigente liberale dalla de-
terminazione e dallo spirito di sacrificio del movimento organizzato dei lavoratori, che riu-
scì a piegare Giolitti alla propria causa, mi sembra che tolga ben poco ai meriti dell’uomo
di Dronero (se questa era l’intenzione, come appare evidente dal contesto, di Salvemini).
Se anche ciò fosse del tutto vero (e ci sarebbe non poco da obiettare a proposito di questa
interpretazione che attribuisce a Giolitti un ruolo soltanto passivo in materia), sarebbe già
titolo sufficiente l’aver consentito che le resistenze reazionarie pur così forti nell’Italia di
allora potessero venir rintuzzate dal basso, l’aver impostato strategia ed obiettivi partico-
lari lungo alcune delle linee direttrici indicate dai rappresentati operai, e l’aver infine posto
Capitolo 15. Approfondimenti 439

le condizioni grazie alle quali, per la prima volta nella storia d’Italia, l’indirizzo politico
ed economico-sociale della nazione non fosse foggiato esclusivamente ad uso e consumo
delle sole classi medie e superiori. Non a caso, del resto, Giolitti dovette più volte subire il
rimprovero, da contemporanei e da posteri, di aver ecceduto in senso opposto, di aver ab-
dicato alle esagerate pretese socialiste e sindacali, minando l’autorità dello Stato.
Fra le tante cose che Giolitti non fece e che invece avrebbe dovuto fare, va certo annove-
rato il non aver egli voluto o saputo guidare il paese fuori delle secche del trasformismo e
creare un sano e vitale sistema partitico. In effetti, Giolitti non si sforzò molto di raccogliere
organizzare le sparse forze dell’opposizione di sinistra in un grande e influente partito e
anzi mirò a dividere radicali da socialisti, repubblicani da democratici tipo Salvemini, socia-
listi dell’una da quelli dell’altra tendenza. Bisogna anche aggiungere, ad onor del vero, che
se egli agì in questi casi trasformisticamente, lo fece con la piena collaborazione dei più di-
retti interessati, ai quali incombeva in primo luogo l’onere di costituirsi in opposizione orga-
nica, fattiva, basata su programmi precisi e non su velleità, al fine di porre un argine a tutte
le sciagurate conseguenze del corrotto e dittatoriale governo del ministro della malavita.
Più fondata potrebbe sembrare un’altra accusa mossa, sempre in questo campo, a Giolitti:
quella cioè di non aver voluto o saputo fondere gli sparsi e disarticolati elementi delle sue
cangevoli maggioranze in un grande partito liberale-costituzionale, centro di coesione e di
dinamismo politici, atto a dar continuità e vigore ai programmi di governo, indispensabile
strumento di stabilità per lo stesso sistema giolittiano, il quale invece entrò in crisi alle pri-
me difficoltà, nel pieno o quasi delle sue fortune, dimostratesi così più effimere di quanto
potessero lasciar ritenere le ingannevoli apparenze.
Che Giolitti non si sia mai impegnato con forza e costanza in questo senso è vero: agivano
in direzione contraria sia il dato oggettivo della estrema frammentarietà della società e
quindi delle forze politiche italiane; sia la di lui naturale tendenza a seguire la linea di
minor resistenza e a non imbarcarsi in intraprese dal dubbio esito quando non apparivano
sul momento assolutamente necessarie; sia, infine, con ogni probabilità, il timore che il
costituirsi della maggioranza in partito ben definito e organizzato potesse ostacolare o
addirittura arrestare quel processo di lento assorbimento nello Stato liberale delle masse
socialiste e cattoliche che gli stava a cuore. [...]
L’antigiolittismo, sia quello dei contemporanei che quello dei posteri, è un fenomeno dav-
vero singolare e non ancora sufficientemente studiato nelle sue radici ed in tutte le sue
sfaccettature: singolare non certo perché Giolitti e la sua opera fossero al di sopra di qual-
siasi riserva o critica, ma per il carattere viscerale, ingiurioso, pateticamente quanto irrazio-
nalmente esagitato che ha così spesso assunto. Il più evidente e pervasivo denominatore
comune delle prese di posizione antigiolittiane, pur provenienti da campi così diversi, è
sempre stata l’accusa rivolta allo statista piemontese di essere responsabile, per peccati
vuoi di omissione, vuoi di commissione, del generale scadimento politico-morale del paese,
della fiacchezza spirituale imperversante in tutti gli strati sociali, dell’avvilimento burocra-
tico e routinier della vita pubblica nazionale, della riduzione a mera banale pratica quoti-
diana dell’azione di governo. A parte il fatto che è la stessa diagnosi del clima imperante
nell’Italia di quel tempo ad essere perlomeno inesatta (la vita culturale, le lotte e le pas-
sioni politiche, l’impegno morale e il dinamismo sociale non furono nell’età giolittiana di
qualità inferiore a quella registrata in qualsiasi altro periodo della storia unitaria italiana,
anzi, rispetto alla media – se una media si può tentare di abbozzare – senz’altro superiore),
si finisce in questo modo con l’imputare a Giolitti, o meglio allo Stato, i limiti, le impotenze,
i traguardi mancati della società civile. Allo Stato spetta assicurare le condizioni esterne
440 Percorsi didattici di storia moderna e contemporanea: dal Seicento alla vigilia della Grande Guerra

che consentano piena e libera espressione alle energie, alle capacità creative, alle spinte
di rinnovamento della società civile, e farsi tutt’al più sollecitatore di maggior spirito d’ini-
ziativa nei momenti e nei settori ove più pericolose siano le tendenze al ristagno; ma non
gli spetta assumersi in prima persona compiti di “rigenerazione nazionale” che solo nel
tessuto vivo e vario del corpo sociale possono essere felicemente assolti. L’alternativa è, e
non potrebbe non essere, una società totalitaria. Così come nel totalitarismo non potrebbe
non sfociare quella fusione fra governo e governati, quella integrazione fra paese legale e
paese reale, da tanti farneticata come il toccasana dei più vari mali sociali, la stella polare
che dovrebbe guidare nella loro tempestosa rotta le moderne società.
Il sistema giolittiano conteneva certamente in sé degli elementi dissolutori che non riuscì
a contrastare adeguatamente. Ma è lecito chiedersi fino a che punto questa mancata ri-
uscita fosse dovuta a errori di strategia e di tattica (che pure certamente vi furono, come
del resto neppure i più accaniti “filogiolittiani” si sognerebbero di negare), e in quale mi-
sura invece dipendesse da quella congenita debolezza dell’assetto politico e delle struttu-
re economico-sociali del paese, che aveva radici storiche così lontane e profonde. Certo,
qualsiasi uomo di governo e qualsiasi classe politica si trovano a dover fare i conti con la
naturale refrattarietà dei dati obiettivi della situazione storica esistente a lasciarsi plasma-
re secondo le loro finalità ed aspirazioni. Ma per le ragioni che si sono indicate, sia pure
(e necessariamente) solo di sfuggita, le condizioni in cui dovevano operare i governanti
dell’età giolittiana erano, rispetto a quelle predominanti nel resto dell’Europa occidentale
e centrale, particolarmente gravose e frustranti. Il processo di crescita economica e di spo-
stamenti degli equilibri sociali tradizionali verificatosi tra il 1896 e il 1913 (con una battuta
d’arresto nel 1907 ed una ripresa più lenta e incerta negli anni che seguirono) si svolse nel
contesto di un corpo sociale frantumato, che gli sforzi e le tensioni dei primi decenni di vita
unitaria per tenere in piedi l’unità medesima e le istituzioni liberali contribuirono in parte
a disgregare ancor più, anziché a ricomporre ed armonizzare. La stessa precarietà della
base economica su cui la nuova borghesia capitalistica fondava il suo predominio politi-
co e sociale ne accentuava il rabbioso esclusivismo, l’ossessione antidemocratica, quella
miopia e grettezza politica infine che affondavano peraltro le loro radici in qualcosa di più
antico: la secolare assenza di tradizioni di autogoverno; il persistente divorzio fra politica e
cultura, fra scienza e tecnica, fra vita privata e responsabilità civiche. Il mai sopito conflitto
fra Stato e Chiesa aveva dissipato energie, disarticolato il sistema partitico e la funzionalità
del regime parlamentare, creato in continuazione veri e falsi problemi, altrove o inesistenti
o comunque più facilmente risolubili. Entro questa cornice, era già molto che l’Italia gio-
littiana – per dirla con le parole insospettabili di Salvemini – fosse, se non una democrazia
perfetta, una democrazia in cammino.
A. Acquarone, Alla ricerca dell’Italia liberale, Napoli, Guida, 1972, ora in G. Perugi, M. Bellucci,
Storiografia. 3. Età contemporanea. Orientamenti e pagine scelte, Bologna, Zanichelli, 1989,
pp. 275-279.
OttocentoDuemila
COLLANA DI STUDI STORICI E SUL TEMPO PRESENTE
DELL’ASSOCIAZIONE CLIONET
PRESSO BRADYPUS EDITORE

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books.bradypus.net

Direttore: Carlo De Maria


Comitato di direzione: Eloisa Betti, Fabio Casini, Francesco Di Bartolo, Luca Gorgolini,
Tito Menzani, Fabio Montella, Laura Orlandini, Francesco Paolella, Elena Paoletti, Sil-
via Serini, Matteo Troilo, Erika Vecchietti.
Comitato scientifico: Enrico Acciai, Luigi Balsamini, Mirco Carrattieri, Federico Chia-
ricati, Sante Cruciani, Monica Emmanuelli, Alberto Ferraboschi, Alberto Gagliardo,
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Monti, Elena Pirazzoli, Antonio Senta, Maria Elena Versari, Gilda Zazzara.
Coordinamento editoriale: Julian Bogdani.
Orientata, fin dal titolo, verso riflessioni sulla contemporaneità, la collana è aperta
anche a contributi di più lungo periodo capaci di attraversare i confini tra età medie-
vale, moderna e contemporanea, intrecciando la storia politica e sociale, con quella
delle istituzioni, delle dottrine e dell’economia.
Si articola nelle seguenti sottocollane:
“Storie dal territorio”. Le autonomie territoriali e sociali, le forme e i caratteri della
politica, dell’economia e della società locale, la storia e le culture d’impresa.
“Percorsi e networks”. L’attenzione per le biografie e le scansioni generazionali, per
le reti di corrispondenze e gli studi di genere.
“Tra guerra e pace”. La guerra combattuta e la guerra vissuta, i fronti e le retrovie, le
origini e le eredità dei conflitti.
“Italia-Europa-Mondo”. Temi e sintesi di storia italiana e internazionale.
“Strumenti”. Le fonti e gli inventari, i cataloghi e le guide.
“Fotografia e storia”. Contributi per una memoria visiva dei territori.
“Didattica della storia”. Proposte e percorsi per l’insegnamento della storia e per la
formazione e l’aggiornamento dei docenti.
OttocentoDuemila, collana di studi storici e sul tempo presente
dell’Associazione Clionet, diretta da Carlo De Maria

Volumi usciti:
Eloisa Betti, Carlo De Maria (a cura di), Dalle radici a una nuova identità. Vergato tra sviluppo
economico e cambiamento sociale, Bologna, Bradypus, 2014 (Storie dal territorio, 1).
Carlo De Maria (a cura di), Il “modello emiliano” nella storia d’Italia. Tra culture politiche e
pratiche di governo locale, Bologna, Bradypus, 2014 (Storie dal territorio, 2).
Learco Andalò, Tito Menzani (a cura di), Antonio Graziadei economista e politico (1873-1953),
Bologna, Bradypus, 2014 (Percorsi e networks, 1).
Learco Andalò, Davide Bigalli, Paolo Nerozzi (a cura di), Il Psiup: la costituzione e la parabola
di un partito (1964-1972), Bologna, Bradypus, 2015 (Italia-Europa-Mondo, 1).
Carlo De Maria (a cura di), Sulla storia del socialismo, oggi, in Italia. Ricerche in corso e rifles-
sioni storiografiche, Bologna, Bradypus, 2015 (Percorsi e networks, 2).
Carlo De Maria, Tito Menzani (a cura di), Un territorio che cresce. Castenaso dalla Liberazione
a oggi, Bologna, Bradypus, 2015 (Storie dal territorio, 3).
Fabio Montella, Bassa Pianura, Grande Guerra. San Felice sul Panaro e il Circondario di Miran-
dola tra la fine dell’Ottocento e il 1918, Bologna, Bradypus, 2016 (Tra guerra e pace, 1).
Antonio Senta, L’altra rivoluzione. Tre percorsi di storia dell’anarchismo, Bologna, Bradypus,
2016 (Percorsi e networks, 3).
Carlo De Maria, Tito Menzani (a cura di), Castel Maggiore dalla Liberazione a oggi. Istituzioni
locali, economia e società, Bologna, Bradypus, 2016 (Storie dal territorio, 4).
Luigi Balsamini, Fonti scritte e orali per la storia dell’Organizzazione anarchica marchigiana
(1972-1979), Bologna, Bradypus, 2016 (Strumenti, 1).
Fabio Montella (a cura di), “Utili e benèfici all’indigente umanità”. L’Associazionismo popolare
in Italia e il caso della San Vincenzo de’ Paoli a Mirandola e Bologna, Bologna, Bradypus, 2016
(Storie dal territorio, 5).
Carlo De Maria (a cura di), Fascismo e società italiana. Temi e parole-chiave, Bologna,
Bradypus, 2016 (Italia-Europa-Mondo, 2).
Franco D’Emilio, Giancarlo Gatta (a cura di), Predappio al tempo del Duce. Il fascismo nella
collezione fotografica Franco Nanni, Roma, Bradypus, 2017 (Fotografia e storia, 1).
Carlo De Maria (a cura di), Minerbio dal Novecento a oggi. Istituzioni locali, economia e socie-
tà, Roma, Bradypus, 2017 (Storie dal territorio, 6).
Fiorella Imprenti, Francesco Samorè (a cura di), Governare insieme: autonomie e partecipa-
zione. Aldo Aniasi dall’Ossola al Parlamento, Roma, Bradypus, 2017 (Percorsi e networks, 4).
Carlo De Maria (a cura di), L’Italia nella Grande Guerra. Nuove ricerche e bilanci storiografici,
Roma, Bradypus, 2017 (Tra guerra e pace, 2).
Gianfranco Miro Gori, Carlo De Maria (a cura di), Il cinema nel fascismo, con postfazione di
Goffredo Fofi, Roma, Bradypus, 2017 (Italia-Europa-Mondo, 3).

BraDypUS.net
COMMUNICATING
CULTURAL HERITAGE

Finito di stampare nel febbraio 2018.


L’architettura complessiva del libro restituisce gli elementi
essenziali della trasmissione culturale della conoscenza
storica: periodizzazioni e visioni d’insieme, idee e passioni,
lungo un filo conduttore che va dalla nascita dello Stato
OttocentoDuemila moderno e dell’idea di nazione fino alle origini della Prima
Didattica della storia, 1 guerra mondiale, intesa come cifra simbolica del Novecento.
Nei profili storici che aprono i singoli capitoli sono contenute
tutte le informazioni fondamentali per narrare alcune delle
cruciali trasformazioni politico-istituzionali e socio-culturali
della modernità. A seguire, gli "approfondimenti" che
completano ciascun capitolo si concentrano sugli elementi di
svolta e le conseguenze di lungo periodo, individuando i
concetti-chiave, stabilendo connessioni tra dimensione locale
e globale e, infine, intrecciando biografie e luoghi. È questa la
parte più laboratoriale, dalla quale attingere alcune proposte
pratiche per il trasferimento dei contenuti in efficaci azioni
didattiche. La spiccata sensibilità verso i temi della storia
costituzionale e verso l’evoluzione dei diritti e dei doveri di
cittadinanza riporta al nesso fondamentale tra lo studio della
storia e la formazione di una solida cultura civica. La costante
attenzione alle fonti consente di delineare percorsi didattici
“dal documento alla narrazione storica”, che avvicinino
gradualmente studenti e insegnanti alle possibilità della
didattica in archivio e in biblioteca.

Carlo De Maria (Bologna 1974) insegna “Didattica della storia” nelle


università di Urbino e Bologna e dirige l’Istituto storico della
Resistenza e dell’Età contemporanea di Forlì-Cesena. Tra le sue
ultime pubblicazioni, il manuale per il triennio dei licei Una storia
globale. Storia, economia e società, 3 voll., Mondadori Education-Le
Monnier Scuola, 2015 (scritto con Vera Zamagni, Germana Albertani e
Tito Menzani), la monografia Le biblioteche nell’Italia fascista
(Biblion, 2016) e la curatela del volume collettaneo L’Italia nella
Grande Guerra. Nuove ricerche e bilanci storiografici (Bradypus,
2017). Ha ideato e dirige la rivista elettronica di Public History
“Clionet. Per un senso del tempo e dei luoghi”.

€ 30,00

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