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SINDROME DA IMMUNODEFICIENZA ACQUISITA (AIDS)

 Il virus
Introduzione
Nel 1981 i CDC di Atlanta (Centers for Diseases Control) segnalarono il riscontro di alcuni casi di una
rara forma di polmonite, la PCP (Polmonite da Pneumocystis carinii), in omosessuali maschi di Los
Angeles. Successive osservazioni portarono a stabilire che queste polmoniti interessavano soggetti con
immunodepressione, e che si manifestavano prevalentemente in chi aveva avuto trasfusioni di sangue o
comportamenti sessuali a rischio. In tal modo venne ipotizzata la presenza di un agente infettivo
trasmissibile.

Nel luglio 1982, dato l'incremento del numero di questi casi, le autorità sanitarie americane coniarono
il termine di AIDS (Acquired ImmunoDeficiency Syndrome) per questa nuova patologia. Nel maggio
1983 il gruppo di Luc Montagnier dell'Istituto Pasteur di Parigi segnalò l'identificazione di un
Retrovirus che poteva essere il responsabile dell'AIDS; questa scoperta fu confermata nello stesso anno
da Robert Gallo del National Cancer Institute di Bethesda, il quale a sua volta fu in grado di isolare lo
stesso virus dal sangue di alcuni malati di AIDS. Questo virus venne inizialmente denominato HTLV-
III (Human T-Lymphocytotropic Virus tipo 3), data la sua somiglianza con l'HTLV-I, un Retrovirus
responsabile di alcune forme di leucemia. In seguito si scoprì che questo virus aveva delle caratteristiche
biologiche diverse da quelle dei Retrovirus noti fino a quel momento, per cui venne chiamato con il
nuovo termine di HIV (Human Immunodeficiency Virus).
Nel marzo 1985 la FDA (Food and Drug Administration) approvò il primo test per la determinazione
degli anticorpi contro il virus HIV, che venne immediatamente introdotto tra gli esami eseguiti per la
sorveglianza di routine dei donatori di sangue. Due anni dopo, nel marzo 1987, venne registrato negli
Stati Uniti il primo farmaco attivo contro l'HIV, la Zidovudina (AZT).
Nel 1991, dopo un decennio dall'inizio dell'epidemia, l'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità)
rese noto che circa 10 milioni di persone in tutto il mondo avevano contratto l'infezione, e che circa la
metà di queste erano già decedute per AIDS. Nel 1992 furono effettuati i primi studi finalizzati a
dimostrare l'efficacia di una terapia con due farmaci, mentre nel dicembre 1995 la FDA approvò il
Saquinavir, il primo di una nuova e promettente classe di farmaci, gli inibitori delle proteasi. Nel luglio
1996, in occasione della 11a Conferenza Internazionale sull'AIDS tenutasi a Vancouver, Canada, sono
stati riportati i successi dei nuovi regimi di terapia combinata con almeno tre farmaci, in grado di
azzerare la replicazione virale nel sangue nella maggior parte dei soggetti trattati, arrestando così
l'evoluzione dell'infezione. Il motto della Conferenza, One World, One Hope, per la prima volta
metteva l'accento sulla disparità di possibilità di cura tra il mondo occidentale ed i Paesi in via di
sviluppo.

L'OMS ha stimato che nel corso del 1997 circa 5,8 milioni di persone hanno contratto l'HIV (delle
quali 590.000 sono bambini) ad un ritmo di circa 16.000 nuove infezioni al giorno, e che 2,3 milioni di
persone sono decedute di AIDS. Nel 1998 sempre l'OMS stima che siano oltre 30 milioni le persone
infettate dal virus, con almeno 12 milioni di deceduti dall'inizio dell'epidemia. L'entusiasmo provocato
nei Paesi Occidentali dai successi dei nuovi regimi terapeutici si scontra con la realtà epidemiologica
dell'infezione: infatti la grande maggioranza delle persone HIV positive, circa l'85-90%, è concentrata
nei Paesi in via di sviluppo e principalmente nell'Africa sub-Sahariana, Paesi che non possono
permettersi l'elevato costo dei farmaci indispensabili per la terapia. La Conferenza Internazionale
sull'AIDS che si è tenuta a Ginevra nel giugno 1998, il cui motto era Bridging the Gap, ha sottolineato
questi aspetti, e proprio per questi motivi la successiva Conferenza Mondiale del giugno 2000 si è svolta
a Durban, in Sudafrica, ed in questo caso il motto è stato Breaking the Silence.
Alla fine del 2002 le stime dell'OMS parlano di 42 milioni di persone viventi con l'infezione da HIV, e
la diffusione dell'infezione sopratutto nei Paesi in via di sviluppo non accenna ancora a diminuire.

Le origini dell'HIV

Sebbene varie ipotesi siano state fatte nel corso degli ultimi 15 anni, è ormai chiaro che l'HIV si è
formato attraverso un processo di evoluzione naturale. La teoria che ha trovato maggiori consensi circa
l'origine dell'HIV sostiene infatti che questo virus sia derivato da mutazioni genetiche di un virus che
colpisce alcune specie di scimpanzé africani, il SIV (Scimmian Immunodeficiency Virus); tramite studi di
biologia molecolare è stato possibile stabilire una relazione fra l'HIV ed il SIV, identificando una
omologia genetica del 98% tra questi due virus, ed arrivando a costruire un vero e proprio albero
genealogico virale.

L'infezione da HIV sarebbe pertanto una zoonosi, cioè una infezione trasmessa all'uomo da altre specie
animali: l'HIV sarebbe migrato dal serbatoio dei primati a quello umano probabilmente con la
cacciagione oppure tramite riti tribali che comportavano il contatto con il sangue di questi animali. Il
SIV sarebbe poi mutato nell'HIV nel corso di molti anni attraverso successive variazioni genetiche. Tale
ipotesi è stata recentemente confermata dal lavoro di un gruppo di ricercatori della University of
Alabama di Birmingham, presentata alla 6a Conferenza sui Retrovirus e sulle Infezioni Opportunistiche
tenutasi a Chicago nel febbraio 1999 (1), dove una particolare specie di scimpanzé, il Pan troglodytes
troglodytes (Figura 1), è stata riconosciuta quale più probabile sorgente dell'infezione per l'uomo.

L'HIV sarebbe quindi verosimilmente esistito per lungo tempo in piccole comunità tribali dell'Africa.
L'urbanizzazione, soprattutto durante il colonialismo, ha portato a grandi spostamenti di persone e
all'acquisizione di costumi più liberi, con conseguente aumento degli scambi sessuali, dovuti anche alla
prostituzione. Questi movimenti hanno favorito la diffusione dell'HIV, creando così una "base" di
individui infetti, sufficiente alla futura espansione dell'infezione. In seguito, vari fattori quali i contatti
con l'Occidente, l'uso di siringhe ipodermiche non sterili per le campagne di vaccinazione, l'impiego di
emotrasfusioni nei casi di malaria, hanno favorito la diffusione dell'HIV. Nell'Occidente, libertà
sessuale e tossicodipendenza hanno poi originato l'epidemia che abbiamo conosciuto negli anni '80 e
'90.

Un articolo pubblicato sulla rivista Nature dal gruppo di David Ho (2) (direttore del Aaron Diamond
AIDS Research Center di New York), ha riportato la scoperta di tracce del genoma dell'HIV in un
campione di sangue appartenente ad un uomo vissuto a Kinshasa (Congo) e deceduto nel 1959.
Tramite analisi molecolari di questo virus, confrontato con altri ceppi virali isolati più recentemente, è
stato possibile stimare l'origine dell'HIV prima del 1940, ipotizzando quindi che la trasmissione del
virus dallo scimpanzé all'uomo sarebbe venuta per la prima volta circa 60 anni fa.
In un altro lavoro, recentemente pubblicato sulla rivista Science (3), l'analisi di sequenze genetiche del
virus, elaborate con sofisticati modelli statistici e con l'ausilio di supercomputers, ha permesso di stimare
che il ceppo originario dell'HIV risalga fin dal 1931.
.

Figura 1 Scimpanzè Pan troglodytes troglodytes


Caratteristiche del virus

L'HIV è un virus con genoma ad RNA appartenente alla famiglia dei Retrovirus, genere Lentivirus.
Attualmente se ne conoscono due tipi: HIV-1, diffuso in tutto il mondo (quello che abitualmente
conosciamo) e HIV-2, presente solo in alcuni Paesi africani e meno virulento del tipo 1. Come molti
altri tipi di virus, l'HIV è composto schematicamente da tre parti (Figura 2):

1. Envelope (Figura 2.1): è il rivestimento esterno, formato da una membrana lipidica e da


"proiezioni" proteiche, costituite da due glicoproteine denominate gp120 e gp41: la gp41 forma la
base di queste proiezioni, mentre la gp120 forma la parte più esterna. Queste strutture sono
importanti per i meccanismi che permettono al virus di legarsi alle cellule bersaglio.
2. Matrice: strato proteico situato all'interno dell'envelope, che circonda la parte centrale del virus.
Contribuisce alla stabilità strutturale della particella virale.
3. Core Figura 2.2: circondato dalla matrice, il core contiene le parti vitali del virus: il materiale
genetico, costituito da due catene di RNA, e gli enzimi fondamentali per i processi di replicazione
virale quali la transcriptasi inversa (p51), l'integrasi (p32) e la proteasi (p11). L'RNA contiene tre
geni principali che codificano la sintesi di importanti componenti strutturali e funzionali del virus
(Figura 3):
- env: codifica la produzione della glicoproteina gp160, la quale poi si scinde a formare la
glicoproteina di superficie gp120 e la glicoproteina transmembrana gp41, entrambe presenti
nell'envelope;
- pol: codifica la sintesi degli enzimi transcriptasi inversa, integrasi e proteasi;
- gag: codifica la sintesi della proteina nucleocapsidica p24.

Sono poi presenti altri geni, tat, nef, rev, ecc., responsabili della regolazione delle diverse fasi del ciclo
replicativo del virus.
Fig. 2 Struttura dell'HIV.

Fig. 2.1 Struttura dell'envelope: evidenziate le glicoproteine gp120 e gp41.


Fig. 2.2 Struttura del core: all'interno sono contenute le due catene del genoma ad RNA.

Fig. 3 Schema del genoma dell'HIV.


Il Ciclo Replicativo dell'HIV

L'HIV, come tutti i virus, è incapace di replicarsi autonomamente, in quanto necessita dell'apparato
metabolico di una cellula; il ciclo replicativo dell'HIV viene solitamente suddiviso in varie fasi (Figura
4):

1. Adesione (Figura 4.1): per poter penetrare nella cellula bersaglio l'HIV deve prima di tutto
legarsi ad essa; il virus si può legare a cellule che abbiano sulla loro superficie uno specifico
recettore, denominato CD4, al quale aderisce tramite una specifica porzione dell'envelope,
costituita da due glicoproteine: la gp120, più esterna, e la gp41, situata più internamente. Il
primo legame avviene quindi tra la gp120 ed il recettore CD4; è necessario però anche un
secondo legame, che avviene tra la gp120 ed un corecettore presente sulla superficie della cellula
(il principale di questi corecettori è stato denominato CCR5; si è visto che persone affette da
una difetto genetico di questo corecettore sono in grado di resistere all'infezione).
2. Fusione (Figura 4.2): una volta avvenuto anche questo secondo legame con il corecettore, la
gp120 subisce una variazione della propria struttura ed una modifica della posizione,
permettendo così l'esposizione della gp 41; questa è in grado di fondersi con la membrana
cellulare, aprendo la porta all'ingresso del virus nella cellula.
3. Penetrazione nella cellula (Figura 4.3): avvenuta la fusione il virus penetra nella cellula.
Soltanto il core virale entra però all'interno della cellula, mentre il rivestimento glicoproteico
dell'envelope rimane all'esterno della cellula.
4. Uncoating (Figura 4.4): una volta penetrato nella cellula, il core perde il proprio rivestimento
proteico che viene degradato in un processo chiamato uncoating (svestimento); in questo modo
si libera la parte centrale del virus che contiene il genoma ad RNA e gli enzimi virali.
5. Trascrizione inversa (Figura 4.5): è il processo con il quale le informazioni genetiche del virus
contenute in una singola catena di RNA vengono copiate in una doppia catena di DNA.
Questo processo, che avviene nel citoplasma della cellula nelle prime ore successive all'infezione,
necessita dell'intervento di uno specifico enzima virale, la transcriptasi inversa . La trascrizione
inversa si svolge in tre fasi:

a) sintesi di una catena di DNA complementare all'RNA virale;

b) degradazione della catena di RNA originaria;


c) costruzione della seconda catena di DNA complementare alla prima.

Il risultato è quello di ottenere un DNA a doppia catena contenente tutte le informazioni genetiche
che erano presenti nel genoma originario ad RNA. Questa nuova molecola di DNA virale prende il
nome di Provirus.

6. Integrazione (Figura 4.6): il Provirus viene trasportato nel nucleo della cellula. In questa sede,
grazie all'intervento di un altro enzima virale, l'integrasi , viene inserito nel genoma cellulare,
dove rimane per tutta la vita della cellula (l'unico modo per eliminare il Provirus è quello di
uccidere la cellula). A questo punto l'HIV, sotto forma di Provirus, può rimanere in fase di
latenza anche per lunghi periodi di tempo, duplicandosi solo con la replicazione della cellula
stessa.
7. Trascrizione del Provirus (Figura 4.7): ad un certo momento il virus può attivarsi: in questo
caso il DNA virale "ordina" alla cellula la produzione di propri componenti, quali le proteine
strutturali, gli enzimi e l'RNA genomico. Il Provirus, come il resto del cromosoma della cellula,
è in grado di utilizzare l'RNA polimerasi cellulare per trascrivere il proprio DNA in RNA.
Completata la trascrizione, il nuovo RNA virale esce dal nucleo della cellula e viene trasportato
nel citoplasma. In questa sede l'intervento dei ribosomi cellulari porta alla sintesi delle nuove
proteine virali (Figura 4.8).
8. Intervento della Proteasi (Figura 4.9): subito dopo la loro "costruzione" le proteine virali non
sono ancora in grado di funzionare adeguatamente; è necessario l'intervento di un altro enzima
virale, la proteasi , il quale agisce modificando la struttura delle proteine in modo da renderle
perfettamente funzionanti: si formano così gli enzimi e le proteine strutturali del virus.
9. Assemblaggio (Figura 4.10): i componenti virali neoprodotti (proteine e genoma) vengono
quindi trasportati alla periferia della cellula dove vengono assemblati tra loro dando origine al
core del nuovo virus .
10. Gemmazione (Figura 4.11): si chiama così il processo di fuoriuscita delle nuove particelle virali
dalla cellula infetta: il core del nuovo virus si avvicina alla membrana cellulare e la attraversa per
fuoriuscire dalla cellula stessa; durante questo passaggio viene rivestito dell'involucro
glicolipidico, l'envelope (Figura 5). A questo punto la nuova particella virale (virione) è
completata, ed è così in grado di andare ad infettare un'altra cellula bersaglio e di dare inizio ad
un nuovo ciclo replicativo

Fig. 4 Le fasi del ciclo replicativo dell'HIV (in rosso); in verde i componenti virali

Fig. 4.1 Adesione: il virus si lega al recettore cellulare CD4 mediante la glicoproteina gp120.
Fig. 4.2 Fusione: l'envelope del virus si unisce alla membrana cellulare.

Fig. 4.3 Penetrazione nella cellula: solo il core virale penetra all'interno della cellula, mentre
l'envelope resta all'esterno.

Fig. 4.4 Uncoating: nel citoplasma della cellula il rivestimento proteico del core

Fig. 4.5 Trascrizione inversa: viene prodotto il Provirus, una molecola di DNA copia del genoma
virale ad RNA.
Fig. 4.6 Integrazione: il Provirus viene integrato nel cromosoma della cellula.

Fig. 4.7 Trascrizione del Provirus: l'RNA polimerasi della cellula trascrive il provirus producendo
RNA virale

Fig. 4.8 Sintesi proteine virali: i ribosomi della cellula sintetizzano le proteine virali.
Fig. 4.9 Intervento della proteasi virale: le proteine virali vengono rese funzionanti.

Fig. 4.10 Assemblaggio: le proteine e l'RNA virali si uniscono a formare un nuovo core.

Fig. 4.11 Gemmazione: le nuove particelle virali fuoriescono dalla cellula.

Fig. 5 Gemmazione di una particella virale da una cellula infetta. Nella parte inferiore il virus è
completamente fuoriuscito dalla cellula
 Patogenesi

Meccanismo di infezione

La probabilità che dopo l'ingresso del virus nell'organismo l'infezione si instauri effettivamente dipende
principalmente da due fattori: la carica infettante, cioè il numero di particelle virali penetrate (più la
carica virale è alta, maggiore è il rischio di infezione), ed il numero di cellule recettive (cioè suscettibili di
essere infettate) presenti nella sede di ingresso del virus (Figura 1).
Come detto, l'HIV è in grado di infettare le cellule che presentano sulla loro superficie il recettore CD4;
molti tipi di cellule dell'organismo umano possiedono questo recettore, tuttavia il bersaglio principale
del virus è rappresentato dal linfocita T Helper (o linfocita CD4+). E' stato inoltre dimostrato che
l'HIV, per poter penetrare in una cellula, oltre al recettore CD4 necessita anche della presenza di altre
strutture sulla superficie cellulare, denominate corecettori , il principale dei quali è denominato CCR5
(1). Questi sono dei recettori per delle sostanze denominate chemochine, normalmente prodotte da
alcune cellule del sistema immunitario. Alcuni studi recenti hanno dimostrato che persone con un
difetto genetico omozigote (completo) per il quale non viene prodotto il recettore CCR5 sono resistenti
all'infezione, e che persone con un difetto eterozigote possono essere infettate dall'HIV ma hanno una
progressione molto lenta dell'infezione (2). Altri studi hanno mostrato invece che persone con un'altra
variante genetica, per cui producono molto più CCR5, hanno una progressione più rapida
dell'infezione.

Il linfocita CD4 costituisce il cardine principale di tutto il sistema immunitario, essendo in grado di
regolare, come un direttore d'orchestra, l'attività di tutte le altre cellule responsabili della difesa
immunitaria dell'organismo. Altre cellule che possono essere infettate dal virus sono i monociti, un tipo
di globuli bianchi, ed i macrofagi, cellule di difesa presenti nei tessuti. Una volta che l'infezione si è
stabilita, il virus entra nel torrente circolatorio e dalla sede di ingresso si diffonde a tutto l'organismo,
localizzandosi principalmente negli organi e nei tessuti maggiormente popolati da cellule recettive, quali
linfonodi, milza, fegato e midollo osseo (organi del sistema emo-linfopoietico). In queste sedi il virus è in
grado di stabilirsi e di rimanervi a lungo in fase di latenza, oppure di replicarsi in modo continuo; i
linfonodi in particolare rappresentano una delle principali sedi di replicazione dell'HIV durante la fase
di latenza clinica (cioè nel periodo in cui l'infezione non dà nessun segno di sé).
Nel corso dell'infezione si stabiliscono quindi due diversi "compartimenti virologici" (Figura 2), tra i
quali vi è però una comunicazione continua:

- compartimento attivo, costituito dal virus libero nel sangue e da quello contenuto nei
linfociti e monociti, dove il virus è attivamente replicativo ed è in grado di provocare danno
al sistema immunitario;
- compartimento di latenza (reservoirs), costituito da virus che non si replica attivamente,
ma che resta in fase latente in alcuni distretti dell'organismo. Questi compartimenti di
riserva, che si formano fin dalle primissime fasi dell'infezione, sono rappresentati da alcuni
organi, quali cervello e gonadi (dove ci sono barriere anatomiche che impediscono la libera
circolazione delle cellule e dei farmaci, permettendo così la creazione di condizioni
particolarmente favorevoli per la persistenza del virus), e soprattutto da alcuni
compartimenti cellulari:
1) le cellule follicolari dendritiche dei linfonodi (FDC), che sono in grado di trattenere
sulla loro superficie esterna particelle virali che si possono mantenere infettive per
lungo tempo. Queste cellule hanno comunque una emivita di circa due settimane, e
quindi abbastanza breve (12 r).
2) i macrofagi infettati, i quali non vengono uccisi dal virus, il quale può pertanto
continuare a replicarsi. L'emivita dei macrofagi in soggetti non infetti è di circa 15
giorni.
3) i T linfociti CD4+ di memoria, che costituiscono probabilmente il più importante
dei compartimenti cellulari di riserva. In queste cellule il virus non è in grado di
replicarsi, ma resta sempre presente con una copia del proprio genoma integrato nel
DNA della cellula. I linfociti CD4+ di memoria hanno una vita molto lunga, dato
che la loro funzione biologica è proprio quella di garantire all'organismo una
protezione immunitaria nei confronti di antigeni incontrati in precedenza; queste
cellule, quando nel corso della loro vita incontrano l'antigene per il quale sono
"programmate", ritornano alla fase attiva, durante la quale possono permettere al
virus di replicarsi. In seguito, dopo diversi cicli di replicazione, molte di queste
cellule andranno incontro a morte, mentre altre ritorneranno alla fase di latenza,
contribuendo così al mantenimento di una stabile riserva virale. Questo serbatoio
virale sarebbe quindi il principale responsabile della persistenza dell'infezione anche
in corso di una efficace terapia antiretrovirale, rappresentando in questo modo il più
importante ostacolo alla eradicazione dell'infezione. E' stato infatti dimostrato che
queste cellule di memoria hanno un tempo di dimezzamento di 44 mesi, il che
significa che occorrerebbero circa 73 anni prima di riuscire ad eliminarle tutte (3).

Fig. 1 Se l'HIV, dopo l'ingresso nell'organismo, trova subito una adeguata quantità di cellule
recettive da infettare è più probabile che l'infezione "attecchisca".

Fig. 2 Compartimenti virologici in corso di infezione da HIV.


Fig. 3 Risposta immune in corso di infezione da HIV.

Risposta immune nei confronti dell'HIV

In genere i virus, quando infettano un organismo, inducono una intensa risposta da parte del sistema
immunitario, soprattutto dell'immunità cellulo-mediata, espletata prevalentemente dai linfociti killer,
in grado di distruggere direttamente le cellule infette, e dai linfociti T-helper CD4+, in grado di
produrre varie sostanze (citochine) dotate di attività antivirale o che hanno la capacità di stimolare altre
cellule, come per esempio i linfociti B, i quali a loro volta producono gli anticorpi.
L'HIV induce una risposta immune basata principalmente sulla attività dei linfociti CD4+; questa può
essere indirizzata in due modi differenti, a secondo della sottoclasse di T-helper che viene maggiormente
stimolata (Figura 3):

- risposta T-helper 1 (Th1): inducono prevalentemente l'immunità cellulo-mediata .


Vengono attivati alcuni linfociti citotossici (linfociti CD8) in grado di bloccare in modo
abbastanza efficace le cellule infettate dal virus; in questo caso l'infezione viene contrastata
meglio e l'infezione progredisce più lentamente verso la fase di malattia;
- risposta T-helper 2 (Th2): inducono prevalentemente l'immunità umorale. Viene ridotta
la produzione di linfociti CD8 mentre aumenta la produzione di anticorpi; questo tipo di
risposta non è in grado di contrastare efficacemente la replicazione virale, per cui la
progressione dell'infezione avviene in modo più rapido.

Si pensa quindi che lo sviluppo della malattia sia provocato da un progressivo passaggio dalla risposta
Th1 alla risposta Th2.
L'HIV ha la capacità di andare facilmente incontro a variazioni della propria struttura genetica
(mutazioni), che si verificano soprattutto in seguito ad errori di "copiatura" da parte della transcriptasi
inversa. Queste mutazioni provocano l'insorgenza di ceppi varianti, che aiutano il virus a non essere
riconosciuto, e quindi non adeguatamente combattuto, dal sistema immunitario. Le mutazioni sono
inoltre responsabili dell'insorgenza di resistenza ai farmaci in corso di terapia antivirale.

Immunodeficienza
Durante tutto il periodo di infezione c'è una continua ed incessante lotta tra il virus ed il sistema
immunitario (Figura 4) (4). L'HIV con l'andar del tempo è in grado di produrre un danno progressivo
al sistema immunitario, che alla fine non è più in grado di svolgere efficacemente le proprie funzioni. Si
verifica così una situazione di immunodeficienza, in seguito alla quale un individuo può essere infettato
da microrganismi che sono solitamente innocui per chi ha una normale funzione immunitaria (infezioni
opportunistiche).

La teoria finora ritenuta più valida per spiegare come l'HIV provoca il deficit immunitario è
probabilmente quella ipotizzata dal dott. David Ho. In termini semplici, Ho paragona la riduzione dei
linfociti T al calo del livello di acqua in una vasca nella quale il deflusso dallo scarico sia più veloce
dell'afflusso di nuova acqua dal rubinetto. In pratica Ho sostiene che i linfociti T vengano infettati e
distrutti dall'HIV più velocemente di quanto il sistema immunitario sia in grado di produrne di nuovi.

Studi più recenti sembrano però dimostrare che questo meccanismo da solo non sia sufficiente a
spiegare il severo grado di immunodeficit che si verifica nei soggetti con infezione da HIV nelle fasi più
avanzate della malattia.

Ricercatori della University of California hanno utilizzato una nuova tecnica di biologia molecolare per
studiare in vivo la dinamica della produzione e della distribuzione dei T linfociti in pazienti HIV
positivi, confrontando i risultati ottenuti con quelli riscontrati in volontari sani (5). La teoria che ne è
emersa afferma che la causa principale dello sviluppo dell'immunodeficienza non è tanto la distruzione
delle cellule T esistenti (anche se questo comunque avviene), ma piuttosto la conseguenza della
incapacità da parte del sistema immunitario di produrre nuove cellule ad un ritmo adeguato. Per usare il
paragone del Dr. Ho, il livello dell'acqua nella vasca diminuisce non tanto perché aumenta la velocità
dello scarico, ma soprattutto perché si riduce la quantità di acqua che affluisce dal rubinetto.
Ci sarebbe quindi un qualche fattore che impedisce la produzione di nuove cellule in quantità adeguata.
Gli Autori ipotizzano che ciò possa dipendere prevalentemente da un danno a carico degli organi dove
ha sede la produzione dei T linfociti, e cioè il midollo osseo ed il timo.

20-30 miliardi 10-20 miliardi


di linfociti di nuove
CD4+ particelle virali

Fig. 4 Sviluppo della Immunodeficienza

 Trasmissione

L'HIV è stato isolato in tutti i tessuti e liquidi biologici di un soggetto sieropositivo (Tabella 1).
Tuttavia la semplice presenza del virus in un materiale biologico non significa che il contatto con quello
stesso materiale rappresenti un evento efficace per la trasmissione dell'infezione. Perché ciò avvenga è
infatti importante che si verifichino due condizioni (Figura 1):

- una idonea via di trasmissione

- una adeguata quantità di virus

Una quantità di virus (carica virale) sufficiente a trasmettere l'infezione si può ritrovare solo in
determinati liquidi biologici, quali sangue, liquido seminale, secreto vaginale e, in percentuale inferiore,
nel latte materno (Figura 2). Altri materiali sono considerati a rischio solo se contaminati da sangue, in
quanto la concentrazione di HIV è troppo bassa perché la trasmissione possa avvenire.
Pertanto l'HIV può essere trasmesso da persona a persona esclusivamente attraverso tre modalità:

• Contatto con sangue infetto (trasfusioni, scambio di siringhe, contaminazione con aghi infetti);
• Rapporti sessuali
• Trasmissione verticale
Un soggetto che ha contratto l'infezione in un modo, per esempio tramite contatto con sangue infetto,
può trasmetterla per altra via, per esempio mediante un rapporto sessuale (Figura 3).

Trasmissione sessuale

La trasmissione sessuale dell'HIV rappresenta la modalità di contagio prevalente nel mondo (Figura 4),
ed è il fattore maggiormente responsabile della rapida espansione dell'epidemia in Paesi asiatici quali
l'India e la Tailandia. La probabilità di trasmissione dell'HIV per vari tipi di attività sessuali dopo un
singolo contatto è stata calcolata utilizzando dati epidemiologici e modelli matematici (Figura 5).
L'efficacia della trasmissione da uomo a donna, o da uomo a uomo, è più efficace che non da donna a
uomo (Figura 6). Per quanto riguarda il tipo di attività sessuale, il rapporto anale è quello correlato al
maggior rischio, mentre il rapporto orale sembra avere un rischio inferiore (Figura 7); a questo
proposito, mentre sembra essere praticamente privo di rischio il rapporto orale con donna recettiva, al
contrario sono stati segnalati casi di trasmissione dell'HIV mediante rapporto orale con uomo recettivo
(6,6% dei casi in coorte americana di soggetti omosessuali) (1).
E' comunque difficile stabilire con certezza la percentuale di rischio di contagio in ogni singolo caso;
infatti ci sono persone che si sono contagiate dopo un singolo rapporto, mentre altre non hanno
contratto l'infezione anche dopo anni di rapporti con un partner sieropositivo.
Ci sono comunque molti fattori che influenzano la possibilità che si verifichi effettivamente la
trasmissione del virus (Tabella 2):

• Fattori comportamentali:

- Numero di partners diversi


- Rapporti con persone ad alto rischio (prostitute, tossicodipendenti)
- Utilizzo del profilattico
- Tipo di rapporto
- Condizioni psichiche: l'utilizzo di droghe o alcolici può infatti compromettere la capacità di
giudizio, e quindi la consapevolezza di utilizzare adeguati strumenti di prevenzione in caso
di rapporti a rischio.
• Concomitante presenza di malattie sessualmente trasmesse:

La presenza di altre malattie che interessano gli organi genitali, quali per esempio condilomi,
Herpes, lesioni ulcerative, ecc., favoriscono la trasmissione dell'HIV, per diversi motivi:
- le lesioni sulla cute e sulle mucose costituiscono una comoda porta d'ingresso per il virus;
- nelle zone infiammate c'è una elevata concentrazione di cellule bersaglio del virus, quali linfociti,
monociti e macrofagi, per cui il virus trova subito un terreno ideale per la sua moltiplicazione;
- i soggetti sieropositivi risultano maggiormente infettanti, in quanto nelle loro secrezioni sono
presenti un maggior numero di particelle virali.

• Fattori legati al singolo individuo:

- Infettività : non tutti i soggetti sieropositivi sono infettanti allo stesso modo; la possibilità di
trasmettere l'infezione infatti dipende anche dallo stadio dell'infezione e dalla quantità di
virus presente nel sangue e nelle secrezioni genitali. In particolare la carica virale è
solitamente più elevata nel periodo immediatamente successivo al contagio e nelle fasi più
avanzate della malattia, ed è stato ampiamente dimostrato che l'infettività aumenta
parallelamente all'incremento della carica virale. L'infettività può inoltre variare in relazione
alla terapia antiretrovirale: una riduzione della replicazione virale indotta dalla terapia riduce
le probabilità di trasmissione del virus. In uno studio (2) sono state osservate per un periodo
di circa 3 anni 415 coppie "discordanti" (cioè con solo uno dei due partner sieropositivo); la
trasmissione dell'infezione si è verificata in 90/415 coppie (incidenza: 11.8% anni-persona),
e si è potuto osservare che il contagio avveniva raramente nelle coppie dove il partner
sieropositivo aveva una carica virale <1500 copie. Un altro studio condotto in modo simile
ha calcolato che se la carica virale del soggetto infetto è <3.500 copie/ml la probabilità di
trasmissione per singolo rapporto sessuale è dello 0,0001 (cioè 1 su 10.000 rapporti),
mentre se la viremia è > 50.000 copie/ml, la probabilità di trasmissione diventa di 5,1 su
1.000 rapporti (3).

- Resistenza all'infezione: per particolari caratteristiche genetiche e immunologiche alcuni


individui sono particolarmente resistenti all'infezione, per cui non si contagiano anche se
vengono esposti al virus (ciò è stato osservato per individui che possiedono variazioni genetiche
di particolari corecettori necessari all'HIV per poter infettare le cellule).
• Fattori legati al virus:

- Carica virale: come detto prima, dipende essenzialmente dallo stadio dell'infezione e dalla terapia.
- Genotipo virale: sono noti 17 genotipi diversi di HIV, e vari studi hanno dimostrato che alcuni di
questi hanno una più elevata trasmissibilità per via sessuale, come per esempio il genotipo E,
particolarmente diffuso in Tailandia.

Questi fattori però non possono essere conosciuti a priori, per cui bisogna sempre considerare che può
bastare anche un solo rapporto per contrarre l'infezione.

E' stato ampiamente dimostrato che il virus non è presente negli spermatozoi, ma si trova libero nel
liquido seminale, oppure sotto forma di DNA provirale nel nucleo delle cellule mononucleate, anch'esse
presenti nel liquido seminale. Per tale motivo è possibile ipotizzare la fecondazione artificiale nel caso di
coppie discordanti, con uomo sieropositivo e donna sieronegativa. In centri clinici specializzati viene
infatti eseguito un particolare trattamento del liquido seminale, in grado di eliminare la parte
potenzialmente infetta e di conservare invece gli spermatozoi, i quali vengono poi utilizzati per la
fecondazione artificiale.

Trasmissione con il sangue

L'HIV può essere trasmesso tramite trasfusione di sangue infetto o di emocomponenti preparati con
sangue di una persona infetta. Infezioni secondarie ad emotrasfusioni erano descritte soprattutto prima
del 1985, anno in cui si è reso disponibile il test per lo screening dei donatori. In seguito le segnalazioni
di infezioni secondarie a trasfusione di sangue sono divenute sempre più rare; a ciò hanno contribuito
diversi fattori, quali lo screening dei donatori, la ripetizione del test su tutte le unità di sangue prelevate,
l'abolizione dei donatori professionali e l'educazione sanitaria dei donatori, in modo che questi evitino
volontariamente la donazione se hanno avuto dei comportamenti a rischio.

Nel luglio 1999 in Australia è stato riportato un caso di infezione da HIV avvenuto tramite
emotrasfusione, il primo dal 1985; il sangue proveniva da una donatrice che aveva donato il sangue
durante il periodo finestra. Attualmente la Croce Rossa Internazionale stima che il rischio che avvenga
un contagio con queste modalità sia di 1 caso ogni 1.200.000 trasfusioni, mentre nel 1995 i CDC di
Atlanta riportavano un rischio di 1 ogni 500.000 trasfusioni (Figura 8).

Trasmissione parenterale

La via parenterale è il modo più facile che ha il virus per poter essere trasmesso da un individuo all'altro;
l'efficienza della trasmissione parenterale può infatti arrivare fino al 90%. Ciò è dovuto al fatto che il
virus, arrivando direttamente nel torrente circolatorio, trova subito moltissime cellule bersaglio,
rappresentate essenzialmente dalle cellule mononucleate (linfociti e monociti).
Il fattore di rischio principale per la trasmissione parenterale dell'HIV è rappresentato senza dubbio
dalla tossicodipendenza. Questa modalità di contagio è quella prevalente in Italia e in tutta l'Europa
Occidentale (vedi Epidemiologia - Fig. 8). In Italia, soprattutto nelle grandi città del Nord, sono state
descritte percentuali di sieropositività tra i tossicodipendenti di oltre il 60%. La trasmissione del virus
tra i tossicodipendenti avviene principalmente tramite la contaminazione con sangue infetto di aghi e
altri oggetti utilizzati per la preparazione della droga, i quali vengono spesso riutilizzati più volte e
scambiati tra persone diverse. Uno studio condotto nel 1992, basato sull'impiego di un modello
matematico costruito analizzando la presenza di HIV nel sangue residuo di siringhe utilizzate da
tossicodipendenti sieropositivi, ha stimato in 1 ogni 150 iniezioni il rischio di contagio.

Anche altre pratiche, come i tatuaggi ed il body piercing, sono a rischio per la trasmissione dell'HIV;
infatti tali manovre vengono spesso eseguite da personale inesperto che ignora le corrette procedure di
sterilizzazione degli aghi. Qualsiasi oggetto che superi l'integrità della barriera cutanea può essere infatti
in grado di trasmettere infezioni quali l'HIV ed i virus dell'epatite, per cui tutti questi oggetti devono
sempre essere adeguatamente sterilizzati.

Esposizione accidentale

L'HIV è un virus poco resistente all'ambiente esterno, anche se in condizioni favorevoli può
sopravvivere anche per due o tre giorni. L'essiccamento provoca una riduzione della carica virale di oltre
il 90% in poche ore. In caso di ferita accidentale con materiale contaminato, perché avvenga
effettivamente il contagio sono importanti vari fattori:
- Carica virale nel sangue residuo;
- Tipo di strumento con il quale avviene la contaminazione (per esempio una puntura con un
ago cavo è più pericolosa della lesione con un ago pieno, in quanto il residuo di sangue è
maggiore nel primo caso);
- Durata del contatto e profondità della lesione;
- Lesioni preesistenti dell'operatore e suo stato immunitario.

Complessivamente, dopo una esposizione accidentale con sangue contaminato il rischio di contrarre
l'infezione è di circa lo 0,2-0,3%.

Trasmissione verticale

L'HIV può essere trasmesso dalla madre al figlio. Questo può avvenire essenzialmente tramite tre
modalità:

- durante la gravidanza attraverso la placenta (20-40%)


- durante il parto (40-70%)
- tramite l'allattamento (15-20%)

Per ridurre il rischio di infezione del neonato alle donne sieropositive viene solitamente praticato il
parto cesareo e viene consigliato di non allattare. Uno studio, pubblicato nel 2000 su JAMA, condotto
su una coorte di donne sieropositive del Kenia, ha dimostrato una riduzione fino al 44% della
trasmissione verticale del virus nelle donne che non allattavano.

Complessivamente il rischio che il neonato resti contagiato è di circa il 15-25%, ma questa percentuale
è stata notevolmente ridotta (fino a meno del 5%) con l'utilizzo di profilassi farmacologica durante la
gravidanza e dopo il parto.

Il rischio di trasmissione dell'infezione varia poi in base ad altri fattori legati alla madre, quali le
condizioni cliniche generali, il livello di viremia, il numero di CD4+, la concomitante presenza di altre
malattie sessualmente trasmesse.

I bambini nati da madri sieropositive nascono anch'essi sieropositivi, in quanto gli anticorpi materni
che identificano la sieropositività passano nel sangue del neonato durante la gravidanza. Poi, se il
bambino non ha contratto l'infezione, questi anticorpi materni pian piano vengono smaltiti, per cui il
bambino "diventa" sieronegativo. Se invece il bimbo ha contratto l'infezione, allora inizia a produrre
anticorpi propri e quindi "resta" sieropositivo. Altra conferma della avvenuta infezione si può avere con
la determinazione della carica virale (HIV-RNA).

Nella Figura 9 sono illustrate le modalità attraverso le quali non si trasmette l'infezione.

Tabella 1 Infettività dei materiali biologici.

Isolamento HIV Trasmissione


accertata
Sangue SI
Liquido seminale SI
Secreto vaginale SI
Latte materno SI

Saliva No
Lacrime No
Sudore No
Urine No
Feci No

Fig. 1 Fattori necessari per la trasmissione dell'HIV.


Fig. 2 Rappresentazione schematica della concentrazione di HIV in diversi materiali biologici.

Fig. 3 Possibili vie di trasmissione dell'HIV.

Fig. 4 Modalità di trasmissione dell'HIV nel mondo.


Fig. 5 Probabilità di trasmissione dell'HIV per singolo episodio a rischio.

NB: Nell'ambito della trasmissione sessuale è evidente come il rischio sia maggiore nel caso del contatto
omosessuale, mentre per quanto riguarda la trasmissione verticale si nota la riduzione del rischio di contagio
con l'impiego della profilassi farmacologica.

Fig. 6 Il rischio di contagio uomo - donna è superiore al rischio donna - uomo.


Rischio
Rapporto anale non protetto
Rapporto genitale non protetto
Rapporto oro-genitale non protetto
Rapporto sessuale protetto
Rapporto oro-genitale protetto
Petting
Bacio profondo
Massaggi

Fig. 7 La probabilità di contagio varia notevolmente in base al tipo di rapporto.

Tabella 2 Fattori che influenzano la trasmissione sessuale dell'HIV.

Fattori associati ad aumento del Rischio


Uomo-Donna Donna-Uomo

N° contatti sessuali Sì Sì
Malattia avanzata Sì Sì
Infezione primaria Sì Sì
Malattie genitali Sì Sì
Contraccettivi orali Sì Non noto
Dispositivi intrauterini Sì No

Fattori associati a riduzione del Rischio


Uso del profilattico Sì Sì
Terapia antiretrovirale Sì Sì
Uso di spermicidi Possibile Non noto
Mutazione del gene per il
recettore delle chemochine Sì Sì
Fig. 8 Trasmissione dell'HIV mediante trasfusioni di sangue.

Nel 1982 circa l'1% delle unità di


sangue trasfuse a San Francisco
erano contaminate dall'HIV.

Nel 1995 il rischio di contagio in


seguito a trasfusione è stimato
essere di 1 ogni 500.000 unità di
sangue trasfuse (CDC).

Nel 1999 la CRI riporta un


rischio di 1 su 1.200.000
emotrasfusioni.

Andamento dei casi di AIDS in Italia per categorie di rischio al 30 Giugno 2004.
Risulta evidente il progressivo aumento dei casi a trasmissione eterosessuale (sezione in verde), e la
contemporanea riduzione dei casi tra i tossicodipendenti (sezione in rosso).
Fig. 9 Come NON avviene la trasmissione dell'HIV:

I comuni contatti sociali NON


sono idonei alla trasmissione del
virus; se così fosse le caratteristiche
epidemiologiche dell'infezione
sarebbero completamente diverse
da quelle attuali.
Un semplice bacio NON è a
rischio per la trasmissione
dell'HIV. L'unico ipotetico rischio
è riferito al bacio profondo in
presenza di lesioni sanguinanti del
cavo orale.
Una persona sieropositiva che ha
dei colpi di tosse o degli starnuti
NON è in grado di trasmettere
l'infezione.

Gli oggetti casalinghi quali le


stoviglie NON sono idonei alla
trasmissione del virus.

NON c'è rischio di contrarre


l'infezione frequentando piscine o
bagni comuni. Il cloro uccide
l'HIV, e la diluizione rende
estremamente bassa la
concentrazione del virus.

Gli animali domestici NON


trasmettono l'HIV; questo infatti è
un virus che colpisce solo la specie
umana.

Le zanzare NON possono


trasmettere il virus; se così fosse
l'andamento dell'epidemia sarebbe
stato molto diverso. L'HIV non è
in grado di sopravvivere all'interno
dell'insetto, ed inoltre la zanzare
succhia il sangue, non lo inietta.
 Quadri clinici

Il decorso dell'infezione da HIV è caratterizzato da diverse fasi cliniche, la cui evoluzione è molto
variabile potendo essere influenzata da svariati fattori, primo fra tutti l'impiego di una adeguata terapia
antiretrovirale. Si possono schematicamente distinguere 3 distinte fasi cliniche, partendo dal momento
del contagio fino allo sviluppo della malattia conclamata, cioè l'AIDS.

Infezione acuta primaria

Viene così definita la fase iniziale dell'infezione, rappresentata dal periodo immediatamente successivo al
contagio. Nelle prime settimane di infezione gli anticorpi specifici contro l'HIV non si sono ancora
formati, per cui il test per la diagnosi di sieropositività risulta negativo. Nei casi di avvenuto contagio
solitamente il test diventa positivo dopo 2-3 mesi, ma ciò può accadere anche più tardivamente, per cui
di solito il test viene ripetuto anche a distanza di almeno 6 mesi dall'evento a rischio. L'intervallo di
tempo che va dal contagio alla positivizzazione del test viene definito "periodo finestra " (Figura 1),
mentre la comparsa degli anticorpi viene definita sieroconversione.
In questo periodo si osserva una elevata replicazione virale, durante la quale si ha la diffusione del virus
agli organi linfatici e quindi a tutto l'organismo; per tale motivo in questa fase il soggetto risulta
particolarmente infettante. La replicazione virale si riduce poi progressivamente in seguito alla
attivazione di una specifica risposta immunitaria.

Recenti studi hanno dimostrato come durante questa fase, fin dai primi giorni o addirittura dalle prime
ore successive all'infezione, avviene una "lotta" tra il virus ed il sistema immunitario, il cui esito andrà
ad influenzare la successiva evoluzione della malattia.

L'infezione acuta decorre spesso in modo del tutto asintomatico, anche se si stima che nel 50-90% dei
casi in realtà siano presenti dei sintomi clinici, che sono però il più delle volte aspecifici, per cui non
vengono messi in relazione con l'infezione da HIV; si possono infatti presentare dei quadri clinici simili
a quelli di una influenza o di una mononucleosi (malattia infettiva benigna provocata dal virus di
Epstein-Barr), caratterizzati da febbre, mal di gola, malessere generale, stanchezza, sudorazioni,
ingrossamento delle ghiandole linfatiche, e a volte vi può essere anche un esantema tipo orticarioide.
Nella Tabella 1 sono elencati i segni ed i sintomi più frequentemente osservati in corso di infezione
primaria da HIV. Più raramente, in alcuni pazienti si possono presentare dei quadri clinici più
importanti, come per esempio una meningite a liquor limpido o manifestazioni quali la candidosi orale.

La sintomatologia della infezione primaria da HIV, quando presenti, si manifestano mediamente dopo
2-6 settimane dopo il contagio, e normalmente si risolve spontaneamente in circa 15 giorni; in questa
fase si riscontrano i valori più elevati di HIV-RNA, e nella maggior parte dei casi gli anticorpi specifici
non si sono ancora formati, per cui il test per la diagnosi di sieropositività risulta ancora negativo. La
risoluzione dei sintomi coincide quindi con la riduzione della replicazione virale e con la formazione
degli anticorpi specifici anti-HIV.

Un precoce inquadramento di una infezione acuta da HIV può essere molto importante, in quanto è
dimostrato che se viene iniziata al più presto in questa fase la terapia antiretrovirale si ottengono ottime
risposte in termini di riduzione della carica virale e quindi della futura evoluzione dell'infezione.

Infezione asintomatica

L'infezione da HIV è caratterizzata da un lungo periodo di latenza clinica , durante il quale non si ha
alcun sintomo o segno di malattia. Durante questa fase la replicazione del virus nelle cellule del sangue è
assente o molto bassa, mentre invece si mantiene sempre attiva a livello delle ghiandole linfonodali.
Non si ha quindi una latenza biologica dell'infezione; infatti la persistenza di replicazione negli organi
linfoidi provoca una lenta ma graduale perdita di linfociti CD4+: ogni giorno circa il 5% dell'intero
comparto dei CD4+ viene distrutto dal virus, ma per lungo tempo le cellule eliminate vengono
rimpiazzate pressoché integralmente. Una persona sieropositiva in questa fase non può certamente
essere riconosciute come tale in base all'aspetto, come rappresentato da un poster di una campagna
pubblicitaria (Figura 2), e se non è a conoscenza del proprio stato può inconsapevolmente trasmettere
l'infezione ad altri.

La durata di questa fase è molto variabile, e può essere influenzata da vari fattori, tra i quali soprattutto
l'impiego di una terapia antiretrovirale. In assenza di trattamento la maggior parte dei pazienti evolve
verso la malattia in un periodo medio di circa 8-10 anni; una quota minore ha una evoluzione più
rapida, in circa 4-6 anni, mentre un 10-12% circa di soggetti sieropositivi hanno la tendenza a non
ammalarsi anche dopo 12 anni e oltre di infezione; questi ultimi vengono definiti long term non-
progressors (Figura 3). La spiegazione di questa lenta progressione potrebbe essere attribuita a fattori
genetici che influenzano la capacità del sistema immunitario di contrastare l'infezione virale.

Lo sviluppo di una sintomatologia clinica evolve parallelamente alla compromissione delle difese
immunitarie, evidenziate dal calo dei linfociti CD4+, e all'aumento della replicazione virale.
L'andamento di questi valori influenza in modo determinante il rischio di progressione dell'infezione
(Figura 4).

 Stato di Malattia

Complesso AIDS-correlato (ARC)

Questa fase, la cui definizione clinica è in realtà caduta in disuso, compare quando vi è un calo
consistente delle difese immunitarie, ed è caratterizzata da vari sintomi clinici e da determinate
alterazioni degli esami di laboratorio, come riassunto nella Tabella 2. Identificano il quadro di ARC
anche alcune cosiddette infezioni opportunistiche minori, quali:

- Candidosi orale o oro-faringea


- Leucoplachia orale villosa
- Herpes-Zoster multidermatomerico
- Condilomatosi genitale

La fase di ARC, se non si interviene con la terapia antiretrovirale, può precedere la fase della malattia
conclamata.

AIDS
Col progredire del danno al sistema immunitario, evidenziato dalla marcata riduzione dei linfociti
CD4+, l'organismo viene esposto al rischio di sviluppare determinate patologie, di tipo infettivo e
neoplastico, definite opportunistiche. Le infezioni opportunistiche sono provocate da microrganismi
abitualmente presenti nell'ambiente, che non sono patogeni per soggetti con integrità delle difese
immunitarie ma che possono provocare malattie anche gravi in pazienti che abbiano una situazione di
immunodeficienza. Si considera che il rischio di sviluppare queste infezioni sia presente quando i
linfociti CD4+ sono inferiori ai 200/mmc, mentre è molto elevato per valori inferiori a 100/mmc.
La fase di malattia conclamata, definita con il termine di AIDS (Sindrome da ImmunoDeficienza
Acquisita), inizia proprio quando compare una di queste patologie. Nella Tabella 3 viene riportato
l'elenco di queste infezioni.

Prima della disponibilità dei nuovi farmaci antiretrovirali (quindi prima del 1996 in Italia) la
sopravvivenza media di un paziente sieropositivo dal momento della diagnosi di AIDS era di circa 10-
12 mesi. Negli ultimi anni invece, grazie alle nuove possibilità terapeutiche la prognosi è radicalmente
cambiata, con un miglioramento oltre che della durata anche della qualità della vita (Figura 5; vedi
anche Epidemiologia-Figura 11). Uno studio dell'EuroSIDA Study Group, pubblicato sulla rivista
Lancet (1), ha analizzato i cambiamenti che si sono osservati nella presentazione clinica delle patologie
AIDS-correlate dopo l'introduzione della terapia HAART: l'incidenza di nuove infezioni
opportunistiche maggiori, misurata in tasso per 100 anni-paziente, è passata dal 30.7% del 1994 al
2.5% del 1998.
Negli Stati Uniti, la mortalità per AIDS si è ridotta del 60% dal 1995 al 1998, passando dal 1° al 5°
posto tra le cause di decesso nella popolazione adulta.

 Epidemiologia

L'HIV nel Mondo

L'HIV è in continua diffusione in tutto il mondo, espandendosi rapidamente in aree geografiche fino a
pochi anni fa relativamente risparmiate dall'epidemia, e rafforzando la sua presenza nei Paesi dove
l'AIDS è già la principale causa di morte nelle persone di età compresa tra i 20 ed i 50 anni, e dove
l'aspettativa di vita della popolazione adulta si è ridotta di quasi 10 anni.
Le ultime stime dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dell'UNAIDS (United Nations
Programme on HIV/AIDS) (1) riportano che alla fine del 2004 in tutto il mondo circa 39.4 milioni di
persone (range 35.9 - 44.3 milioni) vivono con l'infezione da HIV; di queste 2,2 milioni sono bambini.
A causa dell'AIDS oltre 25 milioni di persone risultano già decedute (Figura 1; NB: dal frame della
figura è possibile evidenziare ulteriori dettagli sulla epidemiologia delle singole aree geografiche).
Solo nel corso dell'anno 2004 i nuovi contagi stimati sono stati circa 4.9 milioni (4,3 - 6,4), cioè quasi
14.000 al giorno, dei quali circa 640.000 sono bambini (Figura 2); i decessi sono stati circa 3,1 milioni
(2,8 - 3,5), dei quali circa il 50% costituito da persone di sesso femminile (Figura 3).
La grande maggioranza di queste infezioni è localizzata nel Paesi in via di sviluppo: continua a crescere il
numero di persone affette dall'infezione da HIV nell'Africa Sub-Sahariana, ed in particolare in Sud
Africa, dove è registrata la prevalenza più elevata; l'epidemia è inoltre in continua espansione in Asia e
nell'Europa dell'Est, dove il numero di nuove infezioni aumenta notevolmente di anno in anno.

Fig. 1 Numero di persone viventi con HIV/AIDS stimato alla fine del 2004.

E' evidente come la stragrande maggioranza dei casi sia situato nell'Africa sub-Sahariana e nel Sud-Est
asiatico.
Fig. 2 Stime dell'OMS: nuove infezioni da HIV nel solo anno 2004.
Fig. 3 Stime dell'OMS: decessi per AIDS nel solo anno 2004.
L'HIV in Italia

Al 30 Giugno 2004 in Italia sono stati notificati 53.686 casi di AIDS (2). Di questi, il 77,7% erano di
sesso maschile, e l'età mediana della diagnosi (calcolata solo per gli adulti) era di 34 anni per i maschi e
di 32 anni per le femmine. Si stima invece che in Italia vi siano circa 110-130.000 persone sieropositive.
Il nostro Paese è al terzo posto in Europa come numero di casi, dopo Spagna e Francia (Figura 4).
A partire dalla seconda metà del 1996, verosimilmente grazie alla disponibilità di nuovi farmaci per la
terapia dell'infezione da HIV, si è osservata una progressiva riduzione del numero di nuovi casi; tale
decremento è continuato fino al 2001, mentre dal 2002 sembra esserci una fase di stazionarietà. Nel
grafico della Figura 5 è riportata la distribuzione annuale dei casi di AIDS e dei decessi correlati. In
totale risultano deceduti 34.179 pazienti, il che corrisponde ad un tasso di letalità del 64%; questo
numero potrebbe però essere sottostimato, dato che la notifica di decesso non è ancora obbligatoria.
In Italia la regione più colpita è la Lombardia, con 16.179 casi notificati alla metà del 2004, seguita da
Lazio e da Emilia-Romagna; Brescia è la terza città d'Italia dopo Milano e Roma come numero di casi
notificati (Figura 6). La Figura 7 mostra i tassi di incidenza per regione di residenza, calcolati in base ai
soli casi segnalati nel corso dell'ultimo anno; è evidente la differenza di incidenza tra le diverse regioni
del Nord e del sud d'Italia.

La maggior parte dei casi complessivi di AIDS in adulti (il 58%) interessa soggetti tossicodipendenti,
ma l'andamento nel tempo mostra un netto incremento dei casi attribuibili a trasmissione eterosessuale:
dall'11,8% nel periodo '82-'94 fino al 39,6% nel primo semestre 2004 (Figura 8); altro dato
importante è rappresentato dal fatto che questi casi interessano prevalentemente il sesso femminile:
infatti il 40.1% delle femmine con AIDS hanno acquisito l'infezione per via eterosessuale, contro il
14% dei maschi (Figura 9). Per quanto riguarda l'età, nella fascia d'età compresa tra i 25 ed i 39 anni si
concentra il 70,1% del totale dei casi di AIDS (Figura 10), ma è aumentata la percentuale di casi nella
fascia 30-35 anni.
Così come si è ridotto il numero dei nuovi casi di AIDS, a partire dal 1996 si è osservata anche una
drastica diminuzione del numero dei decessi correlati all'AIDS, come già evidenziato nella Figura 5. La
Figura 11 mostra le curve di sopravvivenza dei casi di AIDS, che evidenziano chiaramente l'aumento
della sopravvivenza di tutti i casi diagnosticati a partire dal 1996.
Fig. 4 Casi di AIDS notificati in Europa al 31 ottobre 2001.
Fig. 5 Distribuzione annuale dei casi di AIDS (corretti per ritardo di notifica) e dei decessi al 30
Giugno 2004. Risulta evidente il drastico calo sia dei casi che dei decessi dopo il 1996.

Fig. 6 Casi di AIDS notificati in Italia al 30 Giugno 2004 (COA).


 Diagnosi
Test Anticorpali

Per l'identificazione dell'infezione da HIV sono disponibili varie metodiche, basate sulla identificazione
degli anticorpi prodotti dal sistema immunitario contro l'HIV (metodiche sierologiche) oppure sulla
ricerca di antigeni e molecole del virus stesso (metodiche virologiche).
Ai fini della diagnosi di infezione attualmente vengono utilizzati il test ELISA ed il test Western-Blot:

Test ImmunoEnzimatico (ELISA)

E' la metodica utilizzata per il test di screening, in quanto di facile esecuzione e di costo limitato.
Questo test ricerca gli anticorpi prodotti contro alcuni antigeni virali, in particolare gp 41 e gp120, che
dopo una prima infezione restano nell'organismo per tutta la vita. Il test ha una sensibilità di oltre il
95%, ma in alcuni casi si possono avere delle risposte errate:
- falsi positivi: il test risulta positivo in assenza di infezione. Può succedere in persone con malattie che
alterano la funzione del sistema immunitario portando alla produzione di anticorpi anomali (es:
leucemie, linfomi, malattie autoimmuni, gravi epatopatie, ecc.);

- falsi negativi: il test risulta negativo anche se l'infezione è presente. Può succedere in persone che si
sono infettate molto recentemente, ma nelle quali non si sono ancora formati gli anticorpi che
reagiscono con il test; questo avviene solitamente nelle prime settimane (o mesi) dopo il contagio, e
questo intervallo di tempo prende il nome di periodo finestra (vedi Quadri clinici).
Per questi motivi un test negativo va sempre ripetuto fino ad almeno 6 mesi dopo un evento a rischio di
contagio, ed un test positivo richiede sempre l'esecuzione di un altro test di conferma.

Western Blot (WB)

E' un test dotato di maggiore specificità e sensibilità, utilizzato per confermare la positività di un test
ELISA. Questa metodica permette di evidenziare la presenza di anticorpi diretti contro le maggiori
proteine virali: il test viene definito positivo quando sono presenti almeno 2 degli anticorpi principali;
se il test risulta dubbio o indeterminato va ripetuto dopo alcuni mesi. Nella Figura 1 è schematizzato
l'algoritmo diagnostico impiegato per la diagnosi di infezione da HIV.
Fig. 1 Algoritmo per la diagnosi di infezione da HIV

Test Virologici

Vi sono poi metodiche basate sulla ricerca di antigeni o componenti virali, che vengono solitamente
utilizzate non a fini diagnostici ma per il monitoraggio dell'andamento dell'infezione, in particolare in
corso di terapia antiretrovirale:

- Carica Virale (HIV-RNA): consente di ricercare molecole di RNA virale, la cui quantità nel sangue è
direttamente proporzionale al grado di attività replicativa del virus. La viremia viene espressa in numero
di copie di HIV-RNA per ml; ci sono vari tipi di test che possono essere utilizzati per la determinazione
della viremia:

- Q-PCR (Quantitative Polymerase Chain Reaction): noto con il nome di Amplicore Monitor Test
(Roche), è la metodica più diffusa, ed ha un range di sensibilità tra 300 e 1.000.000 di copie; è stato
inoltre sviluppato, sempre dalla Roche, un test definito UltraSensitive, in quanto arriva a misurare fino a
20 copie/ml;
- bDNA (branched-chain DNA): sviluppato dalla Chiron, ha una sensibilità che varia dalle 50 alle
500.000 copie;

- NASBA (Nucleid Acid Sequence-Based Amplification): sviluppato dalla Organon Teknika, è il test
solitamente meno utilizzato, ed ha una soglia inferiore di 80 copie.
Nella pratica clinica questo test viene oggi impiegato principalmente per due scopi: la stadiazione
dell'infezione ed il monitoraggio della risposta alla terapia antiretrovirale. Viene anche utilizzato per la
diagnosi precoce di infezione in particolari situazioni, quali le esposizioni accidentali negli operatori
sanitari e la trasmissione materno-fetale.

- Antigenemia p24: la proteina p24 è un antigene del core virale, e la sua presenza nel sangue indica
uno stato di attiva replicazione del virus. La positività dell'antigenemia p24 è più frequente nel periodo
successivo al contagio e nelle fasi più avanzate della malattia. Questo test attualmente non viene più
eseguito, in quanto superato per sensibilità dalla ricerca dell'RNA virale.

- Isolamento virale: è la metodica più importante per dimostrare la presenza di una infezione virale,
ma nella pratica clinica non viene utilizzata a causa del costo elevato e delle difficoltà operative che
richiedono la presenza di un laboratorio molto specializzato. L'isolamento virale oggi viene impiegato
essenzialmente a fini di ricerca.
Bibliografia
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TRASMISSIONE

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3. Gray RH, Wawer MJ, Brookmeyer R, et al. Probability of HIV-1 transmission per coital act in
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EPIDEMIOLOGIA

1. AIDS Epidemic Update, December 2004. UNAIDS - WHO


2. Aggiornamento dei casi di AIDS notificati in Italia al 30 Giugno 2004. Notiziario del COA
(Centro Cooperativo AIDS), Istituto Superiore di Sanità.

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