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Scriveva Natalia Ginzburg (Ginzburg, 1974), che “La Storia è un romanzo scritto per
gli altri”; in questo senso, Elsa Morante va contro corrente in quanto da anni, il
romanziere non scriveva più per un pubblico ma per sé stesso. Invece, Elsa Morante,
venticinque anni dopo che la Seconda Guerra Mondiale era finita, scrisse un romanzo di
661 pagine dove racconta la storia (con la s minuscola) di una donna che visse gli ultimi
anni della sua vita sullo sfondo di una Roma assolata dalla guerra. E fu un successo
popolare, anche perché la Morante decise di farlo pubblicare direttamente in edizione
economica per la collana "Gli struzzi" di Einaudi, vendendo ben 600.000 copie. Nel
1986, un anno dopo la morte della scrittrice, il regista Luigi Comencini ne trasse uno
sceneggiato televisivo dal titolo omonimo, con una magnifica Claudia Cardinale nelle
1
Tutte le citazioni fanno riferimento all’edizione Morante, E., La Storia, Torino, Einaudi, 1991, ristampa.
vesti di Ida.
La Morante compose quest’opera, come del resto faceva per tutti i suoi libri,
rintanandosi nella sua casa (all’epoca, in Via del Babuino) isolandosi fino a quando il
romanzo non vide la luce, “in un’avventura completa e totalizzante che la coinvolgeva
anima e corpo” (Bernabò, 2012: 75).
In La Storia, Elsa Morante narra le vicende di molti personaggi, esseri insignificanti
e vittime tutti quanti degli avvenimenti storici che, a loro insaputa, sono costretti a
vivere. Senza eccezione, subiscono fino alla morte le conseguenze delle decisioni prese
dal potere politico e militare, dal totalitarismo e dal sistema borghese. Decisioni prese
da altri che, mentre lo facevano, non intravidero (o ignorarono) la sofferenza e la
tragedia che avrebbero provocato in milioni di esseri umani. Il libro inizia infatti con
una citazione di un sopravvissuto di Hiroshima: “Non c’è parola, in nessun linguaggio
umano, capace di consolare le cavie che non sanno il perché della loro morte”. In questo
romanzo, Elsa Morante “restituisce alle vite, quelle più insignificanti, la loro dignità e il
loro mistero” (Avallone, 2012) con una perizia della scrittura straordinaria e una
puntigliosa descrizione dei dettagli, descrivendoci “un mondo che nei suoi libri veniva
descritto facendo attenzione sulle stanze, gli oggetti in esse contenuti, il quartiere, le
case, le strade, gli abitanti... come una maga che passa toccando con la sua bacchetta
magica e, toccando, gli desse la vita” (Bossi, 1996:246). Lungo le più di seicento pagine
del libro, Elsa Morante trasmette solidarietà e compassione verso i suoi personaggi,
uomini e animali, nonché un profondo senso di responsabilità nei confronti del mestiere
del romanziere.
Infatti, per la Morante, il romanzo era l’unica struttura che forniva allo scrittore un
“contenitore” capace di catturare le proprie inquietudini ed emozioni e di dare
“intera una propria immagine dell’universo reale (e cioè dell’uomo e della sua realtà)”
(Morante, 1990:1498). Per lei, il romanzo nasce da un impegno morale che lo scrittore
onesto deve assumere e “interrogare sinceramente la vita reale, affinché essa ci renda in
risposta, la sua verità. Questa interrogazione eterna di ogni poeta è oggi, più di prima,
per il romanziere, una esigenza non solo della sua ispirazione, ma della sua coscienza.”
(Morante, 1990:1501). A proposito della sua essenzialità, Garboli afferma:
La Morante non ci parla che di cose essenziali, e nello stesso tempo chimeriche. E mentre ci
parla delle une, ci sta parlando delle altre. Evita, questa scrittrice che si dibatte tra assoluti,
qualsiasi atteggiamento, qualsiasi problemática universale. In un tempo nel quale tutti si
affrettano verso espressioni d’arte di tipo problematico, come se la realtà fosse un immenso
cruciverba, la Morante ha sempre l’aria di svolgere un tema: temi ricchi prezziosi, cuciti e
ricuciti con una prosa lussuosa, che ha la civetteria, mentre si ingioiella, di sembrare di poco
conto. […] Con l’aria di chi informa, la Morante mescola carte diverse, avvicina cose lontane e
distanzia le presenti. In una parola, cancella il tempo. (Garboli, 2008: 117).
2. LA DONNA-BAMBINA
Il romanzo inizia in questo modo: “Un giorno di gennaio dell’anno 1941, un soldato
tedesco camminava nel quartiere di San Lorenzo a Roma. Sapeva 4 parole in tutto
d’italiano e del mondo sapeva poco o niente. Di nome si chiamava Gunther. Il cognome
rimane sconosciuto.” (Morante, 1991:13). Il soldato, pur essendo descritto come “gli
altri della sua specie: alto, biondino, col solito portamento di fanatismo disciplinare
(…), in contrasto con la sua andatura marziale, aveva uno sguardo disperato” (Morante
1991:15). Aveva a disposizione poche ore prima di rientrare in caserma e proseguire
cammino -e destino-verso le linee di combattimento in Africa; entrò in un’osteria dove
tracannò cinque misure da un quarto di vino e nel percepire l’ostilità sia dell’oste che
del garzone “una rabbia lo tentava a buttare all’aria il banco e i tavoli, e a comportarsi
non più da alleato, ma da invasore e da assassino” (Morante 1991: 19). Il soldato
Gunther, uscito dal locale cominciò a girovagare mentre lo assaliva una gran voglia di
tornarsene a casa, nella campagna bavarese, e di rannicchiarsi nel suo letto mentre gli
arrivano i consueti rumori della madre che si affaccenda in cucina. Il vino, però, lo
rendeva allegro e mentre camminava con passo incerto fra le strade di San Lorenzo, il
caso lo fece incontrare con Ida Ramundo, vedova Mancuso che, dopo aver finito la sua
giornata nella scuola dove insegnava come maestra, entrava in quel momento con le
sporte della spesa nel portone dell’abitazione dove abitava con il figlio sedicenne Nino.
Lo spavento negli occhi di lei, davanti alla figura alta di lui si tramutò in angoscia
mentre saliva i gradini fino alla porta di casa, non solo a causa del pericolo per sé stessa
ma soprattutto per il timore che il soldato trovasse il figlio in casa. Inseguita da Gunther
che cercava più che una donna un’anima, una creatura che rendesse la sua paura e la sua
solitudine meno angoscianti, arrivarono alla porta di casa. Descrive la Morante:
In quel momento, qualsiasi figura femminile capitata per prima su quel portone (non diciamo
una comune ragazza o puttanella di quartiere, ma qualsiasi animale femmina: una cavalla, una
mucca, un’asina! che lo avesse guardato con occhio appena umano, lui sarebbe stato capace di
abbracciarla di prepotenza, magari buttato ai piedi come un innamorato, chiamandola meine
mutter! (Morante 1991: 20).
3. LA DONNA-MADRE
“Una donnetta da nulla come Ida Ramundo ha senso solo perchè è madre” (Bossi,
1996: 247). E infatti, dal momento in cui scopre di essere incinta, nella mente di Ida un
unico pensiero prende il sopravvento: nascondere Useppe da tutti. Per la vergogna di
avere avuto un figlio da padre ignoto, lei vedova e già madre di un adolescente, ma
soprattutto per paura che questo figlioletto le venga portato via perché di sangue mezzo
ebreo. Il timore di essere segnata dagli altri per avere delle origini ebraiche (anche se
lontane), soprattutto dopo i provvedimenti decretati da Mussolini, si trasformerà, nella
sua mente ignorante e paurosa, in paranoia. Con l’altro figlio, Nino (spavaldo,
arrogante, strepitosamente allegro), presto dovrà rassegnarsi a non essere ascoltata da
lui, nemmeno quando tutti correvano giù ai rifugi durante i bombardamenti e lui,
incurante, si rifiutava e continuava a dormire. Mentre assisteva alla sua crescita, sano,
forte e spensierato, che da giovane fascista diventò partigiano comunista e più tardi,
contrabbandiere, Ida si convinse con lucida sicurezza che a questo figliolo suo non
sarebbe successo niente e che sarebbe uscito incolume dal conflitto bellico in cui l’Italia
fu compromessa. E così fu.
Invece Useppe, magrolino, deboluccio e malaticcio, diventò per Ida l’unico motivo
per vivere e per sopravvivere nei giorni più duri della guerra e della posguerra. La mater
dolorosa si trasformò in una madre coraje che riuscì a sopravvvivere e a far
sopravvivere questo bambino fino a dopo la guerra. “madre e figlio, inseparabili, stretti
in una creatura sola” (Garboli, 1995:36).
Ida che “era rimasta, nel fondo, una bambina perché la sua precipua relazione col
mondo era sempre stata e rimaneva (consapevole o no) una soggezzione spaurita”
(Morante, 1991:21) subisce una metamorfosi. La dimensione materna fa scaturire nella
mente di Iduzza una forza istintiva, una spinta irrazionale che la fa andare oltre i limiti
del suo proprio essere, debole, infantile e immaturo. Elsa Morante ci fa assistere, come
assiste lei stessa in determinati momenti della trama, cambiando il suo ruolo da
narratrice a muta spettatrice, a delle scene colme di un lirismo che scappa fuori dalle
pagine del romanzo in cui Ida si tramuta in una donna coraggiosa e selvatica, in certi
momenti arcaica e animalesca con un unico obiettivo: salvare Useppe dalla fame, dalle
bombe, dai fascisti, dai tedeschi, protteggerlo, in definitiva, da questo mondo brutale e
trasportarlo al mondo puro e primigenio dell’allegria e della spensieratezza, un mondo
anarchico e utopistico dove non si affaccino le zanne della Storia2.
La donna bambina trasforma la sua debolezza e la sua paura in istinto materno e
protettivo verso Useppe: unica ragione che le dà il coraggio per continuare a vivere e
che in alcuni episodi la costringe a compiere atti di cui non si sarebbe mai creduta
capace, come rubare qualche scatola di conserva per offrire a Useppe qualche alimento
più nutritivo del solito. C’è una scena travolgente in cui la timorosa Ida assiste all’inizio
come spettatrice a una rivolta di donne affamate come lei che rubano della farina da un
furgone tedesco urlando imprecazioni contro i soldati e il regime. La Morante ci fa
partecipi insieme a Ida a questa scena coinvolgendoci in prima persona:
C’era un camion tedesco fermo, giù dal quale un milite del Reich teneva testa, sbraitando, a
una folla di donne del popolo (...). Alcune delle donne, con l’ardimento della fame, s’erano
arrampicate addirittura sul camion, carico di sacchi di farina. E fatti dei tagli nei sacchi, se ne
versavano il pieno dentro le gonne, le sporte e qualsiasi altro recipiente si fossero trovate a
portare. Qualcuna se ne riempiva magari il secchio del carbone o la brocca dell’acqua (...). Ida
si fece largo disperata: «Anch’io,! Anch’io! » strillava come una bambina. Non riusciva a
rompere l’assedio che stringeva i sacchi buttati a terra. Si sforzò a salire sul camion, ma non ce
la faceva. «Anche a me! Anche a me!! » (...) Dall’alto del camion una bella ragazza rise sopra
2
Elsa Morante permette a Useppe di vivere in questo mondo idilliaco per un’estate, con la
protezione della sua “seconda madre”, la cagna Bella, una pastora maremmana, quando uscivano tutti e
due mentre la madre lavorava e scoprirono la riva del Tevere, un paradiso d’avventure e felicità.
di lei (...) e accucciandosi verso di lei, con una risata da furia le empí la sporta di farina,
versandogliela direttamente dal proprio grembo. Ida a sua volta si era messa a ridere, simile a
una bambina mentecatta, cercando di risortire col suo carico, di mezzo alla folla urlante. Le
donne parevano tutte sbronze, eccitate dalla farina come da un liquore. Urlavano inebriate
contro i Tedeschi gli insulti più osceni, che nemmeno le puttane di un lupanare” (Morante
1991: 335).
E la bambina Ida, per la prima e unica volta nella sua vita: “udí la propria voce,
stridula, irriconoscibile nel suo eccitamento infantile, gridare nel coro: « Zozzoni! »
Se non fosse stato per questo figlio bastardo, frutto dello stupro del soldato tedesco,
il personaggio di Ida sicuramente non avrebbe mai commesso atti simili né sarebbe
sopravvissuto all’orrore della guerra. E noi, lettori, avremmo letto un altro romanzo, ed
Elsa Morante avrebbe scritto un’altra Storia.
Ma La Storia è questo libro che abbiamo fra le mani e la Morante teneva in serbo il
peggior destino per una madre: la morte dei suoi due figli, a distanza di poco tempo.
Nino, il ragazzo che si sarebbe potuto perfettamente contare fra i Felici Pochi di Il
mondo salvato dai ragazzini (pubblicato dalla Morante nel 1968) muore, all’età di
ventun anni, in un incidente stradale, in seguito a una persecuzione della polizia.
Nell’obitorio, “all’atto di riconoscerlo la sensazione immediata di Ida fu una feroce
lacerazione della vagina, come se di nuovo glielo strappassero di là” (Morante 1991:
465). Muta, senza poter urlare si trascinò per le strade per tornare a casa, da Useppe.
Non aveva nemmeno pianto perché “aveva la sensazione, cioè, che solo a emettere un
lamento, dietro a questo, come alla rottura di un argine, le prorromperebbero delle urla
incontenibili, e che urlando sarebbe impazzita” (Morante 1991: 469). Quel giorno
cominciò la decadenza di Ida come persona e come personaggio e sarebbe appunto la
pazzia il traguardo della sua vita: dopo essere sopravvissuta a una guerra e aver patito la
fame, la solitudine e la paura, il destino le riservava la morte del piccolo Useppe, il
quale inizió a soffrire sempre più spesso attacchi epilettici, essendo vittima di una
manifestazione della malattia più grave di quella che assillò la madre da bambina.
Nonostante le cure prescritte e le analisi fatte da uno specialista a cui si rivolse una Ida
sempre più preoccupata, Useppe morì una mattina del mese di giugno di 1947. L’ultimo
attacco (in realtà, ne soffrì diversi, uno dietro all’altro) lo sorprese mentre si trovava in
casa, con la sola compagnia della cagna Bella. La scuola era già finita ma Ida aveva
dovuto assistere a una riunione di fine corso. Allarmandosi perchè il piccolo non
rispondeva al telefono si precipitò fuori e corse fino a casa sentendo che a ogni passo
qualcosa le si strappasse dentro. “Nell’ingressetto buio, il corpo di Useppe giaceva
disteso, con le braccia spalancate, come sempre nelle sue cadute. Era tutto vestito, salvo
i sandaletti che, non affibbiati, gli erano cascati via dai piedi” (Morante 1991: 646).
Ida, china su di lui, aspettava come altre volte che si riprendesse e lo portò in braccio
sul letto ma quando si accorse che non c’era niente più da aspettare:
[...] nella mente stolida e malcresciuta di quella donnetta, mentre correva a precipizio per il suo
piccolo alloggio, ruotarono anche le scene della storia umana (la Storia) che essa percepí come
le spire multiple di una assassinio interminabile. E oggi l’ultimo assassinato era il suo
bastarduccio Useppe. Tutta la Storia e le nazioni della terra s’erano concordate a questo fine: la
strage del bambinello Useppe Ramundo (Morante 1991: 647).
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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<http://lettura.corriere.it/la-mia-elsa-morante-incendiaria/>
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Garboli, C., Il gioco segreto. Nove immagini di Elsa Morante, Milano, Adelphi,
1995.
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Mira Mosso, M., “Elsa Morante, la grande solitaria del siglo XX”.
Internet. 20-1-2014.
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Morante, E., La Storia, Torino, Einaudi-Gli Struzzi, 1991 (ristampa).
Morante, E., “Sul romanzo”, in Opere, a cura di C. Cecchi e C. Garboli, vol. II,
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Sgorlon, C., Invito alla lettura di Elsa Morante, Milano, Ugo Mursia ed., 1972.