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RAFFAELLO SANZIO E LA POESIA

Rosa Elisa Giangoia

Per una relazione tra Raffaello e la poesia pensiamo subito al famoso tondo affrescato del 1508,
che raffigura appunto la personificazione della Poesia, nell’ambito della ricca decorazione della
Stanza della Segnatura dei Musei Vaticani. Su uno sfondo a falso mosaico in oro, campeggia una
figura femminile che sulle nuvole siede su un trono di marmo scolpito. Indossa un abito bianco, con
in basso un mantello scuro che lascia scoperti i piedi nudi. Con la mano destra trattiene un pesante
libro contro la gamba, mentre tiene sotto il braccio la lira. Sulla testa ha la corona triumphalis, di
alloro che rappresenta la sapienza e la gloria di quanti l’hanno conquistata, atleti vittoriosi e grandi
poeti. Ai lati due putti reggono due tabelle biansate con la scritta NUMINE AFFLATUR1 che
evidenzia la concezione della poesia quale dono dell’ispirazione che viene da un dio, Apollo per la
tradizione classica, che infonde lo spirito creativo nella mente del poeta.
Al di sotto, nella lunetta che sovrasta la finestra, si trova un grande affresco, concettualmente
collegato, che raffigura una scena sul monte Parnaso, secondo la mitologia greca, dimora
delle Muse. Sulla sommità del colle, al centro della composizione, nei pressi della fonte
Castalia, Apollo, coronato di alloro, suona una viola da braccio a nove corde, strumento più gradito
e diffuso in epoca rinascimentale, rispetto alla tradizionale lirica, circondato dalle nove Muse. Ai
suoi lati si vedono Calliope ed Erato, che presiedono il coro delle altre: a sinistra, dietro Calliope, ci
sono Talia, Clio ed Euterpe; a destra, dietro Erato, Polimnia, Melpomene, Tersicore e Urania.
Tutt'intorno si trovano diciotto poeti divisi in più gruppi, alcuni di identificazione inequivocabile,
altri più dubbia, tutti disposti come in una platea, collegati da gesti e sguardi, a formare una sorta di
mezzaluna continua che si proietta verso lo spettatore, quasi a comprenderlo. Da sinistra in basso si
vedono Alceo, Corinna, Francesco Petrarca, Anacreonte e Saffo con un cartiglio col proprio nome;
seguono più in alto Ennio, che ascolta il canto di Omero, più dietro compare Dante che guarda
verso Virgilio, a sua volta rivolto a Stazio, a lui vicino. L’identificazione di tutti gli altri poeti è
piuttosto controversa: si fanno i nomi del Tebaldeo, di Baldassarre Castiglione, Michelangelo,
Boccaccio, Tibullo, Ariosto, Properzio, Ovidio, Jacopo Sannazzaro e altri. Sicuramente, in primo
piano in basso, è Orazio. Ma potrebbero anche essere rappresentati Agnolo Poliziano, Vittoria
Colonna e Pietro Bembo con lo sguardo rivolto al Petrarca, suo sommo modello, nonché due
ipotetici "poeti del futuro che giudicano il passato", in basso a destra. La difficoltà
dell’identificazione dipende anche dal fatto che ai poeti antichi, come avviene per i personaggi delle
Scuola di Atene, siano stati dati i volti di umanisti e di altri personaggi del tempo.
Questa raffigurazione del Parnaso ci dà alcune interessanti indicazioni sulla concezione della
poesia negli ambienti di cultura, e soprattutto in quello romano, agli inizi del Cinquecento.
Appare chiaro l’intento di innalzare molti poeti in volgare, alcuni anche recenti e contemporanei,
allo stesso livello di quelli dell’antica Grecia e della Roma augustea e nello stesso tempo si
comprende che è ormai fissato un canone per i primi secoli della produzione in volgare che vede
Petrarca incoronato per la sua poesia lirica, soprattutto a tema amoroso, tanto da accostarlo ai lirici
monodici greci, essendo ormai eclissata la sua aspirazione ad essere inserito, per la sua Affrica, tra i
poeti epici a cui viene invece accostato Dante, continuatore, in chiave moderna e cristiana, della
produzione epica, secondo una linea di sviluppo e di continuità, da lui stesso fissata nella
Commedia, da Omero a Virgilio, Stazio e se stesso.
La priorità data a Petrarca in questa rappresentazione pittorica indica come il consenso nei
confronti della sua produzione lirica fosse già consolidato prima della definitiva consacrazione da
parte del Bembo nelle Prose della volgar lingua (1525).

1
Verg. Aen., VI, 50.
Ma la poesia ha attirato Raffaello anche come autore. Così il pittore ha voluto usare le parole per
esprimere il suo amore per una donna, in questi stessi anni in cui sta lavorando agli affreschi delle
Stanze del Vaticano2. Infatti verga i suoi versi in elegante corsivo sulle carte degli studi preparatori
per la Disputa del Sacramento, occupando gli spazi liberi sul recto e sul verso dei fogli da disegno.
Scrivere era nella tradizione artistica della sua famiglia e della sua cerchia di intellettuali, infatti il
padre Giovanni, oltre che pittore, fu poeta e compose una Cronaca rimata di 2300 terzine per
celebrare il duca Federico da Montefeltro, e comporre versi era una delle doti che doveva avere il
perfetto cortigiano, secondo quanto teorizza Baldassarre Castiglione nel suo Cortegiano (1528).
I sonetti di Raffaello sono testi non definitivi, con molte varianti, di cui abbiamo una prima e una
seconda stesura, ma non quella definitiva3.
Leggiamo il primo sonetto:

Amor, tu m’envesscasti con doi lumi


de doi beli occhi dov’io me strugo e [s]face,
da bianca neve e da rosa vivace,
da un bel parlar in donnessi costumi.

Tal che tanto ardo, ch[e] né mar né fiumi


spegnar potrian quel foco; ma non mi spiace,
poiché ’l mio ardor tanto di ben mi face,
ch’ardendo onior più d’arder me consu[mi].

Quanto fu dolce el giogo e la catena


de’ toi candidi braci al col mio vòl[ti],
che, sogliendomi, io sento mortal pen[a].

D’altre cose io’ non dico, che fôr m[olti],


ché soperchia docenza a mo[r]te men[a],
e però tacio, a te i pens[e]r rivolti.

Lo stile è chiaramente petrarchesco, con un linguaggio volgare dalle inflessioni localistiche per
alcune forme con la vocale “o”, rispetto alle più diffuse con la “u” («doi» e «toi») e per alcuni
vocaboli («envesscasti», «donnessi»). L’autore narra in prima persona una sua storia d’amore che,
attraversando e superando la conoscenza carnale, tende ad una personale spiritualità, da vivere in
una condizione di segretezza. All’inizio, si rivolge ad Amore che lo ha catturato attraverso i begli
occhi di una donna, tramite il suo volto candido come la neve, ravvivato dal colore di una rosa, e
grazie al «bel parlar» della voce femminile. Confessa, con un elaborato intreccio di immagini, che il
suo ardore d’amore è così forte che né il mare né i fiumi «spegnar potrian quel foco», ma questo
non gli dispiace, perché, ardendo nel fuoco d’amore, sa di consumarsi e che, consumandosi, non si
sentirà più avvampare dalle fiamme. Inizia le terzine rivolgendosi alla donna amata cui ricorda
quanto lo faccia soffrire il doversi sciogliere dal «giogo» e dalle «catene» delle sue braccia, ma
sottolinea che teme soprattutto che sul suo amore scenda la morte, per cui non vuole aggiungere
altri particolari e preferisce tacere gli altri «pens[e]r rivolti» alla donna stessa.
È un sonetto dalle immagini di tradizione stilnovistica e petrarchesca dell’amore che nasce dagli
occhi, del colorito bianco e rosa della donna, del giogo e della catena, del fuoco d’amore, con
un’increspatura nuova di sensualità nel riferimento alla dolcezza dell’abbraccio, su cui cala rapida
la censura del silenzio.

Veniamo al secondo sonetto:

Como non podde dir d'arcana Dei


2
I sonetti sono databili al 1509.
3
A. Zazzaretta, I sonetti di Raffaello, in “L’Arte”, XXXII, 1929, pp. 77-88, 97-106; V. Golzio, Raffaello nei documenti, nelle testimonianze dei
contemporanei e nella letteratura del suo secolo, Città del Vaticno, 1936; R. Sanzio, Tutti gli scritti, a cura di E. Camesasca, Milano, Feltrinelli,
1956 (B.U.R., 1956).
Paul, como disceso fu dal c[i]elo,
così el mio cor d'uno amoroso velo
ha ricoperto tuti i penser miei.

Però quanto ch'io viddi e quanto io fei


pel gaudio taccio, che nel petto celo,
ma prima cangerò nel fronte el pelo,
che mai l'obligo volga in pensi[e]r rei.

E se quello altero almo in basso cede,


vedrai che non fia a me, ma al mio gran foco,
qua più che gli altri in la fervenzia esciede.

Ma pensa ch'el mio spirto a poco a poco


el corpo lasarà, se tua mercede
socorso non li dia a tempo e loco.

Anche in questo componimento continua a prevalere la tendenza stilistica petrarchesca in un


linguaggio volgare con patine localistiche, come «fervenzia esciede», ma anche con memorie dotte,
come il riferimento all’ascesa di san Paolo al Terzo Cielo che ci riporta al c. III4 dell’Inferno di
Dante, poeta con cui Raffaello doveva avere un forte legame, testimoniato dai due ritratti
fortemente espressivi che gli dedicò ne La Disputa del Sacramento e nel Parnaso5. Questi accenni
teologici e letterari proiettano subito l’atmosfera ispiratrice di questo sonetto in una dimensione di
ineffabilità. Infatti Raffaello inizia paragonando sé stesso a san Paolo quando “scendendo” dal
cielo, in cui aveva avuto esperienza del mistero di Dio, non aveva riferito a nessuno la sua visione.
Così, anche lui, copre nel suo cuore ogni pensiero con un «amoroso velo». Di conseguenza, tutto
quello che ha vissuto in una condizione di felicità rimane chiuso nel suo petto, a tal punto che egli
diventerà vecchio, ma non smetterà mai di tacere su quanto ha provato. In conclusione prega la
donna amata, affinché gli venga in soccorso con la sua grazia, poiché si sente morire a poco a poco.

Veniamo al terzo sonetto:

Un pensier dolce è rimembra[r]se in modo


di quello asalto, ma più gravo è il danno
del partir, ch’io restai como quei ch’hano
in mar perso la stella, se ’l ver odo.

Or, lingua, di parlar disogli el nodo


a dir di questo inusitato ingano
ch’Amor mi fece per mio gravo afanno,
ma lui pur ne ringrazio e lei ne lodo.

L’ora sesta era, che l’ocaso un sole


aveva fatto, e l’altro surse in loco,
1ato più da far fati che parole.

Ma io restai pur vinto al mio gran foco


che mi tormenta, ché dove l’on sòle
disiar di parlar, più riman fioco.

Dominante è qui il tema dell’alba, di ascendenza trobadorico-provenzale. Il poeta, coinvolto in


una dimensione di carnalità, eleva il suo lamento per il temporaneo distacco degli amanti, all’alba,
quando sta per sorgere il sole. Nello stesso tempo confessa di essere dolcemente percorso
4
V. 28: lo Vas d’elezïone.
5
Questo ritratto di Dante è ripreso nel verso della moneta italiana da 2 €.
dall’intenso ricordo dell’«asalto» amoroso vissuto poco prima, ma confessa anche di sentire il peso
di aver dovuto lasciare la donna amata, il che lo fa sentire smarrito come quelli che non vedono più
la loro stella nel mare. In questo sonetto il poeta scioglie, per un momento, il suo abituale silenzio
per riferire del pesante affanno dovuto al dolce inganno dell’amore, inganno per cui, però, ringrazia
Amore e rivolge una lode alla sua donna. Ricorda in particolare il momento in cui è giunto da lei,
appena tramontato il sole, quando appunto altri astri – la luna e la donna – erano saliti all’orizzonte,
portando un’atmosfera adatta ad agire più che a parlare. Sente molto forte il desiderio di raffigurare
il fuoco da cui è tormentato, ma si ritrova a tacere per l’incapacità di esprimere appieno i suoi
sentimenti.

Di notevole rilievo, per il tono di intima confessione e per l’allusione al segreto legame dei due
amanti è il quarto sonetto:

[S']a te servir par mi stegeniase, Amore,


per li efetti dimostri da me in parte,
tu sai el perché, senza vergante e in carte
ch'io dimostrai el contrario del mio core.

[I]o grido e dico or che tu sei el mio signiore


dal centro al ciel, più sù che Iove o Marte,
e che schermo non val, né ingenio o arte,
a schifar le tue forze e 'l tuo furore.

Or questo qui fia noto: el foco ascoso


io portai nel mio peto; ebbi tal grazia,
che inteso alfin fu suo spiar dubioso:

e quell'alma gentil non mi dislazia,


ond'io ringrazio Amor, che a me piatoso
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Questo sonetto, incompleto, è stato vergato da Raffaello sulla parte superiore di una carta che si
ritiene facente parte sempre degli studi preparatori per la Disputa del Sacramento con un disegno a
penna raffigurante un uomo in abbigliamento romano e una donna nuda.

All’inizio è di dubbia interpretazione il verbo «stegeniase» che alcuni intendono come


“stringesse”, altri come “sdegnarsi”, sulla base di un significato simile in Boccaccio. Si potrebbe
così pensare che Raffaello voglia giustificarsi con la donna amata per il fatto di non essere nelle
condizioni di dimostrarle pubblicamente il suo amore. Per questa ragione Amore potrebbe
infuriarsi, ma il poeta gli potrebbe obiettare che è lui il dio, sempre suo signore, al centro del cielo,
più che Giove o Marte, e che non può assolutamente avvalersi di protezioni o stratagemmi per
evitare la sua forza e il suo assalto. Di particolare interesse appare, però, quello che il poeta dice nei
versi 3-4, cioè la sua impossibilità a manifestare apertamente il suo sentimento d’amore per la
donna amata, alla quale continua a chiedere riservatezza. Ma perché il legame, a causa dell’artista,
non può diventare di dominio pubblico?
Interrogativo questo a cui non dà risposta nemmeno il successivo sonetto, incompleto:

[Fe]llo pensier, che in ricercar t’afanni


[d]e dare in preda el cor per più tua pace,
[n]on vedi tu gli efetti aspri e tenace
[de] cului che n’usurpa i più belli anni?

[Dur]e fatiche, e voi, famosi afanni,


[r]isvegliate el pensier che in ozio giace,
most[r]ateli quel sole alto che face
[s]alir da’ bassi ai più sublimi scanni.

[Div]ine alme celeste, acuti ing[e]ni,


che . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
disprezando le pompe e scetri e regni,

Anche qui dominante è il tema del contrasto tra gli «efetti aspri e tenace» di Amore, definito
«cului che n’usurpa i più belli anni» e l’elevatezza delle «[Div]ine alme celeste» nella tensione per
il disprezzo delle «pompe e scetri e regni».

L’ultimo sonetto che ci è stato tramandato è quasi sicuramente apocrifo, anche se è compreso su
disegni preparatori per la Disputa del Sacramento e vergato dalla stessa mano dei precedenti:

Come la veggo e chiara sta nel core


tua gran bellezza, il mio pennello franco
non è in pingere egual e viene manco,
perché debol riman per forte amore.

Sì mi tormenta lo infinito ardore.


Il volto roseo, il seno colmo e bianco,
con lo rotondo delicato fianco,
ha di vaghezza che abbaglia di splendore.

L’insieme allo pensier tutto commosse,


che atto non fe’ il saper; perciò nemica
fece la man che al ben ritrar non mosse.

Ognor fisso studiar in dolce amica


quella beltà che ciel credea sol fosse,
fia che il desiar compirà la mia fatica.

Diversi dai precedenti sonetti sono il registro espressivo e il tono poetico e troppo scopertamente
allusivi i riferimenti all’arte pittorica, quasi che il poeta descrivesse in versi un suo ritratto della
donna amata.

Ad accomunare i sonetti di Raffaello è il senso tormentoso dell’amore e il suo desiderio di


segretezza. Due elementi che possono trovare anche un’interpretazione che li congiunge e chiarisce
reciprocamente.
Per Raffaello l’amore richiede un percorso iniziatico per raggiungere una condizione di
elevazione. Pur partendo da uno stadio di eredità trobadorica e cortese, che non esclude il
coinvolgimento sensuale e carnale, Raffaello punta ad un livello sublime dell’amore in cui si
realizza la fusione degli spiriti i quali hanno la possibilità di elevarsi ad un piano superiore e
completamente altro, rispetto alle esperienze ordinarie della realtà terrestre. In questo modo l’anima
potrebbe rimuovere il velame della conoscenza oscurata e raggiungere la verità.
Il cammino verso una meta ultraterrena è nella tradizione dantesca e petrarchesca dell’amore, ma
qui l’ispirazione e la concezione dell’amore stesso sono completamente diverse. L’itinerario e la
meta raggiunta non hanno più nulla di cristiano, l’itinerario è elitario, all’insegna della bellezza e
della capacità della sua fruizione, e in cima all’ascesa non c’è il Dio del cristianesimo, ma una più
celebrale idea di Verità.
A determinare questo cambiamento di concezione e di prospettiva è il nuovo clima culturale, di
recupero platonico, che è stato elaborato e diffuso nelle corti del tempo. Centrale è la nuova cultura
neoplatonica che non limita la corporeità, a differenza del cristianesimo: a questa linea aderisce
pienamente Raffaello, come dimostrano le esplicite allusioni erotiche contenute nei suoi sonetti.
Egli, infatti, si colloca nell’ambito del pensiero di Marsilio Ficino che ebbe un ruolo centrale
nella corte fiorentina dei Medici e che intrattenne frequenti rapporti con quella di Urbino. Ficino,
partendo dal Simposio di Platone, aveva elaborato nel suo saggio Sopra lo amore (1469) una precisa
teoria sull’amore, caratterizzata da un percorso segnato dalla gradualità iniziatica. È quasi certo che
Raffaello conoscesse questo pensiero, molto diffuso nei circoli intellettuali a lui vicini, secondo cui
l’anima discendeva dall’assoluto divino fino alla realtà umana e terrestre, perdendo la visione
illuminata e illuminante della realtà, costretta nel caos della moltitudine e segregata nella materia.
Ma, in base anche alla filosofia neoplatonica di Plotino, l’anima può compiere un percorso inverso,
grazie al furore divino, capace d’innalzare, grazie ai passaggi attraverso il “furore poetico”, il
“furore misterico”, tipico dell’orfismo, il “furore della divinazione”, favorito da Apollo, e infine
grazie all’“affetto d’amore”. Per compiere questo itinerario occorre quindi la poesia, che risveglia
l’anima, tempera i turbamenti ed elimina gli elementi di disturbo, per passare poi alla purificazione
dal caos della moltitudine e raggiungere la divinazione e la chiaroveggenza, grazie al superamento
della razionalità. Ma per Ficino il “furore” più potente e nobile è quello d’Amore, favorito dalla
contemplazione della bellezza. Dice infatti: «Il vero Amore non è altro che un certo sforzo di volare
a la divina bellezza desto in noi dallo aspetto della corporale bellezza. Ne deriva che la bellezza è in
grado di aprire, se non si ferma all’esclusiva consumazione del corpo dell’amata, orizzonti nei quali
avviene la congiunzione con Dio», affermazione in linea con il suo tentativo di dare il supporto
della filosofia platonica alla teologia cristiana.
Questa tensione a raggiungere una grazia, intesa come concessione accordata dai livelli superiori
dello spirito, appare evidente nelle opere pittoriche che Raffaello realizza a Roma, contraddistinte
da un’ispirazione nuova, rispetto alle precedenti. Centrale è in queste raffigurazioni pittoriche la
figura della donna di cui forse è modella proprio colei che accende anche il fuoco amoroso del
pittore e per la quale scrive i sonetti d’amore.
Entra quindi in scena la Fornarina sulla cui figura esistono notizie e interpretazioni diverse.
È la giovane donna ritratta nel famoso quadro La Fornarina (1520), dal volto tondo, dagli scuri
occhi profondi, dalla bocca carnosa, dal sorriso dolce, un po’ imbarazzato, con una mano sul seno
scoperto, con la parte inferiore del corpo appena velata da una tessuto trasparente, trattenuto
dall’altra mano che, nel gesto di coprirsi le nudità, in realtà attira lo sguardo su ciò che sembrerebbe
voler nascondere, mentre un manto rosso copre le gambe. È un’immagine di fresca immediatezza,
in cui la donna rivela una sensualità dolce, con la pelle candida e luminosa, invasa da una luce
fredda, proveniente da sinistra, che determina un meraviglioso contrasto con la penombra dello
sfondo e fa balzare le membra sode e ben tornite in una dimensione isolata dal mondo reale,
accentuata dalla postura di tre quarti verso sinistra della donna che guarda a destra, oltrepassando
con il suo sguardo lo spettatore, quasi persa verso l’infinito. Certamente questo ritratto doveva avere
una collocazione privata, in qualche modo segreta, per la raffigurazione discinta che richiede
un’interpretazione. Possiamo dire che la figura femminile assume la configurazione della Venere
Pudica della statuaria classica, come conferma anche il cespuglio di mirto, attributo della dea e
simbolo della fedeltà matrimoniale, che si intravede nella parte alta del dipinto, insieme a un ramo
di melo cotogno, simbolo di fertilità, e ad uno di alloro che riporta alla gloria artistica.
Nell’insieme quella di questa figura femminile è un’immagine indubbiamente sensuale, in linea
con la concezione dell’amore della cultura neoplatonica, tra carnalità e sospensione, tra realtà
terrena e fuga in un oltre. L’attenzione è attirata anche dal bracciale, blu e oro, sul quale si legge
l’elegante firma in oro Raphael Urbinas, quasi una carezza affettuosa come vincolo d’amore, e
dall’insolito copricapo di tipo orientale, anch’esso blu e oro, tra le cui pieghe della seta campeggia
una perla, sulla fronte, che ritorna anche sul capo della Velata, altro ritratto femminile di intensa,
misteriosa bellezza. Questo particolare del gioiello è stato interpretato come un espediente criptico
dell’artista per celare e nello stesso tempo rivelare il nome della sua amata, che sarebbe Margarita,
che in greco significa “perla” e che solo nel Medioevo assunse l’accezione di elemento botanico. Su
questo nome, collegandolo in modo piuttosto arbitrario ad altre casuali notizie sull’ambiente
trasteverino del tempo, è stato costruito un personaggio di fantasia, supponendo che questa
Margarita fosse figlia di un fornaio del posto, di origine senese, Francesco Luti. Di qui sarebbe
derivato l’appellativo di questa giovane donna, di cui Raffaello si sarebbe perdutamente
innamorato, avendola scorta dalla finestra mentre si pettinava. Per il grande amore l’avrebbe voluta
sempre con sé e ne avrebbe fatto la sua Musa ispiratrice e la sua modella prediletta, riproponendola
in molti suoi quadri che presentano affinità fisiognomiche, come il Trionfo di Galatea, la Velata, la
Madonna della Seggiola, la Madonna Sistina, la Madonna di Foligno e inserendola anche nella sua
ultima opera, la Trasfigurazione.
Forse il suo è anche il volto della Madonna del Sasso, commissionato da Raffaello stesso, che
veglia sulla sua tomba al Pantheon.
Ma Raffaello allora era promesso sposo a Maria Bibbiena, nipote del potente cardinale che
insisteva per le nozze che, invece, il pittore procrastinava, adducendo i suoi impegni artistici.
Si racconta che nel ritratto originale la Fornarina portasse un anello nuziale, poi misteriosamente
scomparso, forse ad opera degli allievi di Raffaello. Per questo, per il mirto sullo sfondo e per il
drappo rosso (colore dell’amore, ma nella Roma classica anche del matrimonio) qualcuno ha
ipotizzato un matrimonio segreto tra i due, legati da un amore profondo, tanto da supporre che fosse
quella donna, vicina al pittore fino al momento della morte improvvisa, a proposito della quale dice:
«…mandò l’amata sua fuori di casa e le lasciò modo di vivere onestamente». Margarita poi,
affranta, si sarebbe rinchiusa per sempre nel convento di Sant’Apollonia a Trastevere. Notizia
questa avallata dal fatto che nel 1897 lo studioso d’arte Antonio Valeri avrebbe scoperto un
documento che afferma: «al dì 18 agosto 1520, oggi è stata ricevuta nel nostro conservatorio
Madama Margherita vedoa figliuola del quondam Francesco Luti di Siena»6 e qui di particolare
interesse appare il temine “vedoa” che porterebbe ad ipotizzare appunto un matrimonio segreto tra
la donna e il pittore.

La figura di Raffaello e soprattutto quest’amore mitico e leggendario, sospeso tra realtà e


fantasia, diventano fonte d’ispirazione per l’arte7, anche se non entra nell’elegia latina, vero
epicedio, De Raphaele Urbinate che l’Ariosto8 dedicò al pittore, ma diventa dominante nel
Romanticismo e nel Neoclassicismo, per consonanza sentimentale. Possiamo ricordare il racconto
Raphael uns seine nachbarinnen di Ludwig Achim von Arnim (1823 ca.), il testo poetico di
Aleardo Aleardi, Raffaello e la Fornarina (1858), l’opera narrativa di Felice Venosta, Raffaello e la
Fornarina (1874) e le molte opere pittoriche dallo stesso titolo di Jean-Auguste-Dominique Ingres
(1814), Giuseppe Sogni (ante 1826), Cesare Mussini (1837), Felice Schaiavoni (1850), Francesco
Gandolfi (1854), Federico Faruffini (1857-1858), Francesco Valaperta (1850-1866), Pasquale

6
Nelle feste di Urbino, Chi era la Fornarina?, in La vita italiana, III, Roma 1897, n° 17, pp. 353–363.
7
Per un’informazione generale: A. Englen, Note di letteratura, in Raphael Urbinas. Il mito della Fornarina, catalogo della mostra,
Milano 1983, pp. 27-9.
8
Opere minori in verso e in prosa (Tomo I), Firenze, Felice Le Monnier, 1857, p. 385.
Romanelli (1860-1870), fino alle dissacranti raffigurazioni di Pablo Picasso (Suite 347, 1968) e Joel
Peter Witkin (2003). Del 2011 è l’opera musicale Raffaello e la leggenda della Fornarina di
Giancarlo Acquisti e del 2017 il romanzo di Giovanni Montanaro Guardami negli occhi.
Possiamo anche ricordare che quest’anno, in occasione del cinquecentenario della morte di
Raffaello, i suoi sonetti sono stati per la prima volta messi in musica dal M° Simone Sorini nel
progetto “Raphael Urbinas – Pictor Musicae”9, anche se non riportano notazioni musicali, ma in
base a una prassi dell’epoca, ancora poco conosciuta e attuata, per cui abbiamo delle Arie
Rinascimentali, create appositamente per fornire un repertorio di musiche per cantare la poesia.

Ma sul nome e sulla figura della Fornarina si addensa anche un’altra interpretazione.
Fornarina sarebbe un nome che nulla avrebbe a che fare con l’attività del padre, ma sarebbe un
nome d’arte, secondo l’uso del tempo delle cortigiane d’alto bordo, e alluderebbe a ben altro forno e
a ben diversi pani da informare con un tipico gioco di eufemismo.
A indebolire l’identificazione della Fornarina con la figlia di un fornaio contribuisce anche
quanto afferma Bette Talvacchia: «[il] nome di fortuna con cui [il quadro] è stato battezzato non è
attestato prima del diciottesimo secolo e deriva dalla didascalia aggiunta in calce a un’incisione
degli anni settanta del Settecento»10. Inoltre sembra che questo nome fosse diffuso tra le donne, in
quanto all’inizio dell’Ottocento erano noti come Fornarina altri tre ritratti, la Fornarina della
Tribuna degli Uffizi (oggi attribuita a Sebastiano del Piombo), la Dorotea dello stesso pittore e una
sua copia conservata a Verona11.
In particolare un accurato studio di Giuliano Pisani12 ha evidenziato come l’appellativo Fornarina
rimandi ad una consolidata tradizione linguistica, attestata già nella Grecia classica da opere di
Anacreonte, di Aristofane e di altri e successivamente in molti documenti di età classica, medievale,
rinascimentale e moderna, in cui il forno e i suoi derivati (come il romanesco “fornaro” per
“fornaio”) indicano per metafora l’organo sessuale femminile e le connesse pratiche di
accoppiamento. Per questo, al di là della dubbia e poco significativa identificazione biografica della
donna, risulta importante rilevare che il soggetto del dipinto rappresenti la Venere celeste, sulla base
delle teorizzazioni neoplatoniche di Marsilio Ficino e Pietro Bembo, cioè l’amore che innalza gli
spiriti alla ricerca della verità, tramite un’idea sublimata della bellezza, in contrapposizione all’altra
Venere, quella terrestre, che rappresenta la forza generatrice della natura che attiene alla bellezza
terrena ed è finalizzata alla procreazione per la prosecuzione della vita umana. In questa prospettiva
interpretativa, alla Fornarina si contrapporrebbe la Velata, come Venere terrestre, sposa e madre.
Concezione e raffigurazione letteraria, quella delle due tipologie di Venere, che perdura nella poesia
fino ai Sepolcri del Foscolo13.

Abbiamo così raccolto tanti indizi che, anche se non ci possono portare ad affermazioni sicure e
decisive, sono comunque in grado di darci qualche orientamento per meglio interpretare i sonetti di
Raffaello, soprattutto per quanto riguarda il motivo della segretezza in cui il pittore-poeta vuol
mantenere il suo rapporto d’amore, sensuale, intenso e profondo, con la donna a cui dedica e rivolge
i suoi componimenti.
Possiamo supporre che Raffaello, fidanzato, in rispondenza al suo rango sociale e soprattutto
artistico, avesse contratto un regolare fidanzamento con Maria Bibbiena, a cui avrebbe dovuto
seguire un matrimonio di convenienza all’insegna della formalità di rapporti, tipica delle
convenzioni comportamentali di allora, ma che nello stesso tempo il suo cuore si fosse acceso
d’amore, fortissimo e passionale, per una bellissima cortigiana con quale avrebbe vissuto un
9
https://www.youtube.com/watch?v=m8x9criozt4
10
Raffaello, Londra, Phaidon, 2007, pagg. 122 e 126.
11
David Alan Brown; Konrad Oberhuber, cit., pag. 41 con rinvio alla traduzione italiana della monografia di Quatremère de Quincy curata da
Francesco Longhena, Istoria della vita e delle opere di Raffaello Sanzio da Urbino, Milano, Sonzogno, 1829, pagg. 190-193 osservazioni del
Longhena nella lunga nota a piè di pagina che comincia a pag. 191.
12
Le Veneri di Raffaello (Tra Anacreonte e il Magnifico, il Sodoma e Tiziano), Studi di Storia dell'Arte 26, Ediart 2015, pp. 97-122:
https://www.academia.edu/27203961/Le_Veneri_di_Raffaello_Tra_Anacreonte_e_il_Magnifico_il_Sodoma_e_Tiziano_
13
Vv. 177-179.
rapporto sensuale, ma nobilitato da quell’interpretazione della sensualità che aveva appreso dalla
cultura neoplatonica diffusa nelle corti nobiliari di cui era partecipe. Quest’amore, quindi, avrebbe
rappresentato il punto di partenza per un itinerario personale che, attraverso l’individuale tensione
intellettuale, l’avrebbe portato ad un’ascesa verso alte vette di spiritualità fino all’incontro con un
Dio, certo diverso da quello della Rivelazione cristiana, ma capace di infondergli quell’ispirazione
artistica a cui aspirava e che la sua mano e il suo pennello dimostravano sempre più di riuscire a
realizzare con straordinaria efficacia espressiva.
Di qui nasceva la necessità della segretezza del rapporto tra l’artista e la donna amata, in quanto
lei era quella con cui poteva sperimentare questo amore di natura sensuale e filosofica,
indispensabile come ispirazione per la sua pittura, ma che, per ragioni sociali, ma anche artistiche,
non poteva essere pubblicamente palesato.
Anche se Franco Pignatti Morano di Custoza giudica i sonetti di Raffaello «di nessun pregio
letterario»14, opinione senz’altro condivisibile per mancanza di originalità sia contenutistica che
formale, possiamo però dire che Raffaello, più che esprimere una reale ispirazione, ha voluto
piuttosto adeguarsi ai dettami del tempo per l’uomo di corte, rispondendo anche in questo caso alle
prescrizioni del Castiglione, ma nello stesso tempo ha lasciato una testimonianza della sua adesione
agli ideali di vita neoplatonici, calati in un’esperienza di intensa dedizione all’arte come
realizzazione del bello per una tensione verso l’assoluto.

14
Letteratura italiana. Gli autori. Dizionario bio-bibliografico e indici H-Z, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1991, s.v. p. 1472.

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