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Bruno Casile

Usi e costumi del passato


Glossario
con i lemmi del Lessico greco-calabro
storico ed etimologico

Traduzione e commento
a cura di Paolo Martino

ISBN xxxxxxxxxxxx Edizioni Apodiafazzi


Bruno Casile

Usi e costumi del passato


Fattúcia
1.I zoí stin jenía ce i prandía mia forá stin Bova
(La vita in famiglia e il matrimonio com’era una volta a Bova)

2.Pu teglionni o cosmo


(Dove finisce il mondo)

3.I dio judi


(I due figli)

Glossario
con i lemmi del Lessico greco-calabro storico ed etimologico.

Traduzione e commento
a cura di Paolo Martino

Edizioni Apodiafazzi
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del contenuto della presente pubblicazione.
Tutti i diritti sono riservati.

CIRCOLO CULTURALE
“Apodiafazzi”
Per la Difesa e la Valorizzazione
della Lingua e Cultura Greco-Calabra
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CENTRO STUDI “BRUNO CASILE”
Via Vescovado 89033 Bova - Reggio Calabria - Italia
Tel. Fax 0039-0965 45990 cell. 0039 348 3898988
www.apodiafazzi.it apodiafazzi@yahoo.it

ISBN 978-88-31378-06-2
Introduzione
Questo volume è lo sviluppo della conferenza sul tema “Bruno Casile poeta
contadino”, che ha avuto luogo a Bova il 7 settembre 2018 presso la Biblioteca “Franco
Mosino” per iniziativa del Circolo di Cultura Greca “Apodiafazzi”. S’inquadra
nell'ambizioso programma “Ritratti di Personaggi storici calabresi”, organizzato nel
contesto del Premio Letterario “Rohlfs-Mosino-Karanastasis”, cui il Circolo – fondato da
Bruno Casile e votato alla difesa e alla valorizzazione della Lingua e della Cultura Greco-
Calabra –, ha impresso un nuovo vigore sotto la presidenza di Carmelo Giuseppe Nucera.
In quell'occasione ho avuto l'onore di parlare di uno dei più significativi rappresentanti
della cultura greco-calabra, al quale mi legò una consuetudine pluridecennale. Impegnato
nella preparazione di un Lessico storico ed etimologico del greco di Calabria, nato da un
progetto dell'Università di Roma La Sapienza e poi continuato presso la Facoltà di Lettere
della LUMSA dove mi ero trasferito, pensavo dapprima di utilizzare il Casile come
prezioso informatore, ma presto mi avvidi che il poeta contadino era per me un Maestro
ineguagliabile, di lingua e di vita.
Al prosieguo della collaborazione si oppose la tragica scomparsa del Casile, ma la
fecondità della sua testimonianza si mostrò in occasione della conferenza, nella quale, in
presenza della cara sorella dell'estinto Giuseppa Casile, intervennero la poetessa Daniela
Ferraro, il Presidente Carmelo Nucera, il sindaco di Bova dottor Santo Casile, lo scrittore
Leone Callea e tanti altri.
In attesa dell’uscita del volume Bruno Casile, il poeta contadino, Patriarca della
civiltà calabro-greca, doveroso omaggio a un grande rappresentante della cultura
grecanica, vedono ora la luce, grazie all’iniziativa del Circolo "Apodiafazzi", alcuni
etnotesti inediti rintracciati tra le carte che Bruno mi consegnò nei ultimi tempi.
Uno, in preparazione, riguarda i cento Canti popolari di Bova pubblicati circa
sessant’anni fa da Giuseppe Rossi Taibbi e Girolamo Caracausi in greco con traduzione
italiana. I Canti, ancora poco noti al vasto pubblico, sono stati poi tradotti da Casile in
dialetto romanzo bovese e rimasti inediti. La versione dialettale offre agli studiosi la
possibilità di un utile confronto tra dialetto romanzo e grecanico.

I testi contenuti in questo volume sono un grazioso affresco di una civiltà contadina
ormai quasi del tutto estinta.
Nel suo Curriculum, dattiloscritto autografo non datato, Casile dichiarava di avere in
preparazione un volume dal titolo Usi e costumi del passato.
Infatti, nella sezione LIBRI PUBBLICATI cita due testi editi:
- Le piante che mantengono nome greco in Calabria. Edito nel 1977.
- Barlume nel buio - poesia e antologia. Edito nel 1991;
e aggiunge:
- È in corso di pubblicazione il testo dal titolo Usi e costumi del passato.

Ma non ci fu tempo sufficiente. Molti materiali sono però rintracciabili tra le sue carte.
I testi che qui si pubblicano sono tre di questi scritti inediti. Il primo (che chiamiamo
con la lettera A) è consegnato manoscritto in un’agenda e comincia con le parole:

-5-
Prima parte - Protinò merticò.
I zoì stin jenia ce i prandia mia forà stin Bova.
(La vita in famiglia e il matrimonio com’erano una volta a Bova)

Poi, in testa alla seconda pagina, si legge il titolo Pos ito i prandia mia forà stin Bova
(Com’era il matrimonio una volta a Bova).
È questo certamente l’inizio del libro annunciato nel curriculum.

Da vari indizi possiamo dedurre che il lavoro era in corso di perfezionamento. Alcune
parti sono state inserite in margine ai fogli del quaderno in tempi diversi, altre (che
comunque riportiamo ad utilitatem filologiae) sono state cancellate dall’autore e riscritte
diversamente. Questa “prima parte” del lavoro progettato descrive la vita della famiglia
contadina impegnata nella preparazione di un matrimonio. La seconda, che manca nelle
carte a nostra disposizione, descriveva evidentemente lo svolgimento delle nozze e la
sistemazione dei novelli sposi nella loro casa.
L’impianto del racconto è narrativo, del tutto semplice e coinvolgente.

Tra le carte inedite si trovano anche fogli dattiloscritti, prove di scrittura, che
dimostrano il forte desiderio dell’autore di migliorare la stesura dell’opera. I tre brevi
dattiloscritti, che chiameremo B, C e D, costituiscono un chiaro intento di arricchire la
struttura narrativa del testo con una introduzione sulla realtà contadina. Probabilmente
non ebbe il tempo di concludere questa rivisitazione, per cui i dattiloscritti ci forniscono
varianti a volte con elementi nuovi solo sulle prime pagine del ms.

Datazione
Dalla grafia dobbiamo dedurre che questo è tra i primi scritti di Casile, visti i refusi
grafici, che con gli anni e l’esperienza egli corresse gradualmente. Possiamo ipotizzare
che si tratti di una esercitazione di scrittura, fatta con l’intento di stare in compagnia della
sua lingua tanto amata. Siccome il racconto che segue nell’agenda (Pu teglionni o cosmo),
un fattúci, reca la data del 1974, possiamo collocare l’inizio della scrittura nell’inverno
di quell’anno.
Con il capodanno 1995, per rispondere al desiderio dell'amico Makraki, che si dichiara
desideroso di imparare il bovese, Casile riprende le sue carte e prosegue la scrittura
utilizzando un'agenda del 1993 (il racconto manoscritto comincia con la pagina lunedì 4
gennaio). Un elemento per datare la conclusione dello scritto può essere la data del
documento dotale che, nella finzione del racconto, è fissata al 17 marzo 1995. L'autore
utilizzava evidentemente agende degli anni precedenti.
Casile scrive d’inverno.
La conclusione del racconto, con la nascita dei figli della coppia e la malattia e la morte
di Caliddea, ha il titolo Ta orfanacia e si trova in un'altra agenda, alla pagina di mercoledì
1° febbraio (quindi l'anno è il 1989), ma reca manoscritta la data del 26 luglio 1993. È
perciò possibile che la seconda parte sia stata scritta per prima e interrotta, come egli
stesso dichiara: «La tralascio perché era stata scritta da altri. Essendo stata pubblicata
da altri no la scrivo». Si tratta del racconto del pasto funebre che il vicinato portava ai
parenti in lutto.

-6-
Grafia
Nelle lunghe serate passate in solitudine al focolare della sua casa di Càvalli, Bruno si
poneva il problema di come scrivere il greco in maniera fedele ma al contempo semplice
e praticabile da tutti, e rifletteva su vari problemi grafici. Le sue competenze
miglioreranno poi con gli anni e con la frequentazione degli studiosi e dei convegni, ma
ancora sono qui in evidenza diverse ingenuità.

FONEMA IPA GRAFIA DI CASILE GRAFIA DEL LGC


fricativa velare sorda. [x] <g><gh> egasa, agharo <ḣ> éḣasa, áḣaro
fricativa palatale sorda [ç] <j> <ch> ije, macheri <hj> ihje, mahjéri
fricativa alveolare sonora [z] <z> <zz> mizzidra <ś> miśíthra
dentale retroflessa sonora [ɖɖ] I <dd>, <ḍḍ> addo <ḍḍ> áḍḍo
approssimante palatale [j] <ji> jià, jineca <j> ja, jinéca
affricata alveolare sorda [ts] <ts> tsila <z> zzíla
affricata alveolare sonora [dz] <z> spazzo <ź> spáźo
fricativa dentale sonora [θ] <d> dichatera <th> thiḣatéra
occlusiva velare sorda [k] <k> <ch> <c> ca, co, cu,
<ch> che, chi

L’unico segno diacritico che già conosce e adopera, ma sporadicamente, è quello della
dentale geminata retroflessa [ḍḍ].
Il principio dell’assimilazione in fonetica sintattica, che gli è ben presente, non gli
impedisce di incorrere in ipercorrettismi:
den nda sonno sta per den ta sónno.
na to sto ipi sta per na tos to ipi.
ton nijomma sta per ton jomma,
to nijossa sta per ton jossa,
de ndis sta per den dis,

Considerato questo lavorìo di ricerca, non meraviglia trovare incoerenza in certe


soluzioni, evidente nelle varianti: a p. 19 corregge leghi in leji.
Altre varianti: crasì / grasì; grono /chrono;
Per l’influsso di certa letteratura scientifica, indulge a volte all’uso di [k] per rendere
la velare sorda: esteke, greko, ecc.: il grafema è estraneo alla tradizione ortografica
italiana. Si tenga presente poi, a favore del Casile, che anche dotti demologi
dell’Ottocento (Capialbi, Bruzzano) commettono errori di trascrizione ancor più gravi.

In testa alla prima pagina del ms si legge una nota lessicografica (timì = onore),
secondo un'abitudine consueta dello scrittore, che correda i suoi fogli di appunti
lessicografici marginali e di confidenze. Segue un appunto significativo:

Stamani sono andato a caccia, ho ucciso un tordo e un merlo, ho raccolto erba per
i conigli e nel pomeriggio ho bacchiato ulive. Oggi il tempo era buono anche se
nuvoloso.

Stile
I Zoì è un vero trattatello di antropologia culturale, che si articola nella forma di un
romanzo, un racconto della vita nelle famiglie contadine di un tempo.

-7-
Non è solo un documento della lingua: veicola anche un patrimonio sapienziale antico.
Il valore supremo è la famiglia, la jenía, dove brillano splendidi rapporti affettivi tra uomo
e donna, tra padri e figli, tra amici, che oggigiorno appaiono ormai desueti.

Il critico letterario emunctae naris, che riscontrerà facilmente ingenuità nel tessuto
narrativo, tenga presente che l’autore è un contadino con la quinta elementare, ma ha una
nobile coscienza e un vivo desiderio di studiare. Egli non ha velleità letterarie, scrive
perché desidera documentare la propria lingua materna, la lingua calabro-greca in via di
dissoluzione.
Ad ogni modo è ben noto che le grandi opere letterarie nascono di regola dal genio,
non dall’erudizione. E non richiedono la laurea dello scrittore.

Dunque anche un interesse letterario si aggiunge, in questi etnotesti, alla preziosa


testimonianza della lingua.

Voci attestate solo da Casile


I testi sono un ricco deposito di espressioni e di parole che gli studiosi di cose
grecaniche ignorano o fraintendono. Particolarmente preziosi quei vocaboli che tutti i
lessicografi ignorano oppure non spiegano in maniera soddisfacente: ciuciulíjemma
‘ciarla’, charticí ‘fidanzata’; dia dia ‘piano piano’; galma ‘statua’, gamo ‘nozze’ (accanto
al più noto prandía), gullì ‘palla di vino’, gulláci ‘caraffa di vino’, ruscla ‘pungitopo’,
scára ‘focolare, braciere’ (non ‘graticola’), sinverni ‘marito’, sistrosi ‘ordine’, trapezi
‘tavola’ e tanti altri.

Neogrecismi
Pur essendo nettamente contrario all’introduzione del neogreco a Bova, ventilato da
molti intellettuali bovesi negli ultimi decenni del secolo scorso (neoellenisti), Casile
utilizza alcuni termini scoperti in Grecia, specie nelle lettere agli amici ellenici. Queste
intrusioni tradiscono l’ingenuo entusiasmo del poeta contadino e il desiderio di colmare
le lacune lessicali e semantiche con neologismi tratti dal neogreco.

Alcuni esempi:
cuamos ‘fave’ < ngr. κύαµος, introdotto da Casile per to fáva.
despinis ‘signorina’ (δεσποινίς);
doro ‘dono’ < ngr. δῶρο < agr. δῶρον ‘dono’;
fisis ‘natura’ (neogreco φύση < greco antico φύσις);
gamo ‘nozze’ (γάµος);
pausa ‘pausa’ (παύση);
proclisis 'invito, partecipazione alle nozze' < ngr. πρόσκληση 'invito' incrociato
con πρόκληση 'sfida'.
omorfo ‘bello’ (ὄµορφος), al posto del tradizionale latinismo mágno.

A proposito di quest’ultimo, il Rohlfs precisa giustamente che esso non esiste


nell’italo-greco (LG 362), anche se Pellegrini lo documenta, ma con l’accento sbagliato:
omórfo.
Qualche volta troviamo una forma classica desueta, sconosciuta anche alle varietà
neogreche moderne: fos ‘luce’ (agr. φῶς, ngr. φωτιά). È una parola imparata dai nonni
oppure il riciclaggio di un termine appreso dai libri?

-8-
A volte alla forma genuina fa seguire tra parentesi la corrispondente neogreca: sanidi
(trapezi); la forma grecanica sti prandia è seguita da quella greca [stin gamo] (p. 28 del
ms); fisis (jénnithi). Non possiamo sapere se Casile pensasse di proporre l’arricchimento
di un lessico in via di depauperamento oppure intendesse agevolare ai suoi amici greci la
lettura del suo racconto.
Proprio con uno di questi, il poeta contadino si lamenta, condannando l’atteggiamento
dei dascali ‘neoellenisti”:
«Irtasi stin Grecia dascali ce ematteasi tin glossa ti plategghete arte, econdoferasi ode
ce den legusi arte, legusi tora, den legusi sirma, legusi ghligora...».
‘sono venuti in Grecia gli insegnanti ed hanno imparato la lingua che voi parlate
adesso, sono tornati qui e non dicono arte, dicono tora, non dicono sirma, dicono
gligora...’ (Lettera a Kolakis 8-4-1988).

Struttura di questa edizione


Le pagine autografe dei primi due testi sono nella pagina di sinistra.
La traslitterazione e la traduzione in italiano sono affiancate nella pagina di destra.
Del terzo testo, la favola dei due fratelli dispersi, che diventa un romanzo, si dà la
trascrizione e la traduzione.
Un apparato critico con notizie utili è collocato in nota a piè pagina.
Le parole del testo che presentano particolare interesse storico-culturale ed
etimologico sono lemmatizzate in ordine alfabetico in un Glossario che segue in
appendice; in esso si propongono i corrispondenti lemmi del Lessico Greco Calabro
storico ed etimologico, in corso di stampa, in cui si discutono problemi ermeneutici
lessicali, grafici, sintattici.
Da tale Lessico sono estratti i riferimenti bibliografici e le sigle, limitatamente ai
materiali attestati dai nostri testi.

-9-
Bruno Casile nella sua casa di campagna a Cávaḍḍi. Accanto alla porta è in
evidenza il pétalo (πέταλον), ferro di cavallo con funzione apotropaica.
I zoì stin jenìa
ce i prandia mia forà stin Bova

La vita in famiglia
e il matrimonio di una volta a Bova
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- 12 -
p. 1

I zoì stin jenìa ce i prandia mia forà La vita in famiglia e il matrimonio di


stin Bova1. una volta a Bova

Iche mia icojenia tse etse athropi, o C’era una famiglia di sei persone, il
ciuri ecrazeto Caridi Petro, i jineca padre si chiamava Caridi Pietro, la moglie
Potamisi Caterina. Potamisi Caterina.
Ichasi tesseri pedia, dio arcinicà ce dio Avevano quattro figli, due maschi e
thilicà. O protinò ito Caridi Janni tu Petro due femmine. Il primo era Caridi Gianni
ce ti Potamisi Caterina. di Pietro e Potamisi Caterina.
Caridi Filomena tu Petru ce ti Potamisi Caridi Filomena di Pietro e Potamisi
Caterina. Caterina.
Caridi Sodiana tu Petru ce ti Potamisi Caridi Sodiana di Pietro e Potamisi
Caterina. Caterina.
Caridi Anghelo tu Petru ce ti Potamisi Caridi Angelo di Pietro e Potamisi
Caterina. Caterina.
Etuta pedia, puccia ti issa cceḍḍa, Questi ragazzi, da quand’erano piccoli,
pasaena ecanne ti duliandu. facevano ognuno il proprio lavoro.
I andri afudussa ton patre ste dulie tu I maschi aiutavano il padre nei lavori
chorafiu ce ta zoà. della campagna e accudendo gli animali.
I jineke duleggasi sto spiti, oli tse ecino Le femmine lavoravano in casa, tutte in
ti esonnasi, ichasi to argalio ce efenasi te ciò che sapevano, avevano il telaio e
carpite ce to stari, etuta ja to pleo issa tessevano le coperte e stoffe. Queste erano
nnemata tse sparto. Pasa ena iche tin per lo più tessuti di ginestra. Ognuna
duliandu, o spiti ipighe ambrò, sto spiti aveva il suo lavoro, la casa andava avanti,
izee i ognasi ce tin charà2. nella casa c’erano concordia e gioia.

O kerò eperanne ce me ton kerò i groni, Il tempo passava e con il tempo gli
o janni ti ito ton protinò jò iche icosiena anni; Gianni che era il primo figlio aveva
chronia. Issa i misi tu agustu ce sto chorio ventun anni. Era il mese di agosto e in
ecamasi tin arghia. O Petro me tin jineca paese si faceva la festa. Pietro con la
ipasi sta pedia: arte ...3 moglie dissero ai figli: ora...

1
Il titolo del racconto è preceduto dalle parole Prima parte – Protinò merticò, segno evidente
che nella mente dell’autore maturava una seconda parte, che tuttavia non abbiamo.
2
Variante cancellata: Eduleggazi oli ce to spiti ipighe ambrò, i chroni eperannase ce ta pedia
fusconnasi ‘lavoravano tutti e la casa andava avanti, gli anni passavano e i ragazzi crescevano’.
3
Qui, in calce alla prima pagina, la narrazione si interrompe; probabilmente lo scrittore ha un
ripensamento sul prosieguo.

- 13 -
p. 2

______________________
Ppos ito i prandia mia forà sti Bova, in capo alla seconda pagina, è un altro titolo della narrazione.
Sembra di poter arguire che il racconto cominciava qui, poi la prima parte fu cancellata e riscritta
nella pagina precedente dell’agenda.

- 14 -
p. 2

Mia spera zze chimona issa minonda Una sera d’inverno s’intrattenevano al
sti scara4, i gonei manachà jatì ta pedia braciere, solo i genitori perché i figli erano
issa paonda stin jitonissa ti iche ciola ta
andati dalla vicina che aveva anch’essa dei
pedia. figli.
Nel buio taciturno della notte e al
Ston atsicholito scotidi ti nnista ce stin
strafonghia ti fotia5 echlatthononde barlume del fuoco si scaldavano seduti
cathimena sta scannia i gonei, ito nista. negli sgabelli i genitori; era notte.
O sinverni6 eclae etuti monocholia me Il marito ruppe questa solitudine con
mia arotimia jirimeni stin jinecandu, una domanda rivolta alla moglie, dicendo:
legonda: «Caterina, tseri ti mu irte stin «Caterina, sai che mi è venuto in mente?
idea? na prandetsome ton ijò Janni; arte di ammogliare nostro figlio Gianni; ora ha
echi icosiena chroni ce ene calò na cami ventun anni ed è bene che faccia la sua
to spitindu». casa».
«Ene alithia - apologhize i jinèca, ma «È vero – rispondeva la moglie – ma
me pia tzoḍḍa? pia echome na tu con quale ragazza? Chi dobbiamo
ddhegome?» scegliere per lui?
O andra: «Ecipera echi tin dichatera tu L’uomo: «Di là c’è la figlia di Nicola,
Nicola, i Caliddea ti ene mia calì tsoḍḍa,Caliddea, che è una bella ragazza, lavora a
dulegghi sto spiti ce ston campo, ene tse casa e in campagna, è di poche parole, è
ragazza che fa la casa. Tu che dici?»
liga loja, ene tsoḍḍa ti canni spiti, esù ti
leji?». «È bella - risponde la moglie -
«Ene calì - apologai i jineca - echomedobbiamo interrogarlo per vedere che
na ton arotiome na ivrome ecino ti leghi.»dice».
O andra: «Arotatu esù ce vrè ti su leji. L’uomo: «Chiediglielo tu e vedi che ti
dice».
«Manè», apologai i jineca. «Sì», rispose la moglie.
Mia mera o Janni ipe sti mmana: Un giorno Gianni disse alla madre:
«Mana, ettepurrò pao sto cipuri ce potizo «Madre, domattina vado all’orto e irrigo,
jatì thelusi potimena ola ta pramata ti perché le cose che abbiamo piantato
echome fitemmena mandè tserannusi». devono essere irrigate, sennò seccano».
«Manè manè – leji i mana – «Sì, sì – risponde la madre –

4
scára vale qui certamente ‘braciere’ o ‘focolare’ secondo la semantica antica di ἐσχάρα. V.
Glossario.
5
Qui si leggono le parole cathimeni sta scannia ‘seduti nelle panche’, cancellate dall’autore.
6
sinvérni ‘marito, consorte’. La voce è sconosciuta a tutti i lessici dell’italogreco; è attestata
solo da Casile. Vedi Glossario.

- 15 -
p. 3

__________________

Si noti che i genitori interpellano i figli col “tu” e i figli rispondono col “voi”.

- 16 -
p. 3

ercome ciola egò, deleggo an echi plerato vengo anch’io, se c’è qualche cosa matura la
ticandì ce to ferro sto spiti». raccolgo e la porto a casa».
To cipuri den ito poḍḍì macria tu spitiu. L’orto non era lontano da casa. Appena
Ppos epigasi, i mana leji ston jo: «Cuse, giunti, la mamma dice al figlio: «Ascolta,
pedimmu, ithela na su camo mia arotimia. figlio mio, vorrei farti una domanda».
O Janni: «Manè, mana, petemu». Gianni: «Sì, sì, mamma, ditemi».
«Arte esù echi icosidio chroni ce den ene ti «Ora tu hai ventidue anni e non è bene che
sonni mini azato, echi na prandestì, na echi to rimanga scapolo, devi sposarti, per avere una
spitissu, na echi tin jinecasu, na echi ta casa tua, per avere una moglie, per avere dei
pediasu, na ise esù o codispoti tu spitiu. Egò figli, per essere tu il capo della casa. Io e tuo
ce o ciurisu ethelame na stathì panda sto spiti padre vorremmo che stessi sempre a casa con
me emmà, ma den ene calò, i fisis7 etuto edike noi, ma non è bello, la natura questo ha dato
sto cosmo ce emì den sonnome sirti apissu». al mondo e noi non possiamo tirarci indietro».
O Janni: «Mana, ecino ti mu lejite esì ene Gianni: «Mamma, quello che mi dite voi è
panda calò ja mmena, esì ce o ciurimu iste sempre buono per me, voi e mio padre siete
ecini ti echite na mu ipite ecino ti echo na quelli che mi dovete dire ciò che ho da fare.
camo, ppo thelite esì egò canno». Come volete voi, così io faccio».
I mana: «Manè, pedimmu vlojimeno, egò La madre: «Sì, figlio benedetto, quello che
ce o ciurisu, ecino ti su legome ene ja calò ti ti diciamo io e tuo padre è per il bene tuo, noi
su to legome, emì den thelome to cacò se non vogliamo il male per nessuno».
canenù». Gianni: «lo so, mamma, vedete voi chi
O Janni: «to tsero, mana, vrete esì pia devo sposare».
echo na prandespo».
I mana: «Vre, echi tin dichatera tu Nicola, La mamma: «Vedi, c’è la figlia di Nicola,
ecino ti tu legusi Piruciu, i Caliddea, ti ene quello che chiamano Piruciu, Caliddea, che è
mia calì tzoḍḍa, ene tse liga loghia, dulegghi una bella ragazza, è di poche parole, lavora in
sto spiti ce sta chorafia, fiḍḍizi, therizi, casa e in campagna, sarchia, miete, zappetta,
scalegghi, vastazi ce sto spiti canni olo, su trasporta, e a casa fa di tutto, ti dico che è una
lego ti ene mia tsoḍḍa tse crisafi, oli stin ragazza d’oro, tutti nel vicinato ne parlano
jitonia plateggusi calà, prikio poḍḍì den echi bene; non ha molta dote perché sono quattro».
jatì ene tessera». «Lo so - rispose Gianni - perché le vedo
«To tsero - apolojie o Janni - jatì ta chorò che per lo più vanno scalze le donne, le due
ti ja to pleo pasi panda tsipòvlita i jineke, i dio figlie e la madre».
dichatere ce i mana».
I mana: «Vre Janni, etute ene jineke ti La mamma: «Vedi Gianni, queste sono
cannusi spiti ce cannusi charà to sinverni, donne che fanno la casa e fanno felice il
ecine jineke vasmene ce jinnocule aḍḍassusi marito, quelle donne dipinte e mezze nude,
foresia dio tris forè tin imera8. Esù pedimmu due tre volte al giorno cambiano vestito e
echi na prandesti me mian jineca ti prepi na forse anche idea. Tu, figlio, devi sposare una
ene condasu donna che merita di starti vicino

7
Fisis ‘natura’ è accolta da Casile dal greco antico (φύσις: GEW 2, 1054), non dal moderno φύση
(DGMI 1079), come dimostra la -s; più avanti (p. 4) scrive fisis (jénnithi) aggiungendo tra parentesi il
termine grecanico usuale.
8
Interpolazione sapienziale posta in nota a piè pagina: ce sonneste ciola idea ‘e forse (cambiano) pure
idea’.

- 17 -
p. 4

- 18 -
p. 4

ferronda ston cinurghio spiti tin agapi tin portando nella nuova casa l’amore, la gioia e
charà ce tin ireni, me etuta tria pramata to zisi la pace; con queste tre cose la vita non
den echi aḍḍa provlimata varìa, jatì ta aḍḍa presenta altri problemi gravi, poiché le altre
pramata ta ferri i fisis (jénnithi)9 ce emin cose le porta la natura e noi di fronte alla
ambrò stin jennithi den sonnome cami tipote». natura non possiamo fare nulla».
O Janni: «Alithia ene mana, to értima stin Gianni: «È vero, mamma, l’ingresso nella
zoì canena to isoe tsiporei». vita nessuno l’ha saputo conoscere».
Mana ce jo, duleggonda ce plateggonda Mentre madre e figlio lavoravano e
eperae i misi mera, ito jenastonda mesimeri. I parlavano, passò il mezzogiorno, era giunto il
mana leghi ston Janni: «pame sto spiti jatì ene mezzogiorno. La madre dice a Gianni:
mesimeri ce an den pame emì sto spiti ecini «andiamo a casa perché è mezzogiorno e se
menusi ammà ce den trogusi». non torniamo a casa essi ci aspettano e non
mangiano».
«Manè - apolojie o Janni – pame». «Sì – rispose Gianni – andiamo».
Ito ton mina tu sturiuniu, ecanne zesta ce Era il mese di luglio, faceva caldo ed essi
ecini apucatu sto ciòmeno ilio tu misimerìu sotto il sole cocente del mezzogiorno
ejaissa sto spiti, oli palemeni tse ddrosia. I tornarono a casa, tutti bagnati dal sudore. Le
dichatere issa camonda to faghì ce amenasi figlie avevano preparato il pranzo ed
tin mana me ton leḍḍé. Sto spiti apofortoasi ta aspettavano la mamma col fratello. A casa
pramata ti issa piaonda an do cipuri, scaricarono le cose che avevano raccolto
eplithissa ce ecathiasi sta scannia na fasi. nell’orto, si lavarono e sedettero negli sgabelli
Tote ecathinnasi sta scannia jatì te chathistre per mangiare. Allora sedevano negli sgabelli
ta ichasi i aristà manachà. perché le sedie le avevano solo i ricchi.
Ja sanidi10 (trapezi) na fasi ito ena mega Come tavola per mangiare (gr. trapezi) si
scannì. usava un gran tavolato.
Egò sto spiti ti echo ston chorafi, ecì pu Io, nella casa che possiedo in campagna, là
ejennithina, echo to scannì pu etrogasi ta dove sono nato, ho il tavolato su cui
pappudiamu ce pu efaga egò ton protinò faghì mangiavano i miei nonni e su cui ho mangiato
ligo me to cheri dezio ce ligo me tin aristerà. anch’io il primo pasto, un po’ con la mano
destra e un po’ con la sinistra.
Otu ecamasi i jenia tu Janni, ce o Janni. I Così fecero la famiglia di Gianni e Gianni
leḍḍà pleo megali evale sto meso tu spitiu to stesso. La sorella più grande collocò in mezzo
scannì mega, apanu evale ena accheri ce mia alla casa il tavolato grande, sopra vi mise una
limba megali, podò epiae ti zzucca ce ecinoe tovaglia con un grande vassoio, poi prese la
ossu stin limba to faghì, pasa ena ecathie sto pentola e versò il cibo dentro la limba: ognuno
scannindu, ecamasi to stavrò, ce accherosai sedette nel suo sgabello, fecero il segno della
na fasi. O sinverni ce i jineca cathiasi condà11, croce e cominciarono a mangiare. Il marito e
i gonei etrogasi ma ecanunussa ta pedia ppos la moglie sedevano vicini, i genitori
etrogasi ngalipata, pasa ena etroghe stin mangiavano ma guardavano i figli come
meriandu, jatì otu issa mathimena. mangiavano garbati, ognuno mangiava nel
suo posto, perché così erano stati educati.
San eteglioasi tse faì, i Sodiana Quando finirono di pranzare, Sodiana

9
V. nota 7.
10
La voce è disusata, per cui Casile suggerisce trapézi, prestito da ngr. τραπέζι. V. Glossario.
11
Qui si trova la seguente frase cancellata: ecanunussa me megali charà ta pedia ‘guardavano
con gran piacere i figli’.

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p. 5

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p. 5

ejerti ce edeletse ta cutaglia ce tin limba, si alzò e raccolse le posate e il catino, li


ta epline ce ta sicoe stin paratira. lavò e li pose nella nicchia.
Ecanne zesta, enan aero cufozesto emi- Faceva caldo, un’aria pesante meno-
cronne tin avlepimia, mia atonia eclanne mava la vista, una debolezza spezzava la
tin zoì ce ecanne chai to thelima ti ddulia. vita e toglieva la voglia di lavorare.
Ipe o ciuri: «Ene caglio na atsiplothu- Il padre disse: «è meglio che ci sten-
me, canni zesta, dulie poḍḍè den echome diamo, fa caldo, non dobbiamo fare molti
ja cami, i protinì dulia ti echome na lavori, il primo lavoro che dobbiamo fare
camome ene i camarda12 ja ta sica, ma è la cannicciata per i fichi, ma ancora
acomì echome kerò jatì ode se emmà sta abbiamo tempo perché qui da noi in mon-
vunà pleronnusi pleo etsima ti ston jalò». tagna maturano più tardi che in pianura».

Otu atsiplothissa oli. Mia mera ta Così si sdraiarono tutti. Un giorno i


pedia ejiaissa na cotsusi to frigano, na to ragazzi andarono a tagliare i sarmenti per
camusi fortìa ce na to vastausi sto spiti ja farne dei fasci da trasportare a casa per
na camusi tin camarda. I gonei eminase fare la cannicciata. I genitori rimasero
manachoto; ppos issa ecì ti ecannasi soli. Mentre erano lì a fare lavoretti
duluḍḍe ismia, i jineca leghi tu antruti: insieme, la donna dice al marito: «L’ho
«Tu to ipa to Janni ja na prandestì, na detto a Gianni di sposarsi, di fare la sua
cami sto spitindu ja na echi mian jenia. casa e di avere una famiglia sua. Lui mi ha
Ecino mu ipe manè, na ivrome emì, egò ce risposto di sì, che dobbiamo vedere noi, io
esù, me pia echi na prandetsi». e tu, con chi si deve sposare».
«Manè - ipe o andra - ma enan aḍḍo
prama, echome to provlima ja to spiti». «Bene – disse il marito – ma c’è un’al-
I jineca: «Den ene megalo etuto tra cosa, abbiamo il problema della casa».
provlima, jatì echome ston aḍḍo chorafi La donna: «Non è un gran problema,
ton aḍḍo spiti, theli stiamèno to stiazome perché nell’altro campo abbiamo l’altra
ce delegghete ecì». casa, ha bisogno di una sistemata, la
O andra: «Leghi calà jinecamu, esù ta aggiustiamo e vi ritirerete là».
pramata ta stiazi sirma, den channese». Il marito: «Dici bene, moglie, tu le cose
I jineca: «O andrammu, den echome na le sistemi prima, non ti perdi».
chathume otu La moglie: «O marito mio, non ci
dobbiamo perdere così

12
camarda ‘incannicciata per seccare i fichi al sole’, cal. ánditu.

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p. 6

- 22 -
p. 6

se mia stassusa tse nerò». in una goccia d’acqua».


O Petro: «Acomì den ettserome an do Pietro: «Ancora non sappiamo se Caliddea
thelisi i Caliddea, ce an den do theli?». lo vuole; e se non lo vuole?»
I jineca: «Petro ... mi sciastì, den du La moglie: «Pietro…, non avere timo-
canni tipote, emì eddejiame tin Caliddea re, non ci fa niente, noi sceglieremmo
jatì tin agronizome, mandè jineke echi Caliddea perché la conosciamo, se no don-
tosse ston cosmo. Donnome kerò acomì, ne ce ne sono tante nel mondo. Diamo
arotume metapale ton Janni na ivrome an ancora tempo, poi interrogheremo Gianni
echi tin analoji idea, echome na to per vedere se ha la stessa idea; dobbiamo
arotiome, an thelisi na stiaome to spiti ja chiedergli se vuole che aggiustiamo la
na stathì, jatì den don arotiame pu theli casa per abitarci; infatti non gli abbiamo
pai san prandegghete, ce podò chorume ti domandato dove vuole andare quando si
echome na camome». sposa, e poi vedremo quello che dobbiamo
fare».
Ppos ecannasi etuto logo, ta pedia Mentre facevano questo discorso, i
irtasi me ta fortia tse frigano, ta ragazzi giunsero con i carichi di frasche, li
apofortoasi ston avlì ce embikissa sto scaricarono nel cortile ed entrarono in
spiti. Issa te protinè mere tu settembriu ma casa. Erano i primi giorni di settembre, ma
acomì i zesta ecoto. Sto spiti i mana ito ancora si sentiva il caldo. In casa la mam-
camonda to faghì, ton estiae stin limba, i ma aveva preparato la cena, la versò nel
judi eplethissa ce oli ecathiasi na fasi. Sto catino e i figli si lavarono e tutti sedettero
urano evlepeto catha tosso ena sinnafo. per mangiare. In cielo si vedeva ogni tanto
una nuvola.
O ciuri san eteglioasi na fasi ipe sta Finita la cena, il padre disse ai ragazzi:
pedia: «Ito calò na camome tin camarda «Sarebbe opportuno fare la camarda,
jatì o kerò addatse ce sonni ciola vretsi, perché il tempo è cambiato e può anche
otu deleggome ta sica, ta aplonnome stin piovere; quindi raccogliamo i fichi, li
camarda ce an evretsi ta cupponnome me apriamo nella cannicciata e se piove li
tin catuna, mandè ste sucie palenusi podò copriamo con la tenda, altrimenti nelle
muthiazusi ce ta channome». piante si bagnano e poi ammuffiscono e li
perdiamo».
«Manè, manè», apolojiasi i judi; «Sì, sì» risposero i figli. Andarono nel
ejaissa sto topo ecì pu ito i palea, egualasi luogo in cui era la cannicciata vecchia,
ta tsila sapimena [ce evalasi ta tolsero i tronchi fradici, fecero le buche e
cinurghia]13 ecamasi te ttripe ce evalasi ta collocarono i legni nuovi, puntelli e travi.
tsila cinurghia, puntidde ce trave, apanu Sopra le travi prima misero i rami di
ste trave prita evalasi ta cladia tse dendrò, legno, sopra di essi quelli di ginestra e
apanu se cino tse dendrò ecina tse sparto sopra lo strato di ginestra posero verghe
ce apanu sto sparto evalasi virghe macrie lunghe come quelle con cui si
san ecina ti tinassome tes alè ce me abbacchiano le olive; con legacci di
demata tse sparto edeasi te virghe, ena ginestra fissarono le verghe; uno sopra la
apanu stin camarda me ena piruni ecame camarda con un punteruolo fece due
dio tripe, sto meso an de dio tripe buchi, in mezzo ai due buchi

13
Frase cancellata nel ms.

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p. 7

__________________

Il primo rigo [ercheto i virga ce an de tripe] è cancellato.

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p. 7

[ercheto i virga ce an de tripe] ecatevenne [veniva la verga e per i due buchi]


to dema, ecino ti ito apucaotte to eserre ce scendeva il legaccio. Quello che stava
edenne stin trava to dema, otu ta cladia sotto lo tirava e fissava alla trave il
spimmena singathimena ta sica den legaccio. Così, essendo i rami serrati e
esonnasi pei. compressi, i fichi non potevano cadere.
Tegliomeni tin camarda ecamasi adde Finita la camarda, fecero altri lavori;
dulie, o Janni me tin mana ejassa na Gianni e la madre andarono ad irrigare, e
potiusi, metapale sto potima i mana di nuovo durante l’irrigazione la mamma
anaforizi ston Janni to analogo logo ti ripete a Gianni lo stesso discorso del
prandia. matrimonio.
O Janni: «Manè mana, egò sas to ipa Gianni: «Sì, mamma, ve l’ho detto fin
puccia tote na camite esì ecino ti ene d’allora di fare voi ciò che è giusto, io
sostò, egò pisteggo essà, jatì cammia confido in voi, perché nessuna madre al
mana ston cosmo theli to cacò sta mondo vuole il male dei suoi figli».
pediati». «Sono contenta – dice la madre – Ora
«Charà imme - leghi i mana -. Arte tu lo dico a tuo padre e una sera andiamo a
to lego ston ciurissu ce ena vradi pame sto casa e lo diciamo ai genitori di lei…
spiti ce tos to legome sto goneoti... È meglio che rientriamo perché il sole
Ene caglio na jiriome jatì o iglio è tramontato e a casa ci aspettano».
evasilezze ce sto spiti ma mmenusi». «Sì, andiamo», dice Gianni.
«Manè, pame», leghi o Janni. Quando arrivarono a casa, le figlie
San ejaissa sto spiti, i dichatere issa avevano preparato la cena, avevano
camonda to faghì ja ti spera, issa tajionda governato gli animali e non c’era altro da
ta zoà, den ichasi tipote addo ti cami. fare.
[Ambrò ste dichatere den eplateggheto tse [Davanti alle figlie non si parlava di
prandie, i tsodde issa cratimena sto nozze, le ragazze erano tenute al buio, ma
scotidi, ma iche ti mmana ce to pleo te c’era la madre e per lo più le vicine che
jitonisse ti tos elegasi panda ta pramata. sempre dicevano loro le cose. Sedettero
Ecathiasi sta analoga scannia, mia an de nei soliti sgabelli, una delle due figlie
dio dichatere ecinoe to faghì stin limba]14. versò il cibo nel piatto grande].
Mia an de dio dichatere estiae to Una delle due figlie preparò il tavolato
scannì to mega, apano evale tin limba grande, vi pose sopra la limba, poi prese la
podò epiae tin tsucca me to faghì ce to pentola col cibo e la svuotò dentro il reci-
cinoe ossu stin limba, to faghì ito ciomeno piente. Il cibo era ancora bollente, sicché
acomì otu to aficasi na pothimisi, san ito lo lasciarono raffreddare; quando fu
pothimeno accherosai na fasi. Ecini spera raffreddato cominciarono a mangiare.
efagasi me enan mega sopima, tispo anitse Quella sera mangiarono in un grande
stoma na ipi logo. silenzio, nessuno aprì bocca per profferire
parola.

14
Frase cancellata nel ms.

- 25 -
p. 8

I
i

- 26 -
p. 8

Den iche scopo ecindo sopima, ma Non aveva un senso quel silenzio, ma
tosse forè jennai stin tsichì ticandì tse tante volte nasce nella mente qualcosa di
tseno ce donni stin zoì mia cholada ti costi strano e dà alla vita una macchia che taglia
to ertima tos athropo, ene fenomena l’avvenire agli uomini: sono fenomeni
apista ma ti cannusi zimia. poco credibili, ma fanno danni.
Tin apissu mera, i mera eperae Il giorno appresso la giornata passò
canonikì tipote tse cinurghio, e otu ejai regolarmente, niente di nuovo, così
ambrò panda i jenia tu Petru. andava avanti sempre la famiglia di Pietro.
Ecini ti diamerizi ene panda i Caterini. Quella che calcola è sempre Caterina.
Mia mera leghi tu andruti: «Petro, arte o Un giorno dice al marito: «Pietro, ora il
kerò den ene poddì acharo, ito caglio na tempo non è molto cattivo, sarebbe meglio
stiaome to spiti jatì sonneste ti ston ottovri preparare la casa perché forse a ottobre i
i kerì accheronnusi te vrochie ce i dulie tempi cominciano le piogge e i lavori
jenete disculi». diventano difficili».
«Manè – ipe o Petro – serrome ton «Sì – rispose Pietro – trasportiamo la
ammo ce to asvesti, echome na ivrome pio sabbia e la calce, dobbiamo decidere quali
mastora ferrome, jatì mastori echi tossa mastri chiamare, perché mastri ce ne sono
ma ecini ti asvestonnusi calà ene lighi». tanti, ma quelli che fanno begli intonaci
sono pochi».
Arotiasi sto chorio ce ezitiasi enan Chiesero in paese e si rivolsero a un
mastora ti oli elegasi ti ito calò. Ton mastro che tutti dicevano essere bravo. Gli
arotiasi ce tos ipe ti pai pote ttelusi. chiesero e lui rispose che sarebbe andato
quando volevano loro.
I jineca acomì: «Egò elega na minome, Ancora la moglie: «Io direi di
prita trijizome ce podò stiazome to spiti». aspettare; prima vendemmiamo e poi
O andra: «Manè, camome otu, po theli sistemiamo la casa».
esù». Il marito: «Sì, facciamo così, come
I jineca me tin fonì tsilì ipe: «Den ene vuoi tu».
jatì to lego egò, ma an esù den La donna disse con voce sottile: «Non
programmizi, den leghi tipote, egò emena perché lo dico io, ma se tu non programmi
na to ipi esù, arte ti ivra ti esù den leghi non dici niente; io sono rimasta che sarai
tipote, to ipa egò, mandè esù emene na tu a parlare, ora che ho visto che tu non fai
trighiome san ichame na cladetsome». niente, l’ho detto io, se no tu restavi che
dovevamo vendemmiare quando c’era da
«Calomiro egò ti echo etundi jineca», potare».
leji o Petro. «Sono fortunato ad avere una simile
Edeletsasi ta sica, etrijiasi, ecamasi to moglie», osserva Pietro. Raccolsero i
mustari ce etuta pramata issa ola fichi, vendemmiarono, fecero il mosto e
sistromena. O kerò ito vretsonda ste misè queste attività furono tutte completate. Il
mere tu settembrìu, me to vremma tempo si era voltato a pioggia a metà di
addatsonda ton aero ce me ton aero to settembre; la pioggia cambiava l’aria e
clima. O Petro accheroe na cotsi tsila con l’aria il clima. Pietro cominciò a
tserà ja na ta echusi sto chimona ce ta spaccare legna secca per averla in inverno
vastaze sto spiti. Ta pedia i jineke issa sto e la trasportò a casa. Le figlie femmine
spiti ti afudussa tin erano a casa per aiutare la

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p. 9

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p. 9
mana ste ddulie tu spitiu. mamma nei lavori della casa.
I dio andri evastasai ton ammo ce to I due maschi trasportarono la sabbia e la
asvesti na stiausi to spiti. calce per intonacare la casa.
I mere eperannasi ce me dasto eperanne o I giorni passavano e con essi passava
kerò ce den issa paonda na camusi tin l’anno e non andavano a presentare la
zitimia ja nifi tin Caliddea. Ito sto richiesta di matrimonio per Caliddea. Alla
teglioma tu novembriu mia vradia i gonei fine di novembre una sera i genitori di
tu Janni ipasi sta pedia: «apotse trogome Gianni dissero ai figli: «Stasera si mangia
[pleo sirma] prita jatì emì aplothome. San presto perché noi usciamo.
evasiletse o ilio, to faghì ito jenameno. Al tramonto la cena era pronta.
I Filomena ipe stin mana: «Mana, to faghì Filomena disse alla mamma: «Mamma, il
ene jenameno, san thelite stiazo». cibo è pronto, quando volete voi io
«Manè - leghi i mana - addo ligo posso na apparecchio».
addatso tin foresia». «Certo – risponde la mamma – ancora un
Eperae mia imeso ora ce i mana leghi: pochino, quanto che mi cambio il vestito».
«Filomena, stiae, jatì egò imme etimo». Passò una mezz’ora e la mamma disse:
Edelestissa oli acathiasi pasa ena ston «Filomena, apparecchia, perché sono
topondu ce accheroasi na fasi. Ppos pronta».
etrogasi, o ciuri accheronni mia omilia ce Si riunirono tutti, sedettero ognuno al suo
leghi: «Pediama, ppo teglionnome tse faì posto e cominciarono a mangiare. Finita la
egò ce i manasa pame ecipera stu cena, il padre avvia un discorso e dice:
cumpare Nicola, pame na zitiome ja nifi «Figli miei, appena terminiamo la cena io
din dichateratu Caliddea ja ton Janni ton e vostra madre andiamo di là da compare
dicomma». Nicola, andiamo a chiedere per sposa la
Ta pedia oli charà: «Manè manè, calò ene loro figlia Caliddea per Gianni nostro».
ciuri, ameste». I ragazzi tutti felici: «Sì, sì, va bene, padre,
andate».
I gonei echoristissa ma ito jenastonda I genitori partirono, ma si stava facendo
nista ce den evlepeto, ma to dromo ito notte e non si vedeva, però la strada era
mali ce eparpatiasi, san eteglioe to dromo piana e camminavano; quando finì la
mali, issa piaonda sto spiti mia flaca strada piana, avevano preso a casa una
jenameni me to vutomo, tin apsasi ce torcia fatta con l’ampelodesmo, l’accesero
ejaissa, san ejaissa condà sto spiti tu e andarono avanti; quando furono vicino
Nicola iche to sciddo ce embiki na alestisi, alla casa di Nicola, c’era il cane che
pleo econdonnasi pleo o sciddo aleste, cominciò ad abbaiare; più si avvicinavano
tosso ti o Nicola eguiki otsu na ivri, ivre ti e più il cane abbaiava, tanto che Nicola
epigasi ja tin meria tu spitiundu ce emine uscì fuori per vedere, constatò che erano
ambrò stin therida. San ejaissa condà ta giunti nei pressi della sua casa e rimase
agronie. davanti alla porta. Quando furono
O Petro leghi: «Calispera cumpare dappresso li riconobbe.
Nicola». Pietro dice: «Buona sera, compare
«Calispera cumpare Petro ce esì ja etute Nicola».
merìe pramata cinurghia». «Buona sera, compare Pietro, voi da
O Petro: «Ce tserite ecame vorea citte ce queste parti? C’è qualche novità!».
mas efere ja ode». Pietro: «Sapete, ha soffiato il vento da
O Nicola: «Calò, calò ecame, pisteggo ti queste parti e ci ha portato qui».
den Nicola: «Bene, bene ha fatto, credo che

- 29 -
p. 10

_______________
Nell'ultimo rigo, la voce esoletsasi è oscura; il senso è 'si allontanarono', per cui possiamo immaginare
un neologismo *isoléguome da isolarsi.

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p. 10

sas efere se achari meria, mbicaste, non vi abbia portato da brutte parti, entrate,
mbicaste», ce anighi tim porta. I jineca me ta entrate», e apre la porta. La moglie e i figli si
pedia ejertissa donnonda ton calos irtete ce alzarono dando il benvenuto e abbracciando.
filonda. «Siamo venuti per cambiare aria [ogni tanto è
«Ce irtame n’addatsome aero». «[catha tosso bene cambiare]», disse Caterina. «Accomo-
ene calò na addastì]»15, ipe i Caterini. datevi, accomodatevi», disse Maria, e porsero
«Cathite, cathite», ipe i Maria, ce tos educasi loro gli sgabelli per sedersi. Per prima cosa
ta scannia na cathiusi. To protinò prama chiesero notizie della salute, poi Maria dice:
erotistissa ja tin ijia, podò i Maria leghi ti sa «che cosa vi possiamo offrire?». Nicola: «Vi
proferrome. O Nicola: «Sa ddonnome na faite daremo qualcosa da mangiare».
ticandì». «No, no – rispondono Pietro e la moglie –
«Udè udè - legusi o Petro ce i jinecatu -, grazie, noi abbiamo cenato e siamo partiti».
cheramine16 emì efagame ce echoristimma. «Sì, lo so - dice Nicola con la moglie – ma per
«Manè to tsero - leghi o Nicola me tin jinecatu quanto poco ne vogliate, dovete mangiare e
- ma possi ligo thelite echite na faite ce na bere vino, è vino vecchio quello che abbiamo
pisite crasì, ene crasì paleo ti echome ce ene ed è buono, il nuovo è ancora mosto». I
calò, to cinurghio acomi ene mustari». Ta ragazzi sedettero e stavano seduti, ascoltarono
pedia ecathiasi ce estecasi cathimena ciò che dicevano gli altri, ma la madre guarda
ecunnasi ecino ti elegasi i addi, ma i mana la figlia Marianna e le dice: «Marianna, porta
canunai tin dichaterati tin Marianna ce ti un po’ di legna e mettili sul fuoco perché ci
lleghi: «Marianna, fere liga tsila ce valeta stin possiano scaldare, l’aria si è raffreddata».
fotia na chlatthume, o aero etsichratthi». Marianna non rispose; esce, prende una
I Marianna den apologhie, guenni otsu, bracciata di legni tagliati e li mette sul fuoco.
pianni mia angagliata tse tsila commena ce ta All’altra figlia, Caliddea, dice: «Apparecchia
vaddi stin fotia. Stin addi dichatera stin la tavola di faggio e porta formaggio, salsicce,
Caliddea ti lleji: «Stiae to scannì tu faghiu ce olive, pane e vino. Quando Caliddea portò
fere tirì, lucanico, alè, to spomì ce ti crasì. San tutto quello che le aveva detto la mamma,
i Caliddea efere olo ecino ti i manati tis ito Nicola e Maria dicono a Pietro e a Caterina:
iponda, o Nicola ce i Maria legusi ston Petro «Avanti, fatevi avanti e mangiate, mangiate
che stin Caterini: «Sirtate, sirtate ambrò ce quanto volete, ma dovete mangiare, qui è
fate, fate posso thelite ma echite na faite, ode careseccia anche la carne suina; il vino, ve
ene olo spitatico ciola to chirinò, to crasì, sas l’ho detto, è dell’anno scorso».
to ipa, ene percinò». «Lo sappiamo – risponde Pietro –, il fatto è
«To tserome - leghi o Petro -, to prama ene ti che non abbiamo fame».
den echome pina». Dice Nicola: «Un po’ d’intestino rimane
Leghi o Nicola: «Ligo andero meni etsero ja vuoto perché uno vi possa mettere ciò che gli
na vali atropo ecino ti tu donnusi i fili panda». danno sempre gli amici».
Otu efagasi posso etheliasi, ja na mi fanì ti Così mangiarono quanto volevano, per non far
den trogusi tipote. O Petro anitse ton logo vedere che non mangiano niente». Pietro aprì
legonda: «Emì irtame ode ja na sas ipome il discorso dicendo: «Siamo venuti qui per
enan logo». dirvi una parola».
San o Petro ipe etuto logo ta pedia pu ena ena Appena Pietro pronunciò queste parole, i
esoletsasi, eminasi o andra ce i jineca (i ragazzi uno a uno si allontanarono e rimasero
gonei). marito e moglie (i genitori).

15
Altro brano cancellato nel ms.
16
cheramine aor. di ḣarréo v. intr. ‘pensare’, ‘sperare’; ‘rallegrarsi’, compiacersi’; qui vale. come
espressione di ringraziamento → ḣarréo. aor. sigm. raro (ἐ)χηράµην. Oppure χηράµενοι ‘grati’ part.
aor. di χαίρoµαι (χαιράµενος a Creta).

- 31 -
p. 11

- 32 -
p. 11

O Nicola ipe: «Manè, pete». Nicola disse: «Allora, parlate».


O Petro: «Emì irtame na zitiome ti Pietro: «Siamo venuti per chiedere vostra
dichaterasa tin Caliddea ja prandia me figlia Caliddea per sposa di nostro figlio
ton jomma Janni. Esì ton agronizete ton Gianni. Voi lo conoscete nostro figlio
nijomma Janni ce an den ndo agronizete Gianni e se non lo conoscete chiedete a
arotate se ecini ti ton agronizusi». quelli che lo conoscono».
O Nicola ja ligo emine, den itsere ti na ipi, Nicola per un po’ rimase fermo, non
ma i jinecatu Maria apolojie legonda: sapeva che dire, ma rispose la moglie
«sanarte sirma sirma de ssa ssonnome ipi Maria dicendo: «Per ora subito subito non
tipote jatì prita echome na tu to ipome possiamo dirvi niente perché prima
ecinì». dobbiamo chiederlo a lei».
O Nicola ipe: «Echo na tu ipo sta Nicola disse: «Devo dirlo anche ai miei
leddithiamu ciola jatì emì ecino ti figli, perché ciò che noi facciamo lo
cannome prita na to camome chiediamo a loro prima di farlo».
arotizomesta». «Va bene, va bene – disse Pietro – non
«Manè, manè – ipe o Petro – den ene abbiamo molta fretta».
poddì funici». Gianni e le sorelle che erano rimasti a
O Janni ce ta leddadendu ti issa minonda casa, ed anche Angelo, lo prendevano in
sto spiti, ce ciola o Anghelo, ton giro; Filomena gli disse: «Gianni, e se non
ecinigussa; i Filomena tu ipe: «Janni, ce ti vuole?, che fai?».
an de su theli, ti canni?». «Niente», rispose Gianni.
«Tipote» leghi o Janni. L’altra sorella, Sodiana: «Si sposa con
I aḍḍi leddá, i Sodiana: «Prandegghete un’altra… donne da cui andare ce ne sono
me mian addi… jineke echi tosse ja pu na tante. Per le donne non rimarrà scapolo».
pai. Ja te jineke den meni azato». Den dos Non presero sonno perché aspettavano il
epianne iplo jatì emenasi na ertusi i gonei ritorno dei genitori per sapere quale era
ja na tsiporeusi pia ito i apologia. stata la risposta.
I Sodiana ejerti, anitse tin therida ce Sodiana si alzò, aprì la porta e uscì fuori,
eguiki otsu, ecanunie ta astria ce mbiki guardò le stelle e tornò dentro, ove disse:
metapale ossu, pu ipe: «den ene sirma jatì «Non è presto, perché la stella non è molto
o astro den ene poddì tsilò». Metapale i alta». Ancora Sodiana: «Se non arrivano
Sodiana: «An adhiausi theli ipi ti i sinodia si può dire che la compagnia piace… piaci
jerai… jerai ciola esù leddè Janni. An anche tu, fratello Gianni. Se tornano
erconde sirma, ta pramata den pasi calà presto, le cose non vanno bene e tu,
ce esù leḍḍè echi na clisi ti seddida tse fratello, devi chiudere la pagina con
etuti jineca ce na anitsi mian aḍḍi questa donna e aprirne una nuova». Le ore
cinurghi». I ore ejenondo macrie ce ecine si facevano lunghe ed essi sempre seduti
panda cathimeni stin scara menonda i al focolare aspettando il ritorno dei
gonei na jiriusi. genitori.
O Janni ipe: «Atonia ode cathimeno, pao Gianni disse: «Mi sono stancato di stare
ce traclino». qui seduto. Vado e mi corico».
«Ti canni – leghi i Sodiana – emì stecome «Che fai? – dice Sodiana – noi stiamo qui,
ode, den pame na ciumithume ja ssena, ce non andiamo a dormire per te, e tu vai a
esù pai na ciumithì, ti ene etuto? letto, che è questo?
- leddithiamu sta per leddidiamu.

- 33 -
p. 12

- 34 -
p. 12
An immo ego san essena, sanarte immo ecì Se fossi io al posto tuo, intanto sarei lì al
apissu sto tichio na cuo ti pramata legusi muro per ascoltare ciò che dicono e per
ce na cuo ti ffonì tse ecino anghelo ti esù sentire la voce di quell’angelo che tu vuoi
theli ja sindrofissa, otu agapete». O Janni: come compagna, così si ama».
«Leddà, leddà, esù echi addi idea, addi Gianni: «Sorella, sorella, tu hai un’idea, io
echo egò». Dia dia17 eperanne o kerò ce o ne ho un’altra».
Petro me tin jinecandu den ercondo. Etuti Lentamente passava il tempo e Pietro e la
forà pianni to logo i Filomena: «Emi pame moglie non tornavano.
ce traclenome, esù Janni den sonni Questa volta prende la parola Filomena:
traclini, jatì echi na mini atsunno ja pote «Noi andiamo a letto, tu Gianni non puoi
andare a dormire perché devi aspettare
erconde i pedoti na su dosi tin apolojia».
sveglio fino a quando tornano gli
O Janni: «Ce mu afinnite manachommu».
ambasciatori a darti la risposta».
Ι Sodiana: «Ti theli… su tin ecameme tin
Gianni: «E mi lasciate solo?».
sinodia ce ciola poddì. Arte pame ce Sodiana: «Che vuoi… ti abbiamo fatto
ciumumesta». compagnia e anche molta. Ora andiamo a
Me etuta lojia i therida anisti ce embikissa dormire».
i gonei, san da ivrasi ti issa cathimena Con queste parole si aprì la porta e i genitori
ipasi: «Ti acomì den eciumithite?». entrarono; quando videro che stavano seduti,
«De acomì – ipe i Sodiana – tu cameme dissero: «Perché non dormite ancora?».
sinodia tu Petru [= Janni] mi sciastì», ce «Non ancora – rispose Sodiana – abbiamo
ejelee. fatto compagnia a Pietro [= Gianni] perché
«Calà ecamete», leghi i mana. I Filomena non si spaventasse», e rideva.
leji ston Janni: «Arotato vre ti su legusi an «Bene avete fatto» dice la mamma.
su theli i Caliddea o de». Filomena rivolta a Gianni: «Interrogali, vedi
O ciuri jelonda ipe: «Filomena, esù ti che ti dicono, se Caliddea ti vuole o no».
leghi ti to theli o de?». Il padre disse ridendo: «Filomena, tu che
I Filomena ejenasti rusi sto prosopo ce dici, lo vuole o no?».
den itsere ti na apolojisi. Filomena si fece rossa in volto e non sapeva
«Pame, pame na ciumithume - ipe o ciuri che rispondere.
– ti ene nista». «Andiamo, andiamo a dormire – soggiunse
Tipote addo etsiporethi ja ecindin nista. il padre – che è notte».
Tin purrì issa oli spiti spiti jatì ti spera den Nient’altro si seppe per quella notte. La
issa programmionda tipote ja tin purrì. O mattina seguente erano tutti casa casa perché
la sera non si era programmato nulla per il
Janni ipighe panda cudduru cudduru me
mattino. Gianni andava sempre appiccicato
tin manandu na ivri an isonne cami dulia
attorno alla mamma per vedere se si poteva
ismia ce na tin arotisi, ma o ciuri ton
fare il lavoro insieme e interrogarla, ma il
ecratse ce tu ipe: «Janni, esù ce o Angelo padre lo chiamò e gli disse: «Gianni, tu e
ameste ston chorafi tu licu ce catharizite Angelo andate al campo del lupo e ripulite
tes alée sto podi ce ja posso macria ene ta gli ulivi alla base e i rami per quanto son
cladia, mandé san echome na deletsome lunghi, sennò quando dobbiamo raccogliere
den nda sonnome deletsi». (le olive), non possiamo farlo».
«Manè» ipe o Janni; ecratse to leddendu «D’accordo», disse Gianni; chiamò le
epiasai sorelle, presero

17
día día ['ðia ðia] avv. ‘lentamente’, ‘piano piano’, ‘adagio adagio’. L’espressione,
sconosciuta ai lessicografi, è attestata solo da Casile (Zoì,12). V. Glossario.

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ta sidera. i leddà tos estiae to faghì ja tin i ferri. La sorella preparò loro il cibo per il
mera, epiasai sidera ce faghì ce ejiaissa giorno, presero cibo e ferri e si diressero al
stin dulia. lavoro.
Ι jineke issa me te dulie sto spiti, i Sodiana Le donne erano impegnate nei lavori di
ppos esteke meterronda, iche tin mana casa. Sodiana, mentre tesseva, aveva la
condáti. Tin arotai: «Mana, ti sas ipasi mamma accanto a lei. Le chiede:
ettespera sto spiti tu compare Nicola?». “Mamma, che vi hanno detto ieri sera a
I mana: «Pedimmu, ti theli na su ipo, den casa di compare Nicola?».
mas ipasi de, den mas ipasi manè; echusi La mamma: «Figlia, che ti devo dire, non
na platetsusi me ta leddidia tu Nicola». ci hanno detto no, non ci hanno detto sì;
Eperasai pleo tse icosi mere, cammia devono parlare con le sorelle di Nicola».
apolojia ito fanonda. Mia spera, ppos issa Passarono più di venti giorni, non ci fu
cathimena sti scara, cusi stin therida nessuna risposta. Una sera, mentre erano
stipisi; ejerti o Janni, ecino ti san seduti al focolare, sentono bussare alla
estipizasi den ejerreto potè na anitsi. Ppos porta; si alzò Gianni, quello che quando
anitse tin therida, vlepi ton cumpare bussavano non si alzava mai ad aprire.
Nicola me tin jinecandu. Appena aprì la porta, vide compare Nicola
O cumpare Nicola cheretai: «Calì spera, con la moglie.
cumpare Janni». Compare Nicola saluta: «Buona sera,
«Calì spera, calos irtete, cumpare Nicola, compare Gianni».
mbicaste». «Buona sera, benvenuto, compare Nicola,
entrate».
Oli i jenia ejerti ce eccheretiasi i fili ti Tutta la famiglia si alzò per salutare gli
irtasi. I Sodiana epiae dio scannia ja na amici che erano arrivati. Sodiana prese
cathiusi o Nicola ce i Maria. O logo due sgabelli per far sedere Nicola e Maria.
aplothi an din ijia ste dulie. I Caterini La conversazione si orientò sulla salute
crazi tin Filomena ce tin leghi me nei lavori. Caterina chiama Filomena e le
chamofonì: «Ame sto magazeno ce fere dice con voce bassa: «Vai al magazzino e
tirì, crea chirinò tse ecino percinò ti porta formaggio, carne suina di quella
echome mesa sta pitera, alee carolee dell’anno scorso che conserviamo nella
alatimena ce ciola mizitra alatimeni, crasì crusca, olive carolee salate e anche ricotta
fere ena vucali, an thelome pleo pame ce salata, vino portane un boccale, se ne
to piannome, ce tsomì». vogliamo di più andiamo e lo prendiamo,
«Manè, mana, ma egò manachì den (n)da e pane».
sonno feri; na erti ciola i Sodiana na mu «Sì, mamma, ma io da sola non riesco a
fudisi». portarli; che venga anche Sodiana ad
aiutarmi».
«Petisto», ti lleghi i mana. I Filomena «Dìglielo», le risponde la mamma.
peranni condati, ce ti lleghi: «Sodiana, Filomena si porta vicino a lei e le dice:
ela me emmena». «Sodiana, vieni con me».
I Sodiana egherti ce ti ppai apissu. San Sodiana si alza e le va dietro. Quando
ejaissa sto magazeno, i Filomena ipe sti giunsero nel magazzino, Filomena disse
leddà: «Mu ipe i mana na parome etuta alla sorella: «La mamma mi ha detto di
pramata». portare tutte queste cose».
«Ta perrome» apologai i Sodiana. «Le portiamo», risponde Sodiana.

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I Sodiana ipe sti leddati: «Irtasi, den Sodiana disse alla sorella: «Sono venuti,
etserome an irtasi na ipusi manè ston Janni non sappiamo se sono venuti per dire sì a
o irtasi na ipusi ti i Caliddea den do theli ja Gianni oppure se sono venuti a dire che
sinverni». Caliddea non lo vuole per marito».
«Ti echo na su ipo – apolojie i Filomena – «Che ti devo dire – rispose Filomena – ma
ma pisteggo ti an issa ertonda na ipusi ti i credo che se fossero venuti per dire che le
prandia den jenete den emenasi tosso, issa nozze non si fanno, non sarebbero rimasti
jireonda». tanto, sarebbero tornati indietro».
Econdoferasi sto spiti perronda ecino ti i Tornarono a casa trasportando le cose che la
mana tos ito iponda, estiasai sto scannì tu madre aveva chiesto e apparecchiarono la
faghiu me to faghì ce o Petro me tin Caterini tavola con il pranzo. Pietro e Caterina
tos ipasi: «Cumpari Nicola ce cummare dissero loro: «Compare Nicola e commare
Maria, elaste ambrò, ce fate, an don Maria, venite avanti e mangiate; se
immesta tsiporeonda ti erkesto, immesta avessimo saputo che venivate, avremmo
camonda addo faghì, otu den etserome ti preparato altro cibo, per cui non sappiamo
echome na sas dosome». che cosa darvi».
O Nicola ce i jinecatu: «De, de, cumpare, Nicola e la moglie: «No, no, compare,
jatì prita na choristume efagame». perché abbiamo mangiato prima di partire».
«To tsero – ipe o Petro – ma ode den iste «Lo so – disse Pietro –, ma qui non
faonda echite na faite ce na pisite, ciola mangiate? Dovete mangiare e bere, anche
etuto, ene crasì percinò, aficame cambossa questo: è vino dell’anno scorso. Ne abbiamo
flascia na ta echome san ma juveggusi, jatì lasciato alcuni fiaschi per le necessità,
emì den echome ambeli megalo, echome perché noi non abbiamo una grande vigna,
icosidio surie. Ma echi ti ene sto potisticò ce abbiamo ventidue filari. Ma si trovano in
to crasì tse etuta climata den erkete tosso terreno irriguo e il vino di queste viti non
calò». viene molto buono».
O Nicola ce i Maria accherosai na fasi, na Nicola e Maria cominciarono a mangiare, a
piusi ce na platetsusi a tse dulie. bere ed a parlare del lavoro.
O Nicola ipe: «Cumpare Petro, echite ena Nicola disse: «Compare Pietro, avete un
crasì prasticò». vino eccellente».
«Manè, ene calò to crasì jatì ene alithia ti «Sì, è buono il vino perché è vero che ho un
echo liga climata sto potisticò ma ta adda po’ di vigna nel terreno irriguo, ma il resto
ene sto andiglio ce ta stafiglia pleronnusi è in zona solatia e le uve maturano bene».
calà».
I ora eperanne ce i simpettheri epinnasi, Il tempo passava e i consuoceri bevevano,
plateggasi ce jelussa. Ma i Maria eclae to chiacchieravano e ridevano. Ma Maria
ciuciulighemma18: «Nicola, emì den irtame ruppe il cicaleccio: «Nicola, noi stasera non
ode apotse na platetsome an de ddulie, siamo venuti qui per parlare di lavori, viamo
irtame na platetsome tse addo, dafista etute venuti per parlare di altro, abbandonate
loghia». questi discorsi».
Me etuto logo ta pedia ejaissa na Con queste parole i ragazzi andarono a
ciumithusi, emine o Janni manachò. dormire, rimase solo Gianni. Aprì il
Accheroe tin omilia o Nicola, ce tin discorso Nicola, ed esordì con queste
accheroe me tuta loja: «Cumpare Petro, parole: «Compare Pietro, siamo venuti per
emì irtame na sas ferome tin apolojia ja tin portarvi la risposta alla proposta di
zitimia matrimonio

18
Ciuciulighemma: altra voce attestata solo da Casile. V. Glossario: ciuciulíjemma.

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ti mas ecamete ja tin dichateramu ja nifiche ci avete fatto, il matrimonio di mia
tu jussa. Emì immesta charà na jenastì figlia con vostro figlio. Noi siamo contenti
etuti prandia, ma acomì echome na che avvenga questo matrimonio, ma
ivrome ppos echusi na jenastusi ta ancora dobbiamo vedere come si
pramata; ja apotse den legome tipote metteranno le cose; per stasera non
addo». diciamo altro».
«Manè, manè – ipe o Petro – addi vradia, «Va bene, va bene – rispose Pietro –
addi mera fenomesta». un’altra sera, ci vedreno un altro giorno».
Echeretistissa ce echorestissa. I Filomena
Salutarono e se n’andarono. Filomena e
ce i Sodiana ejaina na ciumithusi, ma denSodiana andarono a letto, ma non
eciumithissa acrazondo an din therida dormirono, perché origliavano dalla porta
mesakì. semiaperta.
San echoristissa o Nicola me tin Quando Nicola e la moglie se ne
jinecandu, o Petro ipe tu Janni: «Ise andarono, Pietro disse a Gianni: «Sei
charà?» contento?»
«Manè, ciuri, imme charà». «Certo, padre, sono contento».
Te tsodde ja na mi ta ivrusi ti acomì issa
Le ragazze per vedere ancora qualcosa
atsunna, san ecuasi ti o Nicola echeretai i
erano sveglie, quando sentirono che
gonei atsiplothissa sto crevatti. O ciuri ipe
Nicola salutava i genitori, si stesero nel
ston Janni: «den etserome ti ora ene, letto. Il padre disse a Gianni: «Non
guica otsu ce vre ta Raddia pu jerrusi». sappiamo che ora è, esci fuori e guarda
O Janni anitse tin therida, eguiki stin avlì
Orione quanto è alto.
ce condofere apissu legonda ston ciuri: Gianni aprì la porta, uscì nel cortile e
«Ene perammeno mesanisto jatì ta raddia rientrò dicendo al padre: «è passata la
accheroasi na cateviusi». Etraclinasi olimezzanotte perché Orione ha cominciato
ce ja ecindin nista eclithi to ti cami ce to
a scendere». Si coricarono tutti e per
ipi. quella notte si concluse il fare e il dire.
I agapi ene agapi, ticandì tse tseno L’amore è amore, qualcosa di strano è
ejennithi stin cardia tu Janni, mera ce nato nel cuore di Gianni, notte e giorno nel
nista ston ammialondu ejennussa càstria suo cervello nascevano castelli su castelli.
apanu càstria. Icunne ti accheronne stin Sentiva che nella sua vita ne cominciava
zoindu mia addi cinurghi. Emene me tossi un’altra nuova. Rimase con questo
limbia na erti to savato, jatì tote, mia forà
desiderio che giungesse il sabato, perché
to ddomadi, o andra ipije sto spiti ti allora, una volta la settimana, egli andava
charticí19 ce ito to savato. San irte to a casa della fidanzata, proprio il sabato.
savato sto perammeno mesimeri o Janni Quando giunse il sabato, passato
afike tin dulia, ejai sto spiti, eplithi,mezzogiorno, Gianni lasciò il lavoro, andò
addatse ta rucha ce ipe sti mmana: a casa, si lavò, si cambiò i vestiti e disse
«Mana, egò pao stin charticì». alla madre: «Mamma, vado dalla
fidanzata».
«Manè – ipe i mana – vre na mi cami to «Sì – disse la madre – stai attento a non
sgalipato jatì ise se enan spiti tseno». fare lo sgarbato, perché sei in casa d’altri».

19
Altra parola desueta attestata solo da Casile (p. 15): ḣarticí [xarti'ʧi] s.f. ‘fidanzata’. V.
Glossario.

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p. 16
O Janni: «Mana, esì to tserite pio imme ce Gianni: «Mamma, voi lo sapete chi sono
ppos esteco sto spitimma ce sta spitia tus io e come sto a casa mia e a casa degli altri.
addù. Jasto ti mu to leghite [cami] etuto Perciò perché mi fate questa paternale?»
paterinò?».
«To tsero, to tsero, pedimmu. Ma i gonei «Lo so, lo so, figlio. Ma noi genitori siamo
immesta otu jenameni». fatti così».
«Ma echite na addatsite, jatì o cosmo den «E dovete cambiare, perché il mondo non
ene ecino tse mia forà». è quello di una volta».
I mana: «ma emì cratume panda tin La madre: «Ma noi conserviamo sempre
paradosi dikima, ecini ti mas aficasi i le nostre tradizioni, quelle che ci hanno
goneima». lasciato i nostri genitori».
O Janni: «Chasmeno ene, jatì arte i Gianni: «è sbagliato, perché ora le persone
athropi pasi ppo ppasi i kerì, addo ito esté, vanno dove vanno i tempi, una cosa era
addo ene símero, addo ene avri. Tote i kerì ieri, un’altra oggi, un’altra domani. Allora
den addassasi jatì iche tse ecini athropi ti i tempi non cambiavano perché c’erano
ecratussa ta themata demena sto zigò ce o uomini che tenevano le persone legate al
eserrasi o tsofussa. Egò to icua an du jeru giogo: o tiravano o schiattavano. Io l’ho
ce to meletia sta vivlia: etuti jeri issa sentito dire ai vecchi e l’ho letto nei libri:
statonda aripismena ja ola ta pramata quei vecchi sono stati maltrattati in tutte le
ciola stin prandia. Etuta issa i aristà, i cose, anche nei matrimoni. Costoro erano
estendia ecini ti eferrasi ti stochia gli aristocratici, i signori, quelli che
diaforizonda achana achana20 tin plusia portavano la povertà, acquistando senza
tus addù eplusenasi». sudare i beni degli altri si arricchirono».
«Manè, manè, pedimmu, simero su irte «Sì, figlio, oggi ti è venuta la parlantina,
parrasia, ame, ame ti su meni i Caliddea. vai, vai, che Caliddea ti aspetta». Prima di
Afinnome etuta lojia. Prita tse tote den adesso non parlavi mai di queste cose, la
issa potè platetsonda tse etuta pramata, i mamma non sapeva che suo figlio aveva
mana den epistegghe ti o jondi itsere tossa appreso queste cose del tempo passato e le
pramata an do kerò perammeno ce ta loja parole l’hanno lasciata un tantino
tin aficasi ligo anafandiameni». sconcertata».
O Janni anitse tin therida, accheretie tin Gianni aprì la porta, salutò la madre e
mana ce aguiki. Sto spiti ti charticì ton partì. A casa della fidanzata lo
emenasi; san ito sti therida estipie. Irte ce aspettavano; quando fu davanti alla porta
anitse i mana ti Caliddea, san don ivre tu bussò. Venne ad aprire la mamma di
leji: «Calos irtete, Janni». Caliddea, quando lo vide gli disse:
«Calò sas ivra», apologai o Janni. «Benvenuto, Gianni». «Ben trovati»,
«Mbicaste». rispose Gianni. «Entrate».
O Janni embiki ce ecanune na ivri tin Gianni entrò e guardava per vedere la
charticì, ma etuti den ito sto spiti. I mana fidanzata, ma essa non era in casa. La
anoje ti me ta artammia ezitinne ticandì ce madre capì che egli cercava con lo
ipe, ejai na lisi tes ticandì, ce pe «I sguardo qualcosa e disse: «Caliddea
Caliddea

20
achana achana: ‘senza lavorare’. Locuzione avverbiale documentata da Casile. V.
Glossario s.v. áḣano.

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ejai na lisi tes eche na ta feri sto spiti, den è andata a sciogliere le capre per portarle a
adiazi, erkete, cathite». casa, non tarderà, venite, sedetevi».
O Janni epiae ena scannì ce ecathie. Gianni prese uno sgabello e sedette.
Ito cathimeno me te tsappe ja tin meria tin Era seduto con le spalle rivolte verso la
therida san ecue mian chamofoni ti ipe porta quando sentì una vocina che diceva
«calì spera». Ito i Caliddea ti embiki ce «buonasera». Era Caliddea che entrò e andò
ejai isa ce ecathie apissu ti mmana. I dritta a sedersi dietro la mamma. La mamma
mana eplategghe me ton Janni, arotistissa parlava con Gianni, chiedeva come stessero
ppos estecusi tse ijia i dicato, eplateggasi in salute i suoi cari. Discutevano
ja to chimona, elegasi ti afeti ene mia dell’inverno, dicevano che quest’anno è
un’invernata pesante visto che c’erano state
varia chimonia jatì ito vretsonda ce
piogge e nevicate e stava piovendo ancora,
chionionda ce evreche acomì, sta riacia
nei ruscelli l’acqua scorreva prima torbida,
ecatevenne to nerò prita cholò, arte
ora chiara che risplende come in uno
catharò ti lambizi san do jalì. specchio.
I Caliddea den anitse stoma na ipi tipote. Caliddea non aprì bocca per dire qualcosa.
O ciuri Nicola ito aplosonda ce ton Il padre Nicola era uscito e aspettavano che
emenasi na delestì. San edelesti, ivre sto rientrasse. Quando arrivò vide in casa
spiti ja tin protinì forà ton Janni. Ton Gianni per la prima volta. Lo saluta e gli
cheretai ce tu leji: «Apotse sto spitimmu dice: «Stasera in casa mia gente nuova,
athropi cinurghi, calos irtete». benvenuto».
«Calò sas ivra», apolojie o Janni. Pu ena «Ben trovato», rispose Gianni. Uno a uno
ena irtasi oli, ciola jatì ito vasiletsonda o erano venuti tutti, anche perché il sole stava
ilio ce ito i ora na delestusi. Sto spiti tu tramontando ed era giunta l’ora di rientrare.
Nicola ecindi spera ito arghia jatì ejai tin In casa di Nicola quella sera c’era festa
protinì forà ton scimugnasmeno21 ti perché il fidanzato della figlia veniva per la
dichateratu. I Caliddea ce i Marianna prima volta. Caliddea e Marianna fecero una
ecamasi mia suria tse scannia, evalasi fila di sgabelli, posero sopra dei tovaglioli e
apanu ta accheria ce evalasi spomì, tirì ce posarono il pane, il formaggio e la carne
crea chirinò cannomeno, cambossa suina affumicata, alcuni fiaschi di vino e due
flascia tse crasì ce dio micrè caspie ce piccole bacinelle, poi sedettero anche loro
ecathiasi ciola ecina na fasi. per mangiare.
I mana, i Caliddea ce i Marianna issa La madre, Caliddea e Marianna erano
cathimena condà. Oli etroggasi, oli sedute vicino. Tutti mangiavano, tutti
parlavano, Caliddea mangiava come quelli
eplateggasi, i Caliddea etroje san ecini ti
che non hanno fame, con gli occhi fissava il
den echusi pina, me ta artammia ecanune
pavimento e dalla sua bocca non uscì parola;
chamme ce an do stoma den dis eguenne
sembrava una statua.
logo; idife ena galma22.
O Janni tin ecanune na ivri an Gianni la guardava per vedere se

21
scimugnasméno < scimugnáźome .
22
Voce attestata solo da Casile. V. Glossario s.v. gálma.
- lisi:cf. línno.

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________________
Altro neologismo casiliano: proclisis, nato dalla confusione di ngr. πρόσκληση ‘invito’ con πρόκληση
'sfida'. La desinenza -s è un omaggio all'antichità. La forma più corretta prosclisi è a p. 27.

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sonni este na pandisi ta artammiatu me poteva incrociare i propri occhi con quelli
ecina ti issa mbiconda stin cardiatu. Ma che avevano fatto breccia nel suo cuore.
etuta ecanunussa panda sto patima. Ma quella guardava sempre il pavimento.
Efagasi, epiasi oli mia charà. Ito Mangiarono, bevvero tutti con allegria. Si
jenastonda nista ce o Janni na pai sto stava facendo notte e Gianni per tornare a
spitindu iche na parpatisi me ta podia mia casa doveva camminare a piedi per un’ora.
ora. Gianni disse alla famiglia: «Vi saluto e
O Janni ipe stin jenia: «Egò sas cheretao vado». Si alzò e cominciò a salutare.
ce pao». Ejerti ce embiki cheretonda, san Quando allungò la mano per salutare
emacrine to cheri na ccheretisi tin Caliddea, lei gli dice: «È notte ed è buio,
Caliddea, ecini tu leghi: «Ene nista ce andate in tutta calma, per non cadere».
canni scotidi, ameste me ton kerossa mi Finì di salutare e partì. Mentre camminava
peite». Eteglioe tse ccheretisi ce echoristi. queste parole risuonavano nelle sue
Ppos ipije etuta loja anaforizondo sta orecchie. “È notte e fa buio, camminate
aftiatu. Ene nista ce canni scotidi, ameste con calma per non cadere”.
me ton kerossa mi peite. È vero, non parla, ma mi ama. Quando
Alithia ene, den plategghi ma mu gapai. Gianni arrivò a casa, la madre lo interrogò.
San ejai sto spiti o Janni, i manatu ton Gianni rispose: «Mamma, non so perché
arotie. O Janni tis ipe: «Mana, den etsero non parla, non mi guarda, è molto
jatì den plategghi den mu canunai, ene solitaria. Mamma, quando la salutai aprì la
poddì atsicholiti. Mana, egò san din bocca e mi disse: «è notte e fa buio, andate
eccheretia anitse stoma ce mu ipe: “Ene con calma per non cadere”. Queste parole
nista ce canni scotidi, ameste me ton mi sono rimaste nel cervello e le ripenso
kerossa mi peite”. Etuta loja mu minasi continuamente».
ston ammialò ce ta anaforizo panda». La madre lo guarda: «Queste sono parole
I mana to chorì: «Etuta ene loja ti che escono dalla bocca delle persone che
guennusi an da stomata tus athrupu ti possiedono bellezza e cuore».
echusi calosini ce cardia». Gianni dialogava per lo più con la madre,
O Janni edialojegghe to pleo me tin mana, poco col padre, per niente col fratello e
ligo me ton ciuri, tipote me ton leddè ce con le sorelle.
me te leddade. Il tempo passava, Gianni ogni sabato
O kerò eperanne, o Janni catha savato andava dalla fidanzata, ma il dialogo era
ipije stin charticí, ma to dialogo ito panda sempre quello di poche parole.
ecino tse liga loja. Un giorno Pietro disse alla moglie:
Mia mera o Petro ipe stin jinecatu: «Caterina».
«Caterini».
«Petemu», apolojie i Caterini. «Ditemi», rispose Caterina.
«Emì echome na platetsome me to «Dobbiamo parlare con compare Nicola
cumpare Nicola ja na ivrome tin mera na per inviduare il giorno in cui celebrare le
stiaome tin prandia tu Janni, echome na nozze di Gianni. Dobbiamo vedere
ivrome pote prandeggonde, na ivrome quando si sposano, quanti inviti preparare.
possi proclisis camome.

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ce an din proclisi ti cannome? Echome na E con l’invito che fare? Dobbiamo fare dei
metriome ce na ivrome posse eche23 calcoli e vedere quante capre dobbiamo
echome na spatsome, jatì den thelo na pasi scannare, perché non voglio che le
nisticì i athropi. persone se ne vadano digiune.
(O Petro ce o Nicola ichasi enan (Pietro e Nicola avevano ciascuno un
parzami peromu tse eghe). piccolo gregge di capre).
Na ivrome an da maccarrugna an da Dobbiamo vedere se i maccheroni
camome spitatica o tse chorasia; ja to dobbiamo prepararli caserecci o di
crasì den ene provlimata, jatì ecini echusi mercato; per il vino non ci sono problemi,
poddì, emì echome ciola». perché loro ne hanno molto, anche noi ne
I Caterini: «Tu ta legome tu Janni na abbiamo».
arotisi ton pettherondu na mas ipi ja pote Caterina: «Diremo a Gianni di chiedere al
theli, steki ecinù na ddejisi tin mera». suocero di dirci quando vuole, spetta a
I mana tu to ipe tu Janni. loro scegliere il giorno».
O Janni ipe: «Manè, san pao tu to La madre lo disse a Gianni.
lego». Gianni rispose: «Sì, quando vado, glielo
Olo ipighe ambrò sta spitia tu Petru ce dico».
tu Nicola, pasa ena edulegghe ja to spiti, Tutto andava avanti nelle case di Pietro e
sto spiti edeleggheto olo ja oli. di Nicola, ognuno lavorava per la casa, a
Ton protinò savato ti o Janni ejai stin casa si ritiravano tutti quanti.
charticì, ipe tu pettherutu olo ecino ti i Il primo sabato che Gianni andò dalla
gonei tu issa iponda. fidanzata, disse al suocero tutto ciò che i
«Manè – ipe o pettherondu – arte chorò suoi genitori gli avevano raccomandato.
mia mera ti ene elefteri ta leddidiamu, ce «Sì – disse il suocero – ora cerco un giorno
an esì iste ciola, deleggomesta o se che è libero per i miei figli e, se lo siete
emmena o se essà ce plateggome». anche voi, ci riuniamo o da me o da voi e
discutiamo».
Ito stin protinì decade tu mina tu Era la prima decade del mese di marzo, il
martiu, o kerò ito vretsonda, ta riacia ta tempo era piovoso, i ruscelli e i fiumi
potàmia issa plusa tse nerà. O Nicola ejai erano pieni di acqua. Nicola andò nelle
sta spitia ce to sto ipe sta leddi(di)atu ti case delle sue sorelle e disse loro che
stiazusi tin prandia ti dichateratu ce ithele prepareranno le nozze di sua figlia e
ecindin mera na ene ciola ecini ecì. Ta voleva che quel giorno anch’esse fossero
leddidia tu ipasi ti ene charà, jatì lì. Le sorelle gli dissero che erano contente
prandegghete ce ene charà na piausi del matrimonio e che erano felici di
merticò stin sistrosi ti pprandia tis prendere parte alla preparazione delle
anitsiando. Eddejiasi na camusi tin nozze della loro nipote. Scelsero di fare la
sistrosi ston decastà tu martiu sto spiti tu preparazione il 17 di marzo a casa di
Nicola. San ejai o Nicola to ipe stin Nicola. Tornato a casa, Nicola lo riferì alla
jinecandu. I Maria moglie. Maria

23
Eche è variante grafica di eghe ‘capre’, come si evince dalla successiva frase parentetica,
che l’autore si proponeva di inserire in nota.
- leddiatu sta per leddídiatu.

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tu ipe: «Vre Nicola, simero echome deca; o gli disse: «Vedi Nicola, oggi è il 10;
cumpare Petro echi na to tsiporei pucciarte, compare Pietro deve saperlo fin d’ora,
mandè an thelisi na tu to ipi sta singhenadiatu, altrimenti se volesse dirlo ai suoi parenti,
den echi kerò». non avrebbe tempo».
«Ene ciola alithia», leghi o Nicola. «È anche vero» ammette Nicola.
I Maria: «Iche na appidisi sto spiti ce na tu to Maria: «Bisognerebbe fare un salto a casa
ipi, addò den sonnome cami». per dirglielo, diversamente non possiamo
«Ce otu canno - ipe o Nicola – dommu tin addi far niente».
foresia na addatso etutì ce pao». «E così farò – disse Nicola – dammi l’altro
Addatse tin foresia ce echoristi. San don ivrasi vestito per cambiarmi questo e vado».
«Si cambiò il vestito e partì. Quando lo
ecì, o Petro den itsere ti na elpisi ce prita na
videro là, Pietro non sapeva che pensare e,
condani tu ipe: «Ce esì ode, ticandì tse
prima che si avvicinasse, gli disse: «E voi
acharo».
qua? Qualcosa di spiacevole».
«De, de – apolojie o Nicola – irta na sas ipo ti «No, no – rispose Nicola – sono venuto a
eminame me ta dicamu na sistrosome tin dirvi che abbiamo concordato con i miei di
prandia ti dichateramu me ton jossa ston fare la preparazione delle nozze di mia
protinò savato ti erkete, ste decastà tsi etuto figlia con vostro figlio il prossimo primo
mina. An esì den sonnite chorume ja mia addi sabato, il diciassette di questo mese. Se voi
forà». non potete, vediamo per un’altra volta».
«Manè – ipe o Petro – plateggome sto spiti ce «D’accordo – rispose Pietro – ne parliamo
sas legome. Arte cathite», leji o Petro ston in casa e vi diremo. Ora sedetevi», dice
Nicola. Pietro a Nicola.
O Nicola: «Den sonno adiai jatì echo na jirio Nicola: «Non posso indugiare, perché devo
apissu ce ton kerò ti echo ene ligo».O Petro: tornare indietro e il tempo che ho è poco».
«Acomì ene sirma, arte pinnome ena gullì24 Pietro: «Ancora è presto, ora beviamo
tse grasì prita, podò paite, to crasì sas afudai prima una palla di vino e poi andrete; il vino
na porpatisite ce ton kerò ti channite arte to vi aiuterà a camminare e il tempo che
diaforegghite podò». perderete adesso lo recupererete dopo».
«Ppo lleghite esì, cumpare Petro, canno». «Faccio come volete voi, compare Pietro».
Epiasi enan litro tse crasì peromu. Bevvero un litro di vino ciascuno.
«Arte – ipe o Nicola – chorizome, mandè «Ora – disse Nicola – parto, sennò si fa buio
jenete nista ce den avlepo». e con ci vedo».
I Caterina tu ipe: «Cumpare Nicola, an Caterina gli disse: «Compare Nicola, se
volete vi diamo una torcia e, se dovesse
thelisite sas donnome mia deda ce an iche na
venire la notte, l’accendete e andate».
jenastì nista tin aftite ce paiti».
«No, no, non mi serve».
«De, de, den mu juvegghi».
«Pietro: «Io credo che sabato possiamo
O Petro: «Egò pisteggo ja to savato ti preparare ma, per essere più sicuri, ve lo
sonnome sistroi, ma na immesta pleo sicuri mando a dire».
sas to steddo legonda».
Eccheritistissa ce o Nicola epiae to dromo tu Si salutarono e Nicola prese la strada

24
gullí: voce attestata solo da Casile nella locuzione un po’ scherzosa éna gullí zze crasí, la
cui etimologia è disambiguata dalla perfetta coincidenza con cal. na palla ‘e vinu, con riferimento
al recipiente di creta rotondo (búmbula) con cui si dispensa il vino. V. Glossario.

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spitiu. di casa.
O Petro, san etrogasi, to ipe se olu, ce ipe: Pietro, mentre cenavano, lo riferì a tutti e
«echome na ivrome an emì immesta disse: «Dobbiamo vedere se noi siamo
elefteri». liberi».
I jinecatu ipe: «Fenete ti den echome ti La moglie soggiunse: «Sembra che non
cami». abbiamo niente da fare».
O Petro iche dio leddade ce issa Pietro aveva due sorelle sposate che
prandemmena, ichasi tin jeniato. Ma o avevano famiglia. Ma Pietro disse: «Non
Petro ipe: «den don cannome proclisi; le invitiamo; alle nozze sì, ora no, perché
stin prandia manè, arte tipote, jatì se etuta in queste cose bisogna essere in pochi,
pramata echusi na ene lighi, mandè ti altrimenti chi dice una cosa, chi ne dice
lleghi enan prama, ti lleghi enana addo, ta un’altra, i problemi possono moltipli-
pramata sonnusi diplothì». carsi».
I Caterini leji tu antruti: «Echite na paite Caterina dice al marito: «Dovete andare a
na tos to ipi». dirglielo».
«Manè – ipe o Petro – pao avri». «Sì – rispose Pietro – vado domani».
Tin purrì tin protinì dulia ti ecame ejai sto L’indomani la prima cosa che fece fu di
spiti tu Nicola ce tos to ipe ti ene ciola andare a casa di Nicola e disse loro che
ecini elefteri ja ton decastà. Jenameni tin anch’essi erano liberi per il diciassette.
agghelia econdofere apissu. Sto Fatto l’annuncio, tornò indietro. Nel
condoferma epetanne tu ducasi sto spiti tu ritorno [Pietro] volava, [perché] a casa di
Nicola ce epiae imiso litro tse crasì. San Nicola gli diedero mezzo litro di vino e lo
ejai sto spiti ipe stin dichatera Filomena: bevve. Giunto a casa, disse alla figlia
«Dommu na fao ti echo pina». Filomena: «Dammi da mangiare, ché ho
«Tosso sirma echite pina ettepurrò?» fame».
«Manè, jatì epia crasì nisticò ce mu efere «Tanto presto avete fame stamattina?»
pina». «Sì, perché ho bevuto del vino digiuno e
I mere perannasi me tes analoghe dulie mi ha portato fame».
panda sto chorafi ce me ta zoà. Sto spiti ti I giorni passavano con i soliti lavori,
Caliddea, te dulie ejenondo panda pleo sempre in campagna e con gli animali. A
varie, varie jatì i gonei, ce to pleo i mana, casa di Caliddea i lavori si facevano
ichasi na ti ccamusi to prikio, na ivrusi sempre più pesanti, pesanti giacché i
ecino ti ti ddonnusi ce posso ti ddonnusi, genitori, e specialmente la madre,
ti nnista den epiannasi iplo jatì ston dovevano predisporre la dote, vedere che
decastà tin mera ti sistrosi ichasi na ipusi cosa darle e quanto. La notte non
fanerà ecina pramata ti ti donnusi. (Se prendevano sonno perché il diciassette,
tosse prandie ton prikio ercheto giorno della preparazione, dovevano dire
grammeno an da grammatei). chiaramente quali beni le davano. (In
Tin mera decastà, edelestissa ppos issa parecchi matrimoni la dote era messa per
minonda sto spiti ti nnifi. An di meria tu iscritto dagli scribi).
Janni ejaassi o Janni, o ciurindu ce i Il giorno diciassette di riunirono, secondo
manatu. gli accordi, a casa della sposa. Dalla parte
An din meria ti Caliddea ejaissa i thii di Gianni vennero Gianni, gli zii

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me te tthie25. e le zie.
I mana ti Caliddea ipe sti Marianna: «I La madre di Caliddea disse a Marianna: «Tua
dichaterati na cami to faghì, su afudusi i figlia prepari il pranzo, ti aiuteranno le tue zie,
thiesu, esù tseri pu echi to crea ce ola ta adda tu sai dov’è la carne e le altre cose. Contate
pramata. Metrate possi imesta ce costite to quanti siamo e tagliate la carne, meglio che
crea, caglio na mini, na ene poddì ti na ene rimanga, che sia troppa piuttosto che sia poca;
ligo, aladi mi valete poddì; to rifi ene pachio, olio non ne mettete troppo; il capretto è
valete crommidi poddì, vasilicò ce fidda tse grasso, mettete molta cipolla, basilico e foglie
dafli, addo esù tseri. Echi te thiesu, den echo di alloro, il resto lo sai. Ci sono le tue zie, non
ti na sas ipo». ho altro da dirvi».
[Ste deca ecathiasi oli, san pote ti ito enan Verso le dieci si misero tutti a sedere, come
sinedrio, o Janni ecathie mesa sto goneotu ce fosse un convegno; Gianni sedette tra i suoi
i Caliddea to analogo prama. I mana ti genitori e Caliddea la stessa cosa. La madre di
Caliddea, ecina pramata ce issa to pleo Caliddea, tutte quelle cose di casa che doveva
spitatica ti iche na ti ddoi ta ito deletsonda oli darle, ed erano le più numerose, le aveva
se mia meria, te vutane ta ito valonda stin raccolte tutte da una parte, le vutane le aveva
percia ce ta adda apucatu. stese nella percia, le altre sotto.
Ton logo ton accheroe o Nicola. Cheramine Il discorso lo cominciò Nicola: «Siamo grati
poddì ja tin timì ti mas ecamete na zitisite ti per l’onore che ci avete fatto nel chiedere mia
dichateramu ja nifi ja ton nijossa]. figlia per sposa di vostro figlio»].
I mana ti Caliddea olo ton prikio spitatico ti La mamma di Caliddea tutta la dote di casa
iche na ti ddoi, ton ito deletsonda se mia che doveva darle l’aveva raccolta da una
meria, te vutane ta ito valonda stin percia26; parte, le vutane le aveva stese sulla percia;
ito olo fanerà ce sistromeno. Issa tutto era chiaro e preparato.
ghenastonda i deca, issa delestonda oli. O Si erano fatte le dieci, tutti si erano riuniti. A
Nicola, jatì issa sto spitindu ce jatì ito o ciuri Nicola, poiché erano a casa sua ed era il padre
ti nifi, enghize ecino to logo: «Fili, leddidia, della sposa, toccava questo discorso: «Cari,
singhenadia, cathite mandè an den sorelle, parenti, sedete, ché se non
accheronnome den teglionnome». cominciamo non finiamo».
Ecathiasi oli, o Janni ecathie sto mesa tu Tutti sedettero. Gianni sedette tra i suoi
goneotu, to analogo ecame i Caliddea. genitori e lo stesso fece Caliddea.
Ena leddé tu Nicola prita an dus addu ipe: Un fratello di Nicola disse prima degli altri:
«Egò den etsero grafi tosso calò, efera chartì «Io non so scrivere tanto bene, ho portato la
carta

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Seguono qui le parole tispos addo 'nessun altro', poi cancellate.
26
Qui Casile inserisce a piè pagina la seguente nota: I percia ito enan tsilo de poddì grondò,
ce ito demeno apucatu ste trave catu sta ceramidia, pu ito demeno evaddasi RUSCLE na mi sousi
perai ta pondicia ‘La percia era un palo non molto grosso ed era legato sotto le travi del tetto,
dov’era legato mettevano delle ruscle affinché non potessero passare i topi’. La voce rúscla
['ruskla] s.f. ‘pungitopo’, arbusto spinoso [Ruscus aculeatus], è solo in Casile. V. Glossario s.v.
rúscla.

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ce condili, jatì ithela na gratsome ton e penna, perché vorrei che mettessimo per
prikio ti donnusi i goneiti stin anetsiamu; iscritto la dote che i genitori danno a mia
ene calò na grastì jatì tispo sonni ipi “i nipote; è bene che sia scritto perché
goneite den dis educasi etuto, depan dis nessuno possa dire “i suoi genitori non le
educasi etundo addo”. Ta pleo ipasi hanno dato questo, non le hanno dato
«manè», o Petro, i jinecatu ce o Janni den quest’altro”. I più dissero: «sì». Pietro, la
ipasi tipote, jatì den tosso tos eperae. moglie e Gianni non dissero nulla, perché
la questione non li interessava molto.
Me etuto ejenasti liji pausa. O Petro ston Con questo si fece una piccola pausa.
ammialondu den du fani tosso sostò, Pietro nel suo cervello non gli parve tanto
panda stin ideandu eleje: «ti to ffenete ti giusto, sempre nel suo cuore diceva: «Che
ton pulao o to ffenete ti ta pramata ti ti sembra a loro, che lo vendo? Oppure
ddonnusi tos ta avolao». Den ipe tipote. sembra loro che le cose che le danno le
«Ppo thelite cannome: an da gratsite ce rubo?». Non disse nulla. «Facciamo come
an den (den) da gratsite, ti dichaterossa volete: se le scrivete e se non le scrivete, è
ene ecini ti sta donnite, de ammena», ipe vostra figlia quella a cui le date, non (le
o Petro. date) a me», disse Pietro.
O leddé tu Nicola ipe tu Petru: «Ton Il fratello di Nicola disse a Pietro: «La
prikio ti educasi i goneiti stin jinecasa dote che i genitori hanno dato a vostra
ejuvetsasi ciola ja essà». moglie ha favorito anche voi».
O Petro: «Egò ode den irta na camo Pietro: «Io non sono venuto qui per fare
polemica, jatì i polemica den mu jerai, ma polemica, perché la polemica non mi
an esì mu ti zitaite tin canno, ce sa llego ti piace, ma se voi me lo chiedete la faccio e
emì den irtame ode ja ton prikio, irtame ja vi dico che non siamo venuti qui per la
ti tzodda, emì den pame zitulonda, emì dote, siamo venuti per la ragazza, noi non
eziame ce zume me ta vrachognama, me andiamo mendicando, noi abbiamo
tin duliama, me ti drosiama, mi charreite vissuto e viviamo con le nostre braccia,
ti immesta cleftà». col nostro lavoro, col nostro sudore, non
pensate che siamo ladri».
San icuasi etuta lojia ejerti i Maria ce Quando udirono queste parole, Maria si
embiki legonda: «Cumpare Petro, mi alzò e cominciò a dire: «Compare Pietro,
cuite la loja ti ipe o singhenimmu, den non ascoltate le parole che ha detto mio
thelome grammata, emì tserome pis iste». cognato, non vogliamo scritture, noi
sappiamo chi siete».
«Udè – ipe o Petro – arte ta thelo egò ce «No – disse Pietro – ora le voglio io e le
ta grafome, iche na to tsiporei prita o scriveremo, doveva saperlo prima vostro
singhenissa». cognato».
I mavri Caliddea ecristi apissu ste tsappe La povera Caliddea si nascose dietro le
ti manandi ce eclee. O Nicola spalle di sua madre e piangeva. Nicola

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echerti ce ejai ce epia enan flascì tse crasì si alzò e andò a prendere un fiasco di vino
me liga gullacia ce embiki jomonnonda ce con pochi bicchieri e cominciò a riempirli
donnonda; «piete, piete, pinnome oli stin e a darli: «bevete, bevete, beviamo tutti
ijia, stin ijia!». alla salute, alla salute!».
«Udè, udè – leji o Petro – arte tipote crasì, «No, no – obietta Pietro – ora niente vino,
jatì to crasì ma fferri parrasia, o athropo perché il vino ci porta loquacità; l’uomo
pleo plategghi pleo chasmizi, più parla, più sbaglia. Torniamo a dove
condoferrome ecì pu eminame». eravamo rimasti».
O Petro: «Esì ti eferete to chartì Pietro: «Voi che avete portato la carta,
accheroete ce grazzete». cominciate a scrivere».
Tispo ipe tipote. Nessuno disse nulla.
O Petro ipe: «Nghizi stin mana na piai ta Pietro disse: «Tocca alla madre prendere
pramata pu ena ena ce na ta vali pareo, le cose una ad una e metterle da parte, così
otu o grammatea ta grafi». Ce otu il segretario le scrive». E così fecero.
ecamasi.
O grammatea egratse: Il segretario scrisse:
Simero 17 tu martiu 1995 edelestimma sto Oggi 17 marzo 1995 ci siamo riuniti nella
spiti tu Crifò Nicola ce tin Macrì Maria, casa di Crifò Nicola e di Macrì Maria; io
egò Crifò Pavlo, ce Crifò Fagomeno Crifò Paolo e Crifò Fagomeno siamo qui
immesta ode jatì immesta tii ti nifi; Caridi perché zii della sposa; Caridi Pietro,
Petro, Potamisi Caterini gonei tu Janni. Potamisi Caterina, genitori di Gianni.
Irtame jatì thelome an echome tin timì na Siamo venuti perché vogliamo, se ne
prandesti o jomma Janni me tin despinis abbiamo l’onore, che nostro figlio Gianni
Caliddea. sposi la signorina Caliddea.
O Nicola: Nicola:
[Etuto ene i prikio ti i gonei donnusi stin [Questa è la dote che i genitori danno alla
dichatera Caliddea] figlia Caliddea]
Emì immesta poddì charapia na echome Noi siamo molto contenti di avere Gianni
ton Janni ja grambò, jatì agronizome i come genero, perché conosciamo Gianni
goneitu ce ton Janni ti ene athropi poddì e i suoi genitori che sono persone molto
calà. apprezzabili.

Arte grafo ta merticà tu prikiu. Ora scrivo le parti della dote.


PRIKIO DOTE
1)Dio zugguaria tse sindonia 1)Due paia di lenzuoli
2)Dio vutane 2)Due coperte
3)Dio mudarre 3)Due coperte rustiche
4)Dio porcialafadia 4)Due guanciali
5)Tessere stritte 5)Quattro camicie da donna
6)Tria accheria 6)Tre asciugamani
7)Dio mesaglia 7)Due tovaglie
8)Enan sacco crevatti, o saccuni 8)Un materasso, o saccuni
______________
Fagomeno figura qui attestato come nome proprio.

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9) Dio mandeglia 9) Due tovaglioli
10) Tessera mandilacia 10) Quattro fazzoletti
11) Tria faddette 11) Tre stracci
12) Tria jippugna 12) Tre giacchette
13) dio corpetti 13)Due corpetti
14) Dio flanelle 14) Due flanelle
15)Tessera sacchi 15) Quattro sacchi
16) Dio arklia 16) Due casse
17) Dio scannia ja cathisma 17) Due sgabelli per sedere
18) Ena scannì ja to faghì 18) Una tavola per i pasti
19)Etse cutaglia 19) Sei cucchiai
20)Etse pirugna 20) Sei forchette
21) Mia limba megali ce mia ccedda 21) Una scodella grande e una piccola
22) Dio tsukke, mia megali ce mia ccedda 22)Due pentole, una grande e una piccola
23) Dio tigania, mia tse agridda ce mia tse 23) Due tegami, uno di argilla e uno di
sidero metallo
24) Enan tripodi 24) Un treppiede
25) Ena stennatuci ja tin frascatula 25) Una caldaietta per le cicciole
26) Dio caspie tse tsilo 26) Due cucchiai di legno
27) Mia sicla ja to nerò 27) Un secchio per l’acqua
28) Mia matha ja ton carpò 28) Un canestro per la frutta
29) Mia mastra tse tsilo tse gluppo (= 29) Una madia di legno di pioppo per il
pluppo) ja to tsomì pane
30) Dio macheria 30) Due coltelli
31) Ena stennato ja tin lissiva 31) Una caldaia per la lisciva
32 Etse velogna ce mia saccorafa 32) Sei aghi e un ago grosso per sacchi

Etuto ene o prikio ti i goneiti donnusi stin Questo è il corredo assegnato a Calidea
Caliddea. To gramma ene grammeno an dai genitori. La carta è scritta di mia mano
do cherimu ja catha petsì. per ogni pezzo.

Vua 17 tu martiu 1995 Bova 17 marzo 1995


Egò grammatea Io segretario
Crifò Fagomeno Crifò Fagomeno

Arte echome na ivrome pia mera na Ora dobbiamo definire il giorno del
parome ton prikio ce pia mera trasporto della dote e il giorno delle nozze.
prandeggonde.

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Consueta incertezza tra le grafie: eleghe/eleje

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«Pis echi na to cratì to chartì? - o Chi deve conservare la carta? – chiese
Nicola eleje - na to cratisi o Petro». Nicola – che la conservi Pietro».
O Petro: «Udè, to chartì to cratite esì, Pietro: «No, la carta la conserverete voi, il
ecindin mera ti ferrusi ton prikio sto spiti giorno che si porta il corredo a casa della
tin nifi, to donnite ecino to cratusi ecini». sposa, datela a loro e la conserveranno
Acomì o Petro: «Echome na ivrome loro».
possi athropi echome na to ccamome tin Ancora Pietro: «Dobbiamo decidere
prosclisi, esì ja tin meriasa ce egò an di quante persone dovranno essere invitate,
meriamu». voi per la parte vostra e io per la parte
O Nicola: «Metrate ta dicasa ti egò mia».
metrao ta dicamu, ma ja simero fenete ti Nicola: «Contate i vostri che io conto i
den echome etuto kerò ce ciola jatì san damiei, ma fin da ora appare chiaro che non
metrume echome na echome paula ti abbiamo il tempo, anche perché quando li
simero den din echome». contiamo dobbiamo avere la calma che
O Petro: «To camome etuti nista, ti me oggi non abbiamo».
to scotidi ce me to sopima sinercomesta Pietro: «Lo faremo questa notte, con il
tse pleo». buio e con la calma ricorderemo di più».
«Manè, manè», ipe o Nicola. «Sì sì», disse Nicola.
San eteglioasi ton catalogo tu prikio ito Quando finirono la lista della dote era
peraonda i ora tu mesimeriu ce ichasi oli passata l’ora del mezzogiorno ed avevano
pina. I Maria san eteglioasi tse gratsi ton tutti fame. Maria, appena finirono di
prikio ejai isa isa stin cucina na ivri to fajì registrare la dote, andò in tutta fretta alla
an ito jenameno, sirma ppos embiki stin cucina. Le disse Marianna: «Mamma, la
cucina; tis ipe i Marianna: «Mana, to crea carne è cotta, l’acqua nella caldaia sta
ene limeno, to nerò sto stennato steki bollendo, ora quando volete che buttiamo
vrazonda, arte pote thelite na valome ta i maccheroni, lo facciamo».
maccarrugna, ta vaddome».
«Presto, presto, figlia mia, che il tempo è
«Sirma, sirma, pedimmu ti i ora ene passato ed abbiamo tutti fame. Andate ad
perammeni ce echome oli pina. Ameste apparecchiare la tavola».
stiazonda to sanidi».
«Mamma, mamma, non dimenticate,
«Mana, mana, mi addfismonisite, contate quanti siamo».
metrate possi imesta».
La madre: «Marianna, siamo venti in
I mana: «Marianna, imesta icosi oli, tutto, ma tu metti pasta per più, meglio che
ma esù vale pasta ja pleo, caglio na mini rimanga e che si perda piuttosto che se ne
ce na chathì ti na pasi nisticà». vadano digiuni».
San issa limena ta maccarrugna Quando i maccheroni furono cotti
[estiasai to sanidi ce to faghì, [allestirono la tavola e il cibo, si sedettero,
ecathiasi, pasa ena accheroe na fai. I nifi ciascuno cominciò a mangiare. La sposa
ito sto spitindi, jatì i nifi ipighe sto spitindi era in casa sua, perché la sposa andava a
tin imera ti prandia, prita tipote.] casa sua il giorno delle nozze, non prima]

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ta stiasai ola se mia megali limba me to li versarono tutti in una grande scodella con
zema tu creatu ce me mia megali mistra il sugo della carne e con un grande cucchiaio
accherosai na ta valusi sta platteglia ce na cominciarono a metterli nei piatti e a portarli
ta sirusi sto sanidi. in tavola.
O Janni epiae ta gullacia ce ta scorpie Gianni prese i bicchieri e li distribuì sopra
apanu sto sanidi. la tavola.
Tote gullacia issa liga, den ito pos arte Allora i bicchieri erano pochi, non era
ti echome pasa ena to dicomma, tote me come oggi che ognuno ha il suo; in quei
enan gullaci epinnasi tessera pende ce tempi con un bicchiere bevevano in quattro-
ciola pleo. Ecathiasi oli ngiru sto sanidi cinque ed anche di più. Sedettero tutti
attorno al tavolo e cominciarono a
ce accheroasi na fai.
mangiare.
O Janni ton ecamasi na cathisi sto
Gianni lo fecero sedere al centro della
centro tu sanidiu. I nifi tipote, i nifi puccia
tavola. La sposa no, la sposa dal momento
ti ravognazondo27 den ipighe sto spiti tu del fidanzamento, non andava a casa del suo
andruti, ce den ipighe sto spiti pu ichasi fidanzato, e non andava nella casa che
na delestusi prandemmeni, ipighe avevano scelto per il matrimonio; vi andava
manachò tin imera ti prandia. Ja etuto solo il giorno delle nozze. Perciò quel
ecindin imera ito sto spiti tu goneu. I mana giorno era a casa dei genitori. La madre di
tu Janni ppos embikissa na jomousi ta Gianni, quando cominciarono a riempire i
platteglia ipe: «Dotemu enan platteddi piatti, disse: «Datemi un piatto». Prese il
ammena». Epiae to platteddi ce to jomoe piatto e lo riempì di maccheroni e di carne,
tse maccarrugna ce tse crea, ce ipe: e disse: «Questo conservatelo, è per
«Etuto sicateto, ene ja tin Caliddea». Caliddea».
Mia an de jineke ti iche ecì, to epiae ce Una delle donne che erano là lo prese e lo
to sicoe. Accherosai na jomousi ta mise da parte. Cominciarono a riempire i
platteglia, pis evadde ta maccarrugna, pis piatti, chi metteva i maccheroni, chi metteva
evadde to tirì ce pis ta eperre sto sanidi. il formaggio e chi li portava in tavola.
Efagasi oli, epiasi, den ecusti logo, ito olo Mangiarono tutti, bevvero, non si udì
mian charà. parola, era tutto un gioire.
San ejertissa an do sanidi ejaissa sto spiti Quando si si alzarono da tavola, andarono
pu ichasi na delestusi, ce embikissa na alla casa dove si dovevano riunire e
valusi ta pramata pasa ena ston topondu. cominciarono a collocare gli oggetti ognuno
San eteglioasi tse stiai ecliasi olo ce al suo posto. Quando finirono di preparare,
ejaissa pasa ena sta spitiandu. chiusero tutto e andarono ognuno a casa
I gonei stin nista emetriasi possi issa ti propria.
ichasi na to ecamusi tin prosclisi, an din I genitori durante la notte fecero la conta di
meria tu Petru emetriasi saranta pende. quanti erano quelli ai quali avrebbero dato
Tin destero mera o Nicola estile ton jondu l’invito. Della parte di Pietro ne contarono
sto spiti tu Petru na tu ipi possa issa i quarantacinque.
atropi an Il giorno appresso Nicola mandò suo figlio
a casa di Pietro per chiedere quanti erano,

27
Rovignazondo: la voce rimanderebbe a un rovignazome ‘unirsi, fidanzarsi’, che però manca
nella rubrica di Casile ed è sconosciuta.

- 65 -
p. 28

gennaio I _janvier I _january I _januar I enero I ~-t~

- 66 -
p. 28
din meriandu ti epiannasi merticò sto da parte loro, le persone che avrebbero
gamo. O jondu echoristi ce ejai sto spiti tu preso parte alle nozze. Il figlio uscì e si
Petru. San ito stin jitonia, o Petro ito recò alla casa di Pietro. Quando fu nel
guiconda otsu ce epandiasi. vicinato, Pietro stava uscendo e
s’incontrarono.
«Calimera, cumpare Petro».
«Buongiorno, compare Pietro».
«Calimera, ti tosso sirma irte». «Buongiorno, tanto presto siete venuto?»
«Irta sirma jatì den itsera mi echite na «Sono venuto presto perché non sapevo se
ploite, irta na sas ipo possi ene i athropi ti dovevate uscire; sono venuto per
erconde sti prandia [stin gamo] an din chiedervi quante sono le persone che
meria dikimma. Ipe o ciurimu ti emetrie 40 verranno al matrimonio dalla parte vostra.
saranta». Mio padre ha detto di averne calcolato
quaranta».
«Manè – ipe o Petro – ta dicama «Sì – rispose Pietro –, dei nostri ne
echome pende tse pleo. Arte echome na abbiamo cinque di più. Ora dobbiamo
ivrome posse eghe echome na spazzome, stabilire quante capre si devono scannare,
possa kili tse maccarrugna echome na quanti chili di maccheroni dobbiamo
choraome, ta adda pramata ta echome comprare; le altre cose le abbiamo noi,
emì, ene spitatica ce piannome possa ma sono cose caserecce e ne prenderemo
juvegghusi». quante ce ne servono».
«Manè, otu echome na camome». «Bene, così dobbiamo fare».
«Ticandì tse acharo? «Qualcosa che non va?»
«De, de, tipote tse acharo». «No, no, niente di spiacevole».
To faghì to cannome ecì condà sto spiti Il cibo lo prepariamo là presso la casa
pu deleggonde, ecì echome tin pighi condà dove andranno a vivere, là abbiamo il
condà, echi to mali ja ana stiaome ta pozzo assai vicino, c’è il piano per
sanidia ja to faghì ce ja to cathisi. Echome apparecchiare i tavolati per mangiare e le
na metriome possa pirugna echome emì panche per sedersi. Dobbiamo calcolare
sta spitia ce ta adda echome na ta quante forchette abbiamo noi nelle case, le
danistume stin jitonia, otu echome na altre dovremo chiederle in prestito ai
camome ja ta platteglia ce ja te limbe. vicini; lo stesso dovremo fare per i piatti e
Echome na ivrome possa stennatia per le limbe. Dobbiamo vedere quante
thelome, jatì thelome dio ja to crea me ti caldaie ci servono, perché ne vogliamo
sarsa, ena ja na vrausi to crea to aspri, due per la carne con la salsa, una per
jatì echi ecini ti ene arrusti tse ceddari28 cuocere la carne bianca. Ci sono infatti
ce den sonnusi fai pramata tiganimena; ja quelli che sono malati di stomaco e non
tuta to crea echi na ene vrameno possono mangiare cibi fritti; per costoro la
carne dovrà essere bollita

28
Qui il manoscritto ha una sequenza cancellata: ce ecino ti echi piperi ene prita tiganimeno,
podò to vrazusi me pumadoria ce piperi ceddari den do sonnusi fai. Se ecindon kerò i athropi
etrogasi den ichasi platteglia na fausi ‘e quello che ha il pepe viene prima fritto, poi lo lessano
con pomodori e peperoncini; lo stomaco non lo sopporta. In quei tempi le persone (quando)
mangiavano non avevano piatti…’.

- 67 -
p. 29

febbrai~ I février I february I Jebruar I Jebrero I r- ~


1

16

17

18

19

20

- 68 -
p. 29
me ala, crommidi ce nerò tipote addo. con sale, cipolla ed acqua, niente altro.
Se enan addo caccamo echome na In un’altra caldaia dobbiamo cuocere le
vraome ta stea, podia, cefalì, andera ce ossa, le zampe, la testa, le interiora e gli
cilia, ciola etuta me crommidi manachò, intestini, anche questi solo con cipolla,
ala ce nerò. ta adda dio stennatia to crea sale ed aqua. Nelle altre due caldaie la
ja oli, to crea to aspro ene ja ecini ti to carne per tutti: la carne bianca è per quelli
zitusi, to addo ti ene me sarsa ene ja oli. che la richiedono; l’altra, che è con la
salsa, è per tutti.
Echome na cotsume ta tsila ce na ta Dobbiamo tagliare la legna e trasportarla;
vastasome, eciapanu echi mia aria poddì lassù c’è una quercia molto vecchia che è
palea ti ene tserì, ce ene ligo disculo na ta secca, e non sarà molto difficile tagliarla,
cotsome, jatì na ta vastasome ene cateforo perché per il trasporto c’è un pendìo e la
ce ta cilume, [na ta ferome] den echome rotoleremo, [per trasportarla] non avremo
provlima mega». un grosso problema».
«Manè, manè, cumpare Petro, ene calò «Sì, compare Pietro, è buono ciò che dite,
etuto ti leghjite, chorume pia mera stabiliamo in quale giorno dobbiamo
echome na ta cotsome ce na ta ciliome tagliarla e rotolarla. Prima trasportiamo le
trita (prita?) na ferome grodula ode jatì cose di poco valore qui, perché qualcuno
sonni cilisi canena na erti ja ode ce na ma può ruzzolare per venire qui e farci
ccami zimia». danni».
«Alithia ene. Etuti ene dulia ti echome «È vero: questo è un lavoro che dobbiamo
na tin camome sirma». fare al più presto».
______________________

Qui s’interrompe la Prima parte (Protinó merticó) della narrazione, prova che l’autore
aveva in mente di completare la descrizione del matrimonio in tutte le sue fasi.

- 69 -
Bruno Casile alla scrivania nella casa di Bova Marina. Nella parete alcuni attestati di
benemerenza.
Ta orfanacia

Il brano che segue è intitolato Ta orfanacia 'gli orfanelli'. Si trova consegnato nella
seconda agenda, alla pagina di mercoledì 1 febbraio, che corrisponde certo all'anno 1989.
Ma l’inizio del manoscritto reca la datazione «26 luglio 1993 Bruno Casile»: altro indizio
che Bruno utilizzava agende degli anni precedenti per i suoi scritti.
Potrebbe essere l'inizio della seconda parte (déstero merticó) del progetto iniziale, ma
non è sviluppata come l'altra e ha l'aria di uno schema in attesa di approfondimento.
Si racconta la vita degli sposi, la nascita dei figli e la morte di Caliddea per polmonite.
Un finale malinconico, in piena sintonia con la condizione psicologica dell'autore, che
nelle solitarie serate al focolare nella casa di campagna, meditava sul senso della vita.
Ecco due brani che si trovano in queste carte e rendono bene l'animo di Bruno:

- 71 -
p. 30

- 72 -
p. 30

I piccoli orfani

O Petro escimugnasti me mia zzoḍḍa an di Pietro si fidanzò con una ragazza del
jitonia, eperase ligo keró ce eprandestina, vicinato. Passò poco tempo e si sposarono.
i prandia ejai calí, ichasi ognasi Il matrimonio andò bene, avevano
eduleggasi oli ecí dio, ce to spiti ipighe armonia, lavoravano tutti e due, e la casa
ambró, jatì me tin dulía íchasi olo to caló. andava avanti, perché con il lavoro
avevano ogni bene.
San eperasai ofstò minu an di prandia i Quando passarono otto mesi dal
jineca, i Caliddea ito otimo29. Ja etuto issa matrimonio, la donna, Caliddea, divenne
oli chará gonei ce pappudia ce emenasi incinta. Per questo erano tutti felici,
me tossi agapi to pedacopi. genitori e nonni, ed aspettavano con tanto
amore il bambino.
San irte ton keró ti iche na ghennithí, oli Quando venne il tempo che doveva
ta singhenadia ce i gonei emenan enan nascere, tutti i parenti e i genitori
pedaci arcinicó, ce otu ito, ejennithi enan aspettavano un bambino maschio, e così
pedaci arcinicó, tu valasi to noma tu fu: nacque un bimbo maschio e gli misero
pappua an din meria tu ciuriu, ton ecrazza il nome del nonno di parte paterna, lo
Costantino. chiamarono Costantino.
To pedí efusconne me ijia ce olo ipighe Il bambino cresceva in salute e tutto
caló sto spiti tu Petru. San ndo pedí ito tse andava bene a casa di Pietro. Quando il
enan chrono i Caliddea bimbo aveva un anno, Caliddea

pedí e derivati
pedí [pe'ði] s.n. ‘bambino’, ‘ragazzo’, ‘giovane’ ☞ pl. ta pedía ‘i figli’; enclisi del pron.: pedímmu; tom
bedíondu ‘ai suoi figli’; cal. figghjòlu || grico pedí, petí ☆ gr. παιδίον & AIS 9: san do peδímmu ‘quando
mio figlio’, grico: arte pu to petímmu; 43, 44 ta pedía ‘i bambini’; grico ta petácia, ta pedía; LG 378;
ΙΛΕΙΚΙ IV 83; Crupi 1981:91.
pedáci [pe'ðaʧi] s.n. ‘ragazzino’ (b, rf, g) ☞ pl. ta pedácia; Pedace top. e cogn. ☆ dim. di pedí + suff. –áci;
gr. παιδάκι & AIS 58 énan beδí, peδí ‘un bambino’ || grico na ppedáci; Legrand 1870,25 pedaki; Casile
1991:136.
pedacópi [peða'kɔpi] s.n. ‘ragazzino’ ☞ comp. di pedí + *cópi ☆ gr. παιδί + κόπι (κόπτω), cf. agr.
µεσόκοπος (ΙΛΕΙΚΙ III:81) & Crupi 1981:91.
pedacúci [peða'kuʧi] s.n. ‘ragazzino’ (g) ☞ dim. di pedí + suff. -ac-úci ☆ gr. παιδάκι + -ούκι.
pedicádi [peði'kaði] s.n. → pedicári.
pedicári [peði'kari] s.n. ‘giovanotto, ragazzo’ (bov) ☞ pl. ta pedicária, pedicádia ☆ gr. παιδικάριον.
peducáci [peðu'kaʧi] s.n. ‘ragazzino’ (g) ☞ dim. di pedúci + suff. -áci ☆ gr. παιδί + -ούκι.
pedúci [pe'ðuʧi] s.n. ‘ragazzino’ (g) → pedí ☞ dim. di pedí + suff. úci ☆ gr. παιδί + -ούκι.

29
Qui sono scritte le parole [Me etuto etsimo], poi cancellate.

- 73 -
p. 31

Presentazione del Signore Febbraio. Février.

2 February. Februar.

- 74 -
p. 31
emine metapale otimo jatì ithele na echi rimase incinta di nuovo perché voleva
mia zoḍḍuna thilicó. avere una ragazzina femmina.
To thelima ejenasti alithia, san ejennie Il desiderio si avverò, quando partorì fece
ecame mia thilikí ti iche ammiasia tu una femmina che aveva l'aspetto degli
Anghélu, tin ecrazzasi Sodiana. angeli. La chiamarono Sodiana.
Sto spiti ipije olo calá, ta pedia In casa tutto andava bene, i figli
fusconnasi, te dulie ejenondo ce i zoí crescevano, i lavori si svolgevano e la vita
ipighe ambró me chará. andava avanti con allegria.
Etuti jineca ito panda mian jineca jomati Questa donna fu sempre una donna piena
zze ijia, edulegghe sto spiti ce sto chorafi, di salute, lavorava in casa e in campagna,
den iche atonia. non sentiva stanchezza.
Mia mera tin epiae ponocefalo, ma ecini Un giorno le venne il mal di testa, ma lei
edulezze, ppos edulegghe tes aḍḍe mere, lavorò come lavorava gli altri giorni, quel
ecindin imera ecame olo ecino ti iche na giorno fece tutto ciò che doveva fare,
cami, ecame ciola to faghí ja tin spera ti preparò pure il pasto per la sera, ché il
ercheto to sinverni an din dulia. marito tornava dal lavoro.
Ti spera san edelesti sto spiti o sinverni La sera, quando il marito si ritirò a casa, si
ivre ti ito malidiameni30 ce tis arotie: ti avvide che era deperita e le chiese: «che
echi? hai?».
Ecini ipe: echi a tse prita mesimeri ti mu Lei rispose: «È da prima di mezzogiorno
ponì tin cefalì, den epsero ti écho. che mi duole la testa, non so che ho».
O andra tis ipe: arte pao od'ozzu ti echi Il marito le disse: «Ora vado qua fuori, ché
mia mazza tse ponocefalo31 su ferro liga c'è un cespuglio di ponocefalo, ti porto
fidda ce me enan mandeḍḍi ta alcune foglie e con un tovagliolo

30
malidiaméno [malidja'mεno] a. (2) ‘deperito’ (bov) ☞ ☆ pp. di malidiázo & ΙΛΕΙΚΙ III 422; Nucera
2009:428: paraftiméno, acócetto, vrondiméno, cacólito, arcódero: mal cotto, non cotto bene, cucinato
male.
malidiáźo [mali'djadzo] v.tr. ‘fare a pezzi’; intr. 'sciuparsi, andare a male', 'non cuocersi bene' (bov) ☞ Ena
ḣḣorto pu den botízete, malidiáźi 'un ortaggio che non viene innaffiato, si secca'; aor. emalidíasa 'mi
sono sciupato' ☆ gr. µελιδιάζω 'fare a pezzi' < *µελίδι, dim. di µέλος & ΙΛΕΙΚΙ III 422; Nucera
2009:248§: cuocio male, deperisco, mi atrofizzo.
31
ponocéfalo [pono'ʧεfalo] s.n. ‘mal di testa, cefalea, emicrania’; per sineddoche 'erba che cura il mal di
testa' (bov) ☞ To ponocéfalo to trógusi i éghe ce defi poḍḍí ja to ponocéfalo 'il ponocefalo lo mangiano
le capre e giova molto per il mal di testa' ☆ gr. πονοκέφαλο, comp. di πόνος 'dolore' e κεφαλή 'testa' &
LG 417; ΙΛΕΙΚΙ IV 250; Crupi 1981:93; Condemi 2006, 332.

- 75 -
p. 32

Febbraio . Février. s. Biagio vescovo


February . Februar .
3

- 76 -
p. 32

ta denni stin cefalí. te le leghi sulla testa».


Sirma o Petro ejai ce efere ta fidda ce tin Subito Pietro andò e portò le foglie e
afudie na ta dei me ena mandeḍḍi stin l'aiutò a legarsele in testa con un
cefalí, metà eghiregghe na stiai to faghí fazzoletto; poi lei cercò di approntare la
ma o andrandi den din afike, tis ipe na cena, ma il marito non la lasciò, le disse di
cathesi ti to faghí to guaḍḍi ecino an din sedersi ché il cibo lo versava lui dalla
zucca. pentola.
San accherosai na fausi i Caliddea den Quando si misero a mangiare, Caliddea
iche pina, efaghe ligo ce ejai ce etracline. non aveva fame, mangiò poco e andò a
Mesa stin nista tin epiae i vrasta. letto. Nel mezzo della notte le venne la
febbre.
Tin purrí o andra san ivre ti ito me tin L'indomani mattina il marito, quando la
vrasta den izzere ti na ti ccami jatì tote den vide con la febbre, non sapeva che farle
iche jatri ppos echi arte ce eghirezze na ti perché allora non c'erano medici come ci
ccami ecino enan farmaco zze ecina sono oggi, e cercava di preparare lui una
spitatica ti cannusi ole te jenie; medicina di quelle caserecce che usano
tutte le famiglie;
eghiai ti ecì condà iche mazze zze uscì perché là vicino c'erano cespugli di
dendronivalo32, edelezze cambossa fidda, dendronivalo, raccolse alcune foglie, le
ta efrere sto spiti, epiae ena psuccaluci ton portò a casa, prese un pentolino, lo riempì
ecame misó zze neró, i fotia ito asmeni, d'acqua a metà, il fuoco era acceso, e pose
evale to zuccali me to neró stin fotia la pentola con l'acqua sul fuoco

32
dendronívalo [ðendro'nivalo] s.n. ‘rosmarino’ [Rosmarinus officinalis L] (b); lendronívano ‘arbusto
sempreverde' ☞ ☆ ngr. δενδρολίβανον ‘pianta odorosa’; ‘rosmarino’ (Isole Ionie) & Heldreich 33; LG
203; ΙΛΕΙΚΙ II 245.

- 77 -
p. 33

s. Gilberto con fessore Febbraio . Février .

-5. Settimana. Semaine . Week. Woche .


435-331
February . Februar .
Sabato. Samedi.
Saturday . Samstag.

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s. Agala vergine

. 5 ~
~
· raiO. 'Février .
February. FetJruar.
Domenica. Dimanche .
• 5, Settima na. Semalne. Week. Woche . , 36; 330 . Sunday. Sonntag .

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~ ~' Jo}J,(M-\.1,M-lil/¼ I.I\Jl,(1V'\.V 4,~ t(),-.",V'-tl.

- 78 -
p. 33

san evrae evale ta fidda ce evrasai ja dio Quando bollì, mise le foglie e bollirono
lefstá, metà ecatevie to zzuccaluci ce ton per due minuti. Poi tolse dal fuoco il
afike na apothimisi, san ito acomí chlio to pentolino e lo lasciò freddare. Quando era
suroe33, ton eghliciae me to meli ce tis ancora tiepido lo filtrò, lo addolcì col
edike na pisi ena merticó, jatì iche na pisi miele e gliene diede da bere una parte,
tessera gullacia tin mera. Epie etuto perché doveva berne quattro bicchieri al
farmaco ja dio mere ce efani ti esteke giorno. Caliddea assunse questa medicina
caglio ma tin trito mera ecusti pleo per due giorni e parve che stesse meglio,
árrusti. ma al terzo giorno si sentì più malata.
Choronda otu o andra ecrazze enan jatró. Vedendo ciò, il marito chiamò un medico.
O jatró tin ecanunie oli, san eteglioe ipe: Il medico la visitò tutta; quando finì, disse:
ene arrusti zze plemonia, tos egrazze adda «È malata di polmonite». Prescrisse loro
farmaca ce tos ipe na stathí traclimeni sto altri farmaci e disse che doveva stare
crevatti ja na mi piai aero. I Caliddea sdraiata a letto per non prendere colpi
pleo esteke pleo apissu ipighe, ta farmaca d'aria. Caliddea più stava e più in basso
den din cannasi calá. precipitava: le medicine non le facevano
bene.
Eperasai ostó deca mere i arrustia Passarono otto-dieci giorni e la malattia
egheneto panda pleo varia, stes endeca divenne sempre più grave. All'undicesimo
mere apethane. giorno morì.
I ponia tu andruti ma to pleo ecino to Il dolore del marito, ma soprattutto quello
pedio ito pleo megali, jatí emenasi erremi dei figli fu più forte, perché rimanevano
ston cosmo. soli al mondo.

33
súroe, aor. di surónno [suˈrɔnno] v. tr. ‘filtrare’, ‘colare’, ‘scolare’ (bov) ☞ anche sirónno; stéco
sirónnonda to źema ‘sto scolando il brodo’ ☆ mgr. σύρνω, σέρνω < agr. σύρω ‘trascinare’; ngr.
σουρώνω ‘filtrare’. Cf. Meursius 540 σύρνειν pro σύρειν trahere; LG 493; ΙΛΕΙΚΙ IV 456; DGM 911;
Crupi 1981:95.

- 79 -
p. 34

- 80 -
p. 34

ta daclia an da zigoma ecatevennasi ce le lacrime dalle guance cadevano giù e


epalenasi to ístraco; to clamó eclanne te bagnavano il pavimento. Il pianto spezza-
ccardie se oli ecini ti to cunnasi. va i cuori a tutti coloro che li sentivano.
I pilalie pleo megali ito ecini san eferasi I lamenti più forti furono quelli levati
to necrò34 ce tin ecliasi ecì ossu, podò tin quando portarono la cassa da morto e la
eferasi stin anglisia. O presvitero tis ipe chiusero là dentro. Poi la portarono in
tin lutrighia. chiesa e il sacerdote disse la messa.
San eteglioe toccheretima tin eparasi ston Quando finì il saluto funebre la portarono
cimitirio, ode eteglioe olo, pasa ena ejai al cimitero. Qui finì tutto, ognuno tornò a
ja ta spitia tu. casa sua.
O sinverni ce ta pedia econdoferasi sto Il marito e i figli tornarono alla triste e
manacholico ce erremo spiti pu ito olo solitaria casa che era tutto un silenzio.
enan sopima35.
Pu ligo ligo ecatevie i nista, ce i erremia Piano piano calò la notte e la desolazione
tu spitiu ejenasti pleo megali. della casa si fece più grande.
[Ena jítona tos ecame to faghí ce tos epare [Un vicino preparò loro la cena e la portò
na fasi jatì ode se emmà otu cannome san perché mangiassero, poiché qui da noi
petheni ena an din icojenia: ja ofstó così facciamo quando muore uno della
vradie catha spera i jitoni to pperrusi na famiglia: per otto sere ogni giorno i vicini
fasi]*. portano loro da mangiare].

* La frase tra parentesi è cancellata dall'autore, che ha aggiunto una motivazione: La


tralascio perché era già stata scritta da altri. Essendo stata pubblicata da altri no la
scrivo. Tuttavia, anche su questo ha avuto un ripensamento ed ha rinunciato alla
cancellatura aggiungendo il testo della pagina seguente. Se ne deduce il desiderio di
offrire contenuti originali e non rimasticamenti di scritti altrui.

34
Nella Rubrica Casile annota: «necrò ‘cassa da morto’ G.M. (= greco moderno). A Bova tambuto?». Ma
νεκρός in neogreco significa ‘morto’. Il punto interrogativo segnala incertezza.
35
sópima ['sɔpima] s.n. ‘quiete, calma, silenzio’. Voce attestata solo da Casile, I zoí 21, 23, 59 ☆ *σώπηµα;
cf. gr. σιωπή ‘silenzio’ → sópo ['sɔpo] a. (2) ‘quieto, calmo, mogio’ (bov) ☆ gr. σιωπός ‘silenzioso’ <
σιωπάω; forse è connesso con lat. SOPOR, it. sopire. Cf. LG 457; ΙΛΕΙΚΙ V 120: σῶπω ἤρεµος, ἤσυχος.
.

- 81 -
p. 35

Febbraio . Février.

9 February . Februar .

,.
"

- 82 -
p. 35
ce i erremia tu spitiu ejenasti pleo megali, e la desolazione della casa divenne mag-
giore.

ppos issa cathimeni anisti i therida, ito Com’erano seduti, si aprì la porta; era un
enan jítona ti tos eperre tin parasunia vicino che portava loro la parasunía
(cena)36 na fasi. affinché si nutrissero.
Embiki estiae to mega scanní ti ito ja to (Il vicino) entrò e apparecchiò il tavolato
faghí me ena accheri grande, che era destinato alla consuma-
zione dei pasti, con una tovaglia.
to áploe apanu sto scanní evale mia limba La stese sulla tavola, vi pose una scodella
ce ecinoe to faghí ce ecame oli na pasi na e versò il cibo; poi fece che tutti andassero
fasi, a mangiare.
ppos etrogasi iche ton pedaci ton pleo Dopo la cena, c'era il figlioletto più pic-
micceddi ti leghi (ce i manamu apotse ti colo che dice: «e la mia mamma stasera
troji?) che mangia?».
me etuto logo embikissa clonda oli ce den A queste parole tutti scoppiarono in pianto
efagasi canena pleo. e nessuno mangiò più.

Il racconto del matrimonio dei due giovani bovesi si conclude con un esito
assai triste, che riflette lo stato d’animo dell’autore.
Il tragico disfacimento della gioia e dell’unità familiare si pone come una
parabola del destino della lingua, che tanto affliggeva Bruno.

36
parasunía: parasomía [paraso'mia] s.f. ‘pasto che si usa portare ai parenti più intimi del morto’ (bov);
anche parasunía; cf. cal. cúnsulu, cunsùlu || grico parafsomía (Cassoni 1999, 343) ☆ gr. παρασωµία?,
παραψoνία, cf. agr. παροψωνέω ‘fare la spesa’ & DELL 846; per Rohlfs (LG 386) deformazione
paretimologica di παραµυθία 'conforto, consolazione'; Crupi 1981:91. Si noti l'aggiunta della traduzione tra
parentesi: (cena), prova che la voce parasunía era avvertita come ormai desueta.

- 83 -
DATTILOSCRITTI AUTOGRAFI
B.
I zoì ti jenia ce i prandia mia forà stin Bova
,2
u

I ZOI TI JENIA CE I PRANDIA tAIA FORA STIN CHORA


•.
Egò grafo tin zoì tse mia jenia ma etuto c:hrizi ja ole te jenie tu tsa11pa=
taru.
Iche 11ia jenia tse etse antropi andra ce jineca ce tessera pedia, etuta issa
ta nomata ti ichasi. O Giurì ecrazeto Caridi Petra, i mana Potarnisi Cateri =
na, ta tessera pedia issa dio arcinìcà c_e dio thilicà, o protinò ton ecratsaì
Caridi Janni, i desteri tin ecratsasi Caridi Filo,nena, i trito Caridi Sodiana
ton detarto Caridi Anghelo. lituti jenia ize c.iacria an di Chora, ize ecì pu
ic:he to chorafi ce ta spitia dicati. Ito mia jenia tse irini, t on protinò
jò iche icositesseru chronu, o pleo cceddi o Anghelo iche dodeca; pasa ena
tse etuta ecannasi tin duliandn. jatì otu ta issa mattheonda i goneito.
Te ddulie issa miriamena ja catha ena, o ciu ri ce o Janni dulegga s i sta cho=
rafia, esperrasi to sit ar i, to critha r i, tin facì, to cuamos ce tossa adda
sporè. To chuma J en do scastas i jatì i to '"ali t o alan nas i ·•1
e ta vudia, ~ ~

ito o Janni ti alanne "fil ta vudia, o ciuri ecanne to acamma, efitegg as i ta


Cr@miidia, ta scor d ia, ta ~a ruglia, te ppatate, olo ecino t i it o dia s ticò
ja to spiti. O \nghelo ecanne ton foritano j a tì icha si eghe ce pro vata ce
iche na ta pelisi na vos ciusi, iche n a catharisi tin mandra ce tin cropia na
tin pari sto ci puri, s a n ich as i t o gala iche na ta arme tsi to1gala to eva dde.i ,
1/tr chisca ce - to ~ sto spi ti, Ston mina tu majiu ti to gala i to tse pleo
e jo11onne dio chiske ce tote de n da eperre sta che ria pp oss'; pe rre san i to mia,
epianne to siclovsti ce tè. vasteg gh e $ spi t i. Sto spiti ecannas i to tirì ce
tin mizithr a, to tirì me tin mizithra ta ecanne i mana.
To cathari 1111a tu spitiu ce ti jitonia t o cann as i te tso dde ena ddo madi
peromu . Ston mina tu m::ijiu ecostasi to chortoJ to af inn as i na .r a tthì _.
to cloth a si!tce ec an nasi mattule, sa n it o ts erò t o v-,ddasi ossu sta megala
calivia ja na mi pal ithì, Den ito manachò sto ch orto ti ec a nnasi dulia is·Tiia

:Sdeleggasi te facia de, etheÌrzasi ton crithari, to sitari, t a alonizas~9'8 se


0
etute dulie i s sa oli ismia, ~~ aloni,nm~}se etuta carpadia egu ad da s i ton
achero ti i t o to sso dia s ticò sto chi11ona ja te vuthulie ce ja t.a gaduria.
E cannasi to ss e à:lde du l ie ti den da isonne ca 'ni ena ma"achò, \:.o_ sparto, to

ii~i!xce ton cannav0, to sn ar to tte nrotinè dulie ta cannasi ~~~

- 86 -
B.
La vita della famiglia e il matrimonio una volta a Bova
Scrivo la vita in una famiglia, ma questo vale per tutte le famiglie del contadino37.

C’era una famiglia di sei persone: marito, moglie e quattro figli. Questi erano i nomi
che avevano: il padre si chiamava Caridi Pietro, la madre Potamisi Caterina; i quattro
figli erano due maschi e due femmine.
Il primo si chiamava Caridi Janni, la seconda si chiamava Caridi Filomena, la terza
Caridi Sodiana, il quarto Caridi Angelo.
Questa famiglia viveva lontano dal paese, viveva là dove possedeva il campo e le case
proprie. Era una famiglia pacifica. Il primo figlio aveva ventiquattro anni; il più piccolo,
Angelo, ne aveva dodici. Ognuno di loro faceva i servizi che gli spettavano, perché così
i genitori avevano insegnato a loro.
I lavori erano suddivisi per ognuno: il padre e Janni lavoravano in campagna,
seminavano il grano, l’orzo, le lenticchie, le lattughe, le patate, tutto ciò che era utile
alla casa.
Angelo faceva il pastore perché avevano capre e pecore e lui doveva portarle fuori e
farle pascolare, doveva pulire la stalla e lo sterco da portare nell’orto; quando avevano
il latte doveva mungerle. Il latte lo versava in un secchio e lo portava a casa. Nel mese
di maggio, quando il latte era di più, riempiva due secchi e allora non lo trasportava a
mano come quando lo portava quando era un solo secchio; prendeva il bastone da
trasporto38 e lo portava a casa. A casa si faceva il formaggio e la ricotta; formaggio e
ricotta li faceva la mamma.
La pulizia della casa e del cortile la facevano le ragazze a turni settimanali. Nel mese
di maggio raccoglievano l’erba, la lasciavano seccare, la torcevano e confezionavano
manne; quando era secca la sistemavano dentro grandi capanne per non farla bagnare.
Non solo al paese facevano i lavori insieme. Raccoglievano le lenticchie, mietevano
l’orzo, il grano, trebbiavano. In questi lavori erano sempre insieme, anche nella
trebbiatura. Da questi prodotti ricavavano la paglia che era tanto utile in inverno per i
bovini e per gli asini.
Facevano tanti altri lavori che uno non potrebbe fare da solo: la ginestra, il lino e la
canapa. Per la ginestra il primo lavoro che si faceva,

__________________
E cannasi = Ecánnasi.

37
Zampatáru epiteto spregiativo sinonimo di parpátulo.
38
siclovásti n. ‘bastone da trasporto’ era munito di due tacche alle estremità, dove venivano appesi i secchi
(síkle), era portato in bilico sulla spalla ☆ comp. di sícla + vastó & LG 457; ΙΛΕΙΚΙ IV 410.

- 87 -
ti ito to cup a ni ma1 to cann asi i andri, /t o accheroma tu chimona ti t ~ ~niste
Jenonde megale epigaJ;;lf sto.,spiti~ mia nista se ena spiti, i addì nista se enan
àdda ce otu ole t e nniste epiga me spitia s pitia me te ccupane. te ccupane , is=
1
sa jena'!lene tse tsilo,Sta spitia pu epig ame na ~ '~ ureggasi, et;'oga=•
meI epinna"le crasì ., estinnasi castana èe i jineke ti den cu pan izasi
. ,i,W°w~
;;ygsMc -.e
·""'-A/I

ecannasi tes agguàde ce 'l!as ta dannasi~ ~ to cannasi ja na mi chaome kerò


~ ~
emì. Issa niste j o-,,ate tse charà. !lesa se M11i!iNlciola .5t o spiti tu Petru ~
1
~ ilt# s_r,i'1:i ejenasti arghia , ode efagame. :t'rascatul a majuremmeni me t o zema
tse crea chir i nò .ce epiame aerando crasì paleo .
Arte condoferro -neta pa l e ce plateggo an di ,jenia tu Fetr u. Teg li o'.!lena te
;),Hc c ,11t11>.
ddulie tu cal oceriu i tsa mpatari echusi enan ,~ina ts e \lighi dulia) e tuto ene
ton mina tu àgustu, se etut o mina i andri ecannasi ta tsilo furra ja to ffur=
ro ja na affurriusi ta sic a ce ta sica tu turcu, -ne tsila ce cl adia tse spar=
to ecannasi tin camarda ja na piro usi ta sic a . Ta sica an o kerò ito calò ti
den ito sinnofi a o ilio ppos issa aplomen a ananu stin camaràa tseronna s i ce
etuta den ethel asi affurri,nena, i jineke ta deleggasi oss u se mian c ann istra
ce ta vastaz as i stcispi ti, ode ta ddegasi ceto c costasi to podal ~, ecina
pleo cal à ta vaddas i se mia meria, ecina ti de n issa tossa calà se mia àddi i
te g liomeni etu ti dul ia ta suronnasi se -nicrè astedde tse calami cannonda enan
o,.,._,IJ,
-~o,,.,_,..cr.,
ciclo ( Cuddu a = cullura). Se etuto cicl o ti ito etsero 'Ile stelekia suronnasi
adda sica'\ri ponn onda ta s ic a tu ci<:lu ~ ena stavò ,'¼ adda s t elekia
pleo t~"; e jomonnasi ola t on ciclo ~ _t,._
t.s-9-•.--U lJ;,, it...vw· -!,t,,,/4,,,,,..;._.._,
~~ o.--....~4,~I ~~ ~~ (.(, V»fV ~ r;t., -~/ ~,,M.«,.;;.
~ !j""".'~ ~~,,._..u, :~ a,;,,..., ~/U, ~ ~~":.- ~ ,,.:'4 ,;i;._ ?fl.ù./=
:t,... ~
rwwi,,ro/1~ <-'-<.M-'v ti~ là-, 1~~1 /4., ~ -z...,~ ' 4~'

.,

_________________________

- nochimeno è un appunto lessicografico, non attestato altrove, usuale negli scritti di Casile, che utilizza
le parti bianche dei suoi fogli.

- 88 -
che era la battitura, lo facevano gli uomini.
All’inizio dell’inverno, quando le notti si fanno più lunghe, andavamo nelle case, una
sera in una casa, un’altra sera in un’altra; e così tutte le notti andavamo39 per le case40
coi manganelli. I manganelli erano fatti di legno. Nelle case in cui andavamo per battere
la ginestra, si cucinava; noi mangiavamo, bevevamo vino, arrostivamo castagne, e le
donne non pestavano, preparavano per noi le focacce e ce le davano da mangiare. Questo
lo facevano affinché noi non perdessimo tempo. Erano notti piene di allegria. Tra l’altro
anche a casa di Pietro si fece festa; qui mangiavamo polenta cotta con brodo di carne di
porco e bevevamo vino vecchio genuino.
Ora torno di nuovo a parlare della famiglia di Pietro. Finiti i lavori dell’estate, i
contadini hanno un mese di riposo (apotonima: poco lavoro)41: questo è il mese di agosto.
In questo mese gli uomini facevano la legna per il forno, per infornare i fichi e i
fichidindia. Con pali e rami di ginestra facevano la palizzata per seccare i fichi; se il
tempo era bello e non c’erano nuvole, il sole come erano stese sull’impalcatura li seccava
e non era necessario infornarle. Le donne li raccoglievano dentro un canestro e li
portavano a casa. Qui li selezionavano42 e tagliavano loro il torsolo43: quelli più belli li
mettevano da una parte, quelli che non erano tanto buoni dall’altra. Completato questo
lavoro, li aggregavano in piccole schegge di canna confezionando un ciclo44 (cuddura =
cullura)45. In questo cerchio, che era vuoto nella parte interna, inserivano46 altri fichi
con virgulti e bucando i fichi del cerchio facevano una croce47. Con altri virgulti più corti
riempivano tutto il cerchio che era vuoto. Questi fichi li conservavano dentro la cassa.
Queste erano casse grandi e servivano solo per i fichi. Dentro la cassa diventavano
bianchi e venivano spalmati con farina di zucchero. Questi fichi nelle case che li facevano
se ne mangiavano pochi, solo quelli che facevano i protalia48; gli altri li davano in
regalo49.

39
epigame aor. di páo ‘andare’
40
spitia spitia reduplicazione iterativa.
41
Casile tiene a sottolineare la differenza semantica tra apotonía e apotónima.
42
ddégasi < ḍḍégo < ἐκλέγω.
43
Cf. cal. nci tagghjavanu u pedali.
44
ciclo ‘cerchio’ < κύκλος.
45
astédda, cal. astéja, stéja < lat. hastella ‘piccola asta, scheggia’; ciclo ‘cerchio’; nel ms. cuddua per
cuddura.
46
suronnasi: surónno < σύρνω, σέρνω < gr. σύρω ‘trascinare’
47
stavó sta per stavró ‘croce’, Cf il termine cal. crucetta (NDDC 206).
48
protália ‘dolci natalizi’, ‘primizie’; cf. protali nel Glossario.
49
doro ‘dono’, neoellenismo o arcaismo riabilitato da Casile: ngr. δῶρο < agr. δῶρον ‘dono’ (DGM
305).

- 89 -
C.
I zoi ti jenia ce i prandia mia fora stin Chora
c.....
')
I Z01 TI Ji.NIA C8 T PRANDIA '·'TA FOR:\ STIH Cf!ORA.
Mia f a rà stin Chora iche mian jenia tse etse atho ni , o ciuri ~e t o no~a CARI)I
PETRO, i mana ·0 oT Al•:ISI CA.T'sRI NA, ic ha si tessera ~ed i a di o arcinicà ce di o thi-
licà . O protinò ito arcinic ò tu v.sl;is i to noma ,Tanni , i destero it o thilicò
ce tin ecratsasi Fil omena, i trito Lto c iola tht lic ò c e tis evalasi Sodiana.
t on U1:txx tetarto ton ecr a tsa si •\ ng f l o. Etu ti Lt o '"ia n j enia ti i.che "'i a ·,;ega -
li ognasi iz e rnacriak.n do ch or to I to so i t i :t o à;alte ecì IJU ich 11)1'to chorafi edu -
le ggasi oli pasa ena' e ca nn e tin d u liatu ce t o calò e · be nne s t e/sn i ti, ta ne ùia
0

den issa ol eo ne di a is sa fu sc oso nda , to n oleo ·ega ti ito o Ja nni i che i cosi
dio chroni ce t o 'llicrò o Anr:;elo deca tessera . Se ec 1.ndo n kerò. ts1 n.edi a dule ,çga-
è,,U,,tc,
s i oli pasa ena i che tin duliandu tse eci no ti i so nn ece ,, o P.-;;,po t a i to miri a -
ond a : O Jianni ti ito t on ple o,il·aega ,_ce ec ino ecann as i t e du l ie s t o neri voli,
e cann a s i to snoro, es per ra s i to si t ar i, t o cri thari, ti f f à cì. , to fava ( cu a mos )
ti ,plero nn:t:: :tl!ll'lX J'll!Clil:ti111ìtix st011 xx aJji s t on ma.ii, e pi f,a s i ecì nu i to s pe r·, en o to
deleggasi se enan sac co ceto perrasi sto sniti t u guadd hasi t o flustr o eol to
cannasi cuccia ce to maj iur't~ ti s --,,
i '•"n.eno ,ne t o crea chirinò .
& Etuta dio, ciuri ce jiò de n eca nn as i to s por o manchò ecl adeg gasi to a ·sbeli to
s cas t asi , escastasi t o cho raf i ce fite gg asi t a scordia, ta crommidia , ta lacha -
na ce •naruglia. Pareo tse etut e dulie ecostasi vu to ..,o t o vastazas i sto soiti
n a fasi~tvuthu l i e den j it i de n ichasi à dd ho ti na f a s i ma jia na add hatsu s i
f ajì . Etute i ssa te ddulie t u ciuriu ce tu ji ù~ -To n à ddh o jiò o Ang el o iche
na voscisi :tas x• enan par za '!li ts e e je tse eche, iche na to c catharisi ti n man-
dra na stiai t o t saccano j a na mi oali ni, na frag oi ti ff ras bi , na stiai ta
rifiati spera sa n del eggo ndo stn de le ggondo te -~ ane . Sa n da rifia issa tra-
nà ta pulussa ce ~e to nulima acc he ronne mia ad dhi dulia, i du li a tu arme mma.
To armemma ito dulia tu tu Anghelu ce tse mia an de jin c ke na tuta cendisi,
o Anjelo ecathinne sto galari (por o ) ce i man a o i leddhà e c endonne, sa n ete -
g lionnasi to ar.,, e· n"'a, ecliv as i tin •ra ndra, epianna si t e chi sk e me to gala, o
Anjelo eperre dio t a creman ne sto siclovasti ce ta epe rr e s t o s piti; tin àddhi
chisca tin e perre i le ddhà, sto sp i ti to tiri ce t i n mi zith ra ta eca nne i mana.
ton orò tosto vaddhasi sta chi ridia ce sta sciddhia. I jine ke ecannasi tes
àd dh e dulie tu spitiu, eta j iz as i ta zoà , eolenasi, eca th arizasi t o spiti ce
emajiureggasi, te ciuriac ad e scan nasi oli a eghia, i andri ca •n. mia for à epiga s i
stin Chora i jineke ema j i ur~iJ i, t o majiurisi ton ec~ nna s i ji a spera, ti spe -
ra edeleggondo oli I tin imera 1))cfuscorpimena. Te 1 h?i ~7t sto s pi ti tu_Petru it o
olo metrimeno,ode ezussa tria pr a mata ti an issa ag a pime na '\'iR~ ~a\:ttopu o
cosmo add hasse cera: ~api, jnd im i ce /l)ulia. TEdul ie sto ch ora fi ~ 4 pan da 111P'
podd hà, teglionni mia ac ch er onnu s i tes àddhe, st on jenari to clademma tu ambe -
liu, tegliomeno t o clademm a to s catsi ceto scale mrna tu s itar i u.
Ston maji accheronnasi na cots usi to chorto ja na ca mus i tin chù r a, i chùra
ezi t in ne pod dhì dulia ce j a e tuto ed ul eg gas i o li an dri c e j i neke . Rcos t asi t o
chorto, t on aplonn a s i na mar a tt hi ja tria tessere mere , tin purri e jerrond o sir-
ma prita na diafazi ceto clo th as i, pis ede l e ggh e t o chort o tu lupe tulu pe ia
na mi cha usi kerò, eci ni ti eclothasi tlli ecan nas i te mmattul e , àdd hi edeleggha-
si te mmattule ce ~a cannasi sorà, ~

- 90 -
C.
La vita della famiglia e il matrimonio una volta a Bova
Una volta a Bova c’era una famiglia di sei persone, il padre con il nome di Caridi Pietro, la
mamma Potamisi Caterina. Avevano quattro figli, due maschi e due femmine. Il primo era
maschio e gli misero il nome Gianni, la seconda era femmina e la chiamarono Filomena; anche
la terza era femmina e le misero Sodiana; il quarto lo chiamarono Angelo. Questa era una
famiglia che aveva una grande concordia. Viveva lontano dal paese; la casa era là dove
possedevano la campagna; lavoravano tutti; ciascuno aveva la sua funzione e il bene entrava in
casa. I ragazzi non erano piccoli, erano adolescenti. Il più grande, che era Gianni, aveva ventidue
anni, il piccolo, Angelo, quattordici. Quell’anno i ragazzi lavoravano tutti: ciascuno aveva il suo
compito per quello che poteva, e il padre aveva assegnato i compiti. Gianni, che era il più grande
e lui (= il padre) facevano i lavori nell’orto, facevano la seminagione, seminavano il grano,
l’orzo, le lenticchie, le fave50, che maturavano in maggio. Andavano là dov’era seminato, lo
raccoglievano in un sacco e lo portavano a casa; gli toglievano la scorza, ne facevano chicchi e
lo cuocevano mescolato con carne di porco.
Questi due, padre e figlio, non facevano soltanto la semina; potavano la vigna, la zappavano,
zappavano il campo e piantavano l’aglio, le cipolle, i cavoli e le lattughe. Contemporaneamente
a questi lavori, estirpavano il giunco, lo portavano a casa per far mangiare le vacche; non perché
esse non avevano altro da mangiare, ma per cambiare cibo. Questi erano i lavori di padre e
figlio51. L’altro figlio, Angelo, doveva portare al pascolo un gregge di capre52, doveva tenere
pulito per loro l’ovile, preparare il recinto per evitare che si bagnasse, ripristinare la siepe,
sistemare gli agnelli la sera quando si ritiravano53 le mamme. Quando gli agnelli erano
grandicelli li vendevano e con la vendita cominciava un altro lavoro, la mungitura. La mungitura
era un compito di Angelo e di una delle donne (che interveniva) per tenergliele ferme. Angelo
sedeva nel mungitoio (entrata)54 e la madre o la sorella spingeva. Quando finivano la mungitura,
chiudevano l’ovile e prendevano i secchi55 con il latte; Angelo ne portava due, li appendeva al
bastone da trasporto e li portava a casa. L’altro secchio lo portava la sorella. A casa il formaggio
e la ricotta li faceva la mamma; il siero lo gettavano ai maiali e ai cani. Le donne facevano gli
altri lavori di casa, davano da mangiare agli animali, lavavano, spazzavano la casa e
cucinavano. Le domeniche facevano tutti festa; gli uomini qualche volta andavano a Bova, le
donne cucinavano. La cucina la facevano di sera; di sera si radunavano tutti, il giorno erano tutti
sparsi. Il da fare di Pietro a casa era tutto misurato; qui vivevano tre realtà che, se fossero
predilette da tutte le persone, il mondo cambierebbe aspetto: Amore, Concordia, Lavoro. I lavori
in campagna erano sempre molti; uno finisce, altri cominciano: a gennaio la potatura della
vigna, finita la potatura, la zappatura e la sarchiatura del grano. A maggio cominciavano a
tagliare l’erba per fare il fieno. La fienagione richiedeva molta fatica e vi lavoravano tutti, uomini
e donne. Mietevano l’erba, la spargevano affinché seccasse per tre-quattro giorni; la mattina si
alzavano presto prima dell’alba e la torcevano; qualcuno raccoglieva l’erba in ammassi per non
perdere tempo; quelli che torcevano facevano le manne, altri le raccoglievano e le ammassavano
in mucchi.

50
to fava n. sg. ‘le fave’ = cal. u favi. Ancora una volta Casile aggiunge tra parentesi il termine alternativo. Ma cuamos
< agr. κύαµος (voce omerica) è sconosciuto al greco moderno, che usa κουκκί.
51 La nota a penna inserita nel margine basso è dell’autore: 1°: Tante volte avevano troppi lavori e andavano pure le
donne ad aiutarli.
52
La doppia grafia tse eje tse eche dimostra l’incertezza dell’autore sulla rappresentazione grafica della fricativa
palatale sorda <hj>. V. éga.
53
san deleggondo stn deleggondo: si tratta probabilmente di una ripetizione non voluta (stn: errore dattilografico).
54
galári è seguito da poro tra parentesi: indica un sinonimo oppure l’ingresso del mungitoio; si noti che γαλάρι in ngr.
è l’‘ovino da latte’.
55
chiske ‘secchi di legno per il latte’; si noti l’uso dei grafemi <ch> e <k> per una voce poco usata: hjísca < lat.
FISCULA.

- 91 -
~)
San eteglionnasi to clothi i càQ.~a tin vas t az asi oss u sta calivia ti issa~
jena'llena ja na sozusi tin chura, ta calivi a i ssa panda condà sto spiti ce <BI
condà stin pinnat a ja na ito proske ro. Se etuto lrnrò ti cannasi tin chura du lep;-
gasi ciola sto cipuri met a po t is ticà, fit er,gasi t o fasuli, te natat e ce tossa
àd dha pra ·nat a. Ston mina tu proto jiuni acch er onnasi na del e tsusi te ff a ciade san
te g lionnasi te ffaciade ito calò ja therisi to crithari, san do tegi:exxasi:xxasta~ :
teglionnasi dele gg asi con dà sto aloni to crithari ce tin facì nodò ecatharizas i to
aloni to palenasi epia nna si to vu r vith o ti ito delemmeno sti n pinnat a t o perras i
ce to va ud ~fSi ossu se ena mega stennato ,,e t o ne r ò ce to zi •,,onnasi tosso ti idife
frascatu\a," ' tin destero ,,era alònizasi tin f a <:_\11:~!'t,'.te glio nn as i tse alonisi tin
!acì acceronnasi to cri thari. To aloni ··ma tu 'i?nr;;;ht i to addò an di ffacì, ti spe-
ra to aplonna s i sto aloni cannonda enan c ir col ,, ,,e ta ch e romula ,ne to stachi ja
ossu, ossot te ts e etuto cirolo to jiòmonn as i r,,e cher o•nula etuta ta va dd hasi '"e
to stachi puca o tte. Tin purrì e jerrondo s ir ·na c e to pa le na si •ce to nerò fe ce sir,r,a
e per rasi :tv :,,XJlH:l:ln1ii:Rxx x exa xz 11~~lfll1"i:•tse x xutl>t11iiK dio vu thu li e ta zuisguarizasi ,,,e
demena sto zigò demena ~e te zenisle an do sc uddhi sto zigò c e an da cerata •e t o
scinì, jena'lleno e tuto 8-Ccheronnasi na c,,-r us i t on p'.lro'.1ti ·na np;hiru nghiru tu alo-
niu apa nu sto crtthari palimeno, anis su st a vudia i ~ij e na nda en8 j a n a t a ce rtdoi .
saa..da_as.t.ar.1i4- -i ·to --tifHUl!'cw ,,8>!'10. Id 't a vu di a de n i ni _je pa nda e n., na t a ccndoi ja tì
àto ne ce otu c a nn as i venda, to jirimg ùe n ito oan d_=-1j.-:i,_•i i ;:i ·: eria e cann ~s i. deo s p i-
1

thia; nghiru st o alo ni iche t on ath rop o t .i ,e ta si ,·,bari a si .1bizasi t o crithri ja


na -~i guikì an do aloni. f-le to pati>J1a tu vudi .u, me t o si - bi "1a ce ·"e to pa ti"'a tu
0

andra ti ipighe aoissu sta vud :la ta astachi a tu crithar iu e tsjcucciaz ond o, s an is-
sa ola tsicu cciame na tos ecannasi ca'lli sta s i ste vuthu lie ce ta the 'llata me ta si m-
baria echorizasi ton ple o apa nu achero ti den iche pl eo a st ac hia ceto guaùd hasi
otsu an do aloni, ode iche dio th emata ti eniannas i etuto a chero-~~tl-!.Yrfio' palime-
no'fo ena tse et~tì ennethe o à dd ho eclot he to ecannasi mat tule ce ta va dd ha s i ena
apanu sto àddho pu ecannasi enan :nega so rò. Etuto achero ton ecrazasi " Clapo" ce
den ito ja nato fasi ta zoà, etut o ito ja na jiòmousi ta saccugna tu crevat tiu,
ciola egò eciumithina st o saccuni tse clapo, t o crithari ti e •-.ene st o al oni to
aplonnasi a plo meno na skirisi ~e ton ili o , san ito sklirò t o tsLdd hiz asi , t o met!\\'.ls
vaddhasi sta sakki ceto perra s i sto sniti, sto sniti t o c osc inizasi, nodò epia nna-
si catha forà ti ichasi na nasi ston mil o na aleu si liji facì ce ligo crithari ta
smingasi ta vaddhasi se enan sacco ce t' a lrthasi. ~ tut o ito ton protinò t s0"1Ì tu
chronu jatì to ca nnasi .,e t on carpò cinurghi o . To ps o·sì to ecanne i jineca ~
X&xù ta psilòfurra ta eferre sinverni. Sa n emegal oasi te osodùhe i la nata 'l!athe-
nn~ :, ce to cannasi ecine • &l1!Xll~:U:l:Xil!lllllllXEl111:tax:U:ax~a:tilll
Ste protiné mere tu sturiuniu accheronnasi to thero tu sitariu, se etuti dulia
eduleggasi oli andri ce jineke, jeri ce pedia apucatu ,s ton ciomeno ilio kiglia-
mena me ~o t~~ani sto cheri therizasi ce travudu s sa tr~vudia ti t osse foré issa
pse Z', ma tosse foré issa ciola ipocondrica. r athropi ti etll&~xasi:x et herizasi
issa oli suriàmen a apissuto iche ciadda ti ta deleggas~ ce dennasi te ch er ie;=
1
~d~il; etuti ecrazondo "cherari". To thero se e mm"iche, ce echi acom i, mia n
pale a 'lliriasia : o che raro pianni cha,, ..,,ot te pu 1 i a mia tris 1
che rie ce ta denn; p~J:',
7
_______________
Dall’Agenda di Casile:
Vurvitho (dorico) = sterco di bue impastato in una caldaia con acqua. Si usa per pavimentare l’aia ondi trebiare.
Vurvithunia = grande sterco di bue. Vurvitho = Sterco di buoi impastato con cenere per intonicare l’alveare.
Si noti l’indicazione dell’origine dorica, che rivela la lettura della letteratura scientifica: vedi Glossario.

- 92 -
Quando finivano di torcere il fieno56, lo sistemavano dentro le capanne che erano state
costruite per conservare il fieno. I fienili erano sempre vicini alla casa e nei pressi della tettoia57
per essere a portata di mano. Nel tempo in cui facevano il fieno, lavoravano anche nell’orto per
l’irrigazione, piantavano i fagioli, le patate e tanti altri ortaggi. Nel mese di luglio cominciavano
a raccogliere le lenticchie, dopo di che era bene mietere l’orzo. Alla fine raccoglievano l’orzo e
le lenticchie nei pressi dell’aia, poi pulivano l’aia, la bagnavano, prendevano lo sterco che era
stato raccolto nella pinnata, lo trasportavano e lo sistemavano dentro una grande caldaia con
acqua e lo impastavano tanto da sembrare polenta58. Il giorno successivo trebbiavano le
lenticchie; terminate le lenticchie, cominciavano con l’orzo. La trebbiatura dell’orzo era diversa
da quella delle lenticchie: la sera lo stendevano nell’aia facendo un circolo con i manipoli, con
le spighe59 dentro, questo circolo lo riempivano di manipoli, questi li mettevano con le spighe di
sotto.
La mattina si alzavano presto e l’innaffiavano con acqua; subito portavano due vacche, le
aggiogavano al giogo, legate al giogo con cinghie e alle corna con la corda. Fatto ciò,
cominciavano a fare il cammino attorno all’aia sopra l’orzo bagnato. Dietro i buoi c’era sempre
uno che li stimolava. Per i buoi non camminava sempre uno solo a pungolarli, perché si stancava
e così facevano a turno60; il giro non era sempre in una direzione: spesso si tornava indietro.
Attorno all’aia c’era sempre un uomo che con i forconi raccoglieva l’orzo affinché non
fuoriuscisse dall’aia. Con il calpestamento dei buoi, con la raccolta mediante il simbituri e con
il calpestamento dell’uomo che procedeva dietro i buoi, le spighe dell’orzo si sgranavano.
Quando erano tutte sbucciate, facevano fare una sosta alle vacche e gli uomini con i forconi
raccoglievano la paglia più in alto che non aveva più spighe e la collocavano fuori dell’aia. Qui
c’erano altri due uomini che prendevano questa paglia ancora bagnata separandola dai chicchi;
uno la raccoglieva, l’altro la legava; la riducevano in mattule che ammassavano una sull’altra
facendo un grande mucchio. Questa paglia la chiamavano “clapo” e non serviva per cibo del
bestiame; serviva per riempire i saccuni del letto. Anche io ho dormito nel saccuni di clapo.
L’orzo che rimaneva nell’aia lo spargevano perché si seccasse al sole. Quando era duro, lo
pulivano, lo mettevano nei sacchi e lo portavano a casa. A casa lo passavano al setaccio; poi,
ogni volta che dovevano andare al mulino per macinare un po’ di lenticchie o un po’ di orzo, lo
prendevano, lo mescolavano e lo mettevano in un sacco e lo portavano. Era questo il primo pane
dell’anno, perché lo facevano con un frutto nuovo. Il pane lo faceva la donna, la legna per il
fuoco la portava il marito. Quando le ragazze crescevano, la madre le istruiva per farlo loro.
Nei primi giorni di luglio cominciavano la mietitura del grano, un lavoro al quale
partecipavano tutti, uomini e donne, vecchi e bambini: sotto il sole cocente curvi con la falce in
mano mietevano e cantavano canzoni che tante volte erano di gioia, ma tante volte erano anche
tristi. Gli uomini che mietevano erano tutti schierati in fila; dietro di loro ce n’erano altri che
raccoglievano e legavano le manate; costoro erano chiamati “cherari”. La mietitura da noi
aveva ed ha ancora una vecchia suddivisione (di compiti): il cheraro raccoglie da terra a una a
una tre manate e le lega.61

__________________
- Le voci simbizo, símbima, rare e sconosciute ai più, ricevono qui una chiarificazione semantica. Il
simbitúri non era solo l’attizzatoio per raccogliere legna e braci, ma anche un forcone di legno usato nella
trebbiatura;

56
ḣúra s.f. è il nome greco del fieno, sostituito poi dal romanzo frénu. Il termine non è testimoniato altrove e va
connesso con ḣúrḣuro s.n. ‘fuscelli, pagliuzze, peli, materiali per la costruzione del nido’ e ḣurḣuráta. Una derivazione
araba è problematica per la semantica: cf. Glossario.
57 pinnata ‘tettoia, stalla aperta das uno o più lati’ (NDDC 433, 524) è sconosciuta al LG e all’ΙΛΕΙΚΙ.
58
Tante volte avevano troppi impegni e andavano pure le donne per aiutare (Nota inserita dall’autore).
59 stachi = astáchi ‘spiga’.
60
cánno déo ‘fare a turno’ è locuzione rara, ignorata dai lessici grecanici, ad eccezione di ΙΛΕΙΚΙ. Cf. déo in Glossario.
61 Qui fìnisce la pagina, con la nota “pag.3”. Non abbiamo il seguito.

- 93 -
- Il significato 'forcone di legno' del termine simbarío, solo in Casile, è chiarito in questa pagina: athropo
ti me ta simbaria simbizasi to crithari ja na mi guikí an do aloni. Si tratterebbe di un sinonimo di simbitúri.
- aoissu è errore dattilografico per apissu.
- zziclapíźo, altro relitto conservato in questo testo, è derivato da clapí, cf. zzicucciázo.
- stasi è glossato nella Rubrica, 289: ‘rallentamento, fermata (Zingarelli). Lo stesso in Grecia’. Abbiamo
qui una prova che Casile consultava lo Zingarelli, dove reperiva certe etimologie.
- t’alrtasi è probabile errore dattilografico: írtasi < ércome?
- to aplonnasi aplomeno ‘lo stendevano, lo mettevano steso’.
- na schirisi ‘che si seccasse’, cong. aor. di schirónno [ski'rɔnno] v. tr. ‘rafforzare’ e intr. ‘rafforzarsi’ < gr.
ἰσχυρόνω, ίσχυρίζοµαι. Voce nota solo a Casile. L’a. scliró che segue immediatamente potrebbe
rimandare a un non altrimenti attestato esito di σκληρός ‘duro’ (LG 463).
- ciadda : agglutinazione grafica di ce adda ‘anche altri’.
- Pu mia mia: locuzione con valore distributivo: ‘ad una ad una’.
- Notevole la documentazione di cheraro (hjeráro [çe'raro] s.m.), di cui Casile dà la spiegazione
etimologica: ‘uomo che raccoglie il grano mietuto nell’aia e lo lega in mannelli’, derivato di hjería
‘manata, mannello’: athropi ti deleggasi ce dennasi te cherie; etuti ecrazondo cherari’.

- 94 -
Donne che lavorano sulla soglia di casa
D.
I zoi ti jenia ce i prandia mia fora stin Bova

I
I ZO= TI JSNIA CE I PRANDIA VIA FORA STIN BOVA.
Iche mia jenia tse etse athropi, o ciu r i ecrazeto ?etra Caridi, i Jin e ca
Potamisi Caterina, . ichasi tessera pedi~ dio arcini cà ce dio thilicà, o prolà-
tinò tu valasi to noma Janni, i desterJ ito t hilic ò ce tin ecr a t sa si FilomES-
na, tin trito Sodian a , ton detarto Angel o .
~Etuti jenia iz e macri a an do chorio ich e to s pit i eci pu ic he to chora-
fi dicou d i, ce den ito l ~gol O protinò an da oedi a o Jann i iche ico sivuthro-
ni, ~teri~ir ecr3t595à~Fil Omena, i t o de cae t S, ch ro nò, i Sodia na ~
ce o Angelo ir' ' pasa en a tse etuta e c anne tin duli andu ts e ecino ti ison-
ne~ I gonei ta·ssa mttheonda ouccia ti issa micrà se ole te dulie. Ta oedia
a rcinicà e piga i ~e ton ciuri sta chorafi a ce es perr as i tin f a cì, t o critha-
ri, to sitari, to linari ce ton can na vo, ston novembri efite ggasi ta palea
cro ~midia ce ta scordia. Ecosta s i tsil a ce ta ferrasi sto spiti j a na camni
pirri, ichasi ta zo à vuthulie tin gadara ce provata me eghe, ja ta zoà ito
o jò Ange l o ti iche na ta t a jisi, ce ja etuto den it o mega provli ·1a ~ t on e,-kn,
calocfri afu duss a oli ce ec ost asi chorto ce ecann e:tsi san it o ts erò 1 ~ c;e
., tiN vaddasi os s u sta megal a cali vi a ja na mi pa li thusi • .san a loniz a si to sita-
ri ecann a si ton achero, ci o la etut o vad dasi sta cal i via, ja te vuthulie de n
ito vario ceto anal og o j a tin g a dara jatì t o fa g hì. Pl eo di scu lo it o j a t e s
e.gh e ce ja ta ,.n;-ovata jatì etuta i che naTi>pelis i catha mera an ito ca lò c 1_f~
den ito calò.'"1 ) ciuri ce o Jarm._i ja to pleo sto spiti ercon do ti s pera, ~.,;.,t,,
,~an erc ondo, ercondo forto mena 1·tsila. I jineke ecann as i te ddulie tu s pitiu,
epl enasi, ecatharizasi to s piti, a..,ba ddo nnasi j a tì t o te d en ito san ar t e ti
sto ,:'\P.;i;J;t_.rfhome pend e etse foresie, t ot e iss a l ighi ec i ni ti ichasi 'llia fare -..
si a ~~ j a tì i pezìàsx den ichasi dineria na scusi ch orai ecino ti tos
ejuveggh e ,' otu i mavri jinek e echann a si ta ar ta mmiando ra s t nda ce a poraston-
d a ta 11mkia dilt~rn11Ìlxcìex a ·nbad dow,ata an de foresi e . Icha s i t o ani: a l i o ce e fena-
si, etsan i za s i, ennethasi ce se t os se du li e af udussa ciol a t u; à nd ru, to pleo
st o th erisi ce st o a l onisi. sfo so iti edu l egga s i cli na sae na stin i uliatu, s
?fìti:t't;ìf;fIM ich asi mi a ..,1e.ga l i og;na s i , o tre rò e ~:;;r a nne t a ":)ed.la e fu s con nasi , o
J anni ti it o to n pro tinò ic he icosi d i o chr oni.
It o ton de ca oende tu à gustu t'? ~le, 0 ~ ti s tin Chora e ca nnasi tris mere~
ts e arghia, i gonei i pa si st a pe di a :An thelisit e na oai te s tin ar ghi a sonni-- -
t e pai mena rne e'~Ì go nei sto sp i ti. Ta ne ::i a i oa? i ene tris i ,~ere .,,i a '!lera pote
thelit e paite esì, i go ne i doèn e the lasi na oa s i+ ce e l egasi: Vrete peJ ia emi art<
immesta jeri o keroT.ma eper a e ti -çiame na camome,' o cosmo den ene ja tu Jlll p-çialeu,
i palei sonnu s i na i pusi ma de na camusi pleo 1 esi iste ped i caria ce echit e na
ivrite tos s a pram a t a ti den etserite, echite na annorisite ce na annorithite.
Ppo th e lite esì ciur imu cannonie i pe i Filomena. ---- --- -- - -~ - --
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--t_, ~U:.. l

__________________
- Si noti la parola cafero in alto a sinistra. Evidentemente Casile intendeva approfondirlo.
Cáfero ‘fragile, floscio, poco consistente, vuoto’ è di incerta etimologia, forse arabismo: ḥafr ‘fossa, cavità’
(Gioeni 64; Pellegrini 1972, I, 253-4; LG 229; ΙΛΕΙΚΙ III 122), cal. cáffaru ‘burrone’.

- 96 -
D. La vita della famiglia e il matrimonio una volta a Bova

C’era una famiglia di sei persone, il padre si chiamava Pietro Caridi, la moglie
Potamisi Caterina. Avevano quattro figli, due maschi e due femmine. Al primo diedero il
nome di Gianni, la seconda era femmina e la chiamarono Filomena; la terza Sodiana, il
quarto Angelo.Questa famiglia viveva lontano dal pasese: aveva la casa là dove era il
loro campo, e non era piccolo.
Il primo dei figli, Gianni, aveva ventidue anni, Filomena era di diciotto anni, Sodiana
di sedici, Angelo di quattordici. Ognuno di loro faceva il suo lavoro per quello che
poteva. I genitori li avevano avvezzati fin da piccoli a tutti i servizi. I figli maschi
andavano con il padre in campagna e seminavano le fave, l’orzo, il grano, il lino e la
canapa. A novembre piantavano le vecchie cipolle e gli agli. Tagliavano legna e la
portavano a casa per fare fuoco62. Avevano gli animali: vacche, l’asina e pecore con
capre. Quanto agli animali, era il figlio Angelo che li doveva governare, e per lui non
era un gran problema. D’estate aiutavano tutti e tagliavano l’erba; quando era secca,
facevano il fieno, lo mettevano dentro grandi capanne affinché non si bagnasse. Quando
mietevano il grano, facevano la paglia, ed anche questa collocavano nelle capanne. Non
era un cibo pesante per le vacche e neppure per l’asina. Più difficile era per le capre e
per le pecore, per cui queste le doveva portare al pascolo tutti i giorni, sia che il tempo
fosse buono sia che non fosse buono. Il padre e Gianni a casa rientravano per lo più di
sera, lavoravano nel campo63 e, quando tornavano, tornavano carichi di legna.
Le donne facevano i servizi di casa: lavavano, spazzavano la casa, rammendavano
perché allora non era come adesso che in casa abbiamo cinque-sei vestiti; allora erano
pochi coloro che avevano un vestito per le feste, perché i contadini non avevano i soldi
per poter comprare ciò che serviva loro, sicché le povere donne si consumavano gli occhi
cucendo e scucendo i rattoppi dei vestiti. Avevano il telaio e tessevano, cardavano,
filavano e in tanti lavori aiutavano anche gli uomini, per lo più nella mietitura e nella
trebbiatura.
In casa lavoravano tutti, ciascuno nel suo compito e avevano una grande concordia.
Il tempo passava e i ragazzi crescevano. Gianni, che era il primo, aveva ventidue anni.
Era il quindici di agosto e a Bova facevano tre giorni di festa, i genitori dissero ai
figli: «Se volete andare alla festa, potete andare; noi genitori restiamo a casa». I ragazzi
risposero: «Sono tre giorni, un giorno, quando potete andate voi». I genitori non
volevano andare e dissero: «Vedete, ragazzi, noi ora siamo vecchi, il nostro tempo è
passato. Che andiamo a fare? Il mondo non è per i vecchi: i vecchi possono parlare, ma
non possono più operare. Voi siete giovanotti e dovete sperimentare tante cose che non
sapete, dovete conoscere e conoscervi».
«Come volete voi, padre, facciamo», rispose Filomena.
____________________
- Aggiunta a mano a fine pagina:
... portarli a pascolare ogni giorno, pulire l’ovile e portare il letame all’orto; quando avevano il latte,
doveva mungerle e portare il latte a casa. Il formagtgio e la ricvotta li faceva la mamma. La pulizia della
casa e del cortile la facevano una settimana ciascuno le due sorelle (spazzano).
L’inserzione parentetica finale (meterusi, da metérro ‘spazzare’) sembra un appunto lessicografico.

62
pirri è forse pl. di pira.
63
sto ch... va integrato: sto chor(afi).

- 97 -
Fattuci 1.
Pu teglionni o cosmo
12-10-1974

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- 98 -
Favola 1.
Dove finisce il mondo

12-10-1974

Poḍḍí ḣrónu apíssu íḣe énan jó zze Molti anni fa c’era un figlio di re, e
ríga, ce púccia ti íto sciólico éleje ti, da quando era ragazzo diceva che,
san jénete méga, éhji na pái na ívri quando sarebbe divenuto grande,
pu tegliónni o cósmo. doveva andare a vedere dove finisce
il mondo.

Perásai i ḣróni c’ejenásti méga. Passarono gli anni e divenne grande.

Mia méra tú’pe tu patéra dicóndu: Un giorno disse a suo padre:


«Egó thélo ‘nan papúri me óla ta «Io voglio una nave con tutto
thémata». l’equipaggio».

- 99 -
2

- 100 -
2

O patéra tu ípe: «Ti éhji na cámi?» Il padre gli chiese: «Che devi fare?»

O jó: «Thélo na páo na ívro pu Il figlio: «Voglio andare a vedere


tegliónni o cósmo». dove finisce il mondo».

O patéra: «Egó su to dónno ton Il padre: «Io te la do la nave con


papuri me ta thémata, ma l’equipaggio, ma con me non ci
m’emmena de ḣorúmesta pléo». vedremo più».

«Ce jatí?», ípe o jó. «E perché?», chiese il figlio.

O patéra: «Jatí esú den condoférri, Il padre: «Perché tu non tornerai,


den ezzérete pu tegliónni o cosmo non si sa dove finisce il mondo e, se
ce, an condoféri, amména de mu torni, non mi vedrai più perché sarò
ḣorí pléo, ti ímme pethamméno». morto».

O jó: «Patéra dicómmu, egó púccia Il figlio: «Padre mio, io da quando


ti íto pedí ce efúscoa etúti íto, ce éne ero bambino e sono cresciuto,
i gapía pléo megáli ti éḣo stin questo era ed è il desiderio più
gardía: na páo, condoférro paléo, grande che nutro in cuore: andare,
pethéno, ppos érhjete tin piánno». ritornare vecchio, morire, come
viene la prendo.

Na megálo póno éḣo stin cardía: ti Un grande dolore ho in cuore: che


de ssa ḣoró pléo źondári». non vi vedrò più in vita».

O patéra me ta dáclia stu lúcchju Il padre con le lacrime agli occhi lo


ton angalie ce tu’pe abbracciò e gli disse

- 101 -
3

......_.__,..,
.... ,,_ ..- ~ • . ...~--· ·----- ~·---··- -·· ~.

- 102 -
3

«Ótu théli ce ótu éne; egó su «Così vuoi e così sia! Io ti


vlogáo ja pósso ḣúma paténni». benedico per tutto il terreno che
calpesterai».

Ce légonda ótu ta dáclia tu E così dicendo, le lacrime gli


plénasi ta gangália. bagnarono le guance.

«Póte théli na ḣoristí, o jó». «Quando vuoi partire, figlio?»

«Egó me dío mére hjeretáo óli tu «Io in due giorni saluto tutti gli
fílu, ce tin trío mére ḣoríźome». amici, al terzo giorno partirò».

O patéra: «Ja tóte éne fortoméno Il padre: «Per allora la nave sarà
o papúri me óla ta prámata ti su carica di tutte le cose che ti
juvéggusi». servono».

O Rigúci se dío mére hjerétie ólu Il Reuccio in due giorni salutò


tu fílu ce ste trío mére ḣorísti. Ípe sta tutti gli amici e il terzo giorno partí.
thematátu: «Éḣome na páme ja tin Disse ai suoi marinai: «Dobbiamo
mería pu spundégghi o íglio; ce andare verso la parte dove sorge il
ambró ambró ce pánda ambró o sole». E avanti e avanti e sempre
papúri ípighe. avanti, la nave andava.

Peránnasi mére ce níste, ce ístera Passarono giorni e notti, e poi


mínu ce ḣrónu. Ja to fají epígasi mesi e anni. Quanto al cibo andava-
calá jatí piánnasi zzária pósso no bene perché pescavano quanti
thélasi; to zzomí pesci volevano. Il pane

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4

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4

to íḣasi. Ma n’áḍḍo práma [na dói] ce l’avevano. Ma un altro problema


écame na zzínnusi [zzinnái] tin faceva grattare la testa al Reuccio,
cefalí o Rigúci, ce íto ti ta thémata ti ed era che gli uomini, che erano
íssa poḍḍí pléo megáli zze cíno molto più grandi di lui, diventavano
jenástissa paléi, ce den ecánnasi vecchi, e non facevano il lavoro di
argasía scúndu príta. prima.

Mia méra ívrasi nan cóssifo Un giorno videro volare un merlo;


petónda; óli ípasi [éḣome to ḣoráfi tutti dissero «[abbiamo la terraferma
condá] ci, ci, nan cóssifo petái, túto vicina] là, là, un merlo vola, questo
dífi ti condá éḣome to ḣoráfi. significa che nelle vicinanze c’è la
terraferma».

Mére ambró sto papúri íche zze Giorni dopo, sulla nave c’erano di
cínda thémata ti t’úpasi tu Rigúci: quei marinai che dissero al Reuccio:
«Emí échi mére, mínu ce ḣrónu ti «Sono giorni, mesi e anni che
parpatúme pánda ce comí den andiamo sempre avanti e ancora non
ívrame i (te)gliosía tu cósmu o áḍḍa abbiamo visto la fine del mondo o
ḣoráfia; (c)ondoférrome apíssu, altre terre. Torniamo indietro,
mandé sa rístome (s)ti thálassa». altrimenti ti gettiamo in mare».

O Rigúci, ti íto jenastónda Ríga Il Reuccio, che era diventato Re


paléo, ípe: «Dótemu dío mére zze vecchio, disse: «Datemi due giorni
di

- 105 -
5

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5

cheró, sta tria mere an de ḣorúme tempo; al terzo giorno, se non


ḣoráfi rizzetému pu thélite». vediamo la terra, gettatemi dove
volete».
Otu san ívrasi ton cóssifo engona- Perciò, appena videro il merlo,
tíasi sta pódia tu Ríga légonda ti s’inginocchiarono ai piedi del Re
cámasi martía megáli na tú’pusi ti dicendo che avevano fatto un pecca-
to rístasi sti tḣálassa. to grande minacciandolo di gettarlo
a mare.
O Ríga tus ípe: «Pása ádropo san Il Re disse loro: «Ogni uomo,
éne (a)toniméno den ezzéri ti léji». quando è stanco, non sa quello che
dice».
Sto sperinó tin déstero méra ívrasi Verso l’imbrunire del giorno
to ḣoráfi. I ḣará íto tóssi ti successivo videro la terraferma. La
mbíchissa clónda, ejáissa ja tin gioia era così grande che scoppia-
mería tu ḣoráfi ce enghíasi ḣúma, rono in pianto, andarono verso la
afícasi dío ádropi apánu sto papúri, terraferma e toccarono il terreno;
ce i aḍḍi catevíasi. lasciarono due uomini sulla nave e
gli altri scesero.
Parpatónda ívrasi ḣristianí, Camminando videro delle perso-
ejáissa condá c’embíchissa na to ne, si avvicinarono e cercavano di
platézzusi, etúti prita fígasi, ístera parlare loro. Essi dapprima fuggiro-
mínasi, ce lígo me to pláto, ce lígo no, poi si fermarono e, un po’ con le
me ta hjéria, eplatéstissa. parole, un po’ con le mani, conver-
savano.

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6

- 108 -
6

Tos ecámasi na catalavénnusi an Fecero intendere a loro (che


íḣasi pína; o Ríga tos ípe ti mané; volevano sapere) se avevano fame;
légonda tus áḍḍu: «cióla na ívrome il Re disse loro di sì, precisando agli
ti ma dónnusi». Ce ótu stróasi to altri: «ora vediamo che ci danno».
trapéźi me to fají. O Ríga ípe tus Così essi allestirono la tavola con il
áḍḍu: «En ezzérome mi válasi cibo. Il Re disse agli altri: «Non
źargára ce na pethánome, cánnome sappiamo se ci hanno messo del
na fási cióla cíni». Ce embíchissa veleno per farci morire, facciamo
trógonda óli. Ppos etrógasi, ta che mangino anche loro», e si mise-
pondícia (a)ppidénnasi apánu sto ro tutti a mangiare. Dopo che ebbero
trapéźi. Éna zz’ecíni m’éna raḍḍí mangiato, i topi saltavano sulla
sta hjéria tos étavre. tavola. Uno di quelli, con un randel-
lo in mano, li colpiva.

O Ríga tos ípe ti to dónni ecíno dío Il Re disse che darebbe loro due
nimáglia ti trógusi ta pondícia, animali, che mangiano i topi, e tornó
c’econdófere sto papúri, écrazze tu alla nave, chiamó i gatti, ne prese
gáttu, píae dío ce tos tápare. Etútu due e li portó a terra. Questi, quando
san da (e)párasi cí ce t’afícasi li portarono là e li lasciarono liberi,
lisméni c’embíchissa appidénnonda cominciarono a saltare di qua e di là
appóde ce cítte ce spáźonda óla sgozzando tutti quei topi
cínda pondícia

- 109 -
7

- 110 -
7

[mbíchissa spáźonda, na źugguári [cominciarono a sgozzarli, due li


tu fágasi, t’aḍḍa ta spáźasi ce ta mangiarono, gli altri li uccisero e li
fínnasi] abbandonarono]
ce ístera mbíchissa trógonda. e poi cominciarono a mangiarli.
Tundi zeni ḣorónda tunda nimáglia Quei selvaggi, vedendo questi ani-
ti spáźasi ta pondícia, ce pléo ti ta mali che sgozzavano i topi, e soprat-
trógasi, ípasi tu Ríga: «Sa dónnome tutto che li mangiavano, dissero al
pósso thélite, éhjite na mas ta dóite. Re: «Vi diamo quello che volete,
dovete darceli».

O Riga íto ḣorónda lithária zze Il Re aveva scorto pietre d’oro, e


ḣrisáfi, ce ípe de thélo típote áḍḍo disse: «Non voglio niente altro che
fortónno to papúri zze cínda lithá- caricare la nave di quelle pietre».
ria».

«Emí sa dónnome ticandí áḍḍo». «Noi vi daremo qualsiasi altra


cosa».

«De - ipe o Ríga -, etúta manaḣá «No – disse il Re –, solo queste


ce típote áḍḍo. pietre e nient’altro».

Tu fudíasi cióla i zzéni ce fórtoe I selvaggi lo aiutarono pure e


to papúri. Óla ta thémata (a)nevíasi caricò la nave. Tutti i marinai
apánu c’eḣorístissa. O Ríga ta salirono sopra e partirono. Il Re li
délezze óli se mía mería, ce tos ípe: riunì tutti da una parte e disse loro:

- 111 -
8

- 112 -
8

Ammá lígu ḣrónu ma ménusi zze Ci mancano pochi anni di vita, la


źoí, to téglioma tu cósmu den don fine del mondo non l’abbiamo vista,
ívrame, me túnda lithária con queste pietre ci siamo arricchiti.
plusíname. Condoférrome apíssu ce Torniamo indietro e andiamo alle
páme sta spitíama, i áḍḍi óli ḣará nostre case. Tutti gli altri, felici,
ípasi mané. dissero di sì.

Íssa peráonda pléo zze dío mínu, Erano trascorsi più di due mesi e
c’ena źugguári zze thémata un paio di marinai si ammalò, nel
arrustíasi, cheró líghe mére giro di pochi giorni morirono. «Ora
pethánasi. «Árte pu ta váḍḍome», dove li mettiamo?», dissero gli altri.
ípasi i áḍḍi. O Ríga: «to rístome sti Il Re: «Li gettiamo a mare». E li
thálassa», ce to rízzasi. gettarono.

I aḍḍi ti emínasi íḣasi tin gardía Gli altri che erano rimasti avevano
mávri; légasi: «Éhji tósso ḣrónu ti il cuore nero; dicevano: «Sono tanti
eḣorístimma, árte condoférrome anni che siamo partiti, ora torniamo
apíssu, pósso áḍḍo thélome na páme indietro, che altro vogliamo per
sta ḣoríama? andare ai nostri paesi?».

Íche zz’ecína ti íssa paléa ce légasi C’erano di quelli che erano vecchi
«den da ḣorúme pléo». Éna canni: e dicevano: «Non li vedremo più».
«zzérite ti sa légo? Travudúme ce Uno fa: «Sapete che vi dico?
ótu o cheró ma pái». Cantiamo, così il tempo ci passa».

- 113 -
9

- 114 -
9

ce ótu ecámasi: travudússa na E così fecero: cantarono per


(s)pazzusi to cheró, ti íto ja dasto sto ammazzare il tempo, che era per
vasílema. (E)pérae aḍḍo lígo cheró loro al tramonto. Così passò un altro
otu; ma ta prámata (em)bíchissa na po’ di tempo; ma le cose comincia-
pasi pánda pléo áḣara: ta théma(ta) rono ad andare sempre peggio. I
arrustússa, den íḣasi jatró me dásto, marinai si ammalarono, non aveva-
ce den íḣasi [medicamenti] jatríe. no un medico per loro e non c’erano
medicamenti.
Mía méra to papúri embí(ch)i na Un giorno la nave cominciò a
ḣalastí, ce óssu émbenne neró; ma guastarsi e dentro di essa s’introdus-
(tó)sso ecámai ti to stiásai. se acqua; hanno fatto tanto per
ripararla.
Ímmo dhismonia (pa)nda na ípo ti Avevo sempre dimenticato di
san eḣorístissa issa ostó dèmata (c)e dire che, quando partirono, erano
o Ríga, dío íssa pethánonda, ce otto uomini e il Re; due morirono e
emínasi ézze, téssera zze túta íssa rimasero in sei; quattro di essi erano
arrustári zze pléo (m)ére, ce pléo malati da molti giorni, e più stavano
estécasi ce pléo áḣara epígasi; e peggio andavano.

(m)ía méra péthane éna, mésa sti Un giorno uno morì, nel corso
nísta pethánasi áḍḍa tría: ta rízzasi della notte morirono gli altri tre. Li
sti thálassa scúndu s’áḍḍu. Emínasi gettarono in mare come avevano
tria, o Ríga éleje (s)tin gardíatu fatto con gli altri. Rimasero in tre. Il
anígasi na zúsi túta íto calá, Re diceva in cuor suo: «Se costoro
avessero potuto vivere sarebbe stato
bello,

- 115 -
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- 116 -
10

ma san immo condá sti ḣoríamu ma, quando eravamo vicini ai nostri
íḣasi na pethánusi, ótu den écanna paesi, dovevano morire, sicché non
tinó merticó an do ḣrisáfi. ho riservato per essi la parte del-
l’oro».

Perásai aḍḍe líghe mére ce Passaroro pochi altri giorni e si


arrústie to ‘na peźó ce pléo ésteche ammalò l’unico marinaio e più stava
ce pléo áḣara cúnneto. Má vradía e peggio si sentiva. Una sera morì.
péthane; ton erízzasi cióla túto sti Gettarono in mare anche lui.
thálassa.

Emínasi dio, o Ríga éleje stin Rimasero in due; il Re diceva in


cefalíndu etúto an dem bedáni, san cuor suo: «Questo non muore,
ímesta condá stin dichímma ḣóra to quando saremo vicino alla nostra
rísto egó sti thálassa, to ḣrisáfi éne città, lo getterò io in mare: l’oro sarà
dicómmu, árte den cámo merticó me mio, ora non faccio parti con
tinó. Issa ddhismonónda ti méra íto nessuno». Aveva dimenticato che
an do ddomadi, ti mina íto, ce se pio giorno fosse della settimana, che
ḣrónu íssa. mese e che anno fosse.

Mía méra tu fani tu Ríga ti íssa Un giorno parve al Re che erano


condá sti fóra, ti écame, túpe se vicini al paese; che fece? Disse
túndo théma ti tu íto mínonda, ti all’uomo che gli era rimasto che
íche na stiái an di doveva riparare dalla

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11

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11

mería ózzotte to papúri, ce to dízze parte di fuori la nave, e gli mostrò


pu íto ḣalasméno, túndo mávro dov'era danneggiata. Quel povero
ádropo (e)désti m’éna sciní, ti íto marinaio si legò con una fune che
ólo sapiméno ja tu ḣrónu ti epérae. era tutta marcia per gli anni che
erano passati.

Ppos ejai na catevísi ecopi [to Quando andò a calarsi, la fune si


sciní] c’ejái óssu sti thálassa, ruppe e lui cadde dentro il mare. Si
ejíregghe na piasti an do papúri girava per afferrarsi alla nave per
n’anevísi apánu, ma íche tu ḣrónu salire sopra, ma aveva gli anni sulle
ste záppe ce den ísonne cremastí spalle e non riuscì ad aggrapparsi
scúndu san íto ḣloró. come quando era giovane (verde).

O Riga san ívre ti jirégghi Il Re, quando vide che si agitava


n’anevísi, épiae to rémo ce tu stípie per salire, prese il remo e lo colpì
[távrie] stin cefalí ce ton escótie ótu nella testa; lo uccise e così cadde
ejái pucátu sto papúri ce den (ne) sotto la nave e non risalì più.
anévie pléo.

O Riga íto ólo ḣará, ce éleje: «Arte Il Re era tutto felice e diceva:
to ḣrisáfi éne dicómmu, sam báo sto «Ora l’oro è mio, quando vado a
spíti éḣo tóssi tin plusía ti i áḍḍi casa, avrò tanta ricchezza che gli
Righi mu canunúsi ce mu hjeretúsi altri Re mi guarderanno e mi
lárgotte, arotónda pútte t’ófera ólo saluteranno a distanza, chiedendomi
túndo ḣrisáfi, ma egó den to légo, da dove ho portato tutto quest’oro,
ma io non lo rivelerò

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12

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12

jatí den éḣusi na ziporéusi, egó perché non devono sapere. Io sono
ejáina pedí ce econdófera paléo. andato ragazzo e sono tornato
vecchio».

Acomí ja pénde ézze mére Ancora per cinque-sei giorni


manaḣóndu ípije ambró mia purrí andava avanti da solo. Una mattina
ívre ḣoráfi, ma íto lárga (a)comi, vide la terraferma, ma era ancora
san ejái pléo condá annórie ti íssa lontana. Quando giunse più vicino,
ta ḣorafíatu, árte mia áḍḍi méra ce riconobbe che era la sua terra.
ímme sto spíti dicómmu. «Ancora un altro giorno e sarò a
casa mia».

San ésteche na scotái, embíchi na Quando si stava facendo sera,


jenastí sinnofia ce lárga dífasi cominciarono a comparire le nuvole
strammáde, ístera te vrondáde. Den e in lontananza si manifestarono
edélie64 poḍḍí ti írte cióla pu íto to lampi, poi tuoni. Non ci volle molto
papúri, ce catha cuccí zze cúcuḍḍo tempo che arrivarono anche là dove
san do rúdi me túto írte o voréa ti si trovava la nave, e ogni chicco di
éperre to papúri ánu ce cátu, catáde grandine (era) come una melograna;
ce catací. con questo venne il vento che
sospingeva la nave su e giù, di qua e
di là.

O Riga embíchi na cámi stavrá ce Il Re cominciò a farsi il segno


na paracalisi ton Déo, ma den della croce e a pregare Dio. Ma le
ejuvázzasi ta paracalímata; mia preghiere non servirono a nulla. Una
voreáta écame to papúri na jirísi folata di vento fece girare la nave
ambros-apíssu ce ton apucátu me to sottosopra e la sprofondò con il Re
Ríga cimesa là dentro

64
edélie = ethélie, aor. di thélo: ἐθέλω, θέλω ‘volere’; den edélie poḍḍí; cf. cal. non ci
vozzi tantu.

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13

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13

[sto ḣrisáfi, to fágasi ta zzária [nell’oro, lo mangiarono i pesci


scúndu cína ti íto fánda cíno. come quelli che avevano mangiato
lui.
Otu téglioe i plusía ce ppos Così finì la ricchezza e come
efágasi tas áḍḍa, ótu téglioe i plusía avevano mangiato gli altri, così finì
ce óle te catáste ti íto cámonda sto la ricchezza e tutti i castelli in aria
ammialó. Ótu téglioe i stória tu che aveva costruito nella sua mente.
Rigúci]. Così finì la storia del Reuccio].

Sto ḣrisáfi ejáissa fúnda ce den Con l’oro andarono a fondo e non
anevíasi pléo. risalirono più.

Otu téglioe i stória tu Ríga ti Così finì la storia del Re che


éthele na ívri tin tégliosi tu cósmu. voleva vedere la fine del mondo.

Bruno Casile Bruno Casile

***

- 123 -
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- 124 -
Fattuci 2.
I dio judi
I due figli
La fiaba non è mera fantasia per intrattenere i bambini: è storia,
archeologia culturale, insegnamento morale, come l’antica mitologia.
Casile non è solo poeta e combattente per la lingua. E anche un grande
narratore, che dimostra una pregevole capacità di scavo psicologico. Questa
è una fiaba magistrale, che si è tramandata, con diverse varianti di notevole
interesse, in molte culture popolari. La riportano intanto anche Rossi Taibbi
e Caracausi tra le fiabe di Roccaforte, la n. 35 dei Testi neogreci di Calabria
(pp. 214-219) con il titolo Ta peδía stramandemména ‘I ragazzi sperduti’.

La fiaba era stata pubblicata quasi un secolo prima nell’«Avvenire


Vibonese», e poi, nel 1885, nei Racconti greci di Roccaforte, volume
autonomo curato da Ettore Capialbi e Luigi Bruzzano (Monteleone, Tip.
Francesco Raho), pp. 33-52.
Bruzzano la ripubblicò poi nella rivista «La Calabria», vol. XIV, fasc, 3,
marzo 1902, pp. 18-23.

In queste versioni, l’archetipo della storia, variamente sedimentata in tutte


le tradizioni popolari europee, è Le petit Poucet (Pollicino), incluso nei
Contes de ma mère l'Oye (Racconti di Mamma l’Oca) che Charles Perrault
pubblicò in Francia nel 1697. Carlo Collodi tradusse in italiano la raccolta
del Perrault, che uscì nel nel 1876, col titolo I racconti delle fate, dove il
piccolo eroe si chiama Puccettino.

Si tratta di una storia di separazione, smarrimento, fame che rende cattivi


ma che aguzza l’ingegno nei buoni; ci sono il numero sette, la magia che
interviene per superare le difficoltà, l’orco che mangia bambini, la strega
malvagia che viene punita, l’espediente per ritrovare la strada nel bosco
(Pollicino usa i sassolini, la sorella di Pavlo le scorze dei lupini), l’uomo
ombra (ádropo sciasmáda) che viene in soccorso, infine l’esito felice con
punizione del cattivo, inatteso arricchimento dei buoni e matrimonio
corredato di scialata di otto giorni.

- 125 -
I tratti strutturali della storia, magistralmente descritti nel 1928 da
Vladimir Propp nella sua Morfologia della fiaba, si ritrovano nel testo di
Casile che è più denso e ricco delle precedenti versioni.
Ma Casile innova. È noto che le fiabe grecaniche esibiscono un tema
strutturale inedito, un exlicit inatteso che in un recente saggio sulla narrativa
(Splendori e miserie della brevitas, in «Microtextualidades. Revista
Internacional de microrrelato y minificción». N. 3, pp. 146-155), ho
sintetizzato nella formula “E tutti vissero infelici e scontenti”. Riporto qui
alcune righe del saggio.
Vorrei proporre un esempio di novellistica popolare: le fiabe grecaniche,
trasmesse oralmente nella piccola comunità grecofona dell’Aspromonte, in
Calabria (Rossi Taibbi – Caracausi 1959). Esse hanno il potere di trasportare
in un mondo fantastico, popolato di geni buoni e maligni, di fate e naràde
(eredi forse delle greche nerèidi), di draghi e lupi mannari. Parlano di felicità
e ricchezza, cose accessibili ai poveri solo nel sogno. Le narrazioni si
distendono in ampie circonvoluzioni e ripetizioni, come si conviene alla
narrativa popolare orale, che deve dilettare e insegnare. Nella lingua di
questa comunità il termine per favola (paramithía) deriva dal greco
παραµυθία, che significa al tempo stesso ‘racconto’ e ‘proverbio’.
In queste fiabe, però, l’incipit (“c’era una volta…”) è quello tradizionale
e universale, mentre l’explicit (“e tutti vissero felici e contenti…”) appare
modificato in modo singolare. Entrambe le sezioni possono essere viste
come due momenti relativamente autonomi, due microracconti in sé
conclusi, soltanto che la “clausola” è in stridente contrasto con la precedente
narrazione.
Nella tradizione bovese, quasi tutte le favole si chiudono con una frasetta
che, interrompendo bruscamente la magia dello straniamento, riporta
narratore e ascoltatori alla dura realtà, un nuovo scenario antitetico a quello
della fabula, prospettando con poche parole un nuovo racconto appena
ventilato. Ecco alcune clausole di novelle da Roccaforte la cui brutalità rivela
i sentimenti di tutto un popolo:

[...] e il povero rimase ricco ed io son qui, morto di fame e di freddo (p.
27);
[...] e i soldati ebbero due porzioni di vitto e di vino e di denari. E noi
siamo rimasti col ventre vuoto, senza vino e denari (p. 51);
[...] così si sposarono e fecero otto giorni di festa e noi siamo rimasti qui
senza niente, al buio (p. 54); ... quelli rimasero con le loro ricchezze e noi
siamo qui senza niente (p. 35);
[...] Egli rimase con le sue ricchezze e contento. Intanto è passato
mezzogiorno e non ho mangiato ancora (p. 27);

- 126 -
[...] La favola l'abbiamo detta e noi siamo rimasti qui senza niente (p. 69);
[...] Si sposarono e fecero otto giorni di festa ed io son qui, come vuole
Dio, scalzo (p. 71);
[...] Cominciarono a far festa per otto giorni. Ed io son rimasto qui,
tremante dal freddo, colla bocca asciutta e colle mani vuote, senza niente (p.
92);
[...] quelli rimasero sani e belli e noi qui senza niente (p. 126);
[...] E vivevano e arricchivano. E noi siamo rimasti qui senza un grano
per pagare le tasse del governo (p. 135);
[...] la donna rimase col marito e noi siamo rimasti qui colle braccia
vuote, senza niente (p. 139);
[...] e quelli son rimasti là a godersela e noi siamo rimasti qua colle mani
vuote, allo scuro e senza niente (p. 151);
[...] fecero festa per otto giorni e noi qui colle pance vuote (p. 161):
[...] Così perirono tutti e due e il prete rimase padrone di quella proprietà
e noi siamo rimasti qui senza niente e dobbiamo sudare, faticare per vivere
(p. 173);
[...] E chi era in quella casa mangiava. Chi no, stava digiuno. Ed io qui
senza niente (p. 207);
[...] la prima sera fecero la scialata, e noi siamo qui col ventre vuoto".

È facile intuire come dietro queste evasioni fiabesche si annidasse lo


spettro della fame, del freddo della miseria. I bambini ascoltavano queste
favole e imparavano a concepire i sogni proibiti di un paio di scarpe, un
lavoro, una casa, il pane fresco. Lunghe erano le narrazioni, poiché servivano
a ingannare il tempo nelle interminabili serate al focolare, in una società
agro-pastorale non ancora intaccata dalla frenesia del tempo che passa, ma
icastiche le clausole, che riportavano brutalmente alla dura realtà.
Anche la catastrofe della nostra fiaba, Ta pedía stramandemmena, la n. 35
dei Testi Neogreci di Calabria, si conclude con la morte dei cattivi (la
matrigna viene sbranata dai cani) e con l’arricchimento dei bambini buoni.
E il racconto si conclude con questa formula: Otus ecíni emínai ecí st'
affáryato, c'emíse emíname óδe sentsa típote ‘Così essi rimasero lì per i fatti
loro, e noi siamo rimasti qui senza niente’.

La versione di Casile dimostra non soltanto che la fiaba si raccontava


anche a Bova, ma che l’interpretazione che ne dà l’autore è assai più
complessa e intrigante. Intraprendenza e fortuna possono far uscire dal
labirinto della vita: basta avere in tasca i lupini, i sassolini di Pollicino oppure
– prototipo del mito – il filo di Arianna.

- 127 -
Questo è un romanzo, piuttosto che una fiaba.
La caratterizzazione dei personaggi e degli ambienti è qui assai più
dettagliata e poetica.
Non c’è la clausola “e tutti vissero infelici e scontenti”: il progetto del
Casile era il riscatto sociale ed economico della sua gente, oltre che il
risveglio della lingua.

Un solo fatto si narra con dovizia di particolari in ogni occasione come


argomento da favola: il cibo, la macellazione delle capre sensa risparmio, la
carne cotta e la carne arrostita offerta ai commensali, con l’aggiunta della
frutta a conclusione, come nelle case dei signori. Gli invitati alle nozze,
venuti col ventre vuoto, salutano la nuova coppia felice e tornano a casa sazi.

- 128 -
1
Mia forà ighe mia icoghenia me ciuri, C’era una volta una famiglia con padre,
mana ce dio ghiudi, ena arcinicò ce mia mamma e due figli, un maschio e una
filichì. Etuta pedia ichasi o arcinicò femmina. Questi ragazzi avevano il
endeca gronu ce i filichì ennea san i mana maschio undici anni e la femmina nove,
arrústie. Catha mera i arrustia egheneto quando la mamma si ammalò. Ogni giorno
panda pleo chiro. Perannonda ena mina la malattia si faceva più grave. Dopo un
epethane. mese morì.

Eminasi o andra me ta mavra pedakia L’uomo e i poveri ragazzi rimasero soli.


erremi.
Eghiaissa ambrò otu ja lighu minu, Tirarono avanti così per pochi mesi, poi
podò o ciuri eghirezze jineca ce epran- il padre cambiò moglie e si sposò.
desti.
Etuti jineca den nda isonne ivri ta Questa donna non poteva vedere i
pregogna ce, san ecanne to faghì ghia ti figliastri e, quando preparava il cibo per la
spera, evadde ti zzucca jiomati zze nerò sera, metteva la pentola piena d'acqua con
me ligha cuccia zze fava o vasuli. San pochi chicchi di fave o fagioli. Quando il
deleggheto o andra sto vradi ti ighasi na marito rientrava la sera dovevano
fasi, i ghineca tu eleghe: to ghorì ta mangiare, la donna gli diceva: lo vedi? I
pediasu aggheronnusi to faghì puccia ti tuoi figli cominciano a mangiare da
ene omò otu fina ti spera meni zema quando è cotto, sicché a sera rimane solo il
man(a)ghò. brodo.
O patera tu epone i cardia ce den Al padre doleva il cuore e non
apològhegge sta loghia ti jinecò; otu o rispondeva alle parole della moglie; così
fistonos egheneto pleo mega, tosso ti mia l'incomprensione (?) divenne più grande,
nista pos issa sto crevatti tu ipe: andé ne tanto che una notte quando stavano a letto
steddi ozzu ta pediasu egò de su canno gli disse: se non mandi via i tuoi figli io
pleo jafai. Tosso tu non ti faccio più da mangiare. Tanto gli
_____________

fistonos: δύσφωνο? La -s desinenziale denuncerebbe una creazione casiliana.

ipe i jineca, ti o mavro andra tis ipe ti ta parlò la donna che il povero marito le disse
eperre sti ozzia ce ta afinne mesa sto che li avrebbe portati in montagna e li avrebbe
plaghi, otu ghannusi to mono pati ce den lasciati in mezzo al bosco, in modo che i due
condoferrusi pleo sto spiti ta dio omorfa graziosi ragazzi potessero perdere il cammino
pedacia. (Ecino ti i ghineca theli o thiò to e non tornare più a casa. (Ciò che vuole la
moglie, è Dio che lo vuole).
theli). Un giorno disse ai figli: «Ragazzi, domani
Mia mera ipe to pedio pedia avri pame andiamo in montagna e portiamo una piccola
stin ozzia ce ferrome lighi [zinna] deda; ta torcia (un po’ di schegge di legno); i poveri
mavra pedia ipasi po thelite ciuri. ragazzi dissero: «come volete, padre».

- 129 -
Eperase i nista, sto diafamma ta ecrazze Passò la notte; all’alba li chiamò e partirono.
ce aghoristissa, parpatonda eperasai Nel viaggio passarono per la casa del nonno;
andò spiti tu pappua; sto peramma tu nel passaggio gli portarono il buongiorno. Il
ducasi tin calì mera. O pappua arotie pu nonno chiese dove andassero; i ragazzi:
pasi, - ta pedia, pame stin ozzia na ferome «Andiamo in montagna per raccogliere un po’
di legna». «Fate cose buone - rispose il nonno
lighi deda, cannite calà ipe o pappua, -, aspettate che vi regalo un po’ di lupini, così
minaste ti san donno ligo luppinari ce andate mangiando. I ragazzi non lo volevano.
paite troghonda. Ta pedia den ndo theliasi Disse: «la prossima volta». Presero i lupini e
ipe dio forà; epiasai to luppinari ce ismia insieme al padre partirono di nuovo, andando
me to ciuri eghoristissa metapale, sempre avanti e mangiando i lupini.
parpatonda panda ambrò trogonda to
luppinari. In mezzo al bosco, quando furono vicini a
Mesa sto plaghi san econdasai se ena una sorgente era passato mezzogiorno, il
pighadi ito sperino peraonda mesimeri, o padre disse ai ragazzi: «qui c’è acqua da bere:
ciuri ipe sta pedia: ode eji nerò jia pisi pi chi vuole può bere». Andando avanti col
theli sonni pii; paonda ambrò me to logo discorso, disse: io adesso salgo
ipe: eghò arte anevenno

___________________
L’aggettivo ómorfo appare nel racconto di Casile; nella versione di Capialbi e Bruzzano c’è il
tradizionale magno. È da credere che questa novità casiliana dia un’ulteriore apertura al neogreco.
[zinna] deda: L’autore è incerto sulla scelta: si tratta di schegge di legno da utilizzare per confezionare
torce.
dio forà: due volte = la prossima volta (potrete rifiutare il regalo).

se etuto dendro ce me ena clonì tse sparto su quell’albero e con un ramoscello di


sa cremanno etuti cuddura, podò pao ce ginestra vi appendo questa ciambella, poi
canno tin deda, esì menite ode san (n)din vado e faccio la legna. Voi aspettate qui,
teglionno tse cami ercome ce sa crazzo, ti quando finisco di farla, vengo e vi chiamo,
fortonnome sti zappa pasa ena posso perché ci carichiamo sulle spalle ciascuno
sonni ce tin perrome sto spiti. Ce otu quanto può e la portiamo a casa». E così
ecame eteglionnonda to logo eghoristi. fece. Concludendo il discorso, partì.

Ta pedia atonimeni ja to poddì parpatima, I ragazzi, spossati per il molto camminare,


epiasi ligho nerò ce cathiasi, pos issa bevvero un po’ di acqua e si sedettero;
cathimeni ta epiae o iplo. San azzunniasi quando furono sdraiati prese loro il sonno;
esteche na vasilezzi o iglio. quando si svegliarono il sole stava
tramontando.

O Pavlo ipe sti leddà, Maria vre o iglio Paolo disse alla sorella: «Maria, vedi, il
stechi vasileggonda ce o ciuri den sole sta tramontando e nostro padre non è
econdofere; tornato».

agharo prama ene etuto jià emmà, ipe i «Brutta cosa è questa per noi», disse
Maria. Maria.
O Pavlo, egò egho pina. Paolo: «Io ho fame».

- 130 -
Ciola egò, ipe i Maria, ghorume o na «Anch’io - soggiunse Maria - vediamo di
rifstome tin cuddura ce tin trogome. rompere la ciambella e mangiamola».
Embichissa tavronda lithie ce tin erizzasi Cominciarono a lanciare pietrate e la
ecamasi dio merticà ce tin efaghasi. San ruppero; fecero due parti e la mangiarono.
tin teglioasi tse fai ito catevionda i nista. Quando finirono di mangiarla era scesa la
notte.

O ciuri den irte, m’asafiche, o ena eleghe «Nostro padre non è tornato, ci ha
ston addo; pu pame, ti cannome ode abbandonato - diceva l’uno all’altra -,
managhà mesa se etuto plaghi? se etuti dove andiamo? Che facciamo qui da soli
monogholia? in mezzo a questa foresta? In questa
solitudine?

__________________
Nel testo di TNC i ragazzi scagliano pietre apanu sto tsappinu (‘sulla cesta’); sarà semmai contro
l’abete (zappíno): non si vede perché dovevavo lapidare la cesta. Invece nella nostra versione i ragazzi
rompono a pietrate la ciambella per mangiarla.

- m’asafiche = mas afiche.

I lici m’attroghusi. I lupi ci mangeranno.


Jia ligo den ipasi logo, podò anizze to Per poco non dissero parola, poi aprì la
stoma i Maria ce ipe: O moro pricio ti bocca Maria e disse: «O fine amara che
ecamame emì, emì ti acomi den annoriame abbiamo fatto noi, noi che ancora non
ton cosmo, jiatì tossi pricada? Jiatì i conoscevamo il mondo; perché questa
cardia tus adropu tseri cami etuta sventura? Perché il cuore degli uomini sa
pramata?». fare queste cose?».
Conda etuta loghia o leddendi embichi Sentendo queste parole il fratello
clonda, i Maria ton epiase ando gheri ce cominciò a piangere. Maria lo prese per
aggheroe ciola ecini na clei. mano e cominciò anche lei a piangere. Si
Angagliastissa ce clonda eminasi abbracciarono e piangendo rimasero
angagliameni fina a pote o iplo abbracciati finché il sonno tornò di nuovo
econdofere metapale ce otu eminase. e così rimasero. Nient’altro si udiva in
Tipote den coto se ecini nista ti man(a)ghò quella notte che il canto del gufo. Quando
to travudi tu sclupio. San ito condà na era vicina l’alba, il freddo fece svegliare i
azzimeronni i tsigrada ecame na azzun- ragazzi; risvegliandosi udivano il canto
niusi ta pedacia, azzunnonda ecuasi to dell’allodola. Sentendo questo canto,
travudi tin cucughiata, cónda etuto Paolo disse: «Il giorno è vicino e prego
travudi ipe o Pavlo ene condà i mera, ce affinché le nuvole svaniscano perché il
paracalò ta sinnofa na figusi jià na minu cielo rimanga pulito e così il sole ci potrà
catharimeno o urano ce otu o iglio ma scaldare». Gli sventurati ragazzi passa-
sonni gleni. Ta mavra pedia eperasai ti rono la notte come due rondinelle nel nido,
nista scundu dio peristeracia sti folea, l’uno vicino all’altra. Venne il giorno e
condà o ena me to addo. I mera irte ce anche il sole.
ciola o iglio. Ti cannome emì ode ipe o «Che facciamo adesso?» disse Paolo alla
Pavlo sti leddà; sorella.

- 131 -
_______________
- Ma ttrógusi < µᾶς τρώγουσι.
- tsigrada: cf. zziḣráda.
- gleni: cf. ḣléno.
- moro ‘destino’ è arcaismo documentato qui e avanti; cf. miro e mira.
- m’attroghusi = ma ttrógusi ‘ci mangeranno’ → trógo.

I leddà: contoferrome metapale sto spiti La sorella: «Torneremo nuovamente a


tu ciuri. casa di nostro padre».
O leddè, egò den condoferro, jiatì o ciuri «O sorella, io non torno, perché se
anito thelionda na stathume sto spiti den nostro padre avesse voluto che stessimo a
masito feronda stin otsia na ghathume ce casa, non ci avrebbe portato in montagna
ciola ti ethelame na condoferome den ma perché ci perdessimo; e poi come
sinercheto pleo to monopati. potremmo tornare? Non ci ricordiamo più
la strada».
I leddà ja etuto sonnome condoferi me to La sorella: «Per questo possiamo tornare
derma tu luppinariu ti erizzame pos con le bucce dei lupini che abbiamo
ercomesta trogonda. gettato quando venivamo mangiando».
Udè ipe o leddè, esù came po theli, egò «No – disse il fratello – tu fai come vuoi,
pao parpatonda otsia otsia, pucambù io andrò camminando per i monti, in
guenno. qualche luogo arriverò».
I Maria den ethelie, otu efilistissa ce Maria non voleva. Così si baciarono e si
emiriastissa, pasa ena jià tin meriandu. separarono, ognuno per la sua parte. Paolo
Pavlo eparpatie jià oli tini mera, sto camminò per tutto il giorno. Verso sera era
sperinò ito tosso atonimeno ce pinameno tanto stanco e affamato che non ce la
ti den isonne pleo, otu ecatie apanu se ena faceva più, sicché si sedette sopra una
lithari na potonisi, pos ito cathimeno pietra per riposarsi. Mentre era seduto
égarre sto ammialondu, arte condoferri i pensava in cuor suo: «Ora giunge la notte.
nista den egho pu na pao pleo pinameno Non so più dove andare; affamato come
pos imme petheno. Ode o miro tu apandie, sono, morirò». Qui la fortuna gli venne
ligo larga ivre fos. incontro: un po’ in lontananza vide una
luce.
Ci eghi nane cana spiti, an otu ene immo «Qui ci dev’essere qualche casa. Se è
sicomeno. Egherti ce così, sono salvo». Si alzò e

_____________
- Anito = an íto.
- Masito = mas íto.
- Egarre cf. ḣarréo.
- Fos = fotía. V. Introduzione.
- Miro: µύρος ‘lamento funebre’ è attestato nei glossari; si tratta forse di incrocio tra moro e mira, entrambi
‘destino’; Cf. John Schmitt, Myrolog oder Moirolog?, «IF» 12, 1901, pp. 6-13.
- Nane = na ène

- 132 -
6

eghiai jià ecini meria, san ito ecì condà andò da quella parte. Quando fu là vicino
ivre ti den ito spiti ma ena antro ce ossu vide che non era una casa, ma un antro e
ije to lucisi, macca macca econdae na ivri dentro c’era il fuoco. Piano piano si
pi eji; ivre ena adropo ghero ti esteche avvicinò per vedere chi ci fosse; vide un
cannonda to faghì, ma etuto adropo den uomo vecchio che stava preparando il
evlepe jiatì ecanne olo nghizzonda me ta pasto, ma quest’uomo non ci vedeva
gheria. Emine a ndi meria ozzotte tu antru perché faceva tutto toccando con le mani.
ce ecanunie etuto ghero, san du fani ti i Rimase dalla parte di fuori dell’antro e
curcudia ito limeni tin ecatevie ando guardava quel vecchio; quando gli sembrò
lucisi ce po sito sto stennatuci tin ecurru- che la polenta era cotta, la tolse dal fuoco
deghegghe jià na zighratthì. e, com’era nella caldaia, la mescolava
perché si freddasse.
Ο mavro Pavlo ecanune ce eleghe stin Il povero Paolo guardava e diceva nella
cefalitu: «Pos egho na camo na fao, ithele sua testa: «Come posso fare per mangia-
na condai ma ighe sciasmia jiatì etuto re?». Voleva avvicinarsi, ma aveva paura,
adropo den ito scundu tus addo, ito olo perché? Quell’uomo non era come gli altri,
jiomato tse maddì, sonnome ipi ti ito era tutto pieno di peli; possiamo dire che
ghinno ije sti zosi managhò ena derma tse era nudo: aveva solo una pelle di capra
ega demeno me mia pitela. Ije ligo tse legata nella vita con una corda di
adropo, ito pleo ena zoo. O Pavlo san ivre ampelodesmo. Aveva poco di umano, era
ti aggheronni na fai econdae ce me ta piuttosto un animale. Paolo, quando vide
gheria embichi na fai, to faghì eteglioe ce che cominciava a mangiare, si avvicinò e
o Drago emine nisticò, emacrine to con le mani cominciò a mangiare. Il cibo
vraghona na ivri anighe condà canena ce finì e il Drago rimase digiuno, allungò il
canni: Apotse braccio per verificare se ci fosse qualcuno
là vicino e disse: stasera
_______________
- gheria = hjéria.
- macca macca ‘furtivamente’, ‘con molta calma’: locuzione avverbiale solo in Casile. Cf. Glossario.
- po sito = pos ito.
- anighe = an iche.

eghi addu ode jiatì emina nisticò. O Pavlo, ci sono altri perché sono rimasto digiuno».
san ivre ti macreni to gheri esirti apissu, Paolo, quando vide che stendeva la mano,
otu den do isoe nghisi. Jià ecini nista si tirò indietro, perché non lo potesse
eperase eci se ecino andro ciola o Pavlo. toccare. Per quella notte rimase là in
San ecame mera o Drago egherti. O Pavlo quella caverna anche Paolo. Quando si
san ivre ti gherrete emacrine ligo ce emine fece giorno, il Drago si alzò. Paolo,
na ivri ti canni. O Drago embichi quando vide che si alzava, si allontanò un
crazzonda nomata ti o Pavlo den poco e rimase per vedere che faceva. Il
annorizze, sirma ambrò tu Dragho Drago cominciò a chiamare nomi che
edelestissa efstà eghe ecino angonatie ce Paolo non conosceva. Poco dopo attorno
tis armezze se mia jisca. al Drago si radunarono sette capre. Lui si
accovacciò e le munse in un secchio.

- 133 -
San eteglioe tse armezzi, i eghe Quando finì di mungerle, le capre da sole
managhato epeliasi. Etuto Grago den andarono a pascolare. Quel drago non ci
avlepe ma ecanne olo, stravò po sito. vedeva, ma faceva tutto pur essendo cieco.
Jià tin atonia o Pavlo ecini mera tin Per la stanchezza Paolo passò quel giorno
eperase ecì condà tu antru. San’ito to là vicino all’antro. Quando venne la sera,
vradi o Drago ecrazze metapale tes eghe, il Drago chiamò di nuovo le capre, le
tes armezze, evale to gala sto stennatuci munse, versò il latte nella caldaia e lo mise
ce ton evale apano sto lucisi ce embichi na sul fuoco e cominciò a fare la polenta.
cami tin curcudia. O Pavlo ecanunee olo Paolo guardava tutto quello che faceva.
ecino ti ecanne san ecatevie i nista Quando scese la notte si avvicinò alla
econdae ston andro, san’ito limeni i caverna; appena la polenta fu cotta e
curcudia ce tzigri o Drago embichi na fai, raffreddata, il Drago cominciò a mangiare.
o Pavlo ecanne po s’ito camonda ti spera Paolo fece come aveva fatto la sera prima,
prita, me ta gheri embichi trogonda. con la mano cominciò a mangiare.

__________________
- Andro = antro.
- Grago = Drago.
- Po sito = pos ito.
- San’ito = San ito.

Po s’etroghe enghie se ena cambanuci ti Quando ebbe mangiato urtò con un


o Drago ito valonda sto stennatuci na ivri campanello che il Drago aveva messo
an ighe addu ti etrogasi me ecino. Sa icue nella caldaia per vedere se c’erano altri
ti ecrue to cambanuci sirma emacrine to che mangiavano con lui. Quando udì che
gheri ce enghie ton Pavlo. San do enghie il campanello suonava, stese rapidamente
ipe: To ipa egò ti egho sindrofia sto fasi, la mano e acchiappò Paolo. Dopo averlo
arte trogo assena. preso, disse: «Lo dicevo io che avevo
Sirma apologhie o Pavlo: de pappua mi compagnia a cena, ora mangio te». Subito
mu fate egò imme o dicossa angoni. Paolo rispose: «No, nonno, non mangiate-
O Drago: den pisteggo. mi, io sono vostro nipote».
O Pavlo manè manè irta na sas ivro. Il Drago: «Non ci credo».
O Drago: esù ise tsemataro den mu leghi Paolo: «Sì, sì, sono venuto a vedervi».
tin alithia. Il Drago: «Sei un bugiardo, non mi dici
Ce o Pavlo metapale egò san lego tin la verità».
alithia imme o angoni dicossa. E Paolo di rincalzo: «Vi dico la verità:
O Drago ce an ene alithia ti ise o sono vostro nipote».
angonimmu egò canno eftà pordi, a su Il Drago: «E se è vero che tu sei mio
spazzo me etuta eftà pordi esù den ise o nipote, io farò sette peti; se ti uccido con
angonimmu, andè su spazzo theli na ipi ti questi sette peti, tu non sei mio nipote, ed
esù ise to angonimmu ce stechi me ecco che ti uccido. Vuoi dire che sei mio
emmena egho tes eghe ce san petheno tu nipote? e stai con me! Io possiedo le
sa finno essena me ola ta adda pramata. pecore e quando muoio le lascio a te con
To pedì eguichi ozzu ce eghiai apissu se tutte le altre cose». Il ragazzo uscì fuori e
ena megha lithari. O Drago ecame andò dietro una grande pietra. Il Drago
fece

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______________
- Po s’etroghe = Pos étroje.
- a su = an su.

ton protinò pordo ce ipe: s’espazza il primo peto e disse: «Ti ho ammazzato,
pordangoni. pronipote (“nipote del peto”)».
To pedì: den acomì pappua. Il ragazzo: «Non ancora, nonno».
San ecame to eftà pordo arotie po arote Quando fece il settimo peto chiese, come
tes adde forà: sospazza pordangoni. aveva fatto le altre volte: «Ti ho ammaz-
To pedì: udè pappua. zato pronipote?»
Ene alithia ti esù ise o angonimmu; arte Il ragazzo: «No, nonno».
tin ambrò esù estechi me emmena ce zume «Tu sei davvero mio nipote; d’ora in poi
ismia. starai con me e vivremo insieme».
O Pavlo manè pappua egò canno olo Paolo: «Certo, nonno, io farò soltanto
ecino ti esì mu leghite. quello che mi direte».
O pappua ipe, ti purrì piannome to gala Il nonno disse: «Domattina prendiamo il
andes eghe, to vrazzome ce to trogome, latte delle capre, lo bolliamo e lo mangia-
podò esù pelanni tis eghe sto voscima, ma mo; poi tu porti le capre al pascolo, ma
vre ti eghi to cipuri ti leddammu mi su pau guarda che c’è l’orto di mia sorella. Non
ecì i eghe mandè ecini o su guaddi tu portare là le capre, altrimenti lei o ti cava
lucchiu po secame emmena o su spazzi ce gli occhi, come ha fatto con me, oppure ti
su troghi. ammazza e ti mangia».
O Pavlo apologhie den da perro anene Rispose Paolo: «Non le porto, se è così».
otu.
I zoì tse etuti dio adropi eghiai ambrò. San La vita di queste due persone procedeva.
irte ste mise mere tu jiuni sto cipuri tin Quando venne metà giugno, l’orto della
leddà ije mia cerasia, ce ta cerasa issa sorella aveva un ciliegio, e le ciliegie
plerata, ma o pappundu tu ito iponda mi erano mature, ma suo nonno gli aveva
pai ecì. detto di non andare là.
________________
- Pordangóni. In TNC si lascia intendere che il drago spara (sparéguo) colpi di arma da fuoco (corpu); per
quanto micidiale l’arma da fuoco non avrebbe potuto colpire il bambino protetto dal masso. Qui Casile
gioca sull’interpretazione paretimologica di pordangoni e dice che i colpi del drago erano peti. V.
pordangóni.
- Andes = an des. Secame = ‘s’ecame. Anene = an éne.
- Ije è preceduto dalla grafia iche cancellata.

10

Ma i limbisia tu Pavlu de ndo afiche, Ma la gola di Paolo non lo lasciava: salì


anevie apanu ce aggheroe na fai, po sopra e cominciò a mangiare. Mentre stava
sesteche trogonda sto podi ti cerasia efani mangiando, al piede del ciliegio comparve
i Narada ce tu canni: O ti omorfo pedì ti la Narada e gli disse: «O che bel ragazzo
ise, delezze ligha cerasa ce catevamuta che sei! Raccogli un po’ di ciliegie e
ode na ta fao. portamele quaggiù per mangiarle».

- 135 -
O Pavlo ipe: anevate esì ce ta troghite Paolo rispose: «Salite voi e mangiate
ode apanu po sta thelite ce possa thelite. I quassù come volete e quante ne volete».
Narada apologhie: den sonno anevisi jiatì La Narada obiettò: «Non ce la faccio a
i cerasia den eghi cladia ghamà na salire perché il ciliegio non ha rami bassi
cratistò. per potermici aggrappare».
O Pavlo tserite ti na camite liete te Paolo: «Sapete che dovete fare?
plestre ti egò me ton ginari ta anevenno se Scioglietevi le trecce, ché io con l’uncino
emmena, podò sa serro ode apanu. le faccio salire verso di me, poi vi trascino
quassù.
I narada otu ecame, elie te plestre ce ta La Narada così fece, si sciolse le trecce
evale sto nginari ti o Pavlo ito catevionda e le mise nell’uncino che Paolo aveva
ce ta anevie, san da epiae sta gheria abbassato e salì. Quando le prese in mano
embici serronda ce i Narada anevenne cominciò a tirare e la Narada salì. Quando
san ito condà me to ena gheri epiae to fu vicina, con una mano afferrò una
pelecuci ti ighe sti zosi ce tis ipe: ta lucchi piccola accetta che aveva alla cintola e le
tu leddessa pu ta valete, arte andè mu disse: «Gli occhi di vostro fratello dove li
leghite pu ene sa costo ti cefalì. avete messo? Ora, se non mi dite dove
sono, vi taglio la testa».

_________________
- De ndo = den do; notare che de era stato scritto correttamente den, ma poi l’autore ha cancellato la -n
agglutinandola alla parola successiva.
- Po ssteche = pos esteche.

11

I mavri Narada san ivre otu ipe: ta La povera Narada, quando vide così,
lucchi tu leddemu ene sti testo tripa stin disse: «gli occhi di mio fratello sono in
armacia ecì pu teglionni to lithari aspro, tale buco nel muro a secco là dove finisce
ene diplomena mesa se ligo stari tse la pietra bianca. Sono avvolti in un panno
metazzi. di tela di seta».
O Pavlo san eziporese etuto prama ti Paolo, appena apprese questa cosa, le
serri mia pelecia sto scuddì, tosso affibbiò un’accettata nel collo, tanto forte
spimmeni ti to soma eppese ghamme sto che il corpo cadde a terra sul suolo e la
ghuma, ce tin cefalì tu emine sto gheri testa gli rimase appesa in mano. Poi gettò
cremameni. Podò ciola tin cefalì tin erizze a terra anche la testa. Appena sceso dal
ghamme. San ecatevie andì cerasia to ciliegio, la prima cosa che fece fu quella di
protinò prama ti ecame ito ecino na pai jià andare per vedere se era vero che gli occhi
na ivri anito alithia ti ta lucchi issa ecì pu stavano là dove diceva la Narada. Nella
ipe i Narada. Stin protinì tripa ti ecanunie prima buca che esplorò non li vide; guardò
de nda ivre. Ecanunie se mia addi ce issa in un’altra ed erano là. Li prese e di corsa
ecì, ta epiae ce treghonda eghiai sto andro si recò nella caverna dov’era il Drago.
pu ito o Drago.
«Pappua, cusete, egò espazza ti «Nonno, ascoltate, io ho ucciso la
_____________
- Andì = an di.
- Anito = an ito.
- De nda = den da: δεν τα.

- 136 -
12

leddassa ce prita na ti ne spazzo tis erotia vostra sorella e prima di ucciderla le ho


ti ecame ta lucchi dicasa. Ecini mu ipe: chiesto che aveva fatto dei vostri occhi.
Ene se mia tripa stin armacia condà cì pu Essa mi disse: «Sono in una buca nel muro
eghi to lithari aspro. a secco qua vicino, là dove c’è la pietra
bianca».
Esù espazze ti leddammu? Apologhie o «Tu hai ucciso mia sorella? – rispose il
Drago. Ce po secame. O Pavlo ipe olo Drago – E come hai fatto?». Paolo
ecino ti ito camonda na ti ne spazzi. Podò raccontò come aveva fatto ad ammazzarla.
o Pavlo ipe: pappua arte se vaddo ta Poi disse: «Nonno, adesso vi metto gli
lucc(h)i ti i leddassa sas ito gualonda ce occhi che vostra sorella vi aveva strappato
ghorume an evlepete. e vediamo se riacquistate la vista».
O Drago ito ena pizzilo prama anisonna Il drago: «Sarebbe una cosa bella se
avlezzi petapale, ma mu fenete ti etuto potessi riavere la vista, ma mi sembra che
prama den sonneste. questa cosa non sia possibile».
Ton ezzero, ipe o Pavlo, ghorume. Ce «Lo so – disse Paolo – vedremo». E
embichi na tu vali to protinò lucchio cominciò a mettergli il primo occhio così
posito, san eteglioe tin dulia a tse ena ipe com’era. Quando finì l’operazione con
o Drago me etuto avlepo. uno, il drago disse: «Con questo ci vedo».
O Pavlo ipe arte sa vaddo to addo; ce Paolo aggiunse: «Ora vi metto l’altro», e
aggheroe na tu vali to addo, san eteglioe cominciò a inserire l’altro. Quando finì, il
o Drago ipe avlepo ciola atse etuto. Ce drago disse: «Ci vedo anche da quest’al-
leghi: o cosmo su ghorò acomì mia addi tro». E aggiunse: «Il mondo lo vedo anco-
forà, ce zazzo to angonimmu ra come una volta, e ringrazio il mio nipote
_____________
- na ti ne spazzo = na tin espazzo.
- po secame = pos ecame.
- ti ne spazzi = tin espazzi.
-anisonna = an isonna.
- posito = pos íto.
- zazzo ‘ringrazio’, voce del linguaggio ecclesiastico (ἐξαγιάζω) ben conservata a Bova: v. Glossario.

13

ti mu condofere to avlema. che mi ha restituito la vista.


O Drago den itsere ti na cami jià etuto Il drago non sapeva che fare per questo
angoni. Eperannasi i mere scundu prita o nipote. Passavano i giorni; come prima,
Pavlo evosce tes eghe o Drago edelegghe Paolo portava le capre al pascolo, il drago
tsila jià na glathusi i nista ce na camusi to raccoglieva legna per scaldarsi la notte e
faghì. per cuocere i pasti.
Mia mera o drago leghi tu Pavlu: o Un giorno il Drago dice a Paolo: «O
posso ise omorfo esù, m’orchete i limbisia quanto sei carino tu, mi viene il desiderio
na su fao. di mangiarti».
O Pavlo: o pappua ti leghite; egò Paolo: «O nonno, che dite? Io ho fatto
ecama tosso jià essà ce arte thelite na mu tanto per voi ed ora mi volete mangiare:

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faite, ti loghia ene etuta. Ghià lighe mere
che discorsi sono questi?». Per pochi
den eplatesti pleo tse tipote, san eperasae
giorni non si parlò più di niente; quando
decapende icosi mere metapale tu irte i trascorsero quindici-venti giorni, di nuovo
limbisia tu Draghu na to fai. Ma Pavlo se(gli) venne al Drago il desiderio di
etute mere den ecanne addo ti na gharrisimangiarlo. Ma Paolo in questi giorni non
ta loghia tu Draghu ce andu eleghe fece altro che meditare i discorsi del drago
metapale testa loghi pos ighe na tu e, qualora gli dicesse nuovamente queste
apologhisi. parole, che cosa gli avrebbe dovuto
rispondere.
Perannonda cherò pos issa cathimeni Passando il tempo seduti davanti alla
ambrò tu antru ti epiannasi ton iglio, o caverna a prendere il sole, il Drago disse:
Drago eleghe: ma posso omorfo su isoe «Ma quanto carino ti ha potuto fare madre
cami i mana ghennithi. O Pavlo natura». Paolo
_______________
- Jénnithi 'natura', preferito da Casile accanto all'ellenismo fisis.
- m’orchete = mu érchete.
- andu = an du < ἀν τοῦ.

14

ti to ammialondu alethe, apologhie: thelite che in cuor suo macinava, rispose:


na ghenastite omorfo ciola esì? Sa lègo «Volete diventare bello anche voi? Vi dico
pos ecama egò na ghenastò omorfo. come ho fatto io a diventare carino».
O Drago san icue otu, apologhai ce Il drago, quando udì queste parole, ri-
pemu pemu, thelo ciola egò na ghenastò spose: «Dimmi, dimmi, voglio anche io
omorfo». diventare bello».
O Pavlo leghi: Egò eplithina me to gala Paolo gli dice: «Io mi sono fatto il bagno
vrazzomeno. con il latte bollito».
O drago: an ene otu, emì to gala to Il drago: «Se è così, noi il latte lo abbia-
eghome ce etuto to sonnome cami. mo e questo lo possiamo fare».
Manè ipe o Pavlo. Dene thelie o Drago «Sì», disse Paolo. Non voleva il drago
na ghai cherò ce tin destero mera perdere tempo e il giorno appresso
armezzasi tes eghe ce evrasai to gala, san munsero le capre e bollirono il latte,
ito acomì vrazzomeno ipe o Pavlo ene ora Quando era ancora bollente, Paolo disse:
pappua na plithite, mandè o gala «È ora, nonno, di farvi il bagno, sennò il
zighrenete ce den ghiuvegghi pleo. O latte si fredda e non fa più effetto». Il
drago evuttie tin cefalì sto gala, o Pavlo drago immerse la sua testa nel latte, Paolo
me ta gheria tu ti ne vuttie pleo funda tosso con le sue mani la mandò a fondo tanto che
ti apethane. morì.
Prita na pethani tu ipe: està eghe su Prima di morire gli disse: «sette capre ti
afinno, està potamì na perai, ce mia egha lascio, sette fiumi da attraversare, ed una
catha potamò na te fai ole. O Pavlo jià capra ogni fiume che le mangi tutte».
ecini mera ce i nista emine ecì sto andro; Paolo per quel giorno e la notte seguente
san ediafazze rimase là nella caverna. Quando albeggiò
_____________
- dene thelie = den ethelie.
- me ta gheria tu ti ne vuttie = me ta cheriatu tin evúttie.

- 138 -
15

epiae ola ecina pramata ti tu prese tutte quelle cose che gli servivano e
eghiuvegghasi ce ta evale ossu stin le mise dentro la bisaccia, munse le capre,
vertula, armezze tes eghe evrae to gala to bollì il latte. Metà lo bevve, l’altro lo
misò to epie to addo ton esicoe ossu se ena conservò dentro un orciolo e lo introdusse
curupaci ce to evale ossu stin vertula na to nella bisaccia per averne durante il giorno.
eghi jià tini mera. Edelezze tes eghe tavale Radunò le capre, le spinse davanti e
ambrò ce embichi cendonnonda. Ije tin cominciò a pungolarle. Aveva la testa
cefalì ghiomati tse garrie, o ammialondu piena di pensieri, il cervello gli macinava
tu alethe, jiatì den izzere pu na pai, na perché non sapeva dove andare, per
pandisi addu adrupu, ti ihe tosso cherò ti incontrare altre persone, perché era tanto
den epandenna canena. Ce to pleo ithele tempo che non incontrava anima viva. E
na vlepi ena topo jià na soi cami ena calò in più voleva scorgere un luogo dove poter
calivi, mia mandra, ce calò voscima jià tes costruire una buona capanna, un ovile, e
eghe. Den etsero jià pu na pao, pao jià tin un buon pascolo per le capre. «Non so da
meria pu anevenni o iglio, ce embichi che parte andare, vado dalla parte dove
parpatonda. San ito sto sperinò i eghe issa sorge il sole», e cominciò a camminare.
atonimene, o Pavlo ciola, ecì se mia meria Quando giunse la sera, le capre erano
ti ije dendra jià tin oscia, ghorto jià tes stanche, Paolo pure. Là in una zona dove
eghe, ce nerò jià na piusi eminasi c’erano alberi per l’ombra, erba per le
perannonda se ecino topo i nista. San capre e acqua per dissetarsi, si fermarono
etsimeroe eghoristissa amalà amalà per passare in quel luogo la notte. Quando
albeggiò, partirono piano piano
______________
- jià tini mera = ja tin iméra.
- amalà amalà ‘piano piano’: reduplicazione espressiva.

16

ce otu i egge epigasi trogonda. e così le capre brucavano camminando.


San ito to sperinò epandiasi ena mega Quando giunse la sera, s’imbatterono in
potamò. O mavro Pavlo san ivre etuto un grande fiume. Il povero Paolo, quando
potamò eghiai anu ce catu na ivri putte vide quel fiume, andava su e giù per
esonnasi perai; ma tipote, den isonne este vedere da dove potevano passare. Ma
jiatì o potamò ipije jomato ce ane niente, non poteva essere perché il fiume
ghirezzasi na perausi, to nerò ta eperre sti scorreva pieno e, se si fossero azzardati ad
thalassa. O Pavlo epiasti tse sciasmia, ce attraversare, l’acqua li avrebbe trascinati a
maghondu leghi: ho miro dicommu po mu mare. Paolo fu preso dallo spavento e tra
aripizzi acomì. I nista esteche ja catevisi sé diceva: «Oh! sventura mia, come mi
ce i cardia tu Pavlu egheneto panda pleo maltratta ancora!». La notte stava scen-
mavri. dendo e il cuore di Paolo diveniva sempre
Po sito ortò ivre ligo larga ena adropo più nero.
ti eparpate jià tin meriandu, san ito Com’era in piedi, vide in lontananza un
condatu, tu leghi calò vradi chirio ti uomo che avanzava verso di loro. Quando
cannite ode? fu vicino gli dice: «Buona sera, signore,
che fate qui?».

- 139 -
O Pavlo: imme ode, ithela na perao to Paolo: «Sono qui, vorrei attraversare il
potamò ma den ndo sonno jiatì pai fiume, ma non posso perché scorre in
ghiomato ce egho ciola tes eghe. piena e per giunta ho le capre».
Etuto adropo ando vlepima eghe ennato Quell’uomo, alla vista era divenuto
poddì jero, jiatì ta maddia ti eghome andi molto vecchio, perché i peli che abbiamo
meria apanu sta lucchi issa ghenastonda nella parte superiore degli occhi erano
aspra ce macria. San o Pavlo ipe ti eghi divenuti bianchi e lunghi. Quando Paolo
na perai ciola tes eghe disse che doveva far passare anche le capre

_______________
- isonne este = ísonne este: la locuzione si irrigidisce in un sintagma avverbiale modalizzatore; v. sonnéste.
- ane ghirezzasi = an ejirézzasi:
- maghondu = ma(na)chondu ‘in sé’.
- po sito = pos íto.
- eghe ennato = eghennato = ejéneto 'era divenuto' → jénome.

17

etuto adropo apologhie. Ciuri a thelisite quest’uomo argomentò: «Signore, se vole-


na fame mia ega, egò peranno essà ce te te che mangiamo una capra, io faccio
seghessa. passare voi e le vostre capre.
Pavlo: «Vrete, egò den egho addo amma Paolo: «Vedete, io non ho altro; se ci fate
perannite i eghe ecina ene, esì ta ghorite passare, le capre là sono, voi le vedete: sei
etse eghe ce ena trago. capre e un montone».
De ipe o adropo a thelisete otu ene, egò «No – disse l’uomo – se volete, così è, io
sa canno ivri ti tin trogome ismia, jiatì vi farò vedere che la mangiamo insieme,
tsero ti eghite ciola esì pina. O Pavlo perché so che anche voi avete fame».
conda etuto jià ligo emine me toi stoma Paolo, sentendo questo, per poco rimase
climeno, ma sirma epiasti tse tsighì ce con la bocca chiusa, ma presto si prese di
apologhie: ciuri dicommu egò egho etute paura e rispose: «Signore mio, io ho solo
eghe managà ce epistegga me etute na zio; queste capre e pensavo di vivere con esse;
tipote addo egho. O zeno ti ighe to proso non ho altro». Lo straniero che aveva il
pleo tse zoà ti tse adropo, ipe: a thelisite volto piuttosto di animale che di uomo,
na sa perao otu ene, mandè menite ode disse: «Se volete che vi traghetti, così
jiatì to potami den ndo perannite. stanno le cose, sennò rimanete qui, perché
il fiume non lo attraversate».
O Pavlo: po thelite canno. Paolo: «Come volete faccio».
Ce otu o jero epiase ton Pavlo tse zappe E così il vecchio si caricò Paolo sulle
ce ton eperase, san do ne perase tu ipe mi- spalle e lo traghettò. Quando lo scaricò, gli
naste ode ti egò pao ce peranno tes eghe. disse: «Restate qui, ché io vado e traghetto
O Pavlo emine ecì ce i cardia tu ipighe le capre».
ghiatì eleghe sto ammialondu ce ande Paolo rimase là, ma il cuore gli venne
nighe na condoferi na mu feri tes eghe, ti meno perché diceva in cuor suo: «E se non
canno egò? Tipote, den egho ti na camo. mi porta le capre, che faccio? Niente: non
posso farci niente».

______________

- 140 -
- te seghessa = tes éghessa.
- amma = a mma < an mas ‘se ci’.
- tsighì: zziḣí < ψυχή.
- zeno = zzéno ‘straniero’ < ξένος.
- proso = proso(po)?
- san do ne perase = san don epérase: σάν τον ἐπέρασε ‘quando lo traghettò’.
- ande nighe = an den iche < ἀν δεν εἴχε να ‘se non dovesse...’.

18

Ma eperase ligo cherò ce efani me dio Ma passò poco tempo e apparve con due
eghe ste zappe. San engie to ghuma ipe to capre sulle spalle. Appena toccò terra
protinò fortoma to efera arte condoferro disse: «Il primo carico l’ho portato; ora
apissu ce fero t’adda. San eteglioe leghi tu torno indietro e porto le altre». Lo stra-
Pavlu: arte ene nista, esì den eghete pu na niero tornò indietro e fu di parola, perché
paite, dderrome ti nega ce tin trogome le portò tutte. Quando ebbe finito, disse a
ismia; ce otu ecamasi. Paolo: «Ora è notte, voi non avete dove
Sa nde ne teglioasi tse fai o ghero andare: scuoiamo la capra e mangiamola
adropo tu ipe calì nista, ce eghadi sto insieme; e così fecero. Quando finirono di
scotidi. O Pavlo emine ecì ce eperase ti mangiare, l’uomo vecchio disse: «Buona
nista. notte» e sparì nelle tenebre. Paolo rimase
San ecame mera evale te seghe ce lì e passò la notte.
eghoristissa. Parpatonda oli tin imera Quando giunse il giorno, menò le capre
metapale ecatevie i nista ce metapale e partirono. Camminando tutto il giorno,
emine ecì. Na cozzo cundura ta enghie na nuovamente scese la notte e lui ancora una
perai adda ezze potamì, ce catha potamò volta rimase là. Per farla breve, gli toccò
ito panda ena prama, san tu ito menonda attraversare altri sei fiumi, ed ogni fiume
mia ega managhì efani to addo potamò ce era sempre un problema. Quando gli
o ghero adropo. rimase una sola capra, apparve l’altro
fiume e il vecchio.
Pavlo ipe andi n’ode etuti ega mu emine, Paolo disse: «Ecco qui questa capra mi è
tipote addo mu meni peratemu etuto rimasta, non mi resta altro. Fatemi passare
potamò, trogome tin ega ti acomì egho, ce questo fiume, mangiamo la capra che
podò meno po s’immo san eghoristina ancora possiedo, e poi rimango com’ero
ando spiti tu ciurimu. quando partii dalla casa di mio padre».
______________
- eghadi: eḣáthi < ḣánno.
- andi n’ode = an din óde ‘eccola qui’.

19

Otu ethelie o cacio miro dicommu [1] Così ha voluto il mio sventurato destino
[1]
Tu ito sinertonda ti o drago tu ito iponda Si era ricordato quello che il drago gli
prita na pethani (eftà eghe su afinno, eftà aveva detto prima di morire (sette capre ti
potamì na perai, ce mia jià catha potamò lascio, sette fiumi devi attraversare, e una
na su fasi). per ogni fiume te la mangeranno).
O ammialondu embichi na cami oli i zoì La sua mente cominciò a rivisitare tutta
perammeni, puccia ti ito pedì, sa ndu la vita passata, da quando era bambino,

- 141 -
epetane i mana, san o ciurindu ta epare quando gli morì la mamma, quando suo
stin otzia; ce ode pleo ca tis adde forà tu padre li portò sulla montagna; ed ora più
sinirte andi leddandu. Pis etseri an eghiai delle altre volte si ricordò di sua sorella.
sto spiti me ta fluscì tu luppinarìu? O Chi sa se è tornata a casa con le bucce dei
eghathi mesa sto plaghi? O cana agricò lupini? O si è persa in mezzo alla foresta?
zoò tin efaghe? Ce an eghiai sto spiti ti zoì O qualche animale selvaggio l’ha mangia-
canni? Ene panda aripismeni andi mad- ta? E se è tornata a casa, che vita fa? È
donna? Egò legho ti ole i maddonne sempre perseguitata dalla matrigna? Io
eghusi mia cardia; ce ene i cardia mavri dico che tutte le matrigne hanno un cuore;
ce tseri jià tu pregoni, den sonn’este addò ed è il cuore nero e sa del figliastro, non
jià tu pregoni. può essere altrimenti per il figliastro.
[1] Otu o adropo sciasmada ton epiae [1] Così l’uomo ombra lo caricò sulle
apanu ste zappe ce ton eperae, podò spalle e lo trasportò, poi torna indietro e
condoferri apissu ce peranni tin ega. San traghetta la capra. Quando furono di
issa metapale ismia, o adropo sciasmada nuovo insieme, l’uomo ombra disse a
tu ipe tu Pavlu: arte cannome lucisi, Paolo: «Ora accendiamo il fuoco, uccidia-
spazzome ti nega, tin catharizzome, tin mo la capra, la scuoiamo, la mettiamo sui
vaddome apanu sta carvuna ce carboni e
_______________
- Cacio = cacío ‘malvagio’: è solo in Casile: il termine può riflettere il comparativo gr. κακίων
“Steigerungsform” von valore intensivo.
- sa ndu = san du

20

tin estinnome, san ene stimeni tin trogome l’arrostiamo. Quando è cotta la mangiamo
ce egò gorizzome, jiatì stechi na jenastì e io me ne andrò perché si sta facendo
nista ce den sonno adiai. Tegliomena ole notte e non posso tardare. Fatte tutte
etute dulie, san ito condá na ghoristì o queste faccende, quando era sul punto di
adropo tu leghi tu Pavlu egò pao, esì separarsi, l’uomo dice a Paolo: «Io vado,
delezzete ola etuta stea, ti sas ene diasticá voi raccogliete tutte queste ossa, che vi
an camete po sas lego egò. saranno utili se fate come vi dico io».
O Pavlo: petemu, petemu. Paolo: «Ditemi, ditemi».
Avrì purrò etuta stea, prita camete mia «Domattina queste ossa, prima fate una
tripa sto ghuma, podò ta vaddete ecì ossu buca nel terreno, poi li mettete dentro e li
ta stea ce ta (a)ghumite. Condoferrite san sotterrate. Tornate dopo che sono passati
perannusi ostó mere ce ta poghumite, otto giorni e dissotterratele. mettete una
valete ena podi andi mia meria ce to addo zampa da un lato e l’altra da un altro, e
andi n’addi ce ghite na ipete: ejea, ejea, dovete dire: ejea, ejea ejea. Da quella buca
ejea; tse ecini tripa aggheronnusi na cominceranno a uscire capre. Voi dite
guicusi eghe. Esì pete panda ejea, san sa sempre ejea, e quando vi sembra che non
difi ti den thelite pleo, pete clista tripa; ne volete più, dite “chiuditi, buca».
san leghite otu acomì sas guenni ena trago Quando dite questo, vi comparirà ancora
me ta cerata tse grisafi ce dio sciddia ti sa un montone con le corna d’oro e due cani
pelannusi sto voscima ce ti vradia sa sta che per voi si occuperanno del pascolo e la
deleggusi managhondo. sera vi riporteranno le capre da soli».

- 142 -
I cardia tu Pavlu san ecunne etuta Il cuore di Paolo, quando udì queste
loghia tu ipighe. den ezzere an issa alithia parole, si sciolse. Non sapeva se fossero
o issa tsemata. Oli i nista tin eperae verità oppure menzogna. Tutta la notte la
gharronda etuta pramata. San ecame passò meditando su questi fatti. Quando
mera, ecame olo ecino ti tu ito iponda o spuntò il giorno, fece solo ciò che gli
adropo. Podò embichi ce ipighe anu catu aveva indicato l’uomo. Poi cominciò ad
voscionda ghorto scundu tes eghe. Mia andare su e giù portando le capre al
mera… pascolo secondo le loro esigenze. Un
giorno…
________________
- poghumite < apoḣúnno.
- ejea: cf. ngr. ἔγια escl. ‘su, suvvia!’ < lat. eia, agr. εἶα.
- ce ghite = c' ehjite: καὶ ἔχετε.

21

I mere pleo megale ce pleo pricie ti I giorni più lunghi e più amari che
eperae o mavro Pavlo issa ecine ostrò fira passò il povero Paolo furono quelli
na ivri an ito alithia ecino ti tu ito iponda dedicati a vedere se fosse vero ciò che
o adropo sciasmia. Se etute mere o Pavlo aveva detto l’uomo fantasma. In quei
evadde managhondu loghia apanu loghia giorni Paolo faceva tra sé e sé discorsi su
ce ande nene alithia ti guennusi te seghe, discorsi: «E se non fosse vero che escono
ti canno? Ti mu meni na camo? Arte meno le capre, che faccio? Che mi resta da fare?
etute osto mere ciola na ivro anene alithia Ora aspetto questi otto giorni, anche per
o tsema ecino ti mu ipe*. appurare se è verità o menzogma ciò che
mi ha detto».
O Pavlo esicoe ola ta derma andes Paolo conservò tutte le pelli delle capre
eghe ti tu spazzasi san eperae ta potamì. che gli ammazzarono quando attraversò i
Ena zuguari t’arazze me clonia tse sparto fiumi. Un paio le cucì con ramoscelli di
ce ta ecame foresia; ta adda, dio ta evadde ginestra e fece un vestito, altre due le mise
apucatu jià saccuni, ta adda tria apanotte sotto per materassi, le altre tre le mise
jià carpite, jià porciolafadi evadde ena sopra per carpite; per guanciale prese una
lithari, otu eperae ecine està niste tse pietra. Così passò quelle sette notti in
megali aminisi. grande attesa.
San etsimeroe eghiai iso ecì pu ito Quando si fece giorno, andò dritto là
ghuonda ta stea, epiase me ta gheria ce dove aveva seppellito le ossa, si diede da
ecame mi(a) tripa sto ghuma cannonda fare con le mani e aprì una buca nel terreno
olo ecino ti tu ito iponda o adropo facendo tutto ciò che gli aveva prescritto
sciasmia. Evale podi andi mia meria, to l’uomo fantasma. Mise una zampa da una
addo parte, l’altra

_________________
* Qui l’autore ha scritto e poi cancellato la seguente frase: [Eperasai etute osto mere ce eteglioe to stazio
acathomeno ‘Passarono questi otto giorni e finì l’attesa seduto’]. Vi si legge la parola stazio, che riveste
una certa importanza: stázzio ['stattsjo] s.n. ‘permanenza, sosta, residenza’, dal lat. statio, è voce del lessico
liturgico, con metaplasmo dal genere f. al n. Cf. Crupi 1981:96; Casile, Lettera a Kolakis 9-4-1988: To
stazzio dicóma ode se etuto chuma ene paleo ‘La permanenza nostra qui in questa terra è antica’. Stazio
‘residenza’ anche a p. 28.

- 143 -
- ostrò fira. Voci oscure, eppure ben leggibili.
- ande nene = an den éne.
- t’arazze = ta érazze: rásto.
- váḍḍo apucátu ‘mettere sotto’ = impegnare, utilizzare.
- guonda: ḣúnno.

22
andi n’addi ce embichi legonda: eghea, dall’altra e cominciò a dire: eghea eghea.
eghea. San ipe lighe foràotu i tripa Appena disse così poche volte, la buca
eghenasti pleo megali managhiti ce i eghe divenne da sola più ampia e le capre
embichissa guennonda. San ndu fani ti cominciarono a uscire. Quando gli sembrò
issa guiconda tossa jià dasto ipe: de pleo che ne erano uscite tante (quanto
de pleo; bastavano) per lui, “non più, non più”.
san ipe otu eguichissa acomì ena trago Quando disse così uscirono anche un
me ta cerata atse grisafi ce dio sciddia tse ariete con le corna d’oro e due cani dal
soma mega san nda lici. San ivre ola etute corpo grande come quello dei lupi.
eghe o Pavlo ce ta dio sciddia ito tosso Quando vide tutte quelle capre e i due
gharapimeno ti eclee; emine ligo ortó, cani, Paolo fu tanto contento che pianse.
sambote ti ito scotimmeno, ma sirma Rimase un po’ in piedi, come se fosse
epiasti tse stolí, ce ipe: pao ambró acomí. stordito, ma presto riprese fiato e disse:
Epiae olo ecino ti ighe ce embichi «vado avanti ancora». Raccolse tutto ciò
cendonnonda te seghe ce eghoristissa. ta che aveva e si diede a stimolare le capre, e
sciddia epigasi ena andi mia meria ce o partirono. I cani procedevano uno da un
addo andi n’addi, i eghe sto mesa.San ito lato e l’altro dall’altro, le capre nel mezzo.
condá na vasilezzi o iglio ivre ti ecì pu ito, Quando era prossimo il tramonto del sole,
ito ena omorfo topo jià ta zoá ce jià ecino, vide che là dove si trovava era un bel
ito olo mali, ighe caló voscima, ighe neró luogo per gli animali e per lui: era tutto
na potisi tes eghe ce jià ecino. Ecanunie pianeggiante, aveva un bel pascolo, c’era
caglio to ghorafi, pleo ton ecanune pleo acqua per abbeverare le capre e per lui.
omorgfo tu idife. Ipe: ode meno, appothe Osservò meglio il terreno, più guardava e
den ghorizzome. più bello gli sembrava. Disse: “qui resto,
da qui non mi muovo”.
_____________
- eghea: cf. ejea.
- managhiti = µοναχή της ‘da sola’.

23
Atse ecini mera aggheroe na cami ta Da quel giorno cominciò a fare legna
tsila jià ta calivia. Pu ligo ligo ecame to per le capanne. A poco a poco costruì la
calivi jià na stathi ecino, podó ecino jià tes capanna per sua abitazione, poi quella per
eghe ce jià ta sciddia. Ode se etuto topo o le capre e per i cani. In questo luogo Paolo
Pavlo ecanne mia calì zoì; calí jiatì to faceva una bella vita; bella perché il terre-
ghuma ito mali, ito iliasmeno, ighe neró no era pianeggiante, era soleggiato, c’era
jià ta zoá ce jià na cami cipuria. Ode i zoí acqua per gli animali e per fare ortaggi.
eperanne calí, i eghe ode estecasi calá, Qui la vita passava ottimamente, le capre
eghennussa ce ecamasi poddí gala. qui stavano bene, generavano e facevano
molto latte.

- 144 -
Mia mera o Pavlo eghiai pleo macria Un giorno Paolo andò più lontano per
na cozzi tsila na teglioi ena addo calivi jià tagliare legna per finire un’altra capanna
tes eghe ti issa ghenastonda poddá. Acomí per le capre che erano diventate molte.
den ito aggherosonda na cozzi ligo larga Non aveva ancora cominciato a tagliare
ivre mia ghineca ti ito camonda ena fortí che vide, un po’ in lontananza, una donna
tse tsila. Sa ndi nivre tu fani ena prama che aveva preparato un carico di legna.
cinurghio, ce jià ligo emine fantiameno, Appena la vide gli si manifestò una
podò tis eghiai condá ce tin gheretie. Etuti situazione nuova, e per poco rimase
mavri ghineca san ivre etuto andra intontito, poi le andò vicino e la salutò. La
esciasti, den itsere ti na canni. O Pavlo povera donna, quando vide quell’uomo, si
ivre ti esciasti ce tis ipe: mi sciastite egó spaventò e non sapeva che fare. Paolo vide
den sa ecanno agharo. Petemu putte che si era spaventata e le disse: «Non vi
ercheste, na parite appothe spaventate, io non vi farò del male. Dite-
mi da dove venite, dove
_______________

- Pu ligo ligo ‘a poco a poco’: pu1 [pu] prep. con valore distributivo → púsa, apótte, podó ☞ éna pu éna,
pu éna éna ‘ad uno ad uno’; méra pu méra ‘giorno per giorno’; írtasi pu dío dío ‘sono venuti a due a due’;
fina pu ‘finché’ || grico apú ☆ gr. ἀπό; cf. LG 46.
- eghennussa: jennáo ‘generare, partorire’.
- sa ndi nivre = san din ívre ‘appena la vide’.
- gheretie ‘salutò’ < hjeretáo.

24
ta tsila, to spitussa edu eghi nane larga. portate la legna: casa vostra non dovrebbe
essere lontana da qui».
I ghineca: ene larga, ene larga poddí. La donna: «È lontana, è molto lontana».
O Pavlo: ce den eghite canena na erti Paolo: «E non avete nessuno che venga
me essá, jiatí ercheste managhisa. I con voi, perché siete sola?». La donna:
ghineca den egho cheró na sas ipo oli ti «Non ho tempo per raccontarvi tutta la mia
zoimmu ce posso ene ascimo o mirommu. vita e quanto è triste il mio destino».
O Pavlo san ecue etuta loghia, tis Paolo, quando ebbe ascoltato queste
arotie, to protinó prama tis ipe aneghi parole, la interrogò; la prima cosa che
mana. Etuti apologhie chiese è se avesse una madre. Lei rispose:
udé i manamu mu pethane ti egó immo «No, La mamma mi è morta quando io ero
tsodduna. ragazzina».
Acomí o Pavlo: ce o ciuri sas epethane Paolo di rincalzo: «E il padre vi è pure
ciola. morto?»
I ghineca, de o ciurimu zii acomí. La donna: «No, mio padre vive anco-
ra».
O Pavlo: ce den eghite tispo saddo sto Paolo: «E non avete nessun altro a
spiti. casa?».
I ghineca: egho tin maddonna La donna: «Ho la matrigna».
O Pavlo: den eghite de leddé de leddá. Paolo: «Non avete fratelli né sorelle?»
I ghineca: igha ena leddé ma den La donna: «Avevo un fratello, ma non
ezzero na sas ipo, o caglio i ora eperase so che dire, o meglio l’ora è passata e devo
ce egho na ghoristó, to pema tu leddemmu andare: il racconto di mio fratello ed anche
ce ciola to dicommu ene macrio. il mio è lungo».

- 145 -
O Pavlo san icue otu ipe sto Paolo, quando udì questo pensò in cuor
ammialondu: etuti eghi nane i leddemmu, suo: questa dev’essere mia sorella, e le
ce ti leghi: ce anesi an ighete na to ivrete dice: «E se voi poteste vedere vostro
ton annorizzete to leddessa. fratello, lo riconoscereste?».
I ghineca: den ezzero La donna: «Non lo so».
________________
- nane = na ene
- aneghi = an echi
- edu: se la lettura è corretta, si deve risalire a gr. αὐτοῦ (cf. LG 70) donde bov. ettú ‘costì’. Arcaismo che
sarebbe sopravvissuto accanto al frequente óde.
- managhisa = manachí sas ‘sola soletta’.
- zodduna: ‘ragazzotta’, ‘ragazzina’, dim. di zzóḍḍa ['ttsoɖɖa] s.f. ‘ragazza’, ‘giovinetta’ (bov) → cazzéḍḍa.
Il suffisso -úni ha normalmente valore accrescitivo e peggiorativo, ma forma anche diminutivi e
vezzeggiativi: cf. cazzeḍḍúna, micceḍḍúna ‘ragazzina’; cal. figghjazzúni ‘cucciolo’. Vedi di più in
Glossario.
- to pema ‘il racconto’, altro vocabolo esclusivo di Casile, potrebbe essere un deverbale dal tema dell’aoristo
suppletivo di léo: ípa; cf. pému, imper. aor. ‘dimmi’ → ípo, légo.

25
den ezzero arte eperasai gronu ti den ndo Non so. Ora sono passati anni che non lo
ghoró, posso ito omorfo, an o miro ti fina vedo. Quanto era bello! Se il destino, che
arte mu aripie panda mu afude mia fora finora mi ha perseguitato sempre, mi
managhì posso na ivro to leddemmu, ce aiutasse una volta sola a vederlo e poi
podó na petheno epethanna ghará. morire, morrei felice».
O Pavlo san icue otu ta lucchi tu Quando Paolo udì queste parole gli
ghiomostissa tse daclia ce clonda tis ipe: occhi gli si riempirono di lacrime e
Maria, Maria, egò imme o leddessu, tin piangendo le disse: «Maria, Maria, io sono
angagliae ce tin efilie. tuo fratello», l’abbracciò e la baciò.
Maria san icue etuta loghia escotisti ce Maria, udendo queste parole, rimase
jià ligo den isoe ipi logo, san irte sto stordita e per poco non sapeva dire parola.
dicondi ipe: vre o miromma posso ito Quando tornò in sé disse: «Vedi il mio
cacío me emmá ma etuti forá de. Su destino quanto è stato cattivo con me, ma
sinerchete mas emiriae mesa sto plaghi, ce questa volta no. Ti ricordi? Ci ha separati
mesa sto plaghi mas ecame na pandiome. in mezzo al bosco e in mezzo al bosco ci
ha fatto incontrare».
O cheró ito peraonda tse poddí ce o Il tempo stava passando rapidamente e
Pavlo tis ipe ithela na su arotio tossa Paolo le disse: «Vorrei domandarti tante
pramata ma jia apozze ame sto spiti su cose, ma per stasera andiamo a casa: ti
sindrofizzo egó fina ecí condá, condofere accompagno io fin là vicino. Torna
avri purrí ce otu sonnome platezzi jia domani mattina e così potremo parlare di
ecino ti eghome na camome. ciò che ci aspetta».
Ce otu ecamasi. O Pavlo eghiai fina E così fecero. Paolo andò fin nelle
condá sto spiti ce econdofere ta zoá. vicinanze della casa e tornò dagli animali.

26
Ta sciddia issa delezzonda tes eghe ce I cani avevano radunato le capre e le
ta issa valonda ossu sti mandra. O Pavlo stavano introducendo dentro l’ovile. Paolo

- 146 -
ecame to faghí etaghie ta sciddia, efaghe preparò la cena, diede da mangiare ai cani,
ecino ce podó etracline. Ja ecini nista o mangiò pure lui e poi andò a letto. Quella
Pavlo den eciumithi jiá posso ghará ito ti notte Paolo non dormì per la gioia che
epandie ti leddatu, garronda pos eji na aveva per aver incontrato la sorella,
cami na guali ti leddandu ando spiti tu meditando su come avrebbe fatto a far
ciurindu ti esteche poddí aghari. uscire la sorella dalla casa del padre, che
era molto inquietante.
Sirma tu irte sto ammialó na cami ena Presto gli venne in mente di fare un’al-
addo calívi conda sto dicondu jiá na stathí tra capanna vicina alla propria per farci
i leddatu. stare la sorella.

San edelesti sto spiti i Maria ito Quando Maria giunse a casa, si era fatta
ghenastonda vradi, i maddonna embichi sera; la matrigna cominciò a lagnarsi
na ti lipitisi legonda: su pai mia mera dicendo: «Ti serve un giorno intero per un
ighio jia ena fortí tsila. ode sto spiti carico di legna? Qui in casa abbiamo tante
eghome tosse dulie jiá cami ce esú ghanni faccende da sbrigare e tu perdi un giorno
mia mera me ena fortaci tsila. I mavri per un piccolo carico di legna!». La povera
Maria apomine den apologhie. Tin purrí Maria sopportava, non rispondeva.
prita na cami mera i maddonna tin crazzi L’indomani, prima che facesse giorno, la
ce ti leghi la gherti ce na pai jiá na plini matrigna la chiama e le dice di alzarsi ed
ta rugha sto andare a lavare i panni al

_____________
garronda: < ḣarró

27

potamó, podó pai ce ferri ta tsila. I Maria fiume; poi doveva andare e portare la
egherti epiae ta rugha ta tilitze mesa se legna. Maria si alzò, prese i panni, li
ena sindoni ta evale apanu stin cefalí ce avvolse in un lenzuolo, se li pose sulla
eghiai sto potamó ce ta epline. Sa nda testa, andò al fiume e fece il bucato. Finito
teglioe ta stiazzi mesa se ena sindoni ta il lavoro, li dispone in un lenzuolo, se li
siconni apanu stin cefalí ce condá carica sulla testa e verso mezzogiorno era
mesimeri ito sto spiti. a casa.
San eghiai sto spiti i maddonna tis ipe: Quando fu a casa, la matrigna le dice:
ghorí sa theli na cami te dulie glighora ta «Vedi? Quando vuoi fare le faccende
tseri cami, esú ise sa ndin alupuda. I velocemente, le sai fare. Tu sei come la
Maria: tipote, den eplatezze. volpe». Maria, niente, non rispose.
I maddonna pianni liga sica affurri- La matrigna prese alcuni fichi infornati
mena ce tis ipe: nná piaeta ce pai e le disse: «Su, prendili e vai mangiando
troghonda ppo pai jiá ta tsila. I Maria quando vai per la legna». Maria prende i
pianni ta sica, ta vaddi ste cumbe ce fichi, li mette nelle tasche e cominciò ad
embichi trogonda ce parpatonda. Po andare mangiando. Mentre camminava,
sipighe tis epandie o leddendu ti ercheto s’imbattè nel fratello che era venuto a
na ivri ghiatí den ito paonda. San vedere perché non era andata da lui.
epandiasi i Maria tu ipe ghiatí den isoe Quando si incontrarono, Maria gli raccon-
pai prita. tò perché non aveva potuto andare prima.

- 147 -
O Pavlo ti leghi. «Vre egó ode su efera Paolo le dice: «Vedi, io qui ti ho portato
mizzidra ce tirí na fai, cathu ce fata, egó ricotta e formaggio da mangiare, siediti e
su camo to fortí tse tsila san ene mangiali; io ti faccio il carico della legna;
ghenameno su to ferro ode. quando è pronto te lo porto qui». Quando
San ito ghenameno to fortí ti sto epare il carico fu pronto, glielo portò là dove
ecí pu

_________________
- Po sipighe = pos ípije.
- fata ‘màngiali’ v. fáo.

28
ito cathimeni i Maria ce tis ipe: su to zitao Maria stava seduta e le disse: «te lo chiedo
me paracalima Maria jiá te narte mi ipi per favore, Maria, per ora non dire parola
logo tu ciurima ti emí epandiame, san ene a nostro padre che noi ci siamo incontrati;
ora su ta lego egó. quando sarà il momento, te lo dirò io».
I Maria egó canno po theli leddé ma Maria: «Farò come dici, fratello, ma
den ithela na stathó pleo. Arte ti non vorrei starci più. Ora che ci siamo
efannimma ithela na peraome condá ane ritrovati, vorrei che passassimo vicini, se
esú theli to merticó andi zoí ti acomí ma tu lo vuoi, la porzione di vita che ancora
meni. ci resta».
O Pavlo: «Etuto thelo ciola egó ma Paolo: «Questo voglio anch’io, ma
egho na teglioso ena calivaci condá sto prima devo finire una capannina vicino
dicommu ti ene olo jià essena, lighe mere alla mia, che sia tutta per te; pochi giorni
acomí ce olo teglionni». ancora e tutto finirà».
O Pavlo tis afudie ce efortoe ta tsila stin Paolo l’aiutò e le caricò la legna sulla
cefalí ce eggherestissa. O Pavlo testa, poi si salutarono. Paolo tornò là
econdofere ecí pu ito camonda stazio, dove aveva fissato la sua residenza, chiuse
eclie ta zoá ce ecame to faghí efaghe ecino gli animali e preparò il pranzo. Mangiò lui

_______________
- efanimma ‘ci siamo visti’: fénome.

29
(ce) ta sciddia podó etracline. (e) i cani, poi si coricó.
Ghiá dio mere i Maria den econdofere Per due giorni Maria non tornó più per
pleo jiá tsila. O Pavlo edosti sto ti cami fare legna. Paolo si dedicò a completare la
ghiá na teglioi to calivi ghia ti leddendu, capanna per la sorella; al terzo giorno
ste tris ime(ne)re i Maria econdofere ghiá Maria tornò per fare legna. Era di mattina
ta tsila, ito tse purrí ce tosso eparpatie ti e tanto camminò che giunse là dove si
eghiai ecí pu ito o leddendi. trovava suo fratello.

San din ivre o leddendi emine, ce ti Quando la vide, il fratello rimase


leghi: Maria esu ode ppos ecame na erti, (sorpreso), e le dice: «Maria, tu qui? Come
posso eji ti parpatí. hai fatto a venire? Quanto tempo è che
cammini?».

- 148 -
I Maria tosso eparpatia ti su ivra. Maria: «Tanto ho camminato che ti ho
visto».
Cala, calá leghi o Pavlo. «Bene, bene», dice Paolo.
Ecathiasi ce efagasi ismia, ppo se Sedettero e mangiarono insieme. Men-
stecasi fanda o Pavlo arotie: pemu ecini tre stavano mangiando, Paolo le chiese:
mera ti emiriastimma sto plaghi ti egó den «Dimmi quel giorno che ci siamo separati
ethelia na condofero sto spiti, esú posso nel bosco, ché io non volli tornare a casa;
cheró evale na pai ce ti su ipe o ciuri sa su tu quanto tempo hai impiegato per andare
ivre ecí? e che cosa ti ha detto nostro padre quando
ti vide là».
I Maria apologhie: leddé egó Maria rispose: «Fratello, io tornai gra-
econdofera me to derma tu luppinariu, san zie alle bucce dei lupini. Quando giunsi a
eghiaina sto spiti, ito vasilezzonda o iglio, casa il sole stava tramontando, ma avevo
ma esciazzommo na mbicó ossu ce emina timore ad entrare dentro e rimasi là vicino
eci condá sti therida, i maddonna ito alla porta. La matrigna aveva cucinato, per
camonda na fasi pasta ce crea, mangiare, pasta e carne,

_________________
Notare a breve distanza le scritture ghiá, ghia, jiá per ja.
- ime(ne)re = imere: interpolazione di una sillaba
- eghiai = ejái → diavénno ‘arrivare, giungere’.
- ppo se stecasi fanda = ppos estécasi fánda stéco, fáo
- emiriastimma ‘ci siamo separati’, aor. medio di miriáźo.
- esciazzommo ‘avevo paura’: impf. di sciáźome
- na mbicó = cong. aor. di embénno ‘entrare’.

30

ppo sesteche posuronda tin pasta o ciuri mentre stava scolando la pasta il padre fa:
canni: a anighasi ciola ligo zema atse «ah, se avessero anche un po’ di questo
etuto ta pediamu. Ma i maddonna tu leghi: brodo i miei figli!». Ma la matrigna lo
esú panda ecí gharrei. Egó ti immo rimbrotta: «Tu sempre là pensi».
pethammeni atse pina ipa: ciuri, a thelisite Io, che ero morta di fame, dissi: «Padre,
na mu to doite egó imme óde. se volete darmelo, io sono qui».
Conda etuti foní o ciuri anizze tin the- Sentendo queste parole nostro padre
rida ce mu ipe mbica. aprì la porta e mi disse: «Entra».
I maddonna san mu ivre embichi La matrigna, quando mi vide, cominciò
mularizzonda ma ghia ecini vradia mu a protestare, ma per quella sera mi hanno
educasi olo smimmeno zema pasta ce ligo dato tutto mescolato brodo, pasta e un po’
crea, podó o ciuri mu arotie: ce o leddesso di carne. Poi il padre mi chiese: “e tuo
pu emine. fratello dov’è rimasto?”.
Ego tu ipa: ecí ecino emine sto plaghi Io gli risposi: è rimasto là nel bosco,
den ethelie na erti me emmena. san egó non ha voluto venire con me. Quando ho
ipa otu i maddonna sirma apologhie; ce detto queste parole la matrigna subito
ecino ecame calá. rispose: “e lui ha fatto bene!”. Quegli anni
Etuti grono ta eperasa agara, ce esú to li ho trascorsi male, e tu lo dovresti
sonni tsiporei. sapere».

- 149 -
O Pavlo ipe arte pame ce ghorí to calivi Paolo disse: «Ora andiamo. Vedrai la
ti su ecama, capanna che ti ho preparato».
eghiaissa ce o Pavlo tis edizze to calivi Andarono e Paolo le mostrò la capanna,
ti tis eghirae tin Maria. che piacque a Maria.
Arte ipe o Pavlo canno ena fortí tse «Ora – disse Paolo – faccio un fascio di
tsila ce tu perri, etuto managhó avri legna e gli porti questo. Solo domani

_______________
- ppo sesteche = pos ésteche < stéco
- a thelisite cong. aor. di thélo.
- doite < dónno
- posuronda = aposurónda < aposurónno ‘scolare’.
- conda 'sentendo' < cúo.
- anizze 'aprì' < anígo.
- mbica imper. di embénno.
- mularizzonda < mularíźo ‘fare i capricci’, der. di → mularía 'ragazzaglia', 'confusione'.
- agara = ahara
- eghirae aor. di hjeráo.

31
erchese ce zii ode, apozze san pai tu ta vieni e vivi qui. Stasera, quando vai, dici
leghi tu ciuri ti epandie me emmena ce tu al padre che ti sei incontrata con me e gli
leghi olo ecino ti ivre, zoá, calivia, dici solo quello che hai visto: animali,
cipuria, ma mi platezzi andá sciddia. capanne, orti, ma non parlare dei cani».
Otu i Maria eghoristi, ppos ipighe jià Così Maria partí, quando andò a casa
to spiti ito tossi gará ti den avlepe pu era tanto felice che non vedeva dove
evadde ta podia, ti feneto ti ito atsunnonda metteva i piedi. Le sembrava di sognare
tse ena iplo. San eghiasi sto spiti o ciuri tis un sogno. Quando furono a casa, il padre
ipe: simero adiae Maria. le disse: «Oggi hai fatto ritardo, Maria».
Ecini apologhie: ti thelite ciuri, simero Lei rispose: «Che volete, padre, oggi
egasa ligo cheró ce podó sa lego ghiatí. ho perso un po’ di tempo, e poi vi dico
perché».
I Maria den eplatezze pleo ghiatí Maria non parlò più perché si stava
esteche condannonda i maddonna ce avvicinando la matrigna e voleva dire
ithele na tu ta ipi crifá atse ecini. Podó san quelle cose di nascosto da lei. Poi, quando
eghiaissa na taghiusi ta zoá tu ta ipe. O andarono a dare da mangiare agli animali,
ciuri san icue to pema emine, den eguale lo disse a lui. Il padre, quando udì il
logo ando stoma, podó canni: ma alithia discorso, rimase (allibito), non gli venne
ene ecino ti mu leghi, Maria. una parola dalla bocca, poi fa: «ma è vero
quello che mi dici, Maria?».
I Maria: ciuri san lego atse pleo, avri Maria: «Padre, vi dico una parola di
ma meni na pame, ma m’upe na pame egó più, domani ci tocca andare, ma mi ha
ce esí managhá. detto di andare io e voi da soli».
Il padre: «Se il tempo è buono, an-
O ciuri: san ene caló cheró pame. diamo».

_____________
- andá = an dá.

- 150 -
- tu ta leghi tu ciuri = glielo dici al padre = cal. nci lu dici ‘o patri. Struttura sintattica chiamata “clitic
doubling”.
- gará, altrove ghará 'gioia'.
- eghiasi 'andarono': aor. suppl. di → páo.
- egasa = ehasa.
- m’upe = mu ípe.

32
Mesa sti nista ppo sissa sto crevatti ipe Nel pieno della notte, mentre erano a
olo ecino ti i Maria tu ito iponda ti letto, riferì alla moglie tutto ciò che Maria
ghinecondu ti i Maria epandie to leddendi. gli aveva raccontato, che aveva lei incon-
Ma i ghineca den epistezze, ipe ti den ene trato il fratello. Ma la donna non credette,
alithia, ti ene tsemata ti ta leghi i Maria. disse che non era vero, che erano men-
zogne dette da Maria.
San ecame mera i Maria ipe: sa fudao Quando venne il giorno, Maria disse:
na to valome na fasi sta zoá podó pame «vi aiuto a governare gli animali, poi
mande den pame se cheró na condoferite. andiamo, altrimenti non facciamo in
tempo per tornare».
I maddonna san icue ti pasi na ivrusi La matrigna, quando udì che andavano
ton Pavlo ipe: ercome ciola egó, ma o a vedere Paolo, disse: «Vengo anch’io»,
andrandi ipe: udé, esú udé. ma suo marito le rispose: «No, tu no».
Ce ghiatí. «E perché?».
Ghiatí o Pavlo ipe na pame egó ce i «Perché Paolo ha detto di andare io e
Maria managhá. Maria soltanto».
I maddonna: den ene alithia etuta ene La matrigna: «Non è vero, queste sono
pramata ti ta ipe i Maria a tse cefalindi, cose che Maria ha detto di testa sua, non è
den sonneste ti o Pavlo eleghe den mi pao possibile che Paolo abbia detto che io non
egó; egó ercome a thelisite ce ande devo andare; io vengo vogliate o non
thelisite. vogliate».
San eghoristissa i Maria me ton ciuri, Quando Maria e il padre partirono, lei
ecini ipighe apissu apissu. San issa condá andò dietro. Quando furono vicini, Maria
i Maria itsere ti ije ta sciddia ce ta tsenu sapeva che c’erano i cani e che mordono
ta dangannusi, ipe tu ciuri crazzeteti na gli estranei; disse al padre: «Chiamatela,
erti che venga avanti,

______________
- ppo sissa = pos issa.
- a tse cefalindi ‘di testa sua’ < ἐκ τῆς κεφαλῆς της.
- apissu apissu: reduplicazione intensiva, cf. cal. arretu arretu.

33
ambró mandé eji ta sciddia ce tin sennò ci sono i cani e la mordono».
dangannusi.
Tin ecrazze ce ti st’ape, otu tin evalasi sto La chiamò e le disse queste cose; così la
mesa; san ejaissa condá, ta sciddia embi- misero in mezzo. Quando arrivarono vici-
chissa alestonda ce treghonda jià ti meri- no, i cani cominciarono ad abbaiare ed a
ando ce eristissa apanu sti maddonna ce correre dalla loro parte; si avventarono
ti na anasciasi, ce andi nito ti o Pavlo sulla matrigna per straziarla, e se non fosse

- 151 -
eritse mia surimia, tin issa camonda na che Paolo lanciò un fischio, l’avrebbero
pai sto addo cosmo. fatta andare all’altro mondo.
O Pavlo etretse, ce prita efilie ti leddandu, Paolo corse e prima baciò la sorella, il
ton ciuri ce podó eghiai epiase ando padre, poi andò, prese per il braccio la
vraghona tin maddonna ce ismia me tus matrigna e, insieme con gli altri la
addu ti ne parasi sto calivi. portarono nella capanna.
Ode epiase mia saccorafa ce ci pu ito Qui prese un ago per sacchi e, là dov’era
anascimeni tin erazzasi. Podó o Pavlo lacerata, la cucirono. Poi Paolo prese una
epiase mia ega, tin espazze, tin ecatharie, capra, la uccise, la pulì la depose nella
tin evale sto vrastari, san ito vrameni tin caldaia. Quando fu cotta la pose in una
evale se ena cuppari ediche se catha ena scodella, diede a ciascuno una forchetta e
to piruni ce embichissa na fasi, ciola i cominciarono a mangiare. Anche la matri-
maddonna efaghe ghiatí o Pavlo anno- gna mangiava, perché Paolo conosceva
rizze ena ghorto ti edefe poddí ghiá ta un’erba che giovava molto alle cicatrici.
sima. Tegliomeno to faghí o cheró ito Finito il pasto, il tempo era passato e il
peraonda ce o ciuri ipe ene ora na padre disse: «È ora che

______________
- ti st’ape = tis ta ípe ‘disse a lei queste cose’
- anasciasi: cong. aor. di anascíźo ‘lacerare’ < ἀνασχίζω.
- andi nito ti = an tin ito ti ‘se non fosse che’
- epiae = epiase ‘prese’, entrambi usati: ngr. πιάνω < gr. πιάζω.
- étrezze: aor. di tréḣo ‘correre’: τρέχω.
- eparasi: aor. di pérro ‘portare’: ngr. παίρνω < ἐπαίρνω, ἐπαίρω.
- erazzasi: aor. di rásto ‘cucire’: ῥάπτω.
- ghorto = ḣórto 'erba, ortaggi': χόρτος.
- édefe: impf. di défo ‘giovare’: rifatto sul medio défome < gr. δέχοµαι.
- ta sima: le cicatrici: gr. σῆµα ‘segno’ è sg. n.

34
ghoristume emí. partiamo.
O Pavlo ipe: I leddammu sanarte meni Paolo disse: «Mia sorella per ora resta
ode me emmena, esí sa thelite na paite qui con me, voi, se volete andare, potete
sonnite ghoristí. partire».
Otu eggheretiasi ton Pavlo ce tin Così salutarono Paolo e Maria e
Maria ce eghoristissa. partirono.
Sasn eminasi managhá o Pavlo ipe sti Quando restarono soli, Paolo disse alla
leddá: sorella:
cuse esu methavri condoferri stu ciuri «Ascolta, tu dopodomani torni da
ce tu leghi na ivri ena tse ecini adropi ti nostro padre e gli dici di vedere uno di
ghorazzusi zoá, thelo na pulío lighe eghe quegli uomini che comprano animali;
ghiatí ene poddá ce mu ghiuvegghusi voglio vendere delle capre, perché sono
dineria na ghorao foresie ghiá emmena ti molte e mi serve denaro per comprare
den sonno pai foremeno me ta derma ce vestiti per me che non posso andare vestito
ciola ghiá essena. di pelli, ed anche per te».
To calivi ti Maria ito foremeno andi La capanna di Maria era tutta coperta,
meria ossotte olo a tse dermata tse eghe, nella parte interna, di pelli di capra, per
ghiá saccuni ije stere, ghia sindonia dio materasso aveva felci, per lenzuola due

- 152 -
derma tse provato, ghia carpite o vutane pelli di pecora, per coperte o vutane pelli
dermata tse eghe. di capre.
Ti purrí egherti sirma i Maria ce eghiai L’indomani Maria si alzò presto e si
stu ciuri legonda olo ecino ti o leddendi ti recò dal padre riferendo tutto ciò che il
sito iponda. fratello le aveva detto.
O ciuri ipe acomí eji cheró na Il padre rispose: «Ancora hai tempo per
condoferi, amine ti egó pao ane ghoró tornare, rimani che io vado per vedere
canena a thelisi na ghorai, otu san pai tu qualcuno che voglia acquistare; così
leghi tu leddessu ecino ti ecama. quando vai, (glielo) dici a tuo fratello ciò
che ho fatto».

_______________
- dio derma ‘due pelli’: la desinenza -a attrae derma (s.n. sing.) nel paradigma dei plurali neutri dermata,
che pure ricorre qui a breve distanza.
- na pulío cong. aor. di puláo: agr. πωλέω, mgr. πουλῶ, ngr. πουλάω.
- carpite o vutane: la citazione dei due sinonimi dimostra che interesse principale dello scrittore è
l'archeologia linguistica.
- ti sito = tis ito.

35
San econdofere tis ipe ti ito ivronda Quando tornò, le disse che aveva incon-
ena adropo ti ghorazzi zoá ce tin imera ti trato un uomo che commerciava animali e
ercheto, epighasi ismia. il giorno che veniva, sarebbero andati
insieme.
Otu i Maria eghoristi, san eghiai stu Così Maria partì; quando arrivò dal
leddetu tu ipe olo ecino ti o ciuri tis ito fratello gli raccontò tutto ciò che il padre
iponda. Tin purrí issa tes ore deca ti aveva detto. L’indomani erano le dieci
eghiaissa. O Pavlo eddeghie ole ecine quando partirono. Paolo raccolse tutte
eghe ti egharre ti den cannu ghiá dasto ce quelle capre che a suo parere non erano
ta pulie. Me ta dineria ti epiae eghorase utili per loro e le vendè. Col denaro
foresie ghiá ecino ce ghiá tin leddatu. guadagnato comprò vestiti per sé e per la
Pu ligo ecame calivia cinurghia ce sorella. A poco a poco fece nuove capanne
edelezze ecí methetu ton ciurindu ce ciola e accolse lì con loro il padre ed anche la
tin maddonna. Perannonda cheró matrigna. Passando il tempo, fecero case
ecamasi stitia calá, adda cipuria, ecentrie belle, altri orti, innestò tutte quelle piante
ola ecina dendra ti issa agricá, ecame che erano selvatiche, impiantò meli,
milie, cerasie, appidie, alé ce sucie. ciliegi, peri, olivi e fichi.
Ecino ti eghorase tes eghe san eghiai Quello che comprò le capre, quando
sto ghorio ipe ti zoí tu Pavlo, ipe ti stechi arrivò al villaggio, raccontò la vita di
cala ce eji tosse tes eghe ti ecino den ito Paolo, disse che stava bene e possedeva
ivronda mai. tante capre che lui non aveva mai visto.
Conda etuto, eghiaissa poddí adropi na Sentendo ciò, andarono molte persone
ton ivrusi. Mesa se etuti fili ti ito camonda, a vederlo. Tra questi amici che erano
ije ena andati, ce n’era uno
________________
- stitia: errore grafico per spitia 'case'.

- 153 -
36
ce tu ipe: «Esú ise pluso, ma eji na che gli disse: «Tu sei ricco, ma devi
prandestí mandè ti ti thelite oli etuti sposarti, sennò che la vuoi questa ric-
plusia?». chezza?».
Alithia ipe o Pavlo, arte tu immesta «Vero – disse Paolo – ora che siamo
tosso fili, vrete isi ghiá mia ghineca. tanto amici, vedete senz’altro per una
donna».
Eperasai lighe mere ce econdofere o Passarono pochi giorni e l’amico tornò
filu stu Pavlo ce tu ipe eghome na pame da Paolo e gli disse: «Dobbiamo andare al
sto ghorio na ivrete a sa gherai i ghineca villaggio perché possiate vedere se vi
ti sa eddeghia. piace la donna che vi ho scelto».
Eghiaissa san di nivre o Pavlo tu Andarono. Quando Paolo la vide, gli
gherae i tsodda, otu eminasi ti pran- piacque la ragazza, sicché restarono intesi
deggonde. di sposarsi.
O Pavlo ecame spiti me tijia tse asvesti Paolo costruì una casa con muri di calce
ce eghorae ola ta pramata ti ghiuveggusi e comprò tutte le cose che servono a una
ghiá ena spiti na stathí mia ghenía. Etuto casa perché vi stia una famiglia. Questa
spiti eprepe poddí, ghiatí ito mesa sti casa era molto bella perché si trovava in
ghamoclada me to cromo gloró caloceri mezzo a una macchia immersa nel verde
ce ghimona. Tipote den coto ode se etuto estate e inverno. Qui in questo luogo non
topo ti managhó to velima andá arnia san si sentiva nient’altro che il belato degli
eghannasi te mane ti esmingheto me ta agnelli quando perdevano le madri che si
travudia andá puddia. O adropo ti ije iplo mescolava con i canti degli uccelli.
isonne ciumithí ghià L’uomo che aveva sonno poteva dormire
______________
- ti ti thelite: = cal. ‘chi la voliti’
- vrete ísi ja mia jinéca ‘occupatevi senza indugio di trovare una moglie’; íso < ἴσος.
- san di nivre = san din ívre ‘quando la vide’.
- eminasi ti... ‘restarono intesi che...’ = cal. rrestaru 'restarono intesi'.
- eprepe: gr. ἔπρεπε, πρέπει ‘è opportuno’ = cal. meri.
- ghamoclada: ḣamocláda: [xamo'klaða] s.f. ‘bosco di basso fusto, macchia’.
- gloró = ḣloró [xlo'rɔ] a. (2) ‘verde’, ‘giovane’ < gr. χλωρός ‘verde, fresco’.
- vélima < veláo, veláźo 'belare': mgr. βελάζω < lat. belare.

37
cathario, canena to ne cinigonne, otu ppos profondamente, nessuno lo disturbava,
eciumithi ce apotonie o Pavlo ghiá gronu. così come dormì e riposò Paolo per anni.
Eperase o cheró ce irte i mera ti Passò il tempo e venne il giorno delle
prandia; mere prita eghiaissa i gonei ti nozze; giorni prima vennero i genitori
nifi, ta singhenadia, i fili, ce eparasi ola ta della sposa, i parenti, gli amici, e
pramata ti i gonei educasi stin dighatera, portarono nella casa tutte le cose che i
sto spiti ta stiasai pasa prama sto genitori donarono alla figlia, mettendo
topondu. Oli i adropi ti epigasi, eghorrasi ogni cosa al suo posto. Tutti gli uomini che
ola ecina zoá, elegasi: ene pluso, i vennero, videro tutti quegli animali,
Francisca canni mia calí prandia, ena dicevano: “è ricco, Francesca fa un buon
prama managhó ene agharo ghiatí to topo matrimonio; una cosa sola è spiacevole,
ene poddí monogholico. perché il luogo è assai solitario".

- 154 -
Ambró mera ti prandia espatsasi eghe Il giorno prima delle nozze uccisero ca-
ce provata, tin purrí evalasi to crea ossu pre e pecore, al mattino misero la carne
sta stennatia ce ta valasi sto lucisi na nelle caldaie e le posero sul fuoco per
vrasí. cuocere.
O Pavlo eghiai sto ghorio ce Paolo andò al villaggio e si sposò. Poi,
eprandesti, podó me tin ghineca o Pavlo con la moglie, tornò a casa, con la donna
condoferre sto spiti, me tin ghineca sto vestita da sposa. Dietro a loro giunsero
schima. Opissutu epigasi oli i addi andri tutte le altre persone, uomini, donne,
ghineche ce pedia crunnonda ce bambini suonando e cantando.
travudonda.
San eghiaissa sto spiti to faghí ito Arrivati a casa, il cibo era pronto.
ghenameno. Atonimeni andó parpatima Stanchi del viaggio e con lo stomaco vuoto
ce me to ceddari etsero embicasi trogonda cominciarono a mangiare e a bere vino,
ce pinnonda crasí, crea vrameno, crea carne bollita, carne arrostita, pasta, e poi la
stimeno, pasta, ce podó to carpó. frutta.
Ta pedia ti den atoniasi ppo atoniasi i I ragazzi, che non si stancavano come
gheri travudussa ce foreggasi. si stancavano i vecchi, cantavano e
ballavano.
Tegliomeno to faghí o cheró eperanne Finito il pranzo, il tempo passava e tutti
ce oli echeretiasi ton Pavlo ce ti Francisca salutarono Paolo e Francesca, rientrando a
condoferronda sto spitindu. casa.
_______________
- to ne cinigonne = ton ecinígonne < cinigáo < gr. κυνηγῶ.
- ciumithì já cathário ‘dormire profondamente’, come il cathário, baco da seta nella quarta ed ultima muta';
la locuzione ha un corrispettivo romanzo: dormiri ‘n casarru ‘dormire profondamente’.
- monoḣólico 'solitario', anche manaḣólico per incrocio con manaḣó 'solo'.

- 155 -
Appendice:
Ta pedía stramandemména
I ragazzi dispersi
Riproduciamo in Appendice la fiaba dei TNC, onde favorire un’analisi
contrastiva, dalla quale emergerà l'elevata capacità narrativa del Casile e la
sua perizia nello scavo psicologico.
Un’analisi comparativa della fiaba dei TNC e del fattúci interpretato da
Casile mette in evidenza anche il tasso di efficacia dei diversi sistemi
scrittorî. Il sistema adoperato da Caracausi, che segue la tradizione
dialettologica italiana, è ormai in recessione rispetto al più efficace,
universale e coerente sistema dell'IPA (International Phonetic Alphabet).
Questo però si rivela funzionale negli studi glottologici, per fini
rigorosamente scientifici. Risulta invece assai costoso ed esoterico per il
grande pubblico e per coloro che intendono scrivere il grecanico nell'intento
di farlo rivivere.
Il sistema scrittorio di Casile, semplice e intuitivo, si presta a tale uso
popolare non scientifico, ancorché vada corretto e reso coerente.

A confronto con questo testo, il racconto di Casile è assai più articolato e


approfondito sul piano psicologico.

* * *

Istituto Siciliano di Studi Bizantini e Neogreci


TESTI NEOGRECI DI CALABRIA
NOVELLE E FIABE DI ROCCAFORTE
a cura di Girolamo Caracausi
Palermo 1959

35. Ta peδía stramandemména


pp. 214-219
214
Éna vyáǵǵo íχe míam mána ć'énan ǵuri će Una volta c'era una madre e un padre e
iχai δio peδia, énan arćinikò će mia avevano due figli, uno maschio e una
θθiχatéra; će irte i mórti će apéθane i femmina; venne la morte e la madre morì.
mána.
[2] Dóppu ti epássespe ligo c̋ eró, [2] Dopo che passò un po' di tempo, (il
ekondófere prandeftì će épire mían g̋ inéka padre) tornò a sposarsi e prese una moglie

- 157 -
pu δen ísonne ívri ta peδía. Ya dispétto che non poteva soffrire i figli. Per dispetto
évaḍḍe na kámi ya fag̋ í, évaḍḍe eftà kuććía metteva, per fare da mangiare, metteva
fasúli ć'akkuméntsespe na pyánni éna sette chicchi di fagiuoli e cominciava a
kuććì na ívri an én' galó, će poi áḍḍone prendere un chicco, per vedere se era
kuććí, na ívri an én' galò aš'ála, će kuććí buono, e poi un altro chicco, per vedere
kuććí to'téľonne ólo će poi égwaḍḍe to poi se era buono di sale, e a chicco a
zéma. chicco finiva tutto e poi gettava il brodo.

[3] Θorónda o ćuri ti kánni ótu, tis évaḍḍe [3] Il padre, vedendo che faceva così,
líti. Ótuse arrispúndespe i yinéka: «An esù litigava con lei. Così rispose la moglie:
θelise ti egό su kánno fayí, éχ'ise na ćinig̋ ì «Se vuoi che io ti faccia da mangiare, devi
ta peδíasu». Kúnnonda túnda lóya, o ćúri scacciare i tuoi figli». Udendo queste
epéntsespe na ta stramandéspi će épyae parole, il padre pensò di farli smarrire e
éna tirì će míam bumbuléḍḍa yomáti áše prese un formaggio, un orciuolo pieno di
krasì ć'éna spomì će poi, tim burrí, épyae vino e un pane e poi, la mattina, prese figli
ta peδía će ta épire stin ošía. e li condusse alla montagna.

N. 35: edd. Capialbi e Bruzzano in RRf I, pp. 33-52; LC XIV, fasc. 3. marzo 1902, pp. 18-23.

215
[4] Ti vvraδía t'ašipórese i nónnato ti eχ'i [4] La sera (precedente) la loro nonna
na ta píri na ta stramandéspi će tos éδic̋ e aveva saputo che doveva condurli a farli
lígo luppinári: «Ónti χorízeste, akkumen- smarrire e diede loro un po' di lupini:
tséite trógonda će te skórtse te rríftite «Quando partite cominciate a mangiare e
stráta stráta; će stéc̋ ite atténti ećí pu sas le bucce le gettate strada strada; state
ašafínni će kondoférrite me ti stéssa stráta, attenti dove vi lascia e ritornate per la
pu kánnite me te skórtse». stessa strada, che farete per mezzo delle
bucce».

[5] Ο ćuri ekrémae to tirí, to krasí će to [5] Il padre appese il formaggio, il vino e
spomí sto tsappíno: «Árte, peδíamu, státe il pane alla cesta: «Ora, figli miei, state
ettù će vréte a ssóite ríši ettúna prámata, ti costì e vedete se riuscite a far cadere (a
egò páo ya na gwálo δaδí». Ótuse o ćúri terra) queste cose, che io vado a togliere
ekondófere sto spíti séntsa peδía, ce i legna per fiaccole». Così il padre ritornò a
yinéka akkuméntsespe gwáḍḍonda ta casa senza figli, e la moglie cominciò a
fag̋ ía tu andrúti óli kunténta, će embéai mettere fuori cibi per suo marito tutta
trógonda. contenta, e cominciarono a mangiare.

[6] Ta peδía, pu íssa stin ošía, tin ekámai [6] I figli, che erano alla montagna,
óli tin iméra tavrónda rókke apánu sto passarono tutta la giornata a gettare pietre
tsappíno. Ótuse írte vraδízonda će i leḍḍà sulla cesta. Così si fece sera e la sorella gli
tu ípe: «Leḍḍe, páme ta fáttima! O leḍḍè disse; «Fratello, andiamo via!». Il fratello
δen eθélie na páu ta fáttito, će i leḍḍà non volle che andassero via, e la sorella
eχorísti me ti stráta, pu ékame, me te partì per la strada, che aveva fatto, per
skórtse tu luppinaríu; će arrívespe stim mezzo delle bucce di lupini; e giunse alla
bórta tu ćurúti će ekáθie óšu stim bórta. porta di suo padre e sedette fuori della
porta.

- 158 -
[7] O ćuri, ólo dispyaćemméno, θorónda [7] Il padre, tutto dolente, vedendo che
ti emínai tóssa fag̋ ía će ta peδíatu straman- rimanevano tanti cibi e i figli (erano)
demména, ípe: «Na íχai mía tsúḍḍa dispersi, disse: «Avessero un po' di
zéma!». Kúnnonda i θiχatératu, pu íto brodo!» Udendo (ciò), la figlia, che era
kaθoméni stim bórta, arrispúndespe: seduta alla porta, disse: «Sono qui,
«Ímmen óδe, pátri!». padre!».

4. Ti vradia ta sciporasi. 5. pao ja naggualo, vado a gettare.

216
Errispúndespe i yinéka: «Ettúna è ta pedía La madre rispose: «Sono questi i figli che
pu estramándespese?». hai fatto smarrire?».
[8] San íto o yóse stin ošía, tu írte [8] Mentre il figlio era alla montagna, gli
skotázonda će, pos íto nífta, θorì éna lústro si venne annottando e, quando fu notte,
će akkuméntsespe porpatónda ya vede una luce e cominciò a camminare
n'arrivéspi ećindo lústro. Pos arrívespe, per raggiungere quella luce. Appena
ívre énam béc̋ c̋ o óssu stin grótta pu ito arrivò, vide dentro la grotta un vecchio,
stravó, pu éstec̋ e trógonda gála. Ećindo che era cieco e stava bevendo del latte.
peδì essévi trógonda meθétu, će o stravò Quel fanciullo cominciò a sorbirne con
δen don ívre će trógonda δen eχórtae. lui, e il cieco non lo vide e mangiando non
si saziò.
[9] Ećino o véc̋ c̋ o íχ'e eftà ég̋ e će tos éstile [9] Quel vecchio aveva sette capre e
mian gatára. Će i ég̋ e arrispundéspai će tu mandò loro una maledizione. E le capre
ípai: «Esù éχ'ise afuδía će yá'fto δen risposero e gli dissero: «Tu hai aiuto e
eχórtaese». Arrispúndespe o véc̋ c̋ o će tos perciò non ti sei saziato». Il vecchio ri-
ípe: «Pío è pu éfag̋ e meθému?». Arrispún- spose e disse loro: «Chi è che ha mangiato
despe ećindo peδì će tu ípe: «Ímme egó, to con me?». Rispose quel fanciul-lo e gli
pordangónisa». Će tu ípe: «Δen íse disse: «Sono io, vostro nipote». Gli rispo-
pordangónimu». Ećindo peδì tu ípe: se (il vecchio): «Non sei mio nipote».
«Ímme to pordangónisa». Quel fanciullo gli disse: «Sono vostro
nipote».
[10] Tu ípe o véc̋ c̋ o: «Égwa apíssu ćini ti [10] Il vecchio gli rispose: «Vattene
rrókka, će ego sparégwo eftà kórpu. An egò dietro quella pietra, e io ti sparo sette
se spázo, esù δen íse pordangónimmu; an colpi. Se io t'ammazzo, tu non sei mio
dé, íse pordangónimmu». Arrispundéspai i nipote; altrimenti, sei mio nipote». Parla-
ég̋ e će tu ípai: «Mi pái apíssu ti rrókka, ti rono le capre e gli dissero: «Non andare
se spázi». Ćindo peδì ótus ékame. Pása dietro la pietra, perché ti ammazza». Quel
kórpu pu espáregwe, tu éleg̋ e: «Só'spasa, fanciullo fece così. Ogni colpo che
pordangónimmu?». «Δé, pappú!». Fíno pu sparava, (il vecchio) gli diceva: «Ti ho
etél'oe ólu tus eftà kórpu, će ótu δen don ammazzato, nipote mio?». «No, nonno!».
éspaše će tu ípe: «Árte íse Finché terminò tutti e sette i colpi, e così
non l'ammazzò e gli disse:

8. ivre enan vecchio os sti grotta.

217
to pordangónimmu, ć'esù avlépise tes «Ora sei mio nipote e custodisci tu le
ég̋ e». capre».

- 159 -
[11] Pos ávlepe tes ég̋ e, tu ípe: «Vrè ti [11] Mentre custodiva le capre, gli disse:
ettuparánu éχ'i ti lleḍḍámu će, a ss'ívri, se «Bada che costassù c'è mia sorella e, se ti
tróg̋ i». Ma ćindo peδì íχ'e mían ǵerasía vede, ti mangia». Ma c'era un ciliegio e
ć'esklápie ećapánu. Avvidéfti i leḍḍà tu quel fanciullo vi salì sopra. Se ne accorse
véc̋ c̋ u će tu ípe: «Árte se trógo, yatì mu la sorella del vecchio e gli disse: «Ora ti
tróg̋ ise ta ćerása. Katéva!». Ećindo peδì tis mangio, perché mi mangi le ciliege.
ípe: «Egò δen gatavénno. Péttoe esù óδe Scendi!». Quel fanciullo le disse: «Io non
apánu!». Ećini tu ípe: «Egò δe ssónno scendo. Sali tu qua sopra!».
pettói». «Δómmu ta maḍḍía, ti se sérro će Quella gli disse: «Io non posso salire».
pettónnise». «Dammi i capelli, che ti tiro e sali».

[12] San din íχ'e ánda maddía, tin ésire [12] Quando l'ebbe per i capelli, la tirò
fino sto misì e tin áfic̋ e kremaméni: fino a metà e la lasciò appesa: «Dammi la
«Δómmu tim medićína na válo stu llúc̋ c̋ u tu medicina per metterla sugli occhi di mio
pappúmu». Tu ípe: «Égwa sto spíti, ti stin nonno». (Quella) gli disse: «Va a casa,
gáša éχ'i tim medićína». Tis etávrie me to che nella cassapanca c'è la medicina». La
peléći stin ǵefalì će tin éspaše. percosse in testa con la scure e l'uccise.

[13] Dóppu pu tin éspaše, eyávi stom [13] Dopo che l'uccise, andò da suo nonno
bappútu će tu ípe: «Egò éspaśa ti lleḍḍássa e gli disse: «Io ho ucciso vostra sorella e
će tis épyasa tim medićína ya tu llúc̋ c̋ usa». le ho preso la medicina per i vostri occhi».
Ótu tu évale tim medićina stu llúc̋ c̋ u će tu Così gli mise la medicina sugli occhi e gli
írte i vísta. venne la vista.

[14] Dóppu pu írte i vísta, tu ípe: «Árte se [14 Dopo che gli venne la vista, (quello)
trógo». O anespío tu ípe: «Yatì me disse: «Ora ti mangio». Il nipote gli
tróg̋ ite?». «Yat' íse máño». «Δé, pappú, ti chiese: «Perché mi mangiate?». «Perché
sa kkánno maño po ímmo egó!». «Će pos sei bello». «No, nonno, che vi faccio bello
eyenástise esú?». «Árte sa llégo: eδéleša come sono io!». «E come (lo) sei
lígo pissári će to évala óssu sto vrastári će diventato tu?». «Ora vi dico: raccolsi un
évrae: će essévina ećóssu će eyenástina po' di pece e la misi dentro la caldaia e
maño». bollì; vi entrai e divenni bello».

14. de, pappu, ti saccannu magno po immu ego.

218
[15] O pappúse ótuse ékame; essévi óssu [15] Il nonno fece così; entrò dentro la
sto vrastári ć'epéθane; ma, príta pu na caldaia e morì; ma, prima di morire, gli
peθáni, tu éstile mian gatára će tu ípe: lanciò una maledizione e gli disse: «Sette
«Eftà ég̋ e éne eftà potamì pu éχ'ise na capre sono sette fiumi che devi attraver-
passéspise će o úrtimo na se píri!». sare e l’ultimo possa portarti via!».

[16] Dóppu ti émine manaχóstu, exorísti [16] Dopo che rimase solo, partì con le
me tes ég̋ e klónda, ti i potamì íχai na tom capre piangendo, perché i fiumi dovevano
bíru. Pos ékle, ešévi éna vec̋ c̋ aréllo će tu portarlo via. Mentre piangeva, uscì un
ipe: «Yatì kléise?». Ećino tu ípe: «Éχo vecchietto e gli disse: «Perché piangi?».

- 160 -
túnde eftà ég̋ e će éχo na peráo eftà Quello gli rispose: «Ho queste sette capre
potamú, će o úrtimo éχ'i na me píri». Ećino e debbo attraversare sette fiumi, e l'ultimo
véc̋ c̋ o tu ípe: «Mi kláspi, ti érko egò deve portarmi via». Quel vecchio gli
meθésu će éxome na fáme mían éga káθa disse: «Non piangere, che vengo io con te
potamó». Ćindo peδì tu ípe: «Mané!». e dobbiamo mangiare una capra per ogni
fiume». Quel bambino gli rispose: «Sì!».

[17] Stom brotinò efágai tim brotiní, će tu [17] Al primo fiume mangiarono la prima
ípe: «Δéleše ta stéa će váleta sti trástina». capra, e (il vecchio) gli disse: «Raccogli le
Ótu ekámai ólu tus eftà potamù ć'eteľóai ossa e mettile nel tascapane». Così fecero
óle tes ég̋ e, će ta stéa ta évale ossu sti per tutti e sette i fiumi e uccisero tutte le
trástina. capre, e le ossa le mise nello zaino.

[18] Pos eteľóai tu ppotamú, ešévissa [18] Quando finirono (di attraversare) i
aš'éna máli će tu ipe ećino o véc̋ c̋ o: «Ríše fiumi, uscirono in una campagna e quel
ettúna stéa ašúndo máli će g̋ írie ambrò vecchio gli disse: «Getta codeste ossa in
t'apíssu će zíta ti θélise». Ćindo peδì ezítie questa campagna e voltati avanti dietro e
líg̋ e ég̋ e će líga próvata, ć'ekomparéspai i chiedi ciò che vuoi». Quel fanciullo
ég̋ e će ta próvata će éna spíti. chiese poche capre e poche pecore, e
apparvero le capre e le pecore e una casa.
[19] Poi tu ípe o véc̋ c̋ o: «Θélise káľo δío [19] Poi il vecchio gli chiese: «Preferisci
pekuráru o káľo δío šiḍḍía?». Ećindo peδì due pecorai o due cani?».
rispúndespe: «θélo káľo Quel fanciullo rispose: «Preferisco

18. ecino to vecchio.

219
δío šiḍḍía». Ótus ekom-paréspai δío kalà due cani». Così apparvero due bei cani e
šiḍḍía će avlépai t'animáľa, će éstec̋ e ećí. custodivano gli animali, ed egli stava là.

[20] I leḍḍátu ípig̋ e káθa purrì ya séro, će [20] Sua sorella andava ogni mattina per
o leḍḍè tin agrónie će δen dis éδic̋ e siero, e il fratello la riconobbe e non si
agronimía. Ya líg̋ e purráte tis éδonne na fece riconoscere. Per poche mattine le
fái mizíθre; poi, míam burrí, tis éδic̋ e dava da mangiare ricotte; poi, una matti-
agronimía će tis ípe: «Ávri purrò na érti o na, si fece riconoscere e le disse: «Do-
pátri će i mána; esù plèn ambróse će i mattina venga il padre e la madre; tu più
mána mésa će o pátri plèn apíssu. Će ípe avanti, la madre nel mezzo e il padre più
to šiḍḍío: «Tim mánamu éχ'ite na ti ffáite». indietro». E disse ai cani: «Mia madre
dovete mangiarla».
[21] Ta šiḍḍía ótuse ekámai: tin efágai. [21] I cani così fecero: la mangiarono.
Ećino o véc̋ c̋ o íto o Áyo Nikóla, pu ton Quel vecchio era San Nicola, che lo
akkompáñespe. Ótus ećini emínai ećì st' accompagnò. Così essi rimasero lì per i
affáryato, ć'emíse emíname óδe séntsa fatti loro, e noi siamo rimasti qui senza
típote. niente.

20. ti mannamo echite na ti faiti.

- 161 -
Bruno Casile con il costume tradizionale
Glossario

Questo Glossario elenca solo voci adoperate da Casile nei suoi scritti. Anche la
Bibliografia è limitata alle sigle riportate in questi lemmi.
Le parole più notevoli dal punto di vista lessicografico e culturale sono riportate in
ordine alfabetico nella forma in cui compaiono nel testo del racconto e con la grafia
adottata dall’autore. Segue per i termini più rilevanti, in cui emerge la ricchezza
dell'apporto del Casile, una illustrazione sintetica delle questioni grafiche, grammaticali
ed etimologiche con brani tratti dal Lessico greco calabro storico ed etimologico, in corso
di edizione.

Ordine alfabetico e criteri


L’ordine alfabetico del Lessico è il seguente:

a, b, c, d, e, f, g, hj, ḣ, i, j, k, l, m, n, o, p, q, r, s, ś, t, u, v, z, ź

Il bisogno di instaurare una tradizione normativa semplice, coerente e accettabile in


tutta la Grecía si è fatto impellente in considerazione dell'incremento della produzione
letteraria in versi e in prosa. L'esigenza della semplicità ha la prevalenza, anche se spesso
contrasta con la necessità di disambiguare la scrittura.
Si è preferito un sistema lineare, esemplato sulla norma grafica dell’italiano scritto,
che fosse intuitivo e di agevole lettura, facile per la tipografia e la dattilografia, e tuttavia
non ambiguo.
Il ricorso ai diacritici è ridotto al massimo. La coppia ‹z› ‹ź› distingue l'affricata dentale
sorda [ts] dalla sonora [dz], mentre la continua sibilante sonora è resa con ‹ś› quando è
necessario.
Abbiamo inoltre recepito, in omaggio alla tradizione ortografica italiana, maggioritaria
nella Bovesìa, anche il digramma ‹ch› con il valore di occlusiva velare avanti vocali
palatine, evitando la legittimazione ortografica di ‹k›, inutile per la sua scarsa occorrenza
e perché il suddetto digramma è disambiguato dalla compresenza di ‹hj› per la fricativa
velare e di ‹h› per la palatale. Il digramma ‹ch› è adoperato dal Comparetti in maniera
incoerente: ora per [x] (manachò), ora per [ç] (zichì), ora per [k] (manchèguo). La
pressione dell'analogia di paradigma, operante in tutte le lingue naturali, ha condizionato
anche le scelte grafiche nella tradizione scrittoria locale, che si è consolidata soprattutto
nel corso del XX secolo: catríca, pl. catríchi.
La pronuncia velare di ‹g› nel nesso ‹gl› è segnalata da un diacritico sopra la lettera:
‹ğ› (ğlicó, ğlígora, ecc.).
Per la fricativa palatale [ç] il Rohlfs – seguito da molti scrittori locali – adopera il
grafema greco ‹χ› (χinno) che presenta difficoltà tanto grafiche quanto tipografiche. Noi
optiamo per il digramma ‹hj›.
La sibilante sorda [s] è resa con ‹s›, che rappresenta anche l'allofono sonoro [z].
Quando tale fono sonoro è in opposizione con l'affricata omotopica [dz], come avviene
di solito nella subarea amendolese, si adopera il simbolo <ś> (ad. es. nel suffisso r. -áśo
['azo], b. -áźo ['adzo].

- 163 -
Un altro allofono geolinguisticamente interessante è la liquida laterale cacuminale /ɭ/,
presente in alcune areole dell'anfizona romanza, per cui si adopera il simbolo ‹ḷ› (paḷḷa).
Pur accogliendo in linea di massima il criterio adoperato dal Rohlfs, abbiamo ritenuto
inutile l'uso di ‹k› per la velare sorda [k] e di ‹ʧ› per l'affricata palatale; qui abbiamo
preferito mantenere la polivalenza del grafema ‹c›, cui gli utenti sono abituati nell'uso
dell'italiano scritto (casa, chilu, Ciccu, ciucciu).
L’accento grafico è sempre acuto, conformemente al regime del monotonicó
dell’ortografia neogreca attuale.
Nel bovese, come nei dialetti calabresi meridionali, l'opposizione di apertura nei timbri
vocalici intermedi è neutralizzata: /[e] [ε]/ ; /[o] [ɔ]/, a favore di una realizzazione
generalmente aperta, che si può rendere con gli arcigrafemi ‹e›, ‹o›. Nella sezione della
trascrizione fonematica le due varianti si rendono con ‹ε› ‹ɔ› in posizione interna tonica
e atona e con ‹e› ‹o› in fine.
Il Karanastasis segue la prassi in uso nella redazione del Lessico neogreco
dell'Accademia di Atene: rinuncia ai simboli IPA e ricorre a un sistema di trascrizione in
verità alquanto complicato ed esoterico, concepito in base all'alfabeto greco moderno. Ma
la sovrabbondanza di diacritici rende illegibile l'ΙΛΕΙΚΙ ai non specialisti.

Ogni voce è organizzata nelle seguenti sezioni:

1. Lemma o esponente, con iniziale minuscola (maiuscoli solo i nomi propri, cognomi,
toponimi, ecc.), in grassetto corsivo, munito di accento, anche se esso - nel caso delle
parole piane - è ovviamente da omettere nella scrittura normale.

2. Trascrizione fonetica tra parentesi quadre. I simboli sono quelli dell'IPA con
qualche semplificazione derivata dai sistemi di trascrizione usati nella romanistica e nella
dialettologia italiana.

3. Indicazioni grammaticali: genere, diatesi, ecc. (vedi elenco abbreviazioni).

4. Indicazioni semantiche tra virgolette semplici ‘...’.

5. Diverse specializzazioni semantiche sono indicate con i numeri cardinali cerchiati


‚ƒ„…†‡ˆ‰Š ecc.

6. Il luogo di attestazione o di maggiore vitalità è reso tra parentesi tonde. In mancanza


di indicazioni specifiche, la voce è da intendere di uso generalizzato in tutta la regione;
(bov) indica diffusione capillare in tutta la Bovesìa. La varianti interne all'area bovese
sono indicate con la sigla del paese:
(b) Bova;
(c) Condofuri;
(g) Gallicianò;
(ch) Chorio di Roghudi;
(chrf) Chorio di Roccaforte;
(rf) Roccaforte;
(r) Roghudi;
(RC) Provincia di Reggio Calabria;
(cal) Diffusione nell'intera Calabria;

- 164 -
(pian) Diffusione nella piana di Gioia Tauro (antica Valle delle Saline).

Per i singoli paesi calabresi si adoperano le sigle del NDDC: (CS) Cosenza, (CZ)
Catanzaro, (RC) Reggio Calabria, con i necessari aggiornamenti: le nuove province di
Crotone (KR) e Vibo Valentia (VV).

7. Vengono segnalati, quando è opportuno, i sinonimi (sin.) e i contrari (contr.).

8. Il simbolo → rinvia ad altri lemmi del Vocabolario.

9. Gli omografi sono marcati con un numero in pedice.

10. Segnalata dal simbolo ☞, segue una sezione di approfondimento grammaticale,


fraseologico e storico. Dapprima sono indicate le forme flesse più in uso (imperfetto,
aoristo, congiuntivo, imperativo, participio presente, participio passato, infinito; forme
suppletive, ecc.), data la particolare condizione della lingua, che conosce ormai gravi
lacune nei paradigmi. Sono indicati forme e sintagmi di uso frequente, quando di non
immediata identificazione neppure da parte dei “parlanti”: améste, ecc. È un segno della
debolezza strutturale della lingua: le forme meno usate vengono inesorabilmente
obliterate e i relativi paradigmi tendono a diventare tutti "difettivi" o ad essere
conguagliati analogicamente con creazione di forme "regolari".
Gli esempi di fraseologia (locuzioni idiomatiche, proverbi, sintagmi tipici, ecc.) sono
preceduti da un punto e virgola. Le corrispondenze nel grico salentino o in altre varietà
romanze sono introdotte dal simbolo ||.
Il simbolo ☞ contiene inoltre:
a) un’eventuale sezione comparativa comprendente forme corrispondenti nelle parlate
romanze dell’anfizona e, ove ritenuto significativo, il corrispondente greco "otrantino"
(grico) e neogreco, di solito dhimotikì (ngr), eventualmente corrispondenze dialettali
neogreche e romanze. Sono incluse le forme romanze acclimatate nella varietà romanza
e grecanica bovese, testimonianza del grado di interferenza. Ogni centro abitato calabrese
è indicato con un numero (1-435).
b) una sezione storico etimologica, preceduta dal simbolo ☆, dà indicazioni essenziali;
tra le eventuali etimologie proposte si segnala la più plausibile; l’etimologia, se incerta, è
corredata di punto interrogativo (?). L’asterisco * precede forme non attestate
(ricostruite).
c) una sezione bibliografica introdotta dal simbolo &.
11. Il cerchietto ° precede i lemmi non tradizionali nel greco italico, ma introdotti di
recente nell'uso, mutuati dal neogreco, dall'italiano o dai dialetti.
12. Il dischetto • precede i lemmi corrispondenti ad antiche voci di origine greca,
desuete o non più conosciute nella Grecìa, ma vitali altrove nella Calabria romanza.

- 165 -
Bibliografia
(limitata ai riferimenti trattati nelle voci di questo Glossario)

AGI 1873- «Archivio Glottologico Italiano», fondato da Graziadio Isaia


Ascoli.

AIS 1928- Karl Jaberg e Jakob Jud, Sprach- und Sachatlas Italiens und
1940 der Südschweiz, voll.1-8, Zofingen, Bern: Ringier.

Alessio 1934 Giovanni Alessio, Il sostrato latino nel lessico e nell’epo-


toponomastica della Calabria meridionale, «ID» 10, 111-190.

Alessio 1936 Giovanni Alessio, Note etimologiche, «ID» 12: 59-81.

Alessio 1936 Giovanni Alessio, Ricerche etimologiche (continuazione),


b «AGI» XXVIII: 151-171.

Alessio 1943 Giovanni Alessio. Nuove indagini sulla grecità nell'Italia


-4 meridionale, «RIL» 77, fasc. 1: 27-106; 137-172; 617-706
[247 etimologie per comprovare l'origine bizantina].

Alessio 1953 Giovanni Alessio. Calchi linguistici greco-latini nell’antico


territorio della Magna Grecia, in Atti dell'VIII Congresso di
Studi Bizantini I (Palermo, 3-10 aprile 1951) [«SBN, a c. di G.
Mercati, VII], Roma, (rist. 1978), 237-299.

Andriotis 1967 Ν.Π. Ανδριώτης [Nikolaos P. Andriotis], Ετυµολογικό


λεξικό της κοινής νεοελληνικής, Θεσσαλονίκη, 19833.

Babiniotis 2002 Γεωργίου Δ. Μπαµπινιώτη, Λεξικό της Νἐας ελληνικής


γλώσσας µε σχόλια για τη σωστή χρήση των λέξεων.
Ερµηνευτικό, Ετυµολογικό, Ορθογραφικό, Συνωνύµων –
αντιθέτων κυρίων ονοµάτων επιστηµονικών όρων
ακρωνυµιων. Με αξιοποίηση τού γλωσσικού αρχείου τού
Σπουδαστηρίου γλωσσολογίας του πανεπιστηµίου Αθηνών.
Δεύτερη έκδοση. Κέντρο λεξικολογίας επε. Αθηνα.

Battisti 1927 Carlo Battisti, Appunti sulla storia e sulla diffusione


dell'ellenismo nell'Italia meridionale”, «Revue de
Linguistique Romane», III, 1-91.
Beekes 2010 Robert Beekes, Etymological Dictionary of Greek, voll I-II,
Leiden-Boston: Brill.

- 167 -
Boisacq 1916 Émile Boisacq, Dictionnaire étymologique de la langue
grecque étudiée dans ses rapports avec les autres langues
indo-européennes. Heidelberg: Winter; Paris, Klincksieck
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Capialbi - 1975 Ettore Capialbi, Luigi Bruzzano, Racconti greci di Roccaforte,


Bruzzano Monteleone, Tip. Francesco Raho.

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Abbreviazioni

acc. accusativo p.p. participio perfetto


a. (1) aggettivo a una uscita. ppp. piucchepperfetto
a. (2) aggettivo a due uscite. p.pr. participio presente
agr. greco antico pron. pronome
aor. aoristo prov. proverbio
ar. arabo r varietà di Roghudi
aus. ausiliare regg reggino
avv. avverbio rf varietà di Roccaforte
b. varietà di Bova rifl. riflessivo
biz. bizantino sg. singolare
bov. diffuso in tutta la Bovesia sic. siciliano
c varietà di Condofuri sin. sinonimo
ca varietà dialettale di Cardeto s.f. sostantivo femminile
cal. calabrese s.n. sostantivo neutro
cf. confronta s.m. sostantivo maschile
ch varietà di Chorio di Roghudi s.v. sub verbo
cogn. cognome top. toponimo
cong. congiuntivo tr. transitivo
contr. contrario v. verbo; vedi
ctr. contrada var. variante
dim. diminutivo v.m. verbo medio
dor. dorico
f. femminile < deriva da
g varietà di Gallicianò > evolve in
gen genitivo * forma ricostruita
gr. greco antico e recente
gr.dial. greco dialettale
Hes. glossa di Esichio
imper. imperativo
impf. imperfetto
ind. indefinito
inf. infinito
intr. intransitivo
int. interiezione
lat. latino
m. maschile / medio
mgr. greco medievale
ms manoscritto
n. neutro
ngr. neogreco
nom. nominativo
p. passivo
pers. persiano
pl. plurale
poss. possessivo

- 175 -
Glossario

A (b), aḍḍáscina (ch, rf), addáttina ‘mi


sono mutato’; imper. pass. áḍḍasta
acathiasi → cathínno: gr. καθίζω.
accheretie → hjeretáo: mgr. χαιρετάω.
‘càmbiati’; ppp. ímmon aḍḍastónda
accheri → ahhjéri: mgr. ἐγχείριον. ‘mi ero mutato’; aḍḍassoméno ‘vestito
accheroasi, accheroasi, accheroe, accheroete, con gli abiti della festa’; grico
accheronne, accheronni, accheronnome, aḍḍásso, ḍḍásso; áḍḍasma
accheronnusi, accherosai → ahhjerónno. [ˈaɖɖazma] s.n. ‘cambiamento’,
achana achana, locuz. avv. ‘senza spesa’ →
áḣano.
‘scambio’ (bov); anche áḍḍamma →
achari, acharo → áḣaro aḍḍásso; t'aḍḍámmata ‘doni alla
acomí [akoˈmi] avv. di tempo ‘ancora’ fidanzata’; cf. ngr. dial. τὰ ἀλλάµατα
(bov), acomíne (rf) ☞ Den éfaga ‘abito femminile’, gr. ἄλλαγµα; ☆ gr.
acomí ‘non ho ancora mangiato’ ☆ ἀλλάσσω & Meursius 18 ἄλλαµαν
ngr. ἀκόµη, ἀκόµα < gr. ἀκµήν. Il pro ἄλλαγµα; ΙΛΕΙΚΙ I: 49; LG 26:
bovese conserva l'accento antico; mgr. Crupi 1981:74; WCL:77; Cassoni
& Meursius 14: ἀκοµή etiam, adhuc; 1999:36.
AIS 38 éne acomí, grico ancora è; aḍḍassusi, addastì, addatse, addatsite, addatso,
MorB 34; Shipp 1979: arcaismo addatsome, addatsonda → aḍḍásso.
condiviso col greco anatolico; LG 21; addismonisite → aḍḍismonáo.
ΙΛΕΙΚΙ I:85; WCL:51; Crupi 1981:74. aḍḍismonáo [aɖɖizmoˈnao] v. tr.
acrazondo → acráźome ‘dimenticare’ (bov); asdimmonáo (r,
acráźome [aˈkradzome] v. m.  ‘spiare, rf) ☞ aor. aḍḍismónia; cong.
origliare’; ② ‘pensare’, ‘darsi n'aḍḍismonío; imper. aḍḍismónie;
pensiero, preoccuparsi’ (bov) ☞ aor. p.pr. addismonáonda; p.p.
pass. acrástina, imper. aor. ácrasta, addismoníonda; inf. aḍḍismonísi || den
acrastáte; inf. aor. acrastí; ppp. sonno n'addismonío ‘non posso
ímmon acrastónda; acráźumi dimenticare’; impf.m. addism-
‘ascoltare’ (Cardeto) ☆ ngr. onáomo; aor.m. addismonístina;
ἀκροάζοµαι, ngr. dial. ἀγράζοµαι Prov.: Pis áḍḍo stóma filái, ciúri ce
(Eubea) ‘ascoltare’ & MorB 31; mána addimonái = cal. ‘Cu basa
MorC:100; ELA I:381; LG 23; ΙΛΕΙΚΙ mussa strani si sperdi d'u patri e d'a
I:93; Crupi 1981:74; WCL:62; mamma’ ☆ gr. (ἀ)λησµονῶ &
Kapsomenos 1953:336. Meursius 18 ἀλησµονεῖν oblivisci;
adda, adde, addi, addo, addu → áḍḍo. Thumb 1910:304; Georgacas 1958,
aḍḍásso [aɖˈɖasso] v. tr. ‘cambiare’, 157; Crupi 1981: TNC 6; LG 296;
‘mutare’ (b); v. rifl. ‘cambiarsi ΙΛΕΙΚΙ I,53-5; WCL:82.
d'abito’; aḍḍáśo (ch); sin. mutégguo ☞ áḍḍo [ˈaɖɖo]  a. (2) ‘altro’; ② pron. ind.
impf. áḍḍassa; aor. áḍḍazza, éḍḍazza, ‘altro’ (bov) ☞ nom. m. áḍḍose, áḍḍo,
áḍḍascia; cong. na aḍḍázzo ‘dovrò gen. sg. áḍḍu, pl. aḍḍó; f. áḍḍi, n.
cambiare’; imper. áḍḍazze; p.pr. áḍḍo; me tus áḍḍu ‘con gli altri’; péto
addássonda; p.p. aḍḍázzonda; inf. tos aḍḍó ‘dillo agli altri’; tin áḍḍi
aḍḍázzi, aḍḍásci; impf. m. addássomo methávri ‘fra tre giorni, posdomani
‘mi cambiavo’; aor. pass. aḍḍástina l'altro’; grico áḍḍo ☆ gr. ἄλλος ‘altro’

- 177 -
& LG 26; Crupi 1981:74; WCL:85; ‘lasciatelo’; afíteti ‘lasciatela’; afísteto
Cassoni 1999:36. aḍḍó è anche avv. di ‘lasciateglielo’; afimmúteto
modo ‘diversamente’, ‘altrimenti’: ‘lasciatemelo’; ‘lasciarono’; to èftiae
den mu jerái etúto, to thélo aḍḍó! ecì chamme ‘lo lasciò lì per terra’ ||
‘questo non mi piace, lo voglio grico afínno ☆ ngr. ἀφήνω, ἀφίνω <
diversamente’; grico aḍḍó ☆ gr. agr. ἀφίηµι. La grammaticalizzazione
ἀλλιῶς < gr. dor. ἄλλως & Crupi che ha portato l'imper. alla formazione
1981:74; WCL:84. delle perifrasi ngr. ottative con ἂς non
adiae, adiai, adhiausi, adiazi → adiáźo si è compiuta & Meursius 64 ἀφίννειν
adiáźo [aˈðjadzo] v. intr. ‘indugiare, abire; TNC 9; LG 71; Minas 1994:219;
trattenersi, ritardare, tardare, ΙΛΕΙΚΙ V 387-9; Crupi 1981:74;
attardarsi; stare lontano, mancare’ WCL:122; Lambrinos 2001, 108-9.
(bov); adiáśo (rf) ☞ impf. ádiaźa; aor. afínnome [aˈfinnome]  v. rifl.
ádiasa, 3sg. ádiae (rf); cong. na ‘lasciarsi’ (bov); ② ‘franare’; ƒ
adiáso; imper. ádiae; p.pr. adiáźonda; ‘rilasciarsi’ (c, rf) ☞ afístimma ‘ci
p.p. adiánda; inf. adiái || ímmesta siamo lasciati’; afístissa ‘si sono
adiáonda ‘ci eravamo attardati’; lasciati’; cal. si dassau ‘è crollato, ha
ádiasa ná'rto ‘ho tardato a venire’ ☆ ceduto’ ☆ medio di ἀφίνω & LG 71;
ngr. ἀδειάζω 'aver tempo' < ἄδεια ΙΛΕΙΚΙ I 387 ἀφήν-νω; Crupi 1981.
'permesso' & TNC xlix, 454; LG 12; aftiatu → aftí
Crupi 1981:74; ΙΛΕΙΚΙ I:58; WCL:97. aftí [afˈti] s.n. ‘orecchio’ (bov) ☞ anche
adropi, adropo, adropu, adrupi → áthropo. astí; artí (Cardeto); pl. aftía || grico
áero [ˈaero] s.n. ‘aria’ (b, ch) ☞ pl. ta aftí, attí ☆ agr. ὠτίον, ngr. ἀφτί &
áera ☆ agr. ἀήρ > ngr. ἀέρας, con Meursius 64 ἀφτή auris; MorC 1907;
ritrazione dell’accento come in cal. LG 69; ΙΛΕΙΚΙ Ι 405; Beekes 2010, p.
ària & TNC 7; ΙΛΕΙΚΙ I, 14; Crupi 1128 s.v. οὖς, acc. pl. ὦτα, der. ὠτίον.
1981:74. afudai, afude, afudie, afudusi, afudussa →
aféti [aˈfεti] avv. di tempo ‘quest'anno’ afudáo.
(bov) ☞ athéti (ch); cal. aguannu afudáo [afuˈdao] v. tr. e intr. ‘aiutare’
lessicalizzazione di HOC ANNO ☆ agr. (bov) ☞ impf. afúdinna; aor. afúdia;
ἐπ᾽ἔτος, mgr. ἐφέτος, ngr. dial. ἐφέτι cong. na afudío; imper. fúda, afúda;
& Herm.M. (IX sec.) 296: εφετιος p.pr. afudónda; p.p. afudínda; inf.
huius anni; Crupi 1981:74; LG 162; afudí, fudí, afudísi || ma’ ffudúsi ‘ci
ΙΛΕΙΚΙ I:386, WCL:112. aiutano’; mu afudáite? ‘mi
affurrimena ‘infornate’ → furriźo: φουρνίζω. aiutereste?’; afudátemu ‘aiutatemi’;
aficame, afícasi, afike, afiche, afinne, afinno, afuditháte ‘aiutatevi’ || grico afidó,
afinnite, afisasi → afínno. fidó, afitó, avisó, visó ☆ < gr. ἀφοιδιῶ
afínno [aˈfinno]  v. tr. ‘lasciare’, con sviluppo di a- e metatesi della
‘abbandonare’; ② v. serv. + na e cong. sonorità; cf. ngr. dial. ἀβουθῶ
‘lasciar (fare)’, ‘permettere che’; ƒ (Sporadi) < agr. βοηθῶ & LG 88;
‘smettere’ (bov) ® as, ciasséne, ΙΛΕΙΚΙ I: 390; Crupi 1981:7; Dieterich
azzafínno ☞ impf. áfinna; aor. áfica, 1898:276.
3pl. afícasi (b); cong. na afíco; imper. agapete → ‘si ama’ < agapáo; cf. agápi.
áfi, (dáfi), afíte; p.pr. afínnonda; p.p.
agápi [aˈɣapi] s.f. ‘amore’ (bov) ☞ cal.
afíconda; inf. afíchi || áfi na se filío
‘lascia che ti baci’; dáfimu na peráo amùri; grico agápi ☆ gr. ἀγάπη ‘id’
‘lasciami passare’; afítemu & LG 2; ΙΛΕΙΚΙ I: 7; Crupi 1981:74;
‘lasciatemi’; áfisto ‘lascialo’; afíteto

- 178 -
Casile, I zoì 12: agapete 2ª pl. del cosmo, den iḣe tus áḣaru ‘Se fossero
reciproco agapúme, agapáme. tutti buoni al mondo non ci sarebbero i
agara, aghari, agharo → áḣaro. cattivi’; ásce áḣaro clíma, áḣaro
agghelia ‘annuncio’ apórga ‘da cattiva vite, cattiva
aggheroe, aggheronni, aggheronnusi,
aggherosonda → ahhjerónno.
propaggine’ = da cattivo genitore,
aghoristissa→ ḣoríźome. cattivo figlio; pi ccalón gánni, áḣaron
agricá, agricò → agricó. éḣi ‘chi fa bene, riceve male’; to
agricó [aɣriˈko] a. (2) ‘selvatico, ciumithí poḍḍí cánni áḣaro ‘il dormir
selvaggio, non domestico’ (bov) ☞ molto fa male’; pis ispérri me ton
sg.f. agricí; n.pl. agricá; to hirídi áḣaron gheró, cánni ḣórto ce den
t’agricó ‘il cinghiale’ ☆ mgr. ἀγρικός garpó ‘chi semina con tempo brutto, fa
< agr. ἀγροῖκος, sfuggito alla legge di erba e non frutto’; si sente anche il f.
Vendryes per la pressione del suff. - in -i ☆ gr. *ἄχαρος ‘mesto,
ικός & Herm.M. (IX sec.) 315: sgradevole, molesto’ < ἀ + χαρά; per
αγ(ρ)οικον rusticum; Shipp 1979: la semantica cf. cal. tristu & AIS 158
arcaismo condiviso col pontico; TNC tu cánni áḣaro; grico tu poní ‘gli
95; LG 11; ΙΛΕΙΚΙ I 30; Crupi duole’; TNC 45, 115; LG 73; ΙΛΕΙΚΙ I
1981:74, Minas 1994:190. 411-12; Crupi 1981:74; WCL:31, 32.
agríḍḍa [aˈɣriɖɖa] s.f. ‘creta’, ‘argilla’ ahhjéri [açˈçεri] s.n. ‘salvietta’,
(bov), arjíḍḍa (ch) ☞ cf. Griḍḍúsa, ‘asciugamano’ (b, g, r, rf); cf. plazzí,
idr. (Motta S.G.) || grico agríḍḍa, †hjeropánni, cal. hjurapánnu ☞ pian.
gríḍḍa, críḍḍa ☆ ngr. ἄργιλλα & LG ahhjéri, regg. hjéri s.m. ‘strofinaccio’;
54; ΙΛΕΙΚΙ I 295; Crupi 1981:74. usato per trasportare il pane del
agronie, agronizete, agronizome, agronizusi → lavoratore ☆ mgr. ἐγχείριον & T 356
agroníźo. ἐγχείρια δύο (a. 1211); Crupi 1981:74
agroníźo [aɣroniˈdzo] v. tr. ‘conoscere, ‘tovaglia’, LG 135; ΙΛΕΙΚΙ I: 417;
riconoscere’ (bov) → annoriźo. WCL:16.
aguiki → guénno. ahhjerónno [aççeˈrɔnno] v. tr. e intr.
áḣana [ˈaxana] s.n. pl. ‘guadagni non ‘cominciare, iniziare, intraprendere’
lavorati’ (bov). (bov); var. arhjerónno, ahjerónno,
áḣano [ˈaxano] a. (2) ‘guadagnato senza
hjerónno ☞ impf. ahhjéronna; aor.
sudore’ (bov) ☞ Reduplicato ha valore ahhjéroa, ehhjéroa; cong. na
di locuzione avverbiale: ta piánno acchjeróso; imper. acchjéroe; p.pr.
áḣana áḣana ‘li prendo senza lavorare' acchjerónnonda; p.p. ahhjerónda; inf.
☆ Prob. formazione metaforica da ahhjerói, ahhjerósi; fut. eḣo
ἄχνη, dor. ἄχνα ‘soffio’ < λάχνη n'ahhjeróso;|| o chjeró hjerónni na
‘pagliuzza, piccola cosa’. chalastí ‘il tempo comincia a
L’accusativo ἄχναν era usato come guastarsi’; p.pr. ahhjerónnonda; ppp.
avverbio: ‘ἔνα κοµµατάκι’, già in ímmon ahhjerósonda; inf. aor.
Aristoph. Vespe 92. ahhjerósi; ahhjerónno na cámo mía
áḣaro [ˈaxaro] a. (1)  ‘tristo’, ‘cattivo’, dulía ‘comincio a fare un lavoro’;
‘brutto’, ‘sgradevole’, ‘inelegante’; ‚ ahhjéroe na scáspise to cipúri
s.n. ‘male’; ƒ avv. di modo ‘male’ ‘cominciò a zappare l'orto’. Con il
(anche áḣara) ☞ mían áḣaro dulía p.pr. forma perifrasi incoative:
‘una cattiva azione’; ázze áḣaro clíma ecchiéroe ‘ppidénnonda; accheróe to
áḣaro apórga ‘da cattiva vite cattiva parpátima ‘cominciò a camminare’.
propaggine’; mu cánni áḣaro ‘mi fa Prov.: Pis ahhjerónni calá, éne sto
male’; prov.: An issa oli calà ston misí ti ddulía ‘chi ben comincia è a

- 179 -
metà dell'opera’ ☆ agr. ἐγχειρέω imper. 2pl. mgr. ἄγωµεν < ἄγω; cf.
‘porre mano, accingersi a, améste & Meursius 22 ἄµε abi;
cominciare’, ngr. ἐγχειρῶ ‘operare’ + Herm.M. (IX sec.) 285: αγωµων ηµεις
-ώνω, nel senso ‘mettere mano’ & eamus nos; LG 12; ΙΛΕΙΚΙ I 147.
MorB 5: *ἄρ-χαρόνω = mgr. améste [aˈmεste] int. ‘andate!’, imper.
ἀρχαρίζω (ἄρχω); LG 135, TNC 46, 2pl. di páo → áme ☞ améste me ton
Crupi 1981:74, ΙΛΕΙΚΙ I:418; chjeróssa ‘andate con calma’ ☆ <
WCL:18; Koukoulés 1957, 251; *ἀγωµέτε, pl. analogico, cf. gr. dial.
Condemi 2006:17. ἀµέστεν (pont.); ἀµέτε (Creta,
ala ‘sale’ → agr. ἅλας. Scarpanto, Cos)] & LG 12; ΙΛΕΙΚΙ I
aladi ‘olio’ → ngr. ἐλάδιον.
alatimena, alatimeni → alatíźo: ἁλατίζω.
147.
alé, alée: aléa ‘ulivo’→ gr. ἐλαία. amine, aminisi→ méno ‘aspettare’: µένω .
aleste, alestisi, alestonda: alestáo ‘abbaiare’< ammá ‘a noi’ < ἡµᾶς: ἡµεῖς.
ὑλακτῶ (άλυχτάω a Zacinto). amména: eména < ἐµένα.
alethe: alétho macinare’ < ἀλήθω. ammialó [ammjaˈlo] s.m.  ‘cervello’,
alithia ‘verità’ < ἀλήθεια. ‘midollo’ ‚ ‘cranio’ (bov) ☞ ípe ston
alupuda ‘volpe’ < ἀλουπoῦ. ammialóndu ‘disse in cuor suo’; pl.
amalà ‘lentamente’ < ὁµαλός.
t’ammialá; anche mialó || cal., grico
ambéli [amˈbεli] s.n. ‘vigna’ (bov); cf.
meduḍḍa; cf. gnégno ☆ agr. µυελός
fiḍḍámbelo ☞ to ambéli théli poḍḍín
& Meursius 346 µιαλός cerebrum;
dulía ‘la vigna richiede molto lavoro’;
CGL III,312, 16: µυελος medulla
pl. ambélia; Ampégghja ctr. (Gioiosa);
(Herm.M, IX sec.); AIS 94; ALI 10; LG
Ambèli ctr. (Montebello, Cardeto) ||
341; Crupi 1981; Persson 1891, 155.
grico ampéli, con conservazione di - ammialondu → ammialó
µπ- ☆ mgr. ἀµπέλιον ‘piccola vigna’; ámmo [ˈammo] s.m. ‘sabbia’ (bov) ☞ Per
ngr. ἀµπέλι & Guillou 1963, 165 (a.
il genere cf. fr. le sable ☆ ngr. ἄµµος,
1265): ἀµπέλι; LG 30; ΙΛΕΙΚΙ I 137;
ὁ/ἡ. Il cambiamento di genere è dovuto
Crupi 1981:75; Minas 1994:196.
all’informazione morfologica &
ambró [amˈbro] avv. di luogo ‘avanti’,
Herm.M. (IX sec.) 297: αµµος harena;
‘davanti’, ‘di fronte’ (bov); + se e acc.
LG 30; TNC 447, 471; ΙΛΕΙΚΙ I 152;
‘davanti a’; + gen. ‘davanti a’, ‘in
Crupi 1981:75; Karanastasis 1997:58.
faccia a’ (bov); contr. apíssu ☞ 1. an1 [an] ‘se’ < ἄν.
ett’ambró ‘poco fa’ (b), lígon ambró an2 [an] ‘ecco’: inná < ἤν.
‘poco fa, poc'anzi’ (ch); páme ambró anafantiaméno [anafantjaˈmεno] a. (2)
‘andiamo avanti’; 2. ambró se ólu ‘intontito, instupidito, sbalordito,
‘davanti a tutti’; ambró ston íglio ‘di
meravigliato’ (bov) → anafantiáźo ☞
fronte al sole’; 3. ambrósti ‘davanti a
émine anafantiaméni ‘rimase
lei’ (ch); ambróndu ‘davanti a lui’;
ambró tu spitíu ‘di fronte alla porta’ meravigliata’ ☆ p. p. di anafantiáźo
& Crupi 1981:75; Casile 1991:112.
(b); grico ambró ☆ ngr. ἐµπρός &
anafantiáźo [anafanˈtjadzo] v. intr.
TNC 26, 42, 108, 144 e passim; LG
145; ΙΛΕΙΚΙ I 144; Crupi 1981:75 ‘intontire, istupidire’ (bov) ☞ ☆ ngr.
ambros-apíssu ‘avanti e indietro’ → ambró, *ἀναφαντιάζω & TNC 391; LG 37;
apíssu. ΙΛΕΙΚΙ I 187.
áme [ˈame] int. ‘và’ (bov) → améste, páo anaforizi, anaforizondo → anaforíźo
☞ áme cáthu ‘siediti’ = cal. va (e) anaforízo [anafoˈridzo] v.intr.
sséttati; cal. jàmu! ‘andiamo!’ ☆ ngr. ‘risuonare’ (bov) ☆ ngr. ἀναφορίζω <
ἄµε ‘via!, andiamo!’ (Pelop., Creta)] <

- 180 -
ἀναφορέω < ἀνά + φορέω 'riportare' angagliae, angagliameni, angagliastissa, angalie
& Casile Zoì 18. → angagliáźo: ἀγκαλιάζω.
analoghe, analogo, analoji → análogo. angonatie: angonatíźo: γονατίζω.
angoni, angonimmu → angóni ‘nipote’. mgr.
análogo [aˈnalogo] a. (2). ‘analogo, ἐγγόνι ‘zio’, ἐγγόνια ‘zii e nipoti’.
simile’ (bov) ☞ ☆ ngr. ἀνάλογος & anígasi, anighasi, anighe, anizze → anígo.
Sconosciuto ai lessici grecanici, forse anizzío [anitˈtsio] s.m. ‘nipote maschio
è accatto neogreco di Casile. degli zii’ (bov); anespío (c, rf), anispío
anasciasi cong. aor. di anascíźo ‘lacerare’ < (ch, rf). ☞ s.f. anizzía, anispía,
ἀνασχίζω; anascimeni ‘strappata’.
andá, andé, andes, andi, ando, andó: ázze ta, te,
anespía; pl. f. anispíe, anizzéde; pl. n.
ti, to: ápu + to, gr. ἀπο τό oppure ἐκ τό. ta anizzádia || grico anefsío, anezzío,
ándero [ˈandero] n. ‘budello, intestino’ anissío ☆ gr. ἀνεψιός ‘nipote’,
(bov) ☞ usato di solito il plur. ta ‘cugino’; stessa radice di lat. NEPOS &
ándera ‘le interiora’. Prov.: Cióla Herm.M. (IX sec.) 303: ανεψιος
t’ándera stin gilía échusi ti ípi ‘Anche nepus; AIS 21 o anispíossu ‘il vostro
le budella nel ventre hanno che dire’ || nipote’, t anispá-dyasu ‘i vostri
grico éntera, ántera, tántara ☆ ngr. nipoti’; LG 38; ΙΛΕΙΚΙ I 218: ἀνισπίο;
ἔντερον; α- dalla crasi t'andera & Crupi 1981:76; Casile 1991:137.
Meursius 29 ἀνδέρο pro ἔντερον anizzúci [anitˈtsuʧi] s.n. ‘nipotino’; pl. ta
intestinum; MorB 3, 90; ALI 61; LG anizzúcia.
148; ΙΛΕΙΚΙ I 200; Crupi 1981:75. anizzúḍḍa [anitˈtsuɖɖa] s.f. ‘nipotina’; pl.
andíglio [anˈdiʎʎo] a. (2) ‘soleggiato, tes anizzuḍḍe.
annoriame, annórie, annorizze, annorizzete →
aprico’; s.n. ‘luogo soleggiato, terreno annoriźo.
aprico’ (bov); andígghjo (rf); Natile annoriźo [annoˈridzo] v. tr. ‘conoscere’,
top. (RC); Antìlia (cil.) ☞ Anche ‘riconoscere’ (bov); anche nnoríśo
andílio; cal. antìli (Palizzi); ndìgghju (ch); con metatesi reciproca: agroníźo
(Brancaleone); ntìgghj'i suli ‘esposto (b), agroníśo (g), gruníźu (ca) ☞ impf.
al sole’ (Platì, S. Luca, Antonimina); i annóriźa; aor. annória; cong. na
merìa plen andigghi (Nucera 2009, 6) annorío; imper. annórie; p.pr.
☆ gr. ἀντήλιος ‘esposto al sole’ & annoríźonda; p.p. annnoríonda; inf.
Dimitrakou 2, 605; TNC, LG 41; annorí || ☆ ἀγρωνίζω < agr. γνωρίζω
ΙΛΕΙΚΙ I 201; Crupi 1981:75, 102; & MorC:108; TNC 4; LG 110;
Casile Zoì 14. ΙΛΕΙΚΙ I 44-47; Crupi 1981:76.
ándra ['andra] s.m.  ‘uomo’; cf. anoje
áthropo, théma; ‚ ‘marito’ (b); cf. ánu ‘sopra’: ἄνω.
sinvérni; anche ándrase ☞ ándrasu, apandie aor. di → apandénno.
ándrassu ‘tuo marito’; t'andrúti ‘a suo apandénno [apanˈdεnno] v. tr. ‘incon-
marito’; pl. i ándri; gen. sg. andrú, pl. trare’; intr. ‘venire incontro’ (+ gen.);
rifl. ‘incontrarsi’ (bov) → apandáo,
tos andró; acc. sg. ándra, pl. ándrus ☆
ngr. ἄνδρας dal tema di agr. ἀνήρ & apandáome ☞ impf. epándenna,
AIS 72 o ándra mu ‘mio marito’; LG apándinna; aor. apándia, epándia;
39; TNC 136; ΙΛΕΙΚΙ I 203; Crupi cong. na apandío; imper. ápanda;
1981:75. p.pr. apandáonda; inf. apandí, pandísi
andra, andrandi, andri, andro, andrammu ‘mio || pandénnonde ‘si incontrano’; aor.
marito’, andri, andruti → ándra. pass. apandíthina; inf. pass. pandithí ||
anetsiamu → anizzío. grico apanténno, apantéo, apantíźo,
anevate, anevenne, anevenni, anevíasi, anevie,
anevisi → anevénno: ἀναβαίνω.
apantínno ☆ mgr. ἀπαντῶ
‘incontrare’; sconosciuto il senso ngr.

- 181 -
‘rispondere’; dial. ἀπαντένω (Corfù, áploa, áplosa ‘ho steso’ e ‘ero fuori,
Epiro, Peloponneso) & LG 44; lontano’; eplósame ta próvata ‘abbia-
ΙΛΕΙΚΙ I 242; Casile 1991, 103. mo portato le pecore al pascolo’; cong.
apano → apánu. na plóso, aor. pass. aplóthina;
apánotte [aˈpanotte] avv. di luogo ‘da aplotháte ‘stendetevi’; ímmon aplo-
sopra’, ‘di sopra’ (b, rf); contr. thónda ‘mi ero steso’; íton aplósonda
abucatóstrato K. e apucáotte ☞ = cal. era jampràtu ‘era uscito’,
apanottéssu ‘su di te’ ☆ gr. ἀπάνω + - ampràu ‘è andato in campagna, è
θεν & TNC 433 apanottémma ‘sopra (uscito e si trova) al lavoro’ ‹ cal. am-
di noi’; LG 153; ΙΛΕΙΚΙ I 244; Crupi pràri v. tr., ‘allargare, stendere’, intr.
1981:76. ‘uscire di casa’, ‘andare in cam-
apánu [aˈpanu] avv. di luogo ‘sopra’, pagna’, ‘andare in giro senza meta’ <
‘addosso’; prep. (b, rf) → eciapánu, *AMPLĀRE; grico aplónno, ablónno,
ettapánu ☞ Con il gen. o con prep. se, plónno ‘distendere, sciorinare’ e
asce, zze + acc.; apánumu ‘su di me’; ‘dormire’ (‹ πλαγιόνω), eplónno,
ejírie t'apánu apukàtu ‘girò eblónno, ablaténno ☆ ngr. ἁπλόνω
sottosopra’ || grico apánu, pánu, páu, ‘stendere, allungarsi, andare lontano’;
apá ☆ gr. ἐπάνω; mgr. ἀπάνου & cal. amprari ‘andar via’ è calco
Meursius 38 ἀπάνου supra; Τ 34: italogreco & O. Parlangeli, Due note
ἀπάνου (a. 1034); LG 153; ΙΛΕΙΚΙ I griche, «Aevum» 23, 1949: 170-176
243; Crupi 1981:76. (contaminazione di πλαγιόνω e
apethane → pethéno ‘morire’: ngr. πεθαίνω, agr. ἁπλώνω); ChronMorea; Cassoni
ἀποθνήσκω. 1999:34; Alessio 1953:251; LG 45;
apíssu [aˈpissu] avv. di luogo ‘dietro’, ΙΛΕΙΚΙ I 249; Crupi 1981:76; Martino
‘indietro’ (bov); contr. ambró ☞ to 2010.
podi t'apíssu ‘la zampa posteriore’; aplonnome, aplosonda, aplothi, aplothome
‘usciamo’ (p. 9) → aplónno.
ambró ce apíssu ‘avanti e indietro’; su apofortoasi ‘scaricarono’ → apofortónno.
stéco apíssu ‘ti seguo’; dío ḣrónus apofortónno [apoforˈtɔnno] v.tr.
apíssu ‘due anni addietro’; apíssu ‘scaricare’ (g), pofortónno (b),
apíssu reduplicazione espressiva, cf.
apoḣortónno (c, ch) ☞ aor. apofórtoa,
cal. arretu arretu || grico ampí,
3.sg. apofórtoe; inf. apofortísi ☆ ngr.
ampíssu ☆ ngr. *ὀπίσω & PellB 134;
ἀποφορτόνω & TNC 12, 185; LG 51;
TNC 57; LG 365; ΙΛΕΙΚΙ I, 246; Crupi
ΙΛΕΙΚΙ I 278; Crupi 1981:76; Casile
1981:76; Casile I dio judi 32. 1991:110.
apista cose non credute’ < pistéguo: πιστεύω.
apoḣúnno [apoˈxunno] v. tr.
aplónno [aˈplɔnno] v.  tr. ‘svolgere’,
‘stendere’, ‘spiegare’, ‘spandere’, ‘dissotterrare, disseppellire’ (bov) ☞
‘allargare’; ‚ intr. ‘uscire’, ‘andare in aor. apóḣua (rf); aor. p. apoḣústina ☆
campagna’ ‘allontanarsi da casa’ ngr. *ἀποχώνω = ξεχώνω
(«merkwürdige Sonderbedeutung» R); ‘dissotterrare’; agr. ἀποχώννυµι, con
ƒ ‘allargarsi, espandersi’ (bov) → significato opposto & DELG 281:
aplótho, plótho, plónno, alarghéguo 'endiguer'; TNC XLV, 110; LG 51;
☞ impf. áplonna; aor. áploa; cong. na ΙΛΕΙΚΙ I,279; Crupi 1981:76; Casile, I
aplóso; imper. áploe; p.pr. dio judi 20: ta poghumite
aplónnonda; inf. applói || 1. to aplónno ‘dissotterratele’.
ja ólo ton gósmo ‘lo stendo apologáo [apoloˈγao] v. intr. ‘rispondere’
dappertutto’; 2. áploe na delésci scíla (bov) → apolojíźo ☞ impf. apolójia,
‘uscì per raccogliere legna’; aor. apolójinna; aor. apolójia; cong. na

- 182 -
apolojío; imper. apolójie; p.pr. appóde [apˈpɔðe] avv. di luogo ‘di qui’,
apológonda, apologáonda; inf. ‘da qui’ (b, rf); anche appótte, appothe
apolojí, apolojísi || èḣo apolojísi ‘ho (bov) ® appodenóssu ☞ den éne
risposto’ ☆ gr. ἀπολογάω, appótte, éne aḍḍítte ‘non è di qui, è di
ἀπολογῶµαι & ΙΛΕΙΚΙ I 262. altro luogo’; appóde to spíti dífi ‘di
apologhai, apologai, apològhegge, apologhie, qua si vede la casa’; hóresp’esú ti
apologhisi, apologhie, apologhize, apolojia, horéo ciola egó, dómmu to hjéri ce
apolojiasi, apolojie, apologáo, apolojisi → pássespe appó ‘balla tu che ballo io,
apologáo. dammi la mano e passa di qua’ || grico
apólogo [aˈpɔloγo] s.n. ‘risposta’ (bov) ☞ apóde, apóte ☆ gr. ἀπῶδε (ngr. ἀπὸ
☆ ἀπόλογος & Belardi 2004; ΙΛΕΙΚΙ ἐδῶ) & TNC xlv,290; LG 46, 52;
I 262. ILEIKI Ι 284; Crupi 1981:76;
apolojía [apoloˈjia] s.f. ‘risposta’ (bov) ☞ Castagna 2016:38.
☆ gr. ἀπολογία ‘difesa’ & Meursius apsasi ‘accesero’ → ásto.
39 ἀπηλογία responsum. apucáotte [apuˈkaotte] avv. di luogo ‘di
apolojíźo [apoloˈjidzo] v. intr. sotto’ (bov) ® ápo-, cáotte; contr.
‘rispondere’ (bov) → apologáo ☞ ☆ apánotte ☞ éna spíti apicátte tu
cf. gr. ἀπολογοῦµαι & LG 49; TNC- ḣumátu ‘una casa sotto terra’ ☆ gr.
IL:32; Crupi 1981:76. ἀπό + κάτωθεν; mgr. ἐπικάτωθεν &
apomine → apoméno. LG 154; ΙΛΕΙΚΙ I 258.
apotonie, aor. di apotonáo. apucátu [apuˈkatu] avv. di luogo ‘sotto’,
apotse → apózze. ‘di sotto’ (bov); anche avucátu (c, g),
apózze [aˈpɔttse] avv. di tempo ‘stasera’
abbucátu (ch, r), pucátu, apicátu ☞ 1.
(b); apóspe (ch, rf). ☞ fino apóspe ton eválai apucátu ‘lo hanno messo
‘fino a stasera’ ☆ gr. ἀπόψε < gr. biz. sotto’; pucatu spíti ‘sotto casa’; apánu
ἀπὸ ὀψέ & TNC 256; LG 51; ILEIKI apicátu ‘sottosopra’; 2. (+ se): apicátu
Ι 271: ἀπόσπε; Crupi 1981:76. sta pódia ‘sotto i piedi’; 3. (+ gen.):
appidénnonda, appidisi → appidénno. apucátu crevattíu ‘sotto il letto’ || grico
appidénno [appiˈðεnno] v. intr. ‘saltare’
apucátu; cal. abbàsciu ☆ gr.biz.
(bov) ☞ impf. appídenna; aor. ἐπικάτω, ἀποκάτω & Meursius 47
appídia; inf. aor. appidísi; ehhjéroe ἀποκάτω extra, foris; T 74 ἐπικάτω
‘ppidénnonda / n'appidísi ‘cominciò a τοῦ Στύλου ‘sotto Stilo’ (a. 1033
saltare’; appidénni san astálaḣo ‘salta Stilo); TNC 137; LG 45, 154; Crupi
come un grillo ☆ ngr. ἀπηδῶ < gr. 1981:76.
πηδῶ ‘saltare’ & MorB 98; LG 399; arcinicó [arʧiniˈko] s.m. ‘maschio’; a.
ILEIKI Ι 281: ἀπ-πηδέν-νω; Crupi ‘maschile’ (bov) ☞ afscinikú
1981:76; Casile Zoì 20: Íche na
(Cardeto) ☆ < gr. ἀρσενικός, con
appidísi sto spíti ‘bisognerebbe fare un
palatalizzazione della sibilante &
salto a casa’.
Meursius 53 ἀρτζηνικός masculus,
appidía [appiˈðia] s.f. ‘pero’ [Pyrus
virilis; TNC 115, 208; LG 59; ΙΛΕΙΚΙ I
pyraster] (bov) ☞ pl. appidíe; idr. cal. 303; Crupi 1981:76.
Appedía (Pellaro); grico appidéa ☆ argalío [arγaˈlio] s.n. ‘telaio’ (b, ch, rf) ☞
mgr. ἀµπιδιά, ngr. ἀπιδέα & T 298 iféno sto argalío ‘tesso al telaio’; pl.
(1188): χωράφιον λεγόµενον τῆς argalía; Argalía ctr. presso Bivongi;
Ἀππιδῆς; LG 44; ILEIKI Ι 283; Crupi
grico argalío ☆ ngr. ἐργαλεῖον &
1981:76; Minas 1992:217; 1994:197.
Meursius 48; LG 156; ΙΛΕΙΚΙ I 290;
Crupi 1981:76.

- 183 -
argasía [arγaˈsia] s.f.  ‘maggese’, armezzasi, armezze, armezzi → arméggo.
‘campo coltivato’; ‚ ‘lavoro arméggo [arˈmεggo] v. tr. ‘mungere’
campestre’ ☞ cánno argasía ‘fare il (bov); anche arméo, armégo ☞ impf.
maggese’. Prov.: Mi váli vuthulíe stin ármega; aor. ármezza, ármescia;
argasíe ‘Non mettere vacche nel cong. na arméscio; imper. ármesce;
maggese’ (b); cal. sic. argasìa ‘terreno p.pr. armégonda; inf. armésci || cong.
lavorato per la semina’, argasiári éḣo na armézzo || grico arméo ☆ agr.
‘ripetere per due anni la stessa coltura’ ἀµέλγω; ngr. dial. ἀρµέγω (Epiro) &
☆ ngr. ἐργασία ‘lavoro, mestiere’; cf. Meursius 52 ἀρµέγειν pro ἀµέλγειν
ἐργάζω & Vita Nili 40; Battisti 1927: mulgere; ELA III:83; LG 29; ILEIKI Ι
17; De Gregorio 1930, 703; MorB 91; 311; Crupi 1981:77.
M. D'Elia, Una denominazione del arní [arˈni] s.n. ‘agnello’; ‘tipo di fungo
maggese nei dialetti dell’Italia bianco’ (bov) → arnísca ☞ pl. ta arnía
meridionale, Lecce, Adriatica Editrice || grico arní; cf. cal. agneḍḍu, regg.
Salentina, 1982; LG 156; ΙΛΕΙΚΙ I arníu ‘agnello’ e ‘fungo’ (Casignana,
292; Crupi 1981:76; Mosino 1986, 8. Samo); grico arní ☆ gr. ἀρνίον
arghía [arˈγia] s.f. ‘festa’ (bov) ® jortí ☞ ‘agnello’, gr. dial. ἀρνάκι (Ponto),
arghía tos aleó ‘domenica delle ἀρνίτσα ‘tipo di fungo bianco’ &
Palme’; Monte Arghìa, oron. (cal. Meursius 52 ἀρνή agnus; Rohlfs 1926:
mer.) ☆ agr. ἀργία, ἀ-εργία ‘riposo, 274; LG 57; ILEIKI Ι 316; Battisti
ozio, pigrizia, inattività’ (il significato 1927: 18; Crupi 1981:77.
‘festa’ è medievale); ngr. ἐργία ‘giorno arotáo [aroˈtao] v. tr. e intr. ‘chiedere (per
festivo’ & DuCange-G, 115: ἀργία sapere)’, ‘domandare, interroga-re’
feria, festus dies, cessatio ab opere; (bov) ☞ impf. arótinna; aor. arótia;
GEW 1,133: ἀργία ‘Untä-tigkeit’; cong. na arotío, n'arotí(s)o; imper.
Kriaras 1, 174; TNC 310, 316, 368; LG aróta; p.pr. arotónda; inf. arotí ||
54; ΙΛΕΙΚΙ I 294; Crupi 1981:76. Prov.: Arotónda arotónda páo ja ólo
aría [aˈria] s.f. ‘leccio’, ‘elce’ (bov) ® ton gósmo ‘Chiedendo chiedendo
ḣamaría ☞ grovélano zze aría vado per tutto il mondo’ (b); p.p.
‘ghianda di leccio’; cal. arìa; Aría, idr. arotiméno; arótie an íto fáonda
(Montebello) ☆ agr. ἀρία > ngr. ἀριά ‘chiese se aveva mangiato’; arotónde
[Quercus ilex] & T 131; ELA III:61; ‘s'interrogano’ || grico arotó, erotó,
LG 55; Crupi 1981:76; Minas rotó ☆ gr. ἐρωτάω, ngr. ἐρωτῶ &
1994:213; Casile, I dio judi, 29. MorB 89; LG 158; Crupi 1981:77.
aripie, aripismena, aripismeni, aripizzi → aripíźo. arotate, arotónda, arotato, arotatu, arotiame,
aripíźo [ariˈpidzo] v. tr. ‘maltrattare’ (r, arotiasi, arotie, arotiome, arotisi, arotistissa
b) ☞ p.p. aripisméno. Prov.: Ppo den arotizomesta, arotume, arote, arotie, arotio →
théli na aripíusi asséna, mi aripísi tus arotáo.
áḍḍu ‘Come non vuoi che maltrattino arótima [aˈrɔtima] s.n. ‘domanda’ (bov)
te, non maltrattare gli altri’ ✰ agr. → arotáo.
ριπίζω ‘eccitare, fomentare, soffiare arotimía [arotiˈmia] s.f. ‘interrogazione’,
nel fuoco’ & LG 440; Crupi 1981:76; ‘domanda’ (bov) → arotáo ☞ sas
Casile 1991:133; Condemi 2006, 64; écama mia arotimía ‘vi ho fatto una
Violi 2007, 115. domanda’ ☆ & Casile 1991, 130:
aristerà ‘a sinistra’: ἀριστερά. enan dáscalo sto scolío écame mia
arklía ‘casse’: ἀρκλίον, dim. di ἄρκλα < lat. arotimía sta pedía ‘un maestro a
arcula.
scuola fece un’interrogazione ai
armacía ‘muro a secco’: ἁρµακία < ἑρµακία.

- 184 -
ragazzi’; Crupi 1981,70: tis arotìai ti hanno imparato la lingua che voi
echi ce clei ‘le chiesero che avesse per parlate adesso, sono tornati qui e non
piangere’. dicono arte, dicono tora...’.
arrustári ‘malato’ = árrusto: ἄρρωστος. áscimo [ˈaʃʃimo] a. (1) ‘brutto’, ‘cattivo’,
arrustia, arrústie, arrustíasi, arrústie, arrustússa
→ arrustáo.
‘orrido’, ‘sinistro’, ‘deforme’ (bov) ☞
arrustáo [arruˈstao] v. intr. ‘ammalarsi’ grico áscimo ☆ ngr. ἄσχηµος, dial.
(bov) ☞ aor. arrústia || grico adinató ἀšηµος & Thumb 1910:308; LG 66;
Crupi 1981:77.
☆ gr. ἀρρωστάω, ngr. ἀρρωστῶ &
áspro [ˈaspro]  a. (2) ‘bianco’; ‚ s.n.
Mor. B 71; LG 59; Crupi 1981:77.
artámmi [arˈtammi] s.n. ‘occhio’ (bov); ‘bianco dell'occhio’ (bov) ☞ foremé-
artármi, astármi (b, r); ftármi (ca); cf. no áspro ‘vestito di bianco’; egguala
maḍḍìa aspra ‘mise i capelli bianchi’.
ftarmú, lúcchjo ☞ pl. t’ artámmiasu ‘i
Prov.: ávro ḣoráfi cánni áspro sitari
tuoi occhi’ || grico ammáti discende da
‘terreno scuro fa bianco grano’; grico
ὀµµάτιον ☆ gr. t. ὀφθάλµιον (ngr. áspro ‘chiara dell'uovo’; cal. nàspru
µάτι) ‘occhio piccolo’ & TNC 340; ‘condimento di dolci con zucchero’
LG 376; Crupi 1981:77. (Vibo); cf. Aspromonte, cal. Spre-
artammó [artamˈmo] s.m. 1 ‘occhio’ 2
munti ☆ gr. ἄσπρος < lat. ASPER
‘malocchio’, ‘iettatura’ (bov);
‘aspro’, poi ‘moneta nuova’ (IV sec.),
athtammó, afthammó (ch); rtarmú (ca)
infine ‘bianco’ (VI sec.): E. Schwyzer,
® astammó. «IF», 49, 1931:28 sgg. & Meursius
árte [ˈarte] avv. di tempo ‘ora, adesso’
58 ἄσπρον album; Meyer 1895:12;
(bov) → artárte, attárte ☞ tríu ḣrónus ALI 20; LG 64; Crupi 1981:77;
árte ‘tre anni fa’; árte pu, árte ti ‘ora Psichari 1889: 303-323.
che’; púcciárte ‘fin d'ora’, san árte assena ‘a te’: ἐσσένα.
‘per ora’ || grico árte(na); art'óde astria pl.n. < ástro: ἄστρον.
‘adesso’ ☆ agr. ἄρτε ‘giustamente, ásto [ˈasto] v. tr. ‘accendere’; intr.
all’istante’ (cf. arm. ard ‘adesso’, lit. ‘accendersi’ (bov), átto (g), áfto (r,rf),
artì); ngr. dial. ἄρτι Kos, Ponto & áthto (ch); áfsto ☞ aor. ázza, áspa;
DELG 117-8: «ἄρτι: adv. «juste, aor.pass. ástina; m. ástome, áftome;
justement», d'où «récemment», p.p. asméno, amméno cong. na ázzo;
surtout avec un verbe au présent, imper. ázze; inf. to ázzi; thélo n'áspo to
opposé à πάλαι; plus rarement avec un luci (g) ‘voglio accendere il fuoco’ ☆
verbe au passé; plus rarement encore ngr. ἅφτω < agr. ἅπτω ‘toccare,
et en grec tardif avec le futur «tout de prendere’, con ellissi di πῦρ (per la
suite», etc., condamné en ce sens par semantica cf. cal. pigghjari); aor. ἥψα,
Phryn. 12. Le mot n'est pas attesté chez ngr. ἀνάβω & TNC; LG 52; Crupi
Hom. (mais cf. dérivés et composés); 1981:77.
il est largement employé durant asvésti [azˈvεsti] s.n. ‘calce’ (b), aśbésti
l'histoire du grec au sens temporel. Le (ch, r) ☞ grico aśvésti, aśbésti, avsésti,
sens originel est ‘juste’, ‘qui tombe avlésti ☆ ngr. ἀσβέστη & Herm.M.
juste’»; TNC; LG 59; Crupi 1981:77; (IX sec.) 312: ασβεστος calx; LG 61;
Peláez 1995:85-94; Casile, Lettera a Crupi 1981:77; Cassoni 1999:40.
Kolakis 8-4-1988: «Irtasi stin Grecia asvestónno [azvesˈtɔnno] v. tr.
dascali ce ematteasi tin glossa ti
‘intonacare con calce’ (bov) ® asvésti
plategghete arte, econdoferasi ode ce
den legusi arte, legusi tora...» ‘sono ☞ aor. asvéstoa; cong. na asvestóso.
venuti in Grecia gli insegnanti ed

- 185 -
athropi, athropo, athrupu, atropi, atropo → anche altrove per Caratzas 196 & LG
áthropo. 148; Falcone 1973:13, Crupi 1981:77.
áthropo [ˈaθropo] s.m. ‘uomo’, ‘essere azzihílito [attsiˈçilito] a. (2) ‘muto’,
umano’ (bov); sin. ḣristianó ☞ gen. sg. ‘taciturno’ (bov) ® azziḣólito ☞ grico
t’athrópu; acc. sg. ton áthropo; pl.
afsehílito, assehílito ☆ gr. *ξεχείλητος
nom. i athrópi, gen. tos athrópo, acc.
sconosciuto in Grecia (ngr. ἀµίλητος)
tus athrópu || grico ántrepo ☆ ngr. & ΙΛΕΙΚΙ, I:399; LG 355; WCL:129.
ἄνθρωπος & TNC xliv; LG 39,61; azziḣólito [attsiˈxɔlito] a. ‘taciturno’ (b
Crupi 1981:77; Martino 2016.
atoniasi, atonimene, atonimeni, atonimeno →
[C]); cf. manaḣólico ® azzihílito ☞
atonáo. Prov.: O áthropo azziḣólito den gánni
atonáo [atoˈnao] v. intr. ‘stancarsi’ (bov) ostría ‘L'uomo taciturno non si crea
→ atoníźo ☞ aor. atónia; cong. inimicizie’ ☆ sconosciuto in Grecia.
atsiplothissa, atsiplothume → azziplónnome.
n'atoníso ☆ ngr. ἀτονῶ & LG 66; atsunno, atsunnonda → azzunnáo.
Crupi 1981:77. avlema = ávlemma ‘sguardo’ < βλέµµα.
atonía [atoˈnia] s.f. ‘stanchezza’ (bov) ☞ avlepe, avlepeto, avlezzi → avlépo: βλέπω.
avlepimia ‘vista’: ® vlépo.
☆ ngr. ἀτονία & Herm.M. (IX sec.)
avlí ‘cortile’: ngr. αὐλή, gr. αὐλίον.
327: ατονος inualidus; LG 66 ; Crupi avoláo ‘rubare’: ngr. βολάω < gr. βάλλω.
1981:77; Casile Zoì 5: mia atonía ávri [ˈavri] avv. di tempo ‘domani’ (bov) ☞
éclanne tin zoì ‘una debolezza colpiva avrimburró ‘domattina’, ávri vrádi ‘domani
la vita’. sera’, símeron ávri ‘dall’oggi al domani’ ||
atónima [aˈtɔnima] n. ‘stanchezza’ (bov) grico ávri ☆ ngr. αὔριο & CGL III 296:
→ atonía, atonáo. αυριον cras; Meursius 1614; HLA III, 299;
TNC 45; LG 69; ΙΛΕΙΚΙ I 379; Crupi 1981:77.
atoniméno [atoniˈmεno] a. (2) ‘stanco’
aźáto [aˈdzato] a. (1) ‘celibe, scapolo,
(bov), p. p. di atoníźo.
atoníźo [atoˈnidzo] v. tr. ‘stancare’, non sposato’, ‘nubile’ (b), aśáto (rf) ☞
atoníźome [atoˈnidzome] v. md. aźáta ‘zitella’ (ca); cf. grico aźáta
‘stancarsi’ (bov) → atonáo. ‘mobile portato in dote dalla sposa’ ☆
ázze [ˈattse] prep. (b), ásce (r, ch, rf, g) cipr. αζάτιν; gr. ἀζᾶτος ‘libero, non
‘di’, ‘da’; allotropo con l’art.: ándo ☞ sposato’, dal pers. āzād; cf. arm. azad,
Ricopre la gamma semantica di lat. DE; gr. ἀζάτη·ἐλευθερία Hes. & Meursius
non richiede l'art. det. (richiesto invece 11; Miklosich 1884, I 252; MorC 106;
da an: ándo); 1. materia: clidí ázze LG 14; TNC 14; Cassoni 1999:39.
sídero ‘chiave di ferro’, cefalí ázze azzihílito [attsiˈçilito] a. (2) ‘muto’,
zzílo ‘testa di legno’; 2. specificazione: ‘taciturno’ (bov) ® azziḣólito ☞ grico
éna jóse ásce ríga ‘un figlio di re’; 3. afsehílito, assehílito ☆ gr. *ξεχείλητος
argomento: eplatézzame ásce cínu sconosciuto in Grecia (ngr. ἀµίλητος)
‘abbiamo parlato di loro’; 4. tempo: & ΙΛΕΙΚΙ, I:399; LG 355; WCL:129.
ásce tríu mínu ‘da tre mesi’; 5. causa: azziḣólito [attsiˈxɔlito] a. ‘taciturno’ (b
źénni zze crommídi ‘puzzi di cipolla’, [C]); cf. manaḣólico ® azzihílito ☞
ásce pricáda ‘dall'amarezza’; 6. Prov.: O áthropo azziḣólito den gánni
modo: forénni ásce jinéca ‘veste da ostría ‘L'uomo taciturno non si crea
donna’; 7. agente: azz'emména ‘da inimicizie’ ☆ sconosciuto in Grecia.
me’; 8. moto verso luogo: arrívespe azzimerónni [attsimeˈrɔnni] v. imper.
asce mían oscía ‘giunse ad una ‘torna il giorno’, ‘albeggia’ (b) ☞
montagna’ || grico afse, asse, afze, azze
anche zzimerónni, scimerónni; aor.
☆ *ἔξε < agr. ἐξ ‘da’, prep. azziméroe; sin.: diafaźi, apodiafáźi;
sopravvissuta solo nell'italogreco,

- 186 -
grico afsemerónni ☆ ngr. ἑξηµερώνει conservazione di ‹υ› [u] & TNC 42,
& Meursius 375 ξηµερόνη, LG 152; Crupi 1981:77; Karanastasis
ξηµέρωµα diescit; Du Cange-G. 1018: 1997:21.
ξηµερόνει ‘dilucescit’; LG 152, 356;
ΙΛΕΙΚΙ I 350; Crupi 1981:77; Nikas B
1997:539.
azziplónnome [attsiˈplɔnnome] v. intr. báo → páo.
‘sdraiarsi’, comp. Da ἔξ- + ngr. bedáni → pethani.
ἁπλόνω ‘stendere, allungarsi’ ☞ aor.
azziplóthina; azziploméno, C
azziproméno ‘sdraiato, disteso’ ☆ gr. caccamo: κάκκαβος > lat. caccăbus.
*ἐξαπλόνοµαι & TNC 363; LG 152 cacío [kaˈʧio] a. (2) ‘cattivo, brutto,
ἐξηπλωµένος. Attestato anche sciagurato’ (bov) ☞ o cacío míro
azzíploma [atˈtsiploma] s.n. ‘lo dicómmu ‘il mio cattivo destino’; cf.
sdraiarsi’. caciónno < κακιώνω 'tenere il broncio'
azzunnáo [attsunˈnao]  v. tr. ‘svegliare’ (ΙΛΕΙΚΙ III 19; DGM 437),
‚ v. intr. ‘svegliarsi’ (bov) → caciochería ‘cattivo tempo’, cácima
asciunnáo, azzunníźo ☞ azzúnnia ‘mi s.n. ‘guasto’, cacíena s.f. ‘donna brutta
svegliai’; cong. n'azzunníso; e vecchia’ ☆ attestato solo da Casile,
azzunniéto ‘svèglialo!’, azzunniéteto il termine può riflettere il comparativo
‘svegliàtelo’; prov.: Pi mméni na ton gr. κακίων “Steigerungsform” von
azzunníusi i àddi, pethéni ciumuménu valore intensivo; cf. κακία & GEW 1,
‘Chi aspetta che altri lo sveglino 758; Casile I dio judi 19, 25.
cacó
muore dormendo’ ☆ gr. ἐξυπνῶ &
cáfero [ˈkafero] a. ‘tostato, croccante,
Meursius 378 ξυπνίζειν excitari e
friabile’, ‘fradicio’, ‘fragile, floscio,
somno, evigilare; MorB 3: «in non consistente’ (bov); anche cáfaro
azzúnna ‘svégliati’ la tonica può
☞ zomí cáfero (b), spomín gafaró (g)
essersi determinata dall’atona del pres.
indic. azzunnáo»; Pernot, 1892, 357- ‘pane tostato’; cal. sic. cáfaru, cáfuru
366; TNC 45; LG 152, Crupi 1981:77; ‘friabile, floscio, vuoto dentro’ || grico
Casile 1991:133. cafuríźo ‘abbrustolire’; Cafaro cogn.
azzunniasi, azzunniusi, azzunnonda → ☆ Pellegrini pensò a un esito sic. di ar.
azzunnáo. ḥafr ‘fossa, cavità’, che lascia
azzúnnima [atˈtsunnima] s.n. ‘risveglio’ perplesso per la semantica il Rohlfs;
(b) → azzunnáo. improbabili le ipotesi etimologiche di
azzunniméno [attsunniˈmεno] a. (2) Alessio < κάρφη ‘stoppia’ e Rohlfs <
‘svegliato’ (b), p. p. di azzunnáo. καῦρος = κακός (Hes.). Potrebbe
azzunníźo [attsun'nidzo] v. intr. essere una specializzazione rurale di
‘svegliarsi’, ‘vegliare’ (bov), ar. kāfir ‘infedele’ (col pl. kuffar, gr.
asciunníźo (ch, g) → azzunnáo ☞ κάφιροι erano stigmatizzati i
ázzunna ‘svègliati!’; asciúnnia ‘mi ‘praticanti una religione diversa
sono svegliato’ (ch) ☆ gr. ἐξυπνίζω dall’Islam’), se si considera la
& LG 152. semantica nei dialetti cal.; ngr. κάφρος
ázzunno [ˈattsunno] a. (1) ‘sveglio’ (b) ‘βάρβαρος, άξεστος, απολίτιστος’
(Babiniotis 876) & Gioeni 64;
anche ásciunno → azzunníźo ☞ jinéca
Pellegrini 1962, 145; 1972, I, 253-4;
ázzunno || grico afsúnnito <
Alessio 1943-44, 636; LG 229; ΙΛΕΙΚΙ
*ἐξύπνητος ☆ gr. ἔξυπνος; III 122; Martino-Alvaro s.v. càfaru, 1.

- 187 -
‘bacato, guasto, tarlato, fradicio, vuoto voi’; cámetin érti óde ‘fatela venire
dentro’ (di tronco d’albero o frutto qua’; aḍḍo ene to ípi, aḍḍo ene to cámi
(Davoli, Delianuova, Ferruzzano, San ‘altro è il dire, altro il fare’; p. aor.
Loren-zo, Scilla); 2. ‘morbido, cámonda; dío mínu cánni ‘due mesi
friabile, croccante’ (di pane, biscotti, fa’; ma ccánni jenastí pricí ‘ci fa
fave (Benestare, Monasterace, Samo, diventare amari’; se cánno ce ḣorí ‘ti
Sti-lo); 3. ‘cartilaginoso’. Cogn. faccio vedere’; cametémi sciporéi
Cuffaro (Sicilia); top. Càfaru, ctr. di ‘fateci sapere’; mas tin écame enam
Drapia (VV), torrente pr. Lamezia biággio, dem ma ccombónni pléo ‘ce
Terme (CZ). Da qui l’a. cafarùsu l'ha fatta una volta, non ci imbroglia
‘vuoto, roso dal tarlo o dal più’; pos ívra cánnonda écama ‘come
fradiciume’. ho visto fare ho fatto’ || grico cánno ☆
cáglio ‘meglio’: κάλλιον, n. di καλλίων. ngr. κάµνω, κάνω & CGL III 150,1:
calá, calí → caló.
caliváci: dim. di calivi.
camno laboro; TNC 260; LG 205;
calívi: Meursius 204 καλίβιον pro καλύβη Crupi 1981:78.
tugurium, casa. canunáo [kanuˈnao] v. tr. ‘guardare’
calocéri ‘estate’: καλοκαίρι < καλός + καιρός. (bov) → acanúnisto ☞ 3pl. canunúsi;
calómiro: καλόµοιρος ‘fortunato’.
calosíni ‘bellezza’: καλοσύνη.
jatí me canunáise? ‘perché mi
camárda [kaˈmarda] s.f.  ‘impalcatura guardi?’; p.pr. canúnonda; imper.
fatta di travi e rami per essiccare la canúna; aor. ecanúnia; 3pl. ecanu-
frutta al sole’; ‚ ‘gruppo di arbusti níasi; md. canunúnde ‘si guardano’;
spinosi’ (b, ch); ƒ ‘grossa siepe’ aor. pass. ecanunístina ‘mi guardai’;
ecanunístissa ‘si guardarono’; na
(Ferruzzano, S. Agata) ☞ cal.
canunithúsi ‘per guardarsi’; impf. 3pl.
camárda ‘lavoro enorme e ingrato’
ecanunússa ‘guardavano’; canú
(Delianuova); ‘canniccio per seccare i
fichi’ (Pellaro, Montebello, Motta ‘guarda!’ || grico canonó, acanonó ☆
ngr. κανονῶ, gr. κανονίζω &
S.G., Mammola) ☆ grv. καµάρδα
Leonzio di Napoli (VII sec. d.C.),
‘tenda’ & T 366 Ρωπέρτος τῆς
Migne, PG 93, 1709 B κανονίζω;
Καµάρδας Roberto de Camarda (a.
Passow 1860,96,6 ἕνας τον ἄλλο
1214 Catanzaro); Alessio 1936b: 207
κανονεῖ (Epiro); MorB 109; LG 209;
lat. CAMARIDA < gr. καµαρίς ‘piccola
Cassoni 1999:35.
volta’; LG 203; Hubschmid 1971, 270; cardiatu il suo cuore’ → cardía: καρδία.
Silvestri 1969; Crucitti 1988:29. carolée: καρυελαίαι ‘olive grosse come noce’.
cámasi, cameme, came, camete, cami, camite, carpíte ‘coperte’: καρπετιά.
camo, camome, camonda, cámonda, camusi, carpó: καρπός ‘frutto’.
canni, cánnome → cánno. cárvuna ‘carboni’: ngr. κάρβουνον.
cambanúci ‘campanello’; dim. di καµπάνα. caspíe ciotole’: ngr. καυκιά.
cambóssa ‘parecchi’ < καµπόσος. cástria ‘castelli’: pl. di cástro: κάστρον.
cammía ‘nessuna’: καµµία. catací: avv. ‘verso quella parte’: cata + ecí.
cámpo: κάµπος. catáde: avv. ‘verso questa parte’: cata + óde.
cana pron. indef. = canéna: κανένας ‘nessuno’. catalavénusi: ngr. καταλαβαίνω ‘capire’:
canenù ‘di nessuno’. “neoellenismo” casiliano.
canni, cannite, cannome, cannonda, cannu, catéforo ‘discesa’: ngr. κατήφορος ‘declivio,
cannomeno, cannusi → cánno. pendio, china’ < agr. κατώ-φορος.
cánno [ˈkanno] v. tr.  ‘fare’; ‚ catevamuta, catevionda, catevisi, catevíasi,
‘stimare’, ‘costare’ (bov) → camateró cateviusi → catevénno.
☞ p. pr. cánnonda; impf. écanne; aor. catevénno [kate'vεnno] v. intr.
écama, écame, ecáma-me, ecámete, ‘scendere’; tr. ‘abbassare’ (bov) ☞
ecáma(s)i; inf. cámi; cámete esí ‘fate catevénno ti ffáccia ‘scorticare il viso’

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(= cal. calari a facci); p. pr. cerasía: κερασία, -έα ‘ciliegio’.
catevénnonda; aor. ecatévi(n)a; ímmo cérata ‘corna’: κέρατο.
chai: inf. aor. di ḣánno, χάνω ‘perdere’.
catevíonda ‘ero sceso, sarei sceso’; chamme ‘a terra’: ḣámme, ngr. χαµαΐ.
imper. cáteva = grico catéva; inf. chamofonì: gr. χαµω ‘giù’ + φωνή ‘voce’.
catevísi, catevaméno ‘abbassato’; O channese, channite, channom: ḣánno.
potamó jénete stin oscía ce catevénni chathume → cong. aor. di ḣánnome ‘perdersi’.
cátu ston jaló ‘il fiume nasce sui monti cheramine → n. a p. 31.
cheretai, cheretao, cheretonda → hjeretáo: agr.
e scende giù alla marina || grico χαιρετίζω, mgr. χαιρετάω ‘salutare’.
(ac)catevénno ☆ gr. καταβαίνω & cheri, cherimu → hjéri ‘mano’ gr. χείρ.
CGL III, 149,45: catabennis cheró: καιρός.
descendis; TNC 312; LG 222; Crupi chimona: hjimóna ‘inverno’: χειµώνας.
chionionda: hjoníźi ‘nevica’ gr. χιονίζει.
1981:79; Cassoni 1999:35. chirinò: hjirinó ‘suino’: χoιρινός.
cátha ‘ogni’: mgr. κάθε, indecl. chírio = κύριος ‘signore’; l’esito normale è ciúri
catharimeno, catharizite, catharizzome: che vale’padre’.
καθαρίζω. chiro= hjíru ['çiru]  a. ‘peggiore’: χείρων.
cathário: ‘quarta ed ultima muta del baco da seta’, --
chlatthume: cong.aor.p. di ḣléno ['xlεno]
‘letargo’: καθάριος a. ‘puro’ (catharó). ‘riscaldare’: χλιαίνω.
cathiasi, cathimena, cathimeni, cathimeno, cholada: ḣoláda s.f., ‘macchia’.
cathisi → cathínno: gr. καθίζω ‘sedere’. cholò = ḣoló [xo'lɔ] a. (2) ‘torbido’: θολός.
cathisma ‘sedile’: κάθισµα. chorafi, chorafia, chorafiu: ḣoráfi s.n. ‘terra’,
cathístra [ka'θistra] s.f. ‘sedia’, ‘banco ‘campo’: χωράφιον.
del telaio’; sin. carécla ☆ dal gr. choraome < ḣoráźo ‘comprare’: gr. ἀγοράζω.
καθίστρα + suff. strumentale –ístra, chorasia = ḣorasía [xora'sia] s.f. ‘compera’.
chorì ‘guarda’ < ḣoró: θεωρῶ; gr. dial. θωρῶ.
der. di καθίζω [ka'θidzo], v. intr. chorio = ḣorío s.n. ‘villaggio’: χωρίον.
‘sedere’; tr. causativo ‘far sedere’ ☞ choristume: ḣoríźome ‘partire’: χωρίζοµαι.
aor. ecáthia; aor. pass. ecáisa ‘mi sono chorò, chorume: ḣoró ‘vedere’: θεωρῶ.
seduto’; inf. aor. cathísi || grico casíźo, chroni, chronia: ḣróno ‘anno’: χρόνος.
cilía [ʧi'lia] s.f. ‘ventre, pancia’: κοιλία.
caíźo, catíźo. Forme usuali: cathínno, ciliome, cilisi, cilume: cilío ‘rotolare’: κυλάω;
cathénno, cathíźo, cazzónno; κυλίω.
cathómeno [ka'θɔmeno] a. (2) cimésa ‘là in mezzo’ → ecimésa.
‘sedente’, cathiméno [kaθi'mεno] a. cína, cínda, cíni, cíno: ecíno ‘quello’: ἐκεῖνος.
(2) ‘seduto’, cáthima ['kaθima] s.n. cinigáo [ʧini'γao] v. tr.  ‘cacciare,
deverb. ‘sedile’, ‘il sedersi’, cá- andare a caccia’; ‘scacciare’;
thisma, cathénnome ‘mi siedo’; p. pr. ‘perseguitare’; ‘canzonare’, ‘distur-
cathínnonda; aor. ecáthia; imper. bare’ ‚ ‘esortare’ ☞ aor. 3 sg. ecínie
cáthu (ch), cáthie (b), cathíte & < ecínije; cal. caccijàri ☆ gr. κυνηγῶ
Meursius 199 καθίση sedes, scam- & LG 283; TNC 56; ΙΛΕΙΚΙ III 329;
num; κάθισµα parte del salterio.; TNC Crupi 1981:80; Casile Lettera a
xlv; LG 194, 175, 485; Crupi 1981:79; Macrakis 1984: o kerò mu cinigai ‘il
Casile 1991:110. tempo mi perseguita’.
cathite, cathiusi, cathu: καθίζω; v. cathístra. cinoe ‘svuotò’ → cinónno.
cátu ‘sotto’: ngr. dial. κάτου < gr. κάτω. cinónno [ʧi'nɔnno] v. tr. ‘versare,
catúna ‘tenda’: κατοῦνα.
ccami, ccamome, ccamusi → cánno. travasare’, ‘svuotare’ (bov) ☞ aor.
ccéḍḍa ‘piccola’ = miccéḍḍa < dim. µικκή. ecínoa; imper. cínoe ‘versa!’, cinóete
ceddári ‘stomaco’: κελλάριον. ‘versate!’; cinoetéto ‘versatelo!’; eḣo
cefalí, cefalindi, cefalíndu, cefalitu: κεφαλή. na cinóso ‘devo versare’; p.pr.
cendonnonda: cendónno, cendáo: *κεντόνω
< κεντῶ.
cinónnonda; cinónno to neró ti éhi sto
ceramidia: κεραµίδια ‘tegole’. varéḍḍi ‘svuoto l'acqua che è nel
cerása: ‘ciliege’: lat. ceraseum, gr. κεράσιον. barile’ ☆ gr. κενόνω < gr. κενῶ &

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MorB 12; Alessio 1943-4: 60; LG 233; ☞ Prov.: Pi mméni na ton azzunníusi i
Crupi 1981:80. áḍḍi, pethéni ciumuménu ‘chi aspetta
cinurghi, cinurghia, cinúrghio: καινούργιος. che altri lo sveglino, muore
cióla ‘anche’: καιόλας, κιόλας < gr. καὶ ὅλως.
ciómeno : céo < καίω ‘bruciare’. addormentato’ ☆ & LG 249; Crupi
cipúri [ʧi'puri] s.n. ‘orticello’ (bov); cf. 1981:80.
cípo ☞ pl. cipúria || grico cipúri ciumithí, ciumithume, ciumithusi,
‘cortile dietro casa’, ‘trullo’, cipuráci ciumumesta → ciumúme.
ciumúme [ʧu'mume] v. intr. ‘dormire,
‘cortile’☆ gr. κηπούρι dim. di κῆπος
addormentarsi’ → ciumáme.
& TNC 56; LG 237; ΙΛΕΙΚΙ III 149;
ciumúmeno [ʧu'mumeno] a. (2)
Crupi 1981:80.
‘addormentato’, p. p. di ciumáo; anche
cípo ['ʧipo] s.m. ‘orto’, ‘giardino’ (bov);
ciumuméno & Crupi 1981:80.
cf. cipúri.
ciumuméno [ʧumu'mεno] a. (2)
cítte ['ʧitte] avv. ‘di là’ (bov) → ecítte.
‘addormentato’, p. p. di ciumáo; anche
cítten ['ʧitte] avv. ‘di là’ (bov) → ecítte.
ciumiméno.
ciuciulíjemma [ʧuʧu'lijemma] s.n. ciurima, ciurimu, ciurindu, ciurissu, ciurisu →
‘ciarla’ (C) ☞ cal. ciuciuliàri ‘ciarlare’ ciúri ‘padre’ < κύριος ‘signore’.
☆ onomat. ciù-ciù & Casile Zoì, 14: i ciúri ['ʧuri] s.m. ‘padre’ (bov) → júro ☞
Maria éclae to ciuciulíghemma ‘Maria gen. ciurú; ciúrimmu ‘mio padre’; pl.
interruppe le ciarle’. ta ciúria, i ciurúdi; der. ciuriací
ciumáme [ʧu'mame] v. intr. ‘dormire, ‘domenica; ngr. ‘πατέρα’ ☆ mgr.
addormentarsi’ (bov); anche ciumáo κυοῦρι(ον), a. 1162 [Guillou 1963:
(b,c,ch,r), ciumúme (ch) ☞ ciumáse 104]; gr. κύριος ‘signore’;
‘dormi’; ciumáte ‘dorme’; ciumóm- conservazione parziale di ‹υ› [u] &
masto ‘dormiamo’; aor. eciúmia, AIS 5; TNC 57; TNC 427; LG 284;
eciumíthina; cong. na ciumithó; inf. Crupi 1981: 80; Caracausi 1976: 534;
ciumithí ‘dormire’; mi ciumithísi ‘non Karanastasis 1997:21; Casile 136.
dormire’; imper. ciúmesta, ciumi- cladetsome: cladéggo ‘potare’ < κλαδεύω.
tháte; ímmasto ciumithónda ‘aveva- cladia n.pl. ‘rami’: cladí: κλαδίον.
mo dormito’; p.p. ciumúmeno, ciumu- clánno ['klanno] v. tr. ‘rompere’ (bov);
méno, ciumiméno; ton ívra ciumónda anche cláźo; cf. áclasto ☞ p. pr.
‘lo vidi che dormiva’; cazzeḍḍuna ti clánnonda; p. p. claméno; impf.
ciumáse manahí, egó cióla ciumáme éclanne; aor. éclasa, 3.pl. eclásai; inf.
manaḣó ‘bella ragazza che dormi sola, aor. clái, inf. aor. p. to clastí; aor.p.
anch'io dormo solo’ ☆ gr. κοιµᾶµαι eclástina; éḣo na cláo ‘devo rompere’.
& TNC 142; LG 249; ΙΛΕΙΚΙ III 149 Prov.: i glóssa stéa den éhi ce stéa
Crupi 1981:80. clánni ‘la lingua ossa non ha e ossa
ciumáo [ʧu'mao] v. intr. ‘dormire, rompe’|| grico clánno albeggiare’
addormentarsi’ ☞ cal. ciumàri ☆ gr. (erompere della luce, Morosi) ☆ gr.
κοιµάω, κοιµίζω ‘addormentare’ → κλάω ‘rompere’, mgr. κλάννω
ciumáme. ‘rompere’, ngr. κλάνω ‘scorreggiare,
ciúmima ['ʧumima] s.n. ‘il dormire’, spernacchiare’ & CGL III, 147,70;
Meursius 245 κλάννειν frangere;
‘sonno’ ☞ cal. ciumàri, acciumàri (tr.)
MorB 64; LG 244; Crupi 1981:81.
☆ deverb. di ciumáme < gr. κοίµισµα clapí [kla'pi] s.n. ‘stelo di orzo’ (bov) →
→ ciumáme. clapía.
ciumiméno [ʧumi'mεno] a. (2) clapía [kla'pia] s.f. ‘vagliatura del-
‘addormentato’ (bov) → ciumuméno l’orzo’, ‘paglia grossolana’, ‘residuo

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di fieno nella mangiatoia dei buoi’; cf. cloní, pl. clonia : κλωνί ‘germoglio’.
codispóti: οἰκοδεσπότης ‘padrone di casa’.
clápo, cluzía, clapáhjera, zziclapíźo ☞ comí = acomí ‘ancora’: ngr. ἀκόµη, ἀκόµα <
☆ forse dal n.pl. di clapí; gr. κλάπα. gr. ἀκµήν.
clápo ['klapo] s.n. ‘stelo dell'orzo’ (b, g, commena → cósto.
condati ‘accanto a lei’, condatu → condá:
rf) ☞ pl. ta clápa ‘paglia di orzo usata
cónda ‘udendo’ → cúo.
per riempire i materassi’; cal. crápu condá [kon'da] avv. di luogo ‘vicino,
‘stoppia di grano’ (cz) ☆ ngr. κλάπα < accanto’ (bov) ☞ regge il gen.:
gr. *κλάπον (R); Alessio 1934, 145: condámu ‘vicino a me’; Condá cogn. a
lat. CAPULUM, ma in pontico c’è
Seminara (a. 1746) ☆ gr. κοντά &
κλαπόδιν ‘piccolo legno’ & LG 242;
Meursius 263; LG 256; ΙΛΕΙΚΙ III
Condemi 2006, 130; Violi 2007,152;
212; Crupi 1981:81; De Leo 2011, 9.
Casile, Rubrica: ‘paglia di orzo che condai, condannonda , condani → condénno.
una volta era usata per riempire i condénno [kon'dεnno] v. intr.
materassi’.
cleftà, n.pl. di cleftó ‘ladro’: κλέπτης.
‘avvicinarsi’ (bov) ☞ anche páo
condá; aor. ecóndia; condénnome ‘mi
cléo ['klεo] v. intr. ‘piangere’ (bov) ☞ ti
éhi ce cléi? ‘che hai da piangere?’; 1pl. avvicino’ ☆ der. da condá; ngr.
clóme; 3pl. cléusi/clósi; p.pr. clónda; κονταίνω & TNC 338; LG 256;
impf. éclee ‘piangeva’; inf. pr. cléi; ΙΛΕΙΚΙ III 212; Crupi 1981:103.
aor. éclazza, eclázzasi; cong. na condíli [kon'dili] s.n. ‘penna per scrivere’
clázzo; inf. aor. clázzi; Prov.: Tis su (bov) ☞ ☆ mgr. κονδύλι, dim. di agr.
théli caló, se cánni na cléi ‘chi ti vuol κόνδυλος & Meursius 265 κόντιλον
bene ti fa piangere’; To pedí pu théli penna; Kriaras: κονδύλιν το· κονδύλι·
na cláspi, me tim mánandu na pái na κοντύλι· κοντύλιν. Όργανο γραφής,
pésci ‘il bambino che vuol piangere, γραφίδα; LG 255.
vada a scherzare con la sua mamma’ condofere, condoferi, condoferite, condofero,
condoferome, condoferri, condoferrite,
(r) || grico cléo, gléo ☆ ngr. κλαίω & condoferronda, condoferrusi, contoferrome
MorB 95; TNC 21; LG 242; Crupi → condoférro.
1981:81. condoferma: s.n. ‘ritorno’.
clíma ['klima] s.n. ‘vite’ (bov) ☞ pl. condoférro [kondo'fεrro] v.  intr.
clímata; clíma agricó ‘vite selvatica’ ‘tornare, ritornare’; ‚ tr. ‘restituire’
☆ gr. κλῆµα & Meursius 247 κλῆµα (bov) ☞ impf. econdófera; Ti vradía ta
pagus; LG 245; Crupi 1981:81. thémata condoférrusi an da choráfia
climeno, clisi, clista, clonda → clívo. ‘la sera i lavoratori rientrano dai
clívo ['klivo] v. tr. ‘chiudere’ (b, rf); clígo campi’; ton gondoféro combói ‘torno a
(ch, c, r) ☞ eḣo na clío ‘devo imbrogliarlo’; cal. tornari, nei due
chiudere’; i porta en glívi ‘la porta non sensi ☆ gr. κοντοφέρνω & TNC 214;
chiude’; aor. éclia; ímmo clíonda LG 257; ΙΛΕΙΚΙ III 215; Crupi
‘avevo chiuso; inf. clísi; aor. p. 1981:81.
eclístina ‘mi sono chiuso’; inf. aor. p. cósmo s.m. = κόσµος ‘mondo’.
cóssifo s.m. → κόσσυφος ‘merlo’.
clistí; imper. clísta ‘chiùditi!’; O pódi
cósto, cófto ['kofto] v. tr. ‘tagliare’ (g, r,
zze marúḍḍi già climéno ‘o piede di
rf); anche cósto (b), cóthto (ch), cótto
lattuga ancora chiuso’ (canto di Bova)
(g) ☞ I Romi … sti Chóra mas écozze
< κλεισµένος; Clistí ‘chiusa’ è una
tin glóssa ‘Roma … a Bova ci ha
fontana di Bova || grico clínno, cf. ngr.
tagliato la lingua (volantino del circolo
κλείνω ☆ gr. κλείω ‘id.’ & TNC 12; Cinurjo Cosmo); aor. écozza, écospa;
MorB 11; LG 245; Crupi 1981:81.

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cong. na cózzo; inf. cózzi, cóspi; cúo ['kuo] v. tr. e intr. ‘ascoltare, sentire,
imper. cózze; aor. pass. ecópi(n)a, udire’; ‘chiamarsi’ (bov); anche cúnno
ecóstina ‘mi sono tagliato’; p. pass. ☞ Il senso ‘sentire (freddo, caldo,
comméno; inf. md. copí ‘essere dolore ecc.)’ è interferenza semantica
tagliato’; p. aor. copónda; imper. aor. romanza: cúo zzihrada κούω ψυχράδα
cópa ‘tàgliati’; to cósti ‘taglialo’; grico ‘sento freddo’ 1.pl. acúme, cúme;
cófto, cótto ☆ gr. κόπτω & LG 259; cúete, cúsete ‘sentite’; cúemu, cúsemu
Nikas 1997:539. ‘séntimi’; cuetému ‘sentitemi’; den gúi
coto ‘si udiva’ → cúo. (en gúnni) ‘non sente’; p. pr. cónda,
cotsi, cotsome, cotsume, cotsusi, cozzi, cozzo → cúonda, cúnnonda; aor. ícua (b), ácua
cósto.
crasí s.n. ‘vino’: κρασί < *κρᾱσίον ‘mescolanza’
(ch, g); cúse ‘senti!’; cong. aor. na
(κεράννυµι). cúso; cóme ‘mi sento’, cúome calá ‘mi
cratì, cratisi, cratite, cratume, cratusi → crató sento bene’; aor.p. ecústina; cóndo ‘si
‘conservare’: κρατῶ. sentono’; den góte ‘non si sente’;
cratistò cong. aor. pass. di crató. ecóto ‘si sentiva’; éhi na custí ‘si dovrà
crazi, crazzeteti, crazzi, crazzo, crazzonda →
craźo ‘chiamare’: κράζω ‘gridare’.
sentire’; ímmo custónda ‘mi ero
créa s.n., gen. creatu: κρέας ‘carne’. sentito’; ícunne Péppise ‘si chiamava
cremameni → cremánno: κρεµῶ ‘appendere’. Peppe’ (rf); cúo pína ‘sento fame’, cúo
crevátti s.n. ‘letto’: ngr. κρεβάτι < agr. κραβάτιον. źésta ‘sento caldo’; grico cúo, acúo ☆
crifá ‘di nascosto’: κρυφά.
crisáfi s.n. ‘oro’: χρυσάφι.
agr., ngr. ἀκούω ‘sentire; chiamarsi’
crommídi ‘cipolla’: κροµµύδιον. & Tozer 1889:16; LG 22; Crupi
crómo ‘colore’ crómo ['krɔmo] s.n. ‘colore’: 1981:82.
neoellenismo, anche se croma ‘culuri’ è cuppári s.n. ‘ciotola’: κουπάρι < lat. cuppa.
attestato da Condemi 2006, 143 e Violi 2007, cupponnome ‘copriamo’: cuppónno ‘coprire’,
159. Le varietà romanze hanno però scarpi di cal. accuppari.
cromu, pellacromu e cromatina, crema per curcudía s.f. polenta’: mgr. κουρκούτη.
lucidare le scarpe, voce dotta apparsa nei primi curupaci s.n. ‘orcioletto’: κουρουπάκι, dim. di
del Novecento (DEI 1172) ☆ gr. χρῶµα. κουρούπι ‘vas di creta danneggiato’.
crunnonda ‘suonando’: crúo: κρούω. cuse, cusete, cusi → cúo.
cuccí, cuccia: ‘chicco’: κοκκίον, cal. cocciu. cutaglia, n.pl. di cutáli ‘cucchiaio’: κουτάλι.
cúcuḍḍo ‘grandine’: *κούκουλλον ‘cappa’. ecìtte [e'ʧitte] avv. di luogo ‘di là’ (bov)
cucughiata: cucugghjáta s.f. ‘allodola’. → ecí ☞ esprime moto da luogo ☆ gr.
cuddura: cuḍḍúra ‘ciambella’: κολλύρα.
ἐκεῖθεν & LG 139; Crupi 1981:83;
cuḍḍúru cuḍḍúru [kuɖ'ɖuru kuɖ'ɖuru]
Dieterich 1898:280 (θ > tt).
avv. ‘appiccicato, a ciambella’ ☞ O
Janni ipighe panda cudduru cudduru
D
me tin manandu ‘Gianni andava dáclia ‘lacrime’: *δάκρυον.
sempre appiccicato alla mamma’ ☆ dafista ‘làsciali’, imperat. di afínno.
Reduplicazione del sostantivo dafli = láfri s.n. ‘alloro’: δάφνιον.
cuḍḍúra ‘ciambella’ usato come dangannusi ‘mordono’: δαγκάνω < δάκνω.
danistume: daníźome ‘prendere in prestito’.
sintagma avverbiale per le donne e dásto ‘loro’: δαῦτος < ἔδε rafforz. + αὐτός.
flesso al m. per gli uomini. Da ngr. ddejisi, ddhegome: ḍḍégo ‘scegliere’: ἐκλέγω.
κουλούρα, agr. κολλύρα & Casile Zoì dderrome ‘scuoiamo’: ddérro < ἐκδέρω, γδέρνω.
12; NDDC 213: fari cuḍḍúra ‘fare ddhismonónda aḍḍismonáo ‘dimenticare’.
circolo attorno a una persona’. ddomádi ‘settimana’: ἑβδοµάδιον.
cufozesto ‘sordo’: κουφός ‘sordo’ + ζέστα déda ‘fiaccola di legno resinoso’: δαίδα.
‘calore’ delegghete, deleggheto, deleggusi, delezze,
cumbe ‘tasche’: metatesi < púnga. delezzete, delezzonda → deléggo.
cundura: cúnduro ‘breve’: κούντουρος. deléggo [ðe'lεggo] v. tr. ‘raccogliere’,
cúnneto si udiva’ → cúo. ‘riportare a casa’, ‘esercitarte prano-

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terapia’ (b); delégo (ch, r, g); deléguo déstero num. ord. ‘secondo’: δεύτερος.
dezio = dezzío [ðet'tsio] a. (1) ‘destro’: δεξιός.
(rf) ☞ áploe na delésci scíla ‘uscì per dhismonia aor. di aḍḍismonáo ‘dimenticare’:
raccogliere legna’; deléggo tin dávla (ἀ)λησµονῶ.
‘sparecchio’; scicúḍḍia to pódi ce árte día día ['ðia ðia] avv. ‘lentamente’,
pao ásce man jinéca na mu to delésci ‘piano piano’, ‘adagio adagio’ (Zoì,
‘mi sono slogato un piede ed ora vado 12) ☞ grico adía, assadía, assatía,
da una donna perché lo rimetta a ssadía, ssatía ‘adagino adagino’ < ἐξ-
posto’; deléggo ta cútteri (ta
ἀδείας ☆ L’espressione, sconosciuta
hjeropísti) ‘raccolgo ler masserizie =
ai lessicografi, è attestata solo da
muoio’ cf. cal. cogghjíri ☆ ngr. Casile (Zoì,12). Riposa su agr. ἄδεια
*δελέγω ‘mettere insieme’ & TNC ‘libertà, agio’. A Bova è rimasto
59; LG 122; Crupi 1981:82. Assai adiáźo < ἀδειάζω ‘ritardare, indu-
singolare la semantica del medio giare’ & LG 12; Cassoni 1999, 83;
deléggome [ðe'lεggome] v. intr.  ILEIKI I, 58.
‘ritirarsi, rientrare’; ‚ ‘radunarsi’; ƒ diáfamma s.n. ‘aurora’ ® diafáźi.
‘rannicchiarsi’, „ ‘convivere more diaforegghite < diaforéggo = diaforáo
uxorio’ (bov); … deléguome (rf); sin. ‘guadagnare’: διαφορέω.
Arritirégguome ☞ san deléguete o diaforizonda diaforíźo = diaforénno
‘guadagnare’.
ciúrimmu ‘quando rientra mio marito’; diálogo ['ðialoγo] s.m. ‘conversazione’.
impf. edélegua; aor. edélescia/
Sostituito da pláto, plátemma ☆ gr.
edélezza; aor. m. edeléftina ‘sono
διάλογος, voce ellenica recuperata da
rientrato a casa’ = cal. mi cogghjìvi;
edeléstissa ‘si radunarono’; pp. Casile.
diameriźo ‘calcolare’: *διαµερίζω ‘dividere’.
delemméno; ppf. 3 sg. ito deléscionda; diasticó ‘utile’: ἐνδειαστικός.
íto delestónda ‘si erano riuniti’; cal. mi diavénno [ðia'vεnno] v. intr.
rricógghju ‘rientro (dalla campagna)’ ‘attraversare’, ‘passare’, ‘andare’
(b) || = grico sianónno < συνενόω (bov); sin. passégguo ☞ diavénno egó
‘riunire’ ☆ cf. deléggo < ngr. *δελέγω an do spiti ‘passo io dalla casa’; aor.
‘mettere insieme’; ngr. διαλέγω ejáina ‘sono andato’, ejái ‘se ne andó’
‘scegliere’ & Hes. 1117 διαλέγεσθαι· (gr. ἐδιάβην, usato come aor. suppl. di
ἐπὶ τοῦ συνουσιάζειν (Hyperid. fr. 171 páo), ejávissa ‘se ne sono andati’; cf.
J.); TNC 59; Kapsomenos 1953: 322; peránno ☆ gr. διαβαίνω & TNC 11,
LG 122; Crupi 1981:82. 65; Tsopanakis 1955, 67 javénno; LG
deleggonde, delestì. delestonda, delestusi,
deletsi, deletsome, deletsonda, délezze → 126; Crupi 1981:83; ΙΛΕΙΚΙ II: 293.
deléggo. dicama, dicamu, dicasa, dicato dichímma,
dema, dèmata ‘legaccio’: δέµα. dicomma, dicómmu, dicóndu, dicossa → dicó:
demena, demeno p.p. di dénno: δένω. ἰδικός ‘proprio’.
dendro, dendrò ‘quercia’: δένδρον ‘albero’. dichatera, dichateramu, dichaterasa, dichaterati,
dichateratu, dichatere, dichaterossa →
déo ['ðεo] escl. ‘indietro!’; avv. ‘indietro’ thiḣatéra.
(bov) ☞ Richiamo per i buoi che dicó [ði'ko] a. poss. ‘proprio’; ‘parente’
durante la trebbiatura si allontanano (bov) ☞ dicómmu ‘mio’; dicóndu
dall'aia; déo cca (‹ cal. cca ‘qua’) (b); ‘suo’; dicútu, dicóssa ‘vostro’; dicóttu
cánno déo ‘torno indietro’; cámete ‘suo’; dicóndo ‘loro’, dichíndi ‘di lei’;
déo! ‘fate ritorno!’ ☆ < óde ó: ta dinéria ta dicássu ‘i tuoi denari’;
iterazione del pron. dim. óde ‘qui’ ὦδε ciúri dicómmu, ciúria dicáma, mána
ὦ & ΙΛΕΙΚΙ II:253. dichímu, máne dichémma; írtane i
dérma s.n. ‘pelle’, cuoio’: δέρµα. Cf. nota a p.153. dichímu ‘sono arrivati i miei
despinís ‘signorina’. Cf. p. 8.

- 193 -
(parenti)’; to dicómu ‘la roba mia’ ☆ δίδω, δίνω < gr. LXX δίδω < δίδωµι ||
gr. ἰδικός & TNC 61; LG 183; ΙΛΕΙΚΙ grico dínno, dío, tío & LG 127
II 303; Crupi 1981:83. δίδωµι, 133 δώνω; ΙΛΕΙΚΙ II 305-309
dífo ['ðifo] v.  tr. ‘mostrare, indicare’, δίν-νω; TNC 63; Crupi 1981:83.
‘dimostrare’; ‚ intr. ‘apparire’, dosi, dosome, dótemu → dónno.
‘sembrare’, ‘esibirsi’ (bov); díḣo (g, r); drómo ['ðromo] s.m.  ‘strada’, ‘via
principale’ (bov); ‚ Drómo top. cal.
dígo (ch, rf) ☞ dífo fanerá ‘dimostro
pubblicamente’; dífi, díji, dízzi ‘si ☞ cal. dròmu, nome di strada prin-
vede’, ‘sembra’; dízzesta ‘mòstrati!’, cipale a Bova, Gallicianò, Cardeto,
dizzetúto ‘mòstraglielo; difíte Palizzi, Melicuccà, Platì, Locri, Reg-
‘mostratevi’; impf. ídifa: édife ti gio ☆ gr. δρόµος & MorGr 89; LG
ércheto ‘sembrava che venisse’; aor. 131; F. Condemi, Il Dromo: da
ídizza, édizza; imper. dízze; cong. na Gallicianò a Reggio e Cardeto, «I
dízzi ‘dovrà dimostrare’ || grico dífno, Cumelca», marzo-aprile 1989, p. 3; V.
dínno, tífo, dífto ☆ gr. *δείφω < Naymo, Un erudito visitatore del
δείχνω < δεικνύω & TNC 61; LG 121; Cinquecento alle rovine di Locri
Crupi 1981:83. Epizefiri, «RSC» N.S., XXX, 2009/1-
dinéria ‘denari’ normannismo: denier < 2: 74: «vicino il lito del mare a lo passo
δηνάριον. ordinario de la strata regale nominato
dío ['ðio] num. ord. ‘due’ (bov) ☞ i dío Lo Dromo» (a. 1560); Mosino 1993.
‘entrambi’; dío mínu cánni ‘due mesi drosía [ðro'sia] s.f.  ‘rugiada’, ‚
fa’ ☆ gr. δύω ‘2’ & TNC 62; LG 132; ‘sudore’ (bov); ƒ Drosía top cal. ☞ Il
Crupi 1981:82. genere f. è passato al cal. sudura s.f.:
diplomena ‘avvolti’, diplothì → diplónno. cf. Elcock 52; grico drosía ☆ gr.
dísculo a. ‘difficile’ < δίσκολος. δροσιά ‘rugiada’ & LG 132; Crupi
dízze imper. aor. → dífo.
dói, dóite, dommu, dónni, donnite, dónno,
1981:83.
dónnome, donnonda, dónnusi → dónno. drosiama 'il nostro sudore' → drosía.
ducasi → dónno.
dónno ['ðɔnno] v. tr. ‘dare’ (bov) ☞ duleggasi, dulegghi, duleggonda → duléggo.
dónnonde ‘si danno’; impf. édonna, duléggo [ðu'lɛggo] v. intr. ‘lavorare’
ídonna: an íḣa zzomí, édonna ‘se (bov) → dulía ☞ duléggusi ‘lavo-
avessi pane, lo darei’; aor. édica, rano’ || cal. ddolliàri, ddorliari, ddul-
édoca, éduca; dóe ‘dài’; éhi na dósi an
liari ‘indugiare’ ☆ gr. δουλεύω & LG
thelísi na piái ‘deve dare se vuole
130; Tripodi 2007, 49 ddullíu <
prendere’; inf. dói: éḣo dói ‘ho dato’;
δουλεύω; Tripodi 2014, 124:
edóstina, edóthtina ‘mi sono dato’;
ddulliàrsi ‘perder tempo’; Canfora, L.
edóthi, edósti ‘si è dato’: edósti stin
1985, Douleuein, in «Studi storici» 4:
galí zoí ‘si è dato alla bella vita’; cong.
903-907.
aor. na dóso; imper. (d)ómmu
dulía [ðu'lia] s.f. ‘lavoro’, ‘servizio’,
‘dammi’; óstu ‘dàgli’; dommúto
‘dàmmelo!’, anche ammúto per ‘faccenda’ (bov) → duliéggo ☞ sin.
influenza di cal. (d)àmmi ‘dammi’; travaglio; pl. dulíe, dulíese (rf); prov.:
dostúto! ‘dàglielo!’, dótemu ‘dàtemi’; To chjeró den to ḣorí tíspo, ma i dulía
doetétemu ‘dàtemelo’; dommúteto óli ‘il tempo non lo vede nessuno, ma
‘dàtemelo’; edóstine ton cózzo ‘batté il lavoro tutti’; mía áḣaro dulía ‘una
con la testa’ ☆ Retroform. dal tema cattiva azione’ ☆ mgr. δουλεία
dell'aor. ἔδωσα / ἔδωκα; cf. ngr. dial. ‘prestazione’ & TNC 64, 317; LG
δώνω (Sporadi, Cos, Scarpanto); ngr. 130; Crupi 1981:83.
duliama, duliandu → dulía.

- 194 -
duluḍḍa [ðu'luɖɖa] s.f. ‘lavoretto’ (rf) → edenne, impf. di dénno: δένω < agr. δέω. ‘legare’.
ediafazze aor. di diafáźźi ‘albeggia’: διαφάυει, cal.
dulía, duliéḍḍa ☞ ecánnasi dulúḍḍe abbrisci.
ismía ‘facevano lavoretti insieme’ edialojegghe → dialojéggo ‘dialogare’ (C).
(Casile, Zoì 6) ☆ dim. di dulía & ediche, edike ‘diede’ (ἔδωκε), aor. di dónno.
Casile. edizze → dífo.
edosti → dónno.
educasi ‘donarono’ (ἐδώκασι) → dónno.
E eduleggasi, edulegghe → duléggo ‘lavorare’:
ecama, écanna, ecánnasi, → cánno. δουλεύω.
ecanune, ecanunie, ecanunussa → canunáo. efaga, efagame, efágasi, efaghasi, efaghe → fáo
ecatevenne, ecatevie → catevénno. < gr. φάγω, aor. di trógo ‘mangiare’.
ecathiasi, ecathie, ecatie, ecathinnasi → efani, efannimma → fénome: φαίνοµαι.
cathínno. efenasi → féno.
eccheretia, eccheretiasi, eccheritistissa, efera, efere, eferete, eferrasi → férro.
echeretai, echeretistissa, echeretiasi → efilie, efilistissa → filáo.
hjeretáo ‘salutare’: χαιρετάω. efortoe → fortónno.
ecentrie < cendrónno ‘innestare’: κεντρῶ. efstà = eftà ἑπτά ‘7’.
eche variante grafica di eghe ‘capre’. efúscoa → fuscónno ‘crescere’: φυσκόνω
echerti si alzò’: aor. di jérrome; jertónno: ‘gonfiare’.
*ἐγερτόνω < ἐγείρω. ega, eghe: éga 'capra' < ngr. αἶγα < agr. αἴξ .
échi, echite, echo, echome, echusi → éḣo. egasa → éḣasa < ḣánno.
echlatthononde ‘si scaldavano’: ḣléno, χλιαίνω. egge = eghe → éga.
echorestissa, echoristi, echoristimma, eggherestissa ‘si salutarono’, eggheretiasi
echoristissa → ḣoríźome. ‘salutarono’: hjeretáo: χαιρετάω.
ecí: ἐκεῖ ‘là’. eghadi, eghathi = eḣáthi, eghannasi → ḣánno:
eciapánu ‘lassù’: ecí + apánu. χάνω ‘perdere’.
ecina, ecine, ecini, ecino, ecindi, ecindin, ecindo, egharre ‘pensava’ < θαρρῶ, ngr. dial. χαρρῶ.
ecinì → ecíno: ἐκεῖνος ‘quello’. eghea = ejea: v. nota a p. 20 del ms.
ecinigussa ‘canzonavano’: cinigáo: κυνηγῶ. eghenasti, egheneto, eghennussa → jénome.
ecinoe ‘svuotò’: cinónno < κενόνω < gr. κενῶ. egherti ‘si alzò’: jérrome: ἐγείροµαι.
ecipéra ‘là oltre’: ἐκεῖ + πέρα. eghete, eghi eghite, egho, eghome, eghusi → éḣo:
eciumithi, eciumithissa, eciumithite → ciumáme: ἔχω.
κοιµᾶµαι. eghiai, eghiaina, eghiaissa, eghiasi aor. di
eclae, eclanne impf. di → clánno: mgr. κλάννω, diavénno: διαβαίνω, suppl. di pao.
agr. κλάω ‘rompere’. eghirae ‘piacque’: χαίρω.
eclee, ecliasi, eclie, eclithi → clígo: κλείνω <. eghirezze → jiréguo ‘girare, cambiare’, γυρεύω.
κλείω. eghiuvegghasi impf. di juvéggo → cal. juvári <
econdae, econdasai: condénno: κονταίνω. lat. JUVARE.
econdofera, econdoferasi, econdofere → eghorae, eghorase → ḣoráźo: ἀγοράζω
condoférro ‘tornare’: κοντοφέρνω. ‘comprare’.
econdonnasi, impf. di condénno ‘avvicinarsi’. eghorisati, eghoristi, eghoristina → ḣoríźo
ecopi ‘si tagliò’, aor. pass. ecópi(n)a, ecóstina di ‘separare’: χωρίζω.
cófto/cósto: κόπτω. eghorrasi ‘videro’ → ḣoró: θεωρῶ.
ecoto ‘si sentiva’ → cúo: ἀκούω. egratse ‘scrisse’ → gráfo: γράφω .
ecratse, ecratussa, ecrazeto, écrazze → craźo: egualasi, eguale → guáḍḍo ‘cacciare’; cf. cal.
κράζω. cacciàri ‘imporre (un nome)’ ☆ gr. βγάζω <
ecristi ‘si nascose’ → crífo: κρύφω. agr. ἐκβάλλω.
ecrue ‘suonava’ → crúnno: κρούω. eguenne, eguichi, eguichissa, eguiki → guénno
ecuasi, ecue, ecunne, ecunnasi, ecusti → cúo. ‘uscire’: ἐκβαίνω.
ecurrudeghegghe → currudéggo ‘mescolare’. éhji, éhjite → éḣo.
eddeghia, eddeghie, eddejiame, eddejiasi, edeasi
→ ḍḍégo ‘selezionare’, ‘scegliere’. éḣo ['ɛxo] v. tr. ‘avere’ (bov); impers.
edefe < défo ‘giovare’: δέχοµαι. ‘esserci’ (bov) ☞ Aus. nelle forme
edelegghe, edeleggheto, edelesti, edele-stimma, perifrastiche; éhi, éḣome, éḣusi; impf.
edelestissa, edeletsasi, edeletse, edelezze → aor. íḣa, íhe, íhe, íḣame, íhete, íḣasi;
deléggo.
edélie = ethélie; cf. nota a p. 121.
p. pr. éḣonda; ti éhi ‘che c'è’ = cal. chi

- 195 -
àvi; éḣo na ívro ‘devo vedere’; íhe éna éne ‘è’ → εἴναι.
viággio ena ríga ‘c’era una volta un re’ enghíasi, enghie, engie, enghize ‘spettare a’ nghíźo:
ἐγγίζω.
☆ ngr. ἔχω & LG 163; ΙΛΕΙΚΙ ΙΙ 398; engonatíasi → ngonatíźo ‘inginocchiarsi’:
Crupi 1981:83. γονατίζω.
eḣorístimma, eḣorístissa → ḣoríźome. ennethe → nnétho ‘filare’ → γνέθω.
ejaassi, ejái, ejáina, ejáissa ‘andarono’: aor. di epandenna, epandiame, epandiasi, epandie →
guénno: ἐγβαίνω < ἐκβαίνω, suppl. di páo. pandénno ‘incontrare’: ἀπαντῶ.
ejea: v. nota a p. 20 del ms. eparasi, epare, eperre, éperre → pérro: παίρνω.
ejelee ‘rideva → jeláo: γελάω. eparpate, eparpatia, eparpatie, eparpatiasi →
ejenásti, ejennithi, ejennithina, ejennussa, parpató: περιπατῶ ‘camminare’.
ejenondo → jénome: γένοµαι ‘nascere, epeliasi → pelánno, peláo, peláźo ‘condurre al
diventare’. pascolo’: dial. ἀπολάω.
ejerreto ‘si alzava’, ejerti, ejertissa → jérrome: eperae, eperannasi, eperanne, eperasa, eperasae,
ἐγείροµαι. eperasai, eperase → peráźo, peránno
eji = ehji ἔχει → éḣo. ‘trascorrere, passare oltre, guadare,
ejíregghe → jiréggo. attraversare’: περάζω.
ejuvázzasi, ejuvetsasi → juvéggo. epetane, epethane, epethanna, epetanne →
ela, elaste ‘vieni, venite’: imper. aor. di ἐλαύνω, pethéno 'morire': πεθαίνω.
suppl. di ἔρχοµαι. epia, épiae, epiannasi, epianne, epiasai, epiasi,
elega, elegasi, eleghe, éleje → légo. epiasti → piánno ‘prendere’: πιάνω < πιάζω.
elie ‘sciolse’, aor. di línno: λύνω, agr. λύω. epie, epinnasi → pínno ‘bere’: πίνω.
elpisi cong. aor. di elpíźo. epígasi, epighasi → ípiga: ὕπηγα , aor. di páo.
emacrine aor. di macréno ‘allontanare’: epistegga, epistezze, epistegghe → pistéggo.
µακραίνω, µακρύνω. eplateggasi, eplategghe, eplatesti, eplatezze,
émbenne, embicasi, embíchi, embíchissa, embici eplatéstissa → platéggo ‘parlare’: *πλατεύω <
embiki, embikissa → embénno ‘entrare’. πλατειάζω.
embénno [em'bɛnno] v. intr. ‘entrare’, eplethissa → plínome, plénome: πλένοµαι .
epline, eplithi, eplithina, eplithissa → plíno.
‘cominciare’ (bov) ® mbénno, -énno, eplusenasi → pluséno ‘arricchirsi’: πλουταίνω.
émbasi ☞ impf. émbenna; aor. epone, ponáo ‘dolere’: πονῶ
embíchina, embícina, mbíca; émbesa; eppese aor. di pétto: πέφτω < gr. πίπτω.
émbese clónda ‘cominciò a piangere’. eprandesti → prandéggome: παντρεύω ‘sposare’.
eprepe → prépi ‘conviene’ = cal. meri.
Regge il gerundio in perifrasi con erazzasi → rásto ‘cucire’; v. p. 33 del ms.
aspetto incoativo: embíchi clónda erchese, ercheste, ercheto, ercome, ercomesta,
‘cominciò a piangere’; embízzisa erconde, ercondo, érhjete, erkesto, erkete →
fégonda ‘cominciarono a fuggire’; ércome: ἔρχοµαι ‘venire’.
sonno mbéi? ‘posso entrare?’; embéthi eristissa, eritse, erizzame, erizzasi, erizze → rísto,
rífto ‘gettare’ rísto : ῥίπτω, mgr. ῥίχνω.
sto spiti ‘entrò in casa’; imper. mbíca, erotia, erotistissa → arotáo ‘chiedere’.
mbicáste ‘entrate’; cong. aor. na mbicó érremo ‘solitario, ermo’: ἔρηµος.
(b), na émbo (r), na mbethó (c), na erti inf. aor. di írta. → ércome.
mbéo (c,r) ☆ gr. ἐµβαίνω & Meursius értima ['ɛrtima] s.n. ‘venuta’, ‘avvenire’,
153 ἐµπέννειν ingredi, intrare; TNC ‘uscita’ (bov) ☞ cal. nesciuta ☆
LXXIX, 21; MorB 58; LG 143; derivato in -ima dal tema di gr. ἦλθον,
ΙΛΕΙΚΙ ΙΙ, 353; Nucera 1993:54; Crupi aor. di ércome ἔρχοµαι & Du CangeG
1981:32. 374; Kriaras: έλθιµον το: άφιξη,
emena, emenasi, emene → méno: µένω. ερχοµός; Casile: grafo to ertima ode....
emetriasi, emetrie → metró ‘contare, misurare’: ertonda, ertusi → ércome.
µετρῶ, gr. µετρέω. esciasti, esciazzommo → sciáźome ‘spaventarsi’:
emicronne ‘riduceva’ → micrónno: µικρόνω. σκιάζοµαι.
emina eminame, eminase, emínasi, emine → escótie, escotisti → scotíźo ‘stordire’: σκοτίζω.
méno ‘restare’. eserrasi, eserre → sérro ‘trascinare’: σύρω, ngr.
emiriae, emiriasti, emiriastimma, emiriastissa → σύρνω, σέρνω.
miriáźo ‘dividere, spartire’: µοιράζω. esicoe ‘conservò’ → sicónno: σηκόω, σηκώνω.
emmá, pron. pers. → emí ‘noi’: ἡµεῖς. esirti → sérro.

- 196 -
esmingheto ‘si mescolava’ → smíngo: σµίγω. ézze ‘6’ < gr. ἕξ.
esonnasi → sónno. ezzere, ezzero, ezzérete, ezzéri, ezzérome → zzéro.
espatsasi, espazza, espazze → spaźo ‘uccidere’:
σφάζω.
F
està ‘sette’, eftá: ἑπτά.
esté = efté ‘ieri’: ἐχθές, χθές. faḍḍétta [faɖ'ɖetta] s.f. ‘straccio’, ‘veste,
estécasi, ésteche, esteke, estechi, esteco, estecusi gonnella’ (bov) ☞ ☆ dim. di fáḍḍa <
→ stéco: στέκω. φάλδα, cf. it. falda ‘lembo del vestito’
estendia = astendía ‘signoria’: αὐθεντία, ngr.
& LG 534; NDDC 253; ΙΛΕΙΚΙ V
ἀφεντιά; αυτός + *-έντης ‘chi agisce di propria
autorità’. 241: fáḍḍa; Casile Zoì 24.
estiae, estiasai → stiaźo, ftiáźo ‘preparare’:
φθειάζω (φθειάνω) < εὐθειάζω. fágasi, faghí, faghiu, fai, faite, fánda, faite, fame,
estile ‘mandò’ → stéḍḍo: στέλλω. fanda, fao, fasi, fata ‘mangiateli’, fate → fáo,
estinnome → stínno ‘arrostire’: ψήνω. trógo.
estipie, estipizasi → stipáo ‘bussare’: χτυπάω. fají [fa'ji] s.n. ‘cibo’, ‘cibo cucinato’,
etaghie→ tajíźo < ταγίζω ‘cibare’. ‘pasto, pranzo, pietanza’ (bov) →
étavre → tavró < τραβῶ ‘colpire’. trógo ☞ pl. fajía, fajatá; cal. u
eteglioasi, eteglioe, eteglionnonda → tegliónno:
τελειώνω. mangiari; prámata tu fajíu = cal. cosi
ethelame, éthele, etheliasi, ethelame, ethelia, î mangiari ‘cibo’ ☆ mgr. φαγεῖ(ν), inf.
ethelie → thélo: (ἐ)θέλω ‘volere’. di ἔφαγον, aor. di τρώγω; ngr. φαγί,
etraclinasi, etracline → tracléno: τρακλαίνω.
φαγιτό & Meursius 592 φαγή esca,
etretse → tréḣo ‘accorrere’: τρέχω.
etrijiase → trigáo, trijíźo ‘vendemmiare’, pabulum; Herm.M. (IX sec.) 314:
‘derubare’ (cal. svindignari): τρυγίζω. φαγεν manducare; TNC 10, 437; LG
etrógasi, etroggasi, etroghe, etroje → trógo: 532; Crupi 1981:84.
τρώγω ‘mangiare’. fanerá ‘pubblicamente’ < φανερά.
étse, ésce ‘sei’: ἕξ, ngr. ἕξι. fanì, fanonda → fénome < φαίνοµαι.
etseri, etsero, etserome → zzéro, scéro ‘sapere’: fantiameno ‘intontito’ → fantiáźo < φαντάζω.
ξέρω < gr. ἠξεύρω faonda, fási, fate → fáo.
etsichratthi → zziḣrénome ‘freddarsi’: fáo ['fao] cong. aor. di → trogo (bov) <
ψυχραίνοµαι.
gr. φάγω.
etsima n.pl. → ézzimo, éspimo ‘tardivo’ < ὄψιµος.
fáva s.n.sg., cal. u favi, s.m. ‘le fave’ < τὸ φάβα
etsimeroe → azzimerónni ‘torna il giorno’,
‘cicerchia’ < lat. FABA.
‘albeggia’ < ἑξηµερώνει.
fenete, feneto, fenomena, fenomesta → fénome <
etsiporethi → azziporéo ‘apprendere, sapere’, <
φαίνοµαι ‘apparire’.
ἐξευπορῶ.
fere, feri, fero, ferome, ferri, ferro, feronda,
ettepurró ‘domattina’: ettú ‘costì’ (αὐτοῦ) + purró
ferronda, ferrome, ferrusi → férro/pérro <
‘di mattina’ (πρωϊνῶς).
φέρω ‘portare’.
ettespéra: ἐχθές ‘ieri’ + ἐσπέρα ‘sera’.
fidda ‘foglie’: fiḍḍo < φύλλον.
etúto, etundi, etundo, etúta, etute, etúti, etútu,
fiḍḍizo < φυλλίζω ‘sfrondare’, cal. fiḍḍiári
etutì: pr. dimostr. ‘questo’: ἐτοῦτος.
‘sarchiare’, lat. PHYLLIDIARE.
evaddasi, evadde, evalasi, evale → váḍḍo
filichì ‘femmina’: θηλυκός ‘femminile’.
‘mettere, porre’ < ἐκβάλλω.
filonda < filáo: φιλέω ‘baciare’.
evasiletse ‘tramontò’: aor. → vasiléggo.
fína congz. cal. ‘perfino, infino’.
evlepe, evlepete, evlepeto → vlépo.
fínnasi: impf. di afínno < ἀφίνω ‘lasciare’.
evosce → vosciáo, voscíźo ‘pascolare’.
evrae, evrasai → vráźo < βράζω ‘cuocere’.
fisis ‘natura’ (φύσις GEW 2, 1054) è
evreche, evretsi → vréhi impers. ‘piove’ < βρέχω.
accolta da Casile dal greco antico, non
evuttie ® vuttónno, vuttíźo ‘affondare, dal moderno φύση (DGMI 1079),
‘sommergere’ < βουτῶ (βυθάω). come dimostra la -s; più avanti (p. 4)
eziame → źío ‘vivere’ < ζήω, pres. analogico da scrive fisis (jénnithi) aggiungendo tra
ζῶ. parentesi il termine grecanico usuale.
eziporese → azziporéo ‘sapere’: ἐξευπορῶ ‘ho fitemmena p. p. di fitéggo < φυτεύω ‘piantare’.
mezzi, procuro, fornisco; posso’. fláca: gr. v. φάκλα ‘torcia’ < lat. *F(L)ACULA).
ezitiasi, ezitinne → źitáo ‘chiedere (per avere)’,
‘cercare’ < ζητάω.

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flascí s.n. ‘fiasco’ < φλασκί; φλάσκιον· εἶδος presupporre vitale nel Medioevo: cf.
ποτηρίου (Hes.). lúci, ajollúci, luméra. Casile I dio judi,
flascia → fluscí.
5, introduce il grecismo fos < φῶς
fluscí [fluʃ'ʃi] s.n. ‘corteccia, scorza,
‘luce’ (DGM 1081), forma antica che
buccia, guscio’ (Casile) ® flúscio ☞ ha resistito nel linguaggio
to fluscí tu luppinaríu ‘il guscio dei ecclesiastico e nella katharévusa.
lupini’ ☆ dim. di flúscio, ngr. flúda & frascátula: Alessio: «farinata, da frasca, per la
Casile, I dio judi 19. somiglianza con ramoscelli recisi».
flúscio ['fluʃʃo] s.n. ‘corteccia, scorza, frígano ‘frascame’: φρύγανον.
ftiáźo ['ftjadzo] v. tr. ‘preparare, ordinare,
buccia, guscio’ (bov) ® fluscí ☞ to
sistemare, ripristinare, aggiustare’ (b);
flúscio tu avgú, tu caridíu ‘guscio
cf. stiáźo.
dell'uovo, della noce’ ☆ ngr. φλούδι fudíasi, fudisi → fudáo ‘aiutare’.
dim. di agr. φλοῦς, φλοιός ‘guscio, fúnda in fondo’: prestito dal cal.
pelle’ & GEW 2, 1028; LG 542; DGM funíci s.n. ‘filugello’; (metaf.) ‘fretta’.
1064; Crupi 1981:85. furriźo [affurˈridzo] v. tr. ‘infornare’
flústro ['flustro] s.m. ‘guscio’, ‘scorza’, (bov) ☞ anche affurriźo; aor. affúrria,
‘corteccia’, buccia’ (bov); pl. flústri ☞ afúrristo ‘non infornato’ ☆ mgr.
☆ mgr. *φλοῦστρον; dial. φλέστρο φουρνίζω & Pell. B 128; MorB 24;
‘buccia’ (Corfù), τα φλέστρα ‘cartocci LG 545; ΙΛΕΙΚΙ V 295; Crupi
secchi di granturco’ (Epiro). Rohlfs 1981:74.
dissente da Alessio che pensa a lat. fusconnasi → fuscónno ‘crescere, allevare’:
φυσκόνω ‘gonfiare’. Meursius 609:
FRUSTULUM & LG 542; Alessio 1936,
φυσκώνειν fuscare, offuscare;
65.
foléa ‘nido’, cal. folía < ngr. φωλιά.
forá < φορά: ha tutti i sensi di cal. vòta ‘volta’,
‘sorso’. G
foreggasi ‘ballavano’: foréggo < χορεύω.
foresía s.f. ‘vestito’ < φορεσία. gála s.n. ‘latte’: γάλα.
fortáci s.n. ‘piccolo carico’, dim. di fortí.
fortí s.n. ‘carico’: φορτίο, dim. di φόρτος < φέρω. gálma ['γalma] s.n. ‘statua’ (C) ☞ Voce
fórtoe, fortoméno: fortónno ‘caricare’. attestata solo da Casile ☆ agr. ἄγαλµα
fórtoma s.n. ‘carico’: φόρτωµα. ‘statua’ & Casile Zoì 17: ídife enan
fortónno, fortonnome: Meursius 605 φορτώνειν gálma ‘sembrava una statua’.
onerare.
fos ‘luce’, “neoellenismo” per fotía. gámo < γάµος ‘nozze’: neoellenismo.
gangália ‘guance’: *γαγγάλι.
fotía [fo'tia] s.f.  ‘fuoco’; ‚ ‘sciagura’, gapía s.f. ‘amore’: ἀγαπία.
‘sventura’; ƒ Fotía cogn. (Melito); cf. gará = chará → ḣará s.f. ‘gioia’: χαρά.
lucísi ☞ Massima densità del cogn. in gardía, gardíatu → cardía s.f.: καρδία.
garrie ‘pensieri’ → ḣarría.
Calabria. Prevale il senso metaforico
garronda ‘meditando’ → ḣarró.
‘sciagura’, specie nelle interiezioni ghai → ḣánno ‘perdere’.
(cal. focu meu ‘mia sciagura’), mentre ghamà → ḣamó ‘basso’.
a Bova per ‘fuoco’ si usa lucísi ☆ gr. ghamme → ḣámme: χαµαΐ ‘a terra’.
ghamoclada → ḣamocláda ‘bosco di basso fusto,
φωτία, ngr. φωτιά ‘fuoco’. Notevole la
macchia’.
metasemia ‘fuoco’, presente in lucísi, ghanni, ghannusi → ḣánno.
sp. lumbre, grico luméra ‘luce’ & ghará → ḣará: χαρά.
Tozer 1889:18. Per il Rohlfs (LG 551) gharapimeno → ḣarapíźome.
il significato ‘fuoco’ attestato da gharrei, gharrisi, gharronda → ḣarró. ‘pensare’,
‘sperare’, ‘credere’ < θαρρῶ, ngr. dial. χαρρῶ.
Morosi e Pellegrini non esiste
ghathume → ḣannome ‘perdersi’ < χάνω.
nell’italogreco. Però esso è da ghenameno → jenaméno.

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ghenastite, ghenastò, ghenastonda → jénome. guenni, guenno, guennonda, guennusi, guica,
ghenía → jenía. guiconda, guicusi → guénno ‘uscire’ < ngr.
ghennithi → jénome. ἐγβαίνω < gr. ἐκβαίνω.
gherae, gherai → jeráo 'piacere' < χαίροµαι. gulláci [γul'laʧi] s.n. ‘caraffa’ (bov) →
gheretie → hjeretáo.
gheri, gheria → hjéri 'mano'.
gullí.
ghero → jéro. gullí [γul'li] s.n. ‘palla’, ‘recipiente (di
gherrete, gherti → jérrome. creta) per vino’ (C) → gúla, vúla ☞
ghiá = ja. éna gullí zze crasí = cal. na palla e
ghiatí = jatí.
ghimona = hjimóna: χειµώνας.
vinu, con riferimento al recipiente di
ghineca, ghineche, ghinecondu → jinéca. creta rotondo (búmbula) con cui si
ghinno → jinnó ‘nudo’: γυµνός. dispensa il vino ☆ ngr. βωλίον dim. di
ghiomati, ghiomato → jemáto, jomónno. βῶλος s.f. ‘zolla di terra’, ‘pez-
ghiomostissa → jomónno.
ghirezzasi → jiréggo.
zettino’, ‘sfera’. Per la mancata
ghiudi = júdi ‘figli’ → jó retroflessione di /ll/ cf. lóllo < λωλός;
ghiuvegghi, ghiuvegghusi, ghiuveggusi → per il trattamento /b/ > /v/ > /g/ cf. Vuní
juvéggo. e Goní < βουνί & LG 99; Casile Zoì
ghorafi → ḣoráfi ‘campo’: χωράφιον. 20.
ghorai, ghorao, ghorazzi, ghorazzusi → ḣoráźo
ἀγοράζω ‘acquistare’.
ghorio → ḣorío: χωρίον. Ḣ
ghoristí, ghoristó, ghoristume, ghorite → ḣoríźo
‘separare’: χωρίζω. ḣalasméno ‘danneggiato’ < χαλάζω.
ghorizzome ‘mi muovo’ → ḣoríźome. ḣalastí cong. aor. pass. di ḣaláźo: χαλάω.
ghoró → ḣoró: θεωρῶ ‘guardare’. ḣarría [xar'ria] s.f. ‘pensiero’,
ghorto → ḣórto ‘erba’: χόρτος. ‘preoccupazione’ (b) → ḣarró ☞ cal.
ghorume → ḣorúme.
ghuma → ḣúma: χῶµα ‘suolo’. penseri ‘preoccupazione’ ☆ agr.
ghumite ‘sotterrate’ → ḣúnno. θαρρία ‘pensiero’ & Casile, I dio
ginari: (a)nginári ‘uncino’ → anginári. judi, 15: iche tin cefalì jomati tse
glathusi: cong. aor. pass.di ḣléno ‘scaldare’. garrie ‘aveva la testa piena di
gleni → ḣléno < χλιαίνω ‘scaldare’.
glighora = grígora ‘presto: γλήγορα.
preoccupazioni’; ḣarréo ‘pensare’.
gloró → ḣloró ‘verde’, cf. p. 154. ḣarticí [xarti'ʧi] s.f. ‘fidanzata’ (bov) ☞
gluppo → plúppo: *πλοῦππος < lat. v. PLŌPPUS. ḣaría ‘grazia’ ☆ Termine attestato da
gonei, goneima, goneite, goneiti, goneitu, goneoti,
goneotu, goneu → gonéo ‘genitore’ < γονεύς.
Casile e sconosciuto ai lessici. Un
gorizzome → ḣoríźome ‘partire’, ‘separarsi’ < ḣarticó, con sincope della vocale atona
χωρίζοµαι. < *χαριτικός, può essersi formato sul
grafo, grafome → gráfo: γράφω ‘scrivere’. tema χαριτ- di χάρις ‘grazia, amore’
Grago = Drago: errore di scrittura. & Casile Zoì 16: to sávato o ándra
grambó ‘genero’: γαµβρός.
grámma, grammata: γράµµα ‘lettera, scrittura’.
ípije sto spiti ti ḣarticí ‘ogni sabato il
grammatéa: γραµµατεύς ‘scriba’. fidanzato andava a casa della
gramméno ‘scritto’: γραµµένος < γράφω. fidanzata’.
grasì = crasí ‘vino’: κρασί < *κρᾱσίον ḣoráfi, ḣoráfia, ḣorafíatu: χωράφι.
‘mescolanza’ (κεράννυµι). ḣoríama ‘i nostri paesi’: χωρίο.
grastì, gratsi, gratsite, gratsome, grazzete → ḣoristí, ḣorísti → ḣoríźome.
gráfo.
ḣoríźo [xo'ridzo] v. tr. ‘separare,
grisafi ‘oro’ → crisáfi < χρυσάφι.
gródula 'oggetti sparsi di scarso valore’, ‘fichi dividere’; ‘scegliere’ (bov) ☞ impf.
secchi di qualità scadente’: *ἀγριόλυθο. eḣoriźa, aor. eḣória ‘ho diviso’, ‘mi
grondò, 22 → ḣrondó < χονδρός. divisi’; cong. na ḣorio; imper. ḣórie;
groni, grono, gronu → ḣróno < χρόνος.
guaddi, guali, gualonda → guáḍḍo: βγάζω < agr. inf. ḣorísi, ḣorí ☆ ngr. χωρίζω &
ἐκβάλλω.

- 199 -
GEW 2,1125; LG 576; ΙΛΕΙΚΙ V,451; Hj
Crupi 1981:80. hjeretáo [çere'tao] v. tr. ‘salutare’ (bov)
ḣoríźome [xo'ridzome] v. intr. ‘partire, ☞ hjerotáo; aor. ehhjéretia;
separarsi’ (bov) ☞ impf. eḣoríźomo ehhjerístina ‘si salutarono’ ||
aor. eḣorístina; eḣorísti ‘era partito’; Ieretamuti ce vre a ssu jelái
inf. ḣorístí; imper. ḣórista. Príta na ‘salutamela e vedi se ti sorride’ (canto
ḣoristúme efágame ‘abbiamo di Bova) || grico hjeretó ☆ agr.
mangiato prima di partire’ ☆ ngr. χαιρετίζω, mgr. χαιρετάω, ngr.
χωρίζοµαι & TNC 4; Crupi 1981:80; χαιρετῶ & Comparetti 1866,7; LG
Casile Zoì 14. 552; ΙΛΕΙΚΙ V 357-9; Crupi 1981:79.
ḣoró ‘vedo’: θεωρῶ. hjerétie, hjeretúsi → hjeretáo
ḣorónda, ḣorúme, ḣorúmesta: ḣoró hjéria ‘mani’ → hjéri ['çeri] s.n. ‘mano’.
ḣristianí ‘persone’: χριστιανοί. Meursius 621 χεῖρα manus.
ḣróni, ḣrónu: χρόνος ‘anno’. hjería [çe'ria] s.f. ‘manata, spanna’,
ḣúnno ['xunno] v. tr. ‘sotterrare’, ‘unità di misura del grano’ (sesta parte
‘seppellire’ (bov); contr.: apoḣúnno ☞ del fárzoma o hjerómulo) (bov) cf.
impf. éḣunna; p. pr. ḣúnnonda; aor. aplohjeráta ☞ ☆ gr. χειρία & ΙΛΕΙΚΙ
éḣua; cong. na ḣúo; imper. ḣúe; inf. V 400; Crupi 1981:80; Condemi
ḣúi, pass. ḣuthí; eḣúthina ‘mi sono 2006,117: cherìa.
sepolto’; íto ḣúonda ‘aveva sep-
pellito’ p. p. ḣusméno || grico ḣónno ☆ I
ngr. χώνω < gr. χώννυµι, χωννύω ichame, ichasi, íche → éḣo: ἐχω.
‘sotterrare’; cf. χῶµα ‘aggere di terra’ icoghenia, icojenia → °icojénia [iko'jεnia] s. f.
& TNC 211; LG 575; Triantaphyllidis ‘famiglia’; formazione greca tarda:
1998; Crupi 1981:80. ‘condizione di chi è nato in casa’ ☆ ngr.
οἰκογένεια.
ḣúra ['xura] s.f. ‘fieno’ (bov) → icua, icuasi, icunne, icue → cúo: ἀκούω.
ḣurḣuráta [xurxu'rata] s.f. ‘pagliuche’ idea, ideandu → idéa.
☞ i píria éne o ple ccéddi an da puddía idife → dífo.
ce cánni tin foléa me tin churchuráta igha, ighasi, ighe, ighete → éḣo.
ighio → íjo a. (1) ‘sano’, ‘intero, integro’,
‘il rigogolo è il più piccolo degli ‘completo’, ‘salvo’: ngr. dial. ὕγιος.
uccelli e fa il nido con le pagliuche’ íglio ‘sole’: ἥλιος.
(MorB 88) ☆ der. di ḣúrḣuro & ijía ‘salute’: ὑγιεία.
MorB 88; LG 271; Violi 2007, 150. ijò = jó ‘figlio’: υἱός.
iliasméno ‘soleggiato’: iliáźo.
ḣúrḣuro ['xurxuro] s.n. ‘fuscelli, ilio ‘sole’ → íglio.
pagliuzze, peli, materiali per la ime(ne)re = imére: errore di scrittura.
costruzione del nido’ (bov) ® iméra ‘giorno’: ἡµέρα.
ḣurḣuráta, ḣúra ☞ pl. ta ḣúrḣura ☆ imeso, ímiso ‘mezzo’: ἥµισος.
ímesta ‘siamo’ < ímme: εἶµαι.
Per Rohlfs deriverebbe da un ipa, ipasi, ipe, ipete, ipi → légo ‘dire’.
*χουρχούρι di probabile origine araba. ípighe, ípije: impf. di páo (ὕπηγα).
Caracausi attesta un Χούρ-χουρη nella ipite: cong. aor. di légo (εἶπα).
denominazione del monastero íplo s.m. ‘sonno’: ὕπνος.
siciliano di Sanctus Nicolaus de ípo, ipome, iponda, ipusi → légo.
irta, irtame, irtasi, írte, irtete → ércome.
Churchuro (LGSIM 624); ma ar. ísa avv. ‘dritto’; ísa ísa ‘in tutta fretta’: ἴσα.
hurhūr indica una ‘gran quantità di ise, isi, íso ‘diritto, senza curve’; ‘furbo’; → ἴσος.
acqua’ & Cusa 1868, 31 (a. 1153); ismía ‘insieme’: εἰς µίαν = cal. anita.
LG 571; ΙΛΕΙΚΙ V 430; Condemi isoe ísonne → sónno.
2006, 125; Violi 2007, 150. íssa ‘era, erano’→ ímme: εἶµαι.

- 200 -
ístera prep. e avv. di tempo ‘poi, dopo’; forma figlio’ ☆ gr.biz. γιός < agr. υἱός &
desueta reintrodotta da Casile ☆ ngr. ὕστερα; TNC 131, 202; LG 528; ΙΛΕΙΚΙ II 148;
cf. LG 528.
ithela, ithele: impf, di thélo: θέλω. Crupi 1981:87; Casile 1991:132; I dio
itsera, itsere → impf. di zzéro: ξέρω ‘sapere’. judi, passim.
ivra, ívrame, ívrasi, ivre, ivrete, ivri, ivro ívrome, jomma ‘mio figlio’ → jó.
ivronda, ivrusi → thoró ‘vedere’: ἧυρον < jomoe, jomonnonda, jomousi → jomónno:
εὐρίσκω, ngr. βρίσκω. γεµόνω.
izee → źío ‘vivere’: ζήω pres. analogico da ζῶ. jiomati, jiomato, jomáto: γεµάτος ‘pieno’.
izzere: impf, di zzéro: ξέρω ‘sapere’. jondi, jondu, jos, judi, jussa → jó.
jisca → hjísca ['çiska] s.f. ‘secchio, recipiente di
legno per il latte’: *FLISCA < lat. FISCULA.
J juvegghi, juvegghusi, juvéggusi → juvéggo.
ja prep. γιά < διά.
jalí ‘vetro’: ὑαλί dim. di ὕαλος ‘cristallo’.
jaló ‘riva, marina’: αἰγιαλός, ngr. γιαλός. K
jasto ‘perciò’, anche jáfto: διὰ + τό. Il grafo <k> non è necessario.
jatí cong. interr. ‘perché’: διὰ τί, ngr. γιατί.
jatríe ‘medicine’: ἰατρεία. kerì, kerò, kerossa → chjeró < καιρός.
jatró ‘medico’: ἰατρός. kili: chili.
jelonda, jelussa → jeláo ‘ridere’: γελάω.
jenameni, jenameno, jenastí, jenástissa,
jenastónda, jenastusi → jénome: γεναµένος, L
γένοµαι ‘diventare, nascere’. lambíźo [lam'bizo] v.intr. ‘risplendere’
jénete ‘diventa’: γένεται.
jenía s.f. ‘razza, famiglia’, cal. janía; γενεά (bov) → lámbo ☞ aor. elámbia; ppp.
‘generazione’; jeníato ‘la loro famiglia’. ímmo lambínda; lambíźi to fengári
jeráo2 [je'rao] v. intr. ‘piacere’ (b) → ‘brilla la luna’ ☆ gr. λάµπίζω & LG
jaría, hjeráo ☞ aor. jéresa; prov.: I 290; ΙΛΕΙΚΙ ΙΙΙ 344; Casile, I zoì 17.
alíthia den jerái oló ‘La verità non lárga ['larγa] avv. di luogo ‘lontano’
piace a tutti’; ti hjérae ‘le piacque’ ☆ (bov) ☞An ímme lárga an du lúcchiu
gr. χαίρω ‘piacere’ & TNC 446; LG tu dicússu ‘se sono lontana dagli occhi
552; ΙΛΕΙΚΙ V 360; Casile 1991:130, tuoi’ (canto di Bova) ☆ ngr. ἀλάργα,
133. italianismo nautico: alla larga &
jeri, , jeru → jéro: γέρος ‘vecchio’. Comparetti 1866, 10; LG 291; ΙΛΕΙΚΙ
jerrusi → jérro: ngr. γέρνω ‘piegare, inclinare’.
jinecamu, jinecandu, jinecasa, jinecasu, jinecatu,
ΙΙΙ 348; Crupi 1981:87; Casile, Lettera
jineke → jinéca: γυναίκα ‘donna’. a Arvanitakis 1990: immesta poḍḍì
jinnóculo: dim. di jinnó: γυµνός; cal. nudeju. macria = larga ‘siamo molto lontani’.
jippugna ‘giacchette’ pl. di jippúni lárgotte lárgotte ['larγotte] avv. di luogo
[jip'puni] s.n. ‘giacchetta delle ‘da lontano’ (bov) → lárga ☞ ☆ lárga
contadine’ (cal) ☞ cal. jippúni; cf. fr. + -ωθεν & TNC xlvi; LG 291; Crupi
jupon ‘sottana’ ☆ gr. γίππα, indumen- 1981:87.
to femminile < ar. ǵubba ‘specie di leḍḍà, leddade, leddadendu, leddammu, led-
sottana’ & LG 109; NDDC 339. dandu, leddassa, leddati, leddatu, leddemmu,
jirégghi, jireonda, jirimeni, jirio, jiriome, jirísi, leddemu, leddendi, leddendu, leddessa,
jiriusi → jiréggo: γυρεύω. leddesso, leddessu, leddetu leddidia,
jitonía s.f. ‘vicinato’: γειτονία. leddidiamu, leddithiamu → leddé.
jitónissa ‘vicina di casa’: γειτόνισσα. leḍḍé [leɖ'ɖε] s.m. ‘fratello’, pl. ta
jiúni = júni ‘giugno’. leḍḍídia; lillé ‘zio’ a Cardeto || grico
jó ['jɔ] s.m. ‘figlio’ ☞ anche jóse; tu jútu aderfó e alecái; ngr. ἀδελφός ☆ gr.
‘a suo figlio’; o jóssa ‘vostro figlio’; *λελλές (R) è voce del linguaggio
pl. i júdi; prov.: Ppos éne o ciúri infant. ‘fratellino’, cf. ngr. λαλᾶς
érchete o jó ‘com’è il padre, viene il

- 201 -
(Leucade), λέλε µου ‘mio caro’ λίγος pro ὀλίγος; ΜorΒ 92; Dieterich
(Dodecanneso) & AIS 13 o leḍḍéssu 1898; TNC 195, 373; LG 360; ΙΛΕΙΚΙ
‘tuo fratello’, ta leḍḍídiasu ‘i tuoi III 367; Beekes 2010: 1068; Crupi
fratelli’, grico o aderfóssu. Derivati: 1981:87.
leḍḍidúci [leɖɖi'ðuʧi] s.m. ‘fratel- límba ['limba] s. f. ‘scodella, vassoio
lino’; leḍḍúci [leɖ'ɖuʧi] s.m. d'argilla o metallo, catino, insalatiera’
‘fratellino’; leḍḍúḍḍa [leɖ'ɖuɖɖa] s.f. (bov) → límbeḍḍa ☞ Recipiente
‘sorellina’; leḍḍá [leɖ'ɖa] s.f. ‘sorella’, destinato ai pasti dell'intera famiglia
pl. i/te leḍḍáde; cal. lillà ‘zia’? (uso collettivo); pl. limbe; regg. cat.
(Cardeto); soru; ngr. adelfí ☆ gr. límba, cos. límma; esiti in tutte le
*λελλά ‘sorellina’, η λάλα µου ‘la mia varietà italoromanze mer.; top. monte
sorellina’ (Cefalonia); ngr. dial. λαλλά Límba (S. Agata) ☆ mgr. λίµπα;
(Dodecanneso), λαλά (Creta) ‘nonna’ ngr.dial. λίµβα < λιµπάς ‘vasca’ & T
& AIS 14 i leḍḍásu ‘tua sorella’, i 451 τὸ λεγόµενον τόπον Λυµβήν (a.
leḍḍáδessu ‘le tue sorelle’; LG 294; 1269, Aieta); MorGr 93; Alessio
ΙΛΕΙΚΙ ΙΙΙ 356; Crupi 1981:87; Casile 1943-4:67 ipotizza λέµβος; LG 298;
1991:136. ΙΛΕΙΚΙ III 371; Crupi 1981:87;
légasi, leghi, leghite, leghjite, legome, légonda, Tripodi 2014, 276.
legusi, léji, lejite → légo. limbisía [limbi'sia] s.f. ‘desiderio,
légo ['lεγo] v. tr. ‘dire’ (bov) ☞ tu légusi voglia’, ‘gola’ (bov); anche limbithía
Scíḍḍo ‘è soprannominato Sciḍḍo’; → limbía, limbíźome ☞ cal. llimbicari
impf. élega; tó'leje ‘gli diceva’; p.pr. ☆ gr. λιµβίζοµαι ‘avere desiderio’,
légonda; aor. suppl. ípa: ti ípete? che λίµβος ‘desideroso’ & MorB 39:
cosa avete detto?; ppp. ímmon íponda limbistía; LG 297; Crupi 1981:87,
|| grico léo ☆ gr. λέγω & LG 293; Casile 1981:114.
ΙΛΕΙΚΙ ΙΙΙ 354; Crupi 1981:87. limena ‘cotti’, limeno, lisi, lisméni ‘sciolti’ →
líco ['liko] s.m. ‘lupo’ (bov) ☞ gen. sg. tu línno.
línno ['linno] v. tr. ‘sciogliere’; intr.
lícu; acc. sg. to llíco; pl. nom. i líci
['liʧi], gen. to llíco, acc. tu llícu. Prov.: ‘sciogliersi’, ‘cuocere’ (bov) ☞ aor.
Pi ppróvato jénete, o líco to tróji ‘chi élia, inf. lísi; thélo na lío ‘voglio
pecora si fa, il lupo se lo mangia’; Líco sciogliere’; prov.: To crasí línni tin
den dróji líco ‘lupo non mangia lupo’ glóssa ce catharíźi ton ammialó ‘Il
☆ gr. λύκος & Herm.M. (IX sec.) vino scioglie la lingua e pulisce il
319: λυκος lupus; LG 304; ΙΛΕΙΚΙ ΙΙΙ cervello’; álisto ‘non sciolto’ ☆ ngr.
392; Crupi 1981:87. λύνω, agr. λύω ‘sciogliere’ & LG
liete ‘sciogliete’ → línno. 305; ΙΛΕΙΚΙ ΙΙΙ 396; Crupi 1981:87;
liga, ligha, lighe, lighi, ligho, lighu, lígu, liji → Casile, I dio judi 10: liete te plestre
lígo. ‘scioglietevi le trecce’.
lígo ['liγo]  a. (2) ‘poco’; ‚ avv. di línnome ['linnome] v. rifl. ‘sciogliersi’;
quantità ‘poco’ (bov) ☞ lígo neró ‘un ‘cuocere’ (bov) ☞ aor. elíthina,
po’ d'acqua’; líji plúsi ‘pochi ricchi’; elístina; inf. lithí; listáte ‘scioglietevi’;
líjese imérese ‘pochi giorni’; ja lígo cong. na lithó; p.p. limméno; in
‘per poco’; frequentissima la redu- costruz. attive: den ito alíthia ti i
plicazione intensiva: lígo lígo ‘un zzúcca élithe to faghí manachíti ‘non
pochino’ || grico olío, lío, alío ☆ gr. era vero che la pentola cuoceva il cibo
ὀλίγος, ὀλίος nel dorico della Magna da sola’ ☆ gr. λύοµαι & Crupi
Grecia (Taranto) & Meursius 306 1981:88; Casile 1991:124.

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lipitisi < ελυπήθηνα, aor. di lipízome dal scíla den gánnu lúci ‘due legni non
tema dell’aor. ἐλύπησα < λυπέω fanno fuoco’ ☆ gr. *λούκιον < lat.
‘dolersi’; lipíźo. LUCEM, prestito del lat. lucem (f.),
lissíva [lis'siva] s.f. ‘lisciva’ (cal) ☞ assume il genere neutro secondo il
anche lissía ☆ lat. LIXĪVĬA, LIXĪVA & modello greco di πῦρ. Cf. la polisemia
LG 297; Crupi 1981:88; Casile Zoì 25: di gr. φωτιά, φῶς ‘fuoco’ e ‘luce’,
Éna stennáto ja tin lissíva ‘una caldaia anche in grico lumèra ‘fuoco’ e ‘luce’.
per la lisciva’. La specializzazione semantica risale al
lithari, lithária: λιθάρι. linguaggio ecclesiastico: il fuoco che
lleghi, lleghite, llego, lleji → légo si accende la vigilia di Natale e il
lithie: λιθίαι 'pietrate'. sabato santo all’inizio della Veglia
loghia, logo, loja, lojia → lógo: λόγος
lucchi, lucchio, lucchiu → lúcchjo.
pasquale rappresenta la ‘luce’ portata
lucánico [lu'kaniko] s.n. ‘luganega, da Cristo: v. ajolluci & LG 301;
salsiccia’, ‘zucchero candito’ (bov) ® ΙΛΕΙΚΙ III 25.
luppinári [luppi'nari] s.n. ‘lupino’, pianta
leosáccaro ☞ anche rucanicó ☆ lat.
LUCANICUM ‘salsiccia della Lucania’
e frutti [Lupinus albus L.] (bov) ☞
& LG 301; ΙΛΕΙΚΙ IV 361: gen. luppinaríu; cal. luppinu s.m. con
ῥουκανικό. valore collettivo ☆ mgr. λουπινάρι n.
lúcchjo ['lucco] s.m. ‘occhio’; < lat. LUPINARIUM & Suida
‘malocchio, jettatura’ (bov); cf. λυπινάρια; Meursius 311; Meyer
artàmmi, ftarmú ☞ pl. ta lúcchji; gen. 1895: 39; Porph. de Cer. 529,16;
pl. to llucchío. Prov.: I kalí jinéca den Langkavel 5 λουπηνάρια; LG 303;
éhji de llúcchju de aftía ‘la buona ΙΛΕΙΚΙ III 387.
donna non ha né occhi né orecchie’; sti
ḣóra to stavró, calómiro tis éhji éna
llúcchio ‘nel paese dei ciechi beato chi M
ha un occhio’ ☆ cal. locchju, con m’upe = mu ípe ‘mi disse’ → ípo.
agglutinazione dell'articolo (cf. liri, mácca mácca ['makka-'makka] sintagma
lumbrella). Caracausi 1976: 549 avv. ‘piano piano, silenziosamente’ ☞
ipotizza un prestito da Cardeto, dove la Attestato solo da Casile ☆ lat. MACCUS
conservazione di ftarmú per ‘occhio’ ‘poltiglia’ e nome di un personaggio
avrebbe causato il prestito romanzo delle Atellane; cal. sic. maccu
occhju nel senso di ‘malocchio’ & ‘impasto di fave’; sardo maccu ‘stolto,
AIS 101; ALI 19; LG 360 *ὄκλος; matto’; corso maccu ‘molle’; it. macca
ΙΛΕΙΚΙ ΙΙΙ 383; Crupi 1981:88. ‘pacchia’ & Per FEW VI,1: 66-76, la
lucísi [lu'ʧisi] s.n. ‘fuoco’ (bov) → lúci ☞ forma latina deriverebbe da un
ícua tim bira tu lucisíu ‘ho sentito il *MAKK- di natura imitativa (cf. it.
calore del fuoco’; risto lucísi = cal. ammaccare); NDDC 378; Nocentini
jettu focu; lucίsi na se cázzi! ‘che il 2010, 649; Casile I dio judi 6: macca
fuoco ti bruci!’ ☆ prestito da lat. macca econdae ‘piano piano si
LUCENSEM, cf. irp. lucésə. Il fuoco
avvicinò’. Il bovese ha anche
serviva anche per l'illuminazione & máccoma ['makkoma] s.n.
LG 302; Crupi 1981:88. ‘sonnecchiamento’ (Condemi 2006,
lúci ['luʧi] s.n. ‘fuoco’ (bov); anche lucísi 245; DDCM 621), cf. cal. maccarìa
‘calma di mare, bonaccia’ e maccónno
→ aje-llúci ☞ thélo n'áspo to lúci
[mak'kɔnno] v.intr. ‘dormire
‘voglio accendere il fuoco’, to lúci
profondamente’, aor. emáccoa; p.pr.
esbísti ‘il fuoco si è spento’. Prov.: Dío

- 203 -
maccónnonda; p.p. maccoméno ☆ Per gen./acc.sg. ti mmána; pl. nom. i
Karanastasis discende da agr. dorico máne, gen. to mmáno, acc. te mmáne;
µάκων, corrispondente a attico µήκων; prov.: I cardía pleo megáli ston cosmo
cf. gr. dial. µακώνω ‘somministrare ai ene ecíni an din mana ‘Il più grande
bambini oppio per farli dormire cuore è quello della mamma’ || grico
profondamente’ (maniota) & Violi mána ☆ mgr. e ngr. µάνα & Meursius
2007, 214, seguendo ΙΛΕΙΚΙ III 416, 325 µάνα, µανίτζα mater; AIS 8: i
unifica i due omonimi per ‘dormire’ e mánatu ‘sua madre’; A. L Thabores
‘calpestare’; ma il primo va con cal. Etymologika, 1. Μάννα, «BZ» 55,
maccarìa, il secondo rimanda al 1962, 241-245; TNC 34; LG 313;
romanzo ammaccare. ILEIKI III 424; Crupi 1981:88; Casile
maccarrúgna, pl. di maccarrúni 1991:133.
[makkar'runi] s.n. ‘maccheroni’ (bov) manachà, manachì, manachò, manachommu,
manachoto, manaḣóndu → manaḣó.
☞ Prov.: horta ce cardúgna ce den managà, managhá, managhato, managhì,
pléo maccarrúgna ‘erbe e cardi e non managhisa, managhiti, managhó,
più maccheroni’ (in uso a Gallicianò managhondo, managhondu → manaḣó.
dopo il carnevale) ☆ agr. µακαρία manaḣó [mana'xo] a. (2) ‘solo’,
'piatto di pane e fiocchi di avena, pasto ‘monaco’ (bov) ☞ cogn. Managó;
funebre'; *µακαρωνία, comp. di Monaḣó ctr. (Monterosso); Monagó
µακάριος 'beato' + αἰώνιος 'eterno'; ctr. S.Sofia d’Epiro; Minafó cogn. in
cal. maccarruni 'maccherone' e Sicilia; t'ócama manaḣómmu ‘l'ho
'stupido' & Grecismo per Alessio, fatto da solo’; emínasi manaḣóto
«Atti Acc. Pontaniana» 8, 1958-9, ‘rimasero soli’ || grico maneḣó ☆ ngr.
261-280, e per H & R. Kahane, µοναχός ‘solitario’ & DTOC 174; LG
«RLiR» 26, 1962, 129-131; DELI 694; 335; ILEIKI III 425; Crupi 1981:88;
Nocentini 2010, 650: la voce it. Casile.
maccheroni sarebbe di origine manandi, manandu, manasa, manati, manatu →
meridionale. mána ‘mamma’: µάνα.
macheria ‘coltelli’ → mahjéri: µαχαίριον. mandé avv. ‘se no, altrimenti’: µ᾽ἄν δέν.
macreni ‘allunga’ → macréno: µακραίνω. mandeglia, pl. di mandéḍḍi s.n. ‘tovaglia da
macria, macrie, → macrío ‘lungo’: µακρύς. capo’: mgr. µαντέλλιον.
maddì ‘pelo, capello’, pl. maddia → maḍḍí: ngr. mandilacia, pl. di mandiláci s.n. ‘asciugamano’,
µαλλί. dim. di mandíli ‘fazzoletto’, ‘scialle’: µανδήλιον ·
maddónna [mad'dɔnna] s.f. ‘matrigna’ χειρόµακτρον (Hes.).
mané avv. assertivo ‘sì’: µὰ ναί ‘ma sì’.
(bov) ☞ cal. maddónna (Cardeto), martía s.f. ‘peccato’: ἁµαρτία.
donna ‘suocera’; venez. madòna; cf. martiu ‘di marzo’, gen. di márti: µάρτιος.
cal. Maddamma top., ctr. di mastora ‘mastro, artigiano’: µάστορας,
Melicuccà, dall'appellativo della µάϊστρος < µάγιστρος, biz. µάϊστωρ < lat.
MAGISTRU( M).
nobile proprietaria ☆ lat. MEA DOMINA mastra ‘madia’: µάκτρα > lat. mactra.
‘mia signora’; ngr. µαδόνα, mátha ['maθa] s.f. ‘canestro cilindrico
appellativo di rispetto con cui ci si che in alto diventa più stretto’ (bov) ☞
rivolge alla suocera (Chio) & LG regg. mása (S. Lorenzo, Pentedattilo)
309; NDDC 378.
magazéno: ar. maḫāzin ‘deposito di merci’.
☆ Etimo oscuro. Rohlfs cf. gr. µαλάθα
maghondu = managhondu → manaḣó ‘solo’. ‘grande cesto’ (isole ionie), Alessio
máli s.n. ‘piano’: ὁµάλι ‘pianura’ < ὁµαλός µαθαλίς ‘coppa’ & Alessio 1943-4,
‘regolare’. 69; LG 310; ILEIKI III 410; Casile Zoì
mána ['mana] s.f. ‘mamma’, ‘madre’ 25.
(bov) ☞ i mánatise ‘la mamma di lei’;

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mathimena ‘avvezzi’: pl.n. di µαθηµένος < ‘li divideremo un po’ per uno’ ☆ gr.
µαθαίνω < agr. µανθάνω ‘apprendere’.
µοιράζω ‘id.’ & LG 334; Crupi
máttula ['mattula] s.f. ‘ghirlanda’,
1981:90; Casile 1991:88.
‘manna, fascio di fieno o di paglia’ miro, miromma, mirommu → míro.
(bov) ☞ cal. sic. màttula ‘cotone’, vib. míro ['miro] s.n. ‘destino’ (bov) → míra,
màttulu ‘cotone attorcigliato a trefolo’ móro ☞ vre o miromma posso ito
(De Pasquale 1892, 13) ☆ < mlat. cacío ‘vedi il mio destino quanto è
matta ‘stuoia di paglia’, prestito stato cattivo’ (Casile) ☆ gr. µύρος &
fenicio-punico, cf. ebr. miṭṭā(h) & Korais, Atakta, 4, 345: µύρος θρῆνος;
Plauto, Amph. 387 matula ‘pitale’; LG 344.
CGL II 523,25: matula (mattula cod. a) mirolója [miro'lɔja] s.n. pl. ‘elogio del
stamnion σταµνίον < στάµνος (Beekes
morto’ (bov) ☞ || grico morolója ☆ gr.
1390); Kluge 546: ted. Matte; voce
µυρολόγια ‘lamenti funebri’ & LG
semitica per Pauli «KZ» 18, 4;
334; Somavera: µοιρολόγιον;
Niermeyer 664; Marzano 1928, 239:
DuCange-G 277 µῦροµαι θρηνῶ;
gr. µάκτρον; NDDC 399; Crupi
Koraïs, Atakta 2, 255: µυρολογῶ,
1981,90: ‘ghirlanda di fieno’; De
µυρολόγιον; John Schmitt, Myrolog
Pasquale 1892, 13.
mavra, mavri → mávro: µαῦρος ‘negro, misero’.
oder Moirolog?, «IF» 12, 1901, pp. 6-
mbica ‘entra’, na mbicó ‘che io entri’ mbicaste, 13; Andriotis 1971, 210: το µοιρολόγι.
mbíchissa, mbiconda, mbiki → embénno: misi méra, gen. misimerìu: ‘mezzogiorno’.
ἐµβαίνω. místra ‘cucchiaio’: mgr. µυστρα lingula (CGL).
medicamenti = jatríe. mizitra → miśíthra ‘ricotta’: µυζήθρα.
méga, megáli, megálo, megha: µέγας ‘grande’. monocholía, monogholia ‘solitudine’: µονο- +
meletia, aor. di meletáo: µελετῶ ‘leggere’. χολή o incrocio di µοναχός ‘solitario’ con
meni, menonda, ménusi, menite, meno, menonda µελαγχολία ‘malinconia’.
→ méno: µένω. monopáti s.n. ‘strada’: µονοπάτιον semita
méra, mere → iméra. (Meursius 354).
meriamu, meriandu, meriasa, merìe → mería: mórο ['mɔrο] s.m. ‘destino’ (bov) →
µεριά ‘parte’ . míra, míro ☞ Variante arcaica di míra,
merticà, merticó ‘porzione’: µερ(ι)τικόν.
mésa avv. ‘in mezzo’: µέσα.
attestata da Casile: O míro pricío ‘O
mesaglia ‘tovaglie’, pl. di biz. µεσάλι < lat. destino amaro’ (I dio judi 4) ☆ agr.
mensale. µόρος ‘destino, morte’ (Hom. Il.
mesakì: µεσιακός ‘mediano, mezzano’. 20,30); cf. µέρος, µοῖρα, µείροµαι &
mesánisto: µεσάνυκτον ‘mezzanotte’.
mesiméri: µεσηµέρι ‘mezzogiorno’.
GEW 2, 196; DELG 678; Crupi
metapále avv. ‘di nuovo’: µεταπάλιν. 1981:89.
meterronda ‘tessendo’: metérro: agr. µεταίρω. mudárra ‘coperta’: *µουδάρραβα < ar.
metrate, metriome, metrume: metráo ‘contare, muḍarraba ‘materasso’.
misurare’: µετρῶ. mularíźo [mula'ridzo] v. intr. ‘fare i
mi part. negativa. ‘non’: µη. capricci’ (bov) → mularía
micrè ‘piccole’ a.f.sg.: µικρές.
‘ragazzaglia’ ☞ I maddonna san mu
milie, pl. di milía ‘melo’: µηλέα, ngr. µηλιά.
mína ‘mese’: µήνας. ívre embíchi mularíźonda ‘appena mi
mínasi, minaste, mini, minome, mínonda, mínu → vide, la matrigna cominciò a
méno: µένω ‘restare, aspettare’. protestare’ ☆ mularía ‘ragazzaglia’ +
miriáźo [mi'rjadzo] v. tr. ‘dividere’, -ιζω & Casile, I dio judi, 30.
‘spartire’ (b, ch, g, rf) ☞ ma mmiriáźi múnno ['munno] s.n. (volg.) ‘vulva’,
to tafí ‘ci dividerà la tomba’; aor. ‘organo genitale della donna’ →
emiríasa; emiriásti ‘si è diviso’, ḣámarro, ḣáccía, muhío, munnáci,
emiriástissa ta dinéria ‘si spartirono il nícchio, stícchio, sciúrra ☞ ☆ La
denaro’; ta mirianómasto líga peróma forma bovese postula gr. *µοῦνος

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‘vulva’, da cui discende il dim. gr. neró s.n. ‘acqua’, ‘pioggia’: νερό, mgr. νηρόν.
med. µουνί s.n. ‘id’; cf. venez. mona nnétho ['nnɛθo] v. tr. ‘filare’ (bov) ☞
(DEDI 1992, 287). Possibile rapporto 3sg. nnéthi; impf. énnetha; aor.
con scimugnázo: ‘stuprare’ > ‘unirsi a énnesa; inf. nnéi; aor. pass. ennéthina;
donna’ > ‘fidanzarsi’ < *ξε-µουνιάζω (prov.): nnétho, nnétho, nnétho: típote
& DuCangeG, 962; Meursius 356 íḣa ce típote éḣo ‘filo, filo, filo: niente
µουνή membrum muliebre; Corona avevo e niente ho’; grico nnéto, nnéso
pretiosa µουνή cunnus, αἰδοῖον ☆ gr. γνέθω, agr. νήθω, νέω & LG
γυναικός; Glossae Graecobarbarae 110; Casile, Zoí.
(fine 15° sec.) τῆς γυναικὸς τὸ αἰδοῖον, ngalipata avv. → ngalipáto
ὅπερ καλοῦσι µουνὴν; ΙΛΕΙΚΙ III:517 ngalipáto [ŋgali'pato] a. (2) ‘garbato’ e il
munnáci; LG 338; Crupi 1981:89. contr. sgalipáto [zgaliˈpato] ‘sgarbato’
mustari ‘mosto’: µουστάριος, lat. sono aggettivi ☞ cal. ngalipàtu ☆ der.
MUSTARIUS. di gálipo, cal. gálipu s.m. ‘garbo,
muthiazusi ‘ammuffiscono’: muthiáźo: destrezza, maestria’ < Ar. qālib
µουθιάζω. ‘forma’, donde port. galibar <
‘zurechtschneiden’ e anche it. garbo
& Scerbo; NDDC 291 e 464; C.
N Salvioni in «Studj Romanzi» 6,
na, nan: éna. 1909,19; Casile Zoì 4: ta pedia
nane = na éne. etrogasi ngalipata ‘ i ragazzi erano
naráda [na'raða] s.f. ‘strega’, donna con garbati nel mangiare’.
piedi di mula o di asina che vive presso nghisi, nghizi, nghizzonda → nghíźo:
fiumi e sorgenti; insidia neonati e ἐγγίζω ‘avvicinarsi, accostarsi,
fanciulli (b, rf, r) → anaráda ☞ approssimarsi’, ngr. ‘toccare’; il senso
Ecíndon jerò íhe éna nimali pu tin ‘mi spetta’ è calcato dal dial. romanzo
ekrázai anaráda ‘In quel tempo c’era (m’attocca).
un animale che chiamavano n.’ (fiaba nginári ‘uncino’: ἀγκινάρι.
di Roccaforte); cf. fifía, drácena, ngíru avv. ‘attorno’: γύρῳ < γύρος ‘giro’.
lamia, nícena ☆ ngr. (ἀ)νεράϊδα ‘fata’ nífi s.f. ‘sposa’: νύφη < agr. νύµφη.
nijomma, nijossa → jó.
< Νηρείς ‘Nereide’; ngr.dial. nimáglia n.pl. di nimáli ‘animale’.
ἀναράδα, ninfa delle acque (Cipro, nísta s.f. ‘notte’: νύχτα < νύκτα < νύξ.
Karpathos): agr. νηρηίς; dor. νᾱρό = nisticà, nisticì, nisticó: ‘digiuno’: νηστικός.
νηρό ‘acqua’ & Zonara: Νηρῇδες. nnemata n.pl. di néma ‘tessuto’: γνέµα < νῆµα
(γνέθω).
θαλάσσιοι δαίµο-νες; Meursius 365
nito = n’ito; cf. an din ito ti ‘se non fosse che’.
Νεράδες Nym-phae; Herm.M. (IX nivre = n’ivre; cf. san din ivre ‘quando la vide’.
sec.) 291: νερα-ειδες salaciae; Passow nná avv. ‘ecco’: νά.
1860:402: τοῦ ποταµοῦ νεράιδες; nóma s.n. ‘nοme’, pl. nómata: ὄνοµα.
Schmidt 1871: 98-130; A.Romeo,
Narade d’Aspromonte, 2ª ed., Napoli
Rexodes, 1991. TNC xlv, 300; LG 348; O
ΙΛΕΙΚΙ I 178; Rohlfs 1960, 363; Crupi óde avv. di luogo ‘qui’; anche ó; éla ó ‘vieni qui’;
1981:90 ‘fata maligna delle grotte’. A. art'óde ‘adesso’: agr. dial. ὧδε, ngr. ἐδώ.
Thumb, «IF» 2,82-84; N. Politis, ógnasi s.f. ‘concordia’: mgr. οµόνοιαση <
«ΛΔ» 5, 17. ὁµόνοια.
óla, óle, óli, ólu → ólo ‘tutto’: ὅλος.
narte = na írte.
omilía s.f. discorso’: ὅµιλία, conservato nel grico,
nda, nde, ndi, ndin, ndo, ndu: fatti di fonetica
non a Bova, dove è stato sostituito da pláto.
sintattica.
omó a. ‘crudo, acerbo’: ὠµός.
nene v. nota a p. 144.

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ómorfo ‘bello’: v. nota a p. 130. Crupi 1981:91; Katsoyannou
opíssutu avv. ‘dietro a loro’: ὀπίσω τους → 1995:549.
apíssu. pappúdiamu, pappundu → pappua.
orchete → érchome.
ortó a. ‘dritto’, ‘in piedi’: ὀρθός. papúri [pa'puri] s.n. ‘nave’ ☞ [p] < [v]
oscia, otsia, otzia = ozzía ‘montagna’: ὀξεῖα. per assimilazione regressiva; cal. vapúri
óssotte ‘dentro: ὄσω < ἔσω + -θεν. ☆ ngr. *βαπόρι ‘piroscafo’ < it. vapore <
óssu ‘dentro, in casa’: ἔσω.
ostó num. ord. ‘otto’: ὀχτώ.
lat. VAPOR & Babiniotis 345: βαπόρι,
otsu → ózzu avv. ‘fuori’: *ὄξω < ἔξω. anche παπόρι e παπόρο ‘το ατµόπλοιο’,
ótu avv. di modo ‘così’; antevoc. ótus: οὕτως. voce popolare; dim. βαποράκι e
ózzotte ‘fuori, da fuori’: ἔξωθεν, ngr. όξωθεν. παποράκι; Casile, I zoí: fattúci Pu
teglionni o cosmo. Notare le espressioni
P gr. γίνοµαι βαπόρι “χάνω την
pachio a. ‘grasso’→ pahjío [pa'çio]: παχύς. αυτοκυριαρχία µου, εξοργίζοµαι” e κάνω
pái, paite, paiti, páme → páo. (κάποιον) βαπόρι “εξοργίζω (κάποιον)”,
paléa, paléi→ paléo.
palemeni ‘bagnati’ è p.p. di → paléno che spiegano il senso della scelta
paléno [pa'lεno] v. tr. ‘ammorbidire’, avventata del reuccio della fiaba.
paracalima ‘preghiera’: παρακάλιµα.
‘ammollare’, ‘bagnare’ (qualcosa per paracaló ‘pregare’: παρακαλώ.
renderla morbida)’ (bov) ☞ aor. parádosi s.f. ‘tradizione’, termine ignoto
epálina; aor. pass. apalíthina; cong. na al bovese, palese “neoellenismo”:
palíno; sónno palíni ‘mi potrei παράδοσις.
bagnare’; palithí ‘bagnarsi’; palitháte paratíra s.f. ‘nicchia’: παραθύρα ‘finestra’.
‘bagnatevi’; ímmo palithónda ‘mi ero paréo [pa'rεo] avv. ‘separatamente’, ‘a
bagnato’ || grico paléno, palénno ☆ gr. parte’, ‘per giunta’, ‘oltre a ciò’,
ἀπαλύνω & LG 43; Crupi 1981:91. ‘divisi’, ‘uno per uno’ (bov) → aréo ☞
pánda avv. sempre’: πάντα. to vaḍḍo paréo ‘lo metto da parte’,
pandiome, pandisi → apandénno ‘incontrare’. paréo para túto ‘oltre a ciò’; paréo an
páo ['pao] v. intr. ‘andare’; ‘chiamarsi’ din fotía ‘accanto al fuoco’; etrógai
(bov) ☞ páo spiti ‘vado a casa’; páme, paréo ‘mangiavano appartati’;
pási; pù páu páu ‘dovunque vadano’; stécusim baréo ‘vivono separati’. Col
p. pr. páonda; pu pási? dove vanno?; pron. pers. encl. diventa peró-: éna
páusi ‘vanno’ (r); ppp. ímmo pánda perómase ‘uno per ciascuno di noi’;
‘ero andato’ (grico íḣa páonta); impf. cal. sparti avv. ‘a parte, divisi’ ☆ gr.
ípiga [ὕπηγα]. Regge il gerundio in ἀπ᾽ ἀραίῳ, costrutto di ἀραιός ‘raro,
perifrasi con aspetto frequentativo: sottile, esile, angusto’ & LG 53;
páo platégonda ‘vado dicendo’, ti Kapsomenos 1953, 338; Crupi
ípijen gánnonda? ‘che cosa andava 1981:91; Casile 1991:124.
facendo?’; inf. pài: den éḣo pu pái non parite, parome: cong. aor. di pérro.
so dove andare. L'aor. si forma col parpátima [par'patima] s.n. ‘cammino’,
tema di diavénno: ejáina, ejávina, ‘viaggio’ (bov); anche porpátima (r)
ejána ‘andai’ [‹ ἐδιάβην; cf. grico → parpató ☞ ☆ mgr. περιπάτηµα &
epírta < ἐπῆλθον]; ejái ‘andó’, ejáissa LG 395; Crupi 1981:104; ΙΛΕΙΚΙ IV
‘andarono’. L'imper. è tratto dal tema 257; A. Picone Chiodo, Porpatima.
di ἄγω: áme, améste, ma resiste anche Cammina... sui sentieri greci, Bova,
apáte ‘andate’; per il senso ‘chia- Apodiafazzi, 2015.
marsi’ cf. cal. vaju ‘id.’ ☆ ngr. πάω < parpató [parpa'to] v. intr. ‘camminare’;
gr. ὑπάγω || grico páo & Meursius tr. ‘percorrere’ (b); anche porpató (ch,
393 πάγειν ire, πορεύειν; LG 390; r, rf) ☞ p.pr. porpatónda; impf. 3sg.

- 207 -
eparpáte; 1pl. eparpatúmma; aor. 1964; LG 386; Crupi 1981:91; Zoì 16,
eparpátia; inf. parpatísi, porpatísi; 24.
imper. parpáti/porpátie, porpatíete || Paruciu, soprannome.
grico prató ☆ mgr. περπατῶ < gr. parźámi [par'dzami] s.n. ‘piccolo gregge’
περιπατῶ & Meursius 408 παρπατεῖν; (bov) ☞ pl. ta parciámita; cal.
CGL III, 305, 67: περιπατος parzàmu, m. 1. quota parte che ciascun
ambulatio; 288: περιπατήσοµεν proprietario ha del gregge comune; 2.
deambulemus (Herm. M., IX sec.); LG gruppo di animali che fa parte di una
395; ΙΛΕΙΚΙ IV 257-260; Crupi mandria (Ciminà, Delianuova, Santa
1981:91. Cristina d’Aspromonte). V. parciàmi,
parpátulo [par'patulo] s.m. ‘grecanico’ parsa-màni, parzàmi, parzàmiti,
(g), epiteto offensivo → parpató ☞ passàmi, passámita ‘animali estranei
cal. parpàtulu. In Sicilia il sinonimo alla mandria’ (Pentedattilo);
caminanti è affibbiato agli zingari; cf. parzamàru ‘socio di una mandra di
S. Rizza, Tabbarari a mašcu: viaggio bestiame’ (pian) ☆ lat. PARTIAMEN;
nel gergo dei caminanti siciliani, in per Tsopanakis 1955, 57 è un dorismo
«Quaderni di Semantica», Bologna, da παρασάµιον, per via dell’ā per η &
CLUEB, n. 2,2012, 291-308; T. NDDC 505: parzánu; LG 386
Schemmari, I Caminanti. Nomadi di ‘parćami ‘gruppo di animali riuniti in
Sicilia, Firenze, Atheneum, 1992. ☆ una mandra maggiore’; Crupi
gr. περιπάτουλος & Crupi 1981:91. 1981:91.
pása ‘ogni’ πᾶς; pasaena ‘ognuno’ πᾶς ἕνα.
parrasía [parra'sia] s.f. ‘favella’, ‘vocìo, paténni ‘calpesti’: pató: πατῶ.
cicaleccio, verbosità, parlatina’ (bov) patéra ‘padre’: πατέρας, preferito a ciúri.
☞ írte ‘m barrasía ‘divenne loquace’; paterinó s.n. ‘paternale’, ‘padre nostro’: πάτερ
cal. parrasìa ‘cicaleccio’, ‘verbosità’ ἡµῶν.
pátima s.n. ‘pavimento’: πάτηµα ‘orma’.
☆ ngr. παρρασία ‘franchezza’ < agr. páula s.f. ‘quiete’: παῦλα < παύω. Cf. pausa.
παρρησία (παν-ῥησία) ‘franchezza nel pedácia ‘ragazzini’: pedáci s.n.: παιδάκι.
parlare’, con rimotivazione su parrari. pedia, pediama, pediasu, pediati, pedimmu →
Già in Platone il termine ha senso pedí: παιδίον.
peggiorativo (chiacchiera, dire pedóti [pe'ðɔti] s.m. ‘messo, corriere,
qualunque cosa viene in mente, senza messaggero, ambasciatore’(bov) ☞ tu
criterio): la παρρησία caratterizza la ‘stílai enam bedoti t’atú ‘mandarono
cattiva costituzione democratica, in un messaggero all’aquila’; Prov.: O
cui ognuno ha il diritto di aprire bocca pedóti léji ecíno ti tu ípasi
e dire cose anche pericolose per la ‘l'ambasciatore riferisce quello che gli
città. Tale senso peggiorativo si trova hanno detto’ ☆ mgr. πηδώτης
frequentemente nella letteratura cri- ‘timoniere’ (< πηδόν e πηδάλιον
stiana in cui la cattiva parrhesia è ‘timone’), donde it. pedota ‘timoniere’
contrapposta al silenzio come requi- e pilota, incrociato con πεζός
sito per la contemplazione. La mag- ‘pedone’. Per l’ipotesi di un
gior parte delle occorrenze nella meridionalismo πλώτης ‘colui che
letteratura classica mostra però una naviga’ importato dalla Sicilia a
valenza positiva. Il parrhesiastes dice Venezia come pedota cf. H. & R.
ciò che è vero; parrhesiazesthai vale Kahane, On Venetian Byzantinismus,
‘dire la verità’ & G. Scarpat, «Romance Philology» 27, 1974, 366-
Parrhesia. Storia del termine, Brescia 367 e M. Cortelazzo, Venezia e il
mare, Pisa, Pacini, 1989, p. 412 &

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Castellani 2000, 174-7; Cortelazzo, péttonda; aor. éppesa, éppe, epésame,
1970, 179-181; DELI 929 s.v. pilota; epéame ‘cademmo’; epéasi caddero;
Crupi 1981:91; Condemi 2006, 312; mi péite ‘non cadete!’; inf. péi || grico
Casile Zoì 12; 1991:132. pétto ☆ gr. dial. πέφτω < gr. πίπτω; [i]
pelanni, pelannusi: pelánno v. tr. ‘condurre > [e] per influsso analogico del tema
animali al pascolo’; intr. ‘uscire al pascolo’;
agr. ἀπολύω ‘liberare (gli animali)’; ngr. dial.
dell'aoristo & MorB 3; LG 403;
ἀπολάω. ΙΛΕΙΚΙ IV 167; Crupi 1981:92.
pei, peite → pétto: πίπτω. peźó ‘uomo’, ‘unità lavorativa’: πεζός.
pelecía ‘colpo di accetta’: πελεκία. pi ‘chi’ πίς.
pelecúci ‘piccola accetta’ = sciúni. píae, piaeta, piai, pianni, piannome, piaonda,
perai, perammeno, peránnasi, peráonda, perásai, piasti, piausi, → piánno.
peramma, perammeni, peranni, perannite, piánno ['pjanno] v. tr.  ‘prendere,
perannonda, perannusi, perao, peraome, pigliare’ (b); ‚ ‘montare (in senso
perase, peratemu ‘passatemi’, perausi → sessuale)’; ƒ ‘sbattere (contro
peránno, peráźo: περάω ‘attraversare’.
peristerácia ‘colombi’.
qualcosa)’; „ intr. ‘accendersi,
pércia Cf. la nota di Casile: I percia ito appiccarsi, ardere’; … ‘azzuffarsi’;
enan tsilo de poddì grondò, ce ito ‘attecchire’; ‘dirigersi’ ☞ impf.
demeno apucatu ste trave catu sta épianna; aor. épiasa (= grico épiaca,
ceramidia, pu ito demeno evaddasi ébbica), p.pr. piánnonda; aor. pass.
RUSCLE na mi sousi perai ta pondicia epiástina; piánno to ḣristó ‘prendo la
‘La percia era un palo non molto comunione’; épiasa stim mílinga ‘ho
grosso ed era legato sotto le travi del battuto sulla tempia’; imper. píae,
tetto, dov’era legato mettevano delle piáeto, piaéto ‘piglialo’; piánno ce
ruscle affinché non potessero passare i pao ‘piglio e me ne vado’; an dem
topi’. Cf. rúscla. biáome ‘se non pigliamo’; inf. piái, p.
percinó a. ‘dell'anno scorso’: περυσινός. aor. piáonda || grico piánno ☆ ngr.
perómu → paréo. πιάνω < gr. πιάζω. I vari significati
perri, perrome, perronda → pérro.
petái ‘vola’: πετῶ.
traslati, presenti anche in cal.
pete, petemu ‘ditemi’, imper. aor. di ípa. pigghjàri, sp. prender, rum. a aprinde,
pethamméno, pethánasi, péthane, pethani, it. prendere, si trovano già in lat.v.
pethánome, pethánonda, pethánusi → APPREHENDERE e gr. ἄπτω, ἄπτοµαι
pethéno. & Meursius 424 πιάννειν; LG 400;
pethéno [pe'θεno] v. intr. ‘morire’ (bov); ΙΛΕΙΚΙ IV 177-181; Crupi 1981:92.
apethéno ☞ aor. epéthana; cong. na mi piete ‘bevete’: pínno: πίνω.
petháno; íto pethánonda ‘era morto’; pigádi s.n. ‘sorgente’: πηγάδι.
na ímmo pethánonda ‘fossi morto!’; pighi = pijí s.n. ‘pozzo’, fonte’: πηγή.
pii → pínno.
inf. petháni; pp. pethamméno; iméra
pína s.f. ‘fame’: πεῖνα.
tom bethamméno ‘giorno dei morti’
pinnáta pin'nata] s.f. ‘tettoia’ (cal) ☞ Sal.
(g); grico apeséno, pesénno, peténno,
suppinna ‘soffitto delle case’‹ *SUB-
pesinísco ☆ ngr. πεθαίνω dal tema PINNA & Liber Visit. appinata
dell’aor. di agr. ἀποθνήσκω & AIS 75 (1457); Douramani 2003:258 λι
peθéno, grico apeséni; LG 48; ΙΛΕΙΚΙ σατζερδοτι σε βεστινο βεστι ββιανκι ε
IV 139; Crupi 1981:92. σταννο φoρα αλλα πιννατα; 264 καλα
petisto = pe tis to ‘diglielo’.
petónda part. pr. di petáo ‘volare’. α λα πιννατα (S. Bartolomeo di
petsí s.n. ‘pezzo’: πετσίον. Trigona, a. 1571); REW 8387a
pettherondu, pettherutu: pettheró ‘suocero’. SUBPINNIUM ‘Zimmerdecke’;
pétto ['pεtto] v. intr. ‘cadere’ (bov) ☞ ligure supénna (N. Lamboglia,
péttusi ḣámme ‘cadono a terra’; p.pr. Toponomastica dei comuni di Alassio

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e Laigueglia, Albenga 1939, p. 114, n. pléo ['plεo] a. e pron. indecl. ‘più’ (bov)
694). F. D'Ovidio, Impennarsi ed altre → plén ☞ pléo lígo ‘minore’ (cal.
voci affini, «ZRPh» 28, 1904, 535- cchjù ppocu); pléo pará cató ‘più di
549. O. Parlangeli, Sui dialetti cento’; em blatéome pléo ‘non ne
romanzi e romaici del Salento, p. 101. parliamo più’; to pléo ‘tutt'al più’;
Plin. n.h. 27,79,1: folia utriusque prov.: ‘O áthropo pléo éhi, pléo théli
lateribus pinnata ‘le foglie di ‘l'uomo più ha, più vuole’ ☆ gr. πλέον
entrambe le specie (di felce) sono & LG 410; ΙΛΕΙΚΙ IV 213; Crupi
coperte di piume ai lati. 1981:92.
pirugna → pirúni s.n. ‘stecco di legno’, ‘piuolo, pleráto a. ‘maturo’: πληρᾶτος.
cavicchio’: περόνιον, ngr. πιρούνι ‘forchetta’. pleronnusi ‘maturano’ → plerónno.
pisi, pisite: cong. aor. di pínno.
pistéggo ‘credo’: πιστεύω.
plerónno [ple'rɔnno] v. intr. 
pitéla s.f. ‘ampelodesmo’:*πιτέλα < ar. fatīla. ‘maturare’; ‚ tr. ‘riempire’ (bov) ☞ 1.
pítera s.f. ‘crusca’: πίτερα. íto plerósonda ‘era maturato’; to
piusi → pínno. stafíḍḍi epleróthi ‘l'uva è maturata’;
pizzilo ‘bello’ = piźilo: ἐπίζηλος ‘invidiabile’.
plaghi: pláji s.f. ‘bosco’: πλάγιον.
cal. jinchíri nei due sensi; 2. se
plateggasi, plategghi, plateggome, plateg-gonda, plerónno zze raddíe ‘ti riempio di
plateggusi, platetsome, platetsonda, bastonate ☆ ngr. πλερόνω < πληρόω
platetsusi, platézzi, platézzusi → platéggo. ‘riempire’ & Herm.M. (IX sec.) 339:
platéggo [pla'tεggo] v. intr. ‘parlare’, πλερο impleo; LG 411.
‘conversare’ (bov), platéo (r, ch) ☞ pléstra ['plεstra] s.f. ‘treccia’; ‘piccia,
platéise ‘tu parli’, platéusi, platéggu filza di fichi secchi’ (bov) → pléco,
‘parlano’; to pplatéo egó ‘parlerò loro plétta ☞ cal. schiocca ☆ gr. πλέκτρα <
io’; em blatéome pléo ‘non ne πλέκω ‘intrecciare’ || grico plèźo e
parliamo più’; platézzemu ‘parlami’ plezzíta ‘treccia di capelli’ & LG 410;
(b); cong. aor. na platéspo (g); inf. aor. ΙΛΕΙΚΙ IV 217; Crupi 1981:92.
platéspi; scéro platéspi ‘so parlare’ plini, plithite: pléno: πλένω.
(ch); pi pplatéi methésa, tu dónnete ploite: cong. aor. di → aplónno.
udiénza ‘a chi vuol parlar con voi, gli plúppo ‘pioppo’: πλοῦππος < lat. v. PLŌPPUS <
PŌPŬLUS.
date udienza (canto di R) || sconosciuti
plusía s.f. ‘ricchezza’< πλούσιος ‘ricco’.
in Calabria gli esiti di ὁµιλία, plusíname → pluséno.
conservati nel grico: omiló, amiló, poddá, poḍḍè → poḍḍí.
miló < ὁµιλῶ ☆ gr. *πλατεύω < pódi s.n. ‘piede’, pl. pódia: πόδι.
πλατειάζω ‘parlare ad alta voce, in podó avv. ‘poi’: ngr. ἀπ᾽ ἐδώ, mgr. ἀποδῶ.
poghumite → apoḣúnno.
piazza’ & MorB 75; TNC 4; LG 408; pondícia ‘topi’: ποντίκιον, dim. di ποντικός ‘mus
ΙΛΕΙΚΙ IV:204; Crupi 1981:92. Ponticus’.
pláto ['plato] s. n. ‘il parlare’, ‘discorso’ póno ‘dolore’: πόνος.
(bov) → platéggo ☞ Ecóto to pláto ‘si porcialafádi ‘guanciale’: προσκεφαλάδιον, dim.
di προσκεφάλαιον.
udiva il parlare’ (g); pláti ton áharo pordangóni s.n. ‘nipote’: v. nota di p. 135.
glossó ‘discorsi di male lingue’; épiase pórdo s.m. ‘peto’: πόρδος.
ce pirame to pláto ‘pigliò e mi tolse la porpatisite cong. aor. di porpató ‘camminare’
conversazione’ ☆ deverb. di platéggo περιπατῶ, cf. parpátulo.
pos avv. di modo: πῶς ‘come’.
& LG 409; ΙΛΕΙΚΙ IV:204; Crupi possa, posse, possi → pósso ‘quanto’: πόσος.
1981:92; Casile 1991:120. posuronda p.pr. di aposurónno ‘scolare’:
plattéḍḍi s.n. ‘piatto’, pl. platteglia: πλατέλλιον. ἀποσύρω.
plénasi: impf. aor. (éplena) di pléno ‘lavare’: potàmia s.n. pl. di potámi ‘fiume’: ποτάµιον.
πλένω < πλύνω. potamó s.m. ‘fiume’ ποταµός.
poté avv. ποτέ ‘mai’, sostituito da mái.

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póte ‘quando’: πότε. dos; LG 424; ΙΛΕΙΚΙ IV:304; Violi
pothimeno ‘raffreddato’: apothimíźo ‘far 2007, 260: prikió; Casile Zoì 25.
evaporare’: cf. ngr. ξεθυµαίνω ‘evaporare’; príta avv. ‘prima’: ngr. πριτά ‘prima che’;
pótima s.n. ‘irrigazione’, der. di ποτίζω. incrocio di πρίν e πρῶτα.
potisticò a. ‘irriguo’→ ποτίζω. próclisi, proclisis ‘invito’; v. nota a p. 8.
potisi, potiusi cong. aor. di potíźo ‘irrigare’. proferrome: proférro ‘offrire’.
potonisi cong. aor. di apotonáo. prósclisi: πρόσκληση ‘invito’; v. nota a p. 46.
prandegghete, prandeggonde, prandem-mena, prósopo ‘volto, faccia’: ngr. πρόσωπον.
prandemmeni, prandespo, prandestì,
prandetsi, prandetsome → prandéggo.
protáli1 [pro'tali] s.m. ‘primogenito’
prandéggo [pran'dεggo] v. tr. ‘sposare’; intr. (bov) → protaría ☞ o protáli éne
‘maritare’ (bov) ☞ prandégguo; impf. valénti o paḍḍáli ‘il primogenito è
eprándegga; aor. eprándezza ‘ho valente o sciocco’ ☆ gr. *πρωτάλι &
maritato’; na prandeftúsi ‘che si sposino’; TNC 296; LG 428.
grico armáźo ☆ mgr. ὑπανδρεύω > ngr. protáli2 [pro'tali] s.n. ‘dolce natalizio’
παντρεύω ‘sposare’. Il riferimento è in (bov), anche plotári, petráli ☞
origine alla donna che si sottomette Impasto di noci e mandorle tritate con
all’uomo (ὑπὸ + ἄνδρα) & Tozer 1889;
AIS 69 em brandévyeste? ‘non vi
miele bollito con aggiunta di vino
sposate?’, grico n armadzesésta?; LG 528; cotto, scorza di mandarino, chiodi di
ΙΛΕΙΚΙ IV 288; Crupi 1981:93. garofano, zucchero e cannella. Cal.
prandéggome [pran'dεggome] v. md. protáli (Africo, Brancaleone), pretáli,
‘sposarsi’; ‘maritarsi’, ‘ammogliarsi’ pratáli, petráli (Melito, Pentedattilo),
(bov) ☞ aor. eprandéstina ‘mi sono pitráli (Fossato, Ortì, S. Lorenzo),
sposato’ ☆ mgr. ὑπανδρεύοµαι > ngr. plotári. Pl. protália, plotália ☆ gr.
παντρεύοµαι ‘sposarsi’. *πρωτάλι ‘dolce offerto come
prandemméno [prandem'mεno] a. (2) primizia’ & LG 411-12; ΙΛΕΙΚΙ IV,
‘sposato’ (bov) → prandéggo ☆ < gr. 226 sg.: ἁπλωτάρι < ἁπλωτός ‘steso’;
πανδρεµένος. Casile 2005: 47 sgg.: < προτέλεια
prándemma ['prandemma] s. n. dev. [γαµῶν] ‘offerte prenuziali’. La forma
‘sposalizio, matrimonio’ (bov) → bovese, rimandando a πρῶτος,
prandesía, prandéggo ☆ < gr. indeboilisce l’ipotesi di Trumper
ὑπανδρεύω. 2016, 187: πλοτάρι < πολτάρι <
prandesía [prande'sia] s.f. ‘banchetto πόλτος ‘είδος κυπριακού γλυκού’.
nuziale’ (bov) → prándemma ☞ grico protinè, protinì, protinó: προτινός ‘primo’.
armasía ☆ der. di prandéggo & Crupi próvato s.n. πρόβατον ‘pecora’.
1981:93. próvlima, provlimata: πρόβληµα, prob.
prandía [pran'dia] s.f. ‘nozze’ (bov) → “neoellenismo”.
pu1 prep. con valore distributivo: pu éna éna ‘ad
prándemma ☞ grico i nóttse ☆ der. di
uno ad uno’: ἀπό.
prandéggo & AIS 71; ΙΛΕΙΚΙ IV 289; pu2 avv. di luogo ‘dove’: ποῦ.
Crupi 1981:93. pucátu avv. ‘sotto’ = apucátu: ἀποκάτω.
prasticó ‘eccellente’, con riferimento al vino: púccia prep. ‘da quando’: ἀπὸ ἐκεῖ(ν)α.
παστρικός ‘pulito’. pucciárte avv. ‘d’ora in poi’: púccia + árte.
pregogna, pl. di pregóni s.n. ‘figliastro’: προγόνι, puḍḍía s.n. pl. ‘uccelli’: πουλί.
dim. di πρόγονος. pulao, pulie, pulío: puláo ‘vendere’: πουλάω.
prépi v. impers. ‘si addice’: πρέπει. purrí s.f. ‘mattina’: πρωϊνή.
pricáda s.f. ‘amarezza’: πικράδα. pútte avv. ‘da dove’: ποῦθε (agr. πόθεν).
pricío a. ‘amaro’: *πρικεῖος, πρικίος < πικρύς.
príchio ['prikjo] s.n. ‘dote, corredo’ (bov)
☞ grico ta pricía ‘la dote’ ☆ gr.
R
*πρίκιον < προῖκα < προίξ ‘id.’ & raḍḍí, s.n. ‘bastone’: ῥαβδίον.
Meursius 447 πρίκα pro προῖκα, προίξ

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raddía s.f. ‘bastonata: ῥαβδία; s.n. pl. ta Raddia S
‘Costellazione di Orione’.
saccoráfa s.f. ‘ago per sacchi’: σακκοράφα.
ravognázondo: la voce rimanderebbe a saddo : s’áddo.
un ravognázome ‘unirsi, fidanzarsi’, sambóte congz. di modo ‘come se’, ‘forse’,
che però manca nella rubrica di Casile costruito con ti: ὡσάν πότε ὅτι.
ed è sconosciuta. san avv. ‘quando’: ὡσάν < ὡς ἄν.
riácia s.n.pl. ‘ruscelli’: ῥυάκιον. sanárte avv. ‘per ora’: ὡσάν + ἄρτι.
rífi s.n. ‘capretto’: ἐρίφιον. sanídi [sa'niði] s.n. ‘desco, tavola per
rifstome → rísto: ῥίπτω. mangiare’; sin.: távla, buffétta ☞ gen.
ríga s.m. ‘re’: ῥήγας. Pl. righi e rigádi. Dim. tu sanidíu; pl. sanídia || grico sanída
rigúci.
rísto ['risto] v. tr. ‘gettare, buttare, ☆ ngr. σανίδα < mgr. σανίς di etimo
lanciare’; intr. ‘germogliare’; incerto & Meursius 487 σανίδας pro
‘sciamare’ (bov), rífto (rf), ríthto (ch), σανίς; Herm.M. (IX sec.) 313: σανις
rítto (g) ☞ grico rífto, rítto; rístusi axis, σανιδωτον tabulatum; CGL 429,
46: σανις tabula; Morelli 1847, 25:
‘gettano’; aor. ériscia, érizza,
erízzame, inf. rízzi, p.p. rimméno; sanidia tavole σαννίδια; PellB 218:
rízzeto ‘gettalo!’; rísto lucísi cal. jéttu sanníδι Asse, tavola, dove i contadini
serbano i comestibili; LG 448;
focu ‘essere fuori di sé’; ta melíssia
Condemi 2006, 363; Violi 2007, 260;
rithtúsi ‘le api sciamano’ ☆ agr.
Crupi 1981:94.
ῥίπτω, mgr. ῥίχνω & LG 440; ΙΛΕΙΚΙ sapiméno ‘marcito’: *σαπαίνω ‘infracidire’.
IV 347; Crupi 1981:94. scalegghi → scaléguo ‘zappettare’: σκαλεύω.
rístome ['ristome] v. intr. ‘gettarsi, scannia, scannindu → scanní.
avventarsi’ (bov), ríftome (rf), scanní [skan'ni] s.n. ‘sgabello, sedile,
ríthtome (ch), ríttome (g). sedia’ (bov) ☞ grico scanní ☆ gr. biz.
☞ piánni ce rístete ‘si getta di colpo’; σκαµνίον < σκάµνος < lat. SCAMN(UM)
aor. m. erístina; erísti apánuti ‘si gettò & Meursius 504 σκαµνίον scamnum;
su di lei’ ☆ agr. ῥίπτοµαι, mgr. Meyer 1895:60; TNC 304, 305; LG
ῥίχνοµαι & Meursius 474 ῥίβγειν pro 459; ΙΛΕΙΚΙ IV 420; Crupi 1981:94;
ῥίπτειν iacere; Crupi 1981:94. Condemi 2006, 367; a p. 424 è dato
rízzasi, rizzetému → rísto. come sinonimo di trapézi ‘banco,
rucha, rugha → rúḣa ‘panni’: ῥοῦχον. tavolo’.
rúdi s.n. ‘melagrana’: ῥόδι < gr. ῥοίδιον. scára ['skara] s.f. ‘graticola’ (bov); cf.
rúscla ['ruskla] s.f. ‘pungitopo’, arbusto †scará ‘costruttore o venditore di
spinoso [Ruscus aculeatus] (C) ☞ cal. graticole’ ☞ Per Rohlfs scára
rúsculu, ruscu ‘rusco’, detto anche ‘graticola’, attestato da Pellegrini, è
pungitopo perché adoperato per sconosciuto a Bova, dove si usa
respingere i topi ☆ lat. RŪSCULA gradíglia ☆ ngr. σκάρα ‘graticola’ <
‘arbusto spinoso’, dim. di rúsco < agr. ἐσχάρα ‘focolare, braciere’.
RŪSCUM & DELL 583 ruscus; Casile documenta qui un riflesso
Nocentini 2010: 1028; REW 7459b bovese del semantema classico &
*ruscula; Casile Zoì 22: eváddasi DELG 379: ἐσχάρα ‘foyer bas,
ruscle na mi sousi perai ta pondicia brasier’; il cambiamento di significato
‘mettevano ruscle affinché i topi non è già medievale: Meursius 504 σκάρα
potessero passare’. craticula, ἐσχάρα; PellB 219; LG 159;
rúsi a. f. ‘rossa’: mgr. ρούσιος, ρουσιώδης Crupi 1981:94.
russus (Meursius 478). scorpie: aor. di scorpíźo ‘distribuire’: σκορπίζω
‘disperdere’.

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schíma s.n. ‘vestito da sposa’: mgr. σχῆµα ‘abito, sindóni, sindonia: σινδόνιον ‘lenzuolo’.
abbigliamento’. sindrofía s.f. ‘compagnia’.
sciasmáda s.f. ‘ombra’, der. dal tema dell’aor. di sindrofizzo → sindrofíźo ‘accompagnare’.
sciáźo ‘spaventare’. sindrófissa s.f. ‘compagna’: συντρόφισσα.
sciasmía s.f. ‘paura’: σκιασµία. sinédrio s.n. ‘sinedrio, convegno’, prob.
sciastì, sciastite → sciáźo. “neoellenismo”.
sciddo, sciddia → scíḍḍo ‘cane’: σκύλλος. sinerchete, sinerconda, sinercomesta →
scimugnáźome [ʃʃimuˈɲadzome] v. m. sinércome ‘ricordare’: συνέρχοµαι
‘riprendersi’.
reciproco ‘fidanzarsi’ (bov) ☞ p.p. singathimena ‘compressi’: συγκαθίζω.
scimugnasméno; O Petro singhenadia, singhenadiatu, singhenimmu, →
escimugnasti me mia zzoḍḍa 'Pietro si singhení ‘cognato’: συγγενής: singhénissa
fidanzò con una fanciulla' ☆ gr. ‘cognata’: συγγένισσα.
sinirte ‘si ricordò’: συνέρχοµαι.
ξεµονοιάζω, comp. di ξε- + µονιάζω sínnafo s.n. ‘nuvola’: σύννεφος, pl. sinnofa.
'fare vita solitaria' < µονιός 'celibe', sinnofía s.f. ‘annuvolamento’.
µονία 'celibato' & Voce attestata solo sinodía s.f. ‘compagnia’: συνοδεία ‘viaggio
da Casile Zoì 17, 30. Nella Rubrica il insieme’.
lemma è corredato di punto sinvérni [sinˈvεrni] s.m.  ‘uomo’, ‚
interrogativo: scimugnasmeno = ‘marito, consorte’ (b); cf. ándra ☞ La
fidanzato? È registrato anche: scimu = voce è sconosciuta a tutti i lessici
piacere, godimento, piacere sessuale, dell’italogreco; è attestata solo da
voluttà. In tal caso è ipotizzabile una Casile ☆ La prima sillaba ci orienta
corradicalità con múnno 'pube'. verso un composto con συν-; Morelli
sciní ‘fune’: σκοινί. 1847, 25 registra un sinverno da un
sciólico ‘ragazzo’, forse = cal. stròlacu ‘sciocco’
ἀστρόλογος.
inesistente σύννευρος, seguito da
sclupio ‘assiolo’ → sclupí, scropíu: σκλωπίον. Pellegrini 1880, 225, che pensa a
scotái ‘annotta’ → scotáźi : σκοτάζει. σύνευνος ‘consorte’, che si trova
scotídi ‘buio’: *σκοτίδιον dim. di σκότος. effettivamente in Esichio (συνεύν[ι]ον
scotimméno ‘stordito’ < σκοτίζω. · σύγκοιτον), Fozio 554,6 (Συνεύνιον:
scuddí s.n. ‘collo, nuca’: ngr. dial. σκουλλί.
scúndu avv. ‘come, secondo’: cal. secundu, lat.
σύγκοιτον) e Suida (991 Bekker).
SECUNDUM. entrambe le ipotesi sono improbabili
seddída s.f. ‘pagina’: σελίδα. per motivi fonetici. Una base *συν-
serri, serrome, serronda: sérro ‘tirare’: σέρνω. φέρνης ‘consorte, compartecipe del
sgalipáto [sgaliˈpato] a. (2) ‘sgarbato’; patrimonio’ riman-da ad agr. φερνή
contr. ngalipáto ☞ cal. sgalipàtu der. ‘dote’, derivato di φέρω, cf. φερνίζω,
di gálipu, gálapu, gálipu s.m. ‘garbo, voce scomparsa nel ngr. a favore di
destrezza, maestria’, ngalipatu προῖκα. Il termine ha riscontri
‘garbato’ ☆ Ar. qālib ‘forma’, donde indoeuropei: arm. beṙn ‘carico, soma,
anche it. garbo & Scerbo; NDDC peso’ ecc. Inoltre συµφέροµαι
464; C. Salvioni «Studj Romanzi» 6, (opposto a διαφέροµαι), vale anche
1909,19: cal. gálipu garbo; Zoì 16. ‘stare d’accordo’ tra marito e moglie:
sica ‘fichi’: σῦκον, τό. cf. Ηes. συµφέρεσθαι· συµφωνεῖν;
sicateto ‘conservalo’: sicónno: σηκόω, ngr. Aristoph. Lys. 166: ἀνήρ, ἐὰν µὴ τῇ
σηκώνω. γυναικὶ συµφέρῃ ‘se il marito non va
sícla s.f. ‘secchio’: σίκλα. d’accordo con la moglie’; Erodoto
sicoe, siconni, sicomeno → sicónno.
sidera, sidero: ta sídera ‘gli attrezzi, i ferri’.
I,196: εἰ δὲ µὴ συµφεροίατο ‘se non
síma ‘cicatrice’ è s.f., ma Casile pensa a andassero d’accordo’; Plat. Leges
un n.pl. 929e: ἐὰν δὲ ἀνὴρ καὶ γυνὴ µηδαµῇ
símero ‘oggi’ σήµερον. συµφέρωνται ‘se marito e moglie non
simpétthero: συµ-πένθερος ‘suocero’. andassero d’accordo’ & DELG 1188;

- 213 -
Casile, Zoì 2,3,4: O sinverni ce i jineca smimmeno p.p. di smíngo: σµίγω ‘mescolare’.
cathiasi condà ‘marito e moglie soma s.n. ‘corpo’: σῶµα.
sedevano vicini’; p. 14: i Caliddea den sonnéste [son'nɛste] avv. di modo ‘forse’,
do theli ja sinverni ‘Caliddea non lo ‘può essere’ (b, rf); sin. thámme →
vuole come marito’. sónno ☞ Avverbio modalizzatore di
sírma2 [ˈsirma] avv. di tempo ‘subito’ frase con valore inferenziale.
(bov) → sírma1 s.n. ‘trascinamento’ ☞ Grammaticalizza la modalità
sírma pu érchete ‘appena viene’, epistemica; cf. grico seléste, teléste,
sírmane ecatévi ‘subito discese’. deléste < θέλει ἔσθαι, sogéste < σώζ´
Prov.: A tthéli na cámi dulía poḍḍí, ἔσθαι ☆ gr. σῶν᾽ ἔσθαι ‘può essere’;
jérta sírma ti ppurrí ‘Se vuoi fare cf. fr. peut-être, ingl. may-be & LG
molto lavoro, alzati presto la mattina’ 159, 496; Crupi 1981:96. Nølke 1988:
(b); sirma sirma me thoríse ambróssu 15-42.
‘subito mi vedrai di fronte a te’ (Canto sonni, sonnite, sonnome, sonnusi → sónno.
sópima ['sɔpima] s.n. ‘quiete, calma,
di R) ☆ gr. σύρµα s.n. ‘filo metallico’,
‘tratto’; avv. ‘direttamente, continua- silenzio’ (C) → sópo ☞ Attestato solo
mente’; gerg. σύρµα! ‘via!’, all'arrivo da Casile ☆ *σώπηµα; cf. gr. σιωπή
della polizia (Atene) < σύρω ‘silenzio’ & Casile I zoí 21, 23, 59.
‘trascinare’ & MorB 90; TNC 4; LG sópo ['sɔpo] a. (2) ‘quieto, calmo, mogio’
493; HLA; Crupi 1981:95; Casile, (bov) ☞ ☆ gr. σιωπός ‘silenzioso’ <
Lettera a Kolakis 8-4-1988: «Irtasi σιωπάω; forse è connesso con lat.
stin Grecia dascali ce ematteasi tin SOPOR, it. sopire & LG 457; ΙΛΕΙΚΙ
glossa ti plategghete arte, econdo- V 120: σῶπω ἤρεµος, ἤσυχος .
ferasi ode ce den legusi arte, legusi soró [so'ro] s.n. ‘cumulo, mucchio’ (bov)
tora, den legusi sirma, legusi ☞ soró tu sitaríu ‘mucchio di grano
ghligora...» ‘sono venuti in Grecia gli pulito sull’aia’ (b); sitári soriméno ☆
insegnanti ed hanno imparato la lingua gr. σωρός ‘mucchio (di cereali)’;
che voi parlate adesso, sono tornati qui soríźo v. tr. ‘ammucchiare’ (ΙΛΕΙΚΙ V,
e non dicono arte, dicono tora, non 120) passa al cal. come nzurrari
dicono sirma, dicono gligora...’; Zoì 5. ‘ammucchiare in disordine cose o parole’
sirtate ‘entrate’: sérro. & LG 496; ΙΛΕΙΚΙ V, 121; Crupi
sirti inf. aor. di sérro.
1981:96; Casile 1991:128.
sirusi cong. aor. di sérro.
sostó ‘esatto’: σωστός ‘salvo’ < σῴζω.
sistroi, sistromeno, sistrosome → sistrónno.
spárto s.n. ‘ginestra’: σπάρτον.
sistrónno [siˈstrɔnno] v.tr. ‘ordinare’ spatsome, spáźasi, spáźonda, spazzo, spazzome
(bov) → sístrosi ☞ p.p. sistroméno ‘in → spáźo: σφάζω ‘uccidere’.
ordine’; san esistrónnasi tin távla spéra s.f. ‘sera’: ἑσπέρα.
‘quando hanno messo in ordine la sperinó s.n. ‘crepuscolo’, ‘imbrunire’: ἑσπερινός.
spimména p.p. di spíngo ‘pressare, premere,
tavola’ ☆ cf. gr. ξεστρώνω pigiare, sforzare, stringere’: σφίγγω.
‘sparecchiare’; agr. στόρνυµι & spitatico a. casereccio’: spíti + -ático.
Babiniotis 1669: στρώνω το τραπέζι spíti ['spiti] s.n. ‘casa’ (bov) ☞ gen. sg. tu
ετοιµάζω το τραπέζι για φαγητό; spitíu; pl. ta spítia; sto spítimma ‘a
Casile. casa nostra’. Prov.: To spíti ton gánni i
sístrosi [ˈsistrosi] s.f. ‘ordine’ (bov) → jinéca ‘la casa la fa la donna’ || grico
sistrónno ☞ ☆ gr. συν + στρῶσις < spíti, spídi ☆ gr.biz. σπίτι s.n. ‘casa’ <
strónno < στροννύω, στόρνυµι & ὀσπίτιον < lat. OSPITIUM & Meursius
Casile Zoì 19: i sìstrosi ti pprandia ‘la 521 σπήτιον, σπίτη hospitium, domus;
preparazione delle nozze’. LG 370; Crupi 1981:96.

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spitia, spitíama, spitiandu, spitimma, spitindi, ὑστεροιούνης ‘luglio’, letter. ‘secondo
spitindu, spitissu, spitiundu, spitussa → spíti. giugno’ (= cal. giugnettu), sconosciuto
spomí s.n. ‘pane’: ψωµίον ‘pezzetto’, dim. di
ψωµός, indica il pane già nel III sec. d.C.
al resto della grecità, che attesta vari
spundégghi ‘spunta’ < spundéggo detto del sole: esiti dialettali di *δευτεροιούνιος; in
cal. spuntari ‘uscire, apparire fuori’ (NDDC opposizione a πρωτοιούνιος. Cf. arabo
680). siculo isṭzyūn in un diploma greco
stafiglia n.pl. di stafíḍḍi ‘uva’: σταφύλι. arabo del 1169 & Cusa 1868, 37, r. 2;
stári s.n. ‘tessuto’: ἰστάριον ‘stoffa’.
stassúsa s.f. ‘goccia’: stásso ‘gocciolare, stillare’:
Caracausi 1988, 16; TNC xlv; LG 125,
στάζω, p.pr. στάζων, στάζουσα, στάζον 187, 429; Crupi 1981:96; Casile Zoì 4:
‘gocciolante’. Ito ton mina tu sturiuniu.
stathì, stathí, stathó, stathume, statonda → stéco. stotávrie
stavrò s.m. ‘croce’: cánno to stavró ‘fare il segno strafonghía [strafon'jia] s.f. ‘barlume,
della croce’. baluginio, chiarore stellare’ (bov);
stázzio ['stattsjo] s.n. ‘permanenza, sosta’
stravonghía (g, r) ☞ me ti strafonghía
(bov) ☞ ☆ lat. STATIO, vc. del lessico tu fengaríu ‘al chiarore della luna’;
liturgico, con metaplasmo dal genere f. strafonghía sto scotídi ‘barlume nel
al n. & Crupi 1981:96; Casile, Lettera
buio’ ☆ gr. ἀστροφεγγιά ‘chiarore
a Kolakis 9-4-1988: To stazzio dicóma
stellare’; cf. ἀστραποφεγγιά ‘chiarore
ode se etuto chuma ene paleo ‘La
del lampo’; comp. di ἄστρον + φέγγος
permanenza nostra qui in questa terra
& LG 66; ΙΛΕΙΚΙ V 93. στροφενγία;
è antica’; I dio judi 21 ‘attesa’, 28
Crupi 1981:96; Casile 1991.
‘residenza’. stravó a.: στραβός ‘storto, orbo’.
stea ‘ossa’, pl. di stéo s.n.: ὀστέον ‘osso’.
stecasi, stechi, stecome, steki → stéco.
stramandéguo [straman'dεgwo] v.tr. ‘far
steddi → stéḍḍo ‘mandare’: στέλλω. sparire, fare smarrire’ (bov) ☞ aor.
stennatia, stennáto s.n. ‘caldaia di rame’, estramándespa; estramandéfti ‘fu
‘casseruola’: mgr. σταγνάτον ‘patellam stagno smarrito’; Ta pedía stramandemména
obductam’ (T 80, a. 1097): *σταµνάτον (da
στάµνος) < lat. stagnatum (vas). (Fiaba di Roccaforte) ☆ verbo
stennatúci s.n. ‘caldaia piccola’. causativo formato con elementi
stéra s.f. ‘felce’: φθέρη, φθέρα < agr. πτέρις. romanzi: prep. στρα- < lat. EXTRA con
stiae, stiái, stiamèno, stiaome, stiasai, stiausi, valore intensivo o iterativo +
stiazi, stiazome, stiazonda, stiazusi → stiáźo.
*µανδεύω < MANDARE 'mandar via'
stiáźo, ftiáźo ['ftjadzo] v. tr. ‘preparare,
& TNC 216; TNC-IL 283; ΙΛΕΙΚΙ V
ordinare, sistemare, ripristinare,
75: cf. στρα-έρχοµαι, στρα-πάω.
aggiustare’ ☆ ngr. φθειάζω (φθειάνω) strammáda s.f. ‘lampo’: ngr. dial. ἀστραµµάδα.
< εὐθειάζω & Meursius 612 strítta ‘camicia da donna’: mgr. στρίττα
φτιάννειν, φθιάζειν facere, praepa- ‘strophium’ (T 356, a. 1211) < lat. STRICTA.
rare; Tozer 1889:23; TNC 155; LG stróasi ‘allestirono’ → strónno.
sturiuniu gen. di → storojúni ‘luglio’:
539. *δευτεροιούνιος.
stimeno’arrostito’, p.p. di stínno: gr. *ὀπτίνω, sucía: s.f. ‘fico’ (pianta): συκία.
ὄπτῶ; ngr. ψήνω. suría s.f. ‘fila’: *σουρία < *συρία < συριά.
stípie, stipisi → stipáo ‘bussare’: κτυπέω, surimía s.f. ‘fischio’: → suráo, súrima: σύριγµα
mgr. χτυπῶ.
stochía s.f. ‘povertà’: πτωχεία.
stolí s.f. ‘alito, fiato’: στολή (cf. dia-stole). T
stóma, stomata: στόµα s.n. ‘bocca’. taghiusi, tajionda → tajíźo.
storojúni [storo'juni] s.m. ‘luglio’ (b), tají [ta'ji] s.f. ‘mangime’, ‘esca per
anche storogliúni; per la formazione trappole’ (bov) → tahí ☞ espressione
cf. protojúni ☞ il grico ha alonári, con della lingua militare medievale ☆ agr.
riferimento alla trebbiatura ☆ mgr.

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ταγή ‘biada, avena’, ngr. ταγί & LG Hes.; θής θητός ὁ µισθωτός Suid. I
497; Crupi 1981:97; LG 497. θέτες cittadini della quarta classe nella
tajíźo [ta'jidzo] v. tr. ‘nutrire, cibare’ costituzione di Solone, braccianti
(bov) → tahíźo ☞ impf. etájiźa; aor. senza beni, utilizzati dagli Ateniesi
etájia; cal. cuvernari, civari ☆ mgr. come rematori & AIS 47 dío θémata;
ταγίζω, ngr. ταΐζω < & LG 497; dío χristianí (Cori-gliano); MorB 16;
ΙΛΕΙΚΙ V 1233; Crupi 1981:97; LG TNC xlv, 4; LG 179; ΙΛΕΙΚΙ II 430-
497. 432; Crupi 1981:97; Koder 1989;
tavró [ta'vro] v. tr. ‘tirare, scagliare’, Martino 2016 (Riflessi lessicali della
‘percuotere’, ‘picchiare, battere’; intr. stratificazione sociale nella Calabria
bizantina: bovese thema ‘uomo’).
‘sbattere’ (bov) ☞ aor. etávria; cong. therída s.f. ‘porta’: θερίδα.
na tavrío; inf. tavrísi, tavrí; tu ‘távria therizi: theríźo ‘mietere’: θερίζω.
ma rrócca ‘gli ho tirato un sasso’; thiesu ‘le tue zie’.
Prov: Pésce me to gádaro, ti se tavvrí thiḣatéra [θixa'tεra] s.f. ‘figlia’ (b, rf) →
me tin gúda ‘scherza con l’asino, ché diḣatéra ☞ pl. i ddiḣatére; ti
ti copisce con la coda’ (r) || cal. minàri tthiḣateròsti ‘a sua figlia’ || grico
☆ gr. τραβῶ ‘tirare’ & MorB 95; LG chjatéra, hjatéra ‘figlia’, ‘ragazza’ ☆
507; ΙΛΕΙΚΙ V 132: ταυρῶ; Crupi gr. biz. θυχατέρα < mgr. θυγατέρα <
1981:21, 97. agr. θυγάτηρ & TNC 150 ti
teglioasi, teglioe, teglioi, tegliomena, tegliomeno, tthiḣateròstu ‘di sua figlia’; LG 181;
teglionni, tegliomeni, teglioso, teglionnome →
tegliónno.
Crupi 1981:83; Casile 1991:136.
téglioma s.n. ‘fine’: teglionno: τελειώνω. thii, tii, thiò: thío s.m. ‘zio’: gr. θεῖος (Herm.M.,
IX sec.: θειος patruus).
tegliónno [teʎ'ʎɔnno] v. intr. ‘finire, thilicó a. ‘femminile’: θηλυκός.
terminare’, ‘morire’ (bov) ☞ aor. ticandí pron. indef. n. ‘qualunque cosa, alcuna
etéglioa; etéglioe tin áḣari zoí ‘finì la cosa’ < tiscandíse: τὶς κἂν τίς.
cattiva vita’; íssa tegliósonda to zzomí tichío ‘muro’: τειχίον dim. di τεῖχος.
tigánia, pl.n. di tigáni ‘padella, tegame’:
‘era finito il pane’ ☆ gr. τελειώνω < τηγάνιον.
agr. τελειόω & TNC 70; LG 501; tiganimena n.pl.: tiganíźo ‘friggere’.
ΙΛΕΙΚΙ V 136; Crupi 1981:97, Casile tijia ‘muri’ → tihío < τειχίον.
1991:110. tilitze ‘avvolse’ → tilíźo ‘avvolgere: τυλίζω.
tégliosi s.f. ‘fine’: teglionno. timí s.f. ‘onore, riguardo’: τιµή.
thálassa s.f. ‘mare’: θάλασσα. tinassome ‘bacchiamo’: τινάσσω = cal. scotulari.
thélasi, théli, thélite, thélome, theliasi, thelie, típote pron. indef. ‘niente’: τί ποτε.
thelionda, thelisete, thelisi, thelome, thelusi, tirí s.n. ‘formaggio’: sull’etimologia di casu, tuma
thelisite → thélo. e tirí (gr. τυρί) cf. Martino 2018.
thélima s.n. ‘desiderio, volontà’: θήληµα. tíspo pron. indef. ‘nessuno’: τίς ποτε.
tópo, topondu s.m. ‘luogo, posto’: τόπος.
théma ['θεma] s. n.  ‘lavoratore’; ‚ tósso, tosse, tossi, avv. di quantità ‘tanto’: τόσος.
‘bracciante’; ƒ ‘uomo’ (bov) ☞ Ta tóte avv. di tempo ‘allora’: τότε .
thémata tu spithíu ‘la gente di casa’; Ti traclenome, traclini, traclino → tracléno
vradìa ta thémata condoférrusi an da ‘coricarsi’: τρακλαίνω ‘piegare, inclinare’.
trágo s.m. ‘becco, caprone’: τράγος.
ḣoràfia ‘la sera i lavoratori rientrano
dai campi’ (wcl); éne théma méga = °trapéźi [tra'pεzi] s.n. ‘banco, tavolo’ (b)
cal. è omu randi ‘è vecchio’; théma ☞ Non è la tavola per mangiare
jomáto ásce sustánza ‘uomo pieno di (sanídi), ha valore di madia, tavolato
sostanza’ (Canto di R) ☆ gr. θέµα dove si lavora il formaggio o il maiale
‘circoscrizione amministrativa macellato (máttra); metaf.: ti áthropo
mega! énan drapéźi ‘che omaccione!
bizantina’; soldato-contadino; cf.
θᾶτας θῆτας · τοὺς δούλους. Κύπριοι una madia’ ☆ Accatto neoellenista da

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ngr. τραπέζι ‘banco, banca, tavola’ < p.p. varméno, vamméno; tu válai ... =
mgr. τραπέζιον dim. di τράπεζα & cal. nci mísaru ‘lo hanno
Crupi 1981, 121: esclude trapèzi dal (sopran)nominato’; ton eválasi
lessico bovese e l’include in quello presúni ‘lo hanno messo in prigione’;
neogreco-bovese: ‘tavolo, trapèzi, cal. váḍḍo minglisía ‘mettere discordia’;
buffetta’; ΙΛΕΙΚΙ V 173; Condemi na canunío t' ambélia m'eválai ‘mi
2006, 424: trapèzi, scannì. hanno messo a guardia della vigna’
travúdi s.n.: τραγούδι ‘canzone’. (Nucera 2013); †vállu (Cardeto) ☆ gr.
travudonda, travudussa, travudúme → tragudáo
‘cantare’.
ἐκβάλλω < βάλλω & AIS 150 tu
trighiome, trigáo → trijíźo ‘vendemmiare’, évale, grico t’óvale; LG 77, 139;
‘derubare’ : τρυγίζω. ΙΛΕΙΚΙ II 2; Crupi 1981:98; Casile
trípa s.f. ‘buco, tana’: τρύπα. 1991:126.
tripódi s.n. ‘treppiedi’: τριπόδιον. varìa, varie → varío ‘pesante’: βαρύς.
trógasi, trógonda, trógusi, troghi, troghite, vasileggonda, vasiletsonda, vasilezzi →
troghonda, trogome, trogusi → trógo vasiléggo.
‘mangiare’, aor. éfaga: τρώγω. vasiléggo [vasi'lεggo] v. intr.
tsappe → zzáppa.
tsema, tsemata → zzéma
‘tramontare’, vasiléguo (bov); cf.
tsemataro → zzematáro. jiríźo ☞ aor. vasílezza; íto vasiléz-
tserà → zzeró. zonda o íglio ‘era tramontato il sole’ ☆
tserannusi ‘si seccano’, da correggere in
zzerénnusi: ξεραίνω ‘disseccarsi’.
mgr. βασιλεύω & M. Kriaras, Sur
tseri, tserì, tserite, tsero, tserome → zzéro. l’expression grecque moderne
tsi = zze < gr. ἔξ(ε). βασιλεύει ὁ ἥλιος, «Revue int. des
tsichì, tsighì = spiḣí < ψυχή. études balcaniques» 6, 1938: 462-468;
tsigrada: zziḣráda [zzi'xraða] s.f. ‘freddo’ < mgr. cf. «Ἀθηνᾶ» 47, 1937, 79-93; P.
ψύχρα.
tsilo → zzílo ['ttsilo] s.n. ‘legno’; scílo.
Kretschmer, «Glotta» 27, 1939, 233;
tsilò → zziló ‘alto’: agr. ὑψηλός. LG 80; Crupi 1981:98.
tsiporei, tsiporeonda, tsiporeusi → zziporéo. vasílema s.n. βασίλευµα.
tsipòvlito ‘scalzo’→ azzipóvlito: ἐξυπόλυτος < vasilicó s.n. ‘basilico’: βασιλικός.
ὑπολύω ‘slacciarsi i sandali’. vasmene ‘pitturate’ → váfo ‘tingere’: βάφω <
tsodda, tsoḍḍa, tsodde, tsodduna → zzóḍḍa. βάπτω.
tsofussa ‘crepavano’: ψοφάω ‘rumoreggiare, vastasome, vastausi, vastaze, → vastáźo
crepare’. ‘sostenere, reggere, trasportare’ (bov).
tsucca, tsukke ‘pentola’ → zzúcca: mgr. τσούκα. vélima ['vεlima] s.n. ‘belato’, ‘muggito’
túpe = tu ípe. (Casile) < veláźo [ve'ladzo] < mgr.
túnda, túndi, túndo, túta → túto pron. e a. dimostr. βελάζω < lat. BELARE, voce imitativa.
‘questo’: ἑτοῦτος. velogna n.pl. ‘aghi’ → velóni: βελόνη.
tzigri → zziḣró [ttsi'xro] a. e s.n. ‘freddo, fresco’: vértula ‘bisaccia’ < *avertula, dim. da lat. tardo
ψυχρόν. averta < gr. ἀορτή ‘aorta’, αορτήρας ‘bisaccia
di pelle dei cacciatori’.
U vivlia n.pl. ‘libri’ → vivlío. ‘libro’: βιβλίον.
vlépima s.n. ‘vista’ = grico vlémma < vlépo:
udè ‘no’ < gr. οὐδέν. βλέπω.
urano ‘cielo’ < gr. οὐρανός. vlojimeno ‘benedetto’ → vlogáo ‘benedire’:
V εὐλογῶ.
vaddete, vaddi, váḍḍome, válasi, vale, valeta, voréa ‘vento’, voreáta ‘folata’: βορέας ‘vento del
valete, vali, valome, valonda valusi → váḍḍo nord, borea’.
váḍḍo ['vaɖɖo] v. tr. ‘mettere, porre’, vóscima s.n. ‘pascolo’: βόσκηµα.
voscionda p.pr. di vosciáo: βοσκάω ‘pascolare’.
‘imporre (il nome)’ (bov) ☞ cf. vrachognama, vraghona n.pl. ‘braccia’ →
guáḍḍo; ta prámata eváḍḍondo áḣara vraḣóna ‘braccio’, ‘bracciata’, unità di
‘le cose si mettevano male’; impf. misura; anche vraḣóni: βραχίων.
évaḍḍa; aor. évala; aor. pass. evártina;

- 217 -
vrádi s.n., vradía s.f. ‘sera, cepuscolo’: βράδυ, Crupi 1981:99; Condemi 2006, 446;
βραδία. Violi 2007, 310.
vrameno, vraome, vrasí, vrausi vrazonda, vutána s.f. ‘coperta’, cal. butána, vutána ‘grosso
vrazzome, vrazzomeno → vráźo. sacco, coperta rustica’; sic. butána ‘fodera di
vrastári s.n. ‘caldaia’, ‘paiuolo’, da vráźo
un vestito’ ☆ ar. buṭāna, biṭāna ‘fodera di
‘bollire’; cf. ngr. βραστάρι ‘decotto’.
vestito’.
vráźo ['vradzo] v. intr. ‘bollire’, vútomo, s.n. ‘ampelodesmo, stramba, giunco’:
‘fermentare’; tr. ‘lessare, far bollire’ βούτοµον (βοῦς + τέµνω).
(bov) ® vraméno ☞ impf. évraźa; vuttie: v. evúttie.
aor.; stécome vráźonza zze źésta
‘stiamo bollendo dal caldo’;
vraźómeno ‘bollente’; aor.p. evrástina Z
‘mi sono bollito’ (ἐβράσθην); inf. vrái; zeź
inf. pass. vrastí; grico vráźo ☆ gr. zzampatáro [ttsampa'taro] s.m.
βράζω & LG 96; ΙΛΕΙΚΙ II 66; Crupi ‘contadino, zappatore’ (bov); cf.
1981:99. zámbaro ☞ epiteto spreg.; per la
vraźómeno [vrad'zɔmeno] a. (1) semantica cf. parpátulo; pl. ta
‘bollente’ (bov) ® vráźo. zampatária ☆ forse der. di gr. ζαµπάτι
vre, vrete → vré.
‘viaggiatore’, corrispondente nelle
vrémma ‘pioggia’ → vréḣo.
vretsi, vretsonda → vréḣo. carte medievali siciliane ad ar. al-
vréḣo ['vrεxo] v. tr. ‘bagnare’ (bov) ☞ raḥḥāl ‘cammelliere’. È un riflesso di
impers. vréhi ‘piove’; embíchi gr. διαβάτης rideterminato col suff. -
aro. La resa -µπ- di -β- si spiega
vréḣonda ‘cominciò a piovere’ ☆ gr.
all’interno del greco bizantino, e non è
βρέχω, cf. Meursius 95 βρεµένος necessario postulare un prestito dal
madidus & LG 97; ΙΛΕΙΚΙ II 77;
siciliano e la mediazione di un arabo
Crupi 1981:99. *zabātī, cf. limbici e gli esiti di sabato,
vrochie ‘piogge’: vroḣía: βροχή ‘pioggia’.
vrondáde: βροντάδες ‘tuoni’. sambuco ecc. & MorB 66; LG 165
vucáli s.n. ‘brocca’, cf. zzistí: βουκάλιον. *ζαµβατάρις, 519 •τσαµµατάρης;
vuná s.n. ‘monti’: βουνά. ΙΛΕΙΚΙ II 402; Crupi 1981:100;
vúrvito ['vurvito] s.n. ‘sterco bovino’, Caracausi 1990a: 5-18.
‘biuta’ (bov); anche vúrvitho (ch,rf), zzáppa ['ttsappa] s.f.  ‘spalla’, usato di
vúrviso (g) ☞ impastato con cenere è regola al pl.; ‚ ‘zappa’ (bov) ☞ éhji te
usato come cemento per l’alveare; zzáppe megále ‘ha le spalle larghe’
anche vurvithunía ☆ gr. βόλβιτον, (grico ti pláy máli) ☆ ngr. τσάπα
relitto dorico da cui derivò il βόλιτον ‘spalla di animale’ > ‘zappa’ per
della koinè per dissimilazione “metaphorische Animalisierung”;
(Boisacq s.v.); ngr. dial. βόρβιτο l'analogia è anche in it. spatola e
(Chalki); βόλβιθον in un papiro spalla < lat. SPATULA 'spada a lama
magico egiziano del IV sec. (C. larga' e spec. scapola < lat. SCAPULA
Wessely, «Denkschr. K. Akad. d. 'piccola zappa' & CGL V, 503,27
Wiss. zu Wien» 36 [1888] 81) e in hyrcus caper zappu dicitur; III 262,
Esichio & GEW 1,249; Tsopanakis 62: τὸ τσάπιον ligo rastrum bidens;
1949:32,77: βόρβιθο a Chalki; Rohlfs AIS 122: grico i bláy; ALI 40; LG 519:
1937:54 respinge l’ipotesi di Alessio balcanismo; G. Rohlfs, Über Hacken
di una derivazione da lat. BOLITUM und Böcke, «ZRPh» 45, 1925, 662-
(Plinio); LG 82, 89; ΙΛΕΙΚΙ II:59; 675; De Vaan 542: nesso tra lat.
SCAPULA 'spalla' < SCABO 'scavare' e

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gr. σκάπτω zappare'; ΙΛΕΙΚΙ V 205; íźia; inf. aor. źísi; ímmo źíonda ‘ero
Crupi 1981:100. vissuto’; na źíte ‘che possiate vivere’;
źargára s.f. ‘sostanza amara, giusquiamo, ezússa pos íthele o Thió ‘vivevano
veleno’: ar. rahǧ al ġār ‘ossido di argento’. come voleva Dio’ || grico źó, eźó, eźío
zzáźo [ttsa'dzo] v. tr. ‘benedire,
☆ gr. ζήω pres. analogico da ζῶ
ringraziare, glorificare’ (bov), cf.
‘vivere’ & TNC 11, 70; LG 173;
dozzáźo ☞ zzàźo ton Thió ‘benedico ΙΛΕΙΚΙ II 267-270; Crupi 1981:99.
Dio’ || grico afsízo < ἀξίζω ‘meritare’ ziporei ‘sa’, ziporéusi ‘sanno’ → zziporéo.
☆ gr. ἐξαγιάζω, cf. ajáźo; gr. (δο)ξάζω zziporéo [ttsipo'rεo] v. tr. ‘sapere,
per deglutinazione della prima sillaba apprendere, informarsi’, anche
sentita come articolo (< ton)?; cf. azziporénno (b); sciporéo (g, r, ch);
azzasméno & LG 4; Crupi 1981:100. anasciporéo (rf): usato come aoristo di
zzázzo ['ttsattso] v. tr. ‘benedire, zzéro ‘sapere'. ☞ aor. ezzipórea,
ringraziare’, variante del prec. forse zzipóresa (b); ascipóre(s)a (ch, g, rf);
per assimilazione progressiva (b) ☞ sa Su légo tin alíthia, a ttheli na tin
zzàzzo vi ringrazio’ ☆ gr. δοξάζω & ezziporéi ‘ti dico la verità se vuoi
Casile. saperla’ (canto di Bova) ☆ agr.
źema s.n. ‘brodo’: ζέµα. ἐξευπορῶ ‘procuro, fornisco’ [Plat.]
zeno ‘straniero’ → zzéno: ξένος. & Comparetti 1866, 10; TNC 215,
zzeró a. (2) ‘duro’, ‘secco’ (b), sceró (ch, r, f)
310, 400, ecc.; LG 151; ΙΛΕΙΚΙ I 353.
☞ cogn. Schiró || grico fseró, zzeró, sseró źitáo [dzi'tao] v. tr. ‘chiedere (per avere)’,
☆ gr. ξερός > ξηρός ‘secco’ & Meursius ‘cercare’, ‘domandare’, ‘mendicare’
373 ξερό siccum; Herm.M. (IX sec.) 314:
(bov); cf. jiréggo e arotáo ☞ p. pr.
ξηρον siccum; ALI 76; LG 355; Crupi
1981:100. źitónda; su stéḍḍi źitónda ‘ti manda a
źésta s.f. ‘caldo’, ‘calura’, ‘calore’: ζέστα. chiamare’; impf. 3 sg. eźíte; aor. eźítia,
zzematáro [ttsema'taro] s.m. ‘bugiardo’; eźitíame; impf. eźítinna ☆ gr. ζητάω
spematáro (ch, g) ☞ carídi spematári ‘cercare, desiderare’; cf. grico źitíźo
‘noce vuota’ (ch, g); prov.: O ‘visitare’, termine medico & LG 169,
zzematáro éhji n'áhji caló ammialó ‘il TNC ; ΙΛΕΙΚΙ II 264-266; Crupi
bugiardo deve avere buona memoria’ 1981:99; García Ramón 1993.
☆ gr. ψευµατάρης ‘id’ & Meursius zisi inf. di źío.
zitaite, zitiome, zitisite, zitusi → źitáo.
631 ψεµατάρης mendax; Crupi źitimía [dziti'mia] s. f. ‘richiesta’,
1981:100; Casile 1991:132.
‘domanda’, ‘mendicità’ (bov) ☞ anche
zziclapíźo [kla'pia] s.f. ‘liberare l’orzo
źitulía ☆ Der. di ζήτηµα < gr. ζητάω
trebbiato dalla paglia’; cf. clapía ☞
‘cercare’ & ΙΛΕΙΚΙ II 266.
Vagliare durante la trebbiatura i
źituláo [dzitu'lao] v. intr. ‘mendicare’ (b)
cereali (grano, orzo) ☆ gr. ξε- κλαπίζω
→ źitáo ☞ p.pr. źitulónda, pian.
‘separare la paglia’ (κλάπα).
źutuliári ‘mendicare’, ‘fare lo
zighratthì, zighrenete → zziḣrénome.
zziḣrénome. ‘raffreddarsi’, ‘freddarsi’ (b), spilorcio’ ☆ ngr. ζητουλεύω ‘id.’ &
spriḣénome (ch, g, rf): ψυχραίνοµαι & LG 169; ΙΛΕΙΚΙ II 266; Casile Zoì 23:
Triantaphyllidis 1998. emí den pame źitulónda ‘noi non
zii, zio, zume → źio andiamo mendicando’.
zzílo s.n. ‘legno’; scílo (c, ch, rf): ξύλον. źó s.n. ‘animale’, pl. źóa: gr. ζῷον ‘animale’.
źimía s.f. ‘danno’: ζηµία. zoí, zoimmu, zoindu → źoí.
źío ['dzio] v. intr. ‘vivere’ (bov) ☞ pr. ind: źoí [dzo'i] s.f. ‘vita’ (bov) ☞ i źoímmu ‘la
źio, źise, źi, źume, źite, źonnu; źónnu
mia vita’; grico źoí ☆ gr. ζωή ‘id.’ &
paréa ‘vivono separati’; impf. íźa; aor.

- 219 -
TNC 71, 209; LG 173; ΙΛΕΙΚΙ II 284; ερωτευµένο, τυφλό από έρωτα < κάψα
Crupi 1981:99. + -ούρης (Babiniotis 877) &
źondári [dzon'dari] s.m. ‘persona vivente, Meursius 235: Cauca, pellex, Glossae
‘uomo vivo’ (bov); śondári (ch, rf) → Graecobarbarae; item calix; Glossae
źondanó ☞ pléo petham-méno pára Graecolatinae: καῦκα, καυκάλιον,
źondárise ‘più morto che vivo’ ☆ gr. καυκίον ἄβρα, δούλη, παλλακή,
ζωντανός con suff. -ári & LG 174; καῦκα; Alessio 1941 a, 53 pensa a un
TNC 71, 304; ΙΛΕΙΚΙ II 288; Crupi derivato di gr. ψωλή ‘penis’,
1981:99. disapprovato da Rohlfs; LG 523:
źosi ['dzɔsi] s.f. ‘vita’, ‘cintola’, ‘giro di •τσόλλα: difficile collegarlo a it. ciulla
‘fanciulla’, ciolla ‘donna sciatta’ e a
fianchi’ (bov) → źónno ☞ ☆ gr. ζῶσις,
ngr. τσοῦλα ‘ragazza immorale’, che
τὸ ζώσιµο ‘il cingere’ & Meursius
per DGM 1019 sarebbe prestito di it.
178 ζόση lumbus; LG 174; ΙΛΕΙΚΙ II
ciulla; ΙΛΕΙΚΙ V 211: voce del lessico
290; Crupi 1981:99.
infantile come miccéḍḍa; Crupi
źuguári [dzu'gwari] s.n. ‘paio’, ‘coppia di
1981:100; Casile 1991:136.
buoi’ (bov) ☞ anche źugguári; pl. zzoḍḍúna [ttsoɖ'ɖuna] s.f. ‘ragazzona’,
źuguária; éna źuguári zze vúdia ‘un (vezz.) ‘ragazzina’ → zzóḍḍa.
paio di buoi’ ☆ gr. ζευγάρι ‘paio’ & zzomí [ttso'mi] s.n. ‘pane’ (b) → spomí ☞
LG 167; ΙΛΕΙΚΙ II 272. spomí (Corio, Gallicianò, Roccaforte);
zume ‘viviamo’, zúsi ‘vivono → źío. sfomí (Cardeto); Pis échi ena zzomí
zz’ = zze antevocalico < ἔξ(ε).
zzária ‘pesci’ pl. di azzári: ὀψάριον; ngr. ψάρι.
símero n’afíki ímiso ja ávri ‘chi ha un
zzinnái, zzínnusi → zzínno ‘grattare’: ξύνω < pane oggi ne lasci metà per domani’ ||
ξύω. grico zzomí, fsomí, ssomí ☆ gr.
zzóḍḍa ['ttsoɖɖa] s.f. ‘ragazza’, ψωµίον ‘pezzetto’, dim. di ψωµός,
‘giovinetta’ (bov) → cazzéḍḍa ☞ pl. te passato a significare il pane già nel III
zzoḍḍe ☆ Forse forma deglutinata di sec. d.C. & Meursius 633 ψωµή
*CAPSULLA, possibile dim. di lat. panis; Triantaphyllidis 1998; LG 580;
CAPSA > ngr. κάψα < mgr. καῦκα ΙΛΕΙΚΙ IV 505; Crupi 1981:100;
‘patera, coppa’, ‘vulva’, ‘ragazza’; Casile 1991:132.
καύκα · ἐρωµένη; καύκος ἐραστής,
ἀγαπητικός (Kriaras,117-118); cf. zzúcca s.f. ‘pentola’: mgr. τσούκα, ngr.
dim. ngr. καυκί ‘cunnus’, pont. τσούκα < it. zucca ‘cucurbita’, metaf.
καυκίτσα ‘ragazza’; in tal caso ‘testa vuota’, ‘zucchetto’. Si riproduce
avremmo una variante di cazzéḍḍa, la metafora che ha dato origine a it.
capséḍḍa; il ngr. ha καψούρης (ο), testa, sardo conca, in altri dialetti
καψούρα (η) πρόσωπο που είναι πολύ coccia ecc,

- 220 -
Indice

INTRODUZIONE ................................................................................................................................. - 5 -
DATAZIONE ...................................................................................................................................... - 6 -
GRAFIA ............................................................................................................................................ - 7 -
STILE ............................................................................................................................................... - 7 -
STRUTTURA DI QUESTA EDIZIONE ............................................................................................................ - 9 -
I ZOÌ STIN JENÌA CE I PRANDIA MIA FORÀ STIN BOVA ..................................................................... - 11 -
P. 1 .............................................................................................................................................. - 13 -
P. 2 .............................................................................................................................................. - 14 -
P. 3 .............................................................................................................................................. - 16 -
P. 4 .............................................................................................................................................. - 18 -
P. 5 .............................................................................................................................................. - 20 -
P. 6 .............................................................................................................................................. - 22 -
P. 7 .............................................................................................................................................. - 24 -
P. 8 .............................................................................................................................................. - 26 -
P. 9 .............................................................................................................................................. - 28 -
P. 10 ............................................................................................................................................ - 30 -
P. 11 ............................................................................................................................................ - 32 -
P. 12 ............................................................................................................................................ - 34 -
P. 13 ............................................................................................................................................ - 36 -
P. 14 ............................................................................................................................................ - 38 -
P. 15 ............................................................................................................................................ - 40 -
P. 16 ............................................................................................................................................ - 42 -
P. 17 ............................................................................................................................................ - 44 -
P. 18 ............................................................................................................................................ - 46 -
P. 20 ............................................................................................................................................ - 50 -
P. 21 ............................................................................................................................................ - 52 -
P. 22 ............................................................................................................................................ - 54 -
P. 23 ............................................................................................................................................ - 56 -
P. 24 ............................................................................................................................................ - 58 -
P. 25 ............................................................................................................................................ - 60 -
P. 26 ............................................................................................................................................ - 62 -
P. 27 ............................................................................................................................................ - 64 -
P. 28 ............................................................................................................................................ - 66 -
P. 29 ............................................................................................................................................ - 68 -

TA ORFANACIA ................................................................................................................................ - 71 -
P. 30 ............................................................................................................................................ - 72 -
P. 30 ............................................................................................................................................ - 73 -
P. 31 ............................................................................................................................................ - 74 -
P. 31 ............................................................................................................................................ - 75 -
P. 32 ............................................................................................................................................ - 76 -
P. 32 ............................................................................................................................................ - 77 -
P. 33 ............................................................................................................................................ - 78 -
P. 33 ............................................................................................................................................ - 79 -
P. 34 ............................................................................................................................................ - 80 -
P. 34 ............................................................................................................................................ - 81 -

221
P. 35 ............................................................................................................................................ - 82 -
P. 35 ............................................................................................................................................ - 83 -

DATTILOSCRITTI AUTOGRAFI ........................................................................................................... - 85 -


B. I ZOÌ TI JENIA CE I PRANDIA MIA FORÀ STIN BOVA ...................................................................... - 86 -
B. LA VITA DELLA FAMIGLIA E IL MATRIMONIO UNA VOLTA A BOVA ............................................. - 87 -
C. I ZOI TI JENIA CE I PRANDIA MIA FORA STIN CHORA .................................................................... - 90 -
C. LA VITA DELLA FAMIGLIA E IL MATRIMONIO UNA VOLTA A BOVA .............................................. - 91 -
D. I ZOI TI JENIA CE I PRANDIA MIA FORA STIN BOVA...................................................................... - 96 -
FATTUCI 1. PU TEGLIONNI O COSMO ............................................................................................... - 98 -
FAVOLA 1. DOVE FINISCE IL MONDO ............................................................................................... - 99 -
FATTUCI 2. I DIO JUDI - I DUE FIGLI.............................................................................................. - 125 -
APPENDICE: TA PEDÍA STRAMANDEMMÉNA ................................................................................. - 157 -
GLOSSARIO .................................................................................................................................... - 163 -
ORDINE ALFABETICO E CRITERI ........................................................................................................... - 163 -
BIBLIOGRAFIA................................................................................................................................ - 167 -
ABBREVIAZIONI ............................................................................................................................. - 175 -
GLOSSARIO .................................................................................................................................... - 177 -
INDICE ............................................................................................................................................... 221

222
Finito di stampare
nel mese di novembre 2019 da:
A&S Promotion
per conto
dell’Associazione Culturale “Apodiafazzi” - Bova (RC)

223

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