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LA PIANURA BOLOGNESE

SAN PIETRO IN CASALE

LE ORIGINI

Non v'è dubbio che i territori su cui sorgono San Pietro in Casale e le sue frazioni fossero abitati fin dall'antichità, pur essendo
"stagni insalubri, quasi tutto bosco e palude", come dicono, con linguaggio colorito, gli storici bolognesi del secolo scorso.
Più concretamente lo testimoniano lapidi sepolcrali, vasi antichi, sarcofaghi e cippi (alcuni dei quali sono ora conservati presso
il Museo Civico di Bologna) rinvenuti in queste terre le cui iscrizioni, a volte erudite, fanno risalire fino all'età romana
repubblicana.
Condividendo le sorti delle colonie romane della pianura padana, i territori dell'attuale San Pietro in Casale furono travolti dai
barbari, che vi si insediarono mescolandosi alle antiche genti.
Fra i secoli VII e IX si parla, in antichi documenti nonantolani, della selva di pianura detta Salto Piano sulla quale Teodalto,
signore di Modena e Reggio, comandava.

I RINVENIMENTI ARCHEOLOGICI

La storia delle scoperte archeologiche nel territorio di San Pietro in Casale comincia nel XVI secolo con due rinvenimenti assai
importanti per la monumentalità dei manufatti e per l'interesse che suscitarono. Nel 1502 a S. Alberto, frazione di S. Pietro,
venne trovata la stele funeraria di Manilius Cordus, del I secolo d.C.: la notizia è data dal Ghirardacci nella sua Historia di
Bologna. Qualche anno dopo, a Gavaseto, venne in luce la stele dei Corneli, della fine del II secolo a.C. o degli inizi del I secolo
d.C.; ne parla l'Alidosi nella sua raccolta epigrafica del 1621, ricordando che il pezzo era stato trovato in un sito detto "il
campo della preda". Altre informazioni tuttavia vengono fornite da un documento dell'archivio della Fabbriceria di S. Petronio,
documento particolarmente prezioso perchè registra l'anno preciso del rinvenimento, il 1533, e riferisce che, oltre alla stele, vi
erano altre prede, cioè numerosi frammenti lapidei e forse anche fittili. Di qui prende avvio la storia degli studi sul territorio di
San Pietro in Casale. Quanto ai due reperti, vennero murati all'esterno di S. Petronio a Bologna, ai lati dell'ingresso sulla
odierna piazza Galvani, ornando così la basilica e trovando anche una prima sistemazione museale. Le notizie di scoperte
archeologiche avvenute durante il XVII secolo riguardano per lo più stele funerarie ed iscrizioni onorarie, pur non mancando
qualche notizia sporadica del rinvenimento di materiali fittili come doli o mattoni bollati. In un libretto del 1692 Girolamo
Boselli racconta della scoperta avvenuta, si può dire, sotto i suoi occhi nella chiesa di Massumatico, di una lastra marmorea
iscritta dedicata a Marco Aurelio, che era stata reimpiegata come copertura di una tomba. Nel corso del XVIII secolo si
segnala, nel territorio di San Pietro in Casale un solo rinvenimento subito ritenuto di grande importanza. è quello del puteale
dedicato da Licius Apusulenus Eros ad Apollo e al genio di Augusto, trovato a Maccaretolo nel 1754 o 1756 in un podere dei
Padri Domenicani, oggi conservato presso il Museo Civico di Bologna e datato alla fine del I secolo a.C. La prima pubblicazione
su questo argomento è la monografia del Paciaudi il quale però non fornisce particolari sulle circostanze e sul luogo preciso del
rinvenimento. Nel 1839 a Maccaretolo avviene una scoperta che al momento grande risonanza e che più di un secolo dopo
sarà determinante per la rivalutazione archeologica della zona. Si tratta di un monumento funerario a cuspide piramidale di cui
vengono trovate alcune parti lapidee (il capitello acroteriale, due mensole e una statua di personaggio togato) e il basamento
in laterizio e pietra. E' abbastanza vasta la documentazione sullo scavo pervenutaci: un libretto di Carlo Pancaldi e poi le
relazioni ed i disegni acquerellati della Commissione Ausiliaria di Antichità e delle Belle Arti. Il Bormann inoltre nel C.I.L.,
presentando la documentazione epigrafica di questo territorio, ne sottolinea la peculiarità ed ipotizza la presenza qui di un
centro in prossimità della strada per Este ed Aquileia. E' rimasta inedita invece la scoperta di alcuni elementi lapidei e
dell'iscrizione di un monumento a cuspide avvenuta a Rubizzano tra il 1860 e '70; solamente l'iscrizione venne pubblicata nel
C.I.L. I pezzi, di età giulio-claudia, sono stati conservati sempre in residenze private; dapprima a Rubizzano a villa Donzelli ed
ora a Castel San Pietro, sempre in provincia di Bologna.

Durante alcuni lavori di scavo, all'interno del Centro sportivo, nel marzo 1988 sono stati rinvenuti i resti di un impianto rustico
- produttivo di età romana i ruderi, murature e piani d'uso e i numerosi oggetti e vasi pressochè integri, per il loro stato di
conservazione fanno ritenere che la fine dell'insediamento sia stata cagionata da un evento imprevisto: verosimilmente da una
grande inondazione causata dallo straripamento del Reno. Dagli approfondimenti e dagli studi condotti dalla Soprintendenza
pare emergere che in detta struttura si effettuavano processi lavorativi (spremitura di prodotti agricoli) finalizzati a circuiti
commerciali abbastanza allargati. Nello stesso anno, nel mese di luglio, durante una profonda aratura meccanica in località
Maccaretolo, veniva alla luce un sarcofago monumentale d'epoca romana del II - III secolo d.C. La cassa di forma
parallelepipeda, ha i lati di 107x210 cm, è alta 67 e a parte poche scheggiature mostra un eccellente stato di conservazione. Il
sarcofago, di calcare biancastro a grana grossolana noto come "tufo di Quinzano", proviene sicuramente da cave di Verona. La
lavorazione della pietra appare abbastanza accurata, strette fasce lavorate a scalpello compaiono a marginare le modanature e
gli elementi ornamentali. Il testo dell'epigrafe è il seguente "T. Attius Maximus / sibii et / Rubriae Semme coniugi / vivi
fecerunt", i destinatari del sarcofago erano dunque due coniugi che provvedettero ancora in vita a dotarsi di un sepolcro
bisomo. All'interno sono stati rinvenuti i resti dei due defunti seppelliti con rito misto. I resti scheletrici di un uomo adulto
inumato in posizione supina e ceneri e carboni frammisti ai quali sono state rinvenute ossa combuste di donna cremata.

DAL MEDIOEVO ALL'UNITA' D'ITALIA

Il nome San Pietro in Casale appare per la prima volta il 20 novembre 1223, nell'ordinanza con la quale il comune di Bologna
impone alle comunità del contado un capoquartiere della città a scopo militare.
A questo punto le vicissitudini sanpierine sono in larga misura dipendenti da quelle di Bologna e, molto spesso, dai suoi nemici
che con frequenti rapine e saccheggi ne segnano la storia.

In un documento del 1443 appare la dicitura "villa di San Pietro in Casale" forse in riferimento ad un'antica villa fatta risalire
agli Antonini e sulle cui rovine Giovanni II Bentivoglio, nel 1490, fece costruire una sua villa che ancora oggi sopravvive, pur
molto rimaneggiata, nella frazione di Maccaretolo in località Tombe.

Certamente sino al 1700 quello di San Pietro non fu che un piccolo borgo di poche case raccolte attorno ad una chiesa, anche
se un decreto del Senato bolognese risalente al 1544 attesta l'origine, da quella data, di un mercato settimanale che
diventerà, secoli dopo, fiorente e conosciuto nella vasta zona del circondario.

Le scarne cronache del piccolo borgo ricordano due grandi incendi che lo provarono duramente: nel 1637 per mano delle
truppe antipapali; nel 1809 per opera dei briganti: non fu risparmiato neppure l'archivio comunale.

Forse la prima vera e propria "rivoluzione" che ne modificò sensibilmente l'assetto politico e sociale va fatta risalire al 20
giugno 1796 quando, cessato il dominio pontificio, i proclami del generale Bonaparte abolirono ogni autorità che non fosse il
Senato di Bologna e venne dato al villaggio e alle varie parrocchie circostanti la configurazione di comune vero e proprio.
La restaurazione successiva alla caduta di Napoleone riportò a San Pietro in Casale il governo pontificio che vi insediò uno dei
27 governatori che amministravano la provincia di Bologna, a fianco di un consiglio e di una magistratura presieduta da un
gonfaloniere. San Pietro, che contava 2984 abitanti comprese le frazioni di Rubizzano, Maccaretolo e Gavaseto, si vide ben
presto annessi altri territori: Asia, Cenacchio, Massumatico, Poggetto, Sant'Alberto, San Benedetto e Gherghenzano che, ad
eccezione di quest'ultimo, formano ancora oggi il suo territorio.

IL XIX E IL XX SECOLO

Il periodo di storia successivo al 1815 porta ad assetti territoriali non definitivi, con una stabilizzazione soltanto in seguito
all'Unità d'Italia.
E' da questo momento che, in un certo senso, inizia la storia vera e propria di San Pietro in Casale, con la formazione di
un'identità che cresce con l'affermarsi di una piccola borghesia locale la quale si affianca ai grandi proprietari terrieri.
Crescono i commerci e nascono nuovi servizi: l'illuminazione a petrolio, le fognature, la tranvia a cavallo, a cui si
aggiungeranno, negli ultimi decenni del XIX secolo e i primissimi anni del 1900, la costruzione del macello, di una pesa
pubblica, della sede comunale (villa Bonora), di nuove strade.

E' all'agricoltura che vanno ricondotte la storia e le strasformazioni di San Pietro in Casale partendo dalla rivoluzione introdotta
negli ultimi anni del Settecento con la risicoltura.
A questo si affiancava l'esigenza di regimentare le acque e il panorama, rimasto sostanzialmente immutato per due secoli,
cominciava a subire forti cambiamenti.
La risicoltura si sommò alle tradizionali colture asciutte del grano, del mais e della canapa, che costituivano l'asse portante del
sistema produttivo poggiante sulla mezzadria.
L'incremento demografico, l'aumento delle schiere dei braccianti, portarono nuovi insediamenti abitativi (alcuni tipici come il
"Baraquaj" ancor oggi ben visibile) e ad una maggiore concentrazione attorno ai nuclei urbani.
Così cominciarono a crescere la massa dei lavoratori salariati, a nascere le prime rivendicazioni economiche (già nella prima
metà dell'Ottocento, come ci dicono alcuni documenti dell'archivio storico comunale), le prime forme di sciopero, le
dimostrazioni per chiedere lavoro, come risposta ad una condizione sociale poverissima ed emarginata, cui a volte si
rispondeva con il furto e la devastazione.

Nella primavera del 1944 sorse la seconda brigata "Paolo", comprendente più di un centinaio di sanpierini, oltre forti gruppi di
alcuni comuni confinanti. Le azioni di sabotaggio, di difesa delle lotte dei lavoratori e il recupero di armi, iniziate l'anno prima,
si intensificarono coinvolgendo molte parti della popolazione.
Il 17 settembre 1944 un primo scontro fra partigiani e fascisti nella zona delle Tombe causò vittime partigiane.

IL CASONE DEL PARTIGIANO

Il csone fu costruito nel periodo fra il 1790 e il 1850 su di un isolotto nel mezzo di una vasta zona paludosa: vi si arrivava attraverso impervi
sentieri e prevalentemente in barca. Era adibito a rifugio per il guardiano della valle e per i cacciatori. Era costruito con grossi pali di legno sulla
parte anteriore e sulle pareti laterali, coperto di canne, e il retro era in mattoni perché lì si trovavano il focolare e il camino. Dal 1900 al 1940, da
parte delle popolazioni del luogo e con interventi consistenti, è stata bonificata una parte della valle a ridosso delle frazioni di Rubizzano,
Gavaseto, Cenacchio e Maccaretolo fino nelle vicinanze del Casone, sistemandola a risaia. Nel periodo della Seconda Guerra Mondiale, il
Casone aveva già le caratteristiche attuali: circondato dalla fossa collegata con la restante parte del territorio a est, ancora a valle, vi si accedeva
tramite una passerella. Nei giorni dell'insurrezione armata contro i tedeschi e i fascisti, tramite le staffette di collegamento, fu ricevuto l'ordine di
trasferire a Bologna tutti i partigiani per concorrere alla liberazione della città. Il punto di raccolta dei partigiani, per questo trasferimento, fu la
zona del Casone e il "ponte della morte". Nei giorni 18, 19, 21 e 22 aprile 1945 al Casone si riunirono il Comando della 2° Brigata "Paolo" e
rappresentanti della 4° Brigata "Venturoli". Il 21 aprile si ebbero i primi violenti scontri con i tedeschi in ritirata, che culminarono nel
combattimento di domenica 22 aprile, in tutta la zona che dal Casone va verso San Pietro in Casale, Galliera, Pieve di Cento, Bentivoglio, San
Giorgio di Piano e Malalbergo.
A seguito dei lavori di bonifica e prosciugamento della valle, per cedimenti ed assestamenti del terreno, il Casone, già pericolante, crollò. I
partigiani della 2° Brigata "Paolo" hanno deciso di ricostruirlo e lasciarlo come testimonianza alle generazioni future.

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BENTIVOGLIO

LE ORIGINI

Le origini di Bentivoglio sono da ricercarsi in epoche piuttosto remote.


In particolare bisogna arrivare alla civiltà villanoviana per trovare le prime documentazioni di insediamenti abitati su
questo territorio:
nella frazione di Saletto, 4 km a nord-est del capoluogo, sono infatti state ritrovate alcune tombe a cremazione databili nel 930
a.C. e una stele del VI secolo a.C.

Con l‟arrivo dei Romani si ebbe la prima bonifica delle terre paludose dell'attuale territorio di Bentivoglio: alcuni resti ritrovati
testimoniano l'opera di insediamento di epoca romana e lo sviluppo di numerose installazioni rurali; la zona circostante l'attuale
capoluogo era denominata "frassineta" (luogo dei frassini) ed è menzionata in documenti del 1176, anno in cui Bologna la
rivendicò a scapito di Sancta Maria in Dunis.
A testimonianza della storica localizzazione del territorio bentivogliese esistono documenti del 948 d.C. e del 958 d.C. che
attestano l'esistenza delle frazioni di Castagnolo Minore e di San Marino.

IL PERIODO MEDIEVALE

Il nucleo centrale del territorio, oggi Bentivoglio, nell'età medievale era denominato Ponte
Poledrano dovuto al passaggio di puledri ("poledri") sul ponte del canale Navile: quest'ultimo, costruito nei primi decenni del
1200
(i lavori di risistemazione sono stati varati nel 1224) come diramazione del fiume Reno, partiva da Casalecchio e attraversava la
città di Bologna per poi continuare verso Malalbergo, sfruttando un vecchio alveo del torrente Savena, per poi confluire
nuovamente nel Reno.

La storia e lo sviluppo della località di Bentivoglio sono strettamente legate al canale Navile: lungo il suo percorso sorsero
numerosi edifici fortificati tra i quali appunto la Rocca di Ponte Poledrano fatta costruire dal Comune di Bologna nel 1390 di
fianco al Mulino, anche questo sorto nel 1300 sul percorso del Navile, a difesa del confine verso i marchesi d‟Este di Ferrara.

IL XV SECOLO E IL TOPONIMO

Il nome Bentivoglio dipende dall'omonima nobile famiglia bolognese, che qui fece costruire, nei primi anni
del XVI secolo, proprio di fianco alla rocca, il castello denominato "Domus Jocunditatis" destinato a luogo di divertimento, per
la caccia con i cani e i falconi e per la pesca.
I SECOLI XIX E XX

Bentivoglio, il più recente tra tutti gli insediamenti del circondario, accrebbe via via la propria
influenza; dal 1811 ospita gli uffici comunali e con il regio decreto del 1 gennaio 1886 fu designato capoluogo: nacque il comune
di Bentivoglio, il cui territorio era stato chiamato fino ad allora Santa Maria in Duno.
Nel 1817 la famiglia Pizzardi acquistò dal marchese Carlo Bentivoglio il castello di Ponte Poledrano con il mulino, la pila da
riso, le terre e le valli limitrofe.
I Pizzardi, soprattutto nella figura di Carlo Alberto (1850-1922) intrapresero opere di bonifica che portarono al prosciugamento
della palude e alla creazione di un ambiente più igienico, oltre che all'avviamento di un importante centro di produzione risicola
e al potenziamento dello storico mulino, che è rimasto attivo fino al 1977.
Oltre alla bonifica del territorio Carlo Alberto Pizzardi diede inizio al restauro del castello e della rocca, affidato ad Alfonso
Rubbiani, e alla costruzione di Palazzo Rosso, dando notevole impulso all'attività edilizia, tanto che quasi tutti gli edifici del
centro risalgono a quest'epoca.

CASTELLO DI BENTIVOGLIO

Il Castello di Bentivoglio sorse tra il 1475 e il 1481 nel periodo di massimo splendore della signoria di Giovanni II Bentivoglio,
ampliando la già esistente rocca fatta costruire dal Comune di Bologna nel 1390 e detta del Poledrano, dal nome della località
Ponte Poledrano adiacente al Navile.
La Rocca fu costruita con fini strategici: nel torroncino vi erano infatti la campana d'allarme e il braciere per le segnalazioni con
Bologna e altri luoghi.

Il nuovo castello fu adibito da Giovanni II, che lo aveva ereditato da Annibale a sua volta creato capitano della Rocca da Niccolò
Piccinino, duca di Milano, come residenza di svago e di caccia.
Il motto Domus jocunditatis affrescato lungo le pareti del cortile interno che ancora oggi, seppur rovinato dal tempo, si può
ancora intravedere indicava la destinazione dell'edificio per brevi soggiorni e adatta ai divertimenti della corte bentivolesca.

La forma architettonica
L'edificio è a pianta quadrata, dalle finestre ampie, dal vasto e luminoso cortile, dalle accoglienti stanze con annessi servizi e
stalle.
I caratteri sono quelli di una tipica costruzione rinascimentale, una dimora di campagna senza preoccupazioni difensive
eccessive, con due ariosi porticati, stanze e corridoi semplici con vivaci decorazioni, purtroppo oggi in maggioranza perdute
tranne quelle dei fiordalisi, degli stemmi e dei ghepardi.

Personaggi illustri
In questo castello si racconta avvenne il primo incontro tra Alfonso d'Este e la sua futura sposa Lucrezia, che durante il suo
viaggio sul Navile per convenire a nozze con Alfonso fece tappa nella dimora di Bentivoglio.
Qui il futuro sposo curioso di vedere la bella figlia di Papa Borgia, si introdusse durante la notte nel castello e rimase affascinato
dalla bellezza di Lucrezia.

I cambiamenti in seguito alla caduta dei Bentivoglio


La caduta dei Bentivoglio avvenne nel 1506 ma riebbero il castello grazie all'azione di Leone X.
Tuttavia il castello cominciò una fase di deterioramento tanto che l'ala occidentale divenne pericolante per poi crollare nel XVIII
secolo ad opera dei nuovi proprietari, i Pepoli, che ne fecero una villa a due lati, aperta; sparirono mura e fossati mentre nel
castello abitarono soprattutto famiglie bracciantili e le sue stanze ebbero le più impensate destinazioni: magazzini, concerie di
pelli, ricoveri di animali.

L'intervento di restauro di Rubbiani


Nel 1889 la nuova proprietà Pizzardi, incaricò Alfonso Rubbiani per il restauro del castello, con l'intenzione di ripristinare
l'edificio voluto da Giovanni II, dal 1889 al 1897 il Rubbiani ricostruì l'ala crollata, riedificò la cinta merlata e suddivise le stanze
secondo le vecchie piante.
Inventò anche numerosi particolari, come il rivellino di accesso e la scala che dal cortile conduce al piano nobile.
Il restauro, nonostante l'impegno nella ricerca di documenti dell'epoca, ha restituito un edificio aldulterato, di marcata impronta
ottocentesca.
Nel 1945, durante il conflitto mondiale, la trecentesca torre fu mutilata.

Le decorazioni interne
Le decorazioni di questo castello risultano le uniche del XV secolo a carattere profano di quest'area.
I temi trattati non sono la descrizione di aristocratici e cortesi passatempi, bensì la vita nei campi e in particolare in dieci
episodi dedicati alle "storie del pane".
Vengono rappresentate tutte le fasi, dalla semina, al trasporto, alla battitura fino alla produzione del pane vero e proprio. Azioni
assolutamente veritiere rappresentate però su di un fondale fantastico che si apre su paesaggi e natura precedendo di qualche
secolo gli effetti scenografici tipici del neoclassicismo. I pilastri dipinti non fungono soltanto da divisori degli episodi ma come
fittizi sostegni di un soffitto, secondo l'insegnamento già mantegnesco.

La cappella
La cappella aveva importanti affreschi, tornati alla luce con gli interventi del Rubbiani.
Sono ancora riconoscibili gli "Apostoli", "l'Eterno" sulla volta, i "simboli degli Evangelisti" e i numerosi "Serafini".
Le statue in terracotta di Giovanni II e sua moglie Ginevra Sforza sono opera di Giuseppe Romagnoli eseguite all'epoca dei
restauri del Rubbiani.

Visite guidate: ogni primo sabato del mese, al mattino in orario da concordare per gruppi di almeno 15 partecipanti.
Per informazioni e prenotazioni contattare l'Ufficio Turismo e Cultura del Comune di Bentivoglio tel. 0516643540

Il percorso storico artistico

PALAZZO ROSSO

Così denominato per i mattoni con cui è stato costruito fu fatto edificare da Carlo Alberto
Pizzardi nel 1887.
La costruzione originariamente si protendeva nel Navile: l'entrata principale si apriva sul canale dove si può ancora notare un
elegante porticello e il rivellino in mattoni rossi e decorazioni in ferro battuto, mentre sul lato opposto, dove oggi si trova
l'ingresso, si trovava il sostegno, parzialmente ancora visibile, il sistema di chiuse che permetteva alle barche di continuare la
navigazione sopperendo al dislivello del terreno.

L'edificio
L'edificio si sviluppa su tre piani:
il piano terra, una volta sede degli uffici;
il piano nobile, abitazione del Pizzardi caratterizzato esternamente da ampie finestre ad arco e dall'ampio balcone;
il secondo piano, sede delle abitazioni dei dipendenti;
infine nascosto da eleganti decorazioni si trova un ampio sottotetto, un tempo grande magazzino dove venivano stivati riso e
grano dal mulino attiguo.

Le decorazioni interne
La scalinata di accesso e il piano nobile sono decorati da splendide pitture murali eseguite da Achille Casanova, raffiguranti la
flora e la fauna delle vicine zone palustri.
Al termine del lungo corridoio si trova la Sala dello Zodiaco: interamente affresacta, la stanza presnta tre diversi livelli decorativi:
il livello inferiore raffigurante la flora e la fauna acquatica;
il livello intermedio decorato con selvaggina e flora palustre;
il terzo livello, con i segni dello Zodiaco, da cui deriva il nome della sala.
Nel soffitto sono raffigurate le diverse fasi lunari.

Oggi Palazzo Rosso è sede della Biblioteca Comunale, della Sala del Consiglio e luogo di attività culturali.

Il percorso storico artistico

VILLA LA PALEOTTA, SAN MARINO DI BENTIVOGLIO

Attualmente residenza privata, la Paleotta fu costruita da Annibale Paleotti verso la fine del '500 e fu splendidamente decorata
durante il '600 (molte opere sono di Domenico Tibaldi che operò a Bologna dal 1541 al 1583).

La struttura dell'edificio
Intatto e dotato della maggior parte degli arredi originali, appartiene a un tipo di villa di non grandi dimensioni, a pianta compatta
in cui il principale interesse è volto verso gli spazi interni.
L'esterno è elementare, caratterizzato dal cornicione a guscio, da un semplice portone bugnato sul lato est e da un elegante
loggia sulla fronte ovest.

La pianta
Ma il vero capolavoro è nella pianta:
nel rettangolo è ottenuta una successione di spazi di varia dimensione, contrassegnati nella sezione da altezze variabili a
seconda degli effetti che si vogliono raggiungere; lo spazio fluisce da un ambiente all'altro con assoluta continuità, ma ogni
ambiente è individuato da una propria dimensione caratteristica, nell'ambito di una impostazione rigorosamente simmetrica.
Al centro il salone che si affaccia sulla loggia esterna e comunica tramite un vestibolo con la controloggia; questi spazi assiali
disimpegnano tutti gli altri vani che in più comunicano tra loro.
L'altezza dei vani è proporzionata alla loro ampiezza.
I mobili sono assolutamente parte integrante dell'architettura, la loro linea è monumentale ed esclude la frivolezza.

Gli interni
Al piano terra si trovavano quattro camere da letto, affrescate nei soffitti con figure umane e paesaggi.
Le pareti presentano al centro un grande episodio incorniciato da grottesche e negli angoli da quadrature.
La prima sala: "caccia al cinghiale", "rivolta dei cinghiali", "vendita delle carni del cinghiale", "preparazione delle carni per la
stagionatura".
Seconda sala: due scene di "pesca con le reti", "caccia alla balena", "pescheria".
Terza sala: "caccia al cervo", "caccia ai lupi", "caccia alle talpe", "caccia alla lepre".
Quarta sala: "caccia con il falcone", "caccia con le reti trainate", "caccia al paretaio" e un altro episodio di caccia.
In due piccoli camerini si trovano ancora scene di caccia e immagini di fanciulle che suonano.
La villa, ulteriormente arricchita con stucchi e quadri nel XVIII secolo, è immersa in un bellissimo parco.

VILLA SMERALDI, VIA SAN MARINO N.35

Villa Smeraldi deve il proprio nome alla proprietà, Rigoberto Smeraldi, che dal 1922 al 1942 vi si
stabilì per seguire personalmente l'azienda agricola ad essa collegata.

La struttura
Composta dalla residenza padronale, la residenza del fattore, la toree, la stalla, la legnaia, la colombaia, la ghiacciaia, la casa
colonica, la porcilaia, la conserva e la casa dell'ortolano, venne costruita in diverse fasi;
il primo nucleo, costituito dalla residenza padronale, dalla stalla e dalla casa del fattore, risale al XVIII secolo, mentre tutte le
altre strutture sono del secolo successivo.
L'edificio principale, aveva al piano terra un'ampia loggia di entrata, tre vani e uno spazio adibito a cantina nella parte nord,
mentre il piano superiore era composto da dieci vani.
Successivamente ampliata, raggiunge la sua conformazione attuale nel 1882 per volere di Antonio Zucchini.

La villa oggi ospita le esposizioni permenenti e temporanee del Museo della Civiltà Contadina, la Biblioteca del Museo e gli uffici
dell'Isituzione Villa Smeraldi.
Al piano superiore si trova lo splendido e affrescato Salone delle Feste utilizzato per convegni e concerti.
BUDRIO

LE ORIGINI E IL TOPONIMO

Budrio ha antiche origini umbre, come attesta anche il suo antico nome, Butrium (burrone) di
origine prelatina.
Reperti archeologici, conservati nel Museo Archeologico Paleoambientale, mostrano l‟avvicendarsi di vari popoli in questa zona,
dagli Umbri (civiltà Villanoviana), agli Etruschi, ai Galli, fino ai Romani, che hanno lasciato segni evidenti nella geometrica
divisione dei campi (centuriazione agraria) e nel tessuto urbano del centro storico, in cui le vie si intersecano ad angolo retto. In
seguito anche Goti, Longobardi, Franchi, Ungari passarono per queste terre.

IL PERIODO MEDIEVALE

Nel periodo di rinascita economica dopo il Mille, gli uomini di Budrio si unirono in un Consorzio o Partecipanza di beni agrari,
dati loro in proprietà perché li rendessero produttivi, a vantaggio di tutta la comunità.
Si fa risalire a Matilde di Canossa la donazione del vasto territorio (“la Boscosa”) che permise l‟istituzione della Partecipanza,
che per vari secoli fu un tutto unico con il Comune e fonte di prosperità.
Venne soppressa nel 1931. Sul finire del Trecento, il castello di Budrio, più volte attraversato da soldatesche e rovinato, fu
ricostruito dal governatore di Bologna, cardinale Albornoz, assumendo la forma quadrata con i torrioni agli angoli, forma che nel
secolo seguente divenne rettangolare, essendovi incluso il Borgo sorto ad est.
Nel 1388 i budriesi ottennero la cittadinanza bolognese, che in un primo tempo portò benefici economici.

I SECOLI XVI E XVII

Nel 1500, dopo le traversie dell‟inizio secolo (saccheggio ad opera di Cesare Borgia,
devastazioni, carestie e pestilenze), ci fu un rifiorire della vita economica, grazie alla ricchezza apportata dalla coltivazione,
lavorazione e commercio della canapa, esportata, con ottimi guadagni, in vari paesi, fra cui la Repubblica di Venezia e
l‟Inghilterra.
La comunità di Budrio, che nel 1531 si era divisa in due: Budrio Dentro (il centro) e Budrio Fuori (la campagna), ciascuna con
compiti specifici, ma unite nelle questioni generali, godette di un periodo di pace e benessere, come testimonia il fervore edilizio
di quegli anni.
Le numerose Confraternite costruirono chiese e ospedali.
Importante anche la fondazione, nel 1556, di una scuola pubblica, fra le prime del territorio bolognese, dove si insegnava a
leggere, scrivere, “far di conto”, e Latino.
Le lotte civili fra nobili famiglie, iniziate alla fine del Cinquecento, si protrassero per tutto il secolo seguente, che vide anche una
terribile peste (1630) e una carestia (1648).

I SECOLI XVIII E XIX

Alla fine del „700 anche Budrio passa sotto l‟amministrazione napoleonica, che abolisce il suo “Monte di Pietà”, fondato nel
1531, mentre i beni della Partecipanza vengono incorporati nel Municipio appena istituito.
Con la Restaurazione, Budrio torna a far parte della Legazione di Bologna; sotto il governo pontificio, diventa sede di
Governatorato e il Papa Gregorio XVI le restituisce i beni della Partecipanza.
Le idee risorgimentali di libertà e indipendenza della patria ebbero entusiasti seguaci a Budrio: nel 1848 i budriesi del
“Battaglione Idice”, al comando di Luigi Cocchi, si distinguono in vari combattimenti per l‟unità d‟Italia;
non pochi volontari budriesi vanno ad ingrossare le file dei garibaldini, mentre si afferma la singolare figura di Quirico Filopanti
(Giuseppe Barilli), patriota, politico, amministratore civico, docente universitario, segretario della Costituente nella Repubblica
Romana del 1849, scienziato e astronomo (fondamentale il suo contributo all‟ideazione dei fusi orari).
A Budrio, divenuta nel 1860 Municipio del Regno d‟Italia, sorgono le prime associazioni popolari (la “Società operaia di Mutuo
Soccorso”, la "Società budriese" e l‟”Associazione fra gli operai braccianti del Mandamento di Budrio” o “Cooperativa”).
IL XX SECOLO

Fra la fine dell‟Ottocento e il primo Novecento si ebbe una decisa ripresa dell‟edilizia nel centro urbano, ma soprattutto,
seguendo l‟infelice esempio di Bologna, si abbatté una cospicua parte delle mura.
Di questo stesso periodo vanno ricordati i lavori di bonifica; la costruzione della ferrovia che unisce Budrio a Bologna,
Massalombarda, Molinella, Portomaggiore, e dell‟Asilo Comunale Infantile “A. Menarini”.
Fra la prima e la seconda guerra mondiale, Budrio visse le stesse drammatiche esperienze di tutta Italia: dai 370 budriesi caduti
nella Grande Guerra ai tragici episodi durante l‟occupazione nazista, alla partecipazione alla lotta di liberazione, il cui episodio
più notevole fu la battaglia di Vigorso (21 ottobre 1944), dove trovarono la morte 36 partigiani e 8 civili.
La ripresa del secondo dopoguerra riportò il paese alla prosperità economica e sociale, al rinascere delle istituzioni
democratiche e ad una operosa partecipazione dei cittadini alla gestione del Comune.

IL PALAZZO COMUNALE

Il Palazzo Comunale, “Palazzo Torre”, sede del Municipio, risale al secolo XIV, quando sorse il
primo edificio del complesso: la Torre detta ora dell‟Orologio, anticamente della Guardia, poiché tale era la sua funzione.
Derivata dalla ricostruzione del paese operata dal cardinale Albornoz dal 1363 al 1379, era la più importante fortificazione del
paese. E tale rimase fino al 1870-71, quando fu abbassata e del tutto ristrutturata, con l‟aggiunta anche di una corona di merli
ghibellini, “con il disegno e l‟opera gratuita” dell‟ingegnere budriese Luigi Menarini, come attestano, sull‟arco del voltone, le due
epigrafi dettate da Giosue Carducci.

LE VILLE DI BAGNAROLA DI BUDRIO

Il complesso delle ville di Bagnarola è estremamente interessante in quanto consiste in una sintesi di tutte le esperienze di ville
nel bolognese dal XVI al XIX secolo.
La prima costruzione, il castello dei Bentivoglio, risale al '500 mentre del XVIII secolo è la costruzione della Villa Ranuzzi
Cospi.
Quel che contraddistingue questo complesso, è la presenza di ampi spazi verdi dove pergole e filari la fanno da padrone
costituendo un continuum con le ville adiacenti.

Le costruzioni ottocentesche rispondono alle esigenze scenografiche che si andavano diffondendo in quell'epoca in tutta
l'architettura bolognese.
Presso il castello, partiva un viale che conduceva al Casino che Aurelio Malvezzi fece costrure nel 1623 su un preesistente
nucleo appartenente ai Cospi, a cui furono aggiunti la cappella di Sant'Anna (semidistrutta) e il teatro dei Bibiena (purtroppo
andato distrutto a inizio '800 a causa di un incendio).
Interessante è anche la ghiacciaia che nelle forme, pressocchè identiche a quelle della cappella, mostra oggi la volta di
sostegno una volta coperta dalla collinetta di terra solcata da due rampe di scale che portavano a un belvedere posto sulla
parte alta.
Il complesso fu ulteriormente arricchito ai primi del XVIII secolo da un fabbricato con portico e botteghe per ospitare la fiera
annuale di merci e bestiame.

Questo complesso fu trasformato nel 1737 nel Floriano (dal nome del committente) con le tipiche linee neoclassiche
particolarmente accentuate nella facciata rivolta a sud e arricchita dallo splendido scalone d'ingresso.
IL FLORIANO

Il primo edificio, nato per ospitare la fiera delle merci di Bagnarola, su disegno del Monari, prevedeva un portico al piano terreno
che costituiva un percorso coperto su cui si aprivano le stalle per il bestiame; al di sopra vi era un lungo loggiato che nel 1737
diede posto a vari saloni.
A questo periodo risale l'intervento del Torreggiani che fu chiamato a riordinare gli edifici che divennero poi il "borgo nuovo" di
Bagnarola.
Le lesene corrispondono ai sostegni delle logge del Monari mentre colonne binate reggono le volte introdotte a sostituire i
primitivi solai in legno.
Le due ali laterali (una per accogliere la cavallerizza e l'altra destinata agli appartamenti) vennero realizzate successivamente
con eleganti scaloni.
Il recinto del Borgo è ancora opera del Torreggiani raccordato in un primo tempo al Floriano e soltanto successivamente
collegato alle ali mediante un cancello.

Il compito di questo architetto fu infatti principalmente quello di creare un insieme unitario.


La forte orizzontalità che caratterizza l'edificio è movimentata dai lucernari angolari e dal grande timpano centrale di gusto
neoclassico.

Il rifacimento della facciata sud fu affidato agli inizi dell'800 all'architetto Venturoli che diversamente dal Torreggiani non si
preoccupò di mantenere una certa corrispondenza tra gli interni e gli esterni.
Per conferire infatti maggiore sontuosità alla facciata crea grandi e inutili finestre, talvolta finte.
Oltre il tetto non esitò ad innalzare un frontone che incombe però sulla facciata barocca del Torreggiani alterandone l'aspetto
originario.
L'effetto scenografico, che concepiva la facciata come un'enorme fondale teatrale, prevedeva anche un viale lungo 10 km che
però non venne mai realizzato.
Nel Floriano è ancora evidente l'importanza del verde, soprattutto nello splendido giardino all'inglese.
Anche gli arredi interni si sono conservati e costituiscono l'unica caratterizzazione delle sale interne disposte in maniera
piuttosto elementare.

VILLA GIULIA, VIA SAN DONATO, 42

Immersa in un bellissimo parco, da sottolineare è la decorazione del loggiato che riproduce rampicanti sul loggiato e vedute di
paese sulle pareti.

VILLA GRASSI

Costruita dalla famiglia Grassi nella seconda metà del '500 è importante soprattutto per le decorazioni delle quattro sale al
primo piano che riproducono con fregio a grottesche e riquadri istoriati "storie della vita di Giuseppe", "le stagioni", ed "episodi
della vita dell'uomo".

PALAZZO ODORICI DETTO PALAZZO DI SOPRA

Forse di origine cinquecentesca, il palazzo fu di proprietà dei Bentivoglio fino alla metà del XVIII secolo quando fu acquistato
da Pier Antonio Odorici, il cui nipote, dissipato tutto il patrimonio, scomparve nel 1798.
Il palazzo passò quindi al conte Prospero Ranuzzi Cospi e poi ai Malvezzi, finchè passò definitivamente a una cooperativa di
braccianti che lo trasformò in abitazione deturpando notevolmente gli ambienti e le opere d'arte.

VILLA RANUZZI COSPI DETTA PALAZZO DI SOTTO

Il casino di campagna cinquecentesco fu demolito nel 1700 per lasciare spazio alla villa voluta dal Ranuzzi Cospi.
La villa presenta due corpi isolati che lo fiancheggiano conclusi da due prospetti di chiesette.
All'epoca la villa conservava un'importante quadreria con tele del Reni.
Altre decorazioni arricchiscono gli altri ambienti mentre il quadro della cappellina è di Gaetano Gandolfi.

PALAZZO RATTA A VEDRANA DI BUDRIO

L'edificio fu realizzato nel XVIII secolo per volontà del marchese Giuseppe Carlo Ratta, senatore dal 1706 al 1725.
La costruzione è arricchita all'interno da tempere con paesaggi e da un sontuoso scalone.
VILLA RUSCONI, MEZZOLARA

Dell'antico fabbricato quattrocentesco rimangono le tre arcate della facciata mentre l'edificio ha subito un forte rimaneggiamento
in stile neomedievale durante il XIX secolo.

LA TUÈ, VEDRANA

Il termine deriva dal latino medievale "tuata" o "tubata" che significa torre. E infatti presso la villa si trovava una torre distrutta
nel 1945.
Gli ambienti del pianterreno sono coperti con volte sostenute da capitelli cinquecenteschi.
L'affresco della "Madonna col Bambino" è attribuibile alla scuola bolognese cinquecentesca.

VILLA ZAMBECCARI, RICCARDINA

La villa esisteva già nel 1578 e ne conserva essenzialmente i caratteri nonstante i vari rimaneggiamenti subiti nei secoli
successivi.

VILLA ZANI, VIGORSO

Più volte rimaneggiata, risalente alla prima metà del XVII secolo, ha subito anche diversi passaggi di proprietà.

MINERBIO

LE ORIGINI E IL TOPONIMO

Queste campagne erano sicuramente popolate fin dall‟epoca romana, presenza testimoniata
non solo dall‟origine del nome di questo Comune (Minerbio infatti sembra derivare da un antico tempio pagano dedicato alla
dea Minerva) ma soprattutto dalle persistenze di tracce della centuriazione romana ancora oggi leggibili nelle aree circostanti.
La campagna propriamente minerbiese tuttavia sembra aver perso i segni della romanizzazione. I maggiori segni di persistenza
del reticolato centuriale, infatti, si trovano in prevalenza nei settori più alti e quindi morfologicamente più stabili.
La pianura in cui si colloca Minerbio è caratterizzata da una morfologia instabile che ha causato una modifica di pendenza del
terreno. Questo ha influenzato il drenaggio superficiale provocando inondazioni che hanno per lo più cancellato o interrotto i
segni dell‟antica centuriazione.
Gli stessi insediamenti romani, che per la campagna bolognese erano per la maggior parte caratterizzati da insediamenti sparsi,
spesso si distribuivano nel territorio seguendo criteri dettati dalla morfologia del terreno, in maniera apparentemente caotica,
cercando però di sfruttare quelle emergenze naturali come dossi e corsi d‟acqua che costituivano veri e propri confini tra una
maglia centuriale e l‟altra.
Anche il corso del Savena, che attraversava le campagne minerbiesi,
scorreva fin dall‟epoca romana più ad est dell‟attuale rettifilo derivato dalle opere di deviazione eseguite a metà del XVI sec.
La presenza poi in questa zona di insediamenti d‟epoca romana presuppone che tali aree fossero state bonificate e sistemate in
modo stabile fin dalle prime fasi della romanizzazione.
I romani erano soliti stanziarsi nei territori posti all‟incrocio tra la viabilità stradale e fluviale. Il Savena, insieme al minor corso
della Zena, doveva costituire una via navigabile molto importante.
La bonifica fu premessa essenziale per la centuriazione dell‟agro e la validità dell‟organizzazione romana è rilevabile nella
continuità che ha caratterizzato l‟abitato anche in epoca alto-medievale.
IL PERIODO MEDIEVALE E LA FONDAZIONE

Uno dei più antichi documenti che riguardano il territorio di Minerbio è datato 2 novembre 1186 e attesta
che Ildebrando di Gualfredo Podestà di Bologna impose agli uomini di S. Marino e di Lovoleto di restituire la Selva Minervese,
porzione di una più vasta Selva Litana di proprietà dei Galli Boi che si estendeva su queste pianure con amplissimi boschi e
paludi, al Comune di Bologna poiché essi ne avevano preso possesso senza alcun diritto.
Qualora avessero cercato di creare situazioni di contesa nei confronti di questo Comune o di riappropriarsi di quelle terre
sarebbero stati multati con una pena di cento lire imperiali.
Tuttavia il documento che viene considerato l’atto di fondazione del Comune di Minerbio è contenuto nel “De Pactis
Altedi”datato 1231.
Nella Piazza Maggiore di Bologna alla presenza di tutto il popolo, il podestà di Bologna Federico da Lavellolungo bresciano
cedette a 150 famiglie mantovane il territorio di Altedo e Minerbio.
Non è chiaro il motivo per cui queste famiglie del mantovano si spostarono nella zona bolognese forse per fuggire dalle lotte
che opponevano guelfi e ghibellini o forse mutamenti di condizioni ambientali e dunque economiche che avrebbero peggiorato
le condizioni di vita nel mantovano.

IL SAVENA

Questo fiume su cui anticamente si basavano i rapporti via d‟acqua tra i comuni che ne lambivano gli argini e il Comune di
Bologna, attraversava il centro abitato di Minerbio poco più a nord rispetto l‟attuale strada principale chiamata V. Garibaldi.
La presenza dell‟antico alveo è testimoniata nel toponimo Savena Vecchia che si conserva attualmente nei due tratti di strada
comunale appena fuori dal centro abitato verso Ferrara (Via Savena Inferiore) e verso Bologna (Via Savena Superiore).
Questa distinzione poi è indice di terre che verso il ferrarese sono più basse e che in tempi remoti erano frequentemente
soggette a impaludamenti.
Le terre circostanti l‟antico corso del fiume infatti erano fertilissime.
Attraverso l‟antico metodo della bonifica per colmata, il fiume che come era solito per quell‟epoca non era arginato, straripava e
fertilizzava con il proprio limo le terre circostanti.
Quando la piena cessava e le acque si ritiravano, le terre già bonificate venivano arginate cercando in questo modo di far
defluire le acque della successiva piena sempre più a valle verso le paludi permanenti.

Le zone comprese fra le anticlinali della struttura ferrarese e le prime strutture pedeappeniniche erano
zone subsidenti e soggette a movimenti tettonici che videro un innalzamento di tutta la struttura, in particolare del tratto
antiappeninico di Bagnolo - Reggio Emilia e di Bologna – Minerbio.
Tale movimento fu all‟origine della migrazione verso nord del Po che causò nel 1152 la famosa rotta presso la località di
Ficarolo che vide l‟origine del corso principale del Po.
Il Po di Primaro però, il cui alveo non era più alimentato, vide avanzare un graduale interrimento. Questo fatto determinò
l‟impedimento del deflusso delle acque dei torrenti appenninici, come il Savena, il Reno e l‟Idice che nel Po di Primaro
defluivano le proprie acque.
Cominciarono così straripamenti e rotture degli argini che interessarono inevitabilmente anche le terre alte già bonificate da
tempo.
Gli allagamenti divennero piuttosto frequenti tanto che i danni provocati all‟agricoltura bolognese divennero sempre più
preoccupanti.
Fu così che con breve dell‟ 8 aprile 1560 Monsignor Cesi dava incarico di stabilire il nuovo corso del Savena.
I lavori ebbero inizio nel 1560 ma furono numerosi gli interventi.
Così il nuovo corso non lambiva più il centro cittadino di Minerbio ma attraversava in maniera rettilinea la pianura presso Cà de‟
Fabbri (attualmente frazione di Minerbio).
Questa deviazione ebbe ripercussioni anche dal punto di vista economico oltre che dal punto di vista dello sviluppo urbanistico
dell‟abitato.
IL CENTRO STORICO

Il centro storico mantiene le forme dell'antico castrum medievale con il particolare


impianto ortogonale con strade che si incrociano ad angolo retto.
Questo fu probabilmente il primitivo nucleo abitativo fin dal primo insediamento lombardo che si consolidò poi con la costruzione
della Rocca e l'arrivo degli Isolani e quindi la fortificazione, probabilmente con palizzate lignee, dell'abitato.
Un insediamento tipicamente castrense dunque con le abitazioni che si affacciavano su un reticolo stradale ben definito,
racchiuso in un recinto costituito dalla fossa e dove alle costruzioni si alternavano continuamente spazi adibiti ad orto e giardino.

Il percorso storico artistico

LE STRADE DEL BORGO

La via principale che partiva dalla porta e attraversava tutto il borgo, chiamata via di Mezzo, correva parallela a via Superiore,
entrambe tagliate perpendicolarmente da vie minori.
Subito fuori dalla porta, parallela alle fosse vi era il tracciato di via delle Stuoje.
Oggi si conservano sia il reticolato ortogonale delle strade che il perimetro pressocchè quadrato dell‟antico castrum.
Sul percorso dell‟antica via di Mezzo troviamo ora Via Larga Castello, piazza Cesare Battisti e il suo monumento sono sorti su
un‟area precedentemente occupata da un agglomerato abitativo, nella cui parte retrostante correva via delle Stuoje; via Sopra
Castello si trova invece sull‟antico percorso di via Superiore.

Nell‟area appena fuori dalle mura del castello sorgeva un mulino sostituito a metà del 1700 da un‟osteria.
Ora su quell‟area è sorto il complesso del cinema teatro Minerva nell‟edificio che ospitava l‟ex casa del fascio costruita intorno
agli anni ‟30.

L‟avanzamento edilizio ha inoltre inglobato vicolo Bondi. Le attuali via Falegnami, via Ortazzo e via Conventino ripercorrono i
tracciati stradali delle vie minori che tagliavano perpendicolarmente le due strade principali del borgo.Gli orti e i giardini sono
stati eliminati per guadagnare ulteriore terreno all‟espansione edilizia.
LE CASE

Dislocate lungo il reticolato ortogonale, erano decorate in facciata da bassi portici, probabilmente di
legno. La recente ristrutturazione ha mantenuto la forma dei bassi porticati con soffitto in travi lignee e colonne in mattoni,
ammodernando notevolmente però l‟aspetto esteriore e gli ambienti interni.
La casa del governatore feudale si trovava all‟angolo tra le attuali via Larga Castello e via Falegnami. Anche oggi si riconosce
per le arcate più alte rispetto quelle dei restanti portici e per una targa marmorea raffigurante l‟impresa della famiglia Isolani
posta sopra la porta di ingresso.

LA PORTA/TORRE

Dell'antico abitato è ancora visibile la medievale porta d'ingresso munita di ponte levatoio, oggi
scomparso, che permetteva o escludeva l'accesso al borgo. La porta subì una ristrutturazione a metà dell‟800 con
l‟innalzamento della torre, la posa di un orologio a doppia mostra e un “castello” in ferro battuto contenente le campane
dimostra che la torre attuale, posta ancora all‟ingresso del borgo antico, mantiene l‟aspetto di quest‟ultima ristrutturazione.
E‟ancora presente su un lato la porta di legno che introduceva alla scala che conduceva alla sommità della torre che tuttavia
non è più agibile. L‟orologio, che ha perso le antiche decorazioni pittoriche, è ancora collocato sulla torre, come le campane, ma
entrambe non sono più funzionanti.

LE FOSSE

Un circuito di fosse, ricordato dal toponimo dell strade che ne ripercorrono il tracciato, cominciò ad essere tombato sia in
seguito alla deviazione a metà del '500 del corso del Savena che non le alimentava più con acqua corrente sia per la perdita
di esigenze difensive del borgo.
Attualmente non vi è più nessuna traccia di questo tipico elemento della città medievale eccetto nel toponimo che identifica la
strada, via Fosse appunto, che ne ripercorre l‟antico tracciato sui due lati che furono chiusi per ultimi.
E‟ ancora visibile però, a destra e a sinistra della porta del castello, l‟interruzione del gruppo compatto degli edifici nei due punti
in cui le fosse si inalveavano tra le abitazioni per raggiungere il cortile del castello.

L'ESPANSIONE DELL'ABITATO
Il borgo antico ha tuttavia mantenuto essenzialmente il reticolato ortogonale primitivo ma l‟abitato ha
subito una netta espansione nell‟area dell‟antico alveo del Savena e lungo l‟antico Canaletto del molino Marescalchi Pepoli
peraltro ricordato nel toponimo dell‟attuale via Canaletto.Con l‟interrimento del vecchio alveo in seguito alla deviazione avvenuta
a metà del '500, l‟abitato dell‟antico borgo ebbe occasione di espandersi ulteriormente fuori dalle mura dell‟antico
castello.Cominciò quindi la costruzione di una serie di case che si affacciavano sulla nuova strada che collegava il castello alla
chiesa su quelli che erano stati gli antichi argini del fiume e che ora venivano livellati con le campagne circostanti.Questo
ampliamento dell‟insediamento fu favorito anche da una concessione di terreni agli inizi del „500 da parte di Pietro e
Gianfrancesco Isolani per favorire il ripopolamento dell‟antico castello in seguito alle invasioni viscontee del Piccinino.

LE GRANDI FAMIGLIE STORICHE

GLI ISOLANI

Provenienti dall‟isola di Cipro (da qui probabilmente il nome di Isolani) arrivarono a Bologna nei
primi anni del 1300 e qui divennero facoltosi mercanti di sete.
A Minerbio cominciarono ad acquistare terreni fino ad avere amplissimi possedimenti.
Tuttavia le vicende che portarono tale famiglia a trasformarsi da semplici ricchi possidenti di terre a veri e propri feudatari di tali
territori, si svolsero nel corso dei secoli e videro come protagonisti alcuni dei più importanti personaggi del tempo.
Verso la metà del X secolo la città di Bologna era retta da un conte alle cui dipendenze vi erano numerosi feudi minori i cui
castelli, soprattutto in pianura, si sviluppavano in corrispondenza degli antichi pagi e vici.
Tuttavia tra il 1116 e 1123 Bologna istituì un primo proprio governo comunale, in seguito alla cacciata del conte, il cui potere era
in mano ad una classe aristocratica composta da antichi proprietari terrieri.
Ovviamente i feudatari si sentivano minacciati nella possibilità di mantenere i propri diritti soprattutto quando questa nuova
borghesia, organizzata in Arti e Corporazioni, diveniva sempre più solida.
L‟istituzione nel 1228 della nuova magistratura degli Anziani, eletti dalle Arti, nel 1255 dal Capitano del Popolo, anch‟esso eletto
dalle Arti e il Podestà di nomina nobiliare permetteranno la nascita di una nuova classe dirigente da cui avranno origine le
grandi famiglie come i Pepoli, i Bentivoglio, i Malvezzi, i Beccadelli e anche gli Isolani.
L‟abolizione della servitù della gleba, nel 1256, su cui si era sempre basata la società feudale e l‟organizzazione delle
campagne in comunità rurali dove i contadini erano esonerati dagli oneri imposti dal signore, fecero perdere man mano potere
all‟organizzazione feudale fino a che il governo comunale riuscì ad avere la meglio radendo al suolo i vecchi castelli o
trasformandoli perlopiù in rocche adibite all‟uso di piazzaforti comunali.
Con la crescita di potere che queste nuove famiglie feudali vedevano affermarsi grazie alle attività mercantili, si creò un
fenomeno di rifeudalizzazione, con l‟investimento dei capitali accumulati col commercio, nell‟acquisto di nuovi fondi nelle
campagne e la costruzione di rocche militari adibite a residenze dei nuovi signori.
Il contado godeva di una certa tranquillità soprattutto nel periodo i cui la città di Bologna fu retta dalla casata dei Bentivoglio, a
partire dal 1401.
Erano ovviamente contrastati dalle altre nobili famiglie, tanto che Iacopo Isolani, figlio del primo Iacopo che acquistò i primi
terreni a Minerbio tra il 1315 e il 1321, si unì alle famiglie dei Pepoli, Galluzzi, Nanne, Bonifazio Gozzadini e ad altre famiglie
nemiche per cacciarli dalla città.
La battaglia decisiva fu combattuta alla fine del giugno 1402 nei pressi di Casalecchio di Reno, fuori Porta Saragozza.
Iacopo armò i Minerbiesi e prese parte alla guerra. Con le altre famiglie nobiliari alleate si avviò a Porta S. Donato nella notte di
S. Pietro. Le loro truppe affiancate da quelle viscontee presero possesso della città e i Bentivoglio furono cacciati.
Nel 1403 i Visconti, come riconoscimento per il valore che la famiglia Isolani aveva dimostrato in tale occasione, vollero
allargare i loro domini nel territorio di Minerbio limitati alla zona del castello.
Così la loro giurisdizione si estendeva da quel momento su una fascia di terreno lungo il corso del Savena dalla quercia di
Marolo (probabilmente riconducibile all‟attuale località di Armarolo) fino al Capo di Savena a nord del castrum.
Il diploma visconteo è il primo documento che attesta l’investitura feudale degli Isolani a Minerbio.Questo territorio era
libero ed esente dalla giurisdizione della città e del Comune di Bologna salvo il pagamento tutti gli anni nel giorno di San Pietro,
a ricordo del giorno in cui i Visconti entrarono in possesso della città di Bologna, di uno sparviero.
Fu da questo momento che il borgo, che aveva avuto origine probabimente fin dal primo insediamento dei mantovani, si
consolidò assumendo la propria forma definitiva, completato dalla costruzione della Rocca.
Ma di qua a poco, con l‟ascesa al trono pontificio di Giuliano della Rovere, meglio noto come Giulio II, Giovanni Bentivoglio,
davanti alla minaccia delle truppe del nuovo pontefice, fu costretto nel 1506 a fuggire a Milano e la sovranità papale fu
ripristinata su tutti i territori dello Stato della Chiesa.

Tuttavia Bologna manteneva una certa autonomia; il Legato pontificio infatti governava affiancato da un Senato costituito prima
dai 40 poi dai 50 senatori costituito da membri di grandi famiglie a titolo ereditario tra cui anche gli Isolani. Si presentò loro
quindi l‟occasione per rivendicare i propri antichi diritti servendosi delle dichiarazioni di alcuni testimoni che sostenevan o
l‟esistenza dell‟antica giurisdizione su terreni acquistati e dunque di proprietà degli Isolani e l‟esistenza delle case dell‟antico
borgo che corrispondevano un canone annuo perché costruite sulla loro proprietà.
Nonostante la riconferma di antiche giurisdizioni andasse contro il disegno del pontefice di ripristinare un unitario Stato della
Chiesa e soprattutto nel caso specifico tali diritti erano stati riconosciuti dai Visconti che avevano occupato gran parte dello
Stato pontificio, Clemente VII decise di concedere una nuova investitura papale, nel 1524, che trasformava Minerbio in una
contea di proprietà di Giovanni Francesco Isolani e dei suoi eredi in perpetuo, con un‟estensione del territorio ben maggiore di
quanto non fosse avvenuto con l‟investitura feudale viscontea.
La contea infatti era costituita da un perimetro pressocchè quadrato delimitato da due fiumi, il Savena e la Zena, e da due
strade, via delle Santoline e via Montadella. Tutto il resto del territorio rimaneva sotto la diretta giurisdizione del Governo di
Bologna.
Tali diritti furono conservati anche quando una bolla di Clemente VII, del 1532, aboliva le concessioni feudali fatte nel passato
alle nobili famiglie; ma Minerbio con una bolla emanata dal nuovo ponteficie Paolo III nel 1535, rimase immune per il valore
dimostrato in passato e per il sostegno fornito al governo pontificio.
Il Senato bolognese, però, non si rassegnò mai alla presenza di questa sorta di zone franche all‟interno della propria
giurisdizione.
I contrasti si riaccesero nel 1712 fino a che una serie di episodi portarono gli Isolani alla definitiva perdita dei propri antichi
diritti nel 1734 quando anche i loro territori furono uniti ai restanti sottoposti alla Comunità di Minerbio.

IL COMPLESSO DI ROCCA ISOLANI

Di origine trecentesca, la Rocca ha subito diverse distruzioni e ricostruzioni nel tempo


, leggibili ancora nei muri che ne hanno subito i vari riadattamenti, fino ad assumere l'aspetto originario risalente alla metà del
XVI secolo, quando Giovanni Francesco Isolani la fece ricostruire e decorare all'interno in seguito alla distruzione avvenuta
per mano dei Lanzichenecchi nel 1527.

Le decorazioni interne
Le decorazioni, realizzate intorno alla metà del '500 come documentato dagli schizzi preparatori conservati al British Museum
di Londra, sono attribuibili al pittore cinquecentesco Amico Aspertini.

Nella sala di Marte le pareti sono scandite da erme a monocromo a cui corrispondono dei peducci con figure maschili e
femminili. Al centro della volta è rappresentato il dio Marte. Questi affreschi dovevano probabilmente incorniciare scene, oggi
purtroppo perdute.

Nella sala dell'Astronomia le nicchie ospitano le figure delle Muse e delle Arti Liberali. Quattro telamoni sostengono
un'illusionistica balconata dipinta sulla volta da cui si affaciano le figure a mezzo busto di Diana e Apollo.

Nella sala di Ercole, nonostante il tempo abbia profondamente rovinato gli affreschi, sono riconoscibili ampie vedute di paese
come sfondo alle imprese dell'eroe raccontate in primissimo piano.

Il percorso storico artistico


La colombaia
Costruita nel 1536, ed attribuita per le sue forme architettoniche e soprattutto per la bellissima scala lignea elicoidale interna al
noto architetto Jacopo Barozzi detto il Vignola, subì gravi danni durante un terremoto nel 1591.
I lavori di restauro sono quindi ricordati in una lapide.
Di forma ottagonale, l'esterno è ritmato da tre ordini sovrapposti di lesene toscane che gli conferiscono un aspetto di estrema
eleganza, insolita se si pensa che questo era essenzialmente una struttura produttiva, costruita per ospitare nelle cellette
interne fino a tremila colombi.
Oltre a costituire infatti una notevole fonte di cibo, ne veniva utilizzato anche lo sterco per concimare le campagne circostanti
rendendole in questo modo decisamente più produttive.

La villa del Triachini


Affiancato all'antica rocca, l'edificio fu costruito a metà del '500 dall'architetto bolognese Bartolomeo Triachini e assunse la
denominazione di "Palazzo Nuovo".
Il piano terra è carattezzato da una loggia passante, mentre i piani nobili erano raggiungibili in origine soltanto dalla scala
esterna (quella interna risale all'800).
La facciata nord presenta il motivo della loggia che diventerà ricorrente in tutte le ville bolognesi del '500.
Ugualmente la facciata sud doveva presentare una loggia chiusa però nel '700 per sostituirla con un salone e chiudendo quindi
le finestre corrispondenti al secondo piano
.

CASTELLO DI SAN MARTINO IN SOVERZANO

La costruzione voluta dal cavaliere bolognese Bartolomeo Manzoli ebbe inizio nel 1411
inglobando un'antica torre degli Ariosti di cui rimane soltanto la base.
Il castello, che possiede tutti gli elementi difensivi tipici del castello medievale (torri, fossato, ponte levatoio...) non nacque
tuttavia con un esigenza difensiva che lo caratterizzò soltanto per un breve periodo a metà del XVI secolo quando i Manzoli
divennero conti per volere di Leone X della giurisdizione di San Martino.

Durante lo stesso periodo il castello fu restaurato, ma l'intervento più evidente è quello ottocentesco per mano del Rubbiani che
se ha profondamente modificato l'aspetto interno ha invece mantenuto pressocchè immutato l'impianto esterno.

Il lungo portico che introduce al parco del castello fu appositamente costruito nel 1684 per
ospitare una fiera del bestiame che qui si teneva tradizionalmente fin dal 1584, e che ancora oggi continua ad attirare visitatori
ogni prima domenica di ottobre.
MOLINELLA

LE ORIGINI E IL TOPONIMO

Le prime notizie del nucleo abitato che si chiamerà Molinella risalgono al secolo XII.
In quell'epoca la zona era denominata "Corte del Poggio", ma ben presto il villaggio acquisì il nome di "Vico Canale", per la
presenza di una importante via d'acqua che attraversava il paese e seguendo all'incirca l'attuale via Romagne giungeva alla
"Torre dei Cavalli", il più antico centro abitato del territorio.
Il toponimo "Molinella" si afferma nei primi vent'anni del XIV secolo, ed è originato dai molti mulini che disseminavano la zona,
data la presenza di numerosi fiumi che nei secoli condizionarono non solo la geografia ma anche la cultura, la politica e la
storia locale.

DAL MEDIOEVO AL XV SECOLO

La torre, che, da poco risistemata, sorge al centro di Molinella non è la primitiva, costruita all'inizio del XIV secolo: quella infatti
fu rasa al suolo, assieme al castello adiacente di S.Stefano, nel 1390 dalle truppe di Gian Galeazzo Visconti.
La torre che oggi vediamo costruita sulle fondamenta della precedente negli ultimi anni del '300, fu terminata solamente verso il
1404.
La Parrocchia di Molinella venne ufficialmente eretta nel 1522 mentre il Comune fu fondato nel 1562. Primo Podestà fu
Galeazzo Malvezzi.
Tra gli avvenimenti importanti che nel passato coinvolsero il paese è da ricordare la battaglia della Molinella (o della Riccardina)
che fu combattuta il 25 luglio 1467, con esito incerto.
Le truppe della Repubblica di Venezia coalizzate con gli Estensi e i fuoriusciti Fiorentini erano comandate da Bartolomeo
Colleoni; quelle della "Lega italica" (Milano, Firenze, Napoli, Bologna) da Federico di Montefeltro, Duca di Urbino.

IL XIX SECOLO

L'aspirazione istintiva dei molinellesi ad associarsi si concretizzò nel 1863 con la fondazione delle prime Società di Mutuo
Soccorso ed in seguito con la realizzazione delle Cooperative, sorte per diminuire la disoccupazione e dare ai braccianti
maggiori capacità di resistenza nelle lotte rivendicative.
Così per l'azione di Giuseppe Massarenti (1867-1950), che fu anche sindaco socialista di Molinella, all'epoca di aspre lotte
sociali, furono costituite, la Cooperativa di Consumo (1896) e la Cooperativa Agricola (1905).
Nel 1899 nacque anche la Società Cooperativa Cattolica "Cassa Rurale ed Artigiana".
L'avvento del fascismo segnò una pausa d'arresto nel movimento cooperativo e provocò la diaspora di molti esponenti del
socialismo molinellese.
Il periodo, peraltro, fu caratterizzato dalla realizzazione di ingenti opere pubbliche.

MALBORGHETTO

Si trova in via Andrea Costa ed è la parte più vecchia di Molinella.


Il nome conservato dalla tradizione popolare ricorda le sofferenze di un tempo, la miseria, la malaria contratta nelle malsane
risaie, l'odor di canna marcita e di palude che il vento sospingeva sino alle soglie delle case, fatte di mattoni sconnessi.
Era anche una zona malfamata in cui viveva la maggior specie di persone ma anche animi indomiti che trovavano ospitalità in
un ambiente dominato da boscaglia, fitti canneti e acquitrini che davano sicurezza in caso di pericolo.
Si dice pure che il celebre Stefano Pelloni vi giungesse dalla sua romagna quando si sentiva particolarmente braccato dalle
guardie papaline.
Col passare degli anni tutte queste entità si trasformarono in una comunità di gente fiera e laboriosa, anche se povera,
e Malborghetto divenne così il cuore del socialismo popolare in contrapposizione alla Molinella "bene" dislocata lungo il corso
principale.

PIAZZA MASSARENTI

Nell'ampio piazzale è posto il monumento a Giuseppe Massarenti uno dei fondatori del partito socialista italiano a Genova nel
1892 e fondatore delle cooperative di Molinella e sindaco dal 1906 al 1921.

VILLA ZUCCHINI

Si trova in via Provinciale Inferiore.


Due robusti torrioni laterali si armonizzano bene con il corpo centrale dell'edificio seicentesco circondato da un cortile molto
ampio.
VILLA VOLTA

Si trova in via Mazzini.


Grande palazzo con due torri ai lati, fu fatto costruire nel 1463 dal cavalier Volta, di nobile familia bolognese.
Davanti alla doppia scalinata d'ingresso vi sono:
un busto bronzeo di Giuseppe Massarenti, di Giuseppe Bentivogli, di Alfredo Calzolari e Paolo Fabbri, vittime delle lotta
partigiana.
Nel 1476 vi prese alloggio Bartolomeno Colleoni prima e dopo la battaglia della Riccardina o della Molinella.

TORRE CIVICA

Si trova in via Mazzini.


Non poca importanza aveva la terra di Molinella nel Medioevo, vista la sua posizione ai limiti delle zone d'influenza degli Estensi
a nord e del Senato bolognese a sud.
La prima notizia della torre è del 1322.
Bologna, sempre in lotta coi fuoriusciti, vi invia un gruppo di armati e forniture di armi; altre armi vengono vengono mandate nel
1324.
In quegli anni, dunque, esisteva già. Bologna l'acquistava nel 1324 da una famiglia patrizia assieme all'attigua fortezza o
castello di S.Stefano e al terreno circostante, compreso il porto. Tutto intorno vi era palude, canneto, bosco, ma anche terreno
coltivato e man mano che gli specchi d'acqua si interravano venivano costruite altre case. Non esiste alcun disegno nè della
torre nè del castello, andati distrutti.
Fu quindi ricostruita verso la fine del '300 e negli anni successivi fu adibita quasi esclusivamente a cercere, ed è quella che
ancora adesso vediamo dopo il restauro del 1982. Era merlata e solo in epoca più tarda vi fu sistemato un tetto a quattro
spioventi e costruita la guglia a piramide con quattro archi.
E' stata aperta al pubblico nel dicembre del 1996 con allestimento di mostre.

TORRE DEI CAVALLI

La storia di Molinella parte da questo primo nucleo abitato, che raggiunse il suo massimo splendore nel XIV secolo, per inziare
una rapida decadenza già alla fine del XV.
La località aveva anche una sua chiesetta ed era, per quei tempi, un porto fluviale importante per il commercio del pesce e per i
collegamenti fra bolognese, ferrarese e Repubblica di Venezia.
La decadenza fu causata principalemente dal variare dei corsi d'acqua che si disperdevano nei suoi acquitrini: Idice, Quaderna,
Centonara e Gaiana.
Il 4 agosto 1995, sul terreno di proprietà cooperativa "G.Massarenti", vicino alla località Casoni di Marano, gli "Amici dei
moumenti" hanno affisso, sul cippo che ne indica la posizione originaria, una lapida commemmorativa.

IL BORGO DI SELVA MALVEZZI

Questo paese sorse dove l'acquitrinosa Padusa cominciava a cedere il posto alla Silva Litana (bosco); di qui il nome di "Selva".
"Malvezzi", perchè Carlo Malvezzi acquistò nuove terre, le bonificò e le mise a coltura, liberandole dai banditi che la
infestavano, perciò nel 1455 ricevette l'investitura di conte. Il dominio feudale si potrarrà fino al 1796 quando, con l'arrivo dei
francesi, il territorio fu incorporato nel dipartimento del Reno.

IL PALAZZACCIO (SELVA MALVEZZI)

Si trova in via Selva.


Potente complesso fortificato, con torri, attorno ad una tozza mole, costruito nei primi anni del Seicento per volere di Matteo,
quarto conte di Selva, a difesa del feudo dalla parte di Bologna e di Budrio.

ANTICO OSPEDALE (SELVA MALVEZZI)

Nel lato sinistro del palazzo del governatore, in un edificio fatto costruire da Camillo, decimo conte di Selva, nel 1687 venne
trasferito un piccolo ospedale (già funzionante nel 1540 in un locale situato a fianco della chiesa attuale) . Numero di letti e
spazi interni aumentarono con gli anni: direttore era, per tradizione, il medico del luogo. Tra questi si ricorda il dottor Giulio
Ferrari, che diresse l'ospedale nei primi decenni dell' '800 fino alla morte (1836), in quanto parente del poeta Severino Ferrari.
L'ospedale fu definitivamente chiuso all'inizio del '900.

PALAZZO FEUDALE (SELVA MALVEZZI)

Si trova in via Selva.


Costruito alla fine del '400 per opera del primo conte, Carlo Malvezzi, poi fortificato ed abbelito nel 1618 con una severa facciata
munita di una torre centrale. Si sale all'ingresso per una scala a svolgimento rotondo a doppia rampa; dietro la costruzione è più
ariosa per la presenza di un loggiato a cinque archi, sopraelevato, cui si accede pure con la doppia scala.
Qui risiedeva il feudatario.
PALAZZO DEL GOVERNATORE (SELVA MALVEZZI)

Si trova in via Selva. Edificato nel 1666 da Camillo Malvezzi. La facciata è sovrastata da due piramidette e da un piccolo arco,
sotto il quale è posta una campana. Alla base un ampio porticato dà respiro a tutto il complesso. Al centro del primo piano vi è
un balcone, da dove venivano letti i bandi. Ai due lati c'è un elegante prospettiva, aperta da un arco, con la forma di facciata di
chiesa. Il lato destro dell'edificio termina con un massiccio torrione merlato.

LA MALVEZZA (SELVA MALVEZZI)

Si trova in via Malvezza.


In località la Malvezza si può vedere una sontuosa villa sovrastata da una torretta: è il Palazzo Malvezzi che dà il nome alla
zona.
La costruzione iniziò nel 1726. Due rampe di scale, che portano all'alto portale, danno movimento alla facciata. Dopo aver
rischiato il crollo, l'attuale proprietario ha inziato dal 1995 un attento restauro. Poco dopo il 1726 fu edificata la CAPPELLA che
sorge accanto, dedicata a S. Antonio da Padova. Armoniosa è anche la chiesetta, con timpano e snello campanile.

L'AGRICOLTURA NELLA STORIA


LE PRIME FORME DI AGRICOLTURA

L‟esigenza dell‟uomo di dominare il territorio per soddisfare il bisogno di procurarsi cibo e di possedere un riparo hanno dato
vita alle prime forme rudimentali di agricoltura e di costruzioni abitative già a partire dal III millennio.
Siamo di fronte ad un‟organizzazione dove non esiste la divisione in classi, basata su clan all‟interno dei quali ciò che importa
sono i vincoli di parentela e la proprietà collettiva della terra.
La dimensione e l‟organizzazione dei clan infatti è proporzionale a una determinata dimensione territoriale che dipende
unicamente dai mezzi offerti per la sussistenza di chi da quel pezzo di terra dipende.

Solo nel II millennio, quando questi gruppi tribali cominceranno a stabilirsi definitivamente su alcune aree, vi sarà un‟espansione
dei rapporti economici e commerciali a più ampio raggio.

Così si sviluppa la civiltà villanoviana con la quale si diffonde una prima idea di strutturazione del territorio.
Si modificano le relazioni anche all‟interno dei gruppi che su tali territori si stabiliscono.
A un‟organizzazione infatti indistinta dei clan tribali si sostituisce una divisione in gentes che emergono per l‟accumulo di
ricchezze da parte di poche famiglie grazie alla rete di scambi commerciali sempre più ampia. E‟ la premessa a quanto si
verificherà nell‟organizzazione della società urbana.
Come possiamo immaginare non è più valida la proprietà collettiva del suolo e il possesso e l‟uso dei campi sono regolati da
norme più complesse che fanno riferimento al rapporto tra agricoltura e allevamento e ai metodi di lavorazione con l‟aratro.
Questo strumento presuppone infatti una regolarizzazione dei campi, che vengono sempre più coltivati a vegetali e cereali e
nelle zone più fertili; l‟agricoltura si sta sempre più trasformando in un‟attività stanziale.

Gradualmente si avvia un processo di suddivisione della società in classi sociali, gens, a cui corrisponde un‟organizzazione del
territorio in “pagus” e “vicus”, divisione che persisterà durante tutto il periodo romano sotto la maglia della centuriazione, delle
colonie e dei municipi.
Pagus e vicus si estendevano su unità territoriali ben definite di solito corrispondenti ad aree fertili in grado di consentire la
sussistenza di coloro che ne facevano parte.
Il vicus risulta però come un sottosistema del pagus poiché le famiglie che lo costituiscono sono prima di tutto pagane in quanto
stanziate su alcune terre interne al pagus, regolati però da leggi specifiche, rituali e assemblee a cui possono partecipare solo
gli appartenenti ad un determinato vicus.
Tale suddivisione in pianura sarà premessa dei tipici insediamenti sparsi che qui si diffonderanno e persisteranno per lungo
tempo.
Questa nuova organizzazione si sviulppa attorno a un nucleo edificato risultato dell‟unione di più villaggi.
Tra un vico e l‟altro, oppure fuori dal pagus, si estendono terre comuni riservate ad usi religiosi, civili e difensivi.
Le terre compascue invece restano spazi comuni ai diversi gruppi destinate al pascolo. La vita di queste comunità trova
comunque il suo punto di riferimento nella figura del princeps che vive nel castellum dove si riuniscono i magistri vici per
decidere su questioni comuni.

LA CIVILTÀ ETRUSCA

A partire dalla metà del VI secolo queste terre conoscono la presenza della civiltà etrusca, civiltà di città che si stanzia in
rapporto agli insediamenti già presenti.
Pur senza riuscire a creare una struttura stabile che veda una continuità nel tempo, creerà le premesse su cui la civiltà romana
potrà porre le proprie basi. Società basata sull‟agricoltura e sul commercio, nella scelta dei siti ove fondare nuovi centri
insediativi cercano di non intaccare terreni coltivabili tenendo in considerazione i rapporti con i centri maggiori e con le
organizzazioni territoriali preesistenti.
La società è suddivisa in classi e quella aristocratica prevale in quanto detentrice della proprietà del suolo urbano e rurale.
Un legislatore si occupa di regolare i rapporti tra i diversi gruppi fornendo garanzie comuni mediante una costituzione.
Verranno istituite magistrature preposte all‟ordine delle città cui corrisponderanno figure analoghe per la campagna.
L‟uso collettivo del terreno verrà sempre più ridotto non solo dall‟introduzione della rotazione biennale ma da una progressiva
appropriazione della terra che si avvia a diventare proprietà di una singola famiglia, pilastro della società etrusca.
E‟ in questo periodo che hanno inizio anche i primi lavori di bonifica e dissodamento dei suoli occupati da paludi con la volontà
di espandere gli insediamenti in zone apparentemente ostili all‟uomo.

Tuttavia a questa grande fase di progresso introdotta dalla civiltà etrusca seguirà una fase di stasi se non addirittura di regresso
a seguito delle invasioni dei Galli Boi con i quali si tornerà ad un‟organizzazione territoriale comunitaria priva di istituzioni stabili
e di azioni progressive nei confronti dell‟agricoltura. Sarà proprio in questa fase che molti campi verranno abbandonati e con
essi le opere di bonifica distrutte.

L'EPOCA ROMANA

Soltanto a partire dal III secolo a. C. le basi gettate dagli Etruschi e dalle popolazioni antiche verranno riprese e sviluppate dalla
civiltà romana.
Con essa si svilupperà una prima ed organica sistemazione del territorio tramite la centuriatio la cui suddivisione in agri e
centurie oltre a seguire la conformazione orografica del territorio, ricalca l‟antica suddivisone dei terreni in pagi e vici.
Nella colonia romana campagna e città oltre ad essere suddivise secondo lo stesso modulo sono in un rapporto di stretta
interdipendenza tra loro e con la natura circostante, i cui elementi (fiumi, dossi, stagni, pendici collinari) diventano integranti e
indispensabili nella suddivisione dettata dalla centuriazione.
Questa tecnica era espressione delle esigenze che gli sviluppi dell‟agricoltura richiedevano e rispondeva in maniera efficace a
ciò che il terreno poteva offrire.
Questo spiega il successo e la persistenza di tale formula attraverso i secoli.

Se già con la civiltà etrusca si assisteva a una progressiva affermazione della proprietà privata a scapito degli spazi coltivabili
comuni, con la società romana questo aspetto si radicalizza ancora di più e gli unici terreni rimasti ad uso collettivo sono i
pascoli e gli incolti.
Questa affermazione è ulteriormente sottolineata dai limes suddivisioni fisiche, spesso naturali, che distinguono una proprietà
privata dall‟altra.
Questo non esclude che esistessero istituti, come il diritto di passo e il diritto di acquedotto, che prevedevano la manutenzione
estesa a tutti i cittadini degli spazi comuni.
Inoltre si afferma la pratica della rotazione biennale e con le coltivazioni arboree si definiscono sempre più gli spazi agricoli a
scapito di quelli destinati ai pascoli.

DOPO LA CADUTA DELL'IMPERO ROMANO

A questa fase di grande splendore succede, come si era già verificato con i Galli Boi dopo la breve fase di insediamento
etrusco, un periodo di decadenza e di abbandono delle campagne e delle città.
Il lento declino dell‟Impero romano, a cui seguono le invasioni barbariche, definiscono un periodo in cui le boscaglie avanzano
sui coltivi, dove i fiumi non più protetti dagli argini straripano nei territori limitrofi allagandoli, dove le città si chiudono entro le
proprie mura per questioni di difesa.
Progressivamente alle comunità di liberi agricoltori si sostituirà una diffusa situazione di servaggio o semilibertà.

A partire dal VI secolo con il dominio longobardo si afferma la forma dell’azienda curtense che sottolinea il generale stato di
asservimento delle antiche comunità.
Questa nuova forma di organizzazione dell‟agricoltura e di conseguenza del territorio consiste infatti in terre dominate da un
signore e coltivate dal lavoro servile, in terre ripartite in piccoli fondi, detti mansi, dove il signore in cambio della concessione a
coltivarli richiede un canone sui prodotti o giornate di lavoro da svolgere sulla sua tenuta.
Se in un primo tempo la curtis è caratterizzata prevalentemente da piccoli villaggi, soltanto più tardi vedrà ampie estensioni di
terreni concentrate nelle mani di pochi, a seguito dell‟affermazione delle ampie proprietà dell‟aristocrazia laica ed ecclesiastica.

Complessivamente dunque comincia ad affermarsi quello che sarà un tratto tipico dell‟Emilia ossia la compresenza sul
medesimo territorio di villaggi corrispondenti agli antichi centri e nuclei rurali o casali sparsi sui campi.
Il fattore di continuità della centuriatio e la persistenza di questa divisione sul territorio comporta uno sviluppo dei villaggi spesso
in corrispondenza di chiese e cappelle che sorgono nei luoghi abitati da lungo tempo.

Nel IX secolo l‟invasione degli Ungari sovverte ancora una volta i rapporti che si erano stabiliti fino a quel momento poiché il
castello diventa la forma preminente sul territorio quando tutti i piccoli centri e villaggi si fortificano. Attorno ad essi si
concentrano uomini e terre che nel castello cercano rifugio dai saccheggi e dalle incursioni.
Questa forma che nasce come strumento essenzialmente militare e di difesa diventerà poi mezzo di imposizione feudale
fissando vincoli sempre più forti con uomini e terre.
L‟affermazione del signore feudale, che in quanto possessore di un determinato ambito territoriale ne esercita anche i diritti su
coloro che ci abitano, porta inevitabilmente a un ulteriore affermazione di quella condizione servile che avevamo già visto
prendere piede con l‟azienda curtense.
Vengono abolite le distinzioni interne al ceto rurale che tende a un grado di omogeneità sempre maggiore, asservito al dominus
feudale.
Questa nuova organizzazione sociale si ripercuote anche sull‟organizzazione dei campi e dell‟agricoltura.
Il territorio si dissemina infatti di campi chiusi coltivati ad orto e vigneti o frutteti affiancati da campi aperti delle grandi proprietà
e coltivati prevalentemente a cereali che riflettono una divisione delle antiche tenute in appezzamenti più piccoli concessi con
contratti di enfiteusi o a livello.
Ad ogni modo anche questa nuova forma di insediamento sul territorio riflette il carattere di continuità col passato poiché i
castelli e i borghi fortificati sorgono spesso sugli antichi villaggi, curtis o territori rurali inglobando talvolta entro le mura castrensi
la stessa chiesa rurale.

XII SECOLO: BONIFICHE E DISSODAMENTI

Arriviamo quindi al XII secolo, di fondamentale importanza per una serie di opere di bonifica e dissodamento che detteranno
una massiccia riorganizzazione del territorio tenendo sempre in considerazione i segni delle forme di insediamento che nei
secoli avevano caratterizzato questi luoghi. Le basi per questa profonda trasformazione erano già state gettate nei secoli
precedenti.
Tuttavia erano interventi frammentari, per lo più guidati da monasteri insediati ai margini delle terre incolte e boschive che
tentavano con prime opere di dissodamento e bonifica di conquistare terreno all‟agricoltura o feudatari laici che accordavano
concessioni di terreno incolto con patto di dissodamento o piantagione per assicurarsi uomini armati nelle rivalità contro le
signorie limitrofe.
E‟ solo però nel XII secolo che le nuove forme di organizzazione sociale consentono di avviare quei grandi interventi collettivi
che hanno consentito di estendere le campagne strappando terreni alle aree boschive e paludose.
Tali lavori vengono gestiti da consorterie di livellari, associazioni di familiari, abbazie o comuni che in quest‟ultimo caso
assumeranno quel compito di controllo sulle strutture di uso comune che manterrà inalterato per lungo tempo.
L’agricoltura si apre ai mercati cittadini ed europei superando quindi i confini della semplice attività di sussistenza che per
secoli l‟aveva caratterizzata.

Ma se da un lato queste opere consentono l‟ampliamento delle terre coltivabili, dall‟altro la riduzione di aree forestali e boschive
entra in contrasto con le esigenze degli allevatori che si vedono preclusa la possibilità di praticare il pascolo brado, soprattutto
nel momento in cui si diffonde l‟uso di recintare i campi con le siepi.
Questa usanza apparentemente banale, aveva in realtà un ruolo molto importante poiché oltre a costituire un elemento di
delimitazione e di confine, forniva bacche, foglie e legna e poiché strutturata su tre livelli di altezza era un utile barriera contro il
vento.
Soprattutto nel bolognese, era diffusa una tipologia di siepe a tre diversi livelli di altezza, dove il più elevato era costituito da
alberi ad alto fusto, come pioppi, gelsi, frassini, ben distanziati tra loro a cui si alternavano olmi, oppi, gelsi, salici che
raggiungevano dai 3 ai 5 metri di altezza.
Per ultimo, fino a circa un‟altezza di 3 metri, si estendevano cespugli spinosi come il biancospino, il rovo, la marruca
particolarmente efficaci nel tenere lontani gli animali ma anche eventuali intrusi.

L’azienda curtense si avvia lentamente al suo declino che vedrà una decisiva conclusione con l’abolizione della servitù della
gleba nel 1256.
Si diffonderanno così sempre più tipologie di contratti che porteranno alla frammentazione delle grandi proprietà signorili ed
ecclesiastiche in fondi a lavoro libero dove si stanzieranno i coloni dietro pagamento di un canone.

LA BACHICOLTURA

La fortuna riscossa dall’allevamento dei bachi da seta che alimentava l‟industria serica di fondamentale importanza per
l‟economia cittadina bolognese, favorì la coltivazione dei gelsi.

Se in un primo tempo i più diffusi erano probabilmente i gelsi neri dalle foglie grosse e dure, nel quattrocento i bachicoltori
cominciarono a preferire i gelsi bianchi dalle foglie più fini e sottili.
Fino al XVIII secolo la lavorazione della seta rimase appannaggio esclusivo delle fabbriche seriche della città, cui il contado si
limitava a fornire la materia prima per la lavorazione.
Tale attività a partire dal XVI secolo comincia ad essere protetta da norme e bandi che ne vietano la lavorazione all‟interno del
contado e che prevede pesanti pene per chi contravviene a tali divieti.
Tuttavia, soprattutto a seguito di una grave crisi economica dovuta all‟arrivo in città di tessuti stranieri tra la fine del XVI e l‟inizio
del XVII secolo, si registra nel contado una forte immigrazione di artigiani cittadini a cui viene concessa la possibilità di lavorare
la seta per uso famigliare, concessione che si trasformerà inevitabilmente, a partire dal XVIII secolo, nella possibilità anche per
le campagne di lavorare a livello industriale e di commerciare tale tessuto.
IL CUORE DELLA PIANURA CENTRALE BOLOGNESE

sata dalla realizzazione del progetto è quella dei territori dei Comuni di Galliera, San Pietro in Casale, Bentivoglio, Cast
Piano e Argelato (in verde nella mappa).

ero territorio dell'Associazione intercomunale Reno-Galliera, non parteciperanno all'iniziativa i soli comuni di Pieve di Ce
e (in giallo nella mappa), che dovrebbero essere coinvolti in un secondo tempo.

resenta fortemente caratterizzato dalla presenza di acque superficiali (Fiume Reno, Canale Navile , numerosi altri cana
di inte-resse naturalistico: SIC (in verde nella mappa che segue), Oasi di protezione della Fauna Selvatica (in azzurro n
ree di Riequilibrio Ecologico (in viola nella mappa che segue).
NAVILE
nte e Webmaster: ECOSISTEMA scrl - consulenze e servizi per la conservazione della natura e lo sviluppo ecosostenib
ale

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