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CENTRO ITALIANO DI STUDI DI STORIA E D’ARTE

PISTOIA

COMUNE DI PISTOIA — PROVINCIA DI PISTOIA


CAMERA DI COMMERCIO, INDUSTRIA, ARTIGIANATO E AGRICOLTURA DI PISTOIA
FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO DI PISTOIA E PESCIA

VENTIDUESIMO CONVEGNO
INTERNAZIONALE DI STUDI

La ricerca del benessere


individuale e sociale.
Ingredienti materiali e immateriali
(città italiane, XII-XV secolo)

Pistoia, 15-18 maggio 2009

viella
ENTI PROMOTORI
Comune di Pistoia – Provincia di Pistoia
Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura di Pistoia
Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia

COMITATO SCIENTIFICO
Giovanni Cherubini Presidente
Silvana Collodo – Emilio Cristiani
Giovanna Petti Balbi – Gabriella Piccinni
Giuliano Pinto – Mauro Ronzani

SEGRETERIA DEL CONVEGNO


Paolo Nanni, Giovanna Guerrieri, Massimo Guerrieri,
Davide Cristoferi, Francesco Leoni

Centro Italiano di Studi di Storia e d’Arte – Pistoia

c/o Assessorato alla Cultura della Provincia di Pistoia


Piazzetta San Leone, 1 – Pistoia
Casella Postale 78 – Poste Centrali I – 51100 Pistoia

www.cissa-pistoia.it – info@cissa-pistoia.it
CENTRO ITALIANO DI STUDI DI STORIA E D’ARTE
PISTOIA

COMUNE DI PISTOIA — PROVINCIA DI PISTOIA


CAMERA DI COMMERCIO, INDUSTRIA, ARTIGIANATO E AGRICOLTURA DI PISTOIA
FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO DI PISTOIA E PESCIA

VENTIDUESIMO CONVEGNO
INTERNAZIONALE DI STUDI

La ricerca del benessere


individuale e sociale.
Ingredienti materiali e immateriali
(città italiane, XII-XV secolo)

Pistoia, 15-18 maggio 2009

viella
Questo volume è realizzato con il contributo finanziario di

Copyright © 2011 – Centro Italiano di Studi di Storia e d’Arte, Pistoia


Tutti i diritti riservati

ISBN 978-88-8334-625-5

viella
libreria editrice
via delle Alpi, 32
I-00198 ROMA
tel. 06 84 17 758
fax 06 85 35 39 60
www.viella.it
RELATORI

Prof. Duccio Balestracci


Prof. Renato Bordone †
Prof. Giovanni Cherubini
Prof. Silvana Collodo
Prof. Donata Degrassi
Prof. Anna Esposito
Prof. Franco Franceschi
Prof. Giampaolo Francesconi
Prof. Isabella Gagliardi
Prof. Jean-Claude Maire Vigueur
Prof. Luca Molà
Prof. Paolo Nanni
Prof. Giovanna Petti Balbi
Prof. Gabriella Piccinni
Prof. Alma Poloni
Prof. Maria Clara Rossi
Prof. Salvatore Tramontana
Presentazione

Ricerca del benessere individuale e sociale. Ingredienti materiali ed


immateriali con cui raggiungere quel benessere. Città italiane tra il XII e il
XV secolo. Questi sono il carattere del desiderio, la qualità che lo contrad-
distingue, il terreno sociale, cioè le città italiane di una determinata epoca,
che costituiscono l’oggetto complessivo e avvincente del nostro ventidue-
simo convegno. La relatrice che ha aperto i lavori ci ha offerto nelle prime
pagine una preziosa ed avvincente lunga riflessione sulla definizione del
benessere, rifacendosi, con competenza, alla «proposta avanzata in questi
ultimi decenni da vari studiosi di economia sociale: guardare alla povertà,
alla qualità della vita e all’eguaglianza non solo attraverso i tradizionali
indicatori della disponibilità di beni materiali ma mettendo l’accento sulla
possibilità per l’individuo di vivere esperienze o situazioni cui attribuisce
un valore positivo». L’idea che sorregge il nostro incontro è tuttavia insie-
me nuova ma anche molto vecchia. «Nel parlare comune la parola benes-
sere ci rimanda alla dimensione del sociale, felicità a quella individuale».
Ma sappiamo, in realtà, che il concetto di felicità applicato alla politica o
all’economia ha una storia profonda che può essere rintracciata già nelle
dottrine tardomedievali dello Stato e più chiaramente nel pensiero econo-
mico del Settecento. «L’idea medievale del ben comune subiva un proces-
so di assimilazione nella cornice dello stato di diritto prima, e dello stato
sociale poi», continua la relatrice che ha aperto il Convegno, arricchen-
do poi le sue riflessioni con nomi, svariate precisazioni e l’indicazione che
non siamo, ovviamente, gli unici medievisti ad esserci posti su questa stra-
da. Ma non vorrei abusare troppo della vostra pazienza. Mi basta segna-
lare poche altre cose dalla relazione iniziale, a partire da quella che altra
cosa è l’essere poveri, altra cosa è l’impoverire, in conseguenza dell’arretra-
mento economico che questo comporta nella società contemporanea, pro-
vocando dolore o disperazione individuale e sociale. Ma ci si chiede quante
volte questo avvenne nelle società del Medioevo, prive quasi del tutto del-
le protezioni sociali delle attuali società avanzate, nelle quali è tuttavia
VII
andato perduto o è stato almeno dimenticato, quasi del tutto, il sogno del-
l’uguaglianza e della giustizia sociale da cui furono animate, fra Otto e
Novecento, intere generazioni. Quelle società del Medioevo, che sognava-
no tuttavia, in modi diversi, società dell’abbondanza e dell’uguaglianza,
erano invece vittime di terribili insicurezze alimentari, o di epidemie sen-
za medicine appropriate. Ragionando intorno a questi temi o a temi non
troppo lontani la relazione di apertura ci offre anche indicazioni molteplici
di fonti e suggerisce un intero gruppo di tematiche già affrontate dagli stu-
di, che meriterebbero tuttavia un interesse maggiore.
Ma giova ora constatare, senza inutili compiacimenti, che le relazio-
ni intese al Convegno hanno affrontato i suggerimenti o le suggestioni che
ognuno trova in sé in molteplici direzioni, ad opera di studiosi molto qua-
lificati ed attivi (questo ho effettivamente scritto e lascio scritto per gli al-
tri, ma non pensando naturalmente a me stesso). Abbiamo sentito così
parlare, da parte della maggior parte dei relatori, di tematiche in cui l’am-
bito pubblico appare evidente, nell’una o nell’altra direzione, si trattasse
del progetto di rafforzare la prima realtà comunale (e fondamentale vi ap-
pare l’uso degli affascinanti Annali di Caffaro, che visse personalmente a
Genova quelle novità e quelle aspirazioni), oppure dei progetti di trasfor-
mazione della società nei regimi di popolo, oppure della percezione e del-
l’uso della ricchezza nel mondo mercantile genovese dal secolo XII alla
metà del Trecento, oppure della tendenza generale, ma forte soprattutto
in alcune città, alla realizzazione di un palese «decoro urbano», oppure
della convinzione che quando la società risultava percorsa, come nelle no-
stre città, da una evidente mobilità, evidenti vi si manifestavano anche le
aspirazioni al cambiamento così come le possibilità di soddisfarle. Centrali
appaiono, da un certo momento almeno, in quelle vivacissime società cit-
tadine italiane, i ceti mercantili, sia che si trattasse del pratese Francesco
Datini alle prese con le sue aspirazioni e le sue «malinconie», quindi rin-
novato rispetto al suo profilo storiografico più tradizionale, sia di tre di-
versi mercanti della Toscana di fine Duecento, un pisano, un lucchese e
un fiorentino venuto dal contado, di cui vengono offerte le tre biografiche
accompagnate da considerazioni metodologiche di ricerca. Neppure man-
ca nel volume un elemento centrale di quella generale società italiana dei
secoli XII-XV, vale a dire l’esibizione spesso sfacciata della ricchezza, che
nessuna legge suntuaria era in grado di sconfiggere e che si collocava in
«una persistente contraddizione di comportamento fra i principi sostenuti
dall’impianto cristiano che affondava le radici in quel passo di Matteo che
si riferisce all’estrema difficoltà del ricco di passare attraverso la cruna di
un ago e una società che viveva, in pubblico e in privato, al servizio della
ricchezza. Sottomessa cioè alla legge sovrana del possesso e dell’uso e con-
VIII
trollo del lavoro umano». Una relazione più particolare è stata infine de-
dicata, con competenza e personale partecipazione dell’autore, alla città di
Pistoia, relativa ai rapporti che essa si trovò a vivere all’interno dello Stato
fiorentino, sotto l’etichetta retorica, e per la verità insieme abile e falsa di
«socia nobilis et foederata».
Se tutte queste relazioni hanno trattato, per così dire, di interi com-
plessi territoriali, sia pure lacerati o comunque stratificati al loro interno,
non così è avvenuto in tutti i casi. C’è chi si è infatti occupato della condi-
zione infelice dell’esiliato che sogna il ritorno in patria. C’è chi ci ha par-
lato dei rivoltosi, rivoltosi per i motivi più vari, a partire dalla rivolta per
fame, passando a quella per il sogno della ricchezza, per finire a quella fio-
rentina del 1378, nella quale i «ciompi» fecero per la prima volta accende-
re nell’Europa del tempo anche i lampi del mutamento sociale. Ma altre
tre relazioni — e forse non sarà un caso che si tratti delle relazioni di tre
colleghe, quasi che la femminilità faciliti l’accesso a questo tipo di indagi-
ni — si sono occupate di tre temi molto vicini tra loro: il rifiuto personale
della ricchezza per realizzare se stessi seguendo «nudi» il «Cristo nudo»,
i desideri delle donne tra nozze e convento, le scelte religiose di impegno
nella società.
Mi resta soltanto da dire che un caro ed apprezzato collega se ne è
andato per sempre, improvvisamente, nel corso degli ultimi mesi, e che in
questo volume figura anche il ricordo di Linetto Neri, che il sottoscritto
lesse al Convegno. Sono i lutti, ma anche i ricordi preziosi che la vita ci la-
scia per il futuro diversamente lungo che ognuno di noi ha di fronte a sé.

Pistoia, 11 aprile 2011

Giovanni Cherubini
Presidente del Centro Studi

IX
Venerdì 15 maggio, pomeriggio
Pistoia, Sala Maggiore del Palazzo Comunale
Presidente Prof. Giovanni Cherubini

Gabriella Piccinni
La ricerca del benessere individuale e
sociale. Ingredienti materiali e immateriali
(città italiane, XII-XV secolo).
Introduzione al convegno

Che cos’è il benessere? Nell’aprile del 2009, mentre la terra an-


cora tremava, i terremotati dell’Abruzzo rientravano nelle case per
salvare dalle macerie ciò che contava di più per ricostruire la pro-
pria vita: un violino, la fede nuziale, il pupazzo del proprio figlio. Di
fronte alla tragedia era alla vita relazionale per prima, e non al dena-
ro, che si affidava la speranza di vedersi restituire benessere e felicità.
Intanto le forze dell’ordine vigilavano che gli ‘sciacalli’ non si appro-
priassero di soldi o gioielli.
Non esiste oggi, né è con ogni probabilità esistita nemmeno nel
Medioevo, una sola idea di benessere.
Negli anni Ottanta del Novecento la storiografia sul Medioevo
— come ancor più decisamente avveniva a quella sull’Età moder-
na — è stata coinvolta nel dibattito sulle origini dello Stato sociale,
l’welfare state, letteralmente lo Stato del benessere. Sono cresciuti
gli studi di storia della povertà e degli istituti di assistenza e i me-
dievisti hanno dato il loro contributo alla conoscenza del momento
in cui l’antico problema della responsabilità sociale verso la pover-
tà ha iniziato a trasformarsi in quello nuovo del contraccambio che

Gabriella Piccinni

lo Stato offre ai cittadini — non più solo sudditi — su cui pone pesi
di servizio 1.
 

Il convegno di oggi nasce con un percorso in certa misura simi-


le. Esso raccoglie, alla lontana, la proposta avanzata in questi ultimi
decenni da vari studiosi di economia sociale: guardare alla pover-
tà, alla qualità della vita e all’eguaglianza non solo attraverso i tradi-
zionali indicatori della disponibilità di beni materiali ma mettendo
l’accento sulla possibilità per l’individuo di vivere esperienze o si-
tuazioni cui attribuisce un valore positivo. Partendo dalla riflessio-
ne di Amartya Sen, premio nobel per l’Economia nel 1998 e maestro
del pensiero contemporaneo, questi studiosi mettono in discussio-
ne l’assunto che l’aumento della ricchezza, collettiva e individuale,
basti a garantire un proporzionale aumento del benessere percepito
dalla gente, in quanto ignora molte dimensioni e condizioni fonda-
mentali per il realizzarsi delle potenzialità individuali 2. L’economista
 

Stefano Bartolini scrive: «Per la cultura occidentale l’esistenza di una


correlazione nulla o negativa tra la felicità e l’accesso ai beni di con-
sumo è una sorpresa talmente grande da avere meritato l’appellativo
di ‘paradosso della felicità’. […] Tale paradosso minaccia un pila-
stro della cultura moderna, che la crescita economica sia un plausi-
bile mezzo per migliorare la percezione che gli individui hanno della
propria vita. […] Il paradosso della felicità travolge dunque l’equa-
zione più reddito uguale più benessere, suscitando domande inquie-
tanti che guadagnano rapidamente la scena del dibattito pubblico» 3.  

La più quotata stampa internazionale 4 non meno di quella italiana 5


   

1 P. Pombeni, Prefazione a G. Ritter, Storia dello Stato sociale, con capitolo fi-
nale di Lorenzo Gaeta e Antonio Viscomi, Bari-Roma, Laterza, 2007 (seconda edi-
zione), p. XIII.
2 Le opere di Amartya Sen sono tradotte in tutte le lingue del mondo. Per
noi basti il riferimento alle sue Royer Lectures tenute in California, a Berkeley, nel
1986 e rielaborate in A. Sen, Etica ed economia, trad.it. di S. Maddaloni, Bari-Roma
Laterza, 2002 (edizione in lingua originale 1987).
3 S. Bartolini, Manifesto per la felicità. Come passare dalla società del ben-ave-
re a quella del ben-essere, prefazione di E. Sangiovanni, Roma, Donzelli, 2010, al
quale rimando anche per la bibliografia relativa. Ci si riferisce al «Easterlin paradox»
messo a fuoco nel 1974, appunto, da Richard Easterlin, professore di Economia al-
l’Università della Southern California e membro dell’Accademia Nazionale delle
Scienze.
4 «Financial Times», «The economist», per i quali si veda Bartolini, Manifesto
per la felicità, cit.
5 Per esempio «La Repubblica» del 4 novembre 2007 o «Il corriere della sera»
del 19 ottobre 2008.


Introduzione al convegno

negli ultimi anni ha dedicato copertine, recensioni, numeri speciali


agli studi sul nostro benessere e sulla sua percezione. Gli editori ita-
liani pubblicano e traducono monografie di analisi e sintesi intorno
a questo nucleo tematico.
Basta però fare un passo indietro per accorgerci che, a conti fat-
ti, l’idea che sorregge il nostro incontro è nuova e insieme anche mol-
to vecchia. Nel parlare comune, la parola benessere ci rimanda alla
dimensione del sociale, felicità a quella individuale. Sappiamo inve-
ce che il concetto di felicità applicato alla politica o all’economia ha
una storia profonda, rintracciabile già nelle dottrine tardomedieva-
li dello Stato e poi, sempre più chiaramente, nel pensiero economico
del Settecento 6. Mentre maturava la distinzione positivistica tra pri-
 

vato e pubblico, l’idea medievale del ben comune subiva un proces-


so di assimilazione nella cornice dello stato di diritto, prima, e dello
stato sociale, poi 7. Basti pensare ad uno studioso ben noto ai me-
 

dievisti italiani, Ludovico Antonio Muratori, che nel 1749 pose al


centro di un suo studio la pubblica felicità, oggetto de’ buoni princi-
pi 8. Pierangelo Schiera, che ha intitolato un suo saggio Dal bencomu-
 

6 Senza aprire qui un nuovo fronte bibliografico cito, traendo dalle molte
edizioni, almeno P. Verri, Delle nozioni tendenti alla pubblica felicità, a cura di G.
Barbarisi, Roma, Salerno editrice, 1994 e A. Smith, La ricchezza delle nazioni, Roma,
Newton Compton, 2008.
7 Ricordo alcune tappe cronologiche, molto note, della storia della Stato so-
ciale, il cui atto di nascita è fissato al 1883, quando il cancelliere Bismark avviò in
Germania una serie di riforme in materia di assistenza sociale. Nel 1945 il dirit-
to al benessere fu inserito nella Carta dei diritti dell’ONU come diritto alla libertà
dal bisogno, e nello stesso anno la Costituzione della Repubblica Italiana identifi-
cò nel diritto al lavoro la base per l’ingresso della sfera della cittadinanza. Nel 1979
Margaret Thatcher avviò in Inghilterra una fase di forte critica verso gli effetti del-
la spesa sociale sul deficit degli Stati ad alta industrializzazione, seguita in Usa da
Ronald Reagan. Pochi anni dopo, il centenario bismarkiano rianimò il dibattito in-
ternazionale: in questo quadro fondamentale è considerata la relazione sullo Stato
sociale che Gerhard A. Ritter presentò al XVI congresso internazionale di scienze
storiche, nel 1985, seguita nel 1991 dalla pubblicazione della sua Storia dello Stato
sociale. Ritter ha considerato il tema dello stato sociale non solo, come spesso era
avvenuto, nell’ottica della storia della previdenza o dello sviluppo delle tecniche di
lotta alla povertà ma considerando il tema in tutta la sua pregnanza politica di chia-
ve della legittimazione dello Stato moderno. Il libro di Ritter è stato tradotto in ita-
liano per la prima volta nel 1996. La già citata nuova edizione del 2003, alla quale
faccio riferimento, reca l’introduzione di Pombeni e saggi finali di Gaeta e Viscomi,
ai quali ho attinto.
8 Ludovico Antonio Muratori, Della pubblica felicità, oggetto de’ buoni prin-
cipi, Bologna, Edizioni Brunello, 1941.


Gabriella Piccinni

ne alla pubblica felicità 9, individua un «interessante campione delle


 

dottrine economiche mercantilistiche» negli scritti del Muratori che


identificava il bene pubblico in alcuni obiettivi protezionistici dello
Stato — come già avevano fatto alcune città medievali in concorren-
za tra di loro attraverso periodici divieti di importazione che alter-
navano a fasi di protezionismo a fasi di liberalismo — perché «tutto
il governo economico di un paese si riduce ad una sola importan-
tissima massima: cioè a fare che esca dello stato il men denaro, che
si può, e che ve ne s’introduca il più, che si può» 10. Tentazione an-
 

tica, come si vede, quella di aspirare al benessere attraverso la cre-


scita del Prodotto Interno Lordo! Eppure anche Muratori, in quel
saggio, non dimenticava che nella ricerca della pubblica felicità rico-
pre un ruolo il «cuor dell’uomo mantice indefesso e perpetuo di de-
sideri» 11. Di lì a poco, nel 1776, il diritto alla ‘ricerca della felicità’
 

(pursuit of happiness) fu inserito nella Dichiarazione di indipendenza


degli Stati Uniti d’America.
Quasi due secoli dopo Muratori, nel 1919, l’Autunno del
Medioevo dell’olandese Johan Huizinga dava voce alle inquietudini
in cui si traduceva in quegli anni il travaglio dell’Europa uscita dalla
Grande Guerra, invitando gli storici a includere nell’indagine oriz-
zonti più larghi, a ‘vedere’ oltre le apparenze, rivendicando dignità
di storia anche per il mondo negato delle aspirazioni e dei sogni 12.  

Altri ve ne sono stati. E tuttavia la ricerca del benessere è ancora oggi


poco esplorata dai medievisti, tanto che la recente Storia della felici-
tà. Dall’antichità a oggi dell’americano Darrin M. McMahon riesce a
stringere il Medioevo in tre striminzite pagine, in mezzo alle prece-
denti 162 dedicate al mondo antico e alle seguenti 371 in cui si occu-
pa di quello moderno e contemporaneo 13.  

9 P. Schiera, Dal bencomune alla pubblica felicità. Appunti per una storia del-
le dottrine in Italia e Germania, in Liber amicorum Arnold Esch, Tubinga, Max
Niemeyer Verlag Tubingen, 2001, pp. 113-131.
10 Muratori, Della pubblica felicità, cit., cap. XVI, p. 125.
11 Schiera, Dal bencomune alla pubblica felicità, cit., p. 126 rintraccia in
Muratori anche una serie di considerazioni intrise di carità cristiana e di realismo
scientifico. Vedi anche M. Rosa, Pauperismo e riforme nel Settecento italiano. Linee
di ricerca, in Povertà e carità dalla Roma tardo-antica al ’700 italiano: quattro lezioni,
Padova, Francisci editore, 1983, pp. 93-125.
12 E. Garin, Introduzione a J. Huizinga, Autunno del Medioevo, traduzione
italiana di B. Jasinsk, Milano, Rizzoli, 1961.
13 D.M. McMahon, Storia della felicità. Dall’antichità a oggi, traduzione italia-
na di A. Cristofori, Milano, Garzanti, 2007 (edizione in lingua originale 2006 con


Introduzione al convegno

Non siamo gli unici medievisti a collocarci sulla scia di una ri-
flessione di questo genere. Questo incontro, ad esempio, è stato se-
guito dalla XXXVI edizione de Las semanas de estudios medievales
de Estella, dedicata a Ricos y pobres: Opulencia y desarraigo en el
Occidente Medieval. È lecito chiedersi cosa ci stia spingendo su un
percorso coperto da ostacoli, non ultimo quello di riproporci il dub-
bio, anch’esso antico, non solo della legittimità o utilità ma anche
della pura e semplice possibilità di trasportare nel passato, anche
solo per un confronto, concetti e problemi del mondo contempora-
neo. È evidente che nell’emergere di interrogativi intorno alla sto-
ria della ricerca del benessere nel Medioevo ha un ruolo decisivo la
contingenza critica che ci troviamo a vivere, un po’ come gli anni
Settanta e Ottanta proiettarono tanti medievisti nello studio della
crisi del Trecento o della povertà o, mentre prendeva campo la teo-
ria economica del non profit, in quello del sistema assistenziale 14. Le  

società contemporanee si trovano di fronte, in questi anni, all’acuta


consapevolezza del dolore — individuale e sociale — che un arretra-
mento economico comporta. Perché una cosa è essere poveri, altra
è essere impoveriti. Perché — come ha scritto Vincenzo Cerami —
«una cosa è passare dal braciere al termosifone, e un’altra è passare
dal termosifone al braciere. Nel primo caso un sogno si realizza, nel
secondo si spegne» 15.  

Una distorsione simile alla nostra nella percezione del benes-


sere è probabile che si sia presentata anche in età pre o protocapi-
talistica, ad esempio quando le crisi alimentari di primo Trecento
abbassarono il livello di vita degli strati inferiori, o al tempo dei mu-
tamenti connessi alla crisi di metà secolo, o di altri più locali e con-
tingenti, quali quelli, per fare un esempio tra tanti, che attraversò
Bologna alla fine del XIII secolo per la diminuzione del numero di
studenti 16… ma ovviamente è più difficile ricostruirne le forme, e
 

il titolo Happiness: A History).


14 Vedi F. Bianchi, L’economia delle confraternite devozionali laiche: percorsi
storiografici e questioni di metodo, in Studi confraternali. Orientamenti, problemi, te-
stimonianze, a cura di M. Gazzini, Firenze, Firenze University Press, 2009, pp. 239-
269, alle pp. 264-269.
15 V. Cerami, Memoria e povertà, «Europa» del 23 dicembre 2008.
16 Per l’importanza dello Studio nell’economia bolognese A.I. Pini, La pre-
senza dello Studio nell’economia bolognese medievale, in L’Università di Bologna.
Personaggi, momenti e luoghi dalle origini al XVI secolo, a cura di O. Capitani,
Milano 1987, pp. 85-111.


Gabriella Piccinni

possiamo anche ipotizzare che, allora, si manifestasse una rispon-


denza più diretta tra la ricchezza del singolo e il benessere da lui per-
cepito di quanto sia avvenuto in età pienamente capitalistica: un po’
come ancor oggi succede a chi vive in paesi in via di sviluppo, nei
quali, sempre secondo Amartya Sen, sentirsi soggettivamente felici è
molto meno importante della felicità oggettiva e tangibile, cioè del-
la qualità della vita che di fatto si sperimenta (salute, libertà, diritti,
istruzione ecc.). In un certo senso inconsapevolmente concordan-
do con quanto asseriva, nel Trecento, l’anonimo autore dell’Ottimo
commento alla Commedia: «Le dovizie di questo mondo consistono
in cose mobili, siccome pecunia, argento, oro, arnesi, servi, cavalli
e simiglianti cose; ed in cose immobili» 17. Però di quanto possiamo
 

considerare più diretta questa concordanza? E allo stesso modo per


i vari strati sociali? O allo stesso modo per i due sessi?
Si tratta, insomma, da un lato di iniziare a sperimentare se que-
sta proposta interpretativa possa arricchire i percorsi di conoscenza
di quelle città italiane degli ultimi secoli del Medioevo che costitui-
scono i confini di questo incontro, con la loro molto varia organizza-
zione sociale ed economica e il loro sistema di valori. Nel contempo
si tratta, anche, di suggerire la profondità del tempo a quanto elabo-
rato dagli studiosi di economia sociale per l’oggi, offrendo il passa-
to come un terreno di verifica di almeno qualcuno dei meccanismi
dei quali si discute. Come minimo potremmo dar un aiuto a quan-
ti, tra di loro, cercano di sgombrare il campo dal mito banale del «si
stava meglio quando di stava peggio», che rischia di prendere cam-
po in mezzo alle tentazioni ruraliste e comunitarie e alle nostalgie del
bel tempo che fu 18.  

Perché la storia insegna che non fu sempre un bel tempo. Non


lo fu dal punto di vista delle condizioni materiali di vita (non per
tutti, non sempre, non ovunque) e nemmeno dal punto di vista del-
le relazioni tra gli individui o tra i gruppi; né la società urbana degli
ultimi secoli del Medioevo si trovò inserita in un percorso di cresci-
ta privo di interruzioni e di crisi, basti pensare alle tante che investi-
rono il sistema di approvvigionamento alimentare o l’organizzazione
della produzione o gli assetti istituzionali non meno del sistema dei

17 L’Ottimo commento della divina Commedia, testo inedito di un contempora-


neo di Dante citato dagli Accademici della Crusca, II, Pisa 1828, p. 354.
18 Ad esempio Bartolini, Manifesto per la felicità, cit., al quale “rubo” que-
sta frase e la successiva.


Introduzione al convegno

valori su cui si reggeva la vita associata.


È inevitabile che la storia del benessere sia storia delle idee che
gli uomini del medioevo — di cultura o di chiesa — elaborarono
intorno alla legittimità della sua ricerca ma è utile che sia anche, o
prima, storia dei suoi “ingredienti”, e delle gerarchie in cui si dispo-
sero nella testa della gente comune. Ma come fare per individuar-
li? Propongo una strada: il consumo è una traduzione del desiderio,
allora per comprendere quali patrimoni mentali si organizzarono
intorno alle dinamiche della società urbana in cerca del proprio be-
nessere, possiamo provare a guardare a cosa faceva chi da più pove-
ro diventava più ricco, quando aveva cioè l’opportunità economica
di tradurre in realtà quel desiderio. Egli costruiva o abbelliva la sua
casa, comprava nuova terra, avviava una attività, si vestiva in modo
più sfarzoso oppure fondava un monastero o dotava un ospedale o
esprimeva il proprio patriottismo civico dandosi alla politica? La col-
lettività diventata più ricca, a sua volta, si dotava di edifici più gran-
di e belli oppure commissionava opere d’arte, organizzava feste e riti,
chiamava un maestro condotto per istruire i più giovani o distribuiva
elemosine? E dunque quale peso veniva dato in questa scelta ai sin-
goli beni materiali e quale a quelli immateriali?
Fortunatamente per le nostre ricerche, le città italiane — ol-
tre ad una ricchezza di manufatti e resti sui quali l’archeologia porta
ogni giorno nuovi dati e articola le cronologie — produssero e con-
servarono una ricchezza speciale di fonti private e pubbliche che le
rendono inconfondibili, anche dal punto di vista documentario, nel
panorama del medioevo europeo. In particolare i libri di consigli,
le ricordanze, i diari, le lettere, le cronache, le novelle, insieme alle
confessioni, ai verbali degli interrogatori o alle dichiarazioni al fi-
sco della propria ricchezza o dei propri malanni, costituiscono fonti
di informazione ineguagliabili nelle quali l’individuo fornisce tracce
a volte sincere della propria vicenda individuale, delle proprie per-
cezioni, della propria concezione del mondo, dei propri sogni e dei
propri sforzi per tradurli in realtà 19.  

19 Ph. Braunstein, Approcci all’intimità. Secoli XIV-XV, in La vita privata dal


feudalesimo al Rinascimento, a cura di Ph. Ariès - G. Duby, Roma-Bari, Laterza,
2001 (prima edizione in italiano 1987), pp. 446-525: 452 che scrive: «costituiscono
alla fine del medioevo fonti di informazione nelle quali l’individuo fornisce a volte
sulla propria vicenda individuale, sul proprio corpo, le proprie percezioni, i propri
sentimenti e la propria concezione del mondo accenni sinceri».


Gabriella Piccinni

Da quelle fonti, per fare un esempio, abbiamo già potuto capire


che il valore della rendita fondiaria non consisteva solo nei concre-
tissimi soldi che procurava a un ceto sociale ma anche nella quanti-
tà di sicurezze che poteva offrirgli sul piano delle scorte alimentari
(nel caso di canoni pagati in natura) o della solida trasmissione di ric-
chezza ai più giovani, e anche su quello finanziario in quanto base
per ottenere credito. «Chi à casa e podere può piegare e non cadere»
sentenziano in modo martellante i proprietari toscani 20.  

Al reddito stesso non si dava un valore assoluto e, per fare un al-


tro esempio, c’era chi riteneva che il proprio dovesse essere adeguato
allo stile di vita richiesto dal ruolo, allo status, prima di tutto quello
di popolano o di magnate 21, ribadito da tanti segni dell’appartenen-
 

za (l’uniforme, l’arme, la bandiera, il cognome… 22). «Ad un cava-


 

liere non è onesto andare dietro al guadagno» scriveva Agostino di


Niccolò Borghesi per giustificare al fisco la sproporzione tra le sue
alte — ma per lui del tutto ragionevoli — uscite e le sue modeste
entrate 23. Per altro verso, se il maiale che possiedi è la tua sola ric-
 

20 E. Conti, La formazione della struttura agraria moderna nel contado fio-


rentino, I, Le campagne nell’età precomunale, III, parte 2a, Monografie e tavole sta-
tistiche (secoli XV-XIX), Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1965, p.
2. Altri esempi nel bel volume, pubblicato dopo la morte di Elio Conti, E. Conti -
A. Guidotti - R. Lunardi, La civiltà fiorentina del Quattrocento, a cura di L. De
Angelis - S. Raveggi - C. Piovanelli - P. Pirillo - F. Sznura, Firenze, Vallecchi,
1993, pp. 13-46 (cap. I Le basi rurali della società cittadina). Ripercorre il «lessico
che informa di sé questa fonte primaria di ricchezza che è la terra» D. Bonamore,
Prolegomeni all’economia politica nella lingua italiana del Quattrocento, Bologna,
Patron, 1974, pp. 98-103 attingendo ai testi di Giovanni di Pagolo Morelli, Leon
Battista Alberti, Giovanni da Uzzano.
21 R. Mucciarelli, La legislazione antimagnatizia e la figura del magnate. Alcune
considerazioni su un’icona storiografica, in L’eredità culturale di Gina Fasoli. Atti del
convegno di studi per il centenario della nascita (1905-2005), (Bologna-Bassano del
Grappa, 24-26 novembre 2005), a cura di F. Bocchi - G.M. Varanini, Roma, Istituto
Storico Italiano per il Medio Evo, 2008, pp. 39-57 e Ead., Magnati e popolani. Un
conflitto nell’Italia dei comuni (secoli XIII-XIV), Milano, Bruno Mondatori, 2009.
22 Per la bandiera vedi S.K. Cohn, Bandiere e parole: le rivolte popolari a nord
e a sud delle Alpi (1200ca-1425), in Simboli e rituali nelle città toscane tra Medioevo
e prima Età moderna, numero monografico di «Annali Aretini», XIII (2006), pp.
93-103.
23 Questo e altri esempi di simile tenore in G. Catoni - G. Piccinni,
Alliramento e ceti dirigenti nella Siena del Quattrocento, in I ceti dirigenti nella
Toscana del Quattrocento, Atti del V e VI Convegno del Comitato di studi sulla sto-
ria dei ceti dirigenti in Toscana (Firenze, 10-11 dicembre 1982, 2-3 dicembre 1983),
Monte Oriolo (Impruneta), Papafava, 1987, pp. 451-461, alla p. 453.


Introduzione al convegno

chezza, esso merita un miracolo, e Sano di Pietro dipinge san Biagio


nell’atto di restituire l’unico porco a una donna che ne è stata depre-
data da un lupo 24. Il consumo pro capite, ancora una volta, non basta
 

a tradurre il livello di benessere percepito dalle persone. Se il mira-


colo fosse consistito nel restituire il porco al Borghesi avrebbe per-
so tutto il suo senso!
Ancora un esempio: rinviano ad un insopprimibile desiderio di
vivere in un contesto armonico o bello la costante crescita dei pro-
dotti letterari, ma anche di quelli artistici, di fattura locale o impor-
tati 25, commissionati alle chiese per beneficenza e devozione o per
 

comprarsi la salvezza con un investimento per l’al di là 26, le commit- 

tenze pubbliche, la ricerca orgogliosa del decoro nell’edilizia e nello


spazio urbano, tutti lì a ricordare — per dirla con Arnold Esch —
l’esistenza di un superfluo che, alla fin fine, è necessario 27, per rende- 

re migliore la vita presente non meno che per cercare di garantirsene


una dopo la morte, e che ci conduce diretti al tema del rapporto sto-
rico tra economia, arte, politica, realizzazione degli individui 28.  

24 Sano di Pietro, San Biagio restituisce il porco a una donna, Pinacoteca na-
zionale di Siena (1449).
25 Per esempi di opere importate R.M. Dentici Buccellato, Forestieri e stra-
nieri nelle città siciliane del basso medioevo, in Forestieri e stranieri nelle città me-
dievali, Atti del seminario internazionale di studio, Firenze, Salimbeni, 1988, pp.
247-248 che cita G. Bresc-Bautier, Artistes, patriciens et confréries. Production et
consommation de l’œuvre d’art à Palerme et en Sicile occidentale (1348-1460), Roma-
Parigi, École française de Rome-Éd. de Boccard, 1979.
26 Si veda la sintesi di M. Bacci, Investimenti per l’aldilà. Arte e raccomanda-
zione dell’anima nel Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 2003.
27 «Vi è evidentemente del superfluo che è necessario», scrive A. Esch, Sul
rapporto fra arte ed economia nel Rinascimento italiano, in Arte, committenza ed eco-
nomia a Roma e nelle corti del Rinascimento (1420-1530), Atti del Convegno inter-
nazionale (Roma 24-27 ottobre 1990), a cura di A. Esch - C.L. Frommel, Torino,
Einaudi, 1995, pp. 3-49 (citazione a p. 7), dove discute, discostandovisi, la tesi espo-
sta da R.S. Lopez, Hard Times and Investment in Culture, in The Renaissance: A
Symposium, New York 1953 secondo la quale, fin tanto che l’economia va bene, chi
ha capitali li investirebbe in beni economici, riconvertendosi all’arte e alla pittura
solo quando gli investimenti non convenissero più.
28 Al già citato saggio di Esch si possono aggiungere le sollecitazioni di una
serie di interessanti studi che hanno affrontato il rapporto economia-arte e il mece-
natismo visto nell’ottica dello storico dell’economia. Ricordo R. Goldthwaite, La
costruzione della Firenze rinascimentale. Una storia economica e sociale, Bologna, Il
Mulino, 1984 e Id., Ricchezza e domanda nel mercato dell’arte in Italia dal Trecento
al Seicento, Milano, Unicopli, 1999; M. Mollat, Introduzione a Gli aspetti economici
del mecenatismo in Europa. Secc. XIV-XVIII, Atti della XVII Settimana di Studi del-
l’Istituto di Storia economica Francesco Datini di Prato (Prato, 19-24 aprile 1985),


Gabriella Piccinni

Si pensi, tra gli uomini di cultura, a quel Palla di Nofri Strozzi


che, secondo il catasto del 1427, era il cittadino più ricco di Firenze.
Egli era nato in «nobile e degna patria», aveva nobile sangue e una
bella famiglia «così di femine come di maschi», era bello («chi lo
vede si innamora di lui») e per cinquanta anni non aveva mai avu-
to una febbre, era ricco «di ricchezza bene acquistata», virtuoso e
«scienziato in greco et in latino», «con grande riputagione drento e
fuori». Avrebbe dovuto solo per questo essere l’uomo più felice del
mondo. Leggendo, però, la sua vita in Vespasiano da Bisticci, sco-
priamo che conobbe giorni molto tristi, subì l’esilio, la morte dei figli
maschi, imposte pesantissime ridussero ai minimi termini il suo pa-
trimonio. Le disgrazie, aggiunge Vespasiano, le seppe comunque af-
frontare grazie al conforto fornitogli dalla sua grande cultura 29.  

Se è complesso individuare quale fu il benessere soggettivamen-


te percepito, non lo è meno distinguere cosa racconti in modo ogget-
tivo la storia del benessere o del malessere degli individui 30. Occorre  

— e non è impossibile — stabilire se e quanto, nei vari strati sociali,


ci si ammalasse, si diventasse invalidi o si morisse di lavoro (nei can-
tieri edili, nelle fornaci, nelle miniere) o di mancata igiene o di fame.
Occorre conoscere meglio quella che chiamiamo ‘speranza di vita’.
È difficile, ma neanche questo impossibile, raccogliere dati su feno-
meni che più di altri evidenziano oggettivamente il fallimento (della
persona o della società), e dunque l’assenza di felicità e di benesse-
re: come la violenza nelle strade o nel gioco 31 e dentro le case, con
 

lo strascico di infanticidi e stupri, le malattie mentali o i suicidi, del

in CD-ROM a cura di S. Cavaciocchi.


29 Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini illustri del secolo XV, in Prosatori
volgari del Quattrocento, a cura di C. Varese, Milano-Napoli, Ricciardi, 1955, pp.
196-213; anche Giovanni Rucellai, Il Zibaldone Quaresimale, a cura di A. Perosa,
Londra, The Warburg Institute, University of London, 1960, pp. 63-64 riporta que-
sto giudizio.
30 «Le misure della felicità — scrive ancora Bartolini, Manifesto per la feli-
cità, cit. — sono disponibili per moltissimi paesi […] Tali misure, sia soggettive (ri-
guardanti cioè il benessere percepito dagli individui) che oggettive (riguardanti cioè
la diffusione di suicidi, alcolismo, droghe, disagi mentali, consumo di psicofarma-
ci ecc.) raccontano una storia scomoda: nel “dopoguerra in occidente la soddisfa-
zione che gli individui provano per la propria vita non ha registrato miglioramenti
significativi”».
31 Esempi tratti dagli statuti di Pistoia in G. Cherubini, Apogeo e declino del
comune libero, in Storia di Pistoia, II, L’Età del libero comune dall’inizio del XII alla
metà del XIV secolo, a cura di G. Cherubini, Firenze, Le Monnier, 1998, p. 72.

10
Introduzione al convegno

quale testimoniano, ad esempio a Roma e nelle Marche, alcuni inter-


venti di salvataggio miracoloso 32. Tema sempre complesso, quest’ul-
 

timo del congedarsi volontario dal mondo, e infatti su di esso Dante


esprime insieme decisa condanna e una sorta di sottile ammirazio-
ne, che trapela nella «libertà […] si cara» che va cercando Catone
Uticense al punto di rifiutare la vita in suo nome, mentre Boccaccio
non sa trattenersi da ammirare chi si uccide per amore 33.  

Quello della ricerca del benessere è un mondo denso di ambi-


valenze, che non risparmiarono i temi di fondo dell’esistenza. Si pen-
si all’idea stessa della vita e della morte, della integrità del corpo. Il
sacrificio di sé o la mortificazione del corpo si posero come valori ap-
paganti per «un’élite di redentori bramosi di immolarsi», secondo la
definizione di Norman Chon 34, fatta di cavalieri come di aspiranti ad
 

una santa vita. Ma i poveri dipinti nei tre Trionfi della morte, quello
dell’Orcagna in S. Croce a Firenze, di Buffalmacco nel camposanto
di Pisa e di anonimo in S. Francesco a Lucignano (Arezzo), non go-
dono per niente ad immolarsi e, incuranti del luogo in cui lo fanno,
contro ogni principio cristiano invocano la morte: «poi che prospe-
ritade ci à lasati / o morte, medicina d’ongni pena / dè vienci a dare
omai l’ultima cena» 35.  

«Tra gli elementi costitutivi del ‘modello del mondo’ di ogni so-
cietà troviamo una concezione della proprietà, della ricchezza e del
lavoro» e «tali categorie politico economiche rappresentano nel con-
tempo anche categorie morali e della visione del mondo: il lavoro e
la ricchezza possono essere valutati in modo più o meno positivo, il
loro ruolo nella vita umana può essere inteso in modo diverso» 36.  

Così Aron Jakovlevič Gurevič in un classico della storiografia (Le


categorie della cultura medievale). Pur in mezzo alle mille sfumatu-

32 Sul suicidio M. Barbagli, Congedarsi dal mondo, Bologna, Il Mulino,


2009. Per qualche esempio particolare si veda la storia del suicida di Belforte in G.
Cherubini, Gente del medioevo, Firenze, Le Lettere, 1995, pp. 70-72 e i miracoli di
Francesca Romana per salvare donne dal suicidio citati in questo stesso volume da
Anna Esposito, I desideri delle donne tra nozze e convento.
33 Barbagli, Congedarsi dal mondo, cit., pp. 106-107.
34 N. Cohn, I fanatici dell’apocalisse, traduzione italiana di A. Guadagnin,
Milano, Edizioni di comunità, 1965 (edizione in lingua originale Londra, 1957).
35 Questa la versione pisana, simili le altre. L. Pantani, La signora del mondo.
Note sull’iconografia della morte, in Simboli e rituali, cit., pp. 105-137, in particolare
per quello che qui ci riguarda alle pp. 131-133.
36 A.J. Gurevič, Le categorie della cultura medievale, a cura di C. Castelli,
Torino, Bollati Boringhieri, 2007, p. 224.

11
Gabriella Piccinni

re e grandi dibattiti che coinvolsero anche le posizioni assunte dal-


la Chiesa nei confronti del mondo mercantile — volte a cercare per
il profitto una strada permessa oppure a vietarlo 37 —, l’avversione
 

al profitto conviveva ed entrava in conflitto con la ricerca della ric-


chezza, e contro la bulimia di denaro tuonarono stuoli di predica-
tori e soffrirono sensi di colpa stuoli di mercanti. Anche se, ritengo,
non tutti.
È chiaro che non si tratta di scrivere una storia degli stati d’ani-
mo. Si tratta invece di avviare una riflessione sul rapporto tra le aspi-
razioni della gente — singoli, gruppi, ceti e collettività urbane nella
loro interezza —, la possibilità di soddisfarle che la società offriva
loro e le forme che questa possibilità a sua volta determinava. Su
questo terreno, soprattutto, l’economia contava, insieme alla poli-
tica, perché plasmava la dimensione relazionale in cui gli individui
vivevano, ed era quella dimensione che più ne determinava il benes-
sere o il malessere 38. 

La fuoruscita dall’infelicità personale e sociale venne persegui-


ta anche attraverso percorsi alternativi a quello della ricerca della ric-
chezza. Tra essi quello inseguito attraverso la spiritualità produsse
uno sforzo imponente, e imponentemente indagato dalla storiogra-
fia 39. Molto meno lo sono stati altri percorsi di realizzazione o espres-
 

sione, forse altrettanto faticosi o contraddittori o eroici o drammatici


o feroci o meravigliosi: si tratta di terreni altrettanto preziosi per se-
guire le trasformazioni dell’idea di superfluo e di necessario, del be-
nessere reale e di quello percepito. Mi riferisco ad esempio:

37 La discussione è in G. Todeschini, Il prezzo della salvezza. Lessici medieva-


li del pensiero economico, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1994, pp. 69-84, 167,
189sgg. Per un esempio puntuale: Cecilia Iannella fa notare che nella predicazione
di Giordano da Pisa (1260-1310) si riscontrano toni anche molto severi nei confron-
ti delle attività commerciali, ma che ad una lettura più attenta ne emerge non una
generica avversione al profitto, bensì una denuncia dell’errata gestione delle prati-
che economiche, individuata di volta in volta o nel peccato di usura o nel perico-
lo sociale di tesaurizzare una ricchezza improduttiva o nell’avarizia simoniaca, C.
Iannella, Giordano da Pisa. Etica urbana e forme della società, Pisa, ETS Editrice,
1999, pp. 17-18.
38 È la tesi di fondo di Bartolini, Manifesto per la felicità, cit. Gli economisti
li definiscono oggi ‘beni relazionali’.
39 «I documenti ecclesiastici – scrive Esch – hanno sempre migliori chan-
ces di essere tramandati, e di conseguenza influenzano sproporzionatamente l’otti-
ca dello storico»: Esch, Sul rapporto fra arte ed economia nel Rinascimento italiano,
cit., p. 9.

12
Introduzione al convegno

1. alla ricerca della vita buona attraverso le buone pratiche civili


e religiose (a fronte degli egoismi del profitto) e anche alla ricerca di
quella ‘cattiva’, attraverso la delinquenza e il vagabondaggio;
2. alla realizzazione del proprio talento attraverso la cultura o
l’arte;
3. all’organizzazione del sistema di approvvigionamento 40 (come  

risposta pubblica al tormento continuo del cibo, all’ossessione del-


le scorte che contagia tutti i livelli sociali 41, ai sogni di evasione verso
 

un paese ideale dove le vigne sono legate con le salsicce, le montagne


sono di parmigiano grattugiato e le città intere di maccheroni 42);  

4. alla scelta, della collettività e degli individui, di ridistribui-


re il reddito attraverso la carità, concentrando parte della ricchezza
in forme di protezione sociale delle fasce deboli: con l’elargizione di
elemosine da parte dei comuni, con le confraternite — come avven-
ne ad Arezzo nel caso tutto speciale della Fraternita dei laici — 43 e  

40 Per il funzionamento del sistema annonario delle città italiane si rinvia alla
sintesi di G. Pinto, Città e spazi economici nell’Italia comunale, Bologna, Clueb,
1996, in particolare il capitolo L’annona: aspetti e problemi dell’approvvigionamento
urbano fra XIII e XV secolo, pp. 77-96 e alla bibliografia in esso contenuta.
41 Numerosi esempi dalle fonti toscane in Ch.M. de La Ronçiere, La vita pri-
vata dei notabili toscani alle soglie del Rinascimento, in La vita privata dal feudalesi-
mo al Rinascimento, cit., pp. 130-251, alle p. 161-163.
42 Un buon punto di partenza per lo studio della letteratura dedicata la paese
di Cuccagna o di Bengodi è G. Cocchiara, Il paese di Cuccagna e altri studi di folklo-
re, Torino, Boringhieri, 1980. In G. Boccaccio, Decameron, giornata VIII, novella
3, si trova la nota descrizione: «in una contrada che si chiamava Bengodi, nella qua-
le si legano le vigne con le salsicce, e avevasi un’oca a denaio e un papero giunta, ed
eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale sta-
van genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli, e cuocergli in
brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n’aveva;
e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza
avervi entro gocciol d’acqua». Un’altra bella descrizione di una città di parmigiano
e maccheroni è nelle Cronache senesi, a cura de A. Lisini - F. Iacometti, in Rerum
Italicarum Scriptores, 2a ediz., XV, parte VI, Bologna, Zanichelli, 1931-39, pp. 745-
746, con versi che illustrano il delitto di un condannato la cui effigie era stata dipinta
nel 1391 su un muro del palazzo pubblico di Siena: «Gheri tovagliaio: Si tutta Siena
fusse macharoni / la montagna cacio gratato / no’ mi sarebe tocho / solamente uno
operando mia arte / onde de la vergognia ò tanta parte».
43 Per la Fraternita dei Laici di Arezzo si veda L’Archivio della Fraternita dei
laici di Arezzo. Introduzione storica e inventario, a cura di A. Antoniella, II, Giunta
regionale toscana, Editrice bibliografica, Milano, 1989 e A. Moriani, Assistenza e
beneficenza ad Arezzo nel XIV secolo: la Fraternita di Santa Maria della Misericordia,
in La società del bisogno. Povertà e assistenza nella Toscana medioevale, Firenze,
1989, pp. 19-35.

13
Gabriella Piccinni

soprattutto con gli ospedali dove, dal XII e XIII secolo, trovò soste-
gno concreto, e non più come in passato prevalentemente rituale 44,  

un numero crescente di persone in difficoltà, soprattutto bambini e


donne soli;
5. all’assunzione di medici e maestri che svolgessero la loro atti-
vità a beneficio della cittadinanza 45;  

6. all’attuazione di principi di igiene 46 e la costruzione di ac-


 

quedotti e fonti nelle città prive di corsi di acqua (penso a Orvieto,


Perugia, Siena) 47 (perseguiti a fronte di focolai di infezioni e condi-
 

44 Vedi A. Vauchez, Ordini mendicanti e società italiana. XIII-XV secolo,


Milano, Il Saggiatore, 1990, p. 221: «Prima dello sviluppo economico e demografi-
co del XII secolo prevaleva un sistema di assistenza essenzialmente rituale: i potenti
di questo mondo e i ricchi, tanto laici quanto ecclesiastici, procedevano periodica-
mente alla distribuzione di viveri e talvolta di denaro, particolarmente in occasione
delle grandi ricorrenze o della scomparsa di un membro appartenente a un gruppo
aristocratico — famiglia o comunità religiosa —. Tali manifestazioni di generosità si
avvicinano più alla liturgia che non all’assistenza vera a propria».
45 Ringrazio Giovanni Cherubini per avermi segnalato questo passo nel qua-
le il celebre maestro di retorica Boncompagno da Signa, agli inizi del XIII secolo,
disquisiva sui requisiti che avrebbe dovuto avere una buona scuola: «Qualiter de-
beat construi domus scholastice discipline. Domus scholastice discipline in libero et
puro aere construatur. Remota sit a frequentationibus mulierum, a clamoribus fori,
ab equorum strepitu, a navigio, a latratu canum, a nocivis rumoribus, a sibilatione
curruum et fetore, longitudinem et amplitudinem habeat coequalem. Fenestrarum
quantitas in ea taliter ordinetur, quod non sit plus nec minus luminis, quam natu-
ra ipsa requirat. Habitaculum autem in superiori parte consistat, tectum non sit
minus altum neque nimium pavimento incumbat, quoniam utrumque memorialem
vim offendit. Sit a pulvere et ab omni labe mundata nec sint in ea imagines alique
vel picture, nisi forte ille, que per imaginarias formas et figuras notabiles reductio-
nes faciant ad memoriam super scientiis, in quibus ingenia exercentur. Sed omnes
parietes consistorii colore solummodo viridi adornetur, unicus sit ingressus, et sca-
le non sint laboriose ad ascensum. Sedes magistralis in altiori gradu consistat et tali-
ter preemineat, quod doctor ingrendientes possit directe videre. Due autem vel tres
fenestre taliter disponantur, quod magister interdum et maxime in ameno tempore
valeat exteriores partes, arbores, hortos, et pomeria intueri, quoniam in visione re-
rum delectabilium memoria roboratur»: Boncompagni Rhetorica novissima, edito in
Bibliotheca Iuridica Medii Aevi, a cura di A. Gaudenzi, Bologna, 1892, 2, 249-297.
Il passo è commentato da G. Fasoli, Storia urbanistica e discipline medievistiche, in
Gli studi di Storia urbanistica: confronto di metodologie e risultati, Ciscu, 1976, pp.
161-162.
46 Basti per questo riferirsi a una serie di contributi nel convegno Città e ser-
vizi sociali nell’Italia dei secoli XII-XV, Pistoia, Centro Italiano di Studi di Storia e
d’arte, 1990.
47 Per una sintesi della politica relativa alle acque urbane, D. Balestracci,
La politica delle acque urbane, «Mélanges dell’Ecole française de Rome - Moyen

14
Introduzione al convegno

zioni igienico-sanitarie degradate);


7. all’inquadramento e radicamento rionale, che offrì la prote-
zione di confini comuni agli abitanti di case adiacenti 48, o alle con-  

sorterie familiari 49;  

8. all’inserimento dei nuovi quartieri nella vita della collettività


attraverso cerimoniali religiosi o carnevaleschi (a fronte dell’esisten-
za di fasce, come quella degli immigrati, contraddistinte dal tratto
della precarietà 50);
 

9. alla legislazione di controllo dello sfarzo dell’abito, delle ce-


rimonie e dei banchetti (ossessivamente proposta a fronte dell’esibi-
zione di ricchezza);
10. all’istituto delle paci private e pubbliche per la risoluzione
infragiudiziale dei conflitti (a fronte della diffusione della prassi del-
la vendetta in ambienti magnatizi ma anche borghesi, come risarci-

Age», 104 (1992) pp. 431-479 e Id., Systèmes d’hydraulique urbaine (Italie centrale,
fin du Moyen Âge), in Contrôle des Eaux en Europe occidentale, XIIe-XVIe siècles,
a cura di É. Crouzet-Pavan - J.-C. Maire Vigueur, Milano 1994, pp. 115-122. Per
un esempio tra i più interessanti si veda la stupenda Fontana Maggiore di Perugia,
una grande impresa edilizia portata a compimento tra 1275 e 1278, che fu anche un
compendio monumentale dei sedimenti della mitografia della città nel quale si ma-
terializzarono i brandelli di una memoria leggendaria profana e pagana sotto forma
di figure e di cartigli, tra i quali spiccano quelli relativi al pater patriae “Euliste fon-
datore della città di Perugia” («Heulixstes perusine conditor urbis»): A. Bartoli
Langeli, Sulla Fontana Maggiore di Perugia: questioni aperte, «Bollettino per i beni
culturali dell’Umbria», I (2009), n. 2, pp. 22-45, cui si può attingere per la biblio-
grafia precedente.
48 I territori sono vegliati in armi: esplicito l’esempio genovese («quilibet per
contratas vigilaret in armis») citato negli annali di Caffaro e riportato da G. Petti
Balbi, Genesi e composizione di un ceto dirigente: i “populares” a Genova, in Spazio,
società, potere nell’Italia dei Comuni, a cura di G. Rossetti, Napoli, GISEM, 1986
(GISEM, Quaderni, 1), p. 93, insieme ad altri esempi da documenti notarili. Inoltre
esempi in J.-C. Maire Vigueur, Arti o rioni? Appunti sulle forme di organizzazio-
ne del popolo nel comune romano, in Studi sulle società e le culture del Medioevo
per Girolamo Arnaldi, a cura di L. Gatto - P. Supino Martino, Firenze, Edizioni
All’Insegna del Giglio, 2002, pp. 327-340 e A.I. Pini, Città, comuni e corporazioni
nel medioevo italiano, Bologna, Clueb, 1986.
49 Per i confini delle consorterie familiari vedi F. Bruni, La città divisa. Le parti
e il bene comune da Dante a Guicciardini, Bologna, il Mulino, 2003, p. 74.
50 Il tema è studiato da M. Gazzini, Luoghi e rituali civici a Parma (secoli XIII-
XIV), in Le destin des rituels: faire corps dans l’espace urbain, Italie-France-Allemagne.
Il destino dei rituali: «faire corps» nello spazio urbano, Italia-Francia-Germania, a
cura di G. Bertrand - I. Taddei, Roma, École française de Rome, 2008 (Collection
de l’École française de Rome, 404), pp. 73-94.

15
Gabriella Piccinni

mento riconosciuto all’offeso anche dalla legge) 51;  

11. all’elaborazione di principi politici di armonia in una società


che vorrebbe scoprirsi unita dall’idea del bene comune (sempre più
agitata in alternativa alla lacerazione partigiana) 52;  

12. alla ricerca del buongoverno a fronte del cattivo 53.  

Ritorno adesso ai confini di questo convegno, a quelle città ita-


liane del XII e XV secolo alle quali chiediamo di offrire una serie
di luoghi e di cronologie per far uscire tutto quanto detto — e al-
tro ancora — dalla categoria indistinta della proposta di studio. Ne
giustifica la scelta il fatto che si tratti di una stagione che introdusse
cambiamenti apprezzabili nella vita della gente di città.
Le città conobbero, prima di tutto, l’inurbamento e la crescita
imponente della popolazione; i cantieri edili, dal XII secolo, in pochi
decenni ne trasformarono la fisionomia 54. Comparvero nuove forme
 

51 Bruni, La città divisa, cit., pp. 70-73, 77 riporta una ampia casistica su ven-
dette e paci e percorre il dibattito che ha portato alcuni storici a vedere nella vendet-
ta e nella pace un metodo di composizione dei conflitti che non era ‘antistatale’ e a
rifiutare l’idea di una progressiva e lineare evoluzione «che da uno stato debole che
deve accettare la vendetta privata porta a uno stato moderno che impone l’autorità
e la giustizia pubblica». Bruni contesta la prima ipotesi (cioè che il sistema non sia
antistatale) e condivide la seconda (il rifiuto dell’evoluzione). Per il dibattito al qua-
le ci si riferisce si vedano almeno: G. Chittolini, Il ‘privato’, il ‘pubblico’, lo Stato,
in Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia fra Medioevo ed età mo-
derna, Bologna, il Mulino, 1994, pp. 553-581; A. Zorzi, “Ius erat in armis”. Faide e
conflitti tra pratiche sociali e pratiche di governo, ivi, pp. 609-609; Id., Politica e giu-
stizia a Firenze al tempo degli Ordinamenti antimagnatizi, in Ordinamenti di giustizia
fiorentini. Studi in occasione del VII centenario, a cura di V. Arrighi, Firenze 1995,
pp. 136-138; Id., La cultura della vendetta nel conflitto politico in età comunale, in Le
Storie e la memoria. In onore di Arnold Esch, a cura di R. Delle Donne - A. Zorzi,
Firenze, Firenze University Press, 2002 (Reti Medievali, E-book, Quaderni, 1); e,
più recente, Id., La trasformazione di un quadro politico. Ricerche su politica e giu-
stizia a Firenze dal comune allo Stato territoriale, Firenze, Firenze University Press,
2010. Si vedano anche i volumi collettivi Conflitti, paci e vendette nell’Italia comuna-
le, a cura di A. Zorzi, Firenze, Firenze University Press, 2009 e il numero monografi-
co di «Quaderni di storia religiosa», 12 (2005) dedicato a La pace fra realtà e utopia.
52 Sull’ampia elaborazione intorno al ‘bene comune’ si può partire da Schiera,
Dal bencomune alla pubblica felicità, cit. Traggo la citazione dell’idea del bene comu-
ne «agitata e difesa» in alternativa alle parti da Bruni, La città divisa, cit., p. 16.
53 Mi riferisco, evidentemente, alla specularità, simbolica e reale, dei due af-
freschi di Ambrogio Lorenzetti nel palazzo pubblico di Siena, con gli effetti del
buongoverno su una parete e gli effetti e l’allegoria del cattivo governo in quella di
fronte.
54 Brillante sintesi in É. Crouzet-Pavan, Le villes vivantes, Italie XIIIe-XVe
siècles, Parigi, Fayard, 2009, pp. 113-129. A cura della stessa Élisabeth Crouzet-

16
Introduzione al convegno

di religiosità pauperistica e caritativa. Fasi di inedita mobilità socia-


le resero evidente, nel corso del XIII secolo, uno scarto importan-
te tra le generazioni 55 e furono accompagnate dall’investimento in
 

prestigio da parte di ceti in ascesa sociale 56. Conobbe cambiamenti


 

il lavoro, con la diffusione, soprattutto nell’edilizia e in alcune città


manifatturiere, di quello salariato e della precarietà che portava con
sé. Subì un cambiamento il modo stesso di considerare le apparen-
ze che un po’ alla volta, oltre una soglia che Georges Duby colloca
tra 1300 e 1350, non sembravano più così radicalmente condannabili
per il fatto di essere ingannevoli, mentre «un moto profondo portava
gli uomini a considerare con sempre maggiore attenzione e lucidità
la natura delle cose materiali» 57.  

Le città italiane, ha sintetizzato Giovanni Cherubini, furono


teatro dal XIII secolo di una serie ampia di conflitti, diversamente
profondi, di natura differente: il primo fu quello, centrale nel corso
del secolo, tra popolo e nobiltà, un altro quello tra vecchi abitanti e
nuovi arrivati; un altro ancora oppose i cittadini nel loro complesso
ai contadini delle campagne; ci furono poi, soprattutto inoltrandosi
nel Trecento, contrasti tra datori di lavoro e lavoratori intorno al sa-
lario, all’offerta di lavoro, al diritto di associarsi, e, più generalmen-
te, tra poveri e ricchi 58.  

Anziché trovare soluzione nella crescita, molte contraddizioni


vennero rafforzate dallo sviluppo economico, dalla crescente com-
plessità sociale e specializzazione dei mestieri. L’abitazione marcò
una differenza tra i più ricchi e i più poveri, nei materiali da costru-
zione come nelle forme delle case. Un’altra la segnò l’abbigliamen-
to, e ne venne enfatizzato il significato nel presentare gli individui,
nell’illustrarne l’affiliazione a un ceto o ad un gruppo di apparte-
nenza 59. L’esibizione di ricchezza contrastò la perdita di identità di
 

Pavan, Pouvoir et édilité: les grands chantiers dans l’Italie communale et seigneuriale,
Roma, École française de Rome, 2003.
55 Georges Duby ricorda che tra 1150 e 1220 in genere lo scarto tra genera-
zioni fu il più largo che ci sia mai stato fino ai tempi moderni (G. Duby, Avvertenza,
in La vita privata dal feudalesimo al Rinascimento, cit., p. X).
56 Esch, Sul rapporto fra arte ed economia nel Rinascimento italiano, cit., p.
11.
57 Duby, Avvertenza, cit., pp. VI-VII.
58 Attingo questo breve elenco, cui aggiungo qualcosa di mio, da G. Cherubini,
Le città italiane dell’età di Dante, Pisa, Pacini, 1991, pp. 57-60.
59 Sintesi in Bacci, Investimenti per l’aldilà cit., p. 155.

17
Gabriella Piccinni

ceto connessa alla mobilità sociale e all’inurbamento, alla rottura de


«l’unità e la disciplina dell’antica classe dirigente» 60: perché la “gen-
 

te nova” non aveva automaticamente acquisito, attraverso i “subiti


guadagni”, anche nobiltà e gentilezza, e tanti «descalzi» erano sol-
tanto «repoliti», scrive il milanese Bartolomeo Sachella, dato che «le
dovizie, sì come si crede non possono gentilezza dar né torre» insi-
ste Dante 61. La contrapposizione tra la ricchezza e la povertà diven-
 

tò quasi ossessiva in molte testimonianze del tempo, e centrale nello


stesso sentire religioso degli ultimi secoli del Medioevo.
Va ricordato, infine, ed è questo l’ultimo tema che intendo pro-
porre, che la vita delle città italiane dei secoli di cui si tratta, specie di
ambito comunale, quasi mai ci mostra una società pacificata. Il sin-
golo, nell’affermazione del gruppo al quale apparteneva, cercò una
possibilità di affermare i propri diritti, esprimendo la volontà di un
agire collettivo. Scelse di ‘fare corpo’ in associazioni confraternali, di
mestiere 62, familiari o territoriali; di creare una rete protettiva intor-
 

no ai propri congiunti nei momenti di necessità; di riferirsi a reti di


famiglie o fedeltà o vicinìa o amicizia 63, sempre concretamente radi-
 

cate nel tessuto urbano, spesso intorno ad un edificio eminente; di


allearsi, facendo sposare i propri figli in modo calcolato 64; di formare 

60 Quest’ultima frase è di Ch.T. Davis, L’Italia di Dante, traduzione italiana di


R. Librandi, Bologna, Il Mulino, 1984, p. 113.
61 La citazione di Bartolomeo Sachella è un verso della Frotula contra gestus et
mores aulicos correcta per Sachellam, citata in P. Mainoni, Una testimonianza di de-
nuncia e di costume sociale nella Milano viscontea: le frottole di Bartolomeo Sachella,
«Nuova Rivista Storica», LXXV (1991), p. 137. La prima citazione dantesca è dalla
Commedia, XVI canto dell’Inferno, la seconda è dal Convivio, IV, canzone 49.
62 F. Franceschi, “Fare corpo”: identità e appartenenza nel mondo delle Arti to-
scane (secc. XIII-XV), in Civis/civitas, cittadinanza politico-istituzionale e identità so-
cio-culturale da Roma alla prima età moderna, Siena 2008, p. 285 allarga «al mondo
delle corporazioni, istituti fondamentali della città basso-medievale e più in generale
d’ancien régime» il concetto che André Vauchez aveva utilizzato per il mondo delle
confraternite (A. Vauchez, I laici nel Medioevo. Pratiche ed esperienze religiose, trad.
it., Milano 1989, p. 130). Sul far corpo vedi anche Le destin des rituels, cit.
63 Sulle consorterie, amicizie e vicinie: Ch. Klapisch, “Parenti, amici e vicini”:
il territorio d’una famiglia mercantile nel XV secolo, «Quaderni Storici», 11 (1976),
pp. 953-982; Bruni, La città divisa, cit., pp. 66, 74, 78-81. Sulla riflessione sull’amici-
zia come «imprescindibile nella riflessione deontologica del vivere cittadino» cfr. E.
Artifoni, Segreti e amicizie nell’educazione civile dell’età dei comuni, «Micrologus»,
XIV (2006), pp. 259-274.
64 Sullo «sposarsi come affare di stato», a commento di testi di Leon Battista
Alberti, si veda de La Ronçiere, La vita privata, cit., pp. 134-135.

18
Introduzione al convegno

universitates di fuorusciti per rientrare in patria 65, consolati e nazioni


 

di mercanti o studenti stranieri 66; di unirsi per organizzare il proprio


 

lavoro, anche in forme ‘protosindacali’, come mostra, nel 1345, la vi-


cenda dello scardassiere fiorentino Ciuto Brandini che tentò di orga-
nizzare in una ‘fratellanza’ i più umili tra coloro che lavoravano per
l’arte delle Lana fiorentina «affinché così potessero più fortemente
resistere a tutto» e, nonostante per ottenerne la liberazione «inconti-
nente veruno non lavorò», ne finì «impiccato per la gola» 67; per cer-  

carne il riconoscimento sociale o politico; per conquistare il potere


strappandolo ad altri intorno ai quali si coagulavano interessi diversi;
per appropriarsi della responsabilità di organizzare la società attra-
verso la politica; per garantirsi privilegi. Del resto si usa ancora dire
che una persona incapace, in quanto isolata e dunque senza sostegni,
«non ha né arte né parte». Dove «arte» sta per mestiere, «parte» per
l’appartenenza a uno schieramento.
Si pensa oggi che il ‘far corpo’ sia stato uno dei pochi strumen-
ti che quella società seppe inventarsi per iniziare un lento cammino
che consentisse al singolo di approdare a un’esistenza riconosciuta,
quella che oggi chiamiamo ‘cittadinanza’, cioè la pienezza dei diritti,
dalla quale rimasero, comunque, escluse per tutto il Medioevo ampie
fasce di abitanti delle città 68; e, è quasi sottinteso, tutte le donne.
 

65 Esempi in Bruni, La città divisa, cit., p. 55.


66 Di fronte all’ampia bibliografia rinvio ad alcuni punti di riferimento:
Forestieri e stranieri nelle città basso-medievali, Atti del seminario internazionale di
studio (Bagno a Ripoli (Firenze), 4-8 giugno 1984), Firenze, Salimbeni, 1988; Dentro
la città. Stranieri e realtà urbane nell’Europa dei secoli XII-XVI a cura di G. Rossetti,
Napoli, GISEM-Liguori, 1989, nuova edizione accresciuta 1999; Comunità forestie-
re e “nationes” nell’Europa dei secoli XIII-XVI, a cura di G. Petti Balbi, Napoli,
GISEM-Liguori, 2001. Più proiettato verso l’età moderna La città italiana e i luo-
ghi degli stranieri. XIV-XVIII secolo, a cura di D. Calabi - P. Lanaro, Roma-Bari,
Laterza, 1998.
67 Il processo è stato edito da N. Rodolico, Il popolo minuto. Note di sto-
rie fiorentina (1343-1378), Bologna 1899, ristampa con presentazione di Ernesto
Sestan, Firenze Olschki, 1968, pp. 102-104. Tra coloro che se ne sono occupati suc-
cessivamente cito V. Rutenburg, Popolo e movimenti popolari nell’Italia del ’300 e
’400, edizione italiana Bologna, Il Mulino, 1971 e G. Cherubini, I lavoratori fioren-
tini della lana fra solidarietà di mestiere e primo capitalismo, in Id., Il lavoro, la taver-
na, la strada. Scorci di Medioevo, Napoli, Liguori, 1997, pp. 55-66.
68 Eppure, nel primo Ottocento, c’era chi come Sismondi cercava nelle re-
pubbliche italiane del Medioevo il modello della più liberale delle forme di gover-
no, quella del piccolo Stato: introduzione di P. Schiera, Presentazione a J.Ch.L.
Sismondi, Storia delle città italiane, Torino, Bollati Boringhieri, 1996. Più di recen-
te su Sismondi C. Pazzagli, Sismondi e la Toscana del suo tempo (1795-1838), Siena,

19
Gabriella Piccinni

Sappiamo che il sistema degenerò nel corso del XIII secolo e in


varie città comunali. Tutti insieme — la fazione, l’universitas, la con-
sorteria — furono, se non cause, almeno premesse di crescenti pri-
vilegi, scontri e faide: il ‘metti mal contra male’ legittimato da ser
Brunetto, la vendetta come un «difendersi [dal nemico], acciò che
forza né ingiuria no li faccia», si legge nel duecentesco Libro de’ vizî
e delle virtudi del giudice fiorentino Bono Giamboni 69. «Chi ‘mpri-  

ma disse ‘parte’ fra li tuo figli tormentato sia»: il poeta fiorentino


Chiaro Davanzati fu tra quelli che indicarono le fazioni come origi-
ne della crisi della sua città 70. Il predicatore Giordano da Pisa indicò
 

«le brighe, gli odii, e le liti» come prodotto degenerato delle arti 71.  

Nelle fazioni il sistema trovò insieme la sua forza e il suo punto cri-
tico e a poco a poco perse spazio ogni confronto politico magari an-
che aspro, ma comunque pacifico e portato avanti con i mezzi della
parola, strumento che ser Brunetto Latini considerava il cardine del-
le relazioni umane «che drizzò prima il mondo a ben fare, e ancora
il drizza» 72; nella propensione delle Arti a trasformare in monopolio
 

quella che era stata una associazione su base volontaria e tendenzial-


mente ugualitaria 73 si manifestò la crescente discriminazione di una
 

parte dei lavoratori manuali.

Protagon Editori Toscani, 2003. Sul concetto di ‘cittadinanza debole’, con relativi
riferimenti bibliografici, G. Todeschini, Visibilmante crudeli, Bologna, Il Mulino,
2007, pp. 10-11, dove ripercorre «l’infamazione, l’indegnità civica e quanto ne con-
seguiva, ossia l’esclusione dalla pienezza dell’appartenenza sociale, religiosa ed eco-
nomica» che furono catalogate nel Medioevo come forme di esistenza degenerata
tipiche di alcuni gruppi sociali o religiosi.
69 Brunetto Latini, Tesoretto, in Poeti del Duecento, a cura di G. Contini,
Milano-Napoli, Ricciardi, 1960, vol. II, pp. 175-277, al verso 2018. Bono Giamboni,
Libro de’ vizî e delle virtudi, a cura di C. Segre, Torino, 1968.
70 Chiaro Davanzati, Rime, a cura di A. Menichetti, Bologna, Commissione
per i testi di lingua, 1965, pp. 91-95, versi 41-42 di Ahi dolze e gaia terra fiorentina.
71 «Tutte l’arti sono oggi frodate, e falsate. E perché nascono le brighe, gli
odii, e le liti, se non per gl’inganni, e per le falsitadi, che gli uomini fanno l’uno al-
l’altro», Iannella, Giordano da Pisa, cit., p. 45.
72 Brunetto Latini, Tesoretto, cit., citato in questo senso da Iannella,
Giordano da Pisa, cit., p. 158. In generale per la retorica nelle politica comunale
E. Artifoni, I podestà professionali e la fon­dazione retorica della politica comunale,
«Quaderni storici», XXI (63), 1986, pp. 687-719 e Le forme della propaganda po-
litica nel Due e nel Trecento, a cura di P. Cammarosano, Roma, École française de
Rome, 1994.
73 Sintesi in D. Degrassi, L’economia artigiana nell’Italia medievale, Roma, La
Nuova Italia Scientifica, 1996.

20
Introduzione al convegno

Certo, la società comunale era forse abituata al ‘politicamente


scorretto’, cioè ad un mondo in cui chi apparteneva ad un gruppo
vincente esternava, con poche mediazioni, uno sfacciato benessere.
Otteneva infatti cariche politiche e amministrative e con esse «chi
onore e chi avere e chi l’una e l’altra cosa» 74; aveva la possibilità di
 

indirizzare le scelte politiche del proprio comune, secondo gli obiet-


tivi che gli apparivano utili e appropriati per sé, per la propria fami-
glia, per il proprio schieramento, per la propria città. Tuttavia, dietro
questi trionfi, si percepisce bene tutto lo strascico di dolore che era
connesso ai meccanismi di esclusione/inclusione e che ora si chiamò
liste di proscritti 75, distruzione di case ordinata dai nemici o dalle au-
 

torità 76, sottomissione economica e politica di gruppi di artigiani ad


 

altri più potenti, ora mise tanti individui giovani di fronte a ruoli so-

74 Goro Dati, Istoria di Firenze, a cura di L. Pratesi, Norcia, 1904, pp.


143-144.
75 Dall’ampia e risalente bibliografia sull’esclusione come forma di lotta po-
litica si vedano almeno G. Fasoli, Ricerche sulla legislazione antimagnatizia nei co-
muni dell’alta e media Italia, «Rivista di storia del diritto italiano», XII (1939), pp.
86-133 e 240-309; P. Torelli, Il bando nei comuni medievali italiani, in Id., Studi e
ricerche di diplomatica comunale, ristampa anastatica, Roma, Consiglio Nazionale
del Notariato, 1980 (Studi Storici sul Notariato Italiano, V), pp. 255-271 e il classi-
co G. Salvemini, Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1285, Firenze 1899 (ri-
pubblicato senza la appendice documentaria, a cura di E. Sestan, Torino 1960). Si
parta oggi da G. Milani, L’esclusione dal Comune. Conflitti e bandi politici a Bologna
e in altre città italiane tra XII e XIV secolo, Roma, Istituto Storico Italiano per il
Medio Evo, 2004 e Id., Il governo delle liste nel Comune di Bologna. Premesse e ge-
nesi di un libro di proscrizione duecentesco, «Rivista Storica Italiana», CVIII (1996),
pp. 149-229 e Id., I comuni italiani, Roma-Bari, Laterza, 2005. Ultimo in ordine di
tempo V. Mazzoni, Accusare e proscrivere il nemico politico. Legislazione antighibel-
lina e persecuzione giudiziaria a Firenze (1347-1378), Pisa, Pacini, 2010. In generale
si veda il convegno Magnati e popolani nell’Italia comunale, Pistoia 1997. Ripercorre
il dibattito storiografico su magnati e popolani R. Mucciarelli, Magnati e popolani.
Un conflitto nell’Italia dei comuni (secoli XIII-XIV), cit. Occorre ovviamente ricor-
dare che non ovunque in Italia si affermò durevolmente una legislazione antima-
gnatizia: anche considerando a parte il clamoroso caso di Venezia, basti pensare a
Genova, studiata da G. Petti Balbi, Governare la città. Pratiche sociali e linguaggi
politici a Genova in età medievale, Firenze University Press, 2007, pp. 101-114, op-
pure ad Asti studiata da R. Bordone, Progetti nobiliari del ceto dirigente del comu-
ne di Asti al tramonto, «Bullettino storico Bibliografico Subalpino», 90 (1992), pp.
437-494, alla 442.
76 R. Mucciarelli, Demolizioni punitive: guasti in città, in La costruzione del-
la città comunale italiana. Secoli XII-inizio XIV, Atti del convegno internazionale di
studi (Pistoia 11-14 maggio 2007), Pistoia, Centro Italiano di Studi di Storia e d’Ar-
te, 2009, pp. 293-330.

21
Gabriella Piccinni

ciali impegnativi e vincoli familiari e comunitari ai quali era necessa-


rio sottomettere le proprie scelte, anche affettive.
Le trasformazioni politiche e istituzionali, che portarono ad al-
ternarsi al governo delle città nobili, popolani, mercanti, artigiani 77,  

di volta in volta coagulati intorno a parole d’ordine, interessi o grup-


pi di famiglie, misero molti di fronte al dramma della perdita di ruolo
personale che andava di pari passo con quella del gruppo di riferi-
mento. Allora le reazioni potevano essere anche del tutto opposte: a
Siena un rampollo di una famiglia di magnati-banchieri ghibellini,
Niccolò Bonsignori, alla fine del Duecento, reagì altezzoso al gover-
no guelfo e popolano ‘della mezza gente’ aggregandosi con altri in
una brigata spendereccia, sbattendo in faccia al nuovo ceto dirigente
di aver mezzi bastanti per cuocere fiorini nelle vivande, gettare dalle
finestre vasellame prezioso, arrostire cibi su braci di garofano, ferra-
re d’argento i cavalli, bruciare in poco tempo enormi ricchezze 78; in  

77 Vedi E. Artifoni, Repubblicanesimo comunale e democrazia moderna (in


margine a Giovanni Villani, IX, 10: «sapere guidare e reggere la nostra repubblica se-
condo la Politica»), in Il governo delle città nell’Italia comunale. Una prima forma di
democrazia?, Prato 2007 («Bollettino Roncioniano», VI (2006)), pp. 21-33.
78 Ne parlano vari commentatori danteschi riferendosi a Inferno, XIX, vv.
125-126. Si legge in Graziolo Bambaglioli, Commento all’Inferno di Dante, a cura
di L.C. Rossi, Pisa, Scuola Normale Superiore, 1998: «Isti Striccha, Niccolaus et
Caccia fuerunt Senenses et fuerunt de brigata spendereccia qui prodigaliter et fatue
vixerunt; et dictus Niccholaus fuit primus qui docuit ponere garofanos in sapori-
bus, et dictus Caccia consumpsit omnes possessiones et alia bona sua in dicta briga-
ta». «Questo fu Capocchio da Siena, grande falsatore di monete, il quale respuose al
detto che fe’ l’autore con Virgilio, quando disse: li senesi erano persone vane, e dis-
se: tranne lo Stricca, quasi a dire: almeno Stricca fu uomo da bene. Questo Stricca
fu uno uomo ricco giovane da Siena, il qual fece sfolgorate spese, e appellavasi la
sua brigata spendereccia». Nella Comedia di Dante degli Allagherii col commento di
Jacopo di Giovanni dalla Lana bolognese: «Poichè Capoccio ha in singulari detto di
due della brigata spendereccia, vuole per abreviare suo sermone dire del soperchio,
e dargli per segno quella brigata, in che Caccia d’Asciano senese spese lo suo avere,
e l’Abbagliato il suo senno. Questi due furono senesi, l’uno ricco e l’altro povero,
ma sapute persone erano della predetta brigata, e seppeno sì fare che in loro si tro-
vò l’onore de’ senesi, e sì tutto intero, che li altri, che furono il soperchio, non ne ri-
mase nulla»; in Giovanni Boccaccio, Esposizioni sopra la Comedia di Dante, a cura
di G. Padoan, Milano, Arnoldo Mondadori, 1965 (in Tutte le opere di Giovanni
Boccaccio, a cura di V. Branca, vol. VI): «Ad intelligenzia di queste parole è da sape-
re che Lano fu un giovane sanese, il quale fu ricchissimo di patrimonio, e, acostatosi
ad una brigata d’altri giovani sanesi, la quale fu chiamata “la brigata spenderec-
cia”, li quali similmente erano tutti ricchi e, insiememente con loro non spenden-
do ma gittando, in piccol tempo consumò ciò ch’egli aveva e rimase poverissimo»;

22
Introduzione al convegno

una brigata de’ povari, speculare e oppostamente esibizionista, cercò


la sua realizzazione Giovanni Colombini, mercante della stessa città,
uomo «della mezza gente» nel 1355 cacciata dal potere da un nuo-
vo governo di impronta artigiana, poco prima della sua conversione
spirituale 79.
 

Insomma, tutto il resto può perdere senso, anche il fatto che


tu sia giuridicamente libero mentre tuo nonno era servo, se non hai
di che mangiare o di che difenderti dal freddo. Ma specularmente
hai un bell’essere benestante se sei diventato un proscritto, se non
puoi amare, si ti trovi assediato dentro un mondo dorato, se la tua
casa può essere distrutta per motivi politici, se il tuo bambino può
essere strappato dalla tue braccia e decapitato per vendetta 80, se la  

in Iacopo Alighieri, Chiose all’Inferno, a cura di S. Bellomo, Padova, Antenore,


1990 (Medioevo e umanesimo, 75): «Qui dell’altro, cioè di Capocchio, così si ra-
giona; il quale per excellente operazione d’archimia finalmente in Siena fu arso, per
cui qui così della vita d’i Sanesi si risponde, e spezialmente di quella d’alcun suo
cavaliere, nominato messer Niccolò Bonsignori, per lo garofano che in mano a un
donzello dal cominciamento del disinare o della cena infino alla fine, mangiando-
si poi, innanzi sè tenere lo facea; la quale costuma di Francia con seco in Siena pro-
dusse». Qualche riferimento bibliografico più generale: F. Cardini, L’argento e i
sogni: cultura, immaginario, orizzonti mentali, in Banchieri e mercanti di Siena, pre-
fazione di C.M. Cipolla, Roma, De Luca, 1987, pp. 291-375; G. Errico, Folgore da
San Gemignano e la “Brigata spendereccia”, Contributo alla storia letteraria del se-
colo XIII, Napoli, Bideri 1895; F. Flamini, Folgore da San Gimignano e la “brigata
spendereccia”, in Spigolature di erudizione e di critica, Pisa, Tip. Mariotti, 1895; M.
Picone, La brigata di Folgore fra Dante e Boccaccio, in Il gioco della vita bella. Folgore
da San Gimignano, a cura di M. Picone, S. Gimignano, Città di San Gimignano
Editrice, 1988, pp. 25-40.
79 I. Gagliardi, “I Pauperes Yesuati” tra esperienze religiose e conflitti istituz-
ionali, Roma, Herder, 2004,
80 Questa la efferata vicenda narrata da Cronaca di Pisa di Ranieri Sardo, a
cura di O. Banti, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo, 1963, pp. 150-
152, secondo la citazione di M. Tangheroni, Politica, commercio, agricoltura a Pisa
nel Trecento, Pisa, Pacini, 1973, p. 48 (il volume è stato ripubblicato nel 2002 nel-
le collana “Studi pisani” della PLUS e la citazione è a p. 53): «Al dì 18 di settem-
bre 1362 in Pisa venne lectere di Cicilia che Gerardo dicto Capocchio, lo quale
era in Palermo, era ista­to morto da Ghuido Papa nipote di ser Rinieri Papa; di che
avendo li frategli del dicto Gherardo le lectere sopra decte, furono cho’ loro pa-
renti et amici, et insieme ragionando del chaso adivenuto, chon diliberato animo et
chonsiglio di Pisa si partirono Pucciarello di Peraccha, Masinuccio Aiutamicri­sto,
Ciolo Schaccieri et altri assai, a chavallo e a pie’, per an­dare a Charrara là dove era
Jachopo Papa figliolo di ser Bec­to Papa; Di che lo decto Jachopo Papa lo seppe et
allora non venne facto quello che loro volevano. Poi dopo si partì di Pisa Bindaccio
di Puccio di Benetto chon domino Rinieri da Chasili et altri assai cho’lloro, a chaval-

23
Gabriella Piccinni

tua immagine può essere dipinta su un muro per infamarti 81, se non  

puoi rendere testimonianza davanti a un tribunale, se una legisla-


zione della tranquillità sociale reprime l’espressione libera di tuoi
comportamenti 82.  

Così, se è vero che Giulietta e Romeo sono un simbolo di for-


te impatto emotivo di tante tragedie dell’appartenenza 83, non lo è di  

meno il racconto del gesto, teatrale e drammatico, con cui Francesco,


sotto gli sguardi esterrefatti dei suoi concittadini, si fa “pusillo”, spo-
gliandosi degli abiti e con essi dell’intero sistema di vita, valori e re-
lazioni nel quale lo ha inserito la ricchezza del padre 84; o quello con
 

cui il Colombini abbandona i suoi vestiti “molto fini” e le “fodere de


finiseme pele” e le ben “due paia de calçe l’una suso l’altra” per an-
darsene finalmente “dischalço et sença niente in capo, [e con] po-
chi pannicelli” 85; o il sapore salato, che rende così diverso dal pane
 

lo et a ppie’, et andoronsene in Valdiserchio dall’eredi di ser Ranieri Papa, et quivi


trovaro la donna del decto ser Rinieri chon uno suo figliuolo d’anni cinque lo qua-
le aveva nome Nieri et dera quello gli rimase nel ventre dopo la morte del padre. Di
che, avendolo la madre in braccio, lo dicto Bindaccio chon furia gli andò addosso,
et choloro che cho’llui erano in sua compagnia levorono il decto fanciullo di chol­lo
alla madre per forza et dierolo al dicto Bindaccio. Di che lo dicto Bindaccio, aven-
dolo in su l’arcione della sella, a chavallo, con una spada, gli tagliò il chapo et altre
ferite gli die’ che l’uccise».
81 G. Ortalli, Pingatur in palatio. La pittura infamante nei secoli XIII-XVI,
Jouvence, Roma, 1979 e G. Milani, Ricerche. Prima del Buongoverno. Motivi politi-
ci e ideologia popolare nelle pitture del Broletto di Brescia, «Studi medievali», XLIX
(2008), pp. 19-85.
82 Una scarsa considerazione, mescolata a disgusto e condanna, coinvolgeva
tutti i poveri che non fossero tali per scelta religiosa, approdando ad una limitazione
del concetto di ‘cittadinanza’, che tra Medioevo ed età moderna è possibile attribui-
re solo a una parte ristretta della popolazione. Ne derivava un lessico quotidiano nel
quale i connotati d’onorabilità morale e quelli di rispettabilità sociale convergevano
e si confondevano: i cives non erano mai viles, e i viles erano oggetto di disprezzo so-
ciale e condanna morale: Todeschini, Visibilmente crudeli, cit.
83 L’esempio è di Bartolini, Manifesto per la felicità, cit. Si può aggiungere,
per contrappunto, la storia d’amore di Angelica Montanini, un racconto varie volte
elaborato nel corso del XV secolo da cronisti e novellieri senesi, nel quale la bellis-
sima ma ormai povera Angelica si sposerà solo per bisogno con Anselmo Salimbeni,
nemico della sua casata ma di lei segretamente innamorato: per la storia si veda
L. Marri Martini, Angelica Montanini nella storia e nella novella, «La Diana», V
(1930), pp. 91-105.
84 Dalla sterminata bibliografia cito F. Cardini, Concetto di povertà e “sugge-
stioni cavalleresche” in Francesco d’Assisi, in Povertà e carità dalla Roma tardo-anti-
ca, cit., pp. 65-92.
85 Il volgarizzamento quattrocentesco della vita di Giovanni Colombini re-

24
Introduzione al convegno

‘sciocco’ di Firenze quello mangiato lontano da casa, cui Dante me-


taforicamente affida e in cui incontra ogni giorno, diversi secoli pri-
ma di Proust, e contrario, il ricordo della patria che lo ha costretto
all’esilio.
Nemmeno riferiti al Medioevo la ricchezza, il reddito e le spese
per consumi o il Prodotto Interno Lordo sembrano costituire un ar-
mamentario concettuale sufficiente allo storico per tradurre in pieno
il livello e il desiderio di benessere delle persone e delle società.
Possiamo cominciare da qui.

datta da Giovanni Tavelli, al quale faccio riferimento, è quello edito in appendice a


Gagliardi, “I Pauperes Yesuati” tra esperienze religiose e conflitti istituzionali, cit.,
pp. 487-522, alla p. 503 la citazione.

25
Venerdì 15 maggio, pomeriggio
Pistoia, Sala Maggiore del Palazzo Comunale
Presidente Prof. Giovanni Cherubini

Donata Degrassi
Quando la società è mobile: aspirazioni al
cambiamento e possibilità di soddisfarle

Le suggestioni ispirate dal titolo che mi è stato proposto sono


veramente tante e molteplici i punti di vista da cui affrontarlo. Da
parte mia — sentendomi autorizzata in ciò dal titolo generale di que-
sto convegno — ho preferito concentrare l’attenzione non tanto ai
parametri oggettivi ed ai trend ormai chiaramente delineati dalla sto-
riografia 1, quanto alle forme di consapevolezza del cambiamento,
 

rivolgendomi quindi sia verso riflessioni di tipo personale e auto-


biografico, sia alle considerazioni nei riguardi delle trasformazioni
della società formulate dagli uomini che le stavano vivendo. Si trat-
ta certo di una scelta discutibile agli occhi stessi di chi la propone, se
non altro perché privilegia un gruppo ristretto, non solo numerica-
mente ma soprattutto socialmente, di persone: vale a dire coloro che
padroneggiavano lo strumento della scrittura e — all’interno di que-
ste — il novero ancor più ristretto di quanti usarono tale mezzo non
solo per scopi pratici e fini utilitari, ma per affidare alle carte le pro-
prie memorie 2, per trasmettere riflessioni e considerazioni di porta-
 

1 Per una recente messa a punto rimando al convegno La mobilità sociale nel
medioevo: rappresentazioni, canali, protagonisti, metodi d’indagine, organizzato dal-
l’École française de Rome e dall’Università degli studi di Roma Tor Vergata, tenuto-
si a Roma nel maggio 2008, i cui atti sono in corso di stampa.
2 La memorialistica, come è noto, si sviluppò soprattutto in ambito cittadi-
no, ad opera di mercanti e borghesi abituati a tenere registrazione dei loro affari,
sia per quanto riguardava l’ambito professionale che domestico e famigliare. Vedi in
proposito C. Bec, Les marchands écrivains. Affaire set culture à Florence 1375-1434,
Paris-La Haye 1967. Più rare e tarde sono le scritture lasciate da persone di umile
condizione o scarsamente acculturate; per una panoramica di questi testi e un loro
inquadramento si veda D. Balestracci, Le memorie degli altri. Ricordanze, libri di

43
Donata Degrassi

ta più generale, oppure per stendere composizioni di natura poetica


e letteraria. Eppure, questo tipo di testimonianze — da un lato la ri-
flessione su di sé, sulle proprie origini, sul significato da attribuire a
vicende e traversie personali 3; dall’altro la percezione dei mutamenti
 

che interessavano la società intera e gli interrogativi sui possibili esiti


e sviluppi futuri — mi pare che possano offrire un tassello importan-
te rispetto alla comprensione del tema che affrontiamo 4. Il modello  

— in fondo — è quello dell’exemplum: l’utilizzo di un caso singolo


che assurge però a paradigma; che è in grado cioè di mettere in risal-
to condotte e percorsi di vita abituali in un certo contesto e di espri-
mere modi di sentire condivisi da una pluralità di persone.
Come punto di partenza, ho ritenuto opportuno prendere l’av-
vio dalla concezione di una società strutturata e organizzata in grup-
pi, a ciascuno dei quali era assegnato un compito specifico, e che
nel suo insieme aveva modellato un sistema di valori. Non si tratta-
va più della tripartizione in ordini della società feudale 5, bensì di un 

sistema più complesso in cui le differenze di ceto, che pur restava-


no molto forti e costituivano spesso vere e proprie barriere, compo-
nevano le diverse sfaccettature di quella particolare communitas che
costituiva il corpo civico, entro il quale l’individuo poteva trovare la
più compiuta realizzazione di sé 6. Questo concezione — ben affer-
 

conti e cronache dei ceti al margine della scrittura nell’Italia medievale, in Cultura e
società nell’Italia medievale. Studi per Paolo Brezzi, 2 voll., Roma 1988 (Istituto sto-
rico italiano per il medioevo, Studi storici 184-192), vol. I, pp. 41-58.
3 Per una prima approssimazione al tema delle scritture autobiografiche si ve-
dano M. Guglielminetti, Memoria e scrittura. L’autobiografia da Dante a Cellini,
Torino 1977; L’autobiografia nel medioevo, Atti del 34° Convegno storico interna-
zionale (Todi 12-15 ottobre 1997), Spoleto 1998.
4 Per delineare un panorama il più possibile ampio di testimonianze si è fatto
ricorso a testi di natura diversa, da quelli poetici e letterari in senso proprio, alla no-
vellistica, ai passaggi di cronache in cui l’autore esprimeva dichiaramene il proprio
punto di vista. Importante è ovviamente l’apporto della memorialistica, soprattut-
to di quella rappresentata dai ‘libri di ricordanze’ di area toscana e soprattutto fio-
rentina. Su questa tipologia di fonti, la cui bibliografia è assai ampia e così pure le
edizioni di testi, si può fare riferimento in prima battuta a G. Cherubini, I “libri di
ricordanze” come fonte storica, in Civiltà comunale: Libro, Scrittura, Documento, Atti
del Convegno (Genova 8-11 novembre 1988), Genova 1999, pp. 567-591.
5 Il riferimento è ovviamente al volume di G. Duby, Lo specchio del feudale-
simo. Sacerdoti, guerrieri e lavoratori, Roma-Bari 1980 (ed.orig. Les trois ordres ou
l’imaginaire du féodalisme, Paris, 1978).
6 Si veda M.C. De Matteis, La “teologia politica comunale” di Remigio de
Girolami, Bologna 1977, in particolare alle pp. CXXVI-CXXVII, CXXX-CXXXI,
CXXXIV-CXXXVII.

44
Quando la società è mobile: aspirazioni e possibilità

mata nelle città italiane alla fine del XII e per buona parte del XIII
secolo — si reggeva su un principio, consapevolmente avvertito e ap-
parentemente condiviso, che tendeva alla conservazione del sistema
stesso: quello di stabilità che ne garantiva la perfetta — almeno a li-
vello teorico — funzionalità. Lo stare al proprio posto, il fare ciò che
veniva richiesto, era compito di ciascun individuo all’interno dell’or-
dine, o gruppo, di cui faceva parte, e, al tempo stesso, era anche ciò
che assicurava il benessere collettivo: «In tali ergo principatu, ubi
dominantur multi ut totus popolus, vel intenditur bonum commu-
ne egenorum, mediarum personarum et divitum, et omnium secon-
dum suum statum, et tunc est rectus et aequalis» teorizzava Egidio
Romano 7 e Remigio de’ Girolami articolava la piena realizzazione
 

delle aspirazioni individuali nell’ambito di quella che era la propria


condizione sociale: «puta miles in militaribus, mercator in mercatio-
nibus, artifex in artificialibus artis sue, officialis in officialibus, pater
familias in familiaribus et universaliter liber in operibus liberis» 8.  

Il punto essenziale da cogliere sta nel fatto che, in questa visio-


ne, l’individuo come tale trovava la sua realizzazione se assumeva
come proprie le funzioni le finalità e gli obiettivi del gruppo socia-
le di cui faceva parte 9. Da solo infatti l’individuo non aveva voce né
 

forza; la sua forza, la sua voce e anche i suoi progetti erano quelli del
gruppo di cui faceva parte 10: la famiglia, il casato in primis; il ceto
 

da cui derivava standard di vita, regole e modelli di comportamento,


subito dopo, e poi, via via, le altre eventuali articolazioni della socie-
tà (raggruppamenti a base religiosa, territoriale, di mestiere, gruppi
d’arme, di tipo ‘nazionale’). In questa prospettiva, dunque, le aspira-
zioni individuali potevano venir represse, trascurate o stravolte a fa-
vore di un benessere superiore: quello del gruppo di appartenenza
e, in una prospettiva più ampia, quella della comunità di cui si face-

7 La citazione è tratta da Egidio Romano, De regimine principum, libro III,


parte II, cap. II, in Letteratura latina del secolo XIII, a cura di A. Viscardi - B. Nardi,
Torino 19782, p. 82.
8 De Matteis, La “teologia politica comunale”, cit., p. CXXXVII, p. 18 e p. 62.
9 Come si esprime Remigio de’ Girolami: «quia sibi non sufficit ad necessaria
vitae si solitarius maneat»; ivi, p. CXXVI.
10 «Pars enim extra totum existens non est pars, sicut dicebatur, dum esset in
toto» asserisce Remigio de Girolami nel De bono pacis. La citazione è in De Matteis,
La “teologia politica comunale”, cit., p. 61. Come è noto, nella visione tomistica, de-
rivata da quella aristotelica, l’individuo era in grado di esplicare le sue potenzialità
soltanto se inserito in una comunità politica, se dunque agiva da civis.

45
Donata Degrassi

va parte 11. Questo naturalmente era il modello ideale di riferimento,


 

un modello che sarebbe stato asseverato da pensatori e predicato-


ri ed avrebbe avuto forza propagandistica fino ai primi decenni del
XIV secolo, come testimonia, anche a livello iconografico, il com-
plesso delle raffigurazioni del Buono e Cattivo Governo del palazzo
comunale di Siena 12.  

L’obiettivo di una società concorde e stabile nelle sue articola-


zioni era tuttavia contraddetto nella realtà da una dinamica socia-
le assai accentuata. È quanto denunciano — con il loro linguaggio
e con la loro peculiare visione del mondo — molti ecclesiastici, teo-
logi ma anche predicatori. Una delle voci più precoci è quella di
Tommasino di Cerclaria, autore originario di Cividale e non mol-
to conosciuto, anche perché scrisse in tedesco; un chierico, ma con
alle spalle una famiglia di ministeriali e uomini d’arme ed una fre-
quentazione intensa di corti principesche e personaggi eminenti 13.  

Egli mostra una straordinaria consapevolezza delle trasformazioni


che interessavano l’epoca in cui viveva e scrisse in pochi mesi — tra
1215 e 1216 — un corposo poema, animato dall’urgenza di additare
alla società del suo tempo i mali che ne minavano le fondamenta af-
finché si provvedesse ad intervenire nella giusta maniera 14. Secondo  

Tommasino la società del suo tempo era fortemente intaccata al suo


interno da una forza disgregatrice che egli chiama «instabilità» (un-

11 «Ista autem congregatio ad pacem congregatorum ordinatur, dum scili-


cet unusquisque locum suum tenendo, unus subvenit alteri qui sibi non sufficit»,
Remigio de Girolami, De bono pacis, in De Matteis, La “teologia politica comuna-
le”, cit., p. 62.
12 Per la decodificazione degli aspetti simbolici e ideologici si veda C. Frugoni,
Immagini troppo belle: la realtà perfetta, in Ead., Una lontana città. Sentimenti e im-
magini nel medioevo, Torino 1983, pp. 136-210.
13 Sulla vita e l’opera di Tommasino di Cerclaria si veda la corrispondente
voce a cura di K. Düwel in Dizionario biografico degli italiani, vol. 23, Roma 1979,
pp. 701-703.
14 Si veda la recente edizione dell’opera: Thomasin von Zerklaere, Der
Welsche Gast. Secondo il Cod. Pal. Germ. 389, Heidelberg, con le integrazioni di
Heinrich Rückert e le varianti del membr. I 120, Gotha, a cura di R. Disanto, Trieste
2002. La velocità di lavoro del poeta è attestata da alcuni versi con cui prende l’av-
vio la nona parte del poema. In essi la penna prende la parola per lamentarsi della
dura fatica alla quale l’autore l’ha sottoposta, ma questi replica dicendole: «In otto
mesi ho scritto otto parti e aggiungerò altre due; devi dunque restare sveglia per al-
tri due mesi»; D. Rocher, Thomasin von Zerclaere, Innocent III et Latran IV ou la
véritable influence de l’actualité sur le Wälscher Gast, «Le Moyen Age», 79 (1973),
pp. 35-55.

46
Quando la società è mobile: aspirazioni e possibilità

staete) e che andava a contraddire, nei comportamenti concreti messi


in opera dai singoli, le basi su cui doveva poggiare il funzionamen-
to armonico della comunità civile. Non c’era più rispetto — denun-
ciava accorato Tommasino — e dei ruoli e delle funzioni assegnate a
ciascuno sulla base dello status e del gruppo di appartenenza, ma, al
contrario, si scatenavano i meccanismi attivati dal prevalere degli in-
teressi egoistici del singolo — dei vizi rispetto alle virtù, nel linguag-
gio moralistico dell’autore — quali il desiderio di affermazione o di
arricchimento, a scapito di quel principio organicistico e funzionale
che avrebbe dovuto assicurare il benessere della società 15.  

Una visione analoga — anche se le parole e le metafore sono di-


verse — venne espressa quasi novantant’anni più tardi da Giordano
da Pisa, che nelle sue prediche insisteva sulla necessità che ognu-
no restasse nella propria condizione sociale, preordinata da Dio per
assicurare il funzionamento della società intera: «Così fa tu, non ti
muovere per te a uscire di tuo stato; ond’è che ogni uomo dee istare
nello istato ove Iddio il pone, né per sé non dee uscire. Et però ve-
dete che tutte le brighe e mali che nascono, si è propriamente perché
l’uomo esce di schiera» 16. La radice del malessere e del funziona-
 

mento della società veniva anche qui identificata nel desiderio indi-
viduale di promozione e ascesa sociale: «Ma se l’uomo è chiamato ad
alcuno maggiore istato da altrui o per altrui, allora, pigliandolo umil-
mente, puoi essere legittimamente, ma quando l’uomo per sua su-
perbia e per sua virtue vuole uscire di sua ischiera, quindi nascono
tutte le confusioni» 17.  

Al di là della diversa lettura che possiamo dare delle cause che

15 Le lotte dinastiche e le insurrezioni contro i sovrani in ambito europeo, così


come le lotte intestine all’interno delle città e le continue guerre di una città contro
l’altra in quello italiano, apparivano agli occhi di questo intellettuale quali manife-
stazioni dell’incostanza e del prevalere degli interessi di parte o dei singoli rispetto
alla concordia e alla stabilità offerte da un sistema sociale gerarchicamente ordina-
to, ispirato da Dio e regolamentato dalla Chiesa. Si veda in proposito D. Degrassi,
Trasformazioni e mutamenti alle soglie del Duecento nella percezione di Tommasino
di Cerclaria, in Ead., Continuità e cambiamenti nel Friuli tardo medievale (XII-XV se-
colo). Saggi di storia economica e sociale, Trieste 2009, pp. 41-54.
16 La citazione si trova in Prediche inedite del beato Giordano da Rivalto del-
l’Ordine de’ Predicatori, recitate in Firenze dal 1302 al 1305, pubblicate per cura di
E. Narducci, Bologna 1867, p. 51. Sulla visione della società proposta dai predi-
catori e in particolare da Giordano da Pisa si veda C. Iannella, Giordano da Pisa.
Etica urbana e forme della società, Pisa 1999.
17 Prediche inedite del beato Giordano, cit., pp. 51-52.

47
Donata Degrassi

mettevano in discussione questo consolidato sistema di valori e della


differente valutazione dei loro effetti, ciò che resta comunque come
dato di cui tener conto è la percezione — ben presente nei contem-
poranei — di dinamiche che stavano innescando cambiamenti so-
stanziali nella società di quel tempo. Ciò che si coglie — proprio
nell’insistenza con cui viene ribadita la necessità di mantenere la ge-
rarchia esistente — è la consapevolezza che l’ordine sociale non era
più fisso, preordinato in base all’appartenenza per nascita ad un de-
terminato gruppo sociale o familiare, ma che era possibile modifica-
re il proprio status di partenza con percorsi legati all’intraprendenza
e all’abilità, ma anche alla spregiudicatezza e alla fortuna, dei singoli.
È forse difficile per noi comprendere quanto risultasse lontano dal-
la mentalità medievale l’idea del self-made man, che noi invece con-
sideriamo il simbolo delle possibilità di realizzazione dell’individuo,
cogliendo nell’affermazione ai massimi livelli di persone comuni
l’espressione più manifesta della fluidità e dell’articolazione della so-
cietà, della sua inesauribile capacità di ricambio e rinnovamento. Al
contrario, nella concezione di vita medievale salire la scala sociale a
partire dai livelli inferiori non era riconosciuto come un valore posi-
tivo, anche se era qualcosa che accadeva correntemente. Proprio per
questo i protagonisti di tali ascese non ne menavano vanto e, almeno
ai livelli più alti, tentavano piuttosto di farle passare inosservate 18.  

18 Pressoché unico, o quasi, è il caso del notaio cronista Pietro Azario, il quale
premise al codice del suo Liber gestorum in Lombardia un albero genealogico figu-
rato della propria famiglia, che rappresenta un esempio di ascesa sociale, compiuto
nell’arco di alcune generazioni, a partire dal capostipite «Ambrosius de Camodegia
agricola et mercator». Lo stesso avo Ambrosius, vissuto nel XII secolo, è rappresen-
tato come la figura che entro le braccia aperte e il mantello allargato accoglie i car-
tigli con i nomi dei suoi discendenti. Nei versi che commentano la genealogia così
scrive delle origini della propria famiglia: «Stirps longeva quidem veterum de san-
guine patrum/ permanet incerta: rudibus, que, qualis et unde/ iam fuerit, nulli geni-
to patet orbe. Sed inde/ apparuisse prior presens Ambrosius iste,/ cui nomen generis
dedit Camodegia proles […]/ Denique post hec,/ antiquato diu pronomine dictu
sub ipsa/ prole pia, tandem successit nomine Petrus/ Azarius dictus nobis prior a
feritate». Il figlio di Ambrogio, Pietro, viene definito «speciarius et mercator», a cui
segue un Ambrogio «exercens personam et pecuniam»; infine con Pietro, vissuto at-
torno al 1220, si ha l’inurbamento in città e l’approdo alla professione notarile che,
con quella cancelleresca, connoterà le successive generazioni. L’albero genealogi-
co è riprodotto nell’edizione della cronaca: si veda Petrii Azarii, Liber gestorum in
Lombardia, a cura di F. Cognasso, Bologna 1935-39 (Rerum Italiacarum scriptores,
nuova edizione, t. XVI, parte IV), tavola tra le pp. VIII-IX. I versi sono trascritti alle
pp. III-IV. Sull’attribuzione allo stesso Pietro Azario della raffigurazione e sulle note
genealogiche, si veda la premessa di Francesco Cognasso, pp. III-XXV, alle pp. III-

48
Quando la società è mobile: aspirazioni e possibilità

Questo atteggiamento ha come conseguenza, tra l’altro, la dif-


ficoltà per noi di trovare tracce esplicite della mobilità sociale so-
prattutto al livello delle scritture intenzionali, anche se gli storici,
attingendo alla documentazione oggettiva (atti notarili, estimi, docu-
menti di provenienza ecclesiastica o comunale), hanno potuto deli-
neare biografie personali e familiari e mettere in luce i percorsi che
permisero, o facilitarono, l’ascesa sociale 19. Viceversa, le testimo-
 

nianze che esprimevano il punto vista corrente dei ceti che meglio
padroneggiavano la scrittura, ma che guardavano con disprezzo e
apprensione all’avanzata dei nuovi ricchi, restituiscono piuttosto
un’immagine negativa della dinamica sociale dei secoli XIII-XIV.
Così i testi letterari offrono uno specchio dai toni spesso caricaturali,
come nel caso del «grossolano artefice» recatosi da Giotto per farsi
dipingere su un palvese «l’arme sua» e dal pittore ridicolizzato e du-
ramente ripreso: «E dèi essere una gran bestia, che chi ti dicesse “Chi
se’ tu?” a pena lo sapresti dire; e giungi qui e di’ “Dipignimi l’arme
mia” […] Che arma porti tu? Di qua’ se’ tu? Chi furono gli antichi
tuoi? Deh, che non ti vergogni! Cominci prima a venire al mondo,
che tu ragioni d’arma, come stu fussi il Dusnam di Baviera» 20.  

Le larghe possibilità di ascesa sociale che si determinarono so-


prattutto nel Duecento e nei primi decenni del Trecento provoca-
rono la reazione di coloro che vedevano messa in pericolo la loro
posizione di preminenza, insidiata da un lato dalla concorrenza del-

VI. Sulla famiglia e sul significato di queste memorie si veda M. Zabbia, La memoria
domestica nella cronachistica notarile del Trecento, «Quellen und Forschungen aus
italienischen Archiven und Bibliotheken», 78 (1998), pp. 123-140 e Id., I notai e la
cronachistica cittadina italiana nel Trecento, Roma 1999 (Istituto storico italiano per
il medio evo, Nuovi studi storici, 49), in particolare alle pp. 91-116.
19 Le ricostruzioni prosopografiche sono alla base di indagini storiche che
hanno analizzato la mobilità sociale a partire dalle dinamiche familiari. Un pun-
to di riferimento fondamentale è costituito dal volume di J. Plesner, L’emigrazione
dalla campagna alla città libera di Firenze nel XIII secolo, Firenze, 1979 (ed.orig.
L’émigration de la campagne à la ville libre de Florence au XIII siècle, Copenhagen
1934). Per alcuni recenti contributi dedicati ai percorsi di ascesa sociale ed economi-
ca di gruppi famigliari si vedano P. Pirillo, Famiglia e mobilità sociale nella Toscana
medievale. I Franzesi Della Foresta da Figline Valdarno (secoli XII-XV), Firenze 1992;
P. Grillo, Milano in età comunale (1183-1276). Istituzioni, società, economia, Spoleto
2001, in particolare alle pp. 337-449; S. Tognetti, Da Figline a Firenze: ascesa econo-
mica e politica della famiglia Serristori, secoli XIV-XVI, Firenze 2003.
20 Franco Sacchetti, Il Trecentonovelle, novella n. LXIII. Nell’edizione a
cura di D. Puccini, Torino 2004 che ho utilizzato la novella si trova alle pp. 197-198;
il testo citato è a p. 198.

49
Donata Degrassi

la «gente nuova», e minacciata, dall’altro, dalla perdita di potere e


di capacità economica in precedenza detenuti 21. Sia pure in maniera
 

controversa, emergeva la consapevolezza che se era possibile salire,


lo era anche discendere e che non era più sufficiente appartenere ad
un ceppo familiare antico e illustre, oppure benestante e rispettato,
perché la propria posizione all’interno della società fosse assicurata.
La reazione a questo trend si appuntava soprattutto contro la possi-
bilità di accesso a quelle cariche e dignità che conferivano particola-
re onore e che, fino ad un passato assai recente, erano state esclusivo
appannaggio di chi ne poteva godere per nascita:
«Essendosi fatto in Firenze uno cavaliere, il quale sempre
avea prestato a usura ed era sfolgoratamente ricco, ed era gotto-
so e già vecchio, in vergogna e vituperio della cavalleria, la quale
nelle stalle e ne’ porcili veggo condotta: e se io dico il vero, pen-
si chi non mi credesse s’elli ha veduto, non sono molti anni, fare
cavalieri li meccanici, gli artieri, insino a’ fornai; ancora più giù,
gli scardassieri, gli usurai e’ rubaldi barattieri. E per questo fa-
stidio si può chiamare cacaleria e non cavalleria […] Ma e’ ci ha
peggio, che li notai si fanno cavalieri e più su; e ‘l pennaiuolo si
converte in aurea coltellesca» 22.  

La soddisfazione per un raggiunto benessere materiale o per


una posizione acquisita e il compiacimento per la riuscita di un’affer-
mazione sociale o di un raggiunto benessere economico non sempre
venivano affidate alle carte: molti e diversi potevano essere i modi
per manifestare tale compiacimento e si adottavano soprattutto quel-
li che suscitavano maggior impressione negli altri ed erano di per sé

21 Il riferimento è naturalmente alla nota terzina dantesca in Dante Alighieri,


La Divina Commedia, Inferno, XVI, 73: «La gente nuova e i sùbiti guadagni/ orgo-
glio e dismisura han generata,/ Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni». Sulle dinami-
che che interessarono i vertici della società, sui meccanismi che portarono famiglie
«di piccolo cominciamento» ad affermarsi in ruoli dominanti e sulla consapevolezza
che ne ebbero i contemporanei si veda P. Cammarosano, Il ricambio e l’evoluzione
dei ceti dirigenti nel corso del XIII secolo, in Magnati e popolani nell’Italia comuna-
le, Atti del quindicesimo convegno di studi (Pistoia 15-18 maggio 1995), Pistoia
1997, pp. 17-40. Per l’analisi di alcuni contesti peculiari S. Raveggi - M. Tarassi - D.
Medici - P. Parenti, Ghibellini, guelfi e Popolo grasso. I detentori del potere politico
a Firenze nella seconda metà del Dugento, Firenze 1978; J.K. Hyde, Padua in the Age
of Dante, Manchester-New York 1966; Grillo, Milano in età comunale, cit., alle pp.
307-371. Per un quadro d’insieme si veda F. Menant, L’Italie des communes (1100-
1350), Paris 2005, pp. 52-64.
22 La citazione è tratta da Sacchetti, Il Trecentonovelle, cit., novella n. CLIII,
pp. 419-420.

50
Quando la società è mobile: aspirazioni e possibilità

stessi eloquenti. Così lo speziale Giovanni Antonio Faie — che pure


lasciò un «Libro de memorie e amaystramento» in cui raccolse le
esperienze di una vita di fatiche e peripezie, coronate alla fine da suc-
cesso — fece rialzare e incoronare di merli la semplice casa di fami-
glia a Bagnone, in modo che si distinguesse dalle altre e richiamasse
gli orgogliosi palazzi che nelle città tramandavano il nome di una ca-
sata e la potenza da costoro raggiunta: «L’anno soprascrito […] feci
alzare la caxa de Votola e merlare, per modo che parea uno palazo
intre li altre» 23. Più spesso forse questi sentimenti erano veicolati in
 

manifestazioni apparentemente più effimere — almeno ai nostri oc-


chi — ma che avevano senza dubbio grande impatto nei confronti
della società: era così nel vestiario 24, nei comportamenti, nell’alimen-
 

tazione 25, nell’adozione dei codici simbolici che, all’interno dell’arti-


 

colata società urbana, andavano a distinguere gli appartenenti ai ceti


più elevati, che si trasferiva gran parte della carica di orgoglio, rival-
sa 26 e voglia di contare che l’acquisizione di benessere economico e
 

23 Giovanni Antonio da Faie, Libro de croniche e memorie e amaystramen-


to per l’avenire, in Uno scrittore lunigianese del ’400: Giovanni Antonio da Faie,
Pontremoli 1971, a p. 161. La testimonianza è un po’ più tarda rispetto al periodo
qui considerato — l’annotazione si riferisce al 1452 — ma mi pare interessante ripor-
tarla perché costituisce una delle rare voci che provengono dal mondo artigiano.
24 Giovanni Antonio da Faie esprime il suo compiacimento per la solida po-
sizione economica raggiunta e per l’avanzamento di status sociale conseguito anche
attraverso l’enumerazione di tutti i capi di vestiario di pregio e le costose suppellet-
tili casalinghe che può ora permettersi. Si veda G.A. da Faie, Libro de croniche e me-
morie, cit., p. 159.
25 Così si vanta Giovanni Antonio da Faie «in caxa mia non se mangiò may
pane de panico, né segele, né spelta, né queste biave rustiche: e per la mia bocha bu-
rata è bianco come neva, che molti l’ano per male. […] E notati che in del Terzero
non credo che ce ne sia nesuno che in caxa sua non se faza del pane del panigho»;
G.A. da Faie, Libro de croniche e memorie, cit., p. 159. Sull’alimentazione come ele-
mento di distinzione sociale si vedano A.M. Nada Patrone, Il cibo del ricco ed il
cibo del povero. Contributo alla storia qualitativa dell’alimentazione, Torino 1981;
M. Montanari, La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Roma-
Bari 1993. Per i consumi cerealicoli si vedano anche G. Pinto, Il Libro del Biadaiolo.
Carestia e annona a Firenze dalla metà del ’200 al 1348, Firenze 1978 e Id., Cultura
e produzione dei cereali in Toscana nei secoli XIII-XV, in Civiltà ed economia agricola
in Toscana nei secc. XIII-XV: problemi della vita delle campagne nel tardo medioevo,
Atti dell’ottavo convegno internazionale (Pistoia 21-24 aprile 1977), pp. 221-285.
26 Scrive Giovanni Antonio da Faie: «Hor, carisimi, queli invidioxi che mi
portavano invidia de vinti fiorini, che valea il mio avanzo, como stano hora, che è
maravilia che non crepano queli chi sono più vivi […] che vale el mio avanzo que-
sto dì 27 d’aghosto 1448 ciercha de fiorini seycento. E crepavano d’un paro de chal-
ze solate, se io me le meteva!»; vedi G.A. da Faie, Libro de croniche e memorie, cit.,

51
Donata Degrassi

status sociale portava, cui si univa la forte spinta all’emulazione e il


desiderio venir considerati tra coloro che detenevano potere e pre-
stigio. Si è ricordata poco più su la novella dell’artigiano arricchito
che voleva pavoneggiarsi con un palvese su cui fosse rappresentato
l’emblema della sua casata: chiaro — e maldestro — segno del ten-
tativo di attribuirsi una dignità ed uno status che non aveva e di as-
similarsi a quanti contavano. Avevano lo stesso scopo l’esibizione di
vesti e ornamenti di particolare valore e non è un caso che proprio in
quest’epoca si affermi una legislazione che disciplinava l’uso dell’ab-
bigliamento a seconda della categoria sociale di appartenenza, non
solo per impedire sprechi, sperperi e l’uso improduttivo della ric-
chezza, ma soprattutto perché le apparenze non dovevano alterare,
bensì corrispondere al posto che ciascuno ricopriva nella società 27.  

La legislazione suntuaria — com’è noto — ebbe limitato successo


nel suo tentativo di costringere il codice del vestiario all’omogenei-
tà rispetto alla categoria sociale; ciò tuttavia non infirmava, ma anzi
avvalorava, l’idea dell’esistenza di una precisa gerarchia sociale, che
doveva essere resa pubblica e manifesta alla comunità cittadina. Era
così nella solennità delle processioni religiose e nell’ordinato sfilare
di raggruppamenti socio-professionali nel corso dei rituali civici, che
si poteva trovare riconoscimento del posto raggiunto o una spinta a
proseguire nell’ascesa 28.  

Le dirette testimonianze dei contemporanei aggiungono ul-


teriori sfumature alla gamma dei sentimenti messi in campo. Nella
percezione di chi vedeva messi in pericolo lo status e la posizione,
un tempo di preminenza assoluta, la soddisfazione di chi le aveva
conquistate di recente veniva guardata con riprovazione e, nella sua
manifestazione, si coglieva piuttosto il desiderio di esagerarne l’im-
portanza, il gonfiarsi di eccessivo orgoglio. La superbia — peccato

p. 159.
27 Si vedano in proposito M.G. Muzzarelli, La disciplina delle apparenze. Vesti
e ornamenti nella legislazione suntuaria bolognese fra XIII e XV secolo, in Disciplina
dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società fra medioevo ed età moder-
na, a cura di P. Prodi, Bologna, 1994 (Annali dell’Istituto storico italo-germanico,
Quaderno 40), pp. 758-784; Ead., Gli inganni delle apparenze. Disciplina di vesti ed or-
namenti alla fine del medioevo, Torino, 1996; Ead., Guardaroba medievale. Vesti e so-
cietà dal XIII al XVI secolo, Bologna 1999, in particolare alle pp. 268-287 e 306-349.
28 Si veda A.I. Pini, Le arti in processione. Professioni, prestigio e potere nel-
le città-stato dell’Italia padana medievale, in Id., Città, comuni e corporazioni nel
medioevo italiano, Bologna 1986, pp. 259-291 (ed.orig. in Lavorare nel medio evo.
Rappresentazioni ed esempi dall’Italia dei secoli X-XVI, Todi, 1983, pp. 65-108).

52
Quando la società è mobile: aspirazioni e possibilità

capitale che nella società feudale connotava tipicamente gli apparte-


nenti ai ceti aristocratici, che esercitavano il potere e la violenza —
veniva ora attribuita o fatta propria anche da chi era arrivato in alto
grazie ai commerci, all’attività finanziaria, alle mansioni svolte nel-
l’ambito delle magistrature comunali. Lo esemplifica bene Lapo da
Castiglionchio, esponente di una famiglia di antica nobiltà che ri-
corda il confronto verbale avuto in gioventù con un suo coetaneo,
rampollo invece di una famiglia un tempo subordinata («vaxalli e fe-
deli de’ nostri progenitori»), al tempo in cui entrambi si trovavano
a Bologna come discepoli dello Studium 29. «Il detto giovane, allora
 

riccho però che ’l padre e l’avolo per artificio e mercatanzia erano


fatti cittadini di Firençe et divenuti ricchi, et per questo superbetto,
un giorno ebbe meco turbatione e nella sua ira disse a me: E ti pare
esser molto nobile perché tu sia da Castiglionchio? Io e’ miei mag-
giori siamo così nobili come tu e prima fummo di quello luogo che tu
o tuoi maggiori». È facile per Lapo rintuzzare la vanagloria del coe-
taneo: «Appara adumque, dissi io a llui, a saper che non ogni anticho
è nobile, però che tanto può esser anticho il vaxallo quanto il signo-
re […] Altro è adunque esser anticho nella servitù, altro è esser an-
ticho nella signoria».
Ma se questo rappresenta solo l’avvio per una riflessione più
generale che Lapo da Castiglionchio intraprende a proposito di che
cosa sia e in che modo debba intendersi la nobiltà 30, nelle sue consi-
 

derazioni si coglie anche l’eco di un modo di sentire piuttosto diffu-


so che attribuiva il declino delle maggiori e più antiche casate ad una
sorta di ciclo che regolava tutte le cose allo stesso modo degli organi-
smi naturali e che vedeva una fase di crescita, sviluppo e fioritura cui
succedeva una di esaurimento, declino estinzione 31. Una decadenza
 

29 La testimonianza si legge nell’Epistola al figlio Bernardo di Lapo di


Castiglionchio, in Antica possessione con belli costumi, Due giornate di studio su
Lapo da Castiglionchio il Vecchio (Firenze-Pontassieve, 3-4 ottobre 2003), a cura di
F. Sznura, Firenze 2005, pp. 335-431, a p. 366.
30 Non mi addentro nell’analisi della concezione di nobiltà espressa nella sua
lettera da Lapo di Castiglionchio, che, sulla scia di Bartolo da Sassoferrato, vede non
solo nell’origine famigliare ma nella «dignità» la vera nobiltà: «solo la progenie e
l’origine non è degnità e non dà degnità». Si veda in proposito la lucida analisi di C.
Donati, L’Epistola di Lapo da Castiglionchio e la disputa sulla nobiltà a Firenze fino
al consolidamento del principato, in Antica possessione, cit., pp. 30-45.
31 Analogo modo di vedere è espresso anche in Dante, Divina Commedia,
Paradiso, XVI, 73-81: «Se tu riguardi Luni e Orbisaglia/ come sono ite, e come se ne
vanno/ di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,/ udir come le schiatte si disfanno/ non ti

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Donata Degrassi

dunque in qualche modo inevitabile per quanti da tempo si trovava-


no ai vertici della società, anche se — a suo modo di vedere — era
possibile tentare di invertire il declino, utilizzando le proprie capaci-
tà e conoscenze per trovare nuove vie di affermazione all’interno di
una società profondamente mutata:
«Questa tua origine, se nobile fu, è sì invecchiata che quasi è
venuta in oblivione e quasi la nostra progenie prima invecchia-
ta et extenuata fu che molti che oggi sono nobili avessono prin-
cipio, e per tanto conviene a te fare pensiero e proposito per tua
virtù rinovalla, la qual cosa non potrai meglio fare che colla hu-
milità e con assiduo studio di vertù e di famose scientie, alle qua-
li già buono principio ài dato» 32.  

Come si coglie da molte delle testimonianze riportate, tra i fatto-


ri che contribuirono a cambiare la fisionomia della società e che per-
misero ai singoli di intraprendere percorsi prima impensabili c’era
senza dubbio la ricchezza 33. Una ricchezza che non derivava più sol-
 

tanto da patrimoni consolidati, da terre e immobili e posizioni di


potere trasmessi da una generazione all’altra. Cospicue fortune pote-
vano esser costruite in tempi brevi da chi era in grado di sfruttare le
nuove opportunità che si offrivano nell’ambito cittadino, come nel

parrà nova cosa né forte,/ poscia che le cittadi termine hanno./ Le vostre cose tutte
hanno lor morte,/ sì come voi».
32 Epistola al figlio Bernardo, cit., p. 340.
33 Non a caso il secolo XIII è percorso da un acceso dibattito che riguarda pro-
prio il rifiuto della ricchezza, sul quale esiste una vastissima produzione di studi, di
cui si indica solo qualche titolo di riferimento: La conversione alla povertà nell’Italia
dei secoli XII-XV, Atti del XXVII Convegno storico internazionale, Todi 14-17 otto-
bre 1990, Spoleto 1991; Dalla Sequela Christi di Francesco d’Assisi all’apologia della
povertà, Atti del Convegno internazionale (Assisi, 18-20 ottobre 1990), Spoleto 1992;
G. Todeschini, Ricchezza francescana: dalla povertà volontaria alla società di mercato,
Bologna [2004]. Un’opinione del tutto diversa è quella testimoniata da una canzone
contro la povertà, attribuita — non si sa con quanta fondatezza — a Giotto. L’opinione
che in essa viene espressa è che la ricchezza costituisca anche uno strumento di sal-
vaguardia dell’ordine sociale, mentre la povertà può indurre a commettere reati e far
venir meno alla virtù, all’onore e a tutti i valori su cui si basava non solo la societas chri-
stiana, ma anche la società civile: «[Povertà] di peccare è via / facendo spesso a’ giudici
far fallo / e d’onor donna e damigella spoglia, / e fa far furto forza e villania, / e spes-
so usar bugia, / e ciascun priva d’onorato stallo./ […] Certo parmi grand’onta / chia-
mar virtute quel che spegne il bene, / e molto mal s’avvene / cosa bestial preporre alle
vertute, / le qua’ donan salute [salvezza] /a ogni savio intendimento accetta / e chi più
vale in ciò più si deletta». La canzone si legge in Poeti minori del Trecento, a cura di N.
Sapegno, Milano-Napoli 1952, pp. 439-42; il testo citato si trova alle pp. 440-441.

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Quando la società è mobile: aspirazioni e possibilità

caso di Paolo di Trintinello, figlio di uno dei tanti artigiani tessili emi-
grati da Verona a Bologna negli anni Venti del Duecento, a seguito
dei provvedimenti attuati da quest’ultima città per attirare valenti ar-
tigiani che incrementassero la produzione tessile laniera 34. L’attività 

di Paolo si sviluppò inizialmente nell’ambito artigianale, seppur in


un settore diverso da quello paterno, quello del cuoio (nel 1294 ven-
ne immatricolato fra i cordovanieri), ma fu soprattutto grazie alle
speculazioni creditizie che egli riuscì a mettere insieme una fortu-
na davvero notevole, tanto da risultare uno dei più facoltosi contri-
buenti nell’estimo di Bologna del 1296-97 e da essere probabilmente
il più ricco dei prestatori esterni alla Società del Cambio 35.  

La disponibilità di averi — immobili ma soprattutto mobi-


li — non consentiva soltanto di risolvere i problemi immediati del-
la sopravvivenza e di vivere con agiatezza; essa permetteva anche di
costruire posizioni socialmente più forti, sia per sé che per i propri
discendenti. La ricchezza permise di intraprendere carriere onore-
voli, che portarono a posizioni sociali di riconosciuto valore 36. La  

ricchezza fu insomma un potente motore di propulsione sociale e


come tale andò a intaccare, a modificare e talora a ribaltare le gerar-
chie esistenti.
A ben vedere però la disponibilità di consistenti risorse eco-
nomiche risulta essere un mezzo necessario, ma non sufficiente, per
raggiungere una promozione sociale. La ricerca della ricchezza e del
miglioramento di collocazione sociale poteva risolversi in una vana
rincorsa di condizioni che si rivelavano solo in apparenza migliori
della propria, come indicano i caustici versi di un poeta trecentesco:
«El calzolai’ fa ‘l suo figliuol barbiere,
così ‘l barbier fal ‘l figliuol calzolaio,

34 Si veda M. Fennell Mazzaoui, The emigration of veronese textile artisans


to Bologna in the thirteenth century, «Atti e memorie dell’Accademia di agricoltura,
scienze e lettere di Verona», s. VI, XIX (1967-68), pp. 275-321; Ead., Artisans mi-
grations and technology in the Italian textile industry in the late middle ages (1100-
1500), in Strutture familiari, epidemie, migrazioni nell’Italia medievale, a cura di R.
Comba - G. Piccinni - G. Pinto, Napoli 1984, pp. 519-534.
35 Si veda M. Giansante, L’usuraio onorato. Credito e potere a Bologna in età
comunale, Bologna 2008, alle pp. 26-27 e 164.
36 Un eclatante caso di ascesa sociale è quella di Musciatto Franzesi «di ricchis-
simo e gran mercatante in Francia cavalier divenuto», come lo definisce Boccaccio
nel suo Decameron, giornata prima, novella prima, 7. Si veda in proposito Pirillo,
Famiglia e mobilità sociale, cit., pp. 51-58.

55
Donata Degrassi

el mercante fa ‘l figliuol notaio,


così ‘l notaio fa ‘l figliuol drappiere.
Mal contento è ciascun di suo mestiere;
ciascun guadagnar pargli col cucchiaio,
l’altro gli par che faccia collo staio» 37. 

Per dar luogo a risultati efficaci e duraturi il raggiungimento del


benessere economico andava accompagnato da altri requisiti, come
l’acquisizione di status e di autorevolezza riconosciuti dalla comuni-
tà cittadina. Per questo, mentre la fortuna, l’abilità o la spregiudica-
tezza negli affari potevano portare una singola persona ad affermarsi
economicamente, a costruirsi in breve tempo una ricchezza anche
cospicua, l’avanzamento nella scala sociale costituiva un progetto fa-
miliare che normalmente si distendeva sull’arco di più generazioni e
in cui ciascun individuo era chiamato a fare un breve passo; solo in
circostanze particolari si aveva modo di accedere ad un gradino su-
periore. I passaggi troppo bruschi e rapidi di status, compiuti da un
solo individuo e con una distanza troppo accentuata rispetto alla po-
sizione di partenza, normalmente non venivano accettati e potevano
avere esiti negativi o controproducenti 38.  

Le progettualità familiari dei ceti più elevati predisponevano


dunque destini differenziati per le generazioni giovanili, in vista del-
le strategie d’ordine generale del casato, i cui obiettivi consistevano
nel mantenere, consolidare e possibilmente espandere il nucleo pa-
trimoniale e le relazioni che assicuravano il potere. Così per alcuni si
contraevano alleanze matrimoniali vantaggiose e li si indirizzava alla

37 Il sonetto è attribuito a Bindo Bonichi, esponente della borghesia mercan-


tile senese. Lo si legge in Poeti minori del Trecento, cit., a p. 291.
38 Anche se si svolge in un contesto completamente diverso da quello preso in
considerazione in questo convegno, vale la pena di ricordare, per il suo valore paradig-
matico, la vicenda narrata nel poema Meier Helmbrecht di Wernher der Gartenaere.
Helmbrecht, figlio di un contadino agiato, incarna infatti l’abbandono della propria
condizione per tendere ad uno stile di vita e ad uno status troppo alti e del tutto lon-
tani da quello originari. Tutto preso dai racconti del ciclo di Orlando, egli aspira a di-
ventare cavaliere e pertanto si accompagna ad un gruppo di ritter, imitandone modi
di vestire, di comportarsi di agire. Il padre tenta, inutilmente, di dissuaderlo da una
scelta che non poteva che condurlo alla rovina, ma il giovane si ribella, affermando
di voler vivere a suo modo la propria vita. Di fatto sperimenterà l’esclusione sia dal
suo ceto di origine, che aveva sdegnosamente rifiutato, sia da quello d’elezione, che
lo considerava un intruso. Emarginato e rimasto senza sostegno si incamminerà verso
una tragica e ampiamente prevedibile fine. Sulla vicenda vedi le considerazioni di P.
Cammarosano, Padri e figli nel medioevo europeo: un modesto contributo alla storia dei
sentimenti, «Studi medievali», XLIV (2003), pp. 1151-1162.

56
Quando la società è mobile: aspirazioni e possibilità

cura degli affari e del patrimonio; altri venivano inseriti nell’ambito


politico, che contemplava l’accesso agli uffici e alle magistrature cit-
tadine; altri ancora venivano avviati verso gli ordini ecclesiastici, che
davano modo anch’essi di accedere a posizioni di rilievo e di rico-
prire ruoli di grande prestigio, che assicuravano al casato familiare
benefici di diverso genere 39. La tendenza ad indirizzare verso per-
 

corsi diversificati il futuro dei figli era talora enunciata con chiarez-
za, come in Paolo da Certaldo «Se tu hai figliuoli assai, polli a più arti
e non tutti a una» 40; ma che fosse una prassi corrente e non un’ indi-
 

cazione generica lo si può riscontrare semplicemente dai dati biogra-


fici di molte famiglie 41.  

Strategie di questo tipo non erano esclusive degli strati eminen-


ti della società, ma erano operanti anche al livello medio-basso, qua-
le poteva essere l’ambito degli artigiani, in cui si constata la tendenza
piuttosto diffusa ad avviare i figli verso mestieri diversi 42. I disegni  

39 Esemplare il caso dei Rabatta, casata della nobiltà minore del Mugello inurba-
tasi a Firenze agli inizi del Trecento. Qualche decennio più tardi, uno dei membri del-
la famiglia, Antonio di Vanni di Mingozzo, si trasferì a Gorizia, dove nacquero i suoi
quattro figli. Al primo, Giovanni, toccò il compito di mantenere e accrescere i beni fon-
diari, sia feudali che di proprietà. Il secondo fratello, Pietro, prese gli ordini ecclesiasti-
ci ed entrò nel ristretto novero dei canonici della cattedrale di Padova. In questa città
operò anche un terzo fratello, Enrico, ricordato come notaio e familiaris dei Carraresi,
e soprattutto Michele — il più noto — che fu ambasciatore assai attivo nella diffici-
le opera ricerca di alleanze per i suoi signori e di mediazione fra i tanti interessi oppo-
sti che si scontravano nello scenario dell’Italia nord-orientale. Sulla famiglia da Rabatta
si veda S. Cavazza - G. Ciani, I Rabatta a Gorizia, Gorizia,1996; la figura di Michele
da Rabatta è attentamente ricostruita in F. Seneca, Un diplomatico goriziano a cavalie-
re dei secoli XIV e XV: Michele da Rabatta, «Memorie storiche forogiuliesi», XL (1952-
53), pp. 138-174.
40 Paolo da Certaldo, Libro di buoni costumi, in Mercanti scrittori. Ricordi nella
Firenze tra Medioevo e Rinascimento, a cura di V. Branca, Milano 1986, p. 25, n. 124.
41 Ad esempio Lapo da Castiglionchio fu avviato agli studi umanistici e alla
carriera ecclesiastica. Venne beneficiato nella pieve di Miransù, della quale la fami-
glia deteneva il patronato, ma successivamente — come riferisce egli stesso nell’epi-
stola al figlio — dovette tornare allo stato laicale per poter contrarre matrimonio e
assicurare la discendenza del casato, minacciato di estinzione per la morte del fra-
tello: «Io proprio, essendo stato lungo tempo chierico et piovano della detta pieve
da Miransù e così studiato e divenuto dottore et letto più anni, e sperava per quel-
la via di venire in istato, nientemeno veggendo la nostra famiglia quasi mancare di
persone, per çelo della nostra famigla et per avere famigla presi mogle»; Epistola al
figlio Bernardo, cit., p. 375.
42 Si veda D. Degrassi, Gli artigiani nell’Italia comunale, in Ceti, modelli, com-
portamenti nella società medievale (secoli XIII-metà XIV), Atti del diciassettesimo
convegno di studio (Pistoia 14-17 maggio 1999), Pistoia 2001, pp. 147-173.

57
Donata Degrassi

di promozione sociale, in questi casi, potevano prevedere l’avvio, at-


traverso l’apprendistato, a mestieri più prestigiosi o remunerativi ri-
spetto a quello paterno, in vista magari — prima o poi — di accedere
ad attività che permettevano di svincolarsi dal lavoro manuale, come
quella notarile. Si offriva così la possibilità alle generazioni successi-
ve di percorrere carriere onorevoli, che dalla pratica del notariato ap-
prodavano allo svolgimento di attività negli uffici e nelle cancellerie
comunali 43 e che potevano servire da base per ulteriori avanzamenti,
 

come l’accesso alle libere professioni attraverso la frequenza di uno


studium 44. «Haec sunt scale per quas humilis provheitur in sublime,
 

dum huius gratia minimus quisque assumitur in consiliis nobilium et


potentum» si asserisce in un trattato, a proposito dello studio della
retorica, delineando in pochi tratti il suo utilizzo strumentale a fini
di promozione sociale 45. Ed ecco, sempre a tale proposito, un inno
 

goliardico che, in tono solo apparentemente scherzoso, sviluppa il


tema dell’invito ad impegnarsi negli studi che un padre rivolge al fi-
glio, adducendo ragioni assai concrete e pratiche: mentre i diversi
mestieri artigiani praticati per guadagnarsi da vivere, come pure ta-
lune attività che apparentemente godevano di maggior considerazio-
ne — come quella del mercante o dell’uomo d’armi — risultano tutti
faticosi, pesanti o rischiosi, la via degli studi consente invece di rag-
giungere soddisfazioni materiali e riconoscimento sociale 46:  

43 Ecco come viene delineato da Lapo di Castiglionchio un percorso di ascesa


sociale da parte di famiglie provenienti dal contado: «però che anchora al dì d’og-
gi sono nella contrada del detto castello di Castiglionchio molti de’ successori delle
dette famigle, nostri antichi fedeli e vaxalli, e molti ne sono nella città di Firenze fat-
ti cittadini e artefici e ricchi, e negli uffici della città di Firenze infino all’uficio de’
Signori Priori»; Epistola al figlio Bernardo, cit., p. 367.
44 «Divites ergo et mediocres addiscant iura et pauperes phisicam, quia iste
scientie lucra conferunt et honores» aveva affermato Boncompagno da Signa, decli-
nando le scelte del percorso professionale in base alle possibilità e alle aspettative
del ceto sociale di provenienza. Vedi P. Marangon, La «Quadriga» e i «Proverbi» di
maestro Arsegino. Cultura e scuole a Padova prima del 1222, «Quaderni per la storia
dell’Università di Padova», 9-10 (1976-77), pp. 1-44, a p. 22.
45 La citazione è tratta dalla «Quadriga» di Arsegino, che si autodefinisce «ma-
gister notarius» e insegnò nello studio patavino. Vedi Marangon, La «Quadriga»,
cit., a p. 21.
46 Il ritmo, annotato su una carta del ms. 142 della Biblioteca Guarneriana
di San Daniele del Friuli, è stato pubblicato, con una breve introduzione, da E.
Franceschini, Scritti di filologia latina medievale, Padova 1976, pp. 315-322.

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Quando la società è mobile: aspirazioni e possibilità

«Laus et honor pueris/ solet evenire/ qui abnuunt ocia/ et so-


lent servire/ opere vel scientie, que/ nequeunt perire./ Ergo tu
ad studium,/ fili, debes ire.
Vide fabrum, fili mi,/ qualiter est pictus/ in vultu carboni-
bus,/ viliter amictus;/ ferrum ferro malleat/ dans sonoros ictus/
ut sit ei modicus/ atque pauper victus.
Vide carpentarium/ quantum est intentus/ ad laborem ma-
nuum/ prout dat iuventus;/ nil valet in senio/ quia erit lentus/ et
tunc sibi deperit/ lucrum quasi ventus.
Vide pellificem/ male coloratum/ fere pre vigiliis/ oculis or-
batum/ numquam habet requiem/ nisi super stratum/ dum quie-
scit modicum/ dicit se beatum.
Sutorem videas/ qualiter sit unctus/ manibus et pollice/ sem-
per male punctus,/ saccis atque subulis/ tota die iunctus,/ appa-
ret in facie/ quasi sit defunctus.
Licet satis utiles/ mundo sint textores/ sunt tamen homini-
bus/ cuncti viliores;/ quamvis lucrum habeant,/ non tamen ho-
nores,/ nam corrupti furfures/ propinant livores.
Mercatores videas/ quali cum labore/ vivunt ut familie/ pre-
sint cum honore;/ undas maris transvolant/ magno cum timore,/
ubi res et corpora/ perdunt cum dolore.
Arte de carnificum/ parum est dicendum:/ isti quasi cochi
sunt/ qui ad comedendum/ cibos parant populo/ et dant ad
emendum;/ et ne vendant animam/satis est timendum.
Piscatores videas/ qualiter in mari/ et in aquis multis/ solent
naufragari;/ arte vel laboribus/ nequeunt ditari,/quorum dum
nil capiunt/ dies sunt amari.
Vide tabernarios/ nequiter vivens:/ ipsi sunt divitias male
aquirentes./ Ad eterna premia/ non opponunt mentes/ sed qua-
liter cum fraude/ decipiant gentes.
Laborare proprium/ est agricolarum;/ quod si opus sanctum
sit,/ tamen est amarum/ estu, fame, frigore,/ imbre pluviarum:/
de quorum miseriis/ non est loqui parum.
Vide, fili, comites/ et barones terre/ qui semper in armis
sunt,/ quod est durum ferre:/ipsis semper convenit/ interesse
guerre:/ hanc autem miseriam/ dolor est referre.
Sed tu disce litteras/ et vires earum/ quia sine littera/ homo
valet parum;/ littere te facient/ genere preclarum,/ omnibus
amabilem/ atque Deo carum.
Vide, fili, clericos/ purpura splendentes:/ ipsi sunt divitias/
vere possidentes,/ ad dolores aliquos/ non apponunt mentes:/
sunt qui fiunt clerici/ vere sapientes.»

Al di là delle citazioni letterarie o degli scanzonati ritmi goliardi-


ci — che potrebbero rappresentare nulla più che un divertissement,
cui attribuire modesto credito e portata limitata — è una ricca docu-
59
Donata Degrassi

mentazione notarile, diffusa un po’ ovunque nella penisola, a com-


provare la frequenza dei giovani provenienti dall’ambito artigianale
cittadino ma anche da quello dei villaggi rurali non solo ai primi gra-
di della scuola, dove si riceveva solo un primo e sommario avvio alla
lettura e alla scrittura, ma anche a quelli più elevati 47. Nelle diverse
 

realtà cittadine della penisola, piccole o grandi che fossero, «il fatto
che un modesto artigiano — un sarto, un calzolaio, un fabbro — im-
pegnasse una parte consistente del proprio reddito, per dare istru-
zione almeno ad un figlio costituisce un segno evidente che la scuola
era considerata uno strumento indispensabile di promozione socia-
le ed economica e che le spese sostenute per la sua frequenza erano
considerate alla stregua degli investimenti più produttivi» 48.  

La società cittadina dunque offriva qualcosa che rappresenta-


va una vera e propria novità, vale a dire non solo possibilità di arric-
chimento, ma anche percorsi di scorrimento sociale, che potevano
portare ad un’elevazione di status, fondati non su elementi fortuiti
ed accidentali, ma su di un iter prestabilito. In questi percorsi la for-
mazione culturale aveva un ruolo determinante. Ed era nella scuola
— specialmente ai livelli più alti — che i rampolli delle antiche casa-
te aristocratiche e i figli dei nuovi ceti in cerca di affermazione socia-
le si trovavano fianco a fianco e si misuravano non solo sul terreno
dell’apprendimento, ma ancor più in quello del quotidiano confron-
to e dell’ostentazione. Episodi come quello cui accenna Lapo di
Castigliochio, avvenuto non a caso «a Bologna in istudio», non do-
vevano essere infrequenti, magari spesso confusi con altre manifesta-
zioni di goliardica, giovanile intemperanza.
47 Si veda in proposito D. Balestracci, Cilastro che sapeva leggere.
Alfabetizzazione e istruzione nelle campagne toscane alla fine del medioevo (XIV-XVI
secolo), Pisa 2004, pp. 121-124.
48 Così nota, con riferimento alla cittadina di Gemona in Friuli, C. Scalon,
Chiese e laicato nella formazione scolastica e culturale del Trecento, in Gemona nel-
la Patria del Friuli: una società cittadina nel Trecento, Trieste 2009, pp. 135-153, a p.
146. È un dato che trova conferma in molte altre realtà. Anche a Genova si conserva-
no numerosi contratti, stipulati, nei primi decenni del Trecento, tra genitori — quasi
sempre artigiani — e il maestro Salvo da Pontremoli. Questi doveva insegnare l’ars
gramatice, in modo che gli allievi imparassero a «legere carta set facere litteras ad
modum mercatorum […] et erit sufficiens pro scrivendo in quidam apotheca»; vedi
G. Petti Balbi, Salvo di Pontremoli maestro di scuola a Genova tra secolo XIII e XIV,
«Studi medievali», s. 3°, XVI (1975), pp. 787-794; vedi anche Ead., Istituzioni citta-
dine e servizi scolastici nell’Italia centro-settentrionale tra XIII e XV secolo, in Città e
servizi sociali nell’Italia dei secoli XII-XV, Centro italiano di studi di storia e d’arte
di Pistoia, Dodicesimo convegno di studi, Pistoia 1990, pp. 21-48.

60
Quando la società è mobile: aspirazioni e possibilità

Il punto, che doveva esser ben chiaro a tutti, stava nel fatto che
ruoli che in precedenza erano appannaggio soltanto di quanti appar-
tenevano all’elite sociale, in virtù della loro ascendenza familiare e
della rete di relazioni di cui facevano parte, diventavano invece mete
possibili per chi pazientemente saliva, passo dopo passo, gli scali-
ni che davano accesso alle professioni più prestigiose. Nel contem-
po, gli spiriti più consapevoli tra i primi, com’era appunto Lapo di
Castiglionchio, riuscivano ad individuare per la propria stirpe e clas-
se sociale un futuro in cui a contare era non l’ascendenza familiare
ma la professionalità fondata sulla solidità degli studi: «Tu adumque
figliuolo […] penserai per tua virtù potere salire a più alto grado e
di farti più nobile e a’ tuoi posteri e successori dare maggiore nobili-
tà che da’ tuoi progenitori trattta non ài. Et a questo fare, nulla veg-
gio meglio a tua conditione che ’l fervente studio, per lo quale salito
ad perfetti gradi di scientie leggiermente appresso sarai tirato ad alto
grado di stato felice, nel quale operando bene […] potrai te e’ tuoi
fare nobilissimi» 49. 

Al livello superiore della società, infatti, quello dei ceti aristo-


cratico-nobiliari, la mobilità sociale poteva talora assumere conno-
tati per certi versi di segno opposto. Un problema assai sentito era
quello del mantenimento dei benefici di cui si godeva e che si av-
vertiva essere costantemente insidiati da un lato dall’emergere, ap-
punto, dei nuovi ricchi e dei nuovi potenti, ma dall’altro anche dagli
stessi meccanismi di appartenenza a quell’ambito sociale, che impo-
nevano spese di ostentazione rilevanti e suscettibili di produrre in
breve tempo un impoverimento che comportava anche una perdi-
ta di status 50, come racconta Boccaccio a proposito di Federigo de-
 

49 Epistola al figlio Bernardo, cit., pp. 339-340.


50 Una delle testimonianze più incisive resta la nota terzina di Dante, Paradiso,
XV, 103-105: «Non faceva, nascendo, ancor paura/ la figlia al padre, che ‘l tempo e
la dote/ non fuggien quinci e quindi la misura». Celebre anche il passo nella Cronaca
di Giovanni Villani, libro VII, capitolo LXIX, 19-39 in cui elogia il sobrio stile di
vita del Duecento e rammenta che all’epoca «libbre C era comune dota di moglie e
libbre CC o CCC era a quegli tempi tenuta isfolgorata»; vedi G. Villani, Nuova cro-
nica, edizione critica a cura di G. Porta, Parma, 1990, vol. I, p. 364. Oltre alla costi-
tuzione delle doti per le figlie, vi erano altri comportamenti tipici dello stile di vita
dei ceti aristocratici che comportavano ingenti esborsi di denaro, quali ad esempio
il mantenimento di cavalli da guerra, falconi e cani; le feste e i banchetti a cui era-
no invitate un gran numero di persone; l’acquisto di gioielli e vesti lussuose. Vedi A.
Barbero, I modelli aristocratici, in Ceti, modelli, comportamenti, cit., pp. 239-254. La
consapevolezza del diverso stile di vita che differenziava le antiche stirpi nobiliari da

61
Donata Degrassi

gli Alberighi: «acciò che egli l’amor di lei acquistar potesse, giostrava
armeggiava, faceva feste e donava, ed il suo senza alcun ritegno spe-
deva […]. Spendendo adunque Federigo oltre ad ogni suo potere
molto e niente acquistando, sì come di leggere addiviene, le ricchez-
ze mancarono ed esso rimase povero» 51.  

Il meccanismo di trasmissione poteva talora incepparsi anche


per la possibilità di scelta dell’individuo, che talora poteva rifiutar-
si di compiere il percorso già progettato per lui, mettendo in campo
i propri obiettivi, le proprie finalità, il proprio bene-essere, ben di-
versi rispetto a quelli del gruppo di appartenenza, ma non per que-
sto meno validi e di cui anzi sosteneva la priorità. Si trattava di scelte
individuali che, anche se non furono maggioritarie ma riguardaro-
no una ridotta frangia di persone, aprirono tuttavia crepe nell’edifi-
cio consolidato di valori, diritti e doveri e che, proprio per questo,
diventavano motivo di ripensamento e conflitto a livello più genera-
le. Il riferimento prioritario è agli esempi di rifiuto della ricchezza e
del prestigio sociale posto in atto da Francesco d’Assisi e dai suoi se-
guaci. Tra costoro molto interessante è Salimbene de Adam 52, pro-  

prio per i dettagli che egli ci da’ nella sua Chronica del contrasto con
il padre, contrasto del quale possiamo sottolineare alcuni elementi.
Una prima considerazione riguarda il fatto che non era la scelta di
abbracciare la professione religiosa in quanto tale a costituire il mo-
tivo del conflitto; come si è visto in altri casi, questo tipo di percorso
era normalmente contemplato per alcuni dei figli o delle figlie. Tale
opzione tuttavia comportava automaticamente la prospettiva di non
dar luogo ad una discendenza legittima ed aveva perciò senso quan-
do vi erano parecchi discendenti da sistemare ed il problema, dal
punto di vista del gruppo famigliare, era quello di limitare fraziona-
menti del patrimonio e riduzioni del potere. La scelta diventava inve-
ce catastrofica, in quanto segnava la fine di un casato, quando non vi

quanti erano addivenuti ‘grandi’ in tempi recenti, grazie ai traffici e alla ricchezza è
palese nell’Epistola al figlio Bernardo di Lapo di Castiglionchio: «truovo anchora
che, come che i detti nostri progenitori tornassono a stare a Firençe […] nienteme-
no per ciò che non discessono mai a arti né ad mercatantia, usavano più in contado
a lloro tenute uccellando et cacciando et tegnendo loro usançe anche in città, infino
agl’avoli nostri»; Epistola al figlio Bernardo, cit., p. 377.
51 Giovanni Boccaccio, Decameron, giornata quinta, novella IX, 5-7. Vedi
anche G. Cherubini, Ceti, modelli, comportamenti nel Decameron, in Ceti, modelli,
comportamenti, cit., pp. 337-355, in particolare alle pp. 350-355.
52 Si veda in proposito G. Severino, Storiografia, genealogia, autobiografia. Il
caso di Salimbene de Adam, in Cultura e società, cit., vol. II, pp. 775-793.

62
Quando la società è mobile: aspirazioni e possibilità

erano altri che potessero portarne avanti il nome e le sorti, come era
appunto il caso di Salimbene de Adam 53. Come racconta lui stesso:
 

«Per tutta la sua vita mio padre si dolse del mio ingresso nell’Ordine
dei frati minori, né mai si consolò, dato che non aveva un figlio che
gli succedesse nell’eredità. Ed essendo venuto l’imperatore a Parma,
egli ricorse a lui, denunciando i frati minori che gli avevano sottrat-
to il figlio. Allora l’imperatore scrisse a frate Elia, ministro generale
dell’Ordine […] che se aveva caro il suo favore, accogliesse la richie-
sta di mio padre e mi restituisse a lui […] Vennero dunque con mio
padre molti cavalieri al convento dei frati di Fano, per vedere come
andava a finire la faccenda» 54. Vorremmo conoscere le motivazio-
 

ni profonde di Salimbene, ascoltare la sua voce. Ma alle richieste del


padre egli risponde solo con citazioni bibliche ed evangeliche, quasi
a dire che non era lui a parlare, ma era la voce di Dio che parlava at-
traverso la sua bocca.
Non è un caso che questi esempi ed altri che potremmo prende-
re in considerazione — fra cui non mancano analoghe opzioni fem-
minili — riguardino i giovani e il momento, che si presenta sempre
come assai critico, delle scelte decisive della loro vita. Potremmo in-
quadrare questi episodi nel cliché ricorrente del conflitto generazio-
nale tra padri e figli o in quello della ‘dubitosa gioventù’ 55, con la sua
 

potenziale carica eversiva rispetto ai valori consolidati rappresenta-


ti dai padri 56. Ma — a mio parere — questi percorsi possono anche
 

53 «Ego frater Salimben et frater Guido de Adam domum nostram destruxi-


mus in masculis et feminis, religionem intrando, ut eam in celis edificare possemus»
riferisce lui stesso; vedi Salimbene de Adam, Cronica, nuova edizione critica a cura
di G. Scalia, Bari, 1966, vol. I, p. 78.
54 Ivi, La traduzione del testo è di B. Rossi, Bologna, 1987, a p. 55.
55 Si veda E. Crouzet-Pavan, Un fiore del male: i giovani nelle società urba-
ne italiane (secoli XIV-XV), in Storia dei giovani, 1. Dall’antichità all’età moderna, a
cura di G. Levi - J.-C. Schmitt, Roma-Bari 1994, pp. 211-277. L’autrice rileva «la
cupa definizione dei giovani riflessa nei diversi testi della fine del medioevo italia-
no, che associa la gioventù non tanto ad una funzione o a dei ruoli, quanto a com-
portamenti in larga misura condannabili», ivi, p. 213. Interessanti anche le ragioni,
di natura sociale e familiare, addotte a spiegazione di comportamenti violenti da
D. Herlihy, Some psychological and social roots of violence in the Tuscan Cities,
in Violence and Civil disorder in Italian Cities, 1200-1500, a cura di L. Martines,
Berkeley, 1972, pp. 129-154. Un contributo recente è quello di I. Taddei, Fanciulli e
giovani. Crescere a Firenze nel Rinascimento, Firenze 2001.
56 Secondo Leon Battista Alberti compito del padre era «frenare gli apetiti de’
giovani, destare gli animi pigri, scaldare le volontà fredde e onorare sé stessi insieme
e magnificare la patria e la casa sua, […] contenere con gravità e modo e ristrignere

63
Donata Degrassi

essere considerati la spia di una nuova consapevolezza che l’indivi-


duo stava acquistando rispetto al corpo sociale 57: il tentativo forse,
 

di affermare la legittimità del principio che le decisioni riguardan-


ti la propria vita e la propria persona dovessero essere consonanti
con le scelte e gli obiettivi propri e non semplicemente conformarsi a
quelli imposti dalla famiglia, dal casato o dal gruppo di appartenen-
za. Nello stesso tempo mi pare che risulti evidente anche il fatto che,
salvo rari casi riguardanti personaggi eccezionali, le scelte divergen-
ti dell’individuo acquistavano forza e ricevevano possibilità di realiz-
zazione solo se trovano l’appoggio e il sostegno di un altro gruppo,
possibilmente forte e ovviamente diverso da quello di origine o co-
munque di appartenenza. Così, nel caso di Salimbene, egli, nel duro
contrasto con il padre, riuscì a tener ferme le sue scelte in quanto fa-
ceva ormai parte dei Frati minori 58, che non solo sostennero le sue
 

ragioni, ma se ne fecero portavoce, consapevoli della più generale


forza esemplare che tale vicenda poteva avere.
La giovinezza era dunque quel momento della vita in cui si av-
vertiva che il destino futuro stava nelle proprie mani e che si poteva
raggiungere un benessere maggiore — la ricchezza, il miglioramento
del proprio status, ma anche la conoscenza di paesi lontani e di altre
società — lasciando da parte regole e vie consolidate di affermazione
nel proprio ambito e ricercando, lontano da casa, la fortuna. Come
scrive Bonaccorso Pitti: «Nel 1375 essendo io giovane e sanza alcu-
no avviamento e desiderando d’andare per lo mondo a cercare la
ventura, m’accompagnai con Matteo de lo Scielto Tinghi, il quale
era mercatante e grande giuocatore» 59. Ed è questo solo l’inizio di
 

una serie rocambolesca di avventure non sempre edificanti, di zuffe,


di sotterfugi, di soldi vinti e persi al gioco, di investimenti azzarda-
ti, di piccole truffe, di contrade percorse e di persone — talora im-
portanti — conosciute nelle città e nelle capitali di mezza Europa 60.  

Era una fase, quella della gioventù, in cui — per taluni più, per altri
la troppa licenzia della gioventù»; L.B. Alberti, I libri della famiglia, p. 22.
57 Molti spunti e conferme di questo nuovo modo si sentire si trovano nel
volume La vita privata. Dal Feudalesimo al Rinascimento, a cura di Ph. Ariès - G.
Duby, Roma-Bari 1987.
58 Si vedano le considerazioni di G. Todeschini, Guardiani della soglia. I Frati
Minori come garanti del perimetro sociale (XIII secolo), «Reti Medievali, Rivista»,
VIII, 2007, url: < http://www.retimedievali.it >, attinenti non tanto al caso di
Salimbene, ma agli orientamenti più generali dell’Ordine.
59 Bonaccorso Pitti, Ricordi, in Mercanti scrittori, cit., p. 365.
60 Ivi, pp. 362-392.

64
Quando la società è mobile: aspirazioni e possibilità

meno — si cercava di forzare la mano alla sorte e di investire le pro-


prie risorse e capacità in imprese audaci, in cui il rischio era com-
pensato dai maggiori allettamenti e di cui si sarebbero potuti godere
i frutti nell’età matura.

Ciò detto, il riferimento del titolo ad una società mobile sug-


gerisce anche altri possibili approcci e punti di vista; in particolare
quello della mobilità spaziale, una dimensione che appare assai mar-
cata nel periodo di cui ci occupiamo e che innescava una moltepli-
cità di dinamiche, che si intrecciavano con quelle sociali e spesso le
potenziavano. Era una società in cui lo spazio non era più solo quel-
lo chiuso dalle mura cittadine 61 o delimitato dagli elementi consue-
 

ti del un paesaggio rurale 62, che definivano i contorni entro i quali


 

si svolgeva la propria attività e si consumava la propria vita, ma era


una società che si apriva verso orizzonti assai larghi e talora molto
lontani 63.
 

Vi era anzitutto una mobilità a corto raggio, messa in moto dalla


dinamica città –campagna: l’attrazione da parte della città spingeva
molti abitanti del contado ad inurbarsi 64, richiamati dalle nuove pos-
 

61 Si vedano, ad esempio, J. Le Goff, L’immaginario urbano nell’Italia medieva-


le (secoli V-XV), in Storia d’Italia, Annali, V, Il paesaggio, Torino 1972, R. Comba, La
città come spazio vissuto: l’Italia centro-settentrionale fra XII e XV secolo, in Spazi, tem-
pi, misure e percorsi nell’Europa del bassomedioevo, Atti del XXXII Convegno storico
internazionale (Todi, 8-11 ottobre 1995), Spoleto 1996, pp. 183-209.
62 Per quanto riguarda i contadini e gli spazi fisici attorno a cui si incentrava
la loro vita, si veda G. Pinto, Gli spazi della campagna, in Spazi, tempi, misure, cit.,
pp. 155-182.
63 L’allusione è al titolo del volume Gli orizzonti aperti. Profili del mercante
medievale, a cura di G. Airaldi, Torino 1997. Ritengo tuttavia che la prospettiva in-
dicata si attagli non solo ai mercanti, ma ad una parte assai consistente e variegata
della società medievale, come risulta dalla storiografia che, soprattutto negli ultimi
anni, si è occupata di questa tematica. Si vedano al riguardo: N. Ohler, I viaggi nel
medioevo, Milano 1988 (ed.orig. Reisen im Mittelalter, München 1986); M.S. Mazzi,
Oltre l’orizzonte. In viaggio nel medioevo, Cavallermaggiore 1997; Viaggiare nel me-
dioevo, a cura di S. Gensini, Pisa, 2000; D. Balestracci, Terre ignote, strana gente.
Storie di viaggiatori medievali, Roma-Bari 2008. Recentissimo è poi il 40° Congrès
de la SHMESP, dedicato a “Déplacements de populations et mobilité des personnes
au Moyen Âge”, Nice 4-7 juin 2009, in cui sono state trattate molte delle tematiche
a cui accennerò successivamente. Ringrazio il prof. Paolo Cammarosano per avermi
messo a disposizione alcuni materiali e le sue Conclusioni.
64 Icastico in proposito il giudizio in Dante, Paradiso, XVI, 49-57: «Ma la
cittadinanza, ch’è or mista/ di Campi, di Certaldo e di Fegghine,/ pura vediesi nel-
l’ultimo artista./ Oh quanto fora meglio esser vicine/ quelle genti ch’io dico, e al

65
Donata Degrassi

sibilità di migliorare la propria vita sul piano economico, di acquisire


uno status sociale più elevato o — fino ad una certa epoca — di go-
dere di un diverso status giuridico (ricordiamo i provvedimenti col-
lettivi di manomissione dei servi della gleba, oltre naturalmente alle
emancipazioni individuali) 65. È questo un tema ben noto e indagato
 

e che non è il caso di sviscerare puntualmente in questa sede 66. Ma vi  

era anche un movimento meno evidente forse, ma continuo, che por-


tava in città ragazzi e adolescenti provenienti dai villaggi e dai centri
minori del contado al fine di apprendere un mestiere 67; un trasferi-  

mento che da temporaneo si mutava spesso in residenza definitiva. E


analogamente molte erano le fanciulle della campagna che andavano
in città, almeno per alcuni anni fino al loro matrimonio, per servire
come domestiche presso qualche famiglia borghese con l’intento di
guadagnarsi la dote 68.  

È interessante notare come a questo movimento centripeto


— dalla campagna alla città — facesse seguito un movimento cen-

Galluzzo/ e a Trespiano aver vostro confine,/ che averle dentro e sostener lo puzzo/
del villan d’Agiuglion, di quel da Signa,/ che già per barattare ha l’occhio aguzzo!»
65 Si vedano, con prospettive diverse, D. Degrassi, L’economia artigiana nel-
l’Italia medievale, Roma 1996, in particolare alle pp. 153-159; F. Panero, Schiavi,
servi e villani nell’Italia medievale, Torino 1999.
66 Si indica qui solo qualche titolo di riferimento: Plesner, L’emigrazione dal-
la campagna, cit.; G. Piccinni, I «villani incittadinati» nella Siena del XIV secolo,
«Bullettino senese di storia patria», LXXXII-LXXXIII (1975-76), pp. 67-157; G.
Pinto, La politica demografica delle città, in Strutture familiari, epidemie, migrazioni,
cit., pp. 19-43; P. Cammarosano, Città e campagna: rapporti politici ed economici, in
Società e istituzioni dell’Italia comunale: l’esempio di Perugia (secoli XII-XIV), 2 voll,
Perugia 1988, vol. I, pp. 303-349. Un vistoso esempio di una rapida fortuna conse-
guita da persone provenienti dal mondo rurale è quello della famiglia bolognese dei
Guastavillani, descritto in Giansante, L’usuraio onorato, cit., p. 160-162 e 153.
67 G. Casarino, Mondo del lavoro e immigrazione a Genova tra XV e XVI seco-
lo, in Strutture familiari, epidemie, migrazioni, cit., pp. 451-472; Id., I giovani e l’ap-
prendistato. Iniziazione e addestramento. Maestri e garzoni nella società genovese fra
XV e XVI secolo, IV, Genova 1982 (Quaderni del centro di studio sulla storia della
tecnica del CNR, 9); R. Greci, L’apprendistato nella Piacenza tardo-comunale tra vin-
coli corporativi e libertà contrattuali e Id., Il contratto di apprendistato nelle corpora-
zioni bolognesi (XIII-XIV secolo), entrambi in Id., Corporazioni e mondo del lavoro
nell’Italia padana medievale, Bologna, 1988, rispettivamente alle pp. 225-24 e 157-
224; Degrassi, L’economia artigiana, cit., pp. 48-54; Ead., Gli artigiani nell’Italia co-
munale, in Ceti, modelli, comportamenti, cit., pp. 147-173.
68 P. Guarducci - V. Ottanelli, I servitori domestici della casa borghese tosca-
na nel basso Medioevo, Firenze 1982; Ch. Klapisch-Zuber, Le serve a Firenze nei se-
coli XIV e XV, in Ead., La famiglia e le donne nel Rinascimento a Firenze, Roma-Bari
1988, pp. 253-283.

66
Quando la società è mobile: aspirazioni e possibilità

trifugo, che portò in campagna i cittadini, motivati certamente dal


bisogno di investire una ricchezza avvertita spesso come troppo mo-
bile e insicura, in beni fondiari che dessero stabilità. In questa pro-
spettiva si mossero non solo mercanti, banchieri e uomini d’affari,
ma anche artigiani e piccoli commercianti 69. In tutti costoro si avver-
 

te anche la ricerca di qualcos’altro, che si avvertiva essere qualifican-


te per il proprio status e importante per il proprio benessere: è quello
che è stato definito “la filosofia del vivere del proprio”, di quanto si
produceva nelle proprie terre, sotto lo sguardo attento del proprie-
tario e grazie alla sua sollecitudine. Una Weltanschauung che trovia-
mo espressa in tanti memorialisti — da Paolo di Pace da Certaldo a
Pietro de’ Crescenzi ed altri 70 e che aveva certo un versante utilitari-
 

stico, vale a dire il potersi sottrarre per la sussistenza dalla totale di-
69 Si veda in proposito Degrassi, L’economia artigiana, pp. 164-169. Quali te-
stimonianze non solo di proprietà rurali di artigiani cittadini, ma anche delle cure
prodigate, delle spese sostenute e dei benefici che se ne ricavavano, o ci si aspetta-
va di ottenere, si possono leggere, ad esempio, Neri di Bicci, Le ricordanze (10 mar-
zo 1453-24 aprile 1475), a cura di B. Santi, Pisa 1976 passim; Ricordanze di Oderigo
d’Andrea di Credi orafo, cittadino fiorentino, dal 1405 al 1425, a cura di F. Polidori,
«Archivio storico italiano», s. I, IV, 1 (1843), pp. 53-110.
70 La presenza del proprietario era avvertita come indispensabile sia stimo-
lare la produttività dei contadini, sia per evitare di venir frodato al momento del-
la ripartizione dei prodotti: «non ti fidare di questi, istà loro cogli occhi addosso»,
consiglia Giovanni di Pagolo Morelli, Ricordi, cit., pp. 181-182. Il padrone dove-
va avere «ciento occhi» e spingere i coltivatori a mettere in atto le molteplici lavora-
zioni della terra, la cura della casa, delle infrastrutture e delle colture, tutti impegni
che erano spesso stabiliti dagli Statuti cittadini e specificamente inseriti nei contratti
di locazione e nei patti mezzadrili, ma che, senza vigilanza venivano facilmente elu-
si e restavano lettera morta; vedi G. Piccinni, Contadini e proprietari nell’Italia co-
munale: modelli e comportamenti, in Ceti, modelli, comportamenti, cit., pp. 203-237.
Molto articolate e interessanti le testimonianze dirette, come Paolo da Certaldo,
Libro di buoni costumi, cit., nn. 103, 139, 142, 152, 153, 338. Pietro de’ Crescenzi
dichiara esplicitamente che solo la presenza del proprietario è in grado di tenere a
freno la voracità dei contadini; vedi Trattato della Agricoltura di Pietro De’ Crescenzi
traslato nella favella fiorentina, rivisto dalla ‘Nferigno Accademico della Crusca, ridot-
to a miglior lezione da Bartolomeo Sorio di Verona, Verona 1851-52, libro XI, cap.
VIII. Che non si trattasse solo di indicazioni teoriche lo si desume dai libri da tanti
libri di ricordanze. Ad esempio Oderigo d’Andrea di Credi elenca minuziosamente
tutte quello che il suo mezzadro gli aveva sottratto oppure non aveva correttamen-
te diviso con il padrone, anche cose apparentemente di scarso valore. Interessanti
sono poi i particolari che emergono relativamente alla pratica di sottrazione di fru-
mento, mietuto prima della spartizione a mezzo con il padrone: «per ristoro di gra-
no ch’egli m’avea immolato, quando mieteva e nascondeva i covoni per lo bosco
in qua e in là. E trovammone in più luoghi…»; Ricordanze di Oderigo d’Andrea di
Credi, cit p. 71.

67
Donata Degrassi

pendenza dal mercato, che in certi momenti risultava penalizzante


e gravosa 71. Essa contemplava però anche un risvolto — non meno
 

importante — di appagamento e di soddisfazione personale 72; un  

piacere che diventava ancora maggiore quando si poteva offrire ai


propri ospiti il vino, l’olio, i cibi confezionati con quanto proveniva
dalla propria campagna, quando insomma ciò costituiva un conno-
tato di status che si poteva esibire 73.  

Accanto a queste dinamiche spaziali che si sviluppavano so-


stanzialmente tra la città e il contado circostante o, al massimo, in
interazione con i centri urbani viciniori, il fatto nuovo — e di rilie-
vo notevole, a mio giudizio — è costituito dalla possibilità di spo-
starsi verso orizzonti decisamente più lontani che si aprì in maniera
strutturale per alcuni settori professionali abbastanza ampi 74. Ci si  

71 Paolo da Certaldo, Libro di buoni costumi, cit., p. 30, n. 139: «Bellissima


cosa è la provedenza: e però sempre sia proveduto in tutti i tuoi fatti, e in que’ di
casa e in que’ di bottega e in ogni altro tuo fatto. E però vo’ che tu sappi che sono
certi anni che sono grandissime fami e carestie di cose da vivere; e però abbi sem-
pre a mente, se ‘l puoi fare, di fornire la casa di grano per due anni, e se non puoi
di grano, d’altra biada da manicare; e se non puoi per due anni, il meno per uno e
mezzo, se puoi. E compera sempre a tempo. E simile ti dico d’oglio, acciò che se ‘l
detto caro venisse, che non ti trovi sanza le dette due cose in casa; poi de l’altre fa-
rai come potrai meglio».
72 Scrive ad esempio Pietro De Crescenzi: «Nei campi reca un grande dilet-
to la bellezza della loro posizione: e che il campo sia grande, consistente non già
in una serie di malformati pezzetti di terra bensì in un’unica, grande e ininterrot-
ta estensione, che abbia confini diritti. Egli [il diligente padre di famiglia] deve poi
circondare il campo con fossati e con siepi di pruni verdi, nelle quali inserirà, a in-
tervalli regolari, degli alberi adatti. Nell’interno del campo farà poi in modo che
i fossati, con i canalicoli di scolo che sono indispensabili nei terreni pianeggianti,
vengano il più possibile diritti, cercando comunque sempre di adeguarsi a ciò che
è utile al campo: nei campi infatti l’utile deve essere anteposto al dilettevole (men-
tre nei giardini si deve adottare il criterio opposto) e perciò bisogna sempre sceglie-
re quelle alternative che assicurino una maggiore ricchezza di prodotti». E conclude
«Tutte queste cose recano diletto e sono al tempo stesso utili». Il passo del Liber
ruralium commodorum, libro VIII, tradotto da Paolo Cammarosano, è stato tratto
da P. Cammarosano, Le campagne nell’età comunale (metà sec. XI-metà sec. XIV),
Torino 1976, pp. 166-167.
73 G. Cherubini, La mezzadria toscana delle origini, in Contadini e proprietari
nella Toscana moderna, Atti del Convegno di studi in onore di Giorgio Giorgetti, I,
Dal medioevo all’età moderna, Firenze 1979, pp. 131-152; G. Piccinni, Contadini e
proprietari, in Ceti, modelli, comportamenti, cit., pp. 203-237.
74 Per un primo inquadramento del problema e per un ampio approccio bi-
bliografico si vedano R. Comba, Emigrare nel medioevo. Aspetti economico-sociali
della mobilità geografica nei secoli XI-XVI, in Strutture familiari, epidemie, migrazio-
ni, cit., pp. 45-74 e G. Pinto, Gli stranieri nelle realtà locali dell’Italia basso-medie-

68
Quando la società è mobile: aspirazioni e possibilità

muoveva per trovare lavoro, per cercare maggiori opportunità eco-


nomiche e migliori condizioni di vita, sperando magari che ciò por-
tasse anche ad una futura promozione sociale. Pare anzi di cogliere
nel corso del Trecento un accentuarsi della mobilità spaziale, a mano
a mano che i meccanismi di avanzamento economico e di promozio-
ne sociale si irrigidivano 75 e di contro l’infierire delle epidemie op-
 

pure i provvedimenti di espulsione politica creavano dei vuoti tra la


popolazione produttiva 76. La ricerca di migliori opportunità di vita
 

pareva spesso più promettente in luoghi lontani o comunque diver-


si da quello di origine, con esiti che potevano essere discordanti a se-
conda delle situazioni.
Erano molti gli artigiani che si spostavano di città, talvolta ri-
chiamati da appositi provvedimenti che tendevano a favorire de-
terminate attività 77. Altre volte non erano necessari provvedimenti
 

vale: alcuni percorsi tematici, in Dentro la città. Stranieri e realtà urbane nell’Europa
dei secoli XII-XIV, a cura di Gabriella Rossetti, Napoli 1989, pp. 25-37. In quest’ul-
timo volume si veda anche l’utile bibliografia alla fine del volume. Altre realtà sono
state illustrate in Forestieri e stranieri nelle città basso-medievali, Atti del Seminario
internazionale di studio, (Bagno a Ripoli (FI) 4-8 giugno 1984), Firenze, Salimbeni,
1988. Su questo tema una prospettiva interessante è stata recentemente suggerita da
Paolo Cammarosano, che ha invitato a porre attenzione non solo all’arrivo di flussi
migratori dall’esterno, ma soprattutto ai movimenti interni alla penisola, agli scambi
tra centri e periferie e tra città e regioni diverse, partendo dalla documentazione che
attesta tali processi. Si veda P. Cammarosano, Italiani in Italia: correlazioni, interfe-
renze, scambi nella documentazione d’archivio delle città italiane dei secoli XIII-XV,
in Cultura cittadina e documentazione. Formazione e circolazione di modelli, a cura di
A.L. Trombetti Budriesi, CLUEB, Bologna, 2009, pp. 15-22.
75 Cfr. D. Degrassi, Organizzazioni di mestiere, corpi professionali e istituzio-
ni alla fine del medioevo nell’Italia centro settentrionale, in Le regole dei mestieri e
delle professioni. Secoli XV-XIX, a cura di M. Meriggi - A. Pastore, Milano 2000,
pp. 17-35.
76 Dello stesso parere è anche Giuliano Pinto, che esamina il fenomeno da una
prospettiva europea: «L’intensità della mobilità geografica sembra accentuarsi ancora
negli ultimi due secoli del medioevo. Le ragioni vanno ricercate nelle forti oscillazio-
ni dell’andamento demografico — in assoluto e tra un’area e l’altra — nei rimescola-
menti sociali che ne derivarono, nella ripresa di movimenti migratori di gruppi etnici,
quali, ad esempio, gli slavi, i greci, gli albanesi, che attraversarono l’Adriatico spinti da
motivi politici e religiosi — l’invasione turca — o forse più realisticamente, per ragioni
economico-sociali: abbandonavano aree caratterizzate da un forte sottosviluppo e da
una struttura sociale poco elastica»; Pinto, Gli stranieri nelle realtà locali, cit., p. 26.
77 Degrassi, L’economia artigiana, cit., pp. 78-82 e pp. 91-93 per le indica-
zioni bibliografiche; Ead., La trasmissione dei saperi: le botteghe artigiane, in La tra-
smissione dei saperi nel medioevo (secoli XII-XV), Atti del diciannovesimo convegno
internazionale di studi del Centro italiano di studi di storia e d’arte, Pistoia 2005,
pp. 53-87, in particolare alle pp. 65-69.

69
Donata Degrassi

specifici, ma bastava il richiamo di importanti cantieri aperti — come


quelli per la costruzione delle cattedrali, delle mura, di chiese e altri
complessi monumentali 78 — di manifatture fiorenti o suscettibili di
 

incrementi, di un mercato cittadino ampio e possibilmente aperto 79.  

Forme di pendolarità stagionale o momenti di emigrazione tempora-


nea modulavano strutturalmente la vita di quanti esercitavano alcuni
particolari mestieri — la lavorazione del vetro, ad esempio 80 — ma  

78 Solo qualche titolo più generale relativamente ad un tema che annovera un


gran numero di analisi locali e settoriali: A. Cortonesi, Studi recenti sul lavoro edile
nell’Italia del Trecento, «Quaderni medievali», n. 10 (1980), pp. 300-316; G. Pinto,
L’organizzazione del lavoro nei cantieri edili, in Artigiani e salariati. Il modo del lavo-
ro nell’Italia dei secoli XII-XV, Centro italiano di studi di storia e d’arte di Pistoia,
X Convegno internazionale, Pistoia 1984, pp. 69-101, ora anche in Id., Il lavoro, la
povertà, l’assistenza, Roma, 2008, pp. 31-60; Id., L’organizzazione della difesa: i can-
tieri delle costruzioni militari nel territorio senese (secoli XIV-XV), in Castelli: storia
e archeologia, a cura di R. Comba - A.A. Settia, Torino 1984, pp. 259-268 (ora an-
che in Id., Città e spazi economici nell’Italia comunale, Bologna, 1996, pp. 65-76;
Ph. Braunstein, Les débuts d’un chantier: le Dôme de Milan sort de terre 1387, in
Pierre et métal dans le bâtiment au Moyen Age, a cura di O. Chapelot - P. Benoit,
Paris 1985, pp. 81-102; Id., Il cantiere del Duomo di Milano alla fine del XIV se-
colo: lo spazio, gli uomini e l’opera, in Ars et Ratio. Dalla torre di Babele al ponte
di Rialto, a cura di J-.C. Maire Vigueur - A. Paravicini Bagliani, Palermo 1990,
pp. 147-164; Opera. Carattere e ruolo delle fabbriche cittadine fino all’inizio dell’Età
Moderna, a cura di M. Haines - L. Riccetti, Firenze 1996; P. Boucheron, Le pou-
voir de bâtir. Urbanisme et politique édilitaire à Milan (XIV-XV siècles), Roma, 1998
(Collection de l’ École Française de Rome, 239); Pouvoir et édilité. Les grands chan-
tiers dans l’Italie communale et seigneuriale, a cura di E. Crouzet-Pavan, Roma,
2003 (Collection de l’École Française de Rome, 302); L’edilizia prima della rivolu-
zione industriale, secc. XIII-XVIII, Atti della XXXVI settimana di studi dell’Istitu-
to Internazionale di Storia economica “F. Datini”, a cura di S. Cavaciocchi, Prato
2004. Una testimonianza diretta di quanto la mobilità spaziale fosse connaturata al
lavoro nel campo dell’edilizia è quella fornita dalle memorie del muratore Gaspare
Nadi; vedi Diario bolognese di Gaspare Nadi, a cura di C. Ricci - A. Bacchi della
Lega, Bologna 1866 (ristampa, Bologna, Forni, 1969).
79 Si sono già citate molte ricerche nelle note precedenti. Per qualche ulterio-
re esempio, si vedano nel volume Forestieri e stranieri, cit., i saggi di D. Balestracci,
L’immigrazione di manodopera nella Siena medievale, pp. 163-180, di A. Cortonesi,
Movimenti migratori a Montalcino e in Val d’Orcia nei secoli XIV e XV, alle pp. 181-
204, di R.M. Dentici Buccellato, Forestieri e stranieri nelle città siciliane del bas-
so medioevo, alle pp. 235-248, di F. Bocchi, Trasferimenti di lavoratori e studenti a
Bologna nel basso medioevo, pp. 248-261.
80 M. Calegari - D. Moreno, Manifattura vetraria in Liguria tra XIV e XVII se-
colo, «Archeologia medievale», II (1975), pp. 13-29; G. Malandra, I vetrai di Altare,
Savona 1983. Sulla base di studi quali Archeologia e produzione del vetro preindu-
striale, a cura di M. Mendera, Firenze 1991 e S. Ciappi - A. Laghi - M. Mendera,
Il vetro in Toscana. Strutture, prodotti, immagini (secc. XIII-XX), Poggibonsi 1995,

70
Quando la società è mobile: aspirazioni e possibilità

ciò vale anche per alcuni campi di lavoro specializzato nella lavora-
zione dei metalli o della pietra 81.  

Ai livelli più bassi, quello dei lavoratori non specializzati — come


manovali, lavoratori dell’edilizia, marinai, addetti ai trasporti (car-
rettieri, conducenti di muli…), salariati impiegati in attività stagio-
nali — gli spostamenti avevano per lo più carattere temporaneo 82.  

Erano un’andata che prevedeva sempre un ritorno, solitamente a


distanza di poche settimane o tutt’al più qualche mese e in gene-
re — tranne che per i marinai — anche il raggio di spostamento era
di solito abbastanza limitato, in virtù di un principio più generale in
base al quale la mobilità è assai maggiore e a più largo raggio nel la-
voro specializzato che in quello non specializzato 83. Nel caso invece
 

di artigiani di bottega che possedevano un particolare sapere tecnico,


si trattava di vere emigrazioni, che comportavano un trasferimento
definitivo nella nuova località e, nel prosieguo di tempo, l’acquisizio-
ne di una diversa cittadinanza, come nei casi, ben noti e studiati, dei

Corine Maitte può affermare: «Due regioni appaiono particolarmente attrattive al-
l’inizio del XV secolo: la Toscana e la Liguria. Nel XIV e XV secolo, infatti, vetrai
toscani provenienti da Gambassi, Montaione e San Gimignano portarono la loro
maestria in tutta la penisola, contribuendo, più dei loro colleghi veneziani, al rinno-
vamento della lavorazione vetraria in numerose regioni»; vedi C. Maitte, L’arte del
vetro: innovazione e trasmissione delle tecniche, in Il Rinascimento italiano e l’Euro-
pa, III, Produzione e tecniche, a cura di Ph. Braunstein - L. Molà, Treviso, 2007,
pp. 235-259, a p. 237.
81 G. Cecchini, Maestri luganesi e comaschi a Siena nel XV secolo, in Arte e ar-
tisti dei laghi lombardi, Como 1959, pp. 131-150.
82 Si vedano D. Balestracci, «Li lavoranti non cognosciuti». Il salariato in
una città medievale (Siena 1340-1344), «Bullettino senese di storia patria», LXXXII-
LXXXIII (1975-76), pp. 67-157; G. Pinto, L’organizzazione del lavoro nei cantieri
edili, cit., e, sempre nel volume Artigiani e salariati, cit., R.M. Dentici Buccellato,
Lavoro e salari nella Sicilia del Quattrocento (la terra e il mare), alle pp. 369-394; P.
Corrao, La popolazione fluttuante a Palermo fra ’300 e ’400: mercanti, marinai, sa-
lariati, in Strutture familiari, epidemie, migrazioni, cit., pp. 435-450; J.-M. Yante,
L’emploi: concept contemporain et réalités médiévales, in Le travail au Moyen Âge.
Une approche interdisciplinaire, Actes du Colloque international (Louvain-la-Neuve,
21-23 mai 1987), a cura di J. Hamesse - C. Muraille-Samaran, Louvain 1990, pp.
349-378; F. Franceschi, I salariati, in Ceti, modelli, comportamenti, cit., pp. 175-201.
R. Comba, Emigrare nel medioevo, cit., in particolare alle pp. 59-67.
83 Lo rileva Raffaello Vergani a proposito degli spostamenti del personale ad-
detto alle miniere: «Manovali e trasportatori erano reclutati sul posto e manteneva-
no per lo più un legame assai stretto con le occupazioni agricole, mentre i tecnici e i
minatori professionali venivano spesso dall’esterno e talora anche d paesi stranieri»;
vedi K.-H. Ludwig - R. Vergani, Mobilität und Migrationen der Bergleute vom 13.
bis zum 17. Jahrhundert / Mobilità e migrazioni dei minatori (XIII-XVII secolo), in

71
Donata Degrassi

lavoratori del settore tessile, sia laniero che serico 84.  

Per altre categorie di persone il muoversi, il viaggiare, il risie-


dere temporaneamente, ma anche per lunghi periodi, in paesi e cit-
tà lontane dalla propria, costituiva una parte imprescindibile del
proprio percorso formativo ma anche della carriera e dell’attività
professionale 85. Era il caso naturalmente dei mercanti 86, su cui ri-
   

Le migrazioni in Europa (secoli. XIII-XVIII), a cura di S. Cavaciocchi, Firenze 1994,


pp. 593-622, a pp. 613-614.
84 Molto noti sono i provvedimenti presi dal Comune di Bologna nel Duecento
per attirare in quella città tessitori e altri lavoratori specializzati, in modo da avvia-
re una produzione tessile destinata non solo all’uso interno ma anche all’esportazio-
ne. Si veda in proposito M. Fennell Mazzaoui, The emigration of veronese textile
artisans to Bologna in the thirteenth century, «Atti e memorie dell’Accademia di
agricoltura, scienze e lettere di Verona», s. VI, XIX (1967-68), pp. 275-321; Ead.,
Artisans migrations and technology in the Italian textile industry in the late middle
ages (1100-1500), in Strutture familiari, cit., pp. 519-534. Anche a Siena, tra la fine
del Trecento e l’inizio del Quattrocento si emanarono disposizioni rivolte a favo-
rire l’immigrazione di artigiani tessili; si vedano S. Tortoli, Per la storia della pro-
duzione laniera a Siena nel Trecento e nei primi anni del Quattrocento, «Bullettino
senese di storia patria», LXXXII-LXXXIII (1975-76), pp. 220-238; D. Balestracci,
L’immigrazione di manodopera nella Siena medievale, in Forestieri e stranieri, cit.,
pp. 163-180. Per Firenze F. Franceschi, I tedeschi e l’Arte della Lana a Firenze fra
Tre e Quattrocento, in Dentro la città, cit., pp. 277-300. Tessitori fiorentini vennero
chiamati anche in Friuli per impiantare una produzione di tessuti di qualità elevata;
vedi A. di Prampero, Il dazio dei panni e l’arte della lana in Udine dal 1324 al 1368,
Udine 1881. Sul problema si vedano le considerazioni di G. Pinto, L’immigrazione
dei lavoratori della lana nelle città italiane. Alcune considerazioni, in Il lavoro, la po-
vertà, l’assistenza, cit., pp. 61-69 (già in Le migrazioni in Europa, cit., pp. 819-824).
Sull’emigrazione dei setaioli, in particolare lucchesi si vedano T. Bini, I Lucchesi
a Venezia. Alcuni studi sopra i secoli XIII e XIV, Lucca 1856, 2 voll.; L. Molà, La
comunità dei lucchesi a Venezia. Immigrazione e industria della seta nel tardo me-
dioevo, Venezia 1994; Id., Oltre i confini della città. Artigiani e imprenditori del-
la seta fiorentini all’estero, in Arti fiorentine. La grande storia dell’artigianato, II,
Il Quattrocento, a cura di G. Fossi - F. Franceschi, Firenze 1999, pp. 102-000; nel
volume La seta in Italia dal Medioevo al Seicento. Dal baco al drappo, a cura di L.
Molà - R. Mueller - C. Zanier, Venezia 2000, si vedano i saggi di P. Mainoni, La
seta in Italia fra XII e XIII secolo: migrazioni artigiane e tipologie seriche, alle pp. 365-
399 e di F. Franceschi, I forestieri e l’industria della seta fiorentina fra Medioevo e
Rinascimento, alle pp. 401-422.
85 Paolo da Certaldo, Libro di buoni costumi, cit., n. 150, p. 34: «Se tu hai
figliuolo che non faccia bene a tuo senno ne la tua terra, incontanente il poni con
uno mercatante che ‘l mandi in un’altra terra, o tu il manda a uno tuo caro amico.
Lascerà l’usanze de la sua terra e piglierà usanze nuove, e forse s’ammenderà e farà
bene».
86 Non è il caso, in questa sede, di dar conto in maniera esaustiva della vastis-
sima bibliografia relativa all’attività mercantile che di per sé implicava continui viag-

72
Quando la società è mobile: aspirazioni e possibilità

torneremo, ma anche degli ufficiali forestieri come i podestà e delle


persone che formavano il loro seguito 87; degli uomini d’arme 88, dei
   

diplomatici 89; di molti ecclesiastici 90; di maestri, insegnanti e profes-


   

gi e spostamenti. Si vedano in prima approssimazione A. Sapori, Il mercante italiano


nel medioevo, Milano 1983 (ed.orig. Le marchand italien au Moyen Âge, Paris 1952);
J. Favier, L’oro e le spezie. L’uomo d’affari dal Medioevo al Rinascimento, Milano
1990 (ed.orig. De l’or et des épices. Naissance d’affaires au Moyen Âge, Paris 1987);
F.C. Lane, I mercanti di Venezia, Torino 1982; B. Dini, I viaggi dei mercanti e il com-
mercio internazionale nel medioevo, in Viaggiare nel medioevo, cit., pp. 195-225; G.
Petti Balbi, Il mercante, in Ceti, modelli, comportamenti, cit., pp. 1-21.
87 Il riferimento principale è l’opera I podestà dell’Italia comunale, I,
Reclutamento e circolazione degli ufficiali forestieri (fine XII sec.-metà XIV sec.), a
cura di J-.C. Maire Vigueur, 2 voll., Roma 2000 (Istituto storico italiano per il me-
dio evo, Nuovi studi storici, 51). Si veda anche J-.C. Maire Vigueur, L’ufficiale fore-
stiero, in Ceti, modelli, comportamenti, cit., pp. 75-97.
88 Su questa problematica la bibliografia è assai ampia e contempla, natural-
mente, aspetti specifici che escono dal tema trattato in questa sede. Rinvio pertan-
to ad alcune tra le opere di carattere più generale: M. Mallett, Signori e mercenari.
La guerra nell’Italia del Rinascimento, Bologna 1974; Ph. Contamine, Le problème
des migrations des gens de guerre en Occident durant les derniers siècles du Moyen
Age, in Le migrazioni in Europa, cit., pp. 459-476; G.M. Varanini, Mercenari tede-
schi in Italia nel Trecento: problemi e linee di ricerca, in Comunicazione e mobilità nel
medioevo. Incontri fra il Sud e il centro dell’Europa (secoli XI-XIV), Bologna 1997
(Annali dell’Istituto storico italo-germanico, Quaderno 48), pp. 269-301; N. Covini,
«Studiando el mappamondo»: trasferimenti di gente d’arme tra logiche statali e rela-
zioni con le realtà locali, in Viaggiare nel medioevo, cit., pp. 227-266; D. Balestracci,
Le armi i cavalli l’oro. Giovanni Acuto e i condottieri nell’Italia del Trecento, Roma-
Bari, 2003. Fra i personaggi che meglio rappresentano questa categoria vi è Filippo
Scolari, meglio conosciuto come Pippo Spano, su cui si veda G. Nemeth - A. Papo,
Pippo Spano. Un eroe antiturco antesignano del Rinascimento, Mariano del Friuli
(GO) 2006.
89 Come è noto, in età comunale, i compiti di tipo diplomatico in senso stret-
to non erano differenziati da altri compiti che potevano portare i rappresentanti di
una città comunale sia ad eseguire mandati sul territorio dominato che fuori di esso.
Accanto ad essi vi erano poi personaggi — definiti ambaxiatores o oratores — a cui
venivano affidate missioni diplomatiche vere e proprie, di durata limitata, al termi-
ne delle quali rientravano in patria. Una diplomazia vera e propria si svilupperà so-
prattutto nel Quattrocento, con i domini oligarchici e signorili. Nonostante una
documentazione che può offrire molti spunti in proposito, non sono molti gli stu-
di che si sono occupati dei viaggi del personale diplomatico. Si vedano E. Menestò,
Relazioni di viaggi e di ambasciatori, in Lo spazio letterario del medioevo, 1. Il medioe-
vo latino, a cura di G. Cavallo - C. Leonardi - E. Menestò, vol. I, La produzione
del testo, t. 2, Roma 1993, pp. 535-600; F. Senatore, «Uno mundo de carta». Forme
e strutture della diplomazia sforzesca, Napoli, 1998; Id., I diplomatici e gli ambascia-
tori, in Viaggiare nel medioevo, cit., pp. 267-298.
90 Il pellegrinaggio, la predicazione itinerante, le missioni evangelizzatri-
ci (ben note quelle di Giovanni da Pian del Carpine, di Guglielmo di Rubruk, di

73
Donata Degrassi

sori 91; di studenti e intellettuali 92. Anzi, per quanto riguardava i pas-
   

saggi ultimi e più decisivi del corso degli studi e della preparazione
ad una professione, vi era la diffusa e radicata convinzione che la for-
mazione sarebbe risultata tanto più perfezionata e utile quanto più
lontano dal luogo di origine fosse stata condotta. Come ha scritto
Antonio Ivan Pini: «Messa insieme una somma di denaro sufficien-

Odorico da Pordenone, indirizzate ai Mongoli) sono alcune delle motivazioni dei


viaggi dei religiosi. Per una panoramica relativamente a tali categorie di persone si
veda il saggio di M. Sensi, Protagonisti di viaggi nel basso medioevo. Religiosi e que-
stuanti, in Viaggiare nel medioevo, cit., pp. 339-367. Per i resoconti di viaggio lasciati
da costoro si veda Menestò, Relazioni di viaggi, cit., in particolare alle pp. 569-589.
Anche fra gli ecclesiastici il viaggio era prassi non solo consueta, ma obbligatoria, in
alcune circostanze, come la consacrazione vescovile (il cosiddetto viaggio ad limina
apostolorum), la partecipazione ad assemblee sinodali e a concili. Sulla mobilità de-
gli ecclesiastici si veda O. Condorelli, Clerici peregrini. Aspetti giuridici della mo-
bilità clericale nei secoli XII-XIV, Roma 1995.
91 Non esistono, a mia conoscenza, studi complessivi riguardanti la mobili-
tà degli insegnanti e dei maestri di scuola. Molti dati si possono ricavare dai con-
tributi dedicati all’analisi di singole città o di aree regionali, come G. Petti Balbi,
L’insegnamento nella Liguria medievale. Scuole, maestri, libri, Genova 1979; G.
Zaccagnini, L’insegnamento privato a Bologna e altrove nei secoli XIII e XIX, «Atti
e memorie della Deputazione di storia patria per le antiche province di Romagna»,
s. 4°, XIV (1924), pp. 593-630; B. Cecchetti, Libri, scuole, maestri, sussidi allo stu-
dio in Venezia nei secoli XIV e XV, «Archivio veneto», n.s., XXXII (1886), pp. 362-
363; E. Bertanza - G. Dalla Santa, Maestri, scuole e scolari in Venezia fino al 1500,
a cura di G. Ortalli, Vicenza, 1993; Maestri di grammatica toscani dei secoli XIII e
XIV, «Archivio storico italiano», s. V, t. XIV (1894), pp. 149-153; S. Debenedetti,
Sui più antichi doctores puerorum a Firenze, «Studi medievali», II (1906), pp. 327-
351; D. Balestracci, Cilastro che sapeva leggere, cit., in particolare alle pp. 99-104.
Nel volume Città e servizi sociali nell’Italia dei secoli XII-XV, Centro italiano di stu-
di di storia e d’arte di Pistoia, Dodicesimo convegno di studi, Pistoia 1990, si veda-
no H. Bresc, Ecole et service sociaux dans les citée et les «terres» siciliennes (XIII-XV
siècles), pp. 1-20; G. Petti Balbi, Istituzioni cittadine e servizi scolastici nell’Italia
centro-settentrionale tra XIII e XV secolo, pp. 21-48 e A.M. Nada Patrone, «Super
providendo bonum et sufficientem magistrum scholarum». L’organizzazione scolastica
delle città del tardo medioevo, pp. 49-81. Altri dati possono essere desunti dalle bio-
grafie personali di singoli personaggi; ad esempio, Petti Balbi, Salvo di Pontremoli,
cit.; F. Luzzati Laganà, Un maestro di scuola toscano del Duecento: Mino di Colle di
Valdelsa, in Città e servizi sociali, cit., pp. 83-113.
92 Non a caso per molto tempo queste persone furono accomunate sotto l’eti-
chetta di «chierici vaganti». Qualche riferimento bibliografico sull’argomento: J.
Verger, La peregrinatio academica, in Le università dell’Europa. Gli uomini e i luo-
ghi. Secoli XII-XVIII, a cura di G.P. Brizzi - J. Verger, Milano 1983, pp. 107-135;
G. Petti Balbi, «Qui causa studiorum peregrinantur»: studenti e maestri, in Viaggiare
nel medioevo, cit., 299-316.

74
Quando la società è mobile: aspirazioni e possibilità

te per almeno un anno di studi, […] allo studente non restava che
mettersi in viaggio per raggiungere una città universitaria, comunque
lontana da casa, perché si riteneva che gli studi sarebbero stati più
proficui solo se fatti “in terra aliena”, lontano cioè dai propri parenti
e dalle proprie tradizioni» 93. Nelle città che ospitavano gli Studia la
 

popolazione studentesca giungeva dalle località più diverse e lonta-


ne 94: a Bologna, ad esempio, un anonimo poeta duecentesco ricorda
 

«Lombardi, Tusci, Galli […] Alamanni, Angligene, Sciculi, Calabri,


Appulienses» 95 e altrettanto cosmopolita era la presenza studentesca
 

a Padova 96 e in altre sedi universitarie.


 

Per i mercanti l’addestramento lontano da casa cominciava in


età precoce 97, come ricorda ad esempio Guido Filippi dell’Antella,
 

93 A.I. Pini, Scuole e università, in La società medievale, a cura di S. Collodo -


G. Pinto, Bologna 1999, pp. 481-532, a p. 522. Sull’argomento si veda anche G.
Arnaldi, Studenti e professori nell’Italia del secolo XIII: la prospettiva degli studi «in
terra aliena», «La cultura», XX (1982), pp. 415-424.
94 M. Bellomo, Studenti e «popolus» nelle città universitarie italiane dal seco-
lo XII al XIV, in Università e società nei secoli XII-XVI, Centro italiano di studi di
storia e d’arte, Nono convegno internazionale, Pistoia 1982, pp. 61-105; R. Greci,
L’associazionismo degli studenti dalle origini alla fine del XIV secolo, in Studenti e
università degli studenti dal XII al XIX secolo, a cura di G.P. Brizzi - A.I. Pini,
Bologna 1988, pp. 15-44.
95 Citato in F. Bocchi, Trasferimenti di lavoratori e studenti a Bologna nel bas-
so Medioevo, in Forestieri e stranieri , cit., pp. 249-261, a p. 249. Si vedano anche G.
Arnaldi, A Bologna tra maestri e studenti, in Le università dell’Europa, cit., ora an-
che in Il pragmatismo degli intellettuali. Origini e primi sviluppi dell’istruzione uni-
versitaria, a cura di R. Greci, Torino 1996, pp. 105-124; A.I. Pini, «Discere turba
volentes». Studenti e vita studentesca a Bologna dalle origini dello studio alla metà del
Trecento, in Studenti e università degli studenti, cit., pp. 45-136.
96 Si vedano T. Pesenti Marangon, Università, giudici e notai a Padova nei
primi anni del dominio ezzeliniano (1237-1241), «Quaderni per la storia dell’uni-
versità di Padova», 12 (1979), pp. 1-62, in particolare alle pp. 37-38; S. Bortolami,
Studenti e città nel primo secolo dello studio padovano, in Studenti, università, città
nella storia padovana, Atti del Convegno (Padova 6-8 febbraio 1998), a cura di F.
Piovan - L. Sitran Rea, Trieste 2001, pp. 3-27; Id., Le ‘nationes’ universitarie me-
dievali di Padova: comunità forestiere o realtà sovranazionali?, in Comunità forestie-
re e ‘nationes’ nell’Europa dei secoli XIII-XIV, a cura di G. Petti Balbi, Napoli 2001
(Quaderni dell’Europa mediterranea, 19), pp. 41-65.
97 Sull’apprendimento della professione mercantile si vedano F. Borlandi, La
formazione culturale del mercante genovese nel medioevo, «Atti della Società ligure
di Storia Patria», LXXXVII (1963), II; G. Petti Balbi, Tra scuola e bottega: la tra-
smissione delle pratiche mercantili, in La trasmissione dei saperi, cit., pp. 89-110; U.
Tucci, La formazione dell’uomo d’affari, in Il Rinascimento italiano e l’Europa, IV,

75
Donata Degrassi

che dopo aver riportato la propria data di nascita, avvenuta nel mag-
gio del 1254 «secondo il ricordo di mia madre», continua riepilogan-
do l’avviamento alla sua carriera mercantile: «ne l’anno MCCLXVII»
— aveva dunque appena tredici anni — «andai a Gienova per la
Compagnia di Lamberto dell’Antella et dimorâvi diciotto mesi. Ne
l’anno MCCLXX andai a Vinegia per la Compagnia di Rinuccio
Cittadini et dimorâvi due anni» 98. Guido dell’Antella continua con
 

l’annotazione dei suoi spostamenti in varie città d’Italia e d’Europa,


dapprima nell’ambito di compagnie familiari e poi con società mer-
cantili e bancarie che operavano a raggio più ampio, come gli Scali e
i Franzesi, almeno fino al 1294, vale a dire fino ai quarant’anni 99.  

Era un iter obbligato, una modalità consueta di condurre alme-


no parte della propria esistenza, maturando esperienze da cui trar-
re i frutti una volta rientrati in patria 100. Un allontanamento in cui
 

il luogo di origine restava sempre sullo sfondo e che l’intensità dei


contatti — pensiamo alle lettere dei mercanti, ma anche al continuo
via vai di conoscenti o semplicemente di conterranei — rendeva ben
presente, di cui insomma si continuava a far parte e ci si sentiva par-
te. Un’identità che si teneva viva attraverso nuclei di aggregazione a
base nazionale 101 — dalle confraternite alle societates — che consen-
 

tivano di mantenere in uso modi di vivere e costumanze e di parlare


nella propria favella 102, e, in certi casi, attraverso vere e proprie cit-
 

Commercio e cultura mercantile, a cura di F. Franceschi - R.A. Goldthwaite - R.C.


Mueller, Treviso 2007, pp. 481-498.
98 Vedi Ricordanze di Guido di Filippo di Ghidone dell’Antella e de’ suoi figlio-
li e discendenti, a cura di F. Polidori, «Archivio storico italiano», s. I, IV, 1 (1843),
pp. 3-24, a p. 5-6, anche in A. Castellani, Nuovi testi fiorentini del Dugento, Firenze
1952, pp. 804-805.
99 Oltre alle Ricordanze citate alla nota precedente, si veda anche la voce a
cura di D. Stiaffini, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 37, Roma, 1989, pp.
119-121.
100 Vedi Paolo da Certaldo, Libro di buoni costumi, cit., n. 252, pp. 49-50.
101 Comunità forestiere e nationes, cit.; G. Petti Balbi, Negoziare fuori patria.
Nazioni e genovesi in età medievale, Bologna 2005; Ead., Le nationes italiane all’este-
ro, in Il Rinascimento italiano e l’Europa, cit., pp. 397-423.
102 Oltre alle lettere d’affari, che quasi sempre contenevano informazioni sui
propri familiari e conoscenti e su quanto avveniva in patria, una testimonianza as-
sai interessante di queste relazioni è fornita dai sonetti, dal tono spesso canzonato-
ri, che i mercanti si scambiavano tra loro. Molto interessante perché ci restituisce
mentalità, atteggiamenti e comportamenti dei mercanti che vivevano fuori patria
è, ad esempio, questo sonetto di Giovanni Frescobaldi: «Ricordo per chi passa in
Ingolterra/ vestir basso color, esser umile,/ grosso in aspetto e in fatti sottile;/ ma la-

76
Quando la società è mobile: aspirazioni e possibilità

tadelle — pensiamo a Pera dei genovesi, ai quartieri veneziani nelle


città levantine — che riproducevano, sia come spazi fisici che nel-
le forme istituzionali, la patria lontana 103. In certi casi il distacco fi-
 

niva per diventare definitivo, e si trattava di un autentico trapianto


che di solito aveva luogo quando si conseguivano localmente posi-
zioni sociali di notevole prestigio, che si sarebbero perdute al ritor-
no nella società di partenza, oppure nel caso, del tutto diverso, di chi
era esiliato e a cui il ritorno era precluso, in cui era proprio l’impos-
sibilità del ritorno a creare una dimensione mitica di quanto si era
lasciato 104.
 

Al di fuori dei percorsi formativi, professionali o di ricerca del


lavoro si riscontra poi un particolare tipo di mobilità temporanea che
venne a coinvolge una categoria di persone, la cui consistenza — nel
periodo qui considerato — appare sempre più ampia e che abbrac-
cia larghi segmenti della popolazione. Si tratta dei pellegrini 105, per i  

sciar l’inglese se t’afferra./ Fuggi le loie e chi pur ti fa guerra,/ spandi con cuor e non
ti mostrar vile,/ pagar al giorno, al rescuoter gentile,/ mostrando che bisogno ti sot-
terra./ Non far più inchieta ch’abbi fondamento,/ compra a tempo se ti mette bene,/
né t’impacciar con uomeni de corte. Osserva di chi può ‘l comandamento,/con tua
nacion unirti s’appartiene,/ e fa per tempo be’ serrar le porte». Vedi L.G. Avellini,
Artigianato in versi del secondo Quattrocento fiorentino: Giovanni Frescobaldi e la
sua cerchia di corrispondenti, in G.M. Anselmi - F. Pezzarosa - L. Avellini, La “me-
moria” dei mercatores, Bologna 1980, pp. 151-229; i sonetti si trovano alle pp. 190-
210, quello citato è a p. 208.
103 Oltre ai lavori già citati alle note precedenti, si vedano i saggi raccolti nei
volumi Dentro la città, cit.; Spazio urbano e organizzazione economica nell’Europa
medievale, a cura di A. Grohmann, Napoli 1995.
104 Non entro nel merito di questo argomento che è affrontato nella relazione
di Duccio Balestracci, «Ingrata patria»: l’esiliato tra infelicità e progetti di rientro.
105 Anche su questa tematica la letteratura è assai copiosa come pure la pub-
blicazione di fonti. Non è il caso in questa sede di darne conto compiutamente e mi
limito a qualche titolo generale, utile per recuperare sia i contributi storiografici che
le principali edizioni di fonti: J. Sumption, Monaci, santuari, pellegrini. La religione
nel Medioevo, Roma 1981 (ed.orig. Pilgrimage. An image of mediaeval religion, Paris
1975); J. Richard, Les récits de voyages et des pèlerinages, Turnhout 1996 (Typologie
des sources du Moyen Âge occidental, 38); F. Cardini, I viaggi di religione, d’amba-
sceria e di mercatura, in Storia della società italiana, 7, La crisi del sistema comunale,
Milano 1982, pp. 157-220, ora, con il titolo Missionari, ambasciatori e mercanti fra
Duecento e Trecento, anche in Id., Gerusalemme d’oro, di rame, di luce. Pellegrini,
crociati, sognatori d’Oriente fra XI e XV secolo, Milano 1991, pp. 44-121; P. Caucci
von Saucken, Le distanze nei pellegrinaggi medievali, in Spazi, tempi, misure, cit., pp.
297-315; G. Cherubini, Santiago di Compostella. Il pellegrinaggio medievale, Siena
1998; Id., I pellegrini, in Viaggiare nel medioevo, cit., pp. 537-566; L’uomo in pelle-

77
Donata Degrassi

quali il viaggiare era una scelta, che rispondeva ad un’esigenza inte-


riore avvertita in maniera talmente forte da rendere accettabili spese,
pericoli, disagi, malattie e da far mettere in conto persino la mor-
te 106. I benefici che da ciò i pellegrini si aspettavano di trarre non
 

erano certo di ordine materiale. Se l’acquisizione di indulgenze o il


perdono dei propri peccati sembra costituire la motivazione deter-
minante, e non va sottovalutata, il conseguimento di nuove esperien-
ze, la visione diretta di posti famosi, ma anche la carica emotiva che
si poteva provare in determinati luoghi e situazioni, rappresentava-
no per le singole persone elementi di valore incalcolabile, che arric-
chivano il proprio essere. Più che un’esperienza limitata nel tempo,
il pellegrinaggio si configurava come un tempo sospeso, un distacco
non solo dall’ambiente conosciuto, ma soprattutto dalla quotidiani-
tà; una parentesi extra-ordinaria nella propria vita e proprio per que-
sto forte e totalizzante: era l’evento che illuminava e dava valore ad
una vita intera. Le esperienze provate, le conoscenze acquisite costi-
tuivano un bene prezioso che non aveva significato solo per sé stessi
ma che si desiderava quanto più possibile partecipare e comunicare
agli altri; da ciò — come sappiamo — i numerosi resoconti di viag-
gi e pellegrinaggi.
Il mettersi in viaggio alla ricerca del benessere poteva però ave-
re anche un obiettivo più tangibile, che si concretizzava nel recar-
si ai bagni termali, alla ricerca del risanamento da una malattia, di
un miglioramento del proprio stato di salute o semplicemente di un
momento di svago, come testimoniano parecchie novelle del senese
Sermini, Le Porretane del bolognese Sabadino degli Arienti, o le rime
dedicate al mese di novembre di Folgore da San Gimignano 107. Con  

la speranza forse che l’acqua termale potesse giovare al corpo, facen-


do sparire acciacchi della vecchiaia e segni dell’età, e ridonando il
vigore di un tempo, non diversamente dalla mitica fontana della gio-
vinezza raffigurata nel castello della Manta presso Saluzzo.

grinaggio, a cura di P. Dalena, Bari 2003. Sulla composizione sociale dei pellegrini
si veda G. Pinto, I costi dei grandi pellegrinaggi medievali, in Id., Il lavoro, la pover-
tà, l’assistenza, cit., pp. 109-146, in particolare alle pp. 134-141 e 144-146.
106 Vedi N. Ohler, Vita pericolosa dei pellegrini. Sulle tracce degli uomini che
viaggiavano nel nome di Dio, Casale Monferrato 1996.
107 G. Cherubini, Terme e società nell’Italia centro-settentrionale (secc. XIII-
XV), in La città termale e il suo territorio, a cura di C.D. Fonseca, Galatina 1986, pp.
21-37; Id., Ire ad aquas: le terme e il termalismo, in Vita Civile degli italiani. Società
economia, cultura materiale, II, Ambienti, mentalità e nuovi spazi umani tra medioe-

78
Quando la società è mobile: aspirazioni e possibilità

Che cosa possiamo ricavare da questa rapida panoramica di vi-


cende individuali e collettive? In generale si può constatare come
i benefici di un’ascesa sociale non fossero immediati: non era faci-
le dunque goderne durante la vita stessa di chi tale ascesa intrapren-
deva. Sono pochi coloro che, come lo speziale Giovanni Antonio
Faie, nel considerare il lungo, travagliato e incerto percorso da lui
compiuto — da ragazzo privo di mezzi e di sostegni familiari ad una
posizione ragguardevole, coronata infine anche dall’investitura no-
tarile — potevano scrivere nelle loro memorie «vene nudo e hora e
vestido. Laudato ne sia Dio» 108. L’obiettivo di un cambiamento di
 

status era in sostanza il frutto di un investimento a lungo termine,


i cui vantaggi venivano goduti solo parzialmente in prima persona:
era una scommessa sulla propria discendenza e a beneficiarne erano
di solito i discendenti. Più facilmente, la mobilità spaziale poteva in-
nescare un processo che in molti casi era in grado di condurre ad un
miglioramento economico o anche ad un innalzamento sociale e le
ricadute positive si avvertivano dunque nel giro di poco tempo 109.  

Tuttavia, se guardiamo alle memorie di coloro che hanno volu-


to lasciare una traccia della loro esistenza, alle vicende che vengono
rammentate, al senso che gli autori cercano di trarre dagli avvenimen-
ti di cui sono stati protagonisti o che comunque li hanno coinvolti, la
sensazione più forte che — almeno personalmente — ho avvertito,
non è tanto il compiacimento per i successi conseguiti, quanto piut-
tosto il senso della fragilità e della precarietà dell’esistenza. Un sen-
timento che non sembra appartenere solo a quanti, per la scarsità di
risorse economiche o per la modesta condizione sociale, erano sicu-
ramente più esposti ai colpi della sorte, ma che viene espresso anche
da persone apparentemente ben collocate nella scala sociale, provvi-

vo e età moderna, Milano 1987, pp. 146-154.


108 G.A. da Faie, Libro de croniche e memorie, cit. E sottolinea «Sichè anco
ho avuto in dela zoventura mia de dexaxi asay, che più volte mi sono ritrovato nudo
de più coxe, come e parenti […] madre e padre e dinari e inviamenti»; ivi, p. 119.
L’annotazione relativa alla nomina a notaio è a p. 163.
109 Ne è un classico esempio quel Bernardo di Nerino chiamato Croce di
cui afferma il Sacchetti che «costui prestando in Frioli, di barattiere [uomo che
vive d’espedienti, commerciante al minuto di cose di poco conto] nudo, tor-
nò ricco a Firenze». Si tratta della novella XXXVII, che si legge in Sacchetti, Il
Trecentonovelle, cit., a p. 150. Sulle vicende di tanti Toscani emigrati in Friuli si ve-
dano I Toscani in Friuli, Atti del Convegno (Udine, 26-27 gennaio 1990), a cura
di A. Malcangi, Firenze, 1992 e gli Atti del Convegno I Toscani nel Patriarcato di
Aquileia in età medievale, di prossima pubblicazione.

79
Donata Degrassi

ste di buone sostanze o comunque agiate, come mercanti o notai, ed


era avvertito con intensità, spesso mischiata al senso di perdita, da
parte di quei casati che potevano invocare antica e illustre nobiltà.
Le sostanze faticosamente accumulate potevano svanire in un batter
d’occhio 110 e la posizione e il rango sociale conquistati potevano es-
 

ser perduti in un attimo, per gli accidenti della sorte o l’ostilità degli
uomini 111, e non a caso l’invidia e il malanimo sono frequentemente
 

indicati come causa di difficoltà e persino di rovina 112. Ma anche la


 

110 Tale è la vicenda del mercante Simo d’Ubertino d’Arezzo, di condizione


discretamente agiata, che fu coinvolto — molto probabilmente senza colpa — nel-
le lotte politiche che divisero la sua città. Accusato una prima volta nel 1376 di aver
favorito la parte avversa al Comune, fu arrestato torturato e incarcerato per un cer-
to tempo; in seguito fu costretto a pagare prestanze in misura doppia. Qualche anno
dopo, in un’altra situazione critica verificatasi nel novembre del 1381, subì perdi-
te fortissime «et perdetti ciò che io avia, che stimo io perdetti el ditto dì […] intor-
no de fiorini 4.200 d’oro»; vedi Cherubini, La proprietà fondiaria di un mercante
toscano del Trecento (Simo d’Ubertino di Arezzo), in Id., Signori, contadini, borghe-
si. Ricerche sulla società italiana del basso medioevo, Firenze, 1974, pp. 313-392, la
citazione è a p. 321.
111 Le vicende delle città comunali e le lotte che si scatenavano al loro in-
terno offrono in proposito una casistica fittissima. Si vedano i fenomeni di esclu-
sione dell’intera fazione politica perdente, che prevedevano la confisca dei beni e
l’allontanamento delle persone dalla città e dal territorio comunale. All’interno di
questi avvenimenti ben noti, che interessavano una parte consistente della cittadi-
nanza, il racconto delle vicissitudini personali consente di avere un approccio di-
retto alle esperienze vissute. Così, ad esempio, un cronista ci narra che Lapo da
Castiglionchio, che all’epoca era uno dei membri più influenti della parte guelfa,
a seguito del Tumulto dei Ciompi fu costretto a fuggire e subì la distruzione della
casa «ch’era in su la piazza del ponte Rubaconte […] la quale casa poco vi fu a ru-
bare, perocchè la notte e la mattina avea sgombro ogni cosa, salvo in legname e col-
trici, ed egli s’era fuggito in Santa Croce […] e vestissi a guisa di frate e andonne
Lungarno e capitò in Casentino». Vedi Marchionne di Coppo Stefani, Cronica fio-
rentina, a cura di N. Rodolico, Città di Castello 1903 (Rerum italicarum scriptores,
t. XXX, parte I), p. 319.
112 Solo qualche esempio: Uguccione Tettalasini, importante uomo d’affa-
ri bolognese, nel 1299 fu denunciato all’Inquisizione da un suo collega e rivale in
affari, animato da risentimenti personali, come evidenziò la successiva inchiesta.
Vedi Giansante, L’usuraio onorato, cit., pp. 27-29. Nel suo Libro segreto così anno-
ta Goro Dati a proposito delle difficoltà subite dalla sua compagnia, che la portaro-
no quasi al fallimento: «E per le cose traverse da Barzelona e il piato che ne seguitò
qui, e i sospetti nati per le imprese di Simone, e la invidia e le male lingue di molti,
mancandoci il credito fu nicistà raccogliersi e ritrarsi per pagare ognuno». E conclu-
de «Tornai a Firenze […] sano e salvo e senza avere potuto acquistarvi nulla altro
che molte fatiche e dolore». Vedi G Dati, Libro segreto, in Mercanti scrittori, cit., pp.
547-565, a p. 552 e 553. Giovanni Antonio da Faie si trovò più volte in difficoltà a

80
Quando la società è mobile: aspirazioni e possibilità

mancanza di discendenti, le improvvise epidemie che vuotavano in


poco tempo una casa 113, le infermità, gli incidenti, le avversità pote-
 

vano vanificare gli sforzi di una vita intera e frustrare i progetti messi
in cantiere per il futuro e le speranze di progresso e miglioramento.
Le ricchezze, anche le più cospicue, non mettevano al riparo dalle
avversità, che fossero fortuite o causate dalle azioni umane 114 e an-  

seguito del malvolere e l’invidia di parenti e vicini: «per l’invidia che m’era portata e
no per nesiuni falimenti ch’io avese fato né comiso, feciono tanto li mey buoni vexi-
ni che con loro false parole me feceno metere in del fondo de la tore de Bagnone».
Degli invidiosi delatori fa nome e cognome, includendo tra costoro «Avanzino mio
cuxino stava a vedere e in del suo core parea che godese»; G.A. da Faie, Libro de
croniche e memorie, cit., p. 148.
113 Soprattutto nella seconda metà del Trecento le ricorrenti epidemie di pe-
ste potevano estinguere del tutto o ridurre a qualche singolo sopravvissuto famiglie
intere. Così annota, ad esempio, il notaio senese Cristofano di Gano di Guidino:
«ebbi di lei [la moglie] sette figliuoli; poi ella e sei figliuoli, per la mortalità del
Novanta, si moriro quasi in uno mese»; vedi Cristofano di Gano di Guidino,
Memorie, a cura di C. Milanesi, «Archivio storico italiano», s. I, IV,1 (1843), pp.
27-48 a p. 40. La vita del notaio e le sue note sono analizzate in G. Cherubini, Dal
libro di ricordi di un notaio senese del Trecento, in Id., Signori, contadini, borghesi,
cit., pp. 393-425. Scrive Cherubini: «Nel luglio del 1390 la casa di ser Cristofano
era dunque piena di vita […] La visione di questa casa ormai quasi vuota deve aver
sconvolto profondamente l’equilibrio di Cristofano e fatto forse riemergere nel suo
animo quasi un senso di colpa», ivi, pp. 414-415. Frequenti sono le morti che colpi-
rono il nucleo famigliare di Lapo de’ Sirigatti, da costui annotate nel suo libro di ri-
cordanze; si veda Il libro degli affari propri di casa de Lapo di Giovanni Piccolini de’
Sirigatti, édition critique et commentée par C. Bec, Paris 1969. Si sono spesso stig-
matizzate come prive di affetto e di sentimento le secche annotazioni relative alle
morte dei propri familiari e congiunti che compaiono nei libri di ricordanze. Ciò ri-
spondeva più alle caratteristiche che aveva questo tipo di registrazioni che alla man-
canza di amore verso i propri famigliari, come provano le celebri pagine di Giovanni
di Pagolo Morelli che raccontano l’angoscia da lui sperimentata durante le malattie
dei figli e il tremendo dolore provato per la loro morte; vedi G. di Pagolo Morelli,
Ricordi, in Mercanti scrittori, cit., pp. 293-295, 315-318, 322-323. Vedi in proposi-
to anche Cammarosano, Padri e figli nel medioevo europeo, cit., Toni accorati per la
perdita di moglie e figli a causa della pestilenza e uno stato d’animo profondamen-
te sconvolto si colgono anche nel proemio e nella chiusa di Azari, Liber gestorum,
cit., a p. 7 e p. 177.
114 Così anche il prudentissimo e accorto Enrico Scrovegni non poté evita-
re che le sue proprietà venissero confiscate da Marsilio da Carrara, che pure era
suo congiunto. Sulla vicenda vedi C. Frugoni, L’affare migliore di Enrico. Giotto e
la cappella Scrovegni, Torino 2008, pp. 65-65. La consapevolezza dell’ingiustizia su-
bita e del danno economico patito vengono manifestate in termini inequivocabi-
li nel testamento dello Scrovegni: «Poiché d. Marsilio da Carrara, del d. Petrezano
da Carrara da Padova, già da molti anni, contro Dio e contro giustizia, mi usurpò
e occupò con la violenza e la sua prepotenza tutti, senza eccezioni, i miei possessi,

81
Donata Degrassi

che la famiglia, la cerchia degli affetti più cari, non sempre garantiva
quella felicità a cui si aspirava 115. «Quoniam humana vita est fragi-
 

lis et caduca, […] conditiones et status quotidie variantur», scrive il


cronista Pietro Azario nel proemio della sua opera, in un momento
in cui le avversità e i lutti che avevano sconvolto la sua vita e la sua fa-
miglia sembravano trovare una corrispondenza con i travagli e le ca-
lamità che affliggevano il suo paese 116.  

Era dunque la sorte, buona o cattiva che fosse, la « Fortuna


volubile e fallace» tante volte invocata, che si avvertiva essere l’im-
ponderabile e non influenzabile regolatore della propria vita, per-
chè «contra Fortuna non si puote andare» 117. Al di là dei progetti
 

terre, villaggi, diritti e beni che ho e che a ragione mi spettano in Padova e suo di-
stretto e in Vicenza e suo distretto, e quei beni il medesimo d. Marsilio e, per suo
conto, i suoi agenti sempre in continuo hanno posseduto e ne hanno percepito tutti
i redditi e proventi; talché, computati quei beni nel loro giusto e debito valore mo-
netario, compresi gli animali (in specie bovini) che avevo nei miei villaggi e le pian-
te che ugualmente costui con la violenza mi prese o fece prendere dai suoi agenti
in otto raccolti fino ad oggi, quel d. Marsilio (o i suoi agenti a suo nome) si è preso
— computati, ripeto, anche animali e messi — 25.000 fiorini ovvero ducati d’oro».
Il testamento di Enrico Scrovegni, con commento e traduzione a fronte del testo, è
pubblicato a cura di A. Bartoli Langeli, Il testamento di Enrico Scrovegni (12 mar-
zo 1336), in Frugoni, L’affare migliore, cit., pp. 397-539; il passo citato si trova alle
pp. 487-489.
115 Lippo di Fede del Sega, cambiavalute fiorentino quasi settantenne, prese
in seconde nozze una donna assai più giovane di lui, Bernarda. Il matrimonio ben
presto andò a rotoli, sia per l’eccessiva differenza d’età tra i due coniugi che per
motivi d’interesse. Delle liti che turbarono profondamente il menage famigliare re-
sta traccia nelle note d el libro di ricordanze del cambiatore: «1355, venerdì santo 3
daprile ano detto. A mattino disse la ciecha falsa Bernarda chio Filippo non navea
trovato ne chane ne chagna che mi volesse per suo marito altro chella e della ne fu in-
ghanata per chella si fidò della Franciescha; sella ciecha e mezza femina malsana ne-
vesse inchesto averebbe saputo tanto di me che no marevebbe ma tolto […]. Primo
febbraio 1355 disse la gretta pidocchiosa e cieca guastatori di suoi mariti chel ces-
so dovella chacava era più bello chio non avea la bocca mia. […]. Vedi Ch.M. de La
Ronçière, Un changeur florentin du Trecento: Lippo di Fede del Sega (1285 env.-1363
env.), Paris 1973, p. 245. Altre volte i conflitti si accendono tra padri e figli, come
nei casi citati più sopra. Altre testimonianze in proposito sono ricordate in Ch.M. de
La Roncière, La vita privata dei notabili toscani alle soglie del Rinascimento, in Ph.
Ariès - G. Duby, La vita privata. Dal feudalesimo al Rinascimento, Milano, Laterza-
Mondadori, 1993, pp. 215-216.
116 Azari, Liber gestorum, cit., p. 7.
117 Sono parecchi i componimenti poetici centrati appunto sul tema della fortu-
na. Alcuni si possono leggere in Poeti minori del Trecento, cit., pp. 426-438. Le espres-
sioni qui riportate si trova in due di tali sonetti, rispettivamente a p. 434 e a p. 204.

82
Quando la società è mobile: aspirazioni e possibilità

di breve o lungo periodo, si era consapevoli che il loro esito non di-
pendeva solo dagli sforzi messi in campo per realizzarli, dalle capa-
cità e dalle doti personali, ma da un complesso di circostanze in cui
molti erano gli elementi che non si potevano controllare: «Io son la
donna che volto la rota e son colei che tolgo e dono stato» recita una
canzone che affronta il tema degli squilibri profondi insiti nella so-
cietà e dell’ingiusta e diseguale distribuzione di ricchezza e potere al
suo interno 118.
 

Così quando personaggi benestanti come i mercanti, o di mo-


desti averi come i piccoli artigiani, prendono in mano la penna per
lasciar memoria di sé e trarre un senso dalla propria esperienza, la-
sciandoci intravedere quali fossero i loro più profondi desideri e
aspirazioni, l’anelito più forte non sembra essere quello dell’acqui-
sizione di maggiori ricchezze o di posizioni di prestigio, ma sem-
plicemente quello del conseguimento della tranquillità, favorita da
uno stile di vita all’insegna della moderazione: «non ti inganni mai lo
’ngordo pregio, […] innanzi fa meno, fa tu sicuro» afferma Giovanni
di Pagolo Morelli 119. Ciò che più si cerca appare essere soprattutto
 

la stabilità.

118 Poeti minori del Trecento, cit., pp. 435-438; la citazione è quella dei ver-
si iniziali a p. 435.
119 Giovanni di Pagolo Morelli, Ricordi, in Mercanti scrittori, cit., p. 177.
Si vedano anche le pagine successive ricche di consigli in tal senso. Si vedano an-
che gli ammaestramenti di Paolo da Certaldo, Libro di buoni costumi, cit., n. 372,
pp. 89-90.

83
Sabato 16 maggio, mattina
Pistoia, Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei Vescovi
Presidente Prof. Elisabeth Crouzet-Pavan

Isabella Gagliardi
Realizzati attraverso il rifiuto della
ricchezza

Il titolo del contributo che presento in questa sede e che ri-


calca perfettamente lo spunto propostomi dagli organizzatori del
Convegno per sviluppare la relazione destinata alle giornate di la-
voro comune, necessita di una breve spiegazione. Esso mi è sembra-
to assai pertinente, nella sua brevità, all’oggetto del saggio perché
dà adito a due letture dai significati diversi ma strettamente inter-
relati l’uno all’altro (inesausta capacità gnoseologico interpretativa
insita nella “lingua”?), centrando icasticamente uno tra i gangli vi-
tali del fenomeno di nostro interesse, ovvero il binomio concettua-
le costituito da paupertas e modus religiositer vivendi 1. Ed è proprio
 

1 Esplicito in nota, per non appesantire il testo, anche il motivo “polemico”,


oltre a quello contenutistico, che mi ha indotto a insistere sul titolo del saggio ben
oltre la volontà di chiarirlo. Tra le tendenze culturali attuali si annovera un malinte-
so senso dell’internazionalizzazione, che finisce per svalutare i risultati della ricer-
ca scientifica pubblicati in lingua italiana. L’istanza all’internazionalizzazione non si
dovrebbe trasformare in un appiattimento brutale sull’anglofonia bensì dovrebbe
assicurare la libera circolazione dei testi, in modo che gli studiosi possano usufrui-
re della bibliografia necessaria in tempo utile e a costi ragionevoli. Se, poi, la biblio-
grafia di riferimento è in italiano, polacco, greco, russo, tedesco, armeno, inglese o
quant’altro poco importa, sarà preoccupazione dello studioso il mettersi nelle con-
dizioni di poterla consultare. In definitiva a ciascuno studioso dovrebbe ad essere

85
Isabella Gagliardi

la felice ambiguità della lingua scritta a lasciare aperta la strada del-


le due letture. Da lungo tempo, del resto, i linguisti hanno eviden-
ziato che il pensiero si forma soltanto nel momento in cui si realizza
l’intima unione tra significato e significante, tra oggetto e concetto
da un lato e specifica parola dall’altro; un’unione che non può non
dipendere dalla lingua in cui avviene, con esiti che molto devono al
contesto socio culturale in cui essa si realizza. La “densità” semanti-
ca del titolo di questo articolo ne è per altro un esempio e una pro-
va: è infatti la ricchezza specifica dell’italiano a consentire la duplice
e intraducibile possibilità di interpretazione che sto per sottolinea-
re 2. Se attribuiamo a «realizzàti» il significato di participio passato
 

maschile plurale del verbo «realizzarsi», con ogni evidenza evochia-


mo le numerose esperienze di vita di quanti ritennero ineludibile la
scelta della povertà volontaria per seguire Cristo, o meglio, per se-
guire «nudi» il «Cristo nudo» 3; mentre se assumiamo «realìzzati»
 

quale imperativo presente ancora del verbo «realizzarsi» e coniugato


alla seconda persona singolare, otteniamo una sorta di motto – esor-
tazione categorica che ben si presta a sussumere il travaglio spiritua-
le (culturale) all’origine della scala di valori che, da un lato ebbe il
potere di mettere in dubbio la liceità della Chiesa stessa a possedere
(il suo dominium, insomma), mentre dall’altro provocò l’elaborazio-
ne delle distinctiones teologiche e giuridiche atte a reintegrarlo pie-
namente nella sostanza ma articolandone le modalità attraverso la

assicurato il diritto di scrivere e di pensare nell’unica lingua che davvero possiede


(a meno che non sia bilingue) cioè nella propria. Chioso concludendo amaramen-
te che, sotto il profilo culturale, siffatta tendenza rischia di ottenere effetti più de-
vastanti del colonialismo: almeno di fronte ad un “invasore” manifesto si ha ben
chiara la necessità di difendere e tutelare la propria lingua con tutto quanto ci sta
dentro e intorno, nell’altro caso la si uccide silenziosamente. Per questo e molto al-
tro cfr. J.C. Guédon, Per la pubblicità del sapere: i bibliotecari, i ricercatori, gli edi-
tori e il controllo dell’editoria scientifica, traduzione dall’originale inglese di M.C.
Pievatolo - B. Casalini - F. Di Donato, Pisa, Plus-Pisa University Press, 2004,
< http://en.scientificcommons.org/43837144>.
2 Cours de linguistique générale, a cura di Charles Bally - Albert Riedlinger -
Albert Sechehaye, Losanna-Parigi, Payot, 1916, trad.it. a cura di Tullio De Mauro,
Corso di linguistica generale, Roma-Bari, Laterza [1967], 2009. Preciso che nella fat-
tispecie sono debitrice al collega linguista Marco Biffi che desidero ringraziare pub-
blicamente per il suo contributo a questo saggio.
3 J. Châtillon, “Nudum Christum nudus sequere”. Notes sur l’origine du thème
en S. Bonaventure, in S. Bonaventura (1274-1974), tomo 4, Grottaferrata, Collegio
San Bonaventura, 1974, pp. 719-772; AA.VV., Povertà e ricchezza nella spiritualità
dei secoli XI e XII, Todi, Accademia tudertina, 1969.

86
Realizzati attraverso il rifiuto della ricchezza

formalizzazione degli opportuni distinguo in merito agli usus. Questi


ultimi, secondo un’attenta lettura storiografica, starebbero addirit-
tura alla base della legittimazione dell’intero sistema creditizio e del-
le transazioni finanziarie “inventato” dalla latinità pieno-medievale
e lato sensu avrebbero a loro volta implicato e indotto l’elaborazio-
ne di un’eticità, di un diritto e di una politica conseguenti e, per far-
la breve, “moderni” 4. La straordinaria portata del fenomeno è stata
 

sottolineata da numerosi insigni studiosi e, in tempi recenti, è stata


felicemente sintetizzata da Giacomo Todeschini evidenziandone la
contestualità e le implicazioni reciproche con il processo di mone-
tizzazione dell’economia di cui fu attrice prima e sovrana indiscus-
sa poi — e per un lungo periodo — la pars Occidentis tra XII e XIII
secolo 5.
 

1. Realizzàti attraverso il rifiuto della ricchezza


Nell’arco cronologico compreso tra il XII e il XIV secolo, in-
fatti, i sistemi culturali europei appaiono insistentemente sollecitati

4 Cfr. le categorie analitiche del potere elaborate dai Francescani individuate


da J. Miethke, Geschichtsprozess und zeitgenössisches Bewusstsein – Die Theorie des
monarchischen Papats im höhen und späteren Mittelalter, «Historische Zeitschrift»,
226 (1978), pp. 568-599, in traduzione La teoria della monarchia papale nell’Al-
to e nel Basso Medioevo. Mutamenti di funzione, in Il pensiero politico del Basso
Medioevo. Antologia di saggi, a cura di C. Dolcini, Bologna, Pàtron, 1983, pp. 119-
156. Usus: oltre al contributo di P. Grossi, Usus facti. La nozione della proprietà nella
inaugurazione dell’età nuova, «Quaderni Fiorentini per la storia del pensiero giuridi-
co moderno», I (1972), pp. 287-355, anche in Una economia politica del Medioevo, a
cura di O. Capitani, Bologna, Pàtron, 1987, pp. 1-58 (ma consulto la pubblicazione
in rivista) e di G. Tarello, Profili giuridici della povertà nel francescanesimo prima di
Ockham, in Scritti in onore di Antonio Falchi. Annali della Facoltà di Giurisprudenza
dell’Università di Genova, III, Milano, Giuffrè, 1964, pp. 338-448; A. Tabarroni,
Paupertas Christi et apostolorum. L’ideale francescano in discussione (1322-1324),
Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1990, L. Parisoli, La contribu-
tion de l’école franciscaine à la naissance de la notion de la liberté politique: les donnés
préalables chez Pierre de Jean Olivi, in Pierre de Jean Olivi (1248-1298), a cura di A.
Boureau - S. Piron, Parigi, Vrin, 1999, pp. 251- 293; G. Todeschini, Ricchezza fran-
cescana. Dalla povertà volontaria alla società di mercato, Bologna, Il Mulino, 2004, in
particolare le pp. 109-157; per una sintesi (ancorché fortemente interpretativa) della
vicenda O. Bazzichi, Dall’usura al giusto profitto. L’etica economica della Scuola fran-
cescana, Torino, Effatà Editrice, 2008.
5 «Nell’ambito di questo processo fra XII e XIII secolo, si venne istituendo
un dialogo preciso fra monetizzazione e scelta ossia affermazione della povertà vo-
lontaria quale riassunto del valore sociale: questo rapporto si manifesta, dal punto di

87
Isabella Gagliardi

dall’esperienza e dalla quaestio della povertà evangelica; se la prima


si reificava nella concretezza della quotidianità individuale e colletti-
va di chi, “rinnovellato nella fede”, non trovava altra via verso l’amor
di Cristo se non la paupertas, la seconda sostanziava i progetti, gli
auspici o al contrario i deterrenti intellettuali formulati dagli attori
di una riforma della chiesa che s’esplicava tanto in capite quanto in
membris 6.  

Per quanto attiene alle esperienze dei singoli, grazie ai fonda-


mentali lavori storico critici pubblicati dagli anni Ottanta del ’900 ad
oggi, è ormai acclarato che le vicende consumatesi nell’area mediter-
ranea dal XII al XIII secolo abbiano segnato un passaggio epocale
nella storia della santità. Allora i re e i vescovi santi, protagonisti pres-
soché assoluti del santorale altomedievale, iniziarono a retrocedere

vista di una storia dei “modi di possedere” (o di una “storia del pensiero economi-
co”), sia come definizione di stili di appropriazione sovrapersonale (gli ecclesiastici
amministrano ma non possiedono i beni delle Chiese ed altrettanto sono sollecita-
ti a fare gli amministratori pubblici, principi territoriali o podestà cittadini che sia-
no), sia come rinuncia totale alla ricchezza resa più facilmente praticabile dal fatto
che, appunto, la forma diffusa della ricchezza tende oramai ad essere quella mone-
tizzata», Id., La povertà volontaria come strategia economica produttiva: l’uso delle
cose in assenza di proprietà fra medioevo e mondo moderno, «Rivista on line, Scuola
superiore dell’Economia e delle Finanze», III, n. 3, (marzo 2006), pp. 1-8, p. 2, sca-
ricabile on line < http://www.rivista.ssef.it/site.php?page=stampa&idpagestampa=
20060 >. Gli studi di Todeschini restano imprescindibili: “Quantum valet”? Alle
origini di un’economia della povertà, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il
Medio Evo», 98 (1992), pp. 173-234; Il prezzo della salvezza. Lessici medievali del
pensiero economico, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1994; I vocabolari dell’anali-
si economica fra alto e basso medioevo: dai lessici delle disciplina monastica ai lessici
antiusurari (X-XIII secolo), «Rivista Storica Italiana», 110 (1998), n. 3, pp. 781-833;
Ecclesia e mercato nei linguaggi dottrinali di Tommaso d’Aquino, «Quaderni Storici»,
105 (2000), n. 3, pp. 585-621; I mercanti e il tempio. La società cristiana e il circo-
lo virtuoso della ricchezza tra medioevo ed età moderna, Bologna, Il Mulino, 2002;
Ricchezza francescana. Dalla povertà volontaria alla società di mercato, Bologna, Il
Mulino, 2004.
6 Poverty in the Middle Ages, a cura di David Flood, Erl/Wstf., Dietrich-
Coelde-Verlag, 1975 (Franziskanische Forschungen), 1975. La letteratura sull’ar-
gomento è veramente molto nutrita: si rimanda, anche per la buona bibliografia,
al recente J.P. Huffmann, Potens et Pauper: Charity and Authority in Jurisdictional
Disputes over the Poor in Medieval Cologne, in Plenitude of power. The Doctrines
and Exercise of Authority in the Middle Ages: Essays in Memory of Robert Louis
Benson, a cura di R.C. Figueira, Aldershot, Ashgate, 2006, pp. 107-124; evidente-
mente manca ogni riferimento alla bibliografia italiana e francese sull’argomento,
per la quale invece si rimanda a Todeschini, I mercanti e il tempo, cit.; Id., Ricchezza
francescana. Dalla povertà volontaria alla società di mercato.

88
Realizzati attraverso il rifiuto della ricchezza

dagli altari, dovendo così spartire e talora cedere il luogo d’elezione a


uomini e a donne la cui fama di santità era il frutto della pratica del-
la povertà e della ricerca volontaria della sofferenza per amor di Dio
e del prossimo. Prima ancora che si manifestasse per mezzo dei mi-
racoli, la qualifica di santità veniva attribuita in ragione del modus vi-
vendi: la devozione sorgeva già mentre il futuro santo era ancora in
vita per poi deflagrare subito dopo la sua morte. Nella società itali-
ca, pur con tutte le differenze tra le numerose entità politico sociale
dalla cui sommatoria risultava composta, il santo dell’epoca è in ge-
nere un homo novus, spesso laico e illetterato. Parallelamente i santi
monaci appartenenti alle Regole benedettine riformate e, dal primo
trentennio del Duecento in poi, soprattutto i santi frati mendicanti
si avviano ad affollare i panorami devozionali dell’intera area italia-
na ed anche “europea” 7. Per riprendere il linguaggio di Gerhoh di
 

Reichsberg, uno tra gli intellettuali del XII secolo maggiormente at-
tivi nell’ambito della riflessione sulla povertà, diventavano sempre
più numerosi i pauperes cum Petro, ovvero i convertiti che, per amor
di Cristo, sceglievano di omologarsi ai pauperes cum Lazaro, ovvero
ai poveri involontari, ai poveri loro malgrado 8. Le scritture agiogra-
 

fiche cui è affidata la memoria di tali “atleti” di Cristo appaiono fit-


tamente costellate da un topos comune: l’elogio della povertà vissuta
dai loro protagonisti 9. Anzi, meno prudenzialmente, potremmo far
 

notare come la santità finisca per coincidere con l’esercizio delle po-
vertà. Paupertas è infatti una parola polisemantica e che mal si presta
ad essere tradotta col termine italiano corrispondente, poiché que-
st’ultimo ha ormai perduto ogni altra implicazione semiologica al di

7 A. Vauchez, La sainteté en Occident aux derniers siècles du Moyen Age


d’après les procès de canonisation et les documents hagiographiques, Roma, Ecole
Française de Rome, 1981.
8 Liber de Aedificio Dei, 13 e 42, in Migne, Patrologia Latina, 194, coll. 1232-
1233; coll. 1299-1330; Cfr. M.D. Chenu, La Teologia nel Medioevo. La Teologia nel
secolo XII, Milano, Jaca Book, 1972, (ed.or. La théologie au douzième siècle, Parigi,
J. Vrin, 1957), pp. 243-296. B. Geremek, La pietà e la forca. Storia della miseria e del-
la carità in Europa, Roma-Bari, Laterza, 1986, pp. 7-28.
9 «The ideal vita apostolica may have been vague in legislation, but it assumed
concreteness as a way of life. It was not a function, it was an officium of preaching or
of administering sacraments. Advocates exacted right social conduct, predicated on
interior well-being. As a program, however, the ideal within itself the germs of con-
flict between authority and criticism», Ernest W. McDonnel, The “Vita Apostolica”:
Diversity or Dissent, «Church History», 24 (1955), n. 1, pp. 15-31, p. 17.

89
Isabella Gagliardi

fuori di quella meramente economica 10. La povertà che fa diventar


 

santi, infatti, è sì la rinuncia ai beni materiali, ma è anche e soprat-


tutto la manifestazione esteriore e nondimeno la radice profonda dei
caratteri necessari alla fisionomia (o quantomeno all’idealtypus) del-
l’amico di Dio. La limitazione nell’assunzione del cibo, la progres-
siva scarificazione dei bisogni materiali e psicologici del soggetto, il
processo di identificazione per via imitativa e/o contemplativa con
il Cristo della Passione, insomma il paradigma esistenziale del santo
nel suo complesso si declina necessariamente secondo il modo della
paupertas: Francesco d’Assisi ne è l’icona per eccellenza, ma accanto
alla sua imago sfilano le altre numerose figure analogiche che sanci-
scono l’apertura di una nuova stagione della dedicazione a Dio 11.  

Del resto la morfologia giuscostitutiva e religioso-spirituale de-


gli Ordini Mendicanti si colloca in stretto, ancorché dinamico, rap-
porto genetico con la definizione di una valorialità — spirituale e
culturale al contempo — destinata a incidere profondamente sul-
la società dell’epoca e al cui apice troneggia la paupertas 12. Il voto di
 

povertà emesso secondo la regola benedettina (ivi incluse le numero-


se riforme) ha oramai denunciato la propria inefficacia in atto e non
è riformabile nella misura in cui non è possibile riformularlo iuxta
propria principia 13. Se il monaco in quanto persona è chiamato a li-
 

10 Cfr. J. Leclerq, Pour l’histoire du vocabulaire latin de la pauvreté, «Melto»,


3 (1967), pp. 293-308.
11 È impossibile, dato che si tratta di un tema dibattutissimo dalla storiogra-
fia, dare qui un’esaustiva nota bibliografica. Si rimanda dunque ai testi: Francesco
d’Assisi nell’ottavo Centenario della nascita, Milano, Vita e Pensiero, 1963; G.
Miccoli, Francesco d’Assisi. Realtà e memoria di un’esperienza cristiana, Torino,
Einaudi, 1991, pp. 131-156; Tabarroni, “Paupertas Christi et Apostolorum”. L’ideale
francescano in discussione (1322-1324), cit.; La conversione alla povertà nell’Italia dei
secoli XII-XIV, Atti del XXVII Convegno storico internazionale (Todi, 14-17 otto-
bre 1990), Spoleto, CISAM, 1991; G.G. Merlo, Intorno a Frate Francesco. Quattro
studi, Milano, Edizioni Biblioteca Francescana, 1993, in particolare pp. 131-156;
Francesco d’Assisi e il primo secolo di storia francescana, a cura di M.P. Alberzoni,
Torino, Einaudi, 1997.
12 La letteratura precipua è abbondantissima. Si veda la recente rassegna sto-
riografica di P. Bertrand, Ordres mendiants et renouveau spirituel du Bas Moyen Age
(fin du XIIe s.- XVe s.). Esquisses d’historiographie, «Le Moyen Age», CVII (2001),
n. 2, pp. 305-315.
13 J. Galot, Le fondement évangélique du voeu religieux de pauvreté,
«Gregorianum», LVI (1975) pp. 441-467; di segno interpretativamente opposto il

90
Realizzati attraverso il rifiuto della ricchezza

berarsi dai vincoli della gestione patrimoniale e dunque e almeno in


theoria a porsi in quell’interzona del foro conscientiae garantita dal-
l’allontanamento delle «occasioni prossime di peccato», l’ente giu-
ridico collettivo — ovvero il monastero e quindi la Chiesa — sono
invece tenuti al giusto uso della ricchezza che da potenziale fonte di
peccato/reato si trasforma invece in mezzo per dispensare la chari-
tas. L’amministrazione della ricchezza, come dimostrano i testi mo-
nastici, se proiettata verso il fine ultimo della salvezza non può se
non essere legittimata o addirittura santificata 14. Evidentemente la
 

cristianità aveva già conosciuto una riflessione sulla materia in tem-


pi assai precedenti e basti evocare la visione agostiniana della ric-
chezza, ricorrendo in questa sede all’aforismatica constatazione
delle Confessioni: «ogni ricchezza che non sia il mio Dio m’è pover-
tà» (Conf., XIII) 15. Un ruolo fondamentale era poi stato giocato da-
 

gli intellettuali (teologi e canonisti) del XII secolo, dal già ricordato
Gerhoh di Reichersberg a Pierre de Blois, a Raoul Ardent fino alla
scuola di Chartres 16. Sicuramente, tuttavia, fu soltanto all’epoca della
 

saggio di J.M.R. Tillard, Le propos de pauvreté et l’exigence évangélique, «Nouvelle


Revue Théologique», 110 (1978), pp. 202-232, 359-372. Significativa, a questo pro-
posito, la “riforma” in senso eremitico della Regola di san Benedetto, si veda per
l’esemplarità della trasposizione agiografica della “norma eremitica”, G. Mongelli,
Lo spirito di povertà in S. Guglielmo da Vercelli (1085-1142) e nei suoi discepoli, in
Povertà e ricchezza nella spiritualità dei secoli XI e XII, pp. 247-270.
14 Cfr. Todeschini, I mercanti e il tempio e K. Bosl, “Potens” et “pauper”. Studio
di storia del concetto a proposito della differenziazione sociale nel primo Medioevo e
del pauperismo nell’alto Medioevo, in La concezione della povertà nel Medioevo, a
cura di O. Capitani, Bologna, Pàtron, 1974, pp. 95-151 (trad.it., ma il saggio di Bosl
è del 1963: Potens und Pauper. Begriffsgeschichtliche Studien zur gesellschaftlichen
Differenzierung im frühen Mittelalter und zum ‘Pauperismus’ des Hochmittelalters,
in Alteuropa und die moderne Gesellschaft, Festschrift für Otto Brunner, Göttingen,
Vandenhock und Ruprecht, 1963, pp. 60-87. Continua ad essere straordinario il
percorso analitico di Bosl: dal binomio lessicale tratto dal Salterio alla ricostruzione
dell’affermazione sociale e culturale del binomio quale topos.
15 Cfr. H. Rondet, Richesse et pauvreté dans la prédication de Saint Augustin,
in Id., Saint Augustin parmi nous, Le Puy-Parigi, Xavier Mappus, 1954, pp. 111-
134 (essenzialmente su Enarrat. In ps. 101 e Enarrat. In Ps. 40); D.J. Mc Quren, St.
Augustin’s Concept of Property Ownership, «Recherches Augustiniennes», 8 (1972),
pp. 187-229; A. Manrique, Pobreza en el pensamiento y comportamento de San
Augustìn, «Confer», 12 (1973), pp. 269-272; P. Vismara Chiappa, Il tema della po-
vertà nella predicazione di sant’Agostino, Milano, Giuffrè, 1975; infine B.J. Gordon,
The economic problem in biblical and patristic thought, Leinde, Brill, 1989.
16 M. Mollat, Pauvreté chrétienne, in Dictionnaire de Spiritualité, Ascétique
et mystique, doctrine et histoire, tome XX, Parigi, Beauchesne, 1984, coll. 647-658,

91
Isabella Gagliardi

nascita delle religiones novae (gli Ordini Mendicanti, giustappunto)


che l’aspirazione alla rinuncia precipitò in un pesante nucleo cultu-
rale attorno al quale finirono per orbitare questioni di primissimo
ordine. Il risvolto teologico politico e politico economico dell’affer-
mazione della povertà in quanto tale assunse dimensioni di enorme
portata e tali da scardinare — almeno in potenza — l’ordinamento
del vivere civile così come risultava stabilito e normato sino ad allora.
Non fu espressione del mero opportunismo contingente il fatto che
alla celeberrima querelle minoritica sulla povertà si fosse saldata l’op-
zione regalista di Pierre Dubois e di Guillaume de Nogaret — secon-
do i quali i beni ecclesiastici appartenevano al popolo cristiano e di
conseguenza dovevano essere amministrati dal re: piuttosto Pierre
Dubois e di Guillaume de Nogaret percepirono esattamente le in-
credibili potenzialità di ridefinizione sociale insite nella gestione del-
la paupertas 17. Si giocava, allora, una trasformazione delle categorie
 

interpretative del reale, passando dalla povertà subita e dunque av-


vertita come fenomeno economico-sociale, alla povertà elettiva, ov-
vero gestita e gestibile secondo un codice interpretativo non dato
di per sé, bensì tutto da costruire a partire da presupposti auto fon-
dati e dunque capaci di fondare e legittimare a loro volta questo
o quel comportamento (habitus) privato ma, nondimeno, questo o
quel comportamento, id est questa o quella norma, collettivo. Un si-
mile passaggio avrebbe consentito di svincolare la povertà dall’ am-
bito applicativo della scelta individuale, o al massimo, del piccolo
gruppo coeso, per proiettarla sul ben più ampio scenario della rego-
lamentazione delle istituzioni o comunque di fasce sociali coerenti
e strutturate. In maniera del tutto analoga sia Roberto d’Angiò, au-
tore di un trattato sulla povertà evangelica ed ospite dei dissidenti
francescani alla corte angioina di Napoli 18, sia Ludovico il Bavaro,
 

col. 652.
17 Data la complessità del tema si segnalano soltanto i due studi che hanno sti-
molato un significativo dibattito storiografico: J. Cobb Hearnshaw Fossey, The so-
cial and political ideas of some great mediaeval thinkers: a series of lectures delivered
at King’s College, Londra, G.G. Harrap & Company, 1923; E. Renan, Etudes sur la
politique religieuse du règne de Philippe le Bel, Parigi, Calmann-Levy, 1929.
18 G.B. Siragusa, L’ingegno, il sapere e gli intendimenti di Roberto d’Angiò,
Palermo, Tip. Dello Statuto, 1891, alle pp. xiii-xxvii la pubblicazione del Trattato;
cfr. poi le riflessioni di A. Barbero, La propaganda di Roberto d’Angiò, re di Napoli
(1309-1343), in Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento, a cura di
Paolo Cammarosano, Roma, Ecole Française de Rome, 1994, pp. 111-131.

92
Realizzati attraverso il rifiuto della ricchezza

sostenitore dei Fraticelli, avevano chiaro il potenziale scenario che


avrebbe potuto delinearsi all’indomani di un’opzione pauperistica
radicale della Chiesa, quando fosse stato sufficientemente acclarata
l’incompatibilità ontologica tra il soggetto (la Chiesa, appunto) e la
sua forma actualis 19. Del resto la funzione di grimaldello politico del-
 

la povertà era già stata acutamente intravista da Gioacchino Volpe in


Movimenti religiosi e sette ereticali nella società medievale italiana,
quando argomentava: «l’antica schiettamente religiosa opposizione
francescana alla chiesa di Roma e alla mondanità del clero si arricchi-
sce e si allarga: le questioni fratesche diventano questioni sullo stato,
sulla chiesa, sui rapporti loro» 20.  

Ed è ancora la salda padronanza gnoseologica degli effetti de-


flagranti della povertà applicata a giustificare la posizione assunta da
Dante nel De Monarchia — una sorta di terza via tra il regalismo e la
teocrazia — e che distingue il possesso dei beni ecclesiastici dai loro
frutti auspicando una Chiesa in grado di accontentarsi del possesso
di quanto ricevuto dall’imperatore e capace di distribuirne veramen-
te ai poveri i frutti 21. Dante esternava una percezione che sembra es-
 

sere divenuta acquisizione relativamente condivisa tra XIII e XIV

19 Cfr. le riflessioni di F. Costa, Eleonora d’Angiò (1289-43) regina francescana


di Sicilia (1303-43), in I Francescani e la politica, Atti del Convegno Internazionale di
studio (Palermo, 3-7 dicembre 2002), Palermo, Officina di Studi Medievali, 2007,
pp. 175-222.
20 Gioacchino Volpe, Movimenti religiosi e sette ereticali nella società medie-
vale italiana, secoli 11-14, a cura di Cinzio Violante, Roma, Donzelli, 1997, p. xxxiii
(ed.or. Firenze, Vallecchi, 1922).
21 Ivi, p. xxxii. Altrove Dante avrebbe palesato senza remore il fondamen-
to radicalmente etico del suo giudizio sulla ricchezza e, di conseguenza, la colonna
portante del suo ragionare politico. Nel Paradiso (IX, 127), infatti, avrebbe defini-
to il fiorino come il «maledetto fiore c’ha disviate le pecore e li agni però che fat-
to ha lupo del pastore» ricollegandosi esplicitamente a quei versi infernali con cui
stigmatizzava la cupiditas inappagabile col definirla madre di ogni dissoluzione dei
costumi in quanto veicolo di scorrettezza e furbizia capaci di inquinare persino le
relazioni più intime, deprivandole di autenticità. Il danaro, sterco di Satana, trasfor-
ma la psicologia dei soggetti e nella fattispecie dei suoi concittadini tra i quali, se-
condo Ciacco, allignano «superbia, invidia e avarizia». Codesti vizi «sono / le tre
faville ch’hanno i cuori accesi» (Inferno, VI, 74-75). Cfr. A. Chiari, Saggi Danteschi,
«Quaderni Danteschi», 7 (1991), pp. 80-85; N. Havely, Dante and the Franciscans.
Poverty and the Papacy in the Commedia, Cambridge, Cambridge University Press,
2004, in partic. pp. 14-20; N. Mineo, Dante, un sogno di armonia terrena, Torino-
Catania, Tirrenia Stampatori, 2005, pp. 128, 192, 220; P. Millefiorni, Provando e
riprovando: impegno, politica ed etica nella grande letteratura italiana, Milano, Jaca
Book, 2009 (Di fronte e Attraverso, volume 874).

93
Isabella Gagliardi

secolo: attraverso il rifiuto della ricchezza prende forma la possibi-


lità di rifondare la societas nel suo complesso. Tanto è forte una si-
mile percezione da suscitare reazioni del tutto discordanti. Si veda,
ad esempio, l’esplicita canzone contro la povertà (attribuita da certa
critica a Giotto, considerata anonima da certa altra) in cui leggiamo:
«Molti son que’ che lodan povertate e dicon chè fa stato perfetto,
s’egli è provato e eletto, quello osservando, nulla cosa avendo. Acciò
inducon certa autoritate chè l’osservar sarebbe troppo stretto; e, pi-
gliando quel detto, duro estremo mi par, s’io ben comprendo e però
no ’l commendo» 22. In realtà l’autore prosegue ribaltando il giudizio
 

positivo sulla povertà alla quale preferisce la discretio nell’uso delle


cose del mondo, perché verosimilmente sta criticando gli esiti delle
opzioni minoritiche radicali.
Tuttavia, al di là delle idee personali degli autori evocati sin qui,
ci interessa rilevare come quello della paupertas sembra esser dive-
nuto ormai un paradigma culturale “totale”, che accomuna esperien-
ze diverse nella sostanza e distanti nello spazio, ma dal confronto col
quale è ormai divenuto impossibile sottrarsi.
Il nostro interrogativo poggia interamente su quest’ultimo pun-
to: attraverso quali percorsi storico culturali la quaestio de pauperta-
te finì per assumere tali, macroscopiche dimensioni?

2. Realìzzati attraverso il rifiuto della ricchezza


Si è, pertanto, seguita una delle prospettive d’indagine possibile,
quella che passa attraverso la fase di esplicitazione consapevole della
istituzione delle religiones novae (i cosiddetti Ordini Mendicanti), al-
lorché i loro intellettuali più autorevoli si trovarono a dover rendere
ragione degli istituti cui appartenevano e che avevano fatto della po-
vertà un cardine religioso e/o giuscostitutivo di primaria importanza.
Il momento storico che ci è sembrato rivestire un interesse perspi-
cuo è costituito dalla celebre controversia durante la quale si trova-
rono opposti Secolari e Mendicanti dell’Università di Parigi. I testi

22 S.U. Baldassarri, Alcuni appunti su Giotto e la poesia, Firenze, Olschki,


1997, cfr. inoltre M. Mollat, Etudes sur l’histoire de la pauvreté, Parigi, Publications
de la Sorbonne, 1974, vol. 2, p. 265; M. Veglia, “La vita lieta”: una lettura del
Decameron, Ravenna, Longo, 2000, pp. 127-128; M.V. Schwarz - P. Theis, Giotto
pictor: mit einer Sammlung der Urkunden und Texte bis Vasari, Vienna, Bölau, 2004,
pp. 127-128, p. 67, p. 270.

94
Realizzati attraverso il rifiuto della ricchezza

redatti in quel frangente, dagli scritti di Guillaume de Saint-Amour


a quelli di Bonaventura, di Tommaso di York e di Tommaso d’Aqui-
no ma, nondimeno, i ripetuti interventi pontifici in re rivelano come,
in realtà, la discussione coinvolgesse le strutture portanti dell’ordi-
namento ecclesiale e sociale, a sua volta nomos della terra, per quan-
to sui generis. Del resto alla polemica sulla povertà, grazie agli studi
pionieristici di Congar, non è più applicabile lo statuto di epifeno-
meno congiunturale indotto dai litigi accademici sulla gestione delle
cattedre universitarie; al contrario essa si configura pienamente qua-
le momento fondativo e densamente ecclesiologico 23. I migliori in-
 

gegni da anni si sono già e autorevolmente espressi a proposito, non


si presume pertanto di aggiungere alcunché ai loro lavori, piuttosto
cercheremo di enucleare nel mare magnum della letteratura specifica
alcuni elementi interpretativi attorno ai quali riannodare il filo di una
riflessione a latere, minore e priva di istanze assertive, all’unico sco-
po di rintracciare alcuni segmenti dei «sentieri battuti dalla Parola
nella storia» 24.
 

Contestualmente alla controversia sorta a Parigi in ambiente


universitario e poi allargatasi e radicalizzatasi in seno all’Ordine mi-

23 Y. Congar, Aspects ecclésiologiques de la querelle entre mendiants et sé-


culiers dans la seconde moitié du XIIIe siècle et le début du XIVe, «Archives d’His-
toire Doctrinale et Littéraire du Moyen Age», 28 (1961), pp. 35-151; G. Scalisi,
L’idea di Chiesa negli Spirituali e nei Fraticelli, Roma 1963; J. Miethke, Die Rolle der
Bettelorden im Umbruch der politischen Theorie an der Wende zum 14. Jahrhundert,
in Stellung uns Wirksamkeit der Bettelorden in der städtischen Gesellschaft, a cura
di K. Elm, Berlino, Dunker & Humblot, 1981 (Berliner Historische Studien 3,
Ordensstudien, II), pp. 119-153; Lambertini, La povertà pensata, cit., in partico-
lare le pp. 11-13; pp. 30-49 (con un’ottima rassegna critica della storiografia, da
Congar a Grossi, Miethke, fino a Burr e Coleman); pp. 51-108. Cfr. del medesimo
autore anche Apologia e crescita dell’identità francescana (1255-1279), Roma, Istituto
Storico Italiano per il Medioevo, 1990 e La scelta francescana e l’Università di Parigi.
Il Bettelordenstreit fino alla Exiit qui seminat, in Gli studi francescani dal dopoguer-
ra ad oggi, Atti del Convegno di Studio, (Firenze, 5-7 novembre 1990), a cura di
Francesco Santi, Spoleto, CISAM, 1993, pp. 143-172.
24 Potestà scrive: «La Bibbia ha offerto materiali di riflessione per gli ambiti
più disparati del sapere occidentale, contribuendo alla creazione di testualità e di-
scorsività giuridiche ed economiche di lunga durata» mentre la riflessione teologica
viene «modellata e affinata in relazione a problemi da risolvere e a ostacoli da supe-
rare, strutturandosi in universi concettuali il cui significato peraltro non si riduce e
non si esaurisce entro le circostanze polemiche che ne hanno originato l’elaborazio-
ne», Dominio o uso dei beni nel giardino dell’Eden? Un dibattito medievale fra dirit-
to e teologia, «Quaderno dell’Associazione per lo Sviluppo degli Studi di Banca e
Borsa», 5 maggio (2005), pp. 7-29: p. 25.

95
Isabella Gagliardi

noritico furono affrontati i problemi relativi alla legittimità dell’eser-


cizio del dominium e alla fisionomia stessa della chiesa 25: l’istituzione
 

delle religiones novae implicava che fossero ri-definiti i ministeri, la


fedeltà al modello apostolico, il rapporto tra la lex canonica e la re-
gula apostolorum, non senza addivenire alla necessaria e preliminare
definizione dell’essenza giuscostitutiva della vita apostolorum 26.  

Lo statuto ecclesiale dei Mendicanti risulta stabilito nelle sue li-


nee portanti da Bonaventura da Bagnoregio e da Tommaso d’Aqui-
no già durante la prima fase della polemica. Per quanto sia nota, non
sarà tuttavia inutile ripercorrerne rapidamente i momenti salienti.
Il casus belli risale al 1253, quando i maestri secolari sospesero le
loro attività per protesta, mentre i professori Mendicanti continua-
rono regolarmente a fare lezione; non solo: questi ultimi rifiutarono
di giurare fedeltà ai nuovi Statuti universitari predisposti dai seco-
lari nel 1252. Inoltre fu avanzata richiesta della cattedra magistra-
le di teologia per Bonaventura da Bagnoregio, in piena deroga agli
Statuti del 1252 i quali limitavano ad una sola la cattedra di teolo-
gia esigibile da ciascun collegio religioso. Con l’immissione in ruolo
di Bonaventura i francescani sarebbero invece diventati due, quanti
erano ormai i domenicani, perché Alessandro di Hales, già professo-
re dal 1229, nel 1236 aveva vestito il saio minoritico ma aveva mante-
nuto l’insegnamento. Le ragioni della frizione tra i fratres e i secolari
erano sicuramente precedenti a quella data e risalivano almeno alla
fine degli anni venti del XIII secolo (1229-1230), nel 1229 i predica-
tori non soltanto si erano rifiutati di rispettare la protesta dei secola-
ri in atto, ma addirittura avevano approfittato dello sciopero da loro
proclamato per accordarsi con il Cancelliere dell’Università e con
il papato e cooptare così nei ranghi dei professori di teologia il fra-

25 «Potere legittimo, garantito dalle leggi, che può essere esercitato tanto sui
beni, nel qual caso equivale alla proprietà privata, quanto sulle persone», secondo
Bonaventura il potere esercitato sulle persone dà luogo alla politica, Squillante,
La legge naturale ed il dominium, cit., pp. 45-46; cfr inoltre J. Coleman, The Two
Jurisdictions: Theological and Legal Justifications of Church Property in the Thirteenth
Century, in The Church and Wealth, a cura di W.J. Shiels - D. Wood, Oxford, 11987,
pp. 75-110, Lambertini, La povertà pensata, cit., pp. 47-48.
26 Del resto a Guillaume de Saint-Amour (cfr. infra) è stato contestato pro-
prio l’aver interpretato il riferimento Mendicante alla Chiesa primitiva al pari del
riferimento ad una norma giuridica che, così, risultava disattesa proprio da colo-
ro che l’invocavano e dunque di aver utilizzato questo “escamotage” per accusa-
re i Mendicanti di non apostolicità, J.D. Dawson, William of Saint-Amour and the
Apostolic Tradition, «Mediaeval Studies», 40 (1978), pp. 223-238, p. 235.

96
Realizzati attraverso il rifiuto della ricchezza

ter Rolando da Cremona. Egli fu il primo domenicano a insegnare a


Parigi; di lì a breve gli si sarebbe affiancato il confratello Giovanni
di Saint-Gilles, già docente a Parigi e dal 1230 anche frate predica-
tore del convento di Saint-Jacques 27. Il diverbio del 1253 non trovò
 

una soluzione in loco, tant’è che intervenne Innocenzo IV intiman-


done la composizione entro l’anno. Nel frattempo i secolari inviaro-
no una lettera a tutti i prelati della cristianità, l’Excelsi dextera, con la
quale esposero la propria versione della faccenda, mentre il maestro
Guillaume de Saint-Amour riuscì ad ottenere dal pontefice una li-
mitazione al ministero della confessione espletato dai Mendicanti 28.  

Ma Innocenzo IV morì il 7 dicembre del 1254 ed il suo successore


Alessandro V ripristinò i privilegi dei Mendicanti ed abbatté la limi-
tazione del numero delle cattedre. I secolari risposero con la Radix
amaritudinis, lettera in cui sostennero di esser pronti a sciogliere la
propria associazione se i frati predicatori fossero rimasti ad insegna-
re a Parigi. Fu una mossa azzardata alla quale ne seguirono altre,
tutte ugualmente forti e tali da causare, il 17 giugno 1256, la sospen-
sione dall’insegnamento e poi l’esilio dei quattro secolari più attivi
nella polemica. Tra costoro si contava Guillaume de Saint-Amour;
gli altri erano Oddone di Douai, Nicola di Bar sur Aube e Cristiano
di Beauvais. Nel marzo-aprile 1256 Guillaume aveva reso pubblico
il suo Tractatus de periculis novissimorum temporum (condannato da
Alessandro V il 5 ottobre 1256) con cui si scagliava violentemente
contro i Mendicanti, presentandoli ai prelati dell’ecumene cristiana
nelle vesti di precursori dell’Anticristo e osteggiandone fortemen-
te la professione di povertà e di mendicità 29. Il Tractatus continua-
 

27 Bisogna infatti precisare che il numero delle cattedre di teologia a Parigi


era esiguo: in tutto si trattava di nove cattedre tre delle quali spettavano di diritto ai
canonici di Notre Dame.
28 Etsi animarum, 21 novembre 1253.
29 Liber de Antichristo et eius ministris, ed. E. Martène - U. Durand, Veterum
scriptorum amplissima collectio, tomo 9, Parigi, Monatlant, 1733, coll. 1273-1446
ma attribuiscono l’opera a Nicolas Oresme, M.M. Dufeuil, Guillaume de Saint-
Amour et la polémique universitaire parisienne 1250-1259, Parigi, Durand, 1972;
Id., Un universitaire parisien réactionnaire vers 1250: Guillaume de Saint-Amour, in
Enseignement et vie intellectuelle (IXe-XVIe siècles), Actes du 95e Congrès National
des Sociétés Savantes, Reims, 1970, Parigi, Bibliothèque National, 1975, pp. 239-
274; Die Auseinandersetzungen an der Pariser Universität im XIII. Jahrhundert, a
cura di A. Zimmermann, Berlino-New York, W. De Gruyter, 1976 (Miscellanea
Mediaevalia/Veröffentlichungen des Thomas Instituts der Universität Köln, X).

97
Isabella Gagliardi

va a trattenere ben più di un’eco della condanna dell’Introductorius


ad Evangelium Aeternum di Gerardo da Borgo San Donnino, escus-
so da Guillaume e da altri maestri parigini nel 1254, condannato in
31 punti e portato a Roma dal pontefice affinché ne ratificasse l’ere-
sia ma attribuendolo al calamo di qualche domenicano 30. Spinti dalla
 

necessità di controbattere il Tractatus sia Bonaventura da Bagnoregio,


con il De perfectione evangelica 31, sia Tommaso d’Aquino con il De
 

opere manuali e il Contra impugnantes furono costretti ad esplicitare


le ragioni costitutive dei loro rispettivi Ordines 32.  

L’opera di Tommaso è posteriore a quella di Bonaventura e già


incastona, in nuce, i semina di un’accezione più sfumata del nodo
problematico principe — id est la normalizzazione della paupertas —
che nelle successive fasi di scioglimento in vista di una soluzione de-
finitiva avrebbe finito per originare sia le fratture interne ai Minori,
sia la diversa posizione dei Frati Predicatori, fino all’accusa manife-
sta esplicitata più tardi da Tommaso medesimo 33.  

30 Il Trattato in Guillielmus de Sancto Amore, Opera omnia quae reperiri po-


terunt, Parigi, Contances, 1632 alle pp. 16-72 il Tractatus brevis de periculis novis-
simorum temporum; Dufeuil, Guillaume de Saint-Amour et la polémique, cit., pp.
212-227, 241-243, 252-253. D’obbligo premettere che la fisionomia di Guillaume
ricostruita da Dufeuil è abbastanza negativa, perciò è opportuna la consultazio-
ne anche della più equilibrata voce di Ph. Delhaye, Guillaume de Saint-Amour,
in Dictionnaire de Spiritualité, VI (1967), pp. 1237-1240 e dei recenti A.G. Traver,
William of Saint-Amour “De quantitate eleemosynae” and “De valido Mendicante”,
«Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Age», 62 (1995), pp. 295-342,
i trattati rispettivamente alle pp. 323-332; 333-342, una sintetica contestualizzazio-
ne in Id., The opuscula of William of Saint-Amour. The minor works of 1255-1256,
«Beiträge zur Geschichte der Philosophie und Theologie des Mittelalters», 63 (2003),
pp. 7-12; una prima escussione dei sermoni in J. Robinson, Qui praedicat periculum
in illo peribit: William of St-Amour’s Anti-Mendicant Sermons, in Weapons of Mass
Instruction: Secular and Religious Institutions Teaching the World, Proceedings of a
St. Michael’s College Symposium, (25-26 November 2005), a cura di J. Goering - F.
Guardiani - G. Silano, Ottawa, Legas, 2008, pp. 51-63.
31 Bonaventura da Bagnoregio, De perfectione evangelica, in Id., Opera om-
nia, 5, Quaracchi 1891, pp. 117-198.
32 J.-P. Torrell, Recherches thomasiennes, Parigi, Vrin, 2000, pp. 273-278.
33 Resta imprescindibile U. Horst, Evangelische Armut und Kirche. Thomas
von Aquin und die Armutskontroversen des 13. und beginnenden 14. Jahrhunderts,
Berlin, Akademie Verlag, 1992 in particolare le pp. 11-196, si veda però anche M.F.
Cusato O.F.M., Esse ergo mitem et humilem corde, hoc est esse vere fratrem mino-
rem. Bonaventure of Bagnoregio and the Reformulation of the Franciscan Charisma,
in Charisma und religiöse Gemeinschaften im Mittelalter, a cura di G. Andenna -
M. Breiitenstein - G. Melville, Münster, Lit Verlag, 2005, pp. 340-382; Torell,
Amico della verità, cit., pp. 130-131.

98
Realizzati attraverso il rifiuto della ricchezza

Né avrebbe ragionevolmente potuto essere altrimenti:


Bonaventura apparteneva ad un Ordine il cui processo di costituzio-
ne era stato extra-ordinario e in quanto tale problematico fin dagli
esordi. Egli era chiamato a dover fare i conti con la Regula bulla-
ta — in particolare con il caput vi: «fratres nihil se approprient nec
domum nec locum nec aliquam rem» — senza tuttavia potersi av-
valere delle categorie giuridiche opportune: come più tardi avreb-
be argutamente evidenziato Bartolo da Sassoferrato la forma vitae
dei Minori li sottraeva implicitamente alla sfera d’esercizio del di-
ritto 34. Tommaso, invece, non riscontrava problemi analoghi né nel-
 

la Regola di Agostino adottata dal suo Ordine, né dalle Costituzioni


domenicane, in più egli aveva facoltà di utilizzare l’elaborazione del-
la nascente scuola domenicana che, di fatto, non originava alcun va-
cuum giuridico 35. La radicalità del rifiuto introdotto dalla Regula
 

Bullata costrinse perciò Bonaventura a dover distinguere in meri-


to alla sfera relazionale tra soggetti e oggetti (beni). Nell’Apologia
pauperum definì la povertà nei sensi di rinuncia alle prerogative le-
gali sui beni e ciò si tradusse sic et simpliciter ad un ritorno allo sta-
to di natura: non possedendo i beni si istituiscono con questi ultimi
relazioni puramente fattuali e quindi collocate al di fuori dell’eser-
cizio del diritto 36. Ancora nell’Apologia pauperum concettualizzò la
 

nozione di usus definendola in negativo rispetto a proprietà, posses-


so e usufrutto. Così aprì la strada alle distinzioni successive (dal sim-
plex usus al simplex usus facti) che a loro volta, rimbalzando ben oltre
i confini dell’Ordo, avrebbero finito per diventare i paradigmi di le-

34 Per l’icastica felicità d’espressione rimando a G. Agamben, Il tempo che


resta, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, p. 32. Cfr. inoltre A. Jemolo, Il “Liber
Minoritorum” di Bartolo e la povertà minoritica dei giuristi del XIII e del XIV secolo,
«Studi Sassaresi», II (1922), pp. 1-54.
35 Significativamente Horst: «Die Struktur des Predigerordens mit ei-
nem die monastische Lebensweise übersteigenden Zeit entspricht nach Thomas
dieser Bedingung», U. Horst, Wege in die Nachfolge Christi. Die Theologie des
Ordensstandes nach Thomas von Aquin, Berlino, Akademie Verlag, 2006, p. 27.
36 Bonaventura introduce per primo la nozione di uso di fatto attraverso una
similitudine, basata sul diritto romano, in base alla quale i Minori sarebbero nel-
le medesime condizioni del figlio non emancipato dal padre, il quale ne usa i beni
ma non li può rivendicare, o dell’erede che acquista diritti su ciò che gli spetta solo
previo assenso, L. Squillante, La legge naturale ed il dominium nel confronto tra
Giovanni XXII e i Michelisti, «Annali del Dipartimento di Filosofia», (2003-2004),
pp. 43-59 p. 48. Si veda inoltre O. Bazzichi, Dall’usura al giusto profitto, L’etica eco-
nomica della scuola francescana, Torino, Effatà, 2008, pp. 51-72.

99
Isabella Gagliardi

gittimità di ben altri fenomeni economici ed economico politici 37.  

Fondamentale, a questo proposito, fu dunque la separazione tra do-


minium e usus — avvenuta proprio grazie alla testualità francesca-
na da Bonaventura a Peckham — perché disincarnando la povertà
— ma anche e parallelamente il suo opposto cioè la proprietà — se
ne assicurò il passaggio dalla sfera fattuale ed estrinseca alla sfera
della “dimensione del soggetto”. Secare il nesso tra uso e proprie-
tà significò, alla lunga, secare il nesso tra «mondo della volontà (cioè
dei soggetti) e mondo dei fatti» 38. La bolla di Niccolò III Exiit qui se-
 

minat (1279) riconoscendo la “legittimità intrinseca” dell’Ordine dei


Minori e costituendo così l’esegesi ufficiale del vi caput della Regula
Bullata, com’è noto scatenò in primis la reazione del successore sul
soglio petrino, il giurista Giovanni XXII, e in secundis aprì il varco
alla scissura interna all’Ordine 39. Di quella lunga e complicata fase,
 

in questa sede, interessa soltanto ricordare come lo spazio di neutra-

37 Cfr. Lambertini, Apologia e crescita dell’identità francescana, cit., in partico-


lare le pp. 11-106. La conclusione di Paolo Grossi: «Se si individua nella proprietà
il nucleo della costituzione sociale, se si lega alla proprietà tutto il fenomeno giuri-
dico ciò è però più il frutto di una diagnosi lucida della realtà storica occidentale
che di una visione contestativa. È per questo che noi non possiamo non riconosce-
re il grosso apporto dato alla costruzione di una nozione individualistica di proprie-
tà da questi frati pauperrimi, ignari di fatto della suadenza delle ricchezze…», Usus
facti, cit., p. 355.
38 Ivi, p. 350. Cfr. le riflessioni di Jacques Chiffoleau, Conclusion, in Economie
et religion. L’expérience des ordres mendiants (XIIIe-XVe siècle), a cura di N. Beriou -
J. Chiffoleau, Lione, Presses Universitaires de Lyon, 2009 (Collection d’Histoire et
d’Archéologie Médiévales, 21), pp. 707-753.
39 La bolla in Seraphicae legislationis textus originales, Florentiae, Ad Claras
Aquas, 1897, pp. 273-280. Per la dipendenza della bolla dall’Apologia Pauperum si
veda V. Maggiani, De relatione scriptorum quorumdam S. Bonaventurae ad Bullam
“Exiit” Nicolai III (1279), «Archivum Franciscanum Historicun», 5 (1912), pp. 3-
21; per i suoi significati e la reazione di Giovanni XXII: L. Squillante, La leg-
ge naturale ed il dominium nel confronto tra Giovanni XXII e i Michelisti, «Annali
del Dipartimento di Filosofia», (2003-2004), pp. 43-59, p. 45. Sulla posizione di
Giovanni XXII la letteratura specifica è fiorente e non sempre del tutto consonante:
cfr. M. Lambert, Povertà francescana, la dottrina dell’assoluta povertà di Cristo e degli
apostoli nell’Ordine Francescano (1210-1323), Milano, Ed. Biblioteca Francescana,
1995 (ed.or. Franciscan Poverty. The Doctrine of the absolute Poverty of Christ and
the Apostles in the Franciscan Order 1210-1233, Londra, S.P.C.K., 1961), in parti-
colare pp. 137-142; Horst, Evangelische Armut, cit., pp. 168-194; T. Shogimen,
The Relationship between Theology and Canon Law. Another Context of Political
Thought in the Early Fourteenth Century, «Journal of the History of Ideas», 60
(1999), n. 3, pp. 417-431.

100
Realizzati attraverso il rifiuto della ricchezza

lità giuridica ritagliato dall’usus facti diventasse effettivo soltanto a


patto di inscriverlo all’interno di una concezione del tempo extra-or-
dinaria: il tempo dell’eccezione. La paupertas minoritica assurgeva di
fatto a norma poiché s’incuneava nell’eccezione prevista dal diritto
canonico e dal diritto civile in merito al diritto di proprietà in tempus
extremae necessitatis allorché, argomentava Bonagrazia da Bergamo,
nessuno può rivendicare come proprio quanto è in comune a tutti gli
uomini. Dalla dilatazione del tempus necessitatis all’intero Ordine e
conseguiva che il non avere diritti spettava de iure a tutti i Minori 40.  

In buona sostanza lo sviluppo del pensiero minoritico risulta-


va logicamente conseguente al riconoscimento dello status di fonda-
tore “assoluto” a Francesco (per quanto forse suo malgrado) 41. La  

povertà praticata da Francesco assomigliava più alla paupertas nel


senso giuridico del termine di quanto non fosse riducibile alla mera
egestas, ovvero alla mera condizione di indigenza. La prima ingloba
la seconda, la presume ma la sopravanza poiché rimanda ad uno sce-
nario di rapporti sociali peculiare: il pauper è colui che abbisogna di
tutela, anzi che è alla mercé di chi lo tutela. Dunque la paupertas è in
primo luogo una condizione spirituale e morale: il pauper Christi è il
povero di Cristo, ovvero chi è sotto la tutela, cioè sub iure di Cristo.

40 Secondo la felice frase di Lambertini «una licentia che non si tramuta in


diritto positivo e rivendicabile è uno dei fondamenti dottrinali della stessa conce-
zione dell’uso francescano». Id., La povertà e la spada. A proposito dell’interpreta-
zione di Luca 22, 35-38 nella polemica francescana contro Giovanni XII, in Chemins
de la pensée médiévale. Etudes offertes a Zénon Kaluza, a cura di P.J.J.M. Bakker,
collaborazione di E. Faye - Ch. Grellard, Louvain-La-Neuve-Turnhout, FIDEM-
Brepols, 2002 (Textes et Etudes du Moyen Age, 20), pp. 617-652, p. 651; si veda
inoltre V. Mäkinen, Property Rights in the Late Medieval Discussion on Franciscan
Poverty, Leuven, Peeters, 2001. Evidentemente la percezione/distorsione del tempo
è alla base degli sviluppi “spirituali” dell’Ordine: cfr. G.L. Potestà, Storia ed esca-
tologia in Ubertino da Casale, Milano, Vita e Pensiero, 1980; Id., Angelo Clareno. Ai
poveri eremiti ai fraticelli, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medioevo, 1990; R.
Lambertini, Venenatae temporis huius questionis, Angelo Clareno di fronte alla con-
troversia sulla povertà di Cristo e degli apostoli, in Ovidio Capitani. Quaranta anni
per la storia medievale, a cura di M.C. De Matteis, Bologna, Pàtron, 2003, pp. 229-
249. Per lo scenario “in positivo” cfr. P. Landau, Zum Ursprung des “Ius ad rem” in
der Kanonistik, in Proceedings of the Third International Congress of Medieval Canon
Law, Strasbourg, 3-6 September 1968, a cura di S. Kuttner, Città del Vaticano,
Biblioteca apostolica Vaticana, 1971 (Monumenta Iuris Canonici series C, Subsidia,
vol. 4), pp. 81-102, in particolare pp. 85-102.
41 Cfr. G. Miccoli, Francesco d’Assisi. Realtà e memoria di un’esperienza cri-
stiana, Torino, Einaudi, 1991.

101
Isabella Gagliardi

Ma se siffatta concezione è implicita e non formalizzata nell’espe-


rienza di Francesco, allorché l’esperienza di Francesco per volontà
dei suoi seguaci s’appresta a diventare norma, necessitando d’esser
tradotta in Regola, introduce la deflagrante cogenza della codifica
giuridica di un vissuto. Pone, insomma, la questione delle questio-
ni: come è possibile trasporre l’opzione esistenziale individuale nello
scheletro giuscostitutivo di un’istituzione? Per quanto la fictio iuris
sia efficace, pretendere di assolutizzare un’esperienza — con tutto il
carico della contingenza e della reiterazione della scelta, della speri-
mentazione e degli “aggiustamenti” quotidiani del vivere umano —
transcodificandola in legge è tenzone altissima. Il soggetto giuridico
(cioè l’Ordine) al quale, dopo esser stato passato al vaglio del “ra-
soio” occamista, non si vuol attribuire lo statuto di persona ficta 42, è  

chiamato a normarsi in maniera conseguente all’attitudine del sog-


getto di carne e sangue (il fondatore) ovvero a trasporre nel dominio
del diritto l’atto volitivo che sta alla base della scelta di Francesco e
lo deve fare per assicurare la replicabilità all’infinito di quella volizio-
ne da parte dei singoli esseri umani 43. L’atto volitivo di Francesco,
 

da cui discendeva il suo essere pauper, id est minor, altro non era sta-
to se non l’abbandono totale alla Provvidenza, cioè la fede 44. Qui ri-  

siede la contraddizione massima e insanabile ma fecondissima che

42 Cfr. P. Gillet, La personnalité juridique en droit ecclésiastique, Malines, W.


Godenne, 1927 (Universitas Catholica Lovaniensis Dissertationes ad gradum ma-
gistri in facultate theologica consequendum conscriptae, Series II, tomus 18); P.
Grossi, “Unanimitas”. Alle origini del concetto di persona giuridica nel diritto canoni-
co, «Annali di Storia del diritto», 2 (1958), pp. 229-331.
43 Non a caso «Giovanni XXII si era servito dello schema della persona ficta
per sostenere che l’ordine francescano apparteneva alla realtà giuridica nomen iu-
ris e non nomen personarum, pertanto gli si poteva attribuire l’usus iuris, la proprie-
tà», di rimando Guglielmo da Ockham: «le diverse entità collettive non sono meri
imaginabilia, ma corrispondono ad aliquid in re, a una molteplicità di singoli e con-
creti individui: a costoro appartiene l’usus facti, che solo un artificio linguistico asse-
gnerebbe alla collettività», M. Bettetini, “La regola e vita dei frati è (…) vivere senza
nulla di proprio”: primi accorgimenti giuridici, la fictio iuris, in I Francescani e la po-
litica, Atti del Convegno Internazionale di studio (Palermo 3-7 dicembre 2002), a
cura di A. Musco, Indice a cura di G. Musotto, nota bibliografica di L. Parisoli,
Palermo, Biblioteca Francescana-Officina di Studi Medievali, 2007, pp. 47-74, le ci-
tazioni pp. 71-72. Si veda inoltre l’importante saggio di R. Lambertini, Francesco
d’Ascoli e la polemica francescana contro Giovanni XXII: a proposito dei rapporti tra
l’Improbatio e l’Appellatio magna monacensis, in Studi in onore di Girolamo Arnaldi
offerti dalla Scuola nazionale di studi medioevali, Roma, Istituto Storico Italiano per
il Medio Evo, 2001, pp. 277-308.

102
Realizzati attraverso il rifiuto della ricchezza

costituisce il fondamento (nel senso proprio del termine) dell’Ordo:


la pretesa di trovare un sistema (nella fattispecie una Regola ovvero
la codificazione giuridica della fisionomia identitaria) capace di far
“vivere” una comunità (o un ente giuridico) come ha vissuto un esse-
re umano. Affinché ciò sia possibile occorre che lo stato d’eccezione
diventi la norma 45. Del resto Guillaume de Saint-Amour, nella sua
 

requisitoria contro la mendicità, aveva percepito la problematicità


della trama concettuale intessuta dalla centralità della paupertas, per-
ché ribatteva evidenziando argutamente come il vivere questuando
fosse un trattamento di per sé non sociale ma riservato a titolo ecce-
zionale ai pellegrini e ai penitenti e che tale doveva rimanere affinché
non fosse scardinato l’ordinamento razionale del consesso civile 46.  

Dal canto suo per Tommaso d’Aquino, che comunque non ri-
nunciò a ribattere e ribaltare una ad una le accuse di Guillaume de
Saint-Amour, la ragione suprema dell’istituzione del suo Ordo risie-
de nell’adempimento delle parole di san Paolo in Romani, 12, 1, ov-
vero nell’adempimento del sacrificio spirituale attraverso l’offerta
del sé completo: la rinuncia al corpo sancita dal voto di castità, la ri-

44 Cfr. R. Lambertini - A. Tabarroni, Dopo Francesco l’eredità difficile, Torino,


Edizioni Gruppo Abele, 1989, in particolare pp. 21-50; le pagine introduttive di C.
Leonardi in D. Solvi, La letteratura francescana: le vite antiche di San Francesco,
Firenze, Istituto Lorenzo Valla, 2004.
45 Cfr. le considerazioni di C. Schmitt, Definizione della sovranità, in Id.,
Le categorie del ‘politico’. Saggi di teoria politica, a cura di G. Miglio - P. Schiera,
Bologna, Mulino, 1972, pp. 33-41, in particolare p. 35 (ed.or. Politische Theologie,
Vier Kapitel zur Lehre der Souvernanität, München-Leipzig, Duncker & Humblot,
1922); cfr. inoltre P.N. Riesenberg, Inalienability of sovereignty in medieval politi-
cal thought, New York, AMS Press, 1970, (Columbia Studies in the Social Sciences,
591), in partic. pp. 129-144.
46 Delhaye, Guillaume de Saint Amour, in Dictionnaire de Spiritualité, VI,
Parigi, Beauchesne, 1965, coll. 1238-1241, col 1240. Evidentemente Guillaume si
riferiva alla pratica del pellegrinaggio ex poenitentia, chiaramente normato almeno
fin dal VI secolo e che nel XIII divenne sinonimico rispetto alla penitenza pubbli-
ca non solenne: cfr. il Penitenziale di Robert of Flamborough, Liber Poenitentialis.
A critical edition, a cura di J.J. Firth, Toronto, Pontifical Institute of Mediaeval
Studies, 1971, liber V, caput I, can. 236 e la corrispondenza del Decretum Gratiani;
U. Berlière, Les pèlerinages judiciaires au moyen âge, «Revue bénédictine», VII
(1964), pp. 520-526; C. Vogel, Le pèlerinage pénitentiel, «Revue de sciences reli-
gieuses», 38 (1964), pp. 113-153; I. Sabbatini, “Nudi homines cum ferro”. Parte I. Il
pellegrinaggio nel sistema penitenziale del medioevo, in corso di stampa in Carte di
viaggio, viaggi di carta, a cura di F. Cardini – © dell’autrice – Distribuito in forma-
to digitale da «Spolia».

103
Isabella Gagliardi

nuncia alla gestione personale dell’anima con il voto di obbedien-


za e la rinuncia ai beni materiali mediante il voto di povertà 47. Tali  

voti si radicano nella charitas e poiché la charitas si estende a ciascu-


na opera di misericordia, va da sé che l’Ordo è più che legittimato
ad esistere perché «non est aliquid opus misericordiae ad cuius exse-
cutionem religio institui non possit, etsi non si hactenus instituta» 48.  

Nella povertà-mendicità si ravvisa quindi il modus più appropriato


e coerente per consentire all’Ordine di perseguire il suo scopo ulti-
mo, ovvero la contemplazione che aliis il domenicano dovrà di volta
in volta tradere 49. Il nerbo del contendere con i Secolari si concentra
 

tutto nell’esegesi scritturale: predicazione, lavoro manuale, povertà


sono altrettante manifestazioni della lex evangelicae perfectionis la
quale a sua volta è charitas. Altrove Tommaso avrebbe chiosato «tota
lex Christi pendet a charitate» 50 e, ancora più incisivamente, nella
 

Cathena Aurea super Matthaeum avrebbe dichiarato che nel Vangelo


risiede ogni regola della vita cristiana: «totius vitae regula christia-
nae» (Cath. aurea super Mat. Epist. dedic.). Tanto in Tommaso quan-
to in Bonaventura il Vangelo emerge e si pone, in definitiva, quale
unica e perfetta “regola” del Mendicante. Ma l’esegetica tomista alla
fine risulta tanto più stringente perché tanto più depurata da qual-
siasi preoccupazione giuridica rispetto ai testi di Bonaventura, da
segnare un altro e differente iter. Tommaso spiega la Parola ricor-
rendo alla Parola e riconnettendo continuamente Parola e Azione;
poiché Verbum caro factum est, egli costruisce il proprio percorso ar-
gomentativo non mirando a normalizzare, de facto, la Parola, bensì a
portarne il superficie il «sensum mysticum, id est occultum». Il man-
dato apostolico viene risolto nell’istituto dei Predicatori in quanto
discende dalla parola evangelica, riconoscendo certamente alla po-
vertà la valenza di discrimen (tratto identitario) ma attribuendo ad
essa la funzione di mezzo necessario per addivenire alla libertà di

47 Per Tommaso cfr. l’importante lavoro di Horst, Wege in die Nachfolge


Christi. Die Theologie des Ordensstandes nach Thomas von Aquin, in particolare pp.
23-126.
48 Contra Impugnantes, 1, II, 66-68.
49 J.-P. Torrell, Amico della verità. Vita e opere di Tommaso d’Aquino,
Bologna, Edizioni Studio Domenicano, p. 126.
50 I Sent. d. 47, q. 1 a. 4; Ia IIae q. 100, a. 4 e 5; IIa IIae q. 100, a. 3 ad 1; q.
122, a. 1; De malo, q. 3 a. 1 ad 17; In Matth. XXII, 40, In Rom. XIII, 8-9. Cfr. J.P.
Torrel, Recherches thomasiennes, Parigi, Librairie philosophique J. Vrin, 2000, in
particolare pp. 300-310.

104
Realizzati attraverso il rifiuto della ricchezza

cui alla Scrittura, ovvero necessaria per addivenire alla perfezione.


«Perfectio non consistit essentialiter in paupertate, sed in Christi se-
quela […]. Paupertas est sicut instrumentum vel exercitium perve-
niendi ad perfectionem» 51. Il tempo di Tommaso e dei Predicatori
 

non è il tempo dell’eccezione, bensì il tempo della libertà 52. «Iam im-
 

minebat tempus perfectae libertatis» 53.  

Sulla percezione del tempo, mi pare, si gioca la distanza delle


prospettive tra Bonaventura e Tommaso e, vieppiù, tra la posteriore
elaborazione minoritica e quella tommasiana e domenicana: mentre
lo stato d’eccezione presupposto dai francescani addiviene forzata-
mente alla codifica giuridica e quest’ultima, nello specifico, implica
la “sovranità” di chi legifera nello stato d’eccezione, il tempus liber-
tatis assunto come fondativo dai domenicani implica l’accettazione
della normativa “tradizionale” ma non in maniera acquiescente, ben-
sì in maniera del tutto funzionale al superamento della questione.
Non rifondando dunque la chiesa a partire dall’Ordine, bensì col-
locando armoniosamente la fondazione dell’Ordine nel solco della
giurisprudenza in atto, paradossalmente i domenicani individuano
un’effettiva via di fuga dal secolo: sistemate le questioni del secolo
per mezzo del linguaggio e della concettualità precipui codificati dal-
lo ius già esistente, programmaticamente lasciano tutto ciò alle pro-
prie spalle per volgersi verso la dimensione mystica assicurata dalla
sequela Christi per Sanctam Scripturam. Così conquistano il territorio
della assoluta libertà spirituale, laddove la lex cede il passo alla cha-
ritas, o meglio alla libertas charitatis. L’insistenza di Tommaso sulla
Scrittura e sul valore “regolare” del Vangelo rimanda ad una per-

51 La formulazione definitiva in Summa, II, II, q. 188, a. 7; Cfr. J.D. Jones,


The Concept of Poverty in St. Thomas Aquino’s “Contra Impugnantes Dei Cultum
et Religionem”, «The Thomist», 59 (1995), pp. 409-439 il cui giudizio relativo al-
l’“inefficacia” della difesa del concetto di povertà espressa da Tommaso mi sembre-
rebbe di dover sfumare. Mi pare infatti che il terreno concettuale agito da Tommaso
sia consapevolmente un altro rispetto a quello bonaventuriano, eminentemente
giuridico.
52 Per Tommaso in sé e nel rapporto con i Minori: oltre alle pagine già cita-
te di Horst, Evangelische Armut; Id., Bischöfe uns Ordensleute. “Cura principalis
animarum” und “via perfectionis”, in Der Ekklesiologie des hl. Thomas von Aquin,
Berlin, Akademic Verlag, 1993, specialmente le pp. 11-186; Id., Thomas von Aquin
und der Predigerorden, «Rotterburger Jahrbuch für Kirchengeschichte», 17 (1998),
pp. 35-52.
53 Summa, I-II, q. 108, a. ad 3. Per la testualità controversistica da cui la
Summa distilla nella fattispecie Torrel, L’amico della verità, cit., p. 131.

105
Isabella Gagliardi

cezione dei testi normativi comparabile all’assunzione della Legge


per i cristiani: accolta e attesa la prescrittività del decalogo mosai-
co, la ricezione del Nuovo produce un altro (alto) orizzonte di ri-
ferimento, compreso in una dimensione che trascende e supera il
nomos ma, si badi bene, non lo nega per riformarlo, bensì lo rifor-
ma dall’interno allorché lo fa diventare applicativo con la forza di
chi ad esso ha sovrascritto un’altra dimensione della coscienza (id est
globale, alla fine). Volendo usare una metafora evangelica si potreb-
be dire che così facendo, nello specifico della questione, il cammi-
no tracciato ricalca il passaggio della lettera dalla pietra sulla quale è
scolpita, al cuore dell’uomo in cui è impressa secondo il celebre lo-
ghion Christi. La salvaguardia dell’altezza del “nuovo” orizzonte di
riferimento, quello evangelico e dunque alternativo per definizione
rispetto all’orizzonte umano, è possibile a patto di non volere pro-
cederne alla codificazione: Tommaso lascia ampio spazio alla discre-
zionalità assicurata dall’esercizio della discretio che qui equivale alla
determinazione della proportio. L’assunto «tanto erit unaqueque re-
ligio secundum paupertatem perfectior, quando habet paupertatem
magis proportionatam suo fini» è chiaro: la capacità di individuare la
misura (proportio) è sottratta alla gabbia della fissità normativa; essa
discende da un’operazione d’intelletto che non può essere formaliz-
zata e che, anzi, deve restare discrezionale e contingente perché sia
libera e dunque viva ed efficace. L’equilibrio di Tommaso in meri-
to alla povertà (intesa come punta dell’iceberg interpretativo cui si
è cercato di rimandare sin qui) impedirà ai Frati Predicatori di con-
dividere il radicalismo evangelico-fondativo dei Minori ma che, pa-
radossalmente, avrebbe sortito l’effetto di attribuire al saeculum il
ruolo di onnipresente convitato di pietra. Da una parte l’Ordine dei
Frati Minori fornirà gli strumenti atti a legittimare il sistema econo-
mico basato sulla circolazione del danaro con tutto ciò che ne con-
segue, ancorandosi, dunque, nella storia, dall’altra gli “irriducibili”
assertori della spiritualità francescana finiranno per sopravvivere sol-
tanto a patto di restare immersi nella dimensione a-storica dell’attesa
messianica quando non dichiaratamente escatologica 54. La posizione
 

54 Cfr. per esempio Gerhoh di Reichersberg nell’analisi di P. Classen,


Eschatologische Ideen und Armutsbewegungen im 11. Und 12. Jahrhundert, in
Povertà e ricchezza nella spiritualità dei secoli XI e XII, Todi, 15-18 ottobre 1967,
Todi, Accademia Tudertina, 1969, pp. 129-162. Fondamentali gli studi di Gian Luca
Potestà tra i quali per brevità rimando soltanto a Il tempo dell’Apocalisse: vita di

106
Realizzati attraverso il rifiuto della ricchezza

domenicana sarà diversa e maggiormente sfumata e, alla fine, sostan-


zialmente evangelica (nello spirito): nonostante il poderoso sforzo
compiuto dai neo tomisti per consacrare Tommaso d’Aquino quale
massimo economista dell’epoca medievale, è oramai evidente come
egli e, dietro e dopo di lui, la scuola domenicana abbia partorito un
«rifiuto dell’interpretazione francescana della tradizione testuale re-
lativa alla gestione delle res ecclesiae» 55 con il sottolineare fortemente
 

e a più riprese la sterilità del danaro. Restare ancorati alle res signifi-
cava mantenere concettualmente evidente ed intatta la valenza (legit-
timazione) del patrimonio in quanto strumento di charitas, volto al
fine di sovvenire i «pauperes cum Lazaro», ovvero significava pale-
sare la natura strumentale del bene/servizio necessario per adempie-
re il fine caritatevole (soprannaturale) della Chiesa 56.  

Nel contesto della querelle tra Mendicanti e Secolari molto si


era chiarito ma molto era rimasto parzialmente occultato; di sicuro
tuttavia era emersa l’implicita eversione che in potenza discendeva
dalla riattribuzione alla Scrittura della sua funzione docente effet-
tuata, pur con le differenze del caso, dai Mendicanti 57. Sarebbe stata
 

quella stessa premessa ermeneutica che avrebbe alimentato la for-

Gioacchino da Fiore, Bari, Laterza, 2004.


55 Todeschini, Il prezzo della salvezza, cit., p. 199. Cfr. inoltre gli studi di
J. Coleman, Property and Poverty, in The Cambridge History of Medieval Political
Thought c. 350-c. 1450, a cura di J.H. Burnes, Cambridge, Cambridge University
Press, 1988, pp. Il rifiuto domenicano di attribuire valorialità al danaro di per sé,
alla luce dello sviluppo dei mercati finanziari e della situazione attuale di deflagra-
zione della cosiddetta “modernità”, palesa senza ombre tutto il proprio portato “ri-
voluzionario” e fondativo, questo sì, sotto il profilo sociale.
56 V. De Paolis, I beni temporali della chiesa. Canoni preliminari (cann. 1254-
1258) e due questioni fondamentali, in I beni temporali della Chiesa, Milano, Glossa,
1997, pp. 9-41.
57 Lucidamente, in merito alla controversia tra secolari e mendican-
ti Roberto Lanfredini scrive che i Minori saranno chiamati a «delineare piuttosto
un’“immagine” dell’Ordine, un suo profilo ecclesiologico e giuridico tale da es-
sere proponibile al dibattito in un universo di discorso condiviso, in un intreccio
argomentativo confrontabile con chi in quella scelta non si vuole e non si può rico-
noscere. Lo sforzo si concentrerà sull’esegesi scritturale, ma anche sul campo del-
l’argomentazione teologica e giuridica. La povertà francescana, per essere fondata
sul Vangelo, di cui costituisce innegabilmente un’interpretazione, deve anche essere
articolabile in un discorso razionale, compatibile con un sistema di assunti teologi-
ci e di categorie giuridiche. Infine, deve essere inseribile in un quadro ecclesiologico
coerente»: R. Lanfredini, La povertà pensata, Modena, Mucchi, 2000, p. 11.

107
Isabella Gagliardi

za della povertà ben oltre Parigi e fino a renderla il soggetto di una


disputa totale, fino a contestare la sacramentalità e il ministero ge-
rarchico della Chiesa. Ma, nondimeno, era stata ancora quella pre-
messa ermeneutica a rendere possibile l’istituzione delle religiones
novae e, con esse, la prefigurazione di un rinnovato assetto sociale.
Arrestiamoci tuttavia soltanto a considerare come sui confini della
lictera risiedesse, in definitiva, lo scarto tra i Mendicanti e i Secolari.
Lo stagliarsi della lictera nel processo di creazione della valorialità
coeva è sua volta la risultanza di un’altra e risalente riforma.

3. Ecclesia reformanda
Le aspirazioni alla riforma si erano andate radicalizzando nel-
l’epoca immediatamente successiva a Gregorio VII, allorché una
buona fascia del laicato aveva iniziato a intervenire sempre più reci-
samente nelle dinamiche ecclesiali e, parallelamente, una fitta schie-
ra di monaci e di canonici riformati aveva iniziato a interagire sempre
più di frequente e con incisività via via maggiore nella società non
claustrale 58. Le esperienze cui alludo sono estremamente note ed
 

oscillano tra ortodossia ed eresia: dal gruppo dei Pauperes Christi


costituitosi intorno a Robert d’Arbrissel († 1117), a Valdo di Lione,
fino ai seguaci di Francesco d’Assisi del secolo seguente, ai movi-
menti che riconobbero i propri capi carismatici in Pietro di Bruys
(† 1132/33) 59 o nel cluniacense Enrico di Losanna (o di Le Mans) o
 

infine negli istitutori dell’Ordine di Grammont, agli arnaldisti, agli


apostolici o agli spirituali 60: pur nell’assoluta differenza dei compor-
 

tamenti e delle dottrine tutti costoro trovarono una convergenza sul


fronte della povertà. Tutti costoro, per evocare l’insuperata sintesi di
Giovanni Miccoli, promossero una riforma totale perché arsi da un

58 Anche in questo caso, nell’impossibilità oggettiva di costruire una nota suf-


ficientemente esaustiva e al contempo non abnorme, rimando ai recenti stati della
questione offerti da N. D’Acunto, La Riforma ecclesiastica del secolo XI: rinnova-
mento o restaurazione?, in Riforma o Restaurazione?, Verona, Il segno dei Gabrielli,
2006, pp. 13-28 e G.M. Cantarella, Il papato e la riforma ecclesiastica del secolo XI,
ivi, pp. 29-52.
59 Sulla vita di Pietro, le notizie sono scarsissime e derivano quasi esclusiva-
mente da un trattato, Contra Petrobrusianos hereticos, scritto da Pietro il Venerabile,
abate di Cluny (1092-1156).
60 R. Manselli, Studi sulle eresie del sec. XII, Roma, Istituto Storico Italiano
per il Medio Evo, 1953, capitoli II-III; per Grammont cfr. Y. Becquet, Les institu-
tions de l’ordre de Grammont, «Revue Mabillon», XLII (1952), pp. 31-52.

108
Realizzati attraverso il rifiuto della ricchezza

analogo e inestinguibile sacro fuoco: la necessità di riportare a nuo-


va vita l’ecclesiae primitivae forma 61. Mentre infatti la “modernità”
 

maturava nel varco operato dallo sfaldamento di antiche istituzio-


ni feudo vassallatiche, mentre si esprimeva la formidabile potenza
trasformatrice dei ceti artigianali e mercanteschi, mentre la geogra-
fia umana dell’Europa conosceva quello straordinario impulso che
Marino Berengo ebbe a identificare nei sensi della «stagione delle
città», mentre infine si andavano ridefinendo i poteri civili nella crea-
zione di strutture destinate a trovare di lì a breve una loro peculiare
fisionomia, l’antichità del cristianesimo trovava una improvvisa e fe-
conda risipiscenza. Il modello apostolico, insomma, s’imponeva ben
al di là del perimetro claustrale e il mos apostolorum evadeva dall’am-
bito liturgico per incarnare una precisa istanza culturale e sociale di
ristrutturazione ab imis del consorzio umano 62. Va, infatti, sottoli-
 

neato come l’universo monastico si riversasse fuori dal chiostro con


tutta la carica implicita nell’aver avocato a se stesso il ruolo di realiz-
zatore della vita vere apostolica, fino a postulare l’origine della Chiesa
dal monachesimo: «Si vis omnia Scripturarum consulere testimonia,
nichil aliud videntur dicere quam Ecclesiam inchoasse a vita mona-
stica», scrisse l’autorevole Ruperto, abate di Deutz († 1130) 63.  

Paradossalmente la progressiva definizione del primato petrino


congiuntamente al virulento rintuzzamento delle pretese imperiali,
avevano contribuito a riattualizzare lo stile di vita a apostolico men-
tre la fondazione giuscanonistica della legittimità del potere eccle-

61 R. Manselli, Chiesa gregoriana. Ricerche sulla riforma del secolo XI, Roma,
Herder, 1999 e lo schema interpretativo proposto in Id., La storia religiosa, in Storia
d’Italia, Dalla caduta dell’Impero Romano al secolo XVIII, vol. 2/1, Torino, Einaudi,
pp. 480-608, in particolare i capitoli terzo e quarto. Il portato storiografico del-
l’opera di Miccoli è innegabile ed è stata oggetto di riflessione, per il suo equili-
brio segnaliamo il saggio di A. Rigon, La storia religiosa di Giovanni Miccoli da
Francesco d’Assisi alla fine del Quattrocento, «Rivista di storia e letteratura religio-
sa», 32 (1996), pp. 359-366. Infine: continuano ad essere stimolanti alcune tra le
riflessioni avanzate da M.H. Vicaire, L’imitation des Apôtres: Moines, Chanoines,
Mendiants (IVe-XIIIe siècles), Parigi, Les éditions du Cerf, 1963.
62 A Cinzio Violante va riconosciuto l’indiscusso merito di aver dimostra-
to come gli ideali della riforma non furono affatto alieni rispetto alla “Chiesa feu-
dale” e come l’ecclesiologia coeva costituì il ponte anche tra istituzioni politiche e
società: C. Violante, Le istituzioni ecclesiastiche, in Il Centro Italiano di Studi sul-
l’Alto Medioevo. Venticinque anni di attività. 1957-1977, Spoleto, CISAM, 1977,
pp. 73-92.
63 Chenu, La Teologia nel Medioevo. La Teologia nel secolo XII, cit., pp. 246-
248, citazione a p. 248.

109
Isabella Gagliardi

siastico e dell’esercizio dei ministeri aveva istituito un parametro di


giudizio pericolosamente incline a porre sub iudice quella medesima
Chiesa che l’aveva distillato per consolidare se stessa 64. Insomma la  

Chiesa romana, che si legittimava e si legalizzava rivendicando l’ere-


dità apostolica, finiva per consegnare alla comunità dei credenti una
precisa unità di misura, rendendo possibile la verifica esterna del-
la propria legittimità a partire dal rispetto o meno della fisionomia
della primitiva congregatio apostolica. Del resto il poderoso sforzo
giuscanonistico concretatosi nel Decretum di Burchardo di Worms
aveva consentito la formalizzazione giuridica dello stato della chiesa
primitiva, né casualmente Tommaso d’Aquino si riferiva al Decretum
nella polemica contro Guillaume de Saint-Amour 65. I precedenti di 

Burchardo erano stati sia la Collectio Isidori Mercatoris, sia le decre-


tali pseudo isidoriane trasmesse attraverso la redazione attestata dal-
la Collectio Anselmo dedicata del IX secolo. Alla luce della continuità
tra la chiesa delle origini e la chiesa post-costantiniana il Decretum,
alla fine, aveva metabolizzato l’interpretazione isidoriana secondo la
quale: «maintained the traditional association of this life with the
monks, and fostered the growing association of this life of the cler-
gy» 66. L’interazione tra teologia e diritto si era andata stringendo in
 

misura via via più sensibile da Ivo di Chartres in avanti, quindi la co-
dificazione del paradigma giuridico della chiesa primitiva era avve-

64 Evidentemente il rimando implicito è ancora alle interessanti notazioni sui


complessi e non univoci rapporti tra Reichskirche e nascita delle istanze riforma-
trici interne di G. Tellenbach, Libertas. Kirche und Weltordnung im Zeitalter des
Investiturstreites, Stoccarda, W. Kohlhammer, 1936 (Forschungen zur Kirche und
Geistesgeschichte). Per la dialettica Tellenbach-Fliche, P. Toubert, Eglise et Etat au
IXe siècle: la signification du moment grégorien pour la genèse de l’Etat moderne, in
Etat et Eglise dans la genèse de l’Etat moderne, Madrid, Casa de Velàzquez, 1986
(Bibliotheque de la Casa de Velàzquez I), pp. 8-22, in particolare pp. 14-16. Si ve-
dano inoltre M. Maccarrone, Chiesa e Stato nella dottrina di Papa Innocenzo III,
«Lateranum», n.s., VI (1949), nn. 3-4, pp. 16-26; O. Condorelli, Unum corpus, di-
versa capita. Modelli di organizzazione e cura pastorale per una “varietas ecclesiarum”
(secoli XI-XV), Roma, Il Cigno, 2002, pp. 11-24.
65 Decretum II, c. 1, q. 2, c. 8 in Corpus Iuris Canonici, cur. Aemilius Friedberg,
I, Leipzig, Bernhard Tauchniz, 1879 (rep. Graz, Akademische Druck Verlag, 1959),
vol. I, p. 410.
66 G.W. Olsen, Reference to the ‘ecclesia primitiva’ in the Decretum of Burchard
of Worms, in Proceedings of the Sixth International Congress of Medieval Canon Law,
Berkley, 28 July-2 August 1980, a cura di S. Kuttner - K. Pennington, Città del
Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1985 (Monumenta Iuris Canonici Series C:
Subsidia, Vol. 7), pp. 200-307, p. 306.

110
Realizzati attraverso il rifiuto della ricchezza

nuta contestualmente e in connessione con la riflessione teologica 67.  

Tale fisionomia era stata fissata dalle pagine dei testi sacri del
cristianesimo: ecco dunque che la Scrittura divenne il principale the-
saurus cui attinsero i moti riformatori interni ed esterni (loro malgra-
do) alla chiesa e nondimeno costituì la pietra miliare di paragone per
gli interventi delle auctoritates ecclesiastiche che furono volti a con-
tenere gli esiti più radicali dell’esegesi scritturale. La Parola di Dio,
tra XI e XII secolo, aveva infatti conosciuto una diffusione straordi-
naria e tale da poter essere «raguminata» ben al di là del chiostro: si
spiega anche così, con l’incentivarsi del bisogno di conoscenza e di
discussione dei verba Dei generate dalla riforma stessa, l’epoca delle
traduzioni e dei volgarizzamenti biblici. Pur a rischio di genericità e
imprecisione, vale comunque la pena di sottolineare come il podero-
so sforzo di riforma della chiesa finisse per essere declinato secondo
il paradigma culturale monastico. E di quel paradigma, che preten-
deva l’assoluta coerenza tra la lictera e la vita si erano nutriti abbon-
dantemente quanti erano poi giunti a contestarne gli esiti fattuali,
circoscritti dall’hic et nunc della storia. Valga per tutti il fugace ricor-
do di un personaggio del calibro di Rodolfo Ardente che nelle sue
“infuocate” omelie rivendicava ai poveri il diritto di essere sostentati
secondo le loro necessità e, nondimeno, tacciava i sacerdoti non ca-
ritatevoli d’esser ladri 68. 

Non è casuale che, almeno secondo il racconto che ne fece più


tardi il frate predicatore Stefano di Bourbon, la conversione di Valdo
di Lione — 1173 — fosse avvenuta grazie alla Parola incastonata nei
testi evangelici relativi alla povertà e alla sequela apostolica (Act., 5,
29) 69. Del resto conosciamo perfettamente quale sia stato il ruolo
 

67 Cfr. per quanto non sia specificatamente consacrato alla questione del-
la povertà, N.M. Haring, The Interaction between Canon Law and Sacramental
Theology in the Twelfth Century, in Proceedings of the Fourth International Congress
of Medieval Canon Law, Toronto, 21-25 August 1972, a cura di S. Kuttner, Città del
Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1976 (Monumenta Iuris Canonici. Series
C: Subsidia, vol. 5), pp. 483-493, p. 483; per l’elaborazione canonistica e la rifles-
sione teologica sulla povertà nel sec. XII, E. Delaruelle, Le problème de la pauvre-
té vu par les théologiens et les canonistes dans la deuxième moitié du XIIe siècle, in
Vaudois languedociens et Pauvres Catholiques, Tolosa, 1967 (“Cahiers de Fanjeaux”,
2), pp. 48-63.
68 Seconda metà del XII secolo: R. Manselli, Evangelismo e povertà, in
Povertà e ricchezza nella spiritualità dei secoli XI e XII, cit., pp. 11-41, pp. 36-35.
69 Tractatus de diversis materiis praedicabilibus ordinatis et distinctis in septem

111
Isabella Gagliardi

giocato dalla Scrittura nella scelta pauperistica di Francesco d’As-


sisi, attraverso le sortes apostolorum passò infatti l’opzione dell’iti-
neranza, del rifiuto della ricchezza e persino della stabilità. L’atto di
Francesco ha l’innegabile pregio dell’evidenza esemplare: al Vangelo
egli, laicus et idiota, attribuisce la funzione «normans» per eccellen-
za del vivere cristiano. Siffatto riconoscimento della funzione del-
la Scrittura non è certamente una inventio francescana, al contrario
essa è già ben delineata già all’epoca degli Enriciani e di Valdo da
Lione: «Obediendum est magis Deo quam hominibus» sta scritto,
del resto, in Atti, 5, 29. E, tra i non numerosissimi loghia Christi affi-
dati al Testo Sacro emergono per pregnanza ed evidenza quelli con-
sacrati all’elogio del rifiuto della ricchezza 70.  

L’aspirazione alla povertà, insomma, si configura come il por-


tato dell’affermazione della Scrittura agita quale habitus cristiano
per eccellenza. Il problema di fondo suscitato dalla diffusione della
Scrittura, resa presente ai fedeli dal grandioso sforzo omiletico con-
temporaneo alla Riforma e alla lotta delle investiture nonché alla cir-
colazione dei predicatori eterodossi, consiste dunque nello stabilire
quale sia la concordanza tra lex Christi assurta a regula vitae e l’ expe-
rientia. La difesa del dominium aveva finito per inoculare nella socie-
tà, accreditandolo iuxta propria principia, il textus nella sua ricezione
letterale che avrebbe paradossalmente fornito gli argomenti a chi,
quello stesso dominio, avrebbe finito per negarlo 71. Così la paupertas
 

si avviava a diventare uno tra i parametri fondamentali da utilizzare


per giudicare della fidelitas vitae.

partes secundum septem dona Spiritus Sancti et eorum fructus, ed. antologica in A.
Lecoy de la Marche, Anecdotes historiques, légendes et apologues tirés d’un recueil
d’Etienne de Bourbon, dominicain du XIIIe siècle, publiés par la Société de l’Histoire
de France, Parigi, Librairie Renouard, 1877, pp. 290-293.
70 Cfr. P. Zerbi, Discorso conclusivo, in Povertà e ricchezza nella spiritualità dei
secoli XI e XII, cit., pp. 91-302 e in particolare p. 301, laddove l’autore sottolineava
il parallelismo tra il «commercium cum Domina Paupertate» di Francesco e un pas-
so dell’Epistula ad fratres de Monte Dei di Guillaume de Saint-Thierry (v. 1149).
71 «Ogni riforma della Chiesa, nel medioevo, implica una riforma della socie-
tà», O. Capitani, Figure e motivi del francescanesimo medievale, Bologna, Pàtron,
2000, p. 11.

112
Sabato 16 maggio, mattina
Pistoia, Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei Vescovi
Presidente Prof. Elisabeth Crouzet-Pavan

Salvatore Tramontana
Esibire la ricchezza

La lettura delle fonti relative ali secoli XII-XV offre, e senza


dubbio non solo per il Mezzogiorno italiano e per la Sicilia, una per-
sistente contraddizione di comportamento fra i principi sostenuti
dall’impianto cristiano che affondava le radici in quel paso di Matteo
che si riferisce alla estrema difficoltà del ricco di passare attraverso la
cruna di un ago e una società che viveva, in pubblico e in privato, al
 
1

servizio della ricchezza. Sottomessa cioè alla legge sovrana del pos-
sesso e dell’uso e controllo del lavoro umano . Certo, a parte il lungo
 
2

1
Evangelo di San Matteo, 19, 24, in La Sacra Bibbia, ossia l’Antico e il Nuovo
Testamento tradotto da Giovanni Diodati, Ginevra 1607. Testo condannato dalla
Chiesa romana che nel 1564 aveva vietato di leggere la Bibbia in lingua diversa da
quella latina senza il permesso del locale vescovo. L’edizione citata è quella stampa-
ta a cura del “Deposito di Sacre Scritture”, Piazza Venezia, Roma 1922, p. 770: «E
da capo vi dico: Egli è più agevole che un cammello passi per la cruna di un ago che
un ricco entri nel regno di Dio».
2
Costante, nella dinamica intellettuale della società cristiana, il dibattito, non
solo etico e religioso, sul significato della ricchezza e specie sul suo uso. Un dibatti-
to che, al di là di una linea di sviluppo continuo, riconduceva di frequente a ritorni
e ripensamenti che, dalla esaltazione dell’ascetismo dei monaci o delle considerazio-
ni di Tertulliano sul De cultu feminarum, si spingeva fino a Lorenzo Valla, a Poggio
Bracciolini e all’elogio della ricchezza come critica parassitaria di talune forme di
vita religiosa, e come concezione di una società che trovava in se stessa la giustifica-
zione «del suo impiego produttivo e la ricostruzione del piacere come elemento mo-

113
Salvatore Tramontana

e denso dibattito all’interno dei cluniacensi e soprattutto degli ordini


mendicanti non erano pochi gli autori che insistevano sulla ricchez-
 
3

za come impedimento della realizzazione della perfezione cristiana e


soprattutto sulla esibizione e avidità del possedere come esaltazione
della propria vanità, come trionfo dell’iniquo, come elemento cor-
rosivo dell’attaccamento dell’uomo al non operare. Basti fra tutti ri-
cordare i riferimenti di Dante Alighieri nell’Inferno e nel Purgatorio
4 5
   

al nesso strettissimo fra povertà e virtù e soprattutto ai capitoli del


Convivio tesi a dimostrare «come le divitie sono vili, e come disgiun-
te sono e lontane da nobilitate» .  
6

Il messaggio che però si coglie nelle cronache, nella legislazione,


negli atti notarili, negli ordinamenti di potere come fulcro di svilup-
po egemonico nelle scelte di costruzione statale, in quelle di politi-
ca estera, nell’assestamento delle gerarchie sociali, esprime tensioni
che non possono certo essere considerate misure di positiva etici-
tà perché, di fatto, offrono l’esaltazione dell’avere, il disprezzo della
povertà, il frequente ricorso a comportamenti particolarmente adat-
ti all’esibizione della ricchezza. Cioè a quell’unione di pensieri, di
sentimenti, di inclinazioni che sta alla base dello sforzo che fanno
gli uomini verso il raggiungimento della ricchezza, degli onori e del
piacere stesso di esibirli. Come, per esempio, sia pure con l’eloquen-
za fastosa dei giorni di parata, offre l’immagine di Alfonso, duca di
Calabria che, nella Cronaca di Partenope «è lì — annota l’anonimo
cronista — tronfio ed impettito sul suo cavallo bianco, in quel super-
bo atteggiamento rispondente a quel suo spirito prepotente che lo
rese odioso a tutti» .  
7

tore e finalità della vita»: F. Gaeta, Lorenzo Valla. Filologia e storia dell’Umanesimo
Italiano, Napoli 1955, pp. 149-51.
3
Per il nesso, soprattutto fra la visione etico-religiosa degli ordini mendicanti
e la dinamica dell’agire degli uomini in una comunità politica, si veda O. Langholm,
Economics in medieval schools: wealth, exchange, value according to the Paris theolog-
ical tradition, Leiden 1992, passim.
4
La divina Commedia, a cura di M. Porena, Inferno, XIX, 115-17, p. 180:«Ahi,
Costantin, di quanto mafu madre, / non la tua conversion, ma quella dote / che da
te prese il primo ricco padre!»
5
Ivi, Purgatorio, XX, 25-27, p. 191: « […] O buon Fabrizio, / con povertà vo-
lesti anzi virtute / che gran ricchezza posseder con vizio».
6
Convivio, IV, 11-13, in Dante, Tutte le opere, a cura di L. Blasucci, Firenze
1965, pp. 174-78.
7
Una cronaca napoletana figurata del Quattrocento, a cura di R. Filangieri,
Napoli 1956, nn. 47, 49, 55, 57, p. 22.

114
Esibire la ricchezza

Se la Cronaca di Partenope — che nel basso Medioevo e fino


alle soglie dell’età moderna fu l’unica trattazione storica di Napoli —
rappresenta, con l’immagine di Alfonso II, l’atteggiamento più ester-
no e caduco di un modo arrogante e angusto di esercitare il potere,
nel tono generale dell’arte e della cultura del tempo si avverte l’ef-
ficacia di una ricerca tesa a chiarire le pulsioni dell’agire non tanto
come proposito moralistico ed educativo, ma come necessità, avreb-
be più tardi precisato Guicciardini, di adeguarsi di volta in volta alla
realtà delle circostanze e alle diversità delle condizioni. Per Lorenzo
Valla, ad esempio, esibire la ricchezza, che di solito si accompagna al-
l’esercizio del potere, poteva essere, e di fatto era, una di quelle incli-
nazioni incarnate nell’attività operativa dell’uomo, e fra le quali, nei
Gesta Ferdinandi regis Aragonum, sono elencate l’ira, l’odium, il me-
tus, l’invidia, la spes, la cupiditas . Cioè quelle tendenze conformi alla
 
8

natura dell’uomo e di solito considerate espressioni di debolezza e


di egoismo, ma che di fatto, presenti nell’orgoglio dell’appartenenza
e del successo, nell’arroganza e nella superbia del potere, nell’esalta-
zione dell’avere, appaiono come carattere fondativo dell’agire stori-
co che muove dall’utilitas e a essa è riconducibile .  
9

Certo, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a quel rovescia-


mento del concetto di potere, e quindi di ricchezza, che Max Weber
riportava appunto al secolo XV, quando il progressivo generalizzar-
si di un modo di essere che vedeva il ricco premiato per il suo lavo-
ro e il povero colpevole di vagabondaggio . A leggere però le fonti,
 
10

8
Gesta Ferdinandi regis Aragonum, a cura di O. Besami, Padova 1973, p. 80.
9
G. Ferrau, La concezione storiografica del Valla: i «Gesta Ferdinandi regis
Aragonum», in Lorenzo Valla e l’Umanesimo italiano, Padova 1986 («Medioevo e
Umanesimo», 59), pp. 280-286.
10
Da vari cronisti — e valga per tutti Saba Malaspina, Rerum sicularum
Historia, in G. Del Re, Cronisti e scrittori sincroni napoletani editi ed inediti, Napoli
1868, II, p. 214, nel cui testo i contadini pugliesi sono detti imbecillia — sembra
emergere, spontanea, la convinzione di un nesso diretto fra povertà, incapacità e in-
feriorità morale. Una convinzione da ricondurre al disprezzo per le attività manua-
li e per il comportamento di un populus minor costretto, per sopravvivere, a servire.
Quel populus che il parroco di una novella di Giuseppe Verga (Tutte le novelle, a
cura di G. Simioni, Milano 1968, I, p. 260) indicava come «teste di villani! Bisogna
farci entrare la ragion per forza». Significative le considerazioni di P. Camporesi, La
maschera di Bertoldo. G.C. Croce e la letteratura carnevalesca, Torino 1976, p. 60, sul
conflictus fra due culture e due società diverse da una delle quali i contadini, che non
curant de doctrina, erano considerati viri anormali, carichi di malizia, uomini del de-
monio. Si vedano comunque le pagine dedicate a questo atteggiamento di disprez-

115
Salvatore Tramontana

a guardare i dipinti, a fissare i comportamenti nella vita quotidiana


soprattutto durante le feste e le manifestazioni pubbliche, si coglie
una dinamica sociale ed economica che, al di là di tutti gli accomo-
damenti, i compromessi morali, le richieste di aiuto a Dio e i desi-
deri esasperati di penitenza, appare sostenuta dalla ricerca dell’utile
come accrescimento di ricchezza e della sua esibizione, come dila-
tazione di potere. Vincent di Beauvais del resto, già nel secolo XIII,
aveva esortato «la gente a lavorare non soltanto per vivere, ma per
produrre un accumulo di ricchezza che avrebbe portato a una ulte-
riore produzione di ricchezza» . E quindi a un modo di vivere che,
 
11

se dava benessere e comodità grandi, non mancava, specie nelle don-


ne, di provocare paure e forme di penitenza che ponessero in pace
la propria coscienza. Cronisti come Nicolò Speciale e Michele da
12
 

Piazza — che descrivevano con parecchi dettagli i fasti e le cerimo-


 
13

nie del loro tempo e ampi spazi riservavano alla sfarzosa esibizione
di abiti e gioielli femminili — testimoniano usanze che richiedevano
parecchio dispendio di ricchezza, che imponevano doveri di rango,
che evidenziavano il distacco fra caste privilegiate e la gran massa di
quanti erano costretti a indossare per anni sempre lo stesso misera-
bile vestito, che provocavano angosciosi ed equivoci intrecci tra lus-
so, pentimenti e manifestazioni religiose. Ne fanno fede, fra l’altro,
quelle donne che consideravano il valore sociale e suntuario dell’ab-
bigliamento un pericolo per l’anima e, preoccupate della propria sal-
vezza, portavano il cilicio sotto l’abito alla moda indossato per non
sfigurare.
A questi atteggiamenti contraddittori di personalità sconvolte
dalle loro vanità meschine e al loro terrore dell’inferno, al loro desi-
derio di apparire e alle loro angosce, all’amore cristiano e alla com-
battuta e pur sempre risorgente disponibilità per la vita mondana,
accennava George Chastelain quando cercava di comprendere i mo-

zo e di velenosa ironia verso i contadini, i bisognosi, gli invalidi, da J. Huizinga,


L’autunno del Medioevo, Introduzione di E. Garin, Firenze 1966, pp. 28-30 e da E.
Sereni, Agricoltura e mondo rurale, in Storia d’Italia, 1, I caratteri originali, dir. da R.
Romano - C. Vivanti, Torino 1972, pp. 193-96, a «La satira del villano».
11
Cit. da L. Mumford, La condizione dell’uomo, Milano 1964, p. 193.
12
Historia sicula: 1282-1337, VI, c. 20, in R. Gregorio, Bibliotheca Scriptorum
qui res in Sicilia gestas sub Aragonum imperio retulere, Panormi 1791-92, I, pp.
459-60.
13
Historia sicula: 1337-1361, I, c. 59, in Gregorio, Bibliotheca, cit., I, pp.
634-35.

116
Esibire la ricchezza

tivi per i quali Beatrice di Ravenstein, leggiadra donna della corte


borgognona, sotto l’elegante vestito indossava il cilicio . E sono con-  
14

traddizioni, ripensamenti, desideri esasperati di penitenza alle cui ra-


dici troviamo in Sicilia atteggiamenti di risoluta e netta opposizione
alle abitudini mondane. Nel Libru di li vitii et di li virtuti si parla in-
fatti del dovere di rinunciare ai segni caduchi e superbi del mondo
e delle sue passioni «per amuri di Yesu Cristu» , e nei penitenziali, 
15

cioè nei manuali destinati al clero per condurre una buona confes-
sione numerose e ossessive sono le domande su quei peccati ritenu-
ti capitali: «ti conzasti fachi oy vestisti vestimenti adornati per alcuna
vanitati?» ; «ti amasti e priasti du to corpu?» ; «haiti consatu la fa-
 
16
 
17

chi oi pilatu li gigli?» ; «hai spannatu lu mantu per essiri vista?» ;


 
18
 
19

«hai portatu manigli, chirstelli oi corduni di argentu pro vanaglo-


ria?» ; «hai portatu scarpi pinti?» .
 
20
 
21

Certo, l’eccessiva attenzione di uomini e donne verso se stessi


poteva essere allora, e potrebbe essere ancora oggi, frutto della pre-
carietà della vita. E valga il nesso, costante nell’aristocrazia, fra ab-
bandono dei bambini e drappi preziosi con cui venivano ricoperti in
modo che «chi li avrebbe trovati avrebbe saputo che erano di nobi-
le nascita» . Ma porre a confronto le lussuose ed esuberanti mani-
 
22

festazioni di mondanità con la corruzione morale che scaturiva dalla

14
In Oeuvres, a cura di Kervyn de Lettenhove, 1863-64, IV, p. 218: «fingen-
dosi di essere la più moderna delle altre — Beatrice di Ravenstein, dice il cronista —
portava tutti i giorni il cilicio sulla sua carne nuda, digiunava a pane e acqua molti
giorni con segreta finzione, quando suo marito era assente dormiva molte notti sulla
paglia e non nel letto». La scoperta delle forme del corpo aveva del resto portato le
donne dell’aristocrazia all’uso del busto indicato poi dalla medicina «fonte di tutti
i mali immaginabili, dalla costipazione al cancro»: E. Shorter, Storia del corpo fem-
minile, Milano 1984, p. 45. Si veda comunque in particolare P. Diepgen, Frau und
Franenheiilkunde in der Kultur des Mittelalters, Stuttgart 1963, p. 207.
15
Libru di li vitii et di li virtuti, a cura di F. Bruni, Palermo 1973 (Collezione di
testi siciliani dei secoli XIV e XV fondata da E. Li Gotti, diretta da A. Pagliaro),
II, c. 176, p. 259.
16
Regole, costituzioni, confessionali e rituali, a cura di F. Branciforti, Palermo
1953 (Collezione di Testi siciliani dei secoli XIV-XV diretta da E. Li Gotti), p. 137,
rigo 7.
17
Ivi, p. 137, rigo 11.
18
Ibidem, p. 172, rigo 9.
19
Ibidem, p. 172, rigo 13.
20
Ibidem, p. 172, rigo 20.
21
Ibidem, p. 173, rigo 4.
22
J. Boswell, L’abbandono dei bambini in Europa Occidentale, Milano 1991,

117
Salvatore Tramontana

mancata osservanza di una rigida interpretazione della fede cristia-


na significava spostare, sul piano etico e religioso, «quel che in effet-
ti era una crisi strutturale della società derivata per larga parte dalle
insufficienze dei ceti e dei gruppi dominanti» . Preoccupati soprat-
 
23

tutto, i gruppi dominanti, di salvaguardare la gerarchia dei titoli e la


continuità del predominio anche attraverso l’esclusivo uso dell’ab-
bigliamento al quale si accomunava allora l’aspetto più vistoso della
collocazione sociale. E non erano poche le “prammatiche” che, la-
mentando la difficoltà di tenere gli uomini entro i confini del loro
status, tendevano a impedire che alcuni varcassero «a loro discrezio-
ne i limiti dell’onestà e della modestia» .  
24

All’onestà e alla modestia facevano del resto frequente riferi-


mento le leggi suntuarie legate soprattutto alle congiunture mate-
riali, agli angusti spazi di manovra sociale dei gruppi di potere, «al
malumore delle classi più elevate quando si vedevano imitare dai
nuovi ricchi» . Polemizzare con l’ostentazione degli abiti perché lus-
 
25

suosi, enfatizzati, in ogni caso spudoratamente impudichi, significa-


va anche volersi proteggere dagli eccessi del ben figurare, dall’esibire
appunto la ricchezza, e quindi dalle esorbitanti spese di rappresen-
tanza imposte soprattutto dai matrimoni e dalle feste. Cioè da riti e
cerimonie che rappresentavano la più frequente occasione di investi-
menti in abiti, ornamenti e gioielli e contribuivano a mandare in ro-
vina singole famiglie e, sul piano collettivo, allo sperpero di risorse
che si sarebbero potute utilizzare per maggiori incrementi della pro-
duzione e del commercio . E infatti anche chi non si poteva permet-
 
26

tere taluni lussi non si vergognava di vendere o ipotecare beni per

pp. 229-30, 234, 242.


23
C. Vivanti, La storia politica e sociale dall’avvento della signoria all’Italia spa-
gnola, in Storia d’Italia, dir. Romano - Vivanti, cit., 2/1, Dalla caduta dell’Impero ro-
mano al secolo XVIII, Torino 1974, p. 305.
24
G. Giarrizzo, La Sicilia dal Cinquecento all’Unità d’Italia, in Storia d’Italia,
diretta da G. Galasso, XVI, Torino 1989, pp. 247-48.
25
F. Braudel, Capitalismo e civiltà materiale, Torino 1977, p. 232.
26
Va comunque osservato che, per tanti ambienti, l’eleganza nel vestire ri-
maneva simbolo di lussuria, anche perché nel comune pensare di quegli anni era
spesso difficile esprimere valori e concretizzare comportamenti al di fuori dei riferi-
menti religiosi: «senza i costumi le leggi non giovano» precisava Rosario Gregorio,
Lusso e maniere di vestire delle donne siciliane nei mezzani tempi, in Id., Opere scel-
te, Palermo 1847, p. 743. È noto però, e i riferimenti di varie fonti lo testimoniano,
che, al di là dei contraccolpi più o meno sostanziali sulla consistenza di beni di talu-
ne famiglie, il lusso era uno dei motori principali dell’economia e dell’arte, e come

118
Esibire la ricchezza

porre in mostra la propria magnificenza, sostenuto in ciò da comu-


ni modi di sentire che mal si amalgamavano con gli obiettivi di un
possibile razionalismo economico finalizzato invece all’accumulazio-
ne e allo sfoggio di ricchezza. Tanto più che in Sicilia i ceti abbienti,
posti di fronte a precise scelte, hanno finito col preferire la solidi-
tà di patrimoni fondiari ed edilizi alle liquidità finanziarie. E come
già le donne di Messina, nella seconda metà del secolo XIII, non in-
tendevano rinunciare al diritto di fare sfoggio dei propri vestiti e di
portare, «in quella quantità che loro piacesse, aurum, perlas atque au-
frigia aliaque ad ornamentum spectantia tam in vestibus quam in aliis
ornamentis» .  
27

Fra i vari accorgimenti che cooperavano a rendere inoperanti


le norme tese a frenare il lusso più che l’orgoglio di ostentare la ric-
chezza era l’arte femminile di lasciare esprimere al corpo tutto il suo
fascino attraverso la frivolezza degli abiti e il mistero dei veli. In una
delle sue novelle Franco Sacchetti accenna con caustica ironia alle
astuzie con le quali le donne sfuggivano alle norme suntuarie . E del-  
28

la regina Isabella di Baviera si diceva che, con «una nudità pomposa-


mente nascosta dalle gemme», trascinava le donne del suo regno «al
trionfo del fasto impudico» . Cioè a quella moda diffusa quasi ovun-
 
29

que e soprattutto a Firenze, dove le donne offrivano spettacolo del-


le loro provocanti forme, e per la quale Dante, constatata vana ogni
privata esortazione, auspicava energici interventi pubblici: «tempo

tale contribuiva non solo all’aumento generale di ricchezza, ma anche alla diffusione
di uno stile di vita, vale a dire di una civiltà. E pure per questo è forse opportuno ri-
flettere sulla dinamica economica del sec. XV, quando, alla diminuzione della quan-
tità globale della produzione, e quindi alla minore domanda di beni, corrispondeva
un’accresciuta richiesta di generi di lusso: A. Fanfani, Le origini dello spirito capi-
talistico in Italia, Milano 1933, p. 80; G. Puzzato, Storia economica d’Italia, Firenze
1963, p. 293; le varie relazioni alla XXXIII Settimana di Studi promossa dall’Istitu-
to di Storia economica “Francesco Datini” di Prato dedicata appunto, dal 30 aprile
al 4 maggio 2001, a Economia e arte nei secoli XIII-XVIII.
27
G. Del Giudice, Una legge suntuaria inedita del 1290. Commento storico-
critico con note e appendici di documenti, la maggior parte inediti, Napoli 1887, doc.
IV (8. XII. 1298), pp. 258-62.
28
Il Trecentonovelle, a cura di E. Faccioli, Torino 1970, nov. 137, pp.
355-58.
29
H. Baudrillart, Histoire du luxe privé et public depuis l’antiquité jusqu’à nos
jours, Paris 1878-80, III, p. 287; A. Racinet, Le coutume historique. Cinq cents plan-
ches, trois cents en couleurs, or et argent, deux cents en camaïeu. Types principaux du
vêtement et de la parure, Paris 1888, IV, planches et notices 208, n. 21.

119
Salvatore Tramontana

futuro m’è già nel cospetto, / cui non sarà quest’ora molto antica /
nel qual sarà in pergamo interdetto / a le sfacciate donne fiorentine /
e l’andar mostrando con le poppe il petto» .  
30

Anche per Milano abbiamo testimonianze che sottolineano ne-


gli abiti femminili il capriccio della moda e il gusto della seduzione.
Galvano Fiamma accenna, per esempio, all’abitudine delle donne di
«indossare abiti attillati, di portare petto e gola scoperte, di intreccia-
re nei capelli ornamenti d’oro e d’argento, di calzare stivaletti rossi
e di usare cinture dorate» . Gusto dell’eleganza caro a Bianca Maria
 
31

Sforza testimoniato, fra l’altro, dal dettagliato elenco del corredo as-
segnato alla figlia Ippolita che andava sposa al duca di Calabria .
32
 

Ed era quella stessa civettuola vanità e quel sottile gusto di se-


duzione di cui rimane traccia in qualche fonte dove si legge della
vergine che si guardava allo specchio per provare come mostrarsi in
pubblico «lasciando aperto il vestito da un lato per fare apparire la
pelle, allentando la cintura per far vedere il seno» . E che si coglie
 
33

negli abiti femminili di Sicilia. Dove da taluni inventari e atti notarili


si ha notizia di «tuniche muliebri rotunde», cioè ampiamente scolla-
te , di abiti detti «ciprisium de seramico rubro infoderatum cintado
 
34

30
La divina Commedia, cit., Purgatorio, XXIII, vv. 98-101, p. 225. Su questo
ritorno allo spirito e alle virtù del passato e ai «sùbiti guadagni», cioè ai rapidi e di-
sonesti arricchimenti che trovavano nel lusso, spesso impudico, la testimonianza più
palese, Dante insiste anche in altre opere: Convivio, cit., IV, 27, p. 195; De monar-
chia, I, 5, in Tutte le opere, cit., pp. 253-54.
31
Opuscolum de rebus gestis ab Azone Luchino et Johanni vicecomitibus ab anno
MCCCXXVIII usque ad annum MCCCXLII, in L.A. Muratori, Rerum Italicarum
Scriptores, Milano 1723-38, XII, col. 1033.
32
Sul matrimonio, i vestiti, la sontuosa cerimonia, la doppia laus del Regno
di Sicilia e del ducato di Milano si veda Matteo Zuppardo, Alfonseis, a cura di G.
Albanese, Palermo 1990, III, p. 127sgg., e soprattutto le dettagliate note della cu-
ratrice nelle pp. 19, 56, 126, 129, 131-47. I motivi politici del matrimonio in E.
Pontieri, Alfonso il Magnanimo re di Napoli: 1435-1458, Napoli 1975, pp. 325-28.
33
Ad virgines et puellas. Sermo II, in Sermones et omnes status per Johannem
de Vingle, Lugduni 1511, f. 147v. Da talune tombe recentemente portate alla luce è
emerso, per esempio, che la regina Arnegonda, moglie di Clotario I, indossava una
lunga tunica di seta colore rosso bruno «tutta aperta verso il basso, cosicché era
possibile vedere i legacci decorati delle calze»: E. Ennen, La donna nel Medioevo,
Bari 1986, pp. 67-68. È noto del resto che le ragazze di Sparta portavano una tuni-
ca aperta e dagli ateniesi di Pericle erano dette, in segno di disprezzo, fainomerides:
che mostravano le cosce. Quando correvano invece mostravano «nudo tutto quan-
to, dall’ascella al tallone».
34
Archivio di Stato di Palermo, Notai defunti, notaio Enrico de Citella, reg.
79, c. 94v (29 gennaio 1349), relativo ai capitoli nuziali di Rita, figlia di Andrea di

120
Esibire la ricchezza

ialino» e «ciprisium de villuto violato» , che erano vesti «largissi-


 
35

me versus pedes et a medio supra erant strictae cum manicis longis


et largis», le quali «habebant gulam tam magnam quod ostendebant
mammillas» e si vedeva «quod dictae mammillae velint exire de sinu
earum» . E ciò perché taluni capi di biancheria intima, malgrado il
 
36

notevole sviluppo, fin dal secolo XIII, delle coltivazioni di canapa e


di lino , avevano allora scarsa diffusione, anche se nei Carmina di
 
37

Teodulfo d’Orléans si precisava già che le figlie di Carlo Magno in-


dossavano, una «il reggiseno bianco come il latte», l’altra «il reggi-
seno rosso» .  
38

Le scollature più o meno ampie e profonde avevano sempre su-


scitato indignazione, scandali e aspre reazioni anche se i seni, in una
società a basso indice demografico, venivano vissuti come l’immagi-
ne della maternità e dell’allattamento. Cioè di una vicenda ovvia e
naturale perché, annotava Giovanni Boccaccio, ne Il commento alla
Divina Commedia, «la natura non li avrebbe posto in così aperta e
patente parte del corpo come è il petto, anzi si sarebbe ingegnata a
occultarli» . L’entusiasmo di Boccaccio per alcune eccentricità del-
 
39

la moda potrebbe però essere una diretta conseguenza della grande


peste del 1348, quando la gente aveva voluto ricominciare a prolifi-
care e a gioire. E i bei vestiti che nel Roman de la rose erano ritenuti
importanti nell’arte della seduzione, divenivano strumenti di com-
pensazione scelti per esibire la ricchezza e quindi l’appartenenza ai
ceti dominanti, e per sottolineare con malizia gli attributi specifici
del sesso e suggerire, col sottile gioco di velare e scoprire, la caducità
di una bellezza che Tommaso d’Aquino, ma anche più tardi Shelley

Domenico.
35
Registri di lettere, gabelle e petizioni, a cura di F. Pollaci Nuccio - D.
Gnoffo, Palermo 1892, p. 287.
36
Giovanni de Mussis, Chronicon Placentinum, in L.A. Muratori, Antiquitates
Italicae Medii Aevi, Milano 1738-42, 23, col. 3196.
37
Per le tecniche di lavorazione e tessitura del lino nel medioevo si veda Th.K.
Derry - T.J. Williams, Tecnologia e civiltà occidentale. Storia della tecnica e dei suoi
effetti economico-sociali, Torino 1968, pp. 118-25; Braudel, Capitalismo e civiltà ma-
teriale, cit., pp. 242-44.
38
Teodulfo d’Orleans, Ad Carolum regem, in Carmina, XXV, vv. 105-
106, Monumenta Germaniae Historica, Poetae latini Aevi Carolini, a cura di E.
Duemmler, Berlino 1891, I, p. 486:«Huic ferruginea est, apta huic quoque lutea ve-
stis, / Lacteolum strophium haec veluit, illa rubrum».
39
Giovanni Boccaccio, Il commento alla Divina Commedia e gli altri scritti in-
torno a Dante, a cura di D. Guerri, Bari 1918, II, p. 158.

121
Salvatore Tramontana

e James Joyce, vedevano «simile a un carbone che si spegne» . In  


40

Sicilia del resto la condanna, con sdegno e collera, di tali ornamenti


sembrerebbe talvolta rappresentare uno dei più vivi esempi di criti-
ca sedotta dal fascino di quel che si disapprova. Lo riconosceva, per
esempio, Vincenzo Littara, che nel De aquila panormitana, contro
chi accusava la donna di Palermo «di lusso raffinato nel vestire e lus-
suria nei costumi», ribatteva che «la virtù e i vizi debbono ricevere la
loro valutazione non dall’abito, ma dall’indole dell’animo e dalle ten-
denze naturali», e sottolineava come fosse fallace «il voler legare lus-
so del vestire», esibizione di ricchezza e corruzione dei costumi .  
41

Certo, gli abiti sono ed erano cose morte, e per ricostruirne le


fogge e lo stile bisognava figurarseli vivi, diceva Baudelaire nell’Elo-
gio della truccatura , vivificati dalle belle donne che li indossavano
 
42

perché, precisava egli negli Scritti di estetica, «l’immaginazione può


ancora oggi far muovere e fremere una tunica e uno scialle» . E pro-  
43

prio all’immaginazione si affidano una miniatura di Pietro da Eboli e


soprattutto un mosaico che si conserva nella chiesa della Martorana
di Palermo.
La miniatura di Pietro da Eboli offre, sia pure attraverso dise-
gni frettolosi e privi di effetti prospettici, l’immagine dei palermitani
che partecipavano ai funerali di Guglielmo II vestiti in modo diver-
so, a secondo dello status sociale e dei quartieri di provenienza: con
una semplice e avara tunica al ginocchio e senza copricapo i più po-
veri; con folta barba e turbanti chiari su tuniche marroni e verdi i
saraceni; a testa scoperta, coi neri e lunghi capelli sciolti, con veste
attillata che evidenzia la vita scollatura a onde le prefiche; con scial-
bi copricapo a turbanti gli uomini e con lunghi veli le donne dell’al-
bergaria; con larghi e ampi mantelli dai ricchi drappeggi traversati da
una sciarpa le donne del Cassaro .  
44

40
F. Troncarelli, «Nella mia fine è il mio principio». Il fantasma del Medioevo
in Joyce ed Eliot, «Quaderni medievali», 19 (giugno 1985), pp. 106-109.
41
I passi citati in C. Gallo, Vincenzo Littara netino, apologista di Palermo,
«Archivio storico siciliano», serie III, VI (1954), pp. 96-97.
42
In Ch. Baudelaire, Scritti di estetica, a cura di G. Macchia, Firenze 1948,
pp. 224-27.
43
Ivi, p. 186.
44
Pietro da Eboli, De rebus siculis carmen, a cura di E. Rota, Città di Castello
1904-1910 (Rerum Italicarum Scriptores, Nuova edizione, XXXI [da ora in avan-
ti RIS2]), tav. IV, p. 14, che riporta la miniatura in bianco e nero, riprodotta invece a
colori in Storia della Sicilia, diretta da R. Romeo, Palermo-Napoli 1980, IV, tav. I.

122
Esibire la ricchezza

Un’immagine quindi, questa offerta dalla miniatura, nella quale


si percepisce quanto i dettagli aderissero ai modi di essere, nella quo-
tidiana convivenza, dei diversi strati sociali della città di Palermo. E
la si percepisce di più se si confrontano i dettagli visivi con quelli di
documenti scritti come i contratti dotali, i testamenti, gli inventari,
nei quali i motivi dell’esclusivismo sociale, e quindi dell’esibire i pri-
vilegi della ricchezza, si identificavano con gli oggetti registrati: beni
immobili costituiti soprattutto di patrimoni fondiari e strutture edi-
lizie, abiti e gioielli che rappresentavano lo stimolo di ogni energia e
azione degli uomini. Si tratta infatti di documenti alla cui base sta-
va la complessità di un sottile ragionamento attento a tante sfumatu-
re di rapporti e di equilibri familiari densi di particolari concreti, ma
carichi di simboli e di significati nei rapporti con gli altri. Di uno sti-
le e di un modo di essere che aveva l’esperienza del possedere, il gu-
sto dell’oggetto ben fatto e degli abiti, che aveva il senso spiccato del
decoro, che aveva bisogno di ostentazioni, che accostava in modo fe-
lice vestiti e colori, che sentiva assai il richiamo dell’apparire e quindi
dell’esibire le valenze economiche e sociali del proprio rango. Cioè
del proprio potere, vale a dire del proprio predominio nei rapporti
privati e in quelli pubblici.
A queste ricchezze di apparati e a questi abiti confezionati più
per lanciare messaggi che per vestire, più per concretizzare conven-
zioni che per volgere l’animo a Dio, è da ricondurre l’importanza del
rito non solo nelle cattedrali e nelle chiese, ma nell’Aula regia e nella
Cappella Palatina. Dalla Cappella Palatina, caratterizzata fra l’altro
dalla presenza del trono e dalla coreografia della maiestas dei leo-
ni , si muoveva per esempio il corteo per la festa dell’incoronazio-
 
45

ne. I cui minuziosi dettagli, presenti nel testo di una Coronacio regis
pubblicato nel 1898 da Iacob Schwalm sono stati studiati e assegna-
46
 

ti da Reinhald Elze alle cerimonie per l’incoronazione in età norman-


na . Cerimonie di fronte alle cui esibizioni di ricchezza Alessandro
 
47

45
B. Brenk, La parete occidentale della Cappella Palatina a Palermo, «Arte me-
dievale», II, serie IV, n. 2, (1990), pp. 18-22.
46
J. Schwalm, Coronacio regis. Reiseberichte 1894-1896, «Neues Archiv für
deutsche Geschichts Forschung», XXXIII (1898), pp. 10-22.
47
R. Elze, Zum Königtum Rogers II von Sizilien, in Festschrift Percy Ernst
Schramm zum 70. Geburtstag, I, Wiesbaden 1964, pp. 102-1116; Id., «Tres ordi-
nes» per l’incoronazione di un re e di una regina del regno normanno in Sicilia, in Atti
del Congresso Internazionale di Studi sulla Sicilia normanna, Palermo, 4-8 dicembre
1972, Palermo 1973, pp. 438-59; N. Moran, Due acclamazioni di sovrani nel «Codice

123
Salvatore Tramontana

di Telese annota testualmente: «Non si può con parole scritte né im-


maginare quale e quanta fosse allora la sua [di Ruggero II] gloria,
quanto grande fosse in lui la maestà di re e quanto fosse da ammira-
re nello sfarzo. Infatti a quelli che guardavano sembrava proprio che
tutte le ricchezze e gli onori di questo mondo si trovassero lì. Tutta
la città era adorna in modo inestimabile, ed in essa erano solo gioia
e luce. Anche il palazzo regio era tutto rivestito all’interno di drappi
sulle pareti, e il suo pavimento, coperto di tappeti variopinti, offriva
morbidezza ai piedi di coloro che lo calpestavano; e, accompagnato
con tutti gli onori, il re andava alla chiesa per essere consacrato. Lo
scortava un gran numero di cavalli disposti ordinatamente sui due
lati, con selle e freni fregiati in oro e argento. C’era, per chi accede-
va alla mensa regia, varietà e abbondanza di cibi e bevande in grande
apparato, che furono serviti solo in piatti e coppe d’oro e d’argento.
I servitori, poi, indossavano tutti vesti di seta, al punto che anche i
portatori di stoviglie avevano indosso una tunica serica. Che dire di
più? La gloria e le ricchezze nella reggia furono tali e tante che a tut-
ti sembrò un gran miracolo, e ne ebbero profondo stupore, così tan-
to da incutere timore non modesto in chi veniva da lontano. E infatti
videro molto più sfarzo di quello che avevano sentito dire» .  
48

Il principio essenziale che scaturisce da queste considerazioni


di Alessandro di Telese è che tra il re e gli altri — fossero essi suddi-
ti o stranieri — più che una linea giuridica di comunicazione esistes-
se un rapporto sacrale da ricondurre al rito come etica dell’Opulenza
ma soprattutto come grandiosità e bellezza singolare, come spetta-
colo dove si andava per vedere ed essere visti, come rappresentazio-
ne del nesso strettissimo fra esibizione della propria magnificentia e
potere . Di un potere, dice appunto il cronista, che provocando a un
 
49

greco 161» di Messina, «Atti dell’Accademia di Scienze Lettere e Arti di Palermo»,


serie IV, XXXVI (1976), pp. 581-595 segnala che nel suddetto codice del San salva-
tore c’è anche il più antico esemplare di musica di stato bizantina.
48
Alessandro di Telese, Ystoria Rogerii regis Sicilie, Calabriae atque Apulie,
Testo a cura di L. De Nava, commento storico a cura di D. Clementi, Roma 1991
(Fonti per la Storia d’Italia, 112), II, cc. 4-6, pp. 25-26 e 109-10.
49
Per lo spettacolo pubblico al servizio del potere in età normanna si veda
S. Tramontana, L’effimero nella Sicilia normanna, Palermo 1988. Per la magnifi-
centia del potere — sulla quale si veda Dante, La divina Commedia, cit., Paradiso,
XVII, vv. 85-87, p. 164; XXXI, vv. 88-91, p. 307; XXXIII, vv. 19-21, p. 321 — si leg-
ga, in relazione alla cultura di corte aragonese basata appunto sulla magnificentia,
Giovanni Pontano, I libri delle virtù sociali, a cura di F. Tateo, Roma 1999 e le con-
siderazioni del curatore, pp. 9-38.

124
Esibire la ricchezza

tempo ammirazione stupefatta e timore, si presentava come garante


della coesione del regno.
In tal senso, nel senso cioè di un cerimoniale in cui grandiosi-
tà, bellezza, potere e ricchezza si misuravano non tanto attraverso le
parole, ma attraverso riti, formule e gesti fissati da norme ben pre-
cise, va letto il mosaico della Martorana di Palermo che non è una
documentazione di quanto effettivamente accaduto, ma l’espressio-
ne dell’idea che Ruggero II aveva del potere e dei simboli che lo rap-
presentavano. Il sogno in fondo, scrive Guglielmo Cavallo, «di un
regno che, se nella simbologia del potere esprime un sovrano inco-
ronato come il basileus, o nella diplomatica regia esprime documen-
ti purpurei, sigilli e formule con attributi imperiali, vuol darsi anche
un sapere e una quantità intellettuale di cui Costantinopoli costituiva
modello costante» . E che questa ideologia, ben conosciuta dal gran-
 
50

de ammiraglio Giorgio d’Antiochia che aveva fatto costruire la chie-


sa anche come atto di devozione al suo re, stesse alla base delle scelte
politiche, o piuttosto delle ambizioni di Ruggero II, lo spiega appun-
to il pannello musivo della Martorana, assai simile all’avorio del VII
secolo in cui è rappresentato Cristo che incorona Costantino . E nel  
51

quale, con straordinaria aderenza alla tradizione bizantina e a quel-


la del sovrano come sommo sacerdos dell’età ottoniana , è eliminata  
52

la funzione mediatrice del pontefice e sottolineata la plenitudo pote-


statis del monarca e il suo rapporto diretto e immediato con Cristo.
È cioè delineato un modello di sovrano in cui il rapporto diretto con
Cristo, l’esibizione di ricchezza e di sontuosità dei paramenti e di
bellezza ed eleganza del portamento, costituivano l’elemento qualifi-
cante e carismatico della regalità.
Alla esibizione di ricchezza infatti andava sempre congiun-

50
G. Cavallo, La cultura italo-greca nella produzione libraria, in AA.VV., I bi-
zantini in Italia, Milano 1982, p. 581.
51
L’avorio si trova nel museo Puskin di Mosca: A. Goldschmidt - K.
Weitzmann, Die byzantinischen Elfenbeinskulpturen des XII-XIII Jahrhunderts,
Berlin 1934, II, n. 35. Per altre raffigurazioni del nesso fra Cristo e il trono si veda B.
Brenk, La parete occidentale della Cappella Palatina, cit., p. 146 e note.
52
E. Kitzinger, On the Portrait of Rogers II in the Martorana in Palermo,
«Proporzioni», III (1950), pp. 30 e 32; B. Brenk, La parete occidentale della Cappella
Palatina, cit. 147. La testimonianza del cronista Vitukind, Res gestae Saxoniae, II, 1,
«Quellen zur Geschichte der sachsischen Kaiserzeit», a cura di A. Bauer - R. Rau,
Darmstadt 1971, pp. 86-88, il quale scrive fra l’altro che l’arcivescovo, appena il so-
vrano fu giunto nella Cappella Palatina, si rivolse così al popolo: «adduco vobis a
Deo electum […] nunc vero a cunctis principibus regem factum Ottonem».

125
Salvatore Tramontana

ta quella di bellezza. Non è del resto privo di significato che nel


Racconto di Graal si dica dei cavalieri «che sono persone più bel-
le […] di Dio e di tutti i suoi angeli» . Si esprima cioè un giudizio
 
53

che rifletteva il patrimonio ideale e morale di quanti, diceva Marc


Bloch, avevano chiara consapevolezza «di quel che li separava dal-
la massa» .  
54

Come testimoniano d’altronde varie tipologie di fonti e soprat-


tutto i cronisti, tra i quali basti ricordare Goffredo Malaterra che di
Ruggero I sottolineava, accanto alla disponibilità dei beni accumula-
ti, la bellezza, l’alta statura, l’eleganza , e Romualdo Salernitano che
 
55

descriveva Guglielmo I «di bel viso e di maestoso aspetto» . E se


56
 

Pietro da Eboli qualificava formosus Guglielmo II , Riccardo di San


 
57

Germano precisava che il sovrano normanno «era illustre per nasci-


ta, elegante nella persona, intrepido per coraggio, avveduto per virtù
d’intelletto» , e Ugo Falcando, che ce lo fa vedere nel pieno della sua
 
58

giovinezza mentre a cavallo percorreva, nel giorno dell’incoronazio-


ne, le vie di Palermo, lo presenta «così bello che sarebbe stato impos-
sibile trovarne non solo uno più bello, ma neppure uguale» . Con  
59

una descrizione, appunto, in cui, nel sottolineare il corpo vigoroso


segnato dalla giovinezza e dalla ricchezza, si tendeva a offrire quel-
l’immagine esteriore ed edificante che, sembra, esercitasse parecchio
fascino sui sudditi. Come d’altronde confermano tante altre fonti che

53
In Romanzi medievali d’amore e d’avventura, Milano 1981, p. 60.
54
La società feudale, Torino 1949, p. 355.
55
Goffredo Malaterra, De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et
Roberti Guiscardi fratris eius, a cura di E. Pontieri, Bologna 1927 (RIS2, V), I, 19,
pp. 18-19.
56
Romualdo Salernitano, Chronicon, a cura di C.A. Garufi, Città di Castello
(RIS , VII) 1914-35, pp. 253-54. Secondo A. Schultz, Quid de perfecta corporis hu-
2

mani pulchritudine Germani saec. XII et XIII, senserint, Hannover 1866, l’ideale
di bellezza in epoca sveva non era più l’alta statura. Nessuna fonte, per esempio,
precisa la statura di Federico II; e di Manfredi Saba Malaspina, Rerum sicularum
Historia, cit., III, 13, p. 258, dice che era «statura mediocri».
57
Pietro da Eboli, De rebus carmen, cit., v. 35, p. 11. Nel v. 38, p. 12 è det-
to res pulcherrima. Le sue fattezze — che sembrano quelle di un giovane vicino ai
trent’anni — si colgono in due pannelli del mosaico di Monreale, nei quali il sovra-
no è rappresentato in atto di offrire la chiesa alla Vergine, e mentre è incoronato da
Cristo: E. Kitzinger, I mosaici di Monreale, Palermo 1991, p. 16.
58
Riccardo di San Germano, Chrolnica, a cura di C.A. Garufi, Bologna 1937-
38 (RIS2, VII), p. 4.
59
Ugo Falcando, Historia o Liber de Regno Sicilie, a cura di G.B. Siragusa,
Roma 1897 (Fonti per la Storia d’Italia, 22), XXV, p. 89.

126
Esibire la ricchezza

si preoccupavano di offrire un ritratto del sovrano la cui esplosione


di vitalità, che emergeva dall’esaltazione fisica del corpo e dalla son-
tuosità dei paramenti, corrispondesse alle esigenze di potere, cioè al-
l’uso del corpo, ha spiegato Roland Barthes, per sublimare la realtà e
imporre l’esibizione della propria ricchezza e della propria potenza.
Di Manfredi, per esempio, — che è uno dei pochi della Commedia
dei quali sono descritti nei dettagli i particolari somatici — Dante
pone in evidenza che «biondo era e bello e di gentile aspetto» . Che  
60

aveva cioè i caratteri propri della nobiltà e della regalità, quelli, ap-
punto, descritti da Nicolò Jamsilla e da Saba Malaspina , e che ri-
 
61
 
62

cordano le parole con le quali, nel Primo libro di Samuele, veniva


presentato David: «or egli era biondo, di bello sguardo e di formo-
so aspetto. E il Signore disse a Samuele: “levati, ungilo, perciocché è
desso”» . È, appunto, colui che dispone di tutto ciò la cui esibizione
 
63

costituiva l’espressione naturale della regalità.


Questo è quanto emerge dalle fonti che ho avuto la possibilità
di consultare. E se questo è il teorema, cioè il quadro dei valori che
esprimeva lo stile di vita e di potere di quegli anni, se questo, appun-
to, stava alla base della mentalità e della sensibilità della gran parte
delle donne e degli uomini del Medioevo, la vicenda di Adelasia del
Vasto, vedova di Ruggero I e madre del primo sovrano di Sicilia con
la cui vicenda mi affretto a chiudere il mio intervento, potrà forse
contribuire alla riflessione sull’assunto del Convegno che si è propo-
sto di verificare «se l’aumento e l’esibizione della ricchezza collettiva
e individuale sia stata allora, e sia ancora oggi, sufficiente a garantire
un proporzionale aumento della “felicità”».
Il matrimonio fra Adelasia e il re di Gerusalemme — attirato
dalla ricchezza accumulata dagli Altavilla in Sicilia , e in particolare
64
 

60
La divina Commedia, cit., Purgatorio, III, 107, p. 34.
61
Nicolo’ Jamsilla, De rebus gestis Friderici II imperatoris eiusque filiorum
Conradi et Manfridi Apulie et Sicilie regum:1210-1258, in Del Re, Cronisti e scritto-
ri sincroni napoletani, cit., II, pp. 107-108: «Formavit enim ipsum natura gratiarum
omnium receptabilem, et sic omnes corporis sui partes conformi speciositate com-
posuit, ut nihil in eo esset, quo melius esse posset».
62
Saba Malaspina, Rerum sicularum Historia, cit., III. 13, p. 258: «erat […]
homo flavus, amoena facie, aspectu placibilis, in maxillis rubeus, oculis sidereis, per
totum niveus».
63
Il primo libro di Samuele, XVI, 12, in La sacra Bibbia, cit., pp. 250-51.
64
Come, fra gli altri, conferma Alessandro di Telese, Ystoria Rogerii regis
Siciliae, cit., I, c. 4, p. 8: «Auro vero, vel argento, ceterisque rebus ita opulentissimus
erat, ut cunctis pregrandem ex hoc stuporem ingereret».

127
Salvatore Tramontana

dalle ingenti somme che la madre di Ruggero II aveva messo da par-


te — si concludeva tristemente perché Baldovino, colpito da gra-
 
65

ve malattia, per paura dell’inferno si conciliava con l’armena Orda di


Edessa, la moglie, appunto, dalla quale aveva divorziato e che ave-
va fatto rinchiudere in un monastero , e costringeva Adelasia a rien-
 
66

trare in Sicilia mortificata «per l’onta subita e il vano spreco di tanti


tesori» .
 
67

L’umiliante ripudio, avvenuto in Palestina per opera di un mo-


narca cristiano, veniva taciuto dai cronisti italo-normanni, ma ave-
va larga eco nei paesi del Levante e soprattutto in Occidente. Autori
come Orderico Vitale ne ampliavano e deformavano i dettagli, e
 
68

qualcuno attribuiva la separazione alle rughe che marcavano il cor-


po e il viso della quarantenne Adelasia . Alberto di Aquisgrana, che
69
 

riferisce l’arrivo di Adelasia a San Giovanni d’Acri, permette però


di ricostruire con ampiezza di dettagli l’esibizione di ricchezza e di
opulenza che Ruggero II aveva voluto non tanto per un dovere di
rango, ma per dare concreta visibilità alla potenza del suo stato che
si avviava a diventare monarchia. Una flotta di nove legni da guer-
ra scortava la nave su cui era Adelasia. Una nave, precisa il cronista,
con la «prora e la poppa incastonate d’oro, d’argento e di pietre pre-
ziose», con l’antenna «sormontata da un globo d’oro scintillante al

65
Guglielmo di Tiro, Chronicon, a cura di R.B.C. Huygens, Turnhout 1986,
XI, 21, pp. 525-26: «Fuit praedicta comitissa […] nobilis et potens et dives matro-
na»; Fulcherio di Chartres, Gesta Francorum Hierusalem peregrinantium, c. 51, in
Recueil des historiens des Croisades. Historiens Occidentaux, III, Paris 1841, p. 425.
66
E. Pontieri, La madre di re Ruggero: Adelaide del Vasto contessa di Sicilia,
regina di Gerusalemme: ?-1118, Atti del Congresso Internazionale di Studi rug-
geriani (21-25 aprile 1954), Palermo 1955, II, p. 426. Per Alberto di Aquisgrana
(Historia Hierosolimitana, XII, 24, in Recueil des historiens des Croisades. Historiens
Occidentaux, IV, Paris 1879, p. 704) lo scioglimento del matrimonio sarebbe stato
imposto dal Patriarca a causa della consanguinitas fra Baldovino e Adelasia.
67
Guglelmo di Tiro, Chronicon, cit., XI, 29, p. 451 riferisce: Adelasia, «do-
lens igitur et tristis tam de illata contumelia quam de opibus inutiliter consumpti-
bus, ad reditum se preparat, post tertium annum, quod ad dominum regem venerat,
in patriam reversura». Si veda comunque E. Caspar, Ruggero II e la fondazione del-
la monarchia normanna di Sicilia, con un saggio introduttivo di O. Zecchino, Bari
1999 (l’edizione originale è del 1904), p. 33 e nota 36; R. Röhricht, Geschichte des
Komgreichs Jerusalem: 1110-1291, Innsbruck 1898, p. 118.
68
Orderico Vitale, Historia ecclesiastica, a cura di M. Chibnall, Oxford
1969-80, XIII, 15 (V, 35-36), p. 432.
69
S. Tramontana, Il regno di Sicilia. Uomo e natura dall’XI al XIII secolo,
Torino 1999, p. 306.

128
Esibire la ricchezza

sole dal quale pendeva un immenso velo sontuosamente ricamato» e


seguita da due triremi, ognuna delle quali con un equipaggio di 500
uomini ben addestrati, e da 7 navi da carico piene d’oro, d’argen-
to, di porpora, pietre preziose, vesti raffinate, spade e corazze che
la nuova regina consegnava allo sposo che in gran pompa l’attende-
va sul molo» .  
70

Adelasia, scesa dalla nave tra squilli dei corni e suono di mu-
sica, veniva scortata, lungo strade ricoperte di preziosi tappeti co-
lorati e case con bandiere di porpora, fino al palazzo reale. Dove,
per giorni furono festeggiate le nozze con incredibile sfarzo. Una
cerimonia, dice il cronista, benedetta da Arnoldo, Patriarca di
Gerusalemme, e che sembra testimoniasse quell’etica dell’opulenza,
quello sfarzo, quella esibizione e dilapidazione di ricchezza , che,  
71

nel Regnum Siciliae, avrebbe avuto sempre più larga diffusione al-
meno fino ai tempi di Ferdinando il Cattolico. Quando autori come
Pietro Ranzano e Giovanni Naso evidenziavano la circolarità del pa-
trimonio ludico e delle tecniche degli spettacoli, delle feste, delle ce-
rimonie, fra Sicilia, Napoli e la Spagna. Ma questa sarebbe, anzi è
un’altra storia: la nostra storia che continua ancora.

70
Alberto di Aquisgrana, Historia Hierosolymitana, cit., XII, 13, pp. 696-
97. Si veda comunque Pontieri, La madre di re Ruggero, cit., pp. 426-27 e H.
Hagenmeyer, Ekkehardi Hierosolymita, Tübingen 1877, p. 298, il quale pensa che
sull’esposizione di Alberto giochi qua e là un poco di fantasia, ma precisa che il cro-
nista dichiara di essersi servito per la stesura del suo lavoro «di racconti di testimo-
ni oculari».
71
Alberto di Aquisgrana, Historia Hierosolymitana, cit., XII, 13, p. 697.
Guglelmo di Tiro, Chronicon, cit., p. 526, che pure è più misurato nelle espressioni,
conferma «l’etica dell’opulenza» che caratterizzava ormai la politica degli Altavilla:
Adelasia, scrive egli infatti, su suggerimento del figlio «se accingit ad iter et, oneratis
navibus, frumento, vino et oleo et salsis carnibus, armis preterea et equitaturis egre-
gis, assumens secum infinitam pecuniam, omnibus eam prosequentibus copiis».

129
Sabato 16 maggio, mattina
Pistoia, Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei Vescovi
Presidente Prof. Elisabeth Crouzet-Pavan

Anna Esposito
I desideri delle donne
tra nozze e convento

Non c’è bisogno di spendere tante parole sul fatto — incontro-


vertibile — che, prima di essere «capaci di cogliere ciò che le donne
pensano di sé e del loro rapporto con gli uomini», e di decodificare i
loro desideri, si debba passare attraverso il filtro maschile. «Un filtro
pesante, perché trasmette alle donne modelli ideali e regole di com-
portamento che esse non hanno il diritto di contestare» 1, filtro che è  

da loro in genere introiettato, come mostra, tanto per fare un esem-


pio, l’epistolario di Alessandra Macinghi Strozzi, il quale, secondo
Maria Luisa Doglio, si snoda conforme ai principi della trattatisti-
ca quattrocentesca sulla famiglia 2. Desideri e aspirazioni delle donne
 

medievali possono tutt’al più essere intuiti attraverso l’azione di tu-


tela e di regolamentazione esercitata da padri, mariti, fratelli, legisla-

1 La citazione è tratta da Ch. Klapisch-Zuber, Introduzione alla Storia delle


donne, II, Il Medioevo, a cura di Ch. Klapisch-Zuber, Roma-Bari 1990, p. 11.
2 M.L. Doglio, Scrivere come donna: fenomenologia delle “Lettere” familia-
ri di Alessandra Macinghi Strozzi, «Lettere italiane», a. 36, nr. 4 (ott.-dic. 1984), pp.
484-497: 491-494. È sulla stessa linea M. Doni Garfagnini (Conduzione familiare
e vita cittadina nelle lettere di Alessandra Macinghi Strozzi, in Per lettera. La scrittu-
ra epistolare femminile tra archivio e tipografia. Secoli XV-XVII, a cura di G. Zarri,
Roma 1999, pp. 387-41: 404), che richiama l’attenzione sul fatto che certamente
Alessandra non aveva letto i Libri della famiglia di Leon Battista Alberti.

131
Anna Esposito

tori e confessori che ne facevano spesso strumenti dei loro fini. Del
resto sono quasi sempre gli uomini a raccontare la vita delle donne,
ma — come ha osservato Luisa Miglio — la donna di cui essi parla-
no non è — il più delle volte — la figlia, la sorella, la madre ma solo
l’oggetto di transazioni commerciali, la somma da depositare al mon-
te delle doti o da pagare al futuro sposo, lo strumento fidato dei pro-
pri affari domestici 3.  

Bisogna anche considerare che, di solito, nel periodo di cui ci


stiamo occupando, le scelte esistenziali delle donne erano fatte da-
gli uomini secondo un percorso prefissato che voleva la donna prima
sposa — o di un uomo o di Cristo —, quindi madre, possibilmen-
te di figli maschi. «L’io femminile si costituisce in base ad un ruolo
sessuale, che a sua volta si rapporta ad un ruolo d’età» ha scritto re-
centemente la Seidel Menchi 4 trattando il tema della nuzialità fem-
 

minile precoce nella società italiana del tardo medioevo e della prima
età moderna. Anche dal particolare punto di vista delle aspirazioni
e degli obbiettivi femminili, l’età risulta un elemento condizionan-
te, così come altrettanto condizionante è quello dei ceti sociali e del-
le realtà politiche di appartenenza. Dunque non una storia univoca,
ma un quadro dalle infinite sfaccettature, come infinite sono le sto-
rie delle donne, da cui si cercherà — attraverso un campionario di
esistenze femminili — di mettere in evidenza qualche tratto comu-
ne più significativo.
Ciò premesso, viene naturalmente da chiedersi se le donne po-
tevano sfuggire o persino reagire ad un destino già fissato, delineato,
imposto da altri. La storiografia più recente, in contrasto con quel-
la “vittimistica” degli anni ’70-’80 del ’900 dove il concetto di ‘op-
pressione’ come chiave di interpretazione del passato femminile era
assunto come il comune denominatore delle esperienze storiche del-
le donne, ha valorizzato il concetto di «autonomia e iniziativa/intra-
prendenza», cioè ha sostituito una visione attiva e dinamica del ruolo
svolto dalle donne nelle società occidentali a quella passiva degli stu-

3 L. Miglio, Leggere e scrivere il volgare. Sull’alfabetismo delle donne nel-


la Toscana medievale, in Ead., Governare l’alfabeto. Donne, scrittura e libri nel
Medioevo, Roma 2008, pp. 57-76: 58.
4 S. Seidel Menchi, La fanciulla e la clessidra. Nota sulla periodizzazione del-
la vita femminile nelle società preindustriali, in Tempi e spazi di vita femminile tra
medioevo ed età moderna, a cura di S. Seidel Menchi - A. Jacobson Schutte - T.
Kuehn, Bologna 1999, pp. 105-155.

132
I desideri delle donne tra nozze e convento

di di genere di prima maniera 5. Nel corso della mia relazione cer-


 

cherò anche di evidenziare le possibilità (e i mezzi) che avevano le


donne in Italia nel tardo medioevo di realizzare i propri desideri e di
indirizzare la propria vita in una direzione piuttosto che in un’altra,
individuando in primo luogo gli ambiti in cui collocare le aspettati-
ve femminili, che — semplificando — intendo riconnettere alle sfere
dell’affettività, del potere, del lusso, della religiosità.
Per il mio intervento ho utilizzato di preferenza fonti dove meno
forti fossero gli stereotipi antifemminili, fonti che consentissero di
recuperare qualche traccia lasciata dalle stesse donne o dove le loro
intenzioni potessero essere espresse in modo più diretto: in primo
luogo la corrispondenza che alcune, certamente una minoranza eli-
taria, hanno scambiato con mariti, parenti, amiche e anche — per le
donne di potere — con i propri clienti, subalterni etc. 6 Importanti, a
 

questo scopo, si sono rivelate anche le fonti giudiziarie, in particola-


re i processi matrimoniali, oggetto in questi ultimi anni d’importanti
indagini 7, e i registri della Penitenzieria Apostolica, dove dal pontifi-
 

cato di Eugenio IV si conservano in registri seriali decine di migliaia


di suppliche rivolte a quest’ufficio vaticano da uomini e donne per
casi di coscienza particolarmente delicati 8.  

Cominciamo dunque con i desideri relativi all’affettività e in


primo luogo all’affettività coniugale, su cui insisterò in modo parti-
colare in quanto il matrimonio era la condizione civile fondamentale
per la gran parte delle donne.

5 S. Seidel Menchi, A titolo di introduzione, in Tempi e spazi di vita femmini-


le, cit., p. 14.
6 Sono testimonianze non cospicue «che non servono certo a rischiarare un
paesaggio oscuro, solo ad illuminarlo per lampi, ma che sarebbe comunque ingiusto
ricacciare nel buio», cfr. L. Miglio, Leggere e scrivere il volgare, cit., p. 58.
Sulla corrispondenza femminile, spesso non autografa — particolarmente per
i destinatari di maggior riguardo —, cfr. le osservazioni di A. Petrucci, Scrivere let-
tere. Una storia plurimillenaria, Roma-Bari 2008, pp. 60, 101-102.
7 Sui processi matrimoniali cfr. I tribunali del matrimonio (secoli XV-XVIII), a
cura di S. Seidel Menchi - D. Quaglioni, Bologna 2006.
8 Il riferimento è agli otto volumi finora pubblicati dal Deutschen Historischen
Institut in Rom — a cura di Ludwig Schmugge e dei suoi collaboratori — del
Repertorium poenitentiariae Germanicum: Verzeichnis der in den Supplikenregistern
der Pönitentiarie vorkommenden Personen, Kirchen und Orte des Deutschen Reiches;
sul nostro tema cfr. in particolare L. Schmugge, Female Petitioners in the Papal
Penitentiary, in Gendering in the middle ages, a cura di P. Stafford - A.B. Mulder-
Bakker, «Gender and history», 12/3 (nov. 2000), pp. 685-703.

133
Anna Esposito

La scelta matrimoniale — soprattutto nei ceti medio-alti — era


un affare di famiglia ed era subordinata alla necessità di mantenere
strutture di potere e di possesso, stabilire alleanze politiche, consoli-
dare legami d’affari. Ne erano ben consapevoli, ad esempio, le stes-
se donne delle famiglie aristocratiche, che — com’è noto ad esempio
dalle testimonianze epistolari delle fiorentine Lucrezia Tornabuoni
ed Alessandra Macinghi Strozzi — erano in prima linea nel non fa-
cile compito di trovare la moglie adatta ai propri figli, una donna
che unisse al prestigio della famiglia, una buona dote e, se possibile,
un aspetto gradevole 9. Lucrezia Tornabuoni — moglie di Piero de’
 

Medici — fece addirittura un viaggio a Roma per cercare d’incontra-


re Clarice Orsini, tra le fanciulle candidate a sposare il figlio Lorenzo
(cosa che effettivamente avvenne), e ne relazionò al marito in modo
meticoloso sia sull’aspetto che sul carattere, in un ritratto molto viva-
ce in cui, com’è stato rilevato, non manca materia per incrementare
quel cliché relativo alla spocchia tutta fiorentina nei confronti delle
beltà forestiere 10.
 

Il desiderio di accasare bene figli e figlie era certamente uno


degli obbiettivi di una madre, che ne riceveva una ancor più gran-
de soddisfazione quando l’unione ‘funzionava’, quando la nuova fa-
miglia si arricchiva di prole, quando soprattutto venivano generati
figli maschi che avrebbero assicurato la continuità del casato. Ma
talvolta tra gli sposi, che in molti casi si vedevano per la prima volta
solo al momento della desponsatio per verba de presenti, ovvero dello
scambio del reciproco consenso, non nasceva quell’affectio maritalis

9 Per quanto riguarda le scelte matrimoniali della famiglia Strozzi, con ampio
riferimento all’epistolario di Margherita cfr. L. Fabbri, Alleanza matrimoniale e pa-
triziato nella Firenze del ’400. Studio sulla famiglia Strozzi, Firenze 1991, in partico-
lare pp. 119-130, 168-175.
10 Cfr. Lucrezia Tornabuoni, Lettere, a cura di P. Salvatori, Firenze 1993
(Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento. Studi e testi, 32), lettera 12, pp. 62-63;
lettera 13, p. 64. Ricorda la Salvatori nella sua Introduzione (ivi, p. 21, nota 77) come
non mancarono aspri commenti sulla missione di Lucrezia a Roma e le sue relazioni
con gli ambienti ecclesiastici. Secondo il fuoriuscito Stefano Acciaiuoli (che scrive
da Roma al fratello Neri il 3 apr. 1467): «Piero di Cosimo ha mandato qui madama
sua per imbasciadrice, parendo loro che Giovanni Canigiani non sia capace alle ma-
terie occorrenti. Ella va con quei mercatanti visitando ad uno ad uno quei cardinali,
e attende audienzia dal papa. Fàlla alla signorile e va lisciata come fussi di 15 anni.
Ecci chi si ride di lei, ma più di Piero». Sul ruolo pubblico di Lucrezia si sofferma
F. W. Kent, Sainted Mother, Magnificent Son: Lucrezia Tornabuoni and Lorenzo de’
Medici, «Italian History and Culture», 3 (1997), pp. 3-33: 13-14.

134
I desideri delle donne tra nozze e convento

— sempre richiamata dal legislatore e data come uno tra gli elemen-
ti costitutivi dell’unione —, quell’intesa e complicità che rendono
meno gravose le mille difficoltà dell’esistenza, anche se nella mag-
gioranza dei casi possiamo solo ipotizzare piuttosto che verificare la
qualità dei rapporti coniugali: nei “libri di ricordi” tenuti dagli uomi-
ni «affetti ed emozioni traspaiono solo in filigrana» e non sono note
‘ricordanze’ al femminile, ma solo pochi esempi di libri di ammini-
strazione familiare tenuti da vedove alla fine del Medioevo, che co-
munque — come ricorda Duccio Balestracci 11 — non si discostano
 

per nulla dal modello maschile.


Una traccia rimane invece in altre fonti, come i testamenti, che
a volte conservano, al di là del formulario, espressioni d’affetto nei
riguardi del coniuge; e soprattutto nelle lettere scritte (o dettate) da
donne, destinate ad essere lette solo dai destinatari, lettere quindi
dove vengono espressi senza filtri sentimenti ed emozioni, un corpus
non certo cospicuo ma significativo delle aspettative delle donne nel-
la loro vita coniugale 12. Sono lettere scritte — nella maggioranza dei
 

casi — per annullare un’assenza, per comunicare con il marito lon-


tano, come quelle della poco nota Dora Guidalotti del Bene 13, del-  

la più famosa Margherita moglie del mercante Francesco Datini di


Prato, che già avanti negli anni, impara a scrivere proprio per que-
sto 14, e — ugualmente anche se per un altro contesto affettivo — è
 

il costante desiderio dei figli esuli che spinge Alessandra Macinghi


Strozzi alla scrittura.
Il desiderio della presenza fisica del marito è un elemento comu-

11 D. Balestracci, Cilastro che sapeva leggere. Alfabetizzazione e istruzione nel-


le campagne toscane alla fine del Medioevo (XIV-XVI secolo), Pisa 2004, pp. 68-69.
12 Cfr. M.G. Nico Ottaviani, «Me son missa a scriver questa letera…». Lettere
e altre scritture femminili tra Umbria, Toscana e Marche nei secoli XV-XVI, Napoli
2006, in particolare pp. 30-33.
13 Dora Guidolotti del Bene, Le Lettere (1381-1392), a cura di G. Passerini,
«Letteratura italiana antica», 4 (2003), pp. 101-159.
14 Le lettere di Margherita Datini a Francesco di Marco (1384-1410), a cura
di V. Rosati, Prato 1977; le lettere sono consultabili anche su CD ROM: Per la
tua Margherita: lettere di una donna del ’300 al marito mercante, a cura di D.
Toccafondi - G. Tartaglione, Prato 2002. In particolare per l’uso della scrittu-
ra da parte di Margherita (e di altre donne fiorentine) cfr. A. Crabb, ‘If I could
write’: Margherita Datini and Letter Writing, 1385-1410, «Renaissance Quarterly»,
60 (2007), pp. 1170-1206. Per le lettere di Francesco alla moglie cfr. Le lettere di
Francesco Datini alla moglie Margherita (1385-1410), a cura di E. Cecchi, presenta-
zione di F. Cardini, Prato 1990.

135
Anna Esposito

ne a molte lettere di donne 15. Come non rimanere toccati — ad esem-


 

pio — da quelle struggenti di Maddalena — figlia di Palla Strozzi e


moglie di Neri di Donato Acciaiuoli —, in cui emergono affetto e di-
sperazione per una lontananza sempre più insopportabile: «io ti pre-
cho che tue t’ingegni di tornare el più tosto che tu puoi che ogni dì
mi pare un anno, ché, quand’io non ti vecho tornare in chasa né lla
mantina né lla sera né gnuon ora, penssando quant’io ò a stare ch’io
non ti vecha mi vie’ vogla di disperrami. Doi mese, Neri mio, chome
potrò io mai tanto istare ch’io non ti vecha? Io ti priecho che tu tor-
ni tosto» 16. A questo struggimento si unisce, per Lena, l’afflizione di
 

non aver ancora generato il figlio maschio tanto atteso: «quando ele
disono el’è femina mi venne il dolore della morte» e aggiunge «per-
ch’io abi fachta la fangulla femina, non mi dimentichare» 17.  

Il desiderio di maternità è un altro elemento del nostro quadro,


ma non bisogna dimenticare il desiderio opposto, di porre un limite
al gravoso e per la donna sempre pericoloso impegno della procrea-
zione. Pur senza insistere su questo aspetto, diverse spie dimostrano
l’uso diffuso di pratiche contraccettive e finanche del ricorso all’abor-
to, comportamenti censurati dagli ecclesiastici e perseguiti dalle au-
torità civili. Ad esempio, nella predica che tenne a Siena nel 1427
contro la sodomia, s. Bernardino non manca di rivolgere un’aspra
condanna alle donne “maladette da Dio” che «so’ cagione che i fi-
gliuoli che hanno già conceputi, si vengano a perdere» e a quelle,
ancora più perverse, «che aoperano che non possono generare; e se
n’hanno generati, in corpo gli disperdono» 18. Nei processi alle don-
 

15 Il desiderio di avere vicino l’amato è presente anche in altre fonti epistolari,


tra le quali in particolare vorrei segnalare quelle di alcune cortigiane, che da Roma
scrivono ai loro amanti a Firenze, cfr. Lettere di cortigiane del Rinascimento, a cura
di A. Romano, Roma 1990.
16 L. Miglio, Leggere e scrivere il volgare, cit., pp. 64, 73-74, e lettera nr. 33
a p. 287.
17 Ivi, pp. 58-59, e D. Balestracci, Cilastro che sapeva leggere, cit., p. 70.
Uguali accenni nostalgici in una lettera del 6 settembre 1478 scritta da Clarice
Orsini al marito Lorenzo de’ Medici: «quantunque non habbi al mondo maggior
vogla che di vedervi […] pregovi bene che poi, quando comodamente possiate,
ci veniate un dì a rivedere», cfr. D. Cortese, Notarelle medicee: un epigramma per
Simonetta Cattaneo e otto lettere di Claricia Orsini al Magnifico, in Medioevo e rina-
scimento veneto, con altri studi in memoria di Lino Lazzarini, 2 voll., Padova 1977,
I, pp. 529-539: p. 538.
18 San Bernardino da Siena, Le prediche volgari, a cura di P. Bargellini,
Milano-Roma 1936, p. 909.

136
I desideri delle donne tra nozze e convento

ne definite “streghe” a volte si trovano descritti rimedi per evita-


re la gravidanza 19, che peraltro non dovevano mancare nei ricettari
 

“personali” delle donne, come mostrano ad esempio gli Experimenti


di Caterina Sforza Riario in cui sono presenti ben tre ricette «per
non ingravidare» 20; mentre negli atti pervenutici degli Ufficiali del-
 

la Notte di Firenze compaiono diverse denuncie contro le donne


che pare tentassero metodi di limitazione delle nascite, come mostra
la deposizione di una certa Margherita, la quale «[…] disse doppo
qualche parola che non farebbe più figlioli. Stando domandata della
ragione, in presentia di parenti, disse “perché no”» 21.  

Non vi è dubbio comunque che i figli fossero il fine del ma-


trimonio, lo scopo della sessualità femminile, la ragione stessa del-
la costituzione di una nuova coppia. Raggiungere questo obbiettivo
voleva dire per la moglie consolidare il proprio ruolo all’interno del-
la famiglia e acquisire una posizione più onorata nella società 22. Non  

stupisce quindi che le donne, per soddisfare questo desiderio, si ri-


volgessero ai medici per ricette e terapie, alle fattucchiere per pozioni
e scongiuri, ai santi per avere un miracolo e, forse, come ultima risor-
sa, a rapporti extraconiugali. Di questo stratagemma, di cui è ricca
la novellistica italiana, ho trovato un ulteriore riscontro nell’infinita
varietà degli atti notarili. Si tratta di un testamento con disconosci-
mento di paternità fatto da un cittadino di Viterbo, la cui seconda e
giovane moglie gli aveva da poco comunicato di essere gravida. Il na-

19 Ad esempio, si veda il caso di tal Caterina de Castro Plebis, che nel 1427 si
rivolgeva alla strega Matteuccia di Todi per avere un preparato che le evitasse d’in-
gravidare, cfr. D. Mammoli, Processo alla strega Matteuccia di Francesco. 20 marzo
1428, Todi 1969, p. 30. Su questo tema cfr. G. Canestrini, Cenni sul controllo del-
le nascite e l’aborto, in L’erba delle donne. Maghe, streghe, guaritrici. La riscoperta di
un’altra medicina, Roma 1979, pp. 87-103.
20 Cfr. Ricette d’amore e di bellezza di Caterina Sforza, signora di Forlì e Imola,
a cura di E. Caruso, Cesena 2009, p. 54. Nel ricettario è presente anche un rime-
dio «a fare che una se ingravidi» (ivi), mentre diverse ricette sono destinate «a fare
che una donna […], essendo corrupta, demostrerà naturalissima vergine» (ibidem,
pp. 56-58).
21 Cfr. U. Mazzone, “El buon governo”. Un progetto di riforma generale nella
Firenze savonaroliana, Firenze 1978, p. 99, in data 18 giugno 1499.
22 Questo valeva in modo particolare per le famiglie “di potere”. A questo
proposito illuminante è la corrispondenza tra Eleonora d’Aragona e la figlia Isabella
d’Este, dopo il matrimonio di Isabella con Francesco Gonzaga, cfr. M. Ferrari,
Un’educazione sentimentale per lettera: il caso di Isabella d’Este (1490-1493), «Reti
Medievali - Rivista», X, 2009, url: <http://www.retimedievali.it>.

137
Anna Esposito

scituro — dichiarava l’uomo — non poteva essere suo figlio in quan-


to in 14 mesi di matrimonio non aveva potuto avere rapporti sessuali
con la consorte a causa della sua età avanzata e del suo stato d’infer-
mità. Davanti a notaio e testimoni rendeva così palese la disonestà
della moglie, che veniva punita con l’esclusione dall’eredità 23.  

Senza dubbio rivelarsi sterile era la colpa più grave della donna,
soprattutto quando il marito dimostrava la propria capacità di pro-
creare fuori dal matrimonio, con serve o schiave di casa o con altre
donne, spesso incontrate nelle località dove sbrigava i propri affari.
La storia matrimoniale di Margherita Datini, troppo nota per trat-
tarne a lungo, e le sue lettere sono il riflesso di due dolorose assenze:
quella dei figli, che lei non poteva avere, e quella del marito, a lunghi
intervalli lontano «per fare masserizia» e che era stato reso padre da
altre donne 24. È perciò tra il serio e il faceto che Margherita, quan-
 

do ormai le più gravi tensioni coniugali sembrano superate, gli scri-


ve provocandolo: «io arei voglia di sapere se tu dormi solo o no; se
non dormi solo, arei charo di sapere chi dorme techo» 25. Più o meno  

sullo stesso tono il brano di una lettera di Dora Guidalotti del Bene
al marito Francesco: «Tu mi scrivi che non puo’ dormire la notte per
pensieri che ài dell’Antonia (la figlia da maritare), ma a me è detto
che ttu ài altra compagnia che non ti lascia dormire» 26.  

Il problema della gelosia e la preoccupazione di conservare l’at-


tenzione e l’amore del marito era per molte donne — e di tutti i livelli
sociali — fonte d’inquietudine che poteva diventare vero malesse-
re, perché non erano affatto rare — per gli uomini — le avventure
galanti fuori dal matrimonio 27, per non parlare delle vere e proprie
 

23 Archivio di Stato di Viterbo, Archivio notarile, Viterbo, prot. nr. 325, c.


68v, in data 9 luglio 1496.
24 Sull’organizzazione del ménage e sulle vicende della vita privata di que-
sto mercante, oltre a I. Origo, Il mercante di Prato. Francesco Datini, Milano 1958,
cfr. J.P. Byrne - E.A. Congdon, Mothering in the Casa Datini, «Journal of Medieval
History», 25/1 (1999), pp. 35-56. Interessanti osservazioni anche in M. Cassandro,
Aspetti della vita dell’uomo e del personaggio, in Francesco di Marco Datini. L’uomo
il mercante, a cura di G. Nigro, Firenze 2010, pp. 3-56: 20-23.
25 Le lettere di Margherita Datini a Francesco di Marco, cit., p. 31, cit. in D.
Balestracci, Cilastro che sapeva leggere, cit., p. 71.
26 Dora Guidolotti del Bene, Le Lettere, cit., p. 117 (lett. XI 15).
27 Il malessere femminile nei confronti delle infedeltà coniugali è espresso con
particolare enfasi proprio nelle fonti epistolari. È nota, ad esempio, una lettera che
Bianca Maria Visconti scrisse a papa Pio II «per far terminare una relazione amoro-

138
I desideri delle donne tra nozze e convento

convivenze con concubine, ed una prova dell’attività sessuale ma-


schile extraconiugale è, ad esempio, la frequenza con cui i figli il-
legittimi sono menzionati nei testamenti. Un’altra prova di questa
attività adulterina la troviamo sia nella normativa statutaria, che dal
’300 punisce duramente i reati lesivi dell’integrità familiare 28, sia nei  

registri giudiziari, dove rimane traccia di procedimenti intentati da


donne contro i mariti che le avevano abbandonate per andare a vive-
re con l’amasia o che le avevano scacciate di casa — e senza alimenti
— per convivere insieme alla concubina. Un’ampia casistica in que-
sto campo è stata raccolta — ad esempio — per la Perugia del ’200
da Giovanna Casagrande e Michela Pazzaglia 29, che ricordano anche
 

sa che il marito Francesco Sforza aveva avviato con una giovane milanese, benché
fosse ormai anziano e malato», cfr. M.N. Covini, Il palazzo milanese di Elisabetta
da Robecco, ultima amante di Francesco Sforza, «Nuova Rivista Storica», 88 (2004),
pp. 799-810; la citazione è tratta da Ead., Tra cure domestiche, sentimenti e politi-
ca. La corrispondenza di Bianca Maria Visconti duchessa di Milano (1450-1468), «Reti
Medievali - Rivista», X (2009), url: <http://www.retimedievali.it>. Il tormento cau-
sato dal disinteresse del coniuge nei confronti della moglie è testimoniato con parti-
colare efficacia nel caso di Maddalena de’ Medici, moglie di Franceschetto Cibo, su
cui fanno luce alcune lettere del segretario e confidente della donna a Roma, Matteo
Franco. In particolare in quella del 18 gennaio 1492, scritta a Piero Dovizi, cancellie-
re del Magnifico, lo scrivente descrive con efficacia la trascuratezza di Franceschetto
e la sofferenza della consorte: «la indisposizione di madonna Magdalena è del suo
troppo veghiare per indiscrezione del S., perché tutta questa vernata non ancor fi-
nita è stato a giucare tutta nocte, et quando cenato alle .6. e .7. ore, et quando ito a
lletto a ddì et lei mai ha voluto né saputo mangiare senza lui, tanto che n’avea perdu-
to et il sonno et il mangiare, et era diventata come (una) lucciola», e più avanti «mai
pensa né songna altro, tam excessivamente lo ama, che s’intisichisce da sé ad sé: che
mi pare questa delle più paurose cose ch’el’abbia in sé, perché di niente […] pigla
piacere», cfr. M. Franco, Lettere, a cura di G. Frosini, Firenze 1990, lett. XII, pp.
108-114: 110, 111, lettera riprodotta in G. Frosini, «Honore et utile»: vicende stori-
che e testimonianze private nelle lettere romane di Matteo Franco (1488-1492), «Reti
Medievali - Rivista», X (2009), url: <http://www.retimedievali.it>.
28 Cfr. A. Esposito, Adulterio, concubinato, bigamia: testimonianze dalla nor-
mativa statutaria dello Stato pontificio (secoli XIII-XVI), in Trasgressioni. Seduzione,
concubinato, adulterio, bigamia (XIV-XVIII secolo), a cura di S. Seidel Menchi - D.
Quaglioni, Bologna 2004, pp. 21-42. Una selezionata casistica di norme e provve-
dimenti contro l’adulterio (soprattutto femminile) si trova in E. Rodocanachi, La
femme italienne à l’époque de la renaissance. Sa vie privée et mondaine, son influence
sociale, ed. an., Roma 2004, pp. 386-395.
29 G. Casagrande - M. Pazzaglia, ‘Bona mulier in domo’. Donne nel
Giudiziario del comune di Perugia nel Duecento, in Donne nel Medioevo. Ricerche in
Umbria e dintorni, a cura di G. Casagrande, Perugia 2005, pp. 131-193.

139
Anna Esposito

alcuni casi di precettazione per quanto attiene agli obblighi coniuga-


li: un uomo viene precettato a «tractare maritali affectione» la pro-
pria moglie, a correggerla con moderazione, a fornirla di alimenti e
a «procurare eam in necessariis». Stesso precetto ad un altro uomo
che doveva essere un forte bevitore perché gli viene ordinato di ver-
sare alla moglie una somma equivalente a quella spesa in taverna 30.  

E gli esempi potrebbero moltiplicarsi se si passasse a considerare al-


tre realtà, come — ad esempio — quella romana, sulla quale fa luce
un’articolata documentazione, di cui una porzione consistente è co-
stituita dalle sicurtà rilasciate da mariti prepotenti e maneschi a mo-
gli che per questo motivo si erano allontanate dal tetto coniugale e si
rifiutavano di ritornarvi, non essendo trattate con il dovuto affetto e
temendo per la loro stessa vita 31.  

Pur di tenere legato a sé il proprio uomo, le donne usavano


ogni mezzo, lecito e illecito. Era certamente un modo lecito cerca-
re di migliorare il proprio aspetto fisico per rendersi più attraente.
Lo stesso Bernardino da Siena — peraltro molto contraddittorio per
quanto riguarda il comportamento ‘seduttivo’ delle donne 32 — in-  

coraggiava le mogli a prendersi cura del proprio aspetto, a non esse-


re in casa sciatte e sgradevoli per evitare al marito tentazioni sessuali
che avrebbero potuto indurlo al peccato, ed in particolare al vizio
nefando per eccellenza, la sodomia 33.  

Non c’era però bisogno delle esortazioni di Bernardino, per-


ché la ricerca della bellezza era un fine puntigliosamente cercato
dalle donne e non solo da quelle maritate. Come ricorda Gabriella
Piccinni trattando dei ‘saperi delle donne’, «sono soprattutto le ma-

30 Ivi, p. 164.
31 Cfr. A. Esposito, Convivenza e separazione a Roma nel primo Rinascimento,
in Coniugi nemici. La separazione in Italia dal XII al XVIII secolo, a cura di S. Seidel
Menchi - D. Quaglioni, Bologna 2000, pp. 499-518.
32 Cfr. I. Magli, L’etica familiare e la donna in S. Bernardino, in Atti del conve-
gno storico bernardiniano in occasione del sesto centenario della nascita di s. Bernardino
da Siena, L’Aquila 7-9 maggio 1980, Teramo 1982, pp. 110-125: 121-123.
33 Bernardino da Siena, Le prediche volgari, cit. Ma non si deve dimentica-
re anche l’altra faccia della medaglia, ovvero la possibile inclinazione omosessua-
le del coniuge, a questo proposito cfr. il caso di Alessandra de’ Bardi che accusò il
marito Raffaele Acciaiuoli di trascurarla («spernendo dictam suam uxorem et raro
cum mea dormiendo») e di praticare la sodomia, caso segnalato da G. Brucker,
Giovanni e Lusanna. Amore e matrimonio nella Firenze del Rinascimento, Bologna
1988, p. 70.

140
I desideri delle donne tra nozze e convento

dri o — come stigmatizza Bernardino — le “sorelle, parenti, amiche,


vicine” che insegnano alle più giovani la cura del proprio aspetto e
il trucco» 34, anche avvalendosi di ricettari cosmetici e delle pratiche
 

di più o meno esperte ‘estetiste’. Si voleva soprattutto «far liscia la


pelle», «fare la faccia bianchissima […]», «far crescere li capelli belli
longhi insino a terra», «reimbiondirli», «far andare via li capelli et li
peli che […] sonno nella fronte che è bruttissimo», «far li denti chia-
ri, lucenti e belli», «fare le mano bianche et belle tanto che parerano
de avorio» 35 e così via e tutto ciò per soddisfare i canoni di bellezza
 

muliebre che nel tardo medioevo andavano per la maggiore 36.  

Ma quando tutti gli sforzi per conquistare e mantenere l’amo-


re del marito o dell’amante risultavano vani e il coinvolgimento sen-
timentale era molto intenso, allora si ricorreva agli scongiuri, agli
“incantesimi”, alle fatture, praticate — e a volte insegnate — soprat-
tutto, ma non solo, dalle «piccole operatrici della magia di basso
rango» 37. Ne abbiamo una straordinaria testimonianza in una depo-
 

sizione di Bellezza Orsini — inquisita come strega nella Sabina del


primo Cinquecento — in cui la donna mostra una insolita determi-
nazione nelle sue azioni e nel perseguire i suoi desideri. «[…] con-
tentatome del corpo mio con chi ho hauto desiderio, datomi ad chi
m’è parso, e homene cavata la voglia de signori e frati e sinculari,
pure che me sia piaciuto ad me. […]; io li ho voluto, se non per amo-
re, per forza […]. Io ho un libro di 180 carte, dove stanno tucti li se-
creti del mondo, boni e captivi […] Et era la moglie de un signore

34 G. Piccinni, La trasmissione dei saperi delle donne, in La trasmissione dei sa-


peri nel Medioevo (secc. XII-XV), Pistoia 2005, pp. 205-243: 235-237.
35 Cfr. il poemetto di Bernardo Giambullari, autore fiorentino del tardo ’400
cit. da G. Palmero, Il corpo femminile tra idea di bellezza e igiene. Cosmetici, bal-
sami e profumi alla fine del Medioevo, in Scienza della bellezza: natura e tecnolo-
gia, Atti del II convegno della Scuola di Specializzazione in Scienza e Tecnologia
Cosmetiche dell’Università di Siena (Siena, 18-19 ottobre 2002), Siena 2002 [pub-
blicazione realizzata su CD ROM (a cura della Scuola di Specializzazione in Scienza
e Tecnologia Cosmetiche dell’Università di Siena) © dell’autore - distribuito in for-
mato digitale da «Reti Medievali»], p. 9, saggio che contiene anche molte notazio-
ni sugli Experimenta di Caterina Sforza, un’antologia dei quali è ora disponibile nel
volumetto Ricette d’amore e di bellezza di Caterina Sforza, cit.
36 Cfr. M.A. Laughran, Oltre la pelle. I cosmetici e il loro uso, in La moda, a
cura di C.M. Belfanti - F. Giusberti, Storia d’Italia, Annali, 19, Torino 2003, pp. 43-
82: 47-60 (medioevo e rinascimento).
37 G. Piccinni, La trasmissione dei saperi delle donne, cit., pp. 239-240; C.
Casagrande, La donna custodita, in Storia delle donne, cit., p. 94.

141
Anna Esposito

chel marito non la possiva vedere, e io feci che li desse ad mangiare


certe cose, e subito li volse bene, e vole, meglio che alli sui ochi» 38.  

Era ben consapevole di queste pratiche Bernardino da Siena,


che in una predica senese del 1427 se la prende con le madri che si
rivolgono alle arti effimere e peccaminose delle fattucchiere: «O tu
che hai fatto fare la incanta perché il marito della tua figliola le vo-
glia bene, sai che farà Idio per suo giudizio? Farà che tal bene non
durerà» 39.
 

Nonostante gli anatemi di predicatori e confessori, le testimo-


nianze sul ricorso alle ‘streghe’ per problemi d’amore, ed in par-
ticolare d’amore coniugale, sono numerose, anche se riguardano
soprattutto il ceto popolare. Basti rileggere la sentenza del proces-
so celebrato nel 1428 contro Matteuccia di Todi per rendersene con-
to 40. Oltre la menzione generica di numerose fatture fatte con capelli
 

avvolti in pezze da mettere sotto la porta di casa e sotto il letto per


far amare le mogli dai mariti — e viceversa — 41 nella sentenza si ri-
 

corda come Matteuccia si prestasse a fornire trattamenti — di cui il


più efficace sembra l’uso di un’erba chiamata ‘costa cavallina’ — per
moltissime donne «ab ipsorum viris verberatis» e che chiedevano da
lei qualche rimedio affinché i loro uomini «ipsas diligant et volunta-
tem ipsarum faciant» 42.  

Non mi soffermo sui singoli casi richiamati in questo docu-


mento, che riguardano anche mogli che vogliono vendicarsi di ma-

38 M. Craveri, Sante e streghe. Biografie e documenti dal XIV al XVII secolo,


Milano 1980, p. 174. Di Bellezza rimane anche una confessione “di suo pugno” in
cui ammetteva di essere una fattucchiera, pubblicata da P. Trifone, La confessione di
Bellezze Ursini “strega” nella campagna romana del Cinquecento, «Contributi di filo-
logia dell’Italia mediana», 2 (1988), pp. 138-160. Su questo eccezionale documento
si sofferma D. Corsi, Mulieres religiosae e mulieres maleficae nell’ultimo Medioevo,
in “Non lasciar vivere la malefica”. Le streghe nei trattati e nei processi (secoli XIV-
XVII), a cura di D. Corsi - M. Duni, Firenze 2008, pp. 19-42: 40-42.
39 Bernardino da Siena, Le prediche volgari, cit., p. 397.
40 D. Mammoli, Processo alla strega Matteuccia, cit.
41 Contemporaneamente bisognava recitare uno scongiuro, «que verba ope-
rantur ut viri faciant voluntatem mulierum».
42 È una richiesta molto diffusa. Ad esempio, tra le capacità vantate dalla gua-
ritrice modenese Giovanna Pali, vi era anche questa: «quod sciebat facere quod
maritus diligeret uxorem suam ita quod ipsa uxor faceret ad modum proprium, id
est secundum quod placeret sibi uxori», cfr. A. Massarenti, L’arte di curare. Il pro-
cesso per stregoneria contro Giovanna Pali (Modena, ottobre 1497 - febbraio 1499),
«Schifanoia», 26-27 (2004), pp. 101-125: 122.

142
I desideri delle donne tra nozze e convento

riti crudeli 43 e donne che vogliono separare gli uomini di cui si sono
 

invaghite dalle loro legittime consorti, né sui processi per stregone-


ria celebrati in Umbria nei secoli XIV e XV, pubblicati da Ugolino
Nicolini 44, né su quelli segnalati da Dinora Corsi per la Toscana del
 

secondo ’300 e del ’400, che pure hanno come fine «quello di ini-
bire la volontà e ridurre in proprio potere l’oggetto d’amore o, al
contrario, scatenare l’odio» 45. Mi sembra però interessante richia-
 

mare una sentenza, finora poco nota, relativa ad un processo cele-


brato a Viterbo nel 1428, in cui è imputata una donna, Margherita
da Grosseto, moglie di Stefano di Bernardo. Amante appassionata
per ben otto anni di un giovane del luogo, Nicola, che ormai comin-
ciava a stancarsi della relazione, la donna venne presa da una gelosia
così forte che arrivò a commissionare ad una praticona una potente
fattura per impedirgli di carnaliter cognoscere altre donne, in modo
«che non possi avere a fare con altra femina che con meco» confessa
espressamente. L’incantesimo andò a buon fine ma il povero Nicola,
dopo reiterate prove presso le meretrici del postribolo cittadino e
dopo che i parenti si erano rivolti allo stesso marito della donna per
tentare di convincerla a togliere la fattura, cosa che ella non volle mai
fare, per il dispiacere di essere divenuto come «si homo fuisset qui
virilia non haberet», dopo circa un anno venne a morte; e la morte
sul rogo sarà la pena per Margherita, condannata anche per aver in-
dotto alla prostituzione sia la figlia dodicenne Petruccia sia molte al-
tre donne della città 46.  

43 Sulle violenze perpetrate dai mariti cfr. ad esempio quanto riferisce S.K.
Cohn jr., Sex and Violence on the Periphery: the Territorial State in Early Renaissance
Florence, in Id., Women in the Streets. Essays on Sex and Power in Renaissance
Italy, Baltimora-Londra 1996, pp. 98-136, oppure i casi presentati da A. Esposito,
Convivenza e separazione a Roma, cit. Particolarmente significativa la testimonianza
di una donna fiorentina, moglie di tal Ardengo de’ Ricci, che aveva reagito alla bru-
talità del coniuge: «non volevo a nessun modo mi tractassi come bestia, ma come
donna d’anima perfecta» (1497), cfr. U. Mazzon, “El buon governo”, cit., p. 99.
44 U. Nicolini, La stregoneria a Perugia ed in Umbria nel Medioevo, «Bollettino
della Deputazione di storia patria per l’Umbria», 84 (1987), pp. 5-87.
45 D. Corsi, “Figlia di un demone minore”. La stregoneria nei processi toscani
del Quattrocento, in Scrivere il medioevo. Lo spazio, la santità, il cibo. Un libro dedi-
cato ad Odile Redon, a cura di B. Laurioux - L. Moulinier-Brogi, Roma 2001, pp.
249-261: 252.
46 Il caso è presentato da V. Rizzo, Donne e criminalità a Viterbo nel XV se-
colo, «Rivista storica del Lazio», 12 (2000), pp. 11-27: a pp. 22-27 l’edizione del-
la sentenza.

143
Anna Esposito

Il malessere nella vita di una donna coniugata poteva natural-


mente essere provocato da altri motivi. Li trovo ben rappresentati
nella raccolta dei miracoli del santuario di S. Maria della Quercia 47.  

In questo contesto sono ricordati — tra le numerose grazie invoca-


te ed ottenute dalle donne dell’intera Tuscia per i pericoli del parto e
per altre malattie femminili, per la salute dei figli, per la difesa della
verginità etc. — peraltro presenti nei libri miraculorum di molte san-
te (s. Rosa, s. Francesca Romana etc.), anche miracoli che risolvono
situazioni familiari degenerate. Nel corpus dei prodigi vi è infatti una
sezione dedicata alle «donne liberate dalla crudeltà de’ mariti gelo-
si», da cui si recupera tutta una gamma di rapporti familiari che va
ben al di là di quelli strettamente coniugali: tra questi, l’antagonismo
con la suocera, non ultima causa di liti tra coniugi, risulta ben rap-
presentata in questa raccolta 48.  

L’infelicità — dovuta ad un’unione mal assortita o ad altre cau-


se — poteva far desiderare di porre fine alla propria esistenza. Arnold
Esch ha raccolto un piccolo dossier di casi di tentato suicidio di don-
ne dai processi di canonizzazione di s. Francesca Romana, che — a
quanto pare — aveva una particolare abilità «a sollevare gli uomini
dalle paure e depressioni». Francesca riesce a intervenire in risposta
alle paure più comuni, come quella di non poter vivere in terra feli-
ci o anche solo di non riuscire a tirare avanti: una giovane teme che
la madre l’avveleni, una soffre giorno per giorno per le persecuzioni
delle cognate, un’altra si sente «angustiata et afflicta» in quanto per-

47 N.M. Torelli, Miracoli della Madonna della Quercia, Viterbo 1793.


48 Cfr. (ivi, p. 158) il caso di Livia di Francesco Pieraccini «accusata dalla sua
suocera che volesse bene ad altri che il suo marito, seppe tanto bene dire al suo fi-
gliolo che, ritornato a casa e vedendola alla finestra più per aspettare il marito che
per essere veduta d’altri, fu ferita con sei ferite […] et fu lasciata per morta; cor-
se la madre di Livia et molte altre vicine et parenti et da tutte insiemi si chiamava
la Madonna della Quercia di Viterbo et fu votita, quale — come fusse svegliata dal
sonno — disse: “la Madonna della Quercia mi ha liberata dalla morte”. Sanò in bre-
ve et si cognobbe l’innocentia sua». Sulla cattiva disposizione delle suocere verso le
future nuore possono far luce i processi alle fattucchiere, a cui si chiedevano male-
fici e fatture ad hoc: un esempio particolarmente significativo si può leggere nella
sentenza (del 1347) contro Riccola di Puccio da Pisa, residente a Perugia, accusa-
ta — tra l’altro — di aver fatto una fattura su richiesta della perugina Mitula dopni
Angeli […] causa nocendi Matheolo filio dicte Mitule, che era in procinto di prende-
re in moglie una ragazza, cosa che dispiaceva moltissimo alla madre del giovane. La
fattura doveva provocare in Matteo una forte avversione verso la futura moglie in
modo da impedire il matrimonio, cfr. Nicolini, La stregoneria a Perugia, cit., p. 32.

144
I desideri delle donne tra nozze e convento

seguitata da qualcuno che «ei erat superior in potentia et in nomi-


ne». Degni di nota anche i tentativi di suicidio non nati da frenesis o
fatuitas ma proprio ex desperatione: così una donna vuol gettarsi nel
Tevere, una nobile prende la spada e si ferisce; un’altra usa la spada
perché la sua unica figlia è entrata in convento (nella congregazione
delle oblate di Tor de’ Specchi) 49. Non ho fatto un’indagine speci-
 

fica in altri processi di canonizzazione o nei Libri miraculorum, che


forse potrebbero fornire ulteriori dati su questo aspetto del males-
sere esistenziale, ma voglio almeno segnalare un documento piutto-
sto inconsueto, che ho reperito in un registro notarile di Viterbo del
1458 50. È una sorta di patto tra coniugi sottoscritto dopo un tentati-
 

vo di suicidio da parte della donna, che forse non trovava nel mari-
to un valido sostegno affettivo: Elena, moglie del tedesco Andrea di
Giuliano, prometteva «se velle vivere cum ipso Andrea ut bona uxor
et se non interficere nec ad actum se interficiendi devenire»; però se
le fosse riuscito di togliersi la vita, in quel caso la sua dote e i suoi
beni esistenti a Viterbo «sint libere et totaliter ipsius Andree absque
aliqua exceptione». Andrea a sua volta prometteva «bene tractare
ipsam dominam Helenam eius uxorem ut bonus vir tenetur tractare
suam bonam uxorem», in caso contrario non avrebbe avuto nulla a
pretendere né della dote né dei beni viterbesi della moglie.
Gli spazi lasciati alle donne dalla legislazione e dalle convenzio-
ni sociali non erano così ridotti da impedire loro di reagire a situazio-
ni di malessere determinate dalla condizione matrimoniale.
Come mostra la ricca documentazione in materia conservata
negli archivi dei tribunali italiani, civili ed ecclesiastici, oggetto nel-
l’ultimo decennio di studi e analisi seriali 51, porre fine ad un’unione
 

infelice con una separazione quoad thorum 52 — che non intaccava


 

49 A. Esch, Tre sante ed il loro ambiente sociale a Roma: S. Francesca Romana,


S. Brigida di Svezia e S. Caterina da Siena, in Atti del simposio internazionale cateri-
niano-bernardiniano, Siena 17-20 aprile 1980, a cura di D. Maffei - P. Nardi, Siena
1982, pp. 89-120: 93-94.
50 Archivio di Stato di Viterbo, Notarile Viterbo, not., 749, c. 97r, a. 1458 nov.
20. Per un approccio più generale a questo tema cfr. J.-Cl. Schmitt, Le suicide au
Moyen Âge, «Annales», 31 (1976), pp. 3-28.
51 Ben quattro volumi, a cura di Silvana Seidel Menchi e Diego Quaglioni,
sono il risultato dei convegni organizzati nell’ambito del progetto di ricerca su «I
processi matrimoniali degli archivi ecclesiastici italiani».
52 Cfr. D. Quaglioni, “Divortium a diversitate mentium”. La separazione per-
sonale dei coniugi nelle dottrine di diritto comune (appunti per una discussione), in

145
Anna Esposito

l’indissolubilità del vincolo matrimoniale ma permetteva di inter-


rompere la convivenza 53 — era una possibilità che le donne poteva-
 

no praticare, e che in effetti praticavano — a quanto sembra — in


misura più consistente degli uomini 54, così come più numerose degli
 

uomini erano le donne che si rivolgevano ai tribunali per veder rico-


nosciuto un matrimonio segreto (come nel caso ormai famoso dei fio-
rentini Lusanna e Giovanni Della Casa studiato da Gene Brucker 55)  

oppure per chiedere l’annullamento di un vincolo stretto sotto la


coercizione fisica e psichica che i genitori, per interessi patrimoniali
o per strategie di promozione sociale, avevano esercitato su di loro 56,  

di solito giovanissime, matrimonio che poi non era stato consuma-


to 57. Da tener presente che questa ultima motivazione era per lo più
 

una strategia legale, consigliata dagli avvocati della parte interessata


allo scioglimento di nozze. Naturalmente — e Christine Meek non
manca di sottolinearlo per il caso lucchese 58 — non sempre erano le
 

Coniugi nemici, cit., pp. 95-118: 105, 114. Cfr. ora anche G. Marchetto, Il divorzio
imperfetto. I giuristi medievali e la separazione dei coniugi, Bologna 2008.
53 «Erano soprattutto quattro i motivi riconosciuti agli effetti della separa-
tio quoad thorum: adulterio, sevizie, odio capitale e malattia contagiosa», cfr. G. Di
Renzo Villata, Separazione personale dei coniugi (Storia), in Enciclopedia del diritto,
XLI, Milano 1989, pp. 1350-1376: 1361-1362.
54 Cfr. per Venezia C. Cristellon, L’ufficio del giudice: mediazione, inquisizio-
ne e confessione nei processi matrimoniali veneziani (1420-1532), «Rivista storica ita-
liana», 115/3 (2003); pp. 851-898: 862.
55 G. Brucker, Giovanni e Lusanna, cit.
56 Cfr. S. Seidel Menchi, A titolo di introduzione a Tempi e spazi di vita femmi-
nile, cit., p. 17, e nello stesso volume il saggio di D. Hacke, «Non lo volevo per ma-
rito in modo alcuno». Matrimoni forzati e conflitti generazionali a Venezia fra il 1580
e il 1680, pp. 195-224.
57 Una percentuale notevole delle richieste di annullamento presso i tribuna-
li vescovili italiani tra la fine del ’300 e la prima metà del ’400 (i più antichi) adduce
l’impedimento della minore età di uno dei contraenti (per lo più della sposa) come
causa di nullità del vincolo matrimoniale. Si trattava in verità di una strategia legale,
consigliata dagli avvocati della parte interessata allo scioglimento di nozze talvolta
non consumato; ma la minore età della sposa (9, 10, 11 anni) è provata da testimo-
nianze e documenti, oppure, in mancanza di questi, dal dichiarare che la sposa non
fosse lontana da quell’età, cfr. Ch. Meek, La donna, la famiglia, la legge nell’epoca
di Ilaria del Carretto, in Ilaria del Carretto e il suo monumento. La donna nell’arte,
la cultura e la società del ’400, Atti del convegno internazionale di studi (Lucca, 15-
17 settembre 1994), a cura di S. Toussaint, Lucca 1995, pp. 137-163: 140-144; S.
Seidel Menchi, La fanciulla e la clessidra, cit., p. 138.
58 Cfr. Ch. Meek, La donna, la famiglia, la legge nell’epoca di Ilaria del Carretto,
cit., pp. 140-3; S. Seidel Menchi, La fanciulla e la clessidra, cit., p. 138.

146
I desideri delle donne tra nozze e convento

mutate strategie delle famiglie a portare alla richiesta dell’annulla-


mento, a volte a questo si arrivava per la ferma volontà delle fanciul-
le a rifiutare la consumazione del matrimonio.
Casi di questo tipo si possono reperire anche tra le suppliche
presentate alla Penitenzieria Apostolica 59, un ufficio burocratico del
 

Vaticano a cui si rivolgevano persone che per motivi di fede deside-


ravano essere assolti dall’autorità religiosa per casi riservati. Questo
ufficio trattava esclusivamente situazioni in cui l’esistenza dell’im-
pedimento era rimasta occulta e che si riteneva preferibile — per
evitare maggior scandalo — che rimanesse tale: in questo contesto
venivano legittimati sia matrimoni invalidi per consanguineità e per
parentela spirituale sia matrimoni clandestini; mentre per quanto ri-
guarda lo scioglimento del vincolo, erano annullate nozze per coerci-
zione del consenso, motivo questo che viene addotto anche nel caso
delle monacazioni forzate. Ebbene un rapido sondaggio in questo in-
teressante materiale ha rivelato che le donne sono presenti in un di-
screto numero, soprattutto per richiedere la convalida di seconde
nozze ormai consumate e a volte con prole, che erano seguite a pre-
cedenti unioni che non erano state consumate per i motivi più diver-
si: per il netto rifiuto della ragazza dopo aver conosciuto l’uomo a
cui era stata promessa, per la sopraggiunta deformità o malattia gra-
ve del coniuge, per la decisione unanime dei due sposi di non avere
rapporti sessuali 60. Un solo esempio tra tanti: Antonia Pizuti del-
 

la diocesi di Cefalù era stata costretta dai genitori mentre era mino-
renne a sposare Mascio de Agnello di Mistretta presso Messina, ma
— raggiunta l’età adatta — si era rifiutata di consumare le nozze e
qualche tempo dopo si era sposata (con successiva copula carnale)
con Francesco da Lipari. Richiedeva perciò di dichiarare nullo il pri-

59 F. Tamburini, Santi e peccatori. Confessioni e suppliche dai Registri della


Penitenzieria dell’ASV (1451-1586), Milano 1995; L. Schmugge, Le dispense matri-
moniali della Penitenzieria apostolica, in I tribunali del matrimonio, cit., pp. 253-268;
qualche caso per l’area germanica è presentato da A. Esch, Wahre Geschichten aus
dem Mittelalter: kleine Schicksale selbst erzählt in Schreiben an den Papst, Monaco
di Baviera 2010, pp. 33-42.
60 Per il momento ho esaminato i registri per i primi anni del pontificato di
Sisto IV e ho schedato il volume di suppliche relativo alla diocesi di Como, cfr.
Penitenzieria apostolica. Le suppliche alla Sacra Penitenzieria apostolica provenienti
dalla diocesi di Como (1438-1484), a cura di P. Ostinelli, Milano 2003. Per una più
dettagliata informazione sulle potenzialità di questa fonte per il nostro tema cfr. L.
Schmugge, Female Petitioners, cit.

147
Anna Esposito

mo matrimonio e valido il secondo 61.  

Mi sono fermata forse troppo a lungo sui desideri legati all’af-


fettività, che però è certamente un ambito preferenziale della condi-
zione femminile nel medioevo. Mi limito perciò solo ad accennare
ad altri settori verso i quali potevano indirizzarsi le aspettative del-
le donne 62.
 

Uno di questi, su cui in questi ultimi anni il dibattito storiogra-


fico è più intenso, è quello relativo agli spazi di potere gestiti dalle
donne, all’attivismo che le portava «non solo ben al di fuori di casa,
ma che le induceva altresì ad acquisire competenze specifiche, ad
ampliare la loro sfera di relazioni e di conoscenze. Inoltre, in una
collettività in cui il prestigio e il potere di una famiglia si basavano
anche su di un solido reticolo di rapporti non formalizzati, si apri-
va uno spiraglio attraverso il quale le donne, a cui era negata la par-
tecipazione alla vita politica ufficiale, potevano esercitare — più o
meno direttamente — una propria sfera d’influenza» 63. Questa sfera  

d’influenza diventa patronage — o meglio matronage — per le don-


ne dell’aristocrazia e ancor più per le cosiddette “donne di potere”,
le quali — pur escluse da una diretta condivisione delle responsabi-
lità di governo —, esercitarono comunque una più o meno ampia in-
fluenza in modi indiretti e informali mediante pratiche clientelari e
di protezione e con un buon margine d’autonomia — come mostra
ad esempio la vita di Bianca Maria Visconti duchessa di Milano, re-
centemente indagata da Nadia Covini 64, e quella di altre signore del
 

61 Archivio Segreto Vaticano, Penitenzieria Apostolica, reg. 20, c. 91r, a. 1471.


Si vedano anche nello stesso registro le cc. 93v, 98v, 110v, 112v, 114v, 117r, 119r,
121r, 127v, 130r.
62 Un’interessante rassegna sulla storiografia relativa a matrimonio e vita con-
ventuale si deve a S. Evangelisti, Wives, widows and brides of Christ: marriage and
the convent in the historiography of early modern Italy, «The historical Journal»,
43/1 (2000), pp. 233-247.
63 Cfr. P. Salvatori, Introduzione a Lucrezia Tornabuoni, Lettere, cit., p. 38.
Si veda anche L. Ferrante - M. Palazzi - G. Pomata, Introduzione a Ragnatele di
rapporti: patronage e reti di relazione nella storia delle donne, a cura di L. Ferrante -
M. Palazzi - G. Pomata, Torino 1988, pp. 22-23. Sull’importanza della fonte episto-
lare femminile per evidenziare la «capacità da parte delle donne di entrare nella rete
degli scambi sociali che caratterizzano l’esistenza di una famiglia […], secondo mo-
dalità informali», cfr. M. D’Amelia, Lo scambio epistolare tra Cinque e Seicento: sce-
ne di vita quotidiana e aspirazioni segrete, in Per lettera, cit., pp. 79-110: 83.
64 M.N. Covini, Tra patronage e ruolo politico: Bianca Maria Visconti (1450-
1468), in Donne di potere nel Rinascimento, a cura di L. Arcangeli - S. Peyronel,

148
I desideri delle donne tra nozze e convento

rinascimento italiano 65, ma anche quella di donne legate ai poten-


 

ti da legami irregolari, come mostra esemplarmente il caso dell’ul-


tima amante di Galeazzo Maria Sforza, Lucia Marliani, studiato da
Franca Leverotti 66.  

Anche nel mondo delle attività economiche l’azione delle donne


si dispiega in una molteplicità di forme: nel mandare avanti l’azienda
di famiglia, come fecero non solo le più volte ricordate Margherita
Datini 67, Alessandra Strozzi e la stessa Lucrezia Tornabuoni de’
 

Medici 68 ma anche molte altre donne meno note e meno nobili, che
 

le attuali ricerche stanno facendo venire alla luce. Resta da chieder-


si se per le donne ciò rappresentasse davvero un obbiettivo. Nelle
loro lettere Margherita, Alessandra e Lucrezia si lamentano a vol-
te del peso della responsabilità e della fatica che comportava occu-
parsi della ‘masserizia’, campo d’azione prettamente maschile a cui
— per le varie circostanze della vita (la morte del marito, la lonta-
nanza dei figli etc.) — dovevano far fronte 69. Si rimane però colpi-
 

ti dall’efficienza, dall’abilità e dalla competenza di cui dettero prova


molte donne che si cimentarono nella gestione del patrimonio o ne-
gli affari, così per la famosa Lucrezia Borgia, che gli studi di Diane
Ghirardo hanno mostrato accorta imprenditrice a Ferrara 70, come  

per la quasi sconosciuta Cristofora Margani di Roma, il cui interes-


samento nella produzione e commercio dell’allume Ivana Ait sta cer-
cando di ricostruire in tutte le sue forme 71. Ciò mi porta a pensare ad
 

Roma 2008, pp. 247-280; Ead., Tra cure domestiche, sentimenti e politica, cit.
65 Il riferimento è ai saggi del volume Donne di potere nel Rinascimento, cit.;
in particolare per le donne della famiglia d’Este cfr. M.S. Mazzi, Come rose d’inver-
no. Le signore della corte estense nel ’400, Ferrara 2004.
66 F. Leverotti, Lucia Marliani e la sua famiglia: il potere di una donna amata,
in Donne di potere, cit., pp. 281-312.
67 Sul ruolo “manageriale” di Margherita Datini cfr. ora C. James, Il lavoro
femminile in un mondo dominato dagli uomini. Le lettere di Margherita Datini (1384-
1410), in Francesco di Marco Datini. L’uomo il mercante, cit., pp. 57-77.
68 P. Salvatori, La gestione di un casato. Il carteggio di Lucrezia Tornabuoni de’
Medici, «Memoria», 18 (1986), pp. 81-89.
69 Ad esempio, in una lettera del 5 aprile 1399 Margherita Datini scriveva: «E’
tropo grande faticha a volere atendere a le cose degn’uomini e di queste di chasa,
perché nol sa se non chi lo pruova quel ch’è a governare una chasa», cfr. Le lettere
di Margherita Datini, cit., nr. 193, p. 276.
70 D. Ghirardo, Lucrezia Borgia, imprenditrice nella Ferrara rinascimentale, in
Donne di potere, cit., pp. 129-144.
71 Per ora cfr. I. Ait, Un’imprenditrice nella Roma del Rinascimento: il caso
di Cristofora Margani, di prossima pubblicazione nella miscellanea in memoria di

149
Anna Esposito

un reale coinvolgimento e a un’adesione personalmente sentita nel-


le attività intraprese sia a nome della famiglia sia per loro persona-
le interesse.
Non vi è dubbio però che le donne che riuscirono veramente ad
emergere e di cui si è perpetuata la fama sono una minoranza rispet-
to a quelle che, per mettersi in evidenza e mostrare il proprio ruolo
sociale, avevano un unico mezzo: le vesti e gli ornamenti. È quan-
to sostiene una donna certamente non comune, la bella e lettera-
ta contessa della Porretta Nicolosa Sanuti 72 in una famosa orazione
 

umanistica latina, da lei — come scrive testualmente in una lette-


ra all’amato Sante Bentivoglio — «tracta et pensata» anche se fatta
«per più dignità, descrivere e autenticamente pore in latino ydio-
ma» da un «huomo di grande excellentia et virtù», orazione succes-
sivamente da lei letta o meglio presentata al cardinal Bessarione, che
come governatore di Bologna aveva da poco (1453) emanato un de-
creto suntuario dove si stabilivano, secondo una precisa gerarchia
sociale, i limiti degli ornamenti di cui le donne potevano far uso 73.  

Secondo Nicolosa, «l’unica ricompensa concessa alle donne di valo-


re, escluse dalla vita politica e limitate nelle relazioni» erano gli abi-
ti eleganti e gli ornamenti preziosi, che servivano alle donne «sia per
consolarle delle privazioni patite sia per richiamare […] quell’inte-
resse che a loro era difficile attirare diversamente» 74. Più o meno sul-
 

la stessa linea sono anche le orazioni viterbesi 75, indirizzate verso il


 

1467 dalle donne della città a Nicolò Perotti, arcivescovo di Siponto


e rettore del Patrimonio contro il provvedimento che vietava loro
l’uso della porpora e dell’oro. Anch’esse scritte da uomini, «più che
una protesta per il disciplinamento del lusso», si possono considera-
re «un’accorata difesa della libertà di scegliere la propria apparenza
nel nome della bellezza del mondo ivi compresa anche l’eloquenza

Gabriella Braga.
72 Era moglie di Niccolò Sanuti.
73 Cfr. G. Lombardi, Galiane in rivolta. Una polemica umanistica sugli orna-
menti femminili nella Viterbo del Quattrocento, 2 voll., Roma 1998, I, pp. CXVII-
CXVIII, CXXVI-CXXIX, da cui è tratta la citazione della lettera di Nicolosa. Per
il decreto suntuario del Bessarione cfr. La legislazione suntuaria. Secoli XIII-XVI.
Emilia-Romagna, a cura di M.G. Muzzarelli, Roma 2002, pp. 148-152.
74 M.G. Muzzarelli, Guardaroba medievale. Vesti e società dal XIII al XVI se-
colo, Bologna 1999, pp. 346-347.
75 G. Lombardi, Galiane in rivolta, cit. Il testo delle tre orazioni — con a fron-
te la traduzione italiana — è alle pp. 2-217.

150
I desideri delle donne tra nozze e convento

delle cose» 76.


 

Per quanto scarse, riusciamo a recuperare qualche altra noti-


zia sulle reazioni delle donne alle normative suntuarie: sembra cer-
to che a Ferrara Niccolò III d’Este fece abolire una legge contro il
lusso — da lui promulgata nel 1434 su inspirazione del francesca-
no Alberto da Sarteano — perché «non riusciva più a sopportare i
lamenti delle donne» 77; che a Roma matrone e gentildonne si ribel-
 

larono alle limitazioni su vesti e gioielli contenute nelle leggi suntua-


rie approvate da Paolo II nel 1469 tanto da costringere il pontefice a
mitigare i provvedimenti più impopolari 78; che le donne di Cesena,
 

contro le limitazioni deliberate nel 1575, scrissero un documento nel


quale, lamentandosi del fatto di essere prive di ogni dignità, rivendi-
cavano almeno il diritto agli ornamenti, una necessità a «sollevamen-
to di tanta miseria» 79. Del 1553 è invece la singolare protesta delle
 

donne di Ascoli Piceno contro gli Anziani e il Consiglio dei Cento


che avevano vietato le vesti muliebri un «poco curtette» tali da far
intravvedere le caviglie, allora di moda. Le ascolane — ribaltando
l’accusa d’indecenza — si erano scagliate a loro volta contro la moda
ben più invereconda dei loro uomini: «usate far casache et corpette
tanto corte, che mostrate tutte le chiappe et natiche integre da riete,
et non solo da riete, ma anchora denanti venete a mostrare certe bra-
chette toste, lonche, suttile ed dirizzate in su che a considerar l’è cosa
multa desonestissima» 80.  

A sottolineare la forte resistenza all’applicazione di queste leg-


gi, basterebbe fare riferimento alla reiterazione di queste normative
nel corso del tempo. Non insisto su questo punto, già ampiamente
dibattuto dalla storiografia, ma voglio fare almeno un rapido cenno
ai modi con cui queste leggi erano aggirate sia dalle donne che dagli

76 Questa considerazione si deve a M.G. Muzzarelli, Le leggi suntuarie, in La


moda, cit., pp. 185-220: 215.
77 G. Lombardi, Galiane in rivolta, cit., p. LXVII.
78 Ivi, p. CCXXVI. Sulle leggi suntuarie romane cfr. A. Esposito, La norma-
tiva suntuaria romana tra Quattrocento e Cinquecento, in Economia e società a Roma
tra Medioevo e Rinascimento. Studi dedicati ad Arnold Esch, a cura di A. Esposito -
L. Palermo, Roma 2005, pp. 147-179.
79 Il caso è segnalato da M.G. Muzzarelli, Una società nello specchio della le-
gislazione suntuaria: il caso dell’Emilia-Romagna, in Disciplinare il lusso. La legisla-
zione suntuaria in Italia e in Europa tra Medioevo ed Età moderna, a cura di M.G.
Muzzarelli - A. Campanini, Roma 2003, p. 24.
80 Cfr. R. Levi Pisetzky, Il costume e la moda nella società italiana, Torino
1978, pp. 40-41, cit. da G. Lombardi, Galiane in rivolta, cit., p. CXXV, nota 34.

151
Anna Esposito

uomini, tenendo peraltro presente un elemento essenziale: l’esenzio-


ne dall’osservanza di questi provvedimenti per cavalieri e dottori (e
le loro donne) in molte città italiane del tardo medioevo, ovvero da
una fascia ristretta ma anche la più elitaria della società cittadina 81.  

Uno di questi sistemi era costituito — in alcune città, come Siena,


Bologna, Viterbo etc. — dal pagamento di una “tassa” per poter in-
dossare le vesti proibite (chiamate “vesti bollate” per il marchio o
bollo che vi veniva apposto) per un preciso arco di tempo, di solito
un anno 82; un altro sistema era quello della dispensa, che prevedeva
 

l’invio di una supplica al papa con la richiesta di poter derogare dalle


leggi vigenti, supplica che il papa poteva semplicemente “signare” o
a cui poteva rispondere con un breve ad hoc. Tecnica particolarmen-
te diffusa nello Stato pontificio, è però attestata anche per altri con-
testi istituzionali: esemplare è il caso di alcune gentildonne veneziane
che «indirizzarono al papa petizioni per ottenere di poter indossare
“ad honor dei parenti e per la propria bellezza” le loro vesti sontuo-
se e gli ornamenti più preziosi» 83.  

Le reazioni che abbiamo finora ricordato non stupiscono, vi-


sto che ormai nella società del tardo medioevo uno dei modi più
immediati per marcare le differenze sociali era proprio l’accentua-
zione sempre più esasperata del lusso nell’abbigliamento, oltre che
nell’allestimento di feste e cerimonie, e a questo trend non erano cer-
tamente estranei gli uomini, che pur emanando le leggi, poi non le
osservavano oppure chiedevano l’esenzione o la dispensa per sé stes-
si e le loro donne 84. 

La vita claustrale è un altro degli ambiti privilegiati per osserva-

81 M.G. Muzzarelli, Le leggi suntuarie, cit., pp. 192-195.


82 Ead., Introduzione, a Disciplinare il lusso, cit., p. 13; e nello stesso volume
i saggi di P. Turrini, Un caso toscano: lo Stato senese, pp. 75-89; e di F. Franceschi,
La normativa suntuaria nella storia economica, cit., pp. 163-178: 170-171 sul contro-
verso rapporto tra legislazione suntuaria e politica fiscale. Per Viterbo e Bologna cfr.
G. Lombardi, Galiane in rivolta, cit., pp. LX-LXI.
83 M.G. Muzzarelli, Gli inganni delle apparenze. Disciplina di vesti e orna-
menti alla fine del medioevo, Torino 1996, pp. 94-95. Insiste particolarmente su que-
sta tecnica G. Lombardi, Galiane in rivolta, cit., p. LX, nota 29.
84 Particolarmente significativo è il caso di Roma relativamente alla richiesta
di deroghe per spese dotali e nuziali, per il quale rinvio ad A. Esposito, Matrimoni
‘in regola’ nella Roma del tardo Quattrocento: tra leggi suntuarie e pratica dotale,
«Archivi e cultura», 25-26 (1992-93), pp. 150-175.

152
I desideri delle donne tra nozze e convento

re come si esprimevano i desideri e le aspettative femminili. Come è


stato efficacemente scritto da Eileen Power, il monastero poteva es-
sere — a volte contemporaneamente — una vocazione, una carriera,
un rifugio, una prigione 85, ma spesso all’origine vi era una decisione
 

dettata dalle strategie familiari in base alla classe sociale e al reddi-


to (del resto è ben noto come — un po’ dovunque — notevolissima
fosse la differenza tra le doti nuziali e quelle monastiche 86), decisione
 

che la donna poteva accettare più o meno di buon grado 87, ma che  

poteva diventare per la donna anche «una possibilità di autorealizza-


zione» 88. Una trattazione esauriente su questo punto richiederebbe
 

lo spazio di un’intera relazione ma voglio almeno introdurre il pro-


blema della volontarietà di questa scelta, sebbene per il nostro perio-
do le fonti siano molto più scarse rispetto all’età moderna 89.  

Testimonianze di un certo interesse sono a volte fornite dai li-


bri di ricordanze fiorentini, dove si possono recuperare professioni
esplicite di volontà femminili: così, ad esempio, dal libro scritto da
Luca di Matteo da Panzano apprendiamo che nel 1445 la figlia Lena,

85 E. Power, Donne del medioevo, a cura di M.M. Postan, Milano 1978, cap.
V, pp. 117-133, dove si sintetizzano le osservazioni tratte da Ead., Medieval English
nunneries, c. 1275-1535, Cambridge 1922. Per la scelta claustrale in Italia fonda-
mentali sono gli studi di G. Zarri, ora in parte confluiti nel volume Recinti. Donne,
clausura e matrimonio nella prima età moderna, Bologna 2000.
86 L’aumento delle doti divenne particolarmente forte a partire dalla metà del
’400, cfr. A. Molho, Tamquam vere mortue: Le professioni religiose femminili nella
Firenze del tardo Medioevo, «Società e storia», 12 (1989), pp. 1-44: 27-30; S.K. Cohn
Jr., Nuns and Dowry Funds: Women’s Choices in the Renaissance, in Id., Women in
the Streets, cit., pp. 76-97. Per Roma mi permetto di rinviare al mio Strategie ma-
trimoniali e livelli di ricchezza, in Alle origini della nuova Roma. Martino V (1417-
1431), Atti del Convegno (Roma, 2-5 marzo 1992), a cura di M. Chiabò et al., Roma
1992, pp. 571-587.
87 Cfr. R.C. Trexler, Famiglia e potere a Firenze nel Rinascimento, Roma
1990, pp. 165-200.
88 Cfr. G. Zarri, Introduzione ad A. Tarabotti, Lettere familiari e di compli-
mento, a cura di M. Kennedy Ray - L.L. Westwater, Torino 2005, pp. 9-11.
89 Mi limito solo ad alcune segnalazioni: F. Medioli, Monacazioni forzate: don-
ne ribelli al proprio destino, «Clio. Rivista trimestrale di studi storici», 1994, fasc. 3,
pp. 431-454; Ead., Lo spazio del chiostro: clausura, costrizione e protezione nel XVII
secolo, in Tempi e spazi di vita femminile, cit., pp. 353-373; Ead., To take or not to
take the veil: selected Italian case histories, the Renaissance and after, in Women in
Italian Renaissance Culture and Society, a cura di L. Panizza, Oxford 2000, pp. 122-
137; G. Paolin, Lo spazio del silenzio: monacazioni forzate, clausure e proposte di vita
religiosa femminile in età moderna, Montereale 1998.

153
Anna Esposito

allora dodicenne, non volle lasciare il convento di San Girolamo a


San Gimignano dove era andata al seguito di un gruppo di flagellan-
ti, ma lo convinse a farla restare lì e darle il suo consenso a prendere
il velo: «jo Lucha […] fu’ d’achordo et cho lei et cholle monache ella
fusse monacha in detto monistero» 90. Anche dal diario di Francesco
 

di Tommaso risulta che la figlioletta Gostanza, di dieci anni, era en-


trata nel convento di Santa Maria a Monticelli tutta contenta e di sua
spontanea volontà e gli esempi potrebbero continuare 91, pur tenen-  

do presente che in queste fonti — sempre scritte da uomini, padri


o fratelli delle future monache — potrebbe essere stato enfatizza-
to lo slancio devozionale delle fanciulle. Peraltro, come ha oppor-
tunamente osservato Trexler, non si deve dimenticare che per molte
ragazze una forte spinta a divenire la sposa di Cristo fosse «la stes-
sa paura di un matrimonio non desiderato, o forse anche la paura
del matrimonio in sè», oppure l’aspetto sgradevole o la cattiva salu-
te. Anche per questi motivi «bisogna andar cauti nel giudicare se la
scelta era stata realmente libera» perché «non si può parlare di libe-
ro arbitrio se non quando è possibile scegliere tra diverse soluzioni»
e in realtà, già soltanto in base alle quote dotali, «l’alternativa eco-
nomica era così limitata che la domanda sul consenso aveva perduto
qualsiasi significato» 92. 

Il desiderio della vita claustrale può anche essere eccezional-


mente testimoniato dalle fonti notarili. È il caso — ad esempio —
dell’atto fatto redigere nel maggio 1488 da un notaio romano da
Lisena «filia qd. Gemini de Ranone de Viterbio» per nominare due
procuratori a rappresentarla nella causa presso il vicario del papa al
fine di dichiarare nullo il matrimonio contratto qualche mese prima
(ma non consumato) con Blasio di Nardo Iacovini, nozze a cui l’ave-
vano costretta suo fratello e altri parenti, benché da più di vent’an-
ni fosse «monialem professam et velatam in monasterio S. Rose de

90 Cfr. C. Carnesecchi, Un fiorentino del secolo XV e le sue ricordanze domesti-


che, «Archivio Storico Italiano», ser. V, 4 (1889), p. 160, cit. da R. Trexler, Famiglia
e potere, cit., p. 180 e anche da A. Molho, Tamquam vere mortue, cit., p. 19.
91 Per questo e altri casi cfr. ivi, pp. 19-26.
92 R. Trexler, Famiglia e potere, cit., p. 181. L’autore fa anche osservare che
di solito l’età in cui si introducevano in convento le fanciulle era molto precoce, in-
torno ai 6 anni, anche se la professione avveniva molti anni dopo, e ciò per non abi-
tuare alla vita mondana coloro che erano destinate al chiostro dalla famiglia, cfr. pp.
183-185.

154
I desideri delle donne tra nozze e convento

Viterbio» e desiderasse rimanere in questa condizione 93.  

Un’ulteriore spia dei sentimenti femminili sulla condizione mo-


nacale è offerta dalle suppliche alla Penitenzieria Apostolica, dove
anche per questo aspetto si può raccogliere una casistica molto va-
ria di situazioni esistenziali 94. Ad esempio, si trovano richieste da
 

parte di donne, costrette a prendere i voti contro la loro volontà, di


cambiare monastero oppure ordine. La vicenda di suor Antonia de
Caritoni di Lecco professa nel monastero di S. Benedetto di Como,
è in un certo senso esemplare. Dopo essere stata educata in un mo-
nastero benedettino «a puericia etate usque in .XVIII. sue etatis an-
num» e non aver mai voluto prendere i voti, all’insaputa dei suoi
familiari era stata trasferita nel monastero di Como e qui, costret-
ta dalle monache, «professionem emisit». Ora — siamo nel 1452 —
, tramite i fratelli, chiedeva di potersi trasferire presso il monastero
di S. Agostino di Milano, «in quo regularis viget observantia […] ut
cum sui quieta conscientia Altissimo vota sua reddere possit e pro-
fessionem emittere» per vivere secondo la regola agostiniana 95.  

Sono inoltre documentati casi di donne che si erano proposte


di farsi suora o avevano espresso voto di castità, ma che poi si era-
no legittimamente sposate e perciò chiedevano di essere dispensa-
te ad cautelam dall’obbligo di osservare il voto di monacazione o
di castità e di rimanere nello stato coniugale 96, come mostra esem-
 

plarmente il caso di Caterina di Pietro di Caspano della diocesi di


Como, che da minorenne e senza il permesso dei genitori «votum
emisit de ingrediendo certam religionem» confermando questa in-
tenzione in seguito, ma poi era stata costretta dal padre a contrarre
matrimonio, da cui erano nati dei figli: nella supplica si chiedeva l’as-
soluzione per non aver osservato il voto 97. Infine non mancano don-
 

93 Archivio di Stato di Roma, Collegio dei Notai Capitolini, 926, c. 336bis. Il


documento è redatto nella chiesa di S. Agata nel rione di Trastevere.
94 Da tener presente che alcune delle situazioni illustrate per le donne, si pos-
sono ritrovare nelle suppliche degli uomini, cfr. L. Schmugge, Female Petitioners,
cit., p. 687. Alcuni esempi per il nostro tema sono segnalati da F. Tamburini, Santi e
peccatori. Confessioni e suppliche dai registri della Penitenzieria dell’Archivio Segreto
Vaticano (1451-1586), Milano 1995, pp. 64-65. Altri casi, relativi alla realtà tedesca
in A. Esch, Wahre Geschichten aus dem Mittelalter, cit., pp. 99-101.
95 Cfr. Penitenzieria apostolica. Le suppliche … provenienti dalla diocesi di
Como, cit., nr. 22, pp. 182-183.
96 Ivi, nr. 34, p. 195; nr. 72, p. 217.
97 Ibidem, nr. 414.

155
Anna Esposito

ne — costrette per vim et metum dai familiari a monacarsi contro la


loro volontà — che richiedevano di tornare allo stato laicale e di po-
ter contrarre matrimonio 98. Nei casi di provata coercizione, la Curia
 

Romana disponeva di solito per l’annullamento dei loro voti, anche


se solo una minoranza di queste donne iniziava la procedura lega-
le 99. Un esempio particolarmente significativo è dato dalla bologne-
 

se Camilla figlia del defunto Domenico Guiducci, costretta dallo zio


ad entrare nel convento di S. Agostino diventando suor Cinzia. Ella
non aveva mai nascosto la sua avversità a prendere i voti, come con-
cordemente testimoniarono le suore sue compagne: «quando entrò
in detta religione fu per forza et violenza a lei fata […] e quando fu
vestita piangeva e gridava talmente che il vescovo disse di non la vo-
lere vestire et la madre di detta Camilla se li buttò in ginocchio e dis-
se: “Di gracia, vestitela, che se la meno a casa quel vechio ci amazarà
tutte due!”». Morto lo zio, Camilla iniziò la procedura per ritornare
allo stato laicale e poter contrarre matrimonio, cosa che ottenne con
breve di papa Paolo IV 100.  

Per concludere preferisco accennare soltanto al progetto di vita


delle donne che scelsero una via di mezzo tra il convento e il matri-
monio, tema al quale è rivolto il mio personale interesse scientifico
relativamente alla realtà romana 101 ma su cui hanno scritto pagine
 

importanti Anna Benvenuti 102, Giovanna Casagrande 103 e Gabriella


   

Zarri 104, per citare le studiose più impegnate in questo campo.


 

Spesso la scelta di vita bizzocale non era esclusivamente devozionale

98 Numerosi esempi in L. Schmugge, Female Petitioners, cit., pp. 692-694.


99 F. Medioli, To take or not to take the veil, cit., p. 123.
100 Ivi, pp. 124-125, 133.
101 A. Esposito, S. Francesca e le comunità religiose femminili a Roma nel sec.
XV, in Culto dei santi, istituzioni e classi sociali in età preindustriale, a cura di S.
Boesch Gajano - L. Sebastiani, L’Aquila-Roma 1984, pp. 539-562. Il saggio è sta-
to ripubblicato nel volume Mistiche e devote nell’Italia tardomedievale, a cura di D.
Bornstein - R. Rusconi, Napoli 1992, pp. 187-208; Ead., Il mondo della religiosità
femminile romana, in Roma religiosa, Atti del convegno (Roma 12 maggio 2008), a
cura di G. Barone - A. Esposito, «Archivio della Società Romana di Storia Patria»,
2009, in corso di stampa.
102 Cfr. A. Benvenuti Papi, “In castro poenitentiae”. Santità e società femmini-
le nell’Italia medievale, Roma 1990, in particolare pp. 593-634.
103 G. Casagrande, Religiosità penitenziale e città al tempo dei comuni, Roma
1995, in particolare pp. 211-314.
104 G. Zarri, Dalla profezia alla disciplina (1450-1650), in Donne e fede. Santità
e vita religiosa in Italia, a cura di L. Scaraffia - G. Zarri, Roma-Bari 1994, pp. 177-
225: 183-188; Ead., Recinti, cit., pp. 43-143.

156
I desideri delle donne tra nozze e convento

ma soltanto una sistemazione dignitosa, spesso del tutto volontaria,


anche se non mancano casi d’imposizione più o meno forzata: esem-
pi di queste due situazioni sono registrate — tanto per citare una
fonte molto nota — nella Cronica domestica del fiorentino Donato
Velluti, che ricorda come una sua nipote «vedova e bastarda», tro-
vando i parenti difficoltà a sistemarla con un secondo matrimonio,
la fecero infine diventare pinzochera agostiniana. Invece dettata da
una razionale considerazione esistenziale era stata la sistemazione in
una casa di bizzoche da parte di altre due parenti del Velluti, Cilia e
Gherardina, che «stettono un gran tempo pulcelloni, con speranza
di marito; poi fuggita la speranza per non potere, si feciono pinzo-
chere di Santo Spirito. Guadagnavano bene e francavano la loro vita
e più, dipanando lana» 105.  

Infatti, è particolarmente nella scelta della vita bizzocale che si


espressero in modo peculiare l’autonomia e l’iniziativa di donne sia
dei ceti popolari, sia di famiglie nobili o benestanti. Per quest’ultime
in molti casi questo stile di vita sembra essere stato determinato da
una personale inclinazione. Non vi è dubbio — ad esempio — che
per le donne romane personalità di primo piano come Caterina da
Siena, Brigida di Svezia e soprattutto Francesca Bussa de’ Ponziani,
siano state degli autorevolissimi esempi di quella ‘vita media’, dove
la contemplazione e l’adorazione di Dio, spesso mistica, si concilia-
vano con la pratica attiva della carità 106.  

Invece, per molte donne prive di protezione o con gravi proble-


mi di convivenza nell’ambiente familiare, vivere in comunità anche
molto piccole, come penitenti o recluse, ma soprattutto far parte di
un bizzocaggio o di una congregazione di oblate, terziarie etc. di più
ampie dimensioni diviene una valida alternativa di vita, «uno stru-
mento di salvezza religiosa, ma anche una valvola di sopravvivenza
esistenziale; per questo motivo la pratica del lavoro e la possibili-
tà di questua saranno determinanti nella vita di questi non sempre

105 Entrambi i casi sono tratti da Donato Velluti, La cronica domestica, a


cura di I. Del Lungo - G. Volpi, Firenze 1914, p. 150, cit. da M.S. Mazzi, L’arte di
arrangiarsi, in La trasmissione dei saperi, cit., pp. 263-287: 271-272.
106 A. Esch, Tre sante ed il loro ambiente sociale a Roma: S. Francesca Romana,
S. Brigida di Svezia e S. Caterina da Siena, in Atti del simposio internazionale cateri-
niano-bernardiniano, Siena 17-20 aprile 1980, a cura di D. Maffei - P. Nardi, Siena
1982, pp. 89-120; A. Barone, Società e religiosità femminile (750-1450), in Donne
e fede. Santità e vita religiosa in Italia, a cura di L. Scaraffia - G. Zarri, Roma-Bari
1994, pp. 61-113.

157
Anna Esposito

piccoli organismi, veri protagonisti di una sorta di rivoluzione ‘mo-


nastica’ con la quale si superavano i limiti del reclutamento propri
del monachesimo classico e di fatto si inventavano nuove strutture
religiose» 107.
 

Non può essere un caso perciò se in molte realtà urbane della


penisola, tra ’300 e ’400, risultano moltiplicarsi ‘case sante’ e domus
pauperum mulierum de poenitentia, molte delle quali fondate da ve-
dove nelle loro case d’abitazione. In questo modo, offendo le loro so-
stanze per aiutare consorelle più bisognose o fanciulle prive di dote e
praticando la carità attiva verso il prossimo, queste donne «riusciro-
no a dare uno scopo alla propria vita e in certi casi a risolvere proble-
mi esistenziali, investendo le loro energie in un disegno di devozione
e di dedizione agli altri, ma anche di valorizzazione di se stesse» 108.  

107 A. Benvenuti, Le forme comunitarie della penitenza femminile francescana.


Schede per un censimento toscano, in Prime manifestazioni di vita comunitaria maschi-
le e femminile nel movimento francescano della Penitenza (1215-1447), Atti del con-
vegno di studi francescani (Assisi 30 giugno-2 luglio 1981), a cura di R. Pazzelli - L.
Temperini, Roma 1982, pp. 389-449: 443.
108 S. Seidel Menchi, Introduzione a Tempi e spazi di vita femminile, cit., p.
15.

158
Sabato 16 maggio, pomeriggio
Pistoia, Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei Vescovi
Presidente Prof. Gabriella Piccinni

Giovanni Cherubini
Commemorazione di Linetto Neri

Nel mio più che trentennale rapporto col Centro Italiano di


Studi di Storia e d’arte, come avviene nella vita di noi tutti, mi son vi-
sto sparire intorno un intero gruppo di amici, di colleghi, di collabo-
ratori, di amici affezionati al Centro e a me che erano sempre presenti
alle nostre sedute. La loro scomparsa mi ha addolorato, ma mi ha an-
che arricchito del ricordo della loro amicizia. Fra costoro Linetto,
che se ne è andato in silenzio ed improvvisamente, a sessantasette
anni, poco dopo la conclusione del passato convegno del 2007, occu-
pa un posto particolare. Ho detto improvvisamente, ma in realtà, già
da tempo un po’ troppo robusto, soffriva, senza esibirlo, di iperten-
sione, fumava per quanto la notte avesse difficoltà a respirare e non
ha fatto in tempo a mettere un apparecchietto che era stato previsto
per lui, doveva negli ultimi tempi anche prendere una pasticca per
curare il diabete. In ogni caso non mollava il lavoro e non abbando-
nava gli impegni, senza lagnarsi e persino continuando a distribuire
serenità agli altri. Il fatto è che con gli altri stava volentieri, mangia-
re in compagnia era una delle sue gioie, ma se forse poteva esagerare
un po’, date le sue condizioni, non esagerava tuttavia nel bere. Aveva,
non ostante i suoi molti impegni, una certa propensione al collezioni-
smo, quasi che la sua pacatezza vi trovasse un momento particolare
di calma ulteriore e di evasione: collezionismo di francobolli, di mo-
nete, di schede telefoniche, di coltelli, di cartoline.
159
Giovanni Cherubini

Linetto ha regalato al Centro per molti anni la sua straordina-


ria competenza e precisione di Amministratore, all’inizio in colla-
borazione affettuosa con uno dei suoi figli, nonché mio carissimo
alunno, che aveva ricevuto l’incarico di Segretario, successivamente
assumendo quella diretta responsabilità, così che gli anni hanno se-
dimentato in me, nei suoi riguardi, non soltanto la riconoscenza, ma
anche una amicizia che ci aveva lentamente allenato ad aprirci l’uno
con l’altro, ma con prudenza ed almeno da parte sua con la costan-
te preoccupazione di non far torto a nessuno con l’esposizione del-
le sue opinioni.
Fatto è che io imparai lentamente, prima dalle sue mezze paro-
le, poi da qualche più larga confessione, la ricchezza delle sue espe-
rienze di lavoro e soprattutto l’onestà di tutta la sua vita. La scuola
ne era stata il centro, con quell’interesse ed amore esclusivo che sol-
tanto i veri appassionati di quel lavoro, non sempre gratificante né
facile, ma che quando gratifica rende coscienti di stare svolgendo un
lavoro di primaria importanza per la crescita dei giovani e per un in-
vestimento utile al paese e alla società. Per quella attività egli, mae-
stro elementare dai primi anni sessanta (si era diplomato nel 1959),
aveva subito dimostrato la sua passione e la sua operosità lavorando
nella zona di Treppio, sulla montagna pistoiese, ma egli poté conti-
nuare per poco a cimentarvisi direttamente, perché fu chiamato in
successione verso impegni diversi, a cominciare dalla sua collabo-
razione, come Segretario, con direttori di scuole elementari (ricor-
do con commozione le molte volte che sono stato a trovarlo nella
Segreteria della Direzione Didattica del 3° Circolo di Pistoia), ed an-
che con il Provveditore agli Studi. Ma Linetto seguì anche un altro
interesse che evidentemente trovava una forte rispondenza nel suo
animo. Dagli anni sessanta fu attivo nel Sinascel (Sindacato Nazionale
Scuola Elementare) e dagli anni novanta nella Cisl Scuola, ricopren-
dovi cariche provinciali e regionali. Dal 1966 al 2007, fu Segretario
Provinciale dell’Enam (Ente Nazionale di Assistenza Magistrale),
che gli permise di mettere, senza clamore, in pratica le sue doti. E
posso con facilità immaginare quanta solidarietà e quanto pudore
Linetto, che aveva tra l’altro sperimentato la non facile condizione
dell’orfano di guerra, fosse in grado di dare, in queste occasioni, al
suo intervento. Mi basta, per esserne sicuro, aver conosciuto il fon-
do, mai esibito, del suo cristianesimo, la lontananza dalle beghe di
parte e di partito, l’indipendenza che sapeva manifestare in tutte le
direzioni, ma senza esibizioni o non necessarie sparate di principio.
160
Commemorazione di Linetto Neri

La generosità e l’equilibrio, come tutti quelli che l’hanno conosciu-


to potrebbero testimoniare, erano in definitiva le sue guide mora-
li. Dall’entrata in vigore dei Decreti Delegati, che forse con qualche
esagerata speranza iniziale, contribuirono ad avvicinare la scuola alle
famiglie e più in generale alla società, Linetto entrò a far parte del
Consiglio Scolastico Provinciale.
Già per questi motivi Linetto era un collaboratore prezioso che
attirava la massima stima. Ma egli aveva poi, verso il sapere storico,
di cui si occupa appunto il Centro di Storia e d’Arte, un evidente in-
teresse e una forte curiosità, dimostrati, fra l’altro, dalla sua nuova,
ma precedente esperienza di una partecipazione alla conoscenza del-
le fonti medievali. Essa fu resa possibile dalle idee, dalla tenacia e
dalle capacità non comuni di chi si occupava, in questa straordina-
ria città, della vita e del rafforzamento della illustre Società Pistoiese
di Storia Patria, e lo faceva attraverso la creazione di un vero e pro-
prio esperimento di educazione per gli adulti. Nella Società Linetto,
senza esibizioni, divenne poi, per scelta oculata di chi la dirigeva, un
Segretario perfetto, innamorato non soltanto della giustezza e del-
la correttezza dei conti, ma anche di una pignoleria scrittoria straor-
dinariamente precisa e pulita. Quando dunque egli venne al Centro
Italiano di Studi di Storia e d’arte, tra l’altro particolarmente feli-
ci, lui e noi, che le due società apparissero insieme intorno ai tavo-
li d’ingresso e di ricevimento, con le loro pubblicazioni, egli vi portò
un’energia particolare, ed una serie di accorgimenti che non è qui il
caso di ripetere troppo in dettaglio. Ma una cosa almeno mi sembra
giusto che sia io a dover ricordare. Nell’organizzazione dei Convegni
del Centro Linetto dette tutto se stesso, in tutte le direzioni. Egli col-
laborò in tutti i modi per rendere più regolari i tempi di uscita de-
gli atti (e se quelli di quest’anno slitteranno, ma di poco, ciò si deve
unicamente alle difficoltà rappresentate dalla sua morte, e alla no-
stra voglia di pubblicare il massimo numero possibile delle relazio-
ni). Ma si adeguò anche, con facilità, al pubblico, un po’ diverso ed
in parte non italiano, dei docenti presenti alle nostre settimane. Tutti,
credo, ricordano ancora la sua gentilezza non esibita, la sua costante
presenza. Ma forse pochi possono valutare la precisione e i migliora-
menti che ci sono stati, senza inutili sprechi, nei luoghi di accoglien-
za per il pasto e per la notte.
Ma Linetto non era uomo soltanto da collocazioni, pur essen-
ziali, negli alberghi o ai ristoranti. Egli aveva anzi e me lo manifestava
con continuità una grande stima per i volumi che riuscivamo a pub-
161
Giovanni Cherubini

blicare e che affermava doversi pubblicare e vendere con il rispet-


to che meritano (per il primo problema almeno, anche grazie a lui,
possiamo contare da diversi anni su un giovane, che ama insieme il
sapere e le conoscenze informatiche, e per il quale mi auguro soltan-
to un miglioramento di salute). Seppe inoltre utilizzare anche altre
persone, che appartenevano al suo stesso mondo scolastico e che già
collaboravano con lui al già ricordato ente nazionale di assistenza ai
maestri, sempre generoso ed aperto. È con una certa gioia e soddisfa-
zione, anche nei suoi riguardi, che ho proposto per la sua successio-
ne un altro mio alunno, diventato oramai docente, che era ed è amico
del figlio di lui che era stato sostenuto in questa funzione dal padre.
Sono convinto di dovere a questo caro amico che se ne è anda-
to, ma il cui ricordo è vivissimo in me ed in tutti noi, alcuni impegni a
cui teneva molto e sui quali continuamente ritornava. Il primo era da
lui giustamente giudicato la disponibilità di una sede per il Centro,
nella quale tenere le nostre carte ed i nostri registri, ma anche orga-
nizzare qualche iniziativa culturale che possa, dopo tanti anni di esi-
stenza, collegare un po’ più strettamente ciò che il Centro fa o può
fare, oltre ai suoi Convegni, per la società pistoiese. Posso dire che
molto speriamo, dopo ciò che ha fatto già da tempo la Provincia
per l’archiviazione dei volumi da noi pubblicati, nella generosità del
Comune che ci ha offerto una stanza e la possibilità di una utiliz-
zazione regolamentata di una sala. Una terza cosa pensiamo sia ne-
cessaria, della quale abbiamo in qualche modo già con lui parlato, e
stiamo ora studiando, vale a dire una migliore regolamentazione e
circolazione dei nostri volumi, che costituiscono ormai una serie ri-
spettabile e coerente nel mondo della medievistica italiana.
Non inganni questo dialogo che ho intrecciato nel corso de-
gli anni con Linetto. Fatto è che abbiamo parlato a lungo insieme
su ciò che bisognava fare o non fare. Ma farei torto a Linetto se non
ricordassi i suoi affetti, che emergevano dalle sue confidenze o che
venivano fuori dalle mie domande. La famiglia (si era sposato nel
1964 con la collega Maria Vittoria), anche se spesso impegnato fuo-
ri e quindi involontario sacrificatore della moglie, era al centro della
sua vita. Ricordo ancora come mi parlava dei suoi tre figli, che tut-
ti lui e la moglie avevano condotto alla laurea (la figlia Chiara, medi-
co, molto ammirata, che ne conquistava immediatamente la volontà
con l’uso irresistibile di un «babbino», Francesco, il mio alunno, te-
nace come lui, che egli ammirava e gli piaceva affettuosamente criti-
care, il terzo figlio, Federico, l’ingegnere). Ma c’era anche un quarto
162
Commemorazione di Linetto Neri

figlio, perduto, cioè Pier Giorgio, che Linetto non dimenticava mai.
E c’erano i nipoti, figli di Francesco e di una stimatissima nuora, che
il nonno amava, ma senza retorica, sempre di più.
Linetto ha avuto a lungo, non ostante i guai alla salute (ma,
come ho già detto ne accennava appena), un suo versante campagno-
lo, lungo il Vincio, di cui mi raccontava volentieri i suoi lavori all’or-
to, le sue lunghe giornate, in risposta al racconto del mio impegno
in un altro orto, ma da un’altra parte della Toscana. Ed era un altro
modo per dirci la nostra amicizia. Dunque una vita piena, segnata
dal lavoro, dagli affetti, dalla stima, quella di Linetto. E dunque di
nuovo ripeto a me stesso che se la morte se lo è portato via, ci resta
e mi resta di lui un ricordo che lo rende ancora più vivo, più ammi-
revole e più amato.

163
Sabato 16 maggio, pomeriggio
Pistoia, Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei Vescovi
Presidente Prof. Gabriella Piccinni

Paolo Nanni
Aspirazioni e malinconie:
i contrasti del mercante Francesco Datini

La figura di Francesco Datini, come i mercanti o gli “uomini


d’affari” medievali in generale, ha alle sue spalle un’ampia stagione
di studi 1. Per il mercante di Prato quelli di Melis e Sapori 2, la loro
   

polemica anche intorno al discusso volume della Origo 3, sembra-  

vano in fondo aver esaurito gli aspetti dell’operatore economico e


della sua personalità, le sue magnificazioni ed anche i suoi ridimen-
sionamenti 4. Tuttavia la vastità eccezionale dell’archivio datiniano ha
 

1 G. Cherubini, Ha un senso studiare ancora i mercanti?, «Bullettino sene-


se di storia patria», a. CXV (2008), pp. 575-587; I. Ait, Il commercio nel Medioevo,
Roma 2005.
2 F. Melis, Aspetti della vita economica medievale. Studi nell’archivio Datini
di Prato, Siena 1962; A. Sapori, Economia e morale alla fine del Trecento: Francesco
di Marco Datini e ser Lapo Mazzei, in Id., Studi di storia economica. Secoli XIII-XIV-
XV, Firenze 1955-1967, vol. I, pp. 155-179; A. Sapori, Un nuovo tipo di mercante,
in Id., Studi di storia economica, cit., vol. III, pp. 223-231; Id., Cambiamento di men-
talità del grande operatore economico tra la seconda metà del Trecento e i primi del
Quattrocento, in Id., Studi di storia economica, cit., vol. III, pp. 457-485.
3 I. Origo, Il mercante di Prato, Milano 19792; F. Melis, A proposito di un
nuovo volume, «Economia e storia», 3, Milano 1959; V. Rutenburg, Tre volumi sul
Datini. Rassegna bibliografica sulle origini del capitalismo in Italia, «Nuova Rivista
Storica», a. L (1966), fasc. V-VI, pp. 666-681; F. Melis, Il problema Datini. Una ne-
cessaria messa a punto, «Nuova Rivista Storica», a. L (1966), fasc. V-VI, pp. 682-709;
A. Sapori, A proposito del mestiere di storico. Un tentativo di chiarimento, «Nuova
Rivista Storica», a. L (1966), fasc. V-VI, pp. 710-717; V. Rutenburg, Il problema
Datini e non una questione di infallibilità, «Nuova Rivista Storica», a. L (1966), fasc.
V-VI, pp. 718-719.
4 E. Sestan, Federigo Melis, in Id., Scritti vari, III, Storiografia dell’Otto e
Novecento, a cura di G. Pinto, Firenze 1991, pp. 555-557. Tra la data della pre-

165
Paolo Nanni

offerto continue occasioni di studio e ricerca 5, in alcuni casi pluri-


 

decennali, dedicati a spazi commerciali specifici 6, ad aspetti parti-


 

colari della vita materiale 7, o ad altri personaggi le cui tracce sono


 

conservate proprio in questo fondo archivistico 8. Senza contare che


 

i poderosi lavori appena menzionati hanno contribuito a una certa


fortuna del personaggio Datini, riferimento inevitabile per ogni trat-
tazione sul commercio e sui mercanti del tardo Medioevo, anche per
aspetti concernenti la cultura 9, ancora oggi citato come prototipo
 

dello sviluppo delle attività finanziarie 10. Di recente, inoltre, sembra


 

che nuovi interessi intorno alle attività mercantili, relativi alle crisi

sentazione di questa relazione al Convegno e la stampa degli Atti si segnala l’usci-


ta del volume curato dall’Istituto Datini in occasione del VI Centenario della morte
di Francesco Datini: Francesco di Marco Datini. L’uomo e il mercante, a cura di G.
Nigro, Prato 2010.
5 R. Greci, Francesco di Marco Datini a Bologna (1400-1401), «Atti dell’Acca-
demia delle Scienze dell’Istituto di Bologna. Classe di Scienze Morali. Rendiconti»,
Bologna 1973, pp. 133-219.
6 L. Frangioni, Milano fine Trecento. Il carteggio milanese dell’Archivio Datini
di Prato, 2 voll. (Testo e bibliografia; Documenti), Firenze 1994; G. Nigro, Mercanti
in Maiorca: il carteggio datiniano dall’isola, 1387-1396, Firenze 2003; R. Greci,
Notizie sul commercio parmense del tardo Medioevo: il carteggio datiniano, in La nor-
ma e le memoria. Studi per Augusto Vasina, a cura di T. Lazzari - L. Mascanzoni - R.
Rinaldi, Roma 2004, pp. 569-594; Mercanzie e denaro: la corrispondenza datiniana
tra Valenza e Maiorca (1395-1398), a cura di A. Orlandi, Valenzia 2008.
7 G. Nigro, Il tempo liberato. Festa e svago nella città di Francesco Datini,
Prato 1994; L. Frangioni, Chiedere e ottenere. L’approvvigionamento di prodot-
ti di successo della bottega Datini di Avignone nel XIV secolo, Firenze 2002; M.
Giagnacovo, Mercanti a tavola. Prezzi e consumi alimentari dell’azienda Datini di
Pisa (1383-1390), Firenze 2002.
8 Si vedano i seguenti carteggi pubblicati: Lettere di Piero Benintendi, mercan-
te del Trecento, introduzione, note e appendice a cura di R. Piattoli, Genova 1932;
Le lettere di Gilio de Amoruso, mercante marchigiano del primo Quattrocento, edi-
zione, commento linguistico e glossario a cura di A. Bocchi, Tubingen 1991; E. Di
Stefano, Il carteggio di un mercante camerte con Francesco di Marco Datini: 1395-
1410, «Proposte e ricerche. Economia e società nella storia dell’Italia centrale», n.
37, a. 19 (estate/autunno 1996), pp. 79-93; J. Hayez, Un facteur siennois de Francesco
de Marco Datini: Andrea di Bartolomeo di Ghino et sa correspondance (1383-1389),
«Opera del vocabolario italiano. Bollettino», 10 (2005), pp. 204-397; Id., “Veramente
io spero farci bene”: expérience de migrant et pratique de l’amitié dans la correspondance
de maestro Naddino d’Aldobrandino Bovattieri médecin toscan d’Avignon (1385-1407),
«Bibliothèque de l’École des chartes», 159 (juillet-décembre 2001), pp. 413-539.
9 J. Favier, L’oro e le spezie. L’uomo d’affari dal Medioevo al Rinascimento,
Milano 1990; J. Le Goff, Mercanti e banchieri nel medioevo, Messina-Firenze 1976.
10 T. Padoa-Schioppa, La veduta corta. Conversazione con Beda Romano sul
grande crollo della finanza, Bologna 2009, p. 43.

166
Aspirazioni e malinconie: i contrasti del mercante Francesco Datini

o trasformazioni tra Medioevo e Rinascimento, suggeriscano nuove


problematiche concernenti una dimensione economica più ampia,
anche per collocare l’Italia nel più vasto contesto europeo 11. Lo stes-  

so tema di questo convegno che unisce aspetti materiali e immateriali


rappresenta un contributo significativo in questa direzione, interro-
gando il Medioevo con una prospettiva frutto di più recenti acquisi-
zioni in campo economico.
Ma come superare quel «dialogo tra sordi» di cui parlava
Cipolla 12, evidenziando l’inconciliabilità frequente per i secoli più
 

lontani dal nostro tempo da un lato tra le nostre domande di ricer-


ca e la disponibilità di fonti capaci di rispondervi; e dall’altro tra ciò
di cui le fonti ci parlano e i nostri interessi? Quali documenti pos-
sono offrire elementi per comprendere la percezione della felicità,
delle aspirazioni o ambizioni? Quali possibili letture si offrono alla
nostra attenzione per non rimanere imbrigliati in un appiattimento
del passato sul presente? È in questo quadro che le carte datiniane,
nella fattispecie i carteggi privati, possono venire in nostro soccor-
so. Qualche considerazione sarà dunque opportuna per collocare le
fonti esaminate.

1. Le lettere di Francesco Datini


Continuità (circa quaranta anni), quantità (oltre 161 mila lette-
re) e varietà (tipologia e destinatari) dei carteggi conservati nell’ar-
chivio datiniano 13 non rappresentano certo una novità. La longevità
 

e le particolari condizioni di vita del Datini, che per lunghi anni


dopo il ritorno da Avignone trascorse la sua esistenza tra Prato, Pisa,
Filettole, Firenze — tranne due periodi trascorsi a Pistoia e poi a
Bologna per sfuggire alle ondate di peste nel 1390 e nel 1400 — con
continui spostamenti, lo portarono ad usare la corrispondenza come

11 F. Franceschi - L. Molà, L’economia del Rinascimento: dalle teorie della cri-


si alla ‘preistoria del consumismo’, in Il Rinascimento italiano e l’Europa, I, Storia e
storiografia, Vicenza 2005, pp. 185-200; Ph. Braunstein - F. Franceschi, «Saperssi
governar». Pratica mercantile e arte di vivere, in Il Rinascimento italiano e l’Europa,
IV, Commercio e cultura mercantile, Vicenza 2007, pp. 655-677.
12 C.M. Cipolla, Storia economica dell’Europa pre-industriale, Bologna 1975,
p. 11.
13 B. Dini, L’Archivio Datini, in Id., Manifattura, commercio e banca nella
Firenze medievale, Firenze 2001, pp. 199-208; J. Hayez, L’archivio Datini. De l’in-
vention de 1870 à l’exploration d’un système d’écrits privés, «Mélanges de l’école
française de Rome. Moyen Âge», CXVII, 1 (2005), pp. 121-191.

167
Paolo Nanni

frequente mezzo di comunicazione anche all’interno delle relazio-


ni più personali. Intere giornate di Francesco di Marco trascorreva-
no assorbite dal leggere e dal «far risposta» («fa otto dì che io non ò
fatto altro che scrivere e dì e notte» 14), tanto da saltare anche i pasti
 

(«penai 22 ore a legiere sanza levarmi da mangiare, che vole dire da


sedere e sanza mangiare in tutto dì» 15); continuamente ripreso dal-
 

la moglie: «io ne sono più che certa che tu veghi ed ài pocha chura
di tua persona» 16, perché «Del veghiare tu tutta notte ne sono più
 

che certa, perché di’ “dì sono sì picholi che chi vuole fare nulla non
puote, di che chonviene si faccia di notte”» 17. Costretto a interrom-
 

pere talvolta a causa del freddo («òe freddo alle mani per modo non
posso iscrivere» 18), o per stanchezza («non poso pùe menare la pen-
 

na» 19); in corsa con il tempo («non ti posso dire pùe nulla perché si
 

sugella, e altro che me non si aspetta» 20). Lettere spesso trascritte in


 

più copie («òvene fatte 2 overo 3 risposte, acc(i)ò che no(n) manchi
che n’abiate una» 21); oppure fatte scrivere a suoi collaboratori, an-
 

che se questo non era privo di inconvenienti («duro magiore faticha


a dettare ch’io non farei a scrivere» 22), o causa di errori («foe iscri-
 

vere a Marchetto che non à anchora tanta seme(n)za ch’elgli intenda


bene quello gli dicho […] puote esere chometta delgli erori» 23). La  

14 Archivio di Stato di Prato, Fondo Datini (d’ora in avanti ASPo-D), 1111.34,


c. 1r, Francesco Datini (d’ora in avanti, in nota, FD) a Simone d’Andrea Bellandi
(Firenze-Barcellona, 30 marzo 1397). Le lettere inedite citate nel testo contengono
interventi per facilitare la lettura, sempre segnalati, oltre all’inserimento della pun-
teggiatura. Nel caso di documenti editi si indica la pubblicazione, ma si uniformano
i criteri di trascrizione a quelli qui adottati.
15 ASPo-D, 1112.187, c. 1r, FD a Stoldo di Lorenzo (Palco-Firenze, 14 dicem-
bre 1396).
16 Margherita Datini a FD (Prato-Firenze, 29 novembre 1398), in Le lettere di
Margherita Datini a Francesco di Marco (1384-1410), a cura di V. Rosati, Prato 1977,
p. 254.
17 Margherita Datini a FD (Prato-Firenze, 3 dicembre 1398), ivi, p. 266.
18 ASPo-D, 699.16, c. 1r e v, FD a Stoldo di Lorenzo (Prato-Firenze, 23 gen-
naio 1396).
19 ASPo-D, 1111.34, c. 3v, FD a Simone d’Andrea Bellandi (Prato-Barcellona,
26 giugno 1397).
20 ASPo-D, 1061.8, c. 1r, FD a Cristofano di Bartolo Carocci (Firenze-Maiorca,
10 marzo 1397).
21 ASPo-D, 1086.26, c. 1r, FD a Boninsegna di Matteo Boninsegna (Firenze-
Avignone, 18 aprile 1397).
22 ASPo-D, 699.16, c. 1v, FD a Stoldo di Lorenzo (Prato-Firenze, 5 gennaio 1397).
23 ASPo-D, 1111.34, c. 3v, FD a Simone d’Andrea Bellandi (Prato-Barcellona,
26 giugno 1397).

168
Aspirazioni e malinconie: i contrasti del mercante Francesco Datini

mole di lavoro non lasciava alternative, sebbene Francesco non scri-


vesse volentieri: «quando i’ ò assai a scrivere io anche iscrivo male
volentieri, sì che pure aborraccio. E però le fo chopiare» 24. Eppure  

in alcuni momenti la penna gli prendeva la mano, e componeva così


le sue proverbiali «bibie» di decine di carte: «Ora non ò tenpo per
avere fatto una bibia a ser Lapo Mazzei» 25.  

Lettere commerciali e scritture contabili venivano continuamen-


te prodotte all’interno delle aziende datiniane per assolvere ad una
precisa e consapevole funzione di comunicazione, informazione, ge-
stione finanziaria ed economica 26. Ma ciò che qui preme evidenziare
 

è l’interesse di tre gruppi di lettere personali, appartenenti al carteg-


gio privato, che abbracciano un arco pluridecennale delle relazioni
del Datini: con la moglie Margherita, con i soci delle compagnie mer-
cantili, con l’amico e «compare» Lapo Mazzei 27. Si tratta complessi-
 

vamente di 440 lettere del migliaio scritte dal Datini appartenenti al


fondo Carteggio privato 28. Tali lettere si intersecano con quelle spe-
 

dite e ricevute da amici, fornitori, mercanti, conoscenti, corrispon-


denti, e costituiscono una sorta di dialogo a distanza che permette di
ripercorrere talvolta quasi quotidianamente le attività del mercante

24 ASPo-D, 1110.42, c. 1r, FD a Cristofano di Bartolo Carocci (Prato-Maiorca,


5 maggio 1397).
25 ASPo-D, 1112.187, c. 1r, FD a Stoldo di Lorenzo (Palco-Firenze, 7 novem-
bre 1395).
26 F. Melis, Storia della ragioneria, Bologna 1950; Id., Sulle fonti della storia
economica, a cura di B. Dini, Milano 1985; A. Sapori, Saggio sulle fonti della storia
economica medievale, in Id., Studi di storia economica, cit., pp. 5-24.
27 Alle lettere di Margherita al marito edite dalla Rosati (Le lettere di
Margherita, cit.) hanno poi fatto seguito quelle di Francesco alla moglie a cura di
Elena Cecchi: Le lettere di Francesco Datini alla moglie Margherita (1384-1410), a
cura di E. Cecchi, Prato 1990. Del carteggio con Lapo Mazzei, sono pubblicate le
lettere del notaio, e solo alcune delle poche conservate del Datini, oltre a una appen-
dice con lettere di vari autori dirette al Datini: L. Mazzei, Lettere di un notaro a un
mercante del secolo XIV, a cura di C. Guasti, 2 voll., Firenze 1880 (ried.anast., Sala
Bolognese 1978). Sporadicamente utilizzate risultano invece le lettere di Francesco
Datini ai compagni, ovvero i soci dei singoli fondaci del complesso aziendale, del-
le quali esistono solo occasionali trascrizioni. Si segnalano alcune lettere pubblicate
dal Livi (G. Livi, Dall’archivio di Francesco Datini mercante pratese, Firenze 1910),
dalla Frangioni (Milano fine Trecento, cit.) e brani dal Melis (cit.), dal Greci (cit.).
28 Alle lettere del Carteggio privato si aggiungono poi le circa seimila scritte dal
Datini conservate nella corrispondenza commerciale. Cfr. E. Cecchi, Introduzione,
in Le lettere di Francesco Datini, cit., p. 28. I soci delle compagnie mercantili sono:
Stoldo di Lorenzo, Boninsegna di Matteo Boninsegna, Tieri di Benci, Manno d’Al-
bizo Agli, Andrea di Bonanno, Luca del Sera, Cristofano di Bartolo Carocci, Simone

169
Paolo Nanni

di Prato. E ciò che più interessa ai nostri fini, sono intercalate conti-
nuamente da confidenze sul proprio temperamento («io òe una mia
chativa natura che mille uomeni talgl(i)erei a pezi in parole, e poi ne’
fatti non darei una bocchata a uno chane» 29); sulle preoccupazioni
 

e affanni della vita e della mercatura («non è più quel tenpo che lla
giente, quando er(r)avano, erano chontenti d’essere ripresi» 30); sulle  

sue malinconie («non è il modo che Franciescho ti possa iscrivere di


sua mano, perch’è molto manichonoso» 31). Scritte di getto senza al-
 

cuna intenzione letteraria, sono espressione di un dialogo interperso-


nale strettamente legato al rapporto tra mittente e destinatario, dove
la vivacità e la pluralità di interessi del mercante pratese rivelano tut-
ta la loro potenzialità per gettare luce sulla percezione del lavoro, del
tempo, della soddisfazione personale, delle aspettative e delle am-
bizioni di un uomo d’affari tra XIV e XV secolo. Non una riflessio-
ne scritta per una schiera di lettori anche solo ipotetici o circoscritti
ai discendenti di una famiglia, ma la viva trasposizione in lettera di
contrasti, non solo interiori, con i suoi interlocutori. Insomma quasi
una viva fonte orale 32. Ma al tempo stesso, l’effusione nello scrivere,
 

come il suo progressivo appropriarsi delle forme della lingua, il suo


“saper scrivere e parlare per proverbi” 33, conferiscono alle lettere un
 

tono e una cura nell’argomentare ed esprimere le sue concezioni che


travalicano l’ambito ristretto dello strumento per fornire e ricevere
informazioni o impartire direttive. È una funzione di comunicazione
nel senso più vasto del termine che il Datini attribuiva alle sue lette-
re, tale da mettere a nostra disposizione materiali di grande interes-
se. La ricerca di una bella vita, del benessere per ritornare al tema del
nostro convegno, può essere così trattata attraverso i “contrasti” —

d’Andrea Bellandi.
29 ASPo-D, 699.10, c. 1r, FD a Manno d’Albizo Agli (Prato-Firenze, 6 feb-
braio 1397).
30 ASPo-D, 1112.109, c. 1r, FD a Luca del Sera (Firenze-Valenza, 26 maggio
1397).
31 ASPo-D, 1111.34, c. 1r, FD a Simone d’Andrea Bellandi (Firenze-Barcellona,
24 marzo 1397).
32 Anche il Bensa notava la caratteristica «del privato conversare» dei carteg-
gi: E. Bensa, Francesco di Marco da Prato, notizie e documenti sulla mercatura italia-
na del sec. XIV, Milano 1928, p. 12.
33 «Non so iscrivere né parllare per proverbi di savi uomeni chome sapette
voy, che l’avete per praticha e avette istudiato ne la Bibia con la vostra socera, che
ve n’à fato sì prattico che a chatuno ne dareste ischacho»: Bassano da Pessina a FD
(Milano-Prato, 16 marzo 1384), in Frangioni, Milano fine Trecento, cit., vol. I, p. 28.

170
Aspirazioni e malinconie: i contrasti del mercante Francesco Datini

ecco il termine usato nel titolo — del Datini nelle sue relazioni. Ed è
il linguaggio stesso ad esprimere le sue concezioni, a rivelare le «con-
suetudini della coscienza» 34 e la mentalità di un mercante del suo
 

tempo 35. Carteggi, dunque, che recano impressa un’immagine molto


 

nitida di uomini e donne che ci appaiono con ricchezza di particola-


ri permettendo così una conoscenza più approfondita di un mercan-
te del tardo Trecento.
Per una lettura non distorta della lettera datiniana sono forse da
ricordare alcuni elementi relativi alla sua personale vicenda biografi-
ca. Francesco Datini era un mercante senza famiglia: non aveva una
grande tradizione familiare alle spalle e non ebbe una discendenza.
Figlio di un venditore di carne, rimase orfano all’età presunta di 13
anni 36 di entrambi i genitori morti per la peste del 1348 insieme a
 

due dei suoi tre fratelli, e in cerca di fortuna prese la via di Avignone
dove rimase ben 32 anni. E al tempo stesso non ebbe eredi per l’im-
possibilità ad avere figli della moglie Margherita, anch’essa orfana
di padre ed emigrata ad Avignone con madre e fratelli, che tuttavia
ebbe la disponibilità d’animo di portare fino alle nozze la figlia ille-
gittima Ginevra, per poi ritirarsi dopo la morte del marito tra le mura
di Santa Maria Novella di Firenze. Siamo dunque di fronte a perso-
naggi privi di privilegi sociali d’origine, se non quelli acquisiti nel
tempo con il lavoro, e pertanto più rappresentativi di un sentire co-
mune. Il Datini, inoltre, era un mercante senza città. Sebbene legato
a Firenze, sede centrale del suo sistema aziendale, Francesco era pra-
tese d’origine e a Prato era ritornato dando forma alle sue ambizio-
ni. Ma Prato, stretta tra Pistoia e Firenze, non era una città nel pieno
senso del termine e questo doveva certamente riflettersi in una diver-
sa percezione, distinta dalla epopea civile, culturale e storica che ap-
parteneva alla cultura dell’urbanesimo medievale 37.  

34A.J. Gurevič, Le categorie della cultura medievale, Torino 1983, p. 16.


35G. Petti Balbi, Il mercante, in Ceti, modelli, comportamenti nella socie-
tà medievale (secoli XIII-metà XIV), Atti del XVII Convegno internazionale del
Centro Italiano di Studi di Storia e d’Arte (Pistoia, 14-17 maggio 1999), Pistoia
2001, pp. 1-21.
36 Sull’età del Datini si veda: S. Cavaciocchi, Il vezzo del mercante, «Prato.
Storia e Arte», 105 (2009), pp. 23-33.
37 G. Cherubini, Le città italiane dell’età di Dante, Pisa 1991; Id., Le città eu-
ropee del Medioevo, Milano 2009; Id., Ascesa e declino di Prato tra l’XI e il XV seco-
lo, in Id., Città comunali di Toscana, Bologna 2003, pp. 187-250.

171
Paolo Nanni

2. La «bella vita»: Francesco e Margherita


Il ritorno del Datini in patria nel 1382, dopo 32 anni trascor-
si ad Avignone, apriva un nuovo capitolo della sua vicenda persona-
le. Il trasferimento della sede papale a Roma nel 1378, e la nuova vita
avviata dopo il matrimonio con la fiorentina Margherita Bandini («Io
credo che Dio ordinò, quand’io naqui, ch’io dovese avere mogl(i)e
che fose fiorentina […] una fanc(i)ulla ch’à nome Margherita» 38), in-  

dussero Francesco a meditare il desiderio (ecco le aspirazioni) di ri-


tornare in patria: «arei charo ritrovarmi a la patria e richonosciermi
uno pocho i(n) me medesimo» 39. Desiderio che, tuttavia, tardava a
 

divenire piena decisione («Ora io sono chome l’ucello che sta in sue
l’albaro e non sa dove snidare, o qua o lla. E pertanto male mi pos-
so diliberare di quello vogl(i)o fare, e venghomi tante traverse, e per
altrui e per me, ch’io non so che mi fare» 40) non volendo contraddi-
 

re l’ordine naturale delle cose per la «salute de l’anima e dello chor-


po»: «Io non sono cholui che vogl(i)a entrare inanzi a Domenedio,
né fare chontra a la natura. Io pregho Idio, e pregherò, mi dia gra-
zia di fare quello che sia salute de l’anima e del chorpo. Poi segui-
rò chome il mondo vorà e ’l tenpo mi consigl(i)erà, e quello che dee
esere non se leverà una drama» 41. Si affidava nei suoi pensieri a due
 

massime di mercanti con cui esprimeva il suo senso pratico del vi-
vere e dell’agire: da un lato «dice uno proverbio di savi merchatanti
ch’alchuna volta è grande senno tenersi i danari in chasa, e gitta al-
chuna volta migl(i)ore ragione ch’à volere volare sanza ale» 42; dall’al-
 

tro «Ricordati di quello proverbio t’òe detto pùe volte, ch’a buono
uomo d’arme no(n) v(i)ene mai meno chavali: facendo l’uomo bene,

38 ASPo-D, 1114.01.45, c. 1r, FD a Piera di Pratese (Avignone-Prato, 28 ago-


sto 1376), «Io credo che Dio ordinò, quand’io naqui, ch’io dovese avere mogl(i)e
che fose fiorentina. E pertanto io credo averlla tolta, una fanc(i)ulla ch’à nome
Margherita, la quale fue figl(i)uola di Domenicho Bandini, al quale fue tagl(i)ata la
testa a Firenze già fa pùe tenpo, ché fue acholpato che volea dare Firenze a non se
singnore. La madre di questa fac(i)ulla à nome mona Lianora, serocha del Pelic(i)a
Gherardini. […] Io chonoscho loro ed eglino chonoschono me: è grande tenpo
ch’abiamo auta amistà insime. Io gli chonoscho megl(i)o che persona ch’io sapia.
[…] Questo vi dicho perch’io soe bene quello ch’i’ òe fatto».
39 ASPo-D, 1112.187, c. 1r, FD a Stoldo di Lorenzo (Avignone-Pisa, 19 feb-
braio 1379).
40 ASPo-D, 1112.187, c. 1r, FD a Stoldo di Lorenzo (Avignone-Pisa, 16 otto-
bre 1380).
41 Ivi.
42 Ibidem.

172
Aspirazioni e malinconie: i contrasti del mercante Francesco Datini

e’ bene truova» 43.  

Tornato dunque in patria, «Francesco ricco» 44, come veniva  

comunemente appellato dai conterranei, come impiegò la sua ric-


chezza? Diversificazione delle attività produttive e commerciali 45,  

struttura economica societaria con soci di capitale — la holding com-


pany —, strumenti di gestione e amministrazione di grande mo-
dernità: sono queste le caratteristiche salienti del sistema datiniano
ampiamente esplorato dal Melis. A cui si devono aggiungere l’inge-
gno e la costante dedizione nel lavoro che rappresentano non solo
tratti inconfondibili del Datini, ma, in un certo senso, anche il pri-
mo pilastro di quella laboriosità tutta pratese che percorre la storia
fino ad epoche più recenti 46. E contemporaneamente il Datini dedi-
 

cò parte delle sue risorse negli investimenti immobiliari e fondiari,


contribuendo al decoro urbano con la costruzione del suo palazzo
e la ristrutturazione di altri immobili 47. Poco incline a rivestire ca-
 

riche pubbliche, fu col suo prestigio individuale e professionale che


contribuì alle sorti di Prato, nel cui contesto risultava sempre un po’
fuori misura.
Che significato attribuire a questa incessante operosità? Cos’era
e come viveva la prospettiva di una bella vita? È la corrisponden-
za con la moglie ad offrire numerosi spunti. Occorre ricordare che
Margherita era analfabeta, almeno fino a età matura, e pertanto do-
43 ASPo-D, 1112.187/6200051, c. 1r, FD a Stoldo di Lorenzo (Avignone-Pisa,
10 febbraio 1378).
44 Mazzei, Lettere di un notaro, cit., pp. VIIIsgg.
45 In Avignone lasciava una compagnia, costituendo come socio Boninsegna
di Matteo Boninsegna, e nel 1382 nasceva l’azienda domestica patrimoniale di Prato;
nel 1383 quella di Pisa, divenuta poi compagnia con Manno d’Albizo Agli (1392);
l’azienda individuale di Firenze, divenuta compagnia con Stoldo di Lorenzo (1388),
iscritta all’arte della seta; la compagnia iscritta all’arte della lana in Prato. Nel cor-
so di dieci anni le vie commerciali lo avrebbero portato ad insediare una compa-
gnia a Genova, nel 1392, con le successive filiazioni delle compagnie di Barcellona,
Valenza (1393), e Maiorca (1395), oltre ad incrementare l’attività produttiva prate-
se con la compagnia dell’arte della tinta. Nel 1398 si apriva infine la compagnia del
banco a Firenze, caso unico di attività bancaria indipendente dalla mercatura.
46 Cherubini, Ascesa e declino di Prato, cit., p. 250.
47 Si veda di recente: C. Gnoni Mavarelli, Il più bel castello al mondo. La de-
corazione pittorica di Palazzo Datini. Il restauro, «Prato. Storia e arte», n. 104 (2008),
pp. 41-61; F. Sznura, Edilizia privata e urbanistica in tempo di crisi, in Prato storia
di una città, I, Ascesa e declino del centro medievale (dal Mille al 1494), a cura di G.
Cherubini, Firenze 1991, t. 1, pp. 301-358; I. Imberciadori, Proprietà terriera di F.
Datini e parziaria mezzadrile nel ’400, «Rivista di storia dell’agricoltura», a. XXIII,
n. 1 (giugno 1983), pp. 121-141.

173
Paolo Nanni

veva farsi leggere le lettere del marito e dettare le risposte. Inoltre


per lunghi periodi i due coniugi alternavano la propria residenza tra
Prato, Firenze, Pisa (Francesco nei primi anni), la villa al Palco di
Filettole. In questi lassi di tempo alle lettere era affidato il dialo-
go quasi quotidiano in cui, alle faccende domestiche e alla cura del-
le proprietà pratesi, si alternavano veri e propri contrasti tra moglie
e marito. In una delle prime lettere di Margherita datata 1386, sor-
prendono il tono con cui lei si rivolgeva al marito dopo dieci anni di
matrimonio («io vorei che tu non fossi sempre Francescho che tu se’
istato, da poi ch’io ti chongnobi»); le preoccupazioni che esprimeva
(«mai non à’ fatto se non tribolare l’anima e poscia il corpo»); e so-
prattutto il motivo delle sue apprensioni:
Tu di’, sempre predichi, che terai una bella vita, e ongni mese
e ongni settimana deb’essere questo. Questo à’ detto già è die-
ce anni e ogi mi pari aconcio a men riposare che mai: questo è
tua colpa. Idio t’à dato il sapere e ’l podere e àtti fatto quello che
non fa a mille huomini l’uno. Tu pensi di riuscire di questi tuoi
fatti con onore, con utile inna(n)zi che pigli questa bella vita.
Se tu tti indugerai tanto, mai questa bella vita tu non pigl(i)are’
(…) Vano vi richordo che voi avete ogimai presso a L anni, a
modo di Monte, e avete sempre servito il mo(n)do: sarebe otta
d’incominc(i)are a servire Idio! Non vo’ che crediate ch’io di-
cha questo pure per riposare io; io non ò per buona persona chi
nonn ama l’amico, l’anima chome il corpo. E vi chomverebe fare
chome fecie cholui che gitò i danari i(n) mare, perché non potea
fare quello che volea: chosì chomverebe fare a voi 48. 

L’aspirazione a una «bella vita», dove sono accostati il «servire


Dio» e la cura di sé — il «riposare» —, rappresenta il contenuto del-
l’affettuoso rimprovero di Margherita: «S’io avessi detto chosa che
vi dispiacesse, prieghovi che mi perdoniate: grande amore me lo fae
dire» 49. E Francesco come rispondeva? Con una provocazione diret-
 

ta alla moglie analfabeta («Ieri ricevetti una tua lettera, la quale fue
molto bene dettata»), con una pungente ironia («Non so donde si
vengha questo fat(t)o: fàmi entrare in pensieri se avesi veruno ami-
cho che c(i)ò t’insegni chosì bene dire»), rimarcando i suoi proposi-
ti: «tieni a certto chome dello morire ch’i’ òe disposto del tutto esere

48 Margherita Datini a FD (Firenze-Pisa, 16 gennaio 1386), in Le lettere di


Margherita, cit., pp. 21, 22.
49 Ivi.

174
Aspirazioni e malinconie: i contrasti del mercante Francesco Datini

uno altro Fracescho, e in pocho tenpo te n’avedrai» 50. E lei, senza


 

darvi peso, ridimensionava l’accusa: «bene dettata»? «Non so se l’


dite per lo chontradio; se gl’è chosì, mi piace». E rincarava la dose,
con l’arte tutta femminile di usare anche la propria sottomissione per
colpire il marito:
A mio parere no(n) mi pare né che Boninsegna né d’io v’abia-
mo bene consigl(i)ato, ché mai non à’ voluto fare chosa che
d’egli t’abia detto; non dico di me che sono femina, ché per gli
chonsigli delle femine non si de’ l’uomo ghovernare 51.  

Così Francesco cominciava a prenderla sul serio («io veggio ora


di certto ch’ella fue detta per te») cogliendo l’occasione per ricono-
scere la saggezza della giovane moglie («E diròtti chome i’ òe grande
piacere che Idio t’abia data tanta bontà che tue sappi tanto di bene
chome a dire simily chose») senza rinunciare tuttavia al suo tono tra
il serio e il faceto:
ma i’ òe grande paura che tue no(n) sia prèso alla mortte, in
però ch’elgl’è uno volghare che quando uno fanc(i)ullo fae o di-
cie chose che a lui sia fuori di forma secondo la sua giovaneza,
e l’uomo dice “di certto questo fanc(i)ullo no(n) dèe vivere”;
chosì, per simile modo, si dice di molte persone. E perché que-
sta lettera è fuori d’una forma da femina giovane chome se’ tue,
e no(n) llo ài achostumato, dubito che tue vorai fare miracholi
prèso alla tua mortte 52.
 

Piegandosi comunque al richiamo della moglie:


quanto mi scrivi è vero chome il patarnostro (…) e di certto i’
òe pecchato in molte chose, di che mi grava asai; ora abi di cert-
to chome della morte, ch’io sono disposto di (te)nere altri modi.
No(n) dich’io ch’io mi posa rimanere dello tutto de’ modi ch’i’
òe tenuti per lo pasato, ma io mi rimarò di tanti, che dove tu di’
che nne se’ vivota male chontenta, sarà il contradio, se piace a
Dio 53.
 

50 FD a Margherita Datini (Pisa-Firenze, 19 gennaio 1386), in Le lettere di


Francesco, cit., pp. 40-41.
51 Margherita Datini a FD (Firenze-Pisa, 20 gennaio 1386), in Le lettere di
Margherita, cit., p. 23.
52 FD a Margherita Datini (Pisa-Firenze, 22 gennaio 1386), in Le lettere di
Francesco, cit., pp. 41-42.
53 Ivi, p. 42.

175
Paolo Nanni

E lei, per tutta risposta, replicava umile:


Francescho, io chonoscho ch’io v’ò scritto tropo largho e ò
mostrata troppa signoria in chontra voi di dirvi il vero; se vi fosse
a lato are’ favelato cholla bocha più picholina. Apichatemegli ne-
gl’ochi o nel chapo o dounche volete, io me ne churo pocho 54.  

Eppure fiera («Io sono pur senpre per dirvi il vero in quanto io
chonoscerò; non v’ò detto chosa che ongni mese non ve l’abi detto
una volta»), in un certo senso vittoriosa:
io vi vegho fare il dì chose che mi fate inghonfiare 12 volte: i’
ò pure un pocho del sanghue de’ Gherardini, che me ne pregio
assai di meno; ma io non so chonoscere il sanghue vostro! (…) io
me ne fo beffe che voi tegn(i)ate mai una bella vita 55. 

È solo un esempio dei tanti contrasti tra Francesco e Margherita,


svoltosi tutto nell’arco di una settimana, in cui emerge la condotta di
vita del Datini riflessa nell’affetto di Margherita e nei suoi rimpro-
veri. Donna di carattere, senz’altro, che può offrire qualche ulterio-
re elemento di riflessione sulla stessa immagine della femminilità 56.  

E l’agognata «bella vita» emerge come aspirazione, sebbene disatte-


sa, dentro e non oltre la stessa vita quotidiana. È così che il bene per
l’«anima e il corpo» si impone alla nostra attenzione come elemento
determinante la stessa mentalità di Francesco e Margherita, comple-
tamente immersa nelle contraddizioni della vita e del commercio, e
non soltanto in una prospettiva escatologica.
E il tema si ripropone costantemente, come nel caso di una del-
le ultime «bibie» scritta dopo 24 anni al socio Cristofano di Bartolo
in Barcellona nel gennaio del 1410, sette mesi prima della morte:
Io ò del tutto diliberato di mai più non murare né conpera-
re posessioni e solo attendere a le scritture del tempo passato, e
fare sì, se piacerà a Dio, che lla fine mia sarà migliore che non è
stato il prencipio e ’l mezo 57.
 

54 Margherita Datini a FD (Firenze-Pisa, 23 gennaio 1386), in Le lettere di


Margherita, cit., p. 25.
55 Ivi, pp. 26-27.
56 Ch. Klapisch-Zuber, La famiglia e le donne nel Rinascimento, Roma-Bari
1995; Ead., La donna e la famiglia, in L’uomo medievale, a cura di J. Le Goff, Roma-
Bari 1987, pp. 319-349; Storia delle donne in Occidente, Il Medioevo, a cura di Ch.
Klapisch-Zuber, Roma-Bari 1990.
57 ASPo-D, 1110.42, c. 1r, FD a Cristofano di Bartolo Carocci (Firenze-

176
Aspirazioni e malinconie: i contrasti del mercante Francesco Datini

E come viene espressa questa «fine migliore»? «Servire Dio»,


«achonciare» i fatti miei «dell’anima e del chorpo» e della «mercha-
tantia», e non per «avarizia»:
Del tutto io sono disposto di non attendere a niun’altra cho-
sa se non di servire Idio e d’achonciare e’ fatti miei e dell’anima
e del chorpo e a’ fatti della merchatantia: non per avarizia né per
volontà di ghuadangnare, ma solo perché m’è rincresciutto ogni
altra chosa. Vòmi achonciare achostarmi al morire, quando pia-
cerà a Dio. Non voglio avere achonciare e’ fatti miei al chapeza-
le, s’io potrò 58.
 

Quel «servire Dio», che già abbiamo visto convivere con la cura
della propria persona, la «bella vita», si coniugava anche col «vi-
vere secondo ragione» e «secondo natura» e col «bene vivere» che
tratteremo più avanti; e al tempo stesso col «fare qualche bene» a
cui Francesco diede forma con le sue elemosine e con la costituzio-
ne del Ceppo. Si tratta di atteggiamenti e pratiche ben conosciuti
per il Medioevo, che tuttavia fuoriescono attraverso la documenta-
zione dei carteggi datiniani da quei modelli talvolta eccessivamen-
te semplificati relativi alla mentalità dei mercanti dell’epoca. Pur nel
linguaggio e nelle concezioni caratteristiche di una civiltà, gli “in-
gredienti materiali e immateriali” si integrano facendo risaltare da
un lato personalità molto più vivaci di quanto si sia soliti conside-
rare; dall’altro un atteggiamento che pur nei personali bilanci con
la vita e col Padreterno, ricercava un benessere individuale, ma non
individualistico:
Io fo molte chose più tosto per fare piacere altrui e per mio
chontentamento che per l’utile, inperò che mai non fui vagho di
danari e grazia Idio io non ò bisogno, inperò sono solo di fami-
glia e di parenti e viè meno d’amici, che se ne truova meno che
de’ g(i)oghanti 59.
 

Personalità contraddittoria, non v’è dubbio, quella del Datini,


che Margherita ben conosceva: «e non ce n’à niuno che sapi più di
me quello che tti piace e quello che tti dispiace, che per male fos-
si stato techo 10 anni ch’io non sapessi i modi tuoi. Io vorei che tue

Barcellona, 4 gennaio 1410).


58 Ivi.
59 ASPo-D, 488.5, c. 1r, FD a Manno d’Albizo Agli e compagni (Firenze-Pisa,
23 aprile 1396).

177
Paolo Nanni

fossi quello Francescho che tu tti tieni, che ghuati alchuna volta ne(l)
lucingnolo e alchuna volta fai ardere un torchio sanza bisongno» 60;  

oppure «perciò ti priegho che te ne dia meno manichonia che puoti,


e rifidati nella buona ragione che ttu ài» 61. Ecco comparire il richia-
 

mo alla ragione, tema che continuamente riemerge nella stessa atti-


vità di mercatura.

3. Il «male istato de’ merchatanti»: Datini e compagni


Sono le lettere «proprie» ai compagni a fornirci alcuni elemen-
ti per comprendere la percezione dell’attività economica che viveva
nel mercante Datini. Insieme alla ordinaria amministrazione infatti
comparivano frequentemente giudizi, consigli, «assenpri», che carat-
terizzavano il modo di dirigere, controllare, correggere l’attività dei
soci e i «modi che devono tenere i chonpagni», specialmente nel pe-
riodo di maggiore sviluppo del “sistema” aziendale, corrisponden-
te all’ultimo decennio del Trecento. La mentalità dei mercanti, tema
ampiamente trattato anche in relazione alle crisi e trasformazioni del
tardo Medioevo 62, trova qui elementi di verifica seguendo il conti-
 

nuo ritornare del Datini su certi temi.


Innanzitutto è da notare il ricorrente riferimento al «male istato
de’ merchatanti», tanto che «non è tenpo da torre danari a chanb(i)o
e ancho in diposito» 63. Traspare in più di una occasione il senso del-
 

la instabilità o precarietà della mercatura, a causa anche di ripetuti


fallimenti: «per questi tanti falliti, la gente è sì ispaurita, che ongni
uomo istà in sue i suoi, ed è bene buona borssa quella che truova ogi
danari a chanb(i)o» 64. Diversi i casi citati di mercanti andati in fumo
 

o «per lo fumaiolo»:
Molto mi dispiace di Rugieri di messer Giovanni e di Giovanni
d’Aricho siano faliti. Che Idio dia loro grazia di bene fare, a loro

60 Margherita Datini a FD (Prato-Firenze, 31 marzo 1387), in Le lettere di


Margherita, cit., p. 34.
61 Margherita Datini a FD (Prato-Firenze, 23 febbraio 1394), ivi, p. 57.
62 Sapori, Un nuovo tipo di mercante, cit.; B.Z. Kedar, Mercanti in crisi a
Genova e Venezia nel ’300, Roma 1981; Ch. Bec, Cultura e società a Firenze nell’età
della Rinascenza, Roma 1981.
63 ASPo-D, 699.16, c. 1v, FD a Stoldo di Lorenzo (Prato-Firenze, 10 febbraio
1397).
64 ASPo-D, 699.16, c. 1r, FD a Stoldo di Lorenzo (Prato-Firenze, 18 maggio
1396).

178
Aspirazioni e malinconie: i contrasti del mercante Francesco Datini

e a chi è i(n) simile chasi, ché bene arei charo no(n) fose inter-
venuto loro questo chaso, ché mi pare vedere che ongni dì se ne
andrà uno per lo fumaiuolo 65.  

Si conferma poi quell’atteggiamento prudenziale tipico dei vari


trattati mercanteschi 66, rafforzato da eventi contingenti per non ri-
 

manere coinvolti dalle sventure di soci in affari: «chome che l’uomo


non si puote tanto bene guardare in simili chasi, e spezalmente da’
suoi pari, che l’uomo no(n) rimangha inbratato» 67. Non mancavano
 

naturalmente le raccomandazioni ai compagni:

Per questa non ci à altro a dire, se nno(n) che voi vi tegn(i)ate


mente a’ piedi, ché voi vedete come le cose vanno che ongni dì
ce ne fallisce uno, e falliscie genti che altri no(n) llo crederebe
mai. E pertanto aprite gli ochi chon ognuno, però che ora è il
tenpo 68.  

Chiara testimonianza di questa saggezza da mercanti è l’uso di


detti proverbiali o modi di dire che il Datini utilizzava per avvalo-
rare con l’esperienza della pratica le sue direttive: avere «guardia a’
piè, ché chor(r)e uno tenporale che si vole andare cho’ chalzari del
pionbo» 69; oppure, a riguardo del socio Manno d’Albizo, sostene-
 

va che «Perch’egli vole fare troppe chose farà meglio a farne meno,
ché chi tropo abraccia pocho istrignie, e chi va piano va sano» 70;  

oppure su se stesso: «io no(n) voleva istendermi più che lenzuolo


fose lungho» 71. Incertezza e prudenza che dominavano l’animo del
 

Datini assumevano dunque un connotato quasi generale, a riguardo

65 ASPo-D, 699.16, c. 1v, FD a Stoldo di Lorenzo (Prato-Firenze, 6 giugno


1396).
66 Si vedano: G. Corti, Consigli sulla mercatura di un anonimo trecentista,
«Archivio Storico Italiano», a. CX, 1 (1952), pp. 114-119; Francesco Balducci
Pegolotti, La pratica della mercatura, a cura di A. Evans, Cambridge 1936.
67 ASPo-D, 699.16, c. 1v, FD a Stoldo di Lorenzo (Prato-Firenze, 6 giugno
1396).
68 ASPo-D, 1112.109, c. 1r, FD a Luca del Sera (Firenze-Valenza, 1 luglio
1396).
69 ASPo-D, 1111.34, c. 1r, FD a Simone d’Andrea Bellandi (Prato-Barcellona,
5 maggio 1397).
70 ASPo-D, 699.16, c. 1r, FD a Stoldo di Lorenzo (Prato-Firenze, 5 gennaio
1397).
71 ASPo-D, 1086.26, c. 2r, FD a Boninsegna di Matteo Boninsegna (Firenze-
Avignone, 18 aprile 1397).

179
Paolo Nanni

dei tempi e dei «tenporali», che rendevano necessario «stare a vede-


re e tenpi da spendere e tenpi da guadagnare»:
Chonviensi andare chol tempo, perché niuno è che posa dire:
“chosì sarà”. Chorono tenporali da stare a vedere e tenpi da
spendere e tenpi da guadagnare. (…) Corono tenpi da fare cho-
sì, e non si vuole per guadagnare uno per cento mettersi a peri-
cholo d’esere disfatto 72.
 

La «fortuna» — nel senso di imprevisti, o tempeste — diveni-


va occasione per la genialità del mercante. È proprio in questo senso
che il Datini esclamava quasi con stizza, preso dal suo argomentare:
Non sarebe grande fatto che uno dì tra per voi e per me noi
n’avesomo una pettinata che, cholle fortune che achorono, noi
n’avesomo a soferire uno dì. Non volgl(i)o che mi sia detto al
modo di Tieri che dice «Idio ci atrà», potrebesi dire atare a
ronperci il chollo quando l’uomo fa quello non dee 73.  

E anche in altre occasioni egli citava il “motto” di Tieri di Benci,


suo compagno ad Avignone, reagendo sempre allo stesso modo:
e noe voglio fare chome fae il chorbo [così per porco, n.d.A.],
che tutto dì anoda a la choda e lla sera non à fatto nulla. Chosì
fanno i merchatanti che volgl(i)ono fare molte chose e chaccion-
si nel soprachapo, e dire chome dicie Tieri: “Idio c’atrà”. Io mi
volgl(i)o atare anche io 74. 

«Io mi voglio aiutare anch’io», poiché la pratica degli affari im-


poneva una laboriosità continua («Vedi modo di fare chome fae il
predichatore, che istudia la notte quando egl’à a predichare la mat-
tina» 75), che costringeva il mercante a non adagiarsi mai sui risulta-
 

ti conseguiti:

72 FD a Jacopo di Giovanni di Berto (Prato-Genova, 8 aprile 1396), in Lettere


di Piero Benintendi, mercante del Trecento, introduzione, note e appendice a cura di
R. Piattoli, Genova 1932, p. 135.
73 ASPo-D, 699.16, c. 1v, FD a Stoldo di Lorenzo (Prato-Firenze, 27 gennaio
1397).
74 ASPo-D, 1110.42, cc. 1r-v, FD a Cristofano di Bartolo Carocci (Firenze-
Maiorca, 30 marzo 1397). Riecheggiano qui i buoni costumi di Paolo da Certaldo:
«ché Dio dice: “Aiutati, e io t’atrò”»: Paolo da Certaldo, Libro di buoni costumi, a
cura di A. Schiaffini, Firenze 1945, 249.
75 ASPo-D, 1112.187, c. 1v, FD a Stoldo di Lorenzo (Palco-Firenze, 18 dicem-
bre 1396).

180
Aspirazioni e malinconie: i contrasti del mercante Francesco Datini

Quando la bottegha o altro traficho è molto bene inviata,


alotta è senno a sapella mantenere, se no sì lle chontra quello
dettato che dicea una volta uno mio amicho, che dicea che chi
no(n) mettea reghola ne’ fatti suoi, la reghola la vi s’entrava ella
medesima 76. 

E senno del mercante era vivere con ragione. È in questo riferi-


mento che si colloca un elemento centrale del linguaggio datiniano.
La ragione si pone alla nostra attenzione come il termine perva-
sivo dell’attività di uomini che, quando operavano, pensavano e di-
scutevano, cioè ragionavano: «Chome altre volte abiamo ragionato,
nostro mestieri si tira tante chose di drieto, che si inpacerebono pùe
danari che non vale i(l) chastello» 77. Ma la ragione era anche crite-
 

rio per l’equilibrio della vita, perché «vive bene cholui che ssi acho-
sta cholla ragione»:
Io m’atengho al detto di Salamone, che disse che tutto chon-
tato, provato ch’ebe le richeze e llo stato del mondo e’ diletti e
tutti i piaceri, che n’ebe più che altro un omo, tutto chonchiuso
disse che non vi trovava nulla salvo che ’l bene vivere, e che vive
bene cholui che ssi achosta cholla ragione 78. 

Quella ragione, ancora, o quel porre «mente ai piedi», che si


precisa assumendo il significato di una prevalenza accordata alla tra-
ma naturale della realtà, e non riconducibile nel caso del Datini a
quell’incondizionato «razionalismo di metodo», per il quale la «ra-
gione umana può tutto comprendere, tutto spiegare, e dirigere qual-
siasi azione», stigmatizzato dal Renouard per i mercanti dell’età
moderna 79. Segna le distanze da questa visione il ripensamento del
 

Datini circa la sua fiducia nella «praticha», che lo portava a rivedere


le sue convinzioni, considerando la maggiore forza e ragionevolezza
della «chosa naturale»:
Insino a que mi sono vivoto a uno modo e sònmi dato a cre-
dere che lla praticha sia pùe fortte e magiore che lla chosa na-

76 ASPo-D, 699.16, c. 1v, FD a Stoldo di Lorenzo (Prato-Firenze, 18 aprile


1396).
77 ASPo-D, 1112.187/6200051, c. 1r, FD a Stoldo di Lorenzo (Avignone-Pisa,
10 febbraio 1378).
78 ASPo-D, 1110.42, c. 1v, FD a Cristofano di Bartolo Carocci (Firenze-
Maiorca, 30 marzo 1397).
79 Y. Renouard, Gli uomini d’affari italiani nel Medioevo, Milano 1973, p.
244.

181
Paolo Nanni

turale. E dànavi a credere che per predichare e volere bene a


uno e’ ne volese a me, e che quello mi parea fosse chosì quan-
do chonsigl(i)ava chon buono animo. Ora mi chomenc(i)o a ri-
muovere e dire il chontradio: che lla chosa naturale è pùe fortte
e pùe rag(i)onevole 80.  

Ed è in questa chiave che si colloca anche la ragionevolezza


del mercante, il suo realismo, come intelligenza del fatto economi-
co, confermato da alcune lettere di grande interesse, se non di pie-
na attualità. Proprio all’apice dell’espansione del sistema aziendale
intorno al 1396, e dopo alcuni anni in cui era stato a suo stesso dire
assorbito dal «murare» e lontano dagli affari, il Datini si risolveva a
dare un generale riordinamento alle sue attività. Non avendo «atteso
a’ fatti della merchatantia» egli accusava i soci di essersi resi respon-
sabili d’«alchune chose che fare non si doveano» 81. Con una sorta di
 

ansia, confidava a Stoldo: «io voglio potere dormire la notte, ché n’ò
bisongno: tenetemi di ch’io posa dormire. […] Per certto io sono di-
sposto che lle chose vadano altrementi: io no(n) volgl(i)o morire pri-
ma che Idio volgl(i)a» 82. Faceva sapere agli altri compagni che «egli
 

e Istoldo sarano senpre insieme, e atenderà alla merchatantia, a rive-


dere tutte le sue iscritture» 83, giungendo ad un proposito chiaro per
 

non rimanere schiacciato dalle sue preoccupazioni:


mi porò a rivedere tutte le mie scriture e venirle achoncian-
do e chontare chon tutti, ché mai non credo vedere il dì sieno
achoncie e paghare chiunche dee avere; simile farmi per paghare
da chiunche mi dee dare, ché assai sono più choloro che m’ànno
a dare che quegli che ànno a ’vere. E da quinci inanzi terò sì fatti
modi ch’io nonn arò più questo chonsumamento 84.  

Ancora a Simone citava le lettere spedite a Luca del Sera e a


Cristofano con le sue indicazioni:

80 ASPo-D, 1112.27, c. 1r, FD a Manno d’Albizo Agli (Firenze-Pisa, 21 luglio


1395).
81 ASPo-D, 1112.109, c. 1r, FD a Luca del Sera (Firenze-Valenza, 26 maggio
1397).
82 ASPo-D, 699.16, c. 1v, FD a Stoldo di Lorenzo (Prato-Firenze, 5 gennaio
1397).
83 ASPo-D, 1111.34, c. 1r, FD a Simone d’Andrea Bellandi (Firenze-Barcellona,
17 giugno 1396).
84 ASPo-D, 1111.34, c. 1r, FD a Simone d’Andrea Bellandi (Firenze-Barcellona,
24 marzo 1397).

182
Aspirazioni e malinconie: i contrasti del mercante Francesco Datini

Lucha è avisato, e simile Cristofano, per dopie lettere i


modi ch’eglino ànno a tenere insino che noi diciamo loro altro.
Disposti siamo di stare un pezo a vedere che farà questo paese,
e tornare in su’ danari, e stralc(i)are rag(i)oni e chapitare chui-
stioni, e finire merchatatie; e poi vedremo che sapremo fare. E
per certo io credo dare sì fatto ordine che niuno mio chonpagnio
non potrà chorrere chome ànno chorso, sì fatto morso metterò
loro in boccha: e s’io l’avesse fatto il primo dì, delle chose sono
achorse che no(n) sarebono. C(i)aschuno à fatto quello gli è pa-
ruto, e non si sono posti chura a’ piedi, e n’è seghuito più dan-
no che pro 85.
 

«Tornare i(n) sue i denari», ridurre l’esposizione finanziaria,


saldare debiti e crediti, poiché «no(n) sono pochi i faliti, e chi ren-
de soldi 10 e chi 20 per lira sechondo l’amicizia» 86. Ecco l’ansia — il
 

«chonsumamento» — del mercante che, in una lettera a Cristofano


del 1397, minacciava addirittura di cessare definitivamente la «mer-
chatantia» se non fossero stati presi i necessari provvedimenti e «ri-
chomincare da chapo»:
Io sono istato qui dì 21, e non sono uscito fuori di chasa sei
volte. Questo ti dicho ché volglio che sapi che i’ òe levato via il
murare: no(n) llo credesti mai, ché forse, se llo avessi creduto,
non sarebono ite le chose chome sono andate. I’ ò del tutto di-
liberato che qua né a Pisa si faccia merchatantia pù […] perché
sono disposto di volere achonciare ongni mio fatto, e mettere
i(n) saldo ciò ch’io feci mai di poi ch’io parti’ di Vingnone. […]
È mia intenzione di fare chogli chalzari del pionbo, o io mi leve-
rò di tutto dalla merchatantia. […] E pertanto e’ non è mia in-
tenzione di fare più che io non possa. […] Io non ò bisogno di
molta richeza, e non ò bisogno di perdere quella ch’i’ ò: ò biso-
gno di vivere uno pocho per fare qualche bene, non ò bisogno
d’achorc(i)armi la vita 87.
 

Se realismo e razionalità economico-finanziaria costituivano i


fattori della ragione del mercante, essa includeva anche aspetti lega-
ti alla moralità, che il Datini esprimeva ricorrendo a una massima di

85 ASPo-D, 1111.34, c. 2v, FD a Simone d’Andrea Bellandi (Prato-Barcellona,


26 giugno 1397).
86 ASPo-D, 700.19, c. 1v, FD a Stoldo di Lorenzo (Prato-Firenze, 16 maggio
1397).
87 ASPo-D, 1110.42, c. 1r, FD a Cristofano di Bartolo Carocci (Firenze-Maiorca,
30 marzo 1397).

183
Paolo Nanni

Seneca: «non è povero chi à pocha roba, ma povero è chollui che lla
disidera» 88. Era la volontà dell’uomo contrapposta alla ragione, l’es-
 

sere «inchinati pùe tosto alla volontà che alla ragione» 89, a definire  

l’avarizia. E alla volontà senza misura era rivolta la condanna, non


tanto alla ricchezza in quanto tale, come esprimeva in altra occasio-
ne attraverso una metafora venatoria:
siete invilupato nello pechato di questo mondo: avete posto
l’amore vostro nella beatitudine di questo mondo, che sono fuo-
cho e fiama all’anima. […] e noe dicho richeza de’ beni della
fortuna andiate cerchando, ma voi andate cerchando gl’uomeni
ch’abiano del chane e dello astore 90.  

La brama della ricchezza, la cupidigia degli uomini «ch’abia-


no del chane e dello astore», stabiliva la distinzione con la lecita ri-
cerca del guadagno, i «beni della fortuna». Non sarà forse del tutto
inopportuno accostare a queste considerazioni la «retta ragione»
dell’etica medievale 91. E il vivere secondo ragione era considerato
 

corrispondente al vivere secondo natura, in quanto espressione della


volontà di Dio, fondando la responsabilità del libero arbitrio:
Idio ci chreò e dièci libero albitro e il vero chonoscimento,
sicché a nnoi istà il fare il male e il bene. Vide Idio quello che
nnoi dovavamo fare, e pertanto se noi vivesomo naturale e none
volontario noi non ci chrucieremo tutto dì chome noi facciamo
per ongni choselina che cci adiviene chontro a la volontà nostra.
[…] noi non ci achostiamo a la volontà di Dio, inperò che se noi
ci achostasomo a la sua volontà noi viveremo sechondo ragione
e naturalmente. Ma perché noi non ci achostiamo a Dio né alla
ragione, noi viviamo volontariamente e diànci a chredere che ’l
biancho sia nero 92.  

Ragione e quindi libertà: il binomio si evidenzia anche all’inter-


no delle relazioni tra i soci, fino a giungere ad una sorta di riferimen-

88 Ivi, c. 1v. Per il passo citato, cfr. Seneca, Epistole morali a Lucilio, I, 2, 6.
89 ASPo-D, 1112.27, c. 1r, FD a Manno d’Albizo Agli (Firenze-Pisa, 21 luglio
1395).
90 ASPo-D, 699.16, c. 1v, FD a Stoldo di Lorenzo (Prato-Firenze, 18 aprile
1396).
91 I. Sciuto, L’etica nel Medioevo. Protagonisti e percorsi (V-XIV secolo),
Torino 2007.
92 ASPo-D, 1086.20, c. 1r, FD a Simone d’Andrea Bellandi, Cristofano di
Bartolo Carocci, Luca del Sera (Bologna-Barcellona, 9 giugno 1401).

184
Aspirazioni e malinconie: i contrasti del mercante Francesco Datini

to ideale. Quei legami, infatti, non erano definiti solo in nome di una
ragione economica, la compagnia di capitale, ma anche per un moti-
vo estrinseco alla «merchatantia», poiché l’immagine compiuta del-
le relazioni era rappresentata dalla famiglia. Che i consorzi familiari
e la fiducia custodita da questi legami fossero all’origine delle com-
pagnie mercantili e assicurative è dato noto e ampiamente studiato 93.  

Concezioni che forse non vanno sottovalutate neanche in considera-


zione delle particolari forme societarie adottate dal Datini, e che cer-
tamente rafforzano il significato del rapporto tra individuo e società
attraverso forme intermedie costituite in questo caso dalla compa-
gnia-famiglia. Ma ciò che sorprende è che nel caso del Datini ci tro-
viamo di fronte a un mercante, come già detto, senza famiglia. Risalta
dunque con maggiore forza questa costante analogia tra famiglia e
compagnia che pervade, come una sorta di refrain, le argomentazio-
ni con cui Francesco concepiva i suoi rapporti con i soci e i loro com-
portamenti reciproci.
In una lettera indirizzata a Manno d’Albizo si trova una delle
sintesi più esplicite di questa analogia, dove il Datini anziché affron-
tare nello specifico il dissidio nato tra compagni, rassicurava il socio
sulla fiducia in lui riposta «ché dalla mia parte né da quella di Stoldo
ch’è que, non à niuno male pensieri inversso di te, se noe chome di
charo filgl(i)uolo» 94. Il Datini arrivava a sostenere che il legame tra i
 

soci fosse più forte che neanche quello fra parenti, poiché legato ad
un atto di libertà («amore»), e non di dovere («parentado»):
E se tue sapessi tutto chome soe io, tue faresti magiore istima
di Stoldo che forse di parente che tue abi, non biasimando niuno
tuo parente, che pochi ne chonoscho se noe Lodovicho Marini.
E se Lodovicho t’ama, egli lo dee fare di ragione perché se’ suo
nipote, ma Istoldo non ti atiene nulla se non d’amore. E pertan-
to e’ si dice ch’elgl’è il magiore parentado che sia. E pertanto io
ti prego che di lui facc(i)a magiore chonto che di Lodovicho,
inperò che tu gli se’ pùe tenuto. E sì ti richorda ch’elgl’è tuo ma-
giore, e per amore di lui e di me tu se’ tenuto rendergli onore
chome a uno tuo magiore fratello; e s’elgli erasse nello suo par-
lare inversso di te, ché molti sono quelli che errano, tue gli dei

93 A. Sapori, Per la storia dei sentimenti. Divagazioni sulle assicurazioni, in Id.,


Studi di storia economica, cit., vol. III, pp. 135-148; J. Heers, Il clan familiare nel
Medioevo, Napoli 1976.
94 ASPo-D, 699.10, c. 1r, FD a Manno d’Albizo Agli (Prato-Firenze, 6 feb-
braio 1397).

185
Paolo Nanni

rendere onore e riputare quello ti dice il dicha per tuo bene, per
tuo ammaestramento; e non ti dare a credere che erando Istoldo
a tte sia verghongna, ma tutto il contradio 95.
 

L’atteggiamento del Datini assumeva così connotati paterni ri-


petutamente confermati: «se ttu t’aterai al mio chonsiglio te ne verà
bene, perché ti consigl(i)erò bene e a buono fine, chome se tu fosi
una mia creatura, ché chosì ti riputo» 96. In una lettera a Cristofano,
 

riferendosi a tutti i compagni, egli arrivava a sostenere: «e sapiate


chonosciere il padre che voi avete aquistato, che a tutti vo’ bene cho-
me se fossi miei figl(i)uoli, e fate inverso di me quanto voresti io
facessi inverso di voi» 97. Ed il perdono rappresentava la legge dei
 

rapporti tra i compagni-fratelli. Scriveva infatti in altra occasione a


Tieri di Benci ricordando l’esempio evangelico del figliol prodigo:
Richordati dello Vangielo di quello filgl(i)uolo prodicho, che
gitò il suo in chatività e chonsumò ongni chosa esendo partito
dal podre [così per padre, n.d.A.], e poi, richonosciendosi, dis-
se al padre: “i’ òe pechato in verso di te, io chonoscho ch’io non
sono dengno esere tuo filgl(i)uolo, abi miserichordia di me. Tu
ài asai familgli e serventi, fa’ in verso di me chome tu fai a uno
di quelli tuoi servi”. Il padre si mose a piatà e ricevètelo grazio-
samente, e perdonògli. Chosì adiverebe a tutti, a chi si richono-
sciese dello suo erore 98.
 

Perdono dunque, a condizione del ravvedimento: «chi si richo-


nosciese dello suo erore».
Ma questo atteggiamento paterno giungeva fino ad aspri rim-
proveri anche sul piano personale. È il caso di una lettera scritta
durante il periodo trascorso a Bologna congiuntamente ai tre soci
delle compagnie iberiche, Simone d’Andrea Bellandi, Cristofano di
Bartolo Carocci, Luca del Sera. Scriveva in riferimento alla possibi-
lità di un loro ritorno in patria, per il loro bene e per la necessità di
avere vicino collaboratori fidati. Così diceva di Cristofano:

95 Ivi.
96 ASPo-D, 1111.34, c. 1r, FD a Simone d’Andrea Bellandi (Firenze-Barcellona,
11 marzo 1396).
97 ASPo-D, 1110.42, c. 1v, FD a Cristofano di Bartolo Carocci (Prato-Maiorca,
5 maggio 1397).
98 ASPo-D, 1088.15, c. 1r, FD a Tieri di Benci (Firenze-Avignone, 30 marzo
1397).

186
Aspirazioni e malinconie: i contrasti del mercante Francesco Datini

Cristofano à valichati 40 anni, e s’elgli dee tore molglie non si


dee indugiare più. E’ si sta asai bene, e s’elgli perde lo ’nviamen-
to di chostì ne raquisterà qua un altro forse buono chome cho-
testo, e sarà ne la sua patria e viverà sechondo natura, volendo
vivere chome e’ dee e chome sarà chonsilgliato da chi bene gli
vole e da sé medesimo, ché non è isvemorato. E io sono uno di
quelgli che mmi vanto, s’elgli mi vorrà chredere, di dargli buo-
no chonsilglio e aiuto, ed elgli potrà rispondere “Franciescho si
morà un dì e poi forse non troveremo un altro Franciescho”. E
io rispondo che a buono huomo d’arme no(n) manchò mai cha-
valli. Io posso anchora vivere più di voi, e morendo, voi non fosti
chreato alla mia isperanza: siete chriature di Dio chome io, e se
io muoio prima di voi forse troverete uno Franciescho che varà
più il suo piè che tutta la mia persona, pure che voi abiate fede
e isperanza i(n) Dio 99.
 

E poi di Luca, il più giovane, che divenne il fulcro del siste-


ma datiniano dopo l’allontanamento del socio di Firenze Stoldo di
Lorenzo:
Lucha è giovane e stasi bene e io gli volglio melglio che a niu-
no di voi, dove già gli volsi il chontradio, o per suo difetto o per
mio. Chostui à buono essere a la patria che non a paghare pre-
stanze. Ed è nel tenpo che non si vole istare più a torre molglie
chi può chome elgli. E d’inviamento non gli chale avere pensie-
ro s’elgli mi vorà chredere, i(n) mentre che i’ vivo 100.
 

E infine di Simone d’Andrea Bellandi:


Hora andiamo a Simone. Chostui à magiore bisongno che
niuno di voi d’essere apresso di me, e perché è meno savio e più
povero de l’avere del mondo e sì di san(i)tà. Intendo che toccha
la gruccia ispese volte, e s’elle gli s’apicchono adosso ghuai a llui.
Di chostui non so quello ch’io mi dicha, inperò ch’elgli è di natu-
ra che chomunalmente non volgliono bene a persona se non per-
fetta o a loro vantagio. Ma io farò di lui chome dicie il proverbio
del savio che dicie ch’elgli è melglio a tore la vicina sua per mol-
glie chon uno difetto, che torne un’altra che non potrebe ave-
re più difette e none saprebe nulla. Elgli è d’uno lengniagio che

99 ASPo-D, 1086.20, c. 1v, FD a Simone d’Andrea Bellandi, Cristofano di


Bartolo Carocci, Luca del Sera (Bologna-Barcellona, 9 giugno 1401).
100 Ivi.

187
Paolo Nanni

quanto meglio ò fatto loro, pegio m’ànno fatto. Fu tenpo che io


mi chredetti ch’elgli mi ristorasse d’ongni male che io ò auto da’
suoi. Ma io n’ò perduta in parte la speranza. Ma io farò da la par-
te mia il dovere inverso di lui, e Idio faccia e(l) rimanente 101.
 

Le relazioni del Datini con i compagni risultano così poggiate


su due pilastri. Il primo di interesse più economico, relativo al modo
di condurre il proprio sistema di aziende. La distinzione di funzioni
all’interno delle sue compagnie si fondava su una sorta di correspon-
sabilità, come è stato messo in evidenza 102. Ma ciò che è interessante
 

osservare è che la funzione di guida del sistema era interpretata dal


Datini con una costante azione di ragionata comunicazione del suo
modo di intendere e agire. È qui che il suo porsi come padre e l’im-
magine stessa della compagnia-famiglia superano il semplice ricorso
a un linguaggio dell’epoca. Tanto che, e questo è il secondo pilastro,
i suoi interventi e le sue correzioni nei confronti dei compagni inve-
stivano, come abbiamo appena visto, tutti gli aspetti della condotta
della vita. Fino a far emergere il tema dell’«amicizia» e «fratellanza»
con una valenza di grande interesse. Anche di fronte alla scompar-
sa del più antico collaboratore e poi socio di Avignone Boninsegna
di Matteo Boninsegna deceduto nel 1398, il burbero mercante espri-
meva un «chordiale dolore»:
Elgli è buon pezo ch’io non t’ò iscritto, per molte faccende e
manichonie della morte di Bonisengna: che mai non senti’ più
chordiale dolore, né afrezione, che quando ebbi di lui tal novel-
la, pensando il buono amore mi portava e ll’amicizia e fratellan-
za ch’era t(r)a llui e me, che mai me ne potrei saziare di dirne.
Ora queste sono chose che fa nostro Singnore, e a tutto ci chon-
viene istare chontenti. Priegho Idio per la sua anima: me’ no(n)
lgli posso fare 103.
 

Non solo dunque relazioni centrate su reciproci interessi, che


potevano essere presenti o possibili. Ma ciò non toglie il fatto che
questi riferimenti esprimano una complessiva concezione dell’essere
e dell’esistere nel tempo.

101 Ibidem.
102 Favier, L’oro e le spezie, cit., pp. 173-175.
103 ASPo-D, 1113.34, c. 1r, FD a Andrea di Bonanno (Firenze-Genova, 24 feb-
braio 1398).

188
Aspirazioni e malinconie: i contrasti del mercante Francesco Datini

4. «Io non voglio stare chon le reni volte di sopra»: Francesco e l’ami-
co carissimo e compare
Abbiamo cominciato questa breve rassegna dalle aspirazioni
per una «bella vita». Non possiamo non terminare con il tema della
speranza di fronte alla morte.
Un passaggio decisivo è custodito nella corrispondenza con
l’«amico carissimo» e «compare» Lapo Mazzei. Il soggetto non è
nuovo, ed è stato trattato anche in relazione alla vicenda della stesu-
ra del testamento, mettendo in evidenza i contrasti tra la spirituali-
tà del Mazzei e l’animo del Datini 104, ed anche i suoi ravvedimenti
 

giudicati come «consuetudini dell’epoca» 105. I materiali usati, editi


 

dal Guasti, si riferiscono soprattutto ad alcune lettere scambiate in-


torno al 1400, quando Francesco si trovava ritirato a Bologna, con
Margherita e pochi altri, per sfuggire alla nuova ondata di peste nel-
la quale persero la vita anche alcuni dei suoi soci 106. Durante la pa-
 

rentesi bolognese il Datini trascorreva molto del suo tempo chiuso


in casa, lontano dalle sedi operative, affidando alla corrisponden-
za i suoi contatti interni alle compagnie ed esterni. Non senza desta-
re l’ira sconsolata di ser Lapo, allora impegnato a difendere assieme
a Stoldo di Lorenzo una causa del mercante di Prato di fronte al
Gonfalone:

E poi quello ci fa morire è che voi scrivete a uno che vi nemica


in segreto e in palese; e viene in persona e per lettere a’ Signori
contra voi (…) Scrivete meno cose, per Dio; e non vogliate a tan-
ti dire e a tanti rispondere: ché le lettere vincono le carte; e voi
scrivete le più contra voi. Bàstici la fatica ch’abbiamo, sanza che
voi non arrogiate a farci noia 107.
 

E non mancava di riprendere «con buona e pura intenzione»


l’amico: «Penso i troppi viluppi vi dividano sì la mente, che non se

104 Sapori, Economia e morale alla fine del Trecento, cit. Sull’intera vicen-
da testamentaria del Datini si veda Mazzei, Lettere di un notaro, cit., vol. II, pp.
289-300.
105 Origo, Il mercante di Prato, cit., pp. 30-31.
106 Si tratta di Manno d’Albizo Agli di Pisa, Andrea di Bonanno di Genova e
Bartolomeo Cambioni di Firenze.
107 Lapo Mazzei a FD (Firenze-Bologna, 21 dicembre 1400), in Mazzei, Lettere
di un notaro, cit., vol. I, p. 321.

189
Paolo Nanni

ne tiene brano» 108. Rispondeva il Datini a ser Lapo:


 

E di certo, ser Lapo, voi non mi chonosciete anchora, di che


mi grava. Ma anchora verà tenpo che voi mi chonoscierete (…)
Chome ch’io credo che voi direte ch’io sono di que’ del ’48, per-
ché e’ si dicie chosì de’ mia pari 109.
 

Non senza sorpresa emerge dal vivo argomentare di un mercan-


te la ribellione di fronte all’accusa di essere «di que’ del ’48», ovvero
coloro che, di fronte a «tanto male» per usare l’espressione boccac-
cesca 110, sperperavano i loro giorni:
 

Ma se chorese la mia moneta, chome fa di molti altri, voi mu-


teresti proposito, e direste ch’io fosse di que’ buoni Romani che
volono morire per la Ripubblica. Ma e’ non se ne truovano più,
se no(n) come de’ màrtori chonfesori si truovono asai. Idio mi
dia grazia ch’io sia màrtero, s’egl’è di suo piacere 111.
 

E proseguiva raccontando lo spavento subito la notte preceden-


te, quando prima di coricarsi si era trovato sul petto «una bollicina a
modo che uno fignoluzzo», possibile presagio della malattia morta-
le. Era il 25 dicembre:
Perché a voi non debe essere sagreto niuna chosa, se no(n)
chome a me, avendo stanotte letto insino a le sette ore, andando-
mi a letto mi trovai di sotto a la popa diritta una bolicina a modo
che uno fingnoluzo. Dovete credere che io non fu’ sanza pen-
siero e malinchonia asai, chonsiderato nello stato in che io mi
truovo. Anoverai le dieci ore e stamane v(i)ene il medicho a me
e dicemi ch’io non tema, che nonn è nula. Ma tuttavia e’ fa cho-
me fanno i loro pari, che di buona ghuardia m’avisa ch’io faccia.
Or chome che la sia, s’io avese fatto inverso il mio creatore uno
anno quello ch’io debo, e rendutogli la metà di quello m’ha pre-
stato de’ beni tenporali cholle mie mani, direi Te Deus ladamus!
E così charo are’ la morte chome la vita, pure che fosse piacere
del nostro Singnore Gieso Cristo 112.  

108 Ivi.
109 FD a Lapo Mazzei (Bologna-Firenze, 25 dicembre 1400), in Mazzei, Lettere
di un notaro, cit., vol. I, p. 323.
110 Giovanni Boccaccio, Decameron, Introduzione della I Giornata, 21.
111 ASPo-D, 1087.10, c. 1r, FD a Lapo Mazzei (Bologna-Firenze, 25 dicembre
1400); anche in Mazzei, Lettere di un notaro, cit., vol. I, p. 323.
112 Ivi, pp. 323-324.

190
Aspirazioni e malinconie: i contrasti del mercante Francesco Datini

Di fronte alla protesta di incomprensione di Francesco («è inpo-


sibile che voi posiate vedere l’animo mio chom’io» 113), Lapo, colto
 

nel segno, si umiliava accusandosi d’essere «amico innacquato» 114.  

Trascorsi alcuni mesi era di nuovo il Mazzei a rimproverarlo di avere


la «mente a’ viluppi del mondo sempre sempre sempre»:
Ogn’uomo si dà col viso a terra, con le reni a cielo; e io più
che gli altri: ma pur m’avveggio il male ch’io fo (…) Se arete
pure la mente a’ viluppi del mondo sempre sempre sempre; non
andrà la vostra volontà con la mia 115.
 

Nella lettera di risposta Francesco esplodeva spazientito («Voi


vi date a ’ntendere che io volglia istare senpre ne’ vilupi»), opponen-
do alle prediche morali a lui rivolte una fondata speranza nella grazia
e interpretando a suo favore la parabola evangelica del mendicante
Lazzaro e del ricco epulone:
Voi vi date a ’ntendere che io volglia istare senpre ne’ vilupi
(…) Se tutto il mondo mi predichase, io non perderò la speran-
za di Dio chome che io no(n) la meriti. Io mi do pure a chredere
che mi presterà de la sua santa grazia. Ma voi siete di quelgli in-
fedeli di santo Tomaso. Ma se io m’aboccho chon voi, io vi farò
chiaro che io non volglio stare cho(n) le reni volte di sopra, ma
volglio stare rovescio; e se voi vorete istare altrimenti, io vi la-
scierò istare e partiremo amicizia e chonparaticho. E poi quando
noi ci ritroveremo nella pilicieria [ovvero dopo la morte, n.d.A.],
e noi ci faremo motto chome fe’ Lazero a quello riccho. E dòmi
a chredere d’essere Lazero e voi i(l) riccho 116.
 

Lapo rimaneva sorpreso dalla risposta e soddisfatto di averlo


provocato:
Sono molto contento ch’io vi scrissi, e più caro m’è la rispo-
sta. Veggio ch’io vi trafissi un poco: ma so bene, e ho provato,
avete buono capo, e non leggière. Dice uno filosafo, che a voler
dirizzare uno legno torto, che acciò che torni ritto, si vuole non
rizzarlo, ma piegallo altrettanto a contrario; che poi viene a sua
dirittura. Così penso avverrà di colui cui io amo cotanto 117.
 

113 Ibidem, p. 324.


114 Lapo Mazzei a FD (Firenze-Bologna, 30 dicembre 1400), ivi, p. 325.
115 Lapo Mazzei a FD (Firenze-Bologna, 25 giugno 1401), ibidem, p. 422.
116 FD a Lapo Mazzei (Bologna-Firenze, 29 giugno 1401), ibidem, pp. 424-425.
117 Lapo Mazzei a FD (Firenze-Bologna, 30 giugno 1401), ibidem, p. 423.

191
Paolo Nanni

Pentimenti tardivi quelli del mercante di Prato? Autentica re-


ligiosità o bigottismo? Abitudini cultuali? Il vero problema è che la
raffigurazione del mercante avido in questa terra e intento a mer-
canteggiare i beni eterni con le stesse opere di carità risulta un po’
angusta. Ciò che emerge come dato storico rintracciabile, come “in-
grediente immateriale” per ritornare al tema del nostro convegno, è
piuttosto l’orizzonte umano pervaso da quel desiderio di totalità, da
quell’ideale di bene vivere per l’anima, il corpo e il guadagno, gene-
rato nell’ambito di una civiltà. “Ingredienti” che costituiscono anche
una documentazione inequivocabile della cultura dei mercanti italia-
ni del Medioevo. Seneca, Salomone, sacre scritture ampiamente ci-
tate, non appartenevano soltanto alla biblioteca del Datini 118: erano  

forma espressiva e al tempo stesso sintesi del suo sentire. Come in-
terpretare altrimenti le citazioni dantesche per esprimere il senso di
alterità dell’uomo di fronte alla vita?
Or non è questa grande ciechità la nostra a vedere morire on-
gni dì tante persone e noi ci diamo a chredere di vivere senpre
mai? Non è questa grande ciechità ongni dì vedere l’alegrezza
tornare in trestizia e la trestizia tornare in alegrezza? E nno’ vol-
gliamo pure giudichare queste chose a nostro modo e volgliamo
vedere a la lungi ciento milglia chol vedere che è più chorto che
una ispanna, al modo che disse Dante 119.  

Oppure, con efficacia formidabile, per dar voce al proprio ani-


mo: «potrei dire chome disse Dante “quello che già mi piaque ora mi
dispiace”, e portone tanta pena che altro dolore non ò al mondo se
non dello tenpo perduto in simili chose» 120.  

E a togliere ogni connotato pietistico, valga l’ira furibonda


con cui il Datini, a pochi mesi dalla morte (gennaio 1410) anco-

118 Si veda: Melis, Aspetti della vita economica medievale, cit.; F. Cardini, La
cultura, in Prato storia di una città, cit., t. 2, pp. 823-869; S. Brambilla, I mercanti let-
tori del Petrarca, Budapest 2005, pp. 185-219.
119 ASPo-D, 1086.20, c. 1r, FD a Simone d’Andrea Bellandi, Cristofano di
Bartolo Carocci, Luca del Sera (Bologna-Barcellona, 9 giugno 1401); cfr. Dante
Alighieri, Paradiso, XIX, vv. 79-81: «Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna, / per
giudicar di lungi mille miglia / con la veduta corta d’una spanna?».
120 ASPo-D, 699.16, c. 1r, FD a Stoldo di Lorenzo (Prato-Firenze, 1 giugno
1396). La citazione è del Guido da Montefeltro dantesco: «Quando mi vidi giunto
in quella parte / di mia etade ove ciascun dovrebbe / calar le vele e raccoglier le sar-
te, / ciò che pria mi piacëa, allor m’increbbe» (Dante Alighieri, Inferno, XXVII,
vv. 79-82).

192
Aspirazioni e malinconie: i contrasti del mercante Francesco Datini

ra si scagliava contro coloro che lo avevano tradito, primo fra tut-


ti l’«ipocrito» Stoldo della compagnia fiorentina allontanato alcuni
anni prima, o quel «benedetto paese» che non riusciva a riconosce-
re come la sua patria:
E io non intendo dipartirmi mai sopra le scritture. Che Idio
perdoni a chi chosì m’à ghovernato, ché, se Stoldo avesse fatto
quello che dovea, io are’ pocha brigha: e’ m’à rubato e tradito e
anchora te e degli altri. Idio ne l’ paghi chome merita. Mai non
fu il più disleale huomo secondo quello che pareva, e seghace-
mente egli à fatto ogni male con dimostrare di fare il contradio, e
faceva l’ipocrito. Ed egli è peggio che lupo rapacie. Ma ss’io non
muoio troppo tosto, io gli farò un sì fatto chappello, ch’egl’arà
quello honore che merita, chome che in questo nostro benedet-
to paese ci chape ongni bene e ongni male, chome che per tut-
to abi de’ buoni e de’ chattivi, ma qui n’à più che parte. Di che
mi grava insino all’anima e s’io l’avessi saputo mai non ci mette-
va piede: arèmi tenuto al detto di Senecha, che disse che lla pa-
tria nostra era dove noi stavamo bene 121. 

È ancora la contraddittorietà del Datini, i suoi contrasti interio-


ri documentati dai suoi “contrasti” epistolari, a risaltare con maggior
interesse. In questa chiave vorrei segnalare alcune note conclusive.

5. Note conclusive
Alla indiscussa grandezza dell’operatore economico Datini, è
stata contrapposta ben altra serie di considerazioni sull’uomo, suffi-
cientemente esplicitate dagli aggettivi di volta in volta utilizzati: bi-
gotto, esoso, vanaglorioso, opportunista, pavido, avaro, infido. Non
è mia intenzione proporre un contraddittorio con queste tesi, quanto
piuttosto prendere le distanze dalle prospettive di valutazione adot-
tate, economiche ed etiche. È nel superamento di questa cornice che,
forse, le fonti qui utilizzate possono offrire elementi per intraprende-
re nuove strade, attinenti maggiormente al campo della cultura e della

121 ASPo-D, 1110.42, c. 1r, FD a Cristofano di Bartolo Carocci (Firenze-


Barcellona, 4 gennaio 1410). La citazione è riferita alla sentenza «Patria est, ubi-
cumque bene es» attribuita a Seneca (Ps. Seneca, De remediis fortuitorum, 8. 2).
Doveva comunque trattarsi di una frase proverbiale già a Roma: anche Cicerone
l’aveva citata nelle sue Tusculane disputationes (V, 37), attribuendola a un certo
Teucro, forse personaggio del poeta tragico Pacuvio.

193
Paolo Nanni

mentalità. Certamente a ragione il mercante di Prato è stato consi-


derato “non più” come i mercanti eroici del secolo precedente. Ma
in buona parte a torto, ritengo, è considerato “già” come quelli del
secolo seguente, appartenente alla cosiddetta «seconda generazio-
ne» dei mercanti sedentari 122, i cui atteggiamenti economici e cul-
 

turali possono essere compiutamente identificati in un Cotrugli 123.  

Non più, ma non ancora: ecco una contraddizione degna del Datini.
Eppure è proprio sul crinale del passaggio storico tra due genera-
zioni di mercanti che si trova forse la sua giusta collocazione 124. Un  

crinale tuttavia, ed è questo l’aspetto che non è sufficientemente con-


siderato, in cui Francesco di Marco non appare in posizione neutra,
offrendo attraverso le sue lettere materiali ancora gravidi di contenu-
ti per la conoscenza storica.
Nel quadro dei cambiamenti di mentalità dei mercanti fra XIV
e XV secolo ampiamente trattati 125, caratterizzati dalla affermazio-
 

ne di una nuova «mentalità razionalistica», ritornando all’espressio-


ne del Renouard 126, che avrebbe incarnato quel «clima intellettuale
 

e morale» favorevole all’affermazione del Rinascimento, pur ricono-


scendo nel Datini alcuni di questi elementi, si affaccia tuttavia una
diversa ipotesi. Francesco di Marco è la memoria del Medioevo.
Gli affanni e le malinconie, che attraversano tutta la sua vicen-
da personale e professionale, non possono risultare piuttosto come
un’eco, seppure lontana, di una unità tra l’eterno e il temporale tut-
ta medievale? La ricerca del guadagno, le ambizioni, le relazioni tra
soci sono attraversate da questo ideale che non si pone soltanto in
una prospettiva escatologica, sebbene possa permanere ormai solo

122 Sapori, Economia e morale alla fine del Trecento, cit.


123 Benedetto Cotrugli, Libro dell’arte di mercatura, a cura di U. Tucci,
Venezia 1990.
124 M. Cassandro, Commercio, manifatture e industria, in Prato storia di una
città, cit., t. 1, p. 432.
125 Ch. Bec, I mercanti scrittori, in Letteratura Italiana, a cura di A. Asor
Rosa, vol. II, Torino 1983, pp. 269-297; Renouard, Gli uomini d’affari italiani, cit.;
Le Goff, Mercanti e banchieri nel medioevo, cit.; E. Maschke, La coscienza profes-
sionale del mercante medievale, in Id., Mercanti e città. Mondo urbano e politica nel-
la Germania medievale, Milano 1991.
126 «Gli uomini d’affari italiani del XIV secolo agiscono come se credesse-
ro che la ragione umana può tutto comprendere, tutto spiegare, e dirigere qualsiasi
azione: essi non lo esprimono chiaramente, ma il loro comportamento rivela che lo
sentono senza formularlo; hanno una mentalità razionalistica» (Renouard, Gli uo-
mini d’affari italiani, cit., p. 247).

194
Aspirazioni e malinconie: i contrasti del mercante Francesco Datini

come una nostalgia. E al tempo stesso non è forse la separazione pro-


prio di questa unità della coscienza — da un lato il temporale chiuso
nelle sue leggi autodeterminate, dall’altro l’eterno che pretende ri-
manere nell’orizzonte umano solo sotto forma di norme etiche — a
segnare l’età moderna? E tale separazione è un tema ancora oggi pie-
namente attuale.
E a quelle del mercante Datini, quali malinconie dovremmo ac-
costare: la «natura malinconica» di un Barbarigo 127, le malinconie
 

disincantate di un Boccaccio 128, o, sebbene a distanza di tempo, la


 

«maninconia» ben più esistenziale delle Rime di Michelangelo 129?  

Sono solo domande, che motivano la curiosità e l’interesse per


la conoscenza storica (che è sempre autocoscienza) resa possibile da
queste fonti. E l’archivio Datini, che conserva abbondanti carteggi
di mano di Francesco Datini, offre materiali originali nei quali si ri-
specchia una personalità di gran lunga più vivace di quanto si sia fi-
nora asserito.

127 Andrea Barbarigo a Alberto Dolceto (Venezia-Acri, agosto 1431), in Lettere


di commercio di Andrea Barbarigo, mercante veneziano del ’400, a cura di Salvatore
Sassi, Napoli 1951, p. 6.
128 Giovanni Boccaccio, Decameron, Proemio, 12: «Essi, se alcuna malin-
conia o gravezza di pensieri gli affligge, hanno molti modi da alleggiare o da pas-
sar quello».
129 Michelangelo Buonarroti, Rime, 267, v. 25: «La mia allegrezza è la ma-
ninconia». Si veda R. Klibanski - E. Panofsky - F. Saxl, Saturno e la melanconia,
Torino, 1983.

195
Sabato 16 maggio, pomeriggio
Pistoia, Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei Vescovi
Presidente Prof. Gabriella Piccinni

Alma Poloni
Vite imprevedibili: tre storie di mercanti
nella Toscana di fine Duecento

La prosopografia è una tecnica d’indagine molto proficua an-


che per gli storici dell’età comunale. Il principale dei suoi pregi, a
mio parere, è che consente di — o meglio costringe a — muoversi
simultaneamente in diversi territori di ricerca, ignorando gli stecca-
ti tra storia sociale, storia economica e storia politica, nella necessi-
tà di inseguire individui e famiglie nel complicato intreccio di attività
economiche, vincoli sociali e impegno politico che costituiva la loro
esperienza quotidiana. Il metodo prosopografico è probabilmente il
più adatto per affrontare questioni che, anche per la storia delle cit-
tà comunali italiane, risultano fondamentali, come le variazioni nel
tempo del ritmo del ricambio dei ceti dirigenti, o i cambiamenti nel-
l’intensità della mobilità sociale.
Anche di questa tecnica di ricerca, tuttavia, come di tutte le al-
tre, è indispensabile non perdere mai di vista i limiti di applicazio-
ne, e le distorsioni che inevitabilmente essa impone all’informazione
storica. Alcuni dei difetti della prosopografia sono stati messi in luce
in un denso saggio di Laurence Stone 1. C’è un rischio, però, al quale
 

lo storico inglese non sembra dare grande importanza, e che è inve-


ce segnalato da Jacques Revel. La prosopografia, o biografia seriale,
«è efficace al prezzo di impoverire l’informazione presa in conside-
razione per renderla comparabile e cumulativa», e perciò, prosegue

1 L. Stone, La prosopografia, in Id., Viaggio nella storia, Roma-Bari 1987, pp.


48-80.

197
Alma Poloni

Revel, «essa può anche far correre il rischio di fare esistere un arte-
fatto statistico senza rapporto con l’esperienza storica» 2. Detto altri-  

menti, la prosopografia costruisce una biografia collettiva che delle


biografie individuali coglie le regolarità e le costanti, sacrificando le
incoerenze, gli scarti, le anomalie. Il metodo prosopografico met-
te in scena un attore collettivo del quale emergono soprattutto la
forza strategica, l’abilità pianificatrice, la capacità di perseguire nel
modo più efficace obiettivi specifici e perfettamente individuati, la-
sciando in ombra i dubbi, le incertezze, gli errori di valutazione e le
vere e proprie casualità dei percorsi individuali 3. La biografia seria-
 

le, per poter funzionare, sterilizza le biografie individuali, privandole


di quella frammentarietà, di quella aleatorietà, di quell’eccezionalità
che sono parte inscindibile dell’esperienza umana.
In ricerche passate ho fatto uso più volte del metodo prosopo-
grafico. In questa sede, però, vorrei tentare un esperimento diverso.
Vorrei provare a sottrarre alcuni personaggi alla prevedibilità delle
biografie collettive per restituirli alla imprevedibilità delle biografie
individuali. Protagonisti delle prossime pagine saranno tre personag-
gi vissuti nello stesso periodo — la seconda metà del Duecento e
i primi anni del Trecento — in contesti economici, sociali e politi-
ci piuttosto simili — le tre città toscane di Pisa, Lucca e Firenze.
Non si tratta certo di persone qualunque: in tutti e tre i casi quelle
che tracceremo sono le storie di uomini che nella loro vita conobbe-
ro momenti di straordinario successo economico e politico. Proprio
quelle storie, cioè, che più comunemente alimentano gli studi pro-
sopografici, perché quando deve fare i conti con la documentazio-
ne medievale molto difficilmente la prosopografia può essere altro
che prosopografia di élites. E in effetti le prime due biografie, quelle
del pisano Banduccio Bonconti e del lucchese Adiuto Rosciompelli,

2 J. Revel, La storia come biografia. La biografia come problema storiografico,


in Tante storie. Storici delle idee, delle istituzioni, dell’arte e dell’architettura, a cura
di F. Cigni - V. Tomasi, Milano 2004, pp. 3-14, p. 10.
3 Ma secondo Pierre Bourdieu «l’intenzione di dare un senso e una ragione,
di scoprire una logica retrospettiva e insieme prospettiva, una consistenza e una co-
stanza, collegando con relazioni intelligibili, come quella fra effetto e causa efficien-
te, momenti successivi che così si pongono come tappe di uno sviluppo necessario»
caratterizza ogni narrazione biografica e autobiografica (P. Bourdieu, L’illusione
biografica, in Id., Ragioni pratiche, Bologna 2009 (ed.orig. 1994), pp. 71-80). Una ri-
flessione su queste tematiche, e su come la ricerca storica possa concretamente su-
perare l’impostazione denunciata da Bourdieu, si trova in J. Le Goff, Introduzione,
in Id., San Luigi, Torino 1999 (ed.orig. 1996), pp. XV-XXVII.

198
Tre vite imprevedibili: mercanti in Toscana a fine Duecento

sono ricostruite attraverso la documentazione che io stessa ho rac-


colto nel corso di indagini prosopografiche sui gruppi dirigenti po-
polari di Pisa e di Lucca 4. Il terzo personaggio, Musciatto Franzesi,
 

è invece molto noto agli storici fiorentini, e le sue vicende sono state
oggetto, da ultimo, di una vivace ricostruzione di Paolo Pirillo 5.  

Il tentativo è dunque quello di strappare i tre all’ambiente aset-


tico delle ricostruzioni prosopografiche e restituire loro, almeno in
parte, le loro contraddizioni, le loro incoerenze, i continui cambi di
percorso. L’intento non è certo quello di contestare la validità della
prosopografia, sulla cui utilità, ripeto, continuo a non avere dubbi.
Questo esperimento va piuttosto inteso come un antidoto che, por-
tando al centro della scena tutto ciò che il metodo prosopografico la-
scia ai margini, può forse aiutarci a migliorare la sua efficacia.
Mi rendo conto che il discorso che svilupperò nelle prossime
pagine potrebbe sembrare piuttosto eccentrico rispetto all’argomen-
to del nostro convegno. Eppure esso nasce proprio dalle riflessioni
suggeritemi da un titolo davvero intrigante, «la ricerca del benesse-
re individuale e sociale», che mi sembra rimandare a temi di gran-
de rilevanza epistemologica: la questione delle diverse definizioni
che diversi contesti storici e sociali producono del concetto di «be-
nessere», o addirittura di felicità, di soddisfazione di sé, di successo
personale; la questione, strettamente connessa alla precedente, del-
la difficile e contrastata «ricerca» di tale benessere, comunque esso
sia inteso, cioè dei confini della progettualità umana e dei limiti delle
strategie individuali e familiari; la questione infinitamente complica-
ta del rapporto tra individuo e società, tra realizzazione individuale
e armonia sociale, tra aspirazioni personali e bene comune. Questi
temi, che del resto sono stati oggetto di animate discussioni nel cor-
so del convegno, sono tutti presenti in controluce nelle storie che ho
scelto di raccontare.

1. Banduccio Bonconti di Pisa


All’inizio del Trecento Banduccio Bonconti era probabilmen-

4 A. Poloni, Trasformazioni della società e mutamenti delle forme politiche


in un Comune italiano: il Popolo a Pisa (1220-1330), Pisa 2004; Ead., Lucca nel
Duecento. Uno studio sul cambiamento sociale, Pisa 2009.
5 P. Pirillo, Famiglia e mobilità sociale nella Toscana medievale. I Franzesi
Della Foresta da Figline Valdarno (secoli XII-XV), Firenze 1992.

199
Alma Poloni

te il personaggio più in vista di Pisa 6. Tale era l’influenza che egli era
 

in grado di esercitare sulla vita politica cittadina che, non fosse sta-
to per l’azione contenitiva costantemente svolta dal piccolo gruppo
di accorti uomini politici che lo circondavano, per l’età già piuttosto
avanzata che aveva quando raggiunse posizioni di prestigio, e anche
per il suo carattere piuttosto prudente, avrebbe forse potuto essere
un Romeo Pepoli pisano 7.  

Eppure fino all’ultimo decennio del Duecento niente nella vita


del Bonconti avrebbe fatto pensare a un destino da leader politico.
Banduccio nacque probabilmente negli anni ’30 o nei primi anni ’40
del Duecento, da una famiglia abbastanza agiata ma non certo di pri-
mo piano. Bonconti, in effetti, non era neppure un cognome, ma un
semplice patronimico: Banduccio era figlio di un bancherius di nome
Bonconte, immigrato da Poggibonsi più o meno negli anni in cui
egli veniva al mondo. Bonconte dovette essere soddisfatto della de-
cisione di trasferirsi a Pisa. La città tirrenica era davvero l’ambiente
ideale per gli affari di un piccolo banchiere che integrava l’attività di
cambio con le operazioni di deposito e di credito al servizio dei tanti
mercanti forestieri che frequentavano una delle più importanti piaz-
ze commerciali del Mediterraneo 8. Nel 1256 Bonconte sedette nel
 

Consiglio maggiore e generale del Comune di Pisa 9. Non una cari- 

ca particolarmente prestigiosa, certo: alla più ampia tra le assemblee


cittadine prendevano parte, oltre ai magistrati comunali e popola-
ri e alle rappresentanze delle principali corporazioni e delle società
del Popolo, cinquanta cittadini per ogni quartiere. In ogni caso, per
l’immigrato Bonconte la partecipazione politica sanciva, agli occhi di
se stesso e degli altri, il raggiungimento dello status di cittadino pi-
sano con pienezza di diritti, ed è da credere che egli ne fosse piutto-
sto orgoglioso.
Nei decenni successivi i tre figli di Bonconte, Banduccio,
Francesco e Tuccio, tutti dediti all’attività mercantile, mantennero

6 Sui Bonconti rimando alla scheda prosopografica in Poloni, Trasformazioni,


cit., pp. 415-420.
7 Per la vicenda del bolognese Romeo Pepoli, che ricorda molto da vicino
quella di Banduccio, ma che è configurabile come un vero e proprio progetto signori-
le, si veda M. Giansante, Patrimonio familiare e potere nel periodo tardo-comunale. Il
progetto signorile di Romeo Pepoli banchiere bolognese (1250c.-1322), Bologna 1991.
8 Poloni, Trasformazioni, cit., pp. 111-119.
9 P. Santini, Documenti dell’antica costituzione del Comune di Firenze, Firenze
1865, pp. 189-208.

200
Tre vite imprevedibili: mercanti in Toscana a fine Duecento

più o meno questo profilo di buoni cittadini senza particolari an-


sie di affermazione sociale. Nel 1269 Tuccio ricoprì l’incarico di
collettore di una tassa imposta dal Comune di Pisa al clero cittadi-
no 10, e nel 1276 Francesco compare nel Consiglio del Senato e della
 

Credenza, un nuovo organo consiliare creato dopo la piena afferma-


zione del Popolo, alla fine degli anni ’50 del Duecento 11. Nell’ambito
 

di una ricostruzione prosopografica, queste due brevi esperienze dei


Bonconti sarebbero probabilmente interpretate come sicuri indizi di
una progressiva ascesa politica della famiglia e di una sua graduale
penetrazione nell’élite che guidava il Comune di Popolo. A ben ve-
dere, però, si tratta di una lettura retrospettiva che proietta sul pas-
sato quanto sappiamo sulla storia successiva dei Bonconti, e cioè che
essi furono nel Trecento una delle più influenti famiglie del gruppo
dirigente popolare. In questo ragionamento preferiamo dimenticare
le molte centinaia di pisani che in quegli anni adempirono, magari
anche con soddisfazione personale, al diritto/dovere del buon citta-
dino di prestare servizio, se convocato, nei consigli comunali e in al-
tri incarichi politici, senza per questo dare origine a casate destinate
a un posto di primo piano nel patriziato cittadino. In effetti, il suc-
cesso dei Bonconti fu strettamente legato all’exploit di Banduccio
negli ultimi anni del Duecento, e davvero nulla ci autorizza a pensa-
re che nei decenni precedenti i tre figli di Bonconte abbiano prepa-
rato e pianificato, o anche solo immaginato, l’abbandono dell’ampio
e indefinito ceto medio che prosperava nella città mercantile verso
un futuro ben più luminoso.
Dei tre fratelli Bonconti, del resto, proprio Banduccio fu l’uni-
co a rimanere del tutto estraneo al mondo della politica. Ben più in-
tenso fu in quei decenni il suo impegno nella mercatura. Alla fine
degli anni ’60 entrò in società con Guiscardo Cinquina. Guiscardo
e i suoi fratelli Benenato e Pericciolo appartenevano allo stesso am-
biente sociale dei Bonconti, e li troviamo sporadicamente negli stessi
incarichi politici di servizio 12. Guiscardo però, probabilmente qual-
 

che anno più vecchio di Banduccio, aveva una personalità ben di-
versa da quella del cauto figlio di Bonconte. Il Cinquina, infatti, era

10Archivio della Mensa Arcivescovile di Pisa, n. 4, c. 211v.


11Liber Censuum Comunis Pistorii, a cura di Q. Santoli, Pistoia 1901-1905,
pp. 288-291.
12 Sui Cinquina cfr. la scheda prosopografica in Poloni, Trasformazioni, cit.,
pp. 420-424.

201
Alma Poloni

uomo di grandi passioni politiche.


Tutti i pisani si professavano ghibellini, ma c’erano modi diver-
si di vivere anche questa come ogni altra fede, religiosa o politica, e
per molti il ghibellinismo era una sorta di tradizione cittadina a cui
era sufficiente tributare un ossequio formale. Nella seconda metà de-
gli anni ’60, tuttavia, la situazione si fece più calda, soprattutto con
la discesa in Italia di Carlo I d’Angiò, che provocò nei pisani, stret-
ti tra le guelfe Firenze e Lucca, il papato e il nuovo potere angioino,
una sorta di sindrome da assedio 13. Già nel 1265 Pisa cercò di rilan-
 

ciare la lega ghibellina in Toscana. Nel mondo politico cittadino si


aprirono nuovi spazi per quelli che potremmo definire i «ghibellini
praticanti», gli animi più infiammabili convinti che Pisa avrebbe po-
tuto mantenere un posto di primo piano sulla scena politica regio-
nale e italiana solo non cedendo al guelfismo ormai imperante. Tra
questi c’era Guiscardo, che si buttò con convinzione nella lotta di re-
sistenza ghibellina.
Negli anni ’70, quando i pisani avevano ormai accettato l’idea
di dovere in qualche modo scendere a patti con le forze guelfe così
palesemente superiori, Guiscardo aveva raggiunto una visibilità po-
litica eccezionale. Il socio di Banduccio veniva scelto di continuo
per incarichi diplomatici di particolare importanza e delicatezza, tra
gli ambasciatori inviati a re Carlo, tra i procuratori incaricati in più
occasioni, peraltro senza grande successo, di intavolare trattative di
pace. Insomma, in qualche modo Guiscardo si era accreditato come
uno dei leaders indiscussi del partito ultraghibellino in quel momen-
to prevalente a Pisa. Eppure il Cinquina proveniva da una famiglia
tutto sommato modesta, a quanto pare priva di contatti con le alte
sfere della società e della politica cittadine. Il successo di Guiscardo
risulta semplicemente inintelligibile attraverso la matrice interpre-
tativa del metodo prosopografico, che ricerca una spiegazione del-
l’azione politica nell’intreccio delle relazioni sociali e degli interessi
materiali di un individuo 14. Non ci resta che concludere che furono
 

13 Un ricostruzione puntuale degli avvenimenti di questi anni si trova in E.


Cristiani, Gli avvenimenti pisani del periodo ugoliniano in una cronaca inedita,
«Bollettino storico pisano», XXVI-XXVII (1957-1958), pp. 3-104.
14 Scrive L. Stone: «Il secondo grave difetto intellettuale dei prosopografi
consiste nel relativo rifiuto di attribuire un ruolo, all’interno della loro prospettiva
della storia, ai pregiudizi, alle passioni, alle ideologie, agli ideali e ai principi. [...]
L’attenzione prestata da questi storici alla tattica piuttosto che alla strategia della po-
litica presuppone una società priva di convinzioni, in cui la manipolazione e il favo-

202
Tre vite imprevedibili: mercanti in Toscana a fine Duecento

proprio il suo darsi da fare, la sua passione politica, e soprattutto la


sua capacità di comunicarla, la grande abilità oratoria che dimostrò
prendendo la parola nel corso delle assemblee cittadine, a convince-
re i concittadini che Guiscardo fosse l’uomo giusto al momento giu-
sto 15. Il Cinquina, un uomo non più giovanissimo, giunse al punto
 

di prendere le armi personalmente per difendere Pisa dagli eserciti


guelfi, e anche per confermare agli occhi dei cittadini la sua imma-
gine di “duro e puro”: nel 1276, quando, dopo l’ennesima sconfitta
presso il fosso Rinonico, ormai alle porte della città, i pisani furono
costretti a stipulare una pace con le forze guelfe, Guiscardo fu tra i
combattenti lasciati in ostaggio a garanzia del rispetto dei patti, tutti
ovviamente personaggi di un certo rilievo politico 16.  

Come avrà guardato Banduccio a tutto questo fervore politico


dimostrato dal suo socio in affari? Non possiamo saperlo, ma sap-
piamo che se ne tenne ben lontano, e che in questi anni non fece
nulla per mettersi in luce. Del resto è probabile che il peso della con-
duzione della compagnia ricadesse soprattutto su di lui negli anni
nei quali Guiscardo era impegnato a trattare con le più grandi po-
tenze della penisola, e a mostrare il suo valore militare sui campi di
battaglia. Fu comunque strettamente connesso alla fede politica del
Cinquina il primo grande affare nel quale la società fu coinvolta. Nel
1268 Corradino di Svevia, impegnato nella sua sfortunata campa-
gna italiana, depositò presso il banco di Guiscardo e Banduccio il
denaro necessario al pagamento degli stipendiarii che avevano com-
battuto al suo fianco 17. Si trattava di una somma davvero ingente:
 

quasi 19.000 lire di denari pisani, più altri 3.700 fiorini d’oro. In
questo caso il fiuto mercantile di Guiscardo fu almeno pari alla sua
passione politica. La partecipazione al controllo dei flussi di dena-
ro messi in movimento dalla discesa in Italia di Corradino contribuì

re contano più delle questioni di principio e delle convinzioni politiche» (Stone, La


prosopografia, cit., pp. 68-69). Lo storico inglese riporta anche una celebre frase di
Momigliano, che si lamentava del fatto che in questo tipo di studio «gli interessi spi-
rituali della gente vengono considerati assai meno dei loro matrimoni».
15 La cosiddetta Cronaca roncioniana narra di un Consiglio generale che si
sarebbe svolto nel luglio del 1273, nel quale Guiscardo si sarebbe segnalato per la
propria capacità di persuasione protagonista (Cristiani, Gli avvenimenti, cit., pp.
76-80).
16 Ivi, p. 86.
17 J. Ficker, Forschungen zur Reichs -und Rechtgeschichte Italiens, 4 voll.,
Innsbruck 1868-1874, IV, n. 455, pp. 463-464.

203
Alma Poloni

ad ampliare il giro d’affari della società, e a trasformarla in una vera


e propria potenza economica, e non solo in ambito cittadino. Il pro-
getto del Cinquina, che dobbiamo pensare fosse condiviso anche da
Banduccio, era quello di svolgere, al servizio degli Svevi e della par-
te imperiale italiana, quella stessa funzione di supporto finanziario
che le compagnie fiorentine svolgevano per il papato e Carlo d’An-
giò, e possibilmente con gli stessi tutt’altro che trascurabili ritorni in
termini economici.
Quello che è certo è che negli anni successivi la compagnia
Bonconti-Cinquina divenne la realtà economica più importante del
panorama pisano. Per essere più precisi, dovremmo dire che la socie-
tà messa in piedi da Banduccio e Guiscardo fu la prima compagnia
commerciale «alla fiorentina» di Pisa. Questa forma di organizza-
zione delle attività mercantili, infatti, non è attestata in precedenza
nella città tirrenica, dove per buona parte del Duecento lo strumen-
to principale di incontro tra il capitale e la «manodopera» mercanti-
le rimase la società di mare 18. A partire dagli anni ’70 la compagnia
 

si diffuse rapidamente negli ambienti mercantili pisani, e divenne la


forma societaria largamente preminente. Si trattò di un cambiamen-
to dalle enormi conseguenze, sulle quali non è il caso di insistere in
questa sede 19. Mi interessa comunque sottolineare che Banduccio e
 

Guiscardo agirono da veri e propri imprenditori nel senso schum-


peteriano del termine, introdussero cioè per primi nel contesto pisa-
no un’innovazione molto importante, e seppero sfruttare al meglio il
vantaggio competitivo che ne derivava.
C’era di che essere soddisfatti, e in effetti non sembra che
Banduccio abbia negli anni successivi abbandonato il suo atteggia-
mento di sostanziale indifferenza verso l’impegno politico diretto. I
tempi del resto erano cambiati anche per il suo socio. Dopo la con-
clusione della pace del Rinonico, nel 1276, e il rientro dei fuoriu-
sciti guelfi, il partito ultraghibellino perse rapidamente la sua presa
sulla politica cittadina, e la stella di Guiscardo tramontò. Seguirono
anni difficili, segnati da tensioni interne, dall’irrequietezza delle fa-

18 M. Berti, Commende e redditività di commende nella Pisa della prima metà


del Trecento (da documenti inediti), in Studi in memoria di Federigo Melis, II, Napoli
1978, pp. 53-145.
19 Poloni, Trasformazioni, cit., pp. 247-260. Cfr. anche A. Poloni, Gli uomini
d’affari pisani e la perdita della Sardegna. Qualche spunto di riflessioni sul commercio
pisano nel XIV secolo, in Per Marco Tangheroni. Studi su Pisa e sul Mediterraneo me-
dievale offerti dai suoi ultimi allievi, a cura di C. Iannella, Pisa 2005, pp. 157-184.

204
Tre vite imprevedibili: mercanti in Toscana a fine Duecento

miglie aristocratiche, dalla dolorosissima sconfitta della Meloria


contro Genova, nel 1284, dalla ascesa al potere di Ugolino della
Gherardesca, in seguito affiancato da Nino Visconti 20. Infine, nel  

1288, una sollevazione orchestrata dall’arcivescovo Ruggeri degli


Ubaldini e dalle principali famiglie della nobiltà ghibellina abbatté la
diarchia signorile e restituì il Comune alle istituzioni di Popolo.
Il 1288 segnò nella vita politica della città una cesura di im-
portanza determinante. Dal marasma degli anni immediatamen-
te successivi, infatti, uscì un gruppo dirigente popolare largamente
rinnovato, nel quale all’eclisse di molte famiglie che avevano guida-
to il Popolo nei decenni precedenti faceva riscontro l’ascesa di per-
sonaggi in gran parte nuovi alla vita politica 21. Tra di essi il nostro
 

Banduccio Banconti. Anzi, dobbiamo constatare, non senza una cer-


ta sorpresa, che nei primi anni ’90 Banduccio era uno dei quattro
cittadini più ascoltati della città, faceva parte cioè di una sorta di
quadrumvirato il cui potere decisionale, notevolissimo, non aveva
alcuna precisa traduzione istituzionale, ma poggiava su una base in
gran parte informale e piuttosto sfuggente: «quelli che più savi erano
tenuti a Pisa», li definisce una cronaca dell’epoca 22.  

Risulta francamente difficile trovare una spiegazione al fatto


che un uomo ormai più che cinquantenne, che, per quanto ne sap-
piamo, per tutta la vita non aveva mai mostrato interesse verso la
politica, neppure verso il più banale coinvolgimento nella routine
dei consigli, che non aveva neanche tentato di approfittare in qual-
che modo della visibilità del suo carismatico socio in affari nei pri-
mi anni ’70, si trovasse tutto d’un tratto nel ristrettissimo gruppo di
quelli che decidevano la linea politica della città. Negli anni successi-
vi, anzi, il suo ascendente andò costantemente aumentando, toccan-
do il culmine verso la fine del primo decennio del Trecento, quando
mancava davvero poco perché egli superasse la tenue linea di demar-
cazione tra l’influenza informale e la formalizzazione di un vero e

20 Sulla signoria di Ugolino della Gherardesca e Nino Visconti E. Cristiani,


Nobiltà e popolo nel Comune di Pisa. Dalle origini del podestariato alla signoria dei
Donoratico, Napoli 1962, pp. 232-242; M. Ronzani, Una nuova datazione per gli sta-
tuti di Ugolino e Nino «Podestà, capitani e rettori del Comune e del Popolo di Pisa»,
«Bollettino storico pisano», LX (1991), pp. 267-282.
21 Poloni, Trasformazioni, cit., pp. 145-174.
22 Fragmenta historiae pisanae auctore anonymo, in Rerum Italicarum Scriptores,
a cura di L.A. Muratori, XXIV, Mediolani 1798; rist.anast. Bologna 1983, coll. 643-
667, in particolare col. 666.

205
Alma Poloni

proprio potere signorile.


Alla ricerca di una possibile spiegazione, non ci resta che calar-
ci nei panni del prosopografo, e ricostruire con pazienza la rete di
relazioni in cui il Bonconti era inserito, per vedere se qualcuna delle
sue frequentazioni — per ragioni familiari, d’affari o di amicizia —,
negli anni immediatamente precedenti, possa in qualche modo giu-
stificare la folgorante ascesa politica. In effetti su questa strada qual-
che risultato lo otteniamo, ma ci riporta sempre, inesorabilmente, a
Guiscardo Cinquina.
Dopo il 1276, come si è detto, si era fatta largo nell’opinione
pubblica cittadina la convinzione che era necessario mettere da par-
te il ghibellinismo radicale che tante sconfitte aveva portato, e cerca-
re una qualche forma di convivenza con le forze guelfe di Toscana.
Questo orientamento si rafforzò negli anni successivi, in particolare
dopo la sconfitta della Meloria. La decisione di consegnare la città
nelle mani di Ugolino della Gherardesca, che nel 1285 fu nomina-
to podestà per dieci anni, era dettata proprio dalla sua vicinanza agli
ambienti guelfi. Ugolino era infatti tra i fuoriusciti che tra il 1273 e il
1274 si erano uniti alla lega guelfa, e che erano rientrati nel 1276 23. 

Si sperava che le relazioni che egli intratteneva con Firenze e le cit-


tà della lega avrebbero allontanato da Pisa la minaccia della doppia
morsa che la stingeva da terra, con le truppe delle città toscane, e dal
mare con la potente flotta genovese.
È chiaro che questo indirizzo politico, benché in quel momen-
to prevalente, non incontrava il favore di tutti. In particolare, esso
era vissuto con un certo disagio dalle maggiori famiglie della nobil-
tà, a partire dai Lanfranchi, Gualandi e Sismondi, che si sentivano
interpreti del più puro e autentico ghibellinismo cittadino. Ad assu-
mere l’iniziativa di ricompattare il fronte degli scontenti furono due
fratelli, Bonifazio detto Fazio e Ranieri di Donoratico. Appartenenti
a un ramo della famiglia della Gherardesca/Donoratico, la stessa
di Ugolino, i due erano figli di una figura di riferimento del ghi-
bellinismo pisano, un vero e proprio martire della causa ghibellina,
Gherardo di Donoratico, decapitato a Napoli nel 1268 al fianco di
Corradino di Svevia. L’ombra del padre proiettava su Fazio e Ranieri
la credibilità necessaria per proporsi come perno della ricostruzione
di un fronte ghibellino fortemente indebolito dagli eventi, e allo stes-
so tempo doveva produrre nei due fratelli un forte senso di respon-

23 Cristiani, Gli avvenimenti, cit., pp. 35-38.

206
Tre vite imprevedibili: mercanti in Toscana a fine Duecento

sabilità e quella schiacciante pressione che deriva dalla necessità di


dimostrarsi all’altezza di un tale genitore.
Dalla seconda metà degli anni ’70, proprio mentre in città pre-
valeva la linea moderata, i due appaiono impegnati a tessere una fit-
ta rete di relazioni non solo con le famiglie nobili che non facevano
mistero del loro sdegnoso arroccamento ghibellino, ma anche con
quelle famiglie popolari che, per sincera convinzione o interesse, au-
spicavano un cambio di rotta politica 24. Dietro la rivolta antisigno-
 

rile del 1288 c’era proprio questo fluido coordinamento di segmenti


diversi della società cittadina; l’evento, a questo punto, appare molto
meno improvvisato di quanto possa sembrare a una lettura frettolo-
sa delle cronache. A guadagnare di più dalla cesura del 1288 furono
proprio quelle famiglie popolari che negli anni precedenti aveva-
no accettato di farsi coinvolgere nella trama di relazioni tessuta dai
Donoratico, le quali dall’inizio degli anni ’90 si trovarono ai vertici
di un’élite politica largamente rinnovata.
Tra i popolari più vicini a Fazio e Ranieri di Donoratico c’era-
no, manco a dirlo, Guiscardo Cinquina e i suoi parenti più stretti.
Come avrebbe potuto mancare all’appello il fervente ghibellino che
certo non aveva vissuto con serenità l’eclisse della sua fortuna po-
litica? Nella seconda metà degli ani ’70 Fazio risultava debitore di
Guiscardo per varie somme di denaro e diversi appezzamenti di ter-
reno, forse impegnati a garanzia di prestiti 25. Il Donoratico, insom-
 

ma, ricorreva al ricco mercante nei momenti di difficoltà economica.


Come per l’impegno finanziario con Corradino di Svevia, anche in
questo caso interesse economico e passione politica appaiono intrec-
ciati in un nodo che sarebbe inutile, e probabilmente anche scor-
retto, cercare di sciogliere. Comunque i Cinquina rimasero legati ai
Donoratico da stretti rapporti di amicizia, d’affari e di affiliazione
politica anche nei decenni successivi 26.  

L’unico contatto di Banduccio Bonconti con il fronte politico


responsabile dei fatti del 1288 passava perciò attraverso Guiscardo
Cinquina. È evidente che anche in questo caso la ricostruzione del-

24 Poloni, Trasformazioni, cit., p. 146-163.


25 Una delle attestazioni più significative è Archivio di Stato di Pisa, Archivio
degli Ospedali Riuniti di S. Chiara, n. 2069, cc. 12v-13r, 1277 giugno 2.
26 Nel 1303 il nipote ex fratre di Guiscardo, Benenato Cinquina, era presente
a un atto di grande delicatezza per gli equilibri patrimoniali e familiari della casata
aristocratica, la divisione dell’eredità indivisa tra Fazio e Ranieri: Archivio di Stato
di Pisa, Dipl. Pia Casa di Misericordia, 1304 settembre 16.

207
Alma Poloni

l’universo relazionale del nostro personaggio, pur avvicinandoci a


una migliore comprensione di quanto accadeva in quegli anni, è
ben lontana dal fornirci una spiegazione soddisfacente della sua im-
provvisa ascesa politica. Perché a diventare uno dei più influenti e
ascoltati uomini politici non fu, all’inizio degli anni ’90, l’impegna-
to Guiscardo, l’appassionato ghibellino, l’amico dei Donoratico, che
per di più poteva vantare una solida esperienza ai più alti livelli del-
la diplomazia comunale, ma invece il suo tiepido, quasi incolore, ine-
sperto socio Banduccio?
Banduccio certo, come Guiscardo, era in quel momento uno
degli uomini più ricchi di Pisa, un mercante di grande successo, non
uno sprovveduto qualsiasi. Resta il fatto che aveva ormai più di cin-
quant’anni, e non solo non aveva mai speso energie per farsi una
posizione politica, ma sembra anzi essersi sempre tenuto ben lonta-
no dalle beghe che farsi una posizione politica inevitabilmente com-
portava. Il suo socio deve averlo introdotto nella cerchia di persone
che, dopo il 1288, stavano tentando di ricostruire un nuovo equili-
brio politico e di rifondare, su basi in gran parte nuove, il Comune
di Popolo che la pur breve signoria di Ugolino della Gherardesca
aveva già cominciato a smantellare. A quel punto, evidentemente,
Banduccio deve aver scoperto in sé una nuova ambizione, deve aver
deciso di sfruttare l’irripetibile occasione, o magari deve aver avver-
tito il dovere di mettere le proprie qualità personali al servizio della
città in un momento tanto delicato.
Ovviamente non abbiamo modo di conoscere i suoi sentimen-
ti, ma possiamo dire che con ogni probabilità fu proprio la sua «ver-
ginità» politica, il suo non essersi in alcun modo compromesso nelle
turbolenze degli anni precedenti, la sua totale estraneità ad ogni for-
ma di estremismo ideologico — in poche parole tutto ciò che lo di-
stingueva dal socio Guiscardo — a proporlo come leader ideale della
nuova era politica. A partire dal 1293, dopo la conclusione della pace
con le città della lega guelfa, cominciò di nuovo a prevalere una linea
improntata all’idea di pacificazione e di riconciliazione, tanto in po-
litica estera quanto in politica interna 27. Adesso Banduccio era l’uo-
 

mo giusto al momento giusto, proprio come il passionale Guiscardo


lo era stato nei primi anni ’70.
A questo proposito, c’è un curioso parallelismo che vale la pena
segnalare. Nel 1273 Giovanni Visconti, che aveva abbandonato la

27 Poloni, Trasformazioni, cit., pp. 167-174.

208
Tre vite imprevedibili: mercanti in Toscana a fine Duecento

città per unirsi alle forze guelfe, chiese un accordo, e la possibili-


tà di rientrare a Pisa. Secondo il racconto della cosiddetta Cronaca
roncioniana, si tenne allora un Consiglio, nel quale prese la parola
tra gli altri anche Guiscardo Cinquina, pronunciandosi con nettezza
contro la riammissione del Giudice di Gallura 28. Fu in effetti il suo
 

parere a prevalere. Esattamente vent’anni dopo, nel 1293, si ripre-


sentò la stessa situazione. Nino Visconti, figlio di Giovanni, chiedeva
il permesso di tornare in città. Si radunò un Consiglio, e, come nar-
ra un’altra cronaca cittadina, si espressero a favore della riammissio-
ne del Visconti, «per ciessare ognia scandalo», «quelli, che più savi
erano tenuti a Pisa, cioè Messere Gherardo Fagiuolo, Banduccino
Bonconte, Iacopo Favuglia, Messere Ranieri Sampante» 29. In que-  

sto caso la loro opinione fu messa in minoranza, ma fu in occasioni


come queste che Banduccio si meritò la fama di moderato che tanto
gli avrebbe giovato negli anni successivi, proprio come vent’anni pri-
ma Guiscardo si era fatto la fama di ghibellino intransigente che gli
aveva fatto guadagnare un posto di primo piano nelle vicende di quel
periodo 30. Lo strumento per mettersi in luce agli occhi dei concitta-
 

dini, per conquistare il prestigio e la credibilità necessari a un vero


leader politico, era sempre lo stesso, la parola, e il luogo dove la pa-
rola aveva la massima risonanza erano le riunioni consiliari che scan-
divano la vita politica del Comune.
Così, ormai vicino alla vecchiaia, Banduccio divenne uno degli
uomini politici più in vista di Pisa, e i discendenti del piccolo ban-
chiere Bonconte si conquistarono un posto di primo piano nell’éli-
te dirigente del Comune popolare, un posto che si sarebbero tenuti

28 Cristiani, Gli avvenimenti, cit., pp. 76-81.


29 Fragmenta historiae pisanae, cit., col. 666.
30 Ovviamente non ha un gran senso chiederci se questi Consigli si siano svol-
ti davvero, e proprio come le cronache ce li raccontano, cosa per altro probabile, dal
momento che tanto il cronista della Roncioniana quanto quello dei Fragmenta rac-
contavano avvenimenti dei quali erano stati testimoni oculari, prendevano probabil-
mente parte essi stessi alle assemblee o comunque avevano facile accesso ai verbali.
Il punto è che essi intendono presentarci personaggi che nell’ambito delle vicende
narrate avevano svolto un ruolo di primaria importanza. Che decidano di farlo met-
tendo in scena un Consiglio è di per sé molto significativo, e lo diventa ancora di più
se si tratta soltanto di un espediente retorico. Questa scelta narrativa mostra infat-
ti che i nostri cronisti vedevano un legame molto stretto tra l’influenza politica dei
personaggi in questione e la loro capacità di persuasione, che non avevano dubbi sul
fatto che tale capacità si esercitava al meglio nell’ambito dei Consigli, e che dunque
era nei Consigli che nascevano e si rafforzavano i leaders politici.

209
Alma Poloni

ben stretti per più di un secolo, con pochi momenti di crisi. La scelta
di Banduccio di tenersi sempre ai margini del mondo politico, di non
condividere l’appassionato impegno del socio Guiscardo, alla fine si
rivelò vincente. Ma sarebbe davvero assurdo, da parte nostra, pensa-
re che si trattasse di una scelta strategica: è molto più probabile che
fosse semplicemente la volontà di tenersi fuori dai guai, che a un cer-
to punto, in uno scenario politico rovesciato, divenne una dote par-
ticolarmente apprezzata.
Ma, per chiudere, siamo costretti a svelare che non si trattò di
una storia a lieto fine. Nel 1314 Banduccio fu decapitato insieme
al figlio Piero per ordine di Uguccione della Faggiola, che voleva
così colpire e terrorizzare il gruppo dirigente popolare del quale il
Bonconti era ormai leader indiscusso 31. Forse Banduccio non aveva
 

del tutto torto a volersi tenere fuori dalle grane della politica.

2. Adiuto Rosciompelli di Lucca


Nei primi anni del Trecento Adiuto Rosciompelli era a Lucca un
uomo politico influente quanto lo era Banduccio a Pisa. I due erano
anche più o meno coetanei: Adiuto nacque probabilmente tra la fine
degli anni ’30 e i primi anni ’40 del Duecento. Il padre si chiamava
Guglielmo, soprannominato «Roscinpelo», per un’evidente caratte-
ristica fisica. Fu da questo soprannome, in effetti, che si fissò il co-
gnome familiare. Il contesto sociale nel quale si muoveva Guglielmo
era proprio lo stesso del banchiere Bonconte. Entrambi si muoveva-
no nel vasto e brulicante sottobosco di piccoli mercanti e aspiranti
uomini d’affari di origine oscura alla ricerca di fortuna nelle due cit-
tà mercantili che attraversavano nei primi decenni del Duecento una
fase di crescita economica molto vivace e piuttosto caotica.
Tra la fine degli anni ’30 e i primi anni ’40 il padre di Adiuto en-
trò nella società fondata qualche anno prima dal tintore Ricciardo 32.  

Con Ricciardo galleggiamo sempre nello stesso ambiente di piccoli e


ambiziosi operatori economici che si affaccendavano nella Lucca di
inizio Duecento. Guglielmo, però, avrebbe avuto ragione di ringrazia-
re il caso che gli aveva fatto incontrare lo sveglio artigiano. All’inizio
Ricciardo e il fratello Perfetto, con un paio di soci estranei alla fa-

31 Poloni, Trasformazioni, cit., pp. 232-240.


32 Sulla compagnia dei Ricciardi cfr. I. Del Punta, Mercanti e banchieri luc-
chesi nel Duecento, Pisa 2004, pp. 141-216.

210
Tre vite imprevedibili: mercanti in Toscana a fine Duecento

miglia, gestivano una bottega dedita principalmente alla lavorazione


della seta e a piccole attività di credito. Ma quando Guglielmo si unì
all’impresa essa si stava già infilando nei giri giusti, si stava già pro-
curando contatti nella Roma dei papi, alle fiere della Champagne, il
cuore pulsante del commercio e della finanza internazionali, e per-
sino in Inghilterra, dove le lussuose sete lucchesi riscuotevano mol-
to successo presso i dignitari di corte. Poco dopo la metà del secolo
la societas Ricciardorum era ormai una realtà di tutto rispetto a livel-
lo europeo, e nei decenni successivi sarebbe diventata un vero e pro-
prio colosso del commercio e della finanza internazionali.
Guglielmo non abbandonò mai la società, e dalla fine de-
gli anni ’60 vi si impegnò anche il figlio Adiuto. In questi decenni i
Rosciompelli lasciano pochissime tracce nella documentazione luc-
chese. Niente matrimoni con gente di alto rango, niente compra-
vendite immobiliari e, soprattutto, almeno a quanto ne sappiamo,
niente politica. Questo evidente disimpegno sociale può stupire chi
guarda alla storia della famiglia avendo in mente il prestigio, la visi-
bilità, l’enorme ascendente di cui godeva Adiuto nei primi anni del
Trecento. E stupisce anche pensando alla grande ricchezza che nei
decenni centrali del Duecento la famiglia andava accumulando gra-
zie alla sua partecipazione alla compagnia dei Ricciardi. Dietro que-
sto stupore si nascondono due presupposti, anzi dovremmo dire due
precomprensioni, spesso presenti nelle nostre ricostruzioni prosopo-
grafiche. La prima è che il successo personale di un individuo non
possa che essere il coronamento di un graduale percorso di asce-
sa sociale della sua famiglia, del quale dovremmo essere in grado di
rintracciare le tappe successive. La seconda è che esista una corre-
lazione molto stretta, se non proprio immediata, tra ricchezza e po-
sizione sociale. Negli anni ’70 del Duecento, invece, i Rosciompelli
erano già molto ricchi, ma il loro peso nella società cittadina era qua-
si insignificante.
Questa scarsa rilevanza sociale derivava certo dalla loro identità
di parvenu, dall’origine molto recente del gruppo familiare. Ma è an-
che vero che l’arrampicata sociale richiedeva un grosso investimen-
to di risorse umane ed economiche, nella costruzione della fitta rete
di relazioni indispensabile per entrare negli ambienti giusti e nell’esi-
bizione di uno stile di vita adeguato. I Rosciompelli non sembrano
molto disposti a investire più di tanto per procurarsi questo capitale
sociale. Il fatto è che la famiglia pare quasi risucchiata dentro la socie-
tas Ricciardorum, persino dal punto di vista documentario, dal mo-
211
Alma Poloni

mento che gli atti relativi alla compagnia sono praticamente le uniche
tracce lasciate dai discendenti di Guglielmo. L’impegno in quella che
stava diventando una delle più importanti aziende internazionali as-
sorbiva probabilmente tutti o quasi i maschi adulti dei Rosciompelli.
Ma è anche probabile che l’influenza e il prestigio assicurati da una
posizione di primo piano nella società lucchese, e soprattutto dal-
l’appartenenza all’élite politica cittadina, non sembrassero gran cosa
a chi frequentava le corti europee e godeva della fiducia degli uo-
mini più potenti del continente. Una delle cose che ci insegnano sia
la vita di Banduccio Bonconti che quella di Adiuto Rosciompelli è
che, in realtà economicamente dinamiche come Pisa e Lucca nei de-
cenni centrali del Duecento, la realizzazione personale non passava
necessariamente attraverso l’impegno politico. Queste storie ci fan-
no sospettare che forse, almeno per il pieno XIII secolo, tendiamo a
sopravvalutare l’importanza della dimensione politica nella «ricerca
del benessere individuale».
Per Adiuto Rosciompelli indizi di un riorientamento delle am-
bizioni personali si rintracciano però a partire dagli anni ’80 del
Duecento. Nell’ottobre del 1284 Lucca concluse un trattato di al-
leanza con Firenze e Genova 33. La finalità esplicita della coalizione
 

era l’annientamento militare di Pisa, punto di riferimento delle for-


ze ghibelline toscane, attraverso una lotta senza quartiere condotta
congiuntamente per mare e per terra, sfruttando la fragilità non solo
militare ma anche psicologica dei pisani all’indomani della sconfit-
ta della Meloria. Questo atto era però volto anche a ricompattare
lo schieramento guelfo toscano e a promuovere l’alleanza Firenze-
Lucca come asse portante di tale schieramento. Nei giorni successi-
vi infatti, come risultato della faticosa opera di propaganda portata
avanti da fiorentini e lucchesi, aderirono al trattato, l’una dopo l’al-
tra, Prato, San Miniato, Poggibonsi, San Gimignano e Siena 34.  

Alla firma dell’alleanza con Firenze e Genova Lucca fu rappre-


sentata da due soci della compagnia Ricciardi, Labro Volpelli e il
nostro Adiuto Rosciompelli. Ma per quale motivo Lucca scelse di af-
fidare un incarico tanto importante a due personaggi che, per quanto
ne sappiamo, erano praticamente privi di esperienza politica? Anche

33 I Libri Iurium della repubblica di Genova, a cura di A. Rovere - D. Puncuh -


E. Madia - M. Bibolini - E. Pallavicino, 8 voll., Roma 1992-2002, n. 1194, 1284 ot-
tobre 13.
34 Ivi, nn. 1195-1199.

212
Tre vite imprevedibili: mercanti in Toscana a fine Duecento

in questo caso gli strumenti usuali della prosopografia, e la puntua-


le ricostruzione delle reti di relazioni in cui i due erano inseriti, non
ci portano da nessuna parte: la risposta a questo interrogativo va cer-
cata probabilmente in un’altra direzione. Diversi indizi sembrano in
realtà suggerirci che nei mesi precedenti Adiuto e Labro si fossero
spesi senza risparmio di forze per creare negli ambienti politici luc-
chesi una maggioranza favorevole a questo passo. La possibilità di
sedere al tavolo delle trattative era dunque prima di tutto un ricono-
scimento del loro impegno personale.
C’è da dire, intanto, che il rilancio dell’alleanza guelfa segnava
un’inversione di rotta 35. La linea politica prevalente a Lucca a par-
 

tire dalla seconda metà degli anni ’70 era stata infatti ispirata da un
guelfismo tiepido, incline a ricercare un modus vivendi con i ghibel-
lini all’interno e, soprattutto, all’esterno della città — insomma con
Pisa — e ad evitare situazioni di tensione. Il raffreddamento delle
passioni guelfe era stato del resto incoraggiato dalla stessa curia pon-
tificia. Fin dai primi anni ’70, infatti, il rapporto tra Carlo d’Angiò
e il papato si era incrinato. Gregorio X e Niccolò III furono palese-
mente impegnati nel tentativo di indirizzare la politica interna dei
Comuni del circuito guelfo in modo da indebolire l’influenza angioi-
na. In particolare, essi promossero appunto una visione più modera-
ta del guelfismo, improntata a un atteggiamento meno intransigente
nei confronti dei ghibellini e alla pacificazione tra le fazioni cittadi-
ne. La missione del cardinal Latino a Firenze rappresentò il momen-
to culminante di questo programma politico 36.  

Nel febbraio del 1281, tuttavia, salì al soglio pontificio, con il


nome di Martino IV, il francese Simone de Brie, grande sostenitore
di Carlo d’Angiò. Da subito egli impresse alla politica papale un in-
dirizzo filoangioino. La propaganda papale favorì il diffondersi nelle
città guelfe di sentimenti antighibellini e la formazione di partiti fa-
vorevoli a un’interpretazione più radicale del guelfismo. Si dà il caso
che le relazioni finanziare della compagnia Ricciardi con la sede apo-
stolica giungessero a piena maturità proprio negli anni di Martino
IV. Nel 1283 i soci furono per la prima volta indicati nelle fonti pon-
tificie come «mercatores domini pape», una patente quasi ufficiale
35 Su queste vicende Poloni, Lucca nel Duecento, cit., pp. 143-149.
36 Per un’analisi del riflesso delle oscillazioni della politica papale a Firenze
si veda S. Raveggi - M. Tarassi- D. Medici - P. Parenti, Ghibellini, guelfi e popo-
lo grasso. I detentori del potere politico a Firenze nella seconda metà del Dugento,
Firenze 1978, pp. 158-160 e 176-178.

213
Alma Poloni

che riconosceva un rapporto privilegiato con la curia 37. L’uomo dei  

Ricciardi a Roma era Labro Volpelli.


A questo punto dovrebbe apparire abbastanza chiaro che a
Lucca in quei primi anni ’80 Labro e Adiuto agivano da portavo-
ce dei progetti politici del papa, cercando di creare consenso intor-
no all’idea di un rilancio in grande stile della lega guelfa. I legami con
la camera apostolica, tuttavia, non sono da soli sufficienti a spiegare
gli sforzi profusi dai due per il rilancio della causa guelfa. Certo essi
avranno sperato di mettersi in luce negli ambienti della curia. Ma la
società dei Ricciardi non aveva certo bisogno di questa captatio bene-
volentiae: la fiducia della camera apostolica nei confronti della com-
pagnia era andata costantemente crescendo fin dai primi anni ’70, e
del resto le solide ramificazioni internazionali dell’azienda la rende-
vano uno strumento efficiente di riscossione delle decime papali 38.  

Del resto, è anche vero che la compagnia, tra soci e agenti, aveva un
organico molto ampio, e che solo Labro e Adiuto sembrano manife-
stare questo improvviso quanto acuto interesse politico. Ci sarà sta-
ta senza dubbio una forte componente di ambizione personale: i due
si saranno resi conto che questa era l’occasione buona per aprire una
nuova fase della loro vita, una fase nella quale una posizione politica
di grande visibilità non sembrava più né al di fuori della loro porta-
ta né così disprezzabile.
Ma è anche vero che ci troviamo qui in un caso molto simi-
le a quello di Guiscardo Cinquina negli anni ’70 del Duecento. Per
Adiuto e Labro, come per Guiscardo, anche dopo un’attenta trac-
ciatura delle relazioni personali e familiari in cui erano calati, non si
riesce davvero a trovare un’altra convincente spiegazione alla loro
improvvisa visibilità, che non sia il successo della loro proposta poli-
tica presso ampi settori della cittadinanza. Esistono studi molto raffi-
nati sull’importanza dell’eloquenza politica e sulla forza della parola,
in particolare proprio nell’Italia comunale del Duecento 39. Eppure,  

37 Del Punta, Mercanti e banchieri, cit., pp. 151-160.


38 Ivi.
39 Fondamentali gli studi di Enrico Artifoni: si vedano almeno E. Artifoni,
I podestà professionali e la fondazione retorica della politica comunale, «Quaderni
storici», 63 (1986), pp. 687-719; Id., Sull’eloquenza politica nel Duecento italiano,
«Quaderni medievali», 35 (1993), pp. 57-78; Id., Retorica e organizzazione del lin-
guaggio politico nel Duecento italiano, in Le forme della propaganda politica nel Due
e nel Trecento, a cura di P. Cammarosano, Roma 1994, pp. 157-182; Id., Gli uomi-
ni dell’assemblea. L’oratoria civile, i concionatori e i predicatori nella società comuna-
le, in La predicazione dei Frati dalla metà del ’200 alla fine del ’300, Spoleto 1995,

214
Tre vite imprevedibili: mercanti in Toscana a fine Duecento

quando dallo studio dell’universo culturale si passa alla ricostruzione


delle storie personali e familiari, l’idea che un improvviso exploit po-
litico possa essere legato alla capacità di conquistare l’oratorio, nelle
infinite occasioni nelle quali i cittadini si incontravano e si scambia-
vano opinioni, non viene mai davvero presa in considerazione. Si
preferisce in genere dare attenzione esclusiva a spiegazioni ritenute
meno ingenue, che vanno alla ricerca del parente illustre, del socio in
affari ammanicato, o di chissà quali altri intrighi di potere.
È ovvio che Adiuto e Labro, come Guiscardo, non erano certo
poveracci senza arte né parte, ma cittadini molto ricchi senza dub-
bio molto conosciuti. E, soprattutto, difficilmente avrebbero avuto
qualche speranza di convogliare consenso intorno al proprio pro-
getto se certe idee non fossero state già nell’aria. Nei primi anni ’80,
come si è detto, in tutte le città della galassia guelfa stava prevalendo
una visione più radicale e meno conciliante dell’identità guelfa. Per
ricorrere ancora una volta a un luogo comune, che però sottolinea
efficacemente il ruolo della casualità e della coincidenza nei percorsi
esistenziali, Labro e Adiuto erano gli uomini giusti al momento giu-
sto. Distinguere poi, nella loro dedizione alla causa, tra desiderio di
affermazione e sincera convinzione, maturata magari nelle tante con-
versazioni con le personalità più acute e impegnate della curia ponti-
ficia, mi sembra molto difficile, e del tutto irrilevante.
Esiste però una conferma abbastanza significativa dell’ampio
consenso che Adiuto aveva saputo conquistarsi presso i suoi con-
cittadini. Dopo decenni di scarso interesse della famiglia per la po-
litica, improvvisamente proprio nel 1284, l’anno del rilancio della
lega guelfa con il contributo determinante di Adiuto e Labro, tro-
viamo in Consiglio generale ben quattro Rosciompelli: i due figli di
Adiuto, Vanni e Nello, il fratello di Adiuto, Ricciardo, e Ghino figlio
di Aldibrandino. Con ogni probabilità, Aldibrandino era un altro
fratello, già defunto, di Adiuto e Ricciardo 40. È importante dire che
 

a Lucca i consiglieri del Consiglio generale venivano eletti dal bas-

pp. 141-188.
40 Guglielmo «Roscinpelo», che aveva chiamato uno dei figli Ricciardo, come
il fondatore della societas Ricciardorum, a un altro aveva dato il nome di uno dei soci
storici della compagnia, Aldibrandino del fu Guidiccione, capostipite della fami-
glia Gudiccioni. Sui Guidiccioni T.W. Blomquist, Lineage, Land and Business in the
Thirteenth Century: the Guidiccioni Family of Lucca, «Actum Luce», IX (1980), pp.
7-29 e XI (1982), pp. 7-34.

215
Alma Poloni

so. Gli abitanti di ciascuna contrada si riunivano separatamente nel


palazzo di San Michele in Foro sotto la supervisione del podestà, e,
tra di essi, veniva sorteggiato un numero di elettori pari al numero
di consiglieri che spettavano alla contrada stessa 41. Ogni elettore no-
 

minava direttamente un consigliere. L’elezione di ben quattro paren-


ti stretti di Adiuto è una prova della notorietà e dell’ascendente dei
quali in quel particolare momento il Rosciompelli godeva, e allo stes-
so tempo una chiara dichiarazione, almeno da parte dei suoi vicini di
contrada, di condivisione della sua linea politica.
Negli anni successivi, per la verità, non sembra che i Rosciompelli
abbiano continuato a giocare un ruolo politico di primo piano. Nel
1285, come abbiamo visto, i pisani rivolgevano le loro speranze a
Ugolino della Gherardesca, «amico» dei guelfi, e l’ebbrezza del-
la guerra lasciava rapidamente il posto alla palude delle trattative e
degli accordi. Non era una linea che potesse trovare il sostegno di
Adiuto e di Labro, e infatti i due tornarono ad occuparsi dei fatti
propri, mentre il «partito» ultraguelfo non scompariva, ma perdeva
consensi e veniva sospinto ai margini della vita politica.
Ormai, comunque, Adiuto si era convinto della necessità di
mettere radici più profonde nella società cittadina, anche, eventual-
mente, per preparasi un buen retiro per una vecchiaia non troppo lon-
tana, quando avrebbe potuto decidere di sottrarsi alle fatiche degli
affari. Nel maggio del 1285 Adiuto e il fratello Ricciardo compraro-
no, da un Aliotto e un Gualando dei quali la pergamena gravemente
danneggiata non ci consente di conoscere la provenienza familiare,
per la notevole cifra di 7.000 lire lucchesi in fiorini d’oro, molti ap-
pezzamenti posti nel piviere di Mozzano, in Garfagnana 42. Insieme  

alla terra, i due fratelli si accordarono per l’acquisto dei diritti signo-
rili di varia natura che i venditori esercitavano sui contadini che la
coltivavano. La Garfagnana, del resto, era terra di signoria. Ci sono
tutti gli indizi per pensare che i fratelli Rosciompelli mirassero a rica-
varsi in quest’area ai confini del contado lucchese un’enclave signori-
le, impegnando un po’ di quel denaro che erano andati accumulando
con le attività commerciali. Un piano che ricorda molto da vicino i
progetti neosignorili delle grandi famiglie mercantili senesi 43.  

41 Statuto del Comune di Lucca dell’anno MCCCVIII, a cura di S. Bongi - L.


Del Prete, Lucca 1867, pp. 62-63.
42 Archivio di Stato di Lucca, Dipl. Certosa, 1285 maggio 22.
43 A. Giorgi, Il conflitto magnati/popolani nelle campagne: il caso senese, in
Magnati e popolani nell’Italia comunale, XV Convegno di Studi (Pistoia 15-18 mag-

216
Tre vite imprevedibili: mercanti in Toscana a fine Duecento

I Rosciompelli, tuttavia, non guardavano a Siena, ma mol-


to più vicino a loro, a un’altra famiglia di soci della prima ora del-
la compagnia Ricciardi, i Guidiccioni. Fin dal 1261 Aldibrandino
del fu Guidiccione, fondatore delle fortune familiari e socio storico
dei Ricciardi, aveva acquistato una piccola quota delle proprietà dei
Gherardinghi, un consorzio signorile della Garfagnana, comprando
con il proprio denaro anche il diritto di far parte del consorzio stes-
so 44. Negli anni seguenti i Guidiccioni continuarono a incrementa-
 

re la propria partecipazione nelle proprietà dei Gherardinghi, ma


il passaggio decisivo avvenne, e non può essere un caso, proprio in
quel 1285, quando ben nove membri della famiglia fecero il proprio
ingresso nel consorzio acquistando un’altra rilevante porzione del
patrimonio signorile, conquistando in pratica il controllo della do-
mus Gherardingorum.
Il confronto con i Guidiccioni, che non mostrarono mai alcun
interesse per la vita politica del Comune popolare, ma scelsero di
comprarsi un futuro da signori rurali, ci aiuta a capire la mossa dei
Rosciompelli. Deluso dalla politica attiva, Adiuto aveva evidente-
mente deciso di non averci più nulla a che fare, e di seguire, insieme
al fratello, le orme dei soci.
Ma, come ci ha mostrato la storia di Banduccio Bonconti, in
questi ultimi scampoli di Duecento gli equilibri politici cambiava-
no di continuo, e con eccezionale rapidità, e Adiuto ebbe occasio-
ne di tornare sui propri passi. Dopo la fine tragica di Ugolino della
Gherardesca, nel 1288, la guerra contro Pisa riprese, portando al-
l’inizio facili vittorie alle lega guelfa, che si confrontava con nemici
confusi e frastornati dagli avvenimenti interni. Già dall’anno suc-
cessivo, tuttavia, le forze guelfe cominciarono a ripiegare sotto i col-
pi delle truppe pisane riorganizzate dall’abile condottiero Guido da
Montefeltro. Un forte malcontento per come la guerra veniva gestita
si diffuse in tutti gli strati della società lucchese. La debolezza della
reazione guelfa veniva imputata all’inettitudine del gruppo dirigen-
te popolare, mentre il «partito» ultraguelfo che aveva preso forma
per la prima volta nel 1284 tornava a compattarsi e a proporsi come
un’alternativa alla linea politica fino a quel momento prevalente.
All’inizio degli anni ’90, dopo trent’anni di stabilità, una pax po-
polare che pareva destinata a durare per sempre, una clamorosa no-

gio 1995), Pistoia 1997, pp. 137-211.


44 Per queste vicende Blomquist, Lineage, Land, cit.

217
Alma Poloni

vità cambiò la configurazione del sistema istituzionale del Comune


lucchese 45. Le società del Popolo, che avevano avuto un ruolo fon-
 

damentale nelle lotte popolari dei primi anni del Duecento, nella se-
conda metà del secolo non avevano più alcun peso reale e avevano
perso ogni capacità di partecipare attivamente al dibattito politico.
Nel 1292 fu fondato un nuovo organo istituzionale, i Priori delle so-
cietà del Popolo, che riprendevano nel nome il collegio direttivo del-
le società dei pedites di inizio secolo 46. Dietro questa iniziativa c’era
 

in realtà il tentativo di rilanciare l’azione delle società popolari, ri-


portandole alla loro funzione di centri di organizzazione del dissenso
nei confronti dell’élite al potere. Fin dai primi anni di esistenza del-
la nuova magistratura, che solo nel 1294 ottenne un riconoscimento
ufficiale e la possibilità di prendere parte al Consiglio generale, tro-
viamo in prima file tra i Priori Adiuto Rosciompelli e i suoi più stretti
familiari, oltre al suo socio e sodale politico Labro Volpelli. Accanto
a loro, altri mercanti dalla fisionomia sociale molto simile a quella dei
Rosciompelli, uomini d’affari provenienti da famiglie di origine re-
cente, estranee al gruppo dirigente popolare, che avevano fatto for-
tuna grazie a una fase fortemente espansiva che aveva caratterizzato
l’economia lucchese a partire più o meno dalla metà degli anni ’50
del Duecento.
Dietro la riorganizzazione delle società del Popolo, fin da subi-
to in aperta polemica con l’Anzianato, che dalla metà degli anni ’50
guidava il governo popolare, c’era lo scontento di ampi settori del-
la società cittadina, insoddisfatti per i fallimenti in politica estera,
ma anche per una certa deriva oligarchica dell’élite politica che pure
si professava popolare, e per il continuo restringimento degli spazi
di partecipazione. A questo disagio si sommava la volontà di conta-
re di più di molti parvenu che la congiuntura economica molto posi-
tiva degli anni ’60 e ’70 del Duecento aveva proiettato ai vertici del
mondo mercantile lucchese, ma che continuavano ad essere tenuti ai
margini del gruppo dirigente popolare, dominato dalle famiglie che
controllavano l’Anzianato fin dagli anni ’50 47.  

45 Su queste vicende Poloni, Lucca nel Duecento, cit., pp. 153-164.


46 Sul movimento popolare lucchese dell’inizio del Duecento G. De
Vergottini, Arti e «popolo» nella prima metà del secolo XIII, in Id., Studi di storia
del diritto italiano, a cura di G. Rossi, 3 voll., Milano 1977, I, pp. 397-467 (ed.orig.
1943); A. Poloni, Strutturazione del mondo corporativo e affermazione del Popolo a
Lucca nel Duecento, «Archivio storico italiano», CLXV (2007), pp. 449-486.
47 Sul contesto economico che a Lucca provocò una forte accelerazione del-

218
Tre vite imprevedibili: mercanti in Toscana a fine Duecento

Adiuto Rosciompelli, che aveva ormai abbondantemente supe-


rato la cinquantina, che per gran parte della sua vita si era tenuto
lontano dai palazzi del potere, ma al quale probabilmente l’espe-
rienza del 1284 aveva lasciato un po’ di amaro in bocca, e un deside-
rio più o meno nascosto di tornare sulle barricate, investì tutta la sua
credibilità, tutta la sua passione, tutto il suo peso nel nuovo proget-
to. Tanto più che il fronte politico che si andava delineando, e che si
fondava su un coinvolgimento dei ceti medio-bassi di ampiezza tale
da non avere confronti se non con le primissime fasi del movimen-
to popolare, aveva una coloritura di guelfismo radicale che non po-
teva dispiacere ad Adiuto. Il Rosciompelli divenne uno dei leaders
indiscussi del nuovo schieramento, che negli anni successivi vide lie-
vitare il proprio consenso, mentre il parallelo con le lotte politiche
pistoiesi e, soprattutto, fiorentine, lo portava a identificarsi con la
parte nera. Nel 1300 I Priori delle società del Popolo affiancarono
gli Anziani al vertice del sistema istituzionale comunale. L’anno suc-
cessivo, dopo una serie di gravi disordini, la parte bianca, nella qua-
le trovavano spazio, oltre alle maggiori casate aristocratiche, molte
famiglie appartenenti all’élite popolare che nei decenni preceden-
ti aveva dominato l’Anzianato, e che era il vero bersaglio dell’oppo-
sizione delle società del Popolo, fu costretta ad abbandonare la città
riparando a Pisa.
Cominciò così un corso politico del tutto nuovo, del quale il
nostro Adiuto era uno dei maggiori protagonisti, e che culminò nel
1308 con la totale riscrittura degli Statuti cittadini e la redazione del-
la lista dei «casastici et potentes», i magnati lucchesi, nella quale fu-
rono relegate, oltre alle casate dell’antica militia, anche numerose
famiglie della vecchia élite dirigente popolare ormai spodestata 48.  

Troviamo tra i magnati anche i Ricciardi e i Guidiccioni, gruppi fa-


miliari di origine recente almeno quanto i Rosciompelli, ma le cui
scelte di vita — si pensi al progetto signorile dei Guidiccioni — pa-
revano incompatibili con il nuovo clima politico. E dire che Ricciardi
e Guidiccioni, in quanto strettamente legati ai Rosciompelli e ai
Volpelli, avrebbero dovuto avere le spalle coperte. Ma nel frattem-
po la compagnia dei Ricciardi era fallita, trascinandosi dietro la solita

la mobilità sociale a partire dalla fine degli anni ’50 del Duecento Poloni, Lucca nel
Duecento, cit., pp. 75-84.
48 Ivi, pp. 165-182. Si veda anche V. Tirelli, Sulla crisi istituzionale del comu-
ne a Lucca (1308-1312), in Studi per Enrico Fiumi, Pisa 1979, pp. 317-360.

219
Alma Poloni

scia di malumori e litigi tra i soci 49. A questo proposito, non possia-
 

mo certo escludere che le difficoltà della società, in grave crisi fin dai
primissimi anni ’90, abbiano avuto una loro parte nel determinare la
decisione di Adiuto di buttarsi anima e corpo in politica.
Lo schieramento che si era formato all’inizio dell’ultimo decen-
nio del Duecento, e che aveva come punto di riferimento le società
del Popolo, aveva costruito la propria identità politica sull’idea di un
ritorno all’«età dell’oro» del movimento popolare, identificata con i
primi anni del Duecento, quando le lotte dei pedites avevano coin-
volto gran parte della cittadinanza contro lo strapotere dei milites.
La propaganda che aveva garantito la vittoria di questa parte politica
era basata su un abile reimpiego delle parole d’ordine della tradizio-
ne popolare, su un «linguaggio politico», si direbbe oggi, incentra-
to sui valori di riferimento della cultura del Popolo. Dopo il 1301
prevalse insomma una linea non solo ultraguelfa, ma anche ultrapo-
polare. Di fronte alla piega che avevano preso gli eventi, Adiuto si
affrettò a mettere da parte il suo piano di ricavarsi un’enclave signo-
rile in Garfagnana, chiaramente poco compatibile con il suo ruolo
di leader del rifondato movimento popolare. Del resto furono pro-
prio i loro comportamenti ritenuti poco conformi all’understatement
popolare a far affibbiare ai suoi ex soci ed ex amici, i Ricciardi e i
Guidiccioni, l’etichetta di magnati.
Così, come era accaduto a Banduccio Bonconti, i casi impreve-
dibili dell’esistenza e le turbolenze politiche degli anni a cavallo tra
Due e Trecento avevano portato il figlio di Guglielmo «Roscinpelo»
ad essere uno degli uomini più influenti di Lucca. Come Banduccio,
Adiuto non ci appare in alcun modo predestinato a questo ruolo, né
questo esito ci si presenta come il coronamento di un coerente e pa-
cifico percorso di vita. A ben vedere, anzi, il Rosciompelli visse molte
vite diverse: uomo d’affari stimato presso le corti dei potenti europei,
appassionato sostenitore del progetto papale di rilancio della lega
guelfa in Toscana, signore rurale in Garfagnana, politico di primis-
simo piano nella sua città. Soltanto lo sguardo dall’alto dello storico
può spingerci a ricomporre questi segmenti irregolari in una storia
di vita lineare e compiuta, ma si possono nutrire dei dubbi sulla li-
ceità di questa operazione. Questo non significa, ovviamente, che

49 Del Punta, Mercanti e banchieri, cit., pp. 194-204; Id., Il fallimento della
compagnia Ricciardi alla fine del secolo XIII: un caso esemplare?, «Archivio storico
italiano», CLX (2002), pp. 221-268.

220
Tre vite imprevedibili: mercanti in Toscana a fine Duecento

Adiuto non pianificasse la sua esistenza e si abbandonasse al caso. Al


contrario, il Rosciompelli ci appare uomo forte e determinato, dota-
to di una grande capacità progettuale. Ma, come tutti, egli non po-
teva che compiere le sue scelte con le informazioni, necessariamente
incomplete, che aveva a disposizione, e per di più in un contesto che
mutava in continuazione, proiettando in direzioni impreviste le con-
seguenze di medio e lungo periodo delle sue strategie.
A quanto pare Adiuto, a differenza di Banduccio, ebbe la fortu-
na di morire nel proprio letto. Ma le tensioni degli anni a cavallo tra
Due e Trecento non erano che la prima manifestazione di una gra-
ve instabilità che avrebbe tormentato Lucca per tutto il Trecento. La
presa di potere di Uguccione della Faggiola, nel 1314, segnò la fine
della fortuna politica dei Rosciompelli. I discendenti di Guglielmo
«Roscinpelo» non erano destinati a un posto di primo piano nel
patriziato lucchese che prese faticosamente forma nel corso del
Trecento 50. La brillante avventura di Adiuto fu solo una parentesi, in
 

fondo irrilevante, nella storia politica di Lucca.

3. Musciatto Franzesi di Firenze (e di Siena)


La terza storia che racconteremo, quella di Musciatto Franzesi,
è decisamente più nota delle precedenti, un po’ per l’attenzione mag-
giore che Firenze ha sempre attratto rispetto alle altre città toscane,
un po’ perché si tratta in effetti di una storia fuori dal comune, che ci
porta addirittura alla corte di Filippo il Bello re di Francia.
Andando con ordine, dobbiamo dire che Ciampolo, meglio noto
come Musciatto, era più o meno coetaneo di Banduccio e Adiuto, ed
era nato a Figline Valdarno 51. Il padre Guido, nel paese d’origine,
 

portava il titolo di miles, apparteneva cioè a quella piccola aristo-


crazia militare tanto comune nei borghi rurali dell’Italia centro-set-

50 I Rosciompelli non compaiono neppure nell’indice dei nomi del libro di


C. Meek, Lucca 1369-1400: Politics and Society in an Early Renaissance City-State,
Oxford 1978. Per la storia trecentesca di Lucca si veda anche, della stessa autrice,
C. Meek, The Commune of Lucca Under Pisan Rule, 1342-1369, Cambridge (Mass.)
1980, e inoltre L. Green, Castruccio Castracani. A Study on the Origins and Character
of a Fourteenth-Century Italian Despotism, Oxford 1986; Id., Lucca Under Many
Masters. A Fourteenth-Century Italian Commune in Crisis (1328-1342), Firenze
1995.
51 Attingo tutte queste informazioni da Pirillo, Famiglia e mobilità, cit., pp.
39-67, al quale rimando per i rimandi puntuali alle fonti.

221
Alma Poloni

tentrionale. Spinti probabilmente dalle scarse prospettive riservate


loro da un patrimonio paterno piuttosto esiguo, Musciatto e il fra-
tello Biccio (Albizzo) decisero, come molti altri fiorentini (e pisani,
e lucchesi) di non eccelsi natali, di tentare la fortuna con la mercatu-
ra, e si posero alle dipendenze della compagnia fiorentina degli Scali.
All’inizio degli anni ’80 i due erano in Francia, dove apparivano già
ben inseriti negli ambienti di corte, anche se non si erano ancora di-
staccati dal vivace mondo dei “Lombardi” che a Parigi trafficavano
in ogni genere di affari. Nel giro di pochissimi anni, però, la stima
di Filippo il Bello nei confronti di Musciatto crebbe a tal punto da
rendere i fratelli Franzesi due tra gli uomini più influenti, più temu-
ti e più odiati di Francia. Il modo in cui Musciatto e Biccio riusci-
rono a conquistarsi la fiducia del re, che li preferì ai tanti mercanti
fiorentini, e toscani in genere, attivi a Parigi, alcuni in rappresentan-
za di compagnie internazionali potentissime, è una di quelle cose che
l’avarizia delle fonti ci condanna a non sapere. Ma è anche, proba-
bilmente, una di quelle circostanze imponderabili, che hanno a che
fare con i rapporti umani, le qualità personali e le simpatie recipro-
che, che forse neppure una documentazione più ricca potrebbe aiu-
tarci a chiarire.
Fatto sta che la relazione privilegiata con il re pose presto
Musciatto e Biccio in rotta di collisione con i connazionali che ope-
ravano in Francia, soprattutto a partire dai primi anni ’90, quando
Filippo il Bello, nella necessità impellente di fare cassa, cominciò a
tormentare i mercanti italiani con misure che andavano da imposi-
zioni straordinarie fino all’incarcerazione e al sequestro dei beni 52.  

Nella loro qualità di consiglieri del re, i Franzesi furono sospetta-


ti di avere ispirato queste misure. L’ostilità nei loro confronti, ormai
non più confinata all’ambiente degli operatori stranieri, toccò il cul-
mine nella primavera del 1295, quando Filippo procedette alla pri-
ma di una lunga serie di svalutazioni della moneta. Le svalutazioni
ebbero conseguenze molto negative non soltanto per i mercanti, ma
anche per tutte quelle componenti della società francese la cui base
economica era composta in gran parte da rendite fisse in denaro a ca-
rattere consuetudinario, che difficilmente potevano essere rinegozia-
52 J.B. Henneman Jr., Taxation of Italians by the French Crown (1311-1363),
«Medieval Studies», XXXI (1969), pp. 15-42; J.R. Strayer, Italian Bankers and
Philip the Fair, in, Economy, Society and Government in Medieval Italy. Essays in
memory of R.L. Reynolds, edited by D. Herlihy - R.S. Lopez - V. Slessarev, Kent
(Ohio) 1969, pp. 113-121.

222
Tre vite imprevedibili: mercanti in Toscana a fine Duecento

te senza sollevare contestazioni e resistenze 53: cioè, in primo luogo,


 

l’aristocrazia terriera laica ed ecclesiastica che, tra l’altro, alimentava


gli ambienti di corte.
Insomma, per i Franzesi alla metà degli anni ’90 il clima si face-
va davvero pesante, e non stupisce che essi meditassero di preparar-
si, per un futuro non troppo lontano, un morbido rientro in patria.
Proprio nella primavera del 1295 — una coincidenza che ha tutta
l’aria di non essere una coincidenza — Musciatto e Biccio, con il fra-
tello Niccolò, inoltrarono richiesta ufficiale al Comune di Siena per
poter ottenere la cittadinanza, privilegio che, per la loro notorietà e
soprattutto in considerazione della loro ricchezza, fu loro accordato.
Due anni dopo Musciatto per primo si trasferì in un lussuoso palaz-
zo sulla piazza del Campo.
I tre fratelli Franzesi, originari del contado di Firenze, titola-
ri della cittadinanza fiorentina, che avevano parenti già ben integra-
ti nella società fiorentina, scelsero di godersi la loro agiata vecchiaia
da mercanti a riposo nella città di Siena. Una scelta in apparenza
strana, ma in realtà, se si presta attenzione al contesto in cui maturò,
davvero ingegnosa. Ciò che sconsigliava il reinserimento nella socie-
tà fiorentina non era tanto — o comunque non era soltanto — l’evi-
dente antipatia di tanti concittadini, del resto bilanciata dai rapporti
amichevoli e di alleanza che i Franzesi mantenevano con alcune fa-
miglie di primo piano. Il fatto è che nei primi anni ’90 il clima po-
litico a Firenze era piuttosto teso. In quello stesso anno 1295 nel
quale Musciatto e i fratelli inoltrarono la domanda di cittadinanza
senese, Firenze era reduce da un biennio di governo popolare radi-
cale, sotto la guida di Giano della Bella, che aveva prodotto, tra l’al-
tro, i celebri Ordinamenti di giustizia, che comprendevano come è
noto norme molto severe contro i «grandi», o magnati 54. Si dà il caso
 

che i Franzesi fossero stati inseriti nella lista magnatizia che accom-
pagnava gli Ordinamenti. Una decisione, del resto, ineccepibile, dal
momento che per essere considerati «grandi» era sufficiente anno-
verare un miles in famiglia, e il padre di Musciatto, Biccio e Niccolò
era appunto un miles, come del resto diversi altri parenti più o meno
stretti.
53 A. Grunzweig, Les incidences internationales des mutations monétaires de
Philippe le Bel, «Le Moyen Age. Revue d’histoire et de philologie», LIX (1953), pp.
117-172; P. Spufford, Money and its Use in Medieval Europe, Cambridge 1988, pp.
289sgg.
54 Raveggi - Tarassi - Medici - Parenti, Ghibellini, guelfi, cit.

223
Alma Poloni

Insomma, l’origine familiare dei tre fratelli, che non ci appa-


re certo particolarmente elevata, e che comunque non era stata suf-
ficiente a garantire loro una vita tranquilla da proprietari terrieri, li
esponeva a una serie di complicazioni. I magnati erano ovviamente
esclusi dalle istituzioni popolari, ma è probabile che questo non tur-
basse più di tanto Musciatto, Biccio e Niccolò, che non ci appaiono
ansiosi di gettarsi nell’agone politico. Ma, senza contare le limita-
zioni, anche gravi, alla libertà personale imposte dagli Ordinamenti
di giustizia, non dobbiamo sottovalutare la forte ostilità che in que-
gli anni di estremismo popolare circondava i «grandi», che ne face-
va delle specie di sorvegliati speciali. Insomma, i Franzesi devono
aver pensato che, se magnati bisognava essere, tanto valeva esserlo a
Siena, dove questa condizione era assai meno invalidante che nella
Firenze degli anni ’90, e dove il clima era decisamente meno teso.
Negli anni successivi, infatti, Musciatto, Biccio e Niccolò —
senza comunque abbandonare il loro impegno nel commercio e
nella finanza internazionali, e gli interessi vitali in Francia — si cala-
rono perfettamente nei panni, non certo scomodi, del perfetto ma-
gnate senese, e lanciarono un ambizioso progetto neosignorile che
non aveva nulla da invidiare a quelli delle maggiori famiglie locali 55.  

Acquistarono perciò rocche e fortezze nel territorio senese, insieme


ai diritti signorili su coltivatori e residenti, ma si spinsero ancora ol-
tre. Nel 1298 i tre fratelli riuscirono a ottenere dai Consigli fiorentini
— a riprova del fatto che a Firenze potevano ancora contare su ami-
ci importanti — il permesso di acquistare l’intero feudo che faceva
capo ai castelli di Colle, Castiglione e Avena, nel Valdarno di Sopra,
al confine del contado fiorentino con quello aretino. Il loro piano
pare perfettamente riuscito. I Franzesi si avviavano a diventare una
delle grandi famiglie magnatizie senesi, sullo stesso livello di casate
come i Tolomei, i Salimbeni o i Gallerani, con le quali cominciarono
anche a imbastire una rete di legami matrimoniali 56.  

Ma la vita riservava ancora grosse sorprese a Musciatto. Alla

55 Sul fenomeno neosignorile a Siena cfr. Giorgi, Il conflitto, cit.; R.


Mucciarelli, I Tolomei banchieri di Siena. La parabola di un casato nel XIII e XIV
secolo, Siena 1995; A. Carniani, I Salimbeni, quasi una signoria. Tentativi di afferma-
zione politica nella Siena del ’300, Siena 1995; si veda ora anche Fedeltà ghibellina
affari guelfi. Saggi e riletture intorno alla storia di Siena fra Due e Trecento, a cura di
G. Piccinni, 2 voll., Pisa 2008.
56 Particolarmente stretta l’alleanza con i Tolomei, con i quali concludono in
pochi anni ben tre matrimoni, Pirillo, Famiglia e mobilità, cit., pp. 60-61.

224
Tre vite imprevedibili: mercanti in Toscana a fine Duecento

fine del 1300 papa Bonifacio VIII riuscì a convincere Carlo di Valois,
fratello di Filippo il Bello, a organizzare una spedizione in Italia 57. 

Carlo avrebbe dovuto aiutare gli Angioini a riconquistare la Sicilia.


Ma probabilmente erano altre le vere mire del papa. Nella sua traver-
sata dell’Italia, il Valois avrebbe dovuto intervenire anche in Toscana,
per ridurre all’obbedienza i ghibellini e i bianchi, che Bonifacio non
vedeva per nulla di buon occhio. In particolare, egli avrebbe dovuto
incoraggiare un rivolgimento della situazione interna a Firenze, dove
la parte bianca aveva preso il sopravvento, e favorire la prevalenza
della parte nera vicina al papa. Carlo aveva bisogno di un «mediatore
culturale», di qualcuno che lo aiutasse a interpretare gli scenari fio-
rentini e a muoversi nel modo giusto. È del tutto comprensibile che
egli pensasse a Musciatto, al quale lo legava una lunga frequentazio-
ne presso la corte francese. Nell’autunno del 1301 il Valois, di ritor-
no da Roma, fece base nel castello di Staggia, residenza e centro del
dominio di Albizzo Franzesi (come preferiva farsi chiamare Biccio
da quando era tornato in Toscana). Il primo novembre Carlo entrò a
Firenze, accompagnato dal fidato Musciatto.
Con la spedizione italiana di Carlo di Valois, Musciatto si trovò
dunque di fronte a uno di quei momenti di svolta che abbiamo già in-
dividuato nella vita di Banduccio Bonconti e di Adiuto Rosciompelli.
Come Banduccio e Adiuto, il Franzesi, un uomo ormai avanti con gli
anni, non si era mai dedicato attivamente all’impegno politico, né a
Firenze né a Siena. Non sapremo mai che cosa spingesse Musciatto
a seguire Carlo, probabilmente il convergere di molti sentimenti di-
versi, il desiderio di ottenere finalmente a Firenze la posizione che ri-
teneva di meritare, la condivisione nel progetto politico del Valois e
di papa Bonifacio, la volontà di rivalsa nei confronti dei concittadini
che l’avevano criticato e di vera e propria vendetta nei confronti dei
nemici. L’arrivo del Valois comportò comunque quasi un mutamen-
to degli equilibri politici a favore della parte nera, e una fulminan-
te ascesa politica di Musciatto, che divenne subito un uomo molto
influente. Nell’aprile del 1302 Carlo lo fece eleggere Capitano della
Taglia guelfa di Toscana, un incarico di grandissimo prestigio.
Musciatto, proprio come Banduccio Bonconti e Adiuto
Rosciompelli, visse molte vite diverse, e condivise identità apparen-
temente molto lontane tra loro. Fu un mercante fiorentino, un digni-

57 Sull’avventura italiana di Carlo di Valois ancora indispensabile R.


Davidsohn, Storia di Firenze, 8 voll., Firenze 1956-1968, IV, pp. 191sgg.

225
Alma Poloni

tario alla corte di Filippo il Bello re di Francia, un magnate senese,


un leader politico della Firenze nera. Individuare una logica o una
direzione dietro questo bizzarro percorso è praticamente impossibi-
le, eppure ciascun frammento della sua complicata esperienza appa-
re in sé perfettamente logico e comprensibile. Musciatto partecipava
a un gioco nel quale le carte in tavola venivano cambiate in continua-
zione, e la sua pur notevole abilità strategica incontrava limiti invali-
cabili. Dobbiamo anche ammettere che il Musciatto che seguì Carlo
di Valois era probabilmente un uomo molto diverso dal giovane che
decenni prima aveva lasciato Figline Valdarno. I prosopografi, nel ri-
costruire percorsi di affermazione — di individui, famiglie o interi
gruppi sociali — il più coerenti possibile, sembrano spesso dimenti-
care che i desideri, le ambizioni, l’idea stessa di felicità e di realizza-
zione possono cambiare notevolmente nel corso dell’esistenza di una
persona.
Purtroppo per Musciatto, quella di potente uomo politico non
era la sua ultima reincarnazione. Fallì in quegli anni la compagnia se-
nese dei Bonsignori, che aveva contratto con i Franzesi un debito che
ammontava a 58.000 lire di tornesi. La società dei Franzesi non pote-
va fare fronte all’enorme perdita, il panico si diffuse tra gli investitori,
i quali ritirarono i fondi depositati presso la compagnia, ed essa non
fu più in grado di pagare i creditori. Nel 1305, per la soddisfazione
dei tanti nemici del Franzesi, che erano diventati ancora più nume-
rosi negli anni nei quali i tre fratelli avevano fatto il bello e il cattivo
tempo in città, Musciatto fu condannato dal Comune di Firenze alla
pena capitale e alla confisca dei beni. Morì in disgrazia all’inizio del
1307, seguito pochi mesi dopo da Albizzo, compagno di tante avven-
ture. Niccolò rimase da solo ad affrontare il disonore di un fallimen-
to le cui conseguenze si sarebbero trascinate per decenni.

Conclusioni
È certamente difficile trarre conclusioni di ordine generale da
quelle che ho insistentemente presentato come vicende individua-
li, per ciò stesso irripetibili. Eppure a mio parere da queste storie è
possibile ricavare almeno una proposta interpretativa. Torniamo per
un momento alla questione della prosopografia, sollevata all’inizio
di questo contributo. La prosopografia consiste nella ricostruzione
di un numero più o meno ampio di percorsi individuali, con la fina-
lità esplicita di confrontarli tra loro. Nell’applicare questo metodo è
226
Tre vite imprevedibili: mercanti in Toscana a fine Duecento

quasi naturale enfatizzare la regolarità, eliminare gli elementi che ap-


paiono eccentrici, neutralizzare le incongruenze, depurare il campio-
ne dall’effetto inquinante della casualità e dell’evento imprevedibile.
Si arriva così a disporre di un insieme di vite ben incolonnate, come
in una operazione aritmetica, nel quale risulta abbastanza agevole in-
dividuare norme di valore generale, che ci permettano, per esempio,
di capire quali erano le tappe di un riuscito cursus honorum, o qua-
li erano le strategie più comunemente adottate da una famiglia per
migliorare la propria posizione sociale, o qual era il motivo che spin-
geva un gruppo familiare a schierarsi con una fazione politica inve-
ce che con un’altra.
Dovremmo però almeno prendere in considerazione l’ipotesi
che l’adozione del metodo prosopografico non comporti di per sé la
soppressione delle irregolarità, l’eliminazione dell’imprevisto. E che
anzi, forse, è proprio nelle incoerenze, nelle deviazioni, nelle svolte
improvvise, negli errori e nei vicoli ciechi che si nascondono infor-
mazioni fondamentali non solo sugli individui e sul loro universo di
valori, ma anche, cosa che per un cultore delle biografie seriali è as-
sai più importante, sul contesto nel quale il loro percorso di vita si
svolse 58.
 

Prendiamo per esempio il caso dell’attribuzione ad Adiuto


Rosciompelli dell’incarico di rappresentare Lucca nelle contratta-
zioni per il rilancio della lega guelfa, nel 1284. La tentazione, quasi
irresistibile, è di spiegare questa investitura politica come l’esito pa-
cifico di coerenti strategie personali e familiari, anche se di tali stra-
tegie non è rimasta alcuna traccia documentaria. Siamo cioè portati a
pensare che una posizione politica di tale visibilità debba essere sta-
ta preceduta dall’assunzione di incarichi di minore responsabilità, da
parte di Adiuto stesso e dei suoi più stretti congiunti, in un’ordina-
ta progressione della quale solo per una caso non si sono conservate
attestazioni esplicite. La consacrazione politica non può che essere
il risultato di una scalata sociale — la metafora, una delle più utiliz-
zate dagli studiosi di storia sociale, suggerisce proprio l’idea di una
graduale quanto faticosa ascesa — le cui tappe sono, fino a un certo
punto, obbligate e perciò prevedibili.
Così «normalizzato», l’exploit di Adiuto appare più o meno ir-
rilevante per la comprensione della vita politica lucchese dei primi

58 Da questo punto di vista, mi sembra un esperimento particolarmente ben


riuscito R. Zapperi, Annibale Carracci. Ritratto di artista da giovane, Torino 1989.

227
Alma Poloni

anni ’80 del Duecento. Se però accettiamo quello che le fonti ci met-
tono insistentemente davanti agli occhi, e cioè che questo incarico
giunse come una svolta nella vita del Rosciompelli, come una de-
viazione imprevedibile e imprevista — e per altro momentanea —
nel suo percorso, l’evento del 1284 ci appare in una luce totalmente
diversa, e solleva, come abbiamo visto, interessanti interrogativi sul
contesto politico nel quale si colloca. Certo per rispondere a questi
interrogativi è necessario ampliare lo sguardo oltre la vicenda indi-
viduale di Adiuto, ma resta il fatto che è questa vicenda individuale,
considerata in parallelo a molte altre vicende individuali altrettanto
spezzate e incoerenti, a svelare le lacerazioni e le smagliature di un
ordine politico sottoposto a forti tensioni. Inoltre, l’attenzione per
l’irregolarità e l’imprevedibilità dei percorsi di vita, come si è cercato
di dimostrare, consente anche di fare spazio alla dimensione, gene-
ralmente trascurata dalle ricostruzioni prosopografiche, delle passio-
ni e delle convinzioni politiche.
Un altro caso interessante è quello di Banduccio Bonconti e
della sua improvvisa visibilità dopo il 1288, che appare davvero in
contraddizione con l’atteggiamento di diffidenza nei confronti del-
l’impegno politico tenuto da questo personaggio per gran parte della
sua vita. Le vicende pisane mostrano bene come una delle conse-
guenze principali della tendenza degli studi prosopografici a depura-
re le storie personali e familiari dalle irregolarità e dalle incongruenze
sia una visione eccessivamente continuista dell’evoluzione politica e
sociale delle realtà cittadine. L’idea che ogni successo politico non
possa che avere alle spalle una paziente pianificazione, spesso plu-
rigenerazionale, impedisce a volte di cogliere la radicalità di certe
cesure storiche, come quella che a Pisa fu rappresentata dalla cadu-
ta della signoria di Ugolino della Gherardesca e Nino Visconti nel
1288, che davvero segnò l’inizio di una fase del tutto nuova.
Vorrei concludere queste considerazioni con un’impressione,
alla quale al momento non saprei dare una definizione più precisa,
ma che propongo comunque come spunto di riflessione. Per quanto
l’invito a non sterilizzare le biografie individuali a vantaggio di una
levigata biografia collettiva sia sempre valido, quelle che ho raccon-
tato sono storie tipicamente duecentesche. L’impressione cioè è che
il periodo nel quale questi percorsi individuali si svolsero, gli ultimi
decenni del Duecento, abbia caratteristiche del tutto particolari, che
contribuiscono a spiegare, almeno in parte, il tratto imprevedibile e
avventuroso di tali percorsi. Si trattava infatti di un contesto straor-
228
Tre vite imprevedibili: mercanti in Toscana a fine Duecento

dinariamente aperto. Pisa, Lucca e Firenze vivevano una fase di ec-


cezionale espansione economica, fondata su un grande sviluppo del
commercio internazionale. In una società così vivace e così mobile
gli spazi di affermazione personale erano molto più ampi, ma soprat-
tutto molto più vari, di quanto ci aspetteremmo sulla base dell’os-
servazione di altre realtà del passato. In un mondo che offriva tante
opportunità per migliorare la propria posizione sociale non esisteva-
no percorsi obbligati per raggiungere, e soprattutto per consacrare
agli occhi dei concittadini, uno status elevato.
Per tornare al tema centrale di questo convegno, pare proprio
che alla fine del Duecento esistesse una concezione di successo so-
ciale, e di realizzazione personale, assai più articolata e complessa di
quanto si pensi comunemente, e nella quale, per esempio, l’impegno
politico e l’integrazione nell’élite dirigente non sembrano avere l’im-
portanza fondamentale che siamo quasi inconsciamente portati ad
attribuire loro. Siamo insomma piuttosto lontani da quell’ossessione
per l’«essere in istato» che emerge con tanta evidenza dalle ricordan-
ze fiorentine della seconda metà del Trecento, riflesso forse di una
società nella quale gli spazi di affermazione e di realizzazione appa-
rivano più ristretti 59. 

È chiaro inoltre che le turbolenze politiche che segnarono gli


ultimi anni del Duecento nelle tre città prese in considerazione erano
particolarmente favorevoli ai successi improvvisi e agli imprevedibili
cambi di rotta dei percorsi individuali. Prima o poi, tuttavia, sarà an-
che il caso di domandarsi se non possa essere vero anche il contrario.
Se cioè l’inquietudine politica che pare segnare quegli anni non pos-
sa essere legata anche all’apertura e alla mobilità della società cittadi-
na, che impedivano il cristallizzarsi di gerarchie definite e mettevano
in continua discussione gli equilibri di potere.

59 Si vedano i celebri testi raccolti in Mercanti scrittori: ricordi nella Firenze tra
Medioevo e Rinascimento, a cura di V. Branca, Milano 1986.

229
Domenica 17 maggio, mattina
Pistoia, Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei Vescovi
Presidente Prof. Mauro Ronzani

Maria Clara Rossi


La vita buona:
scelte religiose di impegno nella società

Il titolo che mi è stato affidato, «La vita buona: scelte religiose


di impegno nella società», mi sollecita ad alcune riflessioni prelimi-
nari, con le quali provare a dar conto, prima di tutto a me stessa, di
alcune espressioni che si rivelano più complesse, se non addirittura
insidiose, di quanto non appaia a prima vista. E le espressioni sono:
«vita buona» e «scelte religiose».
Parto dunque dalla prima: vita buona. L’espressione è seman-
ticamente molto densa, connotata, carica di suggestioni filosofiche
e soprattutto etiche. Ripercorrerne anche in forma di sintesi la sto-
ria, partendo magari dall’Etica Nicomachea, per poi soffermarmi sul-
la fase medievale, peraltro piuttosto problematica, di assimilazione
cristiana del pensiero aristotelico e di rifrazione di questo pensiero
sull’etica 1, non avrebbe avuto senso in questa sede; e, soprattutto,
 

implicherebbe competenze che vanno molto al di là del mio picco-


lo ‘orticello’ che attiene soprattutto alla storia, e più nello specifico
alla storia religiosa.
Dunque proprio per le mie limitate competenze mi atterrò al-
l’indagine sulla ‘vita buona’ come ‘motore di storia’, cercando di
portare alla luce il modo in cui la ricerca della ‘vita buona’ intima-
mente connessa con la ‘prassi’ di una vita ‘virtuosa’, condotta cioè

1 Su questi temi il volume di Italo Sciuto, L’etica nel medioevo. Protagonisti e


percorsi, Torino 2007 ha rappresentato per me una ‘bussola’ preziosa.

231
Maria Clara Rossi

secondo le virtù cristiane, abbia orientato nei secoli in questione


l’esistenza di singole persone oppure di gruppi e comunità, generan-
do comportamenti personali ma anche collettivi dettati da ‘scelte di
tipo religioso’.
Eccomi dunque approdata alla riflessione sulla seconda parte
del binomio da cui sono partita — scelte religiose —: un’espressione
altrettanto ricca di suggestioni e significati, a sua volta necessariamen-
te collegata ad una polivalenza di situazioni concrete e storicamen-
te determinate 2.  

Tanto per fare qualche esempio, ma senza volermi inoltrare


troppo indietro nel tempo, le scelte religiose dell’aristocrazia militare
vissuta al termine del secolo IX e durante il successivo consistevano
prevalentemente nell’ingresso in monastero sul «finire di un’esisten-
za guerriera» 3. Solo in qualche raro caso la via della perfezione cri-
 

stiana era offerta anche a quei laici-nobili che pur continuando a


vivere nel secolo perseguivano con costanza e determinazione l’idea-
le della santità, come dimostra la mirabile figura del conte Geraldo
di Aurillac tratteggiata dall’abate Oddone di Cluny. Benché il suo
status di laico ricco e potente lo ponesse in una condizione profon-
damente avversa al raggiungimento dei vertici della vita cristiana,
Geraldo, così come ce lo descrive l’abate cluniacense, non si piegò
alle regole di un mondo che si esprimeva soltanto attraverso la vio-
lenza e le azioni criminose e, seppur segretamente, condusse una vita
da monaco, giungendo a farsi da solo la ‘sua’ tonsura’ celata duran-
te il giorno da un cappello costantemente indossato. Il rifiuto del-
la violenza, espressa dal conte e da pochi altri, giunse ad elaborare
comportamenti opposti a quelli correnti, che contemplavano oltre

2 Risultano di particolare interesse per le tematiche che si vanno trattando


e per cogliere la polisemia dell’espressione ‘scelte religiose’ i contributi del con-
vegno tudertino La conversione alla povertà nell’Italia dei secoli XII-XIV, Atti del
XXVII convegno storico internazionale (Todi, 14-17 ottobre 1990), Spoleto 1991;
in particolare, oltre al discorso introduttivo di Grado G. Merlo (La conversione
alla povertà nell’Italia dei secoli XII-XIV, pp. 4-32), si vedano i saggi di Rinaldo
Comba (Dimensioni economiche e sociali dell’indigenza – fine XII-metà XIV secolo,
pp. 32-51), di Franco Dal Pino (Scelte di povertà all’origine dei nuovi ordini religiosi
dei secoli XII-XIV, pp. 53-125), di Giuseppina De Sandre (Lebbrosi e lebbrosari tra
misericordia e assistenza, pp. 239-268), di Antonio Rigon (I testamenti come atti di
religiosità pauperistica, pp. 391-414).
3 V. Fumagalli, Quando il cielo si oscura. Modi di vita nel medioevo, Bologna
1987, p. 98.

232
La vita buona: scelte religiose di impegno nella società

al rifiuto di ingannare i nemici in battaglia e di ferirli mortalmen-


te, l’esercizio di una giustizia ove le punizioni corporali fossero com-
minate solamente ai colpevoli, la negazione del matrimonio inteso
come veicolo di procreazione di figli destinati esclusivamente alla
crudeltà della vita militare e infine il rinnegare le alleanze con coloro
che spinti dall’ingordigia e dall’ambizione andavano costruendo le
proprie fortune scardinando e sgretolando lo stato carolingio 4.  

Si trattava di scelte — l’ingresso nel chiostro o la persistenza


in uno status laicale monasticamente vissuto — che comportavano
cambiamenti totali di vita, senza possibilità di ripensamento e che
«portavano alle estreme conseguenze la consuetudine di saltuaria
frequentazione dei cenobi, magari di famiglia» 5.  

La ‘buona vita’, che non escludeva ovviamente anche l’eserci-


zio della carità 6, consisteva dunque a quell’epoca nel «fuggire uno
 

stile di vita segnato dalla violenza, dall’esibizione della forza fisica,


della crudeltà, spesso. Tant’è vero che i pochi che sfuggivano alla re-
gola di vita degli altri potenti, in misura più o meno larga, erano det-
ti “Buoni” di soprannome: Geraldo il Buono, Guglielmo duca di
Aquitania detto il Buono, Folco di Reims, conte detto anch’esso “il
Buono” 7.  

Vi è ancora da dire però che nel titolo assegnatomi le parole


‘scelte religiose’ sono seguite da un’integrazione o meglio da un’ul-
teriore specificazione: “di impegno nella società”. Tale corollario
aggiunge all’idea della scelta religiosa compiuta per sé, il tema del-
la «sollecitudine» verso gli altri — il prossimo, cristianamente par-
lando —, ne dispiega in sintesi «l’implicita dimensione dialogale» 8,  

come se le due prospettive — quella della scelta religiosa e quella del

4 Sulla figura di Geraldo d’Aurillac e sul tema dell’accesso alla santità da parte
dei laici si sono soffermati: P. Lamma, Momenti di storiografia cluniacense, Roma
1961, in particolare pp. 162-163 e soprattutto V. Fumagalli, Note sulla ‘vita Geraldi’
di Odone di Cluny, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo», 76
(1964), pp. 217-240; Id., Il Regno Italico, Torino 1978, pp. 127-129, 265, 274-275
(Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, II).
5 Merlo, La conversione alla povertà nell’Italia dei secoli XII-XIV, cit., p. 10.
6 Anche per quanto riguarda l’esercizio della carità si veda il ruolo che le de-
stina nel suo percorso verso la perfezione cristiana Geraldo d’Aurillac: Fumagalli,
Il Regno Italico, cit., pp. 127-129.
7 Fumagalli, Quando il cielo si oscura, cit., p. 101.
8 «Sollecitudine» e «dimensione dialogale»: traggo queste due espressioni dal
pensiero e dal lessico di Paul Ricoeur.

233
Maria Clara Rossi

prossimo — non potessero viversi e pensarsi l’una senza l’altra.


E questa sarà in definitiva anche la mia prospettiva: non l’anali-
si delle scelte religiose indagate nella fase della loro drammatica ten-
sione verso il mistero 9 (fase del resto assai difficilmente conoscibile),
 

ma l’indagine sulla ‘fenomenologia’ delle scelte religiose, individua-


li e collettive, nella loro dimensione di relazione e di ‘sollecitudine’
verso ‘gli altri’, verso la società, verso il ‘prossimo’, chiunque esso
fosse.
Farò riferimento in grande prevalenza, ma non solo, alle ‘car-
te dei notai’, le cui possibilità ermeneutiche nell’ambito della storia
religiosa rappresentano da diverso tempo una consolidata conquista
storiografica, continuando ad avviare percorsi di ricerca innovativi
e cancellando in modo definitivo l’idea della sostanziale inadegua-
tezza di tale documentazione all’intima comprensione dei fenome-
ni religiosi 10.
 

1. Non potevo non partire dal secolo XII, l’età delle sperimen-
tazioni; e non soltanto per attenermi agli orientamenti cronologici
indicati dal programma del convegno, ma anche per il fatto, storio-
graficamente acclarato, che a partire da quel secolo e poi in forma
più articolata, ampia e diffusa in quello successivo, le scelte religio-
se di uomini e donne assunsero forme esistenziali molteplici, versati-
li e assai diversificate.
In una prima fase il movente di spicco di tali conversioni fu la

9 Merlo, La conversione alla povertà, cit., p. 6; ma si veda soprattutto del me-


desimo studioso Spiritualità e religiosità, «Studi medievali», 3a serie, XXVIII (1987),
pp. 47sgg.
10 A proposito dell’utilizzo privilegiato della fonte archivistica nello studio
della vita religiosa va ribadito il ruolo che in questa direzione ha avuto la feconda e
variamente articolata ‘scuola’ di Paolo Sambin, il cui apporto è stato entusiastica-
mente riconosciuto da Robert Brentano: Italian Ecclesiastical History: the Sambin
Revolution, «Medievalia et umanistica», n.s., 14 (1986), pp. 189-197. Una chiara
testimonianza della ricchezza interpretativa offerta dalle fonti documentarie pro-
viene dagli atti del convegno citato poc’anzi dedicato a La conversione alla povertà
(dove si segnalano osservazioni illuminanti a questo proposito di Grado Merlo, pp.
6-7, Antonio Rigon, pp. 391-414, e Giuseppina De Sandre, pp. 239-268) e da quelli
di numerosi altri ‘appuntamenti’ che hanno avuto come tema la storia religiosa del
medioevo e che si sono svolti a partire dagli anni Ottanta. Va ricordata anche l’espe-
rienza del periodico «Quaderni di storia religiosa», caratterizzatosi fin dal primo
volume apparso nel 1994 per la ‘peculiarità metodologica’ dell’utilizzo delle fonti
notarili: si veda la premessa scritta dai tre direttori, G.G. Merlo - A. Rigon - G. De
Sandre Gasparini, in Uomini e donne in comunità, cit., p. 3.

234
La vita buona: scelte religiose di impegno nella società

convergenza di un duplice e biunivoco atteggiamento: da parte dei


laici fedeli l’imitazione della vita dei monaci e dei chierici regolari
— atteggiamento felicemente sintetizzato da André Vauchez nella
loro volontà di «appropriarsi delle ricchezze spirituali del monache-
simo» 11; da parte invece del monachesimo riformato, soprattutto ci-
 

stercense, una certa determinazione nel voler conquistare il mondo,


espressa in modo evidente con la creazione di una fitta rete di con-
versi, devoti, redditi, dedicati e oblati, spesso trasformati in avampo-
sti dei medesimi monasteri 12.  

Comunque sia, gli ideali di perfezione cristiana che traevano


origine dal mondo monastico riformato o da quello canonicale cat-
turarono un numero sempre crescente di persone 13 — singoli in-  

dividui, coppie di coniugi, madri e figli, nuclei familiari completi e


persino interi villaggi 14 —, indotti a dedicare se stessi e i propri beni
 

ad un ente religioso o ecclesiastico, dando origine, secondo un feli-


ce neologismo di Grado Merlo 15, a comunità ‘estese’ all’interno delle
 

quali si verificava un fecondo scambio tra ‘materiale’ e ‘immateriale’:


da un lato si elargivano terre e beni immobili, dall’altro si offrivano
in cambio quei ‘benefici spirituali’ o benefacta 16 — come viene detto
 

in un documento piemontese del 1178 — di cui la fraternitas mona-


stica era depositaria e protagonista attiva. Per benefacta si intendeva-
no in primo luogo le messe, le celebrazioni liturgiche e le preghiere
destinate a garantire nell’aldilà la salvezza dell’anima di chi si dona-
va, ma si intendeva altresì l’hospitalitas ovvero la possibilità per i laici
‘donati’ di essere accolti presso la comunità monastica o canonicale
dopo la morte e durante gli ultimi anni della vita terrena, in una rap-
porto che permetteva dunque l’estensione della fraternitas e dei suoi
valori religiosi a nuovi membri della società laica, configurando tut-

11 A. Vauchez, La spiritualità dell’Occidente medievale, secoli VIII-XII, Milano


1978 (ed.or. 1975), p. 119 e altri brani del medesimo tenore.
12 Basti qui il riferimento al saggio di Grado Merlo, Uomini e donne in comu-
nità ‘estese’. Indagini su realtà piemontesi tra XII e XIII secolo, in Uomini e donne in
comunità, cit., pp. 9-31.
13 I laici nella “societas christiana” dei secoli XI e XII, Atti della terza settimana
internazionale di studio (Mendola, 21-27 agosto 1965), Milano 1968.
14 Lo ricorda Bernoldo di Costanza nel suo Chronicon, citato e commentato
da A. Rigon, Monasteri doppi e problemi di vita religiosa femminile a Padova nel Due
e Trecento, in Uomini e donne in comunità ‘estese’, cit., p. 222 e nota 12.
15 G.G. Merlo, Uomini e donne in comunità ‘estese’. Indagini su realtà pie-
montesi tra XII e XIII secolo, cit., passim, in particolare p. 9.
16 Ivi, p. 13.

235
Maria Clara Rossi

tavia anche una sorta di assicurazione dapprima per la vecchiaia e


poi per l’aldilà 17.
 

Sempre nell’alveo capace del monachesimo riformato, che


si espresse in ambito veneto con la costituzione dell’Ordo sancti
Benedicti de Padua 18, detto anche dei monaci albi, si situano nella pri-
 

ma metà del Duecento le singolari conversioni, studiate da Antonio


Rigon 19, di quei laici (gruppetti di vedove, famiglie, singole persone)
 

che venivano definiti nelle fonti «illi qui stant supra campum mona-
sterii». Risiedevano nei pressi delle varie comunità monastiche pado-
vane afferenti all’ordo dal beato Giovanni Forzaté — San Benedetto,
Santa Maria di Porciglia, San Giacomo di Pontecorvo — e si erano
aggregati in modo apparentemente casuale, secondo un imprecisa-
to vincolo di fratellanza: talmente imprecisato, almeno nella fase in-
coativa, da non poter assumere neppure uno fra la pletora dei nomi
che la tendenza associativa basso medievale aveva creato ex novo o
ripreso dalla tradizione: societas, fraternitas, universitas, congregatio.
Semplicemente «illi qui stant supra campum monasterii». Li acco-
munava il «vivere religiose et caste in vita et habitu», l’obbedienza al
priore del monastero, la dipendenza anche economica dalla medesi-
ma autorità, giacché non potevano esercitare un mestiere né contrar-
re mutui senza il suo permesso. Li accomunava ovviamente anche la
residenza fuori dalle mura cittadine nelle «domus supra campum»
che gli stessi fedeli si costruivano impegnandosi in seguito a devol-
verne la proprietà alla comunità monastica. L’impegno delle perso-
ne coinvolte si orientava di frequente anche verso la manutenzione
di opere pubbliche, come per esempio la salvaguardia e la cura del-
le rive dei canali, in piena sintonia con quanto andava facendo nel
17 Benché infatti non siano mai stati posti in secondo piano gli intenti religiosi
connessi con le varie forme di ‘oblazione’(meglio sarebbe esprimersi con il linguag-
gio di Grado Merlo, che parla di «scambi immateriali»), non sono stati pochi gli
autori che hanno creato un collegamento fra queste diverse modalità di adesione
alla vita consacrata e le fasi di recessione economica che colpirono il mondo tardo-
medievale, arrivando a definirle «forme di vitalizi piuttosto che legami spirituali»:
così si espressero, per esempio, É. Delaruelle e, in modo più sfumato, J. Dubois,
entrambi citati in F. Dal Pino, Oblati e oblate conventuali presso i mendicanti ‘mino-
ri’nei secoli XIII e XIV, in Uomini e donne in comunità, cit., pp. 33-67, in particolare
nota 5, pp. 55-56.
18 A. Rigon, Ricerche sull’«Ordo Sancti Benedicti de Padua» nel XIII secolo,
«Rivista di storia della Chiesa in Italia», 29 (1975), pp. 511-535.
19 A. Rigon, I laici nella Chiesa padovana del Duecento. Conversi, oblati, peni-
tenti, in Contributi alla storia della Chiesa padovana nell’età medioevale, 1, Padova
1979, pp. 11-81, in particolare pp. 20-39.

236
La vita buona: scelte religiose di impegno nella società

medesimo tempo anche il comune cittadino, che aveva dato vita ad


un’intensa e accurata opera di canalizzazione all’interno e presso le
mura della città. Ma la documentazione notarile oltre ad averci con-
segnato i nomi di tali individui ci ragguaglia in modo talora sintetico
ma senza lasciar adito a incertezze sulla loro provenienza dal conta-
do, sulla conseguente condizione di forestieri o rustici inurbati, sulla
loro appartenenza al mondo degli artigiani o dei lavoratori del setto-
re tessile; cosicché alla luce di queste nuove informazioni possiamo
dare una descrizione del campus non solo come uno spazio di vita re-
ligiosa, all’interno del quale gruppi di fedeli convivevano in forme
canonicamente non strutturate né ben definite spinti dal desiderio
cogente di prendere parte ai valori veicolati dal monachesimo albo,
ma anche come uno spazio materiale, fisico all’interno del quale, in
forme meno traumatiche che altrove, si potevano esprimere e rea-
lizzare i desideri di chi, giunto da fuori, in un momento di estrema
mobilità sociale ed economica, si accostava alla città cercando casa,
lavoro, protezione, in altre parole, cercando integrazione.
Non è il caso di prolungare ancora il discorso su coloro che abi-
tavano «supra campum» dei monasteri padovani ‘albi’; tuttavia nel
quadro di questa religiosità attiva e concretamente operante nella so-
cietà del tempo, vale la pena di effettuare un raccordo con altri conte-
sti urbani e rurali caratterizzati da situazioni fortemente somiglianti.
Verona, per esempio, appare segnata nel primo Duecento dalla pre-
senza capillare dell’ordine dei canonici di San Marco di Mantova 20,  

anch’essi esponenti, alla pari degli ‘albi’, di quella corrente monasti-


co-canonicale profondamente in sintonia con le esigenze dei laici,
incalzati dalle novità spesso prorompenti del vivere urbano (esigen-
ze che erano, come abbiamo visto, religiose ma anche sociali). Nella
città dell’Adige l’area che si estendeva nei pressi di una delle chiese
dell’ordine di San Marco — quella di Santo Spirito — viene descrit-
ta nella documentazione come una sorta di circuitus materialmente e
spiritualmente delimitato, destinato ad accogliere una serie di abita-
zioni in cui «viri et mulieres» profondamente influenzati dal modello
della «Ecclesiae primitivae forma» potessero abitare insieme «pe-
rempniter in obediencia, caste et sine proprietate». Accanto a queste
domus era prevista anche l’edificazione di altre dimore assegnate a
20 Sulla presenza e l’attività dei canonici di San Marco a Verona — ordine che
meriterebbe una studio ‘complessivo, di ampio respiro — si rinvia a Giuseppina De
Sandre Gasparini, La vita religiosa nella Marca veronese-trevigiana, Verona 1993,
pp. 47-48 e note corrispondenti.

237
Maria Clara Rossi

persone che, seppur in un regime di vita continente e di obbedienza,


non fossero costrette a rinunciare a possedere in proprio 21. Il vaglio  

della documentazione restituisce in definitiva un panorama socia-


le composito ed eterogeneo, legato al mondo professionale dell’arti-
gianato, di una certa manovalanza qualificata, della lavorazione della
lana. Restituisce l’immagine di due gruppi di laici diversamente ag-
gregati ad una chiesa e al territorio immediatamente circostante, ove
si viveva, si lavorava, si pregava in una dimensione comunitaria pro-
tettiva e rassicurante.

2. La tendenza a vivere insieme l’esperienza religiosa — dove


l’espressione «vivere l’esperienza religiosa» è intesa, come abbia-
mo visto, nella sua accezione più ampia e totalizzante, comprensiva
quindi anche della ‘con-vivenza’ — non è riscontrabile solamente al-
l’ombra dei monasteri o delle canoniche: la si ritrova, solo per fare
qualche esempio, al seguito dei predicatori itineranti, al servizio dei
poveri e dei malati nei numerosi enti assistenziali o nei piccoli ospizi
ovunque distribuiti, nelle fraternite dei penitenti e ovviamente anche
nei gruppi ereticali; la si ritrova in definitiva nel più ampio conte-
sto dei fermenti religiosi caratterizzati dalla volontà e dallo sforzo
di vivere coerentemente il Vangelo 22. È evidente che qui non si può
 

neppure provare a mettere insieme tutti gli aspetti di questa realtà


multiforme; risulterebbe quasi impossibile esporre in modo lineare
quello che è intrinsecamente articolato, privo di linee evolutive uni-
formi e soprattutto caratterizzato da molteplici varietà e sperimen-
tazioni locali. Tuttavia fra le innumerevoli soluzioni di quello che è
stato definito il ‘risveglio evangelico’ del XII 23 secolo va segnalata
 

21 S. Bernardinelli, Per la storia del monastero di Santo Spirito a Verona.


Aspetti di vita della comunità monastica (1211-1245), tesi di laurea, Università degli
studi di Verona, facoltà di magistero, a.a. 1985-1986, rel. G. De Sandre Gasparini.
Fa riferimento ai laici di Santo Spirito anche A. Rigon, La santa nobile. Beatrice
d’Este (+ 1226) e il suo primo biografo, in Viridarium floridum. Studi di storia veneta
offerti dagli allievi a Paolo Sambin, Padova 1984, pp. 69-70.
22 Pagine illuminanti su questi temi ha scritto G. Miccoli, Chiesa, riforma, van-
gelo e povertà: un modo nella storia religiosa del XII secolo, in Id., Francesco d’ Assisi.
Realtà e memoria di un’esperienza cristiana, Torino 1991 (studio già edito nel 1984).
23 L’espressione ‘risveglio evangelico’ rinvia, come è noto, agli scritti di Marie-
Dominique Chenu; si vedano, a questo proposito, le osservazioni di Grado Merlo
dedicate alla possibilità per lo storico di scoprire l’ispirazione evangelica degli
Umiliati: G.G. Merlo, Gli Umiliati nel risveglio evangelico del XII secolo, in Un
monastero alle porte della città, Atti del convegno per i 650 anni dell’Abbazia di

238
La vita buona: scelte religiose di impegno nella società

la peculiarità dell’esperienza degli Umiliati, che una storiografia or-


mai ben consolidata ha cercato di liberare dalle «illusioni moderni-
stico-socialistizzanti d’inizio Novecento», tendenti a rappresentare
gli Umiliati come ‘frati e suore operaie’ e a individuarne l’origine
nel proletariato urbano dei lavoratori della lana dell’Italia centro-
settentrionale. Le lettere che Innocenzo III indirizzò loro nel pri-
mo Duecento — dapprima alle comunità laicali del terz’ordine, poi
a quelle semi-monastiche maschili, femminili e miste e infine a quel-
le canonicali del cosiddetto primo ordine — rivelano da parte del
pontefice un inusitato sforzo di regolamentare «realtà frammentarie,
magmatiche, confuse» che si dedicavano ad attività assai diversifica-
te: l’attività ospedaliera 24, il lavoro investito di un valore squisitamen-
 

te religioso 25, la preghiera e la condivisione di momenti liturgici, ma


 

anche la predicazione e l’incursione, non sempre ben vista, nell’eser-


cizio della cura d’anime. Alla numerosità degli ‘case’ umiliate nelle
medesime località o realtà urbane — il contesto bergamasco indaga-
to da Maria Teresa Brolis 26 o quello veronese sondato da Giuseppina
 

De Sandre 27 forniscono limpidi esempi di tali molteplicità insediati-


 

Viboldone, Milano 1999, pp. 128-141 (la citazione è a p. 139).


24 Ci si può riferire, come esempio, alla situazione milanese studiata da M.P.
Alberzoni, L’esperienza caritativa presso gli Umiliati: il caso di Brera (secolo XIII), in
La carità a Milano nei secoli XII-XV, a cura di M.P. Alberzoni - O. Grassi, Milano
1989, pp. 201-223. La studiosa mette in luce che per quanto riguarda la fondazione
e la gestione di ospedali furono soprattutto i laici del terz’ordine degli Umiliati a
mettersi in luce, facendosi carico a partire dalla metà del secolo XII del più presti-
gioso ente assistenziale cittadino, l’Ospedale del Brolo e di altre esperienze di natura
assistenziale. Tuttavia si segnalano anche una serie di interventi degli Umiliati «al-
l’origine dei quali non si possono escludere motivi di ordine assistenziale, seppure
in un’accezione del tutto particolare» (p. 205). Si tratta di operazioni finanziarie che
comportavano da parte degli Umiliati l’acquisto di beni immobili a prezzi di merca-
to, beni appartenenti a persone fortemente indebitate e bisognose di liquidità. Per
molti di loro era probabilmente meglio vendere le proprietà ricavandone il giusto,
piuttosto che ricorrere a prestiti feneratizi per tacitare i creditori. In tal caso è possi-
bile intravedere in tali acquisti anche uno scopo di ‘mutuo soccorso’.
25 Umberto di Romans sottolinea in particolare il fine religioso del lavoro
degli Umiliati e delle Umiliate evidenziando come esso sia indirizzato verso la carità
e come da essa sia fortemente motivato fino a divenirne ‘funzione propria’: si veda-
no a questo proposito le osservazioni di L. Paolini, Le Umiliate al lavoro. Appunti
fra storiografia e storia, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e
Archivio muratoriano», n. 97 (1991), pp. 229-265, in particolare pp. 236-239.
26 M. Teresa Brolis, Gli Umiliati a Bergamo nei secoli XIII e XIV, Milano
1991.
27 G. De Sandre Gasparini, Aspetti di vita religiosa, sociale ed economica nei
secoli XIII-XV, in Chiese e monasteri nel territorio veronese, a cura di G. Borelli,

239
Maria Clara Rossi

ve — si deve pertanto aggiungere anche la loro fisionomia diversifi-


cata, cosicché, come ha scritto Grado Merlo, la pluralità delle domus
rispecchia in realtà la diversa articolazione delle esperienze religiose
che in esse si svolgevano: esperienze che ancora attendono di essere
indagate in modo compiuto mettendo in risalto anche le relazioni tra
le varie ‘case’ spesso depositarie di un forte senso della propria indi-
vidualità e identità 28.
 

Nel novero delle numerose situazioni che abbiamo finora citato


e che furono in grado di ispirare e indurre scelte religiose di uomini
e donne vissuti durante i secoli XII e XIII, le necessità legate all’indi-
genza, alla malattia, alla povertà, all’emarginazione (meglio sarebbe
dire le necessità degli indigenti, dei malati, dei poveri e degli emargi-
nati) sollecitarono più di ogni altra situazione cambiamenti di vita e
rovesciamenti di prospettiva, orientarono comportamenti individua-
li e collettivi e provocarono, come è stato ribadito a più voci, muta-
menti sostanziali, sul piano dell’antropologia e dell’etica 29.  

La misericordia verso i malati e in particolare verso i lebbrosi


(ho volutamente usato il termine misericordia fortemente evocativo
dell’esperienza di Francesco d’Assisi) «non […] si configurò entro i
confini strettamente assistenziali, ma ebbe un’anima religiosa», ben
compresa anche da chi, pur illuminato da una sensibilità nuova, non
trovò il coraggio di dedicarvisi in prima persona. Tale rapporto di
ambigua attrazione/ripulsa sembra caratterizzare anche la narrazio-
ne di grande efficacia rappresentativa effettuata da Jacques da Vitry
negli anni venti del XIII secolo all’interno della sua Historia occiden-
talis. Il vescovo colpito nell’intimo dall’esperienza di quanti «tam viri
quam mulieres» vivevano «in domibus leprosorum vel hospitalibus
[…] seculo renunciantes et regulariter» si lasciò andare alla consta-
tazione che queste persone, facendo violenza anche a se stessi, soste-
nevano una così grande ripugnanza per il puzzo del sudiciume e per
la putrefazione degli ammalati che nessun altro genere di penitenza
poteva essere lontanamente paragonabile a questa forma di martirio,
prezioso al cospetto di Dio. Questa sporcizia puzzolente, aggiunse
poi il nostro autore, il Signore la trasformerà in pietre preziose e al

Verona 1981, pp. 131-194; Ead., Gli Umiliati nel Veneto nei primi decenni del
Duecento: note di confronto, in Un monastero alle porte della città, cit., pp. 181-194.
28 Merlo, Gli Umiliati nel risveglio evangelico, cit., p. 138 in particolare.
29 O. Capitani, Introduzione, in M. Mollat, I poveri nel medioevo, Roma-Bari
19832 (ed.or. 1978), p. XXIII. Ripreso e ampiamente commentato e discusso da
Merlo, La conversione alla povertà, cit., pp. 8-9.

240
La vita buona: scelte religiose di impegno nella società

posto del cattivo odore emanerà un profumo soave 30.  

Se l’illustre prelato transalpino esplicitò tutta la sua difficoltà


psicologica di fronte all’idea di trascorrere la vita insieme all’umani-
tà malata, piagata ed emarginata, in molte città dell’epoca la malattia,
anche la peggiore, la lebbra, creò invece forme di aggregazione.

In una di queste città — Verona — un testatore di rilievo sociale


non indifferente, Lafranchino detto Valvassore, nelle sue ultime vo-
lontà redatte il 30 marzo 1204, destinò 10 lire di denari veronesi alle
«septem domus malsanorum» — così erano denominati i lebbro-
si — dislocate nell’immediato circuito urbano a ridosso delle mura 31.  

Volendo dare una forma, un’origine e un’organizzazione a queste do-


mus dobbiamo immaginare iniziative spontanee di singole persone
o di gruppi assai ristretti che accudivano, condividendone la quoti-
dianità, i malati di lebbra. Una di queste iniziative, portate alla luce
da Giuseppina De Sandre, fu ispirata come molte altre da una don-
na, una certa Garscenda, la cui vicenda assai nota non ha mancato di
colpire gli storici che ne siano venuti a conoscenza; almeno 3 relato-
ri del convegno che fu dedicato al tema La conversione alla povertà
nell’Italia dei secoli XII-XIV ne enfatizzarono il ruolo, suggerendo-
la come emblema di quella ‘metamorfosi’ della carità che attraversò i
secoli XII e XIII: una carità che apparve non più come una semplice
beneficenza verso i sofferenti bensì come un atto di fraternità uma-
na e di condivisione compiuto per amore di Dio 32. Si trattava della
 

30 J.F. Hinnebush, The historia occidentalis of Jacques de Vitry. A critical edic-


tion, Fribourg-Switzerland 1972, pp. 147-148. L’ultima espressione rievoca, sep-
pur richiamandosi ad un senso diverso — l’olfatto anziché il gusto —, quanto dice
Francesco d’Assisi nel suo Testamentum a proposito del facere misericordiam con i
lebbrosi: «Et recedente me ab ipsis, id quod videbatur michi amarum, conversum
fuit michi in dulcedimen animi et corporis» (Francesco d’Assisi, Scritti, Testo latino
e traduzione italiana, Milano 2002, p. 432).
31 Si veda il testo del documento nel prezioso corpus documentario Le
carte dei lebbrosi di Verona tra XII e XIII secolo, a cura di A. Rossi Saccomani,
Introduzione di G. De Sandre Gasparini, Padova 1989, pp. 76-78 (Fonti per la sto-
ria della Terraferma veneta, 4). Il testatore destina fra i vari lasciti 10 lire a ciascuna
delle sette case dei malsani, eccetto la casa dei malsani di Santa Croce a cui lascia
una casa con terra situata in porta San Zeno.
32 Oltre a Giuseppina De Sandre nel suo Lebbrosi e lebbrosari tra misericor-
dia e assistenza nei secoli XII-XIII, cit., pp. 257-259, ne parlano Rigon, I testamenti
come atti di religiosità pauperistica, in La conversione alla povertà, cit., pp. 402-403 e
Merlo che fa riferimento alla ‘variopinta fluidità’ della situazione veronese alle pp.
16-17.

241
Maria Clara Rossi

convivenza tra una benefattrice, Garscenda appunto, e il suo lebbro-


so, di nome Plano, per il quale la donna aveva fatto costruire amore
Dei una modesta abitazione in una località vicino al fiume Adige. Lì
i due avevano abitato per un po’ finché non erano stati raggiunti dal
genero di lei e da altri lebbrosi, dando vita ad una piccola comunità
mista di sani e malati. Tutta la combriccola aveva pure l’assistenza di
un prete che si recava di frequente a visitare la domus insieme ad un
giovane scolarolus dal futuro segnato anch’esso come sacerdote.
Non è difficile ipotizzare, seppur sulla base delle esili testimo-
nianze che sono giunte fino a noi, che la singolare compagine umana
cresciuta intorno a Plano e alla sua terribile malattia potesse esse-
re uno dei molti esempi di piccole aggregazioni amicali e parentali,
composte da sani e da malati, che si svilupparono a ridosso dei nu-
clei urbani fra il XII e il XIII secolo, in uno scenario sociale sempre
più dinamico e affollato e vivacemente percorso da fermenti religiosi
in grado di modificare in modo sostanziale l’idea della carità: da «li-
beralitas erga pauperes» a «conversatio inter pauperes» 33.  

Nell’ambito del tema generale del convegno, interessato a indi-


viduare i modi e le forme attraverso cui si concretizzò «la ricerca del
benessere» da parte dell’umanità vissuta nei secoli dell’età di mezzo,
siamo dunque autorizzati ad immaginare che tale esigenza fosse av-
vertita anche nei contesti che abbiamo appena descritto, fra i reiet-
ti della società, segnati dalla marginalità esistenziale e dalla malattia
con l’aggravante di un progressivo disfacimento fisico. Essi desidera-
vano in primo luogo porre fine alla condizione di reietti, a quell’«ire
circum per civitatem», segnalato dai documenti contemporanei, ov-
vero al girovagare per le città mendicando e ricoverandosi in tuguri
o ripari di fortuna, dai quali correvano il rischio quotidiano di essere
cacciati via e malmenati. Il loro desiderio era una casa, alla pari degli
altri uomini e delle altre donne. E talvolta, come si è visto, riuscivano
a realizzarlo grazie all’azione caritativa di quelle persone, di entram-
bi i sessi, che decidevano di fare misericordia con loro.
Ma uno dei desideri più forti, umanissimo quanto difficile da
accettare da parte delle autorità civili ed ecclesiastiche, era anche
33 Il passaggio, ripreso anche da G. De Sandre Gasparini, Lebbrosi e lebbro-
sari, cit., p. 259, nota 165, è stato messo in risalto da P.A. Sigal, Pauvreté et charité
aux XIe et XIIe siècles d’après quelques textes hagiographiques, in Études sur l’histoire
de la pauvreté (Moyen Age – XVIe siècle), sous la direction de M. Mollat, Paris
1974, p. 156.

242
La vita buona: scelte religiose di impegno nella società

quello di costruirsi una famiglia, di avere dei ‘beni’ da gestire’ e per-


sino di procreare dei figli, ripristinando una condizione di ‘normali-
tà’ che la malattia aveva loro forzatamente strappato via. Lo attesta
ancora una volta un atto notarile del ricco ed eloquente corpus docu-
mentario veronese risalente al 1146 che ha per protagonista il vesco-
vo della città, Tebaldo. Il primo giorno del mese di gennaio il prelato
veronese si trovò a dover dirimere una accesa controversia fra il ret-
tore della chiesa e della domus di Santa Croce — uno dei maggiori
‘ricoveri’ per lebbrosi della città atesina, la cui gestione era fortemen-
te controllata dall’ordinario diocesano — e la comunità dei lebbro-
si «qui ibi aderant necnon et nutriebantur». I malati avevano delle
pretese ben chiare: «dicebant quoniam regere, ministrare ac dividere
volebant et debebant bona et elemosinas quas Deus et homines da-
bant et dederant». Pretendevano insomma di gestire in prima perso-
na i beni della comunità giunti attraverso le elemosine e i sempre più
numerosi lasciti testamentari. All’insieme delle richieste di carattere
economico e organizzativo si aggiungevano altresì aspirazioni ad una
vita sessuale e procreativa ritenute improponibili dall’insieme delle
autorità ecclesiastiche e civili. Il vescovo, cui era giunta notizia «il-
lorum nequizia et coniuratione et fornicatione» e che alcuni di loro
«filios concreasse vel generasse», di fronte ad un ricco parterre di lai-
ci e uomini di Chiesa ordinò che i lebbrosi non potessero esercitare
alcuna forma di potere né di amministrazione nel luogo in cui vive-
vano («numquam habeant licentiam dominandi, ministrandi neque
iubendi») e che all’interno del lebbrosario la loro condizione fosse
quella di «pauperes et hospites», con il solo diritto di essere man-
tenuti e nutriti («alentur et nutrientur»). Se avessero disatteso alle
direttive vescovili sarebbero stati certamente allontanati e di conse-
guenza costretti a tornare alla vita di vagabondaggio e alla mendicità
pericolosa e priva di sicurezze, oppure ad effettuare una lunga pe-
nitenza comprendente anche il pellegrinaggio verso la tomba roma-
na dei santi Pietro e Paolo 34. In definitiva possiamo affermare che si
 

trattò di una disposizione emanata per negare ai lebbrosi ogni aspira-


zione alla ‘normalità’, in linea peraltro con numerosi altri provvedi-
menti dai connotati ‘religiosi’, orientati alla «‘sublimazione’ di limiti
ritenuti necessari per degli incurabili viventi in comunità come l’asti-
nenza sessuale, la sottomissione alla disciplina comune, la condivi-

34 Le carte dei lebbrosi di Verona tra XII e XIII secolo, cit., doc. 7, del 1 gen-
naio 1146, pp. 10-13.

243
Maria Clara Rossi

sione dei beni, senza tuttavia che i malsani divenissero formalmente


dei religiosi» 35.
 

La documentazione veronese, insolitamente loquace a propo-


sito dei lebbrosi, debitamente interrogata, riesce comunque a farci
sentire la nostalgia dei malsani per questa fase di vita caratterizza-
ta dalla pluralità delle esperienze insediative, attuate come si è visto
in forme sottoposte a un ‘moderato’ controllo vescovile ma anco-
ra non del tutto ‘istituzionalizzate’. Dopo che il comune e il vesco-
vo in piena sintonia avevano deciso all’inizio degli anni Venti del
XIII secolo la creazione di un unico grande istituto, San Giacomo
alla Tomba, per i lebbrosi delle numerose domus veronesi era co-
minciato un lento ma inesorabile trasferimento, culminato nel 1225
con il trasloco a San Giacomo della comunità più numerosa, quel-
la di Santa Croce. All’evento non erano seguite forti opposizioni da
parte dei malati, probabilmente anche grazie alla mediazione del ge-
nero della nota Garscenda, Rodolfo, già investito di una funzione di
guida e di indiscussa autorità morale all’interno del gruppo di mag-
gior rilievo (Santa Croce) e successivamente incaricato, forse dal ve-
scovo o forse dal comune, di gestire il difficile momento del trapasso
verso l’unificazione del lebbrosario. Tuttavia nel corso di un proces-
so celebrato diversi anni dopo, alla metà anni Trenta, per dirime-
re una vertenza riguardante il possesso delle precedenti ‘casette’ dei
lebbrosi, si avverte ancora intensamente il rimpianto e la mestizia dei
malati nel rammentare le proprie modeste casupole, che avevano do-
vuto abbandonare portandosi dietro le loro ‘cose’ — alcuni attrezzi
da cucina, come il paiolo, la padella, i coltelli, le forbici, la catena —
insieme ai ‘quattro stracci’ che ne costituivano l’abbigliamento (un
«plumacium», alcune «camisias» e «serabulas et alias quas ipsi habe-
bant»). Nelle deposizioni dei lebbrosi chiamati a testimoniare — con
pienezza dunque di funzioni giuridiche — i cui nomi erano Briana,
Oldericus detto Cimaldus, Berta Storta e molti altri, scorrono i ricor-
di malinconici di quel periodo, quando il gruppo si esprimeva comu-
nitariamente «ad unum panem et ad unum vinum et cocinatum» e
quando tutti insieme, sani e malati, partecipavano alle riunioni e alle
decisioni collettive eleggendo i propri procuratori e sindaci 36. Una  

delle lebbrose, la ciarliera e vivace Briana, rievoca i frequenti scam-


35De Sandre Gasparini, Lebbrosi e lebbrosari, cit., p. 250.
36Si veda il ritratto di questa umanità sofferente nel bellissimo contributo
di G. De Sandre Gasparini, L’assistenza ai lebbrosi nel movimento religioso dei pri-
mi decenni del Duecento veronese: uomini e fatti, in Viridarium floridum, Studi di

244
La vita buona: scelte religiose di impegno nella società

bi che avvenivano fra le comunità di lebbrosi situate lungo l’Adige,


raccontando le circostanze in cui «dabat de suis rebus et auferebat»
(in cui prestava i suoi oggetti e a sua volta li chiedeva in prestito e se
li portava via) in un cordiale scambio di suppellettili domestiche fra
vicine di casa; e i vicini partecipavano alla vita della comunità condi-
videndo problemi ed emozioni.
Con la nuova configurazione del lebbrosario, a partire dal 1225,
le cose ovviamente cambiarono molto anche se il momento del pas-
saggio, come si è detto, venne gestito in modo meno traumatico da
una figura conosciuta e rispettata; nel giro di pochi decenni il prota-
gonismo dei lebbrosi perdette molto della vivacità e dell’intrapren-
denza della prima fase ed essi si avviarono a diventare membri passivi
di una comunità istituzionalizzata, semi-religiosa, dotata di un bene-
ficio sacerdotale in grado di mantenere un prete officiante la chie-
sa interna al lebbrosario stesso, una comunità sempre più oggetto di
uno stretto controllo sanitario da parte del Comune e parallelamen-
te sempre più destinataria di un’elemosina strabordante proveniente
dai lasciti testamentari effettuati «pro remedio animae» 37.  

Non è certamente possibile, qui ed ora, passare in rassegna tut-


ti gli ambiti in cui la creatività dei due secoli che abbiamo attraver-
sato rese possibile, soprattutto ma non esclusivamente ai laici, scelte
religiose innovative e aperte a soluzioni originali di autentica parte-
cipazione e di impegno nella società; scelte in cui fare opere buone
— bona facere — divenne per molti fedeli l’occasione di incontrare
Dio negli altri e proprio per questa concreta identificazione di alle-

storia veneta offerti dagli allievi a Paolo Sambin, Padova 1984, pp. 25-59 (anche
in Esperienze religiose e opere assistenziali nei secoli XII e XIII, Torino 1987, pp.
85-121); ma è ugualmente importante l’edizione del processo in Le carte dei lebbrosi
di Verona tra XII e XIII secolo, cit., pp. 145-164. Della medesima studiosa anche In
un lebbrosario medievale veronese: tracce di religione “vissuta”, in «Una strana gioia
di vivere». A Grado Giovanni Merlo, a cura di M. Benedetti - M.L. Betri, Milano
2010, pp. 124-143.
37 Oltre ai saggi di Giuseppina De Sandre, Movimenti evangelici a Verona al-
l’epoca di Francesco d’Assisi, «Le Venezie francescane», n.s., 1 (1984), pp. 151-162, e
Il francescanesimo a Verona nel ’200: note dai testamenti, in Esperienze minoritiche nel
Veneto del Due-Trecento, Atti del convegno nazionale di studi francescani (Padova,
28-29-30 settembre 1984), in «Le Venezie francescane», 2 (1985), pp. 121-141, si
veda anche il mio Orientamenti religiosi nei testamenti veronesi del Duecento: tra
conservazione e ‘novità’, in Religiones novae, Verona 1995, pp. 107-147 («Quaderni
di storia religiosa», 2).

245
Maria Clara Rossi

viarne le sofferenze aumentandone il ‘benessere’ attraverso il ‘buon-


essere’. Per forza di cose ho omesso molte di queste esperienze, come
quelle, per fare un esempio, delle comunità dei Penitenti, che lo stes-
so padre Meersseman molti anni fa in un inaudito slancio attualiz-
zante non esitò a paragonare ai Kibbutz israeliani! 38 Ho omesso il  

caso, solo per portare una piccola goccia d’acqua nella marea di si-
tuazioni analoghe, della confraternita laica vicentina situata «in capi-
te pontis de Nunto» a pochi chilometri da Vicenza 39 — va ricordato
 

che il ponte nel medioevo era uno de luoghi privilegiati in cui si in-
contrava faccia a faccia la povertà e la sofferenza di malati e pellegri-
ni —, che gestiva un ospedale guidata da uno strano personaggio di
nome Bertrame qualificatosi con un appellativo assai solenne eppure
umilissimo: «servus servorum Dei».
La svolta rappresentata dal XII secolo certamente non poté più
essere messa in discussione, lo ha ben mostrato André Vauchez nel-
la sua opera di sintesi davvero pionieristica sulla ‘spiritualità dell’Oc-
cidente medievale’; come pure è acclarato che tale linea innovativa
dovette confrontarsi con le vischiosità del complesso rapporto con
le gerarchie ecclesiastiche e con gli esponenti del clero in genere. Di
fatto — innumerevoli esempi lo comprovano — lo spazio dei laici
andò riducendosi e modificandosi; di conseguenza le gradazioni e le
forme delle convivenze religiose, socialmente assai articolate, che ab-
biamo sommariamente disegnato si andarono assestando su modelli
più tradizionali di stampo prevalentemente monastico.

3. Quali furono allora per i secoli successivi le esperienze reli-


giose di impegno nella società?
Innegabile direi il ruolo delle confraternite come luogo di ela-
borazione di una cultura religiosa e di un’etica ‘buona’: nella carità
in primo luogo e non da ultimo nella diffusione di comportamenti e
ideali di pace 40. A questo proposito l’azione dei sodalizi confraterna-
 

38 G.G. Meersseman, Ordo fraternitatis. Confraternite e pietà dei laici nel me-
dioevo, in collaborazione con G.P. Pacini, I, Roma 1977, p. 316.
39 G. Cracco, Religione, Chiesa, Pietà, in Storia di Vicenza, II, L’età medievale,
Vicenza 1988, p. 387. Ripreso in G. De Sandre Gasparini, La vita religiosa nella
Marca Veronese-trevigiana tra XII e XIV secolo, Verona 1993, pp. 149-150.
40 M.C. Rossi, Idee ed esperienze di pace nelle confraternite italiane del basso
medioevo: evoluzioni e specificità, in Brotherhood and Boundaries. Fraternità e bar-
riere, Atti del Convegno internazionale (Pisa, 19-20 settembre 2008), in corso di
stampa.

246
La vita buona: scelte religiose di impegno nella società

li si declinò infatti nel corso del tardo medioevo in una molteplicità


di direzioni diverse, che contemplavano l’astensione dalla violenza e
dall’uso delle armi nei momenti di accesa guerriglia urbana, l’impe-
gno per risolvere i conflitti interni ed esterni alle associazioni evitan-
do il ricorso alle istituzioni giudiziarie pubbliche 41 e la diffusione di
 

comportamenti ‘irenici’ conformi al Vangelo verso il prossimo e so-


prattutto verso i confratelli.
È vero — come ripetutamente è stato messo in rilievo — che
il prossimo a cui si rivolgevano gli aderenti della marea confraterna-
le che sommerse le città e le campagne nel basso medioevo, sia per
quanto riguardava l’insegnamento di una convivenza ordinata e pa-
cificata, sia in riferimento all’impegno caritativo, era un prossimo
spesso tutto interno al sodalizio, un membro di quella ‘parentela’
spirituale o famiglia artificiale che le associazioni laicali contribuiro-
no a creare e a rafforzare 42. «Accioché in noi sia carità — dichiarano
 

infatti gli statuti della confraternita dei Battuti di San Domenico di


Bologna del 1433 — non tanto de parole quanto de essere, de ope-
re e de fatti, uno fratello de’ aiutare l’altro nel momento del bisogno:
el ricco el povero; e fare el contrario è segno de poco amore a Dio
e niuna carità al proximo». «E però preghiamo li fratelli nostri che
siano misericordiosi, elemosinieri a tutti li poveri, ma specialmente
a coloro che sono de la compagnia nostra» 43. Indicazioni come que-
 

sta, assunta solo a titolo esemplificativo, sono assai numerose negli


statuti medievali. A favore dei confratelli era previsto un impegno
davvero intenso, finanche nelle circostanze peggiori e più pericolose
come furono per esempio le epidemie di peste. Nella malattia, nel-
la povertà e soprattutto nel momento della morte vi era l’obbligo di
sostenere i ‘propri’ socii in ogni modo possibile: attraverso l’elargi-
zione di denaro, la cura, la visita, il sostegno psicologico e religioso
e perfino la richiesta di elemosine porta a porta. È quanto sembra
di poter afferire dallo statuto della confraternita di Santa Maria dei

41 Fra le molte pubblicazioni che negli ultimi anni hanno affrontato il tema
della risoluzione dei conflitti mediante la prassi ‘infragiudiciale’ ci si limita in questa
sede a ricordare il volume di Ottavia Niccoli, Perdonare. Idee, pratiche, rituali in
Italia tra Cinque e Seicento, Bari 2007.
42 Si vedano a tale proposito le osservazioni di G. De Sandre Gasparini, Tra
pietà e opere. Considerazioni sull’associazionismo devoto medievale, in Studi e fonti
del medioevo vicentino e veneto, II, a cura di A. Morsoletto, Vicenza 2003, pp.
80-84.
43 Meersseman, Ordo fraternitatis, cit., II, p. 681.

247
Maria Clara Rossi

Guarini che recita: «E se caso fusse chel dito fratello infermo fusse
povero cum grande caritade sia sovegnudo delli dinari che se ritro-
vasse essere della fraternitade. E se quili non bastasse el padre ordi-
nario impona una imposta alli fratelli secundo la loro possibilitade.
E se questo non bastasse el padre ordinario cum li solicitaduri debia-
no provedere de dui delli fratelli che vadano cercando cum le cape
in dosso e sença come a loro paresse per la terra e fora per lo amo-
re de Dio tante volte quanto fusse de bisogno sì chel povero sia pro-
veçudo e suvegnudo in la sua necessitade. E questo se faça per amore
della caritade e dilectione fraterna observando sempre la possibilità
delli fratelli» 44.
 

Non è difficile immaginare quali benefici effetti di tipo socia-


le potessero avere tali comportamenti in una società che non pre-
vedeva forme assicurative né qualsivoglia strumento di tutela, dove
una morte repentina, una malattia, una gravidanza conclusasi tragi-
camente o anche un semplice rovescio economico potevano destabi-
lizzare completamente interi gruppi familiari.
Tuttavia benché le maglie della carità nella pietà laicale si siano
progressivamente ristrette 45 e gli orientamenti abbiano risentito nel
 

tardo medioevo di una certa chiusura corporativa, non si chiuse del


tutto lo spazio per chi si poneva al di fuori del contesto associativo.
Un aspetto continuamente emergente e rintracciabile anche in luo-
ghi diversi consisteva, per fare qualche esempio, nella misericordia
verso i forestieri, i viandanti e i pellegrini, specialmente nel caso in
cui essi fossero ospiti di socii aderenti a sodalizi confraternali oppu-
re qualora il bisogno di cura e di sostegno riguardasse donne parto-
rienti ridotte in miseria o in viaggio, nel qual caso si arrivava persino
a prevedere che il socio si attribuisse il ruolo l’importante ruolo di
‘padrino’ della creatura nata 46.  

44 M. Fanti, Confraternite e città a Bologna nel medioevo e nell’età moderna,


Roma 2001, p. 439.
45 Qualche altro esempio in S. Di Mattia Spirito, Assistenza e carità in alcu-
ni statuti di confraternite nei secoli XV-XVI in Le confraternite romane. Esperienza
religiosa, società, committenza artistica, a cura di L. Fiorani, Roma 1984 («Ricerche
per la storia religiosa di Roma», 5). Lo statuto della confraternita di San Giovanni
Battista dei Fiorentini del 1456 (pp. 141-141) prevede che si possano aiutare anche
i soci ‘miserabili’ ma solo dopo essersi accertati che in passato abbiano pagato la
quota; parimenti si possono sovvenire anche i Fiorentini non iscritti al sodalizio pur-
ché «fusse huomo di buona fama» (condizione da accertarsi mediante un’accurata
indagine sulla sua persona e sui suoi trascorsi).
46 Casi di questo genere sembrano caratterizzare soprattutto le aree di campa-

248
La vita buona: scelte religiose di impegno nella società

Non furono ovviamente questi gli unici casi in cui la carità si al-
largò oltre il gruppo dei soci. Infatti la costruzione, il mantenimento
e l’attività all’interno di un ospedale rimasero per i sodalizi religio-
si la più consueta forma di sovvenzione e di aiuto verso il prossimo,
tanto da far parlare anche assai di recente del rapporto ‘confraterni-
te e assistenza’ come di un binomio interdipendente e complementa-
re 47. Di fatto, la maggior parte delle confraternite gestiva un piccolo
 

o grande ospedale e in alcune aree regionali — il Veneto è sicuramen-


te una di quelle 48 — l’apporto confraternale all’attività assistenziale
 

soprattutto nelle aree del contado nei secoli dell’ultimo medioevo fu


pressoché esclusivo 49.  

Perché il discorso sia più intelligibile conviene senz’altro anda-


re a vedere chi fosse questo prossimo, verso cui si indirizzavano le
opere di pietà dei confratelli, ma nel contempo si avverte la necessi-
tà di indagini precise nei tempi e nei luoghi, poiché in questo campo,
sono parole di Giuseppina De Sandre 50, occorre fare i conti con i bi-
 

sogni reali delle società nel loro complesso.


Le donne, per esempio — lo ha studiato di recente Anna
Esposito 51 — furono spesso al centro dell’attività confraternale fra
 

Tre e Quattrocento: non tutte le donne indistintamente ma quelle


fra loro che maggiormente necessitavano, o si riteneva che necessi-

gna: G. De Sandre Gasparini, Confraternite e campagna nell’Italia settentrionale del


basso medioevo, in Studi confraternali. Orientamenti, problemi, testimonianze, a cura
di M. Gazzini, Firenze 2009, pp. 19-51, in particolare pp. 30, 36.
47 T. Frank, Confraternite e assistenza, in Studi confraternali, p. 217-218.
48 A titolo solamente esemplificativo si veda il volume La carità a Vicenza.
Le opere e i giorni, a cura di E. Reato, Vicenza 2004; in particolare i saggi di G.P.
Pacini, Una comunità di frati ospedalieri. Ai margini della città all’origine dei borghi
di Portauova, pp. 105-129; Id., L’ospedale di Sant’Antonio abate della piazza del duo-
mo di Vicenza, pp. 131-172; Id., La «fratalea batutorum burgi Portenove» e l’ospe-
dale dei Santi Ambrogio e Bellino, pp. 173-198.
49 G. De Sandre Gasparini, Confraternite medievali nel Veneto, in Le confra-
ternite romane, cit., pp. 42-43. Ma si veda anche P.L. Meloni, Topografia, diffusione
e aspetti delle confraternite dei disciplinati, in Risultati e prospettive della ricerca sul
movimento dei disciplinati, Perugia 1972, p. 54.
50 De Sandre Gasparini, Tra pietà e opere, cit., p. 82.
51 Assai giustamente Anna Esposito in un recente contributo di sintesi dedi-
cato al tema Donne e confraternite distingue fra il tema della partecipazione delle
donne al movimento confraternale (oggetto di numerosi studi da parte di Nicholas
Terpstra, Giovanna Casagrande, Maria Teresa Brolis, Lorenza Pamato) e quello del-
le donne come oggetto di carità confraternale): Ead., Donne e confraternite, in Studi
confraternali, cit., 53-78.

249
Maria Clara Rossi

tassero, di una forma di tutela o di sostegno economico 52: le vedo-  

ve, le donne anziane in genere, e le ragazze povere in età da marito.


Va detto ancora che le iniziative di carattere assistenziale organizza-
te e gestite dalle confraternite — per le doti o più semplicemente per
sovvenire a bisogni quotidiani — avevano anche il compito di pre-
venire le diverse forme di marginalità femminile, sempre più avver-
tite, soprattutto nelle realtà urbane tardo medievali, come serbatoio
di espressioni eversive.
Vale la pena di concretizzare questi rilievi sulle diverse moda-
lità espressive dell’associazionismo tardo medievale proponendo un
paio di esempi riguardanti la prima categoria che è stata nominata: le
vedove. Entrambi fanno riferimento al contesto veneto.
La confraternita del Santo di Padova, di origine duecentesca,
dotata di un cospicuo patrimonio e di una buona disponibilità eco-
nomica, frutto dei numerosi lasciti pii con cui i testatori e le testa-
trici padovane l’avevano nel corso del tempo beneficiata, prese la
decisione nei primi anni del XV secolo di costruire un gruppo di
case da destinare a 6 vedove povere. Nel volger di poco il progetto
fu completato e un ristretto comitato di ufficiali designati dal vesco-
vo Pietro Marcello fu incaricato di assegnare le dimore alle donne e
di mantenerle in buono stato di conservazione anche per il futuro.
L’iniziativa è stata interpretata, credo in maniera condivisibile, come
l’esito di un atteggiamento segnato da un lato dalla sensibilità religio-
sa che faceva delle vedove una categoria tradizionalmente oggetto di
misericordia e di protezione; dall’altro dalla concreta conoscenza dei
bisogni e delle difficoltà legate al mantenimento di una ‘casa’ senza
potersi giovare di una rendita fondiaria. Nulla vieta però di pensare
che la vita di tali donne, la cui identità ci rimane sconosciuta, si po-
tesse regolare secondo ritmi non distanti da quelli di una piccola co-
munità ‘religiosa’ (dove la parola religiosa non allude evidentemente
a una dimensione istituzionalizzata) 53.  

52 Sul valore della tutela della donna e della sua virtù rimane assai importante
il saggio di C. Casagrande, La donna custodita, in Storia delle donne in Occidente, a
cura di G. Duby - M. Perrot: Il Medioevo, a cura Ch. Klapisch-Zuber, Roma-Bari
1990, pp. 88-128.
53 Le diverse attività caritative messe in atto dalla confraternita del Santo di
Padova sono state analizzate da G. De Sandre Gasparini, Lineamenti e vicende della
confraternita di S. Antonio di Padova (secoli XIV e XV), in Liturgia Pietà e Ministeri
al Santo, a cura di A. Poppi, Vicenza 1978, pp. 217-235 (in particolare sulla iniziativa
destinata alle povere vedove si vedano le pp. 222-223). Il contributo sulla confra-
ternita consta anche di una seconda parte di B. Varanini, Spunti per una indagine

250
La vita buona: scelte religiose di impegno nella società

Quasi contemporaneamente nella non lontana città atesina ven-


ne avviata una seconda iniziativa destinata — e anche gestita — da
alcune vedove di un certo rilievo sociale. Teatro della vicenda, come
si vedrà, non fu solamente l’ambiente urbano, ma anche quello ru-
rale della vicina Valpolicella, intessuto di esperienze religiose molte-
plici e singolari, in grado di riverberarsi con successo sulla sensibilità
cittadina. Si tratta della nascita di un piccolo ‘gineceo’ insediato in
una domus denominata Croce Bianca alle Fontanelle e situata nella
contrada di Santo Stefano di Verona. In questa casa un ristretto so-
dalizio fondato da due vedove socialmente altolocate — la prima è
una veneziana Lucia detta Bianca e moglie del fu Gabriele Dandolo,
la seconda invece è una tal Giacoma di Bagnolo Vicentino —, si co-
stituì nel 1418 con una finalità dichiaratamente religiosa ma con
forte accento di mutua e reciproca assistenza e di sollievo per l’inci-
piente vecchiaia di solitudine. Le due donne, avevano sentito parlare
con molta ammirazione dell’esperienza di altre due vedove di one-
sta vita (Maddalena ed Elena) che in un contesto diverso da quello
urbano, la Valpolicella, avevano a loro volta fondato una struttura di
accoglienza per vedove denominata «hospitale Crucis Blance». Le
due dame cittadine volendo «eorum vestigia sequi» offrirono sé e i
loro beni alla domus della Croce Bianca di Arbizzano di Valpolicella,
fondata dalle suddette Maddalena ed Elena in un tempo non lon-
tano, ma non esplicitato dalla documentazione. Esse però non vi si
trasferirono e non presero mai dimora preso la Croce Bianca della
Valpolicella, troppo lontana forse dalla dimensione della loro quoti-
dianità altolocata, ma si impegnarono ad abitare insieme per il resto
della loro vita, coinvolgendo anche altre vedove, in una casa — che
potremmo definire come una succursale della domus di Arbizzano —
situata nella più centrale contrada urbana di Santo Stefano; casa che
era il frutto di una donazione di una terza donna (vedova anch’essa)
alle nostre due vedove cittadine, Lucia e Giacoma. Il loro impegno
era in primo luogo quello di allargare il sodalizio ad altre donne che
volessero «servare honestam vitam vidualem», ma contemporanea-
mente anche quello di accogliere altre povere donne bisognose. In
una posizione che pare essere leggermente subordinata rispetto alle
due fondatrici si associò infatti alla ridotta comunità anche una ter-
za vedova, di nome Margherita, accompagnata da una figlioletta, per
la quale però Margherita sembra desiderare un futuro diverso; non

sull’economia della confraternita (anni 1484-1488), ivi, pp. 235-243.

251
Maria Clara Rossi

voleva infatti obbligarla a stabilirsi presso la Croce Bianca di Santo


Stefano con un impegno definitivo («nolebat nec intendebat obli-
gare ad perpetuam residentiam ibi faciendam») ma intendeva man-
tenere aperta per sua figlia la possibilità di uscirne per crearsi una
famiglia («intendebat quod dicte filie sue sempre esset servata aucto-
ritas et libertas possenti stare in dicta societate et de ipsa exire quan-
documque sibi placuerit causa se maritandi»). I due nuclei distinti
— quello delle Fontanelle e quello della Croce Alba di Arbizzano,
a cui le vedove cittadine si erano ‘votate’ — si impegnarono a man-
tenere qualche sporadico contatto (l’elezione comunitaria delle ad-
ministratrices e qualche altro momento di carattere decisionale), ma
nella realtà dei fatti le due esperienze non ebbero molto in comune e
l’hospitalitas, praticata anche con un certo successo nella domus della
Valpolicella, non prese mai veramente piede a Santo Stefano. Anche
il gruppetto originario della Crux Alba ebbe vita breve (sembra scom-
parso già negli anni Settanta del Quattrocento), tuttavia i testamenti
degli abitanti della Valpolicella manifestano non poco interesse per
questa convivenza fra vedove in grado, evidentemente, di dar vita a
pratiche di beneficenza e di vita buona gradite ai fedeli 54 e soprat-  

tutto alle fedeli, che non di rado le ricordarono nelle ultime volontà,
talvolta assimilandole ad una piccola comunità monastica. Le testa-
trici infatti effettuarono lasciti alle sorores del monastero della Croce
Bianca. Di monastero evidentemente non si trattava, considerato il
fatto che nella succursale veronese era prevista la possibilità per la fi-
glia di Margherita di uscirne quando volesse mantenendo auctoritas
e libertas (due termini assai lontani, direi quasi agli antipodi della di-
mensione monastica); sembra piuttosto trattarsi una esperienza reli-
giosa ‘autogestita’ (nella documentazione non vi è traccia di uomini
di Chiesa né viene fatto cenno ad una regola), con una piccola ‘ap-
pendice’ urbana originata dall’emulazione delle operose vedove ma
anche dal loro timore per il futuro e da un profondo bisogno di pro-
tezione e di sociabilità in un contesto in qualche modo familiare e

54 Il documento che attesta l’istituzione della ‘succursale’ della Croce Bianca


nella domus detta le Fontanelle è conservato presso l’Archivio di stato di Verona,
Ufficio del Registro, reg. 53, cc. 675v-676v (Conventiones sororum hospitalis Crucis
Blanche de Albizano. L’edizione del documento e la contestualizzazione di tutta la
vicenda saranno edite nel volume Vita religiosa di donne ‘non eroiche’ (Verona, secoli
XIV-XV), in corso di pubblicazione. Accenna alla vicenda della Croce Bianca di
Arbizzano anche G.M. Varanini, La Valpolicella dal Due al Quattrocento, Verona
1985, pp. 250-251.

252
La vita buona: scelte religiose di impegno nella società

forse non troppo lontano, anche materialmente, dalle condizioni di


vita condotte all’epoca del matrimonio.
Se è pur vero che la storiografia recente ha fornito un quadro
della situazione delle vedove assai più articolato e dinamico 55 rispet-  

to ai frequenti stereotipi veicolati da fonti di natura ecclesiastica,


evidenziando come la morte del coniuge non impedisse alle don-
ne l’assunzione di scelte di vita propria in ambito familiare, econo-
mico, sociale e religioso 56, non può essere sottaciuto che nelle liste
 

degli indigenti segnalate dai comuni cittadini e dalle confraternite,


come pure nelle interminabili file di nomi delle esecuzioni testamen-
tarie che elargivano quattro soldi a poveri ben individuati 57, quel-  

li delle donne e in particolare delle vedove rappresentavano sempre


una buona maggioranza, e che la condizione vedovile, anche quan-
do riguardava donne apparentemente senza preoccupazioni econo-
miche 58, comportava difficoltà e disagi, attinenti alla sfera affettiva e
 

55 La storiografia degli ultimi anni si è arricchita di numerosi e importanti


volume relativi alla storia e al ruolo delle vedove dall’alto medioevo all’età moderna;
non potendone dar conto compiutamente, in questa sede ci si limiterà alla citazione
di alcune opere ‘collettive’: Veuves et veuvage dans le haut Moyen Age, a cura di
M. Parisse, Paris, 1993; Widowhood in Medieval and Early Modern Europe, edited
by S. Cavallo - L. Warner, London 1999; Widowhood and Visual Culture in Early
Modern Europe, edited by A. Levy, Ashgate 2003.
56 C. Béghin-La Gourrièrec, La tentation du veuvage. Patrimoine, gestion et
travail des veuves dans les villes du Bas-Languedoc au XIV et XV siècles, in La famille,
les femmes et le quotidien (XIV-XVIII siècles). Textes offerts à Christiane Klapisch-
Zuber, a cura di I. Chabot - J. Hayez - D. Lett, Paris 2006, pp. 163-180. G. Petti
Balbi, Donna et domina: pratiche testamentarie e condizione femminile a Genova nel
secolo XIV, in Margini di libertà. Testamenti femminili nel medioevo, a cura di M.C.
Rossi, Verona 2010, pp. 153-182.
57 Qualche esempio in Ch.-M. De La Ronçière, Pauvres et Pauvreté a Florence
au XIVe siècle, in Études sur l’histoire de la pauvreté, p. 692: tra le numerose indigen-
ti assistite dalla confraternita di Orsammichele fra il 1324 e il 1357 oltre alle donne
malate, alle anziane, alle orfane etc. figura una discreta percentuale di vedove.
58 Lo studio di I. Chabot, Lineage strategies and the control of widows in
Renaissance Florence, in Widowhood in Medieval and Early Modern Europe, pp.
127-144, ha ben mostrato come, benché in linea teorica alle vedove fiorentine fosse
concessa la libera utilizzazione del patrimonio personale e l’autonomia decisionale
intorno al proprio futuro, nella prassi esse dovessero sottostare alla volontà del ge-
nitore o dei fratelli, che di fatto molto spesso stabilivano se ricollocarle sul ‘mercato
matrimoniale’. Anche nel caso, apparentemente più favorevole, in cui le vedove
fossero state nominate nell’atto testamentario del coniuge domine et usufructuarie e
potessero continuare ad abitare nella casa del marito, l’utilizzo del patrimonio di cui
venivano investite non comportava una sua amministrazione ‘reale’ma si riduceva di
fatto ad un limitato usufrutto «pro victo et vestito».

253
Maria Clara Rossi

psicologica e spingeva a cercare o a proporre — come nei casi pado-


vano e veronese — nuove forme di con-vivenza classificabili più nel-
l’alveo della filantropia che della religione (ammesso che questi due
ambiti possano essere così nettamente separabili), atte a rendere più
tollerabile l’avvicinarsi della morte in solitudine. L’indagine condotta
sui testamenti veronesi della prima metà del XV secolo 59 evidenzia la  

costante preoccupazione, espressa da testatori e testatrici, di offrire


soluzioni, almeno di tipo abitativo, meno precarie alle vedove della
famiglia o della contrada e contemporaneamente mette in luce nel-
le ultime volontà redatte dalle vedove realtà esistenziali segnate dal-
la precarietà e dalla solitudine, anche se non necessariamente dalla
miseria materiale 60.  

Un’altra preoccupazione costante dei testatori e delle testatrici


era, come si è detto, quella di offrire sostegno economico alle fanciul-
le da maritare, genericamente individuate come «pauperes domicel-
lae maritandae»: la consuetudine di destinar loro lasciti in denaro
con lo scopo di costituire per ciascuna ragazza povera una dote mi-
nimamente adeguata ha una tale diffusione nel tempo e nello spazio
da poter essere in questa sede solo annunciata: bastino a comprovar-
ne la dilatazione i dati raccolti dalla documentazione veronese, che
individuano la sovvenzione alle ragazze prive di dote fra le princi-

59 Presso l’università di Verona è stato da tempo avviato un progetto di ar-


chiviazione elettronica dei testamenti delle donne veronesi del XV secolo, conser-
vati presso l’Archivio di Stato di Verona nel fondo dell’Ufficio del Registro. La
ricerca, coordinata e promossa dalla sottoscritta, con la supervisione scientifica di
Giuseppina De Sandre Gasparini, si è avvalsa di un finanziamento della Regione
Veneto e successivamente di un contributo della Fondazione Cariverona. Alcuni
esiti recenti della ricerca sono confluiti negli atti del Convegno Margini di libertà,
cit.; in particolare si vedano i contributi di M. Cipriani, Le disposizioni per le esequie
e il lutto nei testamenti di donne veronesi (prima metà del XV secolo, pp. 277-310
e il mio Figli d’anima. Forme di ‘adozione’ e famiglie ‘allargate’ nei testamenti degli
uomini e delle donne veronesi del secolo XV, pp. 381-404.
60 Per rendersi conto della situazione che poteva caratterizzare la vita delle
vedove è sufficiente uno sguardo, anche rapido, alle fonti testamentarie del secolo
XV redatte a Verona e nel suo contado. Archivio di Stato di Verona, Antico Ufficio
del Registro, Testamenti, mazzo 20, n. 77, 1428 maggio lunedì: domina Maria figlia
del defunto Paolo di Venezia e moglie di Giovanni di Chioggia, lascia una camicia e
una fodera vecchia a una certa domina Meiora, vedova e povera, che vive presso le
mura della città nella contrada di Santo Stefano. Ivi, mazzo 20, n. 39, 1428 febbraio
27, venerdì: domina Desiderata di Illasi decide di devolvere alle povere vedove di
Illasi il denaro che rimarrà dalla vendita di una pelliccia nuova appartenente alla
testatrice, dopo che il suo erede avrà predisposto per lei, con il ricavato, una ceri-
monia funebre decorosa.

254
La vita buona: scelte religiose di impegno nella società

pali forme di carità della prima metà del Quattrocento (una percen-
tuale che va dal 20 al 30% dei testamenti analizzati prevede lasciti
generici per questo scopo; quantità destinata ad aumentare qualora
si valutino quelli effettuati alle famule e alle pedisseque di casa, spes-
so ricordate nelle ultime volontà con somme di denaro da riscuotere
al momento del matrimonio) 61. I sondaggi campione effettuati nella
 

documentazione della seconda metà del secolo forniscono le stesse


percentuali: segno quindi di un bisogno preciso della società urbana
di quel tempo, finalizzata a prevenire il fenomeno della prostituzio-
ne e delle nascite illegittime e a rafforzare, l’istituto del matrimonio
fortemente sentito come base e fondamento della società.
A tali bisogni numerose confraternite cercarono di dare risposte
concrete: a Roma, a Bologna, a Firenze, solo per limitarci ad alcuni
esempi ben studiati (un riferimento preciso sono ancora le ricerche
di Anna Esposito) il raggio dell’attività confraternale si estese dalla
raccolta dei ‘fondi’ per rendere possibile il matrimonio alla parteci-
pazione diretta alla cerimonia del maritagio 62. A Bologna — lo ha se-
 

gnalato di recente Nicholas Terpstra — i membri delle confraternite


si impegnavano direttamente nella ricerca dello sposo, nella confe-
zione della dote, nell’accompagnare le loro ‘quasi figlie’ alla nuova
dimora, esercitando una sorta di diritto genitoriale sulle giovani spo-
se ed evidenziando di fronte alla società gli effetti reali di quella ‘pa-
rentela spirituale’ che si veniva tessendo all’interno dei sodalizi 63.  

Tralascerò in questa sede di fare incursioni nell’ambito in cui

61 I dati possono essere verificati da alcune indagini svolte ‘a campione’ sui


testamenti del 1428 e del 1438, anni in cui in città infuriava la peste. Se ne vedano gli
esiti in D. Venturi, Orientamenti devozionali, situazione patrimoniale e legami affet-
tivi delle donne veronesi del XV secolo. Indagine su 76 testamenti femminili dell’anno
1428, tesi di laurea, Università degli studi di Verona, Facoltà di lettere e filosofia,
a.a. 2008-2009, rel. M.C. Rossi; P. Milli, Vivere e morire in un anno di peste e di
guerra: Verona e il suo territorio nel 1438. Indagine su 351 testamenti, tesi di laurea,
Università degli studi di Verona, Facoltà di lettere e filosofia, corso di laurea specia-
listica in Storia e geografia dell’Europa, a.a. 2008-2009, rel. M.C. Rossi.
62 A. Esposito, Le confraternite del matrimonio. Carità, devozione e bisogni so-
ciali a Roma nel tardo Quattrocento (con l’edizione degli statuti vecchi della Compagnia
della SS. Annunziata), in Un’idea di Roma. Società, arte e cultura tra Umanesimo e
Rinascimento, a cura di L. Fortini, Roma 1993, pp. 7-52; Ead., Le confraternite del
Gonfalone (secoli XIV-XV), «Ricerche per la storia sociale e religiosa di Roma», 5
(1984), pp. 91-136, in particolare pp. 129-130. Da ultimo si rinvia anche al saggio di
sintesi Ead., Donne e confraternite, cit., pp. 71-77.
63 N. Terpstra, Culture di carità e culture di governo cittadino a Bologna e a
Firenze nel Rinascimento, in Studi confraternali, cit., pp. 287-288.

255
Maria Clara Rossi

l’universo assistenziale a partire dal Quattrocento operò con mag-


giori novità rispetto all’età precedente: alludo a quello dell’infanzia
abbandonata, sulla quale si concentrarono gli interessi, le risorse e
le preoccupazioni delle istituzioni religiose e soprattutto di quelle
civili. Fu la forze delle cose che spinse in questa direzione, poiché
proprio nel Quattrocento si dovette fronteggiare, e non solo nelle
città italiane, la grave emergenza dell’abbandono degli infanti. Mi
limiterò a dire che l’azione caritativa e filantropica nei confronti di
coloro che venivano denominati ‘esposti’ non si orientò soltanto ver-
so la ‘cura’ interna ai brefotrofi, ma mise in atto soluzioni concrete
che potessero contribuire alla costruzione di un ‘futuro’ come figli
‘adottivi’ all’interno di una nuova famiglia. Non è forse un caso che
anche i testamenti solitamente non utilizzati con questa prospetti-
va euristica — ma il caso veronese lo documenta abbondantemen-
te 64 — facciano riferimento a rapporti di adozione o quantomeno al
 

trasferimento di infantes fin dalla tenera età presso un nuovo nucleo


familiare, all’interno del quale i bambini, chiamati ‘figli d’anima’, ve-
nivano educati, cresciuti, «nutriti pro filiis». Certamente si potevano
anche configurare situazioni equivoche in cui i fanciulli non avendo
uno status giuridico ben preciso potevano essere oggetto di cattivi
trattamenti e di sfruttamento. Potevano però aver luogo altresì anche
relazioni intense, durature e di autentico affetto (e i testamenti fem-
minili lo rivelano con grande evidenza), soprattutto nei casi in cui la
presa in carico di questi bambini — se proprio non si vuole parlare
di adozione — andasse a colmare il vuoto di una maternità non rea-
lizzata o di una solitudine precoce seguita alla morte di un coniuge. Il
caso di Anna di Lazise di Verona non è raro: nelle sue ultime volontà
essa designa come erede universale il suo figlio d’anima Ziliolo per-
ché per molti anni aveva vissuto con lei more filiali, trattandola «vel-
lum matrem, fideliter et zello filiali» 65.  

Credo, da ultimo, che il quadro risulterebbe fortemente lacu-


noso se non venisse ricordato, seppure a mo’ di sintesi, che insie-
me alle vedove, alle fanciulle bisognose e ai bambini abbandonati
o privi di una famiglia anche i carcerati furono al centro dell’azione
caritativa confraternale. Manifestazioni assai recenti della ininterrot-
64 Una ricerca sull’adozione in età medievale e moderna è stata avviata dalla
sottoscritta e da M. Garbellotti presso l’Università di Verona; se ne vedano i primi
risultati in Rossi, Figli d’anima, cit.
65 Il caso di Anna di Lazise è descritto, insieme a molti altri nel mio Figli
d’anima, cit., in particolare p. 393.

256
La vita buona: scelte religiose di impegno nella società

ta vivacità storiografica sulle confraternite hanno riguardato un tipo


specifico di associazioni laicali, ovvero le compagnie di giustizia, il
cui compito era quello di condurre i condannati a morire in pace ac-
cettando la sentenza loro comminata dalla giustizia terrena e ricon-
ciliandosi con la Chiesa mediante l’assunzione dei sacramenti 66. Agli  

affiliati delle compagnie di giustizia spettava anche la sepoltura dei


condannati, un’opera di carità che esorbitando dal ristretto ambi-
to dei sodalizi, ove era normalmente praticata, si estendeva anche ai
‘corpi maledetti’ che pendevano dalle forche delle piazze cittadine.
Carcerati e condannati, oltre ad essere assistiti dai membri dei soda-
lizi, erano contemporaneamente assai ben rappresentati anche nella
mente di chi dettava le sue ultime volontà. Particolarmente fecon-
do e ricco di prospettive euristiche si rivela infatti ancora una volta
l’intreccio di queste due categorie di fonti: da un lato la documen-
tazione confraternale e ospedaliera, che ci ragguaglia sulle opere,
dall’altro la fonte testamentaria, che si può tradurre — con tutte le
cautele che un esercito di studiosi ha messo in campo — in coscienza
di tali opere 67. Spiragli di lucida consapevolezza delle proprie azio-
 

ni manifesta, a mo’ di esempio, un testatore bolognese che fece re-


digere le ultime volontà alla fine del XIII secolo, tal «Bonifacius qui
dicitur Faciolus». Incaricò in primo luogo gli esecutori testamenta-
ri di portare a compimento per la sua anima tutte quelle opere di
66 Per quanto riguarda l’area veneta, cui si è spesso fatto riferimento in que-
sto contributo si vedano ancora una volta gli studi di G. De Sandre Gasparini e
in particolare La confraternita di S. Giovanni Evangelista della Morte in Padova e
una riforma ispirata dal vescovo Pietro Barozzi (1502), in Miscellanea Gilles Gérard
Meersseman, Padova 1970, pp. 765-815. E ancora Studi di confraternite religiose di
Padova nel Medioevo, a cura di G. De Sandre Gasparini, Padova 1974. Più in gene-
rale è d’obbligo il rimando a Misericordie. Conversioni sotto il patibolo tra medioevo
et età moderna, a cura e con Introduzione di A. Prosperi, Pisa 2007 (in cui segnala
anche la bibliografia sulle confraternite di giustizia in Italia a pp. 54-70).
67 Volendo ancora una volta valorizzare il lavoro sulle fonti testamentarie
veronesi (vedi sopra le note 59 e 61) si devono ricordare i sondaggi effettuati sui
documenti degli anni 1428 e 1438, durante i quali non pochi atti di ultime volontà
ricordano i carcerati quali destinatari di elemosine in denaro o in cibo. In alcuni
casi furono gli uomini che avevano fatto l’esperienza del carcere a rammentarne
la durezza nel loro testamento, cercando di mitigarla per coloro che ancora vi si
trovavano. Lo attesta l’esperienza di un certo Gaspare di Velo Veronese, un paese
situato sui Monti Lessini, il quale nel dettare le volontà estreme non poté omettere il
ricordo della dolorosa esperienza della ‘galera’, destinando ai carcerati veronesi una
discreta somma di denaro e beneficiando anche l’avvocato che gli aveva consentito
di uscire dal carcere: Archivio di Stato di Verona, Ufficio del registro, Testamenti,
mazzo 30, n. 25, 1438 marzo 22.

257
Maria Clara Rossi

misericordia che nostro Signore Gesù Cristo esige e richiede da un


peccatore: «famescentem pascere, scicientem potare, nudum vesti-
re, infirmum visitare, hospitem hospitare et captum de carceribus
extrahere». Dovendo scegliere si orientò in particolare verso la cura
dei prigionieri del carcere del comune di Bologna affidando agli ese-
cutori il compito di scarcerarne (extrahere) uno o più di uno, spen-
dendo per ciascuno di loro una determinata somma di denaro. Lo
fece con una precisa finalità religiosa: perché Dio si degnasse a sua
volta di scarcerare la sua anima da una prigione ben peggiore, quel-
la del peccato e del diavolo («ut Deus dignetur extrahere animam
meam de carceribus peccati e diaboli») 68. C’è probabilmente l’ascol-
 

to e l’interiorizzazione delle prediche del tempo alla base di una si-


mile decisione e della sua codificazione in un documento, chiunque
l’abbia ispirato (notaio o testatore); il che richiama il dovere di dire
che un tema di questo genere avrebbe tratto molto vantaggio dall’in-
dagine sull’omiletica, attraverso la quale nel tardo medioevo si mi-
sero in atto programmi di istruzione morale, etica e religiosa della
società e si attuarono processi di trasmissione di valori, veicolando
norme di comportamento inesorabilmente connesse con la ricerca di
una vita buona 69. 

Ma questo è un tipo di fonte che meriterebbe un contributo a


sé stante.

Continuare ancora con la narrazione delle iniziative dell’asso-


ciazionismo religioso di impegno nella società non apporterebbe
nulla di nuovo alla sostanza del nostro discorso. Importa semmai,
sulla scia di quanto ha fatto in più occasioni Giuseppina De Sandre,
operare una riflessione finale sul nesso ‘scelte religiose-opere di ca-
rità’, evidenziando come nell’assunzione concreta di fini e compiti
benefici il mondo associativo non sia rimasto ancorato a tradizioni,
ma abbia continuamente innovato, sperimentato nuove strade e for-
me originali per rispondere ai bisogni di una società in mutamento e
come «proprio la tensione religiosa degli individui» abbia infuso nel-
l’azione caritativa originalità e concreta rispondenza ai bisogni 70.  

68 Archivum conventus Sancti Francisci Bononiensis, «Analecta franciscana»,


9 (1927), p. 458.
69 Un esempio interessante è costituito dal libro di Cecilia Iannella, Giordano
da Pisa. Etica Urbana e forme della società, Firenze 1999.
70 De Sandre Gasparini, Tra pietà e opere, cit., p. 84.

258
Domenica 17 maggio, mattina
Pistoia, Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei Vescovi
Presidente Prof. Mauro Ronzani

Renato Bordone
Progetti in augmentum rei publice
nell’esperienza del primo comune in Italia

1. Tra gli ultimi decenni del secolo XI e la prima metà del XII
si assiste a un radicale rinnovamento delle strutture politiche e istitu-
zionali delle città del regno d’Italia che ne condizionerà in modo per-
manente lo sviluppo successivo. Sebbene si ignori per lo più come
funzionasse di fatto l’ordinamento urbano precedente, appare ormai
assodato che l’istituzione stabile del consolato — diffuso e genera-
lizzato in tutte le città — costituisca rispetto al passato un fenome-
no affatto nuovo, in quanto i consoli agivano in rappresentanza di
tutta la comunità cittadina. Se la dimensione politica del movimento
comunale confermava e traduceva in pratica istituzionale la diffusa
convinzione da parte delle città di costituire un’articolazione territo-
riale dell’impero — maturata con la tradizionale collaborazione dei
cives con l’episcopato e confermata occasionalmente da espliciti ri-
conoscimenti dei sovrani della casa di Franconia 1 —, non vi è dub-
 

bio alcuno che ciò potesse accadere per la particolare composizione


sociale della collettività residente.

1 R. Bordone, La società cittadina del Regno d’Italia. Formazione e sviluppo


delle caratteristiche urbane nei secoli XI e XII, Torino 1987 (Biblioteca storica subal-
pina, 202), pp. 130-138.

259
Renato Bordone

Si trattava, come è noto, di una società articolata e molto più


composita rispetto a quella delle campagne, dove era invece avvenu-
ta una significativa semplificazione delle condizioni giuridiche del-
l’insieme dei residenti con l’affermarsi dei poteri signorili e con il
conseguente imporsi di un’economia sostanzialmente basata sul pre-
lievo esercitato su tutti i subordinati. Di contro, le risorse a cui ave-
va accesso il ceto eminente cittadino potevano provenire da fonti
differenziate, in prevalenza da un’economia di scambi che tradizio-
nalmente caratterizzava la città. Ma non solo: un gruppo numero-
so di cittadini integrava le entrate commerciali con quelle derivate
dall’esercizio delle armi in difesa della comunità 2. Una sostanziale
 

identità di costumi bellici e di stile di vita accomunava infatti i domi-


ni rurali e i milites cittadini: la differenza consisteva caso mai nella
dimensione urbana e dunque collettiva di questi ultimi rispetto alle
stirpi dei castellani che esercitavano pieno dominio sui rustici.
La storiografia dell’ultimo quarto del secolo scorso ha dibattuto
a lungo — e non senza polemiche — il problema del ruolo politico
svolto dalle diverse componenti della società cittadina nell’afferma-
zione dell’ente comunale, sottolineando di caso in caso la prevalenza
ora dei gruppi collegati feudalmente con il vescovo e per lo più do-
tati di poteri signorili nel contado, ora di quelli che detenevano beni
fondiari e ricchezza mobiliare proveniente dall’esercizio delle attivi-
tà commerciali 3. Le peculiarità locali che la ricerca ha messo in luce
 

non alterano, ma semmai arricchiscono, la fisionomia di una socie-


tà che traeva comunque la sua caratterizzazione proprio dalla convi-
venza comune nello spazio urbano e dalle conseguenti funzioni che
ciascuna componente era chiamata ad assolvere per l’ordinato svol-
gimento della vita quotidiana. Di tale ordinato svolgimento la dife-
sa costituisce fin dall’alto medioevo un momento essenziale a causa
dello stato di permanente conflitto fra le forze politiche tese ad affer-
mare la propria supremazia, tanto più aggravatosi proprio in seguito
alla crescita demografica del secolo XI e al diffuso disordine provo-
cato dalla crisi del potere imperiale in lotta con il papato. Se per un

2 Si vedano al proposito le considerazioni di J.-C. Maire Vigueur, Cavalieri e


cittadini, conflitti e società nell’Italia comunale, trad.it., Bologna 2004.
3 Per un inquadramento del dibattito di fine Novecento sulle origini dei co-
muni si veda R. Bordone, La storiografia recente sui comuni italiani delle origini, in
Die Frühgeschichte der europäischen Stadt im 11. Jahrhundert, a cura di J. Jarnut - P.
Joanek, Köln-Weimar-Wien 1998, pp. 45-61.

260
Progetti in augmentum rei publice in Italia nel ‘primo comune’

verso, infatti, il progressivo aumento della popolazione urbana spin-


geva le città a procurarsi risorse non solo espandendosi nel proprio
contado, ma anche a scapito delle città vicine — come lucidamen-
te rileverà Ottone di Frisinga alla metà del secolo successivo 4 —,  

per altro verso l’oggettivo indebolimento dei referenti tradizionali in


conflitto fra loro e la conseguente instabilità del contesto spinsero le
comunità cittadine a una precoce assunzione di responsabilità anche
politiche che pare accelerare quei processi di autodeterminazione già
in corso di maturazione nella fase precedente del regime vescovile.
L’organizzazione dell’esercito in quel frangente diventò fonda-
mentale per tutte le città e ha lasciato tracce già nella fase incoativa
dei comuni: così nel 1086, dopo la morte di Gregorio VII, secondo
Donizone, «urbibus ex multis cives […] multi, insimul armati clipeis
et equis» seguirono il marchese obertengo in lotta contro la contes-
sa Matilde, mentre nel 1093 le civitates di Milano, Cremona, Lodi
e Piacenza, a detta del cronista Bernoldo, si confederavano tra loro
per offrire appoggio militare a Corrado, il figlio ribelle di Corrado
IV 5. Sulla composizione di questi primi exercitus cittadini, certo ere-
 

di di quelli di età vescovile, precoci e illuminanti tracce sono rimaste


nel caso di Pisa, conservate dal cronista Maragone a proposito del-
la conquista di Palermo, avvenuta nel 1063: i «Pisani cives simul ar-
mati» e forniti di una poderosa flotta («multa cum classe provecti»),
sbarcano in Sicilia con «equitum turba, peditum comitante cater-
va» 6. Cavalieri e fanti, dunque, come già si configuravano gli effettivi
 

dell’esercito milanese, ricordati da Landolfo seniore, fin dall’assedio


imperiale del 1037 7; ma per il caso pisano nell’articolazione dell’eser-
 

cito-cittadinanza impegnato alla conquista siciliana viene aggiunta


una preziosa precisazione, ignota al Milanese: «omnes maiores, me-
dii, pariterque minores». È chiaro che qui non si tratta di una speci-

4 Id., La società cittadina del Regno d’Italia, cit., p. 12.


5 Vita Mathildis celeberrimae principis Italiae carmen scripta
a Donizone pre-
sbytero, a cura di L. Simeoni, Bologna 1931-1940 (Rerum Italicarum Scriptores,
Raccolta degli storici italiani dal Cinquecento al Millecinquecento ordinata da
L.A. Muratori [da ora RIS2], 5/2), II, vv. 338-339; Bernoldi Chronicon, a cura di
G.H. Pertz, Hannoverae 1844 (Monumenta Germaniae Historica [da ora MGH],
Scriptores, V), p. 456.
6 Gli “Annales Pisani” di Bernardo Maragone, a cura di M. Lupo Gentile,
Bologna 1930-1936 (RIS2, 6/2), p. 5.
7 Landulphi Senioris Mediolanensis Historiae libri quattuor, a cura di A.
Cutolo, Bologna 1942 (RIS2, 4/2), II, c. 24, p. 63.

261
Renato Bordone

ficazione funzionale di tipo militare, come milites/pedites, ma di una


vera e propria indicazione sociale, presumibilmente collegata con un
criterio censuario che in Italia fin dalla tarda età longobarda presie-
deva al reclutamento 8.  

Se nella Milano precomunale, dove la componente feudale-si-


gnorile complicava la composizione sociale, i cronisti ricorrono alla
bipartizione (spesso conflittuale) della cittadinanza in maiores/po-
pulus, il criterio prevalentemente economico parrebbe invece pre-
valere in una città come Pisa, votata ai commerci marittimi. Anche a
Milano, tuttavia, il populus che si contrapponeva agli ordines feudali
dei capitanei e dei valvassori appare tutt’altro che uniforme, in quan-
to risultava composto da mercanti, da artigiani, da giudici e da notai,
appartenenti a famiglie che potevano a loro volta apparire fra i “mag-
giori”, come censo e come prestigio sociale; nel 1067, infatti, i legati
apostolici che individuano i Milanesi secondo l’ammontare delle am-
mende loro imposte «pro ordinis ac dignitatis suae qualitate ac po-
testate» elencano nell’ordine decrescente i capitanei, i valvassori, i
mercanti («ordo mercatorum») e i generici cives rimanenti 9.  

Da questa fuggevole traccia si può ricavare comunque l’imma-


gine di una società urbana che, alla vigilia dell’istituzione del conso-
lato, appare articolata — certo non a Milano solamente — in ordines
e dignitates che raggruppano gli abitanti a seconda della qualitas di
ciascuno connessa con il prestigio (la potestas) esercitato, qualora si
debba interpretare come endiadi l’espressione «qualitate et potesta-
te». Non si tratta, si badi, di una condizione giuridica che differenzia
fra loro i cives, in quanto l’appartenenza alla civitas in Italia garan-
tiva la libertà personale fin dal noto diploma rivolto da Ottone III
a «omnes cives Cremonenses liberos divites et paueres»10, ma piut-
tosto del riconoscimento di una gerarchia sociale configurata come
un insieme di ordines — forse non formalizzati più di tanto — che
raggruppavano coloro che erano individuati da una comune quali-
tas, connessa con l’esercizio di un’attività e di un conseguente stile
di vita: a Milano i capitanei, i valvassori, i mercanti, il populus e così
via. Non dunque una “società di ordini”, intesa, come è stato fatto,

8 R. Bordone - G. Sergi, Dieci secoli di medioevo, Torino 2009, pp. 24-25.


9 J.V. Pflugk-Harttung, Iter Italicum, II, Stuttgart 1883, p. 428.
10 Die Urkunden Ottos II. und Ottos III., ed. T. Sieckel, 2a ed., Berlin 1957
(MGH, Diplomata regum et imperatorum Germanicorum, VIII), doc. 198.

262
Progetti in augmentum rei publice in Italia nel ‘primo comune’

nel senso di “corpi” giuridici separati, quanto piuttosto una società


di liberi con le consuete differenze di ceti che in essa normalmente si
riscontrano. Tant’è che — come osserva Ottone di Frisinga 11 — pro-  

prio a Milano, dove «tres ordines esse noscantur» (l’ordo dei capita-
nei, l’ordo dei valvassori e l’«ordo plebis»), i consoli vengono eletti
non da un solo ordine, ma da ciascuno di essi, «ad reprimendam su-
perbiam» e per tutelare la comune libertà. Una considerazione sulla
quale torneremo in seguito.
Basti per ora aver delineato la società cittadina come una co-
munità che agisce in modo tendenzialmente unanime, nonostante
le ovvie differenze riscontrabili nella diversa distribuzione delle ric-
chezze e del prestigio dei suoi membri. Si configura, in sostanza,
come la realizzazione locale, entro la cinta delle mura urbiche, della
societas Christiana il cui paradigma continua a essere quello degli or-
dines — in questo caso funzionali —, sviluppatosi in seguito all’ela-
borazione di Adalberone di Laon: vescovo e clero costituiscono gli
oratores, i maggiorenti sono i bellatores e il populus svolge (sia pure
articolatamente) la funzione dei laboratores 12. Nessuno poteva pen-
 

sare di “trasformare” questa struttura sociale, caso mai di farla fun-


zionare al meglio: l’avvento e la politica del primo comune non sono
dunque concepiti dai contemporanei mai come ‘progetti di trasfor-
mazione sociale’, quanto piuttosto di conservazione pacifica di quel-
la societas sempre identificata nel tradizionale binomio chiesa/regno.
Quando Landolfo di San Paolo nel quarto decennio del secolo XII
si accinge a scrivere l’Historia Mediolanensis dichiara infatti che il
suo intento è quello di narrare ciò che è accaduto e di cui è stato te-
stimone «in ecclesia et in regno»: nella prima «per pontifices et aba-
tes et sacerdotes et levitas», nel secondo anzitutto «per consules et
cives», in entrambi i casi «per alios ecclesie et regni ministros» 13.  

Accadimenti avvenuti «non tantum ad augmentum sed etiam ad de-


trimentum religionis et directe consuetudinis»: miglioramenti e peg-
gioramenti dunque della società cristiana e della consuetudine. Per

11 Ottonis Ep. Frisingensis et Ragewini Gesta Frederici I, a cura di F.J.


Schmale, Darmstadt-Berlin 1965 (Ausegew. Quell., 17), II, 14, p. 308.
12 Si veda al proposito G. Duby, Lo specchio del feudalesimo (1978), trad.it.,
Roma-Bari 1981.
13 Landulphi Iunioris sive de Sancto Paulo Historia Mediolanensis ab a.
1095 usque ad a. 1137, a cura di C. Castiglioni, Bologna 1934 (RIS2, 5/3), c. 35,
p. 22.

263
Renato Bordone

il cronista, che era «consulum epistolarum dictactor» (dunque fun-


zionario comunale), anche l’istituzione del consolato non costituisce
una innovazione, in quanto i consoli altro non gli appaiono che «re-
gni ministri» (in altro e ben noto passo «rei publicae ministri», con
il medesimo significato 14); l’avvento del comune rientra semmai ne-
 

gli accadimenti «ad augmentum religionis et directe consuetudinis»,


dove consuetudo appare omologo a regnum, come religio lo è ad ec-
clesia. Se ne potrebbe dunque dedurre che il comune — res publica
in quanto manifestazione locale del regnum — costituisca un signifi-
cativo augmentum della consuetudo.
In effetti l’attenzione rivolta dagli autori della prima età comu-
nale (o addirittura di quella imminente) agli ordinamenti giuridici
appare ricorrere in modo quasi insistente: dal vescovo Rangerio di
Lucca, che scrive negli ultimi decenni del secolo XI, all’autore pisa-
no del Liber Maiolichinus, al bergamasco Mosè del Brolo, attivi nei
primi decenni del successivo 15. Proprio nel Liber Pergaminus, in par-
 

ticolare, la laus civica si incentra sul fatto che fin dall’antichità «hic
viguit ius et celebratio legum», ma che solo con il governo dei conso-
li si sono affermati «tanta leges aut civica iura», scrutate giorno e not-
te dai dodici «viri sancti» preposti alla magistratura che dispensano
a tutti un equo giudizio 16. Perché tale insistenza sulla legge, anzi sul-
 

l’applicazione equa della legge? In quanto la legge — dichiara Mosè


del Brolo — è strumento di concordia e di pace, la «pax aurea» che
si afferma a Bergamo con l’avvento del comune.

2. È stato ancora recentemente sottolineato da Giuliano Milani


che la «domanda di giustizia» si diffonde in Italia nella seconda metà
del secolo XI e in particolare presso la società cittadina 17. In segui-
 

to alla fase di crescita economica e demografica attraversata dal-


le città, rispetto al passato aumentò certo il volume degli affari e si
complicarono le relazioni relative al godimento dei beni materiali,

14 Ivi, c. 15, p. 11: se ne veda a commento G. Tabacco, Egemonie e sociali e


strutture del potere nel medioevo, Torino 1979, pp. 419-420.
15 Tutti presi in considerazione, sotto questo aspetto, da Bordone, La socie-
tà cittadina, cit., pp. 50-57.
16 G. Gorni, Il “Liber Pergaminus” di Mosè del Brolo, «Studi Medievali», 3a
serie, 11 (1970), vv. 275-76, p. 452.
17 G. Milani, I comuni italiani, Roma-Bari 2005, pp. 26-27.

264
Progetti in augmentum rei publice in Italia nel ‘primo comune’

ingenerando spesso conflitti fra i detentori che intendevano garan-


tire la certezza dei possessi. Alla richiesta di chiari pronunciamenti
giudiziari mancava tuttavia la risposta certa da parte di una giusti-
zia formalmente affidata ancora ai suoi detentori tradizionali, i quali
apparivano sempre meno interessati a curarne l’amministrazione in
seguito alla convulse vicende politiche internazionali. La debolezza
delle istituzioni legittime favoriva forme di accomodamento arbitra-
li o di giustizia volontaria, ma appariva diffuso — anche ai fini di un
ordinato svolgimento della vita economica — il bisogno di procedu-
re certe e condivise.
L’avvento della magistratura consolare rispose a tale esigenza
con l’assunzione delle prerogative giudiziarie da parte del collegio o
di alcuni membri di esso incaricati di giudicare le controversie sorte
fra i cittadini, ma fu un processo laborioso e differenziato a seconda
delle città: il cronista genovese Caffaro, per esempio, colloca nell’an-
no 1130 la suddivisione tecnica all’interno del collegio fra consoli
«de comuni» e consoli «de placito», ciascuno dei quali ultimi opera-
va in una delle sette (poi otto) circoscrizioni urbane in cui era artico-
lata amministrativamente la città 18. È chiaro che nella fase incoativa i
 

consoli ovunque assommavano senza distinzioni prerogative militari


e prerogative giudiziarie, ma con l’andare del tempo le competenze
vennero articolate e specificate, creando un vero sistema burocrati-
co che a Genova, a partire dal 1122, prevedeva clavarii, scrivani e un
cancellarius.
L’articolazione burocratica, a detta del cronista, era stata intro-
dotta «pro utilitate rei publice» 19: proprio il termine utilitas — che
 

in Caffaro, come vedremo, ricorre con una certa frequenza («utilitas


civitatis») — pare riportarci a quel concetto di augmentum che già
abbiamo incontrato nel senso di miglioramento della società, una so-
cietà, beninteso, identificata con il regnum, con la res publica, con il
comune, cioè con quello che si potrebbe definire con locuzione mo-
derna lo Stato. Più che di trasformazione sociale, si potrebbe dun-
que parlare del comune in sé come di progetto di buon governo, di
augmentum dello Stato e della società. Un progetto che sta comun-
que all’interno della societas Christiana e del regnum (come bene sot-

18 Annali genovesi di Caffaro e de’ suoi continuatori, a cura di L.T. Belgrano,


Roma 1890 (Fonti per la Storia d’Italia, 11), p. 25.
19 Ivi, p. 18.

265
Renato Bordone

tolineava Landolfo), anche se introduce delle innovazioni miranti in


ogni caso all’«utilitas civitatis». E quale può essere, tra i secoli XI e
XII, l’utile di una città in crescita demografica ed economica se non
la garanzia del mantenimento dell’ordinato e pacifico svolgimento
delle attività? Ma l’«aurea pax», esaltata da Mosè del Brolo che vede
infatti nell’avvento del regime comunale a Bergamo il ritorno dell’età
dell’oro, implica anzitutto la concordia fra i cives e non appare ca-
suale che in queste fonti l’espressione «pax et concordia» ricorra al
punto da poter essere considerata una formula quasi tecnica per in-
dicare il buono e pacifico stato della città. Così, fin dagli ultimi de-
cenni del secolo XI, la (perduta) età dell’oro di Lucca è tratteggiata
da Rangerio come quella in cui vigevano «in re civili pax et concor-
dia summa»; alla «concordia et pax» nel 1090 pervengono i milites e
il populus di Piacenza, secondo gli Annali Piacentini di Codagnello;
«pro concordia facienda» nel 1104 è inviato a Parma il riformatore
Bernardo degli Uberti e proprio ai medesimi termini fa riferimen-
to il noto lodo delle torri del vescovo pisano Daiberto di cui ora si
dirà 20.
 

L’insistenza del topos lascia tuttavia sottintendere che, nei tur-


bolenti decenni a cavaliere dei due secoli, nelle città italiane in ra-
pida crescita la situazione sociale — «in re civili», come diceva
Rangerio 21 — fosse tutt’altro che tranquilla. Tramontata o comun-
 

que in declino l’autorità effettiva dei vescovi, sempre di più coinvolti


nello scontro politico che contrapponeva il papa all’imperatore, ve-
nuto parimenti meno il già blando interesse per le città da parte degli
ufficiali pubblici, quei conti e quei marchesi ormai orientati a conso-
lidare i percorsi dinastici da tempo intrapresi, le responsabilità delle
scelte politiche per tutelare il buon ordinamento della società urbana
dovevano per forza ricadere sugli esponenti di quell’ordo o dignitas
che, a dirla con il linguaggio usato a Milano, eccelleva per «qualita-
te et potestate» dei suoi appartenenti. Erano i «maiores civitatis»,
membri di eminenti famiglie di origine cittadina o di lignaggi signo-
rili di più recente immigrazione dal contado, detentori di prerogative
militari poste al servizio della difesa urbana che implicavano anche
l’esercizio di una certa potestas sugli altri cives che ne riconoscevano

20
Casi considerati in Bordone, La società cittadina, cit., pp. 189-193.
21
Vita metrica Sancti Anselmi Lucensis episcopi auctore Rangerio Lucense, a
cura di E. Sachur - G. Schwartz - B. Schmeidler, Lipsiae 1934 (MGH, Scriptores,
XXX/2), v. 4367, p. 1248.

266
Progetti in augmentum rei publice in Italia nel ‘primo comune’

l’autorità. Nel caso ben noto della società milanese, il populus non
era disposto ad accettare la superbia del ceto capitaneale e — secon-
do Landolfo seniore 22 — da tempo combatteva con ogni mezzo «pro
 

aquirenda libertate»; altrove, come a Pisa, il complesso di quei «cives


maiores, medii, pariterque minores» aveva di buon grado accetta-
to, nella salvaguardia della propria libertà, la potestas degli esponen-
ti delle due stirpi che, avendo patrimonializzato l’ufficio pubblico di
visconte, fungevano da caput urbis, ossia da vertice dell’amministra-
zione cittadina, specie nella direzione dell’esercito 23. Ma si trattava
 

in ogni caso di equilibri instabili: bastò infatti l’inaspettata morte del


visconte Ugo durante il raid anti-fatimida del 1087 a scatenare nuovi
conflitti fra le élites urbane, conflitti composti soltanto dal lodo delle
torri del vescovo gregoriano Daiberto (1088/89), che ristabilì «con-
cordia et pax» confermando al «commune colloquium civitatis» il
monopolio dell’uso della forza e richiedendo come garanzia il giura-
mento della securitas da parte di tutto il populus 24.  

Appare dunque chiaro che a Pisa il disordine civile fu provoca-


to dai conflitti di concorrenza fra le domus dei maiores cittadini: già
il riconoscimento rilasciato da Enrico IV ai cives pisani nel 1081 per
garantire il mantenimento dell’ordine all’interno della città faceva in-
fatti divieto di compiervi violenze e distruzioni, ma la concessione ivi
compresa delle terre sull’Arno di fatto scatenò la “gara sanguinosa”
fra i maggiorenti che intendevano accaparrarsele. A differenza del
caso milanese, qui i rapporti vassallatici non sembrano aver avuto un
peso determinante nel configurare gli assetti sociali: i proprietari del-
le torri cittadine tecnicamente non sono né capitanei né valvassori,
ma sono possessori tanto in città quanto nel contado, hanno parteci-
pato alle assise giudiziarie del marchese di Tuscia, sono stati al segui-
to dell’imperatore e al tempo stesso appaiono come intraprendenti
armatori di navi commerciali. Per quanto riguarda poi la parte “non
nobile” della cittadinanza, qui essa non risulta in conflitto con i mag-
giorenti, ma compare come presumibilmente attiva in quel «com-

22 Landulphi Senioris Mediolanensis Historiae, cit., c. 26, p. 64.


23 M. Ronzani, Chiesa e “civitas” di Pisa nella seconda metà del secolo XI.
Dall’avvento del vescovo Guido all’elevazione di Daiberto a metropolita di Corsica
(1060-1092), Pisa 1996, pp. 247-260.
24 G. Rossetti, Il lodo del vescovo Daiberto sull’altezza delle torri: prima carta
costituzionale della repubblica pisana, in Pisa e la Toscana occidentale nel medioevo,
2, A Cinzio Violante nei suoi 70 anni, Pisa 1991, pp. 25-40.

267
Renato Bordone

mune colloquium civitatis» al quale il vescovo delega il controllo (e


le eventuali sanzioni) sull’applicazione della sua sentenza (lodo) che
stabiliva la sospensione di ogni contesa civile e che le torri edificate
dall’aristocrazia non superassero una certa altezza né venissero uti-
lizzate a scopi bellici.
Nel lodo, definito dal vescovo insieme con sei «viris strenuis et
sapientibus», c’è tuttavia di più: il giuramento «de securitate» solen-
nemente prestato da tutto il populus — maggiorenti compresi — a
tutela della sentenza appare il chiarimento dello strumento per rea-
lizzare quel progetto di conservazione della pace cittadina (appun-
to «concordia et pax») che preluderà all’istituzione del consolato,
in quanto prevede per gli inosservanti non solo l’esclusione religio-
sa dai sacramenti, ma anche l’esclusione dalla sfera economico-isti-
tuzionale della comunità: «neque in ecclesia neque in navi cum eo
aliquam communionem habeat» 25. Un provvedimento che pare con-
 

suonare con quello di un articolo del più antico Breve dei Consoli di
Genova, attribuibile al 1143, ma che certo riprende un dettato più ri-
salente, per cui nei confronti di quel genovese che non abbia voluto
«intrare in nostram Compagnam» — cioè per chi non abbia accetta-
to le istituzioni comunali — viene fatto divieto al populus di portare
«pecuniam suam per mare» 26. Insomma, il mantenimento dell’or-
 

dine pubblico — garantito dall’adesione solidale della comunità —


implica anche il controllo economico (con facoltà di sanzioni) delle
attività svolte dagli aderenti.

L’istituzione consolare pare dunque costituire l’applicazione di


un progetto di «augmentum rei publice» mirante a instaurare, at-
traverso il ricorso a procedure giudiziarie certe e condivise, la con-
cordia fra i ceti sociali urbani e all’interno del ceto eminente per
ottenere una situazione pacifica che consenta lo sviluppo economico
della città. Gli autori contemporanei appaiono molto sensibili al nes-
so che congiunge questi diversi aspetti, quale che sia localmente la

25 Ivi, p. 31.
26 Codice Diplomatico della Repubblica di Genova, a cura di C. Imperiale di
Sant’Angelo, I, Roma 1936 (Fonti per la Storia d’Italia, 77), doc. 128, p. 156. Si
veda al proposito R. Bordone, Le origini del comune di Genova, in Comuni e memo-
ria storica. Alle origini del Comune di Genova, Atti del Convegno di studi (Genova,
24-26 settembre 2001), Genova 2002 («Atti della Società Ligure di storia patria»,
n.s., XLII - CXVI -, f.1), pp. 253-254.

268
Progetti in augmentum rei publice in Italia nel ‘primo comune’

natura dei disordini civili. Così, nella Milano del principio del secolo
XII, gli ultimi strascichi della lotta fra riformatori e imperialisti ave-
vano portato a un’ulteriore divisione interna al partito riformatore
e alla contrapposizione fra i sostenitori dei due candidati alla catte-
dra arcivescovile, Grosolano in carica e il suo antagonista Giordano
di Clivio; già una disastrosa situazione meteorologica accompagnata
da straripamenti e alluvioni aveva spinto alcuni predicatori a soste-
nere l’imminenza di un nuovo diluvio per la malitia della «discordia
Grosulani», quando, su richiesta dei «pugnatores et defensores» del-
l’arcivescovo fu istituita una commissione per fornire una «iustam et
rectam sententia secundum canones de discordia Grosulani», sen-
tenza alla quale «clerici et sacerdotes, milites et cives» avrebbero
poi giurato di attenersi 27. Gli strumenti per riportare l’ordine e la
 

concordia fra i cittadini — sia pure turbata per cause di natura ec-
clesiastica, ma allora non meno coinvolgenti per l’intera cittadinan-
za — sono dunque individuati, al solito, nel pronunciamento di una
sentenza che sarà da tutti riconosciuta come vincolante tramite il ri-
corso al giuramento collettivo.
A questo punto Landolfo di San Paolo interrompe la narrazio-
ne dei fatti per inserire un episodio di qualche tempo prima, ma in
ogni caso connesso con la vicenda, in quanto avvenuto «durante lite
Grosulani»: il ritrovamento miracoloso nella primavera del 1107 di
preziose reliquie presso la chiesa di S. Maria di Porta Vercellina, a
seguito del quale fu istituita una festa solenne. Il cronista ne ripor-
ta al proposito la lettera istitutiva sulla cui genuinità (almeno degli
intenti) non c’è motivo di dubitare, dal momento che, come si è vi-
sto, egli ricopriva l’ufficio di «epistolarum dictator» dei consoli. Di
essa colpiscono sia l’intestazione, sia i contenuti non esclusivamen-
te religiosi. Ne risultano infatti come mittenti collettivi gli «ordinarii
cardinales» della Chiesa milanese, il primicerio «cum universo sa-
cerdotio et clero Mediolanensi», ma anche «omnis populus et omnis
ordo laycorum», e come destinatari «omnibus sacerdotibus et cleri-
cis et laycis cuiuscumque ordinis» della diocesi 28. In assenza dell’ar-
 

civescovo, l’autorità sembra dunque esercitata dall’intera comunità


ecclesiastica e laica milanese: gli ordinari e il primicerio a nome di
tutto il clero, il «populus» e l’«ordo laycorum» a nome, si potrebbe

27 Landulphi Iunioris, Historia Mediolanensis, cit., c. 30, p. 18.


28 Ivi, c. 34, pp. 20-21.

269
Renato Bordone

pensare, dell’autorità comunale; l’intento universalistico della solen-


ne intestazione finisce per sortire un effetto quasi paradossale quan-
do si ponga mente ai destinatari, cioè tutti gli ecclesiastici e i laici di
qualsiasi ordine, quasi che l’intera comunità scriva a sé stessa! Pare
invece evidente che come intestatari vadano considerati i vertici del-
la Chiesa e della collettività laica, resi con un’immagine di totale una-
nimità di intenti.
Non meno interessante risulta poi il contenuto del provvedi-
mento: l’istituzione della ricorrenza annua della festa del Salvatore,
da tenersi il 7 marzo di ogni anno con solenne processione dei fedeli
con fronde verdi, rami d’albero e candele accese al canto di «Agios,
Agios» (per cui viene chiamata “festa degli Agios”) e l’istituzione di
una fiera annuale per favorire l’affluenza alla celebrazione. Per tutti
coloro che parteciperanno all’evento — «vel causa orationis vel cau-
sa mercandi» — verrà stabilita una «firma et inviolabilis» tregua di
quindici giorni e chi oserà violarla incorrerà nell’indignazione di Dio
e nell’ira di tutta la città su di sé e sui suoi beni; in occasione della
fiera verrà infine applicata la completa esenzione doganale 29. È chia-
 

ro che ci troviamo davanti a un progetto articolato — e concordato


fra la Chiesa e il comune —, che si basa sul ritrovamento miracolo-
so (e quanto mai tempestivo, in un momento di particolare tensione
sociale!) ed è volto sia alla pacificazione interna tramite la tregua, sia
alla valorizzazione commerciale della città tramite l’istituzione della
fiera, con il ricorso a quegli incentivi fiscali che ne connotavano abi-
tualmente il funzionamento.
Il nesso fra il mantenimento dell’ordine pubblico (la pax) e
il buon andamento dell’attività economica (mercatum) che in città
emerge in occasione di contrasti sociali, politici o religiosi (discor-
dia) appare con evidenza anche nella verosimile ricostruzione che
Giovanni Codagnello fa, seppure dopo un secolo dagli avvenimen-
ti, della situazione piacentina dell’ultimo decennio del secolo XI 30.  

Narra infatti il cronista che nel 1090 «sedicio magna orta est inter
populum et milites», forse causata dal tentativo di occupazione e di
sfruttamento di una «terra vacua» presso la città; in seguito agli scon-

29 «Toloneum, quod vulgo turadia (da emendare in curadia) dicitur sive por-
tenaticum in hiis prefatis diebus nulli modo tolletur».
30 Iohannis Codagnelli Annales Placentini, ed. O. Holder-Hegger,
Hannoverae 1901 (MGH, Scriptores rererum Gernamicarum, 23), pp. 1-2.

270
Progetti in augmentum rei publice in Italia nel ‘primo comune’

tri, i milites dovettero abbandonare temporaneamente Piacenza e si


ritirarono nel contado, ma da qui sottoponevano a un duro blocco la
città con il sequestro di ogni merce che cercasse di entrarvi. Allora il
popolo, a corto di risorse alimentari, prese la decisione di affronta-
re i milites in campo aperto, ma questi approfittarono della sortita e,
«omnes armati et asclerati cum omni turba militum, peditum et sa-
gittariorum», con rapida manovra occuparono nuovamente la città,
lasciando all’esterno i popolari che dovettero cercare ricovero presso
la chiesa di S. Lazzaro lungo la via Emilia. In questo modo, tuttavia,
i popolari restavano presi tra due fuochi, in quanto parte dei mili-
tes controllava il contado, e soprattutto «mercatum habere non po-
terant». A questo punto occorreva una soluzione miracolosa, come a
Milano: ma il cronista, che scrive oltre un secolo più tardi, resta nel
vago, attribuendo al giudizio di Dio, «a quo cuncta bona procedunt
et sine quo nil fieri potest», l’improvvisa e contemporanea conver-
sione degli antagonisti. «Comoti misericordia et pietate», i milites ri-
conoscono la loro «nequitiam et dementiam» e con gemiti e lacrime
invocano «Pax, pax!»; i popolari, piangendo e battendosi il petto, ri-
conoscono la loro «nequitiam et stultitiam» e a loro volta invocano
«Pax, pax!». Allora i milites uscirono dalla città incontro il popolo e
gli uni e gli altri si abbracciarono e baciarono, poi, una volta che tutti
furono rientrati, stipularono «concordia et pax» per tutta la città e il
distretto piacentino, su richiesta del preco («voce preconis»), proba-
bilmente identificabile con il responsabile dell’esecutivo comunale.
Inutile domandarsi che cosa sia veramente accaduto a Piacenza
nel 1090: pare tuttavia significativo che nella narrazione di Codagnello
la «concordia e pax» — cioè il ripristino dell’unanimità collettiva
dopo il superamento pacifico del disordine civile — avvenga im-
mediatamente dopo l’allarmante constatazione della sospensione
dell’attività commerciale, quasi a indicare che la concordia è indi-
spensabile al mercatum, che a Milano prevede infatti l’instaurazione
della tregua urbana. Da non sottovalutare poi la funzione del preco:
se la sua figura, come si può ritenere, è equiparabile a quella dell’uf-
ficiale che a Genova viene chiamato cintragus (o cintraco), sappia-
mo infatti che ha l’incarico di far eseguire le decisioni dei consoli: le
sue competenze — secondo un decreto consolare del 1142 31 — ri-  

31 I Libri iurium della Repubblica di Genova, a cura di A. Rovere, I/1, Genova


1992, doc. 5, pp. 13.14.

271
Renato Bordone

guardano sia il controllo del movimento commerciale, sia la precet-


tazione per le «guardias civitatis» a tutela della sicurezza, ma anche
la convocazione al parlamento e al placito, la punizione dei malfatto-
ri e l’esazione dei pignoramenti. È insomma il responsabile del buon
funzionamento dell’ordine pubblico in tutti i suoi aspetti. Ciò spie-
gherebbe perché anche il solenne accordo di «concordia et pax» a
Piacenza fosse stipulato «voce preconis». Il precone o cintraco con-
tinuò almeno per tutto il secolo XII a svolgere una funzione pratica
e insieme simbolica dell’intero comune, come si ricava da una si-
gnificativa clausola usata nel 1181 in una convenzione politico-com-
merciale stipulata fra Alessandrini e Genovesi; nell’impegnarsi per
l’osservanza dell’accordo, tanto i consoli di Alessandria quanto quel-
li di Genova ricorrono infatti alla medesima formula, che cioè faran-
no rispettivamente giurare i loro concittadini «et cintragum super
animam populi in pleno parlamento»; la stessa espressione ricorre-
rà ancora in un atto comunale del 1192, con cui i consoli genovesi
confermano l’intesa precedente tramite il giuramento di cinquecen-
to cives insieme con i consiglieri e tramite il giuramento del cintraco
«super animam populi Ianue» 32.  

3. La personificazione del “popolo della città” come figura do-


tata di anima costituisce una esplicita astrazione concettuale del co-
mune, il centro stesso di quel progetto di «augmentum rei publice»
realizzato con l’istituzione consolare. Se il cintraco ne è il simbo-
lo incarnato — giura per l’anima del popolo, dunque è l’anima del
popolo —, anche l’immagine del populus unanime (e senza articola-
zioni in ordines) è andata via via acquistando un significato profon-
damente simbolico, precocemente espresso dai pisani al principio
del quarto decennio del secolo XII. Qui l’occasione è offerta dalla
solenne entrata nel 1130 di papa Innocenzo II esule da Roma; l’al-
locuzione che «honorati et consules» pisani gli rivolsero, proster-
nandosi ai suoi piedi, viene riportata da Ernaldo, il biografo di san
Bernardo di Chiaravalle, ma — come ho avuto modo di segnalare in
altra sede 33 — sembra rispondere in modo sorprendente allo spiri-
 

32 I Libri iurium della Repubblica di Genova, I/3, ed. D. Puncuh, Genova


1998, doc. 647, p. 466 (a. 1181), doc. 650, p. 473 (a. 1192).
33 S. Bernardi abbatis primi Clarae-vallensis vita et res gestae liber secundus
auctore Ernaldo, in J.P. Migne, Patrologia Latina, 185, coll. 269-270, commentato
in Bordone, La società cittadina, cit., pp. 201-203.

272
Progetti in augmentum rei publice in Italia nel ‘primo comune’

to che ispira a quel tempo le composizioni di ambito cittadino, sic-


ché pare risultare una ricostruzione attendibile di quanto fu davvero
detto. Essa si apre infatti con la dichiarazione al papa: «tua est civi-
tas, nos populus tuus […], in usus tuos respublica quidquid apud se
repositum habet exponet». Civitas, populus, res publica sono tre si-
nonimi che sembrano implicare un crescendo semantico, dalla real-
tà materiale del contenitore a quella delle persone fisiche contenute
fino all’astrazione del modo di essere “Stato”, con un reciproco ri-
mando che rafforza l’idea dell’intima compenetrazione dei concetti.
Uno Stato fondato sull’unanimità di intenti: non c’è infatti nessuna
doppiezza nei pisani perché l’adesione al papa si basa sulla concor-
dia cittadina.
Non troverai, prosegue infatti il discorso, che ora aderisca-
no, ora si dissocino, che ora giurino e ora si rimangino il giuramen-
to («nihil duplicitatis invenies in Pisanis: non modo adhaerebunt,
modo resilient; modo jurabunt, modo juramenta dissolvent»), in
quanto questo populus non brama derubarsi al suo interno e pro-
vocare disordini civili («non inhiat populus iste rapinis domesticis
et caedibus intestinis»); la nostra razza non è arrogante in patria né
pavida all’esterno («non est gens nostra domi audax, nec extra me-
ticulosa»). La mancanza di coerenza nelle decisioni politiche (ade-
rire/dissociarsi) indica l’alternarsi di pareri contrapposti da parte
di fazioni in concorrenza fra loro, miranti piuttosto ad arricchirsi
a spese dagli antagonisti con il ricorso alla violenza civile («rapinis
domesticis et caedibus intestinis»), provocando una situazione di di-
scordia interna che proprio Pisa aveva in passato sperimentato per
l’arroganza (audacia) dei maggiorenti in conflitto, definita appunto
«pestis superbie» dal lodo delle torri. Con il medesimo intento cele-
brativo del comune negli stessi anni anche Mosè del Brolo affermava
che a Bergamo c’erano ben poche torri («rara […] fugit aera turris
in urbe») perché tutti i cittadini erano legati dal vincolo stabile del-
la pace: «pace manet pauper, pacis quoque federe dives» 34. E non  

va infine dimenticato che anche a Milano la scelta dei consoli presso


ciascuno degli ordini aveva lo scopo preventivo — come si è visto —
di «reprimendam superbiam» di ciascuno di essi.
Vero “manifesto” del progetto comunale, come lo è da par-
te sua anche il Liber Pergaminus, il discorso dei pisani raggiunge il

34 Gorni, Il “Liber Pergaminus”, cit., vv. 271-274, p. 452.

273
Renato Bordone

suo culmine con l’icastica dichiarazione che «nos nec servi sumus,
nec domini, sed concives et fratres». La concordia diventa frater-
nità egualitaria fondata sulla pace interna («domi mansuetudine
utimur»), dove l’unica gara è costituita dal superarsi l’un l’altro in
onore, ma senza provocazioni che scatenino conflitti interni («hono-
re invicem praevenientes, non seditiosis ausibus alterutrum provo-
cantes»), mentre la fortitudo viene esercitata esclusivamente contro
i nemici esterni, in particolare contro i Saraceni delle Baleari, i quali
— sebbene non venga esplicitato — sono anche i tradizionali nemi-
ci della Christianitas.

Se attraverso le fonti finora considerate è stato possibile indi-


viduare i contenuti ideali che presiedevano all’elaborazione del pro-
getto comunale, una lettura del cronista genovese Caffaro, che scrive
un trentennio più tardi, quando ormai il comune si può considera-
re decollato, può tornare utile per verificare quanto di quell’impian-
to fosse rimasto vitale e come le pratiche di governo continuassero
a ispirarsi a esso. Va subito detto che l’intento esplicitato dal narra-
tore nel raccontare le vicende di cui fu testimone oculare e prota-
gonista “dal tempo della prima Crociata fino a ora” (cioè al 1163) è
quello di ricordare i nomi dei consoli, la composizione delle magi-
strature (le varietates dei consolati e delle “compagne”), le imprese
militari (victorias) e i provvedimenti finanziari («mutationes mone-
tarum») da loro realizzati, al fine di costituire la memoria ufficiale
del suo comune 35. Proprio per questo aspetto pubblico, sul quale la
 

storiografia si è più volte soffermata 36, dalle parole di Caffaro è pos-


 

sibile cogliere la genuina “ideologia” comunale che si è andata svi-


luppando e consolidando a partire da quello che abbiamo definito il
“manifesto” originario del comune. L’esaltazione dei consoli dunque
costituisce non solo la celebrazione di una classe dirigente, ma anche
la verifica di comportamenti politici indirizzati a instaurare il gover-
no più idoneo per la città. E in questa verifica non può non colpire
il concetto più volte ribadito dell’«augmentum rei publice» indicato

35 Annali genovesi di Caffaro e de’ suoi continuatori, a cura di L.T. Belgrano,


Roma 1890 (Fonti per la Storia d’Italia, 11), p. 3.
36 Un’ampia disamina degli studi dedicati a Caffaro è reperibile in F.
Schweppenstette, Die Politik der Erinnerung. Studien zur Stadtgeschichtsschreibung
Genuas im 12. Jahrhundert, Frankfurt-am-Main 2003, pp. 6-17.

274
Progetti in augmentum rei publice in Italia nel ‘primo comune’

come scopo precipuo del regime comunale.


Così, per Caffaro, i consoli in carica nel 1155 operarono «rem
publicam Ianuensium multum et multum augmentando» con il ri-
corso al riscatto sistematico dei diritti pubblici ancora in mano pri-
vata (come il controllo su entrate fiscali), con l’intraprendere la
costruzione delle mura, con il mantenimento della pace in città e con
l’accrescimento del controllo territoriale 37. Siamo tuttavia nella fase
 

cruciale della prima discesa in Italia del Barbarossa: già l’anno prece-
dente il comune aveva infatti inviato — forse in occasione della die-
ta di Roncaglia — lo stesso Caffaro e l’arcidiacono Ugo come legati
presso Federico che, secondo il cronista, svelò loro molti progetti
segreti relativi all’«honore regni et Ianuensis ciuitatis», prometten-
do di «honorem facere» a Genova «ultra omnes civitates Italie» 38.  

In realtà, dopo la distruzione di Tortona l’imperatore aveva imposto


pesanti tributi che i genovesi si rifiutarono di pagare e fortificarono
ostilmente i castelli della loro giurisdizione; convocati dal sovrano,
furono allora inviati uno dei consoli e alcuni fra i meliores della cit-
tà per trattare scambievolmente («ad invicem») molte questioni «de
honore regni et civitatis», ottenendo la solita promessa che avrebbe
dato alla città un honor superiore a tutte le altre città italiane 39. Le
 

espressioni sembrerebbero le medesime usate per la legazione del


1154, ma come non cogliere in questo caso il piano di assoluta pari-
tà sul quale il cronista pare porre i due enti, regnum e civitas? Se in-
fatti l’anno precedente Federico aveva svelato («aperuit») — a titolo
confidenziale — a Caffaro e al suo compagno «multa secreta consi-
lia» sulle sue intenzioni politiche relative al regno e alla città, invece
nel 1155 le due parti «ad invicem tractaverunt», quasi sviluppando,
ma con forte senso autonomistico, la convinzione già del milanese
Landolfo che i consoli fossero legittimamente «ministri regni». Per
poi ribadire quanto si fosse ottenuto «de augmentatione rei publice
Ianuensium» e affinché si conosca la verità su «quicquid de honore
ciuitatis» fosse stato fatto in questo consolato, nel medesimo passo
Caffaro narra ancora del buon esito di una missione presso il papa
per il riottenimento di diritti nel regno di Gerusalemme, usurpati
dalle monarchie crociate. Per questi motivi, conclude il cronista, tali

37 Annali genovesi, cit., p. 41.


38 Ivi, pp. 38-39.
39 Ibidem, p. 43.

275
Renato Bordone

consoli ricevettero onore e gloria «a cuncto populo Ianuensi».


L’augmentum rei publice appare dunque lo scopo da raggiun-
gere per i responsabili del governo, anche, ma è un traguardo che
necessita attente riflessioni politiche, che obbliga i consoli alla defini-
zione di un programma, ispirato sì all’honor della città, ma che deve
rispondere alle esigenze cittadine con il ricorso a interventi mirati,
sia sul piano internazionale — trattando, come si è visto, con l’impe-
ratore e con il papa —, ma anche in campo economico-fiscale e so-
prattutto in quello dell’ordine pubblico. La concezione del governo
in Caffaro è fatta chiara da una pagina che si riferisce a un momen-
to di crisi che precede di appena un anno la grande ripresa di cui si
è detto in precedenza. Al principio del 1154, infatti, i consoli elet-
ti non volevano giurare per il loro incarico, perché sapevano bene
che “la città dormiva, presa da letargia, come una nave che vaga sul
mare senza pilota” 40: immagine quanto mai appropriata per una so-
 

cietà che del mare aveva un’esperienza per così dire esistenziale, e
che al tempo stesso fornisce identificazione, più che simbolica, fra il
pilota-gubernator e i consoli preposti al governo, come lui responsa-
bili delle decisioni da prendersi per una corretta navigazione. E in-
fatti, dopo aver prestato infine giuramento «pro honore ciuitatis», in
quanto esortati dall’arcivescovo e indotti (coacti) dal popolo, i nuo-
vi consoli “subito cominciarono a pensare in che modo svegliare la
città dal sonno”: “approntarono galee per la difesa della città […] e
cominciarono a saldare il debito di oltre 15.000 lire ai creditori del-
la città”. Due interventi determinanti: uno rivolto alla difesa militare
(«pro munimine»), l’altro al risollevamento dell’economia cittadina.
Ne conseguì che “i cittadini inerti si svegliarono alquanto da quel
sonno e dissero di essere disposti a obbedire ai loro ordini”: la nave,
guidata saldamente dai gubernatores, poteva ripartire.
Anche per il consolato del 1161 Caffaro si sofferma sulla fase
progettuale del programma dei nuovi consoli in carica; come già nel
1154 aveva dipinto i governanti mentre stavano «multum cogitando»
su come risvegliare la città, ora li rappresenta intenti, all’inizio del
loro consolato, ancora «multum de regimine civitatis cogitando» 41.  

C’è dunque un momento di cogitatio politica durante la quale lo staff

40 Ibidem, p. 37: «civitatem dormire et litargiam pati, et sicuti navem sine gu-
bernatore per mare pergentem».
41 Ibidem, p. 61.

276
Progetti in augmentum rei publice in Italia nel ‘primo comune’

di governo esamina i problemi e sceglie comparativamente le priori-


tà di intervento; in questo frangente specifico «quod melius et utilius
esse videtur» era costituito «de pace et de concordia civitatis intus
et de foris». Si trattava di un vecchio problema urbano, addirittura
alla base stessa — come abbiamo visto — dell’affermazione del go-
verno consolare, ma che a Genova costituiva un’emergenza periodi-
ca, ben lontana dall’essere risolta dall’avvento del regime comunale.
Caffaro lo conosceva bene e, da uomo di regime, sapeva perfetta-
mente quanto fosse pericolosa la discordia civile per l’ordinato fun-
zionamento della res publica. Già l’elogio dei consoli per l’anno 1157
sembrava infatti sottintendere momenti di tensione interna, certo su-
perato da una ferma azione dei governanti che «Ianuensem ciuita-
tem et populum in pace et concordia tenuerunt»; non è poi casuale
che, in chiusura della narrazione di quell’anno, Caffaro ribadisse che
egli stesso recitava tre preghiere al giorno per i consoli presenti e per
quelli futuri affinché Dio concedesse loro di «populum Ianuensem
in pace et concordia regere et in bonis operibus augmentare» 42.  

Ancora una volta, dunque, i concetti di pax et concordia e di augmen-


tum appaiono strettamente collegati, come già negli autori della pri-
missima età comunale.
Ma torniamo al consolato del 1161. Per prima cosa i consoli fe-
cero “giurare quanti in città erano fra loro in discordia” (discordes)
di non provocare accapigliamenti e risse che erano invece soliti fare;
poi costrinsero a rappacificarsi tramite giuramento — volenti o no-
lenti — coloro che, contro i loro ordini, avevano levato le armi e as-
salito qualche membro di una «compagna», distruggendogli torri e
case e sottraendogli il denaro depositato a garanzia del giuramen-
to di pace 43. Prioritari appaiono dunque le ferme sanzioni contro
 

i perturbatori dell’ordine pubblico, sia contro i colpevoli manifesti


di aggressioni sia contro quelli che, dati i precedenti, potevano tra-
sformarsi in potenziali aggressori; poi seguono interventi di politi-
ca economica e militare: l’invio di una scorta ai navigli genovesi che
commerciavano nel Mediterraneo a rischio di aggressioni piratesche,
la stipula di un trattato commerciale con il regno almohade, un’am-
basciata presso il regno di Gerusalemme per le questioni di diritti
rimaste in sospeso, e infine la fortificazione delle basi navali sulla ri-

42 Ibidem, p. 48.
43 Ibidem, p. 61.

277
Renato Bordone

viera di Levante. «Intus et de foris»: come aveva correttamente indi-


cato Caffaro, la cogitatio dei consoli aveva riguardato tanto la politica
interna quanto quella estera. La durata del loro mandato fu tuttavia
breve e non riuscirono a portare a termine quanto avevano iniziato,
rimettendo gli impegni del governo ai loro successori che li avrebbe-
ro completato con «omni augmentatione rei publice». Il programma
politico (cogitatio), ancora una volta, aveva come scopo l’augmen-
tum, il miglioramento dello Stato.
Ai successori toccò un anno — il 1162 — denso di avvenimen-
ti internazionali per la rinnovata presenza del Barbarossa in Italia e
per il conflitto che i genovesi ebbero con i pisani, ma al termine del-
la narrazione delle imprese da loro compiute «pro honore patrie,
more solito Romanorum», Caffaro non trascura di segnalare il fat-
to che i consoli «in civitate» riuscirono a fare «cives ita concordes
stare» da porre fine al conflitto fra le due principali fazioni in lot-
ta, i Piccamiglio e i figli di Oberto Usodimare, ristabilendo con il
ricorso al solito giuramento di garanzia una duratura «pacem et con-
cordia» 44. Per di più (insuper), «pro utilitate rei publice» fecero ri-
 

strutturare un intero settore urbano, destinandolo ai servizi portuali


e definendone la nuova viabilità; al termine del mandato, infine, ri-
lasciarono un resoconto scritto del bilancio (quanta «pecunia rei pu-
blice» avevano avuto a disposizione, quale era stato il gettito fiscale,
a quanto ammontavano le spese).
Da queste considerazioni emergono già, indirettamente ma con
chiarezza, le linee di programma — ideali e concrete insieme (aug-
mentum e utilitas dello Stato) — del governo genovese: pacificazio-
ne civile, interventi urbanistici, corretta tenuta del bilancio, relazioni
internazionali per la tutela del commercio. È tuttavia nel capitolo
conclusivo degli Annali che Caffaro, con l’esperienza dell’uomo che
ha ricoperto le più prestigiose magistrature cittadine, si lascia an-
dare a più generali considerazioni politiche che, pur espresse con il
moralismo sentenzioso che caratterizza il linguaggio del tempo, me-
glio contribuiscono a definire il progetto di governo del regime co-
munale. «Tutti coloro che hanno autorità e controllo [«potestatem
et dominium»] sugli affari collettivi delle città e dei centri minori e
che devono risolverne i problemi — scrive infatti 45 — devono essere
 

44 Ibidem, p. 73.
45 Ibidem, pp. 73-74.

278
Progetti in augmentum rei publice in Italia nel ‘primo comune’

scevri da odio e da amore […] sicché è opportuno che i consoli del-


le città e dei luoghi minori stiano lontani da questi sentimenti […],
ma che imparino a giudicare secondo giustizia. Per cui si può in ve-
rità affermare che la fama dei consoli genovesi nel miglioramento del
governo della città di Genova [«in augmentationem rei publice ciui-
tatis lanue»] e nell’amministrazione della giustizia senza dare ascolto
a interessi venali emerga finora su tutti i loro vicini di città e di luo-
ghi minori».
L’elogio appassionato del regime e della classe dirigente del de-
cennio centrale del secolo XII da parte del vecchio Caffaro fa da pre-
messa all’esposizione dell’attività esemplare dell’ultimo consolato
preso in esame, prestata tanto da parte dei consoli del comune quan-
to di quelli giudiziari che trattarono rispettivamente degli affari di
stato e dell’amministrazione della giustizia: “sia dunque chiaro a tutti
coloro che ascoltano che i predetti consoli fino alla fine del loro man-
dato con onestà e con fermezza governarono («regimen tenuerunt»)
nella pace e nella concordia dei cittadini («cum pace et concordia ci-
vium»), migliorando lo Stato di Genova («rem publicam Ianuensem
augmentando») attraverso il ripristino dell’ordine pubblico con la
repressione tanto della delinquenza comune quanto della violenza
dei facinorosi”. Appare chiaro che la sicurezza risulta essere ancora
il problema principale di una società in piena crescita economica e le
misure prese dal governo sono improntate a estrema durezza: i ladri
che abitualmente rubano nelle case dei ricchi sono giustiziati come i
parricidi con l’affogamento in mare, ma pare di cogliere che la stes-
sa pena sia minacciata anche ai provocatori di disordini civili («rixa-
rum atque cauillationum inceptores»). Quasi a voler dire che coloro
che attentano alla ricchezza e alla concordia della classe dirigente si
rendono colpevoli di un delitto paragonabile al parricidio, in quan-
to colpiscono i “padri” della patria, fondata sull’esercizio dell’attivi-
tà economica resa possibile dalla comune concordia. Non è affatto
casuale che al riconoscimento dell’efficacia di tali misure di sicurez-
za faccia subito seguito l’esposizione del bilancio in attivo presentato
dai consoli «in contione facta palam coram omnibus», e che il brano
sia concluso con l’elogio dei consoli giudiziari che per tutto il man-
dato servirono l’equità e la giustizia. La concordia garantisce la ric-
chezza dei cittadini e delle casse comunali ed è a sua volta garantita
dal buon funzionamento dell’amministrazione della giustizia.
Gli esiti più recenti della ricerca su Caffaro indicano che gli
Annali sono stati certamente confezionati per i membri del consi-
279
Renato Bordone

glio comunale di Genova, quasi una sorta di manuale per i verti-


ci del comune, dove la memoria, selezionata e rielaborata per gli
uomini di governo, può diventare strumento della politica. In tale
Konsulspiegel, come è stato definito da Frank Schweppenstette 46, il  

modello indicato appare chiaramente di natura etica: ciò che si pro-


getta, in conclusione, non è soltanto il buon funzionamento della
res publica intesa come regime politico locale, ma il progressivo mi-
glioramento — implicito nel significato di augmentare — dell’unica
e globale res publica che si identifica con l’intera società civile, cioè
con la societas Christiana.

46 Schweppenstette, Die Politik der Erinnerung, cit., p. 286.

280
Domenica 17 maggio, mattina
Pistoia, Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei Vescovi
Presidente Prof. Mauro Ronzani

Jean-Claude Maire Vigueur


Progetti di trasformazione della società
nei regimi di Popolo

Il titolo assegnato alla mia relazione dagli organizzatori del con-


vegno non lascia nessun dubbio sulle coordinate spazio-temporali
dell’argomento sul quale verterà il mio intervento. Parlerò ovvia-
mente delle città dell’Italia comunale nell’arco di tempo che va dalla
metà del XIII secolo all’inizio del secolo successivo. Ben altra per-
plessità suscita la prima parte del titolo. Mi sono posto in particolare
il problema di sapere come vada interpretato il termine «progetto».
Se lo si intende nel senso più corrente oggi, che implica un livello ab-
bastanza avanzato di definizione e di formalizzazione degli obietti-
vi che uno si propone di conseguire, è chiaro che c’è poco da dire: i
regimi di Popolo, salvo pochissime eccezioni, non hanno mai avuto
programmi come li intendiamo oggi e del resto l’idea stessa di pro-
gramma è difficilmente compatibile con la natura e il funzionamento
dei sistemi politici di forma repubblicana in vigore delle città italiane.
Anche ai livelli più alti dell’apparato di governo, i dirigenti comuna-
li non sono mai scelti sulla base di un programma. A rigore di termi-
ne, non si può neppure parlare di sistema elettivo vero e proprio per
la scelta dei dirigenti in quanto la cooptazione e il sorteggio avevano
una parte preponderante nel processo di selezione del personale po-
litico, il che lasciava ben poco spazio ai cittadini per scegliere i loro
281
Jean-Claude Maire Vigueur

rappresentanti sulla base di un programma. Ciò non vuol dire che al-
cuni leader non avessero avuto un’idea molto chiara dell’azione che
intendevano portare avanti alla guida del comune. Il giorno stesso
del suo arrivo al potere, il 20 maggio 1347, Cola di Rienzo fece legge-
re da un suo portavoce, sulla piazza del Campidoglio, un programma
in quindici punti che era sicuramente il frutto delle lunghe discus-
sioni avute con i suoi sostenitori durante i mesi precedenti 1. Pare  

evidente, sempre parlando di Roma, che Brancaleone degli Andalò,


prima di accettare, nel 1252, la carica di Capitano del Popolo offerta-
gli dai Romani, avesse posto come condizione il poter attuare quella
serie di provvedimenti che gli valsero poi l’odio dei baroni e del cle-
ro 2. Oltre ad avere personalmente un’idea molto precisa delle rego-
 

le del “vivere civile”, Cola e Brancaleone si distinsero anche per una


particolare attitudine a cogliere e a farsi portatori delle attese di gran
parte della popolazione romana. Lo stesso si potrebbe dire di molti
altri leader popolari che si fecero portavoce delle aspirazioni, a pro-
posito delle quali non sappiamo in quali termini potessero essere for-
mulate, di loro concittadini insoddisfatti, per non dire esasperati, dal
modo di governare del vecchio ceto dirigente comunale. Ma di quel-
le attese e aspirazioni non abbiamo conservato che pochissime trac-
ce dirette, del tutto insufficienti per rispondere in modo coerente e
articolato alla domanda insita nel titolo della mia relazione. Occorre
quindi inventare altre strade se vogliamo, se così si può dire, entrare
nell’anima del Popolo e intravedere qualcosa dei suoi progetti di tra-
sformazione della società. Ma quali?
Una strada potrebbe essere partire dalle realizzazioni compiu-
te dai regimi di Popolo per risalire agli ideali e ai principi che hanno
ispirato l’azione di questi governi. È una strada che non può essere
imboccata senza infinite precauzioni, per il semplice fatto che l’azio-
ne dei leader popolari non poteva, per tanti motivi, che rispecchiare
molto parzialmente le aspirazioni, non tutte coerenti, dei ceti che li

1 Anonimo Romano, Cronica, a cura di G. Porta, Milano 1979, pp. 155-


156; cfr. J.-C. Maire Vigueur, Cola di Rienzo, in Dizionario biografico degli Italiani,
XXVI, Roma 1982, pp. 662-675.
2 E. Duprè Theseider, Roma dal comune di popolo alla signoria pontificia
(1252-1377), Bologna 1952 (Storia di Roma, XI), p. 18: cum grano salis, l’autore
parla di «piano triennale» a proposito del programma di Brancaleone degli Andalò.
Cfr. anche J.-C. Maire Vigueur, L’Autre Rome. Une histoire des Romains à l’époque
communale (XIIe-XIVe siècle), Paris 2010, pp. 338-345.

282
Progetti di trasformazione della società nei regimi di Popolo

avevano portati al potere. Ma è anche una strada che implica di pro-


cedere a una specie di inventario, o di bilancio, dell’azione dei regi-
mi popolari nei vari campi di intervento dei poteri pubblici: dalla
fiscalità alle proprietà collettive, dal funzionamento della giustizia
al mantenimento dell’ordine pubblico, dai problemi di approvvigio-
namento alla regolamentazione delle attività produttive, dal control-
lo del territorio alle politiche di immigrazione, dalla politica estera
all’organizzazione delle forze militari, dalla committenza artistica ai
grandi lavori e via dicendo. È appena il caso di precisare che nessu-
no, finora, ha mai tentato di fare un bilancio di questo tipo e che una
relazione congressuale come la mia non era di sicuro la sede idonea
alla realizzazione di un simile compito.
Mi è dunque sembrato che l’unica strada percorribile, nel qua-
dro di questa relazione, fosse ripiegare su una serie di testimonian-
ze molto più circoscritte e tuttavia in grado di svelare qualcosa delle
aspirazioni popolari. Molte di queste testimonianze provengono da
un corpus di fonti testuali, come trattati, sermoni, cronache, proemi
e prologhi, che sono già state oggetto di ampie indagini da parte de-
gli studiosi che si sono interessati all’apparizione, nelle città comuna-
li del XIII secolo, di una ideologia civica volta a legittimare il nuovo
sistema di governo. Nella prima parte della mia relazione, partirò
dalle loro conclusioni per cercare di evidenziare le inflessioni più ti-
picamente popolari di questa ideologia. Mi sono servito a tal fine di
autori o di opere che non fanno parte del corpus di fonti abitualmen-
te utilizzato dagli specialisti dell’ideologia comunale, ma devo subito
precisare che la mia indagine è stata tutt’altra che esaustiva; per man-
canza di tempo, infatti, ho dovuto limitarmi a pochi autori e talvolta
accontentarmi di una lettura indiretta delle loro opere. Credo, tutta-
via, di essere riuscito in questo modo a enucleare alcuni dei principi
fondanti di una ideologia di stampo popolare, i quali tendono a con-
centrarsi sempre di più su questioni attinenti alla forma del governo
ed alle condizioni di partecipazione al potere. Ed è quindi a questo
insieme di questioni che ho scelto di dedicare la seconda parte del-
la mia relazione, utilizzando questa volta fonti di carattere non più
teorico, con una sola eccezione, ma pratico, in quanto rimandano a
situazioni e momenti ben precisi della storia dei regimi di Popolo.
Nella terza parte, invece, lascerò il campo della politica per passare
a quello dei comportamenti individuali: cercherò di esaminare quali
sono stati i nuovi modelli di comportamenti promossi dai regimi di
Popolo, di individuare alcuni dei loro canali di diffusione, di ragio-
283
Jean-Claude Maire Vigueur

nare un attimo sulla loro ricezione da parte dei ceti popolari.

I. I principi fondanti dell’ideologia popolare


Quando il Popolo arriva al potere, ossia nel 1250 a Firenze e
poi negli anni o nei decenni successivi nella maggior parte delle altre
città comunali, esiste già un abbondante corpus di opere che tratta-
no del governo della città e che, accanto a considerazioni di caratte-
re latamente tecnico sul modo di governare, contengono una serie di
riflessioni più o meno approfondite sui principi e sui valori che devo-
no guidare l’azione dei governanti e il comportamento dei cittadini.
Non mi soffermerò più di tanto su queste opere. Sono state ampia-
mente utilizzate dagli storici del pensiero politico, Quentin Skinner
in primo luogo, ma non solo da loro; ultimamente, per esempio, è da
una rilettura di queste opere che Andrea Zorzi è partito per avviare il
suo studio sull’apparizione della nozione di bene comune e sull’evo-
luzione del suo significato in funzione delle lotte politiche all’inter-
no del comune.
Tutte le opere di questo corpus appartengono, come è stato
puntualizzato da questi due studiosi, a due categorie ben distinte di
trattati: da una parte le artes dictaminis, nelle quali professori di re-
torica danno consigli utili per la stesura delle lettere e la composi-
zione dei discorsi, dall’altra i trattati sul governo della città, rivolti
al personale politico delle città comunali, prima di tutto ai podestà,
e dovuti ad autori che hanno personalmente preso parte al governo
di una o più città 3. Non dobbiamo aspettare da queste opere più di
 

quanto ci possono dare: i loro autori non sono dei filosofi di mestie-
re e neppure dei giuristi e i loro trattati sono concepiti prima di tutto
per servire all’utilità immediata dei dirigenti comunali. Ci fornisco-
no preziose indicazioni sui valori necessari al buon funzionamento
del regime repubblicano, in opposizione alle altre forme di governo
in vigore nel resto dell’Occidente, ma non c’è mai, da parte loro, il
più minimo tentativo o di tracciare un quadro completo delle regole
di funzionamento del regime comunale, come potrebbe essere fatto

3 Q. Skinner, Virtù rinascimentali [2002], trad.it., Bologna 2006, pp. 27-29;


A. Zorzi, Bien commun et conflits politiques dans l’Italie communale, in De Bono
Communi. The Discourse and Practice of the Common Good in the European City
(13th-16th c.), a cura di É. Lecuppre-Desjardin - A.-L. Van Bruaene, Turnhout 2010,
pp. 267-290.

284
Progetti di trasformazione della società nei regimi di Popolo

da un giurista costituzionalista, o di elaborare, alla maniera dei filo-


sofi, una teoria generale di questo sistema di governo. In realtà, tocca
a noi, studiosi del mondo comunale, individuare, nel magma di idee
e di rappresentazioni veicolate da questi autori, le nozioni chiave o
i principi fondanti di una ideologia civica la quale, per il fatto stesso
di essere un’ideologia, non può avere né la coerenza né la completez-
za di una dottrina politica o di un sistema filosofico 4. L’operazione
 

richiede tuttavia alcune precauzioni. Costretto ad attingere i dati uti-


li presso autori molti dissimili tra di loro, lo studioso deve cercare
di ordinare gli elementi a sua disposizione in funzione della loro ri-
spettiva importanza. Ma deve anche tener conto dell’apparizione di
nuove nozioni e delle ripercussioni sulla configurazione generale del
sistema di rappresentazioni. Mi soffermerò tra breve sulle principa-
li novità che, a partire dalla metà del XIII secolo, contribuirono al-
l’elaborazione di una ideologia popolare ben diversa dall’ideologia
civica in auge fino a quella data e dovuta alle prime due generazio-
ni di preumanisti — per usare una denominazione comoda, partico-
larmente cara agli storici del pensiero politico e della cultura. Credo
tuttavia che possa essere utile ricordare le nozioni chiave della ideo-
logia comunale nel corso della sua prima fase di elaborazione: ci con-
sentirà di valutare meglio i cambiamenti intervenuti dopo la metà del
XIII secolo.
Semplificando al massimo, limiterei a quattro il numero dei va-
lori o ideali che costituiscono lo zoccolo duro dell’ideologia comuna-
le fino alla metà del XIII secolo. Non sono tutti di uguale importanza.
Ad occupare la posizione centrale nel pensiero di tutti i preumanisti
di quel periodo è indubbiamente l’idea che tutto, nell’organizzazione
delle società, nel suo sistema di governo e fino ai comportamenti dei
suoi abitanti, deve essere subordinato all’augmentum della città, os-
sia alla grandezza della città. Grandezza che riguarda tutti gli aspet-
ti della realtà cittadina: il numero degli abitanti, l’abbondanza delle
risorse, l’ampiezza del territorio, le dimensioni della città, la profu-
sione dei suoi palazzi e delle sue chiese e, prima di tutto ancora, la
forza del suo esercito e dunque la sua capacità a estendere la sua do-
minazione e a incutere rispetto e timore nelle altre città. Il migliore
esempio di augmentum citato dai preumanisti è naturalmente quello

4 Sulla concezione dell’ideologia come sistema di rappresentazioni, cfr. N.


Poulantzas, Pouvoir politique et classes sociales, Paris 1968, pp. 223-227.

285
Jean-Claude Maire Vigueur

della Roma repubblicana che da modesta comunità rurale ha conse-


guito la più vasta dominazione territoriale di tutti i tempi 5. Due de-  

gli altri valori preconizzati dai preumanisti hanno uno stretto legame
con l’augmentum e costituiscono in qualche modo delle condizioni
necessarie al suo raggiungimento. Si tratta della pace e della giusti-
zia. Per pace si intende la pace interna, ossia l’assenza di divisioni e
l’armonia tra i cittadini, il che, a questa altezza cronologica, non può
che rimandare, secondo me, alla necessità per i governanti di trova-
re una soluzione ai conflitti che oppongono la nobiltà o militia al re-
sto della popolazione. Ciò detto, l’ammonizione a ricercare la pace
vale per tutti i cittadini che devono saper sacrificare parte dei loro
interessi personali o di ceto per garantire l’armonia della città. Più
difficile dire a che cosa intendono alludere i nostri autori quando in-
sistono sui doveri dei magistrati in materia di giustizia. Avranno sicu-
ramente avuto in mente l’esercizio concreto della giustizia e quindi
il funzionamento delle corti di giustizia, le quali, nelle città comuna-
li della prima metà del XIII secolo, sono sotto la responsabilità di-
retta del principale magistrato del comune, vale a dire il podestà. Ma
l’idea di giustizia rinvia anche a qualcosa di più ampio, che compren-
de, oltre alle leggi positive, dei principi atti a garantire l’armonia dei
rapporti sociali. Quali sono questi principi? Gli autori non danno ri-
sposte precise; Giovanni da Viterbo, per esempio, nel suo trattato,
che è anche l’ultimo in data e il più completo dei trattati sul gover-
no della città, si accontenta di riprendere una celebre formula del di-
ritto romano, «ius suum cuique reddere», e di mettere l’equitas sullo
steso piano della iustitia 6. Un po’ più defilato mi pare essere il posto
 

riservato, dagli autori di quel periodo, alla nozione di bene comune.


La nozione in sé è indubbiamente presente in alcuni dei loro testi,
ma non è ancora indicata con l’espressione di bene comune che sarà
quella abitualmente utilizzata, nel periodo successivo, per designa-
re l’interesse della collettività per opposizione a quello dei privati.
Prima del 1250, se non vado errato, si parla solo di utilitas commu-
nitatis o di communis utilitas. Ma soprattutto il dovere di anteporre
la communis utilitas agli interessi personali è presentato come un do-
vere dei governanti più che dell’intera popolazione, il che mi fa pen-
sare che l’intenzione dei nostri autori fosse chiaramente di colpire il

5 Q. Skinner, Virtù rinascimentali, cit., pp. 29-32.


6 Iohannis Viterbiensis, Liber de regimine civitatum, a cura di G. Salvemini,
in Bibliotheca iuridica medii aevi, vol. III, Bologna 1901, pp. 215-280, a p. 220.

286
Progetti di trasformazione della società nei regimi di Popolo

sistema di governo ancora in vigore in numerose città dell’Italia co-


munale e un ordinamento nel quale l’esercizio del potere offriva alla
militia la possibilità di conservare il suo rango se non addirittura di
accrescere le sue risorse.
Nei loro discorsi sui valori e principi che devono presiedere
al governo della città, gli autori del periodo anteriore alla metà del
XIII secolo hanno evidentemente in mente le città nelle quali vivo-
no e nelle quali hanno spesso assunto delle responsabilità pubbliche,
vale a dire le città comunali. Il fatto stesso di indicare nell’augmen-
tum della città l’obiettivo supremo dei governanti e di tutti i cittadini
è un modo indiretto di esprimere l’attaccamento viscerale dell’intera
popolazione cittadina all’autonomia della città nei confronti di qual-
siasi altra autorità ma anche alla forma di governo che ha permesso
ai cittadini di appropriarsi di tutte le prerogative pubbliche al ter-
mine di un lungo ciclo di lotte. Non c’è dubbio dunque che i preu-
manisti della prima metà del XIII secolo fossero non meno dei loro
successori degli accaniti sostenitori del regime repubblicano, convin-
ti in partenza della sua superiorità sulle altre forme di governo ma
nel contempo desiderosi di migliorarne le performance, che è poi la
principale ragione di essere dei loro scritti. Resta il fatto che nessu-
no di questi autori ha sentito il bisogno di condurre una riflessione
specificamente dedicata alla natura del regime repubblicano, alle sue
caratteristiche ed alle sue condizioni di funzionamento. Il regime re-
pubblicano non è ancora, per loro, un oggetto di riflessione in quan-
to tale. Tutto cambia con gli autori della generazione successiva, a
cominciare dal più grande di tutti, Brunetto Latini, l’unico sul quale
mi soffermerò in questa sede.
Ricordo che Brunetto Latini, notaio al servizio della cancel-
leria del comune di Firenze all’epoca del “primo Popolo” (1250-
1260), scrive la sua principale opera, il Tresor, durante il suo esilio in
Francia (1260-1265) e, a partire dal ritorno dei guelfi nel 1267 fino
alla sua morte (1292 o 1293), svolge un ruolo di primo piano nel go-
verno della sua città 7. Il Tresor appartiene al genere, molto in voga
 

nel XIII secolo, delle compilazioni enciclopediche e di conseguenza


tutta una parte dell’opera tratta di argomenti che non hanno niente o
ben poco a che vedere con le questioni sulle quali verte il mio inter-

7 G. Inglese, Latini, Brunetto, in Dizionario biografico degli Italiani, LXIV,


Roma 2005, pp. 4-12.

287
Jean-Claude Maire Vigueur

vento. Un intero libro del trattato, il terzo e ultimo, è invece dedicato


al governo della città 8. Gran parte di questa sezione dell’opera è tut-
 

tavia costituita da passi interamente ripresi dal De regimine civitatum


di Giovanni da Viterbo e quindi non offre spunti di grande origina-
lità rispetto all’ideologia elaborata dagli autori del periodo prece-
dente 9. Qualche elemento di novità tuttavia non è assente dal terzo
 

libro. Usando il linguaggio della borsa, direi che nel listino dei valo-
ri comunali le quotazioni dell’augmentum e della pace sono orientati
al ribasso mentre si assiste a un forte rialzo del bene comune e della
giustizia. Non solo le occorrenze della prima di queste due nozioni,
nella formulazione di «comun profit», si moltiplicano nel terzo libro
del Tresor, ma il significato della nozione si precisa e si arricchisce. Il
comun profit è ciò che conviene a tutti per opposizione a ciò che con-
viene a un gruppo, a un ceto, a una fazione. D’altro canto, l’obbligo
di perseguire il bene comune, che appariva fino ad allora come un
dovere dei soli dirigenti, diventa nel pensiero di Brunetto un obbligo
morale di tutti i cittadini, tenuti dunque a disciplinare i loro compor-
tamenti individuali in modo da conformarli agli interessi superiori
della collettività. La nozione che acquisisce maggiore importanza nel
pensiero di Brunetto è tuttavia quella di giustizia. Rinvia naturalmen-
te all’attività giudiziaria dei rettori, ossia di coloro che governano la
città, podestà in primis. Ma allude anche a tutta una serie di regole o
di principi di cui non è facile precisare il contenuto ma da cui si ca-
pisce per lo meno che sono chiamati a guidare l’azione dei dirigenti
comunali anche al di fuori del foro giudiziario e quindi a tutti i livelli
della loro azione pubblica. Quali sono queste regole? Brunetto non
dà nessuna precisazione al riguardo, ma il fatto che per la prima vol-
ta i termini di legge e di diritto facciano la loro apparizione in questo
tipo di discorso, in stretta connessione con l’azione dei governanti,
mi sembra una chiara allusione all’allargamento della sfera del pena-
le al quale si assiste nei decenni centrali del XIII secolo e che mette
i rettori nell’obbligo di intervenire tempestivamente per reprimere
ogni comportamento lesivo della pace civile e del bene comune.
Che la nozione di giustizia si sia caricata, nel pensiero di
Brunetto, di valori morali, al punto di inglobare tutte le regole che
devono ispirare la vita sociale, e non solo il governo della città, lo si

8 Brunetto Latini, Tresor, a cura di P.G. Beltrami - P. Squillacioti - P. Torri -


S. Vatteroni, Torino 2007, pp. 633-857.
9 G. Inglese, Latini, Brunetto, cit., pp. 9-10.

288
Progetti di trasformazione della società nei regimi di Popolo

capiva già dalla lettura del secondo libro del Tresor 10. Questo libro,
 

che si presenta come un trattato dei vizi e delle virtù, riprende quasi
letteralmente, nella sua prima parte, il Compendium Alexandrinum
dell’Etica Nicomachea di Aristotele 11. Mi è evidentemente impossi-
 

bile, sulla base della mia scarsa, per non dire inesistente, cultura fi-
losofica, dire se Brunetto si sia o no staccato in modo significativo
dal testo del principale trattato morale di Aristotele, ma non può
non colpire il fatto che abbia attualizzato la formula utilizzata da
Aristotele per designare i tre grandi tipi di governo da lui individuati,
la monarchia, l’aristocrazia e la democrazia, in modo da stabilire una
totale equiparazione tra il regime delle democrazie antiche e quel-
lo dei comuni italiani, e che abbia ripreso tale e quale il giudizio di
Aristotele sull’ultimo dei tre regimi definito come il «il migliore tra
questi tre» 12. Brunetto, che scrive il suo Tresor durante il soggiorno
 

in Francia, che prova una grande ammirazione per l’azione dei sovra-
ni francesi e che dopo il suo ritorno in Francia rimarrà sempre un fe-
dele sostenitore del partito angioino in Italia, non ha dunque nessun
dubbio sulla superiorità del regime repubblicano praticato dalle cit-
tà dell’Italia comunale. Il Tresor, se non vado errato, è la prima opera
di un autore preumanista a proclamare alta e forte la superiorità del
sistema politico in vigore nelle città comunali su tutte le altre forme
di governo. Ma è anche con Brunetto Latini che, per la prima volta,
la questione della forma del governo fa la sua apparizione nel pensie-
ro degli autori preumanisti presso i quali occuperà, dopo di lui, un
posto sempre più importante, al punto di focalizzare gran parte delle
loro riflessioni politiche. Del resto, lo stesso Brunetto non si limita,
sulla questione, alla tonitruante e concisa affermazione con la quale
si apre il § 44 del libro secondo del Tresor. Ci torna infatti nel libro
terzo e lo fa in due modi diversi. Da una parte affermando che la for-
ma repubblicana è sicuramente quella che garantisce meglio delle al-
tre che i magistrati dirigenti obbediscano effettivamente ai dettami
di giustizia 13. Dall’altra avanzando una serie di proposte molto pre-
 

cise per garantire il migliore funzionamento possibile di questa for-


ma di governo. Nel sistema repubblicano, lo sappiamo tutti, il potere
è in qualche modo diviso tra dei consigli deliberativi, che hanno in

10 Brunetto Latini, Tresor, cit., pp. 329-621.


11 G. Inglese, Latini, Brunetto, cit., pp. 9-10.
12 Brunetto Latini, Tresor, cit., pp. 412-413.
13 Q. Skinner, Virtù rinascimentali, cit., p. 39.

289
Jean-Claude Maire Vigueur

particolare come prerogative quella di votare le leggi, e dei magistrati


scelti dagli stessi consigli. Brunetto è il primo dei pensatori preuma-
nisti a porre il problema della ripartizione dei poteri tra i due pilastri
del regime comunale, i consigli e i magistrati. Non solo, ma per di
più Latini si pronuncia con decisione in favore di una formula di go-
verno nella quale i magistrati, o meglio ancora, il magistrato supremo
dispone di un’autorità nettamente superiore a quella dei consigli 14,  

al punto che alcuni commentatori recenti del Tresor intravedono nel-


la forma di governo preconizzato da Brunetto una prefigurazione
del regime della Signoria cittadina che, secondo questa visione del-
le cose, non sarebbe altro che una delle varianti possibili del sistema
politico comunale. Non condivido totalmente questa tesi, ma non c’è
dubbio che Brunetto Latini, dopo aver preso una parte attiva al re-
gime del “primo Popolo” fiorentino, tra il 1250 e il 1260, esprime al
suo ritorno dalla Francia una netta preferenza per un regime centra-
to sulla figura di un podestà dotato di una forte autorità e di un gran-
de carisma. Un tipo di regime molto diverso dai regimi popolari che
si diffondono nell’Italia degli anni ’60 e che assomiglia molto, inve-
ce, a quello che Carlo d’Angiò tenta di instaurare nelle città passate
sotto la sua Signoria.
Sulla questione della forma del governo, Brunetto Latini difen-
de dunque delle posizioni in netta controtendenza con i cambiamen-
ti che si stanno compiendo, sotto i suoi occhi, in molte città dell’Italia
comunale, a cominciare da quella nella quale svolge la propria atti-
vità di alto dirigente comunale. Ma ciò non toglie niente al caratte-
re profondamente innovatore del suo pensiero, che risiede non solo
in un nuovo modo di concepire la giustizia e il bene comune ma an-
che nel fatto di porre al centro della riflessione politico-morale del-
la sua epoca la questione della “costituzione” repubblicana. Il suo
esempio, su quest’ultimo punto, verrà seguito da tutti i pensatori e
da tutti i leader dei regimi di Popolo per i quali il bene comune si
identificherà con il bene del comune, ma di un comune le cui rego-
le di funzionamento diventano sempre di più l’oggetto di accesi di-
battiti, al punto di occupare, a partire dalla fine del XIII secolo, un
posto di assoluta rilevanza sia nella riflessione degli intellettuali che
nelle discussioni dei dirigenti comunali. Mi soffermerò qui sull’unico
autore di cui ho avuto il tempo di consultare le opere, il domenicano

14 Ottime osservazioni su questo punto di L. Martines, Potere e fantasia. Le


città stato nel Rinascimento [1979], trad.it., Roma-Bari 1981, p. 155.

290
Progetti di trasformazione della società nei regimi di Popolo

Remigio de’ Girolami, riservando per la seconda parte di questo mio


intervento le testimonianze di carattere meno teorico.
Con Tolomeo da Lucca e Giordano da Pisa, Remigio de’
Girolami fa parte di quel piccolo gruppo di domenicani che, negli
anni a cavallo del 1300, hanno portato un contributo determinante
all’elaborazione di una ideologia comunale molto più aperta agli in-
teressi ed alle aspirazioni del Popolo di quanto lo fosse quella di un
Giovanni da Viterbo o di un Brunetto Latini 15. Lettore nel convento
 

fiorentino di Santa Maria Novella, Remigio apparteneva a una fami-


glia del popolo grasso molto impegnata nella vita politica del comu-
ne e lui stesso cercò con tutti i mezzi a sua disposizione di influire sul
corso degli eventi e in particolare di suggerire, nei dibattiti sulle que-
stioni più scottanti di quel periodo molto travagliato, soluzioni con-
formi alla sua visione del sistema politico ideale, che coincide più o
meno con quella del suo ceto di appartenenza. In questa visione, la
nozione di bene comune diventa la chiave di volta di un sistema nel
quale tutto deve essere subordinato al bene comune inteso come il
bene del comune. Anche Brunetto, lo abbiamo visto, tendeva a ope-
rare la stessa identificazione ma per comune Brunetto intendeva al-
lora la comunità dei cittadini in opposizione al singolo individuo, al
lignaggio, al gruppo o al ceto di appartenenza. Con Remigio, sono la
coesione e la sopravvivenza del comune come autorità politica che
diventano i beni più preziosi, ai quali converrà in caso di necessità sa-
crificare tutti gli altri beni, fossero quelli di un individuo, di un grup-
po o di un partito. Remigio espone questa tesi nel trattato De bono
comuni composto subito dopo l’ingresso in città dei Neri e il loro
colpo di mano contro i Bianchi nel novembre 1301 16. Remigio non 

fornisce nessun esempio pratico dell’applicazione di tale tesi, ma il


trattato era probabilmente destinato a servire da giustificazione teo-
rica portata avanti con argomenti tratti dalla Bibbia, dai Padri, dagli
autori classici, dal diritto romano, ai provvedimenti sostenuti dallo
stesso Remigio nei suoi sermoni o per lo meno da lui auspicati e sug-
geriti ai dirigenti, nella misura in cui aveva ancora la possibilità di far
ascoltare la propria voce dopo la sconfitta della sua parte, quella dei

15 A. Zorzi, Bien commun et conflits politiques, cit., pp. 281-284.


16 Disponibile al sito < http://www.e-theca.net/emiliopanella/remigio/ > [10
novembre 2010], a cura di Emilio Panella, assieme ai preziosi saggi dello stesso pa-
dre Panella su Remigio. Sullo stesso personaggio, cfr. inoltre M.C. De Matteis, La
“teologia politica comunale” di Remigio de’ Girolami, Bologna 1977.

291
Jean-Claude Maire Vigueur

Bianchi. Troviamo invece un’applicazione pratica della tesi illustra-


ta nel De bono comuni nel trattato successivo, il De bono pacis, com-
posto nel 1304. Scopo del De bono pacis è difendere la legittimità,
da parte di una comunità, di procedere a una reciproca remissione
delle ingiurie e degli espropri subiti e perpetrati quando ciò appare
come una condizione necessaria per riportare la pace all’interno del-
la comunità. In altre parole, secondo Remigio bisogna saper rinun-
ciare alla riparazione delle ingiustizie subite quando ciò consente di
riportare la pace tra i cittadini. La giustizia perde così la sua posizio-
ne di valore assoluto; da fine e principio della vita sociale essa diven-
ta uno strumento finalizzato e subordinato al raggiungimento di un
bene superiore che è quello della coesione e della salvaguardia della
comunità. Forzando un po’ (o molto?) le cose, direi che per il frate
domenicano gli interessi superiori dello Stato devono avere la prece-
denza su ogni altro valore.

II. Il dibattito sul sistema politico


All’epoca dei regimi di Popolo, come ho già detto, le riflessioni
degli intellettuali comunali tendono a focalizzarsi sempre di più su
problemi di natura politica e, più precisamente ancora, su questioni
che hanno a che vedere con il funzionamento concreto del sistema
politico. Tale tendenza appare ancora più netta quando si allarga l’at-
tenzione ad altri tipi di fonti, e penso in particolare alla cronachisti-
ca e ai proemi o prologhi di alcuni testi normativi che suonano come
altrettanti proclami ideologici del movimento di Popolo. Ne viene
fuori l’impressione che la quasi totalità del dibattito, all’interno del
movimento popolare, era di natura squisitamente politica e verteva
su questioni attinenti a quello che chiamerei il sistema politico. Sono
convinto che non era così nella realtà e che, tra gli esponenti popola-
ri delle varie città, si parlava e si discuteva anche di ben altre cose, ma
purtroppo di questi altri argomenti non è fatta menzione, salvo erro-
re da parte mia, nelle fonti di cui parlavo e solo un esame delle prassi
di governo, dell’azione concreta dei governi popolari consentirebbe
di individuarli e di avere così una visione più completa delle aspira-
zioni e dei progetti del movimento popolare. È chiaro che non tutti
i problemi in discussione erano di eguale importanza. Per il momen-
to, ho individuato nella forma del governo, nell’esclusione dalla par-
tecipazione alla vita politica e nelle modalità di scelta dei dirigenti le
questioni di maggior interesse in quanto rivelano, nella mentalità dei
292
Progetti di trasformazione della società nei regimi di Popolo

contemporanei, visioni contrastanti non solo, come è ovvio, del siste-


ma politico, ma anche della società nella sua globalità.

La forma del governo


La forma repubblicana di governo implica l’esistenza di due tipi
di organismi: dei consigli deliberativi e dei magistrati elettivi incari-
cati, in linea di massima, di presiedere i consigli e di eseguire le loro
decisioni. Resta però da decidere dei limiti o dell’esatta entità dei po-
teri attribuiti all’uno ed all’altro dei due detentori dell’autorità politi-
ca, assemblee da un lato, titolari delle cariche esecutive dall’altro. Si
potrebbe parlare di un dibattito sulla natura del regime se non fos-
se che l’espressione, trattandosi dei comuni medievali, non è molto
felice. I contemporanei infatti, almeno fino alla metà del XIV seco-
lo, non avevano l’impressione di rinunciare alla forma repubblicana
quando affidavano ampi poteri a un solo personaggio per una dura-
ta che poteva superare di gran lunga il mandato abitualmente confe-
rito agli ufficiali forestieri, limitato a un anno e poi a sei mesi. Anzi,
questa forma di governo di tipo personale ha sempre rappresentato
nell’Italia comunale una opzione o una risorsa alla quale non si esi-
tava a ricorrere in determinate circostanze, per esempio in caso di
gravi pericoli esterni 17. Non si discostava molto, del resto, dal regi-
 

me in vigore in tutta la prima metà del XIII secolo quando il podestà


disponeva, per lo meno in alcuni settori, di prerogative nettamen-
te superiori a quelle dei consigli. Non si insisterà mai abbastanza sul
fatto che, contrariamente a un luogo comune della storiografia ita-
liana che attribuisce l’apparizione della Signoria cittadina a una cri-
si del regime comunale, i movimenti di Popolo hanno sempre avuto
presente la possibilità di affidare il potere a un singolo personag-
gio. Detto questo, passare da un sistema all’altro, e soprattutto da
una forma tendenzialmente collettiva di governo a una forma molto
più personale non era mai un’operazione indolore e i contemporanei
erano ben consapevoli di trovarsi di fronte a una scelta che avrebbe
avuto profonde conseguenze sul funzionamento, se non addirittura
sulla natura stessa, del loro sistema politico. Riservandomi di appro-
fondire questo tema sulla base di esempi concreti in un’altra sede,

17 A. De Vincentiis, Le signorie angioine a Firenze. Storiografia e prospettive,


«Reti medievali. Rivista» II, 2 (2001); A. Zorzi, Le signorie cittadine in Italia (seco-
li XIII-XV), Milano 2010.

293
Jean-Claude Maire Vigueur

mi accontenterò oggi di evocare le posizioni adottate su questo pun-


to da due autori che erano tutti e due profondi conoscitori della vita
politica fiorentina.
Ho già accennato alla principale caratteristica del sistema poli-
tico illustrato da Brunetto Latini nel terzo libro del Tresor, ossia alla
netta superiorità da lui attribuita al magistrato chiamato a governa-
re la città. Certamente Brunetto rimane fedele alla logica del regime
repubblicano che riconosce alle assemblee il potere di fare le leggi,
ma il suo trattato è farcito di disposizioni e di raccomandazioni che
tendono tutte a rafforzare i poteri del podestà a dispetto di quelli dei
consigli e a fare del podestà una specie di monarca dotato di un’au-
torità di essenza quasi divina. Raccomanda per esempio al podestà di
limitare allo stretto necessario i dibattiti all’interno delle assemblee,
come se volesse ridurre il ruolo dei consigli alla semplice approva-
zione delle leggi da lui elaborate. Il podestà è invitato ad adottare nel
suo stile di vita dei comportamenti che lo isolino totalmente dal resto
della popolazione, in modo da apparire come un essere di essenza
superiore. Deve essere dotato di qualità eccezionali e in particolare
di un carisma in grado di suscitare un immeditato senso di soggezio-
ne nella mente dei cittadini. È ovvio che la scelta di un personaggio
così fuori dal comune non può essere abbandonata alla sorte e non
può avvenire che al termine di accurate indagini che tengano conto
anche del prestigio del lignaggio di appartenenza.
Negli ottant’anni che seguono la stesura del Tresor, i Fiorentini
optarono varie volte per una forma di governo che corrisponde ab-
bastanza fedelmente ai quesiti formulati da Brunetto Latini nel ter-
zo libro del suo trattato. L’ultimo esperimento di questo genere fu
il celebre episodio della “dittatura” del duca di Atene, il francese
Gualtieri di Brienne, che governò la città con mano di ferro nel 1342-
1343. La repressione esercitata dal duca contro i suoi avversari e, in
modo più generale, la politica da lui attuata in vari campi gli valse-
ro dopo la sua caduta l’odio inestinguibile del ceto dirigente fioren-
tino, che accomunò nella stessa condanna la politica del duca e ogni
forma di governo personale, considerata da allora come la negazio-
ne degli ideali comunali e bollata come tirannia 18. Giovanni Villani
 

fu certamente, con la sua Nuova cronica, uno di quelli che contri-

18 A. De Vincentiis, Politica, memoria e oblio a Firenze nel XIV secolo. La tra-


dizione documentaria della signoria del duca d’Atene, «Archivio storico italiano»,
CLXI (2003), pp. 209-248.

294
Progetti di trasformazione della società nei regimi di Popolo

buirono di più a diffondere nell’opinione pubblica l’equazione go-


verno personale = cattivo governo 19. A differenza di molti dei suoi
 

concittadini però, Villani non aveva aspettato la dittatura del duca di


Atene per prendere coscienza dei pericoli insiti nell’attribuzione di
poteri eccessivi all’esecutivo. Già nel corso degli anni che precedono
l’arrivo al potere di Gualtieri di Brienne infatti, la storia del comu-
ne fiorentino offrì varie volte al cronista l’occasione di denunciare la
tendenza di non pochi dirigenti ad assicurarsi, come dice Alessandro
Barbero, «troppo potere esecutivo» 20. Tale potenziamento dell’ese-
 

cutivo si realizzava il più delle volte o con la nomina da parte dei


rettori di balie incaricate di prerogative molto ampie su affari del-
la massima importanza, come succedette nel 1341 con il disastroso
progetto di comprare Lucca da Mastino Della Scala 21, o con la crea-
 

zione di nuovi uffici dotati di poteri eccezionali e contrari agli statu-


ti i cui titolari si dimostrano in generale molto più preoccupati dei
propri interessi personali che del “bene comune”. Villani ne fornisce
un bell’esempio nella persona di un Gabrielli di Gubbio che, nomi-
nato nel 1335 a capo di un ufficio creato dai dirigenti di allora con
l’unico scopo di mantenersi al potere, approfittò degli ampi poteri di
polizia e di giustizia a lui conferiti per comportarsi in modo “tiran-
nico”, ossia totalmente arbitrario, e che «compiuto l’anno se n’ando
ad Agobbio ricco di molti danari» 22. Narrato l’episodio, Villani ne ri-
 

cava lezioni di carattere generale illuminanti sulle proprie preferen-


ze in materia di regime politico: non fare mai «uficiali arbitrari, che
perche si criino sotto colore e titolo di bene del Comune, sempre mai
fanno dolorosa uscita per le cittadi, e nascene tirannica segnoria» 23.  

La partecipazione alla vita politica


La questione di sapere chi ha diritto di partecipare alla vita poli-
tica si pone in tutte le fasi della storia dei comuni. Il dibattito assume

19 Giovanni Villani, Nuova cronica, a cura di G. Porta, 3 voll., Parma 1990-


1991, vol. III, pp. 291-300.
20 A. Barbero, Storia e politica fiorentina nella cronaca di Giovanni Villani, in
Il Villani illustrato. Firenze e l’Italia medievale nelle 253 immagini del ms. Chigiano
LVIII 296 della Biblioteca Vaticana, a cura di C. Frugoni, Firenze 2005, pp. 13-22,
a p. 20.
21 Giovanni Villani, Nuova cronica, cit., vol. III, pp. 249-252.
22 Ivi, p. 88.
23 Ibidem, p. 91.

295
Jean-Claude Maire Vigueur

però toni molto più accesi nella seconda metà del XIII-inizio XIV
secolo nel contesto della lotta antimagnatizia, delle lotte di fazione
e delle aspirazioni del popolo minuto ad ottenere maggiori spazi nel
governo della città.
Occorre prima di tutto ricordare un principio condiviso da tut-
ti i teorici e portavoce del movimento popolare: la partecipazione al
governo della città non è un diritto innato del cittadino, ma è subor-
dinato all’accettazione di determinate regole, ossia di quelle regole
che rendono possibile la vita in società e in città. Non basta infatti
abitare dentro le mura di una città per essere civis, bisogna aderire
alle regole del gruppo, accettare le regole del vivere insieme. Come
dice Brunetto Latini, «cittade èe uno raunamento di gente fatta per
vivere a ragione; onde non sono detti cittadini d’uno medesimo co-
mune perché siano insieme accolti dentro ad un muro, ma quelli che
insieme, sono accolti a vivere ad una ragione» 24.  

Questo principio giustifica l’esclusione dalla vita politica di va-


rie categorie di persone e porta a un processo di ridefinizione co-
stante della cittadinanza. Tutto il problema sta nella definizione delle
categorie alle quali viene preclusa o tolta la capacità di partecipa-
re alla vita politica, cioè di entrare nei consigli e di rivestire cariche
pubbliche. Occorre poi distinguere tra le varie forme di esclusione
della vita politica: una cosa è essere escluso dalle organizzazioni di
Popolo, un’altra dalle istituzioni comunali, una cosa non poter ac-
cedere alle più alte cariche, un’altra non essere neppure ammesso a
partecipare ai consigli.
Esaminiamo per cominciare l’esclusione dal Popolo. L’appar-
tenenza alla o alle società di Popolo non ha niente di automatico.
L’iscrizione a una società popolare implica una richiesta di adesio-
ne il cui esito non è scontato, almeno in teoria. Chi vuole far parte di
una società popolare deve mostrare di aderire agli ideali del Popolo
e prestare un giuramento di fedeltà. Nella maggior parte dei casi, la
prova non doveva essere difficile da superare anche perché gli idea-
li del Popolo erano formulati in termini così vaghi e generali da non
dover causare grossi problemi di coscienza anche al più accanito dei
nobili. I dirigenti popolari tuttavia erano ben consapevoli di questa
situazione e non mancarono da parte loro i provvedimenti atti a im-
pedire la presenza massiccia di nobili nelle file delle società popola-

24 Brunetto Latini, La Rettorica, a cura di F. Maggini, Firenze 1968, p. 13.

296
Progetti di trasformazione della società nei regimi di Popolo

ri. Quindici anni fa, in questa stessa sala, in occasione del convegno
su magnati e popolani, Antonio Ivan Pini citava alcuni dei provve-
dimenti presi in tal senso dal Popolo di Bologna. A partire dal 1255,
per esempio, le società d’armi di questa città furono invitate a pro-
cedere a controlli a tappeto sulle matricole e ad espellere dal loro
seno i nobiles o i milites che vi si erano infiltrati. Prima ancora di
questa data, e quindi senza aspettare che «la societas populi in quan-
to tale prendesse posizione in materia», alcune società d’arti avevano
inserito «nei loro statuti il divieto ad assumere qualsiasi carica inter-
na o di rappresentanza nei consigli» a chi non esercitava effettiva-
mente il mestiere, e alcune società d’armi, come quella dei Griffoni
e della Branca, avevano stabilito «la non accettazione nelle proprie
fila dei nobili e dei magnati e comunque di tutti coloro che stanno
“in summa re”» 25. Nel contempo, Pini non mancava di far osservare
 

che la politica popolare al riguardo non poteva essere che contrad-


dittoria nella misura in cui il Popolo, soprattutto dopo l’espulsio-
ne di migliaia di ghibellini, era costretto a far rientrare dalla finestra
parte dei nobili cacciati dalla porta, senza i quali non avrebbe potu-
to far funzionare la «macchina politico-amministrativa» (parole sue)
del comune.
Si deve allo stesso Pini l’avere attirato l’attenzione su un tipo di
esclusione rimasto poco studiato all’infuori di Bologna: mi riferisco
ai divieti che, in quella città, colpiscono gli addetti a determinati me-
stieri non per motivi di censo ma a causa della natura stessa delle loro
attività professionali. Nell’elenco che ne dava Pini nella sua relazione
del 1995 figurano «tutti gli addetti ai trasporti e al vettovagliamento,
tutti gli addetti alle attività legate allo Studio e alla produzione libra-
ria, la maggior parte dei lavoranti del settore laniero, tutti i barbieri,
tutti gli speziali» 26. Sempre secondo Pini, l’elenco dei mestieri esclu-
 

si coinciderebbe con quello dei mestieri che nel 1228, al momento


della prima grande affermazione del Popolo, non erano ancora riu-
sciti a formare una corporazione, e sarebbe quindi la loro mancata
partecipazione al movimento insurrezionale del 1224 a spiegare le
discriminazioni politiche che pesano su di loro ancora nella secon-

25 A.I. Pini, Magnati e popolani a Bologna nella seconda metà del XIII seco-
lo, in Magnati e popolani nell’Italia comunale, Quindicesimo convegno internazio-
nale di studi (Pistoia, 15-18 maggio 1995), Pistoia 1997, pp. 371-396, a pp. 176-177
e 387-388.
26 Ivi, p. 385.

297
Jean-Claude Maire Vigueur

da metà del XIII secolo. Possono per esempio essere iscritti alle so-
cietà d’armi ma non a quelle di mestieri. Ma il fatto più curioso è che
siano esclusi dal consiglio dei 2.000, ossia dalla più numerosa di tut-
te le assemblee comunali (nel 1294 da 2.000 si passerà addirittura a
4.000 membri!), per di più aperta ai nobili purché non siano ghibel-
lini e la cui unica prerogativa è di nominare i titolari di centinaia di
cariche amministrative 27.  

Passerò più rapidamente sulle altre due grandi forme di esclu-


sione, quella contro i magnati e quella contro i membri della par-
te sconfitta, l’una e l’altra oggetto di ottimi studi recenti. Il processo
che porta all’esclusione dei magnati prende l’avvio verso la metà del
XIII secolo, accelera negli anni successivi al 1270 e raggiunge il suo
apice negli ultimi anni del secolo. È caratterizzato dall’emanazio-
ne di misure sempre più discriminatorie nei confronti dei magna-
ti. Le prime norme sono di tipo «anti-tumulto», come dice Giuliano
Milani, e mirano a impedire gli interventi violenti dei nobili nella vita
politica della città. La discriminazione contro di loro si appesantisce
a partire dagli anni ’70 con l’emanazione di norme che limitano la
loro libertà di movimento e indeboliscono la loro capacità giudizia-
ria di fronte ai popolani. Culminerà dieci o vent’anni dopo, a secon-
da della città, con la loro esclusione dalle principali cariche politiche
e la compilazione di elenchi che portano, per dirla di nuovo con le
parole di Milani, a «una ridefinizione della cittadinanza» 28. Nei casi  

estremi, come a Padova e a Modena, questo processo porterà alla di-


visione in due categorie dell’intera popolazione, i popolani e i nobi-
li o magnati, i cui nomi saranno iscritti o, meglio, «schedati» in due
serie di registri diversi 29. Vale la pena notare, en passant, che l’at-
 

tuazione di una politica antimagnatizia fornì alla parte più colta del
Popolo l’occasione di arricchire l’ideologia popolare di nuove for-
mulazioni delle sue principali aspirazioni. Basta citare qui il celeber-
rimo esordio degli ordinamenti antimagnatizi bolognesi del 1282, i
cosiddetti ordinamenti «sacrati», che è stato oggetto di una brillan-
te analisi da parte di Massimo Giansante. Ricorrendo all’immagine
biblica dei lupi rapaces e degli agni mansueti per designare i magna-

27 G. Tamba, Consigli elettorali degli ufficiali del comune bolognese alla fine del
XIII secolo, «Rassegna degli Archivi di Stato», XLII, 2-3 (1982) pp. 34-95.
28 G. Milani, L’esclusione dal comune. Conflitti e bandi politici a Bologna e in
altre città italiane tra XII e XIV secolo, Rome 2003, p. 159.
29 Ivi, pp. 157-159.

298
Progetti di trasformazione della società nei regimi di Popolo

ti e i popolani, i redattori dell’esordio, tra i quali il notaio Rolandino


Passaggeri, principale ideologo del movimento popolare, occupa un
posto di primo piano, intendono giustificare la necessità, per man-
tenere la pace sociale e politica, di ristabilire un giusto equilibrio tra
magnati e popolani, privando i primi di tutti gli strumenti della loro
rapacità e potenza 30.  

Nel giro di pochi anni, l’esclusione dei magnati diventa dunque


uno dei temi di predilezione degli intellettuali popolari, particolar-
mente abili a mutuare dal linguaggio biblico e religioso le metafore e
le altre figure retoriche più atte a esaltare e legittimare la politica an-
timagnatizia del Popolo. L’esuberanza linguistica delle loro produ-
zioni su questo tema non fa che rendere più assordante il silenzio che
accompagna un’altra forma di esclusione, quella che colpisce i mem-
bri della parte sconfitta. Non c’è però da scervellarsi molto per capire
i motivi che spiegano il totale vuoto dell’ideologia popolare riguar-
do a questo tipo di esclusione. La verità è che i conflitti tra fazioni
sono rimasti per un lunghissimo periodo un fenomeno esclusivo del-
la nobiltà, al quale il Popolo ha tentato con tutti i mezzi possibili di
rimanere estraneo. E di fatto, in alcune città come a Bologna ci è riu-
scito fino agli anni Sessanta del XIII secolo, allorquando l’intrusione
della casa di Angiò nel paesaggio politico italiano e quindi l’acutiz-
zarsi del conflitto tra la pars ecclesie e la pars imperii portarono a un
coinvolgimento di parte dei popolari nelle lotte di fazione. Ma anche
laddove la decisione di cacciare una delle due parti era venuta dal
Popolo stesso, come succedette a Bologna nel 1274 con la cacciata
di non meno di 4.000 Lambertazzi, la decisione fu sempre motivata
da considerazioni di mera opportunità politica o, se si preferisce, di
Realpolitik, e mai perché una delle parti fosse giudicata migliore del-
l’altra. Ragione per la quale l’espulsione di una parte sconfitta non ha
mai dato luogo a sfoghi ideologici o simbolici, neppure da parte dei
superdotati (retoricamente parlando) notai bolognesi.

La scelta dei dirigenti


Il problema della scelta dei dirigenti investe in realtà due que-
stioni di entità ben diversa e che non sono emerse simultaneamente

30 M. Giansante, Retorica e politica nel Duecento. I notai bolognesi e l’ideolo-


gia comunale, Rome 1998, pp. 112-117.

299
Jean-Claude Maire Vigueur

nei dibattiti che hanno contribuito a enucleare gli elementi fondanti


dell’ideologia popolare. La prima a venire alla ribalta è di natura eti-
co-filosofica e riguarda le qualità necessarie per accedere ai posti di
responsabilità nel governo della città. La seconda non è priva di con-
nessioni con la prima ma si colloca a un livello di speculazione de-
cisamente più modesto: riguarda infatti le modalità di elezione dei
dirigenti comunali.
Tutti i testi in cui si allude o si ragiona sui criteri da prendere in
considerazione nella scelta dei dirigenti attingono a un repertorio di
qualità morali ed intellettuali, nel senso più largo nel termine, abba-
stanza omogeneo e nel quale non è sempre facile, di primo acchito,
cogliere indizi che rimandino a una visione popolare o al contrario
elitaria del governo della città. Se esaminiamo una dopo l’altra cia-
scuna delle «dodici cose», come dice Brunetto Latini 31, che devono
 

servire da guida per la scelta del «governatore», ce ne sono appena


due davanti alle quali i suoi lettori popolari avranno storto il naso:
con la seconda, dopo aver detto che il «signore» non va scelto in fun-
zione della nobiltà del suo lignaggio, aggiunge che chi «è nobile di
cuore e di stirpe, certo egli è preferibile in ogni cosa» 32; con la de-
 

cima raccomanda, sì, di scegliere un rettore «ricco e dovizioso», ma


solo per evitare di esporlo alla corruzione 33. Su tutte le altre qualità
 

raccomandate da Brunetto, il rispetto di Dio e l’amore della giustizia,


l’età, l’onorabilità dei costumi, una preparazione intellettuale tale da
«percepire la ragione delle cose», la forza di carattere, l’indifferenza
al denaro, il fatto di essere buon oratore, di non essere né spendac-
cione, né soggetto a brusche collere e via di seguito, anche il più pi-
gnolo degli intellettuali popolari non avrebbe probabilmente trovato
niente da ridire, anche se, a dire la verità, qualità come la cultura e la
padronanza delle tecniche oratorie erano diffuse più nelle alte sfere
della società che nei ceti popolari. Cosa ci autorizza allora a pensare
che Brunetto Latini riservi il governo della città a una piccola élite di
persone che, nella realtà, non possono che provenire dai ceti supe-
riori della società cittadina? Essenzialmente il fatto che non ci sia una
sola qualità, nel suo dodecalogo, che possa essere considerata come
proprietà esclusiva del Popolo. Brunetto non intravede nel Popolo

31 Brunetto Latini, Tresor, cit., pp. 794-795.


32 Ivi.
33 Ibidem, pp. 796-797.

300
Progetti di trasformazione della società nei regimi di Popolo

nessuna attitudine specifica al governo della città. Non esclude certo


che dei membri del Popolo possano avere parte e anche gran parte
delle qualità da lui elencate, ma è evidente che su alcuni punti i figli
della buona società godono in partenza di un vantaggio quasi impos-
sibile da colmare da parte dei popolari.
Che io sappia, i pensatori del movimento popolare non hanno
cercato di opporre al dodecalogo di Brunetto Latini un ritratto a tut-
to tondo del perfetto dirigente popolare e neppure di mostrare che
le vecchie famiglie non avevano l’appannaggio esclusivo delle quali-
tà richieste da un buon rettore. Hanno optato per una strategia mol-
to più sottile e abile, scegliendo di alzare il livello del dibattito e di
formulare la questione della scelta dei dirigenti in termini filosofi-
ci. È in alcuni testi normativi bolognesi che troviamo la migliore il-
lustrazione di questo disegno e il principale artefice né è, una volta
di più, uno dei più brillanti ideologi del movimento popolare, il no-
taio Rolandino Passaggeri. Il primo di questi testi risale al 1245 ed
è dunque ben anteriore al Tresor di Brunetto ma Rolandino, allora
giovane notaio, conosceva sicuramente i trattati che hanno prece-
duto quello di Brunetto e che diffondevano riguardo al governo co-
munale idee non molto diverse da quelle che sarebbero state riprese
e sviluppate dal notaio fiorentino. Si tratta dell’ampio proemio allo
Statuto dei cambiatori del 1245, del quale mi limito qui a riassume-
re sotto forma di tre punti la ricchissima esegesi che ne è stata fatta
da Massimo Giansante. Primo punto: per colpa del peccato origina-
le il potere politico è diventato qualcosa di intrinsecamente malva-
gio, anzi rappresenta, come dice Giansante, la massima espressione
della scelleratezza umana. Secondo punto: da questa malvagità non
si salvano che, oltre ai religiosi, alcune categorie professionali le cui
attività non si possono esercitare «senza verità e fede», due virtù in-
dispensabili all’arte dei notai, dei cambiatori e dei mercanti. Terzo
punto: tali virtù professionali sono anche virtù politiche e predispon-
gono dunque i membri di queste professioni all’esercizio del gover-
no del comune 34.  

Dopo lo Statuto dei cambiatori, la produzione statutaria del co-


mune bolognese rimarrà per più di trent’anni carente di riflessioni
dottrinali o ideologiche, con la sola eccezione del Liber Paradisus, il
cui proemio, con la sua esaltazione del sistema podestarile, è in tota-

34 Giansante, Retorica e politica nel duecento, cit., pp. 43-49.

301
Jean-Claude Maire Vigueur

le controtendenza rispetto alla tesi illustrata da Rolandino nel suo te-


sto del 1245 35. Bisogna aspettare la ricchissima produzione statutaria
 

degli anni ’80, destinata a confluire nel 1288 in una grandiosa fusio-
ne degli Statuti del comune e degli Statuti del Popolo, per trovare di
nuovo tracce della tesi rolandiniana. Ma questa volta non è più soste-
nuta dal «principe dei notai». I proemi di alcuni degli ordinamenti
approvati dal consiglio del Popolo nel 1285 e che diventeranno le ru-
briche CI e CXXIV del libro V degli Statuti del 1285 sono infatti af-
fidati alla perizia di uno dei suoi giovani discepoli, Giuliano Segatari,
che è un po’ il suo vice a capo dell’onnipotente Società dei notai. Ma
il giovane notaio non si accontenta di riprendere tale e quale il tema
delle virtù dell’uomo di governo. Da un lato, conferisce dignità e au-
torità al suo discorso incastonandolo in una ampia cornice di riferi-
menti filosofici, giuridici e astrologici, dall’altro attribuisce a tutti i
dirigenti popolari il possesso di quelle qualità di verità e fede che ga-
rantiscono l’equità della politica comunale, lasciando intendere che
non tutti gli ufficiali del comune “tradizionale” offrivano le stesse
garanzie 36. È difficile pensare che il giovane notaio abbia procedu-
 

to di propria iniziativa a un ampliamento cosi audace della tesi del


suo maestro e modello. Il proemio rolandiniano del 1245 aveva va-
lore programmatico, nel senso che Rolandino intendeva convincere
dell’attitudine a governare di alcune categorie professionali. I proe-
mi del 1285, esaltando l’eccellenza del ceto di governo che ha ormai
saldamente in mano il timone della città, tendono, anche se non lo
dicono esplicitamente, ad attribuire all’insieme del Popolo le stesse
attitudini. Nello stesso giro di anni, Rolandino realizza o ispira due
operazioni di grande spessore ideologico: applica il modello delle ge-
rarchie angeliche agli organi di governo del comune (Statuti perduti
della Società dei notai del 1283 ripresi in quelli del 1288), conferi-
sce valore sacrale alla parte più radicale della legislazione popolare,
ossia all’insieme dei provvedimenti presi nel corso degli anni 1282-
1285 (proemio del libro V degli Statuti del 1288) 37.  

Pensatori o leader popolari come i nostri due notai bolognesi


non hanno dunque nessun dubbio sull’attitudine a governare di tut-
ti i membri del Popolo. Indipendentemente dalla loro posizione so-

35 Ivi, pp. 95-99.


36 Ibidem, pp. 117-125.
37 Ibidem, pp. 125-143.

302
Progetti di trasformazione della società nei regimi di Popolo

ciale — con l’eccezione tuttavia di alcune professioni — e dalla loro


cultura, tutti i popolari hanno vocazione a entrare negli organi del
governo comunale. E di fatto è più o meno quello che succede nella
Bologna dell’ultimo quarto del XIII secolo. È stato calcolato che in
questa città ammonta a circa 12.000 il numero dei cittadini in condi-
zione di entrare nel consiglio del Popolo e nel collegio degli Anziani.
Il che, sia detto en passant, non è poco per una città di 50.000 abi-
tanti e per un sistema politico che esclude le donne dalla vita politi-
ca. Su questi 12.000 popolari almeno uno su due ha reali possibilità
di entrare nel più alto organo di governo della città, il collegio de-
gli Anziani, mentre ciascun membro del Popolo è sicuro di essere
chiamato più volte, nel corso della sua vita, a far parte del consiglio
del Popolo 38. Bisogna però dire che i leader del Popolo bolognese
 

non avrebbero mai raggiunto un simile livello di partecipazione se


la costituzione bolognese non avesse presentato due caratteristiche
che ritroviamo nella maggior parte dei regimi popolari più avanzati:
l’estrema brevità della durata delle cariche, voluta per favorire una
veloce rotazione del personale di governo, e una netta prevalenza
del sorteggio nelle procedure di selezione (difficile parlare di elezio-
ne!) del detto personale, volta a evitare l’accaparramento del potere
da parte di forti personalità o di gruppi di cittadini legati da interes-
si particolari.
In realtà, ci vorrebbe un’indagine molto più completa e siste-
matica della mia per verificare se effettivamente, come ho appena
suggerito, i regimi popolari più avanzati hanno sempre manifestato
una netta preferenza, nelle procedure di selezione alle cariche di go-
verno, per il sorteggio piuttosto che per l’elezione e la cooptazione.
Non si può comunque fare a meno di costatare che a partire da una
certa data, collocabile negli ultimi due decenni del XIII secolo, la
questione della selezione del personale di governo diventa oggetto di
accesi dibattiti, rivelatori delle profonde divergenze che esistono, tra
le varie anime del Popolo, sulle qualità ed attitudini richieste dal ceto
dirigente. Mi limiterò a citare gli esempi di Pisa e di Siena, sui qua-
li Alma Poloni e Mario Ascheri hanno recentemente attirato l’atten-
zione. Nei due casi, il dibattito si concentra sul modo di selezionare

38 M. Vallerani, Sfere di giustizia. Strutture politiche, istituzioni comunali e


amministrazione della giustizia a Bologna tra Due e Trecento, tesi di dottorato in sto-
ria medievale, Università di Torino, 1992; J.-C. Maire Vigueur - E. Faini, Il sistema
politico dei comuni italiani (secoli XII-XIV), Milano 2010, pp. 89-90.

303
Jean-Claude Maire Vigueur

le persone chiamate ad accedere al vertice dell’apparato politico del


comune, cioè a fare parte del collegio degli Anziani a Pisa e dei Nove
a Siena. A Pisa le modalità di elezione/designazione degli Anziani
non sono fissate dagli Statuti e di conseguenza ogni due mesi, a parti-
re dal 1288, il consiglio del Popolo è chiamato a discutere per sapere
se i futuri Anziani saranno eletti dalle Arti o designati dagli Anziani
uscenti. I consiglieri optano di solito per il sistema della cooptazione
ma la loro scelta non ha niente di automatico e Poloni insiste sul fat-
to che ogni due mesi la questione è oggetto di una vera discussione.
Si va avanti così fino al 1307, quando l’élite dirigente si sente pron-
ta, come dice Poloni, ad imporre definitivamente il sistema che gli
è più favorevole, quello della cooptazione. Da questa data fino alla
metà del XIV secolo, gli Anziani verranno scelti secondo regole in-
serite nel Breve del Popolo, regole complesse ma concepite in modo
da consentire agli Anziani uscenti la cooptazione indiretta dei propri
successori e da eliminare le Arti dalla scelta degli Anziani 39. Anche  

a Siena si procede, nel 1318, a una profonda riforma del sistema di


selezione dei Nove ma di segno totalmente opposto a quella di Pisa.
Mentre infatti sin dalla creazione dell’ufficio dei Nove nel 1287 vige-
va la regola secondo la quale i Nove dovevano essere scelti dai Nove
uscenti assieme ai consoli della Mercanzia, la riforma del 1318 im-
pone un sistema misto di elezione e di sorteggio, rapidamente esteso
a tutte le principali cariche del comune, segno, secondo Ascheri, di
una maggiore democratizzazione del sistema politico 40.  

Con le dovute precauzioni, mi pare dunque possibile riassume-


re il significato politico delle discussioni sulle modalità di selezione
del personale dirigente dicendo che il sorteggio va, come si è visto a
Siena e a Bologna, nel senso di una maggiore apertura del persona-
le dirigente e quindi, in un certo modo, di una certa democratizza-
zione della vita politica, mentre l’immissione di una dose più o meno
massiccia di cooptazione nel sistema di selezione produce gli effetti
contrari e porta, a più o meno breve termine, a una chiusura oligar-
chica di tutto il sistema politico. È appena il caso di precisare che è

39 A. Poloni, Trasformazioni della società e mutamenti delle forme politiche in


un Comune italiano: il Popolo a Pisa (1220-1330), Pisa 2004, pp. 190-193, 198-205.
40 M. Ascheri, La Siena del “Buon Governo”(1287-1355), in Politica e cultu-
ra nelle Repubbliche italiane dal Medioevo all’età moderna: Firenze-Genova-Lucca-
Siena-Venezia, a cura di M. Ascheri - S. Adorno Braccesi, Roma 2001, pp. 81-107,
a pp. 9-10.

304
Progetti di trasformazione della società nei regimi di Popolo

sempre la parte più ricca del Popolo a pronunciarsi in favore della


cooptazione mentre, come abbiamo visto, il sorteggio ha la preferen-
za dell’ala più radicale del Popolo. Quello che è forse un po’ meno
scontato è che gli esponenti del popolo grasso abbiano giustifica-
to le loro posizioni con delle considerazioni di un innegabile spes-
sore morale e ideologico. A Pisa come a Siena, a Firenze e in tanti
altri comuni, i membri più influenti del popolo grasso sono convin-
ti di rappresentare la «migliore e più sana» parte del Popolo per il
fatto che possiedono più degli altri le doti e le qualità morali neces-
sarie al buon governo della città. Nella conduzione delle loro attivi-
tà professionali, svolte il più delle volte nel settore del commercio
e delle finanze, hanno acquisito una conoscenza del mondo e del-
le realtà economiche che non può pretendere di acquisire il picco-
lo artigiano o bottegaio che non ha mai lasciato la sua città. Senza
essere tutti giuristi di professione, sanno come muoversi nel com-
plesso universo delle regole giuridiche. Sono abbastanza ricchi per
non essere tentati di rubare o almeno per offrire maggiori garanzie
di onestà nell’amministrazione del denaro pubblico. La loro cultu-
ra infine è evidentemente superiore, per tanti motivi, a quella degli
altri ceti sociali e per cultura bisogna intendere prima di tutto la co-
noscenza del passato che fornisce lezioni indispensabili alla buona
conduzione degli affari pubblici 41. La somma di tutte queste quali-
 

tà si condensa nella figura del «savio» e «discreto» cittadino, che co-


stituisce, come ha giustamente detto Poloni, «una figura ricorrente,
nel Trecento, tanto nella produzione letteraria e cronachistica quan-
to nella riflessione giuridica, nei testi normativi e nella documenta-
zione pubblica» 42.  

Convinta di essere l’unica a possedere le virtù e le doti necessa-


rie al buon governo della città, l’élite del Popolo non è a priori ostile
all’idea di aprire le sue file a quegli uomini che si sono innalzati nel-
la scala sociale grazie alle loro attività professionali e hanno in que-
sto modo dato prova di possedere qualità analoghe a quelle delle più
vecchie famiglie. Pisa non è di certo l’unica città il cui ceto dirigente
ha avuto quella capacità ad accogliere nuovi membri e ciò ci impedi-
sce assolutamente, per la maggior parte delle città italiane, di parla-

41 A. Barbero, Storia e politica fiorentina, cit., pp. 14-16.


42 A. Poloni, Trasformazioni della società e mutamenti delle forme politiche,
cit., p. 214.

305
Jean-Claude Maire Vigueur

re di oligarchia prima del tardo e tardissimo Trecento. C’è appena


bisogno di dire che l’atteggiamento del popolo grasso nei confron-
ti del popolo minuto è radicalmente diverso: non ci può essere spa-
zio, nel governo della città, per uomini così bassi e umili, per quelli
che Villani qualifica come «artefici e manuali e idioti» e ancora come
«artefici minuti veniticci di contado e forestieri» 43. Detto questo, se
 

Villani non teme di esprimere in termini molto duri il suo disprezzo


nei confronti del popolo minuto, non ha paura di formulare giudizi
non meno severi contro quei membri del suo ceto che fanno un uso
distorto della cooptazione, la usano cioè per eliminare dal potere tut-
ti coloro che non fanno parte della loro ristrettissima «setta» (oggi si
parlerebbe di «cricca») di famiglie legate da interessi privati che non
hanno niente a che vedere con il bene del comune. Ragione per la
quale Villani applaude a due mani alla riforma del 1328 che introdu-
ce una buona dose di sorteggio, al posto della cooptazione, nel siste-
ma di selezione dei Priori, impedendo in questo modo che il potere
cada nelle mani delle «sette» 44.  

III. Il disciplinamento dei comportamenti e la costruzione di una iden-


tità popolare
Nel corso della seconda metà del XIII secolo, si assiste allo svi-
luppo di un doppio fenomeno che attiene più alla sfera della vita
personale che a quella dell’impegno politico e che interessa diret-
tamente i comportamenti individuali anche se possiede un’evidente
dimensione collettiva: voglio parlare della diffusione di un model-
lo di comportamento di chiaro marchio popolare e della costruzio-
ne di una forte identità di gruppo in una larga frazione del Popolo.
È un modello che si stacca fortemente da quello del ceto nobiliare e
la cui caratteristica più eclatante è il rifiuto della violenza, nonché di
altri comportamenti considerati come tipici della nobiltà: prepoten-
za sessuale, accaparramento dei beni e delle risorse collettive, rifiuto
di riconoscere l’autorità dei rettori comunali, dei tribunali pubblici
e via dicendo.
Questa dimensione antropologica dell’ideologia popolare rima-
ne ancora in gran parte da indagare. Non è un’impresa facile. Le idee
del Popolo in questo campo non hanno la stessa visibilità né lo stes-

43 Giovanni Villani, Nuova Cronica, cit., vol. III, p. 398.


44 A. Barbero, Storia e politica fiorentina, cit., p. 19.

306
Progetti di trasformazione della società nei regimi di Popolo

so spessore di quelle che interessano la sfera del governo della cit-


tà. Non sono contemplate né nei trattati né nelle altre fonti testuali
che ci hanno consentito di seguire l’elaborazione di un nuovo modo
di concepire la politica e la partecipazione dei cittadini alla vita po-
litica della città. Non sono mai state l’oggetto di una riflessione teo-
rica sistematica e sono probabilmente rimaste, anche nella coscienza
degli intellettuali più lucidi, allo stadio di aspirazioni poco formaliz-
zate, scollegate tra di loro e per niente integrate all’interno di un si-
stema coerente e globalizzante. L’“uomo popolare”, di cui tenterò
ora di abbozzare il ritratto, è una ricostruzione fatta a posteriori sul-
la base di osservazioni pratiche più che di testi teorici e con l’aiuto di
pochi ma eccellenti studi.

Il contro-modello
È senz’altro più facile definire in negativo che in positivo il mo-
dello di comportamento promosso dal Popolo. Intende infatti esse-
re l’esatto contrario di tutti i comportamenti più tipici della nobiltà
militare, stigmatizzati in quasi tutte le pagine della Cronica di Dino
Compagni ed illustrati, anche se in maniera meno sistematica, in nu-
merose altre cronache (Salimbene de Adam, Villani, l’Anonimo ro-
mano): la competizione per l’accaparramento delle risorse portata
avanti fuori dai canali istituzionali, il ricorso a mezzi extragiudizia-
ri per la risoluzione dei conflitti, la prevaricazione a danno dei più
deboli, l’ostentazione di tutti i segni della potenza e della ricchezza
quali torri, cavalli, armi, vestiti, seguaci armati, feste sontuose, gio-
chi equestri, armeggiamenti nelle strade della città ecc. ecc. Manca
il tempo per procedere a un’analisi approfondita di simili compor-
tamenti che sono del resto ben conosciuti 45. Va ricordato invece il
 

punto di disaccordo tra gli studiosi, quello della diffusione di que-


sto modello all’interno della società cittadina. C’è chi, come me, so-
stiene che si tratta di un modello tipicamente cavalleresco, nel senso
che riflette i valori e gli interessi della vecchia militia, il che non vuol
dire che abbia permeato altri strati della società cittadina. Altri si ri-
fiutano di attribuire alla nobiltà l’esclusività di questo stile di vita e
partendo dall’esempio della vendetta e/o sostenendo il carattere lar-
gamente egemonico, lungo tutto il periodo medievale, dello stile di

45 J.-C. Maire Vigueur, Cavalieri e cittadini. Guerra, conflitti e società nell’Ita-


lia comunale [2003], trad.it., Bologna 2004, pp. 359-425.

307
Jean-Claude Maire Vigueur

vita aristocratico, contestano la capacità del Popolo di dotarsi di una


propria identità e di una propria cultura. Tornerò sul problema più
avanti, quando parlerò dell’identità di gruppo dei popolari.
Da questo ritratto in negativo, non è difficile ricavare alcuni dei
tratti più salienti del modello proposto dai popolari: rifiuto della vio-
lenza, rispetto delle istituzioni alle quali è demandata la risoluzione
di ogni tipo di conflitto, disinteresse nella gestione della cosa pubbli-
ca, solidarietà e aiuto ai più deboli, moderazione nei consumi e nel
tenore di vita, sobrietà dei vestiti e via dicendo.

Il modello positivo
Il Popolo costruisce la sua identità in opposizione a quella del-
la nobiltà e quindi non c’è niente di illegittimo, mi pare, nell’ope-
razione che consiste, come ho appena fatto, nel partire dai valori
e dai comportamenti della nobiltà per attribuire al Popolo valori e
comportamenti di segno opposto. Ciò detto, è ovvio che il meto-
do deduttivo non basta e che lo storico ha il dovere di confrontare
le proprie deduzioni o intuizioni con il materiale a sua disposizio-
ne. Cosa che non potrò fare che in minima parte nel quadro di que-
sta relazione. Come ho detto, i testi a carattere teorico, in grado di
fornire una prima serie di indicazioni, sono quasi inesistenti e ci sa-
rebbe voluto molto più tempo di quanto avessi a mia disposizione
per andare a cercare, nella storia delle tante città dell’Italia comuna-
le, le testimonianze più significative di questa volontà del Popolo di
cambiare l’uomo. Mi soffermerò su un solo esempio,quello del mo-
vimento di pace perugino del 1260, oggetto di un recente studio di
Massimo Vallerani 46.  

Il 1260 non fu per Perugia un anno come gli altri ed è rimasto


giustamente celebre negli annali perugini per due motivi: l’emanazio-
ne di una serie di leggi varate sotto il nome di Ordinamenti Populi, e
lo spettacolare inizio di un movimento devozionale conosciuto sotto
il nome di movimento dei Flagellanti. Tra i due eventi, c’è una quasi
perfetta coincidenza cronologica. La prima processione penitenziale
ebbe probabilmente luogo il Giovedì santo (1° aprile), mentre cinque
giorni dopo, il Lunedì di Pasqua (5 aprile), gli Ordinamenti Populi

46 M. Vallerani, Momenti di pace in un comune di Popolo: i Flagellanti a


Perugia nel 1260, «Bollettino della deputazione di storia patria per l’Umbria», CI,
1 (2004), pp. 369-418.

308
Progetti di trasformazione della società nei regimi di Popolo

venivano approvati nel corso di una solenne assemblea del Popolo.


Ma c’è di più: esiste infatti una fortissima convergenza o analogia di
intenti e di idee tra il movimento dei Flagellanti, che mira a riportare
la pace tra i cittadini, e gli Ordinamenti Populi, principalmente vol-
ti a estirpare ogni forma di violenza dalla città. Convergenza che non
ha niente di fortuito e che trova la sua ragione d’essere nei conflit-
ti e nelle fortissime tensioni che attraversano la vita sociale e politica
della città. Cinque anni prima, il Popolo era riuscito a imporsi come
la prima forza politica della città e aveva proceduto a delle riforme
che gli garantivano il controllo del comune. Ma i nobili non si erano
rassegnati alla perdita del potere e tentavano in vari modi di desta-
bilizzare il nuovo regime, usando in particolare tutte le forme di vio-
lenza possibili, sia individuali che collettive. È in questo contesto che
il Popolo iniziò, dal gennaio 1260 in poi, una politica di più radicale
eradicazione della violenza che culminò con gli Ordinamenti Populi
del 5 aprile. I provvedimenti presi durante i primi tre mesi dell’anno
sono di natura prevalentemente repressiva e hanno un doppio obiet-
tivo: il primo, come dice Vallerani, è di «estinguere i focolai di pos-
sibili conflitti» 47, il secondo di stabilire una casistica estremamente
 

precisa di tutte le forme di violenza tale da poter sottoporre ciascu-


na di esse a una pena specifica e da condurre i nobili a prendere
coscienza del carattere inammissibile di comportamenti da loro con-
siderati come spontanei e naturali. Ritroviamo altri provvedimenti
volti a reprimere la violenza in apertura del treno di misure appro-
vate dall’assemblea del Popolo del 5 aprile, ma il disegno comples-
sivo degli Ordinamenti è molto più ambizioso. Tende niente meno
che a rifondare l’insieme dei rapporti sociali, tra ceti, gruppi o in-
dividui, su nuovi valori radicalmente diversi da quelli vigenti prima
dell’affermazione del Popolo. Gli Ordinamenti reprimono con pene
che vanno fino alla pena di morte tutte le forme di solidarietà che fa-
voriscono gli interessi di un lignaggio, di un gruppo, di una fazione
a danno degli interessi della collettività; in particolare proibiscono i
giuramenti di fedeltà vassallatica e la formazione di partes, soppri-
mono quello che poteva sussistere delle vecchie vicinantie, cioè di
un tipo di inquadramento della popolazione propizio alla formazio-
ne di clientele private 48. I milites, come ho cercato di mostrare in al-
 

47 Ivi, p. 397.
48 Ibidem, pp. 400-404. Edizione degli Ordinamenti in J.P. Grundman, The
Popolo at Perugia 1139-1309, Perugia 1992, pp. 386-390.

309
Jean-Claude Maire Vigueur

tra sede 49, erano molto più sensibili al richiamo della inimicitia che
 

al fascino dell’amicitia e l’odium per i rivali e per gli avversari dettava


gran parte dei loro comportamenti. Il Popolo intendeva al contrario
mettere la pace al centro delle relazioni sociali e purificare la società
di tutti i conflitti che alimentano l’odium tra i cittadini.
Ed è lì che il movimento dei Flagellanti viene a coincidere con
l’azione del Popolo. Gli ultimi due articoli degli Ordinamenti con-
tengono infatti disposizioni volte ad ottenere l’abolizione delle ini-
micizie private: è fatto obbligo al podestà e al capitano del Popolo
di intromettersi nelle discordie tra individui e di imporre la pace tra
quelli che divide l’odium ma anche di avvalersi del parere (consilium)
di sapientes che li consiglieranno, e cito di nuovo Vallerani, «sul mi-
gliore modo per ottenere le paci e renderle durature» 50. Una volta  

che saranno state concluse tutte le paci necessarie a porre fine alle
seditiones e discordiae che dilaniano la città, «pax perpetuo vigeat
et civitas sine fine perserveret in statu pacifico et tranquillo». Come
sottolinea giustamente Vallerani, la pace della collettività cittadina è
presentata qui come la somma delle paci private. Mi chiedo se, nella
mente degli estensori degli Ordinamenti, anche l’avvento dello status
pacificus et tranquillus, invocato nell’ultima riga dell’ultimo artico-
lo, non apparisse come la diretta conseguenza dell’adozione, da par-
te dei cittadini, di un modello di comportamento opposto a quello
della militia. Un modello che sembrava allora proprio sul punto di
trionfare grazie all’enorme successo del movimento dei Flagellanti, i
quali facevano della pace il fine ultimo delle loro pratiche penitenzia-
li e sono stati per questo, in tutte le città dove si è diffuso il loro mo-
vimento, all’origine di centinaia o di migliaia di paci private. Ma non
tutte davano luogo alla stipulazione di una charta pacis, ossia di un
atto notarile da far valere davanti ai tribunali nel caso in cui una del-
le parti intendesse rimettere in causa la pace giurata nell’entusiasmo
della devotio. Ben consapevole della fragilità delle paci raggiunte nei
momenti di intenso fervore religioso, il governo popolare emanò du-
rante l’estate del 1260 una serie di disposizioni atte a conferire valo-
re legale alle paci non formalizzate e ciò anche quando una delle due
parti rinnegava il giuramento fatto in precedenza. Il 30 settembre, in-
fine, l’azione del comune in favore della pace interna raggiunse il suo
culmine con un provvedimento che derogava a tutte le regole di di-

49 J.-C. Maire Vigueur, Cavalieri e cittadini, cit., pp. 388-406.


50 M. Vallerani, Momenti di pace in un comune di Popolo, cit., p. 403.

310
Progetti di trasformazione della società nei regimi di Popolo

ritto fino ad allora in vigore nei comuni, conferendo al podestà e al


capitano del Popolo il potere di costringere le due parti ad accettare
un accordo anche contro la volontà di una delle due. Lo stesso prov-
vedimento comminava contro i contravventori pene di cui Vallerani
sottolinea giustamente l’inaudita durezza: esilio perpetuo, perdita
della cittadinanza, confisca dei beni 51.
 

I canali di diffusione
Come è ben noto, il movimento dei Flagellanti, lungi da rima-
nere circoscritto alla città di Perugia, si diffuse in numerose altre
città dell’Italia comunale. Non è ovviamente un caso se fu general-
mente ben accolto nelle città a governo popolare e ostacolato nelle
città dominate da gruppi nobiliari filo-svevi. Dappertutto dove era-
no accolti, i seguaci di fra Raniero Fasani militavano infatti per la pa-
cificazione di tutti i tipi di inimicizia e l’efficacia della loro azione
in questo campo avrebbe potuto portare, nelle città ghibelline, alla
riammissione di persone e famiglie bandite o espulse per la loro ap-
partenenza alla fazione avversa. All’opposto, i governi popolari non
potevano vedere che di buon occhio la diffusione nelle proprie cit-
tà di un movimento che, facendo leva sul fervore religioso degli ade-
renti, otteneva, nel campo della pacificazione interna, risultati che i
dirigenti popolari sapevano di non poter raggiungere con i soli stru-
menti dell’azione politica. Come si era verificato a Perugia a partire
dal mese di aprile, si assiste così, nelle altre città toccate dallo slan-
cio di devozione popolare innescato dai Flagellanti e con un ritardo
di pochi mesi, a un vasto movimento di paci private che i governi co-
munali si sforzarono poi di consolidare e di perpetuare con l’emana-
zione di specifiche norme statutarie. Tra tutte le città raggiunte dal
moto penitenziale, Bologna fu sicuramente una delle città in cui la
congiunzione tra il fervore pacificatorio dei penitenti e la volontà del
governo popolare di eliminare la violenza dei comportamenti, indi-
viduali o collettivi, ottenne i risultati più durevoli. Non c’è niente di
sorprendente in questa constatazione. A Bologna, il Popolo dispone-
va infatti di un apparato societario estremamente denso che faceva
da relais all’azione del governo e gli assicurava il consenso di grande
parte della popolazione. Per di più, il movimento dei Flagellanti ri-
cevette a Bologna l’appoggio del clero locale e degli Ordini mendi-

51 Ivi, p. 408.

311
Jean-Claude Maire Vigueur

canti che lo spinsero rapidamente a creare delle confraternite laicali.


Come ha mostrato Marina Gazzini, la nascita della prima confrater-
nita disciplinata non fu anteriore al 1262 ma già a questa data i suoi
statuti contengono rubriche che non lasciano dubbi sulla determina-
zione dei confratelli ad appoggiare il governo popolare e a mantene-
re il «buono stato del comune», in altre parole a difenderlo contro
ogni forma di violenza 52.  

Non saprei dire, allo stato attuale delle mie conoscenze, fino a
che punto il discorso fatto da Gazzini sulle confraternite peniten-
ziali di Bologna possa essere esteso ad altre città dell’Italia comuna-
le. Di sicuro, le confraternite laicali riunivano tutte le condizioni sia
dal punto di vista dei loro ideali sia da quello dell’appartenenza so-
ciale dei loro membri, per portare un potente contributo alla politi-
ca di disciplinamento della società voluta dai governi di Popolo. Ma
non erano l’unico tipo di strutture associative atte a poter svolgere
un simile ruolo. Tornando, dopo tanti altri, sul tema delle società po-
polari ma voltando la sua attenzione sul periodo a cavallo del 1300,
Poloni ha messo in evidenza la loro riutilizzazione, da parte dei regi-
mi popolari e insieme ad altre strutture associative, nel quadro di un
progetto di disciplinamento della società finalizzato, secondo la stu-
diosa pisana, «all’uniformazione e alla conformazione dei comporta-
menti collettivi dei cittadini di ogni condizione» 53.  

Riutilizzazione ma anche vera e propria rifondazione laddove,


come per esempio a Firenze, le società che avevano dato nascita ai
primi esperimenti di governo popolare erano poi scomparse nei suc-
cessivi sconvolgimenti del quadro politico. Non entrerò qui nel me-
rito delle tecniche adoperate dalle società popolari a partire dal tardo
Duecento per promuovere modelli di comportamento conformi al-
l’ideologia popolare, rimandando su questo punto all’ottimo articolo
di Poloni. È vero che molte cose ci sfuggono nelle modalità di azione
di queste società, ma non è difficile supplire alla laconicità delle fonti
pensando a come funzionavano delle realtà che fino a poco tempo fa
erano sotto gli occhi di tutti noi: mi riferisco sia alle cellules o sessio-
ni dei vecchi partiti comunisti che ai gruppi di azione cattolica. I due

52 M. Gazzini, I Disciplinati, la milizia dei frati Gaudenti, il comune di Bologna


e la pace cittadina: statuti a confronto (1261-1265), «Bollettino della deputazione di
storia patria per l’Umbria», CI, 1 (2004), pp. 419-437.
53 A. Poloni, Disciplinare la società. Un esperimento di potere nei maggiori
Comuni di Popolo tra Due e Trecento, «Scienza e politica», 37 (2007), pp. 33-62.

312
Progetti di trasformazione della società nei regimi di Popolo

tipi di struttura riunivano persone dotate dalle stesse caratteristiche


sociali e culturali con lo scopo, in un caso, di riflettere sulle modalità
concrete di applicazione alla propria vita professionale e quotidiana
di modelli di comportamento ispirati alla morale cristiana, nell’altro,
di interiorizzare i principi e gli ideali che guidavano l’azione del par-
tito. Non credo che avessero agito diversamente le società popolari
di fine Duecento inizio Trecento.

L’applicazione del modello


I leader del Popolo erano i primi a saperlo: le misure repressi-
ve e l’azione incitatrice dei poteri pubblici non erano da sole in gra-
do né di incidere realmente sui costumi della gente né di garantire un
largo successo del nuovo modello di comportamento. Da lì l’obbli-
go per loro di puntare su canali di diffusione indipendenti o relativa-
mente indipendenti dal governo comunale e capaci di agire in modo
capillare e non coercitivo sulla mente delle persone. Non posso fare
a meno di concludere la mia relazione ponendo la questione dell’ef-
fettiva ricezione, da parte della popolazione delle città, dei modelli di
comportamento incoraggiati dai regimi di Popolo e dei risultati del-
la loro politica di disciplinamento.
Esiste, come ho già accennato, una lunga tradizione di stu-
di piuttosto incline a dare una risposta negativa a tale interrogati-
vo. Troviamo nelle sue file storici del calibro di Nicola Ottokar e
di Emilio Cristiani ma anche studiosi molto più giovani e forse più
sensibili al fascino braudeliano dei fenomeni di lunga durata che al
potenziale creativo delle società comunali. Credo che si possa rias-
sumere la loro visione delle cose, dicendo che per loro il Popolo
non è mai stato capace di sviluppare un codice di valori diverso da
quello del ceto aristocratico, che avrebbe conservato per tutto il
Medioevo la sua posizione egemonica, cosicché venne sistematica-
mente adottato da tutti i popolari arricchiti. Numerosi sarebbero sta-
ti, tra i popolari arricchiti, quelli che si sarebbero divertiti a sfidare i
vecchi lignaggi nobiliari sul proprio terreno. Per sminuire l’impatto
dei provvedimenti popolari contro la violenza o, più generalmente,
volti a sradicare i comportamenti più tipici della militia, si mette in
evidenza il fatto che buona parte dei comportamenti e dei valori at-
tribuiti ai lignaggi nobiliari sono in realtà condivisi dall’insieme della
popolazione, a dispetto delle differenze di ceto; l’esempio più spesso
avanzato è quello della faida, pratica che non solo sarebbe stata dif-
313
Jean-Claude Maire Vigueur

fusa a tutti livelli della società cittadina ma la cui manifestazione più


violenta, la vendetta, sarebbe stata, sì, regolamentata ma non vietata
dalla normativa popolare.
La mia posizione in questo dibattito è relativamente netta ma
non per questo priva di sfumature, e sopporto difficilmente l’idea
che possa essere oggetto di semplificazioni caricaturali. La riassume-
rei in tre punti.
1. Che la cultura della classe dominante eserciti un forte pote-
re di attrazione sul resto della società è cosa troppo ovvia, in tutti i
momenti della storia, perché ci sia bisogno di insistervi, anche se va
ricordato che, per essere imitato, lo stile di vita della nobiltà caval-
leresca richiede un livello di risorse che poche persone sono in gra-
do di mobilitare.
2. Quindi, non è tanto la presenza nei ceti popolari di valori e
comportamenti tipici della nobiltà cavalleresca che va messa in evi-
denza, quanto eventuali cambiamenti intervenuti in seguito all’azio-
ne dei regimi di Popolo ed all’applicazione del loro programma di
disciplinamento della società. Mi pare francamente impossibile ne-
gare che il Popolo abbia ottenuto in questo campo successi signifi-
cativi per i quali rinvio senz’altro, per fare un solo esempio, alla tesi
di Silvia Diacciati sulla Firenze del XIII secolo, in particolare al pa-
ragrafo sul «contesto ideologico e culturale», nel quale la studiosa
evidenzia la moltiplicazione delle paci private nella documentazione
notarile a partire dagli anni ’70, nonché i numerosi riferimenti alla
nozione di concordia 54.  

3. La tesi dell’incapacità dei dirigenti popolari di non soccom-


bere al fascino dello stile di vita e del sistema di valori della nobiltà
cittadina e di conseguenza la loro incapacità di dotarsi di una identi-
tà forte e propria di gruppo, tesi che è stata per esempio sostenuta da
Cristiani per Pisa, mi pare insostenibile oggi dopo i lavori di Poloni
su Pisa 55, di Ascheri su Siena 56, e dei miei su Roma 57. Poloni in par-
     

ticolare ha perfettamente messo in evidenza la capacità del Popolo

54 S. Diacciati, Popolani e magnati. Società e politica nella Firenze del Duecento,


Spoleto 2011, pp. 309-337.
55 A. Poloni, Trasformazioni della società e mutamenti delle forme politiche,
cit.
56 M. Ascheri, Siena nella storia, Cinisello Balsamo 2000, al quale bisognereb-
be aggiungere numerosi articoli dello stesso autore pubblicati dopo il 2000.
57 Tra i quali, J.-C. Maire Vigueur, L’Autre Rome, cit.

314
Progetti di trasformazione della società nei regimi di Popolo

pisano di costruirsi un’identità forte, fondata non solo sul rifiuto


dei valori della nobiltà, come sarebbe stata una semplice «identi-
tà di muro», secondo la terminologia di alcuni politologi 58, ma an-  

che sull’adozione di un sistema di valori e di uno stile di vita opposti


a quelli della nobiltà; i popolari hanno raggiunto in questo modo
un’«identità di specchio», che si realizza attraverso la condivisione
degli stessi ideali e la costruzione di una memoria comune. A Roma,
si può osservare la creazione di un’identità propria non solo da parte
del Popolo, anche se bisogna aspettare la seconda metà del XIV se-
colo per assistere alla maturazione del processo, ma anche da parte
della nobiltà cittadina, tentata in un primo momento di conformarsi
ai valori delle famiglie baronali e che riesce poi a costruirsi un’iden-
tità fondata su valori molto diversi da quelli dei baroni.

58 F. Cerutti, Identità e politica, in Identità e politica, a cura di F. Cerutti,


Roma 1996, pp. 4-41.

315
Domenica 17 maggio, pomeriggio
Pistoia, Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei Vescovi
Presidente Prof. Aldo A. Settia

Duccio Balestracci
«Ingrata patria»: l’esiliato
tra infelicità e progetti di rientro

L’inserimento del tema “esilio” all’interno del contenitore con-


cettuale generale di questo convegno (il “benessere” e quindi, per
traslato, la “felicità”) necessità di alcune preliminari specificazioni.
È immediatamente percepibile, infatti, che la risoluzione dello
status d’esiliato nella dimensione del benessere e della felicità è col-
legabile alla sequenza esilio > ritorno in patria > felicità.
È ovvio che questa costruzione è assolutamente valida. Ma non
è l’unica possibile, né la sola che abbia una sua vigenza all’interno
della società medievale, perché esiste un secondo percorso logico
che è (senza amore di paradosso) forse perfino più importante del-
l’altro. Ha un’importanza fondamentale, infatti, anche la sequenza
discriminazione/espulsione > benessere e felicità di chi espelle, dal
momento che esilio e bando sono due strumenti legittimi per dirit-
to, legittimati dalla pratica politica e legittimanti proprio al fine del-
la costruzione del bene “pubblico”.
Esilio e bando sono pratiche usuali di governo per chi eserci-
ta il potere e costituiscono un corollario, per così dire, “normale”
della politica. Heers sostiene, ad esempio, che i cronisti del pieno
Medioevo e, poi, gli storici dei primi secoli dell’età moderna parlano
degli esiliati altrettanto spesso — e, a volte, anche più spesso — che
317
Duccio Balestracci

delle guerre e dei passaggi di personaggi illustri. Forse il concetto ri-


sulterà un po’ enfatizzato, ma la sostanza non cambia: l’esilio è una
pratica sistematicamente impiegata dai ceti dirigenti per afferma-
re il proprio potere e arginare il dissenso 1, così come le proscrizio-
 

ni segnavano davvero la vita di una città 2 in una dimensione in cui


 

la conflittualità e il permanente attrito fra le forze sociali e politi-


che rendono impossibile applicare qualsiasi principio di tolleranza
e di convivenza nei confronti dell’avversario 3. Le rare occasioni nel-
 

le quali si riescono a trovare modi di convivenza fra fazioni nemiche,


infatti, sono in genere dovute a contingenze di carattere eccezionale
e drammatico. Passata l’emergenza (a ricordare la quale, non di rado,
si dedicano memorie scritte e dipinte) si torna alla “normalità” della
contrapposizione e dell’esclusione.
La norma vigente prevede l’occupazione integrale di tutti gli
spazi da parte dei vincitori con esclusione completa degli sconfitti da
qualsiasi forma di partecipazione pubblica.
Occorre, tuttavia, fare chiarezza su forme diverse di esclusio-
ne e precisare le specifiche caratteristiche di due strumenti che han-
no aspetti giuridici diversi l’uno dall’altro: il bando e l’esilio vero e
proprio.
Cominciamo proprio da quest’ultimo.
L’esilio può essere volontario o forzato: secondo il Digesto di
Giustiniano, «Exilium est aut certorum locorum interdictio, aut lata
fuga, aut omnium locorum interdicatur praeter certum locum». In
questo caso non si può parlare di esilio quanto, più propriamente,
di confino 4. 

Il bando, al contrario, è uno strumento giuridico-politico che,


nel pensiero dei glossatori, si applica affinché un individuo «non tan-
geret publicam utilitatem» 5. Proprio quest’ultima espressione, dun-
 

1 F. Ricciardelli, L’esclusione politica a Firenze e Lapo da Castiglionchio, in


Antica possessione con belli costumi, Due giornate di studio su Lapo da Castiglionchio
il Vecchio, (Firenze - Pontassieve, 3-4 ottobre 2003), con la nuova edizione dell’Epi-
stola al figlio Bernardo, a cura di F. Sznura, Firenze, Aska, 2005, p. 46.
2 J. Heers, L’esilio, la vita politica, la società nel Medioevo, ed.it., Napoli,
Liguori, 1997 (ed.or. 1995), p. 35.
3 Ricciardelli, L’esclusione politica a Firenze, cit., pp. 46-49.
4 C. Guimbard, Exil et institutions du Commune à Florence dans la seconde
moitié du XIIIe siècle, in Exil et Civilisation en Italie (XIIe-XVIe siècles), a cura di J.
Heers - Ch. Bec, Nancy, Presses Universitaires de Nancy, 1990, p. 23.
5 Ivi, p. 24.

318
«Ingrata patria»: l’esiliato tra infelicità e progetti di rientro

que, ci ricollega immediatamente al concetto di benessere collettivo


che l’esclusione di un “nemico pubblico” deve preservare. Si bandi-
sce per mantenere il bonum commune, e il fiorentino Libro del chio-
do lo esplicita con assoluta chiarezza nella declaratoria di inizio della
serie di condanne irrogate nel 1302 a opera di Cante dei Gabrielli
da Gubbio: nulla è peggiore del pastore che trama per disperdere il
gregge né c’è «lupina maior offensio nullaque pestis efficacior ad no-
cendum» di quando coloro ai quali il popolo si è affidato perché lo
guidi tramano ai danni del popolo stesso 6.  

Il bando 7 viene in molti casi applicato extra legem come stru-


 

mento non giuridico ma politico e, in questo, denuncia un collega-


mento con la sanzione ad personam evidente nel band della tradizione

6 Il Libro del chiodo, a cura di F. Ricciardelli, Roma, Istituto Storico Italiano


per il Medio Evo, 1998, p. 3.
7 Bartolo da Sassoferrato nei Consilia (Tractatus Bannitorum, rub. 9) sostiene
che i Comuni si sono appropriati della materia del bannum esercitando quella po-
testas che, in origine, era di pertinenza dell’autorità imperiale. «Illi subditi quos co-
mune iudicat suos hostes sunt hostes suae civitatis» (Guimbard, Exil et institutions,
cit., p. 29). P.S. Leicht (in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell’Enciclopedia
Italiana, 1930, ad vocem) e A. Pertile (Storia del diritto italiano dalla caduta del-
l’impero romano alla codificazione, Torino, Unione Tipografico-Editrice, 1896, V)
distinguono un bando maggiore per i criminali e un bando minore per reati civili,
concetti sui quali applicarono le loro elaborazioni tanto Bartolo quanto Baldo (vedi
G. Crifò, Esilio. Parte storica, in Enciclopedia del Diritto, Milano, Giuffré 1966, 15,
pp. 10-11), e sottolineano come alcune forme di bando possano essere cassate con la
pax et concordia della parte offesa e con il ricorso all’altro usuale strumento giuridico
che è la vendetta. Per l’integrazione fra bando e vendetta quali strumenti per preser-
vare la solidità delle istituzioni e per la legittimazione e regolamentazione di que-
st’ultima, si rinvia alle considerazioni di G. Milani, Il governo delle liste nel Comune
di Bologna. Premesse e genesi di un libro di proscrizioni duecentesco, «Rivista storica
italiana», 108, 1996, p. 166; A. Zorzi, Diritto e giustizia nelle città dell’Italia comuna-
le (secoli XIII-XIV), in Sonderdruck aus Stadt und Recht im Mittelalter. La ville et le
droit au Moyen Âge, a cura di P. Monnet - O.G. Oexle, Gottinga, Vandenhoeck &
Ruprecht, 2003, pp. 205-206; F. Bruni, La città divisa. Le parti e il bene comune da
Dante a Guicciardini, Bologna, il Mulino, 2003, pp. 63-64,79; G. Chittolini, Il “pri-
vato”, il “pubblico”, lo Stato, in Origini dello Stato. Processi di formazione statale in
Italia fra Medioevo ed età moderna, a cura di G. Chittolini - A. Molho - P. Schiera,
Bologna, il Mulino, 1994, pp. 553-581; A. Zorzi, “Ius erat in armis”. Faide e conflitti
tra pratiche sociali e pratiche di governo, in Origini dello Stato, cit., pp. 609-629; M.
Dedola (“Tener Pistoia con le parti”. Governo fiorentino e fazioni pistoiesi all’inizio
del ’500, «Ricerche storiche», 22 (1992), pp. 239-259) definisce la vendetta privata
un metodo di governo razionale e moderno. Per una critica a questa posizione vedi
Bruni, La città divisa, cit., p. 77.

319
Duccio Balestracci

germanica con il quale punivavano la violazione di un pactum o la


rottura della fidelitas. Inizialmente applicato in modo discrezionale,
gli viene progressivamente attribuita una forma giuridica il cui per-
corso è evidente a chi lo analizzi nel caso fiorentino e confronti i pre-
supposti iniziali con la forma compiuta presente negli Ordinamenti
di Giustizia. Né il caso fiorentino è l’unico da prendere in considera-
zione per seguire questo percorso: a Bologna, per fare un altro esem-
pio, il bando è applicato sulla scorta di una procedura sorretta da
ben precise norme garantiste già a metà del ’200, quando la sanzio-
ne non ha valore se non è stata preceduta da una citazione e da una
chiamata all’accusato a difendersi 8.  

Sempre a Bologna, i banditi vengono registrati nel Liber banni-


torum in base alla località di appartenenza territoriale, al censo e alla
«pubblica fama». La procedura per quest’ultimo criterio è stabilita
da Alberto da Gandino e prevede che siano prese in esame la repu-
tazione dell’individuo interessato e la notorietà del fatto. Le posizio-
ni dei sospetti, inoltre, sono esaminate una per una da una apposita
balìa che deve evitare abusi e ingiustizie 9.  

Il garantismo dei giuristi bolognesi si estende anche agli aspet-


ti collaterali del bando stesso, in modo particolare alla confisca dei
beni (sanzione di regola correlata alla precedente) per la quale si av-
verte le necessità di distinguere fra i beni dei condannati veri e pro-
pri e i diritti patrimoniali degli altri consorti. In modo particolare ci
si adopera perché vengano salvaguardati i diritti delle donne (sotto
forma di doti e rendite).
Al tempo stesso, i giudici cercano di prevenire e di reprimere le
possibili truffe, vigilando su false compravendite o donazioni finaliz-
zate a trasferire il patrimonio ad altri soggetti della famiglia per sal-
varlo dalla confisca.
Insomma, quest’ultima risulta, in genere, una procedura lunga
e complessa, come, del resto, altrettanto laboriose si configurano le

8 G. Milani, Prime note sulla disciplina e pratica del bando a Bologna attor-
no alla metà del secolo XIII, «Mélanges de l’École française de Rome, Moyen Âge -
Temps Modernes», 109 (1997), 2, pp. 511-512.
9 Milani, Il governo delle liste nel Comune di Bologna, cit., p. 206. Questa ma-
teria, relativamente al caso bolognese e di altre località, è stata più di recente siste-
matizzata dallo stesso autore nell’importante ed esaustiva monografia L’esclusione
dal comune. Conflitti e bandi politici a Bologna e in altre città italiane tra XII e XIV
secolo, Roma, Istituto storico italiano per il Medioevo, 2003.

320
«Ingrata patria»: l’esiliato tra infelicità e progetti di rientro

operazioni di recupero dei beni, una volta che si sia acquisito titolo a
rientrarne in possesso 10.  

Ovviamente, nessuno si aspetti un percorso lineare verso le for-


me giuridicamente più garantiste 11. Resta un ampio margine di ar-
 

bitrarietà, ad esempio, nell’ammonizione, strumento parallelo (in


qualche caso propedeutico) all’esclusione dai diritti civili, che con-
sente di non ricorrere alla giustizia ordinaria per eliminare o limitare
politicamente gli avversari 12.  

Chi voglia avere, d’altra parte, un esempio di applicazione ar-


bitraria dell’esclusione dalla partecipazione politica potrà esamina-
re quanto accade a Firenze nel periodo dei Ciompi, quando i nemici
degli insorti vengono esiliati con motivazioni formali dietro le quali
emerge con chiarezza la volontà di epurazione esclusivamente politi-
ca. Le persecuzioni sistematiche nei confronti di Parte Guelfa, infat-
ti, denunciano l’inequivocabile volontà di destrutturare l’impianto di
potere di quella che è, formalmente, un’istituzione privata che con-
diziona, tuttavia, da decenni e in modo determinante, le istituzioni
comunali. Gli esilii di Bonaccorso Pitti e di Lapo da Castiglionchio,
oggi, non verrebbero diversamente rubricati se non come conse-
guenza di «reati di opinione» 13.  

La città, in conclusione, persegue la ricerca del bene comune e,


quindi, della “felicità”, estromettendo dal suo corpo un pezzo di se
stessa o facendo di tutto perché quel pezzo si distacchi volontaria-

10 L. De Angelis, Et chosì ci chonviene esser contenti. La ricostituzione di un


patrimonio familiare dopo il bando e l’esilio, in Antica possessione con belli costumi,
cit., pp. 301-302.
11 È, peraltro, discutibile l’interpretazione (che suona più come una scorcia-
toia e un ripetuto luogo comune che non come una riflettuta analisi) di chi vede nel
passaggio dall’arbitrio alla regolamentazione il superamento di una, non meglio spe-
cificabile, “fase feudale”. Se proprio si vuole scomodare la cultura giuridica “feu-
dale”, al contrario, sarà forse più opportuno farlo con intendimento esattamente
opposto e meno sbrigativamente evoluzionistico. In questo caso, infatti, c’è da chie-
dersi se il superamento di un approccio esclusivamente arbitrario basato sul solo
vantaggio smaccatamente “ad personam” non sia riferibile al concetto di “recipro-
cità dei diritti e dei doveri” (tutto tipico della cultura giuridica moderna) che arriva
dritto dritto dalla fidelitas feudale, l’elemento pattizio sul quale si basa la costruzio-
ne dell’individuo giuridico moderno di W. Ullmann. Il che, come ben si capisce,
non è indifferente quando si vogliano capire la natura intrinseca del concetto di “be-
nessere” e le sue più profonde radici culturali.
12 Ricciardelli, L’esclusione politica a Firenze, cit., p. 50.
13 Ivi, pp. 52-55.

321
Duccio Balestracci

mente (anche se non sempre spontaneamente) dal corpo comunita-


tivo originario.
Bando e confino, anche se vengono spesso usati e soprattutto
considerati come sinonimi, sono in realtà strumenti ben diversi l’uno
dall’altro, anche se la finalità di entrambi è quella di azzittire e elimi-
nare il dissenso.
Il confino è quella sanzione, irrogata sulla base del grado di
colpevolezza (vera o presunta), che prevede che chi ne viene col-
pito debba ottemperare a determinati obblighi commisurati al suo
“reato”: vivere in città senza possibilità di allontanarsene; vivere, al
contrario, nel contado o nel distretto senza possibilità di entrare in
città; non poter mettere piede in alcuna parte del territorio control-
lato dalla città stessa 14. In certe situazioni, peraltro, il confino, anche
 

quando viene imposto in località molto distanti dal luogo di origine,


prevede ugualmente che sia accompagnato da una vera e propria for-
ma di “domicilio coatto” e di “obbligo di firma”. Nel 1396, ad esem-
pio, Donato Acciaioli viene esiliato a Barletta. I suoi figli, a Firenze,
vengono immediatamente imprigionati come ostaggi e solo quando
è arrivata in Toscana la notizia che l’esule è realmente giunto a desti-
nazione sono liberati. Né basta: l’Acciaioli, appena arrivato nel luo-
go di confino, si deve far immediatamente registrare dalle autorità
locali le quali, in seguito, vigilano, impongono al condannato l’obbli-
go di certificare la sua presenza in città ogni due mesi e riferiscono a
Firenze che il dissidente non si è mosso da lì 15.  

Con il bando, invece, gli oppositori devono, in sostanza, rispon-


dere a sanzioni pecuniarie altissime che, di per sé, non prevedono
l’espulsione fisica. Quest’ultima interviene nel momento in cui, non
potendo far fronte all’esborso impostogli, il condannato è costretto
a andarsene dalla città. Peraltro, in questo caso, rendendosi contu-
mace, il condannato avalla la sua ammissione di colpevolezza legitti-
mando, quindi, la sanzione irrogatagli, per quanto arbitraria essa sia
stata in origine 16.
 

14 Ibidem, p. 47.
15 Heers, L’esilio, cit., p. 113.
16 Ricciardelli, L’esclusione politica a Firenze, cit., p. 47. Il sistema della con-
tumacia quale forma di ammissione di colpevolezza risalta con evidenza anche nel-
l’episodio del fuoruscitismo dei Bianchi da Firenze nel novembre del 1301. Sotto
l’egida di Carlo di Valois entrato in Firenze con il conclamato intento di far da pa-
ciere fra le fazioni, come è noto, Corso Donati depone i priori in carica e, grazie al
colpo di stato, instaura il potere della fazione nera. Carlo di Valois non muove un

322
«Ingrata patria»: l’esiliato tra infelicità e progetti di rientro

Chi abbandona la città, quale che ne sia la causa, perde il diritto


a esserne considerato parte del corpo sociale, viene immediatamente
bollato come pubblico nemico e, in quanto tale, oltre a non godere
più dei diritti politici, può impunemente essere offeso nella persona
e nei beni 17. Lapo da Castiglionchio, nel 1378, fugge da Firenze e,
 

perciò, è dichiarato ribelle e ricercato; chi lo ucciderà intascherà una


taglia di mille lire e, in più, potrà far revocare eventuali condanne ri-
portate da qualche suo parente o da qualche amico 18.  

L’esilio di un innocente, quando, come nel caso specifico, si


trasforma in fuga di un “colpevole”, ha effetti devastanti anche sul
lungo periodo. Proprio restando al caso di Lapo da Castiglionchio,
Riccardo Fubini ha chiaramente ricostruito il calvario cui è sotto-
posta la sua famiglia anche dopo la sanatoria che ha ripristinato i
diritti civili. I da Castiglionchio rimangono nemici per lo strappo
operato da Lapo (che infatti muore ancora esule) nei confronti del-
la sua città: Michele e Paolo, nel 1391, sono accusati di essere spie di
Giangaleazzo Visconti, e il bando che colpisce la famiglia verrà can-
cellato solo nel 1421, dopo aver fatto atto di acclientelamento nei
confronti degli Albizzi, al momento egemoni in Firenze (e così, ap-
pena andranno al potere i Medici, i da Castiglionchio si ritroveranno
di nuovo dalla parte “sbagliata” della storia e andranno definitiva-
mente in rovina). Il sepolcro di Lapo resterà a Roma, luogo della sua
morte, e nessuno se la sentirà di proporre la traslazione in patria del
corpo di un “ribelle”, padre e progenitore di altri sospetti di attivi-
tà antifiorentine 19.
 

Il caso dei da Castiglionchio è emblematico della finalità del-


l’esilio che è tanto quella di colpire il singolo individuo quanto il suo
lignaggio 20. La confisca dei beni di famiglia, del resto, viene non di
 

rado devoluta a scopi di “pubblica utilità” quasi a sottolineare un ri-


sarcimento imposto alla famiglia per il vulnus che ha inferto alla cit-

dito per difendere le istituzioni e i Bianchi abbandonano, esuli, Firenze. Il loro ge-
sto (come del resto emerge dalle stesse pagine della Cronaca di Dino Compagni) è
interpretato, quindi, come ammissione di colpevolezza e la loro partenza legittima
l’occupazione del potere da parte degli avversari.
17 Bruni, La città divisa, cit., p. 50.
18 Ricciardelli, L’esclusione politica a Firenze, cit., p. 53.
19 R. Fubini, Lapo da Castiglionchio tra Niccolò Acciaiuoli e Petrarca. Lineamenti
introduttivi a una biografia, in Antica possessione con belli costumi, cit., pp. 25-26.
20 Heers, L’esilio, cit., p. 91.

323
Duccio Balestracci

tà con il suo comportamento: a Venezia, per fare un esempio, i beni


confiscati agli esuli Grandenigo vengono utilizzati per la sistemazio-
ne urbanistica del mercato di Rialto 21.  

È legittimo chiedersi quale sia la reale dimensione quantitati-


va del ricorso agli strumenti del bando e dell’esilio. Christian Bec in-
vita, opportunamente, a valutare i dati in relazione alle contingenze
politiche che possono interessare una singola località così come, si-
multaneamente, più realtà. A questo proposito e per quanto riguar-
da l’Italia centrosettentrionale, lo storico individua alcuni spaccati
cronologici caratterizzati da macrofenomeni riguardanti più città e li
identifica con il passaggio fra il XIII e il XIV secolo; il primo trenten-
nio e la fine del XV, e con il primo trentennio del Cinquecento 22.  

Comunque, indipendentemente da questi momenti particolari,


il ricorso all’esilio degli avversari politici sembra configurarsi come
uno strumento alla cui pratica si ricorre con una certa disinvoltura.
A Vicenza, nel 1254, secondo la seicentesca cronaca del Pagliarino
(sulla quale c’è, quindi, da fare una robusta verifica euristica), ven-
gono mandate in esilio 350 persone, che l’autore sostiene di poter
identificare nome per nome rintracciandole nella documentazione
antica della città 23. Una testimonianza seicentesca può, giustamen-
 

te, indurre a grande cautela, ma ben più immediata parrebbe essere,


invece, una fonte come il Liber bannitorum et confinatorum, redat-
to a Bologna tra il 1274 e il 1277, che testimonia la cacciata dal-
la città dei Lambertazzi i quali prendono la strada di Faenza. Se, a
proposito di questo episodio, il famoso Sirventese dei Lambertazzi e
Geremei parla di seimila banditi e di altrettanti confinati, il più pro-
saico Liber bannitorum conferma che, comunque, ad essere colpite
furono varie migliaia di persone e ci fa intravedere circa quattro-
mila ghibellini condannati 24. Per quanto riguarda Firenze, all’indo-
 

mani di Montaperti, quando le famiglie guelfe devono prendere la


strada dell’esilio, i dati rilevati in due diverse occasioni da Isidoro
del Lungo e Sergio Raveggi non differiscono in modo significati-
vo. Il del Lungo parlava di 1.400 banditi e 1.600 confinati, mentre

21 Ibidem, p. 16.
22 Ch. Bec, De Dante à Alamanni: exil et écriture en Italie, in Exil et Civilisation,
cit., p. 96.
23 Heers, L’esilio, cit., p. 36.
24 Bruni, La città divisa, cit., p. 50, 92. La stima è accettata anche da Milani,
Il governo delle liste nel Comune di Bologna, cit., p. 154.

324
«Ingrata patria»: l’esiliato tra infelicità e progetti di rientro

Raveggi computa 1.200 banditi e 1.400 confinati, ai quali aggiunge


poco meno di 700 sospettati 25. Per parte sua, del resto, il Bruni sti-
 

ma che, nel 1302, il tribunale di Cante de’ Gabrielli e quello del suo
successore Gherardino di Gambara da Brescia abbiano prodotto, in
meno di soli dieci mesi, circa seicento esuli 26.  

A questo punto, allora, la domanda da farsi esce dalla semplice


dimensione quantitativa e piega verso un altro concetto: tutta que-
sta gente abbandonava davvero la città? È realistico pensare che, sul
serio, le città si autoamputassero di una quantità tanto ampia di cit-
tadini eccellenti, rischiando, così, di mandare in crisi sia la struttura
sociale sia i quadri dell’economia? Come si concilia questo scenario
di tanta (apparentemente) radicale intransigenza con altre testimo-
nianze che ci fanno invece intravedere, in molti casi, al di sotto della
facciata del conflitto ideologico, una comune volontà di non destrut-
turare la città, la sua dimensione economica e i suoi quadri dirigen-
ti? Insomma: l’esilio è programmaticamente una sanzione perpetua
o non è già interpretato, fin dal momento della sua prima applicazio-
ne, come un provvedimento provvisorio e reversibile?
Già gli storici del diritto dell’Ottocento analizzavano questa
materia con occhio scevro da semplificazioni. Il Brunner, nel 1890,
sottolineava che, con l’esilio, il reo perde la protezione della comuni-
tà e che ogni membro della comunità stessa è tenuto a perseguitare
il bandito, a negargli protezione e, all’occorrenza, come del resto si è
già detto, perfino a ucciderlo. Ma poi lo stesso studioso si chiedeva
se la lettera della sanzione venisse veramente applicata, e rispondeva
con accenti di forte dubbio 27. Il concetto veniva ben messo a fuoco,
 

decenni dopo, dal Ghisalberti secondo il quale la finalità più impor-

25 I. Del Lungo, Una vendetta in Firenze il giorno di San Giovanni del 1295,
in Id., Dal secolo e dal poema di Dante, Bologna, Zanichelli, 1898, pp. 77, 138; S.
Raveggi, Le famiglie di parte ghibellina nella classe dirigente fiorentina del secolo
XIII, in I ceti dirigenti dell’età comunale nei secoli XII e XIII, Atti del II Convegno
(Firenze, 14-15 dicembre 1979), Pisa, Pacini, 1982, p. 290. Su queste due interpre-
tazioni si veda anche Bruni, La città divisa, cit., pp. 105, 108. Secondo le stime di re-
centi e avvertite analisi, i guelfi fiorentini, vittoriosi, dopo il 1268 redigono liste di
proscrizione che colpiscono intere consorterie e varie centinaia di singoli individui.
Si veda per questo M.A. Pincelli, Le liste dei ghibellini banditi e confinati da Firenze
nel 1268-69. Premessa all’edizione critica, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano
per il Medioevo», CVII (2005), pp. 283-482.
26 Bruni, La città divisa, cit., p. 48.
27 Vedi questa analisi in Crifò, Esilio, cit., pp. 9-10.

325
Duccio Balestracci

tante del bando era quella di colpire le sostanze, più che la persona
fisica, dell’avversario politico 28.  

Più recentemente questo punto è stato ripreso da Milani, per i


casi bolognesi, e da Zorzi che ha contestualizzato questi ultimi con
la casistica fiorentina. Entrambi gli studiosi concordano con la tesi
di Ghisalberti, e Zorzi sottolinea come l’ampio ricorso al bando sia,
in realtà, funzionale, da un lato, al processo di negoziazione della
riammissione dell’escluso nel contesto politico e sociale della città, e,
dall’altro, alla legittimazione — attraverso le pratiche giudiziarie —
dell’affermazione dei nuovi regimi politici. Insomma, la finalità, pri-
ma ancora che di punire, è quella di marginalizzare dal gioco politico
gli avversari, di negoziare e monetizzare il loro reintegro, di avere da
loro il riconoscimento all’esercizio del potere da parte dei nuovi de-
tentori di esso 29.
 

Del resto, analizzando i casi di ricorso al bando nella Pistoia


degli anni Venti del Cinquecento, il Dedola ne rileva l’aspetto di
provvedimento quasi mai definitivo ma, in genere, mirato all’allonta-
namento pro tempore dalla città dei più facinorosi per impedire loro
di partecipare alle attività della propria parte politica 30.  

Una riprova esplicita della volontà di azzittire la parte ma di non


trascinare tutta la città nel baratro di una guerra civile quotidiana che
finirebbe inevitabilmente con la rovina generale si può leggere nel-
l’incipit di una delibera del Consiglio Generale di Siena, quando, il
30 giugno 1385, a proposito dei provvedimenti presi nei confronti
dei responsabili di una tentata congiura, si proclama «quod (...) non
procedatur ulterius contra cives culpabiles». Nel merito, si ricorda
che è «antiquata consuetudine observatum in cunctibus civitatibus
atque terris maxime in civitate Senarum 31 temporibus alicuius tracta-
 

tus 32 nolle procedere in infinitum sed, punitis aliquibus principalibus,


 

aliis silentium imponere ne civitas destruatur» 33.  

Punire i capi, azzittire i dissidenti e, poi, pacificare dando prova

28 C. Ghisalberti, La condanna al bando nel diritto comune, «Archivio giuri-


dico», 1960, citato dallo stesso Crifò in Esilio, cit.
29 Zorzi, Diritto e giustizia, cit., pp. 202-203-204. «Il penale — sostiene lo sto-
rico — nacque sostanzialmente per essere negoziato» (ivi, p. 201).
30 Dedola, “Tener Pistoia con le parti”, cit., p. 255.
31 I corsivi sono miei.
32 Cioè “congiura”.
33 Archivio di Stato di Siena, Consiglio Generale, 195, c. 20r. Devo questa im-
portante informazione al dottor Giovanni Mazzini che ringrazio.

326
«Ingrata patria»: l’esiliato tra infelicità e progetti di rientro

di pragmatismo e buonsenso. E, come si dice con chiarezza, secondo


una consuetudine che non è solo locale, ma condivisa dappertutto.
L’esilio comporta, di regola, una sanzione complementare che si
bilancia fra l’aspetto patrimoniale e quello psicologico. Chi è caccia-
to dalla città, infatti, vede i suoi beni non solo confiscati, ma, talvolta,
per quanto riguarda quelli immobiliari, distrutti. L’aspetto patrimo-
niale è, senza dubbio, importantissimo: abbattere le case o i palazzi
degli avversari significa indebolirli sul piano economico, come già ri-
levava giustamente Gina Fasoli 34, ma a questo concetto pragmatico
 

se ne aggiunge un altro, non meno importante, di carattere simboli-


co. La casa, osservava a suo tempo Dina Bizzarri, è il segno tangibile
dell’adesione giuridica alla civitas 35, al punto tale che la distruzione
 

dei beni diviene, di per sé, il segno della esclusione di un individuo


dal corpo sociale. Che la sanzione si estenda, in virtù delle delibera-
zioni della cancelleria imperiale federiciana, da un lato, e della propa-
ganda pontifica, dall’altro, ai rei di eresia (il cui crimine come è noto
riveste una valenza non meno politica che religiosa) è la dimostrazio-
ne più chiara di un elemento simbolico di determinante sostanza36.
Ai 103 palazzi, 85 torri e 580 case di famiglie guelfe demoli-
te e svaligiate a Firenze quando vanno al potere i ghibellini 37, fan-  

no da contrappunto le analoghe distruzioni che colpiscono i beni dei


Querini guelfi, nel 1310 a Venezia, le quali rappresentano una sini-
stra novità, per quella città, poiché «fue la prima disfazione di casa
che fosse mai fatta a Vinegia»38.
Alla casa, come elemento simbolico, si affianca anche, talvol-
ta, la vigna, la distruzione della quale accompagna, al pari degli edi-
fici in muratura, il mutare delle fortune politiche, come accade a

34 G. Fasoli, Ricerche sulla legislazione antimagnatizia nei comuni dell’alta e


media Italia, «Rivista di storia del diritto italiano», 12 (1939), pp. 86-133.
35 D. Bizzarri, Ricerche sul diritto di cittadinanza nella costituzione comuna-
le, Torino 1916.
36 R. Mucciarelli, Demolizioni punitive: guasti in città, in La costruzione della
città comunale italiana (secoli XII-inizio XIV), Atti del XXI Convegno Internazionale
di Studi (Pistoia, 11-14 maggio 2007), Pistoia, Centro Italiano di Studi di Storia e
d’Arte, 2009, p. 301.
37 Liber Extimationum (Il Libro degli Estimi) (An. MCCLXXIX), a cura di O.
Brattö, Goteborg 1956. Vedi anche Giovanni Villani, Nuova Cronica, a cura di
G. Porta, I, Parma, Fondazione Pietro Bembo - Ugo Guanda Editore, 1990, lib.
VII-79, pp. 380-382.
38 Ivi, II, lib. X-2, p. 212.

327
Duccio Balestracci

Genova alla fine del Trecento, dove gli avversari mandati in esilio
sono ulteriormente puniti con l’incendio delle abitazioni e la distru-
zione dei vigneti, mentre gli stessi loro giardini «sono facti sterili e
guasti e factone habitacoli di serpi e carogna 39. A Siena, nel 1322, la
 

contabilità comunale annota minuziosamente le spese sostenute per


la manodopera incaricata di abbattere le case degli esiliati e per aver
distrutto, oltre a queste, le loro vigne 40.  

Né le operazioni si svolgono in forma anonima: le distruzioni


partecipano di un rituale civico che coinvolge l’intera popolazione e
i suoi governanti, poiché le demolizioni (o almeno il loro inizio) av-
vengono in mezzo a un ridondante apparato simbolico che prevede
la presenza di ufficiali, bandiere, gonfaloni e insegne esattamente (e
non casualmente) come si celebrerebbe una vittoria militare 41.  

D’altra parte, analoghe pompa e ritualità accompagnano la pub-


blicizzazione dei bandi e degli esili: a Verona, nel 1277, la città pu-
nisce i responsabili dell’assassinio di Mastino della Scala. Alcuni di
essi vengono linciati sul posto, ma altri «furono in perpetuo relegati
a suon di campana e a voce dei popolo su la piaccia, al capitello (…)
con questa condizione che li ribelli mai più per alcun tempo, non po-
tessero né venire per habitar a Verona, né i loro discendenti» 42.  

I vuoti, d’altra parte, non si aprono solo fra le case, e a fare le


spese delle picconate non sono soltanto le muraglie. Talvolta è la me-
moria stessa a venire smantellata: è il caso della documentazione fio-
rentina che presenta voragini impressionanti a seguito della cacciata
di Gualtieri di Brienne, il famigerato duca d’Atene. Lo stesso Villani,
come è noto, oblitera nomi scomodi che non sarebbe stato opportu-
no far assurgere all’onore della storia accanto a quelli di cittadini ben
più rispettabili e rimpianti: «in alcuni casi — commenta a tale propo-
sito Amedeo De Vincentiis — scrivere la storia poteva servire anche
ad insegnare che non bisognava più ricordare» 43.  

39 Le Croniche di Giovanni Sercambi Lucchese, a cura di S. Bongi, Roma 1892,


I, cap. CCCCXXVIII, pp. 373-374.
40 J. Heers, L’exil politique facteur de transferts économiques (Italie centrale.
XIIIe-XVe siècle), in Exil et Civilisation, cit., p. 11.
41 Mucciarelli, Demolizioni punitive, cit., pp. 311-312.
42 Une Chronique de Vérone inédite, ed. a cura di M.G. Gaspar, tesi dattilo-
scritta, Université de Paris X, 1972, cit. in Heers, L’esilio, cit., p. 77.
43 A. De Vincentiis, Politica, memoria e oblio a Firenze nel XIV secolo. La
tradizione documentaria della signoria del duca d’Atene, «Archivio storico italia-
no», CLXI (2003), p. 248. Per opposto, si ricorderà che la riabilitazione di Lapo da

328
«Ingrata patria»: l’esiliato tra infelicità e progetti di rientro

Gli esiliati devono essere infamati pubblicamente in ogni pos-


sibile modo, affinché risulti, così, legittimato il provvedimento che li
colpisce: a Firenze, la cacciata degli Uberti ghibellini viene accom-
pagnata dalla diceria, artatamente messa in giro, che li indica come
discendenti della gens di Catilina, e quindi, si vorrebbe dire, per ine-
luttabile determinismo genetico, nemici naturali di quella Firenze
che a Catilina si era opposta e che (secondo una leggenda che nel
Medioevo gode di un suo non trascurabile favore) aveva desunto il
suo nome dal probo Fiorino, lealista anticatilinario.
Non vale la pena scomodare per l’ennesima volta la ben nota ri-
cerca di Ortalli sulla pittura infamante e sul ruolo che essa ha come
mass medium per veicolare la memoria dell’esclusione del colpevole
dal corpo sociale 44, ma si potrà ricordare che la stessa funzione vie-
 

ne talvolta assolta da vere e proprie “colonne infami” avant la let-


tre che hanno il compito di rendere visibili le motivazioni dei bandi,
come accade alle «pietre di bando» veneziane, erette sulla pubblica
via e sulle quali sono scolpite le malefatte dei colpevoli banditi dal-
la città 45.
 

Quando poi non si ricorre a questi mezzi immediati, anche una


festa carnascialesca può venir bene per assolvere alle finalità politi-
che della diffamazione degli esclusi: è quanto accade a Firenze nel-
la prima età medicea, quando, ai carri allegorici che sfilano per il
Carnevale, in età laurenziana si affianca un «trionfo dei diavoli» nel
quale si piange la triste sorte degli esiliati obbligati a vivere lonta-
no dalla città in (improbabili) «triste grotte». Salvo precisare subito
che, comunque, sono essi stessi gli artefici della loro disgrazia, per-
ché si sono ribellati ai Medici e al virtuoso e pietoso principe, anzi-
ché amarlo e rispettarlo come avrebbero dovuto fare se fossero stati
buoni cittadini 46.
 

Nel luogo dell’esilio si ricompatta, almeno in parte, la rete del-


le solidarietà fra i banditi: i Bianchi di Firenze, a Verona, a Venezia,
a Udine, si appoggiano a preesistenti gruppi di concittadini per co-

Castiglionchio fu seguita dalla abrasione del suo nome precedentemente infamato


nel Libro del chiodo, e che oggi esso si può leggere solo ricorrendo alla lampada a
raggi ultravioletti (Ricciardelli, L’esclusione politica a Firenze, cit., p. 60).
44 G. Ortalli, «… pingatur in Palatio …». La pittura infamante nei secoli
XIII-XVI, Roma, Jouvence, 1979.
45 Heers, L’esilio, cit., p. 78.
46 Ivi, p. 90.

329
Duccio Balestracci

struire vere e proprie strutture di mutuo soccorso 47. Altrettanto av-


 

viene per gli esuli ghibellini lucchesi a Pisa, che, fra Due e Trecento,
trovano nel contesto dei concittadini già presenti in quella città ap-
poggi morali e materiali 48.  

Gli esuli rifondano — sostiene inoltre il Bruni — la loro perso-


nalità giuridica e politica; usano per il loro gruppo i termini (niente
affatto generici) di universitas, fraternitas, consortium considerando-
si a tutti gli effetti i legittimi rappresentanti della città “legale”. Il
termine universitas, infatti, appartiene al diritto e definisce la collet-
tività cittadina che gode del proprio stato giuridico, a prescindere da
quanti e quali individui la compongono. In virtù di questa preroga-
tiva, l’universitas ha diritto di riunirsi, di detenere proprietà, di agire
tramite suoi delegati, di mantenere e riproporre in esilio le magistra-
ture della madrepatria e le insegne originarie. Insomma, di costituire
un concetto di “totalità”. È questo lo spirito, ad esempio, che ani-
ma una lettera del 1304, prodotta dalla Universitas partis Alborum de
Florentia, non firmata ma inequivocabilmente di mano dantesca 49.  

Non è raro nemmeno che l’esilio si trasformi in guerra aper-


ta alla madrepatria. Esiliare la fazione avversa è un “beneficio” per
la città, ma problematicizza la stabilità del suo territorio perché, in
esso, gli esiliati hanno frequentemente proprietà e signoria, e ne fan-
no base e punto di forza per portare guerra alla comunità di origine.
Gli esempi sarebbero molti, e si potrebbero agevolmente considera-
re i casi di Ubertino Landi (de Andito) piacentino ghibellino bandi-
to nel 1267 che, disponendo di una rete impressionante di proprietà
fuori città, si può permettere di assoldare mercenari che fanno guer-
ra a Piacenza; degli Ubaldini contro Firenze; dei Salimbeni contro
Siena; degli Spinola che sono in grado di interdire al loro origina-
rio comune di Genova i passi dell’Appennino; dei loro concittadini
Fieschi che, dalle fortezze che controllano sulla Riviera di Levante,
determinano più di un pericolo per le rotte delle navi genovesi che
transitano in quelle acque.
Ma la guerra alla madrepatria si manifesta, oltre che in questo

47 Il caso è stato studiato da C. De Franceschi, Esuli fiorentini della compa-


gnia di Dante. Mercanti e prestatori a Trieste e in Istria, «Archivio veneto», 1938, pp.
89-178 e ripreso da Heers, L’esilio, cit., p. 129.
48 E. Cristiani, I fuorusciti toscani di parte « bianca » tra il secolo XIII e il XIV,
in Exile et Civilisation, cit., pp. 61-66.
49 Bruni, La città divisa, cit., pp. 53-56.

330
«Ingrata patria»: l’esiliato tra infelicità e progetti di rientro

modo, anche attraverso la ricompattazione fra gli esuli e i tradizio-


nali nemici della loro città. A Parma, nel 1247, i guelfi riprendono
la città dopo l’esilio grazie ad una coalizione formata «primo a papa
Innocentio quarto, qui multos propinquos afines habebat in Parma
[…] secundo a Gregorio de Monte Longo in Lombardia legato, qui
Mediolani erat paratus venire cum domino Bernardo Rolandi Rubei
de Parma […] tertio a Placentinis, quarto a comite Sancti Bonifacii
de Verona, quinto a Bononiensibus et Ferrariensibus et a parte totius
Ecclesie» 50.  

Anche in questo caso, gli esempi utilizzabili sarebbero molti:


contro Pavia e a favore dei suoi esuli nel 1270 si forma uno schie-
ramento composto da Bozio di Bovaria, i Lodigiani e i dissidenti
cremonesi ai quali si aggiungono, infine, tutti gli antipavesi della
Valpadana a sud di Milano. Bologna, nel 1248, vede i Lambertazzi
appoggiati da Imola, Matteo Visconti e Alberto della Scala. Contro
il comune veronese si coalizzano, fra Due e Trecento, la parte esten-
se e le altre famiglie escluse dal governo e, successivamente, accade
la stessa cosa con il gruppo di lignaggi che appoggiano i da Romano.
A sferrare colpi mortali contro il comune lucchese in mano ai guelfi
è una task force formata da Uguccione della Faggiola, soldati pisani,
mercenari “tedeschi” e fuorusciti ghibellini lucchesi che si giovano,
a loro volta, di un fronte interno di ghibellini rimasti, invece, in città,
i quali agiscono come vera e propria quinta colonna.
L’elenco potrebbe continuare con identica tipologia per molte
altre città e altrettanti gruppi di esiliati, ma basterà, come ultimo ac-
cenno, uno dei casi più celebri e controversi, in bilico fra storia e let-
teratura: quello degli Bianchi fiorentini esuli, dei quali fa parte, come
è ben noto, anche l’Alighieri. Costoro, di fatto, si ricompattano con
quelli che erano stati i vecchi nemici della loro patria — i ghibelli-
ni — e a questa saldatura di un nuovo fronte anti-Neri non è estra-
neo nemmeno lo stesso Dante. Il poeta è, infatti, uno dei diciassette
esuli che, l’8 giugno 1302, si riuniscono a San Godenzo per garan-
tire, nei confronti degli Ubaldini, le spese di riparazione del castel-
lo di Montaccianico, considerato una possibile base di partenza per
le scorrerie contro Firenze. Per quanto riguarda Dante, la costru-
zione politically correct (ex post) della sua biografia si è affannata a

50 Salimbene de Adam, Cronica, nuova edizione critica a cura di G. Scalia,


I, p. 274.

331
Duccio Balestracci

dimostrare che, al momento dell’episodio della Lastra, si era allon-


tanato dagli esuli che complottavano contro la città-madre, ma que-
sto, come ben illustra il Bruni, non è affatto provato e, anzi, ad una
attenta analisi degli episodi e dei protagonisti, tutto farebbe credere
che l’Alighieri sia stato, anche all’epoca, ben all’interno di un conte-
sto ghibellino, antifiorentino 51.  

La sedizione è spregevole e l’alleanza con i nemici è condanna-


bile e può essere infamata con un’esecrazione che dura secoli 52, ma  

in qualche caso, se non può essere né lodata né ammessa, può ve-


nire, tuttavia, compresa. Marchionne di Coppo Stefani non è certo
dalla parte dei fuggiaschi da Firenze che, cacciati dai Ciompi, fanno
lega col futuro re di Napoli, ma il cronista non può fare a meno di
lasciarsi sfuggire qualche parola di comprensione verso «quelli che
con lui [l’Angiò] vennono a Firenze a fare danno per essere rimessi
in casa loro», perché «a volere dire la verità molti n’erano stati cac-
ciati sanza colpa o cagione avere commessa, e cercavano quella via,
ch’era loro più abile a rientrare; perocché, chi, perch’erano stati fa-
vorevoli all’ammonire, e chi perch’erano amici degli ammonitori, e
chi per alcuna inimicizia, e chi per altra, molti a torto erano stati cac-
ciati e sbanditi di Firenze, ed eglino, e quegli che teneano lo stato, si
guidavano male» 53.  

Del resto (quasi una nemesi), talvolta, queste alleanze “contro-


natura” finiscono in modo deludente per chi vi ha riposto eccessi-
ve speranze di rientro in patria: Lapo da Castiglionchio è fra quanti

51 Bruni, La città divisa, cit., pp. 48, 57.


52 Si veda il caso famosissimo del traditore fiorentino Bocca degli Abati e dei
suoi amici, i quali, alla fine della battaglia di Montaperti (senza che peraltro si capi-
sca bene come si siano comportati nel corso di tutto il resto di quella lunga giorna-
ta e se abbiano o meno combattuto contro i Senesi), quando vedono le sorti dello
scontro precipitare a favore dei ghibellini, si strappano dal petto le insegne guel-
fe e, abbattuta la stessa bandiera della loro città, cambiano improvvisamente fronte
combattendo contro i loro concittadini. La dinamica dell’episodio è, di per sé, poco
chiara, ma, ad aggiungere perplessità a perplessità, sta anche la constatazione che di
esso parlano Dante e il Villani (comprensibilmente interessati a infamare la memoria
delle famiglie ghibelline o comunque anti-bianche della loro città) mentre nemmeno
un cenno di un fatto tanto clamoroso si potrebbe leggere nelle fonti senesi che rac-
contano quella battaglia sulla quale, peraltro, si sono costruiti secoli di identità anti-
fiorentina e filoghibellina di Siena.
53 Marchionne di Coppo Stefani, Cronaca fiorentina, a cura di N. Rodolico,
in Rerum Italicarum Scriptores, n.e., t. XXX, p. I, Bologna, Zanichelli, 1955, r. 995,
p. 441.

332
«Ingrata patria»: l’esiliato tra infelicità e progetti di rientro

appoggiano Carlo d’Angiò nella speranza che, una volta diventato


re di Napoli, si muova contro Firenze per rovesciarne il governo.
Ma quando Carlo diviene davvero re, Lapo è la prima vittima della
realpolitik dell’angioino che si affretta a stipulare un accordo con la
città toscana. Al deluso esule, anzi, tocca anche dover subire la ran-
corosa reazione della città che lo ospita quando, di fronte al suo at-
tivismo politico, gli viene sbattuto in faccia un «noi non intendiamo
che tu guasti Roma come tu ài guasta la terra tua» 54.  

Nelle terre che li accolgono, gli esuli non si limitano a fare azio-
ne politica per rientrare in patria: ben lungi dal vivere come poveri
reietti in grotte e spelonche (come voleva il già citato canto carna-
scialesco fiorentino) essi, non di rado, si sedimentano nella nuova
patria con le attività economiche che più gli sono usuali e conso-
ne. Così, chi sa combattere si guadagna frequentemente la vita fa-
cendolo in proprio (lo Heers, analizzando il fuoruscitismo genovese,
sostiene che «per la maggior parte, i capi delle imprese di pirate-
ria erano i “capitani” delle comunità di esiliati insediatisi nei bor-
ghi della Riviera di Levante» 55) o in conto terzi, come, fra il 1378 e
 

il 1382, nel caso del fiorentino Buonaccorso Pitti, il quale riscopre il


suo originario mestiere delle armi, prima di buttarsi nei traffici e, in-
fine, nel mondo del gioco di professione 56. La stessa cosa fanno an-
 

che altri esuli: da Lodrisio Visconti al bolognese Cannavoyta; dalla


famiglia dei Fortebraccio (che concludono la loro vita di esuli con la
signoria della loro città d’origine, Perugia) agli Scolari di Firenze, il
più celebre dei quali, Pippo Spano, si merita un postumo monumen-
to dipinto, nel famedio delle glorie militari fiorentine sulle pareti di
Sant’Apollonia.
Non sempre, per la verità, è facile gestire questi turbolenti esuli-
uomini d’arme, nemmeno nella nuova patria che si sono scelti. Piero
Cellesi, pistoiese, nel 1522 offre aiuto alla fazione panciatichiana che
appoggia il golpe dei Poggi di Lucca. Bandito per questo, nel 1524 si

54 Ivi, p. 57.
55 Heers, L’esilio, cit., p. 189. Per la verità, in questo caso l’autore raccoglie,
forse un po’ disinvoltamente, sotto la stessa etichetta casi di pirateria vera e propria
e casi di guerra di corsa (quelli cui abbiamo già accennato in precedenza) che non
sono fra sé assimilabili, dal momento che questi ultimi costituiscono una ben precisa
forma di guerra (legalmente riconosciuta a tutti i livelli), diversamente dai primi che
sono casi di pura e semplice delinquenza contro le persone e il patrimonio.
56 Ivi, p. 133.

333
Duccio Balestracci

reca a Bologna, e, appena un anno dopo, è cacciato via anche da lì.


Torna nella città d’origine, ma, appena un anno più tardi, nel 1526,
viene nuovamente esiliato per la sua destabilizzante attività politi-
ca e torna, per la seconda volta a Bologna. Alla fine lo ritroviamo in-
quadrato come capitano nell’esercito del principe d’Orange, dove è
augurabile che abbia trovato modo di esprimere al meglio la sua in-
docile natura 57.
 

Se gli esuli che esercitano un mestiere militare sono sempre


guardati con un certo sospetto, ben diversa è, invece, l’accoglienza
riservata a quelli che svolgono più pacifici e più redditizi mestieri. Lo
Heers ricostruisce un ampio quadro di compagnie di esuli fiorentini
che si impiantano stabilmente nel Nord-Est come prestatori (talvol-
ta, per la verità, come veri e propri usurai) e lo stesso autore ricor-
da che a Genova il monastero di Santo Stefano offre ospizi, terreni
edificabili, forni pozzi e altre infrastrutture ai rifugiati politici che ar-
rivano da Milano e da Piacenza 58. Gli esiliati non sono tutti uguali:
 

quelli, per così dire, “socialmente utili” godono di una considera-


zione e di una accoglienza migliore rispetto ad altri. Dei mercanti e
dei banchieri si è già detto; si potrà aggiungere che Lucca paga caro
l’esilio di tessitori e setaioli, a seguito delle divisioni interne di metà
Trecento, accolti, invece, a braccia aperte da altre città e, anzi, tal-
mente ben integrati nelle nuove destinazioni che, quando Lucca cer-
cherà di incentivarne in tutti i modi il rientro, alternando lusinghe a
minacce, non otterrà altro risultato che quello di veder ritornare in
patria, sì e no, una ventina di queste persone 59.  

Qualcuno, peraltro, a rientrare in patria non ci pensa nemme-


no: se Filippo Strozzi non smette un momento di pensare a come
far ritorno nella sua Firenze, i suoi cugini, figli di Leonardo, dalla
Barcellona nella quale si sono insediati, Firenze se la dimenticano
proprio, e fanno costruire una magnifica cappella di famiglia nel-
la chiesa dei francescani che è, da sola, il segno di un radicamento
riuscito e della volontà di non distaccarsi mai più dalla nuova ter-
ra che li ha accolti60. E c’è da chiedersi quanto, d’altra parte, tutto
ciò possa, più di tanto, suonare sgradevole alla madrepatria. Marco

57 Dedola, “Tener Pistoia con le parti”, cit., p. 258.


58 Heers, L’esilio, cit., pp. 26, 198-199.
59 Ivi, p. 221.
60 H. Gregory, The Return of the Native: Filippo Strozzi and Medicean Politics,
«Renaissance quarterly», 38 (1985), pp. 1-21.

334
«Ingrata patria»: l’esiliato tra infelicità e progetti di rientro

Tangheroni sostiene che le sedi scelte per il confino dei dissidenti pi-
sani non sono casuali: gli uomini d’affari vengono in genere destina-
ti, dice lo storico, a piazze commercialmente molto importanti come
Famagosta, Palermo, Rodi o Barcellona. E commenta: «forse nella
speranza che la possibilità di continuare a svolgere un’attività mer-
cantile favorisse la rinuncia all’attività politica e il radicamento nel-
la nuova città» 61.
 

Forse.
Personalmente, continuo a credere che ci sia, in tutta questa
materia, una certa differente volontà di colpire la parte per delegitti-
marne la valenza politica, e colpire i singoli che sono stati (e in qual-
che modo possono continuare a essere) una risorsa della città.
Come che sia, il caso degli Strozzi ormai “catalanizzati” ci co-
stringe a fare i conti, al di là di ogni retorica e di ogni luogo comu-
ne, con un aspetto fondamentale di questa tematica: il desiderio del
ritorno e il “costo” che si è disposti a pagare per questo. Il Villani
fa dire ai fuorusciti fiorentini che «per noi farebbe meglio la morte
e d’essere isconfitti, ch’andare più tapinando per lo mondo» 62. Non  

molto differente si direbbe lo stato d’animo espresso da un ranco-


roso e livido Luigi Alamanni, esiliato dalla sua Firenze per la tenta-
ta congiura del 1522 contro Giulio de’ Medici (poi papa Clemente
VII), che si scaglia prima contro una «Italia inferma / ove un Marcel
diventa / ogni villan che parteggiando /viene» e che poi, costretto a
emigrare in Francia dopo il ritorno dei Medici, nel 1536 scrive «Con
gli occhi dolenti, e ‘l viso basso / sospiro e inchino il mio natio terre-
no, / di dolor, di timor, di rabbia pieno, / di speranze, di gioia ignu-
do e casso» 63.
 

Ma un’analisi seria delle reazioni degli esuli alla lontananza in-


duce a fare i conti con situazioni ben più articolate e più comples-
se rispetto a quelle scivolose, consacrate dalla psicopoetica dell’esilio
(per usare una terminologia adoperata da Pierre Blanc) il cui più alto
(e deviante) esempio è costituito da Dante. Del resto, se vogliamo
muoverci su un piano di verosimiglianza storica, bisogna avere il co-
raggio di escludere dalla casistica (o di relativizzare massicciamente)

61 M. Tangheroni, Esilio ed esiliati a Pisa (secoli XIII-XIV), in Exil et


Civilisation, cit., p. 117.
62 Giovanni Villani, Nuova Cronica, cit., I, lib. VII, 78, p. 378.
63 Si veda per questo il commento di Bec, De Dante à Alamanni, cit., pp.
102-103.

335
Duccio Balestracci

proprio quest’ultimo personaggio, perché su di lui è stato costruito,


ex post, l’archetipo dell’intellettuale esiliato, che esprime la dignità e
la libertà di pensiero dell’uomo di lettere nei confronti della politica
e si fa, in questo, maestro di vita 64.  

Il côté letterario dell’esilio, com’è noto, presenta l’esiliato tor-


mentato dalla lontananza e disposto a qualunque sacrificio pur
di rientrare nella sua città, capace di accettare prove quali quelle
espresse (in poesia) dal lucchese Pietro dei Faitinelli e che consisto-
no nel rituale perdono dei nemici, nel considerare fratelli gli avversa-
ri politici, nel leccare le pietre delle mura per simboleggiare il senso
di riconciliazione attraverso l’umiliazione e la riaffermazione della
devozione 65.
 

In tutto questo c’è senza dubbio un fondo di verità, ma, al-


trettanto, una robusta sovrastruttura di retorica letteraria che è in-
dispensabile deporre nel fare analisi storica. Così come è altrettanto
indispensabile liberarci dall’altro stereotipo che fa presentare, da
parte degli esuli, il luogo che li accoglie come inospitale, quando
pure non ostile. Sul pane altrui che ha il sapore di sale e sulla fatica
e la mortificazione che si provano a salire le scale di case non nostre
non c’è dubbio che ci sia un elemento di oggettività. Altrettanto, non
è del tutto frutto di invenzione il proposito del già ricordato Pietro
dei Fatinelli che preferirebbe godere nella sua città de «il bretto ca-
stagniccio, / ’nanzi ch’altrove pan di gran calvello / ’nanzi ch’altro-
ve piume, qui il graticcio» 66. Il fatto è, come commenta giustamente
 

Heers, che «a leggere le loro opere, i discorsi e le confessioni, gli esi-


liati abbandonati a se stessi e alle loro riflessioni disincantate, soffri-
vano di collocarsi male nella società e si nutrivano di amarezze. Essi
idealizzavano l’immagine della città-patria e, talvolta senza ritegno,
spingevano l’ingratitudine fino a ostentare un pesante disprezzo per
quelli che li avevano accolti» 67. Tutti atteggiamenti indotti da disagio
 

reale, ma sui quali, nel modo in cui ci sono stati trasmessi dalle fon-
ti, aleggia un’aura letteraria che li enfatizza. C’è, ad esempio, una re-
miniscenza evidente di classicismo nel registro della inospitalità del

64 Seguo, in questa indicazione quanto espresso da uno storico come Bec (ivi,
p. 101) e, su un versante diverso, ancorché complanare, da un critico letterario qua-
le Francesco Gaeta.
65 Bruni, La città divisa, cit., p. 91.
66 Ivi.
67 Heers, L’esilio, cit., p. 246.

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«Ingrata patria»: l’esiliato tra infelicità e progetti di rientro

luogo dell’esilio (quale che esso sia) come ce n’è una altrettanto rico-
noscibilmente classica in quello della inospitalità, sporcizia, povertà
e grossolanità della campagna, quando è quest’ultima ad accoglie-
re l’esule, e che collega, con un filo rosso, la sorte lamentata dal bo-
lognese Giovan Battista Refrigerio (seconda metà del ’400) di chi è
«concluso tra gente alpine e ladre» e l’albergaccio di Sant’Andrea in
Percussina, dove Niccolò Machiavelli si ingaglioffa giocando a «cric-
ca» e a «tric-trac» con gli energumeni del posto.
Le procedure (e i rituali) di riammissione, in realtà, prevedono
tutta una serie di strade — più o meno facilmente percorribili — di
reintegrazione nel corpo sociale. La principale è, logicamente, quel-
la della abiura e della ritrattazione. Quando nel 1289 il giudice vuole
bandire da Bologna Pactualdus de Pactualdis, il condannato si ap-
pella alla clausola che cancella il bando in caso di obbedienza al co-
mune bolognese 68 e perfino nella lacerata Firenze di fine ’200 le vie
 

della sanatoria sono più larghe di quel che le fonti letterarie o cro-
nachistiche ci vogliono far credere. La cosiddetta “pace del Cardinal
Latino”, nel 1280, prevede la riammissione pressoché totale dei ghi-
bellini (eccezion fatta per gli elementi più radicali e irriducibili come
gli Uberti e poche altre famiglie come questa) perché tanto, ormai,
visto il quadro politico che si è consolidato anche a livello naziona-
le e internazionale, si reputa che i ghibellini non possano più reali-
sticamente aspirare a rivestire un ruolo politico di primo piano e,
allora, tanto vale salvaguardare i legami familiari rispetto alle appar-
tenenze di parte — sostiene Sanfilippo — e preservare (continuo
ad aggiungere personalmente) così il complesso del quadro dirigen-
te ed economicamente rappresentativo del comune, riammettendo
gli esuli come cittadini anche se non ancora come soggetti con dirit-
ti politici 69.
 

Beninteso, non tutto va de plano, in questo controverso e zig-


zagante percorso di ricomposizione del tessuto sociale. Quando nel

68 G. Milani, Dalla ritorsione al controllo. Elaborazione e applicazione del pro-


gramma antighibellino a Bologna alla fine del Duecento, «Quaderni storici», 1997,
p. 51.
69 M. Sanfilippo, Guelfi e ghibellini a Firenze: la “pace” del cardinal Latino
(1280), «Nuova rivista storica», 64 (1980), p. 24. Questo aspetto (sia per il caso ap-
pena ricordato, sia per altri casi trecenteschi) è stato recentemente ripreso da V.
Mazzoni, Accusare e proscrivere il nemico politico. Legislazione antighibellina e per-
secuzione giudiziaria a Firenze (1347-1378), Pisa, Pacini, 2010.

337
Duccio Balestracci

1304 Remigio de Girolami (nel suo De bono pacis) avanza una sensa-
ta proposta di conciliazione fra Bianchi e Neri, proponendo l’amni-
stia per gli esiliati in cambio del condono delle espropriazioni (anche
quelle illegali) operate dai Bianchi con il colpo di stato, la sua idea
non viene accettata 70. Altrettanto, qualche cosa dev’essere anda-
 

ta storta nella pacificazione promossa, a Bologna, dal legato papale


Bartolo Orsini nel 1279, se i Lambertazzi, rientrati in virtù dell’ac-
cordo, appena un anno dopo chiedono di essere trattati come gli al-
tri cittadini e rivendicano una paritaria partecipazione alla gestione
della cosa pubblica, provocando un tumulto come reazione al rifiu-
to che viene loro opposto 71.  

Analoga difficoltà nei confronti dei meccanismi di pacificazio-


ne si deve essere registrata a Siena — per fare un ultimo esempio —
quando nel 1371 «li Signori Riformatori fero bandire che ognuno
ponere [sic in testo per evidente errore di lettura o di stampa di “pones-
se”] giù l’arme, e chi fuse partito tornasse a Siena [ma] tornaro a Siena
in pochi di più di 500 omini che s’erano partiti per sospetto» 72.  

È più realistico pensare che — ben diversamente da quanto si


dovrebbe credere a dar fede assoluta ai canoni letterari — la volon-
tà di ritorno in patria sia stata accompagnata, non di rado, dalla buo-
na disposizione d’animo ad accettare qualche (a volte anche pesante)
compromesso con le proprie convinzioni. Nel caso del Machiavelli,
tutto (o quasi tutto) quello che scrive dopo il 1512 è ampiamen-
te prodotto al fine di ottenere l’aiuto di chi avrebbe potuto giovar-
gli per rientrare nella politica attiva fiorentina. Gli scritti di teatro
— sostiene quell’attento esegeta della vita e dell’opera del cancel-
liere fiorentino che è Felix Gilbert — sono prodotti nel momento
in cui l’uomo politico si rende conto del favore del quale godono gli
scrittori di teatro presso Leone X; il Principe gli viene sollecitato da
Zanobi Buondelmonti e da Cosimo Rucellai e, a loro volta, le Istorie
sono commissionate dallo Studio fiorentino e, in particolare, dal car-
dinale Giulio dei Medici. E l’ex cancelliere — conclude il Gilbert —
accetta questi compromessi perché si rende conto che sono forse le
uniche strade che gli potranno consentire di essere reintegrato nel

70Bruni, La città divisa, cit., p. 59.


71Heers, L’esilio, cit., p. 28-29.
72 Cronaca senese di Donato di Neri e di suo figlio Neri, in Cronache senesi, a
cura di A. Lisini - F. Iacometti, in Rerum Italicarum Scriptores, n.e., t. XV, p. VI,

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«Ingrata patria»: l’esiliato tra infelicità e progetti di rientro

mondo della politica. Lo Heers, a sua volta, è anche più (forse ecces-
sivamente, al limite dell’ingiustamente denigratorio) drastico, quan-
do sostiene che il Machiavelli «scrisse molto, ma a questo solo fine:
lagnarsi e giustificarsi, mostrare i suoi talenti e farsi stimare degno
di un incarico a corte». Per questo — continua lo storico — duran-
te tutto l’esilio «non smise di supplicare, intrigare, di far interveni-
re tutti i suoi amici e anche lontane conoscenze, di moltiplicare ogni
sorta di bassezza, per entrare nelle grazie dei Medici» 73.  

Anche senza accedere a letture tanto radicali, non sfugge che,


come si è detto, effettivamente, a qualche compromesso si deve tal-
volta scendere per rientrare in patria. Il caso di Francesco Filelfo da
Tolentino, studiato da Cesare Vasoli, è, da questo punto di vista, sin-
tomatico. Antimediceo, Filelfo fugge da Firenze dopo il 1434, anno
del rientro sulla scena politica di Cosimo il Vecchio. Da Milano e
dalla corte di Filippo Maria Visconti dove ha trovato asilo, si dedi-
ca a una battaglia “massmediatica” antimedicea radicale. Poi, però,
qualche cosa cambia, quando gli è chiaro che la situazione fiorenti-
na non è destinata a mutare. Dopo la morte del Visconti, prima, e di
Francesco Sforza, poi, ormai vecchio (dopo un infruttuoso soggior-
no a Roma) l’esule si decide a imboccare una strada di ben maggior
pragmatismo. Interrompe, così, le sue Commentationes de exilio che,
fino a quel momento aveva composto ispirato da una vèrve di ven-
detta antimedicea; smette di diffamare gli intellettuali della cerchia
medicea e, al contrario, all’indomani della Congiura dei Pazzi, co-
mincia a tessere le lodi del giovane Lorenzo. Non tranquillo, si dà
da fare per ritirare dalla circolazione e distruggere i manoscritti di
quanto, delle Commentationes, era stato, fino a quel momento pro-
dotto 74. Per chi non abbia immediatamente nella memoria come è
 

andata a finire: sì, i maneggi di Francesco Filelfo sortirono il risultato


voluto, e lo scrittore fu richiamato a Firenze, dove tornò a insegnare
e dove, non troppo tempo dopo, si spense nel 1481, onorato, riveri-
to e giudicato degno di essere seppellito nella chiesa della Santissima
Annunziata.
E qualche volta, peraltro, non va nemmeno a finire altrettanto
positivamente: Pietro Cinquini, condannato ad abbandonare Pisa e

Bologna, Zanichelli, 1936, p. 642.


73 Heers, L’esilio, cit., p. 241.
74 C. Vasoli, Le Commentationes de exilio di Francesco Filelfo, in Exil et
Civilisation, cit., pp. 119-134.

339
Duccio Balestracci

il cui nome si ritrova nel Liber confinatorum, ancorché nella sua sco-
moda posizione giuridica, si vede ugualmente affidare dalla città che
lo ha cacciato una missione in Sardegna come explorator Pisanis co-
munis. Incarico che egli svolge con scrupolo e fatica, rimettendo-
ci, perfino, duecento fiorini di tasca propria convinto che ciò serva
a cancellare la sua condanna. A conclusione della missione, chiede,
quindi come ricompensa, di essere riammesso in città, ricevendo, in-
vece, un inopinato rifiuto e ottenendo dagli Anziani, come massima
concessione, quella di essere “avvicinato” nella nuova destinazione
di confino di Rosignano 75.  

Il ritorno e il reintegro — quale che sia il prezzo pagato — è


insomma pressoché di regola frutto di una negoziazione che risulta
quasi sempre accettabile, anche se si conclude con uno scapito eco-
nomico. I da Castiglionchio, ad esempio, tengono una contabilità
minuziosa del recupero dei beni dopo la loro riammissione in patria
e devono riconoscere che, in conclusione, questi conti non tornano e
lo scapito è stato notevole. Tuttavia, chiosa la De Angelis che ha stu-
diato il caso, il loro libro «si chiude [...] con il senso di una vittoria
complessiva, di un reinserimento a pieno titolo della famiglia nella
compagine cittadina, in un recupero riuscito delle posizioni di pre-
stigio e rispetto antichi [...]. Dopo quella lunga, dolorosa e costo-
sa parentesi, riprendeva così la politica di investimenti nei luoghi di
provenienza della famiglia, sede ideale e simbolica dell’attaccamento
a tutta la storia del lignaggio che aveva giustificato la faticosa impre-
sa della ricostituzione del patrimonio dopo le confische» 76.  

Come dire che, alla fine, i conti morali tornavano, e pace se


quelli economici restavano in sofferenza.

75 Tangheroni, Esilio ed esiliati a Pisa, cit., pp. 105-118.


76 De Angelis, Et chosì ci chonviene esser contenti, cit., pp. 308-309.

340
Domenica 17 maggio, pomeriggio
Pistoia, Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei Vescovi
Presidente Prof. Aldo A. Settia

Franco Franceschi
Aspirazioni e obiettivi dei rivoltosi

1. Premessa
Di fronte all’invito a partecipare ai lavori del convegno su La
ricerca del benessere individuale e sociale, gentilmente indirizzato-
mi dagli organizzatori, ho avuto inizialmente qualche titubanza: non
certo per il tema generale scelto, che mi sembra di forte suggestio-
ne e fecondo di sviluppi futuri, né per quello dell’intervento che mi
veniva proposto in sé, del tutto coerente con il programma dei la-
vori pensato per questo incontro. Le mie perplessità non derivava-
no neppure dall’indiscutibile vastità del soggetto, visto che si tratta
di una caratteristica comune alla maggior parte delle relazioni e non
soltanto di quest’anno: piuttosto avevano a che vedere con la for-
tuna del tema nella storiografia. Nella medievistica europea, infatti,
lo studio delle rivolte ha avuto indubbiamente un momento signi-
ficativo soprattutto negli anni Settanta del Novecento, con la pub-
blicazione di sintesi su scala continentale come quelle di Michel
Mollat e Philippe Wolff, Guy Fourquin, Rodney Hilton, George
Holmes 1 e di lavori più settoriali da parte di studiosi quali Richard
 

1 M. Mollat - Ph. Wolff, Ongles bleus, Jacques et Ciompi. Les révolutions po-
pulaires en Europe aux XIVe et XVe siècles, Paris 1970; G. Fourquin, Le sommos-
se popolari nel Medioevo, trad.it., Milano 1976 [1972]; R. Hilton, Bondmen Made
Free: Medieval Peasant Movements and the English Rising of 1381, London 1973; G.
Holmes, Europe: Hierarchy and Revolt 1320-1450, London 1975.

341
Franco Franceschi

B. Dobson, Maurice Dommanget, Julio Valdeón Baruque, André


Leguai, Aleksandr Čistozvonov, Peter Blickle, Edmund B. Fryde e
altri 2. Successivamente, con poche eccezioni (la Jacquerie francese
 

del 1358, la grande insurrezione inglese del 1381, la ribellione hussi-


ta nella Boemia del primo Quattrocento, la sollevazione dei payeses
de remensa scoppiata in Catalogna nel 1462 3), la tematica ha «cono-
 

sciuto un certo oblio» 4. Un andamento analogo è ravvisabile anche


 

in Italia, dove, se si escludono gli studi sul Tumulto dei Ciompi 5 e le  

altre rivolte scoppiate a Firenze o in Toscana 6, l’interesse per i feno-


 

2 R.B. Dobson, The Peasant Revolt of 1381, London 1970; M. Dommanget,


La Jacquerie, Paris 1971; J. Valdeón Baruque, Los conflictos sociales en el Reino de
Castilla en los siglos XIV y XV, Madrid 1975; A. Leguai, Les troubles urbains dans
le Nord de la France à la fin du XIIIe et au début du XIVe siècle, «Revue d’histoi-
re économique et sociale», LIV (1976), pp. 281-303; A.N. Čistozvonov, Die euro-
päischen Bauern im Kampf um Land und Freiheit (14. und 15. Jh.), in Der deutsche
Bauernkrieg 1524/25. Geschichte − Tradition − Lehren, a cura di G. Brendler - A.
Laube, Berlin 1977, pp. 35-56; P. Blickle, Peasant Revolts in the German Empire in
the Late Middle Ages, «Social History», IV (1979), n. 4, pp. 223-239; E.B. Fryde,
Financial Policies of the Royal Governments and Popular Resistance to Them in France
and England, 1270-1420, ora in Id., Studies in Medieval Trade and Finance, London
1983 [1979], I, pp. 824-860. Per questa bibliografia cfr. anche R. Comba, Rivolte e
ribellioni fra Tre e Quattrocento, in La Storia. I grandi problemi dal Medioevo all’età
contemporanea, a cura di N. Tranfaglia - M. Firpo, II, Il Medioevo, t. 2, Popoli e
strutture politiche, Torino 1986, pp. 673-691: pp. 689-691.
3 Cfr. S.K. Cohn Jr., Lust for Liberty. The Politics of Social Revolt in Medieval
Europe, 1200-1425. Italy, France, and Flanders, Cambridge (Mass.)-London 2006,
p. 1.
4 G. Pinto, Premessa, in Rivolte urbane e rivolte contadine nell’Europa del
Trecento. Un confronto, a cura di M. Bourin - G. Cherubini - G. Pinto, Firenze
2008, pp. IX-X: p. IX.
5 Sull’ampia bibliografia relativa a questa rivolta si vedano almeno Il Tumulto
dei Ciompi. Un momento di storia fiorentina ed europea, Atti del Convegno inter-
nazionale di studi (Firenze, 16-19.IX.1979), Firenze 1981; A. Stella, La révolte
des Ciompi. Les hommes, les lieux, le travail, Préface de Ch. Klapisch-Zuber, Paris
1993; E. Screpanti, L’angelo della liberazione nel tumulto dei Ciompi. Firenze, giu-
gno-agosto 1378, Firenze 2008; F. Franceschi, I Ciompi a Firenze, Siena e Perugia, in
Rivolte urbane e rivolte contadine, cit., pp. 277-303.
6 Cfr., in ordine cronologico, V. Rutenburg, La vie et la lutte des ‘Ciompi’ de
Sienne, «Annales. E.S.C.», XX (1965), pp. 95-109; G.A. Brucker, The Florentine
Popolo Minuto and its Political Role 1340-1450, in Violence and Civil Disorder in
Italian Cities, 1200-1500, a cura di L. Martines, Berkeley-Los Angeles 1972, pp.
155-183; W. Bowsky, The Anatomy of Rebellion in Fourteenth-Century Siena: From
Commune to Signory?, ivi, pp. 229-272; S.K. Cohn Jr., Rivolte popolari e classi sociali
in Toscana nel Rinascimento, «Studi Storici», 20 (1979), pp. 747-758; Id., Florentine
Insurrections, 1342-1385, in Comparative Perspective, in The English Rising of 1381,

342
Aspirazioni e obiettivi dei rivoltosi

meni qui presi in esame è stato piuttosto discontinuo 7.  

In tempi recentissimi, tuttavia, si sono registrati segni di risve-


glio, e nel giro di soli quattro anni, tra il 2004 e il 2008, sono usci-
ti tre importanti volumi. Due di questi, dedicati a Italia, Francia e
Fiandre, portano la firma di Samuel Cohn e rappresentano il frut-
to di una ricerca imponente condotta soprattutto sulle fonti croni-
stiche, relativa ad un lungo arco cronologico (1200-1425), e che ha
portato all’identificazione di oltre 1100 episodi insurrezionali: il pri-
mo è un’antologia di documenti corredata da preziose introduzioni 8;  

il secondo utilizza le fonti raccolte per sviluppare un’analisi artico-


lata su una serie di questioni-chiave, in parte già esplorate dalla sto-
riografia ed in parte nuove: le differenze fra città e campagna, la
molteplicità delle tipologie insurrezionali, la fisionomia dei leader, il
ruolo della componente femminile, la comunicazione fra i movimen-
ti di diverse regioni, l’evoluzione del fenomeno nel tempo 9. Il ter-  

zo volume cui accennavo è rappresentato dagli atti di un convegno

a cura di R.H. Hilton - T.H. Aston, Cambridge 1984, pp. 143-164; V. Wainwright,
The Testing of a Popular Sienese Regime. The Riformatori and The Insurrections of
1371, «I Tatti Studies. Essays in the Renaissance», 2 (1987), pp. 107-170; S.K. Cohn
Jr., Insurrezioni contadine e demografia: il mito della povertà nelle montagne toscane
(1348-1460), «Studi Storici», 36 (1995), pp. 1023-1049; F. Franceschi, La rivolta di
«Barbicone», in Storia di Siena, I, Dalle origini alla fine della Repubblica, a cura di R.
Barzanti - G. Catoni - M. De Gregorio, Siena 1995, pp. 291-300; L. Berti, La pri-
ma cospirazione degli aretini contro il dominio di Firenze (1390), «Archivio Storico
Italiano», CLIV (1996), pp. 495-521; A. Field, Leonardo Bruni, Florentine Traitor?
Bruni, the Medici, and an Aretine Conspiracy of 1437, «Renaissance Quarterly»,
LI (1998), pp. 1109-1150; S.K. Cohn Jr., Creating the Florentine State: Peasants
and Rebellion, 1348-1432, Cambridge 1999; Id., Le rivolte contadine nello Stato di
Firenze nel primo Rinascimento, «Studi Storici», 41 (2000), pp. 1121-1150.
7 V. Rutenburg, Popolo e movimenti popolari nell’Italia del ’300 e ’400, trad.it.,
Bologna 1971 [1958]; J.E. Law, Popular Unrest in Ferrara in 1385, in The Renaissance
in Ferrara and its European Horizons, a cura di J. Salmons, Ravenna 1984, pp. 41-
60; Ch.M. de La Roncière, Corporations et mouvements sociaux en Italie du Nord
et du centre au XIVe siècle, in Forme ed evoluzione del lavoro in Europa: XIII-XVIII
secc., Atti della Tredicesima Settimana di studio dell’Istituto internazionale di storia
economica ‘F. Datini’ di Prato (Prato, 2-7.V.1981), a cura di A. Guarducci, Firenze
1991, pp. 397-416; G. Cherubini, Movimenti e sommosse popolari del XIV secolo,
«Atti e relazioni dell’Accademia pugliese delle scienze», XLVIII (1991), pp. 31-59;
C. Trasselli, La questione sociale in Sicilia e la rivolta di Messina del 1464, Prefazione
di S. Tramontana, Messina 1990; Protesta e rivolta contadina nell’Italia medievale, a
cura di G. Cherubini, «Annali dell’Istituto ‘Alcide Cervi’», 16 (1994).
8 Popular Protest in Late Medieval Europe. Italy, France, and Flanders, Selected
sources translated and annotated by S.K. Cohn Jr., Manchester-New York 2004.
9 Id., Lust for Liberty, cit.

343
Franco Franceschi

sulle rivolte urbane e rurali nell’Europa del Trecento (Inghilterra,


Francia, Fiandre, Germania, Penisola Iberica, Italia) nel quale l’in-
tento comparativo si dispiega soprattutto sul piano della geografia e
della fenomenologia 10.  

Di fronte all’esistenza di contributi così recenti e sistematici, in


cui alle sollevazioni delle città italiane è riservato un notevole spazio,
era lecito che mi interrogassi sull’opportunità di affrontare in que-
sta sede un esame delle aspirazioni e degli obiettivi dei rivoltosi: da
un lato intravedevo il rischio concreto di un approccio scarsamen-
te originale, dall’altro cercavo di tranquillizzarmi pensando a come il
taglio del Convegno conferisse anche al mio argomento una prospet-
tiva inedita e al vantaggio di disporre di una base di dati e interpreta-
zioni di fresca acquisizione. Alla fine ho accettato la sfida, e speriamo
che sia stata una buona idea.
Questa premessa non vuole essere un’excusatio non petita, ma
semplicemente chiarire il contesto ed i limiti del discorso che cerche-
rò di sviluppare, un discorso che non potrà necessariamente aspira-
re ad alcuna forma di completezza, anzi, in un certo senso non dovrà
neppure ricercarla. Analizzare gli obiettivi e le aspirazioni dei rivol-
tosi le cui gesta incendiarono le città italiane negli ultimi secoli del
Medioevo, nel quadro di un programma come quello del nostro in-
contro, non può infatti significare descrivere e classificare i fenomeni
nelle loro più o meno complesse motivazioni (lavoro che sostanzial-
mente già esiste), ma piuttosto tentare di cogliere, dietro il mutevole
dipanarsi degli eventi, alcune costanti nei modi di pensare e di agire:
i desideri profondi al di là degli scopi immediati, i progetti per i qua-
li valeva la pena di rischiare il carcere, l’esilio e la stessa vita. Per fare
questo mi affiderò anch’io — come altri studiosi delle rivolte — alle
fonti che, come le cronache e gli atti giudiziari, contribuiscono mag-
giormente a restituire la vivezza delle situazioni e talvolta le parole
stesse dei protagonisti; naturalmente ben consapevole del fatto che
sia le prime che i secondi presentano, sebbene in modi diversi, for-
ti valenze ideologiche.

2. Le radici del malessere


Se, com’è implicito nel titolo del Convegno, il composito con-
cetto di benessere richiama immediatamente il suo opposto, nel caso

10 Rivolte urbane e rivolte contadine, cit.

344
Aspirazioni e obiettivi dei rivoltosi

dei protagonisti delle rivolte il legame è ancora più immediato: chi


si ribella lo fa in risposta ad uno stato di malessere reale o percepi-
to come tale.
Nella storiografia sulle rivolte di epoca medievale ha tradizio-
nalmente avuto un peso importante l’interpretazione di natura eco-
nomica, strutturale o congiunturale che fosse, ma oggi gli studiosi
appaiono più cauti. Giuliano Pinto, in un saggio pubblicato nel già
ricordato volume su Rivolte urbane e rivolte contadine, ha fatto ri-
levare come la diffusa povertà che sembra contraddistinguere i ceti
sociali inferiori in Italia tra 1250 e 1350 corrisponda ad episodi in-
surrezionali «non particolarmente fitti e di breve durata, in un rove-
sciamento sostanziale di quanto sostenuto da chi lega strettamente
condizioni di miseria e scoppio di tumulti» 11. Indubbiamente la ri-
 

correnza delle crisi alimentari era un fattore potente di infelicità e


agitazione sociale, così come lo erano la disoccupazione e la sottoc-
cupazione, l’eccessivo peso della tassazione e più in generale le poli-
tiche annonarie, fiscali e monetarie quando venivano avvertite come
lesive degli interessi individuali e collettivi. Senza contare che esi-
steva una sorta di ansia anticipatoria rispetto a quelli che sono sta-
ti definiti i «processi di deprivazione» 12: quella paura della perdita
 

dello status economico e sociale su cui si è soffermato Luca Molà 13,  

e per i meno abbienti, il timore di tornare a condizioni di vita anco-


ra più dure di quelle vigenti, uno spettro che Charles Marie de La
Roncière ha intravisto nei comportamenti dei salariati fiorentini ne-
gli anni Settanta del Trecento 14.  

Ma, nella società comunale, le rivolte affondavano le loro radi-


ci soprattutto nel magma della conflittualità urbana, nelle lotte fra
famiglie e clan, nello scontro infinito fra nobiltà e popolo, più tardi
nelle divisioni interne agli stessi populares. Nel corso del Trecento,
infatti, si aprì una nuova fase del conflitto cittadino, caratterizzata
dall’emergere delle rivendicazioni economiche e politiche del popo-

11 G. Pinto, Congiuntura economica, conflitti sociali, rivolte, in Rivolte urbane


e rivolte contadine, cit., pp. 337-349: p. 345.
12 G. Iorio, La povertà: analisi storico-sociologica dei processi di deprivazione,
Roma 2001.
13 L. Molà, Sentirsi ricchi, sentirsi poveri: percezione dello status e realtà, in
questo stesso volume.
14 Ch.M. de La Roncière, La condition des salariés à Florence au XIVe siè-
cle, in Il Tumulto dei Ciompi. Un momento di storia fiorentina, cit., pp. 13-40: pp.
33-35.

345
Franco Franceschi

lo minuto, all’interno del quale si era accresciuto il ruolo dei lavora-


tori salariati. Il malessere che generava queste eruzioni di violenza
collettiva assumeva forme diverse, ma tutte riconducibili ad alcuni
elementi comuni: l’esilio, la mancanza di diritti politici e corporati-
vi, l’esclusione dal ceto di governo o una partecipazione ritenuta in-
sufficiente, l’impossibilità di gestire la distribuzione delle risorse e le
politiche economiche, la dissonanza fra lo status sociale acquisito e
la sua traduzione in termini di peso politico.
Naturalmente, dati tutti questi buoni motivi, la decisione di
operare con l’obiettivo di mutare la propria condizione personale o
di gruppo non era facile né indolore, perché significava quasi inevi-
tabilmente abbracciare la scelta della violenza. Ho detto quasi per-
ché la documentazione — come ha sottolineato Samuel Cohn 15 — ci  

mostra che non erano del tutto sconosciute, negli ultimi secoli del
Medioevo, forme di contestazione pacifica. Secondo la Chronica
Parmensia, per esempio, tra il febbraio e l’aprile 1331 molti abitanti
di Parma, «masculi et feminae, senes et juvenes», manifestarono ri-
petutamente nelle strade e nelle piazze contro la guerra e il peso del-
le tasse, cantando e ballando, recando frasche, ramoscelli e ghirlande
di fiori e gridando «vivat, vivat; pax, pax; moriantur datia et gabel-
lae» 16. Ancora più suggestivo è un passo del Chronicon Regiense re-
 

lativo alla Roma del 1338 secondo il quale — cito nella traduzione
di Clementina Santi — «nel silenzio della notte, nella chiesa di Santa
Maria in Trastevere comparvero alcuni che gridavano ‘pace’ senza
aggiungere altro. Udito questo, il popolo corse alle case degli Orsini
e dei Colonna, che erano tra loro nemici, e fece fare tra loro pace. E
questa pace fu fatta per miracolo» 17. Un miracolo, appunto, e come
 

15
Cohn, Lust for Liberty, cit., pp. 105-106.
16
Chronica Parmensia a sec. XI. ad exitum sec. XIV.: accedunt varia quae
spectant ad historiam patriae civilem et ecclesiasticam, a cura di L. Barbieri, Parma
1858, pp. 272-273, citazioni alle pp. 270 e 272; S.K. Cohn Jr., Bandiere e parole:
le rivolte popolari a Nord e a Sud delle Alpi (1200 ca-1425), in Simboli e rituali nel-
le città toscane fra Medioevo e prima Età moderna, Atti del Convegno (Arezzo, 21-
22.V.2004), «Annali aretini», XIII (2005), pp. 93-103: p. 93.
17 «Et eo mensse Rome in noctis silentio aparuerunt quedam in ecclesia sancte
Marie Fastyberim qui clamabant pacem nihil aliud dicentes; hoc audito populus cu-
rit ad domos Orsinorum et Colonenssium qui inimici erant et fecit fieri pacem inter
eos; facta est autem hec pax miraculose»: Chronicon Regiense. La cronaca di Pietro
della Gazzata nella tradizione del codice Crispi, a cura di L. Artioli - C. Corradini -
C. Santi, Presentazione di J. Le Goff, Reggio Emilia 2000, pp. 216-217.

346
Aspirazioni e obiettivi dei rivoltosi

tale rarissimo. Che non avvenne invece a Viterbo nel 1390, dove pro-
prio al grido di «viva viva la pace» l’intera città «si levò in arme» e
cacciò il gonfaloniere ed i Priori 18; né a Siena all’inizio degli anni
 

Settanta del Trecento, dove la compagnia del Bruco fece la sua com-
parsa sulla scena cittadina dichiarando di volere «pace e divizia», ma
qualche mese dopo dette vita a quella che è passata alla storia pro-
prio come la ‘rivolta del Bruco’ 19.  

La vera alternativa, allora, non era fra la contestazione pacifica


e la sommossa armata, ma fra la rassegnazione alla condizione pre-
sente, dettata dalla paura, e quella speranza del cambiamento futuro
che, tolta agli uomini, li trasforma in potenziali ribelli. Un dilemma
esemplarmente illustrato in «uno dei racconti più affascinanti e ric-
chi di implicazioni di tutta l’opera machiavelliana» 20, l’oratio ficta
 

che il Segretario fiorentino fa pronunciare ad uno dei Ciompi alla


vigilia della sommossa di luglio e nella quale il protagonista pone i
compagni di fronte alla scelta fra «una quieta povertà» e «uno peri-
coloso guadagno» 21.  

Con quali prospettive, dunque, si imboccava questa seconda


strada? Per assicurarsi il pane? Mossi dal sogno della ricchezza? Per
far parte del ceto di governo o addirittura monopolizzare il potere?
Seguirò questi tre percorsi, sebbene sia cosciente del fatto che sono
solo alcuni dei possibili e che altrettanta pregnanza, per esempio,
avrebbe un discorso sulle speranze di rinnovamento religioso 22 o di  

riforma della giustizia che animarono non poche sommosse 23.  

18 Niccola della Tuccia, Cronache di Viterbo e di altre città, in Cronache e sta-


tuti della città di Viterbo, a cura di I. Ciampi, Firenze 1872, pp. 1-272: p. 41.
19 Cfr. Franceschi, I Ciompi a Firenze, Siena e Perugia, cit., pp. 292-295.
20 F. Del Lucchese, Tumulti e indignatio. Conflitto, diritto e moltitudine in
Machiavelli e Spinoza, Milano 2004, p. 227.
21 Niccolò Machiavelli, Istorie fiorentine, in Id., Opere, a cura di A.
Montevecchi, II, Istorie fiorentine e altre opere storiche e politiche, Torino 2007
[1971], pp. 275-759: cap. XIII, p. 435.
22 Tematica peraltro già tenuta nella debita considerazione, almeno per il
Tumulto dei Ciompi: cfr. Screpanti, L’angelo della liberazione, cit., pp. 154-214,
che utilizza anche i precedenti studi di Niccolò Rodolico, Marvin Becker, Raoul
Manselli, Donald Weinstein, Charles-Marie de La Roncière. Ma cfr. anche G.
Barone, Le componenti religiose delle rivolte, in Rivolte urbane e rivolte contadine,
cit., pp. 323-336, di taglio più generale e storiografico.
23 Il tema è stato affrontato recentemente, con un ampio apparato bibliogra-
fico, da A. Zorzi, Politiche giudiziarie e ordine pubblico, in Rivolte urbane e rivolte
contadine, cit. pp. 381-420.

347
Franco Franceschi

3. Assicurarsi il pane
Le rivolte per il pane sono quelle che più direttamente sono state
associate alla protesta in età preindustriale. Talvolta etichettate dalle
fonti come semplici rumores, sono state viste soprattutto come moti
incomposti, esplosioni di «rabbia», «furia» o «furore». Nel 1311,
per esempio, a Bologna «frumentum et omnia comestibilia cara fue-
runt, preterquam olei et lupini, et valebat corbes frumenti xxx so-
lidos et ultra; et quia non poterat haberi de frumento rumor fuit in
platea et tribio porte Ravenatis» 24. In questo caso, però, la protesta
 

trovò immediato ascolto, come testimoniano i provvedimenti urgen-


ti varati dal Consiglio del Popolo nei giorni successivi, che valsero
probabilmente a scongiurare sviluppi più cruenti 25. Nella Siena del
 

1329 invece, mentre «di giorno in giorno multiplichava grande cha-


restia», molti poveri «veneno in Canpo chon grande grida, dicendo:
‘Miserichordia per l’amore di Dio, inperochè noi moriamo di fame’.
E fu tanta la furia de’ povari che miseno a sacho le tina e le bighonge
ch’erano in Piazza». Il tumulto si trasformò rapidamente in «batta-
glia» e provocò la morte di tre birri del Podestà. Solo l’intervento dei
frati dell’Ospedale di Santa Maria della Scala, con la persuasione di
«buone parole», e soprattutto con la promessa di distribuire pane a
tutti, spense la rivolta: «in questo modo» — commenta uno dei cro-
nisti che ci raccontano l’episodio — «fu levata la furia di Chanpo» 26.  

Anche peggio andò a Gaeta nel 1353, dove gli uomini del popolo mi-
nuto, «per la carestia ch’aveno», e «avendo invidia a’ buoni e ricchi
cittadini mercatanti di quella città […], si mossono a ffurore e pre-
sono l’arme, e furiosi corsono per la terra, a intenzione d’uccidere
quanti trovare potessono di loro maggiori: e in quello empito ucciso-
no dodici de’ migliori che trovarono sanza alcuna misericordia» 27. Il  

tumulto costrinse il nuovo re di Napoli, Luigi di Taranto, a interveni-

24 Corpus chronicorum Bononiensium, a cura di A. Sorbelli, «Rerum


Italicarum Scriptores», sec. ed., XVIII, parte I, t. II, Città di Castello 1938, Cronaca
A, p. 317.
25 Cfr. V. Braidi, Le rivolte del pane: Bologna 1311, in Rivolte urbane e rivolte
contadine, cit., pp. 251-276, in particolare pp. 269-270.
26 Cronaca Senese dei fatti riguardanti la città e il suo territorio di autore anoni-
mo del secolo XIV, in Cronache senesi, «Rerum Italicarum Scriptores», sec. ed., XV,
parte VI, Bologna 1931-1939, pp. 39-162: p. 139.
27 Matteo Villani, Cronica. Con la continuazione di Filippo Villani, ed. critica
a cura di G. Porta, 2 voll., Parma 1995, I, lib. III, cap. LIII, p. 388.

348
Aspirazioni e obiettivi dei rivoltosi

re personalmente per riportare l’ordine in città 28. Altre volte questa


 

cupa volontà di punire esemplarmente coloro che venivano identifi-


cati quali responsabili della penuria di generi alimentari restava sol-
tanto una minaccia, come testimoniano le parole che il fiorentino
Domenico Lenzi, autore dello Specchio umano (meglio conosciuto
come Libro del Biadaiolo), attribuisce alla folla inferocita: «Ecco cit-
tà mal guidata, ké non possiamo avere del grano! E si vorrebbe anda-
re alle case di questi ladroni che n’ànno e mettervi fuocho e ardeglivi
entro perché e’ ci tenghono in questa fame […]. Ma e’ verrà anchora
tempo che noi ne faremo vendetta colle nostre mani» 29.  

Eppure un esame attento delle fonti mostra che questo tipo di


eventi era estremamente raro; è vero piuttosto che la scarsità di cibo
e l’alto prezzo dei generi alimentari rappresentarono in diversi casi
il detonatore o lo sfondo di rivendicazioni di natura differente 30. In  

qualche occasione la penuria di cereali fu solo un pretesto per mette-


re in difficoltà l’élite al potere e magari ottenere un cambiamento di
governo, come avvenne nel 1368 a Firenze, dove un gruppo di oltre
cinquecento persone, gridando «viva il popolo», attaccò la Loggia
del Grano rovesciando a terra i sacchi pieni di cereali e di farina 31, o  

a Verona, dove nel 1405 la sommossa propiziò il passaggio della cit-


tà dalla signoria dei Carraresi alla dominazione dei veneziani che as-
sediavano la città 32. Secondo Galeazzo e Bartolomeo Gatari, che nei
 

confronti di questa famiglia di dinasti mostravano però un’adesione


sostanziale 33, la decisione di cacciare Giacomo Da Carrara fu pre-
 

sa a malincuore, «ché certo el fu il più amato signore del mondo da


suo popollo», ma la situazione era troppo difficile ed esigeva un mu-
tamento radicale. Ecco come i leaders del movimento — Verità dei

28 Ivi; e S. Tramontana, Il Mezzogiorno medievale. Normanni, svevi, angioini,


aragonesi nei secoli XI-XV, Roma 2000, p. 159.
29 G. Pinto, Il libro del biadaiolo: carestie e annona a Firenze dalla metà del
’200 al 1348, Firenze 1978, pp. 302 e 376.
30 Cohn, Lust for Liberty, cit., p. 72.
31 Cfr. N. Rodolico, Il popolo minuto. Note di storia fiorentina (1343-1378),
Firenze 1968 [1899], doc. 11, pp. 97-99.
32 Su questi avvenimenti cfr. M. Mallett, La conquista della Terraferma,
in Storia di Venezia dalle origini alla caduta della Serenissima, IV, Il Rinascimento.
Politica e cultura, a cura di A. Tenenti - U. Tucci, Roma 1996, pp. 181-244: p. 188.
33 A. Castagnetti, La marca veronese-trevigiana (secoli XI-XIV), in Storia
d’Italia, VII, t. 1, Comuni e signorie nell’Italia nordorientale e centrale: Veneto,
Emilia-Romagna, Toscana, Torino 1997, pp. 159-357: p. 315.

349
Franco Franceschi

Verità, Antonio Maffei e Jacopo Fabbri — spiegarono la loro iniziati-


va allo stesso Da Carrara: «Signore, el puopollo vostro Veronexe per
niuno muodo non vole più sostenere cotal guerra, perché nela vostra
e sua città nonn è vituarie da sostenerssi, né socorsso aspetate: don-
de ànno prexo per partito d’acordarssi con ‘l canpo dela signoria di
Vinexia e cercharà patti utille a voi e a noy; e di questo seate certo
che ad altro muodo non può esere» 34. Non si può dire che ai cittadi-
 

ni di Verona difettasse la chiarezza degli obiettivi o la decisione.


Non meno determinati si mostrarono nelle stesse settimane gli
insorti di Ferrara, prostrati, oltre che dalla carestia e dalla guerra fra
gli Estensi ed i veneziani, anche dalla peste e dalla piena del Po. «Il
Popolo di Ferrara» — scrive Marino Sanudo — «molto mormora-
va, né poteano avere vettovaglie»; allora «andarono dal Marchese,
dicendogli che provedesse, perchè non poteano più soffrire, e che
presto eglino provvederebbono, per modo che tutti sarebbon con-
tenti» 35. In realtà, più che dalla minaccia evocata nel racconto del
 

cronista veneziano, la ricerca di un accordo fra le parti fu accelera-


ta dalle gravi difficoltà in cui entrambi i contendenti si dibattevano,
anche se la pace firmata nel marzo 1405 fu onerosa soprattutto per
Nicolò III d’Este 36. Subito dopo si assisté ad un vero e proprio eso-
 

do di Ferraresi verso Venezia. Lo spettacolo di questa gente affama-


ta era impressionante: «tutta la Piazza di San Marco era quasi piena
di Ferraresi. E certamente non si poteano saziare di pane; e molti ne
morirono per tanto mangiar che fecero, che s’affogarono» 37.  

La fame e la paura di doverla affrontare non solo costituiva-


no un potente incentivo a ripristinare condizioni di vita più umane,
ma implicavano spesso una presa di coscienza di portata più genera-
le, arrivando a determinare mutamenti nei rapporti di forza fra i ceti
sociali e la ridefinizione degli schieramenti politici. Vorrei ricordare
a questo proposito il caso della rivolta perugina del 1371, un episo-
dio spesso citato ma di fatto poco studiato, anche a causa dell’esigui-

34 Galeazzo e Bartolomeo Gatari, Cronaca carrarese confrontata con la reda-


zione di Andrea Gatari (AA. 1318-1407), a cura di A. Medin - G. Tolomei, «Rerum
Italicarum Scriptores», sec. ed., XVII, parte I, Città di Castello 1931, I, p. 557.
35 Marino Sanuto, Vitae ducum venetorum italice ab origine Urbis sive ab
anno CCCCXXI usque ad annum MCCCCXCIII, «Rerum Italicarum Scriptores»,
XXII, Milano 1733, col. 815.
36 E. Guerra, Soggetti a ribalda fortuna. Gli uomini dello stato estense nelle
guerre dell’Italia quattrocentesca, Milano 2005, p. 93.
37 Marino Sanuto, Vitae ducum venetorum, cit., col. 815.

350
Aspirazioni e obiettivi dei rivoltosi

tà delle fonti che ne fanno menzione 38. La sola testimonianza coeva,


 

quella del senese Donato di Neri, non contiene elementi utili per
comprendere gli obiettivi degli insorti, che il cronista qualifica come
«gente lavorante di lana» e «forestieri masnaderotti» scesi in piazza
al grido di «Viva la Chiesa e ‘l Popolo» 39. Qualche particolare in più
 

emerge invece dal quattrocentesco Diario del Graziani, che individua


l’origine della sommossa nell’opposizione della fazione popolare dei
Raspanti all’arrivo del legato destinato, dopo la fine della guerra tra i
perugini e l’esercito pontificio, a governare la città in nome del papa
Gregorio XI 40. Anche per Pompeo Pellini, la cui opera cinquecente-
 

sca fornisce una ricostruzione assai più articolata degli avvenimenti,


la radice della rivolta era lo scontro fra i Raspanti e le diverse forze
che ne volevano abbattere il governo, a partire dai popolani minuti
e dai nobili, ma quest’associazione era per lui una mésalliance, tanto
che avverte il bisogno di spiegarne la logica al lettore: «il Popolo era
per prender l’armi in favor loro [i nobili], et tutto adirato correre alle
case de’ Raspanti; cosa nel vero in tutto contraria alle passate attioni
di questo popolo, perché mentre i nobili erano stati fuori della Città,
non sarebbe stato alcuno di essi, che non havesse fatto ogni cosa a
danni loro, ma hora la fame gli avea fatti volgere ad altri pensieri, et
quelli, che odiavano, li facea amare, et quelli ch’amavano odiare» 41.  

I minuti in particolare, divenuti ormai fieramente nemici del gruppo


al potere, alla cui politica imputavano lo scoppio della carestia, chie-
devano una distribuzione pubblica di grano, considerato che anche
con «una sola misura per testa, il minuto Popolo se ne riparerebbe
almeno per molti giorni» 42. Esigevano inoltre l’abolizione della ga-
 

bella sul macinato, «odiosissima alla plebe» 43, e un radicale cambia-


 

38 Sul quale mi permetto di rinviare ora a Franceschi, I Ciompi a Firenze,


Siena e Perugia, cit.
39 Cronaca senese di Donato di Neri e di suo figlio Neri, in Cronache senesi, cit.,
pp. 566-685: p. 639.
40 Cronaca della città di Perugia dal 1309 al 1491 nota col nome di Diario del
Graziani, a cura di A. Fabretti, «Archivio Storico Italiano», XVI (1850), pp. 69-
750: supplemento terzo, p. 215. Cfr. anche J.-C. Maire Vigueur, Comuni e signorie
in Umbria, Marche e Lazio, in Storia d’Italia, VII, t. 2, Comuni e signorie nell’Italia
nordorientale e centrale: Lazio, Umbria e Marche, Lucca, Torino 1987, pp. 321-606:
p. 543.
41 Pompeo Pellini, Dell’historia di Perugia, 3 voll., rist.anast., Bologna 1968
[1664], I, lib. VIII, p. 1094.
42 Ivi, I, lib. VIII, p. 1095.
43 Ibidem, I, lib. VIII, p. 1103.

351
Franco Franceschi

mento nell’operato degli Ufficiali dell’Abbondanza, così da ottenere


che il «grano, che era stato da luoghi circostanti, et fuori del territo-
rio perugino condotto, per supplire a’ bisogni della povertà, si ven-
desse alle persone povere, et bisognose, et non a Raspanti, et ad altri
Cittadini, che poco ne havevano di bisogno, et erano più de gli altri
di danari abbondanti» 44. Tali richieste vennero sostanzialmente ac-
 

colte se è vero che l’imposta venne abolita 45 e che il legato pontificio,


 

ancora prima di entrare in città, fece annunciare di avere dato dispo-


sizioni per rifornire la popolazione di cereali 46.  

Del resto quello perugino non è l’unico esempio in cui la pro-


testa, oltre a chiedere più cibo, si pose l’obiettivo di modificare la
politica cittadina nei confronti dell’approvvigionamento cerealico-
lo, una circostanza che conferma l’osservazione di Bill Kent secon-
do cui «è troppo facile liquidare le rivolte per il pane […] come
impolitiche» 47.  

4. Il sogno della ricchezza


Nel settembre 1343, nel vuoto di potere seguito alla cacciata del
Duca d’Atene, si riaccese a Firenze il conflitto fra magnati e popo-
lani ed i primi, sotto la pressione della comunità delle Arti, vennero
espulsi dal Priorato. «In questo bollore di città» — annota Giovanni
Villani, ed è un passo famoso — «si levò uno folle e matto cavalie-
re popolano, messere Andrea delli Strozzi, contro a volere de’ suoi
consorti, montò a cavallo coverto armato, ragunando rubaldi e scar-
dassieri e simile gente volonterosi di rubare, in grande numero di pa-
recchie migliaia, promettendo loro di farli tutti ricchi, e dare loro
dovizia di grano, e farli signori, menandoglisi dietro per la terra, […]
gridando: ‘Viva il popolo minuto, e muoiano le gabelle e ‘l popo-
lo grasso!’» 48. Alla massa già predisposta al saccheggio lo Strozzi
 

44 Ibidem, I, lib. VIII, p. 1095.


45 Ibidem, I, lib. VIII, p. 1103.
46 E. Dupré Theseider, La rivolta di Perugia nel 1375 contro l’abate di
Monmaggiore ed i suoi precedenti politici, «Bollettino della deputazione di storia pa-
tria per l’Umbria», XXXV (1938), pp. 69-166: p. 86.
47 F.W. Kent, “Be rather Loved than Feared”. Class Relations in Quattrocento
Florence, in Society and Individual in Renaissance Florence, a cura di W.J. Connell,
Berkeley-Los Angeles-London 2002, pp. 13-50: p. 24.
48 Giovanni Villani, Nuova Cronica, ed. critica a cura di G. Porta, 3 voll.,
Parma 1990-1991, II, lib. XIII, rub. XX, p. 350.

352
Aspirazioni e obiettivi dei rivoltosi

fece dunque una promessa molto pericolosa, e non può meraviglia-


re che questa si comportasse in modo consequenziale: divenuta sot-
to la penna del cronista «una compagna di malandrini», il giorno
successivo la brigata, che «non movea se non solo per potere ruba-
re», riprese la sua azione colpendo per «tutta la città […], e grandi e
popolani» 49. L’episodio è riportato anche da Marchionne di Coppo
 

Stefani, che parla di circa 1300 «tra scardassieri ed altra gente minu-
ta». Affrontati dalla famiglia del Podestà quando già avevano attac-
cato le case dei Visdomini, i ribelli furono dispersi. Alcuni vennero
però catturati e costretti a rivelare il loro piano, che anche secondo
Marchionne consisteva semplicemente nella volontà di impadronir-
si della «roba» e di arricchirsi: «noi cresceremo tanto» — avrebbero
confessato — «che noi faremo grandi ricchezze; sicchè i poveri sa-
ranno una volta ricchi» 50.  

Spostiamoci di trentacinque anni. Nell’ultima fase del Tumulto


del 1378, quando era ormai nell’aria lo scontro finale fra gli operai
lanieri e la comunità delle Arti ricompattatasi contro i rivoluzionari,
Firenze — stando a diversi cronisti — era piena di voci che accusa-
vano i Ciompi di voler «correre la [città], e rubarla e cacciare e ucci-
dere tutti i ricchi e li buoni uomini, e torsi la loro roba» 51. L’anonimo
 

estensore del Diario del Monaldi 52, in maniera particolarmente espli-


 

cita, scrive che «se i minuti avessero vinto, ogni buon cittadino che
avesse sarebbe stato cacciato di casa sua, ed entratovi lo scardassie-
re, togliendovi ciò che avesse» 53. Certo, queste affermazioni riflette-
 

vano innanzitutto il punto di vista di autori non propriamente ben


disposti nei confronti dei rivoltosi e conseguentemente le reali paure
dei ceti abbienti, come rileva del resto la Cronaca prima d’Anonimo,
l’unica scritta da un simpatizzante dei Ciompi, che fa dire ai «signo-

49 Ivi, II, lib. XIII, rub. XXI, pp. 357-358.


50 Cronaca fiorentina di Marchionne di Coppo Stefani, a cura di N. Rodolico,
«Rerum Italicarum Scriptores», sec. ed., XXX, parte I, Città di Castello 1903, rub.
593, pp. 215-216.
51 Ivi, rub. 804, p. 333.
52 Ammesso che si tratti di un solo scrivente, visto che le caratteristiche del te-
sto farebbero «pensare ad una scrittura «familiare e stratificata, se non addirittura al
succedersi di due autori diversi»: A. Cicchetti - R. Mordenti, I libri di famiglia in
Italia, I, Filologia e storiografia letteraria, Roma 1995, p. 172.
53 Diario del Monaldi, in Istorie pistolesi ovvero delle cose avvenute in Toscana
dall’anno MCCC al MCCCXLVIII e diario del Monaldi, Milano 1845, pp. 427-464:
p. 455.

353
Franco Franceschi

ri» e agli «altri cittadini»: «se verrà il caso che possono più che noi,
no’ siamo tutti morti e disfatti d’ogni nostro bene» 54. E tuttavia il  

miraggio della futura ricchezza appare come una costante anche ne-
gli episodi insurrezionali degli anni successivi e in documenti diver-
si, per esempio negli atti giudiziari che sancirono le condanne dei
protagonisti di quei fatti, dove i dialoghi e le frasi cruciali per l’inda-
gine vengono enfatizzati attraverso l’uso del volgare 55. A differenza
 

di quanto avviene nella narrazione cronistica, inoltre, in questi do-


cumenti le dichiarazioni hanno sempre una paternità, sono riferibi-
li ad individui identificabili. A raccontare la loro verità, senz’altro
estorta anche con l’uso della tortura, sono allora Giacomino Nelli,
Guerriante Marignolle, Antonio Benelli detto il Volpino, Antonio
Ricca, Andrea Sali detto Ammazza el vero 56. Questi uomini parla-
 

no a nome del gruppo, ma talvolta esprimono convinzioni e speran-


ze del tutto individuali. Così, ad uno scardassiere soprannominato
El Dodece, il Ricca avrebbe detto nel 1379: «per certo ell’è venuto il
tempo ch’io non andarò più mendicando, e per certo io credo essere
ricco per tutto el tempo della mia vita, e però si tu, Dodece, me vuo-
li tenere credenza et esser con meco tu serai ricco per sempre e aver-
rimo bono stato en Fiorenza» 57.  

Il mendicante che per sempre avrà «bono stato», i poveri che


«saranno una volta ricchi»… In queste parole non c’era solo la fidei-
stica certezza di mutare la propria condizione economica, ma anche
quella di cambiare profondamente la società ribaltando le gerar-
chie sociali. Le aspirazioni dei Ciompi — come ha scritto Gabriella
Piccinni — «adombrano il sogno di un mondo alla rovescia», l’anti-
cipazione sulla terra della promessa di un Aldilà «che premi la pover-
tà e umili la ricchezza» 58. Un sogno duro a morire, secondo quanto
 

testimoniano le parole dette durante la cospirazione organizzata in

54 Cronaca Prima d’Anonimo (1378-1387), in Il Tumulto dei Ciompi. Cronache


e memorie, a cura di G. Scaramella, «Rerum Italicarum Scriptores», seconda ed.,
XVIII, parte III, Bologna 1917-1934, pp. 67-102: p. 83.
55 Begli esempi sono riportati da N. Rodolico, La democrazia fiorentina nel
suo tramonto (1378-1382), Bologna 1905, p. 377 («e se lo ce vene facto, semo per-
sone tucti ricchi»); p. 380 («e serimo tutti ricchi»; «nui andemo in luogo che nui se-
remo tutti ricchi»); p. 381 («e seremo tutti ricchi»); p. 477 («tu si fatto ricco, et non
vuoli più usare coi poveri uomini»).
56 Per questi personaggi cfr. ivi, pp. 376-380.
57 Ibidem, p. 379.
58 G. Piccinni, L’economia e la società urbana, in Storia della società italiana,
VI, La società comunale e il policentrismo, Milano 1986, pp. 279-313: p. 313.

354
Aspirazioni e obiettivi dei rivoltosi

occasione del quinto anniversario del Tumulto, il 21 luglio 1383, cui


parteciparono molti esuli, ovvero «certa gente di cionpi e de l’arti di-
sfatte e d’arti minute e di machontenti» 59. Secondo le informazioni
 

raccolte dall’ambasciatore senese a Firenze, infatti, i ribelli bussava-


no alle porte delle case dei meno abbienti dicendo loro: «È giunta
l’ora in cui compreremo il grano a 15 soldi per staio o meno, e sare-
mo i padroni» 60.  

Nel mondo nuovo che si sarebbe materializzato, dunque, il gra-


no sarebbe stato a buon mercato, a 15 soldi lo staio o magari a 10,
come rinfacciava rabbiosamente Pagnotto Strozzi al popolo minu-
to, reo di non avere sostenuto fino in fondo il suo congiunto Andrea:
«canallia, canallia, canallia, che morete di fame, che avete cacciato
quello che v’avrebbe dato [il grano] ad dece soldi lo staio» 61! Ma  

non era solo questione di pancia: nella società in cui i Ciompi sareb-
bero stati «i padroni» sarebbe arrivata — come afferma un lavoran-
te di lana esiliato a Bologna, Bartolo di Riccardo — anche l’agognata
fine «de tante pene, de tanta tristizia e miseria» 62.  

5. Partecipare o essere ‘signori’?


La volontà di essere parte del ceto di governo era al centro di tut-
te le rivolte che trovavano alimento nella lotta politica. L’esclusione
dalle cariche pubbliche e dalle prerogative che questo privilegio
comportava, per chi riteneva di averne diritto, era una condizione
insopportabile.
Partiamo da Venezia, dove nel 1297, durante il dogato di Pietro
Gradenigo, fu compiuta una delle operazioni più radicali di selezione
del gruppo dirigente, la riforma passata alla storia come ‘serrata’ del
Maggior Consiglio. Lo stato d’animo degli esclusi, soprattutto delle
famiglie dei nuovi ricchi e dei popolari, è magistralmente espresso in
un passo della Cronaca veneta attribuita a Daniele Barbaro: «Ma se-
ben per all’hora non seguirno manifesti tumulti, comenzorno i po-
pulari, et non solo i grandi ma anco quelli del popolo menudo, ad

59 Alle bocche della piazza. Diario di anonimo fiorentino (1382-1401), a cura di


A. Molho - F. Sznura, Firenze 1986, rub. 17, p. 46.
60 Cit. in G.A. Brucker, Dal Comune alla Signoria. La vita pubblica a Firenze
nel primo Rinascimento, trad.it., Bologna 1981 [1977], p. 87.
61 Rodolico, Il popolo minuto, cit., doc. 9, p. 94.
62 Id., La democrazia fiorentina, cit., p. 400.

355
Franco Franceschi

accorzersene a puoco a puoco et a averzer pian pian i occhi dell’in-


telletto e a cognoscer la sua esclusion et a saver per certo che per
grandi che fossero fatti dalla fortuna non erano mai per haver parte
nel governo et nei gradi della città. Donde ne nasseva una comun tri-
stezza et un tacito et intento odio de tutti contra quei che governa-
vano et massimamente contra il dose, che savevano esser sta’ capo et
principio di questo parere» 63. Il risentimento esplose qualche anno
 

dopo, nel 1300, come mostra la maldestra iniziativa del popolare


Marino Bocconio, «uomo di molto seguito per le sue ricchezze, ma
di mente non pari all’ardito concepimento» 64, che con un cospicuo
 

numero di seguaci cercò di fare irruzione nel palazzo ducale, dove


era riunito il Maggior Consiglio, per ottenere il riconoscimento dei
suoi diritti e di quelli dei compagni. Per fortuna degli assediati le
porte ressero all’attacco dei ribelli, ma la situazione rischiava di pre-
cipitare, visto che sulla piazza il tumulto cresceva di intensità. Il doge
e i consiglieri, allora, ricorsero ad uno spietato espediente: «man-
darono a dir loro che saranno chiamati tutti per tessera a cinque a
cinque alla volta, e quelli che venissero ballottati, rimarrebbono del
Consiglio, e resterebbono su, e quelli che cadessero, manderebbo-
no giù del Consiglio. E incominciarono a chiamare Marin Bocco e
Jacopo Boldo, e altri tre. E serrata la porta con buona custodia tra
loro, subito, che erano sul Palazzo, venivano essi spogliati, e battuti
nel trabucco di Torresella, e morti». In questo modo furono elimina-
ti — secondo Marino Sanudo — 150-160 rivoltosi e i loro capi, i cui
cadaveri furono poi esposti; gli altri tumultuanti furono dispersi «sul
tardi», quando «discese il gran Consiglio coll’arme in mano in piaz-
za» minacciando la forca per chi non se ne tornasse a casa 65.  

Colpisce, nel commento sintetico del cronista, la contrappo-


sizione tra la volontà omicida dei congiurati («fecero cospirazione
di dover correre la Piazza, e di venire a dar la morte al Doge, e a’
gentiluomini») e quella, crudelmente messa in atto, dei membri del-
l’establishment («il Doge subito col consiglio fece prendere i det-
ti malfattori, e Marino Bocco co’ gli altri sopranominati fece subito

63 Cit. in F. Rossi, Quasi una dinastia: i Gradenigo tra XIII e XIV secolo, in
Grado, Venezia, i Gradenigo, Catalogo della Mostra (Venezia, 01.VI-22.VII.2001), a
cura di M. Zorzi - S. Marcon, Venezia 2001, pp. 155-188: p. 164.
64 S. Romanin, Storia documentata di Venezia, 10 voll., Venezia 1972-1975
[1853-1861], III, p. 7.
65 Marino Sanuto, Vitae Ducorum Venetorum, cit., coll. 583-584.

356
Aspirazioni e obiettivi dei rivoltosi

appiccare tralle due Colonne, che sono appresso la Chiesa di San


Marco» 66); un’opposizione che evoca lo schema binario di tante pa-
 

role d’ordine dei rivoltosi: «Viva il popolo e morano lupi!» urlava-


no nel 1282 i populares di Viterbo all’indirizzo dei nobili 67; «Muoia  

la Podestà! A l’arme a l’arme, e viva il popolo!» quelli fiorentini du-


rante i torbidi che portarono alla cacciata di Giano della Bella nel
1295 68; «Viva lo puopolo! Viva lo puopolo!» e «Mora lo traditore
 

Cola de Rienzi, mora!» scandiva a Roma la folla durante la solleva-


zione che nel 1354 segnò la fine del Tribuno 69.  

«Muoia i Nove e viva il popolo!» era anche lo slogan con cui i


giudici i e notai senesi cercarono di abbattere nel 1318 il regime dei
Nove 70, che li escludeva dall’accesso agli uffici. L’antefatto della ri-
 

volta — secondo il racconto di Agnolo di Tura del Grasso — stava


tutto nella resistenza del governo alle loro richieste: «I giudici e nota-
ri di Siena andoro in palazzo all’ufitio de’ signori Nove, e a loro féro
una domanda: come i detti signori Nove dessero parte de’ regimen-
to a essi giudici e notari e agli altri buoni omini de la città; et oltre a
questo domandaro e féro molte altre parole, et per questa cagione i
signori Nove lo’ parbe male; e sdignarono con i detti giudici e nota-
ri e tolser lo’ il breve […], e tolser lo’ le signorie, cioè gli uffitii de le
terre del contado e altri uffitii» 71. Questa reazione, ed in particola-
 

re la soppressione della loro Arte, portò i ribelli ad accelerare i tem-


pi della loro azione: «sdegnatisi i Dottori, e’ Notari maggiormente,
convenner co’ Macellari, e Fabbri et altri della Plebe, e insieme fecer
congiura d’ammazzare i Nove, che risedevano allora nel Magistrato,
con tutti i loro aderenti, […] e domandando con l’arme in mano di
voler participare del Governo della Repubblica» 72.  

66
Ivi, col. 581.
67
Niccola della Tuccia, Cronache di Viterbo, cit., p. 32.
68
Giovanni Villani, Nuova Cronica, cit., II, lib. IX, rub. VIII, p. 22.
69
Anonimo Romano, Cronica, ed. critica a cura di G. Porta, Milano 1979,
cap. XXVII, pp. 259-260. Cfr. anche T. Di Carpegna Falconieri, Cola di Rienzo,
Presentazione di G. Arnaldi, Roma 2002, p. 205.
70 Cronaca senese attribuita ad Agnolo di Tura del Grasso detta la Cronaca
Maggiore, in Cronache senesi, cit., pp. 253-564: p. 372. Sui caratteri di questa ri-
volta cfr. Bowsky, The Anatomy of Rebellion in Fourteenth-Century Siena, cit., pp.
244sgg; V. Costantini, Siena 1318: la congiura di carnaioli, notai e magnati contro il
governo dei Nove, in corso di pubblicazione su «Studi Storici».
71 Cronaca senese attribuita ad Agnolo di Tura del Grasso, cit., p. 372.
72 Orazio Malavolti, Dell’Historia di Siena, rist.anast., Bologna 1982 [1599],
part. II, lib. V, p. 80r.

357
Franco Franceschi

A rivendicare «con l’arme in mano» i loro diritti politici furo-


no senza dubbio i promotori del fiorentino Tumulto dei Ciompi. Sui
caratteri, gli obiettivi e gli esiti di questa complessa rivolta, anima-
ta dall’iniziativa del popolo minuto in una città fortemente segnata
dallo sviluppo di nuovi rapporti economici e sociali legati alla mas-
siccia diffusione della manifattura tessile, si sono scritte molte pagi-
ne 73. In effetti la lista dei desiderata dei rivoltosi, formulata nel corso
 

dell’insurrezione del luglio 1378, era assai corposa, comprendendo


oltre venticinque richieste, tra cui spiccavano la soppressione del-
l’Ufficiale Forestiero dell’Arte della Lana, un migliore trattamento
salariale, l’abolizione della pena del taglio della mano per i debitori
insolventi, l’impunità per i responsabili degli incendi e dei saccheg-
gi perpetrati durante la rivolta di giugno, la realizzazione di una serie
di riforme finanziarie destinate a modificare radicalmente le modali-
tà di tassazione e la gestione del debito pubblico. Ma il centro delle
rivendicazioni era costituito dall’introduzione di una rappresentan-
za corporativa in grado di affrancare artigiani e salariati della mani-
fattura laniera dalla condizione di ‘sottoposti’ che li caratterizzava e
dalla correlata volontà, espressa chiaramente nelle parole di uno de-
gli insorti, di «avere parte nel reggimento della città» 74: più precisa-
 

mente il diritto di occupare un quarto dei seggi nella Signoria e nei


Collegi e, a rotazione con le Arti maggiori e le minori, quello di acce-
dere alla carica di Gonfaloniere di Giustizia 75.  

Il temporaneo successo della rivoluzione portò effettivamente


alla creazione di tre Corporazioni che si aggiunsero alle ventuno ri-
conosciute, una delle quali, l’Arte del Popolo di Dio, era specifica-
mente riservata alle migliaia di salariati e tessitori che costituivano la
spina dorsale della maggiore industria fiorentina di quei tempi; si-
gnificò, inoltre, la nascita di un governo ‘di coalizione’ diviso in par-
ti uguali fra i rappresentanti delle Arti maggiori, delle minori e delle
nuove sotto la presidenza del pettinatore e fattore di lana Michele
di Lando 76. Per la prima volta coloro che fino ad allora erano stati
 

privati di qualsiasi forma di espressione politica fecero ingresso nel-


l’esecutivo e nelle principali magistrature cittadine. Con tono quasi

73 Per un primo approccio alla bibliografia cfr. la nota 5.


74 Alamanno Acciaioli, Cronaca, in Il Tumulto dei Ciompi. Cronache e memo-
rie, cit., pp. 11-34: p. 21.
75 Franceschi, I Ciompi a Firenze, Siena e Perugia, cit., pp. 296-299.
76 Ivi, pp. 288-289.

358
Aspirazioni e obiettivi dei rivoltosi

commosso la Cronaca prima d’Anonimo commentò il risultato delle


nuove elezioni: «e così si fece il buono scuittino, che contentò mol-
ta gente, i quali non avevano mai auto parte d’uficio, e sempre erano
stati alle spese. Quando fu fenito lo scuittino e signori fecero veni-
re di molti frati, i quali cantarono il Tadeo con molte altre santissime
cose; e sì vi furon tutti i suoni del comune, ciascuno lodando Iddio,
e suonarono tutte le campane alla distesa, e d’altre chiese, co’ gran
groria e festa […]» 77. Ben altro, naturalmente, fu il giudizio che i
 

cronisti nemici del nuovo ordine dettero dello scrutinio voluto dai
rivoltosi: «O Idio, che gente fu quella che ebbe a rifare tanto nobile
città e così nobile reggimento, che certamente più che la metà […] fu
gente ruffiana, barattieri, ladroni, battilana, pochissimi artefici che
fussino conosciuti; non altro che gente, erano tutti, veniticcia, che
eglino medesimi, domandandogli, non sapevano donde erano venu-
ti, né di che paese» 78. 

Il meccanismo messo in moto con le sommosse di giugno e


di luglio, peraltro, non era destinato a fermarsi e alla fine di agosto
scoppiò quella che è stata definita la «rivolta radicale» 79. Delusi dal-
 

l’azione contraddittoria e insufficiente della coalizione governativa,


provati dalla serrata delle botteghe messa in atto dai lanaioli come
strumento di pressione contro di loro, in rotta con gli esponenti de-
gli stessi ceti artigianali che li avevano fino a poco prima sostenu-
ti, i Ciompi reagirono delegando la propria rappresentanza ad una
commissione di otto membri — gli Otto Santi della balìa del Popolo
di Dio — destinata a funzionare come una sorta di governo-ombra
con ampi poteri di controllo sull’esecutivo ufficiale 80; concepirono
 

inoltre una serie di riforme destinate a colpire il vecchio gruppo di-


rigente e a spianare la strada ad un governo di lavoratori: la trasfor-
mazione del sistema elettorale, con l’attribuzione del diritto di voto
ai discepoli e agli altri sottoposti di tutte le Corporazioni; l’esclusione
dagli uffici dei cavalieri, e, per un periodo dai 6 ai 10 anni, di tutti co-
loro che ricoprivano allora le tre maggiori cariche della Repubblica;

77 Cronaca Prima d’Anonimo, cit., p. 78.


78 Aggiunte anonime alla Cronaca di Alamanno Acciaioli, in Il Tumulto dei
Ciompi. Cronache e memorie, cit., pp. 35-41: p. 36.
79 Stella, La révolte des Ciompi, cit., p. 53.
80 «Che niuna cosa che toccasse la città, non si facesse senza la diliberazio-
ne di costoro», scrive lo Stefani: Cronaca fiorentina di Marchionne di Coppo Stefani,
cit., p. 331.

359
Franco Franceschi

il completo rinnovamento del personale amministrativo e degli stes-


si stipendiari del Comune 81. Come ha scritto Ernesto Screpanti, che
 

ha compiuto in un libro recente la disamina forse più minuziosa che


sia stata mai tentata dei programmi dei rivoluzionari fiorentini, «i
Ciompi stavano […] preparando la presa del potere. E questa vol-
ta sembravano aspirare a tutto il potere» 82. Le cose andarono poi
 

diversamente e il progetto naufragò dinanzi alla reazione dell’insie-


me degli artifices, compresi quelli afferenti alle neocostituite Arti dei
Tintori e dei Farsettai, che contribuirono alla sconfitta dei Ciompi e
all’immediata abrogazione dell’Arte del Popolo di Dio. In quei gior-
ni — sottolinea con compiacimento uno dei resoconti anonimi degli
eventi — «si vidde tanta mutazione nelle menti degli uomini, che era
cosa maravigliosa considerare li medesimi, quali pochi dì innanzi con
tanto ardore avevano domandato che si desse il governo al popolo
minuto, allora con maggior furia e disposizione gridare e affermare
che nessuno della plebe avesse uffici o onori o benefici» 83.  

Il percorso del Tumulto del 1378 — dall’iniziale scopo di assi-


curare la rappresentanza politica ad una vastissima schiera di esclu-
si, alla redistribuzione delle cariche di governo a favore del popolo
minuto, alla lotta condotta dai lavoratori dipendenti per ottenere il
monopolio del potere — rappresenta una testimonianza eloquen-
te dell’evoluzione di interessi, volontà e aspirazioni intimamente
connaturata allo svolgimento delle rivolte, e non solo di quelle me-
dievali. Tuttavia la chiarezza con cui gli insorti fiorentini misero pro-
gressivamente a fuoco la loro condizione di sfruttamento economico
e di discriminazione politico-sociale, e la conseguente lucidità con
cui formularono i loro obiettivi, non trovano riscontro in nessun’al-
tra sollevazione italiana del tardo Medioevo.

81 Stella, La révolte des Ciompi, cit., p. 54; Screpanti, L’angelo della libera-
zione, cit., pp. 146-154; R. Trexler, Follow the Flag. The Ciompi Revolt Seen from
the Streets, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», XLVI (1984), pp. 357-
392: p. 362.
82 Screpanti, L’angelo della liberazione, cit., p. 146.
83 Aggiunte anonime alla Cronaca di Alamanno Acciaioli, cit., p. 40.

360
Domenica 17 maggio, pomeriggio
Pistoia, Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei Vescovi
Presidente Prof. Aldo A. Settia

Giovanni Cherubini
La ricerca del decoro urbano

Nei duecentocinquant’anni che vanno dall’inizio del XII alla


metà del XIV secolo si registrò in Italia, come un po’ in tutta Europa,
una crescita delle città, sia pure in modi o con intensità diverse dal-
l’una all’altra parte del paese. In quei secoli si fissarono infatti, tra
il Sud, le isole e il Centro-Nord, alcune differenziazioni istituziona-
li destinate a durare nel tempo e a condizionare la storia del mon-
do urbano, così come della penisola nel suo complesso, in molti dei
suoi aspetti. Nel Centro e nel Nord le città raggiunsero il massimo
del loro vigore, dando vita a una famiglia di piccole realtà territoriali,
vivacissime e presto in conflitto con l’autorità dell’impero alla quale
tentarono e in larga parte riuscirono a sottrarsi. Tra la Romagna e il
Lazio esse trovarono tuttavia un limite formale nel crescente potere
della Chiesa. Nell’estremo Nord, viceversa, sopravvisse ad esempio
in una città come Trento, il potere del vescovo locale sulla città 1. A  

Venezia, che era originariamente appartenuta all’impero di Bisanzio


senza mai passare a quello d’Occidente, le forme del potere assunse-
ro, con al vertice la figura del doge, un connotato particolare 2. Nel  

Mezzogiorno continentale e in Sicilia, al contrario, al particolarismo

1 F. Seneca, Problemi economici e demografici del Trentino nei secoli XIII e


XIV, in Studi e ricerche storiche sulla regione trentina, Padova 1953, pp. 7-47; R.
Bocchi - C. Orandini, Le città nella storia d’Italia. Trento, Roma-Bari 1983.
2 G. Cracco, Società e stato nel Medioevo veneziano (sec. XII-XV), Firenze
1967.

361
Giovanni Cherubini

cittadino dell’Italia centro-settentrionale venne a contrapporsi nel


corso del XII secolo prima la dominazione, poi il regno unitario dei
normanni, che passò successivamente agli Svevi 3. Ma dalla fine del
 

XIII secolo la nuova monarchia degli Angiò perse, di fatto, il do-


minio sull’isola, che passò ad rampollo degli Aragonesi di Spagna,
mentre la Sardegna, che era caduta sotto la supremazia della città
di Pisa, passò più tardi sotto il dominio degli Aragonesi del ramo
principale 4. 

Parlare dunque, come si chiede, di «ricerca del decoro urba-


no», ed in sottinteso di come fu vissuto questo processo di abbelli-
mento delle città, o almeno di certe città, mettendolo in relazione,
secondo vuole lo spirito del nostro convegno, con le reazioni, po-
sitive, negative, o indifferenti che di fronte a questo manifestarono
coloro che nelle città abitavano ed agivano, implica la preventiva di-
chiarazione che non in tutti quei diversi ambiti territoriali di cui ho
detto quel decoro, quella ricerca dell’ordine e della bellezza cittadi-
na assunsero gli stessi aspetti e la medesima intensità.
Per le città dell’area comunale le nostre notazioni devono esse-
re un po’ diffuse che per le altre aree del paese. Alla temperie ideale
dei centri urbani dettero in quei territori un contributo essenziale le
scelte e gli orientamenti relativi all’urbanistica ed all’edilizia pubbli-
ca. Vi contribuivano tanto gli ideali dei ceti di governo quanto quel-

3 In Italia forse la più ampia e comoda documentazione sulla conquista nor-


manna del Mezzogiorno, sul regno sino all’avvento degli Svevi, in una certa misura
anche sullo stesso dominio svevo, e non soltanto per quel che riguarda la generale
vicenda politica, ma anche per le valutazioni territoriali, l’economia, le diverse atti-
vità, le crociate, le città ed altre cose ancora è rappresentata dalle diciottesime «gior-
nate» di studi organizzate dal Centro di Studi Normanno-Svevi di Bari tra il 1975 e
il 2010. A quei comodi volumi che raccolgono le relazioni di molti specialisti diversi
mi permetto, per brevità, globalmente di rinviare, aggiungendo soltanto il volume di
D. Matthew, I normanni in Italia, trad.it., Roma-Bari 1997. Dato il tema affrontato
in queste pagine faccio un’eccezione anche per Federico II e per il suo rapporto con
le città, rinviando al mio Federico II e le città del regno di Sicilia, in L’eredità cultu-
rale di Gina Fasoli, Atti del Convegno di studi per il centenario della nascita (1905-
2005), Bologna-Bassano del Grappa, 24-25-26 novembre 2005, a cura di Francesca
Bocchi - Gian Maria Varanini, Roma 2008, pp. 241-259. Ma data l’importanza
della figura del sovrano per la storia del Mezzogiorno, dell’Italia e dell’impero mi
permetto anche di rinviare all’ampia opera di W. Stürner, Federico II e l’apogeo del-
l’Impero, Roma 2009, introdotta da un’ampia presentazione di Ortensio Zecchino
(«Federico II tra i giudizi e i pregiudizi storiografici otto-novecenteschi»).
4 F.C. Casula, La Sardegna aragonese, 2 voll. (1, La Corona d’Aragona; 2, La
Nazione Sarda), Sassari 1990.

362
La ricerca del decoro urbano

li delle cittadinanze, sia il sentimento civico che la religiosità, che gli


orientamenti dei laici e quelli dei religiosi, anche attraverso conflit-
ti, concorrenzialità e gelosie, che finivano comunque, di regola, per
comporsi in una sintesi generale e superiore. Questo secondo quan-
to ci dicono le fonti, che sono tuttavia, in primo luogo, specchio del
potere, dei ceti superiori o almeno dei ceti più strutturati nella so-
cietà. Ma cosa veramente pensavano i poveri, i miserabili delle città,
che vivevano di carità e di espedienti? Un’opera dedicata a Firenze,
vecchia di più di un secolo, ci segnala, ad esempio, la carità che molti
poveri di diversa condizione ricevevano dalla compagnia di Or San
Michele 5. Più significativa e concreta la notizia che ci giunge dalle
 

fonti senesi. Queste ci dicono che gli iscritti alla «tavola delle posses-
sioni» furono nel 1318, in una metà circa delle circoscrizioni cittadi-
ne, 2.560, ma nel 1328 gli iscritti nella «lira», che non riproduceva i
dati delle proprietà, ma soltanto una ipotetica valutazione della ca-
pacità contributiva, anche molto modesta, dei cittadini, risultarono
5.121. Un numero tanto più alto non può essere imputato o soltanto
imputato a un aumento della popolazione del 50% in soli dieci anni,
ma trova la sua logica spiegazione nell’esistenza di una quota mol-
to larga di nullatenenti 6. È possibile che anche tutti questi cittadini
 

più modesti, di Firenze, di Siena o di altre città, che vivevano in mol-


ti casi nella povertà e in condizioni di grave o gravissimo disagio, fos-
sero tuttavia anch’essi toccati dalla bellezza crescente della loro città.
Ma si può anche, e forse più giustamente, pensare che quella bellez-
za non riuscisse, o non riuscisse sempre, a commuoverli.
Comunque, nel corso di quei due secoli e mezzo di cui ci oc-
cupiamo, tutte le città, tanto dell’area comunale quanto del regno
meridionale, sia pure con alcune ben note eccezioni di differente na-
tura (Roma, Venezia, L’Aquila 7), rinnovarono o allargarono, una o
 

5 S. La Sorsa, La compagnia d’Or San Michele ovvero una pagina della benefi-
cenza in Toscana nel secolo XIV, Trani 1902, pp. 86-95.
6 G. Cherubini, Proprietari, contadini e campagne senesi all’inizio del Trecento,
in Id., Signori, contadini, borghesi. Ricerche sulla società italiana del basso Medioevo,
Firenze 19772, pp. 245-247.
7 La prima dotata di una sopravvissuta e lunghissima cinta antica, troppo lun-
ga per le dimensioni della Roma medievale, che quindi poneva ai romani problemi
di natura diversi da quelli consueti; Venezia priva di mura per la difesa, che le garan-
tivano il mare e la flotta; L’Aquila perché fondata subito dopo la metà del Duecento.
Si veda su quest’ultima almeno il volume di A. Clementi e E. Piroddi, L’Aquila, Bari
1986 (“Le città nella storia d’Italia”, dir. Cesare De Seta).

363
Giovanni Cherubini

più di una volta, le loro cinte murarie, in imprese che durarono tal-
volta decenni, pagando folle di scassatori, di manovali, di muratori,
elaborando anche per l’impresa delle mura una legislazione che pre-
vedeva, talvolta, degli appositi lasciti testamentari 8. Se le mura ga-
 

rantivano ovviamente la sicurezza ed attiravano di conseguenza tutto


l’impegno dei governanti, ci sembra tuttavia che la gara maggiore, fra
le diverse città, riguardò la costruzione o ricostruzione della catte-
drale, che dava un po’n ovunque il tono alla città e ne segnava l’iden-
tità, sia nel Mezzogiorno e nelle isole che, ancora di più, nell’area
comunale. Ovunque nacquero esempi splendidi di questi edifici.
Basti pensare al duomo di Palermo, a quello di Monreale, a quel-
lo di Cefalù 9, alle cattedrali delle città pugliesi, al Duomo di Amalfi,
 

a quello straordinario di Pisa, con la cattedrale, il campanile pen-


dente, il battistero, il cimitero, tutto disteso in un tripudio di mar-
mi su un amplissimo spazio di suolo a ridosso delle mura 10, oppure  

alla cattedrale di Orvieto 11, a quella nuova di Santa Maria del Fiore
 

voluta ed iniziata dai fiorentini con accanto lo splendido campanile


di Giotto 12, e poi al Duomo di Siena, non terminato, ma impressio-
 

nante per la sua ambizione 13, ed ancora alle cattedrali di Modena, di


 

8 G. Cherubini, Le città italiane nell’età di Dante, Ospedaletto (PI), 1991,


pp. 22-23. Fra quelle città ci furono, fra le altre, Arezzo, Padova, Firenze, Pistoia,
Messina, Milano, Napoli, Pisa, Siena, Orvieto, Verona. Per cenni alle mura delle
città portuali dell’area tirrenica — Genova, Amalfi, Reggio, Palermo, Messina —
rinvio a Id., Impianto urbano e strutture architettoniche delle città portuali dell’Ita-
lia tirrenica, in Città e vita cittadina nei paesi dell’area mediterranea. Secoli XI-XV, a
cura di B. Saitta, Roma, 2006, pp. 106-107.
9 Sul quale informazioni utilissime mi furono offerte, molti anni fa, dal
Catalogo della mostra Documenti e testimonianze figurative della Basilica ruggeria-
na di Cefalù, Palermo 1982.
10 Mi limito qui a ricordare soltanto un paio di volumi su questo complesso
di monumenti, del resto tutto eccezionale anche nel contesto più generale delle cit-
tà italiane: G. Garzella, Pisa com’era: topografia e insediamento dall’impianto tardo
antico alla città murata del secolo XII, Napoli 1990; F. Redi, Pisa com’era: archeolo-
gia, urbanistica e strutture materiali (secoli V-XIV), Napoli 1991.
11 Il Duomo di Orvieto, a cura di L. Riccetti, Bari 1988.
12 G. Cherubini, La Firenze di Santa Maria del Fiore, in La cattedrale e la città.
Saggi sul Duomo di Firenze, Atti del VII centenario del Duomo di Firenze, a cura di
T. Verdon - A. Innocenti, Firenze 2001, I, pp. 27-37.
13 Uno strumento di straordinaria utilità per la storia della cattedrale sene-
se, sia di quella ancora esistente, sia di quella che la città non riuscì a portare a ter-
mine è costituito dal volume di A. Giorgi e S. Moscadelli, Costruire una cattedrale.
L’Opera di Santa Maria di Siena tra XII e XIV secolo, München 2005, che compren-
de una amplissima ricostruzione storica, non esclusi i cantieri, con la storia del la-

364
La ricerca del decoro urbano

Parma, di Genova, di Trento, ed infine, appartato da tutti, all’orien-


taleggiante San Marco di Venezia 14, e a molti, molti altri edifici. Non
 

si può non rimanere incantati di fronte a tanta grandezza e a tan-


ta bellezza. E si può forse soltanto aggiungere che nelle cattedra-
li costruite nelle città comunali la partecipazione ai progetti, la loro
gestione, la convinzione che quelle chiese fossero la manifestazione
massima della città vivente erano sicuramente più forti che altrove in
Italia, per quanto sia opportuno precisare che nel secondo caso il no-
stro giudizio si basa soprattutto sulla sempre ambigua testimonianza
del silenzio documentario.
Ma dalla prima metà del Duecento e non sempre rimanendo in-
variate nella loro prima realizzazione altre chiese, oltre a quelle mo-
nastiche o parrocchiali, spesso pregevoli, vennero a popolare le città,
cioè le chiese degli ordini mendicanti, che si collegavano a tutta una
nuova sensibilità religiosa e ad una nuova centralità della vita urba-
na. Esse comprendevano, nelle situazioni più ricche, di regola ap-
poggiate a un convento, le chiese dei francescani e dei domenicani,
quelle degli agostiniani, dei carmelitani e dei serviti. Esse vennero
distribuite nelle zone più periferiche dei centri urbani e l’una lonta-
na dalle altre, a voler palesemente significare una sorta di spartizione
dello spazio urbano, cioè concretamente la spartizione di un popo-
lo di fedeli più specificamente proprio, predisposto ad essere guida-
to da una comunità conventuale particolare ed insieme ben disposto
alla carità a favore dei frati. Per un esempio straordinario, anche sul
piano artistico, del fenomeno che ora richiamo, mi basta ricordare,
senza toccare le realizzazioni un po’ più tarde, l’esempio delle due
chiese fiorentine di Santa Croce e di Santa Maria Novella, fiancheg-
giate da popolosi conventi e già esempio, al loro interno, almeno la
prima, con la presenza di cappelle di ricche e potenti famiglie affre-
scate da un grande artista alla moda come Giotto, di quel gusto citta-
dino del decoro urbano a cui si richiama questo mio intervento. Ma
è anche opportuno ricordare che l’edificazione di tutte quelle chiese,
almeno nelle città e nei centri maggiori dell’Italia comunale — cito,

voro e dei materiali impiegati, e senza alla fine privare il lettore di una larghissima
mole di dati organizzati in tabelle, di tavole, di appendici, il tutto concluso da un fit-
to ed accuratissimo indice.
14 Mi basta, non ostante i molti studi ad esso dedicati, rinviare soltanto, per
il suo carattere di sintetico profilo di storia e immagine della città, J.-C. Hocquet,
Venise au Moyen Âge, Paris 2003, pp. 228-230.

365
Giovanni Cherubini

a proposito dei secondi, le toscane Prato e San Gimignano che cit-


tà non erano perché prive di un vescovo, ma che mostrarono spic-
cate ambizioni urbane — comportarono spesso, a riprova di quanto
i cittadini curassero la loro piccola patria, spese e contributi da par-
te della collettività per l’acquisto dei terreni o la ripetuta fornitura di
mattoni e di calcina.
Se gli edifici religiosi richiamavano, come ho osservato, l’atten-
zione delle città e dei loro governi, non è tuttavia da quelle fabbri-
che, pur rilevantissime in mezzo agli edifici cittadini, che potremmo
giudicare meglio il senso della città dei cittadini italiani nel loro com-
plesso, e dei cittadini delle città dell’Italia comunale in modo più
particolare. C’è ad esempio un fatto, collocato a metà tra la carità
cristiana che animava una società segnata, grazie allo stesso svilup-
po economico, da terribili diversità sociali e dalla presenza, come ho
accennato, di folle di poveri e di miserabili, ed un incipiente, anche
se non chiaro o non sempre chiaro bisogno di soluzioni in qualche
modo animate da intenti sociali, che finì per far emergere connota-
ti idealmente nuovi, segnati dalla presenza di laici caritatevoli, il bi-
sogno di nuovi ospedali 15. Essi mantenevano, in maggiore o minore
 

misura, la vecchia combinazione tra l’ospedale in cui curare gli am-


malati e l’ospizio in cui accogliere, magari per brevi periodi, i pove-

15 Per un profilo generale rinvio al mio L’ospedale medievale in Italia: no-


stre conoscenze e suoi connotati, G. Cherubini, Il lavoro, la taverna, la strada. Scorci
di Medioevo, Napoli 1997, pp. 173-189. Ma il tema è stato a lungo battuto dal-
la storiografia. Ricordo che nel volume Città e servizi sociali nell’Italia dei secoli
XII-XV, Pistoia 1990, fu, ad esempio, pubblicata una serie di interventi sull’argo-
mento da parte di Giuliana Albini, Gian Maria Varanini e Giuseppina De Sandre
Gasparini, Mauro Ronzani, Lucia Sandri, Enrico Coturri, Gabriella Piccinni, Pierre
Racine, in parte segnalati ed ampiamente utilizzati, insieme ad altri lavori, nel mio
saggio or ora ricordato. Ma aggiungo che intorno al grande ospedale senese di Santa
Maria della Scala, ora trasformato in un luogo d’arte, di ricerca e di cultura dopo
l’intelligente indagine archeologica guidata per alcuni anni dal carissimo amico
Riccardo Francovich, immaturamente scomparso, ha preso il via sotto la direzione
di Gabriella Piccinni ed il nome del Dipartimento di Storia dell’Università di Siena
una collanina di studi ospedalieri. Battezzata «Ospedali medievali tra carità e servi-
zio», essa già accoglie i lavori di M. Belli, F. Grassi, B. Sordini, La cucina di un ospe-
dale del Trecento. Gli spazi, gli oggetti, il cibo nel Santa Maria della Scala di Siena,
Ospedaletto (PI) 20102; L. Brunetti, Agnese e il suo ospedale. Siena, XIII-XV secolo,
Ospedaletto (PI) 2005; M. Pellegrini, La comunità ospedaliera di Santa Maria della
Scala e il suo più antico statuto (Siena, 1305), Ospedaletto (PI) 2005; E. Di Maggio,
Le donne dell’ospedale del Salvatore di Roma. Sistema assistenziale e beneficenza fem-
minile nei secoli XV e XVI, Ospedaletto (PI) 2008.

366
La ricerca del decoro urbano

ri e i miserabili. Ma queste nuove, spesso straordinarie realizzazioni,


furono anche pensate, secondo quello che era ormai l’animo delle
città comunali, maggiori e minori, come un elemento del decoro ur-
bano. Basti in proposito richiamare alla mente due esempi, che co-
stituirono oggetto di ammirazione e di emulazione al di fuori delle
loro città e della stessa Toscana, come l’ospedale di Santa Maria del-
la Scala di Siena e quello di Santa Maria Nuova di Firenze.
Se tutto quello che abbiamo sin qui richiamato è una prova si-
cura dell’emergere del gusto e del desiderio di vivere in una città
bella, ammirevole (anche da parte dei forestieri, naturalmente, non
foss’altro perché quell’Italia del 1100-1350 era un’Italia ormai battu-
ta, più o meno ampiamente, dalla circolazione di forestieri, mercanti,
pellegrini, prelati, uomini d’arme, lavoratori diversi che si allonta-
navano da casa per andare lontano a cercare un guadagno), tanto
più quel desiderio si palesa quando i governi delle città, e le popo-
lazioni su cui si reggono, si propongono di operare sul tessuto urba-
no in genere, sulle vie, le piazze, le case, gli edifici di uso collettivo
o addirittura di rappresentanza politica. Con una abitudine, che mi
piace qui ricordare per il fatto che si diffuse in modo particolare,
non stranamente, in una città che seppe concepire e realizzare un af-
fresco unico nel suo genere e di straordinario vigore anche questo
aspetto, cioè Gli effetti del Buono e del cattivo governo di Ambrogio
Lorenzetti (siamo cronologicamente al margine inferiore del perio-
do considerato). I governanti senesi presero l’abitudine di punteg-
giare le deliberazioni dei loro Consigli, quando dovevano occuparsi
della sistemazione da dare alla città, con l’endiadi parlante che quel-
le loro deliberazioni ubbidivano o dovevano ubbidire al «bello» e
all’«utile» 16. L’uno e l’altro, da soli, erano evidentemente giudica-
 

ti insufficienti per una città che mirava ad essere in tutto funzionale,


ma che si preoccupava anche di garantire appunto a cittadini e fore-
stieri che circolavano numerosi sulla via Francigena che attraversa-
va Siena, la vista di una città che potremmo dire piena di «decoro».
E di quel decoro e di quella funzionalità cittadina i senesi sperava-
no, credo a buona ragione, che i forestieri, tornati a casa, facesse-
ro memoria. A Firenze, più di settant’anni fa, dedicò invece un suo

16 D. Balestracci - G. Piccinni, Siena nel Trecento. Assetto urbano e struttu-


re edilizie, Firenze 1977. Misi in rilievo questa endiadi significativa nella prefazione
al volume e non ho motivo di mutare dopo tanto tempo ciò che allora risultava evi-
dente e ben dimostrato ai miei occhi.

367
Giovanni Cherubini

articoletto rimasto giustamente famoso uno studioso finissimo e di


particolare competenza per la storia urbana come Nicola Ottokar. I
fiorentini appaiono nella documentazione da lui riferita, non diver-
samente dai senesi, ma forse in misura anche più forte di loro perché
alle prese con una città quasi pianeggiante, ormai guidati dal deside-
rio di raddrizzare ed ampliare le sue vie, oltre che di risanare i luoghi
fangosi o malsani dell’abitato. Ma diversamente dai vicini le loro af-
fermazioni programmatiche non ci appaiono altrettanto solenni per
quanto chiaramente guidate dal desiderio di accrescere l’«amenità»
e la «bellezza» della città, di realizzare vie «bellissime», di cancellare
da loro la «vergogna» e l’«obbrobrio» 17.  

La documentazione, che non si limita naturalmente alle città to-


scane, ma interessa anche quelle emiliane e dell’Italia superiore 18, ri-  

sulta in definitiva punteggiata di provvedimenti che riguardano, da


un certo momento, sia la pavimentazione delle stade, in pietre o in
mattoni, la costruzione di fossatelli di scolo delle acque e più in gene-
rale la cura dell’igiene pubblica, la pavimentazione delle piazze delle
erbe e dei luoghi di mercato, la costruzione di fontane, di pescherie,
di luoghi per la vendita delle carni, il raddrizzamento progressivo,
se e dove possibile, delle vie. Da quest’ultimo aspetto, che comin-
ciò ad affermarsi in modo assai netto verso la fine del XIII secolo in
Toscana e già prima a nord dell’Appennino, qualcuno trasse anzi,
particolarmente per Firenze, una qualche impressione di annunzio
delle sistemazioni cittadine del Rinascimento quando, per la verità,
a nuove concezioni urbanistiche ed edilizie si affiancò anche un al-
lentamento della pressione demografica sul suolo urbano che favorì
quelle scelte. Per Bologna sappiamo anche che si progettarono e fu-
rono realizzate vie porticate per consentire che i movimenti degli uo-
mini non si interrompessero per i capricci del clima 19. Ma un fatto  

certo fu comunque una sempre più attenta sorveglianza dei governi


cittadini sulla edificazione delle abitazioni private, per le quali furo-

17 L’articolo Criteri d’ordine, di regolarità e d’organizzazione dell’urbanistica e


in genere della vita fiorentina dei secoli XIII-XIV fu poi ristampato in N. Ottokar,
Studi comunali e fiorentini, Firenze 1948, pp. 143-149.
18 A.I. Pini, Città, comuni e corporazioni nel medioevo italiano, Bologna 1986,
pp. 22-46; F. Bocchi, Normativa urbanistica, spazi pubblici, disposizioni antinquina-
mento nella legislazione comunale emiliana, in Ead., Attraverso le città italiane nel
Medioevo, Casalecchio di Reno (BO) 1987, pp. 107-124.
19 I portici di Bologna e l’edilizia civile medievale, a cura di F. Bocchi,
Casalecchio di Reno (BO) 1990.

368
La ricerca del decoro urbano

no fissate delle regole di ampiezza della facciata, di profondità, di al-


tezza, di materiali da impiegare, a cancellare o a frenare una qualsiasi
forma di anarchia. Quello che si può semmai osservare è che la città
non fu trattata in modo uniforme dal centro alle periferie. Se infatti
il sistema modulare dell’edificare si affermò un po’ ovunque sul suo-
lo urbano, le aree più lontane dal cuore pulsante o politicamente più
rappresentative dei centri urbani, nel quale svettavano ancora le tor-
ri, magari diminuite di numero e «scapezzate», o sorgevano più fitte
che altrove le abitazioni più rilevanti 20, continuarono ad essere carat-
 

terizzate da case più modeste, da una viabilità spesso meno curata,


dalla presenza di abitatori che appartenevano al mondo dei salariati
e dei più modesti lavoratori 21. Ma su un ultimo aspetto si deve richia-
 

mare l’attenzione, perché dipendente dalla larga presenza di mate-


riale legnoso contenuto soprattutto nelle abitazioni e dall’impiego
molto largo di fuochi accesi soprattutto nei mesi freddi e ventosi del-
l’anno, che provocavano con facilità l’esplosione di incendi e la loro
facile diffusione. A rimediare contro questi pericoli o almeno a limi-
tarne i danni le città, e soprattutto le città comunali, misero in piedi
una organizzazione antincendio che prevedeva l’intervento di operai
dell’edilizia, la concentrazione di materiale utile per l’opera di spe-
gnimento in luoghi determinati della città, la previsione e l’appron-
tamento delle prese d’acqua da utilizzare, il risarcimento dei danni ai
cittadini la cui abitazione fosse stata distrutta per «tagliare» il fuoco
ed impedirne la diffusione 22.  

Ma non furono queste le novità edilizie ed urbanistiche più ri-


levanti nel mondo delle città comunali. Quello che anzi le caratteriz-
zò in modo più spiccato rispetto alle città del regno meridionale o
della Sardegna fu piuttosto l’edificazione generalizzata di una serie
di edifici pubblici che intesero affiancare, definitivamente, i gover-
nanti della città dall’uso, corrente nei primi tempi, di palazzi privati

20 Presenti tuttavia, singolarmente, anche altrove in città, come avveniva ad


esempio a Firenze, dove dominavano su una piazza o su un intero complesso di
abitazioni popolari, diventando già per questo strumenti ed immagine di potere
clientelare.
21 Si veda un esempio di questo fatto nel volume di D. Balestracci e G. Piccinni,
Siena nel Trecento, cit., al sesto capitolo («Quartieri ricchi e quartieri poveri»).
22 Sul tema, oltre a D. Balestracci, La lotta contro il fuoco (XIII-XVI secolo),
in Città e servizi sociali, cit., che tiene conto di molte fonti, oltre che della scarna bi-
bliografia precedente, si veda almeno l’utile quadro di M.P. Contessa, L’ufficio del
fuoco nella Firenze del Trecento, Firenze 2000.

369
Giovanni Cherubini

o di chiese in cui erano riuniti consigli o organi di governo. Per que-


sto aspetto l’Italia comunale gode conseguentemente della presenza
di edifici di straordinario rilievo che non è possibile trovare altrove.
Il palazzo comunale di Perugia, quello dei consoli di Gubbio, quello
del capitano del Popolo ad Orvieto, il palazzo comunale di Siena, il
palazzo fiorentino del Podestà e quello della Signoria o dei Priori, il
palazzo comunale di Volterra sono soltanto alcuni degli esempi che
possiamo fare, aggiungendo semmai che nell’Italia superiore, che re-
gistrò una più precoce evoluzione delle istituzioni comunali verso la
nascita delle signorie e l’instaurarsi sulla città del potere di una fami-
glia, i palazzi comunali persero progressivamente, verso la parte fi-
nale del periodo qui considerato, il nome e la funzione che li aveva
contraddistinti 23. Ma questo non ovunque avvenne, pur che si pen-
 

si alla ristrutturazione in marmo del palazzo comunale di Venezia. I


lavori cominciarono infatti, in stile gotico, nel 1344. L’edificio, per
le molte aperture, appare più leggero in basso che al secondo piano.
Questo era infatti illuminato da poche grandi finestre per far luce ai
lavori del Gran Consiglio che si riunivano nel vasto salone 24.  

Insieme a quei palazzi le città sistemarono le piazze che sorge-


vano loro intorno, ma elevarono anche edifici pubblici con funzioni
particolari e di rilievo nella vita cittadina, basti pensare a questo pro-
posito alla loggia fiorentina di Orsanmichele che fungeva da granaio
del comune e consentiva, con accorta scelta politica, nei momenti di
carestia, di vendere ad un prezzo «politico» il grano o altri cereali ai
cittadini che ne avevano bisogno 25. Se questo costituì un caso-limi-
 

te, anche proprio per la scelta di alta qualità artistica dell’edificio,


si deve tuttavia almeno accennare al fatto che tutte le città comuna-
li, per la loro alta popolazione, dovettero mettere in piedi una vera e
propria politica annonaria, più o meno guidata dal bisogno (minimo
nelle città di mare, che potevano servirsi direttamente lontano con
le loro marinerie, massima nelle zone interne meno altamente e re-
golarmente produttive) 26. Persino nell’ordine dato alla prostituzio-
 

23 G. Andenna, La simbologia del potere nelle città comunali lombarde: i pa-


lazzi pubblici, in Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento, a cura di
P. Cammarosano, Roma 1994, pp. 369-393.
24 J.C. Hocquet, Venise au Moyen Âge, cit., pp. 32-34, 232-236.
25 Sull’argomento è da vedere G. Pinto, Il libro del biadaiolo. Carestie e anno-
na a Firenze dalla metà del ’200 al 1348, Firenze 1978.
26 F. Bocchi, La politica annonaria delle città emiliane, in Ead., Attraverso le
città italiane, cit., pp. 125-142; S. Collodo, Il sistema annonario delle città venete: da

370
La ricerca del decoro urbano

ne e nella creazione, raramente prima (fu il caso di Siena 27), talvolta 

un po’ più tardi della metà del Trecento, di postriboli in zone più ap-
partate rispetto a quelle tradizionalmente utilizzate dalle prostitute si
può leggere l’intento di dar vita a una, almeno palese, maggiore mo-
ralità e, di conseguenza, ad un maggior decoro della vita cittadina 28.  

A Lucca, ai primi del Trecento, quando il postribolo non era ancora


nato, alle meretrici, ma anche ai ruffiani, alle ruffiane, ai «gaglioffi»,
a coloro che erano stati accecati o mutilati dal carnefice, veniva vie-
tato di abitare dentro le «nuove mura», nei borghi, nei sobborghi e al
di fuori delle nuove mura per due tirate d’arco, o presso chiese e luo-
ghi venerabili 29. Certo si può pensare che confinare costoro, almeno
 

nel corso della notte, fuori della città, rispondesse ad un desiderio di


sicurezza. Ma non si può dubitare che ancora una volta al rischio di
insicurezza si accompagnasse un segno di più bassa dignità della cit-
tà, immaginando un furtivo e silenzioso scivolare nella notte di uo-
mini e donne che potevano mettere in pericolo il denaro, la dignità o
la vita dei buoni cittadini.
In questo complesso di casi è difficile non cogliere nell’azione
dei governi, oltre che la pratica, una buona dose di ricerca del «de-
coro» urbano. Ed è altrettanto difficile non pensare che anche co-
loro che vivevano con difficoltà del loro lavoro, sempre sulla soglia
della povertà e del rimedio, per quanto limitato, offerto dalla cari-
tà, non venissero, in qualche modo e misura coinvolti nelle scelte
dei governanti, che significavano, in primo luogo, almeno sul pia-
no dell’immagine, una sottolineatura della bellezza della città, del-
la sua forza, della sua funzionalità. Basti soltanto ricordare come si
presentasse una grande, ma non grandissima città come Padova tra
gli ultimi decenni del XIII e l’inizio del XIV secolo, quando ne di-
vennero signori i Da Carrara. Si è calcolato che nel 1320 essa avesse
forse, entro le mura, circa 35.000 abitanti, cioè un terzo di Firenze o
di Venezia. Si ritiene che intorno a quegli anni essa fosse ricca quan-
to Verona ed il doppio di Vicenza o di Treviso. Fra gli edifici pub-
blici, che esaltavano l’orgoglio civico, il palazzo del podestà era stato
edificato nel 1281, la sala del Consiglio maggiore nel 1284, il palazzo

pubblica utilità a servizio sociale, in Città e servizi sociali, cit., pp. 383-415.
27 D. Balestracci - G. Piccinni, Siena nel Trecento, cit., pp. 60-61.
28 M.S. Mazzi, Un «dilettoso luogo». L’organizzazione della prostituzione nel
tardo Medioevo, in Città e servizi sociali, cit., pp. 465-480.
29 G. Cherubini, Lucca nello statuto del 1308, in Id., Città comunali di Toscana,
Bologna 2003, pp. 131-132.

371
Giovanni Cherubini

degli Anziani nel 1285. «Parimenti impressionante» è la documenta-


zione che riguarda i ponti, i porti fluviali, la pavimentazione strada-
le. Si giudica tuttavia che l’età aurea dell’architettura medievale della
città coincida piuttosto con i primi anni del secolo successivo, che vi-
dero il completamento dell’imponente basilica di Sant’Antonio, la
ricostruzione del palazzo comunale, la realizzazione dello straordi-
nario ciclo pittorico di Giotto nella cappella dell’Arena, voluto dal
ricchissimo cittadino Enrico degli Scrovegni, che aveva innalzato la
cappella ad espiazione dei peccati dell’anima del padre Reginaldo,
famoso usuraio, comunemente identificato in un condannato del-
l’Inferno dantesco. Nella Università padovana fiorivano intanto, in
quegli anni, le attività intellettuali, «ma in maniera persino più signi-
ficativa» un gruppo di eminenti cittadini dette vita per un certo tem-
po a studi umanistici 30.  

Questo breve accenno all’Università padovana ci introduce alla


descrizione degli studi superiori e dell’istruzione in genere. Per que-
st’ultima sono ben note le parole con cui il grande cronista fiorentino
Giovanni Villani dette notizia per gli anni intorno al 1338, giudica-
ti da lui di apogeo, che nella sua popolosa città imparavano a leggere
tra 8.000 10.000 «fanciulli e fanciulle», mentre in sei scuole impara-
vano a far di conto tra 1.000 e 1.200 «garzoni». Quelli che stavano
invece ad apprendere latino e «logica» in quattro grandi scuole era-
no tra 550 e 600. Un numero talmente alto di giovanissimi e di gio-
vani inviati ad istruirsi dimostra che l’insegnamento era diventato di
massa perché evidentemente indispensabile per affrontare in modo
adeguato la vita. Dal notaio al medico, dal mercante all’artigiano che
avevano bisogno di tenere una propria amministrazione e non sgra-
divano neppure, qualche volta, di leggere un libro di preghiere, di
poesia o la vita di un santo (necessità o passione che potevano coin-
volgere anche ragazze che avevano frequentato la scuola), la gran-
de Firenze, con i suoi centomila abitanti, era ormai lontanissima dal
Medioevo tradizionale 31. E come Firenze risultavano lontane anche
 

le altre grandi città italiane, e un po’ tutte le città dell’area comunale,


naturalmente con gradazioni diverse tra le maggiori e le minori, le più

30 J.K. Hyde, Padova nell’età di Dante. Storia sociale di una città-stato italiana,
trad.it., Firenze 1985, pp. 15, 46-49; G. Previtali, Giotto e la sua bottega, Milano
2000, p. 82.
31 Giovanni Villani, Nuova Cronica, a cura di G. Porta, vol. III, Parma 1991,
Libro III, 94, p. 198.

372
La ricerca del decoro urbano

e le meno sviluppate economicamente 32. Per quanto riguarda invece


 

l’Università Firenze, probabilmente per non dover tenere in città una


turba non sempre facilmente controllabile di studenti, preferiva in-
viare i propri soprattutto al non lontano ed illustre studio di Bologna,
dove essi rappresentavano sicuramente la massa più numerosa di fo-
restieri, se quelli definiti come «toscani» costituirono, tra il 1280 e il
1350, il 27% del totale degli studenti e il 35% fra i soli italiani 33. Ma  

se a Firenze non c’era uno studio prima del 1349, il policentrismo


comunale italiano risulta con grande chiarezza anche sotto questo
aspetto. Conosciamo infatti da tempo l’elenco delle sedi universi-
tarie. Sempre entro la prima metà del Trecento, di fronte alle quat-
tordici università europee (Parigi, Oxford, Cambridge, Salamanca,
Montpellier, Angers, Tolosa, Avignone, Cahors, Grenoble, Valencia,
Valladolid, Lerida, Praga) ne incontriamo un po’ di più nella sola
Italia. Di queste nel regno svevo c’erano quella medica di Salerno e
quella di Napoli da poco istituita da Federico II, dove egli voleva pre-
parare, lontano dai rischi di Bologna, la burocrazia del Mezzogiorno.
Ma poi esse si infittivano nell’area dei comuni. Già a Roma ne fun-
zionavano due (Università della Corte papale e Studium Urbis). Le
più illustri erano al Nord Bologna e Padova. Ma c’erano, più o meno
vitali, università anche a Reggio, a Vicenza, ad Arezzo, a Vercelli, a
Siena, a Piacenza, a Perugia, a Treviso, a Verona, a Pisa 34.  

Fra le tante possibili, una caratteristica almeno differenziava,


in modo particolarmente marcato, le città dell’area padana dalle cit-
tà toscane, umbre, liguri o d’altra regione meno caratterizzata da
abbondanza di acque fluviali e al contempo da un suolo general-
mente pianeggiante, vale a dire la presenza e l’intreccio di canali an-
che all’interno delle mura. Conosciamo bene il sistema milanese dei
navigli, l’uso dell’acqua, lo smaltimento delle acque luride, la naviga-
zione cui davano vita e i trasporti 35. La presenza di acque e canali era
 

32 Cfr. G. Petti Balbi, Istituzioni cittadine e servizi scolastici nell’Italia centro-


settentrionale tra XIII e XV secolo, in Città e servizi sociali, cit., pp. 21-48.
33 A.I. Pini, «Discere turba volens». Studenti e vita studentesca a Bologna dalle
origibni dello Studio alla metà del Trecento, in Studenti e Università degli studenti dal
XII al XIX secolo, a cura di G.P. Brizzi - A.I. Pini, Bologna 1988 (Studi e Memorie
per la storia della Università di Bologna, nuova serie, VII), p. 67.
34 H. Rashdall, The Universities of Europe in the Middle Ages, nuova edizio-
ne a cura di F.M. Powicke - A.B. Emden, Oxford 1936.
35 G. Fantoni, L’acqua a Milano. Uso e gestione del basso medioevo (1385-
1535), Bologna 1990.

373
Giovanni Cherubini

largamente diffusa a Bologna, ma i canali non si vedono più perché


sono stati ricoperti dalle strade e si sa che lungo quei canali si svolge-
va una parte non insignificante della vita quotidiana, per la presenza
di mulini da grano e da olio, di gualchiere, di filatoi per la seta, di se-
ghe idrauliche, per gli animali condotti ad abbeverare, per le donne
che lavavano panni e utensili, per irrigare orti e giardini, per incre-
mentare la piscicoltura, per il deflusso delle acque meteoritiche e lo
spurgo dei rifiuti, per conciare le pelli, per fabbricare mattoni o ve-
tro, per un insieme di altre attività, ed infine anche come vie di navi-
gazione e di commercio 36. Ma le cose non erano poi territorialmente
 

così schematiche e finivano semmai per avvicinarsi là dove qualche


centro abitato, come la toscana Pistoia, disponeva di canali sui quali
era stato collocato un numero alto di mulini, che sono stati da tempo
studiati con la massima precisione 37.  

Ma della bellezza, della forza, della funzionalità delle città erano


poi gli uomini di penna, che erano spesso, nel corso dell’età comu-
nale, anche uomini d’azione e di governo, a stendere ampie e meno
ampie descrizioni, nelle quali il «decoro» urbano, venisse chiama-
to in questo modo o in modi diversi, finiva per apparire al centro
di certe loro pagine. Del resto, già prima della età comunale ma an-
che entro l’età comunale, gli scrittori, come bene dimostrò ed illu-
strò una studiosa del valore di Gina Fasoli, avevano con una certa
frequenza tessuto le «lodi» delle città, a riprova, se ce ne fosse bi-
sogno, di quanto la città abbia costituito nervi e sangue della storia
del nostro paese (quel saggio fu da lei significativamente intitola-
to alla «coscienza civica» nelle «lodi» delle città) 38. Nelle più tar-
 

de pagine appartenenti all’età comunale quelli che spesso balzano in


primo piano sono i caratteri sociali, economici, politici, talvolta fi-
sici del mondo urbano. Mi basta ricordare, per questo aspetto, ciò
che ci dice nel XIII secolo Martino da Canal della sua Venezia, che

36 A.I. Pini, Energia e industria tra Sàvena e Reno: i mulini idraulici bologne-
si tra XI e XV secolo, in Tecnica e società nell’Italia dei secoli XII-XVI, Pistoia 1987,
pp.2-3; come esempio di un’altra città emiliana si veda Reggio ai tempi di Dante,
Modena 1966, pp. 164-168 («La rete di canalizzazione urbana e i molini»).
37 J. Muendel, The grain mills at Pistoia in 1350, «Bullettino Storico Pistoiese»,
LXXIV (1972), pp. 39-64; F. Neri, Attività, manifatture, mercato, arti, in L’età del
libero comune, a cura di G. Cherubini, Firenze 1998 («Storia di Pistoia», II), pp.
132-136.
38 G. Fasoli, La coscienza civica nelle «laudes civitatum», in Ead., Scritti di storia
medievale, a cura di F. Bocchi - A. Carile - A.I. Pini, Bologna 1974, pp. 293-317.

374
La ricerca del decoro urbano

cosa alla fine del secolo Bonvesin da la Riva della sua Milano, che
cosa, un po’ più tardi, Opicino de Canistris della sua Pavia e l’Ano-
nimo genovese della sua Genova, cosa infine Giovanni Villani della
sua Firenze (su Bonvesino, Opicino e il Villani richiamò brevemen-
te l’attenzione anche il saggio, or ora ricordato, di Gina Fasoli). Né
possiamo dimenticare gli insegnamenti morali che lo speziale astigia-
no Guglielmo Ventura volle lasciare ai figli facendo testamento. Egli
ha consigli anche per lo svolgimento della professione («diano a cia-
scuno il peso giusto, perché è abominevole verso Dio [usare] bilance
truccate»), ma quello che più colpisce è ciò che egli consiglia ai figli,
sulla base della propria esperienza, rispetto all’atteggiamento verso
il comune e all’impegno pubblico. Egli scrive infatti che «cerchino
di evitare uffici e cariche consiliari del Comune; infatti ho visto di-
ventare mendichi molti del popolo, che frequentavano i consigli co-
munali ed anche a me [tale frequenza] ha nuociuto, come si sa».
Continuava tuttavia consigliando che «svolgano i loro uffici o incari-
chi osservando le leggi e soprattutto la professione di speziale, in cui
possono succedere molti guai». E concludeva, con una solenne cita-
zione classica: «obbediscano alla comunità cittadina, le siano fedeli e
si oppongano con ogni loro forza a tutti coloro che combattono con-
tro di essa, come leggiamo in Catone: “Combatti per la Patria”». Mi
pare che anche in questo caso, sia pure su un piano particolare, il no-
stro speziale di Asti riesca ad attribuire all’impegno politico un pale-
se «decoro urbano» 39.  

Poco dopo la metà del Duecento Martino da Canal descriveva


la sua Venezia come la più bella città del mondo, retta da un doge
possente, abbondante d’ogni bene e d’ogni mercanzia, popolata da
una cristianissima cittadinanza, da nobili e mercanti, cambiavalute,
marinai e cittadini «d’ogni arte», belle dame e damigelle riccamen-
te vestite, dotata di navi per trasportare merci in ogni dove e di galee
per recare danno ai nemici 40. Bonvesin scrive invece meraviglie della
 

popolazione, delle attività economiche, delle professioni, dei costu-


mi, degli edifici di Milano, oltre che della bellezza, della popolosità
e dell’ubertosità del suo territorio. Aggiungeva che la città diventa-

39 Guglielmo Ventura, Memoriale, in Gli antichi cronisti astesi Ogerio


Alfieri, Guglielmo Ventura e Secondino Ventura, Traduttori coordinati da N. Ferro,
Presentazione di R. Bordone, Alessandria 1990, pp. 106-107.
40 Martin da Canal, Les estoires de Venise. Cronaca veneziana in lingua fran-
cese dalle origini al 1275, a cura di A. Limentani, Firenze 1973.

375
Giovanni Cherubini

va ogni giorno più grande. Descriveva l’aspetto particolarmente di-


gnitoso delle matrone e delle ragazze, dei nobili come dei popolani.
Aggiungeva poi una notazione che ci fa capire le possibilità di asce-
sa e di successo individuali in quella mobile società: «qui, a meno
che non sia una nullità, qualsiasi uomo, purché sia sano, può otte-
nere guadagni e dignità secondo il proprio stato» 41. Per Genova di-
 

sponiamo delle lodi di due autori, il patriottico arcivescovo Iacopo


da Varagine ed un poeta anonimo conosciuto come l’Anonimo ge-
novese. Il primo, nella quinta parte della sua cronaca cittadina, di-
vide la storia della città in tre periodi, il primo di «cominciamento»,
il secondo di «progresso», il terzo, che giungeva sino al presente,
«di perfezione». Iniziato un secolo e mezzo prima, con l’ottenimen-
to dell’arcivescovado, questo stato di perfezione aveva visto crescere,
insieme alla dignità ecclesiastica, la potenza, la ricchezza, il dominio,
la rinomanza della città 42. Di questo terzo periodo, che vide la vitto-
 

ria decisiva dei genovesi su Pisa e la temporanea supremazia sulla se-


conda rivale, Venezia, l’Anonimo è tuttavia il vero cantore. Secondo
costui anche Genova, «porta di Lombardia» per quel che riguarda-
va i traffici, era come Venezia piena di gente e di mercanzie, con un
bel porto e delle belle mura, con una grande flotta, con mercanti, ar-
tigiani, forestieri e bravi soldati. I numerosissimi suoi figli sparsi per
il mondo avevano costituito altre Genove nei luoghi in cui avevano
posto le loro radici 43. Il Liber di Opicino de Canistris sulle lodi di
 

Pavia, scritto tra il 1328 e il 1330 da un ecclesiastico 44, costituisce,


 

secondo Gina Fasoli, un «singolare compromesso fra le interpreta-


zioni mistiche delle laudes dell’VIII secolo e la realistica precisione
di fra Bonvesin da la Riva» 45. Ma mi limito a ricordarne, e soltanto
 

per qualche aspetto, le due pagine in cui l’autore ci offre la descri-


zione della città, delle sue piazze, delle sue chiese, dei suoi monaste-
ri, delle sue varie attività. Vi vengono segnalate le botteghe delle più

41 Bonvesin da la Riva, Le Meraviglie di Milano (De magnalibus Mediolani),


a cura di P. Chiesa, Milano 2009.
42 Iacopo da Varagine, Cronaca di Genova, a cura di G. Monleone, 3 voll.,
Roma 1941.
43 Anonimo genovese, Poesie, a cura di L. Cocito, Roma 1970, n. CXXXVIII,
pp. 557-569.
44 Anonymi Ticinensis, Liber de laudibus civitatis Ticinensis, a cura di R.
Maiocchi - F. Quintavalle, Città di Castello 1903-1906 (Rerum Italicarum Scriptores,
n.ed., t. XI, parte I).
45 G. Fasoli, La coscienza civica nelle «laudes civitatum», cit., p. 312.

376
La ricerca del decoro urbano

varie attività, le taverne, la vendita in piazza degli ortaggi e della frut-


ta, debitamente specificati, la legna e il vino detto «milanese», uova,
formaggio, pane di vario genere, pesci diversi e cacciagione di gran-
de varietà. Non manca naturalmente la vendita di prodotti dell’arti-
gianato, a partire dai vasi e dagli utensili di legno o di metallo, per
passare alle funi, alle stoffe di lana, alle pelli e alle pellicce. Vi si ven-
deva olio di olivo o di seme di lino, il secondo per illuminare le abi-
tazioni, il primo per la cucina o per l’illuminazione delle chiese. In
qualche piazza si vendevano bestie e giumente, in quella posta innan-
zi al palazzo del Popolo lino, filo o ceneri, e sotto il palazzo fustagni.
Nella «curia del comune», sotto i due palazzi «nuovo» e «vecchio»
si vendevano biade e legumi, ma soprattutto in luoghi determina-
ti si amministrava la giustizia. Nelle città funzionavano nove macel-
li o beccherie, uno dei quali, collocato al centro della città, era detto
«beccheria maggiore». In nessuno potevano essere vendute carni di
buoi o di altro bestiame venuto a morte accidentalmente. Questo era
possibile soltanto in un’unica piazza e soltanto se le carni erano de-
stinate ai «poveri». La descrizione si completa poi con il ricordo dei
torcularia, cioè degli strettoi per l’uva nelle campagne e nella città,
dei molti mulini collocati sul Ticino o sulla Cadrona, dei portici che
ornavano, oltre a molte chiese, anche le abitazioni di alcune nobili
famiglie. L’informazione che al loro riparo si raccoglievano per con-
versare, ed eventualmente per discutere, sia i nobili che molti altri
cittadini finisce per dare alla città, resa così viva attraverso molte sue
attività, quell’immagine di decoro di cui andiamo alla ricerca 46.  

Il fiorentino Giovanni Villani è infine un caso a sé, sia come


personalità, per la sua esperienza di cronista, di mercante, di am-
ministratore della sua città, sia per le righe — tutte piene di dati ra-
gionevoli ed in certi casi controllati dagli studiosi e sostanzialmente
giudicati attendibili — dedicati alla sua città intorno al 1338. Ne ri-
sulta con naturalezza l’immagine complessiva di una città straordina-
ria nella già straordinaria Italia del tempo, in definitiva la sottolineata
sanzione di un «decoro urbano» difficile da negare. Provo a ricor-
darne brevemente alcuni aspetti essenziali, quali la quantità poco co-
mune e già ricordata della popolazione, la potenza della produzione
laniera, probabilmente la maggiore in Europa, le attività mercanti-
li, l’alto livello delle entrate e delle pubbliche spese, la straordina-

46 Anonymi Ticinensis, Liber de laudibus civitatis Ticinensis, cit., pp. 48-49.

377
Giovanni Cherubini

ria quantità di fiorini d’oro coniati ogni anno dal Comune, i consumi
alimentari, il livello, l’organizzazione e la diffusione dell’istruzione.
In qualche caso il cronista, pur convinto che le cifre parlino da sole
senza bisogno di sottolineature qualitative, non sa resistere al suo in-
namorato stupore. E lo sentiamo allora osservare che la città «era
dentro bene albergata di molti belli palagi e case, e al continovo in
questi tempi s’edificava migliorando i lavori di farli agiati e ricchi, re-
cando di fuori asempro d’ogni miglioramnento e bellezza». Né ba-
stava che i fiorentini, oltre alle case e ai palazzi, avessero edificato
dentro le mura «chiese cattedrali e di frati d’ogni regola, e moniste-
ri magnifici e ricchi». Non c’era infatti cittadino che avesse proprietà
in contado, popolano o magnate, «che non avesse edificato od edifi-
casse riccamente troppo maggiori edifici che in città; e ciascuno cit-
tadino ci peccava in disordinate spese, onde erano tenuti matti». Ma
era questa una cosa così bella a vedere che un forestiero venendo
per la prima volta a Firenze poteva pensare essere la città costruita
entro le tre miglia «a modo di Roma», ed entro le sei miglia circon-
data da «ricchi palagi, torri e cortili, giardini murati […], che inn al-
tre contrade sarebbono chiamati castella». Prima descrizione, questa
del Villani, di un paesaggio destinato a diventare famoso nei secoli e
strettamente legato, nella sua bellezza, alla bellezza della città 47.  

Una testimonianza del tutto particolare di «decoro urbano» è


infine quella che ci viene dal grande affresco sul Buono e sul cattivo
governo di Ambrogio Lorenzetti. L’oligarchia di mercanti di «gente
mezzana», cioè, potremmo dire, di borghesia degli affari che gover-
nava Siena, intese mostrare uno straordinario messaggio propagandi-
stico proprio all’interno del palazzo comunale e lo fece con un’ampia
allegoria e con la dimostrazione di come si palesassero sia il buono
sia il cattivo governo tanto all’interno delle mura della città che nelle
campagne al di fuori della cinta (atteggiamento comune con quello,
ora segnalato, di Giovanni Villani). La concordia fra i cittadini co-
stituiva la molla per ottenere risultati positivi. La discordia e i con-
flitti aprivano invece la società, tanto in città che in campagna, alle

47 Giovanni Villani, Nuova Cronica, III, cit., Libro XII, 94, pp. 197-202.
Ho descritto sinteticamente sia ciò che si ricava dalle pagine del cronista, sia alcu-
ni connotati della città nei miei due saggi La Firenze di Dante e di Giovanni Villani
e Firenze nell’età di Dante. Coscienza e immagine della città, editi rispettivamente in
G. Cherubini, Scritti toscani. L’urbanesimo medievale e la mezzadria, Firenze 1991,
pp. 35-51, e in Id., Città comunali di Toscana, cit., pp. 11-24.

378
La ricerca del decoro urbano

distruzioni, alle uccisioni, alle violenze e all’insicurezza. L’immagine


delle campagne e della città sotto gli effetti del buon governo ci for-
nisce un quadro avvincente di una società dominata dal decoro ur-
bano, decoro di mura, di edifici, di abitazioni, di castelli sparsi nel
territorio, di case e palazzi cittadini, decoro di vesti, pur nella sotto-
lineatura delle diversità sociali di chi le indossa, ed ancora decoro di
immagini di lavoro urbano o rurale, di momenti di gioia e di diver-
timento, di tranquillità sulle strade, di sicurezza dei più diversi vian-
danti, di intensi rapporti tra la città e la gente dei campi.
Naturalmente ci si può chiedere quanti cittadini, al di fuori dei
detentori del potere ed anche, se si vuole, di coloro che speravano di
poterlo conseguire, condividessero quest’immagine. Certo l’oligar-
chia in carica era in carica, al tempo dell’affresco, da mezzo secolo,
ed in carica sarebbe rimasta ancora per un quindicennio abbondan-
te. Ma noi sappiamo che gli scontenti nella società urbana, e non sol-
tanto a Siena, erano numerosi, e che difficilmente costoro potevano
accontentarsi del decoro urbano esaltato nell’affresco 48. Basta infat-
 

ti spostare lo sguardo dalle immagini o dalle descrizioni attraverso le


quali ci parlano i governanti o i ceti dominanti per scoprire la vita e
talvolta le voci dei diseredati, l’azione dei ladri e dei delinquenti più
diversi, che organizzavano furti notturni in case e botteghe, scivola-
vano in mezzo alle tenebre con l’occhio assuefatto al buio, assaltava-
no anche di giorno i viandanti nei luoghi più solitari, organizzavano i
loro colpi accordandosi nelle taverne o in altri luoghi a loro consue-
ti, rifuggivano cioè dalla pacata, ma ristretta offerta della pubblica e
privata carità. Sono le loro azioni delittuose a darci una idea appros-
simativa, ma significativa di come per costoro il decoro urbano aves-
se scarsa attrattiva e, se attraeva, attraeva con moltissime immagini
soltanto perché incentivo e sogno, anche per se stessi, di un mondo
più ricco non riservato soltanto a pochi. Le nostre belle città, e so-
prattutto verso la metà del Trecento, quando la popolazione era an-
cora alta e tante le bocche che avevano bisogno di cibo e di lavoro,
non erano, in definitiva, dei mondi giusti e felici, non ostante le am-
bizioni, le ricchezze e le ammirevoli realizzazioni dei governanti. Le
città erano anzi, sotto quella splendida veste che ancora desta la no-
stra ammirazione, un mondo di violente sperequazioni, oltre che un

48 Sul quale si vedano altre considerazioni in G. Cherubini, Le città europee


del Medioevo, Milano 2009, pp. 76-78.

379
Giovanni Cherubini

mondo in cui la violenza dei diseredati aggiungeva qualche ulteriore


spina alle profonde divisioni politiche che scuotevano i ceti di gover-
no 49. Ma per fermarci ancora alla città di Siena, ricca di documenta-
 

zione e sempre meglio studiata, il conflitto sociale non era limitato


al conflitto tra i più ricchi da un lato e i miserabili o i poveri dall’al-
tro. Si è infatti scoperto che alle grandi imprese edilizie, fra le qua-
li quella della costruzione del duomo nuovo, volute dall’oligarchia
novesca, che già conosciamo e che ne sperava non solo immagini di
prestigio e una magnifica «pietrificazione» della ricchezza, ma an-
che fruttuosi investimenti, si contrappose infatti l’area sociale delle
arti e della più piccola borghesia, che avrebbe dato vita al successi-
vo governo cittadino 50. Belle dunque le nostre città, probabilmen-
 

te spesso ammirate ed anche amate dall’intera cittadinanza, ma non


da tutti, sempre e nella stessa misura, ugualmente amate ed avverti-
te come una cosa propria.

49 Nel corso degli anni ho richiamato a più riprese l’attenzione su quella so-
cietà dell’insicurezza, della povertà e della delinquenza. Ricordo almeno i due sag-
gi Appunti sul brigantaggio in Italia alla fine del Medioevo e La taverna nel basso
Medioevo, in G. Cherubini, Il lavoro, la taverna, la strada, cit., pp. 141-171 e 191-
224, oltre ad alcuni capitoli dell’altro mio volume Gente del Medioevo, Firenze
1995.
50 G. Piccinni, Il sistema senese del credito nella fase della smobilitazione dei
suoi banchi internazionali, in Fedeltà ghibellina e affari guelfi. Saggi e riletture intor-
no alla storia di Siena fra Due e Trecento, a cura di G. Piccinni, 2 voll., Ospedaletto
(PI) 2008, I, pp. 272, 277-278.

380
Lunedì 18 maggio, mattina
Pistoia, Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei Vescovi
Presidente Prof. Giovanni Cherubini

Giovanna Petti Balbi


«Accrescere, gestire, trasmettere»:
percezione e uso della ricchezza nel
mondo mercantile genovese
(secoli XII-metà XIV)

Nel linguaggio e nella coscienza comune ricchezza, benessere,


felicità sono spesso usati come termini quasi ambivalenti. La ricchez-
za è ritenuta lo strumento più idoneo per soddisfare ogni tipo di bi-
sogni e di aspirazioni individuali o collettivi, per raggiungere felicità
individuale e benessere sociale, per realizzarsi in qualsiasi forma me-
diante il danaro, il dio che domina la società perché «ognuno è trop-
po vago di danari», come affermano l’Anonimo poeta genovese di
inizio Trecento o l’autore di un trattato di mercatura trecentesco 1.  

Questa percezione è diffusa in ambito familiare, nel mondo del la-


voro, nella vita di relazione e la si coglie sia attraverso dati obiettivi,
sia attraverso dati immateriali meno espliciti, più difficili da enuclea-
re oltre le apparenze, perché gli uomini del passato sono restii a met-
tere a nudo il proprio io, a confrontarsi con se stessi. Percezione del
proprio status, autovalutazione di sé, vittorie o fallimenti, successi o
sconfitte rimangono sentimenti personali e sistemi di valore raramen-
te esplicitati e percepibili nei documenti, allo stato di testimonianze

1 Anonimo genovese, Poesie, a cura di L. Cocito, Roma 1970; G. Corti,


Consigli sulla mercatura di un anonimo trecentista, «Archivio storico italiano», CX
(1952), pp. 114-119.

381
Giovanna Petti Balbi

“involontarie”, esulano dalla sfera dello scritto e dei notai ai quali si


ricorre abitualmente per mettere ordine nella proprie faccende.
In via preliminare sembra ovvio distinguere tra aspirazioni e
realizzazioni. Il danaro non sempre riesce a trasformare bisogni e de-
sideri in realtà: basta pensare all’ambito culturale, artistico o spiritua-
le, ove sono preminenti il talento e l’estro. Tuttavia nella tradizione
religiosa, giuridica, civile avere aspirazioni, desiderare di mutare sta-
to, fortune, condizioni di vita, sono sentimenti di per sé positivi — è
superfluo richiamare la parabola dei talenti —, perché costituiscono
stimoli a operare, a non chiudersi dentro il proprio orizzonte, espri-
mono fiducia nelle capacità dell’individuo, pongono quasi un’ipote-
ca sul destino, sono un mezzo con cui lasciare memoria di sé. Si può
diventare ricchi anche senza nascere tali, purché attivi e motivati,
provvisti di una tensione che spinge a programmare la propria vita
in funzione di precise mete, talora inconciliabili con l’etica cristiana,
che rendono l’uomo arbitro di sé e del proprio destino, senza trop-
pi scrupoli nella ricerca del bonum proprium e della felicità. Al di là
delle riserve di ordine etico verso una simile concezione, l’aspirazio-
ne alla ricchezza può comunque assumere una valenza positiva, per-
ché stimola il lavoro, l’impegno, quasi sempre connesso all’utile più
che alla morale. Ci si deve però chiedere se la ricchezza possa pro-
durre, oltre il benessere, anche la felicità, se cioè con il danaro si pos-
sano soddisfare aspirazioni che esulano dalla mera sfera materiale,
ad esempio raggiungere onori, riconoscimenti e fama.
L’ambito mercantile è il terreno più adatto per tentare di calare
nella prassi queste enunciazioni teoriche — e tutto sommato valide
in qualsiasi epoca —, perché più degli altri i mercanti, veri self made
men, abili a trasformare ogni contingenza in opportunità, a diventa-
re uomini ricchi e di successo, sono ritenuti in familiarità con il dana-
ro 2. Avrei voluto prendere in considerazione vari ambiti geografici,
 

ma la presenza di altre relazioni sullo stesso argomento e la mia con-


suetudine di studi mi hanno indotto a limitarmi al mondo genove-
se tra il XII e metà del secolo XIV. Obiettive carenze documentarie
rendono ardua e non del tutto soddisfacente questa ricerca: manca-
no infatti per Genova il tipo di fonti più congeniali al mercante, libri

2 In proposito la letteratura è sterminata. A titolo esemplificativo G. Petti


Balbi, Il mercante, in Ceti, modelli, comportamenti nella società medievale (secoli
XII-metà XIV secolo), Atti del diciassettesimo convegno internazionale del Centro
italiano di studi di storia e d’arte, Pistoia 2001, pp. 1-22.

382
Percezione e uso della ricchezza nel mondo mercantile genovese

di ricordanze o di conto, pratiche di mercatura, diari, lettere, quelle


fonti largamente diffuse in ambito toscano che permettono di coglie-
re la mentalità, la cultura, la coscienza etica del mercante 3.  

Di conseguenza per una lettura antropologica-culturale ho ri-


volto la mia attenzione alla documentazione notarile, di cui Genova
è particolarmente ricca, e soprattutto ai testamenti che costituiscono
spesso il bilancio di un’esistenza, una sorta di autobiografia con fun-
zione pedagogica e esemplare 4. Al di là della mediazione notarile e
 

degli stereotipi del formulario, la destinazione dei beni acquisiti e la


lunga sequela dei lasciti che attestano lo stato patrimoniale lasciano
talora intuire il valore attribuito al lavoro, al danaro, alla ricchezza e
al proprio status, quale sia il patrimonio mentale e la stima di sé, se il
ricco si senta appagato e veramente felice. Rispetto al testamento, il
monumento documentario che meglio permette di accedere all’uo-
mo e ai suoi sentimenti, indizi meno significativi offrono i più aridi
inventari fatti redigere dagli eredi o dagli esecutori testamentari.

La ricchezza virtuosa (secoli XII-XIII)


In ogni città marittima l’orizzonte geografico, politico, econo-
mico, mentale è il mare 5. E anche l’idea di ricchezza e di benessere
 

è quasi sempre associata al mare, alle opportunità che si ritiene pos-


sa offrire per soddisfare bisogni e aspirazioni. Non si deve pensare

3 L’unico trattato di mercatura composto a Genova nel 1396 ad opera del


fiorentino Sanminiato de’ Ricci è un’arida opera tecnica: A. Borlandi, Il manuale di
mercatura di Sanminiato de’ Ricci, Genova 1963. Lasciano trasparire assai poco sul-
l’autostima e sul sistema dei valori dei mercanti anche i libri di conto di Francesco
Spinola, Giovanni Piccamiglio, Battista di Luco redatti nella prima metà del
Quattrocento. Su questi G. Petti Balbi, Le strategie di una grande casata genovese:
Francesco Spinola tra Bruges e Malaga (1420-1456), «Serta antiqua et mediaevalia», I
(1997), pp. 379-394, ora anche in Ead., Governare la città. Pratiche sociali e linguaggi
politici a Genova in età medievale, Firenze 2007, pp. 187-200. Due libri degli Spinola
sono ora editi da A. Fabregas Garcia, Un mercader genovés en el reino de Granata.
El libro de cuentas de Agostino Spinola (1441-1447), Granada 2002 e Ead., La fami-
lia Spinola en el reino nazari de Granata. Contabilidad privata de Francesco Spinola
(1451-1457), Granada 2004.
4 Sul valore dei testamenti cfr. da ultimo A. Bartoli Langeli, Parole introdut-
tive, in Margini di libertà: testamenti femminili nel medioevo, a cura di M.C. Rossi,
Verona 2010 (Biblioteca dei Quaderni di storia religiosa, VII), pp. 9-19.
5 Ch. Bec, Les marchands écrivains: affaires et humanisme à Florence (1375-
1434), Parigi 1967, pp. 28-29.

383
Giovanna Petti Balbi

solo al mercante, al patrono di navi, al marinaio ai quali l’elemen-


to liquido è più congeniale e familiare, ma all’intera comunità nelle
sue varie componenti, uomini di governo o di legge, notai, artigiani,
proprietari terrieri, donne. Questa varia umanità affida al mare la-
voro, creatività, speranze, in una società particolarmente aperta che
almeno fino al Trecento premia la cultura dell’audacia e dell’inven-
zione, con un programma di pedagogia sociale già presente nell’an-
nalista Caffaro all’inizio del secolo XII 6, chiamato in causa anche da
 

Renato Bordone in questa sede. E se tra XII e XIV secolo, in una fase
di straordinaria mobilità sociale e politica, mutano obiettivi e stru-
menti di accesso alla ricchezza, stabile rimane il connotato positivo
della mercatura marittima, la convinzione nella mentalità comune
che, nonostante congiunture geopolitiche negative o altre opportu-
nità di guadagno, questa rimanga lo strumento e la forma primaria
di arricchimento.
La documentazione notarile, comunque sempre indicativa di
valori individuali piuttosto che collettivi, rivela questa convinzio-
ne profondamente radicata nella società genovese, a tutti i livelli so-
ciali e culturali, quasi patrimonio mentale collettivo: il lavoro e le
operazioni legate al mare e al commercio sono ritenute in grado di
mutare in meglio condizioni e qualità di vita. Una convinzione, un
ingrediente immateriale quindi, che si materializza soprattutto attra-
verso il coinvolgimento in contratti marittimi, in particolare la com-
menda o colleganza e la societas maris, che forniscono dati obiettivi
e diventano preziosi indicatori dell’impegno individuale e colletti-
vo e del conseguente benessere materiale che producono nelle cit-
tà marittime.
Come è noto, il contratto di commenda unisce temporanea-
mente per singole operazioni una persona che anticipa il capitale a
un’altra che si impegna a farlo fruttare in prevalenza sul mare, impe-
gnandosi personalmente anche a rischio della vita, in cambio di un
terzo degli eventuali profitti detratto il capitale. Abbastanza simile è
la societas maris che postula però da parte di ambedue i contraenti

6 G. Petti Balbi, La cultura storica in età medievale, in Storia della cultura


ligure, 4, a cura di D. Puncuh, Genova 2005, pp. 147-155; Ead., La mémoire dans
les cités italiennes à la fin du Moyen Age. Quelques exemples, in Villes de Flandre
et d’Italie (XII-XVI siècles). Les enseignements d’une comparaison, a cura di E.
Crouzet-Pavan - E. Lecuprre-Desjardin, «Studies in European Urban History»,
12 (2008), pp.131-148.

384
Percezione e uso della ricchezza nel mondo mercantile genovese

il possesso di un capitale, in danaro o implicito in merci, manufatti,


animali, parti di navi: in questo contratto il socio stanziale anticipa
in genere un capitale doppio rispetto a quello impegnato dal socio
viaggiatore che però vi aggiunge il proprio lavoro, con una riparti-
zione del profitto in parti uguali 7. In virtù di queste caratteristiche
 

giuridiche, più che i prestiti a interesse o i contratti di cambio, que-


sti due negozi appaiono largamente diffusi già dal secolo XII 8 e scel-  

ti da una moltitudine di soggetti pur dediti ad attività produttive in


ambito artigianale o agricolo, che aspirano a mutare stato, a incre-
mentare le proprie fortune, anche senza disporre di mezzi, ma dotati
di spirito d’intraprendenza e di coraggio, con scarsa attenzione alle
riserve di natura etica verso queste transazioni economiche ripetuta-
mente deprecate dalla letteratura religiosa, rappresentata a Genova
soprattutto dall’Anonimo poeta 9. Numerosi uomini nuovi, di umi-
 

li origini, privi di casato e di risorse, dopo aver superato difficoltà


e pericoli e fatto fruttare il danaro altrui affidato loro in contratti di
accomenda, investono a loro volta il guadagno in operazioni analo-
ghe, trasformandosi in soci capitalisti che nel giro di qualche anno
con «subiti guadagni» entrano in possesso di discrete fortune 10, che  

però non tesaurizzano, ma rimettono in circolazione in altre società.


Si creano così forme di solidarietà economiche, in cui anche le don-
ne impegnano danaro o merci, che diventano spesso alleanze fami-
liari e politiche, perché il danaro, il benessere materiale, favorisce la
cooptazione e l’ascesa verso i ceti eminenti 11.  

7 L. Palermo, La banca e il credito nel medioevo, Milano 2008, pp. 119-149.


8 R.S. Lopez, La rivoluzione commerciale del medioevo, Torino 1975. Queste
associazioni a fine commerciale in cui profitti e perdite sono ripartite in quote va-
riabili secondo taluni studiosi possono configurarsi anche come contratti di natura
usuraria: G. Ceccarelli, Notai, confessori e usurari: concezioni del credito a con-
fronto (secc. XIII-XIV), «Quaderni del centro studi sui lombardi, sul credito e sulla
banca», I (2007), pp. 67-112.
9 Anonimo genovese, Poesie, cit.; F. Croce, La letteratura dal Duecento al
Quattrocento, in Storia della cultura ligure, cit., pp. 14-21.
10 Il Bach ha ricostruito le attività e la consistenza patrimoniale di tredici mer-
canti e in particolare del genovese Baiamonte Barlaiara che nel 1182 operano come
soci ora stantes, ora tractantes: E. Bach, La cité de Gênes au XII siècle, Copenaghen
1955, pp.75-91.
11 G. Petti Balbi, Genesi e composizione di un ceto dirigente: i populares a
Genova nei secoli XIII e XIV, in Spazio, società e potere nell’Italia dei comuni, a cura
di G. Rossetti, Napoli 1986, pp. 81-101, ora anche in Ead., Una città e il suo mare.
Genova nel medioevo, Bologna 1991, pp.116-136.

385
Giovanna Petti Balbi

Alcuni profili individuali possono meglio esemplificare i per-


corsi verso la ricchezza e i traguardi raggiunti, a partire da Ansoisio o
Ansuixio di San Genesio, probabilmente un immigrato del contado,
che mediante ripetute operazioni marittime si costruisce una discreta
fortuna e diventa anche comproprietario di una nave. All’inizio del
1191 abita presso un mercante genovese, Marchisio Zurlo, dal qua-
le acquista una casa, versando solo una parte della somma pattuita.
Il danaro di cui dispone proviene probabilmente da precedenti con-
tratti di commenda analoghi a quelli che lo vedono agire tra il mar-
zo e il dicembre dello stesso anno nella duplice veste di socio «causa
negociandi» verso la Sicilia, Ceuta, Tunisi. Nel settembre, quando è
in procinto di partire per l’Oltremare, riceve 100 lire da far fruttare
e da non prestare «nisi mercatori et cum bono pignore» dallo stes-
so Marchisio, che lo nomina suo mandatario e gli dà in sposa la so-
rella Giovanna, con la promessa che il nostro gli salderà entro un
anno il debito della casa. Il matrimonio aumenta il giro d’affari di
Ansuisio e anche la moglie è spesso partecipe di queste operazioni.
All’inizio del Duecento diventa uno dei mercanti più attivi e abili nel
far fruttare il danaro e si colloca al terzo posto tra i maggiori inve-
stitori nel settore commerciale. Agisce con soci diversi, tra i quali si
segnala Giacomo di Bonibel o Bombello, per il quale Ansuisio mo-
stra una particolare simpatia: gli affida in accomanda 100 lire gratis,
gli presta danaro per pagare l’antefatto della moglie e continua a ser-
virsene per i propri affari come socio tractans 12. Ansuisio è diventa-
 

to proprietario di una domus magna in cui abita con i figli e di due


altre case attigue in città, di una casa con canneto a Sturla e di una
parcella di terra a Quarto nei sobborghi cittadini, come emerge dal-
l’inventario fatto redigere nel 1231 dai due figli quando si dividono
l’eredità paterna 13. Ansuisio ha creduto nel commercio, ha affida-
 

to aspirazioni e energie al mare, ha creduto nel modello di sviluppo


marittimo-commerciale più diffuso nel Mediterraneo. Con impegno,

12 Guglielmo Cassinese (1190-1192), a cura di M.W. Hall Cole - H.C.


Krueger - R.L. Reynolds, Genova 1939 (Notai liguri del secolo XII, II), nn.135-
136, 426, 459, 924, 1028, 1083, 1093-1096; Giovanni di Guiberto, a cura di M.W.
Hall Cole - H.C. Krueger - R.G. Reinert - R.L. Reynolds, Genova 1940 (Notai
liguri del secolo XII, V); H.C. Krueger, Navi e proprietà navale a Genova. Seconda
metà del sec. XII, «Atti della Società Ligure di storia patria», n.s., XXV/1 (1985),
pp. 124 e140.
13 Archivio di stato di Genova (da ora in poi ASG), not.cart. 17, ff. 161v-162,
23 agosto 1231.

386
Percezione e uso della ricchezza nel mondo mercantile genovese

fortuna e danaro ha saputo migliorare il proprio status e costruirsi


un’identità sociale con gli indicatori propri dei ricco mercante, qua-
li l’inserimento in un circuito mercantile redditizio, un matrimonio
qualificante, il possesso di immobili, dando anche prova di un certa
predisposizione a condividere con altri l’uso della ricchezza e il be-
nessere conquistato.
Diverse sono la situazione di partenza e il ceto, ma non le aspi-
razioni, del contemporaneo Simone Bufferio maior, esponente di una
ricca famiglia consolare di governo, convertito al commercio come
altri nobili che appaiono protagonisti di contratti di commenda, so-
vente in qualità di soci capitalisti. È uno dei personaggi di spicco at-
tivi a Genova tra XII e XIII secolo di cui è pervenuto il testamento 14  

che lascia intuire, più che la reale consistenza patrimoniale, i com-


portamenti, le aspirazioni e le inquietudini di un ricco avaro, di un
autoritario pater familias, teso all’accumulo, alla conservazione del-
la ricchezza e all’organizzazione della famiglia in senso rigidamente
agnatizio, con un forte controllo e drastiche scelte per i suoi dodi-
ci figli, in conformità allo schema di organizzazione familiare elabo-
rato dall’aristocrazia e poi recepito anche dai popolari, assurto quasi
a mito didattico nella società genovese 15. Dei figli di Simone quat-
 

tro sono femmine: due dotate con 150 lire, una cifra abbastanza mo-
desta all’interno della ricca nobiltà cittadina che ritornerà ai fratelli
se le donne moriranno senza eredi legittimi, e due più giovani desti-
nate alla monacazione con 50 lire di dote: «volo et ordino esse mo-
nachas». Sorte analoga impone ai due figli maschi minori destinati
al chiostro, ma con la clausola «se lo vorranno». Eredi sono gli al-
tri sei maschi insieme con i due minori affidati alle cure della ma-
dre, dei due fratelli maggiorenni e del nipote Simone Bufferio minor,
che possono «mittere laboratum (sic) res minorum ad eorum fortu-
nam per mare et per terram», far cioè fruttare e non tenere immobi-
lizzata l’eredità, in sintonia con quanto impone anche la normativa
genovese 16. Due figli già sposati continuano ad abitare sotto il tetto
 

14 Giovanni di Guiberto, cit., n. 1790, 30 marzo 2006.


15 G. Petti Balbi, La vita e la morte: riti e comportamenti nella Genova medie-
vale, in Legislazione e società nell’Italia medievale. Per il VII centenario degli statuti
di Albenga, Bordighera 1990, pp. 425-457, anche in Ead., Governare la città, cit.,
pp. 29-40.
16 Tra gli articoli riguardanti il diritto di famiglia gli statuti di Pera, che sono
la prima organica raccolta statutaria genovese di inizio Trecento, contemplano l’ob-

387
Giovanna Petti Balbi

paterno e Simone gestisce anche la dote delle due nuore, rispettiva-


mente di 270 e 294 lire. Più che sui figli il padre sembra riporre fidu-
cia sulle capacità del nipote che reca lo stesso suo nome, una fiducia
ben riposta alla luce delle successive transazioni economiche di cui è
protagonista il giovane Simone, una figlia del quale rientra tra le per-
sone beneficiate nel 1248 da Giulietta madre di Benedetto Zaccaria
nel suo testamento 17. La tensione di Simone verso l’accumulo, la vo-
 

lontà di non intaccare il patrimonio e di ancorarlo alla rete familiare


non lasciano spazio nemmeno a considerazioni sulla precarietà del-
l’esistenza o a sentimenti di pietà cristiana: pochi lasciti pii oltre il de-
ceno legale all’opera della cattedrale 18, poche lire a Santa Maria di
 

Castello, pochi soldi per la balia, la manomissione di un servo purché


continui a servire ancora per dieci anni la moglie, il tardivo risarci-
mento per un episodio di usura, la restituzione del guadagno di una
commenda. Significativa è anche la cessione di un appezzamento di
terreno in luogo di danaro probabilmente impegnato in operazioni
economiche, per provvedere alla restituzione delle 270 lire portate
in dote da Richelda che, solo se continuerà ad abitare con i figli, sarà
«donna et domina de omnibus bonis meis»19.
Il testamento di Simone rivela alcuni tratti peculiari della classe
dirigente genovese, gli ingredienti immateriali della pedagogia mer-
cantile della prima età comunale in cui il lavoro conserva uno sboc-
co chiaramente connesso all’utile, anche se non del tutto sottratto

bligo per i tutori di far fruttare il danaro dei minori in contrattazioni marittime: V.
Piergiovanni, Lezioni di storia giuridica genovese. Il medioevo, Genova 1984, pp.
70-74.
17 R.S. Lopez, Genova marinara nel Duecento. Benedetto Zaccaria ammiraglio
e mercante, Messina - Milano 1933, n.ed. a cura di G. Airaldi, Genova 1996, priva
però dell’appendice documentaria. Si cita dalla prima edizione, doc. I, 28 maggio
1248.
18 Si tratta dell’imposta del 10% prelevata dal 1174 su tutti i lasciti pii, de-
voluta prima alla fabbrica della cattedrale e dal 1270 impegnata per finanziare la
gestione delle opere portuali: V. Polonio, Da “opera” a pubblica magistratura. La
cura della cattedrale e del porto di Genova medievale, in Opera. Carattere e ruolo delle
fabbriche cittadine fino all’inizio dell’età moderna, Firenze 1996, pp. 117-135, anche
in Ead., Istituzioni ecclesiastiche della Liguria medievale, Roma 2002, pp. 403-424.
Genova offre un interessante esempio di mutazione da fabbrica a gestione di un
bene pubblico: P. Boucheron, A qui appartient la cathédrale, in Les espaces sociaux
de l’Italie urbaine. XII-XV siècles, Parigi 2005, pp. 285-308.
19 G. Petti Balbi, Donna et domina: pratiche testamentarie e condizione fem-
minile a Genova nel secolo XIV, in Margini di libertà, cit., pp. 169-172.

388
Percezione e uso della ricchezza nel mondo mercantile genovese

al controllo della morale, con la convinzione che il commercio più


della terra possa produrre e incrementare ricchezza, che la parente-
la sia utile strumento d’integrazione e di promozione sociale e po-
litica, che il patrimonio debba essere conservato per la famiglia e
la domus 20. Questo patrimonio di valori è condiviso da Guglielmo
 

Embriaco maior, autorevole esponente della nobiltà cittadina, abi-


le mercante, più volte console e diplomatico, coinvolto soprattutto
nelle vicende siciliane, che ebbe in dono dal potente siniscalco del
regno Marcovaldo di Anweiler un anello di rubini, poi da lui impe-
gnato in un contratto di accomenda. Anche senza scendere nei par-
ticolari, il testamento redatto nel 1202 21 rivela l’assillo e la volontà
 

di trasmettere intatto il cospicuo patrimonio fondiario e immobilia-


re accumulato, al punto che, pur elencando i nomi delle figlie dota-
te e destinate a lasciare la casa paterna, Guglielmo designa coeredi
figli e nipoti maschi, senza specificarne i nomi, quasi per esorcizza-
re ogni distinguo o possibili separazioni. E nella donazione di un
appezzamento di terra per mantenere un sacerdote nella chiesa di
Santa Maria di Castello che ogni giorno debba cantare una messa per
l’anima sua e degli antenati, specifica che il sacerdote scelto «cum
maiori parte de domo mea» debba impegnarsi a rispettare il dettato
«in osculo pacis et fidei», con la possibilità di perdere il lasciato che
ritornerà «ad heredes domus mee». Non sembrano spia di senso ci-
vico o di carità verso il prossimo le 25 lire lasciate al comune e le 18
all’opera della cattedrale, perché costituiscono il deceno, la tassa ob-
bligatoria, di cui già si è detto.
Uno spirito meno egoistico e una maggiore sensibilità all’uso
sociale della ricchezza si manifestano in quanti destinano il danaro
per il riacquisto dei Luoghi Santi, per gli ospedali, per l’opera di ta-

20 Sono atteggiamenti comuni dei mercanti: R.C. Mueller, Sull’establishment


bancario veneziano. Il banchiere davanti a Dio (secoli XIV-XV), in Mercanti e vita
commerciale nella Repubblica veneta (secoli XIII-XVIII), a cura di G. Borelli,
Verona 1985, pp. 45-103; Ph. Braunstein, Il mercante davanti alla morte, in La mor-
te e i suoi riti in Italia tra medioevo e prima età moderna, a cura di F. Salvestrini -
G.M. Varanini - A. Zangarini, Firenze 2007 (Collana di studi e ricerche del Centro
di studi sulla civiltà del tardo medioevo di San Miniato, 11), pp. 257-274.
21 ASG, ms. 102, Diversorum notariorum, ff. 250v-251, 14 agosto 1202.
Ringrazio Dino Puncuh che sta per editare le carte del notaio Guglielmo da Sori
per avermi fornito il testo. Su questo personaggio di spicco nella vita politica ed
economica, S. Origone, Gli Embriaci a Genova tra XII e XIII secolo, «Serta antiqua
et mediaevalia», V (2001), pp. 75-79.

389
Giovanna Petti Balbi

luni edifici religiosi o per la manutenzione di ponti, in genere ubicati


in prossimità della residenza o del luogo di provenienza. Ad esem-
pio il ricco Giordano Richeri che ha proprietà immobiliari (posse) a
Genova e a Nizza, ove in prossimità del mare fa erigere un ospeda-
le che possa accogliere e mantenere dodici poveri, oltre 50 lire per
l’opera del ponte di Polcevera, destina 2.000 lire per l’acquisto di ap-
pezzamenti di terreno in favore di monasteri cittadini o ospedali 22,  

intuendo forse che la massiccia immigrazione verso la città e il pro-


cesso di urbanizzazione in atto avrebbero notevolmente incremen-
tato il valore del suolo suburbano e del lascito. È probabile che la
mancanza di un erede diretto abbia indotto Giordano a usare la ric-
chezza in senso sociale, a farne partecipi altri meno fortunati 23.  

Se dai testamenti si sposta lo sguardo agli inventari post mor-


tem 24 si conferma la sensazione che i ricchi abbiano mirato a te-
 

saurizzare anche proprietà fondiarie e altri beni, minuziosamente


descritti e destinati dai testatori, senza disperdere le sostanze o usare
il danaro a fini collettivi o per manifestazioni suntuarie, limitandosi a
oggetti d’uso e di abbigliamento adeguati a uno stile di vita sobrio e
misurato o strettamente necessari allo status come le armi. E anche il
possesso di oggetti di valore, gioielli o perle, quasi sempre monetiz-
zati e talora usati come integrazione di doti o pegni in luogo del da-
naro, pare legato al censo più che al ceto.
In un discorso sulla ricchezza non si può non ricordare Benedetto
Zaccaria, assurto con la sua vicenda esemplare a simbolo del mercan-
te e dell’uomo di successo del secondo Duecento. Roberto Lopez ne

22 Bonvillano (1198), a cura di J.E. Eierman - H.C. Krueger - R.L. Reynolds,


Genova 1939 (Notai liguri del secolo XII, III), doc. 121, 12 ottobre 1198; doc. 148,
17 ottobre 1198.
23 Un vero esempio di impegno religioso e di uso civico del danaro viene
offerto non da esponenti dell’aristocrazia mercantile, ma da 45 uomini di modesta
condizione abitanti a Cesino, una frazione in val Polcevera, i quali si impegnano a
nome proprio e dei familiari a destinare per i prossimi cinquanta anni la quinta par-
te di ogni loro lascito pro anima all’opera della chiesa di Sant’Antonino in Cesino,
con una serie di rigide clausole per il mantenimento dell’impegno e la raccolta del
danaro. L’atto del notaio Bartolomeo de Fornari è in G. Cipollina, Regesti di val
Polcevera, Genova 1932, pp. 50-51, 13 ottobre 1252.
24 A titolo esemplificativo si vedano i venti inventari di persone di vario ceto
redatti tra il 1227 e il 1261 editi in R.S. Lopez, Note sulla composizione dei patrimoni
privati della prima metà del Duecento, in Studi sull’economia genovese nel medioevo,
Torino 1936, pp. 207-265. Numerosi sono quelli che giacciono inediti nella cospi-
cua produzione notarile genovese del periodo.

390
Percezione e uso della ricchezza nel mondo mercantile genovese

ha magistralmente ricostruito la biografia 25 purtroppo non conclusa


 

dal testamento: ne tento qui una rilettura in controluce, nell’inten-


to di accedere all’uomo, di cogliere suggestioni e di formulare ipo-
tesi su quali sembrano essere state le aspirazioni, la percezione di sé
e il concetto di felicità. In sintonia con i comportamenti e le strate-
gie familiari Benedetto si cimenta nell’avventura commerciale e du-
rante i circa venticinque anni trascorsi in gran parte in Oriente, tra il
1259 e l’84, si costruisce con il fratello Manuele una fortuna, soprat-
tutto a seguito della concessione in feudo da parte di Michele VIII
Paleologo dell’isola di Focea, centro di produzione del miglior allu-
me. I proventi del commercio dell’allume e del grano, prodotti che
i due fratelli fanno giungere in Occidente con navi proprie, con una
vera flotta utilizzata anche in imprese corsare, oltre la partecipazioni
ad altre operazioni economiche «ad negociandum et lucrandum ad
risicum et fortunam» gli procurano ricchezza, una ricchezza di cui
va fiero, ostentata in vari modi non solo con una spiccata valenza so-
cio-economica: il nome Divitia assegnato alla più grande delle sue
navi anziché i tradizionali nomi augurali di santi, il suntuoso palaz-
zo nei sobborghi della città lungo il fiume Bisagno degno di ospita-
re in seguito Margherita di Brabante moglie dell’imperatore Enrico
durante il soggiorno genovese. Ma non gli bastano ricchezza e be-
nessere materiale; aspira a prestigio, onore e fama. Non pare che ab-
bia sposato una sorella dell’imperatore d’Oriente, ma la scelta del
nome Paleologo imposto al primogenito, in deroga al conservatori-
smo onomastico familiare, deve essere stata suggerita sia da un senso
di riconoscenza verso il suo protettore, sia dalla volontà di palesare la
posizione acquisita alla corte bizantina; e del resto gli incarichi diplo-
matici svolti per conto di Genova e dell’imperatore lo impongono al-
l’attenzione di tutti i potenti del tempo e gli procurano fama.
Benedetto sembra aspirare all’honor, al prestigio, alla fama, al
rispetto che esige anche dai suoi collaboratori più modesti, come
il calzolaio che nel 1275 si impegna a seguirlo in Romania per un

25 Dopo Genova marinara nel Duecento, cit., il Lopez è ritornato sull’argo-


mento in Familiari, procuratori e dipendenti di Benedetto Zaccaria, in Miscellanea
di storia ligure in onore di Giorgio Falco, Milano 1962, pp. 209-249, poi anche in
Id., Su e giù per la storia di Genova, Genova 1975 (Collana storica di fonti e studi,
20), pp. 329-370. Si veda ora anche C. Delacroix Besnier, Figures des génois chez
Guillaume Adam, in Tous azimuts. Mélanges en l’honneur de Gorge Jehel, Amiens
2002, pp. 183-187.

391
Giovanna Petti Balbi

anno e a non allontanarsi dal suo servizio, con la promessa che «res
tuas et honorem tuum custodiam et salvabo bona fide et sine frau-
de» 26. L’honor, la fama, che è una componente essenziale della co-
 

scienza e dell’identità mercantile 27, non è comunque concepito da


 

Benedetto come aspirazione solo personale, ma collettivo, esteso alla


domus, alla famiglia di cui si propone come capo, sostituendosi al-
l’«insignificante» e sfortunato padre 28 e ricorrendo ad accorte strate-
 

gie matrimoniali per i propri figli e per le figlie del fratello Manuele,
che aveva scelto come unico collaboratore tra gli altri fratelli. I due
rafforzano la consanguineità con la solidarietà degli affari e si rila-
sciano spesso procure generali e reciproche che permettono maggior
libertà e inventiva rispetto al contratto di commenda, pur conser-
vando Benedetto un ruolo preminente che ben emerge dal testamen-
to redatto nel 1271 da Manuele. In presenza di tre figlie femmine
e di una moglie gravida, Manuele assegna 700 lire di dote alle due
più giovani e lascia alla discrezione del fratello eventuali extradoti e
gioielli, mentre la dote della primogenita promessa ad un Doria da
lui e dal fratello congiuntamente è di ben 1000 lire. Presagendo poi
che la moglie avrebbe avuto un’altra femmina, come in realtà avven-
ne, Manuele designa erede Benedetto e la sua discendenza maschile,
ribadendo queste volontà anche nel successivo testamento del 1280.
Matrimoni prestigiosi quindi, con esponenti delle più nobili e po-
tenti famiglie genovesi del tempo, che fondono nobiltà di lignaggio
con opulenza mercantile: Orietta di Manuele tredicenne è promes-
sa sposa nel 1281 dai due fratelli al figlio di Oberto Spinola, uno dei
due capitani del popolo; Paleologo di Benedetto di 17 anni è sposato
nel 1282 con Iacopina Spinola e l’altra figlia Argentina con Paolino

26 Lopez, Genova marinara nel Duecento, cit., doc. 2, 16 marzo 1275.


27 Consigli sulla mercatura, cit., p.24; G. Todeschini, Fiducia e potere: la cit-
tadinanza difficile, in La fiducia secondo i linguaggi del potere, a cura di P. Prodi,
Bologna 2007, pp. 15-26.
28 L’espressione è di D. Owen Hughes, Ideali domestici e comportamento socia-
le: testimonianze dalla Genova medievale, in La famiglia nella storia. Comportamenti
sociali e ideali domestici, a cura di Ch.E. Rosenberg, Torino 1979, p. 173. Alla luce
del modesto lascito testamentario di 10 lire, la somma che taluni ricchi lasciano ai
servitori fedeli, fatto da Manuele in favore del padre, la studiosa ipotizza che i due
fratelli disprezzassero il genitore, vittima di due rapimenti e privo delle innate ca-
pacità dei due figli. Questa supposizione può essere convalidata anche dal fatto che
il padre non è ricordato da Manuele nemmeno tra i tutori delle figlie o gli esecutori
testamentari: per il testamento cfr. la nota successiva.

392
Percezione e uso della ricchezza nel mondo mercantile genovese

Doria, che il suocero inserisce anche nelle sue attività commercia-


li. E proprio nel contratto matrimoniale di Paleologo si precisa che,
se Benedetto sarà assente da Genova, il versamento dell’antefatto
competerà «domui et familie dicti Benedicti» 29. La dizione «fratres
 

Jacharias» diventa abituale nelle transazioni economiche e del re-


sto i due fratelli abitano a Genova sotto lo stesso tetto, nella «domus
Iacheriorum» ove si reca talora a domicilio nell’estate 1285 il notaio
Simone Vattaccio, che è uno dei loro notai di fiducia che ne cura gli
affari indifferentemente «in viridario» o su qualche galea ancorata al
molo30.
Per conquistare ricchezza, benessere e fama per sé e per la do-
mus, Benedetto si impegna anche nella dimensione sociale, in impre-
se non solo economiche, che rivelano capacità, doti, magnanimità.
Inizialmente era rimasto lontano dall’agone politico ed estraneo alle
tensioni e alle lotte intestine, in consonanza con l’accorta politica
mercantile di non sbilanciarsi troppo in favore degli effimeri deten-
tori di potere. Interessi mercantili e azioni diplomatiche alla corte
bizantina erano state preminenti, ma i successivi legami matrimonia-
li con esponenti delle casate Spinola e Doria lo avvicinano al fronte
ghibellino allora al potere e Benedetto mette al servizio della cit-
tà esperienza marittima, abilità diplomatica, ricchezza. La parteci-
pazione alla guerra contro Pisa, il ruolo avuto nella battaglia della
Meloria nel 1284, l’iniziativa personale per la conquista di Tripoli
di Siria poi sconfessata da Genova, ne sottolineano il genio militare,
la spregiudicatezza e l’audacia di uomo di mare e lo impongono al-
l’attenzione dei sovrani. Con il titolo di ammiraglio della flotta pas-
sa così nel ’91 al servizio del re di Castiglia e alla fine del ’94 del re di
Francia, presso il quale rimane con successo fino al 1300 quando ri-
torna in patria e in Oriente per un ambizioso progetto di crociata. In
realtà finisce per impadronirsi di Chio, l’isola del mastice, prima di
ritornare a Genova, ove muore tra il 1307 e l’08.
In un clima d’irrequietezza e di continua tensione Benedetto
sembra aver programmato la propria vita con scelte ardite e funzio-
nali al proprio benessere, con un impegno costante connesso all’uti-
le e alla ricchezza, che non è però per lui il traguardo ultimo, ma il
tramite verso un sistema di valori più nobili, quali famiglia, patriotti-

29 Lopez, Familiari, procuratori, cit., doc. XI, 11 maggio 1282.


30 Ivi, docc. XX-XXVIII, 22-24 agosto in viridario; docc. XXIX-XXXI, 8
ottobre sulla galea.

393
Giovanna Petti Balbi

smo, senso civico. Genova rimane al centro dei suoi affari e dei suoi
affetti: non esita ad armare proprie navi da mettere al servizio del-
la città in occasione di operazioni militari e avvia iniziative econo-
miche che tornano a vantaggio anche dei concittadini. Incrementa
l’economia locale, perché le sue navi, persino quelle commissionate
dai re di Castiglia o di Francia, vengono sempre costruite nella città
natia; apre ai concittadini la rotta atlantica verso le Fiandre e i mer-
cati fiamminghi e inglesi della lana e a Genova lungo il Bisagno crea
industrie e officine per la lavorazione dei panni che reclutano ma-
nodopera locale. Per l’atteggiamento di Benedetto nei confronti del-
l’al di là e della salvezza eterna siamo nel campo delle congetture, a
meno di non rapportarsi alle volontà di Manuele 31 che è esempio vir-
 

tuoso di carità cristiana: senza condividere il delirio funerario degli


innumerevoli rivoli di lasciti pii di molti genovesi, destina «pro rime-
dio anime» 300 lire, che nel 1281 sono comunque un lascito genero-
so proporzionato ai guadagni, perché siamo ancora agli esordi della
fortunata avventura dei due fratelli.
Si ha la sensazione che fino a metà del secolo XIII la ricchez-
za, percepita come bene individuale, rimanga «custodita» nell’ambi-
to familiare, con modesti afflati religiosi e caritativi verso destinatari
ben individuati, con poca propensione a spartirla con altri o a esibir-
la in dimore, oggetti e altre forme di ostentazione, con una sostanzia-
le estraneità civica. Qui come altrove la mentalità mercantile, basata
sull’attivismo economico, è finalizzata all’accumulo con rare aspira-
zioni diverse, come quelle di Armano di Cogorno che si serve del
danaro per proporre scelte di vita alternative e soddisfare forse sue
velleità culturali, avviando allo studio uno dei suoi tre figli maschi
coeredi e privilegiandolo con un lascito di 50 lire «si voluerit tenere
litteras» 32. Armanno sembra aver precocemente intuito l’utilità del-
 

l’istruzione per lo svolgimento delle attività commerciali prima dei


molti mercanti che dalla seconda metà del Duecento affidano i loro
figli a maestri stipendiati e impegnano parte del loro danaro in un
bene non immediatamente redditizio 33.  

31 Ibidem, doc. V, 19 aprile 1271.


32 Giovanni di Guiberto, cit., doc. 1697, 20 marzo 1206.
33 G. Petti Balbi, L’insegnamento nella Liguria medievale. Scuole, maestri, li-
bri, Genova 1979, pp. 43-60; Ead., Tra scuola e bottega: la trasmissione delle pratiche
mercantili, in La trasmissione dei saperi nel medioevo (secoli XII-XV), Atti del dician-
novesimo convegno internazionale di studi del Centro Italiano di studi di storia e
d’arte, Pistoia 2005, pp. 89-110.

394
Percezione e uso della ricchezza nel mondo mercantile genovese

In genere il ricco mercante si realizza e raggiunge la felicità in


ambito familiare e sociale, manifestando una sorta di «avarizia vir-
tuosa», tesa all’accumulo e alla conservazione della ricchezza e del
benessere raggiunto, tenendo i familiari sotto il rigido controllo di
un padre che seleziona matrimoni e investimenti, scelte di vita eco-
nomica e sociale, utili a rafforzare la compattezza familiare median-
te il danaro, ritenuto un mezzo idoneo anche a instaurare relazioni
sociali e politiche più qualificate. Quindi una valorizzazione positiva
del danaro, del lavoro e dell’onore ritenuti un bene «necessario» per
l’identità sociale, con una tensione continua verso la ricchezza, rag-
giunta talora con impegno e sacrifici 34.  

Assai aridi sembrano i sentimenti del ricco Angelo Spinola 35  

che nel 1301 sembra manifestare una sorta di intimo compiacimento


e di malcelata soddisfazione nel valutare e distribuire le proprie so-
stanze in gran parte provenienti da contratti di commenda in cui ha
forse investito anche le ricche doti delle mogli. Vedovo per due volte
domina e disciplina con il danaro un vasto ambito familiare: otto tra
figli e figlie avute da due matrimoni, quattro sorelle, di cui una mo-
naca, parecchi nipoti, a ciascuno dei quali destina somme di danaro
con precise clausole suggerite dalla circospezione e dall’avvedutezza
del mercante abituato a registrare «manu propria» ogni faccenda «in
scriptis et cartulariis». Non mancano lasciti pii da distribuirsi da par-
te delle figlie e 25 lire per l’anima di coloro da lui trattati «illecite vel
iniuste», con un tardivo pentimento; ma ci si sarebbe potuto attende-
re maggior filantropia dal fratello dell’allora arcivescovo di Genova
Porchetto Spinola. Angelo invece non mostra alcuna pietas o carità
verso il prossimo o i familiari, nemmeno per le due mogli ricordate
solo per la dote, senza rimpianti o messe di suffragio per le loro ani-
me. Del fratello arcivescovo si ricorda solo in un secondo tempo con
una postilla al testamento 36, nominandolo suo fidecommissario, con
 

lo scopo di tutelare più autorevolmente le sostanze ponendole «sub


tutela et protectione domini archiepiscopi»: visibilmente preoccupa-
to della sua «roba», manifesta un forte attaccamento alla propria ric-
chezza bene amministrata, in cui pare riponga la sua felicità, con il

34 G. Todeschini, I mercanti e il Tempio. La società cristiana e il circolo virtuo-


so della ricchezza tra medioevo ed età moderna, Bologna 2002.
35 ASG, cart. 211, ff. 24v-25v, 28 settembre 1313.
36 Ivi, ff. 25v-26, 1 ottobre 1313.

395
Giovanna Petti Balbi

rimpianto di doverla lasciare e spartirla con altri.


Solo eventi straordinari, esterni alla volontà dell’uomo, sem-
brano mettere in crisi questo paradigma, l’autostima, la convinzio-
ne di potersi garantire con il danaro il benessere, spesso confuso e
assimilato alla felicità. Ad esempio la mancanza o la morte prema-
tura dell’erede maschio, la possibilità che la vedova possa abbando-
nare la casa maritale con la propria dote e altri doni indebolendo il
patrimonio 37 sono percepiti come fallimenti personali, quasi esecra-
 

ti più della morte, perché vanificano ogni aspirazione a mantenere


salda l’organizzazione familiare e mettono in crisi i legami e la con-
vivenza familiare intesa come unica protezione di fronte ai capricci
della fortuna e all’incertezza del domani, mentre guerre, epidemie,
carestie sono ritenuti mali inevitabili, sui quali il singolo non può
intervenire.

La degenerazione dell’etica mercantile


Dalla seconda metà del secolo XIII si intensificano l’ostentazio-
ne e il consumo della ricchezza con manifestazioni che si esasperano
nel corso del Trecento anche in conseguenza dei mutati assetti so-
cio-politici. Infatti dopo un trentennio di convulse lotte intestine che
colpiscono ruoli e fortune dell’antico ceto dirigente nobiliare 38, i po-  

polari, in particolare i mercanti, coronano le loro aspirazioni a con-


seguire dignità politica e sociale adeguata al loro ruolo economico,
diventando ceto dirigente. Il danaro, la ricchezza comunque acquisi-
ta, sono stati il loro principale veicolo d’integrazione e di promozio-
ne, perché hanno consentito la scalata verso l’aristocrazia attraverso
forme di compartecipazione a imprese economiche, unioni matrimo-
niali, iniziative di vario tipo. In questa situazione, in cui diventano
sempre più labili i confini tra nobili e ricchi popolari, si attua un ri-
mescolamento di persone, di famiglie, di ruoli in cui si perde l’iden-
tità originaria del populus. Con la compenetrazione d’interessi e con
aggregazioni trasversali si costituisce un ceto misto, quello dei ma-
gnati o dell’aristocrazia del danaro, in cui i nuovi ricchi assimilano i

37 G. Petti Balbi, Donna et domina: pratiche testamentarie e condizione fem-


minile a Genova nel secolo XIV, cit., pp.153-182.
38 G. Petti Balbi, L’assedio di Genova degli anni 1317-1331: maligna et du-
rans discordia inter gibellinos et guelfos de Ianua, «Reti medievali. Rivista», VIII
(2007), pp. 1-25.

396
Percezione e uso della ricchezza nel mondo mercantile genovese

costumi dei nobili e innescano una sorta di gara per apparire pari, se
non superiori, a loro 39.  

Non si è ricchi se non si appare tali, se non si adottano compor-


tamenti e stili di vita che comunicano ad altri il proprio benessere,
con indicatori di vario tipo, cose che circolano o si impongono co-
munque all’attenzione, abbigliamento, gioielli, servitù, dimore, vil-
le, cappelle, con «le disordinate e immoderate ispese del vestire e
d’altro», come le definiscono l’Anomino poeta e l’autore dei con-
sigli sulla mercatura 40. Si vive in un clima di euforia e di lassismo,
 

senza preoccuparsi dell’instabilità politica e delle diminuite attività


commerciali pesantemente colpite dalla concorrenza veneziana, dal-
l’espansionismo della corona d’Aragona e dall’avanzata turca, pri-
ma ancora che la grande peste induca a pessimistiche riflessioni sulla
precarietà della mercatura e dell’esistenza. Questa situazione è ben
lumeggiata dal cronista tardo trecentesco Giorgio Stella che, da vero
laudator temporis acti, si scaglia contro lo smodato uso della ricchez-
za esibita in palazzi, ville, giardini, suppellettili preziose, vesti di lino
intessute d’oro, contro questa cultura del lusso e del superfluo, la
«sumptuosam consuetudinem» che provoca una degenerazione del
sobrio stile di vita, del dantesco «buon tempo antico» e non presta
attenzione al bene comune o ai valori civici del passato 41.  

Gioielli e oggetti preziosi, un tempo ritenuti soprattutto inve-


stimenti sicuri in cui impegnare i proventi delle attività mercantili o
da utilizzare come merce di scambio facilmente convertibile in dana-
ro, sono ora usati soprattutto per qualificare uno status 42. La ricchez-
 

39 G. Petti Balbi, Simon Boccanegra e la Genova del Trecento, Genova 1991,


n.ed., Napoli 1995.
40 Cfr. nota 1. Su queste tematiche G. Guerzoni, Apollo e Vulcano. I mercati
artistici in Italia (1400-1700), Venezia 2006; M.G. Muzzarelli, Identità, fama e vesti
(F. Barbaro, L.B. Alberti, M. Palmieri), in La fiducia secondo i linguaggi, cit., pp.
295-310.
41 Georgii Stellae Annales Genuenses, a cura di G. Petti Balbi, Bologna
1975 (Rerum Italicarum Scriptores, II edizione, XVII/II), p. 118. Sul passato, rite-
nuto tempo migliore rispetto alla decadenza del presente, assimilabile al mito del-
l’età dell’oro dai pessimisti laudatores temporis acti, R. Bordone, Il passato storico
come tempo mitico nel mondo cittadino italiano del medioevo, «Società e storia»,
XIV (1991), pp. 1-22.
42 G. Petti Balbi, Circolazione mercantile e arti suntuarie a Genova tra XIII
e XV secolo, in Tessuti, oreficerie, miniature in Liguria. XIII-XV sec., a cura di A.R.
Calderoni Masetti - C. Di Fabio - M. Marcenaro, Bordighera 1999, pp. 41-54.

397
Giovanna Petti Balbi

za viene esibita in proprietà immobiliari ritenute in grado di meglio


comunicare il ruolo del proprietario e della famiglia. Dimore in cit-
tà e nel contado, le celebri ville che suscitano l’ammirazione di tut-
ti i visitatori forestieri che parlano di un’altra Genova 43, diventano  

così tangibili indicatori del nuovo ceto, del superfluo talora giusti-
ficato come necessario al decoro urbano, del «consumo del lusso».
Non mancano cappelle familiari e monumenti funebri fatti erigere
soprattutto da esponenti dell’antica nobiltà non solo nelle chiese ur-
bane, ma in quelle di periferia, in prossimità delle loro ville, quasi
per differenziarsi dai nuovi ricchi che affollano con le loro sepolture
le accoglienti e spaziose aule delle fondazioni mendicanti cittadine.
In queste forme la ricchezza viene usata quasi per sopravvivere e la-
sciar memoria di sé, per mostrare possanza, ricchezza del casato, con
scarse implicazioni di vera pietà religiosa o forme di mecenatismo ar-
tistico. Valori e aspirazioni constanti del ricco rimangono l’impegno
del singolo e i tradizionali assetti familiari: il rispetto verso il pater fa-
milias o la vedova lasciata usufruttuaria dei beni e tutrice dei figli, la
perseveranza nel lavoro e nel commercio, la regolare e precisa tenu-
ta dei libri contabili, l’impiego del danaro in forme sicure di investi-
mento, la fiducia in se stessi, tutto sulla scia e sull’esempio paterno.
Ci si illude anche che questo ricco tenore di vita largamente diffu-
so possa in un certo senso essere controllato, alimentato da un conti-
nuo afflusso di nuove risorse che consentono il mantenimento di uno
standard di benessere materiale, prima ancora che le leggi suntuarie
intervengano per controllare spese eccessive o sperpero di danaro 44.  

Spesso sembrano solo stereotipi le esortazioni più o meno esplicite


a pensare al prossimo, a forme di socialità civica verso chi ha meno,
benché questa «avarizia», questo atteggiamento provochi un certo
disagio morale e intellettuale specialmente in relazione alla liceità o
meno del guadagno e alla valutazione delle qualità morali dell’ope-
ratore economico e della sua fama 45. Comunque questa mentalità
 

consumistica e edonistica sembra talora assumere una positività so-

43 G. Petti Balbi, Genova medievale vista dai contemporanei, Genova 1978,


ed. ampliata Genova 2009.
44 M. Cataldi Gallo, Storia del costume, storia dell’arte e norme suntuarie, in
Disciplinare il lusso: la legislazione suntuaria in Italia e in Europa tra medioevo ed età
moderna, a cura di M.G. Muzzarelli - A. Campanini, Roma 2003, pp. 179-198.
45 Su queste tematiche, S. Zamagni, Avarizia. La passione dell’avere, Bologna
2009.

398
Percezione e uso della ricchezza nel mondo mercantile genovese

ciale, perché stimola la circolazione del danaro, incrementa l’econo-


mia cittadina, favorisce lo sviluppo di attività artigianali, l’impiego di
manodopera specializzata, la richiesta e il mercato di oggetti di lus-
so o d’arte.
Il consumo della ricchezza va di pari passo con una crescente
paura del futuro, con una maggiore coscienza della precarietà del-
l’esistenza e della necessità di guadagnarsi l’al di là soprattutto tra-
mite il delirio dei lasciti pii e la celebrazione di grandiosi funerali, in
modo che anche la morte viene sfruttata per la politica dell’appari-
re 46. Così Manfredi Zaccaria del fu Manuele, un discendente del ce-
 

lebre Benedetto, nel testamento redatto nel 1323 47 destina i proventi


 

dell’affitto di una casa, che non può essere né venduta né alienata,


al mantenimento nella chiesa di Santa Maria di Castello di un cap-
pellano che celebri ogni giorno una messa per sé e per i congiunti e
nella ricorrenza della sua morte con grande sfarzo e apparati coram
populo con l’intento di «facere memoriam de anima mea». Anche
Federico Piccamiglio, che nel 1344 destina una somma considerevo-
le per apportare migliorie alla chiesa di San Marcellino, pare mosso
soprattutto dal desiderio di assicurare memoria di sé e di palesare il
prestigio e il potere della famiglia 48. Si moltiplicano anche forme di
 

generosità verso il prossimo, elemosine e lasciti per religiosi, ospeda-


li, poveri, infermi, fanciulle non dotate, con decisioni che talora di-
sperdono in molti rivoli ricchi patrimoni soprattutto di donne o di
uomini privi di eredi diretti; aumentano le manomissioni di famule e
di schiavi sempre più numerosi nella società locale, come pure dona-
zioni pro anima lasciate genericamente all’arbitrio dei congiunti sen-
za una precisa destinazione e con una sorta di disinteresse, quasi si
tratti di un obbligo; si continuano a destinare somme per il riscatto
dei prigionieri o per la costruzione e la manutenzione di ponti o di
strade; talora si designano eredi i poveri di Cristo, con una valutazio-
ne diversa della ricchezza, non solo leggibile in termine di valore e di
possesso, ma di carità cristiana e di pubblica utilità, in sintonia con
l’etica economica maturata in ambito francescano che aveva muta-
to l’atteggiamento collettivo nei confronti del danaro e del mercante

46 Sulle modalità e le spese per la sepoltura cfr. i vari contributi in La morte


e i suoi riti, cit., in particolare I. Ait, I costi della morte: uno specchio della società
cittadina bassomedievale, pp. 275-321.
47 ASG, not. ignoti, IV. 29, 29 gennaio 1323.
48 ASG, not. cart., 231, ff. 84-85, 15 aprile 1344.

399
Giovanna Petti Balbi

che può agire nel comune interesse della societas cristiana 49.  

Si incrementano anche gli investimenti nel debito pubblico, in


titoli di stato, ritenuti investimenti sicuri in congiunture negative di
mercato, in grado di garantire la ricchezza individuale e di definirla
in un certo senso in termini di utilità pubblica con l’opportunità di
riconsiderare la natura politico-istituzionale del danaro. L’impegno
del danaro e delle ricchezze in questa forma diventa un servizio, of-
fre un’utilità civica, perché consente di far fronte ai bisogni della
cosa pubblica e della collettività. Si manifesta anche la tendenza a
trasformare la ricchezza in rendita, a investirla non solo sul mare o
nei commerci, nella terra e in immobili, ma in imprese artigiane, in
industrie, con un uso del danaro volto sì ad assicurare profitti al de-
tentore del capitale, il mercante-imprenditore, ma anche produtti-
vità sociale, possibilità di lavoro e di sostentamento per altri. E in
questo modo, in sintonia con la dottrina economica, muta anche nel-
la pubblica opinione la percezione stessa della ricchezza privata, che
non sempre e necessariamente si oppone a quella di interesse e di be-
nessere pubblico 50.  

Nella ricca documentazione testamentaria anteriore alla gran-


de peste non è agevole indicare un testo che contenga o almeno lasci
trapelare le potenzialità, la variegata gamma di sentimenti contrad-
dittori suscitati dal possesso della ricchezza. Comune a tutti i ricchi,
anche ai più recenti, rimane e talora si esaspera l’autoreferenzialità,
la volontà di usare la ricchezza per continuare a controllare anche
dopo la morte il patrimonio, ancorarlo alla famiglia e suggerire scel-
te operative e di vita atte ad incrementarlo sulla base delle proprie
esperienze di uomini ormai avanti negli anni, avvezzi ai giochi dello
scambio 51. Tuttavia la frequenza con cui si comminano maledizioni
 

o si minaccia l’esclusione dall’eredità per i contravventori alle dispo-


sizioni del testatore è spia di contrasti, di tensioni, se non ribellio-
ni all’interno del nucleo familiare, probabilmente per l’emergere di

49 G. Ceccarelli, L’atteggiamento della chiesa, in Lombardi in Europa nel


medioevo, a cura di R. Bordone - F. Spinelli, Milano 2005, pp. 121-135.
50 G. Todeschini, Ricchezza francescana. Dalla povertà volontaria alla società
di mercato, Bologna 2004, pp. 109-150.
51 Anche Paolo da Certaldo indicava nell’accumulo di beni il traguardo ulti-
mo del mercante:«sempre t’affatica e ti procaccia di guadagnare […] a molto bene e
onore». La citazione è tratta da R.L. Guidi, Il dibattito sull’uomo nel ’400. Indagini
e dibattiti, Roma 1999, pp. 191-192.

400
Percezione e uso della ricchezza nel mondo mercantile genovese

scelte di vita alternative, per l’intenzione di usare la ricchezza pater-


na per soddisfare aspettative spirituali e materiali diverse da quelle
da lui suggerite. E anche l’insistenza sull’imporre ai figli di continua-
re a seguire i consigli paterni e di continuare a operare «in negociis
et mercantiis», fa intuire l’emergere di altri interessi e di altre strate-
gie economiche alternative a quelle tradizionali.
Le molteplici forme di partecipazione alla vita economica, sug-
gerite dalle mutate congiunture socio-politiche, la ricerca di nuovi
strumenti di affermazione, una maggiore percezione della precarietà
della vita e il crescente bisogno di sicurezza, contribuiscono a met-
tere in crisi i modelli tradizionali 52, imponendo quasi una scelta tra
 

anima e azienda come scrive Reinhold Mueller 53. Ma la convinzio-


 

ne che la ricchezza possa appagare ogni aspirazione e produrre feli-


cità, rimane ancora diffusa come in Angelo Lomellini di cui ho già
ricordato in altra sede le volontà 54. Ricco e avveduto mercante ha in-
 

tessuto una vasta rete mercantile, una vera impresa familiare in cui
oltre i generi ha coinvolto o spera di coinvolgere gli undici figli ma-
schi. Nella divisione dei beni stabilisce che «quilibet filiorum suo-
rum qui cum sua industria, labore et scientia ac excercitiis aliquid
lucratus fuit» possa tenere per sé il guadagno senza spartirlo con i
fratelli, profondamente convinto che lavoro e ricchezza siano i due
volti di una stessa medaglia, di quel benessere economico che crede
di aver raggiunto e di poter trasmettere alla discendenza, senza alcu-
na intenzione di farne partecipi altri nemmeno con distribuzioni pro
anima. Una valutazione assai diversa della ricchezza è quella di un al-
tro Lomellini, Ansaldo, che due anni dopo 55 destina una grossa fet-
 

ta del suo cospicuo patrimonio, oltre il ricavato dalla vendita delle


sue vesti, per opere caritative, attento ai poveri e agli orfani, alle fan-
ciulle da maritare e a un prossimo assai largo e specificatamente in-
dicato, con un gran numero di lasciti pro anima. Anche lui ha chiara

52 B. Kedar, Mercanti in crisi a Genova e Venezia nel 300, Roma 1981 (tit.or.
Merchants in crisis. Genoese and Venetian Men of Affairs and the Fourtenth Century
Depression, New Haven - Londra 1976).
53 R. Mueller, Sull’establishment, cit., p. 64. E questo anche l’assillo di
Francesco di Marco Datini che agiva nel nome di Dio e del guadagno: Francesco di
Marco Datini. L’uomo e il mercante, a cura di G. Nigro, Firenze 2010.
54 ASG, not. cart. 230, ff. 62v-64, 26 maggio 1343. Cfr. G. Petti Balbi, Il
mercante, cit., pp. 19-20.
55 ASG, not. cart. 228, ff. 7v-11v, 2 febbraio 1345.

401
Giovanna Petti Balbi

autostima di sé e del suo stato, ma non rinunzia ai tradizionali indi-


catori della raggiunta opulenza perché ordina uno scenografico e di-
spendioso funerale nella cappella da lui fatta erigere, ma non ancora
completata, perché impone di farla dipingere, per la conservazione
della memoria e del prestigio familiare.
Spia del valore ambivalente della ricchezza e dell’impossibilità
di garantire la felicità sono anche le volontà testamentarie di Giovanni
Natone, esponente di un’autorevole famiglia savonese, diventato cit-
tadino genovese 56. A Genova ha fatto fortuna e con il commercio si
 

è procurato la ricchezza che traspare dai lasciti, dalle doti e dai doni
per le nove figlie femmine, autorizzate però a usare perle e gioiel-
li paterni solo fino a quanto non si sposeranno. All’unico figlio ma-
schio, ovviamente suo erede, insieme con la benedizione paterna va
l’esortazione a perseverare sulle orme paterne, a continuare a risiede-
re a Genova e a operare «in negociis et mercantiis» seguendo i con-
sigli di un socio d’affari del padre. Tuttavia devolvendo lasciti pii a
poveri e istituti di Savona e esprimendo il desiderio di essere sepolto
nella cappella familiare dei Natone nella città natia, Giovanni palesa
un senso di rimpianto e di nostalgia che il benessere non è riuscito a
colmare: il lavoro, la ricchezza sono a Genova, ma le radici, gli affetti
stanno a Savona ove del resto ha collocato in matrimonio le tre figlie
maggiori. Non sembrano provare sentimenti analoghi molti genove-
si che hanno fatto fortuna in Oltremare e esprimono la volontà di es-
sere seppelliti a Caffa, a Nicosia o a Famagosta, dando prova ancora
una volta di pragmatismo di spirito. ma ricordandosi della città natia
con lasciti a fondazioni religiosi o con il deceno del comune 57, sen-  

za palesare la malinconia o la tristezza di taluni contemporanei mer-


canti veneziani 58.
 

Nell’arco tra il XII e la metà del XIV secolo mi pare si possa co-

56 ASG, not. cart. 228, ff. 52-54, 29 dicembre 1345.


57 Si vedano in particolare la ricca documentazione posta in essere dal notaio
Lamberto di Sambuceto tra il 1289 e il 1302 e Nicolò Beltrame e Antonio da Ponzò
a metà del Trecento: G. Petti Balbi, Notai della città e notai nella città di Genova
durante il Trecento, in Il notaio e la città, a cura di V. Piergiovanni, Roma 2009, pp.
3-40.
58 Cfr. le molte lettere indirizzate da Candia, Tana e da altre località della
Romània da taluni veneziani: Lettere di mercanti a Pignol Zucchello (1336-1350), a
cura di R. Morozzo della Rocca, Venezia 1957.

402
Percezione e uso della ricchezza nel mondo mercantile genovese

gliere all’interno della società genovese una valutazione costante del-


la ricchezza, pur con atteggiamenti psicologici diversi nell’uso, nei
confronti della vita e del prossimo: la ricchezza è un bene agognato
per soddisfare aspirazioni personali e familiari di natura socio-econo-
mica e di partecipazione politica, con scarsa sensibilità a impegnarla
in attività intellettuali o in opere religiose o civiche, con tardive con-
versioni, perché, come scrive il Boccaccio, i genovesi sono «uomini
naturalmente vaghi di pecunia e rapaci» 59. Per tutti, anche per colo-
 

ro che nascono già ricchi, non è però un bene tenuto passivamente,


sottratto alla circolazione o alla visibilità, ma un bene da gestire, in-
crementare e trasmettere agli altri, come se il distogliere l’attenzione
dagli affari equivalesse a perdere sostanze e reputazione.
La fortuna che, pur accostata al rischio nelle formule dei più
antichi contratti notarili, aveva un significato augurale decisamen-
te positivo, acquista nel Trecento un significato più infausto e nega-
tivo nell’esplicita formula «ad risicum, periculum et fortunam», che
palesa un diverso atteggiamento mentale, una ridotta fiducia nelle
capacità del singolo e una crescente preoccupazione nei confronti
dell’avverso destino. E in questa fase di profonde trasformazioni so-
ciali ed economiche, di degenerazione dell’etica mercantile, il ricco
cerca di conservare il patrimonio con le stesse strategie del passato,
spesso senza usarlo o spartirlo con altri. Ma l’assillo per l’accumu-
lo e il timore di perdere «la roba», il desiderio di assicurarsi fama e
onorabilità, uniti alla percezione dell’instabilità della fortuna e della
precarietà dell’esistenza, generano uno stato d’inquietudine interio-
re che talora finisce per condizionarne negativamente la vita e tra-
sformare la ricchezza in un bene gravoso, in un demone che genera
infelicità.

59 Giovanni Boccaccio, Decamerone, II, 4.

403
Lunedì 18 maggio, mattina
Pistoia, Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei Vescovi
Presidente Prof. Giovanni Cherubini

Giampaolo Francesconi
«Gentiluomini che oziosi vivono delle
rendite delle loro possessioni».
Ideali e identità di una città socia nobilis et
foederata: Pistoia nello Stato fiorentino

1. Verso un linguaggio del particolare


Ma lo cancigleri del comune di Pistoia, che era ser Agapito di
ser Iohanni da Poppi, non la voleva scrivere, dicendo non si po-
teva fare per lo privilegio imperiale avavamo, et minacciavanlo
di fargli tagliare lo capo, et elli piangendo diceva voler rifiutare
l’officio. Tanto lo minacciarono lo scripxe 1.  

Il pathos narrativo e l’accorata partecipazione sono gli accorgi-


menti retorici adottati da ser Luca Dominici per descrivere, in uno
dei passaggi più drammatici della Cronaca seconda, la tenace resisten-
za del cancelliere ser Agapito di ser Giovanni da Poppi, alla richiesta
fiorentina di formalizzare per scritto la soggezione di Pistoia 2. Era il  

1 Cronache di ser Luca Dominici, a cura di G.C. Gigliotti, II, Cronaca secon-
da, Pistoia 1939, p. 44. Ringrazio Carlo Vivoli per la lettura attenta e ragionata di
questo contributo e per i preziosi consigli.
2 Ser Agapito di ser Giovanni da Poppi doveva far parte di quella nutrita
schiera di notai che già a partire dall’inizio del Trecento caratterizzavano il tessuto
sociale della comunità di Poppi e che proprio per l’azione dei conti Guidi aveva-
no inaugurato una tradizione importante di notariato locale, tanto più per un cen-
tro minore dell’Appennino toscano (M. Bicchierai, Ai confini della Repubblica di
Firenze. Poppi dalla signoria dei conti Guidi al vicariato del Casentino (1360-1480),
Firenze 2005, pp. 102sgg.).

405
Giampaolo Francesconi

10 settembre del 1401. Una data dal grande impatto simbolico. Una
di quelle date che hanno la forza della sintesi e dell’accelerazione 3.  

In quel giorno di estate avanzata si sanzionava per sempre la com-


plessa e plurisecolare vicenda delle relazioni tra Pistoia e Firenze. Lì
si chiudeva il capitolo della Pistoia comunale, libera e autonoma, e si
apriva quello della soggezione, dell’inserimento nello Stato fiorenti-
no 4. Un capitolo però, si dovrà notarlo da subito, dalla struttura più
 

sfumata e meno scontata di come parrebbe a prima vista. Un capito-


lo peraltro che per larga parte era già stato scritto: si apriva al nuovo,
ma si fondava sull’antico. Se le forme acquisivano ora una fisionomia
radicalmente mutata nel libro della storia cittadina, i contenuti — mi
riferisco alle preminenze economiche e ai legami sociali — veniva-
no da molto lontano: avevano conosciuto un’evoluzione lenta, uno
svolgimento a strappi, per gestazioni progressive, già a partire dalla
piena età comunale, almeno dai primi decenni del Duecento. Ma su
questi aspetti avremo modo di tornare.
Riprendiamo, intanto, il racconto di ser Luca. In quella pagina
dolorosa, tutta giocata sul registro diaristico dell’adesione in prima
persona, il notaio-cronista non mancava di riportare la reazione dei
suoi concittadini:

Parveci così prima facie molto duro et aspro. Subito vedu-


to questo, tucte le botteghe si chiuseno […] Tucta la gente di
Pistoia si maravigliò et ebbe grandissima paura, et chi appiatti-
va roba di qua et chi sgonbervava di là, dubitando non andasse
a saccho […] Udito gli anziani et XII questo, et vedendo non si
poteva fare altro per lo meglio, si vinse subito tra’ signori et XII
la proposta: furono tucte nere 5.  

3 Per una riflessione di largo raggio sul ruolo dell’avvenimento e di quelle


date che assumono un valore decisivo nella storia delle società e dei gruppi uma-
ni si vedano le reiterate considerazioni di P. Nora, Il ritorno dell’avvenimento, in
Fare storia. Temi e metodi della nuova storiografia, a cura di J. Le Goff - P. Nora,
Torino 1981, pp. 139-158; Id., Prefazione. L’altra battaglia di Bouvines, in G. Duby,
La domenica di Bouvines. 27 luglio 1214, Torino 2010, pp. XI-XXV. Si veda an-
che il volume miscellaneo Faire l’événement au Moyen Âge, sous la direction de C.
Tarozzi - H. Taviani-Carozzi, Aix-en-Provence 2007.
4 Su Pistoia nello Stato fiorentino, il rimando d’obbligo va al volume Storia di
Pistoia, III, Dentro lo Stato fiorentino. Dalla metà del XIV alla fine del XVIII secolo,
a cura di G. Pinto, Firenze 1999.
5 Cronache di ser Luca Dominici, cit., p. 44. Su Luca Dominici, cfr. P.
Procaccioli, Dominici, Luca, in Dizionario biografico degli italiani, XL, 1991, pp.

406
Pistoia nello Stato fiorentino, città socia nobilis et foederata

La paura e lo sgomento della cittadinanza, nella scrittura del


cronista, facevano eco alla rapidità con cui le autorità politiche de-
cisero di concedere la balìa ai Fiorentini, al punto che le cedole «fu-
rono tucte nere». Quell’unanimità era certo figlia dell’inevitabilità,
politica e militare, del momento: basti pensare che erano più di due-
mila i soldati che Firenze aveva inviato a Pistoia in prospettiva anti-
viscontea 6. Ma non solo di quella, c’era anche altro. E mi riferisco a
 

quella vischiosità di legami clientelari, di reti di amicizia, di dipen-


denze informali che, come è noto, avevano nel tempo dato un tono
originale, non sempre leggibile e spesso ambiguo alle relazioni tra
due città troppo vicine geograficamente, ma troppo distanti su tut-
ti gli altri fronti.
Ed è qui che si colloca una domanda e nella ricerca di una rispo-
sta plausibile lo sviluppo di questo intervento. Ci chiediamo per qua-
le ragione l’opposizione più fiera e tenace alla capitolazione di Pistoia
— come mostrano con chiarezza le parole di Luca Dominici — non
venne dai pistoiesi, altresì ritratti come vinti dalla paura e dalla fretta,
ma da un casentinese. Forse proprio nella solitaria, istintiva e poco
ponderata reazione di ser Agapito si racchiudono alcune delle rispo-
ste 7, degli ideali e delle prospettive che i ceti eminenti di Pistoia, con
 

tutta probabilità, già in quella fase convulsa intravedevano: ideali che

698-699; M. Zabbia, I notai e la cronachistica cittadina italiana nel Trecento, Roma


1999, pp. 180-182.
6 W. Connell, «La città dei crucci». Fazioni e clientele in uno stato repub-
blicano del ’400, Firenze 2000, p. 18, con i precisi riferimenti per questo evento al
resoconto di un diarista anonimo fiorentino (Alle bocche della piazza. Diario di ano-
nimo fiorentino (1382-1401), a cura di A. Molho - F. Sznura, Firenze 1986, pp. 228-
229). La politica antiviscontea condotta da Firenze negli anni di trapasso fra i secoli
XIV e XV erano stati l’oggetto della notissima tesi di Hans Baron sull’incarnarsi
dell’umanesimo civile nella vita politica fiorentina (H. Baron, La crisi del primo
Rinascimento italiano, Firenze 1970; su cui si veda R. Fubini, Una carriera di storico
del Rinascimento: Hans Baron, in Id., L’umanesimo italiano e i suoi storici. Origini
rinascimentali, critica moderna, Milano 2001, pp. 277-316. Si veda anche E. Fasano
Guarini, Declino e durata delle repubbliche e delle idee repubblicane nell’Italia del
’500, in Ead., Repubbliche e principi. Istituzioni e pratiche di potere nella Toscana
granducale del ’500-’600, Bologna, 2010, pp. 27-90, ).
7 Non è da escludere che l’atteggiamento antifiorentino del notaio casenti-
nese potesse collegarsi alla sua personale fedeltà ai conti Guidi, signori della sua
comunità di provenienza, e, dunque, ad una più generale idiosincrasia nei confronti
della Dominante, tanto più in un momento delicato come quello che si ebbe pro-
prio all’aprirsi del secolo XV con le tensioni che caratterizzarono prima il gover-
no poppiense del conte Roberto da Battifolle e poi quello di suo figlio Francesco
(Bicchierai, Ai confini della Repubblica, cit., pp. 261-266).

407
Giampaolo Francesconi

dovevano parlare di un futuro possibile nella soggezione a Firenze,


sicuramente di un futuro diverso, ma non troppo distante da quello
che in parte già avevano potuto sperimentare.
L’ipotesi da cui muovere è che gli uomini che tanto rapidamen-
te chiusero la stagione delle libertà politiche fossero alla ricerca di
un benessere che parlava il linguaggio del particolare, dell’afferma-
zione familiare e della conservazione dei privilegi di ceto, piuttosto
che quello del bene comune e della salvaguardia del sistema-città 8.  

Cercherò di spiegarmi meglio. E sarà necessario tenere presenti i pia-


ni distanti, ma allo stesso tempo connessi, dello sviluppo economico,
della crescita urbana e della struttura sociale con quelli dell’immagi-
nario collettivo, con quella miscela di aspirazioni e di sentimenti che
non andavano disgiunti dalla razionalità e dalla capacità di progetta-
re e di scegliere.

2. Un orizzonte compresso e una lenta deriva


Il lento e graduale passaggio di Pistoia nella più vasta cornice
istituzionale della Repubblica fiorentina s’inserisce a pieno titolo in
una delle questioni storiografiche più studiate e dibattute degli ultimi
due o tre decenni: quella delle origini dello Stato moderno. Seppur
non sia qui il caso di ripercorrere, nemmeno per sommi capi, un pro-
blema tanto vasto e condizionante, non si potrà tuttavia fare a meno
di rammentare che alcune delle categorie più frequentemente utiliz-
zate dagli storici che se ne sono occupati, come quelle di centraliz-
zazione e di decentramento, sono state qui messe alla prova con esiti
convincenti 9. Ci muoveremo, dunque, in un terreno storiografico già
 

8 Il passaggio fra una concezione comunale del potere e una concezione ri-
nascimentale, con il relativo dibattito ideologico e civile è stato indagato da una
storiografia di lunga tradizione e di vaste proporzioni, si limiterà pertanto il rimando
alle ricerche di M. Viroli, Dalla politica alla ragion di stato. La scienza del governo
tra XIII e XVII secolo, Roma 1994, pp. 49-81; Id., Come se Dio ci fosse. Religione
e libertà nella storia d’Italia, Torino 2009, pp. 39sgg. Questi temi sono stati ripre-
si, indagati e discussi in rapporto al più vasto dibattito internazionale da Fasano
Guarini, Repubbliche e principi, cit., in particolare nell’Introduzione, pp.7-24 e nel
saggio Declino e durata delle repubbliche. F. Bruni, La città divisa. Le parti e il bene
comune da Dante a Guicciardini, Bologna 2003, pp. 19sgg.
9 Si trattava di quelle categorie che erano state in prima battuta studiate e
discusse da G. Chittolini, Ricerche sull’ordinamento territoriale del dominio fioren-
tino agli inizi del secolo XV, in Id., La formazione dello stato regionale e le istituzioni
del contado. Secoli XIV e XV, Milano 2005 (ma 1979), pp. 225-265; questioni che

408
Pistoia nello Stato fiorentino, città socia nobilis et foederata

battuto dagli studi di Giorgio Chittolini, di Andrea Zorzi, di Lucia


Gai, di Francesco Neri, di William Connell, di Stephen J. Milner, di
Luca Mannori, di Carlo Vivoli e di Marco Dedola: lavori diversi per
ampiezza e impostazione, ma uniti dal denominatore comune di in-
sistere sulla particolarità dell’assorbimento fiorentino di Pistoia e sul
ruolo delle divisioni faziose all’interno di quel processo 10.  

Quel che successe fra il settembre e il dicembre del 1401, si è

sono state più di recente rilette all’insegna di un «inserimento — di Pistoia sotto


Firenze — costantemente rinegoziato» anche da A. Zorzi, Pistoia e il suo territorio
nel dominio fiorentino, in Il territorio pistoiese dall’alto Medioevo allo stato territo-
riale fiorentino, Atti del Convegno di Studi (Pistoia, 11-12 maggio 2002), a cura di
F. Salvestrini, Pistoia 2004, pp. 309-360. In un’ottica più generale il clima storio-
grafico era quello animato dai lavori di E. Grendi (Il Cervo e la repubblica. Il mo-
dello ligure di antico regime, Torino 1993), ma soprattutto dagli stimoli che proprio
Giorgio Chittolini ed Elena Fasano Guarini erano riusciti a produrre fino al decisivo
convegno di Chicago del 1993 (Origini dello stato. Processi di formazione statale in
Italia fra medioevo ed età moderna, a cura di G. Chittolini - A. Molho - P. Schiera,
Bologna 1994). Una stagione feconda di studi che non ha mancato di conoscere,
accanto a tutta una serie di indagini e verifiche puntuali, anche alcune significative
messe a punto e discussioni (Lo stato territoriale fiorentino secoli XIV-XV. Ricerche,
linguaggi, confronti, a cura di A. Zorzi - W.J. Connell, Pisa 2001; L. Mannori,
Lo stato di Firenze e i suoi storici, «Società e storia», 76 (1997), pp. 401-415; Id.,
Effetto domino. Il profilo istituzionale dello Stato territoriale toscano nella storiogra-
fia degli ultimi trent’anni, in La Toscana in età moderna, secoli XVI-XVIII: politica,
istituzioni, società, a cura di M. Ascheri - A. Contini, Firenze 2006, pp. 59-90; G.
Petralia, “Stato” e “moderno” in Italia e nel Rinascimento, «Storica», 8 (1997), pp.
7-48; F. Benigno, Ancora lo «stato moderno» in alcune recenti sintesi storiografiche,
«Storica», 23 (2002), 119-145. Più di recente si veda anche l’intervento di G.M.
Varanini, A proposito di Firenze e dello stato fiorentino nei secoli XIV-XV, «Reti
Medievali - Rivista», XI (2010).
10 G. Chittolini, Ricerche sull’ordinamento territoriale del dominio fioren-
tino, cit.; A. Zorzi, Pistoia e il suo territorio nel dominio fiorentino, cit.; L. Gai,
Centro e periferia: Pistoia nell’orbita fiorentina durante il ’500, in Pistoia: una città
nello stato mediceo, Pistoia 1980, pp. 9-147; Ead., L’intervento armato di Firenze del
1401. Pistoia in guerra dalla «Cronaca seconda» di ser Luca Dominici, Pistoia 1981;
F. Neri, Società ed istituzioni: dalla perdita dell’autonomia comunale a Cosimo I, in
Storia di Pistoia, III, cit., pp. 1-80; W.J. Connell, Clientelismo e stato territoriale. Il
potere fiorentino a Pistoia nel XV secolo, «Società e storia», 53 (1991), pp. 523-543;
Id., «La città dei crucci», cit.; S.J. Milner, Capitoli e clienti a Pistoia nel secolo XV:
dalle strutture repubblicane all’egemonia medicea, in Lo stato territoriale fiorentino,
cit., pp. 405-429; L. Mannori, Il sovrano tutore. Pluralismo istituzionale e accentra-
mento amministrativo nel principato dei Medici, Milano 1994; Id., L’eredità di Pietro
Leopoldo. Ceti dirigenti e processi di modernizzazione nell’età della Restaurazione
(1814-1847), in Il territorio pistoiese nel Granducato di Toscana, Atti del Convegno
di Studi (Pistoia, 14-15 maggio 2004), a cura di A. Cipriani - V. Torelli Vignali - C.
Vivoli, Pistoia 2004, pp. 49-98; C. Vivoli, Cittadini pistoiesi e ufficiali granducali nel

409
Giampaolo Francesconi

detto, era solo l’esito finale, la sanzione formale di una storia che
affondava alla piena età comunale. Gli equilibri fra le due città si
erano spezzati in modo irreversibile lungo i primi tre decenni del
Duecento: in quella fase in cui le potenzialità economiche, demogra-
fiche e produttive erano ancora in qualche misura comparabili e in
grado di confrontarsi, Firenze fu capace di chiudere la partita a pro-
prio vantaggio 11. D’allora in avanti — se volessimo indicare un mo-
 

mento forte di rottura potremmo scegliere il 1228 con la distruzione


dei castelli del Montalbano e l’assedio posto sotto le mura cittadine
da parte dei Fiorentini — fra i due Comuni la competizione non si
sarebbe più riaperta. Non solo: da quel momento avrebbero avuto
inizio due destini dal profilo diametralmente opposto, quello della
crescente e inarrestabile grandezza fiorentina e della lenta e ineso-
rabile eclissi pistoiese. Con questo non si vuole, e va da sé, negare
importanza o togliere lustro alla storia comunale di Pistoia 12. Pur  

tuttavia è necessario riconoscere che la storia duecentesca della no-


stra città fu una storia libera, ma condizionata. E i condizionamenti
furono di natura diversa e via via crescente: furono di natura territo-
riale con due città come Lucca e Firenze che ne limitavano gli svilup-
pi; furono di natura economica, con un giro d’affari che per forza di
cose dovette, nonostante la presenza di ricchi mercanti internaziona-
li come i Partini e gli Ammannati, soggiacere alle logiche di un mer-
cato di scala minore; furono di natura politica, soprattutto a partire
dalla seconda metà del secolo, quando il condizionamento si fece più
chiara ingerenza istituzionale, prima con l’imposizione di podestà e
di capitani del Popolo di provenienza gigliata e quindi con la prima

governo di Pistoia medicea, ivi, pp. 1-31; M. Dedola, «Tener Pistoia con le parti».
Governo fiorentino e fazioni pistoiesi all’inizio del ’500, «Ricerche storiche», XXII
(1992), pp. 239-259; Id., Governare sul territorio. Podestà, capitani e commissari a
Pistoia prima e dopo l’assoggettamento a Firenze (XIV-XVI secolo), in Istituzioni e
società in Toscana nell’età moderna, 2 voll., Roma 1994, pp. 215-230.
11 Per un confronto fra le due città ad inizio Duecento, mi permetto di ri-
mandare ad un mio contributo G. Francesconi, Pistoia e Firenze in età comunale. I
diversi destini di due città della Toscana interna, in La Pistoia comunale nel contesto
toscano ed europeo (secoli XIII-XIV), a cura di P. Gualtieri, Pistoia 2008, pp. 73-
100, in particolare pp. 84-93.
12 Per un quadro di sintesi della storia comunale pistoiese, cfr. G. Cherubini,
Pistoia comune libero. Dall’inizio del XII alla metà del XIV secolo, in Id., Città comu-
nali di Toscana, Bologna 2003, pp. 147-186, già edito come Sintesi conclusiva della
Storia di Pistoia, II, L’età del libero comune. Dall’inizio del XII alla metà del XIV
secolo, a cura di G. Cherubini, Firenze 1998, pp. 417-442.

410
Pistoia nello Stato fiorentino, città socia nobilis et foederata

balìa e la scrittura pilotata degli statuti del 1296 13.  

Il Duecento pistoiese fu un secolo di grandi traguardi e di anco-


ra più grandi orizzonti. I traguardi furono in buona misura raggiun-
ti — nella costruzione della città murata, in un felice interscambio
fra mercato urbano e rurale, nel consolidamento di una élite socia-
le che aveva nell’artigianato, nel commercio e nella pratica notarile
le fonti della ricchezza e del prestigio, negli esiti straordinari di una
stagione culturale che con Cino, Nicola e Giovanni Pisano ebbe solo
le punte più avanzate. Gli orizzonti erano grandi, ma destinati a ri-
manere tali: furono limitati e costretti proprio da Firenze. La città
crebbe, ma non come avrebbe potuto, non superando i 12-15.000
abitanti d’inizio Trecento 14; potenziò alcuni dei settori più conso-
 

ni alla propria fisionomia produttiva, così per la lavorazione del fer-


ro 15, ma senza poter mai davvero decollare dal momento che il tessile
 

era il comparto artigianale trainante dell’economia fiorentina; investì


nell’attività creditizia, che rimase uno settori decisivi della ricchez-
za interna, ma senza riuscire ad attivare quei canali e quell’ampiez-
za d’affari a livello internazionale, che furono propri di centri come
Siena o Firenze, giusto per rimanere in Toscana 16. Le potenzialità 

c’erano tutte, ma rimasero perlopiù inespresse, o almeno compresse:


accanto ad ogni slancio, rimaneva latente sottotraccia la scia di una

13 Cfr. Francesconi, Pistoia e Firenze in età comunale, cit., e i vari contributi


contenuti negli Atti del convegno La Pistoia comunale, cit.
14 Il computo della popolazione della città di Pistoia è reso difficile dalla man-
canza di serie documentarie che consentano precise valutazioni quantitative (estimi,
matricole, liste di reclutamento militare). Ciononostante sono state effettuate sti-
me, anche sulla base dell’estensione del territorio urbano, nondimeno oggetto di
discussione: L. Sandri - M. Ginatempo, L’Italia delle città. Il popolamento urbano tra
Medioevo e Rinascimento (secoli XIII-XVI), Firenze 1990, p. 107 e 148. Cfr. inoltre
Cherubini, Pistoia comune libero, cit., pp. 154-155; G. Pinto, Pistoia alla fine del XIII
secolo: un profilo, in Statuti pistoiesi del secolo XIII. Studi e testi, a cura di R. Nelli
- G. Pinto, I, Studi, Pistoia 2002, pp. 1-14, con la discussione di p. 8 e nota 24.
15 Per la lavorazione del ferro a Pistoia rimando a due contributi recenti:
G. Francesconi, «Ferri urbem aliquando congnominatam». L’attività siderurgica nel-
la Pistoia medievale e nelle sue montagne tra mito e realtà, «Annali aretini», XIV
(2006), pp. 201-219 e M.E. Cortese, Il ferro a Pistoia nel contesto della siderurgia
medievale in Toscana: una prospettiva di lungo periodo, in La Pistoia comunale, cit.,
pp. 321-348.
16 Per un quadro d’insieme si possono vedere gli atti del convegno L’attività
creditizia nella Toscana comunale, Atti del Convegno di Studi, Pistoia-Colle di Val
d’Elsa (26-27 settembre 1998), a cura di A. Duccini - G. Francesconi, Pistoia
2000.

411
Giampaolo Francesconi

fragilità, strutturale e limitante. E di quelle fragilità Firenze fu spes-


so la causa e l’effetto.

3. Dominio della retorica


Di quelle fragilità il Trecento fu la cartina di tornasole. Pur con
il rischio di semplificare in modo eccessivo passaggi e questioni sto-
riche dalla rilevanza complessa e sovraregionale, come la progres-
siva avanzata viscontea, fu proprio lungo quel secolo che, a partire
dall’assedio del 1305/06, si approfondì il solco della progressiva de-
riva pistoiese 17. Una deriva che dal piano economico si complicò,
 

con una serie di passaggi cadenzati dal 1331, al 1351 al 1373, in una
progressiva occupazione di spazi politici e istituzionali. Dalla tra-
sformazione del capitanato del Popolo in quello di Custodia di no-
mina fiorentina, alla riforma generale degli uffici, quote sempre più
consistenti di giurisdizione urbana e del territorio passarono sotto il
diretto controllo fiorentino 18. Una progressione che ebbe l’esito con-
 

clusivo nel già più volte richiamato 1401. Ma che veniva, dunque, da
lontano e che aveva avuto un canale privilegiato nella strutturata di-
visione in partes del conflitto politico pistoiese. E si arriva alle fazioni
e alla loro capacità di condizionare il gioco politico cittadino e non
soltanto. Ma qui il discorso diventa più delicato e necessita di essere
affrontato con la necessaria cura e cautela.
Le divisioni interne al tessuto politico pistoiese del secondo
Duecento erano, pur con sfumature proprie, quelle tipiche dello
scontro sociale che caratterizzava gran parte delle città comunali ita-
liane dell’epoca. Le recenti ricerche di Giuliano Milani costituisco-
no in tal senso una sicura conferma 19. Ma a Pistoia accadde qualcosa
 

17 Per una rilettura dell’assedio mi permetto di rimandare al mio recente con-


tributo, G. Francesconi, 11 aprile 1306: Pistoia apre le porte a Firenze, dopo un
anno di assedio. Cronaca, costruzione e trasmissione di un evento, «Reti Medievali -
Rivista», VIII (2007), url: < http://www.retimedievali.it >.
18 L. Gai, Pistoia nella prima metà del ’300, Pistoia 1981; Ead., L’ultimo pe-
riodo dell’autonomia comunale pistoiese, Pistoia 1981; Neri, Società ed istituzioni:
dalla perdita dell’autonomia comunale, cit., pp. 1-15; G. Francesconi, Le delibere
consiliari del Comune di Pistoia nel Trecento: inquadramento istituzionale e procedu-
re normative, in Le Provvisioni del Comune di Pistoia (secolo XIV). Regesti e indici, a
cura di G. Francesconi - S. Gelli - F. Iacomelli, Roma 2010.
19 G. Milani, L’esclusione dal comune. Conflitti e bandi politici a Bologna e in
altre città italiane tra XII e XIV secolo, Roma 2003. Più di recente sono uscite due
sintesi, seppur diverse nella concezione e nella struttura, di R. Mucciarelli, Magnati

412
Pistoia nello Stato fiorentino, città socia nobilis et foederata

di diverso e di più eccessivo. La faziosità, le discordie civili, gli odi


interni alla città divennero ben presto una sorta di «archetipo», di
modello anticipatore dei conflitti politici che avrebbero caratterizza-
to il quadro sociale e istituzionale cittadino sullo scorcio del secolo
XIII 20. A ben vedere l’assetto politico della città e la qualità della do-
 

cumentazione disponibile non sembrano avere caratteri di una tale


originalità, da giustificare un giudizio ed una fama tanto negative e
durature da arrivare a condizionare letture molte tarde come quel-
la primottocentesca di un Simonde des Sismondi 21. Sarà necessario,
 

allora, andare a cercare altrove le ragioni di una tradizione così in-


famante. Non sembra, insomma, possibile che la spaccatura interna
alla famiglia dei Cancellieri, con la successiva e fisiologica rivalità e
polarizzazione tra una pars populi e una pars militum possano aver
dato adito, nonostante le violenze e le faide del 1286, ad un effet-
to domino così largo da diventare motivo di esportazione negli altri
centri della Toscana e non solo.
Le origini di quella fama negativa dovevano risiedere altrove.
Le ragioni non si devono cercare a Pistoia, ma proprio nella vicina
Firenze. Furono gli intellettuali fiorentini che veicolarono e con for-
za il mito della faziosità pistoiese — complici gli episodi relativi alla
divisione fra Bianchi e Neri e le vicende dell’assedio del 1305/06.
Da Brunetto Latini, a Dante, a Paolino Pieri, a Dino Compagni, a
Giovanni Villani, a Marchionne di Coppo Stefani finanche a Petrarca
nel sonetto in morte di Cino, prese avvio e si consolidò, nella poe-
sia, nella cronistica e nella novellistica, una tradizione che impose
la cattiva fama dei Pistoiesi. Ladri, bestiali, discendenti di Catilina,
malevoli, discordevoli erano alcuni dei motivi più ricorrenti con cui
gli scrittori della potente Firenze ritrassero e descrissero gli abitanti

e popolani. Un conflitto nell’Italia dei Comuni (secoli XIII-XIV), Milano 2009; A.


Poloni, Potere al popolo. Conflitti sociali e lotte politiche nell’Italia comunale del
Duecento, Milano 2010.
20 La faziosità pistoiese e la sua mitografia è stata l’oggetto di alcune recen-
ti riletture D. Balestracci, «Forti ne l’armi, discordevoli e salvatichi». Pistoia e i
Pistoiesi. Immagine scritta di una città fra XIII e XVI secolo, in La Pistoia comunale,
cit., pp. 1-18; V. Mazzoni, Tra mito e realtà: le fazioni pistoiesi nel contesto toscano,
in La Pistoia comunale, cit., pp. 223-239; G. Francesconi, Infamare per dominare.
La costruzione retorica fiorentina del conflitto politico a Pistoia, in La lotta politica
nell’Italia medievale, a cura di M. Miglio, Roma 2010.
21 J.Ch.L. Simonde de Sismondi, Storia delle Repubbliche italiane nel Medio
Evo, a cura di S. Lener, III, Roma 1968, pp. 78-79. Su Sismondi si veda ora, tra gli
altri, il saggio di inquadramento di P. Schiera, Presentazione a J.Ch.L. Simonde de

413
Giampaolo Francesconi

della vicina Pistoia 22. Un accanimento così forte e costante non po-
 

teva essere casuale. E se non è semplice individuare con certezza le


ragioni di un’acredine che è divenuta addirittura mitografia lettera-
ria, quel che si può dire è che certamente i Fiorentini lavorarono alla
costruzione di una «delegittimazione» di quelli di Pistoia. Di una
città che a quel punto non poteva essere una concorrente temibile,
che non aveva niente di paragonabile con Firenze in forza, grandez-
za e ricchezza, ma che per qualche motivo era sempre rimasta ostica
e ostile. Fosse la sua eccessiva vicinanza, fosse un certo tono di vita
che i pistoiesi ostentavano più del consentito, fosse una qualche for-
ma di radicata gelosia vero è che quelli di Firenze non risparmiarono
niente ai loro vicini 23. E lo si capisce con chiarezza dalle parole con
 

cui Dino Compagni ci descrive gli esiti dell’assedio pistoiese, quando


annota che la città di Cino fu distrutta e che i Fiorentini

non perdonarono alla bellezza della città, che come villa di-
sfatta rimase 24.
 

Sembra quasi che i cittadini di una delle metropoli più impor-


tanti dell’Europa medievale, che aveva entro le sua mura, alla fine
del Duecento, artisti del calibro di Dante, di Giotto e di Arnolfo,
non avessero mai del tutto saldato i conti con i meno potenti, ma
troppo invisi pistoiesi. E allora, ne sono sempre più convinto, tut-
to quel parlare male, erano troppo furbi e intelligenti i Fiorentini
per non saperlo, doveva nascere sul terreno della convenienza: si de-
legittimava, si metteva in cattiva luce, si esaltavano le divisioni per
dominare 25. Quello propagandistico doveva funzionare allora come
 

uno dei canali attraverso cui Firenze andava elaborando il control-

Sismondi, Storia delle Repubbliche italiane, Torino 1996, pp. IX-XCVI.


22 Cfr. supra i rimandi della nota 20.
23 Sulla percezione che i Fiorentini avevano di se stessi e persino sull’ipertro-
fia di quella coscienza si veda il saggio di G. Cherubini, Firenze nell’età di Dante.
Coscienza e immagine della città, ora in Id., Città comunali, cit., pp. 11-24.
24 Dino Compagni, Cronica, ed. a cura di D. Cappi, Roma 2000, I, XXVI, p.
41: «cessata la pistolenza e la crudeltà del tagliare i nasi alle donne che usciano della
terra per fame — e agli uomini tagliavano le mani —, non perdonarono alla bellezza
della città, che, come villa, disfatta rimase».
25 Cfr. ancora Francesconi, Infamare per dominare, cit. Sul rapporto fra
storiografia e politica in età rinascimentale, cfr. anche E. Cutinelli-Rèndina -
J.-C. Marchand - M. Melera-Morettini, Dalla storia alla politica nella Toscana del
Rinascimento, Roma 2005.

414
Pistoia nello Stato fiorentino, città socia nobilis et foederata

lo di Pistoia. Non voglio dire che i Fiorentini abbiano inventato la


faziosità pistoiese, quella c’era come c’era anche altrove, ma di si-
curo la ingigantirono e ne fecero un motivo di destabilizzazione e,
come avrebbe detto Michel De Certeau, di «propaganda conquista-
trice» 26. Il dominio politico doveva passare per la dorsale del «do-
 

minio retorico». Quella fiorentina fu un’operazione di «costruzione


del nemico»: perché come ha scritto di recente Umberto Eco «ave-
re un nemico è importante non solo per definire la nostra identi-
tà ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il
nostro sistema di valori e mostrare, nell’affrontarlo il nostro stesso
valore. Pertanto quando il nemico non ci sia, occorre costruirlo» 27.  

Fu quello che fecero i Fiorentini con Pistoia, e lo fecero talmente


bene che proprio sull’instabilità sociale della nostra città avrebbero
costruito, nelle tortuose vicende trecentesche e primo quattrocente-
sche, il loro dominio politico e le modalità della sua comoda ed effi-
cace esplicazione.

4. Patroni e clienti
La faziosità, beninteso, non era solo un mito costruito dall’ester-
no. Era una realtà viva ed operante all’interno della società pistoiese
del tardo Medioevo, ma lo fu con forme via via diverse e più condi-
zionanti proprio lungo il Trecento, e soprattutto nel Quattrocento e
i primi secoli dell’età moderna. A quel punto avrebbe agito come un
fondamentale medium regolatore della vita politica e sociale inter-
na alla città soggetta 28. È questa la ragione per cui ci siamo attarda-
 

ti sul retroterra comunale di alcuni funzionamenti ed è anche questa


la ragione per cui Pistoia, e lo vedremo, una volta inserita all’interno
dello Stato fiorentino fu in grado di mantenere una posizione di as-

26 M. de Certeau, La scrittura dell’altro, a cura di S. Borutti, Milano 2005,


pp. 67sgg.
27 U. Eco, Costruire il nemico, in Elogio della politica, a cura di I. Dionigi,
Milano 2009, pp. 51-73: p. 54.
28 Il ruolo dei rapporti clientelari, di patronato, delle pratiche informali nella
costruzione degli Stati territoriali sono ormai passaggi storiografici acquisiti nel di-
battito più o meno recente. Per Pistoia, con i riferimenti contenuti supra nella nota
10, si veda Connell, Clientelismo e stato territoriale, cit.; Id., «La città dei crucci»,
cit.; Dedola, «Tener Pistoia con le parti», cit. A livello più generale limito il riman-
do al volume Guelfi e ghibellini nell’Italia del Rinascimento, a cura di M. Gentile,
Roma 2005 e alla ricca bibliografia annessa ai vari saggi.

415
Giampaolo Francesconi

soluta originalità, rispetto alle altre città del Dominio. Quella stessa
posizione che avrebbe determinato gli ideali e lo stile di vita dei suoi
ceti eminenti 29.
 

La costruzione fiorentina dello Stato regionale seguì un venta-


glio di pratiche differenziate, ben studiate da Chittolini e Zorzi, che
andavano dalla negoziazione alla conquista violenta: in questo caso
fu adottata una capillare e strategica gestione del conflitto sociale 30.  

Nel 1376 furono stabilite nuove procedure elettorali che resero isti-
tuzionale il ruolo delle fazioni. Si riconobbe uno spazio determinante
alle compagnie di San Paolo e di San Giovanni che riuscirono, attra-
verso un linguaggio confraternale, a mantenere attiva la partizione
interna al tessuto sociale urbano: i capitoli prevedevano la creazione
di due serie di borse dalle quali si sarebbero dovuti estrarre i nomi
degli ufficiali 31. Era quella la sanzione formale di una politica fioren-
 

tina che poggiava sul controllo e l’equilibrio sociale della città sog-
getta. Un sistema che sarebbe rimasto attivo ed operante nella sua
efficacia, tutta giocata sull’azione dei pesi e dei contrappesi, fino al
1458, quando Cosimo de’ Medici decise di eliminare il ruolo formale

29 Ad ogni buon conto, a dispetto dell’affollarsi delle letture e delle interpre-


tazioni di questi ultimi anni, aveva già visto molto lontano Ernesto Sestan quando,
nell’ormai celeberrimo saggio sulle origini delle signorie in Italia (E. Sestan, Le ori-
gini delle Signorie cittadine: un problema storico esaurito?, ora in La crisi degli ordi-
namenti comunali e le origini dello stato del Rinascimento, a cura di G. Chittolini,
Bologna 1979, pp. 53-75) annotava che «guelfismo e ghibellinismo, additati e de-
precati come il malanno capitale, la tara ereditaria inguaribile della storia italiana,
abbiano […] rappresentato la via o una delle vie attraverso le quali il frammentari-
smo politico comunale si venne riducendo e componendo in organismi regionali».
Il caso di Pistoia sembra costituirne una piena conferma.
30 Il riferimento più diretto andrà ai lavori di questi studiosi già citati supra
alla nota 9. Si tratterà di aggiungere alcuni dei saggi che Giorgio Chittolini e Andrea
Zorzi hanno poi raccolto e riedito in G. Chittolini, Città, comunità e feudi negli
stati dell’Italia centro-settentrionale (secoli XIV-XVI), Milano 1996 e A. Zorzi, La
trasformazione di un quadro politico. Ricerche su politica e giustizia a Firenze dal
comune allo Stato territoriale, Firenze 2008. In una prospettiva di sintesi e più gene-
ralista si vedano anche i recenti contributi di E.I. Mineo, Alle origini dell’Italia di
antico regime, in Storia medievale, Roma 1998, pp. 617-652 e di I. Lazzarini, L’Italia
degli Stati territoriali, Roma-Bari 2003; Ead., Stati regionali e stati monarchici (secc.
XIV-XV), in Storia d’Europa e del Mediterraneo. Dal Medioevo all’età della globa-
lizzazione, IV, Il Medioevo (secoli V-XV), a cura di S. Carocci, VIII, Popoli, poteri,
dinamiche, Roma 2006, pp. 741-769.
31 I capitoli del comune di Firenze. Inventario e regesto, I, a cura di C. Guasti,
Firenze 1866, I, pp. 19-21, 1376 aprile 24. Su questa riforma, cfr. quanto scrive
anche Connell, «La città dei crucci», cit., pp. 56-57.

416
Pistoia nello Stato fiorentino, città socia nobilis et foederata

del bipolarismo 32. Le divisioni, gli scontri e il loro ponte con Firenze
 

non sarebbero tuttavia terminati. I Panciatichi e i Cancellieri, con


l’insieme delle famiglie alleate e satelliti, furono il perno di controllo
della Dominante: la rete delle amicizie, pur nella sua mobilità, e i le-
gami di patronato furono il tratto caratterizzante di un’abile gestio-
ne politica e della stessa longevità dell’assetto fazionario della nostra
città 33. Al punto che ancora ser Luca Dominici poteva scrivere, per
 

l’inizio del Quattrocento, che

quasi tucte le famiglie di Pistoia et di gentiluomini et popo-


lani fosseno divise, che sempre alcuno della famiglia teneva col-
l’altra parte 34.
 

La società pistoiese dei secoli XV e XVI aveva i caratteri, dun-


que, di un crogiolo complesso di legami sociali orizzontali e vertica-
li, strutturalmente collegati con i ceti eminenti di Firenze già dall’età
albizzesca. Un quadro incrociato di amicizie che poggiavano su lega-
mi tradizionali e duraturi, per quanto non mancassero cambiamen-
ti parziali o completi di fronte: una capacità di tenuta che, secondo i
calcoli di William Connell fra il 1349 e il 1537 era riferibile al 63,8%
delle famiglie pistoiesi, mentre solo il 20,3% fece salti completi di
parte nello stesso periodo 35. La capacità di Firenze fu quella di ren-
 

dere funzionale e operante questo intricato di gioco di divisioni, di


solidarietà e di relazioni informali. Nella maglia delle alleanze fami-
liari, dei rapporti patrimoniali, delle strategie matrimoniali si costruì
il sistema di potere clientelare fiorentino 36.  

32 Per la riforma cosimiana del 1458, cfr. Archivio di Stato di Firenze (d’ora
in poi ASF), Statuti delle comunità autonome e soggette, 595, cc. 287r-303r; ASF,
Archivio delle Tratte, 1495, cc. 17r-22r. Si vedano anche le considerazioni di
Connell, «La città dei crucci», cit., p. 58.
33 Ivi, pp. 56-77.
34 Cronache di ser Luca Dominici, II, cit., p. 14.
35 Connell, «La città dei crucci», cit., pp. 63-64 e tabelle allegate, relative ad
un esame su un campione di 69 famiglie pistoiesi per il periodo studiato, dal 1349
al 1537.
36 Per questi aspetti, in particolare sulla costruzione di legami patronali tra
la casa medicea e le società locali, cfr. P. Salvadori, Dominio e patronato. Lorenzo
dei Medici e la Toscana nel Quattrocento, Roma 2000 e alcuni dei contributi raccolti
nel III volume de La Toscana al tempo di Lorenzo il Magnifico. Politica, economia,
cultura, arte, III, Convegno di Studi promosso dalle Università di Firenze, Pisa e
Siena (5-8 novembre 1992), Pisa 1996. Si veda anche il recentissimo saggio di sintesi

417
Giampaolo Francesconi

Un sistema clientelare, si è visto, che affondava almeno al se-


condo Trecento e che aveva il suo tratto più qualificante nei rappor-
ti di «amicizia e di parentado». Basti ricordare che già dal 1375 prese
avvio la serie dei matrimoni che furono stretti fra alcuni membri del-
le famiglie Albizzi e Panciatichi 37. La prosa del Dominici ci offre una
 

ulteriore conferma, quando ricorda i frequenti legami matrimoniali


fra i casati dei Castellani, dei Buondelmonti e dei Panciatichi da una
parte e dei Ricci e dei Cancellieri dall’altra:

i Castellani, ove era messer Lotto et messer Vanni et altri loro


fratelli, et il figliuolo di messer Vanni aver per moglie la sero-
chia di messer Bandino Panciatichi; Buondalmonti, de’ quali era
la donna di Currado di messer Giovanni Panciatichi; […] E per
non dire molto, quasi tucti li predecti reggienti, et maximamente
i maggiori, erano amici de’ Panciatichi da Pistoia et ellino loro,
et a uno stato concorrevano. E per contrario erano Ricci amici
de’ Canciglieri et non avevano stato 38.  

Una consuetudine di rapporti, dunque, che vedeva sicuramen-


te in una posizione di privilegio il casato dei Panciatichi e che nel-
la costruzione dei legami intercittadini riconosceva una priorità ai
rami minori delle grandi famiglie fiorentine, come i Guicciardini e
i Rucellai. Non sempre poi questi matrimoni davano gli esiti spera-
ti, come ci ricorda Jacopo Melocchi nel suo Libro di possessioni del
1515, subito dopo che la sua famiglia aveva perso un patrimonio im-
portante passato nelle mani fiorentine dei Rucellai, degli Strozzi e
dei Salviati:

di I. Lazzarini, Amicizia e potere. Reti politiche e sociali nell’Italia medievale, Milano


2010.
37 Connell, «La città dei crucci», cit., pp. 65sgg. Una fonte significativa su
questi temi per la città di Pistoia fra Quattrocento e Cinquecento è l’Historiola ama-
toria di Benedetto Colucci (B. Colucci, Historiola amatoria, in Id., Scritti inediti, a
cura di A. Frugoni, Firenze 1939, pp. 61sgg. Cfr. su Firenze e più in generale, G.
Brucker, Giovanni e Lusanna. Amore e matrimonio nella Firenze del Rinascimento,
Bologna 1988; A. Molho, Marriage alliance in late medieval Florence, Cambridge
1994; L. Fabbri, Alleanza matrimoniale e patriziato nella Firenze del ’400. Studio
sulla famiglia Strozzi, Firenze 1991; Id., Trattatistica e pratica dell’alleanza matri-
moniale, in Storia del matrimonio, a cura di M. De Giorgio - Ch. Klapisch-Zuber,
Roma-Bari 1996, pp. 91-117.
38 Cronache di ser Luca Dominici, II, cit., p. 24.

418
Pistoia nello Stato fiorentino, città socia nobilis et foederata

mal fa chi si impaccia con fiorentini; però lasso per ricordo


che nessuno di casa mia si impacci con loro […], perché mai con
loro si può avere ragione 39.
 

Ci viene il dubbio che il Melocchi avesse visto lungo e ci fosse


una buona dose di verità nelle sue parole, complice anche la sfortu-
na della sua famiglia. Ad ogni buon conto fu proprio lungo questo
asse vischioso e a doppio senso che si saldò la trama complessa delle
relazioni fra i grandi casati delle due città. Una trama che si esplicava
nel bilanciamento sociale e nella creazione di forme estese di patro-
nato familiare. Di lì alla commistione con il potere il passo era bre-
ve. E qui sarà sufficiente richiamare due personaggi chiave di questo
tipo di politica: Neri di Gino Capponi e Mariano Panichi da Pistoia.
Seppur attivi in due contesti diversi, il primo subito dopo la sot-
tomissione e l’altro nella seconda metà del Quattrocento in piena
età medicea, questi due ufficiali riassumono al meglio il significato e
l’azione fiorentina nel tessuto vivo della società cittadina di Pistoia.
Nel primo caso, dopo aver ottenuto vari incarichi già a partire dal
1421 40, sono alcune denunce fiscali autografe a farci entrare in quel
 

mondo di favori, di piccoli prestiti, di commutazioni di sentenze di


cui Neri di Gino si rese protagonista e che formavano il cuore pul-
sante del patronato fiorentino. Così, a titolo di esempio, fra le molti
disponibili degli anni 1435, 1442 e 1450 41, ci sembra significativa la
 

testimonianza di Margherita Odaldi tratta dal catasto del 1442, che


così descrive le vicende del figlio:

Il tempo che Giovanni di messer Rinaldo Gianfigliazzi fu po-


destà di Pistoia prese enpacio in nella corte sua Lapo mio fi-
gliuolo; e volleli talgliare il chapo sed e’ non fusse la persona di
Neri di Gino; che lo tenne più di sessanta dì in ne’ ceppi, era
fermo alla stangha; e tutto che spesi e impegnià ciò che ch’io
avevo per atarlo; daché no’ llo poté uccidere, lo chondanò inel-
le Stinche di Firenze per dieci anni; che spesi in quella presura
e atarlo più che trenta fiorini e questo sa tutta Pistoia […] E se

39 J. Melocchi, Libro di possessioni, ms. in ASF, Acquisti e doni, 8, c. 59v.


40 La figura e la carriera di Neri di Gino Capponi è ben ricostruita da Connell,
«La città dei crucci», cit., pp. 83sgg.
41 Tra le molte, a titolo d’esempio, si possono richiamare Archivio di Stato di
Pistoia (in seguito ASP), Archivio del Comune, Catasto, 10, c. 115r; 11, c. 53r; 5, c.
287r; 6, c. 384r; 7, cc. 34r-v.

419
Giampaolo Francesconi

non fusse per Neri di Gino Capponi che mi sochorse in nelgli


affanni di questo mio figliuolo di parecchi fiorini, io mi perdevo
questo mio figliolo 42.
 

Il legame clientelare, allora come oggi, si esplicava in una cor-


nice extraistituzionale, al di sotto della forma, in una dimensione di
relazioni private, personali, fondate sullo scambio di interessi e di fa-
vori 43. Non molto diversa fu l’esperienza di Mariano, per quanto di-
 

vergenti fossero i presupposti e la condizione sociale di partenza. Il


rapporto di clientela si fondava naturalmente anche nel favore con
cui si potevano ottenere incarichi e uffici nel territorio: molte car-
riere e scalate sociali furono costruite nei ranghi della burocrazia. E
mi limito solo a ricordare la figura del giurista Tommaso Salvetti 44.  

Dovette essere anche il caso di Mariano: il quale figlio di un calzo-


laio, una volta entrato nella cerchia dei clientes di Piero di Cosimo
e poi del Magnifico, svolse mansioni di messaggero a cavallo, di mi-
les socius del podestà di Pistoia, di ufficiale del bestiame a Pisa, di
notaio del danno dato a Fucecchio, di Capitano dei Fanti di Firenze
finché nel 1482 al ritorno nella sua città ottenne il titolo di messer,
usato dai cavalieri e dagli avvocati 45. Una carriera strepitosa tutta co-
 

struita nella più totale dedizione alla casata de’ Medici, e a Lorenzo
in particolare. Mariano, lo ha notato Connell, fu il ponte più impor-
tante della politica fiorentina a Pistoia in età laurenziana 46: le ragio-  

ni del suo grande successo dovettero essere anche le ragioni della


sua morte. L’omicidio di cui fu vittima nel 1488 doveva essere l’esi-
to della sua fedeltà ai Medici e delle inimicizie che questa gli aveva

42 ASP, Catasto, 5, c. 287r. Cfr. anche Connell, «La città dei crucci», cit.,
pp. 85-86 e F. Neri, Aspetti di politica giudiziaria nello stato territoriale fiorenti-
no. Condannati a Pistoia, graziati a Firenze, «Bullettino Storico Pistoiese», XCVII
(1995), pp. 75-101: pp. 85-92.
43 Sia sufficiente il rimando, per un tema che potrebbe rivelarsi dai confini
difficilmente arginabili, all’intervento di A. Torre, Clientelismo: idioma politico e
società locali, in Lo stato territoriale fiorentino, cit., pp. 519-523 e ai riferimenti bi-
bliografici ivi contenuti.
44 Su Tommaso Salvetti, cfr. F. Neri, Il giurista Tommaso Salvetti. Attività
di tutela patronale a Pistoia nel Quattrocento, «Bullettino Storico Pistoiese», XCVI
(1994), pp. 45-66.
45 Anche per la figura, la personalità e l’attività di Mariano Panichi il rimando
è alle pagine puntuali di Connell, «La città dei crucci», cit., pp. 106sgg. Cfr. anche
Salvadori, Dominio e patronato, cit., pp. 38-39, 41, 47, 51-52.
46 Ivi, p. 113.

420
Pistoia nello Stato fiorentino, città socia nobilis et foederata

procurato 47. 

5. Pistoia socia nobilis et foederata di Firenze: un palcoscenico signorile


per un patriziato «quieto»
Il clientelismo e il patronato che, abbiamo seguito in alcuni dei
tratti più evidenti, ebbero effetti importanti sulle istituzioni, sulla so-
cietà, sullo sviluppo complessivo e non ultimo sulla forma mentis
della Pistoia quattro e cinquecentesca. La revisione accurata cui fu-
rono sottoposte le istituzioni pistoiesi sin dai primi tempi dopo la
sottomissione fu nel tempo regolata e temperata dal fattore clien-
telare. Ragioni per le quali la categoria della «centralizzazione cre-
scente» con cui si è spesso guardato ai rapporti tra la Dominante e
le città soggette sembra funzionare solo in parte nel nostro caso. In
questo senso le letture di Connell, di Mannori e di Vivoli sembrano
pienamente convincenti 48. Nel 1402 la città fu privata del suo conta-
 

do, che fu riorganizzato in quattro podesterie 49 e riconosciuto come


 

«verum et originale territorium atque comitatus de territorio et co-


mitatu civitatis Florentiae» 50. Il territorio visse, tuttavia, da questo
 

momento in poi vicende divaricate rispetto alla città e su questo con-


viene ritornare.
Il processo a livello più generale fu quello di un progressivo al-
largamento del potere fiorentino, ma badando sempre a non irritare
troppo la sensibilità dei pistoiesi. E tutto questo con una serie di ac-
corgimenti che dettero vita ad un modello speciale, che sin dall’inizio
riconosceva il rapporto di dedizione come un foedus aequum, che la-
sciava spazi di manovra a Pistoia, al punto da configurarsi non come
città soggetta, ma come socia nobilis et foederata di Firenze 51. In que-  

47 Ibidem, pp. 121-122.


48 Connell, «La città dei crucci», cit., pp. 19-26; Mannori, Il sovrano tutore,
cit., pp. 37sgg.; Vivoli, Cittadini pistoiesi e ufficiali granducali, cit., pp. 3-8.
49 ASF, Capitoli, 54, cc. 19v-21v e 36r-38r. Cfr. anche quanto ne hanno scritto
Chittolini, Ricerche sull’ordinamento territoriale del dominio fiorentino, cit., pp.
230-231; Zorzi, Pistoia e il suo territorio nel dominio fiorentino, cit., pp. 326-327.
50 ASF, Capitoli, 54, c. 15v. Cfr. anche Chittolini, Ricerche sull’ordinamen-
to territoriale del dominio fiorentino, cit., p. 231. Cfr. anche C. Vivoli, Tra auto-
nomia e controllo centrale: il territorio pistoiese nell’ambito della Toscana medicea,
in Comunità e poteri centrali. Alle origini dei controlli amministrativi, a cura di L.
Mannori, Napoli, 1997, p. 161.
51 Mannori, Il sovrano tutore, cit., pp. 42-44; Neri, Società ed istituzioni: dal-
la perdita dell’autonomia comunale, cit., p. 24. Per la politica fiscale adottata dalla

421
Giampaolo Francesconi

sta formula latina si riassumevano i tratti di un rapporto che non era


solo formale, ma che era possibile solo perché inserito in una più
vasta rete di relazioni di tipo informale. Ad ogni buon conto furo-
no riconosciuti spazi di autonomia legislativa, nell’elezione agli uffici
comunali, con la creazione del «Consiglio dei Graduati» del 1477 52,  

che di fatto chiudeva la società politica cittadina al novero ristretto


di coloro che avevano già svolto incarichi e con l’approvazione del-
lo statuto del 1484 che prevedeva tutta una serie di esenzioni dalle
magistrature fiorentine 53. Il momento più alto di questa progressio-
 

ne di piccole franchigie fu sancito dai capitoli del 1496: in quella cir-


costanza Pistoia fu in grado di vedersi riconosciuta l’autonomia del
proprio ordinamento interno, l’immunità giurisdizionale da qualsia-
si magistratura fiorentina, l’esenzione da ogni tassazione straordina-
ria e, infine, la clausola che impediva ai cittadini della Dominante di
acquistare lotti di terra nella campagna pistoiese 54. Una misura, que-
 

st’ultima, che avrebbe avuto effetti notevolissimi sul ceto abbiente


cittadino, ma anche sulle condizioni dei contadini con una diffusione
limitata del patto mezzadrile 55. Uno status complessivo che si man-
 

tenne senza eccessivi cambiamenti anche in età cosimiana: non furo-

Dominante nei confronti di Pistoia, cfr. G. Petralia, Fiscalità, politica e dominio


nella Toscana fiorentina alla fine del Medioevo, in Lo stato territoriale fiorentino, cit.,
pp. 161-187: pp. 168-171.
52 Per la riforma del 1477, cfr. Biblioteca Forteguerriana di Pistoia (d’ora
in poi BFP), Fondo Forteguerriano, B169, 1477 dicembre 22, r. XXIV. Cfr. poi
Connell, «La città dei crucci», cit., p. 22; Vivoli, Cittadini pistoiesi e ufficiali grandu-
cali, cit., pp. 12-13. Un passaggio questo per le sorti dell’aristocrazia pistoiese che è
stato interpretato come la possibilità e il privilegio di potersi riconoscere, legittimare
e autodefinire (Dedola, Governare sul territorio, cit., p. 228; Connell, Clientelismo
e stato territoriale, cit., p. 527).
53 ASF, Statuti delle comunità autonome e soggette, 598. Lo statuto reca la
data errata del 19 dicembre 1454; con la data giusta si deve vedere la copia conser-
vata in ASP, Comune, Statuti e ordinamenti, 31. Le questioni relative alla datazione
sono trattate da Neri, Società ed istituzioni: dalla perdita dell’autonomia comunale,
cit., p. 54.
54 ASF, Provvisioni. Registri, 187, cc. 74v-76v, con tutta una serie di copie.
Una seconda serie di capitoli si trova in ASF, Statuti delle comunità autonome e sog-
gette, 598, c. 7r-8v. Cfr. anche Connell, «La città dei crucci», cit., p. 25.
55 Cfr. su questi aspetti le considerazioni di D. Herlihy, Pistoia nel Medioevo
e nel Rinascimento. 1200-1430, Firenze 1972, pp. 136-147. Cfr. inoltre F. Mineccia,
Dinamiche demografiche e strutture economiche tra XIV e XVIII secolo, in Storia di
Pistoia, III, cit., pp. 155-238, pp. 201 sgg; A. Ottanelli, Dinamiche demografiche e
strutture economiche nel Pistoiese negli anni del Granducato, in Il territorio pistoiese
nel Granducato di Toscana, cit., pp. 153-202, pp. 159-167.

422
Pistoia nello Stato fiorentino, città socia nobilis et foederata

no sufficienti, infatti, né il mutato atteggiamento nei confronti delle


fazioni pistoiesi, con l’assunzione di un tratto più giudiziario, né le
turbolenze che portarono nell’agosto del 1538 alla nomina dei quat-
tro «commissari sopra le cose di Pistoia», tra i quali figurava anche
Francesco Guicciardini 56. Le restrizioni di quell’anno sul piano fi-
 

scale e nei rapporti con le comunità rurali sarebbero poi state rein-
tegrate nel 1546, con la fine del commissariamento e la cosiddetta
«restituzione degli onori» 57. L’ultimo passaggio di questo processo
 

coincise con l’inserimento della città e del territorio pistoiese sotto la


giurisdizione di uno speciale consiglio privato del principe, detto ap-
punto la Pratica Segreta di Pistoia 58, a differenza degli altri centri del
 

Dominio che rispondevano alla magistratura dei Nove Conservatori.


La forma conservava ancora aspetti speciali, ma davvero dopo il 1538
il ruolo di Pistoia era ormai più che marginale, quello di una città ri-
piegata su spazi di provincialismo imperante.
Clientelismo, legami patronali e inquadramento istituzionale
fanno propendere per un inserimento morbido nello Stato fiorenti-
no. E che da più parti è stato letto e interpretato non solo come un
lento e inesorabile declino, ma anche come una possibile opportuni-
tà: quella di sfruttare le risorse e i circuiti di un mercato di dimensio-
ni regionali 59. Proviamo, allora, ad entrare dentro la città e a capirne
 

i funzionamenti essenziali. La Pistoia quattrocentesca si presentava


come una struttura per molti versi statica: un assetto urbano che si
era fermato allo slancio del primo Trecento, una urbanizzazione ral-
lentata che ben si accordava con una popolazione in profonda sta-
gnazione e che dopo la Peste Nera del 1348 era scesa fino ai 4-5.000

56 Vivoli, Tra autonomia e controllo centrale, cit., p. 166.


57 Mannori, Il sovrano tutore, cit., pp. 42-45; Vivoli, Tra autonomia e control-
lo centrale, cit., pp. 169-170.
58 Per la Pratica Segreta di Pistoia, cfr. Gai, Centro e periferia, cit., p. 36;
Mannori, Il sovrano tutore, cit., pp. 44-45; Vivoli, Tra autonomia e controllo centra-
le, cit., pp. 170-173.
59 Il ruolo della centralizzazione e della creazione di spazi amministrativi e
giurisdizionali, ma anche commerciali e di mercato più ampi con la crescita dello
Stato regionale è stato uno dei temi più dibattuti dalla storiografia degli ultimi venti,
trenta anni. In un panorama ampio e con posizioni anche assai diversificate si limite-
rà il rimando ai contributi di P. Malanima, La formazione di una regione economica:
la Toscana dei secoli XIII-XV, «Società e storia», 6 (1983), pp. 229-269; S. Epstein,
Cities, regions and the late medieval crisis: Sicily and Tuscany, «Past and Present»,
130 (1991), pp. 3-50; Id., Storia economica e storia istituzionale dello Stato, in Origini
dello Stato, cit., pp. 97-111.

423
Giampaolo Francesconi

abitanti — stesso discorso per il territorio che era passato dai 30.000
ai 15.000 abitanti 60. Una stasi che aveva bloccato le direttrici dello
 

sviluppo lungo i borghi più esterni di età comunale e che aveva la-
sciato fra la seconda e la terza cerchia muraria larghi spazi al verde
e alle coltivazioni, tanto che ha potuto protrarsi fino ad oggi l’epi-
teto di «città degli orti» 61. Il paesaggio urbano conobbe gli unici si-
 

gnificativi interventi nella costruzione di nuove strutture difensive e


di nuovi edifici pubblici e privati. Fu dell’inizio del Cinquecento la
costruzione dei bastioni angolari lungo il circuito murario che dette
vita, come ha notato Italo Moretti, «ad un sistema difensivo di chia-
ro stampo rinascimentale» 62. La parte più antica della città fu quella
 

che conobbe le trasformazioni più significative nell’edilizia ecclesia-


stica e privata: i palazzi della nobiltà furono ampiamente ristruttu-
rati con la disposizione di facciate moderne 63. L’attività di architetti
 

come Ventura Vitoni e Iacopo Lafri contribuirono a ridisegnare di


un tono signorile il volto urbano, fatto di ordine e di decoro 64. La fa-  

scia esterna alla seconda cerchia mantenne un profilo più popolare:


le piccole casette addossate le une alle altre qui si alternavano con gli
orti e i giardini. Lo spazio urbano sembra, dunque, esprimere con
chiarezza una semantica del riconoscimento e della distinzione so-
ciale 65. E insieme lascia trasparire i valori dei ceti più eminenti: ne
 

60 L’evoluzione della curva demografica della città e del territorio di Pistoia


è stata oggetto, anche in tempi recenti, di studi, sia per l’età comunale, sia per l’età
successiva: cfr. Herlihy, Pistoia nel Medioevo, cit., pp. 90sgg.; con riferimento spe-
cifico al territorio in età comunale, F. Iacomelli, La proprietà fondiaria e le attività
agricole, in Storia di Pistoia, II, cit., pp. 195-225; G. Francesconi, «Districtus ci-
vitatis Pistorii». Strutture e trasformazioni del potere in un contado toscano (secoli
XI-XIV), Pistoia 2007, pp. 107sgg. Per le età successive, cfr. Mineccia, Dinamiche
demografiche, cit., pp. 177-192.
61 Per le trasformazioni dello sviluppo urbanistico lungo i secoli dell’età mo-
derna, cfr. Gai, Centro e periferia, cit., pp. 67sgg.; I. Moretti, La città e le sue tra-
sformazioni, in Storia di Pistoia, III, cit., pp. 315-356.
62 Ivi, p. 339.
63 Ibidem, pp. 325sgg. Cfr. anche G.C. Romby, Architettura e nuovi modelli di
vita nella Pistoia del ’500, in Pistoia: una città nello stato mediceo, cit., pp. 205-219.
Per gli sviluppi dei secoli successivi si veda ora il volume miscellaneo Settecento illu-
stre. Architettura e cultura artistica a Pistoia nel secolo XVIII, a cura di L. Gai - G.C.
Romby, Pistoia 2009.
64 Sul ruolo degli architetti Vitoni e Lafri, cfr. V. Franchetti Pardo, Da
Ventura Vitoni a Jacopo Lafri: storiografia e ideologia territoriale, in Pistoia: una città
nello stato mediceo, cit., pp. 155-184.
65 Il rapporto fra topografia urbana e distinzione sociale, nella sue componenti

424
Pistoia nello Stato fiorentino, città socia nobilis et foederata

disegna e ne riflette strategie di affermazione e stili di vita. Quel che


ha scritto Paul Zanker per Pompei è il miglior viatico per cogliere la
trama di questi rapporti:

In quanto palcoscenico e spazio della vita quotidiana, infatti,


gli edifici pubblici, le piazze, le strade, i monumenti, così come
le case e le necropoli […] sono un elemento sostanziale dell’au-
torealizzazione di chi in quello spazio vive. Proprio perché tali
immagini urbane vengono a formarsi attraverso un complesso
intreccio di singole decisioni, alla cui base sono anche interes-
si contrastanti, esse ci dicono molto sull’autocoscienza di una
società 66.
 

Ecco allora che il palcoscenico della Pistoia «fiorentina» era


ben diverso da quello dell’età comunale: le strade che un tempo par-
lavano il linguaggio dinamico dell’artigianato, dello scambio, della
vendita erano ora il luogo privilegiato della socializzazione e dell’au-
toaffermazione sociale. Il palcoscenico e le quinte della Pistoia rina-
scimentale si erano immobilizzati, come cristallizzati nelle forme di
un dinamismo latitante. Gli spazi vivi dei ceti in ascesa si erano ri-
dotti a favore dei più ingessati luoghi della residenza signorile e del-
l’otium. La città non era più un motore di crescita, era la residenza
dorata di un patriziato la cui ricchezza era fuori dalle mura, nella ter-
ra e nella rendita fondiaria 67. La relazione forte che si esprime fra la
 

città di pietra, la città murata e gli uomini rimanda, invero, all’evolu-


zione economica di una società che si andava aristocratizzando e che
aveva smarrito i suoi tratti più vivaci: una trasformazione che ave-

politiche ed economiche, hanno conosciuto uno sviluppo storiografico significativo.


Per l’Italia tardomedievale e della prima età moderna rimangono due esempi impor-
tanti i lavori di H. Broise - J.-C. Maire Vigueur, Strutture familiari, spazio domestico
e architettura civile a Roma alla fine del Medioevo, in Storia dell’arte italiana, XII,
Momenti di architettura, Torino 1983, pp. 99-160; I. Lazzarini, Gerarchie sociali e
spazi urbani a Mantova dal Comune alla Signoria gonzaghesca, Pisa 1994. Si tratta,
naturalmente, di versanti di studio e di direttrici di ricerca che molto debbono agli
stimoli e alle intuizioni di un grande maestro della sociologia contemporanea come
Pierre Bourdieu di cui cito su tutti il suo studio ormai classico su La distinzione.
Critica sociale del gusto, Bologna 1983.
66 P. Zanker, Pompei, Torino 1993, p. 7.
67 Sulla società pistoiese di questo periodo e sui caratteri del suo patriziato,
cfr. Gai, Centro e periferia, cit., pp. 56-66; Neri, Società ed istituzioni: dalla per-
dita dell’autonomia comunale, cit., pp. 39sgg.; Connell, «La città dei crucci», cit.,
passim.

425
Giampaolo Francesconi

va imposto del «concentrato localismo e del brillante internazionali-


smo», di cui aveva parlato David Herlihy per la città duecentesca 68,  

soltanto la prima parte del binomio.


Il sonno che sembra di poter cogliere per le vie di Pistoia all’al-
ba del XV secolo non era ovviamente casuale. Era il risultato di un
insieme congiunto di fattori che rispondevano alle ineluttabili tra-
sformazioni di segno regionale della politica toscana, ma anche alle
scelte ben precise e ponderate del ceto dirigente urbano. Di quel pa-
triziato che non poteva condividere tutto lo sgomento di Ser Agapito
da cui siamo partiti, perché aveva intuito che all’ombra di Firenze
poteva più che sopravvivere, poteva vivere bene: si trattava solo di
cambiare prospettive e di convertire gli investimenti. E così, pur nel-
la mancanza di studi e di ricerche puntuali, si può arguire che una
gran parte della proprietà della terra, della pianura e della collina, si
era andata concentrando nelle mani di poche grandi famiglie citta-
dine e dei molti enti ecclesiastici urbani 69. Un quadro che se ancora
 

sfugge nei suoi dettagli, soprattutto per il primo periodo, è tuttavia


ben chiaro: un 15-20% del totale delle proprietà era nelle mani del-
la Chiesa, con una tendenza crescente per i secoli successivi, mentre
il rimanente si concentrava nelle mani di non più di una trentina di
famiglie del patriziato cittadino 70. La piccola proprietà contadina ri-
 

maneva alta solo in montagna 71.  

Si capisce meglio adesso la ragione per cui il clientelismo fio-


rentino fu per le grandi famiglie pistoiesi una possibilità importan-
te. A rendere ancor meno mosso il quadro economico e sociale, in
particolare nelle relazioni fra città e territorio, si dovrà aggiungere
che alla progressiva concentrazione fondiaria ecclesiastica si somma-
va una popolazione religiosa urbana in costante aumento, che passò
dall’8% del 1427 al 13% del 1622, una presenza quasi doppia rispet-
to a città come Firenze e Pisa 72. A ben vedere in quel corto circuito
 

fra patriziato e luoghi pii si giocava quasi tutta la ricchezza cittadina,


dal momento che il reclutamento sociale della Chiesa era prevalente-

68 Herlihy, Pistoia nel Medioevo, cit., p. 191.


69 Mineccia, Dinamiche demografiche, cit., pp. 201-218.
70 Ivi, pp. 214-215.
71 Ibidem, pp. 215-217.
72 Gai, Centro e periferia, cit., pp. 42-43; Mineccia, Dinamiche demografiche,
cit., pp. 42-43; B. Bocchini Camaiani, Istituzioni ecclesiastiche e vita religiosa tra
Cinquecento e Settecento, in Storia di Pistoia, III, cit., pp. 239-314; G. Pinto, Sintesi
finale, in Storia di Pistoia, III, cit., pp. 433-462: pp. 444-445.

426
Pistoia nello Stato fiorentino, città socia nobilis et foederata

mente aristocratico. Le grandi famiglie pistoiesi, dunque, oltre a pos-


sedere una gran parte dei beni fondiari, avevano poi la possibilità di
controllarne quasi per intero il mercato. Gli unici contraenti possi-
bili, infatti, erano chiese e monasteri, di fatto però quasi sempre ge-
stiti dai membri delle stesse famiglie: in altri termini, si guadagnava
due volte su compravendite che si svolgevano sempre all’interno de-
gli stessi circuiti sociali.
Il territorio, invece, era escluso quasi per intero dalla ricchezza.
C’era anche di più ad aggravare il quadro: gli abitanti delle campa-
gne dovevano accettare il peso della proprietà cittadina e non pote-
vano beneficiare dei privilegi del patronato fiorentino. Credo, allora,
che una buona parte delle turbolenze e delle agitazioni che segnaro-
no la vita delle campagne pistoiesi debbano essere lette in un’ottica
più economica e sociale che politica e fazionaria: lì erano in gioco le
stesse possibilità di sopravvivenza delle aree rurali che erano come
soggette ad un doppio giogo, quello della ricchezza urbana e quel-
lo del controllo della Dominante. Fu proprio nel territorio che ri-
mase viva la forza di reazione nei confronti di Firenze — e si pensi
ai Paciali del 1455 73 — perché lì pesavano forti ragioni di penaliz-
 

zazione sociale ed economica: contadini, mezzadri, fittavoli poco o


nulla guadagnavano dalla nuova «ombra» fiorentina 74. La forte di-  

cotomia che venne a crearsi fra la città e il suo territorio assumeva,


a mio avviso, forti connotazioni sociali e cetuali. Il «ritorno alla ter-
ra» dei ceti eminenti urbani aveva imposto una radicale trasforma-
zione delle strutture produttive e dei rapporti sociali. E così anche
gli ideali conobbero una profonda trasformazione: nella direzione,
che accennavo in apertura, di tutela dell’interesse di ceto — non vo-
glio usare il termine classe troppo connotato storiograficamente —
con una chiusura forte del patriziato urbano alle possibilità di nuove
scalate sociali e di forme di mobilità soprattutto per chi viveva fuo-
ri dalle mura 75. L’agiatezza del patriziato si fondava quasi esclusiva-
 

73 F. Neri, I capitoli dei «Paciali» del 1455, in Pistoia e la Toscana nel Medioevo.
Studi per Natale Rauty, a cura di E. Vannucchi, Pistoia 1997, pp. 231-251.
74 Cfr. ancora Mineccia, Dinamiche demografiche, cit., pp. 214sgg. Per
una storia di più lunga durata della proprietà fondiaria cittadina, cfr. Iacomelli,
Proprietà fondiaria, cit., pp. 211sgg.
75 Una discussione storiografica e problematica delle dinamiche della mobi-
lità sociale medievale, con riferimento anche alle «chiusure» in senso oligarchico
di età rinascimentale è quella di S. Carocci, Mobilità sociale e medioevo, «Storica»,
43-45, XV (2009), pp. 11-55.

427
Giampaolo Francesconi

mente sulla rendita agricola, ma di quella rendita alle popolazioni


della campagna non arrivava alcun beneficio. Si trattava di un’esclu-
sione forte dalle possibilità della ricchezza e dell’affermazione fami-
liare che avrebbe condizionato la dialettica sociale pistoiese, e non
solo, per una buona parte dell’età moderna.

6. La fine della politica e «la vana immagine delle sue antiche forme»
L’ideale dell’«armonia», è stato scritto, avrebbe sostituito in età
rinascimentale il duecentesco concetto di «bene comune» 76: non vo-  

glio semplificare troppo, ma il timore è che di quell’armonia, forse in


modo più marcato di quanto non accadesse con il bene collettivo co-
munale, fossero in pochi a poterne godere. E che quei pochi su quel-
l’ideale avessero poi costruito tutto un insieme di privilegi, di ozi, di
svaghi, di codici d’onore non formalizzati, ma largamente operanti.
Il giudizio che nel 1570 il commissario fiorentino Giovan
Battista Tedaldi dava del ceto dirigente pistoiese è arguto, ma non
senza qualche venatura di ingenuità:

sono […] per quello che esteriormente si può vedere mol-


to affezionati a Vostra Altezza, se bene in verità non si può dar
così risoluto giudizio se l’amore o il timore sia causa di tale af-
fezione. Parmi bene haver compreso nel maneggiarli, che essi
malvolentieri stieno sotto il giogo che devono giustamente por-
tare. Perciocché come immersi ne’ loro propri interessi si dol-
gono che siano state loro tolte l’entrate e legate loro le mani,
di sorte che non possono maneggiare pur solo pezzo d’arme;
[…] tale proibizione cagiona loro quella buona vita che mena-
no quietamente 77. 

La parte decisiva del discorso ci sembra proprio quella finale.


In «quella buona vita che menano quietamente» stanno racchiuse
una buona parte delle scelte e delle opzioni di un patriziato che, fra
legami clientelari, investimenti fondiari e tutela dei centri ecclesiasti-

76 L. Nader, Harmony ideology: justice and control in a Zapotec Mountain


Village, Stanford, 1990, pp. 290sgg. Cfr. inoltre T. Davis, L’Italia di Dante, Bologna,
1988, pp. 201-229; Viroli, Dalla politica alla ragion di stato, cit., pp. 19-47.
77 G.B. Tedaldi, Relazione del Commissario Giovan Battista Tedaldi sopra la
città e capitanato di Pistoia nell’anno 1569, a cura di V. Minuti, «Archivio Storico
Italiano», X (1892), pp. 302-331: p. 324.

428
Pistoia nello Stato fiorentino, città socia nobilis et foederata

ci, aveva costruito uno status e «serrato» gli accessi alla ricchezza 78.  

L’ingenuità sta forse nel fatto che Tedaldi non aveva colto o non ave-
va voluto cogliere come quella condizione fosse stata cercata e non
così pesante da sopportare. I Fiorentini erano notoriamente argu-
ti, ma in questo caso i Pistoiesi non furono da meno: alla loro om-
bra, infatti, erano stati in grado di prosperare, sicuramente con meno
aperture verso l’esterno che in passato, ma con altrettanto benessere.
Non stupisce allora che il sentimento di questo patriziato cittadino,
come ha ben rilevato Giuliano Pinto, non fosse di aperto antagoni-
smo nei confronti della Dominante come accadeva a Siena e a Pisa 79.  

A Pistoia la competizione si giocava tutta all’interno: nell’occupazio-


ne delle cariche, nell’esercizio della carità, nell’ubicazione dei palaz-
zi di famiglia, nelle precedenze nelle processioni e nella committenza
artistica. Lo sfarzo delle dimore, la grandiosità dei banchetti, il lusso
dell’abbigliamento furono il risvolto di una vita cittadina che si as-
sopì in una dimensione sempre più provinciale e stagnante, ma non
meno ricca di agi 80.  

Non sono in disaccordo, in questo senso, ma certo colpiscono, i


diversi giudizi ancora del Tedaldi e di Michel de Montaigne, di pas-
saggio dalla nostra città fra il 1580 e il 1581. Mentre il secondo rileva-
va lo svuotamento dei poteri tutto appiattito sulle antiche forme:

Questa povera città si consola della libertà perduta con la


vana immagine delle sue antiche forme: hanno nove priori e un
gonfaloniere che eleggono ogni due mesi. Costoro tengono le re-
dini del governo e sono stipendiati dal duca come un tempo lo
erano dal pubblico; […] Il gonfaloniere ha la precedenza sul po-
destà inviato dal duca (ma quest’ultimo ha ogni reale potere) e
non saluta nessuno, contraffacendo una misera regalità immagi-

78 Sul patriziato pistoiese, cfr. Connell, «La città dei crucci», cit., pp. 47sgg.;
i caratteri, i vizi e le virtù del patriziato cinquecentesco sono ben ricostruiti nella
vicenda paradigmatica narrata da D. Weinstein, La concubina del Capitano. Amore,
onore e violenza nella Toscana del Rinascimento, Firenze 2003. In una prospettiva
più ampia, cfr. S. Berner, The Florentine Patriciate in the Transition from Republic
to Principate 1530-1609, «Studies in Medieval and Renaissance History», IX (1972),
pp. 3-15; G. Angelozzi, Cultura dell’onore, codici di comportamento nobiliare e sta-
to nella Bologna pontificia: un’ipotesi di lavoro, «Annali dell’Istituto Storico Italo-
Germanico in Trento», VII (1982), pp. 305-324; M.R. Bell, How To Do It: Guides
to Good Living for Renaissance Italians, Chicago 1999.
79 Pinto, Sintesi finale, pp. 445sgg.
80 Cfr. i rimandi della precedente nota 78.

429
Giampaolo Francesconi

naria. Mi faceva pena vederli paghi di tale commedia 81.  

Il Tedaldi faceva, invece, notare altri aspetti della città. In pri-


mo luogo gli interessi del suo patriziato:

I Nobili attendono a multiplicare le lor ricchezze, chi in uno


esercizio, e chi in un’altro, ponendo ogni loro studio et industria
per empiere i granai, sì di grano come di altra sorte di biade, per
conservarli a smaltire a pregi più alti e maggiori, per il che non
votano prima i lor granai, che non si assicurino molto bene d’ha-
verne a empiersene le borse loro 82.  

E continuava il commissario facendo notare altre qualità, po-


sitive e negative di questa aristocrazia urbana che godeva delle pro-
prie ricchezze

o con ozio, o con negozio d’aumentarle, perciocché […] non


solo no faticano di venir grandi per lettere, ma né anco per la
strada dell’armi, anzi che non si veggano pigliar diletto né di ca-
valli, né di efidizij, né di cultivazione, nè d’altra cosa, da poter
divenire grandi e famosi 83. 

In questo caso il giudizio è severo e forse anche un po’ superfi-


ciale. Non è da escludere che il provincialismo e l’agio avessero avu-
to effetti nocivi sulla qualità e la voglia di intraprendere dei giovani
pistoiesi. Ma quel che davvero interessava loro era andato a buon
fine: avevano rinunciato alla libertà, ma avevano ottenuto tutti i pri-
vilegi che potevano avere. Seppur si debba notare che la città riuscì
ad esprimere in quegli anni interessi per la cultura e la letteratura 84,  

la milizia di alcuni giovani patrizi negli ordini cavallereschi 85, alimen-


 

81 Michel de Montaigne, Viaggio in Italia, Roma-Bari 1991, p. 254. Si veda


anche il commento che ne aveva fornito Vivoli, Cittadini pistoiesi e ufficiali grandu-
cali, cit., pp. 1-2.
82 Tedaldi, Relazione del Commissario Giovan Battista Tedaldi, cit., p. 324.
83 Ivi.
84 Si possono vedere su questo tema i due volumi di M. Valbonesi, Letteratura
e identità civile a Pistoia nei secoli XVI, XVII e XVIII, Pistoia 2007-2008.
85 Cfr. quanto ha scritto recentemente T. Braccini, L’Ordine di Malta ed il
Mediterraneo del XVIII secolo nelle carte Petrucci del fondo Vivarelli-Colonna del-
l’Archivio di Stato di Pistoia, «Bullettino Storico Pistoiese», CIX (2007), pp. 17-36;
si veda inoltre il volumetto di A. Agostini, Pistoia sul mare: i Cavalieri di Santo

430
Pistoia nello Stato fiorentino, città socia nobilis et foederata

tando certo anche quei codici di comportamento e quello stile di vita


di una nobiltà periferica che aveva nella violenza un suo tratto quali-
ficante e difficilmente contrastabile 86.  

Mi avvio a concludere con due riflessioni di Niccolò Machiavelli.


Ci si accorge, e non sarà una grande scoperta, che la lettura del ‘se-
gretario fiorentino’ era dettata, anche nel caso di Pistoia, da grande
realismo e intuito politico e sociologico, se mi si passa il termine. Il
primo passaggio al quale mi riferisco è quello notissimo e citatissimo
tratto dal XX capitolo del Principe, in cui nel trattare delle modalità
necessarie per reggere uno Stato nuovo, faceva riferimento alle for-
me di rapporto che Firenze aveva impostato con Pistoia e con Pisa:

Solevano li antiqui nostri, e quelli che erano stimati savi, dire


come era necessario tenere Pistoia con le parte e Pisa con le for-
tezze; e per questo nutrivano in qualche terra loro suddita le dif-
ferenzie, per possederle più facilmente 87. 

Machiavelli non si era limitato a riproporre un luogo comune


della pubblicistica fiorentina — quello delle sectas bestiales pistoie-
si —, ma coglieva nello specifico un tratto effettivo della politica re-
pubblicana e medicea. Il primo lucido interprete, era il 1513, del
sistema clientelare era stato proprio lui. Così come, seppur in una
considerazione di più ampio respiro, dei Discorsi sopra la prima deca
di Tito Livio, relativa ai sistemi politici dell’Italia centro-settentriona-
le, aveva sottolineato la grave minaccia che le oligarchie tardo-feudali
costituivano per le repubbliche. Quelle oligarchie che si compone-
vano di

Stefano e Pistoia, Pistoia 2008.


86 L’esempio migliore e più compiuto per Pistoia rimane lo studio di
Weinstein, La concubina del Capitano, cit.; cfr. inoltre il recente intervento di T.
Braccini, La Pistoia granducale nei Ricordi di Luigi Melani, «Bullettino Storico
Pistoiese», CX (2008), pp. 87-107.
87 Niccolò Machiavelli, Il Principe, a cura di G. Inglese, Torino 1995, p.
95. Nel pensiero di Machiavelli i motivi di critica nei confronti di quella che egli
definiva la «politica degli amici» erano molto evidenti ed espliciti proprio per il
disprezzo che provava per l’arte medicea di conservare lo stato attraverso favori e
pratiche clientelari (Viroli, Dalla politica alla ragion di stato, cit., p. 93).

431
Giampaolo Francesconi

gentiluomini che oziosi vivono delle rendite delle loro posses-


sioni abbondantemente, senza avere cura alcuna o di coltivazio-
ni o di altra necessaria fatica a vivere 88.
 

Un ritratto che sembra davvero sintetizzare al meglio quello che


si è cercato di dire a proposito dei ceti eminenti di Pistoia dopo la
perdita della libertà. In fondo nelle numerose e possibili declinazio-
ni di benessere, che abbiamo sentito anche in questi giorni, gli uomi-
ni della nostra città avevano compiuto la loro scelta. Avevano scelto
un benessere intessuto di privilegi di ceto piuttosto che collettivi,
di beni materiali, di ricchezze fondiarie, di decoro e di apparenza.
Avevano rinunciato alla politica: a quella pensava Firenze e per quel-
la si accontentavano «delle antiche forme». Era un’idea di benessere
possibile, ma pericolosa.

88 Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, in Id., Il


Principe e altre opere politiche, a cura di D. Cantimori, Milano 1976, I, 55, p. 227.
La riflessione sulla concezione e sul linguaggio politico di Machiavelli si porta dietro
una bibliografia inesauribile, da Chabod a Gilbert a Vivanti a Pocock a Skinner
per citare soltanto alcuni degli storici che se ne sono occupati, così per comodità
di rimando mi limito a richiamare il saggio di Elena Fasano Guarini, Machiavelli e
la crisi delle repubbliche italiane, in Ead., Repubbliche e principi, cit., pp. 123-154.
Per un quadro d’insieme sulle realtà signorili tardo-medievali e rinascimentali, cfr. il
volume miscellaneo Poteri signorili e feudali nelle campagne dell’Italia settentrionale
fra Tre e Quattrocento: fondamenti di legittimità e forme d’esercizio, a cura di F.
Cengarle - G. Chittolini - G.M. Varanini, Firenze 2005.

432
Indice dei nomi e dei luoghi
(a cura di Francesco Leoni)

A 120n, 124n, 127, 192 e n, 331,


Abati, Bocca degli, fiorentino, 332n 332 e n, 335, 372, 413, 414
Abruzzo, 1 Alighieri, Iacopo, 23n
Acciaioli, Alamanno, cronista, 358n, Aliotto, (forse) signore in Garfagna-
359n, 360n na, 216
Acciaioli, Donato, politico, 322 Altavilla, famiglia, 127, 129n
Acciaioli, Neri di Donato, fiorenti- Amalfi, 364 e n
no, 136 Ammannati, famiglia lucchese, 410
Acciaioli, Neri, fiorentino, 134n Andalò, Brancaleone degli, bolo-
Acciaioli, Raffaele, fiorentino, 140n gnese, capitano del Popolo e se-
Acciaioli, Stefano, fiorentino, 134n natore a Roma, 282
Acri, San Giovanni di, 128 Andrea di Bartolomeo di Ghino,
Adam, Salimbene de, vd. Salimbene mercante, 166n
de Adam Andrea di Bonanno, mercante,
Adige, 23 7, 242, 243, 245, 251 169n, 188n
Adriatico, mare, 69n Angers, 373
Agli, Manno di Albizo, mercan- Angiò, famiglia, 299, 362
te, 169n, 170n, 173n, 177n, 179, — Carlo I di, re di Napoli, 202, 204,
182n, 184n, 185 e n, 189 213, 290, 332, 333
Agnolo di Tura del Grasso, cronista, — Roberto I di, re di Napoli, 92
357 e n Anna di Lazise, veronese, 256 e n
Aguglione, Baldo di, giurista, 66n, Anonimo genovese, poeta, 375, 376
319 e n, 381 e n, 385 e n
Alamanni, Luigi, fiorentino, 335 Anonimo romano, cronista, 282n,
Alberti, Leon Battista, umanista, 8n, 307, 357
18n, 63n, 64n, 131n Anonymus Ticinensis, vd. de Cani-
Albizzi, famiglia fiorentina, 323, stris, Opicino
417, 418 Antella, Guido di Filippo di Guido
Alessandria, 272 della, mercante, 75, 76 e n
Alessandro V, papa, 97 Antella, Lamberto della, fiorenti-
Alfonso II, re di Napoli, 114 no, 76
Alighieri, Dante, intellettuale e poe- Anticristo, 97
ta, 11, 18 e n, 22n, 25, 50n, 53n, Antiochia, Giorgio di, ammiraglio,
61n, 65n, 93 e n, 114 e n, 119, 125
433
Antonia de Caritoni, suora, 155 Atene, 120n, 294, 295, 328, 352
Anweiler, Marcovaldo di, siniscal- Aurillac, Geraldo conte di, il Buo-
co, 389 no, 232, 233 e n
Appennino, 330, 368, 405n Avanxino, cugino di Giovanni An-
Aquino, Tommaso di, filosofo, 45n, tonio da Faie, 81n
96, 98, 99 e n, 103, 104 e n, 105 e Avena (Valdarno di Sopra), castel-
n, 106, 107, 109, 121 lo di, 224
Aquisgrana, Alberto di, storico, 128 Avignone, 167, 168n, 171n, 172 e n,
e n, 129n 173n, 179n, 180, 181, 183, 186n,
Aquitania, Guglielmo duca di, il 188, 373
Buono, 233 Azario, Pietro, cronista, 48n, 81n,
Aragona, famiglie, 262, 397 82 e n
— Alfonso V, il Magnanimo, re di B
Sicilia, 120 Bagnone (Lunigiana), 51, 81n
— Eleonora di, duchessa di Ferra- Bagnoregio, Bonaventura da, teolo-
ra, 137n go, 96 e n, 98 e n, 99 e n, 100,
— Ferdinando II di, il Cattolico, re 104, 105
di Sicilia, 129 Baldovino, re di Gerusalemme, 128
Arbizzano di Valpolicella, Croce en
Alba di, 251, 252 e n Balducci Pegolotti, Francesco, mer-
Arbrissel, Robert de, predicatore, cante, 179
108 Baleari, arcipelago delle, 274
Ardent, Raoul, predicatore, 90 Bambaglioli, Graziolo, notaio, poli-
Arezzo, 11, 13 e n, 80n, 224, 364n, tico, 22n
373 Bandini, Domenico, fiorentino,
Arezzo, Simo di Ubertino di, 80n 172n
Arienti, Sabatino degli, scrittore, 78 Bandini, Margherita di Domenico,
Aristotele, filosofo greco, 45n, 289 vd. Datini Margherita
Armanno di Cogorno, mercante, Barbarigo, Andrea, mercante, 195
394 en
Arnegonda, regina dei Franchi, Barbaro, Daniele, cronista, 355
120n Barcellona, 80n, 168n, 173n, 176,
Arno, fiume, 267 177n, 179n, 182n, 183n, 184n,
Arnoldo, patriarca di Gerusalemme, 186n, 187n, 192n, 193n, 334,
129 335
Arnolfo di Cambio, architetto, 414 Bardi, Alessandra, 140n
Arsegino, maestro notaio, 58n Barlaiara, Baiamonte, mercante,
Asciano, Caccia di, senese, 22n 385n
Ascoli Piceno, 151 Barletta, 322
Assisi, Francesco di, santo, 62, 90, Bar-sur-Aube, Nicola di, francesca-
101, 102, 108, 112 e n, 240, 241n no, 97
Asti, 21n Bartolo di Riccardo, fiorentino, 355
434
Battifolle, 407n Bismark, Otto Von, cancelliere te-
Battista di Luco, mercante, 383n desco, 3n
Baudelaire, Charles, poeta, 122 e n Bisticci, Vespasiano da, umanista,
Baviera, 49 10 e n
Beauvais, Cristiano di, francescano, Blois, Pierre, de, teologo, 91
97 Boccaccio, Giovanni, scrittore e let-
Beauvais, Vincent di, domenicano, terato, 11, 13n, 22n , 55n, 61, 62n,
116 121 e n, 190 e n, 195 e n, 403 e n
Belforte, 11n Bocco, Marin, veneziano, 356
Bella, Giano della, fiorentino, politi- Bocconio, Marino, veneziano, 356
co, 223, 357 Boemia, 342
Bellandi, Simone di Andrea, mer- Boldo, Jacopo, veneziano, 356
cante, 168n, 169n, 170n, 179n, Bologna, 5 e n, 53, 55, 60, 66n, 72n,
182 e n, 183n, 184n, 186 e n, 187 75, 78, 80n, 150, 156, 167, 184n,
e n, 192n 186, 187n, 189 e n, 190n, 191n,
Beltrame, Nicolò, notaio, 402n 192n, 200n, 247, 255, 257n, 258,
Benedetto da Norcia, santo, 91n 297, 298, 299, 300, 303, 304, 311,
Benelli, Antonio, il Volpino, fioren- 312, 320 e n, 324, 326, 331, 333,
tino, 354 334, 337, 338, 348, 355, 368, 373
Benintendi, Piero, mercante, 166n, — Porta ravennate, 348
180n — Sant’Agostino, convento di, 156
Bentivoglio, Sante, amante della Bonconti, famiglia pisana, 200n,
contessa Nicolosa Sanuti, 150n 201
Bergamo, 239, 264, 266, 273 — Banduccio di Bonconte, 198,
Bergamo, Bonagrazia da, giurista, 199, 200 e n, 201, 202, 203, 204,
francescano, 101 205, 206, 207, 208, 209, 210, 212,
Bernarda, moglie di Lippo di Fede 217, 220, 221, 225, 228
del Sega, 82n — Bonconte da Poggibonsi, banche-
Bernardino di Nerino chiamato rius, 200, 201, 209, 210
Croce, fiorentino, 79n — Francesco di Bonconte, 200, 201
Bernardo di Chiaravalle, santo, 272 — Piero di Banduccio, 210
Bernardus Rolandi Rubei de Parma, — Tuccio di Bonconte, 200, 201
dominus, 331 Bonibel (Bombello), Giacomo di,
Bernoldo, cronista, 261 e n mercante, 386
Berta Storta, lebbrosa, 244 Bonichi, Bindo, senese, poeta, 56n
Bertrame, servus servorum Dei, 246 Bonifacio VIII, papa, 225
Bessarione, cardinale, governatore Bonifacius qui dicitur Faciolus, bolo-
di Bologna, 150 e n gnese, 257
Biagio, santo, 9 Boninsegna, Boninsegna di Mat-
Bindaccio di Puccio di Benetto, pi- teo, 168n, 169n, 173n, 175, 179n,
sano, 23n 188
Bisagno, fiume, 391, 394 Bonsignori, famiglia e compagnia
435
senesi, 226 Calabria, 114n, 120n
— Niccolò, 22 e n, 23n California, 2n
Borghesi, Agostino di Niccolò, se- Cambioni, Bartolomeo, fiorentino,
nese, 8, 9 189n
Borgia, Lucrezia, duchessa di Ferra- Cambridge, 373
ra, 149 Camodegia, Ambrogio de, «agrico-
Borgo San Donnino, Gerardo da, la et mercator», capostipite del li-
eretico, 98 gnaggio di Pietro Azario, 48n
Borgogna, 117 Campi (C. Bisenzio), 65n
Bourbon, Stefano di, predicatore, Cancellieri, famiglia pistoiese, 417,
111 418
Bovaria, Bozio di, 331 Candia (isola di Creta), 402n
Bovattieri, Naddino di Aldobrandi- Canossa, Matilde di, marchesa, 261
no, medico in Avignone, 166n Capocchio da Siena, falsario, 22n
Brabante, Margherita di, regina Capponi, Neri di Gino, politico, sto-
d’Italia, 391 rico, 419 e n, 420
Bracciolini, Poggio, umanista, 113n Cardinal Latino, 213, 337
Brandini, Ciuto, scardassiere, 19 Carlo Magno, imperatore, 121
Brescia, Gherardino di Gambara Carocci, Cristofano di Bartolo, mer-
da, podestà a Firenze, 325 cante, 168n, 169n, 176 e n, 180n,
Briana, lebbrosa, 244 181n, 182, 183 e n, 184n, 186 e n,
Brienne, Gualtieri di, duca di Atene, 187 e n, 192n, 193n
signore di Firenze, 294, 295, 328 Carrara, 23n
Brigida di Svezia, santa, 157 Carrara, famiglia, 57n, 349, 371
Bruys, Pietro di, eretico, 108 e n — Giacomo da , signore veronese,
Buffalmacco, Buonamico, artista, 349, 350
38, 39 — Marsilio da, 81n, 82n
Bufferio, Simone maior, mercante, — Petrezano da, 81n
387, 388 Casentino, 80n, 407 e n
Bufferio, Simone minor, mercante, Caspano, Caterina di Pietro di, della
387, 388 diocesi di Como, 155
Buonarroti, Michelangelo, artista, Castellani, Lotto, fiorentino, 418
195 e n Castellani, messer Vanni, fiorenti-
Buondelmonti, famiglia fiorentina, no, 418
418 Castiglia, 393, 394
— Zanobi, 338 Castiglionchio, famiglia, 323, 340
C — Bernardo di Lapo da, 62n
Cadrona, 377 — Lapo da, il Vecchio, giurista, po-
Caffa, 402 destà, 53 e n, 57n, 58n, 60, 61,
Caffaro, cronista, VIII, 15n, 265 e n, 80n, 321, 323, 328n, 329n, 332,
274 e n, 275, 276, 277, 278, 279 333
Cahors, 373 — Michele da, 323
436
— Paolo da, 323 210, 214, 215
Castiglionchio, castello di, 58n — Pericciolo, 201
Castiglione (Valdarno di Sopra), ca- Cinquini, Pietro, pisano, 339
stello di, 224 Citella, Enrico de, notaio, 120n
Catalogna, 342 Cittadini, Rinuccio, mercante, 76
Catilina, Lucio Sergio, politico ro- Clemente VII (Giulio dei Medici),
mano, 329, 413 335, 337
Catone, Marco Porcio, Censore, Clivio, Giordano di, arcivescovo di
375 Milano, 269
Catone, Marco Porcio, Uticense, 11 Clotario I, re dei Franchi, 120n
Cefalù, 364 Cluny, 108n
— diocesi di, 147 Cluny, Oddone abate di, 232
Cellesi, Piero, pistoiese, 333 Codagnello, Giovanni, cronista,
Cerclaria, Tommasino di (Thomasin 266, 270 e n, 271
von Zerklaere), poeta, 46 e n, 47 Cola di Rienzo, romano, politico,
Certaldo, 65n 282, 357
Certaldo, Paolo di Pace da, scritto- Colle (Valdarno di Sopra), castello
re, 57 e n, 67 e n, 68n, 72n, 76n, di, 224
83n, 180n, 400n Colombini, Giovanni, senese, mer-
Cesena, 151 cante, 23, 24 e n
Cesino, 390n Colonna, famiglia romana, 346 e n
Ceuta, 386 Colucci, Benedetto, storico, 418n
Champagne, 211 Como, diocesi di, 147n, 155
Chartres, 91 Como, monastero di San Benedet-
Chartres, Fulcherio di, storico, to di, 155
128n Compagni, Dino, cronista, 207,
Chartres, Ivo di, santo, 110 323n, 413, 414 e n
Chastelain, George, cronista, 116 Cortona, Elia da, ministro generale
Chio, isola di, 393 francescano, 63
Chioggia, 254n Costantino I, Flavio Valerio Aurelio,
Chiusi, 53n imperatore romano, 114n, 125
Cibo, Franceschetto, duca di Spole- Costanza, Nernoldo di, cronista,
to, 139n 235n
Cicerone, Marco Tullio., retore e Cotrugli, Benedetto, economista,
politico romano, 193n diplomatico, 194 e n
Cilia, pinzochera fiorentina, 157 Cremona, 261, 262, 331
Cinquina, famiglia pisana, 201n, Cremona, Rolando da, domenica-
207 no, 97
— Benenato, 201 Crescenzi, Pietro dei, giurista, agro-
— Benenato, 207n nomo, 67 e n, 68n
— Guiscardo, mercante, 201, 202, Cristo, IX, 86, 88, 89, 90, 101, 104,
203 e n, 204, 206, 207 e n, 208, 105, 106, 108, 112, 117, 125 e n,
437
126n, 132, 154, 190, 258, 399 Diavolo, 258
Cristofano di Gano di Guidino, no- Dio, 47 e n, 59, 63, 79, 81n, 89, 90,
taio, 1n 91, 111, 112, 113 e n, 116, 123,
125n, 126, 127, 136, 155, 157,
D
172 e n, 174, 175, 177, 178, 180
da Canal, Martino, cronista, 374,
e n, 182, 184, 187, 188, 189, 190,
375 e n
191, 192, 193, 240, 241, 242, 243,
Da la Riva, Bonvesin, cronista, 375,
245, 246, 247, 248, 258, 270, 271,
376 e n
277, 300, 348, 375, 401n
da Romano, famiglia, 331
Diodati, Giovanni, teologo riforma-
Daiberto, vescovo pisano, 266, 267
to, 113n
dalla Lana, Jacopo di Giovanni, bo-
Domenico di Bartolo, artista, 41
lognese, 22n
Dominici, ser Luca, cronista, 405 e
Dati, Goro, cronista, 21n, 80n
n, 406 e n, 407, 417, 418 e n
Datini, Francesco di Marco, mer-
Donati, Corso, fiorentino, 322
cante, VIII, 135 e n, 138 e n, 165,
Donato di Neri, cronista, 351 e n
166 e n, 167, 168 e n, 169 e n,
Donizone, monaco di Canossa, 261
170n, 171 e n, 172 e n, 173 e n,
en
174 e n, 175 e n, 176 e n, 177 e n,
Donoratico, famiglia, vd. Gherarde-
178 e n, 179 e n, 180 e n, 181 e n,
sca-Donoratico
182 e n, 183 e n, 184n, 185 e n,
Doria, famiglia genovese, 393
186 e n, 187 e n, 188 e n, 189 e n,
— Paolino, 392
190 e n, 191 e n, 192 e n, 193 e n,
Douai, Oddone di, francescano, 97
194, 195, 401n
Dovizi, Piero, cancelliere fiorenti-
Datini, Margherita di Domenico
no, 139
Bandini, moglie di Francesco di
Dubois, Pierre, giurista, 92
Marco, fiorentina, 135 e n, 149
e n, 168n, 169 e n, 171, 172 e n, E
173, 175n, 176 e n, 177, 178n, Eboli, Pietro da, poeta, cronista,
189 122 e n, 126 e n
Davanzati, Chiaro, poeta, 20 e n Edessa, Orda di, regina di Gerusa-
David, re d’Israele, 127 lemme, 128
de Canistris, Opicino (Anonymus ‘El Dodece’, fiorentino, 354
Ticinensis), cronista, 375, 376 e Elena, vedova della Valpolicella,
n, 377n 251
del Bene, Antonia, fiorentina, 138 Embriaco, Guglielmo maior, mer-
del Bene, Francesco, fiorentino, cante, 389
138 Emilia, 368, 374n
Della Casa, Giovanni, fiorentino, Emilia, via, 271
146 Enr ico VII, imperatore, 391
Della Casa, Lusanna, fiorentina, Enrico IV, imperatore, 267
146 Ernaldo, agiografo, 272 e n
Deutz,109 Este, famiglia, 149n, 350
438
— Isabella di, 137n 136n, 137, 146, 153, 167, 168n,
— Niccolò III di, 151, 350 172 e n, 173n, 174 e n, 175n,
Estella, 5 176n, 177n, 178n, 179n, 180n,
Eugenio IV, papa, 133 181n, 182n, 183n, 184n, 185n,
Euliste (Ulisse), 15n 186n, 187, 188n, 189n, 190n,
Europa, IX, 4, 7, 64, 69n, 76, 109, 192n, 193n, 198, 199, 202, 204,
167, 212, 341, 344, 361, 373, 377, 206, 212, 213 e n, 219, 222, 223,
414 224, 225, 226, 229, 253n, 255,
— centrale, 147 284, 287, 290, 294, 305, 312, 314,
— occidentale, 5, 87, 128, 246, 284, 319, 320, 321, 322, 323 e n, 324,
361, 391 325n, 326, 327, 328, 329, 330,
F 331, 332 e n, 333, 334, 335, 337,
Fabbri, Jacopo, veronese, 350 338, 339, 342, 345, 347, 352, 353,
Faenza, 324 354, 355, 357, 358, 359, 360, 363,
Faggiola, Uguccione della, signore 364 e n, 368, 369n, 371, 372, 375,
di Pisa e Lucca, 210, 221, 331 377, 378, 383n, 405, 406, 407 e n,
Fagiuolo, messer Gherardo, mem- 408, 409 e n, 410, 411, 412, 413,
bro del consiglio di Pisa, 209 414 e n, 415, 416, 417 e n, 418n,
Faie, Giovanni Antonio da, speziale, 419, 420, 421, 422, 426, 427,
51 e n, 79 e n, 80n, 81n 428n, 431, 432
Faitinelli, Pietro dei, poeta, 336 — Loggia del Grano, 349
Falcando, Ugo, storico, 126 e n — Loggia di Orsammichele, 370
Famagosta, 335, 402 — Lungarno, 80n
Fano, 63 — palazzo del Podestà, 370
Fasani, Raniero, frate, 311 — palazzo della Signoria (dei Prio-
Favuglia, Iacopo, membro del con- ri), 370
siglio di Pisa, 209 — Rubaconte, ponte di, 80n
Federico I, Barbarossa, imperatore, — Santa Apollonia, convento di,
275, 278 333
Federico II, imperatore, 126n, 327, — Santa Croce, convento e chiesa
362n, 373 di, 11, 34, 35, 36, 37, 80n, 365
Ferrara, 149, 151, 331, 350 — Santa Maria del Fiore, 363
Fiamma, Galvano, cronista, 120 — Santa Maria Novella, chiesa di,
Fiandre, 343, 344, 394 365
Fieschi, famiglia genovese, 330 — Santa Maria Novella, convento
Figline Valdarno, 65n, 221, 226 di, 171, 291
Filelfo da Tolentino, Francesco, 339 — Santa Maria Nuova, ospedale di,
Filettole, 167, vedi anche Palco di 367
Filettole — Santissima Annunziata, chiesa di,
Fiorino, anticatilinario, 329 339
Firenze, 11, 19, 20, 25, 44n, 50 e n, — Santo Spirito, 157
53, 58, 62n, 72n, 79n, 80n, 119, — Stinche, 419
439
Flamborough, Robert of, teologo, 350n
103n Gatari, Galeazzo, cronista, 349,
Focea, isola di, 391n 350n
Fornari, Bartolomeo de, notaio, Gazzata, Pietro della, cronista,
390n 346n
Fortebraccio, famiglia perugina, Gemona in Friuli, 60n
333 Genova, VIII, 15n, 21n, 60n, 76,
Forzaté, Giovanni, beato, 236 77, 173n, 180n, 188n, 189n, 205,
Francesca Romana (Francesca Bus- 212, 265, 268, 271, 272, 274, 275,
sa dei Ponziani), santa, 11n, 144, 276, 277, 278, 279, 280, 328, 330,
157 333, 364n, 365, 375, 376, 381,
Francesco, santo, 24 382, 383 e n, 385 e n, 386 e n, 387
Francia, 23n, 55n, 221, 222, 224, e n, 388 e n, 390 e n, 391, 392,
225, 287, 289, 290, 294, 335, 342, 393, 394, 395, 398, 402, 403
343, 344, 393, 394 — domus Iacheriorum, 393
Francigena, via, 367 — Quarto, 386
Franco, Matteo, segretario di Mad- — San Marcellino, chiesa di, 399
dalena dei Medici, 139n — Santa Maria di Castello, chiesa
Franconia, dinastia di, 259 di, 388, 389, 399
Franzesi Della Foresta, famiglia, 76 — Santo Stefano, monastero di,
— Albizzo di Guido, Biccio, 222, 334
223, 224, 225, 226 — Sturla, 386
— Ciampolo di Guido, Musciatto, Gerardo, detto Capocchio, pisano,
55n, 199, 221, 223, 224, 225, 226 23n
— Guido, miles di Figline, 221 Germania, 3n, 155, 344
— Niccolò di Guido, 223, 224, 226 Gerusalemme, 127, 129, 275, 277
Frescobaldi, Giovanni, poeta, 76n Gesù di Nazareth, vd. Cristo
Frisinga, Ottone di, cronista, 261, Gherardesca-Donoratico, famiglia,
263 e n 206, 207, 208
Friuli, 58n, 60n, 72n, 79n — Bonifazio, Fazio, 206, 207 e n
Fucecchio, 420 — Gherardo di Donoratico, 206
G — Ranieri di Donoratico, 206, 207
Gaeta, 348 en
Gaio Fabricio (Fabrizio) Luscino, — Ugolino della, signore di Pisa,
console romano, 114n 205 e n, 206, 208, 216, 217, 228
Gallerani, famiglia senese, 224 Gherardina, pinzochera fiorentina,
Gallura, 209 157n
Gambassi Terme, 71n Gherardinghi, cconsorzio signorile
Gandino, Alberto da, giurisperito, della Garfagnana, 217
320 Gherardini, famiglia fiorentina, 176
Garfagnana, 216, 217, 220 — Lionora, madre di Margherita
Gatari, Bartolomeo, cronista, 349, Datini, 172n
440
— Pelicia, 172n 66n
Gheri, senese, 13n Gubbio, palazzo dei consoli, 370
Giacoma di Bagnolo Vicentino, ve- Gubbio, Cante dei Gabrielli da, po-
dova veronese, 251 destà di Firenze, 295, 319, 325
Giamboni, Bono, 20 e n Guglielmo I, re di Sicilia, 126
Giambullari, Bernardo, poeta, 141n Guglielmo II, re di Sicilia, 122, 126
Gianfigliazzi, Giovanni di messer Guicciardini, famiglia fiorentina,
Rinaldo, podestà di Pistoia, 419 418
Gilio de Amoruso, marchigiano, — Francesco, politico, storico, 115,
mercante, 166n 423
Ginevra, figlia naturale di Francesco Guidalotti Del Bene, Dora, patrizia
di marco Datini, 171 fiorentina, 135 e n, 138 e n
Giotto, artista, 49, 94, 364, 365, 414 Guidi, conti, 405, 407n
Giovanni di Aricho, mercante, 178 — Francesco, 407n
Giovanni XXII, papa, 100 e n, — Roberto, 407n
102n Guidiccioni, famiglia lucchese,
Girolami, Remigio dei, teologo, 45 e 215n, 216, 219
n, 291 e n, 292, 338 — Aldibrandino del fu Guidiccio-
Giulietta, madre di Benedetto Zac- ne, 215n, 216
caria, 388 Guiducci, Camilla (Cinzia) di Do-
Giustiniano, imperatore, 318 menico, suora,156
Gonzaga, Francesco II, marchese di
H
Mantova, 137n
Hales, Alessandro di, teologo, 156
Gorizia, 57n
Gostanza di Francesco di Tommaso, I
fiorentina, 154 Iacovini, Blasio di Nardo, viterbe-
Grammont, 108 e n se, 154
Grandenigo, famiglia veneziana, Illasi, Desiderata di, domina, 254n
324 Imola, 331
— Pietro, doge, 355 Inghilterra, 76, 77n, 211, 342, 344,
Gregorio de Monte longo, legato 394
pontificio, 331 Innocenzo II, papa, 272
Gregorio VII, papa, 108, 261 Innocenzo III, papa, 239
Gregorio X, papa, 213 Innocenzo IV, papa, 97, 331
Gregorio XI, papa, 351 Ippona, Agostino di, santo, 91, 99n
Grenoble, 373 Isabella di Baviera, regina di Fran-
Grosolano, arcivescovo di Milano, cia, 119
269 Israele, 246
Gualandi, famiglia pisana, 206 Italia, VII, VIII, 3n, 7, 13n, 16, 17,
Gualando, (forse) signore in Garfa- 18, 19n, 21n, 45, 60, 63, 69n, 71n,
gnana, 216 76, 133, 145, 146n, 158, 162, 167,
Guastavillani, famiglia bolognese, 194n, 202, 203, 204, 222, 225,
441
256, 257n, 259, 262, 264, 266, Lerida, 373
275, 281, 287, 289, 299, 335, Levante, 77, 128, 391, 393, 402n
342, 343, 344, 345, 361, 362n, Levante, vd. anche Oltremare
364, 365, 366, 367, 372, 373, 377, Liguria, 71n, 373
416n, 425n — Riviera di Levante, 278, 330, 333
— centrale, 361 Lione, 108
— centro-settentrionale, 212, 221, Lipari, 147
239, 281, 287, 289, 290, 293, 308, Lisena qd. Gemini de Ranone, viter-
311, 312, 324, 361, 362, 363, 365, bese, 154
366, 370, 372, 431 Littara, Vincenzo, storico antiqua-
— insulare, 361 rio, 122
— meridionale, 113, 361, 362n, 363, Lodi, 261, 331
364, 373 Lombardia, 331, 376
— nord-orientale, 57n, 334 Lomellini, Angelo, mercante, 401
— settentrionale, 361, 368, 370, Lomellini, Ansaldo, mercante, 401
373 Lorenzetti, Ambrogio, artista, 16n,
26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 367,
J 378
Jacopo di Giovanni di Berto, mer- Losanna, 108
cante, 180n Lucca, 72n, 146, 198, 199, 202, 210,
Jasmilla, Nicolo’, cronista, 127 e n 211, 212, 213, 214, 215, 216n,
Joyce, James, scrittore, 122 217, 218 e n, 219, 220, 221 e n,
L 222, 227, 229, 295, 331, 334, 336,
Lafri, Iacopo, 424 e n 371, 410
Landi (de Andito), Ubertino, pia- — San Michele in Foro, palazzo di,
centino, 330 216
Landolfo ‘iuniore’ di San paolo, cro- Lucca, Rangerio di, vescovo, 264,
nista, 263 e n, 269 e n 266 e n
Landolfo ‘seniore’, cronista, 261 e n, Lucca, Tolomeo da, domenicano,
267 e n storico, 291
Lanfranchi, famiglia pisana, 206 Lucia detta Bianca, moglie del fu
Laon, Adalberone di, vescovo, 263 Gabriele Dandolo, veneziana, ve-
L’Aquila, 363 e n dova veronese, 251
Lastra, 332 Lucignano, San Francesco, chiesa
Latini, Brunetto, giurista, 20 e n, di, 11
287, 288 e n, 289 e n, 291, 294, Ludovico IV, il Bavaro, imperato-
296 e n, 300 e n, 301, 413 re, 92
Luni, 53n
Lazio, 361
Le Mans, 108 M
Lecco, 155 Machiavelli, Niccolò, politico, scrit-
Lenzi, Domenico, il Biadaiolo, 349 tore, 337, 338, 339, 347n, 431 e
Leone X, papa, 338 Macinghi Strozzi, Alessandra, fio-
442
rentina, 131 e n, 134, 135, 149 — Lorenzo di Piero dei, il Magnifi-
Maddalena, vedova della Valpolicel- co, signore di Firenze, 134, 136n,
la, 251 139n, 339, 420
Maffei, Antonio, veronese — Maddalena dei, moglie di Fran-
Maiorca, 168n, 173n, 181n, 183n, ceschetto Cibo, 139n
186n, 264 — Piero di Cosimo dei, signore di
Malaspina, Saba, cronista, 115n, Firenze, 134 e n, 420
126n, 127 e n Mediterraneo, mare, 200, 277, 386
Malaterra, Goffredo, 126, cronista Meiora, vedova indigente veronese,
Malvolti, Orazio, storico, 357n 254n
Manfredi, figlio di Federico II, Melocchi, Jacopo, pistoiese, 418,
126n, 127 419 e n
Manta, castello della, 78 Meloria, isola, 205, 206, 212, 393
Mantova, 237 Messina, 119, 147, 364n
Maragone, Bernardo, cronista, 261 Mezzogiorno, vd. Italia meridionale
en Michele di Lando, fiorentino, 358
Marche, 11 Michele VIII Paleologo, imperatore
Margani, Cristofora, imprenditrice d’Oriente, 391
romana, 149 Milano, 120 e n, 148, 170, 239n, 261,
Margherita da Grosseto, viterbese, 262, 266, 267, 269, 271, 273, 275,
143 331, 334, 339, 364n, 373, 375
Margherita, vedova veronese, 251, — Ospedale del Brolo, 239n
252 — Sant’Agostino di, monastero di,
Maria del fu Paolo di Venezia, mo- 155
glie di Giovanni di Chioggia, do- — Santa Maria di Porta Vercellina,
mina veronese, 254n chiesa di, 269
Maria, madre di Cristo, santa, 126n Milano (il milanese Sachella), 18
Marini, Lodovico, pisano, 185 Miransù, pieve di, 57n
Marliani, Lucia, ultima amante di Mistretta, 147
Galeazzo Maria Sforza, 149 Modena, 142n, 298, 364
Martino IV (Simone de Brie), papa, Monreale, 126n, 364
213 Montaccianico, 331
Masinuccio Aiutamicristo, pisano, Montaigne, Michel de, filosofo,
23n 430n
Matteo, evangelista, VIII, 113 Montaione, 71n
Mazzei, ser Lapo, notaio, 169 e n, Montalbano, 410
173n, 189 e n, 190 e n, 191 e n Montanini, Angelica, senese, 24n
Medici, famiglia fiorentina, 323, Montaperti, 324, 332n
329, 335, 339, 417n, 419, 431n Montefeltro, Guido da, condottie-
— Cosimo dei, il Vecchio, signore di ro, 192n, 217
Firenze, 339, 416, 417n, 422 Monti Lessini, 257n
— Giulio dei, vd. Clemente VII Monticelli, convento di Santa Ma-
443
ria a, 154 Oderigo di Andrea di Credi, orafo,
Montpellier, 373 67n
Morelli, Giovanni di Pagolo, fioren- Olanda, 4n
tino, 8n, 67n, 81n, 83 e n Oldericus, Cimaldus, lebbroso vero-
Mosca, 125n nese, 244
Mosè del Brolo, cronista, 264, 266, Oltremare, 386, 402, vd. anche Le-
273 vante
Mozzano, piviere di, 216 Orange, 334
Mugello, 57n Orcagna, Andrea di Cione di Arcan-
Mussis, Giovanni de, cronista, 121n gelo, artista, 11, 34, 35, 36, 37
Oresme, Nicolas, vescovo, scienzia-
N to, filosofo, 97n
Nadi, Gaspare, muratore, 70n Oriente, vd. Levante
Napoli, 92, 115, 129, 332, 333, 348, Orlando, 56n
364n, 373 Orleans, Teodulfo di, vescovo, 121
Natone, Giovanni, mercante, 402 en
Nelli, Giacomino, fiorentino, 354 Orsini, famiglia romana, 346 e n
Neri, Linetto, IX, 159-163 — Bartolo, legato pontificio, 338
— Maria Vittoria, 162 — Clarice, moglie di Lorenzo dei
— Chiara, medico, 162 Medici, 134, 136n
— Federico, ingegnere, 162 — Latino Malabranca, vd. Cardinal
— Francesco, storico, 162 vd. anche Latino
“Indice degli Autori e dei Cura- Orsini, Bellezza, fattucchiera, 141,
tori” 142n
— Pier Giorgio, 163 Orvieto, 14, 364 e n
Neri di Bicci, artista, 67n — palazzo del capitano del Popo-
Neri di Donato di Neri, conista, lo, 370
351n Ottone III, imperatore, 262
Niccola della Tuccia, cronista, 347n, Oxford, 373
357n
Niccolò III, papa, 100, 212 P
Nicosia, 402 Pacuvio, Marco, drammaturgo ro-
Nizza, 65n, 390 mano, 193n
Padova, 57n, 58n, 75, 81n, 82n, 236,
Nogaret, Guillaume di, giurista, 92
250 e n, 298, 364n, 371, 372, 373
O — Arena, cappella della, 372
Oberto Usodimare, genovese, 278 — San Benedetto, monastero di,
Occidente (Europa), vd. Europa oc- 236
cidentale — San Giacomo di Pontecorvo,
Ockham, Guglielmo di, teologo, fi- 236
losofo, 102 e n — Sant’Antonio, basilica di, 372
Odaldi, Lapo, pistoiese, 419 — Santa Maria di Porciglia, mona-
Odaldi, Margherita, pistoiese, 419 stero di, 236
444
Palco di Filettole, villa di, 168n, Pepoli, Romeo, banchiere, 200 e n
169n, 174, 180 Pera, 77m 387n
Palermo, 23n, 120n, 122, 123, 126, Pericle, politico greco, 120n
261, 335, 364 e n Perotti, Nicolò, arcivescovo di Si-
— Cappella Palatina, 123 ponto, 150
— Cassaro, 122 Perugia, 14, 15n, 139, 144n, 308,
— Martorana, chiesa della, 122, 311, 333, 350, 373
125 — Fontana Maggiore, 15n
Palestina, 128 Pessina, Bassano da, mercante,
Pali, Giovanna, guaritrice modene- 170n
se, 142n Petrarca, Francesco, poeta e intel-
Panciatichi, famiglia pistoiese, 333, lettuale, 413
417, 418 Petruccia, prostituta, viterbese, 143
— Bandino, 418 Piacenza, 261, 266, 270, 271, 272,
— Corrado di messer Giovanni, 330, 331, 334, 373
418 Pian del Carpine, Giovanni da, pre-
Panichi, Mariano, pistoiese, 419, dicatore, 73n
420 e n Piazza, Michele da, cronista, 116
Panzano, Luca di Matteo da, fioren- Piccamiglio, famiglia genovese, 278
tino, 153, 154 — Federico, mercante, 399
Paolo II, papa, 151 — Giovanni, mercante, 383n
Paolo IV, papa, 156, 156 Piemonte, 235
Paolo di Tarso, santo apostolo, 103 Pieraccini, Livia di Francesco, 144n
— tomba di, 243 Pieri, Paolino, cronista, 413
Papa, Becto, ser, 23n Pietro Marcello, vescovo di Pado-
Papa, Guido, nipote di ser Rinieri, va, 250
23n Pietro, il Venerabile, abate di Cluny,
Papa, Jachopo, figlio di ser Becto, 108n
23n Pietro, santo apostolo, tomba di,
Papa, Rinieri, ser, 23n 243
Parigi, 4, 97 e n, 98, 108, 222, 373 Pio II, papa, 138n
— Nôtre Dame, chiesa di, 97n Pisa, 11 e n, 23n, 167, 172n, 173n,
Parma, 63, 266, 331, 346, 365 174 e n, 177n, 181n, 182n, 189n,
Partini, famiglia lucchese, 410 198, 199, 200, 201 e n, 202, 203,
Passeggeri, Rolandino, notaio e po- 204, 205, 206, 207n, 208, 209,
litico, 301, 302 210, 212, 213, 217, 219, 222, 228,
Pavia, 331, 375, 376 229, 261, 262, 264, 266, 267, 272,
Pazzi, famiglia fiorentina, 339 273, 278, 303, 304, 305, 314, 315,
Peckham, Giovanni, filosofo, 100 330, 331, 335, 339, 340, 362, 364
Pellini, Pompeo, cronista, 351 e n e n, 373, 376, 393, 420, 426, 431
Penisola (italiana), vd. Italia — Camposanto, 11, 38, 39
Penisola Iberica, 186, 344 Pisa, Giordano da, predicatore, 12n,
445
20, 47 e n, 291 189, 192 e n, 212, 366
Pisa, Riccola di Puccio da, fattuc- — Ceppo, 177
chiera, 144n Proust, Marcel, scrittore, 25
Pisano, Giovanni, artista, 411 Pucciarello di Peraccha, pisano,
Pisano, Nicola, artista, 411 23n
Pistoia, IX, 10n, 160, 167, 171, 219, Puctualdus de Puctualdis, bologne-
326, 333, 364n, 374, 405 e n, 406, se, 337
407, 409 e n, 410 e n, 411 e n, 412, Puglia, 115n, 364
413 e n, 414, 415 e n, 416n, 417 e
Q
n, 418 e n, 419 e n, 420, 421, 422
Querini, famiglia veneziana, 327
e n, 423 e n, 424n, 425 e n, 426,
427, 428n, 431 e n, 432 R
Pistoia, Cino da, giurista e poeta, Rabatta, da, famiglia, 57n
411, 413 — Antonio di Giovanni di Mingoz-
Pitti, Bonaccorso, fiorentino, 64 e n, zo da, 57n
321, 333 — Enrico di Antonio di Giovanni di
Plano, veronese, lebbroso, 242 Mingozzo, notaio, 57n
Poggi (di Poggio), famiglia lucche- — Giovanni di Antonio di Giovan-
se, 333 ni di Mingozzo, signore fondia-
Poggibonsi, 200, 212 rio, 57n
Polcevera, ponte di, 390 — Michele di Antonio di Giovanni
Polcevera, valle, 390n di Mingozzo, ambasciatore, 57n
Pompei, 425 — Pietro di Antonio di Giovanni
Pontano, Giovanni, umanista, 124n di Mingozzo, canonico a Pado-
Pontecorvo, 236 va, 57n
Pontremoli, Salvo da, maestro, 60n Ragewino, cronista, 263n
Ponziani, Francesca Bussa dei, vd. Reagan, Ronald, presidente ameri-
Francesca Romana cano, 3n
Ponzò, Antonio da, notaio, 402n Refrigerio, Giovan Battista, bolo-
Poppi, 405n, 407n gnese, 337
Poppi, ser Agapito di ser Giovanni Reggio Calabria, 364
da, cancelliere del comune di Pi- Reggio Emilia, 373
stoia, 405 e n, 407, 426 Reichersberg, Gerhoh di, teologo,
Porciglia, 236 89, 91, 106n
Pordenone, Odorico da, predicato- Reims, Folco conte di, il Buono,
re, 74n 233
Porretta, 150 Ricca, Antonio, fiorentino, 354
Praga, 373 Ricci, famiglia fiorentina, 418
Prato (Toscana), 135, 165, 167, — Ardengo, 143n
168n, 169n, 170 e n, 171, 172n, Ricci, Sanminiato dei, mercante,
173 e n, 178n, 179n, 180n, 181n, 383
182n, 183n, 184n, 185n, 186n, Ricciardi, famiglia e compagnia luc-
446
chese, 210, 211, 212, 213, 217, — Nello di Adiuto, membro del
219 consiglio di Lucca, 215
— Perfetto, 210 — Ricciardo, mercante, membro del
— Ricciardo, tintore, 210 consiglio di Lucca, 215 e n
Richelda, moglie di Simone Bufferio — Vanni di Adiuto, membro del
maior, 388 consiglio di Lucca, 215
Rinieri da Chasili, pisano, domino, Rosignano, 340
23n Rubruk, Guglielmo di, predicato-
Rinonico, fosso, 203, 204 re, 73n
Rivalto (Pisa), 47n Rucellai, famiglia fiorentina, 418
Rodi, 335 — Cosimo, 338
Rodolfo Ardente, predicatore, 111 — Giovanni, mercante, scrittore,
Roma, 11, 43, 98, 133, 134 e n, 10n
136n, 139n, 149, 151 e n, 153n, Ruggero I, conte di Sicilia, 126, 127
154, 155n, 172, 211, 214, 225, Ruggero II, re di Sicilia, 124, 125,
243, 255, 272, 282, 286, 314, 315, 128
323, 333, 339, 346 e n, 357, 363 e Rugieri di messer Giovanni, mer-
n, 373, 378 cante, 178
— Campidoglio, piazza del, 282 Ruperto, abate di Deutz, 109
— Santa Agata in Trastevere, chie- S
sa di, 155n Sabina, 141
— Santa Maria in Trastevere (Fasty- Sacchetti, Franco, scrittore, 50n,
berym), chiesa di, 346 79n, 119
— Tor de’ Specchi, 145 Sachella, Bartolomeo, poeta, 18 e n
Romagna, 361 Saint-Amour, Guillaume de, teolo-
Romània, vd. Levante go, 96n, 97, 98 e n, 103 e n, 109
Romano, Egidio, teologo, 45 e n Saint-Gilles, Giovanni di, domeni-
Romans, Umberto di, maestro gene- cano, 97
rale domenicano, 239n Saint-Jacques, convento di, 97
Roncaglia, 275 Saint-Thierry, Guillaume de, teolo-
Rosa, santa, 144 go, 112n
Rosciompelli, famiglia lucchese, Salamanca, 373
211, 212, 217, 218, 219, 221 e n Salernitano, Romualdo, cronista,
— Adiuto di Guglielmo Roscinpe- 126 e n
lo, mercante, 198, 210, 211, 212, Salerno, 373
213, 214, 215, 216, 217, 218, 219, Sali, Andrea, Ammazza il vero, fio-
220, 221, 225, 227, 228 rentino, 354
— Aldibrandino, 215 e n Salimbene de Adam, cronista, 62,
— Ghino di Aldibrandino, membro 63 e n, 64 e n, 307, 331n
del consiglio di Lucca, 215 Salimbeni, famiglia senese, 224, 330
— Guglielmo Roscinpelo, mercan- — Anselmo, 24n
te, 210, 211, 212, 215n, 220, 221 Salomone, re ebreo, 181, 192
447
Saluzzo, 78 Scali, famiglia e compagnia fiorenti-
Salvetti, Tommaso, giurista, 420 e n na, 76, 222
Salviati, famiglia fiorentina, 418 Scolari, famiglia fiorentina, 333
Sambuceto, Lamberto da, notaio, — Pippo Spano, 333
402n Scrovegni, Enrico, banchiere, 81n,
Sampante, messer Ranieri, consi- 82n, 372
gliere di Pisa, 209 Scrovegni, Reginaldo, usuraio, 372
Samuele, profeta biblico, 127 e n Sega, Filippo di Fede del, Lippo,
San Bonifacio di Verona, 331 cambiavalute, 82n
San Daniele del Friuli, 58n Segatari, Giuliano, assistente di Ro-
San Genesio, Ansoisio (Ansuixio), landino Passeggeri, 302
mercante, 386 Seneca, Lucio Anneo, filosofo, 184,
San Germano, Riccardo di, cronista, 192, 193 e n
126 e n Senigallia, 53n
San Gimignano, 71n, 212, 365 Sera, Luca del, mercante, 169n,
— San Girolamo, convento di, 154 170n, 179n, 182 e n, 183, 184n,
San Gimignano, Folgore da, poe- 186, 187 e n, 192n
ta, 78 Sercambi, Giovanni, cronista, 328n
San Godenzo, 331 Sermini, Gentile, scrittore, 78n
San Miniato al Tedesco, 212 Sforza Riario, Caterina, signora di
Sano di Pietro, pittore, 9 e n , 40 Forlì, 137 e n, 141n
Sant’Andrea in Percussina, 337 Sforza Visconti, Bianca Maria, du-
Sant’Antonio in Cesino, chiesa di, chessa di Milano, 120n, 138n,
390n 148
Sanudo, Marino, cronista, 350 e n, Sforza, Francesco I, duca di Milano,
356 e n 139n, 339
Sanuti, Niccolò, conte della Porret- Sforza, Galeazzo Maria, duca di Mi-
ta, 150n lano, 149
Sanuti, Nicolosa, ceontessa della Shelley, Percy Bysshe, poeta, 121n
Porretta, 150 e n Sicilia, 23n, 113, 117, 119, 120 e n,
Sardegna, 340, 362, 369 127, 128, 129, 225, 261, 361, 386,
Sardo, Ranieri, cronista, 23n 389
Sarteano, Alberto da, francescano, Siena, 13n, 14, 16n, 22 e n, 23n, 24n,
151 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 40,
Sassoferrato, Bartolo da, giurista, 41, 46, 56n, 72n, 78, 81n, 136,
53n, 99n, 319n 142, 166n, 212, 216, 217, 223,
Satana, 93n 224 e n, 225, 303, 304, 305, 314,
Savona, 402 326 e n, 328, 330, 332, 338, 347,
Scaccieri, Ciolo, pisano, 23n 348, 363, 364n, 366n, 368, 371,
Scala, Alberto della, 331 373, 378, 379, 380, 411
Scala, Mastino II della, signore di — palazzo pubblico, 13n, 16n, 26,
Verona, 295, 328 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 46, 370,
448
378 335, 418
— piazza del Campo, 223, 348 — Andrea, 352, 355
— pinacoteca nazionale di, 9, 40 — Filippo, 334
— Santa Maria della Scala, Ospeda- — Leonardo, 334
li di, 41, 348, 366, 367 — Maddalena di Palla di Nofri, 136
Siena, Bernardino da, predicatore, — Margherita, 134n
santo, 136 e n, 140 e n, 141, 142 — Pagnotto, 355
en — Palla di Nofri, 10
Siena, Caterina da, santa, 157 Svevia, Corradino di, re di Sicilia,
Signa, 66n 203, 206, 207
Signa, Boncompagno da, maestro di T
retorica, 14n, 58n Tana, 402n
Signore, vd. Dio Taranto, Luigi di, re di Napoli, 348
Siponto, 150 Tavelli, Giovanni, volgarizzatore,
Sirigatti, Lapo di Giovanni Niccoli- 25n
ni dei, 81n Tebaldo, vescovo di Verona, 243
Sismondi, famiglia pisana, 206 Tedaldi, Giovan Battista, fiorentino,
Siviglia, Isidordo di, vescovo, 110 428 e n, 430 e n
Smith, Adam, intellettuale, 3n Telese, Alessandro di, cronista, 124
Sori, Guglielmo da, notaio, 389n e n, 127n
Spagna, 129, 362 Tertulliano, Quinto Settimio Fio-
Sparta, 120n rente, scrittore, teologo, 113n
Speciale, Nicolò, cronista, 116n Tevere, fiume, 145
Spinola, famiglia genovese, 330, Thatcher, Margaret, primo ministro
383n, 393 britannico, 3n
— Angelo, 395 Ticino, fiume, 377
— Francesco, 383n Tieri di Benci, mercante, 169n, 180,
— Iacopina, 392 186n
— Oberto, 392 Tinghi, Matteo de lo Scielto, mer-
— Porchetto, vescovo di Genova, cante, 64
395 Tintinello, Paolo di, artigiano, usu-
Stati Uniti d’America, 4 raio, 55
Stato Pontificio, 152, 331 Tiro, Guglielmo di, cronista, 128n,
Stefani, Marchionne di Coppo, cro- 129n
nista, 80n, 332 e n, 353 e n, 359n, Todi, Matteuccia di, ‘strega’, 137n
413 Tolentino, 339
Stella, Giorgio, cronista, 397 e n Tolomei, famiglia senese, 224 e n
Stoldo di Lorenzo, mercante, 168n, Tolosa, 373
169n, 172n, 173n, 178n, 179n, Tommaso, santo apostolo, 191
180n, 181n, 182 e n, 183n, 184n, Tornabuoni, Lucrezia, moglie di
185, 186, 189, 192n, 193 Piero dei Medici, 134 e n, 148n,
Strozzi, famiglia fiorentina, 134n, 149
449
Tortona, 275 Velluti, Donato, cronista, 157 e n
Toscana, VIII, 8, 44n, 71n, 143, 163, Velo Veronese, Gaspare di, 257n
202, 220, 221, 222, 225, 322, 333, Veneto, 236, 249, 250, 254n, 257n
342, 367, 368, 373, 411, 413, 426 Venezia, 21n, 71n, 76, 77, 146n,
Trento, 361, 365 152, 251, 254n, 324, 327, 328,
Treppio, 160 329, 349, 355, 361, 363 e n, 371,
Treviso, 371 374, 375, 376, 397, 402n
Tripoli di Siria, 393 — palazzo comunale, 370
Tunisi, 386 — Rialto, mercato di, 324
Tuscia, 144, 267 — San Marco, basilica di, 357, 365
— San Marco, piazza, 350
U
— Torresella, 356
Ubaldini, famiglia, 330, 331
Ventura, Guglielmo, cronista, 375
Ubaldini, Ruggeri degli, arcivescovo
en
di Pisa, 205
Vercelli, 373
Uberti, famiglia fiorentina, 329, 337
Verga, Giuseppe, scrittore, 115n
Uberti, Bernardo degli, vescovo di
Verità, Verità dei Verità, veronese,
Parma, 266
349, 350
Udine, 329
Verona, 55, 237 e n, 239, 241 e n,
Ugo, arcidiacono genovese, 275
243, 244, 251, 252 e n, 254 e n,
Ugo, visconte pisano, 267
256 e n, 257n, 328, 329, 349,
Umbria, 143, 373
364n, 371, 373
Urbisaglia, 53n
— Croce Bianca alle Fontanelle,
Uzzano, Giovanni da, mercante, 8n
251, 252 e n
V — San Giacomo alla Tomba, leb-
Valdarno di Sopra, 224 brosario di, 244, 245
Valdo di Lione, eretico, 108, 111, — San Zeno, porta, 241n
112 — Santa Croce, chiesa di, 243
Valenza, 173n, 179n, 182n, 373 — Santa Croce, domus malsanorum
Valla, Lorenzo, umanista, 113n, 115 di, 241n, 243, 244
Valladolid, 373 — Santo Spirito, chiesa di, 237
Valle padana, 331, 373 — Santo Spirito, monastero di,
Valois, Carlo di, 225 e n, 226, 322n 238n
Valois, Filippo di, il Bello, re di — Santo Stefano, contrada di, 251,
Francia, 221, 222, 225, 226 252, 254n
Valpolicella, 251 Verona, Garscenda di, benefattrice,
Varagine, Iacopo da, cronista, 376 241, 242, 244
en Verona, Rodolfo di, genero di Gar-
Vasto, Adelasia del, moglie di Rug- scenda di Verona, 244
gero I di Sicilia, 127, 128 e n, 129 Verri, Pietro, scrittore, 3n
en Vicenza, 246, 324, 371, 373
Vattaccio, Simone, notaio, 393 Villani, Filippo, cronista, 348n
450
Villani, Giovanni, cronista, 61n, Zaccaria, Benedetto, ammiraglio
294, 295 e n, 306n, 307, 327n, e mercante, 388, 390, 391, 392,
328, 332n, 335 e n, 352 e n, 357n, 393, 394
372 e n, 375, 377, 378 e n, 413 Zaccaria, Manfredi del fu Manue-
Villani, Matteo, cronista, 348n le, 399
Vincio, fiume, 163 Zaccaria, Manuele, mercante, 391,
Virgilio, Publio V. Marone, poeta, 392 e n, 394
22n Zaccaria, Orietta di Manuele, 392
Visconti, famiglia milanese, 407 e n Zaccaria, Paleologo di Benedetto,
— Filippo Maria, duca di Milano, 391, 392, 393
339 Zerklaere, Thomasin von, vd. Cer-
— Gian Galeazzo, duca di Milano, claria, Tommasino di
323 Ziliolo, figlio d’anima di Anna di
— Lodrisio, condottiero, 333 Lazise di Verona, 256
— Matteo, signore di Milano, 331 Zuppardo, Matteo, cronista, 120n
Visconti, Giovanni, Giudice di Gal- Zurlo, Giovanna, moglie di Ansoi-
lura, 208 sio di San Genesio, 386
Visconti, Nino, signore di Pisa, 205 Zurlo, Marchisio, mercante, 386
e n, 209, 228
Visdomini, famiglia fiorentina, 353
Vitale, Orderico, storico, 128 e n
Viterbo, 138n, 143, 145 e n, 150,
152 e n, 154, 155, 347, 357
— Santa Maria della Quercia, san-
tuario di, 144
Viterbo, Giovanni da, giurista, 286
e n, 291
Vitoni, Ventura, architetto, 424 e n
Vitry, Jacques de, storico, 240, 241n
Vitukind, cronista, 125n
Volpelli, famiglia lucchese, 219
— Labro, mercante, 212, 213, 214,
215, 216
Volterra, palazzo comunale, 370
W
Wernher der Gartenaere, poeta,
56n
Worms, Burchardo di, vescovo, 110
Z
Zaccaria, Argentina di Benedetto,
392
451
Indice degli autori e dei curatori
(a cura di Francesco Leoni)

A Bally, Ch., 86n


Adorno Braccesi, S., 304n Banti, O., 23n
Agamben, G., 99n Barbagli, M., 11n
Agostini, A., 430n Barbarisi, G., 3n
Airaldi, G., 65n, 388n Barbero, A., 61n, 92n, 295n, 305n,
Ait, I., 149 e n, 165n, 399n 306n
Alberzoni, M.P., 90n, 239n Barbieri, L., 346n
Albini, G., 366n Bargellini, P. 136n
Andenna, G., 370n Baron, H., 407n
Angelozzi, G., 429n Barone, A., 157n
Anselmi, M.G.,77n Barone, G., 156n, 347n
Antoniella, A., 13n Barthes, R., 127
Arcangeli, L., 148n Bartoli Langeli, A., 15n, 82n,
Ariès, Ph., 7n, 64n, 82n 383n
Arnaldi, G., 75n, 357n Bartolini, S., 2 e n, 6n, 10n, 12n,
Arrighi, V., 16n 24n
Artifoni, E., 18n, 20n, 22n, 214n Barzanti, R., 343n
Artioli, L., 346n Baudrillart, H., 119n
Ascheri, M., 203 e n. 304 e n, 314 Bauer, A., 125n
e n, 409n Bazzichi, O., 87n, 99n
Asor Rosa, A., 194n Bec, Ch., 43n, 81n, 178n, 194n, 318,
Aston, T.H., 343n 324 e n, 335n, 336n, 383n
Avellini, L., 77n Becker, M., 347n
Becquet, Y., 108n
B Béghin-La Gourrièrec, C., 253n
Bacchi della Lega, A., 70n Belfanti, C.M., 141n
Bacci, M., 9n, 17 Belgrano, L.T., 265n, 274n
Bach, E., 385n Bell, M.R., 429n
Bakker, P.J.J.M., 101n Belli, M., 366n
Baldassarri, S.U., 94n Bellomo, M., 75n
Balestracci, D., 14n, 43n, 60n, 65n, Bellomo, S., 23n
70n, 71n, 72n, 73n, 74n, 77n, Beltrami, P.G., 288n
135 e n, 136n, 138n, 367n, 369n, Benedetti, M., 245n
371n, 413n Benigno, F., 409n
453
Benoit, P., 70n Bortolami, S., 75n
Bensa, 170n Borutti, S., 415n
Benvenuti (B. Papi), A., 156n, 158n Bosl, K., 91n
Berengo, M., 109 Boswell, J., 117n
Beriou, N., 100n Boucheron, P., 70n, 388n
Berlière, U., 103n Bourdieu, P., 198n, 425n
Bernardinelli, S., 238n Boureau, A., 87n
Berner, S., 429n Bourin, M., 342n
Bertanza, E., 74n Bowsky, W., 342n, 357n
Berti, L., 343n Braccini, T., 430n, 431n
Berti, M., 204n Braidi, V., 348n
Bertrand, G., 15n Brambilla, S., 192n
Bertrand., P., 90n Branca, V., 22n, 57n, 229n
Besami, O., 115n Branciforti, F., 117n
Betri, M.L., 245n Brattö, O., 327n
Bettetini, M., 102n Braudel, F., 118n, 121n, 313
Bianchi, F., 5n Braunstein, Ph., 7n, 70n, 71n, 167n,
Bibolini, M., 212n 389n
Bicchierai, M., 405n, 407n Breiitenstein, M., 98n
Biffi, M., 86n Brendler, G., 342n
Bini, T., 72n Brenk, B., 123n, 125n
Bizzarri, D., 327 e n Brentano, R., 234n
Blanc, P. 335 Bresc, H., 74n
Blasucci, R., 114n Bresc-Bautier, G., 9n
Blickle, P., 342 e n Brizzi, G.P., 74n, 75n, 373n
Bloch, M., 126 Broise, H., 425n
Blomquist, T.W., 215n, 217n Brolis, M.T., 239 e n, 249n
Bocchi, A., 166n Brucker, G.A., 140n, 146 e n, 342n,
Bocchi, F., 8n, 70n, 75n, 362n, 368n, 355n, 418n
370n, 374n Brunetti, L., 366n
Bocchi, R., 361n Bruni, F., 15n, 16n, 18n, 19n, 117n,
Bocchini Camaiani, B., 426n 319n, 323n, 324, 325 e n, 330 e n,
Boesch Gajano, S., 156n 336n, 338n, 408n
Bonamore, D., 8n Brunner, O., 325
Bongi, S., 216n, 328n Burnes, J.H., 107n
Bordone, R., 21n, 259n, 260n, 262n, Byrne, J.P., 138n
264n, 266n, 268n, 272n, 375n, C
384, 397n, 400n Calabi, D., 19n
Borelli, G. 239n, 389n Calderoni Masetti, A.R., 397n
Borlandi, A., 383n Calegari, M., 70n
Borlandi, F., 75n Cammarosano, P., 20n, 50n, 56n,
Bornstein, D., 156n 65n, 66n, 68n, 69n, 81n, 92n,
454
214n, 370n Chabot, I., 253n
Campanini, A., 151n, 398n Chapelot, O., 70n
Camporesi, P., 115n Châtillon, J., 86n
Canestrini, G., 137n Chenu, M.-D., 89n, 109n, 238n
Cantarella, G.M., 108n Cherubini, G., 10n, 11n, 14n, 17 e
Cantimori, D., 432n n, 19n, 44n, 62n, 68n, 77n, 78n,
Capitani, O., 5n, 87n, 112n, 240n 80n, 81n, 165n, 171n, 173n,
Cappi, D., 414n 342n, 343n, 363n, 364n, 366n,
Cardini, F., 23n, 24n, 77n, 103n, 371n, 374n, 378n, 379n, 380n,
135n, 192n 410n, 414n
Carile, A., 374n Chiabò, M., 153n
Carnesecchi, C., 154n Chiari, A., 93n
Carniani, A., 224n Chibnall, M., 128n
Carocci, S., 416n, 427n Chiesa, P., 376n
Caruso, E., 137n Chiffoleau, J., 100n
Casagrande, G., 139 e n, 141n, Chittolini, G., 16n, 319n, 408n,
156n, 249n, 250n 409 e n, 416 e n, 421n, 432n
Casalini, B., 86n Chon, Norman, 11 e n
Casarino, G., 66n Ciampi, I, 347n
Caspar, E., 128n Ciani, G., 57n
Cassandro, M., 138n, 194n Ciappi, S., 70n
Castagnetti, A., 349n Cicchetti, A., 353n
Castellani, A., 76n Cigni, F., 198n
Castelli, C., 11n Cipolla, C.M., 23n, 167 e n
Castiglioni, G., 263n Cipollina, G., 390n
Casula, F.C., 362n Cipriani, A., 409n
Cataldi Gallo, M., 398n Cipriani, M., 254n
Catoni, G., 8n, 343n Čistozvonov, A.N., 342 e n
Caucci von Saucken, P., 77n Classen, P., 106n
Cavaciocchi, S., 10n, 70n, 72n, Clementi, A., 363n
171n Clementi, D., 124n
Cavallo, G., 73n, 125 e n Cobb Hearnshaw Fossey, J., 92n
Cavallo, S., 253n Cocchiara, G., 13n
Cavazza, S., 57n Cocito, L., 376n, 381n
Ceccarelli, G., 385n, 400n Cognasso, F, 48n
Cecchetti, B., 74n Cohn, S.K. Jr., 8n, 143n, 153n, 342n,
Cecchi, E., 135n, 169n 343 e n, 346 e n, 349n
Cecchini, G., 71n Coleman, J., 95n, 107n
Cengarle, F., 432n Collodo, S., 75n, 370n
Cerami, V., 5 e n Comba, R., 55n, 65n, 68n, 70n, 71n,
Cerutti, F., 315n 232n, 342n
Chabod, F., 432n Condorelli, O., 74n, 110n
455
Congar, Y., 95 e n Davis, Ch.T., 18n, 428n
Congdon, E.A., 138n Dawson, J.D., 96n
Connell, W.J., 352n, 407n, 409 e n, De Angelis, L., 8n, 320n, 340 e n
415n, 416n, 417 e n, 418n, 419n, De Certeau, M., 415 e n
420 e n, 421 e n, 425n, 429n De Franceschi, C., 330n
Contamine, Ph., 73n De Giorgio, M., 418n
Contessa, M.P., 369n De Gregorio, M., 343n
Conti, E., 8n de La Ronçière, Ch.M., 13n, 18n,
Contini, A., 409n 82n, 253n, 343n, 345 e n, 347n
Contini, G., 20n de Lettenhove, K., 117n
Corradini, C., 346n De Matteis, M.C., 44n, 45n, 46n,
Corrao, P., 71n 101n, 291n
Corsi, D., 142n, 143n De Mauro, T., 86n
Cortese, D., 136n De Nava, 124n
Cortese, M.E., 411n De Paolis, V., 107n
Corti, G., 179n, 381n De Sandre (Gasparini), 232n, 234n,
Cortonesi, A., 70n 237n, 238n, 239 e n, 241 e n,
Costa, F., 93n 242n, 244n, 245n, 246n, 247n,
Costantini, V., 357n 249 e n, 250n, 254n, 257n, 258 e
Coturri, E., 366n n, 366n
Covini, M.N., 139n, 148 e n De Seta, C., 363n
Covini, N., 73n De Vergottini, G., 218n
Crabb, A., 135n De Vincentiis, A., 293n, 328 e n
Cracco, G., 246n, 361n Debenedetti, S., 74n
Craveri, M., 142n Dedola, M. 319n, 326 e n, 334n,
Crifò, G., 319n, 325, 326n 409, 410n, 415n, 422n
Cristiani, E., 202n, 203n, 205n, Degrassi, D., 20n, 47n, 57n, 66n,
206n, 209n, 313, 314 e n, 330n 67n, 69n
Cristofori, A., 4n Del Giudice, G., 119n
Croce, F., 385n Del Lucchese, F., 347n
Crouzet-Pavan, É., 15n, 16n, 17n, Del Lungo, I., 157n, 324, 325n
63n, 70n, 384n Del Prete, L., 216n
Cusato, M.F., 98n Del Punta, I., 210n, 214n
Cutinelli-Rèndina, E., 414n Del Re, G., 115n, 127n
Cutolo, A., 261n Delacroix Besnier, C., 391n
D Delaruelle, É., 111n, 236n
D’Acunto, N., 108n Delhaye, Ph., 98n, 103n
D’Amelia, M., 148n Delle Donne, R., 16n
Dal Pino, F., 232n, 236n Dentici Buccellato, R.M., 9n, 70n,
Dalena, P. 78n 71n
Dalla Santa, G., 74n Derry, Th.K., 121n
Davidsohn, R., 225n Di Carpegna Falconieri, T., 357n
456
Di Donato, F., 86n Evangelisti, S., 148n
Di Fabio, C., 397n Evans, A., 179n
Di Maggio, E., 366n
F
Di Mattia Spirito, S., 248n
Fabbri, L., 134n, 418n
di Prampero, A., 72n
Fabregas Garcia, A., 383n
Di Renzo Villata, 146n
Fabretti, A., 351n
Di Stefano, E., 166n
Faccioli, E., 119n
Diacciati, S., 314 e n
Faini, E., 303n
Diepgen, P., 117n
Fanfani, A., 119n
Dini, B., 73n, 167n, 169n
Fanti, M., 248n
Disanto, R., 46n
Fantoni, G., 373n
Dobson, R.D., 342 e n
Fasano Guarini, E., 407n, 408n,
Doglio, M.L., 131 e n
409n, 432n
Dolcini, C., 87n
Fasoli, G., 14n, 21n, 327 e n, 374 e
Dommanget, M., 342 e n
n, 375, 376 e n
Donati, C., 53n
Favier, J., 73n, 166n, 188n
Doni Garfagnini, M., 131n
Faye, E., 101n
Dubois, J., 236n
Fennell Mazzaoui, M., 55n
Duby, G., 7n, 17 e n, 44n, 64n, 82n,
Ferrante, L., 148n
250n, 263n, 406n
Ferrari, M., 137n
Duccini, A., 411n
Ferrau, G., 115n
Duemmler, E., 121n
Ferro, N., 375n
Düwel, K., 46n
Ficker, J., 203n
Dufeuil, M.M., 97n, 98n
Field, A., 343n
Duni, M. 142n
Figueira, R.C., 88n
Dupré Theseider, E., 282n, 352n
Fiorani, L., 248n
Durand, U., 97n
Firpo, M., 342n
E Firth, J.J., 103n
Easterlin, R., 2n Flamini, F., 23n
Eco, U., 415 e n Fliche, A., 110n
Eierman, J.E., 390n Flood, D., 88n
Elm, K., 95n Fonseca, C.D., 78n
Elze, R., 123 e n Fortini, L., 255n
Emden, A.B., 373n Fossi, G., 72n
Ennen, E., 120n Fourquin, G., 341 e n
Epstein, S.R., 423n Franceschi, F., 18n, 71n, 72n, 152n,
Errico, G., 23n 167n, 342n, 343n, 347n, 351n,
Esch, A., 9 e n, 12n, 17n, 144, 145n, 358n
155n, 157n Franceschini, E., 58n
Esposito, A., 11n, 139n, 140n, 143n, Francesconi, G., 410n, 411n, 412n,
151n, 152n, 156n, 249 e n, 255 e 413n, 414n, 424n
n Franchetti Pardo, V., 424n
457
Francovich, R., 366n Giorgi, A., 216n, 224n, 364n
Frangioni, L., 166n, 169n, 170n Giusberti, F., 141n
Frank, T., 249n Gnoffo, D., 121n
Friedbberg, E., 110n Gnoni Mavarelli, C., 173n
Frommel, C.L., 9n Goering, J., 98n
Frosini, G., 139n Goldschmidt, A., 125n
Frugoni, A., 418n Goldthwaite, R.A., 9n, 76n
Frugoni, C., 46n, 81n, 295n Gordon, B.J., 91n
Fryde, E.B., 342n Gorni, G., 264n, 273n
Fubini, R., 323 e n, 407n Grassi, F., 366n
Fumagalli, V., 232n, 233n Grassi, O., 239n
Greci, R., 66n, 75n, 166n, 169n
G
Green, L., 221n
Gaeta, F., 114n, 336n
Gregorio, R., 116n, 118n
Gaeta, L., 2, 3n
Gregory, H., 334n
Gagliardi, I., 23n, 25n
Grellard, Ch., 101n
Gai, L., 409 e n, 412n, 423n, 424n,
Grendi, E., 409n
425n
Grillo, P., 49n, 50n
Galasso, G., 118n, 233n
Grohmann, A., 77n
Gallo, C., 122n
Grossi, P., 87n, 95n, 100n, 102n
Galot, J., 90n
Grundman, J.P., 309n
Garbellotti, M., 256n
Grunzweig, A., 223n
Garin, E., 4n, 116n
Guadagnin, A., 11n
Garufi, C.A., 126n
Gualtieri, P., 410n
Garzella, G., 364n
Guardiani, F., 98n
Gaspar, M.G., 328n
Guarducci, A., 343n
Gatto, L., 15n
Guarducci, P., 66n
Gaudenzi, A., 14n
Guasti, C., 169n, 189, 416n
Gazzini, M., 5n, 15n, 249n, 312 e n
Guédon, J.C., 86n
Gelli, S., 412,n
Guerra, E., 350n
Gensini, S., 65n
Guerri, D., 121n
Gentile, M., 415n
Guerzoni, G., 397n
Geremek, B., 89n
Guglielminetti, M., 44n
Ghirardo, D., 149 e n
Guidi, R.L., 400n
Ghisalberti, C., 325, 326n
Guidotti, A., 8n
Giagnacovo, M., 166n
Guimbard, C., 318n
Giansante, M., 55n, 66n, 80n, 200n,
Gurevič, A.J., 11 e n, 171n
298 e n, 199n, 301 e n
Giarrizzo, G., 118n H
Gigliotti, G.C., 405n Hacke, D., 146n
Gilbert, F., 338, 432n Hagenmeyer, H. 129n
Gillet, P., 102n Haines, M., 70n
Ginatempo, M., 411n Hall Cole, M.W., 386n
458
Hamesse, J., 71n K
Haring, N.M., 111n Kedar, B.Z., 178n, 401n
Havely, N., 93n Kennedy Ray, M., 153n
Hayez, J., 166n, 167n, 253n Kent, F.W., 134n, 352 e n
Heers, J., 185n, 317, 318n, 322n, Kitzinger, E., 125n, 126n
323n, 324n, 328n, 329n, 330n, Klapisch-Zuber, Ch., 18n, 66n,
333 e n, 334 e n, 338n, 339 e n 131n, 176n, 250n, 342n, 418n
Henneman, J.B.Jr., 222n Klibanski, R., 195n
Herlihy, D., 63n, 222n, 422n, 424n, Krueger, H.C., 386n, 390n
426 e n Kuehn, T., 132n
Hilton, R., 341 e n Kuttner, S., 101n, 110n, 111n
Hinnebush, J.F., 241n L
Hocquet, J.-C., 365n, 370n La Sorsa, S., 363n
Holder-Hegger, O., 270 Laghi, A., 70n
Holmes, G., 341 e n Lambert, M., 100n
Horst, U., 98n, 99n, 100n, 104n, Lambertini, R., 95n, 100, 101n,
105n 102n, 103n
Huffmann, J.P., 88n Lamma, P, 233n
Huizinga, J., 4 e n, 116n Lanaro, P., 19n
Huygens, R.B.C., 128n Landau, 101n
Hyde, J.K., 50n, 372n Lane, F.C., 73n
I Lanfredini, R., 107n
Iacomelli, F., 412n, 424n, 427n Langholm, O., 114n
Iacometti, F., 13n, 338n Laube, A., 342n
Iannella, C., 12n, 20n, 47n, 204n, Laughran, M.A., 141n
258n Laurioux, B., 143n
Imberciadori, I., 173n Law, J.E., 343n
Imperiale di Sant’Angelo, C., Lazzari, T., 166n
268n Lazzarini, I., 416n, 418n, 425n
Inglese, G., 287n, 288n, 289n, Le Goff, J., 65n, 166n, 176n, 194n,
431n 198n, 405n
Innocenti, A., 364n Leclerq, J., 90n
Lecoy de la Marche, A., 112n
Iorio, G., 345n
Lecuppre-Desjardin, É., 284n, 384n
J Leguai, A., 342 e n
Jacobson Schutte, A., 132n Leicht, P.S., 319n
James, C. 149n Leonardi, C., 73n, 103n
Jarnut, J., 260n Lett, D., 253n
Jasinsk, B., 4n Leverotti, F., 149 e n
Jemolo, A., 99n Levi Pisetzky, R., 151n
Joanek, P., 260n Levi, G., 63n
Jones, J.D., 105n Levy, A., 253n
459
Li Gotti, E., 117n Marri Martini, L., 24n
Librandi, R., 18n Martène, E., 97n
Limentani, A., 375n Martines, L., 63n, 290n, 342n
Lisini, A., 13n, 338n Mascanzoni, L., 166n
Livi, G., 169n Maschke, E., 194n
Lombardi, G., 150n, 151n, 152n Massarenti, A., 142n
Lopez, R.S., 9n, 222n, 385n, 388n, Matthew, D., 362n
390 e n, 391n, 392n, 393n Mazzi, M.S., 65n, 149, 157n, 371n
Ludwig, K.-H., 71n Mazzini, G., 326n
Lunardi, R., 8n Mazzone, U., 137n, 143n
Lupo Gentile, M., 261n Mazzoni, V., 21n, 337n, 413n
Luzzati Laganà, F., 74n McDonnel, E.W., 89n
M McMahon, D.M., 4n
Mac Quren, D.J., 91n Medici, D., 50n, 213n, 223n
Maccarrone, M., 110n Medin, A., 350n
Macchia, G., 122n Medioli, F., 153n, 156n
Maddaloni, S., 2n Meek, Ch., 146 e n, 221n
Madia, E., 212n Meersseman, G.G., 246n, 247n
Mäkinen, V., 101n Melera-Morettini, M., 414n
Maffei, D., 145n, 157n Melis, F., 165 e n, 169n, 173, 192n
Maggiani, V., 100n Meloni, P.L., 249n
Maggini, F., 296n Melville, G., 98n
Magli, I., 140n Menant, F., 50n
Mainoni, P., 18n, 72n Mendera, M., 70n
Maiocchi, R., 376n Menestò, E., 73n, 74n
Maire Vigueur, J.-C., 15n, 70n, 72n, Menichetti, A., 20n
260n, 282n, 303n, 310n, 314, Meriggi, M., 69n
351n, 425n Merlo, G.G., 90n, 232n, 233n,
Maitte, C., 71n 234n, 235 e n, 236n, 238n, 240 e
Malandra, G., 70n n, 241n
Malanima, P., 423n Miccoli, G., 90n, 101n, 108n, 109n,
Malcangi, A., 79n 238n
Mallet, M., 72n, 349n Miethke, J., 87n, 95n
Mammoli, D., 137n, 142n Miglio, L., 132 e n, 133n
Mannori, L., 409 e n, 421 e n, 423n Miglio, M., 103n
Manrique, A., 91n Migne, J.P., 89n, 272n
Manselli, R., 108n, 109n, 111n, Milanesi, C., 81n
347n Milani, G., 21n, 24n, 264 e n, 298 e
Marangon, P., 58n n, 319n, 320n, 324n, 326, 337n,
Marcenaro, M., 397n 412 e n
Marchand, J.-C., 414n Millefiorini, P., 93n
Marchetto, G., 146n Milli, P., 255n
460
Milner, S.J., 409 e n Nader, L., 428n
Mineccia, F., 422n, 424n, 426n, Nardi, B., 45n
427n Nardi, P., 145n, 157n
Mineo, E.I., 416n Narducci, E., 47n
Mineo, N., 93n Nelli, R., 411n
Minuti, V., 428n Nemeth, G., 73n
Molà, L., 71n, 72n, 167n, 345 e n Neri, F., 374, 409 e n, 412n, 420n,
Molho, A., 153n, 154n, 319n, 355n, 421n, 422n, 425n, 427n
407n, 409n, 418n Niccoli, O., 247n
Mollat, M., 9n, 91n, 94n, 240n, Nico Ottaviani, M.G., 135n
242n, 341 e n Nicolini, U., 143n, 144n
Momigliano, A., 203n Nigro, G., 138n, 166n, 401n
Mongelli, G., 91n Nora, P., 406n
Monleone, G., 376n
Monnet, P., 319n O
Montanari, M., 51n Oexle, O.G., 319n
Montevecchi, A., 347n Ohler, N., 65n, 78n
Moran, N., 123n Olsen, G.W., 110n
Mordenti, R., 353n Orandini, C., 361n
Moreno, D., 70n Origo, I., 138n, 165 e n, 189n
Moretti, I., 424 e n Origone, S., 389n
Moriani, A., 13n Orlandi, A., 166n
Morozzo della Rocca, R., 402n Ortalli, G., 24n, 74n, 329 e n
Morsoletto, A., 247n Ostinelli, P., 147n
Moscadelli, S., 364n Ottanelli, A., 422n
Moulinier-Brogi, L., 143n Ottanelli, V., 66n
Mucciarelli, R., 8n, 21n, 224n, Ottokar, N., 313, 368 e n
327n, 328n, 412n Owen Hughes, D., 392n
Mueller, R.C., 72n, 76n, 389n, 401 P
en Pacini, G.P., 246n, 249n
Muendel, J., 374n Padoan, G., 22n
Mulder-Bakker, A.B., 133n Padoa-Schioppa, T., 166n
Mumford, L., 116n Pagliaro, A., 117n
Muraille-Samaran, C., 71n Palazzi, M., 148n
Muratori, L.A., 3 e n, 4 e n, 120n, Palermo, L., 151n, 385n
121n, 205n Pallavicino, E., 212n
Musco, A., 102n Palmero, G., 141n
Musotto, G., 102n
Pamato, L., 249n
Muzzarelli, M.G., 52n, 150n, 151n,
Panella, E., 291n
152n, 397n, 398n
Panero, F., 66n
N Panizza, L., 153n
Nada Patrone, A.M., 51n, 74n Panofsky, E., 195n
461
Pantani, L., 11n 78n, 165n, 342n, 345 e n, 349n,
Paolin, G., 153n 370n, 411n, 426n, 429 e n
Paolini, L., 239n Piovan, F., 75n
Papo, A., 73n Piovanelli, C., 8n
Paravicini Bagliani, A., 70n Pirillo, P., 8n, 49n, 55n, 199 e n,
Parenti, P., 50n, 213n, 223n 221n, 224n
Parisoli, L., 87n, 102n Piroddi, E., 363n
Parisse, M., 253n Piron, S., 87n
Passerini, G., 135n Plesner, J., 49n, 66n
Pastore, A., 69n Pocock, J.G.A., 432n
Pazzagli, C., 19n Polidori, F., 67n, 76n
Pazzaglia, M., 139n Pollaci Nuccio, F., 121n
Pazzelli, R., 158n Poloni, A., 199n, 200n, 201n, 204n,
Pellegrini, M., 366n 205n, 207n, 208n, 213n, 218n,
Pennington, K., 110n 219n, 303 e n, 304 e n, 305 e n,
Perosa, A., 10n 312 e n, 314 e n, 413n
Perrot, M., 250n Polonio, V., 388n
Pertile, A., 319n Pomata, G., 148n
Pertz, G.H., 261n Pombeni, P., 2n
Pesenti Marangon, T., 75n Pontieri, E., 120n, 126n, 128n,
Petralia, G., 409n, 422n 129n
Petrucci, A., 133n Poppi, A., 250n
Petti Balbi, G., 15n, 19n, 21n, 60n, Porena, M., 114n
72n, 73n, 74n, 75n, 76n, 171n, Porta, G., 61n, 282n, 295n, 327n,
253n, 373n, 382n, 383n, 384n, 348n, 352n, 357n, 372n
385n, 387n, 388n, 394n, 396n, Postan, M.M., 153n
397n, 398n, 401n, 402n Potestà, G.L., 95n, 101n, 106n
Peyronel, S., 148n Poulantzas, N., 285n
Pezzarosa, F., 77n Power, E., 153 e n
Pflugk-Harttung, J.V., 262n Powicke, F.M., 373n
Piattoli, R., 166n, 180n Pratesi, L., 21n
Piccinni, G., 8n, 55n, 66n, 67n, 68n, Previtali, G., 372n
140, 141n, 224n, 354 e n, 366n, Procaccioli, P., 406n
367n, 369n, 371n, 380n Prodi, P., 52n, 392n
Picone, M., 23n Prosperi, A., 257n
Piergiovanni, V., 388n Puccini, D., 49n
Pievatolo, M.C., 86n Puncuh, D., 212n, 272n, 384n,
389n
Pincelli, M.A., 325n
Puzzato, G., 119n
Pini, A.I., 5n, 15n, 52n, 74, 75n e n,
295 e n, 368n, 373n, 374n Q
Pinto, G., 13n, 51n, 55n, 65n, 66n, Quaglioni, D. 133n, 139n, 140n,
68n, 69n, 70n, 71n, 72n, 75n, 145n
462
Quintavalle, F., 376n Rossi Saccomani, A., 241n
Rossi, B., 63n
R
Rossi, L.C., 22n
Racine, P., 366n
Rossi, M.C., 246n, 253n, 256n,
Racinet, A., 119n
383n
Rashdall, H., 373n
Rota, E., 122n
Rau, R., 125n
Rovere, A., 212n, 271n
Raveggi, S., 8n, 50n, 213n, 223n,
Rusconi, R., 156n
324, 325 e n
Rutenburg, V., 19n, 165n, 342n,
Reato, E., 249n
343n
Reinert, R.G., 386n
Renan, E., 92n S
Renouard, Y., 181 e n, 194 e n Sabbatini, 103n
Revel, J., 197, 198 e n Sachur, E., 266n
Reynolds, R.L., 386n, 390n Saitta, B., 364n
Riccetti, L., 70n, 364n Salmons, J., 343n
Ricci, C., 70n Salvadori, P., 134n, 148n, 149n,
Ricciardelli, F., 318n, 319n, 321n, 417n, 420n
322n, 323n, 329n Salvemini, G., 21n, 286n
Richard, J., 77n Salvestrini, F., 389n, 409n
Ricoeur, P., 233n Sambin, P., 234n
Riedlinger, A., 86n Sandri, L., 366n, 411n
Riesenberg, P.N., 103n Sanfilippo, M., 337 e n
Rigon, A., 109n, 232n, 234n, 235n, Sangiovanni, E., 2n
236 e n, 238n, 241n Santi, B., 67n
Rinaldi, R., 166n Santi, C., 346 e n
Ritter, G.A., 2 Santi, F., 95n
Rizzo, V., 143n Santini, P., 200n
Robinson, J. 98n Santoli, Q., 201n
Rocher, D., 46n Sapegno, N., 54n
Rodolico, N., 19n, 80n, 347n, 349n, Sapori, A., 73n, 165 e n, 169n, 178n,
353n, 354n, 355n 185n, 189n, 194n
Romano, A., 136n Sassi, S., 195n
Romano, R., 116n, 118n Saxl, F., 195n
Romby, G.C., 424n Scalia, G., 63n, 331n
Romeo, R., 122n Scalisi, G., 95n
Rondet, H., 91n Scalon, C., 60n
Ronzani, M., 205n, 267n, 366n Scaraffia, L., 156n, 157n
Rosa, M., 4n Scaramella, G., 354n
Rosati, V., 135n, 168n, 169n Schiaffini, A., 180n
Rosenberg, Ch.E., 392n Schiera, P., 3, 4n, 16, 19n, 103n,
Rossetti, G., 15n, 19n, 69n, 267n, 319n, 409n, 413n
385n Schmale, F.J., 263n
463
Schmeider, B., 266n Sorbelli, A., 348n
Schmitt, C., 103n Sordini, B., 366n
Schmitt, J.-C., 63n, 145n Spinelli, F., 400n
Schmugge, L., 133n, 147n, 155n Spufford, P., 223n
Schultz, A., 126n Squillacioti, P., 288n
Schumpeter, J.A., 204 Squillante, L., 96n, 99n, 100n
Schwalm, I., 123 e n Stafford, P., 133n
Schwartz, G., 266n Stella, A., 342n, 359n, 360n
Schwartz, M.V., 94n Stiaffini, D., 76n
Schweppenstette, F., 274n, 280 e n Stone, L., 197 e n, 202n, 203n
Sciuto, I., 184n Strayer, J.R., 222n
Screpanti, E., 342n, 347n, 360 e n Stürner, W., 362n
Sebastiani, L., 156n Sumption, J., 77n
Sechehaye, A., 86n Supino Martino, P., 15n
Segre, C., 20n Sznura, F., 8n, 53n, 173n, 318n,
Seidel Menchi, S., 132 e n, 133n, 355n, 407n
139n, 140n, 145n, 146n, 158n T
Sen, A., 2 e n, 6 Tabacco, G., 264n
Senatore, E., 73n Tabarroni, A., 87n, 90n, 103n
Seneca, F., 57n, 361n Taddei, I., 15n, 63n
Sensi, M., 74n Tamba, G., 298n
Sereni, E., 116n Tamburini, F., 147n, 155n
Sergi, G., 262n Tangheroni, M., 23n, 335 e n, 340n
Sestan, E., 19n, 21n, 165n, 416n Tarabotti, A., 153n
Settia, A.A., 70n Tarassi, M., 50n, 213n, 223n
Severino, G., 62n Tarello, G., 87n
Shiels, W.J., 96n Tarozzi, C., 406n
Shogimen, T., 100n Tartaglione, G., 135n
Shorter, E., 117n Tateo, F., 124n
Sieckel, T., 262n Taviani-Carozzi, H., 406n
Sigal, P.A., 242n Tellenbach, G., 110n
Silano, G., 98n Temperini, L., 158n
Simeoni, L., 261n Tenenti, A., 349n
Simioni, G, 115n Terpstra, N., 249n, 255 e n
Siragusa, G.B., 92n, 126n Theis, P., 94n
Sismondi, J.Ch.L., 19n, 413 e n, Tillard, J.M.R., 91n
414n Tirelli, V., 219n
Sitran Rea, L., 75n Toccafondi, D., 135n
Skinner, Q., 284 e n, 286n, 289n, Todeschini, G., 12n, 20n, 24n, 54n,
432n 64n, 87 e n, 88n, 107n, 392n,
Slessarev, V., 222n 395n, 400n
Solvi, D., 103n Tognetti, S., 49
464
Tolomei, G., 350n Vergani, R., 71n
Tomasi, V., 198n Verger, J., 74n
Torelli Vignali, V., 409n Vicaire, M.H., 109n
Torelli, N.M., 144n Violante, C., 109n
Torelli, P., 21n Viroli, M., 408n, 428n, 431n
Torre, A., 420n Viscardi, A., 45n
Torrell, J.-P., 98n, 104n, 105n Viscomi, A., 2, 3n
Torri, P., 288n Vismara Chiappa, P., 91n
Tortoli, S., 72n Vivanti, C., 116n, 118n, 432n
Toubert, P., 110n Vivoli, C., 405n, 409 e n, 421 e n,
Toussaint, S., 146n 422n, 423n, 430n
Tramontana, S., 124n, 128n, 343n, Vogel, C., 103n
349n Volpe, G., 93 e n
Tranfaglia, N., 342n Volpi, G., 157n
Trasselli, C., 343n W
Traver, A.G., 98n Wainwright, V., 343n
Trexler, R.C., 153n, 154 e n, 360n Warner, L., 253n
Trifone, P. 142n Weber, M., 115
Trombetti Budriesi, A.L., 69n Weinstein, D., 347n, 429n, 431n
Troncarelli, F., 122n Weitzmann, K., 125n
Tucci, U., 75n, 194n, 349n Westwater, L.L., 153n
Turrini, P., 152n Williams, T.J., 121n
U Wolff, Ph., 341 e n
Ulmann, W., 321n Wood, D., 96n

V Y
Yante, J.-M., 71n
Valbonesi, M., 430n
Valdeón Baruque, J., 342 e n Z
Vallerani, M., 303n, 308 e n, 309, Zabbia, M., 49n, 407n
310 e n, 311, 432n Zaccagnini, G., 74n
Van Bruaene, A.-L., 284n Zangarini, A., 389n
Vannucchi, E., 427n Zanier, C., 72n
Varanini, G.M., 8n, 73n, 250n, Zanker, P., 425 e n
362n, 366n, 389n Zapperi, R., 227n
Varese, C., 10n Zarri, G., 131n, 153n, 156n, 157n
Vasoli, C., 339 e n Zecchino, O., 128n, 362n
Vatteroni, S., 288n Zerbi, P., 112n
Vauchez, A., 14n, 18n, 89n, 235n, Zimmermann, A., 97n
246 Zorzi, A., 16n, 284 e n, 291n, 293n,
Veglia, M., 94n 319n, 326 e n, 347n, 409 e n, 416
Venturi, D., 255n e n, 421n
Verdon, T., 364n
465
Indice generale

Enti Promotori — Comitato scientifico pag. II


Relatori » V
Presentazione » XI
Gabriella Piccinni, La ricerca del benessere individuale e socia-
le. Ingredienti materiali e immateriali (città italiane, XII-XV
secolo). Introduzione al convegno » 1
Donata Degrassi, Quando la società è mobile: aspirazioni al
cambiamento e possibilità di soddisfarle » 43
Isabella Gagliardi, Realizzati attraverso il rifiuto della richezza » 85
Salvatore Tramontana, Esibire la ricchezza » 113
Anna Esposito, I desideri delle donne tra nozze e convento » 131
Giovanni Cherubini, Commemorazione di Linetto Neri » 159
Paolo Nanni, Aspirazioni e malinconie: i contrasti del mercan-
te Francesco Datini » 165
Alma Poloni, Vite imprevedibili: tre storie di mercanti nella
Toscana di fine Duecento » 197
Maria Clara Rossi, La vita buona: scelte religiose di impegno nel-
la società » 231
Renato Bordone, Progetti in augmentum rei publice nell’espe-
rienza del primo comune in Italia » 259
Jean-Claude Maire Vigueur, Progetti di trasformazione della
società nei regimi di Popolo » 281
467
Duccio Balestracci, «Ingrata patria»: l’esiliato tra infelicità e
progetti di rientro » 317
Franco Franceschi, Aspirazioni e obiettivi dei rivoltosi » 341
Giovanni Cherubini, La ricerca del decoro urbano » 361
Giovanna Petti Balbi, «Accrescere, gestire, trasmettere»: per-
cezione e uso della ricchezza nel mondo mercantile genovese
(secoli XII-metà XIV) » 381
Giampaolo Francesconi, «Gentiluomini che oziosi vivono delle
rendite delle loro possessioni». Ideali e identità di una città
socia nobilis et foederata: Pistoia nello Stato fiorentino » 405
Indice dei nomi e dei luoghi » 433
Indice degli autori e dei curatori » 453
Indice generale » 467

468
PUBBLICAZIONI DEL CENTRO

atti dei convegni

Il Romanico pistoiese nei suoi rapporti con l’arte romanica dell’Occidente (Atti del I Convegno
Internazionale di Studi medioevali di Storia e d’Arte, 1964)
Mario Salmi, Prolusione — Giuseppe Marchini, La Cattedrale di Pistoia — Guido Morozzi,
Le chiese romaniche del Monte Albano — Giovanni Miccoli, Aspetti del monachesimo toscano
nel secolo XI — Raffaello Delogu, Pistoia e la Sardegna nella architettura romanica — Albino
Secchi, Restauro ai monumenti romanici pistoiesi — Wolfgang Braunfels, Tre domande a pro-
posito del problema «Vescovo e città nell’alto medioevo» — Knut Berg, Miniature pistoiesi del
XII secolo — Roberto Salvini, La scultura romanica pistoiese — Jean Hubert, La crypte de
Saint-Jean-de-Maurienne et l’expansion de l’art lombard en France — Maria Pia Puccinelli, La
viabilità nel Contado Pistoiese in rapporto con i monumenti romanici — Sabatino Ferrali, Pievi
e parrocchie nel territorio pistoiese — Piero Sanpaolesi, I rapporti artistici tra Pistoia ed altri cen-
tri in relazione alla civiltà artistica romanica — Cinzio Violante - Cosimo Damiano Fonseca,
Ubicazione e dedicazione delle cattedrali dalle origini al periodo romanico nelle città dell’Italia
centro-settentrionale — Ugo Procacci, La pittura romanica pistoiese — Giulia Brunetti, Indagini
e problemi intorno al pulpito di Guido da Como in S. Bartolomeo a Pistoia — Emilio Cristiani,
Discorso di chiusura.
Il Gotico a Pistoia nei suoi rapporti con l’arte gotica italiana (Atti del II Convegno Internazionale
di Studi, 1966) (Esaurito)
Mario Salmi, Prolusione — Armando Sapori, I mercanti e le compagnie mercantili e bancarie
toscane fino ai primi del Quattrocento — Laura Becciani, La rocca di Montemurlo — Gerard
Gilles Meersermann, Origini del tipo di chiesa umbro-toscano degli Ordini mendicanti — Ulrich
Middeldorf, Gli inizi figurativi del Gotico a Pistoia — Albino Secchi, La cappella di S. Jacopo a
Pistoia e la «Sacrestia dei belli arredi» — Natale Rauty, Le finestre a crociera del palazzo Panciatichi
a Pistoia — Albino Secchi, Il tetto di San Francesco di Pistoia e la policromia decorativa del XIV
sec. — Emilio Cristiani, Note sui rapporti tra il Comune e il contado di Pistoia nel corso del
secolo XIII — Zoltan Kádár, Il nuovo senso della natura nella scultura di Giovanni Pisano —
Giuseppe Marchini, L’altare argenteo di S. Iacopo e l’oreficeria gotica a Pistoia — Enzo Carli,
Scultori senesi a Pistoia — Cesare Gnudi, Il pulpito di Giovanni Pisano a Pistoia — Sabatino
Ferrali, L’ordine ospitaliero di S. Antonio Abate o del Tau e la sua casa a Pistoia — Ugo Procacci,
Gli affreschi della chiesa del Tau e la pittura a Pistoia nella seconda metà del sec. XIV — Guido
Morozzi, Caratteri stilistici e restauro del Palazzo di Giano — Maria Maddalena Gauthier, L’art
de l’émail champlevé à l’époque primitive du gothique — Mario Salmi, Due note pistoiesi: I. Il
fonte battesimale e il San Giovanni di Pistoia; II. Il «Compianto» dell’Ospedale del Ceppo —
Marco Chiarini, Oggetti gotici d’arte minore e il futuro Museo diocesano di Pistoia — Raffaello
Melani, Pistoia ed i pistoiesi nel canto XXIV dell’Inferno — Mario Apollonio, Dante: figurativi-
tà gotica e drammaticità romanica ed umanistica della «Commedia».
Le zecche minori toscane fino al XIV secolo (Atti del III Convegno Internazionale di Studi,
1967)
Mario Salmi, Parole di apertura — Federico Melis, L’economia delle città minori della Toscana —
Jean Lafaurie, Le trésor carolingien de Sarzana-Luni — Antonio Bertino, La monetazione
altomedievale di Luni — Giovanni Gorini, Osservazioni preliminari per lo studio dei rapporti tra
l’area monetale toscana e quella veneta nei secoli XIII e XIV — Gian Guido Belloni, La zecca di
Lucca dalle origini a Carlo Magno — Enrico Coturri, Note e documenti relativi ad alcune monete
lucchesi del secolo XIV — Antonio Del Mancino, La zecca di Siena al tempo del governo dei Nove
(1292-1355) — Franco Panvini Rosati, La monetazione delle zecche minori toscane nel periodo
comunale — Mario Bernocchi, Una originale manifestazione della zecca di Prato 1336-1343 —
Carlo Meloni, Sui due bianchi di Pisa attribuiti alla zecca di Villa di Chiesa — David Herlihy,
Pisan coinage and the monetary history of Tuscany, 1150-1250 — Emilio Cristiani, Problemi di
datazione delle monete comunali pisane — Franco Panvini Rosati, Discorso di chiusura.
Il Restauro delle opere d’arte (Atti del IV Convegno Internazionale di Studi, 1968)
Emilio Cristiani, Presentazione — Mario Salmi, Prolusione — Pietro Gazzola, L’opera
dell’UNESCO per la salvaguardia dei monumenti e delle opere d’arte (beni culturali) — Ugo
Procacci, Le tecniche ed il restauro degli affreschi — Ugo Procacci, Le tecniche ed il restauro
dei dipinti su tavola e su tela — Pasquale Rotondi, Azione e responsabilità dello Stato nel
campo del restauro — Guglielmo De Angelis d’Ossat, Il restauro dei monumenti ieri ed oggi —
Francesco Nicosia, Problemi del restauro archeologico — Rosario Jurlaro, Conservazione delle
pitture rupestri in Puglia — Lidia Bianchi, Conservazione e restauro dei disegni e delle stampe —
Emerenziana Vaccaro, Tecniche del restauro dei codici miniati e dei manoscritti — Luciano Berti,
Il restauro delle sculture — Carlo Muttinelli, La conservazione delle armi e degli oggetti metallici
longobardi — Lidia Becherucci, Problemi di museologia — Giuseppe Marchini, Il restauro
degli oggetti delle arti minori — Marie Madeleine Gauthier, Antichi ripristini e restauri moderni
su smalti e oreficerie medioevali — Enzo Carli, Relazione sulla attività della Soprintendenza ai
Monumenti e Gallerie di Siena — Guido Morozzi, Problemi ed attività relativi al restauro dei
monumenti — Albino Secchi, Restauro di monumenti a Pistoia ed Arezzo — Juan Bassegoda
Nonell, Restauro di un’opera di Gaudí — Ubaldo Lumini, Immagini storico-tecniche sul dissesto
della Torre di Pisa.
Egemonia fiorentina ed autonomie locali nella Toscana nord-occidentale del primo Rinascimento:
vita, arte, cultura (Atti del VII Convegno Internazionale di Studi, 1975)
Emilio Cristiani, Presentazione — Mario Salmi, Discorso inaugurale — Giorgio Chittolini, La
formazione dello stato regionale e le istituzioni del contado: ricerche sull’ordinamento territoria-
le del dominio fiorentino agli inizi del secolo XV — David Herlihy, Le relazioni economiche di
Firenze con le città soggette nel secolo XV — Riccardo Fubini, Antonio Ivani da Sarzana: un teo-
rizzatore del declino delle autonomie comunali — Ezzelinda Altieri Magliozzi, Istituzioni comu-
nali a Pistoia prima e dopo l’inizio della dominazione fiorentina — Francesco Negri Arnoldi, Il
monumento sepolcrale del Card. Niccolò Forteguerri in Santa Cecilia a Roma e il suo cenotafio
nella Cattedrale di Pistoia — Ugo Procacci, Il pittore pistoiese Bartolommeo di Andrea Bocchi —
Francesco Negri Arnoldi, Matteo Civitali, scultore lucchese — Luisa Cogliati Arano, Influssi
toscani sulla scultura padana: Maffiolo da Carrara — Guido Pampaloni, Ricordo di Federigo
Melis — Sabatino Ferrali, “Omelia in memoria di Federigo Melis” — Lucia Gai, Rapporti fra
l’ambiente artistico pistoiese e fiorentino alla fine del Trecento ed ai primi anni del Quattrocento:
riesame di un problema critico — Enzo Carli, Il pittore Gerino da Pistoia — Sabatino Ferrali,
Rapporti religiosi ed ecclesiastici tra Pistoia e Firenze nel secolo XV — Giancarlo Savino, Libri
ed amici di Sozomeno da Pistoia negli anni del Concilio di Costanza — Enrico Coturri, La me-
dicina a Firenze nel Quattrocento e i suoi riflessi nelle altre città della Toscana settentrionale —
Gino Arrighi, La matematica nella Toscana nord-occidentale nei secoli XII-XV — Alessandro
Gambuti, L’architettura del primo Rinascimento nella Toscana nord-occidentale: influssi fiorenti-
ni e caratteristiche locali — Francesco Guerrieri, Cultura architettonica del primo Rinascimento
in territorio pratese — Giuseppe Marchini, Castelli, fortezze e ville del primo Rinascimento nel-
la Toscana del Nord — Michele Luzzati, Politica di salvaguardia dell’autonomia lucchese nel-
la seconda metà del secolo XV — Guglielmo Lera, Forme associative, condizioni economiche e
sensibilità artistica di alcuni paesi della campagna lucchese nel primo Rinascimento — Emilio
Cristiani, Discorso di chiusura.
Civiltà ed economia agricola in Toscana nei secc. XIII-XV: problemi della vita delle campagne
nel Tardo Medioevo (Atti dell’VIII Convegno Internazionale di Studi, 1977)
Emilio Cristiani, Presentazione — Raffaello Melani, La vita dei campi e il contadino nella Divina
Commedia — Christian Bec, Le paysan dans la nouvelle toscane (1350-1430) — Alessandro
Guidotti, Agricoltura e vita agricola nell’arte toscana del Tre e Quattrocento (di alcune miniature
fiorentine e senesi del XV secolo) — Giovanni Cherubini, Risorse, paesaggio ed utilizzazione
agricola del territorio della Toscana sud-occidentale nei secoli XIV-XV — Charles de la Roncière,
Solidarités familiales et lignagères dans la campagne toscane au XIV s.: l’exemple d’un village de
Valdelsa (1280-1350) — Christiane Klapisch-Zuber, Mezzadria e insediamenti rurali alla fine del
Medio Evo — Maria Serena Mazzi - Sergio Raveggi, Masserizie contadine nella prima metà del
Quattrocento: alcuni esempi del territorio fiorentino e pistoiese — Laura De Angelis, Tecniche di
coltura agraria e attrezzi agricoli alla fine del Medioevo — Giuliano Pinto, Coltura e produzione
dei cereali in Toscana nei secoli XIII-XV — Riccardo Francovich, Il contributo dell’archeologia
medievale alla storia della cultura materiale e dell’insediamento nella Toscana basso medievale —
Fabio Redi, Opere di bonifica dei terreni agricoli nel territorio pisano-lucchese a cavallo fra i secc.
XIII e XV — Natale Rauty, Intervento del Comune nel controllo delle misure a Pistoia (secoli
XII-XV) — Gino Arrighi, Fra’ Leonardo da Pistoia trattatista di «geometria pratica» — David
Herlihy, The problem of the «return to the land» in Tuscan economic history of the fourteenth
and fifteenth centuries — Emilio Cristiani, Discorso di chiusura.
Università e società nei secoli XII-XVI (Atti del IX Convegno Internazionale di Studi, 1979)
Emilio Cristiani, Presentazione — Gina Fasoli, Rapporti tra le città e gli «Studia» — Johannes
Fried, Vermögensbildung der Bologneser Juristen im 12 und 13 Jahrhundert — Manlio Bellomo,
Studenti e «Populus» nelle città universitarie italiane dal secolo XII al XIV — Girolamo Arnaldi,
Fondazione e rifondazioni dello Studio di Napoli in età sveva — Gino Arrighi, La matematica
fra bottega d’abaco e Studio in Toscana nel Medio Evo — Giuliano Catoni, Il Comune di Siena e
l’amministrazione della Sapienza nel sec. XV — Enrico Coturri, L’insegnamento dell’anatomia
nelle università medioevali — Jacques Verger, Les rapports entre Universités italiennes et
Universités françaises méridionales (XIIe-XVe siècles) — Walter Steffen, Il potere studentesco
a Bologna nei secoli XIII e XIV — Ennio Cortese, Legisti, canonisti e feudisti: la formazione di
un ceto medievale — Rodolfo Del Gratta, Spigolature storiche sull’Università di Pisa nel 1400
e 1500 — Giovanni Santini, Università e società a Modena tra il XII e il XIII secolo — Paolo
Sambin, Giuristi padovani del Quattrocento tra attività universitaria e attività pubblica. I. Paolo
d’Arezzo († 1433) e i suoi libri — Jean Leclerq, Lo sviluppo dell’atteggiamento critico degli allievi
verso i maestri dal X al XIII secolo — Renzo Grandi, Le tombe dei dottori bolognesi: ideologia
e cultura — Stefano Zamponi, Manoscritti con indicazioni di pecia nell’Archivio Capitolare
di Pistoia — Alessandro Conti, Appunti sulla miniatura nei codici giuridici del Duecento a
Bologna — Armando F. Verde, Vita universitaria nello Studio della Repubblica fiorentina alla
fine del Quattrocento — Tiziana Pesente, Generi e pubblico della letteratura medica padovana
nel Tre e Quattrocento — Maria Carla Zorzoli, Interventi dei Duchi e del Senato di Milano per
l’Università di Pavia (secoli XV-XVI).
Artigiani e salariati: il mondo del lavoro nell’Italia dei secoli XII-XV (Atti del X Convegno
Internazionale di Studi, 1981)
Emilio Cristiani, Presentazione — Giovanni Cherubini, I lavoratori nell’Italia dei secoli XIII-
XV: considerazioni storiografiche e prospettive di ricerca — Bruno Dini, I lavoratori dell’Arte del-
la Lana a Firenze nel XIV e XV secolo — Giuliano Pinto, L’organizzazione del lavoro nei cantieri
edili (Italia centro-settentrionale) — Laura Balletto, I lavoratori nei cantieri navali (Liguria, secc.
XII-XV) — Marco Tangheroni, La vita a bordo delle navi — Antonio Ivan Pini, La ripartizio-
ne topografica degli artigiani a Bologna nel 1294: un esempio di demografia sociale — Lucia Gai,
Artigiani e artisti nella società pistoiese del basso Medioevo. Spunti per una ricerca — Amleto
Spicciani, Solidarietà, previdenza e assistenza per gli artigiani nell’Italia nell’Italia medioeva-
le (secoli XII-XV) — Duccio Balestracci, I lavoratori poveri e i «disciplinati» senesi. Una forma
di assistenza alla fine del Quattrocento — Rosa Maria Dentici Buccellato, Lavoro e salari nella
Sicilia del Quattrocento (la terra e il mare) — Odile Redon, Images des travailleurs dans les nou-
velles toscanes des XIVe et XVe siècles — Emilio Cristiani, Artigiani e salariati nelle prescrizioni
statutarie — Francesco Gandolfo, Lavoro e lavoratori nelle fonti artistiche.
Tecnica e società nell’Italia dei secoli XII-XVI (Atti dell’XI Convegno Internazionale di Studi,
1984)
Emilio Cristiani, Presentazione — Antonio Ivan Pini, Energia e industria tra Sàvena e Reno: i
mulini idraulici bolognesi tra XI e XV secolo — Riccardo Berretti - Egidio Iacopi, I molini ad
acqua di Valleriana — Renzo Sabbatini, La produzione della carta dal XIII al XVI secolo: strut-
ture, tecniche, maestri cartai — Leandro Perini, Stamperie quattrocentesche: vocabolario, tecni-
che e rapporti giuridici — Walter Endrei, Rouet italien et métier de Flandre à tisser au large —
Bruno Dini, Una manifattura di battiloro nel Quattrocento — Angela Ghinato, Tecnica e socie-
tà nell’Italia dei secoli XII-XVI. Tecniche e organizzazione del lavoro nell’arazzeria a Ferrara al-
l’epoca di Borso d’Este — Natale Rauty, Tecniche di costruzione e di cantiere nell’antico palaz-
zo dei Vescovi di Pistoia (secoli XI-XIV) — Gino Arrighi, Nozioni ad uso degli architetti del
basso Medio Evo — Maureen Fennel Mazzaoui, La diffusione delle tecniche tessili del coto-
ne nell’Italia dei secoli XII-XVI — M.E. Bratchel, The Silk Industry of Lucca in the Fifteenth
Century — Luciana Frangioni, La tecnica di lavorazione dei bacinetti: un esempio avignone-
se del 1379 — Enrico Coturri, Gli strumenti chirurgici nel medioevo e la loro fabbricazione —
Emanuela Guidoboni, «Delli rimedi contra terremoti per la sicurezza degli edifici»: la casa anti-
sismica di Pirro Ligorio (sec. XVI) — Francesco Guerrieri, Considerazioni sulle tecniche del can-
tiere edilizio medievale — Ugo Procacci, I colori e la tecnica pittorica.
Città e servizi sociali nell’Italia dei secoli XII-XV (Atti del XII Convegno Internazionale di
Studi, 1987) (Esaurito)
Emilio Cristiani, Presentazione — Henri Bresc, Ecole et services sociaux dans les cités et les «ter-
res» siciliennes (XIIIe-XVe siècles) — Giovanna Petti Balbi, Istituzioni cittadine e servizi scola-
stici nell’Italia centro-settentrionale tra XIII e XV secolo — Anna Maria Nada Patrone, «Super
providendo bonum et sufficientem magistrum scholarum». L’organizzazione scolastica delle cit-
tà nel tardo medioevo — Francesca Luzzati Laganà, Un maestro di scuola toscano del Duecento:
Mino da Colle di Valdelsa — Giuliana Albini, L’assistenza all’infanzia nelle città dell’Italia pa-
dana (secoli XIII-XV) — Gian Maria Varanini - Giuseppina De Sandre Gasparini, Gli ospeda-
li dei «malsani» nella società veneta del XII-XIII secolo. Tra assistenza e disciplinamento urba-
no. I. L’iniziativa pubblica e privata. II. Organizzazione, uomini e società: due casi a confronto —
Mauro Ronzani, Nascita e affermazione di un grande «hospitale» cittadino: lo Spedale Nuovo di
Pisa dal 1257 alla metà del Trecento — Lucia Sandri, Aspetti dell’assistenza ospedaliera a Firenze
nel XV secolo — Enrico Coturri, Spedali della città e del contado a Pistoia nel medioevo — Irma
Naso, L’assistenza sanitaria negli ultimi secoli del medioevo. I medici «condotti» delle comuni-
tà piemontesi — Gabriella Piccinni, L’ospedale di Santa Maria della Scala di Siena. Note sulle
origini dell’assistenza sanitaria in Toscana (XIV-XV secolo) — Anna Benvenuti Papi, «In domo
bighittarum seu viduarum». Pubblica assistenza e marginalità femminile nella Firenze medieva-
le — Pierre Racine, Il sistema ospedaliero lombardo (secoli XII-XV) — Silvana Collodo, Il siste-
ma annonario delle città venete: da pubblica utilità a servizio sociale (secoli XIII-XVI) — Duccio
Balestracci, La lotta contro il fuoco (XIII-XVI secolo) — Roberto Greci, Il problema dello smal-
timento dei rifiuti nei centri urbani dell’Italia medievale — Maria Serena Mazzi, Un «dilettoso
luogo»: l’organizzazione della prostituzione nel tardo Medioevo — Halina Manikowska, Il con-
trollo sulle città. Le istituzioni dell’ordine pubblico nelle città italiane dei secoli XIV e XV.
Italia 1350-1450: tra crisi, trasformazione, sviluppo (Atti del XIII Convegno Internazionale
di Studi, 1991) (Esaurito)
Giovanni Cherubini, Presentazione — Emilio Cristiani, Introduzione — Antonio Ivan Pini,
La demografia italiana dalla Peste Nera alla metà del Quattrocento: bilancio di studi e proble-
mi di ricerca — Maria Ginatempo, Dietro un’eclissi: considerazioni su alcune città minori del-
l’Italia centrale — Silvana Collodo, Governanti e governati. Aspetti dell’esperienza politica nel-
le città dell’Italia centro-settentrionale — Giovanna Petti Balbi, Dinamiche sociali ed esperien-
ze istituzionali a Genova tra Tre e Quattrocento — Francesco Tateo, Le trasformazioni del gu-
sto letterario — Bruno Dini, L’evoluzione del commercio e della banca nelle città dell’Italia cen-
tro-settentrionale dal 1350 al 1450 — Alberto Cipriani, Economia e società a Pistoia tra metà
Trecento e metà Quattrocento — Anthony Molho, Tre città-stato e i loro debiti pubblici. Quesiti
e ipotesi sulla storia di Firenze, Genova e Venezia — Reinhold C. Mueller, Il circolante manipo-
lato: l’impatto di imitazione, contraffazione e tosatura di monete a Venezia nel tardo Medioevo —
Gabriella Piccinni, L’evoluzione della rendita fondiaria in Italia: 1350-1450 — Donata Degrassi,
Il Friuli tra continuità e cambiamento: aspetti economico-sociali e istituzionali — Giovanni
Vitolo, Il Mezzogiorno tra crisi e trasformazione. Secoli XIV-XV — Henri Bresc, Changer pour
durer: la noblesse en Sicile 1380-1450 — Rosa Maria Dentici Buccellato, Centri demaniali e cen-
tri feudali: due esempi siciliani — Marco Tangheroni, La Sardegna tra Tre e Quattrocento —
Giorgio Cracco, Aspetti della religiosità italiana del Tre-Quattrocento: costanti e mutamenti —
Maria Laura Cristiani Testi, Il «Trionfo della Morte» nel Camposanto monumentale di Pisa – e
la cultura artistica letteraria religiosa di metà Trecento — Andrea Zorzi, Ordine pubblico e am-
ministrazione della giustizia nelle formazioni politiche toscane tra Tre e Quattrocento — Ovidio
Capitani, L’etica economica: considerazioni e riconsiderazioni di un vecchio studioso — Giuliano
Pinto, Conclusioni.
Il senso della storia nella cultura medievale italiana (1110-1350) (Atti del XIV Convegno
Internazionale di Studi, 1993)
Giovanni Cherubini, Presentazione — Massimo Oldoni, Sentimento del tempo e del silenzio
d’un medioevo italiano. Introduzione a «Il senso della storia nella cultura medievale italiana
(1110-1350)» — Maria Consiglia De Matteis, Il senso della storia in Dante — Giovanna Petti
Balbi, Il presente e il senso della storia in Caffaro e nei suoi continuatori — Sante Bortolami,
Da Rolandino al Mussato: tensioni ideali e senso della storia nella storiografia padovana di tra-
dizione «repubblicana» — Augusto Vasina, Le cronache emiliane e romagnole: dal Tolosano a
Riccobaldo (secoli XII-XIV) — Giuseppe Scalia, Annalistica e poesia epico-storica pisana nel se-
colo XII — Giuseppe Porta, La costruzione della storia in Giovanni Villani — Natale Rauty,
Le «Storie pistoresi» — Agostino Paravicini Bagliani, Le biografie papali duecentesche e il sen-
so della storia — Massimo Miglio, Anonimo romano — Salvatore Tramontana, Il senso del-
la storia e del quotidiano nelle parole e nelle immagini dei cronisti normanni e svevi — Anna
Benvenuti, «Secondo che raccontano le storie»: il mito delle origini cittadine nella Firenze co-
munale — Paolo Golinelli, L’agiografia cittadina: dall’autocoscienza all’autorappresentazio-
ne (sec. IX-XII; Italia settentrionale) — Franco Cardini, Le crociate nella memoria storica —
Grado G. Merlo, Coscienza storica della presenza ereticale nell’Italia degli inizi del Duecento —
Paolo Cammarosano, I «libri iurium» e la memoria storica delle città comunali — Pierre Racine,
Mythes et mémoires dans les familles nobles de Plaisance — Giancarlo Andenna, La storia con-
temporanea in età comunale: l’esecrazione degli avversari e l’esaltazione della signoria nel lin-
guaggio figurativo. L’esempio bresciano — Lucia Gai, La memoria storica e le sue immagini nel-
la civiltà comunale di Pistoia: alcuni esempi dei secoli XII e XIII — Carlo Delcorno, «Antico» e
«moderno» nella predicazione medievale — Cesare Vasoli, La storia nella meditazione filosofica,
da Alberto Magno a Marsilio da Padova — Pierre Toubert, Conclusions — Giovanni Cherubini,
Alfredo Bonzi non è più con noi.
Magnati e popolani nell’Italia comunale (Atti del XV Convegno Internazionale di Studi,
1995)
Giovanni Cherubini, Presentazione — Jean-Claude Maire Vigueur, Il problema storiografico:
Firenze come modello (e mito) di regime popolare — Paolo Cammarosano, Il ricambio e l’evolu-
zione dei ceti dirigenti nel corso del XIII secolo — Sante Bortolami, Le forme «societarie» di or-
ganizzazione del popolo — Aldo A. Settia, I luoghi e le tecniche dello scontro — Antonio Rigon,
Il ruolo delle chiese locali nelle lotte tra magnati e popolani — Andrea Giorgi, Il conflitto ma-
gnati/popolani nelle campagne: il caso senese — Sandro Carocci, Comuni, nobiltà e papato nel
Lazio — Giovanna Petti Balbi, Magnati e popolani in area ligure — Christiane Klapisch-Zuber,
Vrais et faux magnats. L’application des Ordonnances de Justice au XIVe siècle — Gabriella
Garzella, L’edilizia pubblica comunale in Toscana — Silvana Collodo, Ceti e cittadinanze nei co-
muni della pianura veneta durante il secolo XIII — Pierre Racine, Le «popolo» à Plaisance: du
régime «populaire» à la Seigneurie — Antonio Ivan Pini, Magnati e popolani a Bologna nella se-
conda metà del XIII secolo — Renato Bordone, Magnati e popolani in area piemontese, con par-
ticolare riguardo al caso di Asti — Alberto Cipriani, Gli affari sono affari: le grandi famiglie pi-
stoiesi tra potere economico e potere politico — Giovanni Cherubini, Parole di saluto.
Gli spazi economici della Chiesa nell’Occidente mediterraneo (secoli XII-metà XIV) (Atti del
XVI Convegno Internazionale di Studi, 1997)
Giovanni Cherubini, Presentazione — Paolo Cammarosano, Il ruolo della proprietà ecclesiastica
nella vita economica e sociale del medioevo europeo — Agostino Paravicini Bagliani, Per una sto-
ria economica e finanziaria della corte papale preavignonese — Bruno Dini, I mercanti-banchieri
e la Sede apostolica (XIII - prima metà del XIV secolo) — Luisa Chiappa Mauri, L’economia ci-
stercense tra normativa e prassi. Alcune riflessioni — Alfio Cortonesi, Contrattualistica agraria e
proprietà ecclesiastica (metà sec. XII - inizi sec. XIV). Qualche osservazione — Etienne Hubert,
Propriété ecclésiastique et croissance urbaine (à propos de l’Italie centro-septentrionale, XIIe-dé-
but du XIVe siècle) — Antonio Ivan Pini, Proprietà vescovili e comune di Bologna fra XII e XIII
secolo — Francesco Panero, I vescovadi subalpini: trasformazioni e gestione della grande pro-
prietà fondiaria nei secoli XII-XIII — Valeria Polonio, Gli spazi economici della Chiesa geno-
vese — Vincenzo D’Alessandro, Il ruolo economico e sociale della Chiesa in Sicilia dalla rina-
scita normanna all’età aragonese — Gian Maria Varanini, Gli spazi economici e politici di una
Chiesa vescovile: assestamento e crisi nel principato di Trento fra fine XII e inizi XIV sec. —
Gianfranco Pasquali, Le «concordiae» tra chierici e laici nei comuni di Ravenna e Modena alla
fine del XII secolo — Charles Marie de la Roncière, Condizioni economiche del clero parrocchia-
le, rurale e urbano, nell’Europa meridionale, XII-XV secoli (osservazioni da lavori recenti) —
Juan Carrasco Pérez, Espacios económicos de la Iglesia en el Reino de Navarra (1134-1328) —
José Ángel García De Cortázar, Reconquista, economía e Iglesia en Castilla en los siglos XII
y XIII — Lorenzo Paolini, Le finanze dell’Inquisizione in Italia (XIII-XIV sec.) — Wilhelm
Kurze, Accenni sugli aspetti economici dei monasteri toscani — Amleto Spicciani, L’ospedale di
Altopascio nella Lucchesia del secolo XII. Donazioni, acquisti e prestiti — Renzo Nelli, La pro-
prietà ecclesiastica in città e nelle campagne pistoiesi — Adriano Peroni, «Opera», cantieri, archi-
tetti nelle cattedrali dell’Italia centrosettentrionale: qualche spunto per la ricerca.
Vescovo e città nell’alto Medioevo: quadri generali e realtà toscane (Atti del Convegno
Internazionale di Studi, in collaborazione con la Società Pistoiese di Storia Patria, a
cura di Giampaolo Francesconi, 1998)
Giovanni Cherubini - Giuliano Pinto, Premessa — Giuseppe Sergi, Poteri temporali del ve-
scovo: il problema storiografico — Annamaria Ambrosioni, Vescovo e città nell’alto Medioevo:
l’Italia settentrionale — Natale Rauty, Poteri civili del vescovo a Pistoia fino all’età comunale —
Raffaele Savigni, Episcopato, capitolo cattedrale e società cittadina a Lucca nei secoli X-XI —
Mauro Ronzani, Vescovi e città a Pisa nei secoli X e XI — Maria Luisa Ceccarelli Lemut, I rap-
porti tra vescovo e città a Volterra fino alla metà dell’XI secolo — Paolo Pirillo, Firenze: il ve-
scovo e la città nell’Alto Medioevo — Anna Benvenuti, Fiesole: una diocesi tra smembramenti e
rapine — Jean Pierre Delumeau, Vescovi e città ad Arezzo dal periodo carolingio al sorgere del
Comune (secoli IX-XII) — Michele Pellegrini, “Sancta pastoralis dignitas”. Poteri, funzioni e pre-
stigio dei vescovi a Siena nell’altomedioevo — Gabriella Garzella, Vescovo e città nella diocesi
di Populonia-Massa Marittima fino al XII secolo — Wilhelm Kurze, Roselle – Sovana — Mario
Marrocchi, Chiusi e i suoi vescovi (secc. VII-XI). Prospettive di ricerca.
Ceti, modelli, comportamenti nella società medievale (secoli XIII-metà XIV) (Atti del XVII
Convegno Internazionale di Studi, 1999)
Giovanni Cherubini, Presentazione — Giovanna Petti Balbi, Il mercante — Attilio Bartoli
Langeli, Il notaio — Cecilia Iannella, La predicazione: il caso di Giordano da Pisa — Antonio
Rigon, Il clero curato — Jean-Claude Maire Vigueur, L’ufficiale forestiero — Aldo A. Settia,
«Viriliter et competenter»: l’uomo di guerra — Antonio Ivan Pini, Il mondo universitario:
professori, studenti, bidelli — Donata Degrassi, Gli artigiani nell’Italia comunale — Franco
Franceschi, I salariati — Gabriella Piccinni, Contadini e proprietari nell’Italia comunale: model-
li e comportamenti — Alessandro Barbero, I modelli aristocratici — Daniela Romagnoli, Le buo-
ne maniere — Odile Redon, Les métiers de cuisinier — Salvatore Tramontana, L’iconografia —
Carlo Delcorno, Forme dell’exemplum in Italia — Giovanni Cherubini, Ceti, modelli, compor-
tamenti nel Decameron — Giuliano Pinto, Parole di saluto.
Le città del Mediterraneo all’apogeo dello sviluppo medievale: aspetti economici e sociali (Atti
del XVIII Convegno Internazionale di Studi, 2001)
Giovanni Cherubini, Presentazione — Michel Balard, Costantinopoli e le città pontiche al-
l’apogeo del Medioevo — Tomislav Raukar, Le città della Dalmazia nel XIII e XIV secolo —
Elisabeth Crouzet-Pavan, Venise et ses apogées: problèmes de définition — Egidio Ivetic,
Le città dell’Istria (1260-1330) — Gian Maria Varanini, Le città della Marca Trevigiana fra
Duecento e Trecento. Economia e società — Patrizia Mainoni, La fisionomia economica del-
le città lombarde dalla fine del Duecento alla prima metà del Trecento. Materiali per un con-
fronto — Roberto Greci, Le città emiliano-romagnole — Giuliano Pinto, Le città umbro-mar-
chigiane — Ivana Ait, Roma: una città in crescita tra strutture feudali e dinamiche di merca-
to — Giovanni Cherubini, Le città della Toscana — Alberto Cipriani, Pistoia fra la metà del
Duecento e la Peste Nera — Giovanna Petti Balbi, Genova — Louis Stouff, Les grandes villes
de Languedoc et de Provence au temps de l’apogée médiéval — J. Ángel Sesma Muñoz, Las ciu-
dades de Aragón y Cataluña interior: población y flujos económicos (1150-1350) — Antonio
Collantes de Terán Sánchez, Las ciudades de Andalucía — David Jacoby, L’apogeo di Acri nel
Medioevo, secc. XII-XIII — Giovanni Cherubini, Ricordo di Antonio Ivan Pini.
La trasmissione dei saperi nel Medioevo (secoli XII-XV) (Atti del XIX Convegno Internazionale
di Studi, 2003)
Giovanni Cherubini, Presentazione — Giuliano Pinto, La trasmissione delle pratiche agricole —
Aldo A. Settia, Esperienza e dottrina nel mestiere delle armi — Donata Degrassi, La trasmissio-
ne dei saperi: le botteghe artigiane — Giovanna Petti Balbi, Tra scuola e bottega: la trasmissio-
ne delle pratiche mercantili — Ugo Tucci, La trasmissione del mestiere del marinaio a Venezia
nel Medioevo — Irma Naso, Forme di trasmissione del sapere medico tra dottrina ed esperien-
za empirica nel tardo medioevo — Giuseppe Palmero, Pratiche e cultura terapeutica alla fine del
Medioevo, tra oralità e produzioni scritte — Philippe Bernardi, Métier et mystère: l’enseigne-
ment des «secrets de l’art» chez les bâtisseurs à la fin du Moyen Âge — Gabriella Piccinni, La
trasmissione dei saperi delle donne — Marco Collareta, La pittura — Maria Serena Mazzi, L’arte
di arrangiarsi — Elisabeth Crouzet-Pavan, Le verre vénitien: les savoirs au travail — Philippe
Braunstein, Imparare il tedesco a Venezia intorno al 1420 — Anna Benvenuti, Le conoscenze re-
ligiose dei fedeli — Franco Franceschi, La grande manifattura tessile — Giovanni Cherubini,
Divagazioni conclusive.
Tra economia e politica: le corporazioni nell’Europa medievale (Atti del XX Convegno
Internazionale di Studi, 2005)
Giovanni Cherubini, Presentazione — Giovanni Cherubini, Itroduzione — Duccio Balestracci,
Le città dell’Italia centrale — Elisabeth Crouzet-Pavan, Problématique des arts à Venise à la
fin du Moyen Age — Roberto Greci, Le corporazioni dell’Italia settentrionale — Salvatore
Tramontana − Carmela M. Rugolo, Le città dell’Italia meridionale — Arnaldo Sousa Melo,
Les metiers en ville au Portugal (XIIIe-XVe siècles) — Juan Ignacio Ruiz de la Peña Solar,
Solidaridades profesionales en las ciudades de la Corona de Castilla. Las cofradías de marean-
tes — José Ángel Sesma Muñoz, L’organizzazione del mondo urbano e le corporazioni nella
Corona d’Aragona (XIII secolo) — Marc Boone, «Les anciennes démocraties des Pays-Bas?».
Les corporations flamandes au bas Moyen Age (XIVe-XVIe siècles): intérêts économiques, en-
jeux politiques et identités urbaines — Knut Schulz, Le città tedesche: lo sviluppo dalle con-
fraternite e corporazioni alle «politische Zünfte». Campanilismo contro migrazione — Halina
Manikowska, Le corporazioni e il potere cittadino nelle città dell’Europa centro-orientale —
Vanessa Gabelli, Confronto fra stemmi di corporazioni: analogie e difformità di scelte — Franco
Franceschi, L’organizzazione corporativa delle grandi manifatture tessili nell’Europa occidentale:
spunti comparativi — Donata Degrassi, Tra vincoli corporativi e libertà d’azione: le corporazioni
e l’organizzazione della bottega artigiana — Giovanna Petti Balbi, Parole conclusive.
La costruzione della città comunale italiana (secoli XII-inizio XIV) (Atti del XXI Convegno
Internazionale di Studi, 2007).
Giovanni Cherubini, Presentazione — Giovanni Cherubini, Introduzione — Cristina La Rocca,
L’eredità e la memoria dell’antico nelle città comunali — Aldo A. Settia, Cerchie murarie e
torri private urbane — Italo Moretti, I palazzi pubblici — Elisabeth Crouzet-Pavan, La cité
communale en quête d’elle-même: la fabrique des grands espaces publics — Etienne Hubert,
Urbanizzazione, immigrazione e cittadinanza (XII – metà XIV secolo). Alcune considerazioni
generali — Thomas Szabò, Genesi e sviluppo della viabilità urbana — Franco Franceschi, I
paesaggi della produzione — Roberto Greci, Luoghi ed edifici di mercato — Andrea Zorzi, La
costruzione della città giudiziaria — Anna Benvenuti, Sotto la volta del cielo. Luoghi, simboli
e immagini dell’identità cittadina — Dario Canzian, L’identità cittadina tra storia e leggenda: i
miti fondativi — Roberta Mucciarelli, Demolizioni punitive: guasti in città — Francesca Bocchi,
La “modernizzazione” delle città medievali — Salvatore Tramontana, L’altra Italia. La costruzio-
ne delle città nel Mezzogiorno e in Sicilia — Carmela Maria Rugolo, L’altra Italia: Bari — Mauro
Ronzani, Conclusioni.
La ricerca del benessere individuale e sociale. Ingredienti materiali e immateriali (città italiane,
XII–XV secolo) (Atti del XXII Convegno Internazionale di Studi, 2009)
Giovanni Cherubini, Presentazione — Gabriella Piccinni, La ricerca del benessere individuale
e sociale. Ingredienti materiali e immateriali (città italiane, XII-XV secolo). Introduzione al con-
vegno — Donata Degrassi, Quando la società è mobile: aspirazioni al cambiamento e possibili-
tà di soddisfarle — Isabella Gagliardi, Realizzati attraverso il rifiuto della richezza — Salvatore
Tramontana, Esibire la ricchezza — Anna Esposito, I desideri delle donne tra nozze e conven-
to — Giovanni Cherubini, Commemorazione di Linetto Neri — Paolo Nanni, Aspirazioni e ma-
linconie: i contrasti del mercante Francesco Datini — Alma Poloni, Vite imprevedibili: tre storie
di mercanti nella Toscana di fine Duecento — Maria Clara Rossi, La vita buona: scelte religiose
di impegno nella società — Renato Bordone, Progetti in augmentum rei publice nell’esperienza
del primo comune in Italia — Jean-Claude Maire Vigueur, Progetti di trasformazione della socie-
tà nei regimi di Popolo — Duccio Balestracci, «Ingrata patria»: l’esiliato tra infelicità e proget-
ti di rientro — Franco Franceschi, Aspirazioni e obiettivi dei rivoltosi — Giovanni Cherubini,
La ricerca del decoro urbano — Giovanna Petti Balbi, «Accrescere, gestire, trasmettere»: perce-
zione e uso della ricchezza nel mondo mercantile genovese (secoli XII-metà XIV) — Giampaolo
Francesconi, «Gentiluomini che oziosi vivono delle rendite delle loro possessioni». Ideali e iden-
tità di una città socia nobilis et foederata: Pistoia nello Stato fiorentino.

quaderni

Studi storici pistoiesi, I


Mario Salmi, Premessa — Francesco Guerrieri, La fortezza di Santa Barbara — Natale Rauty, Un
documento pistoiese per la storia dei prezzi nella seconda metà del sec. XII — Lucia Gai, Niccolò
Forteguerri nei suoi rapporti con l’ambiente culturale pistoiese.
Studi storici pistoiesi, II
Sabatino Ferrali, Presentazione — Lettere familiari di Enrico Bindi, a cura di Amerigo Bucci.
Studi storici pistoiesi, III
Emilio Cristiani, Presentazione — Giorgio Luti, Cultura e letteratura nell’opera di Enrico Bindi —
Enrico Coturri, Un grande anatomico pistoiese dell’Ottocento: Filippo Pacini.
Finito di stampare
nel mese di aprile 2011
dall’Editografica,
Rastignano (Bologna)

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