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CAPITOLO 7 La conclusione del procedimento amministrativo: il provvedimento e gli accordi

amministrativi.

L’amministrazione conclude il procedimento emanando una decisione. La fase decisoria può essere
costituita da una serie di atti, da un atto proveniente da un unico organo, da un fatto oppure da un
accordo. Guardando all’ipotesi in cui la fase decisoria è costituita da una serie di atti, innanzitutto,
allorché la fase decisoria consista nell’emanazione di atti (monocratici) o deliberazioni (collegiali)
preliminari determinativi del contenuto del provvedimento finale, si assiste all’adozione, da parte di un
organo, di un atto che, per produrre effetti, deve essere esternato ad opera di un altro organo: l’atto del
primo organo è quindi determinativo del contenuto del provvedimento finale, ma non costitutivo degli
effetti. Un altro modello è quello della decisione su proposta. Si tratta di un atto di impulso
procedimentale che si colloca immediatamente prima della decisione finale, necessario affinché essa
possa essere emanata, e indicativo del contenuto della stessa. l’organo al quale la proposta è rivolta ha
sempre il potere di rifiutare l’adozione dell’atto finale, ma non può modificare il contenuto della
proposta.

In dottrina viene poi ricordato il modello dell’atto complesso: qui le amministrazioni non si limitano ad
accogliere o respingere la determinazione altrui, sicché la trattativa investe il contenuto dell’atto, e le
manifestazioni di volontà attinenti alla fase decisoria si fondono in un medesimo atto. Simili sono poi i
modelli del concerto e dell’intesa, riconducibili al paradigma delle decisioni pluristrutturate o co-
decisioni. Ilconcerto è un istituto che si riscontra di norma nelle relazioni tra organi dello stesso ente:
l’autorità concertante, unico titolare del potere di iniziativa, elabora uno schema di provvedimento e lo
trasmette all’autorità concertata. Il consenso delle autorità concertate condiziona l’emanazione del
provvedimento: tale consenso è espresso con atto che, a differenza del modello dell’atto complesso,
non si fonde con quello dell’amministrazione procedente, che è l’unica ad adottare l’atto finale. In caso
di inerzia protratta oltre il termine previsto, tuttavia, il concerto si intende acquisito, sicché deve
escludersi che laposizione delle due autorità sia di perfetta parità. L’intesa invece viene di norma
raggiunta tra enti differenti, ai quali tutti si imputa l’effetto.

Per quanto riguarda la conferenza di servizi decisoria, la legge ammette che gli atti determinativi o
condizionanti il contenuto della decisione finale possano essere sostituiti dalla determinazione assunta
in seno alla conferenza di servizi. Il modello di conferenza di servizi introdotto dall’articolo 14 comma 2
legge 241 del 1990 differisce dalla conferenza istruttoria: si tratta della conferenza decisoria. Il
legislatore rendendola obbligatoria la circoscrive a due casi in cui sia necessario acquisire più pareri,
intese, nullaosta o assensi comunque denominati di altre amministrazioni pubbliche. Più nel dettaglio,
secondo quando dispone la norma, la conferenza decisoria è sempre indetta quando la conclusione
positiva del procedimento è subordinata all’acquisizione di più pareri, intese, concerti, nulla osta o altri
atti di assenso, comunque denominati, resi da diverse amministrazioni, inclusi i gestori di beni o servizi
pubblici (conferenza decisoria interna). In secondo luogo (c.d. conferenza decisoria esterna) quando
l’attività del privato sia subordinata a più atti di assenso, comunque denominati, da adottare a
conclusione di distinti procedimenti, di competenza di diverse amministrazioni. La prima ipotesi:
conferenza decisoria interna l’indizione spetta all’amministrazione procedente, riguarda atti
endoprocedimentali mentre la seconda concerne atti di assenso che costituisco momento finale di un
autonomo procedimento ( conferenza decisoria esterna): ricorrendo a tale figura è dunque possibile
acquisire atti esterni al singolo procedimento; la conferenza qui può essere convocata anche su
richiesta dell’interessato. La conferenza di servizi tende ad un accordo tra amministrazioni, anche se
va anticipato che anche in caso di dissenso espresso da un soggetto convocato alla conferenza, sulla
base delle risultanze della conferenza, l’amministrazione procedente adotta una determinazione
conclusiva di procedimento finale. La conferenza non da luogo ad un organo collegiale atteso che ogni
rappresentante delle amministrazioni vi partecipa nell’esercizio delle funzioni amministrative dell’ente di
competenza e gli effetti sono imputati alle singole amministrazioni e non già alla conferenza. La
conferenza dunque tende all’accordo solo in prima battuta, ma consente di giungere alla
determinazione finale anche in sua assenza. La conferenza non pregiudica il ruolo dei privati: questi
possono richiedere l’indizione della conferenza quando l’attività sia subordinata a più atti di assenso,
ovvero possono comunque chiedere che si proceda con modalità sincrona; l’indizione della conferenza
è comunque comunicata ai soggetti di cui all’articolo 7, i quali possono intervenire nel procedimento ai
sensi dell’articolo 9. I privati inoltre, debbono essere sentiti qualora l’amministrazione intenda
concludere la procedura a fronte di assensi con condizioni e prescrizioni. L’eventuale determinazione
negativa di conclusione del procedimento produce gli effetti di cui all’articolo 10 bis.
La legge disciplina il procedimento della conferenza di servizi individuando due distinte modalità: la
conferenza semplificata che costituisce il modulo preferenziale, e la conferenza simultanea. La prima
figura, a carattere necessario e ordinario, è organizzata in modalità asincrona, dunque consentendo
che la volontà si formi in modo non simultaneo. Le comunicazioni avvengono mediante l’utilizzo della
posta elettronica o in cooperazione applicativa. In sostanza, la conferenza semplificata (articolo 14 bis)
è la sede destinata ad assumere decisioni semplici, al contempo mirando ad acquisire assensi anche
implicitamente. Ove questo tentativo di concludere il procedimento senza un vero confronto fallisca si
procederà con la conferenza simultanea. La conferenza è indetta dall’amministrazione procedente
entro 5 giorni lavorativi dall’inizio del procedimento d’ufficio o dal ricevimento della domanda, se il
procedimento è ad iniziativa di parte. L’amministrazione procedente comunica alle altre
amministrazioni interessate una serie di dati : l’oggetto della determinazione da assumere, l’istanza e la
relativa documentazione ecc. Entro il termine perentorio non superiore a 15 giorni le amministrazioni
coinvolte possono richiedere integrazioni documentali o chiarimenti relativi ai fatti, stati o qualità non
attestati in documenti già in possesso dell’amministrazione stessa o non direttamente acquisibili
presso altre pubbliche amministrazioni. Entro il termine perentorio, comunque non superiore a 45
giorni entro il quale le amministrazioni coinvolte devono rendere le proprie determinazioni relative alla
decisione oggetto della conferenza: motivate, esse sono formulate in termini di assenso o dissenso e
indicano ove possibile, le modifiche eventualmente necessarie ai fini dell’assenso. Se tra le suddette
amministrazioni vi sono amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei
beni culturali, o alla tutela della salute dei cittadini, ove l’ordinamento non preveda un termine diverso, il
suddetto termine è fissato in 90 giorni; infine comunica la data della eventuale riunione in modalità
sincrona.

In proposito va osservato che la legge introduce vari meccanismi volti a superare l’inerzia dei soggetti
pubblici coinvolti o altri ostacoli o, comunque, ad agevolare la conclusione del procedimento, così
rafforzando la natura di meccanismo decisionale dell’istituto. In primo luogo, fatti salvi i casi in cui
disposizioni del diritto dell’Unione europea richiedono l’adozione di provvedimenti espressi, la mancata
comunicazione della determinazione entro il termine di legge, oppure la comunicazione di un dissenso
che non sia tempestivo, motivato, costruttivo e pertinente, equivalgono ad un assenso senza
condizioni. In secondo luogo, scaduto il termine perentorio, l’amministrazione procedente adotta la
determinazione motivata di conclusione positiva della conferenza, qualora abbia acquisito
esclusivamente atti di assenso non condizionato, anche implicito, oppure quando ritenga, sentiti i privati
e le altre amministrazioni interessate, che le condizioni e prescrizioni eventualmente indicate dalle
amministrazioni ai fini dell’assenso o del superamento del dissenso possano essere accolte senza
necessità di apportare modifiche sostanziali alla decisione oggetto della conferenza. Soltanto qualora
abbia acquisito uno o più atti di dissenso che non ritenga superabili, l’amministrazione procedente
adotta la determinazione di conclusione negativa della conferenza che produce l’effetto del rigetto della
domanda.

Qualora sorgano difficoltà o, in ragione della complessità originaria della questione, ciò sia ritenuto
opportuno per definire la conferenza, è possibile utilizzare la seconda forma e cioè la conferenza di
servizi in forma simultanea (articolo 14 ter l. 241/1990) e in modalità sincrona, che implica la
partecipazione (presenza fisica o partecipazione in via telematica) dei rappresentanti delle
amministrazioni coinvolte. Ai sensi dell’articolo 14 bis comma 6 fuori dei casi in cui abbia ricevuto solo
atti di assenso oppure abbia ritenuto il dissenso insuperabile, l’amministrazione procedente, ai fini
dell’esame contestuale degli interessi coinvolti, svolge nella data fissata e comunicata al momento
dell’indizione, la riunione della conferenza in modalità sincrona. In questa ipotesi la conferenza in
modalità sincrona è uno sviluppo di quella semplificata. l’amministrazione procedente può procedere ab
origine direttamente in forma simultanea e in modalità sincrona ove necessario in relazione alla
particolare complessità della determinazione da assumere. Infine può procedere in forma simultanea e
in modalità sincrona su richiesta motivata delle altre amministrazioni o del privato interessato. La prima
riunione si svolge con la partecipazione contestuale, ove possibile anche in via telematica dei
rappresentanti delle amministrazioni competenti. I lavori si concludono non oltre 45 giorni. Nei casi di
conferenza fin dall’inizio svolta in forma simultanea qualora siano coinvolte amministrazioni preposte
alla tutela ambientale, paesaggistivo-territoriale, dei veni culturali e della salute dei cittadini il termine è
fissato in 90 giorni. Ciascun ente o amministrazione convocato alla riunione è rappresentato da un
unico soggetto abilitato ad esprimere definitivamente e in modo unico e vincolante la posizione
dell’amministrazione stessa su tutte le decisioni di competenza della conferenza. Ove alla conferenza
partecipino anche amministrazioni non statali, le amministrazioni statali sono rappresentate da un unico
soggetto abilitato ad esprimere in modo univoco e vincolante la posizione di tutte le predette
amministrazioni. Alle riunioni della conferenza possono essere invitati gli interessati.

All’esito dell’ultima riunione l’amministrazione procedente adotta la determinazione motivata di


conclusione della conferenza sulla base delle posizioni prevalenti espresse dalle amministrazioni
partecipanti alla conferenza tramite i rispettivi rappresentanti: dunque non necessariamente sulla base
del mero criterio della maggioranza, ma in ragione della qualità delle posizioni. Non è escluso perciò
che l’amministrazione procedente segua la posizione minoritaria ove la ritenga più convincente. Si
considera acquisito l’assenso senza condizioni delle amministrazioni il cui rappresentante non abbia
partecipato alle riunioni (assenza assenso) oppure, pur partecipandovi, non abbia espresso la propria
posizione, oppure abbia espresso un dissenso non motivato o riferito a questioni che non costituiscono
oggetto della conferenza (presenza non collaborativa).

Circa gli effetti della conferenza, la determinazione motivata di conclusione della conferenza, adottata
dall’amministrazione procedente all’esito della conferenza, sostituisce a ogni effetto tutti gli atti di
assenso, comunque denominati, di competenza delle amministrazioni e dei gestori di beni o servizi
pubblici interessati. In caso di approvazione unanime, la determinazione è immediatamente efficace.
Nell’ipotesi di approvazione sulla base delle posizioni prevalenti, l’efficacia della determinazione è
sospesa ove siano stati espressi dissensi da parte di amministrazioni che curano interessi sensibili o da
parte di regioni e province autonome di Trento e di Bolzano e per il periodo utile all’esperimento dei
rimedi ivi previsti. L’articolo 14 quinquies introduce poi una disciplina speciale evidentemente fondata
sulle esigenze di proteggere alcuni interessi sensibili e di rispettare l’autonomia costituzionalmente
garantita ad alcuni enti. Più nel dettaglio, avverso la determinazione motivata di conclusione della
conferenza, entro 10 giorni dalla sua comunicazione, le amministrazioni preposte alla tutela ambientale,
paesaggistico territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei
cittadini possono opporre opposizione al Presidente del Consiglio dei ministri a condizione che abbiano
espresso in modo inequivoco il proprio motivato dissenso prima della conclusione dei lavori della
conferenza. Per le amministrazioni statali l’opposizione è proposta dal ministro competente. Possono
altresì proporre opposizione le amministrazioni delle regioni o delle province autonome di Trento e
Bolzano il cui rappresentante abbia manifestato un dissenso motivato in seno alla conferenza. La
proposizione dell’opposizione sospende l’efficacia della determinazione motivata di conclusione della
conferenza. A questo punto si tenta, prima, un’intesa e, in caso di ulteriore stallo, si apre la via alla
decisione finale da parte del Governo.

Il silenzio è l’inerzia dell’amministrazione. Il nostro ordinamento conosce varie forme di silenzio:


silenzio-rigetto, silenzio significativo, silenzio-inadempimento, silenzio devolutivo. Va immediatamente
rilevato che, almeno sulla carta, la regola da applicare salvo disposizione contraria quando
l’amministrazione rimane inerte è quella del silenzio-assenso, che è una delle tipologie del silenzio
significativo. Nell’ipotesi di silenzio significativo, l’ordinamento collega al decorso del termine la
produzione di un effetto equipollente all’emanazione di un provvedimento favorevole (silenzio assenso)
o di diniego (silenzio diniego) a seguito di istanza del privato titolare di un interesse pretensivo. Pochi
sono i casi di silenzio-diniego che vanno espressamente previsti dalla legge. Un esempio è costituito
dalla fattispecie disciplinata dall’articolo 53 comma 10 d.lgs 165/2001 ai sensi del quale
l’autorizzazione richiesta da dipendenti pubblici all’amministrazione di appartenenza ai fini dello
svolgimento di incarichi retribuiti si intende definitivamente negata quando, a seguito della
presentazione della richiesta che non attenga a incarichi da conferirsi da amministrazioni pubbliche sia
inutilmente decorso il termine di 30 giorni per provvedere. Un’altra ipotesi è prevista dall’articolo 25
legge 241 del 1990 in materia di accesso ai documenti amministrativi. Il silenzio assenso costituisce
invece oggi la regola nel nostro ordinamento per i procedimenti ad istanza di parte, anche se sono
previste importanti eccezioni. Articolo 20 legge 241 del 1990 dispone che fatta salva l’applicazione
dell’articolo 19, nei procedimenti a istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi il
silenzio dell’amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda,
senza necessità di ulteriori istanze o diffide , se la medesima amministrazione non comunica
all’interessato nel termine di cui all’articolo 2 il provvedimento di diniego, ovvero non procede ai sensi
del comma 2 ( e cioè non indice una conferenza di servizi). Il campo di applicazione dell0istituto in
sostanza, coincide con i procedimenti a istanza di parte. Il comma 4 tipizza una serie di eccezioni
importanti, in ordine alle quali il silenzio non può valere come assenso ma, salvi i casi di silenzio rigetto,
va qualificato come silenzio inadempimento: la deroga opera con riferimento ai casi di procedimenti
riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, l’ambiente, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza
e l’immigrazione, l’asilo e la cittadinanza, la salute e la pubblica incolumità, i casi in cui la normativa
europea impone l’adozione di provvedimenti amministrativi formali, i casi in cui la legge qualifica il
silenzio dell’amministrazione come rigetto dell’istanza, nonché i procedimenti individuati con uno o più
decreti del Presidente del Consiglio dei ministri su proposta del ministro per la funzione pubblica, di
concerto con i ministri competenti. Queste eccezioni corrispondono all’area in ordine alla quale
l’amministrazione dovrebbe provvedere espressamente su istanza del privato sempre che sussista il
dovere di procedere.

Al fine di evitare la formazione del silenzio, l’amministrazione competente può operare in tre modi: può
provvedere espressamente, può comunicare all’interessato il provvedimento di diniego oppure può
indire una conferenza di servizi. Successivamente alla formazione del silenzio, l’amministrazione
competente può assumere determinazioni in via di autotutela, procedendo alla revoca, all’annullamento
d’ufficio o alla convalida. La sussistenza di questi poteri espone l’attività del privato assentita mediante
silenzio ad una certa instabilità. A seguito della formazione del silenzio assenso, secondo la
giurisprudenza, l’amministrazione può comunque ancora provvedere in modo espresso. In relazione al
silenzio assenso può in ogni caso predicarsi un giudizio di esistenza-inesistenza oppure di legittimità-
illegittimità: vi sono infatti elementi la cui assenza determina la mancata formazione del silenzio
assenso e altri che incidono solo sulla sua legittimità. La dichiarazione mendace o falsa ad esempio
impedisce la formazione del silenzio assenso.

In virtù dell’articolo 20 legge 241 del 1990 il silenzio è equiparato al provvedimento favorevole, e questo
spiega perché il cittadino sia titolare di un interesse legittimo, anche se nell’ipotesi di silenzio non vi è in
realtà alcun esercizio di potere ma un mero fatto, ossia l’inerzia. Il cittadino pregiudicato dagli effetti del
silenzio potrà impugnare davanti al giudice amministrativo il silenzio stesso che assuma illegittimo.
Silenzio devolutivo - Una tipologia differente di silenzio è quella relativa ai rapporti tra
amministrazioni. In primo luogo l’inutile decorso del termine consente al soggetto pubblico procedente
di completare il procedimento pur in assenza di un parere obbligatorio oppure di rivolgersi ad un’altra
amministrazione al fine di ottenere una valutazione tecnica non resa dall’amministrazione alla quale è
stata inizialmente richiesta. Non si tratta di un effetto di assenso, bensì nella possibilità di procedere nel
farsi del potere. A fronte di interessi sensibili il meccanismo devolutivo non opera, sicché l’inerzia non è
in tali ipotesi superabile. Il silenzio assenso tuttavia è ammesso anche nei rapporti tra amministrazioni
con riferimento agli atti di assenso, ai concerti e ai nulla osta, e ciò vale anche se essi sono relativi a
interessi sensibili.

Veniamo ora al silenzio inadempimento, o silenzio rifiuto, che è un mero fatto. Il suo campo di
applicazione si ricava dalla lettura dell’articolo 2 in combinato disposto con l’articolo 20. Siffatto ambito
è quello in cui operano le eccezioni al silenzio assenso e in cui dunque l’amministrazione deve
provvedere in modo espresso. Si tratta di ipotesi molto rilevanti, che attengono in gran parte a interessi
critici: il silenzio-inadempimento dunque continua ad essere un istituto centrale nel diritto
amministrativo. La disciplina dell’istituto si ricava dall’articolo 2 l.241: trascorso il termine fissato per la
conclusione del procedimento, il silenzio può ritenersi formato. A partire da tale momento, senza
necessità di ulteriore diffida, decorre il termine per proporre ricorso giurisdizionale, volto ad ottenere
una pronuncia con cui il giudice ordina all’amministrazione di provvedere, potendosi spingere a
conoscere della fondatezza dell’istanza. Il ricorso può essere proposto fintanto che perdura
l’inadempimento e dunque sono ammessi provvedimenti tardivi, salvi i profili di eventuale responsabilità
dell’amministrazione in caso di inosservanza dolosa o colposa del termine che abbia cagionato un
danno ingiusto e l’applicabilità della disciplina relativa all’indennizzo da ritardo. Il silenzio rigetto si
forma nei casi in cui l’amministrazione, alla quale sia stato indirizzato un ricorso amministrativo,
rimanga inerte. Oggi la disciplina è stabilita dal d.p.r 1199/1971 il quale dispone che il ricorso si ritiene
respinto trascorsi 90 giorni dalla presentazione del ricorso gerarchico.

L’espressione segnalazione certificata e l’acronimo Scia sostituiscono rispettivamente quelle di


dichiarazione di inizio attività e Dia ed è disciplinata dall’articolo 19 legge 241 del 1990. La norma
prevede un meccanismo di sostituzione con una segnalazione di un ampio spettro di provvedimenti: si
tratta di ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta
comunque denominato, comprese le domande per le iscrizioni in albi o ruoli richieste per l’esercizio di
attività imprenditoriale, commerciale o artigianale il cui rilascio dipenda esclusivamente
dall’accertamento di requisiti e presupposti richiesti dalla legge o da atti amministrativi a contenuto
generale, e non sia previsto alcun limite o contingente complessivo o specifici strumenti di
programmazione settoriale per il rilascio degli atti stessi. La segnalazione va corredata dalle
dichiarazioni sostitutive di certificazioni e dell’atto di notorietà per quanto riguarda tutti gli stati, le qualità
personali e i fatti previsti, nonché, ove espressamente previsto dalla normativa vigente, dalle
attestazioni e asseverazioni di tecnici abilitati, ovvero dalle dichiarazioni di conformità da parte
dell’Agenzia delle imprese. È previsto dal d.lgs 126/2016 che le amministrazioni statali adottino moduli
unificati e standardizzati che definiscono esaustivamente, per tipologia del procedimento, i contenuti
tipici e la relativa organizzazione dei dati delle istanze, delle segnalazioni e delle comunicazioni,
nonché della documentazione da allegare. Sul sito istituzionale di ciascuna amministrazione è indicato
lo sportello unico, di regola telematico, al quale presentare la SCIA. Inoltre se per lo svolgimento di
un’attività soggetta a scia sono necessarie altre scia, comunicazioni, attestazioni, asseverazioni e
notifiche, l’interessato presenta un’unica SCIA allo sportello unico. L’articolo 19 bis comma 3 si occupa
altresì dei casi in cui l’attività oggetto di scia sia condizionata all’acquisizione di atti di assenso
comunque denominati o pareri di altri uffici e amministrazioni, ovvero all’esecuzione di verifiche
preventive. In tale caso l’interessato presenta allo sportello unico la relativa istanza a seguito della
quale è rilasciata ricevuta; la legge a questo punto valorizza l’istituto della conferenza di servizi.

SCIA si tratta dunque di un meccanismo che opera con riferimento a fattispecie permissive. Invero
sono previste delle importanti eccezioni articolo 19 comma 1 : si tratta dei casi in cui sussistono vincoli
ambientali, paesaggistici o culturali e degli atti rilasciati dalle amministrazioni preposte alla difesa
nazionale, alla pubblica sicurezza, all’immigrazione, all’asilo, alla cittadinanza, all’amministrazione della
giustizia, all’amministrazione delle finanze ivi compresi gli atti concernenti le reti di acquisizione del
gettito, anche derivante dal gioco, nonché di quelli previsti dalla normativa per le costruzioni in zone
sismiche e di quelli imposti dalla normativa comunitaria. La disciplina di cui all’articolo 19 non si applica
poi alle attività economiche a prevalente carattere finanziario.

Una volta ricevuta la segnalazione, l’amministrazione competente dispone di diverse tipologie di poteri
per ripristinare la legalità. In primo luogo, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti,
nel termine di sessanta giorni dal ricevimento della segnalazione, adotta motivati provvedimenti di
divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa. Qualora sia
possibile conformare l’attività intrapresa e i suoi effetti alla normativa vigente, l’amministrazione
competente, con atto motivato, invita il privato a provvedere prescrivendo le misure necessarie con la
fissazione di un termine per l’adozione di queste ultimi: in difetto di adozione delle misure da parte del
privato, decorso il suddetto termine, l’attività si intende vietata. Vi è poi un secondo potere di intervento,
consistente nel divieto di prosecuzione dell’attività e nella rimozione degli eventuali effetti, esercitabile
decorso il termine di sessanta giorni in presenza delle condizioni previste dalla norma sull’annullamento
d’ufficio. Poi restano ferme le attribuzioni di vigilanza, prevenzione e controllo su attività soggette ad atti
di assenso da parte di PA previste da leggi vigenti, anche se è stato dato inizio all’attività mediante lo
strumento della segnalazione. Infine è previsto che in caso di dichiarazioni mendaci o di false
attestazioni, non è ammessa la conformazione dell’attività e dei suoi effetti a legge o la sanatoria e il
dichiarante è sanzionato penalmente.

Per quanto riguarda le possibilità per il terzo di ottenere tutela, la legge consente al terzo, contro-
segnalato, di sollecitare i poteri di intervento dell’amministrazione, utilizzando, a fronte dell’eventuale
inerzia, esclusivamente lo strumento del ricorso contro il silenzio. Tuttavia va osservato che le effettive
possibilità di tutela per il terzo sono ridotte. Infatti, decorsi sessanta giorni, si restringe notevolmente la
possibilità di ottenere un ripristino della legalità: vero è che il privato può attivare i poteri inibitori e di
rimozione, ma ciò solo in presenza delle condizioni previste dalla norma sull’annullamento d’ufficio,
sicché si allarga il compasso della discrezionalità dell’amministrazione e dunque non è più possibile
ripristinare la legalità sul mero presupposto dell’assenza dei requisiti di legge. Il terzo sarebbe
pienamente tutelato solo dall’esercizio del potere inibitorio di ripristino della legalità che ha carattere
vincolato, e che dunque richiede la semplice verifica della sussistenza/insussistenza dei presupposti di
legge, ma che può essere esercitato soltanto entro sessanta giorni. Molto spesso tuttavia il contro-
segnalato, in assenza di una norma che imponga di comunicargli la presentazione della SCIA, viene a
conoscenza dell’esistenza della SCIA medesima quando già è trascorso questo termine e, dunque, in
un momento in cui è svanito il potere di ripristinare la legalità più utile ai suoi fini.

Tradizionalmente l’atto amministrativo è definito come qualsiasi manifestazione di volontà, desiderio,


giudizio o conoscenza proveniente da una PA nell’esercizio di una potestà amministrativa. Nell’ambito
degli atti amministrativi riveste però peculiare importanza il provvedimento, atto con cui si chiude il
procedimento amministrativo. Soltanto il provvedimento è dotato di effetti sul piano dell’ordinamento
generale. Anche gli atti non provvedimentali hanno un effetto giuridico: tuttavia esso si esaurisce in un
ambito giuridico differente, interno alla sfera dell’amministrazione, proprio perché essi non sono
suscettibili di incidere su situazioni giuridiche di terzi, riconosciute dall’ordinamento e protette in primo
luogo nei confronti dell’amministrazione. Tali atti (come pareri, proposte, valutazioni tecniche e così via)
hanno in linea di massima funzione strumentale o accessoria rispetto ai provvedimenti.

Guardando alla struttura del provvedimento, esso è composto di norma da una intestazione, nella
quale è indicata l’autorità emanante, da un preambolo, in cui sono enunciate le circostanze di fatto e
quelle di diritto, delineando così il quadro normativo e fattuale nel cui contesto l’atto è emanato
( introdotto dalle formule quali fato che , premesso che), dalla motivazione, che indica le ragioni
giuridiche e i presupposti di fatto del provvedere, talora essa non si distingue dal preambolo, e dal
dispositivo, il quale rappresenta la parte precettiva del provvedimento e contiene la concreta
statuizione posta in essere dall’amministrazione ( esso è di norma introdotto da espressioni tipo ordina,
delibera, autorizza). Il provvedimento è poi datato e sottoscritto, indicando anche il luogo della sua
emanazione. Una certa rilevanza la presentano pure elementi estrinseci, quali gli atti preparatori,
concomitanti e successivi, mentre non riveste importanza decisiva la denominazione data all’atto.

Per quanto riguarda l’interpretazione del provvedimento amministrativo, si applicano agli atti
amministrativi alcune tra le norme poste dal codice civile per l’interpretazione del contratto: si
attribuisce rilevanza all’intenzione del soggetto e al comportamento complessivo, si interpretano le
clausole una per mezzo delle altre, le disposizioni devono essere interpretate nel senso in cui possono
avere qualche effetto. Non è poi ammissibile l’interpretazione autentica vincolante per i terzi da parte
dell’amministrazione autrice dell’atto: possibilità questa riconosciuta solo al legislatore.
L’interpretazione, fornita dall’amministrazione, difforme dal provvedimento interpretato vale dunque
come provvedimento nuovo e modificativo, avente valore solo per il futuro, mentre l’interpretazione
autentica conforme al provvedimento originario in realtà conferma l’operatività dell’atto interpretato.

Componente fondamentale del provvedimento è la volontà intesa come volontà procedimentale. Il


provvedimento è un atto di disposizione in ordine all’interesse pubblico che l’amministrazione deve
perseguire e che si correla con l’incisione di altrui situazioni soggettive. Il provvedimento è
estrinsecazione di un potere rivolto al perseguimento del pubblico interesse, e questo potere, purchè
siano rispettate le norme di relazione esiste ed è per definizione autoritativo. Pertanto, una volta
esercitato attraverso il provvedimento esso opera comunque nei confronti delle situazioni soggettive,
indipendentemente dal modo di esercizio, legittimo o illegittimo, del potere. Il provvedimento presenta
come caratteristiche l’autoritatività è cioè connotazione del potere comunque rivolto alla cura dei
pubblici interessi e preordinato alla produzione di effetti giuridici in capo a terzi, ed è propria di ogni
provvedimento amministrativo con cui tale potere si esercita, indipendentemente dalla natura
favorevole o sfavorevole degli effetti: così intesa, essa ricorre pure nelle ipotesi in cui la produzione
dell’effetto sia subordinata ad un consenso del destinatario dell’atto. Unilateralità: il provvedimento è
sempre caratterizzato dal perseguimento unilaterale di interessi pubblici e dalla produzione unilaterale
di vicende giuridiche sul piano dell’ordinamento generale in ordine a situazioni giuridiche dei privati. La
possibilità per l’amministrazione di produrre in un caso puntuale e concreto una vicenda giuridica
presuppone che il legislatore abbia ritenuto prevalente l’interesse pubblico rispetto a quello privato,
attribuendo il potere all’amministrazione, descrivendo gli elementi in cui esso si articola, destinati a
trasfondersi nel provvedimento e individuando il tipo di effetto prodotto sulla situazione giuridica del
destinatario dell’atto. Di qui l’esigenza di una previa definizione del tipo di vicenda giuridica prodotto
dall’esercizio del potere: nel che consiste la tipicità del provvedimento amministrativo. La PA, per
conseguire gli effetti tipici, può inoltre ricorrere soltanto agli schemi individuati in generale dalla legge: è
questo il c.d. principio di nominatività il quale sembra dover essere riferito al provvedimento e al
potere. La distinzione tra nominatività e tipicità si percepisce con maggior chiarezza ove si pensi alle
ordinanze di necessità e urgenza, atti nominati perché previsti dall’ordinamento ma i cui effetti non sono
compiutamente predefiniti dalla legge, e in questo senso non sono dunque completamente tipizzati:
così Sorace.

Ai sensi dell’articolo 21 septies legge 241/1990 è nullo il provvedimento amministrativo che manca
degli elementi essenziali. L’articolo disvela che esistono elementi essenziali del provvedimento, ma
non si dà cura di definire quali essi siano. Dunque la loro individuazione è rimessa all’elaborazione
della giurisprudenza e della dottrina. Si tratta di quegli elementi la cui assenza impedisce al
provvedimento di venire in vita o meglio, di quegli elementi che costituiscono i limiti del potere attribuito
all’amministrazione di cui il provvedimento è espressione. Infatti ove l’amministrazione non rispetti la
norma attributiva del potere nella parte in cui ne individua un limite, il potere stesso non può ritenersi
esistente in capo ad essa e il provvedimento è emanato in condizioni di carenza di potere. Difettando il
potere, manca la possibilità di produrre l’effetto e la vicenda giuridica non si verifica. Gli elementi del
provvedimento tradizionalmente considerati essenziali sono: il soggetto, il contenuto dispositivo,
l’oggetto, la finalità e la forma.

Innanzitutto è necessario che il provvedimento venga emanato dal soggetto a cui il relativo potere è
stato conferito. Il potere è conferito ad un soggetto pubblico dotato di personalità giuridica. La
violazione della norma relativa ai limiti soggettivi del potere determina la nullità del provvedimento. In
alcune ipotesi la giurisprudenza afferma che anche gli atti emanati da alcuni soggetti privati sarebbero
amministrativi. In ogni caso lo svolgimento da parte di un’autorità di una potestà spettante ad altro ente
dà luogo ad un atto che non produce effetti tipici: parte della dottrina parla di straripamento di potere
o di incompetenza assoluta. L’articolo 21 septies esprime il medesimo concetto impiegando un’altra
locuzione là dove afferma che è nullo l’atto viziato da difetto assoluto di attribuzione. Il potere
consiste nella possibilità di produrre una determinata vicenda giuridica: è questo il contenuto
dispositivo del potere. La dottrina distingue tra contenuto necessario (consistente appunto nella
vicenda giuridica tipizzata dalla legge) contenuto accidentale e contenuto implicito o naturale del
provvedimento. L’insieme delle disposizioni, dette anche clausole accessorie, che la volontà
dell’amministrazione può introdurre nell’atto, in aggiunta a quelle che ne costituiscono il contenuto
necessario, costituisce il contenuto eventuale o accidentale dell’atto: si tratta delle condizioni, del
termine e del modo. Sono opponibili ai provvedimenti le condizioni sempre che l’amministrazione
disponga di discrezionalità: è dunque possibile subordinare la produzione (condizione sospensiva) o la
cessazione dell’effetto ( condizione risolutiva) al verificarsi di un evento futuro e incerto. In ordine al
termine va notato che spesso la limitazione temporale dell’efficacia di un atto deriva direttamente dalla
legge ( si pensi alla durata dell’occupazione di urgenza) sicchè non si può parlare di contenuto
accidentale. Per quanto attiene al modo, l’opinione negativa in ordine alla sua apponibilità ai
provvedimenti si giustifica in quanto esso è proprio dei soli atti di liberalità. Va però notato che in taluni
casi l’effetto muta e si amplia, sicché non è corretto parlare di contenuto accidentale. Molte
autorizzazioni in materia ambientale, ad esempio, esibiscono un contenuto conformativo rispetto
all’attività del privato e dunque hanno in realtà l’effetto di imporre comportamenti e obblighi: si tratta
appunto di clausole prescrittive-condizionali riferibili al contenuto decisionale dell’atto e non all’area
degli elementi accidentali/facoltativi. Il contenuto implicito o naturale del provvedimento è costituito
dalle disposizioni operanti in virtù della legge, pur se non richiamate nel provvedimento. L’illegittimità
della clausola o l’apposizione di clausole non consentite non rende illegittimo il provvedimento nella sua
interezza nei casi in cui si tratti di atto dovuto, oppure allorché si tratti di clausola volta ad estendere i
normali effetti dell’atto o, venendo a restringerli, operi su particolari effetti secondari.

L’oggetto è il termine passivo della vicenda che verrà a prodursi a seguito dell’azione amministrativa:
esso deve essere lecito, possibile, determinato o determinabile. L’oggetto può di volta in volta essere il
bene, la situazione giuridica o l’attività destinati a subire gli effetti giuridici prodotti dal provvedimento.
Per quanto riguarda la finalità del provvedimento, il potere e il corrispondente provvedimento sono
caratterizzati dalla preordinazione alla cura dell’interesse pubblico che è risultato vincente nel giudizio
di bilanciamento tra valori diversi, risolto dalla norma di relazione. ( finalità o causa del potere). La
legge attributiva del potere può inoltre prevedere che l’atto debba rivestire una certa forma a pena di
nullità. Di norma si tratta della forma scritta, anche se non mancano esempi di esternazioni dell’atto in
forma orale o comunque non scritte. In materia si afferma di solito che vigerebbe il principio della libertà
delle forme: l’osservazione è esatta ma attiene ai casi, in fondo abbastanza limitati, in cui la legge non
prescriva una forma di esternazione.

Le conseguenze che l’ordinamento prevede con riferimento ai casi in cui il provvedimento sia difforme
dal paradigma normativo variano a seconda del tipo di norma non rispettata: il provvedimento emanato
in violazione delle norma attributive del potere è nullo; ove invece esso sia difforme dalle norme di
azione che disciplinano l’esercizio del potere va qualificato come annullabile, fatta salva l’applicazione
dell’art 21 octies legge 241/1990. La dottrina amministrativistica anche sulla scorta delle elaborazioni
della scienza privatistica, riconduce nullità e annullabilità nell’ambito della categoria della invalidità,
consistente nella difformità dell’atto dalla normativa che lo disciplina. Di invalidità del provvedimento
parla oggi anche la rubrica del capo IV bis l. 241/1990 che disciplina nullità e annullabilità. L’articolo 21
septies si occupa della nullità tipizzando alcuni casi in cui essa ricorre, a differenza di quanto accade
nel diritto civile dove, accanto a ipotesi tipiche, coesiste la fattispecie residuale atipica. A differenza
della disciplina codicistica, non si parla espressamente di contrarietà a norme imperative o all’ordine
pubblico o al buon costume né di mancanza di requisiti di determinatezza , determinabilità e possibilità
dell’oggetto. Mentre nel diritto civile si parla di nullità in caso di contrarietà a norme imperative, nel
diritto amministrativo la contrarietà a norme imperativo comporta di regola l’annullabilità. La prima
categoria di nullità presa in considerazione dalla legge 241/1990 è quella strutturale: è nullo il
provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali. La legge non fa alcun cenno
categoria dell’atto illecito e di quello inesistente; inesistenza si tratta di una categoria elaborata
soprattutto dalla dottrina: essa conseguirebbe a un vizio più radicale dell’atto, il quale non sarebbe
neppure rilevante giuridicamente. Va aggiunto che i tentativi di individuare casi concreti in cui venga
violata una norma delimitativa del potere ( e si abbia dunque carenza di potere) sono destinati a
risultare poco fruttuosi: le ipotesi configurabili (atto emanato da un’autorità diversa da quella avente il
potere, provvedimento avente un oggetto impossibile) sono in sostanza scolastiche e a esse in ragione
della abnormità dell’atto che sarebbe posto in essere va probabilmente riferita la nullità (o
l’inesistenza). Poi con riferimento ad uno di questi casi, quello relativo al vizio attinente al profilo
soggettivo, l’articolo 21 septies individuando una specifica ipotesi di nullità, parla al riguardo di difetto
assoluto di attribuzione. In proposito va osservato che la mancanza di potere può presentarsi sia
come carenza in astratto, che comporta la nullità, sia come carenza di potere in concreto. In tal caso
tuttavia il potere non manca totalmente: sia pur ridotta, una estrinsecazione del potere sussiste perché
in astratto esso c’è, in quanto le norme attributive del potere sono state osservate e ciò basta perché il
suo esercizio mantenga quel tanto di autoritatività che gli consente di esplicare effetti giuridici pur se al
suo cospetto il privato rimane titolare di un diritto. (si pensi ad esempio al decreto di espropriazione
emanato dopo la scadenza del termine fissato nella dichiarazione di pubblica utilità). In ogni caso, sul
piano sostanziale, il regime del provvedimento emanato in una situazione di carenza di potere in
concreto si riconduce in senso proprio a quello che è stato denominato in dottrina con il termine
illiceità. L’atto lesivo di norme di relazione, perché emanato in carenza di potere in concreto produce
dunque effetti , anche indipendentemente dalla esecuzione materiale dell’atto illecito, e infatti esso è
causa di responsabilità in capo all’amministrazione per risarcimento del danno. L’atto non è però
annullabile dal giudice ordinario né dal giudice amministrativo, la cui giurisdizione è esclusa
dall’assenza di un interesse legittimo (si ricordi che l’atto è emanato in violazione di una norma di
relazione e non di azione). Il rimedio è costituito dalla disapplicazione, per cui si può dire che la
disapplicazione sta all’atto illecito come l’annullamento sta all’atto illegittimo. Il regime sostanziale di
tale atto illecito – non è nullo in quanto produce effetti e neppure annullabile ( da parte del giudice
amministrativo in quanto la situazione del privato è di diritto soggettivo) è appunto quella della
inapplicabilità.

Poi è stabilita dall’articolo 133 d.lgs 104/2010 (codice del processo amministrativo) una terza ipotesi di
nullità con riferimento al provvedimento adottato in violazione o elusione del giudicato. La norma
precisa che le questioni inerenti alla nullità dei provvedimenti amministrativi in violazione o elusione del
giudicato sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. L’articolo 114 comma 4
lett. C c.p.a si occupa poi degli atti in violazione o elusione di sentenze non ancora passate in
giudicato, stabilendo che essi sono considerati dal giudice inefficaci. Il problema della qualificazione
dell’atto non conforme al paradigma normativo non si pone ogniqualvolta la nullità sia prevista
espressamente dalla legge: a queste ipotesi si riferisce l’articolo 21 septies quando afferma che l’atto è
pure nullo negli altri casi espressamente previsti dalla legge. (quarta ipotesi di nullità). Al cospetto
di un atto nullo, il privato dovrebbe essere titolare di un diritto soggettivo, sicché la cognizione della
questione spetterebbe al giudice ordinario, salvi i casi di giurisdizione esclusiva per atti elusivi o in
violazione di giudicato. Parte della giurisprudenza ritiene tuttavia possibile che a fronte di un atto nullo
sussista un interesse legittimo, per cui sussisterebbe la giurisdizione del giudice amministrativo. Questa
soluzione parrebbe sposata dal codice del processo amministrativo, che disciplina l’azione di nullità
dinanzi al giudice amministrativo senza riferirsi alla sola giurisdizione esclusiva e, quindi, dando per
presupposto che il privato possa essere titolare di interessi legittimi: seguendo questa impostazione, di
atti nulli conoscerebbe il giudice ordinario o quello amministrativo a seconda che essi ledano un diritto o
un interesse legittimo.

L’atto emanato nel rispetto delle norme attributive del potere ma in difformità di quelle di azioni è in
linea di principio affetto da illegittimità ed è sottoposto al regime dell’annullabilità. L’atto annullabile
produce gli stessi effetti dell’atto legittimo; tuttavia questi effetti sono precari, nel senso che
l’ordinamento prevede strumenti giurisdizionali per eliminarli. L’illegittimità può essere di quatto tipi:
originaria, sopravvenuta, derivata o parziale. L’illegittimità originaria si determina con riferimento alla
normativa in vigore al momento della perfezione dell’atto. la normativa sopravvenuta successivamente
all’emanazione del provvedimento in generale non incide sula validità dello stesso: il mutato quadro
normativo può aprire piuttosto la via all’adozione di provvedimenti di riesame. Tuttavia un caso certo di
illegittimità sopravvenuta si riscontra nelle rare ipotesi in cui una legge retroattiva incida sugli atti già
emanati e risultanti in contrasto con la nuova disciplina. Si ha illegittimità derivata nel caso di
annullamento di un atto che costituisce il presupposto di altro atto. l’illegittimità parziale si riscontra
allorché solo una parte del contenuto sia illegittimo, sicché soltanto essa sarà oggetto di annullamento,
salvo che eliminandola non sia più possibile configurare come tale l’atto amministrativo: la restante
parte, purché sia appunto configurabile come atto amministrativo, resta in vigore determinando
comunque una modificazione del contenuto originario dell’atto.

L’elenco delle cause di illegittimità si ricava dall’articolo 21 octies l.241/1990 ai sensi del quale è
annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di
potere o da incompetenza. L’articolo 21 nonies si occupa invece dell’annullamento d’ufficio dell’atto
illegittimo e della sua convalida. Tuttavia, ai sensi dell’art 21 octies comma 2 legge 241/1990, il
provvedimento difforme dal paradigma normativo non è in taluni casi annullabile. In generale ci si
riferisce ai vizi formali per indicare i casi in cui venga violata una norma il cui rispetto non avrebbe
assicurato una decisione diversa che, quindi, non va annullata. Ai sensi del comma 2 non è annullabile
il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti ma, per la
natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo inoltre non è annullabile
per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio
che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
La disposizione di cui al secondo periodo non si applica al provvedimento adottato in violazione
dell'articolo 10 bis(1) COMMA MODIFCATO DAL D.L 76/2020 Va osservato che tra i vizi che possono essere salvati con il
meccanismo dell’art 21 octies non compare l’incompetenza. Vi è una differenza tra le due ipotesi
previste dall’art 21 octies comma 2: la prima concerne i vizi procedimentali (vizio della motivazione) e
di forma (errata indicazione del numero del protocollo) e richiede che l’attività sia vincolata e che sia
palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato; la seconda consente di salvare il provvedimento dall’annullamento a seguito della
dimostrazione in sede processuale da parte dell’amministrazione dell’immutabilità del suo contenuto
dispositivo quando sia mancata la comunicazione dell’avvio del procedimento, e dunque si applica
anche ai provvedimenti discrezionali.

I vizi di legittimità degli atti amministrativi e cioè le concrete cause di illegittimità degli stessi sono:
l’incompetenza, la violazione di legge e l’eccesso di potere. L’analisi dei vizi va condotta tenendo conto
che essi conseguono alla violazione delle norme di azione e, cioè, delle disposizioni che attengono
alla modalità di esercizio di un potere. Ciò precisato, si suole denominare incompetenza il vizio che
consegue alla violazione della norma di azione che definisce la competenza dell’organo e cioè il
quantum di funzioni spettante all’organo. L’incompetenza può aversi per materia, per valore, per grado
o per territorio. L’incompetenza per territorio ricorre soltanto allorchè un organo eserciti una
competenza di un altro organo dello stesso ente che disponga però di diversa competenza territoriale
ad esempio prefetto invade la competenza di un altro prefetto, mentre ove si eserciti la competenza
spettante ad organo di altro ente territoriale la conseguenza sarà la nullità dell’atto. Secondo una parte
della dottrina l’incompetenza territoriale darebbe luogo in ogni caso a nullità. Pur in presenza di alcune
posizioni contrarie in giurisprudenza, a tale vizio non si applica l’art 21 octies legge 241/1990. Non dà
luogo al vizio di incompetenza la violazione di una norma di relazione attinente all’elemento soggettivo:
in tal caso, talora definito in dottrina come incompetenza assoluta per contrapporla alla incompetenza
relativa che consegue alla violazione di norme di azione, l’atto sarà addirittura nullo per carenza di
potere. Non è inoltre corretto affermare che la violazione di tutte le norme che riguardano il soggetto
che esercita il potere diano luogo a incompetenza: questo vale solo se tali norme definiscono la
competenza, non già nelle ipotesi in cui esse disciplinano aspetti differenti, quali ad esempio la
costituzione dell’organo, l’investitura del titolare di un organo e le situazioni di incompatibilità. Il vizio di
violazione di legge sussiste allorché si violi una qualsiasi altra norma di azione generale e astratta che
non attenga alla competenza e sempre che, in caso di attività vincolata, non trovi applicazione l’articolo
21 octies . Ancorchè si parli di violazione di legge, il vizio ricorre dunque nelle ipotesi considerate, in
tutti i casi in cui sia violata una norma di azione indipendentemente dal fatto che essa sia contenuta
nella legge in senso formale ovvero in altra fonte. Dal punto di vista contenutistico la violazione di legge
abbraccia moltissime situazioni: in particolare sono assai importanti le violazioni procedimentali, i vizi di
forma, la carenza di presupposti fissati dalla legge, la violazione delle norme sulla formazione della
volontà collegiale e, secondo taluno, la violazione del principio di parità di trattamento ricavabile dagli
articoli 3 e 97 Costituzione.

Il vizio di eccesso di potere è il risvolto patologico della discrezionalità. Esso sussiste dunque quando
la facoltà di scelta spettante all’amministrazione non è correttamente esercitata. L’eccesso di potere
nasce dalla violazione di quelle prescrizioni che presiedono allo svolgimento della funzione che non
sono ravvisabili in via preventiva e astratta. Tali regole si sostanziano nel principio di logicità-congruità
applicato al caso concreto e la loro violazione è evidenziata dal giudice amministrativo in occasione
appunto del sindacato dell’eccesso di potere. Il giudizio di logicità-congruità va effettuato tenendo conto
dell’interesse primario da perseguire, degli interessi secondari coinvolti e della situazione di fatto. Il
principio di logicità-congruità racchiude dunque anche quello di proporzionalità. Eccesso di potere
comunque non significa straripamento di potere, che darebbe luogo a nullità dell’atto. L’eccesso di
potere è predicabile solo con riferimento agli atti discrezionali. Classica forma dell’eccesso di potere è
lo sviamento, che ricorre allorché l’amministrazione persegua un fine differente da quello per il quale il
potere le è stato conferito. Si ponga mente al diniego di un titolo abilitativo all’attività edilizia che sia
stato emanato per la tutela non già di interessi urbanistico-edilizi, bensì di quelli della viabilità. La
giurisprudenza ha poi elaborato una serie aperta di figure, dette figure sintomatiche, le quali sono
appunto il sintomo del non corretto esercizio del potere in vista del suo fine. Esse agevolano il compito
dell’interprete perché forniscono una sorta di catalogo delle situazioni in cui l’atto può risultare viziato
per eccesso di potere. Si afferma spesso che trattandosi di sintomi occorre verificare se a tali situazioni
si accompagni la divergenza tra fine perseguito e fine prefissato all’amministrazione (sviamento). Ai fini
dell’annullamento per il giudice rileva il sintomo senza che si avverta l’esigenza di compiere indagini
ulteriori, sicchè le manifestazioni in oggetto non sono sintomi dello sviamento inteso come unica forma
dell’ eccesso, ma autonome figure che si collocano sullo stesso piano dello sviamento e che causano
l’annullamento dell’atto. Esempi di figure sintomatiche sono: violazione della prassi; manifesta
ingiustizia ( sproporzione tra sanzione e illecito); la contraddittorietà tra più parti dello stesso atto ( tra
dispositivo e preambolo o motivazione) o tra più atti ( sanzione inflitta ad un militare immediatamente
dopo la redazione di note informative favorevoli); la disparità di trattamento tra situazioni simili (anche
se per alcuni autori si tratta di violazione di legge, in particolare articolo 3 e 97 cost); travisamento dei
fatti ( si assume a presupposto dell’agire una situazione che non sussiste in realtà); incompletezza e
difetto dell’istruttoria; inosservanza dei limiti, dei parametri di riferimento e dei criteri prefissati per lo
svolgimento futuro dell’azione. Sempre nell’ambito delle figure sintomatiche, un cenno specifico
meritano i vizi della motivazione e la violazione delle circolari e delle norme interne. Ricorre eccesso di
potere allorchè la motivazione sia insufficiente ( perché non considera alcune circostanze), incongrua
( in quanto dà peso indebito ad alcuni profili), contraddittoria, apodittica, dubbiosa ( quella che richiama
fatti che si assumono non certi), illogica e perplessa. In tali casi si parla di difetto di motivazione .
l’assenza di motivazione dà luogo al vizio di violazione di legge atteso che la motivazione è
obbligatoria ex articolo 3 legge 241 del 1990. Costituiscono figure di eccesso di potere anche le
violazioni di circolari, di ordini e di istruzioni di servizio e il mancato rispetto della prassi amministrativa .
Al riguardo va chiarito che tali atti e fatti non pongono norme giuridiche: in caso contrario la loro
violazione darebbe luogo a violazione di legge.

La circolare è un atto non avente carattere normativo mediante la quale l’amministrazione fornisce
indicazioni in via generale e astratta in ordine alle modalità con cui dovranno comportarsi in futuro i
propri dipendenti e i proprio uffici e dunque essenzialmente trasmette indicazioni, indirizzi, istruzioni e
prassi. È sintomo di una scelta non congrua adottare un atto in difformità dalle indicazioni fornite
nell’ambito dell’organizzazione in cui il centro decisionale è inserito, fatta salva la possibilità di
giustificare adeguatamente la scelta concreta che se ne discosta. La prassi amministrativa è il
comportamento costantemente tenuto da un’amministrazione nell’esercizio di un potere. Non si tratta di
fonte del diritto, tale qualifica spetta alla consuetudine che è il risultato del comportamento di una certa
generalità di consociati caratterizzata dalla opinio iuris et necessitatis.

Un importante requisito di validità, comune tra l’altro ad atti provvedi mentali e ad alcuni di quelli non
provvedi mentali, è la motivazione. Nel nostro ordinamento in passato non era stabilito un dovere
generale di motivazione degli atti amministrativi, e alla dottrina e alla giurisprudenza spettava il compito
di individuare quali atti dovessero essere motivati e quali non la richiedessero. Questo dovere è stato
introdotto dall’articolo 3 comma 1 legge 241/1990, secondo cui ogni provvedimento amministrativo,
compresi quelli concernenti l’organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi e il
personale, deve essere motivato. Fanno eccezione gli atti normativi e gli atti a contenuto generale. La
motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la
decisione amministrativa, in relazione alle risultanze dell’istruttoria. Se ravvisano la manifesta
irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della domanda, le PA concludono il
procedimento con un provvedimento espresso redatto in forma semplificata, la cui motivazione può
consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo. Il dovere di motivare
è soddisfatto con la motivazione per relationem, ossia se il provvedimento richiama un altro atto che
contenga esplicita motivazione e questo sia reso disponibile. Secondo parte della giurisprudenza, che
invero sembra frustrare la finalità della norma è sufficiente che il documento richiamato sia reso
disponibile e cioè che sia suscettibile di essere acquisito utilizzando l’istituto dell’accesso , escludendo
così la necessità che venga allegato. La motivazione deve comunque essere formata contestualmente
all’adozione della decisione onde non pare da seguire la tesi favorevole alla motivazione in corso di
giudizio pur talora sostenuta dalla giurisprudenza. Se l’obbligo di motivazione stabilito dall’articolo 3
legge 241/1990 riguarda i soli provvedimenti, ciò non significa ovviamente che gli atti non
provvedimentali non debbano essere motivati. Riguardo ad essi nulla è innovato: dunque continuano a
dover essere motivati gli atti riguardo ai quali dottrina e giurisprudenza avevano più o meno
concordemente sostenuto la necessità di motivazione. Ma sono pur oggi ammissibili atti non provvedi
mentali non motivati. Va osservato che la carenza di motivazione là dove prevista configura violazione
di legge, mentre una motivazione che pur esistente appaia insufficiente è sintomatica di un eccesso di
potere.

Il merito amministrativo è l'insieme delle soluzioni compatibili con il cannone di congruità-logicità che
regola l’azione discrezionale, distinguibili e graduabili tra di loro soltanto utilizzando criteri di opportunità
e di convenienza. Se l’legittimità è la difformità dell'atto dal paradigma normativo costituito dalle norme
di azione l'illegittimità per vizi di merito, o inopportunità, si verifica nei casi in cui la scelta discrezionale
confligge con tali criteri non giuridici. Di regola l’inopportunità del provvedimento è irrilevante, nel senso
che la legge si limita a richiedere che la scelta discrezionale sia legittima alla stregua del canone di
congruità-logicità, ossia non risulti viziata per eccesso di potere: ciò del resto è coerente con l’esigenza
di rispettare la sfera di azione dell’amministrazione. Talora tuttavia l’inopportunità assume rilevanza
perché l’ordinamento prevede la sua sindacabilità. I mezzi predisposti sono: il controllo di merito (ormai
superato), gli interventi in via di autotutela, i ricorsi amministrativi e i ricorsi giurisdizionali nell’ambito
della giurisdizione di merito. Il regime dell’atto viziato per vizi di merito è tradizionalmente considerato
l’annullabilità. Tuttavia va rilevato che la legge 241/1990, nel disciplinare l’annullamento d’ufficio, tace
della possibilità di annullare atti viziati nel merito e anzi ammette l’annullabilità dei soli atti illegittimi. Il
provvedimento viziato nel merito è piuttosto assoggettato alla disciplina di cui all’articolo 21 quinquies
secondo cui è revocabile il provvedimento a seguito di una nuova valutazione dell’interesse pubblico
originario.

I provvedimenti c.d. di secondo grado sono caratterizzati dal fatto di essere espressione di
autotutela e di avere a oggetto altri e precedenti provvedimenti amministrativi o fatti equipollenti. Più in
particolare si distinguono tradizionalmente i poteri di riesame, sotto il profilo della validità di precedenti
provvedimenti o di fatti equipollenti (silenzio significativo), poteri di revisione, incidenti sull’efficacia e
sull’esecuzione di precedenti atti. Il procedimento di riesame può avere esiti differenti: conferma della
legittimità, riscontro dell’illegittimità sanabile dell’atto, riscontro dell’illegittimità non sanabile dello
stesso. Il provvedimento che viene adottato allorché l’amministrazione verifichi l’insussistenza di vizi
nell’atto sottoposto a riesame viene tradizionalmente definito come atto confermativo. Una situazione
simile si ha allorché l’amministrazione adotti autonomamente un nuovo provvedimento che sostituisca
integralmente un precedente atto impugnato dinanzi al giudice, implicitamente eliminato: il nuovo atto
deve venire impugnato. All’atto confermativo in senso proprio può essere accostato il rifiuto
preliminare: trattasi del rifiuto di porre in porre in essere un procedimento che costituisca esercizio della
funzione; tale atto non impugnabile consegue ad un’attività preliminare volta alla verifica dell’esistenza
dei presupposti dell’esercizio del potere. Simile al rifiuto preliminare è il silenzio non significativo
serbato su di una istanza in ordine in ordine alla quale non sussiste l’obbligo di provvedere. Si distingue
infine il rifiuto preliminare dal provvedimento di rifiuto dell’atto richiesto dal cittadino che costituisce
esercizio di un potere e in quanto tale, è impugnabile.
L’annullamento d’ufficio (o annullamento in sede di autotutela) è il provvedimento, espressione di un
potere generale, mediante il quale si elimina un atto invalido e vengono rimossi ex tunc,
retroattivamente e dunque a partire dal momento della emanazione gli effetti prodotti, ancorchè questi
consistano nella costituzione di un diritto soggettivo in capo al destinatario. Secondo quanto dispone
l’articolo 21 nonies comma 1 legge 241 del 1990 il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi
dell’articolo 21 octies può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico,
entro un termine ragionevole, comunque non superiore a 18 mesi dal momento dell’adozione dei
provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, e tenendo conto degli interessi
dei destinatari e dei controinteressati. A differenza dell’annullamento posto in essere dal giudice
amministrativo, che è previsto in vista della tutela delle situazioni giuridiche dei privati, l’annullamento
d’ufficio ha la funzione di tutelare l’interesse pubblico: il rilievo concorre a spiegare perché, accanto alla
illegittimità dell’atto, occorra anche la sussistenza di un interesse pubblico che giustifichi l’eliminazione
dell’atto medesimo e dei suoi effetti. Dal punto di vista procedimentale, ai sensi della legge 241/1990 al
fine di agire legittimamente occorre dare comunicazione agli interessati dell’avvio del procedimento
autotutela. Il potere è esercibile d’ufficio ma nella prassi è talora preceduto dall’invito all’autotutela da
parte del privato. Tradizionalmente l’annullamento d’ufficio viene considerato un potere discrezionale
anche nell’an, tuttavia secondo quanto dispone l’articolo 21 nonies rimangono ferme le responsabilità
connesse all’adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo. Questa norma
sottolineando la responsabilità in cui potrebbe incorrere il soggetto che non annulli, cosa che sembra
fare emergere il carattere doveroso dell’annullamento che potrebbe anche essere sindacabile nell’an o
quanto meno presupporre un dovere di attivarsi a fronte di un’istanza di autotutela. Sussisterebbero poi
altre situazioni in cui non solo esisterebbe un dovere di attivarsi ma l’annullamento stesso sarebbe
doveroso. Si tratterebbe delle ipotesi di illegittimità dell’atto dichiarata da una sentenza del giudice
ordinario passata in giudicato, oppure ancora nell’ipotesi di atto consequenziale rispetto ad un atto
presupposto annullato.

I presupposti per esercitare il potere generale di annullamento d’ufficio sono costituiti dall’illegittimità del
provvedimento e dalla sussistenza di ragioni di interesse pubblico ( deve trattarsi di un interesse
pubblico specifico). Pertanto l’amministrazione deve valutare se l’eliminazione del provvedimento
invalido sia conforme con l’interesse pubblico anche tenendo conto degli interessi nel frattempo sorti
sia in capo ai destinatari dell’atto sia in capo ai contro interessati. Di rilievo è la precisazione secondo
cui l’annullamento va posto in essere entro un termine ragionevole, decorso il quale i suoi effetti vanno
dunque considerati consolidati: è questa acconto al vincolo che impone di considerare gli interessi del
destinatario e dei controinteressati un’ulteriore applicazione del principio della tutela del legittimo
affidamento, che diventa un limite alla legittimità dell’annullamento. L’affidamento che giustifica la
limitazione temporale del potere di annullare esiste soltanto in caso di buona fede. L’articolo 21 nonies
dispone infatti che i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti
o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di
condotte costituenti reato, accertate con sentenza passato in giudicato, possono essere annullati
dall’amministrazione anche dopo la scadenza del termine di 18 mesi, fatta salva l’applicazione delle
sanzioni penali. L’eccessivo decorso del tempo, rapportato all’affidamento ingenerato nei terzi, può
dunque causare l’invalidità dell’atto adottato in via di autotutela. In questa ipotesi ricorre la figura della
convalescenza per decorso del tempo, la quale impedisce appunto l’annullamento d’ufficio di atti
illegittimi qualora essi abbiano prodotto i loro effetti per un periodo adeguatamente lungo.

A fronte di un mancato e tempestivo annullamento potrebbe sussistere comunque la possibilità per


l’interessato di chiedere un risarcimento. Va notato che la produzione di effetti retroattivi
dell’annullamento potrebbe essere impedita dall’esistenza di situazioni già consolidate non suscettibili
di rimozione o la cui rimozione confliggerebbe con il principio di buona fede o di affidamento ingenerato
in capo a chi, sul presupposto della legittimità dell’atto, vi abbi dato esecuzione: si pensi
all’annullamento di una procedura concorsuale alla quale sia seguita la nomina del vincitore e la
prestazione del suo servizio, non essendo consentito all’amministrazione di ripetere le somme
percepite dal dipendente. L’affermazione tradizionale secondo cui l’annullamento comporta sempre
l’eliminazione dell’atto con efficacia ex tunc va dunque rivisitata. Il potere di annullamento spetta
all’organo che lo ha emanato, oppure ad altro organo previsto dalla legge. l’ordinamento prevede poi il
potere del governo di procedere all’annullamento degli atti di ogni amministrazione, ad eccezione della
regione. Il potere in esame, che rispecchia la posizione del governo al vertice dell’apparato
amministrativo, ha carattere straordinario e può essere esercitato a tutela dell’unità dell’ordinamento,
sicché non è sufficiente qualsiasi illegittimità, ma occorre un vizio particolarmente grave dell’atto la cui
permanenza in vita sia giudicata incompatibile con il sistema nel suo complesso e non già con i soli
interessi della PA che lo ha emanato. Ove la parte annullata sia sostituita da altro contenuto si ha la
figura della riforma, avente efficacia ex nunc. Questa è la riforma sostitutiva; esiste poi la riforma
aggiuntiva, che consiste nell’introduzione di ulteriori contenuti a quello originario.

La convalida è un provvedimento di riesame a contenuto conservativo: ai sensi dell’articolo 21 nonies


l’amministrazione ha la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni
di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole. L’amministrazione rimuove il vizio che inficia il
provvedimento di primo grado e pone in essere una dichiarazione che espressamente riconosce il vizio
ed esprime la volontà di eliminarlo, sempreché tale vizio sia suscettibile di essere rimosso. Ad esempio
è convalidabile l’incompetenza. Gli effetti della convalida retroagiscono al momento dell’emanazione
dell’atto convalidato. Dalla convalida si distingue la sanatoria in senso stretto, comunque non
richiamata dall’articolo 21 nonies, la quale ricorre allorché il vizio dipende dalla mancanza, nel corso del
procedimento, di un atto endoprocedimentale la cui adozione spetta a soggetto diverso
dall’amministrazione competente ad emanare il provvedimento finale. L’atto può essere sanato da un
intervento tardivo che dà luogo ad una sostanziale inversione dell’ordine procedimentale: ciò vale per le
istanze degli interessati, per i nulla osta e per le autorizzazioni, mentre è da ritenere che il parere non
possa intervenire successivamente, atteso che la sua funzione è quella di fornire valutazioni prima della
decisione finale (ma la giurisprudenza opina in senso contrario).

La conversione è istituto che riguarda gli atti nulli: in luogo dell’atto nullo è da considerare esistente un
differente atto, purché sussistano tutti i requisiti di questo e risulti che l’agente avrebbe voluto il
secondo atto ove fosse stato a conoscenza del mancato venire in essere del primo. Essa opera ex
tunc in base al principio della conservazione dei valori giuridici. Va avvertito che in talune ipotesi si
tratta non di conversione ma più esattamente di corretta interpretazione dell’atto. L’inoppugnabilità è
la condizione in cui l’atto viene a trovarsi ove siano decorsi i termini per impugnarlo. L’atto
inoppugnabile va distinto da quello convalidato: vero è che pure la inoppugnabilità comporta
l’inattaccabilità dell’atto, ma la differenza deriva dal fatto che in questo caso la figura opera solo sul
piano giustiziale, e di conseguenza l’atto inoppugnabile è pur sempre annullabile d’ufficio o
disapplicabile dal giudice ordinario. Si tratta in sostanza non già di una qualità intrinseca dell’atto ma
appunto della condizione in cui esso viene a trovarsi una volta che risulti posto al riparo da aggressioni
processuali. Inoltre l’inoppugnabilità non è un carattere assoluto del provvedimento: questo può non
essere più impugnato da un soggetto perché i relativi termini sono decorsi nei suoi confronti e viceversa
ancora impugnabile per altri che non ne non venuti a conoscenza. Inoppugnabilità stabilizza e
sterilizza la situazione nella logica della certezza del diritto.

L’acquiescenza è l’accettazione spontanea e volontaria, da parte di chi potrebbe impugnarlo, delle


conseguenze dell’atto e, quindi, della situazione da esso determinata. Il comportamento acquiescente
deve desumersi da fatti univoci, chiari e concordanti., non a caso spesso il privato dà esecuzione a un
provvedimento dichiarando che ciò non può essere interpretato come acquiescenza. Essa a differenza
della convalida non produce effetti erga omnes: essa osta alla proposizione del ricorso amministrativo o
giurisdizionale da parte del solo soggetto che l’ha prestata. Ancora differente è l’istituto della ratifica,
che ricorre allorché sussista una legittimazione straordinaria di un organo da emanare a titolo
provvisorio e in una situazione di urgenza un provvedimento che rientra nella competenza di un altro
organo, il quale ratificando fa proprio quel provvedimento originariamente legittimo. L’ipotesi più nota
era quella non più contemplata dall’attuale disciplina del potere della giunta comunale di sostituirsi in
via di urgenza al consiglio. La rettifica secondo la maggioranza della dottrina non riguarda
provvedimenti viziati ma riguarda gli atti irregolari e consiste nell’eliminazione dell’errore. Differente
dalla convalida è infine la rinnovazione del provvedimento annullato, che consiste nell’emanazione
di un nuovo atto, avente dunque effetti ex nunc, con la ripetizione della procedura a partire dall’atto
endoprocedimentale viziato. La rinnovazione è possibile sempre che l’atto precedente non sia stato
annullato per ragioni di ordine sostanziale (perché manca un presupposto).

I provvedimenti che producono effetti si chiamano efficaci: essi vanno eseguiti immediatamente
dall’amministrazione oppure dal destinatario e, allorché sia necessario superare la mancata
cooperazione del privato, possono essere portati ad esecuzione direttamente dall’amministrazione.
L’efficacia presenta dei limiti spaziali e temporali. Per quanto riguarda il limitispaziali, essi
corrispondono di norma a quelli della competenza dell’autorità, tuttavia non mancano eccezioni, come
nel caso del passaporto rilasciato dalla questura, organo a circoscrizione provinciale, il quale è efficace
su tutto il territorio nazionale. L’efficacia del provvedimento può essere subordinata al compimento di
determinate operazioni, al verificarsi di alcune circostanze o all’emanazione di ulteriori atti rispetto
all’adozione del provvedimento in sé. L’efficacia del provvedimento incontra non solo limiti spaziali, ma
anche temporali, nel senso che pur sussistendo il principio secondo cui gli atti di norma producono i
loro effetti al momento in cui sono venuti in essere, non mancano esempi di atti ad efficacia differita o
ad efficacia retroattiva. Sempre in tema di limiti temporali dell’efficacia, occorre poi distinguere tra atti a
efficacia istantanea, in cui l’effetto si produce, esaurendosi, in un dato momento e riguarda un singolo
fatto storico, e atti a efficacia durevole o prolungata, che attengono ad una pluralità di comportamenti
considerati come una categoria unitaria. Essi si proiettano così nel tempo, spesso instaurando un
rapporto tra il soggetto privato e l’amministrazione.

L’efficacia può essere condizionata non solo dalle circostanze sopra indicate, ma altresì dall’adozione
di provvedimenti amministrativi posti in essere a conclusione di procedimenti, detti procedimenti di
revisione, di secondo grado, ossia aventi ad oggetto altri provvedimenti o meglio, in questo caso, la
loro efficacia. Eseguibilità consiste nella effettiva attitudine del provvedimento ad essere eseguito. Il
provvedimento è poi eseguito mediante l’esecuzione. Ai sensi dell’articolo 21 quater legge 241 del 1990
i provvedimenti amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente salvo che sia diversamente
stabilito dalla legge o dal provvedimento medesimo. Tipico atto che incide sull’esigibilità e sull’efficacia
è la citata sospensione amministrativa. La sospensione, espressione di un potere generale di
autotutela, è il provvedimento con il quale viene temporaneamente paralizzata l’efficacia o l’eseguibilità
di un provvedimento efficace sia esso ampliativo o limitativo della sfera del destinatario. È stabilito dal
comma 2 articolo 21 quater che l’efficacia ovvero l’esecuzione del provvedimento amministrativo può
essere sospesa per gravi ragioni e per il tempo strettamente necessario, dallo stesso organo che lo ha
emanato oppure da altro organo previsto dalla legge. Il termine della sospensione è esplicitamente
indicato nell'atto che la dispone e può essere prorogato o differito per una sola volta, nonché ridotto per
sopravvenute esigenze. La sospensione, onde evitare intollerabili incertezze, non può comunque
essere disposta o perdurare oltre i termini per l’esercizio del potere di annullamento. La norma parla di
efficacia ed esecuzione : l’amministrazione può sospendere l’efficacia dei provvedimenti che non
richiedono esecuzione o la cui esecuzione comunque non sia ancora iniziata ovvero sospendere le
eventuali procedure esecutive dei provvedimenti la cui esecuzione sia già stata avviata ma non sia
stata ancora portata a termine.

La proroga è il provvedimento con cui si protrae a un momento successivo il termine finale


dell’efficacia di un provvedimento durevole. La proroga va adottata prima della scadenza del
provvedimento di primo grado. Ove sia emanata successivamente, nell’ipotesi in cui la legge lo
consenta, si tratta in realtà di rinnovazione, la quale consiste in un nuovo atto, identico a quello
precedente scaduto, autonomamente impugnabile, la cui legittimità va valutata al momento della sua
adozione. La revoca è il provvedimento che fa venire meno la vigenza degli effetti di un atto a
conclusione di un procedimento volto a verificare se i risultati cui si è pervenuti attraverso il precedente
provvedimento meritino di essere conservati. In proposito è previsto ai sensi dell’articolo 21 quinquies
che per sopravvenuti motivi di pubblico interesse oppure nel caso di mutamento della situazione di fatto
non prevedibile al momento dell’adozione del provvedimento o, salvo che per i provvedimenti di
autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, di nuova valutazione dell’interesse pubblico
originario, il provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può essere revocato. La revoca ha
efficacia ex nunc, essendo stabilito che essa determina l’inidoneità dal provvedimento revocato a
produrre ulteriori effetti. Alla radice del potere generale di revoca in senso proprio si profilano più
situazioni: può accadere che siano sopravvenuti motivi di interesse pubblico o siano mutate le
circostanze di fatto esistenti momento dell’adozione del provvedimento di primo grado sicchè non
appare conforme all’interesse pubblico il perdurare della sua vigenza ovvero l’amministrazione valuti
nuovamente la stessa situazione già oggetto di ponderazione al momento dell’adozione dell’atto di
primo grado. La legge intende rafforzare la posizione del privato. In primo luogo se questi ha ottenuto
vantaggi economici o autorizzazioni quel ripensamento cui si è fatto cenno non è possibile nel senso
che il provvedimento non è revocabile per nuova valutazione dell’interesse pubblico. In secondo luogo il
mutamento della situazione di fatto deve essere non prevedibile (secondo l’ordinaria diligenza) al
momento del rilascio del provvedimento favorevole. La revoca ha effetti ex nunc: ai sensi dell’articolo
21 quinquies infatti la revoca determina la inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori
effetti.
Se la revoca comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati, l’amministrazione ha
l’obbligo di provvedere al loro indennizzo. Il comma 1 bis si occupa della quantificazione dell’indennizzo
con specifico riferimento ai casi in cui la revoca di un atto a efficacia durevole o istantanea riguardi un
atto originariamente non compatibile con l’interesse pubblico e incida su rapporti negoziali. L’indennizzo
è parametrato al solo danno emergente, il che non significa che coincida con esso, potendo risultare
inferiore. Si esclude comunque il lucro cessante, che può essere conseguito solo dimostrando la
presenza di un illecito. L’indennizzo poi tiene conto sia dell’eventuale conoscenza o conoscibilità da
parte dei contraenti della contrarietà dell’atto amministrativo all’interesse pubblico, sia dell’eventuale
concorso dei contraenti o di altri soggetti all’erronea valutazione della compatibilità di tale atto con
l’interesse pubblico. Prospettabile è poi l’ipotesi di indennizzo liquidato a terzi che abbiano instaurato
rapporti con un concessionario e che risultino pregiudicati dalla revoca della concessione che pure
direttamente non li riguarda, ma che è il presupposto dei contratti stipulati con il concessionario: la
legge infatti, al momento di individuare i beneficiari dell’indennizzo fa generico riferimento agli
interessati. La competenza a disporre la revoca spetta all’organo che ha emanato l’atto, oppure ad altro
previsto dalla legge. Nella prassi amministrativa e nel linguaggio comune si parla di revoca anche per
indicare la diversa ipotesi, definita in dottrina rimozione o abrogazione in cui con un provvedimento
vincolato viene fatta cessare la permanenza della vigenza di atti legittimi ad efficacia prolungata
allorché, invece di generico mutamento dei fatti, venga meno uno dei presupposti specifici sul
fondamento dei quali tali atti erano stati emanati. La rimozione ha efficacia a partire dal momento in cui
si realizza la situazione di contrarietà al diritto della perdurante vigenza dell’atto di primo grado. La
dottrina e la giurisprudenza conoscono più in generale la figura del mero ritiro dell’atto non efficace (
non contemplato dalla legge 241/1990) che potrebbe essere giustificato da motivi di legittimità sia da
motivi di inopportunità o da fatti sopravvenuti.

L’idoneità del provvedimento a produrre automaticamente e immediatamente i propri effetti allorché


l’atto sia divenuto efficace è detta esecutività. La legge 241 del 1990 all’articolo 21 quater indica con il
termine esecutività il carattere dell’eseguibilità e cioè la sua idoneità non a produrre effetti ma a essere
eseguito senza necessità di precostituire titoli esecutivi giudiziari. La norma disciplina poi l’esecuzione
del provvedimento stabilendo che se efficace, esso va eseguito immediatamente salvo che sia
diversamente stabilito dalla legge o dal provvedimento stesso. Il termine esecutorietà si indica invece
la possibilità che essa sia compiuta, in quanto espressione di autotutela, direttamente e coattivamente
dalla PA senza dover ricorrere previamente ad un giudice. Con la legge 241/1990 la figura è stata
sottratta all’area dei poteri impliciti e ricondotta al principio di legalità, dal momento che stabilisce che le
PA possono, previa diffida, imporre coattivamente l’adempimento degli obblighi nei loro confronti nei
casi e con le modalità stabiliti dalla legge.

Per quanto riguarda gli accordi amministrativi, l’attuale normativa e in particolare la legge 241 del
1990 consente che le PA possano sempre concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in
collaborazione di attività di interesse comune (art. 15). Inoltre la legge sul procedimento amministrativo
dispone all’articolo 11 che in accoglimento di osservazioni o proposte presentate a norma dell’articolo
10, l’amministrazione procedente può concludere senza pregiudizio dei diritti dei terzi e nel
perseguimento del pubblico interesse accordi con gli interessati al fine di determinare il contenuto
discrezionale del provvedimento finale oppure in sostituzione di questo. Due sono le tipologie di
accordi tra amministrazione e privati: gli accordi sostitutivi di provvedimento e gli accordi integrativi
del provvedimento (determinativi del contenuto discrezionale del provvedimento). Mentre l’accordo
sostitutivo tiene luogo del provvedimento, l’accordo determinativo del contenuto non elimina la
necessità del provvedimento nel quale confluisce, sicché il procedimento si conclude pur sempre con
un classico provvedimento unilaterale produttivo di effetti, onde l’accordo ha effetti solo interinali;
inoltre, soltanto gli accordi sostitutivi sono soggetti ai medesimi controlli previsti per i provvedimenti,
mentre nel caso di accordi determinativi del contenuto discrezionale, il controllo, ove previsto, avrà ad
oggetto il provvedimento finale.

A differenza di quanto accade nelle fattispecie contrattuali, l’interesse affidato alla cura di una delle due
parti, il soggetto pubblico, assume all’interno dell’accordo un ruolo del tutto differente rispetto a quello
del privato: l’accordo deve essere stipulato in ogni caso nel perseguimento dell’interesse pubblico e per
sopravvenuti motivi di pubblico interesse l’amministrazione recede unilateralmente dall’accordo. La
validità dell’accordo e la sua vincolatività sono subordinate alla compatibilità con l’interesse pubblico.
Gli accordi devono essere stipulati, a pena di nullità, per atto scritto, salvo che la legge disponga
diversamente; essi devono essere motivati e le controversie in materia di formazione, conclusione ed
esecuzione sono riservate alla giurisdizione esclusiva. Previsione del potere in capo
all’amministrazione di recedere unilateralmente dall’accordo, salvo l’obbligo di provvedere alla
liquidazione di un indennizzo in relazione agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno al privato. Ai
sensi dell’articolo 11 il recesso è ammissibile soltanto per sopravvenuti motivi di interesse pubblico.

Analizziamo ora più da vicino i due modelli di accordo. L’accordo integrativo è un accordo
endoprocedimentale destinato a riversarsi nel provvedimento finale. Esso, ammissibile soltanto nelle
ipotesi in cui il provvedimento sia discrezionale, fa sorgere un vincolo fra le parti: in particolare
l’amministrazione è tenuta ad emanare un provvedimento corrispondente al tenore dell’accordo. In
caso contrario il giudice amministrativo potrà dichiarare l’obbligo di provvedere. L’effetto finale è da
rapportare solo al provvedimento, soggetto al consueto regime pubblicistico, e unico atto impugnabile.
Il provvedimento non è revocabile, almeno per quella parte che corrisponde all’accordo, in ordine alla
quale si può esercitare il potere di recesso. Più complesso è il discorso riguardante l’accordo
sostitutivo, in ordine al quale non è più necessaria (dopo le riforme del 2005) la previsione di legge
delle ipotesi in cui è possibile concluderlo: esso elimina la necessità di emanare un provvedimento.
L’accordo sostitutivo del provvedimento è soggetto ai medesimi controlli previsti per quest’ultimo;
quanto alla regola secondo cui l’accordo deve essere concluso “senza pregiudizio dei diritti di terzi”, va
osservato che essa non limita l’efficacia alle sole parti, in quanto l’accordo sostitutivo dovrebbe avere la
stessa efficacia del provvedimento che sostituisce. In conclusione si ribadisce che la indubbia
accresciuta considerazione degli interessi dei privati, realizzata dalla recente normativa sul
procedimento amministrativo, non pare in grado di eliminare il carattere di necessaria preordinazione
alla cura degli interessi pubblici dell’azione amministrativa e la unilateralità della disposizione in ordine
agli stessi. A conferma di ciò, si ricordi che la stipulazione dell’accordo è preceduta da una
determinazione dell’organo competente a emanare il provvedimento, evidentemente anche con il fine di
giustificare la rilevanza pubblicistica del negozio e la sua maggior convenienza rispetto all’utilizzo dello
strumento unilaterale.

Il termine “contratto di programma” è polisenso. Esso può essere impiegato per indicare gli atti
mediante i quali soggetti pubblici e privati raggiungono intese mirate al conseguimento di obiettivi
comuni. In questo senso il contratto di programma si contrappone all’accordo di programma che,
essendo un tipo di accordo tra amministrazioni, coinvolge soltanto soggetti pubblici. Spesso il termine
indica però il disciplinare relativo ad alcuni servizi. Alla prima forma di contratti stipulati con privati, si
accostano altre figure introdotte dalla recente normativa. In particolare la l. 662/1996, recante la
disciplina delle attività di programmazione negoziata che coinvolgono una molteplicità di soggetti
pubblici e privati, individua, quali strumenti specifici, le intese istituzionali di programma, gli accordi di
programma quadro, i patti territoriali, i contratti di programma e i contratti d’area. La distinzione con gli
accordi sostitutivi va rinvenuta nel fatto che, con riferimento alle figure di programmazione negoziata,
non è possibile individuare un provvedimento che venga sostituito mediante accordo. La differenza tra
le due figure è tuttavia più netta sul piano sostanziale: a differenza di quanto accade per gli accordi
sostitutivi, legati alla partecipazione procedimentale di un privato in situazione di soggezione, gli altri
strumenti servono per concordare azioni comuni tra soggetti sostanzialmente collocati sullo stesso
piano e particolarmente qualificati. Si tratta di strumenti aventi finalità di coordinamento tra più centri di
potere tendenzialmente paritari e tra differenti processi decisionali. Gli accordi tra amministrazioni sono
impiegati come strumenti per concordare lo svolgimento di attività in comune in un contesto in cui la
frammentazione dei poteri richiede costantemente misure di raccordo e di semplificazione. Non a caso,
la norma che stabilisce il potere di concludere accordi tra le amministrazioni è inserita nel capo relativo
alla semplificazione procedimentale, a differenza di quella di cui all’art. 11, l. 241/1990, facente parte
del capo sulla partecipazione al procedimento. L’art. 15, l. 241/1990, prevede in generale che le
amministrazioni pubbliche possano sempre concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento
in collaborazione di attività di interesse comune. Un primo esempio di accordi è costituito dalle
conferenze dei servizi le quali sono previste come accordo sostitutivo di parti del procedimento
caratterizzate dalla sussistenza di un interesse pubblico prevalente. Esistono però altri esempi di
accordi tra amministrazioni. Uno dei problemi principali che riguardano tali modelli negoziali attiene alle
conseguenze del dissenso espresso da una delle parti interessate. L’ordinamento prevede talora
strumenti per superare siffatto dissenso affidando in particolare allo Stato poteri sostitutivi da esercitarsi
secondo modalità garantistiche in caso di mancato raggiungimento dell’accordo. Va poi operata una
distinzione tra gli accordi che si inseriscono all’interno di un procedimento amministrativo che sfocia
nell’adozione di un formale atto finale e quelli che invece hanno una rilevanza autonoma: nella prima
tipologia di accordi l’ordinamento si preoccupa di prevedere strumenti per superare il mancato
raggiungimento dell’intesa, atteso che esiste un’amministrazione procedente titolare di un interesse
primario, laddove nel secondo caso, allorché manchi un’amministrazione titolare di un interesse
primario, lo stallo va superato sul piano dei rapporti politici tra i due soggetti. In altri termini, nel primo
caso l’intesa è un momento della fase determinativa del contenuto del provvedimento; nella seconda
ipotesi, invece, l’accordo sintetizza l’atto tra soggetti pariordinati che produce effetti e che fissa
direttamente il regolamento di interessi. Un delicato problema di confine, in materia di partenariato
pubblico-pubblico, si pone tra la disciplina degli accordi di cui all’art. 15, l. 241/1990 e quella degli
appalti, di cui possono essere parti contraenti anche due amministrazioni: in linea di principio, là dove la
prestazione dedotta nell’accordo non sia qualificabile come appalto, trova applicazione il regime dettato
dalla legge 241 del 1990.

Particolari accordi tra amministrazioni, destinati ad essere approvati da un provvedimento


amministrativo formale, sono gli accordi di programma, dai quali derivano obblighi reciproci alle parti
interessate e coinvolge nella realizzazione di complessi interventi. La figura è prevista da molteplici
normative, alcune delle quali ammettono tra l’altro il coinvolgimento dei privati, ma trova un importante
esempio di disciplina nell’art. 34 T.U. enti locali: “per la definizione e l’attuazione di opere, interventi o di
programmi di intervento che richiedono, per la loro completa realizzazione, l’adozione integrata e
coordinata di comuni, province e regioni, di amministrazioni statali e di altri soggetti pubblici, e
comunque di due o più soggetti predetti, il presidente della regione o il presidente della provincia o il
sindaco, in relazione alla competenza primaria o prevalente sull’opera o sugli interventi e programmi di
intervento, promuove la conclusione di un accordo di programma, anche su richiesta di uno o più
soggetti interessati, per assicurare il coordinamento delle azioni e per determinare i tempi, le modalità,
il finanziamento ed ogni altro connesso adempimento”. Rispetto alla norma base di cui all’art. 15, l.
241/1990 gli accordi di programma di cui al T.U. enti locali, si caratterizzano per la specificità
dell’oggetto, per il carattere fortemente discrezionale che li permea, e per il loro contenuto di
regolamentazione dell’esercizio dei poteri delle amministrazioni interessate, nonché per un notevole
grado di dettaglio della disciplina cui sono assoggettati.

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