DI STATO. - Il termine "ragion di stato" entrò nell'uso
intorno al 1550 e servì comunemente a designare la politica intesa come scienza fornita di regole proprie e ubbidiente a una propria logica interna, di cui il Machiavelli (v., XXI, p. 778) aveva genialmente affermato il peculiare valore.
Il primo documento in cui il termine è usato in questo preciso significato
è l'Orazione di Giovanni Della Casa a Carlo V del 1547. Tuttavia già nel Guicciardini si trova un accenno a questa espressione ed anche una prima formulazione del problema che appunto doveva nascere dalla scoperta del Machiavelli. Dice infatti il Guicciardini: "quando io ho detto di ammazzare o tenere prigionieri e' pisani, non ho forse parlato cristianamente, ma ho parlato secondo la ragione e l'uso degli stati" (Dialogo del reggimento di Firenze, II, p. 163, ed. Palmarocchi). Qui è già chiara la contrapposizione della politica come tale alla morale tradizionale. E il Guicciardini aggiunge che è impossibile "allegare ragione perché nell'uno caso si abbia a osservare la conscienza nello altro non si abbia a tenerne conto". Tutta la pubblicistica intorno alla ragion di stato è in sostanza rivolta a risolvere questo problema, che acquista con la Controriforma un valore assai maggiore di quello che non avesse al tempo di Machiavelli e di Guicciardini. Da un lato infatti la Chiesa cattolica rinnovata e le varie chiese e sette protestanti avevano riportato in primo piano l'esigenza morale ed aspiravano a subordinare ad essa la politica, dall'altro la politica contemporanea appariva pur sempre dominata dai principî fondamentali enunciati da Machiavelli. In questa situazione era naturale che la condanna di Machiavelli fosse puramente formale e che, passato un primo periodo di violento antimachiavellismo, si assistesse al caratteristico travestimento di Machiavelli con Tacito (vedi tacito, P. Cornelio, XXXIII, p. 172) che diede origine a una vastissima letteratura. Il "tacitismo" che in parte precede la vera e propria pubblicistica intorno alla ragion di stato, in parte con essa si confonde, ed ebbe i suoi maggiori rappresentanti in S. Ammirato, in T. Boccalini e in G. Lipsio, era però solamente un espediente che non sanava il contrasto fra morale e politica, ma solo lo dissimulava più o meno ipocritamente. Non poteva mancare quindi il tentativo di risolvere direttamente il problema conciliando in qualche modo la ragion di stato con la morale. Si mise per questa via Giovanni Botero col suo trattato Della ragion di stato del 1589, nel quale si propose di rimettere la ragion di stato sotto "la giurisdizione della coscienza" alla quale il Machiavelli l'aveva sottratta. Tuttavia il Botero non riuscì a dare una soluzione logica del problema, ma solamente un temperamento empirico delle due esigenze contrapposte.
Egli infatti, dopo aver definito la ragion di stato come la "notizia di
mezzi atti a fondare, conservare e ampliare un dominio", dichiara di volersi occupare principalmente dell'arte di conservare uno stato, arte più difficile di quella del fondare e dell'ampliare, perché "s'acquista con forza, si conserva con sapienza". E la sapienza egli fa consistere principalmente nella prudenza, che secondo lui è qualcosa di assai diverso dell'astuzia. Ma poi, quando passa a dare precetti concreti al suo principe, il Botero è costretto a seguire le orme di Machiavelli e finisce per riconoscere che "in conclusione ragion di stato è poco meno che ragione d'interesse"; conclusione che rivela chiaramente il fallimento del suo proposito.
Nonostante che non risolvesse il problema, il libro del Botero ebbe un
grandissimo successo e diede origine ad una letteratura vastissima. Ciro Spontone, Federico Bonaventura, Giovanni Antonio Palazzo, Girolamo Frachetta, Ludovico Zuccolo, Giovanni Zinano, Pietro Andrea Cannoniero, Ludovico Settala, Scipione Chiaramonte e molti altri scrissero sulla ragion di stato.