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CAPITOLO I

L’IMPRENDITORE
1. Il sistema legislativo

Il codice civile distingue diversi tipi di imprese e imprenditori in base a tre criteri:
a) L’oggetto dell’impresa; distinzione tra imprenditore agricolo (art. 2135) e imprenditore commerciale (art.
2195).
b) La dimensione dell’impresa; individuato il piccolo imprenditore (art. 2083), si individua di conseguenza
l’imprenditore medio-grande.
c) La natura del soggetto che esercita l’impresa, che determina la ripartizione tra impresa individuale, società,
impresa pubblica.

Tutti gli imprenditori sono assoggettati ad una disciplina base comune: lo statuto generale dell’imprenditore, che
comprende parte della disciplina dell’azienda (artt. 2555-2562) e dei segni distintivi (artt.2563-2574), la disciplina della
concorrenza e dei consorzi (artt. 2595-2620); applicabile a tutti gli imprenditori poi anche la disciplina a tutela della
concorrenza e del mercato, introdotta dalla legge 287/1990.

Chi è imprenditore commerciale non piccolo è poi assoggettato anche allo statuto tipico dell’imprenditore
commerciale: iscrizione nel registro delle imprese (2188-2202), con effetti di pubblicità legale; disciplina della
rappresentanza commerciale (2203-2213); le scritture contabili (2214-2220); il fallimento e le procedure concorsuali
disciplinate dalla legge fallimentare; l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi.
Poche e scarsamente significative invece sono le disposizioni applicabili esclusivamente all’imprenditore agricolo e al
piccolo imprenditore; sono piuttosto sottratti da norme a cui il resto degli imprenditori devono sottostare.

2. La nozione generale di imprenditore.

Art. 2082: è imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione
o dello scambio di beni o di servizi.

L’articolo traccia quelli che sono i requisiti che distinguono l’imprenditore dal lavoratore autonomo, non potendo di
certo esserci confusione tra imprenditore e lavoratore subordinato.
Si ricavano, quindi, i requisiti minimi che devono ricorrere affinchè un soggetto sia esposto alle norme del codice divili.
Dunque, l’impresa è:
- Attività (serie coordinata di atti)
- Caratterizzata da uno specifico scopo (produzione o scambio di beni o servizi)
- E da specifiche modalità di svolgimento (organizzazione, economicità e professionalità).
È invece controverso se siano altresì indispensabili caratteristiche che lo sembrerebbero, come:
- La liceità dell’attività svolta.
- Lo scopo di lucro dell’imprenditore.
- La destinazione al mercato dei beni o servizi prodotti.

La congiunzione “o” serve a distinguere le imprese di scambio (funzione di intermediazione) e le imprese di


produzione.
L’esempio scolastico è quello dell’imprenditore edile che decide di produrre da solo dei materiali edili, da usare nella
propria attività.
In questo caso sono identificabili due imprese:
 Una che produce (es mattoni)
 Una che utilizza e inserisce il prodotto come fattore produttivo

Il coltivatore diretto, tra gli imprenditori edili, è, secondo la legislazione del 42, un produttore agricolo che vive sul
fondo e trae dalla coltivazione del fondo il necessario per la sopravvivenza propria e della propria famiglia.
L’idea del legislatore è l’esistenza dell’impresa anche senza la condizione di direzione al mercato.

3. L’attività produttiva.

Il fatto che l’impresa sia attività finalizzata alla produzione o allo scambio di beni o servizi, implica che l’impresa
debba essere appunto produttiva di nuova ricchezza, di nuovo valore, a prescindere dalla natura dei beni o dei servizi
scambiati.
Irrilevante è la natura dei beni o dei servizi prodotti ed il tipo di bisogno che essi sono destinati a soddisfare.
Non è, ad esempio, impresa l’attività di mero godimento; l’attività cioè che non da luogo alla produzione di nuovi beni
o servizi.

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Il proprietario di tali immobili li affitta e basta, non produce nuove attività economiche, ma si limita a godere dei frutti
dei propri beni. Vi sono alcuni casi in cui un’attività può costituire allo stesso tempo godimento di beni preesistenti e
produzione di nuovi beni o servizi.
Se invece tali immobili sono trasformati in attività quali albergo, pensione o residence, la prestazione allocativa è
accompagnata dall’erogazione di servizi (pulizia, cambio biancheria ecc.) che eccedono il mero godimento del bene e
rendono il proprietario un imprenditore.
Sono certamente imprese commerciali le società finanziarie; società che erogano credito con mezzi propri.

La qualità d’imprenditore deve essere riconosciuta anche quando l’attività produttiva sia illecita, cioè contraria a
norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume. L’impresa è illecita sia quando sono violate norme che
subordinano l’esercizio dell’attività a concessioni o autorizzazioni amministrative, sia nei casi più gravi in cui illecito è
l’oggetto stesso dell’attività.
Si ha comunque qualità di imprenditore perché non ha senso sottrarre chi viola la legge alle norme che tutelano i
suoi creditori.
Chi svolge attività d’impresa contravvenendo alla legge, però, non potrà avvalersi delle norme che tutelano
l’imprenditore contro terzi; ciò viene dal principio generale che da un comportamento illecito non possono mai derivare
effetti favorevoli per il suo autore.
Tra i primi casi di impresa illecita ci fu quello del banchiere di Dio.
Era un caso di attività bancaria illecita in cui il proprietario aveva creato un circuito di raccolta di risparmio presso
persone pie, legandosi ad ambienti ecclesiastici.
Il Giuffrè raccoglie inizialmente donazioni, fino a quando decide di non limitarsi a raccogliere le donazioni ma le usa
per pagare un corrispettivo.
Il flusso del denaro ricevuto a titolo gratuito, viene utilizzato per promettere a persone dell’ambito ecclesiastico dei
compensi, di fronte ad investimenti.
Crea un business di prestiti con restituzione.
Ad un certo punto non riesce più a restituire le somme prese in prestito, allarmando la magistratura penale e civile che
dovette decidere se Giuffrè fosse un imprenditore o meno.
In molti non lo definirono tale, in quanto non era autorizzato dalla banca d’Italia; altri lo definirono imprenditore per
tutelare i diritti dei suoi creditori.
Da questo primo caso e da quello delle case chiuse nel 1958, furono definiti i confini dell’impresa illecita e il ruolo
dell’imprenditore illecito.

4. L’organizzazione. Impresa e lavoro autonomo.

Non è concepibile attività d’impresa senza l’impiego di capitale e di lavoro proprio e/o altrui. E normale che
l’imprenditore crei un complesso produttivo formato da persone e da beni strumentali. Il requisito dell’organizzazione
rimane ambiguo per quanto riguarda il definire ciò che è essenziale perché vi sia attività produttiva organizzata in forma
d’impresa. È infatti ormai pacifico che si possa qualificare imprenditore anche colui che opera senza utilizzare altrui
prestazioni di lavoro (gioielliere, lavanderie automatiche, ecc.). Non è necessario, inoltre, che l’attività organizzativa
dell’imprenditore si concretizzi con la creazione di un apparato industriale materialmente percepibile (locali,
macchinari, mobili, ecc.). La qualità d’imprenditore non può essere negata sia quando l’attività è esercitata senza
l’ausilio di collaboratori, sia quando non si concretizza nella creazione di un complesso aziendale materialmente
percepibile.
Non si può arrivare tuttavia a ritenere che si è imprenditori anche quando l’attività si fonda solamente sul lavoro
personale dell’agente, quando cioè non vengono utilizzati né lavoro né capitali (propri o altrui); questione che prende
rilievo con riferimento a prestatori autonomi d’opera manuale (elettricisti, idraulici, ecc.) o di servizi fortemente
personalizzati (mediatori, agenti di commercio, ecc.).
Non è quindi sufficiente un’auto-organizzazione; non sarà imprenditore chi si organizza per prestare un servizio.
C’è bisogno di almeno un minimo di etero-organizzazione, cioè una struttura organizzativa formata da diversi
fattori orientata alla produzione di beni o servizi verso l’esterno. In mancanza si avrà semplice lavoro autonomo
non imprenditoriale.

5. Economicità dell’attività e scopo di lucro.

L’impresa è attività economica. È essenziale quindi che l’attività produttiva sia condotta con metodo economico,
secondo modalità cioè che consentano quanto meno la copertura dei costi con i ricavi ed assicurino l’autosufficienza
economica. Altrimenti si ha consumo e non produzione di ricchezza.
Dunque, non è imprenditore l’ente pubblico o l’associazione privata.
Perché l’attività possa considerarsi economica, l’imprenditore, non deve agire essenzialmente a scopo di lucro
personale.
Certamente nella maggior parte dei casi lo scopo lucrativo è movente psicologico dell’imprenditore e le modalità di
svolgimento dell’attività sono chiaramente rivolte alla massimizzazione del profitto, ma la nozione di imprenditore

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deve essere una nozione unitaria, comprensiva sia dell’impresa privata, che pubblica (art. 2093) e deve comprendere
solamente ciò che è comune a tutte le imprese e a tutti gli imprenditori.
La disciplina generale è dunque applicabile anche all’impresa pubblica (che di regola non è preordinata alla
realizzazione di un profitto), all’impresa mutualistica (con riferimento appunto alle società cooperative la cui attività
d’impresa è caratterizzata dallo scopo mutualistico, ovvero fornire direttamente ai soci beni e servizi) e all’impresa
sociale (al quale è fatto proprio esplicito divieto di distribuire utili in qualsiasi forma a soci, amministratori,
partecipanti, lavoratori e collaboratori).

6. La professionalità.

Professionalità significa esercizio abituale e non occasionale di una data attività produttiva, dove l’impresa è stabile
inserimento nel settore della produzione o della distribuzione.
La professionalità non richiede però che l’attività sia svolta in modo continuativo e senza interruzioni; per le attività
stagionali, quindi, è sufficiente il costante ripetersi di atti d’impresa secondo le cadenze proprie di quel dato tipo di
attività.
La professionalità non richiede neppure che quella di impresa sia l’attività unica o principale.
Impresa si può, infine, avere anche quando si opera per il compimento di un unico affare, se questo comporta il
compimento di operazioni molteplici e l’utilizzo di un apparato produttivo (così è produttore anche il costruttore di un
singolo edificio).
Ma è imprenditore il costruttore di un singolo edificio, che lo destina ad uso personale?
La risposta è sì. Non vi è alcun motivo per escluderlo dato che l’attività produttiva può considerarsi svolta con metodo
economico anche quando i costi sono coperti da un risparmio di spesa o da un incremento del patrimonio del produttore.
In più esigenze di tutela del credito possono ricorrere anche in quel caso; si pensi alla posizione dei fornitori delle
macchine e dei materiali per la costruzione.
Questo esempio dimostra che se è vero che di regola le imprese operano per il mercato, non può però escludersi che
imprenditore possa essere qualificato anche chi produce beni o servizi destinati ad uso o consumo personale (la c.d.
impresa per conto proprio).

7. Impresa e professioni intellettuali.

I liberi professionisti (avvocati, dottori, commercialisti, ecc.) non sono mai in quanto tali imprenditori.
L’art. 2238 stabilisce infatti che le disposizioni in tema d’impresa si applicano alle professioni intellettuali solo se
“l’esercizio della professione costituisce elemento di un’attività organizzata in forma d’impresa” (medico che
gestisce e opera in una clinica privata, professore titolare di una scuola privata nella quale insegna, ecc.). In questi casi
troverà applicazione nei confronti dello stesso soggetto sia la disciplina specifica dettata dalla professione intellettuale,
sia la disciplina dell’impresa.
Il professionista intellettuale che si limita a svolgere la propria attività, per contro, non diventa mai un imprenditore,
anche quando si avvalga di una vasta schiera di collaboratori, o di un complesso apparato di mezzi materiali (grandi
studi di avvocati, studi dentistici, ecc.).

Non è facile trovare una spiegazione per l’esonero di queste realtà dalla definizione di impresa, in quanto l’attività dei
professionisti è attività produttiva di servizi, condotta con metodo economico ed anzi a scopo di lucro. Si conclude
quindi che i professionisti non sono imprenditori per libera scelta del legislatore. Scelta ispirata dalla particolare
considerazione sociale che tradizionalmente circonda le professioni intellettuali e che ha indotto il legislatore del 1942 a
dettare per tali discipline uno specifico statuto (artt. 2229-2238), che prevede il divieto di esercizio per i non iscritti agli
albi professionali; l’esecuzione personale della prestazione; un particolare criterio di determinazione del compenso
etc…

CAPITOLO SECONDO
LE CATEGORIE DI IMPRENDITORE
A. IMPRENDITORE AGRICOLO E IMPRENDITORE COMMERCIALE

1. Il ruolo della distinzione.

Imprenditore agricolo (art. 2135) e imprenditore commerciale (art. 2195) sono le uniche due categorie di
imprenditori che il codice distingue in base all’oggetto dell’attività.
L’imprenditore agricolo è sottoposto solo alla disciplina prevista per l’imprenditore generale, mentre è esonerato
dall’applicazione di una parte della disciplina dell’imprenditore commerciale (ess: scritture contabili,
assoggettamento al fallimento, alcune procedure concorsuali).
L’imprenditore agricolo gode perciò di un trattamento di favore rispetto all’imprenditore commerciale, e stabilire se
un dato imprenditore sia commerciale o agricolo serve a definire l’ambito di operatività di tale trattamento di favore.

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2. L’imprenditore agricolo. Le attività agricole essenziali e il criterio dell’oggettività.

Il testo originario dell’art. 2135 stabiliva che “è imprenditore agricolo chi esercita un’attività diretta alla
coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all’allevamento del bestiame e attività connesse”; al comma 2° specificava
poi che “si reputano connesse le attività dirette alla trasformazione o all’alienazione dei prodotti agricolo, quando
rientrano nell’esercizio normale dell’agricoltura”.

Le due grandi categorie di attività agricole essenziali e attività agricole per connessione, rimarranno anche nella nuova
formulazione introdotta dal d.lgs. 228/2001, ma notevolmente ampliate.
Coltivazione del fondo, silvicoltura e allevamento del bestiame sono attività tipicamente e tradizionalmente agricole.
Esse però hanno subito un profondo cambiamento a causa del progressi tecnologico.
Da questa fattispecie erano nati infatti alcuni problemi, come quello della definizione di fondo e di bestiame, e quale
sia il rapporto tra essi.
Il grande problema era definire l’oggetto della fattispecie, chiedendosi se alcune fasi dell’allevamento possano
rientrare nel concetto di allevamento e se per coltivazione si debba intendere qualunque forma di attività che abbia
come risultato la crescita di pianta.
L’altra sfera dei problemi era legata alle attività connesse, che consistevano nella trasformazione e nell’alienazione
delle attività agricole.
Se la massaia produce la marmellata e ci aggiunge dello zucchero che non produce lei stessa, diventa un’industriale?
Deve essere soggetta ad altre normative?
Inoltre si poneva il problema del processo tecnologico che permette ora di ottenere prodotti “merceologicamente”
agricoli con metodi che prescindo del tutto dallo sfruttamento della terra e dei suoi prodotti (ess: coltivazioni fuori terra,
allevamenti in batteria), In più oggi l’attività agricola può dar luogo a ingenti investimenti di capitali e sollevare, quindi,
sul piano giuridico esigenze di tutela del credito non diverse da quelle delle imprese commerciali.

La nuova formulazione del 2001 dell’articolo 2135 è la seguente:


E' imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attivita': coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di
animali e attivita' connesse.

Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attivita' dirette alla cura ed
allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che
utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine.

Si intendono comunque connesse le attivita', esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla
manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti
ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall'allevamento di animali, nonche' le attivita'
dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l'utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell'azienda
normalmente impiegate nell'attivita' agricola esercitata, ivi comprese le attivita' di valorizzazione del territorio e del
patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalita' come definite dalla legge.
Modifiche apportate dalla riforma:
1. Non da peso alla modalità di produzione, ribadendo che “è imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti
attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse”. Viene specificato poi che le
attività devono essere dirette “alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso”,
quindi la produzione di specie vegetali e animali è sempre qualificabile come attività agricola essenziale, anche se
realizzata con metodi che prescindono dallo sfruttamento della terra.
2. Modifica la parola bestiame in animale, che fa capire che l’allevamento di qualsiasi animale è da considerarsi tale
(cani, cavalli, non solo quadrupedi da bestiame).
3. Risolve il fatto che per essere coltivatore del fondo non è necessario mettere a dimora il seme, ma ci si deve solo
prendere cura di un ciclo biologico.
4. Nel terzo comma cambia anche i criteri di connessione, passando da quello della normalità, ad uno soggettivo ed
oggettivo.
5. Si supera il concetto di alienazione, arrivando a quello di commercializzazione.

6. Diventa imprenditore agricolo anche quello ittico.

Per compensare il rischio di mercato e quello naturale del settore agrario, il legislatore ha dettato delle norme
privilegiate: la sottrazione all’obbligo della registrazione, al tenere il bilancio normale e al fallimento.

3. (segue) Le attività agricole per connessione.


3° comma art. 2135  si intendono comunque connesse:

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a) Le attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione di
prodotti ottenuti prevalentemente da un’attività agricola essenziale.
b) Le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse
normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata, comprese quelle di valorizzazione del territorio e
del patrimonio rurale e forestale e le attività agrituristiche.
Entrambe sono oggettivamente attività commerciali (ess. produttore di olio, venditore di frutta e verdura).
È necessario quindi fissare dei criteri che le possano qualificare come attività agricole per connessione:
 Connessione soggettiva: è necessario che il soggetto sia già imprenditore agricolo in quanto svolge in forma
d’impresa una delle tre attività agricole tipiche, e che, inoltre, l’attività per connessione sia coerente con
quella essenziale (ess: è imprenditore agricolo il viticoltore che produce vino; è imprenditore commerciale chi
trasforma o commercializza prodotti altrui).
La qualifica di imprenditore agricolo è estesa anche alle cooperative di imprenditori agricoli ed ai loro
consorzi (cantine sociali, oleifici sociali), quando utilizzano prevalentemente prodotti dei soci.
 Connessione oggettiva  criterio della prevalenza: attività aventi oggetto prodotti ottenuti prevalentemente
dall’attività agricola essenziale; beni e servizi forniti mediante l’utilizzo prevalente di attrezzature o risorse
dell’azienda agricola. È sufficiente che le attività connesse non prevalgano, per rilievo economico, sull’attività
agricola essenziale.

4. L’imprenditore commerciale (“Imprenditori soggetti a registrazione”).


È imprenditore commerciale l’imprenditore che esercita una o più delle seguenti categorie di attività, elencate all’art.
2195 comma 1°:
- Attività industriale diretta alla produzione di beni o servizi
- Attività intermediaria nella circolazione dei beni
- Attività di trasporto
- Attività bancaria o assicurativa
- Altre attività ausiliarie delle precedenti: imprese di agenzia, di mediazione, di deposito, di commissione, di
spedizione, di pubblicità.
- Altre attività ausiliarie
Ovviamente molte attività risultano non comprese in questa elencazione, ma, dato che l’unica distinzione in base
all’oggetto dell’attività è quella tra imprenditore commerciale e imprenditore agricolo, l’elencazione dell’articolo 2195
non ha carattere tassativo: dovrà essere considerata commerciale ogni impresa che non sia qualificabile come
agricola.
Gli imprenditori che esercitano queste attività sono soggetti all’obbligo dell’iscrizione nel registro delle imprese.

B. PICCOLO IMPRENDITORE. IMPRESA FAMILIARE

5. Il criterio di suddivisione dell’impresa: criterio dimensionale. La piccola impresa.

La dimensione dell’impresa è il secondo criterio di differenziazione della disciplina degli imprenditori.


Il piccolo imprenditore è sottoposto allo statuto generale dell’imprenditore, ma è esonerato, anche se esercita attività
commerciali, dalla tenuta delle scritture contabili, dal fallimento e da altre procedure concorsuali dell’imprenditore
commerciale. Quindi anche qui, la qualifica di piccolo imprenditore serve a restringere l’ambito di applicazione della
disciplina dell’imprenditore commerciale.
Individuare chi sia piccolo imprenditore è però stato, fino a pochi anni fa, problema di non agevole soluzione per la
coesistenza di due nozioni: quella del codice civile (art. 2083), e quella della legge fallimentare art.1, 2° comma.

6. Piccolo imprenditore nel codice civile.

Art. 2083: Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che
esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia.
In altri termini, va letto come se dicesse: la prevalenza del lavoro proprio e famigliare costituisce il carattere
distintivo di tutti i piccoli imprenditori. È perciò necessario che:
a) L’imprenditore presti il proprio lavoro nell’impresa
b) Il suo lavoro e quello dei familiari che collaborano nell’impresa prevalgano sia rispetto al lavoro altrui, sia
rispetto al capitale proprio o altrui investito nell’impresa (non è piccolo imprenditore ad esempio chi investe
ingenti capitali, anche non avvalendosi di alcun collaboratore, tipo gioielliere).
La prevalenza deve intendersi in senso qualitativo-funzionale; è necessario cioè che l’apporto personale
dell’imprenditore e dei suoi familiari caratterizzino i beni o servizi prodotti.

7. Il piccolo imprenditore nella legge fallimentare.

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La versione originaria dell’art.1, 2° comma, legge fall., nel ribadire che i piccoli imprenditori non falliscono, stabiliva:
“Sono considerati piccoli imprenditori, gli imprenditori esercenti un’attività commerciale, i quali sono stati
riconosciuti, in sede di accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, titolari di un reddito inferiore al minimo
imponibile (480 mila lire). Quand’è mancato l’accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, sono considerati
piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un’attività commerciale nella cui azienda risulta essere stato investito
un capitale non superiore a lire novecentomila”. La legge disponeva poi che in nessun caso sono considerati piccoli
imprenditori le società commerciali.
Basandosi questa definizione solamente su criteri monetari, per anni è stato difficile coordinarla con la norma del codice
civile. Il rebus è poi venuto meno in seguito a due modifiche nel sistema normativo:
1) L’imposta di ricchezza mobile è stata soppressa nel 1974, e il suo posto è stato preso dall’IRPEF.
2) Il criterio del capitale investito non superiore a 900 mila lire è stato dichiarato incostituzionale nel 1989, in
quanto non più idoneo, in seguito alla svalutazione monetaria a fungere da discriminante tra imprenditori
soggetti o meno al fallimento.
Il permanere in vigore della sola definizione codicistica però creava problemi pratici in sede di dichiarazione di
fallimento, perché accertare la prevalenza del lavoro familiare sugli altri fattori produttivi non sempre è facile.

In seguito alla riforma del diritto fallimentare del 2006, a sua volta modificata da un decreto correttivo del 2007, ha
reintrodotto nella legge fall. 1, 2° comma, un sistema basato su criteri esclusivamente quantitativi e monetari, non
per definire il “piccolo imprenditore”, ma per individuare alcuni parametri dimensionali, al di sotto dei quali
l’imprenditore commerciale non fallisce.
Quindi non è soggetto al fallimento l’imprenditore commerciale che dimostri tutti i seguenti requisiti:
a) Aver avuto nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento un attivo patrimoniale di
ammontare complessivo annuo non superiore a 300 mila euro.
b) Aver realizzato nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento, ricavi lordi per un
ammontare complessivo annuo non superiore a 200 mila euro.
c) Avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore a 500 mila euro.
A differenza che in passato, anche le società commerciali possono essere esonerate dal fallimento, se rispettano tutti i
limiti dimensionali sopra indicati.

Ad oggi, la legge fallimentare stabilisce solamente chi può essere esonerato dal fallimento, mentre la definizione di
piccolo imprenditore del codice civile serve per l’applicazione della restante parte dello statuto dell’imprenditore
commerciale, come le scritture contabili civilisticamente obbligatorie.

8. L’impresa artigiana.

Fra i piccoli imprenditori rientra anche l’imprenditore artigiano.


La legge 860/1956 individuava il dato caratterizzante dell’impresa artigiana nella natura “artistica o usuale” dei beni
o dei servizi prodotti (quindi non più nella prevalenza del lavoro familiare sugli altri fattori produttivi). Affermava,
inoltre, che ogni impresa rispondente a tali requisiti era da considerarsi artigiana a tutti gli effetti di legge (esonero dal
fallimento compreso). La qualifica di artigiana era infatti riconosciuta anche a imprese costituite sotto forma di società.

Questa legge è stata abrogata dalla legge quadro per l’artigianato 443/1985. La nuova definizione dell’impresa
artigiana si basa:
a) Sull’oggetto dell’impresa: qualsiasi attività di produzione di beni, anche di semilavorati, o di prestazione di
servizi, sia pure con alcune limitazioni ed esclusioni.
b) Sul ruolo dell’artigiano: è necessario che esso svolga “in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale,
nel processo produttivo”, ma non, si badi, che il suo lavoro prevalga sugli altri fattori produttivi.

La categoria è decisamente ampliata rispetto alla legge del 1956, ma il punto fondamentale è che la nuova legge non
afferma più che l’impresa artigiana è definita a tutti gli effetti di legge: scopo dichiarato ed esclusivo della legge
quadro è quello di fissare i principi direttivi che dovranno essere osservati dalle regioni nell’emanazione di una serie di
provvidenze a favore dell’artigianato.
Il riconoscimento della qualifica artigiana in base alla legge quadro, non basta a sottrarre l’artigiano allo statuto
dell’imprenditore commerciale e dal fallimento.
L’impresa dovrà infatti, comunque rispettare i parametri dell’art. 2083 cod. civ. e dell’art.1, 2° comma, legge
fallimentare sui i limiti dimensionali. Anche l’esonero delle società artigiane dal fallimento deve considerarsi cessato.

9. L’impresa familiare.

È impresa familiare l’impresa nella quale collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado (fino ai nipoti) e gli
affini entro il secondo grado (fino ai cognati); famiglia nucleare.

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Il concetto di impresa familiare non va confuso con quello di piccola impresa; non sono correlati.
I problemi che il legislatore ha voluto risolvere con l’art 230-bis cod. civ., introdotto con la riforma del diritto di
famiglia del 1975 sono del tutto diversi da quelli ricollegati alla qualifica del piccolo imprenditore.
Il lavoro familiare nell’impresa era largamente diffuso, ma spesso chi vi lavorava lo faceva a titolo gratuito e senza che
nessun diritto gli venisse riconosciuto.
Il legislatore ha perciò voluto disporre una tutela minima del lavoro familiare nell’impresa, riconoscendo ai membri
della famiglia che lavorino in modo continuato determinati diritti:
 Patrimoniali:
a) Diritto al mantenimento.
b) Diritto alla partecipazione agli utili dell’impresa, in proporzione alla quantità di lavoro prestato (tale
diritto è trasferibile solo a favore di altri membri della famiglia nucleare e con il consenso unanime dei
familiari già partecipanti).
c) Diritto sui beni acquistati con gli utili e agli incrementi di valore dell’azienda.
d) Diritto di prelazione sull’azienda in caso di divisione ereditaria o trasferimento dell’azienda stessa.
 Amministrativi: le decisioni in merito alla gestione straordinaria dell’impresa e talune altre decisioni di
particolare rilievo (impiego degli utili, cessazione dell’impresa…), adottate a maggioranza dai familiari che
partecipano all’impresa stessa.

Il diritto di partecipazione è trasferibile solo a favore degli altri membri della famiglia nucleare e con il consenso
unanime dei familiari già partecipanti.

L’impresa familiare resta comunque un’impresa individuale. Ne consegue che:


 I beni aziendali restano di proprietà dell’imprenditore-datore di lavoro.
 I diritti patrimoniali dei partecipanti costituiscono solo diritti di credito nei confronti del familiare
imprenditore.
 Gli atti di gestione ordinaria sono di competenza esclusiva del familiare imprenditore.
 L’imprenditore agisce nei confronti di terzi in proprio, e non come rappresentante della famiglia; quindi solo
lui sarà responsabile nei confronti di terzi delle relative obbligazioni contratte.

C. IMPRESA COLLETTIVA. IMPRESA PUBBLICA.

10. L’impresa societaria.

Secondo l’articolo 2249 la società semplice è utilizzabile solo per l’esercizio di attività non commerciale ed è l’unica
forma non commerciale.
Le società diverse dalla società semplice si definiscono società commerciali e possono essere imprenditori agricoli o
imprenditori commerciali a seconda dell’attività esercitata.
L’applicazione degli istituti dell’imprenditore commerciale alle società commerciali segue regole parzialmente diverse
rispetto a quelle per l’imprenditore individuale:
 Parte della disciplina per l’imprenditore commerciale si applica alle società commerciali qualunque sia
l’attività svolta (obbligo di iscrizione nel registro delle imprese, tenuta delle scritture contabili; esonero delle
società commerciali che gestiscono un’impresa agricola dal fallimento; esonero delle società commerciali dal
fallimento se non superano le soglie dimensionali della legge 1, comma 2, legge fall.
 Nelle società in nome collettivo la disciplina dell’imprenditore commerciale si applica a tutti i soci; nelle
società in accomandita semplice, solamente ai soci accomandatari. Ciò vale anche per il fallimento dei
singoli soci a responsabilità illimitata.

11. Le imprese pubbliche.

Tre le possibili forme di intervento dei poteri pubblici nel settore dell’economia:
1. Società a partecipazione pubblica
Lo Stato o altri enti pubblici svolgono attività d’impresa tramite istituti di diritto privato, attraverso la
costituzione di (o la partecipazione in) società, generalmente per azioni. In tal caso l’impresa si presenta
formalmente come un’impresa societaria.
2. Enti pubblici economici
La pubblica amministrazione può dare vita ad enti di diritto pubblico, il cui compito istituzionale esclusivo o
principale è l’esercizio di attività d’impresa. Gli enti pubblici economici sono sottoposti allo statuto generale
dell’imprenditore e – se l’attività è commerciale – allo statuto proprio dell’imprenditore commerciale, con una

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sola eccezione: l’esonero del fallimento e dalle procedure concorsuali minori, sostituiti però dalla liquidazione
coatta amministrativa o da altre procedure previste in leggi speciali.
3. Imprese-organo
Lo Stato o altro ente pubblico territoriale possono svolgere direttamente attività d’impresa avvalendosi di
proprie strutture organizzative, prive di distinta soggettività, ma dotate di una più o meno ampia autonomia
gestionale e contabile. In questi casi, l’impresa è per definizione secondaria ed accessoria rispetto ai fini
istituzionali dell’ente pubblico (es: aziende municipalizzate erogatrici di pubblici servizi, come acqua, gas,
trasporti).
Anche nei confronti degli enti titolari di imprese-organo si applica la disciplina generale dell’impresa e quella
propria dell’imprenditore commerciale, ma “sono salve le diverse disposizioni di legge”.
Gli enti titolari di imprese organo sono esonerati dall’iscrizione nel registro delle imprese e dalle procedure
concorsuali.
Gli enti pubblici che svolgono attività commerciale accessoria sono sottoposti allo statuto generale
dell’imprenditore e alle restanti norme previste per gli imprenditori commerciali.

Dal 1990 è avvenuto un processo di privatizzazione delle imprese pubbliche per cui quasi tutti gli enti pubblici
economici sono stati trasformati in società per azioni a partecipazione statale.

12. Attività commerciale delle associazioni e delle fondazioni.

Le associazioni, le fondazioni e, più in generale, tutti gli enti privati con fini ideali o altruistici, possono svolgere
attività commerciale qualificabile come attività d’impresa (essenziale che venga condotta con metodo economico, anche
quando lo scopo perseguito sia “ideale”).
Se l’esercizio di attività commerciale costituisce l’oggetto esclusivo o principale di tali enti (es: fondazione per l’attività
editoriale), non v’è dubbio che l’ente acquista qualità di imprenditore commerciale e resta esposto a tutte le relative
conseguenze, compresa l’esposizione al fallimento.
Anche quando l’attività commerciale presenti carattere accessorio rispetto all’attività ideale, nulla stabilisce il codice; è
perciò da ritenersi che anch’essi acquistino la qualità d’imprenditore commerciale con pienezza d’effetti.
In ogni caso per esonerare dal fallimento un’impresa organo è necessario che ci sia la struttura pubblicistica dietro e che
quindi non sia privata.

13. (segue) L’impresa sociale.

Art.1, 1° comma, d.lgs. 155/2006: “Possono acquisire la qualifica di impresa sociale tutte le organizzazioni private
[…] che esercitano in via stabile e principale un’attività economica organizzata al fine della produzione e dello scambio
di beni e servizi di utilità sociale” assistenza sociale e sanitaria; educazione, istruzione e formazione; tutela
dell’ambiente; servizi culturali; inserimenti lavorativo di soggetti svantaggiati o disabili …
Elemento caratterizzante: assenza dello scopo di lucro.
 Utili e avanzi di gestione devono essere destinati allo svolgimento dell’attività statutaria o all’incremento del
patrimonio dell’ente.
 Tale patrimonio è indisponibile: né durante l’esercizio, né allo scioglimento è possibile distribuire fondi o
riserve a coloro che fanno parte dell’organizzazione.
 In caso di cessazione dell’impresa, il patrimonio residuo è devoluto ad organizzazioni non lucrative di utilità
sociale, associazioni, comitati, fondazioni ed enti ecclesiastici, secondo quanto previsto dallo statuto.

La finalità d’interesse generale è favorita dal legislatore con un singolare privilegio: quello di potersi organizzare in
qualsiasi forma di organizzazione privata (qualsiasi tipo societario, compresi quelli a scopo lucrativo).
Non possono essere impresa sociale, invece, le amministrazioni pubbliche e le organizzazioni che erogano beni e servizi
esclusivamente a favore dei propri soci, associati o partecipi.
Ulteriore privilegio: possibilità di limitare a certe condizioni la responsabilità patrimoniale dei partecipanti, anche
quando è impiegata una forma giuridica che prevedrebbe responsabilità illimitata.
 se l’impresa è dotata di un patrimonio netto di ventimila euro, risponde alle obbligazioni assunte solamente con il
suo patrimonio. Qualora però il patrimonio diminuisca di oltre un terzo (meno di 13'333 euro), delle obbligazioni
assunte rispondono personalmente e solidalmente anche coloro che agiscono in nome e per conto dell’impresa (non
però anche gli altri soci).

Regole speciali per quanto riguarda l’applicazione degli istituti tipici dell’imprenditore commerciale:
a) Devono iscriversi ad una sezione apposita del registro delle imprese.
b) Devono redigere le scritture contabili, nonché il bilancio d’esercizio ed il bilancio sociale
c) In caso di insolvenza, sono assoggettate alla liquidazione coatta amministrativa, invece che al fallimento.

Le organizzazioni che vogliono assumere qualifica di impresa sociale devono costituirsi per atto pubblico.

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L’atto costitutivo deve:
- Determinare l’oggetto sociale, individuandolo tra le attività di utilità sociale.
- Enunciare l’assenza di scopo di lucro.
- Indicare la denominazione dell’ente, integrata con la locuzione “impresa sociale”.
- Fissare i requisiti di onorabilità, professionalità e indipendenza per i componenti delle cariche sociali.
- Disciplinare le modalità di ammissione ed esclusione dei soci.
- Prevedere forme di coinvolgimento dei lavoratori e dei destinatari dell’attività d’impresa nell’assunzione delle
decisioni che incidono direttamente sulle condizioni di lavoro e sulla qualità delle prestazioni erogate.

Controllo interno: divisione fra controllo contabile, affidato ad uno o più revisori iscritti nel registro dei revisori legali
dei conti, e controllo di legalità della gestione e sul rispetto dei principi di corretta amministrazione, riservato ad uno o
più sindaci.
Controllo esterno: le imprese sociali sono sottoposte alla vigilanza del Ministero del Lavoro, che può procedere ad
ispezioni e disporre della perdita della qualifica in caso di:
- Assenza di condizioni per il riconoscimento della qualifica di impresa sociale.
- Violazioni della relativa disciplina, non ottemperate entro un congruo termine.
Ne conseguirebbe la cancellazione dell’impresa dal registro e l’obbligo di devolvere il patrimonio ad enti non lucrativi
determinati dallo statuto.

CAPITOLO TERZO
L’ACQUISTO DELLA QUALITÁ D’IMPRENDITORE

A. L’IMPUTAZIONE DELL’ATTIVITÁ D’IMPRESA

1. Esercizio diretto dell’attività d’impresa.

Principio della spendita del nome: gli effetti degli atti giuridici ricadono sul soggetto e solo sul soggetto il cui nome è
stato validamente speso nel traffico giuridico (in particolare nei confronti del terzo contraente).
Questo principio si ricava dalla disciplina del mandato: il mandatario è un soggetto che agisce nell’interesse di un altro
soggetto e può sia spendere il proprio nome (senza rappresentanza), sia spendere quello del mandante con
rappresentanza).
Quando il mandato è con rappresentanza, tutti gli effetti degli atti posti in essere dal mandatario si producono nella
sfera giuridica del mandatario.
Se il mandato è senza rappresentanza, il mandatario che agisce in suo nome “acquista i diritti e assume gli obblighi
derivanti dagli atti compiuti con i terzi, anche se questi hanno avuto conoscenza del mandato”.
Dunque i terzi non hanno rapporti con il mandante.
In sostanza quando gli atti d’impresa sono compiuti tramite rappresentanza, l’imprenditore diventa il rappresentato e
non il rappresentante.
Dunque, se un genitore si prende carico di rappresentare un minore, che è imprenditore di un’attività commerciale, solo
il minore è esposto al fallimento.

2. Esercizio indiretto dell’attività d’impresa. L’imprenditore occulto.

Fenomeno dell’esercizio d’impresa tramite interposta persona:


- Imprenditore palese o prestanome: soggetto che compie in proprio nome i singoli atti dell’impresa
- Imprenditore indiretto o occulto: soggetto che somministra al primo i necessari mezzi finanziari, dirige di
fatto l’impresa e fa propri tutti i guadagni.
A questo fenomeno si può ricorrere per aggirare un divieto di legge (es: il divieto per gli impiegati dello Stato di
esercitare attività d’impresa) oppure per non esporre al rischio d’impresa tutto il proprio patrimonio personale.
In questo caso gli atti di impresa saranno formalmente decisi dagli amministratori della società e posti in essere in nome
della società (imprenditore palese), ma sostanzialmente ogni decisione sarà adottata dal socio che ha la quasi totalità
delle azioni (imprenditore indiretto).
I problemi sorgono quando c’è rischio di insolvenza dei debiti contratti ed il soggetto “utilizzato” dal dominus sia una
persona fisica nullatenente, oppure una società per azioni con capitale irrisorio (società di comodo).
I creditori possono di certo provocare il fallimento dell’impresa o del prestanome, ma ricavandone ben poco; con la
conseguenza che il rischio d’impresa è trasferito sui creditori, in particolare su quelli più deboli.

Teoria dell’imprenditore occulto  Parte della dottrina sostiene che per l’attività d’impresa nel nostro ordinamento
giuridico è espressamente sanzionata l’inscindibilità del rapporto potere-responsabilità.
Vale a dire, chi esercita il potere di direzione di un’impresa se ne assume anche il rischio e risponde delle relative
obbligazioni con la conseguenza che, quando l’attività di impresa è esercitata tramite prestanome, responsabili verso i

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creditori sono sia il prestanome sia il reale dominus dell’impresa. Anche quest’ultimo acquisirebbe la qualità di
imprenditore e perciò fallirebbe qualora fallisca il prestanome.
Tale teoria ha però incontrato scarsi consensi; la premessa su cui si fonda, infatti, non solo non ha un solido fondamento
normativo, ma è smentita proprio dai principi che regolano le società di capitali (si pensi che, a partire dal 1993 per le
SRL e dal 2003 per le SPA, neppure la qualità di unico socio comporta di per sé l’assunzione di responsabilità illimitata
per le obbligazioni e l’esposizione al fallimento).
Ne consegue che nel nostro ordinamento il dominio di fatto di un’impresa individuale o di una società di capitali non è
condizione sufficiente per esporre a responsabilità e fallimento; né, tantomeno, determina di per sé l’acquisto della
qualità d’imprenditore.

Ciò non significa che si debba rinunciare a reprimere i possibili abusi. (art. 2497)
Esiste una situazione ricorrente ed una tecnica utilizzata dalla giurisprudenza per arginarla:
È frequente che il socio di comando di una società di capitali, non si limiti ad esercitare i poteri sociali riconosciutigli
dalla legge, ma tratti la società come cosa propria e ne disponga a suo piacimento, attraverso una serie di comportamenti
tipici: sistematico finanziamento della società con prestiti o concessione di garanzie a suo favore; sistematica ingerenza
negli affari sociali, con direzione di fatto secondo un disegno unitario di una o più società paravento, ecc…
La giurisprudenza ritiene che questi comportamenti possano dar vita ad un’autonoma attività d’impresa, la c.d. impresa
fiancheggiatrice: un’impresa di finanziamento e/o di gestione distinta dalla società di capitali stessa.
Pertanto – e sempre che ricorrano i requisiti dell’art. 2082 – il socio che ha abusato dello schermo societario risponde
come titolare di un’autonoma impresa commerciale individuale delle obbligazioni da lui contratte nello svolgimento
dell’attività fiancheggiatrice della società di capitali ed in quanto tale potrà fallire, sempre che si accerti l’insolvenza
della sua impresa.
Questo espediente tutela direttamente i creditori più grandi (es: banche), ma anche indirettamente, gli altri creditori: il
fallimento della società di capitali potrà chiedere all’impresa fiancheggiatrice di fornirle le somme necessarie per far
fronte alle obbligazioni contratte nel suo interesse; in mancanza, potrà provocarne il fallimento.

B. INIZIO E FINE DELL’IMPRESA

3. Inizio dell’impresa.

Principio di effettività: la qualità d’imprenditore si acquista con l’effettivo inizio dell’esercizio dell’attività d’impresa.
Non è quindi sufficiente solo l’intenzione, anche se manifestata con la richiesta di eventuali autorizzazioni
amministrative, o con l’iscrizione in albi o registri.
Le società, invece, sono parzialmente esonerate da questo principio, perché l’effettivo inizio dell’attività d’impresa è
spesso preceduto da una fase preliminare di organizzazione più o meno lunga e complessa. Dunque, le società
acquistano la qualità di imprenditori fin dal momento della loro costituzione. Da qui la questione se si diventa o meno
imprenditori già nella fase preliminare di organizzazione prima del compimento del primo atto di gestione.  la
risposta è affermativa nel caso in cui gli atti di organizzazione – per il loro numero e/o per la loro significatività –
manifestano in modo non equivoco lo stabile orientamento dell’attività verso un determinato fine produttivo.
Un singolo atto di organizzazione, perciò, non sarebbe sufficiente per acquisire la qualità d’imprenditore, né tantomeno
più atti ma inespressivi (es: affitto di un locale o di un’automobile, richiesta di un fido bancario, ecc..).
Un’eccezione avviene quando gli atti vengono compiuti da una società, organismo di durata programmata per lo
svolgimento di una determinata attività d’impresa (es: società alberghiera che acquista un’area fabbricabile).

4. La fine dell’impresa.

Impostazione passata:
L’esatta determinazione del giorno di cessazione dell’attività d’impresa aveva particolare rilievo per l’applicazione
dell’art.10 legge fall., che prevedeva che l’imprenditore commerciale potesse essere dichiarato fallito entro un anno
dalla cessazione dell’impresa.
La fine dell’impresa era dominata dal principio dell’effettività: la qualità d’imprenditore si perdeva solamente con
l’effettiva cessazione delle attività. La fine dell’impresa è di regola preceduta da una fase di liquidazione, la quale
costituisce ancora attività d’impresa, e che perciò la qualità d’imprenditore si perdesse solamente con la cessazione
della liquidazione, ovvero con la definitiva disgregazione del complesso aziendale.
Per l’imprenditore individuale però, non era necessaria la completa definizione dei rapporti (estinzione debiti e
crediti) sorti durante l’esercizio; ciò perché, altrimenti, non avrebbe senso l’art.10 legge fallimentare perché l’impresa si
considererebbe ancora in vita fino a quando sopravvivono passività.
Per le società, invece, la giurisprudenza affermava che, per dichiarare la cessazione dell’attività, fosse necessaria la
cancellazione dal registro delle imprese, nonché la completa definizione dei rapporti pendenti; l’art. 10 era così, di
fatto, cancellato per le società.

Impostazione presente:
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Questa disparità portò prima l’art. 10 ad essere dichiarato incostituzionale, e poi ad essere riscritto con il d.lgs. 5/2006 e
il d.lgs. 169/2007.
Il nuovo art. 10 dispone che “gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno
dalla cancellazione dal registro delle imprese, se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro
l’anno successivo”.
La cancellazione dal registro delle imprese è quindi condizione necessaria affinché l’imprenditore benefici del
termine annuale per la dichiarazione del fallimento. Non è però condizione sufficiente: ad essa si deve accompagnare
l’effettiva cessazione dell’attività d’impresa, mediante la disgregazione del complesso aziendale (per ragioni di certezza
del diritto, questa si ritiene già avvenuta nel momento della cancellazione, ma il creditore o il pubblico ministero sono
ammessi a provare il contrario). Infatti si presume che al momento della cancellazione, l’attività d’impresa sia già
terminata, ma il creditore o il pubblico ministero sono ammessi a provare il contrario per ottenere la dichiarazione di
fallimento del debitore.

C. CAPACITÁ E IMPRESA.
5. Incapacità e incompatibilità.

La capacità all’esercizio di attività d’impresa si acquista con la piena capacità di agire e quindi al compimento del
18esimo anno di età. Si perde in seguito ad interdizione o inabilitazione.
Il minore o l’incapace che esercita attività d’impresa non acquista la qualità d’imprenditore.
Così, ad esempio, il minore che con raggiri ha occultato la sua minore età non diventa imprenditore anche se i contratti
conclusi non sono annullabili.
Semplici incompatibilità sono invece i divieti di esercizio di impresa commerciale posti a carico di coloro che
esercitano determinati uffici o professioni (ess: impiegati statali, notai, avvocati). La violazione di tali divieti non
impedisce l’acquisto della qualità d’imprenditore commerciale, ma espone a sanzioni amministrative e ad un
aggravamento delle sanzioni penali per bancarotta in caso di fallimento (art. 219 legge fall.).

6. L’impresa commerciale e gli incapaci.

È possibile l’esercizio di attività d’impresa per conto di un incapace (minore o interdetto) da parte dei rispettivi
rappresentanti legali, ovvero soggetti limitatamente capaci di agire.
In nessun caso è consentito l’inizio di una nuova impresa commerciale in nome e nell’interesse del minore,
dell’interdetto e dell’inabilitato.
Salvo che per il minore emancipato, è pertanto consentita solo la continuazione dell’esercizio di un’impresa
commerciale preesistente, quando ciò sia utile per l’incapace e purché la continuazione sia autorizzata dal tribunale.
L’autorizzazione del tribunale ha carattere generale e comporta un ampliamento dei poteri del rappresentante legale
dell’incapace o limitatamente capace.
Intervenuta l’autorizzazione del tribunale alla continuazione, chi ha rappresentanza legale del minore o dell’interdetto
può compiere tutti gli atti che rientrano nell’esercizio dell’impresa, siano questi di ordinaria o straordinaria
amministrazione (autorizzazione necessaria solo per quegli atti che non siano in rapporto di mezzo a fine per la gestione
dell’impresa, es: vendita degli immobili). Quanto all’inabilitato, dopo l’autorizzazione del tribunale alla continuazione,
egli potrà esercitare personalmente attività d’impresa, sia pure con l’assistenza del curatore e con il consenso per gli atti
che esulano l’esercizio dell’impresa.
Diversamente dagli altri incapaci, il minore emancipato può essere autorizzato dal tribunale anche a iniziare una
nuova attività d’impresa. Con l’autorizzazione il minore emancipato acquista la piena capacità d’agire. Può esercitare
attività d’impresa senza l’assistenza del curatore è può compiere solo gli atti che eccedono l’ordinaria amministrazione.
Tale disciplina ha però perso gran parte del suo rilievo pratico con la fissazione della maggiore età a 18 anni.
I provvedimenti autorizzativi del tribunale e i provvedimenti di revoca dell’autorizzazione sono soggetti a iscrizione nel
registro delle imprese.

L’articolo 2195: Sono soggetti all'obbligo dell'iscrizione nel registro delle imprese gli imprenditori che esercitano: 
1) un'attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi; 
2) un'attività intermediaria nella circolazione dei beni; 
3) un'attività di trasporto per terra, per acqua o per aria; 
4) un'attività bancaria o assicurativa; 
5) altre attività ausiliarie delle precedenti. 
Le disposizioni della legge che fanno riferimento alle attività e alle imprese commerciali si applicano, se non risulta
diversamente, a tutte le attività indicate in questo articolo e alle imprese che le esercitano.

CAPITOLO QUARTO
LO STATUTO DELL’IMPRENDITORE COMMERCIALE

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1. Premessa: l’imprenditore commerciale è destinatario di una peculiare disciplina dell’attività in parte comune
agli altri imprenditori (statuto generale dell’imprenditore) e in parte propria e specifica (statuto speciale
dell’imprenditore commerciale).
Gli aspetti fondamentali dello statuto sono:

A. LA PUBBLICITÁ LEGALE
2. La pubblicità delle imprese commerciali.

Pubblicità legale: obbligo di rendere di pubblico dominio, secondo forme e modalità predeterminate, determinati atti o
fatti relativi alla vita dell’impresa. Le relative informazioni non solo sono rese accessibili ai terzi interessati (pubblicità
notizia), ma diventano opponibili a chiunque, indipendentemente dall’effettiva conoscenza (c.d. conoscibilità legale).
La pubblicità legale è introdotta anche nell’articolo 2195 che definisce quali imprenditori sono soggetti all’iscrizione
nel registro delle imprese.

Lo strumento di pubblicità legale delle imprese commerciali non piccole e delle società commerciali è il registro delle
imprese. Tale strumento, previsto dal codice civile del 1942, è rimasto inoperante per più di 50 anni. In questo periodo
vigeva un regime transitorio:
- Iscrizione e deposito degli atti nei preesistenti registri di cancelleria presso il tribunale.
- Esonero temporaneo dall’iscrizione degli imprenditori commerciali individuali.
- 1969  Bollettino ufficiale delle società per azioni e a responsabilità limitata, Busarl (in aggiunta
all’iscrizione nei registri di cancelleria)
- 1973  Bollettino ufficiale delle società cooperative, Busc (sempre in aggiunta all’iscrizione nei registri).
- Registro delle ditte, tenuto dalle camere di commercio, con valore di pubblicità notizia.
Ne conseguiva, quindi, un sistema di pubblicità delle imprese particolarmente disorganico e complesso.

Nel frattempo, le camere di commercio organizzarono un sistema di censimento, senza alcuna funzione legale, per gli
scopi istituzionali, come avere un’anagrafe delle imprese che nascono e muoiono.
Dunque ciò che veniva scritto nelle camere di commercio aveva valore anagrafico e non legale, ma siccome le camere
di commercio erano più efficienti, presto furono più utili del tribunale.
Questo fece si che le certificazioni, negli anni 80, venissero dalle camere di commercio e non dal tribunale.
In questo caso l’esigenza della pratica anticipa la legislazione e la situazione si sblocca con la legge 580/1993,
contenente il riordino delle camere di commercio.
L’art. 8 di tale legge ed il relativo regolamento d’attuazione (d.p.r. 581/1995) hanno finalmente istituito il registro delle
imprese, che è divenuto pienamente operante agli inizi del 1997. Nel contempo ha cessato di esistere il Registro delle
ditte e sono stati soppressi Busarl e Busc.
La nuova disciplina del registro delle imprese ha introdotto alcune novità:
1) L’attuale registro non è più solamente strumento di pubblicità legale delle sole imprese commerciali, ma è
diventato anche strumento di informazione sui dati di tutte le altre imprese.
2) La tenuta del registro è affidata alle camere di commercio, non più, quindi, alle cancellerie del tribunale.
3) Il registro delle imprese è tenuto con tecniche informatiche, in modo da garantire tempestività delle
informazioni
3. Il registro delle imprese.

Il registro delle imprese è istituito in ciascuna provincia, presso la camera di commercio. È articolato in una sezione
ordinaria e varie sezioni speciali.
Sezione ordinaria.
Nella sezione ordinaria vi sono iscritti gli imprenditori (non agricoli). Produce effetti di pubblicità legale.
Sono tenuti all’iscrizione nella sezione ordinaria:
1) Gli imprenditori individuali commerciali non piccoli
2) Tutte le società, tranne la società semplice, anche se non svolgono attività commerciale.
3) I consorzi tra imprenditori con attività esterna: sono forme associative tra imprenditori, dirette a regolare
una o più fasi dell’attività produttiva delle rispettive aziende.
Non ha scopo di lucro perché il consorzio trattiene solo una piccola parte dell’incasso che copre le spese e il
resto viene diviso tra i consorziati in proporzione del lavoro di ciascuno.
si può anche creare un consorzio con attività interna, dove le attività si svolgono nei limiti dei consorziati. Un
esempio di consorzio di attività esterna è il COTRAL. Il consorzio può essere strumento di alterazione della
concorrenza
4) I gruppi europei di interesse economico con sede in Italia. (GEIE)
5) Gli enti pubblici con oggetto esclusivo o principale un’attività economica imprenditoriale
6) Le società estere che hanno in Italia la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale della loro attività.
Sezione speciale.
1) Sezione speciale degli imprenditori agricoli e dei piccoli imprenditori. Contiene, appunto, piccoli imprenditori,
imprenditori agricoli, società semplici e imprenditori artigiani (ovvero coloro che originariamente ne erano
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esonerati e per i quali poi la riforma del 1993 prevedeva solo funzione di pubblicità notizia, ossia di una
pubblicità che più che un onere è un dovere, la cui inosservanza può essere sanzionata).
2) Sezione speciale delle società tra professionisti. Società tra avvocati e altre forme di professionisti. Efficacia di
pubblicità notizia.
3) Sezione speciale delle imprese sociali.
4) Sezione speciale degli atti di società di capitali in lingua straniera. Dove le società di capitali possono
pubblicare la traduzione di atti per i quali è obbligatoria l’iscrizione o il deposito. La pubblicazione in lingua
straniera è facoltativa, e non fa venir meno l’obbligo di pubblicazione della traduzione.
5) Sezione speciale delle start-up innovative e degli incubatori certificati. Affinché queste possano accedere alla
speciale disciplina di favore per esse prevista sotto il profilo civile, fiscale e laburistico.
6) Sezione speciale delle start-up innovative e degli incubatori certificati:
7) Sezione speciale delle piccole e medie imprese innovative
I fatti e gli atti da registrare sono specificati da una serie di norme (artt. 2196, 2197, 2198, 2200 e art. 18 d.p.r.
581/1995) e sono diversi a seconda della struttura soggettiva dell’impresa.
Riguardano essenzialmente gli elementi d’individuazione dell’imprenditore e dell’impresa (dati anagrafici, ditta,
oggetto, sedi principali e secondarie, inizio e fine dell’attività ecc.) e la struttura e l’organizzazione della società (atto
costitutivo e sue modificazioni, nomina e revoca degli amministratori, dei sindaci, dei liquidatori ecc.).

L’iscrizione è eseguita su domanda dell’interessato ma anche d’ufficio se è obbligatoria e l’interessato non vi provvede.
D’ufficio può anche essere disposta la cancellazione di un’iscrizione, quando non esistano le condizioni richieste dalla
legge, e quando l’impresa ha definitivamente cessato l’attività e ciò risulti da una serie di circostanze specificate dalla
legge.
Prima di procedere all’iscrizione, l’ufficio del registro deve controllare che la documentazione sia formalmente
regolare (regolarità formale) nonché l’esistenza e la veridicità dell’atto o fatto (regolarità sostanziale).
L’iscrizione è eseguita mediante l’inserimento dei dati nella memoria dell’elaboratore elettronico. Ciascun ufficio
rilascia certificati e copie di atti tratti da propri archivi informatici.
L’inosservanza dell’obbligo di registrazione è punita con sanzioni pecuniarie amministrative, ma non comporta più
l’esclusione dal beneficio del concordato preventivo.

È opportuno distinguere fra l’iscrizione nella sezione ordinaria e nella sezione speciale per quanto riguarda gli effetti
che vengono prodotti. L’iscrizione nella sezione ordinaria ha funzione di pubblicità legale e quindi, a seconda dei
casi, può avere efficacia dichiarativa, costitutiva o normativa.

Efficacia dichiarativa.
È l’unico tipo di efficacia che si produce sempre. Vuol dire che i fatti e gli atti iscritti sono opponibili a terzi e lo sono
dal momento stesso della loro registrazione (efficacia positiva immediata). Intervenuta la registrazione, i terzi non
potranno eccepire l’ignoranza del fatto o dell’atto iscritto.
Parziale temperamento di tale regola vale per le società per azioni: l’opponibilità diventa piena solo dopo 15 giorni
dall’iscrizione; durante tale periodo i terzi sono ammessi a provare di essere stati nell’impossibilità di conoscere l’atto.
L’omessa iscrizione, invece, impedisce che il fatto possa essere opposto a terzi (efficacia negativa); L’imprenditore che
ha omesso la registrazione può comunque provare che i terzi hanno avuto ugualmente conoscenza effettiva del fatto o
dell’atto.
Efficacia costitutiva.
Si verifica quando l’atto è produttivo di effetti, sia fra le parti che per i terzi (efficacia costitutiva totale), oppure solo
nei confronti dei terzi (efficacia costitutiva parziale).
Ha efficacia costitutiva totale, ad esempio, l’atto costitutivo delle società di capitali e delle società cooperative, che
prima della costituzione non esistono giuridicamente ne per le parti ne per il terzi.
Ha efficacia costitutiva parziale la registrazione della deliberazione di riduzione reale del capitale sociale di una
società in nome collettivo (art. 2306): l’omissione impedisce il decorso del termine di tre mesi entro il quale i creditori
possono proporre opposizione e perciò la riduzione del capitale, anche se attuata, è per loro improduttiva di effetti.
Efficacia normativa.
L’iscrizione determina una modifica nella disciplina applicabile alla fattispecie.
L’iscrizione – pur non avendo efficacia costitutiva – è presupposto per la piena applicazione di un determinato regime
giuridico. Ad esempio, società in nome collettivo e società in accomandita semplice vengono ad esistenza anche se non
registrate, ma la mancata registrazione impedisce che operi il regime di autonomia patrimoniale di tali società, e
comporta il più gravoso (per i soci) regime al riguardo, proprio delle società semplici (società irregolari).

L’iscrizione nella sezione speciale ha solamente funzione di certificazione anagrafica e pubblicità notizia, ossia
l’iscrizione consente di prendere conoscenza dell’atto, ma non lo rende di per se opponibile ai terzi, dovendosi così
sempre provare l’effettiva conoscenza da parte degli stessi.
Perciò era netta la distinzione originaria del codice, sotto il profilo della pubblicità, tra imprese soggette allo statuto
dell’imprenditore (sezione ordinaria) e le altre imprese (sezione speciale).

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Recentemente tale disciplina è stata modificata: per gli imprenditori agricoli anche piccoli e per le società semplici
esercenti attività agricola, l’iscrizione nella sezione speciale ha anche funzione di pubblicità legale.
In questo modo si è tuttavia nuovamente ingarbugliata la situazione.

B. LE SCRITTURE CONTABILI

4. L’obbligo di tenuta delle scritture contabili.

Nozione: le scritture contabili sono documenti che contengo la rappresentazione, in termini quantitativi e/o monetari,
dei singoli atti d’impresa, della situazione patrimoniale e del risultato economico dell’attività svolta.
Soggetti obbligati:
 Gli imprenditori che esercitano attività commerciale (esclusi i piccoli imprenditori).
 Tutte le società commerciali (escluse le società semplici) anche se non esercitano attività commerciale.
 Le imprese sociali.
Le scritture contabili sono disciplinate anche dalla legislazione tributaria, secondo criteri che non sempre coincidono
con quelli fissati dal codice. Ad esempio, l’obbligo di tenuta delle scritture contabili è esteso anche a soggetti che non
sono imprenditori, quali i liberi professionisti.

5. Le scritture obbligatorie

Principio generale: L’imprenditore deve tenere le scritture contabili che “siano richieste dalla natura e dalle
dimensioni dell’impresa”. Le scritture variano a seconda del tipo di attività, delle dimensioni e dell’articolazione
territoriale dell’impresa.
In ogni caso devono essere tenuti:
- Libro giornale
- Libro degli inventari
- Gli originali della corrispondenza commerciale ricevuta e le copie di quella spedita (lettere, fatture,
telegrammi, ecc.)

Libro giornale (art. 2216).


È un registro cronologico-analitico. Devono essere indicate “giorno per giorno le operazioni relative all’esercizio
dell’impresa”. In realtà non è necessario registrarle il giorno stesso, ne registrare separatamente ciascuna operazione,
purché le singole registrazioni riguardino operazioni omogenee, compiute nella stessa giornata.

Libro degli inventari (art. 2217).


È un registro periodico-sistematico. Deve essere redatto all’inizio dell’esercizio e successivamente ogni anno. Ha
funzione di quadro della situazione patrimoniale dell’imprenditore; deve perciò contenere la valutazione delle attività e
delle passività dell’imprenditore, anche estranee all’impresa. L’inventario si chiude con il bilancio, comprensivo di
stato patrimoniale e conto economico.
Il bilancio è un prospetto contabile riassuntivo dal quale devono risultare con evidenza e verità la situazione
complessiva del patrimonio alla fine di ciascun anno.
La corrispondenza commerciale va tenuta in ordine cronologico e contiene gli originali delle comunicazioni ricevute e
le copie di quelle inviate.
Il rispetto del principio generale imporrà poi la tenuta di scritture contabili richieste dalla natura e dalle dimensioni
dell’impresa. Esempi possono essere:
- Libro mastro, nel quale le operazioni sono registrate non cronologicamente ma sistematicamente (ess: per tipo
di operazione, per cliente, ecc.).
- Libro cassa, che contiene entrate e uscite di denaro.
- Libro magazzino, che registra entrate e uscite di merci.
L’imprenditore dovrà poi tenere le scritture contabili richieste dalla legislazione tributaria (ess: libro dei cespiti
ammortizzabili, registro di magazzino, ecc.) e lavoristica (es: libro unico del lavoro).

6. Regolarità delle scritture contabili. Efficacia probatoria.

Per garantire la veridicità delle scritture contabili, ed impedire che siano successivamente alterate, sono determinate
regole formali e sostanziali.
Formalità estrinseche: adesso molto ridotte, per agevolare la tenuta della contabilità con procedure informatiche,
prevedono solamente che libro giornale e libro degli inventari siano numerati progressivamente pagina per pagina (un
tempo c’era l’obbligo della bollatura, foglio per foglio, da parte del registro delle imprese o di un notaio).
Formalità intrinseche  Norme di un’ordinata contabilità (ess: senza spazi in bianco, interlinee o abrasioni). Anche
tali regole perdono parte del senso con la tenuta delle scritture con metodi informatici. L’inosservanza di tali regole
rende le scritture irregolari e quindi giuridicamente irrilevanti.

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Le scritture contabili e la corrispondenza commerciale devono essere conservate per 10 anni.
Sanzioni: L’imprenditore che non tiene regolarmente le scritture contabili non può utilizzarle come mezzo di prova a
suo favore (rendendole giuridicamente irrilevanti). È inoltre assoggettato alle sanzioni penali per i reati di bancarotta
semplice o fraudolenta in caso di fallimento. L’ordinata tenuta della contabilità non è più, invece, requisito di
ammissione al concordato preventivo (art. 160 legge fall.)

Efficacia probatoria.
Le scritture contabili, regolarmente tenute o meno, possono sempre essere usate da terzi come mezzo processuale
contro l’imprenditore che le tiene. Il terzo, però, non può scinderne il contenuto utilizzando solo la parte a suo favore.
L’imprenditore può comunque dimostrare che le sue scritture non corrispondono a verità.
Sono più rigorose le condizioni che permettono all’imprenditore di utilizzare le scritture contabili contro terzi. A tal fine
sono necessarie tre condizioni:
- È necessario che siano regolarmente tenute.
- È necessario che la controparte sia anch’essa un imprenditore.
- In ogni caso, è rimesso all’apprezzamento del giudice riconoscere il valore probatorio alle scritture.

C. RAPPRESENTANZA COMMERCIALE

7. Ausiliari dell’imprenditore commerciale e rappresentanza.

Nello svolgimento della propria attività l’imprenditore può avvalersi, e di regola si avvale, della collaborazione di altri
soggetti: ausiliari interni o subordinati (stabilmente inseriti nella propria organizzazione aziendale per effetto di un
rapporto di lavoro subordinato), e ausiliari esterni o autonomi (soggetti esterni all’organizzazione imprenditoriale sulla
base di rapporti contrattuali). La collaborazione può riguardare l’agire in rappresentanza dell’imprenditore nella
conclusione di affari con terzi. Il fenomeno della rappresentanza è regolato in via generale dall’art. 1387 ss. ma segue
delle norme speciali quando si tratti di atti inerenti all’esercizio di impresa commerciale posti in essere da alcune figure
tipiche di ausiliari interni: institori, procuratori e commessi, i quali entrano a contatto con i terzi e concludono affari
per l’imprenditore.
Tali figure sono automaticamente investite del potere di rappresentanza ex lege, effetto naturale di quella determinata
collocazione nell’impresa ad opera dell’imprenditore. Chi conclude affare con uno degli ausiliari, infatti, dovrà solo
verificare se l’imprenditore ha modificato – con atto espresso e reso pubblico – i loro naturali poteri rappresentativi;
non, invece, che la rappresentanza sia loro stata conferita. Sono questi i principi comuni a tutte e tre le figure di
ausiliari che si differenziano per la diversa posizione nell’impresa e per la diversa ampiezza del potere rappresentativo.
8. L’institore.

È institore colui che è preposto dal titolare all’esercizio dell’impresa o di una sede secondaria o di un ramo particolare
della stessa. Nel linguaggio comune è il direttore generale dell’impresa, di una filiale o di un settore produttivo.
L’institore è di regola un lavoratore subordinato con la qualifica di dirigente, posto al vertice della gerarchia del
personale. Vertice assoluto se l’institore è preposto all’intera impresa ed in tal caso dipenderà solo dall’imprenditore, in
quanto riceverà direttive solo da quest’ultimo. Vertice relativo se è preposto ad una filiale o ad un ramo dell’impresa e
in tal caso potrà trovarsi in posizione subordinata anche rispetto ad altro institore. L’institore è investito di un potere di
gestione generale, che abbraccia tutte le operazioni della struttura alla quale è preposto.
Obblighi: congiuntamente con l’imprenditore è tenuto all’adempimento dell’obbligo di iscrizione nel registro delle
imprese e di tenuta delle scritture contabili.
In caso di fallimento dell’imprenditore, anche l’institore subirà le sanzioni penali a carico del fallito, anche se solo
l’imprenditore potrà essere dichiarato fallito.

L’investitore è anche investito di un generale potere di rappresentanza:


Rappresentanza sostanziale: Articolo 2204 l’institore può compiere in nome dell’imprenditore “tutti gli atti pertinenti
all’esercizio dell’impresa” o della sede o del ramo a cui è preposto, salvo le limitazioni contenute nella procura. Non
può invece compiere atti che esorbitano dall’esercizio (ess: vendita o affitto dell’azienda, cambiamento dell’oggetto,
ecc.). Gli è inoltre espressamente vietato di alienare o ipotecare gli immobili.
Rappresentanza processuale: l’institore può stare in giudizio, sia come attore (rappresentanza processuale attiva), sia
come convenuto (rappresentanza processuale passiva) per “le obbligazioni dipendenti da atti compiuti nell’esercizio
dell’impresa a cui è preposto” (anche se li compie l’imprenditore stesso).

Modifica e revoca: i poteri dell’institore possono essere ampliati o limitati, ma tali modifiche devono essere pubblicate
sul registro delle imprese perché diventino opponibili a terzi (salva la prova da parte dell’imprenditore che i terzi erano
effettivamente a conoscenza di tale modifica). Principi analoghi valgono per la revoca, la quale è opponibile ai terzi
solo se pubblicata o se l’imprenditore prova la loro effettiva conoscenza.

L’institore è obbligato a spendere il nome del rappresentato (art. 1388), rendendo palese la sua veste, in modo da far
ricadere gli effetti sul rappresentato. Si evita così che non ricada sul terzo il rischio di comportamenti dell’institore che
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generano incertezze circa il reale dominus dell’affare. Se le modalità di conclusione dell’affare rendono incerto se
l’istitore abbia operato per sé o per l’imprenditore, il legislatore tronca ogni possibilità di contestazione a danno di
terzo; risponderanno solidalmente sia l’institore sia il preponente. Sarà poi questione interna stabilire su chi debba
ricadere il peso del debito.
Art. 2208 Codice Civile: L'institore è personalmente obbligato se omette di far conoscere al terzo che egli tratta per il
preponente; tuttavia il terzo può agire anche contro il preponente per gli atti compiuti dall'institore, che siano pertinenti
all'esercizio dell'impresa a cui è preposto.

9. I procuratori.

Nozione art. 2209: i procuratori sono coloro che “in base ad un rapporto continuativo, abbiano il potere di compiere per
l’imprenditore gli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa, pur non essendo preposti ad esso.
In pratica sono subordinati di grado inferiore rispetto agli institori, in quanto:
a) Non sono posti a capo dell’impresa o di un ramo o sede secondaria
b) Pur essendo degli ausiliari con funzioni dirette, il loro potere è circoscritto ad un determinato settore operativo
dell’impresa.
In mancanza di specifiche limitazioni iscritte nel registro delle imprese, i procuratori sono ex lege investiti di una
funzione di rappresentanza generale, che in questo caso riguarda solamente le determinate operazioni per le quali
sono stati investiti di autonomo potere decisionale.
Inoltre il procuratore:
- Non ha rappresentanza processuale (attiva o passiva) dell’imprenditore, neppure per gli atti da lui posti in
essere.
- Non è soggetto agli obblighi di iscrizione nel registro delle imprese e di tenuta delle scritture contabili.
L’imprenditore non risponde degli atti compiuti da un procuratore senza spendita del nome dell’imprenditore stesso.
10. I commessi.

Art. 2210 Nozione: I commessi sono ausiliari subordinati cui sono affidate mansioni esecutive o materiali che li
pongono in contatto con terzi (commesso di negozio, impiegato di banca ecc.).
Ai commessi è riconosciuto potere di rappresentanza anche in mancanza di specifico atto di conferimento; potere più
limitato rispetto a quello degli institori e dei procuratori  “possono compiere gli atti che ordinariamente comporta la
specie di operazioni di cui sono incaricati”.

In particolare, i commessi:
- Non possono esigere il prezzo delle merci delle quali non facciano la consegna, né concedere dilazioni o sconti
che non siano d’uso.
- Se preposti alla vendita nei locali dell’impresa, non possono esigere il prezzo fuori dai locali stessi, né possono
esigere all’interno dell’impresa se alla riscossione è destinata apposita cassa speciale(art 2213).
L’imprenditore può ampliare o limitare tali poteri, ma non è prevista pubblicità legale, perciò tali limitazioni saranno
opponibili ai terzi solo se portate a conoscenza degli stessi con mezzi idonei, o se si prova l’effettiva conoscenza.
Inoltre, l’articolo 2212 afferma che per gli affari da essi conclusi, i commessi dell'imprenditore sono autorizzati a
ricevere per conto di questo le dichiarazioni che riguardano l'esecuzione del contratto e i reclami relativi alle
inadempienze contrattuali.
CAPITOLO QUINTO
L’AZIENDA

1. La nozione di azienda. Organizzazione ed avviamento.

Art. 2555: L’azienda è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa.
 l’apparato strumentale di cui l’imprenditore si avvale per e nello svolgimento della propria attività.

Per qualificare un dato bene come aziendale è rilevante, perciò, solo la destinazione impressagli dall’imprenditore;
irrilevante è invece il titolo giuridico che legittima l’imprenditore all’uso di tale bene.
Non è bene aziendale quindi quello di proprietà dell’imprenditore che non sia destinato all’attività d’impresa; è bene
aziendale, invece, un bene di proprietà di terzi, di cui l’imprenditore può disporre in base ad un valido titolo giuridico
(affitto, leasing, ecc.), purché attualmente impiegato nell’attività d’impresa.

L’accento va quindi posto sul dato dell’organizzazione: l’azienda è infatti un insieme di beni eterogenei, non
necessariamente di proprietà dell’imprenditore. Essa non è caratterizzata dal tipo di beni da cui è composta, ma
dall’unità funzionale per il coordinamento tra i diversi elementi costitutivi, e per l’unitaria destinazione ad uno
specifico fine produttivo.

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Organizzazione e fine produttivo sono dati che conferiscono all’azienda particolare rilievo economico, prima che
giuridico. Il rapporto di strumentalità e complementarietà fra i singoli elementi costitutivi dell’azienda fa si che il
complesso unitario acquisti un valore di scambio maggiore della somma dei valori dei singoli beni che lo costituiscono
 Tale maggior valore si definisce avviamento: attitudine dell’azienda a consentire la realizzazione di un profitto.
Avviamento oggettivo: quello ricollegabile a fattori che permangono anche se muta il titolare dell’azienda, in quanto
insiti nel coordinamento dei diversi beni.
Avviamento soggettivo: quello dovuto all’abilità operativa dell’imprenditore sul mercato e per quanto riguarda la
clientela.

L’unità economica dell’azienda e gli interessi al mantenimento di tale unità trovano riconoscimento nella disciplina
dettata dal codice per il trasferimento dell’azienda (artt. 2556-2562).
Il trasferimento a titolo definitivo o temporaneo comporta, infatti, peculiari effetti ispirati dalla finalità di conservazione
dell’unità economica e del valore di avviamento. Tale disciplina pone inoltre significativi ostacoli alla disgregazione
dell’azienda, tutelando così l’interesse generale al mantenimento dell’efficienza e funzionalità dei complessi produttivi.

2. La circolazione dell’azienda. Oggetto e forma.

L’azienda può formare oggetto di atti di disposizione di diversa natura (vendita, conferimento, donazione, usufrutto,
affitto, ecc.). È importante stabilire, però, se un determinato atto di disposizione dell’imprenditore sia da qualificare
come trasferimento di azienda o come trasferimento dei singoli beni aziendali, dato che sono nel primo caso potrà
trovare applicazione la disciplina dettata per la circolazione di un complesso aziendale.
La distinzione non è sempre agevole nella pratica, anche perché spesso le parti ricorrono ad espedienti per simulare
l’una o l’altra situazione, che porta a loro determinati vantaggi.
Per aversi trasferimento d’azienda non è necessario che l’atto comprenda l’intero complesso aziendale. Infatti, è
necessario e sufficiente che sia trasferito un insieme di beni potenzialmente idoneo a essere utilizzato per l’esercizio di
una determinata attività d’impresa (non necessariamente la stessa svolta dal trasferente), e ciò quando anche il nuovo
titolare debba integrare il complesso con ulteriori fattori produttivi. Ovviamente è necessario che i beni esclusi non
alterino l’unità economica e funzionale di quell’azienda (es: escludere il brevetto su cui si fonda l’attività).
Riguardo al trasferimento (art. 2556), c’è una netta distinzione tra la forma necessaria per la validità del trasferimento,
e la forma richiesta ai fini probatori e per l’opponibilità ai terzi.
In merito al primo punto, i contratti di trasferimento sono validi se stipulati con l’osservanza “delle forme stabilite dalla
legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l’azienda o per la particolare natura del contratto”. Manca
quindi un’autonoma ed unitaria legge di circolazione dell’azienda.
In merito al secondo punto, per tutte le imprese soggette a registrazione è oggi prescritto che i relativi contratti di
trasferimento devono essere iscritti nel registro delle imprese entro 30 giorni.
Per l’iscrizione, il contratto deve essere redatto per atto pubblico, o scrittura privata autenticata.
Solo l’iscrizione nella sezione ordinaria, se dovuta, produce effetti di pubblicità legale (effetto analogo, però, dovrebbe
avere l’iscrizione nel registro speciale di imprenditori agricoli).

La forma è libera e diventa vincolata se l’azienda è commerciale (ad probationem) ed è richiesta la forma propria dei
singoli beni qualora per tali beni sia prevista una forma speciale.
(ad esempio il contratto di locazione, anche se ha per oggetto un immobile, è libero, per cui si può affittare tale
immobile anche verbalmente).
Questo vuol dire che se devo provare l’esistenza del rapporto, la posso provare in qualunque modo, senza dover
mostrare niente di scritto.

Qualora la forma non sia libera si può richiedere:


 La forma ad probationem, valido anche senza un supporto scritto, ma, qualora ci siano problemi con l’altra
parte, è necessario mostrare un documento scritto del fatto.
 La forma ad substantiam, per cui senza forma scritta, non nasce il contratto e non produce effetti.

Il documento scritto può avere diversa entità di certificazione.


Il documento più comune è la scrittura privata, per cui due persone redigono in documento senza l’aiuto di alcuna
persona esterna.
Per quel che riguarda la forma, la scrittura privata può sempre essere contestata nel suo contenuto.
Ci sono diversi gradi di certificazione:
Il primo grado di certificazione riguarda la provenienza dello scritto, che riguarda un’analisi della firma.
Se un soggetto disconosce la sua firma o non la riconosce, la controparte ha l’onere di dimostrare e produrre in giudizio
degli atti che rappresentino che quella firma sia realmente la firma della parte in questione.
Per ovviare a tutto questo si fa l’autenticazione della firma e così si entra nella scrittura privata autenticata.
L’autenticazione viene fatta da un pubblico ufficiale o da diversi soggetti, come gli agenti di borsa, per alcuni atti
particolari. L’autenticazione afferma che nel momento in cui è stata apposta una firma, il soggetto della firma è stato

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certificato con forza di pubblica fede. Per poter disconoscere la firma a questo punto è necessaria una querela di falso.
All’autenticazione ci sono due limiti: il primo è che il pubblico ufficiale dichiara di aver identificato colui che appone la
firma per mezzo di documenti; il secondo è che viene garantito che il firmatario sia la parte in questione, ma non si
trova corrispondenza con l’atto firmato.
Per superare questi problemi c’è l’atto pubblico, che proviene integralmente dal pubblico ufficiale.

Tornando all’azienda commerciale è un atto a forma libera, a meno che non si richieda la forma vincolata per i beni che
compongono l’azienda.
I contratti di cessione e di affitto devono essere provati per iscritto (ad probationem).
Ai fini dell’iscrizione nel registro dell’impresa è necessaria la scrittura privata autenticata o atto pubblico.

3. La vendita dell’azienda: il divieto di concorrenza dell’alienante

Contenuto del divieto: chi aliena un’azienda commerciale deve astenersi, per un periodo massimo di 5 anni dal
trasferimento, dall’iniziare una nuova impresa che possa comunque – “per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze” –
sviare la clientela dall’azienda ceduta  art. 2557, comma 1.
La norma contempera due opposte esigenze: quella dell’acquirente di trattenere la clientela e quindi godere
dell’avviamento soggettivo, del quale di regola si tiene conto nel prezzo di vendita; quella dell’alienante a non vedere
compromessa la propria libertà di iniziativa economica, oltre il tempo legislativamente ritenuto necessario affinché
l’acquirente consolidi la propria clientela.

Il divieto di concorrenza è derogabile e relativo: sussiste nei limiti in cui la nuova attività dell’alienante sia
potenzialmente idonea a sottrarre clienti all’impresa ceduta.
Le parti possono anche ampliare l’obbligo di astensione, purchè non sia impedita ogni attività professionale
all’alienante.
Il divieto è applicabile non solo alla vendita volontaria di azienda, ma anche alla vendita coattiva: il divieto graverà
perciò in testa all’imprenditore fallito nel caso di vendita in blocco dell’azienda da parte degli organi fallimentari.

Vi sono dei casi controversi:


a) Divisione ereditaria con assegnazione dell’azienda ad uno degli eredi.
b) Scioglimento di una società con assegnazione dell’azienda ad uno dei soci, quale quota di liquidazione.
c) Vendita dell’intera partecipazione sociale o di una partecipazione di controllo in una società di persone o
capitali.
Nei primi due casi non vi è trasferimento di azienda, nel terzo c’è un negozio traslativo ma ha per oggetto le quote o le
azioni della società e non l’azienda. Nei primi due casi si tiene di regola conto del valore dell’avviamento, mentre nel
terzo caso la vendita dell’intero pacchetto azionario permette di raggiungere un risultato economico sostanzialmente
coincidente con la vendita dell’azienda. Non è perciò senza fondamento l’ipotesi di applicazione del divieto di
concorrenza in questi casi.

4. (segue): La successione nei contratti aziendali.

Per tutelare il mantenimento dell’unità economica dell’azienda, e agevolare il subingresso dell’acquirente nella trama
di rapporti contrattuali in corso di esecuzione con fornitori, finanziatori, lavoratori e clienti, il legislatore ha introdotto
significative deroghe alla disciplina generale della cessione dei contratti; deroghe che investono sia il rapporto
alienante-acquirente, sia la posizione del terzo contraente.
È previsto che “se non pattuito diversamente, l’acquirente dell’azienda subentra nei contratti stipulati per l’esercizio
dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale” (art. 2558, comma 1).
Al terzo contraente è riconosciuto il diritto di recedere dal contratto “entro tre mesi dalla notizia del trasferimento, se
sussiste una giusta causa, salvo in questo caso la responsabilità dell’alienante” (art. 2558, comma 2).
Il subingresso dell’acquirente nei contratti avviene, quindi, in modo automatico, prescindendo da un’esplicita
manifestazione di volontà in tal senso nell’atto di alienazione dell’azienda. Un’espressa pattuizione fra alienante ed
acquirente è perciò necessaria solo se si vuole escludere la successione in uno o più contratti in corso di esecuzione.

La deroga ai principi di diritto comune è ancora più vistosa per quanto riguarda il terzo contraente:
- Il consenso del contraente non è più necessario per il trasferimento del contratto.
- Il terzo contraente non resta senza tutela, ma questa è tuttavia molto limitata: può recedere il contratto entro tre
mesi, ma tale recesso può essere esercitato solo se sussiste una “giusta causa”, la prova della quale spetterà al
terzo contraente.
- Il recesso non determina il ritorno del contratto in testa all’alienante, ma bensì la definitiva estinzione dello
stesso. Resta al terzo contraente solo la possibilità di chiedere il risarcimento dei danni all’alienante, dando la
prova (non facile) che questi non ha osservato la normale cautela nella scelta dell’acquirente dell’azienda.

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Per i contratti di carattere personale invece sarà necessaria sia un’espressa pattuizione contrattuale fra alienante e
acquirente, sia il consenso del contraente ceduto.

5. (segue): I crediti e i debiti aziendali.

La disciplina esposta sopra si riferisce ai contratti non integralmente eseguiti da entrambe le parti al momento del
trasferimento dell’azienda. Se invece una delle due parti (imprenditore o terzo) ha già eseguito la sua prestazione,
mentre l’altra si trova ancora in debito, troveranno applicazione gli artt. 2559 e 2560 per i crediti e i debiti aziendali e
non l’articolo 2258 come detto sopra.
Entrambe le disposizioni introducono deroghe ai principi di diritto comune in tema di cessione dei crediti e successione
nei debiti.
Limitata è la deroga per i crediti. Si tratta dell’articolo 2259 che afferma che la cessione dei crediti relativi all'azienda
ceduta, anche in mancanza di notifica al debitore o di sua accettazione, ha effetto, nei confronti dei terzi, dal momento
dell'iscrizione del trasferimento nel registro delle imprese.
La notifica al debitore ceduto o l’accettazione da parte di questi avviene tramite l’iscrizione del trasferimento
dell’azienda nel registro delle imprese. Questa disciplina riguarda solamente le imprese soggette a registrazione con
effetti di pubblicità legale. Negli altri casi trova applicazione la disciplina generale della cessione dei crediti.
Chi acquista deve essere in grado di opporre il proprio acquisto ai terzi: nei beni mobili il problema si risolve con il
principio di possesso di buona fede vale titolo (chi acquista bene deve acquisire in buona fede il possesso del bene);
nei beni immobili il problema si risolve con l’iscrizione nel pubblico registro.
Anche nel caso dei crediti è necessario notificare il credito, per dimostrarne la titolarità.
Questa non va notificata se il debitore, essendo a conoscenza della cessione, l’ha notificata.
Il debitore ceduto è inoltre liberato se paga in buona fede all’alienante.

Per quanto invece riguarda i debiti, l’articolo 2260 afferma che l'alienante non è liberato dai debiti, inerenti
all'esercizio dell'azienda ceduta anteriori al trasferimento, se non risulta che i creditori vi hanno consentito.
Dunque:
- È mantenuto il principio generale per cui non è ammesso il mutamento del debitore senza consenso del
creditore.
- È derogato, per le sole aziende commerciali, il principio secondo cui ciascuno risponde solo delle obbligazioni
da lui assunte: “nel trasferimento di un azienda commerciale risponde di debiti suddetti anche l’acquirente
dell’azienda, se essi risultano nei libri contabili obbligatori”  L’acquirente risponde in solido con
l’alienante ai creditori che non abbiano consentito alla liberazione di quest’ultimo (ciò per evitare che la
modificazione, quantomeno qualitativa, del patrimonio dell’alienante, pregiudichi il soddisfacimento dei
creditori aziendali).

Disciplina più favorevole per i lavoratori è prevista per i debiti di lavoro. Di questi l’acquirente risponde in solido con
l’alienante, anche se non risultano dalle scritture contabili ed anche se l’acquirente non ne ha avuto conoscenza nel
momento del trasferimento.
Le disposizioni sopra elencate riguardano le conseguenze del trasferimento per i creditori e debitori aziendali. Nulla
dispongono invece circa la sorta di crediti e debiti nel rapporto fra alienante e acquirente.
Non è chiaro quindi se l’acquirente diventi titolare dei crediti aziendali, e se l’accollo esterno ex lege dei debiti
corrisponda anche a un effettivo accollo interno da parte dell’acquirente. Rimane comunque che crediti e debiti non
passino automaticamente in testa all’acquirente, ma sia necessaria un’espressa pattuizione.

6. Usufrutto e affitto dell’azienda.

L’azienda può formare oggetto di un diritto reale o personale di godimento. Può essere costituita in usufrutto o può
essere concessa in affitto. La costituzione in usufrutto di un complesso di beni destinati allo svolgimento di attività
d’impresa comporta il riconoscimento in testa all' usufruttuario di particolari poteri-doveri art. 2561. L'usufruttuario
dell'azienda deve esercitarla sotto la ditta che la contraddistingue. Egli deve gestire l'azienda senza modificarne la
destinazione e in modo da conservare l'efficienza dell'organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di scorte.
La violazione di tali obblighi o la cessazione arbitraria della gestione dell’azienda determinano la cessazione
dell’usufrutto per abuso dell’usufruttuario (art. 1015).

I poteri e doveri sono stabiliti da una parte per consentire all’usufruttuario la libertà operativa necessaria per gestire
proficuamente l’impresa, dall’altra per tutelare l’interesse del concedente a che non sia menomata l’efficienza del
complesso aziendale, che tornerà nelle sue mani.
L’usufruttuario può godere e disporre dei beni aziendali, nei limiti segnati dalle esigenze della gestione.
L’usufruttuario potrà acquistare ed immettere nell’azienda nuovi beni, che diventeranno di proprietà del nudo
proprietario al termine dell’usufrutto. Per questo motivo viene redatto un inventario alla fine e all’inizio del periodo di
usufrutto: la differenza fra le due consistenze verrà regolata in denaro, sulla base dei valori correnti dell’inventario.
Stessa disciplina si applica per l’affitto, per espresso rinvio operato all’art. 2562.
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L’affitto dell’azienda è contratto diverso dalla locazione di un immobile destinato all’esercizio di attività d’impresa; nel
primo caso, oggetto del contratto è il complesso di beni organizzati; nel secondo caso, il contratto ha per oggetto il
locale in quanto tale.

Sia ad usufrutto che affitto si applicano i principi di divieto di concorrenza e la disciplina della successione nei
contratti aziendali. Il nudo proprietario e il locatore sono tenuti a non iniziare una nuova impresa idonea a sviare la
clientela per la durata dell’usufrutto e dell’affitto.
Solamente all’usufrutto si applica la disciplina dei crediti aziendali. A nessuno dei due si applica invece la disciplina
dei debiti aziendali, mancando espresso richiamo, di cui risponderanno il nudo proprietario e il locatore.

CAPITOLO SESTO
I SEGNI DISTINTIVI

1. Il sistema dei segni distintivi.

L’attività d’impresa è attività di relazioni su un mercato che, di regola, vede coesistere più imprenditori che
producono o distribuiscono beni o servizi identici o simili. Ciascun imprenditore, perciò, utilizza di regola uno o più
segni distintivi che consentono di individuarlo e distinguerlo da altri imprenditori concorrenti.

I tre principali segni distintivi sono:


- Ditta: contraddistingue la persona dell’imprenditore nell’esercizio d’attività d’impresa (c.d. nome
commerciale). È regolata dagli artt. 2563.2567 cod. civ.
- Insegna: individua i locali in cui l’attività d’impresa è esercitata. Art. 2568
- Marchio: individua e distingue i beni e servizi prodotti. Al marchio è dedicata la disciplina più ampia, regolata
dagli artt. 2569-2574 cod. civ. e dal codice della proprietà industriale (d.lgs. 30/2005).
Crescente rilievo va inoltre acquistando il nome a dominio che individua un sito internet usato nell’attività
dell’azienda.

Pur avendo ognuno uno specifico ruolo, i segni distintivi assolvono alla funzione comune di collettori di clientela:
favoriscono la formazione ed il mantenimento della clientela, in quanto consentono ai consumatori di distinguere fra i
vari operatori economici e di operare scelte consapevoli.

Intorno ai segni distintivi ruotano diversi interessi:


- L’interesse degli imprenditori a precludere ai concorrenti l’uso di segni similari che potrebbero sviare la
clientela; l’interesse sempre degli stessi a poter cedere ad altri i propri segni distintivi, in modo da monetizzare
il valore economico autonomo che questi acquistano per il legame creato tra impresa e clientela.
- L’interesse di quanti con i marchi entrano in contratto (fornitori, finanziatori, consumatori) a non essere tratti
in inganno sull’identità dell’imprenditore o sulla provenienza dei prodotti.
- Il più importante interesse generale a che la competizione si svolga in modo ordinato e leale.

Dalle varie discipline è possibile desumere principi comuni:


a) L’imprenditore gode di ampia libertà nella formazione dei propri segni distintivi; deve però rispettare
determinate regole volte ad evitare inganno e confusione: verità, novità e capacità distintiva.
b) L’imprenditore ha diritto all’uso esclusivo dei propri segni. Si tratta però di un diritto non assoluto, ma
relativo e strumentale alla realizzazione della funzione distintiva. L’imprenditore non può perciò impedire che
altri adottino il medesimo segno distintivo quando, per la diversità delle attività d’impresa o dei mercati serviti,
non vi è pericolo di confusione e di sviamento della clientela.
c) L’imprenditore può trasferire i propri segni distintivi. Neppure tale diritto, però, è pieno ed incondizionato,
poiché l’ordinamento tende ad evitare che la circolazione dei segni distintivi possa trarre in inganno il
pubblico.

A. LA DITTA

2. Formazione e contenuto del diritto sulla ditta.

La ditta è il nome commerciale dell’imprenditore: lo individua come soggetto di diritto nell’esercizio dell’attività
d’impresa.

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Il segno distintivo è necessario, ed in mancanza di diversa scelta coincide con il nome dell’imprenditore. Non è
necessario, però, che coincida con il nome civile, ma può essere liberamente scelta, purché rispetti i requisiti della
verità e della novità.

Il principio di verità (art. 2536) ha contenuto diverso a seconda che si tratti di:
 Ditta originaria. È quella formata dall’imprenditore che la utilizza. Essa “deve contenere almeno il cognome
o la sigla dell’imprenditore”. È requisito necessario e sufficiente.
 Ditta derivata. È quella formata da un dato imprenditore e successivamente trasferita ad un altro imprenditore
insieme all’azienda. Nessuna disposizione impone a chi utilizzi una ditta derivata di integrarla con il proprio
cognome o la propria sigla. La verità si riduce ad una “verità storica”.

Il principio di novità (art. 2564) impone che la ditta non sia “uguale o simile a quella usata da altro imprenditore” e
tale da “creare confusione per l’oggetto dell’impresa o per il luogo in cui questa è esercitata”.
Chi ha adottato per primo una data ditta ha perciò diritto all’uso esclusivo di questa. Chi successivamente adotti ditta
uguale è costretto, quindi, a modificarla, anche quando questa corrisponda con il suo nome civile.
Per le imprese commerciali trova applicazione il criterio della priorità dell’iscrizione nel registro delle imprese.

Il diritto all’uso esclusivo della ditta e all’obbligo di differenziazione sussistono, però, solo se i due imprenditori sono
in rapporto concorrenziale tra loro e quindi possa determinarsi confusione. Se non vi è confusione sul mercato, il diritto
all’uso esclusivo è quindi relativo.

Il principio di novità opera anche nei rapporti con altri segni distintivi. Ad esempio, è vietato adottare il marchio altrui
come propria ditta se sussiste pericolo di confusione fra i segni.

La ditta è trasferibile, ma solo insieme all’azienda (art. 2565). Se il trasferimento avviene per atto tra vivi è necessario
il consenso espresso dell’alienante. Ovviamente non lo è se avviene per successione, si trasmette al successore, salvo
diversa disposizione testamentaria.

B. IL MARCHIO

3. Nozione e funzioni del marchio.

Il marchio è il segno distintivo dei prodotti o dei servizi dell’impresa. È disciplinato sia dall’ordinamento nazionale, sia
dall’ordinamento comunitario e internazionale.
Il marchio nazionale è regolato dagli artt. 2569-2574 cod. civ. e dal codice della proprietà industriale. La disciplina
nazionale è stata più volte modificata in attuazione delle direttive comunitarie. La disciplina del marchio comunitario,
invece, consente di ottenere un marchio che produce gli stessi effetti in tutta l’Unione Europea. Infine, la tutela
internazionale che è disciplinata da due convenzioni: La convenzione di Unione di Parigi del 1883 per la protezione
della proprietà industriale e l'accordo di Madrid del 1891 sulla registrazione internazionale dei marchi.

Tali normative, imperniate sull’istituto della registrazione del marchio, riconoscono al titolare del marchio il diritto
all’uso esclusivo dello stesso, cosi permettendo che il marchio assolva la funzione di identificazione e differenziazione
dei prodotti similari esistenti sul mercato.
Il marchio non è un segno distintivo essenziale, ma è certamente il più importante per il ruolo che assolve nella moderna
economia industriale, caratterizzata dall’offerta concorrente di molti prodotti similari.
Il marchio costituisce perciò il principale simbolo di collegamento fra produttori e consumatori e svolge un ruolo
centrale nella formazione e nel mantenimento della clientela.
I marchi, inoltre, a volte finiscono con l’assumere un’autonoma forza attrattiva dei consumatori, è comprensibile perciò
l’interesse dei titolari di marchi celebri a contrastare l’uso degli stessi da parte di altri produttori, anche per prodotti del
tutto diversi da quelli da loro immessi sul mercato. Tale esigenza, in passato ignorata dal legislatore, è recepita
dall’attuale disciplina che ha esteso la tutela dei marchi celebri oltre i limiti segnati dall’evitare la confusione tra
prodotti simili.

4. I tipi di marchio.

I marchi possono essere classificati e raggruppati secondo diversi criteri.


Una prima distinzione si basa sull’attività svolta dal titolare del marchio. Del marchio può servirsi il fabbricante del
prodotto. I beni che subiscono successive fasi di lavorazione o risultano dall’assemblaggio di parti distintamente
prodotte possono, infatti, presentare diversi marchi di fabbrica. Il marchio può essere apposto, inoltre, anche dal
commerciante, che sia un distributore grossista o il rivenditore finale.
Su uno stesso prodotto possono perciò coesistere più marchi. Il rivenditore non può però sopprimere il marchio del
prodotto. Il marchio può essere utilizzato anche da imprese che producono servizi, con funzione pubblicitaria.

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L’imprenditore può utilizzare un solo marchio per tutti i suoi prodotti (marchio generale), oppure servirsi di più
marchi (marchi speciali) per differenziare i diversi prodotti della propria impresa, o diversi tipi dello stesso prodotto. È
possibile anche l’uso contemporaneo di un marchio generale e più marchi speciali.

Composizione del marchio. Il marchio può essere costituito da solo parole, o anche esclusivamente da figure, lettere,
cifre, disegni o colori, ed anche da suoni.
Il marchio può essere costituito anche dalla forma del prodotto o della confezione dello stesso. Si deve trattare però di
una forma “arbitraria o capricciosa”, la cui funzione esclusiva è individuare e differenziare il prodotto; non possono
essere registrate quindi le forme imposte dalla natura stessa del prodotto.
Un tipo particolare di marchio infine è il marchio collettivo (art. 2570 cod. civ.). Il titolare del marchio collettivo è un
soggetto che svolge “la funzione di garantire l’origine, la natura o la qualità di determinati prodotti o servizi”. Tale
marchio non è utilizzato dall’ente che ne ha ottenuto la registrazione, ma è concesso in uso a produttori o commercianti
consociati, che a loro volta si impegnano a rispettare le norme statutarie fissate dall’ente e a consentire i relativi
controlli (es: pura lana vergine, prosciutto di Parma). Sono normalmente utilizzati in aggiunta a quelli individuali ed
assolvono una funzione di garanzia della qualità o della provenienza del prodotto.

5. I requisiti di validità del marchio.


Per essere tutelato giuridicamente, il marchio deve rispondere a determinati requisiti di validità: liceità, verità,
originalità e novità.
 Liceità.
Il marchio non deve contenere segni contrari alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume, stemmi o altri segni
protetti da convenzioni internazionali.
Inoltre, senza il consenso dell’interessato, è vietato utilizzare come marchio l’altrui ritratto, il nome o lo pseudonimo di
persona che ha acquistato notorietà.

 Verità.
È vietato inserire nel marchio “segni idonei ad ingannare il pubblico, in particolare sulla provenienza geografica, sulla
natura o sulla qualità dei prodotti o servizi” (es: marchio New England per vestiti prodotti in Italia).

 Originalità.
Il marchio deve essere composto in modo da consentire l’individuazione dei prodotti contrassegnati fra tutti i prodotti
dello stesso genere immessi sul mercato. Non possono quindi essere usati come marchi, poiché privi di capacità
distintive:
a) Le denominazioni generiche del prodotto o servizio, o la loro figura generica.
b) Le indicazioni descrittive dei caratteri essenziali (salvo che per i marchi collettivi) e della provenienza
geografica del prodotto.
c) I segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente, come le parole super, extra o lusso.
È possibile usare come marchio parole straniere, anche se distintive o generiche, quando non sono note nel loro
significato al consumatore medio (es: Cynar, Ginger). È possibile anche utilizzare denominazioni generiche, o parole
d’uso comune, se modificate o combinate fra loro.

 Novità.
Requisito distinto ma complementare a quello di originalità. Es: il marchio “aeroplano” per calzature è certamente
originale, ma non nuovo se registrato come marchio per calzature da un altro imprenditore. Tuttavia, se il marchio è
celebre ex lege, non può essere utilizzato neanche per prodotti non affini.

Il difetto di uno di questi requisiti comporta la nullità del marchio, che può riguardare anche solo parte dei beni o
servizi per i quali il marchio è stato registrato.

6. Il marchio registrato.

Il titolare del marchio ha diritto all’uso esclusivo di questo. Il contenuto del diritto e la relativa tutela sono però diversi a
seconda che il marchio sia stato o meno registrato presso l’Ufficio italiano brevetti e marchi, presso il Ministero dello
sviluppo economico.
La registrazione attribuisce al titolare del marchio il diritto all’uso esclusivo dello stesso su tutto il territorio nazionale.
Il diritto di esclusiva non copre solo i prodotti identici, ma anche quelli affini, qualora possa determinarsi un rischio di
confusione della clientela; sono coperti quindi tutti i prodotti di fatto destinati alla stessa clientela (es: frigoriferi e
lavatrici), o al soddisfacimento di bisogni identici o complementari. La tutela del marchio registrato non impedisce
però, di regola, che altro imprenditore registri o usi lo stesso marchio per prodotti del tutto diversi.

Per quanto riguarda i marchi celebri, con la riforma del 1992, la tutela di questi è stata svincolata dal criterio
dell’affinità merceologica. Oggi il titolare di un marchio registrato, che gode dello Stato di rinomanza, può vietare a
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terzi di usare un marchio identico o simile al proprio anche per prodotti o servizi non affini, quando tale uso “consente
di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio, o reca pregiudizio agli stessi”.

Decorrenza: il diritto di esclusiva decorre dalla data di presentazione della relativa domanda all’Ufficio brevetti. Il
titolare del marchio è quindi tutelato ancor prima che inizi ad usarlo.
La registrazione nazionale è presupposto per una registrazione internazionale, presso l’Organizzazione Mondiale per
la Proprietà Industriale di Ginevra (OMPI).
Per il marchio comunitario, la registrazione è indipendente da quella nazionale, e si effettua presso l’Ufficio per
l’armonizzazione nel mercato interno di Alicante, in Spagna.

La registrazione nazionale dura 10 anni, ed è rinnovabile per un numero illimitato di volte. La tutela è perciò pressoché
perpetua, a meno che non sia dichiarata la nullità, per difetto di uno dei requisiti, o non sopravvenga una causa di
decadenza, quale il mancato utilizzo del marchio per 5 anni.
In particolare, costituisce decadenza la volgarizzazione del marchio; il fatto cioè che lo stesso sia divenuto nel
commercio denominazione generica di quel dato prodotto (es: Cellophane, Biro, Nylon).

Difesa del marchio. Il marchio registrato è tutelato penalmente e civilmente. In particolare, il titolare del marchio, il cui
diritto di esclusiva è stato leso dal concorrente, può promuovere contro questi l’azione di contraffazione, volta ad
ottenere l’inibitoria alla continuazione degli atti lesivi del proprio diritto e la rimozione degli effetti degli stessi,
attraverso la distruzione delle cose materiali per mezzo delle quali è stata attuata la contraffazione (es. etichette,
cartelloni pubblicitari, ecc.). Resta fermo il diritto del titolare del marchio al risarcimento dei danni se sussiste dolo o
colpa del contraffattore. Può richiedere anche la restituzione degli utili conseguiti dall’autore della violazione in
alternativa al risarcimento del lucro cessante.

7. Il marchio non registrato.

Si tratta di una tutela decisamente minore. L’art. 2571 dispone che “chi ha fatto uso di un marchio non registrato ha la
facoltà di continuare ad usarne, nonostante la registrazione da altri ottenuta, nei limiti in cui anteriormente se ne è
avvalso”.
La tutela sul marchio registrato si fonda perciò sull’uso di fatto dello stesso e sull’effettivo grado di notorietà
raggiunto. Es: il proprietario di un marchio registrato con notorietà locale non potrà impedire che altro imprenditore usi
il suo marchio in altra zona del territorio nazionale, e potrà continuare ad utilizzare il proprio marchio solo nei limiti
della diffusione locale.

8. Il trasferimento del marchio.

Il marchio è trasferibile sia a titolo definitivo, sia a titolo temporaneo (c.d. licenza di marchio).
La disciplina della circolazione del marchio è stata profondamente mutata con la riforma del 1992. È stato abolito,
infatti, il collegamento necessario fra circolazione dell’azienda e circolazione del marchio: oggi il marchio può essere
trasferito o concesso in licenza, per tutti o parte dei prodotti registrati, senza che sia necessario il contemporaneo
trasferimento dell’azienda o del corrispondente ramo produttivo.

La novità più significativa è la licenza non esclusiva. È consentito che lo stesso marchio sia contemporaneamente
utilizzato dal titolare originario e da uno o più concessionari; è quindi consentito che, in base ad accordi contrattuali,
vengano immessi sul mercato prodotti dello stesso genere contraddistinti dallo stesso marchio, ma con diversa fonte di
provenienza.
Il legislatore ha posto dei limiti per evitare pericoli di inganno per il pubblico cui può dare luogo la libera circolazione
del marchio e la licenza non esclusiva:
Dal trasferimento o dalla licenza del marchio non deve derivare inganno nel carattere dei prodotti o servizi che sono
essenziali nell’apprezzamento del pubblico.
Per quanto riguarda la licenza non esclusiva, inoltre, il licenziatario è obbligato ad utilizzare il marchio per prodotti con
caratteristiche qualitative uguali a quelle dei corrispondenti prodotti messi in commercio dal concedente o dagli altri
licenziatari. La violazione di tali regole espone alla sanzione della decadenza, eventualmente parziale, del marchio.

C. L’INSEGNA

9. Nozione e disciplina.

L’insegna contraddistingue i locali dell’impresa (stabilimento industriale, negozio di vendita) o, secondo una più ampia
concezione, l’intero complesso aziendale.
L’insegna (art. 2568) dovrà essere lecita: non può essere uguale o simile a quella già utilizzata da altro imprenditore
concorrente, con conseguente obbligo di differenziazione qualora possa generare confusione nel pubblico; dovrà avere
sufficiente capacità distintiva.
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Pur nel silenzio della disciplina specifica, saranno poi applicabili i principi base ricavabili dalla più analitica disciplina
della ditta e del marchio.
Non è tutelato contro l’altrui imitazione chi adotti come insegna indicazioni generiche.
Nulla è disposto circa il trasferimento dell’insegna. L’autore ritiene che sia applicabile la più permissiva disciplina
prevista per il trasferimento del marchio. È ritenuta lecita anche la licenza non esclusiva.

CAPITOLO 7
INVENZIONI INDUSTRIALI

1.Le creazioni intellettuali

Le opere dell’ingegno (idee creative nel campo culturale) e le invenzioni industriali (idee creative nel campo della
tecnica) costituiscono le due categorie di creazioni intellettuali regolate dal nostro regolamento.
Le opere dell’ingegno sono oggetto del diritto d’autore; quelle industriali possono formare oggetto a seconda del loro
specifico contenuto:
 Del brevetto per invenzioni industriali
 Del brevetto per modelli di utilità o della registrazione per disegni e modelli.
Queste sono descritte negli articoli 2584-2591 del codice civile.
Diritto d’autore e brevetti industriali formano anche oggetto di un’articolata disciplina internazionale.

A. IL DIRITTO D’AUTORE
2.Oggetto e contenuto

Forma oggetto del diritto d'autore le opere dell'ingegno scientifico, letterarie, musicali, figurative, architettoniche,
teatrali e cinematografiche. Tali opere sono protette indipendentemente dal loro pregio e dall'utilità pratica, è richiesto
carattere creativo, cioè un minimo di originalità oggettiva rispetto a preesistenti opere dello stesso genere.
Fatto costitutivo del diritto di autore è la creazione dell'opera, è prevista la registrazione nel registro pubblico
generale delle opere protette e per quelle cinematografiche una speciale registro tenuto a cura della S.I.A.E, ma non
hanno carattere costitutivo. Il diritto di autore gode di una tutela sia morale, sia patrimoniale (diritto morale e diritto
patrimoniale di autore). L'autore ha quindi diritto di rivendicare nei confronti di chiunque la paternità dell'opera, di
decidere se pubblicarla o meno a suo nome o in anonimo; di opporsi a modificazioni o deformazioni dell’opera e ogni
altro atto che possa arrecare pregiudizio al suo onore o alla sua reputazione. Può anche ritirare l’opera dal commercio
quando ricorrano gravi ragioni morali.

3.Trasferimento del diritto di attualizzazione economica. Tutela

L'autore ha diritto di utilizzazione economica esclusiva dell'opera in ogni forma e modo, originale o derivato. Il diritto
patrimoniale di attore ha durata limitata, si estingue infatti in settant'anni dopo la morte dell'autore. Diritti connessi
affini al diritto d'autore sono poi riconosciuti a determinate categorie di soggetti: produttori di dischi, interpreti esecutori
(attori e cantanti)

Il diritto di utilizzazione economica dell'opera dell'ingegno è liberamente trasferibile, unitariamente o nelle singole
manifestazioni. Il trasferimento può avvenire sia tra vivi che a causa di morte. Il trasferimento per atto fra vivi, che deve
essere provato per iscritto, può essere sia a titolo definitivo che a titolo temporaneo.
I contratti previsti per lo sfruttamento economico sono:
 Il contratto di edizione: l'autore concede in esclusiva ad un editore l'esercizio del diritto di pubblicare, per la
stampa, l'opera; il compenso può essere costituito da partecipazione percentuale sul ricavato o fisso. Salvo
alcune eccezioni, la durata del contratto non può superare i 20 anni.
 Il contratto di rappresentazione e di esecuzione: l'autore cede, di regola non in esclusiva, il diritto di
rappresentazione in pubblico di opere destinate a tal fine, l'altra parte si obbliga a provvedere a proprie spese.

Il diritto d'autore è protetto con specifiche sanzioni civili, amministrative pecuniarie e penali (nei casi come plagio-
contraffazione.) Le opere dell'ingegno godono di protezione circoscritta al territorio nazionale e per le loro
caratteristiche sono esposti al pericolo della concorrente utilizzazione abusiva da parte di terzi in altri Stati, da qui
derivano gli accordi internazionali per la tutela.

B. LE INVENZIONI INDUSTRIALI
4.Oggetto e requisiti di validità

Le invenzioni industriali sono idee creative che appartengono al campo della tecnica e che acquistano diritto di
utilizzazione economica grazie ai brevetti, a parte casi speciali di tutela accordata anche alle invenzioni non brevettate.

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Possono formare oggetto di brevetto tre categorie di idee:
 Invenzioni di prodotto: hanno per oggetto un nuovo prodotto materiale
 Invenzioni di procedimento: consiste in un nuovo metodo di produzione di beni già noti, in nuovo processo
di lavorazione o in un nuovo dispositivo meccanico (2585)
 Invenzioni derivate: sono derivazioni di una precedente invenzione.
Possono consistere in un’ingegnosa combinazione di invenzioni precedenti; nel miglioramento di
un’invenzione precedente o in una nuova utilizzazione di una sostanza o composizione di sostanze già
conosciute.

Per scelta legislativa non sono considerate invenzioni e quindi tutti ne possono liberamente fruire:
 Le scoperte, le teorie scientifiche e i metodi matematici
 I piani, i principi e i metodi per attività intellettuali, per gioco o per attività commerciali
 I programmi elaboratori
 Le presentazioni di informazioni
 I metodi per il trattamento chirurgico o terapeutico (TAC)
 Le varietà vegetali
 Invenzioni biotecnologiche (tutelate mediante speciali forme di brevettazione).
Dunque, non possono essere considerate invenzioni e soggette a brevetto, ciò che è già esistente in natura e l’uomo si
limita di percepire (es: la teoria della relatività).

Esistono poi dei criteri di validità per poter far si che le invenzioni siano oggetto di brevetto.
Gli oggetti devono essere:
 Leciti
 Nuovi
 Devono implicare attività inventiva
 Idonei ad applicazione industriale
 Devono essere non compresi nello stato della tecnica, ossia l’invenzione non deve essere già divulgata.

L’invenzione implica attività inventiva anche se non realizza un grande progresso tecnico.
E’ infatti invenzione anche un piccolo progresso tecnico, purchè non conseguibile da un tecnico medio.
Inoltre, solo le conoscenze sfruttabili industrialmente e che quindi realmente possano essere fabbricate, sono
brevettabili.

5.L’invenzione brevettata

L’inventore ha diritto di essere riconosciuto come autore dell’invenzione e di acquisire il brevetto, che ha funzione
costitutiva ai fini dell’acquisto del diritto all’utilizzazione economica.
Il brevetto per invenzione industriale è concesso dall’Ufficio brevetti sulla base di una domanda correlata dalla
descrizione dell’invenzione in modo sufficientemente chiaro e completo e dai disegni dell’invenzione, a pena di nullità.
Ogni domanda può avere per oggetto una sola invenzione.
Il brevetto dura 20 anni dalla data di deposito della domanda ed è esclusa possibilità di rinnovo.
Il brevetto può anche scadere prima se ne viene dichiarata la nullità o se sopravvenga una causa di decadenza dello
stesso, quale mancata attuazione dell’invenzione brevettata.
Il brevetto conferisce al titolare la facoltà esclusiva di attuare l’invenzione e di trarne profitto (commercio ed
importazione dei prodotti cui l’invenzione si riferisce), salvo talune forme di libera utilizzazione dell’invenzione da
parte di terzi privati e non commerciali.
L’esclusiva di commercio si esaurisce con la prima immissione in circolazione del prodotto brevettato.
Da quel momento in poi, salvo sussistano casi di alterazione o modificazione non autorizzata del prodotto, anche i terzi
possono commerciare il prodotto.
Se l’invenzione riguarda un metodo o processo di produzione, l’esclusiva copre solo l’applicazione del nuovo
procedimento e la messa in commercio del prodotto ottenuto con il nuovo procedimento.
Il titolare può impedire che altri mettano in commercio prodotti ottenuti con lo stesso metodo, ma non può impedire il
commercio degli stessi prodotti ottenuti con metodi diversi.
Il brevetto è liberamente trasferibile sia fra vivi che mortis causa, indipendentemente dal trasferimento dell’azienda
(2589).
Sul brevetto possono essere costituiti diritti reali di godimento e di garanzia.
Il titolare del brevetto può concedere licenza di uso, con o senza esclusiva di fabbricazione.
L’invenzione brevettata è tutelata con sanzioni civili e penali: il titolare del brevetto può esercitare azione di
contraffazione nei confronti di chi abusivamente sfrutti l’invenzione.
La sentenza che accerta la contraffazione ordina l’inibitoria per il futuro della fabbricazione o dell’uso dell’oggetto di
brevetto. Sono previste sanzioni volte ad eliminare dal mercato gli oggetti realizzati in violazione del brevetto.
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Il titolare ha però diritto ad essere risarcito sia dei danni patrimoniali (danno emergente, lucro cessante), sia dei danni
morali.
Può anche chiedere la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione, in misura in cui tali utili siano
maggiori del mancato guadagno (lucro cessante).
Brevettazione internazionale
Il rilascio del brevetto attribuisce diritto di esclusiva solo sul territorio nazionale, ma questo può anche essere acquisito
in altri stati dove i trattati internazionali lo agevolano (convenzione di unione di parigi 1883 per la protezione della
proprietà industriale; trattato di Washington del 1970; Convenzione di Monaco del 1973).
Un brevetto autonomo è quello unitario europeo, a cui l’Italia non ha aderito.
Qui le controversie sono gestite dalla Corte unica europea sui brevetti.

6.Invenzione non brevettata

Infine, l’invenzione può anche non essere brevettata e in quel caso chiunque abbia fatto uso di un’invenzione nella
propria azienda nei dodici mesi anteriori al deposito dell’altrui domanda di brevetto, può continuare a sfruttare
l’invenzione nei limiti del preuso.
Il preutente può trasferire tale facoltà ma solo insieme all’azienda in cui l’invenzione è utilizzata.
Tale tutela vale anche nel caso del preuso segreto, la cui violazione configura atto di concorrenza sleale.
se l’inventore o il preutente hanno invece divulgato l’invenzione, il successivo brevetto difetterà del requisito della
novità e sarà nullo. Dichiarato nullo il brevetto, chiunque potrà liberamente sfruttare l’invenzione

C. I MODELLI INDIUSTRIALI
7.Modelli di utilità. Disegni e modelli

I modelli di utilità sono nuovi trovati destinati a conferire particolare funzionalità a macchine, strumenti, utensili o
oggetti d'uso.
I disegni e modelli sono invece nuove idee destinate a migliorare l'aspetto.
La tutela dei modelli di utilità si fonda sull'istituto della brevettazione, tra modelli di utilità e invenzioni industriali si
differenziano nella durata del brevetto (10 anni il primo e 20 i secondi).
Per i disegni e modelli la relativa tutela avviene mediante registrazione che è subordinata al ricorrere di requisiti della
novità e del carattere individuale, registrazione dura cinque anni dalla domanda ma può essere prorogata fino a 25.
Il disegno o modello da registrare non deve essere identico ad un disegno o modello già divulgato in precedenza. Non
possono essere registrati disegni o modelli contrari all’ordine pubblico e al buon costume, né stemmi o altri segni
protetti da convenzioni internazionali.
Oggi giorno si sono affiancati anche i disegni e modelli comunitari i quali ricevono una protezione autonoma e unitaria.
È prevista anche una limitata e provvisoria tutela anche ai disegni e ai modelli non registrati, per un periodo di tre anni
dalla data in cui lo stesso è stato divulgato al pubblico.

CAPITOLO 8
LA DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA

1.Concorrenza perfetta e monopolio

Il modello ideale di mercato prevede la contemporanea presenza di numerose imprese in competizione tra loro,
nessuna delle quali sia singolarmente in grado di condizionare il prezzo delle merci vendute e, di conseguenza, la piena
mobilità della domanda da parte dei consumatori e l’assenza di barriere all’ingresso.
Questo modello, della concorrenza perfetta, spinge verso una riduzione dei costi e dei prezzi di vendita, e
un’eliminazione dal mercato delle imprese meno competitive. Questo, però, è solo un modello teorico in quanto le
imprese dedite alla produzione di massa diventano sempre meno numerose e sempre più grandi, dando vita a situazioni
di oligopolio, ovvero in cui sono presenti poche imprese.
La maggior parte delle grandi imprese stipulano patti volti a limitare la reciproca concorrenza, in cui si decidono i
mercati di sbocco e si determinano i prezzi da praticare. Fino ad arrivare, a volte, a situazioni in cui l’offerta viene
controllata da una sola impresa (monopolio)
Di fronte a queste pratiche è evidente la necessità di intervento del legislatore per evitare situazioni di monopolio, nel
rispetto delle situazioni in cui la limitazione della concorrenza risulta essere positiva.

Dunque, fissato il principio guida della libertà di concorrenza (art. 41 cost), il legislatore italiano:
 Consente limitazioni legali della concorrenza per fini di utilità sociale e la creazione di monopoli legali in
specifici settori di interesse generale
 Consente limitazioni negoziali della concorrenza ma ne subordina la validità al rispetto di condizioni che
non comportino un sacrificio della libertà di iniziativa economica attuale e futura (art 2596).

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 Assicura l’ordinato e corretto svolgimento della concorrenza attraverso la repressione degli atti di
concorrenza sleale.

Per lungo tempo il sistema italiano non ha invece goduto di una normativa antimonopolistica, situazione che è stata
parzialmente colmata negli anni 50 con la disciplina Antitrust dei Trattati della comunità economica europea, ma che si
occupava di gestire solo le situazioni del mercato comune europeo e non di quello esclusivamente italiano.
La legge 10/10 1990 n.287 ha colmato questo vuoto, creando la legislazione antimonopolistica, riguardante le
norme per la tutela della concorrenza e del mercato.

A. LA LEGISLAZIONE ANTIMONOPOLISTICA

2.La disciplina italiana e comunitaria

Il principio cardine della disciplina antimonopolistica europea (art 101 e 102 del trattato sul funzionamento dell’UE) è
quello per cui la libertà di iniziativa economica e la competizione tra imprese, non può tradursi in atti e comportamenti
che pregiudicano la struttura concorrenziale del mercato.
Questo è il principio cardine recepito anche dalla legislazione antimonopolistica italiana, volta a preservare il regime
concorrenziale del mercato nazionale del mercato nazionale e a reprimere i comportamenti anticoncorrenziali.
Nello specifico per il settore della radiotelevisione e dell’editoria vige anche il principio di garantire il pluralismo
dell’informazione di massa.

La legge 287/1990 ha istituito un apposito organo pubblico indipendente (autorità garante della concorrenza e del
mercato) che vigila sul rispetto della normativa antimonopolistica in generale e che irroga le sanzioni necessarie per
tutte le imprese, comprese le banche, a parte per il settore delle assicurazioni, in cui deve tenere conto all’IVASS.
La disciplina italiana ha carattere residuale: è circoscritta alle pratiche anticoncorrenziali che hanno rilevo
esclusivamente locale e che non incidono sulla concorrenza del mercato comunitario, di cui è competente la
Comissione Europea.

3.Le singole fattispecie

Tre fenomeni rilevanti per la disciplina antimonopolistica nazionale e comunitaria:


1) le intese restrittive della concorrenza,
2) l'abuso di posizioni dominanti,
3) le concentrazioni

1)Le intese sono comportamenti concordati fra imprese, non tutte sono vietate, lo sono quelle che abbiano per oggetto
per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato,
o in una sua parte rilevante. Sono quindi lecite le intese minori. Le intese vietate sono nulle ad ogni effetto. Chiunque
può agire in giudizio per farne accertare la nullità. L’Autorità, a sua volta, adotta i provvedimenti per la rimozione degli
effetti anticoncorrenziali e irroga le relative sanzioni pecuniarie. Qualsiasi danneggiato può agire per il risarcimento
davanti alla magistratura ordinaria. La disciplina agevola l’onere probatorio del danneggiato con presunzioni e speciali
mezzi di ricerca delle prove. Ciascuna parte può chiedere al giudice di ordinare alla controparte o ad un terzo
l’esibizione delle prove.
La violazione del diritto antimonopolistico si ritiene definitivamente accertata quando il provvedimento delle Autorità
viene definito incontestabile.
Il diritto al risarcimento si prescrive in 5 anni dal momento della cessazione del comportamento illecito, ma il termine
inizia a decorrere dal momento in cui il danneggiato sia venuto a conoscenza del fatto lesivo.
2) È vietato lo sfruttamento abusivo di posizione dominante con comportamenti capaci di pregiudicare la concorrenza
effettiva, non il fatto in sé dell’acquisizione di una posizione dominante sul mercato:
Fatta eccezione per i mezzi di comunicazione, Ad un’impresa è vietato di:
- imporre prezzi o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravosi,
-impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato,
-applicare condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti
Il divieto di abuso di posizione dominante non ammette eccezioni, una volta accertata l’infrazione, l’autorità ne ordina
la cessazione. Infligge poi sanzioni pecuniarie e può disporre la sospensione dall’attività fino a 30 giorni.
È vietato nel l'ordinamento nazionale anche l'abuso dello stato di dipendenza economica nel quale si trova un'impresa
cliente o fornitrice rispetto ad una o più altre imprese anche in posizione non dominante sul mercato.
Si intende per dipendenza economia << la situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti con
un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi.
Il patto è nullo ed espone al risarcimento dei danni nei confronti dell’impresa che ha subito l’abuso.
3) si ha concentrazione (artt. 5 e 7 legge 287/1990) quando:
- due o più imprese si fondono dando così luogo ad un'unica impresa;

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- due o più imprese, pur restando giuridicamente distinte, diventano un'unica entità economica (influenza determinante
sull'attività produttiva delle imprese controllate),
- due o più imprese indipendenti costruiscono un'impresa societaria comune.
Dunque che sia per fusione, scissione, acquisizione dell’azienda o di un’azione della azienda, il risultato ultimo deve
essere l’ampliamento della quota di mercato detenuta dall’impresa, realizzato attraverso operazioni che comportano
la riduzione del numero delle imprese indipendenti operanti nel settore.
Le concentrazioni costituiscono un utile strumento di ristrutturazione aziendale e non sono di per sé vietate in quanto
rispondono all'esigenza di accrescere la competitività delle imprese. Le concentrazioni diventano illecite e vietate
quando danno luogo a gravi alterazioni del regime concorrenziale del mercato.
Le operazioni di concentrazione che superino determinate soglie di fatturato devono essere preventivamente comunicate
all’autorità italiana o alla commissione europea.
L’autorità può eccezionalmente autorizzare concentrazioni altrimenti vietate, in conformità dei criteri generali fissati
dal governo (art,25 legge 287/1990).
Pesanti sanzioni pecuniarie (fino al 10% del fatturato) sono inflitte dall’autorità se la concentrazione vietata viene
ugualmente eseguita o se le imprese non si adeguano a quanto prescritto per eliminare gli effetti anticoncorrenziali della
concentrazione già realizzata.

B. LE LIMITAZIONI DELLA CONCORRENZA

4.Limitazioni pubblicistiche e monopoli legali

La libertà di iniziativa privata e la libertà di concorrenza sono disposte nell’interesse generale e non possono svolgersi
in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. (art 41
cost). E sia la Costituzione che il codice civile consentono che tali libertà possano essere compresse e limitate dai
pubblici poteri. Infatti, essi possono limitare tale libertà, addirittura con la costituzione di monopoli pubblici, in settori
predeterminati dalla stessa costituzione.
In ogni caso, quando la produzione di determinati beni è determinata in una situazione di monopolio legale, il
legislatore si preoccupa di tutelare gli utenti contro possibili comportamenti arbitrari del monopolista.
L’art. 2597 pone un duplice obbligo a carico di chi opera nel regime di monopolio:
1) contrattare con chiunque richieda prestazioni e soddisfare le richieste compatibili con i mezzi dell’impresa
2) rispettare la parità di trattamento fra i diversi richiedenti, predeterminando i relativi presupposti di applicazione delle
sue tariffe.

5.Limitazioni convenzionali della concorrenza

La libertà individuale di iniziativa economica e di concorrenza è parzialmente disponibile.


Questo si desume dall’art. 2596 del codice civile che consente la stipulazione di accordi restrittivi della concorrenza e
detta una disciplina degli stessi, fondata su tre elementi:
1) il patto che limita la concorrenza deve essere provato per iscritto.
2) il patto non può precludere al soggetto che si vincola lo svolgimento di ogni attività professionale, in quanto è
previsto che l’accordo è valido solo se circoscritto ad un determinato ambito territoriale o di attività.
3) il patto deve avere durata di massimo 5 anni.

La finalità della disciplina è di tutelare il soggetto che assume l’obbligo di non concorrenza, evitando un’eccessiva
compressione della loro libertà individuale di iniziativa economica. La finalità non è quella di evitare le situazioni di
monopolio. Questo comportava che ogni accordo limitativo della concorrenza dovesse ritenersi valido, situazione che è
cambiato introducendo che ogni accordo è da ritenersi vietato, quando ricade nel divieto di intese anticoncorrenziali o
di abuso dominante.
Gli esempi di questi patti sono i cartelli o i consorzi anticoncorrenziali oppure le pattuizioni limitative inserite nei
contratti, come la concessione di vendita con esclusiva.

C. LA CONCORRENZA SLEALE

6.Libertà di concorrenza e disciplina della concorrenza sleale

La libertà di iniziativa economica implica la normale presenza sul mercato di più imprenditori in competizione fra loro
per conquistare il pubblico di consumatori.
Nel perseguimento di questi obiettivi ciascun imprenditore gode di ampia libertà di azione e può porre in atto le
tecniche e le strategie che ritiene più giuste, ma è necessario che tutto si svolga in modo corretto e leale.
Dunque, è necessario distinguere fra comportamenti concorrenziali leali e perciò leciti e consentiti dall’ordinamento e
comportamenti sleali e perciò illeciti e vietati.
Per questo esiste la disciplina della concorrenza sleale (artt. 2598-2601 cod. civ.) i cui principi base possono essere
così fissati: nello svolgimento della competizione fra imprenditori concorrenti è vietato servirsi di mezzi e tecniche non
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conformi ai principi della correttezza professionale.
Qualora questo avvenga, gli atti sono repressi e sanzionati anche se compiuti senza dolo e colpa e anche se non hanno
ancora arrecato danno ai concorrenti. Dunque, basta il danno potenziale per far scattare le sanzioni tipiche
dell’inibitoria alla continuazione degli atti di concorrenza sleale e della rimozione degli effetti prodotti, salvo il
diritto al risarcimento dei danni in presenza di dolo o colpa.
Accertato l’atto di concorrenza sleale, la colpa del danneggiante si presume.
Questa disciplina non tutela direttamente il consumatore, dato che legittimati a reagire contro gli atti di concorrenza
sleale sono solo gli imprenditori. Il consumatore è infatti esposto a possibili inganni di persuasione pubblicitaria, che
solo dal 1942 è iniziato ad essere protetto: prima con la volontaria adozione da parte delle imprese di un codice di
autodisciplina pubblicitaria; poi con la disciplina statale della pubblicità ingannevole e comparativa (d.lgs. 25-1-1992
n.74).
Infine, con il d.lgs 2-8-2007 n.146 è stato introdotto nel codice del consumo una disciplina contro tutte le pratiche
commerciali scorrette nei confronti dei consumatori, ovvero tutte quelle pratiche commerciali che possono indurre il
consumatore ad assumere decisioni commerciali che altrimenti non avrebbe preso. Il codice del consumo è sotto il
controllo dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, la quale può procedere anche d’ufficio.

7.Gli atti di concorrenza sleale (art. 2598)

E’ concorrenza sleale ogni atto idoneo a creare confusione con i prodotti o con l’attività di un concorrente.
E’ lecito attrarre a se l’altrui clientela ma non avvalendosi di mezzi che possono trarre in inganno il pubblico sulla
provenienza dei prodotti e sull’identità dell’imprenditore.
Per trarre in inganno il pubblico, confondendolo, due sono le modalità tipiche:
 L’uso di nomi o di segni distintivi idonei a produrre confusione con quelli usati da altri
 L’imitazione servile dei prodotti di un concorrente, attraverso la riproduzione delle forme esterne dei prodotti
altrui.
La seconda categoria di atti di concorrenza sleale comprende:
 Gli atti di denigrazione che consistono nel diffondere notizie e apprezzamenti sui prodotti di un concorrente
idonei a determinarne il discredito: pubblicità iperbolica, attraverso la quale si mostra che solo i propri
prodotti hanno determinate qualità, a discapito di altri.
 L’appropriazione di pregi di un’impresa altrui
Lecita è l’affermazione della superiorità dei propri prodotti.
La pubblicità comparativa non è invece sempre illecita.
E’ lecita quando la comparazione è fondata su dati veri e verificabili, tali da non generare confusione sul mercato e da
non comportare discredito o denigrazione del concorrente. Non si può quindi ritenere vietata in modo assoluto.
L’art 2598 afferma che è tale ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a
danneggiare l’altrui azienda.
Fra gli atti contrari al parametro della correttezza professionale c’è invece la pubblicità menzognera, attraverso la falsa
attribuzione di qualità o pregi non appartenenti ad alcun concorrente.
Bisogna poi ricordare:
 La concorrenza parassitaria: imitazione delle altrui iniziative imprenditoriali, anche senza che ci sia totale
confondibilità delle attività.
 La sistematica vendita sotto costo dei propri prodotti(dumping)
 La sottrazione ad un concorrente di dipendenti qualificati, attua con il fine di danneggiare l’altrui azienda.

CAPITOLO 9
I CONSORZI FRA IMPRENDITORI

1. nozione e tipi

“Con il contratto di consorzio più imprenditori istituiscono un’organizzazione comune per la disciplina o per lo
svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese” (art. 2602).
L’attuale definizione legislativa comporta che il consorzio è oggi schema associativo tra imprenditori idoneo a
ricomprendere due distinti fenomeni della realtà:
- Consorzio con funzione anticoncorrenziale: un consorzio può essere costituito al fine prevalente o esclusivo di
disciplinare, limitandola, la reciproca concorrenza fra imprenditori che svolgono la stessa attività o attività similari.
Esempio classico di consorzio anticoncorrenziale è quello costituito per il contingentamento della produzione o degli
scambi tra imprenditori concorrenti. Puro contratto limitativo della reciproca concorrenza.
- Consorzio con funzione di coordinamento: più imprenditori possono dar vita ad un consorzio anche “per lo
svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese”. In tal caso il consorzio rappresenta anche o solo uno
strumento di cooperazione interaziendale, finalizzato alla riduzione dei costi di gestione delle singole imprese
consorziate. Solitamente ricorrono a questo tipo di consorzio le piccole e le medie imprese per ridurre le spese.
I consorzi anticoncorrenziali sollecitano controlli volti ad impedire che per loro tramite si instaurino situazioni di
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monopolio di fatto contrastanti con l’interesse generale.
I consorzi di cooperazione interaziendale rispondono invece all’esigenza di accrescere la competitività delle imprese
e concorrono a preservare la struttura concorrenziale del mercato, in quanto favoriscono la sopravvivenza delle piccole
e medie imprese; sono perciò guardati con favore dal legislatore.

Sul piano della disciplina di diritto privato, consorzi anticoncorrenziali e consorzi di cooperazione aziendale sono
tuttavia regolati in modo tendenzialmente uniforme: infatti la distinzione rilevante sul piano civilistico è quella fra
consorzi con sola attività interna e consorzi destinati a svolgere anche attività esterna. In entrambi si crea
un’organizzazione comune, ma nei consorzi con sola attività interna il compito di tale organizzazione si esaurisce nel
regolare i rapporti reciproci fra i consorziati e nel controllare il rispetto di quanto convenuto; nei consorzi con attività
esterna, invece, le parti prevedono l’istituzione di un ufficio comune, destinato a svolgere attività con i terzi
nell’interesse delle imprese consorziate. Tenendo presente questa duplice articolazione, il codice prevede innanzitutto
una disciplina comune.

2. Il contratto di consorzio. L’organizzazione consortile

Il contratto di consorzio può essere stipulato solo fra imprenditori. A volte è consentita la partecipazione a determinati
consorzi di enti pubblici o di enti privati di ricerca.
Il contratto di consorzio deve essere stipulato per iscritto a pena di nullità (art. 2603). Il contratto deve inoltre
contenere una serie di indicazioni: essenziale è in particolare la determinazione dell’oggetto del consorzio, degli
obblighi assunti dai consorziati e degli eventuali contributi in danaro da essi dovuti; se si tratta di un consorzio di
contingentamento il contratto deve altresì stabilire le quote dei singoli consorziati o i criteri per la loro determinazione.
Il contratto di consorzio è per sua natura un contratto di durata: questa può essere liberamente fissata dalle parti, ma
nel silenzio il contratto è valido per dieci anni (art. 2604). Per i consorzi anticoncorrenziali massimo 5 anni.
Il contratto di consorzio è un contratto tendenzialmente aperto; è perciò possibile la partecipazione al consorzio di
nuovi imprenditori senza che sia necessario il consenso di tutti gli attuali consorziati. Le condizioni per l’ammissione di
nuovi consorziati devono però essere predeterminate nel contratto. Salvo diversa pattuizione fra le parti, il
trasferimento dell’azienda comporta l’automatico subingresso dell’acquirente nel contratto di consorzio; tuttavia, se
sussiste una giusta causa gli altri consorziati potranno deliberare l’esclusione dell’acquirente dal consorzio.
Il contratto di consorzio può sciogliersi limitatamente ad un consorziato, per volontà di questi (recesso) o per decisione
degli altri consorziati (esclusione). Le cause di recesso e di esclusione devono essere indicate nel contratto.
Dalle cause di recesso e di esclusione vanno tenute distinte le cause di scioglimento dell’intero contratto di
consorzio: queste sono elencate dall’art. 2611, che consente lo scioglimento con delibera maggioritaria dei consorziati
quando sussiste giusta causa.
Vi un’organizzazione comune, che ha il compito di attuare il contratto assumendo e portando ad esecuzione le
decisioni necessarie. La disciplina si limita a prevedere la presenza di un organo con funzioni deliberative composto da
tutti i consorziati (assemblea) e di un organo con funzioni gestorie ed esecutive (organo direttivo).
Per quanto riguarda l’assemblea, le delibere “relative all’attuazione dell’oggetto del consorzio sono prese col voto
favorevole della maggioranza dei consorziati”; è invece richiesto il consenso di tutti i consorziati per le
modificazioni del contratto. Le delibere adottate a maggioranza possono essere impugnate, entro trenta giorni, davanti
all’autorità giudiziaria dai consorziati assenti o dissenzienti, se non prese in conformità della legge o del contratto.
La funzione tipica dell’organo direttivo nei consorzi è quella di controllare l’attività dei consorziati al fine di accertare
l’esatto adempimento delle obbligazioni assunte. Articolazione dell’organo direttivo, attribuzione ulteriori oltre quella
di controllo, modalità di nomina, di revoca, di esercizio delle funzioni sono rimesse all’autonomia contrattuale.

3. I consorzi con attività esterna

Una specifica disciplina è prevista per i consorzi destinati a svolgere attività con i terzi, attraverso un ufficio a tal fine
istituito. Per essi è innanzitutto previsto un regime di pubblicità legale destinato a portare a conoscenza dei terzi i dati
essenziali della struttura consortile. Un estratto del contratto di consorzio deve essere depositato per l’iscrizione presso
l’ufficio del registro delle imprese, entro trenta giorni dalla stipulazione. Ad analoga forma di pubblicità sono soggette
le modificazioni degli elementi iscritti.
Nei consorzi con attività esterna, relativamente all’organo direttivo, il contratto deve indicare le persone cui è attribuita
la presidenza, la direzione e la rappresentanza del consorzio ed i relativi poteri. Le persone che hanno la direzione del
consorzio sono altresì tenute a redigere annualmente la “situazione patrimoniale” del consorzio, osservando le norme
previste per il bilancio di esercizio della società per azioni e a depositarla presso l’ufficio del registro delle imprese.
Nei consorzi con attività esterna è poi espressamente prevista la formazione di un fondo patrimoniale (c.d. fondo
consortile), costituito dai contributi iniziali e successivi dei consorziati e dai beni acquistati con tali contributi. Il fondo
consortile costituisce patrimonio autonomo rispetto al patrimonio dei singoli consorziati: esso è destinato a garantire il
soddisfacimento dei creditori del consorzio.
Quali siano le obbligazioni gravanti sul fondo consortile è stabilito dall’art. 2615 distingue fra:
- Obbligazioni assunte in nome del consorzio dai suoi rappresentanti: risponde esclusivamente il consorzio ed i
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creditori possono far valere i loro diritti solo sul fondo consortile
- Obbligazioni assunte dagli organi del consorzio per conto dei singoli consorziati: rispondono solidalmente sia il
consorzio o i consorziati interessati, sia il fondo consortile; inoltre, in caso di insolvenza del consorziato interessato, il
debito dell’insolvente si ripartisce fra tutti gli altri consorziati in proporzione delle loro quote.

4. Le società consortili

Consorzi e società sono istituti diversi (art. 2247). La diversità è netta quando il consorzio svolge attività
esclusivamente interna: manca in tal caso l’esercizio in comune di un’attività economica (attività di impresa) da parte
dei consorziati, che invece costituisce elemento essenziale delle società.
Società e consorzi con attività esterna presentano in comune sia il normale carattere imprenditoriale dell’attività
esercitata, sia il fine di realizzare attraverso tale attività un interesse economico dei partecipanti (scopo egoistico);
diverso però è lo scopo egoistico tipicamente perseguito.
Funzione tipica di un consorzio è quella di produrre beni o servizi necessari alle imprese consorziate e destinati ad
essere assorbiti dalle stesse senza il conseguimento di utili da parte del consorzio. Lo scopo tipico perseguito dai singoli
consorziati non è quindi quello di conseguire un utile ma di ottenere un vantaggio patrimoniale diretto nelle rispettive
economie, sotto forma di minori costi o di maggiori ricavi conseguiti nella gestione delle proprie imprese.
Lo scopo tipico dei consorzi è perciò diverso da quello delle società lucrative. La finalità tipica delle società
lucrative è invece quella di produrre utili da distribuire fra i soci: esse perciò svolgono tipicamente attività di scambio
con i terzi. Un consorzio, invece, acquista merci che servono alle imprese dei consorziati, per rivenderle ai consorziati
stessi ad un prezzo più basso.
Al consorzio non è fatto divieto di svolgere anche attività lucrativa con terzi; la distribuzione fra i soci degli utili
conseguiti dall’eventuale attività con i terzi è però sottoposta agli stessi limiti stabiliti dalla legge per le società
cooperative. Lo scopo consortile presenta infatti accentuate affinità con lo scopo tipicamente perseguito dalle società
cooperative: lo scopo mutualistico; la “mutualità consortile” si differenzia però dalla generica mutualità delle
cooperative, in quanto specifico e tipico è il vantaggio “mutualistico” perseguito dai partecipanti ad un consorzio:
riduzione dei costi di produzione o aumento dei ricavi delle rispettive imprese. L’interesse economico dei consorziati è,
in altre parole, un interesse tipicamente imprenditoriale: migliorare l’efficienza e la capacità di profitto delle rispettive
preesistenti imprese.
Con la modifica della disciplina dei consorzi del 1976 è stato espressamente consentito di perseguire gli obiettivi propri
del contratto di consorzio attraverso la costituzione di una società. L’art. 2615-ter dispone infatti che tutte le società
lucrative, ad eccezione della società semplice, “possono assumere come oggetto sociale gli scopi indicati dall’art.
2602”, cioè gli scopi di un consorzio. È quindi lecito costituire una società per azioni nel cui atto costitutivo si dichiari
espressamente l’esclusiva finalità consortile perseguita e altrettanto espressamente si dichiari che la società non
persegue lo scopo di conseguire utili da dividere tra i soci. Gli imprenditori che danno vita ad una società consortile
possono inoltre inserire nell’atto costitutivo specifiche pattuizioni volta ad adattare la struttura societaria prescelta alla
finalità consortile perseguita, come specifiche condizioni per l’ammissione dei soci, o particolari condizioni di recesso o
di esclusione.

5. Il Gruppo europeo di interesse economico

Funzione identica a quella dei consorzi di coordinamento con attività esterna può essere realizzata in ambito
transnazionale tramite il Gruppo europeo di interesse economico.
Il Geie è un istituto giuridico predisposto dall’Unione Europea per favorire la cooperazione fra imprese appartenenti a
diversi Stati membri, rimuovendo gli ostacoli presenti a causa delle singole legislazioni nazionali. La disciplina del Geie
è fissata dal regolamento comunitario n. 2137 del 1985. Ciascun legislatore ha poi provveduto ad emanare specifiche
norme integrative. I gruppi con sede in Italia sono disciplinati dalle norme del regolamento comunitario e dalle norme
integrative dettate dalla legge italiana.
La struttura del Geie coincide con quella dei consorzi di cooperazione con attività esterna. Parti del contratto possono
essere solo persone fisiche o giuridiche che svolgono attività d’impresa. Il Geie può essere costituito anche da liberi
professionisti, non necessariamente da imprenditori. È necessario che almeno due membri esercitino la loro attività
economica in Stati diversi dalla Comunità.
Il Geie è un centro autonomo di imputazione di rapporti giuridici distinto dai suoi membri ed è dotato di capacità
processuale. Il gruppo non ha lo scopo di realizzare profitti per se stesso dato che la sua finalità è quella di agevolare e
di sviluppare l’attività economica dei suoi membri.
Il contratto costitutivo del Geie e deve essere redatto per iscritto a pena di nullità. Nel contratto devono essere indicati
almeno: la denominazione del gruppo, la sede, l’oggetto, il nome dei membri e la durata che può essere anche a tempo
indeterminato. Il contratto è soggetto a pubblicità legale, mediante iscrizione nel registro delle imprese e successiva
pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, ed essere poi comunicata alla Gazzetta delle Comunità
Europee. Con l’iscrizione nel registro delle imprese il gruppo acquista la capacità di essere titolare di diritti e
obbligazioni. L’organizzazione interna e le regole di funzionamento sono rimesse all’autonomia privata. Sono
previsti due organi: un organo collegiale (assemblea) composto da tutti i membri e un organo amministrativo.
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Le decisioni più importanti devono essere prese all’unanimità. Per le altre il contratto fissa le maggioranze richieste.
Ciascun membro dispone di un solo voto. Il contratto può attribuire più voti ad alcuni membri. La gestione del Geie è
attribuita ad uno o più amministratori. I poteri degli amministratori sono fissati dal contratto. Tuttavia, soltanto ad essi,
spetta per legge la rappresentanza del gruppo verso i terzi.

Il Geie deve tenere le scritture contabili previste per gli imprenditori commerciali. Gli amministratori redigono il
bilancio e lo sottopongono all’approvazione dei membri e provvedono a depositarlo nel registro delle imprese.
I profitti risultanti dall’attività del gruppo sono considerati direttamente profitti dei membri e ripartiti fra gli stessi
proporzionalmente. La disciplina del Geie non prevede la formazione obbligatorio di un fondo patrimoniale iniziale.
Delle obbligazioni rispondono solidamente e illimitatamente tutti i membri del gruppo, oltre a questo col proprio
patrimonio. A differenza dei consorzi, non vi è nessuna distinzione per quanto riguarda le obbligazioni.
La responsabilità dei membri è sussidiaria rispetto a quella del Geie: i creditori possono agire nei confronti dei
membri soltanto dopo aver chiesto al gruppo di pagare e qualora il pagamento non sia stato effettuato entro un
congruo termine.
Ogni nuovo membro del gruppo risponde anche delle obbligazioni anteriori al suo ingresso, salvo patto contrario
opponibile ai terzi solo se pubblicato. Inoltre, i membri che cessano di far parte del Geie continuano a rispondere delle
obbligazioni anteriori. Il Geie che esercita attività commerciale è esposto al fallimento in caso di insolvenza, che non
determina però l’automatico fallimento dei suoi membri, benchè responsabili illimitatamente. Tuttavia, gli organi del
fallimento potranno chiedere ai membri del Geie il versamento delle somme necessarie per estinguere i debiti.

CAPITOLO 10
LE SOCIETÀ

1. Il sistema legislativo

Le società sono organizzazioni di persone e di mezzi create dall’autonomia privata per l’esercizio in comune di
un’attività produttiva. Sono le strutture organizzative tipiche previste dall’ordinamento per l’esercizio in forma
associata dell’attività di impresa (impresa collettiva). Il legislatore nazionale pone a disposizione dell’autonomia privata
otto tipi di società, otto modelli di organizzazione dell’attività di impresa in forma societaria fra i quali le parti possono
liberamente scegliere. I tipi di società previsti sono: la società semplice, la società in nome collettivo, la società in
accomandita semplice, la società per azioni, la società in accomandita per azioni, la società a responsabilità limitata,
la società cooperativa, le mutue assicurazioni. A queste si sono aggiunte due società regolate dal diritto comunitario: la
società europea e la società cooperativa europea. I vari tipi di società sono diversi tra loro ma presentano anche
elementi in comune. Per questo, la società semplice, la società in accomandita semplice e la società in nome collettivo
sono definire come società di persone. La società per azioni, la società in accomandita per azioni e la società a
responsabilità limitata sono definite società di capitali.
Se diversi sono i tipi di società, unica è però la nozione legislativa di società fissata dall’art. 2247.

2. Il contratto di società

“Con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività
economica allo scopo di dividerne gli utili” (art. 2247). È questa la nozione legislativa del contratto di società.
Il codice del 1942 non prevedeva che potesse essere costituita una società da parte di una sola persona e quindi con atto
non contrattuale. Oggi invece questa possibilità è stata alle società per azioni e alle società a responsabilità limitata che
possono essere costituite anche con atto unilaterale. Le società sono quindi enti associativi a base contrattuale che si
caratterizzano per la contemporanea presenza di tre elementi:

 I conferimenti dei soci

 L’esercizio in comune di un’attività economica (c.d. scopo-mezzo)

 Lo scopo di divisione degli utili (c.d. scopo-fine)

3. I conferimenti

I conferimenti sono le prestazioni cui le parti del contratto di società si obbligano. Essi costituiscono il contributo dei
soci alla formazione del patrimonio iniziale della società. La loro funzione è quella di dotare la società del capitale di
rischio iniziale per lo svolgimento dell’attività di impresa: infatti, col conferimento ciascun socia destina stabilmente
parte della propria ricchezza personale all’attività comuna e si espone al rischio di impresa, ovvero corre il rischio di
non ricevere alcuna remunerazione per l’apporta se la società non ottiene gli utili. Tutti i soci si obbligano ad un

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apporto a titolo di conferimento. Diversi possono essere da socio a socio sia l’oggetto sia l’ammontare del
conferimento.
Quanto all’oggetto dei conferimenti, l’art. 2247 stabilisce genericamente che essi possono essere costituiti da beni e da
servizi; può conferire oggetto di conferimento ogni entità suscettibile di valutazione economica che le parti ritengono
utile o necessaria per lo svolgimento dell’attività di impresa.
L’art. 2247 trova piena e puntuale applicazione solo nelle società di persone e nella società a responsabilità limitata.
Nelle altre società di capitali e nelle società cooperative incontra invece significative limitazioni in quanto è
espressamente stabilito che non possono formare oggetto di conferimento “le prestazioni d’opera o di servizi”.

4. Patrimonio sociale e capitale sociale

Il patrimonio sociale è il complesso dei rapporti giuridici attivi e passivi che fanno capo alla società. Esso è
inizialmente costituito dai conferimenti eseguiti dai soci e in seguito subisce delle variazioni a seconda delle vicende
economiche. La consistenza del patrimonio sociale è accertata periodicamente attraverso la redazione annuale del
bilancio di esercizio, e si definisce patrimonio netto la differenza positiva tra attività e passività. Il patrimonio sociale
costituisce la garanzia principale o esclusiva dei creditori della società. Principale se rispondono delle obbligazioni sia
i soci che la società; esclusiva se ne risponde solo la società con il suo patrimonio.
Diversa è la funzione del capitale sociale: il capitale sociale nominale è una cifra che esprima il valore in denaro dei
conferimenti quale risulta dall’atto costitutivo della società. Il capitale sociale nominale rimane immutato nel corso
della vita della società fin quando, con modifica dell’atto costitutivo, non se ne decide l’aumento o la riduzione. Il
capitale sociale è quindi un valore storico; assolve però due fondamentali funzioni:
- Funzione vincolistica: il capitale sociale indica il valore delle attività patrimoniali che i soci si sono impegnati a non
distrarre dall’attività di impresa per tutta la durata della società; la cifra del capitale sociale indica perciò la frazione
(quota ideale) del patrimonio netto non distribuibile fra i soci e perciò assoggettata ad un vincolo di stabile
destinazione all’attività sociale (c.d. capitale reale). La funzione vincolistica del capitale sociale si risolve, per i
creditori, in un margine di garanzia patrimoniale supplementare: essi infatti possono fare affidamento, per soddisfare i
propri crediti, su un attivo patrimoniale eccedente le passività per un valore corrispondente almeno all’ammontare del
capitale sociale
- Funzione organizzativa: in tutte le società è un termine di riferimento per accertare periodicamente se la società ha
conseguito utili o ha subito perdite. Il capitale sociale svolge un ulteriore e più accentuato ruolo nelle società di capitali,
in quanto funge anche da base di misurazione di alcune fondamentali situazioni soggettive dei soci, sia di carattere
amministrativo (diritto di voto), sia di carattere patrimoniale (diritto agli utili ed alla quota di liquidazione): tali diritti
spettano infatti a ciascun socio in misura proporzionale alla parte del capitale sociale sottoscritto.

5. L’esercizio in comune di attività economica

L’esercizio in comune di un’attività economica è il secondo degli elementi fissati dalla nozione di società. Si definisce
oggetto sociale la specifica attività economica che i soci si propongono di svolgere; tale attività deve essere
predeterminata nell’atto costitutivo della società ed è modificabile nel corso della vita della stessa solo con l’osservanza
delle norme che regolano le modificazioni dell’atto costitutivo.
In tutte le società l’oggetto sociale deve consistere nello svolgimento un’attività economica, ovvero di un’attività
condotta con metodo economico e finalizzata alla produzione o allo scambio di beni e servizi.
Le società non possono invece essere costituite al solo scopo di consentire il godimento dei beni conferiti dai soci. In tal
caso si applica la disciplina della comunione.
Vietate sono solo le società di mero godimento: la stessa attività può infatti costituire nel contempo godimento di beni
preesistenti e attività produttiva di nuovi beni e servizi.
Certamente illegittime sono perciò le società immobiliari di comodo: sono società il cui patrimonio attivo è costituito
esclusivamente dagli immobili conferiti dai soci e la cui attività si esaurisce nel concedere tali immobili in locazione a
terzi o agli stessi soci, senza produrre e fornire agli uni o agli altri alcun servizio collaterale. Tali società sono nulle.
Non può invece essere considerata società di mero godimento una società immobiliare che ha per oggetto la gestione di
un albergo o di un residence.

7.Lo scopo-fine della società

L’art. 2247 enuncia solo uno dei possibili scopi del contratto di società: lo scopo di divisione degli utili.
Una società può essere costituita per svolgere l’attività di impresa con terzi allo scopo di conseguire utili (lucro
oggettivo), destinati ad essere successivamente divisi tra i soci (lucro soggettivo). È questo lo scopo di lucro, che il
legislatore assegna, come scopo tipico, alle società di persone e alle società di capitali, che perciò vengono definite
società lucrative.
Società sono però anche le società cooperative e queste devono perseguire per legge uno scopo mutualistico: lo scopo,
cioè, di fornire direttamente ai soci beni, servizi o occasioni di lavoro a condizioni più vantaggiose di quelle che i soci

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stessi otterrebbero sul mercato. Il loro scopo tipico non è quello di dividere l’utile tra i soci, ma quello di procurare ai
soci un vantaggio patrimoniale diretto, che potrà consistere in un risparmio di spesa o in una maggiore remunerazione
del lavoro prestato dai soci nella cooperativa. Un vantaggio patrimoniale che si produce direttamente nelle sfere
individuali dei singoli soci, per effetto di distinti rapporti di scambio che ciascuno di essi instaurerà con l’impresa
cooperativa durante la vita della società. Anche la società cooperativa è una società che deve operare con metodo
economico.
È infine da tener presente che tutti i tipi di società, tranne la società semplice, possono essere utilizzati anche per la
realizzazione di uno scopo consortile. Anche una società consortile è tenuta ad operare con metodo economico e per la
realizzazione di uno scopo economico dei soci, consistente in un particolare vantaggio patrimoniale degli imprenditori
consorziati: sopportazione di minori costi o realizzazione di maggiori guadagni nelle rispettive imprese.
In definitive, sotto il profilo dello scopo perseguibile le società possono essere distinte in tre grandi categorie:
- Società lucrative (art. 2247)
- Società mutualistiche (art. 2511)
- Società consortili (art. 2615-ter)
Un dato comunque rimane comune e costante: le società sono enti associativi che operano con metodo economico e
per la realizzazione di un risultato economico a favore esclusivo dei soci. La società è un fenomeno essenzialmente
egoistico. Ancora oggi esistono società che per legge non devono perseguire o possono non perseguire uno scopo di
lucro, come le società di gestione dei mercati regolamentati di strumenti finanziari o le imprese sociali. Il
perseguimento di uno scopo lucrativo non è necessariamente inconciliabile con una politica d’impresa volta a
promuovere anche il bene comune.
Una società benefit è una società che, oltre allo scopo lucrativo o mutualistico previsto in base a tipo di appartenenza,
persegue anche una finalità di beneficio comune nei confronti di comunità, ambiente, cultura, società civile. Le finalità
di ‘beneficio comune’ devono essere specificate nell’oggetto sociale. L’uso abusivo della denominazione di ‘società
benefit’ che costituisce pubblicità ingannevole è soggetta alla relativa disciplina sanzionatoria.

B. I TIPI DI SOCIETÀ

8.Nozione. Classificazioni

Le società formano un sistema composto da una pluralità di modelli organizzativi, ciascuno dei quali costituisce una
diversa combinazione di risposte legislative ai problemi di disciplina che solleva l’esercizio in forma societaria
dell’attività di impresa. Gli otto tipi di società previsti dal legislatore nazionale possono essere tuttavia aggregati in
categorie omogenee sulla base di alcuni fondamentali criteri di classificazione:
− Una prima distinzione è quella basata sullo scopo istituzionale perseguibile: sotto tale profilo, le società
cooperative e le mutue assicuratrici (società mutualistiche) si contrappongono a tutti gli altri tipi di società (società
lucrative).
−  Una seconda distinzione è quella basata sulla natura dell’attività esercitabile: la società semplice è utilizzabile solo
per l’esercizio di attività non commerciale; tutte le altre società lucrative possono esercitare sia attività commerciale sia
attività non commerciale e sono sempre soggette ad iscrizione nel registro delle imprese con effetti di pubblicità legale.
Queste ultime si definiscono società di tipo commerciale.
−  Altra distinzione legislative è quella tra società dotate di personalità giuridica e società priva di personalità
giuridica: hanno personalità giuridica le società di capitali e le società cooperative; ne sono invece prive le società di
persone.
Nelle società di capitali, in quanto società con personalità giuridica:
- È legislativamente prevista ed è inderogabile un’organizzazione di tipo corporativo, un’organizzazione cioè basata
sulla necessaria presenza di una pluralità di organi, ciascuno investito per legge di proprie specifiche funzioni e
competenze;
- Il funzionamento degli organi sociali è dominato dal principio maggioritario. L’assemblea delibera a maggioranza
anche le modifiche dell’atto costitutivo, e sono calcolate in base alla partecipazione di ciascun socio al capitale sociale;
- Il singolo socio in quanto tale non ha alcun potere diretto di amministrazione e di controllo; ha solo il diritto di
concorrere, con il suo voto in assemblea, alla designazione dei membri dell’organo amministrativo e/o di controllo. Il
peso di ciascun socio in assemblea è proporzionato all’ammontare del capitale sociale sottoscritto; ne consegue che la
partecipazione sociale è, di regola, liberamente trasferibile.
Nelle società di persone (prive di personalità giuridica) invece:
- Non è prevista un’organizzazione basata sulla presenza di una pluralità di organi;
- L’attività della società si fonda su un modello organizzativo che riconosce ad ogni socio a responsabilità illimitata il
potere di amministrare la società e richiede, di regola, il consenso di tutti i soci per le modificazioni dell’atto
costitutivo.
-Il singolo socio a responsabilità illimitata è in quanto tale investito del potere di amministrazione e di
rappresentanza della società e ciò indipendentemente dall’ammontare del capitale conferito e dalla consistenza del suo
patrimonio personale; ne consegue che la partecipazione sociale è, di regola, trasferibile solo col consenso degli altri
soci.
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Ultimo criterio di distinzione è quello basato sul regime di responsabilità per le obbligazioni sociali.
Sotto tale profilo vi sono:
- Società nelle quali per le obbligazioni sociali rispondono sia il patrimonio sociale sia i singoli soci personalmente
ed illimitatamente, in modo inderogabile (s.n.c.) o con possibilità di deroga pattizia per i soli soci non amministratori
(s.s.)
- Società nelle quali coesistono istituzionalmente soci a responsabilità limitata (accomandanti) e soci a responsabilità
illimitata (accomandatari), (s.a.s. e s.a.p.a.)
- Società nelle quali per le obbligazioni sociali di regola risponde solo la società con il proprio patrimonio (s.p.a., s.r.l.
e s.cop.).

9. Personalità giuridica ed autonomia patrimoniale della società

Le società di capitali e società cooperative sono persone giuridiche; la personalità giuridica è invece negata alle
società di persone. Queste ultime godono però di autonomia patrimoniale.
Personalità giuridica e autonomia patrimoniale costituiscono due diverse tecniche legislative per realizzare un
medesimo disegno di politica economica, volto a creare le condizioni di diritto privato più propizie per la diffusione e lo
sviluppo delle imprese societarie. Condizioni che risiedono:
- Nella previsione di un’adeguata tutela dei creditori delle imprese, realizzata facendo del patrimonio della società un
patrimonio in via di principio aggredibile solo dai creditori sociali e non anche dai creditori personali dei soci;
- Nel consentire a quanti costituiscono una società di creare un diaframma fra il proprio patrimonio personale e le
obbligazioni contratte nell’esercizio dell’impresa comune, che sottrae il patrimonio personale dei soci all’aggressione
dei creditori sociali.

Nelle società di capitali e nelle società di cooperative questo duplice obiettivo è conseguito in modo diretto e lineare
con il riconoscimento della personalità giuridica: in quanto persone giuridiche, queste società sono per legge trattate
come soggetti di diritto formalmente distinti dalle persone dei soci. La società gode perciò di una piena e perfetta
autonomia patrimoniale. Infatti, i beni conferiti dai soci diventano beni di proprietà della società: questa è titolare di un
proprio patrimonio, di propri diritti e di proprie obbligazioni distinti da quelli personali dei soci. Dunque, sul patrimonio
sociale non possono più soddisfarsi i creditori personali dei soci perché si tratta di un patrimonio giuridicamente
appartenente ad un altro soggetto. Né i creditori sociali possono soddisfarsi sul patrimonio sociale dei soci, in quanto
risponde solo la società con il proprio patrimonio.
Alle società di persone il legislatore ha negato la personalità giuridica; nel contempo ha però provveduto a soddisfare
le esigenze di tutela dei creditori sociali e di incentivazione dei soci con specifiche disposizioni che rendono il
patrimonio della società autonomo rispetto a quello dei soci.
Infatti, nelle società di persone:
- I creditori personali dei soci non possono aggredire il patrimonio della società per soddisfarsi. Questo principio
subisce un parziale temperamento nella società semplice ed in caso di proroga delle altre società di persone, in quanto è
concesso al creditore personale del socio di ottenere la liquidazione della quota del proprio debitore, qualora gli altri
beni di questo siano insufficienti a soddisfare i suoi crediti.
- I creditori della società non possono aggredire direttamente il patrimonio personale dei soci illimitatamente
responsabili. È necessario che prima tentino di soddisfarsi sul patrimonio della società e solo dopo aver
infruttuosamente escusso il patrimonio sociale potranno agire nei confronti dei soci.

In sintesi, anche nelle società di persone il patrimonio della società è relativamente autonomo rispetto a quello dei soci;
il patrimonio dei soci è relativamente autonomo rispetto a quello della società.
È inoltre orientamento sempre più diffuso che anche le società di persone, seppur prive di personalità giuridica,
costituiscono soggetti di diritto distinti dalle persone dei soci. Particolarmente significativo al riguardo è l’art. 2266, il
quale stabilisce che “la società acquista i diritti e assume obbligazioni per mezzo dei soci che ne hanno la
rappresentanza e sta in giudizio nella persona dei medesimi”.
Ne consegue che anche nelle società di persone:
- I beni sociali non sono beni in comproprietà “speciale” fra i soci, bensì beni in proprietà della società
- Le obbligazioni sociali non sono obbligazioni personali dei soci, ma obbligazioni della società, cui si aggiunge a titolo
di garanzia la responsabilità di tutti o di alcuni dei soci;
- Imprenditore è la società, non il gruppo dei soci, anche se il fallimento della società determina automaticamente il
fallimento dei soci illimitatamente responsabili.

10. Tipi di società ed autonomia privata

Quanti costituiscono una società possono liberamente scegliere fra tutti i tipi di società previsti dalla legislazione
nazionale se l’attività da esercitare non è commerciale; fra tutti i tipi tranne la società semplice se l’attività è

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commerciale (art. 2249). Ulteriori limitazioni nella scelta del tipo di società sono poi stabilite da leggi speciali per
particolari categorie di imprese commerciali.
Se l’attività non è commerciale, l’art, 2249 stabilisce che si applica la disciplina della società semplice, a meno che i
soci non abbiano voluto costituire la società secondo uno degli altri tipi. Quindi, se l’attività non è commerciale, la
scelta del tipo è necessaria solo se le parti vogliono sottrarsi al regime della società semplice.
Anche quando l’attività è commerciale un’esplicita scelta del tipo non è tuttavia necessaria: il silenzio delle parti in
merito deve essere interpretato come implicita opzione per il regime della società in nome collettivo.
La società semplice e la società in nome collettivo costituiscono perciò i regimi residuali dell’attività societaria,
rispettivamente non commerciale e commerciale.

Scelto un determinato tipo di società, le parti possono, con apposite clausole contrattuali, disegnare un assetto
organizzativo della loro società parzialmente diverso da quello risultante dalla disciplina legale del tipo prescelto. È
necessario però che le clausole a tal fine introdotte nell’atto costitutivo (c.d. clausole atipiche) non siano incompatibili
con la disciplina del tipo di società prescelto.

È invece inammissibile la creazione di un tipo di società che non corrisponde ad alcuno dei modelli legislativi previsti. I
tipi di società costituiscono infatti un numero chiuso e non sono ammissibili società atipiche dato che il contratto di
società è destinato a produrre effetti non solo tra le parti ma anche di fronte ai terzi.

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