Sei sulla pagina 1di 6

L’umanità del mito e dell’oralità

La verità è un'avventura, ma soprattutto è una storia: ciò sconcerta. Infatti, se la verità si


trasforma nel tempo, allora essa è qualcosa che non sta e, ancora più sconcertante, non è.
Tutto ciò significa che la verità consiste in qualcosa che è diverso da come noi la pensiamo
abitualmente.

Cfr Marcel Detienne, I maestri di verità della Gracia arcaica (Introduzione).


C'è una verità che appartiene alla Grecia arcaica e ci sono dei maestri di quella verità.
Nella nostra civiltà scientifica, la verità deve avere le seguenti caratteristiche:
1. oggettività o obiettività;
2. comunicabilità.
La verità si definisce a due livelli:
1) come conformità a certi principi logici (ad esempio oggi piove non è uguale a oggi
non piove);
2) come conformità al reale. In questo senso, la verità per noi è unita alle idee di
dimostrazione logica, verifica ed esperimento.
Questa forma di verità noi tendiamo a pensare che sia stata sempre così, con queste
caratteristiche. Ebbene, non è così!
La conferma sperimentale si è necessitata nel 1.600 con Galileo Galilei. C'è da chiedersi
allora, dice Detienne, se la verità in quanto categoria mentale, non sia solidale a tutto un
sistema di pensiero, alla vita materiale e alla vita sociale degli uomini.
La preistoria della aletheia (= verità per i Greci) ci porta al sistema di pensiero
dell'indovino, del poeta e del re di giustizia: pertanto, bisogna capire come si configura
aletheia nel pensiero mitico, di molto più antico di noi; cosa è accaduto poi nel VI sec. a.C.,
quando si è passati da una configurazione mitica, religiosa e poetica della verità per
imboccare quella strettoia in cui è emerso il Logos, che ancora noi pratichiamo. Qualcosa si
è conservato di quelle radici del mito e che si è consolidato nella nostra concezione della
verità. Bisogna allora indagare queste radici. Cosa dire allora di questo mondo mitico, dei
grandi poeti come Omero, Esiodo? Almeno tre cose:

1) come essi intendevano la parola aletheia, parola composta da a/letheia: dove lete e
l'oblio, l'oscurità; allora, a/letheia significa ciò che non sta nascosto, non ciò che
corrisponde. Intendono ciò che appare luminoso, non rimane nascosto, diventa chiaro,
palese. Il mondo mitico ha a che fare con la poesia, non come dimensione estetica. La
parola della poesia è ciò che rivela, che onora, da fama. L'essere umano vuole essere
ricordato, vuole che si parli di lui. Aletheia è il luogo in cui si acquista un nome, la fama. Le
prime forme di scrittura sono nate per dire il nome del defunto: chi passava ricordava con il
nome, la parola, il defunto (Kleos = la fama);

2) dove si radica questa vita del poeta come testimone, che questi rivela, porta alla luce? Ma
nelle Muse (Mnemosyne in particolare) che sono coloro che avendo visto, tutto sanno;
Si noti l’invocazione iniziale delle Muse nell’Iliade di Omero:

Canta, o dea, l'ira d'Achille Pelide,


rovinosa, che infiniti dolori inflisse agli Achei,
gettò in preda all'Ade molte vite gagliarde
1
d'eroi, ne fece il bottino dei cani,
di tutti gli uccelli - consiglio di Zeus si compiva -
da quando prima si divisero contendendo
l'Atride signore d'eroi e Achille glorioso.

Il sapere è il sapere di chi è lì, che vede. La verità è quella dell'occhio che ti guarda. E’
testimonianza: ma non basta l'occhio umano, bisogna invocare le Muse e forse, tramite
quelle, attraverso loro, anche l'uomo potrà vedere;

3) il terzo elemento è Apate, l’inganno, intimamente connesso all'idea della menzogna e


dell'errore. Gli dei possono mettere in scacco gli uomini che vogliono sapere di più,
accecarli, indurli al dubbio se hanno davvero visto. Esiodo dice che sono i poeti coloro che
mentono troppo; cioè coloro che tramandano il nome, la fama, l'onore possono mentire,
ingannare. E’ un dubbio che affligge l'uomo e ogni umanità: ma abbiamo poi veramente
visto? Nessun uomo è padrone del proprio destino; sono gli dei a disporre del destino degli
uomini e gli stessi dei poi, soggiacciono ad un destino più grande di loro. La capacità di
inganno con le parole, ecco l'uomo dell'oralità: è anzitutto preso da questa figura
dell'oralità.
Poi ce n'è un'altra, che non è spiegata solo da Detienne, ma da un grandissimo studioso di
miti che è Karoly Kerenyi, il quale dice che la verità nel mondo dell'oralità, nel mondo in
cui l'uomo non scrive la parola, è il mondo della rivelazione, del racconto, è il mondo del
mito; mythos vuol dire parola originariamente, ma noi lo traduciamo con racconto più
riccamente. Il mondo dell'oralità che è quello sviluppato fino grosso modo all'età neolitica;
da questa in avanti, cominciano sistemi di scritture che vogliono tradurre la parola. Il prima
è quindi diciamo, prima di 15.000 anni fa; attenzione! 15.000 anni fa è una cosina da nulla
nella storia dell'uomo: noi della scrittura siamo dei parvenu, perché la storia dell'homo
sapiens sapiens ha almeno 80.000/100.000 anni e se consideriamo l'homo sapiens sapiens e
prima, fino all’erectus, lì andiamo a centinaia di migliaia di anni e si tratta di esseri che
sanno parlare, seppelliscono i morti, fanno sicuramente funzioni religiose, sacrificano agli
dei. Ecco, abbiamo questo sfondo: questo uomo dell'oralità, questo uomo preistorico è un
uomo del mito, è un uomo del racconto, cioè è un uomo che non potendo fissare le parole
con la scrittura, non avendo un sistema di scrittura, non sentendo il bisogno evidentemente
di un sistema di scrittura per tramandarsi il sapere, la cultura, lo fa attraverso il racconto. Ma
quale racconto? Diciamo meglio: lo fa attraverso la poesia. Perché attraverso la poesia, che
non va guardata come un fatto estetico, ma come un fatto fondamentalmente civile; lo fa
attraverso la poesia perché in quelle epoche la poesia è musica. Allora potremmo
riassumere il tutto dicendo che l'uomo dell'oralità scrive la sua verità nella musica, dove
la verità non significa dire il vero e dire il falso: questo è un aspetto; e non significa neanche
quella verità oggettiva alla quale noi siamo abituati, in quanto uomini della scrittura. No, la
verità è il ricordo, la memoria, la ripetizione. Immaginate un gruppo umano che non ha
altro che la sua memoria. Pensate se noi oggi per un colpo di magia nera perdessimo tutti i
libri: trattati di fisica, chimica, biologia, filosofia, storia, eccetera; rimane solo la nostra
memoria. E per quanto si conserva questa memoria? Per pochissimo evidentemente! E
quanto si perde dall'uno all'altro? Moltissimo! Qual è allora lo strumento mediante il quale
disperatamente queste comunità avevano elaborato una civiltà, una cultura con la quale
sopravvivevano? Qual era lo strumento per trasmettere la conoscenza? E cosa li caratterizza
come uomini dell'oralità? Il fatto che le cantavano, perché solo attraverso il ritmo del
canto la parola si conserva. Quando abbiamo dimenticato le parole di una canzone, per
2
ricordarla cantiamo la melodia e allora subito vengono le parole in mente. Questi erano i
poemi dell'antichità più remota, in una maniera specifica possiamo dire: questo era Omero,
laddove Omero è il nome generico di un aedo, di un autore di poemi che si trasmettevano
oralmente dalla bocca all'orecchio, che si improvvisavano nelle regge dei signori, nella
piazza della polis, in ogni occasione festiva. Di poemi omerici ce ne sono rimasti solo due,
ma erano numerosissimi e stiamo parlando solo della Grecia, mentre in altri popoli ci sono e
ci sono state simili strutture. I due poemi che noi abbiamo sono 2 perché li abbiamo trascritti
perché, ad un certo punto della storia del mondo greco Pisìstrato ha deciso che si
trascrivessero, perché c'era l'alfabeto; si era inventato l’alfabeto. Allora, si poteva fermare
una volta per sempre questa lava incandescente, era il canto dell'aedo, e ogni sera si
rinnovava, e che passava di generazione in generazione e che aveva queste tecniche
mnemoniche straordinarie; erano uomini straordinari. Si badi che ancora oggi ci sono presso
talune popolazioni della Dalmazia ad esempio, gare di poesia orale dove si inventa al
momento un componimento che è universale e poetico; bisogna incarnare certe tecniche,
sapere come fare ad avere certe accortezze. Chiunque abbia letto Omero sa che ci sono delle
formule: Atena è sempre occhi cerulei e ciò serve a me, che mentre canto di Atena, con la
formula, già penso a cosa dire dopo. E’ un po' come l'improvvisazione jazz: ci sono alcune
strutture armoniche precise, dentro le quali mi muovo ed ogni volta elaboro qualcosa di
nuovo, sulla base però di ciò che è già noto. Ecco, questo grande mondo dei poemi omerici
era la grande tradizione della cultura achea. Questi non erano opere di poesia, di
letteratura; come ci poteva essere la letteratura, se non c'erano le lettere; c'era soltanto la
memoria orale; queste erano enciclopedie vocali, che servivano per ricordare alla
comunità da dove venivano, la loro identità, chi erano i loro dei, i loro eroi, i sovrani,
qual era la loro discendenza di sangue, quali erano i loro costumi, come si accoglie un
ospite, come si tratta una signora, come ci si comporta con i figli. Erano opere sociali,
pedagogiche, politiche, economiche, morali; come si arma una nave, come si va in
battaglia; il tutto raccontato naturalmente col piacere della fantasia il piacere della
favola, perché ovviamente questo stimola la memoria. Bisognava ricordare qualche cosa di
estremamente significativo, di bello, di entusiasmante, di appassionante. Questa è la verità
dell’oralità, che è vera ancora adesso. Se si vuole capire cosa si sta dicendo si deve fare
un'operazione molto semplice: ci si deve immedesimare con la parola che si sta dicendo.
Quindi questo vuol dire che l'uomo dell'oralità non è l'uomo critico ma è un uomo pratico,
passionale; se non vi immedesimate, non vi mettete dal mio punto di vista, fate fatica anche
solo a percepire le parole: più perché l'oralità è fatta così, verba volant. Non arrivano le
parole, non si capisce bene cosa uno vuole dire. Allora quello non è il momento di dargli
torto; poi verrà quel momento, state tranquilli! Ma il primo momento non è di dargli torto,
ma provvisoriamente di dargli ragione, vediamo dove mi porta, perché l’oralità è fatta così.
Allora, l'uomo dell'oralità è incentrato in un modo di vedere la verità molto diversa dalla
nostra. L'uomo dell'oralità pensa che una cosa è vera perché è antica; e che per esempio
una norma, una legge, un costume sono veri perché sono sempre stati così, a memoria
d'uomo, perché sono stati tramandati così.
Noi, di fronte a questo, ci fermiamo subito: diciamo, ah no! Per noi non è così: non è che
una cosa è vera perché è vecchia, anzi se è vecchia c'è il sospetto che appunto si è
invecchiata. Abbiamo una visione quasi capovolta e comunque non è una buona ragione
(badate ho usato la parola ragione), se noi chiediamo ad una persona: perché ti comporti
così? E quello risponde: perché così si comportava anche mio padre e mio nonno; gli
diciamo: non è mica una buona ragione! vogliamo un'altra cosa, ma l'uomo dell'oralità non
3
ce l'ha quest'altra cosa e fa benissimo nella sua esperienza di vita, nella sua cultura, nella sua
civiltà a procedere così, perché non ha altro. L'uomo dell'oralità deve pensare che non si
deve cambiare niente, che si deve continuare a fare quello che si è sempre fatto, perché
quello che si è sempre fatto ci ha portati fino a qui e probabilmente, ci porterà anche fino
a lì e quindi, ciò che la tradizione canta, dice, insegna, questa è la verità. E’ il principio di
autorità, che ha salvato l'uomo; il principio d'autorità contro il quale ad esempio, Cartesio
si è battuto, ma siamo nel 1.600! Cartesio si è battuto contro quel principio inaugurando il
mondo moderno. Ma già Platone, già Socrate è quello che già non ci crede più e che dice no,
spiegami bene! Fammi capire, Dammi ragioni! Il grande Aristotele diceva che bisogna dare
le ragioni di quello che si fa. Ecco, l'uomo dell'oralità non può dare ragione, non ce l'ha
quella ragione lì. Vedremo a breve come nasce questa ragione. Quindi l'uomo dell'oralità
non può che ripetere ciò che la tradizione ha conservato e alla quale, egli chiede di
rispondere a domande semplicissime: chi è lui? Perché è qui? Da dove viene? Dove andrà?
E il mito questo gli racconta come sa bene Kerenyi: il mito lo salva perché dà senso alle
sue operazioni; perché dà un senso a questo suo essere su questa terra, nel modo in cui vi
è. È vero, l'uomo dell'oralità tende a ripetere continuamente, ma la ripetizione non è mai
uguale; anche lui cambia; la differenza è che non vorrebbe cambiare; è che non si accorge di
cambiare. Cambia perché le cose umane cambiano e cambiano perché la situazione non è
mai la stessa. Ma lui vorrebbe garantirsi la ripetizione, così come è incentrato dall'altra
parte, in una vita economica che è sostanzialmente ciclica: legata al tempo delle stagioni,
legata al tempo delle feste, mietiture, eccetera. Legata ad una visione del ritorno. Il
sacerdote che fa con i gesti rituali (= che hanno valore, che danno valore e che si ripetono
ritmicamente: rito, arte e ritmo sono la stessa parola nella sua radice). Quindi, intorno al
sacerdote, che è il primo autore della comunità, che crea comunità con la sua azione, c'è
questo coro responsoriale; canta assieme al sacerdote e fa accadere le cose o prega affinché
le cose accadano di nuovo. Non sono mai cambiate queste cose; ancora noi abbiamo alcune
eredità, che stanno scomparendo lentamente, ma che sono ancora presenti. Un professore lo
sa benissimo perché dice e se non lo dice, il rito non vale, ti proclamo dottore…; lo deve
dire. Il sacerdote dice vi proclamo marito e moglie, lo deve dire; sono reminiscenze del
passato. Questa è ancora l'oralità che è tra di noi. D'altronde, quella verità, che è la verità del
racconto del mito, è quella che ancora accompagna la nostra vita privata; le nostre vite
private sono ancora inscritte in fondo alla tradizione orale. Non è molto frequente che nelle
famiglie si tenga un diario quotidiano di quello che succede. Una volta lo si faceva nelle
famiglie nobili, ma anche non semplicemente nobili. Le famiglie di una volta, dell'800 e
anche prima, si appuntavano nascite, morti e matrimoni: è una specie di diario. Queste
piccole cose. Noi in realtà, abbiamo perduto questa tradizione, ma siamo legati ancora alla
tradizione. Io non sono in grado di andare al di là del mio bisnonno. Fino al bisnonno ci
arrivo, ma è solo un nome, nulla più. Quindi, ho un racconto familiare che trasmetto a mia
figlia, la quale ha perso dei pezzi perché non ho potuto trasmettere tutto e noi ci perdiamo
nel nulla, come le umanità di centinaia, di migliaia di anni, che però si sono aggrappati ai
grandi miti della comunità. I grandi miti della comunità che era e sono dipinti sulle chiese,
al loro interno e dove la loro scrittura, non è la scrittura della parola, ma la scrittura della
figura: qualcosa che ha a che fare con un’esibizione teatrale. Pensate a tutte le umanità del
Medioevo, di persone che non sapevano né leggere né scrivere, anche se c’era la scrittura, la
gran parte della gente era analfabeta e quello che sapevano, era istoriato sulle loro chiese,
dove c'era la storia dell'umanità: Adamo, Eva, il serpente, la mela e tutto quello che era
successo dopo. Era una proiezione visiva di quella enciclopedia dell'oralità, che prima si
4
ricordava riguardo ai poemi omerici e parlando del poeta come il sapiente dell'umanità, di
colui che incarnava il sapere e lo trasmetteva. Questa verità che appartiene alle popolazioni
ignare di scrittura, è una verità molto diversa dalla nostra; anzi è una verità che, come
abbiamo visto per noi è difficile da accogliere: noi non pensiamo che sia vero ciò che è stato
fatto in un certo modo; noi, per così dire, siamo figli di Socrate, che dice al sacerdote: ma tu
sei sicuro che gli dèi vogliono che tu gli sgozzi l'agnello? Non ci crede più, insomma; vuole
avere una buona ragione, non si accontenta del mondo mitico; e quando qualcuno
interpellato da lui risponde con degli esempi che vuol dire esemplarità, modelli (perché tutta
l’oralità è fatta di modelli: ci si deve comportare così: l'uomo coraggioso fa così perché è
così; l'uomo coraggioso è come Achille o come Ettore). Socrate a queste risposte diceva: io
non ti ho chiesto l’esempio, io voglio una definizione, voglio sapere cos'è la virtù non
com’è, questo viene dopo. Come è nato un mostro del genere? Beh, è stato percepito così;
non è che gli han dato la cicuta perché era semplicemente antipatico, anzi probabilmente era
anche molto simpatico, però alla fine gli hanno dato la cicuta. Era uno scandalo che un
uomo si permettesse di agire in questo modo. Come siamo arrivati a Socrate e a questa
civiltà della scrittura? Ci siamo arrivati da un cammino che comincia addirittura con una
scrittura, che all'inizio non è una scrittura di parole, e diventa un po' alla volta una scrittura
di parole: pensa a Babilonia, alla prima comunità urbana nel Medio Oriente; è più o meno
coeva con la civiltà della Cina. Pensa alle prime organizzazioni del tempio o del palazzo,
cioè ad una fase economica dell'umanità (perché naturalmente l'economia è sempre la base
di tutto) in cui l'espansione della capacità di allevare animali e di coltivare la terra aveva
raggiunto un notevole livello di efficienza e allora si passa da un'umanità della qualità ad
una umanità della quantità. Da un'umanità della qualità: del racconto, del mito, della
bellezza della tradizione orale, musicale, del ritmo, della figura, si passa ad una umanità del
deposito, che ha la capacità di controllare il futuro, perché può mettere da parte, perché può,
durante l'inverno, utilizzare i frutti della coltivazione dei campi. Allora passiamo ad una
umanità della quantità, la quale comincia ad organizzarsi attraverso un sistema burocratico:
comincia qui la burocrazia, con il suo bene e con il suo male.
Bisogna comprendere ora, in maniera socratica, l'Oracolo di Delfi. Attraverso l'oracolo
parla il dio Apollo, il padre delle Muse: è il dio della verità. L’oracolo dice conosci te
stesso! Ora Socrate lo ha inteso in senso soggettivo-trascendentale, ovvero intèrrogati su
quello che sei e vai al fondo della tua profonda verità. Socrate intende il motto delfico
come una ricerca della verità (la vita senza ricerca non è degna d'essere vissuta, dice). Il
conosci te stesso significava invece avere coscienza dei propri limiti; sappi che tu sei
limitato e gli dei potrebbero sempre prendersi gioco di te. Gli atleti olimpici temevano
l'invidia degli dei relativamente alla loro fama, perché questa appartiene agli dei e non agli
uomini, tanto da desiderare la morte nel giorno del loro trionfo.
Ora quindi, possiamo spiegarci una figura come Socrate, per il quale la verità è un
cammino, una ricerca che non si rivela alla luce della divinità.
La soglia o per meglio dire una delle più eloquenti, che stabilisce la variazione della
concezione è il poema di Parmenide: già! poema, poiché Parmenide è con un piede al di là
e con l'altro al di qua di questa soglia: con un piede nel mito e con l'altro nella nostra storia.
Tale poema, di cui possediamo solo frammenti, ha al centro la dea Aletheia. E’ composto di
due parti: il proemio in cui parla ancora il mito: è una sorta di descrizione sciamanica e poi
la seconda parte, dove comincia la strada della verità che ci caratterizza, una volta varcata la
soglia del tempo e dello spazio, dell'eterno silenzioso. Socrate è il primo adepto, mentre
Parmenide è un mistero.
5
Laboratorio della comprensione del testo

Rispondi alle seguenti domande:

1) Quali sono le caratteristiche della verità per la civiltà scientifica? A quali livelli essa
si definisce?
2) Quali caratteristiche ha la verità per l’umanità dell’oralità?
3) Che funzione aveva, presso l’umanità dell’oralità, il poeta? E la poesia?
4) Il motto oracolare delfico conosci te stesso, com’è stato concepito da Socrate? Quale
significato originario aveva?
5) Quale filosofo rappresenta la soglia della nuova concezione della verità?

Potrebbero piacerti anche