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Che Cosa La Psichiatria - Franco Basaglia
Che Cosa La Psichiatria - Franco Basaglia
Note.
PREFAZIONE.
Parole allora nuove nel mondo oscuro dove la follia stava rinchiusa,
mondo soprattutto di miseria, violenza e soprusi, dove il potere del
medico su uomini di scarto, condannati senza colpa, era assoluto; la
delega degli amministratori ai tecnici totale, la sentenza della
scienza psichiatrica senza appello. Quindi nessun controllo su
quanto accadeva oltre quelle mura e, comunque, qualunque cosa vi
accadesse era giustificata dalla malattia.
Ciò che si era capito fin dall’inizio era, comunque, l’uso di questi
istituti come contenitori di problemi sanitari che spesso erano
soprattutto problemi di disturbo o di svantaggio sociali. In manicomio
finivano solo i poveri, perché chi aveva e ha la possibilità di far fronte
sia economicamente che culturalmente ai propri problemi aveva e ha
sempre altre strade che ne condizionano positivamente il destino. Il
servizio pubblico deve quindi farsi carico ora anche dei problemi
sociali, fusi e confusi con la malattia, che prima della riforma si
potevano facilmente accantonare in luoghi dove - sotto l’apparenza
della «cura» - venivano nascosti ed eliminati.
Questo è il senso di quanto è stato fatto fin dai primi anni ‘60,
richiedendo che la psichiatria tradizionale discutesse su se stessa,
sui propri paradigmi, sul proprio sistema di giudizio e di intervento
dal momento che la presa in carico globale della persona sofferente
modifica anche il quadro della patologia psichiatrica classica.
Ciò non significa che questo problema diventi - come troppo spesso
è accaduto in questi anni di vergognosa latitanza governativa e
amministrativa con conseguente assenza di servizi - compito e
responsabilità esclusivi della famiglia. Ma vuole significare che se la
famiglia è coinvolta dal servizio ai diversi livelli di necessità, malati e
familiari, insieme con operatori e amministratori, diventano allo
stesso titolo soggetti di un processo di cura e di emancipazione che
passa anche attraverso un’assunzione di responsabilità reciproca e
un profondo cambio culturale e sociale. Si tratta dunque di un
diverso concetto di tutela che non si appropria delle persone, che
non imprigiona i corpi, ma tende a un processo di liberazione
contemporaneo sia per il tutore che per il tutelato.
I problemi sono dunque aperti. Dal momento che i cittadini hanno via
via acquisito una sempre più forte consapevolezza del diritto alla
tutela della salute, l’incontro e la verifica delle diverse discipline con
la pratica sociale non è rimasto soltanto un incontro o una
contaminazione delle discipline con le disuguaglianze, ma è
diventato un incontro/scontro con il problema dei diritti con cui ora
anche le discipline dovrebbero misurarsi. E’ dunque un problema
politico rispetto a diritti riconosciuti e negati, che riguarda però anche
i modelli operativi e i corpi professionali che dovrebbero rispondervi.
ANDRE’ BRETON
Di fronte ad una tale verifica della realtà non si può dunque esimerci
dal domandare che cosa sia la psichiatria e quale sia il suo campo
d’indagine. Se cioè si occupi del malato mentale o, limitando il suo
contributo ad una elaborazione puramente ideologica, si interessi
solo delle sindromi in cui lo rinchiude; e, qualora riconosca nel
malato mentale l’oggetto della sua indagine, quale sia la sua
giustificazione nel momento in cui se ne esaminino i risultati:
l’istituzionalizzato dei nostri ricoveri. Ci si domanda insomma se i
fatti “insignificanti” che spesso fanno crollare interi sistemi teorici (nel
nostro caso i malati che vegetano negli asili) non siano da troppo
tempo entrati in conflitto con la teoria cui la psichiatria si appella, e
se non sia il caso che la teoria ceda il passo, per lasciar parlare i
fatti. E’ questo che si domanda un gruppo di malati mentali, medici,
infermieri, psicologi ed amministratori, impegnati tutti nel campo
dell’istituzione psichiatrica. Domanda che nasce dal disagio reale,
vissuto a tutti i livelli, nel momento in cui si mette in discussione la
validità, e l’arbitrarietà insieme, del rapporto autoritario-gerarchico su
cui l’intera vita asilare tradizionalmente si fonda.
Ma, come per Sartre il ruolo della letteratura nella lotta contro la
fame è secondario, perché «per lottare contro la fame bisogna
cambiare il sistema politico ed economico», così nel nostro campo,
per lottare contro i risultati di una scienza ideologica, bisogna anche
lottare per cambiare il sistema che la sostiene. Se, infatti, la
psichiatria - attraverso la conferma scientifica dell’incomprensibilità
dei sintomi - ha giocato la sua parte nel processo di esclusione del
«malato mentale», essa è da considerarsi, insieme, l’espressione di
un sistema che ha finora creduto di negare ed annullare le proprie
contraddizioni allontanandole da sé, rifiutandone la dialettica nel
tentativo di riconoscersi ideologicamente come una società senza
contraddizioni; così come proverà ora ad ammorbidirne le asperità,
cercando di riassorbirle nel suo stesso seno attraverso una
“psichiatria di propaganda” (che è appunto la letteratura di
propaganda di cui parlava Sartre nella sua intervista) che viene
proposta come nuova alternativa.
LA LIBERTA’ COMUNITARIA
La libertà comunitaria come
alternativa alla regressione
istituzionale
di Franco Basaglia.
Ciò presuppone però il mutamento radicale del rapporto che non può
essere improntato che all’autentico rispetto reciproco. Vivere
dialetticamente le contraddizioni del reale è dunque l’aspetto
terapeutico del nostro lavoro. Se tali contraddizioni - anziché essere
ignorate o programmaticamente allontanate nel tentativo di creare
un mondo ideale - vengono affrontate dialetticamente, se le
prevaricazioni degli uni sugli altri e la tecnica del capro espiatorio -
anziché essere accettate come inevitabili - vengono dialetticamente
discusse, così da permettere di comprenderne le dinamiche interne,
allora la comunità diventa terapeutica. Ma la dialettica esiste solo
quando ci sia più di una possibilità, cioè un’alternativa. Se il malato
non ha alternative, se la sua vita gli si presenta già prestabilita,
organizzata e la sua partecipazione personale consiste nell’adesione
all’ordine, senza possibilità di scampo, si troverà imprigionato nel
terreno psichiatrico, così come si sentiva imprigionato nel mondo
esterno di cui non riusciva ad affrontare dialetticamente le
contraddizioni. Come la realtà che non riusciva a contestare, l’istituto
cui non può opporsi non gli lascia che un unico scampo: la fuga nella
produzione psicotica, il rifugio nel delirio dove non c’è né
contraddizione né dialettica.
Il problema del malato mentale che si pone “ora” in contatto con una
situazione terapeutica istituzionale è, naturalmente, del tutto diverso.
Egli si presenta, infatti, con un ruolo ben preciso nei confronti della
malattia di cui soffre, ruolo che consiste nel suo impegno a vincere
l’ansia attraverso la produttività psicotica. Un tale ruolo attivo
(benché si tratti di attività psicotica) diminuisce o cessa all’ingresso
nell’istituto dove, abitualmente, o il livello di iperprotezione (leggi
misure di sicurezza più idonee a garantire l’assoluta impossibilità di
agire del ricoverato); o il rapporto individuale con il medico su un
piano paternalistico, fuori della realtà; o la mancanza di protezioni
evidenti del clima comunitario, provocano un ulteriore stato di
regressione, immediatamente successivo all’ingresso.
BIZZI Sì, nel nostro istituto c’è una netta separazione tra reparti
femminili e reparti maschili. Non c’è una comunicabilità; è fatta
eccezione soltanto in casi rari dell’anno, quando ci sono feste
danzanti o una festa alla quale partecipano ospiti di altri istituti.
Ultimamente nel nostro istituto di Colorno abbiamo fatto un incontro
con degenti di Reggio Emilia, di Piacenza, di Mantova e questa festa
si è svolta nel parco; festa danzante, gare sportive, pranzo all’aperto
e allora, soltanto in quella occasione, gli ammalati e le ammalate
potevano essere a contatto, discutere, chiacchierare anche con le
altre degenti degli altri istituti; comunque nel nostro Istituto c’è una
netta differenza.
BIZZI Qui c’è la nostra collega che può dare chiarimenti in merito.
Ora questo è vero fino ad un certo punto, e per molti aspetti non è
vero per niente; il reparto chiuso esiste, però tende ad essere chiuso
anche nel senso che non ci vanno degli altri ammalati. Questo è uno
sforzo notevole che sta facendo l’ospedale, sforzo che l’ospedale
deve fare, se vuole in qualche modo risolvere il grosso problema che
è il reparto chiuso. Da tre mesi circa si è deciso di non inviare nel
reparto chiuso altri pazienti e, viceversa, si tende a mandar fuori dal
reparto chiuso tutti i pazienti che possono stare altrove, un po’ alla
volta, e si è dimostrato che sono sempre di più di quanto si pensi,
tanto è vero che tre mesi fa nel reparto chiuso i pazienti erano
centouno, e oggi sono settantasette. Ora, per quanto riguarda i tipi di
terapia che sono applicati nel reparto chiuso, vi è da dire questo: per
il solo fatto che il reparto è chiuso il tipo di terapia purtroppo diventa
un po’ diverso; questo non perché necessariamente per i tipi di
pazienti che vi abitano non si possa fare altro, ma solo perché il
reparto è chiuso.
BIANCHI Io vorrei che lei fosse più chiaro su quanto ha detto prima,
cioè che si faccia una puntura e che il paziente dorma; io non ho mai
saputo che qui dentro esista un metodo tale; si tratta una bestia così,
almeno così la vedo io…
Qui noi abbiamo infermieri anziani che sono stati preparati già prima,
hanno dato una buona collaborazione per questo ospedale così
aperto in quanto noi… dovrei rifarmi indietro un po’, al fine di
spiegare meglio. Quando noi abbiamo aperto questo ospedale si
facevano le ventiquattr’ore, quando poi è stato fatto il turno delle otto
ore sono stati assunti circa venti infermieri, sono stati chiamati dei
giovani preparati con un corso svolto nell’ospedale. Aprendo questo
ospedale il direttore quando ha voluto aprire i reparti, ha trovato un
terreno buono sul personale anziano, c’era una certa collaborazione;
comunque la responsabilità se la è presa il direttore e noi dobbiamo
dire che è andata bene. Nel primo momento in cui è stato aperto
l’ospedale il direttore ha fatto delle riunioni prima coi capi reparto poi
con gli infermieri, poi ha chiesto anche i pareri e il primo reparto
aperto è stato quello dei lavoratori dove c’erano già pazienti che
uscivano dal reparto per andare a lavorare. Poi ha fatto l’esperienza
di aprire quel reparto cosiddetto terapeutico: ha preso dei gruppi di
ammalati che erano in altri reparti e li ha messi là ed il reparto è
stato aperto con cinquantasei posti e due infermieri per turno.
Situazione che è rimasta tuttora invariata. La domanda era questa:
se gli infermieri sono sempre quegli infermieri. Sì, quelli di cui si
parlava prima ad esempio sono sempre quelli; non è che siano due
infermieri tutti i giorni, in sostanza sì, però uno dei due è sempre
fuori ad accompagnare i malati, ne resta uno solo. In certi momenti il
reparto resta sprovvisto di personale e può capitare di telefonare nel
reparto e chi viene a rispondere può essere un ammalato. Con
questo però vi dico che il reparto va bene.
Per rispondere ancora sempre a quella domanda dirò che nel
reparto chiuso, ad esempio, abbiamo circa diciotto infermieri e sono
sempre gli stessi che si alternano. Può capitare che alcuni di questi
vadano in altri reparti, ma solo in caso di sostituzione temporanea.
Tutto il personale qui è stato preparato appositamente per questo
genere di ospedale aperto. Non vi diciamo, cercate di aprire anche i
vostri. Mi permetta di dire, signor direttore, che forse noi ci siamo
spinti anche un po’ troppo in là, ma siccome il nostro direttore è un
pioniere, per questo credo che si tiri avanti. Non per fare un elogio al
nostro direttore, ma bisogna che siano direttori come il professor
Basaglia per fare una cosa di questo genere.
PECORARI Sì, intendiamo tutto questo. Anzi io devo dire che con
questo genere di ospedale invece di invogliare gli ammalati ad uscire
li si invoglia a restare dentro, perché qui si sta bene, perché qui
nessun ammalato è costretto a fare questo e quell’altro; qui sono
liberi.
PECORARI Otto anni fa è stata fatta una muraglia; prima era una
siepe.
BOCCHI Direi che l’ideale quindi che scaturisce da questo è che alla
partecipazione della vita della comunità viene inserita la stessa
amministrazione, la stessa Giunta, sempreché questa abbia la
stessa ansia nell’accettare, nel respingere, discutere, approvare o
meno che hanno i componenti della comunità. Questo mi sembra
veramente l’ideale come amministratore, non solo come
amministratore ma come uomo, che si può dare alla vita di un
particolare settore della società nostra quale questo.
La domanda quindi che credo rivolta particolarmente ai medici è
questa: quale peso, in quale misura questo è proporzionato alla cura
generale del paziente ricoverato? cioè quale contributo dà questo
modo di vita, di elaborazione delle norme di vita della partecipazione
alla comunità così collegiale da parte di tutti nel ristabilire un tenore
di vita sano, migliore nei pazienti? Quale peso terapeutico ha questo
nei confronti delle altre cure che qui sono state un po’ a proposito e
forse a sproposito accennate in qualche domanda e in qualche
risposta precedente?
BALDASSI Io penso che quel medico non sia uno psichiatra. Anche
qui a Gorizia forse c’è qualcuno, sempre medico, che la pensa come
il suo amico, che ritiene cioè non sia una cosa buona il metodo usato
qui perché ritiene sia un albergo. Ma che cosa intende quel suo
amico per albergo? Io penso che gli ammalati, piuttosto che farli
vivere in un manicomio, sia meglio farli vivere in un albergo, dal
momento che in un albergo si può stare meglio, si può girare, si
possono fare cose che in un manicomio tradizionale non si possono
fare. Io preferisco vedere gli ammalati sguinzagliati piuttosto che in
contenzione, in celle. Dal momento che devono rimanere in
ospedale, penso che sia molto meglio farli vivere così, all’aperto,
amici con noi, vivere una vita comunitaria, cioè come ha detto il
direttore, di tendere ad un livellamento tra medici, direttore,
infermieri, pazienti.
BASAGLIA Intanto vorrei chiedere: che cosa intende per quelli che
capiscono di più e quelli che capiscono di meno?
Per lei la dinamica della nostra riunione è questa: ci sono dei malati
più furbi che capiscono, dei malati meno furbi che non capiscono,
quindi i furbi riescono ad avere la meglio.
PIRELLA Vorrei dire una cosa che si riallaccia sia a quanto detto
dall’infermiera Gerometta sia anche a questa ultima osservazione
fatta dal vicepresidente della Provincia di Parma, e cioè anzitutto che
l’osservazione dell’infermiera è stata fatta ora in una riunione in cui si
discute della validità della situazione comunitaria, e in un certo
senso investe la situazione comunitaria con una critica di fondo.
Ritengo che la signorina Gerometta possa fare, nel corso delle
assemblee generali, un intervento che moderi o critichi quello che a
lei è parso un difetto. Se lei, o qualche altro, ha colto questo
inconveniente, questo difetto di fondo, può benissimo intervenire,
ogni volta che abbia notato un eventuale atteggiamento di
oppressione di degenti su altri degenti. Un intervento che valga a
riportare il rapporto su un piano di realtà può limitare eventuali danni
che potessero derivare da una prevaricazione, da una oppressione.
Per quello che riguarda le elezioni direi che non c’è stata una
prevaricazione di qualcuno: c’è stata semplicemente una elezione in
reparti chiusi, ovviamente scarsamente comunitari o meno
comunitari di quelli aperti, e popolati da degenti meno capaci di
esprimere in modo autonomo la loro opinione. In un primo tempo le
elezioni erano state fatte in una maniera che è stata poi ritenuta non
valida perché non segreta.
PIRELLA Vorrei dire una cosa che credo possa essere utile: noi
abbiamo notato una modificazione importante nell’atteggiamento dei
pazienti in generale, ma degli alcoolisti in particolare verso l’istituto
dalle prime degenze alle successive. Ad esempio un alcoolista che
ha bisogno di più degenze in ospedale per eventuali ricadute
successive ad un primo periodo di degenza nella nostra comunità e
particolarmente nel reparto comunitario degli alcoolisti, ha un
atteggiamento verso l’istituzione che non aveva la prima volta, entra
spontaneamente ad esempio, si presenta spontaneamente in
ospedale o addirittura in reparto perché riconosce di essere ricaduto.
In generale l’atteggiamento del paziente verso l’istituto viene
significativamente modificato dalla situazione comunitaria, non è un
atteggiamento di paura, non è un atteggiamento di rifiuto ad essere
accolto, ma è un atteggiamento di richiesta di essere accolto. Non si
può dire, come è stato detto, che i pazienti non vogliano tornare a
casa e stiano volentieri qua, questo non mi risulta, però si può dire
che i pazienti quando si rendono conto in qualche modo di aver
bisogno di ritornare, non fanno drammi e si presentano
spontaneamente o comunque accettano l’invito ad essere ricoverati.
Questo direi che è una cosa molto significativa della nostra struttura
ospedaliera che facilita ovviamente di molto, a questo riguardo, sia il
compito dei medici, degli infermieri, sia il rapporto tra gli stessi e i
degenti.
Il signor Pecorari qui ha detto che gli infermieri sono sempre gli
stessi nei propri reparti; ecco, questa è la risposta che volevo dire a
lei, il cambio è limitato, perché essendo sempre gli stessi infermieri il
cambio da un reparto all’altro è limitatissimo. Il dire, come ha detto il
nostro capo infermiere, che questi infermieri che vengono messi nei
vari reparti sono specializzati è una cosa assurda, perché tutti gli
infermieri, sia i giovani che i vecchi hanno un titolo di studio di
licenza media normalmente, poi fanno il corso nell’ospedale stesso,
quindi la cultura infermieristica è sempre la stessa per tutti. Varia
certamente se uno per conto suo studia, si approfondisce, quindi la
specializzazione da un reparto all’altro non esiste. Siccome si è
iniziata l’apertura dei reparti gradualmente, è logico che sono andati
quei dati tipi di infermieri per cui in verità specializzazione non ne
esiste.
Queste riunioni secondo me sono molto utili, almeno dal mio punto
di vista, perché mentre il medico o l’assistente sociale possono dare
dei consigli che sono sì ad un livello tecnico ma sono anche umani, il
paziente che porta un problema da discutere può anche lui dare dei
consigli sperimentati. Questo per quanto mi riguarda.
Volevo poi dire che durante queste riunioni di gruppo, riunioni che si
sono sviluppate in questi ultimi tempi, si evita «la grossa ricaduta» di
qualche paziente, perché quando questi viene all’igiene mentale si
nota che è alterato o che non sta bene o che ci sono dei gravi fattori
sociali che lo rendono ansioso e possono aggravare il suo stato di
salute. Lo si consiglia quindi di ricoverarsi, parlandone, evitando così
i ricoveri drammatici.
BASAGLIA Vorrei rispondere all’amico dell’assessore Tommasini il
quale temeva che la comunità terapeutica fosse un mondo chiuso in
sé che al massimo può diventare un bell’albergo o un pensionato.
COMUNITA’ 1.
68 degenti
8 infermieri
5 monitori
4 assistenti sociali
1 psicologo
5 medici
1.
COMMENTO 1.
2.
3.
SIGNOR LUCCHI Io non voglio che sia levata la paga a chi ha 500
lire, quello non si deve toccare.
4.
DANIELI No, quello era il calcolo del signor Milani, quella era una
proposta da rivedere e da eventualmente accettare in parte.
5.
7.
8.
9.
10.
SIGNOR CIANI Non sono tutti che hanno sempre 150 lire, hanno
300 anche 400, e non lavorano.
11.
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13.
15.
16.
17.
18.
19.
20.
22.
23.
LUCCHI Ma è più lavoro in cucina che non nei reparti, perché nei
reparti ci sono più persone che aiutano.
24.
25.
26.
27.
28.
ORZAN Lei non stia a pensare, io nei vostri affari non m’intrigo, ve
l’ho già detto.
29.
BASAGLIA Venga qui lei, venga, ci spieghi, cosa deve dire lei
riguardo al lavoro?
30.
ORZAN Lui dice che cosa, dice che la paga è la metà, ma l’anno
scorso ho dovuto fare andare avanti da solo la caldaia, e chi mi
paga?
31.
32.
33.
34.
35.
36.
VOCE E’ andato via.
37.
38.
39.
40.
41.
42.
43.
COMMENTO 2.
44.
45.
47.
48.
DANIELI Eh già, chi non lavora non prende, chi non lavora non
guadagna, questa è una legge economica che vale per tutti, chi non
lavora non guadagna, chi non guadagna non mangia, ma questo
ammalato mangia lo stesso anche se è ammalato.
49.
50.
PEGORARI E dopo?
51.
52.
53
55.
DANIELI Sì, per la pensione di invalidità, uno che non può lavorare
non fa altro che prendere la Cassa malati per sei mesi che gli spetta
e poi fa una domanda di pensione d’invalidità per inabilità. La società
per lo meno civile ci dice così.
COMMENTO 3.
56.
57.
58.
59.
MEDEOT Eh già chi ha 1000 lire non vuol mica avere 500, no.
60.
DANIELI Perché tra chi ha 1500-1300 lire e quelli che hanno 250 il
dislivello è enorme, in sé è poca cosa, ma il dislivello è enorme, se si
pensa a quelli che hanno 150 lire di paga e quelli che hanno 1400
lire, come il signor Ciani. Allora attualmente livellando le paghe si
arriverebbe a prendere 380 lire a testa, da diminuire poi per ricavare
quelle 500 mila lire.
61.
62.
DANIELI Eh, ma quello che prende 1300 non è disposto a perdere
810 lire.
63.
64.
65.
SLAVICH Può dire anche: io lavoro, tu non lavori e prendi come me!
66.
68.
69.
70.
71.
CIANI Perché non vai a lavorare anche tu, non occorre che vai…
72.
DANIELI Io lavoro già per conto mio, basta, basta. Non si è qui per
discutere di queste cose, si è qui per discutere di un preciso
argomento, argomento paghe, quindi gli altri discorsi sono da
scartare. Il percento dovrebbe rimanere fisso, il 20% per esempio,
da 500 lire in poi. Se non si coprono le spese soltanto levando dalle
500 in poi, bisognerebbe levare dalle 300 in poi; ma il signor Lucchi
è contrario di levare dalle 300, e allora noi facciamo dalle 500 in poi.
Il rimanente, la somma che manca, viene presa riducendo le paghe
da chi non lavora.
73.
SLAVICH Però quelli con la paga tanto alta sono anche quelli che
lavorano di più.
74.
75.
76.
77.
78.
79.
80.
81.
BASAGLIA Giusto, signor Lucchi, è inutile aumentare il lavoro se
dopo non viene riconosciuto.
82.
83.
84.
COMMENTO 4.
85.
86.
87.
BASSANI Certo.
88.
89.
BASAGLIA Lei dice che nella vita esterna la realtà è il lavoro, non è
il tagliar la carta; e allora cosa dobbiamo pensare del tagliare la carta
nei confronti del lavoro in ospedale?
90.
91.
92.
93.
CIANI Come?
94.
95.
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97.
98.
99.
DANIELI No, i forti, c’è una lieve differenza fra la parola «forte». I
forti normalmente non sono tanto forti da sopportare un lavoro
esterno, sono deboli in fondo, ma sono i forti tra i deboli. Sono forti
tra i deboli, sono cioè meno deboli direi.
100.
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DANIELI E’ una attività imposta sì, perché loro non hanno una
volontà da imporre.
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110.
111.
PEGORARI Sì è vero, più deboli sono, tanto più lavorano per niente,
esatto.
112.
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114
BASAGLIA E i forti?
115.
116.
BASAGLIA Chi lavora per hobby e chi lavora per necessità? Chi fa
ad esempio la musicoterapia, chi lavora la creta, chi taglia la carta,
per questi il lavoro è un hobby?
117.
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120.
121.
122.
CIANI Io credo che tanti non andrebbero più a lavorare se non
prendessero niente.
123.
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125.
126.
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129.
130.
LUCCHI No.
131.
BASAGLIA Perché è un lavoro imposto; il lavoro scelto, il lavoro dei
servizi generali, invece, dà un utile alla collettività?
132.
COMMENTO 5.
133.
134.
135.
136.
137.
LUCCHI Per mantenere la pace, ma adesso incomincia lo sfogo di
nuovo!
138.
SLAVICH Non è che si siano fatti tanti lussi, però. Perché quando le
paghe erano di 50 lire si faceva presto ad aumentare, perché se
anche diventavano 100 o 200 era sempre molto poco.
139.
140.
141.
142.
143.
144.
MASSI Noi non possiamo dire che queste sono paghe, sono dei
compensi e tali compensi non vanno diminuiti.
COMMENTO 6.
145.
BASSANI Sì, però ci sono 6 milioni che servono per gli operai, per
gli ammalati; ecco, sono sempre con quei soldi che si deve pagare.
Come dobbiamo dire che non è un lavoro: è un lavoro. Perché uno
che è in attività, che faccia le sedie, che faccia quello, che faccia
quell’altro, deve lavorare, il suo lavoro deve essere presentato, vuol
dire che è stata una attività.
146.
147.
BASSANI No, questi 6 milioni, sono per i malati, per gli operai.
148.
149.
BASSANI Non so, da dove arriva questo profitto. Non arriva. Dove
arrivano a rendere in un anno 6 milioni i lavori che sono qui dentro?
Ha un profitto morale, nel senso che aiuta a guarire molto presto.
150.
151.
152.
153.
154.
155.
156.
VISINTIN E allora sarebbe giusto che si pretendessero di più dei 6
milioni.
157.
158.
159.
160.
161.
162.
163.
BASSANI Beh io facevo dieci al giorno per niente là, e per quattro
anni di fila, e tutti i reparti avevano i strofinacci, io non ho mai preso
niente.
164.
165.
166.
167.
168.
169.
170.
172.
BASSANI No, lei ha fatto per lo scopo terapeutico, ma noi non siamo
arrivati a quel punto!
173.
174.
175.
176.
LUCCHI Beh, comunque siamo più contenti ora che prima. Qua
siamo a casa, abbiamo almeno quel sollievo di non avere
quell’ansia, quella paura, si vive più in armonia.
177.
178.
179.
180.
181.
COMMENTO 7.
145-81. I «sei milioni» sono una cifra reale, il suo significato e la sua
importanza sono ben noti a quasi tutti i componenti l’assemblea:
essa rappresenta un limite imposto dalla realtà, che viene
menzionato prima o poi in tutte le discussioni sui salari e che le
riconduce su una base più realistica. Dopo i tentativi di astrazione,
sui possibili significati del lavoro in ospedale, la comparsa di questo
fattore concreto fa prender subito un corso diverso e nuovo alla
discussione. Nel dubbio che il valore effettivo della somma sia visto
in termini astratti e vaghi, si suggerisce la correlazione con il valore
del lavoro prodotto dai malati (146, 148). La prima risposta viene
dalla presidente ed è, secondo il suo stile (confronta comm. 6)
conformistica e in apparenza contraddittoria. Solo in apparenza
però: quando la presidente si riferisce al lavoro industriale «per
l’esterno» (145) essa stessa rivendica il valore del prodotto; mentre
quando passa a considerare il lavoro per l’ospedale nel suo
complesso, pare che tale valore, e quindi il profitto, svanisca (151 ) e
divenga conformisticamente un profitto teorico, «morale, perché
aiuta a guarire» (149). Ma questo intervento non sembra in grado di
sopire la tensione che sta crescendo, e sembra anzi accentuarla: si
susseguono una serie di interventi di acceso tono protestatario, nei
quali il problema viene posto in termini concreti e realistici (153-62).
E’ il solo momento di questa prima assemblea nel quale giunge a
verbalizzarsi, in una pluralità di interventi, una “contestazione” del
sistema; non si tratta più, si badi bene, di individualistiche proposte
di «sciopero», bensì di un’aggressività verbale quasi corale, alla
quale sembra sottesa la momentanea presa di coscienza di un
possibile rapporto duale fra il paziente come prestatore di forza-
lavoro e la istituzione; il movimento dinamico porta i leaders di
questo grosso gruppo a costituire come capro espiatorio un
«altrove» non ben determinato (l’ospedale? i medici? la società?), al
quale viene chiesto conto del valore del lavoro istituzionale (154,
158, 169): in questo momento il gruppo sembra accantonare (con la
sola eccezione di un nuovo intervento della presidente, 163), il
modulo delle soluzioni apparenti che si giustappongono alle
determinazioni dettate altrove, per affrontare direttamente la
sostanza del problema, su un piano di realtà. E’ assai verosimile che
questo traguardo, irraggiungibile sul luogo di lavoro - dove in modo
immediato si estrinseca il rapporto di dipendenza personale dalla
istituzione - venga raggiunto solo nella situazione di incontro, faccia
a faccia, nell’assemblea; il rinforzo reciproco attraverso il confronto
collettivo riesce momentaneamente a sovvertire la condizione di
atomizzazione e di serializzazione nella quale il paziente è forzato
durante il suo lavoro per l’istituzione. Gli interventi sono
conseguentemente aggressivi sul piano verbale, ma non durano a
lungo; presto riaffiora l’esperienza di impossibilità a superare
l’ostacolo, torna a gravare la “minaccia” concreta (164, 169, 170), si
riprospetta lo squilibrio fra la durezza del problema e la debolezza
contrattuale dei pazienti (164), sia pure espressa in gruppo. Si
rimette quindi subito in moto il meccanismo dinamico della ricerca di
“rassicurazione”: la figura fantasmatica del direttore viene recuperata
come «buona», e capace quindi di rassicurazione paternalistica
(170, 172, 173); vengono posti completamente fra parentesi gli
aspetti negativi (che si tenta di sottolineare - 175 -, ma che vengono
rifiutati), e si accentuano invece, enfatizzandoli, i momenti vissuti
come positivi della condizione attuale della vita quotidiana
ospedaliera; il confronto globale e indiscriminato fra il «prima» e il
«dopo» riesce in apparenza assai rassicurante ed è, da sempre, uno
dei modi con i quali l’assemblea tenta di risolvere le «situazioni
scabrose» che saltuariamente minacciano le condizioni di vita
acquisite. L’intervento del direttore, al riguardo, è supportivo e
riconvoglia il tutto verso una globale ideologia terapeutica
comunitaria: esso viene subito raccolto, forse perché soddisfa il
bisogno di integrazione e di protezione che si accompagna alle
istanze regressive che l’assemblea esprime in questo momento.
COMUNITA’ 2.
54 degenti
9 infermieri
1 monitore
3 assistenti sociali
1 psicologo
2 medici
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
DANIELI Dunque, dato che l’argomento paghe è esaurito, per ora,
dato che non ci sono lavoratori qui presenti che fanno obiezioni e io
non posso stare qui a discutere e fare le obiezioni da me, proporrei
di parlare di altri argomenti, quali il telefono al bar e quali la mensa di
frutta, cioè di fare un reparto della frutta nel nostro ospedale, anche
lì verrebbero guadagnati dei soldini per vendere la frutta; e poi il
telefono al bar, ecco, abbiamo parlato anche di questo, di mettere il
telefono al bar, perché se il signor direttore è al bar e qualcuno lo
cerca, insomma se il signor direttore è al bar, pronto, telefono al bar
e lì parlo con il direttore, il signor direttore ha bisogno di incontrarsi
con qualcuno al bar, il bar lo convoca telefonicamente, per me il
telefono al bar è una cosa necessaria.
14.
15.
16.
17.
18.
BASSANI Un momento, non gridare. Siccome il signor Milani oggi
non c’è, allora lui domani viene a verificare a guardare per poter far
saltare fuori queste 25 mila lire. Ma però ha detto che dobbiamo
aspettare fino a martedì che verrà lui in assemblea, allora si
discuterà qui esattamente.
19.
20.
21.
22.
23.
24.
25.
COMMENTO 8.
27.
LUCCHI Quelli che hanno 300 è giusto calare di 100 lire? Senta
signorina Sandra, a quelli che hanno oltre 500 si cava via, a quelli
che hanno 1000 si cava via 500, paga unica.
28.
DANIELI E’ giusto. Noi però parliamo del 20% sulle somme da 500 a
1000.
29..
30.
31.
32.
DANIELI No, quello non viene toccato per niente, a quello rimane la
paga di 300 lire, quello non viene toccato.
33.
LUCCHI Paga unica, cavare via quelli che hanno oltre lire 1000.
34.
COMMENTO 9.
27-34. Il tema della paga unica viene proposto qui per la seconda
volta, dopo essere già stato menzionato nell’assemblea precedente
(1, 37 segg.), e scartato in una breve serie di interventi. Qui il
discorso non viene neppure aperto: la paga unica viene vista come
«cavare via a quelli che hanno oltre 500» (27) o «oltre 1000» (33) (le
cifre sono discordanti e il fatto non viene rilevato); ed ottiene come
unico commento un «sarebbe bello, sì». Sembrerebbe dunque che il
discorso sia stato nella precedente assemblea esaurito, e
riconosciuto come buono ma irrealizzabile: la paga unica verrebbe a
coincidere con l’abolizione dei privilegi, ma questo programma ideale
non sarebbe realizzabile. Ci sembra opportuno tuttavia rivedere gli
interventi dell’assemblea precedente su questo tema: notiamo
innanzitutto l’indicazione inesatta della cifra relativa alla paga media
(390 lire): questa cifra corrisponde invece alla media che verrebbe
percepita da tutti dopo la diminuzione. Perché questa errata
valutazione? Non pare casuale il fatto che la paga unica venga vista
con tale pessimismo. La citazione di una cifra veramente irrisoria, e
ancora soggetta alla minaccia incombente di una decurtazione è
insultante e provocatoria per i «bravi lavoratori» che da tempo
prendono 1000 lire settimanali. Possiamo quindi pensare che questo
pessimismo esprima ed appoggi la protesta dei più privilegiati che
tendano quindi soltanto alla protezione di una personale posizione di
favore. Nessuna voce si leva da parte di chi beneficierebbe in questo
modo di un aumento; tacciono le lavoratrici interne dei reparti, ad
esempio, che percepiscono 100 o 150 lire settimanali, ma che
ancora partecipano più raramente all’assemblea, e quando
partecipano di rado prendono la parola. Solo in una assemblea di
lavoratori, convocata in precedenza per discutere specificamente
questo argomento della paga alla presenza di tutti i diretti interessati,
si è creata l’occasione in cui molte voci si sono levate, una dopo
l’altra, in una denuncia della personale situazione, proprio da parte
delle lavoratrici interne, meno pagate ed anche più regredite. Nella
serie di proteste e rivendicazioni così espresse non si coglie ancora
una presa di coscienza della comune situazione. La denuncia cade
nel vuoto, e nessuno nell’assemblea ritiene di doversi fare portavoce
e sostenitore dei meno abbienti. E non a caso. La proposta della
paga unica non viene mai, a nostro avviso, presentata come una
alternativa reale; non viene neppure dialettizzata ed articolata nei
significati che potrebbe assumere: essa esiste solo polemicamente
come prospettiva estrema, tagliando alla radice ogni discussione
sulle paghe privilegiate. Di fronte alla difficoltà concreta di stabilire
un sistema articolato di paghe avente carattere di equità, e di fronte
alle difficoltà interpersonali che sorgerebbero a tutti i livelli,
l’egualitarismo si prospetta come seducente per il suo carattere al
tempo stesso radicale e poco impegnativo a livello decisionale. Il
sistema della paga unica eliminerebbe in pratica una serie di scelte
difficili e imbarazzanti. In altri termini, l’egualitarismo ingenuo (che
sarebbe poi un egualitarismo nei confronti della retribuzione, ma non
nei confronti del lavoro prodotto) viene identificato con «la
soluzione» (radicale) contro l’esistenza dei privilegi: esso è
sostanzialmente contrario ai malati «forti», e favorisce i «deboli».
Tuttavia non potrebbe venir proposto che con un atto radicale di tipo
autoritario: e, per essere messo in atto, comporterebbe in pratica
anche l’allontanamento dei malati «forti» dal loro ruolo di leaders
nelle attività comunitarie, senza che sia stato dato modo e tempo ad
alcuno per sostituirli, da un giorno all’altro, nella funzione che oggi
svolgono. Chi lavora poco - per inerzia o per malattia - diverrebbe
privilegiato; andrebbe inequivocabilmente perduto ogni rapporto del
denaro con il lavoro: non vi sarebbero più diverse retribuzioni per
diversi lavori, né diverse motivazioni per variare le retribuzioni. La
paga assumerebbe per tutti il significato di un sussidio assistenziale,
ed il lavoro sarebbe di nuovo - come per il passato - un obbligo cieco
senza incentivi. (Ciò non significa negare il fatto che il denaro
costituisca uno dei bisogni primari del paziente e quindi una sua
necessità anche terapeutica. Ma questo è un aspetto diverso del
problema, che verrà ripreso in ulteriori interventi).
35.
36.
38.
39.
BASAGLIA Penso di no; quelle molte persone che non sono venute,
non si capisce perché non sono venute.
40.
41.
42.
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48.
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52.
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57.
58.
59.
60.
BASSANI Qui si dovrebbe fare come a Padova, quella volta che ero
laggiù ci hanno riferito così, che quando hanno un bel mucchio di
lavoro, coi proventi dei soldi che si riceve dal lavoro che si è fatto,
qualcuno guadagna in dieci giorni anche 12-13 mila lire, e lo pagano,
e poi non lo pagano più. Quella era produzione che fanno loro.
Invece qui si lavora due mesi e si paga per un anno, è giusto?
61.
MASSI Sì.
62.
63.
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65.
66.
67.
69.
DANIELI Sì è giusto che siano ventuno, perché così tutti con poco
contribuiscono, magari in piccola misura in un lavoro complessivo,
facendo le somme un piccolo lavoro tu, l’altro tu, si fa un grande
lavoro. Ma non è detto che sia necessario mantenere venticinque
persone al lavoro, non è detto che sia necessario, in tempi di
carestia si potrebbe ridurre anche il personale e dare a queste
persone, non dico di tirare via la paga, ma dare come dice la signora
Giovanna, un sussidio di disoccupazione. E’ necessario ridurre la
paga non soltanto a chi non lavora, è necessario ridurla anche a
quelli che lavorano, per coprire questo deficit. Qui il problema è
diverso.
70.
71.
72.
73.
BASSANI Capisco, ma siccome si è parlato anche dei pensionati,
no, si è parlato insomma quando si fa la conferenza nei reparti si
chiede se quella ha bisogno o non ha bisogno, soltanto ai singoli, si
potrebbe chiedere se a quella necessitano proprio quelle 200 lire, le
prende proprio per sport anche, perché buone sono! Finché
vengono! Vede, sono tanti punti da esaminare prima di fare una cosa
concreta, non è facile. Io penso al mio modo. Su quelle venti-
ventuno che prendono la paga, saranno sempre quelle dieci
pensionate che prendono anche dalla famiglia; non è questa una
carità che si fa, si dà la paga perché quando c’è lavoro, si fanno
queste scatole o quello che viene, i lavori insomma in generale tutti,
allora si fa un esame e si dice: ha lavorato tanto e adesso basta,
sono passati anche cinque-sei mesi e non fanno più niente, allora
non è giusto che questi prendano la paga. Invece un ammalato o
un’ammalata, che si interessa di ogni piccolezza, che scopa, che
lava i pavimenti, in ogni reparto si ha bisogno, allora lì si può dare
200-250 lire perché non hanno di più che quelle; ma diverse che non
lavorano, che non vanno a lavorare, prendono la metà paga lo
stesso sulle 300-400, non so. Io non parlo per invidia, non ho nessun
interesse, ma mi sembra una cosa errata, non è giusto. Quando uno
smette di lavorare e non lavora due-tre mesi e si vede che il lavoro
non arriva da nessuna parte si dice: noi non li prendiamo e non li
possiamo dare. Allora mettiamo adesso che duri un anno o un anno
e mezzo che non ci sia più niente lavoro, bisogna pure che vengano
in qualche maniera questi soldi per pagare gli ammalati.
74.
COMMENTO 10.
60-74. Alcuni interventi introducono dei temi che denunciano
l’infiltrarsi di una certa perplessità nell’assemblea nel confronto fra il
lavoro che si svolge all’interno dell’istituzione e il lavoro come si
presenta all’esterno, «nel mondo civile». Il punto di partenza è dato
dal raffronto tra il criterio di rimunerazione seguito in questo
ospedale per un certo lavoro e quello seguito per un analogo lavoro
in un altro ospedale: in entrambi i casi si tratta di una prestazione
che i pazienti svolgono per una ditta esterna, e che non ha carattere
di continuità ma alterna periodi di intensa attività a periodi di
stagnazione. Notiamo innanzitutto che a questi lavori non possono
essere applicate tout-court le analisi svolte in precedenza relative al
lavoro per l’istituzione, poiché il rapporto con un datore di lavoro
esterno è strutturato (o per lo meno: può essere strutturato) in modo
diverso. Se valgono ancora le cautele relative alla libera
contrattazione, e dunque quelle relative ad un lineare rapporto tra
lavoro e denaro in ospedale psichiatrico, bisogna notare che
esistono in questo caso le premesse per una maggiore presa di
coscienza da parte dei pazienti delle condizioni oggettive in cui si
colloca l’utilizzazione del loro lavoro: nel rapporto con la ditta esterna
cadono molte ambiguità inerenti ai ruoli e ai valori dell’istituzione; i
pazienti riescono più facilmente a identificare il padrone, e a cogliere
gli aspetti contrattuali di un rapporto di lavoro e gli impegni reciproci
che esso comporta. Il raffronto fra i due sistemi di pagamento seguiti
nei due diversi ospedali ripropone il rapporto tra rendimento e
rimunerazione: in questo confronto i degenti colgono le
contraddizioni esistenti fra la funzione terapeutica del lavoro, la
produttività, e la funzione terapeutica del denaro. Emergono infatti i
valori positivi di un modo di lavoro estraneo alla società esterna: è
giusto che ventuno persone facciano un lavoro che potrebbe essere
svolto da quattro sole («perché così tutti con poco contribuiscono,
magari in piccola misura in un lavoro complessivo»; 69).
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COMMENTO 11.
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87.
BASSANI No, non è vero niente. La paga per gli ammalati, quelli che
fanno e che non fanno, o come si sentono, viene percepita non so,
come ammettiamo anche nelle mie povere parole, anche come un
sollievo e una terapia, perché tira su di morale, dà il coraggio, si
sente più in forza ecco. Credo che sia questo. Non perché hanno
fatto un po’ di lavoro, più per sollevare il cuore. Cosa vuole, con
quella paga lì si fanno pochi salti!
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LUCCHI No, neanche per sogno, che fabbrica è? Qua non c’è
niente.
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MASSI Solo le bibite aumenta il governo, il caffè lo aumenteremo
noi.
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CIANI Perché non hanno volontà, sono abituati a stare dentro e non
vanno più fuori.
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COMMENTO 12.
121.
BASAGLIA Chi sarebbero questi?
122.
123.
BASSANI Dunque l’unica cosa sarebbe che lunedì ogni medico del
suo reparto quando ha la conferenza, informarsi esattamente chi
lavora, quanti mesi prendono i soldi, quanto guadagna, perché
altrimenti qui non si può né crescere, né aumentare, né calare, né
voltare, né girare. Perché è un caos che non si risolve niente. Quella
piccolezza, qualcuno ha 150-200, non so, cosa vuole tirare via là?
Le sembra a lei signor direttore, no? Fare un esame fra tutti noi.
124.
125.
126.
CIANI Lui non vede niente, perché se uno non ha una posizione
giusta non può fare niente. Lui scrive, fa le paghe, è d’accordo e
basta. Lì ci vuole un esame giusto, vedere, controllare e poi fare la
paga.
127.
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133.
134.
DANIELI Sì è anche un sollievo a lavorare, tutti i premi che si
ricevono sono sollievi.
135.
136.
137.
138.
LUCCHI Certo i soldi sono la prima cosa. C’è qualcuno che ha detto
la miglior cura è la paga. Qualcuno ha detto così, la miglior cura è la
paga! Naturalmente per prendere la paga bisogna lavorare ed è
sottinteso che chi prende la paga lavora, è sottinteso.
139.
VERZEGNASSI C’è stato proprio quel signore che ieri ha fatto una
proposta al bar, ha detto di ricorrere all’aiuto dei parenti.
140.
141.
BASSANI Per incoraggiare una persona, qualcosa gli si deve dare,
perché sono cose necessarie.
142.
143.
CIANI Questa è una malattia che circola da per tutto, anche fuori.
Domandi alle suore dei reparti, hanno gli armadi pieni di scatole tutte
piene di soldi, le donne non spendono come gli uomini, sa.
144.
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147.
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149.
150.
151.
DANIELI Già san Paolo diceva, chi non lavora non mangia! Mentre
qui mangiano anche quelli che non lavorano, anzi prendono anche la
paga quelli che non lavorano.
152.
153.
154.
DANIELI Certo, non gliene resta tanta. Ma se non si può fare a
meno, cosa dobbiamo fare?
155.
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163.
MEDEOT Troppa non è mai, cosa vuole, uno che ha, ha 1000 o
poco più, non è troppo.
164.
165.
CIANI Come vuole che li aiuti, se non hanno aumentato niente, non
hanno fatto niente ancora, verrà discusso per un mese ancora.
166.
167.
168.
169.
PIRELLA E allora noi medici possiamo dire che togliere i soldi come
compensi è come diminuire per esempio i soldi per i farmaci, le
medicine.
170.
DANIELI Esatto sì. Anzi direi che aiuta più il lavoro che le medicine,
le medicine sono di contorno, le medicine mettono in condizione
l’ammalato di lavorare, ma poi quando l’ammalato lavora, è più la
terapia che riceve dal lavoro che dalle medicine.
171.
172.
173.
174.
175.
176.
177.
178.
BASSANI Siccome, non per nominare di nuovo Milani, lui mi ha
detto così che senza toccare tanti, a 13800 lire potrebbe già arrivare,
dunque sarebbe 14 mila lire ecco che dopo entro un mese,
dobbiamo discutere, cioè si può ragionare anche per quelle dieci che
manca.
179.
180.
BASSANI E cosa vuole che le dica, intanto si tira via queste 13 mila
insomma non toccare le paghe piccole, sarebbe sulle 13800.
181.
COMMENTO 13.
129-81. L’accento del discorso si sposta ora dal senso del lavoro a
quello della «paga»: in una lunga serie di interventi la discussione
sembra liberarsi dal vicolo cieco della correlazione fra lavoro,
produzione e retribuzione, per considerare più attentamente il
significato dei compensi, e del denaro che conseguentemente
circola in ospedale. Da più parti si afferma, semplicemente, che la
paga serve a soddisfare alcuni bisogni elementari (133, 134, 136,
141). Si potrebbe essere tentati, commentando queste affermazioni,
di sottolinearne la ovvietà e la banalità, ma sarebbe forse un
apprezzamento precipitoso, perché ben difficilmente è possibile
comprendere empaticamente la situazione vissuta da una persona
che per lungo tempo sia priva della più piccola somma di denaro. Si
tratta di un tipo di povertà individuale assoluta, conosciuta forse solo
all’interno della istituzione totale, tanto più paradossale e alienante in
quanto quasi tutti i bisogni elementari soddisfacibili serialmente in
massa (cibo, calore, sonno, entro certi limiti anche il vestiario), sono
soddisfatti automaticamente dalla istituzione, mentre viene quasi
sempre negata ogni forma di proprietà individuale, sia in natura sia
soprattutto in denaro, e quindi il soddisfacimento di ogni bisogno
“individuale” elementare. Non vi è dubbio che la privazione completa
e continua di denaro sia in sé gravemente «disumanizzante»; a
questa conclusione giunge anche Vail, il quale in una serie di
interviste a pazienti ricoverati in un ospedale americano, alla
domanda su quali fattori potessero rendere «più umana» la vita in
ospedale otteneva frequentemente la risposta ottativa «l’avere un
centesimo in tasca» (D. J. Vail, “Dehumanization and the Institutional
Career”, Charles e Thomas Publishers, Springfield [Ill.] 1966, p.p.
169 segg.). La disponibilità individuale di denaro appare quindi un
fatto positivo innanzitutto in via riflessa, in quanto viene a mancare
uno dei più pesanti fattori di istituzionalizzazione, la indigenza
assoluta, che isola il paziente in un cerchio di impossibilità
agevolandone la passivizzazione e la dipendenza; è poi appena il
caso di sottolineare come il possesso di denaro e la sua circolazione
abbiano una positiva funzione di stimolo al porsi individuale del
paziente nel tessuto delle relazioni interpersonali, sul piano delle
scelte spontanee quotidiane; come consenta, ad esempio, la
gestione del tempo libero, e la personalizzazione del proprio tempo
vissuto su un «ritmo di spesa», scelto al di fuori di ogni
condizionamento e di ogni controllo.
D’altra parte ciò poteva ben collegarsi alla fiducia illuministica nella
ragione, che, su un versante opposto, tendeva a rafforzare tale
scelta (1), saldando singolarmente l’ottimismo filantropico religioso
con quello illuministico.
Dal 1824 al 1828 fu medico ispettore nelle Case per malati mentali di
Warwickshire, e ciò ci permette di collegare questa sua attività al
tormentato periodo immediatamente successivo alla famosa
inchiesta presso il manicomio di York (da non confondere con il
«Ritiro»), nel 1815, che appassionò e divise l’opinione pubblica sul
grande tema delle condizioni di internamento degli alienati. Su di
esse esistono infatti impressionanti documenti, consistenti nelle
relazioni degli ispettori incaricati di riferire sulla vita che vi si
svolgeva. Uno di essi scrive dopo una visita: «Entrai in un andito e
trovai quattro celle, penso di circa otto piedi quadrati, in condizioni di
sporcizia veramente orribile; la paglia appariva pressoché satura di
orina e di escrementi; c’erano alcune brande poste sulla paglia in
una cella, nelle altre solo paglia sparsa… i muri erano imbrattati di
escrementi… salii al piano di sopra e egli [il custode] mi introdusse in
una stanza che lo pregai di misurare e che risultò di tre metri e
sessantacinque per due e quaranta; in questa stanza stavano tredici
donne che avevano passato tutta la notte nelle celle sottostanti». E
ancora: «la seconda volta che visitai la casa, tre pazienti erano
incatenati sullo stesso letto, due erano distesi per il lungo e il terzo
era disteso sugli altri due» (2). Questa situazione costituiva, contro
ogni ottimismo di derivazione illuminista, una tragica sconfitta della
ragione, cui Conolly voleva contribuire a dare una risposta. Nel 1830
(in un momento in cui insegnava all’Università) egli pubblicò un libro
intitolato “The Indications of Insanity”, con un significativo sottotitolo:
«Con suggerimenti per una migliore protezione e cura del malato di
mente». In esso sono contenute delle indicazioni che oggi diremmo
di politica sanitaria, in quanto dirette a precisare - sulla base
dell’esperienza maturata tra l’altro nelle ispezioni ai vari manicomi - i
nuovi criteri di assistenza generale al malato di mente, criteri medici
e sociali insieme. Egli parla di un servizio nazionale di salute
mentale compendiato in quattro punti, che comprende anche la cura
domiciliare consigliata nei casi più lievi, e per evitare i danni derivanti
da una prolungata degenza. C’è in Conolly anche la preoccupazione
di potenziare l’assistenza nella società di fronte alla difficoltà di
migliorare in modo soddisfacente le istituzioni asilari. I punti sono: 1)
la malattia mentale non è di per sé ragione sufficiente per
l’isolamento; 2) ogni malato di mente deve essere assistito dallo
Stato, mentre ogni manicomio deve divenire proprietà statale sotto
controllo centrale; 3) ogni manicomio deve divenire una scuola di
istruzione per studenti in medicina, e un luogo di educazione per
infermieri; 4) ogni manicomio si deve preoccupare del benessere del
malato nella comunità in collaborazione con i medici generici.
Abbiamo già visto che l’esperienza del «Ritiro» di York era sorta
sulla base di esigenze umanitarie, con un profondo legame con le
concezioni religiose degli aderenti quaccheri alla Società degli amici.
Essi non erano guidati dalla esigenza puramente scientifica di
portare un contributo alla risoluzione del problema della malattia
mentale e della sua cura, ma erano animati dalla speranza di
trovare, anche nel più disordinato dei malati, la rispondenza
adeguata, motivata dalla fede religiosa, ad un atteggiamento
umanitario e non violento.
Conolly, che già aveva citato Pinel nella sua tesi di laurea “De statu
mentis in insania et melancholia”, riprende dallo psichiatra francese il
criterio scientifico di organizzare l’assistenza asilare come
assistenza medica psichiatrica, allo scopo di raggiungere risultati
terapeutici. Ma, di fronte alla situazione delle istituzioni psichiatriche
dell’epoca, egli si rende conto che ogni intervento scientifico non può
non incidere sulle strutture socioeconomiche e non può, d’altra
parte, non esserne condizionato. Da ciò i suoi interventi pubblici, la
sua concezione generale di un’assistenza psichiatrica che sia
assistenza sociale statale, la richiesta di istituire l’insegnamento
della psichiatria nelle università, e soprattutto, dopo la sua
esperienza ad Hanwell, l’esigenza preliminare di modificare
profondamente il clima asilare, sulla base del rifiuto delle restrizioni
fisiche e, in parte, psicologiche, e sulla base del nuovo metodo
terapeutico che ne deriva, il «moral treatment». Ciò qualifica Conolly
come uomo del suo tempo, legato alle questioni concrete, le cui
proposte potevano apparire utopistiche, ma che - alla luce di ciò che
nel secolo successivo si è realizzato - risultano essere le più
rigorose e le più adeguate. Esse comportavano una profonda
modificazione dell’atteggiamento verso i malati mentali, e la rinuncia
- almeno nelle forme più clamorose-a modalità di separazione e di
esclusione, non giustificabili sia sul piano scientifico che umanitario.
Con questo esempio la scienza si trova collegata alle più
significative e profonde esigenze della cultura e della società.
«Non solo è possibile - scrive nel ‘42, dopo tre anni di lavoro -
dirigere un grosso manicomio senza applicare ai pazienti la
coercizione fisica, ma dopo l’abolizione totale di tale metodo di
controllo, le caratteristiche di un manicomio subiscono un graduale e
benefico cambiamento». E’ proprio questa particolare esperienza
istituzionale che fa mutare, in modo sensibile, il progetto psichiatrico
che Conolly aveva prospettato prima di essa (e particolarmente nel
suo libro del ‘30).
Egli sostiene ora, con maggior forza, che l’intervento terapeutico non
può più trascurare l’impegno di modificare le strutture asilari, sia per
la necessità di favorire la degenza in tutti i casi in cui si rende
necessaria, sia per il valore didattico che l’istituto può assumere nei
confronti della classe medica generale. La scotomizzazione di
questo problema non avrebbe portato che al perpetuarsi di una
arretratezza degli istituti con la conseguenza di non permettere alcun
rinnovamento reale.
- L’esclusione e l’istituzionalizzazione.
Un altro tema che appare con netta evidenza negli scritti di Conolly e
nel suo modo di intendere il problema sociale del malato di mente, è
quello che ancora oggi viene considerato di fondamentale
importanza per la risoluzione delle difficoltà che si frappongono ad
una assistenza e ad un trattamento adeguati, cioè quello della
tendenza alla segregazione e all’esclusione del malato, come
provvedimento puramente difensivo. La convinzione che ogni malato
aveva diritto ad un rapporto interpersonale (come si direbbe oggi) in
cui non rischiasse di perdere la propria identità, era fortemente
collegata alla consapevolezza dei gravi danni derivanti da una vita
asilare coartata ed indegna. I due poli della esclusione da una parte
e della «istituzionalizzazione» dall’altra, si trovano in Conolly con
una certa chiarezza, del tutto insolita in psichiatri contemporanei.
Egli si riferisce spesso al fatto che l’isolamento, la mancanza di
visite, di stimoli adeguati, la stessa separazione dalla vita sociale
costituiscono uno dei maggiori pericoli per la sorte del ricoverato.
In uno scritto della maturità egli si riferisce infatti alla tendenza alla
esclusione di malati di mente appartenenti a famiglie facoltose. Essi
venivano spesso segregati in case o ville isolate, di proprietà della
famiglia, con uno o più assistenti, quasi sempre non esperti. La vita
che vi trascorrevano era di disperata solitudine e non raramente di
degradazione. La visita del medico era considerata come
un’intrusione, mentre ogni tentativo di recupero, in tali condizioni,
risultava vano. Conolly cerca di confrontare, con accenti che
suonano oggi involontariamente ironici, l’assistenza psichiatrica
pubblica con queste pseudosoluzioni per malati abbienti,
valorizzando la prima, e formulando un atto di accusa verso la
dinamica della segregazione che ne veniva confermata. Anche da
questi esempi emergeva cioè la necessità di un servizio pubblico
che svolgesse i compiti di un’assistenza adeguata per tutti, capace
di rompere il circolo vizioso che deriva sia dalla esclusione del
malato dalla società che dalla sua mortificazione istituzionale.
Conolly e tutti coloro che ne condividevano le opinioni, si rendevano
conto che non ci si poteva limitare ad uno solo di questi poli di
intervento, che non si poteva cioè agire solo nell’istituzione (perché
questo non avrebbe eluso la tendenza alla segregazione) o solo
nella società (perché troppi fattori, tra cui proprio l’arretratezza degli
istituti, perpetuavano tale tendenza).
Nota.
“Il primo punto da stabilire è che i nostri asili attuali con i loro muri di
prigione o di chiostro, con le loro disposizioni regolari e simmetriche
sono, per un numero assai grande di alienati, delle fabbriche di
incurabili; noi stessi, a causa dell’isolamento che imponiamo ai
malati, per la vita di reclusi alla quale li condanniamo, per la
disciplina severa che imponiamo loro, siamo, in un grande numero di
casi, inconsciamente e con le migliori intenzioni del mondo, dei
fabbricanti di cronici” (p. 391).
La storia della psichiatria asilare, vista nel 1896, merita una citazione
più lunga per la precisione con cui fin da allora viene identificato il
principio dell’isolamento del paziente dalla società esterna come
fatto costitutivo della mortificazione manicomiale:
Ben presto ci si rese conto che un simile sistema era letale per lo
spirito. In quell’isolamento completo, il malato abbandonato
intieramente a se stesso, senza alcuna distrazione, ruminava il suo
delirio che, anziché attenuarsi andava fortificandosi. Si capì subito
che era necessario farlo uscire il più spesso possibile da quei
quartieri murati rendendolo occupato, soprattutto all’aria aperta,
impegnandolo in lavori fisici tali da assorbire tutte le forze vive
dell’organismo, in modo tale che stancandosi il corpo il cervello
potesse riposarsi. Non si rinunziò tuttavia all’isolamento. Così, se
agli asili furono annessi terreni coltivati e laboratori (ateliers), non si
sacrificò per questo né una pietra dei muri esterni, né dei muri
interni; i terreni coltivati furono cintati come gli ambienti di lavoro e,
rientrato dal lavoro, l’alienato si ritrovò nei vecchi quartieri mutati […]
Abbiamo finito per convincerci dei benefici del lavoro negli ateliers e
soprattutto nei campi, delle abitazioni gaie con veduta sulla
campagna, e persino delle distrazioni accordate ai malati; ma non
siamo ancora riusciti a sbarazzarci di questa falsa idea, secondo la
quale l’alienato per guarire deve vivere a parte, di una vita diversa
da quella di tutti” (p.p. 393-94).
Questo alienato che si crede libero, che va e viene, che entra e esce
a volontà, che non scorge alcun vero limite alla propria libertà, è egli
veramente libero? Può liberamente commettere il male? Per nulla
affatto, poiché in ogni istante, senza che lo sappia, egli è oggetto di
una sorveglianza occulta, in cui i suoi più piccoli atti e le sue parole
sono visti e ascoltati: muraglie e serrature sono state soppresse, ma
sono state sostituite da un personale che veglia giorno e notte.
Come in tutte le agglomerazioni umane preoccupate della propria
sicurezza e tranquillità, vi sono poliziotti diurni e poliziotti notturni.
Tutta la sua vita di malato ne viene affiancata, a volte senza che egli
ne possa fare a meno; in Francia soprattutto, egli troverebbe strana
l’assenza di questa tutela. La presenza di tali guardiani, anziché
infastidirlo, gli pare naturale e lo rassicura.
Già dalle parole che abbiamo citato il lettore scaltrito avrà potuto
identificare un certo tipo di realtà asilare. Ma più oltre il nostro
psichiatra tradizionalista scopre le proprie batterie e si riferisce (forse
con maggior chiarezza di quanto, con visione e intenti ben diversi,
non avesse fatto Marandon de Montyel) a una ben precisa
concezione del malato di mente:
Ciò non deve avvenire. La psichiatria sociale esce sia dai confini
della analiticità sociologica, sia dai confini della analiticità freudiana e
postfreudiana per divenire ricerca “polemica” (cioè politica) dei
rapporti «necessari» fra psichiatria e società. La psichiatria sociale si
ricongiunge dunque alla storia della psichiatria intesa nel senso
indicato più sopra.
Sei mesi fa, senza alcun motivo reale, la paziente cominciò a dire di
sentirsi stranamente osservata per strada. In seguito ebbe
l’impressione che le vicine cominciassero a dir male di lei, che lei
trascurava la casa e non si occupava dei bambini (in realtà la
paziente è una diligente e accurata donna di casa).
Sulla schizofrenia:
C’è una contraddizione evidente tra quanto gli autori dicono nella
loro definizione della demenza precoce, e quello che affermano
trattandone la parte anatomopatologica. La certezza di un substrato
organico, affermata nella parte introduttiva, viene, in seguito,
chiaramente messa in dubbio.
Gli autori diranno più avanti, che col tempo ci si rese conto che la
febbre aveva fatto effetto sulla infezione luetica e “non” sui sintomi
psicotici; tuttavia essi parlano, sì, di paralisi progressiva, ma parlano,
in genere, di malattie mentali, di pazienti psicotici. “Il fatto che la
paralisi progressiva abbia un substrato anatomopatologico accertato
e che la si possa curare con mezzi medici lascia sperare che, prima
o dopo, questo sia possibile anche per le malattie mentali
endogene”.
Bibliografia.
PRIMO LEVI
“Ciò che scopriamo nel sistema del sé di una persona che cade
vittima di un’evoluzione schizofrenica o di un processo schizofrenico
è, dunque, nella sua forma più semplice, una perplessità fortemente
caratterizzata da un sentimento di timore, che consiste nell’uso di
processi di pensiero piuttosto generalizzati e per nulla perfezionati;
processi cui si ricorre nel tentativo di far fronte all’incapacità di
essere uomo - all’incapacità, cioè, di essere qualcosa che possa
venire rispettata come degna di esistere”.
Ciò che intendo dire è che il predegente inizia la sua carriera con
almeno una parte di diritti, libertà, soddisfazioni propri di un civile, e
finisce in un reparto psichiatrico, spogliato quasi completamente di
tutto. Il problema è ora il “modo” in cui questo accade, ed è il
secondo aspetto del tradimento che voglio considerare.
“Fallii come bambino e più tardi, con mia moglie, cercai un rapporto
di dipendenza”.
“Il mio guaio è che non posso lavorare. Questo è il motivo per cui
sono qui. Avevo due lavori, una bella casa e tutto il denaro che
volevo”.
Sotto queste oscillazioni del “sé” del paziente prodotte dal giudizio
degli altri, anche la base istituzionale continua a muoversi in modo
altrettanto precario. Contrariamente a quanto si pensa, il «sistema
del reparto» consente, soprattutto durante il primo anno di ricovero,
un notevole grado di mobilità sociale all’interno degli ospedali
psichiatrici [20]. In questo primo periodo, il degente può essere stato
trasferito una volta da un dipartimento all’altro, tre o quattro volte da
un reparto ad un altro e può essergli stato mutato parecchie altre
volte il grado di libertà consentitogli; cambiamenti questi che
possono venir da lui vissuti come buoni o cattivi. Ognuno di questi
movimenti comporta un drastico mutamento del livello di vita e del
materiale a disposizione per costruirsi un certo giro di attività,
capace di servire da sostegno al “sé” del paziente; il significato di un
tale mutamento equivale - per così dire - al passaggio da una classe
all’altra in un sistema di classi più ampio. Inoltre i compagni con i
quali il degente è parzialmente identificato, si sposteranno in
maniera analoga ma in differenti direzioni e a ritmo diverso, il che
non può non provocare in lui sentimenti di mutamento sociale, anche
quando non ne sia il diretto protagonista. Come si è già detto, gli
stessi criteri psichiatrici possono contribuire ad aumentare le
fluttuazioni sociali del sistema del reparto. Una corrente psichiatrica
attuale considera, infatti, questi sistemi di reparto come una sorta di
«serra» sociale, nella quale i pazienti incominciano la loro carriera
come infanti sociali, e la finiscono - entro un anno - come adulti
risocializzati in un reparto per convalescenti. Questo modo di
interpretare la cosa aumenta sensibilmente il grado di merito e di
orgoglio con cui il personale può vivere il proprio ruolo [21] e occorre
una notevole dose di cecità - specie ai più alti livelli dello staff - per
non dare al sistema del reparto significati diversi, riconoscendolo, ad
esempio, come un mezzo per disciplinare, attraverso punizioni e
ricompense, persone difficili da governare. Ad ogni modo, questa
tendenza alla risocializzazione, può trovarsi a dare un’importanza
eccessiva al grado in cui i pazienti dei reparti peggiori sono incapaci
di un comportamento socializzato, e al livello in cui i pazienti dei
reparti migliori sono invece disposti a partecipare al gioco sociale.
Dato che il sistema del reparto è qualche cosa di più di una «camera
di risocializzazione», i ricoverati hanno modo di trovarvi molte
occasioni per «far disordine» o per mettersi nei pasticci, il che
significa molte occasioni per essere retrocessi alla condizione dei
reparti meno privilegiati. Questi spostamenti possono essere
ufficialmente considerati come ricadute di carattere psichiatrico o
slittamenti morali, confermando in ciò l’indirizzo dell’ospedale
tendente alla risocializzazione. Secondo un’interpretazione di tal
tipo, una semplice infrazione alle regole, con conseguente
degradazione sociale, viene dunque vista come l’espressione diretta
delle condizioni psichiche del paziente. Analogamente le promozioni
- imputabili a sovraffollamento del reparto, al bisogno in un altro
reparto di un «paziente-lavoratore», o ad altri motivi irrilevanti dal
punto di vista psichiatrico - possono trasformarsi in qualche cosa che
risulti come l’espressione profonda delle condizioni psichiche del
paziente [22]. Inoltre, lo staff può in qualche modo pretendere che il
paziente stesso si sforzi, in modo personale, di guarire in meno di un
anno, così che sarà da lui costantemente stimolato a pensare in
termini di successo o di fallimento. In questo contesto i ricoverati
possono scoprire che, nella loro condizione, le degradazioni morali
non sono poi così terribili come avevano immaginato. Dopotutto,
infrazioni in grado di provocare un tal tipo di retrocessione, non
possono accompagnarsi a sanzioni legali o alla riduzione allo stato
di malato mentale, dato che questa è già appunto la loro condizione
presente. Inoltre nessun delitto, passato o presente, sembra tanto
orrido da far estromettere un malato dalla comunità dei malati. E’ per
questo che i fallimenti rispetto ad una condotta normale vengono qui
a perdere parte del loro significato stigmatizzante. Infine, accettando
la versione data dall’ospedale sulla sua caduta in disgrazia, il
degente può decidere di «ravvedersi» ed ottenere così simpatia,
privilegi ed indulgenza da parte dello staff che vuole incoraggiarlo in
questa sua decisione.
Imparare a vivere costantemente soggetto a smascheramenti e ad
oscillazioni su ciò che è il proprio valore (con scarsa possibilità di
controllo quando un tale valore gli venga riconosciuto e quando
negato) è un passo molto importante nel processo di socializzazione
del degente, tale da poter dire qualcosa di veramente significativo su
ciò che è un ricoverato in un ospedale psichiatrico. Il fatto di avere i
propri errori passati e la situazione presente sotto costante critica
morale, sembra richiedere un adattamento particolare che consiste
in un atteggiamento - meno morale - verso gli «ideali dell’io» [23]. I
propri errori e i propri successi diventano un problema troppo
centrale e continuamente contraddetto per permettere che ci si
possa preoccupare - in modo normale - del punto di vista degli altri
al proposito. Non è molto consigliabile tentare di reclamare qualche
fondato diritto personale. Il degente tende ad imparare che non
bisogna dare troppo peso alla propria degradazione e alla
ricostruzione del proprio valore apprendendo - insieme - che il
personale ed i ricoverati sono disposti a guardare con una certa
indifferenza all’espandersi e al restringersi del “sé” di un individuo.
Apprende che un’immagine giustificabile di sé può essere
considerata come qualcosa di estraneo alla persona stessa,
qualcosa che può essere costruita, perduta, ricostruita, e tutto ciò
con grande rapidità ed una certa indifferenza. Impara così il modo
per arrivare ad assumere un punto di vista - e quindi un “sé” al di
fuori di quello che l’ospedale può dargli e togliergli.
Come più oltre precisa Goffman, ciò che viene interpretato come
l‘“adattarsi” all’ambiente da parte del degente, può essere invece
espressione della sua intenzione - e quindi della scelta di un nuovo
comportamento che gli faccia vivere meno dolorosamente la
frustrante esperienza di essere stato escluso e rifiutato.
Direi di più che nel caso della punizione e del premio (che non
possono non essere legate ad un giudizio di carattere «morale»
nella netta distinzione fra un comportamento «buono» e uno
«cattivo») entrerebbe in gioco anche la presa di coscienza, da parte
del degente, della bontà sia del premio che della punizione, con la
sua diretta identificazione al giudizio formulato.
Dagli esempi proposti da Goffman, che il paziente sia o non sia ciò
che appare sulla cartella, il risultato sembrerebbe lo stesso: lo si fa
diventare ciò che si vuole, giungendo al punto di metterne in dubbio i
sintomi, qualora non corrispondano alla diagnosi ormai formulata
(confronta ad esempio: «Nessun contenuto psicotico poté essere
allora dedotto» oppure: «Anche sottoposta a considerevoli pressioni,
non risultò disposta ad impegnarsi in proiezioni di meccanismi
paranoidi»).
Nel caso del malato mentale il cui «scarso» valore sociale è già dato
per scontato, la distanza dai «sani» è stabilita in partenza e questo
presupposto è inevitabilmente sempre presente in ogni tipo di
rapporto che si instauri: con lui, in sua presenza o in sua assenza.
Questo però non potrà non incidere sul sistema di valori all’interno
dell’organizzazione ospedaliera che additerà il malato
istituzionalizzato, completamente ammansito ai voleri dell’istituto,
come la condizione ideale cui tutti dovrebbero tendere.
Levi continua più oltre dicendo che «parte del nostro esistere ha
sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-umana
l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa
agli occhi dell’uomo». Il che significa che nei rapporti siamo noi a
dover essere ciò che vogliamo che gli altri siano e, nel caso
dell’istituzione psichiatrica, sono le sue strutture a dover essere
modificate ad immagine e somiglianza di ciò che si vuole sia un
uomo, anche se un malato mentale: libere, contraddittorie e dotate di
alternative esplicite.
Da una parte esiste il malato dei reparti peggiori, quello che non ha
nulla da perdere, al quale viene concesso - come per la prostituta -
di comportarsi senza freni o controlli. Il suo apparente opporsi al
sorvegliante non è, infatti, vissuto da quest’ultimo come una
provocazione, ma come un comportamento abnorme che si svela
dinanzi a lui come in uno spettacolo di cui si sente artefice, nella
misura in cui è in suo potere concedere o ritirare la libertà di cui il
malato gode. E’ infatti la libertà concessa dal sorvegliante che
consente al malato di fantasmatizzarlo in modo tale da poter
sopportare il livello di degradazione morale cui egli è giunto.
Dall’altra esiste il degente «privilegiato» il quale invece non può
permettersi questo tipo di degradazione morale, perché altrimenti
verrebbe a perdere i privilegi acquisiti. Tuttavia proprio in nome di
questi privilegi che possono arbitrariamente essergli concessi, così
come arbitrariamente possono venirgli rifiutati, egli si trova
continuamente esposto ad un tipo di prevaricazione particolare. Sarà
ancora questo meccanismo a far fantasmatizzare agli occhi del
paziente il suo terapista.
di Franco Basaglia.