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Gli ingegni filosofici sembrano fatalmente attratti dalla contraddizione e da tutti i possibili usi
perversi della negazione cognitiva. Così, gli stessi hanno inteso adoperare la particella ‘non’ al fine
di “forzare” il linguaggio umano e di ottenere dei progressi conoscitivi e/o di ragionamento,
estendendo gli uni e gli altri oltre le colonne d’Ercole del limite iniziale. La funzione della
‘negazione’, pertanto, appare davvero cruciale, così come impossibile non riconoscerle un potere
d’attrazione innegabile. Dovremmo riconoscere che dall’uso combinato di ‘negazione’ e
‘affermazione’ i filosofi riescono ad ottenere tutto, e conseguente negazione. Ma non lo faremo.
Piuttosto, rifacendoci a Moro, dovremmo associare all’una e all’altra due importanti procedure
cognitive, rispettivamente l’identità e la diversità2. Detto altrimenti: ogniqualvolta si ricorre
all’affermazione, non si cerca che di indicare il proprium di qualcosa che lo rende appunto tale, vale
a dire l’identità speculativa dello stesso. Invece, ogniqualvolta si ricorre alla negazione, non si cerca
che di indicare l’orizzonte ulteriore che si staglia appena fuori il proprium di qualcosa, vale a dire la
differenza che ne descrive e delimita il confine esterno. Dare un nome a qualcosa consiste, per
l’appunto, nell’attribuire il discretum che contiene l’identità di qualcosa. Parallelamente, ma in
senso contrario, negare il discretum a qualcosa consiste nel desumere quella differenza che corre tra
l’identità di qualcosa e l’identità di altro. Siccome sono sentieri “difficili”, propongo un simbolismo
tanto banale quanto osceno al fine di spiegarmi meglio, o almeno è quanto spero di fare.
Supponiamo di partire dalla seguente affermazione:
Giorgio è alto
Sia A segno della proposizione precedente. Ebbene, ogniqualvolta diciamo A, ossia ripetiamo
l’affermazione di cui sopra, non facciamo altro che ricorrere alla funzione cognitiva del definire
un’identità, che Giorgio possiede la proprietà dell’essere alto. Aristotele direbbe che la qualità
1
Cfr. Aristofane, Le nuvole, in Aristofane, Gli acarnesi. Le nuvole. Le vespe. Gli uccelli, Garzanti, Milano, 201012, p.
65.
2
Cfr. A. Moro, Breve storia del verbo essere. Viaggio al centro della frase, Adelphi, Milano, 2010, p. 26: «Si possono
rintracciare almeno tre scuole di pensiero che considerano il verbo essere, per così dire, il nome di tre concetti diversi,
in stretta dipendenza con il modo nel quale la linguistica loro contemporanea interpretava la natura del linguaggio in
generale: il nome del tempo, il nome dell’affermazione e il nome dell’identità».
dell’altezza inerisce al subiectum Giorgio. Kant, dal canto suo, direbbe che A è una proposizione
tautologica, e non sintetica, sebbene contenga un contenuto conoscitivo che esprime un progresso
teorico, ma, lo sappiamo, il filosofo di Konigsberg, aveva un’altra concezione della conoscenza,
così come dei contenuti conoscitivi. Il fatto che la qualità tal dei tali inerisca a qualcosa, a
prescindere in questa sede dal sapere esattamente cosa siano e la qualità e il qualcosa cui inerisce,
descrive l’orizzonte massimo di estensione della funzione cognitiva dell’identità: diciamo, cioè, che
il qualcosa ‘Giorgio’ e la tal qualità ‘altezza’ corrispondono puntualmente. Gli insiemisti direbbero
che v’è corrispondenza perfetta tra l’insieme monadico ‘Giorgio’ e l’insieme unario ‘altezza’.
Questo è quel che accade con l’affermazione.
Ma, cosa accade con la negazione? Ora, non perché io desideri complicare le cose e confondere
le già increspate acque, ma, più per pigrizia che per diletto, propongo di adoperare il medesimo
esempio per esplicare la funzione cognitiva della negazione. Supponiamo di partire dalla seguente
negazione:
Siccome A era segno della proposizione di prima, B sarà il segno della proposizione presente.
Come A indicava l’affermazione, B indicherà la negazione. Pertanto, ogniqualvolta diciamo B,
ossia neghiamo l’affermazione dell’esempio precedente, non facciamo altro che ricorrere alla
funzione cognitiva del forzare i confini dell’identità, e cioè escludere che Giorgio abbia la proprietà
dell’esser alto. Aristotele, ancora lui, direbbe che la qualità dell’altezza non inerisce al subicetum
Giorgio. Ed avrebbe ragione dal momento che, come piacerebbe ai logici insiemistici, non v’è
corrispondenza tra l’insieme monadico ‘Giorgio’ e l’insieme unario ‘altezza’ Detto altrimenti: la
negazione precisa ulteriormente, rispetto all’affermazione, il proprium dell’identità, alludendo ad
una diversità che estende il campo conoscitivo. Se A è il segno dell’affermazione e B il segno della
negazione, possiamo dire che non – A equivale alla proposizione B. Può parer banale, e in certa
misura lo è sicuramente, ma tutto questo discorso è propedeutico alla brevissima ricognizione che
intendo condurre in questa sede sulla contraddizione. Infatti, non è affatto casuale l’utilizzo dello
stesso esempio, ‘Giorgio’ e ‘altezza’, che ricorre sia in A, nella forma dell’affermazione, sia in B,
nella forma della negazione. Possiamo, infatti, dire anche che A e B siano entrambe vere? Cioè, ha
senso asserire contemporaneamente il contenuto di A e il contenuto di B? A dice l’esatto contrario
di B, ma anche B dice l’esatto contrario di A. Sono asseribili entrambe? Dire che ‘altezza’ inerisce a
‘Giorgio’ è il contrario di dire che ‘altezza’ non inerisce a ‘Giorgio’. D’altra parte, la ‘negazione’
«inverte il valore di verità di una proposizione»3. Pertanto, delle due, l’una: o è vera A, e, quindi,
Giorgio è alto, o è vera B, e, quindi, Giorgio è non alto. La negazione, dunque, rende possibile la
contraddizione, vale a dire asserire, nel medesimo istante, per uno stesso ente, A e non – A.
E così veniamo alla contraddizione.
F: Ma chi sono?
S: I nomi precisi non li ricordo; ma sono gente
illustre, pensatori.
F: Disgraziati, vuoi dire. Li conosco quei
cialtroni con la faccia gialla, scalzi, quello
sciagurato di Socrate, e quell’altro, Cherefonte4
3
Cfr. R. G. Timossi, Imparare a ragionare. Un manuale di logica, Marietti, Genova, 2011, p. 252.
4
Cfr. Aristofane, op. cit., 65.
A&B
Detto altrimenti, dobbiamo disporre di una proposizione del tipo che segue:
Oppure, ma per dire in altro modo la stessa cosa, e valendoci di una veste pseudo-formale:
Solo in questo modo, infatti, otteniamo un composto molecolare che «è sempre falso per tutti i
valori di verità assegnati agli enunciati atomici che lo compongono»7. Oppure, per dirla in maniera
apparentemente più semplice, abbiamo una contraddizione perché «si afferma e si nega
contemporaneamente la stessa cosa»8. Oppure, seguendo in questa sede una fonte più recente, A e B
rimandano ad una possibilità molto perplessa in forza della quale uno stesso soggetto, vale a dire
‘Giorgio’, «possegga contemporaneamente due proprietà mutualmente escludentisi» 9.
Quel che non emerge nei presenti luoghi timossiani è il costante riferimento ad una fonte illustre,
vale a dire Aristotele. La sua definizione di contraddizione, infatti, ricalca fedelmente gli echi
aristotelici di origine. Volgiamo, allora, in tale fedele direzione il nostro sguardo. Aristotele, in
effetti, è il primo filosofo occidentale a definire puntualmente e con cognizione di causa la nozione
stessa di contraddizione, prescrivendo agli ingegni filosofici il suo stretto divieto, e lo fece nella
forma che segue:
É impossibile che la stessa cosa, ad un tempo, appartenga e non appartenga a una medesima cosa, secondo lo
stesso rispetto10
tò gar autò áma ypárchein te kaì mhè ypárchein adýnaton tō autō kaì tò autò
5
Ivi, p. 324.
6
Ibidem.
7
Ivi, p. 325.
8
Ibidem.
9
Cfr. F. Berto – L- Bottai, Che cos’è una contraddizione?, Carocci, Roma, 2015, p. 9.
10
Cfr. Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano, 2000, pp. 141 – 143.
Il passo immediatamente seguente (21 – 31) incomincia a sua volta con un gár («infatti»), e ciò significa che tale
passo indica determinatamente il fondamento dell'affermazione che il principio che è stato qualificato come il
più saldo di tutti possiede il diorismós consistente nella necessità che intorno a tale principio l'uomo si trovi
sempre nella verità, si trovi sempre all'interno di tale principio – cioè possiede il diorismós consistente
nell'impossibilità che la conoscenza umana sia mai un contraddirsi11
il ragionamento di Parmenide, per quanto elementare, si basava implicitamente su tre ingredienti niente affatto
banali, che sono poi entrati a far parte del bagaglio degli attrezzi della logica. Primo: dire che «il non essere non
è l’essere» significa dare una definizione di verità della negazione («il non essere è») come falsità del negato
(«non è l’essere»). Secondo: dire «il non essere è il non essere» significa affermare il principio di identità,
secondo cui ogni cosa è uguale a se stessa. Terzo: dire che «il non essere non può allo stesso tempo essere e non
essere» significa intravedere il principio di non contraddizione, secondo cui una cosa non può allo stesso tempo
avere e non avere una stessa proprietà19
Ed è proprio qui che volevo arrivare. Infatti, la contraddizione consente di affermare, ossia
delimita il campo di validità del nostro linguaggio, umano, e, quindi, fallibile. Non a caso, infatti,
quest’ultimo è «il grande scandalo della natura»20 dal momento che ci costringe «a riconoscere una
discontinuità immotivata e improvvisa tra gli esseri viventi» 21. Ciò significa che sotto la mirabile
veste della logica, e delle sue apparentemente neutre formule, si cela il vivo palpito umano che
cerca di dare un nome alle funzioni cognitive che svolge tramite il linguaggio. Così, se è vero che
neghiamo qualcosa per affermarla, è parimenti vero che affermiamo qualcosa al fine di negarla. O,
per meglio, dire, mediante il sapiente uso di affermazione e negazione distinguiamo con maggiore
precisione i vari discreta che identificano i propria delle varie cose.
moderna dopo, un termine chiave della riflessione filosofica». 15 Il pensare, il considerare qualcosa come pensabile, o
anche solo intuibile, passa attraverso l'uso della copula «è», ossia per l'attribuzione di contorni, proprietà, per
il confronto, la distinzione, il discernimento, con altri oggetti, simili e diversi. Infatti, di «ogni individuo, astratto o
concreto che sia [...] si deve poter dire qualcosa, cioè a ogni cosa si deve poter dire qualcosa, cioè a ogni cosa si deve
poter assegnare un predicato».16 In altri termini, Parmenide fonda il logo occidentale».
14
Cfr. G. Calogero, Studi sull’eleatismo, Firenze, La Nuova Italia, 1977, p. 64.
15
Cfr. B. Cassin, L’effetto sofistico. Per un’altra storia della filosofia, Jaca Book, Milano, 2002, p. 23 e sgg.
16
Ivi, p. 39.
17
Ivi, p. 57.
18
Ibidem.
19
Cfr. Cfr. P. Odifreddi, Le menzogne di Ulisse. L’avventura della logica da Parmenide ad Amartya Sen, Tea, Milano,
2006, pp. 38 - 9.
20
Cfr. A. Moro, op. cit., p. 62.
21
Ibidem.
La logica non è semplicemente un operare tecnico-simbolico, ma il luogo in cui deve radicarsi ogni sapere […]
La logica, dunque, proprio in virtù della sua formalità, è il presupposto di ogni pensare, e ad essa deve
conformarsi ogni procedere razionale 23
E questo mi pare difficilmente negabile. D’altra parte, chi avrebbe tanto ardire di asserire
qualcosa di contrario? Ma è il nesso che lega presupposto e consequenzialità ad illuminare, a mio
sommesso parere, la questione presente, vale a dire l’uso linguistico della contraddizione. Un
discorso di carattere teorico, e non limitato al solo Husserl, il quale, peraltro, era seriamente
percorso dal rifiuto del relativismo psicologistico e storicistico di fine XIX ed inizio XX secolo24. Il
ritorno alla ‘certezza’ è consistito, né più né meno ad un ritorno alla ‘verità’. Ma tornare alla ‘verità’
ha significato anche tornare sui propri passi, sui sentieri originari, seppur originali
nell’impostazione e nella metodologia seguite.
Generalmente, una trattazione esaustiva intorno alla contraddizione e ai problemi correlati la si
trova nei manuali di logica. E questo non può affatto essere un caso dal momento che essa «è la
disciplina normativa per eccellenza»25 in quanto «studia le condizioni di correttezza del
ragionamento»26. E in quest’accezione mi pare innegabile rilevare come funga da strumento
formidabile proprio il principio di non contraddizione, nella fondamentale funzione normativa
codificata dallo stagirita, vale a dire nei termini di un vero e proprio divieto di contraddizione. La
logica se ne serve per poter affermare, per poter negare, per poter precisare, per poter distinguere,
per poter combinare …
… tutto sta nel poter adoperare senza fallo alcuno tre distinti principi alla base di qualsiasi
riflessione logica, vale a dire:
Il principio (1) asserisce, né più né meno, che ogni enunciato implica sé stesso27. Per esempio,
nel caso precedente, l’enunciato A implica sé stesso, vale a dire A. Ne consegue che in nessun caso
possa implicare una enunciato differente da sé, poniamo caso l’enunciato B.
Il principio (2) asserisce, grosso modo, che non si dà il caso che valgano l’enunciato stesso e la
sua negazione28. E cioè che possano asserirsi nello stesso tempo e, in forma congiunta, l’enunciato
A e l’enunciato B, vale a dire non può accadere che sia enunciata la congiunzione di due enunciati
contrari. Appare evidente, peraltro, come la contraddizione sia qui assunta in forma paradigmatica
di assurdità, vale a dire di asserzione sempre falsa, e, dunque, priva di qualsiasi sensatezza
22
Cfr. Aristofane, op. cit., p. 99.
23
Cfr. V. Costa, Husserl, Carocci, Roma, 2009, p. 67.
24
Cfr. R. Bodei, La filosofia del Novecento, Donzelli, Roma, 2006, p. 109.
25
Cfr. M. Frixione, Come ragioniamo, Laterza, Roma – Bari, 2007, p. 9.
26
Cfr. F. Berto, Logica. Da zero a Gödel, Laterza, Roma – Bari, 2007, p. 3.
27
Ivi, p. 52.
28
Ivi, p. 53.
A&B
Vale a dire,
Il che è immediatamente assurdo. Con le parole di Berto e Bottai, possiamo anche riassumere la
situazione presente nei termini che seguono:
L’idea sottostante comune a questi ambiti è che una contraddizione si dà quando si prende in blocco un
enunciato e la sua controparte negativa 30
29
Cfr. F. Berto – L. Bottai, op. cit., p. 9.
30
Ivi, p. 10.
31
Cfr. R. G. Timossi, op. cit., p. 409.
32
Cfr. F. D’Agostini, Paradossi, Carocci, Roma, 2009, p. 21.
33
Cfr. P. Giaretta, Filosofia della logica, in L. Floridi (a cura di), Linee di ricerca, Swif, 2003, p. 137.
34
Cfr. F. D’Agostini, Logica del nichilismo. Dialettica, differenza, ricorsività, Laterza, Roma – Bari, 2000, p. 52.
35
Cfr. M. L. Facco, Metafisica, logica, matematica. Leibniz, Boole, Rosmini, Marsilio, Venezia, 1997, p. 9.
36
Cfr. F. Orilia, Ulisse, il quadrato rotondo e l’attuale re di Francia, ETS, Pisa, 20052, p. 53.
A ben guardare, si potrebbe pure pensare che, in realtà, i principi in questione non facciano altro
che dare confini di funzionamento per la copulazione linguistica. E non nego che tale opinione
possa avere la sua ragion d’essere, dal momento che secondo essa la copulazione ha luogo nella
forma (i) dell’appartenere, e, quindi, dell’identità: asserzione; (ii) dell’opporre, e, quindi, della
contraddizione: negazione; e, (iii) della distinzione, e, quindi, del terzo escluso: separazione.
Sarebbe un interessante filone di ricerca ulteriore, di approfondimento, di scavo nel retroterra
linguistico che sta dietro ciascuna costruzione del lessico filosofico. Tuttavia, sia per ragioni di
spazio sia per evidenti incapacità da parte del sottoscritto, lascio ad altri la suggestione, e mi limito
esclusivamente a fornire delle note sulla contraddizione. D’altra parte, la copulazione, vale a dire
gli usi diversi del verbo ‘essere’, attiene all’orizzonte enunciativo, ossia alla funzione propria del
medium linguistico che viene adoperato. Il problema, se si vuole, in tale condizione, è che «Il nostro
discorso si è basato sulla nozione di apofansi, e cioè nell’opposizione tra discorso vero e discorso
falso»38, e, quindi, sull’attribuzione o negazione o esclusione dell’identità, vale a dire del proprium.
I principi (1) – (3) servono a questo: a potersi districare in mezzo alle apparenze del mondo
ingannevole.
La ragione in base alla quale Aristotele ritiene che per tutti gli enunciati «antifasici» (tali, cioè, che l’uno è la
negazione dell’altro), siano essi universali o singolari, affermativi o negativi, concernenti il passato e il presente,
valga B [il principio di bivalenza] è da ricondursi alla circostanza che gli eventi descritti da tali enunciati si sono
(non si sono) verificati, per cui il loro valore di verità è determinato 40
Pertanto, la presenza di una contraddizione, vale a dire la congiunzione di due enunciazioni l’una
negativa rispetto all’altra, non esclude l’applicazione del valore di verità. Anzi, richiede ugualmente
l’applicazione della bivalenza.
Se il principio (2) esclude la contraddizione, v’è da compiere ancora un piccolo passo, per
giungere all’esclusione di terzi. Che significa? In termini piani, che il principio (3) delimita
l’attribuzione possibile del valore di ‘vero’ ad una sola delle due enunciazioni contrarie. Detto
altrimenti, così come il principio (2) escludeva la possibilità di congiungere due enunciazioni
contrarie, il principio (3) esclude la possibilità di un terzo termine possibile destinatario del valore
di verità. Pertanto, tra due enunciazioni congiunte, solo una può essere vera. Come sostiene Berto,
per qualsiasi enunciato valgono o l’enunciato stesso o la sua negazione41. Dunque, par di capire,
37
Cfr. B. Russelli, I problemi della filosofia, Feltrinelli, Milano, 19704, p. 86.
38
Cfr. L. V. Tarca, Elenchos. Ragione e paradosso nella filosofia contemporanea, Marietti, Genova, 19932, p. 251.
39
Cfr. M. Mugnai, Possibile/necessario, Il Mulino, Bologna, 2013, p. 31.
40
Ivi, pp. 31 – 32.
41
Cfr. F. Berto, op. cit., p. 53.
Il principio di identità può essere formulato asserendo che «quel che è, è» o, in forma simbolica, «A è A» […] Il
principio di contraddizione fu poi così formulato da Aristotele […]: «è impossibile che la stessa cosa, ad un
tempo, appartenga e non appartenga ad una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto» […] il terzo principio
logico, detto dal Baumgarten in poi, del terzo escluso […]: «Tra i due opposti della contraddizione non c’è un
termine intermedio 42
Ora la logica ha cercato da sempre, magari pure prima di Aristotele, di sistemizzare queste
conoscenze, relative ai distinti usi cognitivi, anche sino al punto di considerare tali principi, assieme
ad altri qui ignorati, delle vere e proprie «leggi del pensiero» 43, quasi che senza di loro non potesse
avere luogo il pensiero umano. Ovviamente, la verità sta nel mezzo: in loro assenza non ha luogo un
pensiero sensato, anche se ovviamente il pensiero umano non è riducibile interamente a
quest’ultimo.
Tuttavia, non si può certo dire che passato Aristotele la contraddizione si sia quetata. Al
contrario, in tempi più vicini a noi la granitica saldezza del divieto di contraddizione è venuta via
via meno, cominciando a contare parecchi nemici, generalmente molto agguerriti.
Come scrive Berto, «le sfide più cogenti al (PNC) nel pensiero contemporaneo vengono dai
paradossi logici»44, vale a dire da tutte quelle formulazioni linguistiche, ma anche logiche, le quali,
per varie ragioni, infrangono il divieto di contraddizione, e, sotto altri aspetti, attenuano anche il
campo di applicazione del principio (3). Questo, però, non deve trarre in inganno. Anzi, è frutto di
una considerazione, in fin dei conti, piuttosto semplice nella sua ordinarietà. Infatti, come
riconosceva Franca D’Agostini, «è abbastanza intuitiva l’idea che l’aspetto interessante e
caratteristico dei paradossi sia il fatto imbarazzante (e sorprendente) di una contraddizione che per
qualche ragione risulta ineliminabile»45. Se i paradossi sono delle mere assurdità, dal momento che
infrangono il divieto della contraddizione, e, dunque, sono sempre falsi sotto qualsiasi declinazione
possibile, come mai la loro eliminazione appare così difficile? Così ardua? Così sospetta?
Ma era già ai tempi della fondazione del principio (2) che si registravano non poche difficoltà, a
dispetto della natura incontrovertibile che Aristotele cerca di appiccicargli sopra, in modo più o
meno posticcio, più o meno fondato, in maniera più o meno problematica. La dimostrazione per
(auto)confutazione, infatti, dice solo che la negazione del principio è infondata. Ma questo proprio
nulla, al contrario, dice sulla fondatezza del principio medesimo. In altri termini, confutare la tesi
avversaria non giustifica la fondatezza della propria tesi, anche se Aristotele la inserisce all’interno
di una sorta di gioco dialettico competitivo e, dunque, all’interno di una (ben studiata, a dire il vero)
serie di turni negli scambi comunicativi, grazie alla quale, invece, sembra che la sconfitta
dell’interlocutore rechi con sé la propria vittoria. Piuttosto, ci ricorda Galvan
la tesi segue dalla sua stessa negazione senza il ricorso ad altro che alle regole essenziali alla istituzione del
gioco dialettico tra proponente ed opponente alla tesi stessa. Per questo, il successo dell’argomentazione
elenctica implica necessariamente il raggiungimento dell’obiettivo dell’autofondazione 46
42
Cfr. D. Pesce – L. Pozzi, Primi elementi di logica formale antica e moderna, Le Monnier, Firenze, 1971, p. 15.
43
Cfr. G. Rigamonti, Corso di logica, Bollati Boringhieri, Torino, 2005, p. 17.
44
Cfr. F. Berto, Teorie dell’assurdo. I rivali del Principio di Non-Contraddizione, Carocci, Roma, 2009, p. 37.
45
Cfr. F. D’Agostini, Paradossi … op. cit., p. 21.
46
Cfr. S. Galvan, Non contraddizione e terzo escluso. Le regole della negazione nella logica classica, intuizionista e
minimale, Franco Angeli, Milano, 1997, p. 125.
il «dimostrare elencticamente» lascia, per così dire, che questo errore logico venga commesso da chi intende
contestare il principio: quando costui commette l’errore, basta rilevarlo, e con ciò lo si sarà confutato. Ma la
confutazione del negatore equivarrà alla dimostrazione del principio, perché mostrerà che è impossibile negarlo,
cioè che è impossibile che le cose siano diversamente da come esso dice, il che dà luogo a quella necessità che è
caratteristica delle conclusioni di ogni dimostrazione 47
Viceversa, scrive Donà, il divenire mostrato dallo stagirita nella sua dimostrazione del principio
(2)
garantirebbe appunto l'originarietà del principio in questione, facendo leva sulla dimostrazione dell'impossibilità
della sua 'negazione' […] chiunque tentasse di negare un tale principio negherebbe se stesso (perché, per negare
quel principio, dovrebbe presupporne la verità), ossia, per dirla con Aristotele, si costituirebbe come un semplice
tronco … e le sue parole non sarebbero tali, ma puro flatus vocis […] a ben vedere, i conti non tornano proprio 48
Dietro l'apparente evidenza della dimostrazione elenctica, detta anche dimostrazione indiretta,
per (auto)confutazione del negatore del principio (2), si nasconde un non – detto. Secondo Donà:
la presupposizione della ultimatività di quello stesso principio. Come a dire che si può dimostrare che quello è il
principio ultimo solo presupponendo già, e 'del tutto ingiustificatamente', la sua ultimatività 49
Pertanto, allora,
la potenza dell'argomentazione aristotelica dipende tutta dalla disponibilità dell'obiettore a riconoscere il suo
costituirsi come 'negatore' e non come 'sostenitore' del principio di non contraddizione 50
47
Cfr. E. Berti, Le ragioni di Aristotele, Laterza, Roma – Bari, 1989, p. 94.
48
Cfr. M. Donà, Sulla negazione, Bompiani, Milano, 2004, p. 47.
49
Ibidem.
50
Ivi, pp. 47 – 48.
51
Cfr. L. Mérő, Calcoli morali. Teoria dei giochi, logica e fragilità umana, Dedalo, Bari, 2005, p. 27.
52
Ibidem.
53
Ivi, p. 87.
Secondo Łukasiewicz, Aristotele ha fornito tre diverse formulazioni del suo divieto di
contraddizione, vale a dire (a) un principio ontologico di (non) contraddizione; (b) un principio
54
Ibidem.
55
Cfr. B. Cassin, op. cit., pp. 42 – 43: «Perché la confutazione abbia effettivamente luogo è sufficiente allora esplicitare
la nozione di significazione: significare qualche cosa, non è significare qualche cosa di essente, è solamente significare
qualche cosa di unico e convenzionalmente identico, per se stessi e per gli altri. Dal momento in cui parlo, e per ciò
stesso, il principio di non-contraddizione viene provato e instaurato: è impossibile che lo stesso (termine)
simultaneamente abbia a non abbia lo stesso (senso). Ogni termine, in quanto ha significato, è una incarnazione del
principio, e anche solo parlando si cade sotto questa giurisdizione».
56
Ivi, p. 49.
57
Cfr. F. Berto – L. Bottai, op. cit., p. 13.
58
Cfr. Aristofane, op. cit., p. 126.
tò gàr autò àma ypàrchein te kài mhé ypàrchein adýnaton t aut kài katà to autò
è impossibile che la stessa cosa, ad un tempo, appartenga e non appartenga a una medesima cosa, secondo lo
stesso rispetto60
Òti mén oùn bebaiotàthe dòxa pasòn tò mhé einvai aletheìs àma tàs antikeiménas fàseis
Che, dunque, la nozione più salda di tutte sia questa: che le affermazioni contraddittorie non possono essere vere
insieme 61
adýnaton gàr ontinoyn tautòn ypolambànein eìnai kaì mhé einai, kathàper tinés oìontai légein Herakleiton. Oùk
ésti gàr anagkaìon, à tis légei, tautà kaì ypolambànein
infatti è impossibile a chicchessia di credere che una stessa cosa sia e non sia, come, secondo alcuni, avrebbe
detto Eraclito. In effetti, non è necessario che uno ammetta veramente tutto ciò che dice 62
Ora, Aristotele pensa in tutte e tre le occasioni allo stesso principio, vale a dire il nostro principio
(2), oppure sta pensando a tre distinti principi? Se le cose stessero come vorrebbe la seconda
alternativa, molto probabilmente lo stagirita non avrebbe mai adoperato uno stile comunicativo
coerente come quello presente, e, piuttosto, avrebbe ben scandito e precisato che si tratta di tre
distinti principi. Invece, non abbiamo alcuna evidenza stilistica che confermi questa seconda
ipotesi. Appare, dunque, ragionevole pensare che Aristotele pensi sempre allo stesso ed unico
principio di (non) contraddizione. Solo che, e scusate se è poco, ne riflette una natura trinitaria.
Infatti, il principio (2) regge tre diverse, ma probabilmente tra loro connesse, interpretazioni, o modi
di intenderlo. Il principio di (non) contraddizione, allora, è sia un principio ontologico, inerente alla
(necessaria) distinzione tra gli enti secondo una ben precisa differenza di proprium, sia un principio
logico, inerente «la veridicità dei giudizi e cioè dei fatti logici» 63, sia un principio psicologico,
inerente alla (necessaria) distinzione tra gli enti di pensiero. Se così è, nulla ci vieta di traslare tale
distinzione dal termine che chiamiamo ‘principio’ al quel qualcosa che vagamente appelliamo con il
termine di ‘proprium’. Intendo dire che è proprio la polisemia di utilizzo del proprium che abilita
59
Cfr. J. Łukasiewicz, Del principio di contraddizione in Aristotele, Quodlibet, Macerata, 20062, p. 19 e sgg.
60
Cfr. Aristotele, op. cit., pp. 143 – 145.
61
Ivi, p. 177.
62
Ivi, p. 145.
63
Cfr. J. Łukasiewicz, op. cit., p. 20.
Conclusioni
prima, una tecnica poteva essere “mostrata” usando anche il linguaggio, dopo, doveva essere “detta”, e così tutte
le sfaccettature e le idiosincrasie del linguaggio divenivano la trama dell’attività intellettuale in generale,
diventavano la filosofia66
Quel che Borzacchini intende dire è che il passaggio da una cultura orale ad una cultura scritta
reca con sé anche un profondo mutamento di paradigma, vale a dire che quanto prima accadeva in
64
Cfr. Aristofane, op. cit., p. 130.
65
Cfr. S. Freud, La negazione, in S. Freud, La negazione e altri scritti teorici, Bollati Boringhieri, Torino, 2004, p. 65.
66
Cfr. L. Borzacchini, Il computer di Platone. Alle origini del pensiero logico e matematico, Dedalo, Bari, 2005, p. 89.
Il linguaggio diventa all’alba del pensiero greco quindi tanto la dimora della conoscenza quanto il luogo della
contraddizione e del paradosso, e la negazione diventa la sorgente profonda di quei concetti negativi che saranno
al cuore della matematica europea69
Il medium, pertanto, finisce con accogliere tanto la conoscenza quanto l’errore, tanto la verità
quanto la contraddizione, tanto l’affermazione quanto la negazione, tanto l’identità quanto la
diversità.
Questa sorgente la ritroviamo inizialmente in Parmenide, ove il mondo reale, il pensiero e il
linguaggio coincidono. Ma solamente in Aristotele tale fonte si specifica ulteriormente,
arricchendosi. Pertanto, dall’«essere fisso, stabile ed immutabile»70 di eleatica memoria ci
evolveremo verso un’esigenza doppia, tanto ontologica, inerente all’ordine dell’universo intero,
quanto epistemologica, relativa a quel che si richiede «per la ricerca della verità»71. Ma tutto questo
attiene alla difficoltà di garantire il passaggio da un discretum ad un altro, vale a dire dal proprium
di uno al proprium di un altro, una difficoltà ben presente alla mente degli antichi greci e che
generava non pochi problemi, in modo particolare agli ingegni filosofici i quali, in misura maggiore
rispetto ai propri simili “non filosofici”, ragionano e parlano in termini qualitativi, e, dunque, si
scontrano con l’ostacolo della differenza qualitativa tra gli enti, di realtà, di linguaggio, di pensiero.
La stessa difficoltà non è riscontrabile presso gli ingegni matematici i quali, in misura maggiore
rispetto ai propri simili filosofici, ragionano e parlano in termini quantitativi, e, dunque, non si
scontrano con l’ostacolo della differenza qualitativa tra gli enti, di realtà, di linguaggio, di pensiero,
ma si limitano a contarli, e, dunque, riescono a compiere il passaggio da un proprium ad un altro.
Per i filosofi in generale, prova ne sia la particolare tensione che attraversa interamente la dottrina
eleatica, al punto che Boyer ne parla nei termini di un dogma inerente «l’unità e la permanenza
dell’essere»72, è estremamente difficile riuscire a compiere il salto che possa condurre da un essere
ad un altro essere, da una qualità ad un’altra qualità, da una identità ad un’altra identità, vale a
dire compiere il passaggio da un discreto ad un altro. In altri termini, se Parmenide fosse stato un
matematico, forse, non avrebbe incontrato tutte quelle enormi difficoltà con la pluralità e la
contraddizione. Ma se pure Aristotele fosse stato un matematico, più che un filosofo, sicuramente
avremmo minori difficoltà a gestire il rapporto infedele tra la realtà e il pensiero per il tramite
dell’infido linguaggio. Ora con i “se” e con i “ma” non si fa la storia, ma l’esercizio controfattuale,
67
Ivi, p. 91.
68
Ibidem.
69
Ivi, pp. 94 – 5.
70
Ivi, p. 101.
71
Ibidem.
72
Cfr. C. B. Boyer, Storia della matematica, Mondadori, Milano, 1990, p. 88.
La contraddizione sta, dunque, nella modalità di relazione dialettica tra propria diversi.
Borzacchini, ovviamente, prende le mosse dal suo specifico campo di interesse, il pensiero formale,
ma ciò non impedisce comunque di scorgere delle riflessioni davvero interessanti, e che possono
risultare rilevanti anche per gli ingegni filosofici. A conclusione del presente contributo, allora, non
posso che riportare ancora una volta uno dei suoi ragionamenti:
se le ragioni d’essere del pensiero formale sono nella idea di rappresentazione sintattica, nella corrispondenza
cioè uno-a-uno tra due mondi di “cose”, la realtà e il linguaggio, e se il pensiero formale deve fornire la cornice
di tutta l’attività umana, allora il problema della «negazione», che ricordiamo non ha corrispondenti nella realtà,
non si può risolvere che tramite principi di natura formale che trasformino il ruolo della negazione nella prassi
linguistica e sociale per ricostruirlo nel lessico teoretico specialistico e nell’attività scientifica dei ceti
intellettuali77
In ogni caso, comunque, a mio sommesso parere, bisogna riconoscere sempre un fatto, questo
davvero ineluttabile quanto incontrovertibile, e vale a dire che per quanto ben congegnata e
progettata la rete concettuale che cala sulla realtà manca sempre il suo obiettivo di catturare la
preda78. E, pur non potendo che agire così, e nonostante questa limitazione, noi esseri umani non
possiamo che tentare, che provare egualmente l’impresa, che gettare reti sulla realtà. La perigliosa
ed infida ricerca del lògos comporta pure questo, vale a dire un proliferare della parola 79, nello
73
Cfr. B. Cassin, op. cit., p. 167.
74
Cfr. F. Berto, L’esistenza non è logica. Dal quadrato rotondo ai mondi impossibili, Laterza, Roma – Bari, 2010, p.
50.
75
Cfr. L. Borzacchini, op. cit.., p. 191.
76
Ibidem.
77
Supra.
78
Cfr. S. Natoli, Soggetto e fondamento. Il sapere dell’origine e la scientificità della filosofia, Feltrinelli, Milano, 2010,
p. 56: «Rispetto alla verità i concetti e le filosofie hanno spesso l’effetto di reti lacerate da cui l’animale è fuggito. Le
teorie del soggetto sono questa rete; in qualsiasi modo intessuta, essa resta il mezzo più idoneo per accostare la realtà».
79
Cfr. A. Cozzo, Conoscenza, logos e razionalità nella Grecia antica, Carocci, Roma, 2001, pp. 92 – 3: «Il logos è
sempre un modo di parlare che non cerca il sussidio della tradizione e che anzi si presenta agli altri come originale e
che, proprio a causa di questa sua caratteristica, vuole essere giudicato e giudicare a sua volta. In ciò il logos ha la sua
virtù e il suo vizio; la sua arbitrarietà costituisce, e fonda, la pretesa di chiunque tanto a parlare quanto a confutare: in
La filosofia contemporanea pone un contenuto che è in contraddizione con la forma del dire filosofico. Infatti, il
contenuto della filosofia contemporanea comprende l’affermazione che non è possibile alcun discorso definitivo,
ultimo ed irrevocabile80
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ogni caso un logos genera un altro logos; il logos invita alla proliferazione della parola; il suo numero è il plurale: logoi,
non logos».
80
Cfr. L. V. Tarca, op. cit., p. 237.