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David J.

Centanaro

Una domenica di ottobre

Alle cinque di una domenica di ottobre era partito da casa per aggregarsi alla squadra.
Il freddo invernale non era ancora arrivato, l'aria della notte pizzicava piacevolmente, rendendo
spedito il passo, senza entrare nelle ossa, tenuta a bada dalla giacca mimetica imbottita.
Nello zaino aveva pane del giorno prima, qualche mela e il formaggio di capra che faceva sua
madre. Avevano una quarantina di bestie e campavano, lui, sua madre e suo fratello, vendendo
latte e formaggio e i capretti nei giorni della Pasqua.
C'era da camminare un'ora per arrivare all'appuntamento, lassù dalle rocce bianche, dove lo sterrato
che saliva dal paese incrociava lo spartiacque.
Tutti sarebbero arrivati con i loro fuoristrada, con i cani e con i fucili. Lui arrivava a piedi, senza
cane e senza armi, a parte il coltello da caccia con il manico di corno che era stato di suo padre.
Aveva appena sedici anni, un volto da bambino ombreggiato da una peluria bruna, due occhi chiari,
sempre lucidi, i capelli lunghi e lisci, che portava sciolti. Il corpo era già massiccio, due spalle
incredibilmente larghe, due braccia e due mani da lavoratore. Procedeva per ampie falcate regolari,
senza rallentare per la salita, emanando una nuvola di vapore.
Avrebbe potuto trovare qualcuno che sarebbe passato a prenderlo, ma non gli andava. Un ragazzo
alle prime uscite con la squadra non si fa servire come un veterano.
Manlio camminava veloce per il sentiero che, lasciate le ultime case del paese, saliva brusco verso
le rocce, silenzioso in mezzo al bosco che ancora fremeva di rami spezzati e di versi di animali.
Man mano che prendeva quota il cielo iniziava a schiarirsi. Quando arrivò su, a est, sul mare, già si
spandeva il colore rosato dell'alba.
La vegetazione, che lungo l'ultima salita si era fatta più rada, adesso era quasi assente e le grigie
rocce friabili scrocchiavano sotto le suole, mentre Manlio ne guadagnava il punto più alto, per
prendersi una vista dello sterrato da cui sarebbero saliti i fuoristrada.
Si sedette sulla cresta tondeggiante e guardò l'ora; mancava ancora un quarto alle sei, era stato
rapido. Poi allungò lo sguardo sulla linea bianca della strada; ancora nessuno in vista.
Mentre lo sguardo vagava per quei boschi e su quel mare, tirò fuori il coltello da caccia e se lo
passò fra le mani, impugnandolo per sentirne il peso, la maneggiabilità, per gustare la calda, liscia
consistenza dell'impugnatura. Lo passò sull'avambraccio, per saggiare il filo della lama e i peli si
staccavano docili e aderivano all'acciaio lucido, riempendolo di soddisfazione.
Di suo padre non aveva che quel coltello, due fucili chiusi a chiave in un armadio alto e stretto di
noce scuro e una libreria piena di libri che non avrebbe mai letto.
Dal profilo scuro e irregolare della collina spuntarono i primi fari, subito seguiti da altri due.
Manlio si alzò in piedi meccanicamente, per osservare meglio i mezzi che avanzavano sullo
sterrato. I musi dei mezzi puntavano i fasci dei fari ora in alto ora in basso e la loro luce si
perdeva nel cielo o si abbatteva sulla strada bianca, facendola brillare.
Davanti c'era un grosso furgone con il cassone aperto, dietro uno di quei rugginosi fuoristrada russi,
macchine da poco prezzo. Pochi minuti e sarebbero stati lì; già si sentiva lontano il rumore dei
motori. Il ragazzo scese dalle rocce in pochi balzi e attraversò lo spiazzo, saltando fra le vaste
pozzanghere.
Nel giro di un quarto d'ora lo spiazzo era pieno di fuoristrada, di uomini che parlavano e fumavano,
di cani da caccia che tiravano i guinzagli.
Manlio vagava da un gruppo all'altro, ascoltava gli uomini accordarsi sui posti. Qualcuno iniziava
a tirare i fucili fuori dalle custodie, a provare le radio. I primi gruppetti si dispersero per il bosco,
qualche fuoristrada ripartiva, proseguendo sulla strada che si inoltrava fra i faggi.
«Tu vai con Enzo» disse qualcuno.
«Prendi la tua roba e vieni con me» disse Enzo.
L’uomo e il ragazzo scesero a piedi per lo sterrato fino al punto in cui attraversava una sella stretta.
Lì lo abbandonarono per un sentiero appena segnato che si inoltrava nel castagneto ceduo, sporco e
ingombro di rami secchi che crocchiavano sotto gli scarponi. Davanti stava il cane, una cagna non
più giovane, dal pelo lungo e chiaro. Enzo camminava ansimando, con il passo corto e pesante, il
fucile in spalla e la radio appesa alla cintura. Era un uomo di una quarantina d'anni, con qualche
chilo di troppo e i capelli che già iniziavano a farsi radi. Aveva una barba folta e curata, gli occhi
piccoli e il naso grosso, informe. Manlio lo seguiva a distanza, rallentando il passo per non finirgli
addosso.
Il sentiero saliva con una buona pendenza e in meno di mezz'ora portò i due cacciatori fuori dal
bosco. L’uomo e il ragazzo si fermarono su uno sperone roccioso subito sotto lo spartiacque.
Ormai era giorno fatto. Laggiù, sullo spiazzo sotto le rocce bianche, si distinguevano in dettaglio i
mezzi parcheggiati ai bordi e gli ultimi uomini che si attardavano.
Enzo posò zaino e fucile, si accese una sigaretta e guardò giù, verso lo spiazzo e oltre; il bosco si
stendeva a perdita d'occhio sulle colline che scendevano verso la Bormida.
«Adesso non abbiamo che da aspettare.» Fece due tiri e aggiunse: «Ci hanno dato proprio un posto
infame.»
Manlio si piazzò in punta allo sperone roccioso e si mise a guardare dalla parte opposta, verso il
mare, illuminato dal sole, con il suo orizzonte tondo e la sua superficie splendente come lo scudo di
un eroe antico. I profili azzurri delle colline ci cadevano dentro bruschi e sembravano le quinte di
carta di un teatrino per bambini.
La cagna, liberata dal guinzaglio, vagava intorno, annusando e scodinzolando. Manlio la seguiva
muovendosi a balzi per starle dietro, lungo la cresta, nella macchia bassa di erica, cisti e corbezzoli
che crescevano fra quei sassi e poi giù, sul piano alla base delle rocce, dove iniziava un bosco di
lecci e roverelle, che più in basso, scendendo verso nord, cedeva al castagno.
Passò così una mezz'ora, finché un fischio di Enzo li richiamò alla postazione. L’uomo aveva
tirato fuori il fucile dalla custodia. Era una carabina a cinque colpi, tedesca. Un bel fucile
compatto, con la canna piuttosto corta e un calcio di legno lucido, ben modellato. Manlio si sedette
vicino a lui e lo osservò mentre infilava nel caricatore le cartucce calibro 12 a pallettoni e mentre
montava il cannocchiale da puntamento. Enzo finì di sistemarla, mise la sicura e gliela passò:
«Prova a imbracciarla, senti che roba, che comodità.»
Manlio si alzò in piedi, imbracciò la carabina e, socchiudendo un occhio, guardò nell'ottica del
puntamento, muovendo il fucile lentamente, immaginando un bersaglio per ogni cima d'albero.
«Hai già tirato?» chiese Enzo.
«Sì, ma non con la carabina. Con la doppietta da caccia di mio padre.»
«Hai dei fucili a casa?»
«Due. Una doppietta e un vecchio semiautomatico. Ma sono più pesanti, più ingombranti.
Questo sembra un giocattolo.»
«Un giocattolo che fa dei bei buchi. Armato così, con un colpo ben piazzato ferma un cinghiale in
corsa.»
Manlio abbassò il fucile e lo restituì.
«È tanto che ce l'hai?»
«L'ho preso l'anno scorso a inizio stagione. Un anno giusto.»
«Ci hai già preso qualcosa?»
«Scherzi? Ne ho fatto fuori quattro la scorsa stagione. Uno era un bel maschio vicino al quintale,
una bestia da paura.»
Lontano si sentirono i cani abbaiare.
«Hanno trovato qualcosa, laggiù, verso le case basse.» e indicò con la canna del fucile il punto da
cui venivano i latrati, sul fianco ovest, boscoso, compatto e ancora scuro della stretta valle che
scendeva verso la Bormida. Poi accese la radio e la sintonizzò sul canale usato dalla squadra. Ci
furono un paio di spari e subito dopo qualcuno disse: “scendono verso il rittano.”
«Li hanno mancati. Sono almeno due. Quelli se ne stanno laggiù a sparare a vuoto e noi qui in
cima al bricco come due fessi.»
«Come tre fessi. -disse Manlio con un sorriso- C'è anche il cane.»
«Tre. Giusto. Siamo in tre. Vieni qui, bella.» e chiamò vicino a sé la cagna, che già iniziava a
fremere e puntava il muso verso la valle. Enzo sputò per terra:
«Domenica prossima qui ci viene qualcun altro. Mi rifiuto di fare da sentinella. Mi rifiuto. Passi
tutta la giornata senza sparare un colpo.»
«Almeno è un bel posto. C'è una vista...»
«Non vengo qui per la vista. Se voglio la vista me ne vado sul corso, a guardarmi un po' di mussa.
Quello che dovresti fare tu. Ma che ci vieni a fare qui, con noialtri vecchi, a correre dietro ai
maiali? Avessi la tua età e il tuo fisico passerei la giornata a caccia di bambine. Altro che
cinghiali.»
Annuì al suo stesso discorso, alzando le sopracciglia e piegando le labbra all'ingiù. Poi chiese:
«Quanti anni hai?»
«Sedici.»
Sedici? Gesù, non ci posso credere. Sedici anni! Sei grosso per la tua età. E alla domenica ti
alzi alle cinque per passare la giornata su un bricco con un vecchio scoppiato e incazzato, senza
manco la soddisfazione di tirare su una bestia.»
«Non sei mica vecchio.»
«Beh, neanche giovane. Ho quarantadue anni.»
«L'età di mio padre quando se n'è andato.»
«Permetti che mi dia una toccatina alle balle. Di cosa è morto il tuo vecchio?»
«Non è morto, se n'è andato. Via, da qualche parte.»
«Ah, mi dispiace molto, ragazzo... e chissà tua madre.»
«Mia madre dice che senza di lui si sta meglio.»
«Allora se è così è una donna fortunata. Si fa per dire.»
Di nuovo si sentì sparare, questa volta più vicino, nel rigagnolo fangoso che solcava la valletta, un
paio di centinaia di metri più in basso. Di nuovo la radio parlò; non li avevano presi, non ne
avevano preso neppure uno.
«Mi sono lamentato troppo presto, ragazzo.»
Enzo, si tolse la giacca, che gettò a terra sopra lo zaino e prese il fucile.
Stando in piedi lo imbraccio e iniziò a scrutare verso il bosco. Sotto di loro, prima che il bosco
iniziasse, c'era uno spazio scoperto, con pochi cespugli stenti. Una mezzaluna di terra magra e
sassosa, lunga un centinaio di passi e larga non più di venti. Anche Manlio, vicino a lui, scrutava
intento, riparandosi gli occhi con una mano, con le orecchie tese a ogni fruscio. Enzo parlò in un
bisbiglio, senza togliere il mento dalla calciatura e il dito dal grilletto:
«Se passano di qui sono nostri.»
Il ragazzo annuì con aria grave.
Si sentì, sempre più vicino, il crepitare delle foglie e dei rametti, lo sferzare delle fronde ormai
spoglie. Fra gli alberi dritti e fitti videro avanzare due sagome scure, tondeggianti, che si
lanciavano in salita a tutta velocità.
Enzo se ne stava fermo, a gambe divaricate, con la tonda pancia in fuori.
Le bestie arrivarono sull'orlo dello spiazzo e videro le sagome dei due uomini, in piedi sulla cresta
rocciosa, in controluce. Erano una femmina di grossa taglia e un giovane maschio, già cresciuto,
con un residuo di striature.
Enzo tirò e sbagliò un colpo che non poteva sbagliare. Disse “merda” a fior di labbra mentre la
madre, seguita dal figlio, scartò bruscamente verso destra e si mise a correre sul ciglio dello
spiazzo, senza rientrare nel bosco,stupidamente. Enzo la seguì con il fucile puntato e tirò di nuovo.
La femmina, presa nel posteriore, stramazzò grugnendo. Il piccolo si fermò con lei, avvicinandosi
con il muso al muso e rispondendo ai suoi ai suoi versi. Ma appena sentì sparare di nuovo si
dileguò nel bosco, precipitandosi verso valle, seguito da un turbine di foglie morte che si alzavano.
«L'abbiamo presa, ragazzo, l'abbiamo presa!» urlò il cacciatore, alzando al cielo le braccia e il
fucile.
«Vieni, andiamo a finirla.» aggiunse con tono secco e rapido.
Scesero giù dallo spuntone e si avvicinarono alla bestia, fermandosi a due o tre passi di distanza,
davanti al suo muso. Non si muoveva, ma respirava ancora profondamente, regolarmente. Gli
occhi erano aperti e li fissavano.
«Questa è la parte più difficile, ragazzo.» disse l'uomo, imbracciando la carabina con aria pacifica
e misericordiosa.
In quel momento il cinghiale, con uno scatto inaspettato, si tirò su e si avventò contro di loro.
Manlio si spostò rapido, facendo qualche passo di lato, verso il bosco. Enzo, preso alla sprovvista,
lasciò cadere il fucile a terra e fece due scomposti passi all'indietro, prima di riuscire a girarsi e
iniziare a correre, inseguito dalla femmina zoppa. Si slanciò verso le rocce correndo in avanti, con
la testa girata all'indietro e gridando “Spara, spara” a Manlio, che intanto aveva raccattato l'arma.
Il ragazzo aveva imbracciato rapido la carabina e la teneva puntata verso la bestia, che si era girata
verso di lui. Dietro, in piedi, arrampicato sulle rocce, stava Enzo, che ancora urlava “Spara, dio
santo, spara!”.
In un lungo immobile istante Manlio pensò che non aveva mai tirato con la carabina e che non era
troppo sicuro di sé con un fucile a canna corta. Guardò l’uomo in piedi, in asse perfetto dietro la
bestia e di nuovo si chiese se il rischio non fosse eccessivo. Poi pensò anche che non aveva
nemmeno il porto d’armi e che se fosse successo qualcosa sarebbe stata una tragedia, certo, ma
anche una grossa, grossa grana. E mentre pensava tutto questo appoggiò il dito sul grilletto, il
colpo partì e il muso del cinghiale affondò nel terreno fangoso.
Enzo scese dal suo rialzo, imprecando contro la bestia:
«Che lurida scrofa! Ancora un po’ e mi viene un infarto. ‘sta troia, ancora un po’ e mi becca.
Non crepano mai, son bestie gramme.»
Poi si volse verso Manlio:
«Dai qua!» disse e quasi gli strappò il fucile dalle mani e Manlio in quell’attimo pensò che poteva
partire un colpo, ma il colpo non partì.
Enzo, con il piede calzato nel grosso scarpone anfibio, ridicolmente alto fino a metà polpaccio,
diede rabbiose pedate al cinghiale fino a girarlo sul fianco. Subito sopra la spalla c’era una grossa
macchia di sangue spesso e nero, impastato nei peli irti. Una parte era colata e disegnava una
macchia scura e opaca sulla terra fangosa. l’occhio era socchiuso e velato. Il respiro non si
avvertiva quasi più, ma quel corpo caldo era ancora vivo, anche se di vivere non aveva più voglia.
Enzo avvicinò la canna della carabina a meno di un palmo dalla grossa testa e fece fuoco. Il
sangue schizzò tutto in torno, insieme a piccoli brandelli di pelle. Un pungente odore di setole
bruciate e di polvere da sparo si sparse nell’aria e una grossa chiazza rossa, bianca e nera si formò
sul collo corto e potente, al posto della macchia scura della ferita precedente. Lo sguardo della
bestia si fermò nella fissità della morte, sbarrato e spento, come quello delle teste impagliate appese
nella sala da pranzo della trattoria dei cacciatori.
Enzo mise il piede sul fianco ormai immobile, rovesciò la testa all’indietro e se ne uscì in un lungo,
rauco grido:
«L’ho ammazzata. L’ho ammazzata. Questa volta l’ho ammazzata io...»
Poi, messo il fucile a tracolla, salì sulle rocce, recuperò la radio e annunciò l’abbattimento alla
squadra:
«Ragazzi, qui c’è una gran bella bestia da recuperare.»
Mentre Enzo parlava con voce alterata e sorrideva alla radio che gli riportava i complimenti dei
compagni di squadra, Manlio si accucciò a terra, prese a due mani la testa della madre e la scostò.
l’ultimo proiettile aveva trapassato il collo e facendo scempio della carne era uscito dall’altra parte,
conficcandosi nel terreno.
Meno male, pensò Manlio, che il proiettile, sparato da quella minima distanza, aveva trapassato la
carne. Meno male che non aveva preso una pietra. In cadaveri avrebbero potuto essere due.

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