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Per una relazione tra Raffaello e la poesia pensiamo subito al famoso tondo affrescato del 1508,
che raffigura appunto la personificazione della Poesia, nell’ambito della ricca decorazione della
Stanza della Segnatura dei Musei Vaticani. Su uno sfondo a falso mosaico in oro, campeggia una
figura femminile che sulle nuvole siede su un trono di marmo scolpito. Indossa un abito bianco, con
in basso un mantello scuro che lascia scoperti i piedi nudi. Con la mano destra trattiene un pesante
libro contro la gamba, mentre tiene sotto il braccio la lira. Sulla testa ha la corona triumphalis, di
alloro che rappresenta la sapienza e la gloria di quanti l’hanno conquistata, atleti vittoriosi e grandi
poeti. Ai lati due putti reggono due tabelle biansate con la scritta NUMINE AFFLATUR1 che
evidenzia la concezione della poesia quale dono dell’ispirazione che viene da un dio, Apollo per la
tradizione classica, che infonde lo spirito creativo nella mente del poeta.
Al di sotto, nella lunetta che sovrasta la finestra, si trova un grande affresco, concettualmente
collegato, che raffigura una scena sul monte Parnaso, secondo la mitologia greca, dimora
delle Muse. Sulla sommità del colle, al centro della composizione, nei pressi della fonte
Castalia, Apollo, coronato di alloro, suona una viola da braccio a nove corde, strumento più gradito
e diffuso in epoca rinascimentale, rispetto alla tradizionale lirica, circondato dalle nove Muse. Ai
suoi lati si vedono Calliope ed Erato, che presiedono il coro delle altre: a sinistra, dietro Calliope, ci
sono Talia, Clio ed Euterpe; a destra, dietro Erato, Polimnia, Melpomene, Tersicore e Urania.
Tutt'intorno si trovano diciotto poeti divisi in più gruppi, alcuni di identificazione inequivocabile,
altri più dubbia, tutti disposti come in una platea, collegati da gesti e sguardi, a formare una sorta di
mezzaluna continua che si proietta verso lo spettatore, quasi a comprenderlo. Da sinistra in basso si
vedono Alceo, Corinna, Francesco Petrarca, Anacreonte e Saffo con un cartiglio col proprio nome;
seguono più in alto Ennio, che ascolta il canto di Omero, più dietro compare Dante che guarda
verso Virgilio, a sua volta rivolto a Stazio, a lui vicino. L’identificazione di tutti gli altri poeti è
piuttosto controversa: si fanno i nomi del Tebaldeo, di Baldassarre Castiglione, Michelangelo,
Boccaccio, Tibullo, Ariosto, Properzio, Ovidio, Jacopo Sannazzaro e altri. Sicuramente, in primo
piano in basso, è Orazio. Ma potrebbero anche essere rappresentati Agnolo Poliziano, Vittoria
Colonna e Pietro Bembo con lo sguardo rivolto al Petrarca, suo sommo modello, nonché due
ipotetici "poeti del futuro che giudicano il passato", in basso a destra. La difficoltà
dell’identificazione dipende anche dal fatto che ai poeti antichi, come avviene per i personaggi delle
Scuola di Atene, siano stati dati i volti di umanisti e di altri personaggi del tempo.
Questa raffigurazione del Parnaso ci dà alcune interessanti indicazioni sulla concezione della
poesia negli ambienti di cultura, e soprattutto in quello romano, agli inizi del Cinquecento.
Appare chiaro l’intento di innalzare molti poeti in volgare, alcuni anche recenti e contemporanei,
allo stesso livello di quelli dell’antica Grecia e della Roma augustea e nello stesso tempo si
comprende che è ormai fissato un canone per i primi secoli della produzione in volgare che vede
Petrarca incoronato per la sua poesia lirica, soprattutto a tema amoroso, tanto da accostarlo ai lirici
monodici greci, essendo ormai eclissata la sua aspirazione ad essere inserito, per la sua Affrica, tra i
poeti epici a cui viene invece accostato Dante, continuatore, in chiave moderna e cristiana, della
produzione epica, secondo una linea di sviluppo e di continuità, da lui stesso fissata nella
Commedia, da Omero a Virgilio, Stazio e se stesso.
La priorità data a Petrarca in questa rappresentazione pittorica indica come il consenso nei
confronti della sua produzione lirica fosse già consolidato prima della definitiva consacrazione da
parte del Bembo nelle Prose della volgar lingua (1525).
1
Verg. Aen., VI, 50.
Ma la poesia ha attirato Raffaello anche come autore. Così il pittore ha voluto usare le parole per
esprimere il suo amore per una donna, in questi stessi anni in cui sta lavorando agli affreschi delle
Stanze del Vaticano2. Infatti verga i suoi versi in elegante corsivo sulle carte degli studi preparatori
per la Disputa del Sacramento, occupando gli spazi liberi sul recto e sul verso dei fogli da disegno.
Scrivere era nella tradizione artistica della sua famiglia e della sua cerchia di intellettuali, infatti il
padre Giovanni, oltre che pittore, fu poeta e compose una Cronaca rimata di 2300 terzine per
celebrare il duca Federico da Montefeltro, e comporre versi era una delle doti che doveva avere il
perfetto cortigiano, secondo quanto teorizza Baldassarre Castiglione nel suo Cortegiano (1528).
I sonetti di Raffaello sono testi non definitivi, con molte varianti, di cui abbiamo una prima e una
seconda stesura, ma non quella definitiva3.
Leggiamo il primo sonetto:
Lo stile è chiaramente petrarchesco, con un linguaggio volgare dalle inflessioni localistiche per
alcune forme con la vocale “o”, rispetto alle più diffuse con la “u” («doi» e «toi») e per alcuni
vocaboli («envesscasti», «donnessi»). L’autore narra in prima persona una sua storia d’amore che,
attraversando e superando la conoscenza carnale, tende ad una personale spiritualità, da vivere in
una condizione di segretezza. All’inizio, si rivolge ad Amore che lo ha catturato attraverso i begli
occhi di una donna, tramite il suo volto candido come la neve, ravvivato dal colore di una rosa, e
grazie al «bel parlar» della voce femminile. Confessa, con un elaborato intreccio di immagini, che il
suo ardore d’amore è così forte che né il mare né i fiumi «spegnar potrian quel foco», ma questo
non gli dispiace, perché, ardendo nel fuoco d’amore, sa di consumarsi e che, consumandosi, non si
sentirà più avvampare dalle fiamme. Inizia le terzine rivolgendosi alla donna amata cui ricorda
quanto lo faccia soffrire il doversi sciogliere dal «giogo» e dalle «catene» delle sue braccia, ma
sottolinea che teme soprattutto che sul suo amore scenda la morte, per cui non vuole aggiungere
altri particolari e preferisce tacere gli altri «pens[e]r rivolti» alla donna stessa.
È un sonetto dalle immagini di tradizione stilnovistica e petrarchesca dell’amore che nasce dagli
occhi, del colorito bianco e rosa della donna, del giogo e della catena, del fuoco d’amore, con
un’increspatura nuova di sensualità nel riferimento alla dolcezza dell’abbraccio, su cui cala rapida
la censura del silenzio.
Di notevole rilievo, per il tono di intima confessione e per l’allusione al segreto legame dei due
amanti è il quarto sonetto:
Questo sonetto, incompleto, è stato vergato da Raffaello sulla parte superiore di una carta che si
ritiene facente parte sempre degli studi preparatori per la Disputa del Sacramento con un disegno a
penna raffigurante un uomo in abbigliamento romano e una donna nuda.
Anche qui dominante è il tema del contrasto tra gli «efetti aspri e tenace» di Amore, definito
«cului che n’usurpa i più belli anni» e l’elevatezza delle «[Div]ine alme celeste» nella tensione per
il disprezzo delle «pompe e scetri e regni».
L’ultimo sonetto che ci è stato tramandato è quasi sicuramente apocrifo, anche se è compreso su
disegni preparatori per la Disputa del Sacramento e vergato dalla stessa mano dei precedenti:
Diversi dai precedenti sonetti sono il registro espressivo e il tono poetico e troppo scopertamente
allusivi i riferimenti all’arte pittorica, quasi che il poeta descrivesse in versi un suo ritratto della
donna amata.
6
Nelle feste di Urbino, Chi era la Fornarina?, in La vita italiana, III, Roma 1897, n° 17, pp. 353–363.
7
Per un’informazione generale: A. Englen, Note di letteratura, in Raphael Urbinas. Il mito della Fornarina, catalogo della mostra,
Milano 1983, pp. 27-9.
8
Opere minori in verso e in prosa (Tomo I), Firenze, Felice Le Monnier, 1857, p. 385.
Romanelli (1860-1870), fino alle dissacranti raffigurazioni di Pablo Picasso (Suite 347, 1968) e Joel
Peter Witkin (2003). Del 2011 è l’opera musicale Raffaello e la leggenda della Fornarina di
Giancarlo Acquisti e del 2017 il romanzo di Giovanni Montanaro Guardami negli occhi.
Possiamo anche ricordare che quest’anno, in occasione del cinquecentenario della morte di
Raffaello, i suoi sonetti sono stati per la prima volta messi in musica dal M° Simone Sorini nel
progetto “Raphael Urbinas – Pictor Musicae”9, anche se non riportano notazioni musicali, ma in
base a una prassi dell’epoca, ancora poco conosciuta e attuata, per cui abbiamo delle Arie
Rinascimentali, create appositamente per fornire un repertorio di musiche per cantare la poesia.
Ma sul nome e sulla figura della Fornarina si addensa anche un’altra interpretazione.
Fornarina sarebbe un nome che nulla avrebbe a che fare con l’attività del padre, ma sarebbe un
nome d’arte, secondo l’uso del tempo delle cortigiane d’alto bordo, e alluderebbe a ben altro forno e
a ben diversi pani da informare con un tipico gioco di eufemismo.
A indebolire l’identificazione della Fornarina con la figlia di un fornaio contribuisce anche
quanto afferma Bette Talvacchia: «[il] nome di fortuna con cui [il quadro] è stato battezzato non è
attestato prima del diciottesimo secolo e deriva dalla didascalia aggiunta in calce a un’incisione
degli anni settanta del Settecento»10. Inoltre sembra che questo nome fosse diffuso tra le donne, in
quanto all’inizio dell’Ottocento erano noti come Fornarina altri tre ritratti, la Fornarina della
Tribuna degli Uffizi (oggi attribuita a Sebastiano del Piombo), la Dorotea dello stesso pittore e una
sua copia conservata a Verona11.
In particolare un accurato studio di Giuliano Pisani12 ha evidenziato come l’appellativo Fornarina
rimandi ad una consolidata tradizione linguistica, attestata già nella Grecia classica da opere di
Anacreonte, di Aristofane e di altri e successivamente in molti documenti di età classica, medievale,
rinascimentale e moderna, in cui il forno e i suoi derivati (come il romanesco “fornaro” per
“fornaio”) indicano per metafora l’organo sessuale femminile e le connesse pratiche di
accoppiamento. Per questo, al di là della dubbia e poco significativa identificazione biografica della
donna, risulta importante rilevare che il soggetto del dipinto rappresenti la Venere celeste, sulla base
delle teorizzazioni neoplatoniche di Marsilio Ficino e Pietro Bembo, cioè l’amore che innalza gli
spiriti alla ricerca della verità, tramite un’idea sublimata della bellezza, in contrapposizione all’altra
Venere, quella terrestre, che rappresenta la forza generatrice della natura che attiene alla bellezza
terrena ed è finalizzata alla procreazione per la prosecuzione della vita umana. In questa prospettiva
interpretativa, alla Fornarina si contrapporrebbe la Velata, come Venere terrestre, sposa e madre.
Concezione e raffigurazione letteraria, quella delle due tipologie di Venere, che perdura nella poesia
fino ai Sepolcri del Foscolo13.
Abbiamo così raccolto tanti indizi che, anche se non ci possono portare ad affermazioni sicure e
decisive, sono comunque in grado di darci qualche orientamento per meglio interpretare i sonetti di
Raffaello, soprattutto per quanto riguarda il motivo della segretezza in cui il pittore-poeta vuol
mantenere il suo rapporto d’amore, sensuale, intenso e profondo, con la donna a cui dedica e rivolge
i suoi componimenti.
Possiamo supporre che Raffaello, fidanzato, in rispondenza al suo rango sociale e soprattutto
artistico, avesse contratto un regolare fidanzamento con Maria Bibbiena, a cui avrebbe dovuto
seguire un matrimonio di convenienza all’insegna della formalità di rapporti, tipica delle
convenzioni comportamentali di allora, ma che nello stesso tempo il suo cuore si fosse acceso
d’amore, fortissimo e passionale, per una bellissima cortigiana con quale avrebbe vissuto un
9
https://www.youtube.com/watch?v=m8x9criozt4
10
Raffaello, Londra, Phaidon, 2007, pagg. 122 e 126.
11
David Alan Brown; Konrad Oberhuber, cit., pag. 41 con rinvio alla traduzione italiana della monografia di Quatremère de Quincy curata da
Francesco Longhena, Istoria della vita e delle opere di Raffaello Sanzio da Urbino, Milano, Sonzogno, 1829, pagg. 190-193 osservazioni del
Longhena nella lunga nota a piè di pagina che comincia a pag. 191.
12
Le Veneri di Raffaello (Tra Anacreonte e il Magnifico, il Sodoma e Tiziano), Studi di Storia dell'Arte 26, Ediart 2015, pp. 97-122:
https://www.academia.edu/27203961/Le_Veneri_di_Raffaello_Tra_Anacreonte_e_il_Magnifico_il_Sodoma_e_Tiziano_
13
Vv. 177-179.
rapporto sensuale, ma nobilitato da quell’interpretazione della sensualità che aveva appreso dalla
cultura neoplatonica diffusa nelle corti nobiliari di cui era partecipe. Quest’amore, quindi, avrebbe
rappresentato il punto di partenza per un itinerario personale che, attraverso l’individuale tensione
intellettuale, l’avrebbe portato ad un’ascesa verso alte vette di spiritualità fino all’incontro con un
Dio, certo diverso da quello della Rivelazione cristiana, ma capace di infondergli quell’ispirazione
artistica a cui aspirava e che la sua mano e il suo pennello dimostravano sempre più di riuscire a
realizzare con straordinaria efficacia espressiva.
Di qui nasceva la necessità della segretezza del rapporto tra l’artista e la donna amata, in quanto
lei era quella con cui poteva sperimentare questo amore di natura sensuale e filosofica,
indispensabile come ispirazione per la sua pittura, ma che, per ragioni sociali, ma anche artistiche,
non poteva essere pubblicamente palesato.
Anche se Franco Pignatti Morano di Custoza giudica i sonetti di Raffaello «di nessun pregio
letterario»14, opinione senz’altro condivisibile per mancanza di originalità sia contenutistica che
formale, possiamo però dire che Raffaello, più che esprimere una reale ispirazione, ha voluto
piuttosto adeguarsi ai dettami del tempo per l’uomo di corte, rispondendo anche in questo caso alle
prescrizioni del Castiglione, ma nello stesso tempo ha lasciato una testimonianza della sua adesione
agli ideali di vita neoplatonici, calati in un’esperienza di intensa dedizione all’arte come
realizzazione del bello per una tensione verso l’assoluto.
14
Letteratura italiana. Gli autori. Dizionario bio-bibliografico e indici H-Z, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1991, s.v. p. 1472.