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B I B L I O T E C A • V I P A S S A N A

D I S C O R S I D E L B U D D H A
La saggezza che libera
Copyright © 2013 Pierluigi Confalonieri
Oscar Piccoli Saggi – Arnoldo Mondadori Editore, Milano, giugno 1995
Artestampa Edizioni, Modena, dicembre 2013

Biblioteca Vipassana è un progetto editoriale che comprende


una collana di testi per la conoscenza e l’approfondimento
della tecnica di meditazione Vipassana, come insegnata da
S.N. Goenka, nella tradizione di U Ba Khin.

Responsabile Coordinamento
Pierluigi Confalonieri

Responsabile Revisione testi


Maria Teresa Goggia

La ruota in copertina – logo della collana – è un simbolo di


trasformazione e di cambiamento di direzione. Ne Il discorso
sulla messa in moto della ruota del Dhamma, il Buddha spiegò
l’importanza di invertire la direzione della ruota della vita che
va verso la sofferenza, e di cominciare a farla ruotare verso la
liberazione, descrivendone il modo, la via.

Per informazioni: redazione@bibliotecavipassana.org


www.bibliotecavipassana.org
In ricordo di mia madre e mio padre,
con gratitudine
LA SAGGEZZA
CHE LIBERA
La meditazione nei discorsi del Buddha

Commenti di S.N. Goenka

A cura di
Pierluigi Confalonieri

Revisione di
Maria Teresa Goggia

EDIZIONI
ARTESTAMPA
EDIZIONI ARTESTAMPA
Viale Ciro Menotti, 170 – 41121 Modena
Tel. 059.239530 - Fax 059.246358
edizioni@edizioniartestampa.com
www.edizioniartestampa.com

I edizione: dicembre 2013


Edizioni ARTESTAMPA S.r.l.

Traduzione e adattamento dei discorsi


di Maria Caterina Cravignani e Pierluigi Confalonieri

Progetto grafico e copertina di Stefania Maranzato

Tutti i diritti sono riservati.


Ogni parte di questo libro può essere riprodotta con il permesso dell’editore.
Io seppi con certezza che il mondo,
l’infinito fluire delle infinite apparenze,
non aveva realtà, non corrispondeva a verità.
Era perpetua illusione,
ingannosa impermanenza.
Giovanni Papini
Da un discorso del Buddha ne La raccolta dei
discorsi di media lunghezza (M.63). Estratto:

(…) Supponiamo che qualcuno dica: “Non intrapren-


derò la via di purificazione insegnata dall’Illuminato,
fino a che egli non mi spiegherà se il mondo è eterno
oppure se non lo è; se è finito o infinito; se corpo e ani-
ma sono una sola e identica cosa o due cose diverse; se
dopo la morte, il Risvegliato esisterà ancora oppure no
o se né esisterà, né non esisterà”.
Un individuo simile, probabilmente, morirà prima
che l’Illuminato gli possa spiegare tutto ciò. È come se
un uomo fosse trafitto da una freccia avvelenata, i suoi
amici e parenti facessero arrivare un chirurgo e il ferito
dicesse: “Non voglio che la freccia sia estratta finché
non saprò chi mi ha ferito; se si tratta di un guerriero,
di un bramino, di un uomo comune o di un servo, se
viene dalla campagna o dalla città, se è alto, di media
statura o basso. Non mi farò togliere la freccia finché
non saprò di che tipo è l’arco con cui è stata scoccata e
di che materiale è fatto; e inoltre, voglio prima sapere
di che genere è la freccia che mi ha colpito”. È chiaro
che quest’uomo morirà prima che si possa rispondere a
tutte le sue domande.
Allo stesso modo, chi si rifiutasse di seguire il cam-
mino di purificazione indicato dall’Illuminato, prima
di sapere se il mondo è eterno o no e se l’Illuminato
sopravvivrà o no alla morte e tutto il resto, sicuramente
morirà prima di aver ricevuto queste spiegazioni. Per
seguire il cammino della purificazione, non è necessa-
rio sapere se il mondo è eterno o se non lo è, e tutto il
resto. Sia si creda che il mondo durerà per sempre o che
si creda che il mondo finirà, certo è che ci sono nascita,

IX
La Saggezza Che Libera

vecchiaia, morte; che esistono tristezza, lamento, dolore


fisico e mentale, angoscia e disperazione. Io sono qui
per insegnarvi che tutto ciò può essere eliminato già in
questo mondo, a partire da questo momento.
E per progredire verso la liberazione, non è necessario
sapere se l’Illuminato perdurerà o no dopo la morte, e
tutto il resto. Di conseguenza, cercate di capire perché
non vi ho spiegato alcune cose e perché ve ne ho spiegate
altre.
Quali cose non vi ho spiegato?
Non vi ho detto se il mondo è eterno oppure no, se è
finito o infinito, se corpo e anima sono una cosa sola o
due diverse; se, dopo la morte, l’Illuminato continuerà
a esistere oppure no, o se né esisterà, né non esisterà.
E perché non ho mai parlato di ciò? Semplicemente
perché non ha niente a che fare con la meta cui arri-
vare, non è essenziale per il cammino di purificazione,
non conduce ad abbandonare (ciò che è nocivo), non
conduce all’equanimità, a padroneggiare e calmare la
mente; non porta alla suprema saggezza, all’Illumina-
zione, al nibbána. Per questo non ho mai menzionato
quelle cose.
Che cosa invece, vi ho spiegato?
Questa è la sofferenza. Questa è la causa della soffe-
renza. Questa è la fine della sofferenza. Questa è la via
che porta all’eliminazione della sofferenza.
E perché vi ho insegnato tutto questo? Perché è stret-
tamente legato allo scopo cui tendiamo, è il fondamento
del cammino che conduce alla purificazione; è questo
l’insegnamento che porta all’abbandono di tutto ciò che
è negativo, all’equanimità, a padroneggiare e calmare
la mente; sino alla suprema saggezza, all’Illuminazio-
ne, al nibbána.

X
La Saggezza Che Libera

Comprendete dunque la ragione per cui non vi ho


spiegato certe cose, e fate invece tesoro di ciò che vi ho
insegnato.

XI
Sommario

Presentazione XXI
Prefazione XXIII

PARTE PRIMA

Cenni sulla vita e l’insegnamento


del Buddha
La ricerca di Siddhatta Gotama
Le origini 5
La scelta 6
Gli anni della ricerca 6
La scoperta della verità 7
La compassione 8
Il grande dono del Buddha all’umanità 10
L’universalità della legge 11
L’anello della catena da spezzare 14
Tre tipi di saggezza 17
Al ristorante 18
La ricetta del medico 19
La saggezza che libera 20
L’essenza della saggezza 22
L’introspezione 23
La verità della sofferenza 24
Risvegliatevi alla saggezza 26
Una meditazione concreta e attuale 28
La soluzione 29
La meditazione Vipassana 30

XIII
La Saggezza Che Libera

PARTE SECONDA

L’insegnamento del Buddha nei


discorsi
Introduzione
La lingua pali 37
I tesorieri del Dhamma 38
Il Canone pali, la raccolta dei discorsi 40
Criteri d’interpretazione 41

1. Il discorso sulla messa in moto


della ruota del Dhamma
Testo del discorso 45
Le quattro nobili verità 46
Il processo di conoscenza 47
Note 50
Commento 57
I due estremi 60
La via di mezzo 61
Le quattro nobili verità 62
L’insegnamento universale 65
I tre modi di sperimentare la verità 66
La concretezza 68
L’impegno personale 70

2. Il discorso sulla fine della


causa della sofferenza
Premessa 75
Testo del discorso 77
La formazione della coscienza 79
L’origine interdipendente di ogni fenomeno
mentale e fisico 81
La causa della sofferenza 82
L’eliminazione della sofferenza 84
Le domande inutili 85

XIV
Sommario

L’esperienza 86
La nascita del desiderio 86
La via di uscita 88
Note 91
Commento 95
Che cosa accade di fronte alla morte 95
Il treno del divenire 95
I binari 96
La preparazione 96
I creatori dei binari 97
Il momento della morte 99
La scelta dei binari 100
L’ approccio alla mente 100

3. Discorsi sulle sensazioni fisiche


Premessa
L’importanza della sensazione fisica 105
La sensazione fisica, strumento di liberazione 106
L’impermanenza 110
Testi dei discorsi
La corretta visione 117
Un colpo di freccia 118
Il discorso dell’infermeria
Corpo e mente 120
In ogni posizione e attività 121
Il processo di eliminazione 122
L’impermanenza 124
Commento
La reale natura delle sensazioni 125
La sofferenza finisce là, dove finiscono
le sensazioni 128
Proprio nel corpo 131

XV
La Saggezza Che Libera

4. Il discorso sull’ inesistenza


dell’ io
Premessa 137
L’esplorazione dell’io 138
Testo del discorso 140
Commento 144
L’insegnamento al momento giusto 145
Il corpo è impermanente 146
Le sensazioni sono impermanenti 147
Le reazioni mentali
sono impermanenti 147
Tutto è senza un io 149
La coscienza 149

5. Il discorso sui fondamenti


della consapevolezza
Premessa 155
La consapevolezza delle sensazioni 156
La sensazione 158
L’impermanenza della sensazione 159
L’anello mancante 159
I fondamenti della consapevolezza 160
Il percorso dell’osservazione e della comprensione 162
Come osservare la sensazione 164
Il fine ultimo 166
Testo del discorso 167
L’abile tornitore 168
Come osservare 169
Gli effetti del perfezionamento della consapevolezza 181
Note 183
Commento
La sensazione, chiave del Saþipaþþhána 194
La realtà fisica 194
La realtà mentale 197
La sensazione è il punto di partenza 199

XVI
Sommario

6. Il discorso sull’amore
universale
PREMESSA
L’origine del discorso 203
Testo del discorso 207
COMMENTO 209
La pratica della benevolenza
nella meditazione Vipassana 209
Schema sulla pratica della meditazione
di benevolenza 214
La filosofia della benevolenza 217
I tre aspetti 218
L’etica individuale 220
L’etica collettiva 222
La protezione 223
La pratica attiva
delle virtù complementari 223
Lo sguardo sul lato buono 224
I nemici 225
Gli esercizi meditativi 227
Il metodo dell’irradiazione verso specifici individui 227
La sequenza 229
L’attitudine mentale 231
Il metodo dell’irradiazione impersonale 232
Il metodo dell’universalizzazione 234
Irradiazione generalizzata 235
Irradiazione specifica 236
Irradiazione direzionale 236
Gli undici benefici della pratica 237
L’influenza sugli altri 239

7. Il discorso sulla felicità


più grande
Premessa 245
La più grande felicità 245
Il contributo della meditazione alla società 246

XVII
La Saggezza Che Libera

Per i laici 247


Testo del discorso 249
Commento 253
Il Maògala Sutta 253
Le 38 benedizioni, ognuna il massimo 285
La sintesi delle 38 benedizioni 287
Un condensato delle virtù morali 290
Una guida nella società 292

8. Il discorso sulla libera ricerca


Premessa 297
Testo del discorso 298
Come capire ciò che si deve rifiutare 299
Avidità, avversione, ignoranza 300
Come capire ciò che si deve accettare 301
Assenza di desiderio, di avversione
e di ignoranza 302
I quattro stati sublimi 303
Le quattro consolazioni 303

9. Il discorso sulle leggi


universali
Testo del discorso 307

10. Il Rifugio
Testo del discorso 311

PARTE TERZA

La pratica della meditazione


Udána: il canto di esultanza del Buddha 317
La meditazione Vipassana 318
Di che cosa bisogna essere consapevoli? 319
L’eliminazione dei condizionamenti 321

XVIII
Sommario

Come essere equanimi? 322


L’importanza della pratica 323
Riferimenti storici
della meditazione Vipassana 324
L’insegnamento della tecnica
dalla metà del ‘900 in avanti 325
I principi basilari dell’insegnamento
del Buddha nella pratica meditativa 327
I condizionamenti accumulati 328
L’esperienza dell’impermanenza 329
La conoscenza delle kalápas 330
La verità della sofferenza 331
L’osservazione delle sensazioni nel corpo 332
I livelli di conoscenza 334
L’esperienza di anicca nella vita quotidiana 335
Il tiro alla fune 336
L’attivazione di anicca 337
Il tempo della meditazione Vipassana è arrivato 338
Il corso di dieci giorni
di meditazione Vipassana 339
Il programma quotidiano 341
I primi tre giorni 342
Il quarto giorno 343
Dal 5° al 9° giorno 344
Il decimo giorno 345
Lo scopo della meditazione 346
La radice della sofferenza 347
Domande e risposte 349
Una storia tradizionale indiana 355
Tre episodi dal Canone pali
sull’apprendimento 358
Il panno imbrattato 358
Attraversando strade accidentate 360
Il pungolo dell’elefante 361
Glossario dei termini pali 363

XIX
La Saggezza Che Libera

Appendice A
Vipassana in Italia e nel mondo 373
Il finanziamento dei corsi 373
L’universalità 374
Le applicazioni di Vipassana nella società 375
La meditazione Vipassana per i manager 376
Siti consigliati  378

Appendice B
L’elenco dei centri di meditazione Vipassana 381
Elenco delle nazioni in cui si tengono corsi
in sedi provvisorie 387

XX
Presentazione

L e parole del Buddha sono andate perdute in


molti paesi, quindi dovremmo essere grati a
coloro che le hanno mantenute nella loro purezza. È
giunto il momento di diffonderle, innanzitutto per
l’aspetto pratico dell’insegnamento, la meditazione
(paþipatti).
La teoria (pariyatti), lo studio e la pubblicazione
non dovrebbero mai diventare lo scopo principale. Se
ci accontentiamo di leggere e studiare, ma non faccia-
mo nulla per camminare sul sentiero indicatoci dal
Buddha, non faremo che ingannare noi stessi. Le sue
parole possono aiutarci, incoraggiarci e guidarci, ma
la cosa più importante è percorrere il sentiero, un passo
dopo l’altro. Se c’impegniamo nel metterlo in pratica,
esse ci saranno di sostegno e stimolo. Per il meditatore,
ogni parola dell’Illuminato è, appunto, illuminante,
nella ricerca dentro se stessi della verità, sulla relazio-
ne tra mente e corpo, sulla reazione continua, causata
dall’ignoranza e sulla saggezza che rende liberi.
Siamo circondati dalla sofferenza, dall’infelicità.
Che la meravigliosa medicina donataci dal Buddha,
aiuti i sofferenti a guarire dalla malattia, cioè a sba-
razzarsi dell’infelicità. Che la luce di questo insegna-
mento si diffonda in tutto il mondo.

Satya Narayan Goenka


Igatpuri, India, gennaio 1995

XXI
Prefazione

T ra gli innumerevoli discorsi (sutta*) del Bud-


dha, non è stato facile decidere quali inclu-
dere in questo volume, ma le sue stesse parole mi
hanno aiutato a orientare la scelta, perché la loro
concretezza deriva dalla relazione con l’interrogati-
vo: come uscire dalla sofferenza?
La prima parte del libro introduce ai principi fon-
damentali dell’insegnamento del Buddha, con cenni
sulla sua vita e sulla sua ricerca.
La seconda parte è costituita da una selezione dei
suoi discorsi, riguardanti le verità da lui scoperte
attraverso l’esperienza della meditazione; molti dei
discorsi sono preceduti da una premessa e accompa-
gnati da note e commento. Nella presente edizione
è stata data rilevanza, per quantità di premesse, note
e commenti, a il Discorso sull’amore universale (Metta
Sutta) e il Discorso sulla felicità più grande (Mangala
Sutta). Sono due brevi discorsi particolarmente po-
polari nei paesi buddhisti e, per la loro importanza e
universalità, costituiscono la base per uno sviluppo
spirituale equilibrato, non solo, quindi, di chi segue

* Sutta significa discorso, sequenza, ma anche filo e


simbolicamente suggerisce che un discorso è “l’infilare insieme”
parole preziose come le gemme di una collana. Intellettuali e
saggi dell’antica India scelsero di usare il termine sutta proprio
per questo suo peculiare significato.

XXIII
La Saggezza Che Libera

l’insegnamento del Buddha.


Nella terza parte s’illustra come e dove, oggi, sia
possibile mettere in pratica il suo insegnamento,
nella forma originaria; e si propongono articoli di
vario tipo in relazione alla pratica meditativa.
L’ispirazione per questa raccolta, riveduta e amplia-
ta per la presente edizione, è nata quando Goenka,
dal 1991 al 1995, lesse e commentò alcuni discorsi
del Buddha, in sessioni informali con i meditatori, a
Dhammagiri, il centro principale per la meditazione
Vipassana in India. In quelle occasioni cominciai ad
apprezzare l’ascolto e il commento dei testi del Bud-
dha, e a comprendere il significato profondo delle
parole di Goenka, espresse in varie occasioni:
“(…) Sayagyi U Ba Khin soleva dire che pariyatti
(teoria) e paþipaþþi (pratica) devono andare insieme.
Come due ruote di un carro, tutte e due devono
essere di uguale misura e forza, così il carro potrà
muoversi sicuro e a lungo. Con le due ruote di pa-
riyatti e paþipaþþi lavorate diligentemente e viaggiate
rapidi sul cammino di Dhamma”.
“(…) Insieme con la pratica della meditazione,
deve esserci il fondamento teorico; come una mon-
tatura d’oro, protegge una gemma preziosa. Una
solida base teorica dà guida e ispirazione, necessarie
al praticante per compiere i giusti passi sul cammino
e per continuare a procedere”.
“(…) Solo l’esperienza della verità attraverso la
sistematica introspezione, può purificare la mente
ed eliminare la sofferenza. Ma la solida base teorica,
pariyatti, offre guida e ispirazione a ricercatori e me-
ditatori, per intraprendere il cammino e continuare
gradino dopo gradino la pratica, paþipaþþi”.

XXIV
Prefazione

Significativo è l’articolo “La gemma incastonata


nell’oro: teoria e pratica”* di cui riporto qui di seguito
un estratto.
“(…) Se qualcuno conosce solamente la teoria,
e non pratica, non potrà mai acquisire i reali frut-
ti della liberazione. Per sperimentare il Dhamma
ed emergere dalla sofferenza, il mezzo è la pratica
della meditazione Vipassana. Il leggere, lo scrivere
e lo studiare ci aiutano nel trovare guida e ispira-
zione, nell’approfondire la pratica, e di conseguenza
nell’avvicinarci sempre più alla liberazione.
Allo stesso modo, se qualcuno prova a praticare
senza comprenderne la teoria, corre il rischio di me-
scolare differenti tecniche, danneggiandosi, invece
di ottenerne i frutti.
Ricordo bene la mia esperienza sul sentiero, du-
rante gli anni a Myanmar. Avevo sempre desiderato
studiare e assimilare le parole del Buddha, riguardanti
Vipassana. Dopo aver studiato la tecnica, meditavo. E
quando le circostanze lo permettevano, la mia pratica
prendeva il volo. Potevo meditare profondamente più
che mai e, leggendo le parole del Buddha, sentivo un
brivido di gioia attraverso il corpo. Qualche volta,
avevo la sensazione che il Buddha mi parlasse diretta-
mente, che ogni parola fosse proprio per me.
A casa leggevo un suo discorso e poi mi recavo dal
mio maestro; egli ne sceglieva alcuni passaggi e ne svi-
scerava l’essenza. Era una vera e propria immersione

* Articolo pubblicato in Notiziario Vipassana Patrika.


India, gennaio 1985, in occasione dell’inaugurazione del
Vipassana Research Institute, Igatpuri, India. Estratto.Titolo
originale “The gem set in Gold, Pariyatti with Paþipaþþi.”

XXV
La Saggezza Che Libera

nel Dhamma. Sayagyi mi toglieva tutte le confusioni


e le incertezze. Spiegava l’esperienza meditativa, e in
questo modo penetrava nei più profondi significati
del testo. Le sue parole mi riempivano sempre di gioia
e ispirazione. E dopo avermi spiegato, mi diceva di
meditare. Così, sono stato capace di andare sempre
più in profondità. Strato dopo strato, le illusioni se ne
andavano, lasciando solo la verità, chiara come cristal-
lo. Quando mi alzavo dalla meditazione, mi sentivo
libero da tutti i nodi, libero da tutta la confusione.”

Fonti
Il testo è stato revisionato e ampliato per questa
edizione; sono stati aggiunti commenti di Goenka
ai discorsi del Buddha, articoli a cura del Vipassana
Research Institute V.R.I.*, uno scritto di U Ba Khin,
note e commenti liberamente tratti dai seguenti testi:

W. Hart, La meditazione Vipassana – Un’arte di vive-


re. ArteStampa, Modena, 2011; nuova edizione
revisionata de L’arte di vivere.
S.T. U Ba Khin, Il tempo della MeditazioneVipassana
è arrivato. Ubaldini, (da una versione inedita e
revisionata da Biblioteca Vipassana per la pros-
sima edizione).

* L’Istituto ha sede presso il Centro internazionale


di meditazione Dhammagiri, a Igatpuri in India, dove sono
tenuti continuativamente corsi di meditazione, come insegna-
ta da S.N. Goenka, nella tradizione di U Ba Khin.

XXVI
Prefazione

V.R.I. (a cura di). Gotama the Buddha: his life and


his teaching. V.R.I., Dhammagiri – Igatpuri (In-
dia), 2000.
A. Buddharakkhita, Mettá: the Philosophy and Practice
of Universal Love. Buddhist Publication Society,
Kandy (Sri Lanka), 1989. Wheels No. 365/366.
A. Solé - Leris, La meditazione buddista. Mondadori,
Milano, 1988; (versione revisionata da Bibliote-
ca Vipassana, in programma presso Artestampa).
Nyanatiloka T., Buddhist Dictionary: Manual of
Buddhist Term and Doctrines. Buddhist Publica-
tion Society. Ibid. 1988. Ristampa; per la nota
n° 6 a Il discorso sulla fine della causa della soffe-
renza (Mahátanhasaòkháyasutta).
R. L. Soni, Life’s Highest Blessings: The Mahá Maògala
Sutta. Buddhist Publication Society, Ibid., 1978.
Wheel No. 254/256.
E. Lerner, Journey of Insight Meditation. Schocken
Books, New York (USA), 1977; per Riferimen-
ti storici della meditazione Vipassana nella Parte
Terza.
S. Yoe, The Burman: His Life and Notions. Macmil-
lan & Co., London (GB), 1896; per la nota al
commento de Il Discorso sulla felicità più grande
(Maògala sutta) nella Parte Seconda.

Per i testi dei discorsi del Buddha, sono state tra-


dotte le versioni in inglese della Pali Text Society di
Londra e della Buddhist Publication Society dello
Sri Lanka; a eccezione del Discorso sui fondamenti
della consapevolezza (Saþipaþþhána Sutta) per il quale si
è utilizzata la versione inglese e le note di commento
del V.R.I.

XXVII
La Saggezza Che Libera

A premessa e a commento dei discorsi ho uti-


lizzato testi a cura del V.R.I. e di Goenka, tratti da
discorsi e interviste, e corredati di note a mia cura,
salvo diversa indicazione.
La traduzione dall’inglese, discorsi esclusi, è stata
effettuata dal 1986 in avanti da diversi meditatori,
quindi revisionata e adattata per la presente edizio-
ne. Talvolta mancano i riferimenti alle citazioni del
Buddha, in quanto assenti nei documenti originali.

Abbreviazioni
I discorsi e le citazioni sono tratti dal Sutta Piþaka,
uno dei tre “canestri” del Tipiþaka (o Canone pali).
Sutta Piþaka  è la raccolta che contiene i discorsi, i
sermoni e i dialoghi del Buddha, e di alcuni dei suoi
principali discepoli.
Le parti da cui sono tratte le citazioni hanno le
seguenti abbreviazioni:

D. Dìgha Nikáya (Raccolta dei discorsi lunghi)


M. Majjhima Nikáya (Raccolta dei discorsi di
media lunghezza)
S. Saíyutta Nikáya (Raccolta dei detti
raggruppati)
A. Aòguttara Nikáya (Raccolta dei discorsi
raggruppati per numero)
Dhp. Dhammapáda
Ud. Udána
Sn. Sutta Nipáta

XXVIII
Prefazione

Il metodo
Per l’adattamento dei testi si è tenuto conto delle
esigenze della lingua scritta, che sono differenti da
quelle dell’insegnamento orale. La ripetizione vocale
produce un ritmo che facilita l’ascolto e la memo-
rizzazione, mentre il testo richiede l’alleggerimento
dalle ripetizioni, che sono state tenute quando con-
cernenti importanti concetti relativi alla pratica.
Ho ritenuto opportuno suddividere in paragrafi
sia il testo dei discorsi e alcuni altri documenti, con
l’intento di facilitarne la comprensione.
Mi assumo la responsabilità per il lavoro di adat-
tamento, svolto al fine di divulgare il messaggio del
Buddha, col tentativo di rendere attuale il lessico e
di facilitare l’approccio al suo insegnamento.
Scopo di questa pubblicazione è di stimolare
all’esperienza della meditazione Vipassana, la ”sag-
gezza che libera” dalle catene della sofferenza. Il
mio contributo è stato quello di raccogliere una
documentazione che avvicinasse alla comprensione
dell’essenza dell’insegnamento e ispirasse alla pratica
meditativa.
Questo libro non è un manuale per imparare a
meditare. Qualsiasi riferimento alla meditazione è
finalizzato esclusivamente a inquadrare l’insegna-
mento, pertanto sconsiglio di utilizzarlo per iniziare
a meditare da soli.

XXIX
La Saggezza Che Libera

Ringraziamenti
Sono molto grato al mio maestro Goenka, per
aver ispirato questa raccolta.
Ringrazio in particolare Maria Caterina Cravi-
gnani, per l’impegno profuso nella traduzione dei
discorsi del Buddha, nel renderli fluenti e compren-
sibili al lettore moderno, e per la revisione della
prima edizione; Amadeo Solé-Leris per la preziosa
collaborazione nella revisione delle citazioni, delle
parole in lingua pali, per l’interpretazione di signi-
ficativi passaggi dei discorsi e di importanti termini
pali, e soprattutto per avermi insegnato a leggere
le parole del Buddha con le necessarie precisione e
attenzione; Ravindra Panth, insegnante e ricercatore
di lingua pali presso il Vipassana Research Institute
e Rick Crutcher, assistente di Goenka nell’insegna-
mento, che mi hanno pazientemente aiutato nella
scelta dei discorsi.
A Maria Teresa Goggia va la mia profonda gra-
titudine per la paziente e accurata revisione della
presente edizione.
Un ringraziamento va a M. Laura Roberti e Va-
leria Roncarolo per la traduzione di alcuni opuscoli
utilizzati nel libro, e soprattutto a tutti i meditatori
etc. a tutti i meditatori che, negli ultimi venticinque
anni, hanno contribuito in differenti modi alla tra-
duzione degli articoli inseriti in questa edizione, ora
a disposizione per il beneficio di tutti.

Pierluigi Confalonieri
Kandy, Sri Lanka, novembre 2013

XXX
PARTE
PRIMA
Cenni sulla vita
e l’insegnamento
del Buddha
La ricerca
di Siddhatta Gotama*
a cura del Vipassana Research Institute

Le origini

I l Buddha non è un profeta, un dio o l’incarna-


zione di un dio, ma un essere umano che,
attraverso i propri sforzi, ha raggiunto la perfetta
saggezza e la completa liberazione, diventando così
maestro nell’indicare la via per uscire dalla soffe-
renza. Secondo la tradizione, nacque nel 624 a.C. a
Kapilavattu in India, figlio del re Suddhodhana che
governava il paese dei Sakya, regione situata vicino
all’attuale Nepal. Il suo nome era Siddhatta e quello
della famiglia Gotama.
Il giovane principe preferiva solitudine e rifles-
sione ai giochi e alla spensieratezza della sua età. A
sedici anni sposò la bellissima principessa Yasodhara
e fino ai ventinove anni visse tra lussi e agi. Ma non
era nato per una vita di appagamento dei sensi, e
provava un’intensa curiosità per quanto c’era oltre
le mura di corte, che, per volere di suo padre, non
aveva mai oltrepassato. Un giorno impose la sua ne-
cessità di vedere la realtà del mondo esterno. Allora,

* Da Vipassana Research Institute (a cura di),


Gotama the Buddha: his life and his teaching, op. cit. Estratto.

5
Cenni sulla vita e l’insegnamento del Buddha

per la sua prima uscita, il re prese precauzioni affin-


ché non comparisse alla sua vista nulla di spiacevole.
Ciononostante egli scorse un vecchio incurvato
dagli anni, un malato in agonia, poi un cadavere in
un corteo funebre e infine un eremita.

La scelta
Tutto ciò lo indusse a riflessioni che cambiarono
radicalmente il suo atteggiamento mentale. Sua mo-
glie aveva dato alla luce un figlio che avrebbe potuto
legarlo alla vita regale, ma Siddhatta decise che era
tempo d’abbandonare quel mondo privilegiato.
Scelse di vivere da eremita, di cercare la verità e una
via per sfuggire alla sofferenza di malattia, vecchiaia
e morte. Ruppe ogni legame con la famiglia e il suo
ambiente, e fece la “grande rinuncia”: non sarebbe
ritornato se non quando avesse portato a compi-
mento la sua missione.

Gli anni della ricerca


Con la veste dell’asceta e la ciotola delle elemosine,
per sei anni si dedicò alla ricerca sotto la guida di due
famosi insegnanti, ma nessuno dei due lo soddisfò
pienamente. Li lasciò per una ricerca autonoma, ini-
ziando con altri cinque asceti un periodo di austeri
esercizi e digiuni. Giunse a ridursi quasi a uno sche-
letro, ma dopo uno svenimento causato dall’estrema
debolezza, decise di cambiare metodo e di seguire
una via più moderata. Alla vigilia del giorno di luna

6
PARTE PRIMA

piena nel mese di maggio dell’anno 589 a.C., se-


dette a gambe incrociate sotto un albero sulla riva
del fiume Neranjara nella foresta di Uruvela, con la
ferma decisione di non alzarsi per nessuna ragione,
fino a quando non avesse raggiunto la verità e il
risveglio, la completa saggezza e conoscenza, anche
se ciò avesse significato la perdita della vita. L’albe-
ro sotto il quale sedeva divenne noto come l’albero
Bodhi o del Risveglio e la località come Bodhgaya.

La scoperta della verità


Trascorse la notte meditando, superando tutti gli
ostacoli e le difficoltà. Con la sua capacità di con-
centrazione, riuscì a condurre la mente in uno stato
di totale purezza, di tranquillità ed equanimità. E
gradualmente, grazie alla meditazione poi definita
Vipassana, acquisì la visione profonda: penetrò attra-
verso tutti i veli d’ignoranza, inganno e illusione. Gli
apparve chiaro che il corpo è privo di sostanzialità e
che è l’insieme d’innumerevoli particelle subatomiche
in continuo cambiamento, chiamate in pali kalápas.*
Penetrò l’illusione della solidità della mente, dissol-
se la tendenza a desiderio e avversione. Sperimentò
che la mente è un insieme di rappresentazioni men-
tali, che sorgono e spariscono in un flusso continuo,
che tutto risponde alla legge universale dell’imperma-
nenza e non vi sono altro che processi in continuo

* Kalápa è la più piccola, indivisibile, unità della ma-


teria. Per approfondimenti v. il paragrafo La conoscenza delle
kalápas, a pag 330.

7
Cenni sulla vita e l’insegnamento del Buddha

mutamento. Come conseguenza, fece esperienza della


verità della sofferenza, e allora il suo egocentrismo si
dissolse e raggiunse lo stadio al di là della sofferenza,
ovvero dell’estinzione della sofferenza, in cui non vi
è traccia di attaccamento all’io. Sperimentò corpo e
mente come fenomeni che scorrono incessantemente,
secondo una legge di causa ed effetto. Fece esperienza
che qualsiasi cosa sorga da una causa, prima o poi
finisce; e che quindi, eliminando le cause che ci fanno
soffrire, possiamo ottenere la vera felicità, ovvero la
liberazione dalla sofferenza.

La compassione
Eliminando le impurità mentali di bramosia e avver-
sione, la sua mente divenne libera dagli attaccamenti
alla condizione umana. Dopo l’illuminazione, il Bud-
dha trascorse alcune settimane godendo dell’ineffabile
pace del nibbána.* Decise poi, con infinita compassio-
ne, di far conoscere questa sublime verità, la legge di
natura che lo aveva portato alla perfetta saggezza del
risveglio. Il suo primo insegnamento fu per i cinque
asceti che lo avevano accompagnato al tempo della
sua pratica ascetica estrema e che, quando egli l’aveva
interrotta, lo avevano lasciato.
Ispirati dalle sue parole e dalla meditazione inse-
gnatagli, fecero esperienza della verità dell’imperma-
nenza, dell’origine della sofferenza, dell’insostanzia-

* Nibbána significa estinzione; libertà dalla sofferen-


za; realtà ultima; stato incondizionato, che non dipende da
condizioni.

8
PARTE PRIMA

lità e assenza di un io, e divennero risvegliati, cioè


completamente coscienti della vera natura delle
cose, liberati dall’ignoranza che condiziona e lega
l’essere umano alla sofferenza. Alle prime sessanta
persone che, dopo aver ricevuto il suo insegnamen-
to, raggiunsero il risveglio, il Buddha disse:

O monaci, ora andate, e per il beneficio di molti,


per la felicità di molti, per compassione dell’umanità
sofferente, distribuite questo insegnamento. Andate
in tutte le parti del mondo. (A. IV.160)

Per tutta la vita egli insegnò un’unica verità: il me-


todo per uscire dalla sofferenza.
La notizia dei risultati immediati si diffuse, e
gente di tutte le caste, credo, filosofie, fu attratta da
quest’insegnamento universale. Migliaia di persone,
maestri spirituali e re, ricchi mercanti e intoccabili,
donne celebri e diseredati, accolsero il suo messaggio.
Prossimo agli ottant’anni, avvertì il suo discepolo
e assistente Ananda che la sua vita stava per finire.
Questi radunò un gran numero di monaci, per i
quali il Buddha pronunciò le ultime parole di am-
monimento:

Tutte le cose composte sono


per natura impermanenti,
lavorate con ardore per la vostra salvezza. (D.16)

Dopo quarantacinque anni dedicati con amore


e compassione all’insegnamento di questa saggezza
pratica, nel giorno di luna piena di maggio il Bud-
dha si spense a Kusinara nel 544 a.C.

9
Cenni sulla vita e l’insegnamento del Buddha

Il grande dono
del Buddha all’umanità*
Attraverso molte nascite ho vagato in questo ciclo
infinito del divenire, cercando, ma non trovandolo,
il costruttore di questa casa (mente-corpo, n.d.r.).
Ho continuato a nascere e rinascere nella sofferenza.
O costruttore, ora ti ho visto. Non potrai più costruire
alcuna casa: la trave di sostegno e tutti i travicelli del
tetto sono stati demoliti. La mente è libera da tutti
i condizionamenti. Ho raggiunto lo stadio libero da
ogni desiderio. (Dhp. 153-154)

Queste parole riassumono l’esperienza del Buddha


dopo Illuminazione. Aveva individuato il costrutto-
re della casa e cioè la causa che tiene legato l’essere
umano al processo della sofferenza, la struttura su
cui la sofferenza viene perpetuata per ignoranza:
aveva individuato la legge di natura che regola il
divenire. È la legge di paþicca samuppáda, la legge della
causa e dell’effetto o dell’origine inter­dipendente.
Paþicca samuppáda significa: “il sorgere di qualcosa a
causa di qualcos’altro”.
Ognuno di noi può rendersi conto dell’esistenza
della sofferenza, ma il Buddha fece esperienza che
essa non è un prodotto del caso, ma ha delle cause,
proprio come ci sono cause per tutti i fenomeni:
sperimentò la legge di causa ed effetto, una legge
universale e fondamentale.

* Dai testi elencati nella prefazione

10
PARTE PRIMA

Se questa causa c’è, ci sarà questo effetto.


Se questa causa non c’è,
questo effetto non ci sarà.
Se la causa sorge, l’effetto è destinato a sorgere.
Se la causa è totalmente eliminata,
l’effetto è totalmente eliminato. (M.38)

Questa legge di natura esiste a prescindere dal suo


scopritore, sia che ci sia o no un Buddha, sia che vi
si creda o no. Come c’è la legge di gravità, sia che
un Newton la scopra o no; come c’è la legge della
relatività, sia che un Einstein la scopra o no; così c’è
la legge di paþicca samuppáda, di causa ed effetto.

L’universalità della legge


Ogni scienziato conosce la legge di causa ed ef-
fetto: due parti d’idrogeno e una parte di ossigeno
messe insieme si trasformano in acqua. Se uno dei
due elementi manca o non c’è la combinazione dei
due, non c’è acqua. È una legge che appartiene a
tutta l’umanità, al di là delle differenze di credo e
opinione; così come, senza discriminazioni, il sole
sorge e dà luce e calore a tutti e il vento soffia per
tutti. Nell’universo vi sono differenti leggi di natura
e la maggior parte di esse non ha nulla a che fare
con la nostra sofferenza (e con la sua causa e la sua
eliminazione); quella che è importante per noi è la
legge che ci aiuta a uscire dalla sofferenza (attraverso
la sua conoscenza ed esperienza concreta).

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Cenni sulla vita e l’insegnamento del Buddha

Una volta il Buddha prese nelle mani una manciata


di foglie secche e chiese al suo interlocutore:
– Che ne pensi? Sono di più le foglie che stringo
nelle mani o le foglie degli alberi di questa foresta?
– Che domanda mi fate, signore? Le foglie che
tenete nelle mani sono infinitamente meno di tutte
le innumerevoli foglie degli alberi di questa grande
foresta. Non c’è alcun paragone.
Il Buddha replicò:
– Ecco, un illuminato comprende tutte le leggi
dell’universo, tutte le realtà e tutte le verità, ma
parla solo di due cose e di nient’altro: della sofferenza
e della via per uscirne. (Sn. LXVI.31)

Con l’ignoranza, la bramosia e l’avversione come


compagni, abbiamo continuato a fluire in ripetute
esistenze da tempo immemorabile, e abbiamo
sperimentato differenti tipi di sofferenza, siamo morti
e rinati molte volte, senza vedere la fine del processo
del divenire. Comprendendo i pericoli di questo
processo, e che è il desiderio a causarli, liberandosi dai
passati condizionamenti e non creandone di nuovi
per il futuro, ognuno dovrebbe, consapevolmente,
vivere una vita di equanimità. (Sn. XV, 9)

Per scoprire la causa della sofferenza, il Buddha,


purificando la mente, è potuto penetrare nella re-
altà più profonda, e analizzare il processo di causa
ed effetto. Ha sperimentato che la sofferenza sorge
perché c’è il desiderio, e che l’abitudine crea in noi
una forte reazione mentale: essa è la causa della sof-
ferenza. Ogni reazione, anche non intensa, ha un
effetto cumulativo; s’intensifica a ogni ripetizione,

12
PARTE PRIMA

sviluppando desiderio e avversione, e poi diventa


taóhá, letteralmente sete, bramosia: l’abitudine men-
tale alla bramosia per ciò che non c’è, che non si
possiede e all’insoddisfazione per ciò che c’è, che
non piace.
Il primo passo per emergere dalla sofferenza è il
conoscere a fondo questa realtà. Il Buddha scoprì
che il processo (o catena) del divenire è composto di
dodici legami (o anelli della catena) che sono ognu-
no origine del successivo.

Dove c’è ignoranza, nasce una reazione;


dove nasce una reazione, si manifesta la coscienza;
se c’è la coscienza, si manifestano mente e materia;
dove ci sono mente e materia, sorgono i sei sensi;
i sei sensi danno luogo al contatto;
se c’è contatto, c’è una sensazione;
la sensazione produce desiderio o avversione;
desiderio e avversione producono l’attaccamento;
se c’è l’attaccamento, inizia il processo del divenire;
se c’è il processo del divenire, avviene la nascita;
la nascita causa l’invecchiamento e la morte, oltre
al dolore, al pianto, a sofferenza fisica e mentale,
a tribolazioni di ogni genere.
È così che si crea il cumulo di tutta la nostra
sofferenza. (M.38)

13
Cenni sulla vita e l’insegnamento del Buddha

L’anello della catena da spezzare


All’origine del processo c’è l’ignoranza sulla realtà
del corpo e della mente. Il Buddha scoprì che tra
oggetto esterno e reazione mentale c’è un legame:
la sensazione fisica. Ogniqualvolta un oggetto entra
in contatto con i cinque sensi fisici e la mente, nel
corpo sorge una sensazione. Come reazione alla
sensazione, sorge bramosia o avversione. Se la sen-
sazione è ritenuta piacevole, generiamo il desiderio
di prolungarla; se la sensazione è ritenuta spiacevole,
il desiderio di sbarazzarcene. Dice il Buddha in una
sezione di questo processo:

Dipendendo dal contatto (tra un oggetto e i sensi),


sorge una sensazione; in conseguenza della sensazione,
nasce il desiderio.

L’immediata causa del sorgere di desiderio o av-


versione, e quindi della sofferenza, è la sensazione
fisica e non qualcosa al di fuori di noi. Per liberarci
dalla sofferenza dobbiamo farne esperienza.

Avendo fatto esperienza di come sono le sensazioni,


del loro sorgere, del loro passare, dell’attaccamento
verso di esse, del pericolo insito in esse, e della
liberazione dal loro condizionamento, il Risvegliato,
o monaci, si è liberato da ogni attaccamento. (D.1)

L’abitudine della mente è di generare bramosia


verso le sensazioni percepite come piacevoli. Se
invece apprendiamo come osservarle senza reagire,
sperimentiamo che sono impermanenti e perciò

14
PARTE PRIMA

causa di frustrazione, cioè di sofferenza. Va svilup-


pata la capacità di osservare con equanimità (in
modo imparziale e senza giudizio), considerando
ogni sensazione come manifestazione del continuo
cambiamento. Solo così le reazioni sono sradicate
strato dopo strato, fino a raggiungere lo stadio dove
la mente è libera dall’abitudine a reagire e si può
sperimentare uno stato senza sofferenza.
L’anello di questa catena che ci rende schiavi:
(…) in conseguenza della sensazione, nasce il desi-
derio, si trasforma in: in conseguenza della sensazione,
nasce la saggezza.
Il circolo vizioso della sofferenza è arrestato, la
catena è spezzata. E inizia il processo di liberazione:

Se l’ignoranza è eliminata, viene meno la reazione;


se non c’è reazione, viene meno la coscienza;
se la coscienza finisce,
non si manifestano mente e corpo;
in assenza di mente e corpo, non ci sono i sei sensi;
mancando i sei sensi, manca il contatto;
se non c’è più contatto, non c’è sensazione;
se finisce la sensazione, finiscono desiderio
e avversione;
finiti desiderio e avversione, non c’è attaccamento;
senza attaccamento, non c’è processo del divenire;
venendo meno il processo del divenire,
non avviene la nascita;
se non c’è nascita, non ci sono neppure
invecchiamento, morte, né tribolazione, dolore,
pianto, sofferenza fisica e mentale.
Si smette così di accumulare sofferenza. (M.38)

15
Cenni sulla vita e l’insegnamento del Buddha

Ecco il dono del Buddha all’umanità: la scoperta


dell’anello da spezzare per uscire dalla sofferenza,
e l’insegnamento della tecnica di meditazione che
permette di spezzarlo. Si potrà così uscire dall’igno-
ranza delle reazioni e aprire la via verso la fine di
ogni sofferenza, verso la felicità suprema del nibbána.

16
PARTE PRIMA

Tre tipi di saggezza*

Il Buddha disse che occorre rimuovere i condi-


zionamenti più profondi nascosti nel proprio in-
conscio, e che fino a quando questi non sono tutti
sradicati, non ci si può considerare persone liberate.
L’uomo, più che di parole, di filosofie e di cre-
denze, ha bisogno di comprendere chi egli sia, di
imparare a conoscere la propria natura attraverso
l’esperienza. Le tradizioni religiose e le scuole spi-
rituali hanno in comune un presupposto essenziale,
secondo cui la causa d’insoddisfazione e sofferenza
giace nell’ignoranza circa la propria esistenza. Ma
per liberarsene non sono sufficienti la comprensio-
ne intellettuale e la fede religiosa, deve essere fatto
qualcosa in concreto. Ognuno deve impegnarsi in
questa ricerca. La caratteristica principale dell’inse-
gnamento del Buddha è di mettere ognuno di fronte
alle proprie responsabilità. Il contributo del Buddha
all’umanità è l’insegnamento di un metodo per svi-
luppare la saggezza, per la propria liberazione.
Siddhatta Gotama il Buddha penetrò la verità
all’interno di se stesso, e con la saggezza conseguita
raggiunse la liberazione da tutti i condizionamenti e
da tutte le sofferenze. Egli indica la via, istruisce detta-
gliatamente sulla tecnica, ma ognuno deve percorrere
concretamente l’intero cammino verso la liberazione.

* Liberamente tratto da un discorso di Goenka nel


corso di dieci giorni e dai testi elencati nella prefazione.

17
Cenni sulla vita e l’insegnamento del Buddha

La “saggezza che libera” è quella che si realizza


sulla base della propria esperienza.

Ognuno deve impegnarsi e compiere il proprio sforzo.


Gli Illuminati vi mostreranno solo la via. (Dhp 276)

Il Buddha descrive tre tipi di saggezza: il primo è


la saggezza trasmessaci da altri, attraverso insegna-
menti orali o scritti, chiamata in pali suta maya paññá
(la saggezza ascoltata).
Il secondo è la saggezza intellettuale, che si acqui-
sisce col ragionamento. Come nel primo caso, non
si tratta di saggezza veramente nostra, ma di sag-
gezza riflessa. In pali è cinta maya paññá (la saggezza
ottenuta con la riflessione).
Il terzo tipo di saggezza è quello che nasce dalla
propria esperienza, dalla sperimentazione della verità,
bhávaná maya paññá (la saggezza che libera). Ed è questo
l’unico tipo di saggezza che produce un reale cam­­b­i­­a­
mento nella vita, perché muta la natura della mente.
Per evidenziare l’importanza di questo tipo di sag-
gezza, ecco due esempi.

Al ristorante
Uno è quello del cliente al ristorante: legge il
menu, si convince che la cucina sia ottima e quin-
di sente l’acquolina in bocca; ordina al cameriere
e mentre aspetta si guarda attorno e osserva l’aria
soddisfatta dei clienti già serviti. Ne deduce che il
cibo deve essere di ottima qualità. E dopo che è stato
servito, comincia a gustarlo davvero.

18
PARTE PRIMA

La saggezza di chi ha solo letto il menù è suta maya


paññá: è quella di chi ritiene buono ciò che viene
proposto; cioè una saggezza basata su fede o fiducia,
di quanto letto o ascoltato.
La saggezza di chi, vedendo la gente soddisfatta,
ritiene il cibo buono, grazie al ragionamento dedut-
tivo, è cinta maya paññá. È saggezza intellettuale, priva
di prove sperimentali (che il cibo sia buono, n.d.r.).
La saggezza di chi gusta il cibo è bhávaná maya
paññá, saggezza sperimentale: è l’esperienza vera e
propria. Solo quando si mangia, si verifica se il cibo
è buono. Per fare propria una verità e quindi creder-
vi, bisogna sperimentarla.

La ricetta del medico


L’altro esempio è quello di chi va dal medico e,
dopo una visita accurata, ascolta la diagnosi e torna
a casa: ha molta fede nel dottore e nella sua cura, ma
la sua è fede cieca e quindi mette la ricetta sul como-
dino e recita: - Una pillola al mattino, una pillola la
sera. Una pillola al mattino, una pillola la sera.
Recita il testo della ricetta, invece di prendere la
medicina. Si limita a credere nel dottore. È suta maya
paññá.
Poiché l’essere umano è un essere razionale,
ritorna dal medico e si fa chiarire la ragione della
ricetta. Il medico gli spiega quali sono la malattia
e la sua causa; che assumendo la medicina la causa
sarà eliminata e che quando la causa sarà eliminata,
la malattia scomparirà. Una spiegazione logica, ma
invece di prendere la medicina, egli se ne va in giro

19
Cenni sulla vita e l’insegnamento del Buddha

a spiegare a chi incontra che cosa ha detto il medico,


tessendone le lodi. È cinta maya paññá. L’uomo ragio-
na e deduce che si tratta di una buona prescrizione
e di un buon medico, ma non assume la medicina.
Tutti gli illuminati e i santi hanno prescritto una
cura universale per liberare l’uomo dall’infelicità: vi-
vere secondo la legge morale, acquisire padronanza
sulla mente e purificarla con la saggezza sperimen-
tale. Dei tre tipi di saggezza, i primi due esistevano
prima del Buddha. Il suo contributo specifico è la
via per sperimentare la realtà e sviluppare la saggezza
basata sull’esperienza: bhávaná maya paññá.

La saggezza che libera


Bhávaná significa meditazione o sviluppo men-
tale. Paññá è formato dalla radice ná (che significa
“conoscere”) e dal prefisso pa (che significa “corretta-
mente”). Si può quindi tradurre “conoscere corretta-
mente”, equivalente a saggezza, comprensione, intui­
zione. Nei testi antichi, paññá è definita con “vedere
le cose come sono e non come appaiono”. La sua
caratteristica è di penetrare nella natura delle cose, e
la sua funzione è duplice: scacciare il buio dell’igno-
ranza e preservare da manife­stazioni incontrollate.
Il Buddha ha scoperto che la vera saggezza è speri-
mentare la realtà dell’impermanenza (anicca) di ogni
fenomeno mentale e fisico, rendersi conto della sof-
ferenza (dukkha) che deriva dall’impermanenza, e la
consapevolezza dell’inesistenza di un io (anattá).
Suta maya paññá è la saggezza dell’accettare quanto
trasmesso da altri; essa può ispirare a intraprendere

20
PARTE PRIMA

e perseverare sul cammino, ma non conduce alla


liberazione.
Cinta maya paññá è la saggezza della conoscenza in-
tellettuale di impermanenza, sofferenza e inesistenza
dell’io; è raggiunta col ragionamento e non porta
alla liberazione.
Bhávaná maya paññá è la saggezza sperimentale che
si ottiene con la pratica della meditazione, e porta
alla liberazione.
La pratica meditativa scoperta dal Buddha per
sviluppare questa saggezza è Vipassaná, termine pali
che significa osservazione della realtà così come è.
Attraverso l’auto-osservazione e con i propri sforzi,
il meditatore sperimenta, nella mente e nel corpo,
come ogni cosa nel mondo sia impermanente,
transitoria, sorgente di sofferenza, senza sostanza ed
essenza, senza io.

Ecco il contributo fondamentale del Buddha: la


saggezza che libera.

21
Cenni sulla vita e l’insegnamento del Buddha

L’essenza della saggezza*


di S.N. Goenka

Che cos’è la saggezza? È giusta comprensione, cioè


l’esperienza della verità ultima, raggiunta penetrando
la realtà, dall’apparenza alla profondità. È la facoltà
di comprendere la verità completa, in ogni aspetto. Il
saggio guarda in profondità, in modo accurato e pe-
netrante, per cogliere la verità sottile e più nascosta.
Non è saggezza la conoscenza intellettuale; tra essa e
la saggezza sperimentale c’è una differenza paragona-
bile a quella tra il gioielliere che valuta accuratamente
virtù e difetti di ogni gemma, con sguardo competen-
te per stimarne il valore, e il bambino che considera i
gioielli preziosi come attraenti sassi colorati.
Vipassana significa “vedere le cose in modo pro-
fondo” ed è l’abilità di vedere le cose come realmente
sono, e non come in apparenza sembrano. Normal-
mente osserviamo la realtà apparente, siamo come il
bambino che vede del gioiello il colore e il luccichio.
Per essere in grado di osservare la realtà interiore,
abbiamo bisogno di uno sguardo penetrante (come
quello del gioielliere), cioè di sviluppare saggezza
mediante la pratica di Vipassana.
Per sviluppare saggezza, sono essenziali il rispetto
di una condotta morale e lo sviluppo della concen-

* Da S.N. Goenka, The essence of wisdom, Vipassana


Patrika, notiziario in hindi. V.R.I., Dhammagiri, Igatpuri,
India, agosto 1995.

22
PARTE PRIMA

trazione mentale. Solo la mente acuta e stabilizzata


nella giusta concentrazione può meditare con Vi-
passana e sperimentare la verità così come è.

L’introspezione
È necessaria l’introspezione: dobbiamo esplorare
e sperimentare, perciò osserviamo il corpo e ciò che
accade in esso, coltivando piena attenzione e giusto
distacco; perciò impariamo a osservare il respiro che
entra e che esce dalle narici. L’osservazione del respi-
ro, con un allenamento diligente, conduce gradual-
mente alla consapevolezza delle sensazioni – intense
e sottili – in ogni parte del corpo. La sensazione fisica
è la manifestazione di un contenuto mentale. Osser-
viamo continuamente i tipi di mente che sorgono di
momento in momento, osserviamo continuamente
anche i diversi contenuti della mente. Diamo più
importanza all’osservazione del corpo perché le sen-
sazioni sono percepite dalla mente, ma sperimentate
nel corpo. Ogni impurità nella mente è intimamente
connessa con qualche sensazione nel corpo.
Vipassana è basata sulle sensazioni: per mezzo di
esse possiamo osservare la natura di mente-corpo e
arrivare a fare esperienza che il corpo è un insieme di
sottili particelle subatomiche che cambiano costan-
temente, sorgono e passano; che corpo e mente sono
privi di solidità e privi di essenza. Questo flusso sem-
pre mutevole del corpo e della mente può essere os-
servato solo con l’aiuto di una concentrazione acuta.
Possiamo sperimentare la realtà della sofferenza, e
anche l’assenza di un io. Cominciamo a comprendere

23
Cenni sulla vita e l’insegnamento del Buddha

che il corpo e la mente sono privi di solidità, privi di


essenza. Non c’è nulla nel flusso di mente e corpo che
sia permanente e stabile, che possa essere chiamato io
o mio, o che possiamo controllare. E cominciamo a
osservarlo con imparzialità. Più l’osservazione delle
sottili sensazioni è profonda, più saldo è il distacco.
Grazie alla saggezza ottenuta praticando Vipassa-
na, il nostro attaccamento diviene sempre più de-
bole, e così siamo in grado di osservare con sempre
maggiore obiettività.
Quando, con una lanterna, si entra in una casa
buia, l’oscurità è scacciata, la luce illumina ovunque
e si può vedere chiaramente ciò che vi è contenuto.
Nello stesso modo, la luce della saggezza bandisce le
tenebre dell’ignoranza e le eterne nobili verità sono
chiaramente illuminate.

La verità della sofferenza


Con la continua pratica, facciamo esperienza
della verità della sofferenza al livello più profondo:
la mente costantemente insoddisfatta è incessante-
mente afflitta dalla sete della bramosia, una sete ine-
stinguibile e senza fondo, che consuma tutti i nostri
sforzi per placarla.
Sperimentiamo la sofferenza del nostro attacca-
mento all’idea che esista un ego, e sperimentiamo la
sofferenza per l’attaccamento ai nostri desideri e alle
nostre opinioni, che ci rendono continuamente tesi
e preoccupati. Quando ci rendiamo conto della sof-
ferenza e delle sue cause, comprendiamo il Nobile
Sentiero che elimina le cause – bramosia e avversio-

24
PARTE PRIMA

ne – e che conduce dunque alla liberazione da essa.


La saggezza si rafforza in noi grazie a Vipassana, e
sradica tutte le delusioni, le illusioni, le false impres-
sioni e l’ignoranza. Esse non riescono a fissarsi nella
mente e di conseguenza la realtà diviene chiara. La
mente è purificata da tutte le impurità. E progre-
dendo su questo cammino salutare, raggiungiamo
lo stato puro degli ariya (le persone nobili). Speri-
mentiamo la gioia del nibbána. La felicità ottenuta è
superiore a ogni altra felicità.
Il godimento dei piaceri sensoriali non conduce a
felicità duratura. Ogni piacere giunge a conclusio-
ne, la mente lotta per riottenerlo e questo desiderio
porta sofferenza. Quando siamo allenati a osservare
con giusto distacco, la nostra capacità di osservazione
può rimanere stabile, anche se gli oggetti cambiano
continuamente. Non ci esaltiamo quando sperimen-
tiamo piaceri sensoriali o spirituali, né piangiamo
quando passano. In entrambe le situazioni, osservia-
mo come uno spettatore. Quando osserviamo con
equanimità la natura mutevole anche della più sottile
sensazione, sperimentiamo l’impermanenza.
La vera felicità è il vedere ciò che è davanti ai nostri
occhi senza impurità nella mente: è diþþa dhamma sukha
vihára (lo stato felice di comprensione della verità).

Venite, rinforziamo la saggezza, bhávaná-mayá


paññá, mediante la pratica di Vipassana. Lasciamoci
dietro di noi la continua lotta causata da bramosia
e avversione. Stabilizzandoci nella saggezza, ottenia-
mo la liberazione e raggiungiamo la vera contentez-
za, la vera felicità.

25
Cenni sulla vita e l’insegnamento del Buddha

Risvegliatevi alla saggezza*


di S.N. Goenka

Che cos’è l’ignoranza? È uno stato mentale di


ottusità, disattenzione, incapacità. A causa sua ge-
neriamo condizionamenti mentali, contaminando
la mente con nuove negatività. Siamo poco consape-
voli di come imprigioniamo noi stessi con i legami
di bramosia e avversione e di come stringiamo i nodi
di questi legami. Questa è l’ignoranza che ci tiene
legati alla sofferenza. Possiamo sradicarla rimanendo
consapevoli, vigili e attenti. Così non permetteremo
ai condizionamenti di lasciare profonde tracce; non
permetteremo a noi stessi di imprigionarci ai ceppi
di bramosia e avversione.
La qualità dell’attenzione mentale, unita all’espe-
rienza diretta, è saggezza che sradica l’ignoranza.
Per risvegliare questa saggezza e stabilizzarci in essa,
vigilando sulle nostre azioni mentali, vocali e fisiche,
meditiamo con Vipassana:
–– quando camminiamo, camminiamo con con-
sapevolezza;
–– quando stiamo in piedi, stiamo in piedi con
consapevolezza;
–– quando sediamo, sediamo con consapevolezza;
–– quando siamo distesi, siamo distesi con consa-
pevolezza.

* Da S.N. Goenka, Wake up to the wisdom, Vipassana


Patrika, op. cit., settembre 1995.

26
PARTE PRIMA

Dormendo o da svegli, in piedi o seduti, in ogni


stato, coltiviamo la capacità di rimanere consapevoli
e attenti. Non dovremmo svolgere alcuna azione
senza consapevolezza:
–– tutte le attività del corpo dovrebbero essere
svolte con consapevolezza;
–– tutte le attività vocali dovrebbero essere svolte
con consapevolezza;
–– tutte le attività mentali dovrebbero essere svolte
con consapevolezza.
Insieme alla consapevolezza, dovremmo speri-
mentare le tre caratteristiche della saggezza: tutti i
fenomeni sono impermanenti (anicca); essendo im-
permanenti danno origine a sofferenza (dukkha) e
sono privi di essenza, cioè non possono essere l’io,
(anattá).
Non ci dovrebbero essere attaccamento, avversio-
ne, bramosia o ripugnanza verso nessun fenomeno;
bensì consapevolezza insieme a giusto distacco.
Questo è Vipassana, la saggezza che distrugge l’igno-
ranza. Solo nella distruzione dell’ignoranza risiede il
nostro benessere, la nostra felicità, la nostra libera-
zione.

Risvegliamo questa saggezza e stabilizziamoci in


essa. Sradichiamo e distruggiamo l’ignoranza.

27
Cenni sulla vita e l’insegnamento del Buddha

Una meditazione
concreta e attuale*
di S.N. Goenka

Tutti cerchiamo pace e armonia, perché mancano


alla nostra vita. E quando ci sentiamo tesi, agita-
ti, irritati, sofferenti, non ci limitiamo a soffrirne,
ma riversiamo sugli altri il nostro malessere. Non
è certamente il modo giusto di vivere. Si dovrebbe
vivere in pace con se stessi e con gli altri. Ma come
rimanere in armonia con se stessi e mantenerla at-
torno a noi?
Diventiamo tesi e infelici, e talvolta la vita ci sem-
bra insopportabile, quando qualcuno si comporta in
un modo che non ci piace e quando succede qualco-
sa di sgradito; ma nella vita accadranno sempre fatti
e situazioni contrarie ai nostri desideri. Allora, come
non creare tensione e rimanere in pace?
In India e nel mondo, saggi e santi del passato
hanno studiato il problema dell’umana sofferenza e
proposto una soluzione: l’applicarsi nello sviare l’at-
tenzione, non appena accade qualcosa di indesidera-
to e s’inizia a reagire con collera, paura o altro. Suoi
modi d’applicazione sono, per esempio, il contare,
il bere un bicchiere d’acqua; oppure il ripetere una
qualsiasi parola, frase, o anche il nome di una divini-

* Discorso pubblico, Berna, Svizzera, 1980. Estratto.

28
PARTE PRIMA

tà o di persona santa in cui si ha fede: la mente viene


sviata e liberata dalla negatività, fino a un certo livel-
lo. Questa soluzione è risultata valida, ha funzionato
e funziona: la mente è alleggerita dall’agitazione, ma
soltanto al livello conscio. Sviando l’attenzione, si
spinge la negatività più in profondità, nell’incon-
scio, e lì continua a moltiplicarsi. Al livello conscio
ci sono pace e armonia, ma nelle profondità c’è un
vulcano che prima o poi esploderà.
Altri ricercatori di verità si sono spinti oltre: stu-
diando all’interno di loro stessi la realtà della mente
e del corpo, hanno compreso che sviare l’attenzione
è una fuga.

La soluzione
La soluzione del Buddha consente di affrontare
la negatività mentale, osservandola ogni volta che
sorge. Non appena la si osserva, essa inizia a perdere
la sua forza; lentamente s’indebolisce e così viene
eliminata. È una soluzione che evita i due estremi
di repressione e permissivismo. Se repressa nell’in-
conscio, la negatività non è sradicata; se espressa
nell’azione fisica o verbale, crea altri problemi. Ma
se la si osserva solamente, la negatività se ne va,
viene eliminata.
È una soluzione pratica: non si possono osservare
le negatività astratte, come paura, collera, passio-
ne; ma con esercizio e pratica adeguati, si possono
osservare il respiro e le sensazioni fisiche, entrambi
collegati direttamente con la negatività mentale. Si
apprende come osservare con equanimità qualsiasi

29
Cenni sulla vita e l’insegnamento del Buddha

cosa accada, qualsiasi sensazione compaia. Per-


mettendo alla negatività di manifestarsi, essa se ne
va. Gradualmente si smette di reagire, si smette di
moltiplicare la propria infelicità. Più si medita, più
si scopre quanto rapidamente ci si possa sbarazzare
delle negatività, e come la mente diventi più pura. E
una mente pura è equanime e piena di amore disin-
teressato, di compassione per la debolezza e la sof-
ferenza, e di gioia per il successo e la felicità altrui.
Questo è ciò che insegnava il Buddha, un’arte di
vivere; non un credo religioso, una dottrina filosofi-
ca o la pratica di riti e cerimonie. Insegnò a osservare
la natura così com’è, mediante l’osservazione della
realtà interiore. Quando la saggezza si risveglia, al-
lora si può abbandonare l’abitudine alla reazione.
Quando si smette di reagire, si è capaci di vera azio-
ne, scaturita da una mente equilibrata e serena, una
mente che vede e comprende la verità.

La meditazione Vipassana
Questa esperienza diretta, questa tecnica di auto-
osservazione è la meditazione Vipassana, l’essenza
dell’insegnamento del Buddha. Vipassana significa
osservare le cose così come sono in realtà, non come
sembrano essere. Penetrare la realtà apparente fino a
raggiungere la realtà ultima della mente e del corpo.
Quando la si sperimenta, s’impara a non reagire, a
non creare più negatività e così, naturalmente, le
impurità accumulate sono eliminate. Ci si libera
dalla sofferenza e si sperimenta la vera felicità.

30
PARTE PRIMA

E può essere praticata da chiunque perché il ri-


medio, come la causa, è universale. Il Buddha non
ha mai voluto convertire da un credo a un altro, né
aveva alcun interesse a fondare una setta o una reli-
gione. Il suo solo interesse era il Dhamma, la legge
di natura, la verità che ognuno può scoprire in sé.
L’unica conversione dovrebbe essere dalla soffe-
renza alla felicità, dalle negatività alla purezza, dalla
schiavitù alla liberazione, dall’ignoranza alla saggez-
za e all’illuminazione.

31
PARTE
SECONDA
L’insegnamento del
Buddha nei discorsi
Introduzione*
La lingua pali

L a lingua dei discorsi e di tutto l’insegna-


mento è il pali, scelto dal Buddha per in-
segnare e poi utilizzato per tramandare e trascrivere
i suoi insegnamenti. La sua scelta del dialettale pali
(invece della lingua sanscrita) è assai significativa
ed esprime l’intenzione di non confinare l’insegna-
mento alla ristretta cerchia degli intellettuali, ma
di divulgarlo attraverso l’uso della lingua parlata
dalla gente comune. Ancor oggi nella trasmissione
dell’insegnamento, sono usate parole pali perché
nessuna lingua, per quanto ricca, può adeguatamen-
te esprimere i contenuti della complessa terminolo-
gia utilizzata dal Buddha.
L’origine del pali, come di altri vernacoli, è in
genere attribuita alla lingua vedica parlata dagli
indo-europei invasori dell’India 5000 anni fa. Dopo
la nascita di questi dialetti, la lingua vedica fu codi-
ficata in una lingua letteraria, il sanscrito. Secondo
alcuni studiosi, il pali è il dialetto dei tempi del
Buddha parlato nel regno di Kosala (tra l’attuale
Uttar Pradesh e il Nepal occidentale) o nel regno
di Magadha (l’attuale Bihar). Possibilità ambedue
plausibili, considerando che il Buddha visse e inse-

* Dai testi elencati nella prefazione.


L’insegnamento del Buddha nei discorsi

gnò principalmente in quei due regni.


Come il sanscrito e il latino, il pali è una lingua
morta, utilizzata come lingua monastica e di studio,
nei paesi di tradizione buddhista theraváda, per far
conoscere e per spiegare quella ancor viva tradizio-
ne. Uno dei significati della parola “pali” è ciò che
protegge o preserva perché, secondo la tradizione,
il pali ha le funzioni di proteggere e di custodire
l’incalcolabile tesoro delle parole pronunciate dal
Buddha; infatti, è la lingua degli insegnamenti che
guidano verso la liberazione. A conferma di questo,
“pali” significa anche norma, linea, filo, filo condut-
tore e spago.

I tesorieri del Dhamma*


Le parole del Buddha furono messe per iscritto
dopo cinque secoli circa dalla sua morte. Nell’India
del suo tempo la scrittura era conosciuta, ma il suo
uso era limitato al commercio. Per i temi spirituali,
la memoria umana ben addestrata era considerata
come la registrazione migliore. La tradizione di me-
morizzarli non è mai stata interrotta e anzi continua
tuttora per opera dei Dhamma-bháódágárikas, i teso-

* Dhamma è un termine pali che deriva dalla radice


indoeuropea dhr che significa sostenere, stabilizzare. Dhamma
è difficilmente traducibile e ha molti significati: l’ordine che
stabilizza e governa l’universo, la legge morale con i doveri
religiosi e sociali, la dottrina o legge, predicata dal Buddha.
Nei testi sull’insegnamento del Buddha, Dhamma significa:
fenomeno, elemento, stato mentale, oggetto mentale, caratte-
ristica, qualità.

38
PARTE SECONDA

rieri del Dhamma. Questa tradizione ha permesso


la preservazione integrale delle parole del Buddha
durante 2500 anni. Per questa necessità di preserva-
re con accuratezza gli insegnamenti, furono tenuti
dei concili*, cioè i raduni dei monaci.
Analogamente, nell’antica Grecia, per secoli, l’Ilia-
de e l’Odissea furono trasmesse oralmente. E come
i poemi omerici, i discorsi del Buddha hanno le ca-
ratteristiche del linguaggio orale, come elencazioni
e frequenti ripetizioni, estese metafore e descrizioni:
tutte finalizzate a facilitare la memorizzazione e a sti-
molare l’ascolto della loro recitazione. Gli insegna-
menti, tramandati oralmente, furono dunque scritti
e raccolti in collezioni che costituiscono un vero e
proprio canone. La loro trascrizione ebbe luogo nel
25 a.C. nello Sri Lanka, durante il quarto concilio,
dove i monaci esperti li redigevano.

* Il primo concilio fu convocato tre mesi dopo la


morte del Buddha, nel 483 a.C. all’inizio della stagione delle
piogge, a Rajagaha, capitale del regno di Magadha. Patrocinato
dal re Ajatasattu, si svolse nella grotta Sattapanni. Vi parte-
ciparono cinquecento monaci Arahant (cioè che avevano rag-
giunto lo stadio finale della ricerca spirituale o Illuminati), per
garantire la massima purezza e completezza del loro intendi-
mento della dottrina. Essi ripeterono oralmente, classificarono
e raggrupparono tutti gli insegnamenti del Buddha. I concili
theraváda sono sei: i primi tre furono tenuti in India, il quarto
in Sri Lanka intorno all’80 a.C., in occasione del quale vi fu
la prima trascrizione degli insegnamenti. Il quinto e il sesto si
tennero in Myanmar, la nazione che ha preservato sia le parole
sia la parte pratica della meditazione Vipassana.

39
L’insegnamento del Buddha nei discorsi

Il Canone pali, la raccolta dei discorsi

Il Canone pali (o Tipiþaka) è la raccolta di circa


84.000 discorsi, composta di tre parti, chiamate
“ceste” o “canestri”, da cui il titolo di Tipiþaka: ti=tre,
piþaka=canestri.
Dall’introduzione di Goenka in Vipassana Re­
search Institute (a cura di), Páli Tipiþaka, V.R.I.,
Ibid, 1999:

“Tutto il Tipiþaka è soffuso della nobile e sacra per-


sonalità del Buddha, della sua perfetta illumina-
zione e saggezza, del suo comportamento morale,
della corretta comprensione e della sua compassio-
ne. Contiene la via del Dhamma, della completa
emancipazione dalla sofferenza, l’incommensura-
bile e ineguagliabile insegnamento del Buddha.
Nel Tipiþaka non solamente si trova il panorama
della ricerca spirituale e filosofica dell’India di ven-
tisei secoli fa, ma attraverso i discorsi, si possono
cogliere gli aspetti storici, politici e culturali del
tempo, le tradizioni, i costumi, l’organizzazione
commerciale, industriale, educativa, le condizioni
di vita nelle città e nelle campagne.
L’influenza del Buddha non è confinata al
pensiero indiano, ma riconoscibile nel pensiero
spirituale e nella letteratura del resto del mondo.
Perciò le sue parole hanno oggi uno speciale signi-
ficato per l’umanità”.

40
PARTE SECONDA

Le tre parti sono:

1) Vinaya Piþaka, la “cesta” della disciplina: con-


tiene le prescrizioni che regolano la vita dell’ordine
monastico.
2) Sutta Piþaka, la “cesta” dei discorsi: contiene
discorsi, sermoni e dialoghi del Buddha, e di alcuni
dei suoi principali discepoli.
3) Abhidhamma Piþaka, la “cesta” della dottrina:
contiene un compendio di insegnamenti sul fun-
zionamento e l’interdipendenza di mente, fattori
mentali e materia, e il fenomeno che li trascende.

I discorsi della presente raccolta sono tratti dal


Sutta Piþaka, la “cesta” di più grande interesse, non
solo perché raccoglie l’insegnamento in tutta la sua
interezza e varietà di esposizione, ma anche perché
vi sono molti discorsi non solo diretti ai monaci, ma
anche a laici. Il Buddha si esprimeva col linguaggio
adatto a circostanza, cultura e capacità di compren-
sione degli ascoltatori, utilizzando un’abbondanza
di risorse didattiche e apologetiche, (similitudini,
parabole, ripetizioni), per comunicare al meglio il
suo messaggio. Sempre rivolto a risvegliare la saggez-
za necessaria per iniziare a meditare, per la realizza-
zione personale con l’esperienza della verità.

Criteri d’interpretazione

L’intento principale è quello di offrire al lettore


moderno una versione dell’insegnamento attraverso
dieci discorsi. Quindi l’aspetto in maggiore rilievo

41
L’insegnamento del Buddha nei discorsi

attiene a traduzione e interpretazione. Nella tradu-


zione si è preferito un approccio liberale nella forma,
ma rigoroso e corrispondente al testo originale nella
sostanza.
Ogni lingua, pur ricca che sia, ha le sue limita-
zioni e specificatamente con riferimento ai termini
tecnici pali. Le parole stesse del Buddha sono state
di guida:

Vi sono due cose, o monaci, che possono far durare


a lungo la verità del Dhamma, assicurandone la
preservazione e la diffusione, senza alcuna distor-
sione e senza il pericolo che essa possa eclissarsi e
scomparire. Quali cose? L’appropriata collocazio-
ne delle parole, e la loro corretta interpretazione.
(A. 1.21)
(...) Tutte le verità, che vi ho insegnato dopo averle
personalmente realizzate, dovrebbero essere recitate
da tutti, contemporaneamente e senza alcun dissen-
so, in una versione unanime che metta a confronto
significato con significato ed espressione con espressio-
ne. In questo modo, questo insegnamento unito alla
pura pratica durerà per molto tempo. (D. 29)

42
1.
Il discorso sulla messa
in moto della ruota
del Dhamma
(Dhammacakkapavattana Sutta, S.LXI,11)
Testo del discorso*

C osì io stesso ho udito (1): quando viveva a


Varanasi, nella zona di Isipatana, nel parco
dei cervi Mideldai, il Beato si rivolse un giorno a un
gruppo di cinque asceti (2):
– Monaci, chi si è ritirato dalla vita del mondo do-
vrebbe fare attenzione a evitare due estremi. Quali
sono questi due estremi?
Il primo è l’indulgere nei piaceri dei sensi, cosa
ignobile che non porta a nulla di buono.
Il secondo è l’auto-infliggersi penitenze dolorose,
che non conducono a nessun risultato positivo.
La via di mezzo scoperta dal Perfetto evita que-
sti due estremi. Essa genera capacità d’intuizione
e conoscenza, e porta alla pace, alla comprensione
diretta, all’esperienza della verità, alla completa libe-
razione, al nibbána (3). E qual è questa via di mezzo?
È il Nobile Ottuplice Sentiero, e cioè: la giusta com-
prensione, il giusto pensiero, la giusta parola, la giusta
azione, i giusti mezzi di sussistenza, il giusto sforzo, la
giusta consapevolezza e la giusta concentrazione.
Ogni persona per raggiungere la perfezione scopre
questa via di mezzo che, come ho detto, è in grado
di conferire profondità di saggezza e di visione, oltre
a condurre alla pace, a una conoscenza immediata,
alla verità, alla liberazione e al nibbána.

* Le note numerate sono alla fine del testo del discorso

45
1. Il discorso sulla messa in moto della ruota del Dhamma

Le quattro nobili verità


La sofferenza esiste. Il fatto che esista la sofferenza è una
delle più profonde verità, è la prima nobile verità. (4)
Constatiamo infatti che la nascita è sofferenza,
che il processo di invecchiamento è sofferenza, che
la malattia è sofferenza, che la morte è sofferenza. La
sofferenza ha molte forme: pena, rimpianto, dolore,
angoscia e disperazione; come è sofferenza dover
sopportare ciò che si detesta e dover rinunciare a ciò
che si ama, e anche non ottenere ciò che si desidera.
In breve, l’attaccamento ai cinque aggregati* produ-
ce sofferenza.(5)
La seconda nobile verità è il comprendere la causa
profonda della sofferenza. E la causa è il desiderio, ali-
mentato dal piacere e dalla continua ricerca di gioie
passeggere che perpetuano l’essere. Questo desiderio
diventa poi bramosia per i piaceri dei sensi, bramo-
sia di esistere o bramosia di uscire dalla prigione
dell’esistenza. (6)
La terza nobile verità è la fine della sofferenza, cioè
lo stadio in cui la sofferenza finisce. Questa esperienza
avviene quando il desiderio (causa della sofferenza)
si dissolve senza lasciare traccia; quando si rinuncia

* Gli aggregati costituiscono l’insieme dell’indivi-


duo: l’aggregato corpo e i quattro aggregati mentali, cioè la
sensazione, la percezione, le formazioni mentali (pensiero di-
scorsivo, volizione, immaginazione, emozione) e la coscienza
(intesa come il rendersi conto dei dati sensoriali). I cinque ag-
gregati, sia singolarmente sia combinati fra loro, non sono da
considerarsi come un io, un’entità o una personalità, ma come
processi in continua trasformazione. Questa continua attività
degli aggregati è definita coscienza individuale.

46
PARTE SECONDA

al desiderio, lo si abbandona, lo si lascia andare, lo


si rifiuta. (7)
La quarta nobile verità è il riconoscimento della via
che conduce alla fine della sofferenza, cioè il Nobile
Ottuplice Sentiero: la giusta comprensione, il giusto
pensiero, la giusta parola, la giusta azione, i giusti
mezzi di sussistenza, il giusto sforzo, la giusta consa-
pevolezza, la giusta concentrazione (8).

Il processo di conoscenza
Il processo che dall’intuizione, attraverso la sag-
gezza e l’esperienza, mi ha aperto gli occhi, permet-
tendomi di scoprire concetti prima mai conosciuti,
si è svolto in tre fasi, per ognuna delle quattro nobili
verità.
–– Per la prima nobile verità, dapprima ho consta-
tato l’esistenza della sofferenza; quindi che que-
sta poteva essere diagnosticata e sperimentata;
poi che la diagnosi era stata fatta e la sofferenza
sperimentata.
–– Per la seconda nobile verità, dapprima ho capi-
to quale fosse la causa della sofferenza; poi che
la causa poteva essere estirpata, poi che essa era
stata estirpata.
–– Ho quindi intuito, compreso e verificato l’esi-
stenza della terza nobile verità: la fine della
sofferenza; poi ho capito che doveva essere spe-
rimentata; e in seguito che questa esperienza
era avvenuta.
–– Per la quarta nobile verità ho compreso quali
sono i mezzi per l’eliminazione della sofferenza;

47
1. Il discorso sulla messa in moto della ruota del Dhamma

poi mi sono reso conto che questi mezzi devono


essere messi in pratica, e infine ho verificato che
l’intero percorso era stato da me completato.
Fino a quando la capacità di vedere e comprendere
la realtà non si era completamente purificata attra-
verso queste dodici fasi (tre fasi per ciascuna nobile
verità), non ho preteso di aver raggiunto la piena
illuminazione, che è la meta più alta che si possa
raggiungere in questo mondo (con i suoi dei, i suoi
angeli di morte, la sua suprema divinità, il genere
umano, i suoi monaci, i suoi preti, i suoi principi e i
suoi comuni mortali). (9)
Ma una volta vista e compresa la realtà, mi fu chia-
ro che la totale liberazione era incontestabile, che
questa era sicuramente la mia ultima nascita, che non
ci sarebbe più stato rinnovamento dell’essere. Questo
è ciò che disse il Beato e il gruppo di cinque monaci
accolse le sue parole con gioia e piena approvazione.
Durante il discorso accadde anche che nel vene-
rabile monaco Koóðañña sorgesse la chiara e pu-
rissima visione della verità (e cioè che tutto ciò che
è soggetto alla nascita è destinato a finire). In quel
momento tutte le divinità della terra seppero che la
ruota della verità, messa in moto dal Beato, aveva
cominciato a girare, e da esse si levò l’esclamazione:
“A Varanasi, nel parco dei cervi di Isipatana,
la ruota della verità, unica in tutto l’universo, si è
messa in moto ad opera del Beato. Nessuno, mona-
co o sacerdote, dio o angelo della morte, né divinità
superiori, né alcuno al mondo potrà mai arrestarla.”
All’udire questo, le divinità della terra e tutti gli
dei nei sei paradisi della sfera sensibile a loro volta

48
PARTE SECONDA

pronunciarono e ripeterono l’annuncio, che si pro-


pagò fino alla soglia della dimora delle divinità su-
periori; e quando in un attimo s’innalzò fino al loro
mondo, tutto l’universo si scosse e tremò.
Allora il Beato esclamò a gran voce: – Koóðañña
sa! Koóðañña sa! – e fu così che il venerabile acqui-
stò l’appellativo di Aññáta Koóðañña: Koóðañña
che sa.

49
Note
1. Queste tre parole sono sempre all’inizio dei
discorsi del Buddha, fin dal primo Concilio dei di-
scepoli, (v. nota a pag. 39) tenutosi tre mesi dopo la
morte dell’Illuminato. Il Venerabile Ananda ebbe il
compito di riportare tutti i discorsi. Poiché l’unico
modo a quei tempi era di memorizzarli e passarli
oralmente, prefisse a ogni discorso “Evaí me suttaí”
(Così io stesso ho udito) per testimoniarne perso-
nalmente l’autenticità.

2. Sono i cinque asceti che accompagnarono Sid-


dhatta Gotama durante gli anni della ricerca più
severa e che lo abbandonarono quando egli, com-
prendendo che gli eccessi erano ”ignobili e dolorosi”
e non conducevano a risultati positivi, iniziò a pra-
ticare la via di mezzo e la meditazione Vipassana. Il
più anziano era Koóðañña, gli altri erano Bhaddiya,
Vappa, Mahánáma, Assaji.

3. La liberazione, la libertà da tutti i condiziona-


menti, da tutte le sofferenze è possibile. Il Buddha
ha spiegato: “C’è una sfera che sta al di là dell’intero
campo della materia, dell’intero campo della mente,
che non è né questo, né un altro mondo, né entrambi,
né la luna, né il sole. Non affermo che sorga, né che
svanisca, né che ci sia, né che muoia, né che rinasca. È
senza supporto, senza sviluppo, senza fondamento. Essa
è la fine della sofferenza”. (Ud. 8.1)
Il nibbána non è uno stato che si raggiunge dopo
la morte, ma è sperimentabile, qui e ora, dentro se

50
PARTE SECONDA

stessi. Qualsiasi descrizione confonderebbe. Piutto-


sto che discutere, la cosa più importante è sperimen-
tare. “La nobile verità della fine della sofferenza deve
essere sperimentata” ha detto il Buddha. Quando si
sperimenta, solo allora il nibbána è reale e tutte le
argomentazioni a riguardo diventano irrilevanti. Per
arrivare a sperimentarlo è necessario penetrare oltre
la verità apparente e fare esperienza della dissoluzio-
ne del corpo e della mente. Più si penetra oltre la
realtà apparente e si abbandonano desiderio, avver-
sione e attaccamento, più ci si avvicina alla verità
ultima.

4. Il Buddha definisce “nobili” le quattro verità,


perché la loro comprensione trasforma l’individuo,
facendolo incamminare verso la liberazione.

5. Così spiega il Buddha i differenti tipi di soffe-


renza: “Essere colpiti da perdite e avversità, a cui se-
guono uno stato mentale di tristezza, cordoglio, malin-
conia, pena e senso di sventura; oppure, essere di fronte
a rovine e disgrazie e ci si intristisce, ci si lamenta, si
geme e si piange, possiamo definire tutto ciò afflizione.
Inoltre, vi sono afflizione e sofferenza fisiche e mentali
dovute a emozioni dolorose e sgradevoli. Vi sono priva-
zioni di varia natura, e si sperimentano desolazione,
angoscia, tribolazione, in un crescendo di sofferenza,
fino a raggiungere la disperazione. Poi c’è la sofferenza
del subire ciò che non piace: essere in contatto con og-
getti dei sensi (immagini, suoni, odori, sapori, oggetti
tattili e oggetti mentali per i quali si prova avversione
antipatia o ripugnanza); ed essere in situazioni o con
persone ritenute spiacevoli. C’è la sofferenza di essere

51
1. Il discorso sulla messa in moto della ruota del Dhamma

separati da ciò che si ama, sia esso oggetto, situazione o


persona, e la sofferenza di non ottenere ciò che si deside-
ra. In tutti coloro che sono sotto il peso della sofferenza
e delle sue manifestazioni, del dolore fisico e di quello
mentale, della disperazione, sorge il desiderio: che bello
se non esistessero sofferenza, dolore e disperazione, e se
potessimo non conoscere mai né sofferenza, né dolore,
né disperazione! Ma il solo desiderio non basta”. (D.22)
Si verifica per esperienza diretta che la sofferenza
deriva dall’attaccamento ai cinque aggregati (il
corpo e le quattro parti della mente, la coscienza,
la percezione, la sensazione, la reazione, e la loro
combinazione). L’alto grado di identificazione e di
attaccamento per questo io non provoca altro che
sofferenza.

6. Dice il Buddha:”Ma dove sorge il desiderio e


dove si radica? Il desiderio nasce e si radica nella sfera
fisico-mentale, ovunque ci sia qualcosa che attira e che
piace. I sensi fisici (vista, udito, odorato, gusto, tatto)
e la mente sono assoggettati, sensibili al piacere e in
ognuno di essi il desiderio nasce e mette radici. Gli
oggetti dei cinque sensi sono piacevoli e seducenti: lì
il desiderio sorge e si radica. I contenuti mentali sono
piacevoli e seducenti: lì il desiderio sorge e si radica.
Così nella percezione, nel contatto, nella sensazione che
sorge dal contatto, nella reazione di piacere dei sensi
con gli oggetti, lì ovunque c’è qualcosa di piacevole,
nasce e s’insedia il desiderio. La bramosia che si prova
per oggetti visivi, suoni, odori, sapori e contatti fisici,
come pure per gli oggetti mentali, è fonte di piacere. E
nasce il desiderio di provarla ancora, e questo desiderio
mette radici. Quando c’è un pensiero di un oggetto vi-

52
PARTE SECONDA

sivo, la mente ne gode e ne è attratta; è così che nasce e


si afferma il desiderio. Anche pensieri di suono, odore,
sapore e contatto fisico, come pure di contenuti mentali,
sono fonte di piacere e di attrazione, e provocano la
nascita e l’affermarsi del desiderio. La mente si perde
volentieri in pensieri di oggetti dei sensi, e ne è attratta;
e ogni volta la mente è preda del desiderio, il desiderio
prende dimora in essa” (D.22).
Da un altro discorso: “A chi fa esperienza delle sen-
sazioni insegno la verità della sofferenza, insegno la ve-
rità del sorgere della sofferenza, insegno la verità della
fine della sofferenza e insegno la verità del cammino
che conduce alla fine della sofferenza.” In questo pas-
saggio, il Buddha afferma senza possibili equivoci
che le quattro nobili verità possono essere comprese,
realizzate e vissute solamente attraverso l’esperienza
delle sensazioni del corpo. E infatti, analizzando le
nobili verità, alla luce delle sensazioni “Qualsiasi sen-
sazione si provi, sono tutte sofferenza” (M.3), sono sof-
ferenza non solo le sensazioni spiacevoli, ma anche
quelle piacevoli e quelle neutre, a causa della loro
natura impermanente. Ogni sensazione piacevole ha
in sé il seme della sofferenza, perché reagiamo con
bramosia e attaccamento (non essendo consapevoli
della loro impermanenza).

7. Così spiega il Buddha: “Consiste nella completa


eliminazione del desiderio, nella rinuncia, nell’ab-
bandono dello stesso, nella liberazione e nel distacco
dallo stesso. Ma dov’è possibile annientare e distrug-
gere il desiderio? Monaci, ovunque nel mondo fisico e
mentale vi sia qualcosa che ci attira e procura piacere,
lì il desiderio può essere spazzato via. Si può, quindi,

53
1. Il discorso sulla messa in moto della ruota del Dhamma

eliminare il desiderio che nasce dal godimento dei sensi,


connesso agli oggetti dei sensi, che nasce dal prendere
coscienza dei fenomeni attraverso i sensi e dal contatto
dei sensi con i loro oggetti. Si può distruggere il desi-
derio che sorge con le sensazioni, con le percezioni e le
reazioni mentali agli oggetti dei sensi. Anche quando il
desiderio è generato dalla bramosia per questi oggetti,
dal concetto che ce ne formiamo e dall’indulgere del
pensiero, esso può essere eliminato”. (D.22)

8. L’Ottuplice Nobile Sentiero insegnato dal Bud-


dha è diviso in tre parti:
–– la prima parte consiste nel vivere, per il proprio
bene e quello della società, un’esistenza basata
sulla legge (o condotta) morale, che compren-
de la giusta azione, il giusto parlare e il giusto
modo di guadagnarsi da vivere (sìla);
–– la seconda parte consiste nello sviluppare la
concentrazione e la padronanza della mente,
momento dopo momento, in modo da non
generare impurità mentali, e comprende la
giusta consapevolezza, il giusto sforzo, la giusta
concentrazione (samádhi);
–– la terza parte è quella in cui si procede alla pu-
rificazione della mente con la pratica del giusto
pensiero e della giusta comprensione (paññá).

Così il Buddha spiega: “Cos’è la giusta comprensio-


ne? Consiste nella reale conoscenza della sofferenza, di
quale ne sia l’origine, di come essa possa essere estirpata
e di quale sia la via che conduce alla sua eliminazio-
ne. Cos’è il giusto pensiero? Esso consiste nei pensieri di
rinuncia, e in tutti quei pensieri che sono totalmente

54
PARTE SECONDA

privi di avversione e di violenza. Cos’è, o monaci, la


giusta parola? Astenersi dalla menzogna, dalla calun-
nia e dalla maldicenza, da parole aspre e discorsi inuti-
li. Cos’è, o monaci, la giusta azione? Non uccidere, non
appropriarsi di ciò che non ci appartiene, astenersi da
una cattiva condotta sessuale.
E quali sono i giusti mezzi di sussistenza? Un di-
scepolo autentico rinuncia a guadagnare con mezzi
illeciti e si procura da vivere in modo legittimo. E il
giusto sforzo? Il monaco vuole fermamente impedire il
sorgere d’impurità mentali ed esercita lo stesso sforzo,
applicandosi con energia e perseveranza, per estirpare
le impurità mentali che si sono manifestate in lui. Egli
fa inoltre un grande sforzo e stimola le proprie energie
per generare in sé purezza mentale, e s’impegna con
tutta la volontà per preservarla e accrescerla.
E cosa s’intende, monaci, per retta consapevolezza?
Essa è propria del monaco che persevera con fervore
nel corretto esercizio della presenza mentale. Egli fa
ciò dopo aver eliminato ogni desiderio e avversione nei
confronti di questo mondo fisico e mentale – sia che
osservi il corpo nel corpo o le sensazioni nelle sensazio-
ni, o la mente nella mente, o i contenuti mentali nei
contenuti mentali.
Cos’è infine, o monaci, la giusta concentrazione? Un
monaco che sia distaccato dai desideri sensuali e da
ogni impurità mentale entra e permane in differenti
stadi di assorbimento, applicando la sua mente a un
oggetto e mantenendola concentrata su di esso”. (D.22)

9. Il riferimento a diverse divinità riflette l’accet-


tazione da parte del Buddha di tutto un mondo, ri-
preso in parte dall’induismo, che venne a costituire

55
1. Il discorso sulla messa in moto della ruota del Dhamma

la cosmologia del buddhismo popolare in Asia.


“Questo rivolgersi alle divinità può sembrare ina-
spettato alla luce dell’insistenza del Buddha sull’inu-
tilità delle speculazioni metafisiche e teologiche.
(…) La contraddizione, tuttavia, è più apparente che
reale. Il Buddha non manca di riconoscere la realtà
degli ordini di esseri, fuori e oltre la sfera materiale.
Secondo la tradizione, il Buddha ebbe esperienza
di altri modi di esistenza, grazie allo straordinario
sviluppo delle sue facoltà, che lo aprirono a una più
vasta e sottile gamma di percezioni e conoscenze. Era
quindi conscio dell’esistenza di esseri che operano in
spazi al di fuori della consapevolezza umana e che
sono provvisti di poteri e facoltà diversi e talvolta
più alti, di quelli umani. (…) Il Buddha ha insegna-
to che le “divinità”, come tutti gli altri ordini di es-
seri, sono soggette alle conseguenze delle loro azioni
e che la loro esistenza è ugualmente soggetta al cam-
biamento, alla dissoluzione, alla rinascita, a meno
che non venga raggiunto il nibbána, che è l’unica
liberazione definitiva. Ha insegnato che gli dei sono
fratelli degli uomini come gli uomini lo sono degli
animali. Siamo tutti nello stesso continuum, sebbe-
ne a livelli diversi. (…) Tuttavia il Buddha ha più
volte sottolineato che la condizione umana è la più
favorevole per raggiungere la liberazione, perché è la
sola che permetta di sviluppare l’equanimità verso
ogni fenomeno fisico e mentale e quindi di avviare
il processo di purificazione mentale da bramosia e
avversione legate alle sensazioni.” (Da A. Solé-Leris.
La meditazione buddista, op.cit., pagg.49-50).

56
Commento*

di S.N. Goenka

Questo è il primo insegnamento in assoluto: è


come il primo raggio del sole nascente che buca
l’oscurità. È uno dei più importanti discorsi, perché
vi è concentrato l’intero insegnamento dei successivi
qua­rantacinque anni.

Quando (il Beato) viveva a Varanasi, nella zona di


Isipatana, nel parco dei cervi Mideldai.

Isipattana: isi significa persona santa, eremita;


pattan significa luogo d’arrivo e luogo di deposito;
isipattana indicava il porto di mare dove le navi sca-
ricano le merci. Isipattana indicava anche il luogo
in cui convenivano molte persone sante, come ere-
miti e monaci. Era considerato luogo sacro, poiché
si credeva che i precedenti Buddha, i paccekabuddhá
(o Buddha solitari che non trasmettono l’insegna-

* Da S.N. Goenka, Commento al Dhamma Cakka


Pavatthana sutta (S. LXI, 11), facente parte della serie di com-
menti ai discorsi: Mahá Maògala Sutta (Sn. 46); Anatta-lakkhana
Sutta (S. XXII, 59); Girimánanda Sutta (A., V, 108); Ánápánassati
Sutta (M.118); Vedaná Saíyuttaí (S. IV, 2). I commenti, insie-
me con la recitazione in pali dei discorsi, sono stati registrati
a Dhammagiri-Igatpuri dal 1991 al 1995, (tranne il Mangala
sutta registrato il 1982), con l’intento di ispirare l’approfondi-
mento degli insegnamenti e lo studio della lingua pali.
1. Il discorso sulla messa in moto della ruota del Dhamma

mento) e i sammásambuddha* (o Buddha pienamente


illuminati) fossero soliti frequentarlo. Ne fu attratto
anche il Buddha Siddhatta Gotama, e anch’egli vi
giunse.
Mideldai: Mide in quei tempi significava cervo,
ma precedentemente indicava tutti gli animali; Mi-
deldai era una zona in cui tutti gli animali potevano
vivere in libertà senza essere uccisi.
Il Buddha sedette sette settimane in prossimità
dell’albero sotto il quale raggiunse l’illuminazione,
sperimentando la pace del nibbána. Poi i suoi occhi
illuminati percorsero il mondo e scorsero una gran-
de oscurità: le persone avevano occhi offuscati da
fittissimi veli, a causa dei molti condizionamenti
mentali, per cui non avrebbero potuto sperimentare
il Dhamma che egli aveva riscoperto, anche se si
trattava della legge naturale. Quando questo pensie-
ro attraversò la sua mente, discese presso di lui una
divinità, discepolo di un precedente Buddha, spinto
dalla considerazione che se Siddhatta Gotama non
avesse insegnato il Dhamma, il mondo intero non
l’avrebbe mai ricevuto, perché era quello il momen-
to culminante di un lavoro, portato avanti per molte
vite, nel corso di molti eoni.
Così disse al Buddha: “Quello che pensi è vero,
c’è tanta oscurità, le persone hanno occhi profon-
damente offuscati e non potranno sperimentare una

* Sammá-sam-buddha significa Illuminazione perfetta,


lo stato raggiunto da un Buddha che ha riscoperto la legge
del Dhamma, l’ha realizzata, proclamata e insegnata al mondo;
L’insegnamento di tutti i Buddha consiste nelle quattro nobili
verità.

58
PARTE SECONDA

realtà sottile come il Dhamma. Tuttavia, i tuoi occhi


illuminati possono vedere che ci sono individui,
seppure pochi, i cui occhi sono, sì, offuscati, ma da
un velo tanto sottile che con un minimo sforzo riu-
sciranno a lacerarlo.”
Il Buddha sorrise e assentì. Ma a chi avrebbe do-
vuto donare il Dhamma?
Spinto da un sentimento di gratitudine verso il
suo precedente maestro Alara il Kalama, che inse-
gnava i sette assorbimenti mentali di concentrazio-
ne, con gli occhi dell’illuminazione lo cercò e scoprì
che era morto una settimana prima e rinato in un
mondo dove non si possiede un corpo materiale, e
a cui è destinato chi ha praticato dal quinto all’ot-
tavo assorbimento mentale. Cercò allora Uddaka
Ramaputta, che gli aveva insegnato l’ottavo grado
di concentrazione, e con la chiaroveggenza dell’illu-
minazione vide che la notte precedente anch’egli era
morto e rinato nello stesso mondo senza materia.
Ma Vipassana non può essere insegnata a chi non
possiede un corpo fisico, perché esso è indispensa-
bile per praticarla e sperimentarla. E allora, a chi
insegnare il Dhamma? Il Buddha pensò ai cinque
monaci di Kapilavattu, con i quali si era dedicato
all’ascesi per sei anni. Dov’erano? Vide che si trova-
vano proprio a Mideldai e vi si recò mettendosi in
cammino dal luogo dell’illuminazione.

59
1. Il discorso sulla messa in moto della ruota del Dhamma

I due estremi
Iniziò il suo primo discorso dicendo che chiun-
que intenda ottenere la liberazione, dovrebbe tenersi
lontano da due estremi: l’abbandonarsi ai piaceri dei
sensi e il torturare il proprio corpo.
Nel periodo che intercorre tra la presenza di un
Buddha e un altro, accade che il Dhamma gradual-
mente perda la sua purezza. Le persone continuano
a praticare la via di mezzo del puro Dhamma per un
certo tempo, poi si lasciano attirare dall’uno o dall’al-
tro estremo. Conoscono le parole del Buddha e ricor-
dano con chiarezza che lo scopo della vita è di uscire
dalla sofferenza del ciclo di morte e nascita; e che
questo avviene solo quando si è liberi da bramosia,
avversione e ignoranza. Tutto ciò rimane chiaro, ma si
dimentica il modo concreto di raggiungere lo scopo.
Qualcuno ricorda che, per raggiungerlo, occorre
abbandonare la vita laica, e compie questo passo. E
poi? Molti si lasciano attirare da uno degli estremi:
non si sono affrancati dal desiderio per il piacere
sensoriale, nonostante indossino la veste monasti-
ca. In certi monasteri vivono tutte le esperienze del
laico legate ai sensi. Veste monastica, riti e cerimonie
danno a qualcuno la convinzione di essere sulla stra-
da verso la liberazione; e questo è l’estremo in cui
cade chi, schiavo dei piaceri sensoriali, pensa di otte-
nere la liberazione grazie a manifestazioni esteriori.
All’estremo opposto, sono quei monaci che, per
ottenerla, ritengono necessario torturare il corpo,
considerandolo responsabile di tutti i condiziona-
menti negativi, nella convinzione che le impurità
siano eliminate con la penitenza. In entrambi i casi,

60
PARTE SECONDA

si è perso di vista il modo per arrivarci.

La via di mezzo
Poi, giunge un Illuminato, che insegna di nuovo
la via, quella del Dhamma puro, dove puro indica
che, se messo in pratica, si raggiunge lo scopo finale.
E le prime parole che pronuncia sono: “Dovete evita-
re i due estremi e prendere la via di mezzo”.

“Monaci, chi si è ritirato dalla vita del mondo


dovrebbe fare attenzione a evitare due estremi. Quali
sono? Il primo è l’indulgere nei piaceri dei sensi: cosa
ignobile che non porta a nulla di buono. Il secondo è
l’auto-infliggersi penitenze dolorose, che non conducono
a nessun risultato positivo. (…)
La via di mezzo genera capacità di intuizione,
conoscenza, e porta alla pace, alla comprensione, alla
scoperta della verità, alla liberazione, al nibbána”.

La via di mezzo, egli dice, è quella che egli ha sco-


perto, e che conferisce la possibilità di sperimentare
la legge di natura, anziché capirla solo a livello intel-
lettuale. E’ l’esperienza diretta della legge di natura,
vista con i propri occhi, non riferita e proveniente
da altri. La saggezza che ne deriva è retta compren-
sione, cioè frutto della propria esperienza. La via di
mezzo porta al raggiungimento della calma dovuta
allo sradicamento delle impurità accumulate nella
totalità delle vite passate, alla saggezza che permette
di sperimentare con chiarezza l’intera legge: come
sorge la sofferenza, quale ne è la causa e come essa

61
1. Il discorso sulla messa in moto della ruota del Dhamma

può essere sradicata. È la via di mezzo che porta a


all’illuminazione e alla liberazione.
Il Buddha ci spiega che la via di mezzo è il nobile
ottuplice sentiero:

la giusta comprensione, il giusto pensiero, la giusta


parola, la giusta azione, i giusti mezzi di sussistenza,
il giusto sforzo, la giusta consapevolezza e la giusta
concentrazione.

La parola giusto, corretto, è intesa nel senso di


sperimentato, e non accettato per fiducia o per
“sentito dire” o perché frutto di analisi intellettuali
o di emotività. Occorre mettere in pratica l’intero
ottuplice sentiero, per farne una propria esperienza.

Le quattro nobili verità


Il Buddha definisce la verità (sacca) nobile (ariya),
nel senso che è una verità da sperimentare: chi ap-
prende come osservare la sofferenza con obiettività
diventa una persona nobile, liberata, santa.
– La prima nobile verità: la sofferenza esiste. La
verità della sofferenza è universale ed evidente, ma se
si continua a ignorarla, non se ne troverà mai la via
d’uscita. La via d’uscita è l’ottuplice nobile sentiero,
che permette di arrivare all’osservazione obiettiva
della sofferenza e all’esperienza della sua natura im-
permanente, fino all’osservazione della realtà al di là
del mondo di mente e corpo. Si comincia a speri-
mentare che la sofferenza dipende dall’attaccamento
verso il corpo e le quattro attività mentali: viññáóa,

62
PARTE SECONDA

(coscienza), saññá, (percezione), vedaná (sensazione)


e saòkhára (reazione o condizionamento). La loro
combinazione produce una fortissi­ma identificazio-
ne con l’io, il mio e di conseguenza, un formidabile
attaccamento all’ego, causa di sofferenza.
Vita dopo vita, si generano i cinque aggregati, a
causa dell’attaccamento per essi. L’attaccamento pro-
duce aggregati. E con il loro perpetuarsi, continua a
esserci soffe­renza. Capire intellettualmente o accettare
per fiducia questa verità, non è sufficiente. La si deve
sperimentare con l’ottuplice nobile sentiero: questo ci
consente di affrancarci da attaccamento e sofferenza.
Ma fino a quando c’è attaccamento, c’è sofferenza.
La sofferenza legata a nascita, a morte, malattia e vec-
chiaia, è evidente; ma a un livello un po’ più profondo,
il meditatore sente sensazioni sottili piacevoli e una
calma intensa: percepisce tutto come meraviglioso e
sente attaccamento per esso. Anche quest’esperienza
rientra nei cinque aggregati: si è attaccati a essi e ciò è
sofferenza. Il meditatore può sperimentare che anche
l’esperienza valutata piacevole non è tale: non è felici-
tà vera; c’è l’illusione di felicità e calma, ma è ancora
attaccamento e quindi sofferenza. La prima nobile
verità va sperimentata a questa profondità.
– La seconda nobile verità: la causa della soffe-
renza è la bramosia. Se sorge la bramosia, sorge la
sofferenza, ne consegue che bramosia e sofferenza
sono sinonimi. Si prova bramosia, quando non si
è soddisfatti di ciò che c’è, o si desidera qualcosa
che non c’è. Ma quando un desiderio è soddisfatto,
immediatamente si desidera qualcosa che non c’è;
ma a ogni desiderio appagato, prima o poi, ne sorge
un altro, qualunque cosa ottenuta perde sapore e si

63
1. Il discorso sulla messa in moto della ruota del Dhamma

vuole altro. Questo processo è sofferenza, il deside-


rio o bramosia è sofferenza.
Esistono tre tipi di bramosia: bramosia per i pia-
ceri dei sensi, káma-taóhá; bramosia che il nostro io
rimanga per sempre, in questa o in altra vita, pavana-
taóhá. Si può rimanere in sua balia anche se si cerca
di liberarsi dalla bramosia sensoriale. Si ritiene la
vita mortale non soddisfacente e l’idea di una vita
ultraterrena senza più morte stimola la bramosia:
vogliamo rinascere in un mondo celeste. Se poi ci
dicono che anche in quel mondo si muore, allora
optiamo per il mondo divino. Se scopriamo che
anche lì si muore, vogliamo il nibbána, dove non si
muore perché non si nasce. Anche bramosia per il
nibbána è pavana-taóhá: “Io voglio continuare a esi-
stere. Se non c’è un io, qual è l’utilità dell’ottuplice
sentiero?” Se una teoria secondo cui “Tu sei eterno,
tutto il resto passerà, ma tu sei eterno”, ci sembra
meravigliosa, siamo in preda a pavana-taóhá.
Il terzo tipo di bramosia è vipavana-taóhá: la bra-
mosia per la liberazione. Ma bramosia è sempre
bramosia: di qualsiasi tipo sia, essa è sofferenza.
– La terza nobile verità: la fine della sofferenza.
Quando la bramosia non c’è più, non esiste più
nulla a cui aggrapparsi, e quindi la sofferenza scom-
pare. Fino a quando si vive la vita di rupa e nama
(corpo e mente) e si rimane attaccati ad essa, non ci
si può dire liberati.
– La quarta nobile verità: la via che conduce
alla fine della sofferenza (cioè l’Ottuplice Nobile
Sentiero).

64
PARTE SECONDA

L’ insegnamento universale
Il Dhamma non è una questione di fede, ma tratta
della realtà che tutti possono sperimentare. La soffe-
renza è una verità che può essere toccata con mano;
anche la sofferenza al livello profondo delle sensa-
zioni più piacevoli, che scaturisce dall’attaccamento.
La sofferenza e la sua causa, la bramosia, non sono
limitate ai buddhisti, ma riguardano tutti, induisti,
cristiani, musulmani, agnostici e atei.
Il Buddha spiega questa verità in modo pragma-
tico. Indica la sofferenza, che è universale; la sua
causa che è universale; il modo in cui liberarsene
e raggiungere lo stato in cui non c’è più sofferenza,
anch’esso universale.
Il metodo insegnato ha come base la condotta mo-
rale (sila), che non è legata a una particolare tradizio-
ne, ma accomuna gli esseri umani. A essa, seguono
la concentrazione e la padronanza della mente mo-
mento dopo momento, per non generare impurità
(samádhi); e la saggezza sperimentale, che comporta
l’osservazione equanime delle impurità mentali,
accumulate in profondità, e il loro sradicamento
(paññá). Tutti gli strumenti di lavoro sono universali.
Un modo per verificare se una persona è piena-
mente illuminata o no, è quello di esaminare cosa
insegna: se l’insegnamento è settario o richiede
un’adesione irrazionale, contiene qualcosa di sba-
gliato. Le quattro verità espresse nel primo discorso
sono la prova che Siddhatta Gottama è un essere
pienamente illuminato: non hanno connotazioni
settarie, fideistiche, filosofiche o dogmatiche. Cor-
rispondono alle leggi naturali e alla realtà della vita.

65
1. Il discorso sulla messa in moto della ruota del Dhamma

I tre modi di sperimentare la verità


Ognuna delle quattro nobili verità consta di tre
parti da sperimentare: la verità stessa, la sua realizza-
zione e il completamento della realizzazione.
Per la prima verità, la prima parte è il riconoscere
che esiste la sofferenza. Il ritenere, invece, che la sof-
ferenza a volte ci sia, ma che ci siano periodi in cui la
vita è piacevole, in cui si ha ciò che si desidera, non
permette di liberarsi dalla sofferenza. La prima cosa
di cui ci si deve rendere conto è che c’è sofferenza
dappertutto e sempre, sofferenza superficiale e soffe-
renza profonda. La seconda parte consiste nel capire
che va esplorata l’intera gamma della sofferenza,
per poterne uscire. La terza parte comporta l’aver
percorso l’intera gamma della sofferenza. Questo av-
viene quando si fa esperienza di qualcosa che è al di
là del campo della sofferenza. Solo quando si è rag-
giunto lo stadio del nibbána, si può dire di aver esplo-
rato la sofferenza nella sua totalità. Ricapitolando,
nella prima nobile verità c’è il riconoscimento della
sofferenza, l’affermazione della necessità di esplorare
l’intero campo della sofferenza e la constatazione
che questa esplorazione è stata compiuta.
Per la seconda nobile verità, la prima parte è il
riconoscimento che la causa della sofferenza è la
bramosia (e non cause esterne, cui tendiamo ad at-
tribuire la nostra sofferenza). La seconda parte è la
comprensione che la bramosia va eliminata comple-
tamente, e non soltanto in superficie. La terza parte
è il completo sradicamento della bramosia, che si
verifica quando si è raggiunto lo stadio del nibbána.
Ricapitolando, ci sono il riconoscimento della causa

66
PARTE SECONDA

della sofferenza, l’affermazione della necessità di eli-


minarla, e la constatazione della sua eliminazione.
Per terza nobile verità (la fine della sofferenza, lo
stadio del nibbána), la prima parte è l’accettazio-
ne dell’esistenza della sofferenza e la conoscenza
dell’esistenza di uno stadio in cui la sofferenza non
c’è. La seconda parte è la conoscenza che ciò va spe-
rimentato e non accettato a livello intellettuale o per
fede. La terza parte è il conseguimento del nibbána,
dello stadio libero da ogni sofferenza.
Per la quarta nobile verità (la via che conduce alla
fine della sofferenza), la prima parte è il riconosci-
mento che esiste l’ottuplice sentiero. La seconda parte
è la consapevolezza che il riconoscerne l’esistenza non
è sufficiente, ma che occorra percorrerlo totalmente
per realizzare se stessi fino alla perfezione.
La terza parte è il conseguimento della perfezione.
Il Buddha ha detto nel discorso: “Fino a quando non
ho perfezionato tutte e dodici le fasi delle quattro nobili
verità, non mi sono considerato una persona illumina-
ta. Solo dopo aver realizzato le quattro nobili verità in
tutte le loro dodici fasi, ho ammesso di essere illumina-
to, di aver raggiunto la completa illuminazione”.

67
1. Il discorso sulla messa in moto della ruota del Dhamma

La concretezza
Non è difficile aderire a verità evidenti come l’esi-
stenza della sofferenza. Moltissimi maestri hanno
affermato che il mondo ne è pervaso e molti maestri
ne hanno identificato la causa nella bra­mosia; altri
hanno insegnato che la sofferenza va sradicata con la
pratica di sìla, di samádhi e di paññá.
Qual è allora la peculiarità del Buddha? La con-
cretezza: il Buddha insegna come sperimentare, non
insegna una filosofia, un’ideologia o un principio.
Egli si è reso conto che, se non sperimentata, anche
la migliore o la più esatta delle teorie, non porta alla
liberazione. È inutile sostenere “Questa è la verità
che un Illuminato ha realizzato e trasmesso con
l’insegnamento, è ragionevole e pragmatica e quindi
l’accetto”.
L’eccellenza di un Illuminato è costituita dalla sua
concretezza. Non si diventa Buddha teorizzando: le
teorie possono essere buone, ma da sole non produ-
cono quei risultati che si ottengono soltanto con la
pratica meditativa. Il Buddha ha raggiunto la meta
praticando, e tutti possono seguire il suo esempio. Ai
tempi del Buddha in molti credevano che, torturan-
do il proprio corpo, avrebbero estirpato le impurità
e avanzato verso la liberazione. Per questa ragione lo
stesso Buddha, prima dell’illuminazione, pur avendo
sperimentato alti stadi di concentrazione, utilizzò il
metodo delle penitenze corporali. E continuò fino a
che, grazie alla concentrazione, scorse dentro di sé il
permanere delle impurità mentali, e si rese conto che
quel metodo non aveva per lui senso e lo lasciò. In
seguito giunse alla scoperta della “via di mezzo”.

68
PARTE SECONDA

I suoi cinque compagni lo abbandonarono, rite-


nendo che si sottraesse alle penitenze perché non in
grado di sopportarle, e che quindi non avrebbe mai
raggiunto la liberazione. Quando il Buddha li ritro-
vò al parco dei cervi, essi si rifiutarono di tributargli
rispetto, perché lo ritenevano uno yogi fallito, e gli
concessero di sedere con loro, solo in considerazione
della sua appartenenza alla famiglia regnante. Nutri-
vano per lui una considerevole avversione, ma ascol-
tarono il suo discorso e lo trovarono perfettamente
chiaro.
Per la prima volta ascoltavano qualcuno divenuto
Buddha parlare delle realtà della vita; ed esse appari-
vano loro nuove; per la prima volta sperimentavano
la realtà della sofferenza, la sua causa, il modo di li-
berarsene e la via da intraprendere per questo scopo.
Le parole del Buddha furono per loro così razionali
e meravigliose, che si sentirono pieni di entusiasmo
e felicità.
Accadde che mentre il Buddha spiegava la sua
scoperta, uno dei cinque, Koóðañña, penetrò nella
verità, acquisì saggezza e vide che tutto ciò che
nasce, per sua natura finisce. Ascoltando il Buddha,
Koóðañña sperimentò il nibbána.
Venendo in contatto col Buddha e udendo le sue
parole illuminate, comincia a sperimentare Vipas-
sana. Inizia a osservare il continuo sorgere e passare
delle sensazioni, e mentre l’accumulazione delle
impurità in lui si dilegua, continua ad ascoltare il
Buddha, a osservare le sensazioni e sperimentarne
l’impermanenza (anicca), e “fa un tuffo” nel nibbána:
non può fare a meno di immergervisi, perché ha spe-
rimentato in profondità la legge dell’impermanenza.

69
1. Il discorso sulla messa in moto della ruota del Dhamma

Così diventa sotápañña, il primo stadio del nibbána.


Un Illuminato non ha la facoltà di liberare gli altri,
ma indica il sentiero, e insegna come percorrerlo. Se
fosse stato un libe­ratore, perché non liberare tutti e
cinque i monaci? Perché solo uno di loro sperimentò
il primo stadio della liberazione? E perché soltanto il
primo e non quello finale?

L’impegno personale
Ognuno deve impegnarsi per la propria libera-
zione. Chi ha sviluppato buone qualità e ha meno
impurità mentali, ascoltando le parole del Buddha e
sperimentando la verità dentro di sé, può raggiunge-
re lo stato del nibbána.
È raro che qualcuno diventi un Buddha, perché
ci vogliono eoni per sviluppare quelle qualità che
permettono di aiutare gli altri a liberarsi. L’evento
del raggiungere la liberazione e del mettere in moto
la ruota del Dhamma è eccezionale. E questo even-
to straordinario genera vibrazioni di una potenza
straordinaria, che si estendono nell’universo intero.
Perciò tutti gli esseri, visibili e invisibili, che possie-
dono semi del Dhamma o che hanno praticato con
il Buddha, captando quelle vibrazioni, si rallegrano
indicibilmente di quanto è avvenuto.
Con esultanza essi annunciano che a Varanasi,
Isipattana, Mideldai, un Buddha, unico a poterlo
fare, ha messo in moto la ruota del Dhamma. Tale è
l’annuncio degli esseri invisibili della terra; poi la vi-
brazione sale e si estende e raggiunge gli esseri di altri
mondi celesti. E mentre egli insegnava, qualcuno

70
PARTE SECONDA

iniziava a mettere in pratica, ascoltando e osservando


il sorgere e passare delle sensazioni, e così facendo
raggiungeva lo stato di sotápañña, il primo grado di
liberazione. Di qui l’esultanza del Buddha, che si ral-
legra perché Koóðañña ha sperimentato il Dhamma;
e il suo nome diventa Aññáta-Koóðañña, “chi sa” o
“il saggio” che ha percorso l’intero sentiero.
Tutti noi possiamo diventare dei saggi come
Koóðañña. Siete qui per questo scopo. La vita è
molto importante, usatela bene, sviluppando la
comprensione con la pratica meditativa. Se questo
mio discorso l’avesse tenuto il Buddha, qualcuno
sarebbe forse diventato illuminato. Impegnatevi
dunque per diventarlo.

71
2.
Il discorso
sulla fine della causa
della sofferenza
(Mahátaóhasankhayasutta, M. 38)
Premessa*

C ronologicamente non è il secondo discorso,


ma lo collochiamo qui per evidenziare la
basilare scoperta della sofferenza, con la sua causa e
la sua eliminazione, introdotta col primo discorso.
La causa è taóhá, la bramosia, e si tratta di capire il
suo fondamentale ruolo. Il Buddha ha indagato ba-
sandosi sulla legge di causa ed effetto (chiamata anche
dell’origine dipendente o dell’origine condizionata),
legge universale esistita da sempre, costituita da:
Anuloma paþicca samuppáda: questo avviene a causa
di quello.
Paþiloma paþicca samuppáda: questo non avviene più,
perché quello è terminato (la causa non c’è più, per-
ciò non c’è più l’effetto).
Dopo averla osservata nel suo corpo, Siddhátta
Gotama il Buddha ha scoperto che è proprio una
catena di causa ed effetto a perpetuare la sofferenza;
una catena dove la bramosia è il punto da cui si bi-
forcano due strade: quella della sofferenza e quella
della liberazione, il punto in cui è possibile spezzare
la catena di condizionamenti e avviare il processo
inverso di liberazione.
Con profonda intuizione, il Buddha scoprì, nella
catena, l’anello cruciale della sensazione fisica, chia-
mato “vedaná-paccayá taóhá” e cioè “la bramosia e l’av-

* Dai testi elencati prefazione.


2. Il discorso sulla fine della causa della sofferenza

versione sorgono a causa della sensazione fisica”.


L’ignoranza è il reagire alle sensazioni fisiche, con
bramosia e avversione. Invece, la saggezza da coltiva-
re è l’osservare con equanimità il loro sorgere e pas-
sare. Senza bramosia e avversione, il processo della
catena s’interrompe e inizia il processo inverso di
liberazione. Facendo esperienza dell’impermanenza
delle sensazioni fisiche, verifichiamo per esperienza
le leggi universali e impariamo a sciogliere i nodi
della nostra sofferenza. Se reagiamo a esse, queste
stesse sensazioni diventano la causa della nostra sof-
ferenza; se invece le osserviamo con equanimità, alla
luce della legge di causa ed effetto, sono lo strumen-
to della nostra liberazione.

76
Testo del discorso*

C osì io stesso ho udito, mentre il Buddha


soggiornava vicino a Savatthi, nel boschet-
to di Jeta del monastero fondato da Anáthapióðika.
Proprio in quel tempo, accadde che nella mente
di un monaco, Sati, figlio di un pescatore, maturasse
un’idea pericolosa: “Per quanto mi è dato di capire
dalla dottrina insegnata dal Buddha, è sempre la
stessa coscienza che continua a scorrere, a fluire, e
non un’altra”.
Il fatto che il monaco Sati si fosse messa in mente
quest’opinione perniciosa, giunse all’orecchio di
altri monaci, che si recarono da lui per chiedergli se
fosse vero che egli si era fissato nell’idea che una co-
scienza (individuale, n.d.r.) continuasse a fluire eter-
namente. Sati confermò che questo era quanto egli
deduceva. Allora i monaci, desiderosi di dissuaderlo,
discussero con lui e lo supplicarono di non travisare
l’insegnamento. Perché a proposito della coscienza,
il Buddha aveva sempre citato la legge di causa ed
effetto, la legge di paþicca samuppáda:

Senza una causa, non c’è il sorgere della coscienza.

Ma a nulla valsero le loro argomentazioni. Sati


sosteneva con ostinazione che la stessa coscienza

* Le note numerate sono alla fine del testo del discorso.

77
2. Il discorso sulla fine della causa della sofferenza

continua a fluire incessantemente, affermando che


si trattava dell’insegnamento del Buddha. Allora i
monaci si recarono dall’Illuminato e dopo averlo
ossequiato, lo misero rispettosamente al corrente.
Il Buddha chiese che chiamassero il monaco Sati, e
quando questi, rispondendo all’invito, si fu seduto a
rispettosa distanza, lo interpellò:
– È vero quanto mi è stato detto? Che sostieni la
pericolosa convinzione che è la stessa coscienza (indi-
viduale) che continua a scorrere, a fluire, e non un’al-
tra? E che sostieni che ciò è il mio insegnamento?
– Questo è precisamente ciò che ho inteso dal vo-
stro insegnamento: che la stessa coscienza continua
a fluire, e non un’altra.
– E cos’è la coscienza, Sati?
– Signore, è la stessa coscienza che parla, che sente
e che, in momenti diversi, subisce le conseguenze
delle sue azioni, buone o cattive.
– Ma a chi, amico, io ho mai insegnato in que-
sto modo? Non ho forse sempre parlato, più volte,
del fatto che la coscienza è generata da determinate
condizioni, specificando che, se non c’è una causa,
la coscienza non ha origine? E ora, come uno stolto,
non soltanto hai, e dai, un’idea sbagliata del mio in-
segnamento, interpretandolo erroneamente, ma fai
del male a te stesso e crei dei demeriti che andranno
a tuo svantaggio e ti procureranno sofferenza per
molto tempo.
Poi il Buddha si rivolse ai monaci:
– Che ne pensate? Ritenete che il monaco Sati
abbia una pallida idea di questo insegnamento e di
questa disciplina?
– Certamente no, Signore, risposero.

78
PARTE SECONDA

Mentre queste parole erano pronunciate, il mo-


naco Sati sedeva silenzioso e confuso, con le spalle
ricurve e la testa bassa, meditabondo. Considerando
l’origine della sua confusione, il Buddha gli disse:
– Uomo di poco senso, verrai ricordato per la tua
errata interpretazione, perché io ora tratterò questo
argomento.
Si rivolse quindi ai monaci:
– Secondo voi, il modo in cui insegno è equivoca-
bile, vista l’errata interpretazione di questo monaco?
Egli non soltanto mette in cattiva luce il mio inse-
gnamento, ma fa torto a se stesso e perciò, gli verrà
attribuita una colpa grave.
– No, Signore. Ci avete più volte illustrato il con-
cetto, secondo il quale sono determinate condizioni
a generare la coscienza, e avete usato l’espressione:
- Se non c’è una causa, la coscienza non ha origine.
– Ciò è precisamente quanto ho più volte ripe-
tuto. È veramente buona cosa, monaci, che abbiate
ben capito l’insegnamento.

La formazione della coscienza


Il tipo di coscienza è definito a seconda della con-
dizione che la determina. Per esempio, la coscienza
che nasce dal contatto dell’occhio con una forma,
è la coscienza visiva; quella che nasce dal contatto
dell’orecchio con un suono, è la coscienza uditiva;
quella che nasce dal contatto del naso con un odore
è la coscienza olfattiva; a causa del contatto della
lingua con un sapore sorge la coscienza gustativa; il
contatto della superficie del corpo con un oggetto fa

79
2. Il discorso sulla fine della causa della sofferenza

nascere la coscienza tattile; mentre la coscienza, cau-


sata dalla mente in contatto con un oggetto mentale
è la coscienza mentale.
Monaci, è come il fuoco che brucia in determina-
te condizioni e, in base a queste, viene classificato.
Se un fuoco è alimentato da legnetti, lo chiamiamo
fuoco di legnetti; se si bruciano trucioli, è un fuoco
di trucioli; quando si brucia paglia, si ha un fuoco
di paglia; bruciando letame, abbiamo un fuoco di
letame, se è pula ad alimentarlo, lo si chiama fuoco
di pula, e se invece si bruciano rifiuti, è un fuoco di
rifiuti.
Lo stesso avviene per la coscienza, che è caratteriz-
zata dalla condizione da cui ha origine.
– Vedete, dunque, come ogni coscienza si forma
e appare o viene alla luce?
– Sì, Signore.
E vedete, anche, come si origina il nutrimento di
ogni coscienza? (1)
– Sì, Signore.
E vedete che, se viene meno ciò che la alimenta, la
coscienza stessa è soggetta a venir meno?
– Sì, Signore.
E allora, o monaci, è vero che il dubbio può far
sorgere queste perplessità: che ciò che è sorto (cioè
la coscienza), non esiste in verità? E che può darsi
che non esista alcuna sorgente di nutrimento per la
coscienza? Oppure che, non venendo meno ciò che
la alimenta, forse la coscienza, potrebbe non scom-
parire, o finire?
– Sì, Signore.
Ma se, per mezzo della perfetta saggezza acquisita
con l’esperienza, (2) si osserva la realtà così com’è, e

80
PARTE SECONDA

cioè che è sorto qualcosa (una coscienza sensoriale),


c’è una sorgente che la alimenta, e poi, si osserva
che, venendo meno ciò che l’alimenta, finisce ciò
che è sorto (una coscienza sensoriale), non è forse
vero, o monaci, che ogni dubbio scompare?
– Sì, Signore.
Monaci, se vi aggrappate a questa legge così pura e
integra, serbandola gelosamente in cuore, ma non la
praticate (come vi ho già detto nella parabola della
zattera), (3) allora non vi aiuterà ad andare all’altra
riva, al di là del mondo sensoriale, e ad attraversare
il fiume della sofferenza.

L’origine interdipendente di ogni


fenomeno mentale e fisico
Monaci, ci sono quattro forme di nutrimento, che
servono per la sopravvivenza delle creature presen-
ti e di quelle che verranno: sono il cibo materiale,
grossolano o raffinato, lo stimolo (il contatto dei
sensi), l’impulso mentale e la coscienza. (4)
Da che cosa nascono queste forme di nutrimento,
quale ne è la provenienza, l’origine? Esse nascono
dal desiderio: provengono, sorgono, hanno origine
dalla bramosia o desiderio. (5)
Cos’è che fa sorgere nascere, originare la bramo-
sia? È la sensazione.
Ma, da dove provengono, come sorgono queste
sensazioni? Dal contatto dei sei sensi con i loro ri-
spettivi oggetti.
E questo contatto avviene perché vi sono i sei or-
gani dei sensi.

81
2. Il discorso sulla fine della causa della sofferenza

E questi sei sensi ci sono poiché la vita ha inizio, e


prende forma la struttura di mente e corpo.
E da dove proviene, come nasce, da dove ha ori-
gine questo composto di mente e materia? Dalla
coscienza, o monaci. (6)
E la coscienza è originata dalle reazioni mentali.
E da dove, o meglio, da che cosa sono provocate
queste reazioni mentali? Dall’ignoranza, o monaci.

La causa della sofferenza


L’ignoranza è l’origine, la sorgente, la causa delle
reazioni mentali. (7) Ecco allora, o monaci, come
appare chiara questa catena di origine condizionata,
questa legge di causa ed effetto.
L’ignoranza (avijjá) è responsabile delle reazioni
mentali (saókhára) che formano il processo che chia-
miamo coscienza (viññáóa) in tutti gli esseri, proces-
so che prosegue in una vita successiva.*
E in correlazione, appaiono la mente e la materia
(náma e rúpa). Questi, a loro volta, si sviluppano a
formare un veicolo, o organismo, con i suoi sensi
(saláyatana). Questi sensi, entrando in relazione col
mondo esterno, fanno sorgere il contatto (phassa) e il
contatto di questi con gli oggetti dei sensi fanno sor-
gere le sensazioni fisiche (vedaná), che hanno come
effetto di far nascere il desiderio (taóhá) seguito su-
bito da attaccamento o dall’aggrapparsi (upádána),
causa del divenire (bhava) o esistenza, e quindi della

* Per il concetto di vita successiva v. S.N. Goenka


Che cosa accade di fronte alla morte, pag 95.

82
PARTE SECONDA

nascita (játi), con le conseguenze di ansietà, tormen-


to, dolore, vecchiaia, malattia, morte. Ecco l’origine
di tutte le sofferenze.
Quindi a ragion veduta, o monaci, il fatto che
invecchiamo e moriamo è causato dal fatto che
siamo nati. E la nascita è causata dal processo del
divenire. E il processo del divenire è sorto perché
c’era attaccamento; l’attaccamento è la conseguenza
di bramosia e avversione, provocate dalle sensazioni
fisiche, le quali avvengono a causa del contatto dei
sensi con gli oggetti esterni. E i sei sensi esistono per-
ché vi sono mente e corpo: sono sorte a causa della
coscienza. E la coscienza c’è a causa delle reazioni,
provocate dall’ignoranza (il reagire con bramosia e
avversione alle sensazioni fisiche nel corpo).
– È così anche per voi, o monaci, oppure vedete le
cose diversamente?
– Noi vediamo le cose esattamente come voi avete
detto, o Signore.
– Bene, monaci, anche voi, come me, sostenete
che:
se c’è questa causa, ci sarà questo effetto;
se questa causa non c’è, questo effetto non ci sarà;
se questo sorge, l’effetto è destinato a sorgere;
se la causa viene sradicata e totalmente eliminata,
l’effetto viene totalmente eliminato.

83
2. Il discorso sulla fine della causa della sofferenza

L’eliminazione della sofferenza


In base a questa legge, ecco allora come si verifica
il processo inverso: se l’ignoranza ha termine (cioè
smettiamo di reagire alle sensazioni non generando
bramosia e avversione) hanno fine anche le reazioni,
e quindi viene meno il nutrimento per la coscien-
za; non essendoci coscienza non ci sono la mente
e il corpo; senza mente e corpo, non ci sono i sei
sensi, e senza gli organi di senso non può avvenire il
contatto con gli oggetti esterni; senza contatto non
può sorgere la sensazione, senza sensazione non vi
possono essere bramosia e avversione verso qualco-
sa, e pertanto non si può formare attaccamento, e
quindi nessuna forma di divenire. Non essendoci lo
stimolo al divenire non vi sono più nascita, né vec-
chiaia, malattia, morte, dolore, sofferenza, tristezza
e disperazione. Questo è il processo che pone fine
all’infelicità.
– Allora, monaci, questo processo, la legge univer-
sale di causa ed effetto, vi è chiaro?
– Sì, Signore, comprendiamo perfettamente que-
sto processo: se l’ignoranza ha termine (cioè smet-
tiamo di reagire alle sensazioni non generando bra-
mosia e avversione) hanno fine le reazioni, e, quindi,
viene meno il nutrimento per la coscienza; non es-
sendoci la coscienza non ci sono la mente e il corpo;
senza mente e corpo, non ci sono i sei sensi, e senza
gli organi di senso non può avvenire il contatto con
gli oggetti esterni; senza il contatto non può sorgere
alcuna sensazione, senza sensazione non vi possono
essere bramosia e avversione, e pertanto non si può
formare attaccamento, e quindi nessuna forma di

84
PARTE SECONDA

divenire. Non essendoci la spinta al divenire non vi


è più nascita, né vecchiaia e morte, malattia, dolo-
re e sofferenza, tristezza e disperazione. Questo è il
processo che pone fine a tutte le nostre infelicità.
– Bene, monaci. Poiché concordate con me sulla
legge di causa ed effetto, avete compreso come si
può distruggere il processo attraverso cui accumu-
liamo sofferenza.” (8)

Le domande inutili
– Monaci, avendo sperimentato tutto ciò, e ca-
pito come avviene, vi metterete forse a rimuginare
sul passato: - Prima di questa vita, noi esistevamo o
no? Cos’eravamo nel passato? Che cosa facevamo?
Com’era la nostra vita precedente, e di quale altra
vita passata porta le conseguenze?
– No, Signore.
– Oppure, vedendo e conoscendo come funziona
questa legge, vi lascerete andare a fantasticare sul fu-
turo: - Rinasceremo oppure no? Chi saremo in un’al-
tra vita, sotto che forma rinasceremo? In conseguenza
delle nostre vite passate, quale sarà il nostro futuro?
– No, Signore.
– O forse, dopo aver compreso per esperienza le
cose come stanno realmente, avrete dubbi su voi
stessi e sulla vostra vita attuale, pensando: - Ma io ci
sono o non ci sono? Che cosa sono, come sono, da
dove viene la mia esistenza, e dove andrà?
– No, Signore.
– O forse, dopo aver sperimentato il mio insegna-
mento, penserete: il Buddha è il nostro maestro e,

85
2. Il discorso sulla fine della causa della sofferenza

per rispetto, gli diamo ragione?


– No, Signore.
– Oppure, penserete che, essendo un eremita, il
maestro parla un linguaggio diverso dal vostro?
– No, Signore.
– Oppure, dopo aver capito e sperimentato queste
verità, vi cercherete un altro maestro?
– No, Signore.
– O nonostante tutto ciò che avete sperimentato,
ricadrete nell’abitudine di compiere rituali, pensan-
do che siano l’essenziale?
– No, Signore.

L’esperienza
– Monaci, non parlate forse unicamente di ciò che
voi stessi, personalmente, avete visto e sperimentato
con la vostra saggezza?
– Sì, Signore.
Molto bene, o monaci. Vi ho rivelato questa legge,
universale e immutabile, che ciascuno è chiamato a
sperimentare, a verificare di persona, che il saggio
deve comprendere da solo, e che porta alla completa
liberazione. Ecco: tutto ciò che ho detto, che ho in-
segnato, è basato su questa legge.

La nascita del desiderio


Monaci, vediamo come, in ogni essere umano, si
forma il desiderio, causa di ogni infelicità, e in che
modo viene eliminato.

86
PARTE SECONDA

Con la concomitanza delle necessarie condizioni


(9), avviene il concepimento di un feto, che la madre
porta nel grembo per nove mesi. In seguito ella lo
nutre, e quando il bambino è cresciuto e in lui si
sono sviluppati gli organi dei sensi, egli si diverte
con i giochi adatti a lui: un piccolo aratro, un car-
retto ribaltabile, un minuscolo mulino a vento, un
piccolo arco, oppure facendo capriole.
Quando poi, quel bambino è cresciuto e gli orga-
ni dei sensi sono giunti a completo sviluppo, egli ne
gode, poiché possiede tutti e cinque gli elementi del
piacere sensoriale: con la vista scorge le immagini,
con l’udito ascolta i suoni, con l’odorato sente gli
odori, con il gusto i sapori, con il tatto sperimenta i
contatti. Queste esperienze sono gradevoli, suscita-
no piacere, attirano, seducono. (10)
Quando l’individuo entra in contatto, attraverso
l’occhio, con un’immagine, sente attrazione (bramo-
sia), se la giudica piacevole, e rifiuto (avversione), se
la giudica spiacevole. Lo stesso succede per gli altri
sensi: un suono considerato piacevole viene gradi-
to, uno spiacevole rifiutato; se un cibo è ritenuto
buono piace, se ritenuto cattivo provoca repulsione;
un contatto giudicato piacevole viene accolto con
piacere, uno spiacevole provoca avversione.
Così pure, se alla mente si presenta un pensiero
gradevole, l’individuo lo accoglie con piacere, men-
tre rifiuta un pensiero sgradevole.
In ognuno di questi casi, egli reagisce con igno-
ranza: non considera il suo corpo con consapevo-
lezza e comprensione, ma con mente limitata, priva
di acuta concentrazione. E così, non comprende
che, se la sua mente fosse libera dalle reazioni, e

87
2. Il discorso sulla fine della causa della sofferenza

possedesse la saggezza per sperimentare le cose come


realmente sono, egli potrebbe eliminare i suoi stati
mentali negativi, senza che ne rimanga traccia. (11)
Invece, fino a quando rimane in balìa delle reazio-
ni di bramosia e avversione, egli si lascia coinvolgere
da qualsiasi sensazione si presenti nel corpo – sia
essa piacevole, spiacevole o neutra – e vi si aggrap-
pa. Tutto questo dà luogo a un senso di piacere cui
non si vuole rinunciare e a cui ci si attacca (permane
anche quando la sensazione se n’è andata); quest’at-
taccamento dà luogo al processo del divenire (cioè
la spinta forte a voler di nuovo sperimentare quel
piacere che se ne è andato) e quindi alla nascita; e
conseguenza della nascita sono vecchiaia, morte,
dolore, disperazione.
È così che si crea quella massa d’infelicità e soffe-
renza che ci opprimono per tutta la vita.

La via di uscita
Ma quando nel mondo appare un Tathágata (12),
un essere perfetto e illuminato, ognuno può capire
il valore dell’insegnamento e acquistare fiducia. Con
questa fiducia, segue scrupolosamente la condotta
morale (sìla), base di tutta la pratica, e si dedica
agli esercizi di concentrazione mentale (samádhi) e
osservazione equanime (sati) del corpo, finché riesce
a liberarsi dai cinque ostacoli che confondono la
mente (13) e indeboliscono la saggezza intuitiva e la
comprensione profonda.
Allora, distaccato dai piaceri sensoriali e dagli stati
mentali nocivi, entra e permane nel primo stadio di

88
PARTE SECONDA

assorbimento o quiete della mente. Esso è ancora ca-


ratterizzato dal sorgere dei pensieri e dalla riflessione
ma, nato dall’equanimità, dà luogo a gioia ed estasi.
Poi, entra nel secondo stadio di assorbimento, in cui,
dopo aver calmato e tranquillizzato la mente, non vi
sono pensieri che disturbano e si è pieni di beatitu-
dine, suscitata dalla mente concentrata. Entra allora
nel terzo stadio di assorbimento, dove questa beati-
tudine svanisce ed egli rimane equanime, attento e
consapevole; poi nel quarto stadio, il meditatore ab-
bandona dolore e piacere, avendo piena padronanza
della consapevolezza e dell’equanimità. (14)
Allora, il meditatore esperto, ogni volta che entra
in contatto con gli oggetti dei sensi, non è più attrat-
to da ciò che reputa piacevole, né prova repulsione
per ciò che ritiene spiacevole. Egli rimane costante-
mente consapevole di ciò che avviene nel corpo (15),
e con una visione mentale illimitata, scopre quella
libertà che deriva dalla comprensione intuitiva della
realtà delle cose, così come sono. E giunge a elimi-
nare, senza che ne rimanga traccia, ogni negatività
mentale.
Non reagendo con bramosia o avversione, non
prova più né simpatia né antipatia, e quando spe-
rimenta una sensazione – spiacevole, piacevole
o neutra – non ne è catturato. Non reagendo, il
deposito di reazioni è gradualmente eliminato. (16)
Con l’eliminazione di bramosia e avversione per le
sensazioni, viene meno anche l’attaccamento a esse;
mancando l’attaccamento, si ferma il processo del
divenire, che riceveva nutrimento (e spinta) da desi-
derio e avversione intensi. Fermato il divenire, non
c’è possibilità di nascere e, quindi, non ci sono più

89
2. Il discorso sulla fine della causa della sofferenza

vecchiaia e morte, e hanno termine dolore, dispera-


zione, angoscia.
Meditatori, ricordatevi sempre che la liberazione
si ottiene con l’eliminazione di bramosia e avver-
sione. E che vi sia di ammonimento il ricordo del
monaco Sati, figlio di pescatore, che si è lasciato cat-
turare nella grande rete della bramosia, la bramosia
per l’idea di un io che permane”.

Così parlò il Buddha, e i monaci furono felici del


suo insegnamento.

90
Note
1. Il nutrimento è qui inteso come causa che de-
termina un effetto; e la coscienza sorge perché, nella
catena dell’origine interdipendente, è stimolata a
essere dalla spinta al divenire.

2. Il Buddha ribadisce che solo l’esperienza, la


pratica dell’osservazione della realtà dentro di noi, ci
permette di sperimentare la verità: Yathá bútha sam-
mápañña ovvero la saggia comprensione delle cose,
così come sono in realtà. In questo caso, la saggez-
za è la constatazione di come le coscienze legate ai
sensi, quelle visiva, olfattiva, ecc, si manifestano e
poi passano.

3. Nella parabola della zattera (Alagaddupama


sutta, M.), il Buddha spiega che il suo insegnamen-
to è come una zattera che serve per attraversare le
onde della sofferenza per arrivare all’altra sponda:
l’Illuminazione.
“Una volta traversate le acque, non sarebbe sciocco
l’uomo che pensasse: ”Poiché la zattera mi è stata utile,
continuerò a portarla con me” – e si rimettesse a cam-
minare caricandosela in testa?
“Così i concetti del mio insegnamento sono solo
mezzi utili, e la persona illuminata e liberata non si
attacca più neanche a queste formulazioni, che servono
soltanto di orientamento e guida.”

91
2. Il discorso sulla fine della causa della sofferenza

4. Questi quattro nutrimenti (áhara) comprendo-


no tutta la gamma dei fenomeni materiali e mentali:
–– il nutrimento materiale che serve a conservare
il corpo (cibo, ambiente, ecc.);
–– un altro nutrimento è costituito dalle impressio-
ni sensoriali ricevute attraverso il contatto dei sei
sensi (i cinque sensi corporei e la mente), con gli
oggetti della percezione. Questi (sensi e oggetti)
sono le condizioni perché si manifestino i tre
tipi di sensazione (piacevole, spiacevole, neutra).
–– Poi ci sono gli impulsi mentali volitivi (reazio-
ni alle sensazioni), che alimentano il continuo
divenire.
–– Infine la coscienza, cioè il processo conti-
nuamente alimentato dalle reazioni causate
dall’ignoranza, che a sua volta perpetua la co-
stituzione dell’organismo fisico e mentale.

5. Inizia qui una prima descrizione della catena


di causa ed effetto, partendo dal settimo dei dodici
anelli, cioè dalla sensazione. La catena intera inco-
mincia dall’ignoranza (avijjá) e si conclude con la
vecchiaia e la morte (jará maraóa), e viene esposta
poche righe più avanti nel testo.

6. La coscienza è qui intesa come “(…) l’amalga-


ma dei contenuti morali e intellettuali dei processi
psichici, che si prepara nel corso di un’esistenza e de-
termina la nuova esistenza. Ha quindi un’accezione
più ampia che non la coscienza come attenzione per
un oggetto, che ha una funzione nel processo degli
aggregati mentali”. (Nyanatiloka T., Dizionario Bud-
dhista, op. cit.)

92
PARTE SECONDA

7. L’ignoranza consiste nel reagire con bramosia


e avversione alle sensazioni (invece di osservarle col
giusto distacco), e provoca un profondo e intenso
desiderio di qualcosa e, quindi, crea le condizioni
del divenire.

8. Per distruggere il processo attraverso cui accu-


muliamo sofferenza, va spezzato l’anello dell’igno-
ranza: quando compare una sensazione fisica, invece
di bramosia e avversione, si coltiva saggezza, (cioè,
osservando l’impermanenza di ogni sensazione, non
si reagisce e si rimane equanimi). Vipassana permet-
te di ridurre l’accumulo di profonde reazioni e di
eliminarle.

9. Il Buddha considera l’atto del concepimento


come causa ed effetto, e cioè che avviene solo se ci
sono certe condizioni.

10. Il bambino comincia a reagire alle sensazioni


piacevoli e così crea il sotterraneo condizionamento
mentale d’ignoranza, e cioè di bramosia e avversio-
ne, origine di ogni sofferenza.

11. Questo comportamento è possibile quando


si comincia a osservare la realtà così com’è, (e cioè
l’impermanenza di ogni fenomeno mentale e fisico),
praticando Vipassana. Il Buddha ri-scopre Vipassana
perché la caratteristica di ogni Buddha è di riportare
alla luce un metodo già usato da tutti gli altri Buddha.

12. Tathágata è una delle definizioni di persona


illuminata, di Buddha. Tathá significa così (e non in

93
2. Il discorso sulla fine della causa della sofferenza

modo diverso); gatha è il participio passato del verbo


gaccathi, che significa andare, camminare. Perciò Ta-
thágata significa quello che è andato, camminando
per la via della verità.

13. I cinque ostacoli sono gli stati negativi della


mente: bramosia, avversione, torpore, agitazione e
dubbio.

14. Sono gli stati di assorbimento della medita-


zione di quiete (samadhi o samatha). Paragonabile a
tecniche di meditazione di altre tradizioni, mira al
raggiungimento di stati di coscienza caratterizzati
da livelli sempre più profondi di tranquillità men-
tale e richiede un altissimo grado di concentrazione
mentale. Per la Vipassana invece, basta acquisire una
concentrazione minima, sufficiente ad assicurare il
mantenimento di un’attenzione stabile, necessaria
per lo sviluppo della comprensione profonda.

15. Il discorso del Saþipaþþhana (v. pag. 153) con-


tiene la spiegazione dettagliata su come osservare il
proprio corpo e la propria mente.

16. È descritta in breve Vipassana: la purificazione


della mente, con l’osservazione equanime della real-
tà, così com’è.

94
Commento

Che cosa accade


di fronte alla morte*
di S.N. Goenka

P er capire cosa accade al momento della


morte, cerchiamo di capire che cos’è la
morte. La morte è come una curva nel fiume conti-
nuo del divenire, che prosegue anche dopo la morte.
Termina una vita e, proprio l’istante dopo, ne inizia
una nuova. La morte è l’ultimo momento della vita,
ed è il primo momento della vita successiva: come se
il sole sorgesse non appena tramontato, senza inter-
vallo di oscurità; o come se il momento della morte
fosse la fine di un capitolo nel libro del divenire, e
proprio il momento dopo iniziasse un altro capitolo.

Il treno del divenire


Anche se nessuna similitudine può chiarire esat-
tamente questo processo, si può anche dire che il
flusso del divenire è come il treno che corre sui bi-
nari, raggiunge la stazione della morte, diminuisce

* Da S.N. Goenka, What happens at death. Vipassana


Newsletter, notiziario in inglese, V.R.I. Ibid., marzo 2000, Vol.
10 N. 3.

95
2. Il discorso sulla fine della causa della sofferenza

per un momento la velocità, e poi prosegue con la


velocità di prima, senza mai fermarsi. La stazione è
un nodo ferroviario dal quale divergono trentuno
binari. Il treno arriva alla stazione, ne imbocca uno
e prosegue.

I binari
Questo treno del divenire, alimentato dall’elettri-
cità delle reazioni compiute, continua a correre da
una stazione a quella seguente, su di un binario o l’al-
tro. Il cambiamento di binario – il passaggio da una
vita all’altra – avviene in accordo alle leggi di natura;
le stesse leggi naturali secondo cui il ghiaccio si scio-
glie e si forma. L’incrocio della morte, dove avviene
il cambio di binari, è di grande importanza: la vita
viene abbandonata, in pali cuti (scomparsa o morte).
Avviene l’abbandono del corpo e, immediatamente,
inizia la vita successiva: questo processo – paþisandhi
– è il concepimento o inizio della vita. Esso è il ri-
sultato del momento della morte, cioè il momento
della morte determina il momento del concepimen-
to. Poiché ogni momento di morte crea il momento
seguente di nascita, la morte è anche nascita.

La preparazione
All’incrocio, la vita si trasforma in morte e la
morte in nascita. Perciò ogni vita è una preparazione
per la morte. Se si è saggi, si userà questa vita nel
modo migliore per prepararsi a una buona morte.

96
PARTE SECONDA

La morte migliore è la morte di un essere libera-


to, l’arahant, perché è l’ultima, non un incrocio ma
il capolinea: senza alcun binario sul quale il treno
potrà correre. Ma sino a quando questo capolinea
non sarà raggiunto, ciascuno può solo adoperarsi
perché la propria morte possa far sorgere una buona
nascita, e che, col tempo, il capolinea possa essere
raggiunto. Dipenderà solo da noi, dai nostri corretti
sforzi. Noi siamo i costruttori del nostro benessere
e della nostra sofferenza, così come della nostra li-
berazione.

I creatori dei binari


Come avviene che siamo i creatori dei binari del
treno in corsa del divenire? Dobbiamo comprendere
che cosa è l’azione, il kamma. Essa è l’attitudine (o
volizione) mentale, salutare o non salutare, benevo-
la o malevola, che costituisce la radice delle azioni
mentali, vocali e fisiche. Vediamo come succede.
La coscienza sorge per il contatto alla porta dei
sensi, e allora saññá (la percezione e il riconoscimen-
to) dà una valutazione all’esperienza, le sensazioni
sorgono, e ha luogo una reazione. Queste reazioni
sono di differenti tipi. Alcune sono come una linea
tracciata sull’acqua, altre come una linea tracciata
sulla sabbia, e altre ancora sono come scolpite sulla
roccia.
Se la volizione è buona, lo sarà l’azione e il frut-
to sarà benefico; se la volizione è malevola, lo sarà
l’azione e darà il frutto della sofferenza. Non tutte le
reazioni danno frutto alla nascita. Alcune sono così

97
2. Il discorso sulla fine della causa della sofferenza

leggere che non ne danno alcuno. Altre più pesanti,


si consumano in una sola vita e non si trascinano
nella successiva; altre, ancora più pesanti, continua-
no con il flusso della vita sino alla nascita seguente;
non hanno la forza di procurare una nascita, ma
possono continuare a moltiplicarsi durante una vita
e la seguente.
Le azioni (bháva-kamma o bháva-saókhára) che
procurano una nuova vita e che danno origine al
processo del divenire, possiedono una vibrazione in
consonanza con la vibrazione di un piano di esisten-
za che ha la stessa intensità, e le due si attrarranno in
accordo alle leggi universali di causa ed effetto. Ap-
pena una di queste reazioni è generata, il treno del
divenire, quando arriverà alla stazione della morte,
sarà attratto da uno dei 31 binari, che sono i 31 piani
di esistenza: gli 11 piani (káma lokas) di sensorialità
(i 4 livelli inferiori di esistenza, il mondo umano e i
6 piani celesti); i 16 rúpa-brahma-lokas (dove rimane
un corpo materiale molto fine) e i 4 arúpa-brahma-
lokas (piani di esistenza non materiali dove rimane
solo la mente).
Nell’ultimo momento di vita, sorge una reazione
(bhava-saókhára), che determina su quale binario
correrà il treno dell’esistenza, che si collega con le
vibrazioni del piano di esistenza cui si riferisce. Allo
stesso modo, non appena un treno è smistato su un
binario, il bhava-kamma (le reazioni accumulate) dà
una spinta al flusso della coscienza in una nuova
vita.
Per esempio il bhava-kamma di rabbia o di ranco-
re appartiene alla natura del calore e si collega con
piani di esistenza inferiori, mentre quello di amore

98
PARTE SECONDA

compassionevole appartiene alla natura della pace e


si collega con piani di esistenza chiamati brahma-loka.
Queste sono leggi di natura, perfettamente regolate.
Deve essere compreso che non vi è alcun passeggero
sul treno, eccetto la forza dei condizionamenti men-
tali (saókhára) accumulati.

Il momento della morte


Al momento della morte, generalmente, sorge
qualche profondo saókhára di natura positiva o ne-
gativa. Chi ha ucciso qualcuno, al momento della
morte ne avrà memoria. Chi ha meditato profon-
damente avrà quello stato mentale. Se non sorgono
bhava-kamma intensi, ne sorgono di meno profondi.
Qualsiasi memoria risvegliata si manifesta come
l’azione che svilupperà una nuova esistenza.
Per esempio, qualcuno può ricordare di aver sfa-
mato una persona santa, o di aver ucciso, oppure
può ricordare l’oggetto in relazione all’azione: il
piatto di cibo offerto o l’arma usata per uccidere.
Questi sono chiamati i segnali dell’azione del kamma
(nimitta-kamma). Oppure può apparire un segno o
un simbolo della vita successiva. Questo è chiamato
segnale di partenza. Questi segnali corrispondono al
piano di esistenza verso il quale il flusso sarà attratto.
Può essere l’immagine di qualche mondo celestiale
o del mondo animale. Il morente spesso sperimenta
uno di questi segni come preavviso, proprio come le
luci del treno davanti illuminano le rotaie. Le vibra-
zioni dei segnali sono identiche alle vibrazioni del
piano di esistenza della nascita seguente.

99
2. Il discorso sulla fine della causa della sofferenza

La scelta dei binari


Un buon meditatore di Vipassana ha la capacità
di scegliere i propri binari, ed evitare le rotaie che
portano a piani di esistenza inferiori. Comprende
le leggi di natura e pratica continuativamente, per
mantenersi pronto alla morte, in ogni momento.
Per chi ha raggiunto un’età avanzata, vi è una ragio-
ne di più per rimanere consapevoli ogni momento.
Quali sono i preparativi necessari? Si deve praticare
Vipassana, sviluppare equanimità verso qualsiasi
sensazione, indebolendo l’abitudine a reagire. Al
momento della morte, è probabile che si sperimen-
tino sensazioni molto spiacevoli: vecchiaia, malattia
e morte sono sofferenza e producono sensazioni in-
tense. Se non si è coltivata la capacità di osservare le
sensazioni con equanimità, probabilmente si reagirà
con ira, rabbia, paura, disperazione; in tal modo
profonde reazioni, con lo stesso tipo di vibrazione,
avranno l’opportunità di sorgere e manifestarsi. Ma
è possibile apprendere come mantenere equanimità
al tempo della morte, evitando di reagire alle sensa-
zioni dolorose. E allora persino i condizionamenti
più profondi non avranno l’opportunità di sorgere.

L’ approccio alla mente


All’avvicinarsi della morte, un non meditatore di
solito è preoccupato, persino terrorizzato, e darà oc-
casione di sorgere a un condizionamento di paura.
All’avvicinarsi della separazione dalle persone amate,
possono sorgere dispiacere, depressione, lamento e

100
PARTE SECONDA

altri sentimenti ed emozioni, e le reazioni collegate


a esse sorgeranno e domineranno la mente.
Un meditatore di Vipassana le indebolisce osser-
vando le sensazioni con equanimità, in modo che,
al momento della morte, non abbiano la possibilità
di sorgere. La preparazione per la morte è svilup-
pare l’abitudine a osservare le sensazioni fisiche e
mentali, con continuità, equanimità e la compren-
sione della loro impermanenza. Al momento della
morte, la radicata abitudine all’equanimità appare
automaticamente, e il treno dell’esistenza s’immette
sul binario, cioè in un piano di esistenza, dove sarà
possibile praticare ancora Vipassana. Questa tappa è
molto importante perché Vipassana non può essere
praticata nei piani di esistenza inferiori.
Per un meditatore in punto di morte, è una gran-
de fortuna la vicinanza di amici o parenti che me-
ditano con Vipassana e possono generare vibrazioni
di amorevolezza molto favorevoli per una morte pa-
cifica. Manterranno una buona atmosfera libera da
lamento e tristezza. Al tempo della morte, un non
meditatore a volte ottiene un’esistenza favorevole, a
causa della manifestazione di condizionamenti po-
sitivi come generosità, moralità e altre qualità. Lo
specifico raggiungimento di un meditatore di Vipas-
sana ben stabilizzato è l’ottenimento di un’esistenza,
dove possa praticare Vipassana. In questo modo,
diminuendo gradualmente il deposito di condizio-
namenti accumulati, abbrevia il viaggio nel divenire
e avvicina la meta finale. Si entra in contatto con il
Dhamma a causa di grandi meriti che si sono gua-
dagnati nel passato. Rendete la vostra vita vittoriosa
praticando Vipassana; e quando verrà la morte, la

101
2. Il discorso sulla fine della causa della sofferenza

vostra mente sarà equanime, portando con sé benes-


sere per il futuro.

102
3.
Discorsi sulle
sensazioni fisiche*
(Vedaná Saíyuttaí, S.36)

La corretta visione
(Daþþhabbena sutta, S.36.5)
Un colpo di freccia
(Sallena sutta, S.36.6)
Il discorso dell’infermeria
(Pathamagelanna sutta, S.36.8)
L’impermanenza
(Anicca sutta, S.36.9)

* Questi quattro discorsi sono tratti dal Saíyutta


Nikáya, la Raccolta di discorsi raggruppati per argomenti. Una
delle cinque raccolte (nikáyas) che costituiscono il Sutta Piþaka,
la cesta dei discorsi.
Premessa

L’importanza della
sensazione fisica*
a cura del Vipassana Research Institute

S e vogliamo imparare a vivere una vita felice,


è necessario che ci trasformiamo in maniera
radicale e, per un tale cambiamento, anche la fede
più sublime non basta, ma occorre sperimentare
la legge naturale – il Dhamma – all’interno di noi
stessi: dobbiamo renderci conto personalmente
della nostra natura effimera e mutevole. Dopo tale
esperienza, diventa spontaneo generare in noi quel
distacco, o equanimità, che ci permette di rimanere
sereni in mezzo alle vicissitudini della vita. La chiave
di questa percezione diretta è la sensazione corporea,
vedaná in pali, perché è attraverso di essa che noi en-
triamo in contatto con il mondo.

* Da V.R.I. (a cura di) The Importance of Vedaná.


Vipassana Newsletter, op. cit., luglio 2004 Vol.14 N.8.

105
3. Discorsi sulle sensazioni fisiche

La sensazione fisica, strumento


di liberazione
Ogni volta che avviene un contatto con uno dei
sensi fisici o con la mente, si manifesta una sensazio-
ne nel corpo. A questo punto hanno inizio i nostri
comportamenti abituali; è dunque a questo punto
che dobbiamo intervenire perché la sensazione di-
venti strumento di liberazione. Diversamente la sen-
sazione ci conduce a generare bramosia e avversione.
Occorre comprendere che cosa sia una sensazione e
dove occorre cercarla.
Il Buddha la classificò tra gli aggregati mentali,
insieme a coscienza (viññáóa), percezione (saññá) e
reazione (saókhára) e la definì come fenomeno sia
mentale che fisico. È la mente che sente, e ciò che
sente è inscindibile dal corpo. La sensazione fisica
è d’importanza fondamentale per il meditatore. Se
osserviamo soltanto a livello mentale, non ci rendia-
mo conto della sensazione, quando si manifesta; e
reagiamo automaticamente a essa, intensificandola.
Prima che ce ne rendiamo conto, quella fuggevole
sensazione ha assunto le proporzioni di un fuoco
divorante, è diventata un’emozione così forte da
sconvolgere la mente. Come conseguenza, ci ritro-
viamo a parlare e ad agire in modi di cui più tardi
potremmo rammaricarci.
Se invece osserviamo la sensazione fisica e ne di-
ventiamo consapevoli non appena sorge, possiamo
impedire la reazione. Per ignoranza, reagiamo alla
sensazione fisica e le permettiamo di trasformarsi
in un’impurità mentale che sopraffa la ragione. Ma

106
PARTE SECONDA

se impariamo a osservare le sensazioni fisiche con


equanimità, potremo affrancarci dalla schiavitù di
reazione e sofferenza.
Osservando le sensazioni fisiche, il meditatore
entra in contatto con il livello più profondo della
mente, quello inconscio, e rimanendo equanime alle
sensazioni, può impedire che vi si formino le reazio-
ni. Non solo: quest’osservazione è il mezzo per far
emergere ed eliminare i condizionamenti mentali
contenuti nell’inconscio.

Tutte le cose che sorgono nella mente


sono accompagnate da sensazioni. (A. 4.184)

Coltivando l’atteggiamento di osservatore equa-


nime, il meditatore lascia che emozioni e complessi
emergano a livello conscio, manifestandosi come
sensazioni fisiche. Senza reagire a esse, egli permette
ai vecchi condizionamenti mentali di dissolversi.

Il meditatore, esercitandosi a osservare la transito-


rietà delle sensazioni fisiche piacevoli, il modo in cui
esse si attenuano, finiscono, e anche la maniera in cui
egli se ne distacca, si libera dal condizionamento che lo
porta a desiderarle.
Così pure, quando il meditatore osserva le sensazioni
fisiche sgradevoli, e ne coglie l’impermanenza, egli si
libera dal condizionamento che gli suscita avversione
verso di esse. Osservando con continuità le sensazioni
neutre e rendendosi conto che, così come sorgono, esse si
dissolvono, il meditatore elimina il condizionamento
che gli faceva ignorare le sensazioni neutre.

107
3. Discorsi sulle sensazioni fisiche

Pertanto, osservando le sensazioni, il meditatore li-


bera la sua mente dal desiderio, da avversione, igno-
ranza, e cioè da tutto ciò che la rende impura. (S. 4.189)

Osservare le sensazioni fisiche è il modo per spe-


rimentare l’impermanenza di noi stessi. L’imperma-
nenza non va riferita a ciò che sta fuori di noi, agli
altri e al mondo che ci circonda, bensì a noi stessi,
come fenomeni transitori. Quando sperimentia-
mo che, ogni attimo, cambiamo e ci dissolviamo,
attaccamento ed egotismo iniziano a diminuire e
impariamo a vivere il nostro io, con equanimità e
distacco.

Il Buddha descrive cosi questo processo:

Nel cielo soffiano venti diversi, vengono da oriente


e da occidente, dal nord e dal sud, carichi di polvere
o senza polvere, freddi o caldi, uragani impetuosi o
brezze gentili, molti sono i venti che soffiano. Così,
nel corpo sorgono sensazioni piacevoli, spiacevoli e
neutre. Quando un meditatore, pieno di fervore,
mantiene salda la capacità di comprensione, egli, da
vero saggio, giunge a comprendere tutte le sensazioni.
Una volta consapevole delle sensazioni, già da questa
vita, egli viene liberato da tutte le impurità.
Stabilizzatosi in Dhamma e avendo penetrato
tutte le verità riguardanti le sensazioni, dopo la
morte egli raggiunge lo stadio indescrivibile oltre il
mondo condizionato, nibbána. (S. 4.189)

Il Buddha riteneva la consapevolezza delle sensa-


zioni così importante, che la definiva káyagatá sati:

108
PARTE SECONDA

consapevolezza diretta al corpo. Il nostro corpo è


testimone della verità. Se ci impegniamo nell’osser-
vazione delle sensazioni fisiche, possiamo passare da
una verità che conosciamo intellettualmente a una
verità che sperimentiamo.
E quando la sperimentiamo ne siamo trasformati,
e allora nasce in noi la fede autentica, basata sul-
­l’esesperienza.

109
L’impermanenza*
a cura del Vipassana Research Institute

Ogni cosa esistente è impermanente. Quando si


comincia a osservare ciò con comprensione profonda
e diretta esperienza, allora ci si mantiene distaccati
dalla sofferenza; questo è il cammino della purifica-
zione. (Dpd. 277)

Il cambiamento è inerente a ogni essere e fenome-


no. Non vi è nulla nel campo animato o inanimato,
organico o inorganico che possiamo definire perma-
nente, e anche se lo facessimo, inevitabilmente ogni
cosa sarebbe destinata a cambiare. Sperimentando
all’interno di se stesso questa legge di natura fonda-
mentale, il Buddha dichiarò:

Sia che nel mondo ci sia o meno una persona illu-


minata, rimane tuttavia una condizione ferma, un
fatto immutabile, una legge fissa: tutti i fenomeni
sono impermanenti, soggetti alla sofferenza e privi di
sostanza. (A. III, 134)

Anicca (impermanenza), dukkha (sofferenza) e anat-


tá (inconsistenza dell’io) sono le tre caratteristiche
comuni a ogni essere. Tra queste, la più importante
nella pratica di Vipassana è anicca. Il meditatore os-

* Da V.R.I. (a cura di), Anicca, Vipassana Newsletter,


op. cit., ottobre 1990 Vol.1 N.2.

110
PARTE SECONDA

serva l’impermanenza in se stesso. Ciò gli permette


di verificare che non ha nessun controllo su questo
fenomeno, e che ogni tentativo in tal senso crea solo
sofferenza. Impara quindi a sviluppare l’accettazione
di anicca, il giusto distacco e l’apertura al cambia-
mento, vivendo così felicemente tra tutte le vicissi-
tudini della vita.

Meditatori, chi percepisce l’impermanenza, per-


cepisce chiaramente l’inconsistenza e la mancanza
di un “io”. E in chi percepisce questa inconsistenza,
l’egoismo viene distrutto. E come risultato, persino in
questa stessa vita, ottiene la liberazione. L’esperienza
di anicca conduce automaticamente all’esperienza di
anattá e dukkha, e chiunque li sperimenti, si trova
naturalmente sul cammino che conduce fuori dalla
sofferenza.

Data la cruciale importanza di anicca, non sor-


prende che il Buddha ripetutamente ponesse l’ac-
cento sul suo significato per la liberazione. Nel Mahá
Saþipaþþhána Suttanta, il testo principale in cui viene
spiegata la tecnica di Vipassana, descrisse i differenti
stadi della pratica, che devono, in ogni caso, con-
durre alla seguente esperienza:

(Il meditatore) si sofferma a osservare il fenomeno


del sorgere (...) si sofferma a osservare il fenomeno
del passare (...) si sofferma a osservare il fenomeno
del sorgere e passare.

Dobbiamo saper riconoscere l’impermanenza non


solo nel suo aspetto esterno intorno a noi, ma anche

111
3. Discorsi sulle sensazioni fisiche

all’interno di noi stessi. Dobbiamo imparare a ve-


dere la realtà sottile che noi stessi cambiamo, ogni
momento; che l’io di cui siamo così infatuati è un
fenomeno in flusso costante, in continuo cambia-
mento. Con questa esperienza, possiamo facilmente
emergere dall’egotismo e così dalla sofferenza.

In altre circostanze il Buddha disse:

L’occhio, o meditatori, è impermanente. E ciò che


è impermanente è insoddisfacente. Ciò che è insoddi-
sfacente è senza sostanza. E ciò che è senza sostanza
non è “mio”, non è “io”, non è “me stesso”. Ecco come
osservare l’occhio con saggezza, come è realmente.

E nello stesso modo viene ripetuto per l’orecchio,


il naso, la lingua, il corpo, per tutte le basi dell’espe-
rienza sensoriale, per ogni aspetto dell’essere umano.
E il Buddha così continuò:

Vedendo ciò, o meditatori, il nobile discepolo bene


istruito ne ha abbastanza dell’occhio, dell’orecchio,
del naso, della lingua, del corpo, e della mente [in
generale di tutta quanta l’esperienza sensoriale]. Es-
sendo ormai sazio, non prova più passione per essi.
Essendo senza passione per questi sensi, si sente libero.
In questa libertà sorge la realizzazione che è liberato.

In questo passaggio il Buddha distingue con net-


tezza la conoscenza intellettuale dalla comprensione
frutto dell’esperienza. Si può ascoltare il Dhamma
e accettarlo per fede o intellettualmente, ma ciò è
insufficiente ad ottenere la liberazione; ognuno deve

112
PARTE SECONDA

sperimentare la verità da se stesso, all’interno di se


stesso. Ecco ciò che Vipassana ci permette di fare. Le
verità di cui egli ha parlato erano conosciute anche
prima di lui e comuni nell’India del suo tempo:
non inventò i concetti di impermanenza, sofferenza
e inconsistenza dell’io. La sua peculiarità consiste
nell’aver trovato una via per sperimentare la verità,
ben oltre il poterne ascoltare e parlare.
Il Báhiya Sutta, nel Saíyutta Nikáya, è un testo che
mostra questo aspetto, con la descrizione dell’incon-
tro del Buddha con Bahiya, un ricercatore spirituale,
che gli chiese di essergli da guida, nonostante non
fosse suo discepolo. Il Buddha rispose ponendogli
delle domande:

Che cosa ne pensi, Bahiya: è l’occhio permanente o


impermanente?
Impermanente, Signore.
E ciò che è impermanente è causa di sofferenza o di
felicità?
Di sofferenza, Signore.
Ti sembra adatto considerare ciò che è impermanente,
causa di sofferenza e per natura mutevole, come “mio”,
“io”, “me stesso”?
Certamente no, Signore.

Il Buddha continuò con le stesse domande sugli


oggetti della vista, la coscienza dell’occhio e il con-
tatto dell’occhio. In ogni caso Bahiya era d’accordo
che essi erano impermanenti, insoddisfacenti, non
io. Accettava anicca, dukkha e anattá pur non dichia-
randosi seguace dell’insegnamento del Buddha. E
questo perché, per Bahiya come per altri, i concetti

113
3. Discorsi sulle sensazioni fisiche

di impermanenza, sofferenza e inconsistenza dell’io


erano solo opinioni. A questi, il Buddha mostrò una
via per sperimentarle in se stessi, al di là di credenze
e filosofie.
In che cosa quindi consiste questa via? Nel Braha-
majála Suttanta (DN, 1) il Buddha prima elenca le
credenze, le opinioni e i punti di vista del suo tempo
e poi afferma che egli conosce qualcosa che è molto
al di là.

Avendo fatto esperienza di come realmente sono il


sorgere e il passare delle sensazioni, l’attaccamento
verso di esse, il pericolo insito in esse e il distaccarsi
da esse, l’Illuminato, o meditatori, è diventato di-
staccato e liberato.

Qui il Buddha dichiara che è diventato illumi-


nato osservando le sensazioni come manifestazioni
di impermanenza. E invita a fare altrettanto. Speri-
mentare l’impermanenza è essenziale per uscire dalla
nostra sofferenza; e la via più immediata per farlo è
osservare le sensazioni.

Ci sono tre tipi di sensazioni, o meditatori,


e tutte sono impermanenti, composte e sorgono
per una causa, destinate a non durare,
e per natura a passare, scomparire, cessare.

Le sensazioni all’interno di noi stessi sono la più


palpabile espressione dell’impermanenza. Osservan-
dole, diventiamo capaci di accettare questa realtà,
non per fede o per convinzione intellettuale, ma per
esperienza. Dall’ascolto della verità, progrediamo

114
PARTE SECONDA

sperimentandola in noi stessi, ed è questo che ci


trasforma.

Quando un meditatore resta consapevole con cor-


retta comprensione, diligente, ardente e con pieno
auto-controllo, al sorgere di piacevoli, fisiche sensa-
zioni nel corpo, egli allora comprende: - È sorta in
me questa piacevole sensazione corporea, ma è dipen-
dente da una causa, non è indipendente. Dipendente
da cosa? Da questo corpo. Ma questo corpo è im-
permanente, composto, sorge da condizioni. E come
potrebbero queste piacevoli sensazioni fisiche essere
permanenti poiché dipendono dal corpo, composto e
impermanente, che sorge a causa di condizioni?

Il meditatore fa esperienza dell’impermanenza


delle sensazioni nel corpo, del loro sorgere, del loro
passare, del loro finire. In tal modo, quando sente
sensazioni piacevoli, abbandona il suo condiziona-
mento profondo di bramosia; quando prova sensa-
zioni spiacevoli, abbandona il suo condizionamento
d’avversione; e quando fa esperienza di sensazioni
neutrali, abbandona il suo condizionamento d’igno-
ranza. Così, osservando l’impermanenza, il medita-
tore si avvicina sempre più alla meta dello stadio
incondizionato, o nibbána.
Dopo aver raggiunto quella meta, Koóðañña, la
prima persona a diventare liberata con l’insegna-
mento del Buddha, dichiarò: “Ogni cosa che ha la
natura del sorgere ha anche la natura del finire.”

115
3. Discorsi sulle sensazioni fisiche

Solamente facendo esperienza di anicca, poté fare


esperienza di una realtà che non sorge e non finisce;
le sue parole sono un segnale chiaro ai ricercatori
sul cammino della verità, perché indicano la via da
seguire per raggiungere la meta.
Il Buddha dedicò i suoi ultimi istanti di vita al
tema di cui aveva molto parlato durante i suoi qua-
rantacinque anni d’insegnamento:

Vaya-dhamma saókhára, Appamádena saípádetha.


Ogni cosa esistente è impermanente, sforzatevi
diligentemente.

Ci dobbiamo chiedere per quale scopo dobbiamo


sforzarci. Certo queste ultime parole del Buddha, si
riferiscono alla sentenza precedente. Il suo prezioso
messaggio al mondo è l’esperienza di anicca come
strumento di liberazione. Dobbiamo sforzarci di
rea­lizzare l’impermanenza in noi stessi, e così esau-
dire la sua ultima esortazione.

116
Testi dei discorsi

La corretta visione
(Datthabbena sutta, S. 36.5)

Vi sono tre tipi di sensazioni: piacevoli, spiacevoli


e neutre, cioè né piacevoli né spiacevoli. Meditato-
ri, occorre che consideriate le sensazioni piacevoli
come sofferenza, quelle spiacevoli come il dolore
per la trafittura da una lancia, quelle neutre come
impermanenti, cioè sensazioni che hanno la caratte-
ristica di sorgere e passare.
Quando un meditatore considera che le sensazioni
piacevoli sono destinate a procurargli sofferenza, che
quelle spiacevoli sono una momentanea trafittura di
lancia e che quelle neutre sono passeggere, significa
che ha veramente visto la verità, che si è liberato da
desiderio e avversione, che ha spezzato tutte le catene
dei condizionamenti, che ha sperimentato la natura
illusoria dell’io, che conosce le sensazioni nella loro
totalità e che ha posto fine alla sua infelicità. Con
questa completa consapevolezza delle sensazioni, si
è liberato da tutte le impurità e raggiunge lo stato
del nibbána.
Chi si è radicato in Dhamma, alla fine della vita
ha sperimentato l’intera gamma delle sensazioni, e
giunge allo stadio ineffabile da cui non si ritorna più
al mondo dei fenomeni.

117
3. Discorsi sulle sensazioni fisiche

Un colpo di freccia
(Sallena Sutta, S. 36.6)

Meditatori, tanto l’uomo ignorante che l’uomo


saggio (che percorre il sentiero, n.d.r.), percepiscono
sensazioni piacevoli, spiacevoli e neutre. Qual è la
differenza tra i due? Se un individuo trafitto da una
freccia, ne riceve una seconda, sente il dolore di due
trafitture. Lo stesso accade a chi ignora la legge di
natura e, venendo in contatto con una sensazione
spiacevole, se ne preoccupa, piange o grida e perde
il senso della realtà. Egli sente due tipi di dolore:
quello fisico e quello mentale.
Gravato dalla sensazione spiacevole, prova avversio-
ne verso di essa e con quest’atteggiamento comincia
a creare in sé un’abitudine (o condizionamento) d’av-
versione. Cerca il piacere da una sensazione piacevole,
perché ignora come difendersi dal dolore, se non ri-
fugiandosi nel piacere sensoriale. Ma nel momento in
cui sente piacere, dentro di sé comincia a formare un
condizionamento di bramosia. Non si rende conto
che le sensazioni vanno e vengono, e genera avversio-
ne e bramosia verso di esse. Le sensazioni rappresen-
tano un pericolo, ma è possibile non esserne schiavi.
Non comprendere tutto ciò, crea, in profondità,
un condizionamento di ignoranza. Sia che provi
sensazioni piacevoli, spiacevoli, o neutre, la persona
ignorante ne rimane condizionata e quindi è sog-
getta a nascita, vecchiaia e morte, sofferenze fisiche
e mentali.

118
PARTE SECONDA

Invece l’uomo saggio sente una sensazione spiace-


vole e non si preoccupa, non si agita, piange, grida o
perde il senso della realtà. È come chi sia trafitto da
una freccia e non da due, perché percepisce la sola
sensazione fisica spiacevole e non quella mentale. E
così non prova avversione per essa, e pertanto in lui
non si forma un condizionamento di avversione.
Inoltre, non cerca diletto in una sensazione piacevo-
le, per sfuggire a quella sgradevole. Sa come trovar ri-
paro dalla sensazione spiacevole, senza sfuggirla con
il piacere. Evita così, di creare un condizionamento
di bramosia. Egli ha la comprensione della realtà
così come è, del sorgere e passare delle sensazioni, di
come si comincia a sviluppare bramosia e avversione
verso di esse, del pericolo insito in questa tendenza
e del modo di sottrarsene. Con questa comprensio-
ne, non permette la formazione di condizionamenti
d’ignoranza.
Quindi, il meditatore impara a rimanere equa-
nime quando si manifestano sensazioni piacevoli,
spiacevoli e neutre. In questo modo, rimane equa-
nime anche di fronte a nascita, vecchiaia, morte,
afflizione, sofferenza fisica e mentale. È equanime di
fronte a tutte le sofferenze. Questa è la differenza tra
la persona saggia e l’ignorante.
Chi si è adeguatamente addestrato nella pratica
della meditazione, rimane equanime di fronte alle
sensazioni fisiche piacevoli, spiacevoli e neutre.

119
3. Discorsi sulle sensazioni fisiche

Il discorso dell’infermeria
(Pathamagelanna sutta, S. 36.8)

Una volta l’Iluminato si trovava vicino a Vesáli,


nella grande foresta, presso una casa a due spioventi.
La sera, dopo la meditazione, si recò nella stanza
dove erano ricoverati i malati e sedutosi nel posto
preparato per lui, si rivolse ai monaci:
– Ecco il mio insegnamento: un meditatore deve
essere consapevole ed equanime, con la costante e
completa comprensione dell’impermanenza di tutti
i fenomeni mentali e fisici, e aspettare che il tempo
della liberazione arrivi naturalmente. E come giunge
a questa comprensione?

Corpo e mente
Lasciando da parte ogni bramosia e avversione
verso tutti i fenomeni materiali e mentali, il me-
ditatore deve praticare, con fervore, la costante e
completa comprensione dell’impermanenza mentre
osserva il suo corpo; poi mentre osserva le sensazio-
ni. Inoltre, anche quando osserva la sua mente, e
osserva i contenuti mentali, deve sempre lasciar da
parte bramosia e avversione nei confronti di tutti
i fenomeni materiali e mentali, e praticare, con
fervore, la massima consapevolezza e la costante e
completa comprensione dell’impermanenza di tutti
i fenomeni mentali e fisici.

120
PARTE SECONDA

Quando una sensazione sorge, sia essa piacevole o


spiacevole o neutra, il meditatore così la osserva e la
comprende: una sensazione piacevole, spiacevole o
neutra è sorta in me. Essa è basata su qualcosa. Ha
una causa. È sorta e si è manifestata in questo corpo.
E quindi osserva la natura impermanente della sen-
sazione del corpo. E come fa il meditatore a essere
cosciente, in ogni istante, dell’impermanenza?

In ogni posizione e attività


Meditatori, chi pratica si rende conto dell’imper-
manenza delle sensazioni in ogni situazione: quando
va o quando viene, quando guarda diritto innanzi
a sé o volge intorno lo sguardo, quando si china o
quando si raddrizza, quando si veste o quando si
sposta con la ciotola dell’elemosina; rimane consa-
pevole dell’impermanenza sia che mangi o che beva,
che mastichi o che assapori ciò che sta inghiottendo,
o che attenda ai suoi bisogni corporei; quando cam-
mina, sta fermo e si siede, quando dorme o è sveglio,
quando parla o tace, sempre egli si rende conto e
sperimenta, a livello di sensazioni, l’impermanenza
di ogni fenomeno mentale e fisico. Ecco, come un
meditatore coltiva consapevolezza ed equanimità,
con la piena comprensione dell’impermanenza di
tutti i fenomeni mentali e fisici, e aspetta che il
tempo della liberazione arrivi naturalmente.

121
3. Discorsi sulle sensazioni fisiche

Il processo di eliminazione
(...) Vediamo ora che cosa avviene quando il me-
ditatore zelante e consapevole dell’impermanenza
sente una sensazione piacevole: immediatamente si
rende conto che è sorta, che deve avere un fonda-
mento, e che questo fondamento è il suo corpo. Egli
sa che il corpo è effimero, composto, e originato da
cause. E sa che, se la sensazione è frutto del corpo
impermanente, come può essere permanente? E al-
lora, osserva la sensazione corporea, come s’indebo-
lisce, come svanisce poco a poco, fino a scomparire.
Così, in conseguenza del fatto che egli si rende
conto della natura effimera del corpo e delle sue
sensazioni, osservandone il loro sorgere e passare,
il profondo condizionamento di bramosia, che si
era formato in lui nei confronti del corpo e delle
sensazioni piacevoli, comincia a essere eliminato.
Lo stesso processo avviene quando il meditatore
sperimenta sensazioni sgradevoli. Il fatto di osser-
varne la transitorietà, insieme alla consapevolezza
che il corpo, in cui le sensazioni si manifestano, è
esso stesso effimero e destinato a passare, estirpa dal
profondo della sua mente l’abitudine di reagire con
avversione a ogni sensazione spiacevole. Quando il
meditatore procede allo stesso modo riguardo alle
sensazioni neutre, il condizionamento d’ignoranza
nei confronti delle sensazioni neutre è eliminato.
Questi tre condizionamenti vengono meno quan-
do il meditatore non solo osserva il sorgere, il gra-
duale svanire e finire dei tre tipi di sensazioni, ma
vede anche come egli riesca a liberarsi del suo attac-
camento verso di esse. Qualsiasi sensazione sorga nel

122
PARTE SECONDA

suo corpo, piacevole, spiacevole e neutra, egli rima-


ne equanime, comprendendone la natura imperma-
nente. Il meditatore saggiamente constata che egli
prova sensazioni in ogni parte del corpo, ovunque
c’è vita. E con profonda intuizione, si rende conto
che, quando, più tardi, il suo corpo si disintegrerà e
la sua vita avrà fine, quelle stesse sensazioni verso cui
egli ora ha sviluppato equanimità, non avranno più
alcuna attrattiva e spariranno del tutto.
Proprio come una lampada a olio, che continua a
bruciare, fino a quando vi sono l’olio e lo stoppino,
ma che si spegne per mancanza di carburante, quan-
do finiscono l’olio e lo stoppino.

123
3. Discorsi sulle sensazioni fisiche

L’impermanenza
(Aniccasutta, S.36.9)

Meditatori, i tre tipi di sensazioni – piacevoli,


spiacevoli, neutre – sono impermanenti, composti,
determinati da una causa, e per natura, destinati a
declinare, svanire, passare, venir meno completa-
mente.

124
Commento*

di S.N. Goenka

La reale natura
delle sensazioni

N ell’illimitato cielo differenti venti sorgo-


no, soffiano e se ne vanno: a volte pro-
vengono da est, a volte da ovest, a volte da nord
e a volte da sud; a volte sono venti caldi o freddi;
a volte pieni di polvere, a volte venti maleodoranti
o profumati; a volte tempestosi oppure delicati o
leggeri. Di qualunque natura essi siano, il cielo non
ne è impressionato. I venti possono prevalere per un
po’ di tempo, ma presto o tardi se ne vanno.
Così, differenti viaggiatori arrivano in un albergo;
arrivano da est o da ovest, da nord o da sud; bian-
chi, neri o di pelle gialla; gente di ogni fisionomia e
costituzione. Ma l’albergo non ne rimane impres-
sionato. Tutta questa gente arriva e si ferma per un
po’, ma presto o tardi se ne va, proseguendo per la
sua strada.
Allo stesso modo differenti sensazioni sorgono nel
corpo. Appaiono e rimangono per qualche tempo,
ma prima o poi se ne vanno. Non sorgono per re-

* Da S.N. Goenka, The real nature of the sensations.


Vipassana Patrika, op.cit., 1984 – 1986. Serie di tre articoli.

125
3. Discorsi sulle sensazioni fisiche

stare. Ciononostante, permettiamo loro di impres-


sionarci e così reagiamo con bramosia e avversione
verso esse. Perché accade?
Perché la nostra facoltà della percezione – saññá
– dà una valutazione alle sensazioni e le classifica
come piacevoli, spiacevoli e neutrali. Dopo averle
valutate e classificate, la mente reagisce. Inizia a svi-
luppare simpatia verso la sensazione valutata come
piacevole, e ben presto la simpatia si trasforma in
bramosia. Inizia a sviluppare antipatia verso la sen-
sazione valutata come spiacevole, che si trasforma in
avversione. Questa reazione è un’abitudine radicata.
Quando valutiamo una sensazione come piacevole
desideriamo prolungarla e/o intensificarla. Quando
valutiamo una sensazione come spiacevole cerchia-
mo di scacciarla. Nel caso di una sensazione neutrale
cerchiamo di sostituirla perché proviamo avversione
per essa e bramosia per qualcosa di più piacevole.
Se la percezione condizionata – saññá – si tra-
sforma in – paññá – e cioè saggezza, comprensione
attraverso l’esperienza, la mente smette di valutare le
sensazioni. Con l’esperienza della loro reale natura,
cominciamo a valutare nella maniera corretta qual-
siasi sensazione sorga, piacevole, spiacevole o neu-
trale: ha la natura dell’impermanenza, del sorgere e
del passare, del continuo cambiamento, e allora le
reazioni di bramosia e avversione finiranno.
È sorta nel corpo come il vento sorge nel cielo o
un viaggiatore giunge in un albergo, è sorta solo per
andarsene. E questa è la verità dell’impermanenza.
Non abbiamo alcuna padronanza sulle sensazioni,
alcun dominio.

126
PARTE SECONDA

Se vogliamo qualche sensazione, non riusciamo a


ottenerla. Se proviamo a evitare qualche sensazione,
non ci riusciamo. E se vogliamo cacciare una sensa-
zione, non ci riusciamo. Ogni cosa accade non come
noi vogliamo, ma in accordo alle leggi di natura. E
questa è la verità di assenza di un io.
Se ci identifichiamo con qualcosa che è imper-
manente e non in nostro controllo, e reagiamo con
bramosia e avversione, il risultato non sarà altro che
sofferenza. E questa è la verità della sofferenza.
Questa valutazione data dalla saggezza – paññá – è
la corretta valutazione che instaura equanimità nel
meditatore e gli indica la strada che lo farà uscire
dalla sofferenza. Questa è Vipassana. Questo è il
Gange di Dhamma che purifica e libera la mente.

Venite, o meditatori, e immergiamoci in questo


Gange di Dhamma, per trovare la liberazione dalla
sofferenza e ottenere la pace vera, la felicità vera.

127
3. Discorsi sulle sensazioni fisiche

La sofferenza finisce là, dove


finiscono le sensazioni
La nostra abitudine mentale è di dibatterci nel do-
lore a causa di sensazioni fisiche considerate spiace-
voli e di cullarci nel godimento di quelle considerate
piacevoli. Ma, quando le osserviamo con il giusto
distacco, ci si svelano realtà diverse.
Sperimentiamo, infatti, che le sensazioni sorgono
a causa di un contatto: il contatto degli organi di
senso (occhi, naso, orecchi, bocca, corpo e mente)
con gli oggetti corrispondenti. Se il meditatore
continua a osservare obiettivamente, comprenderà
il pericolo, il dannoso potenziale delle sensazioni.
Ma, a causa delle abitudini mentali, sarà facilmente
sommerso dalla reazione, (cioè osserverà per un po’
di tempo, ma poi si distrarrà).
Col tempo, al meditatore diventerà sempre più
chiaro come la mente sia condizionata “a rotolare”
nelle sensazioni, sia piacevoli che spiacevoli. La ten-
denza della mente a valutare le sensazioni è il modo
per stimolare bramosia e avversione. Se la sensazione
è valutata piacevole si rotola nel piacere. Se la sensa-
zione è valutata spiacevole ci si dibatte nell’avversio-
ne e nella frustrazione.
Quando sorgono bramosia e avversione, esse in-
tensificano le sensazioni, che a loro volta rafforzano
bramosia e avversione: è un circolo vizioso, è la via
che conduce solo alla sofferenza. Il meditatore potrà
rendersi conto del tempo perso a incrementare la
propria sofferenza.

128
PARTE SECONDA

Praticando Vipassana, abbandona gradualmente


l’abitudine a valutare le sensazioni e sviluppa man
mano equanimità. Quindi realizza che il circolo
vizioso, almeno temporaneamente, si interrompe, e
smette di provocare sofferenza. Seguendo la via che
conduce alla fine della sofferenza, riuscirà a sradicar-
la dalla propria vita.
A questo punto, verificherà la cruciale importan-
za delle sensazioni fisiche, poiché è da esse che si
dipartono due sentieri: quello che porta al sorgere
della sofferenza e quello che conduce alla sua fine. E
quando il meditatore sperimenta come la sofferenza
inizia e si moltiplica, porrà molta cura nella scelta
del sentiero: osservando obiettivamente le sensazio-
ni, il meditatore lascia l’abitudine alle reazioni di
bramosia e avversione, e si emancipa dall’abitudine
di sguazzare nelle sensazioni, raggiungendo lo stadio
in cui le sensazioni finiscono, e anche la sofferenza.
Quando si comincia a meditare con Vipassana, per
la maggior parte del tempo, la testa è come sott’ac-
qua: si rotola nelle sensazioni, generando bramosia
e avversione, cioè sofferenza. Col procedere della
pratica, tuttavia, i periodi di equanimità aumenta-
no e diminuiscono quelli di reazione. Quando si
smette di produrre bramosia o avversione, inizia la
distruzione dei condizionamenti del passato. I con-
dizionamenti accumulati sorgono automaticamente
e sono eliminati, strato dopo strato, fino a che si
raggiunge lo stadio al di là del mondo condizionato
dei sensi.
Chiunque pratichi Vipassana correttamente,
prima o poi, lo sperimenterà: la mente smette di
funzionare, quindi gli organi di senso smettono di

129
3. Discorsi sulle sensazioni fisiche

funzionare, e non vi è più possibilità di contatto tra


essi e gli oggetti, ha fine il contatto tra mente e ma-
teria, per cui non ci sono sensazioni.

Venite, o meditatori! Lavoriamo con ardore, dili-


genza, pazienza e perseveranza per evitare il sentie-
ro che porta al sorgere della sofferenza e prendere
quello che conduce alla sua fine, in modo da poter
raggiungere la vera felicità, la vera pace.

130
PARTE SECONDA

Proprio nel corpo


L’intero universo esiste nel corpo. È nel corpo che
gira la ruota del proces­so del divenire. Nel corpo c’é
la causa che mette in movimento la ruota del dive-
nire. Nel corpo c’è la via per raggiungere la libertà
dalla ruota della sofferenza. Per questa ragione l’in-
vestigazione del corpo è di somma impor­tanza per il
meditatore. Senza l’esperienza diretta della realtà, la
ruota del divenire continua a girare.
Con l’esperienza diretta, gradualmente la ruota si
arresta, fino al punto in cui ci si libera dalla schiavitù
del divenire. I cinque sensi fisici e la mente esisto-
no perché esiste il corpo. Essi sono come sei porte
attraverso cui avvengono tutti i nostri contatti col
mondo; esso esiste per noi solamente quando entra
in contatto con almeno una delle sei porte dei sensi.
Una forma, per esempio, esiste per noi solamente
quando entra in contatto con l’occhio; altrimenti per
noi non esiste. Allo stesso modo un suono deve en-
trare in contatto con l’orecchio per esistere, di fatto,
per noi; un odore con il naso; un oggetto tattile con
il tatto; un pensiero o una fantasia o un’emozione
con la mente. L’intero universo si manifesta attraver-
so queste sei porte che sono nel corpo. Perciò il Bud-
dha ha detto che l’intero universo esiste nel corpo.
Per investigare la verità di se stessi in modo prag-
matico, il meditatore deve accantonare credenze e
filosofie, al fine di applicarsi solo alla realtà, e accet-
tare come vero solo ciò che sperimenta. Se esplora
in questo modo, i misteri della natura si sveleranno.

131
3. Discorsi sulle sensazioni fisiche

Per esperienza, il meditatore si rende conto che


dal contatto degli occhi con una forma visibile sorge
la coscienza dell’occhio, e cioè ha cognizione men-
tale del fatto che è avvenuto il contatto. E inoltre si
rende conto che il contatto produce una sensazione
fisica che si propaga nel corpo, come quando si col-
pisce in un punto un recipiente di bronzo e l’intero
recipiente vibra. Quando c’è un contatto, c’è il pro-
cesso della percezione: per esempio, la forma visibile
viene riconosciuta, come uomo o donna, bianco
o nero, e viene valutata: bello o brutto, buono o
cattivo, positivo o negativo, piacevole o spiacevole;
la valutazione produce una sensazione (piacevole,
spiacevole o neutra) e quando la sensazione viene
sperimentata come piacevole, la mente reagisce con
bramosia, e se è spiacevole, la mente reagisce con
avversione.
Il meditatore fa esperienza del funzionamento
delle quattro parti della mente: la coscienza, la per-
cezione, la sensazione e la reazione. La bramosia in-
tensifica la sensazione piacevole, e la sensazione pia-
cevole intensifica la bramosia. L’avversione fortifica
la sensazione spiacevole e la sensazione spiacevole
rinforza l’avversione. Il meditatore fa esperienza di
come dalle sensazioni fisiche inizia il circolo vizioso
che continua, momento dopo momento, incessan-
temente. Questa è la ruota del divenire, della soffe-
renza.
Osservando questo processo in modo oggettivo,
senza preconcetti, il meditatore che pratica arden-
temente ottiene la libertà da bramosia e avversione,
e ferma il vorticoso movimento della ruota del di-
venire.

132
PARTE SECONDA

Venite, o meditatori! Impariamo a osservare ogget-


tivamente questo processo che sorge dalle sensazioni
fisiche, per raggiungere la liberazione e ottenere la
vera felicità.

133
4.
Il discorso
sull’inesistenza dell’io
(Anatta lakkhaóa sutta, S. XXII,59)
Premessa*

È il secondo discorso pronunciato per i cin-


que asceti. Impartito come secondo pro-
prio perché avessero il tempo di meditare con le
istruzioni ricevute, i cinque poterono sperimentare
che ogni cosa che si manifesta nel corpo sorge e
passa, e che ogni attaccamento è causa di sofferenza.
Gradualmente riuscirono a raggiungere uno stadio
importante di concentrazione. Cominciava a mani-
festarsi in loro e a essere sperimentata un’altra verità
universale, l’inesistenza di un io, verità fondamentale
per raggiungere la liberazione. Solo allora il Buddha
pronunciò questo insegnamento basilare.
Esso ha creato difficoltà d’interpretazione, poiché
lo studiarono anche coloro che erano privi dell’espe-
rienza meditativa. Comprendere l’insegnamento
significa metterlo in pratica e far esperienza delle
quattro nobili verità, descritte nel primo discorso.
Quindi solo chi ha incominciato a sperimentare,
può comprendere questo secondo discorso, non solo
intellettualmente, ma in modo concreto, e quindi
beneficiarne.

* Dai testi elencati nella prefazione

137
4. Il discorso sull’inesistenza dell’io

L’esplorazione dell’io
L’esplorazione della verità nel proprio corpo e
nella propria mente è l’auto-realizzazione indicata
dal Buddha. Egli non intende la realizzazione di un
immaginario io ideale, ma un’esplorazione continua,
meticolosa, dal grossolano al sottile, sempre più in
profondità, che inizia dal corpo: si osservano le sen-
sazioni e ci si accorge che non si ha alcun controllo
su di esse. Poi, si osserva l’aggregato mentale – saññá
– che identifichiamo come io, che osserva come per-
cepiamo le cose e la classificazione che ne diamo.
Ogni classificazione e ogni percezione è legata a
condizionamenti che ciascuno porta in sé, perciò si
ha sempre una visione parziale e distorta della realtà.
E questa discriminazione provoca sofferenza. Così
accade anche con l’aggregato mentale della coscien-
za, viññáóa: c’è l’illusione che quest’aggregato sia l’io,
io conosco, o io vedo, oppure io sento.
Altri aspetti del corpo e della mente appaiono
più chiaramente impermanenti: ci accorgiamo che
le sensazioni cambiano, che i giudizi cambiano, le
reazioni cambiano. Ma viññáóa, la coscienza, questo
conoscere legato ai sei sensi (vista, udito, odorato,
gusto, tatto e mente) è vittima dell’illusione che c’è
un io, che c’è un io che agisce. È un’illusione dif-
ficile da smascherare. Ma, se si prosegue in questo
cammino di comprensione della verità sulla propria
struttura fisica e mentale, si verificherà che ci sono
sei coscienze, una per ogni senso.
L’occhio viene in contatto con qualcosa e sorge
un’attività mentale, (che è l’accorgersi del contatto
avvenuto a livello dell’occhio). Essa è la coscienza

138
PARTE SECONDA

visiva, che poi si esaurisce: lo stesso avviene, per


tutti i sensi, momento dopo momento. Ogni senso
percepisce autonomamente, e con una tale rapidità,
da darci l’illusione che ci sia un unico io che per-
cepisce tutte queste attività. Allo stesso modo, le
nostre reazioni (o condizionamenti) mentali, in pali
saókhára, sono in continuo mutamento, imperma-
nenti e, secondo il tipo generato, ci sono infelicità e
sofferenza, oppure armonia e pace.
Con Vipassana si osserva, si analizza e scompone
questa realtà apparente, e ci si rende conto dell’ine-
sistenza di un io; e si scopre che mente e corpo sono
vibrazioni, un processo in continuo divenire, pro-
dotto dai propri condizionamenti. La caratteristica
fondamentale di ogni cosa è anattá: inconsistenza,
assenza di un soggetto, di un io, perché ci sono solo
fenomeni impermanenti, in continuo movimento e
in costante trasformazione.
Per penetrare le verità d’impermanenza, sofferen-
za e inesistenza di un io, il Buddha descrive in que-
sto discorso il processo sperimentale di conoscenza
diretta.

139
Testo del discorso

C osì io stesso ho udito: quando si trovava nel


parco dei cervi di Isipatana, vicino a Vara-
nasi, il Beato si rivolse al gruppo dei cinque monaci:
– Monaci, il corpo, non è il sé, non è l’io. Se il
corpo fosse l’io non vi causerebbe sofferenza; infatti,
voi sareste in grado di decidere: - Voglio che il mio
corpo sia così – oppure – Voglio che il mio corpo
non sia così.
Ma poiché, monaci, il corpo non è l’io, ne con-
segue che esso è causa di sofferenza, perché voi non
avete alcuna possibilità di avere il tipo di corpo che
desiderate.
Così pure o monaci, le sensazioni che provate non
sono l’io. Se lo fossero, esse non sarebbero motivo
di dolore perché sareste voi a decidere quale tipo di
sensazioni provare. Ma le sensazioni non sono l’io,
per cui anch’esse vi provocano sofferenza: infatti
non vi è possibile scegliere quale tipo di sensazioni
sperimentare.
Monaci, anche la percezione, l’aggregato menta-
le che riconosce, non è l’io. Se l’io e la percezione
fossero la stessa cosa, non soffrireste per le vostre
percezioni, perché sareste voi a decidere quali per-
cezioni avere. Ma non è così, e pertanto anche le
vostre percezioni sono causa di sofferenza, perché
non avete controllo su di esse.

140
PARTE SECONDA

La stessa cosa è vera per quanto riguarda le vostre


reazioni mentali. Poiché anche queste non sono l’io,
anch’esse sono sofferenza: infatti, non siete voi a de-
cidere di quale tipo sono le vostre reazioni mentali.
Se esse fossero l’io ne avreste il controllo, invece esse
sorgono indipendentemente dalla vostra volontà, e
per questo sono per voi motivo di sofferenza.
La coscienza stessa non è l’io; se lo fosse, non vi
provocherebbe sofferenza, perché sareste voi a sta-
bilire il tipo di coscienza che volete. Ma poiché la
coscienza non è l’io, e non potete controllarla, essa,
pure, vi fa soffrire.
Ditemi monaci, cosa pensate: il nostro corpo è
permanente o impermanente?
– Impermanente, Signore.
Ciò che è impermanente si può considerare soddi-
sfacente o insoddisfacente?
– Insoddisfacente, Signore.
Possiamo allora dire che una cosa impermanen-
te, insoddisfacente, perché è destinata a mutare, si
possa identificare con il nostro io, con me stesso,
con qualcosa di mio?
– Certamente no, Signore.
E non possiamo dire forse la stessa cosa per le
nostre sensazioni, percezioni, reazioni, la coscienza?
Sono esse permanenti o impermanenti?
– Sono anch’esse impermanenti, Signore.
Possiamo quindi chiamarle soddisfacenti, o insod-
disfacenti?
– Sono insoddisfacenti, Signore.
È forse possibile dire di cose così instabili, insod-
disfacenti e in continuo mutamento che esse sono
l’io, sono me stesso, o qualcosa di mio?

141
4. Il discorso sull’inesistenza dell’io

– Nessuna di esse può essere considerata l’io, Si-


gnore.
È dunque chiaro, monaci, che occorre guardare
le cose con saggezza, nella loro vera realtà. Vedremo
allora che qualsiasi forma corporea, che è esistita,
che è, che sarà, sia essa interna o esterna, grossolana
o sottile, inferiore o superiore, vicina o lontana, se
osservata con saggezza e realisticamente, per quella
che veramente è, non ha nulla a che fare con l’io,
con ciò che è mio, con il mio essere, e diremo:
– Questo non è mio, io non sono questo, questo
non è l’io.
Lo stesso si può certamente dire per quanto riguar-
da i quattro aggregati mentali, e cioè la sensazione,
la percezione, la reazione e la coscienza. Vedremo
che qualsiasi aggregato mentale, che è esistito, che è,
che sarà, sia esso interno o esterno, grossolano o sot-
tile, inferiore o superiore, vicino o lontano, se osser-
vato con saggezza e realisticamente, per quello che
veramente è, non ha nulla a che fare con l’io, con ciò
che è mio, con il mio essere e diremo: - Questo non
è mio, io non sono questo, questo non è il mio io.
Monaci, un discepolo che abbia ricevuto questi
insegnamenti e sia arrivato alla comprensione della
realtà di questi fenomeni, è disingannato e comincia
a essere meno attaccato al corpo e ai quattro aggre-
gati mentali, (la sensazione, la percezione, la reazio-
ne, e la coscienza).
Questa equanimità lo rende libero dalle passioni.
Una volta sradicate tutte le passioni, egli sarà com-
pletamente liberato, saprà di aver raggiunto la piena
liberazione, che per lui il processo vitale si esaurirà
in questa vita, che la vita di perfezione è realizzata,

142
PARTE SECONDA

che ciò che si doveva compiere è stato compiuto,


che non ci sarà più divenire.
Così terminò il discorso del Beato.
Felici, i cinque monaci si rallegrarono per quello
che il Beato aveva loro esposto; e, inoltre, durante
l’enunciazione, la mente dei cinque monaci si era
liberata da tutte le impurità e gli attaccamenti.

143
Commento*

di S.N. Goenka

Ieri ho commentato “Il discorso sulla messa in


moto della ruota del Dhamma” per opera la ruota
della sofferenza, che sempre gira dentro di noi, co-
minciò a girare in senso inverso trasformandosi nella
ruota della liberazione, la ruota del Dhamma.
Osservando la realtà così com’è, continuamente,
senza sosta, facendo girare questa ruota dentro di
sé, egli divenne illuminato. Poi per compassione,
desiderò che ognuno divenisse illuminato e liberato;
e iniziò dunque a insegnare come far girare questa
ruota dentro di sé.
Quando pronunciò il primo discorso, uno dei
primi cinque discepoli, Koóðañña, diventando
consapevole del sorgere e passare delle sensazioni,
raggiunse lo stadio della liberazione, e pervenne
al primo grado di santità, quello di sotápanna.** Gli

* Dal commento a Anatta-lakkhaóa Sutta (S. XXII,


59) facente parte della serie di commenti ai discorsi: Dhamma
Cakka Pavatthana sutta (S. LXI, 11), Mahá Maògala Sutta (Sn. 46)
Girimánanda Sutta (A. V, 108); Ánápánasati Sutta (M.118); Vedaná
Saíyutta (S. IV, 2). I commenti, insieme con la recitazione in pali
dei discorsi, sono stati registrati a Dhammagiri-Igatpuri dal
1991 al 1995 con l’intento di ispirare l’approfondimento degli
insegnamenti e lo studio della lingua pali.
** Sotápanna letteralmente significa “colui che è en-
trato (ápanna) nel flusso (sota)”, dove flusso (o corrente) è la
metafora che indica il Nobile Ottuplice Sentiero.

144
PARTE SECONDA

altri quattro non raggiunsero questo stadio grazie


all’ascolto del discorso, ma il suo effetto si ebbe
comunque alcuni giorni dopo. Adoperandosi per
ciascuno di loro, facendoli meditare, spiegando,
dicendo loro che fare, ecco che uno dopo l’altro rag-
giunsero lo stato di sotápanna.

L’insegnamento al momento giusto


Era giunto il momento di dare quel tipo d’inse-
gnamento, che avrebbe portato i quattro allo stadio
di piena liberazione. Se dato come primo, questo
insegnamento sarebbe diventato di ostacolo per loro;
è possibile, infatti, che fossero attaccati alla credenza
dell’esistenza di un’anima e che avrebbero considera-
to fuorviante il discorso di chi ne sostenesse la non
esistenza. Non avrebbero quindi fatto lo sforzo di
ascoltare, di capire, di meditare. Per quattro o cinque
giorni praticarono solo con Vipassana e tutto diven-
tava sempre più chiaro: le tre caratteristiche di ogni
cosa animata e inanimata sono l’impermanenza, la
sofferenza, l’inesistenza di un io. Meditando, diven-
tavano consapevoli dell’impermanenza di ogni cosa
e, stabilizzandosi in essa, scoprivano la sofferenza. Si
chiedevano cos’era quella sofferenza che continua-
mente si manifestava in loro: anche la sensazione più
piacevole cambia e diventa sofferenza, si trasforma in
una sensazione spiacevole. Il sorgere e passare è soffe-
renza. E a partire da questa realizzazione compresero
meglio l’inesistenza di un io.

145
4. Il discorso sull’inesistenza dell’io

Il corpo è impermanente
Avendo trovato il momento giusto per pronun-
ciarlo, il Buddha si rivolge ai monaci:
Monaci, tutto è impermanente, compreso il no-
stro corpo. Se fosse in nostro controllo, dovremmo
possederlo, dovremmo padroneggiarlo. Dovremmo
poter dire: Tu, corpo, devi rimanere sempre così -
oppure - non devi rimanere così. Ma sul corpo non
abbiamo controllo. Se così fosse, non avremmo mai
sofferto a causa sua. Infatti, lo avremmo tenuto come
vorremmo fosse, sanissimo e fortissimo. Invece, può
diventare e diventerà debole e malato, e noi non pos-
siamo farci nulla. Questo dimostra che non abbiamo
nessun possesso del corpo, che non c’è un io riferi-
bile a esso, nessun mio, nessuna anima. Tutto ciò a
cui attribuiamo il nome di io, mio, la mia anima, va
esaminato.
Il renderci conto della realtà di noi stessi, l’auto-
realizzazione, significa che dobbiamo giungere alla
conoscenza, cioè fare esperienza della realtà del
corpo. Perché la prima cosa che incontriamo è la
realtà del corpo fisico, che chiamiamo io e mio e con
cui ci identifichiamo.

146
PARTE SECONDA

Le sensazioni sono impermanenti


Man mano che si osserva il corpo, si percepisce che
questa realtà concreta diventa sempre più sottile e si
comincia a percepire le sensazioni. Consideriamo
dunque le sensazioni. Le sensazioni sono l’io? Sono
mie? Sono la mia anima? Se così fosse, dovrei poterle
possedere e controllare. E possederle e controllarle,
significa controllare la mia sofferenza, e impedirle di
venire. Se sono padrone delle sensazioni, posso sbar-
rare il passo a quelle spiacevoli, posso ordinare che
siano sempre piacevoli. Ma questo non è possibile.
E se non le posseggo, le sensazioni non sono né me
né mie.

Le reazioni mentali
sono impermanenti
Questo vale anche per la percezione, saññá, un
componente mentale che identifichiamo con l’io;
ma neppure la percezione è me, è mia, è la mia
anima. E saókhára, la reazione mentale, cos’è? È forse
me, mia, la mia anima? No, non lo è. Saókhára ha
un significato esteso, spiegarlo con una sola parola
è impossibile: significa qualche cosa che si compie,
che si compone, che avviene.*

* La parola saókhára, abitualmente tradotta come


rea­zione, condizionamento mentale e attività di volizione della
mente, significa anche “ formazione”, cioè “azione che produce
frutti, intendendo con ciò, sia l’atto del suo formarsi attraverso
la reazione, sia ciò che è stato formato, ossia il risultato della

147
4. Il discorso sull’inesistenza dell’io

E cosa avviene? La mente crea qualcosa, un


saókhára; che a sua volta crea qualcosa. Tutte le rea­
zioni mentali sono impermanenti, e anche il loro
prodotto è impermanente. Il saókhára non è soltan-
to quello che creiamo nella mente, ma è anche il
risultato che produce. E tutto ciò che viene crea­
to, proprio perché sorge e passa continuamente,
produce sofferenza. I saókhára non sono altro che
vibrazioni che generiamo e si diffondono ovunque.
Un certo tipo di vibrazione produce un certo tipo di
vita: umana, animale, infernale, celestiale. Insieme
con essa si produrranno incessantemente altre vibra-
zioni, combinazioni e accumulazioni di vibrazioni.
Il tipo di vibrazioni che ognuno genera si collega alla
vibrazione di una particolare sfera di esistenza. Se
generiamo una vibrazione infernale, ebbene, questa
vibrazione crea inferno. Noi siamo responsabili per
lo svilupparsi del nostro universo. Noi siamo i crea-
tori del nostro mondo.

reazione avvenuta. Ogni reazione è l’ultimo passo, il risultato


di una sequenza di processi mentali, ma può anche essere il
primo passo, la causa di una nuova concatenazione di eventi
mentali. (Da W. Hart. La meditazione Vipassana – Un’ arte di
vivere, op. cit.)

148
PARTE SECONDA

Tutto è senza un io
Tutto ciò che viene creato è animato o inanimato;
quel che è animato è una combinazione di mente
e materia: vibrazioni prodotte da reazioni. Così ci
sono innumerevoli e differenti esseri, che per con-
venzione è necessario definire, ma che in realtà
sono una massa di vibrazioni. Il meditatore inizia
a comprendere che si tratta di fenomeni transitori,
che non c’è un io, un’entità, un’anima che dura in
eterno, senza mutare. Ecco perché tutto è anattá,
senza un io, e tutti i saókhára, le varie combinazioni
di reazioni e vibrazioni, sono senza un io.

La coscienza
Anche per il principiante è chiaro che il corpo non
è il suo io, non è suo; così per la sensazione – vedaná, la
percezione – saññá, e la reazione – saókhára. Ma quan-
do si tratta della coscienza – viññáóa, il conoscere, ci si
chiederà: “Chi è che conosce?” e la risposta sarà: ”Io
conosco, senza dubbio. Io vedo, io odo, io odoro, io
gusto, io tocco, io penso”.
La coscienza o l’atto del conoscere, è realmente
l’io, la mia anima?
Procedendo nella meditazione si giungerà allo
stadio in cui si comprenderà come la coscienza si
compone di sei parti. La coscienza che sorge quando
un oggetto viene in contatto con gli occhi; quella
che sorge quando un suono viene in contatto con
l’orecchio, etc. La coscienza della vista non può
compiere il lavoro di quella dell’udito, dell’odorato,

149
4. Il discorso sull’inesistenza dell’io

del gusto, del tatto o della mente. Ognuna ha una


sua propria funzione. Dopo aver spiegato tutto ciò,
il Buddha si rivolge di nuovo ai monaci:

Le particelle subatomiche
– “Cosa ne pensate? Questa struttura fisica formata
da kalápas, particelle subatomiche in continuo mu-
tamento, è permanente o impermanente? E ciò che è
impermanente è fonte di felicità? C’è forse un io in
questo continuo sorgere e passare”?
Poiché i monaci continuavano a meditare mentre
il Buddha spiegava, realizzavano ciò che veniva loro
insegnato, ne facevano esperienza. Il Buddha conti-
nuò a descrivere la realtà delle kalápas, o particelle
subatomiche che compongono la materia, di come
ognuna di esse e ogni suo raggruppamento vada
sperimentato sino in fondo, in ogni parte del corpo,
e osservato continuamente momento dopo momen-
to. E di come in questo modo ci si renda conto che
anche i quattro elementi della mente (coscienza, per-
cezione, sensazione, reazione) sorgano e passino con-
tinuamente. Con l’esperienza dell’impermanenza, i
monaci cominciarono a sviluppare distacco, equani-
mità, che, gradualmente approfondendosi, li portò
a sperimentare il primo stadio di liberazione, poi il
secondo e il terzo fino alla completa liberazione.
E si resero conto che sì, ciò che doveva essere fatto
era stato fatto, e compresero che si erano liberati da
ogni vincolo e raggiunto il risveglio. E così cinque
liberati apparvero nel mondo, mentre il Buddha
spiegava. Come Koóðañña durante il primo in-

150
PARTE SECONDA

segnamento divenne sotápanna, e cioè raggiunse il


primo stadio di liberazione, così i cinque eremiti
raggiunsero la liberazione con questo discorso.
A qualcuno potrebbe venire il dubbio che solo
ascoltando un discorso di un Buddha si possa essere
liberati. Non è così, perché quegli eremiti non sono
stati liberati dalle parole del Buddha. Si trattava di
persone che avevano messo in pratica il Dhamma
nelle vite precedenti, e che avevano continuato a
sviluppare le loro qualità spirituali. Venendo in con-
tatto col Buddha e udendo le sue parole illuminate,
cominciarono a sperimentare Vipassana: iniziarono
a osservare il continuo sorgere e passare delle sensa-
zioni. Mentre l’accumulazione delle loro impurità
si dileguava, continuando ad ascoltare il Buddha e
a osservare le sensazioni, sperimentandone l’imper-
manenza, passarono attraverso tutti gli stadi della
liberazione, sino a diventare Arahant, cioè persone
completamente liberate.

La tecnica e il processo di liberazione che state


mettendo in pratica sono gli stessi insegnati dal
Buddha, fatene buon uso. Che sempre più persone
diventino liberate.

151
5.
Il discorso
sui fondamenti
della consapevolezza
(Saþipaþþhána sutta, M.10)
Premessa

L a ricerca ha portato il Buddha a riscoprire


la tecnica di auto-osservazione, chiamata
Saþipaþþhána o Vipassaná, l’osservazione equanime
della realtà così come è. L’oggetto di osservazione
è la struttura mentale e fisica, che è l’unica sorgente
di informazioni e il solo strumento di lavoro “per
conoscere il mondo”.

È proprio in questo corpo, di appena due brac-


cia di lunghezza, con le sue percezioni e la sua
mente, che vi faccio conoscere il mondo, il sorgere
del mondo, l’estinzione del mondo e il sentiero che
conduce all’estinzione del mondo. (S 1,2,3,6)

Per questo motivo, gli esercizi di meditazione


Saþipaþþhána o Vipassana sono incentrati sul corpo.
Le relative istruzioni sistematiche sono sia in que-
sto discorso, il decimo nella raccolta dei discorsi di
media lunghezza (Majjhima Nikáya), che nel Mahá
Saþipaþþhána Suttanta, ventiduesimo della raccolta
Dìgha Nikáya. Proponiamo la prima versione, perché
la parte riguardante le quattro nobili verità, esposte
dettagliatamente nel secondo testo, è già stata pre-
sentata al lettore nelle note al Discorso della messa
in moto della ruota del Dhamma.

155
5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza

La consapevolezza
delle sensazioni*
a cura del Vipassana Research Institute

(…) Le quattro sezioni del discorso trattano delle


quattro dimensioni della realtà (comuni a ogni essere
umano): gli aspetti fisici del corpo e della sensazio-
ne, gli aspetti psichici della mente e i suoi contenuti.
Lo sviluppo della consapevolezza di questi quattro
aspetti è lo strumento essenziale per investigare noi
stessi in modo completo e dettagliato.
Quando osserviamo la verità in noi stessi, appare
chiaro che il cosiddetto io ha due aspetti, uno fisico
(il corpo) e uno psichico (la mente). Sperimentiamo
il corpo percependolo per mezzo delle sensazioni
fisiche, che si manifestano ovunque, all’interno di
noi; infatti, anche a occhi chiusi, siamo consapevoli
delle mani e di tutte le nostre parti, perché le possia-
mo percepire attraverso le sensazioni.
Possiamo analizzare la struttura psichica, osser-
vando la mente (citta) e ciò che sorge in essa (dham-
ma): pensieri, emozioni, ricordi, speranze, paure.
Non possiamo osservare la mente prescindendo
dai contenuti mentali, come corpo e sensazione
non possono essere sperimentati separatamente. La
mente e il corpo sono collegati fra loro, e qualsia-

* Da V.R.I. (a cura di) The importance of vedana.


Estratto. (In W. Hart. La meditazione Vipassana – Un’ arte di
vivere, op. cit., pagg. 209-219.)

156
PARTE SECONDA

si cosa accade in una, è riflessa nell’altro, poiché i


pensieri e le emozioni che sorgono a livello mentale,
dando il via a un processo biochimico, producono
sensazioni a livello fisico. L’osservazione delle sen-
sazioni nel corpo è, quindi, il mezzo per esaminare
la totalità del nostro essere, fisico e mentale. Questa
fu la scoperta chiave del Buddha, il cuore del suo
insegnamento:

Qualsiasi cosa nasca nella mente,


è accompagnata dalla sensazione.
(Múlaka Sutta. A. VIII. IX, 3. 83).

Il Buddha evidenziò l’importanza della consape-


volezza delle sensazioni, anche nel Discorso sulla rete
della perfetta saggezza (Brahmajála Sutta, D.1):

L’Illuminato si è affrancato e liberato da tutti gli


attaccamenti, perché ha visto come sono realmente il
nascere e lo svanire delle sensazioni, il godere di esse,
il pericolo di esse, la liberazione da esse.

Affermò che la consapevolezza delle sensazioni è


il prerequisito per la comprensione delle Quattro
Nobili Verità:

Alla persona che ha consapevolezza della sensazio-


ne, io mostro la via per comprendere cosa siano la
sofferenza, la sua origine, la sua fine e il sentiero che
conduce alla sua fine.
(Tittháyatana Sutta, A. III. VIII. 61 IX)

157
5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza

La sensazione
Che cos’è esattamente la sensazione? Il Buddha ne
descrisse due differenti aspetti, e la annoverò fra le
quattro attività mentali. Dopo averlo sperimentato, af-
fermò che la sensazione si manifesta in forma sia fisica
che mentale. Non possiamo, infatti, percepire il corpo
senza la mente. É la mente che sente, ma ciò che sente è
inscindibile dall’elemento fisico. L’elemento fisico della
sensazione è d’importanza fondamentale nella pratica
della meditazione insegnata dal Buddha.
Secondo l’insegnamento dell’origine interdipen-
dente, a ogni contatto fisico e mentale, si produce
una sensazione nel corpo. Nello stesso istante, ha
luogo, nella mente, una reazione inconscia di pia-
cere o antipatia nei confronti della sensazione. Se
questa reazione si ripete, e gradualmente s’intensifi-
ca, si trasforma in bramosia o avversione, e acquista
una forza tale da sopraffare la nostra mente conscia.
La scintilla della sensazione ha così modo di ac-
cendere un grande fuoco e crearci difficoltà. Per
impedire che il processo reattivo inizi, dobbiamo
permettere a ogni scintilla di esaurirsi, senza che in-
neschi un incendio. Per fare questo, è indispensabile
accorgerci subito della sensazione sorta, rimanere
equanimi, e osservare oggettivamente che la sensa-
zione così com’è sorta, se ne va.

158
PARTE SECONDA

L’impermanenza della sensazione


La capacità di percepire la sensazione del corpo
è fondamentale, perché consente un’esperienza
dell’impermanenza vivida e tangibile; i cambia-
menti, infatti, avvengono in noi ogni momento,
e li possiamo avvertire unicamente osservando le
sensazioni. La consapevolezza del loro costante
mutamento ci permetterà di comprendere la nostra
natura effimera e, di conseguenza, l’inutilità di qual-
siasi attaccamento. Allora, gradualmente, ci distac-
cheremo da bramosia e avversione, ed eviteremo di
produrre nuove reazioni, sino a che abbandoneremo
l’abitudine stessa alla reazione. In questo modo la
mente si libererà dalla sofferenza.

Coloro che continuamente compiono sforzi


per dirigere la loro consapevolezza verso il corpo,
che si astengono dal compiere azioni nocive,
e cercano di fare ciò che deve essere fatto,
tali persone, consapevoli (delle sensazioni n.d.r.)
e con comprensione profonda (dell’impermanenza
n.d.r.) si liberano da tutte le loro negatività.
(Aþþhasata Sutta, S. XXXVI II. III. 22 2).

L’anello mancante
Le cause della sofferenza sono la bramosia e l’av-
versione. Quando un oggetto entra in contatto con
i cinque sensi e con la mente, siamo abituati a pen-
sare che le nostre reazioni (di bramosia e avversione)
siano rivolte verso l’oggetto. Ma il Buddha scoprì

159
5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza

l’anello mancante di questo processo: tra l’oggetto


e la reazione vi è sempre una sensazione; in altre
parole, non reagiamo alla realtà esteriore, ma alla
sensazione fisica che si produce nel nostro corpo in
seguito al contatto. Quando impariamo a osservare
la sensazione fisica senza reagire, le cause della sof-
ferenza (bramosia e avversione) non si manifestano,
e la sofferenza non sorge più. L’osservazione della
sensazione fisica è d’importanza cruciale per com-
prendere pienamente il Saþipaþþhána Sutta (il Discorso
sui fondamenti della consapevolezza).

I fondamenti della consapevolezza


Il discorso inizia con l’elencazione degli scopi:

Purificazione degli esseri, trascendenza del dolore


e dei dispiaceri, estinzione della sofferenza fisica e
mentale, pratica di una via di verità, esperienza
diretta della realtà ultima, nibbána.

È per il loro conseguimento, che ci s’impegna nel


consolidare la consapevolezza. Segue la spiegazione
su come praticare:

Qui il meditatore si sofferma, ardente, colmo di


comprensione e di consapevolezza, osservando il
corpo nel corpo, osservando la sensazione nella sensa-
zione, osservando la mente nella mente, osservando
i contenuti mentali nei contenuti mentali, avendo
abbandonato bramosia e avversione nei confronti del
mondo.

160
PARTE SECONDA

Che cosa significa “osservando il corpo nel corpo, le


sensazioni nelle sensazioni” e così via? Corpo, sensa-
zioni, mente e contenuti mentali sono le dimensioni
dell’essere umano. La comprensione della realtà ul-
tima, che ci conduce alla liberazione, può avvenire
unicamente attraverso la consapevolezza (sati) e la
chiara comprensione delle caratteristiche di queste
quattro dimensioni (sampajañña).
La consapevolezza cui si riferisce il titolo del di-
scorso (i fondamenti della consapevolezza, n.d.r.),
è quella dell’impermanenza di ogni fenomeno,
compreso quello dell’io. Solo questa conduce alla
liberazione. Possiamo diventare consapevoli dell’im-
permanenza (anicca), osservando la sensazione nel
corpo, sia quando si manifesta sulla superficie, sia
quando si manifesta al suo interno, sia contempora-
neamente all’interno e all’esterno. Attraverso l’osser-
vazione equanime della sensazione, scopriamo che
essa consiste in un flusso costante di vibrazioni, e
che non è legata a un io (anattá). Se li analizziamo
bene, infatti, ci rendiamo conto che questi fenomeni
sono effimeri, perché sorgono e passano con grande
velocità, e che tutto questo accade al di fuori del
nostro controllo. La sensazione, dunque, è la fonte
della nostra sofferenza (dukkha), perché, nonostante
sia impermanente e priva di un io, sviluppiamo un
forte attaccamento a essa (vogliamo che si perpetui
se è piacevole, vogliamo che se ne vada se è spiace-
vole). Anicca, dukkha, anattá: nient’altro esiste all’in-
fuori di queste tre leggi fondamentali. Ecco le verità
da comprendere.
Per mezzo della comprensione dell’impermanenza,
l’attaccamento irriflessivo e viscerale verso il nostro

161
5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza

corpo e la nostra mente s’indebolisce fino a scompari-


re, e la bramosia e l’avversione verso il mondo esterio-
re e il mondo interiore gradualmente si estinguono.
Così ci liberiamo dalla sofferenza che esse provocano.

Il percorso dell’osservazione
e della comprensione
Il discorso inizia trattando dell’osservazione del
corpo, perché esso è la manifestazione più concreta
dell’essere umano, e quindi la base idonea da cui
iniziare l’auto-osservazione. In seguito, sono illu-
strati i differenti metodi per osservare il corpo. Il più
comune, quello che il Buddha stesso usò, è la con-
sapevolezza del respiro. Altri sono la consapevolezza
dei movimenti del corpo, delle posizioni ecc, ecc. In
qualsiasi modo iniziamo l’esplorazione, per arrivare
alla meta finale dobbiamo passare per stadi ben defi-
niti e individuati dall’Illuminato, che li descrisse nel
seguente fondamentale paragrafo:

In questo modo (il meditatore, n.d.r.) si sofferma a


osservare il corpo nel corpo, internamente o esterna-
mente, oppure sia internamente sia esternamente. Si
sofferma a osservare il fenomeno del nascere nel corpo.
Si sofferma a osservare il fenomeno dello svanire nel
corpo. Si sofferma a osservare il fenomeno del nascere
e dello svanire nel corpo. Ora la consapevolezza gli si
presenta: “Questo è il corpo”. Tale consapevolezza si
sviluppa fino al grado che rimangono solo compren-
sione e osservazione, ed egli rimane distaccato, senza
aggrapparsi a nulla nel mondo.

162
PARTE SECONDA

Per la sua importanza, questo brano è ripetuto alla


fine di ogni paragrafo nella sezione sull’osservazione
del corpo, e anche nelle successive sezioni, riguar-
danti l’osservazione delle sensazioni, della mente e
dei contenuti mentali. (In queste ultime tre, la paro-
la “corpo” è sostituita rispettivamente da sensazioni,
mente e contenuti mentali, n.d.r.).
Il passaggio descrive il corretto metodo di osserva-
zione, da applicare a tutti gli aspetti costitutivi dell’es-
sere umano (corpo, sensazioni, mente, contenuti
mentali). A causa delle sue complessità, questo brano
si è prestato a interpretazioni diverse e a fraintendi-
menti. Le difficoltà d’interpretazione scompaiono,
quando teniamo in considerazione che queste frasi si
riferiscono alla consapevolezza delle sensazioni fisiche.
Nel testo è specificato che l’obiettivo della medita-
zione è il raggiungimento della completa conoscen-
za della nostra natura, e che questa conoscenza si
può raggiungere solo attraverso l’osservazione delle
sensazioni fisiche, poiché essa comprende l’osserva-
zione indiretta di tutte le dimensioni del fenomeno
umano (corpo, mente, contenuti mentali).
Quando il Buddha sperimentò che a ogni pensie-
ro, a ogni emozione, idea o oggetto che sorge nella
mente, corrisponde una sensazione nel corpo, com-
prese che è la sensazione fisica il mezzo più idoneo
per l’osservazione di tutte le parti che costituiscono
l’essere umano. Continuando a osservare le sensa-
zioni, sempre presenti in noi, infatti, ci possiamo
rendere conto che la caratteristica dell’impermanen-
za, verificata in esse, si riflette anche nel corpo, nella
mente, e nei contenuti mentali. In altre parole, ogni
aspetto della nostra struttura psico-fisica ci apparirà

163
5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza

impermanente. Ecco perché, nel paragrafo, è ripe-


tuta la stessa frase, con riferimento a tutte le quattro
dimensioni dell’essere umano.
All’inizio della pratica meditativa si usano differen-
ti oggetti di concentrazione, come la consapevolezza
del respiro, dei movimenti o delle posizioni corporee,
ma, da un certo stadio di progresso in poi, si dovran-
no osservare esclusivamente le sensazioni, perché esse
sono la manifestazione più chiara ed evidente di tutte
le attività corporee, sia fisiche sia mentali.

Come osservare la sensazione


S’inizia con l’osservare le sensazioni che appaiono
sulla superficie del corpo, poi all’interno del corpo,
oppure contemporaneamente all’interno e all’ester-
no del corpo: dalla consapevolezza delle sensazioni
in alcune parti, si sviluppa, gradualmente, la capacità
di sentire le sensazioni in tutto il corpo. È probabile
che all’inizio si sperimentino sensazioni di natura
intensa, che potranno durare anche a lungo: osser-
vandole, ci si renderà conto del loro sorgere e, dopo
un certo tempo, del loro svanire. A questo livello,
si starà ancora sperimentando la realtà apparente di
corpo e mente, la loro natura che sembra solida e du-
ratura. In seguito si giungerà allo stadio in cui questa
solidità si dissolve: mente e corpo saranno sperimen-
tati nella loro vera realtà, e cioè come un insieme di
vibrazioni, che a ogni istante nascono e svaniscono.
Finalmente si comprenderà che cosa sono il corpo, le
sensazioni, la mente e i contenuti mentali: un flusso
di fenomeni impersonali, in costante cambiamento.

164
PARTE SECONDA

Questa comprensione diretta della realtà ultima


dissolverà progressivamente illusioni, idee erronee e
pregiudizi; e anche le idee corrette, prima accettate
per fede o per deduzione, e ora sperimentate, acqui-
steranno un nuovo significato.
Con l’osservazione della realtà interiore, tutti i
condizionamenti saranno gradualmente eliminati.
Rimarranno giusta consapevolezza e giusta saggezza.
Quando scompare l’ignoranza, la tendenza latente
a generare bramosia e avversione è sradicata, e il
meditatore si libera dagli attaccamenti, anche da
quello più profondo: quello verso il proprio corpo
e la propria mente. E quando quest’attaccamento è
rimosso, la sofferenza scompare e si giunge alla libe-
razione. Il Buddha dichiarò:

Tutto ciò che viene percepito come sensazione


è in relazione con la sofferenza.

La sensazione è, dunque, il mezzo ideale per esplo-


rare la verità della sofferenza. La sensazione spiace-
vole è, ovviamente, sofferenza, ma, continuando
a meditare, ci si accorgerà che anche la sensazione
piacevole è una forma molto sottile di agitazione.
Siccome ogni sensazione è impermanente, se abbia-
mo sviluppato attaccamento verso una sensazione
piacevole, inevitabilmente soffriremo quando essa,
per legge di natura, svanirà. Ogni sensazione con-
tiene un seme d’infelicità; e per questa ragione, il
Buddha evidenziò l’importanza della comprensione
del sorgere e dell’estinguersi di tutte le sensazioni.

165
5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza

Il fine ultimo
Finché resteremo nell’ambito della mente e della
materia, persisteranno sensazioni e sofferenza. Esse
avranno fine solo quando ne andremo al di là, speri-
mentando la realtà ultima del nibbána.

Il Buddha disse:

Una persona non mette in pratica l’insegnamento


del Dhamma, solo perché ne parla molto.
Ma lo mette in pratica veramente,
anche se ne ha sentito parlare solo un poco,
quando sperimenta la legge di natura
nel proprio corpo, e ne è continuamente
consapevole. (Dpd. XIX. 4 259)

Il nostro corpo testimonia la verità. Le sensazioni


sono lo strumento per scoprirla e conseguire la libe-
razione dalla sofferenza.

166
Testo del discorso*

C osì io stesso ho udito: una volta, trovandosi


a Kammásadhammma, città dove i Kuru
tenevano il loro mercato, l’Illuminato chiamò a sé i
monaci e parlò:
– Monaci, (1) questa è la via diretta (2) che con-
duce alla purificazione degli esseri, che permette di
superare dolore e rimpianto, che porta all’estinzione
della sofferenza e dell’afflizione, che permette di per-
correre il cammino verso la verità e rende possibile la
realizzazione del nibbána.
Si tratta dei quattro modi o fondamenti per sta-
bilizzare la consapevolezza. (3) Quali sono questi
quattro fondamenti? Eccoli, o monaci.
Lasciando da parte ogni bramosia e avversione nei
confronti di tutti i fenomeni materiali e mentali, il
meditatore deve praticare con fervore la massima
consapevolezza e la costante e completa comprensio-
ne dell’impermanenza mentre osserva il suo corpo
nel corpo; poi mentre osserva le sensazioni nelle sen-
sazioni. Inoltre anche quando osserva la sua mente
nella mente, e osserva tutti i contenuti mentali nei
contenuti mentali, deve sempre lasciar da parte sia
la bramosia che l’avversione nei confronti di tutti i
fenomeni materiali e mentali di questo mondo, e
praticare con fervore la massima consapevolezza e la
costante e completa comprensione della caratteristi-

* Le note numerate sono alla fine del testo del discorso.

167
5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza

ca dell’impermanenza di tutti i fenomeni. (4)

1. Osservazione del corpo (káyánupassaná)

a) Consapevolezza del respiro.

In che modo, monaci, un meditatore pratica os-


servando il corpo nel corpo? Dopo essersi recato in
un bosco, o ai piedi di un albero, o in un luogo
solitario e riparato, egli si siede con le gambe in-
crociate, mantiene il busto eretto e concentra la sua
attenzione sullo spazio intorno alla bocca, nella zona
tra il labbro superiore e le narici. Mantenendo fissa
l’attenzione su questa zona ristretta, egli osserva l’in­
spirazione e l’espirazione.
Mentre respira, si rende conto se, in quel momen-
to, l’inspirazione è lunga e profonda, oppure breve e
leggera. È consapevole in ogni momento, se il respi-
ro è lungo o corto, profondo o sottile. Allenandosi
in questo modo, arriva a essere consapevole dell’in-
tero corpo, sia durante ogni inspirazione sia durante
ogni espirazione, e a essere consapevole dell’imper-
manenza di tutte le sensazioni all’interno del corpo.
In seguito, si allena a osservare ogni inspirazione ed
espirazione, mentre compie tutte le attività fisiche
con il corpo.

L’abile tornitore
Paragoniamo questa pratica all’attività di un abile
tornitore, che, girando il tornio, sa perfettamente se
la rotazione che gli sta imprimendo è lunga o breve.

168
PARTE SECONDA

Così pure, il meditatore è perfettamente consape-


vole se il suo respiro è corto o lungo, profondo o
leggero. Egli si esercita a osservare l’intero corpo
mentre inspira o espira, e a osservare il respiro men-
tre il corpo è fermo e calmo.

Come osservare
Il meditatore, quindi, osserva il proprio corpo sia
all’interno sia in superficie e poi sia all’interno sia in
superficie, contemporaneamente. E lo osserva, prima
notando il fenomeno del sorgere delle sensazioni, e
poi il fenomeno dello svanire delle sensazioni, per
poi arrivare a osservare come queste sensazioni, non
appena sorgono, immediatamente passano. Allora
il meditatore, con questa continua consapevolezza
e completa comprensione dell’impermanenza, si
rende conto: ecco il corpo. (5)
E svilupperà questa consapevolezza del sorgere e
svanire delle sensazioni, fino al punto che rimarrà
solo la pura consapevolezza di questi fenomeni in-
sieme alla comprensione della loro impermanenza.
E così, perfettamente equanime, non proverà bra-
mosia e avversione per ciò che esiste nel mondo
fisico e nel mondo mentale.
Ecco, come i meditatori devono praticare l’osser-
vazione del corpo nel corpo. (6)

b) Posizioni del corpo.

Quando cammina, un meditatore, è consapevole


che sta camminando; quando è in piedi, è consapevo-

169
5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza

le di essere in piedi; quando è seduto, di essere seduto;


e quando è sdraiato, è consapevole di essere sdraiato.
Qualsiasi posizione assuma con il corpo egli ne
è perfettamente consapevole. Infatti, in tutte le
posizioni, procedendo nella pratica, il meditatore
osserva il corpo nel corpo, all’interno e in superficie,
e poi sia all’interno sia in superficie, contempora-
neamente. E lo osserva, notando il fenomeno del
sorgere delle sensazioni nel corpo, e poi il fenomeno
dello svanire delle sensazioni, per poi arrivare a os-
servare come queste sensazioni non appena sorgono
nel corpo, immediatamente passano.
E allora, il meditatore, con questa continua con-
sapevolezza e la completa comprensione dell’imper-
manenza, si rende conto: ecco il corpo.
Svilupperà questa consapevolezza del sorgere e sva-
nire delle sensazioni fino al punto che rimarrà solo
la pura e totale comprensione di questi fenomeni,
insieme alla consapevolezza. Perfettamente equani-
me, non proverà bramosia e avversione verso ciò che
esiste nel mondo fisico e nel mondo mentale. Ecco
come i meditatori devono praticare l’osservazione
del corpo nel corpo. (7)

c) Sulla comprensione completa e costante del­-


l’impermanenza.

E ancora, o monaci, un meditatore comprende


pienamente ed è costantemente consapevole della
transitorietà di tutte le cose che percepisce, osser-
vando la sensazione fisica. Ne è consapevole quando
va e quando viene, quando guarda diritto avanti a
sé o volge il suo sguardo in giro, quando si china

170
PARTE SECONDA

o si raddrizza, quando si veste o si reca a mangiare;


rimane pienamente consapevole dell’impermanenza
di ogni fenomeno fisico e mentale sia che mangi o
che beva, che mastichi o che gusti ciò che sta in-
ghiottendo, o che attenda ai suoi bisogni corporei; è
consapevole dell’impermanenza quando cammina,
sta fermo e si siede, quando dorme o è sveglio, sia
che parli o che taccia.(…)

d) Sul carattere repulsivo del corpo.

Poi il meditatore, o monaci, riflette sul suo corpo.


Si rende conto che, racchiuse nella pelle, nello spa-
zio compreso tra le piante dei piedi e la sommità
del capo, ci sono ogni genere d’impurità; ed egli le
considera in dettaglio: capelli, peli, unghie, denti,
pelle, carne, nervi, ossa, midollo, reni, cuore, fega-
to, pleura, milza, polmoni, intestini, mesenterio,
stomaco con il suo contenuto, cervello, feci, bile,
muco, pus, sangue, sudore, grasso, lacrime, umori
oleosi, saliva, muco nasale, liquido sinoviale, urina.
Il meditatore osserva ed esamina con equanimità
questi elementi che costituiscono il suo corpo, così
come farebbe l’uomo dalla vista acuta che esamina il
contenuto di quei sacchi per provviste a doppia aper-
tura, costituito da varie specie di cereali e di semi. Egli
distingue ed elenca: riso ordinario e di collina, riso
brillato e non brillato, fagioli verdi, piselli, sesamo.
Allo stesso modo il meditatore, esaminando il
corpo, considera, a uno a uno gli organi e le sostanze
che esso contiene, dalla testa ai piedi.(…)

171
5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza

e) Sui quattro elementi materiali.

E ancora, monaci, un meditatore riflette sul


corpo, in qualsiasi posizione o situazione si trovi,
in relazione alle caratteristiche dei quattro elementi
che lo compongono: terra, acqua, fuoco, aria.
È come un abile macellaio, che, dopo aver macel-
lato e diviso in pezzi il bue, lo vende al mercato, met-
tendosi alla congiunzione di quattro strade. (…) (8)

f ) Nove riflessioni sul cadavere. (9)

Consideriamo il caso di un meditatore che vede


un cadavere nella fossa del cimitero. È il cadavere di
un uomo, morto da pochi giorni, cereo e gonfio, già
in putrefazione.
Il monaco guarda il proprio corpo e riflette: “Que-
sto mio corpo è della stessa natura di quello, anch’es-
so diventerà così, non potrà sfuggire a questa sorte.”
Poi osserva il cadavere in tutte le sue differenti fasi
di decomposizione. Preda di corvi, falchi, avvoltoi,
cani, sciacalli e varie specie di vermi; quindi sche-
letro tenuto insieme dai tendini, qualche brandel-
lo di carne e grumo di sangue; poi, un insieme di
ossa disseccate, senza carne né sangue, ma ancora
legate dai tendini; poi, queste stesse ossa prive dei
legamenti e sparse qua e là: da una parte l’osso di
una mano, dall’altra quello di un piede, e altrove
una tibia, un femore, un bacino, una costola, una
vertebra, una scapola, una mandibola, una mascella,
un cranio; in seguito, ossa sbiancate simili a ossa di
seppia; ossa che, dopo un anno, sono state gettate in
un mucchio; e infine sbriciolate e ridotte in polvere.

172
PARTE SECONDA

Il meditatore, osservando tutte queste fasi di


decomposizione, riflette sul fatto che anche il suo
corpo è destinato a passare attraverso di esse. (…)

[In ognuna delle sezioni citate – c,d,e,f – viene riporta-


to il seguente passaggio, n.d.r]:

(...) Il meditatore non smette mai di osservare il


proprio corpo all’interno e poi in superficie e quindi
contemporaneamente, all’interno e in superficie.
E lo osserva notando il fenomeno del sorgere delle
sensazioni, e poi il fenomeno dello svanire delle sen-
sazioni, per poi osservare come queste sensazioni
non appena sorgono, immediatamente passano.
Allora il meditatore, con continua consapevolezza
e completa comprensione dell’impermanenza, si
rende conto: ecco il corpo.
E svilupperà consapevolezza del sorgere e svanire
delle sensazioni fino al punto che rimarrà solo la
pura e totale comprensione dei fenomeni, insieme
alla consapevolezza. E così, perfettamente equani-
me, non proverà bramosia e avversione verso ciò che
esiste nel mondo fisico e nel mondo mentale.
Ecco, come il meditatore deve praticare l’osserva-
zione del corpo nel corpo.

2. L’osservazione delle sensazioni


(vedanánupassaná)

E in che modo, monaci, il meditatore si dedica


all’osservazione delle sensazioni nelle sensazioni?
In questo modo, o monaci: quando il meditatore
prova una sensazione piacevole, sa perfettamente

173
5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza

che sta sperimentando una sensazione piacevole e,


nello stesso tempo, che la sua caratteristica è quella
di sorgere e passare, che essa è impermanente.
Allo stesso modo, quando la sensazione che prova
è spiacevole, egli è pienamente consapevole di spe-
rimentare una sensazione spiacevole e che la sua
caratteristica è di sorgere e passare. Lo stesso accade
anche nel caso di una sensazione neutra.
È anche consapevole quando prova attaccamento
o avversione verso qualche sensazione, sia essa pia-
cevole, spiacevole o neutra; oppure quando è equa-
nime verso questi tipi di sensazione.
In ognuno di questi casi, il meditatore non smette
mai di osservare il proprio corpo all’interno, poi in
superficie, quindi contemporaneamente all’interno
e in superficie. E lo osserva notando il fenomeno
del sorgere delle sensazioni, e poi il fenomeno dello
svanire delle sensazioni, per poi osservare come le
sensazioni non appena sorgono, immediatamente
passano. Allora, il meditatore, con continua consa-
pevolezza e completa comprensione dell’imperma-
nenza, si rende conto: ecco la sensazione.
E svilupperà consapevolezza del sorgere e svanire
delle sensazioni fino al punto che rimarrà solo la
pura e totale comprensione dei fenomeni, insieme
alla consapevolezza. E così, perfettamente equani-
me, non proverà bramosia e avversione verso ciò che
esiste nel mondo fisico e nel mondo mentale.
Ecco, come i meditatori devono praticare l’osser-
vazione delle sensazioni nelle sensazioni.

174
PARTE SECONDA

3. L’osservazione della mente (cittánupassaná)

E come, monaci, il meditatore si dedica all’os-


servazione della mente nella mente? (10) Osservan-
do la sua mente, è consapevole quando essa ha
attaccamenti o ne è libera; e nello stesso tempo, si
rende conto dell’impermanenza di tutti questi stati
mentali; è consapevole quando la mente è offuscata
dall’odio e quando ne è priva; quando la mente è
preda dell’illusione e quando non lo è; quando la
mente è calma oppure agitata; quando la mente è
raccolta oppure distratta dalle impurità mentali;
quando la mente si espande, e cioè entra in diffe-
renti stati di concentrazione, e quando non è così;
è consapevole se la mente ha raggiunto uno stato di
intensa concentrazione oppure no; quando la mente
è concentrata o non lo è; ed inoltre è consapevole se
la sua mente è completamente liberata oppure no.
È consapevole di tutti questi differenti stati men-
tali, insieme alla loro caratteristica principale: l’im-
permanenza.
In questo modo, il meditatore osserva la sua
mente internamente, (11) e osserva la sua mente
esternamente (in relazione al contatto con l’esterno,
n.d.r.), oppure l’osserva all’interno e quando entra
in contatto con l’esterno, contemporaneamente.
Inoltre osserva il sorgere degli stati mentali e il
loro svanire, ed è testimone del fatto che sorgono e
svaniscono, con grande rapidità.
Allora il meditatore, con questa continua consa-
pevolezza e completa comprensione dell’imperma-
nenza, si rende conto: ecco la mente. E svilupperà
consapevolezza del sorgere e svanire di ogni stato

175
5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza

mentale, fino al punto che rimarrà solo la pura e


totale comprensione dei fenomeni, insieme alla con-
sapevolezza. E così, perfettamente equanime, non
proverà bramosia e avversione verso ciò che esiste
nel mondo fisico e nel mondo mentale.
Ecco, come il meditatore deve praticare l’osserva-
zione della mente nella mente.

4. L’osservazione dei contenuti mentali


(Dhammánupassaná) (12)

a) I cinque ostacoli.

Essi sono: bramosia-desiderio, avversione, pigri-


zia-torpore, agitazione-rimorso e dubbio.
Vediamo, o monaci, come il meditatore osserva
i contenuti mentali nei contenuti mentali. Consi-
deriamo, dapprima, i contenuti mentali che si ri-
feriscono ai cinque ostacoli, e il modo in cui sono
osservati.
Quando si manifesta un desiderio verso gli ogget-
ti dei sensi, il meditatore è perfettamente consape-
vole che in lui c’è questo desiderio. Egli sa quando
questo desiderio sensuale è assente; è consapevole di
quando sta per sorgere e si rende anche conto come
il desiderio, che è sorto in lui, è eliminato. E vede,
chiaramente, come il desiderio appena eliminato
non avrà più modo di sorgere. Così, si rende anche
conto di quando un sentimento di avversione, verso
gli oggetti dei sensi, è apparso nella sua mente, e sa
perfettamente quando quest’avversione non c’è più.
È consapevole quando l’avversione sta per sorgere e
si rende conto anche come l’avversione, sorta in lui,

176
PARTE SECONDA

è eliminata, e sa bene quando quell’avversione non


si riprodurrà più in futuro.

[Il processo di osservazione avviene, allo stesso modo,


per gli altri ostacoli: la pigrizia e il torpore, l’agitazio-
ne, il rimorso e il dubbio, n.d.r.]

Il meditatore è chiaramente consapevole della pre-


senza nella sua mente di ciascuno di questi sentimen-
ti. Sa pure, con precisione, quando essi sono assenti.
Sa quando e come, essi sorgono. Comprende come
avviene la loro eliminazione, e si accorge quando, una
volta estirpati, non compariranno più nella mente.
Così il meditatore procede nell’osservazione dei
contenuti mentali, all’interno della mente o quando
sono in relazione con l’esterno, o contemporanea­
mente. E osserva, notando il fenomeno del loro
sorgere nella mente, e poi il fenomeno del loro sva-
nire, per poi osservare come questi fenomeni non
appena sorgono, immediatamente passano. Allora
il meditatore, con questa continua consapevolezza
e completa comprensione dell’impermanenza, si
rende conto: ecco i contenuti mentali.
E svilupperà questa consapevolezza del sorgere
e svanire dei contenuti mentali, fino al punto che
rimarrà solo la pura e totale comprensione di que-
sti fenomeni, insieme alla consapevolezza. E così,
perfettamente equanime, non proverà bramosia e
avversione verso ciò che esiste nel mondo fisico e nel
mondo mentale.
Ecco, come i meditatori devono praticare l’osser-
vazione dei contenuti mentali, in relazione ai cinque
ostacoli. (13)

177
5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza

b) I cinque aggregati dell’attaccamento.

Consideriamo come il meditatore osservi i con-


tenuti mentali nei contenuti mentali, per quanto
riguarda i cinque aggregati dell’attaccamento.
Il meditatore si esercita nella consapevolezza e nella
piena comprensione dell’impermanenza delle sensa-
zioni, osservando attentamente: questo è un fenome-
no materiale, questo è il suo sorgere e questo è il suo
svanire; così come questa è una sensazione e questo
è il suo sorgere e il suo svanire. Allo stesso modo,
osserva che: questa è una percezione, ed ecco il suo
formarsi e il suo dileguarsi; e questa è una reazione,
è così che scaturisce e poi sparisce. E questa è la co-
scienza, vede come si manifesta e come se ne va (…).

c) Le basi sensoriali della percezione.

Ora, monaci, occupiamoci di come osservare i


contenuti mentali, in relazione alle sei basi sensoria-
li, interne ed esterne.
Come osservare? Il meditatore è perfettamente
consapevole che vi è l’organo della vista, l’occhio,
che è la base interna corporea; inoltre è perfettamen-
te consapevole degli oggetti che l’occhio percepisce,
e che sono la base esterna; ed è, soprattutto, consa-
pevole del legame di dipendenza che si crea tra loro,
quando entrano in contatto.
Il meditatore deve essere consapevole e compren-
dere chiaramente come questo legame, che ancora
non esiste, si manifesterà; comprende come il lega-
me, una volta sorto, possa essere sradicato. E deve
accorgersi quando quello stesso legame che è stato

178
PARTE SECONDA

sradicato, non si manifesterà più in futuro.

[Questo stesso processo di osservazione deve essere


fatto con tutti gli altri sensi, in relazione alle basi in-
terne ed esterne. E cioè con l’orecchio e i suoni; con il
naso e gli odori; con la lingua e i sapori; con il corpo e
il tatto; con la mente e i contenuti mentali, n.d.r.]

Il meditatore deve sempre essere consapevole della


loro esistenza e, soprattutto, del legame di dipen-
denza che si crea, quando entrano in contatto tra
di loro. E si rende conto, chiaramente, come questo
legame, che ancora non esiste, si produce; compren-
de come questo legame, appena sorto, può essere
sradicato; e si accorge quando quello stesso legame
che è stato sradicato, non si manifesterà più (…).

d) I sette fattori dell’illuminazione.

Essi sono: consapevolezza, investigazione-analisi,


energia, gioia, tranquillità-calma, concentrazione ed
equanimità.
Vediamo, monaci, come il meditatore osserva i
contenuti mentali nei contenuti mentali, quando
questi sono i sette fattori dell’illuminazione.
Ecco, il meditatore sa perfettamente quando il
fattore dell’illuminazione della consapevolezza è
presente in lui.
In me c’è consapevolezza egli si dice. È pure piena-
mente cosciente quando la consapevolezza è assente.
Sa quando la consapevolezza, non ancora presente,
sta sorgendo in lui; e se è sorta, come si sviluppa e
giunge alla perfezione.

179
5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza

Egli è pure perfettamente conscio se è presente il


fattore dell’illuminazione dell’investigazione della
legge di natura (o del Dhamma) a livello di espe-
rienza, e sa quando è assente. È inoltre consapevole
quando, non ancora presente, sta sorgendo; e si
rende conto con chiarezza di come in lui si sviluppi
e si perfezioni questo processo d’investigazione della
realtà, a livello di esperienza.
E poi il meditatore è pienamente consapevole
quando il fattore dell’illuminazione che è l’energia,
è presente, così come sa quando non c’è, si accorge
di quando sta per sorgere e di come si sviluppa e si
perfeziona.

[Allo stesso modo, il meditatore osserva i fattori


dell’illuminazione che sono la gioia, la tranquillità, la
concentrazione e l’equanimità; è sempre consapevole se
questi fattori sono presenti in lui o non ci sono, oppure
si accorge quando stanno per manifestarsi e, una volta
presenti, come si stanno sviluppando e perfezionando.
n.d.r.].

e) Le quattro nobili verità.

Vediamo come il monaco osservi i contenuti


mentali nei contenuti mentali, quando questi con-
cernono le quattro nobili verità.
O monaci, un meditatore comprende chiara-
mente la realtà così com’è, riconoscendo: questa è
sofferenza; poi questa è l’origine della sofferenza;
in seguito: questa è la fine della sofferenza; e infine:
questo è il sentiero che conduce alla fine della soffe-
renza. (…) (14)

180
PARTE SECONDA

[In ognuna delle sezioni citate – b,c,d,e – viene ripor-


tato il seguente passaggio, n.d.r.]:

Così il meditatore procede nell’osservazione dei


contenuti mentali, all’interno della mente o quando
sono in relazione con l’esterno, o contemporanea-
mente.
E osserva notando il fenomeno del sorgere di questi
contenuti mentali nella mente, e poi il fenomeno del
loro svanire, per poi osservare come questi fenome-
ni, non appena sorgono, immediatamente passano.
Allora il meditatore, con questa continua consapevo-
lezza e completa comprensione dell’impermanenza,
si rende conto: ecco i contenuti mentali.
E svilupperà consapevolezza del sorgere e svanire
dei contenuti mentali fino a un punto che rimarrà
solo la pura e totale comprensione di questi fenome-
ni, insieme alla consapevolezza. E così, perfettamente
equanime, non proverà bramosia e avversione verso
ciò che esiste nel mondo fisico e nel mondo mentale.
Ecco, come i meditatori devono praticare l’os-
servazione dei contenuti mentali, in relazione alle
quattro nobili verità.

Gli effetti del perfezionamento


della consapevolezza
In verità, monaci, chi praticasse i quattro fonda-
menti della consapevolezza, esattamente nel modo
che vi ho detto per sette anni, potrebbe aspettarsi
uno di questi due risultati: la suprema saggezza o,
se vi fosse ancora un residuo di attaccamento, il rag-

181
5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza

giungimento dello stadio di non-ritorno. Ma, che


dico, sette anni, o monaci? Chi praticasse i quattro
fondamenti della consapevolezza nel modo esatto
per sei anni, potrebbe aspettarsi uno di questi due
risultati: la suprema saggezza o, se vi fosse ancora
un residuo di attaccamento, l’entrata nello stato di
non ritorno.
Ma basterebbero cinque anni ... quattro anni ...
tre anni … due anni ... un anno ... sette mesi, o
cinque, o quattro, tre, o due mesi, o un mese, o
quindici giorni, o sette giorni.
Chi praticasse i quattro fondamenti della consa-
pevolezza nel modo che vi ho indicato, anche solo
per sette giorni, potrebbe raggiungere la suprema
saggezza o, se in lui esistesse ancora qualche attacca-
mento, lo stato di non ritorno.
Per questo è stato detto: – Questa, o monaci, è
la via diretta per purificare gli esseri, per superare
pena e pianto, per eliminare dolore e sofferenza, per
incamminarsi sul sentiero della verità, per realizzare
il nibbána.
Questa via consiste nei quattro fondamenti della
consapevolezza. Così parlò l’Illuminato.

Felici, i monaci si rallegrarono delle sue parole.

182
Note
1. La parola bhikkhu significa monaco, ma vi sono
numerosi discorsi che il Buddha tenne alla presen-
za di laici, meditatori e no, alcuni dei quali a loro
specificamente diretti. Di conseguenza, chiunque,
monaco o laico, sia incamminato sul cammino di
Dhamma, può trarne vantaggio. Ecco perché abbia-
mo scelto frequentemente la parola meditatore, al
posto del termine monaco.

2. E’ stata preferita la definizione “ la via diretta”


alla consueta “ l’unica via”, sia per evitare l’equivoco
di una pur sottile parvenza di dogmatismo, sia per
essere più completi, come si può evincere da B. Ana-
layo Satipaþþhána - The direct Path to Realization, BPS,
Sri Lanka, 2003, pag. 27: “Via diretta è una traduzio-
ne dell’espressione pali ekayano maggo, composta di
tre parti: eka (uno), ayana (andando) e magga (cam-
mino). La tradizione dei commentari ha preservato
cinque alternative per comprendere questa espressio-
ne:
1) un cammino che conduce direttamente alla
meta finale;
2) un cammino che deve essere percorso da ognu-
no (individualmente);
3) il cammino insegnato dal Buddha (l’Unico);
4) il cammino che si trova solo nel buddhismo;
5) il cammino che conduce a una sola meta (il
nibbána).”
E’ stata, quindi, preferita la prima delle cinque

183
5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza

possibilità sopra elencate, perché implica la direzione


verso la meta finale, piuttosto che un senso di esclu-
sività. Goenka, riguardo traduzioni con l’espressio-
ne “l’unica via”, peraltro da lui stesso utilizzata nei
discorsi, specifica: “Ekájano maggo. Tradurre questa
espressione come ‘l’unica via’, a qualcuno potrebbe
sembrare un’affermazione settaria o semplicistica;
ma chi medita sperimenta che è l’unica via, nel senso
che si può ottenere la liberazione dalla sofferenza,
solo quando bramosia, avversione e ignoranza sono
sradicate dalla mente. Se le loro radici rimangono
e pensiamo di essere liberati perché compiamo un
rito, una cerimonia, o per l’intercessione di qualcu-
no, siamo fuori strada. Occorre andare alla profon-
dità della mente e sradicare le negatività: solo allora
si è liberati. Per l’eliminazione di tutte le negatività
mentali e per il superamento di dolore, angoscia e
sofferenza, questa è l’unica via. Possiamo chiamarla
Vipassana o in altro modo, ma deve condurre alla
radice delle negatività, e la radice è là dove la mente
reagisce, a livello di sensazioni fisiche”.

3. Satipaþþhána significa i fondamenti della consa-


pevolezza (o presenza mentale). Stabilizzarsi nella
consapevolezza, significa impegnarsi con diligenza e
costanza per acquisire consapevolezza e radicarsi in
essa. Con l’espressione stabilizzarsi nella consapevo-
lezza intendiamo rendere lo sforzo attivo nel man-
tenere la continua consapevolezza delle sensazioni,
come risulta dal seguito del discorso.

4. Quando gli veniva chiesto cosa fosse sati (con-


sapevolezza) il Buddha ricorreva al termine saípa-

184
PARTE SECONDA

jañña, che traduciamo liberamente in comprensione


costante e completa dell’impermanenza. Per la fre-
quente associazione di sati e saípajañña, la seconda
è stata spesso considerata quasi sinonimo di sati, o
un’esortazione all’attenzione.
Nel Sutta Piþaka, Il Buddha dà due spiegazioni di
sati. La prima è nel Saíyutta Nikáya:

“In che modo, monaci, un meditatore comprende


pienamente? In questo modo: egli percepisce le sensa-
zioni che sorgono in lui, che durano per un poco e poi
svaniscono; conosce le percezioni che si manifestano in
lui, la loro durata e il loro scomparire; quando la sua
mente si fissa su un oggetto, si ferma, per poi distac-
carsene. È così che nel meditatore avviene la piena e
completa comprensione”.

Qui, saípajáno (aggettivo di saípajañña) è chi


sperimenta la caratteristica dell’impermanenza, per
mezzo dell’osservazione delle sensazioni fisiche. Se
l’impermanenza non è sperimentata a livello di sen-
sazione fisica, si tratta solo di conoscenza intellettua-
le. Si dice poi che saípajañña riguarda anche l’espe-
rienza dell’impermanenza delle percezioni mentali.
Infatti, quando si sperimenta l’impermanenza a li-
vello di sensazione, implicitamente si osserva anche
l’impermanenza della mente e dei contenuti men-
tali, poiché come il Buddha insegna nell’Aòguttara
Nikáya: “Tutto ciò che nasce nella mente si manifesta
nelle sensazioni”.
La seconda spiegazione è nel Maháparinibbána sutta
(Il discorso sulla totale estinzione):

185
5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza

“In che modo, monaci, un meditatore comprende pie-


namente? Quando un meditatore va avanti e indietro,
egli rimane cosciente di ciò che fa e con costante consa-
pevolezza dell’impermanenza; guarda davanti a sé o di
lato, egli lo sa ed è continuamente cosciente dell’imper-
manenza; quando si china o si raddrizza sa quello che
fa, e continuamente si rende conto dell’impermanenza;
sia si vesta o faccia la questua ha coscienza di ciò che
fa ed è ogni attimo consapevole dell’impermanenza. Lo
stesso accade quando mangia, beve, mastica o gusta il
cibo. Quando soddisfa i suoi bisogni corporali, urinan-
do o defecando; sia che cammini, stia fermo o seduto;
sia che egli dorma o sia sveglio, che parli o stia zitto, è
consapevole di ogni suo atto ed è continuamente conscio
dell’impermanenza”.

Qui il Buddha sottolinea che sati deve essere con-


tinua e questo concetto è ripetuto diverse altre volte.
L’unico modo per essere conscio in ogni momento
dell’impermanenza è quello di essere consapevole
delle sensazioni fisiche, le uniche che permettono di
osservare continuamente l’impermanenza. Se saípa-
jañña consistesse nel rendersi conto dell’attività del
camminare, del mangiare e di altre azioni simili, allo-
ra sarebbe sati. La comprensione completa e costante
implica la consapevolezza dell’impermanenza delle
sensazioni: saípajáno satimá. Solo così si sviluppa
paññá, la saggezza che libera.

186
PARTE SECONDA

Il Buddha esprime tutto ciò più specificatamente


nell’Aòguttara Nikáya:

“Sia che il meditatore cammini o stia fermo, sia se-


duto o coricato, che si chini o si raddrizzi, che guardi in
alto, di fianco, o in dietro, qualunque sia la sua dire-
zione, egli osserva il sorgere e lo svanire degli aggregati”.

Il Buddha ha sempre posto l’accento sull’im-


portanza della costante e completa comprensione
dell’impermanenza, in tutte le attività fisiche e
mentali. È proprio perché l’esatta comprensione del
termine tecnico saípajañña è essenziale per capire
questo sutta, l’abbiamo tradotto con “la costante e
completa comprensione dell’impermanenza”, anche
se è un’espressione meno concisa della più diffusa
“chiara comprensione”. (Da V.R.I. (a cura di), In-
troduzione al Mahá-Saþipaþþhána Sutta, V.R.I. Ibid. )

5. L’espressione atthi káyo (letteralmente ecco il


corpo) indica che il meditatore, sperimenta l’im-
permanenza, a livello delle sensazioni; e perciò non
identifica più il corpo come uomo, donna, giovane,
vecchio, bello, brutto, non genera attaccamento ad
esso, non lo considera come io o mio. Nelle altre tre
sezioni del discorso si è usata la medesima espressio-
ne: ecco le sensazioni, ecco la mente, ecco i contenuti
mentali, per indicare la mancanza d’identificazione
del meditatore con l’oggetto, e la sua comprensione
della caratteristica dell’impermanenza.

6. Le espressioni: corpo nel corpo, sensazione nella


sensazione, mente nella mente, contenuto mentale

187
5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza

nel contenuto mentale, sono usate dal Buddha per


evidenziare che occorre osservare questi quattro
aspetti oggettivamente, momento dopo momento,
senza cedere alla vecchia abitudine mentale di giudi-
care, paragonare, immaginare, contemplare.

“Procedete praticando l’osservazione del corpo nel


corpo, ma non dedicatevi a una serie di pensieri con-
nessi al corpo; così con le sensazioni, la mente e i con-
tenuti mentali, osservateli per quello che sono, ma non
indulgete ad alcuna serie di pensieri connessi con essi”.
(Dantabhumi sutta, M. 125).
“Così dovete esercitarvi. Nel vedere ci sia solo il vede-
re, nell’udire solo l’udire, nel sentire solo il sentire, nel
conoscere solo il conoscere. Ecco come dovete allenarvi”.
(Báhiya sutta, Ud 1,10).

La ragione è ovvia: nel momento in cui si comin-


cia a indulgere in pensieri, non si sta più osservando
oggettivamente. (da A. Solé-Leris, La meditazione
buddista, op. cit.). E ciò può essere fatto solamente
con la consapevolezza delle sensazioni e della loro
impermanenza.

7. Ripetuto ventuno volte nel discorso, con va-


riazioni a seconda della sezione a cui si riferisce
(corpo, sensazioni, mente, contenuti mentali), è un
paragrafo chiave in cui il Buddha descrive i passi che
il meditatore deve compiere praticando Vipassana,
indipendentemente dalla sezione da cui egli inizia;
ed è finalizzato ad attirare l’attenzione sull’aspetto
essenziale: sia che si osservi il corpo, la sensazione,
la mente o i contenuti mentali, vanno sperimentati

188
PARTE SECONDA

come impermanenti, a livello di sensazione fisica.


Vanno sperimentati i tre livelli dell’impermanenza
(il sorgere, il passare e il sorgere e passare) per poter
sviluppare quella saggezza che conduce al giusto di-
stacco e alla liberazione. La pratica deve portare allo
stadio in cui non c’è un io separato che osserva (il
corpo, le sensazioni, la mente o i contenuti mentali);
l’esercizio è di sviluppare gradualmente consapevo-
lezza ed equanimità.

8. Nel Visuddhi magga (Il cammino verso la purezza,


importante commentario del monaco Buddhagosa) il
paragone con il macellaio è il seguente: “Proprio
come il macellaio, mentre nutre la mucca, la porta
al mattatoio, la tiene legata dopo averla portata lì,
la macella e vedendola macellata non perde la per-
cezione “mucca”, finché non l’ha squartata e divisa
in pezzi; quando invece l’ha divisa e sta lì seduto per
venderla, perde la percezione “mucca” e sorge in lui
la percezione “carne” e non pensa: “Sto vendendo
la “mucca “o stanno portando via la “mucca”, ma
bensì: “Sto vendendo la carne, stanno portando via
della carne”. Così anche il monaco, mentre è ancora
ignorante (ignora l’esperienza del Dhamma n.d.r.),
non perde la percezione “essere umano o persona”,
finché sperimenta il corpo, formato di elementi, in
qualsiasi posizione esso si trovi, e perde così la per-
cezione “persona”.

9. Questa riflessione sul cadavere è stata introdot-


ta dal Buddha per aiutare quei meditatori che hanno
difficoltà a concentrarsi sulle realtà sottili di respiro
e sensazioni fisiche, perché la loro mente è troppo

189
5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza

coinvolta e distratta dai piaceri sensoriali, special-


mente dalla lussuria. Per aiutarli a liberarsi dall’illu-
sione e dall’attaccamento alla bellezza fisica, l’invito
del Buddha è di riflettere sulla decomposizione del
proprio corpo.
Dissolta, almeno in parte, l’illusione, si è pronti a
rivolgere l’attenzione al corpo e si può cominciare la
pratica vera e propria, descritta alla fine di ogni pa-
ragrafo. Non occorre applicare questa riflessione, se
la mente è sufficientemente capace di concentrarsi
su respiro e sensazioni.

10. “Qualsiasi stato mentale va accettato, spe-


rimentando che è transitorio, destinato a passare.
Occorre solo riconoscere il tipo di stato mentale,
momento dopo momento. Tra i differenti modi di
osservare la mente, uno è l’osservare il pensiero che
è sorto; esso è erroneamente definito cittánupassaná.
I pensieri non vanno esaminati dettagliatamente,
perché altrimenti si diventa loro preda. È sufficiente
osservare il tipo di stato mentale del momento. Così
ci si rende conto che a ogni cosa sorga nella mente
corrisponde simultaneamente una sensazione fisica.
Ciò che sorge nella mente immediatamente fluisce
come una sensazione. Questa è legge di natura, è ciò
che accade. Il meditatore deve sviluppare la capacità
di accettare, per esempio, lo stato mentale di agita-
zione (il fatto che la mente è agitata), e nello stesso
tempo di osservare le sensazioni fisiche con equani-
mità e costante e completa comprensione della loro
impermanenza. Allora è al livello più profondo della
realtà del fenomeno mentale e fisico, e in tal modo
può cominciare a eliminare strati e strati di negatività.

190
PARTE SECONDA

Occorre accettare con equanimità qualsiasi cosa sorga


nella mente e, consapevoli dell’impermanenza, osser-
vare le sensazioni fisiche. Se ogni volta che osservate
la mente osservate anche le sensazioni fisiche, state
praticando Vipassana, l’insegnamento del Buddha”.
(Goenka)

11. In questa sezione è chiesto al meditatore di spe-


rimentare la mente all’interno della mente. E questo
può essere fatto osservando qualsiasi cosa sorga nella
mente, così come il corpo può essere sperimentato
solo osservando le sensazioni che sorgono in esso.
L’osservazione esterna della mente e dei contenuti
mentali è l’ osservare che ogni oggetto entra in con-
tatto con la mente e con il corpo, attraverso i sei sensi
di vista, udito, gusto, odorato, tatto, pensiero. Le
sensazioni che nascono dal contatto con gli oggetti
esterni e gli stati mentali interni, si mischiano e flui­
scono insieme. Ecco quindi l’importanza dell’affer-
mazione del Buddha: Qualsiasi cosa sorge nella mente,
sorge come sensazione del corpo. (A. 10, 58)

12. “Si deve accettare il fatto che c’è bramosia nella


mente e osservare l’impermanenza delle sensazioni
fisiche, così si permette a strati e strati di bramosia
di venire eliminati. (…) Non bisogna giudicare,
ma solo osservare il fatto che in quel momento c’è
bramosia, sviluppando la capacità di sperimentare
l’impermanenza di questo desiderio sensuale, che
si manifesta come sensazione fisica. Il meditatore
coltiva un’attitudine equanime, cioè ne accetta la
presenza senza reagire con avversione o desiderio,
e in tal modo permette a strati di bramosia a essa

191
5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza

collegati di essere eliminati. Ecco come funziona il


processo di purificazione. È la natura che compie
questo lavoro. L’impegno del meditatore è solo di
osservare qualsiasi cosa si manifesti nel corpo e nella
mente, con la continua consapevolezza delle sensa-
zioni fisiche e la completa comprensione della loro
natura impermanente.” (Goenka)

13. Questi fattori negativi descritti dal Buddha


sono particolarmente legati alla meditazione, perché
interferiscono nello sforzo del meditatore e quindi
richiedono una breve spiegazione:
–– Kámacchanda, desiderio sensuale, il compiacersi
mentalmente di oggetti sensoriali e sessuali,
lasciandosi sopraffare da essi;
–– Byápáda, avversione, la generale avversione che
si manifesta come sensazione di tensione, fisica
e mentale; dhosa, l’avversione menzionata nella
sezione sulla mente è invece quella riferita a
malevolenza e odio;
–– Thìna, pigrizia, è caratterizzata da sonnolenza;
middha, torpore, è caratterizzata da pigrizia men-
tale e svogliatezza che impediscono di far sorgere
l’energia necessaria a scacciare la sonnolenza;
–– Uddhacca, agitazione mentale, nervosismo;
kukkucca è angoscia o rimorso per non aver
fatto ciò che era giusto e aver commesso atti
(fisici, vocali, mentali), nocivi e ingiusti;
–– Vicikicchá, dubbio di ogni genere, anche sulle
proprie capacità e determinazione. Il dubbio si
può sviluppare sino a riguardare la stessa effica-
cia della meditazione e sull’insegnamento del
Buddha.

192
PARTE SECONDA

14. Sulle quattro nobili verità, v. Il Discorso sulla


messa in moto della ruota del Dhamma, a pag 46 e
note.

193
Commento

La sensazione, chiave
del Saþipaþþhána*
di S.N. Goenka

L ’auto-esplorazione è la meditazione Vipas-


sana: il meditatore esamina la realtà nel suo
duplice aspetto di corpo e mente. L’analisi della realtà
fisica è in pali kayánupassaná, quella della realtà men-
tale cittánupassaná. Di fatto, l’osservazione dell’una
necessariamente implica l’osservazione dell’altra e
non possono essere sperimentate separatamente, in
quanto interdipendenti e interconnesse.

La realtà fisica:
kayánupassaná e vedanánupassaná

Kayánupassaná non è il sedersi a occhi chiusi,


nominando o immaginando parti del corpo. È la
consapevolezza (il rendersi conto, n.d.r.) delle sensa-
zioni. Sperimentiamo la realtà del corpo sentendolo,
ovvero attraverso le sensazioni corporee. Ci sono

* Da S.N. Goenka, Sensation, the key to Saþipaþþhána,


Vipassana Newsletter, ibid., gennaio 1994 Vol.4 N.1.

194
PARTE SECONDA

sensazioni di un tipo o di un altro, in ogni istante e


in ogni parte del corpo. Occorre acquisire la capaci-
tà di percepirle.
Vedanánupassaná è l’osservazione delle sensazio-
ni fisiche. Le sensazioni si possono percepire solo
nel proprio corpo e la realtà del corpo può essere
colta soltanto con le sensazioni. Ma per quanto la
sensazione derivi sempre dal corpo, riguarda sia la
realtà fisica che quella mentale: mentale, in quanto
percepita dalla mente; la sensazione o vedaná è uno
dei quattro aggregati mentali (con viññáóa, saññá e
saòkhára). Questa è la ragione per cui l’osservazione
delle sensazioni è il mezzo per l’esplorazione psico-
fisica nella sua totalità.
L’osservazione delle sensazioni permette al medi-
tatore di verificare la transitorietà del corpo. Esami-
nando una a una tutte le sue parti, si sperimenta che
ogni sensazione sorge e passa. Con l’allenamento
continuativo, si giunge a percepire l’immediata dis-
soluzione di ogni particella corporea. È una fase di
acuta consapevolezza, e il meditatore si rende conto
che tutto il corpo si dissolve a ogni istante; è l’espe-
rienza del percepire la realtà della dissoluzione, in
pali bhaòga-ñáóa.
Inoltre, con l’osservazione delle sensazioni, si spe-
rimenta che il corpo è composto di quattro elementi
fondamentali: terra – la solidità; acqua – la fluidità;
aria – lo stato gassoso; e fuoco – la temperatura.
Ogni particella nasce con la predominanza di uno o
più di questi elementi e dà luogo all’infinita varietà
delle sensazioni, che sorgono e si dissolvono; il corpo
consiste di piccole onde che sorgono e scompaiono,
continuamente. In apparenza è solido ma, nella re-

195
5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza

altà, è un insieme di vibrazioni, di fluttuazioni, di


piccole onde.
La verità dell’impermanenza – anicca – si può af-
ferrare solo attraverso l’esperienza delle sensazioni
fisiche. Con tale esperienza, si verifica di non avere
alcun controllo sul corpo e i suoi cambiamenti: si
sperimenta la verità dell’inconsistenza dell’io, anattá;
e che di conseguenza l’attaccamento a ciò che co-
stantemente cambia e su cui non abbiamo control-
lo, genera sofferenza – dukkha, la verità dell’esistenza
della sofferenza. Una volta sperimentate queste veri-
tà, il meditatore acquista la saggezza dell’equanimi-
tà: osservando le sensazioni comprende la verità del
suo corpo, e ciò elimina gradualmente l’attaccamen-
to per esso, liberando dall’abitudine di identificarsi
con esso, sviluppando equanimità fino all’esperienza
dell’illuminazione.
Nella pratica dell’osservazione delle sensazioni fi-
siche – vedanánupassaná, il meditatore dà importanza
a tutte le sensazioni nel corpo. Si allena a osservarle
con obiettività, siano esse piacevoli, spiacevoli o
neutre, e così indebolisce l’abitudine di abbando-
narsi ai sensi. Sviluppando gradualmente equanimi-
tà di fronte al sorgere e svanire delle sensazioni, il
meditatore impara a non esserne sopraffatto, e man-
tenere così l’equilibrio interiore. Esaminando le sue
sensazioni, il meditatore impara a comprendere la
realtà del corpo: “Ecco cos’è il corpo, e cosa sono le
sensazioni, che procurano tante illusioni e compli-
cazioni!”. Col raziocinio lo poteva aver già afferrato,
ma ora la conoscenza intellettuale lascia il campo
alla saggezza esperienziale.

196
PARTE SECONDA

La realtà mentale:
cittánupassaná e dhammánupassaná

Un altro aspetto della meditazione Vipassana è


l’osservazione della realtà mentale. Come non si
può percepire il corpo prescindendo dalle sensazioni
corporee, così non si può percepire la mente pre-
scindendo da ciò che avviene in essa e cioè dai suoi
contenuti, in pali dhamma. Quindi l’osservazione
della mente (cittánupassaná) e dei contenuti mentali
(dhammánupassaná) sono inseparabili.
La pratica dell’osservazione della mente (cittánu-
passaná) consiste nel rendersi conto (essere consape-
voli) dello stato della mente: quando c’è desiderio
e quando ne è priva; quando ci sono avversione o
ignoranza e quando sono assenti; quando c’è agita-
zione o distrazione, o tranquillità e concentrazione.
La pratica dell’osservazione dei contenuti mentali
(dhammánupassaná) consiste nell’osservare qualsiasi
cosa la mente contenga momento dopo momento:
desiderio, avversione, inerzia, agitazione, senso di
colpa o scetticismo. Per legge di natura, se li si os-
serva obiettivamente, gradualmente sono sradicati.
Con la stessa obiettività vanno osservati contenuti
mentali come: consapevolezza, spirito di ricerca,
impegno, gioia, calma, concentrazione, equanimità.
Per legge di natura, se le si osserva imparzialmente,
queste sane qualità si moltiplicano. Tutti i contenuti
mentali, positivi e negativi, vanno accettati. Essi si
manifestano nella mente e la mente può essere per-
cepita solo attraverso i suoi contenuti.

197
5. Il discorso sui fondamenti della consapevolezza

Il meditatore sperimenta che la mente e i suoi


contenuti sono legati al corpo. La mente è costan-
temente in contatto col corpo; ogni contenuto
mentale non è basato solo sulla mente, ma anche
sul corpo. L’aspetto fisico del contenuto mentale
è evidente quando c’è un’emozione intensa, ma è
sempre presente in ogni contenuto. Anche il pensie-
ro più fugace non si manifesta solo nella mente, ma
è sempre accompagnato da una sensazione fisica. Per
questa ragione, per osservare la mente e i suoi conte-
nuti è essenziale essere consapevoli delle sensazioni
fisiche. Senza questa consapevolezza, l’esplorazione
della realtà mentale sarà incompleta e superficiale.
Tutto ciò che avviene nel corpo e nella mente si
manifesta come sensazione corporea. In ogni istante,
ai livelli più profondi, vi è un contatto della mente
e del corpo, e da questo contatto sorge una sensa-
zione. Attraverso la sensazione, si può sperimentare
ogni aspetto di se stessi. Perciò kayánupassaná, vedaná-
nupassaná, cittánupassaná e dhammánupassaná vanno
praticate osservando le sensazioni fisiche. Allora il
meditatore constata: “Ecco cos’è la mente, e tutto
ciò che essa contiene! Qualcosa di fugace, di effime-
ro, che si dissolve e cambia ad ogni istante!”. E que-
sta non è una verità dogmatica accettata per fede, né
una deduzione logica, né una fantasia, né il frutto
della contemplazione. È una verità sperimentata,
osservando le sensazioni fisiche, con consapevolezza
ed equanimità.

198
PARTE SECONDA

La sensazione è il punto di partenza


La sensazione è il punto di partenza per scoprire,
nella sua totalità, la natura della mente e della mate-
ria. Con questa ricerca il meditatore riesce a vedere
la realtà di se stesso in tutti i suoi aspetti. Realizza
saípajañña, la totale comprensione, e saþipaþþhána,
il formarsi della consapevolezza. Da ciò deriva una
saggezza stabile, perché fondata sulla percezione
della verità.
Dopo aver sperimentato l’impermanenza, la carat-
teristica fondamentale di materia, mente e contenuti
mentali, il meditatore trascende il campo psico-fisico
e perviene alla verità ultima, che è al di là di ogni espe-
rienza sensoriale. In questa realtà trascendente, anicca
non esiste: niente sorge e perciò niente se ne va. È lo
stadio senza nascita o divenire, lo stadio dell’assenza
di morte, dove i sensi non funzionano più e perciò
termina ogni sensazione: è l’esperienza di nirodha, in
cui sensazioni e sofferenza non esistono più.
Riassumendo, con l’osservazione delle sensazioni
fisiche, il meditatore pratica tutti e quattro i fonda­
me­nti di consapevolezza – saþipaþþhána – (del corpo,
delle sensazioni fisiche, della mente, dei contenuti
mentali). Percepisce l’impermanenza, la natura mu-
tevole di corpo e mente e, continuando la ricerca,
giunge alla verità ultima e liberatrice. L’essenza della
verità avviene prima all’interno del campo di mente e
materia, e poi in quello al di là.
Servendoci delle sensazioni del nostro corpo, esplo-
riamo totalmente la verità di noi stessi, e raggi­un­­
gia­mo così il traguardo della vera felicità e della vera
pace.

199
6.
Il discorso sull’amore
universale
(Karanìya metta sutta, Sn 1.8)
PREMESSA

L’origine del discorso*


di A. Buddharakkhita

I l discorso è scaturito da una vicenda, narrata


nel commento trascritto da Buddhaghosa
(grande commentatore del Canone pali, monaco
indiano del V sec. d.C., n.d.r.) e proveniente da
un’ininterrotta catena d’insegnanti risalente ai gior-
ni del Buddha stesso.
“Un mese o due prima del ritiro nella stagione
delle piogge, monaci provenienti da tutta l’India
si recavano dal Buddha per ricevere il suo insegna-
mento. Così cinquecento monaci si recarono a Sa-
vatthi nel bosco di Jeta, al monastero costruito da
Anathapindika; e ricevettero dal Buddha istruzioni
circa le tecniche di meditazione più adatte ai loro
temperamenti individuali.
Per trascorrere i quattro mesi di ritiro e compiere
un vigoroso tentativo di liberazione spirituale, si re-
carono alle pendici dell’Himalaya.
Vi cercarono un luogo adatto e trovarono una
bella collina, che apparve come un cristallo di quar-

* Da A. Buddharakkhita. Mettá: the Philosophy and


Practice of Universal love, op.cit.

203
6. Il discorso sull’amore universale

zo azzurro luccicante: era abbellita da un bosco fitto


e fresco e da una distesa di sabbia, che pareva una
rete di madreperla o un lenzuolo d’argento, ed era
provvista di una sorgente d’acqua pulita e fresca. I
monaci furono catturati da quello spettacolo. Inol-
tre, c’erano villaggi nelle vicinanze e anche una pic-
cola città col mercato, ideale per l’elemosina. A tale
scopo, i monaci vi si recarono il mattino seguente,
dopo aver trascorso la notte in quel bosco idilliaco.
Gli abitanti della cittadina furono felici di veder-
li, poiché raramente un gruppo di monaci andava
in ritiro dalle loro parti. Pii e devoti, li pregarono
di fermarsi come loro ospiti, promettendo di co-
struire per ciascuno di loro una capanna vicino al
bosco, cosicché potessero trascorrere giorno e notte
immersi nella meditazione, sotto i rami di antichi
alberi maestosi. I monaci accettarono e i devoti della
zona costruirono piccole capanne lungo il limitare
del bosco e fornirono ciascuna di un letto di legno,
sgabello e vaso con acqua, per bere e lavarsi.
Dopo che i monaci vi si furono comodamente si-
stemati, ciascuno scelse un albero sotto cui meditare.
Quei grandi alberi erano abitati da numi tutelari che
si erano fatti edificare una dimora celeste, usando
gli alberi come base. Queste divinità, per reverenza
nei confronti dei monaci meditanti, si tenevano in
disparte con le loro famiglie. Quando i monaci sede-
vano sotto gli alberi, per rispetto, le divinità padrone
di casa non abitavano sopra di loro, e la virtù era
rispettata da tutti. Ritenendo che i monaci sarebbero
rimasti solo una notte o due, sopportavano volen-
tieri la scomodità. Ma quando i giorni passavano e i
monaci rimanevano, le divinità si chiesero quando se

204
PARTE SECONDA

ne sarebbero andati. E osservavano ansiosamente da


lontano, per capire quando si sarebbero riappropriati
delle loro dimore, come gente a cui le cui case fos-
sero state requisite per l’arrivo di funzionari reali in
visita. Discussero tra loro sul da farsi e, per far andare
via i monaci, decisero di spaventarli mostrando loro
oggetti terrificanti, producendo rumori spaventosi e
un lezzo nauseante.
Materializzarono tutto ciò e li afflissero: i monaci
prima impallidirono e poi non riuscirono più a con-
centrarsi nella meditazione. Le divinità persistevano
nelle molestie, ed essi persero anche la più basica
presenza mentale: la loro mente sembrò lasciarsi so-
praffare da visioni opprimenti, da rumore e da catti-
vo odore. Quando si riunirono per servire il monaco
anziano del gruppo, ciascuno raccontò le proprie
esperienze, e l’anziano propose: “Fratelli, andiamo
dal Buddha e poniamogli il nostro problema. Ci
sono due ritiri della pioggia, il primo e il secondo.
Anche se interromperemo questo, dopo l’incontro
col Buddha, potremo sempre seguire il secondo”.
Tutti furono d’accordo e si misero in viaggio.
Giunti a Savatthi si prostrarono ai suoi piedi e
raccontarono le loro spaventose esperienze, chieden-
dogli d’indicar loro un altro luogo. Il Buddha, con il
suo potere soprannaturale, scandagliò l’intera India,
ma non trovò alcun luogo, tranne quello, dove
avrebbero potuto conseguire la liberazione. “Mona-
ci, – disse – tornate da dove siete venuti! È solo in
quel luogo che, impegnandovi a fondo, eliminerete
le impurità interiori. Non temete: per liberarvi delle
molestie causate dalle divinità, imparate questo di-
scorso. Sarà insieme tema di meditazione e formula

205
6. Il discorso sull’amore universale

di protezione” Recitò quindi “Il discorso sull’amore


universale”. I monaci l’impararono a memoria in sua
presenza e poi tornarono da dove erano venuti.
Come si avvicinarono alle abitazioni nella foresta
recitandolo, riflettendo e meditando sul suo signifi-
cato, i cuori delle divinità del luogo si riempirono a
tal punto di caldi sentimenti di benevolenza, che si
materializzarono in forma umana e accolsero i mo-
naci con profonda devozione. Li condussero nelle
loro stanze, presero le loro ciotole, fecero portar loro
acqua e cibo. Poi assunsero la loro forma abituale e
li invitarono a meditare alla base degli alberi, senza
esitazione o timore. Durante i loro tre mesi di per-
manenza, le divinità non solo si presero cura dei
monaci in ogni modo, ma fecero sì che il posto fosse
completamente privo di rumore. Entro la fine della
stagione delle piogge, godendo del perfetto silenzio,
tutti i monaci raggiunsero l’apice della perfezione
spirituale: divennero Arahant.
Ciò indica il potere intrinseco del discorso. Chi
lo recita con fede convinta, meditando su di esso
e invocando la protezione delle divinità, non solo
salvaguarderà se stesso, ma proteggerà quelli intorno
a lui, e compirà un progresso spirituale.

206
Testo del discorso

Chi desidera il proprio bene,


e vuole raggiungere nel modo migliore
la pace completa, sia virtuoso, giusto,
sincero, cauto nel parlare, mite e umile.

Sempre contento, e mai di peso,


libero da troppi impegni,
conduca una vita semplice;
calmati i suoi sensi, sia discreto, prudente,
non possessivamente attaccato ai suoi.

Non commetta il minimo male


che potrebbe suscitare la riprovazione dei saggi.
(E pratichi la benevolenza ripetendo, n.d.r.):
Che tutti gli esseri siano felici e sicuri,
e trovino la gioia dentro se stessi.

Tutti gli esseri viventi, indistintamente,


senza eccezione,
siano essi umani o non umani,
mobili o immobili, piccoli o medi,
grossi o sottili, lunghi o larghi,

visibili o invisibili, vicini o lontani,


già nati o in procinto di nascere;
tutti gli esseri abbiano la felicità in loro stessi.

207
6. Il discorso sull’amore universale

Che in lui non vi sia mai inganno né


disprezzo per alcuno. Che non sia mai preda
dell’ira o della malevolenza,
che mai desideri il male di un altro.

Come una madre protegge il suo unico figlio,


anche a costo della vita, possa egli nutrire
un amore senza confini per tutti gli esseri.

Che i suoi pensieri di benevolenza infinita


pervadano l’intero universo, verso
l’alto, verso il basso, attraversando tutto,
senza odio o inimicizia.

Sia egli fermo o cammini, stia seduto


o si corichi, finché rimane sveglio
egli deve esercitarsi
nella consapevolezza dell’amore sconfinato;
questo è ciò che si chiama uno stato sublime.

Una tale persona non si lascia intrappolare


in filosofie, ma dimora nella legge morale e nella
conoscenza; avendo eliminato ogni attaccamento
dei sensi, non dovrà più rinascere.

208
COMMENTO

La pratica della benevolenza


nella meditazione Vipassana*
a cura del Vipassana Research Institute

L a meditazione per lo sviluppo della benevo-


lenza – mettá – è corollario a Vipassana, anzi
la sua logica conclusione. È una tecnica grazie alla
quale irradiamo amorevole gentilezza e benevolen-
za verso tutti gli esseri, inviando consapevolmente
nell’atmosfera intorno a noi le vibrazioni calmanti e
positive dell’amore puro e compassionevole.
Il Buddha la insegnò per aiutare a condurre una
vita più pacifica e armoniosa. Il meditatore di Vipas-
sana dovrebbe praticarla, poiché permette di spartire
con gli altri la pace e l’armonia che sta sviluppando.
Perché sia efficace, va praticata insieme a Vipassana:
il solo formulare pensieri di benevolenza è inutile,
senza la coltivazione della purezza mentale; dopo di
essa, la benevolenza può sgorgare spontaneamente, e
noi, emergendo dalla prigione dell’ego, iniziamo ad
occuparci del benessere altrui.
Durante i corsi di meditazione Vipassana, è in-
trodotta a fine corso, dopo che i partecipanti sono

* Da V.R.I. (a cura di) Seminario di meditazione


Vipassana. Dhammagiri-Igatpuri (India), 1986.

209
6. Il discorso sull’amore universale

passati attraverso il processo di purificazione, e così


possono sentire il profondo desiderio che gli altri
stiano bene. Sebbene nel corso vi si dedichi un
tempo limitato e si dia preminenza a Vipassana, essa
va considerata il culmine di Vipassana, perché per
sperimentare il nibbána ci vuole una mente piena di
amorosa sollecitudine e di compassione verso tutti
gli esseri. E per averla, occorre praticare Vipassana.
Meditando, sperimentiamo sempre più che la realtà
del mondo e di noi stessi consiste in un continuo
flusso di sorgere e scomparire; e che esso continua
al di là del nostro controllo, senza tener conto dei
nostri desideri. Gradualmente, comprendiamo che
l’attaccamento a ciò che è effimero e senza sostanza
non produce che sofferenza; e apprendiamo come
mantenerci equilibrati di fronte a ogni esperienza.
Solo allora possiamo sperimentare la vera felicità: la
liberazione dal ciclo di desiderio e paura.
Man mano che la serenità interiore si sviluppa,
vediamo la sofferenza altrui, e allora sorge in noi il
desiderio: “Che possano trovare ciò che io ho tro-
vato: la strada che conduce fuori dall’infelicità, il
sentiero della pace”. Questa è l’attitudine alla base
della pratica di benevolenza.
Nei Commentari leggiamo: “È la meditazione
della benevolenza che ci porta a un atteggiamento
amichevole”; esso si manifesta col desiderio che gli
altri stiano bene in un atteggiamento privo di ma-
levolenza. “La benevolenza è la non avversione” e la
sua principale caratteristica è un’attitudine benevola,
che ha il suo culmine nell’identificazione di se stessi
con gli altri esseri, in un sentimento di solidarietà
per tutto ciò che è vivente.

210
PARTE SECONDA

Benevolenza non significa preghiera, e nemmeno


speranza che un’entità a noi esterna ci possa aiutare.
Al contrario, è un processo dinamico che produce
un’atmosfera energetica in cui ognuno può agire per
aiutare se stesso e gli altri. Si può dirigere ovunque
o focalizzarla su una singola persona; in ambedue
i casi, il meditatore non è che un mezzo, poiché la
benevolenza che sentiamo, non è nostra. Il fatto che
non venga prodotta da noi, rende la sua trasmis-
sione priva di ego. Per poterla diffondere, la mente
deve essere calma, equilibrata e libera da negatività,
e questo tipo di mente si sviluppa con la pratica di
Vipassana.
Il meditatore sa per esperienza come ira, antipatia
e malevolenza distruggano la pace e comprometta-
no gli sforzi compiuti per aiutare gli altri. Soltanto
quando riusciamo a sviluppare equanimità possia-
mo essere felici e augurare felicità agli altri. Le parole
“che tutti siano felici” hanno grande forza solo se
provengono da una mente pura. Sostenute dalla
purezza, esse hanno efficacia nel favorire la felicità
altrui.
Prima di meditare con mettá, la pratica della be-
nevolenza, dobbiamo analizzarci per vedere se siamo
nelle condizioni di trasmetterla. Se troviamo anche
solo una piccola traccia di odio o avversione, dob-
biamo astenercene. Quando invece siamo pieni di
serenità e benessere, è naturale e giusto dividerli con
gli altri: “Che possiate essere felici, che possiate libe-
rarvi delle impurità che sono causa di sofferenza, che
tutti siano in pace!”
Quest’atteggiamento di amabilità ci permette di
far fronte con più successo alle vicissitudini della

211
6. Il discorso sull’amore universale

vita. Supponiamo, ad esempio, di incontrare una


persona che deliberatamente, per malevolenza, agi-
sca in modo da danneggiare qualcuno. La risposta
usuale, cioè la reazione di odio o paura, è egocentri-
ca, e non migliora la situazione. Sarebbe opportuno
rimanere calmi ed equilibrati, provando un senso di
benevolenza anche verso la persona che si sta com-
portando male. E non può essere solo un’istanza
intellettuale, una maschera che copra la negatività.
Mettá agisce soltanto quando è lo straripamento
spontaneo di una mente purificata. La serenità con-
seguente a Vipassana produce un naturale senso di
benevolenza, che durante tutto il giorno pervaderà
noi e l’ambiente in cui siamo. Si può dire che Vipas-
sana ha due funzioni inscindibili: quella di procu-
rarci felicità per mezzo della purificazione mentale,
e quella di prepararci alla pratica della benevolenza,
per aiutarci ad alimentare la felicità altrui.
Che senso avrebbe la nostra liberazione da negati-
vità ed egoismo, senza condivisione? Durante i corsi,
ci tagliamo temporaneamente fuori dal mondo pro-
prio per poter tornare a casa e spartire con gli altri
ciò che abbiamo ottenuto nella solitudine. In questi
tempi di agitazione e di diffuso malessere è necessa-
ria la meditazione della benevolenza. Perché pace e
armonia si diffondano nel mondo, prima di tutto
devono essere nella mente di ciascun individuo.
La mente, calmata e purificata, può rivolgere
a tutti gli esseri un’effusione di benevolenza, con-
dividendo la calma e l’equilibrio raggiunti. Più si
pratica, più diminuiscono bramosia e avversione, e
si manifestano qualità mentali positive, come amo-
revolezza e compassione. Così disse il Buddha:

212
PARTE SECONDA

Come un tizzone ardente irradia calore, fate fluire


la sensazione di pace e benevolenza dal vostro corpo in
tutte le direzioni. Pensate a tutti gli esseri: quelli vicini e
più cari, quelli che vi sono indifferenti, e quelli che non
possono esservi amici, quelli che conoscete e quelli che
non conoscete, vicini o lontani, umani e non umani,
grandi e piccoli, senza alcuna distinzione; rivolgete a
tutti i vostri sentimenti di amicizia e di compassione,
di amore e benevolenza.

Mettá purifica e rinforza la mente, ha la capacità


di risvegliare le qualità positive latenti, che aiutano
nella trasformazione spirituale della nostra persona-
lità.

213
Schema sulla pratica
della meditazione di
benevolenza: Mettá*
di Bikkhu Bodhi

Il meditatore e lo scopo della pratica – I prerequisi-


ti – Gli esercizi meditativi – L’intensificazione e l’espansione
Mettá si trasforma in saggezza

I. Il meditatore e lo scopo della pratica


Il meditatore è chi è diventato esperto nel fare il
bene.
Lo scopo è realizzare lo stato di pace.

II. I prerequisiti sono quindici qualità:


Sakko: abilità, capacità nella vita spirituale;
Ujú: sincerità e rettitudine;
Súju: onestà e trasparenza;
Suvaco: socievolezza e umiltà;
Mudu: mansuetudine;
Anatimáni: modestia e mitezza;
Santussako: contentezza;
Subharo: appagamento;
Appakicco: libertà da troppi impegni;

* Da Bikkhu Bodhi, Three Blessing Suttas: Ratana,


Maògala, Mettá. PDF Lecture Notes, Audio CD MP3, BPS, Sri
Lanka. Presentazione del Mettá Sutta. La revisione è stata limi-
tata a qualche aggiunta, per ampliare la gamma di significati
relativi ai termini pali.

214
PARTE SECONDA

Sallahukavuþþi: sobrietà e non attaccamento per le


proprie attività;
Sanþindriyo: calma nelle proprie esperienze sensorie;
Nipako: discrezione, con saggezza pragmatica;
Appagabbho: prudenza e gentilezza;
Kulesu ananugiddho: attaccamento non eccessivo
alla propria famiglia.
Na ca khuddaí samacare kiñci yena viññú sembra
upavadeyyuí: astensione dalle azioni che potrebbero
suscitare la riprovazione dei saggi.
(Dal numero 1 al 14 ci sono qualità di morali-
tà positiva (caritta-sila), nel 15 c’è la moralità come
astensione (varitta-sila).

III. Gli esercizi meditativi


La ripetizione dell’espressione: “Possano tutti gli
esseri stare bene, sicuri e protetti. Possano tutti
essere felici!”.
L’espressione va ripetuta anche con ognuna delle
seguenti categorie di esseri: fragili e forti;
lunghi, medi e corti;
grandi, medi e piccoli;
pesanti, medi e leggeri;
visibili e invisibili;
lontani e vicini;
nati e in procinto di nascere.
Concludere ripetendo: “Possano tutti gli esseri
essere felici.”; con l’aggiunta di: “Che non ci siano
inganno, disprezzo, e cattiva volontà tra gli esseri; che
non si desideri mai il male di un altro.”.

215
6. Il discorso sull’amore universale

IV. L’intensificazione e l’espansione

L’intensificazione:
“Come una madre, con tutta se stessa, protegge
la vita del suo figlio unico, a rischio della sua, così
si dovrebbe sviluppare benevolenza smisurata verso
tutti gli esseri.”

L’espansione:
“Sviluppare una benevolenza smisurata verso
tutto il mondo; in alto, in basso, dappertutto, senza
confini, senza inimicizia e senza ostilità.”

“Sino a quando non si è addormentati, si manten-


ga la consapevolezza di mettá in ogni posizione: ecco
la dimora di brahma (della condizione di felicità
n.d.r.) qui ed ora.”

V. Mettá si trasforma in saggezza


La pratica di mettá aiuta il meditatore a sperimen-
tare che:
1) non ha più bisogno di altre ricerche;
2) la sua moralità è definitivamente stabilizzata;
3) ha realizzato l’esperienza della verità dell’inesi-
stenza di un io.
Con queste tre qualità raggiunge lo stadio di li-
berazione chiamato sotápanna (ovvero colui che è
entrato nella corrente della liberazione).
Continuando nella sua pratica, gradualmente ab-
bandonerà l’avidità per i piaceri sensuali, raggiungen-
do altri gradi di liberazione, sino a diventare comple-
tamente liberato. E allora sarà chiaro per lui che non
rinascerà più in un grembo materno.

216
PARTE SECONDA

La filosofia della benevolenza*


di A. Buddharakkhita

La parola pali mettá ha molteplici significati: genti-


lezza amorevole, benevolenza, magnanimità, fratel-
lanza, concordia, armonia, mitezza, non violenza. I
commentatori pali la definiscono: il forte desiderio
che gli altri stiano bene e felici. Essenzialmente è
un atteggiamento altruistico d’affetto e amicizia,
diverso dall’amabilità basata sull’interesse. Signifi-
ca rinunciare a rancori, risentimento e animosità,
e coltivare un’attitudine affabile, conciliante e be-
nevola, che tende al servizio per il bene degli altri.
Se autentica, è priva di egoismo, riscalda il cuore
d’amicizia, fratellanza, simpatia e amore, sentimenti
che, se coltivati, crescono senza confini con la pra-
tica, superando tutte le barriere (sociali, religiose,
razziali, politiche ed economiche).
Mettá è l’amore che abbraccia tutto e tutti, è il
desiderio che tutti siano amici, felici e prosperi; che
non ci siano ostilità e tristezza. Proprio come una
madre ha per il figlio un atteggiamento protettivo
e immensamente paziente, così con mettá si dona e
non si vuole nulla in cambio.
Per cui, è appropriato definirla amore universa-
le che conduce alla liberazione della mente. Fa di
ogni individuo una sorgente di purezza, di bene e

* Da A. Buddharakkhita. Mettá: the Philoso-


phy and Practice of Universal love, op.cit.

217
6. Il discorso sull’amore universale

di sicurezza per gli altri: è l’atteggiamento di chi


vuol dare all’altro il meglio, per contribuire al suo
bene. Così facendo, si promuove anche il proprio
bene. La promozione del proprio interesse è una
motivazione primordiale; e quando quest’impulso
si trasforma nel desiderio di promuovere interesse
e felicità altrui, la mente diviene universale, e con
questo cambiamento, anche il proprio benessere è
promosso nel miglior modo possibile.
Mettá-bhávaná significa coltivazione di queste qua-
lità, e con essa si può acquisire una straordinaria
forza interiore, in grado di custodire, proteggere e
guarire se stessi e gli altri.
A prescindere dalle sue implicazioni più subli-
mi, l’esercizio di mettá è una necessità pragmatica
e impellente per il mondo d’oggi, minacciato di
distruzione a molti livelli. È il mezzo per suscitare
concordia, pace e comprensione, nell’azione, nella
parola e nel pensiero. È lo strumento supremo, per-
ché costituisce l’essenza di tutte le religioni e la base
per tutte le iniziative tese a promuovere il benessere
dell’umanità.

I tre aspetti
Il discorso è diviso in tre parti. La prima riguarda
la sistematica applicazione della gentilezza amore-
vole nella condotta quotidiana. La seconda parte,
la gentilezza amorevole come autonoma tecnica di
meditazione che conduce alla concentrazione. La
terza parte sottolinea la dedizione totale alla filosofia
dell’amore universale, con le sue implicazioni per-

218
PARTE SECONDA

sonali, sociali ed empiriche: la gentilezza amorevole


attraverso attività fisiche, vocali e mentali.
La pratica di mettá può essere paragonata alla
crescita di un grande albero, dal momento in cui
è piantato il seme a quello in cui l’albero, carico di
frutti succulenti, emana il suo dolce profumo tutto
attorno, attraendo miriadi di creature che possono
beneficiare della sua gustosa e nutriente abbondanza.
Nella prima parte, il modello di comportamento
è la crescita della propria vita come un albero, utile,
generoso e nobile; la meditazione è la fioritura spiri-
tuale, al punto che la propria vita diventa una fonte
di gioia per tutti.
Nella seconda parte, l’albero, robusto e sviluppa-
to, è ricoperto di bei fiori fragranti, che attraggono
gli occhi di tutti.
La terza parte rappresenta la fruizione del pro­­cesso
di sviluppo spirituale, grazie a cui l’amore è concre-
tizzato e applicato; conducendo così a una potente
influenza nella società e alle vette della realizzazione
trascendentale.
La mente umana è come una miniera che con-
tiene una riserva inesauribile di potere spirituale e
di capacità d’introspezione. Quest’immenso po-
tenziale di azioni meritorie accumulate può essere
pienamente sfruttato solo con la pratica di mettá. È
lo specifico fattore che “fa maturare” le dieci virtù o
perfezioni spirituali (páramitás).*

* I dieci modi per acquisire le perfezioni spirituali:


sviluppare carità o generosità, moralità, praticare la medita-
zione, coltivare gratitudine e rispetto verso il Buddha, Sangha

219
6. Il discorso sull’amore universale

L’etica individuale
Nell’insegnamento del Buddha, l’etica corrisponde
alla condotta morale di retta parola, retta azione e
retto mezzo di sostentamento. Come beneficio im-
mediato dà benessere: essa porta felicità e pace della
mente, non dà luogo a rimorso, preoccupazione e
irrequietezza, ma favorisce assenza di paura e presen-
za di sicurezza. La condotta morale conduce anche
a una rinascita felice, che consente di progredire sul
sentiero della liberazione spirituale, oltre a costituire
la base per progredire nel Dhamma qui e ora.
Quest’etica è duplice: la realizzazione sia di virtù
(caritta), sia di precetti d’astinenza (varitta). Nel
caritta è presentata come segue (qui la traduzione è
diversa da quella proposta dal curatore, ma l’essenza
del significato è la stessa, n.d.r.):

… Dovrebbe essere capace, onesto e retto, gentile nel


parlare, mite e non orgoglioso, contento, dovrebbe essere
lieve, non eccessivamente indaffarato, e semplice nello
stile di vita, con i sensi tranquilli, prudente, non sfron-
tato, né esigente in famiglia.

Varitta, è nella strofa successiva:

e Dhamma, i propri genitori, insegnanti e anziani; prestare


loro aiuto e servizio; condividere con altri le perfezioni acqui-
site; condividere le perfezioni degli altri; ascoltare discorsi sul
Dhamma; insegnare il Dhamma; rettificare la propria com-
prensione del Dhamma (n.d.r.).

220
PARTE SECONDA

Egli deve anche trattenersi da qualsiasi azione che


dia al saggio ragione di rimproverarlo.

Caritta e varitta sono così realizzate (cioè messe in


pratica) attraverso l’azione fisica e vocale di mettá; la
felicità interiore e la spinta altruistica che ne risul-
tano sono espresse a conclusione della strofa, con
l’azione mentale:

Che tutti possano stare bene e sentirsi sicuri, che tutti


gli esseri possano essere felici!

La capacità individuale è intesa non solo come ef-


ficienza o abilità, ma come capacità di bene operare,
con considerazione per gli altri. Partendo dal pre-
supposto che la persona capace può diventare piena
di sé, è consigliato al praticante di: essere “onesto e
retto” e “gentile nel parlare, mite e non orgoglioso”;
esercitare la “prudenza”, nelle attività e nelle rela-
zioni quotidiane. L’arroganza (il sentirsi migliori o
più devoti degli altri), può essere, e spesso è, una
messinscena: chi non vi indulge è “non sfrontato,
né esigente”. Trattenersi da qualsiasi azione, anche
convenzione sociale, per la quale un saggio potrebbe
rimproverarlo, perché priva di prudenza; esercitare
la capacità d’appagamento. Chi è contento è “facile
da appagare”.
La frugalità che scaturisce dalla considerazione
per gli altri, è un tratto nobile. (…) Più una persona
è rozza e materialista, più aumentano i suoi bisogni;
per chi vive con semplicità, mitezza, padronanza sui
sensi, (cioè con sobrietà), unite a operosità e capaci-
tà di fare, coltivare la meditazione è naturale e non

221
6. Il discorso sull’amore universale

richiede sforzo: da qui, l’espressione “tranquillo nei


sensi”. Questa è la base per poter coltivare la mente
onnicomprensiva di mettá, con le tecniche di medi-
tazione suggerite nella parte finale del discorso.

L’etica collettiva
Non è sufficiente l’essere buoni, ma, in conside-
razione anche del benessere altrui, ci si deve anche
mostrare buoni; perché una vita esemplare va vissuta
per il bene di tutti, per il benessere della società.
Nel nostro mondo competitivo, dove vige la ri-
cerca di piacere e possesso, vivere una vita semplice
significa ri-orientare mentalità e comportamento.
Mettá promuove il benessere di tutti e si regge sulla
sobrietà; e richiede la scelta, (ponderata e basata sul
loro significato e senso), delle attività che conduca-
no al benessere di tutti coloro che ne sono coinvolti,
ad ampio raggio.
Il parametro per giudicare la salute mentale di
una società è la diminuzione dei bisogni, cioè, la
capacità di appagamento. Una vita materialista ed
egocentrica caratterizzata dal loro aumento, è anche
connotata dall’irrequietezza, che si manifesta, per
esempio, nell’essere sempre indaffarati e attivi e/o
privi di moderazione e autocontrollo.

222
PARTE SECONDA

La protezione
Mettá è anche definita paritta, termine che designa
una formula spirituale capace di salvaguardare il
proprio benessere, proteggere dai pericoli e soccor-
rere nelle disavventure e sfortune.
Questa protezione purifica e rafforza la mente,
risveglia i potenziali latenti, portando la trasforma-
zione della personalità. Così cambiata, la mente non
è più preda dell’avversione (avidità, odio, concupi-
scenza, gelosia e da altri fattori che la inquinano).

La pratica attiva
delle virtù complementari
Mettá implica il “superamento” dei tratti negati-
vi con la pratica attiva delle virtù complementari.
Per esempio, la pratica attiva di amabilità, rispetto,
considerazione verso tutti gli esseri, può far superare
la tendenza opposta alla molestia. E questo vale per
tutte le qualità. Insieme a questa scelta di condotta,
si coltiva la mente con la meditazione mettá-bhávaná,
che genera pensieri potenti e amore spirituale illi-
mitato, rendendo la coscienza infinita e universale.
Il superamento di un tratto negativo con la coltiva-
zione del suo opposto, implica un approccio matu-
ro alla vita: una condotta amorevole in un mondo
dove l’interazione inconsapevole è fonte di tensioni
e sofferenze. Poiché si concepisce nella mente questa
qualità di amore, essa è priva di pensieri malevoli.
Per questa ragione nasce la definizione “amore uni-

223
6. Il discorso sull’amore universale

versale che conduce alla libertà della mente”.


Si coltiva l’amore universale nei seguenti otto
modi:
–– non molestando nessuno e così evitando le
molestie;
–– non offendendo nessuno e così evitando le of-
fese;
–– non torturando nessun essere e così evitando
torture;
–– non distruggendo nessuna vita e così evitando
la distruttività;
–– non vessando nessun essere e così evitando
la vessazione; proiettando i pensieri:
–– “Che tutti gli esseri possano essere amichevoli
e non ostili”;
–– “Che tutti gli esseri possano essere felici e non
infelici”;
–– “Che tutti gli esseri possano godere di uno
stato di benessere, senza sofferenza.”

Lo sguardo sul lato buono


Nel Visuddhimagga, mettá è descritta come un
“solvente” che “scioglie” le proprie e anche le altrui
impurità (come rabbia, risentimento e ostilità). Essa
si manifesta con un approccio amichevole, e chi è
ostile diventa amico. Il processo grazie a cui funzio-
na come solvente è il seguente: si tende a vedere il
buono nelle persone e a preferire il loro benessere,
di conseguenza si tende a non essere aggressivi (per
eliminare ciò che irrita o ferisce) e a promuovere
attivamente il benessere. In altre parole, si manifesta

224
PARTE SECONDA

come una forza che “elimina l’irritazione”, grazie


alla tendenza a vedere il lato buono delle cose e degli
esseri, e non i difetti.
È definita come la qualità che “promuove il benes-
sere”, la cui funzione è “preferire il benessere” piut-
tosto che il malessere; ha successo quando è amore
disinteressato, e fallisce quando degenera nell’affetto
mondano (intriso d’attaccamento, n.d.r.).

I nemici
I cinque aspetti contrari a mettá sono:
–– la molestia, la tendenza a opprimere o danneg-
giare;
–– l’aggressività, intesa come tendenza a far male
o ferire;
–– la tortura, la tendenza a tormentare, imponen-
do dolore e infelicità;
–– la distruttività, la tendenza a eliminare e al porre
fine, il tratto dell’estremista e dell’iconoclasta;
–– la vessazione, la tendenza a colpevolizzare, tur-
bare o causare preoccupazione e tensione. Sono
radicate in antipatia e malevolenza, nel com-
portamento, nello stato psicologico e nell’at-
teggiamento mentale.
Nel praticare mettá, vanno conosciute le emozioni
che la vanificano, sia a lei simili (nemici vicini, nella
definizione del Visuddhimagga), sia a lei dissimili,
(nemici lontani).
Avidità, lussuria, affetto mondano e sensualità
sono simili e quindi nemici vicini. Di essi, si do-
vrebbe diffidare perché creano autoinganno, la cosa

225
6. Il discorso sull’amore universale

peggiore che possa accadere. Per esempio, anche


il lussurioso vede il “lato buono” e “la bellezza” e
quindi si fa coinvolgere. L’amore disinteressato va
protetto da ciò, affinché le emozioni derivate da
questi nemici vicini non ingannino il meditatore.
Malevolenza, rabbia e odio sono dissimili, quindi
nemici lontani. Possono essere facilmente ricono-
sciuti, quindi non se ne dovrebbe aver paura, ma
vincerli coltivando e irraggiando una forza superio-
re, quella dell’amore. L’amore tiene lontana la male-
volenza, la più dannosa delle emozioni:

“è la via di fuga dalla malevolenza, cioè la libertà


della mente, operata dall’amore universale” (D.III.
234).

Mettá inizia solo quando c’è zelo nell’agire. Con-


tinua solo quando sono sconfitti desiderio, ma-
levolenza, pigrizia, avversione e dubbio (i cinque
ostacoli mentali). Giunge a compimento solo col
raggiungimento della concentrazione. Come già
accennato, il suo scopo ultimo è l’ottenere la visione
trascendentale e recare – qui e ora – pace interiore e
stato mentale salutare. (…)

226
PARTE SECONDA

Gli esercizi meditativi*


di A. Buddharakkhita

Ci sono diversi modi di praticare la meditazione


dell’amore universale. Qui indichiamo le istruzioni
di tre dei metodi principali, basate su fonti canoni-
che e commentari, e volte a offrire spiegazioni chiare
e semplici.**

Il metodo dell’irradiazione***
verso specifici individui
Questo metodo ha il fine d’aumentare il giusto
distacco da se stessi.

* Da A. Buddharakkhita. Mettá: the Philosophy and


Practice of Universal love, op.cit.
** Per le relative istruzioni complete su teoria e pratica,
si veda il Visuddhimagga, Capitolo IX.
*** Per irradiazione si intende la proiezione di pensie-
ri che promuovono il benessere di coloro verso cui la nostra
mente si dirige. Un pensiero di mettá è una potente forza di pen-
siero e può rendere effettivo ciò che si è voluto. Poiché augurare
benessere è volere, questa è un’azione creativa. Infatti, tutto ciò
che l’uomo ha creato nei diversi ambiti dell’esistenza, è il risul-
tato di ciò che egli ha voluto, (sia essa una città, una centrale
idroelettrica, un razzo spaziale, un’arma o un capolavoro arti-
stico). Anche l’irraggiamento del pensiero di mettá è lo sviluppo
della forza di volontà, che può avere effetti a distanza, anche di
guarigione e di protezione, se questa forza è generata con abili-
tà, in un modo specifico, seguendo una sequenza determinata.

227
6. Il discorso sull’amore universale

Comodamente seduti in un luogo tranquillo, in


cui possiate stare isolati e in silenzio, chiudete gli
occhi, ripetete la parola mettá un po’ di volte e evo-
cate mentalmente il suo significato (…).
Visualizza* il tuo viso che esprime uno stato d’ani-
mo felice e radioso, col pensiero: “Che io possa es-
sere libero da ostilità, libero da sofferenza, libero da
angoscia; che io possa vivere felicemente.” Quando
ti riempi d’amore, con la forza del pensiero, diventi
come un vaso colmo, il cui contenuto è pronto per
traboccare in tutte le direzioni. (Allenati: quando
vedi il tuo viso allo specchio, immaginati in uno
stato d’animo felice, per poi evocarlo e portarlo nella
meditazione. Una persona in uno stato d’animo feli-
ce non può, nel contempo, sentire rabbia, sentimen-
ti ostili o avere pensieri negativi).
Quindi, visualizza il tuo insegnante di meditazione,
se vivente. Va visualizzata una persona vivente. L’og-
getto di mettá è sempre persona vivente, perché un
morto, avendo cambiato forma, è fuori dalla portata
della proiezione, la forza del pensiero è inefficace. Se
non è vivente, quindi, scegli qualche altro insegnante
o una persona degna di reverenza. Vedilo in uno stato
d’animo felice e proietta il pensiero: “Che il mio inse-

* Per visualizzare si intende “richiamare alla mente”


un oggetto o una persona, una certa zona o una direzione o
una categoria di esseri. Significa immaginare le persone verso
le quali i pensieri d’amore sono stati proiettati. Per esempio,
visualizza tuo padre: immagina il suo viso felice e radioso e
verso quest’immagine proietta il pensiero: “Che tu sia felice!
Che tu possa essere libero da malattia o da guai! Che tu possa
godere di buona salute.” Va bene qualsiasi pensiero promuova
il suo benessere.

228
PARTE SECONDA

gnante possa essere libero da ostilità, libero da afflizio-


ne, libero da angoscia; che possa vivere felicemente.”
Poi pensa ad altre persone viventi degne di ri-
spetto – monaci, insegnanti, genitori, anziani – e
diffondete verso ciascuno di loro, “Che essi possano
essere liberi da ostilità, liberi da afflizioni, liberi da
angoscia; possano essi vivere felicemente.”
La visualizzazione deve essere chiara e l’irradiazio-
ne del pensiero va “voluta” con determinazione. Se
la visualizzazione è affrettata o l’augurio è formulato
in modo sbrigativo e/o meccanico, la pratica è poco
proficua, perché solo intellettuale, e consiste solo nel
“pensare” a mettá. Va chiaramente compresa la diffe-
renza tra il pensare a mettá e il” fare” metta: quest’ul-
tima è la proiezione attiva della forza di volontà della
gentilezza amorevole.

La sequenza
Dopo aver irradiato pensieri di mettá nella sequen-
za elencata – verso se stessi, verso l’insegnante di
*

* Per sequenza (ordine) si intende la visualizzazio-


ne di oggetti (le persone, gli esseri) l’uno dopo l’altro, dalla
minore alla maggiore resistenza, che gradualmente ne amplia
la cerchia e quindi amplia la mente stessa. Nel Visuddhimagga
c’è enfasi sulla sequenza. Secondo Buddhaghosa, la meditazio-
ne di mettá, va iniziata visualizzando se stessi e poi una perso-
na per cui si prova reverenza, quindi i propri cari, le persone
neutre e le persone ostili. Quando si irradiano pensieri d’amo-
re in quest’ordine, la mente rompe le barriere tra sé, la persona
che si rispetta, la persona neutra e quella ostile, fino ad arrivare
a guardare tutti con l’occhio della gentilezza amorevole.

229
6. Il discorso sull’amore universale

meditazione e altre persone rispettate – vanno vi-


sualizzati, uno per uno, i propri cari, cominciando
dai familiari, soffondendo ciascuno di abbondanti
raggi di gentilezza amorevole. La carità comincia a
casa: se non si sanno amare i propri familiari, non si
sarà in grado di amare gli altri. Mettá verso i propri
familiari va conclusa, pensando a una persona molto
cara, come il proprio coniuge, per esempio. Questo
perché l’intimità tra marito e moglie comprende
l’amore mondano che contamina mettá. L’amore
spirituale deve essere uguale verso tutti. Allo stesso
modo, se si è avuta un’ incomprensione o una lite
con un familiare o parente, questi va visualizzato
in una fase successiva, per evitare di richiamare alla
mente episodi spiacevoli.
Successivamente, vanno visualizzate persone neu-
tre, (cioè per le quali non si prova né attrazione né
repulsione), come vicini di casa, colleghi, conoscenti
e così via. Dopo aver irradiato pensieri amorevoli su
tutti coloro che appartengono alla cerchia neutra,
vanno visualizzate le persone per cui si prova anti-
patia, ostilità o pregiudizio, anche coloro con cui si
sono avuti dissapori temporanei. Quando si visua-
lizzano le persone che non piacciono, per ciascuna
va ripetuto mentalmente “Non ho ostilità verso di
lui o lei, che lui o lei non abbia ostilità verso di me.
Che possa essere felice!”
Perciò, mentre si visualizzano le persone dei diver-
si gruppi, si “rompono le barriere” causate da attra-
zione e repulsione, attaccamento e odio. Quando si
è in grado di guardare un nemico senza malevolenza
e con la stessa quantità di benevolenza che si ha per
un caro amico, allora mettá acquista un’imparzialità

230
PARTE SECONDA

sublime, che eleva e apre la mente in una sorta di


movimento a spirale sempre più ampio, finché di-
venta onnicomprensiva:

“Che tutti possano essere liberi da ostilità, liberi


da afflizione, liberi da angoscia; che possano vivere
felicemente”

L’attitudine mentale
È significativa la spiegazione di queste righe nei
commentari:
“Libero da ostilità” indica assenza di ostilità, sia
suscitata da sé sia da altri. L’ostilità verso se stessi
può prendere la forma di auto-compatimento, ri-
morso o di un paralizzante senso di colpa. E può
essere condizionata dall’interazione con gli altri:
l’ostilità unisce rabbia e inimicizia.
“Libero da afflizione” significa assenza di dolore o
sofferenza fisica.
“Libero da angoscia” significa assenza di soffe-
renza mentale, angoscia o ansia, che spesso segue
l’ostilità o la sofferenza fisica. Tutti questi termini
sono interconnessi: solo quando si è liberi da ostili-
tà, sofferenza e angoscia si “vive felicemente”, cioè ci
si sente felici e a proprio agio.
Buddhaghosa fornisce un’analogia adatta per la
rottura delle barriere: “Un meditatore siede con
una persona che rispetta, con un suo caro, con una
persona neutra e una persona ostile o malvagia.
Supponete che arrivino dei banditi e gli domandino:
‘Amico, vogliamo uno di voi per compiere un sacri-

231
6. Il discorso sull’amore universale

ficio umano.’ Se il meditatore pensasse: ‘Lasciamogli


prendere questo o quello,’ ciò indicherebbe che non
ha abbattuto le barriere. E anche se dovesse pensa-
re: ‘Che non prenda nessuno, ma che prenda me’,
anche allora significherebbe che non ha abbattuto
le barriere, perché causerebbe il proprio male, men-
tre la meditazione di mettá significa il benessere di
tutti. È quando non vede la necessità che qualcuno
sia consegnato ai banditi e proietta imparzialmente
il pensiero d’amore verso tutti, banditi compresi, è
allora che abbatte le barriere.”

Il metodo dell’irradiazione
impersonale
Questo metodo ha il fine di rendere la mente
onnicomprensiva, come suggerisce il termine pali
mettá-cetovimutti, “la liberazione della mente attraver-
so l’amore universale.”
Dopo aver completato l’irradiazione verso indivi-
dui specifici (metodo precedente), quando la mente
rompe le barriere esistenti tra se stessi e chi è rispet-
tato, amato, neutro e ostile, il meditatore intrapren-
de il viaggio attraverso il vasto, incommensurabile
ocea­no dell’ “irradiazione impersonale”, come la
nave transoceanica viaggia nel vasto, incommensu-
rabile oceano, mantenendo rotta e meta. La mente
non liberata è prigioniera entro le mura di egocen-
trismo, avidità, odio, illusione, gelosia e meschinità:
nella morsa di questi fattori inquinanti e limitanti,
rimane isolata e impastoiata. Mettá rompe questi
legami e libera la mente, e la mente liberata diventa

232
PARTE SECONDA

naturalmente illimitata e incommensurabile. Come


la terra non può essere resa “priva di terra”, la mente
di mettá non può essere resa limitata.
Immagina le persone che risiedono nella tua casa,
come se formassero un aggregato, quindi abbracciale
tutte insieme nel tuo cuore, irradiando pensieri di
mettá: “Possano tutti coloro che abitano in questa casa
essere liberi da ostilità, liberi da sofferenza, liberi da
angoscia; possano vivere felicemente.” Poi, visualizza
la casa più vicina e i suoi residenti, e poi la casa se-
guente e ancora, e così via, fino a che tutte le case
della strada siano comprese allo stesso modo nell’ab-
braccio della gentilezza amorevole. Prosegui con la
strada successiva e poi con quella seguente, finché
l’intero quartiere o villaggio sia incluso. Quindi, area
dopo area, nella stessa direzione, visualizza con una
profusione di raggi di mettá; così l’intera città sarà co-
perta, poi l’intero distretto e l’intero stato nelle diver-
se direzioni. In tal modo si dovrebbe coprire l’intera
nazione, visualizzando geograficamente la gente senza
fare differenze di classe, razza e religione. Pensa: “Pos-
sano tutti in questo paese abitare in pace e benessere!
Che non ci siano più guerra, lotta, sfortuna, malattie!
Raggianti d’amicizia e fortuna, compassione e saggez-
za, possano tutti godere pace e abbondanza.”
Poi, visualizza tutti gli stati uno dopo l’altro,
per passare all’intero continente, nelle sue parti
orientale, meridionale, occidentale e settentrionale.
Immaginando geograficamente ogni paese e la sua
gente: “Possano essere felici! Possano non esserci
lotta e discordia! Possano prevalere benevolenza e
comprensione! Possa la pace essere ovunque!”
Successivamente, prendi in considerazione tutti i

233
6. Il discorso sull’amore universale

continenti, visualizzando paese per paese e popolo


per popolo, coprendo l’intero globo. Immaginati
in un punto del globo e poi proietta potenti raggi
di mettá, avviluppando una direzione del globo, poi
un’altra e un’altra e così via finché l’intero globo è
inondato e completamente avviluppato da radiosi
pensieri d’amore universale.
Proietta quindi nella vastità dello spazio illimitati
pensieri di amore universale verso tutti gli esseri vi-
venti, prima in direzione dei quattro punti cardinali,
poi nelle direzioni intermedie – nord-est, sud-est,
sud-ovest, nord-ovest – e verso l’alto e verso il basso,
coprendo tutte le dieci direzioni.

Il metodo dell’universalizzazione
Secondo la cosmologia del buddhismo, ci sono
innumerevoli sistemi di mondi abitati da categorie
infinitamente varie di esseri, in fasi evolutive diverse.
La Terra è un granellino nel nostro sistema mondo,
che, a sua volta, è un minuscolo punto nell’univer-
so, con i suoi innumerevoli sistemi di mondi. Verso
tutti gli esseri e ovunque, dovremmo irradiare pen-
sieri di amore sconfinato. Questo metodo si mette
in pratica in tre modi: irradiazione generalizzata,
irradiazione specifica, irradiazione direzionale.
(…) In ciascuno di essi, si può usare come pensie-
ro da irradiare, una delle quattro frasi della formula
base “Che essi possano essere liberi dall’ostilità, libe-
ri dalla sofferenza, liberi dall’angoscia; possano essi
vivere felicemente”.

234
PARTE SECONDA

Irradiazione generalizzata
(…) L’irradiazione è una sorta di “fluire all’ester-
no” d’amore, verso l’oggetto mentale pensato (tutti
gli esseri, tutte le creature ecc.). Le cinque categorie
di irradiazione generalizzata si riferiscono alla tota-
lità dell’esistenza (animata, senziente, organica) che
appartiene alle tre sfere mondane:
–– la sfera dell’esistenza sensoriale dove il deside-
rio è la motivazione primaria;
–– la sfera delle divinità, con forme sottili;
–– la sfera degli esseri senza forma, dotati di vita
puramente mentale.

L’ “essere”, chi “respira”, una “creatura”, chi ha


“esistenza individuale”, o chi è “dotato di corpo”:
tutti si riferiscono alla totalità dell’esistenza anima-
ta, perché ciascun termine ne esprime un aspetto
specifico. Esso va tenuto a mente, nel visualizzarle.
Se si allena la mente, dopo averla esercitata con i
primi due metodi, il significato delle cinque catego-
rie diventerà chiaro.
“Che tutti gli esseri siano liberi da ostilità, liberi
da sofferenza, liberi dall’angoscia; che possano vive-
re felicemente.”
La stessa frase con le altre quattro categorie: ... che
tutti coloro che respirano ... che tutte le creature ... che
tutti coloro con un’esistenza individuale ... che tutti
coloro che hanno un corpo.

235
6. Il discorso sull’amore universale

Irradiazione specifica
Vi sono sette modi:
“Che tutte le femmine siano libere da ostilità, soffe-
renza e angoscia; che possano vivere felicemente.”
La stessa frase con le altre sei categorie ... che tutti
i maschi; ... che tutti coloro che sono nobili; ... che tutti
coloro che sono mondani; ... che tutti gli dei ... tutti gli
esseri umani; ... che tutti coloro che sono in uno stato
di sofferenza.
Ognuna delle sette categorie di irradiazione speci-
fica comprende una parte della gamma dell’esisten-
za, e in combinazione con le altre esprime l’intero
mondo dell’esistenza senziente.

Irradiazione direzionale
Essa consiste nell’invio di pensieri di mettá a tutti
gli esseri nelle dieci direzioni dello spazio. (…)

“Possano tutti gli esseri in direzione orientale essere


liberi da ostilità, sofferenza e angoscia; che possano
vivere felicemente.”
La stessa frase per le altre direzioni: occidentale;
settentrionale; meridionale; nord-orientale; sud-
occidentale; nord-occidentale; sud-orientale. Tutti
gli esseri sottostanti (che stanno sotto di noi); tutti gli
esseri sovrastanti (che stanno sopra di noi).

Questa modalità può essere usata anche per le


altre categorie di esistenza prima descritte: tutte le
creature; tutti coloro con un’esistenza individuale;

236
PARTE SECONDA

tutti coloro che hanno un corpo; tutte le femmine;


tutti i maschi; tutti i nobili; tutti coloro che sono
mondani; tutti gli dei; tutti gli esseri umani; tutti
coloro in stato di sofferenza.
L’esercitazione mentale di irradiazione direzionale
rende l’universalizzazione di mettá un’esperienza tra
le più esaltanti. Quando ci si pone mentalmente in
una particolare direzione e poi si lascia fluire l’amore
per avvolgere l’intera area, si trasporta la mente ad
altezze sublimi che conducono alla concentrazione.
Quando si proietta l’auspicio che gli altri vivano
felicemente, liberi da ostilità, sofferenza e angoscia,
non solo ci si eleva a un livello dove prevale la feli-
cità, ma si mettono in moto potenti vibrazioni che
conducono alla felicità, placando l’inimicizia, dando
sollievo a sofferenza e ad angoscia. Si sperimenta che
l’amore universale infonde simultaneamente benes-
sere e felicità e elimina la sofferenza fisica e mentale,
causata da ostilità, inimicizia e rabbia.

Gli undici benefici della pratica


Monaci, quando l’amore universale che conduce
alla liberazione della mente è ardentemente prati-
cato, sviluppato, vi si fa ricorso incessantemente, è
usato come veicolo, è reso il fondamento della propria
vita, pienamente stabilito, ben consolidato e perfe-
zionato, allora ci si possono aspettare undici benedi-
zioni. Quali?
Si dorme felicemente; ci si sveglia felicemente; non
si fanno brutti sogni; si è cari agli esseri umani; si è
cari agli esseri non umani; si è protetti dagli dei; non

237
6. Il discorso sull’amore universale

si è colpiti da fuoco, veleno o arma; la propria mente


si concentra facilmente; l’espressione del proprio viso
si fa serena; si muore imperturbati; e anche se non si
raggiungeranno gli stati più elevati, si raggiungerà lo
stato del mondo di Brahma. (…) A.11,16

“… l’amore universale che porta alla liberazione della


mente” significa il raggiungimento della concentra-
zione, basata sulla meditazione di mettá, che libera la
mente dalla schiavitù di odio, rabbia, egoismo, avidità
e illusione: è uno stato di liberazione. Ogni volta che si
pratica, per quanto breve sia il periodo, si gode di liber-
tà mentale, pur limitata. La libertà mentale illimitata
è giusto aspettarsela solo quando mettá si è sviluppata
pienamente nella concentrazione.
Le varie applicazioni di mettá, indicate dai termini
“praticare, sviluppare,” ecc. significano una forza
ben strutturata portata a compimento da ore di
meditazione dedicate ad essa, e dalla conversione di
tutti gli atti, le parole e i pensieri.
“Praticato”, indica la sua pratica ardente; non
esercizio intellettuale, ma del cuore, e facendo di
essa la propria filosofia di vita, che plasma attitudi-
ne, visione e comportamento.
“Sviluppato”, implica un processo di coltivazio-
ne interiore e d’integrazione mentale derivati dalla
meditazione di mettá. Questo processo è chiamato
sviluppo della mente, poiché la meditazione porta a
compimento l’unificazione della mente integrando
le varie facoltà. Il Buddha ha insegnato che l’intero
mondo mentale è sviluppato dalla pratica della me-
ditazione di mettá, che conduce alla liberazione e alla
trasformazione della personalità.

238
PARTE SECONDA

“Farvi ricorso incessantemente” evidenzia la pratica


ripetuta attraverso gli atti mentali, vocali e fisici,
mantenendo costantemente la consapevolezza di
mettá. Con le azioni ripetute si genera potere. Con la
pratica ripetuta, sono coltivati tutti e cinque i poteri
spirituali (fede, vigore, presenza mentale, concentra-
zione e saggezza sperimentale).
“Usato come proprio veicolo” significa dedizione
completa, in quanto solo metodo per la soluzione
dei problemi interpersonali e strumento di crescita
spirituale. Quando mettá è la sola “modalità di co-
municazione”, il solo veicolo, la vita è automatica-
mente una “dimora divina” .
“Resa il fondamento della propria vita”: fare di
mettá la base della propria esistenza in tutti gli aspet-
ti. Farne la principale opportunità, il porto sicuro, il
rifugio nel Dhamma.
“Pienamente stabilito” significa che si è così abi-
tuati a mettá che si rimane immersi in essa senza
sforzo, sia in meditazione che nella vita quotidiana.
“Perfezionato” indica una modalità di completez-
za attraverso la totale aderenza e lo sviluppo, che
conducono a quello stato integrato in cui si gode di
perfetto benessere e felicità spirituale, indicata nel
brano con la descrizione delle undici benedizioni.

L’influenza sugli altri


Benessere, pace della mente, tratti radiosi, affet-
to e la benevolenza altrui sono grandi benedizioni
che si acquisiscono con la meditazione di mettá,
ma ancora più meraviglioso è l’impatto che essa ha

239
6. Il discorso sull’amore universale

sull’ambiente e sugli altri, compresi animali e divini-


tà, come illustrano le scritture e i commentari pali,
con una serie di memorabili episodi. (…)
Dal Visuddhimagga c’è il caso di Visakha, proprie-
tario di molte case a Pataliputra (l’attuale Patna in
India).
Si narra che avesse sentito dire che l’isola di Sri
Lanka fosse come un giardino di Dhamma, ador-
nato da innumerevoli santuari e reliquari. E che,
benedetta da un clima favorevole, la gente fosse
molto retta e seguisse l’insegnamento del Buddha
con fervore e sincerità. Visakha decise di andarci e
di vivere là, come monaco, il resto dei suoi giorni.
Affidò, quindi, la sua considerevole fortuna a moglie
e figli e lasciò la sua casa con solo una moneta d’oro.
Si fermò al porto di Tamralipi (l’attuale Tamluk), in
attesa di una nave e durante quel tempo si impe-
gnò negli affari e guadagnò un migliaio di monete
d’oro. Raggiunto lo Sri Lanka, si recò nel famoso
monastero Mahavihara della capitale Anuradhapura,
e chiese all’abate il permesso di entrare nell’ordine
monastico. Quando fu condotto nella sala capitolare
per la cerimonia d’ordinazione, il borsellino conte-
nente le mille monete d’oro cadde dalla sua cintura.
Quando gli fu chiesto cos’era, “Ho un migliaio di
monete d’oro, signore”, rispose. Quando gli fu detto
che un monaco non poteva possedere denaro, disse:
“Non voglio possederlo, ma distribuirlo tra tutti co-
loro che sono qui per la cerimonia.” Quindi lo aprì
e disseminò di monete il cortile della sala capitolare:
“Che nessuno tra quelli che sono venuti ad assistere
all’ordinazione di Visakha, se ne torni a mani vuote.”
Dopo aver trascorso cinque anni col suo insegnante,

240
PARTE SECONDA

decise di recarsi nel monastero della foresta di Citta-


lapabbata, dove viveva un buon numero di monaci
con poteri soprannaturali. Durante il viaggio, giunse
a un bivio e si fermò, chiedendosi quale strada sce-
gliere. Poiché aveva praticato assiduamente la medi-
tazione di mettá, trovò una divinità che viveva lì in
una roccia, e che allungò una mano indicandogliela.
Giunto al monastero, occupò una delle capanne;
dopo quattro mesi, pensava di partire il mattino se-
guente, ma sentì qualcuno piangere, e si chiese:
–– Chi è?
–– Venerabile signore, sono Maniliya (cioè, dell’al-
bero di manila) - rispose la divinità che viveva
nell’albero di manila in fondo al viale.
–– Perché piangi?
–– Perché stai pensando d’andare via.
–– Che bene ti porta il mio vivere qui?
–– Venerabile signore, finché tu vivi qui, le divini-
tà e tutti gli altri esseri non-umani si trattano
tra loro con gentilezza. Quando te ne sarai an-
dato, ricominceranno con le loro dispute e liti.
–– Bene, se il fatto che io viva qui vi fa vivere in
pace, rimarrò.
E così si fermò per altri quattro mesi. Si narra che
quando pensò di nuovo di andarsene, di nuovo le
divinità piansero. Così si fermò là per sempre, e là
ottenne la liberazione, il nibbána. Tale è l’impatto di
mettá-bhávaná sugli esseri, anche quelli invisibili.
Non si scrive mai abbastanza del suo potere: i
commentari nel Canone pali sono ricchi di storie
circa monaci e laici, che superano pericoli. Mettá
non va confuso con un sentimento: è il potere dei
forti. È l’elemento decisivo. Se l’uomo decidesse,

241
6. Il discorso sull’amore universale

invece di aggressione e malevolenza, di usare mettá


come politica d’azione, il mondo diventerebbe una
dimora di pace. Solo quando l’uomo avrà pace in se
stesso e una sconfinata benevolenza verso gli altri, la
pace nel mondo sarà reale e duratura.

242
7.
Il discorso sulla felicità
più grande
(Mahá Maògala Sutta, Sn. 258)
Premessa*

di S.N. Goenka

U na volta al Buddha fu chiesto di spiegare


cosa fosse la vera felicità ed egli elencò
varie azioni benefiche che portano vera felicità.
Tutte rientrano in due categorie: azioni che con-
tribuiscono al benessere degli altri, adempiendo
a tutte le responsabilità verso famiglia e società, e
azioni che purificano la mente: il proprio bene non
è separabile dal bene degli altri.

La più grande felicità


Sapere che si è padroni di se stessi, che nulla ci
può sopraffare, che si può accettare con un sorriso
qualsiasi cosa la vita offra: questo è il perfetto equili-
bro mentale o equanimità, la vera liberazione.
Questo equilibrio non è la fredda indifferenza, la
cieca acquiescenza o l’apatia di chi cerca di sfuggire
ai problemi della vita, che cerca di nascondere la
testa nella sabbia. Piuttosto, è basato sulla consape-
volezza a tutti i livelli delle proprie difficoltà.

* Da S.N. Goenka, Chanting Course, audiocassetta,


Dhammagiri, Igatpuri, (India), 1982. Estratto dai commenti
alle stanze de Il discorso sulla felicità più grande (Maògala Sutta).

245
7. Il discorso sulla felicità più grande

L’assenza di desiderio e di avversione non è la


chiusura insensibile di chi gode della propria libera-
zione, ma non si dà pensiero della sofferenza altrui.
Al contrario, la vera equanimità è una qualità dina-
mica, un’espressione di purezza mentale, e la mente
può intraprendere un’azione positiva, che è creativa,
efficace e benefica per se stessi e per tutti gli altri.
Con l’equanimità nascono le altre qualità della
mente pura: benevolenza, amore che cerca il bene
degli altri senza aspettarsi niente in cambio, com-
passione per gli altri, per le loro debolezze e le loro
sofferenze; gioia altruistica per i loro successi e la
loro prosperità. Queste quattro qualità sono un
naturale prodotto della pratica di Vipassana, della
purificazione mentale.

Il contributo della meditazione


alla società
Se prima si cercava sempre di conservare tutto ciò
che era buono per sé e si dava agli altri solo il pro-
prio superfluo, ora si comprende che la vera felicità
non può essere conseguita senza procurarla anche
agli altri. Quindi si cerca di spartire tutto ciò che
di buono si possiede. Essendo usciti dalla sofferenza
e avendo sperimentato la pace della liberazione, si
comprende che questa è il bene più grande. Così si
desidera che anche gli altri possano sperimentarlo e
cerchino la via di uscita dalla sofferenza.

246
PARTE SECONDA

Per i laici
Un’opinione diffusa è che il Buddha abbia inse-
gnato come liberarsi dal ciclo delle esistenze, ma
ignorato la vita quotidiana dell’individuo e della
famiglia, indifferente anche ai problemi politici e
sociali. Dallo studio dei suoi insegnamenti, si evince
che egli conosceva ed era molto sensibile ai proble-
mi del mondo. Se è vero che rivolse la maggior parte
dei suoi discorsi ai monaci, avendo come fulcro il
raggiungimento dell’ultima verità, è anche vero che
ne pronunciò numerosi ai seguaci laici, concernenti
argomenti familiari e sociali. Il Buddha era molto
popolare tra le genti del suo tempo; i discepoli laici
di ogni professione e casta erano ispirati dai suoi
insegnamenti e traevano giovamento dalla pratica;
ed erano molto più numerosi di monaci e monache.
Egli trattò tutti gli aspetti della vita laica. Diede
istruzioni che riguardavano la relazione tra genitori
e figli, mogli e mariti, padroni e servi, insegnanti
e studenti, re e sudditi. Sono esortazioni vive, vali-
de e utili tuttora. Un esempio sono le istruzioni al
popolo dei Licchavi, per la conservazione della loro
repubblica, ancora oggi modello per ogni governo.
(Mahá-parinibbána Sutta, D.16)
Ispirato dai suoi insegnamenti, l’imperatore Dham-
maraja Asoka, nel III sec. a.C., instaurò un’ammini-
strazione esemplare, unica e ineguagliata nella storia.

247
7. Il discorso sulla felicità più grande

Il famoso testo del Mahá Maògala* sutta è un som-


mario di principi etici universali per l’individuo e
quindi per la società; una guida infallibile nel cam-
mino della vita per i laici, che, nonostante respon-
sabilità, difficoltà, ostacoli, praticando il Dhamma,
possono progredire sul cammino della saggezza fino
a raggiungere la meta finale.

* Mahá Maògala significa “la beatitudine più grande”.


Mahá significa “grande”. Usato come prefisso enfatizza e ac-
cresce il significato della parola o dell’espressione alla quale è
legato. Qui sottolinea la preziosità del discorso e l’immenso
valore attribuito dai monaci ai principi etici ivi racchiusi, rite-
nuti fondamentali per progredire verso la liberazione. Maògala
significa augurio, auspicio, buona fortuna, “ciò che conduce
al bene, al benessere, alla prosperità, alla felicità”. Il termine
è usato soprattutto riguardo alla sfera mondana, ma talvolta è
riferito a quella spirituale.

248
Testo del discorso

C osì io stesso ho udito: una volta, quando il


Buddha risiedeva a Savatthi nel monastero
di Anathapindika, una divinità di incomparabile
bellezza e luminosità si presentò davanti alla sua
residenza a notte fonda, illuminando tutto intorno.
Dopo aver salutato il Buddha con profonda riveren-
za, si mise in piedi da una parte e rispettosamente
gli chiese:*

Molti tra dei e uomini si sono sempre chiesti


quali fossero i comportamenti
che procurassero felicità e sicurezza;
spiegaci tu, o Illuminato, quali sono.

* Nelle stanze del discorso vi è la dettagliata risposta


del Buddha alla domanda: “Quale comportamento o azione
porta a una vera felicità?” posta da un deva della comunità
celeste, in rappresentanza anche degli esseri umani. (Per deva
o divinità, v. nota n. 9 a Il Discorso sulla messa in moto della
ruota del Dhamma, pag. 55). Essi, infatti, si sono da sempre
chiesti quale fosse e in che cosa consistesse la vera felicità, spe-
rimentando che quella del mondo sensoriale è passeggera. Nel
mondo dei sensi, la felicità è condizionata dai desideri sogget-
tivi, dal funzionamento dei sensi e dalla presenza di oggetti.
Poiché tali condizioni sono sempre in un incessante cambia-
mento, la felicità da esse derivata è effimera, e quindi priva
di soddisfazione duratura. La gratificazione sensoriale è un
inganno, e la comprensione di ciò può condurci alla via della
liberazione. (n.d.r)

249
7. Il discorso sulla felicità più grande

Evitare la compagnia degli stolti,


cercare la compagnia dei saggi,
e coltivare per questi il sentimento del rispetto,
questo è il bene più grande.*

Vivere in un luogo congeniale,


avere compiuto buone azioni,
indirizzare la propria vita
verso la direzione giusta,
e con i propri sforzi,
questo è il bene più grande.

Acquisire una profonda istruzione


e varie capacità, sia manuali che intellettuali,
avere una forte disciplina,
parlare in modo costruttivo e utile,
questo è il bene più grande.

Servire i propri genitori,


avere cura della famiglia,
avere un lavoro onesto,
questo è il bene più grande.

* Il Buddha rispose considerando l’importanza sia re-


lativa che trascendente delle benedizioni (o atti di benedizione
o auspici.) Reinterpretandolo, aggirò audacemente il significa-
to legato alla superstizione della parola maògala (benedizione),
considerandola da un punto di vista pratico. In modo concre-
to, descrisse una dopo l’altra, secondo una scala progressiva
crescente, le benedizioni che conducono allo stato trascenden-
te del nibbána. (Da R. L. Soni, Life’s Highest Blessings: The Mahá
Maògala Sutta, op. cit.)

250
PARTE SECONDA

Donare con generosità,


avere una condotta di vita irreprensibile,
aiutare i propri parenti,
compiere azioni non biasimevoli,
questo è il bene più grande.

Astenersi dal fare il male,


e da tutto ciò che intossica,
avere vigilanza sugli stati mentali,
questo è il bene più grande.

Essere rispettosi, umili e grati,


sapersi contentare,
e ascoltare a tempo debito
l’insegnamento spirituale,
questo è il bene più grande.

Essere tolleranti e remissivi


frequentare persone sante,
conversare a tempo debito
sull’insegnamento spirituale,
questo è il bene più grande.

Austerità, condizione di perfetta purezza,


comprensione delle nobili verità,
realizzazione del nibbána,
questo è il bene più grande.

Una mente che non vacilla,


in qualsiasi circostanza,
libera da tristezza, limpida e calma,
questo è il bene più grande.

251
7. Il discorso sulla felicità più grande

Coloro che si comportano


secondo questi principi,
ovunque rimarranno sempre invitti,
e si sentiranno sempre al sicuro,
questo è il bene più grande

252
Commento

Il Maògala Sutta*
di S.N. Goenka

Il commento è preceduto dal testo della relativa stanza del di-


scorso, seguito da un commento di Goenka e da note redazionali
numerate tratte da R. L. Soni Life’s Highest Blessings: The Maha
Maògala Sutta, op. cit., per completare la comprensione di questo
importante discorso, dedicato in particolar modo ai laici. (N.d.r.)

Molti tra dei e uomini si sono sempre chiesti


quali fossero i comportamenti
che procurassero felicità e sicurezza;
spiegaci tu, o Illuminato, quali sono.

Goenka: Il Buddha espone una serie di consigli,


utili per conseguire la propria felicità e nel contem-
po contribuire a creare una società armoniosa. Essi
costituiscono una guida preziosa anche per la vita
spirituale, in un crescendo che guida al raggiungi-
mento della meta finale, nonostante responsabilità,
difficoltà e ostacoli della vita quotidiana.

* Da S.N. Goenka, Chanting Course, op. cit. Estratto


e adattato.

253
7. Il discorso sulla felicità più grande

Evitare la compagnia degli stolti (1)


cercare la compagnia dei saggi,
e coltivare per questi il sentimento del rispetto (2)
questo è il bene più grande.

G.: Lo scegliere il tipo di persone che si frequenta


elimina il rischio di farsi influenzare negativamente,
e permette d’avere la compagnia di buone persone,
spiritualmente in cammino. Per potenziare la bene-
fica influenza dei saggi, va coltivato verso di loro il
sentimento del rispetto, che stimola e ispira a imi-
tarli, sviluppando in sé le stesse qualità.

Nota 1

Il termine “stolti” indica chi è privo di una con-


dotta etica. L’esortazione a non frequentarli non ha
intento moraleggiante, ma sottintende un processo:
la cattiva compagnia porta ad ascoltare cattivi consi-
gli, che fanno sorgere ragionamenti scorretti, a causa
dei quali si é preda di confusione e si perde il con-
trollo sui propri sensi. Come risultato, le azioni e il
linguaggio sono privi di etica, le tendenze negative si
rafforzano, dominano i sensi e quindi c’è sofferenza.
Con la compagnia dei saggi, il processo è inverso e
costituisce uno strumento concreto per il praticante
sul sentiero della liberazione: ascoltando buoni con-
sigli si sviluppa una fiducia razionale, sorgono nobili
pensieri, opinioni chiare, auto-controllo, condotta
morale, si superano gli ostacoli, si acquisisce saggez-
za e la conseguente liberazione.
Dunque tenersi lontano dalle cattive compagnie
è essenziale, e solo chi possiede stabilmente auto-

254
PARTE SECONDA

controllo, benevolenza e compassione, e quindi è


protetto dalle cattive influenze, può vivere anche in
mezzo “agli stolti”, con lo scopo di condurli verso
scelte etiche e maggiore saggezza.

Nota 2

“Rispetto” e “chi è degno di rispetto” riguardano


il Buddha, i monaci, le persone sante, i genitori, gli
insegnanti e tutti quelli che ci sono di aiuto e soste-
gno. Chi non manifesta rispetto e non esprime consi-
derazione verso chi possiede atteggiamento mentale,
comportamento o linguaggio retti ed elevati, soffre a
causa dell’orgoglio. Si stima troppo ed è incapace di
accettare che altri siano migliori o abbiano raggiunto
risultati più elevati. A causa dell’orgoglio, rinforza
negatività mentali che lo fanno soffrire sempre di più.
Chi coltiva il sentimento del rispetto ha la capacità
di sentirsi bene in qualsiasi ambiente e compagnia, e
ha la capacità di apprendere, poiché riconosce il sa-
pere altrui. Il sentimento del rispetto è uno dei fatto-
ri necessari per progredire ovunque, nella prosperità
materiale e in quella spirituale. La sua coltivazione
è una pratica propedeutica allo sviluppo dell’umiltà.

Vivere in un luogo congeniale, (3)


avere compiuto buone azioni, (4)
indirizzare la vita verso la direzione giusta, (5)
con i propri sforzi,
questo è il bene più grande

G.: Vivere in un paese dove l’insegnamento del


Buddha è liberamente disponibile, è una preziosa e

255
7. Il discorso sulla felicità più grande

non scontata opportunità. Vi sono infatti nazioni


ad esso ostili ed alcune in cui è addirittura proibito;
vi sono luoghi inospitali a causa delle contingenze
sociali e politiche; vi sono condizioni naturali che
non ne permettono un’esperienza completa, come
per esempio il polo nord, dove la sopravvivenza è
legata all’uccisione di animali.
Ma anche per chi ha la fortuna di vivere in un paese
dove l’insegnamento è libero e prospera, l’incontro
con esso avviene solo se predisposti da un passato
di buone azioni. L’ambiente adatto e l’incontro con
l’insegnamento sono, a loro volta, favorevoli presup-
posti, ma solo la responsabilità e l’impegno persona-
li lo rendono un’esperienza pratica, che dà benefici
concreti. E la pratica inizia con l’apprendimento di
un metodo di auto-osservazione, per sviluppare pa-
dronanza su se stessi e la propria mente, e poi con-
tinuare con il suo esercizio regolare e perseverante.

Nota 3

Letteralmente significa residenza  in una località


gradevole e conveniente. Località gradevole qui indica
un luogo confortevole, sicuro, pulito, curato e anche
prossimo a vicini amichevoli  e gentili. Località conve-
niente significa che è auspicabile che vi siano persone
che praticano l’insegnamento del Buddha, e magari
monaci, monasteri e  templi dove trarre ispirazione
e guida. Una località dove gli abitanti si dedicano a
compiere buone azioni e ad aiutare gli altri. Allora
diventa una benedizione vivere in tale luogo.  

256
PARTE SECONDA

Nota 4

È una benedizione e un conforto per lo spirito


sapere di avere compiuto buone azioni, a livello vo-
cale, mentale e fisico. Queste azioni, accompagnate
da una sincera volizione e intenzione, sono chiamate
in pali kammá, azioni che producono frutti. Se non
c’è volizione, non ci sarà frutto.  Per tutta la vita
continuiamo a produrre azioni e a sperimentarne gli
effetti. A volte sono immediati, altre volte ritardati,
e in altre occasioni non vi sono le circostanze per
far manifestare i frutti. Al momento della morte, ri-
mangono nella mente le vibrazioni di tutte le energie
potenziali dei frutti non espressi; e perché si possano
manifestare si deve verificare un’altra nascita. Essen-
do le azioni molto differenti, così lo sono i risultati.
L’azione può essere sia insana e distruttiva, sia buona
e positiva, e l’influenza dei suoi frutti può essere
più o meno intensa. Per esempio, si potrà soffrire
di malattie se nelle vita passate si è tormentato altri 
esseri, o ereditare lineamenti sgraziati  se si era irosi,
o povertà se si era avari. Vi saranno frutti buoni e
salutari, come benessere, salute, bellezza, felicità, se
si avevano compiute  azioni salutari. Ecco perché è
una benedizione aver compiuto buone azioni.

Nota 5

Indirizzare la propria vita verso la direzione giusta,


con i propri sforzi, significa decidere l’obiettivo giu-
sto da dare alla propria vita e scegliere la via giusta
per raggiungerlo. L’enfasi è posta sulla responsabilità
personale: ognuno deve concentrarsi sull’obiettivo

257
7. Il discorso sulla felicità più grande

desiderato e impegnarsi per raggiungerlo. Questo at-


teggiamento incoraggia a sviluppare confidenza in se
stessi e scoraggia la dipendenza da altri, siano perso-
ne, dei o fortuna. In questo contesto, l’avvertimento
del Buddha è per incoraggiare ognuno ad agire per
incamminarsi nella giusta direzione: stabilizzarsi in
una condotta etica per chi non lo è, o coltivare fidu-
cia, fede per chi ne è privo, oppure la generosità se si
è avari; insomma ciascuno può orientare la propria
vita verso obiettivi sempre più alti.

Acquisire una profonda istruzione


e varie capacità, sia manuali che intellettuali, (6)
avere una forte disciplina, (7)
parlare in modo costruttivo e utile, (8)
– questo è il bene più grande.

G.: Insieme alla coltivazione del metodo introspetti-


vo, il laico si confronta con la società e il mondo del
lavoro, dove istruzione e formazione professionale
plasmano la sua autonomia e la sua capacità di prov-
vedere a se stesso e alla famiglia. Esse sono risorse
vitali e creative, ma possono anche costituire uno
dei più seri impedimenti nel cammino spirituale. Le
conoscenze e competenze acquisite producono gra-
tificazione e guadagno legittimi ma, se ci s’identifica
con essi, generano orgoglio ed espansione dell’ego.
Si comincia cioè a ritenere se stessi migliori o addi-
rittura superiori agli altri. E quest’attitudine è nella
direzione opposta alla liberazione. Inoltre, quando
dominati dall’orgoglio, non si riesce neppure a pa-
droneggiare le parole, si può arrivare a comunicare
sprezzo e mancanza di rispetto.

258
PARTE SECONDA

L’azione vocale richiede la coltivazione di una co-


municazione improntata su valori etici, come since-
rità e affabilità. È un fattore essenziale nel cammino
verso la felicità.

Nota 6

L’espressione pali Báhu-saccaí significa “grande


erudizione (conseguita) ascoltando” e “grande eru-
dizione ottenuta attraverso il contatto diretto con
i sapienti”. Al tempo del Buddha, l’istruzione era
trasmessa soprattutto oralmente, perché la scrittura
non era diffusa. Di conseguenza, era considerato
erudito chi aveva memorizzato i discorsi delle per-
sone colte. Questo modello di apprendimento era
particolarmente usato nella formazione dei monaci,
e richiedeva le specifiche qualità di buona memoria,
desiderio sia di imparare sia di stare in compagnia
dei sapienti, e capacità di capire con profondità i
loro insegnamenti. La relativa benedizione consiste
nell’applicare il sapere acquisito all’esperienza medi-
tativa, per introdurla nella vita allo scopo di mante-
nere una condotta etica.
Báhu-sippaí significa invece acquisire competen-
za in lavori manuali. Ciò significa competenza in
arti o lavori che implicano una conoscenza pratica;
indica che il Buddha considerava una benedizione
il possedere abilità in qualche arte o mestiere. Egli
lodò i lavori manuali e non soltanto conoscenza e
sapienza. Ogni attività, sia essa svolta per il proprio
piacere o per mantenersi, dovrebbe essere in sinto-
nia con la condotta etica. Anche per il monaco ci
sono mestieri verso i quali è un bene essere portati,

259
7. Il discorso sulla felicità più grande

e che sono una benedizione anche per i confratelli,


come per esempio, il confezionare abiti.

Nota 7

L’espressione pali Vinayo ca susikkhito significa ben


saldi nella disciplina, disciplina ben appresa. Per il
laico capofamiglia, questo significa l’astensione dai
dieci modi di compiere le azioni malvagie. Esse sono:
– Azioni fisiche: uccidere, rubare, comportamen-
to sessuale scorretto.
– Azioni vocali: mentire, omettere il vero, usare
parole maliziose, dure, pettegolezzi.
– Azioni mentali: pensieri di cupidigia, cattiva vo-
lontà e lontani dal Dhamma. Il laico che disciplina
se stesso basandosi su questi dieci precetti è persona
eccellente, e può essere certo che, a ogni suo sforzo,
otterrà benefici lungo il sentiero.

Nota 8

Le parole bene-dette, sono parole di evoluzione e


di civiltà. Considerando tutte le parole che escono
dalla nostra bocca ogni giorno, certamente ciò che
si dice, e come lo si dice, è molto importante. Tut-
tavia “parole bene-dette” qui indica le parole usate
quando s’insegna il Dhamma. Quelle di Dhamma
non possono mai essere parole “male-dette” poiché
sono vere, apportatrici di concordia, compassione-
voli e dense di significato. In questo senso, sono una
benedizione sia per chi le pronuncia sia per chi le
ascolta.

260
PARTE SECONDA

Servire i propri genitori, (9)


avere cura della famiglia, (10)
avere un lavoro onesto (11)
questo è il bene più grande.

G.: È davvero auspicabile render loro omaggio attra-


verso un servizio dettato da amore premuroso e disin-
teressato, che li renda gioiosi negli anni del declino,
coltivando il pensiero: ”Mi hanno sorretto, li sorreg-
gerò; farò io il loro lavoro; continuerò le tradizioni
di famiglia; mi renderò degno di ciò che mi hanno
dato”. Ed essere grati e premurosi, è una benedizione.
Il laico con una buona istruzione, una professio-
ne o un mestiere gratificante, se chiuso nel proprio
egoismo: “Quel che guadagno è mio e mi serve”, può
accantonare le proprie responsabilità e dimenticare
i suoi stessi genitori, che l’hanno messo al mondo,
allevato e accudito e che, a loro volta, possono avere
bisogno d’aiuto. Il destinare loro una parte dei gua-
dagni è uno specifico dovere laico.

Nota 9

L’espressione Mátá-pitú upaþþhánaí comprende il


dare sostegno ai propri genitori, il prendersi cura di
loro e il servirli con pazienza al meglio delle proprie
possibilità. Ai giorni nostri, non sempre se ne ha
cura; quando invecchiano, qualcuno preferisce che
sia un’istituzione a occuparsene. Forse non si riflette
sul fatto che non sostenendoli decorosamente o ad-
dirittura trascurandoli, quando si diventerà vecchi si
potrà avere una sorte simile. Il Buddha insegnò che
il debito dei figli verso i genitori è così grande che

261
7. Il discorso sulla felicità più grande

non può essere ripagato solo da un supporto mate-


riale e che, insieme con questo, si dovrebbe offrire
loro anche il sostegno del Dhamma. Per esempio, se
sono avari s’insegni loro la generosità e i benefici che
ne derivano. Se la loro condotta morale non è per-
fetta, si facciano loro conoscere i danni che ne pro-
vengono. Non riescono a comprendere? Si aprano
loro le porte della conoscenza, in modo che possano
discernere il bene e il male, la causa e l’effetto che vi
è dietro ogni azione, e così via. Solo in questo modo
può essere ripagato il debito verso i genitori.

Nota 10

L’espressione Puþþadárassa saògaho indica il proteg-


gere e il prendersi cura della propria moglie e dei
propri figli. Tutti sanno che questo dovrebbe essere
fatto, tuttavia veniamo continuamente a conoscen-
za di famiglie trascurate o abbandonate. Il Buddha
insegnò al giovane Sigala (D. 31) che un marito può
aiutare la moglie in cinque modi: proteggendola,
non considerandola inferiore, essendole fedele, sti-
mandola per il lavoro che fa e donandole ornamenti
e cose di questo genere. Ogni tipo di supporto che
sia in accordo con il Dhamma è una vera benedi-
zione, poiché tutte queste azioni sono benefiche e
apportatrici di felicità.

Nota 11

Indica attività e mezzi di sussistenza che non crea­


no conflitti e ai quali ci si può dedicare con sere-
nità e senza confusione mentale. In altre parole, il

262
PARTE SECONDA

proprio lavoro non dovrebbe causare conflittualità e


neanche disturbare gli altri. Lo scopo nella vita non
è aumentare i conflitti, ma agire, lavorare e dedicarsi
agli affari in un’atmosfera che conduca a ridurli, e col
tempo a evitarli. La vita è una condizione di conflit-
to, causata dalle radici di avidità, odio e illusione, che
sono la fonte di azioni, i cui frutti sono i vari tipi di
sofferenza e di ostacolo. È essenziale compiere buone
azioni, strumenti per raggiungere obiettivi nobili e
auspicabili. Il valore di un’attività non è determina-
to dal solo obiettivo, ma anche dai mezzi usati per
raggiungerlo e le attività correlate. Per riassumere, in
questa benedizione la cosa più importante è il giusto
mezzo di sussistenza, e cioè che il lavoro sia scelto
con intento di non danneggiare né se stessi né altri
esseri.

Donare con generosità, (12)


avere una condotta di vita irreprensibile, (13)
aiutare i propri parenti, (14)
compiere azioni non biasimevoli, (15)
– questo è il bene più grande.

G.: Responsabilità primarie del laico sono la cura


dei parenti e il guadagno onesto, che derivano da
scelte di etica sia interiore che di comportamento,
e quindi sono fonte di pace. Chi non si preoccupa
dei parenti, può pagarsi lussi e vizi, ma non ottiene
pace: quando si arreca infelicità agli altri, la mente è
agitata e tesa, e diventa sempre più gretta.
Tuttavia, anche chi lavora onestamente e si occu-
pa dei familiari può sviluppare il seme dell’egoismo,
sia con un sentimento di possesso verso i propri cari

263
7. Il discorso sulla felicità più grande

che con l’esclusione di tutti gli altri, e si trova in un


piccolo universo esclusivo.
Un altro ostacolo è l’autocompiacimento, che
scaturisce dalle gratificazioni derivanti da lavoro
onesto, guadagni meritati e sforzi compiuti per
migliorarsi. Lo strumento per dissolvere l’egoismo
è la carità: è indispensabile che il laico devolva parte
dei suoi profitti. La donazione dovrebbe essere
proporzionata ai propri mezzi. Chi possiede molto
donerà molto, chi poco donerà poco. Quale che ne
sia l’entità, essa inizierà a dissolvere l’egoismo e a
far germogliare il sentimento della carità. Chi ha
profitti e rendite consistenti deve fare donazioni se-
guendo criteri pratici: il Buddha consiglia di evitare
gli eccessi. In primo luogo, il benestante dovrebbe
assicurare l’agiatezza ai familiari; quindi destinare i
profitti, parte a investimenti e parte al risparmio. E
con tutto il resto dovrebbe fare della carità.
Ma anche nel donare vi sono insidie che vanno
svelate. Per esempio, chi elargisce donazioni con
larghezza, ma è insensibile alla sofferenza dei suoi
parenti e non fa nulla per loro; chi dichiara di amare
l’umanità e di volere la felicità di tutti, ma non ha
cura di parenti, amici, dipendenti, in realtà non ama
nessuno e non ha compreso il Dhamma. Donare
molto per mettersi in mostra e suscitare ammirazio-
ne serve solo per accrescere l’ego.
Generosità e altruismo, cura e senso di responsa-
bilità verso famiglia, amici e dipendenti sono ele-
menti importanti, ma non sufficienti: per procedere
sul sentiero, occorre essere attenti perché le proprie
azioni fisiche, vocali e mentali siano profondamente
etiche.

264
PARTE SECONDA

Nota 12

L’aspetto principale di questa benedizione, non è


l’atto in sè ma l’intenzione, sulla cui base la dona-
zione può essere valutata di qualità bassa, media e
alta, se dettata dall’egocentrismo o dall’altruismo o
da una loro mescolanza. La purezza mentale di chi
la riceve e la quantità di ciò che è donato, sebbene
rilevanti, sono meno importanti dell’intenzione del
donatore. Oltre alle donazioni “materiali”, la virtù
del donare può essere praticata con le parole e con la
mente: un sorriso amichevole, parole di benevolenza,
la coltivazione di gentilezza e amore disinteressato. Il
donare agisce in armonia con le altre buone qualità,
rinforzandole. Ad esempio, una persona generosa
può sviluppare le qualità della rinuncia, la capacità
di offrire per generosità e anche la compassione,
cioè il preoccuparsi di aiutare. Si deve anche essere
in sintonia con la condotta morale e saggezza, per
donare con accortezza e non avventatamente. Infi-
ne, incontriamo frequentemente la distinzione tra
dono materiale (come quello del laico ai monaci e
alle monache, per la loro sopravvivenza), e dono del
Dhamma, e cioè l’insegnamento della meditazione.
Quest’ultimo supera ogni altro dono, perché non ha
mai fine, anzi con la sua messa in pratica aumenta di
vigore ed efficacia, e i suoi benefici accompagneran-
no sempre nella vita, dando sostegno.

Nota 13

Significa non solo osservare i principi morali, ma


anche compiere sforzi per mantenere e perfezionare

265
7. Il discorso sulla felicità più grande

la pratica di dieci comportamenti benefici:


–– Non uccidere implica in senso positivo di
sviluppare compassione e attenzione disinte-
ressata e premurosa verso gli altri esseri, che si
manifesti attraverso azioni vocali e fisiche.
–– Non rubare presuppone scegliere giusti mezzi
di sussistenza, che costituiscono uno degli ele-
menti del Nobile Ottuplice Sentiero.
–– Una retta condotta sessuale indica sviluppare la
capacità di sentirsi appagati da un solo partner.
–– Non mentire indica anche avere un linguaggio
veritiero,
–– che inviti all’armonia, e quindi capace di ricon-
durre alla concordia;
–– così cordiale e gentile che è gradito a tutti;
–– profondo e denso di significato, indifferente a
banalità e a frivolezze, e che quindi ha valore
per chi lo ascolta.
–– Sviluppando la capacità di essere generosi e
non indulgere in piaceri sensoriali si rafforza la
qualità della rinuncia.
–– L’attitudine all’amore disinteressato e premu-
roso si stabilizza.
–– Si comprendono correttamente il Dhamma e
la propria realtà interiore.

Nota 14

Questo suggerimento completa l’intera gamma


delle nostre relazioni. Infatti vi è dovere verso mo-
glie e figli, verso i genitori, i figli e verso gli altri.
Per i parenti, lontani o vicini, il Buddha non reputa
sufficiente una generica attitudine di carità, di dona-

266
PARTE SECONDA

zione, ma invita ad una particolare attenzione. Sono


quattro i modi per rispettarli: trattarli alla pari, trat-
tarli come persone benestanti se voi siete benestanti,
non trattarli come parenti poveri se sono poveri, e
fare del vostro meglio in modo che le relazioni siano
buone e li soddisfino.

Nota 15

Questa espressione indica non soltanto l’astenersi


da azioni dannose per gli altri, (i cui frutti negativi
potrebbero creare ostacoli e difficoltà), ma indica
anche di compiere azioni meritevoli: azioni in sé non
biasimevoli come avere una condotta etica, meditare,
fare volontariato in servizi sociali, creare giardini e
curare fiori e piante per il bene comune, costruire
ponti o luoghi per i pellegrini. Azioni utili alla co-
munità. E questa è una benedizione per sé e gli altri.

Astenersi dal fare il male, (16)


e da tutto ciò che intossica, (17)
essere vigilanti sugli stati mentali, (18)
questo è il bene più grande.

G.: Dopo l’impegno di rispettare regole etiche che


guidano al bene, va appreso come padroneggiare la
mente. A volte, magari per amor di discussione o per
giustificarsi, gli studenti mi dicono che il Buddha
ha insegnato l’astensione da azioni (mentali, vocali
e fisiche) dannose per gli altri, senza però accenna-
re a droghe o alcol e alla necessità di astenersene, e
che quindi dovrebbero essere permesse. Nemmeno
per sogno! Non si può progredire, se si assumono

267
7. Il discorso sulla felicità più grande

sostanze intossicanti. Ma, come! Si cerca di diven-


tare padroni della propria mente, di purificarla, di
sbarazzarsi dell’io e non ci si libera dagli intossicanti?
È per tale ragione che in questo discorso c’è la pre-
cisa raccomandazione di astenersi da tutto ciò che
intossica (cioè da ciò che corrompe e indebolisce la
mente, rendendola dipendente da sostanze che la
confondono e la sconvolgono). È un’indicazione che
fa parte della condotta morale, ma il Buddha avverte
la necessità di evidenziarla. Solo con tali premesse, ci
si applica con efficacia alla meditazione, sviluppando
la capacità di essere consapevoli con continuità delle
sensazioni del corpo e dei contenuti della mente.

Nota 16

Le parole árati e virati sono spesso insieme nel Ti-


piþaka. Affiancate significano astenersi, lasciare da
parte, stare lontano da, evitare, e rispettivamente
significano evitare il male e astenersi da esso. Evitare
il male, nella spiegazione dei commentari, è non
sviluppare mentalmente attrazione o non provare
piacere in esso; in altre parole, l’evitare che a livello
mentale si sviluppi la tendenza a considerare piace-
voli questi pensieri. È necessario allontanarsi da essi
appena sorgono, perché non si sviluppino: solo così
finiscono subito e si impedisce che proliferino. Aste-
nersi è inteso per lo più da azioni verbali e fisiche.
Queste astensioni derivano dall’attenzione mentale
nell’evitare di indulgere in pensieri nocivi.
Páþá, tradotto come male, indica azioni che distur-
bano la propria e altrui pace, e che quindi rientrano
in sìla, la condotta morale. Essa comprende l’evitare

268
PARTE SECONDA

e l’astenersi da: mentire, parlare maliziosamente,


causare dissidi, chiacchierare inutilmente; uccidere
qualsiasi essere, rubare, avere un comportamento
sessuale scorretto, avere un lavoro dannoso per gli
altri, come il commercio in armi o droghe.

Nota 17

Nonostante le bevande alcoliche non siano cita-


te, l’espressione comprende tutto ciò che offusca la
mente, in quanto l’obiettivo sotteso è una mente luci-
da e concentrata per poter compiere l’auto-indagine
interiore. Ecco perché va eliminata qualsiasi sostanza
impedisca lo sviluppo di acume e concentrazione.

Nota 18

Il Buddha continuamente esorta a coltivare ap-


pamáda, vigilanza. La parola pali include tre caratte-
ristiche di impegno diligente: determinazione, con-
sapevolezza e saggezza. Chi si è impegnato a svilup-
pare in se stesso il Dhamma deve utilizzarle insieme
e mantenerle; ma non solo, deve compiere lo sforzo
diligente di sviluppare altre qualità. Nel Vibhaòga
(sezione dell’Abidhammatta Pitaka terza parte del
Tipiþaka n.d.r.), sono indicati i comportamenti che
impediscono di crescere in Dhamma: incuria, di-
sattenzione, pigrizia, disinteresse, negligenza, man-
canza di continuità, abbandono dell’impegno, non
richiamare alla mente parole di Dhamma imparate
a memoria, non migliorare, non essere risoluti, non
applicarsi. Conoscendoli, ci possiamo rendere conto
se siamo diligenti o no. E capire come questa vigi-

269
7. Il discorso sulla felicità più grande

lanza sia una benedizione.

Essere rispettosi (19), umili, (20) e grati, (21)


sapersi contentare, (22)
e ascoltare a tempo debito
l’insegnamento spirituale, (23)
questo è il bene più grande.

G.: Chi sviluppa condotta morale, sentimento di


carità e consapevolezza, corre il grande rischio di
cadere nell’autocompiacimento: per l’essere medi-
tatori, per la scelta compiuta, per la convinzione di
condurre una vita speciale, per il pensiero di essere
migliori anche degli altri meditatori. Bisogna presta-
re molta attenzione a che ogni passo compiuto non
renda superbi o presuntuosi, e quindi allontani da
pace e liberazione; perciò l’insegnamento del Bud-
dha prevede la coltivazione del rispetto per l’altro.
Gli studenti che scelgono di svolgere del volonta-
riato per il Dhamma compiono un’azione veramente
encomiabile. Ma l’azione mentale è ancora più im-
portante; cioè, se l’attitudine è di sufficienza verso i
nuovi arrivati, con fastidio per i loro comportamenti,
se si è incapaci di un po’ di amorevolezza e compas-
sione, allora il volontario non fa che rafforzare l’ego.
Se l’attitudine è di rispetto e comprensione per gli
altri, la si esprime dando un esempio che stimola gli
altri a migliorarsi. Se vi sono giudizio e impazienza,
si rischia di scoraggiare e allontanare chi, in cerca di
verità, desidera partecipare a un corso.
Il bisogno di riconoscimento e gratificazione è
umano, ma se l’attitudine è di competizione può
trasformarsi in bramosia e rivalsa.

270
PARTE SECONDA

E la gratitudine? È importantissima! C’è chi crede


d’essere più importante degli altri, perché ha appreso
la meditazione; chi perché ha letto l’insegnamento
del Buddha; c’è chi pensa di averlo capito e meglio
compreso rispetto a chi glielo ha indicato, e quindi
arriva a ritenersi superiore ai propri insegnanti: “Mi
ha trasmesso le prime nozioni e mi ha indirizzato,
ma io sono andato ben oltre!”. Tutto ciò che di utile
abbiamo ricevuto dovrebbe suscitare il sentimento
di gratitudine verso chi ce l’ha donato.
Un metro di misura di quanto si sia capito e spe-
rimentato il Dhamma, è la manifestazione di due
qualità così importanti, che il Buddha le annoverò
tra quelle essenziali per ottenere la liberazione: la
gratitudine e il desiderio di prestare opera di volon-
tariato per aiutare gli altri.
Chi, progredendo nel cammino, approfondisce lo
studio degli insegnamenti, può insuperbirsi: “Per-
ché perdere tempo ad ascoltare le altrui spiegazioni?
Non ne ho più bisogno, perché ne so di più”. Anche
quest’atteggiamento è un grande ostacolo. Perché il
discorso già più volte sentito, se ascoltato con inte-
resse rinnovato e piena attenzione, rivela ogni volta
dei significati. L’approfondimento graduale richiede
proprio l’ascolto ripetuto e regolare d’insegnamenti,
commenti e chiarimenti. È saggezza intellettuale,
ma non si può prescindere da essa.

Nota 19

Questa qualità, in pali gárávo, è da coltivare, e


include la corretta devozione verso il Buddha, il
Dhamma e il Sangha, il profondo rispetto per geni-

271
7. Il discorso sulla felicità più grande

tori, insegnanti, persone buone e anziani: in genera-


le è il rispettoso atteggiamento verso tutti. Ne sono
esempi lo stesso Buddha, che ogni sera onorava il
Dhamma per i benefici che porta agli esseri umani, e
Sariputta, (uno dei principali discepoli del Buddha)
che ogni sera si chiedeva dove fosse il monaco che lo
aveva indirizzato al Buddha; e inchinandosi verso la
direzione dove lui si trovava, lo ringraziava auguran-
dogli un’esistenza felice. Il rispetto verso l’insegna-
mento e verso coloro che lo praticano, aumenta man
mano si progredisce nella realizzazione spirituale. Il
Buddha indica alcuni modi: offrire un posto a se-
dere, alzarsi per ricevere le persone, accompagnarle,
devotamente unire le mani e inchinarsi. È una qua-
lità che aiuta a ridurre l’importanza che diamo a noi
stessi, specialmente se abbiamo raggiunto una posi-
zione sociale o spirituale importante. E che serve da
base per la qualità dell’umiltà.

Nota 20

Anche questa qualità indica l’importanza di eser-


citare l’attenzione a non sviluppare orgoglio, perché
chi pretende di sapere è incapace di imparare. Nei
commentari vi sono alcuni esempi: essere come lo
straccio con cui ci si pulisce i piedi, come un toro
senza corna o un serpente senza denti aguzzi. La
persona saggia non reclamizza se stessa, non mostra
esuberanza nelle parole e nei gesti, ma si mantie-
ne discreta. È interessante notare che la parola pali
niváto significa “senza vento” e che in molte lingue
“gonfiato” fa riferimento all’evanescenza di chi si
mette in mostra.

272
PARTE SECONDA

Nota 21

Letteralmente Kataññutá, significa sapere ciò che è


stato fatto e cioè ricordare che cosa gli altri hanno
fatto per noi. Il Buddha ha continuamente ripetuto
che, al mondo, ci sono due tipi di persone difficili
da trovare: chi offre aiuto per primo senza aspettar-
si qualcosa in cambio, e chi è grato nel riconoscere
quell’aiuto o quella gentilezza. Senza gratitudine ci
si può dimenticare di genitori, parenti, amici, vici-
ni, insegnanti e maestri di Dhamma; quando loro
hanno bisogno si diventa facilmente indifferenti.
L’egoista tende a isolarsi, pretende di essere autosuf-
ficiente, dimenticando i benefici e gli aiuti ricevuti.
Quante cose abbiamo ricevuto e quante occasioni
abbiamo per esprimere gratitudine? Ogni volta che
lo facciamo, è sicuramente un momento di armonia
e pace, una benedizione.

Nota 22

Accontentarsi indica un’attitudine di accettazione


equanime delle situazioni e condizioni in cui ci si
trova. Essa porta pace mentale e non rassegnazione
passiva, ed è l’opposto dell’agitazione di chi vuole
sempre di più senza mai, appunto, sapersi accon-
tentare. E qual è la giusta misura? È quella che non
richiede troppo sforzo e che non provoca ansia e
preoccupazione. Ognuno deve giudicare da sé. Il
laico deve compiere sforzi per condurre una vita
senza stenti e valutare quando ciò che possiede gli
porta felicità o preoccupazione. Questa è la saggezza
da sviluppare.

273
7. Il discorso sulla felicità più grande

Nota 23

L’ascolto di un insegnamento dovrebbe avvenire


nel momento opportuno. Se ne trae maggior van-
taggio, se si è in salute e non troppo stanchi. Ma
vi sono occasioni in cui, a seguito di circostanze di
disagio, e per comprendere come uscire dalla soffe-
renza, si è propensi ad ascoltare e aperti ad appren-
dere. L’ascolto tradizionale del Dhamma è stato in
parte sostituito dallo studio dell’insegnamento su
testi scritti. Quindi si cerchi di leggere al momento
opportuno: liberi da impegni incombenti e aperti
all’ascolto interiore, ovviamente non annebbiati da
droghe e intossicanti. È una benedizione perché
quando si è concentrati a capire, i nostri difetti e
negatività si placano e restano sullo sfondo. Ecco
perché nei momenti di ascolto o lettura, se la mente
è sufficientemente pura, possono sorgere intuizioni
di verità, sino a raggiungere la piena liberazione.

Essere tolleranti (24) e accondiscendenti, (25)


frequentare persone sante, (26)
conversare a tempo debito sull’insegnamento
spirituale, (27)
– questo è il bene più grande.

G.: Chi cammina sul sentiero, cresce in tolleranza,


qualità senza la quale non si può crescere spiritual-
mente. Significa sviluppare la capacità di non nutri-
re sentimenti negativi, di rimanere equanimi, se altri
si comportano in modo scorretto. Per esempio du-
rante una meditazione di gruppo, voi fate del vostro
meglio per non disturbare, ma può succedere che

274
PARTE SECONDA

altri disturbino voi. Oppure avete imparato a essere


umili, e trovate qualcuno che non lo è. O sentite
il sentimento della gratitudine, ma non lo trovate
intorno a voi. Ebbene, non aspettatevi che gli altri
si comportino bene, né che nutrano riconoscenza
nei vostri confronti. Potete piuttosto, assumervi la
responsabilità delle vostre azioni: non fate nulla che
possa danneggiare chi agisce in modo scorretto, ma
sviluppate tolleranza e remissività verso chi non rie­
sce a camminare sul sentiero, per chi dimostra di
non averlo compreso e di non applicarlo.
Nel volontariato per Vipassana, a volte potreste
giudicare impreparato qualcuno cui è affidato un
ruolo di responsabilità e, dominati da orgoglio,
potreste non cooperare. Sviluppate, invece, un’atti-
tudine di servizio, collaborazione, critica costruttiva
e obbedienza verso chi ha le mansioni più gravose.
Questo contribuirà alla vostra crescita interiore.
Il “frequentare le persone sante”, sia monaci che
laici che si sono liberati dalle impurità mentali, è
annoverata dal Buddha come una benedizione, non
solo perchè ci si sente bene alla loro presenza, ma per
cogliere in loro le tracce della verità e trarne ispirazio-
ne per svilupparle in se stessi. Dunque per il vostro
bene e per la vostra felicità, di tanto in tanto, recatevi
in visita da un monaco o da un laico dal cuore puro.
Il “parlare di Dhamma quando necessario” in-
dica l’importanza di comunicare dubbi e richieste
di delucidazioni per non ostacolare il progresso sul
sentiero. Per esempio, ogni volta sorgano dubbi
durante la meditazione, l’ascolto e lo studio degli
insegnamenti, se qualcosa non vi sembra logico o
comprensibile, esprimetevi senza indugio e senza

275
7. Il discorso sulla felicità più grande

reprimere il desiderio di chiarimenti. Non temete di


discutere ciò che attiene all’insegnamento.
E cercate di sviluppare la capacità di ascolto: siate
disposti ad accogliere la risposta con attenzione e ri-
spetto, accantonate la presunzione di conoscerla già,
ma coltivate un’attitudine di apertura verso quanto,
con amorevolezza, vi viene offerto.

Nota 24

La tolleranza è una delle più importanti virtù o


páramì (le dieci qualità da sviluppare per raggiungere
la liberazione). Khanti o tolleranza, può essere tra-
dotto come tollerare, ma significa anche perdonare,
lasciar andare, dimenticare i torti subiti. È una serena
attitudine per affrontare situazioni e problemi nella
vita, grazie a cui possiamo accettare con equanimità il
flusso degli eventi. Questa qualità non permette alle
impressioni sensoriali di disturbare la pace mentale,
anche quando stiamo assolvendo i nostri compiti
sociali e familiari. Va perfezionata non solo padro-
neggiando l’impulsività. Il Buddha narra del “mo-
naco, esempio di pazienza, che la mantenne intatta
anche quando il re Kasi lo condannò a morte”; ma
anche senza questi estremi, abbiamo molte occasioni
di coltivarla: per esempio quando sentiamo caldo o
freddo, se gli insetti ci disturbano o delle parole ci
feriscono. La pazienza è il fondamento per sviluppare
mettá (il sentimento di amorevolezza verso tutti gli
esseri). È una potente qualità molto apprezzata dal
Buddha, una vera benedizione.

276
PARTE SECONDA

Nota 25

Il significato offerto nei commentari è: “... chi è


facile avvicinare, con cui è facile parlare, chi è aperto
e accetta con gratitudine consigli; è capace di acco-
gliere le critiche che gli sono rivolte e di accettare le
correzioni.
Chi è disponibile a essere corretto ha più possi-
bilità di imparare il Dhamma; deve possedere una
giusta dose di accondiscendenza che è l’opposto
sia dell’atteggiamento del prevaricatore con cui è
difficile parlare, che talvolta nasconde le sue man-
canze o rifiuta il dialogo stando in un silenzio ostile,
o aggredisce verbalmente rinfacciando errori e vizi
altrui, sia dell’atteggiamento del remissivo che evita
di esprimere le proprie emozioni, opinioni e punti
di vista per timore di discussioni, per la preoccupa-
zione di sbagliare o la paura del giudizio, perché ha
troppo bisogno dell’approvazione altrui.”
Occorre esaminare se abbiamo questa virtù di
apertura e accondiscendenza, che è una benedizione
per noi e gli altri.

Nota 26

Qui dassanaí è la percezione delle Nobili Verità,


attraverso la vista di persone nobili che le hanno
realizzate. Significa anche desiderare di rendere ri-
spetto a persone con qualità eccezionali; desiderare
di incontrarle, particolarmente monaci, monache e
maestri della meditazione del Buddha.
Un’ispirazione profonda può scaturire dal solo
vederle. Ecco perché incontrarle è una benedizione.

277
7. Il discorso sulla felicità più grande

Nota 27

Dhamma, l’insegnamento del Buddha, richiede


il nostro impegno per comprenderlo pienamente e
per capirne l’utilità nella vita quotidiana. In questo
possiamo essere molto aiutati da discussioni con chi
ha conoscenza dettagliata della teoria e della pratica
meditativa. Queste conversazioni dovrebbero essere
ben organizzate, improntate ad apertura e sincerità e
vi si dovrebbe partecipare, anche a costo di superare
qualche difficoltà. Sono utili specialmente quando le
negatività mentali tendono a sopraffare, e dubbio e
incertezza prendono il sopravvento, oppure quando
ci sono guai seri in famiglia, nelle relazioni o nel lavo-
ro. Fateli diventare una benedizione per la vostra vita.

Austerità, condizione di perfetta purezza, (28)


comprensione delle nobili verità, (29)
realizzazione del nibbána, (30)
– questo è il bene più grande.

G.: Tapa, austerità, significa letteralmente “calore”. Il


suo significato esteso è “pratiche ascetiche”. Il Bud-
dha ha usato questo termine per indicare l’auto-con-
trollo, soprattutto dei sensi, e lo sforzo vigoroso, che
“brucia” le negatività, necessario per raggiungere lo
stadio della liberazione. In questa tecnica, ha quindi
il significato di giusto sforzo, cioè sforzo ben diretto
e quindi efficace. Non indica discipline ascetiche che
implicano sofferenza fisica, ma una meditazione con
lo specifico sforzo di rimanere consapevoli ed equa-
nimi con continuità, senza eccessi né di mollezza né
di rigore.

278
PARTE SECONDA

Chi ha capito l’insegnamento, l’ha ben verifica-


to, si è chiarito i dubbi, cerca di eliminare le sue
impurità principali, e di non nuocere agli altri, è
allora idoneo alla meditazione. Mentre all’inizio la
condotta morale può rappresentare una costrizio-
ne, poi diviene un’inclinazione naturale. Dopo che
sono eliminati strati e strati d’impurità, si raggiunge
lo stadio in cui la mente è pura e non si sente più
difficoltà a vivere con moralità. Gradualmente, con-
sapevolezza ed equanimità portano il laico medita-
tore anche allo stadio dell’astinenza spontanea dalla
sessualità; raggiunta in modo naturale, è vissuta con
gioia e non come privazione.
L’osservare le quattro verità dell’esistenza rende
nobili solo quando sono sperimentate. Appreso
come osservarle con equanimità, ci si radica sem-
pre più saldamente nella meditazione e si penetra
con profondità nella mente, fino a sperimentare lo
stadio del nibbána, al di là del mondo della mente e
della materia. Il laico, con le difficoltà e il continuo
rischio di rafforzare l’egoismo, può smantellare gra-
dualmente l’ego e progredire con costanza, solo se la
base morale è solida e se pratica con costanza e sfor-
zo ben diretto (con consapevolezza ed equanimità).

Nota 28

Pur includendo tutti gli aspetti della vita medita-


tiva, l’enfasi dell’espressione è sulla purezza morale.
Attraverso lo studio e la pratica del Dhamma s’im-
para ad avere auto-controllo su impulsi e tendenze
negative; un’importante parte di questo controllo è
il regolare l’attività sessuale. Il desiderio sessuale è

279
7. Il discorso sulla felicità più grande

generalmente una fonte di sofferenza e la causa del


continuo rinascere; ma è anche un’energia potente
che può essere messa al servizio della mente medita-
tiva. Il Buddha ha insegnato ai laici come compor-
tarsi con la sessualità, osservando il terzo precetto, e
con la meditazione. I monaci praticano la completa
astinenza e, durante i ritiri di meditazione, anche il
laico s’impegna a osservare completo celibato, alle-
nandosi ad arrivare spontaneamente alla completa
astinenza. Questo può avvenire con l’approfon-
dimento della pratica meditativa, pur rimanendo
coinvolti nelle attività mondane.

Nota 29

Ariyasaccána dassanaí: vedere, comprendere e spe-


rimentare le Nobili Verità.
Esse sono la descrizione dell’esperienza della vita.
(Sono state trattate ampiamente nelle note e nel
commento del primo discorso. n.d.r) L’espressione
significa la percezione diretta delle quattro nobili
verità mentre si manifestano nella nostra vita. Que-
sta intuizione porta alla realizzazione dei fatti che
la sofferenza c’è, che la sua radice è nella bramosia,
avversione e ignoranza, che la sua eliminazione av-
viene quando bramosia, avversione e ignoranza sono
estinti, e che per arrivare a questo occorre impegnar-
si con una tecnica di meditazione, descritta nell’ot-
tuplice nobile cammino. Quando questa intuizione,
questa visione diretta delle nobili verità avviene, si
giunge vicino alla realizzazione finale della completa
liberazione.

280
PARTE SECONDA

Nota 30

Il raggiungimento del nibbána è il più nobile fine


che l’essere umano si può porre. È la libertà da ogni
desiderio, odio, avversione, delusione, lo stato di
perfetta sicurezza da ogni vicissitudine della vita,
di completa conoscenza, di perfezione; al di là del
mondo sensoriale e della possibilità di essere de-
scritto. Esso si raggiunge eliminando dalla mente
bramosia, avversione, delusione. Queste negatività
sono radicate nell’ignoranza che genera legami tanto
forti da tenerci legati al doloroso ciclo del divenire,
della nascita, della morte, della rinascita. Questi le-
gami sono dieci:
1) sakkáyaditthi: credere in una permanente per-
sonalità, in un io.
2) vicikicchá: dubbi irrazionali.
3) sìlabbataparámása: attaccamento a riti e rituali
con l’idea che ci possano liberare.
4) káma-rága: bramosia per i piaceri sensoriali.
5) vyápáda: cattiva volontà, tendenza al non sfor-
zo, alla non determinazione.
6) rúpa-rága: bramosia a rinascere in mondi più
raffinati.
7) arúpa-rága: bramosia per una esistenza cele-
stiale.
8) mána: orgoglio e arroganza.
9) uddhacca: agitazione e inquietudine.
10) avijjá: ignoranza.
Chi possiede questi legami è chiamato, nei testi
dell’insegnamento del Buddha, persona comune
(puthujjana). Siamo noi in questo tormentoso ocea­
no dell’esistenza, attaccati ai piaceri dei sensi e pri-

281
7. Il discorso sulla felicità più grande

gionieri della sofferenza. La dissoluzione di questi


legami è lo scopo più alto dell’insegnamento del
Buddha. Nonostante lo sforzo sia immenso, i frutti
sono senza paragone. Una volta iniziato il nostro
sforzo in questa direzione, i progressi arriveranno. Il
metodo giusto è la coltivazione della mente attraver-
so la concentrazione, la riflessione e la meditazione.
La visione profonda che ne risulta (Vipassaná) è il
solvente per sciogliere i dieci legami. La dissoluzione
dei primi tre trasforma la persona comune in sotápan-
na (chi è entrato nella corrente della saggezza). Ciò
significa che dall’oceano impetuoso dell’esistenza si
è spostato nel fiume tranquillo che lo condurrà alla
liberazione. Tale persona è chiamata nobile (ariya).
Quando il quarto e il quinto legame si sono inde-
boliti, il nobile diventa sakadágámì (chi è destinato
a ritornare una sola volta in questo mondo). L’eli-
minazione del sesto e settimo legame lo trasforma
in anágámì (alla morte non ritornerà più in questo
mondo). L’eliminazione di tutti i legami trasforma
in arahant, una persona completamente liberata,
un essere perfetto. Il Buddha è un Arahat, che ha
distrutto tutti i legami. Gli arahat non creano più
formazioni mentali, e quindi kamma, cioè legami
che li vincolano al mondo fenomenico. Sono al di
là di ogni tentazione, perfettamente puri e con una
completa comprensione della verità. Hanno rag-
giunto il fine ultimo, il nibbána. Alla fine della vita
terrena, in cui consumano i rimanenti momenti di
kamma accumulati, se ne andranno liberati, per non
ritornare mai più in questa vita.

282
PARTE SECONDA

Una mente che non vacilla,


in qualsiasi circostanza, (31)
libera da tristezza, limpida e calma,
– questo è il bene più grande.

G.: Dopo aver sperimentato il nibbána, quando


si viene in contatto con le inevitabili vicissitudini
della vita, l’equanimità sarà così radicata, che ogni
azione è equanime e non accadrà più di rattristarsi
e piangere: il tempo del pianto se n’è andato, per
sempre. Si è pienamente sicuri, con la sicurezza del
Dhamma: “Che cosa accadrà domani? Domani ac-
cadrà tutto ciò che è bene, vivo con consapevolezza
ed equanimità.”

Nota 31

Le situazioni che s’incontrano inevitabilmente


nella vita sono di otto tipi: guadagno, perdita, di-
sgrazia, buona fama, cattiva fama, riconoscimento
e onore, felicità e piacere, sofferenza. Di solito ten-
diamo a compiacerci quando le cose vanno bene e
a odiare e avere avversione quando le cose vanno
male. La mente equanime è equilibrata di fronte
ad ognuna di queste situazioni, e rimane libera da
tristezza, calma, libera da passioni e limpida, non
disturbata dai sensi. Queste sono le qualità della
persona illuminata. Forte e sicura, è testimone di
tutti i cambiamenti e i drammi della vita, senza es-
serne turbata.

283
7. Il discorso sulla felicità più grande

Coloro che si comportano secondo questi principi,


ovunque rimarranno sempre invitti,
e si sentiranno sempre al sicuro.
– questo è il bene più grande

G.: Iniziate e procedete senza sosta, passo dopo


passo e nella direzione giusta. Arriverete allo stadio
della vera felicità.

284
PARTE SECONDA

Le 38 benedizioni,
ognuna il massimo*
di R.L. Soni

Le trentotto benedizioni (atti di benedizione o


maògalanì) non sono in ordine casuale, ma seguono
una stretta logica. Si susseguono raggruppate in ca-
tegorie, anch’esse in un ordine progressivo di svilup-
po spirituale. (…)
Ogni benedizione è definita come “il meglio” o
“il massimo” (maògalaí-uttamaí) perché indica il
meglio per ogni fase del cammino, considerando
che nei diversi stadi di vita sono necessari consigli
diversi. Essi includono infatti ambiti assai diversi
(i traguardi mondani, la vita familiare, le pratiche
meditative e gli ideali spirituali). La vita personale è
trattata come un tutto unico, ma, poiché ha stadi di-
versi, precetti diversi guidano ogni stadio verso una
condizione ottimale. Passo dopo passo, l’evoluzione
di ciascuno procede, e ogni stadio è caratterizzato da
qualche specifica benedizione.
Il Mahá Maògala Sutta dà il consiglio adeguato per
ogni stadio della vita; è in questo modo che la feli-
cità mondana e la beatitudine spirituale cessano di
essere ideali in conflitto tra loro.

* Da R. L. Soni, Life’s Highest Blessings: The Mahá


Maògala Sutta, op. cit.

285
7. Il discorso sulla felicità più grande

Ogni ideale che sia buono costituisce ciò che è


“meglio” nel suo posto specifico. Ecco perché ognu-
na delle trentotto benedizioni costituisce “il massi-
mo” e “il meglio”.
Se l’individuo progredisce e la sua consapevolezza
aumenta, allora nel corso della vita man mano si
focalizza su fini diversi, e potrà sentirsi una persona
matura, ripensando ai giocattoli della sua infanzia.
Quel che allora costituiva il meglio non è più tale
per lui ora; com’è vero che ciò che considera come il
meglio, da adulto, sarebbe rifiutato da un bambino.
Proprio come chi va al mercato con, sulla schie-
na, un sacco di carbone, lo abbandona quando trova
della lana, e la abbandona trovando dell’argento, e
abbandona l’argento quando trova dell’oro, e abban-
dona l’oro trovando dei diamanti, e (infine, n.d.r.)
abbandona qualsiasi altra cosa trovando il segreto
della felicità duratura, così noi spostiamo il punto
di vista, focalizzando la consapevolezza su ideali
sempre più elevati, finché raggiungiamo il punto
massimo.

286
PARTE SECONDA

La sintesi
delle 38 benedizioni*
di R.L. Soni

Stanza 1. La domanda fondamentale:


Che cosa conduce alla vera felicità?

Stanza 2. La bussola per l’orientamento: coltivare


le condizioni per poter discriminare tra il bene e il
male:
1) Il non associarsi a persone che ignorano il
Dhamma.
2) La ricerca della compagnia dei saggi
3) La reverenza verso chi è degno di rispetto.

Stanza 3. Creare fondamenta solide:


conoscere e realizzare i requisiti interiori ed esteriori,
per avere successo nella vita:
4) La scelta di un posto per vivere, idoneo al
Dhamma
5) Il compiere buone azioni
6) L’orientamento di se se stessi nella giusta di-
rezione
Stanza 4. Prepararsi: come allenarsi per una vita fe-
lice e proficua:

* Da R. L. Soni, Life’s Highest Blessings: The Mahá


Maògala Sutta, op. cit.

287
7. Il discorso sulla felicità più grande

7) L’apprendimento di una educazione completa


8) L’apprendimento di una professione e/o di un
mestiere
9) La coltivazione di una disciplina mentale ed
etica
10) L’esercizio a comunicare con gli altri, in ma-
niera utile e positiva

Stanza 5. Condurre una vita virtuosa e responsabile,


con l’adempimento delle responsabilità familiari:
11) L’aiuto ai propri genitori
12) Il mantenimento della famiglia
13) Un’occupazione che non danneggi gli altri

Stanza 6. Diventare un sostegno per la società, con


l’esempio e atti concreti:
14) L’esercizio della generosità
15) L’integrità morale
16) Il sostegno verso parenti e amici
17) L’agire per il bene della società

Stanza 7. Un’etica personale, con gli strumenti per


una vita d’integrità morale:
18) La lontananza da situazioni improprie
19) L’astensione da azioni immorali
20) L’astensione dalle sostanze intossicanti
21) La diligenza nel compiere azioni virtuose

Stanza 8. Sviluppare la propria vita spirituale, impa-


rando a coltivare le virtù interiori:
22) Rispetto e reverenza
23) Umiltà
24) Contentezza per ciò che si è e si ha

288
25) Gratitudine
26) Ascolto al momento opportuno di discorsi
spirituali

Stanza 9. Sviluppare la propria vita spirituale,


imparando da altri:
27) Pazienza e tolleranza
28) Disponibilità ad ascoltare consigli
29) Incontro con persone sagge e sante
30) Apertura verso la discussione su temi spirituali

Stanza10. L’ascesa verso la realizzazione spirituale,


mettendo in pratica comportamenti e azioni per
ottenere la piena liberazione:
31) Austerità e determinazione
32) Una vita integerrima, sino alla castità
33) Comprensione ed esperienza diretta delle
Quattro Nobili Verità
34) Realizzazione del nibbána (la verità ultima)

Stanza11. I frutti della vita spirituale realizzata, la


manifestazione delle qualità mentali:
35) Imperturbabilità di fronte ai continui cam-
biamenti
36) Gioia
37) Purezza e giusto distacco
38) Stabilità e sicurezza interiori

Stanza 12. Conclusione del viaggio spirituale:


Dovunque saranno vittoriosi, dovunque saranno al
sicuro.
7. Il discorso sulla felicità più grande

Un condensato
delle virtù morali*
di P.A. Bigandet**
Le parole di un vescovo cattolico

Nel pur limitato ambito di un discorso, il Buddha


ha condensato un compendio di quasi tutte le virtù
morali.
La prima parte contiene delle prescrizioni per
evitare tutto ciò che è di ostacolo alla pratica delle
buone azioni.
Nella seconda parte si ribadisce la necessità di
disciplinare la mente e la propria volontà, per adem-
piere con perseveranza ai doveri che spettano ad
ognuno nel proprio ruolo. Seguono una raccoman-
dazione a prestare assistenza a genitori, parenti e a
tutti in generale; e inoltre il consiglio di coltivare le
virtù dell’umiltà, dell’accettazione, della gratitudine
e della pazienza.
Proseguendo, il Maestro insiste sulla necessità
di studiare la Legge (Dhamma, n.d.r.), far visita ai
saggi, discutendo di soggetti spirituali. Raccoman-
da, una volta compiuto tutto ciò, di studiare con
grande attenzione le quattro nobili Verità, e tenere

* Da Shway Yoe, The Burman: His Life and Notions,


op.cit., p. 571.
** L’Autore è stato vescovo dell’Arcidiocesi di Yangoon
in Myanmar, dal 1870 al 1894.

290
PARTE SECONDA

sempre l’occhio della mente fisso sul felice stato del


nibbána, che, sebbene ancora lontano, non andrebbe
mai perso di vista.
Così preparati, ci si deve concentrare sull’acqui-
sizione delle qualità proprie del vero saggio, che
resta saldo, impavido e imperturbabile, nel corso di
tutte le vicissitudini della vita, anche tra le rovine
del crollo dell’universo. Infine viene richiamato il
fine ultimo della perfetta stabilità mentale: tale stato
preannuncia il nibbána.
Il Mahá Maògala Sutta, un corso ben pianificato di
cultura e progresso personale, costituisce un’eccel-
lente guida per raggiungere anche il più alto scopo;
è come una scala che ci aiuta a salire, passo dopo
passo, verso il culmine. La vita ideale coincide con la
liberazione da paure e insicurezze, e la si raggiunge
attraverso un serio e progressivo sforzo, e un virtuo-
so cammino nel mondo. È un’impresa grande che
richiede un’adeguata preparazione e uno scrupoloso
allenamento.
Il discorso comprende non solo il programma
dell’allenamento preparatorio, ma anche una guida
sicura attraverso il percorso della vita, che infine
conduce al porto del nibbána.

291
7. Il discorso sulla felicità più grande

Una guida nella società*


di R.L. Soni

Generalmente, l’uomo è oppresso da gravi fardelli,


e prigioniero di pesanti catene chiuse da lui stesso: le
catene di paura, superstizione, dogma e riti, causate
dalle tendenze egoistiche di avidità, odio e illusione.
Costretto da queste catene l’uomo subisce difficoltà
e avversità, ed esse lo privano di iniziativa, coraggio
e fiducia in se stesso. La conseguenza è l’affidarsi a
riti e rituali, a speculazioni filosofiche o al sopran-
naturale; che a sua volta produce dipendenza da
forze e agenti esterni immaginari o reali. È così che
la mente viene rinchiusa tra i muri di una prigione
auto-costruita.
Il Buddha, mosso da grande compassione per la
condizione dell’umanità, che annaspava in credenze
cieche, insegnò il modo per infrangere l’incrostazio-
ne formata dalle superstizioni. Il suo Mahá Maògala
Sutta è uno straordinario antidoto contro tutte le
credenze e superstizioni fuorvianti.
Vi sono consigli che possono rendere chiunque
un cittadino ideale e indicazioni che preparano a
compiere un fruttuoso cammino di vita. Ulteriori
consigli fanno maturare progressivamente l’indivi-
duo, affinché passi dallo stato mondano alla sfera

* Da R. L. Soni, Life’s Highest Blessings: The Mahá


Maògala Sutta, op. cit.

292
PARTE SECONDA

delle più alte virtù e a esperienze spirituali che, nella


giusta progressione, conducono alla perfetta libera-
zione. Nello stesso modo, la vita mondana, la vita
religiosa e la realizzazione spirituale si seguono l’un
l’altra in una sequenza logica, e gli obblighi assu-
mono un significato adeguato alla propria crescita
personale e spirituale. I frutti finali sono una totale
felicità e una perfetta sicurezza.
Il discorso contiene indicazioni generali della
massima eccellenza per le difficoltà da affrontare
nella vita, per alleviare il declino morale e per curare
le ferite spirituali di uomini e donne di ogni epoca,
luogo, razza e religione. La soluzione concreta dei
problemi personali e familiari, privati e pubblici,
nazionali e internazionali sta nella sua applicazione
pratica.
Sebbene sia parte del canone buddhista, i suoi
contenuti hanno respiro e armonia tali, da apparte-
nere all’umanità intera. Le distinzioni di credo, razza
e nazionalità svaniscono, e le frontiere religiose si
sciolgono, facendo sembrare tutti i popoli membri
di un’unica famiglia. Unita da una comune sofferen-
za e dall’urgenza di trovarne l’uscita, l’umanità può
esser certa di beneficiare della saggezza lì contenuta.
Questi insegnamenti sono un potente strumento
per indirizzare l’umanità nella direzione della chia-
rezza intellettuale e della purezza emotiva, verso l’ef-
ficienza nel lavoro e l’amichevolezza nelle relazioni:
il mondo ha disperatamente bisogno di consigli di
tale qualità.
I problemi nel mondo riguardano ogni singolo
individuo, perché le loro cause sono interiori: l’avi-
dità, l’odio e l’illusione. Queste fiamme interne si

293
7. Il discorso sulla felicità più grande

manifestano come conflitti esterni, scatenando


molteplici sofferenze. Non può esserci pace senza
concordia morale e intellettuale tra gli esseri umani.
Non può esserci vero amore nelle relazioni finché
le fiamme dell’odio, della disonestà, della rabbia e
dell’avidità bruceranno con forza nei cuori.
Il Buddha insegna a conquistare se stessi attraverso
la conoscenza e la padronanza di sé. La vittoria su se
stessi illumina ogni sfera della vita: fisica, mentale,
etica, spirituale, e quindi personale, familiare, socia-
le, nazionale e internazionale. Così il Mahá Maògala
Sutta tratta dell’armonico sviluppo dell’uomo nella
sua interezza, nella totalità del suo ambiente.

294
8.
Il discorso
sulla libera ricerca
(Káláma Sutta, A.3,65)
Premessa
di S.N. Goenka

L e istruzioni ai Káláma sono famose come


incoraggiamento alla libera ricerca; lo
spirito del discorso è l’opposto di fanatismo, dog-
matismo e intolleranza. È la prima dichiarazione dei
diritti umani ed è un faro della libertà di pensiero
per tutta l’umanità.
Tutto l’insegnamento del Buddha mette in guar-
dia contro la fede cieca, invita ognuno a sperimen-
tare ciò che gli viene proposto e ad accettare un
insegnamento basandosi sull’esperienza personale. È
empirico, imparziale, di grande rigore intellettuale,
e per questo è accettabile universalmente. In questo
discorso sono descritti i benefici di una vita virtuosa,
che non dipende dalle credenze, ma dal benessere
mentale che si acquisisce quando si sconfiggono
bramosia, avversione, ignoranza, illusione e auto-
inganno.

297
Testo del discorso

C osì io stesso ho udito: un giorno, mentre


viaggiava nella regione di Kosala in compa-
gnia di molti monaci, il Buddha giunse a una città
del clan dei Kalama, chiamata Kesaputta. La notizia
del suo arrivo giunse agli abitanti, che già conosceva-
no la fama del venerabile monaco Gotama. Sapevano
che aveva raggiunto la perfezione, che era pienamen-
te illuminato, che possedeva tanto la conoscenza
quanto la pratica, che nella sua ineguagliabile sag-
gezza conosceva tutti i mondi; che era impareggiabile
guida per chi lo seguiva e, nella sublimità della sua
illuminazione, maestro di esseri umani e divini.
Egli, infatti, aveva una conoscenza chiara e diretta
di questo mondo, con gli spiriti buoni e cattivi, i
suoi esseri umani e divini, i suoi monaci e bramini,
e la distribuiva agli altri. Egli aveva messo in moto il
Dhamma, perfetto e buono in ogni sua parte, all’ini-
zio, a metà, alla fine, ineguagliabile nella forma e
nella sostanza, e completo in tutto. Proclamava la
vita beata e assolutamente pura.
I Kalama desideravano pertanto conoscere un es-
sere così perfetto. Giunti quindi dal Buddha, gli re-
sero omaggio. Alcuni si recarono a salutarlo e dopo
una cordiale conversazione con lui, si accomodaro-
no; altri, prima di sedersi, lo salutarono con le mani
giunte; altri si presentarono con nome e cognome; e
alcuni si sedettero senza parlare.

298
PARTE SECONDA

I Kalama gli dissero: “Da noi a Kesaputta, vengo-


no talvolta monaci e bramini che ci spiegano le loro
dottrine e nello stesso tempo screditano, disprezzano
e fanno a pezzi le dottrine degli altri. E ne arrivano
altri che esaltano le proprie convinzioni, dicendo un
gran male dei punti di vista altrui, senza pietà.
Venerabile Signore, nutriamo seri dubbi e in-
certezze nei confronti di questa gente e vorremmo
sapere come fare a distinguere quelli che dicono il
vero da chi proclama il falso”.

Come capire ciò che si deve rifiutare


– Avete ben ragione, Kalama, di dubitare e di es-
sere incerti; ciò che è dubbio non può che suscitare
incertezza. Ascoltate, allora.
Non fidatevi mai di un’opinione soltanto perché
l’avete udita spesso e vi è familiare.
Non fidatevi neppure delle tradizioni, né delle
voci che corrono.
Non basatevi sui testi sacri, né su congetture, né su
teorie non verificate. Non accettate argomentazioni
apparentemente convincenti e non fatevi influenza-
re dalle nozioni degli esperti.
Non fatevi impressionare da chi sembra aver ac-
quisito grande padronanza nel suo ambito. E nep-
pure rimettetevi ciecamente a un maestro.
Solo quando, Kalama, sapete per esperienza per-
sonale che certe cose, ritenute cattive e riprovevoli
dai saggi, lo sono effettivamente, e che messe in atto
conducono a danno e infelicità, allora abbandona-
tele.

299
8. Il discorso sulla libera ricerca

Avidità, avversione, ignoranza


– Ditemi, Kalama: quando nella mente di un
uomo appare il desiderio incontrollato, questo gli
arreca bene o male? Male, voi direte. Sì, perché
quando un uomo si abbandona al desiderio, questo
cresce sempre più, lo sopraffa e gli fa perdere l’equi-
librio mentale; per soddisfare le sue voglie egli può
giungere a mentire, rubare, commettere adulterio e
uccidere; e indurre un altro a fare lo stesso. E se con-
tinua con questo comportamento si farà del male,
vero?
– È vero, Signore.
– Allo stesso modo, quando in un uomo si ma-
nifestano avversione e odio, questo gli giova o lo
danneggia? Come voi dite, lo danneggia. Infatti,
Kalama, quando un uomo odia, a poco a poco di-
venta schiavo di quell’odio, per cui mente, si dà al
furto, all’adulterio, fino all’omicidio e può indurre
altri a fare lo stesso. E se continua così, non è forse
a suo danno?
– È vero, Signore.
– Veniamo ora all’ignoranza. L’ignoranza fa bene
o male? Male, certamente; perché quando un indi-
viduo vive nell’ignoranza, il falso gli ottenebra com-
pletamente la mente ed egli non distingue più tra il
bene e il male, per cui non esita a rubare, mentire,
uccidere, commettere adulterio, e in questo trascina
altri con sé. E se si comporta sempre così continuerà
tutta la vita a farsi del male.
Per concludere, Kalama: voi stessi avete espresso il
giudizio che desiderio, avversione e ignoranza sono
negativi, riprovevoli, e che il saggio è tenuto a evi-

300
PARTE SECONDA

tarli, perché cedere ad essi significa procurarsi dolore


e infelicità.
Per questo, ho detto all’inizio che non ci si deve
fidare di ciò che ci viene detto e ripetuto, né della
tradizione, né di ciò che la gente dice, né dalle
scritture, né delle congetture e teorie altrui, né di
ragionamenti che suonano bene, né di considerazio-
ni che altri hanno a lungo ponderato, né della loro
apparente sicurezza; e neppure di ciò che afferma il
monaco, vostro maestro.
La vostra convinzione che una cosa dannosa è
da evitare, inaccettabile per il saggio e che, se ve ne
lasciate sopraffare, vi farete del male, deve scaturire
dall’esperienza e deve portarvi a eliminarla.

Come capire ciò che si deve accettare


– Anche qui, Kalama, per sapere se una cosa è
buona, raccomandabile, irreprensibile agli occhi del
saggio e, qualora adottata, destinata a procurare be-
nefici e gioia, non dovete ricorrere a ciò che gli altri
vi ripetono, a quanto avete sentito dire o ricevuto
dalla tradizione o a teorie altrui, basate o no sul ra-
gionamento o l’evidenza, anche quando si tratta di
quelle del vostro maestro.
È unicamente la vostra esperienza che deve con-
vincervi della bontà della cosa, e allora non vi resterà
che farla vostra.

301
8. Il discorso sulla libera ricerca

Assenza di desiderio, di avversione


e di ignoranza
– Amici Kalama, consideriamo adesso il caso in
cui il forte desiderio, odio, avversione o l’ignoranza
di chi si auto-inganna, siano assenti.
Pensate che questo sia un bene o un male? Un bene,
voi risponderete giustamente. È ovvio infatti che un
uomo che non si abbandona al desiderio, e quindi
non ne diviene schiavo, che non si fa sopraffare da
ira e odio, e non viene ingannato dall’ignoranza, non
avrà bisogno di mentire, rubare, uccidere o commet-
tere adulterio e neppure inciterà altri a farlo.
Siete d’accordo con me che quell’uomo godrà di
benessere e felicità durevoli. Non sono forse que-
sti comportamenti privi di bramosia, avversione e
ignoranza buoni e lodati dai sapienti? E rispettando-
li non si conduce forse una vita buona e felice?
Ma ancora una volta, vi ripeto che questo dovete
comprenderlo da voi e non perché ve lo riportano
altri, perché ci sono in giro teorie in questo senso,
perché lo dice la scrittura o la tradizione, o perché
gli eruditi ci sono arrivati col ragionamento e ci ten-
gono a dimostrarvelo, o perché ve lo insegna il vo-
stro maestro.
Solo quando vi siete convinti attraverso l’espe-
rienza, allora e solo allora, siete tenuti a rispettarli.

302
PARTE SECONDA

I quattro stati sublimi


Il discepolo che segue gli insegnamenti degli Illu-
minati e che è quindi libero da desiderio, avversio-
ne, e ignoranza, con la consapevolezza e la corretta
comprensione delle caratteristiche della realtà, vive
compenetrato da un sentimento di amicizia verso
tutto e tutti, e irradia questa sua benevolenza in
tutte le direzioni.
–– Vive rivolgendo verso tutti gli esseri viventi un
amore che, non ostacolato da avversione e ma-
levolenza, è sublime e senza limiti.
–– In lui sovrabbonda la compassione; privo com’è
di astio e malignità, egli vive riversando su tutti
gli esseri, vicini e lontani, in tutto il mondo,
questa sua immensa, benedetta compassione.
–– Liberato da ogni negatività, vive compartecipe
della gioia degli altri ovunque essi siano, cosic-
ché tutti gli esseri viventi possano godere di que-
sta grande, esaltante gioia che non ha confini.
–– Senza bramosia e avversione vive in un’equa-
nimità totale, gloriosa e inestinguibile, di cui
egli fa partecipi tutti gli esseri viventi, e che
raggiunge ogni parte del mondo.

Le quattro consolazioni
Il discepolo di cui vi parlo, Kalama, la cui mente è
libera da odio e da cattiveria, e quindi incontamina-
ta e purificata, gode perciò di quattro consolazioni.
–– Supponiamo che ci sia un’altra vita dopo la
morte e che le azioni ricevano il giusto premio

303
8. Il discorso sulla libera ricerca

o la giusta punizione. Allora, dopo la morte, è


possibile che quando il suo corpo si dissolverà,
possa ritrovarsi in paradiso e godere di quella
beatitudine.
–– Supponiamo invece non ci fosse vita dopo la
morte, non vi sarebbero premio e punizione
per le buone e cattive azioni. Ebbene, in questo
mondo, qui ed ora, egli vive libero da qualsiasi
avversione e cattiva intenzione, e si sente quin-
di perfettamente bene, perfettamente sicuro,
perfettamente felice.
–– E se chi fa il male fosse destinato a esser punito,
non potrà incorrere in alcuna punizione perché
non ha intenzione di fare del male a nessuno;
perciò nessuno potrà togliergli la sua felicità.
–– E se chi fa il male rimanesse impunito, questo
non lo tocca, perché egli è purificato, in ogni
caso.
Queste sono le consolazioni per il discepolo che si
è liberato dall’odio e dalla malvagità, e che possiede
una mente pura.
Coloro che ascoltavano l’Illuminato convennero
che un tale discepolo godeva di queste consolazio-
ni; erano entusiasti dell’insegnamento e gli dissero:
Signore, avete raddrizzato ciò che prima era sottoso-
pra, avete svelato ciò che era nascosto, mostrato la
via a chi era smarrito, illuminato le tenebre con una
lampada, per permettere a chi può, di vedere la luce.
Avete spiegato il Dhamma in differenti maniere e
noi, Signore, vogliamo prendere rifugio nel Dham-
ma, nel Beato, nella comunità dei monaci.
Signore, ci consideri da oggi suoi discepoli per
tutta la vita.

304
9.
Il discorso
sulle leggi universali
(Dhamma-niyáma sutta, A. III, 134)
Testo del discorso

(...) Sia che nel mondo faccia la sua apparizione un


Tathágata (un Buddha, n.d.r.), oppure no, prevale in
ogni caso la legge universale di causa ed effetto che
determina tutte le cose, secondo cui tutti i fenomeni,
sia mentali che fisici, sono impermanenti (anicca).
Il Tathágata è giunto alla completa illuminazione,
dopo averla sperimentata. Sulla base della sua com-
prensione e della sua illuminazione, egli proclama
questa verità, la insegna, la rende sperimentabile.
Egli dimostra, apre alla comprensione, spiega e
rende manifesto il fatto che tutti i fenomeni sono
impermanenti.
La seconda legge universale di causa ed effetto che
determina tutte le cose, indipendentemente dalla
presenza di un Tathágata, è che tutti i fenomeni, sia
mentali che fisici, sono causa di sofferenza (dukkha).
Anche riguardo a questa legge il Tathágata gode di
piena comprensione e di completa illuminazione, per
cui egli la annuncia, insegna e rende sperimentabile a
tutti questa verità. La sua funzione è quella di rendere
chiaro e manifesto che nel mondo tutto è sofferenza.
La terza legge universale di causa ed effetto è che
in nessun fenomeno, sia mentale sia fisico, c’è la pre-
senza di un “io” (anattá). Tale è l’ordine delle cose,
sia che appaia un Tathágata nel mondo o no.
Un Tathágata è pienamente illuminato a questo ri-
guardo, e la sua comprensione è perfetta. Questo gli
permette di proclamare e rendere accessibile, di inse-
gnare e rendere sperimentabile agli altri questa verità.

307
10.
Il Rifugio
Da Il Discorso sul giratore
della ruota
(Cakkavatti sìhanáda suttanta, D.26)
Testo del discorso
(Estratto)

(…) Ognuno di voi sia un’isola per se stesso, si rifugi


in se stesso e non cerchi altro rifugio. Il Dhamma,
la legge universale, sia la vostra isola, il Dhamma sia
il vostro rifugio, perché non c’è altro rifugio. Ma
come può un meditatore essere isola e rifugio per se
stesso, e prendere il Dhamma, la legge universale,
come propria isola e rifugio esclusivo?
Ecco il modo, meditatori:
Dopo aver lasciato da parte ogni bramosia e av-
versione nei confronti di tutti i fenomeni materiali
e mentali di questo mondo, il meditatore deve
praticare con fervore la massima consapevolezza e
la costante e completa comprensione dell’imper-
manenza, mentre osserva il suo corpo nel corpo;
poi mentre osserva le sensazioni nelle sensazioni;
allo stesso modo, mentre osserva la sua mente nella
mente. Osservando tutti i contenuti mentali mentre
si manifestano nella mente, deve sempre lasciar da
parte sia la bramosia che l’avversione nei confron-
ti di tutti i fenomeni materiali e mentali di questo
mondo, e praticare con fervore la massima consape-
volezza e la costante e completa comprensione della
caratteristica dell’impermanenza di tutti i fenomeni
mentali e fisici (…).

311
PARTE
TERZA
La pratica
della meditazione
Udána: il canto di
esultanza del Buddha*
di S.N. Goenka

U na volta il Buddha si trovava vicino a Savat-


thi, nel boschetto di Jetavana, donato dal
benefattore Anathapindaka, e vide un monaco seduto
in meditazione:

A gambe incrociate, eretto e determinato, sopportava


le conseguenze delle sue azioni passate, tormentato
da sensazioni intense, e penetranti. Grazie alla sua
acuta consapevolezza e alla piena saggezza raggiun-
te, non perse mai la calma o l’equilibrio della mente,
ma estirpò le vecchie impurità al loro emergere, senza
manifestare più alcuna traccia di “io”.

Vedendo ciò il Buddha pronunciò questo udána:

Il monaco che non genera nuove impurità


ed elimina le vecchie impurità al loro emergere,
ha raggiunto lo stato meditativo
dove nulla rimane dell’ “io” o del “mio”.

* Udána: termine pali usato per esprimere la sponta-


nea espressione di gioia che, secondo la tradizione, prorompe
dalle persone sante, in presenza di intuizioni profonde; tradot-
to anche con detto ispirato, verso di elevazione o esaltazione.
L’udána commentato è il n.21 (dalla raccolta Kuddhaka Nikáya
del Tipiþaka).

317
La pratica della meditazione

Per lui le parole sono inutili e non hanno senso,


assorto com’è nel silenzio meditativo.

Fu la vista di qualcuno che risolutamente per-


correva il sentiero che conduce alla liberazione, a
indurre il Compassionevole a esprimersi in modo
così gioioso. Le poche intense frasi di questo udána
contengono l’esposizione completa della tecnica
della meditazione Vipassana, e cioè del modo con-
creto per giungere alla liberazione.
Cerchiamo di capire con precisione ciò che il
Buddha ha indicato.

La meditazione Vipassana
La parola Vipassana significa vedere le cose come
sono, e non come esse sembrano e appaiono. È uno
stato di osservazione, senza immaginazione, precon-
cetto, pregiudizio, auto-inganno e illusione. Proprio
perché l’intelletto non è in grado di disperdere l’il-
lusione, il Buddha, con compassione, perfezionò
la tecnica di Vipassana, suddividendola in quattro
parti consequenziali:
–– l’introspezione equanime dell’intero corpo,
káyánupassaná;
–– l’osservazione di tutte le sensazioni alla super-
ficie ed all’interno del corpo, vedanánupassaná;
–– l’osservazione dell’intera gamma degli stati
mentali, cittánupassaná;
–– l’osservazione dell’intero campo dei contenuti
mentali, dhammánupassaná.

318
PARTE TERZA

Chiamò questo cammino ekáyanomaggo e cioè


la via diretta che porta alla liberazione. Per mezzo
dell’esperienza della propria reale natura giungiamo
alla liberazione; eliminando l’ignoranza, impediamo
il formarsi di nuovi condizionamenti e, nello stesso
tempo, lo sradicamento dei vecchi.
In che modo Vipassana aiuta a non creare nuovi
condizionamenti e a sciogliere i vecchi? Prima di
tutto, il meditatore deve adottare una postura corret-
ta; quindi, rimanere fermo con determinazione: senza
nessun movimento del corpo, e con occhi e bocca
chiusi; in questo modo non si potranno compiere le
azioni vocali e fisiche che provocano nuovi condizio-
namenti. È soltanto a questo stadio che si può cercare
di arrestare le formazioni mentali. A questo scopo,
occorre sviluppare attenzione e vigilanza consapevoli.

Di che cosa bisogna essere consapevoli?


Del sorgere e svanire di ogni fenomeno nel corpo,
per sperimentare la verità dell’ impermanenza. Il
meditatore di Vipassana si rende conto della dif-
ferenza tra verità apparente ed effettiva: ciò che
appare solido ed impenetrabile a livello apparente,
visto in profondità non è altro che onde e vibrazio-
ni. Osservando sistematicamente le sensazioni del
corpo con equanimità, parte per parte, punto per
punto, può facilmente raggiungere lo stadio in cui
persino le zone più solide del corpo, sono percepite
quali effettivamente sono: oscillazioni di particelle
subatomiche. Con la stessa consapevolezza, il medi-
tatore osserva i quattro aspetti della mente: viññáóa

319
La pratica della meditazione

(coscienza), saññá (percezione), vedaná (sensazione)


e saòkhára (reazione o condizionamento), e verifi-
ca che sono vibrazioni che appaiono e svaniscono.
Tutti i fenomeni mentali e materiali hanno la stessa
natura transitoria: si manifestano e subito svanisco-
no, permanentemente impermanenti, costituiti da
una massa di piccolissime onde, che si disintegrano
appena formate. Ecco la verità ultima di mente e
materia.
Per chi è nell’ignoranza, ogni sensazione piacevole
sarà causa di forte desiderio, si vorrà che continui,
mentre ogni sensazione spiacevole sarà causa di rifiuto
e si vorrà che finisca. Questa reazione della mente, o
volizione, basata su bramosia e avversione, è la schia-
vitù più pesante. La percezione che la caratteristica
fondamentale di tutti i fenomeni è il cambiamento
(anicca), porta a fare esperienza della caratteristica di
anattá, che cioè non esiste un io. Si giunge allora alla
percezione della natura della sofferenza (dukkha) per-
ché si sperimenta che l’identificarsi con i fenomeni
mutevoli non provoca altro che sofferenza.
All’inizio, il meditatore si troverà fortemente com-
battuto tra la comprensione della transitorietà dei
fenomeni e l’influenza dei vecchi condizionamenti
mentali. Ma, con la pratica, imparerà l’arte sottile di
distinguere tra reale e illusorio, il percepito e l’im-
maginato. La verità predominerà per tempi sempre
più lunghi. La comprensione che la sensazione è
destinata a svanire immediatamente indebolirà il
desiderio. Gradimento e avversione costituiscono
potenti attaccamenti che producono i condiziona-
menti mentali.

320
PARTE TERZA

L’eliminazione dei condizionamenti

La pratica di Vipassana permette al meditatore di


osservare con attenzione le manifestazioni dei passati
comportamenti, e con il rafforzarsi dell’equanimità,
bramosia e avversione non hanno più presa. In una
mente che non reagisce, i frutti delle azioni passate
non possono più svilupparsi. Ogni vecchio condi-
zionamento (saòkhára), viene sradicato sul nascere,
senza che gli sia permesso moltiplicarsi. Il fuoco pu-
rificatore della saggezza (paññá), brucia i nuovi semi
che accompagnano la maturazione (il produrre frut-
to, il dare risultato, n.d.r.) di queste azioni passate.
Talvolta, questa maturazione avviene in modo
così intenso che la saggezza viene meno e si offusca
la giusta prospettiva; si perde l’atteggiamento imper-
sonale nei confronti del dolore e ci s’identifica con
le sensazioni. Col raziocinio, ci si può sforzare di
non reagire, ma in realtà si comincia a considerare
il proprio dolore come qualcosa che non finirà mai,
e le reazioni continuano. Per rendersi conto piena-
mente della natura transitoria di tutti i fenomeni,
e infrangere l’apparente solidità delle percezioni, il
meditatore deve raggiungere lo stadio dove perce-
pisce l’istantaneo sorgere e svanire delle vibrazioni,
che costituiscono mente e materia.
La pratica della meditazione Vipassana ha lo scopo
di eliminare le vecchie negatività accumulate nel
nostro inconscio. La corda vibrante di una mente
pura estingue tutte le impurità del passato. Questo
processo di eliminazione non può dirsi completo
se anche il più piccolo nodo rimane da sciogliere.

321
La pratica della meditazione

La pratica di Vipassana deve continuare fino a che


non vi sia nessuna impressione di solidità nel corpo
e nella mente.

Come essere equanimi?


Il meditatore sopporta le conseguenze delle sue
azioni passate.
Come avviene? Egli sopporta, senza agitazione e
recriminazione anche le sensazioni intense coltivan-
do consapevolezza ed equanimità. Il meditatore è in
grado di tollerare i frutti del passato senza forti rea-
zioni perché conosce la vera natura della situazione.
Non è colui che soffre, ma è l’osservatore imparziale
della sofferenza.
Questo giusto distacco fa sì che le vecchie schia-
vitù vengano sradicate; fino a che non ci sarà più
un osservatore, ma semplicemente osservazione, e
neppure un sofferente, ma la sola sofferenza. Nono-
stante ciò, di tanto in tanto può riapparire una leg-
gera agitazione o l’identificazione con la sensazione,
che provocheranno desiderio e avversione. Con la
continua pratica, il meditatore vigilante raggiunge
lo stadio dove viene sradicata l’illusione dell’io e, a
quel punto, egli può sopportare perfino le sensa-
zioni più intense, senza agitazione. Il risultato è la
fine del formarsi di nuovi condizionamenti mentali.
D’ora in poi il meditatore è totalmente assorbito nel
processo di purificazione continua, raggiungendo
così la liberazione.

322
PARTE TERZA

L’importanza della pratica


Un meditatore impegnato in questo compito deve
impegnare il suo tempo nella pratica. Dove troverà
più il tempo per chiacchiere inutili? Ogni attimo è
prezioso e non va sprecato.
Chi perde tempo a chiacchierare non ha ben
compreso la serietà dell’impegno. Il nobile esercizio
di comprensione della verità è degradato a disqui-
sizione intellettuale, ma la liberazione può essere
conquistata con la pratica, mai con i discorsi.
Questa è la ragione per cui il Buddha eruppe in
un canto di lode al monaco che percorreva in modo
risoluto il sentiero che porta alla liberazione:

A gambe incrociate, eretto e determinato, sopportava


le conseguenze delle sue azioni passate, tormentato
da sensazioni intense, e penetranti. Con acuta con-
sapevolezza e piena saggezza, egli non perse mai la
calma o l’equilibrio della mente, ma estirpava le
vecchie impurità al loro emergere, senza manifestare
più alcuna traccia di “io”.

Che questa immagine e questa gioiosa esclamazio-


ne ci incoraggino a seguire la stessa via con determi-
nazione. Qui sta la nostra vera felicità, la liberazione
da ogni sofferenza.

323
La pratica della meditazione

Riferimenti storici della


meditazione Vipassana*
di E.Lerner

Una catena di maestri che ha mantenuto la pratica


intatta è quella stabilitasi in Myanmar da tempi re-
moti, con l’arrivo dei monaci Sona e Uttara, e che è
continuata sino a Ledi Sayadaw (1846-1923), Saya
Thetgyi (1873-1945), Sayagyi U Ba Khin (1899-
1971)**, S.N. Goenka (1924-2013).
Negli ultimi decenni vi è stato un rinnovato inte-
resse per la meditazione Vipassana, sia nei paesi di
tradizione theraváda, (Myanmar, Sri Lanka, Tailan-
dia, Cambogia, Laos) sia nel mondo, grazie all’opera
di diffusione da parte di coloro che hanno fatto co-
noscere la pratica fuori dai monasteri, evidenziando-
ne i benefici nella vita quotidiana.
Una caratteristica del metodo del maestro Sayagyi
U Ba Khin è l’estrema intensità della pratica durante
brevi periodi (il corso di base dura dieci giorni), per
offrire un’immersione totale a chi ha poco tempo,
per responsabilità professionali e familiari. U Ba
Khin poneva sempre in evidenza gli aspetti concreti
del lavoro meditativo, riducendo al minimo la teo-
ria. Si trattava e si tratta di vivere le leggi naturali che

* Da E. Lerner, Journey of Insight Meditation, op. cit.


Estratto.
** V. U Ba Khin, Il tempo della meditazione è arrivato,
op. cit.

324
PARTE TERZA

regolano l’universo, attraverso la propria esperienza,


applicando un metodo. Dai discorsi del Buddha, si
può dedurre che un gran numero di laici ricevette
l’insegnamento e raggiunse alti livelli di sviluppo
spirituale.
Ma come si deve avvicinare alla meditazione chi
non ha tutta la vita da dedicare a silenzio e contem-
plazione? E che ruolo può avere la disciplina medi-
tativa nella vita laica? Il sistema adottato dai monaci,
secondo il Canone pali, prescrive di raggiungere un
certo grado di concentrazione per poi passare alla
pratica della comprensione della realtà, che si ottie-
ne con Vipassana.
Nei centri di meditazione per laici, come il centro
fondato da U Ba Khin e nei centri sparsi in tutto il
mondo fondati da Goenka, suo discepolo, s’insegna
un grado di concentrazione minima, ma sufficiente
per iniziare a meditare con Vipassana. U Ba Khin
ha ritenuto che, per i nostri giorni, sia più adatta
la meditazione Vipassana, intrapresa senza un lungo
periodo di apprendimento delle tecniche di concen-
trazione.

L’insegnamento della tecnica


dalla metà del ‘900 in avanti
Egli sviluppò un approccio all’insegnamento della
meditazione Vipassana, finalizzato a un apprendi-
mento intenso per brevi periodi e alla continuità
della pratica nella vita laica. Considerò che gli stu-
denti laici, rispetto ai monaci, hanno maggiori diffi-
coltà e minor tempo, inoltre vivono in un ambiente

325
La pratica della meditazione

agitato e teso, generalmente ostile a condotta morale


e buona concentrazione, che sono i requisiti della
comprensione profonda. Perciò elaborò un metodo,
efficace in tali condizioni di forte pressione.
In un periodo di dieci giorni, la durata del corso,
molti possono sperimentare un barlume della realtà
interiore, e poi continuare a espandere questa con-
sapevolezza con due ore di meditazione al giorno,
una volta conclusosi il corso e lasciato il centro.
L’obiettivo del suo metodo era l’insegnamento della
osservazione continua dei cambiamenti nel corpo,
attraverso la sistematica osservazione delle sensazio-
ni fisiche.
Il Buddha, nel Saþipaþþhána Sutta, dice che il pro-
cesso vitale è identico in tutti gli aspetti del divenire
della mente-materia. E U Ba Khin notò che tale
processo vitale è più forte e rapido nelle sensazio-
ni fisiche. Gli studenti, incoraggiati a concentrare
l’attenzione su queste, e a rendersi conto dei cam-
biamenti che avvengono continuamente, apprende-
vano a sperimentare la natura mutevole all’interno
del corpo.

326
PARTE TERZA

I principi basilari
dell’insegnamento del Buddha
nella pratica meditativa*
di Sayagyi Thray Sithu U Ba Khin

Pochi anni prima di morire, Sayagyi registrò in inglese


il seguente discorso per gli studenti occidentali che par-
tecipavano ai suoi corsi. Trascritto dopo la sua morte,
fu pubblicato con il titolo “The essentials of Buddha-
Dhamma in meditative practice”.

Anicca, Dukkha e Anattá: l’impermanenza, la sof-


ferenza e l’assenza di un io, sono le tre caratteristiche
essenziali nell’insegnamento del Buddha. Se speri-
mentate anicca (l’impermanenza di ogni fenomeno
fisico e mentale) nel modo giusto, sperimenterete
anche dukkha (la presenza della sofferenza e la sua
origine), e anattá (l’assenza di un io) come le verità
ultime. Occorre del tempo per arrivare a compren-
dere tutte insieme queste tre verità.
L’impermanenza è il fattore principale da speri-
mentare con la meditazione. La conoscenza intel-
lettuale non è sufficiente, poiché manca dell’aspetto
esperienziale. Oggi come ai tempi del Buddha,
l’esperienza dell’impermanenza può essere sviluppata
anche da chi non ha alcuna conoscenza di buddhi-

* Da U Ba Khin, Il tempo della meditazione Vipassana


è arrivato, op. cit.

327
La pratica della meditazione

smo, seguendo scrupolosamente il Nobile Ottupli-


ce Sentiero composto da sìla, samádhi e paññá, cioè
condotta morale, concentrazione e saggezza. Sìla o
condotta morale è la base per samádhi, la padronanza
della mente per la concentrazione. Solo quando vi è
una buona concentrazione si può sviluppare la sag-
gezza. Quindi la moralità e la concentrazione men-
tale sono le condizioni indispensabili per sviluppare
la saggezza. Questa saggezza è l’esperienza di anicca,
dukkha e anattá per mezzo della pratica di Vipassana.
La pratica della condotta morale e quella della
concentrazione sono note, poiché sono il comune
denominatore delle religioni. Ma il principe Sid-
dhattha, prima di diventare Buddha, si rese conto
che non sono sufficienti per raggiungere la fine della
sofferenza. Egli divenne completamente illuminato
dopo essersi strenuamente impegnato per sei anni,
e solo allora insegnò come seguire il sentiero della
liberazione.

I condizionamenti accumulati
Ogni azione, proveniente da fatti, parole o pen-
sieri, lascia dietro di sé una forza attiva o saòkhára
che va a carico o a merito di chi l’ha compiuta, a se-
conda che l’azione sia stata cattiva o buona. Quindi
ognuno accumula una riserva di saòkhára (reazioni,
formazioni o condizionamenti mentali) che funge
da serbatoio e sorgente di energia per sostenere il
flusso vitale, inevitabilmente seguito da sofferenza e
morte. È attraverso lo sviluppo della comprensione
di anicca, dukkha e anattá, che si è in grado di eli-

328
PARTE TERZA

minare i condizionamenti accumulati. Questo pro-


cesso comincia con l’esperienza dell’impermanenza,
momento dopo momento, un giorno dopo l’altro,
mentre avvengono simultaneamente sia l’accumulo
di nuovi saòkhára sia l’alleggerimento del deposito
dei vecchi saòkhará.
Liberarsi dai saòkhára è quindi un lavoro che ri-
chiede un’intera vita o anche molte vite. Chi si è
liberato da tutti i condizionamenti giunge alla fine
delle proprie sofferenze. Alla fine della vita i perfetti
santi, cioè i Buddha e gli Arahant, passano nel pari-
nibbána (uno stadio al di là del mondo sensoriale),
raggiungendo così la fine della sofferenza.

L’esperienza dell’impermanenza
Per chi ha intrapreso la meditazione Vipassana,
basterebbe sperimentare l’impermanenza tanto da
poter raggiungere il primo stadio di áriya (persona
nobile), cioè divenire sotápanna. L’esperienza dell’im-
permanenza apre la porta all’esperienza della soffe-
renza, dell’assenza di un io e poi all’eliminazione della
sofferenza, ed è possibile soltanto alla presenza di un
Buddha o seguendo il suo insegnamento, il Nobile
Ottuplice Sentiero. Per progredire uno studente deve
continuare a coltivare l’esperienza di anicca, il più a
lungo possibile. Il suggerimento del Buddha è di cer-
care di mantenere la consapevolezza di anicca, dukkha
e anattá in tutte le posizioni, sia seduti, che in piedi,
sia camminando sia sdraiati. Il segreto del successo
sta nel mantenere ininterrotta questa consapevolezza.
Le ultime parole del Buddha sono state:

329
La pratica della meditazione

L’impermanenza è inerente a tutte le cose composte.


Lavorate con diligenza per la vostra stessa salvezza.

Questa è l’essenza del suo insegnamento nei qua-


rantacinque anni del suo ministero. Se manterrete
sempre viva la consapevolezza dell’impermanenza,
raggiungerete di certo lo scopo. Mentre la sviluppa-
te, anche l’esperienza di “ciò che è vero nella natura”
diventerà sempre più chiara, fino a non avere più
alcun dubbio sulle tre caratteristiche di anicca, duk-
kha e anattá.
Ora che sapete che anicca è il primo fattore essen-
ziale, dovrete cercare di capire cosa è, con la massima
chiarezza, nel modo più ampio possibile, in modo
da non avere nessuna confusione durante la pratica
o nelle discussioni.

La conoscenza delle kalápas


Il significato di anicca è che l’impermanenza (o
disintegrazione, decomposizione, cambiamento)
è inerente a tutto ciò che esiste nell’universo, sia
animato sia inanimato. E il Buddha insegnò che
tutto ciò che esiste, a livello materiale, è formato
da kalápas, particelle di materia molto più piccole
dell’atomo, che muoiono immediatamente dopo
essere nate. La kalápa è una massa formata dagli otto
elementi basilari della materia: solidità, coesione,
temperatura e movimento uniti a colore, odore,
gusto e nutrimento. Le prime quattro, chiamate
qualità primarie, sono predominanti in una kalápa,
mentre le altre quattro sono secondarie, dipendenti,

330
PARTE TERZA

e nascono dalle precedenti.


Solo quando queste otto si uniscono, si forma una
kalápa. In altre parole, la momentanea collocazione
di questi otto elementi, che formano la massa per
un brevissimo momento, è ciò che nel buddhismo
viene detto kalápa. Il suo arco di vita è chiamato
attimo e si dice che di questi “attimi” ne passino
mille miliardi in un batter d’occhio. Le kalápas sono
in uno stato di perenne cambiamento o flusso. Uno
studente avanzato di meditazione Vipassana le può
percepire nel corpo come una corrente di energia.
Il corpo umano non è un’entità solida e stabile,
come può sembrare, ma un flusso di materia e mente.
Rendersi conto per esperienza diretta che il nostro
corpo è un flusso continuo di minuscole kalápas, si-
gnifica conoscere la natura dell’impermanenza.

La verità della sofferenza


L’impermanenza causata dal continuo sorgere e
passare di kalápas, viene identificato come dukkha,
sofferenza. Soltanto quando sperimentate l’imper-
manenza come sofferenza, arrivate alla realizzazione
(al fare esperienza, n.d.r.) della verità della sofferen-
za, la prima delle quattro Nobili Verità.
Perché? Perché quando comprendete la natura
sottile della sofferenza da cui non potete sfuggire
neanche per un momento, proverete per la vostra
esistenza paura, disgusto e ripugnanza, e cercherete
una via di uscita che vi porti a uno stadio al di là della
sofferenza, e quindi al nibbána, la fine della sofferenza.
Potete gustare questo stadio senza sofferenza già

331
La pratica della meditazione

in questa vita, se raggiungerete lo stadio di sotápanna,


ovvero il primo stadio della liberazione, chiamato
“chi entra nella corrente”, e se svilupperete la pratica
fino a raggiungere lo stato incondizionato del nibbá-
na. Ma nei limiti comuni, quando sarete in grado di
mantenere continua la consapevolezza di anicca, vi
accorgerete che è in atto un miglioramento in voi.
Prima della vera e propria pratica di Vipassana,
che richiede una base di concentrazione mentale,
lo studente dovrebbe avere una conoscenza teorica
circa mente e materia.

L’osservazione delle sensazioni


nel corpo
Nella meditazione Vipassana, non si contempla
soltanto la mutevole natura del corpo, ma anche la
mutevole natura della mente, cioè degli stati menta-
li e dei pensieri, momento dopo momento. Alcune
volte l’attenzione è focalizzata sull’impermanenza nel
corpo e altre volte sull’impermanenza nella mente.
Mentre si contempla l’impermanenza del corpo, ci
si rende conto che insieme a questa consapevolezza,
c’è quella della transitorietà degli stati mentali e dei
pensieri, simultanei alle sensazioni corporee. In tal
caso, c’è l’esperienza di anicca nei riguardi sia della
mente sia della materia.
Ciò che finora ho detto, riguarda l’esperienza
dell’impermanenza attraverso le sensazioni corporee
e i contenuti mentali che da esse dipendono. Ma si
può sperimentare l’ impermanenza anche attraverso
gli organi di senso:

332
PARTE TERZA

–– dal contatto di una forma visibile con l’organo


sensoriale dell’occhio;
–– dal contatto del suono con l’organo sensoriale
dell’orecchio;
–– dal contatto dell’odore con l’organo sensoriale
del naso;
–– dal contatto del gusto con l’organo sensoriale
della lingua;
–– dal contatto del tatto con l’organo sensoriale
del corpo;
–– dal contatto degli oggetti mentali con l’organo
sensoriale della mente.
Si può sperimentare l’impermanenza attraverso
ognuno degli organi di senso, ma con la pratica
meditativa si è scoperto che il modo più idoneo è
l’osservazione delle sensazioni da contatto del tatto
con il corpo. Esse sono più evidenti di altri tipi di
sensazioni, per l’ampiezza di area e per l’irradiamen-
to, la frizione e la vibrazione dei kalápa; e quindi
sono le più idonee per iniziare a meditare e per spe-
rimentare aniccá.
Questa è la principale ragione per cui in questa tra-
dizione meditativa si sono scelte le sensazioni fisiche
corporee: sono il mezzo più veloce per sperimentare
l’impermanenza. Siete comunque liberi di provare
altri mezzi, ma vi suggerisco di essere ben saldi nello
sperimentare anicca con la sensazione fisica corporea,
prima di tentare con altri tipi di sensazione.

333
I livelli di conoscenza
In Vipassana vi sono dieci livelli di conoscenza:

Sammásana: riconoscimento teorico di anicca, dukkha


e anattá attraverso l’osservazione e l’analisi.
Udayabbaya: conoscenza del sorgere e dissolversi di
rúpa e náma (della mente e della materia), attraver-
so l’osservazione diretta;
Bhaòga: conoscenza della natura mutevole di rúpa e
náma, sperimentata come una rapida corrente o
flusso di energia; in particolare, chiara consapevo-
lezza della fase di dissoluzione;
Bháya: conoscenza di quanto sia sgradevole questa
esistenza.
Ádìnava: conoscenza di quanto sia piena di male
questa esistenza;
Nibbidá: conoscenza di quanto sia disgustosa questa
esistenza;
Muncitukaíyata: conoscenza della pressante necessità
e desiderio di sfuggire da questa esistenza;
Paþisankha: conoscenza che è giunto il tempo di
impegnarsi per la piena realizzazione della libera-
zione, tenendo come base l’esperienza dell’imper-
manenza;
Sankhárupekkhá: conoscenza che ormai si è allo sta-
dio in cui ci si può distaccare da tutti i fenomeni
condizionati e andare oltre l’egocentrismo.
Anuloma: conoscenza che contribuisce e accelera il
tentativo per raggiungere lo scopo.

Il meditatore di Vipassana passa attraverso questi


livelli di conseguimento. Essi possono essere rag-
PARTE TERZA

giunti contemporaneamente al progresso nell’espe-


rienza dell’impermanenza. Alcuni di essi devono
essere accompagnati dall’ausilio di un insegnante
competente. Si dovrebbe evitare di bramare questi
conseguimenti, poiché ciò distrarrebbe dalla con-
tinua osservazione della realtà dell’impermanenza,
che è la sola che può dare e darà la ricompensa de-
siderata.

L’esperienza di anicca
nella vita quotidiana
Vorrei ora parlare della meditazione Vipassana
dal punto di vista del laico nella vita quotidiana, e
spiegare i benefici che si possono ottenere, qui e ora,
durante questa stessa vita. Il primo obiettivo di Vi-
passana è di attivare l’esperienza di anicca in se stessi e
raggiungere quindi uno stato di equilibrio e di calma
esteriore e interiore. Questo è raggiunto quando si è
completamente assorbiti nell’osservazione a livello di
esperienza dell’impermanenza in se stessi.
L’umanità sta affrontando gravi problemi che la
minacciano. È il momento giusto per tutti di co-
minciare la meditazione Vipassana e imparare ora a
scoprire una profonda oasi di quiete nella confusio-
ne. Anicca (la realtà dell’impermanenza) è all’interno
di ognuno. È alla portata di ognuno. Sarà sufficiente
uno sguardo in se stessi ed ecco, la si sperimenterà.
Quando si riesce a sperimentarla e ci s’immerge in
essa, allora ci si può, con un atto di volontà, staccarsi
dal mondo, o meglio dalle interpretazioni mentali
sul mondo. Anicca è per il laico una gemma prezio-

335
La pratica della meditazione

sissima per creare una riserva di calma e di energia


tranquilla per il suo benessere e per il benessere della
società. Questa esperienza, se sviluppata corretta-
mente, stronca alla radice ed elimina gradualmente
tutto ciò che vi è di negativo. Questa esperienza
non è riservata ai monaci, ma è anche per i laici con
famiglia. Malgrado le avversità possano rendere il
laico agitato, un maestro o un insegnante compe-
tente può aiutare a sperimentare anicca in un tempo
relativamente breve. Una volta che questa esperienza
c’è stata, tutto ciò che si deve fare, è preservarla.

Il tiro alla fune


È necessario un impegno con se stessi: appena si
presenta l’occasione e il tempo per progredire, ci si
impegnerà per raggiungere lo stadio di bhaògañáóa,
il terzo livello di conoscenza in Vipassana. Per chi
non l’ha ancora raggiunto, vi possono essere alcune
difficoltà: sarà come un tiro alla fune tra l’esperienza
interiore di anicca e le attività esteriori sia fisiche che
mentali. Per cui sarebbe saggio mettere in pratica il
detto “Lavora mentre lavori e gioca mentre giochi”.
Non si dovrà quindi attivare anicca in continuazione.
Basterà riuscire a farlo in periodi di tempo regolari
e a ciò riservati, sia di giorno che di sera. Durante
queste ore, bisogna tentare di focalizzare l’attenzio-
ne sul corpo, con l’osservazione dell’impermanenza
delle sensazioni fisiche corporee. In queste occasioni
la consapevolezza dovrebbe essere ininterrotta, tanto
da non permettere l’intrusione di pensieri. Nel caso
ciò non fosse possibile, il meditatore dovrebbe uti-

336
PARTE TERZA

lizzare la consapevolezza del respiro, poiché la con-


centrazione è la chiave per l’esperienza di anicca.
Per avere una buona concentrazione, bisogna che
la condotta morale – sìla – sia perfetta, poiché la
concentrazione – samádhi – si regge su una buona
condotta morale. Per una buona esperienza di anicca,
la concentrazione deve essere buona.

L’attivazione di anicca
La tecnica per attivare anicca richiede semplice-
mente la mente equilibrata e concentrata, e l’osser-
vazione continuativa sull’oggetto di meditazione: le
sensazioni fisiche del corpo, con la consapevolezza
della loro impermanenza.
È necessario iniziare l’osservazione in un’area in
cui l’attenzione possa fermarsi facilmente, per poi
spostare l’attenzione, dalla testa ai piedi e dai piedi
alla testa, e poi di tanto in tanto dirigerla all’interno.
Non si deve tener conto dell’anatomia, ma ci si deve
accorgere delle sensazioni fisiche e del loro continuo
cambiamento. Se si osservano queste istruzioni vi
sarà senz’altro progresso; esso dipende anche dalle
qualità sviluppate e dall’impegno nell’esercizio
meditativo. Più il livello di conoscenza è alto, più
aumenterà la capacità di sperimentare anicca, dukkha
e anattá, avvicinandosi sempre di più al traguardo
finale di un ariya, persona nobile. Questo è il tra-
guardo su cui ogni laico dovrebbe essere focalizzato.

337
La pratica della meditazione

Il tempo della meditazione Vipassana


è arrivato
È questa un’era scientifica. L’uomo di oggi non
accetta nulla, a meno che non ne veda risultati posi-
tivi, concreti e realizzabili nel presente.
Il Buddha disse al popolo dei Kalama:

Non fatevi condurre fuori strada da racconti, da tra-


dizioni o da cose ascoltate. Non fatevi condurre fuori
strada da chi ha competenza nelle scritture, o dal ra-
gionamento, dalla logica, dalla riflessione o dall’appro-
vazione di alcune teorie, o perché alcuni punti di vista
si adattano alle vostre inclinazioni, o per rispetto verso
il maestro. Quando invece sapete da voi stessi: “Queste
cose sono malsane, queste cose sono scorrette, queste cose
sono riprovate dal saggio, queste cose, se praticate, con-
ducono alla distruzione e al dolore”, respingetele. Ma
se sapete da voi stessi: “Queste cose sono salutari, que-
ste cose sono giuste, queste cose sono apprezzate dalla
persona intelligente, queste cose, quando praticate,
conducono alla salute e alla felicità”, allora, o Kalama,
avendole praticate, perseverate in esse.

È suonata l’ora di Vipassana: la rinascita del


Dhamma di Buddha, con la pratica di Vipassana.
Non c’è alcun dubbio che chi, con mente aperta e
sincera, segua un corso sotto la guida di un inse-
gnante competente, ottenga risultati buoni, con-
creti, validi, qui e ora, che lo renderanno sicuro e
sereno per il resto della sua vita.

338
PARTE TERZA

Il corso di dieci giorni


di meditazione Vipassana*
come insegnata da S.N. Goenka
nella tradizione di U Ba Khin

di A.Solé-Leris

Il Buddha disse:

Se chi viene da me, ha propositi sinceri, leali e puri,


io lo istruirò e gli insegnerò il Dhamma. Se praticherà
ciò che gli viene insegnato, in sette anni raggiungerà
quell’ineguagliabile traguardo di santità, per conqui-
stare il quale, giovani di buona famiglia abbandonaro-
no le loro case e divennero monaci erranti; raggiungerà
la meta e in essa dimorerà, praticando e comprendendo
attraverso la sua esperienza.
Ma che dico sette anni, in sei, cinque, quattro, tre,
due anni, in un anno ... in sette mesi, o sei, cinque, o
quattro, o tre, o due, o in un mese o in quindici giorni.
Accantoniamo anche i quindici giorni: in sette giorni
egli potrà arrivare alla meta.
Voi penserete che il monaco Gotama, il Buddha,
parli in questo modo per procurarsi discepoli, ma non
è così, anzi, rimanete pure con il maestro che già avete.
Oppure penserete che Gotama il Buddha voglia che
smettiate di seguire i vostri precetti. Avreste torto a

* Da A. Solé Leris. La meditazione buddista. op. cit.

339
La pratica della meditazione

pensarlo. Mantenete pure le vostre regole, e continuate


a condurre lo stesso tipo di vita che state conducendo.
Forse penserete che Gotama il Buddha voglia farvi
fare qualcosa che non concorda con le vostre dottrine e
che quindi ritenete errato. Ma, anche questa è un’idea
sbagliata, perché potete continuare a considerare errato
ciò che per voi finora è stato errato. Anche solo il dubbio
che io voglia farvi abbandonare ciò che voi stessi e le
vostre religioni considerate positivo, va dissipato. Con-
tinuate pure a credere in ciò cui avete sempre creduto.
Nessuno di questi motivi è quello che m’induce a
parlarvi.
Io v’insegno il Dhamma perché vedo che non avete
abbandonato ciò che è impuro, ciò che provoca paura e
che porta a conseguenze di sofferenza, ciò che è connesso
alla nascita, alla vecchiaia, alla morte, ciò che conduce
alla rinascita. Insegno il Dhamma proprio perché que-
sta ignoranza venga abbandonata.
Se applicherete ciò che insegno, vi sbarazzerete di tutte
le impurità mentali, e nello stesso tempo, si svilupperà
in voi ciò che serve per condurvi alla purificazione.
Allora, già da questa vita, con la vostra comprensione
e con la vostra pratica, raggiungerete la pienezza della
perfetta saggezza e dimorerete in essa. (D 2)

Goenka così commenta: “L’Illuminato ha of-


ferto all’umanità un insegnamento universale: il
Dhamma, la legge di natura. Riscoprendo e speri-
mentando questa legge si liberò e poi, con infinita
compassione, insegnò questa via, in modo che molti
potessero beneficiarne. Chi raggiunge le profondità
della mente e sradica tutte le impurità, diventa una
persona illuminata. Chiunque, indipendentemente

340
PARTE TERZA

dalla religione, dalla razza, e dalla nazione cui appar-


tiene, può trarre benefici dal Dhamma.
Il Buddha disse “Datemi sette giorni della vostra
vita, provate”. Anch’io v’invito a provare. Non es-
sendo un Buddha, vi dico “Datemi almeno dieci
giorni della vostra vita”. Limitatevi a provare. Accet-
tate questo insegnamento solo dopo aver fatto una
prova. Le fondamenta della pratica di Vipassana
sono: la condotta morale, la concentrazione della
mente e la purificazione dei processi mentali. Il
processo introspettivo di auto-purificazione non è
facile e richiede un impegno intenso. Lo studente
raggiunge risultati solo grazie ai propri sforzi. Di
conseguenza, la meditazione è adatta solo a chi in-
tende applicarsi. Per la durata del corso, va rispettato
un codice di comportamento, che facilita la calma
mentale, propedeutica alla meditazione. Le sue re-
gole sono: astenersi dall’uccidere qualsiasi essere, dal
rubare e dal mentire; da attività sessuale e da droghe
e intossicanti; astenersi dal leggere e dallo scrivere,
da pratiche religiose, ginniche o altro; rimanere nel
luogo del corso, interrompere i contatti con l’ester-
no. Tali norme sono parte integrante della pratica
meditativa e sono poste per aiutare”.

Il programma quotidiano
La giornata inizia alle quattro del mattino e ter-
mina alle nove e trenta, dieci di sera. Comprende,
quindi, undici ore circa tra meditazione e momenti
di riposo. Le ore di meditazione individuale sono
alternate a ore di meditazione di gruppo, durante le

341
La pratica della meditazione

quali si medita con l’insegnante. Ogni sera si ascol-


ta un discorso di circa un’ora in cui sono chiariti e
approfonditi i vari aspetti della teoria e della pratica
meditativa. Sin dal primo giorno sono evidenziati
l’aspetto scientifico e concreto di Vipassana e i be-
nefici che apporta nella vita quotidiana.
Per nove giorni, gli studenti osservano il silenzio
fra loro, mentre possono discutere di questioni ine-
renti alla meditazione con l’insegnante e comunicare
con i responsabili organizzativi per gli aspetti pratici.

I primi tre giorni


Il respiro è come un ponte che collega la parte
conosciuta della mente con quella sconosciuta, vale
a dire la parte della quale siamo consapevoli con
quella che opera fuori dal nostro controllo. La respi-
razione ha uno stretto legame con la mente, perché
sono gli stati mentali ed emotivi a determinare la
frequenza e la profondità del respiro.
I primi due giorni sono dedicati a un esercizio di
consapevolezza del respiro, finalizzato allo sviluppo
della concentrazione mentale, propedeutica a una
profonda trasformazione nella mente. “Nell’ambi-
to dell’esercizio meditativo la concentrazione serve
a eliminare l’instabilità, la tendenza della mente a
distrarsi continuamente, così da poter esaminare le
sue profondità”. (Goenka)
Lo studente è invitato a osservare le aree delle
narici, al di sotto e all’interno delle stesse e sopra il
labbro superiore. È necessario portare e mantenere
lì l’attenzione e osservare ogni inspirazione e ogni

342
PARTE TERZA

espirazione. Ci si allena a essere consapevoli di ogni


variazione del respiro: regolare o irregolare, profondo
o lieve, breve o lungo che sia, permettendo alla re-
spirazione di scorrere liberamente, senza interferire.
Se la concentrazione è adeguata, dall’osservazione
del respiro si passa all’osservazione delle sensazioni
fisiche che si manifestano in quella zona circoscritta.
Grazie alla ricerca scientifica, oggi sappiamo che nel
nostro organismo avvengono innumerevoli processi
biologici, fisici, chimici ed elettrici, e che molti altri
avvengono a livello molecolare, e che le sensazioni
corporee sono una loro manifestazione. Siccome con
la meditazione diveniamo consapevoli di esse, pos-
siamo sperimentare questi processi nel nostro corpo,
e non limitarci a nozioni intellettuali. All’inizio,
probabilmente, percepiremo le sensazioni più inten-
se come, ad esempio, prurito, dolore e pressione; e
occorrerà che ci costruiamo un’attitudine equanime
per osservarle senza giudicarle o speculare. Allenan-
doci in alcune piccole aree, ci prepariamo a osservare
tutto il corpo con concentrazione ed equanimità.

Il quarto giorno
Lo studente è pronto a imparare Vipassana. Spo-
stando l’attenzione in tutto il corpo, osserva le sen-
sazioni e cerca di sviluppare un’attitudine equanime
(cioè di accettazione e non reazione) verso di esse,
per quanto piacevoli o spiacevoli.
La mente non è altro che vibrazioni. L’intero uni-
verso non è altro che vibrazione, oscillazione. Se la
mente è concentrata, può percepire il corpo come

343
La pratica della meditazione

un insieme di fenomeni in continuo mutamento: un


incessante flusso di vibrazioni e di piccolissime onde,
simili a correnti elettriche. Può sperimentare che la
solidità del corpo è solo apparente e che, mentre lo
osserva, può percepirne la dissoluzione. Nella me-
ditazione, l’aspetto essenziale è l’acquisire saggezza
attraverso la consapevolezza equanime della realtà in-
teriore. La misura del nostro successo è la nostra sag-
gezza, cioè la capacità di non reagire. Non ha nessuna
importanza il tipo di sensazione che si sperimenta,
l’unica cosa importante è osservarla senza giudizio.
Vipassana è un processo finalizzato a sviluppare e
a mantenere l’equilibrio della mente. E questo equi-
librio scaturisce dalla consapevolezza dell’imperma-
nenza. Dobbiamo osservare i fenomeni chimici e fi-
sici che incessantemente si manifestano, sottoforma
di sensazioni, senza identificarci con essi, come fos-
simo scienziati di fronte a fenomeni di laboratorio.
L’esperienza di questa equanimità è la chiave per
purificare la mente. Scopriremo, infatti, che ogni
dolore, inizialmente intenso e a volte insopporta-
bile, tenderà a cambiare, diminuire e dissolversi,
come ogni sensazione. Ciò è possibile osservando e
accogliendo senza giudicare tutto ciò che si manife-
sta (senza attaccamento per le sensazioni piacevoli,
senza avversione per quelle spiacevoli).

Dal 5° al 9° giorno
Perseverando nell’osservazione ed esplorando
minuziosamente ogni parte del corpo, lo studente
continua a migliorare la sua capacità di percepire

344
PARTE TERZA

sensazioni. Durante il corso, sono insegnati, gra-


dualmente, differenti metodi di osservazione, con i
quali si possono raggiungere livelli sempre più pro-
fondi. Anche l’attenzione può essere diretta e gui-
data in differenti modi, secondo il tipo e l’intensità
delle sensazioni. L’osservazione deve essere costante
e ininterrotta, perché solo così si potrà sperimentare
la realtà dell’organismo: un insieme di processi in
continuo mutamento, un rapidissimo e incessante
succedersi di fenomeni che interagiscono tra loro.
Lo studente sperimenta l’impermanenza e la man-
canza di solidità di ogni fenomeno, percepisce la
natura insoddisfacente di tutte le cose, e scopre che
l’io permanente è solo un’illusione. L’intera pratica
è un cammino di purificazione che non permette la
nascita di nuovi condizionamenti, ed elimina quelli
vecchi. Questa graduale eliminazione ci consente di
affrontare le vicissitudini della vita in maniera equi-
librata e di vivere in un modo armonioso.

Il decimo giorno
Dopo giorni d’impegno nell’imparare a padro-
neggiare e a purificare la mente, si apprende la parte
finale della tecnica: la meditazione della benevo-
lenza, mettá. Il meditatore, la cui mente è purificata
dalla meditazione, è invitato a condividere con tutti
la calma e l’equilibrio raggiunti (grazie agli esercizi
della consapevolezza e dell’equanimità). Poi, sono
date istruzioni su come mantenere la continuità della
meditazione e su come applicare la tecnica, nella vita
quotidiana.

345
La pratica della meditazione

Lo scopo della meditazione*


di S.N. Goenka

C’è sofferenza. Questa è un’amara e universale


verità che non può essere eliminata ignorandola.
Accettare questa realtà della sofferenza è accettare la
verità. Solo allora cercheremo una via per uscirne.
Chi può avere difficoltà ad ammettere la presenza
della sofferenza in questo universo, quando essa è
così evidente nella vita dell’uomo e in quella di tutti
gli esseri viventi? Non vogliamo certamente dire che
nella vita ci sia solo sofferenza, senza una traccia di
qualche piacere. Ma i piaceri dei sensi sono qualcosa
che possiamo chiamare felicità? Non è forse vero che
anche quello spiraglio di felicità contiene in sé l’om-
bra della sofferenza? Non c’è piacere che sia perma-
nente, immutabile, duraturo. Non c’è alcun singolo
piacere della sfera sensuale di cui si possa gioire per
sempre. E lo stesso fruitore del piacere non rimarrà
in eterno. Chi invece gode dei piaceri con distacco,
comprendendo la loro natura transitoria, quando
questi finiscono, è sempre indenne dalla sofferenza.
Se siamo coscienti della mutevole e impermanente
natura dei piaceri, pur godendone, siamo consape-
voli della loro intrinseca sofferenza; così non saremo
preda del dolore quando finiscono.
Osservare la verità della sofferenza quando si
prova dolore non è fare esperienza della nobile verità

* Dai testi elencati nella Prefazione.

346
PARTE TERZA

della sofferenza. Ma percepire la sofferenza latente, il


dolore sempre presente, l’inevitabile infelicità insita
in situazioni e occasioni in cui siamo nella gioia e
nel piacere, questo, sì, è fare esperienza della nobile
verità della sofferenza, ed è questa esperienza che
veramente ci rende liberi. Fino a quando però siamo
incapaci di osservare la reale natura del piacere dei
sensi, continueremo ad aggrapparci a essi, e a strug-
gerci per essi. Ed è questa, dopo tutto, la principale
causa di tutto il nostro soffrire.
Se quindi vogliamo capire pienamente la natura
della sofferenza, dobbiamo sperimentare le realtà
più sottili. A livello di esperienza, all’interno della
struttura del proprio corpo, s’incomincia a osservare
la natura transitoria della realtà e poi a comprendere
la natura dell’intero universo mentale e materiale.
Tutto il mondo dei sensi è impermanente e qualsiasi
cosa impermanente è sofferenza.

La radice della sofferenza


Alla radice di tutto il nostro soffrire, c’è sempre
qualche attaccamento, qualche forte desiderio.
Cerchiamo allora di capire la natura del desiderio
con accuratezza e profondità. Noi sentiamo conti-
nuamente un’infinità di desideri. Il desiderio è sti-
molato se vediamo una forma che ci sembra bella;
se ascoltiamo, odoriamo, assaggiamo, tocchiamo
qualcosa che è per noi piacevole. Sorge così l’at-
taccamento verso tutto ciò che di piacevole incon-
triamo. E anche quando richiamiamo alla memoria
un’esperienza che ci ha procurato una sensazione di

347
La pratica della meditazione

piacere, siamo desiderosi di provarla di nuovo. Se


immaginiamo qualche piacere che non abbiamo an-
cora provato, siamo desiderosi di provarlo.
Il desiderio degli oggetti dei sei sensi (i cinque
sensi e la mente) sorge perché gli oggetti dei sensi
ci rendono irrequieti, cominciamo a desiderare ciò
che non possediamo. Dove ci sono attaccamento e
bramosia c’è insoddisfazione e viceversa. E quando
il fuoco del desiderio si combina con invidia, ira,
illusione, inganno o altro, la sua intensità cresce, col
risultato che aumenta anche la nostra sofferenza. E
cominciamo a lamentarci.
Perché sono inferiore agli altri? Perché questo è ca-
pitato a me? Perché questa situazione è così? Perché
gli altri hanno di meno o di più? E queste continue
domande ci provocano insoddisfazione e dolore. La
vita diventa tesa, piena di ansia e irrequietezza, di
disordinato affanno. Dopo aver raggiunto un obiet-
tivo, siamo tesi a volere qualcosa d’altro e di più.
Siamo in un luogo e vorremmo essere altrove. Ac-
quistiamo qualcosa e già siamo tesi a qualcos’altro.
La pace sta nel mantenerci lontano dai tentacoli
dell’avidità disordinata e della competizione inutile.
Anche quando dobbiamo lavorare duramente per la
sopravvivenza, la pace sta nel mantenere sempre la
mente serena ed equilibrata, con la comprensione
profonda della sua reale natura. Per raggiungere que-
sto stadio è necessario impegnarsi energicamente. Il
solo modo è una via concreta: l’auto-osservazione,
coltivando il giusto distacco.
Questa è la via per raggiungere la fine della sof-
ferenza. Questo è quanto si può apprendere con la
pratica della meditazione Vipassana.

348
PARTE TERZA

Domande e risposte
Domanda: Perché viene data più importanza all’os-
servazione delle sensazioni del corpo che all’osservazio-
ne dei fenomeni della mente?

Goenka: Perché il più delle volte non si osserva og-


gettivamente la mente ma, invischiati in essa, si rea-
gisce. Quando invece si osservano le sensazioni, c’è
un’esperienza concreta, priva di immaginazione. Le
sensazioni sono nel corpo, ma sono percepite dalla
mente: perciò mente e corpo sono coinvolti quando
si osservano le sensazioni. Qualsiasi cosa sorga nella
mente si manifesta come una sensazione nel corpo.
E la sensazione è la radice del problema: noi non
reagiamo ai pensieri, ma alle sensazioni fisiche.
Può apparire che quando ho un pensiero piacevo-
le, nella mente inizia la bramosia, e quando ho un
pensiero sgradevole inizia l’avversione. Ma ciò che
si chiama “pensiero piacevole” non è altro che una
piacevole sensazione nel corpo. Senza l’osservazione
della sensazione fisica, il lavoro interiore è superfi-
ciale. E le radici delle impurità rimangono.

Cosa avviene nel corpo e nella mente, quando s’inizia


a meditare?

Il Buddha disse che chi sperimenta il Dhamma,


non sperimenta altro che la legge di causa ed effetto.
Dovete sperimentarla in voi stessi. E in un corso di
dieci giorni avete l’opportunità di imparare come.

349
La pratica della meditazione

Non è per curiosità che va indagata la realtà di ma-


teria, mente e contenuti mentali, ma per cambiare
i condizionamenti mentali al loro livello più pro-
fondo. Man mano che procedete, vi accorgerete di
come la mente influenzi il corpo e di come il corpo
influenzi la mente. A ogni istante nel corpo, masse
di particelle subatomiche, in pali kalápas, sorgono e
passano. Come sorgono? Una causa del loro sorgere
è il cibo che ingeriamo. Altre cause sono l’atmosfera
che ci circonda e i condizionamenti mentali del pas-
sato. Tutto questo vi diverrà chiaro per esperienza,
praticando Vipassana.
Domandiamoci: in questo momento qual è lo
stato della mia mente e qual è il suo contenuto?
La qualità della mente dipende dal suo contenuto.
Quando la mente è piena di passione, nel corpo sor-
gono particelle subatomiche di un tipo corrispon-
dente e comincia a scorrervi un flusso biochimico.
Questo flusso di passione o kámásava, inizia poiché
la mente è piena di passione. Come lo scienziato,
dobbiamo osservare ed esaminare la legge di natura.
E ci accorgeremo che, reagendo con bramosia o av-
versione, ogni stimolo mentale che diamo al flusso
bio-chimico, moltiplica e rafforza le impurità, per
minuti e a volte per ore. Il risultato è un circolo vi-
zioso di sofferenza.
La comprensione intellettuale non lo romperà, ma
anzi può persino creare ulteriori difficoltà. Se accet-
tiamo questa legge di natura solo intellettualmente,
senza riuscire a cambiare l’abitudine mentale, rimar-
remo lontani dalla realizzazione della verità ultima.
Ciò che chiamiamo mente inconscia, in realtà non
è affatto inconscia: essa è sempre in contatto col

350
PARTE TERZA

corpo. Ed è attraverso questo contatto che sorge


la sensazione. Se valutiamo piacevole o spiacevole
la sensazione che proviamo, nelle profondità della
mente c’è una reazione di bramosia e avversione, che
moltiplica le impurità. Questo processo moltiplica
la sofferenza e non possiamo fermarlo, perché c’è
una barriera tra la mente conscia e inconscia che,
senza la pratica di Vipassana, rimane. Ma quando
si infrange, cominciamo a percepire sensazioni in
tutto il corpo.
Osservandole, cominciamo a sperimentare la loro
caratteristica di sorgere e passare. Ed è grazie a questa
esperienza che iniziamo a cambiare i modelli men-
tali. Per esempio, sentiamo una sensazione, e con
Vipassana la osserviamo con equanimità, senza rea-
gire. Sperimentandone la natura impermanente, in
quei pochi ma meravigliosi istanti, abbiamo comin-
ciato a cambiare il modello mentale. Gradualmente
indeboliamo l’abitudine a reagire con automatismo
alla sensazione. Inizialmente solo per pochi istanti o
minuti, ma con l’esercizio svilupperemo forza e ca-
pacità. Man mano che gli abituali condizionamenti
verranno meno, anche il comportamento cambierà.
Uscirete così dall’infelicità.

La meditazione può essere anche uno strumento per


una società più armoniosa e produttiva? È idea comu-
ne che senza un “io” continuamente stimolato, senza
sicurezza di sé e carriera, non si possa avere la forza
necessaria per sopravvivere nel mondo.

Quando si ha un atteggiamento egocentrico, la


tendenza è di fare il più possibile per se stessi, e ciò

351
La pratica della meditazione

dà tensione e frustrazione. Quando invece l’ego si


dissolve grazie alla meditazione, si fa esperienza che
la mente è piena di amore, compassione e benevo-
lenza. Sentite che il vostro lavoro è anche a vantag-
gio altrui. Vi sentite più rilassati e più attivi. Questa
tecnica non vi rende passivi, ma persone responsabi-
li e piene di energia.
La società richiede la nostra partecipazione, non si
possono chiudere gli occhi e allontanarsene nel nome
della meditazione. Occorre dare il proprio contribu-
to. Il Buddha era solito dire che quando si ha fame,
non si può praticare il Dhamma, non si può medita-
re. Questo è un fattore fondamentale.
Ogni guerra è nociva, ma l’ideale di mantenerla
lontana dalla società non basta. Ognuno deve li-
berarsi dalla tensione interiore, perché la tensione
tra nazioni come tra individui, esiste a causa delle
impurità nella mente. L’uomo è un essere sociale.
Non è possibile né utile per lui vivere separato dalla
società. Il criterio di valutazione del suo essere parte
utile della società è il suo contributo nel renderla
più pacifica e armoniosa. E il più valido contribu-
to è l’esercitarsi per la liberazione dalle negatività
mentali. Con la purezza di mente, qualsiasi servizio
si presti, sarà forte, efficace e fruttuoso. Allenatevi
a purificare la mente, continuate a esaminare se
la state realmente purificando, e fate volontariato
senza aspettarvi nulla in cambio.

Chi non ha partecipato al corso di Vipassana di dieci


giorni può imparare da solo a osservare le sensazioni
corporee?

352
PARTE TERZA

È essenziale partecipare al corso: la tecnica è come


una profonda operazione della mente e quindi è
sempre consigliabile che, la prima volta, la si provi
alla presenza di un insegnante appositamente for-
mato. Dopo dieci giorni non è necessario si dipenda
dall’insegnante: la natura è il vostro maestro, e quan-
do conoscete la strada potete camminare da soli.
Il corso serve ad allenare la mente a osservare le sen-
sazioni. Senza allenamento, è molto difficile affron-
tare una negatività, perché quando si manifesta, può
sopraffarvi e impedirvi di osservare le sensazioni col
giusto distacco. Una profonda paura o una profonda
passione, può venire alla superficie e si può perdere
l’equilibrio. Deve esserci una guida che indichi che
cosa sta succedendo e come affrontare la situazione.

È necessaria una preparazione per partecipare al corso?

No, non è necessaria. E i dieci giorni del corso servi-


ranno per tutta la vita.

Bisogna essere buddhisti per imparare Vipassana?

La tecnica e l’insegnamento sono universali perché


universale è la sofferenza. Si può provenire da qual-
siasi tradizione, religione o filosofia: come obiet-
tare a sìla, la condotta morale, cioè il vivere senza
danneggiare se stessi e gli altri? E come si può fare
obiezione a samádhi, lo sviluppo della padronanza
sulla mente, con l’utilizzo di un oggetto universale
come il respiro? Come obiettare a paññá, lo sviluppo
della saggezza attraverso l’esperienza diretta delle
universali leggi di natura, con lo scopo di elimi-

353
La pratica della meditazione

nare le impurità mentali? Non ci sono obiezioni


dovute all’appartenenza a una comunità, nazione,
religione o tradizione. La pratica di Vipassana è il
cuore dell’insegnamento del Buddha. È accettabile
da tutti perché basata su leggi di natura universali e
porta concreti benefici nella vita.

354
PARTE TERZA

Una storia tradizionale


indiana*
Narrata da Goenka alla fine dei corsi
per evidenziare l’essenzialità della pratica

Una volta un giovane professore stava viaggiando


per mare. Uomo assai colto e carico di titoli accade-
mici, aveva poca esperienza della vita. Tra l’equipag-
gio della nave, c’era un vecchio marinaio analfabeta.
Ogni sera il marinaio, molto impressionato dalle
conoscenze del giovane professore, gli faceva visita
in cabina per ascoltare le sue dissertazioni.
Una sera, dopo alcune ore di conversazione, il
marinaio stava andandosene quando il professore gli
chiese:
– Ditemi, vecchio marinaio, avete studiato geo-
logia?
– Che cos’è?
– La scienza della terra.
– No, non sono mai stato a scuola.
– Allora avete sprecato un quarto della vostra vita.
Il vecchio marinaio se ne andò rattristato. Se una
persona così istruita dice questo, certamente deve
essere vero, ho sprecato un quarto della mia vita!
La sera seguente, il professore gli chiese:
– Ditemi, avete studiato oceanografia?
– Che cos’é?

* Da W. Hart, La meditazione Vipassana, op. cit.

355
La pratica della meditazione

– La scienza del mare.


– No, non ho mai studiato niente.
– Allora avete sprecato metà della vita.
Il vecchio se ne andò ancora più triste, ho cer-
tamente sprecato metà della mia vita, così dice
quest’uomo tanto istruito.
Di nuovo la sera successiva, il professore gli chiese:
– Ditemi, avete studiato meteorologia?
– Che cos’è? Non ne ho mai sentito parlare.
– Ma come! É la scienza del vento, della pioggia,
del tempo.
– No. Non sono stato a scuola, non ho mai stu-
diato.
– Non avete studiato la scienza della terra in cui
vivete, non avete studiato la scienza del mare, sul
quale vi guadagnate da vivere, non avete studiato la
scienza del clima che incontrate ogni giorno? Avete
sprecato tre quarti della vita.
Il marinaio era molto infelice: Quest’uomo istrui­
to dice che ho sprecato tre quarti della mia vita!
Deve essere senz’altro vero.
Il giorno seguente fu il turno del vecchio mari­
naio. Corse alla cabina del giovane e urlò:
– Professore, avete studiato nuotologia?
– Nuotologia? Che volete dire?
– Sapete nuotare, professore?
– No, non so nuotare.
– Professore, avete sprecato tutta la vostra vita! La
nave ha urtato contro uno scoglio e sta affondando.
Chi sa nuotare, potrà raggiungere la spiaggia vicina,
ma chi non sa nuotare, annegherà. Mi dispiace, pro-
fessore, ma di sicuro avete perso tutta la vostra vita.

356
PARTE TERZA

Potete studiare tutte le ologie del mondo, ma se


non imparate la nuotologia, i vostri studi sono inu-
tili. Potete leggere e scrivere libri sul nuoto, potete
dibattere sui suoi sottili aspetti teorici, ma come vi
può aiutare tutto questo, se vi rifiutate di entrare in
acqua?

357
La pratica della meditazione

Tre episodi
dal Canone pali
sull’apprendimento
Narrati da S.N. Goenka

Il panno imbrattato
(Dhp, II.3)

Ci sono diverse maniere di affrontare le proprie dif-


ficoltà, ci sono diverse modalità di apprendimento,
e ciascuna va sempre incoraggiata.
(Goenka)

Una volta, si recarono dal Buddha due fratelli,


Paòthaka il maggiore e Paòthaka il minore. Diventa-
rono entrambi monaci e incominciarono a meditare.
Il maggiore assimilò con facilità la tecnica e pro-
gredì rapidamente. Il fratello minore, invece, era
lento e non riusciva nemmeno a seguire le istruzioni
più semplici.
Il maggiore, dapprima cercò di rincuorarlo ma,
quando si rese conto che suo fratello non si era impa-
dronito neppure dei primi rudimenti della tecnica,
gli disse: - Questo insegnamento è sottile e difficile
da afferrare, forse non è adatto a te. Faresti meglio
a cercarti un altro maestro e a provare qualcos’altro.

358
PARTE TERZA

Il minore si rattristò molto a queste parole, ma


suo fratello maggiore gli aveva suggerito di andarse-
ne, ed egli ubbidì. Uscì, dunque, dal monastero, si
sedette sotto un albero, e pianse.
A quell’ora, il Buddha ritornava dalla città dove si
recava a elemosinare il cibo, e lo trovò che piangeva.
– Cos’è che non va, monaco? gli chiese.
– Signore, mio fratello mi ha detto che non sono
in grado di seguire i vostri insegnamenti e quindi di
ndarmene. Sono così infelice!
– Sei venuto qua - disse il Buddha - per imparare
da tuo fratello o da me?
– Da voi, Signore!
– Allora, vieni con me. Ti istruirò. E insieme rien-
trarono nel monastero.
Il Buddha sapeva dare precise istruzioni, adatte
alle necessità di ciascuno. Si avvide che il ragazzo era
incapace di concentrarsi sulla sua realtà interiore, e
che aveva bisogno di aiuto. Quindi gli diede uno
strofinaccio bianco, appena lavato, rajo-haranaí nella
lingua pali del tempo, letteralmente “togli-sporco”.
– Chiudi gli occhi – gli disse il Buddha – stro-
fina questo panno tra le mani, e intanto continua
a ripetere rajo-haranaí, rajo-haranaí, strofinaccio,
strofinaccio.
Il giovane Paòthaka si mise a farlo con entusiasmo.
La sonorità della parola rajo-haranaí riecheggiava al
suo interno e nel giro di un’ora, la sua mente iniziò
a concentrarsi.
– Adesso – aggiunse il Buddha – apri gli occhi e
guarda lo strofinaccio.
E Paòthaka vide che, strofinato a lungo, il panno
pulito era diventato stropicciato e imbrattato.

359
La pratica della meditazione

Chiedendosi da dove venisse quello sporco, si rese


conto che poteva provenire solo dalla sua persona e
che, dentro di lui, c’era un deposito d’impurità che
egli poteva eliminare.
– Ora metti via il panno e dimentica quella parola
– disse il Buddha – indaga dentro di te: solo così
riuscirai a ripulire la tua mente.
Il giovane seguì le istruzioni e, liberandosi dai con-
dizionamenti mentali, poté uscire dalla sofferenza.

Attraversando strade accidentate


(Theragátá, 25)

Ramaniya Viharin, figlio di un facoltoso notabile


della città di Rājagaha, crebbe tra tutti gli agi che
la ricchezza può procurare. Diventato adulto, con-
dusse una vita sregolata, ma fu molto turbato dalla
severa punizione ricevuta da un rappresentante del
governo, a causa della sua condotta dissoluta.
Alla ricerca della pace mentale, giunse allora al cen-
tro di meditazione del Buddha e lo ascoltò insegnare
il cammino per il raggiungimento della vera felicità.
Ispirato decise di farsi monaco: imparò la tecnica di
Vipassana, e si ritirò a vivere e a meditare in solitudine.
Si applicava strenuamente, ma, nonostante gli
sforzi, non faceva progressi perché, a causa delle sue
abitudini mentali più radicate, continuava a rotolare
in fantasie sessuali e, quando se ne rendeva conto,
precipitava in un pantano di sensi di colpa. Sia che
si perdesse in tali fantasie o che si disperasse, non
stava meditando in modo corretto.

360
PARTE TERZA

Un giorno, mentre sedeva, triste e abbattuto,


sotto un albero a lato della strada, vide sopraggiun-
gere un carro trainato da un bue; la strada era molto
accidentata e, in un punto dissestato, l’animale in-
cespicò e cadde.
Premurosamente, il conducente lo aiutò a rialzarsi
e a liberarsi dal giogo; poi, gli diede del fieno, una
pacca sulla schiena con affetto e lo legò di nuovo al
carro. Incoraggiato dal padrone, il bue si rincuorò e
riprese a trainare il carro con rinnovato vigore: no-
nostante gli ostacoli, fu capace di condurre il carro
oltre la strada accidentata e proseguire.
Nel vedere il modo in cui il bue era stato aiutato
a superare gli ostacoli, il monaco comprese come
anch’egli avrebbe potuto superare le difficoltà.
Impegnandosi con entusiasmo, meditò ardente-
mente e ottenne la liberazione.

Il pungolo dell’elefante
(Theragátá, 48-50)

Dantika era la figlia di un sacerdote bramino alla


corte del re Pasenadi, ed ebbe l’occasione di cono-
scere il Buddha e il suo insegnamento. A quel tempo
viveva nella città di Savatthi, dove sorgeva il gran-
de monastero di Jetavana, dedicato alla pratica di
monaci, monache e laici, uomini e donne. Anche
Dantika vi meditò, e poi crebbe in lei il desiderio di
diventare monaca. Quindi chiese e ottenne l’ordina-
zione da Maha Paiapati Gotami, madre del Buddha.

361
La pratica della meditazione

Una volta monaca, Dantika andò presso il mona-


stero di Rajagaha e s’incamminò sulla vicina monta-
gna Gijjhakuta. Poi si sedette all’ombra di un albero.
Mentre la sua mente fantasticava, vide, presso il fiume
che lambiva le falde della montagna, un elefante che
si bagnava e si sdraiava a riva. Osservò, quindi, il con-
ducente di elefanti che gli si avvicinava e, scudiscio
in mano, senza esitazione gli dava un comando. Vide
l’elefante prima allungare la zampa, per permettere
all’uomo di montargli in groppa, poi alzarsi e dirigersi
verso la città, prestando attenzione agli ordini del suo
padrone. Se lo avesse voluto, quella grande e potente
creatura avrebbe potuto facilmente schiacciarlo. Non
lo fece perché era legato a vincoli di obbedienza: ac-
cettava gli ordini dell’uomo e lo serviva.
Se un uomo con uno scudiscio – rifletté Dantika
– può mantenere sotto il suo controllo un animale
così forte, perché non dovrei riuscire a controllare la
mia mente? Certamente posso!
E così, ispirata a meditare in modo risoluto, si
recò nella vicina giungla e in breve tempo i suoi
sforzi diedero risultati.

362
Glossario
dei termini pali
Sono elencate le parole riguardanti l’insegnamen-
to della meditazione Vipassana. Per gli altri termini
pali presenti, ci sono note nel testo o a piè di pagina.

Anápána: respirazione. Anápána-sati: consapevolez-


za della respirazione.
Anattá: assenza di un sé individuale; senza essenza,
senza sostanza. Una delle tre caratteristiche
fondamentali dei fenomeni, insieme ad anicca,
(impermanenza) e dukkha, (sofferenza).
Arahant: essere completamente liberato da tutti i
condizionamenti; che ha eliminato tutte le
impurità mentali.
Avijjá: ignoranza, illusione. Il primo anello nella
catena del Sorgere Condizionato (paþicca
samuppáda). Avijjá, rága (bramosia) e dosa
(avversione) sono le tre principali negatività
mentali, alla radice di tutte le altre impurità
della mente, causa di tutte le sofferenze.
Bhávaná: sviluppo, evoluzione mentale. Medita-
zione che comprende due parti: lo sviluppo
della calma mentale o tranquillità (samatha-
bhávaná), che corrisponde alla concentrazione
mentale (samádhi), e lo sviluppo della com-
prensione profonda (vipassaná-bhávaná), che
corrisponde alla saggezza (paññá). Lo sviluppo

363
La Saggezza Che Libera

di samádhi porta a stadi avanzati di concentra-


zione mentale (jhána); lo sviluppo di vipassaná
porta alla liberazione.
Buddha: persona illuminata, libera da tutti i condi-
zionamenti, che ha scoperto la via che conduce
alla liberazione dalla sofferenza, l’ha percorsa e
ha raggiunto la meta finale, con i suoi sforzi.
Citta: mente. Cittánupassaná, osservazione della
mente.
Dhamma: fenomeno; oggetto della mente; natura;
legge di natura; legge di liberazione, cioè
insegnamento di una persona illuminata.
Dosa: avversione. Insieme a ignoranza e a bramosia,
una delle tre principali negatività della mente.
Dukkha: sofferenza, insoddisfazione. Una delle tre
caratteristiche di base dei fenomeni, insieme
ad anicca e anattá.
Jhána: stato di assorbimento mentale o trance. Vi
sono otto stadi che possono essere ottenuti
con la pratica della concentrazione (samádhi).
Dedicarsi a questa pratica porta tranquillità
ed estasi, ma non elimina le negatività mentali
radicate nel profondo.
Kalápa: la più piccola, indivisibile, unità della
materia.
Kamma: azione, e specificatamente un’azione che si
compie e che avrà un effetto sul proprio futuro.
Káya: corpo. Kayánupassaná, osservazione del corpo.
(V. saþipaþþhána)
Magga: sentiero, cammino. Ariya atthaògika magga,
il Nobile Ottuplice Sentiero, che conduce alla
liberazione dalla sofferenza.
È diviso in tre parti:

364
Glossario dei termini pali

Sìla, condotta morale, purezza delle azioni


vocali e fisiche, comprende:
sammá-váca, giusta parola,
sammá-kammanta, giusta azione,
sammá-ájiva, giusti mezzi di sussistenza.
Samádhi, concentrazione o controllo della
propria mente, comprende:
sammá-váyáma, giusto sforzo;
sammá-sati, giusta consapevolezza;
sammá-samádhi, giusta concentrazione.
Paññá, saggezza, comprensione profonda che
purifica la mente, comprende:
sammá-saòkappa, giusto pensiero;
sammá-diþþhi, giusta comprensione.
Mettá: amore incondizionato; benevolenza; buona
volontà. È una delle qualità di una mente pura.
Mettá-bhávaná, l’apprendimento della pratica di
mettá per mezzo di una tecnica di meditazione.
Nibbána: estinzione; libertà dalla sofferenza; la
realtà ultima; stato incondizionato, che non
dipende da condizioni.
Paññá: saggezza; comprensione profonda che
purifica la mente. La terza parte del Nobile
Ottuplice Sentiero (V. magga).
Ci sono tre tipi di saggezza:
–– suta-mayá paññá, che letteralmente significa
saggezza che si ottiene ascoltando altri;
–– cintá-mayá paññá, cioè saggezza che si ottiene
con l’analisi intellettuale;
–– bhávaná-mayá paññá, ovvero saggezza che si
sviluppa dall’esperienza. Di queste, soltanto
l’ultima, coltivata con la pratica di vipassaná-
bhávaná, può purificare la mente.

365
La Saggezza Che Libera

Paþicca-samuppáda: la catena del sorgere


condizionato, dell’origine interdipendente,
dell’origine causale, di causa ed effetto.
Sacca: verità. Le quattro Nobili Verità sono:
La verità della sofferenza.
La verità dell’origine della sofferenza.
La verità della fine della sofferenza.
La verità del cammino che conduce alla fine
della sofferenza.
Samádhi: concentrazione; controllo della propria
mente. La seconda delle tre parti del Nobile
Ottuplice Sentiero. Se la si coltiva come fine a
se stessa, porta al conseguimento di stati di as-
sorbimento mentale, ma non alla liberazione.
Per iniziare a meditare con Vipassana è suf-
ficiente un minimo grado di concentrazione,
chiamata “momentanea concentrazione” (kha-
nika samádhi).
Saípajañña: comprensione della totalità del
fenomeno umano: la comprensione profonda
della sua natura impermanente, attraverso
l’osservazione delle sensazioni fisiche.
Saòkhára: reazione mentale; formazione mentale;
condizionamento mentale; attività della
volizione. Uno dei quattro aggregati o processi
mentali, con viññána, saññá, e vedaná.
Saòkhárupekkhá/Saòkhára-upekkhá: letteralmen-
te “equanimità verso i saòkhára (condiziona-
menti mentali)”. È lo stadio nella pratica di
Vipassana, che viene dopo l’esperienza di bhaò-
ga, e nel quale vecchie impurità, addormentate
nell’inconscio, emergono alla superficie della
mente, manifestandosi come sensazioni fisi-

366
Glossario dei termini pali

che. Conservando l’equanimità (upekkhá) ver-


so queste sensazioni, il meditatore non genera
più saòkhára e consente che quelli vecchi siano
eliminati. Perciò il processo conduce gradual-
mente alla loro completa eliminazione.
Saññá: percezione; riconoscimento; individuazione.
Uno dei quattro processi mentali, insieme a
vedaná (sensazione), viññána (cognizione), e
saòkhára (reazione).
È condizionata dai vecchi saòkhára che ciascu-
no ha in sé, e perciò riflette un’immagine di-
storta della realtà. Con la pratica di Vipassaná,
saññá si trasforma in paññá, e cioè nella com-
prensione della realtà così come è. Diventa
quindi anicca-saññá, dukkha-saññá, anatta-saññá,
asubha-saññá, cioè la percezione di imperma-
nenza, sofferenza, inesistenza di un io e la per-
cezione della natura illusoria della bellezza.
Saþipaþþhána: l’instaurarsi della consapevolezza.
Gli aspetti di saþipaþþhána sono:
1. l’osservazione del corpo (kayánupassaná),
2. l’osservazione delle sensazioni corporee (ve-
danánupassána),
3. l’osservazione della mente (cittánupassaná),
4. l’osservazione dei contenuti della mente
(dhammánupassaná).
Essendo le sensazioni collegate sia al corpo
che alla mente, mentre si osservano le sensa-
zioni, indirettamente si osservano anche tutti
gli altri aspetti.
Sìla: condotta morale; astensione dalle azioni fisiche
e vocali che danneggiano gli altri e se stessi.
La prima delle tre parti del nobile ottuplice

367
La Saggezza Che Libera

sentiero.
Taóhá: letteralmente, sete. Comprende sia la
bramosia sia il suo contrario, l’avversione.
Nel Discorso sulla messa in moto della ruota
di Dhamma, il Buddha identificò in taóhá
la causa della sofferenza. Nella sequenza
dell’origine interdipendente, spiegò che taóhá
ha origine dalla reazione alla sensazione.
Upekkhá: equanimità; una condizione della
mente libera dalla bramosia, dall’avversione,
dall’ignoranza.
Vedaná: sensazione. Uno dei quattro aggregati o
processi mentali, insieme a viññáóa, saññá, e
saòkhára.
Vedanánupassaná: osservazione delle sensazioni cor-
poree. Secondo l’insegnamento del Buddha,
essa è il mezzo con cui esaminare la totalità del
corpo e della mente, perché ha componenti
sia fisiche sia mentali. Nell’origine interdipen-
dente, taóhá, “sete o bramosia,” ha origine dalla
reazione alla sensazione. Imparando a osserva-
re oggettivamente le sensazioni, si può quin-
di evitare la reazione, e sperimentare la realtà
dell’impermanenza. Questa esperienza è essen-
ziale per lo sviluppo della condizione di giusto
distacco, che conduce alla liberazione.
Viññána: coscienza, cognizione. Uno dei quattro
aggregati o processi mentali, insieme a saññá,
vedaná e saòkhára.
Vipassaná: introspezione, osservazione e compren-
sione profonda della realtà che purifica la
mente; comprensione profonda della natura
impermanente della mente e del corpo, attra-

368
Glossario dei termini pali

verso la meditazione basata sull’osservazione


delle sensazioni corporee.
Vipassaná-bhávaná: lo sviluppo sistematico della
comprensione profonda della propria realtà,
attraverso la meditazione Vipassana.

369
Appendice A
Vipassana in Italia
e nel mondo

I n Italia, il primo corso di meditazione Vipas-


sana, come insegnata da S.N. Goenka, si è
svolto nel novembre del 1986. Nel 1991 un gruppo
di meditatori ha fondato l’Associazione Vipassana
Italia (Ente Morale con D.M. 26/11/1999), che or-
ganizza numerosi corsi l’anno, operando nel pieno
rispetto dei principi che ispirano questo insegna-
mento. Dal 2008 i corsi sono tenuti presso il

Centro Vipassana Dhamma Atala


Via Prov.le 12, Lutirano - 50034 Marradi (FI)
Tel. [39] 055 804818 Fax: [39] 049 8591249
Sito web: www.atala.dhamma.org
E-mail: info@atala.dhamma.org

Il finanziamento dei corsi


Le associazioni Vipassana sorte in tutto il mondo
operano in autonomia, autofinanziandosi grazie a li-
bere offerte. Secondo la tradizione, infatti, l’insegna-
mento va dato gratuitamente, e l’organizzazione dei
corsi deve essere sostenuta esclusivamente da dona-
zioni ispirate da gratitudine e generosità. Questo per
far sì che gli aspetti economici non interferiscano
nell’insegnamento. Perciò, chi ha tratto giovamento
da un corso e desidera che anche altri ne beneficino,
può offrire una donazione, che permetterà l’organiz-

373
La Saggezza Che Libera

zazione di altri corsi. In questo modo, svincolati da


costi di partecipazione, i corsi sono accessibili a tutti,
indipendentemente dalla situazione finanziaria.
Per mantenere la purezza della meditazione, i
corsi e i centri che operano sotto la sua guida sono
senza fini di lucro. Egli non riceve alcun compenso
per il suo impegno, e neanche gli assistenti che ha
autorizzato a tenere corsi in sua vece e i volontari
che collaborano negli aspetti pratici. Goenka offre
Vipassana come un servizio all’umanità.

L’universalità
Il metodo è accessibile a tutti e da tutti può essere
accettato, indipendentemente dalla razza, naziona-
lità, religione, filosofia e opinione politica. Possono
beneficiarne uomini e donne provenienti da ogni
tradizione e condizione, giovani e anziani, devoti e
atei, colti e illetterati, persone di successo e disereda-
ti, carcerati e uomini di governo.
I corsi di dieci giorni sono aperti a tutti coloro
che siano sinceramente interessati ad apprendere la
tecnica.

“Priva di connotazione religiosa, essa è per tutti,


poiché, essendo la sofferenza, con le sue cause, uni-
versale, la via per uscirne deve essere universale”.
(Goenka)

374
Appendice A

Le applicazioni di Vipassana
nella società
Vipassana è stata introdotta, attraverso corsi speci-
fici, in differenti ambiti educativi, sociali e lavorativi:
scuole e università, aziende (con corsi per dirigenti e
quadri), carceri (con corsi sia per i detenuti che per
il personale di sorveglianza), centri di riabilitazione
per alcolisti e tossicodipendenti (www.startagain.
ch), ed enti socio-sanitari per portatori di handicap,
ad esempio non vedenti e malati di lebbra. Vi sono
associazioni di volontari, che insegnano gli esercizi
di consapevolezza del respiro ai ragazzi di strada di
Mumbai. Inoltre, in India, molte istituzioni, pub-
bliche e private, promuovono la partecipazione ai
corsi di Vipassana, per i loro dirigenti e impiegati.

Informazioni sui corsi per bambini:


www.atala.dhamma.org

“(…) Possa la prossima generazione sbocciare sulla


base di alti valori umani ed essere messaggera di
pace per il futuro. È utile imparare Vipassana in gio-
vane età, in modo da poter vivere una vita adulta
salutare e armoniosa. Le nuove generazioni hanno
menti molto aperte e flessibili. Se ricevono semi di
Dhamma a questa età, sviluppando la capacità di
auto-osservarsi, questi giovani si stanno preparando
a vivere una vita felice”. (Goenka)

375
La Saggezza Che Libera

Informazioni sui corsi nelle carceri:


www.prison.dhamma.org

“(…) Le carceri, in effetti, esistono per aiutare le


persone a uscire dalla loro sofferenza, dai loro errori.
Vipassana può diventare uno strumento prezioso per
loro. Sono contento che si sia cominciato a rendere
disponibile questo strumento nelle carceri. Certa-
mente sarà un esempio per il resto del mondo vedere
come i prigionieri riescono a migliorarsi e ridiventare
parte utile nella società. Vipassana li aiuterà in que-
sto. D’altronde, non solo tra queste quattro mura, ma
anche nel mondo esterno, ognuno di noi è prigionie-
ro dei propri condizionamenti e dei comportamenti
nocivi della mente. E, sicuramente, questa prigionia
è più penosa di quella di un carcere”. (Goenka)

Documentari sui corsi nelle carceri:


www.pariyatti.org

In lingua italiana: Doing Time Doing Vipassana


documentario sui corsi di dieci giorni nelle carce-
ri indiane: www.bibliotecavipassana.org

La meditazione Vipassana
per i dirigenti
Dal 2002 sono organizzati corsi specifici, riservati
a dirigenti pubblici e privati, in India, Stati Uniti
Australia ed Europa. Vi hanno partecipato centinaia
di persone con potere decisionale negli ambiti indu-
striale, sociale e politico.

376
Appendice A

L’investimento di tempo e di sforzo li ha ampia-


mente ricompensati. Uno dei benefici acquisiti,
infatti, è la capacità di affrontare meglio lo stress
e l’ansietà che accompagnano ogni importante
decisione, ma i risultati vanno ben oltre. Il corso
trasforma queste persone da “maestri negli affari”
a “maestri della propria mente”. Con la meditazio-
ne essi imparano a essere più controllati, flessibili,
disponibili e comprensivi nelle relazioni con i loro
colleghi e con i familiari. Diventano anche capaci di
integrare principi etici e valori spirituali nell’ambito
del loro lavoro.
Goenka ha viaggiato e insegnato molto, e il suo
passato d’imprenditore (prima di dedicarsi a inse-
gnare Vipassana) ha attratto molti industriali e diri-
genti a partecipare ai suoi corsi.

Informazioni: www.executive.dhamma.org

377
La Saggezza Che Libera

Siti consigliati 

Corsi:
nel mondo: www.dhamma.org
in Italia: www.atala.dhamma.org
bambini: www.atala.dhamma.org
dirigenti: www.executive.dhamma.org
detenuti: www.prison.dhamma.org

Documentari sui corsi nelle carceri:


www.pariyatti.org

In lingua italiana “Doing Time Doing Vipassana”


(documentario sui corsi nelle carceri indiane)
è distribuito da: www.ayana-book.com

Libri, articoli, audio, video in lingua italiana:


redazione@bibliotecavipassana.org
www.bibliotecavipassana.org
www.bibliotecavipassana.org

Libri, audio e video in lingua inglese:


www.pariyatti.com e www.ayana-book.com

Podcast in:
www.executive.dhamma.org www.pariyatti.org
www.vri.dhamma.org

Vipassana Research Institute:


www.vri.dhamma.org

378
Appendice B
L’elenco dei centri
di meditazione Vipassana
Vi sono circa 170 centri operanti nel mondo.
Nelle nazioni dove non è disponibile una struttura
permanente, i corsi si svolgono in sedi provvisorie
(vedi elenco pag. 389).
I corsi sono tenuti nella lingua della nazione che li
ospita e in lingua inglese.
Per l’elenco completo dei centri, il calendario dei
corsi e altre informazioni, consultare i siti:
www.dhamma.org e www.vri.dhamma.org

ITALIA

Centro Vipassana Dhamma Atala


Località Veriolo, Via Prov.le 12,
50034 Lutirano Marradi (FI)
Tel. 0039-055-804818 Fax: 0039-049-8591249
E-mail: info@atala.dhamma.org
www.atala.dhamma.org

Corsi in lingua italiana in Svizzera:


Gruppo Vipassana Ticino
Tel:0041-(0)76-2372232
Email: info@ticino.ch.dhamma.org
www.ticino.ch.dhamma.org

381
La Saggezza Che Libera

EUROPA
Belgio
Dhamma Pajjota
Driepaal 3, B 3650 Dilsen-Stokkem,
Tel: 0032-(0)89-518230 Fax: 518239
Email: info@pajjota.dhamma.org
www.pajjota.dhamma.org
Francia
Dhamma Mahī
Le Bois Planté, Louesme 89350 Champignelles,
Tel: 0033-386-457514 Fax: 457620
Email: info@mahi.dhamma.org
www.mahi.dhamma.org
Germania
Dhamma Dvāra
Alte Strasse 6, 08606 Triebel,
Tel: 0049-(0)37434-79770 Fax: 79771
Email: info@dvara.dhamma.org
www.dvara.dhamma.org
Gran Bretagna
Dhamma Dīpa
Harewood End, Hereford HR2 8JS,
Tel: 0044-(0)1989-730234 Registrazioni: 731023
Email: info@dipa.dhamma.org
www.dipa.dhamma.org
Spagna
Dhamma Neru Els Bruguers, Apartado Po-
stal 29, Barcelona.Tel: (34) 93 848 26 95
Email:info@es.dhamma.org
www.es.dhamma.org

382
Appendice B

Svezia
Dhamma Sobhana
Lyckebygården, 599 93 Ödeshög,
Tel: 0046-143-21136
Email: registration@sobhana.dhamma.org
www.sobhana.dhamma.org
Svizzera
Dhamma Sumeru
No. 140, Ch-2610 Mont-Soleil,
Tel: 0041-32-9411670 Fax: 9411650
Email: info@sumeru.dhamma.org
www.sumeru.dhamma.org
Per i corsi in lingua italiana: Gruppo Vipassana Ticino
(vedi Italia)
MEDIO ORIENTE
Iran
Dhamma Īran www.iran.dhamma.org
Israele
Dhamma Pamoda www.il.dhamma.org

AFRICA
Etiopia
Informazioni: Douglas Ravenstein www.et.dhamma.org

Repubblica del Sud Africa


Dhamma Patākā www.pataka.dhamma.org

383
La Saggezza Che Libera

AMERICA meridionale
Argentina
Vi sono tre centri. Per informazioni, programmi dei
corsi e indirizzi contattare il sito www.dhamma.org o
il centro principale:
Dhamma Sukhadā www.sukhada.dhamma.org
Brasile
Dhamma Santi www.santi.dhamma.org
Messico
Dhamma Makaranda www.makaranda.dhamma.org
Venezuela
Dhamma Veṇuvana www.venuvana.dhamma.org

AMERICA SETTENTRIONALE
Canada
Vi sono quattro centri. Per informazioni,
programmi dei corsi e indirizzi contattare il sito
www.dhamma.org o il centro principale:
Dhamma Surabhi www.surabhi.dhamma.org

Stati Uniti d’America


Vi sono 8 centri. Per informazioni, programmi dei
corsi e indirizzi contattare il sito www.dhamma.org
o il centro principale:
Dhamma Dharā www.dhara.dhamma.org

384
Appendice B

ASIA
Cambogia
Dhamma Laþþhiká www.latthika.dhamma.org
Giappone
Dhamma Bhānu www.bhanu.dhamma.org
Dhammādicca www.adicca.dhamma.org
Hong Kong
Dhamma Muttā www.hk.dhamma.org/mutta.html
INDIA

Vi sono più di 50 centri distribuiti in tutto il conti-


nente. Per informazioni, programmi dei corsi e in-
dirizzi contattare il sito www.dhamma.org o il centro
principale:
Dhamma Giri Vipassana International Academy
www.vri.dhamma.org
Indonesia
Dhamma Jāvā www.indonesian.dhamma.org
Malesia
Dhamma Malaya www.malaya.dhamma.org
Mongolia
Dhamma Mahāna www.mahana.dhamma.org
Myanmar
Vi sono 15 centri. Per informazioni, programmi dei
corsi e indirizzi contattare il sito www.dhamma.org
o il centro principale:
Dhamma Joti www.joti.dhamma.org

385
La Saggezza Che Libera

Nepal
Vi sono cinque centri. Per informazioni, programmi
dei corsi e indirizzi contattare il sito www.dhamma.org
o il centro principale:
Dharmashringa Nepal www.shringa.dhamma.org

Sri Lanka
Vi sono tre centri. Per informazioni, programmi
dei corsi e indirizzi contattare il sito
www.dhamma.org o il centro principale:
Dhamma Kūta www.kuta.dhamma.org

Tailandia

Vi sono cinque centri. Per informazioni, program-


mi dei corsi e indirizzi contattare il sito www.
dhamma.org o il centro principale:
Dhamma Ābhā www.abha.dhamma.org
Taiwan
Dhammodaya www.udaya.dhamma.org

AUSTRALIA E NUOVA ZELANDA

Vi sono otto centri. Per informazioni, programmi


dei corsi e indirizzi contattare il sito
www.dhamma.org.au o il centro principale:
Dhamma Bhūmi www.bhumi. dhamma.org

386
Appendice B

Elenco delle nazioni in cui si tengono


corsi in sedi provvisorie
(gli indirizzi sono in www.dhamma.org)

EUROPA
Austria, Bulgaria, Croazia, Finlandia, Grecia, Kir-
ghizistan, Lettonia, Lituania, Macedonia, Norvegia,
Olanda, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Ro-
mania, Russia, Serbia, Turchia, Ucraina, Ungheria,
Uzbekistan.

MEDIO ORIENTE
Barein, Egitto, Emirati arabi, Libano, Oman.

AFRICA
Angola, Benin, Burkhina Faso, Ghana, Kenya,
Liberia, Marocco, Mauritius, Nigeria, Sudan, Swa-
ziland, Tanzania, Uganda, Zimbabwe.

AMERICA MERIDIONALE
Bolivia, Colombia, Costa Rica, Cuba, Ecuador,
El Salvador, Guatemala, Nica​ragua, Panama, Para-
guay, Perù, Puerto Rico, Santo Domingo, Uruguay.

ASIA
Corea del sud, Fiji, Filippine, Polinesia francese,
Singapore.

387
B I B L I OT E C A • V I PA S S A N A

PUBBLICATI
1.
W. Hart
La meditazione Vipassana
come insegnata da S.N. Goenka - Un’arte di vivere
L’esposizione dettagliata della tecnica, integrata da racconti,
aneddoti e consigli di S.N. Goenka
Artestampa ed., 2011

2.
S.N. Goenka
Vipassana è Per Tutti
Scritti, discorsi e interviste di un maestro di meditazione
A cura di P. Confalonieri
Artestampa ed., 2013

3.
La Saggezza Che Libera
La meditazione nei discorsi del Buddha
Con il commento di S.N. Goenka
A cura di P. Confalonieri
Artestampa ed., 2013
Edizione ampliata e revisionata

CD Audio MP3
1.
L’importanza della meditazione
Due discorsi di Goenka:
Cos’è la meditazione Vipassana?
I benefici di Vipassana per gli operatori sociali
2.
I discorsi di Goenka nel corso di dieci giorni
3.
Consigli ai meditatori
Tre discorsi di Goenka
e un contributo di Paul Fleischmann
B I B L I OT E C A • V I PA S S A N A

In programma

A. Solé-Leris
Quiete e visione profonda
L’insegnamento del Buddha
Le caratteristiche essenziali della meditazione
nelle sue due linee fondamentali:
“samadhi–concentrazione” e “vipassana–visione profonda”.
Edizione revisionata
di La meditazione Buddista ed. Mondadori

W. Rahula
L’insegnamento del Buddha
Versione revisionata dell’edizione Paramita

Bhikkhu Analayo
Escursioni nel buddhismo antico:
1) Dalla brama alla liberazione
2) Dall’attaccamento al vuoto
Versione unificata e revisionata dei due volumi
dell’edizione Lulu
Questa parte di albero è divenuta libro sotto
i torchi di Edizioni Artestampa di Modena
nel mese di Dicembre 2013
Possa un giorno, dopo aver ceduto agli uomini
il suo carico di conoscenza, ritornare alla terra
e diventare un nuovo albero.

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