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Si riduce tutto a

Heptakometes ©

di Mario Majoni

© 2014 by Mario Majoni


Autore:

Mario Majoni
Nato a Recco (GE) il 14/06/1977
Residente a Recco (GE)
in Via Montefiorito 46 d
CAP 16036
tel. 0039 333 1595401
email m.majoni@alice.it

Racconto:

Si riduce tutto a Heptakometes


15068 battute (spazi inclusi)
Il lunedì mattina è sempre stato il mio momento preferito della settimana. Tutti
ancora mezzi addormentati, nessuno che mi chieda favori, niente obblighi formali, e
nessun cretino che cerchi di entrare nelle mie grazie – “Dottoressa” di qua, “Esimia” di
là. Lunedì: l'unico giorno lavorativo in cui posso ancora fare l'agronoma, invece che la
politica.
Lunedì 7 Ottobre 2013 fu l'eccezione che conferma la regola. Ero arrivata in ufficio
da dieci minuti, e contavo di andarmene a fare un sopralluogo alle risaie di Papozze
entro cinque, ma il telefono squillò.
Non ebbi quasi tempo di dire 'pronto', che dall'altro capo fui investita da una
fiumana di salamelecchi.
“Illustre Dottoressa Zago! Mi perdoni la fretta con cui la contatto, ma il Ministro
delle Politiche Agricole e Forestali in persona mi ha consigliato caldamente il suo nome,
definendola la più autorevole esperta nella Provincia di Rovigo che-”
“Senta.” interruppi la voce all'altro capo della cornetta.
“Il mio cognome significa 'sempliciotto' in dialetto. Mi tratti come se lo fossi, tagli le
formalità, e mi dica.”
Una storiaccia, pareva. Un maresciallo nel Polesine era su una scena del crimine a
cui non poteva accedere perché occupata da uno sciame di api; gli serviva un apicoltore
di fiducia, al punto di muovere colleghi e magistrati, finché qualcuno non è stato
indirizzato al Ministero, che l'ha rimbalzato a me.
“Ma nel Polesine se tira un sasso rischia di colpirne uno, di apicoltore.”
“È qui il problema, Dottoressa. È addirittura presente, un apicoltore. Ma è
scioccato, in quanto figlio della vittima, e inaffidabile, in quanto sospettato
dell'omicidio.”
Alla faccia della situazione. Il di fiducia prendeva un'altra sfumatura.
Congedai la burocrate e raggiunsi l'indirizzo fra i campi con la mia fida Panda 4x4. Il
sole autunnale mi baciava il volto attraverso il parabrezza, e mi godei il panorama a
finestrini aperti, assorbendo ogni profumo rurale che mi giungesse. Capii di essere
arrivata prima ancora di vedere le gazzelle – inconfondibile puzza di benzina.
La scena del crimine era l'appartamento dove abitava il proprietario dell'azienda
agricola sul cui terreno mi ero spostata per almeno venti minuti a tavoletta; bella casa

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padronale di un'altra epoca, verde tutto attorno, un trentenne atterrito che parlava
gesticolando come un folle con il maresciallo in questione.
Fui accolta dalle solite formalità, e iniziai a fare domande; non che ce ne fosse
bisogno, io ero lì come apicoltrice, ma se dovevo fare un favore che almeno si
prendessero la briga di spiegarmi come stavano le cose.
Mentre il maresciallo faceva la sua bella scena di non abbassarsi a divulgare
informazioni a un consulente tecnico, un giovane Carabiniere dagli occhi limpidi fu
felice di riassumermi la situazione.
“Abbiamo ricevuto una chiamata questa mattina da Farra Leandro, figlio maggiore
della vittima, Farra Bartolomeo, che non riusciva a contattare da oltre un giorno.
Giunto sulla proprietà, ha visto uno sciame di api dentro all'abitazione del padre, e ci ha
chiamati. Sopraggiunti sul luogo abbiamo scorto il corpo di Farra Bartolomeo, privo di
vita, all'interno dell'abitazione; ma ci è stato impossibile recuperarlo senza intaccare la
scena del crimine.”
Smise di recitare e mi guardò con un cenno significativo verso il casolare.
“Per le api. È pieno a tappo, siamo dovuti scappare.”
A parte l'esposizione da verbale fu molto esauriente. Bartolomeo era un grande
proprietario terriero; Leandro era floricoltore, e accusava dell'omicidio del padre suo
fratello, Ernesto, apicoltore – il trentenne gesticolante.
La famiglia Farra mi ricordava la mia, e mi furono subito simpatici; erano gente
semplice, con un legame attivo con la terra. C'era solo il dettaglio dell'omicidio.
“E come avrebbe fatto Ernesto a uccidere il padre? Sarà anche apicoltore, ma non si
possono mica ammaestrare le api ad attaccare.”
Il mio sguardo si fermò su un grosso labrador che stava finendo di divorare un
sandwich, e la mia espressione dovette essere abbastanza interrogativa da suscitare una
spiegazione.
“Era rimasto chiuso dentro con il padrone, la vittima; non mangiava da chissà
quanto, poverino, gli ho dato i miei tramezzini.”
Anche il giovane Carabiniere mi era diventato simpatico.
Accarezzai la testa dell'animale, e il maresciallo mi interruppe, chiedendomi se
avessi con me la 'tuta e le protezioni': era il momento di entrare a rimuovere lo sciame.

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Estrassi i pezzi di cartone di una colonia nucleare portatile, li incastrai finché non
presero la forma di una comune arnia Langstroth, e calcai le mie protezioni, altro che
tuta: una kefiah e un paio di occhiali da sci.
Sotto gli sguardi inorriditi dei militari mi diressi verso l'abitazione con lo scatolone
fra le mani; un uomo in cerata e guanti da cucina mi aprì la porta.
All'interno fui colpita subito da tre odori: quello della terra, tipico nella casa di ogni
contadino che si rispetti, quello dolciastro della morte, e un altro aroma, addirittura più
zuccherino.
Trovai la vittima in un piccolo salone privo di televisore; era riverso a terra, supino,
e almeno cinquantamila api aderivano al suo corpo come a voler formare un cono
sbilenco; circa altrettanti insetti glassavano le sedie di spalle al cadavere, e il manto
animato vibrava nel suono e nei movimenti.
Avrei scommesso un anno di ferie che la regina fosse sul petto del morto. Presi un
cuscino dal divano e lo usai come avrei fatto con un pezzo di pane per riempire la nuc,
se fosse stata un cucchiaio; la struttura semovente di insetti crollò nell'arnia, il ronzio si
scatenò con furia spaziale e sonora. Non desistetti, e continuai a raschiare il petto della
vittima con il cuscino, finché non ne staccai una piccola cella in plastica trasparente – la
gabbia per la regina.
Quando la sovrana intrappolata rotolò nell'arnia di cartone, emise il proprio 'canto',
e il resto dello sciame si attivò per seguirla; riuscii a scorgere la sua marchiatura prima
che venisse circondata da droni e fuchi, era blu.
Mentre aspettavo che gli insetti facessero il loro dovere e si inscatolassero da soli,
diedi un'occhiata in giro; d'altra parte non avevo ancora classificato il terzo odore, e la
cosa iniziava a infastidirmi. Non ci misi molto a identificarlo: nella stanza a destra
dell'entrata, la cucina, c'era un grande barattolo di miele, frantumato in terra; abbassai
la kefiah per annusarlo, e oltre a trovarlo di una dolcezza floreale stucchevole, notai
che la pozza era intonsa.
Quando uscii con la nuc fra le mani i militari si aprirono come le acque del Mar Rosso
di fronte a Mosè. La caricai sulla Panda, e mi feci dare l'indirizzo di Ernesto.
“Quelle api non sono mie!” protestò il più giovane Farra, ma lo ignorai.

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Uscii dai terreni di Bartolomeo e a essi attigui, pochi chilometri di sterrato più
avanti, trovai quelli di Ernesto: erano cinti da filari di acacie, e si aprivano in campi di
robinia, con chiazze di salvia selvatica, giallo meliloto simile alle ginestre, salcerella
viola lungo le canalette di irrigazione, e distese ondeggianti di bianco trifoglio ladino.
Non c'erano dubbi: era il terreno di un apicoltore.
Depositai la nuc al limitare dell'apiario, con un pesante guanto ne estrassi la gabbia
della regina, e liberai l'insetto prima che le sue truppe mi prendessero di mira; e così
mi accomodai nella bucolica quiete rurale.
Sotto ai raggi del sole, avvolta dall'afrore del suolo e dei fiori, non mi infastidì
neppure troppo la chiamata del maresciallo.
Voleva sapere se avessi notato qualcosa di strano.
“Non penso che Ernesto Farra sia colpevole. La natura non mente mai: le api-”
“Non le ho chiesto di fare il mio lavoro, Dottoressa. Lasci le indagini a chi le fa di
professione e mi riferisca i dati relativi alle api.”
Idiota. Gli spiegai che la marcatura blu identificava l'età della regina – tre anni in
questo caso. Il maresciallo sembrava soddisfatto: aveva già scritto in testa il finale della
storia. Ernesto Farra era colpevole, aveva sacrificato una vecchia regina per scatenare
uno sciame contro il padre.
Passai il resto della mattina fra le piante. La regina nel nuc non tornò al proprio
alveare, e anzi diverse operaie dell'apiario attaccarono con violenza le nuove arrivate.
Ripresi la Panda, e tornai sulla scena del crimine.
Ci misi poco a trovare il mio giovane alleato fra i militari, era ancora insieme al
cane.
“Abita vicino il figlio maggiore dei Farra?” gli domandai. Il ragazzo mi indicò la
direzione opposta rispetto a quella da cui venivo. Ingranai la prima e proseguii, notando
che erano arrivati 'i camici' – la scena era dei medici legali.
Sembrava che i Farra fossero i proprietari di mezzo Polesine. I terreni di Leandro
erano i minori della famiglia, ma una serra di dimensioni colossali mi apparve spiccando
attraverso i pioppi di demarcazione del terreno. Parcheggiai di fronte all'entrata, di
fianco alla quale campeggiava un enorme mastello di legno a mò di vaso per un antico
ulivo contorto, e quattro tappi da damigiana otturavano altrettanti fori a metà tino.

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Un umido profumo floreale copriva ogni cosa.
Nessuno venne ad accogliermi, e io semplicemente entrai nel vivaio.
Insieme al tipico caldo tropicale, mi accolsero rododendri e azalee a perdita
d'occhio. Come fra i mille fiori di Ernesto, feci una pausa anche qui. Le piante erano
accudite con una cura meravigliosa, al punto che ebbi l'illusione di trovarmi in Olanda.
Vi erano ordinati filari di oleandri di ogni colore, recinzioni saturate di giaggioli e
lemniris, fino a una macchia sorprendentemente rigogliosa di rosmarino.
Mi chinai ad annusarlo, e piantai le dita nel terreno; era fradicio.
Tornai alla Panda, e raggiunsi per un'ultima volta la casa di Bartolomeo Farra.

Erano passate ormai molte ore, e il coroner stava lasciando la scena, dopo aver
imbustato la salma. Anche i Carabinieri parevano in procinto di andarsene, ed Ernesto
era ancora lì a gesticolare, questa volta in direzione di una sua copia invecchiata di una
decina d'anni. Quello doveva essere Leandro; stesso volto, altri vestiti – quelli asettici di
un cittadino.
Avevo il mio colpevole.
“Maresciallo, per favore, aspetti.”
Il militare sbuffò; chiamarmi era stata una necessità di cui si stava pentendo.
Io non ero simpatica a lui, né lui a me. Nonostante ciò, stavo per fargli un regalo.
“Dottoressa, la ringrazio ufficialmente per-”
"Il vecchio Farra aveva il diaframma paralizzato, vero?"
I carabinieri si fermano in massa, e si voltarono verso di me come un uomo solo.
La fronte aggrottata dell'ufficiale si stese, e rimase senza parole, con un'espressione
un po' stupida in faccia.
“Il medico legale deve ancora accertarsene, ma pare che sia proprio così.”
intervenne il mio giovane alleato nell'Arma; a quel punto il maresciallo si riscosse.
“Zago, senta, se ha informazioni relative al caso cerchi di condividerle invece di
fare la sibillina.”
“Ci ho provato prima, ma lei mi ha invitata a fare il mio mestiere. Per cui l'ho
fatto.”
Mi sentii addosso lo sguardo bruciante di Leandro, quello perplesso di Ernesto.

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“L'idea che vi siete fatti è che per qualunque motivo vi sia stato esposto da Leandro,
Ernesto detestasse il padre; e che fra ieri e l'altro ieri sempre Ernesto abbia lanciato la
gabbia con la vecchia regina da me recuperata in casa di Bartolomeo, determinando
punture multiple del vecchio, che poi è morto di infarto. Ma non è così.”
Nel silenzio, il maresciallo annuì appena. Sorrisi, pensando che la vita di un povero
Cristo innocente non sarebbe diventata un inferno, grazie a me.
Quello, e il fatto di negare la possibilità di fuga a un patricida.
“Innanzitutto le api che ho rimosso sono entrate in conflitto con quelle di Ernesto.”
spiegai, alzando una mano per prevenire le obiezioni. “Cosa significa? Che non erano
native di quelle arnie. C'è altro. Il cane di Bartolomeo non ha toccato il miele versato in
cucina nonostante fosse rimasto per giorni senza cibo.”
Si alzò un putiferio. C'era chi sosteneva che le mie non fossero prove ma congetture.
“Signori, le api erano solo un diversivo. Spostiamoci alle serre di Leandro, vi
spiegherò perché è stato lui a uccidere il padre.”
Il floricoltore si ribellò con una pioggia di insulti; non dissi altro, salii in macchina, e
tornai al vivaio.

Mi avevano seguito tutti, e notai con piacere che adesso anche Leandro si trovava
fra due marcantoni di militari. Entrai dal fondo della serra.
“Questo è un ambiente sigillato. Quanti dipendenti ha, Leandro?”
Il floricoltore esitò con uno sguardo su un carabiniere prima di rispondermi.
“Nessuno.” disse infine con un fil di voce.
“Bene. Prego, prendete nota della flora. Meravigliosa, in fiore, rigogliosa. Sapete
cos'hanno in comune tutte queste belle piante?” Silenzio.
Scommetto che Leandro si maledì per non aver chiesto prima un avvocato.
“Sono tutte velenose per l'uomo. Ma le api possono trarne miele come da qualunque
altra pianta.”
“Queste sono illazioni che non c'entrano nulla con me! Non rimarrò-”
Una stretta al braccio di Leandro da parte del giovane Carabiniere dagli occhi
limpidi lo zittì.
“Rododendri, azalee, iris. Fiori bellissimi. E poi... rosmarino?”

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Indicai i grandi cespugli. Molti volti iniziavano a essere corrucciati.
“Effettivamente il rosmarino non c'azzecca, però non è velenoso.” obiettò un
appuntato con la faccia da tedesco.
“Giusto. Provi però a toccare il suolo in cui è piantato questo, di rosmarino. È
zuppo. Perché quella in realtà è Andromeda Polifolia, 'rosmarino di palude'. E come
temevo, si riduce tutto a Heptakometes.”
“Cioè?” mi incalzarono gli astanti.
“A causa di miele come questo l'Impero Romano subì una dura sconfitta in battaglia,
a Heptakometes appunto. Indovinate un pò? L'ingestione paralizza i muscoli, diaframma
incluso, il che induce al soffocamento e alla morte.”
Mentre parlavo eravamo ormai giunti all'entrata.
“Io coltivo solo piante ornamentali, signora cara!” inveì Leandro. “Sarà anche vero
quello che dice, ma io non ho api, né tanto meno arnie dove farle vivere. Casomai sarà
stato mio fratello a portarle qui, per fare il miele avvelenato con cui uccidere mio
padre!”
Gli occhi di tutti erano su di me. Prima che mi potessero fermare afferrai una
zappa, e la abbattei sul mastello ligneo usato come vaso dell'ulivo secolare.
“Questa, signori, era un'arnia naturale. Quando ho visto i fori ho capito subito.
Leandro ha interrato l'ulivo solo dopo aver usato le sue api per incolpare suo fratello; se
così non fosse, i tappi sarebbero stati scalzati dalle radici. I fori erano l'entrata per le
api. Analizzate il legno, e troverete tracce di cera.”
Il mio lavoro era concluso, e lasciai a Leandro l'insipido piacere di coprirmi di insulti
mentre andavo via.

Due giorni più tardi ero a Roma, quando ricevetti la telefonata del Carabiniere
gentile. Avevano scoperto un vecchio rancore fra il genitore e il figlio maggiore, in
seguito alla cessione della remunerativa azienda di apicoltura al minore. Leandro,
infine, confessò. Aveva agito con il sentore che il padre stesse per cambiare il
testamento a favore di Ernesto.
E così era finita. Potevo solo sperare che, grazie a questa brutta faccenda, qualcuno
avesse imparato ad ascoltare la natura: la natura non mente mai.

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