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STORIA DELLA CHIESA DA LUTERO AI NOSTRI GIORNI

1. La Questione romana dopo il 1870


Possiamo distinguere due periodi piuttosto diversi: 1870-1900 e 1900-1920. Nel primo periodo
(che corrisponde più o meno al pontificato di Leone 13), la tensione fra la Santa Sede e il
governo italiano si inasprisce di più. Nel secondo periodo (pontificati di Pio 10 e Benedetto 15)
le relazioni si fanno meno tese, ci si avvicina ad una soluzione positiva.

Il cambiamento è dovuto a un complesso di fattori, fra cui il timore che incute alle due parti il
forte progresso del socialismo: i liberali pensano sia impossibile combattere su due fronti,
quindi atteggiamento più conciliante verso l’ala moderata dei cattolici, che a sua volta
abbandona le pregiudiziali temporalistiche e si preoccupa della conservazione delle strutture
tradizionali della società. Al periodo di Leone 13 e di Crispi, segue la fase distensiva di Pio 10
e di Giolitti.
I. L’età leonina
Si assiste a un forte incremento dell’anticlericalismo, dovuto non solo alla questione romana ma
alla diffusione del positivismo che presenta la scienza, come incompatibile con la fede. Mentre
l’anticlericalismo della destra, che aveva avuto il potere sino al 1876, si era manifestato
soprattutto nelle misure legislative, quello di sinistra si rivelò soprattutto in parate e clamori,
specie in occasione della festa del 20 settembre, che assunse un chiaro significato antipapale e
anticattolico. Se il governo italiano non assecondò voti dei radicali sull’abrogazione della
legge delle guarentigie, lasciò indisturbate queste manifestazioni di piazza. Assalto alla salma di
Pio 9 durante il traporto notturno al cimitero del Verano nel 1881.

Nel 1888 il presidente del consiglio Crispi impone le dimissioni al sindaco di Roma, Torlonia,
reo di aver presentato al card. Vicario gli auguri della cittadinanza romana per il giubileo di
Leone 13. La massoneria, che prima del 70 non aveva avuto ruolo importante, assume ora
un’importanza decisiva nella vita politica, contribuendo ad avvelenare i rapporti con la chiesa.
Molti ministri danno la loro adesione alla massoneria.

Sulla questione romana le posizioni restavano immutate. I liberali sostenevano che la legge
delle guarentigie aveva ormai risolto il problema, che il pontefice era del tutto libero nel suo
ministero pastorale. I cattolici fedeli alle direttive vaticane rispondevano che un pontefice privo
di sovranità anche territoriale, è e resta suddito di un’altra autorità, e non può considerarsi
indipendente. Questa tesi appare soprattutto nella lettera scritta da Leone 13 al card. Rampolla
nel 1887, il papa pretendeva la restituzione almeno dell’intera città di Roma. Leone 13
continuò a considerare impossibile la coesistenza di due poteri in una sola città. Nei primi anni
dopo il 70 la chiesa valuta anche qualche intervento armato, e a cercare l’appoggio diplomatico
internazionale.

Continuava intanto la direttiva vaticana di astenersi dalle elezioni politiche. Nel 1866 il vaticano
dichiarò che i cattolici eletti deputati potevano prestare il giuramento di fedeltà allo stato, solo
aggiungendo pubblicamente la clausola “salve le leggi divine ed ecclesiastiche” cioè significava
rendere impossibile ai cattolici accettarel’elezione. Dopo la presa di Roma, nel 1871 e nel 1874
la Penitenzieria dichiarò che non conveniva (Non Expedit) ai cattolici dare il loro voto nelle
elezioni. Nel 1886 il Santo Ufficio precisò non expedit prohibitionem importat. Restava invece
lecita la partecipazione alle elezioni amministrative. Il Non Expedit si sollevò gradualmente ad
una questione di principio: protesta ideale contro la politica dei fatti compiuti, preoccupazione
di mantenere il movimento cattolico dalla sua purezza originaria, lontano dalla rivoluzione.
Aumentò il distacco tra stato e masse popolari.

I cattolici, che si erano così autoesclusi dalla partecipazione alla vita politica, non si fermarono
però a un’inerte e passiva attesa degli avvenimenti, superata la teoria della catastrofe, cioè stato
italiano punito da dio, gli intransigenti si riunirono in un movimento di opposizione al di fuori
del parlamento, per influire sulla vita italiana con altri mezzi. Nacquero e si svilupparono le
organizzazioni cattoliche su scala nazionale, raccolte attorno all’opera dei congressi e comitati
cattolici, sorta nel 1874, poi logorata da dissidi interni fra giovani e vecchi, sciolta da Pio 10 nel
1904.

L’astensione, della cui validità lo stesso pontefice era tutt’altro che sicuro, sollevava forti
discussioni fra intransigenti e moderati, finendo per spaccare in due i cattolici. InItalia, ai motivi
di indole generale, si intrecciavano le discussioni sulla questione romana e sul rosminianesimo.
Gli intransigenti potevano contare su alcuni periodici battaglieri, come “L’unità cattolica” e
“L’osservatore cattolico”. I due giornali, redatti con stile caporalesco, pronto ad accusare tutto e
tutti e a affibbiare l’etichetta di disubbidienti a quanti non la pensavano come loro. I vescovi
pugliesi nella loro lettera pastorale collettiva del 1892 raccomandavano ai fedeli la lettura dei
“buoni giornali”.

Nel 1885 uscì un opuscolo anonimo, intransigenti e transigenti, opera di Leone 13 stesso. Il
card. Bonomelli scrive articolo dicendo che conciliazione possibile facendo stato sulla riva
destra del Tevere, messo all’indice. Non mancarono tentativi di conciliazione: fallì sul nascere
il tentativo di un partito cattolico, dei “conservatori nazionali”. Nel 1887 si ebbe la “grande
delusione”, un discorso di Leone 13 in cui si parlava del “funesto dissidio” aprì gli animi alle
speranze, tanto che il Presidente del Consiglio Crispi replicò sullo stesso tono conciliante. Il
benedettino Tosti pubblicò allora “La Conciliazione”, proponendo una soluzione fondata sulla
rinunzia della Santa Sede ad ogni sovranità territoriale, e senza autorizzazioni, iniziò dei
sondaggi col governo italiano. Ma Crispi in parlamento rispose che l’Italia non domandava
conciliazioni, perché non era in guerra con nessuno.

b. La distensione e il graduale riavvicinamento


La situazione mutò in seguito alle affermazioni socialiste, favorite dall’allargamento del
suffragio in Italia, e dalla nuova presa di coscienza delle classi operaie. I socialisti dettero forza
nei moti di Milano del 1898, e nell’ondata di scioperi che dilagò in Italia nei prima anni del
nuovo secolo, culminati con lo sciopero generale del 1904. I conciliatoristi come intransigenti,
davanti all’avanzata socialista restarono atterriti, e accolsero volentieri le proposte di
collaborazione dei liberali moderati, realizzate dapprima nel campo amministrativo, con le
coalizioni che ricevettero il nome di clerico moderate, e sottrassero di fatto ai radicali vari
comuni. L’alleanza e il successo che ne conseguì fu salutato con gioia da alcuni vescovi, ma i
cattolici più sensibili alle oggettive necessità delle classi meno abbienti temettero che questa
autentica apertura a destra provocasse un’involuzione del movimento cattolico. Il tentativo era
però favorito nell’ombra dal nuovo Presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti, che cercava di
svuotare le opposizioni di destra e di sinistra accettandone i postulati più urgenti e invitandole
ad una collaborazione o quanto meno a un appoggio dall’estero al governo.

La politica giolittiana riuscì solo parzialmente coi socialisti, ed ebbe invece ampi sviluppi coi
cattolici. nel 1904, dopo il grande sciopero generale organizzato dai socialisti di tutta Italia, Pio
10 permise a voce ad alcuni cattolici di presentarsi come candidati alle elezioni. Il “Fermo
Proposito”, pur confermando in teoria il Non Expedit, permetteva in pratica delle eccezioni, che
ovviamente si moltiplicarono fino a costituire la regola pratica. Vari cattolici entravano così in
parlamento a titolo personale (cattolici deputati sì, deputati cattolici no).

Nel 1913 il “Patto Gentiloni” segnò il trionfo del clerico-moderatismo, passato alla scala locale,
amministrativa, al piano nazionale. I cattolici dettero il loro voto ai candidati liberali che
avevano aderito ad alcuni punti programmatici (libertà della scuola, opposizione al divorzio
ecc.): i liberali a loro volta promettevano l’appoggio a qualche candidato cattolico. Nel patto
però si notava l’assenza quasi completa di ogni preoccupazione sociale nel programma, si
criticava la segretezza con cui i candidati liberali avevano dato il loro impegno, si protestava
perché i cattolici si riducevano a fare da sostegno ad un ordine ormai invecchiato. In ogni
modo, i cattolici cominciavano a far sentire il loro peso nella vita politica.

Ormai erano abbandonate le richieste i carattere territoriale tali da creare difficoltà allo Stato
italiano. La questione romana si riduceva ormai alla ricerca di condizioni giuridiche che
assicurassero al Papa un’indipendenza effettiva e palese. Questa nuova posizione fu espressa
per la prima volta dall’arcivescovo di Udine Rossi, in un discorso forse preventivamente
approvato da Pio 10.

Scoppiata la guerra, il card. Gasparri, Segretario di Stato di Benedetto 15, in un’intervista al


Giornale d’Italia, dichiarò che la Santa Sede “attendeva la sistemazione conveniente della sua
situazione non dalle armi straniere, ma dal trionfo dei sentimenti di giustizia del popolo
italiano”. Non si andava più in cerca, come sotto Leone 13, di aiuti diplomatici stranieri. Nel
1919, un sacerdote siciliano, Luigi Sturzo, che si era formato attraverso la partecipazione alle
lotte amministrative e alle varie iniziative dell’Opera dei congressi, con la previa se non
ufficiale autorizzazione della Santa Sede, fondò un partito politico, il Partito Popolare.

Si realizzava così in Italia quella linea già in atto in Germania, con il Centro. Il progetto, allora
visto con distacco dalla Santa Sede, che tuttavia non prese alcuna misura contro il discorso di
Sturzo a Caltagirone del 1905, e si limitò a tacere, era finalmente attuato: i cattolici italiani non
solo tornavano ad essere cittadini pleno iure, ma avevano ormai un forte peso in parlamento. Il
Partito Popolare (PP) si presentava come aconfessionale, non dipendente cioè dalla gerarchia, e
aperto a quanti ne condividessero il programma. Esso superava le posizione estreme
dell’intransigenza, con la sua visione puramente negativa e strumentale dello stato, considerato
soltanto come braccio secolare della Chiesa, e rivendicava ai cattolici il senso dello Stato, troppo
spesso dimenticato. Ma esso aumentava anche il clerico-moderatismo, rifiutava cioè di essere
una versione cristiana delle idee liberali, respingeva gli adattamenti e i compromessi, proponeva
un programma originale, autentica mediazione nella nuova realtà dei principi cristiani, il
programma del partito propugnava la libertà di coscienza, ma anche profonde riforme di
struttura, e audaci riforme sociali.

Nel novembre 1919 la Penitenzieria abrogava ufficialmente il Non Expedit, in realtà morto da
tempo. Alle nuove elezioni avvenute nello stesso mese, oltre 100 deputati cattolici entravano al
parlamento, rovesciando il vecchio statico equilibrio delle forze politiche. All’incomprensione
dei liberali come croce per il successo del partito popolare, si contrapponeva l’acuto giudizio di
Gramsci, che parlava del “fatto più grande della storia italiana dopo il risorgimento”.

L’anno seguente, con l’enciclica “Pacem Dei Munus” Benedetto 15 revocò le severe
prescrizioni vigenti per la visita a Roma di sovrani e capi di stato esteri. Pio 11 subito dopo
l’elezione, il 6.2.1922, per la prima volta dopo il 20 settembre impartì solennemente la
benedizione sulla piazza San Pietro. ormai la conciliazione era stata raggiunta, almeno negli
animi: la partecipazione dei cattolici alla guerra e alla vita politica aveva smorzato i dissidi di
un tempo. Ai vecchi uomini politici la legge delle guarentigie sembrava un mito intoccabile,
era considerata cioè come il trionfo della sapienza giuridica, ogni accordo bilaterale
sembrava una ferita, un tradimento del vecchio stato liberale.

Il prelato americano, mons. Kelly, trovò modo di abboccarsi a Parigi con il presidente Orlando.
Il vaticano inviò allora immediatamente a Parigi, dove per la conferenza della pace erano
raccolti moltissimi statisti, uno dei migliori diplomatici vaticani, mons. Cerretti, latore di queste
proposte: riconoscimento della piena indipendenza e della sovranità internazionale del recinto
vaticano e accenno generico ad un concordato che regolasse i rapporti fra Stato e Chiesa. Il
Presidente del Consiglio si trincerò in un prudente riserbo, il re Vittorio Emanuele 3 si mostrò
duramente contrario ad ogni accordo dello stato con la chiesa, “piuttosto abdicare, che stipulare
un concordato!”.
2. La chiesa e la questione sociale
I. La questione sociale in genere

a. Le condizioni del proletariato agli inizi del sec. XIX


Due fenomeni complementari caratterizzano la vita tecnica-economico-sociale nel corso
dell’800, e del primo 900. Da una parte assistiamo a un enorme progresso tecnico, industriale e
commerciale, dapprima nei paesi europei, più tardi in tutti i continenti, con innumerevoli
ripercussioni psicologiche e sociale. L’uomo ha vinto in larga misura la natura, ha superato le
distanze. D’altra parte, questo fortissimo incremento solo dopo parecchi decenni ha portato un
aumento del benessere generale ed una elevazione di vita di tutte le classi. La nascita della
grande industria ha portato alla concentrazione di ingenti ricchezze nelle mani di un ristretto
gruppo di imprenditori. Col tempo anzi la potenza del capitale è aumentata al segno che pochi
uomini hanno praticamente in mano i destino del mondo. I proletari sono quasi sempre oppressi
dalla miseria e degradati dal lavoro svolto in condizioni disumane. Orari che all’inizio
raggiungono le 14 e 17 ore, in un’atmosfera fisicamente e moralmente malsana; arruolamento
indiscriminato di donne e ragazzi, anche sotto i 6 anni, mancanza di ogni sicurezza di fronte a
infortuni e malattie, sottoalimentazione, abitazioni insalubri. Ciò che dicono Marx nel capitale e
Dickens nei suoi romanzi.

Se dure sono le condizioni della classe operaia, la sorte dei contadini nei paesi ancora non
industrializzati non è più allegra poiché la sottoalimentazione moltiplica i casi di pellagra e altre
malattie. A questo proletariato industriale o agricolo le classi dirigenti non sano offrire altro
rimedio che la pazienza e la rassegnazione. Nel 1848, dopo la repressione della rivoluzione
parigina del giugno, l’assemblea nazionale definisce gli operai, che la disperazione aveva spinto
all’insurrezione, come nuovi barbari sotto i colpi dei quali la famiglia, la religione, la libertà, la
patria, la civiltà intera rischiavano di perire”.

b. Genesi della questione sociale; liberalismo economico e rivoluzione


industriale
Due fattori diversi hanno determinato questa situazione. Da un lato, le grandi scoperte
scientifiche e la loro applicazione in grande scala, a cominciare dall’invenzione della macchina
a vapore nel 700 e dalla sua applicazione nell’industria tessile, hanno creato l’industria
moderna. Contemporaneamente le dottrine economiche difese fin dal 700 da Adam Smith e
David Ricardo, se hanno costituito uno stimolo ed un incoraggiamento efficacissimo per gli
imprenditori, hanno però anche fornito una comoda giustificazione alla loro ambizione ed al
loro egoismo.

Possiamo riassumere in 4 tratti essenziali questa dottrina: 1. amoralismo economico, 2. libera


concorrenza, 3. assenteismo statale e 4. individualismo. L’amoralismo economico considera
l’economia come separata dalla morale, e dunque dal rispetto dell’uomo, quindi non ha senso
parlare di giusto od ingiusto. Il salario stesso non è che una merce e come tale è soggetto alla
legge della domanda e dell’offerta. La libera concorrenza sul piano storico costituisce il
superamento ed il rinnegamento di tutti i vincoli posti alla produzione ed al mercato
dall’economia pianificata degli stati assoluti. Sul piano tecnico corrisponde al passaggio dalla
fase artigianale, alla fase della produzione in serie. Della libera concorrenza fanno le spese
prima di tutto gli operai.

Lo Stato poi, intervenendo, farebbe opera inutile, dannosa, ingiusta, perché limiterebbe senza
necessità la libertà dei singoli. Una prima misura è presa solo nel 1819, è proibito il lavoro di
ragazzi sotto i 10 anni. In Prussia nel 1939 venne proibito il lavoro di ragazzi sotti i 9 anni, da 9
a 14 venne limitato a 10 ore. In Francia solo nel 1841 è ridotto a 8 ore il lavoro dei fanciulli da
8 a 12 anni, a 12 quello dai 12 ai 16. Mentalità che lo Stato non può oltrepassare i suoi compiti
specifici invadendo il libero gioco delle parti, quale si attua nei contratti fra datori di lavoro e
lavoratori. Questa mentalità era comune all’Europa ma anche nell’America latina. Assenteismo
statale nascondeva una manovra a favore dei ricchi (i tentativi di sciopero repressi
violentemente dallo stato).

L’individualismo, da un punto di vista pratico, mentre in linea generale esso svaluta la funzione
sociale della proprietà, esso porta a due conseguenze immediate: il divieto di ogni contratto
collettivo e di ogni associazione professionale. La legge “Le Chapelier”, approvata nel 1791,
risponde a questo duplice criterio, “non ci sono più corporazione nello stato, non c’è che
l’interesse individuale di ognuno e l’interesse generale di tutti. Spetta alle libere convenzioni
individuali di fissare la giornata, per ogni operaio, e spetta al singolo operaio di mantenere il
contratto fissato”. La giurisprudenza liberale reclama perciò un’assoluta libertà nei contratti di
lavoro: ogni accordo, pattuito fra datore di lavoro e lavoratore e da questi accettato, non viola la
giustizia e va rispettato, e lo stato non può modificarlo.

La legge Le Chapelier, scioglie le antiche corporazioni e vieta agli operai di costituire nuove
associazioni professionali, che sembrano ledere l’uguaglianza e la libertà, ed intralciare il libero
gioco delle forze economiche. La disposizione presa dalla Rivoluzione francese è applicata nei
vari paesi man mano che lo sviluppo industriale determina situazioni analoghe: in Inghilterra
con le “Combination Laws” del 1799 e in Italia con il “Codice Sardo” del 1859.

c. I tentativi laici: il socialismo utopista, il sindacalismo, il socialismo scientifico


Mentre il regime liberale assiste più o meno indifferentemente alla tragedia del proletariato di
cui è largamente responsabile, la questione sociale, è affrontata da 3 correnti diverse, che vanno
delineandosi: 1. il socialismo utopico, 2. il sindacalismo e 3. il marxismo che dall’analisi
teorica passa presto all’azione politica.

Con il nome di sindacalismo utopico si indicano quegli scrittori dei primi decenni del 900, che
proposero una soluzione della questione sociale, fondata quasi esclusivamente su teorie astratte,
assai più che sull’analisi dei fatti e sullo studio concreto delle forze economiche e sociali.
Possiamo distinguere 3 tendenze: 1. Saint Simon (1760-1825) propose la collettivizzazione dei
mezzi di produzione e il loro controllo da parte dei poteri pubblici, auspicò cioè la nascita di un
grande Stato industriale, in cui ciascuno avrebbe contribuito al bene comune secondo le proprie
forze e avrebbe ricevuto un compenso rispondente alle sue effettive esigenze, assunse però un
significato quasi religioso, 2. Fourier (1772-1837) invece, suggerì la formazione di società
autonome, dette falansteri, nelle quali ciascuno avrebbe trovato un lavoro adatto, e avrebbe
messo a disposizione della comunità i frutti ottenuti, all’interesse individuale si sostituiva così lo
stimolo sociale e 3. Pierre Proudhon (1809-1865) sostenne che “La proprietà è unfurto”, a meno
che non sia un frutto del proprio lavoro, egli sognò l’abolizione del denaro come “valore”
perché l’unico valore è il lavoro e si sarebbe così arrivati alla scomparsa del capitalismo e del
salariato.

Il socialismo utopista restò senza effetti apprezzabili. Nel frattempo andava assumendo
un’importanza sempre maggiore il sindacalismo, la cui azione in seguito intrecciata in vario
modo con quella del partito socialista. Il movimento sindacale nasce nei primi anni dell’800 in
Inghilterra, dopo la rivoluzione industriale, e costituisce la naturale reazione all’isolamento in
cui erano caduti gli operai in seguito all’abolizione delle vecchie associazioni professionali.
Dall’Inghilterra il movimento passa nel continente, sviluppatosi di nascosto in maniera parallela
e simultanea alla grande industria. Assistiamo in tutta Europa alla nascita ed all’evoluzione più
o meno analoga degli stessi problemi, ma essi son stati già avviati a soluzione o del tutto risolti
in Gran Bretagna, quando cominciano ad acuirsi negli altri stati europei.

Il sindacalismo subisce una duplice evoluzione: all’esterno nei confronti dello Stato e
all’interno nei confronti degli operai. All’esterno, esso passa dalla fase dell’illegalità
(conseguenza della proibizione delle associazioni professionali) a quella della tolleranza, e più
tardi a quella del riconoscimento giuridico che attribuisce al sindacato il compito di regolare i
contratti di lavoro ed ammette in misura + o - larga lo sciopero, l’arma classica dei sindacati.
All’interno l’associazionismo operaio assume inizialmente il carattere di società di mutuo
soccorso. Queste società poi si stringono insieme ad allargano i loro compiti(elevazione della
classe operaia, mediazione tra padroni e lavoratori), infine si accentua il carattere di
organizzazione di resistenza nei confronti del capitalismo, e di rappresentanza della classe
operaia. In Inghilterra la legge del 1867 autorizza lo sciopero.

L’epoca dell’illegalità assiste ad agitazioni degli operai spesso violente (luddismo). Con la
legalità si sviluppa il “cartismo”, così detto per la Carta redatta nel 1837 con varie
rivendicazioni: elezioni annue, a suffragio universale segreto, indennità ai deputati. In Francia
solo nel 1884 Waldeck-Rosseau attribuisce ai sindacati la personalità giuridica e la capacità di
stipulare contratti.

Il “socialismo scientifico”, come lo chiamò Marx, scelse decisamente l’azione politica. Nel
1848 esce il Manifesto Del Partito Comunista in cui, applicando il materialismo storico, Marx ed
Engels delineano una storia dell’umanità secondo lo schema della lotta di classe, con lo
sviluppo industriale, la concentrazione del capitale, e l’aumento del proletariato, si esaspera,
portando alla soppressione della proprietà privata, all’abolizione della famiglia, delle patrie,
delle nazionalità. “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”. Creazione di una coscienza di classe del
mondo operaio su basi economiche, l’internazionalizzazione del movimento, la scelta della
rivoluzione. Tentativo di unione internazionale dei lavoratori nel 1864 con la Prima
Internazionale, poi con la Seconda. Ma l’influsso di Marx, si rivela soprattutto nella nascita dei
partiti socialisti dei vari paesi europei nei primi anni del 900. In Italia nel 1882 nasce il Partito
Operaio Italiano, che dopo aver dato origine nel 1891 al Partito dei Lavoratori Italiani, si
trasforma nel 1892 in Partito Socialista Italiano. Nascono le Trade-Unions (sindacati).
Negli altri paesi invece il partito socialista costituì uno dei fattori essenziali per il
miglioramento delle condizioni della classe lavoratrice, in genere però, il partito fu scosso da
dissensi interni, fra massimalisti e rivoluzionari, e si preoccupavano soprattutto di organizzare
scioperi e reclamare la nazionalizzazione delle industrie. Il movimento operaio aveva trovato
così un efficace via d’azione, otteneva gradualmente la riduzione dell’orario di lavoro, il riposo
settimanale e domenicale, le ferie pagate, le assicurazioni. Il socialismo voleva allontanare ogni
sentimento religioso, favoriva cioè solo l’apostasia dalla Chiesa della classe operaia.

II. Il lento risveglio dei cattolici di fronte ai problemi sociali


Che atteggiamento tenne la Chiesa, cioè il laicato cattolico e la gerarchia ecclesiastica? Si può
affermare che i cattolici solo con un certo ritardo presero coscienza della questione sociale, e fra
essi si svilupparono due tendenze: la prima si riduceva gradualmente a uno stato d’animo + o -
conscio, mentre la seconda si irrobustiva, approfondiva i suoi presupposti teorici, si organizzava
e passava all’azione. Da una parte troviamo l’esortazione alla rassegnazione, alla pazienza,
all’accettazione della povertà, al riconoscimento del suo valore religioso accompagnata da
un’azione caritativa, che esclude cioè ogni riconoscimento di un diritto da parte dell’operaio e
rifiuta come sovversivo dell’ordine costituito ogni tentativo di modificare le strutture borghesie-
capitalistiche-liberali. Dall’altra c’è una lenta maturazione che porta dalla concezione
caritativo-assistenziale ad un’azione fortemente impregnata di paternalismo, poi, gradualmente,
al riconoscimento dei diritti dell’operaio, all’accettazione della difesa collettiva di quei diritti.

Questa evoluzione è nettamente visibile nelle successive denominazioni che prese in Italia la
seconda sezione dell’Opera dei congressi. Chiamata inizialmente nel 1874 “sezione della
carità”, essa venne indicata nel 1885 con l’appellativo “sezione della carità ed economia
cattolica”, per assumere finalmente nel 1887 il titolo “sezione dell’economia sociale cristiana”.

Per buona parte dell’800, molti cattolici riuscirono a rendersi conto delle effettive condizioni di
vita delle diverse classi sociali, ma davanti alla miseria cronica e dura delle masse operaie,
condivisero per lo più i sentimenti della borghesia e degli economisti, sull’ineluttabilità delle
leggi economiche, sulla fatalità della miseria che accompagna l’umanità tutta. Diversi fattori
confermavano questo stato d’animo: la mentalità aristocratica e conservatrice di molti cattolici
appartenenti alla nobiltà o borghesia intellettuale; il timore di limitare la libertà economica e di
imporre un ritorno all’economia chiusa dell’ancien regime.

In quasi tutti gli ambienti cattolici, una profonda sfiducia nello stato, sia per l’accettazione
esplicita da parte dei cattolici liberali delle tesi che limitavano fortemente i compiti dello Stato,
sia, all’opposto, negli intransigenti, per la diffidenza verso la classe politica al potere quasi
sempre lontana da un vero senso religioso. In Italia la questione romana influì in modo decisivo
in questo senso, creando imbarazzi ai cattolici impegnati nella questione sociale e trattenuti
nei loro sforzi dal Non Expedit e dalla difficoltà di avanzare richieste ad un potere considerato
illegittimo.

Se le insurrezioni scoppiate in Inghilterra e Francia nei primi decenni dell’800 aumentarono la


diffidenza e i timori dei borghesi verso gli operai, le varie rivoluzioni del 1848, nelle quali il
fattore sociale appariva chiaro accanto a quello politico, determinarono una paura istintiva
analoga a quella del 1789, “la grande peur”, e una reazione vivace, dominata dallo spettro del
socialismo e del comunismo, che univa insieme in modo pericoloso la difesa dell’ordine, della
proprietà e della fede. Molti non volevano che la Chiesa si mescolasse con le questioni
temporali.
III. La linea conservatrice
Gli atti del magistero pontificio, le opere scientifiche e gli opuscoli apologetici riflettono a
lungo questa mentalità e si preoccupano soprattutto di 3 cose: 1. difendere il diritto di proprietà,
2. condannare opere di socialisti e comunismo e 3. esortare i poveri alla pazienza ed alla
rassegnazione. La condanna del comunismo e del socialismo appare fin dal 1846 con l’enciclica
“Qui Pluribus” dove Pio 9 traccia alcune linee fondamentali del programma che si propone di
attuare, ed è ribadita nella “Quanta Cura” e nel “Sillabo” del 1864. Critica fortemente
l’amoralismo economico e la negazione di ogni diritto naturale. A molti il comunismo appariva
come una questione di cui non valeva la pena occuparsi, “deliri mostruosi, dei quali non è
conveniente ad un concilio occuparsi”.

Leone 13 non si allontana inizialmente da queste posizioni nella “Quod Apostolici Muneris” del
1878 in cui condanna ancora una volta il socialismo, riafferma il diritto di proprietà e
raccomanda ai ricchi di dare ai poveri il superfluo. Idee analoghe appaiono nell’enciclica
“Auspicatio Concessum”, “la questione dei rapporti fra ricchi e poveri che preoccupa sarà
regolata se si accetta che la povertà non manca di dignità, il povero contento del proprio lavoro e
della propria sorte”.

IV. La linea propriamente sociale


a. Il primo periodo, fino al 1870-1878
Questa mentalità persiste a lungo. Possiamo distinguere 3 fasi nella sua evoluzione: 1. fino al
1870, 2. i primi anni di Leone 13 sino alla pubblicazione della “Rerum Novarum” e 3. nel 1891
ai nostri giorni. Il primo periodo è quello delle riflessioni, e delle prime realizzazioni, ma
limitate al piano caritativo-assistenziale. Il secondo periodo è quello delle discussioni sui
capisaldi della cosiddetta dottrina sociale cristiana che so avvia ad una chiarificazione dei
tentativi incapaci di superare il paternalismo e di riconoscere la piena uguaglianza umana delle
classi e il diritto dell’operaio di difendersi dall’oppressione. Il terzo periodo vede la
maturazione teorica e la nascita di iniziative efficaci, anche se tardive, perché ormai allineate
alla nuova realtà storica, con l’accettazione del sindacalismo e della resistenza operaia al
capitalismo.

Fino al 1870 assistiamo così da una parte a varie iniziative assistenziali e caritative, ispirate da
un sentimento religioso del tutto disinteressato e volto realmente ad alleviare le sofferenze,
dall’altra alle prime riflessioni critiche sulla situazione sociale. Sul piano pratico incontriamo in
Francia le conferenze di S. Vincenzo De’ Paoli, fondate nel 1833, dove esercitarono un
influsso e un’attività notevoli, sia purelimitata al piano caritativo, e la società di S. francesco
Saverio, creata nel 1840, che, accentuando, rispetto al suo scopo esclusivamente religioso degli
inizi, il suo carattere sociale, con scuole ed uffici di collegamento per gli operai. Nel nord Italia
ricordiamo le iniziative del Cottolengo sorte intorno al 1827 e gli oratori e le scuole
professionali avviati da don Bosco fin dai primi anni del suo sacerdozio. In Germania
incontriamo le associazioni di apprendisti che, sotto la guida di Adolf Kolping, un sacerdote pio
e capace, conobbero presto un rapido sviluppo. Tutte queste varie organizzazioni si diffusero
più tra gli artigiani che tra gli operai.
Sul piano teorico fin dai primi anni del secolo non mancano denunzie contro l’avvilimento della
dignità umana dell’operaio da parte dell’industria capitalistica, lo scandalo dei salari infimi e
l’eccessiva durata del lavoro. Queste proteste restarono senza efficacia poiché non suggeriscono
rimedi concreti. I cattolici potevano appellarsi alla coscienza degli industriali, ma restavano
lontani dalle minacce di violenza e di rivoluzione che invece costituivano l’immensa forza del
marxismo. Avevano paura del comunismo anche gli industriali, che fanno qualche concessione.

Le pastorali di vari vescovi francesi e savoiardi fra 1835 e 1848 criticano negativamente anche
invocando l’intervento legislativo a difesa del bene comune e a protezione dei deboli.
Lacordaire, Maret, Ozanam nell’“Ère Nouvelle” tracciano già un programma che desta lo
scandalo dei benpensanti e Veuillot giudica una legislazione a difesa dell’infanzia, della
malattia, della vecchiaia, comitati misti con giurie incaricate di comporre le vertenze,
associazionismo operaio. L’“ère nouvelle” arriva fino a riconoscere il diritto al lavoro, che
appare alla borghesia come una follia.

Più importanti sono gli articoli dei gesuiti Curci, Liberatore, Taparelli d’Azeglio nella “Civiltà
Cattolica”, nei quali, frammista al consueto tono paternalistico e ad una visione semplicista e
puramente negativa del socialismo, trapela una sincera simpatia per l’operaio, e si individuano i
principi ultimi della soluzione della questione sociale: la subordinazione dell’economia alla
morale (l’amoralismo economico porta all’oppressione dei deboli) funzione sociale della
proprietà, intervento statale, associazionismo professionale. Von Ketteler, dal 1850 vescovo di
Magonza, coglie con lucidità i segni e le esigenze dei tempi: la Chiesa ha il diritto e il
dovere di intervenire nella questione sociale, perché essa è anche una questione morale. “ lo
Stato non può disinteressarsi delle classi operaie, lo Stato ha una duplice missione: aiutare gli
operai a organizzarsi e proteggerli contro ogni iniquo sfruttamento”. Se in un primo momento
Ketteler pensò ad un’attività caritativa svolta dalla Chiesa, non dalloStato, nel 1864 cominciò a
delinearsi un progetto di cooperative di produzione. Dal 1869 il vescovo di Magonza si mostrò
molto più realistico. Non solo riconobbe la validità di tutti i postulati degli operai (riduzione
orario lavoro, aumento salario, protezione della donna e dei giovani), ma, eletto deputato del
Reichstag, tracciò un programma sociale aperto ad un largo intervento statale.

In sostanza, in questi anni, le dottrine e le iniziative si sviluppano soprattutto alla periferia:


Roma non mette ostacoli, ma non incoraggia e non dà direttive, si limita alla condanna
negativa.

b. Il secondo periodo, fino al 1891: problemi e protagonisti


Col 1870-1871 assistiamo a un’evoluzione: il movimento si intensifica. Se l’insurrezione del
’48 aveva agito in senso negativo sui cattolici, quella del ’71 a Parigi ebbe un effetto stimolante
poiché aprì gli occhi a molti cattolici che davanti alle rovine delle Tuileries incendiate dai
comunardi si convinsero della verità di quanto invano aveva loro predicato anni prima mons.
Mermillod: i veri responsabili sono i ricchi che passano con indifferenza davanti ai poveri. È
innegabile che i cattolici si sentirono stimolati all’azione sociale, più che per un’esigenza
obiettiva di giustizia profondamente sentita, per i pericoli connessi con il persistere del
malessere sociale; negli uni prevale il timore di una nuova rivoluzione, negli altri, la
maggioranza, fu la paura della perdita delle masse sempre più attirate dal verbo socialista.

La questione sociale attirò l’attenzione dei cattolici sempre più numerosi. In Austria, le idee del
Ketteler furono riprese e sviluppate nelle “tesi di Haid”, chiamate così perché elaborate in quel
castello, pubblicate nel 1883, riassumevano il pensiero della scuola austriaca, orientata verso il
corporativismo.

In Francia il propagandista de Mun, deputato del 1876, diventò in parlamento il portavoce del
movimento sociale cattolico e si batté per una legislazione sociale. Il de Mun guadagnò
l’appoggio di Léon Harmel, industriale che si preoccupava più dei suoi interessi e poteva
vantarsi di aver realizzato un modello di organizzazione sociale cristiana nella sua fabbrica. In
Italia accanto all’opera dei congressi, si sviluppò dopo il 1889 l’Unione Cattolica Per Gli Studi
Sociali, sotto la presidenza del sociologo Giuseppe Toniolo. Negli stessi anni l’ex-gesuita Curci
e il mons. Bonomelli stampavano interessanti saggi sul socialismo. Il card. Gibbons difese
validamente i cavalieri del lavoro mostrando la possibilità di un sindacalismo operaio cristiano.

I cattolici più chiaroveggenti erano ormai convinti dell’insufficienza del sistema caritativo-
assistenziale. Non riuscivano ancora a trovare la strada opportuna per quanto riguarda
l’associazionismo operaio, l’intervento statale, la determinazione del giusto salario: i tre
problemi più discussi che precedono la “Rerum Novarum”. Relativamente al primo sembrava
impossibile accettare la formazione di associazioni professionali composta di soli operai o
sindacati semplici sia perché non ci si era ancora liberati completamente dagli schemi
paternalistici e si respingeva l’idea che le classi lavoratrici da sole difendessero i loro diritti e
realizzassero le loro aspirazioni.

Prevalse allora in Europa l’idea di associazioni miste di operai e padroni, dove gli uni e gli altri
avrebbero discusso insieme le questioni di comune interesse ed avrebbero trovato pacificamente
una soluzione alle loro eventuali divergenze. La corporazione trovava un singolare ascendente
non solo nell’ideale di carità e fratellanza cristiana che l’ispirava e che essa sembrava realizzare
proprio sul piano concreto, ma anche nei remoti precedenti storici medioevali, dell’età cioè in
cui le corporazioni erano state effettivamente l’ossatura fondamentale dello Stato.

Basta ricordare che la scuola austriaca con a capo il Vogelsang pensava che le
corporazioni sarebbero nate per imposizione da parte dello Stato, mentre quella francese con a
capo il La Tour du Pin ne sottolineava la genesi spontanea, pur ammettendo che, per esercitare
un’azione efficace sul piano sociale e politico, esse avrebbero dovuto essere riconosciute dallo
Stato. I rappresentanti delle corporazioni, liberamente eletti dai soci, avrebbero formato il senato
corporativo destinato a sostituire in tutto o in parte ilparlamento. In realtà, questi schemi, rimasti
quasi sempre sulla carta, mancavano di un sufficiente realismo e non si rendevano conto delle
difficoltà delle masse operaie. I cattolici se ne avvidero piuttosto tardi.

L’idea possedeva però un elemento vitale: la legittimità di associazioni professionali,


l’opposizione alla lotta di classe intesa come sistema stabile, definitivo, unica via possibile,
l’accettazione di una solidarietà interclassista, l’affermazione dello spirito conciliante con cui il
cattolico guarda ai contrasti e ai conflitti di lavoro. Il lungo persistere dell’idea corporativa nel
pensiero cattolico mostra ancora una volta la grande difficoltà che tutte le generazioni
incontrano.

Intanto, mentre si discuteva sullo schema migliore di corporazione, da qualche parte si stavano
facendo i primi tentativi verso un’associazione di soli operai (sindacati). L’esempio venne
prima dagli Stati Uniti d’America, dove un primo abbozzo di sindacalismo cristiano nacque nel
1869 con i Cavalieri Del Lavoro. Il S. Ufficio nel 1888 esaminò gli statuti dell’associazione, e
dichiarò che non vi era alcun motivo di condanna. Il problema generale restava però ancora
aperto, soprattutto per l’assenza di ogni presa di posizione da parte di Roma.

Per quanto riguarda la seconda questione, l’intervento statale, non fu agevole raggiungere un
accordo fra i cattolici. In occasione delle “tesi di Haid” a Friburgo nel 1886, si era riconosciuta
la necessità dell’intervento statale, ma molti contrari. A Liegi nel 1890 si arrivò a un
compromesso che riconosceva la legittimità dell’intervento statale solo per regolare gli orari di
lavoro e non per determinare il salario. Strettamente connessa con il problema dell’intervento
statale era la questione del salario: alcuni dicevano che non corrispondeva ai bisogni ma al
lavoro poiché era determinato dalla legge della domanda e dell'offerta e dall'utilità prodotta,
altri replicavano che il salario minimo deve tener conto delle esigenze dell’operaio e della sua
famiglia.

I cattolici sviluppano le loro iniziative effettive. In Italia, attorno all’Opera dei congressi, si
andava creando una rete di cooperative, di casse rurali= attuali casse di risparmio, di società
assicurative e di mutuo soccorso, strettamente professionali. Il Francia Léon Harmel
organizzava nella sua azienda di Val-de-Bois una rete di assicurazione con scopi assistenziali,
caritativi e religiosi, che insieme formavano la corporazione cristiana di Val-de-Bois.

c. La Rerum Novarum e il suo significato storico


L’intervento di Leone 13, con la “Rerum Novarum”=Delle cose nuove, 15.5.1891, chiude il
secondo periodo del movimento sociale cattolico ed apre l’ultimo. Gioacchino Pecci nella sua
esperienza aveva avuto modo di rendersi conto direttamente dei problemi posti dallo sviluppo
industriale (è stato in Inghilterra e Belgio). Nel suo lungo episcopato a Perugia 1846-78 aveva
mantenuto vari contatti con intellettuali di vari paesi e nelle sue lettere pastorali aveva
affrontato i grandi problemi del momento. Leone 13 possedeva l’artedi ascoltare, di raccogliere
le sollecitazioni dei suoi visitatori, almeno in vari casi, lasciandole maturare a lungo prima di
raggiungere una sintesi, e soprattutto riuscivaa farsi servire in modo prezioso dai suoi segretari,
che redigevano i testi pontifici, correggendoli e ricorreggendoli pazientemente fin che essi non
esprimevano perfettamente la mente del sovrano. Nei primi anni del suo governo, Leone 13 fu
assorbito prevalentemente da grossi problemi politici, come la questione romana, il conflitto
con la Germania, la situazione francese, e dalla preoccupazione di chiarire la posizione della
Chiesa di fronte alla società moderna (encicliche “Diuturnum” 1881, “Immortale Dei” 1885,
“Libertas” 1888).

Egli seguì però attentamente anche le discussioni delle varie correnti della sociologia cattolica,
ricevette pellegrinaggi di operai francesi guidati da Léon Harmel e all’inizio dell’88 dichiarò ai
membri dell’Unione di Friburgo, che, appena uscita l’enciclica sulla libertà, si sarebbe messo al
lavoro per un documento sulla questione sociale. La redazione dell’enciclica passò per 3 fasi
essenziali: 1. dopo un primo schema redatto nel 1890 da Liberatore, 2. lo stesso anno ne fu
steso un secondo di Zigliara e 3. che venne poi controllato e pubblicato il 15.5.1891.

L’insegnamento del papa si può riassumere in 4 punti essenziali: 1. è ribadito il diritto naturale
di proprietà privata, ma ne è sottolineata anche la funzione sociale, 2. è attribuito allo stato il
compito di intervenire efficacemente davanti ai problemi economico-sociali a difesa
specialmente dei poveri, degli umili, con il netto superamento dell’assenteismo statale liberista,
ma sono anche posti all’azione statale, che deve avere sempre un carattere di supplenza, 3. agli
operai sono ricordati i loro doveri nei confronti degli imprenditori, ma è anche dimostrato che
ad essi è dovuto per stretta giustizia un salario sufficiente ad assicurare un tenore di vita umano
e 4. viene condannata la lotta di classe, ma è riconosciuto agli operai il diritto di riunirsi per
difendere i loro diritti.

La “Rerum Novarum” raccoglie dunque il frutto di quasi un 50ennio di studi e discussioni (tesi
Haid, discorsi di Ketteler ecc. , corporativismo di Tour du Pin, le associazioni di mutuo
soccorso). Il Papa ha accolto e fatto proprio quello che vi era di più maturo in questi studi: non
solo ha superato definitivamente i “dogmi” dell’economia liberale, ma ha riconosciuto la
legittimità di molte delle posizioni più avanzate dei cattolici. L’enciclica leonina in sostanza
sanzionava le tesi della scuola di Liegi e dell’Unione di Friburgo sull’intervento statale,
sull’aspetto personale e umano del salario e sull’associazione. Tono solenne e paternalistico,
per l’eco del passato che appare in vari passi, per l’imprecisione in cui restano alcuni punti
importanti, come la questione del salario familiare di cui il Papa sottolineava soprattutto il fine
morale, non quello propriamente economico. Roma si schierava esplicitamente a favore delle
posizioni sociali più avanzate. Particolare importanza ebbe il riconoscimento della legittimità
del movimento sindacale operaio. Il Papa si limitava, è vero, a mettere i sindacati sullo stesso
piano delle corporazioni senza riserve specifiche, ma questo semplice fatto segnò effettivamente
l’avviamento alla vittoria, in seno al cattolicesimo sociale, del sindacalismo sul corporativismo
e in una prospettiva storica più ampia l’accettazione della parte di verità contenuta nel marxismo,
cioè la distinzione fra la lotta di classe permanente e la legittima azione di resistenza a difesa
dei propri diritti. Era implicita in questa linea all’accettazione futura dei mezzi di lotta propri del
sindacato, e prima di tutto dello sciopero visto sempre con diffidenza.

Il movimento successivo si può considerare oggettivamente come l’esplicazione organica e


logica dei principi generali affermati nell’enciclica, che, a differenza di quanto abbiamo
constatato per gli altri documenti di Gregorio 16 e di Pio 9 intorno alla libertà, costituisce perciò
un punto fermo, un innegabile merito del pontificato leonino.

d. Il terzo periodo, dal corporativismo al sindacalismo:


tendenze contrastanti
La “Rerum Novarum”, se affermava di passaggio la legittimità del sindacato non si pronunziava
a favore del sindacalismo a preferenza della corporazione. Il problema restava aperto e i
cattolici continuavano ad appoggiare iniziative tipicamente paternalistiche come il Segretariato
del Popolo, abbozzi di corporazione, sindacati. L’incertezza teorica fu superata soprattutto dalla
pressione delle circostanze. Caratteristica espressione dello stato d’animo di molti militanti
cattolici in questa fase è il “Programma dei cattolici di fronte al socialismo”, redatto dal
Toniolo, ma pubblicato dall’Unione Cattolica per gli studi sociali nell’assemblea tenuta a
Milano nel 1894.

Al documento aderì poche settimane dopo l’Opera dei congressi, in una dichiarazione che
mostra la difficoltà con cui i cattolici riconoscevano l’impossibilità dell’ordinamento
corporativo e si accettava come dolorosa necessità il sindacato. Il problema si ripeteva ancora
una volta attorno al dilemma sindacato-corporazione, il dissidio fra conservatori e progressisti,
che costituisce il leitmotiv di buona parte della storia dell’800. Soltanto il dissenso era passato
ora dal campo politico e filosofico, a quello sociale. La resistenza alla “conversione” sindacale
si comprende meglio se la si colloca nel suo contesto storico. In Italia scoppia la rivoluzione
industriale, e gli scioperi si moltiplicano, fino ai primi scioperi generali che sembrano attuare il
“mito”del Sorel, il trionfo della forza. La reazione più spontanea era la condanna indiscriminata
di questi disordini, e il rifiuto del sindacalismo che ne era l’autore immediato. Occorreva una
notevole maturità storica e sociale per cogliere la profonda esigenza di giustizia che essi
nascondevano e per tentare di incanalarli nella giusta direzione, sottraendoli all’esclusivo
influsso socialista, attraverso il sindacalismo cristiano. Nel 1905 il domenicano Rutten in
Beglio fa un opuscolo, difendendo la necessità di opporre una diga al socialismo e opponendo
allarivoluzione violenta l’evoluzione progressiva. In Italia il corporativismo fu difesofino al
1902 dalla direzione dell’Opera dei congressi. Ma il sindacalismo aveva i suoi difensori nel più
grande esponente del pensiero sociale cattolico del tempo, il Toniolo, e nei dirigenti siciliani
dell’Opera dei Congressi del 1895, ed era salutato con entusiasmo dall’“Osservatore Cattolico”.
Il sindacato di ispirazione cristiana si avviò così con maggiore o minore rapidità e con diverso
successo nei vari paesi, ora in forma strettamente confessionale, ora in forma aconfessionale,
aperta a quanti ne accettassero l’ispirazione cristiana che ne era alla base. In Francia il
movimento nacque intorno al 1887 dopo i dissensi tra i capi dell’Opera dei Circoli intorno alle
direttive leonine sul Ralliement. Tuttavia il sindacalismo cristiano restò una minoranza esigua
fin dal primo dopoguerra, quando sorse la Confédération française des travailleurs chrétiens che
non ebbe comunque la risonanza delle iniziative promosse dall’Action Populaire, l’istituto
fondato dai gesuiti francesi nel 1903, e soprattutto dal Sillon. In Germania esisteva dal 1890
un’associazione indirizzata all’educazione professionale e religiosa delle classi popolari, diretta
a lungo dai due sacerdoti Hitze e Pieper. Il vero significato cristiano cominciò fra i minatori
della Renania nel 1894 sotto forma confessionale, accanto ad un’altra piccola confederazione
confessionale, appoggiata soprattutto da vescovi della diaspora, nelle regioni cioè dove i
cattolici sono in minoranza. In Italia, mentre continuavano le discussioni teoriche e seguitavano
a diffondersi le casse rurali, promosse da don Luigi Cerutti ed aperte solo a quanti si
impegnavano a condurre una vita cristiana, i segretariati del popolo ed altre iniziative analoghe
intorno al 1898 sorse anche il vero sindacalismo cristiano, riconosciuto nel congresso di
Bologna del 1903. Del resto i cattolici militanti dalla fine dell’800 proprio in Italia avevano
appoggiato e qualche volta promosso egli stessi degli scioperi. Se nel 1892 e nel 1902 era
stato il laicato a muoversi, e i vescovi si erano limitati a guardare, nel 1909 a Bergamo il
vescovo stesso non esitò a sostenere un lungo sciopero in un paese della sua diocesi, con
l’approvazione dello stesso Pio 10. Sempre nel 1909 si costituì a Bergamo il Segretariato
Generale delle Unioni Professionali, una vera centrale sindacale nazionale.

Non mancarono però in seguito nuove difficoltà contro il sindacalismo: forti discussioni in
Italia all’interno dell’Opera dei congressi, in Belgio fra conservatori e progressisti, in Francia a
causa della condotta degli abati democratici, provocarono l’enciclica leonina “Graves De
Communi”, che, se non condannava il sindacato cristiano e non costituiva una ritrattazione più
o meno esplicita della “Rerum Novarum”, limitava l’azione dei cattolici nel piano sociale a
un’attività apparentemente paternalistica, sottolineava la distinzione fra le varie classi e il
carattere confessionale dei movimenti cristiani. Per quanto riguarda l’Italia l’esito degli
interventi pontifici consistette nello scioglimento dell’Opera dei congressi, il che non significò
affatto la rinunzia ad ogni iniziativa sociale di ispirazione cristiana, ma una più netta distinzione
del piano propriamente religioso da quello sociale.

Con l’enciclica “Singulari Quadam” emanata da Pio 10 nel 24.9.1912 Roma preferiva
nettamente il sindacato confessionale, pur tollerando di fatto le organizzazioni
interconfessionali, acondizione che esse si astenessero da teorie e prassi contrarie alle Chiesa e i
cattolici che ne facessero parte si iscrivessero contemporaneamente ad associazioni religiose o
culturali cattoliche.

Gli attacchi contro il sindacato si ripeterono ancora in seguito. Nel 1914 alcuni articoli della
“Civiltà Cattolica” scritti dalla corrente conservatrice della curia che voleva la condanna del
sindacalismo ed approvati da Pio 10, furono seguiti dal divieto fatto ai sacerdoti di prestare la
loro opera nei sindacati, emanato dalla congregazione concistoriale il 20.6.1914. Dopo
un'inchiesta surreale comportamento dei sindacati, la congregazione del concilio nel 1929
ribadisce la legittimità dei sindacati.

Tre anni più tardi Pio 11 nell’enciclica sociale “Quadragesimo Anno”=nel quarantesimo anno
(ricorrenza) tornò ancora sull’argomento. L’enciclica venne redatta essenzialmente da due
gesuiti (tedesco e belga). Il documento pontificio risente così dell’influsso di varie correnti,
contiene direttive tra loro diverse e presenta difficili problemi esegetici. Il Papa nella prima
parte del documento parla con simpatia dei sindacati, confermando le istruzioni dell’enciclica
“Singulari Quadam” sul sindacato aconfessionale. Nella seconda parte invece si afferma con
favore sul sistema corporativo, pur sottolineando che esso deve essere il risultato di
un’evoluzione libera dal basso, non di un’imposizione coatta dall’alto. Secondo il Papa
l’organizzazione ideale dovrebbe abbracciare sindacati di lavoratori, sindacati di datori e
corporazioni che raccolgono insieme le due parti. Più che per queste direttive contingenti, la
“Quadragesimo Anno” è importante per l’ideale assoluto che richiama, la necessità di
collaborazione fra le classi e l’esigenza che questa collaborazione si concentri in un’organica
composizione dei rapporti sociali. Il sindacalismo cristiano non può accettare l’esasperata lotta
di classe marxista come sistema definitivo.

La “Quadragesimo Anno” costituisce un passo avanti rispetto alla “Rerum Novarum”, affermando
l’autentico diritto dell’operaio ad un salario non solo individuale, ma familiare, sottolineando il
pericolo dei monopoli che aprono la via alla dittatura economica, ribadendo la necessità di
sostituire allo stimolo incontrollato della libera concorrenza quello del bene comune, a frenare
l’ingerenza dello Stato nell’economia. Con la “Mater et Magristra” incoraggia l’intervento
statale come “azione di orientamento, di stimolo, di dcoordinamento, di supplenza e di
integrazione. Con la “Popolorum Progressio” si considera la questione sociale non più come un
problema interno dei singoli Stati, ma una questione di giustizia fra i diversi popoli.

V. Conclusione. Problemi e giudizi storiografici.


Più che di un movimento sociale cattolico, si dovrebbe parlare di movimento cattolico
socialista. Il 1891 rappresenta il punto di arrivo di tutto un movimento precedente. D’altra parte
è vero che i cattolici, e nell’accentuato carattere anticristiano del movimento operaio socialista,
presero coscienza della questione sociale con forte ritardo e solo con lentezza superarono il
paternalismo e il mito corporativo.

A svegliare la coscienza cattolica contribuirono in larga misura i socialisti. La preoccupazione


antisocialista appare in forma ora esclusiva ora prevalente come ansia di salvare i fondamenti
stessi della società che apparivano minacciati dall’ondata sovversiva, della sollecitudine
religiosa di fronte all’apostasia crescente delle masse. Gradualmente il motivo religioso e quello
propriamente etico si unirono insieme e il movimento sociale divenne così l’emanazione
spontanea della carità cristiana. La parziale sterilità del movimento cattolico deriva dalla sua
posizione di minoranza e dalla forte difficoltà che esso incontrò da parte dei cattolici
conservatori e dei socialisti. Diffusione delle idee cristiane anche tra i non cattolici, e
graduale formazione di una nuova coscienza cattolica, aperta alle nuove esigenze della giustizia
e sollecita della riconquista religiosa delle masse con mezzi diversi da quelli prima usati.

Se i cattolici non sono rimasti estranei alla nascita di un nuovo ordine sociale fondato su una
migliore comprensione della dignità della persona umana, il socialismo, è stato la forza decisiva
nella conquista di una migliore giustizia sociale. E proprio per questo il progresso economico-
sociale ha significato un ulteriore distacco fra Chiesa cattolica e mondo moderno.
3. Il modernismo
Mentre la questione romana si avviava gradualmente ad una soluzione e comunque andava
perdendo molto della sua drammaticità, altri problemi si andavano invece acuendo rimettendo
in discussione il problema dei rapporti fra Chiesa e mondo moderno.
Davanti alla crisi del positivismo e a un rinnovato interesse per i problemi religiosi, sacerdoti
intelligenti e sinceramente zelanti avvertivano che il vuoto di molti animi poteva essere colmato
solo da un cattolicesimo meno legato a schemi tradizionali che destavano un’insuperabile
diffidenza nella mentalità moderna.
Accanto al generico riformismo rosminiano nei paesi tedeschi si delineava un'altra esigenza,
quella di un programma e di un'azione sociale più netta che superasse i ristretti confini entro cui
Leone 13 aveva costretto la democrazia cristiana designata nell'enciclica “Graves De
Communi” del 1901. In genere si sentiva la necessità di superare lo schema tradizionale di una
società organizzata gerarchicamente, di riconoscere la validità di un progresso sociale non
disceso dall'alto ma conquistato dal basso attraverso la lotta, di abbandonare l'astensionismo per
partecipare in modo organizzato la vita politica.
Diverse e più profonde sono state le esigenze di uomini portati più allo studio che all'azione
poiché essi avvertivano le gravi lacune che la cultura ecclesiastica sia italiana che straniera alla
fine dell’800 presentava negli studi positivi e che la storiografia recente aveva concordemente
riconosciuto e sottolineato. La questione romana, il “Non Expedit”, l'intransigenza diffusa negli
ambienti cattolici rendevano diffidenti per tutto quello che giungesse da ambienti non
strettamente legati a Roma specie negli ultimi anni di Leone 13.
Non bisogna però dimenticare il fattore delle tendenze della filosofia moderna che in un modo
o in un altro risalgono a Kant. Questi aveva concluso la sua speculazione affermando che la
religione, chiusa nei fenomeni, non può cogliere tutta la realtà, sì che soltanto attraverso un'altra
forma di conoscenze potrebbe fondare la certezza dell'esistenza di Dio.
Erano dunque diffusi negli ambienti cattolici all'inizio del secolo un senso di disagio e un'ansia
di aggiornamento che presentava tutta una vasta gamma di atteggiamenti legati fra di loro tutt'al
più da una spinta psicologica facilmente comprensibile non da un vero nesso sintetico
oggettivo: dal generico riformismo rosminiano si passava a un movimento sociale, ha
un'esigenza di rinnovamento degli studi soprattutto positivi, per finire poi in un tentativo di dare
nuove basi a tutto il cristianesimo.
I modernisti tendono dunque a relativizzare il momento intellettuale delle formule della fede e
del dogma poiché sottolineano la prevalenza di categorie. La fede secondo loro non si appoggia
alla storia che pretende mostrarci l'identità fra il Gesù storico e il Gesù che è oggetto della fede,
dimenticando che con la fede si compie un salto verso categorie che ci portano in un terreno
diverso. Ovviamente si tende a fare della religione e della fede semplicemente l'espressione
delle proprie esperienze interiori. Le teorie moderniste contenevano in sostanza una tendenza
piuttosto forte in questa direzione: in alcuni casi non si trattava più di semplici tendenze ma di
un passo decisivo.
Ragione e fede sono non solo distinte ma separate dato che si giunge alla fede con un atto
irrazionale, un'adesione cieca. E proprio questa separazione elimina ogni contraddizione fra le
conclusioni cui arriva la ragione e gli insegnamenti della fede anche se essi sembrano opposti.
Entrambe le affermazioni nel loro campo scientifico restano vere.
In conclusione la chiesa deve essere completamente rinnovata abbandonando la veste ormai
superata; per raggiungere questo fine bisogna agire dall'interno della Chiesa, non abbandonarla
né separarsi da essa.

I. Protagonisti principali
In Francia troviamo Alfred Loisy, famoso per aver rifiutato l’interpretazione tradizionale delle
Sacre Scritture ricevuta in seminario. I suoi studi lo portarono a cercare di risolvere il problema
della differenza tra Gesù storico da un lato e la posizione della Chiesa e dei dogmi dall’altro. La
Chiesa, infatti, era l’unica forma in cui dopo la morte di Cristo poteva sopravvivere l’annunzio
del Regno. Loisy fu scomunicato per le sue idee, ma nonostante questo continuò per tutta la sua
vita a sostenere una religione razionalista ed umanitaria, non fondata su dogmi della fede, ma in
cui la Società delle Nazioni e il presidente Wilson avrebbero preso il posto della Chiesa e del
Papa.
In Inghilterra troviamo Tyrrel che dopo essere stato educato al calvinismo, si convertì al
cattolicesimo ed entrò nei Gesuiti. Secondo Tyrrel si può restare nel cattolicesimo a patto di
tenere separata la fede viva dalla teologia morta, la Chiesa reale dall’autorità che la governa.
Lui esaltava la libertà di coscienza respingendo ogni autorità in quanto nella chiesa intesa come
istituzione giuridica, appaiono solo vizi e corruzioni.
In Italia troviamo Bonaiuti, per il quale la decadenza della Chiesa è da ricercare nella lotta
contro il giansenismo che era l’unico e ultimo tentativo di salvare il genuino messaggio
cristiano.
Sempre in Italia Murri e Benigni.
Papa Pio 10 si trovò quindi ad operare in una condizione difficile, in cui da una parte vi erano le
ali più estremiste di tutti i sacerdoti che non accettando i dogmi, lasciarono la Chiesa, dall’altra
l’ala più moderata di quel movimento in cui la fedeltà verso la Chiesa di Roma si univa alla
volontà di riuscire a trovare delle risposte per le esigenze dei tempi. L’8 settembre del 1907
Papa Pio 10 pubblicò l’enciclica “Pascendi Dominicis Gregis” con la quale venne condannato
fermamente il movimento modernista che cercava di conciliare la filosofia moderna,
specialmente basata sul criticismo kantiano, con la fede cattolica. L’enciclica è divisa in due
parti, una teorica e una pratica, ma in entrambe è uguale la durezza di tono e di pratica. In
questa enciclica il papa non si ferma ad una giustapposizione tra le tesi, ma cerca il principio di
tuti gli errori lì condannati. Però è discutibile il carattere di unità e sistematicità che l’enciclica
attribuisce al modernismo. I modernisti, non sentendosi compresi, si ribellano a questa
posizione presa dalla Chiesa e dal Papa.
A questa pubblicazione seguirono continue visite apostoliche nei seminari. I gesuiti non
sembravano essere stati intaccati dalle tesi moderniste, a parte il caso di Tyrrel; però al loro
interno si contrapponevano i giovani, più preparati ed aperti al confronto con gli anziani, meno
profondi intellettualmente ma più chiusi.
L’attività del papato oltre ad un’opera di repressione indiscriminata alla correnti non
strettamente confessionali e tradizionali, si orienta in una azione positiva di incoraggiamento
agli studi e ad un consolidamento di tutta la disciplina della chiesa. Fu fondato l’Istituto
Biblico, sotto la guida dei gesuiti, si diede avvio ai lavori per l’edizione critica della Volgata,
affidata ai benedettini, si cominciò alla codificazione del diritto canonico e alla riforma della
curia romana.
Il clima generale cambiò radicalmente con l’avvento di Papa Benedetto 15 che fin dalla sua
prima enciclica prese posizione dura sia contro i modernisti che contro gli integralisti.

II. Giudizio finale


Dunque possiamo concludere dicendo che gli interventi drastici di Pio 10 stroncarono
rapidamente le tendenze razionalistiche e immanentiste che minacciavano il carattere
soprannaturale del cattolicesimo, ma allo stesso tempo allontanò definitivamente la Chiesa dal
mondo moderno. In più è lecita la domanda se i problemi sollevati all’inizio del secolo siano
stati davvero risolti dagli interventi così radicali oppure se siano stati semplicemente soffocati
temporaneamente per riaffacciarsi in modo ugualmente vivo dopo qualche decennio.
4. La riforma della curia Pontificia. Il codice di diritto canonico.
I. Presupposti
Papa Pio 10, data la sua esperienza, si mostrò da subito favorevole ad un radicale riordinamento
sia della legislazione ecclesiastica sia del governo pontificio. Si tratta di riforma della curia che
era rimasta ferma al piano approvato nel 1588 da Papa Sisto 5. La Rota aveva perso ogni
importanza, mancava una netta distinzione tra prassi giudiziaria e amministrativa in più il
sistema era lento, arbitrario e costoso.

Pio 10 si era mostrato da subito come l’uomo capace di portare un cambiamento importante e
radicale nella Chiesa. Occorreva innanzitutto abolire gli organi inutili e crearne di nuovi
richiesti dai mutati tempi, era necessario separare l’ordine amministrativo da quello giudiziario,
bisognava stabilire una chiara competenza per ogni dicastero, che si doveva occupare di un solo
settore (i problemi riguardanti i vescovi e i seminari furono affidati alla concistoriale, quelli dei
religiosi passarono ad un nuovo dicastero, la congregazione dei religiosi).

II. La codificazione
Dopo il 300 non era stata pubblicata nessuna collezione completa ed ufficiale delle leggi
ecclesiastiche. Il lavoro occupò parecchi anni e il codice venne promulgato da Benedetto 15 il
27.5.1917 ed entrò in vigore l’anno seguente. Il codice non ha nulla da invidiare agli altri codici in
vigore: la normativa risulta aggiornata e rispetta le esigenze dei tempi, del progresso giuridico e
scientifico; mostra un giusti equilibrio tra il criticismo e l’empirismo.

Nel codice si definisce la durata dei voti semplici prima di quelli perpetui e perenni, si chiarisce in
modo omogeneo tutta la disciplina matrimoniale, le pene sono state ridotte, è stato aumentato il
potere delle varie congregazioni e risultano limitate le facoltà dei vescovi. Unico neo nel codice è
il poco spazio lasciato al laicato: non si parla della responsabilità di un laico nella Chiesa,
nell’animazione cristiana e nella vita civile stessa.
5. La Chiesa di fronte al nazionalismo e al totalitarismo
I. Nazionalismo e totalitarismo: genesi e carattere
L’idea nazionale ottocentesca dal 1870 subì una forte evoluzione, perdendo quel carattere
umanitario ed universalistico che aveva spinto i popoli all’indipendenza. L’involuzione fu
stimolata da diversi fattori. Il nazionalismo è innanzi tutto la conseguenza della concezione
hegeliana dello Stato etico, incarnazione dello spirito assoluto, fonte di tutti i diritti e superiore
alla persona. La persona è soltanto un “elemento infinitesimale della nazione”. Il nazionalismo è
così dottrina di dovere e di sacrificio. Il nazionalismo può essere considerato come il frutto delle
tendenze letterarie vive in Italia ed altrove all'inizio del 900 come il decadentismo e il
futurismo: la ricerca prevale sul possesso, la potenza sull'atto, la virtù rinnovatrice sulle leggi
scritte, le nazioni giovani su quelle vecchie e cadenti. Non bisogna infine dimenticare l’influsso
del capitalismo, o il mito delle “nazioni proletarie”, portate alla lotta contro le “nazioni
plutocratiche”.

Il nazionalismo ha assunto forme diverse nei vari paesi, ma un po’ dovunque ha trasformato
l’amor di patria nel culto idolatrico della patria, fomenta il disprezzo per gli altri popoli, tende a
regolare la politica internazionale sulla base della violenza.

Sul nazionalismo del primo 900 si innestò nel ventennio successivo il totalitarismo. Alle cause
ora enunciate si aggiunsero la crescente sfiducia verso il regime liberale, che si ingigantì dopo il
1918 per la crisi economica generale, riacuitasi di nuovo negli anni 30 per le amarezze dei vinti
e dei vincitori e per il difficile trapasso delle strutture belliche a quelle di pace: sfiducia nelle
democrazie, la forza delle masse, la necessità di nuovi Cesari, la paura del socialismo, che si va
differenziando dal comunismo (in Italia scissione fra comunisti e socialisti nel 1921 e la nascita
del PCI).

Tutto ciò incrementò vasti settori dell’opinione pubblica, in Italia, in Germania ed in Spagna la
convinzione che solo un regime autoritario offrisse una soluzione alla crisi dello Stato e della
società. La vittoria dei partiti autoritari fu sostenuta dall’appoggio economico del capitalismo,
da quello politico delle caste militari, dalla violenza delle squadre di azione e dalla forza di
suggestione dei capi. La forza permise al partito di farsi avanti e di persuadere responsabili ad
affidar loro il governo dopo il graduale svuotamento delle istituzione democratiche e la loro
sostituzione con un ordinamento autoritario per vie apparentemente legali, grazie ai pieni poteri
dei nuovi gabinetti.

Il risultato finale variò secondo i paesi. In Germania il totalitarismo assunse forme estreme,
razziste ed imperialistiche ispirate largamente dall’opera “Mein Kampf” di Hitler che si
manifestarono nella sterilizzazione dei minorati fisici e dei malati mentali, nell'eliminazione
fisica dell'ala radicale del partito e dell'opposizione di destra, nei vari provvedimenti antisemiti
fino alla notte dei cristalli, nell'eutanasia applicato su larga scala ai malati, nel genocidio di
milioni di ebrei. In Italia la prassi fu molto spesso più moderata della teoria ma la perdita delle
libertà politiche non fu compensata dalla soluzione di problemi socioeconomici da tempo
gravanti sul paese. In Spagna il fascismo significa sostanzialmente la vittoria delle forze
conservatrici e filomonarchiche. I nuovi stati totalitari estesero i loro interventi in tutti i
settori della vita umana, sino a dettare leggi nella grammatica, fecero leva sul mito della
nazione e della razza, culto del capo e del partito. In Germania ed in Italia questo giustificò il
suo imperialismo con la concezione darwiniana della selezione della specie.

II. La Chiesa di fronte al nazionalismo ed al totalitarismo


Due momenti diversi nell’atteggiamento della Chiesa di fronte al nazionalismo e al totalitarismo.
Si passa da una reale simpatia per il nazionalismo ed il totalitarismo di destra (non di sinistra)
ad un irrigidimento ed a una resistenza.

Il nazionalismo esercitò un fascino innegabile su molti cattolici, come la difesa dell’ordine e


dell’autorità, la necessità del sacrificio per un ideale superiore, l’identità degli avversari (liberali
e socialisti) e soprattutto il bisogno di superare quel complesso di inferiorità vivono i cattolici di
quei paesi ove più grave era stato il conflitto fra Stato e Chiesa. Più tardi, davanti agli orrori
della Prima guerra mondiale e alle tesi imperialistiche, i cattolici si resero conto lentamente
dell’incompatibilità tra il nazionalismo e cattolicesimo.

Di fronte al totalitarismo la politica della Chiesa è stata più complessa. Dopo aver reagito con
estrema energia al liberalismo, davanti al totalitarismo la Chiesa ha seguito una linea diversa. Si
è passati da tentativi di compromesso e di strumentalizzazione religiosa delle forze politiche,
nella speranza di ristabilire così, in reazione al liberalismo, le strutture ufficialmente cristiane
della società, attraverso lo strumento classico del concordato, ad una crescente opposizione
teorica e pratica. Il diverso atteggiamento davanti al totalitarismo di destra e di sinistra e
l'evoluzione della politica vaticana nei confronti del fascismo furono determinati da ragioni
interessate ispirate da necessità pratiche cioè dalla scelta del male minore. I cattolici si
sentivano attratti verso l’esercito. L’ubbidienza all’autorità era un punto fermo della dottrina
cattolica.

III. La Chiesa di fronte all’incipiente nazionalismo


Mentre il magistero si era manifestato molto reticente di fronte al movimento favorevole
all'indipendenza delle singole nazioni diffuso in Europa durante tutto l'800, alla fine del secolo,
proprio quando assistiamo all'incipiente esasperazione dell'amor patrio, che si trasforma in
egoistico nazionalismo, preannuncio del futuro imperialismo, da parte di cattolici si verifica un
reale cedimento.
Una delle più clamorose manifestazioni del nazionalismo e dell’imperialismo nascente fu la
creazione di due grandi imperi coloniali britannico e francese e la corsa affannosa degli altri
Stati per accaparrarsi gli spazi rimasti ancora liberi in Asia ed in Africa. I cattolici in genere,
tranne eccezioni più o meno frequenti, si allinearono facilmente a questo movimento e
accettarono senza troppe difficoltà le giustificazioni come quelle di una missione civilizzatrice
da svolgere.

L’ubbidienza all’autorità era uno dei punti fermi dell’insegnamento cattolico anche perché, data
la scarsa diffusione dei mezzi di informazione delle masse analfabete, si riteneva che esse non
possedessero i mezzi per giudicare della legittimità di una decisione e che un atteggiamento di
critica aprisse le porte all’anarchia.

L’obiezione di coscienza in questi anni praticamente inesistente, anche se il servizio militare


obbligatorio desta una diffusa ostilità. In questo contesto si verifica in Italia un avvicinamento
tra molti cattolici e la corrente nazionalista.

IV. La Chiesa di fronte alla Prima guerra mondiale


Il conclave che si aprì alla morte di Pio 10, il 31 agosto 1914, vide lo scontro tra i fautori della
severa politica antimodernista dello scomparso pontefice, e quanti auspicavano una linea
distensiva. Nel conclave che si aprì tre mesi dopo, prevalse rapidamente con due terzi dei
votanti il card. Giacomo Della Chiesa che prese il nome di Benedetto 15. 3 compiti si
imponevano al nuovo pontefice: 1. la composizione della querelle fra integristi e cattolici più
aperti, 2. un’opera di pace volta ad evitare l’allargamento del conflitto e 3. la composizione
della questione romana.

L’azione del nuovo pontefice non si presentava molto facile non solo perché non era agevole
arrestare la macchina politico-militare, ma anche perché l’opinione pubblica non era disposta
ad un esame spassionato dei fatti. Un equilibrio del genere si osserva soprattutto nelle riviste
intransigenti come “La civiltà cattolica”.

In Italia la discussione sull’opportunità dell’intervento si prolungò per quasi un anno. Alla


maggioranza neutralista per motivi politici, giuridici, conservatori, economici e religiosi si
oppose anche tra i cattolici una forte corrente che, oltre a proclamare la propria lealtà nei
confronti dello Stato e la propria condizione di dover ubbidire, professava un sincero
entusiasmo per la causa della propria patria che si coloriva spesso di motivazioni religiose. In
Germania Guglielmo II faceva leva sulla forte unità che doveva regnare fra tutti i cittadini
proclamando a Berlino che “non ci dovevano essere più partiti, ma solo tedeschi”. A Parigi
Poincaré si appella invece “all’union sacrée” di tutti i francesi, Di qualunque religione, di
qualunque tendenza politica. I cattolici, proprio perché per decenni al bando, si sentivano in
dovere dimostrare che proprio essi erano cittadini come tutti gli altri decisi a sacrificarsi per
difendere il proprio paese. Degli studiosi tedeschi fanno un documento in cui si dice che la
Germania sta facendo bene. Molti dicono che la guerra è voluta da dio.

Tra i vescovi italiani occorre distinguere 3 gruppi: 1. la tendenza filonazionalista che si allinea
con la propaganda interventista di Maffi che è il più rappresentativo, 2. la tendenza pacifista che
resta in minoranza e 3. la maggioranza che accetta il fatto compiuto e collabora con le autorità
per la buona riuscita della lotta, ma soprattutto si prodiga a sollievo dei combattenti e delle loro
famiglie. In questo contesto emerge la grandezza di Benedetto 15 e della sua missione di pace
che ne fa uno dei più grandi pontefici del secolo. In genere la condotta di Benedetto 15 segue 3
linee complementari: 1. condanna senza riserve del ricorso alle armi come il mezzo per
risolvere le questioni pendenti, per rivendicare i propri diritti, per affermare la propria
sicurezza, e, insieme, vigile attenzione perché i cattolici si tenessero lontano dal nazionalismo,
in contrasto con la carità e l’universalismo cristiano; 2. tutto l’aiuto possibile alle vittime della
guerra e 3. sforzo costante per impedire l’estendersi del conflitto. La condanna della guerra
supponeva una forte maturità, un’assoluta imparzialità, la fedeltà al proprio compito di suprema
istanza morale, condannando le ingiustizie da chiunque fossero commesse.

Benedetto 15 non si stanca di ribadire in lettere aperte a singoli personaggi, in allocuzioni, in


encicliche, il suo dolore, il suo sdegno, la sua amarezza dichiarando che la guerra gli appare non
solo come una “inutile strage” (1.8.1917), ma “il suicidio dell’Europa civile” (4.3.1916) e “la
più fosca tragedia della follia umana” (4.12.1916).

Già l’8.9.1914 il papa in un breve documento esprimeva a tutto il mondo il suo orrore e la sua
amarezza “basti il sangue che è stato già tanto sparso”. La sua prima enciclica dell’1.11.1914
ritorna sul tema, chiamando la guerra spettacolo tetro e delittuoso. Ai cardinali il 24.12.1914
ben, esprimeva la sua amarezza per il fallimento della sua proposta volta ad ottenere almeno
una tregua natalizia. L’intervento italiano venne subito commentato dal Papa con parole amare
“l’orrenda carneficina che disonora l’Europa”. Il Pontefice condanna la guerra in quanto tale.

Nel magistero universale delle encicliche e nelle istruzioni ai missionari il Papa combatte
soprattutto l’“immoderato nazionalismo” (distino dal semplice amor di patria). Tipica fu la
condanna dell’aggressione al Belgio, contenuta all’allocuzione concistoriale del 22.1.1915 che
“riprovava altamente ogni ingiustizia da qualunque parte potesse essere stata commessa”.
Benedetto 15 intervenne per frenare le espressioni e le iniziative che potevano far apparire i
cattolici come tali schierati a favore di una delle due parti in conflitto, condanna quei cattolici
che attaccavano a parole o in scritto la condotta di altri popoli.

Subito dopo l’intervento italiano, il Papa fece giungere in modo segreto ai vescovi italiani
istruzioni precise per evitare ogni iniziativa che potesse essere interpretata come l’adesione
pubblica della Chiesa italiana alla causa nazionale. Non solo il Papa, ma nemmeno i cattolici in
quanto tali possono appoggiare o favorire la lotta e la vittoria di un gruppo contro un altro.
L’azione caritativa della Santa Sede fu ingente e rivolta a tutti.

Non mancarono anche concreti tentativi di mediazione, Benedetto 15 si sforzò in tutti i modi di
impedire l’intervento italiano. Il papa continuò con i suoi appelli e le sue proposte. Se l’8.9.1914
aveva chiesto soltanto la cessazione delle ostilità, il 1.11.1914 indicò i mezzi per tornare alla
pace: rinunzia agli egoismi nazionali, adozione del confronto e della trattativa. Il 28.7.1915 in
una nota ai governati indicava alcuni punti da tener presenti per la soluzione del conflitto:
rinunzia all’uso delle armi, ricorso alla diplomazia, riparazione dei danni, rispetto delle singole
nazionalità, arbitrato internazionale. Nella nota del 1.8.1917 indirizzata alle potenze belligeranti
il Papa proponeva come base il disarmo, la libertà dei mari, l’arbitrato delle controversie, il
reciproco condono delle spese di guerra, la restituzione dei territori occupati, la soluzione in
spirito di equità delle questioni territoriali pendenti. L’iniziativa non ebbe esito positivo.
Nell’ultimo anno di guerra il Papa mantenne un eloquente silenzio sui problemi politici
volgendo la sua attenzione ai motivi religiosi.

Esclusa dalla conferenza di pace, la Santa Sede continuò i suoi sforzi per una vera
riconciliazione fra i popoli per superare i risentimenti e ristabilire rapporti pacifici. Lo stesso
spirito pervade l’enciclica “De Pacis Reconciliatione Christiana” del 1920 dove il Papa
auspicava una vera pace in cui tutti dimenticassero le offese e superassero i rancori e
prometteva il pieno appoggio della Chiesa alla neonata Società Delle Nazioni, indicava una
nuova fase della diplomazia, capace di superare la lettera dei trattati di pace e stabilire nuove
relazioni internazionali.

V. Il pontificato di Pio XI
Alla morte di Benedetto 15 nel 1922 si ripetè nel conclave la battaglia fra intransigenti e
moderati. Se nell’ultimo conclave era prevalsa con Benedetto la linea moderata, questa volta né
i difensori della politica di Pio 10 né i sostenitori dei metodi di Benedetto 15, ebbero la vittoria.
Ancora una volta, si raggiunse un compromesso con la scelta di un homo novus, Achille Ratti
che era stato a lungo bibliotecario. Nel pontificato di Pio 11 balza evidente la sua condanna del
laicismo, la sua lotta per la libertà della Chiesa ma anche dell’uomo, la sua convinzione che la
Chiesa, ed essa sola, aveva la capacità di condurre l’umanità alla salvezza eterna, devozione al
S. Cuore di cui il pontefice sottolineava l’aspetto sociale. L’istituzione della festa di Cristo Re
nel 1925 aveva questo significato: ricordare all’umanità la funzione sociale della Chiesa, i suoi
diritti, le sue prerogative. La Chiesa era vista come societas perfecta, capace di fronteggiare gli
assalti dello Stato moderno. Questa mentalità appare chiaramente nella politica concordataria,
ma tentò dove era possibile di realizzare uno Stato cattolico perché il Papa pensava di poter
salvare o ricostruire la cristianità.

Per la sua formazione, nell’età leonina, il Pontefice pensava che questo ideale fosse
riconosciuto e rispettato, che alla chiesa fosse non solo riconosciuta la sua libertà ma attribuito
un potere e un regime di privilegio speciale.

a. L’action française
Con Pio 11 si giunse al culmine lo scontro fra la Santa Sede e un movimento che, per il suo
carattere complesso ed apparentemente cristiano, aveva goduto a lungo di tolleranza e di favore
da parte di molti ecclesiastic. Charles Maurras è fondatore, aveva lodato il tenente colonnello
Henry che aveva falsificato i documenti per condannare l’ufficiale ebreo Dreyfus accusato di
tradimento. La situazione cambiò nel 1926 per timore dell’influsso negativo esercitato da
Maurras sui giovani. Condanna all’indice di 7 libri, della rivista e del giornale “Action
Française”. Maurras divenne il teorico del governo di Vichy finendo così con la condanna
all’ergastolo per collaborazionismo.

b. La lotta contro il laicismo: il Messico.


Tra il 1917 e il 1929 si assiste in Messico allo sforzo effettivo di una minoranza di sradicare dal
paese, in larga maggioranza profondamente cattolico, se non proprio la fede cristiana almeno
ogni influsso sociale della Chiesa. La Costituzione di Querétaro firmata nel 1917: insegnamento
laico, era proibito ad ogni istituto religioso di collaborare con l’istruzione primaria e secondaria,
erano proibiti i voti religiosi e la fondazione di case monastiche, i beni ecclesiastici erano
incamerati, era riconosciuto solo il matrimonio civile, per il clero poi ulteriori leggi ne
avrebbero determinato il numero massimo. Obregón, legge del 6.1.1926, che portò alla chiusura
di varie scuole cattoliche, alla riduzione del numero dei sacerdoti, all’ordine di registrare
ufficialmente tutte le Chiese, all’espulsione del delegato apostolico Caruana, alla “legge
Calles”: ogni manifestazione religiosa era permessa solo all’interno degli edifici di culto, era
proibito ogni speciale abito ecclesiastico fuori delle chiese, potevano svolgere funzioni di culto
solo i sacerdoti riconosciuti tali dallo stato.

L’episcopato messicano rispose con una “serrata”. Dal 31 luglio le chiese, pur restando aperte,
sarebbero rimaste senza messa, senza assistenza del clero, affidate solamente ai fedeli. Il culto e la
consueta pastorale sarebbero continuate fuori delle chiese, in modo quindi illegale, e perciò
clandestino. La S. Sede approvò questa linea.

Si trattava di un’autentica sfida al governo. Episcopato e cattolici erano però divisi. I moderati si
raccolsero nella “Liga Nacional” aliena da ogni rivolta armata, decisa a continuare la lotta sul
terreno civico e a reclamare la piena libertà di culto. Gli intransigenti finirono per scegliere la
guerra, che si organizzò attorno al “Movimento Libertador”, si organizzò un vero e proprio
esercito, con circa 30-40mila combattenti, i cristeros. L’insurrezione fu dunque un movimento
spontaneo di popolo, non un’iniziativa imposta dall’alto; i cristeros, molti provenienti dalle
classi rurali, erano mossi da motivi religiosi, ma anche sociali.
13.11.1928 attentato fallito al generale Obregón, c’è anche i l gesuita P. Pro e Calles lo fa
fucilare perché si voleva dare una lezione alla Chiesa. I cristeros continuarono la resistenza che
si sviluppò in un’autentica guerriglia.
Si arrivò così nel 1929 ad un accordo, anche per l’intervento dei vescovi concilianti. Si trattò di
una semplice dichiarazione di stampa del nuovo presidente messicano, Portes Gil: il governo
non voleva né distruggere né attaccare la Chiesa, ma solo applicare le leggi esistenti, la
registrazione dei sacerdoti riconosciuti dal governo come addetti al culto costituiva un semplice
atto amministrativo, restava permesso l’insegnamento religioso nelle chiese, era lecito avanzare
petizioni per la riforma delle leggi, sarebbe stato ripreso il culto pubblico.

Portes Gil prometteva l’amnistia per i cristeros che avessero deposto le armi, ma chiedeva
l’esilio dei tre vescovi più intransigenti. I vescovi di fatto lasciarono il Messico, mentre molti
cristeros vennero fucilati. La Chiesa non riportava una piena vittoria, ma accettava un
compromesso. Pio 11 aveva seguito tutte le vicende ed era intervenuto in diversi modi, anche 4
encicliche, nell’ultima riconosce teoricamente la legittimità della resistenza armata davanti alla
violazione della giustizia e della libertà, purché fossero i cittadini singoli e non l’azione
cattolica a prendere la responsabilità.

c. La Chiesa e il fascismo: i patti lateranensi

Fra il 1925 e 1926 una commissione mista, composta da cattolici e laici, aveva preparato
il riordinamento dei vari punti della legislazione sulle proprietà ecclesiastiche. Quando la
commissione nel 1926 pubblicò la relazione e gli schemi dei disegni di legge, Pio 11 in una
lettera al suo segretario di Stato, card. Gasparri, dichiarò di non poter acconsentire ad una
rielaborazione del diritto ecclesiastico finché durava l’iniqua condizione fatta al pontefice. La
frase nascondeva un chiaro invito ad iniziare trattative sulla questione romana e così l’intese il
governo fascista che iniziò subito i primi cauti sondaggi. Le trattive ufficiose si prolungarono
più del previsto e traversarono momenti drammatici: in seguito alle pretese monopolistiche del
fascismo sull’educazione giovanile, espresse nello scioglimento di ogni organizzazione che
non facesse capo all’opera Balilla, il Papa ritirò all’avvocato della S. Sede Pacelli ogni mandato
per le trattative, Mussolini invece incaricò Barone, ma morì poco dopo, e così Pacelli trattò
direttamente col duce. Dopo altre dilazioni si giunse attraverso una decina di schemi proposti
dalle due parti al testo definitivo dell’11 febbraio 1929.

Sin dall’inizio la S. Sede aveva espresso con chiarezza 2 richieste: 1. un trattato che le
riconoscesse ufficialmente una sovranità territoriale e 2. un concordato che regolasse le
condizioni della chiesa in Italia. Il governo italiano solo con difficoltà si piegò al primo
riconoscimento. Mussolini non ebbe difficoltà ad accettare il principio di un concordato. Sul
contenuto del concordato però sorsero le maggiori difficoltà. Pio 11 nei primi schemi o per
motivi tattici o per sincera convinzione avanzò richieste assai spinte, come l’adempimento
collettivo, da parte degli studenti delle scuole pubbliche del precetto festivo sotto la guida dei
loro insegnanti, la revisione di tutti i libri scolastici di testo.

Si ebbe così il ripristino dell’insegnamento della religione nelle scuole medie superiori, il
riconoscimento degli effetti civili del matrimonio, una maggiore libertà nella scelta dei vescovi
e nell’amministrazione dei beni ecclesiastici. I Patti Lateranensi, firmati 11.2.1929 alle ore 12
nel palazzo del Laterano dal card. Gasparri e dal duce Mussolini, abbracciano un trattato e un
concordato.

Il Trattato da una parte riconosce il nuovo Stato della Città del Vaticano, determinandone
l’estensione, dall’altra dichiara chiusa la questione romana. Esso afferma poi nell’art. 1 che la
religione cattolica è l’unica religione dello Stato italiano, stabilisce speciali prerogative
giuridiche per organi e persone attinenti al governo della Chiesa, accorda alle sentenze
ecclesiastiche l’efficacia giuridica anche per lo Stato italiano, garantisce alla S. Sede il diritto di
legazione attiva e passiva, la libertà nei conclavi e nei concili, liquida il credito della S. Sede
verso l’Italia mediante il versamento di un miliardo in titoli di stato e di 750 milioni di lire in
contanti.

Il Concordato a sua volta assicura alla Chiesa il libero esercizio del potere spirituale, del culto,
della giurisdizione ecclesiastica, accordando inoltre agli ecclesiastici per gli atti del loro
ministero spirituale la difesa da parte delle istituzioni italiane; attribuisce speciali privilegi agli
ecclesiastici (esonero leva, speciale trattamento penale) e un certo appoggio giuridico ai vescovi
nei confronti degli ecclesiastici da loro dipendenti (lo Stato si impegna ad impedire agli
ecclesiastici scomunicati di assumere o conservare insegnamenti, uffici o impieghi a contatto
con il pubblico); riordina a favore della Chiesa la complessa questione della proprietà
ecclesiastica e del mantenimento del clero e riconosce “la personalità giuridica delle
associazioni religiose, con o senza voti” (finalmente era superata l’ostilità contro gli istituti
religiosi); dichiara libera la nomina dei vescovi, ma esige la comunicazione dei nomi algoverno;
riconosce gli effetti civili del matrimonio religioso e delle sentenze di nullitàemesse dai tribunali
ecclesiastici; estende alle scuole secondarie l’insegnamento della religione già introdotto in
quelle elementare; limita inoltre l’attività dell’azione cattolica e degli ecclesiastici, ordinando
loro di mantenersi al di fuori di ogni partito politico.

I Patti vennero accolti con favore dall’opinione pubblica, vivissima fu però in alcuni gruppi
l’amarezza per l’effettivo avvicinamento della S. Sede ad un regime totalitario come il
fascismo, e non per il trattato in se stesso, quanto per il concordato, considerato lesivo della
sovranità dello Stato. L’opposizione cattolica al fascismo si fondava su motivi politici (difesa
della libertà) e religiosi (rifiuto di un regime totalitario).

Mussolini nei due discorsi del 13 e 25 maggio tenuti alla Camera e al Senato tentò di
minimizzare la portata delle concessioni fatte alla S. Sede: la Chiesa in Italia non era sovrana e
nemmeno libera; il cattolicesimo era diventato universale perché sviluppatosi a Roma; il potere
temporale era sepolto; il fascismo non rinunciava ad educare i giovani nel senso della virilità,
della potenza, della conquista; il concordato non tradiva gli interessi dello Stato, e i suoi
oppositori erano degli imboscati nella storia, non comprendendone la irreversibile evoluzione;
in ogni caso, salvo il trattato (favorevole allo stato), il concordato (favorevole alla chiesa) era
suscettibile di modifiche. Pio 11, che nei mesi precedenti non aveva risparmiato elogi a
Mussolini, indicandolo come un “uomo come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare”,
replicò poi in due diverse occasioni. Il Papa nei due interventi sottolineò i limiti della missione
educativa dello Stato, confutò punto per punto gli articoli più controversi nel senso più
favorevole alla Chiesa. Il Papa, al momento della ratifica degli accordi, pretese che il protocollo
riaffermasse esplicitamente il legame tra i due atti (“simul stabunt oppure simul cadent”). Il
7.6.1929 si procedette alla ratifica, e in dicembre il Re d’Italia Vittorio Emanuele 3 rese visita al
Papa.

Il trattato costituisce la parte storicamente valida e significativa degli accordi. Il concordato è


un mezzo.

d. Il conflitto con il fascismo, 1931-1939

I dissensi tra Chiesa e fascismo riemersero di lì a poco. Le divergenze nascevano dalle pretese
monopolistiche del regime in fatto di educazione (che si opponevano le rivendicazioni della
Chiesa, ribadite da Pio 11 nell’enciclica “Divini Illius Magistri” 1929), dalle crescenti
ingerenze del regime in tutta la vita italiana, con la creazione di un clima di esaltazione della
violenza e della guerra, e dopo il 1936, dalla servile imitazione del nazismo con il suo razzismo.
La Chiesa, battendosi per la sua libertà, difendeva di fatto nello stesso tempo i diritti naturali
dell’uomo e la libertà dell'individuo e della famiglia davanti allo Stato.

Pio 11, lento nelle parole e nei gesti, cauto negli interventi, fermissimo nelle risoluzioni, appare
molto superiore a Mussolini, tanto pronto alle dichiarazioni avventate e facile a cedere
all’esibizionismo. Le relazioni tra Chiesa e Stato fascista ebbero 2 momenti di forte tensione: 1.
nel 1931 per le minacce contro l’azione cattolica e 2. nel 1938-39 per le prime applicazioni
delle leggi razziali che violavano anche uno dei punti del concordato.

Nel maggio 1931 usciva l’enciclica “Quadragesimo Anno” che dovette confermare nel
fascismo la gelosia per una Chiesa che rivendicava la sua competenze anche nelle
questioni sociali. Alla fine di maggio, dopo una serie di soprusi contro le sedi dei circoli
cattolici, il governo deliberò lo scioglimento delle associazioni della gioventù cattolica e della
Federazione degli Universitari Cattolici (FUCI).

Pio 11 pubblicò l’enciclica “Non Abbiamo Bisogno”, redatta da lui stesso, in cui esprimeva la
sua gratitudine alla gerarchia e al clero per la solidarietà mostrata in quei mesi, confutava le
accuse lanciate dalla stampa e criticava la concezione totalitaria dello Stato, ribadendo i diritti
naturali della famiglia e quelli soprannaturali della chiesa sull’educazione. Non si trattava di
una condanna diretta e completa del fascismo, ma erano chiaramente indicati come
incompatibili con la dottrina cattolica alcuni capisaldi del sistema.

Prevalse la prudenza, si evitò la condanna formale cui la maggioranza dei cardinali si era
mostrata contraria, ma la cui eventualità venne minacciata da Mussolini. Dopo una serie di
colloqui si giunse nel settembre ad un accordo che salvava l’esistenza dei circoli di azione
cattolica, sia pure limitandone l’attività al campo religioso e rinunziando ad una direzione
centralizzata a carattere nazionale. L’essenziale era assicurato. L’episcopato italiano fu
largamente coinvolto nell’entusiasmo che si era diffuso nel popolo italiano in misura assai forte
durante la guerra all’Abissinia (1935-36). Il 27 agosto Pio 11 fa discorso a Castelgandolfo
a delle infermiere cattoliche di varie nazioni in cui stigmatizzò come ingiusta una guerra di
conquista e il discorso venne riportato dall’“Osservatore Romano.”

e. Chiesa e nazismo: il concordato col reich del 1933

In Germania la situazione della Chiesa fu molto più ardua, vari storici tedeschi ricordano che la
costante ostilità del nazismo verso il cristianesimo e la Chiesa cattolica in particolare portò ad
una costante e crescente persecuzione. È anche vero che la S. Sede e l’episcopato germanico
subirono un’evoluzione. Alla profonda diffidenza iniziale, si sostituì una certa disponibilità
dettata dallo stato di necessità e dalla speranza di evitare mali peggiori, e si passò infine ad un
irrigidimento crescente, che evitò però sempre una rottura completa. L’opposizione dei vescovi
tedeschi al nazismo si era espressa con maggior decisione dopo il successo riportato alle
elezioni del settembre 1930, che apriva ad Hitler la via del potere. Nell’agosto 1932, la
conferenza episcopale tedesca riunita a Fulda dichiarava illecita l’appartenenza al nazismo per il
suo programma incompatibile con la fede cattolica. Un’eventuale vittoria del nazismo,
aggiungevano i vescovi, con ogni probabilità sarebbe stata di gravissimo danno alla Chiesa ed
ai cattolici. Ancora ai primi di febbraio del 1933, quando Hitler aveva ormai raggiunto
il cancellierato, i vescovi si mostrarono solidali col Centro, il partito cattolico tedesco
che si era battuto contro il nazismo.
A un mese di distanza, nel marzo dello stesso anno, dopo il successo nazista delle ultime
elezioni del 5 marzo, si verificò un improvviso cambiamento della situazione. Si discute
ancora oggi a cosa sia dovuto questo cambiamento così rapido: alcuni dicono per gli incontri
numerosi che si moltiplicarono in quei mesi a Roma che hanno infranto la resistenza
dell’episcopato e del partito del centro. Altri arrivano alla conclusione che le promesse le uscite
spettacolari del fuhrer abbiano guadagnato l'opinione pubblica tedesca e non siano rimaste
senza effetto sull’episcopato che da parte sua ha creduto troppo ingenuamente alle assicurazioni
del cancelliere.

Il 23 marzo il capo del Centro, mons. Kaas, indusse il partito a desistere dall’opposizione fino
allora seguita, e ad accordare la fiducia ad Hitler. Il cancelliere stesso quel giorno formulò
precise dichiarazioni, i cui punti relativi alla politica ecclesiastica erano stati considerati da
Kaas già prima come il prezzo per la fiducia accordata dal Centro. Hitler vedeva nelle due
principali confessioni cristiane i “più importanti fattori per la conservazione del nostro popolo”
e prometteva di rispettare i concordati con i vari Lander già in vigore, di assicurare alle Chiese
cristiane nelle scuole e nell’educazione l’influsso conveniente, e finalmente di curare e di
sviluppare relazioni amichevoli con la S. Sede. L’episcopato, dopo queste dichiarazioni
programmatiche, in una pastorale collettiva del 28 marzo, firmata a Fulda, revocò la condanna
del partito, pur confermando sul terreno dei principi la sostanziale condanna di determinati
errori. Nel complesso, si passava dall’opposizione ad una cauta e prudente attesa, mentre la
situazione restava confusa per il pratico di soprusi contro i cattolici, e l’inizio della legislazione
razzista (30 marzo e 7 aprile 1933).

Mentre l’incertezza spingeva i vescovi a chiedere reiterate assicurazioni del governo, giungeva a
Roma il vicecancelliere Von Papen, un cattolico conservatore nemico del Centro, conl’esplicita
richiesta di un concordato. In vaticano il segretario di stato Pacelli conosceva perfettamente la
situazione tedesca (era stato per 12 anni nunzio a Berlino), seguita del resto con attenzione
anche dal Papa. Al di là della formula giuridica, che metteva in rapporto la S. Sede non con il
nazismo ma con lo Stato tedesco, un concordato avrebbe costituito di fatto un avvicinamento tra
la Chiesa ed il regime al potere. Il nazismo, del resto, continuava a mostrarsi ostile al
cattolicesimo alternando dichiarazioni ufficiali di benevolenza o di neutralità pronunziate al
vertice con incidenti reiterati alla base. Si stava poi preparando ed in parte già attuando la legge
sulla sterilizzazione dei menomati fisici e dei malati mentali e dopo una serie di provvedimenti
razzisti, come l’epurazione degli impiegati statali di razza ebrea.

D’altra parte, un rifiuto avrebbe potuto provocare un irrigidimento nazista, preludio della rovina
della Chiesa in Germania. Lo faceva notare mons. Gröber, arcivescovo di Friburgo,
rappresentante ufficiale dell’episcopato tedesco nella fase conclusiva delle trattative. E poco
dopo la stipulazione dell’accordo il segretario di Stato dichiarò al ministro di Gran Bretagna,
accreditato presso il Vaticano, che Berlino lo aveva praticamente costretto con la pistola in
mano a decidersi entro una settimana pro o contro il concordato: non restava altra alternativa,
continuava Pacelli, che un accordo o la virtuale eliminazione della Chiesa cattolica nel Reich.
La Chiesa vede il concordato realizzabile solo ora che fra marzo e aprile il nuovo ordinamento
politico-amministrativo trasformava il vecchio stato federale nel Reich centralizzato.

Le trattative procedettero molto rapidamente, essenzialmente per le pressioni di Berlino: in


meno di quattro mesi si giunse all’accordo con la Germania. Mons. Kaas, già capo del Centro,
svolse a Roma il ruolo di intermediario fra Pacelli e Von Papen.

2 nodi provocarono lunghe discussioni: 1. l’avvenire delle associazioni cattoliche professionali


e 2. il divieto ai sacerdoti cattolici di iscriversi ai partiti. Per la prima questione da parte tedesca
il vicecancelliere Von Papen voleva limitare le garanzie concordatarie alle “associazioni
puramente religiose”, che avessero cioè “scopi esclusivamente religiosi, culturali e caritativi”.
Pio 11 reagì contro quello che gli appariva “una ritirata in sagrestia” poiché egli era pronto a
sacrificare il cattolicesimo politico, non la presenza della chiesa in tutto il campo sociale.
D’altra parte in germania le tradizioni cattoliche erano ben diverse da quelle italiane. Il
Vaticano riuscì così a proteggere col concordato anche le “organizzazioni cattoliche, religiosi,
culturali e caritativi hanno anche scopi sociali e professionali”, anche le varie associazioni
professionali di artigiani, operai. Quello che nello stato liberale era assicurato dalla generale
libertà di associazione, nello stato totalitario tedesco veniva protetto da uno speciale articolo del
concordato, il 31. La seconda questione riguardava la richiesta di Hitler di vietare agli
ecclesiastici l’iscrizione ai partiti politici. Il cancelliere pensava così di infierire al Centro un
grosso colpo, privandolo di elementi validissimi, come il mons. Kaas. L’episcopato temeva le
conseguenze del provvedimento. Paradossalmente dopo lo scioglimento dei partiti, tra la fine di
giugno e luglio, la questione cambiò aspetto. Un divieto del genere avrebbe aiutato il clero, che,
proprio appoggiandosi all’articolo del concordato voluto da Hitler, avrebbe potuto resistere con
minor difficoltà alle pressioni naziste di iscriversi al partito. E si approvò così l’art 32, che
affermava la necessità di salvaguardare i diritti e le libertà della Chiesa nel Reich, escludendo
per gli ecclesiastici e i religiosi l’appartenenza a partiti politici.

Verso la conclusione dell’accordo, le parti si rovesciarono. Se in un primo tempo Hitler, aveva


considerato il concordato come un mezzo per consolidare la sua posizione, ora vari fatti
spingevano a pensare diversamente e a credere di non aver bisogno di un pezzo di carta, che
oltre tutto poteva legargli le mani. Aveva avuto i pieni poteri, aveva sciolto i vari partiti, tranne
quello nazista, e il 15 luglio aveva ratificato il “Patto a Quattro”, firmato a Roma da Francia,
Germania, Gran Bretagna e Italia. Il patto era stato proposto da Mussolini, e si proponeva di
promuovere la collaborazione tra le varie potenze, la discussione sul disarmo, un eventuale
esame della possibilità di rivedere alcune clausole dei trattati di pace. Si trattò di una piccola
commedia, che nascondeva i fini dei quattro governi. Quel patto però costituiva la prima
partecipazione della nuova Germania ad un accordo internazionale, accrescendo il prestigio e il
potere nazista. Ma proprio davanti alle esitazioni naziste, il Vaticano insistette. I Patti
Lateranensi erano stati un tentativo di restaurazione cristiana, il concordato col Reich si
presentava come un mezzo per salvare il salvabile.

Il patto venne concluso il 20.7.1933, sei giorni dopo la promulgazione della legge sulla
sterilizzazione, e a pochi giorni dopo lo scioglimento del Centro. Questo garantiva la libertà
della professione e del pubblico esercizio della religione cattolica, conservava la facoltà di
teologia nelle università statali e le scuole confessionali cattoliche, assicurava l’insegnamento
religioso nelle scuole elementari e superiori, favoriva la cura pastorale negli ospedali e
nell’esercito, prometteva la protezione delle associazioni dipendenti dalle autorità ecclesiastiche
con finalità religiose, culturali, educative, e di quelle che avessero anche scopi professionali.

Come in Italia nel 1929, anche in Germania nel 1933 non mancarono polemiche ed opposizioni:
se a molti nazionalsocialisti sembravano eccessive le concessioni fatte alla Chiesa, molti
cattolici si preoccupavano del pericolo di avvicinamento fra Chiesa e nazismo, tanto più che
l’organo di stampa ufficiale del partito aveva attribuito al concordato il significato di
un’approvazione del regime da parte della S. Sede, provocando la smentita dell’“Osservatore
Romano”. Anche l’episcopato era preoccupato per la sorte delle associazioni e della stampa
cattolica. Proprio queste preoccupazioni spingevano i vescovi, impauriti ancora di più dalle
eventuali conseguenze negative diuna mancata approvazione degli accordi, a chiederne la pronta
ratifica, che per le loro pressioni ebbe luogo il 10.9.1933.

La situazione non migliorò affatto: nei mesi successivi ci fu un susseguirsi di note vaticane e
dell’episcopato tedesco contro i gravi attentati alla libertà delle associazioni per le pretese
monopolistiche del nazismo sull’educazione giovanile, la paralisi della stampa cattolica, la
rimozione di professori, le ingerenze nei seminari, la diffusione nelle scuole e nei campi nazisti
di testi fortemente anticristiani. Intanto si intensificavano le misure antisemitiche, soprattutto
con le leggi dette di Norimberga del 1935. Nel 1935 si volle salvaguardare la totale purezza
della razza tedesca, destinata al predominio. I non ariani persero la cittadinanza tedesca, e
vennero considerati esseri inferiori da sorvegliare e dominare, vennero proibiti anche i
matrimoni e i rapporti sessuali fra le due stirpi.

f. Il conflitto con il nazismo


Gli attriti con il nazismo nascevano dalle stesse cause fondamentali che avevano provocato il
conflitto con il fascismo: il carattere totalitario del regime, le sue pretese monopolistiche
sull’educazione, la dottrina nazista, la concezione generale della vita in netta antitesi con il
cattolicesimo. Tuttavia la rigida coerenza con cui la Germania portava alle ultime conseguenze
pratiche i principi teorici, dette alla lotta ben altra gravità. Il contrasto si svolse su linee ben
definite dalle due parti: polemica ideologica della gerarchia tedesca (conferenze episcopali a
Fulda) e del Vaticano (condanne) da una parte, del partito dall’altra. Costante azione governativa
volta a restringere al culto l’attività religiosa e ad impregnare del nuovo spirito tutta la vita
tedesca: graduale chiusura delle scuole confessionali, limitazione e controllo dell’insegnamento
religioso secondo i principi nazionalistici, scioglimento delle associazioni religiose, iscrizione
alla Hitlerjugend (obbligatoria dal 1936), severa vigilanza sulle prediche, asservimento della
stampa cattolica, restrizioni sulle manifestazioni cattoliche, processi scandalistici contro il clero
artificiosamente montati.

Potremmo distinguere nella polemica due momenti, prima e dopo l’enciclica “Mit Brennender
Sorge” che segnò l’irrigidirsi delle due parti e la rinuncia ad ogni tentativo di conciliazione. Un
terzo momento fu segnato dall’avvento al trono di Pio 12, con un ultimo tentativo di
distensione, seguito da un’intensa attività dottrinale e diplomatica per scongiurare le
conseguenze teoriche e pratiche del nazismo.

Nel primo periodo emergono per la loro importanza i reiterati interventi del card. Faulhaber,
arcivescovo di Monaco, e le dichiarazioni delle conferenza episcopale del 1935 e del 1936,
ispirate a due motivi diversi (una protesta improntata ad una rigida intransigenza nel ‘35 e uno
sforzo di conciliazione motivato dalla necessità di una lotta comune contro il bolscevismo nel
‘36). Il 14.3.1937 venne firmata l’enciclica “Mit Brennender Sorge”, a questo passo Pio 12 si era
deciso anche per le pressioni dell’episcopato tedesco, i cui contatti con Roma si erano
intensificati, culminando in una riunione in Vaticano dei più alti esponenti della gerarchia
all’inizio di gennaio. Decisiva però era stata la convinzione del preciso dovere di denunciare al
mondo gli errori e le conseguenze del totalitarismo, che in un primo tempo gli era apparso come
un sistema autoritario sì, ma da cui la Chiesa poteva trarre vantaggi, e preferibile in sostanza a
quella che egli chiamava “peste dell’età nostra”, il laicismo liberale.

La prima parte dell’enciclica riassumeva i rapporti fra Stato e Chiesa in Germania dal 1933,
fermandosi soprattutto sulle vane speranze poste nel concordato e sulla aperta lotta contro la
Chiesa. Nella seconda parte, Pio 11 ribadiva le verità fondamentali del cattolicesimo, che il
nazismo negava o interpretava ambiguamente, condannando le tendenze panteistiche, la
divinizzazione della razza, del popolo, del capo dello stato, l’ostilità verso l’antico testamento,
il rifiuto di una morale oggettiva universale e diun diritto naturale. L’enciclica proclamava poi
l’indissolubile legame fra diritto e morale, fra morale e religione, ricordando le calunnie
naziste contro la Chiesa, ed invitando i cattolici tedeschi ad una fedeltà alla loro religione
capace di affrontare ogni persecuzione. L’enciclica si chiudeva sul Te Deum.

Il documento colse di sorpresa il Reich. Era stato comunicato ai vescovi per vie e canali del
tutto fidati. I fedeli ascoltarono in silenzio l’inattesa lettura, durante la messa domenicale,
attoniti e scossi. Pio 11 sfidava Hitler nel modo più chiaro possibile. Il governo nazista protestò
con una dura nota diplomatica rimproverandoa Pio 11 un attacco che trascurava ogni principio
democratico e parlamentare ricordando le benemerenze del Reich per la sua lotta contro il
comunismo, osservando che la pace della germania dipendeva largamente dalla psicologia (cioè
dalla delicatezza) della Chiesa. Un articolo del giornale del Reich dice di come i cattolici hanno
approfittato delle garanzie concordatarie per tradire lo Stato tedesco.

Quando nel marzo 1938 Hitler occupò l’Austria l’episcopato austriaco e soprattutto
l’arcivescovo di Vienna, il card. Innitzer esprime gioia per la realizzazione del piano di una
grande Germania. Innizter si affrettò a rendere omaggio a Hitler, l’episcopato in una
dichiarazione collettiva del 18 marzo esaltò senza riserva ilnazismo. L’osservatore romano
dichiarò che i vescovi avevano agito senza consultare previamente la S. Sede. Il card. Innitzer si
precipitò a Roma e Pacelli lo obbligò a firmare una dichiarazione che limitava le affermazioni
fatte a Vienna.

Nel maggio 1938 Hitler venne in visita ufficiale a Roma e Pio 11, già irritato perché il governo
tedesco non si era mostrato per nulla preoccupato, rimase ancora più addolorato quando il
cancelliere ignorò la presenza a Roma del Papa. Il Papa si ritirò a Castelgandolfo e in un
discorso si lamentò che a Roma s’inalberasse un’altra croce che non è quella di cristo. Più
tardi, il 6 settembre, sempre a Castelgandolfo, il pontefice, fortemente emozionato pronunciò la
frase famosa “in Cristo siamo tutti discendenti di Abramo, l’antisemitismo per un cristiano è
inammissibile, spiritualmente siamo tutti semiti”.

Il 9 novembre, dopo l’assassinio a Parigi del diplomatico tedesco Von Rath per mano di un
ebreo, in quasi tutta la Germania si ebbero atti di violenza contro gli ebrei e proprietà ebraiche
(notte dei cristalli). In Vaticano si cominciò a pensare a un’enciclica contro il razzismo e
l’antisemitismo, mentre a Vienna come a Berlino gli ebrei ancora in terra tedesca cercavano in
tutti i modi di fuggire all’estero. La morte di Pio 11 il 10.2.1939 impedì la stesura dell’enciclica
e aprì una nuova fase.

In Germania intanto si erano delineate, in seno all’episcopato, due linee e due strategie diverse.
La maggioranza era in sintonia con il presidente della conferenza episcopale, l’arcivescovo di
Breslavia (Slesia), card. Bertram che difendeva i diritti della Chiesa, protestava contro ogni
violazione del concordato, ma si guardava da ogni protesta pubblica, anche per il timore di uno
scontro più duro, si fermava proprio al limite. Per lui lo Stato e le autorità rimanevano le
supreme istanze del diritto. Bertram riteneva importante continuare il dialogo e non rompere i
ponti. Così questo silenzio dell’episcopato provocò in larghe cerchie dei fedeli tedeschi
scontentezza e delusione nei confronti della gerarchia. Dal 1935 però una minoranza si strinse
attorno ai due vescovi, Von Preysing, di Berlino, e Von Galen, di Munster perché per loro la
politica delle semplici proteste di Bertram era insufficiente, mentre una politica offensiva,
appoggiata al popolo, sembrava aprire più ampie prospettive. La linea Bertram metteva l’accento
sulla difesa del concordato, degli interessi ecclesiastici, mentre Preysing e Galen avevano
orizzonti più aperti, si preoccupavano della difesa dei diritti dell’uomo, si impegnavano in una
prospettiva universale, a difesa del diritto naturale. Ai loro occhi la Chiesa non doveva
preoccuparsi solo dei propri interessi, doveva difendere tutti gli oppressi, quanti erano stati
privati di ogni diritto, messi fuori legge.

La politica romana si mosse con prudenza davanti a queste differenze. Pio 11 e Pio 12 si
guardarono bene dall’imporre alla maggioranza dell’episcopato una linea, che avrebbe avuto
serie conseguenze per tutta la Chiesa tedesca. E tuttavia sembra che Roma in genere preferisse
la linea offensiva di Preysing e Galen. Questo appare nella preparazione dell’enciclica “Mit
Brennender Sorge”, in quest’occasione vennero chiamati in Vaticano non solo i tre cardinali
tedeschi, Schulte, Faulhaber e Bertram, ma anche Preysing e Galen.

g. La Spagna del primo Novecento: monarchia, repubblica, guerra civile

Alla prematura morte di Alfonso 12 nel 1885 ebbe la reggenza, il nome del figlio nato postumo,
la madre Maria Cristina d’Asburgo: furono anni amari che videro nel 1898 la fine degli ultimi
resti dell'antico e glorioso impero spagnolo. Nel 1902 Alfonso 13 ebbe il potere effettivo che
tenne fino al 1931: persistente ritardo economico culturale, croniche crisi politiche, prevalere di
tendenze conservatrici che trionfarono nel 1923 con la dittatura di Miguel Primo de Rivera che
sospese la costituzione del 1876, pose fino al parlamentarismo, limitò la libertà di stampa.

Primo de Rivera lasciò il potere all'inizio del 1930 morendo poche settimane dopo a Parigi in
semi-esilio. Nel 1931 Alfonso 13, dopo nuove elezioni contrarie alla monarchia, rifiutò di
abdicare ma lasciò la Spagna per Roma e nasce la nuova repubblica (seconda). In molte città
spagnole manifestazioni di un anticlericalismo scatenato, con saccheggi ed incendi, che si
susseguirono durante il 1932 tra l’indifferenza della forza pubblica. Seguì l’espulsione di 2
vescovi. La Costituzione, promulgata nel 1931, all’art. 26 privava di ogni aiuto economico le
istituzioni religiose, scioglieva gli ordini religiosi legati con un voto speciale di ubbidienza ad
un’autorità distinta dallo stato, e sottoponeva tutti gli altri a una legge speciale. Le leggi
successive introdussero il matrimonio civile e il divorzio, la secolarizzazione dei cimiteri,
limitarono seriamente la libertà della Chiesa. E intanto, il 24.1.1932, in applicazione dell’art.
26, era sciolta la compagnia di Gesù. L’insegnamento della religione venne soppresso nelle
scuole pubbliche. La cattedrale di Oviedo fu danneggiata e 37 sacerdoti furono uccisi. E dal
febbraio a luglio del 1936, prima dell’insurrezione franchista, si ripeterono ancora incendi e
saccheggi di chiese, sacrilegi eucaristici, uccisioni di sacerdoti.

E si arrivò così al 18.7.3196, all’insurrezione delle truppe comandate in Marocco dal gen.
Francisco Franco: appoggiate dall’aviazione, esse poterono presto sbarcare in Spagna.
Cominciava così la guerra civile, che si sarebbe chiusa solo nella primavera del 1939. Il
conflitto scoppiò per un complesso di cause socioeconomiche, ma il fattore religioso non fu di
scarsa entità. La Spagna nella primavera del ‘36 si trovava di fronte a un dilemma: la scelta tra
una monarchia confessionale e una repubblica anticlericale. La terza via, uno Stato laico con
piena libertà di religione e di opinione per tutti, compresa la Chiesa, non ebbe possibilità di
successo per le speciali condizioni del momento e per la decisa contrapposizione dei due fronti,
quello cattolico-intransigente e quello laicista-massonico-anticlericale.

La guerra portò all’uccisione di quasi 7000 sacerdoti, alla fucilazione di statue rappresentanti
Cristo, media di 70 morti al giorno. Dall’inizio del 1937 i massacri diminuirono, per poi cessare
quasi del tutto. D’altra parte l’attacco alla Chiesa e ai suoi sacerdoti non era opera casuale di
singole persone eccitate: esso venne organizzato sistematicamente ed apertamente dalla polizia
e dalle autorità, fu approvato ed esaltato in articoli, discorsi e scritti vari. Si può affermare che le
quasi 7000 vittime di cui si è fatto cenno furono uccise in odio della fede, furono veramente
martiri.

Non è possibile ammettere che la persecuzione religiosa sia stata la risposta alle repressioni
militari nella zona franchista. Secondo alcuni studiosi la persecuzione fu la risposta popolare
allo stretto legame esistente tra clero e autorità pubbliche, all’intolleranza e all’amicizia con i
potenti e gli oppressori, all’allontanamento delle realtà concrete del popolo. Si possono invece
individuare 3 fattori principali: 1. l’anticlericalismo (uno delle costanti della storia spagnola
dall’inizio dell’800), 2. il ritardo della Chiesa in Spagna e 3. il radicalismo proprio del carattere
spagnolo. L’anticlericalismo appare in tutta la storia spagnola e nella classe intellettuale: si
combatteva quel cattolicesimo stretto formalistico che molti spagnoli avevano dovuto
sopportare a lungo e che era apparso come incapace di diffondere gioia e vita, amore e pace. Si
attaccava non l’oggetto della fede, ma le strutture clericali, perché avevano difeso a lungo il
regime rovesciato e perché, grazie all’appoggio di questo, avevano conquistato grandi privilegi.

A questo radicalismo di destra si contrapponeva quello di sinistra, che nel secondo semestre del
1936 diffuse in larga parte della penisola iberica quasi un vento di follia: convinzione di potersi
sbarazzare in modo rapido e definitivo del regime clericale, della Chiesa, nel modo più
semplice, con incendi, uccisioni, devastazioni.

Papato e gerarchia spagnola non erano rimasti in silenzio, prima e dopo il 1936. Ricordiamo le
proteste dell’episcopato e della S. Sede dopo le leggi sugli ordini religiosi,vari discorsi di Pio 12,
fra i quali quelli del 14.9.1936 a 500 rifugiati spagnoli, la pastorale collettiva dell’episcopato
spagnolo del 1.7.1937. e il Papa il 14.9.1936 parla di veri martiri, ma esprime anche il suo
affetto paterno ai persecutori. Egli non voleva essere il papa di una sola delle due spagne. I
vescovi in genere hanno ribadito 3 punti: 1. l’attacco cruento alla Chiesa, 2. la legittimità e la
generosità dell’insurrezione franchista e 3. il suo carattere essenziale, non sollevamento
militare, non guerra di partito, non lotta politico-sociale-economica, ma guerra di principi,
conflitto fra due concezioni della vita, una materialista e anticristiana e l’altra cristiana. I
vescovi non potevano agire diversamente, ma il loro intervento è stato danneggiato da 3
elementi: 1. l’incapacità di giudizio più sereno sui fatti (card. Gomá parla di un complotto
giudaico-massonico), 2. l’assenza di un’analisi della vita concreta della Spagna con i suoi
problemi, con l’esame dei meriti e delle colpe della Chiesa, del suo effettivo distacco dal popolo
e 3. l’adesione senza riserve alla causa franchista e al suo regime. Si direbbe che se l’episcopato
ha giustamente condannato la violenza fatta alla Chiesa, non ha fatto un serio esame di
coscienza sulle proprie responsabilità.

Sul piano diplomatico la S. Sede mantenne all’inizio un atteggiamento piuttosto riservato.


Ovviamente essa aveva subito condannato senza riserve la violenta esplosione antireligiosa
della guerra civile. Non aveva però abbracciato la linea di quanti identificavano semplicemente
la causa di franco con quella della religione. Pur accettando nel ‘37 l’invio di un rappresentante
ufficiale del governo franchista, il Vaticano precisò che questo fatto non implicava un
riconoscimento del regime. Solo un anno più tardi, nel ‘38, quando la vittoria franchista era
ormai solo questione di tempo, la S. Sede contraccambiò il gesto ristabilendo le normali
relazioni diplomatiche con l’invio di un nunzio. Da allora l’atteggiamento vaticano fu
improntato a una crescente benevolenza: all’inizio del 39 l’“Osservatore Romano” prese
posizione contro quei cattolici francesi e spagnoli che mettevano sullo stesso piano il regime
franchista e quello repubblicano.

Intanto nella zona controllata dai nazionalisti si abrogavano il matrimonio civile e il divorzio e
si riconosceva la compagnia di Gesù. Con la vittoria, nell’aprile del 39, cominciava un nuovo
periodo della storia della Chiesa in Spagna. Ma in modo analogo a quanto avveniva in
Germania, l’episcopato era diviso: a una forte maggioranza decisamente favorevole a Franco e
largamente conservatrice, decisa a restaurare una nuova cristianità con alla testa il primate
l’arcivescovo di Toledo, card. Gomá, si contrapponeva un’esigua minoranza, più distante dal
governo, più aperta e più disposta a rinunciare al ritorno integrale al passato.

La battaglia intorno all’antisemitismo e alle leggi razziali fasciste


Rimaneva vivo un pregiudizio diffuso in vaste cerchie cattoliche, proclamato con la consueta
sicurezza in molti fogli parrocchiali e in alcune riviste di alta cultura, avvezze a presentare
l’ebraismo come alleato con la massoneria e come fonte di ogni irreligiosità. Incontriamo così 2
fronti contrapposti: 1. una maggioranza, fondamentalmente intransigente e spesso con pesanti
carenze culturali, decisamente antisemita e 2. una minoranza colta, pronta al dialogo e al
riconoscimento del significato dell’ebraismo nella cultura in genere e nella storia in specie.
Tutto il problema era aggravato dalla nascita e dallo sviluppo del sionismo, che dopo la
dichiarazione Balfour del 1917 si muoveva per il ritorno degli ebrei in Palestina e la creazione
di uno Stato di Israele, tra la diffidenza e il disappunto della S. Sede e di molti cattolici, solleciti
di difendere il carattere speciale dei “Luoghi Santi” a Gerusalemme e in Palestina.

Ma gli antichi pregiudizi erano tutt’altro che morti, rafforzati semmai dalla condanna
pronunziata dal S. Uffizio nel 1928 dell’associazione “Amici di Israele”, che pure aveva
raccolto parecchi cardinali e qualche migliaio di preti italiani e olandesi. Il passo evitava sì ogni
condanna dell’antisemitismo, ma frenava ogni tentativo di incontro con gli ebrei, ogni velleità
di mettere in discussione alcune opposizioni storiche che sembravano intangibili. La “Civiltà
Cattolica” approva le misure ungheresi sulnumerus clausus degli ebrei ammessi alle università e
sottolinea la necessità dilimitare l’influsso ebreo, anche in molti scrittori appare antisemitismo e
Gemelli è il più impulsivo e offensivo poiché fa aperta esultanza per il suicidio di un ebreo. In
“Il Sionismo e la divinità di Gesù Cristo” di Vanzini del 1933 sono sottolineati la carnalità
ebraica, l’infedeltà, la degenerazione progressiva del giudaismo e il presunto pianto divino nelle
prove ebraiche. Orlandi sottolineava l’incubo che il giudaismo rappresentava per tante nazioni
poiché “la rivoluzione russa è opera degli ebrei”.

Tutti sono d’accordo nel rifiuto della violenza antisemita, nessuno pensa nemmeno
lontanamene ad uno sterminio del popolo ebraico, molti però tendono a identificare ebraismo e
civiltà moderna, unendoli in un solo giudizio negativo, e sperando nella restaurazione di uno
“stato cattolico”, sono persuasi dell’opportunità di evitare i contatti con gli ebrei, si mostrano
propensi ad una legislazione discriminatoria, che essi distinguono nettamente da una vera
persecuzione.
Mussolini fino al 1937 non aveva manifestato ostilità nei confronti degli ebrei, ed anzi aveva
negato l’esistenza in Italia di un problema ebraico. Il suo atteggiamento cominciò a cambiare
durante la guerra d’Etiopia, quando si convinse che l’ebraismo internazionale era del tutto
avverso all’impresa italiana, e soprattutto quando le condizioni politiche internazionali lo
spinsero ad un avvicinamento sempre più stretto con la Germania. Nell’aprile 1937 la
pubblicazione di “Gli ebrei in Italia” di Paolo Orano, un vecchio convinto fascista, fece capire
che qualcosa stava cambiando. Il nuovo orientamento fu confermato dalla chiara alleanza fra la
Germania antisemita e l’Italia,palese dopo lo scambio di visite di Mussolini in Germania 1937 e
di Hitler in Italia. Il 14 luglio 1938 fu pubblicato il “Manifesto della razza” permeato di accenti
razzisti e antisemiti: “Gli ebrei non appartengono alla razza italiana”.

All’inizio di agosto iniziava le pubblicazioni “La difesa della razza” oltranzista. Un mese dopo
cominciarono i provvedimenti antisemiti: agli ebrei stranieri venne proibito di prendere dimora
nel Regno, mentre professori e studenti ebrei vennero allontanati dalle scuole pubbliche. Il 6
ottobre il Gran Consiglio del Fascismo tracciava i punti fondamentali della nuova politica: gli
ebrei non potevano più possedere o dirigere imprese con più di 100 dipendenti, possedere più di
50 ettari e prestare servizio militare. Il 19 novembre era pubblicato il nuovo decreto-legge
(strumento usato ormai quasi abitualmente dal regime per i suoi provvedimenti legislativi), “per
la difesa della razza italiana”: era proibito il matrimonio fra i cittadini italiani di razza ariana e
persone appartenenti ad altra razza, esso non avrebbe avuto effetti civili. La norma non teneva
alcun conto del fatto religioso, se un italiano convertito vuole sposare? Si entrava così in
contrasto con le norme canoniche, che non facevano nessuna difficoltà per questo caso, mentre
per altri (matrimonio fra cattolici ed ebrei) era prevista la disponibilità di una dispensa
ecclesiastica che rendeva valido il matrimonio.

Lo stato agiva ormai in base a motivazioni esclusivamente razziali, mentre la Chiesa si


muoveva tenendo conto solo della religione, non della razza. Queste misure cozzavano contro
tutta la tradizione liberale. Mostravano sino a che punto il fascismo si mostrasse servile di fronte
alla Germania nazista antisemita. Mussolini dichiarava che avrebbe “tirato dritto” e si mostrava
sempre più irritato della resistenza che incontrava nelle alte sfere della Chiesa e soprattutto in
Pio 11. Farinacci nel 1938 parlò a Milano su La Chiesa e gli Ebrei sottolineando il forte e quasi
costante antisemitismo del pensiero cattolico, che il fascismo aveva ereditato dalla Chiesa
stessa.

Pio 11 reagì con la sua consueta energia. Da un lato moltiplicò i suoi discorsi, dall’altro, specie
quando si stavano preparando i primi provvedimenti, con il nunzio e con lettere a Mussolini e al
re tentò di ottenere almeno alcune modifiche sulla nuova disciplina matrimoniale. Si ripeterono
così davanti alle suore del Cenacolo, davanti agli alunni di Propaganda Fide e davanti agli
assistenti di Azione Cattolica, le condanne del nazionalismo esagerato e dell’esaltazione della
razza (brutta parola, cui il papa avrebbe preferito l’altra, più consona all’idioma italiano e meno
gravida di significati polemici, di stirpe), nella consueta allocuzione canonica di fine anno
deplorò la lesione del concordato avvenuta con le nuove disposizioni sul matrimonio.

A queste prese di posizione Mussolini replicò in altri discorsi e in sfoghi personali minacciando
una lotta a fondo contro la Chiesa. Nonostante le raccomandazioni dei delegati vaticani
Mussolini non volle riconoscere i matrimoni tra ariani ed ebrei convertiti al cattolicesimo. Pio
11 dichiarò che in tal modo si violava il concordato, e il 4-5 novembre scrisse personalmente a
Mussolini ed a Vittorio Emanuele III. Il duce non rispose neppure, il sovrano si limitò a
informare di aver trasmesso la lettera pontificia al capo del governo. Dopo l’approvazione
della legge, la S. Sede presentò una nota diplomatica di protesta su l’“Osservatore Romano” in
cui riassumeva gli argomenti principali. Tutto fu inutile. Se è innegabile l’energia e l’irritazione
di Pio 11 per l’atteggiamento generale del fascismo sulla questione della razza e per la
violazione del concordato, si è osservato che la S. Sede si è limitata a difendere il concordato e
non ha sollevato opposizioni o critiche alle discriminazioni che si stavano introducendo fra
italiani “ariani” e “non ariani”, cioè fra ebrei e non ebrei. La critica non è infondata,
soprattutto se si tiene conto che, caduto il fascismo, durante il breve governo Badoglio, la S.
Sede trattando col governo sulle leggi razziali, notava che esse “secondo i principi e la
tradizione della chiesa cattolica, hanno bensì disposizioni chevanno abrogate, ma ne contengono
pure altre meritevoli di conferma.

La stampa cattolica, come la “Civiltà Cattolica”, inizialmente tentò di interpretare


benevolmente le intenzioni del fascismo, come si potevano dedurre dal Manifesto sulla razza.
Dopo i primi mesi la stampa di ispirazione cattolica tacque, per evitare mali maggiori, quando
non si allineò con maggiore o minore convinzione al coro antisemita.

Pio 11 all’inizio del 1939 conservava tutta la sua lucidità. Si avvicinava ormai il decennale dei
Patti Lateranensi. Il vulnus al concordato, inferto col divieto di nozze fra i cattolici di razza
ariana e semita, era stato vivamente sentito dal pontefice. Il totalitarismo svelava sempre di più
il suo volto, calpestando i diritti della persona umana, distruggendo l’indipendenza dei vari
paesi. L’intero episcopato italiano venne convocato a Roma per l’11 febbraio, anniversario dei
Patti. Pio 11 riuscì a stendere le linee essenziali del primo discorso che voleva pronunciare
contro stampa e contro chi nega persecuzioni in Germania. Muore senza poter leggere il
messaggio. Il 1° settembre cominciava la Seconda guerra mondiale.
6. La Chiesa durante la Seconda Guerra Mondiale
I. Pio XII e la Guerra
Il 2 marzo 1939, dopo un conclave di 24 ore, era eletto papa Eugenio Pacelli. Romano, si era
formato come canonista, nunzio a Monaco e Berlino dal 1917 al 1929 aveva conosciuto e
aiutato gli sforzi di Benedetto 15 per una fine dell’inutile strage, Segretario di Stato prediletto
da Pio 11, uomo di preghiera e di severa ascesi, di sincero zelo pastorale, era portato ad
accentrare nelle sue mani quasi tutta la responsabilità ed il lavoro, non voleva collaboratori, ma
esecutori, come disse al funzionario vaticano Tardini.
Il nuovo papa aveva conosciuto bene la fermezza e l’intransigenza di Pio 11, ma, d’accordo coi
cardinali tedeschi ancora presenti a Roma, volle seguire in un primo momento una linea più
conciliante, il 6 marzo scrisse perciò una lettera al Fuhrer in tedesco esprimendo il suo affetto
per il popolo tedesco ed augurando una collaborazione fra le due parti, a tutto vantaggio dei
tedeschi. Hitler rispose alla fine di aprile in modo generico. Ma ormai gli avvenimenti
precipitavano verso la guerra.

Pio 12 avanzò la proposta di una conferenza internazionale fra le potenze interessate per
risolvere pacificamente i problemi. L’idea, accolta volentieri da Mussolini, cadde presto per la
freddezza e l’opposizione degli altri Stati. Il 24 agosto il pontefice lanciava il suo appello
“Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra” e poco dopo invitava il governo
polacco alla moderazione e ai sacrifici possibili per venire incontro alle richieste tedesche. Tutto
fu inutile.

Invasa la Polonia, il Papa, pur senza parlare di ingiusta aggressione, manifestò chiaramente la
sua solidarietà coi polacchi. Sempre nei primi mesi del conflitto, il Pontefice non esitò a fare da
collegamento tra la resistenza tedesca e gli alleati al fine di rovesciare il nazismo. Uno dei
segretari del Pacelli, disse che il Papa era andato “troppo avanti”. L’iniziativa fallì per le lunghe
esitazioni dei militari tedeschi.

Alla fine dell’anno Pio 12 tentò di avvicinare direttamente casa Savoia, per resistere alle
tendenze interventiste di alcuni ambienti fascisti. Ma la freddezza e lo scetticismo di Vittorio
Emanuele 3 impedirono ogni collaborazione. Pio 12 tentò allora la carta americana, attraverso
contatti con l’inviato personale di Roosevelt, ma scrisse anche il 24 aprile al Duce un pressane
invito perché “sia risparmiato al nostro e al tuo diletto paese una così grave calamità”. Il Duce
rispose il 30, assicurando che un intervento italiano sarebbe avvenuto quando fosse “di solare
evidenza per tutti che onore, interessi, avvenire imporranno in maniera assoluta di farlo”.
Quando poi all’inizio di maggio le truppe tedesche invasero i paesi neutrali, il 10 maggio il
pontefice inviò ai tre sovrani un telegramma, che costituiva una chiara condanna
dell’aggressione. Da allora il Papa si chiuse nel silenzio, e si limitò a ribadire nelle solenni
allocuzioni natalizie i principi fondamentali di una futura pace, per altro già indicati
nell’enciclica “Summi Pontificatus” del 20.10.1939.

Passi diplomatici per impedire il conflitto, sforzi reiterati per evitare almeno il suo
allargamento, proteste solenni davanti alle pubbliche violazioni delle neutralità di paesi
aggrediti, silenziosa opera di assistenza e di salvezza, agli ebrei colpiti, perseguitati, trascinati
nelle camere a gas, per il momento Pio 12 non ritenne di poter fare di più, e si prodigò in queste
iniziative con tutta la sua energia e la sua viva sensibilità.

Continuò però i suoi passi per assicurare almeno l’incolumità della sua città, Roma, e dopo i
bombardamenti sull’urbe, si affrettò a raggiungere direttamente i luoghi colpiti, portando alla
folla disperata la sua parola di conforto e qualche immediato aiuto. Dopo l’armistizio italo
americano dell’8.9.1943 e la fuga da Roma del governo, dei comandi militari, della casa reale,
Pio 12 divenne la più alta autorità morale della capitale, l’unica persona che potesse avvicinare i
tedeschi con qualche speranza di successo. Nei mesi dell’occupazione nazista, settembre 1943-
maggio 1944, a Roma, nell’angoscia generale, gli occhi di tutti si volgevano verso s. Pietro e
davanti alla forte taglia imposta dai nazisti agli ebrei romani, il Papa fece assicurare la comunità
ebraica che era pronto a prestare tutto l’oro che eventualmente non si fosse potuto raccogliere.
Il 16 ottobre 1943, davanti alla razzia degli ebrei del ghetto romano, che portò all’arresto e alla
deportazione di oltre un migliaio di ebrei, Pio 12 fece compiere due passi semiufficiali preso i
tedeschi, ottenendo che gli arresti fossero sospesi. Il Pontefice non volle emettere nessuna
protesta ufficiale.

Chi era più vicino al Papa, ritiene che Pio 12 temesse che una protesta sarebbe stata
controproducente, esasperando i nazisti e scatenando la loro violenza. Era meglio tacere e
aiutare in concreto tutti gli ebrei perseguitati, facendo il possibile per salvare la loro vita. Non
mancò agli ebrei romani e italiani la larga solidarietà delle istituzionicattoliche, che, con la piena
approvazione del vaticano, ospitarono dentro e fuori Roma centinaia e centinaia di ebrei, che
poterono così salvarsi. Lo stesso aiutoconcreto fu prestato per anni, in Francia come in Romania,
in Belgio come in Ungheria. Soprattutto il cappuccino Benedetto Maria organizzò un’ingente
rete d’aiuto a tutti gli ebrei, e la delegazione assistenza emigrati ebrei fu praticamente in mano
sua. Nei mesi seguenti, Pio 12, prese in mano il vettovagliamento di Roma, con spedizioni quasi
quotidiane degli autocarri vaticani dalla capitali per raccogliere grano e altri commestibili e
portarli nell’urbe, che ospitava anche migliaia di profughi del Lazio. Il Vaticano venne
informato della strage compiuta alle Fosse Ardeatine il 24 marzo, e non poté tentare nulla.
Ancora una volta la S. Sede preferì limitarsi sul suo giornale, l’ “Osservatore Romano”, a vaghe
esortazioni alle prudenza, una protesta in quella circostanza, fu ritenuta pericolosa. Il Papa
invece mantenne stretti contatti con i rappresentanti tedeschi e inglesi presso la S. Sede
soprattutto nel mese di maggio, sforzandosi in tutti i modi di ottenere il rispetto della città,
evitando una difesa ad ogni costa da parte tedesca nella ritirata imminente dopo la caduta di
cassino. Nessuna delle due parti volle impegnarsi, ma di fatto la ritirata avvenne senza ostacoli.
E il 5 maggio a sera una folla molto numerosa si precipitò in piazza s. Pietro per ringraziare a
chi ha ragione venne presto disegnato come “Defensor Urbis”.

Naturalmente il comportamento della S. Sede e in particolare di Pio 12 hanno sollevato molti


interrogativi, davanti al genocidio di milioni di ebrei, il Papa, custode della suprema legge
morale, poteva limitarsi a soccorrere in silenzio i singoli, o doveva levare la sua voce di
protesta per tutta la comunità israelitica minacciata globalmente di sterminio?

Pio 12 ha levato la voce nei radiomessaggi natalizi contro tutte le violazioni ella legge
naturale, contro le ingiustizie che si stavano perpetrando. Mai è voluto scendere a condanne sui
singoli crimini. La S. Sede era certamente informata dei campi di concentramento e degli
stermini ivi commessi. Pastori come l’arcivescovo di Cracovia e quello di Leopoli nelle loro
lettere a Pio 12 descrivono senza odio, ma in modo efficace, le sofferenze inflitte al loro popolo
da nazisti e bolscevichi, a cui esse partecipano da vicino. Il Papa promuove e sostiene
un’intensa attività di soccorso, sviluppata intelligentemente dai suoi collaboratori. Migliaia e
migliaia di ebrei vennero così sottratti all’internamento e alla morte sicura. Il Papa assiste, si
prodiga, salva i singoli e le famiglie, ma tace.

Il motivo fondamentale che ha indotto Pio 12 a limitarsi a condanne per lo più generiche è stato,
come si è detto, il timore di rappresaglie dei tedeschi sui cattolici e sugli ebrei. “Non si può che
nel reich ci sono 40 milioni di cattolici. A che cosa sarebbero esposti dopo un simile atto della
S. Sede?” osservava mons. Tardini. Il card. Maglione osservava a un vescovo polacco in esilio
che la S. Sede si conformava all’esempio degli stessi pastori polacchi, se essi non pubblicavano
i documenti inviati direttamente dal Papa, per timore di rappresaglie, poteva il Papa seguire una
via diversa, col rischio di rendere più dura la sorta dei cattolici in Polonia? È vero che in altre
occasioni Pio 12 dichiarò il contrario. Si può parlare di oscillazioni del Papa fra due soluzioni,
ma è più probabile che Pio 12 vedesse volentieri e incoraggiasse dichiarazioni della gerarchia
locale, che poteva muoversi con minore preoccupazione di offendere il sentimento nazionale,
non correva il rischio di alienare i fedeli, e soprattutto poteva giudicare con maggior conoscenza
di causa l’entità del rischio e l’opportunità di un intervento, per quanto riguarda invece la S.
Sede, il Papa preferiva maggior riserbo.

Per alcuni storici, il silenzio del Pontefice sarebbe motivato, almeno parzialmente, da
quell’antisemitismo che da secoli aveva fatto presa sul mondo cattolico, e da cui questo non si
era ancora liberato del tutto. Si preferiva distinguere l’antisemitismo nazista, radicale e
condannato e un antisemitismo moderato, giustificabile e accettabile, senza rendersi conto che in
quegli anni si assisteva a un fenomeno nuovo, il tentativo di genocidio di tutto un popolo.

Ricordiamo 3 fatti: la S. Sede nel 1943 era contraria all’abolizione completa delle leggi razziali
emanate dal fascismo in Italia nel 1938-39. quando Pétain nel 1941 chiese al suo ambasciatore
presso il vaticano cosa pensasse la S. Sede della legislazione antisemita che si stava attuando in
Francia, il suo rappresentante, lo rassicurò, la S. Sede non avrebbe sollevato proteste e
qualche ecclesiastico di Roma, riteneva giusto il tentativo di ridurre l’influsso degli israeliti
nella società. Tutto si concluse con un moderato intervento del nunzio Valeri: la S. Sede non
approvata in tutto “Lo statuto degli ebrei” ne raccomandava delle rettifiche e soprattutto
un’applicazione moderata. Infine, nel discorso di Pio 12 del 2.6.1945 questo si muove ben
informato sui campi di concentramento, ma non dice una parola sull’olocausto, sui milioni di
ebrei gassati nei campi di sterminio. Eppure a un sacerdote morto corrisponde un migliaio di
ebrei uccisi.

Gli storici come Aubert si chiedono se un Papa più profetico e meno diplomatico avrebbe
seguito la stessa strategia. Forse la genericità delle denunzie e delle condanne ne diminuì
l’efficacia, non stimolò i cattolici a distaccarsi più vivamente dai responsabili della tragedia.
D’altra parte proprio chi si era salvato a stento dal caos e dagli stermini di quegli anni si mostrò
grato a Pio 12.

La chiesa fu certamente presente nei lager, basti ricordare Massimiliano Kolbe, e le migliaia di
sacerdoti morti nei vari campi di concentramento. Kolbe che, letteralmente nudo, stende il
braccio verso il carnefice, mentre il suo volto si irradia di un improvviso sorriso, è più che un
caso limite, il simbolo preciso di questa chiesa che esce dalla guerra purificata da un passato
non scevro di compromessi umani. Si andava manifestando una nuova dimensione della Chiesa,
la Chiesa che acquista una coscienza più netta della sua missione, di difendere i poveri e gli
oppressi, fidando non tanto in strumenti giuridici o nella diplomazia, quanto nella sua povertà
ed impotenza, la chiesa che, quando non può far altro, condivide personalmente la sorte dei
perseguitati.

II. La Chiesa nei paesi direttamente coinvolti della guerra: Italia, Francia,
Croazia, Germania
In Italia, dove la guerra era vista con distacco, amarezza, repulsione dalla maggioranza della
popolazione, con l’eccezione di fascisti più accesi e di qualche altro ufficiale, spinto in questo
caso dal senso dell’ubbidienza e del dovere, il clero sostanzialmente condivise, con maggiore o
minore prudenza, lo stato d’animo di quasi tutti i fedeli: freddezza, unita a qualche forma di
dissenso, riserva e chiusura in ambito strettamente spirituale. Molto diffusa fu poi la condanna
recisa della propaganda volta istigare all’odio contro il nemico. Netta condanna dei delitti contro
al vita umana, di sentenze affrettate e irregolari, di deportazioni. L’assistenza agli ebrei fu
pressoché universale.

Nei momenti estremi, vescovi e sacerdoti o si imposero ai tedeschi con la prontezza a morire
insieme agli ostaggi condannati a morte, riuscendo in tal modo a salvarli o morirono con i loro
fedeli. Nel complesso si possono forse calcolare a 300 sacerdoti italiani caduti nel compimento
della loro missione. Ancora una volta gli innocenti pagarono per i colpevoli.

In Polonia le condizioni generali erano molto tragiche. Il paese aveva conosciuto due
occupazioni, tedeschi e russa, che si erano ritirati talora negli stessi territori; migliaia di sacerdoti
erano stati deportati ed erano morti nei campi di concentramento di Dachau o di Auschwitz; una
decina di vescovi polacchi, ucraini, o tedeschi, amministratori apostolici in Estonia, morirono in
Siberia, in Russia, a Dachau, nonostante i tentativi del Papa per ottenerne la liberazione.

I Balcani erano stati per secoli è un paese dove razza, lingua, religione, tradizioni erano stati in
irriducibile lotta fra loro. Erano stati punto di incontro ma soprattutto di scontro fra ortodossi,
cattolici, musulmani, tra Oriente e Occidente, fra slavi e latini. Lo Stato jugoslavo era diviso tra i
serbi che erano ortodossi, di lingua serba, e per lunga tradizione più vicine ai popoli slavi e i
croati che erano profondamente cattolici, di lingua croata e più vicini ai popoli latini. Molti serbi,
fedeli alla loro religione, vennero uccisi o riuscirono a fuggire. Qualcosa di simile capitò ai
musulmani.

L’arcivescovo di Zagabria Stepinac si mostrò favorevole alla nascita di uno Stato croato
indipendente e, pur disapprovando i tentativi di conversione coatta al cattolicesimo e le violenza
adoprate dagli ustascia, cioè dalle truppe di Pavelić, e aiutando come poteva i perseguitati senza
differenza di religione, continuò a guardare con una certa simpatia al capo del governo
sottolineandone nella sua corrispondenza con la S. Sede le benemerenze nei confronti della
Chiesa. Caduto il regno croato, affermatosi Tito, Stepinac si batté con grande energia per
l’indipendenza della Chiesa cattolica nella Jugoslavia, tutt’altro che libera in cui i primi anni del
regime di Tito, ancora legato a Mosca, e rifiutò con veemenza la sola idea di una Chiesa croata
indipendente da Roma.

La situazione francese è diversa. Il contrasto interno non è dovuto a dissensi razziali, inesistenti,
ma alla lotta fra due concezioni politiche opposte. A una visione democratica, parlamentare, che
difende l’uguaglianza di tutti cittadini senza distinzioni di religione e in sostanza si fonda sui
diritti dell’uomo proclamati nell’89, si oppone una visione antidemocratica, antiparlamentare,
antilaicista, che condanno i principi dell’89. Pio 12, ricevendo il 9.12.1940 il nuovo
ambasciatore di Francia, si augurava la vittoria di una nuova Francia, penetrata dalla spiritualità
cristiana del paese. La realtà fu ben diversa. E Pétain, sempre più debole verso i tedeschi,
lasciava nel 1944 la Francia con 75 mila francesi fucilati, 700 mila deportati politici, 750 mila
lavoratori trasferiti in modo quatto in Germania, decine di migliaia di ebrei, francesi o no,
annientati nei campi di concentramento nazisti. La Francia restava divisa, e anche in molte
comunità religiose si preferiva tacere per non distruggere l’armonia, almeno esterna, che regnava
fra i sacerdoti favorevoli a Pétain e quelli contrari: ma l’opposizione cresceva e si rafforzava.

E se da una parte i giovani, lasciate le famiglie, si davano alla resistenza, cadendo negli scontri o
fucilati dei tedeschi, morendo da veri francesi e da veri cristiani, come più di uno si espresse,
dall’altra seminaristi e sacerdoti cominciavano ingaggiarsi come lavoratori in Germania, con
l’unico fine di assistere religiosamente le migliaia di operai francesi rimasti senza alcun aiuto
spirituale in paese tedesco. Alcuni di essi vengono riconosciuti, arrestati, deportati in campi di
concentramento, dove più di uno trova la morte. Il libro dell’abbé Godin, “La France Pays de
Mission?” del 1943, situazione che aveva portato nel novembre 1942 all’apertura a Lisieux del
seminario della missione, destinato a formare sacerdoti pronti a operare in zone scristianizzate,
ha questa nuova conseguenza, che costituisce il primo passo verso i preti operai del dopoguerra.
Intanto nella resistenza si incontrano più di frequente sinceri cattolici, e fra essi donnee sacerdoti,
come il professore di teologia Montcheuil, sorpreso mentre assiste i feriti e fucilato nel 1944 alla
vigilia della liberazione.

Il 25.8.1944 De Gaulle entra trionfante e caccia i fedeli di Pétain, anche vescovi, Pio 12 sceglie
come nuovo nunzio Angelo Roncalli, che ad Istambul aveva mostrato la capacità di conciliarsi
la simpatia e l’amicizia di tutti, anche delle parti divise da contrasti ideologici e pratici. E con la
sua nunziatura i rapporti tra la 4a Repubblica e la Chiesa diverranno più distesi, poi del tutto
normali.

La Francia si presentava così con forti contrasti interni, anche religiosi, un’accentuata spinta
laicizzatrice, sempre viva, e, insieme, una vivacità e un’originalità tutta propria nella resistenza
alla laicizzazione, non con discussioni e polemiche, ma con un rinnovato impegno apostolico, in
forme nuove, che i conservatori e la S. Sede vedevano con qualche preoccupazione.

Allo scoppio della guerra, in Germania non so udì una sola voce di condanna: la libertà di
stampa e di espressione era stata soffocata, chi avesse pronunziato una critica contro il governo o
chi avesse rifiutato il conflitto sarebbe stato arrestato, probabilmente sarebbe stato internato,
forse giustiziato. Non mancò tuttavia in Germania un’opposizione militante che, superato ogni
dubbio, preparò i suoi piani per l’eliminazione di Hitler e un cambiamento di regime.

L’episcopato cattolico in Germania era diviso tra una maggioranza, che condivideva la linea
Bertram, ferma alle proteste giuridico-diplomatiche, con note ufficiali al governo, e una
minoranza, pronta a una resistenza più radicale, in tutti i modi, che si esprimeva soprattutto
attraverso mons. Preysing, vescovo di Berlino, stretto confidente di Pio 12. Non si trattava di
discutere sulla legittimità o meno della guerra, né di protestare contro di essa. Anche i più decisi
difensori della chiesa e dell’uomo contro i soprusi del nazismo, come Faulhaber e Von Galen,
continuarono ad esaltare i valori tradizionali del patriottismo, il dovere cristiano, l’eroismo, la
morte gloriosa. Von Galen paragonò la morte in guerra al martirio per la fede. In sostanza la
maggior parte dei cattolici in politica estera si allineò col nazismo in uno spirito che andò dalla
tacita acquiescenza ad un moderato entusiasmo.

Si noti tuttavia che l’episcopato, se prese posizioni su varie questioni, se cercò di proteggere i
“non ariani” cioè gli ebrei convertiti al cattolicesimo o nati da matrimoni misti, non alzò mai la
voce contro il genocidio che si stava attuando e di cui era almeno genericamente informato. In
ogni modo il dissenso fra le due linee, fra le due anime dell’episcopato tedesco, ebbe modo di
manifestarsi più volte. Bertram nel 1940, nella sua qualità di presidente della conferenza
episcopale, inviò al Führer un telegramma di auguri per il suo compleanno, Preysing
irritatissimo, presentò al Papa le sue dimissioni, ovviamente respinte. Ma il Papa era d’accordo
col suo amico Preysing ed invitò i vescovi ad alzare la voce senza paura. Preysing in due omelie
del 1941 condannò apertamente l’uccisione di minorati psichici e fisici.
7. La Chiesa nel Dopoguerra 1945-1958
I. Il contesto generale
La Chiesa usciva dalla tempesta con rinnovato prestigio: aveva mantenuto un sufficiente distacco
dei vari regimi, aveva ripetutamente indicato le vie della futura ricostruzione, aveva testimoniato
con migliaia di vittime la sua fedeltà alla missione a lei propria. Ma in quegli anni, in cui tutti con
speranze rinnovate energia pensavano di un futuro migliore, nuovi problemi si affacciavano con
urgenza.

Si chiudeva l'epoca del colonialismo, e in Africa come in Asia vari popoli raggiungevano
l’indipendenza, mentre si sviluppava un autentico boom demografico che faceva di quei paesi i
primi del mondo per popolazione. Nasceva nel 1948 lo Stato di Israele.

Nei paesi europei si passava da un'economia ancora largamente agricola a un sistema fortemente
industrializzato, con l'ampia riduzione degli addetti ai lavori dei campi, un aumento degli operai,
l’incremento del reddito medio pro capite, emigrazioni interne, accompagnate, anche per la nascita
e la rapida diffusione della televisione, da un forte cambiamento nello stile di vita delle famiglie e
degli individui. L'Europa orientale diventa in larga misura colonia sovietica con un'economia
depressa e la mancanza di libertà.

E, intanto, mentre cambiava la vita, mentre il numero dei praticanti si riduceva sempre di più, si
avvertivano nella chiesa forti aspirazioni a un rinnovamento: nella liturgia, nella teologia, nella
pastorale, nella figura e nell’attività del sacerdote, nella vita parrocchiale.

Pio 12, alla morte del card. Maglione nell'agosto 1944, non volle nominare alcun segretario di
Stato. Al posto del segretario di Stato lavoravano in sottordine due forti personalità, Montini e
Tardini che si stimavano si rispettavano ma senza avere un’amicizia poiché troppo forte era la
diversità dell'ambiente originario, della cultura e del temperamento (realista e romano Tardini,
idealista e aperto Montini). La situazione si aggravò gli ultimi anni per l'allontanamento di
Montini promosso arcivescovo di Milano, mai ricevuto una volta sola dal Papa in udienza privata.
Rimasero vicini a Pio 12 alcuni gesuiti tedeschi od olandesi dei quali il pontefice si serviva per la
redazione di discorsi di più importanti documenti. Certamente il Papa era profondamente
consapevole della vasta crisi che la società contemporanea attraversava, ma l’attribuiva soprattutto
ad ideologie incompatibili col cristianesimo.

II. La fine del colonialismo e dalle missioni alle chiese locali


Pio 12 fin dalla prima enciclica programmatica “Summi Pontificatus” del 20.10.1939 dichiarò
di voler procedere nella via già battuta da Pio 11, che nel 1935 e 1936 aveva permesso ai
cattolici della Manciuria e del Giappone di prender parte agli ossequi resi a Confucio e di
rendere onori civili alla casa imperiale giapponese e agli antenati. La promessa venne
mantenuta: l’8.12.1939 Propaganda dichiarava leciti ai cattolici cinesi gli onori a Confucio
e agli antenati. Un’analoga istruzione del 1940 ammetteva la legittimità anche dei riti
malabarici. Le lunghe e dolorose controversie del 6 e 700, i divieti di Clemente 11, il
giuramento imposto a tutti i missionari da Benedetto 14 nel 1742 erano ormai solo un ricordo
lontano.

L’ammissione della legittimità dei riti cinesi e malabarici costituiva però solo un aspetto, sia
pure importante, di un problema più vasto e complesso, l’adattamento del cattolicesimo e
della Chiesa alle varie culture locali, o con una parola ormai in voga, l’inculturazione. Pio
11 aveva consacrato personalmente a Roma nel 1926 6 vescovi cinesi. La vecchia struttura
basata su prefetture e vicariati apostolici era nata come l’unico mezzo per aggirare nei limiti del
possibile il patronato portoghese, con le sue pesanti intromissioni e il diritto esclusivo di
nominare vescovi in terra di missione. Ormai il patronato era scomparso e si avvertiva il
bisogno di dare alle circoscrizioni missionarie un nuovo carattere, che esprimesse insieme la
stabilità delle Chiese locali e la loro vita autonoma. Prima ancora che i singoli Stati africani
raggiungessero l’indipendenza, nelle varie Chiese locali del continente cambiò il regime
ecclesiastico: ai vicariati venne sostituita la gerarchia indigena. Furono erette cioè diocesi
locali, riunite come in Europa e in America, in province ecclesiastiche con a capo un
metropolita. Così i fedeli si sentivano cattolici, sì, ma pienamente integrati nel proprio paese,
con pastori indigeni. La creazione di una gerarchia indigena in Africa e in Asia, si realizza dal
1946 al 1965, ed è in gran parte compiuta alla morte di Pio 12. Alla sua morte nel 1958 i vescovi
indigeni erano passati da una 50ina a 139.

La S. Sede si mostrò abbastanza cauta e riservata e solo gradualmente si mostrò favorevole


all’indipendenza delle antiche colonie. Pio 12 in varie occasioni condannò il nazionalismo
esasperato, denunziò le colpe e le lacune del colonialismo, ne riconobbe la funzione provvisoria
e transitoria. Il Papa non si preoccupava di evitare ogni sospetto che i popoli indigeni potevano
nutrire, di un’alleanza o complicità fra Chiesa cattolica e potenze coloniali. La prudenza e i
cauti silenzi del primo dopoguerra cedono il posto al dichiarazioni sempre più esplicite, che
culminano con l’enciclica “Evangelii Praecones” del 1951 che espone l’obiettivo di erigere
gerarchie locali in terra di missione e col radiomessaggio del 1955: “una giusta e progressiva
libertà politica non sia a quei popoli negata o ostacolata”. La S. Sede si dissociava dagli
interessi delle potenze coloniali, ma si augurava uno sviluppo graduale del processo di
decolonizzazione, per evitare brusche rotture e nuove violenze.

Ma il cammino dell’Africa cristiana sarebbe stato ancora lungo e contrastato dalle rivalità
tribali, dall’aperta ostilità di qualche nuovo capo, dalla dura lotta dell’islamismo
fondamentalista nel Sudan e altrove.
III. Vaticano e Israele 1948-1958
La Dichiarazione Balfour, che nel novembre 1917 impegnava la Gran Bretagna favorire la
nascita di una national home ebraico in Palestina, raffreddò gli entusiasmi poiché la S. Sede
temeva che gli israeliti venissero a trovarsi in Palestina in una posizione di preponderanza e di
privilegio a tutto danno della libertà della Chiesa cattolica e dei suoi speciali diritti sui luoghi
santi.

La situazione cambiò dopo la fine della Seconda guerra mondiale, nel 1947 la Gran Bretagna
comunicò la sua decisione di ritirarsi dalla Palestina e si formularono i progetti per il nuovo
assetto del paese. Già intorno agli anni 30 il sionismo, il progetto di un ritorno in massa degli
Ebrei in Palestina e la nascita di uno Stato ebraico indipendente, specialmente negli ambienti
cattolici romani aveva sollevato molte proteste. Varie posizioni. Si rovesciarono le posizioni e si
sottolineava il significato religioso della eventuale nascita di uno Stato di Israele. Così, per
influsso francese, le vecchie motivazioni teologiche contro il sionismo vennero abbandonate.
Teoricamente s’affacciavano queste ipotesi: uno Stato ebraico, uno Stato unico palestinese, la
divisione della Palestina in due stati, l’amministrazione dell’ONU su tutta la Palestina,
l’internazionalizzazione di Gerusalemme. Quest’ultima idea venne approvata dall’ONU il
29.11.1947, con la decisione passata alla storia con il nome di “Risoluzione 181”. Una
spartizione non garantiva né la pace né la sicurezza degli interessi cattolici. Pio 12, molto
preoccupato, preferì conservare il silenzio, limitandosi a far conoscere la propria inquietudine e
chiedendo che fossero adottate le misure necessarie per la salvezza di Gerusalemme.

Gli ebrei non persero tempo, e quando ancora le truppe inglesi non avevano completato lo
sgombero della Palestina, il 14.5.1948 proclamarono lo Stato di Israele, riconosciuto subito
dagli USA e dalla Russia, poi dalle altre potenze. Portò alla sparizione effettiva della Palestina,
con alterne vicende. L’“Osservatore Romano” il 16 maggio si limitò a rilevare che “il sionismo
non è l’Israele della Bibbia”.

Solo il 24 ottobre Pio 12 intervenne personalmente con l’enciclica “In Multiplicibus Curis”
sostenendo l’internazionalizzazione di Gerusalemme, il libero accesso ai luoghisanti, le garanzie
sulla libertà di culto pubblico. Seguirono trattative fra il Vaticano e Israele, a Roma e in
Palestina, che non portarono ad alcun risultato. Per gli ebrei Gerusalemme era parte integrante
dello Stato. Il Pontefice intervenne allora una seconda volta con l’enciclica “Redemptoris
Nostri Cruciatus” del 15.5.1949 che ribadiva le precedenti richieste e ne avanzava delle nuove:
tutela dei luoghi santi della Palestina mediante uno statuto giuridico garantito
internazionalmente, rispetto dei tradizionali diritti della Chiesa sui luoghi santi, libero esercizio
delle attività educative ed assistenziali cattoliche. L’8.11.1949 Pio 12 con l’esortazione
“Sollemnibus Documentis” rinnovò il suo appello per una sistemazione sicura della questione.

La posizione del Papa era ormai ben netta e non subì alcun cambiamento negli anni seguenti.
Ma il tempo lavorava contro le tesi vaticane: Israele acquistava un sempre maggior credito
internazionale, si sentiva militarmente sicura, negli USA i cittadini di origine ebraica
esercitavano un peso e un influsso sempre maggiore nella finanza e nella politica, e il governo
doveva tenerne conto, all’ONU si susseguivano vari progetti, più elastici e sempre più lontani
dalle richieste vaticane. Il parlamento israeliano proclamò Gerusalemme capitale dello Stato e
vi trasferì la propria sede e i principali uffici governativi. Israele avvertiva tutta l’intransigenza
della S. Sede, e il Vaticano rispondeva con rigidezza. Un diplomatico venuto a Roma per
sondare le intenzioni vaticane fu gelidamente accolto da Tardini con queste parole “spero che
non veniate a parlarmi di compromessi per la questione di Gerusalemme”. Pio 12 moriva senza
che la questione avesse fatto un solo passo avanti. Restava la vecchia diffidenza del mondo
cristiano verso quello ebraico.

IV. Il comunismo e la chiesa: l’Europa orientale


L’Urss predominava l’Europa orientale. Per la chiesa dell’Europa orientale comincia
un’autentica persecuzione che sarebbe durata una 40ina d’anni. Si è trattato piuttosto di un
attacco a fondo contro la Chiesa cattolica. La situazione si mantenne immutata anche dopo la
morte di Stalin nel 1953, grosso modo sino al 1958. Subì un’evoluzione politica solo con
l’avvento di Paolo 6 e la sua ferma Ostpolitik, di tenace avvicinamento agli Stati orientali.

In genere i concordati conclusi durante il pontificato di Pio 12 con vari paesi dell’est vennero
di fatto abrogati e considerati inesistenti. I rapporti diplomatici con la S. Sede vennero troncati,
i rappresentanti pontifici dovettero lasciare il paese, o, se erano all’estero, venne negato loro il
ritorni in sede e si rese difficile il contatto dell’episcopato con Roma nella speranza di isolare e
di indebolire i vescovi e farli piùdocili al governi. I beni ecclesiastici vennero presto incamerati.
I religiosi e le religiose, privati delle antiche case, vennero dispersi, molti di essi in campi di
concentramento. Le scuole cattoliche furono chiuse, l’insegnamento della religione nelle scuole
statali fu abolito, mentre gli inseganti erano obbligati a seguire corsi di formazione sul
marxismo che ispirava anche i programmi delle varie materie, la stampa cattolica venne o
rigidamente limitata e controllata o soppressa.

Più grave fu il pesante controllo su tutta l’attività pastorale e sul governo delle diocesi e della
Chiesa in generale. In Cecoslovacchia leggi del ‘49 “subordinavano al consenso statale ogni
nomina ecclesiastica”.

La S. Sede intervenne nei casi più gravi e pericolosi: in Cecoslovacchia nel 1949 i sacerdoti
progressisti vennero scomunicati, in Ungheria nel 1957 i sacerdoti che avevano accettato
incarichi nelle diocesi direttamente dal governo furono deposti. In tutti i paesi poi venne
fulminata la scomunica riservata al Sommo Pontefice per chi avesse accettato l’ordinazione
episcopale senza l’approvazione di Roma. Numerosi invece furono gli arresti e deportazioni di
sacerdoti e religiosi.

V. Il caso italiano
Il passaggio dalla monarchia alla repubblica del 2.6.1946 avvenne in Italia senza traumi e senza
scosse. Il Nord si schierò per la repubblica, il Sud a favore della monarchia. Pio 12 si chiuse nel
silenzio, al direttore della civiltà cattolica confidò che aveva assistito in Germania al trapasso
fra impero e repubblica e aveva constatato che la Chiesa non aveva ricevuto nessun danno dal
cambiamento politico. L’episcopato, filomonarchico, si espresse in modo conforme a questa
simpatia, senza imporre tuttavia alcun vincolo di coscienza.

Delicato e grave si presentava il problema dell’adesione al Partito Comunista Italiano, che nel
1946 ottenne il 19% dei voti, e nel 1948, unito al partito socialista, il 30%. Nell’Europa
orientale i regimi comunisti avevano inferto duri colpi alla Chiesa. Il PCI nel suo statuto faceva
aperta professione di marxismo, il partito era legato a Mosca, dove il suo segretario Togliatti era
rimasto 20 anni. D’altra parte molti cattolici erano convinti che solo il PCI difendesse
efficacemente la giustizia sociale e gli interessi delle classi operaie. Interpretavano
elasticamente l’adesione al marxismo del PCI, che non imponeva di rinunciare alla propria fede
religiosa e ritenevano che un governo comunista in Italia avrebbe lasciato libera la Chiesa e si
sarebbe mostrato indipendente nei confronti della Russia. Le elezioni del 1948 si risolsero in
uno scontro frontale fra due posizioni, la DC, e il PC e PSI. La forte vittoria della DC
approfondì la divisione ideologica e pratica. Il card. Ruffini chiedeva al ministro Scelba di
mettere i comunisti fuori legge perché nemici di Dio e della patria e, sciogliendone le
organizzazioni, auspicava maggior energia e chiarezza contro i comunisti italiani. Larghi settori
della curia vaticana, come Ottaviani erano delle stesse idee. Non destò sorpresa il decreto del S.
Ufficio del 1949 che sanciva il rifiuto dei sacramenti per quanti votassero il PCI. Era permesso
il matrimonio religioso dei comunisti, e la scomunica per coloro che professano la dottrina
materialistica e anticristiana del comunismo.
La scomunica non ebbe esito positivo: non allontanò gli iscritti, non distaccò le masse e il
numero dei votanti non subì flessioni. Si rafforzò nelle masse operaie la convinzione che la
chiesa stava dalla parte dei padroni, e si ripeté ancora una volta nella penisola quella divisione
fra i cattolici ossequienti al Papa e alle sue direttive in campo politico e quanti non si ritendono
obbligati a seguire queste istruzioni. Ma la pastorale risentì di questa situazione, la religione in
Italia era fortemente politicizzata. La predicazione domenicale, specie durante le elezioni,
ritornava spesso sull’argomento. L’unità di fede avrebbe dovuto portare ad un’unità politica,
cioè a votare per un solo partito, la DC. L’ “Osservatore Romano” nel 1960 pubblicò l’articolo
“Punti Fermi”, che condannava la collaborazione fra cattolici e forze politiche di ispirazione
marxista, perché “potrebbe compromettere e sacrificare i principi intangibili della fede e della
morale cristiana”.

Ben diversa era la mentalità e l’orientamento di De Gasperi. Era impossibile fare dell’Italia del
secondo 900 un paese cattolico. Un governo in mano esclusivamente a cattolici avrebbe
provocato per reazione un nuovo fotte anticlericalismo e avrebbe spaccato il paese in due.
Bisognava allora raccogliere attorno ai cattolici il maggior numero possibile di consensi,
collaborando con le forze laiche con le quali coesisteva un patrimonio comune. Queste cose
sono espresse dallo statista trentino Toniolo nel libro “Democrazia cristiana concetti e
indirizzi” che la tradusse in atto nella collaborazione con i socialisti e i comunisti, mantenuta fin
che le circostanze internazionali e le difficoltà interne non la resero impossibile, poi con liberali,
repubblicani, social-democratici. Ma questo programma realistico portò l’uomo politico,
profondamente cattolico, a lottare su 3 fronti: 1. tentare di non irrigidire in un anticlericalismo
di vecchio conio le forze laiche, liberali, repubblicane o di altra marca, 2. all’interno del partito
convincere le correnti socialmente più aperte dell’impossibilità pratica, in quelle circostanze, di
tradurre nella realtà storica in modo integrale i principi cristiani per non perdere l’appoggio
della media borghesia, necessario per conservare al partito e al governo un vera stabilità e 3. di
fronte alla S. Sede e a Pio 12 in specie difendere il suo programma di collaborazione con le
forze laiche e la sua autonomia nelle scelte politiche concrete. In seno alla DC, la lotta più
vivace si svolse fra De Gasperi e Dossetti. Certamente Dossetti e il “dossettismo” costituirono
uno stimolo utile per superare il pericolo di ridursi a un partito piccolo borghese ed attuare nella
misura del possibile le riforme sociali richieste dai tempi. Dossetti poi nel 1952 dette le
dimissioni da deputato e nel 1959 fu ordinato sacerdote.

Più delicata ed amara fu la lotta fra De Gasperi e Pio 12. Il papa avrebbe accettato senza troppa
difficoltà a capo del governo un vecchio liberale moderato, Orlando o altri, confidando nel suo
rispetto per la Chiesa. Non sopportava un sincero cattolico che difendeva la sua autonomia
politica, non chiedeva consigli, non tollerava ingerenze della gerarchia nelle scelte politiche
concrete. Il potere della Chiesa non si limitava alle questioni strettamente religiose e cadeva
sotto la sua autorità l’intera applicazione della legge naturale. Al Presidente del Consiglio
giunsero più volte “indirettamente” precise indicazioni del Pontefice che minacciava di togliere
ogni appoggio della Chiesa italiana alla DC se avesse continuato la sua politica di
collaborazione con partiti di ispirazione anticristiana. Il contrasto più forte si ebbe nel 1952 e
1954. Nel ‘52 davanti alla possibilità che dalle elezioni amministrative di Roma uscisse un
sindaco comunista, ambienti vaticani autorizzati dal Papa imposero al vecchio Sturzo di creare
un fronte unico anticomunista che raccogliesse in un’unica lista candidati di vari partiti
(operazione Sturzo). Sturzo rassegnato ubbidì, ma accompagnò la proposta pubblica con precisi
limiti di tempo e appena questo fu scaduto annunciò che l’iniziativa era fallita. De Gasperi
respirò, e Pio 12 rimase irritato, e settimane dopo rifiutò l’udienza chiesta per festeggiare il
30esimo del suo matrimonio e la professione perpetua di sua figlia, suor Lucia.

Nel ‘54 “La Civiltà Cattolica” per ordine del Papa attaccò De Gasperi per aver sottolineato in
un discorso più l’autonomia del partito che la sua ispirazione cristiana. In sostanza, le due
personalità, unite da un’identica fede e da uno stesso amore alla chiesa, non si intesero mai. De
Gasperi, anche Pio 12, rimasero sempre “uomini soli”. Continuarono in quegli anni, anche dopo
la morte di De Gasperi nel ‘54, le inquietudini vaticane sulla linea politica della DC. Angelo
Roncalli, patriarca di Venezia, fu quasi rimproverato dal S. Ufficio per l’orientamento di un
settimanale della DC che usciva nella città della laguna. Gronchi, Presidente della Repubblica
dal 1955, in un udienza clandestina con Pio 12 si trovò di fronte un pontefice fermo nel vietare
“ogni apertura a sinistra”. Ma la storia andava avanti verso un mondo sempre più laico,
che Pio 12 ormai altramonto vedeva avanzare con sincero dolore.

VI. Il concordato con la Spagna del 27.8.1953: tentativo di ritorno alla


cristianità: sogno di una notte di mezza estate
Dopo la fine della guerra civile spagnola, il ristabilirsi della normalità, il consolidamento del
regime autoritario e conservatore di Franco, le relazioni fra il Vaticano e Madrid si fecero
sempre più cordiali, e dopo gli accordi parziali del1941,1946,1950 culminarono nel concordato
del 27.8.1953. Si ripeteva ancora una volta nell’art. 1, il principio del cattolicesimo unica
religione di stato, alla Chiesa era anzi riconosciuto il carattere di “società perfetta”, preoccupata
di assicurare l’indipendenza della società fondata da Cristo. Da questo principio seguivano varie
conseguenze. La libertà dei culti acattolici era fortemente limitata, nei territori metropolitani
solo libertà di culto privato, nei territori “di sovranità spagnola in Africa” libertà di culto
pubblico. La scuola anche statale “di qualsiasi ordine e grado” tornava sotto il controllo della
gerarchia, perché l’insegnamento fosse conforme al dogma e alla morale cattolica. Il concordato
assicurava poi non solo la libertà di giurisdizione delle autorità ecclesiastiche, ma garantiva loro
un largo appoggio dello Stato. Così l’art.16 riconosceva la competenza esclusiva dei tribunali
ecclesiastici per i delitti che ledono una legge meramente della Chiesa, senza ammettere in
questi casi nessun ricorso alle autorità civile, non solo riconosceva pieni effetti civili al
matrimonio celebrato secondo le norme del diritto canonico, art.23, ma ricordava l’esclusiva
competenza dei tribunali e dicasteri ecclesiastici nelle cause sulla nullità di matrimonio e sulla
separazione dei coniugi ( nel concordato con l’Italia del 1929 invece attribuito alla giustizia
statale). Alla giustizia ordinaria restava l’esecuzione degli effetti civili di queste cause. Erano
poi riconosciute, entro certi limiti, le tradizionali immunità, e per i religiosi e chierici arrestati la
detenzione era prevista “in una casa ecclesiastica o almeno in locali distinti da quelli destinati ai
secolari”. Lo Stato assicurava il suo appoggio alla cura pastorale nell’esercito, ospedali, nella
propaganda attraverso i mezzi di comunicazione sociale (art. 29 caso unico nei concordati
recenti). Mentre la proprietà ecclesiastica era convenientemente regolata, all’azione cattolica era
garantita la libertà di apostolato. Per la nomina dei vescovi si confermava l’accordo del 1941
che, attraverso loscambio di liste di candidati fra Madrid e Roma, lasciava al governo spagnolo
e al capo dello Stato l’ultima parola. Ancora una volta la Spagna costituiva un caso unico.
Franco su questo punto era stato tenacissimo per assicurarsi un episcopato a lui fedele.
Il concordato del 1953 rispondeva certamente alle aspirazioni delle due parti, esso mostra in
modo emblematico gli ideali perseguiti da Pio 12, proteso nello sforzo di assicurare alla Chiesa
da parte dello Stato delle speciali prerogative, cioè in definitiva un regime giuridico particolare
e uno speciale appoggio al governo. Si mirava così non solo a salvaguardare il matrimonio
cristiano, fondamento della famiglia, ma a plasmare tutta la società, con il controllo
ecclesiastico sull’istruzione, con la semplice tolleranza del culto acattolico privato. Le classi
dirigenti spagnole di quell’anno erano soddisfatte per aver salvato ancora una volta uno degli
aspetti salienti della civiltà e della tradizione spagnola, una componente della hispanidad, la
fedeltà piena ai principi cattolici.

Nel messaggio alle Cortes del ‘53 Franco poteva affermare “lo Stato riceve dalla Chiesa
un’immensa cooperazione morale e, in cambio, lo Stato dà alla Chiesa i mezzi necessari per
compiere la sua missione sulla terra”. Il concordato era in larga parte frutto della nunziatura a
Madrid di mons. Cicognani, che avrebbe preferito un altro sistema per la nomina dei vescovi.
La Chiesa usciva apparentemente vincitrice, aveva sacrificato la sua libertà nella nomina dei
vescovi, il concordato non era costruttivo e avrebbe provocato presto vive contraddizioni.

VII. La chiusura teologico pastorale degli anni 50


Verso gli anni 50 molti teologi furono oggetto di diversi provvedimenti restrittivi, per assumere
poi un ruolo rilevante, influendo sui decreti del Concilio Vaticano II (De Lubac cardinale sotto
Giovanni Paolo II).

Fra il 1920 e il 1950 il cattolicesimo è caratterizzato da una notevole vivacità. Riaffioravano


nella polemica motivi già emersi nella controversia modernista: l’opportunità di un
rinnovamento teologico, di un avvicinamento al mondo contemporaneo, l’istanza del
superamento non del tomismo, ma dello scolasticismo, la preoccupazione di un ritorno ai padri.
Pio 12, che aveva espresso le sue preoccupazioni fin dal 1946 ai gesuiti ed ai domenicani riuniti
a Roma per l’elezione del rispetto generale, ribadì la sua posizione moderatamente conservatrice
nell’enciclica “Humani Generis” del 1950: il Papa non condannava esplicitamente nessun
autore, ma sottolineava le conclusioni errate a cui potevano involontariamente spingere certi
indirizzi.” Le conseguenze del documento non tardarono.

Contemporaneamente, in diverse nazioni, i cattolici auspicavano una vasta riforma liturgica,


con l’introduzione del volgare e l’immediata partecipazione dei fedeli al sacrificio eucaristico,
una maggior partecipazione dei laici nel governo della Chiesa, un larghissima libertà ed
autonomia dei laici cattolici nelle scelte politiche.

VIII. Le aperture e la loro logica interna


Non mancarono certamente in quegli anni 1945-1958 iniziative coraggiose prese dal Papa nel
campo teologico, in quello liturgico, in quello strettamente pastorale. L’enciclica “Divino
Afflante Spiritu” del 1943 biasimava lo zelo poco prudente che considera tutto ciò che è nuovo
sospetto e da combattere e ammetteva che accanto a una dottrina ecclesiastica tradizionale su
alcune punti della Bibbia ne restavano altri sui quali era legittima un’ulteriore indagine degli
esegeti cattolici. Il documento pontificio si fermava in particolare sui “generi letterari” seguiti
nella Sacra Scrittura, ammettendo che gli scrittori ispirati possono in molti casi aver seguito la
mentalità e i metodi degli orientali, adottando certi paradossi e modi di dire iperbolici per
inculcare più profondamente alcune verità religiose. Pochi sono i passi il cui senso sia stato
interpretato in modo definitivo dal magistero, o su cui si possa parlare di consenso unanime dei
padri: resta ancora un vaso spazio all’indagine. Pio 12 ricordava anche che l’esegesi deve
approfondire il contenuto religioso e la portata teologica della Bibbia e si apriva la via ad un
rinnovamento dell’esegesi, all’altro scopre l’evoluzione progressiva della sua rivelazione.

Lo stesso anno usciva l’enciclica “Mystici Corporis” in cui il concetto di Chiesa come società
perfetta passa in second’ordine davanti all’aspetto invisibile della comunione di vita fra
Cristo e i fedeli. Organismo visibile e organico, la Chiesa ha Cristo come fondatore, capo,
conservatore, redentore: essa non nasce unicamente dall’atto con cui Cristo ha fondato una
società, ma dalla volontà con cui Lui ha reso presente mediante essa sino alla fine dei tempi
l’opera della redenzione. Questa visione di Chiesa come corpo mistico ne sottolineava bene la
missione salvifica.

L’enciclica “Mediator Dei” del 1946 metteva in guardia contro alcune esagerazioni (di chi
voleva quasi sopprimere devozioni tradizionali come il rosario e la via crucis o la meditazione
personale), ma soprattutto convalidava il lungo lavoro del primo 900, esponendo il posto
centrale della liturgia nella vita cristiana, come culto integrale del corpo mistico. Si trattava di
riforme di un sistema che nel complesso restava ancora in piedi, non di introduzione di un
nuovo sistema. In breve, riforme nel sistema, non del sistema.

Non mancarono però importanti applicazioni pratiche: la nuova traduzione dei Salmi attuata
dall’Istituto Biblico, il ripristino della veglia pasquale nel 1951, una moderata riforma del
breviario. Nuova disciplina del digiuno eucaristico, prima largamente mitigato fino al 1953, poi
ridotto a un’ora e poi abolito nel 1956, e la parallela introduzione delle messe vespertine,che
incideva sul costume sociale in tutti i paesi. Il 6.1.1953 la costituzione “Christus Dominus”
mutava radicalmente la situazione: il digiuno eucaristico era superato ed erano permesse in certi
casi le messe vespertine. La disciplina delle messe vespertine si allargò gradualmente fino a
divenire una prassi abituale, sostanzialmente dal ‘57. L’enciclica “Musicae Sacrae Discplina”
del 1955 e l’istruzione della Congregazione dei riti del ‘58 sulla musica sacra e sulla liturgia
chiarivano alcuni punti: si approvavano le messe dialogate in latino, si permetteva che vari
sacerdoti rivestiti dei paramenti assistessero insieme alla messa celebrata da uno solo di loro e
ricevessero da questo la comunione, si proibiva che un fedele leggesse in lingua volgare
l’epistola e il Vangelo mentre il celebrante la leggeva in latino. La vera, autentica rivoluzione
operata da Pio 12 era stata l’abolizione del digiuno eucaristico e l’introduzione delle messe
vespertine.

Nella pastorale, se Pio 12 si limitò ad approvare esplicitamente la continenza periodica (cioè


l’uso del metodo Ogino-Knaus), compì passi più importanti e innovatori relativamente alle
nuove forme di vita consacrata: l’enciclica “Provida Mater” del 1947 e il “Primo Feliciter” del
1948 riconoscevano gli istituti secolari, con un’innovazione rispettoal codice del 1917, che ebbe
subito larghe conseguenze positive. Contemporaneamente l’enciclica “Sponsa Christi “ del
1951 mitigava la clausura delle monache contemplative e le invitava ad assumere qualche
iniziativa apostolica adatta al loro genere di vita. Vari radiomessaggi natalizi.

Non è certo conforme alla realtà presentare Pio 12 come un conservatore ad oltranza, contrario
ad ogni riforma all’interno della Chiesa. Abbiamo visto ora le innovazioni dalui apportate: dalla
soppressione del digiuno eucaristico all’approvazione degli istituti secolari. Bisogna però
aggiungere che nella visione centralizzatrice del Pontefice cambiamenti e novità potevano
essere introdotte solo dal Papa, per una sua decisione personale. Gli stessi alti funzionari della
curia erano per lui esecutori, non collaboratori. Riforme dunque dall’alto, non dal basso.

IX. Sguardo d’insieme


Questi anni ci mostrano una Chiesa che affronta 3 situazioni diverse nell’Europa orientale,
centrale, occidentale. In tutta l’Europa orientale la Chiesa vive un’autentica persecuzione. In
Italia la S. Sede tenta di imporre la restaurazione di uno stato cristiano, con le pressioni su De
Gasperi. In Spagna la restaurazione sembrò riuscire nel 1953, a prezzo della rinunzia alla libertà
nella nomina dei vescovi, e con una limitazione della libertà religiosa degli acattolici. E intanto
la vita cambiava in tutti i campi: la popolazione agricola, tradizionalmente più vicina ai valori
cristiani, diminuiva, gli addetti all’industria, più ostili alla religione, crescevano, il reddito
individuale e familiare aveva un netto progresso, nasceva e si diffondeva la televisione e le
automobili, aumenta il benessere ma anche le spese, nei singoli paesi si intensificavano le
emigrazioni interne, dalle regioni agricole più povere a quelle industriali più ricche. Il modello
tradizionale di famiglia entra in crisi, valori classici, considerati sostegno della società, sono
scossi.

L’istruzione della Congrega dei riti il 3.9.58 è significativa: la semplice lettura in lingua volgare
dell’epistola e del vangelo, contemporanea a quella fatta in latino dal sacerdote, era proibita.
8. Il Concilio Vaticano II (1962-1965)
I. L’idea e la preparazione
L’elezione di Angelo Roncalli il 28.10.1958, dopo un conclave di 4 giorni, fu accolta in Italia
con una certa sorpresa. L’eletto era stato all’estero per 27 anni, e i 6 anni passati come patriarca
a Venezia non erano stati sufficienti per farlo conoscere bene. L’attesa, gli interrogativi sulla
sua personalità durarono poco. Subito dopo l’elezione egli obbligò mons. Tardini, “pro-
segretario di stato”, ad accettare la carica di segretario di Stato: la decisione rivelava la volontà
di troncare quella politica di forte centralizzazione tipica di Pio 12, che per 14 anni non aveva
voluto accanto a sé nessun segretario di Stato. Il Pontefice, rimasto estraneo all’ambiente
curiale, aveva bisogno di chi lo introducesse un po’ in quei meandri, e d’altra parte chiamare al
proprio fianco Tardini (Tardini criticava Roncalli perché non veniva dall’accademia)
significava eliminare ogni possibilità di attrito, assicurarsi una fedele cooperazione. “I nemici è
meglio averli accanto, per neutralizzarli, che lontani”. La personalità del Papa si rivelò col
discorso del 4.11.1958, giorno della sua incoronazione, che sottolineava la missione peculiare
del Papa, non diplomatica, non organizzativa, ma religiosa e pastorale, e riassumeva la figura
del Pontefice in queste parole “Buon Pastore”; nella rapida infornata di 23 cardinali, nella
visita natalizia al carcere romano del Regina Coeli con un discorso semplice e fraterno. Da
secoli mai un Papa aveva varcato le soglie di quel carcere, di nessun carcere di Roma.

Ma la bomba vera e propria non era ancora scoppiata. Esplose il 25.1.1959, 3 mesi dopo
l’elezione, con il discorso nella Basilica di s. Paolo a 17 cardinali presenti a Roma che
annunciava un piano preciso: un sinodo romano, un concilio ecumenico, l’aggiornamento del
codice di diritto canonico. Non è escluso che i cardinali presenti in conclave 3 mesi prima
avessero scelto un papa di 77 anni come un pontefice di transizione. Nessuno avevano fino
allora capito chi era Roncalli (Tardini aveva definitoRoncalli un pacioccone). Ma un pacioccone
non avrebbe mai convocato un concilio. L’idea di un pontificato di transizione scompariva dalla
scena. Lo stesso cardinale di Milano Montini si sfogò con il filippino Bevilacqua “che
vespaio!”. Quel vespaio lo avrebbe presto ereditato lui stesso, e ne avrebbe fatto il suo
capolavoro.

Il Papa parlò del progetto a Tardini il 20 gennaio quando il discorso era già pronto: il cardinale
comprese subito che si trattava non di un vago progetto ma di un piano irrevocabile, e si allineò
immediatamente alla volontà del Pontefice. Giovanni 23 prese quella storica decisione in modo
del tutto personale, con la piena coscienza di valersi della pienezza dei suoi poteri di capo della
Chiesa, nella lucida visione della speciale situazione storica che attraversavano la Chiesa e il
mondo intero, diviso in due blocchi, fra i quali un avvicinamento era difficile ma urgente. Il
Papa vedeva l’utilità di una più stretta collaborazione fra papato ed episcopato. L’assise
ecumenica non sarebbe stata la continuazione del Concilio interrotto alla fine di ottobre 1870,
ma un’assemblea interamente nuova. È difficile stabilire se il 25.1.1959 Giovanni avesse chiara
la sensazione che stava aprendosi un’epoca nuova: certo l’idea appare esplicitamente
nell’allocuzione Sacrae Laudes del 6.1.1962, serve trovare il modo opportuno per esporre
l’antica dottrina nei tempi nuovi, per instaurare un dialogo con tutta l’umanità, avviare un
dialogo con tutti, vicini e lontani.

Il Papa aveva espresso il desiderio di ricevere dai cardinali una parola intima e confidente sulle
loro disposizioni, suggerimenti circa l’attuazione del suo disegno. Ma su 75 solo 26 risposero.
Si ha l’impressione che l’iniziativa del Papa, vista con grande favore dall’opinione pubblica,
cattolica o no, fosse accolta con perplessità dalle massime autorità della Chiesa. Secondo
un’opinione largamente diffusa si apriva un certo dissenso fra la curia romana, l’ala
conservatrice del sacro collegio, italiana (Ottaviani, Ruffini, Siri) o no ( alcuni spagnoli) e
dell’episcopato (alcuni vescovi italiani, spagnoli) da una parte, e le forze progressiste, i
cardinali Suenens, Lercaro, Bea, e la maggioranza dei vescovi dall’altra. Nel giugno 1959
Tardini inviò ai circa 3 mila vescovi del mondo l’invito a stendere le proprie proposte per il
Concilio. Vennero poi raccolti e sistemati.

Intanto dal febbraio 1959 al gennaio (e giugno) 1960 giungeva in porto il sinodo romano
caratterizzato dallo sforzo del vicariato di recuperare l’autonomia perduta sotto Pio 12, da un
certo dissenso tra religiosi e clero secolare, dallo scontro fra gli intransigenti propensi alle
scomuniche e i moderati. Giovanni 23 svolse un’utile opera di mediazione e di equilibrio,
ma le costituzioni sinodali ebbero un accento conservatore, e anche per la rapida trasformazione
in atto dopo il Concilio furono immediatamente superate. Il sinodo romano, che avrebbe
dovuto offrire un esempioa tutta la Chiesa, non fu mai applicato di fatto nella diocesi del Papa.

Per la riforma del codice venne istituita un’apposita commissione il 28.3.1963. Invece i lavori
preparatori dell’assise ecumenica procedevano in modo abbastanza rapido. Intanto 3
avvenimenti successivi mostravano la coesistenza di opposte tendenze nella curia e negli
ambienti vicini al papa e una qualche incertezza nel comportamento dello stesso Giovanni 23
sollecito di raccogliere intorno a sé ilmassimo dei consensi e disposto per questo a fare qualche
concessione alle forze conservatrici. Il 16.11.1959 era nominato cardinale il padre Bea, che
avrebbe esercitato nel Concilio un influsso importante. Confessore di Pio 12, aveva avuto una
parte importante nella reazione dell’enciclica “Divino Afflante Spiritu” del 1943. Papa Giovanni
23 non lo conosceva direttamente e voleva essenzialmente mostrare la sua stima per la
compagnia. I due si intesero subito, dal primo incontro, molto bene, e l’anziano professore di
scrittura rivelò un’inattesa apertura e un vivo senso ecumenico. Si deve a lui la nascita del
Segretariato per l’Unità dei Cristiani. Alla fine di maggio il segretariato era costituito:
presto esso avrebbe esteso la sua attività anche ai problemi ebraici. Presidente, ovviamente,
lo stesso Bea.

Lo stesso anno 1959, il Venerdì Santo, il Papa, durante la liturgia solenne, dette l’ordine
improvviso di omettere nella preghiera per gli ebrei, l’aggettivo “perfidi”, introdotto nel
medioevo, oggetto di interpretazione diverse. La modifica della liturgia su questo punto,
immediatamente estesa a tutta la Chiesa, venne interpretata obiettivamente, come un
significativo gesto di avvicinamento e di invito al dialogo. Eppure, quando fervevano i lavori
preparatori del Concilio, nel febbraio 1963, venne promulgata la “Veterum Sapientia”, solenne
esaltazione del latino come lingua della Chiesa e dell’istruzione teologica. Le precise e severe
disposizioni della bolla furono rapidamente dimenticate e superate. Si disse, che il documento
costituivaun funerale di prima classe della lingua latina nella liturgia e nelle scuole teologiche.

In ogni modo il 5.6.1960 il motu proprio “Superno Dei Nutu” avviava la reale preparazione del
Concilio, che si sarebbe protratta per due anni. Erano create 11 commissioni: 1. centrale, che
avrebbe svolto un lavoro di coordinamento e di approvazione degli schemi elaborati , presieduta
dal segretariato di Stato; 2. dogmatica, con a capo Ottaviani; 3. per i vescovi e il governo
delle diocesi; 4 . per la disciplina del clero; 5. per i sacramenti; 6. per la liturgia, i seminari, i
religiosi, le chiese orientali, le missioni, l’apostolato dei laici, il segretariato per l’unità dei
cristiani. Segretario della commissione centrale era Pericle Felici, più tardi segretario dello
stesso Concilio. Le commissioni ripetevano in sostanza la struttura della curia romana, con 2
eccezioni: del tutto nuovi erano la commissione per 1. l’apostolato dei laici e 2. il segretariato
dei cristiani.

Rispetto al Vaticano 1 le commissioni erano ben più numerose, abbracciavano campi disparati
ed ampi con orizzonti molto più aperti che ai tempi di Pio 9. Il segretariato per l’Unione venne
presto equiparato di diritto alle altre commissioni, e svolse un ruolo di prima importanza. I
membri delle commissioni erano per lo più vescovi, ma erano affiancati da consultori, cioè da
teologi. Incontriamo anzi tra questi periti persone che negli anni erano state guardate con
diffidenza, rimosse dall’insegnamento, sorvegliate nelle pubblicazioni. Il rovesciamento di
posizioni si realizzava, non senza difficoltà, ma efficacemente. Alla fine del Concilio 2
l’annuario pontificio e le commissioni conciliari nel complesso raccoglievano quasi 400
membri. Due terzi erano europei.

Nel Natale del 1961 il Concilio venne ufficialmente convocato per l’anno seguente: lo aveva
deciso personalmente il Papa, nonostante le pressioni contrarie che ritenevano necessario
preparare meglio e quindi più a lungo i lavori della futura assemblea. Gli avvenimenti posteriori
hanno confermato la validità della decisione: se il Papa fosse morto prima dell’inizio
dell’assise, non sappiamo se essa si sarebbe mai aperta. La data di apertura venne stabilita per
l’11.10.1962.

Nel agosto 1962, due mesi prima dell’apertura, venne firmato il regolamento conciliare,
pubblicato più tardi. L’assemblea era diretta da un consiglio di presidenza, nominato dal Papa e
formato da 10 cardinali. Le commissioni già esistenti presentavano al concilio gli schemi di
decreto ed eventualmente li modificavano tenendo conto dei pareri espressi; dei 24 loro membri
due terzi erano eletti dal Concilio, un terzo e il presidente erano nominati dal Papa. Ai membri
con diritto di voto si affiancavano esperti, nominati dal Papa. Dal novembre 1961 era stato
discusso se invitare come osservatori alcuni rappresentanti delle Chiese separate da Roma.
Risolto in via preliminare il problema, si erano succeduti vari contatti con le Chiese anglicane,
germaniche, scozzesi, orientali. La bolla di Natale 1961 annunziava già che non poche comunità
cristiane avevano promesso di inviare a Roma loro rappresentanti per seguire da vicino i lavori
del Concilio. Il regolamento considerava la questione come risolta e riconosceva alle Chiese
cristiane separate il diritto di inviare osservatori alle sessioni pubbliche e alle congregazioni
generali (sedute ordinarie), senza diritto di voto. All’inizio del Concilio gli osservatori
presenti all’inizio erano 48 e praticamente alla fine superarono il 100inaio, in rappresentanza di
una 30ina di Chiese separate, un numero relativamente alto.

Gli schemi dei decreti sarebbero stati presentati da uno o più relatori. Ogni padre non poteva
parlare più di 10 minuti (visti i tanti partecipanti). I testi potevano essere approvati solo con la
maggioranza di due terzi. La lingua era quella latina. Un segretariato per le questioni
straordinarie avrebbe esaminato eventuali nuovi problemi. Il 6 settembre mons. Felici era
nominato segretario del Concilio. Nell’insieme il regolamento era buono, ma l’esperienza
suggerì l’opportunità di modificarlo successivamente in alcuni punti per rendere più spediti i
lavori.

Le commissioni preconciliari non avevano avuto alcuna direttiva per i loro lavori col vantaggio
di rimanere libere nella scelta dei temi e nella redazione degli schemi e con lo svantaggio di non
avere un orientamento che assicurasse una certa unità. In genere, si ripeté quanto era avvenuto
nella preparazione dell’assise del 1869-70: un numero molto alto di schemi, che dovettero
essere in parte riuniti e ridotti, in parte rifatti, e in parte non furono discussi; un indirizzo
tradizionale, che rispecchiava la mentalità prevalentemente nominante nella Roma ecclesiastica,
senza tener conto delleattese e dei fermenti innovatori, che parzialmente repressi da Pio 12, non
si erano per nulla spenti. Due episodi sono significativi: il 20.6.1962, Cicognani, segretario di
Stato, successore di Tardini morto nel 1961, di fronte allo schema sugli ebrei preparato da Bea,
osservò che il decreto era superfluo. I vincoli tra cristiani ed ebrei erano già chiari; il Concilio si
doveva preoccupare di ben altro, l’affermazione della propria fede ed il rafforzamento del suo
apostolato. Gli israeliti sanno bene che saranno accolti con affetto se si convertono, a un tale
decreto dovrebbe allora aggiungersene uno per i musulmani, col pericolo di scivolare nella
politica e di complicare le cose senza necessità. Bea capì che in quel momento non era il caso di
opporsi al pragmatismo del segretario di Stato, tacque e sperò in un domani migliore.
Lo stesso giorno, sia la commissione dogmatica di Ottaviani, sia il segretariato per l’Unita di
Bea presentarono due testi ben diversi sulla libertà religiosa. Il testo Ottaviani si muoveva nella
linea classica della seconda metà dell’800, non usava le parole tesi/ipotesi, ma difendeva quei
concetti tradizionali secondo i quali uno Stato cattolico può praticale la tolleranza verso le altre
religioni, per evitare mali maggiori. Bea seguiva una via nuova: sottolineava il diritto di seguire
la propria coscienza, l’esclusione di ogni coazione esterna, la libertà anche pubblica del culto, il
dovere dello Stato di rispettare le coscienze e di impedire ogni discriminazione confessionale.
Ottaviani si irritò di fronte allo schema Bea, ne seguì una discussione ed il rinvio dei due
schemi ad una commissione mista, che mai si riunì. La questione si sarebbe chiusa nella quarta
ed ultima fase dopo un lungo esame.
Gli schemi redatti fra il 1960 e 1962. Lo schema sulla Chiesa sottolineava, sulla scia del
Vaticano 1, il primato del Papa, senza approfondire a sufficienza il rapporto fra papato ed
episcopato. Lo schema sulla rivelazione presentava tradizione e Scrittura, come fonti
adeguatamente distinte, in modo da accentuare la distanza tra cattolici e protestanti. Due
commissioni, quella dei vescovi, e l’altra sulla disciplina del clero e del popolo cristiano,
avevano preparato due testi sull’azione pastorale verso i cristiani “infetti” dal comunismo.
Ottaviani voleva evitare che questa cancrena aumentasse. I due testi vennero in un primo tempo
unificati, poi semplificati, evitando la parola comunismo e parlando invece di partiti che
“difendono e propagandano una visione materialistica ed anticristiana” e infine soppressi: ne
avrebbe dovuto parlare lacommissione sull’apostolato dei laici. Lo schema iniziale sulla Chiesa
di fronte al mondo moderno fu rielaborato a lungo, prima e dopo l’inizio del Concilio, passando
da una fase iniziale, più freddina e negativa, alla redazione discussa in aula, più ottimistica,
aperta, pronta a riconoscere il debito che la chiesa ha nei confronti del mondo.
Il materiale preparato aveva un grave limite: era troppo vasto. Il card. Montini dice che secondo
lui era “mancata un autorità coordinatrice, un’idea centrale, architettonica”. Aveva influito
negativamente in questo anche la celerità del lavoro della commissione centrale, che fra il ‘61 e
il ‘62 in 44 sedute discusse ed approvò a tamburo battente quasi tutti gli schemi, il più delle
volte senza un esame approfondito. Giovanni 23 aveva lasciato alle commissioni larga libertà,
fedele al suo principio “lasciar fare, far fare, dar da fare”. Aveva però letto gli schemi e aveva
anche fatto commenti. Si era poi riservato di rivederli nelle ultime discussioni e nella
preparazione della loro definitiva approvazione.

Giovanni 23 certamente stava acquisendo un notevole favore nell’opinione pubblica per tutto
un complesso di fattori: lo stile del tutto nuovo introdotto in Vaticano, ben diverso da quello
compassato e severo del suo predecessore; il voluto accentuato distacco da ogni intervento
diretto nella politica italiana, che lasciava libertà di manovra alla DC e ai governi da essa
sostenuti; la simpatia con cui guardavano a lui personalità di tutto il mondo, a cominciare dal
Capo del Governo dell’URSS Kruscev, che gli aveva espresso i suoi auguri per i suoi 80 anni; il
metodo pastorale da lui iniziato, di frequenti visite pastorali nelle parrocchie di Roma;
l’ottimismo e la fiducia con cui guardava alla società moderna e al mondo, come appariva in
vari discorsi.

Il proposito di evitare direttive e pressioni sul partito politico di ispirazione cristiana, di


mantenere “una distinzione e un tal quale riserbo di rapporti, pur fatti di garbo e di rispetto”,
appare esplicitamente nella lettera al Presidente della Repubblica Gronchi del 1960. È ribadito
poi nei discorsi una netta distinzione fra “Roma, capitale del cattolicesimo, sede del pontificato
romano universale” e “La Roma del vortice della vita civile”. L’eco dell’enciclica “Mater et
Magistra” del maggio 1961, nel 70esimo della “Rerum Novarum”, che insisteva sulla funzione
di solidarietà dello Stato, guardando con simpatia quel particolare momento politico (in cui la
ripresa italiana dopo la Seconda guerra mondiale era dovuta anche al largo intervento statale nel
campo economico) e lo confermava nel suo innato ottimismo. Non voleva né irritare né
scoraggiare i suoi collaboratori, cercava di cogliere e di sottolineare quello che trovava di buono
e a lui particolarmente gradito negli schemi preparatori, e lasciava che il tempo, le discussioni,
il costante aiuto del signore chiarissero meglio le questioni e le soluzioni.

Il Pontefice non voleva in nessun modo dare l’impressione di forzare la curia e le commissioni
preparatorie, meno che meno sollevare il sospetto di essere guidato da altri nella preparazione
del Concilio.

Giovanni 23 era stato però molto colpito dalla pastorale redatta dall’arcivescovo di Malines
Suenens che considerava il Concilio sotto due punti di vista, come evento e come mistero. Da
allora si intensificarono i rapporti fra il vescovo di Roma e quello di Malines-Bruxelles e
quest’ultimo espose al Papa le preoccupazioni serpeggianti fra molti vescovi per l’andamento
dei lavori e gli espose un progetto più organico. I lavori dovevano concentrarsi sulla Chiesa, nei
suoi due aspetti, la sua vita e problematica interna, il suo rapporto con il mondo contemporaneo.
Il Papa fece almeno inviare ai vescovi alcuni degli schemi predisposti. Solo lo schema sulla
liturgia riscuoteva un generale consenso.

II. L’apertura del concilio e le forze in campo


A Roma l’8.12.1869 erano arrivati oltre 700 vescovi, di cui 400 europei, l’11.10.1962 presero
parte alla seduta inaugurale 2540 padri conciliari (nel mondo 4000 vescovi). Mai, non solo nella
storia della Chiesa, ma si può dire forse in tutta la storia, un assemblea si presentava così
numerosa e con caratteri così universali. Al Vaticano 1 erano assenti i vescovi portoghesi, per
antiche tradizioni nazionalistiche, e tutti i vescovi della Russia e del cosiddetto Regno Polacco,
per ovvi motivi politici. Ora i portoghesi erano presenti praticamente al completo, i polacchi
pure. Mancavano tutti i vescovi albanesi, rumeni, ungheresi.
Fin dall’inizio del Vaticano 1 si poté calcolare il rapporto, rimasto immutato sino alla fine, tra
infallibilisti ed antinfallibilisti: il computo si fonda sul numero delle firme ai postulati pro e
contro l’infallibilità e sulla votazione significativa del 13.7.1870. il rapporto tra le due parti era
di 3 a 1. Per il Vaticano 2 il computo è quasi impossibile. Si può dire che il rapporto si era
rovesciato largamente: se al vaticano 1 prevalevano i curiali e i conservatori, favorevoli ad una
netta subordinazione dell’episcopato al Papa e ad un atteggiamento di distacco e di diffidenza
nel mondo moderno, al vaticano 2 predominano nettamente i progressisti, difensori
dell’episcopato e aperti al mondo moderno. Comunque l’opposizione, che si raccolse nel
“Coetus Internationalis Patrum”, non superò con ogni probabilità il 10%. Il rapporto tra
maggioranza e minoranza sarebbe quindi 9 a 1. Un’analoga evoluzione si avverte nelle
votazioni sulla “Lumen Gentium”, approvata con schiacciante maggioranza dopo discussioni e
momenti critici. La minoranza era costituita dalla vecchia guardia italiana (Ottaviani, Ruffiani,
Siri) e da un gruppo di spagnoli (card. Larrona e mons. Morcillo Gonzalez), vari latino
americani. Tra i francesi spiccava il vescovo di Tulle Lefebvre. La maggioranza era costituita
da un largo gruppo dell’Europa centro-settentrionale, vescovi afroasiatici.

Se durante i lavori preparatori nelle commissioni la linea conservatrice, composta


sostanzialmente dai curiali presenti, era stata forte ed influente, nei lavori conciliari l’episcopato
si schierò in maggioranza schiacciante per le posizioni più aperte e innovatrice: in definitiva
quelle sostenute da Giovanni 23 e Paolo 6. Essa era sensibile alla realtà del mondo, ai problemi
dell’aggiornamento, dell’ecumenismo, di una pastorale più capace di raccogliere i fedeli e di
farsi capire ed accettare, poco preoccupata delle chiarificazioni dottrinali, diffidente verso
quella centralizzazione che si era accresciuta, soprattutto sotto Pio 12. La minoranza proveniva
da paesi in ampia maggioranza cristiani, dove la Chiesa coi suoi vescovi aveva ancora un certo
prestigio e un notevole influsso; attaccata al passato, diffidava delle novità, guardava con
terrore la diffusione del comunismo, che voleva solennemente condannato, e la secolarizzazione
crescente; tendeva a confondere le verità rivelate con le formule dogmatiche invalse da secoli.

Il contrasto tra maggiorana e minoranza rientra nelle vicende di quasi tutti i concili. Può
contribuire a chiarire alcuni problemi, testi non del tutto maturati. D’altra parte esso rese più
lenti e difficili i lavori, e fece passare in secondo piano il dialogo con la società contemporanea.
Specialmente dopo Paolo 6, la preoccupazione costante del Capo della Chiesa fu di ridurre i
contrasti, di raccogliere consensi, di evitare spaccature. Alla vigilia del Concilio il segretario
mons. Felici, come molti vescovi italiani, pensava che l’assemblea avrebbe rapidamente
approvato gli schemi preparati e che tutto poteva finire presto. Si pensava che si potesse finire in
3 mesi, per Natale. Anche Giovanni 23 aveva questa speranza in un primo momento. Si era
augurato il 22.8.1962 di beatificare il Pontefice del Vaticano 1 durante lo svolgimento del
Concilio (allusione implicita ad un’assise breve e tranquilla) ma già la sera dell’apertura, al
colloqui alla finestra coi fedeli, aveva confidato perplessità: “il concilio è cominciato e non
sappiamo quando finirà”. Poi l’allocuzione del papa, è una fedele presentazione latina del Papa.
L’assemblea avrebbe dovuto non solo trasmettere pura e integra la perenne dottrina, ma
“compiere un balzo in avanti verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle
coscienze”. La condanna degli errori doveva essere effettuata in modo positivo, e l’appello
all’unità, sembrava, più che un iniziativa da parte di Roma, una risposta dei cristiani separati.
L’allocuzione volgeva al termine con insolito, trepido calore, “è appena l’aurora”.

III. Il primo periodo del concilio 1962-1963


I primi giorni del Concilio rivelarono subito che l'assemblea non si sarebbe adattato ad una
pacifica accettazione di decisioni prese dall'alto. Il card. Liénart chiese che l'elezione dei membri
delle commissioni conciliari forse rinviata di qualche giorno per dar tempo ai padri di conoscersi
meglio e di prepararsi con cura. La richiesta approvata all'unanimità, nonostante qualche
malumore della curia, permise le elezioni di esperti famosi di ogni parte del mondo. Mancava
comunque un piano di lavori. Dietro il parere di molti padri e nella previsione di minore difficoltà,
il 16.10.1962 il segretario mons. Felici annunciò che nei giorni seguenti si sarebbe cominciato a
discutere lo schema della liturgia. Ma già il 18 il card. Montini in una lettera al segretario di Stato
Cicognani notava che la scelta non era giustificata.

Si iniziò così il 22 ottobre la discussione sulla liturgia protratta sino a metà novembre. Lo schema
proposto sottolineava la partecipazione attiva dei fedeli alla liturgia, una certa introduzione delle
lingue volgari, una riforma dei libri liturgici d la reintroduzione della distribuzione dell’eucaristia
sotto le due specie. Immediatamente si accese lo scontro fra tradizionalisti e progressisti. Il 14
novembre fu approvata la rielaborazione del testo in base ai suggerimenti emersi e il 7 dicembre la
prima parte del nuovo testo venne già approvata con la larga maggioranza. Più grave fu la
discussione sullo schema “De Fontibus revelationis” del gesuita Tromp su cui si fronteggiavano 2
concezioni: 1. i tradizionalisti che difendevano la tesi più diffusa dopo Trento di una chiara
distinzione fra Scrittura e Tradizione e 2. i progressisti che vedevano che la Tradizione non
costituiva una fonte diversa dalla Scrittura poiché la rivelazione è contenuta nella Bibbia spiegata
dalla Chiesa. Il 20 novembre fu eseguita una votazione sulla domanda se si volesse interrompere la
discussione e la maggioranza votò a favore.

Negli ultimi giorni rimasti, tra novembre e l'8 dicembre, furono esaminati genericamente gli
schemi sulle comunicazioni sociali, quello sulle Chiese orientali e quello sulla Chiesa che furono
oggetto di diverse critiche. L'otto dicembre si chiudeva così primo periodo del Concilio senza che
nessuno degli schemi presentati fosse stato approvato.

Contro ogni timore, l'intersessione 1962-1963, si dimostrò feconda. La commissione di


coordinamento istituita il 6 dicembre con a capo Cicognani in 5 sedute fra il gennaio e il maggio
con l'aiuto di una sottocommissione rielaborò gli schemi già discussi in S. Pietro. Verso maggio
era quasi pronto il nuovo schema sulla liturgia, ma già prima si era ricostruito quello sulla
rivelazione senza risolvere tutte le questioni ma tralasciando la teoria delle due fonti, riaffermando
l'unicità della rivelazione della sua origine e l'importanza della Parola di Dio in tutta la vita della
Chiesa. Intanto dal 13 dicembre Papa Giovanni 23 aveva espresso al card. Bea il suo
interessamento per il decreto sugli ebrei che fu ripreso così in considerazione. Si continuò a
lavorare sullo schema intorno all'ecumenismo e si esaminarono i vari progetti sul problema del
rapporto Chiesa-mondo.

Mentre fervevano questi lavori e la salute del Papa suscitava preoccupazioni sempre più vive, l'11
aprile veniva firmata la nuova enciclica “Pacem In Terris” indirizzata non solo i vescovi fedeli ma
tutti gli uomini di buona volontà. Questo documento riassumeva i diritti fondamentali di tutti gli
uomini, di tutti i gruppi sociali, necessità di solidarietà fra le nazioni, l'obbligo di ogni autorità di
rispettare le leggi divine, ma si apre a 2 nuove prospettive (1. Affrontata la libertà di coscienza e 2.
riconosciuta possibilità e convenienza di collaborazione fraforze cattoliche e forze di altra
ispirazione.

IV. Da un papa all’altro: continuità


La sera del 3.6.1963 Giovanni 23 moriva. I suoi ultimi tempi erano stati amareggiati da critiche ed
aperte riserve emerse dentro e fuori il Vaticano per i suoi coraggiosi interventi e per la sua linea
aperta, che a detta di alcuni aveva favorito l’avanzata comunista in Italia. Ma la sua scomparsa
aveva profondamente commosso tutto il mondo, uomini di tutte le idee e di tutte le regioni, atei,
buddisti, musulmani, ebrei, ortodossi, protestanti delle diverse confessioni: tutta l’umanità in quei
giorni si era trovata spiritualmente riunita a piazza San Pietro. L'ansiosa attesa per il nuovo Papa si
univa questa volta all'incertezza per le sorti del Concilio, automaticamente interrotto in forza di
legge. Il conclave si aprì il 19 giugno e si conclude il 21 con l'elezione del card. Montini che
assunse il nome di Paolo 6. Certamente il nuovo Papa si trovava davanti a una situazione non
facile: continuare condurre in porto il Concilio, che fino allora non aveva trovato la sua strada,
davanti a sé e un numero considerevole di schemi ancora da rivedere, ridiscutere, approvare.
Montini appariva come l'uomo più idoneo per concludere il Concilio.

Paolo 6 il 21 stesso confermava come segretario di Stato Cicognani, il 22 esprimeva la ferma


volontà di continuare il Concilio e il 27 ne annunziava la ripresa per il 29 settembre. Il 29.9.1963
Paolo 6 apriva al secondo periodo del Concilio con una calda allocuzione. Tema principale della
nuova sessione sarebbe stata la Chiesa, il suo rapporto con Cristo, principio, via, guida, speranza,
termina; la sua riforma, cioè la sua rinnovata fedeltà Cristo; il suo dialogo coi fratelli separati, col
perdono reciproco, col rispetto delle tradizioni orientali, in una lunga e necessaria attesa; il suo
dialogo col mondo moderno in un tono ottimista e realista che non ignora le carenze, le ansie, le
angosce della nostra epoca. Mentre Papa Giovanni 23 era più spontaneo e più capace di
comunicare ottimismo, speranze, fiducia su grandi linee generali, Paolo 6 era più concreto e
determinato con una fiducia frutto più di uno sguardo volutamente rivolto in alto che di uno stato
d'animo naturale e istintivo. Si avverte tuttavia la solida continuità: il Concilio riprendeva il
cammino appena avviato da Papa Giovanni 23.

V. I lavori del secondo, terzo, quarto periodo: 1963-1965, i problemi di fondo e


la crisi del settembre-novembre 1964
Il rodaggio era finito: ora si passava la fase costruttiva punto il secondo periodo fu caratterizzato
dall'approvazione della costituzione della liturgia e del decreto sui mezzi di comunicazione sociale
ed alla larga diffusione su altri schemi. Il primo documento venne perfezionato in vari punti, ma
alla fine riscosse una schiacciante maggioranza. Il documento sui mezzi di comunicazione,
nonostante i suoi limiti, per lo scarso approfondimento dei problemi di fondo, venne approvato
senza difficoltà anche perché i padri erano in quei giorni assorbiti da ben altri problemi.

Si era infatti cominciato a discutere sulla nuova redazione dello schema “De Ecclesia”. Per avere
un'idea più chiara sugli orientamenti effettivi dell'assemblea circa i problemi di fondo, nonostante
l'opposizione della minoranza, il 30 ottobre si procedette una votazione orientativa su 5 quesiti: 1.
se la consacrazione episcopale sia il grado sommo dell'ordine sacro; 2. se un vescovo consacrato,
in comunione col Papa e coi vescovi sia per ciò stesso membro del collegio episcopale; 3. se il
collegio dei vescovi succeda al collegio degli apostoli e con il Papa possieda la Suprema autorità
della Chiesa; 4. se questo potere sia di diritto divino e 5. se sia opportuno il ripristino del diaconato
come grado stabile. La votazione, se mostrò una larga perplessità a proposito del diaconato
permanente, fu nettamente favorevole sulle altre questioni. Dopo aver discusso alcuni giorni
sull'ufficio e i poteri dei vescovi, si esaminò lo schema dell’ecumenismo che rimase èerò in
sospeso.

Il terzo periodo del Concilio (14 settembre-21 novembre 1964) fu caratterizzato dai reiterati forti
tentativi della minoranza, capeggiata dal card. Larraona, di impedire la vittoria della maggioranza
cioè di correggere sui punti sostanziali le tesi che si stavano chiarendo ed affermando. Si
riprendeva nel complesso quanto era avvenuto al Vaticano 1, ma in senso opposto: mentre nel
luglio 1870 gli antinfallibilisti si erano battuti sino alla vigilia della definizione per restringere i
limiti, subordinandone l’infallibilità papale al consenso dell’episcopato, ora si tentava di frenare
quanti difendevano i diritti, dignità, al posto dell’episcopato nella Chiesa per timore di una
negazione o di una diminuzione del primato pontificio. Ora il gruppo minoritario incontrò un
pontefice sollecito soprattutto di assicurare ai lavori conciliari il massimo consenso possibile e
chiarificazione della dottrina esposta. Papa Paolo 6 tra l’11.9 e il 7.11 ben 5 volte ricette 2
relazioni contrarie sulla costituzione gerarchica della Chiesa e sull’ episcopato. Il 7.10 si seppe che
la bozza di dichiarazione sui rapporti con gli ebrei sarebbe stata sottoposta alla competenza della
commissione teologica e l’11.10 17 cardinali protestarono per lettera col Papa.
Nel quarto periodo (13 settembre-8 dicembre 1965) si assiste ad un'autentica corsa col tempo.
Motivi psicologici ed organizzativi imponevano ormai la fine del Concilio nel 1965 dopo 4 densi
periodi. Eppure, dopo tante discussioni e tanti lavori si erano approvati solo 5 documenti dei quali
solo 2 di valore fondamentale. Molto, moltissimo restava da fare, così si interruppero più volte le
sedute generali per dar modo alle commissioni di preparare i testi definitivi tenendo conto dei voti
espressi. In un'atmosfera di intensa commozione, aliena da ogni trionfalistico, l’8.12 cioè nella
cerimonia conclusiva vari cardinali lessero i messaggi che il Concilio rivolgeva ai governanti, agli
uomini di pensiero e di scienza, agli artisti, alle donne, ai lavoratori, ai poveri, ai malati, ai
sofferenti, e infine ai giovani.

VI. I principali documenti conciliari


Il Concilio ha emanato 4 costituzioni (sulla liturgia, sulla Chiesa, sulla rivelazione e sul mondo
contemporaneo); 9 decreti (sui mezzi di comunicazione sociale, sull’ecumenismo, sulle chiese
orientali cattoliche, sull’ufficio pastorale dei vescovi, sul rinnovamento della vita religiosa,
sulla formazione sacerdotale, sull’apostolato dei laici, sull’attività missionaria e sulla vita
sacerdotale) e 3 dichiarazioni (sull’educazione cristiana, sulla libertà religiosa e sulle relazioni
con le religioni non cristiane). Sviluppo dottrinale e pastorale della Chiesa, autentica svolta
conciliare. Se prima del Concilio parlando di Chiesa si pensava soprattutto agli ecclesiastici, ora
questo clericalismo di vecchio stampo è superato.

La costituzione sulla liturgia ribadisce la sua vera natura, “esercizio del sacerdozio di Cristo”,
“opera di Cristo sacerdote e del suo corpo che è la Chiesa”, ed auspica la “piena, consapevole e
attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche di tutto il popolo cristiano”. La celebrazione
comunitaria, caratterizzata dalla presenza e dalla partecipazione attiva dei fedeli. La lingua
latina è conservata, ma le conferenze episcopali possono permettere l’uso del volgare nelle
letture e nella preghiera dei fedeli. Si ammette un certo pluralismo nell’amministrazione dei
sacramenti, nelle processioni, nella musica sacra. Il rito della Messa sia semplificato eliminando
i duplicati e ristabilendo elementi perduti. La comunione sotto due specie è concessa anche ai
laici. Il rito dell’amministrazione dei vari sacramenti sia rivisto: l’ufficio divino sia rinnovato, e
permesso in dati casi il volgare; il calendario liturgico sia riformato, il gregoriano deve essere
coltivato e promosso.

Il Concilio tracciava così con prudenza un piano di rinnovamento pastorale destinato a


incidere in profondità. Fino allora, si erano attuati dei ritocchi del vecchio sistema, ora si
cambiava lo stesso sistema. Certo il Concilio si muoveva con prudenza, si limitava a permettere
l’uso del volgare in date parti. Il futuro avrebbe mostrato se questa cautela sarebbe stata
conservata, o se si sarebbe andati avanti con coraggio nella via appena cominciata.

La “Lumen Gentium” con l’ecclesiologia ivi difesa costituisce un forte passo in avanti rispetto
alla visione di Chiesa più comune, che era stata presentata e difesa al Vaticano 2 costituisce il
completamento necessario del Vaticano 1, un avvicinamento alla visione integrale della Chiesa
di cristo. Se nel 1870 si era presentato con maggior forza il posto che il Papa occupa nella
Chiesa, nel 1962-1965 si sottolinea la natura e la funzione dell’episcopato, presentato come il
necessario sostegno, l’insostituibile corresponsabile col papato nel governo della Chiesa
universale. La storia della Chiesa nei secoli precedenti fra due poli opposti, gallicanesimo ed
episcopalismo da un lato (le forze centrifughe che mettevano in pericolo la fondamentale unità
della Chiesa) e l’ultramontanismo dall’altro (quelle forze centripete che rischiavano di
confondere unità con uniformità, di sottovalutare il ruolo dei vescovi e delle chiese locali).

La schiacciante vittoria dell’ultramontanismo il 18.7.1870 trovava ora il suo equilibrio con la


teologia dell’episcopato e l’affermazione della sua collegialità, cioè della sua corresponsabilità
col Papa. La costituzione, tra le varie possibili immagini della Chiesa, predilige quella di popolo
di Dio, con 2 vantaggi: 1. di sottolineare la partecipazione di tutti i fedeli alla vita della Chiesa,
superando il clericalismo dei secoli precedenti e sottolineando il sacerdozio universale dei
fedeli, a Trento messo un po’ in ombra come reazione al luteranesimo, e ora esplicitamente
ricordato, e 2. di mettere al primo piano la dimensione storica della Chiesa, popolo
pellegrinante nel tempo verso l’eternità.

La “Gaudium et Spes” per certi aspetti completa la visione della “Lumen Gentium”, ricordando
che “la Chiesa cammina con l’umanità tutta, e non è legata ad alcuna forma di civiltà umana o
sistema politico, economico, sociale”. “La Chiesa”, continua la “Gaudium et Spes”, “non pone
la sua speranza nei privilegi offertile dall’autorità civile”.

Nella storia della Chiesa acquistano speciale rilievo i 2 documenti sui rapporti con le altre
religioni, “Nostra Aetate”, e sulla libertà religiosa, “Dignitatis Humanae”. Il primo, voluto dal
card Bea, contiene 4 solenni affermazioni. Per iniziativa di Lercaro, che voleva accentuare la
portata religiosa, non politica, della dichiarazione, si riconoscono gli speciali legami che
esistono tra ebrei e cristiani, che hanno in comune un grande patrimonio spirituale. La Chiesa
non può dimenticare che ha ricevuto da questo popolo la rivelazione dell’Antico Testamento,
che gli ebrei sono l’ulivo buono su cui sono stati innestati i gentili. In secondo luogo, si afferma
che “gli ebrei, in grazia dei padri, rimangono ancora carissimi a dio”. Di conseguenza, occorre
promuovere la mutua conoscenza e stima, specialmente con gli studi biblici e teologici e un
fraterno dialogo. Infine si precisava che “gli ebrei non devono essere presentati come maledetti
o come rigettati”. Per questo la Chiesa “deplora gli odi, le persecuzioni, e tutte le manifestazioni
dell’antisemitismo”.
Il documento, come sempre, era frutto di discussioni, costituiva un compromesso tra 2 tendenze
opposte, poteva essere più forte (potevano usare condannare al posto di deplorare). Ma ne
complesso, si trattava di una svolta radicale. L’antisemitismo, che rappresenta una costante
nella storia della Chiesa dai primi secoli al 900, era condannato e sconfessato. Si trattava di una
buona risposta al genocidio del 1939-1945. La reazione del mondo ebraico fu largamente
positiva.
La “Dignitatis Humanae” a sua volta descrive la libertà religiosa come il diritto degli esseri
umani ad “essere immuni da ogni forma di coercizione da parte dei singoli individui, di gruppi
sociali e di qualsivoglia autorità umana, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad
agire contro la sua coscienza. Fondamento di questo diritto è la dignità della persona umana,
senza dimenticare il dovere della persona umana di cercare la verità e di aderirvi, si sottolinea la
libertà che accompagna quest’obbligo, e si ricorda che il diritto ad ogni immunità dalla
coercizione persiste anche un coloro “che non soddisfano all’obbligo di cercare la verità”. In
altre parole, la dichiarazione ammette la libertà psicologica (libero arbitrio concesso da Dio),
non usa mai il termine “libertà morale” che non esiste (perché Dionon può riconoscere all’uomo
il diritto di fare il male e di scegliere l’errore). Si tratta di un diritto negativo, non positivo,
riconosciuto da dio, di scegliere fra le diverse religioni, fra la verità e l’errore; non dimentica
l’obbligo di ogni uomo di cercare la verità, ma ricorda che questa ricerca va condotta
liberamente.

La “Dignitatis Humanae” riconosce quindi la libertà di culto pubblico, di propaganda, di


associazione, ma riafferma anche dei limiti a questa libertà, illecita quando si violini i diritti
altrui, condanna ogni forma di discriminazione giuridica per motivi religiosi. Si ammette che il
diritto all’immunità dalla coercizione non è affermato esplicitamente nella rivelazione, che
d’altra parte “fa conoscere la dignità della persona umana in tutta la sua ampiezza”. Nessuno
può essere costretto con forzaad abbracciare la fede. È facile avvertire nella “Dignitatis Humanae”
la difficoltà di conciliare aspetti complessi e contrastanti: libertà, ma non esente da certi limiti,
nessuna discriminazione giuridica per motivi religiosi, ma possibilità di un regime giuridico
particolare per alcune comunità religiose in una data situazione storica. Il Concilio comunque
rivendicava la libertà religiosa per tutte le confessioni.

Per molti secoli la concezione generale della vita tipica dell’ancien regime, nel clima di
cristianità, cioè in pratica fino alla Rivoluzione Francese, può far capire entro certi limiti alcune
decisioni e condanne dell’autorità ecclesiastica. Dopo la rivoluzione il mondo era cambiato e la
gerarchia non lo aveva compreso a sufficienza. La libertà religiosa era per lo più rivendicata
come conseguenza logica dell’indifferentismo o della pretesa completa autonomia dell’uomo.
Solo il Vaticano 2 superò quest’ambigua posizione, e, dopo un ritardo di un secolo, riconobbe
la necessità e la possibilità di riconciliare la Chiesa col mondo moderno. Rosmini esulta per
l’abbattimento del muro di divisione fra clero e laicato nel culto, il latino. Il Concilio chiudeva
un’epoca e ne apriva un’altra.

VII. I due protagonisti: Giovanni e Paolo. Il significato storico del Vaticano II


Chi era Giovanni 23? Quali intenzioni aveva convocando un Concilio? Ci troviamodi fronte a
3 interpretazioni diverse. L’inconsueta fortuna di questo breve pontificatoha favorito la nascita e
lo sviluppo di un mito, che si è sviluppato anche per le scarse notizie che si avevano della sua
vita e della sua attività fino alla sua ascesa al trono papale. Sembra molto probabile che
Roncalli sia stato scelto e soprattutto per l’età (77 anni nel 1958), che faceva prevedere un
pontificato breve e privo di sorprese. È accaduto l’opposto. 1. C’è allora chi ha parlato del papa
buono ma ingenuo e avventato, trascinato dalle circostanze, preoccupato di accontentare tutti,
senza avvedere di provocare conseguenze inattese e non volute. 2. Si è parlato di Giovanni 23
come dell’apprendista stregone, che per la scarsa esperienza scatena forze che non è poi in
grado di controllare, ed è salvato solo dal ritorno imprevisto del vecchio stregone che domina la
situazione e rimette le cose a posto. 3. C’è poi chi vede in lui l’uomo che nel silenzio e
nell’ubbidienza aveva da lungo pensato e preparato un rinnovamento profondo della Chiesa.

Esisterebbe una perfetta continuità tra Angelino Roncalli e Giovanni 23. Altri, infine,
ammettono la complessità di questa personalità, la sua lenta maturazione nei decenni passati in
Oriente prima, in Francia del dopoguerra poi, per concludere che il pontefice ha deciso il
Concilio con piena consapevolezza e chiarezza. Voleva cioè “sostituire all’immagine della
Chiesa-cittadella e della Chiesa-museo quella della Chiesa-giardino, passare dalla stagione delle
condanne alla medicina della misericordia, mettere al centro della vita ecclesiale il servizio
pastorale come elemento unificante di tutte le dimensioni.”

Uomo complesso, Roncalli, era fondamentalmente un conservatore, ma nel senso migliore della
parola. Non era un integrista, e nel periodo modernista aveva espresso forti riserve contro
l’operato avventato di difensori dell’ortodossia. Era stato oggetto di sospetti e di accuse
infondate, si era allineato alle direttive della Chiesa senza precederle. Il suo buon senso e il suo
equilibrio lo portavano a cercare al di là del contingente l’essenziale. Il suo ottimismo, la sua
straordinaria capacità di stabilire contatti personali, pastorali con le più diverse persone. Alieno
da ogni contestazione, era rimasto sempre fedele al motto a lui caro “oboedientia et pax”.
Aveva però avvertito l’esigenza di avvicinare la Chiesa a quel mondo moderno di cui aveva
colto aspetti diversi e contrastanti, di riprendere e migliorare un dialogo interrotto o reso
difficile da tempo con “i fratelli separati”, la necessità di un aggiornamento, di presentare in
forma nuova l’antica dottrina.

Adesione all’insegnamento della Chiesa da Trento al Vaticano 1, unita ad “un balzo innanzi”
dottrinale e pastorale. Non certo un “pacioccone”. Giovanni 23 non pensava ad aprire un’epoca
nuova, ma voleva affrettare il lento, secolare cammino della Ecclesia Mater, adattarla ai nuovi
tempi, spingerla con coraggio verso i suoi reali obiettivi.

Diverso per temperamento, educazione familiare, esperienza era Montini, di un’agiata famiglia
borghese, rimasto a lungo al servizio della curia romana, in piena ubbidienza a Pio 12. Eppure i
due erano avvicinati da elementi comuni, l’amore al proprio tempo, l’apertura al mondo
contemporaneo. In una rara pagina autobiografica, Paolo 6 ha riversato il suo animo,
consapevole della difficile posizione in cui si trovava, con il compito di portare a termine
un’opera avviata da chi l’aveva preceduto, salvandone lo spirito originario e troncandone
possibili deviazioni.

Papa Giovanni Paolo 23 era portato dal suo carattere a cogliere gli aspetti positivi, a
semplificare le cose complicate, a sottolineare ciò che unisce. Papa Paolo 6 si era maturato nelle
sue esperienze con la FUCI, nei suoi contatti con il mondo e la cultura italiana, nella vicinanza
al padre, deputato popolare, contrario al fascismo. Montini aveva una mentalità e una forma
mentis tutta sua, diversa da quella di Pio 11 e di Pio 12 e, vicina a quella di Roncalli. Il mondo
moderno abbracciava autentici valori, che andavano riconosciuti ed accettati, aprendosi a nuove
prospettive.

L’apporto di Paolo 6 al Concilio è stato visto in prospettive diverse. Per alcuni storici, egli
avrebbe affievolito l’ispirazione di Giovanni 23. Il sogno di una Chiesa più fiduciosa nella forza
della profezia, in cui l’elemento carismatico sarebbe prevalso su quello giuridico, sarebbe
rimasto soffocato dal prevalere dell’elemento giuridico-istituzionale. La decisione di non dare
corso immediato alla beatificazione di Giovanni 23, chiesta quasi a furor di popolo,
costituirebbe il più chiaro segno di questa politica. Altri all’opposto vedono in Paolo 6 il
salvatore provvidenziale di un’assemblea che rischiava di naufragare per la mole degli schemi,
per le contraddizioni via via più forti. La lettera a Cicognani del 18 ottobre, il suo messaggio alla
diocesi ambrosiana del 5 dicembre, il suo discorso in Duomo il 7.6.1963, costituiscono alcuni
segni di un chiaro programma, attuato con decisione dal 21.6.1963.

Non manca poi chi vede in Paolo 6 non il salvatore del Concilio, ma colui che ha aiutato
l’assise ecumenica e che con fatica si avviava verso la strada giusta, a definire più chiaramente
il suo programma rimasto troppo generico, a concentrarsi su obbiettivi centrali ed urgenti, ad
accelerare il suo ritmo. Paolo 6 non ha affossato il Concilio, ma con mente sicura ha guidato le
iniziative avviate dal suo predecessore a quei fini delineati nell’allocuzione dell’11.10.1962,
Gaudet Mater Ecclesia.

Forse più importante fu il contributo di Paolo 6 nel 2°, 3° e 4° periodo dell’assise. I fatti ci
mostrano un Papa sollecito non di vincere a forza di numeri, ma di convincere. La maggioranza
assicurava già per la sua forza numerica la vittoria dei documenti preparati. Paolo 6 non soffocò
la libertà dell’assemblea, non scavalcò la presidenza, ma nelle reiterate risposte all’opposizione
dissipò dubbi, vinse le esitazioni, precisò la portata esatta della Lumen Gentium, assicurò ad
essa una schiacciante votazione favorevole. Paolo 6 fu realmente una guida paziente, tenace,
dolce e ferma.

Ciò che conta nel cammino umano non sono le contraddizioni o i limiti di alcuni documenti, di
alcuni singoli passi, ma le affermazioni di principio. Alcuni concili, come il Vaticano 1, hanno
portato a termine un ciclo storico iniziato da tempo, riaffermando e radicalizzando principi
teoricamente già formulati prima: il Vaticano 1 in sostanza costituisce la riaffermazione ed uno
dei capisaldi della riforma tridentina, il trionfo dell’ultramontanesimo, ma anche il
rafforzamento dell’intransigenza e del centralismo romano. Il tridentino, a sua volta non dette
una risposta chiara alle dottrine protestanti, ma segnò la ripresa della Chiesa dalla grave crisi
che l’aveva minacciata e delineò i tratti essenziali della vita ecclesiale, nel dogma della
disciplina, nella liturgia, nella pastorale, che l’hanno caratterizzata sino ai giorni nostri.

In modo analogo il Vaticano 2 ha chiuso definitivamente l’epoca post tridentina, ed ha aperto


un nuovo corso, che non rinnega il passato, ma lo integra, lo perfeziona, adattandolo alla
continua evoluzione dell’umanità. L’affermazione della collegialità e dell’episcopato come il
secondo pilastro della Chiesa, seguito durante il Concilio dall’istituzione del sinodo dei vescovi
(14.9.1965), le precisazioni del decreto sui vescovi “Christus Dominus” sulle conferenze
episcopali. L’accento sul laicato della Lumen Genium, e, nel decreto sui laici “Apostolicam
Actuosistatem”, ci rivelano un volto della Chiesa più complesso ed articolato. Sono rivalutate le
Chiese locali, è riconosciuta la corresponsabilità dell’episcopato nei confronti della Chiesa
universale, è sottolineato il sacerdozio universale dei fedeli, che sono chiamati ad una
partecipazione attiva e responsabile come soggetto e non sono come oggetto della vita
ecclesiale. Con il vecchio codice del 1917 di Gasparri ai fedeli, al laicato, allora, non si
riconosceva altro compito che credere, partecipare ai sacramenti, ubbidire, questo
“ecclesiasticismo” tipico dell’età post tridentina è ora sepolto.
La Chiesa si mostra ora povera materialmente, ma anche pastoralmente e culturalmente; non
mette più la sua fiducia nell’appoggio e nella difesa statale, ma nella grazia, nella forza della
verità, nella purezza della sua testimonianza. Partecipe alle sofferenze di tutti, al servizio
dell’umanità, senza soluzioni prefabbricate universalmente valide. Chiede solo di servire.

L’“Unitas Redinegratio” rivela la prontezza a riconoscere i propri torti e a chiedere perdono, a


cogliere tutte le ricchezze spirituali della tradizione orientale e degli stessi protestanti, a cercare
di riannodare un dialogo, sottolineare i punti comuni, rispettarsi a vicenda, collaborare insieme
su molte questioni. L’unità resta una meta lontana, ma intanto, sembra dire il Vaticano 2,
conosciamoci meglio, stimiamoci, discutiamo insieme.

La Chiesa del Vaticano 2 mostra fiducia nell’uomo. Vediamo la fine di quelle ambiguità e di
quel legalismo nel quale era caduta la morale di un tempo. Il Concilio ha dato un’immagine più
umana e completa del matrimonio (prima si insisteva sul significato profondo dell’unione
matrimoniale), e ha sottolineato il valore del mutuo amore dei coniugi.

Era guardata con severità ogni cooperazione, anche remota e materiale, a riti non cattolici. I
sacerdoti cattolici eventualmente presenti in Europa orientale si rifiutavano di fornire ai preti
“ortodossi” il necessario per la celebrazione della Messa. Alla repressione, si sostituiva ormai la
paziente lenta difficile formazione delle coscienze. La “Gaudium et Spes” ci mostra una Chiesa
solidale col mondo, con le sue sofferenze ma anche con le sue conquiste, riconosce l’autonomia
del temporale e,gli aspetti “positivi” della secolarizzazione.

L’enciclica programmatica di Paolo 6 “Ecclesiam Suam” del 1961, come il discorso conclusivo
del Concilio, invita a un dialogo con il mondo, arrivando a riconoscere la parte di verità che ci
può essere anche in certe forte di ateismo, quali l’esigenza d’una “presentazione del mondo
divino più alta e più pura”. La costituzione sulla liturgia, “Sacrosatum Concilium”, coronava
vecchie ispirazioni, e permetteva di intravedere un’autentica rivoluzione. La stessa S. Sede
proponeva ora ai fedeli una pietà nutrita direttamente dalla liturgia, dalla scrittura, dai padri, ed
espressa in forma più comunitaria.

Tra i frutti del Vaticano 2 non dimentichiamo il superamento dell’ecclesiasticismo, del


legalismo, del trionfalismo e dell’individualismo posttridentino.
9. Il Postconcilio: Rinnovamento e crisi
Il Vaticano II fu solo un sogno di mezza estate, o l’inizio di un rinnovamento, di una
trasformazione nel volto e nell’attività della chiesa, con effetti forse ambivalenti ma
nell’insieme positivi? Certamente dal 1965 ad oggi abbiamo assistito a 2 fenomeni opposti: 1.
rinnovamento religioso con molteplici aspetti e forte crisi religiosa con una secolarizzazione
crescente e 2. sempre maggiore perdita di alcuni valori di fondo. Il fenomeno ha ben altre cause,
che investono tutta la società, senza alcun rapporto col Concilio.

Gli anni successivi all’assise ecumenica politicamente hanno assistito ancora una volta al
cronico susseguirsi di guerre. In Europa, è continuata a lungo, se non proprio la guerra fredda, la
divisione al di qua e al di là della cortina di ferro. Il muro di Berlino era come il simbolo di
questa situazione: la primavera di Praga cioè il tentativo della Cecoslovacchia di rendesse
autonoma da Mosca è stato subito soffocato dai carri armati sovietici entrati nella capitale alla
fine dell'agosto 1968. Non meno grave restava il cronico conflitto fra Israele e paesi arabi, che
portò alle due guerre del 5-10.6.1967 favorevole a Israele e del novembre 1973 con risultati
precari. In Estremo Oriente lotta fra Vietnam del nord e del sud. In Africa lotte cruente fra i vari
gruppi etnici. Consumismo. Indipendenza donne.

I. Le riforme istituzionali
È merito di Paolo 6 di essersi prodigato per l’applicazione integrale del Concilio che traducesse
nella realtà concreta i grandi principi delineati nei documenti conciliari. Dal 1965 sino alla sua
morte, e per vari aspetti, anche sotto Giovanni Paolo 2 si succedono con frequenza costituzioni
apostoliche e documenti di altro genere, che nel loro complesso rinnovano la struttura giuridica
della Chiesa. I provvedimenti di Paolo 6 erano frutto di una lunga preparazione, rispondevano a
necessità obiettive ed urgenti, e se qua e là subirono ritocchi opportuni, nella loro sostanza
rimangono tutt’ora in vigore.

Il 7.12.1965, lo stesso giorno in cui il Concilio aveva termine, il S. Uffizio cambiava nome e
struttura: il suo compito non era tanto di condannare gli errori, quanto di promuovere la fede e
per questo si sarebbe chiamato Congregazione per la Dottrina della Fede. 6 mesi dopo, nel
1966, veniva praticamente abolito l’indice dei libri proibiti e la legislazione annessa con le sue
censure cessava. Ora obbligo morale, affidato alla coscienza dei fedeli, giudicati ormai maturi,
capaci di decidere da soli, 4 secoli di storia erano finalmente superati.

Il 15.8.1967, con la costituzione “Regimini Ecclesiae Universae” era riformata la struttura della
curia, 3 punti rilevanti: 1. è introdotto il limite di età (70 per i funzionari, 75 per i capi dei
dicasteri o prefetti), 2. i prefetti in carica solo 5 anni e 3. in ogni caso, alla morte del Papa tutti
automaticamente scadono, tranne il card. Vicario di Roma, il penitenziere maggiore e il
camerarius cui spetta proprio l’amministrazione economica della S. Sede. Non esistono più i
posti cardinalizi, cioè che aprono la strada alla nomina a cardinale. Infine, era per la prima volta
introdotto un ufficio statistico. Al carrierismo avrebbe dovuto succedere lo spirito di servizio. La
costituzione “Pastor Bonus” del 26.6.1988 ha portato qualche modifica suggerita
dall’esperienza, cioè la nuova divisione della Segreteria di Stato in 2 sole sezioni. Restano in
vigore i limiti di età e la durata in carica dei prefetti e funzionari. Importante fu anche la nuova
legislazione sull’elezione del Papa. Con l’“Ingravescentem Aetatem” del 20.11.1970 venivano
esclusi dalla partecipazione al conclave i cardinali over 80. Più tardi la “Romani Pontificis
Eligendo” del 1.10.1975 stabiliva norme precise: i conclavisti non possono essere più di 120 e
per l’elezione è ristabilita la maggioranza dei 2/3 più uno. Si avverte in questi e altri documenti
la preoccupazione di stabilire un limite di età per gli uffici (parroci e vescovi) e per gli atti più
importanti.

Si trattava di un passo in avanti rispetto alla mentalità prevalente agli inizi del secolo, che,
considerando giustamente il sacerdozio come una missione perennemente duratura, ne traeva
l’illegittima conclusione che un sacerdote non poteva mai ritirarsi dal compito che aveva
ricevuto. In quest’ottica la sola idea di un sistema pensionistico per i sacerdoti era stata vista
con scandalo ed era stata a lungo respinta. Ormai quasi tutti i vescovi a 75 anni presentano le
dimissioni, i parroci invece restanopiù a lungo vista la difficoltà di trovare successori.

Maggiore rilevanza ebbero 3 iniziative: 1. lo sviluppo delle conferenze episcopali, 2. la


convocazione periodica del sinodo dei vescovi istituito già durante il Concilio e 3. la
promulgazione nel 1983 del nuovo codice di diritto canonico. Le conferenze episcopali non
costituivano una novità. Si erano rivelate uno strumento utile per tracciare piani di azione
pastorale comuni a tutto l’episcopato di una regione o di una nazione. Incoraggiate da Leone 13
e dai suoi successori, le conferenze si erano moltiplicate, e sotto Pio 12 nel 1959 già 17 di esse
erano state approvate ufficialmente. Riconosciute solennemente nel decreto conciliare “Christus
Dominus” esse ricevettero norme precise nel motu proprio “Ecclesiae Sanctae” del 1966. Nel
1954 col primo statuto nasce la Conferenza Episcopale Italiana. Con Paolo 6 la CEI assume un
ruolo decisamente pastorale, un certo distacco dalla DC, un impegno per la riforma liturgica.

Un’applicazione concreta della collegialità si è poi avuta con il sinodo dei vescovi,
un’assemblea che si riunisce senza scadenze fisse e secondo il giudizio del pontefice. Esso ha
poteri semplicemente consultivi, ma costituisce un utile strumento per un’effettiva
collaborazione fra papato ed episcopato. Il sinodo è stato convocato finora 10 volte, la prima nel
1967, su diversi temi, dalla recezione del Concilio, alla posizione conciliare,
all’evangelizzazione. Sinodo dei vescovi con il delicato compito di costituire una cerniera fra
papato ed episcopato.

Un giudizio largamente positivo si può dare sul nuovo codice, progettato da Giovanni 23,
preparato con Paolo 6. Promulgato da Giovanni Paolo 2 il 25.1.1983 e salutato da questo
pontefice come l’ultimo documento conciliare, con il notevole sforzo di tradurre in un
linguaggio giuridico l’ecclesiologia del Vaticano 2. Non si tratta di un aggiornamento del 1917,
ma di un’opera rispondente ai tempi, al progresso compiuto dall’ecclesiologia con l’ultimo
Concilio. Il codice del 1917 riflette l’ecclesiologia del Vaticano 1, quello del 1983
l’ecclesiologia e la visione propria del Vaticano 2. Se nel 17 non si diceva quasi nulla dei laici,
ora si ricorda la loro missione nella Chiesa, sono sottolineati i loro speciali diritti, cioè la libertà
nella diretta azione politica, ma anche la possibilità di assumere incarichi di governo, come
quello di giudice, semplificata la disciplina matrimoniale, mentre la giurisprudenza penale di un
tempo, con le numerose scomuniche, presenti anche nel 1917, è ormai un ricordo lontano. Solo
in casi del tutto speciali si occorre, la cui assoluzione dipende dalla S. Sede. Degli antichi
privilegi, non si parla più, neanche in linea di principio. È abolito il vecchio istituto del
“Beneficio”, cioè di una rendita speciale attribuita ad un ufficio ed istituita un’amministrazione
centralizzata dei beni economici in ogni diocesi. La figura del parroco è resa più dipendente dal
vescovo, nella nomina, nella permanenza nell’ufficio e nel trattamento economico.

II. Le riforme liturgiche


La riforma liturgica ha colpito un po’ tutti, credenti e no, stupidi da questo cambiamento che
incideva anche sul costume. La curia romana è stata praticamente scavalcata. Nel 1964 nasce il
Consilium De acra Liturgia, poi nel 1969 fu assorbito nella nuova Congregazione per il Culto
Divino, poi nel 1975 unita alla Congregazione per la Disciplina dei Sacramenti per evitare
conflitti di competenze. Il card. Lercaro, presidente dal 1964 al 1968, e Bugnini, segretario del
Consilium, sono stati l’anima della riforma. Il 26.9.1965 venne deciso di introdurre largamente
il volgare nella liturgia. Furono poi rinnovate le varie parti della messa, e nel 1969 venne datata
la costituzione apostolica “Missale Romanum”, un anno dopo, era pronto il nuovo messale,
erano 4 secoli esatti dalla pubblicazione del messale di Pio 5.

I due concili trovavano nella liturgia uno dei campi più significativi e importanti di applicazione
dei principi dogmatici da essi esposti. Il calendario venne rinnovato con il documento “Myster
Paschalis” del 14.2.1969 dividendo più chiaramente l’anno liturgico, spostando alcune feste,
eliminando santi poco noti o discussi, introducendone altri più rappresentativi dell’universalità
della chiesa. Il breviario ricevette la sua nuova forma il 2.2.1971 con l’“Institutio Generalis de
Liturgia Horarum”. Si erano intanto via via succeduti i nuovi riti dell’amministrazione dei
sacramenti. Fra le varie disposizioni ricordiamo poi l’ “Immensae Caritatis” del 29.1.1973 che
ammetteva anche i laici come ministri dell’eucarestia. Si è trattato di un’autentica rivoluzione
liturgica, ben più grande di quella del tridentino. “si è cercato di presentare il mistero cristiano
in un linguaggio corrispondente alla nuova forma mentis, non più di una civiltà agricola. Ma
industriale.”

La nuova liturgia, nell’intenzione dei loro autori, doveva costituire una catechesi, una metanoia,
un atto creatore e vivificatore della comunità cristiana. Per questo la liturgia si è ora arricchita
dei vari sacramenti, nella celebrazione eucaristica. Si è cercato poi di “fare della liturgia una
manifestazione del mistero della Chiesa, corpo vivo di cui tutti i membri ne fanno parte”. La
Chiesa esprime la sua unità soprattutto nelle assemblee di preghiera. I fedeli non devono più
sentirsi muti spettatori, ma attori. Il Consilium ha poi cercato di fare opera di semplicità,
riducendo feste e sopprimendo doppioni di riti, baci, genuflessioni, gesti.

È finalmente crollato “il muro di divisione che si innalzava fra il popolo e i ministri
della Chiesa”, ed è guarita la “piaga della mano sinistra della Santa Chiesa, che è la
divisione del popolo dal clero nel pubblico culto”. In molti casi le messe dei giovani
sono divenute un centro di attrazione e di vitalità cristiana.

III. Il rinnovamento catechetico


Parallelo al rinnovamento liturgico procedeva il rinnovamento catechetico nei vari paesi. Per
quanto riguarda l’Italia, dopo un’ampia consultazione dell’episcopato italiano, si giunse nel
1970 a un documento base, dal titolo “Il rinnovamento della catechesi”. Si riconosceva la
necessità di abbandonare il catechismo di Pio 10 del 191, perché troppo difficile. Si avvertiva
l’opportunità di pubblicare non uno ma diversi catechismi, per bambini, fanciulli, adolescenti,
giovani, adulti. Lentamente, a partire dal 1973, i vari testi videro la luce. La loro elaborazione
coinvolse in modo abbastanza ampio il popolo di Dio. Si sviluppa così un nuovo modo di
magistero della Chiesa che rende la redazione più lenta ma più rispondente alle esigenze della
base. Riscosse un grande successo il catechismo uscito in Olanda nel 1966, tradotto subito in
varie lingue: era un testo vivace che sapeva unire all’esposizione dottrinale continui richiami al
racconto biblico e alla liturgia, poi si aggiunge un’appendice con che chiariva i punti ambigui
della dottrina (peccato originale, verginità di Maria). Intanto dopo la Catechesi Tradendae di
Giovanni Paolo 2 del 16.10.1979 si faceva strada il progetto di un catechismo universale. Se ne
era riparlato ai tempi di Pio 10, ma non si era fatto poi nulla. Ora, alla fine del 1992, si è
giunti al Catechismo della Chiesa cattolica,un’opera di vasta mole, destinata a tutto il mondo,
l’opera è stata largamente diffusa.

IV. La situazione degli istituti religiosi dopo il Concilio

Gli istituti secolari femminili in Italia sono saliti da 35 a 43, mentre il numero complessivo dei
loro membri ha subito una lieve flessione. In questi ultimi anni si sono moltiplicate “nuove
comunità” meno legate alla clausura e la separazione di due sessi o addirittura propensa ad
accogliere sposati la famiglia. Intanto gli istituti di vita consacrata moltiplicato i loro capitoli
speciali, capitoli intermedi, capitolo costituenti. Prima nei paesi di lingua francese, più tardi in
quelli di lingua inglese o spagnola si è sviluppato una certa crisi con la contestazione
dell'autorità dei superiori, storture nella povertà e nella vita comune, soggetti che conducevano
una vita autonoma. In Italia la crisi fu meno netta ma più prolungata nel tempo.

Negli istituti femminili ha avuto una certa importanza la questione dell'abito: se qualche
congregazione si è arroccata nella difesa della veste tradizionale, quasi tutte lo hanno
semplificato e più di una ha adottato un abito secolare. In molti casi si sono moltiplicate le
“piccole comunità” con vantaggi e svantaggi. Quest'ultimo fenomeno ha investito anche gli
antichi ordini maschili.

Nell'insieme gli istituti religiosi hanno subito una rilevante diminuzione numerica e un forte
invecchiamento per la scarsezza di vocazioni. Ma sarebbe ingiusto attribuire al Vaticano 2
questa diminuzione, dovuta a un complesso di fattori, primo fra tutti la crescente
secolarizzazione della società intera. Il Concilio anzi ha avuto effetti positivi sulla vita religiosa:
ha stimolato un autentico rinnovamento con l’abbandono di vecchie anacronistiche usanze,
l'inizio di uno stile di vita più umano, semplice e familiare, con la scelta di nuove forme di
apostolato specie tra i poveri con una vita comunitaria meno formalistica e più sincera. Gli
istituti hanno retto alla prova e hanno scoperto il loro autentico carisma.

V. L’associazionismo cattolico. La stampa cattolica e laica

Il risveglio religioso post-conciliare si manifesta anche nel notevole incremento di alcune


iniziative religiose, che mostrano una certa efficienza. In America Latina la vitalità della Chiesa
e la sua forza si fonda largamente sulle cosiddette “comunità di base”, gruppi più o meno
spontanei, semindipendenti, che si riuniscono per pregare, dialogare, promuovere varie
iniziative, combattere le diffuse ingiustizie. In Europa invece vi è il fenomeno diverso dei gruppi
detti spontanei di cui potremmo distinguere 2 filoni: 1. quello assistenziale a favore del terzo
mondo o degli emarginati e 2. quello ecclesiale, come la Comunità di sant’Egidio.

Con Vittorio Bachelet e i nuovi statuti del 1969 l’Azione Cattolica Italiana cambiava la sua
fisionomia, escludendo l’aspetto politico e accentuando la formazione religiosa e culturale dei
soci. Si è parlato di “scelta religiosa” dell’ACI, favorita da Paolo 6. Questa scelta voleva educare
il laico cattolico ai suoi veri compiti, come li aveva descritti il Concilio: difesa degli immutabili
valori di fondo. Nel 1969 a Milano nasceva per opera di Don Giussani “Comunione e
Liberazione”, che cercava di unire alla piena fedeltà alla gerarchia l’autentico sforzo per un
rinnovamento cristiano della società. Il dissenso era chiaro: l’ACI preferiva una coesistenza
pacifica tra diverse mentalità, CL tendeva ad una riconquista cristiana. Importante il Convegno
di Loreto del 1985. Più efficace l’ACI.
Durante e dopo il Concilio, i problemi religiosi hanno avuto eco anche nella stampa laica. I
dibattiti conciliari, le singolari personalità dei papi, i valori della vita, le grosse scelte della
Chiesa, sono stati sottolineati da molti quotidiani.

VI. Chiesa e Stato: i nuovi concordati; Israele; l’Ostpolitik

Dal 1964 al 1984 sono stati conclusi una decina di concordati, con paesi islamici (Turchia) o
cattolici (Italia), e una 30ina di accordi parziali su varie materie. Il 5.2.1975 in un accordo col
Portogallo, la S. Sede rinunziava all’art 24 del concordato del 1940, secondo cui i tribunali
civili non potevano concedere il divorzio ai matrimoni celebrati religiosamente. Finiva il
“doppio regime”. Restava affidato alla coscienza dei fedeli.

In Spagna la lunga legge del 28.6.1967, ricordata la “Dignitas Humanae, riconosceva la libertà
di culto privato e pubblico di ogni religione, l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge
senza discriminazioni confessionali. Salito al trono Juan Carlos nel 1975, nuovi accordi, che
risolsero stabilmente alcuni punti, come la piena indipendenza della S. Sede nella nomina dei
vescovi, su cui Franco sino alla morte non aveva mai voluto concedere.

In Italia, dopo l’approvazione da parte dell’Assemblea Costituente dei Patti Lateranensi, il


problema della revisione del Concordato si affacciò in Parlamento nel 1965, portando nel 1968
all’istituzione di una commissione mista. I lavori, proseguiti lentamente sotto Paolo 6, sul
divorzio e sull’aborto, presero maggior vigore sotto Giovanni Paolo 2, e dopo 4 testi
successivi, si conclusero il 18.2.1984 con il cosiddetto “Accordo di Revisione del Concordato
Lateranense”, firmato dal Presidente del Consiglio Craxi. Si trattava, nella forma e nel
contenuto, ridotto a 14 articoli, di un concordato nuovo rispetto a quello del’29, ma si era usata
la dizione “revisione” per evitare il lungo iter necessario per l’approvazione parlamentare della
revisione dell’art. 7 della Costituzione, relativo ai Patti Lateranensi. Si scelse per la firma il 18
anziché l’11 febbraio, per sottolineare maggiormente la sostanziale differenza fra i due accordi.

In Spagna nel 1979 con un semplice accenno (abolizione dell’art. 1 del conc del 1953) in Italia
nel 1984 in modo più esplicito, la S. Sede rinunzia al principio della “religione cattolica come
sola religione dello stato” (nel ‘29 inserita nel trattato non nel concordato). Quel principio
tramontava. Il concetto era ormai in contrasto con il pluralismo religioso contemporaneo. Il
vecchio privilegi del foro ecclesiastico scompariva. L’appoggio dello stato alla chiesa era
ristretto, in Italia non solo cadevano tutti quei termini che davano all’accordo del ‘29 un aspetto
quasi “confessionale” (carattere sacro della città eterna), ma scompariva il discusso “comma
Buonaiuti”, che nell’art 5 vietava ai sacerdoti scomunicati ogni ufficio nei quali fossero a
contatto con il pubblico. La libertà di religione era riconosciuta anche nella Spagna cattolica.
Ma la S. Sede otteneva finalmente piena libertà nella nomina dei vescovi: se in Spagna restava
solo la “comunicazione previa” al governo dei designati, in Italia era soppresso il giuramento
dei vescovi allo Stato, e restava solo la comunicazione della nomina già effettuata.

Questi accordi e queste leggi (1967, 1975, 1976, 1979, 1984) mostrano in modo chiaro la fine,
riconosciuta ufficialmente anche dalla S. Sede e della cristianità. Il Vaticano rinunzia ai suoi
antichi privilegi. Ad uno stato maggiormente consapevole della propria laicità, corrisponde
quasi per simmetria una Chiesa più libera da quelleintromissioni deplorate già durante l’800, da
laici ed ecclesiastici.

Il Concordato italiano venne rapidamente applicato per quanto riguardava l’art. 7, “disciplina di
tutta la materia degli enti e beni ecclesiastici e revisione degli impegni finanziari dello Stato
italiano”. Dopo l’accordo del 15.11.1984, si è arrivati a 2 leggi, una ecclesiastica e l’altra
statale, del 3 giugno e del 20 maggio 1985, identiche nel testo. L’antico sistema beneficiale era
soppresso. La gerarchia rinunzia alle sovvenzioni statali date a certe categorie del clero, dette
congrue; i beni delle singole parrocchie passano in proprietà all’istituto diocesano per il
sostentamento del clero, che elargisce ai sacerdoti secolari per il sostentamento del clero, che
elargisce ai sacerdoti secolari il “congruo e dignitoso sostentamento”; i fedeli sono invitati a
provvedere in vari modi al sostentamento del clero, ormai privo di aiuti statali. È avvenuto un
autentico terremoto, che ha spazzato via diritti, consuetudini, mentalità ora esistenti, la diversità
economica fra parrocchie ricche e parrocchie povere, ed ha sottoposto la vita del sacerdote
diocesano in modo maggiore di prima all’autorità del vescovo, si giunse un’intesa che regolava
l’insegnamento della religione nelle scuole statali.

Un problema di diverso genere si è risolto in Svizzera, col referendum del 20.5.1973. Il 55% dei
votanti ha approvato la soppressione degli articoli della costituzione che proibivano ai gesuiti il
soggiorno nella Confederazione.

Davanti all’annoso problema degli ebrei e dei palestinesi, la S. Sede con Paolo 6 e Giovanni
Paolo 2, mostra una graduale prudente evoluzione. Paolo 6 non sostiene più le tesi
dell’internazionalizzazione di Gerusalemme ed assume una posizione più elastica che appare
soprattutto nei tre discorsi al S. Collegio del 1971, 1972, 1975. Nel primo Paolo 6 sottolinea la
necessità di uno “speciale statuto, internazionalmente garantito,che rendeva giustizia al carattere
pluralistico e del tutto speciale della città santa, ed ai diritti delle varie comunità che in essa
hanno sede o che ad essa guardano, come a loro centro spirituale”. Nel 1972 il Papa si limita ad
auspicare “una equa ed accettabile composizione, che tenga conto dei diritti di tutti una giustizia
e sollecita pace”. E nel 1975 il Papa si dichiarava consapevole “delle tragedie non lontano che
hanno spinto il popolo ebraico a ricercare un sicuro e protetto presidio in un proprio Stato
sovrano e indipendente”, ma proprio per questa invita “i figli di questo popolo a riconoscere i
diritti e le aspirazioni di un altro popolo, che ha anch’esso sofferto, la gente palestinese”. In
sostanza il Pontefice riconosce i diritti di tutte e due le parti. Per Gerusalemme accenna
genericamente a soluzioni diverse da una piena internalizzazione, limitandosi a chiedere
garanzie internazionali. Pur con cautela, Paolo 6 compie un certo passo in avanti.

Giovanni Paolo 2 ha espresso le sue idee soprattutto nell’enciclica “Redemptionis Anno” del
20.4.1984. Constatato il significato religioso della città santa per ebreo, cristiani,
musulmani, il Papa torna a chiedere garanzie giuridiche che tutelino “l’esistenza delle
comunità religiose, la loro condizione, il loro avvenire”. Queste garanzie devono avere un
carattere internazionale, perché “nessuna parte possa metterla in discussione”. Il documento
non parla di garanzie giuridiche estesa a tutta la città, né dell’esclusione della sovranità di uno
Stato determinato (cioè Israele) sull’intera città. Dalla esplicita richiesta dell’internalizzazione
territoriale di Gerusalemme (Pio 12) si è passato al chiaro riconoscimento del diritto di ebrei e
palestinesi ad un loro Stato distinto e indipendente (Paolo 6), alla richiesta di garanzie
internazionali non solo per i luoghi sacri cristiani, ma per le 3 confessioni interessate
(Giovanni Paolo 2).

Alla Giornata di Preghiera per la Pace, da parte di tutte le religioni del mondo, organizzata da
Giovanni Paolo 2 ad Assisi il 27.10.1986 fu, secondo Toaff, una manifestazione improvvisa di
affetto per gli ebrei, che lo colpì e lo commosse.

Sotto Paolo 6, si è sviluppata quella politica di avvicinamento ai diversi Stati dell’Europa


Orientale nota come “Ostpolitik”, che, oggetto per lunghi anni di una certa diffidenza, avrebbe
mostrato pochi anni dopo, nel 1989, tutta la sua efficacia religiosa e politica, sconvolgendo
l’intera Europa e aprendo una nuova epoca storica. Nulla fu possibile raggiungere allora in
Albania. In Cecoslovacchia la situazione restava quantomeno ambigua. In Ungheria nel 1963 si
giunse ad un accordo su alcune nomine episcopali, su una maggiore libertà dei vescovi e sulla
possibilità di contatti fra gli ordinari e la S. Sede e dal 1975 fu permesso l’insegnamento
religioso nelle Chiese. In Jugoslavia si giunse il 25.6.1966 al “Protocollo di Belgrado”, seguito
il 15.8.1970 dal ristabilimento delle relazioni diplomatiche e il 29.3.1971 dalla visita ufficiale
del presidente Tito a Paolo 6. La situazione era migliorata, la Chiesa aveva raggiunto una certa
libertà, anche se non tutte le difficoltà erano state risolte. In Romania, se la situazione della
Chiesa cattolica di rito orientale restava drammatica, migliorò nel 1968 quella della Chiesa
latina con la nomina di 3 vescovi e una certa “libertà controllata”. In Bulgaria, dopo la visita di
mons. Casaroli nel 1976, si raggiunse ugualmente questa “libertà controllata” con quale
ordinazione sacerdotale e un limitato insegnamento della religione nelle chiese. In Polonia,
dopo l’accordo parziale del 1956, mai riconosciuto dalla S. Sede, la resistenza del clero e dei
fedeli, sostenuta anche dal card. Wojtiyla, continuò e si intensificò dopo il 1978. Dopo gli
scioperi ai cantieri di Danzica del 1970 e del 1980, la nascita del primo sindacato libero,
Solidarnosc, la prima visita di Giovanni Paolo 2 nel suo paese natale nel 1979, gradualmente la
Chiesa cominciò a godere di una vera libertà, anche se continuavano le grandi difficoltà
economiche e politiche.

Nella storia della Chiesa dalla fine del 700 appaiono 3 diverse strategie nei confronti dei regimi
ostili alla Chiesa. Alcuni ecclesiastici scendono a compromessi, contrari alle direttive della S.
Sede: si pensi ai preti giurati, ai vescovi costituzionali degli anni 1789-1800 e agli ecclesiastici
che nell’Europa Orientale a movimenti condannati dal vaticano (1945-1989). Altri si
irrigidiscono in una resistenza ad ogni costo: è il caso dell’arc. di Torino Fransoni negli anni
caldi del 1848-1850. Il Vaticano più volte adotta una linea più elastica: condanna dei principi,
adattamento a situazioni ormai irreversibili, è la linea che possiamo osservare nel Concordato
Napoleonico del 1801 e nella Ostpolitik, la linea di Consalvi e Casaroli. È in definitiva la linea
vincente.

VII. La crisi morale degli anni 1963-1989. Un fenomeno inatteso: le defezioni


dal sacerdozio.

Fra tanti aspetti contrastanti di questi anni più vicini a noi, possiamo osservare alcune linee
comuni a molti paesi, in Europa ed America. Emerge innanzi tutto una forte denatalità. L'indice
di natalità forte in Africa, in Asia e in alcuni Stati dell’America Centrale scende paurosamente
al di sotto del 10% in alcuni stati europei: la popolazione complessiva europea invecchia, con
una diminuzione delle classi giovani e un aumento delle vecchie.

Se l'800 ha assistito all'introduzione del matrimonio civile del divorzio, nel secondo 900 visto il
divorzio approvato anche nelle vecchie roccaforti cattoliche e l’aborto non solo depenalizzato
ma in qualche caso socialmente ammesso e praticato a spese dello Stato.

Nei grandi centri non più del 30% di fedeli assiste alla messa domenicale e si accosta ai
sacramenti.

In questi anni si accentua il fenomeno dell'abbandono del sacerdozio o con la dispensa


dell'autorità ecclesiastica o senza dispense in modo contrario alla legislazione ecclesiastica.

Comunque l'emorragia degli anni 1963-1978 è cessata, anche se le riduzioni allo stato laicale
non sono per nulla finite. Nel complesso la crisi è stata salutare e i sacerdoti hanno dato prova
di una rinnovata maturità e identità.

VIII. Contestazione e terrorismo

Negli USA negli anni 1960 caso Berrigan, condanna a 3 anni di carcere dei due sacerdoti che
avevano distrutto i registri di coscrizione. Presto la contestazione raggiunge anche il campo
religioso, sulle finanze del Vaticano, sulla prudenza con cui la S. Sede vedeva la riscossa dei
popoli africani contro il colonialismo. “la presenza dei cristiani nella rivoluzione, esige la
presenza della rivoluzione nella Chiesa” e si ripetono con frequenti scritti e manifestazioni di
protesta: 1.12.1968, lettera aperta a Paolo 6 di 744 cattolici francesi, che denunziano la pretesa
collusione della Chiesa coi ricchi. Il 27.3.1972, 33 teologi chiedono un celibato dei preti
liberamente scelto. In Italia, si susseguono, sempre nel 1968, l’occupazione della cattedrale di
Parma, la nascita del “movimento 7 novembre”, in aperta contestazione del sinodo dei vescovi,
che si era chiuso il giorno prima, il 6.11.1971. La Chiesa di Roma e quella italiana tentarono di
venire incontro alla contestazione con i 2 convegni: del febbraio 1974 su “le responsabilità dei
cristiani di fronte alle attese di carità e di giustizia nelle diocesi di Roma”, e del novembre 1976
su “evangelizzazione e promozione umana”. Ma i due convegni non posero fine alle discussioni
e contrasti e alle discussioni. Emblematico fu il “caso Franzoni”, abate di s. Paolo, sospeso a
divinis nel 1974, per la sua presa di posizione a favore del mantenimento della legge sul
divorzio, poi, per le dichiarazioni filocomuniste, ridotto allo stato laicale, e sposatosi.
La contestazione univa insieme un sincero idealismo, una larga dose di ingenuità, e
un’inconsapevole disponibilità a lasciarsi strumentalizzare da politici che si servivano dei
giovani per i loro fini reconditi. L’estremismo dei contestatori, la lentezza della gerarchia, la
scarsa fantasia della Chiesa ufficiale hanno approfondito il solco tra i giovani e l’istituzione
ecclesiastica ed hanno facilitato i cedimenti verso il marxismo.

Ben più grave fu comunque il terrorismo, che si sviluppò negli anni successivi 1974-1988, in
vari stati. In Spagna per il separatismo basco; in Irlanda per l’opposizione dell’Ulster (Irlanda
del Nord) al dominio inglese; un po’ dovunque per opera dell’Organizzazione per la
Liberazione della Palestina; in altri paesi per l’influsso di intellettuali succubi del marxismo.
Credono di poter rovesciare la società attuale con una violenza selettiva. Dopo il 1973 si arriva
in Italia ad un’autentica guerriglia, si giunge nel 1978 al caso Moro con il suo sequestro e la sua
uccisione, seguito nel 1980 dall’assassinio di Vittorio Bachelet, da altri colpi mortali contro
giudici, generali, altri esponenti democristiani. Solo un richiamo ai supremi principi della
giustizia e la condanna alla violenza, il ricorso a confessioni dei prigionieri più maturi, i
cosiddetti “pentiti”, l’impiego di task-forces ben selezionate ed addestrate, ha permesso
gradualmente allo Stato la vittoria sul terrorismo.

Lettera di Paolo 6 del 21.4.1978 “uomini delle brigate rosse, vi prego in ginocchio, liberate
Moro, senza condizioni”, e la sua preghiera al rito funebre il 13 maggio, “ Dio della vita e della
morte, tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di moro”. Tre anni dopo, il
13.5.1981, Giovanni Paolo 2 fu gravemente ferito da colpi di pistola da Alì Agca.

IX. Il caso Lefebvre

Il piano di Marcel Lefebvre è chiaro: difendere le antiche tradizioni, messe in crisi dalle riforme
in atto, assicurare una formazione seminaristica accurata, severa, fedele alla preghiera,
all’ascesi, al distacco dal mondo, per raccogliere poi gradualmente una schiera di sacerdoti
decisi ad opporsi ai compromessi col mondo sempre più frequenti ed a conservare intatta la
vecchia struttura della Chiesa e la netta distinzione fra verità ed errore, la condanna della libertà
religiosa. Queste idee formano il nucleo del libro “J’accuse le Concilie” del 1977.

La sua dura critica al Vaticano 2 provoca una visita pastorale nel 1974, 2 lettere di Paolo 6 a lui
nel 1975, il divieto di procedere a nuove ordinazioni, e , davanti alla disubbidienza del vescovo,
la sua sospensione a divinis. Con Giovanni Paolo 2 si avviano nuove trattative. Lefebvre
promette di troncare ogni polemica sul Vaticano 2. Poco dopo ritratta la firma e annuncia di
ordinare alcuni vescovi. Giovanni Paolo 2 invita il dissidente ad evitare uno scisma e nel 1988
minaccia Lefebvre di scomunica se procederà all’ordinazione di vescovi. Il 30 giugno Lefebvre
ordina 4 vescovi. Il 2 luglio con l’enciclica “Ecclesia Dei Adflicta” Giovanni Paolo 2 scomunica
Lefebvre che muore 3 anni dopo.

Franzoni nel 1976 ridotto allo stato laicale, Lefebvre scomunicato nel 1988: ecco i due poli
estremi della contestazione, di destra e di sinistra, repressa energicamente da Roma.

X. L’America Latina: da Medellín a S. Domingo (1968-1992)

Nella seconda metà del secolo 19 l'America Latina azzardato in modo cronico tentativi di
riforma, risultate perlopiù utopistiche per la rapidità dell'evoluzione, la tesi reali e i contrasti fra
demagogia e dittature sorrette da forze militari. La grande urbanizzazione, lo sviluppo
industriale raccolto nelle grandi città, riforme agrarie improvvisate e sfruttamento unilaterale
delle risorse naturali non hanno risolto i problemi. Sono emerse contraddizioni stridenti:
industrie di dimensioni sproporzionate e terre senza infrastrutture e semiabbandonate. Ed è
aumentato il narcotraffico penetrando paesi e classi sociali che fino a pochi anni prima
ignoravano questo problema. In alcuni Stati ormai l'economia si regge sulla droga, il cui traffico
è tollerato o appoggiato dal governo. Prevale largamente un concentramento delle ricchezze
agrarie e industriali in poche mani decise a difendere anche con la violenza i propri privilegi.
Vari regimi semi dittatoriali sono avvezzi ad eliminare gli oppositori. La gerarchia non era nel
complesso preparata per dare una risposta tempestiva a questa problematica, mentre il laicato
virgola che avrebbe potuto costituire un più valido aiuto non sempre evitava programmi in
forbice o restrizioni pericolose.

Nel 1955 nato la Conferenza Episcopale dell'America Latina che nelle sue riunioni periodiche
ha costituito uno stimolo e un raccordo. Più importanti rimangono i 3 incontri dell’episcopato
latino-americano Medellín nel 1968, a Puebla nel 1979 e a Santo Domingo nel 1992. La
preoccupazione di fondo di Medellín fu la condanna della violenza istituzionalizzata e la critica
all'invasione economica del continente da parte delle grandi multinazionali. Il documento di
Puebla per vari aspetti si può considerare un passo avanti: rifiuto della violenza; impegno per
una liberazione totale dell'uomo e della povertà, frutto anche del capitalismo liberale, del
marxismo ateo e di una visione dell'uomo ristretta gli aspetti socio-economici-politici;
rivalutazione della religiosità indigena e popolare. Santo Domingo messo l'accento sui valori
tradizionali del mondo latinoamericano.

XI. Il crollo della vecchia Europa

All’inizio del 1985 in Russia sale al potere Mikhail Gorbaciov che ha nel suo disegno ben preciso di
trasformazione le parole “perestoika”=riforme e “glasnot”=trasparenza, cioè informazione. Nel 1989
crolla il muro di Berlino. I vari Stati rigidamente controllati da Mosca in seguito agli accordi di
Jalta in Crimea del 1945, iniziarono un cammino faticoso e drammatico verso la loro piena
indipendenza. Nel 1990 il papa diceva “la sete irreprimibile di libertà ha accelerato le
evoluzioni, ha fatto crollare i muri e aprire le porte”.

Scoppia una lunga e dura guerra tra serbi e croati, nell’ex repubblica jugoslava, la punta più
drammatica della tensione post-comunista, e Giovanni Paolo 2 usa un tono diverso. Il
28.11.1991, all’apertura del sinodo speciale per l’Europa, il pontefice confessa “possa il sinodo
aiutarci a compiere un atto di comprensione e di perdono. Infatti dobbiamo perdonare sempre,
memori di avere bisogno noi stessi di perdono”. E già prima, l’8 settembre il Papa aveva
affermato “il popolo croato, i popoli della Jugoslavia hanno diritto di vivere in pace, e hanno, a
loro volta, il dovere di contribuire a creare le condizione di una pace vera”. E il 6 ottobre
ribadiva “quanto sta avvenendo in Jugoslavia non è degno dell’uomo, non è degno
dell’Europa”.

Il 15 marzo 1990 l’URSS e il Vaticano allacciano normali rapporti diplomatici, mai esistiti
anche sotto gli zar: un nunzio apostolico si stabilisce a Mosca. Il 1.10.1990 è approvata a
mosca la legge sulla libertà religiosa: è lecito professare qualunque religione, esprimere e
difendere le proprie convinzioni religiose, assistere spiritualmente i fedeli negli ospedali e nelle
carceri. Il 18 novembre Gorbaciov compie la sua seconda visita al Vaticano, improntata a un
tono di cordialità, quasi di familiare amicizia. Si ripeteva nell’Europa Orientale, quanto era
avvenuto in varie parti d’Europa dopo il 1814-1815: un sincero sforzo di ripresa pastorale, reso
difficile dall’intreccio di diversi fattori sociali e politici. 1789, 1989: due date indelebili nella
storia d’Europa e della Chiesa.

XII. Osservazioni conclusive

Un Concilio, tuttavia, non vale tanto per i suoi decreti, quanto per la loro applicazione e la
loro reale efficacia. La riforma liturgica degli anni 1965-1975, il nuovo codice del 1983, i
sinodi generali finora tenuti, l’impulso dato alle conferenze episcopali, il rinnovamento di molti
istituti religiosi nella loro vita interna e nel loro apostolato, con una figura di sacerdote, di
religioso, di suora, che unisce ad una consacrazione più personale al signore una maggiore
umanità e delicatezza, una più consapevole aderenza ai problemi del nostro tempo, i nuovi
accordi 1979 con la Spagna, e quello con l’Italia del 1984, con il tramonto della “religione di
Stato”, e la rinunzia a molti privilegi anacronistici da una parte e dall’altra. Il nuovo ruolo
assunto dal laicato, i nuovi rapporti con i “fratelli separati”.

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