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ERRORI ATTRIBUZIONE NELL’OSSERVARE LO SVILUPPO

Lez. 2 REG 01.01.01

Lez. 2
Come vi ho anticipato nella lezione introduttiva cominciamo questo percorso nella psicologia dello sviluppo occupandoci
di metodologia. Da dove partiamo? Partiamo dagli aspetti di errore. Infatti quando noi andiamo a analizzare comunque a
cercare di interpretare il comportamento altrui cadiamo molto spesso in errori. Errori che dipendono dal nostro tentativo
di trovare una stabilità e quindi di andare a ricercare in maniera esperienziale quelle che sono le cause del
comportamento. Ovviamente si tratta di un atteggiamento di psicologia ingenua. L'esercizio di questa psicologia ingenua
ci porta a trovare cause e dare spiegazioni che spesso non corrispondono alla realtà scientifica del fenomeno in oggetto.
Non fa eccezione lo studio e l'osservazione del comportamento infantile, di quello adolescenziale quando viene fatto da
non esperti e da persone che non hanno una preparazione metodologica adeguata. Tendenzialmente nello specifico
quando parliamo di relazionamento tra adulto e bambino sono 4 gli errori che più frequentemente vengono commessi.
1° ERRORE è il TENTATIVO DI INTERPRETARE PER SIMILARITÀ;
2° ERRORE è quello di INTERPRETARE BASANDOSI SUI RICORDI POSSEDUTI DAGLI ADULTI;
3° ERRORE è l’INTERPRETAZIONE DEL SOLO RESOCONTO VERBALE DEL BAMBINO;
4° ERRORE è L’INTERPRETAZIONE SULLA BASE DELL’OSSERVAZIONE SPONTANEA.
Si tratta di errori che vengono commessi costantemente e spesso anche inconsapevolmente. Se questi errori, però, non
vengono corretti si rischia veramente di lavorare su dei processi di attribuzione che non sono realistici e quindi attribuire
stati d'animo piuttosto che intenzione o coscienza ad un bambino quando in realtà la sua azione ha tutto un altro senso e
deve essere letta nell'ottica del contesto in cui quest'azione avviene. Passiamo ora ad analizzare i diversi errori.

Lez. 2 REG 01.01.02

Lez. 2 Audio 2

Analizziamo il 1° ERRORE: IL TENTATIVO DI INTERPRETARE PER SIMILARITÀ

L’adulto tenta spesso di interpretare il comportamento del bambino per similarità.


Cosa vuol dire vuol dire? Vuol dire che spesso l’adulto dimentica le peculiarità e le particolarità del pensiero infantile,
come vedremo nel corso del dell'analisi dello sviluppo cognitivo il pensiero infantile e il pensiero adulto hanno delle
differenze di tipo qualitativo non solo quantitativo. Quindi quando andiamo a interpretare quello che il bambino fa il
comportamento del che il bambino fa alla luce di un'interpretazione adulta, corriamo il rischio di sovrapporre la visione
del mondo che ha l’adulto con quella che ha il bambino. Ma questo non può essere vero perché i bambini non
attribuiscono alle situazioni o alle parole o ai comportamenti lo stesso valore, perché la loro esperienza di vita è
sicuramente più limitata e molte informazioni molti sensi molte sfumature di significato ma anche molte norme sociali non
sono a loro accessibili. Quindi quando l'adulto interpreta per similarità, cosa sta facendo? Sta dando per scontato che la
sua visione del mondo corrisponda alla visione del bambino, o dell'adolescente. Ma questo non può essere vero, infatti
un bambino di 2 anni, un bambino di 3 anni, 5 anni, 6 anni, 7 anni, ma anche di 12 anni, 16 anni ha un bagaglio di
esperienze differenti e tutta una serie di abilità di comprensione che gli produzione differenti. Le cause del suo
comportamento devono essere quindi rintracciate all'interno della sua visione del mondo, del suo modo di approcciarsi al
mondo. Vi faccio un esempio che forse può chiarire un po' la situazione. Pensate ad un bambino di un anno, di 12 mesi
e pensate di mettere davanti a lui un bicchiere pieno e un bicchiere vuoto. Il bambino sa da quale bicchiere deve bere? È
in grado di riconoscere da quale bicchiere deve bere? È in grado di riconoscere che per poter bere deve prendere il
bicchiere dove c'è del liquido? Secondo diversi studi, in particolare uno studio di Parisi del 92, anche il bambino di un
anno non è in grado di fare questa distinzione e s'è messo davanti a dei bicchieri, uno pieno, uno vuoto, entrambi
trasparenti prende in maniera del tutto casuale uno o l'altro; quindi non sceglie quale bicchiere e in entrambi i casi
cercherà di bere dal bicchiere. Ma non solo, nel momento in cui ha in mano il bicchiere vuoto e tenta di bere, manifesterà
frustrazione e scontento nel momento in cui non riesce a bere e continuerà per svariati tentativi. Cosa dimostra questo?
Dimostra che, nonostante il bambino si sia trovato davanti un bicchiere vuoto, non abbia sentito il peso, non abbia
trovato il liquido dentro, lui continua lo stesso a voler bere. Questo dimostra che non ha collegato il fatto che per poter
bere da un bicchiere, dentro il bicchiere deve esserci un liquido. Questo testimonia una differenza di visione del mondo
importante tra il bambino è l'adulto. Perché? Perché quando un bambino si approccia ad un bicchiere vuoto, non
possiamo interpretarlo come ”vuole approcciarsi al bicchiere vuoto rispetto al bicchiere pieno, quindi non ha sete”;
semplicemente lui sta raggiungendo un bicchiere. Ma la sua consapevolezza, le sue conoscenze, in quel momento, non
gli consentono di discriminare quale bicchiere prendere. Ovviamente sarà un'acquisizione graduale, come tutte le
acquisizioni del bambino. Per cui, per tappe successive il bambino, fra i 13 e i 15 mesi, inizierà a distinguere tra un
bicchiere vuoto e uno pieno. Poi, tra i 20 e i 22 mesi, arriverà a capire che esiste un legame tra il livello che il liquido
raggiunge all'interno del bicchiere e la quantità di liquido contenuto, e capirà che c'è una relazione del tipo più alto il
livello più liquido c'è. Ma, ovviamente, tutte queste conoscenze non sono possedute, non sono disponibili al bambino,
come vediamo prima dei 20 mesi. Si tratta solo di un esempio, che però essendo ben calato nella realtà quotidiana di
ogni bambino, deve portarci a riflettere su quelli che sono gli automatismi, che utilizziamo per analizzare la realtà che ci
circonda. Questi automatismi non sono innati o scontati, cioè, noi non da subito sappiamo distinguere tra un bicchiere
pieno un bicchiere vuoto, ma vengono comunque appresi e gradualmente, nel tempo, si costruiscono sulla base della
maturazione, sulla base dell'esperienza. Quindi non possiamo pensare di ritrovare nel bambino gli stessi automatismi
che noi utilizziamo per interpretare la realtà, perché non ha ancora avuto, né l' esperienza, né il tempo, ma neppure la
maturazione, per costruire i medesimi automatismi. Quindi, la lettura della realtà di un bambino, differisce dalla lettura
della realtà di un adulto e per interpretare il suo comportamento non possiamo che tener conto di questa differenza.

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Lez. 2 Audio 3

2° ERRORE: INTERPRETARE BASANDOSI SUI RICORDI POSSEDUTI DAGLI ADULTI

Un ulteriore errore che possiamo commettere nell'osservare lo sviluppo dei bambini e nell'interpretare i comportamenti è
quello di interpretare sulla base dei nostri ricordi infantili. Quindi nel guardare a come il bambino si comporta o si
relaziona con gli altri, ripensiamo a loro quando avevamo la stessa età. Questo è un errore molto importante,
fondamentale che viene con messo quasi quotidianamente. Ma dobbiamo chiederci: “le informazioni che noi possediamo
della nostra infanzia, che derivano dai nostri ricordi, solo delle informazioni attendibili, possono veramente guidarci nella
comprensione del comportamento infantile?”. La risposta è ovviamente no. Perché un primo chiarimento deve essere
fatto relativamente alla natura di questi ricordi. Non possiamo pensare di guardare a questi ricordi come dei ricordi
assolutamente attendibili e oggettivi. Il ricordo non è nient'altro che una costruzione di immagini frammentate, spesso
riferita a diversi momenti; il ricordo che noi abbiamo di una specifica situazione, molto spesso è la costruzione fatta, a
posteriori, con tutta una serie di immagini frammentate di altri momenti, che poi sono stati ricostruiti e arricchiti da ricordi
accumulati in momenti successivi, spesso anche di quando abbiamo sentito parlare di quel ricordo, di che cosa c'è stato
detto riguardo a quella situazione. Il ricordo ha una natura molto più complessa rispetto al quello che noi vogliamo
credere e crediamo. Il ricordo è costruito dal soggetto e tutte le volte che viene rievocato, e poi rimesse in memoria,
viene modificato; quindi non esiste il ricordo come una registrazione di quello che è successo. Nello specifico i ricordi
infantili sono molto influenzati da quello che è stato raccontato e dai momenti successivi al ricordo perché il bambino non
ha ancora la capacità, come l'adulto, di collocare il suo ricordo nel tempo e nello spazio, e soprattutto i ricordi del
bambino non sono ancora organizzati in una forma narrativa. Per cui, i ricordi che noi da adulto abbiamo dell'infanzia,
sono ricordi che sono stati adultizzati in qualche modo, resi adulti ma che non corrispondono a quello che era il vissuto
reale durante l'infanzia. Quindi, crescendo poi, noi abbiamo acquisito la capacità di collocare il ricordo nel tempo, nello
spazio e in una forma narrativa autobiografica. E quindi cosa abbiamo fatto? Abbiamo ripreso i nostri ricordi infantili e li
abbiamo trasformati in un modo retroattivo. Quindi il ricordo che noi adulto abbiamo dell'infanzia, non è il ricordo infantile
di quanto è successo, ma al contrario è una rivisitazione, adulta, di un ricordo infantile e di questo dobbiamo tener conto.
Quando cerchiamo di interpretare il comportamento di un bambino ad esempio dicendo “mi ricordo che io alla sua età”;
“mi ricordo che io a… 9 anni, 5 anni, 3 anni…”. Questi ricordi vanno presi con le pinze, soprattutto non sono un buon
modo per analizzare il comportamento perché il ricordo che noi abbiamo di quei cinque anni è un ricordo che è stato
modificato a posteriore, attraverso la coscienza adulta.
Un altro un altro fattore importante è il fatto che noi possediamo una modalità di memorizzazione di tipo selettivo. Noi
non ricordiamo tutto quello che è successo, ricordiamo quei momenti che hanno per noi una valenza affettiva importante,
saliente. Ad esempio se pensiamo alla scuola o alla scuola materna ci rendiamo conto come noi non ricordiamo ogni
singolo giorno di scuola, ma ricordiamo ad esempio il primo giorno di scuola perché ha avuto un impatto emotivo molto
forte oppure altri giorni in cui sono successi avvenimenti, abbiamo assistito avvenimenti. che per noi hanno avuto una
valenza affettiva importante. Questo è dovuto al fatto che la nostra memoria è una memoria selettiva, sceglie quale
ricordo immagazzinare e quelli con un valore un tono emotivo importante sono tranquilli privilegiati.

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Lez. 2 Audio 4

3° ERRORE: l’INTERPRETAZIONE DEL SOLO RESOCONTO VERBALE DEL BAMBINO


Un altro errore che viene frequentemente fatto nell’osservazione del comportamento infantile è quello di interpretarlo
sulla base del solo resoconto verbale del bambino. Quindi, ci basiamo, per interpretare il comportamento del bambino,
solo su quanto ci viene detto dal bambino. Anche qua, dobbiamo interrogarci: “ma siamo veramente sicuri che le
capacità, le abilità linguistiche e comunicative del bambino siano sufficienti al tipo di domanda o al tipo di conversazione
che stiamo facendo col bambino?”. Se non ci chiediamo a che punto è arrivato lo sviluppo del linguaggio del bambino
con cui stiamo parlando, con cui stiamo interagendo, potremmo veramente cadere in errore di interpretazione anche
grossolani. In primo luogo, se interpretiamo solo sulla base del resoconto verbale possiamo cadere in errore di
interpretazione legati al fatto che il bambino attribuisce alle parole che noi stiamo utilizzando un senso diverso rispetto a
quello che noi stiamo dando alle parole. Quindi, anche quando noi intervistiamo un bambino, portiamo avanti un
colloquio con un bambino, dobbiamo sempre tener conto del fatto che, il bambino, ha uno sviluppo linguistico – lessicale,
di comprensione del linguaggio, che matura gradualmente. Quindi, con il crescere dell'età si modificano anche i tipi di
intervista, di colloqui, che noi possiamo portare avanti col bambino. Ad esempio, un bambino di 3 anni; pensiamo di
mostrargli una foto di un momento felice, ad esempio la foto del suo compleanno, dove sono ritratte più persone. Se noi
chiediamo a questo bambino: “Chi è più felice?”, molto probabilmente lui indicherà sé stesso. Se mostrandogli la stessa
foto chiediamo: “E chi è meno felice?”. Nella maggior parte dei casi il bambino indicherà la stessa persona, e quindi
molto probabilmente sé stesso. Perché questo? Perché era triste? Perché non sa comprendere il significato della parola
contento? No, è perché, a quest'età, il bambino fa molta fatica ad utilizzare la parola “meno”. Mentre è in grado di
utilizzare senza problemi la parola “più” che, presa una quantità non fa che aggiungere, quindi “più felice” ha comunque
a che fare con “felice” e lui, utilizzerà la chiave qualitativa “felice”, per scegliere la persona “più felice”, quella felice. Nel
caso della parola meno, questa parola lo costringe a tener conto di una qualità, la felicità, e allo stesso tempo sottrarre
qualcosa. È un operazione mentale complessa per il bambino. Quindi non è in grado di confrontare in questo modo,
utilizzando la parola meno. Quindi se noi chiediamo a un bambino “Chi è meno felice?” e lui indica se stesso, potremmo
fare l'errore di pensare, che in realtà, lui fosse triste quel giorno. In realtà, semplicemente, lui sta avendo delle difficoltà
nell'utilizzo della parola meno.
Solo intorno ai 4 anni il bambino arriva a padroneggiare anche l’utilizzo della parola “meno”. Fino a quel punto
rappresenta per lui un problema sottrarre una qualità.
Un altro aspetto che può farci cadere in errore quando cerchiamo di interpretare il pensiero infantile, le azioni, i
comportamenti del bambino, solo sulla base del resoconto verbale, e quindi anche la loro lettura del mondo, è legato al
fatto che, il bambino, molto spesso guarda all'adulto come un detentore di conoscenze superiori alle sue; quindi come
qualcuno che ne sa più di lui. Questo complica la relazione perché, nel momento in cui noi facciamo delle domande al
bambino, quello che il bambino cerca di fare è capire che cosa noi vogliamo sentirci dire e adeguerà la sua risposta a
quella che è la nostra domanda, se facciamo delle domande che suggeriscono già una risposta. Si tratta di un fenomeno
noto anche come “desiderabilità sociale” che abbiamo anche noi adulti. Nel senso che quando ci troviamo in una
situazione sociali in cui non sappiamo bene come comportarci, tendiamo a adeguarci a quelle che sembrano essere
richieste del nostro ambiente. Questo è quello che fa il bambino con l'adulto soprattutto quando l'adulto gli pone delle
domande che lui non capisce o che non hanno senso per lui. Quindi tenderà a cercare di dare le risposte che lui pensa
siano corrette, siano quelle volute dall'adulto. Questo succede ad esempio quando chiediamo a un bambino una cosa e
poi facciamo una seconda domanda “sei sicuro?”, “ma davvero?”; il bambino tenderà a cambiare la sua risposta e a
leggere nella seconda domanda un suggerimento per dire “guarda che la prima era sbagliata, quindi forse è il caso che
tu cambi la tua risposta”.
Una ricerca anche un po' datata nel 1974 di Rosa Blank ha tentato di analizzare questo questo fenomeno utilizzando i
compiti quelli di Piaget, che vedremo poi durante lo sviluppo cognitivo e che consistono nel presentare al bambino una
situazione, chiedere al bambino di scegliere, ad esempio, tra due file di gettoni ben allineati dove ce ne siano di più.
Dopodiché, spostare una delle due file, quindi allontanare i gettoni di una delle due file e chiedere al bambino in quale
ce n'è di più. A questo punto i bambini, di solito, circa fino ai 6 anni, negavano l'uguaglianza delle due file; e questi autori
si sono chiesti: “Ma non è che la risposta del bambino, la seconda risposta del bambino, sia data proprio da questo
fenomeno, dal fatto che il bambino pensa di dover cambiare la sua prima risposta perché aveva sbagliato la prima?”.
Quindi questi autori fecero lo stesso esperimento ma ponendo il bambino la domanda una sola volta. Quindi, il bambino
posto di fronte a due file di gettoni, dove la seconda fila è già stata allargata, i gettoni sono già stati distanziati tra loro,
hanno visto come i bambini già intorno al 4 anni, e non i 6, riescono a comprendere l'uguaglianza. Come vedete quindi,
interpretare solo sulla base del solo resoconto verbale ci può portare fuori strada e ci può, in qualche modo, far pensare
che il bambino non abbia ancora raggiunto delle abilità di tipo cognitivo durante un'intervista di questo tipo, quando
invece le ha raggiunte; mentre quello di cui non stiamo tenendo conto è il modo errato in cui stiamo facendo le domande.

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Lez. 2 audio 5

4° ERRORE è L’INTERPRETAZIONE SULLA BASE DELL’OSSERVAZIONE SPONTANEA

Eccoci Giunti ad analizzare l'ultimo errore di interpretazione dell'adulto nel osservare il comportamento infantile. Questo
errore ha a che fare con l'interpretazione della sola osservazione spontanea. Cosa vuol dire? Si tratta della tendenza ad
utilizzare un osservazione spontanea e non controllata del comportamento infantile e a generalizzare poi i risultati
dell'osservazione senza che vi sia una consapevolezza di quello che è stato fatto realmente. Purtroppo, l'osservazione,
per quanto sia uno strumento potente per giudicare e per raccogliere informazioni, non può portare a risultati attendibili
se non viene fatta in modo sistematico, se non viene controllata dallo sperimentatore. Quindi, se noi osserviamo
spontaneamente, corriamo il rischio di andare a vedere soltanto quegli aspetti del comportamento che risultano più
evidenti. Non sono però, quei comportamenti che magari sono più rilevanti per quella questione, che magari sono anche
oggettivamente la causa di determinati comportamenti. Si tratta di un errore procedurale perché, non essendovi un piano
di osservazioni stabilito a priori, quindi prima di iniziare a osservare, non possiede valore, e quello che noi arriviamo a
trovare sono probabilmente solo fatti superficiali e facciamo delle generalizzazioni senza avere il controllo necessario
della situazione per poterle fare. Quindi se noi osserviamo in maniera spontanea non possiamo poi pretendere di
estendere il valore di quello che abbiamo osservato ad altre situazioni.
Un altro è un altro problema molto importante è quello che, potremmo arrivare a generalizzare anche fenomeni che
abbiamo visto soltanto sporadicamente. Potremmo arrivare a sovrastimare la presenza in tempi in cui questi fenomeni si
presentano sulla base di svariate ragioni che possono essere dei pregiudizi teorici, una salienza dell'azione, la mancata
presenza dei nessi causali oppure un mancato calcolo del rapporto tra comportamenti. Cosa vuol dire? Vuol dire che
potremmo arrivare a trovare quello che noi vogliamo trovare, a osservare quello che noi vogliamo osservare. Perché nel
momento in cui noi non stabiliamo criteri precisi per l'osservazione, quindi non diciamo: inizio ad osservare a tot. Ora,
porto avanti un osservazione di almeno un'ora, durante quest'ora registro tutti i comportamenti che rilevo, corro il rischio
di portare avanti una relazione per vedere se “Gianni è un bambino aggressivo” e fermare l’osservazione nel momento in
cui vedo il primo comportamento aggressivo di Gianni. Questo è un modo di osservare che porta degli errori di
attribuzione importantissimi perché magari osservo per 10 minuti e vedo un comportamento aggressivo di Gianni, lì mi
fermo, ma se avessi continuato la mia osservazione per un'ora probabilmente avrei visto che nel corso di quell'ora
Gianni ha portato avanti un'azione aggressiva, Michele ne ha portate avanti 5 e Roberto ne ha portate avanti 6. Quindi
sto veramente facendo un errore di osservazione. Oppure se inizio osservare in un determinato momento e mi fermo al
momento in cui Gianni a mettere in atto il comportamento aggressivo magari non ho tutto quello che è successo prima e
quindi non vedo che cosa ha portato il comportamento aggressivo di Gianni, quindi non vedo il comportamento di
Michele e Roberto che hanno provocato Gianni, e Gianni che ha una reazione di tipo aggressiva. Questo è una modalità
di errore che mi porta a trovare, fondamentalmente, quello che stavo cercando. In questo caso specifico l'aggressività di
Gianni.
Un'altra questione rilevante ai fini dell'utilizzo dell'osservazione in modo spontaneo è quello di arrivare a determinare
delle relazioni causali, quindi causa – effetto, quando in realtà non ho dati sufficienti per dire che un fenomeno è la causa
di un altro. Spesso questo viene fatto sulla base di pregiudizi e teorici. Ad esempio, se partiamo dalla convinzione che un
determinato stile genitoriale possa avere delle influenze negative sullo sviluppo dei bambini, ahimè, con le nostre
osservazioni, potremmo andare a cogliere in modo veramente selettivo proprio quelle informazioni che sono in grado di
confermare le nostre ipotesi. Quindi, avere dei pregiudizi teorici importanti di base e utilizzare un osservazione
spontanea non controllata di tipo non strutturata, può, in qualche modo, portarci a irrigidirci in quelli che sono i nostri
pregiudizi. Questo perché troviamo e vediamo soltanto quello che vogliamo trovare, vogliamo vedere. Abbiamo
terminato le analisi dei principali errori attribuzionali che l'adulto compie nell'osservare lo sviluppo dalla prossima lezione
ci occuperemo di ricerca scientifica.
7. DEFINIRE LE EMOZIONI

Lez. 7 REG. 8.01

Lezione 57, audio 1.

Questo ottavo nucleo tematico sarà dedicato all'analisi della dello sviluppo emotivo e affettivo relazionale. Partiamo
quindi con la definizione dell'emozione. Dobbiamo quindi partire da “Che cos'è un'emozione?” Perché quello dello
sviluppo emotivo è un ambito di indagine molto complesso. Per molto tempo in passato infatti si è mantenuta
un'immagine molto negativa delle emozioni che venivano percepite essenzialmente come elementi di disturbo dei
processi cognitivi e si pensava che esistesse una distinzione molto netta tra funzioni cognitive che facevano riferimento
al sistema nervoso centrale ed emozioni che erano invece collegate più al sistema nervoso autonomo, quello più
primitivo con modalità di funzionamento più simile a quegli animali rispetto a quelle umane. Ad oggi questa posizione è
stata completamente superata ed è stato dimostrato che, l'organizzazione dell'attività psichica dipende, in larga misura,
anche dall’aspetto emotivo, soprattutto nelle situazioni di presa di decisione intervengono molti più fattori di tipo emotivo
rispetto al fattore di tipo cognitivo. Infatti ora le emozioni vengono viste come connesse con il piano cognitivo e come
complementare, appunto nei processi quali la presa di decisioni ma anche ad esempio processi legati al ragionamento
morale in cui le decisioni morali vengono prese da un punto di vista più emotivo che più positivo.

Che cos’è l'emozione?

L’emozione viene definita come una reazione soggettiva a un evento saliente caratterizzata da cambiamenti fisiologici,
esperienziali e comportamentali. Vuol dire che l'emozione è una reazione soggettiva a un evento che viene percepito dal
soggetto come saliente. Quindi, l'evento non saliente di per sé, ma è saliente per il soggetto che lo percepisce in quel
momento. Ad esempio, l'esclusione dell'Italia dai Mondiali può essere un evento completamente neutro per una persona
e quindi non generare nessun tipo di reazione emotiva, oppure può essere un evento emotivamente saliente per un
individuo e quindi poi generare una reazione emotiva di rabbia, di frustrazione, di tristezza. Quindi è questo che si
intende quando si parla di reazione soggettiva ad un evento saliente. Questa reazione si caratterizza per cambiamenti
fisiologici ovvero tutti quei parametri legati al sistema nervoso autonomo, come battito cardiaco, la sudorazione, la
conduttività della pelle, il ritmo respiratorio, sono tutti i parametri che vengono legati all’ esperienza di un emozione.
Quindi, ogni emozione ha delle caratteristiche a livello di cambiamento fisiologico ben definibili e specifiche; ad esempio
nell'emozione della rabbia abbiamo un battito cardiaco che accelera notevolmente, abbiamo un maggior afflusso di
sangue al volto, tant'è che si parla di essere paonazzi dalla rabbia, di un volto arrossato, si dice anche sbiancare della
paura perché in questo caso c’è il processo contrario, il sangue defluisce. Oltre ai cambiamenti di tipo fisiologico
assistiamo anche cambiamenti di tipo esperienziali, ovvero legati alla valutazione cognitiva delle emozioni e della
situazione e sono legati anche col processo di etichettatura dell'emozione. Quindi, il dare un nome a quello che io provo,
in quel momento, ha un valore di tipo cognitivo e cambia quelli che sono gli aspetti esperienziali del vivere l'emozione. Ci
sono poi anche tutta una serie di cambiamenti di tipo comportamentali; per cui provare un'emozione determina dei
cambiamenti a livello di espressioni facciali, a livello di voce, a livello di gestualità oppure di postura. Tutti questi
cambiamenti sono belli visibili all'esterno e quindi l' emozione che l'individuo prova è leggibile attraverso quelli che sono i
cambiamenti che mettono in atto nell’individuo, dai cambiamenti fisiologici, quando abbiamo il viso paonazzo di rabbia o
sbiancato dalla paura ai cambiamenti comportamentali che mi portano a muovermi a scatti in caso di rabbia oppure
avere dei movimenti molto rallentati in caso il tristezza.

Lez. 7 reg. 8.02

Lezione 57 Audio 2

Tra i primi studiosi di sviluppo emotivo e di emozioni troviamo un nome tra i più noti quello di Darwin.
Darwin si interessò di sviluppo emotivo a seguito della nascita dei suoi figli poiché rimase molto colpito dalla capacità di
espressione emotiva di bambini così piccoli. Ovviamente la sua lettura delle emozioni risente in larga misura da quello
che è il suo approccio di tipo emotivo. Infatti, secondo Darwin, le emozioni e la loro espressione nell'uomo, così come
negli animali, sarebbe appunto l’esito di processi di selezione naturale. Secondo questa lettura di tipo evoluzionistico, in
passato, le emozioni hanno rivestito un ruolo fondamentale nel consentire la sopravvivenza dell'individuo. Le reazioni
emotive avevano il vantaggio di consentire all'individuo di organizzare meglio le sue reazioni quindi si pensi ad esempio
al sistema di attacco fuga che caratterizza i mammiferi. In seguito sarebbero rimaste quindi, le emozioni, nel patrimonio
genetico della specie e mantenute in generazione in generazione, per la loro utilità. Quindi, sempre nell'ottica di Darwin,
le emozioni avrebbero una duplice funzione:
 funzione di comunicazione: quindi comunicare con specifici messaggi relativamente al proprio stato interno;
 funzione di preparare l'individuo all'azione: quindi, secondo Darwin le reazioni fisiologiche che si collegano
all'emozione si sono evolute nel tempo per dare dei vantaggi a livello di adattamento all'ambiente; un esempio è
legato all'emozione della paura che porta ad ansimare e, quest’azione dell’ansimare, porta a sua volta ad
aumentare il volume d'aria che individuo ha a disposizione dei polmoni, quindi favorisce l'insorgere della
reazione di attacco-fuga.
Per quanto riguarda l'espressione delle emozioni, Darwin notò come determinati eventi, determinate emozioni, avessero
la capacità di elicitare la produzione di espressioni facciali ma anche posture e prossemica, movimenti corporei simili nei
membri di una determinata specie oppure anche nei membri specie con antenati comuni. In questo caso si parla di
universalità delle espressioni facciali legate alle emozioni. Le emozioni hanno delle pattern di espressione facciale ma
anche di reazione psicofisiologica specifiche, per cui abbiamo, ad esempio la rabbia.
L’emozione della rabbia si connota per una espressione facciale caratterizzata da una fronte aggrottata, la bocca
leggermente aperta oppure al contrario le labbra serrate. Allo stesso momento si hanno delle reazioni psicofisiologiche
legate al battito cardiaco che accelera, a un aumento della temperatura della pelle e questo viso viene definito rosso, un
viso paonazzo dalla rabbia. Questo perché queste attivazione avrebbero la funzione adattiva di far sì che l'individuo
abbia sufficiente energia per superare l'ostacolo, per raggiungere l'obiettivo.
Poi abbiamo l'emozione della paura che invece come espressione facciale è caratterizzata dalle sopracciglia sollevate,
gli occhi spalancati e fissi. A livello fisiologico abbiamo un aumento del battito cardiaco, una bassa temperatura della
pelle e una respirazione di tipo ansimante. Questa emozione avrebbe lo scopo di far sì che individuo possa
comprendere la minaccia, capire da dove arriva il pericolo e quindi anche evitarlo mettendo in atto delle strategie
adeguate.
Poi abbiamo l'emozione del disgusto per cui l'espressione facciale è caratterizzata anche questa dalla fronte aggrottata
da un naso arricciato e un labbro superiore sollevato. È molto tipica l'espressione del disgusto. Poi abbiamo delle
reazioni fisiologiche legate a un battito cardiaco tendenzialmente lento e da un aumento della resistenza epidermica.
Qual è la funzione adattiva del disgusto? È quello di evitare l'elemento che origina il disgusto. E quindi, potenzialmente di
evitare di venire avvelenati da qualcosa per cui noi proviamo repulsione.
Poi l'emozione della tristezza porta l'individuo ad avere gli angoli della bocca all'ingiù e un mento abbassato. A livello
fisiologico c'è un battito cardiaco sicuramente rallentato, un abbassamento della temperatura e anche della resistenza
epidermica. Qual è lo scopo sociale e adattivo della tristezza? È quello di stimolare gli altri a offrire consolazione; quindi
ricevere supporto da parte dei conspecifici.
Poi abbiamo l'emozione della gioia che invece ha gli angoli della bocca all'insù e gli occhi che si ravvicinano. Il battito
cardiaco in questo caso è un battito cardiaco accelerato, un respiro irregolare e un elevata conduttività della pelle. A
livello adattivo ha il compito di comunicare ai conspecifici una disponibilità per un interazione di tipo amichevole.
Poi abbiamo l'espressione della sospesa, caratterizzata da occhi spalancati, sopracciglia sollevate, una bocca aperta e
un orientamento verso lo stimolo. In questo caso il battito cardiaco è rallentato. La disperazione ha questa caratteristica
di essere sospesa e c'è una diminuzione generale del tono muscolare. Quello che è la funzione adattiva della sorpresa è
ampliare il campo visivo e prepararsi quindi ad una nuova esperienza. 

Lez. 7 REG. 8.03

Lez. 57 audio 3

Molti si sono chiesti se le emozioni debbano essere considerate innate?!


Sono state fatte molte ricerche a riguardo e in particolare il lavoro di Ekman in Nuova Guinea, è risultato molto
interessante. Secondo diversi autori, le espressioni facciali delle emozioni utilizzano un repertorio che è innato e anche
specie-specifico. E quindi dovrebbe risultare innato, universale, comprensibile a tutti gli appartenenti alla specie umana.
Questo autore si occupò di indagare la capacità di lettura delle emozioni tra le culture. In particolare, in Nuova Guinea,
cercò di vedere se gli abitanti di questa zona erano in grado di decifrare le foto delle sette emozioni che egli riteneva
essere di base, in volti di nordamericani. Quindi, presentò agli abitanti della Nuova Guinea queste fotografie che
ritraevano degli individui nordamericani che simulavano l'emozione della gioia, della tristezza, della paura, del disprezzo,
del disgusto, della sorpresa e della rabbia. Trovò che con un certo grado di precisione gli abitanti della Nuova Guinea
erano in grado di discriminare le emozioni mostrate dai conspecifici nordamericani. Allo stesso modo, quando chiese agli
abitanti della Nuova Guinea, di essere fotografati mentre manifestavano le emozioni, e propose poi in un secondo
momento queste fotografie ai nordamericani, trovo una buona capacità di discriminazione delle emozioni tra culture
molto lontane, molto differenti.
In particolare abbiamo anche il pensiero anche di altri autori.
Ad esempio Harris nel 1989 legò la capacità di riconoscere le emozioni a fattori di tipo universale ma non
necessariamente di tipo innato. Vi sarebbero infatti, secondo Harris, delle esperienze di apprendimento tipiche della
specie che sono in grado di determinare proprio quell’universalità che Ekmar ritrovò con i suoi studi. Quindi universali si
ma non innate secondo Harris.
Per concludere, possiamo affermare che c'è un generale accordo sul fatto che le emozioni di base, non tutte le emozioni,
siano da considerarsi innate è però altrettanto riconosciuto che esistono delle possibili influenze sociali che vanno a
fissare delle regole di espressione emotive, come l'emozione si manifesta. Generalmente i ricercatori ritengono che la
stabilità nel tempo sia un'altra delle caratteristiche fondamentali delle emozioni di base. Queste emozioni rimangono
quindi inalterate lungo l'intero arco di vita degli individui e subiscono dei cambiamenti semplicemente legate a quelle che
sono le diverse circostanze che possono evocare. Quindi l'emozione rimane la stessa ma nel corso del tempo può
essere evocata da situazioni differenti.
Per concludere, esiste un gruppo di emozioni specifico, che sono le emozioni di base, che hanno caratteristiche di
universalità e innatismo e che mantengono anche una certa stabilità nel tempo relativamente a come vengono espresse
queste emozioni ma non a che cosa elicita queste emozioni.
10. EMOZIONI INTERAZIONE SOCIALE

Lez. 10 reg 8.04

Lez.60 audio 1

Un aspetto molto importante delle emozioni è quello legato all'interazione sociale. Quindi emozione ed interazione
sociale hanno un legame molto stretto. Infatti, sono numerose le ricerche che si sono occupate di indagare lo sviluppo
emotivo dei bambini analizzando proprio il rapporto che intercorre tra la competenza emotiva ed ambito relazionale.
Vediamo alcuni in questi risultati. Ad esempio è stato dimostrato che i bambini in grado di auto regolare le proprie
emozioni hanno più successo nel rapporto coi coetanei; allo stesso modo i bambini che esprimono con chiarezza i propri
stati emotivi sono anch’essi più apprezzati dai coetanei; e i bambini che hanno un vocabolario emozionale adeguato,
cioè sono in grado di nominare le emozioni in modo adeguato, sono dei bambini popolari nei loro gruppi di pari. I bambini
ancora che si esprimono in termini più positivi hanno relazioni più soddisfacenti, quindi sono più felici delle loro relazioni.
I bambini che sanno meglio interpretare i messaggi emotivi degli altri, hanno una maggiore approvazione sociale. Infine,
quei bambini che gestiscono la collera in maniera meno aggressiva, a livello comportamentale, hanno una maggiore
competenza sociale e sono hanno più successo come leader.
In definitiva vediamo come l'aspetto di regolazione delle emozioni, ma anche di espressione delle emozioni, abbia dei
legami importanti con quelli che sono le capacità relazionali e affettive di bambini. Poiché, al contrario, la ricerca
dimostra che i bambini che hanno un intensa emotività, ma scherzo controllo hanno generalmente una cattiva influenza
su quelli che sono i processi di gruppo perché portano facilmente al conflitto e hanno rischi più altri di venire rifiutati dal
gruppo.
Risulta evidente come ci sia uno stretto legame tra gli aspetti emotivi e gli aspetti di interazione sociale. Nell'interazione
sociale entrano in gioco gli effetti di regolazione delle emozioni, l'aspetto di comprensione, di lettura degli altri, delle
emozioni degli altri; quindi di comprensione ma anche di espressione delle proprie emozioni. Tutte le dimensioni della
competenza emotiva hanno a che fare con l’aspetto interattivo-relazionale.
Le emozioni sono un aspetto fondamentale dello sviluppo affettivo, poiché regolano proprio quelle che sono le relazioni
affettive tra gli individui. Soprattutto all'inizio, i bambini fanno un uso strumentale delle emozioni che utilizzano per
regolare l’interazione con il proprio caregiver. Infatti l'adulto quasi da subito attribuisce un’intenzionalità alle emozioni del
bambino e agisce in conseguenza a questa emozione; quindi ha la processione anche di un’intenzionalità, orientando e
canalizzando le sue espressioni emotive in accordo con quelle che sono le regole sociali. Quindi, l’adulto percepisce le
emozioni del bambino come volontarie, come intenzionali, e si muove nel tentativo di aiutare il bambino a regolarizzare
queste emozioni fornendo degli indizi su quelle che sono le regole sociali di espressione delle emozioni. Si tratta di un
processo che viene definito “processo di socializzazione delle emozioni” e, attraverso questi scambi emotivi, con la
figura di attaccamento, il bambino arriva ad imparare a regolare le emozioni; quindi da un funzione etero regolativa,
esterna, il bambino arriva ad una funzione autoregolatoria, quindi interna. Si tratta di un processo di apprendimento
essenziale, per quello che è lo sviluppo del bambino. Questo passaggio non è sicuramente passato inosservato.
Uno degli autori più noti, per aver parlato di sviluppo emotivo, ma soprattutto di sviluppo affettivo, è sicuramente Freud
con la sua teoria della psicoanalisi e lo sviluppo psicosessuale del bambino. Con il suo lavoro Freud si impose sul
panorama culturale a cavallo del Novecento e andò ad elaborare quella che è la sua teoria, appunto, dello sviluppo
psicosessuale dividendo lo sviluppo del bambino in cinque fasi di acquisizione di competenze psichiche, quindi di
riorganizzazione del suo assetto psichico.
Freud ipotizza che l’organizzazione psichica del bambino si basi su delle pulsioni:
la pulsione libidica;
la pulsione aggressiva.
Quindi come queste pulsioni progrediscono all'interno e dove vanno a fissarsi, determina la fase di sviluppo del bambino.
Freud fu uno dei primi a interessarsi allo sviluppo affettivo e non allo sviluppo cognitivo del bambino. Egli ha dato molta
importanza a quelli che sono gli aspetti motivazionali del bambino e vede nella relazione con la madre, quindi nel legame
con il caregiver, una motivazione di tipo secondario. Perché secondo lui, il bambino si lega alla madre, al proprio
caregiver perché questo gli consentirebbe di soddisfare dei bisogni primari. Secondo Freud il legame affettivo è un
bisogno ritenuto secondario.

Lez. 10 reg. 8.05

Lezione 62 Audio 2

Vediamo questa prima forma di analisi dello sviluppo affettivo.


Freud divide lo sviluppo in 5 fasi:
1° FASE ORALE, inizia con la nascita e termina intorno al 12-18 mesi;
2° FASE ANALE, che dura dai 12/18 mesi fino a circa 24/30 mesi, quindi ai 2 anni, 2 anni e mezzo;
3° FASE FALLICA, copre il periodo che va dai 3 anni, circa, fino ai 6 anni, circa;
4° MOMENTO DI LATENZA, che Freud non mi concepisce come una fase vera e proprio, ma come una sospensione
nello sviluppo affettivo;
5° FASE GENITALE, che si riaprirà con la pubertà.
La pulsione libidica, che sta alla base dello sviluppo affettivo, si connota, in ogni fase, in modo differente e va a caricare
di energia una determinata zona erogena che è la zona che il bambino utilizza per confrontarsi con il mondo.
Per esempio, nella prima fase, che è la fase orale, il bambino si confronta col mondo attraverso quella che è la
nutrizione. Quindi, l’aspetto nutritivo, e anche l'aspetto esploratorio, passa attraverso la bocca e questa forma di
relazione con il mondo traduce in un organizzazione psicologica tipica della fase orale per cui il bambino è in un
momento esploratorio. Il soggetto di interesse è, in questo momento, la madre.
Con la fase anale il bambino arriva al controllo sfinterico. Inizia a sperimentare quello che è il controllo, la possibilità di
trattenere e di lasciare andare. Questa capacità di poter agire sul suo corpo porta ad un abbozzo di autonomia. È un
periodo in cui si costruisce quella che è l'autostima del bambino.
Il passaggio successivo prevede il subentrare di quello che è il “complesso edipico”. Nella fase fallica subentra, secondo
Freud, una sorta di funzione libidica verso il genitore dell'altro sesso e una pulsione contemporanea aggressiva, verso il
genitore dello stesso sesso. Questo perché ci sarebbe, secondo Freud, una sorta di innamoramento verso il genitore del
sesso opposto, che porterebbe all’identificazione dell'oggetto d'amore. Al contempo la pulsione di volersi liberare del
rivale, il genitore dello stesso sesso. Queste pulsioni sono considerate inaccettabili, da un punto di vista sociale, e,
soprattutto, mettono a rischio quella che è la stabilità razionale del bambino; perché pulsioni di questo tipo sono
considerate pericolose. Siccome il bisogno fondamentale del bambino è quello di mantenere la sicurezza, di continuare
a mantenere un legame affettivo con la madre, al fine di soddisfare quelli che sono i suoi bisogni primari, bisogno di cibo,
bisogno di sicurezza, il bisogno di essere cambiato, di essere al sicuro al caldo; per evitare che queste pulsioni mettano
in discussione il soddisfacimento dei bisogni primari, il bambino deve, in qualche modo, rimuovere queste pulsioni. In
questo momento, subentra la FASE DI LATENZA.
Intorno ai 6 anni, il bambino interrompe quelle che sono le sue funzioni libidiche che vengono i sublimate nell'aspetto
scolastico. Secondo Freud, il momento della scolarizzazione, è il momento in cui il bambino sublima delle energie
libidiche, che ha dovuto reprimere per poter salvaguardare la sua sicurezza e quella dell'assetto famigliare. Le sublima
nei processi di socializzazione e, soprattutto, nella condizione di apprendimento quindi nell'aspetto scolastico.
Riprenderà attivamente lo sviluppo psico-sessuale con la pubertà; con il risveglio dell'aspetto legato alle pulsioni
libidiche. Ci sarà un nuovo indirizzamento di quelle che sono le pulsioni libidiche, sulla zona genitale. In questo modo
però il bambino raggiunge quello che è, secondo Freud, uno sviluppo psico-sessuale completo. Nelle fasi precedenti
Freud definisce il bambino come un “perverso polimorfo”. Quindi, con la fase genitale, il bambino raggiunge un assetto
psicologico maturo, paragonabile con un assetto psicologico di tipo adulto.
Come abbiamo visto, il secondo autore che si occupa di sviluppo affettivo è sicuramente Bowlby con la sua teoria
dell’attaccamento. Egli parte dalla psicanalisi e si occupa inizialmente proprio di ragazzi che hanno avuto relazioni
problematiche con la madre. Questo lo osserva, Bowlby, in queste cliniche dove vengono ricoverati, ricevuti questi
adolescenti con problemi sociali; quelli che Bowlby chiamava “i suoi ladri anaffettivi”. Nei colloqui con questi ragazzi,
Bowlby si rende conto che hanno avuto delle relazioni problematiche con la madre, durante l'infanzia. Decide di mettere
in campo degli studi in modo da analizzare quelle che sono le relazioni precoci, madre-bambino, con lo scopo di mettere
in evidenza possibili fonti di disagio. Quello che ne emergerà è, sicuramente, una teoria di notevole importanza. Ovvero
la teoria dell'attaccamento. 

Lez. 10 reg. 8.06

Lezione 60 audio 3

Quali sono i presupposti teorici della posizione Bowlby?


Abbiamo visto come Bowlby nasca all'interno della psicoanalisi. Quindi, come punto di partenza Bowlby ha il legame
affettivo che Freud individua tra madre e bambino. Ma sicuramente Bowlby non si accontenta di questo approccio
perché non riesce a vedere, come Freud, il bisogno di accudimento, il bisogno di cura, il bisogno d'amore come un
bisogno secondario al soddisfacimento di bisogni primari come quello della fame. Infatti, secondo Bowlby, il bisogno di
attaccamento, il bisogno di affetto e di cura, non è un bisogno secondario ma è allo stesso livello del bisogno di cibo.
Bowlby dirà, infatti, che, la fame di amore è altrettanto forte rispetto alla fame di cibo.
Ma da dove arrivano queste posizioni di Bowlby? Tendenzialmente, arrivano dall’etologia. Fino alla fine del XX sec., le
teorizzazioni relative allo sviluppo affettivo erano ridotte:
da un lato alla teoria psicosessuale di Freud;
dall'altra all'approccio, molto riduttivo, del comportamentismo.
Quindi, in generale la sensazione di Bowlby era quella che venisse sottovalutata l'importanza del legame emotivo che
veniva a costituirsi tra il caregiver e il suo bambino; quindi, all’interno della diade. E, appunto, come abbiamo già detto,
non riteneva che questo legame dovesse essere inteso come subordinato alla nutrizione. Di base, Bowlby, riteneva
eticamente incorrette queste teorizzazioni che contraddicevano numerosi risultati che erano già a disposizione in campo
etologico. Ad esempio, Lorenz, che studiò il momento di imprinting di alcuni volatili, dimostrò come per le ocche,
esistenze un periodo critico, in cui seguono il primo oggetto in movimento che si para loro davanti. Quindi, Lorenz,
questo etologo, si sostituì alla Mamma Oca (il web è pieno di foto di Lorenz che si sposta seguito da questi anatroccolini
che, ignorarono completamente la madre biologica e considerarono Lorenz come la propria madre. Sostituirono alla
propria madre la figura di Lorenz. In alcune specie è Infatti presente questo momento critico durante il quale i cuccioli
apprendono e memorizzano le caratteristiche fondamentali dalla della figura che li alleverà. Nelle oche, questo si
traduce, come abbiamo visto, ad una predisposizione a seguire il primo oggetto in movimento che si para loro davanti,
una volta uscite dall'uovo. Questo, ha come obiettivo proprio il mantenimento di una prossimità, tale con la madre, da
consentire al piccolo di sopravvivere. Ovviamente questo portò Bowlby a interrogarsi sull'esistenza, o meno, di un
periodo critico anche per l’uomo. Inoltre, i dati di Lorenz erano supportati anche dagli esperimenti di Harlow che iniziò a
lavorare su dei cuccioli di scimmia. Mise dei cuccioli di scimmia all’interno di gabbie in cui erano presenti due madri: una
madre di ferro ma in grado di dare nutrimento, e un'altra madre, invece, di pezza e gommapiuma. Si è visto come, il
cucciolo di scimmia, dopo essersi nutrito dalla mamma di ferro, passasse la maggior parte del tempo con la madre di
pezza, la madre di gommapiuma che era in grado di fornire calore. Ma, cosa più importante, nel momento in cui veniva
fatto entrare nella gabbia un robot, in grado di generare paura nella scimmietta, si è cercato di indagare dov'è la
scimmietta cercasse riparo. Se, l’ipotesi di Freud fosse stata corretta, la scimmietta, avrebbe dovuto cercare riparo tra le
braccia delle madri di ferro, quella in grado di dare nutrimento. Perché, se è vero che, il legame di attaccamento è
subordinato al soddisfacimento di un bisogno primario di nutrizione, la scimmietta avrebbe dovuto riconoscere, come
figura di accudimento, la madre di metallo. Questo però non succedeva. La scimmietta andava a rifugiarsi proprio dalla
madre di gommapiuma e stracci che, sebbene non era in grado di dare nutrimento era, però, in grado di fornire calore, di
accogliere il cucciolo di scimmia.
Quindi, cosa hanno dimostrato gli studi Harlow? Hanno dimostrato la presenza di un imprinting filiale nella piccola
scimmia relativamente a quella che è la madre di gommapiuma.
Proprio sulla base di questi risultati. che provengono dall’etologia Bowlby iniziò a formulare la sua teoria
dell'attaccamento e a ritenere che, la relazione con la figura di accudimento fosse da considerarsi unica e non come
subordinata al soddisfacimento di bisogni fisiologici. Secondo Bolby, una volta che viene stabilita questa relazione si
mantiene come la più forte relazione d'amore che funge, in qualche modo, da prototipo per tutte le relazioni successive.
Bowlby, in questo caso, prende nettamente le distanze da Freud.
Secondo Freud, la motivazione d'amore, il bisogno d'amore, il bisogno di affetto e di socializzazione, è un bisogno
secondario che ha sue motivazioni nel soddisfacimento di bisogni primari di alimentazione e pulizia.
Invece, per quanto riguarda Bowlby, la motivazione all'attaccamento, cioè la spinta alla ricerca di amore, è una
motivazione intrinseca e di tipo primario che deriva dal bisogno sia di contatto che di conforto.
Quindi, la ricerca della vicinanza della prossimità fisica è la manifestazione di quello che il bisogno primario di
interazione, di amore e di cura.
Vediamo come si sono formate qui le basi della teoria dell'attaccamento. Ci sono già tutti i presupposti per definire i primi
approcci teorici all’attaccamento. Bowlby parte dalla psicanalisi per poi trovare informazioni utili alla definizione della sua
teoria proprio all'interno dell'etologia.
11. LA TEORIA DELL’ATTACCAMENTO

Lez. 11 reg. 8.07

Lezione 61 audio 1

Il principale contributo di Bowlby alla psicologia dello sviluppo, come abbiamo detto, è la sua teoria dell'attaccamento.
Con questa teoria, Bowlby, spiegò l'importanza delle relazioni precoci madre-bambino relativamente allo sviluppo
affettivo-relazionale, ma anche sociale degli individui.
Quindi, che cosa intende Bowlby, col termine di attaccamento?
Dobbiamo iniziare a fare una disambiguazione perché Bowlby non intende nulla di negativo col termine attaccamento.
Intende una predisposizione biologica che ha il bambino verso la sua figura di attaccamento, quindi verso il caregiver,
quella figura che gli garantisce la sopravvivenza prendendosi cura di lui. Secondo Bowlby esisterebbe un sistema di
attaccamento; un sistema che ha lo scopo di proteggere il bambino da situazioni potenzialmente pericolose, ha lo scopo
di aumentare, di massimizzare quella che è la prossimità fisica dell'adulto, caregiver, in una situazione che viene
percepita dal bambino come pericolosa. Si tratterebbe sostanzialmente dell'attivazione di schemi comportamentali che
sono preprogrammati e che hanno lo scopo di ottenere la vicinanza. Secondo Bowlby, la vicinanza fisica è l'espressione
di quello che è il legame di attaccamento. Il legame di amore che si instaura tra caregiver e bambino è rappresentato dal
bisogno del bambino di raggiungere e mantenere un’approssimità anche fisica.
Come funziona questo sistema dell'attaccamento? Questo sistema dell'attaccamento ha la funzione di regolare la
vicinanza della madre e l'esplorazione del bambino. Abbiamo visto come, per lo sviluppo cognitivo, sia indispensabile
che il bambino proceda ad esplorare l'ambiente. Ma quando il bambino percepisce una situazione potenzialmente
pericolosa sospende quello che è il sistema esploratorio e riattiva o attiva quello che è il sistema di attaccamento.
Quindi, per far fronte a situazioni potenzialmente pericolose o particolarmente stressanti per il bambino, egli attiva quelli
che sono i comportamenti di attaccamento.
Quali sono i comportamenti di attaccamento? Essenzialmente il richiamare l'attenzione del caregiver e fare in modo di
guadagnarsi l’approssimità fisica, la vicinanza fisica con il proprio caregiver.
Il sistema di attaccamento, anche se si tratta di comportamenti preprogrammati, ha un'evoluzione.
 0 e 2/3 mesi  pre-attaccamento, il bambino da dei segnali di avvicinamento, ha dei comportamenti di
segnalazione, ad esempio le vocalizzazioni, il sorriso, il pianto; ma ha anche dei tentativi generici di aggrapparsi
al caregiver. A questo punto dello sviluppo non è ancora presente una discriminazione precisa tra diversi
individui e non è neppure presente un intenzionalità che avverrà e comparirà più tardi.
 Tra 2 – 8 mesi (più o meno)  si viene a creare il legame di attaccamento, si assiste alla comparsa di una
generale sensazione di ansia, che si manifesta quando il bambino viene lasciato da solo. Non è ancora
presente la permanenza dell’oggetto. Il bambino non piange perché si è allontanato il caregiver ma
sostanzialmente piange proprio per il fatto di essere stato lasciato da solo, non ha lasciato da qualcuno. Il
bambino, in questa fase, inizia a discriminare il caregiver dagli altri individui; e inizia a mettere in atto delle
comunicazioni che sono direttamente dirette verso il caregiver quindi sono delle comunicazioni mirate.
 Dagli 8 fino ai 24 mesi  si parla di attaccamento vero proprio. In questo periodo, compaiono anche i primi
segnali di ansia da separazione, che sono legati a quando il caregiver si allontana. Un altro fattore importante,
che testimonia l'avvenuto attaccamento, è la comparsa delle emozioni, la paura dell'estraneo. Per cui il
bambino inizia a reagire manifestando di stress alla presenza, al fatto di voler essere dato in braccio a persone
che non conosce.
 Dopo i 18 mesi abbiamo una relazione del caregiver che diviene centrata su quelli che sono degli scopi. Questi
scopi, sono definiti sulla base dei feedback che vengono forniti dall'ambiente che li circonda. Inoltre, gli scambi
interattivi, tra caregiver e bambino, quindi interni alla diade, divengono sempre più caratterizzati sia
dall'intenzionalità che dalla reciprocità. E, soprattutto in questa fase, compaiono i MOI, ovvero i modelli operativi
interni, ovvero delle rappresentazioni interne legate a quella che è la relazione con il caregiver.
 Fino ai 2 anni  Il bambino aumenta le proprie capacità di spostarsi, di muoversi nello spazio, e quindi con il
subentro della posizione eretta, della capacità di deambulare, diventano molto più autonomi e anche
indipendenti. Sono capaci, quindi, di regolare attivamente, in modo quasi autonomo, la vicinanza con il
caregiver. In questo momento iniziano a parlare di caregiver come base sicura perché il bambino utilizza il
caregiver come punto di partenza per spostarsi nello spazio. Un punto da cui partire, per la sua esplorazione
dell'ambiente, e poi ritornare. Perché ha la sicurezza di poter tornare verso una base sicura.
Il costituirsi di una base sicura ha a che fare con uno stile di attaccamento specifico che è l'attaccamento sicuro.
Lez. 11 Reg 8.09

Lezione 61 Audio 3

Allora la procedura della Strange situation, come abbiamo detto, è stata ideata da Mary Ainsworth. Lo scopo è quello di
creare delle situazioni di stress, via via crescente, in modo che venga elicitata l'attivazione del sistema di attaccamento
da parte del bambino. Quindi, essendo stata definita, sulla base della teoria dell'attaccamento, Mary Ainsworth, riteneva
di poter vedere, in questo modo, in azione, quelle che era la base sicura. La sua concettualizzazione legata alla
possibilità del bambino di esplorare allontanandosi dalla madre e potendo tornare dalla madre. Oltre a poter vedere in
azione, il fenomeno della base sicura, Mary Ainsworth, pensava di poter valutare, durante i momenti di separazione,
proprio i comportamenti che il bambino avrebbe messo in atto. Come avrebbe protestato il bambino durante la
separazione?
Queste erano le basi teoriche che hanno portato, Mary Ainsworth, a definire questa procedura osservativa, in 8 episodi,
della durata di 3 minuti ciascuno.
1° episodio: lo sperimentatore introduce il caregiver e il bambino nella stanza di osservazione. Si tratta di una stanza in
cui sono presenti dei giochi, due sedie e un grande tappeto su cui il bambino può giocare. Deve essere presente uno
specchio unidirezionale da cui lo sperimentatore può osservare e anche videoregistrare, senza essere visto dal
bambino. Parte l'osservazione.
2° episodio: bambino e caregiver vengono lasciati da soli. La madre viene istruita a lasciar giocare il bambino, a
stimolare il processo esploratorio del bambino.
3° episodio: entra un estraneo, una persona che non ha mai visto il bambino che, dopo aver conversato per qualche
secondo con la madre, si approccia, si avvicina al bambino. A questo punto , la madre cerca di lasciare la stanza senza
farsi notare. Senza salutare il bambino cerca di defilarsi. Siamo di fronte al primo episodio di separazione.
4° episodio di separazione: l'estraneo, presente nella stanza con il bambino, cercherà di modulare il suo comportamento
sulla base di quelle che sono le reazioni del bambino.
5° episodio: primo ricongiungimento. Il caregiver rientra. Rientra nella stanza, dopo 3 minuti separazione, saluta il
bambino, se necessario lo consola. Ma poi, lascia nuovamente la stanza. All'inizio di questo quinto episodio, quando
entra il caregiver, l'estraneo lascia la stanza. Alla fine del quinto episodio, anche la madre lascia la stanza.
6° episodio: Il bambino è lasciato completamente da solo dentro la stanza. Siamo di fronte a un secondo episodio di
separazione in cui il bambino è da solo.
7° episodio: continua l'episodio di separazione. Rientra l'estraneo, non la madre, e cerca di modulare il suo
comportamento sulla base di quelle che sono le richieste del bambino.
8° episodio: secondo e ultimo momento di ricongiungimento. Rientra anche il caregiver, saluta il bambino, lo prende in
braccio. Anche in questo caso, l'estraneo lascia la stanza senza farsi notare.
Abbiamo diversi episodi che hanno delle caratteristiche comuni.
Abbiamo l'episodio 4 e l'episodio 6 dove sono presenti delle separazioni del caregiver. Nel primo caso il bambino non è
viene lasciato completamente da solo ma viene lasciato con l'estraneo, mentre nel secondo caso il bambino viene
lasciato completamente da solo nella stanza.
Abbiamo poi dei momenti di ricongiungimento. Il primo momento di ricongiungimento l'abbiamo nell'episodio 5, quando il
caregiver rientra dopo aver lasciato il bambino da solo con l'estraneo; un altro momento di ricongiungimento si ha
quando la madre rientra nell'8° episodio; anche qua il bambino è stato lasciato da solo con l'estraneo. Si ha una sorta di
ricongiungimento parziale quando entra l'estraneo nell'episodio 7.
Quando noi andiamo analizzare una Strange Situation per capire dove si attiva e come si attiva il sistema di
attaccamento del bambino, andiamo a vedere questi specifici comportamenti. Andiamo a vedere i meccanismi di
protesta che il bambino mette in atto al momento della separazione; come il bambino si approccia alla madre durante il
ricongiungimento, e come il bambino è in grado di lasciarsi consolare o meno, sia dalla madre ma anche se è in grado di
utilizzare, seppur parzialmente, l'estraneo presente come fonte di consolazione.
L'analisi di questi diversi momenti, consente di formarsi un'idea relativamente a quelle che sono le caratteristiche del
legame di attaccamento; come si è formato il legame di attaccamento all'interno di quella specifica diade.
Mary Ainsworth portò avanti uno studio empirico di notevole importanza, per cui furono molteplici, numerosi i dati che
raccolse. In tutti questi dati riuscì a definire, e a delineare degli stili di attaccamento. Cosa vuol dire? Vuol dire che, i
comportamenti che i bambini mettevano in atto, sia nel momento della separazione che, nel momento del
ricongiungimento, avevano delle caratteristiche ripetibili. Ovvero, si ripetevano con una certa frequenza determinati
comportamenti. Questo portò gli autori a ipotizzare appunto l'esistenza di veri e propri stili di attaccamento, dei pattern di
attaccamento, degli insiemi di schemi comportamentali che ogni diade aveva costruito per garantire il legame di
attaccamento.
Arrivò a definire 3 pattern di attaccamento:
1. l'attaccamento definito come sicuro , PATTERN D
2. l'attaccamento definito come insicuro-evitante,
3. e uno stile di attaccamento definibile come insicuro, ansioso, ambivalente
Vediamo nel dettaglio come si comportano i bambini nei diversi stili di attaccamento.
12. GLI STILI DI ATTACCAMENTO

LEZ. 12 Reg. 8.10

Lezione 62 audio 1
I. stile di attaccamento: ATTACCAMENTO SICURO
I bambini che hanno un attaccamento di tipo sicuro nella strange situation, manifestano un chiaro desiderio di
contatto fisico e di interazione con la figura di attaccamento. Il bambino mette in atto dei comportamenti di
esplorazione dell'ambiente e è in grado di dimostrarsi autonomo e richiedere attivamente la partecipazione
dell'adulto. Come si comporta con il caregiver? Il bambino mette in atto dei comportamenti di esplorazione, ha
quindi un atteggiamento autonomo parzialmente dipendente e, quando serve, richiedere l’intervento dell’adulto.
Durante la separazione, un bambino con attaccamento sicuro, è in grado di manifestare dei chiari segnali di
disagio e di stress. Protetta per il fatto che il caregiver è uscito e non per il fatto di essere stato lasciato da solo.
C'è una protesta e una separazione che viene percepita chiaramente da quella che è la figura di accudimento.
Durante il ricongiungimento, i bambini che hanno manifestano un attaccamento di tipo sicuro, continuano a
manifestare dei segnali di distress. Ovvero, comunicano in modo chiaro ed evidente al proprio caregiver di aver
sofferto la separazione. Si attivano per ricercare la vicinanza e ricreare la prossimità fisica che si era distrutta,
durante la separazione. Il bambino saluta il caregiver, si avvicina fisicamente al caregiver e alza le braccia per
farsi prendere in braccio; vuole massimizzare questa prossimità fisica. Una volta che riesce a ottenere questa
prossimità fisica riesce anche a conservarla, ma soprattutto, è in grado di utilizzare il contatto fisico per
calmarsi. Il contatto con l’adulto è in grado di consolarlo, perché il bambino è in grado di usare l'altro come
fonte di consolazione. Il bambino, con attaccamento sicuro, è in grado di bilanciare il suo sistema di
attaccamento e il suo sistema esploratorio. È un bambino che passa del tempo nell’esplorare l'ambiente. Ma,
nel momento in cui percepisce il pericolo, è in grado anche di attivare il suo sistema di attaccamento. Sono
bambini che hanno interiorizzato una base sicura; sono in grado di vedere l’adulto, come un punto di partenza e
un punto di arrivo sicuri da cui potersi spostare per poter esplorare l'ambiente. Da questi bambini Il caregiver
viene visto come un porto sicuro, una fonte sicura di protezione e un possibile rifugio. Ovviamente questo gli
consente anche di potersi allontanare perché hanno la sicurezza della presenza del caregiver. Parliamo di
atteggiamenti di fiducia relazionale. C'è una fiducia nella forza della relazione e del mantenimento della
relazione.
La comunicazione che avviene all'interno di questa diade, è generalmente una comunicazione diretta, una
comunicazione comprensibile di quelli che sono i vissuti emotivi del bambino, che non ha dei momenti di
esitazione o di resistenza nel ricercare la posizione e anche l'intervento del caregiver. I bambini con
attaccamento sicuro sanno richiedere di essere consolati, richiedono il contatto fisico, ma, una volta raggiunto
lo scopo, venire presi in braccio, sono anche in grado di utilizzarlo il caregiver come fonte di consolazione.
Riescono a recuperare uno stato di benessere dopo lo stato di distress. Hanno un pianto che viene definito
consolabile. Ovviamente esiste una variabilità individuale ed esistono caratteristiche simili ma non
completamente uguali.

Lez. 12 reg. 8.11

Lezione 62 Audio 2

II. Stile di attaccamento: ATTACCAMENTO INSICURO EVITANTE definito come pattern A.


Durante la stange situation, una delle caratteristiche che accomuna i bambini che mostrano un attaccamento
insicuro evitante è quella di avere continui comportamenti di evitamento del caregiver. L'evitamento del
caregiver aumenta durante i momenti di ricongiungimento. Quindi, quando sono in presenza del caregiver
questi bambini presentano dei comportamenti che possono essere definiti come decisamente indipendenti ed
autonomi. La loro attenzione è completamente assorbita dall'ambiente e dagli oggetti che trovano nella stanza.
Non prestano attenzione alla figura del caregiver ma sbilanciano il loro interagire con l'ambiente verso quelli che
sono i processi esploratori. Durante la separazione non mostrano in genere grandi segnali di disagio e se ne
mostrano sono comunque minimi, non si impegnano neppure nella ricerca attiva del loro caregiver. Quello che
fanno, durante la fase di separazione, è continuare con l'esplorazione. Sono bambini che continuano a giocare,
continuano ad esplorare l'ambiente anche quando il caregiver esce dalla stanza. Non manifestano disagio, non
piangono, non cercano di richiamare l'attenzione del caregiver. Durante il ricongiungimento possono a volte
salutarlo ma in modo distratto ma poi vogliono tornare alle loro attività, sono completamente assorbiti dal gioco,
dall'esplorazione dell'ambiente e, alle volte, anche dal estraneo che percepiscono come un elemento
interessante dell'ambiente. Assistiamo a dei bambini che mettono in atto delle reazioni emotive che risultano
essere ridotte al limite e manifestano in realtà un forte e eccessivo interesse per l'ambiente che li circonda.
Infatti, in questo stile di attaccamento, è molto evidente la sproporzione tra il tempo che i bambini dedicano al
comportamento di esplorazione e quello che dedicano invece, ai comportamenti di attaccamento. Infatti, questi
bambini, dimostrano un indipendenza affettiva molto marcata, si dimostrano come autonomi, autosufficienti e
dimostrano di essere eccessivamente indipendenti del caregiver, che non considerano come una base sicura.
Non hanno la percezione dal caregiver come un porto sicuro da cui partire e tornare. A causa proprio di questo
mancato utilizzo del caregiver, come base sicura, i bambini che manifestano un attaccamento insicuro evitante
tendono a mettere in atto proprio delle strategie di inibizione del proprio comportamento di attaccamento che
blocca in qualche modo la ricerca di conforto, di protezione. Nel rapporto che si crea tra caregiver e bambino
non c'è una comunicazione dei bisogni psicologici, ma, neppure, quando i bambini sentono disagio. Quindi,
questa sproporzione verso comportamenti esploratori non è dovuta al fatto che il bambino non ha richieste di
conforto di protezione, ma il bambino deve inibire quella che è la sua richiesta, quello che è il suo bisogno;
perché, nella relazione si è costituito un legame di questo tipo per cui non c'è tra caregiver e bambino la
comunicazione di quelli che sono i bisogni psicologici, i bisogno di affetto, i bisogni di conforto, di attenzione.
Questo stile di attaccamento viene a crearsi sulla base di un atteggiamento che potremmo definire dismissing
nei confronti dell'attaccamento, ma, in generale, nei confronti della cura del rapporto di amore che viene
fondamentalmente svalutato. Viene svalutata la dimensione dell'affetto e l'importanza della comunicazione
affettiva. Il bambino sente rifiutati questi bisogni di affetto, di vicinanza, di contatto, di protezione. Pertanto egli
impara non a eliminare, ma a inibire quello che è suo sistema di attaccamento.

Lez. 12 reg. 8.12

Lezione 62 audio 3

III. stile di attaccamento: ATTACCAMENTO INSICURO ANSIOSO AMBIVALENTE. Viene definito anche come
invischiato o resistente.
La molteplicità di nomi deriva dalle caratteristiche contrastanti che questi bambini manifestano durante la
strange situation. I bambini con un attaccamento insicuro ambivalente durante la strange situation tendono a
manifestare molto più interesse per il caregiver rispetto all'esposizione dell’ambiente o dei oggetti, ma anche dei
giocattoli che sono pesanti. Il loro bisogno di presenza del caregiver diventa via via più forte lungo gli otto per gli
episodi che compongono la strange situation. Sono bambini che sentono molto il crescere del disagio al
passare degli episodi. Vediamo come durante la presenza del caregiver, dentro la stanza, questi bambini non
mostrino comportamenti autonomi e dipendenti, ma manifestano un desiderio costante di presenza del
caregiver. Sono interessati fondamentalmente alla relazione e interagiscono molto poco anche con l'estraneo.
Durante la separazione, il disagio che manifestano, è molto forte e manifestano dei comportamenti molto
estremi. Hanno un pianto forte e acuto che sembra veramente inconsolabile, tant'è che con questi bambini
tendenzialmente l'episodio di separazione non può durare 3 minuti ma deve essere fatto durare meno proprio
per consentire poi di consolare questi bambini. Questo perché anche quando l'estraneo rientra, non sono
assolutamente in grado di utilizzare l'estraneo come fonte di consolazione. Anche durante il ricongiungimento,
quando la madre rientra, c’è la presenza di un notevole stress, di un forte disagio. Questi bambini sono
fortemente ambivalenti, perché desiderano fortemente il contatto, la vicinanza con l'adulto, la madre, il
caregiver, ma fondamentalmente non riescono a utilizzare questa vicinanza per calmarsi. Per loro la strange
situation assume dei toni assolutamente stressante, assolutamente destabilizzanti a livello emotivo. Sono
bambini che mettono in atto pianti incontrollabili, si arrabbiano con il caregiver, quando rientra perché, nella
fase di ricongiungimento, non riuscendo ad utilizzare l'adulto come fonte di consolazione, si arrabbiano con lui.
Sono quei bambini che vengono presi in braccio, continuano comunque a piangere e colpiscono l’adulto. Se
quest’ultimo cerca di porgere un gioco per continuare il processo di interazione, quindi per riattivare il processo
esploratorio, lo lanciano lontano. Sono bambini profondamente arrabbiati per la separazione. Durante tutti gli
episodi della Strange situation vediamo come, questi bambini, tendano a far prevalere solo quelli che sono i
comportamenti di attaccamento e mettere in secondo piano, quelli che sono i comportamenti esploratori. Questi
bambini non sono in grado di utilizzare l'adulto come una base sicura ma sono bambini che tendono a
prevenire, o comunque a cercare di prevenire la separazione e restano costantemente concentrati sulla
presenza del caregiver, quasi come se dovessero marcare stretto questo caregiver che non riescono a
prevedere bene. Questo determina una mancanza di autonomia, indipendenza e va a precludere al bambino
tutto un aspetto legato all'esplorazione dell'ambiente. Il suo ricorso a comportamenti di attaccamento è
decisamente massivo e viene caratterizzato come abbiamo visto da una profonda ambivalenza emotiva. Per cui
il bambino trascina nei diversi episodi, rabbia e passività. Questi comportamenti, e anche il conseguente stress
che ne deriva, non trovano conforto nell'intervento del caregiver. Sono bambini profondamente concentrarsi
sulla relazione che hanno bisogno della presenza costante del caregiver, ma allo stesso tempo non sono in
grado di utilizzare il caregiver come fonte di consolazione. Permangono in questo stato di rabbia e di
sofferenza.
Lez. 12 reg. 8.13

Lezione 62 audio 4

Un ulteriore stile di attaccamento non individuato da Mary Ainsworth, ma da studi successivi della Main e di Salmon,
quindi siamo intorno agli anni 80, hanno individuato uno stile di attaccamento definito DISORGANIZZATO,
DISORIENTATO.
Questo stile di attaccamento viene utilizzato per definire quei bambini che manifestano dei comportamenti che non
possono essere fatti rientrare all’interno dei quadri tipici che abbiamo definito (Pattern A, B, C, D… Sicuro, insicuro
evitante, insicuro ansioso ambivalente).
Questi bambini sembrano essere molto disorientati e sono confusi dalla situazione. Manifestano dei comportamenti che
potremmo definire contraddittori. Per la maggior parte del tempo, questi bambini, hanno comportamenti simili ai bambini
degli altri pattern di attaccamento; ma, in alcuni momenti specifici, sembrano non essere in grado di mettere in atto delle
strategie di tipo relazionale. Davano proprio l’impressione di essere disorientati, confusi, di essere incapaci di mettere in
atto delle strategie comportamentali. Ad esempio sembravano ricercare il contatto del caregiver, ma , allo stesso tempo,
agivano dei comportamenti di evitamento, restavano immobili per lungo tempo (freezing = sorta di congelamento del
comportamento). Oppure si muovevano in modo estremamente rallentato, come se si stessero muovendo a rallentatore.
Alle volte comparivano anche dei movimenti stereotipati. Oppure assumevano delle pose anomale, che potevano
causare degli irrigidimenti corporei, soprattutto legati alle espressioni facciali di vissuti di paura.
Tutti questi comportamenti strani che passavano dal freezing, al movimento rallentato, piuttosto che alla messa in atto di
comportamenti tra loro contraddittori quindi cercare il contatto ma allo stesso tempo evitare che possano anche
manifestarsi nel muoversi verso il caregiver ma mantenendo le mani sugli occhi.
Questi comportamenti, secondo gli autori possono essere ricondotti a situazione problematiche. Non erano
comportamenti tipici dei bambini, ma erano comportamenti di tipo relazionale. Il bambino li metteva in atto solamente in
presenza del caregiver e in modo particolare, avvenivano durante i ricongiungimenti. Questa specificità ha portato a
ritenere che questi comportamenti non fossero delle caratteristiche legate a probabili difficoltà del bambino, ma a
caratteristiche più tipiche della relazione.
Gli studi hanno portato a legare questo stile di attaccamento a relazioni particolari di caregiver-bambino. Si tratta,
soprattutto, di bambini che hanno sperimentato la vicinanza di un caregiver spaventante oppure spaventato. Possiamo
trovare, in questa categoria, delle relazioni abusanti oppure relazioni in cui il caregiver trascina degli eventi traumatici,
luttuosi non ancora elaborati della propria infanzia.
Quando un adulto non ha rielaborato eventi luttuosi, traumatici della propria infanzia può trascinare nella relazione
queste incapacità relazionali. Questo determina nel bambino un’incapacità di creare un rapporto relazionale con il
caregiver, quindi di creare degli schemi in grado di tenere e garantire al bambino la prossimità, la vicinanza. In queste
circostanze il bambino vive un profondo paradosso che genera paura. Questo perché colui che genera la paura, l’adulto
spaventante, è anche l’unica fonte possibile di consolazione. Colui che genera la paura è anche l’unico individuo che
può placarla. Questo genera un paradosso capace di disorganizzare l’attività psichica del bambino e fare in modo che
abbia questi comportamenti fortemente contraddittori che indicano realmente una disorganizzazione dell’attività psichica
e un disorientamento sulla base della situazione. Questi bambini, a differenza degli altri, non sono in grado di mettere in
atto delle strategie per garantire il bisogno di attaccamento.
13. I MODELLI OPERATIVI INTERNI

Lez. 13 reg. 8.14

Lezione 63 audio 1
Perché è così importante la teoria dell’attaccamento?
Perché l’attaccamento è un pezzo importante per la costruzione della personalità dell’individuo. Con la crescita anche
l’attaccamento si modifica, diventando sempre meno legato alla prossimità fisica e sempre più a quelle che sono delle
qualità astratte della relazione. Con il passare del tempo vengono interiorizzate tutte quelle dimensioni di affetto, stima,
fiducia che derivano dalla qualità della relazione sperimentata con il caregiver e anche parzialmente dallo stile di
attaccamento sviluppato all’interno della relazione.
Durante il periodo di costruzione di questo legame di attaccamento, con il proprio caregiver, il bambino ha avuto modo di
sperimentare e di sperimentarsi delle interazioni ripetute che, proprio per questa loro natura di ripetitività nel tempo, ha
concesso al bambino di crearsi degli schemi relativamente a cosa è prevedibile.
Abbiamo a che fare con dei pattern ripetuti di esperienze interattive, che hanno creato nel bambino delle aspettative
legate alla relazione. Il bambino ha interiorizzato, in un certo modo, la relazione. Significa che questi continui scambi
affettivi hanno portato il bambino a costruirsi delle rappresentazioni mentali legate a che cosa sia una relazione e a come
si debbano comportare gli attori all’interno della relazione.
Creazione di rappresentazioni mentali interne, legate alla relazione, a un’immagine di sé nella relazione e un’immagine
dell’altro nella relazione.
Queste rappresentazioni vengono definite come modelli operativi interni (internal working models). Questi MOI, filtrano
tutte le informazioni che ci provengono dall’esterno relative alle relazioni. Funzionano come una sorta di lente colorata
che ci porta ad interpretare azioni, comportamenti, dimenticanze alla luce e sulla base delle nostre rappresentazioni
mentali della relazione. Queste lenti colorate influenzano notevolmente le nostre relazioni con gli altri e anche le
decisioni relazionali che prendiamo rispettivamente a quella che è la nostra vita in termini di affetto e fiducia.

Lez. 13 reg. 8.15

Lezione 63 audio 2
Analizziamo i Modelli Operativi Interni.
Questi modelli si creano intorno ai 18 mesi e influenzano le relazioni dell’individuo.
Sono fondamentali per lo sviluppo sociale dell’individuo.
La presenza dei MOI è il responsabile, insieme ad altri fattori, di una certa stabilità di quelli che sono i tratti di personalità
all’interno di contesti e anche di relazioni di tipo differente.
La natura dei MOI può essere definita come affettivo-cognitiva. In quanto, il loro valore, non si limita alla sfera emotiva e
affettiva dell’individuo, ma svolge anche un’importante funzione organizzativa nel comportamento.
Il bambino, sulla base dei pattern ripetuti di esperienze interattive costruisce delle rappresentazioni mentali di se stesso,
dell’altro e della relazione. Queste rappresentazioni tendono ad essere stabili e a perdurare nel tempo. Questo perché i
MOI ci rendono il mondo comprensibile e prevedibile. Noi possiamo leggere le relazioni future sulla base delle nostre
esperienze relazionali passate. Quindi, possiamo leggere ciò che verrà, sulla base di quello che è il nostro passato.
Se all’inizio i MOI sono molto dinamici e in continua analisi delle relazioni per cogliere e cercare di comprendere quelli
che sono gli schemi ripetuti, durante l’infanzia gradualmente si stabilizzano e divengono delle vere e proprie
“caratteristiche personologiche”. Ad un certo punto dello sviluppo i MOI non vengono più modificati e tendono a
stabilizzarsi.
I MOI li utilizziamo per:
 prendere decisioni,
 pianificare le nostre relazioni,
 per interpretare il mondo in modo che per noi abbia senso.
È possibile, in realtà, un cambiamento nei MOI; anche se questo cambiamento non è sempre facile. Di solito questi MOI
vengono cambiati con esperienze differenti a livello relazionale, come può essere un percorso di psicoterapia.
L’individuo per poter agire sui propri modelli operativi interni, deve sperimentare delle relazioni che siano diverse rispetto
a quelle che lo hanno portato alla creazione di un determinato stile di attaccamento nella relazione con il suo caregiver
primario.
Questo cambiamento potrebbe non essere stabile e soprattutto, non essere accessibile durante i momenti di forte stress
o di bisogni relazionali particolarmente pressanti perché questi stress, questi momenti di pericolo, tendono a riattivare i
vecchi modelli operativi interni, ovvero il sistema di attaccamento primordiale che abbiamo costruito con la nostra figura
di attaccamento.
I modelli operativi interni hanno a che fare con la memoria. La loro funzione è quella di permetterci di anticipare i
comportamenti e le risposte relazionali che l’altro ci darà.
All’interno di ogni stile di attaccamento sono presenti MOI differenti che si sono creati sulla base delle dinamiche
relazionali che hanno portato alla costruzione di quello specifico stile di attaccamento.
14. ATTACCAMENTO ADULTO

Lez. 14 reg. 8.16

Lezione 64 audio 1
Come cambiano i modelli operativi interni relativamente ai diversi stili di attaccamento. I modelli operativi interni fanno
riferimento a tre categorie di rappresentazioni:
interiorizzazione di un’immagine di sé
interiorizzazione dell’immagine dell’altro nella relazione
interiorizzazione della relazione stessa.
Nel caso di un attaccamento sicuro il caregiver, durante il 1° anno di vita ha manifestato nei confronti del bambino una
buona sensibilità, una buona responsabilità. Cioè ha risposto in maniera coerente e puntuale a quelli che erano i bisogni
del bambino, soprattutto durante i momenti di distress, di ansia, di disagio oppure, di dolore il caregiver è stato presente,
supportivo, responsivo. Il bambino ha potuto sperimentare una figura presente, responsiva, attenta ai suoi bisogni. Egli
ha interiorizzato a livello di modelli operativi interni un’immagine di sé come degno di amore, di attenzione, di cura e
profondamente capace di comunicare quelli che sono i suoi bisogni. Si percepisce come un soggetto efficace nella sua
comunicazione all’interno della relazione. Il modello operativo interno che contraddistingue l’altro è un modello
amichevole, amorevole. L’altro è qualcuno di emotivamente accessibile, è qualcuno che può comprendere i miei bisogni
ed è qualcuno che può rispondere ai miei bisogni. La relazione viene vista come un luogo in cui è possibile esprimere sia
il proprio disagio che la propria ansia e per questo trovare del conforto. Per un bambino che ha sviluppato un
attaccamento di tipo sicuro, la relazione sarà il luogo del conforto, il luogo in cui manifestarsi anche deboli. Mi posso
presentare come debole perché nella relazione riceverò cura, accudimento.
Per quanto riguarda l’attaccamento insicuro evitante, è un attaccamento che si è sviluppato sulla base di interazioni
ripetute in cui c’è stato un atteggiamento di dismissing relativamente ai bisogni di cura, affetto e amore. Questi bisogni
sono stati svalutati e soprattutto, in situazioni di stress, ansia, disagio, dolore, il bambino non ha sperimentato la
presenza di caregiver pronto e in grado di rispondere ai suoi bisogni. Quello che ha sperimentato è stato un caregiver
rifiutante, che non ha accettato le sue richieste di contatto, affetto, amore. Proprio per questo, il bambino ha imparato
gradualmente a reprimere, a non comunicare più i propri bisogni relazionali. Questo perché l’esperienza relazionale gli
ha insegnato che, se comunica i suoi bisogni, quello che riceverà sarà un rifiuto. Di conseguenza, i modelli operativi
interni legati al sé che il bambino ha interiorizzato, sono profondamente segnati da un’idea di un’inefficacia comunicativa.
Il bambino si percepisce profondamente incapace di comunicare in modo efficace e preciso i propri bisogni di cura,
attenzione e amore. l’altro viene interiorizzato come profondamente lontano a livello emotivo, non raggiungibile e non
disponibile in caso di bisogno. L’altro nella relazione, a tratti viene percepito anche come ostile. Ne consegue che la
relazione non è proprio il luogo dove in cui esprimere i bisogni o manifestare il bisogno di conforto. Questi individui si
bastano da soli, puntano all’autonomia, profondamente indipendenti. Tutto questo viene visto come un valore. Questa
tendenza ad essere autonomi, indipendenti è legata al rifiuto che questi bambini hanno subito durante l’infanzia. Hanno
sperimentato il rifiuto. Hanno dovuto inibire il loro comportamento di attaccamento per non sperimentare nuovi rifiuti.

Lez. 14 reg 8.17

Lezione 64 continuazione audio 1 

Continuiamo ora l'analisi di quelli che sono le caratteristiche dei diversi stili di attaccamento.
nel caso di un attaccamento insicuro ansioso ambivalente il bambino ha sperimentato nel corso del suo primo anno di
vita un caregiver profondamente imprevedibile rispetto ai bisogni o ai comportamenti di attaccamento. Quindi è stato
esposto all'alternarsi di comportamenti molto affettivi che però erano legati più al bisogno del caregiver che alla risposta
del bisogno del bambino. Quindi anche gli abbracci, i baci, il prendere in braccio il bambino non era tanto legato alla
richiesta contingente del bambino, legato a un momento di distress, a un momento di bisogno del bambino. Ma era più
che altro legato a quello che è il bisogno affettivo materno. E, al contrario, ha sperimentato anche dei comportamenti di
rifiuto quando portava delle reali richieste di intervento di bisogno di cura, di attaccamento. Quindi quello che lui ha
interiorizzato è profondamente ambiguo; nel senso che il bambino sperimenta entrambi i comportamenti e non ha indizi
per poterli prevedere. Quindi si impegna in questa relazione molto stretta con il caregiver proprio perché non è in grado
di prevedere quale sarà il comportamento del suo caregiver e quindi non può che restare incollato a lui e valutare di volta
in volta quella che sarà la reazione del caregiver. Abbiamo quindi dei MOI relativi al sè molto frammentati e caratterizzati
fondamentalmente da duplicità. Per cui coesiste un'immagine di sé come degno d'amore, di cura ma allo stesso tempo
come profondamente indegno sia d'amore che di cura ma anche di attenzione. L'altro viene interiorizzato sia come
amorevole degno di fiducia sia come distante e soprattutto come inaffidabile, imprevedibile; perché questi
comportamenti possono alternarsi senza che il bambino possa prevedere quale dei due comparirà. Inoltre i
comportamenti del caregiver che erano incuranti delle reali richieste del bambino hanno reso il bambino a livello
relazionale più un oggetto che un soggetto e quindi quello che il bambino ha sperimentato nella relazione è il controllo e
questo porterà a creare un modello operativo interno legato alla relazione, quindi una rappresentazione mentale della
relazione come un luogo di controllo che il bambino può sia subire che utilizzare, una volta adulto. quindi, la relazione
fondamentalmente è uno strumento di controllo che io posso utilizzare per controllare l'altro o che l'altro può utilizzare
per controllare me. Per quanto riguarda invece attaccamento disorganizzato disorientato abbiamo dei modelli operativi
interni che non sono né coerenti né unitari, al contrario sono assolutamente destrutturati e proprio perché fanno
riferimento a relazioni prive di struttura e a volte anche paradossali. Quindi si creano modelli operativi interni legati al sé
molteplici e tra loro contraddittori proprio perché fanno riferimento a quello che viene definito il triangolo drammatico in
cui sia il bambino che i caregiver giocano alternativamente ruolo di vittima, persecutore, salvatore. Quindi
l’interiorizzazione di sè è dell'altro gioca proprio su questi ruoli per cui il bambino interiorizza un’immagine di sè, sia come
degno di amore che di cura, ma anche come vittima impotente, come mostro persecutore, o come il salvatore
onnipotente dell'adulto. Allo stesso tempo anche l'altro viene interiorizzato con ruoli molteplici, per cui può essere sia
degno di fiducia che un crudele persecutore, che al contempo una vittima indifesa. Ovviamente l'attaccamento di tipo
disorganizzato è un attaccamento di tipo complesso la cui analisi richiede uno studio molto più approfondito e
sicuramente legato a quelle che sono le diverse manifestazioni. Non tutti i bambini manifestano lo stesso stile di
attaccamento di tipo disorganizzato/disorientato ma ricordiamo che si tratta di un contenitore in cui vengono raccolti quei
bambini che manifestano comportamenti legati alla relazione, quindi non comportamenti del bambino ma legati alla
relazione che, non sono inseribile all'interno degli altri pattern di attaccamento quindi quello A, quello B o quello C.

Lez. 14 reg. 8.18

Lezione 64 audio 2 

Vediamo ora alcuni aspetti relativi all’attaccamento in adolescenza e nell’età adulta. Alcuni aspetti emotivi della
personalità risultano essere profondamente influenzati dalla presenza di un legame di attaccamento di tipo sicuro o
insicuro; ad esempio la capacità di tollerare la frustrazione e il controllo degli impulsi sembrerebbero essere legati agli
stili di attaccamento. Inoltre anche intensità con cui all'interno delle relazioni mostriamo o inibiamo le nostre reazioni
emotive, negative o positive che siano, sembrerebbe essere legato ai nostri modelli operativi interni. Non solo aspetti
della nostra personalità legati all'emotività hanno una loro radice nei modelli operativi interni, ma anche aspetti legati a
dimensioni più cognitive, come ad esempio il senso di efficacia, di autostima, la capacità anche di mantenere l'interesse
e di perseverare in un compito. Sono tutte dimensioni che hanno a che fare e che sono state in qualche modo collegate
alla tipologia di modelli operativi interni. Durante l'adolescenza poi i MOI influenzano anche quelle che sono le dinamiche
relazionali, quelle più complesse che si legano alla competenza sociale e alle capacità di adattamento. Ne vengono
influenzate appunto sia la relazione con i pari che quelle con gli adulti di riferimento, in termini ovviamente di disponibilità
all’obbedienza, all'empatia, alla cooperazione oppure alla competizione o addirittura alla propensione verso dei
comportamenti che vengono definiti di tipo antisociale. I cambiamenti di questo momento di vita così particolare passano
soprattutto per la presa di distanza da quello che è il legame di attaccamento originario quindi il legame di attaccamento
primario con le figure che hanno popolato l'infanzia di questi ragazzi. Vedremo poi, nel prossimo nucleo teorico, parlando
di adolescenza, come sia fondamentale la presa di distanza dalle figure genitoriali per potersi identificare e definire come
individuo L'attaccamento quindi si toglie, si sposta dalle figure parentali e si porta verso quelli che sono gli amici stretti o i
potenziali partner di tipo sentimentale perché inizia ad assumere un'importanza notevole anche l'aspetto sessuale
dell'attaccamento che viene favorito dalle esperienze intime e dalla condivisione di quelle che sono delle emozioni
intense. A partire quindi dall'adolescenza, l'attaccamento inizia a manifestarsi in modo differente e questo modo
differente, arriverà poi a stabilizzarsi in un attaccamento adulto che Main andrà ad indagare, intorno agli anni 90, con
una procedura di un'intervista semistrutturata “L’Adult Attachment Interview” che attraverso una lunga intervista in cui
vengono chiesti i ricordi della propria infanzia, va a definire dei profili di attaccamento adulti, che, seppur non siano
sovrapponibili con i profili ritrovati nell'infanzia, hanno delle caratteristiche simili. Per cui abbiamo un profilo definito F,
che è caratterizzato da individui con, tendenzialmente un approccio positivo e una fiducia in se stessi e negli altri. Poi
abbiamo un attaccamento definito come profilo D in cui troviamo alcuni tratti comuni all’attaccamento insicuro evitante. I
MOI rimandano infatti a un'immagine dell’altro come  emotivamente inaccessibile e svalutante per quanto riguarda i
bisogni emotivi, affettivi e di cura. Quindi bambini che non hanno sviluppato probabilmente una base sicura ma hanno
sperimentato vissuti di rifiuto, consolideranno in età adulta un profilo di tipo D. Ci sarà un esaltazione di valore come
l'indipendenza, l'autonomia, il bastarsi da solo, il costruirsi da solo. Sono anche individui che si stancano presto delle
relazioni, proprio perché le relazioni non sono un luogo di affetto, non sono un luogo in cui ricevere cura, ricevere
attenzione e questi individui quindi si stancano presto delle relazioni. Possono essere percepiti come eccessivamente
critici oppure cinici. Mettono in atto delle forti strategie di evitamento. Sempre parlando di attaccamento adulto troviamo
un profilo di tipo E che richiama l’attaccamento insicuro ansioso ambivalente. Questi soggetti hanno generalmente dei
bassi livelli di autostima che li porta a dipendere profondamente dal giudizio degli altri. Sono contraddistinti da una
continua ricerca di approvazione. Questo può essere percepito come invasivo da parte degli altri e le loro emozioni
intime sono caratterizzate da continenti positivi o negativi. Tutte le emozioni vengono espresse con estrema passione in
senso che ci sono emozioni molto forti, sentimenti di gelosia, di rabbia, comportamenti ossessivi e conflitti continui. Si ha
un atteggiamento anche molto teatrale. Che sfocia spesso in tremende litigate questo perché la relazione,
dell'attaccamento insicuro ansioso ambivalente, viene percepita come luogo del controllo; il luogo in cui o agire il
controllo o, al contrario, essere controllati. Poi abbiamo un profilo che viene definito come irrisolto relativamente
all'attaccamento. E durante l'intervista dell’Adult attachment interview emergono dei vissuti negativi che portano ad una
difficoltà persistente per il soggetto nel comunicare le sue emozioni e suoi bisogni relazionali. Le relazioni sono
tendenzialmente problematiche. Sono caratterizzate da bassa autostima, da una profonda diffidenza verso il
comportamento altrui. L'altro viene visto come possibile vittima, come persecutore, come salvatore. Quindi queste
relazioni sono contraddistinte da un’altalenanza tra gli aspetti emotivi di passività, ad esempio, e l'insicurezza, il
colpevolizzarsi per ogni problema, per poi passare ad attaccare l'altro. Quindi sono relazioni profondamente altalenanti
che si legano proprio appunto ad un attaccamento adulto definito come irrisolto.
15. COMPRENSIONE SOCIALE E TEORIA DELLA
MENTE

Lez 15 reg 9.01

Lezione 65 audio 1 

Affrontiamo ora il complicato aspetto legato alla teoria della mente e la comprensione sociale.
Abbiamo già parlato di come intorno agli anni ‘70 soprattutto in riferimento allo studio del linguaggio, la psicologia sia
andata incontro a quella che viene definita una svolta di tipo contestualistico. In particolare, lo studio dei processi
cognitivi durante questo periodo, quindi intorno agli anni Settanta del Novecento, si sposta da una visione quasi
esclusivamente intra individuale, interna all'individuo, verso una dimensione contestuale, situata che ha a che fare con
delle cognizioni che sono intese non più come processo solamente intra individuale, ma come processo
fondamentalmente condiviso. Cambia l'importanza che viene attribuita all'ambiente che diventa un vero e proprio
contesto di sviluppo. E come tale diviene una parte integrante dello sviluppo e quindi della costruzione dell'individuo ma
anche del suo sistema cognitivo, e proprio all'interno di questa svolta contestualistica, quindi all'importanza che viene
attribuita al contesto, nascono per gli importanti studi sulla teoria della mente. La teoria della mente è la capacità
dell'individuo di leggere la mente nell'altro. Ma fondamentalmente è un’abilità di tipo cognitivo, definita come innata che
però si apprende nel corso del tempo, si sviluppa ed emerge gradualmente grazie alle relazioni e viene vista come un
ponte di collegamento tra quello che è lo sviluppo cognitivo e lo sviluppo emotivo. Questo perché, non può prescindere
da determinate abilità cognitive Ma non può prescindere neppure da uno sviluppo di tipo emotivo per te che parliamo di
teoria della mente o di competenza sociale, più o meno con la stessa valenza. 
Sono numerosi gli autori che si sono occupati di teoria della mente e che hanno puntato l'attenzione sull’acquisizione di
capacità relative al riconoscimento dell'altro come conspecifico e come tale, come dotato di stati mentali. Quindi la
capacità di comprendere che l'altro è simile a sé ed è in grado di stati mentali, di sentimenti, di sensazioni, di provare
tutta una serie di dimensioni mentali. Infatti, gradualmente il bambino arriverà a riconoscere che l'individuo agisce sulla
base di questi stati mentali che diviene in grado di attribuirgli. Questi stati mentali possono avere diverse nature. Ad
esempio degli stati mentali di tipo motivazionale che come vedremo è anche una delle prime abilità di teoria della mente
o competenza sociale che sono legate proprio alla comprensione del causa del comportamento altrui come legato al
desiderio. Ad esempio se io so che Marco vuole la torta posso prevedere che Marco prenderà una fetta di torta. Oppure,
se ritengo che Antonia desideri vedere sua zia posso prevedere che Antonia andare a trovare la zia. Quindi attribuire
uno stato mentale di tipo motivazionale all'altro vuol dire fondamentalmente leggere il comportamento dell’altro sulla
base del desiderio. All'altro però posso anche attribuire stati mentali di tipo epistemico, parliamo di credenze. Emerge la
capacità di ragionare sulle credenze e porta il bambino a comprendere che se sa che Matteo ritiene che il suo maglione
sia sotto il letto molto probabilmente Matteo si infilerà sotto il letto per andare a recuperarlo. O ancora, il bambino impara
a comprendere che se la mamma crede che io sia in giardino molto probabilmente verrà a cercarmi proprio in giardino.
Ma ci sono anche stati mentali più complessi di diverso genere. 
Stati mentali di tipo emotivo. è proprio qua che la teoria della mente si colloca a cavallo tra abilità di tipo cognitivo e
abilità di tipo emotivo. La lettura del comportamento degli altri è fatta anche in virtù degli Stati emotivi che l'altro ha. Se
so, ad esempio, che Gianni è triste perché ha perso la gara dovrò orientare il mio comportamento di conseguenza e
quindi molto probabilmente non parlerò della gara, non gli chiederò nulla perché so che è triste per aver perso la gara.
Allo stesso modo se so che Anna ha paura dei ragni userò questa informazione per decidere come comportarmi. Questa
è una modalità di lettura della mente dell'altro che ha a che fare con diversi stati mentali che possono essere contenuti
nella mente dell'altro. Da dove deriva la teoria della mente? Secondo alcuni autori la teoria della mente è emersa nello
sviluppo dei primati. Compare in seguito all'aumento dei contatti sociali, ai cambiamenti legati a quella che è
l'organizzazione della società. L'aumento dei contatti sociali rende necessaria la capacità di comprendere e prevedere il
comportamento dell'altro. Perché di fatto la conquista di una teoria della mente ci permette di dare un senso alle
interazioni sociali e anche di spiegare e prevedere quelli che saranno le azioni dei nostri conspecifici e soprattutto di
rispondere con un comportamento che sia adeguato ed adatto alla situazione. Gli individui che hanno una buona
capacità di teoria della mente risultano devi essere individui adeguati alle situazioni e possono andare oltre quello che è
il comportamento manifesto dell'individuo e possono leggere gli stati mentali. Anche a livello linguistico ci sono dei grossi
vantaggi legati alla possibilità di interagire e comunicare in modo efficace senza che ci si debba per forza fermare al
significato letterale delle parole. Una buona capacità di lettura della mente sta nell'incontrare, ad esempio, un caro amico
che sappiamo essere molto legato alla nonna, in un contesto come la metropolitana, in una stazione di un treno, in cui
non può esprimere i suoi sentimenti e ci dice che la nonna è morta e ovviamente lo fa con un sorriso di circostanza. Con
delle buone capacità di lettura della mente possiamo capire che l'emozione che sta manifestando in quel momento non è
la reale emozione che prova ma è un controllo delle emozioni che è determinata da quello che è il contesto. Posso
comunque comprendere la situazione di dolore che quella persona sta vivendo anche se il comportamento manifesto
non si traduce in un sentimento di estremo dolore. Le acquisizioni legate alla teoria della mente sono acquisite
gradualmente. Esistono degli step specifici di acquisizione.
Lez. 15 reg 9.02

Lezione 65 Audio 2 

Quali sono i principali approcci teorici della Tom?


Esistono diverse modalità di studio della teoria della mente, in inglese theory-of-mind, che viene sintetizzato in TOM.
Andiamo a vedere ora nel dettaglio alcuni dei maggiori approcci teorici.
Possiamo vedere fin da subito come questi approcci si posizionano lungo un continuum che si muove da un polo di tipo
intra individuale, che potremmo avvicinare per lo più al pensiero di Piaget. a un polo di tipo socio contestuale che
potremmo identificare di più col pensiero di Vygotskij o di Bruner. La teoria della mente è un'abilità definita di tipo
cognitivo. Ovviamente abbiamo degli approcci differenti. Partendo dal Polo intraindividuale abbiamo un approccio che si
basa sulla theory-theory. Quindi, abbiamo un approccio che vede e guarda alla teoria della mente come ad una sorta di
teoria scientifica che può essere falsificata e perfezionata sulla base delle diverse esperienze che vive l’individuo. I
concetti infantili di stati mentali sono dei principi teorici astratti e quindi non osservabili. Si tratta di principi appunto interni
all'individuo che vengono utilizzati per interpretare il comportamento degli altri. La teoria che viene sviluppata dai
bambini, quindi questi principi astratti non osservabili possono essere anche falsificati dall'esperienza oppure possono
essere ampliati. Fatto sta che rimangono astratti, rimangono distanti dall'esperienza. L’interpretazione che il bambino fa
della mente dell'altro si basa quindi su principi di interpretazione che non sono direttamente osservabili e i
comportamenti dell'altro assumono quindi un senso all'interno di quella che è la cornice teorica che si costruisce il
bambino. Esistono diverse interpretazioni relativamente a come si origina la TOM, anche all'interno di questo approccio
teorico della theory-theory ma in particolare abbiamo Welleman che ritiene che il momento di costruzione della Tom
siano da legarsi a reali esperienze interattive del bambino quindi la Tom si sviluppa all’interno di esperienze reali. Perner
ritiene che la TOM appaia come abilità assestante intorno ai 4 anni. è una logica del tutto e nulla perché, prima dei 4
anni non ci sarebbe nulla mentre intorno a 4 anni il bambino inizierebbe con lo sviluppo delle abilità di
metarappresentazione ad avere accesso alle logiche di base della TOM. Esiste poi sempre nell'ottica dell'approccio
intraindividuale un approccio definito approccio modulare. Secondo questo approccio modulare invece la TOM sarebbe
un’abilità di tipo innato, che emerge proprio a seguito della maturazione di alcuni moduli che sono programmati
geneticamente. Il bambino possiede questi concetti uguali a quelli adulti fin dall'inizio semplicemente, non è ancora in
grado di utilizzarlo. Si tratta di un interpretazione che ha differenti declinazioni. Diversi autori trovano diversi moduli e
anche l'emergere di questi diversi moduli compare ad età differenti. 
Poi, muovendoci più verso il polo opposto quindi, spostandoci dal polo intraindividuale per andare verso quello socio-
culturale, abbiamo l'approccio della simulazione. Secondo questi autori la comprensione degli stati mentali altrui
avverrebbe attraverso dei processi di simulazione. Il punto di partenza sono gli stati mentali che prova il bambino e che
vengono poi generalizzati attraverso dei collegamenti che possono mettere in relazione tra loro situazioni, stati mentali,
comportamenti visibili. Ma il punto di vista iniziale è quello del bambino. Questo approccio rifiuta l'idea che esistano dei
concetti astratti che vengono utilizzati dal bambino e che possono essere falsificati o ampliati. Poiché il bambino per
l'interpretazione degli stati mentali altrui parte dai propri stati mentali, da quelli di cui ha esperienza. In questo approccio
assumono molto importanza la figura dell’adulto e il tipo di lessico psicologico che viene utilizza con il bambino. Quindi,
come l'adulto parla di stati mentali con il bambino è molto importante.
Abbiamo poi un approccio definito socio contestuale, che si muove sul polo completamente opposto. Gli autori che si
collocano più vicino a questo polo socio contestuale come abbiamo già detto sono quelli più vicini alla teoria di Vygotskij
e quindi all'approccio di tipo socio costruttivista. Si parla di diversi autori che mettono in evidenza le basi sociali per
l'emergere di una teoria della mente. Se facciamo riferimento ai primi autori pongono l'attenzione sui processi di
socializzazione che avvengono all'interno dei gruppi in cui il bambino è inserito. Ovvero, partendo dall'inizio partiamo
dalle interazioni precoci con i genitori, poi partiamo con le interazioni interne al nucleo familiare, ad esempio quelle con i
fratelli e le sorelle e, in un momento successivo, anche con l'interazione con i gruppi dei pari. Quindi è proprio in questi
contesti che emergono le capacità di lettura di teoria della mente dell'altro. Viene data molta importanza ai processi di
socializzazione che avvengono all'interno di quei contesti che sono definiti come emotivamente salienti, che hanno una
forte valenza di tipo affettivo. Sempre all'interno di questo approccio di tipo socio culturale abbiamo anche il pensiero di
Bruner, che riconosce la natura e la nascita della teoria della mente partendo dal riconoscimento che il bambino fa del
fatto che le esperienze degli altri sono simili alle sue. Bruner parla di un processo generale di acculturazione che vede il
bambino come gradualmente sempre più capace di crearsi degli script, dei format, che divengono sempre più complessi
e che vengono costruiti sulla base di quelli che sono i feedback che riceve dal suo ambiente.

Lez. 15 reg 9.03

Lezione 65 audio 3
In che cosa consistono i processi  di comprensione della mente nell’altro?
la comprensione della mente dell’altro sembrerebbe essere legata a delle capacità di tipo cognitivo, come abbiamo visto.
Che sono però di tipo intuitivo. Questo consente proprio all'individuo di intuire quelli che sono gli stati mentali dell'altro e
questo avviene in particolare attraverso lo sguardo quindi attraverso il contatto visivo. è proprio attraverso il contatto
visivo che un individuo riesce a entrare in contatto con la mente dell'altro. Molti autori di fatto usano l'analogia con il
vetro. Seguendo questa analogia possiamo vedere delle buone capacità di teoria della mente quando l'individuo
guardando l'altro negli occhi si trova di fronte a quello che è un vetro trasparente. Questo gli consente la lettura degli
stati interni dell'altro. Ma l’individuo che non ha delle buone capacità di lettura della mente può trovarsi di fronte a quello
che viene definito un vetro specchiato. Può trovarsi nell'impossibilità di leggere il contenuto della mente dell'altro e di
veder riflesso semplicemente se stesso nell'altro. Questi sono i due estremi di un continuum di abilità di lettura della
mente, di teoria della mente dell'altro. Per cui, se mi trovo davanti un vetro trasparente io ho accesso a quelli che sono
gli stati mentali ma anche gli stati emotivi dell'altro; se mi trovo di fronte un vetro specchiato non riesco a capire cosa
realmente l'altro individuo sta pensando o cosa stia provando a livello emotivo. È evidente come avere una buona teoria
della mente nell'altro svolga numerose funzioni per l'individuo poiché consente di comprendere tutti quelli che sono gli
stati d'animo, i desideri, le credenze che stanno alla base del comportamento dell'altro. Se non abbiamo una buona
capacità di teoria della mente quello che gli altri fanno ci risulta in qualche modo oscuro. Avere una buona teoria della
mente parte dal presupposto di riconoscere l'altro come un individuo dotato di stati mentali. Quindi, con degli stati
mentali e delle emozioni.
Quali sono le principali funzioni della teoria della mente? 
 Funzione sociale: è la prima funzione che la teoria della mente ha. Consente all'individuo di dare un senso ai
comportamenti e alle interazioni sociali. Consente inoltre di formulare delle ipotesi e fare delle previsioni
relativamente a quello che gli altri potrebbero fare in futuro.Si rende comprensibile il comportamento degli altri.
 Funzione comunicativa: La teoria della mente consente all'individuo di andare oltre al senso letterale di una
frase. Questo permette di comprendere degli aspetti della comunicazione come l’ironia e le metafore.
Ovviamente, in presenza di una teoria della mente funzionante, ben sviluppata, abbiamo una comunicazione
che risulta essere efficace ma soprattutto adeguata ai diversi contesti. Questo perché gli individui riescono a
leggere tutti quelli che sono gli aspetti pragmatici della comunicazione e riescono a cogliere realmente quella
che è l'intenzione comunicativa dell'altro individuo.
 Funzione adattiva: Abbiamo visto come una buona teoria della mente permetta agli individui di avere delle
relazioni sociali di tipo adeguato e anche una comunicazione efficace ed adeguata. Tutto questo fa riferimento
ad una funzione adattiva, perché quando noi abbiamo una buona teoria della mente nell'altro riusciamo a
prevedere cause e conseguenze anche dei nostri comportamenti e anche a comprendere il perché dei
comportamenti degli altri. Questo consente agli individui di gestire anche il proprio comportamento in maniera
più flessibile relativamente ai contesti. Quando non è presente una buona teoria della mente l’individuo è quasi
obbligato ad assumere degli atteggiamenti rigidi, perché non è in grado di adeguare il suo comportamento
leggendo quello che è il contesto. Se i comportamenti degli altri non hanno senso o comunque non sono
prevedibili l'individuo è costretto a stabilire delle regole ben precise di comportamento. Questo gli consente di
aumentare la prevedibilità e la stabilità della realtà che lo circonda proprio perché lui non è in grado di cogliere
questa stabilità.
 Funzione protettiva: L'individuo che ha una teoria della mente funzionante è in grado di proteggersi da quelli
che possono essere stati mentali invasivi, soprattutto in contesti in cui il caregiver o il genitore è un una fonte di
disagio, il bambino deve imparare a distinguere presto i propri stati mentali da quelli che sono gli stati mentali
del caregiver, per evitare proprio che ci sia un’infiltrazione, un'invasione di stati mentali che non sono del
bambino; che possono andare a generare delle problematiche legate all’ingresso di un sè alieno nell’individuo,
che non viene riconosciuto come proprio. il sentire degli stati mentali che non sono propri.

Lez 15 reg. 9.04

Lezione 65 Audio 4 

Come si sviluppa la teoria della mente?


Come il bambino arriva ad acquisire la capacità di teoria della mente?
Le ricerche hanno messo in evidenza come esistano degli importanti precursori, degli indici che sono in grado di darci
delle indicazioni relativamente all’emergere successivo di una teoria della mente. Quindi già nei primi momenti dello
sviluppo possiamo trovare alcuni precursori importanti della teoria della mente umana.
1° La capacità di attenzione condivisa: la capacità del bambino di condividere uno stato mentale con l'adulto. L'abbiamo
visto, ad esempio, parlando dell’ indicare. Quando il bambino indica qualcosa e guarda l'adulto non con l'intento di tipo
riflessivo “voglio giocattolo” ma con un intento di tipo dichiarativo, guarda quello che guardo io, condividere uno stato
mentale.
2° La capacità di utilizzo del gioco simbolico: il gioco del “far finta”. Quando il bambino fa finta che un cartone sia una
macchinina. Questo è un precursore della TOM. 
3° La capacità di utilizzare l’adulto come riferimento sociale: abbiamo visto, relativamente allo studio della percezione
della profondità, come il bambino sia in grado a un certo punto di utilizzare il volto dell'adulto come una mappa in grado
di indicare come comportarsi. Nel caso della processione di profondità, il volto dell'adulto che si rabbuia che si mostra un
volto spaventato, fa sì che il bambino si fermi sull'orlo del precipizio; mentre il volto sorridente della madre, il volto
rassicurante, fa sì che il bambino cerchi di attraversare questo precipizio.
Tutti questo sono considerati precursori della Tom, quindi importanti indicatori relativamente a quello che sarà l'emergere
della Tom.
Sulla base proprio di questi precursori, si sviluppano delle abilità più complesse che all'interno di contesti di tipo
interazionali consentiranno appunto di leggere la mente dell'altro, di avere una teoria della mente dell'altro. 
Quali sono queste evoluzioni?
Intorno ai 2 anni → psicologia del desiderio: il bambino è in grado di comprendere che i comportamenti altrui sono
guidati fondamentalmente dai desideri. In questa fase la comprensione della mente dell'altro si basa su una psicologia
del desiderio secondo cui, il comportamento è guidato da ciò che un individuo vuole e desidera. A livello linguistico il
bambino è in grado di utilizzare dei termini che richiamano ad una prima distinzione tra sé e l'altro ed è presente anche
un lessico iniziale legato a quelle che sono le emozioni e desideri. Il bambino, in questa fase, non è in grado di tener
conto della credenza dell'altro. È in grado però, di tener conto del desiderio. Es. Marco vuole il gelato è molto probabile
che Marco prenderà il gelato oppure Anna desidera dormire e molto probabile che andrà a letto. il comportamento
dell’altro viene letto solo sulla base del desiderio.

Intorno ai 3 anni → sviluppano la capacità di tener conto anche delle credenze. Le azioni degli individui possono essere
guidate e sono generalmente guidate da desideri e da credenze. In questa fase emerge la capacità di prevedere il
comportamento altrui anche sulle basi delle credenze che possiedono individui ma solamente quando le credenze
possedute dagli altri individui coincidono con quelle che ha il bambino. In questa fase i bambini non sono in grado di
decentrarsi e possono comprendere il comportamento altrui sulla base delle credenze solo se queste credenze sono
legate a un dato di realtà oggettivo; sono reali e sono uguali a quelle che possiede il bambino.

Intorno ai 4 anni → emerge la capacità di superare un compito di falsa credenza di primo ordine;
Intorno ai 6/7 anni e mezzo → emerge la capacità di superare un compito di falsa credenza di secondo ordine.
16. VALUTARE LA TEORIA DELLA MENTE

Lez. 16 reg. 9.05

Lezione 66 audio 1

Che cos'è il paradigma di vera credenza?


Intorno agli anni ‘90 Wellman costruisce diverse prove che hanno lo scopo di valutare la teoria della mente nel bambino.
La prova che serve per valutare il livello di teoria della mente, intorno ai 3 anni, quindi, quando ci aspettiamo che il
bambino abbia una psicologia del desiderio credenza, viene definita compito di vera credenza perché ha l'obiettivo di
valutare se il bambino è in grado di utilizzare delle vere credenze che sono basate sul dato di realtà. Per risolvere il
compito il bambino deve poter prevedere l'azione di un immaginario soggetto tenendo in considerazione sia i suoi
desideri che le credenze.
Come funziona? Viene raccontato al bambino la storia di Marco, un bambino che desidera giocare con il proprio gattino,
ma il gattino di Marco non si trova in casa e Marco sa che il gattino può essere sia in cucina che in giardino. A questo
punto si informa il bambino che Marco crede che il gattino sia in giardino. A questo punto si chiede il bambino secondo
te Marco dove cercherà il suo gattino? Per poter risolvere questo compito di vera credenza il bambino deve tener conto
congiuntamente di due informazioni:
il desiderio di Marco, ovvero Marco vuole giocare col suo gattino;
la credenza di Marco, Marco  ritiene che il suo gattino sia in giardino.
Nei momenti precedenti, a livello di sviluppo della teoria della mente, il bambino avrebbe ragionato solo sulla base del
desiderio di Marco. In questa fase il bambino è in grado di ragionare anche sulla base della credenza di Marco ovvero
Marco crede che il gattino sia in giardino. Di base c'è un’abilità di scissione tra sé e l'altro. Il bambino è in grado di
distinguere se stesso dall'altro. Relativamente a sé il bambino realizza un'azione allo scopo di soddisfare un desiderio o
sulla base di una credenza. Quindi, il bambino compie Y perché crede desidera K. Per quanto riguarda l'altro è in grado
di prevedere l'azione di un soggetto sulla base di un desiderio credenza quindi X farà Y perché crede, desidera K.
Queste sono fondamentalmente le abilità che un bambino possiede intorno ai 3 anni quando arriva a distinguere se
stesso dall'altro. Ovviamente è un primo step di ingresso alle abilità della teoria della mente che divengono via via più
complesse.

Lez. 16 reg. 9.06

Lezione 76 Audio 2 

Passiamo ora ad analizzare lo step successivo, ovvero quando il bambino diviene in grado di superare un compito di
falsa credenza di primo ordine. Siamo all'interno di un momento più evoluto a livello di comprensione della mente
dell'altro. Ora, la mente dell'altro, viene letta come un sistema capace di rappresentazioni interne. Quindi, quello che
emerge è la comparsa di un pensiero di tipo ricorsivo definito di primo ordine. Io penso che tu pensi X questa cosa,
questa capacità, questo pensiero ricorsivo consente al bambino di comprendere che l'azione di un'altra persona può
essere guidata da una credenza anche diversa da quella che lui possiede. Compare, inoltre, anche la capacità di
comprendere che le credenze dell'altro possono essere false e quindi possono essere differenti rispetto a quello che è il
dato di realtà. Esistono due prerequisiti fondamentali per la ricostruzione del compito di falsa credenza di primo ordine:
1- La capacità del bambino di decentrarsi dal proprio stato di coscienza;
2- La capacità di rappresentarsi mentalmente una falsa credenza quindi la capacità di rappresentarsi mentalmente una
credenza che non corrisponde al dato di realtà che quindi è falsa.
Il test che valuta le competenze, relative alla falsa credenza di primo ordine, è noto appunto come, compito di falsa
credenza di primo ordine. Per risolverlo correttamente il bambino deve essere capace di attribuire a un altro soggetto
una falsa credenza rispetto alla realtà, rispetto alla storia che viene raccontata. Deve potersi rappresentare mentalmente
quello che è il contenuto della mente dell'altro.
Proviamo a vedere qualche compito di falsa credenza di primo ordine. 
Allora uno degli esempi classici è quello di “Maxi e la mamma”. Si racconta una storia al bambino. Si racconta la storia di
Maxi che in presenza della madre ripone un pezzo di cioccolata in un determinato armadio della cucina e in seguito si
allontana per andare a giocare. Mentre Maxi è via la mamma, per cucinare, prende il cioccolato dall'armadio dove lo
aveva riposto Maxi e,dopodichè, lascia la parte rimanente in un altro armadietto. E lascia la scena. A questo punto
rientra Maxi che vuole il cioccolato. Ovviamente Maxi non ha assistito allo spostamento inatteso della cioccolata; ignora
la nuova collocazione. Dopo aver terminato di raccontare la storia si chiede al bambino: “Maxi dove cercherà la
cioccolata?”
Un bambino che ha acquisito un pensiero ricorsivo di primo ordine sarà in grado di rispondere che Maxi cercherà la
cioccolata lì nell'ultimo posto in cui l'ha lasciata. Perché è in grado di concepire che possono esistere delle false
credenze e in questo caso è in grado di attribuire a Maxi una falsa credenza relativamente a dove si trovi la cioccolata.
Un bambino più piccolo, che non ha ancora raggiunto l’abilità di pensiero ricorsivo risponderà che Maxi cercherà la
cioccolata lì dove l’ha messa la mamma, nel posto corretto. Questo tipo di atteggiamento testimonia che il bambino non
ha ancora raggiunto la capacità di mentalizzarsi una falsa credenza,ovvero di comprendere che le credenze possono
anche essere false. Allo stesso tempo non è ancora arrivato a comprendere che le credenze che egli possiede non sono
le stesse credenze che possiede un altro individuo. Nel caso specifico la credenza di Maxi non è la stessa credenza che
ha il bambino che ha assistito invece allo spostamento inatteso.

Lez 16 reg. 9.07

Lezione 66 audio 3 

Analizziamo ora il compito di falsa credenza di secondo ordine.


Di che cosa si tratta? Si tratta di un compito di falsa credenza con un livello di complessità più elevato. Infatti, intorno ai 7
anni, le crescenti abilità cognitive e anche emotive relazionali del bambino gli consentono di complessificare anche la
sua lettura della mente nell'altra. Il bambino non può più contare solo su un pensiero ricorsivo di prim'ordine, ma arriva a
possedere quello che viene considerato un pensiero ricorsivo di tipo triadico. è in grado di fare questa zona, è in grado di
pensare in questo modo “io penso, che tu pensi, che X pensi Y”. Ad esempio il pensiero potrebbe essere “io penso, che
tu pensi, che Gianni pensi, che io sia andato al lavoro”. è una ricorsività che compare nel pensiero che è in grado di
tener conto di più punti di vista, di più menti. Questa nuova conquista gli consente di risolvere anche i compiti di teoria
della mente più complessa. Per valutare queste capacità è stato ideato un compito di falsa credenza definito di secondo
ordine che ha a che fare con due personaggi che sono “John e Mary”.
Al bambino si racconta come sempre una storia.
John e Mary stanno giocando insieme al parco quando arriva il carretto dei gelati. john e Mary non hanno i soldi per
comprare il gelato quindi Mary va a casa a prendere i soldi che servono per comprare il gelato. Nel frattempo, mentre
Mary va a casa a prendere i soldi per comprare il gelato, John vede il carretto spostarsi verso la chiesa ma, nello stesso
momento anche Mary viene a conoscenza, all'insaputa di John, che gelataio si è spostato vicino alla chiesa. A questo
punto si chiede al bambino “dove John Pensa che Mary andrà a comprare il gelato?”. A questo punto il tipo di risposta
che darà i bambino è indicativo delle sue abilità di pensiero perché per rispondere in modo corretto il bambino deve
tenere in considerazione che John non sa che Mary è a conoscenza del fatto che il carretto del gelato si è spostato.
Quindi di base, il bambino deve tener conto del fatto che John non sa che Mary sa. In questo caso la variabile
fondamentale che entra in gioco, nella risoluzione di questo compito, è proprio data dal fatto che il bambino abbia o
meno a disposizione quello che viene definito questo pensiero ricorsivo di tipo triadico. Questa abilità compare nei
bambini intorno ai 6-7 anni. A livello evolutivo, il compito di vera credenza, il compito di falsa credenza di primo ordine e
il compito di falsa credenza di secondo ordine, sono considerati a livello generale, le prove per valutare gli aspetti
evolutivi della ToM (Theory of Mind).
Esistono anche compiti più complessi in cui aumentano le possibilità di interpretazione della mente dell'altro. Ovvero
dobbiamo tener conto di più punti di vista e magari si aggiungono anche delle questioni temporali. Sono state fatte delle
ricerche utilizzando dei paradigmi di studio della teoria della mente adulta più complessi rispetto a questi che abbiamo
visto per i bambini di 7 anni. Si tratta di paradigmi in via di definizione e ancora sperimentali la cui definizione a livello di
racconto è molto simile a quello che succede ad esempio in un libro giallo in cui bisogna tener conto di diversi punti di
vista. Le capacità di teoria della mente sono abilità che servono nella vita di tutti i giorni, proprio perché, avere una
buona teoria della mente, consente di avere delle buone funzioni ad esempio comunicative ma anche di lettura del
contesto sociale di adattamento.
18. NASCITA E SVILUPPO

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