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PSEUDONIMO: SANDALO

Titolo provvisorio

Amazzonia
INDICE

L'mperatrice nera 5
Miriam, guru e iniziazioni 8
Jacarè, il dio anaconda, Brasilia, Orixas ed Exus 13
Il Santo Daime e danze di karma 25
L’angelo Sophia e il drago sputa fuoco 29
L'Amazzonia dall'alto 3 4

Barra do Garcas, piranhas e bikini 36


Xavante, formichieri e missionari 39
A terra 46
Colonia Cinco Mil 50
Il cobra verde e altri abitanti della Colonia 55
La regina delle feste 58
Il ritorno del Daime 63
La festa di Padrino Nonato 69
Kardec e seringueiros 7 9

La batiçao 88
Di luna e di sandalo 93
Tetracampeon 99
Gente di Mapià e ragazzi di strada 107
Favelas, buchi e doni 113
La festa di Padrino Wilson 122
Semi e veleni 131
Nuovi test e usate cavie 139
Linfociti e multinazionali 145
Risvegli 152
Labirinti e terra di brace 161

NOTE PER IL LETTORE 171

L’imperatrice nera
Tremavano le dita, quando accostai. Dal bidone vicino,
bagliori lambivano due cosce cioccolato, fasciate da una
minigonna fucsia.
Quella notte di fine estate, più solo del solito, avevo
imboccato una statale verso il Ticino sulla rugginosa 500.
Ventitré anni e ancora non conoscevo donna. Timidi approcci
erano naufragati per la goffaggine del faccione lentigginoso
su un corpo minuto, che giudicavo insulso per le dee di cui mi
invaghivo.
Avevo percorso più volte il tratto lungo cui diverse giovani
discinte lanciavano gesti agli automobilisti. Solo
quell'imponente nera con chioma da gorgone mi aveva scosso: i
pugni sui fianchi e il mento al cielo come a dire: “Io so che
voglio. E tu?”. Un’imperatrice. Del sesso, di sicuro.
Abbassai il volume della radio, scesi e mi incamminai verso
di lei. Un colpo di tosse. Il cuore pulsava più del ventre. Mi
squadrò.
"io.. vorrei... tu... fai..." balbettai.
Non così avrei voluto iniziare. Ma affrontare la sessualità
era essenziale: lo attestavano tutti i miei studi psicologici,
in coro con Masters e Johnson. Ma se avessi fallito? Se avessi
contratto malattie? In una ridda di vertigini, fantasie,
ansie, la mente si bloccò; e, con lei, il resto.
“Sentime, bambocio.” Un timbro da trombone mi investì. “Non
ho tuta la noite por te, claro? Capitto?”
Si scostò di qualche passo, con una mimica da scherno.
Una berlina inchiodò davanti a lei.
“Ciao, beleza. il solito?" la udii chiedere, suadente.
“Ma con lo sconto da aficionados, bella brasileira.”
L'imperatrice fece un cenno deciso e i glutei ondeggiarono
verso il boschetto oltre la statale. Un omone panciuto scese
dall'auto e la seguì.
Inghiottii e mi diressi all’auto. Ripresi la statale. Dunque
avrei eletto una prostituta brasiliana per iniziarmi; io, che
avevo sempre gravitato entro un raggio di seicento chilometri
dalla Milano natale, come avessi un cordone ombelicale.
Avrei potuto fermarmi in un viottolo qualsiasi. Lì, senza
rischi di malattia o di rifiuto, sarei presto giunto alla
piccola morte; che mai adombrerà la grande, che si annida in
ogni cellula dalla nascita scandendo il conto alla rovescia.
Come se l’esistenza non fosse che un gioco a nascondino tra
l'essere e il non essere.
Attraversai il cortile di casa. Tristo Amleto. Un campanile
batté tre rintocchi. Il tempo era il filo su cui cercavo di
camminare e la lama che lo avrebbe tagliato.
In camera, con gli occhi gonfi, vergai di getto nel diario:
”xx agosto 1986. Imperatrice nera: giuro che non avrò mai più
a che fare con una donna che abbia guadagnato soldi così!!!”
Fissai la foto alla parete di mia sorella lontana. Un colpo
di tosse. Quella notte era il logico sbocco di paludi e ombre
versate sugli specchi dell’anima. Fuori, presero a cadere
gocce.

Miriam, guru e iniziazioni

Dopo la notte della brasiliana, mi ero ributtato negli studi.


Papà, deluso anni prima da mia sorella, aveva raddoppiato i
turni in fabbrica per farmi continuare l’Università. Al
contrario del liceo, dove ero incompreso dai professori e
vessato dai bulletti, diventai il migliore del corso di
laurea. Un amico architetto mi canzonava: chi faceva
psicologia voleva risolvere i suoi problemi, mica aiutare
altri. In verità, nemmeno conoscere a menadito le teorie sulle
varie turbe riusciva a darmi equilibrio. Così, mi ero messo a
frequentare seminari di meditazione e a leggere testi di
spiritualità. Ce la mettevo tutta per sublimare.
Finii per accostarmi a una religione indiana di vegetariani.
I brutti segni lasciati dalle suore e l’influsso
rivoluzionario di mia sorella, maggiore di sei anni, mi
avevano allontanato dalla fede cattolica. Affascinato dal
magnetico guru, insieme ad adepti rapati, smunti, ma semplici
e sorridenti, iniziai a passare serate tra sermoni e danze
bagnate da mantra oceanici.
Alla laurea, mi ero rasato il cranio e, agghindato in
arancione, nei fine settimana andavo a manifestare per le vie
cittadine la gioia divina, tra passanti dal riso beffardo,
ripetendo il maha-mantra Hare Krishna.
In quell’ambiente provai la forza delle credenze e del
gruppo: mi adeguavo a direttive inimmaginabili da seguire da
solo. Compreso il comandamento della copula soltanto per
procreare: quindi zero, come i capelli. Mamma, che non aveva
finito le elementari e che dapprima si vantava che presto suo
figlio 'avrebbe guarito tutti i mali nella testa delle
persone', si era convinta che la setta mi avrebbe fagocitato.
“E cosa diranno adesso le amiche?”, l’avevo udita lamentarsi
al telefono, nel trastullarsi i riccioli tinti. Ma non furono
i suoi riccioli a farmi troncare quella fase. Piuttosto,
quelli della mora entrata nel giro domenicale: io cantavo e
ballavo, ma sempre più sprizzavo gioia per le sue forme e il
suo muoversi, invece che per il divino immobile e senza forma.
Scoprii presto che era la donna del capo. Così finii per
frequentare sempre meno la serafica setta, trovai una
collaborazione in un centro di aiuto psicosociale, diretto da
una dittatrice, lasciai ricrescere i capelli, smisi le tonache
e, soprattutto, incontrai Miriam.

Nello scompartimento, sfogliavo un saggio di Jung, dopo aver


passato quella domenica di ottobre del 1990 tra le alture del
lago di Como. Avevo sostituito gite solitarie nella natura ai
riti collettivi indiani.
Il treno si mosse. Una ragazza oltre i trenta, tratti
spigolosi e naso aquilino, si sedette di fronte, squadrò il
libro, accavallò le cosce sotto la gonnella panna, prese un
moccico e mi chiese se avessi del fuoco. Al mio diniego, si
calò una cicca in bocca e si presentò. Miriam tornava da
meditazioni del guru Osho. Parlava in tono acceso, quanto il
rosso del fiore stampato sulla camiciola aperta sui generosi
seni. Buttava indietro la selvaggia chioma nera e mostrava
l'ugola alle mie battute. Avevo imparato a fare il simpatico
con le ragazze e a pavoneggiare la cultura per colpirle, ma
lungi dall'accennare all'eros. Fu invece lei a dire,
fissandomi, che per Osho la sessualità era liberatoria, a
prescindere dalle forme o dal tipo di legame. Le labbra
carminio rimaste socchiuse e la carica sensuale, mi fecero
intuire che non le sarebbe spiaciuto condividere un po’ di
intimità. Giunti a Milano, ci trovammo, ridendo, a entrare
sottobraccio in una pensioncina vicina alla stazione. Al
diavolo capelli uguale a zero, al diavolo sesso uguale
procreazione. L’India produceva dèi e approcci spirituali
serenamente inconciliabili. Il cuore batteva fuori controllo
nel chiudere la porta della stanzetta scura alle spalle.
Quando, già mezzo spogliati, mi misi d’impegno per baciarla,
mi ghignò in bocca: “Beh, non sai farlo?”. Il faccione glabro
divenne un peperone. Ma Miriam incollò le labbra alle mie e, a
colpi di lingua, ci passò sopra. Di quel primo bacio mi rimane
un sapore di fieno bagnato. Avevo ansimato, elettrico, quando
mi era salita sopra con le cosce aperte quanto la gola e la
pupilla. Un odore di lattice, un sussulto. Poi tutto era
accaduto come in una bolla.
“Come sono andato?” ero ancora disteso nudo, sul letto
sfatto. “Sai, è la prima volta e…”
“Non avevo dubbi” si rimirò nello specchio graffiato.
“Lezione numero uno: non ti concentrare sull'entrare. fino a
che lei non ti dà semaforo verde. Eri agitato, spaventato. E
lei si… secca con gli egoisti, i timorosi e gli impazienti.”
“La pazienza è amara, ma il suo frutto è dolce: Jean-Jacques
Rousseau.”
“Che fai, parli per bocca di altri? Pensa se anch’io ti
facessi un servizio con la bocca di 'sto Russò” si accese una
sigaretta. “Ma mi pare che impari subito.”
“Voglio imparare tutto…" schiarii la gola, "da te.”
Il suo occhio destro penetrò le mie pupille, passò l’esofago,
lo stomaco e mi strinse il ventre.
Sotto insegne al neon, s’infilò nel metrò, lasciandomi un
formicolio tra i riccioli del pube e un numero tra le dita.
Lo strano rapporto mensile che iniziò dopo qualche tempo
trovò un equilibrio: nell’erudizione lei aveva il suo maestro,
io l'allieva; nell’ars amatoria, viceversa. La cameriera
Miriam mai avrebbe perso tempo su libri diversi da quelli del
suo guru. ‘Mica c'è vita, tra freddi, immobili segni’,
ripeteva.
Trascinava una convivenza che giurava fosse giunta al
capolinea. A ogni incontro nella stanzetta speravo mi avrebbe
promosso unico amante. Invece, pareva le andassi bene come
enciclopedia vivente e a letto, forse per la sua vocazione
pedagogica o per una cieca chimica. La mia gelosia mi
sussurrava che mi usava per i giochetti e intanto cercava il
vero partner. Aveva l'età in cui le donne annusano di avere
poco tempo se vogliono trovare il compagno della vita o il
padre dei figli.

Jacarè, il dio anaconda, Brasilia, Orixas ed Exus

Del Brasile, sapevo del Carnevale, delle spiagge e delle


femmine da cartolina, delle favelas violente e infarinature di
storia e geografia. Il resto mi era oscuro quanto il
sottobosco della foresta amazzonica.
Il Boeing puntò Rio De Janeiro. Io e Paolo stavamo
raggiungendo due suoi amici, già da una settimana sotto il
sole carioca di quel luglio 1993. Avevo conosciuto il medico
da poco, per un progetto di lavoro. Mi aveva convinto ad
aggregarmi al viaggio per il suo carisma, perchè ero alle
corde con il lavoro precario e inadeguato alla laurea e per
rimarginare la ferita recente con Miriam: l’ennesima sua
sfuriata, per una mia gelosia, ed era naufragata la prima
vacanza che desideravo proporle.
A Rio, nel salone degli arrivi, Aldo, un trentottenne
romagnolo, si presentò tutto barba, capelli, muscoli e nervi.
L’altro, sui venticinque, alto e dinoccolato in una camicia
hawaiana, si aggiustò gli occhiali modaioli e disse: "Matteo".
I due condividevano un’aria sbarazzina e borse sotto gli
occhi.
Ci imbarcammo sul primo aereo per Goiania, per il vago tour
deciso da Paolo, la cui ultima tappa sarebbe stata la
capitale.
Paolo conosceva bene il Brasile, per via delle consulenze per
una multinazionale del farmaco, ma era stato anche in Perù,
Argentina e Messico. La professione gli permetteva di
dedicarsi al suo hobby: esplorare nature e antiche culture,
viaggiando on the road, per dirlo alla Kerouac, suo beniamino
insieme a Timothy Leary. L’avevo udito discorrere di Macchu
Picchu, di Chiapas, di Maya, della cultura di Nazca e di
indigeni Inca in Argentina. Invidiavo la disinvoltura nel
descrivere luoghi ignorati dalle guide turistiche: altipiani e
deserti di sale o di pietre, valli inaccessibili, dirupi
mozzafiato tra le cordigliere, costruzioni misteriose. E poi
cactus sacri, rituali e tribù con tremendi curanderos.
Per me, invece, quello era il primo viaggio fuori dalla
vecchia rassicurante Italia.
Nel prender quota, l’aereo sorvolò il Pão de Açúcar, che si
ergeva calvo sulle spiagge arcuate come vertebre di un colosso
dormiente. Chissà, tra le tante atrocità, di quante cose
davvero dolci poteva testimoniare. Dal Corcovado, il Cristo
Redentor rispondeva con le braccia aperte.
Matteo, seduto a fianco, pulì l’oblò con gesto stanco e buttò
lo sguardo sulla rilucente baia:
“Avevo appena iniziato a gustarla.”
Brindisino, fuori corso ad agraria, anche per lui era la
prima volta fuori dall’Italia. Tirò indietro il ciuffo biondo,
e mi sciorinò il ben di dio che stava abbandonando per un
viaggio sapeva il diavolo dove: le Disco più ‘in’, le onde
oceaniche, i mojitos e le caipirinhas, le femmine, paradisi
ambulanti... Si zittì solo quando l’aereo s'inclinò deciso
verso la destinazione.
Dall’alto, Goiania era una ragnatela non finita, a un
migliaio di chilometri da Rio e dall’oceano.
Dopo una puntata lavorativa di Paolo a una clinica,
noleggiammo un maturo Combi, surrogato di un pulmino
Volkswagen, e ci addentrammo nella regione composta da Goiàs,
Mato Grosso, Mato Grosso do Sul e dal Distretto di Brasilia:
il Centro-Oeste. Fino a cinquant’anni prima, uno dei più
grandi territori verdi ancora inesplorati del globo.
Sotto calure infami, superammo le ultime città, baluardi sul
nulla, con grattacieli e l’odore penetrante delle favelas. E
ci arrivò addosso l’immensità del Brasile. Centocinquanta
milioni di abitanti, con una delle densità più basse al mondo:
diciotto persone per chilometro quadrato; sei, nel Centro-
Oeste.
Rallentando a un incrocio tra piantagioni, Paolo mosse il
mento verso la mulatta dagli zigomi pronunciati e i capelli
color carota che ci veniva incontro sotto un carico di erba:
“Questa fanciulla è una cabocla: sangue misto amerindio ed
europeo.”
Spiegò che gli indigeni avevano accolto i coloni offrendo
lavoro volontario, donne e cibo in cambio di utensili di ferro
e liquori. Ma si erano presto visti abusati dei loro culti,
spodestati dalle terre migliori e poi ridotti in schiavitù da
cricche di bandeirantes. Solo i gesuiti avevano protetto gli
indigeni, finchè furono espulsi per la pressione di spagnoli e
portoghesi sulla Chiesa a metà del Settecento.
Le tinte della pelle ormai coprivano una scala ininterrotta,
dal latte nord europeo all’ebano d’Africa, dal giallo
nipponico al rosso indio. Solo quel giorno, avevo già notato
sul viso cioccolato di un ambulante iridi azzurre e sopra i
tratti asiatici di una piccola lustrascarpe, boccoli dorati.
La miscela era frutto anche della antica licenziosità tra
padroni e schiavi, su cui persino la Chiesa aveva chiuso un
occhio, per ingrossare la ‘colonia cristiana’, ci aveva detto
Paolo. Per questo il razzismo era un elemento secondario.
L’emarginazione era dettata da un altro colore: il verde
yankee dei dollari.
Stipati nel Combi dalle sospensioni fruste, passammo
altipiani rocciosi e pianure tagliate da rettilinei senza
fine. Viaggiavamo persino dodici ore per raggiungere la tappa
successiva, privilegiando le più fresche notti, tra i lamenti
di Matteo, che rimpiangeva lenzuola profumate, e le sparate di
Aldo, che giurava gli bastavano due ore per dormire, dovunque
posava il capo.
A volte l’oscurità era interrotta da incendi, spesso dolosi,
che bruciavano ampie strisce di savana, testimoniando la
difficoltà di domarli, l’arsura delle terre in quel periodo, e
i cospicui interessi privati, una costante passata indenne
attraverso i secoli. Le strade, asfalti che d'improvviso
diventavano sterrati che rompevano la schiena, rendevano
imprevedibili i tragitti tra i rari villaggi, sospesi
sull’afa. Il tempo, a quelle latitudini, è una categoria
indefinita.
Un mattino, il Combi salì piano su un ponticello, sotto
un'aurora regale. Paolo indicò grovigli scuri, oltre le travi
scricchiolanti:
“Jacarè.”
“Madre santa.” Matteo aveva gli occhi sbarrati sul fiume in
secca.
Sulle sponde si accalcavano decine di caimani. Era il
benvenuto del Parque Nacional do Pantanal Matogrossense.
Aldo, tra i sussulti del Combi, esaminò i miseri rivoli:
“Pantanal non è il nome giusto in questa stagione.”
Per giorni ci lasciammo fagocitare dal parco, grande metà
della Francia, tra paludi e foreste, distratti da ibis,
cicogne, nibbi, e navigando fiumi in barchette a motore, con
piranhas e caimani per contorno.
L’ultimo mattino, tornando da un’escursione sulle orme di
capibara, d'improvviso Paolo mi afferrò una manica e impugnò
il machete. Un tronco nodoso mi tagliò il sentiero. Mi
immobilizzai. Ma l’anaconda dal ventre screziato di giallo,
incurante e lento, inabissò i suoi sei metri di carne e
spirito negli acquitrini sulla destra. Capii perché gli
indigeni lo veneravano come un dio.
Lungo il ritorno verso oriente, in direzione di Barra do
Garças, un pomeriggio deviammo per la roccaforte selvaggia
della Chapada dos Guimaraes. Lassù, in un arco di rocce
verticali, una massa di acque, illuminata dagli ultimi raggi,
precipitava per cinquanta metri su una boscaglia vergine,
trapuntata dai versi di uccelli multicolori. Sul suo ciglio,
c’infilammo nei sacchi a pelo, con le teste rivolte alle
stelle e le ossa alla pancia della notte. Alpha Centauri mandò
un bagliore. Solo Centauro, che cavalca i due emisferi, mi
poteva connettere a Miriam.

Una settimana dopo, in un torrido agosto, la massima città


pianificata del ventesimo secolo non ci apparve a misura
d’uomo, bensì di automobile con condizionatore. Nessuno
passeggiava tra gli edifici uguali e asettici, separati da
viali immensi con scarsi alberi a riparare dalla calura.
Il dèpliant dell’ufficio turistico vantava che Brasilia fu
realizzata in quarantuno mesi, per sviluppare quella vasta
area all’interno del Paese. L’impiegata, nell’allungarci la
lista degli alberghi, ci rivelò che l'intento era subito
fallito: appena Brasilia era diventata capitale, nel 1960,
burocrati e politici avevano vissuto il trasloco da Rio come
una punizione, nonostante il raddoppio degli stipendi.
Paolo aveva scelto quella metropoli, remota e carissima, per
la sua faccia nascosta; per molti era la Capitale del Terzo
Millennio, descritta da Giovanni Bosco, che sarebbe proprio
sorta, tra i paralleli quindici e venti, ai bordi di un lago.
A causa della profezia o meno, nel raggio di poche decine di
chilometri, si potevano trovare centri di culti disparati.
Come il Tempio da Boa Vontade, dove si meditava percorrendo
una spirale ubicata sotto al più grosso cristallo del mondo o
come la Valle dell’Alba, un paesino abitato da duemila medium
che officiavano rituali in idiomi sconosciuti.
Il secondo mattino, entrammo nella casa in calce di un tal
João, vicino ad Abadiânia, a est di Brasilia. In un nudo
locale si accalcavano una settantina di persone. Il
segretario, un ometto di mezza età, ci spiegò che maestro João
incontrava i malati per la diagnosi e poi, se era il caso,
invocava Sant’Ignazio, incorporava l’anima di un famoso
medico, morto da tempo, e, in tale trance, li operava senza
anestesia. Ci stava mostrando, orgoglioso, vasetti di vetro
con cisti, calcoli, escrescenze informi di carne di pazienti
guariti, quando, da una porta sbucò un bianco alto e robusto,
con le spalle curve e lo sguardo assente, dietro occhiali
fuori moda. João si avvicinò a un cinquantenne panciuto, nudo
fino alla cintola e in piedi ad attenderlo. Lo appoggiò alla
parete, prese un coltello, aprì le sue carni all’altezza
dell’appendice, vi rovistò dentro, estrasse pezzi
sanguinolenti e li porse a un solerte collaboratore, che
reggeva un recipiente con garze, forbici e coltelli da cucina.
Il paziente aveva gli occhi sbarrati e ansimava. Con somma
calma, il guaritore ricucì i lembi della ferita, con ago e
spago. Poi, due aiutanti sorressero l’operato, barcollante ma
cosciente, e lo accompagnarono sul retro. Il tutto durò non
più di cinque minuti.
Per ore, da un paio di metri, a un ritmo formidabile,
assistemmo a crudi atti chirurgici alle cornee e alla zona
rinofaringea di diverse persone e persino all’asportazione di
noduli dal braccio di un uomo e di fagioli raggrumati dalla
pancia di una donna.
Il quarto mattino Paolo rientrò all’albergo, dopo un’altra
consulenza ospedaliera, insieme a Padre Natal, un bianco
barbuto dai lunghi capelli bianchi, il viso rugoso e un corpo
massiccio. Era Pae do santo, cioè sacerdote dell’Umbanda, il
culto afro-brasiliano già quarta religione del Paese. Paolo
aveva concordato che partecipassimo ai suoi rituali. Così ci
trasferimmo nel terratetto di mattoni oltre la periferia di
Brasilia, che il Pae divideva con la giovane moglie mulatta.
Lungo la strada, mi colpì una muraglia di catapecchie da cui
salivano fumi e un rumore sordo: le sterminate favelas di
anti-Brasilia, che fagocitavano serenamente centinaia di
migliaia di vite.
La sera l’uomo, nato in Calabria, ci condusse in un locale
con un altare carico di statuette insolite. Con la voce
alterata dal tabacco, spiegò che le divinità dell’Umbanda,
legate a spiriti di natura, si dividevano in due gruppi: i
benevoli Orixas e gli Exus. Gli Exus, dalle sembianze umane e
animali, inclusi corna e fallo eretto, erano presi per entità
maligne da bigotti e sessuofobi, invece pure loro aiutavano a
condurci sulla retta via.
“Vi sono corrispondenze fra Orixas e figure cristiane”
afferrò due statuette. “Questi, ad esempio, sono Oxalà e
Iemanjà, ovvero Gesù e la Madonna." Le posò. "Ah, durante i
riti, il Pae do santo potrebbe prendere pose strane o cambiare
voce.”
“Iih! Come le tarantolate da noi." Matteo diede di gomito ad
Aldo. "Trance di possessione. Mia nonna mi raccontava…”
Padre Natal lo fulminò con lo sguardo e proseguì nelle
descrizioni. Parlava per semplici analogie, e s’inalberava se
veniva interrotto.
Si coricò presto, dopo averci cucinato un arrosto abbondante.
“Ma che significano ‘sti Orixas?” se ne uscì Matteo, mentre
passeggiavamo nel terreno, su cui si innalzavano alberi da
frutto e casupole adibite a magazzini o a luoghi di culto.
“Considerateli forze primordiali presenti in tutto. Per
esempio, Oxalà è la luce, la coscienza, il sé superiore. Iansà
è il vento, scioglie tensioni nel corpo e nella mente. In
ciascuno ci sono qualità che i rituali aiutano a
riequilibrare” Paolo voltò il viso. “Tu, Aldo, hai troppo di
Ogun, il guerriero, il principio di sopravvivenza; e tu,
Matteo. di Oxum, le acque dolci.”
“E gli Exus mostruosi?” chiesi.
“Rappresentano i conflitti non risolti, i traumi da curare.”
Il Pae do santo, come lo sciamano, assommava le funzioni del
guaritore, del sacerdote, del veggente.
Così, dal mattino e per giorni, con profusione di cibi,
bevande, canti, candele, fiori, danze, ci lasciammo iniziare.
Posammo corolle in ruscelli d’acqua per Oxum. Offrimmo frutta
ai boschi di Oxossi e carni a Xangò. Dedicammo inni a Oxala e
a Iemanja, bevemmo birra e fumammo sigari di fronte a statue,
teste di maiale e dipinti di Exus, mentre Padre Natal
vorticava in trance, come un folletto.
Una notte, al culmine di un crescendo di canti e balli, per
propiziare il bene per sé e i propri cari, fu persino chiesto
a ciascuno di uccidere un gallo.
“Mi par d'essere dalle vecchie streghe delle mie terre” Aldo
aveva sgozzato il suo con un taglio netto.
Mi allungò il coltello intriso di sangue caldo. Lo impugnai,
attratto e inorridito. Il Pae schiacciò sul ceppo rituale il
"mio" animale, che si dibatteva. La mente stallò, come con
l'imperatrice. Una mano rugosa avvolse la mia, la lama affondò
tra le piume del collo. Urlai. Sangue sprizzò, imbrattò
maglietta viso terreno. Matteo, bianco come un cencio, tremava
quanto me, quando gli porsi l'arma per il suo turno.
L’ultima sera del percorso, Padre Natal consegnò a ciascuno
un foglio, ordinandoci di scrivervi gli ostacoli interni da
cui volevamo liberarci. Pensai all’imperatrice nera, a Miriam,
a ragazze che mi avevano rifiutato, a mamma... a mia sorella.
Segnai: ‘Mie crepe verso il femminile’.
Passai la biro a Matteo. La meretrice. E poi Miriam. La sua
determinazione si era mutata in tirannia. La libertà, in
libertinismo. Ma io avevo permesso tutto ciò, in quella
'Milano da bere'. “Maschio, maschietto, masturbati nel cesso”
era lo slogan delle femministe, come mia sorella, che aveva
segnato l'adolescenza. Per mia sorella, io ero una seccatura,
quando mamma le ordinava di accudirmi per andare dal
parrucchiere o a ballare. Il suo senso materno, del resto, non
si sviluppò mai: aveva finito per girare tra hippies e comuni
sparse per il globo. Da anni, solo mamma riceveva rare notizie
da lei. L’inverno, avevo carpito che aveva abortito un’altra
volta. E che dire di mamma, forse mia sorella aveva preso da
lei riguardo al senso materno.
Mentre noi scrivevamo, il Pae aveva collocato quattro
recipienti di terracotta sul terreno. Gli consegnammo i
foglietti; ne mise uno in ciascuna terracotta, poi vi versò
sopra una farina scura con cui tracciò una linea che si
allontanava di dieci metri. Ci disse di pensare ai foglietti,
intonò un inno e iniziò a muoversi, esortandoci a imitarlo. La
danza divenne frenetica. All’apice del ritmo, il Pae ci incitò
a gridare le frasi che avevamo scritto. Il Pae accese un
cerino; le strisce di farina si incendiarono, corsero e le
terrecotte iniziarono a esplodere.
Boati. Oltre. Il sogghigno di mia sorella.
Oltre. Il ghigno dell’imperatrice sopra me. Oltre
Vampate. Oltre. Scoppi e fischi.
Oltre. Oltre. La lingua di Miriam. Oltre.
Salti e danze. Oltre. Le mie grida.
Oltre. Le sue. Oltre.
Dopo il rito mi sedetti nel patio rischiarato dalla luna.
Fiammate, fragori e acuti di liberazione, in una spirale
ipnotica, avevano messo il sigillo al programma intensivo di
purificazioni. Il fervore, nel cattolico Brasile, si
manifestava in variopinte sette e culti sincretici. La natura
rossa e verde, bagnata dall’oceano e da immani fiumi, aveva
mischiato le razze; e così le fedi.
Eppure, trovavo rozzi e primitivi i sacrifici di carne,
frutta e animali vivi.
“Che forza il vecchietto!” Aldo si calò sulla sedia di
fianco. “E che coreografici i riti.”
“Sì” girai il viso a lui. “Ma perché lasciar marcire davanti
a statuine carne che costa un occhio, con gente che muore di
fame? O ceste di frutta nei boschi? E poi quei poveri galli:
violenza gratuita.”
Aldo rise. Alzò lo sguardo. Si bloccò. Una zaffata di sigaro
mi raggiunse dalle spalle.
“Tu, bambino, piccolo giudice arrogante." Padre Natal mi si
materializzò davanti, come un Exu malefico dalla voce roca.
"Vuoi tenere la carne e i fiori, eh? La verità è che tu vuoi
tenerti tutto, comprese le tue merde. Ecco perché puzzi così.”
Zaffata nel buio. “E non vuoi uccidere i galli, eh? Ti credi
buonino buonino. Invece, ti caghi sotto dalla paura di
incontrare la violenza che tieni nella fogna delle tue
viscere.”
Si allontanò, lasciandomi un nodo in gola.
Nella camerata improvvisata, Matteo, cadaverico, si rotolava
nella branda e ripeteva: “Poteva ucciderci tutti. Poteva
ucciderci tutti”. Aveva scoperto che la farina nera era
polvere da sparo.
Paolo, chiudendo il sacco a pelo, annunciò che l'indomani,
con un po' di fortuna, avremmo partecipato a una celebrazione
che poteva sconvolgere la visione di noi e del mondo.
Mi spogliai. Che diamine poteva aspettarci di tanto
rivoluzionario, dopo la terrifica natura brasiliana, le ferite
degli indigeni, i pazienti operati a mente sana, le colonne di
medium della Valle dell’Alba, i riti di umori e di sangue
dell’Umbanda…?

Il Santo Daime e danze di karma

“Del Daime non si può parlare” ribatté Paolo, incalzato da


noi. Sbatté giù la cornetta: continuava a non trovare il suo
contatto daimista. “Sappiate solo che molti giurano di esserne
stati trasformati”.
Il sole stava tramontando dietro il frutteto di Padre Natal
sul decimo giorno del nostro soggiorno a Brasilia. Era sabato
e il lunedì saremmo dovuti partire per Rio, per il rientro in
Italia. Le cerimonie del Santo Daime si tenevano ogni due
settimane e il luogo non veniva pubblicizzato.
Dopo cena, Paolo richiamò un'ultima volta. Un tal Pedro
rispose: proprio l’indomani si sarebbe svolto un rito. Avremmo
dovuto presentarci a casa sua, alle quattordici, per poi
raggiungere il luogo.
La domenica, Matteo si affacciò in cucina.
“Me ne resto qui” farfugliò, reggendo sul capo uno straccio
con del ghiaccio dentro. “Notte insonne e testa dolente”.
Il Combi si mosse con tre persone a bordo. Oltre la terra
bruciata sfilavano grappoli di grattacieli, escrescenze
tumorali che nessun João poteva estirpare. E io andavo verso
l’ultima occasione per estirpare le escrescenze ancora in me,
che nessuna trance, incontro o rituale avevano intaccate.
I freni stridettero davanti a una villetta, allineata tra le
gemelle affacciate sul lago Paranoa. Seguimmo l'auto di Pedro
fino a una radura tra palmeti. Nel mezzo, una costruzione
circolare in legno con il tetto di paglia: la chiesa del Santo
Daime. Nello spoglio spazio, in grado di ospitare oltre un
centinaio di persone, uomini e donne chiacchieravano o si
muovevano indaffarati nei preparativi. I più indossavano una
divisa: camicia bianca, cravatta e calzoni blu, gli uomini;
camicette bianche e gonne blu, le donne.
Un tipo alto, affiancato da Pedro, ci diede il benvenuto e
fornì istruzioni. Canti e danze avrebbero contrassegnato le
fasi del rito. Si sarebbe anche presa una bevanda per
connettersi con il divino. Un po’ come per la Comunione
cattolica, pensai; del resto quella religione sincretica, come
l’Umbanda, era pervasa da credenze cristiane.
“E’ facile” terminò. “Non dovrete far altro che imitare le
persone intorno.”
Vagavo fuori dalla sala. Miriam, il nostro rapporto sfaldato.
La mia ultima occasione brasiliana per comprendere. E imparare
cosa sia l'amore. Girai il capo. Le pupille non registrarono
che lei: carnagione bruna, gonna blu d’ordinanza, lunghi
capelli biondi e movimenti leggeri, nonostante il seno pieno.
Era sei dita più di me e una decina d'anni meno. Stava
leggendo delle carte, appena distribuite. Un foglio le cadde
vicino ai miei piedi. Lo raccolsi, conteneva dei canti, glielo
porsi:
“E’ la mia prima volta.”
“Il Daime è un incontro con il maestro interiore” prese il
foglio. “E può bruciarti karma”.
Aveva abbassato le ciglia, velando il verde delle iridi.
C’era semplicità e certezza nella voce rauca. Aveva usato il
termine karma, cioè l’insieme degli effetti prodotti dalle
nostre azioni che dovevamo annullare per liberarci dal ciclo
delle reincarnazioni. Così insegnava il mio ex guru degli Hare
Krishna.
Pedro annunciò l’inizio del rito. La ragazza si mosse per
entrare. I capelli dorati scendevano fino alle curve dei
fianchi, come la cascata della Chapada dos Guimaraes. Ebbi il
tempo di sapere che si chiamava Sophia e che avrei ricordato a
lungo il suono di quel nome.
Le donne, in piedi su un lato, formarono righe. Di fronte, ad
alcuni metri, ci collocammo noi uomini. Tenere divisi i sessi
favoriva la purezza delle differenti energie maschili e
femminili, ci disse Pedro, nel disporci in ultima fila.
Uomini con chitarre e tamburi si portarono nel mezzo. I
presenti, un centinaio, tacquero. Al centro, il tipo alto
lesse un’orazione di protezione, poi tutti recitarono un Padre
Nostro e una Ave Maria. Gli strumenti iniziarono a suonare e
le persone a cantare. ”O Daime è o Daime o professor dos
professores… O Daime è o Daime o mestre de nos ensinos”.
Eseguite alcune melodie, si formarono due lunghe file, una di
donne e una di uomini, di fronte a un altare. Da una
botticella di bianca ceramica, due uomini mescevano un liquido
color ruggine in un bicchiere e lo porgevano a ciascuno: il
Santo Daime. Giunto il mio turno, ingurgitai la bevanda e
ritornai al posto con una smorfia, per il sapore acidulo.
Quando tutti ebbero bevuto, ripresero i canti, insieme alla
danza principale: tre passi a destra e tre a sinistra, da
effettuarsi all’unisono, con una cadenza scandita da maracas.
Per una mezz’ora imitai i passi e gustai i semplici inni che
parlavano di natura, di santi, di buoni sentimenti. Poi mi
distrassi e, in quel clima di preghiera, ritornai all'ultima
Messa di adolescente: bambini zittiti, visoni e cappotti di
cachemire, il pulpito che, per imminenti elezioni, pareva una
succursale di partito. In coda per la Comunione, con visi
d’angelo, i bulli che mi avevano angariato anche il giorno
prima. Dietro, mia madre con il velo e mio padre, sospinto da
lei. Mia sorella, assente. Anni prima avevo udito mamma
piagnucolare per lei, scoperta ad avere un fidanzatino a
tredici anni. Sua figlia le urlava di rimando, agitando le
treccine e le unghie dipinte, che mai avrebbe fatto come lei,
che si era lasciata imporre il primo capitato a tiro senza
frequentarlo, senza desiderarlo, senza amarlo: lei i ragazzi
se li sarebbe scelti da sé, a modo suo, sempre.
Intorno, volti cantavano in una monotonia di passi. Mi stavo
chiedendo che ci fosse di tanto particolare da giustificare
tutto il mistero da parte di Paolo, quando ebbi un rigurgito
di nausea. Una morsa mi strinse la nuca, e i miei occhi
serrati si riempirono di figure mai viste.

L’angelo Sophia e il drago sputa fuoco

Rossi gialli rosati bruni aranci violetti verdi e blu


sfumavano gli uni negli altri in fantasie vivissime: geometrie
pupazzi animali irreali volti in meditazione e nature fuori da
ogni mondo conosciuto. Infilato in una macchina del tempo, a
folle velocità mi trovai a rivivere frammenti della mia vita:
le risate vuote di mamma bimbe dai volti innocenti ghignavano
tosse e bruciori al petto la suora cerbero la rabbia di mia
sorella le botte prese nel ripostiglio mio padre straccia i
quaderni dei compiti, mia sorella nuda chinata, il rock duro i
poeti maledetti le tremanti scoperte del sesso, sfregiate di
peccato, i primi filosofi il poker di nascosto con gli amici i
bulli Freud e Reich...
Con sforzi, riaprii gli occhi. Anche i compagni erano avvolti
dal vigore della sostanza. Le danze e i canti si
moltiplicavano. Con il respiro corto, a occhi bassi, mentre
scorreva l'adolescenza lacerata, considerai quanto difficile
mi fosse voler bene. Appena lo pensai, precipitai tra croci
uncinate fosche prigioni corpi nudi straziati scheletri
sbeffeggianti umanoidi schiacciati in buche da mostri ancor
più disgustosi fate oscene gnomi vecchie che si seviziavano
senza posa. Turpi testimoni di quei gironi infernali, schiere
di sfingi con otto mammelle da cui zampillava sangue scarlatto
invece che latte.
Abbandonai le danze, barcollai fino a una parete e mi
accartocciai a terra, le mani alla pancia. Colpito dalle
figure terrifiche e perfette insieme, mi affannavo per
ritrovare in me tracce di bontà, di pace, di amore: gli amici,
Miriam, l’accettazione delle angherie dei bulletti, persino i
sensi di colpa per il gallo ucciso. Ma inferni su inferni
divoravano tutto. Le gambe tremavano, lo stomaco dolorante
pulsava. In bocca un dolciastro alito di vita putrescente.
Trattenevo continui conati. Controllavo a fatica la testa e mi
avvertivo deforme. Una lama di gelo mi attraversò la schiena.
Deforme nel corpo come nell’anima. La musica rimbombava
incessante. A stento, riaprii le palpebre. Aldo e Paolo,
seduti poco distante, erano visibilmente provati. Tutti gli
altri cantavano e si muovevano a ritmo. Sophia danzava,
sinuosa, in una veste di onde: un angelo irraggiungibile.
Gli orrori formarono vertigini. Richiusi gli occhi. Al limite
della sopportazione, una delle sfingi, con una smorfia
sguaiata, si trasformò in un serpente-drago verde brillante
che si ingrossò e iniziò a sputare fuoco. Espirai. La fiamma
scarlatta gialla arancio si divise si moltiplicò in mille
lingue bruciò lo stomaco trafisse l’esofago violò la gola
colmò la bocca. Divenne onda ardente saetta incendio lava.
Vomitai fiotti arancione
dalla bocca dalle narici
gli occhi rivoltati lo stomaco una fisarmonica
contratta ancora e ancora da artigli
violenti.
E ancora. Contratta. Fiotti.
E ancora. Artigli.
E ancora. Vomito dalle
narici. All’ultimo spasimo.
A poco a poco, recuperai il controllo del corpo, ma restavo
fiacco, tremante, e sottosopra per le visioni e le emozioni.
La pelle sembrava staccarsi dallo stomaco. Orribile far
emergere dall’anima quegli inferni. Un rigurgito acidulo.
Orribile l’anima da cui erano emersi. Una chiazza verdastra e
marrone si addensava sul pavimento di terra battuta davanti a
me.
Si proiettò nella mente un piccione, il collo e il petto
rigonfi, che tubava e sgambettava intorno a femmine. Li avevo
sempre disprezzati questi maschi mendicanti. La fronte era
bagnata. Chinai il capo. Anch'io forse presentavo un’immagine
da ammirare che copriva un piccolo io, incapace di amare e
terrorizzato da possibili rifiuti. Bruciava la carne del
cuore. Il Pae do Santo, le sue parole dure. Da dove era nato
tutto ciò? Salirono immagini confuse di un passato sepolto:
nastrini colorati, trecce e ghigni di bimbe senza volto, e
pianti. Ma il potere visionario del Daime stava svanendo.
“Io canto, qui sulla Terra, l’amore che Dio mi ha dato, per
sempre, per sempre, per sempre, per sempre... a mia Madre che
viene con me e che mi diede questa missione per sempre, per
sempre, per sempre essere fratello…”
L’inno, intonato dai fedeli, mi accapponò la pelle. La nostra
vita era forgiata dalle occasioni che avevamo colto. Coprii il
volto con le mani. E da quelle che avevamo mancato.
Un’orazione collettiva segnò la chiusura della celebrazione,
a qualche ora dall'inizio.
Al bagno, buttai acqua fredda sul viso. Rientrai alla chiesa.
Da Paolo si stava allontanando Sophia. Mi diressi verso di
lui. Asciugai la fronte con l'avambraccio:
“Forse, in un sol colpo, ho affrontato tutti gli Exus.”
Ci abbracciammo, come molti intorno. Insieme ad Aldo, poi,
ringraziammo Pedro.
Prima di tornare al Combi, confidai a Sophia tutti gli
incubi.
“Il Daime ti ha parlato” commentò lapidaria.
Nel salutarla, avevo domandato delle loro sedi; udii per la
prima volta il nome Mapià. Mi strinse al petto in un lungo
abbraccio: il suo benvenuto e il suo addio. Amai il primo,
quanto odiai il secondo.
Salii in auto dietro Paolo. Sullo sfondo, il profilo dei
palazzi governativi.
“Devo dire che è stato tosto." Aldo, alla guida, sbatté la
portiera. "Persino il mio Ogun ha vacillato.”
Fedeli chiacchieravano davanti alla porta della chiesa di
legno e paglia. Aldo mise in moto, li indicò con il mento:
“Ma cosa sono, una setta di mistici drogati?”
“Da anni il Santo Daime è una religione riconosciuta in
Brasile” Paolo si aggrappò alla maniglia. “Del resto, il
kikeon dei misteri eleusini greci, a cui partecipavano
religiosi e filosofi, o il Soma decantato nei Rig Veda indù
dicono quanto antico e vasto sia l’uso cerimoniale di sostanze
che modificano la coscienza.” Diede una pacca ad Aldo “E’
stato un viaggio nei nostri abissi, no?"
L'indomani ci sarebbe aspettato il viaggio sopra altri
abissi, per tornare in Italia, dopo la vacanza iniziata meno
di un mese prima, sul volo da Rio per Goiania.
L'auto partì. Risate e canti salivano dai crocchi. Sophia era
svanita, come un’entità aliena a cui era scaduto il soggiorno
sulla Terra. Pensai che dovevano essere folli i devoti per
sottoporsi a un simile trattamento, al più tardi, ogni
quindici giorni; a me ci sarebbe voluto almeno un anno per
digerire il ribaltamento di quelle poche ore.

L'Amazzonia dall'alto

Da oltre un’ora l’aereo sorvola foreste da cui abbacinano


serpenti d’acqua. Come vaste ferite, terre scabre si aprono
tra il verde. Solo rari insediamenti e tracce di coltivazioni
testimoniano la presenza umana. Il quotidiano scrive che da
cinquantasei giorni non cade una goccia di pioggia su quelle
distese.
lI volo, partito da Rio De Janeiro, è diretto alla più
sconosciuta Rio Branco, capitale dello Stato dell’Acre,
cresciuta tra la cordigliera andina, l’altopiano boliviano e
la sterminata vegetazione del confinante Amazonas.
Dai motori, un sibilo. L’aereo vira e inizia a planare. Lo
scatto del carrello nel vuoto. Paolo sarà già ad aspettarmi;
questi sono gli accordi presi venti giorni fa, quando ha
lasciato Milano alla volta di Brasilia, avendo dovuto
anticipare le consulenze per l’azienda del farmaco per cui
lavora. Ma ha assicurato che non devo preoccuparmi di nulla.
Si è annotato gli itinerari, i mezzi, gli orari e persino i
riferimenti locali a Rio Branco, per raggiungere la nostra
meta: Cèu do Mapià, punto sperduto nella foresta pluviale e
sede centrale della comunità del Santo Daime.
Il sussulto dell'aereo sul suolo. La voce di saluto della
hostess. La coda dei passeggeri. Scendo la scaletta. Nelle
orecchie un cupo rimbombo. In faccia gli odori tropicali e il
caldo umido della terra rossa. In bocca un gusto di imperituro
disfacimento e di sorgenti ancestrali. Tra poco, l’impatto con
la foresta amazzonica: un silenzio frastornante di intrichi
verdi irrorati dal maggiore fiume del mondo con più di mille
affluenti, dieci dei quali di portata superiore al
Mississippi.
Mi infilo nel minuscolo atrio degli arrivi. Una piccola folla
vociante è assiepata ai lati del corridoio per i passeggeri.
Due ragazzini cantano e ballano con indosso la maglia verdeoro
della nazionale: negli Stati Uniti, in questa estate 1994, si
stanno svolgendo i mondiali di calcio.
Scruto, tra donne truccate in tailleur, uomini dai tratti
indigeni con magliette dalle scritte inglesi, vecchie sotto
scialli multicolori, adolescenti con trecce e bimbi al collo,
per trovare il volto amico. Immagino le sue pupille, sopra il
naso aquilino, frugare ironiche il mio essere minuto sotto il
poderoso zaino, e la sua barba muoversi per un sorriso.
Conoscendo Paolo, ci fionderemo diritti a Mapià. Solo io e
lui, senza le due zavorre, penso con una punta di cattiveria:
Matteo ha optato per una vacanza caraibica e Aldo per uno
stage di karate. A Brasilia, col Daime avevo sfiorato cieli
sublimi ed ero precipitato in abissi tenebrosi. Un brivido
lungo la schiena. Chissà se a Mapià si leveranno di nuovo
potenti visioni per rifare luce sul cratere in cui giaccio da
tempo. Ho rivolato sopra l’Atlantico, bruciando chilometri e
risparmi, per sapere se quel cratere è la soglia dell'inferno
o di una miniera di cristalli preziosi. O di entrambi.
Gli ultimi passeggeri si allontanano coi loro cari. Una
stretta al petto. Paolo, dove sei? Eppure il volo è atterrato
puntuale. Mi mordo il labbro. Perché non hai preso l’aereo con
me, come l’anno scorso? Rivedo la mano ferma che mi salva
dall'anaconda nel Pantanal. Risento le sue parole di conforto
a Barra do Garças.

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