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CHE COS’E’ LA PSICHIATRIA?

A cura di Franco Basaglia.

Baldini&Castoldi, Milano 1997.

Copyright 1967 Amministrazione provinciale di Parma.

Copyright 1973 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino.

Copyright 1997 Baldini&Castoldi s.r.l., Milano.


INDICE.
Prefazione (di Franca Ongaro Basaglia).

CHE COS’E’ LA PSICHIATRIA?

Che cos’è la psichiatria? (di Franco Basaglia).

La libertà comunitaria come alternativa alla regressione istituzionale


(di Franco Basaglia).

Dibattito avvenuto nel corso dell’incontro tra la delegazione di


infermieri e amministratori dell’O.P.P. di Colorno (Parma) e il
personale sanitario, infermieri e degenti dell’O.P.P. di Gorizia il giorno
20 dicembre 1966.

Il lavoro rende liberi? Commento a due assemblee di comunità


dell’Ospedale psichiatrico di Gorizia (di Antonio Slavich e Letizia
Jervis Comba.

John Conolly, dalla filantropia alla psichiatria sociale (di Agostino


Pirella e Domenico Casagrande).

Storia e politica in psichiatria: alcune proposte di studio (di Giovanni


Jervis e Lucio Schittar).

Presupposti a una psicoterapia istituzionale (di Michele Risso).

Commento a E. Goffman, “La carriera morale del malato mentale” (di


Franca Ongaro Basaglia).

Note.
PREFAZIONE.

Sono passati trent’anni dalla prima pubblicazione sull’impresa di


Franco Basaglia e del suo gruppo, impresa che avrebbe modificato -
fra difficoltà, pregiudizi, inadempienze, ignoranza, fraintendimenti
intenzionali e non - il panorama dell’assistenza psichiatrica in Italia e
ben oltre i suoi confini.

“Che cos’è la psichiatria?”, il primo dei volumi che ora si ristampano,


è uscito nel ‘67 e fotografa una realtà in movimento: un manicomio
tradizionale che sta aprendo porte, sbarre, cancelli; che ha eliminato
contenzioni e violenza, che sta ragionando sulla propria storia, sulla
qualità della terapia che offre, sul significato dell’istituzione chiusa e
della psichiatria che l’avallava; sulla necessità della propria
esistenza. Insieme, internati infermieri medici psicologi e
amministratori sono alla ricerca di nuove identità, di ruoli e rapporti
qualitativamente diversi, ma soprattutto di ciò che ora appare come
l’ovvia negazione dell’essenza stessa della realtà e della logica
manicomiali: libertà, responsabilità, disponibilità, dignità, fiducia,
confronto, verifica, critica e autocritica che stanno alla base di una
possibile reciproca terapeuticità.

Parole allora nuove nel mondo oscuro dove la follia stava rinchiusa,
mondo soprattutto di miseria, violenza e soprusi, dove il potere del
medico su uomini di scarto, condannati senza colpa, era assoluto; la
delega degli amministratori ai tecnici totale, la sentenza della
scienza psichiatrica senza appello. Quindi nessun controllo su
quanto accadeva oltre quelle mura e, comunque, qualunque cosa vi
accadesse era giustificata dalla malattia.

Sono passati trent’anni da questo primo resoconto di un’esperienza -


avviata a Gorizia nel ‘61-non ancora giunta alla realizzazione della
prima tappa: due reparti su otto ancora chiusi, solo alcuni mesi dopo
la comunità sarebbe stata completamente aperta.

Questo il punto che mi pare renda di grande attualità la ristampa -


“ora” che si chiudono i manicomi e si conferma un diverso
trattamento della sofferenza mentale - di un volume in cui i problemi
della chiusura, dell’apertura, del significato dell’istituzione, del lavoro,
dei farmaci, della terapeuticità dei rapporti, del rischio della libertà
del malato come primo elemento di riduzione del potere del medico,
rimbalzano di discussione in discussione nelle assemblee di reparto,
in quelle di comunità, nelle riunioni dei medici e degli infermieri, nelle
analisi degli operatori che già prevedono di dover via via
«distruggere l’equilibrio raggiunto per uscire da quello che può
diventare un nuovo sistema chiuso».

Sarà il tema centrale dell‘“Istituzione negata” che uscirà l’anno dopo,


i cui germi sono però presenti qui nella necessità di una verifica
costante della realtà, nel partire dal malato in quanto persona (non
dall’etichettamento della malattia), dai suoi bisogni più immediati,
così crudelmente violentati e annientati; nello stimolo alla
riappropriazione di sé attraverso il riaccendersi di una reattività al
potere che lo domina e lo annulla, quindi attraverso la conquista di
diritti perduti o mai avuti; nel gioco delle contraddizioni, per la cui
morte l’istituzione esisteva, rivivificate come spinta verso
un’alternativa possibile per entrambi i poli del conflitto: assistiti e
curanti, entrambi prigionieri del proprio ruolo istituzionalizzato,
funzionale a una società che emargina ed esclude.

Di tutto questo si discute, con la consapevolezza che la comunità


«buona» sia comunque solo una fase transitoria verso qualcosa in
cui il degente si imponga finalmente come problema sempre
presente al medico, all’istituzione, alla società che devono assumersi
la responsabilità di dare altre risposte. Tutto questo mi sembra
attuale ora che i manicomi devono essere chiusi e si reclama una
qualità di servizi dimostratasi nel tempo capace di far fronte alla
sofferenza psichica senza ricorrere all’internamento.
I 35 anni che ci separano dall’avvio delle prime esperienze non sono
stati facili.

Il coinvolgimento emotivo della popolazione attraverso denunce,


servizi giornalistici e televisivi che mostravano, per la prima volta, gli
orrori del manicomio, contrapposti a immagini che rivelavano
possibile rispondere diversamente al problema, aveva stimolato una
nuova cultura, un generale rifiuto della segregazione e della violenza
istituzionali che si allargavano ad altre «istituzioni totali» e
reclamavano diritti di altri soggetti deboli, privi di voce: giovani,
donne, anziani, bambini, detenuti, tossicodipendenti. Fu un periodo
di grandi fermenti sociali che sfociarono in importanti riforme. Fra
queste, la legge 180 del ‘78, che proponeva il superamento del
manicomio e l’istituzione di servizi territoriali, fu approvata dal
Parlamento quasi all’unanimità, in un clima di consenso e di
comprensione diffusa sul problema delle «diversità».

Nel momento in cui si è trattato di cominciare ad attuarla in tutto il


paese, sono però incominciate le resistenze e le difficoltà. Di fatto, la
legge 180 era una legge quadro, successivamente inglobata nella
legge di Riforma Sanitaria, cui doveva seguire la presentazione del
piano sanitario nazionale, con il dettaglio di strutture, personale,
finanziamenti. Il piano non è mai stato presentato. Nessun governo
si è assunto la responsabilità della gestione della riforma che è stata
attuata solo nei luoghi in cui c’è stata la volontà politica e tecnica di
creare i servizi, mentre restava il vuoto quasi assoluto - con il
conseguente scarico del problema sulle spalle delle famiglie - dove
questa volontà non c’è stata. Il Parlamento, dal canto suo, ha
continuato per anni a discutere di modificare una legge che i partiti al
governo giudicavano «sbagliata» prima di aver promosso gli
strumenti per attuarla. Così, è stato un gruppo dell’opposizione - la
Sinistra Indipendente di cui ho fatto parte per due legislature - a
presentare al Senato nell‘87 il primo disegno di legge di attuazione
della 180, ripreso dal piano per la tutela della salute mentale e
approvato solo sette anni dopo (1994) senza, tuttavia, produrre
l’avvio obbligatorio dei nuovi servizi.
Di fatto possiamo dire che, per la prima volta, un governo, il governo
attuale, si è assunto la responsabilità della riforma, confermando la
chiusura dei manicomi, sanzionando i ritardi e riconoscendo una
legittimazione ufficiale a quanto è stato fatto per superarli. Si tratta,
dunque, di un punto di partenza forte da cui lavorare per esigere
finalmente la creazione di servizi di salute mentale adeguati in tutto il
paese, pur sapendo che i manicomi esistono ancora, che sono
spesso in condizioni disperate e disumane dove non si è fatto nulla,
in trent’anni, per modificare il progetto di vita dei degenti.

Ciò che si era capito fin dall’inizio era, comunque, l’uso di questi
istituti come contenitori di problemi sanitari che spesso erano
soprattutto problemi di disturbo o di svantaggio sociali. In manicomio
finivano solo i poveri, perché chi aveva e ha la possibilità di far fronte
sia economicamente che culturalmente ai propri problemi aveva e ha
sempre altre strade che ne condizionano positivamente il destino. Il
servizio pubblico deve quindi farsi carico ora anche dei problemi
sociali, fusi e confusi con la malattia, che prima della riforma si
potevano facilmente accantonare in luoghi dove - sotto l’apparenza
della «cura» - venivano nascosti ed eliminati.

Resta inoltre da sottolineare il fatto che raramente un disturbato


psichico ha bisogno di un letto d’ospedale. Ciò di cui necessita è un
luogo protetto, anche una casa, con un’alta concentrazione di
assistenza, di capacità professionale e umana, di accettazione del
conflitto che ogni soggetto produce, ma dove la vita penetri, i
rapporti circolino, gli stimoli si rinnovino. L’ospedale non può
rispondere a questo tipo di bisogni, non potendo offrire che una vita
vissuta solo in funzione della malattia, mentre occorrono spazi di
cura ma anche di tutela emancipatoria tesa a stimolare l’autonomia e
il riconoscimento, perduto o mai avuto, del peso contrattuale del
tutelato. Solo attraverso il riconoscimento del diritto al rispetto e alla
tutela la persona può esprimere i propri bisogni e solo attraverso il
conflitto che essa rappresenta siamo costretti a tentare di capire
cosa siano i bisogni cui si deve rispondere. La definizione classica di
malattia era servita soprattutto a escludere e ad allontanare il
problema, comportando un giudizio di irrecuperabilità che esimeva
dal tentare altre strade. Si è visto però che trattando diversamente il
malato, tenendo conto della complessità degli elementi in gioco, in
un clima di rispetto e di confronto, si modifica il modo stesso di
esprimersi della malattia.

Questo è il senso di quanto è stato fatto fin dai primi anni ‘60,
richiedendo che la psichiatria tradizionale discutesse su se stessa,
sui propri paradigmi, sul proprio sistema di giudizio e di intervento
dal momento che la presa in carico globale della persona sofferente
modifica anche il quadro della patologia psichiatrica classica.

Ripubblicare “oggi” i resoconti di come sono nate le prime


esperienze che hanno portato a questi risultati - controversi,
combattuti ma dibattuti e vincenti - è utile a capire la cultura che ha
animato questo lavoro. E’ utile, soprattutto a studenti e giovani
operatori, capire come la pratica, i fatti e non un cambio di teoria
interpretativa sul fenomeno della follia, abbiano resistito - nel
naufragare di ipotesi e utopie dell’ultimo decennio - conservando la
validità di una messa in discussione radicale di concetti di base
come normalità/anormalità, salute e malattia che ha coinvolto a tutti i
livelli la cultura, le istituzioni, l’assetto sociale, la politica agendo
contemporaneamente sulla struttura materiale del manicomio, sul
pregiudizio sociale rispetto al malato mentale, sul pregiudizio
scientifico rispetto alla malattia.

Non si è dunque trattato di un semplice cambio di teoria,


rimpiazzabile con una nuova ideologia di ricambio che facilmente
lascia inalterata la sua funzione essenziale di controllo e di
manipolazione, ma della demolizione pratica di una cultura, possibile
solo se contemporaneamente costruisci altro: altro sostegno, altra
cura, altro supporto, altro concetto di salute e di malattia, di
normalità e di follia. Possibile cioè, se insieme allo smantellamento
dei vecchi ospedali, non ci si è limitati a organizzare semplici servizi
ambulatoriali (come spesso è accaduto), ma si è creata per i vecchi
e i nuovi malati la possibilità di vivere e condividere in modo diverso
la propria sofferenza.
La tutela di chi, secondo la vecchia legge, poteva risultare
«pericoloso a sé e agli altri» è stata, di fatto, tutela della comunità
sana, garantita dalla totale prigionia di chi cadeva nella rete di
«protezione». L’alibi di una cura impossibile in un contesto di
violenza e di repressione ha coperto la funzione puramente
carceraria e di contenimento della pratica manicomiale. Di fronte al
fallimento di questo tipo di cura, occorreva allora demolire fino alle
fondamenta il manicomio ma, insieme a esso, il ruolo tradizionale
dello psichiatra come medico-carceriere che operava a esclusiva
difesa della comunità; il ruolo della psichiatria come scienza che,
sotto l’apparenza della cura, avallava violenza, annientamento e
distruzione delle persone. Si è trattato, dunque, della necessità di
demolire lo stesso concetto di malattia che doveva essere guardata
e avvicinata come uno stato di profonda sofferenza legata a un
complesso di fattori biologici, psicologici e sociali e non solo come
segno di pericolosità da prevenire e reprimere.
Contemporaneamente si assumeva il carico della responsabilità nei
confronti del malato e della sua esistenza, creando servizi, luoghi di
vita, di opportunità, di lavoro, rapporti interpersonali diversi,
puntando - in questo doppio binario di demolizione e contemporanea
costruzione - a un cambio di cultura e di politica sociali oltre che
sanitarie.

La liberazione della persona, l’emergere di un soggetto pieno di


bisogni da quel mondo di «cose» che il manicomio conteneva e
insieme produceva, sono stati i primi gesti terapeutici verso la
liberazione dell’internato dal manicomio materiale che lo
imprigionava e dalla logica manicomiale che egli stesso aveva
incorporato. Liberazione che contemplava, come primo passo, il
rischio della libertà del malato. Si è trattato e si tratta, tuttavia, di una
libertà controbilanciata e supportata dalla forza aggregante del
gruppo, dalla capacità degli operatori e della comunità di sostenere il
conflitto che ogni soggetto produce e dalla capacità di renderlo
positivo come elemento di reciproca responsabilità. Responsabilità
che si acquisisce solo nella possibilità di crescere, svilupparsi e
misurarsi in un clima di libertà.
La libertà e la responsabilità che il malato gradualmente acquisisce
sono infatti strettamente dipendenti da libertà-responsabilità
dell’operatore nei suoi confronti. Proveniamo da una cultura che ha
condizionato allo stesso modo tutori e tutelati nell’essere carcerieri e
carcerati. Quindi lo stesso processo di liberazione e responsabilità
vale anche per l’operatore che l’istituzione chiusa e la delega alla
custodia di oggetti di scarto avevano completamente
deresponsabilizzato. Si ritorna quindi a responsabilizzare operatori,
amministratori, famiglia e società rispetto a un problema che il
manicomio consentiva di eliminare, nascondere e dimenticare sotto
la copertura di una definizione di malattia incurabile per cui niente si
poteva fare.

Ciò non significa che questo problema diventi - come troppo spesso
è accaduto in questi anni di vergognosa latitanza governativa e
amministrativa con conseguente assenza di servizi - compito e
responsabilità esclusivi della famiglia. Ma vuole significare che se la
famiglia è coinvolta dal servizio ai diversi livelli di necessità, malati e
familiari, insieme con operatori e amministratori, diventano allo
stesso titolo soggetti di un processo di cura e di emancipazione che
passa anche attraverso un’assunzione di responsabilità reciproca e
un profondo cambio culturale e sociale. Si tratta dunque di un
diverso concetto di tutela che non si appropria delle persone, che
non imprigiona i corpi, ma tende a un processo di liberazione
contemporaneo sia per il tutore che per il tutelato.

Il problema è, dunque, contemperare bisogni e diritti diversi che,


presentandosi spesso come antagonistici, risultano tuttavia entrambi
irrinunciabili: l’esigenza che la sofferenza psichica venga affrontata
nel rispetto dei diritti del malato come persona e l’esigenza e il diritto
dei familiari di essere aiutati (quando occorre, sollevati) nel far fronte
a un problema che la riforma psichiatrica non ha inteso minimizzare,
né preteso di scaricare sulle loro spalle. Queste esigenze e questi
diritti possono trovare risposta solo all’interno di un modello di servizi
caratterizzato da alti gradi di flessibilità dall’integrazione con la
comunità e dall’uscita dal modello culturale imperante che tende a
riconoscere legittimità terapeutica solo al letto ospedaliero. La
questione centrale risulta quindi “come” far coesistere gli elementi di
questo conflitto (cura/tutela/diritti antagonistici), consapevoli del fatto
che può risultare difficile, spesso impossibile, convivere con un
disturbato psichico senza aiuti: il che non significa che l’unica
soluzione sia il ricovero in ospedale.

In questi anni la scelta più facile è stata invece la creazione di servizi


ospedalieri di diagnosi e cura risultati, inevitabilmente, insufficienti, e
di ambulatori aperti poche ore al giorno che hanno continuato a
proporre, da un lato il carattere puramente medico dell’intervento
(mettendo fra parentesi la molteplicità dei bisogni espressi attraverso
la malattia), dall’altro, un rapporto psicoterapico classico che di per
sé seleziona (per valori, linguaggio, codice di riferimento) i pazienti
che possono accedervi, presupponendo l’esistenza di altre risposte
più «forti». Infatti quest’ultimo tipo di servizi per appuntamento, a
ore, non può fare a meno di istituti di internamento che, in realtà,
hanno mantenuto alle loro spalle, non essendo in grado né di
concorrere al loro superamento, né di produrre una realtà che non
ne richieda la sopravvivenza, provocando essi stessi bisogno di
lungodegenza ospedaliera, quindi producendo essi stessi cronicità.

Affrontando invece - come è avvenuto in molte esperienze diffuse


nel paese - la molteplicità dei bisogni di cui è fatta la vita quotidiana
della gente (stati di sofferenza, di malattia, di impotenza,
impossibilità di espressione soggettiva, mancanza di prospettive, di
progetto, di significato, ma anche disoccupazione, sottoccupazione,
mancanza di casa, convivenze familiari impossibili, diversità di
sesso, di opportunità, livelli diversi di potere), la sfera del bisogno
strettamente tecnico psichiatrico viene a ridursi in rapporto
all’ampliarsi delle risposte agli elementi di altra natura co-presenti nel
disturbo psichico.

La stessa terapia farmacologica assume un significato diverso, una


volta inserita in un progetto terapeutico che contempli altre aperture.
Così come nella realtà violenta del manicomio gli psicofarmaci, agli
inizi degli anni ‘50, non avevano modificato l’irrecuperabilità
dell’internato, nei nuovi servizi - anche se usati come silenziatori dei
sintomi secondo quanto diversi autori ormai sostengono - diventano
uno dei diversi strumenti di lavoro quando siano in grado di facilitare
e non bloccare l’espressione della sofferenza e la capacità di
comunicare. Sempre che il lavoro sia un po’ più che lavoro, se
include passione e vita.

Le misure più efficaci, nell’emergenza e nella prevenzione della


cronicità, risultano dunque quelle che - in servizi diversificati aperti
ventiquattro ore su ventiquattro - passano attraverso una visione
completa e integrata dei diversi livelli di bisogni della persona
sofferente e un’assunzione di responsabilità da parte del servizio nei
confronti di questa complessità.

Non si può dimenticare, inoltre, che l’istituzione del Servizio Sanitario


Nazionale, anche se minato ed eroso da tutti i lati, ha comunque
alzato il livello delle esigenze e dei diritti dei cittadini ed è a questo
livello che non sono in grado di rispondere la vecchia cultura, i
vecchi strumenti, i vecchi modelli operativi. Non si tratta solo di
bisogno di formazione professionale secondo i vecchi canoni, ma di
una verifica che le stesse discipline devono fare in rapporto a una
realtà mutata. Fino a quando scienza, norme e istituzioni avevano
anche un’implicita funzione di discriminazione di classe (e il
manicomio ne è un esempio esplicito), è stato possibile costruirle in
funzione del contenimento del caso «estremo», del caso limite, del
più grave e pericoloso, da cui però si deduceva la natura segregativa
e violenta dell’intera istituzione riservata ai poveri, riducendo a quel
livello di gravità, abbrutimento, pericolosità anche chi vi era entrato
senza presentarlo. Ma da quando la conquista del diritto universale
alla tutela della salute ha incominciato a confondere, se non ad
abbattere, le barriere fra garantiti ed esclusi, tutelati e privi di diritti,
scienza, norme e istituzioni si trovano a dover rispondere a
bisogni/diritti così diversificati e complessi rispetto ai paradigmi
tradizionali da dover studiare nuovi metodi di analisi, di
comprensione, di intervento.

I problemi sono dunque aperti. Dal momento che i cittadini hanno via
via acquisito una sempre più forte consapevolezza del diritto alla
tutela della salute, l’incontro e la verifica delle diverse discipline con
la pratica sociale non è rimasto soltanto un incontro o una
contaminazione delle discipline con le disuguaglianze, ma è
diventato un incontro/scontro con il problema dei diritti con cui ora
anche le discipline dovrebbero misurarsi. E’ dunque un problema
politico rispetto a diritti riconosciuti e negati, che riguarda però anche
i modelli operativi e i corpi professionali che dovrebbero rispondervi.

E’ questa la natura dei problemi posti dall’esperienza di cui “Che


cos’è la psichiatria?” rappresenta la prima fase. Sono problemi
ancora aperti perché negli anni di colpevole inerzia in cui la
mancanza di servizi ha continuato a tenere vivo il bisogno di
internamento, così come non si è potuta cancellare l’altra faccia del
malato e della malattia che le esperienze pratiche facevano
emergere, non si è potuto procedere nel radicale discorso critico su
che cos’è la psichiatria. La chiusura dei manicomi (vera o
mascherata?) e l’avvio che speriamo reale di servizi e strutture
adeguati sono solo il punto di partenza per la possibilità di un
ulteriore processo critico. Ma quale potrà essere l’evoluzione di
questo processo nel contesto sociale in cui viviamo? La cultura
dell’esclusione è viva e operante in tutti i settori della marginalità, via
via aumentati negli ultimi tempi da disoccupazione diffusa,
disgregazione dei gruppi sociali, perdita del senso di appartenenza e
di identità, fonti costanti di un conflitto che, qualora resti senza
interlocutori e senza risposta, può evolvere in disagi e sofferenze
che facilmente si organizzano in malattia. Quali discipline saranno in
grado di confrontarsi con “questi” problemi? La psichiatria
tradizionale che, in gran parte, si continua ad insegnare all’università
come se nulla fosse emerso dalle esperienze di questi anni, pare
fatichi ad uscire dal modello medico e dal letto ospedaliero. Ma una
cultura diversa che - confrontandosi con i conflitti senza cancellarli -
sappia intrecciare competenze e disponibilità, tutela e vita, pare
fatichi a farsi strada in un sistema che tenta di trasformarsi
riproponendo spesso vecchie logiche e vecchi paradigmi.
Franca Ongaro Basaglia

Venezia, 17 luglio 1997

CHE COS’E’ LA PSICHIATRIA?


di Franco Basaglia.

“Nessuno cerca di serbare per sé, ciascuno attende il fruttificare del


dono di tutti della «divisione» tra tutti. Ed effettivamente niente è
ancora più fruttuoso. Quando vedo oggi degli spiriti, per altri aspetti
notevoli, mostrarsi così gelosi della loro autonomia e così decisi,
manifestamente, a portare nella loro tomba i loro piccoli segreti, mi
dico che si è andati indietro e che per quanto li riguarda, checché ne
pensino, non sono sulla buona strada”.

ANDRE’ BRETON

Nel 1948 J.-P. Sartre, nel saggio “Che cos’è la letteratura?”


(“Situations II”, Gallimard, Paris), scrive fra l’altro che «le ideologie
sono libertà mentre si fanno, oppressione quando sono fatte».
Questa precisazione sul fissarsi in schemi prestabiliti di ciò che, nato
come rifiuto di una realtà data, nella realtà deve trovare il senso del
suo continuo rinnovarsi per non tramutarsi in oppressione di sé, è la
premessa su cui si basano le discussioni e i saggi qui presentati che
formulano tutti un’unica domanda: che cos’è la psichiatria?

Questa domanda - di per sé provocatoria - vuole essere solo un


invito ad una discussione. Essa nasce dallo stato di disagio reale in
cui ci si trova, oppressi da una ideologia psichiatrica chiusa e definita
nel suo ruolo di scienza dogmatica che, nei confronti dell’oggetto
della sua ricerca, ha saputo solo definirne la “diversità e
incomprensibilità” venute a tradursi concretamente nella sua
stigmatizzazione sociale.

Le diagnosi psichiatriche hanno assunto infatti un valore ormai


categoriale, nel senso che corrispondono ad un etichettamento, ad
una stigmatizzazione del malato, oltre i quali non c’è più possibilità
d’azione o di approccio. Nel momento in cui lo psichiatra si trova
faccia a faccia con il suo interlocutore (il «malato mentale») sa di
poter contare su un bagaglio di conoscenze tecniche con le quali -
partendo dai sintomi - sarà in grado di ricostruire il fantasma di una
malattia; avendo, tuttavia, la netta percezione che - non appena ne
avrà formulata la diagnosi - l’uomo sfuggirà ai suoi occhi, perché
definitivamente codificato in un ruolo che ne sancisce soprattutto un
nuovo status sociale. Si entra cioè in una sorta di passività che lo
«scienziato» viene ad assumere di fronte al fenomeno e che lo porta
a risolverlo attraverso una routine tecnicamente perfetta - da lui
nettamente separata - la cui finalità pare quella dello smistamento
fra ciò che è normale e ciò che non lo è. La sua partecipazione in
questa operazione è nulla, perché i parametri su cui la psichiatria ha
costruito il suo sistema, lo mettono al riparo dalla problematicità della
situazione, così che in questo rapporto a due non esiste né
l’intervistatore (che non è «situato»), né l’intervistato (che viene
cancellato nel momento in cui lo si codifica).

La necessità della partecipazione diretta alla situazione da parte del


ricercatore, è analizzata da Sartre nella “Critique de la raison
dialectique” (Gallimard, 1960) quando afferma che «la posizione
dello sperimentatore de-situato tende a mantenere la Ragione
analitica come tipo di intelligibilità; la sua passività di scienziato
rispetto al sistema gli rivelerebbe una passività del sistema rispetto a
se stesso. La dialettica si svela solo a un osservatore situato
all’interno, cioè ad un ricercatore che viva la propria indagine sia
come un contributo possibile all’ideologia dell’epoca nella sua
interezza, sia come “praxis” particolare di un individuo, definito dalla
sua avventura storica e personale in seno ad una storia più vasta
che la condizioni».
Questa distanza del ricercatore dal terreno della propria ricerca è
particolarmente significativa nel caso della psichiatria, se si
confronta la frattura in atto fra il rigoroso livello tecnico delle
dissertazioni scientifiche (con l’enorme castello di classificazioni,
sottoclassificazioni, precisazioni e bizantinismi nosografici) e la
realtà cui tali dissertazioni si riferiscono: il malato mentale, così
come si presenta - dopo anni di ospedalizzazione - nei nostri asili
psichiatrici. Da un lato, dunque, una scienza ideologicamente
impegnata alla ricerca della genesi di una malattia che riconosce
«incomprensibile»; dall’altro un malato che, per la sua presunta
«incomprensibilità», è stato oppresso, mortificato, distrutto da
un’organizzazione asilare che, invece di agire su di lui con il ruolo
protettivo di una struttura terapeutica, ha contribuito alla graduale -
spesso irreversibile - disintegrazione della sua identità.

Di fronte ad una tale verifica della realtà non si può dunque esimerci
dal domandare che cosa sia la psichiatria e quale sia il suo campo
d’indagine. Se cioè si occupi del malato mentale o, limitando il suo
contributo ad una elaborazione puramente ideologica, si interessi
solo delle sindromi in cui lo rinchiude; e, qualora riconosca nel
malato mentale l’oggetto della sua indagine, quale sia la sua
giustificazione nel momento in cui se ne esaminino i risultati:
l’istituzionalizzato dei nostri ricoveri. Ci si domanda insomma se i
fatti “insignificanti” che spesso fanno crollare interi sistemi teorici (nel
nostro caso i malati che vegetano negli asili) non siano da troppo
tempo entrati in conflitto con la teoria cui la psichiatria si appella, e
se non sia il caso che la teoria ceda il passo, per lasciar parlare i
fatti. E’ questo che si domanda un gruppo di malati mentali, medici,
infermieri, psicologi ed amministratori, impegnati tutti nel campo
dell’istituzione psichiatrica. Domanda che nasce dal disagio reale,
vissuto a tutti i livelli, nel momento in cui si mette in discussione la
validità, e l’arbitrarietà insieme, del rapporto autoritario-gerarchico su
cui l’intera vita asilare tradizionalmente si fonda.

Nel momento in cui si esamini il significato globale di un tale tipo di


organizzazione e le finalità dei diversi ruoli che in essa si trovano ad
agire, non si può non concludere - alla luce delle attuali possibilità
terapeutiche nei confronti del malato - di trovarci di fronte ad un
insieme di fenomeni che ha in sé qualcosa di paradossale. Il
complesso ospedaliero sembra avere in se stesso le proprie finalità,
nel senso che il lavorio che lo sottende pare servire soltanto a
mantenerlo in vita, senza peraltro tendere verso qualcosa che ne
giustifichi la funzione. Se poi ci si avvicini, tanto da individuare i vari
livelli che interagiscono all’interno del sistema, la prima impressione
globale sarà confermata dall’assenza di evidenti ruoli reali. Quello
che si rileva subito è che il malato non esiste (anche se sarebbe lui il
soggetto della finalità dell’intera istituzione), fissato com’è in un ruolo
passivo che lo codifica e insieme lo cancella. Ma ciò che, inoltre, non
si riesce ad individuare è il ruolo dello psichiatra e dell’infermiere. Se
si trascura quello dell’autorità e del potere di cui sono generalmente
investiti - che fa parte di una catena di imposizioni perpetuantesi da
un livello all’altro, fino a chiudersi con “l’aggressività malata” che
richiede di essere contenuta - non si riesce a giustificare appieno la
loro presenza. Si arriva così a comprendere come - al di là del livello
della custodia - la loro azione necessiti di essere continuamente
trascesa nell’autorità che li distanzi e che, insieme, mascheri ai loro
stessi occhi il niente che non possono riconoscere di essere.

Se infatti la finalità dell’istituto non è esplicitamente la figura del


«malato», l’intera organizzazione viene svuotata di ogni significato:
che può, però, immediatamente riassumere nel momento in cui
venga riconosciuto al malato un ruolo. In questa prospettiva, il primo
passo indispensabile è il raccorciamento della distanza che lo
separa dagli altri ruoli, raccorciamento che agisca su di lui come il
simbolo del riconoscimento del proprio valore. Su questa base può
essere instaurato con il malato un rapporto reale che parta da una
reciprocità finora negatagli.

Tuttavia sarà questa reciprocità a mettere in discussione il ruolo


autoritario dell’infermiere e del medico che, contestati da un malato
che li fa uscire dai loro ruoli privilegiati, devono andare alla ricerca di
una funzione reale che sostituisca quella - fittizia e spesso di
malafede - che l’autorità e il prestigio della loro posizione gerarchica
avevano loro conferito. Se la reciprocità dei ruoli tende a negare ogni
gerarchia, allora avviare un tale tipo di rapporto con il malato,
significa minare il principio autoritario-gerarchico su cui l’intera
organizzazione ospedaliera si fonda, per tendere ad un organismo in
cui ogni polo della realtà cerchi, attraverso l’altro, il proprio
significato. In questo senso se la liberazione del malato si attua
attraverso l’azione dello psichiatra e dello staff ospedaliero, lo
psichiatra e lo staff trovano la loro liberazione attraverso il malato
che - solo - può dare loro il ruolo che non hanno ancora avuto.

La nostra realtà è dunque l’internato degli ospedali psichiatrici, per il


quale la psichiatria non ha trovato finora che soluzioni negative,
vivendone l’incomprensibile psicopatologico come una mostruosità
socio-biologica da allontanare e da escludere. Ma se lo studioso di
psicopatologia può trovare legittimo continuare a cercare
ideologicamente la soluzione per una tale “mostruosità”,
mantenendosi staccato dalla realtà che non gli sta sotto gli occhi, lo
psichiatra che faccia parte di un’organizzazione ospedaliera, si trova
inevitabilmente costretto ad una scelta immediata. O accetta i
parametri della psichiatria tradizionale e, quindi, fa ad essi aderire il
malato ed i sintomi con i quali è stato etichettato, sanando il conflitto
fra teoria e pratica a solo favore della teoria (e allora instaura con lui
l’ovvio rapporto gerarchico-autoritario che il suo ruolo gli richiede). O
si avvicina al malato così com’è, cercando di comprendere che cosa
è diventato a causa di quei parametri che ne hanno sancito - come
con un marchio - la “diversità”, dando la precedenza questa volta
alla realtà, come unica fonte di verifica. L’alternativa oscilla dunque
fra un’interpretazione ideologica della malattia che consiste nella
formulazione di una diagnosi esatta, ottenuta attraverso
l’incasellamento dei diversi sintomi in uno schema sindromico
precostituito; o l’approccio al «malato mentale» su di una
dimensione reale in cui la classificazione della malattia ha e non ha
peso, dato che il livello di regressione che lo accomuna agli altri
ricoverati, è legato ad una serie di comuni circostanze istituzionali -
quelle che Goffman chiama «contingenze di carriera» - più che alla
sindrome in sé: non si tratta dunque solo di regressione malata, ma
anche di regressione istituzionale.
L. Binswanger (“La conception de l’homme chez Freud a la lumière
de l’anthropologie philosophique”, in «Ev. Psych. f.», I, 3, 1938)
aveva già puntualizzato il pericolo cui va incontro un metodo di
approccio scientifico che «allontanandosi da noi stessi, porta ad una
concezione teorica, alla osservazione, all’esame, allo
smembramento dell’uomo reale allo scopo di costruirne
scientificamente un’immagine». Pure, è solo corredato di una serie
di immagini e di categorie precostituite di tal natura, che lo psichiatra
si trova ad affrontare il malato mentale; costretto quindi a mettere fra
parentesi la malattia, la diagnosi, la sindrome in cui è stato
etichettato, se vuole riuscire a comprenderlo e soprattutto ad agire
su di lui, dato che risulta distrutto, più che dalla malattia, da ciò che
la malattia è stata ritenuta e dalle misure di sicurezza che una tale
interpretazione ha imposto.

Tuttavia, nel momento in cui si mette in discussione la psichiatria


tradizionale che - nell’aver assunto a valore metafisico i parametri su
cui fonda il suo sistema - si è rivelata inadeguata al suo compito, si
corre il rischio di cadere in un analogo impasse, qualora ci si
immerga nella pratica, senza mantenere anche in questo terreno un
livello critico; il che porterebbe lo psichiatra a nuovamente «de-
situarsi», seppure in modo diverso.

Ciò significa che, volendo partire dal «malato mentale», dal


ricoverato dei nostri istituti come unica realtà, c’è il pericolo di
avvicinare il problema in modo puramente emotivo. Capovolgendo,
in un’immagine positiva, il negativo del sistema coercitivo-autoritario
del vecchio manicomio, si rischia di saturare il nostro senso di colpa
nei confronti dei malati in un impulso umanitario, capace soltanto di
confondere nuovamente i termini del problema. Liberato dalla sua
promiscuità con il delinquente; rinchiuso in un carcere non meno
duro del precedente; etichettato in un ruolo non molto diverso da
quello del colpevole punito; allontanato e isolato in quanto
riconosciuto dalla scienza psicologicamente e biologicamente
“incomprensibile”; il malato rischia di diventare ora il «povero
malato» che ha pagato per tutti, per il quale necessita progettare
nuove strutture a carattere prevalentemente riparatorio. Il «“cattivo”»
malato, la cui tutela doveva essere affidata ad un sistema carcerario,
rischia di diventare il «“buon”» malato che si tenta di reintegrare -
attraverso nuove strutture terapeutiche - alla società, conservando
però intatto il sistema di privilegi, prevaricazioni, paure e pregiudizi
che la caratterizzano. Ciò, mediante un complesso di istituzioni che
continui a preservarla e a garantirla dalla “diversità” che la malattia
mentale tuttora rappresenta. Del resto, in un mondo manicheo, la
figura del «malato mentale» non può essere vissuta come un
problema che lo metta in crisi: tuttalpiù potrà mutare il ruolo
all’interno del sistema stesso, la cui tranquillità deve essere, prima di
tutto, salvaguardata.

La risposta che, in una recentissima intervista (“J.-P. Sartre répond”,


in «L’Arc.», n. 30, 1966) J.-P. Sartre dà, riprendendo il tema da lui
affrontato nel saggio del ‘47 prima citato, sembra calzare
perfettamente al discorso finora impostato, tanto da ritenersi qui
opportuno trascriverne uno stralcio. All’intervistatore che gli contesta
una sua affermazione secondo cui «nessun libro resiste davanti ad
un bambino che muore di fame», J.-P. Sartre risponde che «fra la
fame del bambino ed il libro la distanza è incommensurabile. Ma se
è l’emozione che io provo davanti alla fame che mi spinge a scrivere
- continua Sartre - non è possibile riempire il vuoto. Per lottare contro
la fame bisogna cambiare il sistema politico ed economico e la
letteratura non può giocare in questa lotta che un ruolo secondario.
Un ruolo secondario che però non è nullo. C’è un’ambiguità nelle
parole: - da un lato non sono che parole - ‘letteratura’; dall’altro
designano qualcosa e a loro volta agiscono su ciò che designano:
modificano. La letteratura deve giocare su questa ambiguità. Se si
pone l’accento più sull’uno che sull’altro aspetto o si fa della
letteratura di propaganda o la si riduce a quel nulla che non vuole
essere… Ma se si mantiene fermamente l’ambiguità, se non si
sacrifica né l’uno né l’altro aspetto delle parole, si sarà già a buon
punto per fare la vera letteratura: “una contestazione che contesta
se stessa”» [il corsivo è mio].

Il discorso di Sartre è ancora una volta direttamente trasferibile al


nostro. Il «malato mentale» che incontriamo negli asili psichiatrici è,
infatti, la realtà che contesta la psichiatria così come il bambino che
muore di fame contesta la «letteratura». Ma se è solo l’emozione
che io provo davanti al malato che mi spinge ad agire nei suoi
confronti, non è possibile riempire il vuoto che lo separa dalla
scienza che dovrebbe occuparsi di lui. Quindi, o la parola conserva
la sua ambiguità di essere «parola» che contemporaneamente
modifica ciò che designa (e allora la psichiatria deve essere una
scienza che agisce direttamente sul malato come ciò che il discorso
psichiatrico deve designare per modificare); o si prende un solo polo
di tale ambiguità e si fa, da un lato, della «letteratura» (discutendo
sulle classificazioni e sottoclassificazioni delle sindromi); e dall’altro
una analisi emotiva del «malato» e della deprecabile situazione in
cui si trova. Rifiutando invece e la sterile «letteratura» psichiatrica e
lo sterile rapporto puramente umanitario, si sente l’esigenza di una
psichiatria che voglia costantemente trovare la sua verifica nella
realtà e che nella realtà trovi gli elementi di “contestazione per
contestare se stessa”.

La psichiatria asilare riconosca dunque di aver fallito il suo incontro


con il reale, sfuggendo alla verifica che - attraverso quella realtà -
avrebbe potuto attuare. Una volta sfuggitale la realtà, non ha che
continuato a fare della «letteratura», elaborando le sue teorie
ideologiche, mentre il «malato» si trovava a pagare le conseguenze
di questa frattura - rinchiuso nell’unica dimensione ritenuta adatta a
lui: la segregazione.

Ma, come per Sartre il ruolo della letteratura nella lotta contro la
fame è secondario, perché «per lottare contro la fame bisogna
cambiare il sistema politico ed economico», così nel nostro campo,
per lottare contro i risultati di una scienza ideologica, bisogna anche
lottare per cambiare il sistema che la sostiene. Se, infatti, la
psichiatria - attraverso la conferma scientifica dell’incomprensibilità
dei sintomi - ha giocato la sua parte nel processo di esclusione del
«malato mentale», essa è da considerarsi, insieme, l’espressione di
un sistema che ha finora creduto di negare ed annullare le proprie
contraddizioni allontanandole da sé, rifiutandone la dialettica nel
tentativo di riconoscersi ideologicamente come una società senza
contraddizioni; così come proverà ora ad ammorbidirne le asperità,
cercando di riassorbirle nel suo stesso seno attraverso una
“psichiatria di propaganda” (che è appunto la letteratura di
propaganda di cui parlava Sartre nella sua intervista) che viene
proposta come nuova alternativa.

Per questo, il gruppo di malati, medici, psicologi, infermieri e


amministratori, qui presenti con le loro discussioni e saggi sulla
realtà asilare, hanno intrapreso - partendo da una verifica della
realtà - una lotta che deve muoversi ad un livello scientifico e politico
insieme. Se, infatti, il malato è l’unica realtà cui ci si debba riferire, si
devono affrontare le due facce di cui tale realtà è appunto costituita:
quella del suo essere un malato, con una problematica
psicopatologica (dialettica e non ideologica) e quella del suo essere
un escluso, uno stigmatizzato sociale. Una comunità che vuol essere
terapeutica deve tener conto di questa duplice realtà - la malattia e
la stigmatizzazione - per poter ricostruire gradualmente il volto del
malato così come doveva essere prima che la società, con i suoi
numerosi atti di esclusione, e l’istituto da lei inventato, agissero su di
lui con la loro forza negativa.

Tuttavia, soltanto tenendo presente l’estrema ambiguità della


situazione che stiamo vivendo, si riuscirà ad evitare l’edificazione di
una nuova ideologia: quella dell’ospedale aperto, delle comunità
terapeutiche, proposte come soluzione al problema del malato
mentale. La nostra realtà è affondata in un terreno profondamente
contraddittorio e la conquista della libertà del malato deve coincidere
con la conquista della libertà dell’«intera comunità». Si tende, infatti,
verso una nuova psichiatria basata sull’approccio psicoterapico con
il malato, e si è invece ancora invischiati in una realtà psichiatrica
legata ai vecchi schemi positivisti; ci si orienta verso la costituzione
di nuclei ospedalieri che tengano conto del gioco delle dinamiche
interne ai gruppi e dell’apporto delle relazioni interpersonali, non
avendo altri modelli cui riferirsi che quelli di un sistema autoritario e
gerarchico; ci si sforza di trasformare l’ospedale psichiatrico in un
centro retto - per quanto possibile - comunitariamente e si è invece
nostro malgrado inseriti in una realtà sociale ad alto livello repressivo
e competitivo; si tende ad affrontare comunitariamente il malato
mentale per farlo uscire dallo stato di regressione in cui è stato
indotto, e si rischia di provocare in lui un nuovo tipo di
disadattamento al clima istituzionalizzato della società.

Se quello della comunità terapeutica può essere, dunque,


considerato un passo necessario nell’evoluzione dell’ospedale
psichiatrico (necessario soprattutto nella funzione che ha avuto e
che tuttora ha di smascheramento di ciò che il malato mentale era
ritenuto e non è e per l’individuazione dei ruoli prima inesistenti al di
fuori della dimensione autoritaria) non può però considerarsi la meta
finale verso cui tendere, quanto piuttosto una fase transitoria in
attesa che la situazione stessa si evolva in modo da fornirci nuovi
elementi di chiarificazione. Ciò che risulta importante, per il
momento, è riuscire a mantenere, affrontare ed accettare le nostre
contraddizioni, senza essere tentati di allontanarle per negarle. Per
questo il compito della psichiatria attuale potrebbe essere quello di
rifiutarsi di ricercare una soluzione della malattia mentale come
malattia, ma di avvicinare questo tipo particolare di malato come un
“problema” che - solo in quanto presente nella nostra realtà - potrà
rappresentarne uno degli aspetti contraddittori per la cui soluzione si
dovranno impostare ed inventare nuovi tipi di ricerca e nuove
strutture terapeutiche.

Ciò si è evidenziato chiaramente nelle organizzazioni ospedaliere


aperte: il degente - non più isolato e allontanato dalla vista del
medico - si impone come problema sempre presente, quindi come
uno dei poli della realtà che non si può negare. Ma è possibile che
soltanto lo psichiatra lo viva come problema, mentre la società
continua a volerlo rinchiudere nel ruolo di malato, per non doversi
impegnare ad affrontarlo nella sua presenza quotidiana? Lo
psichiatra non può affrontare una tale esperienza se la società non si
allinea nella stessa direzione e l’unica possibilità - che non è e non
vuole essere una soluzione - è quella di accettare come parte della
nostra realtà la problematica del malato mentale. Solo nel momento
in cui il problema sia vissuto da tutti noi, la società dovrà imporsi
soluzioni reali attraverso l’organizzazione di strutture terapeutiche,
come l’unico modo di far fronte alla sua incresciosa presenza nella
nostra realtà. Fintantoché - altrove - altri si cureranno di lui,
continueremo a negare il problema nel timore di riconoscerci ed
identificarci in esso.

Ciò che si va evidenziando nelle nuove strutture psichiatriche, tuttora


ristrette entro i limiti del capovolgimento del sistema tradizionale, è
che l’ospedale psichiatrico non è un’istituzione che guarisce, ma una
comunità che si guarisce affrontando le proprie contraddizioni, dato
che si tratta di comunità reali, ricche di tutte le contraddizioni che
caratterizzano appunto la realtà. Per questo, dal momento in cui il
mondo istituzionale non sarà più rinchiuso entro i confini di una
realtà artificiosa, verrà a trovarsi faccia a faccia con il mondo esterno
che, a sua volta, dovrà imparare ad accettare le proprie
contraddizioni non avendo più un luogo in cui relegarle. In questo
senso si può parlare di un incontro delle due comunità (quella
esterna e quella interna), già fisicamente concretatosi
nell’espandersi della città fino alla periferia dove, un tempo, era
confinata la casa della follia, e nell’evolversi della comunità chiusa
che - nel suo manifestarsi una comunità viva, reale e contraddittoria
- si troverà a scontrarsi dialetticamente con la realtà da cui è stata
partorita. Si potrà così minare contemporaneamente e l’ideologia
dell’ospedale come macchina che cura, come fantasma terapeutico,
come luogo senza contraddizioni; e l’ideologia di una società che,
negando le proprie contraddizioni, vuole riconoscersi come una
società sana.

LA LIBERTA’ COMUNITARIA
La libertà comunitaria come
alternativa alla regressione
istituzionale
di Franco Basaglia.

[Incontro con gli infermieri dell’Ospedale Psichiatrico di Colorno


(Parma) nell’autunno 1966].

Nel 1952, un numero speciale dell’«Esprit», fu dedicato al tema “La


miseria della psichiatria” e vi collaborarono gli psichiatri francesi che,
fin da allora, erano impegnati alla ricerca di un nuovo modo di
approccio istituzionale al malato mentale. In un articolo sulla
“Condizione del malato nell’ospedale psichiatrico” di L. Le Guillant e
L. Bonnafè si legge: «La condizione dei malati nell’ospedale
psichiatrico non sembra sia effetto di qualche ‘maledizione’… Se
questi malati sono più duramente trattati degli altri… è in definitiva
perché si tratta di malati senza difesa, senza voce e senza diritti. Gli
alienati sono (agli occhi della classe dominante) i negri, gli indigeni,
gli ebrei, i proletari degli altri malati. Come loro, sono vittime di un
certo numero di pregiudizii e di ingiustizie. Pregiudizii ed ingiustizie
che comunque non concernono affatto la natura della follia».

In Italia, a tutt’oggi, una legge antica, incerta fra l’assistenza e la


sicurezza, la pietà e la paura, continua a stabilire i limiti oltre i quali si
passa la frontiera fra il cittadino che ha - di fronte alla società - il
diritto di essere difeso, e il malato che, solo in quanto tale, perde
questo diritto, perché fa ormai parte della schiera di coloro da cui la
società vuole difendersi.

«“Pericoloso a sé e agli altri e di pubblico scandalo”». Questa è la


motivazione con la quale il malato mentale entra in manicomio; in un
luogo la cui funzione è - in questa motivazione stessa - già precisata
come azione di tutela, di difesa del sano di fronte alla follia e dove il
malato assume un ruolo puramente negativo, come se il suo
rapporto con l’istituzione si svolgesse al solo livello della sua
eventuale pericolosità. Da ciò deriva che, se il malato - prima di
essere considerato tale - è da ritenersi soprattutto “pericoloso”, le
regole su cui l’istituzione che dovrebbe occuparsi della sua cura, si
edifica, non possono essere istituite che in funzione di questa
pericolosità e non della malattia di cui soffre. Per questo la figura del
malato mentale, così come appare abitualmente nei nostri ospedali,
è quella dell’uomo oggettivato in un istituto, la cui organizzazione ed
efficienza sono sempre risultate più importanti della sua
riabilitazione.

E’ qui superfluo dilungarci in descrizioni - ormai ovvie - dello stato di


passività, di apatia, di disinteresse in cui vivono i malati nei nostri
ricoveri. Esso è stato riconosciuto come una forma di regressione,
venuta a sovrapporsi alla malattia originaria, a causa del processo di
annientamento e di distruzione cui i malati sono sottoposti dalla vita
dell’asilo. Basti dire che il perfetto ricoverato, all’apice di questa
carriera, sarà quello che si presenta completamente ammansito,
docile all’autorità degli infermieri e del medico; quello che, in
definitiva, non complica le cose con reazioni personali, ma si adegua
supinamente all’autorità che lo tutela; autorità che solo attraverso la
negazione di ogni impulso e bisogno personale di chi le viene
affidato, si garantisce l’efficienza ed il buon andamento dell’istituto.

Questa la situazione fallimentare della psichiatria istituzionale


tradizionale. Di chi sia stata la colpa, è a questo punto inutile
indagare. Ogni società, le cui strutture siano basate soltanto su una
discriminazione economica, culturale e su un sistema competitivo,
crea in sé delle aree di compenso che servono come valvole di
scarico all’intero sistema. Il malato mentale ha assolto questo
compito per molto tempo, anche perché era un «“escluso”» che non
poteva conoscere da sé i limiti della sua malattia e quindi ha creduto
- come la società e la psichiatria gli hanno fatto credere - che ogni
suo atto di contestazione alla realtà che è costretto a vivere, sia un
atto malato, espressione appunto della sindrome di cui soffre.

Se dunque da un lato è il sistema sociale a determinare una simile


situazione, dall’altro la psichiatria stessa l’ha avvalorata
scientificamente, riconoscendo l’incomprensibile del fenomeno
psicopatologico come una mostruosità biologica che poteva solo
essere isolata.

Ora è però la psichiatria, come esigenza di verità scientifica, a


riproporre il problema, non già alla ricerca di un capro espiatorio su
cui scaricare le aggressività accumulate (il che ci manterrebbe
ancora ristretti nei limiti di un mondo manicheo dove si separi
nettamente il Male dal Bene), ma nel tentativo di trovare, nel vivo,
una soluzione ai problemi che urgono.

Di fronte al volto, mutato dall’era dei farmaci, del malato mentale, è


infatti la psichiatria che rifiuta di continuare a trattarlo come un
“escluso” da cui la società vuole ancora difendersi. E rifiuta di
continuare a tenerlo prigioniero di formule, etichettamenti, qualifiche
che corrispondono più ad un’immagine che la psichiatria stessa si
era costruita dell’uomo malato, che ad una realtà. L‘“agitato”, il
“pericoloso”, lo “scandaloso” non corrispondono a modalità umane di
cui si vogliano conoscere le più intime motivazioni, ma sono ormai
categorie il cui significato risulta «consumato» ed assorbito in
un’unica realtà: l’uomo da escludere.

Il piano in cui la psichiatria attuale si pone è, dunque, prima di tutto


un piano umano e sociale. Esso richiede un tipo di approccio al
malato che, sempre tenendo conto dell’efficacia dei trattamenti
biologici, non dimentichi di trovarsi di fronte un uomo e non una
malattia cui farne aderire i sintomi, una categoria in cui rinchiuderlo,
o una mostruosità da allontanare.

Nel 1838, quando non c’erano i ganglioplegici, né la psicanalisi


aveva ancora attuato l’approccio psicodinamico, un coraggioso
psichiatra inglese, il dottor Conolly con l’aiuto di trenta infermieri,
apriva le porte ed eliminava le contenzioni in un ospedale
psichiatrico di cinquecento malati. Aveva impostato intuitivamente
quella che più di cento anni dopo Maxwell Jones - sempre in
Inghilterra - avrebbe chiamato la «comunità terapeutica». «Ciò che
più colpisce gli uomini, anche i più lontani dalla medicina - scrive nel
1858 Morel, dopo aver visitato l’impresa di Conolly - è l’ordine e la
disciplina di questi asili, la calma dei malati e i sentimenti d’umanità
che animano i sorveglianti e gli infermieri dell’uno e dell’altro sesso.
Ho visto malati passeggiare in lunghi corridoi dove circolava
liberamente aria e luce; questi corridoi sui quali si aprono le stanze
dei ricoverati, sono ornati di tavoli e di fiori e portano a sale di
riunioni dove si incontrano i pensionati di diverse classi e dove
trovano libri, giornali ed altre distrazioni». Tutto questo accadeva in
Inghilterra nel 1838 (1).

Da allora c’è stata la psicanalisi; l’antropologia esistenziale ha


ulteriormente umanizzato l’approccio psicoterapico; sono stati
scoperti farmaci tali da mutare il volto del malato mentale; sono in
atto esperienze già collaudate in paesi stranieri come l’Inghilterra e
la Francia (seppure su basi diverse le une dalle altre) e in Italia,
tuttavia, siamo ancora legati ad uno scetticismo e ad una pigrizia che
non hanno giustificazioni.

L’unica spiegazione può essere data in chiave socioeconomica: il


nostro sistema sociale - ben lontano dall’essere un regime
economico di pieno impiego - non può essere interessato alla
riabilitazione del malato mentale che non potrebbe essere recepito
da una società, dove non è risolto il problema del lavoro dei suoi
membri sani.

In questo senso ogni esigenza di carattere scientifico da parte della


psichiatria, rischia di perdere il suo significato più importante - il suo
aggancio appunto sociale - se alla sua azione all’interno di un
sistema ospedaliero ormai in sfacelo, non si unisce un movimento
strutturale di base che abbia a tener conto di tutti i problemi di
carattere sociale che sono legati all’assistenza psichiatrica. Per
questo, anche l’esperienza attuata dalla comunità che io qui
rappresento, pur avendo ottenuto innegabili risultati in questo
campo, continua a correre il rischio di perdersi se non riesce a
trovare una risposta nel contesto sociale su cui agisce.

Mi scuso, fin dall’inizio, se - per quanto riguarda l’impostazione del


problema psichiatrico relativo alla comunità terapeutica - mi troverò
costretto a fare riferimenti ad esperienze personali, senza le quali,
d’altra parte, il discorso rischierebbe di rimanere astratto ed inutile.
Comunque parlare di un’esperienza i cui risultati ci consentano di
esporre brevemente le basi teoriche su cui la nostra impostazione si
fonda, penso possa avere il valore di una smentita al senso comune,
e possa servire come dimostrazione che mutamenti, anche radicali,
sono possibili se solo si incominci ad attuarli.

La comunità terapeutica si presenta come una comunità e non un


agglomerato di malati. Come una comunità organizzata in modo da
consentire il movimento di dinamiche interpersonali fra i gruppi che
la costituiscono e che presenta le caratteristiche di qualsiasi altra
comunità di uomini liberi. Questo è l’assunto di base.

Ciò che è più difficile illustrare è il concetto di terapeuticità legato alla


comunità. Non tutte le comunità risultano, infatti, terapeutiche. Le
caserme, i collegi sono organizzazioni di uomini “liberi” che devono,
tuttavia, essere subordinati alle regole della comunità cui
appartengono; regole basate sull’efficienza necessaria al buon
andamento dell’organizzazione. Tuttavia, anche se tale efficienza è
ottenuta solo attraverso la mortificazione individuale, essa non mina
che parzialmente la libertà dei suoi membri cui, all’esterno
dell’organizzazione stessa, è consentita una vita personale.

Una comunità terapeutica psichiatrica non potrebbe però partire da


questi presupposti. Se accettasse, come l’organizzazione
psichiatrica tradizionale aveva accettato, la mortificazione individuale
dei malati in nome dell’efficienza dell’istituto, dell’ordine, della
sicurezza generale, riconfermerebbe il clima istituzionale che vuole
distruggere. Deve quindi partire dalle esigenze del malato e da lì
cercare di adattare attorno a lui lo spazio vitale di cui ha bisogno per
espandersi ed attuare quello che è l’assunto primo della comunità
terapeutica: la potenza terapeutica che ognuno dei componenti la
comunità sprigiona nei confronti dell’altro. Malato, medico,
infermiere, personale amministrativo, chiunque sia presente
nell’istituto si trova coinvolto ad assolvere questo compito. Tutto è
quindi orientato verso un unico fine: creare un clima nel quale sia
possibile avvicinarsi reciprocamente in un rapporto umano che,
proprio in quanto spontaneo, immediato e reciproco, diventa
terapeutico.

La scoperta della comunità terapeutica - attuata da Maxwell Jones


nel 1952 - sembra quindi la soluzione più ovvia per un tipo di malato
che risulta disturbato soprattutto nel rapporto con se stesso e con
l’altro. Ma se sembra tanto ovvia nella enunciazione, essa si rivela
molto più difficile nella sua applicazione pratica. Ciò significa, infatti,
l’apertura delle porte dell’ospedale psichiatrico - chiuso finora in un
mondo senza contraddizioni perché ogni espressione e ogni bisogno
personale era impedito - al mondo della dialettica, dell’opposizione,
dell’accordo ottenuto mediante il reciproco convincimento e non con
la prevaricazione e la forza.

E’ dunque facile farsi un’immagine falsa della comunità terapeutica


come di un mondo ideale dove tutti sono buoni, dove i rapporti sono
improntati al più profondo umanitarismo, dove il lavoro risulti
altamente gratificante: un po’ come viene presentata addolcita e con
una sola faccia, la realtà della pubblicità televisiva, dove siamo
invitati a partecipare di una vita irreale, ideologica, senza
contraddizioni.

La comunità terapeutica vuole essere appunto la negazione di


questo mondo ideale. Essa è un luogo nel quale tutti i componenti (e
ciò è importante) - malati, infermieri e medici - sono uniti in un
impegno totale dove le contraddizioni della realtà rappresentano
l’humus dal quale scaturisce l’azione terapeutica reciproca. E’ il
gioco delle contraddizioni - anche a livello dei medici fra loro, medici
e infermieri, infermieri e malati, malati e medici - che continua a
rompere una situazione che, altrimenti, potrebbe facilmente portare
ad una cristallizzazione dei ruoli.
E’ ovvio, tuttavia, che la contestazione si può muovere solo in un
clima di libertà. E la libertà ha i suoi rischi. Impostare
un’organizzazione psichiatrica sullo sviluppo della capacità di
opporsi del malato (capacità attraverso la quale il suo io indebolito
riesca a prender forza), significa dover distruggere ogni riferimento al
metro con cui la psichiatria tradizionale lo aveva misurato: la
pericolosità, la necessità di misure di sicurezza, considerate
terapeutiche. La situazione viene necessariamente capovolta: se
prima l’architettura stessa dell’ospedale doveva tener conto della
necessità del sorvegliante di spaziare col suo occhio vigile il più
lontano possibile, ora si deve tener conto della necessità del
mantenimento del mondo privato di ognuno, che deve poter
sussistere anche in opposizione alla comunità stessa.

Ciò presuppone però il mutamento radicale del rapporto che non può
essere improntato che all’autentico rispetto reciproco. Vivere
dialetticamente le contraddizioni del reale è dunque l’aspetto
terapeutico del nostro lavoro. Se tali contraddizioni - anziché essere
ignorate o programmaticamente allontanate nel tentativo di creare
un mondo ideale - vengono affrontate dialetticamente, se le
prevaricazioni degli uni sugli altri e la tecnica del capro espiatorio -
anziché essere accettate come inevitabili - vengono dialetticamente
discusse, così da permettere di comprenderne le dinamiche interne,
allora la comunità diventa terapeutica. Ma la dialettica esiste solo
quando ci sia più di una possibilità, cioè un’alternativa. Se il malato
non ha alternative, se la sua vita gli si presenta già prestabilita,
organizzata e la sua partecipazione personale consiste nell’adesione
all’ordine, senza possibilità di scampo, si troverà imprigionato nel
terreno psichiatrico, così come si sentiva imprigionato nel mondo
esterno di cui non riusciva ad affrontare dialetticamente le
contraddizioni. Come la realtà che non riusciva a contestare, l’istituto
cui non può opporsi non gli lascia che un unico scampo: la fuga nella
produzione psicotica, il rifugio nel delirio dove non c’è né
contraddizione né dialettica.

In che cosa consiste, dunque, praticamente la differenza fra un


istituto che si regge in senso tradizionale ed una comunità che vuole
essere «terapeutica»?

In entrambe le istituzioni il malato segue l’iter ospedaliero, nel senso


che la sua giornata si svolge all’interno di una comunità che deve
assolvere particolari funzioni essenziali: mangiare, dormire, far
passare il tempo. Nell’istituto tradizionale, però, il far passare la
giornata è un atto puramente passivo, vissuto come tale dall’intera
organizzazione: i malati aspettano il succedersi dei pasti, interrotti da
qualche attività definita «passatempo»; gli infermieri lasciano
scorrere le ore sorvegliando. In una comunità che si dice
terapeutica, ogni atto di ognuno acquista un significato attivo di
reciproca stimolazione, appunto, terapeutica. Ciò significa che ogni
momento della giornata, ogni movimento dei componenti la comunità
è teso a formulare un clima il cui scopo primo sia la ricostituzione
dell’iniziativa personale, della spontaneità e della capacità creativa
compromesse, in un primo tempo, dalla malattia e,
successivamente, distrutte dall’istituto. La comunità terapeutica
tende dunque alla creazione di una struttura - più psicologica che
materiale - nella quale ogni suo componente sia impegnato alla
stimolazione dell’altro attraverso la creazione di possibilità di rapporti
interpersonali che, contemporaneamente, assolvano alla necessità
di protezione e tutela reciproca. In questo senso il ruolo protettivo
rappresentato nell’ospedale tradizionale da sbarre, grate, reti che,
anche agli occhi del malato acquistano il valore di protezione contro
se stesso; o nell’ospedale paternalistico dall’enorme figura del
medico alla cui bontà e comprensione il malato può abbandonarsi e
distruggersi - nella comunità terapeutica viene assolto dalla
comunità stessa in cui si trovano a giocare, in un movimento di
tensioni e controtensioni, i ruoli dei malati, degli infermieri e dei
medici, continuamente messi in discussione, ricostruiti e
nuovamente distrutti.

Ciò si evidenzia particolarmente nella riunione di comunità che si


attua ogni mattina nel nostro ospedale e che rappresenta il banco di
prova dove ogni componente la comunità stessa si espone di fronte
all’altro e ne accetta la contestazione. Questo incontro plenario
giornaliero viene, dunque, vissuto come un riferimento psicologico
che assolve un’enorme funzione protettiva. Se, di fronte alle
contraddizioni, ai contrasti, alle difficoltà personali di ogni membro
della comunità, si crea uno spazio reale in cui le difficoltà e i
contrasti possono essere discussi, a volte risolti, a volte chiariti, a
volte compresi nella loro impossibilità di soluzione - assieme agli altri
- contraddizioni e contrasti vengono sdrammatizzati e privati della
carica emotiva di cui abitualmente sono pregni, proprio perché il
malato - e non solo lui - trova subito un’apertura, uno sbocco in cui
incanalarli, prima di incapsularli definitivamente in se stesso.

Questa la funzione principale della riunione di comunità che serve da


perno attorno al quale ruota tutta la vita ospedaliera.

Altro elemento in cui un’organizzazione psichiatrica di tal tipo si


differenzia dall’ospedale tradizionale è la cosiddetta «ergoterapia»: il
problema del lavoro, delle attività verso cui stimolare malati apatici,
indifferenti, abulici è fondamentale. Ma, mentre nell’ospedale
tradizionale il lavoro ha il solo significato di un riempitivo, nella
comunità terapeutica esso deve assumere nuovamente un valore
terapeutico, come occasione di incontri, di rapporti interpersonali
spontanei e come stimolo all’attuazione di una spontaneità creativa
distrutta. Ma oltre a questo, il lavoro può avere una funzione
importantissima se si riveli un’occasione capace di stimolare - in
malati «cronici» che da anni hanno perso il senso del proprio valore
personale - una nuova coscienza lavorativa, tale da far rifiutare il
compenso come espressione di beneficenza gratuita. Solo
nell’esigere la retribuzione quale logica contropartita di ciò che il
lavoratore dà alla comunità, il malato riesce a farsi riconoscere nel
proprio valore di scambio. E’ quindi evidente come l’elemento su cui
si tende a far leva non sia tanto la rivendicazione salariale in sé,
quanto piuttosto il fatto che, attraverso un tale tipo di rivendicazione
immediata, il malato trova un riconoscimento, una conferma al
proprio valore personale.

Si pensi, ad esempio, alla situazione di un malato cronico in un


ospedale psichiatrico tradizionale. L’alternativa che gli viene offerta è
la scelta fra far parte dello «zoccolo umano», unico arredo degli
enormi androni chiusi; o rivelarsi collaborativo (che significa
obbediente, rispettoso, servile, succube) per essere ammesso nella
squadra dei lavoratori addetti ai servizi generali. Si trova, quindi, a
dover preferire una condizione subumana, quale quella della
rassegnazione completa alla perdita della propria individualità e
personalità, per poter sussistere. Questo tipo di lavoro, oltre ad
essere alienante per il malato, poiché egli si trova a contribuire con
le sue stesse mani a mantenere in vita l’istituto che lo segrega,
aumenta in lui la convinzione di far parte di una categoria di sub-
uomini per i quali la retribuzione al lavoro non corrisponde ad un
diritto in diretto rapporto con la prestazione reale: la stessa
partecipazione al lavoro gli viene concessa come un «dono», in
cambio o in premio della sua buona condotta e docilità.

Per il malato che viva in una comunità terapeutica, il lavoro, inteso in


questo senso, non dovrebbe aver significato e lo dichiaro anche se
nella nostra questo fenomeno è tuttora presente. L’ospedale non è
un’industria ed il lavoro - se è riconosciuto un elemento necessario
per il malato, come lo è ritenuto in ogni organizzazione ospedaliera
tradizionale - deve però avere un fine soltanto terapeutico e solo in
funzione di questa finalità deve essere svolto. La funzione
significativa di queste attività lavorative non può, dunque, limitarsi a
quella di un passatempo, ma deve agire, soprattutto, come stimolo ai
rapporti interpersonali fra i malati e rivelarsi come l’occasione di
discussioni capaci di alimentare nel malato le capacità di opporsi in
modo personale, per prendere coscienza di sé, dei propri e degli
altrui limiti (2).

Ciò richiede, ovviamente, una collaborazione strettissima con un


personale preparato al suo compito. Per questo la comunità
terapeutica è una organizzazione che tende ad essere orizzontale, in
confronto all’organizzazione gerarchica verticale degli ospedali
psichiatrici tradizionali. Perché ogni componente la comunità è
indispensabile all’andamento della comunità stessa e deve poter, a
sua volta, contare sulla sicura collaborazione di tutti.
Primo passo - causa e nello stesso tempo effetto del passaggio dalla
ideologia custodialistica a quella più propriamente terapeutica -
risulta quindi il mutamento dei rapporti interpersonali fra coloro che
agiscono nel campo. Mutamento che, con il variare o il costituirsi di
motivazioni valide, tende a formare nuovi ruoli che non presentano
più alcuna analogia con quelli della precedente situazione
tradizionale. E’ questo terreno ancora informe, dove ogni
personaggio ricerca il suo ruolo continuamente distrutto e ricostruito,
che costituisce la base da cui prende l’avvio la nuova vita
terapeutica istituzionale.

Nella situazione comunitaria il medico, quotidianamente controllato e


contestato da un paziente che non si può allontanare né ignorare,
perché costantemente presente a testimoniare i suoi bisogni, non
può arroccarsi in uno spazio che potremmo definire asettico, dove
poter ignorare la problematica che la malattia gli propone. Né può
risolversi in un dono generoso di sé che, attraverso il suo inevitabile
trascendersi nel ruolo di “apostolo” munito di una missione,
stabilirebbe un altro tipo di distanza e di diversità non meno grave e
distruttivo del precedente. La sua unica posizione possibile
risulterebbe un nuovo ruolo, costruito e distrutto dal bisogno che il
malato ha di fantasmatizzarlo (di renderlo cioè forte e protettivo) e di
negarlo (per sentirsi forte a sua volta); ruolo in cui la preparazione
tecnica gli consenta - oltre il rapporto strettamente medico con il
paziente che resta inalterato - di seguire e comprendere le
dinamiche che vengono a determinarsi, così da poter rappresentare
in questa relazione il polo dialettico che controlla e contesta come
viene controllato e contestato. L’ambiguità del suo ruolo sussiste,
comunque, fintantoché la società non chiarirà il suo mandato, nel
senso che il medico ha un ruolo preciso che la società stessa gli
fissa: controllare un’organizzazione ospedaliera nella quale il malato
mentale sia tutelato e curato. Si è visto, tuttavia, come il concetto di
tutela (nel senso delle misure di sicurezza necessarie per prevenire
e contenere la pericolosità dell’internato) sia in netto contrasto con il
concetto di cura che dovrebbe invece tendere al suo espandersi
spontaneo e personale; e come l’uno neghi l’altro. In che modo il
medico può conciliare queste due esigenze, in sé contraddittorie,
finché la società non chiarirà verso quale dei due poli (la custodia o
la cura) vuole orientare l’assistenza psichiatrica?

La posizione dell’infermiere è, in un certo senso, meno ambigua.


Nella situazione comunitaria egli si trova di fronte a delle motivazioni
al suo lavoro che mutano il loro significato più intrinseco: esse infatti
passano dal puro custodialismo (quindi da un rapporto con oggetti la
cui unica motivazione risiede nel compenso economico), ad una
finalità terapeutica cui ogni atto e ogni gesto verrebbe ad
uniformarsi. In un ospedale che si va facendo comunitario, è la
situazione stessa a richiedere all’infermiere una capacità di rapporto
terapeutico cui spesso non è preparato. Il problema sorge, infatti,
quando non sia possibile immettere nell’organizzazione che va
mutando, nuovi elementi tecnicamente responsabili, ma si debba
contare solo sulla graduale presa di coscienza da parte
dell’infermiere del mutare delle motivazioni al suo lavoro e, quindi,
sull’accettazione o il rifiuto dell’impegno terapeutico che un tale tipo
di motivazione necessariamente comporta. Questa è la «crisi» del
suo ruolo e la maggior difficoltà in cui si imbatte la comunità
terapeutica: essa si trova, infatti, necessariamente basata sull’opera
essenziale degli infermieri il cui ruolo viene completamente
capovolto dalle nuove strutture che si fondano sulla loro
partecipazione totale. D’altra parte, la graduale presa di coscienza
da parte degli infermieri del mutare delle loro motivazioni al lavoro,
diventa essa stessa fonte di terapeuticità all’interno
dell’organizzazione, poiché l’opposizione, la contestazione non sono
che elementi positivi di chiarificazione, di controllo reciproco, che ci
salvano dal pericolo di cadere in una nuova ideologia.

Quello di cui si è finora parlato solo marginalmente resta, comunque,


ancora il ruolo del malato e ciò perché nella struttura tradizionale egli
è presente come un oggetto accessorio. Il suo ruolo, cioè, nei
confronti del medico è essenzialmente passivo, in un rapporto di
assoluta dipendenza da chi rappresenta il ruolo tecnico competente.
Paradossalmente il medico risulta in stretto rapporto con la malattia
del malato, in una sorta di relazione in cui il malato recita un ruolo,
appunto accessorio.
Infatti, se per ruolo si intende il complesso di funzioni attraverso le
quali l’individuo giustifica la sua presenza nel mondo, il malato
mentale - e in particolare il ricoverato di un istituto tradizionale - ne
parrebbe completamente privo essendo stato, fin dall’inizio, escluso
dalla vita sociale ed essendosi gradualmente costretto - per poter
meglio aderire alle regole dell’istituto e, quindi, sopravvivere - ad
affidarsi nelle mani di chi dovrebbe curarsi di lui, come chi non ha
alcun potere sulla propria vita, né alcun ruolo nel mondo. Nello
spazio, psicologicamente oltre che materialmente ridotto che l’istituto
gli consente, il malato riesce a sopravvivere alla sua mancanza di
individualità soltanto attraverso un processo di fantasmatizzazione
del medico che la giustifichi ma che, proprio per questo, lo continua
a mantenere legato al suo ruolo di passività.

E’ solo passando nella prospettiva comunitaria che il malato si trova


ad agire, contemporaneamente, come causa e come effetto della
crisi generale dei ruoli all’interno dell’istituzione: cioè la
partecipazione attiva alla vita terapeutica istituzionale da parte del
malato, attraverso lo «sfruttamento» della forte componente
terapeutica che da lui si sprigiona, ha messo in crisi i ruoli dello staff.
Ma lo ha anche fatto uscire dal ruolo tradizionalmente passivo che
gli era abituale, immettendolo in una sfera in cui le sue competenze
non sono ancora del tutto chiarite.

Si potrebbe incominciare a dire - dall’esperienza che andiamo


facendo - che il ruolo del malato, all’interno di una istituzione
tendenzialmente comunitaria, sta mutando qualitativamente. Ciò
significa che il malato non viene acquistando più libertà, più
autonomia, più responsabilità come una somma di possibilità
quantitative che gli si aprono. Ma che sta imparando a tradurre
queste possibilità in un modo personale di approccio, appunto
qualitativamente più evoluto e più maturo, con il gruppo in cui vive.
Si è assistito, infatti, nel caso di lungodegenti istituzionalizzati, ad
una graduale conquista o assimilazione personale dei vari stadi di
liberalizzazione che - all’inizio dell’apertura dell’ospedale - non
potevano essere vissuti che come estranei. La libertà donata resta,
evidentemente, di proprietà di chi la dona e si presenta come una
categoria di cui si conosce l’uso, senza poter appropriarsene, se non
attraverso un atto di conquista. Nel caso del lungodegente
istituzionalizzato è proprio la conquista del proprio ruolo nella
comunità cui appartiene che gli rende la libertà, troppo facilmente
ottenuta al momento dell’apertura dell’ospedale.

Il problema del malato mentale che si pone “ora” in contatto con una
situazione terapeutica istituzionale è, naturalmente, del tutto diverso.
Egli si presenta, infatti, con un ruolo ben preciso nei confronti della
malattia di cui soffre, ruolo che consiste nel suo impegno a vincere
l’ansia attraverso la produttività psicotica. Un tale ruolo attivo
(benché si tratti di attività psicotica) diminuisce o cessa all’ingresso
nell’istituto dove, abitualmente, o il livello di iperprotezione (leggi
misure di sicurezza più idonee a garantire l’assoluta impossibilità di
agire del ricoverato); o il rapporto individuale con il medico su un
piano paternalistico, fuori della realtà; o la mancanza di protezioni
evidenti del clima comunitario, provocano un ulteriore stato di
regressione, immediatamente successivo all’ingresso.

Ora, di questo livello regressivo l’istituto tradizionale su base


custodialistica si serve per legare maggiormente a sé e alle sue
regole il nuovo affiliato, il quale sarà - appunto dalla coercizione della
vita asilare - confermato nel suo sentimento di esclusione e
sollecitato nelle sue difese psicotiche. L’istituto tradizionale su base
paternalistica riuscirà-attraverso il rapporto individuale con il medico
«buono» - a colpevolizzare maggiormente il malato, così da non
consentirgli altre possibilità di vita che le sue fantasie psicotiche,
esaltate appunto dal clima di falsa tolleranza che lo circonda.

Che cosa accade, invece, al momento dello stadio regressivo iniziale


di un malato, entrato in una situazione comunitaria? Immesso in uno
spazio dove la figura del medico non si presenta né protettiva, né
incombente o coercitiva, il malato si trova solo, in mezzo ad altri
malati. Lo stato di regressione si annuncia subito: nell’ospedale non
ci sono coercizioni, né mortificazioni, ma non c’è neppure la figura
paterna cui abbandonarsi per dimenticarsi e distruggersi. Il malato si
trova solo davanti alla possibilità di costruirsi un ruolo o di rifiutarlo
ed avverte che - nonostante egli tenda a costruirsi il fantasma del
medico che tutto accoglie ed assorbe in sé - ciò che conta è la
presenza degli altri attorno a lui: presenza reale, vera, concreta.
Attraverso una tale presenza avverte di essere un escluso, ma un
escluso in mezzo ad altri esclusi con cui può unirsi e costruire quello
che al malato tradizionale non sarebbe mai stato possibile: l’unione
in gruppo per difendersi dall’istituzione.

E’ qui che entrano in gioco i ruoli del medico e dell’infermiere che


devono essere pronti ad accettare e stimolare il gruppo che viene
costituendosi come altamente terapeutico, anche se (e soprattutto
se) mette in discussione la loro autorità, la loro competenza tecnica,
la loro sicurezza umana.

In questo senso il dividere, da parte del medico, il rischio della libertà


del malato poteva essere il primo passo per porsi sullo stesso piano,
restando tuttavia un atto volontaristico in cui era sempre il medico a
decidere se accettare o rifiutare un tale rischio, mantenendosi egli
alla distanza del signore che si fa volontariamente democratico. Ma
ora, di fronte a dei malati che prendono gradualmente coscienza del
proprio ruolo e della propria forza come un gruppo che ha possibilità
di controllo reciproco, di interazione e quindi di azione terapeutica, il
medico è messo in discussione e lo sarà, su un piano sempre più
reale e meno fantasmatico, a mano a mano che il ruolo del malato si
avvierà, attraverso il senso di appartenenza alla comunità, ad uscire
dalla serializzazione istituzionale, verso la costituzione di un gruppo
in cui possa definire ed affermare la legittimità della sua esistenza.

Restano ancora alcune precisazioni di carattere pratico.

L’organizzazione ospedaliera cui mi riferisco comprende


cinquecentocinquanta malati, suddivisi in otto reparti di cui sei
completamente aperti. Due - uno maschile ed uno femminile per un
totale di circa centosettanta persone - sono ancora chiusi ed
accolgono malati organici, dementi, schizofrenici gravemente
deteriorati, frenastenici, per i quali si sta elaborando un progetto di
graduale apertura nei prossimi mesi. Questi due reparti ancora
chiusi segnano, comunque, il limite della nostra esperienza i cui
risultati attuali ci autorizzano però a procedere nella direzione ormai
tracciata. Problemi pratici, quali il personale insufficiente, reparti
troppo affollati che dovrebbero poter essere sfoltiti, ci hanno
impedito finora l’attuazione dell’apertura completa di tutto l’ospedale.

Questa presenza del vecchio «manicomio» all’interno della nostra


struttura ospedaliera è, dunque, la dimostrazione del punto cui
siamo giunti. La nostra comunità è qualche cosa che sta
muovendosi, evolvendosi di giorno in giorno e che è ben difficile
poter descrivere: è una situazione che non si può definire ma solo
attuare e verificare; dove si tende a vivere il positivo ed il negativo
come le facce diverse di un problema che ha bisogno di venir
dialettizzato per essere compreso. Ciò che, comunque, ci preme
precisare sono i limiti raggiunti, poiché rifiutiamo di presentare una
situazione mistificata che - proprio in quanto tale - non avrebbe la
minima utilità sociale.

Resta ancora da chiarire il grado di “rischio” cui una comunità, così


impostata, può andare incontro. Dalla nostra esperienza di questi
cinque anni di lavoro (di cui raccoglieremo altrove i dati statistici)
credo si possa concludere che gli inconvenienti sono stati di molto
inferiori all’aspettativa, e direi inversamente proporzionali ai risultati
generali. Ciò significa che i rischi ci sono, ma che non superano
quelli di un’organizzazione psichiatrica tradizionale, costruita
appositamente per eluderli. Del resto ogni tipo di approccio
terapeutico ne accetta e finora pare che solo lo psichiatra non li
abbia ancora affrontati direttamente, poiché i rischi verrebbero a
ricadere su di lui e sulla società di cui è l’espressione.

Gli inconvenienti cui si può andare incontro possono essere di


natura diversa, così come le contraddizioni della realtà si
manifestano con tante facce. Ma essi si rivelano sempre
strettamente legati al grado di coesione all’interno
dell’organizzazione; agli stati di tensione non risolti; ai momenti in cui
la comunità non garantisce un livello protettivo sufficiente: motivi
questi che mettono in discussione l’azione del medico e
dell’infermiere più che la imprevedibilità del malato e della sua
malattia.

Questa la conclusione globale della nostra esperienza che - iniziata


con scarsissimo personale medico e con personale infermieristico
impreparato al nuovo ruolo - è andata svolgendosi abbracciando di
necessità tutto il positivo ed il negativo che veniva ad affiorare in una
realtà dove la dialettica era stata programmaticamente negata. Per
aiutare il malato a guardare in faccia le contraddizioni del reale da
cui è fuggito, non può essere di alcuna utilità creare un mondo
artificiale nel quale tali contraddizioni non esistano. Ma se si riesce a
farlo avvicinare a questo mondo contraddittorio, abituandolo a
dialettizzarne le forze, questo sarà il primo passo verso la possibilità,
da parte sua, di accettarle o dominarle.

Tuttavia ogni discorso sulla malattia mentale rischia di restare


astratto se non si cerchi di risolverlo attivamente, anche attraverso
tentativi ed errori. Per questo concludo con le parole dello stesso
Bonnafè, cui mi sono riferito all’inizio: «Questa lotta contro il ‘mito’ da
cui si sviluppa la follia… non sarà vinta da speculazioni teoriche ma
da realizzazioni concrete… Solo una nuova impostazione pratica ci
mostrerà l’orientamento verso cui può andare la trasformazione
dell’assistenza psichiatrica, della condizione del malato mentale
nella società e quali forme prenderà». Ciò che comunque importa, e
qui concordo appieno con Bonnafè, è che nel caso del malato
mentale «non si tratta più di un problema tecnico, ma di una
posizione che ognuno deve prendere: quella della complicità o
quella della verità e dell’azione».
DIBATTITO
avvenuto nel corso dell’incontro tra la delegazione di infermieri e
amministratori dell’O.P.P. di Colorno (Parma) e il personale sanitario,
infermieri e degenti dell’O.P.P. di Gorizia il giorno 20 dicembre 1966
(1).

SIGNOR POIANA (infermiere dell’O.P.P. di Gorizia) A nome di tutto il


personale porgo il benvenuto agli amici di Parma con la speranza
che dal dibattito pubblico vengano fuori delle cose che a loro
interessano; credo che per questo sono venuti qua e speriamo che
sia proficuo e positivo questo nostro incontro.

Invito gli amici a fare delle domande e cercheremo di rispondere il


meglio che sia possibile.

SIGNOR BIZZI (infermiere dell’O.P.P. di Colorno) A nome del


personale dell’istituto di Colorno di Parma, ringrazio per la gentile
ospitalità e invito l’assemblea ad iniziare il dibattito attraverso le
domande e le risposte; discuteremo in modo fraterno ed aperto i
problemi ai quali noi tutti siamo interessati.

Cedo dunque la parola all’Assemblea.

SIGNORINA SQUADRA (degente dell’O.P.P. di Gorizia) Potrei fare


questa domanda. Perché nel vostro istituto ci sono degli orari
prestabiliti per le visite dei familiari?

BIZZI In questo istituto di Gorizia ritengo positivo, per la natura più


avanzata della terapia, il concedere l’accesso ai familiari in qualsiasi
giorno.
A Colorno i familiari dei degenti possono accedere all’istituto il
mercoledì, il giovedì, il sabato e la domenica; orari: mattino dalle
nove alle dieci, pomeriggio dalle tredici alle ore quindici, fatta
eccezione per i giorni festivi infrasettimanali, come ad esempio il
Natale, Capodanno eccetera che vengono considerati giorni di visita.

Io non saprei spiegare questo motivo. Indubbiamente questo


discorso dovrebbe essere posto ai sanitari e ai dirigenti dell’istituto.
Personalmente ritengo che nell’azione generale intrapresa dalla
nuova amministrazione debba essere considerata anche una
modifica nell’attuale disciplina delle visite, nel senso di facilitare al
massimo l’incontro fra ricoverato e familiare. Anche questo è
importante per annullare tutti i vincoli e i freni che dànno
l’impressione della mancanza di libertà.

SIGNOR PANZINI (degente dell ‘O.P.P. di Gorizia) Vorrei chiedere


anche se nel vostro ospedale c’è una netta distinzione fra reparti
maschili o femminili, oppure se i degenti sono liberi di trovarsi.

BIZZI Lei mi deve specificare la domanda.

PANZINI Sì, se c’è una separazione netta.

BIZZI Sì, nel nostro istituto c’è una netta separazione tra reparti
femminili e reparti maschili. Non c’è una comunicabilità; è fatta
eccezione soltanto in casi rari dell’anno, quando ci sono feste
danzanti o una festa alla quale partecipano ospiti di altri istituti.
Ultimamente nel nostro istituto di Colorno abbiamo fatto un incontro
con degenti di Reggio Emilia, di Piacenza, di Mantova e questa festa
si è svolta nel parco; festa danzante, gare sportive, pranzo all’aperto
e allora, soltanto in quella occasione, gli ammalati e le ammalate
potevano essere a contatto, discutere, chiacchierare anche con le
altre degenti degli altri istituti; comunque nel nostro Istituto c’è una
netta differenza.

SIGNOR BATTORTI (di Gorizia) Lei ha parlato prima, rivolgendosi


alla signorina Squadra, nostra ricoverata, di terapia avanzata nel
nostro ospedale. Cosa intende per terapia avanzata e quale è la
vostra terapia?

BIZZI Io non sono un medico, ma sul problema della psicoterapia


anche noi cominciamo a capire e ad avere qualche concetto. Lei
voleva chiedere cosa intendo per terapia avanzata? Per terapia
avanzata io intendo quello che ho potuto constatare qui in questo
istituto, mentre nel nostro istituto devo confermare che non siamo a
questo punto in merito alla terapia di cui si parla; l’intercomunicabilità
tra reparto e reparto sia maschile che femminile come c’è qua. Noi
siamo venuti infatti per apprendere, per imparare; non siamo venuti
qui con la presunzione di dire, insegnare, dare dei consigli. Abbiamo
fatto questo viaggio con altri quaranta infermieri, superiori, tecnici ed
amministratori, perché abbiamo sentito in altre sedi, e ve lo dico io
personalmente, dal ministro della Sanità Mariotti, che se si vuole
capire quali sono gli sviluppi e dove naturalmente sono più messi in
pratica, è in questo istituto.

Ecco uno dei motivi perché ci siamo sobbarcati di fare questo


viaggio, in questa stagione, per venire a vedere.

Se lei vuole altri chiarimenti…

SIGNOR MONTINI (degente di Gorizia) C’è un bar nel vostro istituto


a Colorno?

BIZZI Qui c’è la nostra collega che può dare chiarimenti in merito.

SIGNORA CAMPANINI (infermiera di Colorno) Nel nostro istituto per


ora siamo sprovvisti di un bar per degenti. Avete chiesto cosa
intendiamo per terapia avanzata?

Per terapia avanzata io intendo il rapporto nuovo tra medici,


infermieri, ammalati, partendo dal rispetto della personalità di ogni
singolo membro della comunità.

Nasce senz’altro da questo rapporto la presa di coscienza


dell’ammalato di essere ancora parte integrante della società.
La cosa che mi ha profondamente stupito è che nel vostro ospedale
da anni avete abolito i mezzi contentivi.

Permettete la mia meraviglia; ma nel mio reparto agitate (ora sala


Chiarugi) le ammalate di notte con mezzi di contenimento sono circa
in diciotto. Ecco perché vorrei sapere, come vi comportate in caso di
eccitamento grave?

SIGNOR GHIOTTO (infermiere di Gorizia) Soprattutto con una


grande preparazione che ci è stata insegnata, poi con una grande
disponibilità verso l’ammalato e offrendo allo stesso condizioni che in
altri ospedali non sono possibili.

BASAGLIA Ha detto giustamente Ghiotto; ciò che conta è una


grande disponibilità dell’infermiere verso l’ammalato e mi pare che la
risposta sia in sé esauriente. Quando infatti l’infermiere parla della
disponibilità verso l’ammalato, mette a fuoco il punto più importante
e dà la risposta più adeguata a spiegare come mai non esistono
mezzi di contenzione. Forse però sarebbe il caso di chiederci che
cosa vuole dire questo concetto di «disponibilità», e mi pare utile
soffermarci su questo termine che il nostro infermiere ha così
acutamente colto.

CAMPANINI Ad esempio quando un ammalato è aggressivo,


autolesionista, basta la comprensione dell’infermiere? Le sue
premure, le sue parole? Io non riesco a rendermi conto di come tutto
ciò sia sufficiente.

SIGNOR MINARDI (infermiere di Gorizia) Noi qui siamo tutti uniti; in


casi eccezionali, quando proprio non se ne può fare a meno, allora
portiamo l’ammalato nel reparto ancora chiuso, che voi avete visto,
dove ci sono cure più efficaci nel senso di isolamento ed altre cure.

In caso di estremo bisogno c’è sempre questo reparto chiuso, dove


l’ammalato viene maggiormente isolato.

SIGNOR BALDASSI (infermiere di Gorizia) Signorina, una sera è


entrato qui un ammalato con “delirium tremens”. Per tenerlo un po’ a
dovere, perché non si facesse del male, eravamo in tre o quattro
infermieri ad assisterlo per tutta la notte. Ma a noi non è neppure
passato per la mente di legarlo. Comprende? Perché se non
eravamo in numero sufficiente in tre, si chiedeva l’aiuto di altri
infermieri in modo da proteggerlo e stare attenti che non sì facesse
del male. Ecco perché non occorrono le camicie di forza; perché
penso che quattro di noi possano tener testa a un ammalato, sia
pure agitato.

CAMPANINI Comprendo le sue considerazioni che ritengo giuste.


Da noi comunque nessun infermiere si permette di assicurare un
ammalato, di metterlo in contenzione, senza l’ordine del medico.

BALDASSI Intende dire metterlo in contenzione? Ma qui da noi


ormai credo sia una cosa già tanto remota che non passa per la
mente nemmeno di conoscere, nemmeno di sapere come si fa a
mettere in contenzione. Penso che qui non verrà mai più una
cinghia, chiamiamola così.

BASAGLIA Vorrei aggiungere qualcosa a proposito di quello che ha


detto il nostro infermiere; il nostro ospedale non è tutto aperto; ci
sono due reparti chiusi e ci ha detto che se un ammalato presenta
una determinata pericolosità viene mandato al reparto chiuso, dove
ci sono terapie «più efficaci» e un maggior isolamento. Io inviterei il
nostro infermiere Minardi a descriverci questo reparto chiuso.

MINARDI Il reparto chiuso consiste nel fatto che non dispone di


porte aperte, e in secondo luogo gli ammalati non possono fare
quello che vogliono come fanno negli altri reparti; dunque sono
sempre sotto sorveglianza, più e come meglio degli altri reparti. Per
questo intendo che è un reparto chiuso, dove c’è un sistema più
rigido di terapia.

BASAGLIA Spieghi meglio cosa intende per terapia «più efficace».

MINARDI Non so… con iniezioni, pastiglie…


BASAGLIA Lei ha fatto una affermazione e dovrebbe chiarirla. Deve
spiegare meglio cosa intende per terapie più efficaci. Vorrei sapere
cosa sono queste terapie.

MINARDI Una terapia più efficace è sempre un sistema per rendere


un ammalato innocuo a base di iniezioni, credo. Io non posso dire
quali iniezioni bisogna fare. Noi non leghiamo l’ammalato, noi
facciamo una iniezione e dorme. Però il reparto è chiuso, noi siamo
tranquilli perché l’ammalato dorme, invece negli altri reparti possono
andare fuori anche dopo l’iniezione.

BASAGLIA Allora è pura e sola sorveglianza?

GHIOTTO Da quello che ha detto Minardi pare che la sorveglianza ci


sia solo nei reparti chiusi. Anche negli altri reparti c’è sorveglianza,
ma abbiamo più da assistere; c’è cioè più assistenza. In quanto alle
cure sono sempre le stesse sia nel reparto aperto che nel reparto
chiuso. Ma negli altri ci sono le porte aperte. Appunto per questo ci
deve essere più assistenza. Ma la sorveglianza del reparto chiuso è
data solo dalle porte chiuse.

BATTORTI Vorrei delle spiegazioni più chiare. Se il reparto è chiuso


e l’ammalato è dentro non significa per questo che ci sia solo
sorveglianza. La parola sorveglianza fa pensare al fatto che noi
siamo come dei guardiani. Non possiamo in sei sorvegliare
settantasei ammalati come abbiamo noi nel reparto C; per cui se
viene data una iniezione perché l’ammalato possa dormire e viene
data esclusivamente dal medico, l’ammalato dorme quelle sei-sette
ore, si sveglia, chiede da mangiare.

DOTTOR SLAVICH (Gorizia) Io sono appunto quel medico di cui


parla l’infermiere Battorti, il medico del reparto chiuso.

Minardi è un infermiere del reparto chiuso, ed ha espresso dei pareri


personali su quelli che ritiene debbano essere i metodi migliori per
curare un ammalato nel reparto chiuso. Mi pare che, implicitamente,
abbia anche detto questo, Minardi: che ritiene che nei reparti aperti
si possano sì curare dei pazienti, però quando uno è proprio
ammalato va nel reparto chiuso.

Ora questo è vero fino ad un certo punto, e per molti aspetti non è
vero per niente; il reparto chiuso esiste, però tende ad essere chiuso
anche nel senso che non ci vanno degli altri ammalati. Questo è uno
sforzo notevole che sta facendo l’ospedale, sforzo che l’ospedale
deve fare, se vuole in qualche modo risolvere il grosso problema che
è il reparto chiuso. Da tre mesi circa si è deciso di non inviare nel
reparto chiuso altri pazienti e, viceversa, si tende a mandar fuori dal
reparto chiuso tutti i pazienti che possono stare altrove, un po’ alla
volta, e si è dimostrato che sono sempre di più di quanto si pensi,
tanto è vero che tre mesi fa nel reparto chiuso i pazienti erano
centouno, e oggi sono settantasette. Ora, per quanto riguarda i tipi di
terapia che sono applicati nel reparto chiuso, vi è da dire questo: per
il solo fatto che il reparto è chiuso il tipo di terapia purtroppo diventa
un po’ diverso; questo non perché necessariamente per i tipi di
pazienti che vi abitano non si possa fare altro, ma solo perché il
reparto è chiuso.

Naturalmente, per rispondere alla domanda che faceva l’infermiera


di Colorno (e penso che su questo anche Minardi sarà d’accordo),
non ci sono neppure nei reparti C mezzi di contenzione. Ci sono
delle camerette, nelle quali stanno due pazienti, che in teoria sono a
disposizione per i casi di emergenza. E di queste camerette bisogna
fare un uso oculato, qualche volta un uso più oculato di quanto non
si faccia, nel senso che queste camerette possono venire usate
anche quando non dovrebbero essere usate.

Comunque io penso che il problema non sia questo. Penso che un


reparto chiuso di settanta persone con un numero di sei infermieri
che è relativamente elevato, non dovrebbe preoccuparsi solamente
della sorveglianza, della quale si è parlato fino adesso; si dovrebbe
in qualche modo cercare di applicare anche nel reparto chiuso tutte
le iniziative terapeutiche che si devono anche in quel reparto
applicare; questo si comincia a fare, e se non si fa completamente
questo è dovuto anche, bisogna dirlo, a delle riserve e alla mancata
disponibilità che ci sono da parte di molti, sia degli infermieri che dei
medici. Se qualcosa non si fa è perché ancora non si è pronti per
farlo; ma io penso che lo si possa fare anche per il reparto chiuso.

BATTORTI In che modo non siamo preparati a farlo? Il numero


elevato degli infermieri in che modo lei lo vede elevato? Oltre che la
sorveglianza, l’infermiere del reparto chiuso che compiti ha? Queste
sono tre domande.

SLAVICH I compiti che ha un infermiere risultano dalla cultura


terapeutica che si è creata nell’ospedale, e non c’è nessuna ragione
che essa debba essere diversa nei reparti chiusi rispetto ai reparti
aperti. Su questo io penso che siano tanto più d’accordo gli
infermieri del reparto chiuso, in quanto loro stessi e, giustamente,
molto spesso (questo credo sia un problema di interesse anche per
gli infermieri di Parma) hanno lamentato la posizione secondaria che
verrebbero ad avere gli infermieri del reparto chiuso in un ospedale
aperto.

Secondo me il compito dell’infermiere del reparto chiuso è identico a


quello del suo collega del reparto aperto, ma forse reso più difficile e
quindi più meritorio dalla chiusura del reparto; ciò quando uno si
ponga ad esplicarlo con piena disponibilità.

Per quanto riguarda il numero degli infermieri, noi sappiamo


benissimo che nel reparto chiuso C è concentrato il maggior numero
dei grossi problemi, specie quelli derivanti dai pazienti che dànno dei
problemi. Sono problemi di ordine geriatrico, medico, di
riabilitazione; quindi ci sono un po’ tutti i problemi dell’assistenza
psichiatrica ospedaliera. Quindi mi pare molto giusto che proprio in
quel reparto lavori un maggior numero di infermieri rispetto agli altri
reparti.

SIGNOR TOMMASINI (assessore provinciale di Parma) Vorrei fare


qualche domanda agli infermieri di Gorizia. Premetto che a Colorno
nel nostro ospedale psichiatrico vivono circa 1000 ricoverati - uomini
e donne - e tutti i reparti sono chiusi.
Quello che avviene a Colorno l’ho riscontrato anche in altri ospedali
psichiatrici; anche qui i reparti sono chiusi; aggiungerò che in questi
reparti, anche se un po’ meno di prima, è ancora purtroppo vigente
l’uso dei mezzi contentivi.

Nei vostri reparti chiusi, tali li chiamate, in realtà ci sono mezzi


contentivi? Nei vostri reparti aperti l’ammalato come è trattato? come
vive la sua giornata?

Permettete altre due domande:

L’ammalato è veramente libero di uscire ed entrare nel reparto? E’


libero di partecipare o meno alle riunioni della comunità?

SIGNORA CARLI (ricoverata O.P.P., Gorizia) Qui nel nostro


ospedale si è in molti che si lavora, e anche nei nostri reparti aperti
abbiamo la massima libertà. Siamo anche a contatto con i nostri
amici sia sul lavoro come nelle altre ore della giornata; come la
domenica al ballo, al sabato al cinema; siamo sempre assieme. C’è
proprio una fratellanza fra di noi e anche quelle poche che non
lavorano, lo fanno perché proprio non possono lavorare o a causa
dell’età o a causa della malattia. D’altronde anche loro se la passano
discretamente bene, perché quando fa bel tempo possono andare in
giardino e magari anche fino al parco o verso la colonia, insomma
c’è modo di passare il tempo; poi abbiamo qui la biblioteca con molti
libri; ogni quindici giorni portiamo molti giornali illustrati per i reparti e
poi c’è l’assemblea della mattina che ci porta via un’ora della
giornata, poi durante la settimana, insomma cerchiamo di passarla il
meglio possibile. Per quelli che lavorano abbiamo anche un orario
fisso: per esempio dalle 8 sino alle 11,30; dalle 13,30 fino alle 16,30.
Queste sono le ore di lavoro; c’è il riposo a mezzogiorno e poi alle
16,30 il lavoro finisce, abbiamo la cena alle 17,30, dopo incomincia
subito la televisione e si può stare qui fin tanto che uno ha piacere,
perché la televisione è giù nel soggiorno. Chi ha piacere rimane lì,
chi no va a riposare. Poi abbiamo diversi giochi: si gioca a tombola,
qualche volta a carte. Insomma è una vita di famiglia la nostra da
quando abbiamo il nostro direttore, tanto che anche quelli che si
sentono bene, per motivi giuridici o per altri motivi familiari non
possono uscire di qui, non sentono troppo il peso della clausura
perché in fondo abbiamo una vita libera come di famiglia. Questa è
una grande famiglia e nient’altro che una grande famiglia.

CAMPANINI C’è un’ora stabilita per il riposo la sera?

SIGNOR BIANCHI (degente di Gorizia) No, l’ora è fissata solamente


quando è ora di aprire il dormitorio, alle 7,30 della sera.

Un medico di Gorizia passa la parola ad un degente di Gorizia dei


reparti aperti, il quale può dare una risposta più esauriente su come
la comunità terapeutica passa la giornata.

PANZINI Nel reparto A noi abbiamo le camere aperte tutto il giorno;


possiamo andare a riposare a qualunque ora e anche la notte sono
aperte. Si può andare al bar dalle sei alle ventuno, poi si ritorna al
reparto e chi vuole gioca a carte. Volendo si può stare alzati fino
all’una e alle due, nessuno obbliga di andare a letto.

DOTTOR PIRELLA (Gorizia) Io mi preoccupo di solito, quando ci


sono questi dibattiti, che non ci siano errori o disturbi di
comunicazione; talvolta cioè si fanno delle affermazioni che sono
senz’altro vere ma poi c’è il rischio che vengano interpretate in modo
diverso. Un primo esempio: diceva l’amico assessore Tommasini che
dal dibattito non emerge con chiarezza il fatto che il degente può
lasciare il reparto e girare per il giardino senza dire niente a
nessuno. Questa è una cosa che noi diamo un po’ per scontata, ma
non è scontata; in altri ospedali questa possibilità di libero
movimento del paziente non c’è.

Un altro esempio: le variazioni di orario, di abitudini, che ci sono tra


un reparto e l’altro sono dovute alla storia dei reparti; ogni reparto ha
una storia, una storia nel senso che per esempio il reparto in cui
lavora il nostro amico infermiere Poiana, è stato il primo ad essere
liberalizzato e in cui si sono attuate per la prima volta, nel nostro
ospedale, delle modalità di comunità terapeutica, e questo può
giustificare il fatto, ad esempio, che ci sono i dormitori aperti, che ci
sono abitudini molto più libere. In ultimo volevo dire anche questo: la
maggior parte dei reparti ha delle riunioni, oltre all’assemblea
generale ci sono delle riunioni di reparto. E’ ovvio che ogni problema
di convivenza nel reparto, il problema degli orari, il problema del
movimento, il problema di un paziente che per esempio non osserva
alcune regole di convivenza vengono appunto dibattuti durante
queste assemblee. Io penso che se queste assemblee non ci
fossero sarebbe molto più difficile attuare una libera disponibilità di
movimento dei pazienti. Per esempio l’amico Panzini ha detto che
nel suo reparto talvolta si rimane alzati fino all’una o le due dopo
mezzanotte a giocare a carte. Questa è certamente una possibilità;
però se ad un certo punto ci sono delle proteste per cui certi degenti
si lamentano ad esempio del chiasso che è stato fatto durante la
notte, ecco che nel corso dell’assemblea di reparto si discute il
problema e si può prendere una decisione comunitaria sul fatto in
discussione.

BALDASSI Io vorrei chiedere al dottor Slavich, perché non ho capito,


se qualche volta si chiudono le porte delle camerette nel reparto
chiuso. Seconda domanda; vorrei chiedere questo: se tutti quei
pazienti che sono al reparto chiuso, parlo del reparto maschile,
devono veramente stare in quel reparto oppure se hanno delle
possibilità di vivere anche altrove.

SLAVICH Per quanto riguarda la prima domanda posso rispondere


così: nella équipe terapeutica di reparto che comprende il medico, gli
infermieri e adesso, da un po’ anche un’assistente sociale, c’è
qualcuno che pensa che si debbano chiudere le porte delle
camerette, le quali qualche volta venivano chiuse, anche se da molto
tempo in pratica non vengono più chiuse.

Per quanto riguarda la seconda domanda vale la risposta di prima, e


cioè già in questi ultimi tempi una ventina almeno di pazienti del
reparto C sono andati negli altri reparti aperti; io penso che nella
fase attuale solo un piccolo numero ancora non è sufficientemente
preparato per poter stare in un reparto aperto, ma anche di coloro
che ancora sono al C, moltissimi, potrebbero cambiare reparto.
Dice qui l’infermiere Dizorz che negli altri reparti aperti adesso non
c’è posto; quindi l’unica soluzione è quella di tendere ad aprire
anche il reparto C.

BASAGLIA Vorrei chiedere all’infermiere Minardi se è d’accordo su


quanto ha detto il dottor Slavich circa i mezzi di protezione e sulle
terapie dei reparti chiusi.

MINARDI Io sono d accordo perché le terapie le fa lui. Io non posso


mettermi al posto del medico e fare io le terapie, io sono d’accordo
sul fatto che non si chiudano le camerette e che gli ammalati
vengano isolati, anche senza chiudere la porta.

BIANCHI Io vorrei che lei fosse più chiaro su quanto ha detto prima,
cioè che si faccia una puntura e che il paziente dorma; io non ho mai
saputo che qui dentro esista un metodo tale; si tratta una bestia così,
almeno così la vedo io…

SLAVICH A proposito di errate comunicazioni o di comunicazioni


distorte, alle quali accennava il dottor Pirella: prima si è parlato di
cinque infermieri alle prese con un paziente che aveva un “delirium
tremens”; bisogna spiegarci bene per evitare equivoci, tanto è vero
che qualcuno diceva: «beh! se eravate in cinque bella forza!» Credo
che possa risultare illuminante raccontare un po’ l’episodio per
vedere come si possa risolvere un problema di questo genere.
Erano le dieci di sera, e io ero medico di guardia, quando è entrato
con la Croce Verde un paziente dall’Ospedale di Monfalcone, che
aveva avuto due giorni prima un incidente stradale; ne aveva
riportato un rene rotto, tre costole rotte, una gamba rotta e una
contusione cranica; e in seguito come spesso avviene dopo un
trauma, essendo un alcoolista, ha avuto una crisi di “delirium
tremens”. Nonostante tutte queste lesioni era molto inquieto, e non
stava fermo un minuto, cosa particolarmente nociva date le lesioni
interne che aveva. Ora, che cosa è successo? gli infermieri di notte
erano due, c’era un terzo che faceva la guardia dormita, ma si è
pensato che tre persone per tutto il reparto e con questo nuovo
problema, non fossero sufficienti, quindi si è dovuta chiamare
un’altra guardia dormita di un altro reparto; quindi erano in quattro gli
infermieri in reparto, di cui due stavano al capezzale del paziente
parlando, parlando, parlando, finché ad un certo punto il paziente
non era più così inquieto, straparlava sì, però stava relativamente
immobile, senza necessità di ricorrere a mezzi contentivi, senza
bisogno che cinque persone lo stessero a tenere. I cinque infermieri
sono venuti fuori così; dato che si trattava di guardie dormite che
stavano in piedi, a metà della notte essi si sono dati il cambio e altri
due infermieri sono subentrati; così cinque o addirittura sei infermieri
hanno avuto a che fare a turno con il paziente, però al suo
capezzale erano sempre in uno o due.

BOCCHI (vicepresidente dell’Amministrazione provinciale di Parma)


Io vorrei, per rendermi conto dell’importanza soprattutto nella vita
della comunità e quindi nella cura dei pazienti oltre che dei sanitari e
dei medici, quella degli infermieri, avere maggiori chiarimenti sul
modo (già è stato detto sommariamente) con cui gli infermieri
tengono il paziente nel reparto, soprattutto in questi reparti aperti, e
in particolare se gli infermieri sono sempre gli stessi, cioè come si
sentono in relazione alle esperienze che possono derivare da altri
sistemi, da altri ospedali che qui sono stati citati. Vorrei fossero
chiarite le loro funzioni nella partecipazione attiva alla cura del
paziente in tutti gli aspetti, oltre a quelli più propriamente di cure
mediche.

La seconda domanda che può chiarire maggiormente a chi di


comunità terapeutica sente parlare e che oggi abbiamo avuto il
piacere di vedere (però non di viverla evidentemente, in così breve
lasso di tempo): quale funzione ha una gerarchia, se esiste una
gerarchia. Io ho già avuto la sensazione nelle domande, nel sentire
parlare di équipe di comunità, nel sentire soprattutto parlare di
riunioni, di gruppi, di comunità di reparti, di ospedali nel loro
complesso, che sarebbe interessante sapere quale è la funzione di
tutto ciò, come queste regole, queste norme vengono applicate o
non applicate sempre e anche in modo diverso, da che cosa
scaturiscono e quale è la partecipazione a tutti i livelli, dal paziente al
direttore dell’ospedale.
Pongo ora la terza domanda: quale, e mi rivolgo in particolare
soprattutto ai sanitari, quale è l’effetto di questa parte, quale
preponderanza o meno ha questa parte di vita comunitaria nella cura
delle malattie.

SIGNOR PECORARI (capo infermiere di Gorizia, risponde alla prima


domanda) Gli infermieri sono sempre quelli, si alternano nei turni
soltanto in occasione di assenza o per malattia o per ferie; allora si
mandano anche negli altri reparti infermieri che siano qualificati in
quel genere di reparto.

Qui noi abbiamo infermieri anziani che sono stati preparati già prima,
hanno dato una buona collaborazione per questo ospedale così
aperto in quanto noi… dovrei rifarmi indietro un po’, al fine di
spiegare meglio. Quando noi abbiamo aperto questo ospedale si
facevano le ventiquattr’ore, quando poi è stato fatto il turno delle otto
ore sono stati assunti circa venti infermieri, sono stati chiamati dei
giovani preparati con un corso svolto nell’ospedale. Aprendo questo
ospedale il direttore quando ha voluto aprire i reparti, ha trovato un
terreno buono sul personale anziano, c’era una certa collaborazione;
comunque la responsabilità se la è presa il direttore e noi dobbiamo
dire che è andata bene. Nel primo momento in cui è stato aperto
l’ospedale il direttore ha fatto delle riunioni prima coi capi reparto poi
con gli infermieri, poi ha chiesto anche i pareri e il primo reparto
aperto è stato quello dei lavoratori dove c’erano già pazienti che
uscivano dal reparto per andare a lavorare. Poi ha fatto l’esperienza
di aprire quel reparto cosiddetto terapeutico: ha preso dei gruppi di
ammalati che erano in altri reparti e li ha messi là ed il reparto è
stato aperto con cinquantasei posti e due infermieri per turno.
Situazione che è rimasta tuttora invariata. La domanda era questa:
se gli infermieri sono sempre quegli infermieri. Sì, quelli di cui si
parlava prima ad esempio sono sempre quelli; non è che siano due
infermieri tutti i giorni, in sostanza sì, però uno dei due è sempre
fuori ad accompagnare i malati, ne resta uno solo. In certi momenti il
reparto resta sprovvisto di personale e può capitare di telefonare nel
reparto e chi viene a rispondere può essere un ammalato. Con
questo però vi dico che il reparto va bene.
Per rispondere ancora sempre a quella domanda dirò che nel
reparto chiuso, ad esempio, abbiamo circa diciotto infermieri e sono
sempre gli stessi che si alternano. Può capitare che alcuni di questi
vadano in altri reparti, ma solo in caso di sostituzione temporanea.
Tutto il personale qui è stato preparato appositamente per questo
genere di ospedale aperto. Non vi diciamo, cercate di aprire anche i
vostri. Mi permetta di dire, signor direttore, che forse noi ci siamo
spinti anche un po’ troppo in là, ma siccome il nostro direttore è un
pioniere, per questo credo che si tiri avanti. Non per fare un elogio al
nostro direttore, ma bisogna che siano direttori come il professor
Basaglia per fare una cosa di questo genere.

TOMMASINI Quanti ammalati avete nel vostro ospedale? quanti nei


reparti aperti e quanti nei reparti chiusi?

PECORARI Uomini: 77 nel reparto chiuso, 181 nei reparti aperti;


donne: 100 nel reparto chiuso e 180 nei reparti aperti.

TOMMASINI Chiariamo bene il concetto di reparto aperto. Per


reparto aperto intende reparto dove l’ammalato può uscire quando
vuole, andare nel parco quando vuole, andare al bar quando vuole?

PECORARI Sì, intendiamo tutto questo. Anzi io devo dire che con
questo genere di ospedale invece di invogliare gli ammalati ad uscire
li si invoglia a restare dentro, perché qui si sta bene, perché qui
nessun ammalato è costretto a fare questo e quell’altro; qui sono
liberi.

TOMMASINI L’ospedale è tutto contorniato dalle mura?

PECORARI Otto anni fa è stata fatta una muraglia; prima era una
siepe.

La muraglia è stata fatta contro la volontà del direttore di allora,


tuttavia chi viene dentro non ha l’impressione del carcere, qui c’è
una libertà assoluta. Anche come ho detto prima un po’ troppo, ma
realmente noi dobbiamo dire che questo esperimento della libertà è
andato bene. Devo dire ci è andata bene, tenendo presente dove
siamo.

TOMMASINI Il numero attuale degli ammalati è in aumento o in calo


rispetto a cinque anni fa?

PECORARI E’ diminuito di circa una trentina; questo per gli uomini;


circa altrettanto per le donne.

BALDASSI Siccome Pecorari ha la parola, vorrei chiedergli se la


mura di cinta (chiamiamola muraglia in quanto noi la vediamo di
malocchio) è stata fatta per volere degli amministratori provinciali
oppure per volere dei sanitari di allora?

PECORARI Ho detto già contro la volontà del direttore è stata fatta.


E’ stata iniziata una muraglia di cinquanta metri perché gli ammalati
lavoratori di allora scappavano con molta frequenza dalla siepe di
alloro, per andare all’osteria e al bar poco distanti poi non si sa come
è stata allungata; noi saremo contenti solo quando questa muraglia
sarà abbattuta. Spero che prima che se ne vada il professor
Basaglia riesca ad abbatterla.

BOCCHI La seconda mia domanda era questa: mi sembra di avere


capito che tutte le norme di vita qui nell’ospedale vengono decise
dalle riunioni, cioè dalla comunità; in queste riunioni si discutono tutti
gli ordini, le disposizioni eventuali che venissero al di fuori delle
decisioni prese dalle riunioni di gruppo o di reparto o di comunità?

Le riunioni che voi fate possono mettere in discussione le decisioni


ad esempio che vengono dalla direzione?

PECORARI Sì certo, tutto può essere messo in discussione. Qui si


discute di tutto e in molte cose deliberano i pazienti stessi: una
delegazione di ammalati è stata anche mandata in provincia a
parlare col presidente.

BOCCHI Dunque posso concludere in questo modo questa risposta


e questa mi riguarda anche dopo che il direttore ha detto se la
Provincia poi tiene in considerazione o no le decisioni prese dagli
ammalati.

BASAGLIA Ma bisogna vedere se la Provincia prende o no in


considerazione anche i consigli della direzione dell’ospedale.

BOCCHI Questo mi porta a fare una certa conclusione, proprio


perché sono amministratore della Provincia e non sono neanche
direttamente interessato al settore dell’ospedale perché non sono
assessore delegato a quel settore e quindi mi interessa
indirettamente, quando i problemi vengono portati in Giunta e
discussi collegialmente; molto spesso ritengo di non dare il
contributo che dovrei o potrei dare anche nella soluzione dei
problemi che vengono posti non dico dalla comunità, perché da noi
non esiste, non dico neanche dai ricoverati perché tra noi e loro
esiste un diaframma, ché l’ospedale è chiuso, ma qualche volta
anche dalla direzione o dalle organizzazioni stesse dei lavoratori,
sindacati, commissioni interne. Quindi io vorrei concludere, e vorrei
essere confermato o meno con tranquillità in questo, che la vita
dell’ospedale è regolata da una partecipazione collegiale di tutta la
comunità dalla direzione all’ultimo paziente.

BASAGLIA Quando la Giunta deve decidere qualcosa che è stata


proposta dai degenti o dalla direzione, essendo stato tutto questo
precedentemente discusso in riunioni di comunità (non trattandosi
quindi di questioni di vertice ma di base) l’approvazione o meno è
seguita con la stessa ansia sia dalla comunità che dai medici.

BOCCHI Direi che l’ideale quindi che scaturisce da questo è che alla
partecipazione della vita della comunità viene inserita la stessa
amministrazione, la stessa Giunta, sempreché questa abbia la
stessa ansia nell’accettare, nel respingere, discutere, approvare o
meno che hanno i componenti della comunità. Questo mi sembra
veramente l’ideale come amministratore, non solo come
amministratore ma come uomo, che si può dare alla vita di un
particolare settore della società nostra quale questo.
La domanda quindi che credo rivolta particolarmente ai medici è
questa: quale peso, in quale misura questo è proporzionato alla cura
generale del paziente ricoverato? cioè quale contributo dà questo
modo di vita, di elaborazione delle norme di vita della partecipazione
alla comunità così collegiale da parte di tutti nel ristabilire un tenore
di vita sano, migliore nei pazienti? Quale peso terapeutico ha questo
nei confronti delle altre cure che qui sono state un po’ a proposito e
forse a sproposito accennate in qualche domanda e in qualche
risposta precedente?

SIGNOR ZANELLI (degente dell’O.P.P. di Gorizia) Essendo liberi,


siamo responsabili del compito che dobbiamo assolvere, quindi si fa
il possibile di essere amici con tutti, di non scappare, di non
commettere malegrazie.

BOCCHI Mi sembra che questo, (non sono medico oltre a non


essere interessato direttamente), sia già una parte della risposta,
cioè questa sia già una cura, già un miglioramento: un inserirsi nella
vita che viene trasferita dall’esterno all’interno, proprio nel
configurarla il più confacente alla vita normale che fuori si conduce,
quindi si ristabilisce una personalità in ognuno, con le proprie
responsabilità e lei diceva in noi ricoverati, di non scappare, poi
quella di seguire tutti i consigli dei medici, quella di seguire le cure,
tutto quello che viene indicato. Poi c’è un’altra parte della risposta
che potremo definire scientifica e quella spetta al medico.

BASAGLIA Qui l’amico Zanelli, che è un degente, ha dato una


risposta direi pertinente, come era pertinente quella dell’infermiere
Ghiotto quando ha detto che la disponibilità è la nostra più
importante arma terapeutica. Zanelli ha messo in evidenza un fatto
essenziale: che al centro della comunità terapeutica e della terapia
di questa comunità sta la «responsabilizzazione». Noi qui nella
comunità siamo presenti, programmaticamente, allo stesso titolo.
Cioè medici, infermieri e malati agiscono nel campo ospedaliero tutti
allo stesso livello: nel senso banale del termine sarebbe una bugia,
perché io sono un medico, l’altro è un infermiere e l’altro ancora è un
degente. Però siamo allo stesso titolo nel momento in cui cerchiamo
di operare tutti nella stessa direzione, cioè verso un unico,
determinato scopo terapeutico. Questa mi sembra sia la grossa
scoperta della comunità terapeutica, che poi è l’uovo di Colombo
perché l’azione che ci si sforza di fare nelle nostre famiglie (quando
non ci sia un padre o una madre troppo autoritari) è esattamente
quella che cerchiamo di stabilire nella nostra comunità; una certa
democratizzazione familiare che si prefigge un armonico sviluppo dei
figli nell’ambito di un armonico sviluppo di ciascuno dei componenti
la famiglia. Con ciò non si vuole dire che seguiamo i malati come
bambini (il che sarebbe proprio la negazione del nostro scopo), né
che loro ci vedono come dei padri castratori: però esiste sempre un
rapporto particolare tra degenti, medici ed infermieri per cui si
riconosce a tutti e tre i livelli, il diverso livello tecnico, pur essendo
tutti presenti allo stesso titolo nell’ospedale nello scopo unico verso
cui si tende.

Noi medici sosteniamo di essere solo un punto di riferimento per gli


ammalati, cioè tendiamo a non essere fonti di autorità (sottolineo
tendiamo perché, naturalmente siamo ben lontani dall’aver raggiunto
questo stadio), perché conosciamo come il potere, cioè l’esercizio
del potere come espressione della compensazione della nostra
ansia, agisce nei confronti del malato come l’azione la più
antiterapeutica. Infatti si instaura un circolo chiuso: se ad esempio la
Provincia esercita un determinato potere su di me come suo
subalterno, io lo esercito di rimando sui miei collaboratori, i miei
collaboratori sugli infermieri e gli infermieri sui malati. Ora, se
l’autorità amministrativa è l’espressione anche dei pregiudizi che
sussistono nella nostra realtà nei confronti della malattia mentale, e
se vogliamo veramente rompere questa catena di aggressività, noi
medici non possiamo scaricare la nostra sugli infermieri, solo perché
l’autorità la scarica su di noi per le nostre esigenze; né gli infermieri
sui malati. Naturalmente non possiamo sostenere di agire
costantemente in questi termini, tuttavia questo è il nostro problema:
tendere ad un determinato livellamento, pur sapendo che non sarà
facile e forse possibile raggiungerlo, dato che io non posso svestirmi
della mia figura di medico (anche se non indosso più
deliberatamente e quindi simbolicamente il camice), così come gli
infermieri continuano ad essere infermieri, con divisa o senza; i
malati, malati. Per questo è mistificato, come spesso si sente,
chiamare i pazienti «ospiti» (e noi stessi l’abbiamo fatto); è una
bugia che ci diciamo per sfuggire alla nostra e alla loro realtà. Noi
siamo medici di ospedale psichiatrico, come i malati sono dei
ricoverati in tale istituto. L’importante è mutare la realtà che questi
termini rappresentano e non mistificare le parole. Per questo direi
che un’altra fondamentale premessa su cui si fonda la comunità
terapeutica è la sincerità che può essere anche dura talvolta; ma se
si cade nella menzogna, prima o dopo la si paga. Io - in questo
momento - mi trovo in imbarazzo con un malato cui ho detto una
bugia, perché mi pareva di non avere altre vie di uscita. Questo
malato ha rifiutato la vita comunitaria ed ogni volta che me lo trovo di
fronte, mi ricorda quello che ho fatto nei suoi confronti e sono
costretto a continuare a mentire, negando di avere mentito. Questo
malato è la mia realtà e la mia verità insieme perché è il testimone
sempre presente dei miei errori. Per questo non è possibile mentire
di fronte al malato o di fronte all’infermiere e reciprocamente, perché
l’assemblea di comunità agisce come una verifica costante per tutti.

Riassumendo, concluderei che la comunità terapeutica è una


comunità in cui tutti tendono ad un determinato livellamento, anche
se non si sa se si riuscirà a raggiungerlo, ma già in questo tendere
sta la nostra situazione terapeutica fondamentale.

TOMMASINI Una domanda che ritengo indispensabile al fine di


permettere agli infermieri di Gorizia e a quelli di Parma di fare uno
scambio sul loro lavoro è la conoscenza dell’importanza che ha nella
vostra terapia il rapporto infermiere-medico, infermiere-medico-
ammalato. Ritengo infatti importante comprendere il significato di
questo rapporto con l’ammalato in un ospedale psichiatrico rinnovato
nei metodi di cura come il vostro. Un mio amico medico di Parma, in
occasione di una discussione sull’impressione mia della visita fatta
tempo fa a Gorizia, mi disse che non condivideva questa
impostazione: perché? Perché l’Ospedale di Gorizia deve essere un
ospedale, mi diceva, deve essere un ospedale psichiatrico, perciò un
ospedale dove si curano solamente gli ammalati con le medicine;
inutile trasformare l’ospedale in una pensione, in un albergo. Io
vorrei sapere nel modo più chiaro possibile, perché voi avete
trasformato il vostro ospedale, rendendolo completamente diverso
da tutti gli altri ospedali italiani? Quali risultati immediati avete
ottenuto e quali risultati in prospettiva pensate di ottenere?

BALDASSI Io penso che quel medico non sia uno psichiatra. Anche
qui a Gorizia forse c’è qualcuno, sempre medico, che la pensa come
il suo amico, che ritiene cioè non sia una cosa buona il metodo usato
qui perché ritiene sia un albergo. Ma che cosa intende quel suo
amico per albergo? Io penso che gli ammalati, piuttosto che farli
vivere in un manicomio, sia meglio farli vivere in un albergo, dal
momento che in un albergo si può stare meglio, si può girare, si
possono fare cose che in un manicomio tradizionale non si possono
fare. Io preferisco vedere gli ammalati sguinzagliati piuttosto che in
contenzione, in celle. Dal momento che devono rimanere in
ospedale, penso che sia molto meglio farli vivere così, all’aperto,
amici con noi, vivere una vita comunitaria, cioè come ha detto il
direttore, di tendere ad un livellamento tra medici, direttore,
infermieri, pazienti.

BIZZI Vorrei un chiarimento dal collega Baldassi. Lo scambio di


vedute tra l’assessore Tommasini e lei pone un altro argomento su
questa particolare questione: ed è questo. Si dice da parte di
qualcuno (affermazione che io naturalmente non condivido) «ma se
allora si creano degli ospedali psichiatrici in questo modo andrà a
finire che nessuno vorrà uscire, vorrà dire che aumenteranno i
pazienti anziché diminuire, perché rendiamo loro la vita comoda e
alberghiera».

BALDASSI Ma noi abbiamo visto come un momento fa ha detto il


nostro capo che il numero dei degenti è diminuito da cinque anni a
questa parte; una trentina di uomini e penso che saranno senz’altro
di più, poi più donne dal momento che le donne sono in
maggioranza rispetto agli uomini. Allora non è vero che questo si
trasforma in albergo che induce gli ammalati a rimanere dentro. Noi
prima abbiamo premesso che qualcuno preferisce rimanere dentro,
ma qualcuno, e questo non fa la regola, l’eccezione non fa la regola.

BIZZI E’ una domanda che io ho fatto perché di riflesso la risposta


servisse a convincere gli altri e domani coloro che non sono
presenti. Purtroppo sentiamo anche da persone che rivestono
funzioni molto più importanti dal lato professionale, che sono in
atteggiamento negativo, o se non negativo, per lo meno riservato,
ecco perché avevo posto questa domanda.

BALDASSI Le nostre riunioni comunitarie al mattino, alle dieci,


registrano una presenza di circa cento ammalati, ma io vorrei
chiedere agli ammalati chi è contento di rimanere qui dentro. Io
penso che uno solo potrà risponderci positivamente e quindi cade la
faccenda dell’albergo.

BIZZI Vorrei sentire qualche ammalato in proposito a questo


problema.

SIGNOR SOMMI (infermiere dell’O.P.P. di Colorno) Vorrei rivolgere


una domanda al direttore. Io sono presidente della Commissione
interna di Colorno, vorrei sapere se nelle iniziative che vengono
prese tramite la direzione, i rappresentanti del personale, la
commissione interna, sindacati che sia, sono partecipi a queste
iniziative Chiedo che sia il direttore a rispondermi.

BASAGLIA Rimanderei la domanda a qualcuno della Commissione


interna. Se è presente qualcuno pregherei di rispondere.

INFERMIERA DI GORIZIA Nessuno meglio di lei, professore, può


sapere se lei ci fa partecipe di quello che riguarda la vita sindacale.

BASAGLIA Alla domanda dell’infermiere Sommi se la Commissione


interna viene informata prima che le decisioni vengano prese, o se
viene informata successivamente devo dire che per quello che
riguarda le questioni sindacali, i rapporti con la Commissione interna
sono quelli che penso saranno un po’ dovunque. Per quello che
riguarda le iniziative che sono state prese fin dall’inizio, i rapporti con
la Commissione interna sono stati piuttosto discontinui; cioè non c’è
sempre stata una presa di posizione reciproca.

SOMMI Per quello che riguarda le riunioni di gruppo anche noi a


Colorno abbiamo cominciato a farle da un paio di mesi o tre e anche
noi abbiamo impostato questo sistema. Fra i malati che fanno capo a
questa comunità, vi sono quelli che capiscono meno e quelli che
capiscono di più. Naturalmente gli svantaggiati sono quelli che
capiscono meno e la parte migliore può sempre far valere meglio la
propria ragione.

BASAGLIA Intanto vorrei chiedere: che cosa intende per quelli che
capiscono di più e quelli che capiscono di meno?

SOMMI Naturalmente quelli che capiscono di più vogliono fare


andare le cose a modo loro.

BASAGLIA Guardi, io le ho fatto una domanda specifica. Che cosa


intende lei quando dice «quelli che capiscono di più e quelli che
capiscono di meno?» Vuole dire forse gli idioti e gli intelligenti?

SOMMI Naturalmente tra gli ammalati ci sono questi e quelli. Questo


può influire sull’esito delle riunioni?

BASAGLIA Direi che influisce nella stessa misura in cui influisce in


una riunione di comunità esterna. Lei vada in una caserma e faccia
una riunione di comunità: anche lì ci sono quelli che «capiscono» e
quelli che «non capiscono», quelli che tendono a prevaricare e quelli
che non tendono a prevaricare. Direi che è una situazione tipica
della nostra società: la nostra società - così com’è - è impegnata a
cercare continuamente un capro espiatorio. E come lei trova il suo
capro espiatorio, l’ammalato dell’ospedale psichiatrico tenta di
trovare il suo. Quindi non troverei alcuna differenza fra le riunioni di
comunità e quelle di qualunque altro istituto: caserma, collegio,
consiglio. Credo che anche gli assessori di una giunta cerchino il
loro capro espiatorio.
SOMMI Io ho fatto la domanda semplicemente perché ho sentito
qualche cosa in merito.

BASAGLIA No, siccome lei ha cercato di mettermi al muro io le


rispondo dimostrandole quanto sia reale la tecnica del «capro
espiatorio». Stiamo facendo il gioco della verità e lei deve chiarire
quando dice «ho sentito qualcosa».

Per lei la dinamica della nostra riunione è questa: ci sono dei malati
più furbi che capiscono, dei malati meno furbi che non capiscono,
quindi i furbi riescono ad avere la meglio.

Questo è il suo punto di vista?

SOMMI No, io ho chiesto se questo qui può verificarsi.

BASAGLIA Certamente che può verificarsi, perché si verifica anche


nella sua vita privata, e allora direi che la riunione di comunità è del
tutto simile ad una riunione di comunità di partito, di caserma, di
collegio.

SOMMI No, io non sono d’accordo a paragonarla ad una riunione di


partito o di chicchessia.

BASAGLIA Se lei non pensa così me lo dimostri. Io le ho dimostrato


che nella società in cui viviamo tendiamo sempre a trovare il capro
espiatorio. D’altra parte è quello che lei ha fatto con me quindi
adesso mi dimostri che non è così.

SOMMI Non è che io non voglio dimostrarlo è che io la penso così.


Secondo il mio punto di vista la vedo così, posso anche sbagliarmi.

BASAGLIA Lei ha affermato che se nella riunione di comunità c’è


quel malato che capisce o più furbo che tenta di prevaricare su
quello meno furbo, l’ospedale rimane diretto dai pochi furbi e i poveri
scemi ubbidiscono. Io le dico sì, può essere benissimo così, ma le
ripeto che questa situazione si verifica anche all’esterno.
SIGNORINA GEROMETTA (infermiera di Gorizia) Con la comunità
terapeutica non si dovrebbe cercare di evitare questo? L’ammalato
più scaltro ha, in questo modo, sempre la meglio. Ma chi deve
soccombere ci rimette le penne.

BASAGLIA Sì, questo è giusto. Per questo ci sono i medici e gli


infermieri. Ma i medici e gli infermieri non devono prendere un
atteggiamento di autorità dicendo «tu che capisci devi stare attento a
chi non capisce». Noi dobbiamo solo dialettizzare la situazione
comunitaria: se c’è quello più furbo che tenta di prevaricare
dobbiamo mettere in guardia quello meno furbo; e dialettizzare la
situazione significa essere presenti in modo tale che sia il furbo che
il meno furbo possano avere un ruolo dialettico.

BOCCHI Un esempio l’abbiamo avuto stamattina. Questa mattina è


stato fatto lo spoglio di due elezioni e evidentemente abbiamo
sentito parlare di una elezione più democratica e di una meno
democratica. Vorrei sapere: in quella meno democratica, cioè quella
annullata, deve pure esserci stato qualcuno che ha prevaricato, c’è
stato qualcuno comunque che non l’ha fatta funzionare come si
deve; vorrei sapere se questo può essere uno degli elementi
dialettizzanti della situazione, cioè degli interventi della comunità di
chi ha una responsabilità ad altro livello.

PIRELLA Vorrei dire una cosa che si riallaccia sia a quanto detto
dall’infermiera Gerometta sia anche a questa ultima osservazione
fatta dal vicepresidente della Provincia di Parma, e cioè anzitutto che
l’osservazione dell’infermiera è stata fatta ora in una riunione in cui si
discute della validità della situazione comunitaria, e in un certo
senso investe la situazione comunitaria con una critica di fondo.
Ritengo che la signorina Gerometta possa fare, nel corso delle
assemblee generali, un intervento che moderi o critichi quello che a
lei è parso un difetto. Se lei, o qualche altro, ha colto questo
inconveniente, questo difetto di fondo, può benissimo intervenire,
ogni volta che abbia notato un eventuale atteggiamento di
oppressione di degenti su altri degenti. Un intervento che valga a
riportare il rapporto su un piano di realtà può limitare eventuali danni
che potessero derivare da una prevaricazione, da una oppressione.

Per quello che riguarda le elezioni direi che non c’è stata una
prevaricazione di qualcuno: c’è stata semplicemente una elezione in
reparti chiusi, ovviamente scarsamente comunitari o meno
comunitari di quelli aperti, e popolati da degenti meno capaci di
esprimere in modo autonomo la loro opinione. In un primo tempo le
elezioni erano state fatte in una maniera che è stata poi ritenuta non
valida perché non segreta.

In un secondo tempo sono state fatte in un modo più dettagliato,


lasciando ad ogni degente la possibilità di esprimere
autonomamente il proprio voto.

Vorrei insistere su questo punto e cioè sulla necessità ed opportunità


di esprimere opinioni perché le critiche di fondo possono anche
essere utili, ma, come diceva il professor Basaglia, dovrebbero
entrare in una dialettica, non dovrebbero essere tenute, per così
dire, nel fondo del proprio cuore, ed essere invece fatte circolare in
discussione; perché è sugli argomenti concreti, è nella situazione
concreta che è possibile confrontare le opinioni e migliorare poi la
situazione.

CAMPANINI Vorrei fare una domanda: se in un ospedale strutturato


come il nostro, cioè a monoblocco, vi sarebbe possibile applicare
una terapia quale la vostra o per lo meno che si avvicini?

BASAGLIA La domanda che lei ha fatto mi sembra molto importante


perché mette a fuoco la situazione generale degli istituti psichiatrici.
Si pensa che gli ospedali psichiatrici possano migliorare
cambiandone l’architettura: il Ministero della Sanità è cioè molto
preoccupato di come si devono fare gli ospedali perché pensa che la
costruzione architettonica possa influire sulla terapia psichiatrica. Io
personalmente credo si possa fare della buona psichiatria in
qualunque posto, anche in un vecchio ospedale, anche a
monoblocco, perché quello che conta è il rapporto col malato, la
disponibilità di cui parlava Ghiotto e la responsabilizzazione di tutti i
partecipanti.

CAMPANINI L’ambiente in cui viene ospitato il degente in un tipo di


costruzione vecchia presenta un inconveniente: il degente cerca di
ricoverarsi il più tardi possibile. Se invece esiste un ambiente più
bello, rinnovato, o addirittura nuovo, il degente si ricovera in tempo,
ai primi sintomi, ai primi disturbi. Qui abbiamo degli esempi di
degenti che si ricoverano spontaneamente, cioè volontariamente: si
fermano il tempo necessario alla loro degenza. Però capita spesso,
che medio e lungodegenti, per carenza di posti, debbano essere
trasferiti ad altri reparti dove le condizioni ambientali sono meno
confortevoli.

Il nostro reparto A è stato rinnovato da un anno circa. Quando i


degenti sono trasferiti ad altri reparti vanno via a malincuore perché
le strutture degli altri reparti sono completamente diverse da quelle
del reparto accettazione. Quindi io credo che in un certo senso
influisca anche l’ambiente.

SIGNOR BINI (infermiere di Colorno) Vorrei fare una domanda a


nome di un mio collega che mi ha dato l’incarico. E’ una domanda
che credo sia di carattere sanitario che non collima con la
discussione di ora. Mi diceva questo collega in quale modo un tipo di
ammalato, un alcoolista, viene ricoverato e poi dimesso, se questo
tipo di degente ha un particolare trattamento e come ne consegue la
sua dimissione. Forse la struttura dell’ospedale può portare questi
tipi di ammalati volontariamente al ricovero?

BREGANT Abbiamo formato appositamente, da poco tempo, un


piccolo reparto. Abbiamo cercato di adottare dei sistemi nuovi; ci si
adattava giorno per giorno alla situazione del momento. Qual è lo
scopo per cui è stato costituito questo reparto? Lo scopo era di
mettere insieme persone che avessero gli stessi problemi da
risolvere, persone che cercando di discutere questi problemi fossero
messe di fronte alla realtà. Questo reparto è completamente aperto,
e tutti i lavori, tutto quello che riguarda le attività interne ed esterne,
vengono svolti completamente dai degenti: la preparazione del vitto,
delle stoviglie, lavori di traforo, attività ricreative. Ma la cosa più
importante è che i permessi vengono discussi in comunità di gruppo.
Ogni degente può usufruire di uno o più permessi settimanali.

Un degente prima di avere un permesso, mette in discussione la sua


situazione e sottopone agli amici i motivi per i quali chiede il
permesso; loro poi discutendo vagliano il caso. Più importante
ancora, mi sembra sia la discussione di gruppo circa la eventuale
dimissione dei degenti stessi. Io credo che loro stessi vedono
quando un degente è pronto ad affrontare la vita sociale, cioè si
rendono conto se lo stesso è riuscito a superare quei problemi che lo
hanno condotto al ricovero. Quindi non si tratta tanto, per l’alcoolista,
di un periodo di degenza per la disintossicazione, quanto della
possibilità di risolvere quei problemi sociali, familiari che spesso lo
conducono in precarie situazioni. Mi sembra che questo in linea
generale possa essere esauriente per il collega che mi ha rivolto la
domanda.

Un chiarimento dal lato sanitario lo potrà dare il professore o il dottor


Pirella circa l’ingresso e la dimissione di questo particolare degente.

PIRELLA Vorrei dire una cosa che credo possa essere utile: noi
abbiamo notato una modificazione importante nell’atteggiamento dei
pazienti in generale, ma degli alcoolisti in particolare verso l’istituto
dalle prime degenze alle successive. Ad esempio un alcoolista che
ha bisogno di più degenze in ospedale per eventuali ricadute
successive ad un primo periodo di degenza nella nostra comunità e
particolarmente nel reparto comunitario degli alcoolisti, ha un
atteggiamento verso l’istituzione che non aveva la prima volta, entra
spontaneamente ad esempio, si presenta spontaneamente in
ospedale o addirittura in reparto perché riconosce di essere ricaduto.
In generale l’atteggiamento del paziente verso l’istituto viene
significativamente modificato dalla situazione comunitaria, non è un
atteggiamento di paura, non è un atteggiamento di rifiuto ad essere
accolto, ma è un atteggiamento di richiesta di essere accolto. Non si
può dire, come è stato detto, che i pazienti non vogliano tornare a
casa e stiano volentieri qua, questo non mi risulta, però si può dire
che i pazienti quando si rendono conto in qualche modo di aver
bisogno di ritornare, non fanno drammi e si presentano
spontaneamente o comunque accettano l’invito ad essere ricoverati.
Questo direi che è una cosa molto significativa della nostra struttura
ospedaliera che facilita ovviamente di molto, a questo riguardo, sia il
compito dei medici, degli infermieri, sia il rapporto tra gli stessi e i
degenti.

SIGNOR PINCETTI (infermiere di Gorizia) Volevo chiarire una cosa


che toccava sia il discorso del nostro capo infermiere, sia il dottor
Slavich e di conseguenza anche il vostro vice presidente.

Il signor Pecorari qui ha detto che gli infermieri sono sempre gli
stessi nei propri reparti; ecco, questa è la risposta che volevo dire a
lei, il cambio è limitato, perché essendo sempre gli stessi infermieri il
cambio da un reparto all’altro è limitatissimo. Il dire, come ha detto il
nostro capo infermiere, che questi infermieri che vengono messi nei
vari reparti sono specializzati è una cosa assurda, perché tutti gli
infermieri, sia i giovani che i vecchi hanno un titolo di studio di
licenza media normalmente, poi fanno il corso nell’ospedale stesso,
quindi la cultura infermieristica è sempre la stessa per tutti. Varia
certamente se uno per conto suo studia, si approfondisce, quindi la
specializzazione da un reparto all’altro non esiste. Siccome si è
iniziata l’apertura dei reparti gradualmente, è logico che sono andati
quei dati tipi di infermieri per cui in verità specializzazione non ne
esiste.

La sensibilità, vero dottore? e la disponibilità dell’infermiere, c’è


sempre secondo noi, anche se sembra che lei non lo creda. La
deficienza di disponibilità nel nostro reparto forse c’è stata più da
parte dei medici, in un certo senso. Perché? negli altri reparti,
dall’inizio dell’apertura si sono istituiti dei comitati, delle riunioni tra il
medico e l’infermiere che provocavano discussioni: nel reparto C
queste non ci sono mai state. Questo rapporto tra medico-infermiere
è già da cinque anni che c’è, quindi c’è una maturazione che non
esiste invece nel reparto C. Non si può pretendere che dopo cinque
anni alla distanza di sei mesi da quando un dottore ha preso questo
reparto C in consegna, con quattro, cinque o anche venti assemblee,
si possa portarlo allo stesso livello degli altri reparti che hanno già
una vasta esperienza di cinque anni di rapporto tra medico e
infermiere. In fondo la mancanza di sensibilità non è, come diceva
lei, da imputare tutta all’infermiere.

DARDI (architetto, risponde alla domanda dell’infermiera di Colorno


relativa alla possibilità di adottare una adeguata terapia in un
ospedale strutturato a monoblocco) Ho cominciato ad interessarmi di
ospedali psichiatrici guardando gli esempi nel mondo, soprattutto in
Italia, e ho capito abbastanza che quello che si vedeva realizzato
non erano ospedali psichiatrici, erano carceri, tutto fuorché ospedali
psichiatrici. Poi a forza di capire che cosa dovevano essere, ho
avuto l’incontro con il gruppo dei medici di Gorizia e finalmente ho
scoperto che non esiste un problema di architettura e ospedale
psichiatrico; questa è un po’ la mia tesi. Cercherò di spiegarvi il
perché. Le idee correnti sono quelle abbastanza diffuse che alla
microsocietà che vive all’interno di un ospedale psichiatrico debba
corrispondere anche una microarchitettura fatta di piccole case
costruite nel verde di carattere rurale, pensando che in questo
ambiente astratto dalla collettività e dalla società si possano
ricostituire quei rapporti che hanno portato il paziente
all’internamento. Viceversa, guardando il problema dagli altri punti di
vista, si vede che questo schema non regge ad una critica attenta.
Ora dire quale sia la formula esatta per un ospedale psichiatrico è
molto difficile, direi che si può dire quello che non deve essere un
ospedale psichiatrico; non deve avere cioè né quell’aspetto di casa
per una piccola società vista in modo paternalistico né può essere
un centro di relazioni troppo complesse al di là delle quali la
personalità di un uomo non riuscirebbe a ritrovarsi.

Io credo che esista un rapporto tra architettura e psichiatria come


esiste in generale un problema tra l’ambiente e le persone che lo
abitano. Gli americani hanno diviso le stanze, gli spazi secondo
categorie, dicendo che alcuni favoriscono l’incontro e altri non lo
favoriscono, i corridoi lo favorirebbero perché ci si incontra, si
cammina, e viceversa certe stanze chiuse e un po’ pesanti
sarebbero contrarie alla formazione di questi rapporti interpersonali.
Io non credo che si possa definire a priori in quale architettura certi
problemi vengono risolti meglio che in un’altra. Certo è che lo spazio
come tanti elementi così dall’interno fisico in cui ci troviamo come la
natura, come il verde, come i grandi spazi esterni all’edificio
ospedaliero possono portare delle note atte a favorire una vita
migliore, possono invece creare delle situazioni di carattere
carcerario pesanti e difficili; quindi in questo senso sono abbastanza
sicuro proprio perché oggi l’architettura, l’edilizia, una ricerca molto
attenta di questi problemi ci possono permettere di formare le cose
in modo molto aperto, molto ricco, di favorire al massimo lo scambio
e il rapporto tra le persone. Esiste la possibilità che l’architettura
particolarmente attenta sappia diffondere questi problemi, non esiste
però credo una formula assoluta per dire: in questa direzione i
problemi si risolvono e in quest’altra non si risolvono. Quindi il modo
in cui lei ha impostato la domanda credo sia superato da questa mia
affermazione, poiché non esiste la differenziazione se l’ospedale è a
monoblocco o no, se sia positivo o negativo a priori, non c’è nessuna
garanzia di questo tipo. Dipende dal rapporto che si sviluppa
all’interno della collettività che vive in questo ospedale. Certo che
una architettura concepita in modo molto ricco, molto aperto può
favorire questi rapporti, creare gli spazi atti ad avere l’ambiente
favorevole a questo tipo di rapporto e una architettura invece
schematica, a celle ripetute in modo ossessivo non può far altro che
disperdere e portare al rifiuto di queste cose. In questo senso alla
fine io credo che non esista un problema specialistico degli ospedali
psichiatrici, ma esiste un problema di una buona architettura che,
come nel caso dei buoni collegi, dei buoni convitti, dei buoni
alberghi, anche dei buoni ospedali creerà degli spazi armonici e
viceversa una architettura molto schematica non farà altro che
ridurre tutto questo in celle e alla fine non avrà risolto i problemi che
si proponeva all’inizio.

BOCCHI Vorrei porre ancora una domanda non all’architetto, ma


probabilmente ai medici e comunque anche alle assistenti sociali e
agli infermieri. Richiamavo questo paragone della riproduzione della
microsocietà, e ciò in particolare oggi non è stato ancora oggetto di
una aperta discussione. L’assistenza postospedaliera: che cosa
avete fatto in merito, che cosa fate, soprattutto per quanto concerne
il grave problema dopo la dimissione dall’ospedale e dell’inserimento
nella società di chi lascia l’ospedale?

SIGNORINA BUDIN (assistente sociale di Gorizia) Per quello che


riguarda l’assistenza extraospedaliera io posso dire che noi abbiamo
un servizio di igiene mentale funzionante tutti i giorni tranne il
sabato, e l’igiene mentale viene effettuata in questo modo: può
venire chiunque, sia persone inviate dal medico che ex degenti, è
aperto a tutti ed è gratuito. Noi facciamo delle riunioni di gruppo,
queste però da poco tempo; prima l’igiene mentale veniva fatta dal
medico individualmente e veniva poi segnalato all’assistente sociale
se c’erano dei problemi da risolvere ad esempio nei rapporti familiari
o altri di cui si occupa di solito l’assistente sociale. Ora invece
facciamo dei gruppi, il medico e l’assistente sociale si riuniscono e si
discute per circa un’ora con i pazienti che sono ex degenti mandati
da medici o venuti spontaneamente a queste riunioni; sono invitati
anche i familiari e si parla dei loro problemi. Questa riunione dura
circa un’ora e poi il medico vede i pazienti assieme all’assistente
sociale o separatamente per dare delle indicazioni più specifiche, di
carattere medico (la cura da mantenere) o di carattere sociale
(indicazioni particolarmente di enti a cui rivolgersi ).

Queste riunioni secondo me sono molto utili, almeno dal mio punto
di vista, perché mentre il medico o l’assistente sociale possono dare
dei consigli che sono sì ad un livello tecnico ma sono anche umani, il
paziente che porta un problema da discutere può anche lui dare dei
consigli sperimentati. Questo per quanto mi riguarda.

Volevo poi dire che durante queste riunioni di gruppo, riunioni che si
sono sviluppate in questi ultimi tempi, si evita «la grossa ricaduta» di
qualche paziente, perché quando questi viene all’igiene mentale si
nota che è alterato o che non sta bene o che ci sono dei gravi fattori
sociali che lo rendono ansioso e possono aggravare il suo stato di
salute. Lo si consiglia quindi di ricoverarsi, parlandone, evitando così
i ricoveri drammatici.
BASAGLIA Vorrei rispondere all’amico dell’assessore Tommasini il
quale temeva che la comunità terapeutica fosse un mondo chiuso in
sé che al massimo può diventare un bell’albergo o un pensionato.

Da un certo punto di vista il pericolo della comunità terapeutica è


proprio quello di diventare una gabbia dorata in cui tutti si trovano
incarcerati, compresi i medici e gli infermieri. Ad un certo momento
c’è bisogno di ossigeno ed occorre uscire dalla situazione chiusa.
Noi tuttavia siamo in una situazione in cui non sentiamo ancora
questa necessità - dico non ancora perché la nostra organizzazione
comunitaria non ha raggiunto un livello comunitario reale, completo.
Non appena lo raggiungerà, però, allora la comunità terapeutica
dovrà rompersi ed uscire nella comunità esterna. In ciò sono quindi
d’accordo con l’amico dell’assessore Tommasini che, in caso non
accada, la comunità terapeutica fallirebbe il suo compito. Il compito
della psichiatria oggi è cioè quello di ridimensionare gli ospedali
psichiatrici, nel senso di renderli comunità vive, reali e quindi
terapeutiche. Ma l’importante è che, una volta raggiunta una
determinata fase di assestamento, si sia pronti a distruggere
l’equilibrio raggiunto, per uscire da quello che può diventare un
nuovo sistema chiuso. Questo sarà il secondo momento
dell’organizzazione psichiatrica, però il primo passo non può non
essere il riassestamento degli ospedali da dove è partita l’immagine
orrenda del malato mentale chiuso, legato, mortificato.

Se alle nostre spalle non avremo prima smitizzato la figura del


malato mentale e quella del suo ospedale, la paura di un ricovero
agirà sempre negativamente sui malati che ci accingeremo a curare
in centri mandamentali esterni, perché noi saremo sempre, ai loro
occhi, i medici cattivi che legano e terrorizzano i malati all’interno
degli ospedali.

SIGNOR ROSSI (infermiere dell’O.P.P. di Colorno) Gli ammalati, i


denari che hanno a disposizione possono spenderli personalmente o
sono controllati? Hanno delle somme stabilite dai medici o dagli
infermieri? O i loro denari sono amministrati dall’economo?
BASAGLIA A me spiace molto che dobbiate andare via perché fra
mezz’ora c’è la riunione del Comitato nel quale si discuteranno
questi problemi. I denari che vengono dati ai malati vengono spesi
come meglio credono e qui ci sono delle prevaricazioni talvolta,
perché si gioca a carte e si perdono delle somme relativamente
considerevoli, cioè ognuno può fare quello che vuole con i suoi
denari.

SIGNOR ANDRIAN (infermiere dell’O.P.P. di Gorizia) Io vorrei dire


qualcosa, così come noi abbiamo superato quelle difficoltà per
arrivare dove siamo arrivati, vincendo in parte i pregiudizi che sono
in noi e che ancora sussistono, faccio l’augurio che anche voi di
Parma facciate uno sforzo in questo senso e che vediate
diversamente l’ammalato, non con il pregiudizio (cioè che vada
curato in un ambiente chiuso) ma che possa essere curato anche in
un ambiente dove c’è una certa liberalizzazione, dove la personalità
sia rispettata.

BOCCHI Abbiamo soltanto il dispiacere di dover partire perché


giustamente questa mattina durante la visita un medico ci diceva che
per capire fino in fondo la comunità bisogna sentirla parlare e
vederla e poi viverla, e avremmo veramente voluto che questa
nostra visita si trasformasse, per lo meno, in un periodo seppur
breve di vita della comunità.

Noi non abbiamo parole per ringraziarvi, d’altra parte i convenevoli


credo che non siano necessari al dibattito e poco utili. Il dibattito che
c’è stato, la franchezza direi, il modo e la franchezza con il quale è
stato affrontato, le cose che, seppur non approfondite però sono
emerse e in particolare l’augurio che ci è venuto da molte parti, non
dico di seguire soltanto il vostro esempio, ma di far sì che possiamo
anche noi con il nostro ospedale, con la nostra assistenza più
generale nel campo provinciale, avere risultati e successi è la cosa
migliore che resta in noi. Credo che, anche a nome di tutti gli altri
portiamo un ricordo che per il momento è ancora così,
probabilmente incapsulato da un certo choc che vive e che ha
vissuto per un lungo periodo in una situazione che direi sotto alcuni
aspetti non ha limiti di paragone, per lo meno se non nei fini
dichiarati e qualche volta neanche sempre voluti della cura dei
pazienti che ci sono affidati; certamente nella rimeditazione,
nell’impegno che d’altra parte è già stato detto anche stamattina sta
a dimostrarsi un po’ la mezza avventuretta del viaggio fatto nel modo
come noi l’abbiamo fatto, credo sia un impegno che si ripeterà e noi
ci auguriamo di avere altre occasioni e vorremmo anche farci
l’augurio di avere un giorno la possibilità di avervi da noi con qualche
realizzazione che possa essere degna di essere considerata.

Ancora grazie a tutti, alla direzione, al personale tutto, ai ricoverati


che ci hanno dato, credo, uno dei contributi più validi.
IL LAVORO RENDE LIBERI?
Commento a due assemblee di comunità dell’Ospedale psichiatrico
di Gorizia

di Antonio Slavich e Letizia Jervis Comba.

Alcuni problemi posti dal lavoro dei ricoverati nelle istituzioni


psichiatriche, e dalla retribuzione di questo lavoro, sono stati
argomento di discussione per le due assemblee di comunità svoltesi
il 7 e 9 gennaio 1967, alle quali hanno partecipato pazienti, medici
ed infermieri; se ne trascriverà integralmente la registrazione
commentando i passaggi che sono sembrati di maggior interesse.

Non è molto usuale che le persone più direttamente interessate al


problema - i pazienti lavoratori - si trovino a discuterne insieme: ma
non vi è alcun dubbio che il lavoro, anche se sotto forma di
«ergoterapia», sia vissuto dal paziente come un importante punto di
riferimento della sua vita quotidiana ospedaliera; un punto di
riferimento nel quale egli spesso finisce per investire un valore e un
significato che trascendono quelli propriamente terapeutici. E, dalla
parte delle istituzioni, da sempre è stato fatto non poco perché il
lavoro del paziente assumesse una posizione centrale, e alla fine
insostituibile, nella loro struttura. Nel secolo diciannovesimo, in
epoca prepositivistica, il lavoro faceva già parte dei principi del
trattamento morale del paziente negli ospedali, allora aperti; poi
l’orientamento ufficiale della psichiatria positivistica mutò, al
riguardo: ma non per questo molti pazienti cessarono di collaborare
con la loro attività silenziosa, nel chiuso degli ospedali; e infine, per
opera soprattutto di “H. Simon” (1929) una quadrata ideologia
medica propose una rivalutazione del lavoro nelle istituzioni
psichiatriche, reinvestendovi un valore «terapeutico»; con “Simon”,
esso è divenuto un mezzo di «terapia più attiva» del malato, uno
specifico per ricostruirne e riplasmarne la personalità attraverso
varie tappe scalari di attività lavorativa. Da allora l’«ergoterapia» è in
ogni ospedale psichiatrico. Mutuando l’ideologia ergoterapica la
psichiatria asilare postsimoniana ha agevolato una suddivisione in
classi dei pazienti che ne venivano in contatto: da un lato coloro che
ai riteneva possibile curare con altri mezzi, per restituirli al più presto
«reintegrati» alla società; poi quelli che rimanevano rinchiusi come
oggetti passivi di assistenza, e coloro, infine, che avrebbero
riacquistato lentamente la loro libertà “all’interno” dell’ospedale,
lavorando nella - e per la - istituzione, reintegrandosi ed adattandosi
in tal modo alla microsocietà istituzionale

E’ molto probabile che alla base delle contraddizioni inerenti al


lavoro dei ricoverati stia il tentativo di stabilire una equazione fra due
entità - lavoro e terapia - che per almeno un aspetto appaiono
irriducibilmente incommensurabili. Infatti l’attività lavorativa del
paziente da un lato può essere un’azione sociale più o meno
spontanea, e in quanto tale principalmente terapeutica; dall’altro
però essa è sempre reale forza lavorativa, energia prodotta, che può
essere alienata solo o con un libero contratto o con un atto di
imposizione. Dinnanzi a questa contraddizione la istituzione è
sempre ambigua, perché ha bisogno contemporaneamente di
entrambe le caratteristiche del lavoro: del suo aspetto terapeutico
per mobilitare la partecipazione attiva del paziente alla interazione
terapeutica, e del suo esser sempre anche forza-lavoro, per
muovere e tenere in vita il funzionamento del meccanismo
istituzionale. L’etica prevalente non consente all’istituzione di
scambiare dichiaratamente il lavoro con la prestazione terapeutica o
assistenziale (e poi, come attuare questo scambio se il partner del
contratto non esiste in realtà, dato che è privato, per definizione,
della sua libertà?); l’istituzione non può quindi che identificare i due
termini del problema: dunque il lavoro “è” terapia. Le idee di “H.
Simon” si rivelano subito risolutive: con il lavoro-terapia il malato
riacquisterà la sua libertà, lavorerà senza contratto per essere in
grado di stipulare ancora un vero contratto di lavoro, ma una volta
reso libero, in un futuro non precisabile.
Il lavoro rende liberi, dunque? Nelle due assemblee sono accennati
molti tentativi di risposta a questo interrogativo implicito, talora
contraddittori, che spesso dimostrano una presa di coscienza ancora
assai parziale; soprattutto sarebbe inutile cercarvi una risposta
negativa, una chiara denuncia o, meno ancora, espressioni
«toccanti» di autocommiserazione: anche perché non è questo un
discorso obiettivo e distaccato “sul” lavoro in ospedale, bensì, nella
massima parte, un discorso “dei” pazienti lavoratori; un discorso fatto
all’interno del sistema, dunque: e la sua logica richiama spesso
esplicitamente le ferree regole logiche imposte dalla istituzione
totale.

L’occasione per la discussione è data da un problema contingente


che, considerato da una posizione esterna, può apparire marginale:
la somma destinata alla retribuzione del lavoro in ospedale è stata
spesa e superata, e si è creata in tal modo una situazione deficitaria;
grava sui pazienti la minaccia di una diminuzione della «paga»
settimanale; si discutono le cause del deficit e i provvedimenti da
prendere.

Il commento vuole tenersi lontano da qualsiasi inutile agitazione


polemica, limitandosi a sottolineare, via via che emergeranno dagli
interventi, gli aspetti generali più significativi (anche nei riflessi
teorici) di un problema che è certo presente in tutti gli ospedali
psichiatrici. Si cercherà inoltre di collegare fra loro gli interventi che
sembrano esprimere analoghi punti di vista, e di sottolineare infine
alcuni movimenti dinamici della assemblea, nel momento in cui si
confronta con questi problemi.

[Seguono i testi degli interventi e del dibattito sviluppatisi nel corso


della seduta (in tondo e numerati progressivamente). Gli stessi sono
intercalati dal commento di Antonio Slavich e Letizia Jervis Comba
(in corsivo e preceduto dallo stesso numero dell’intervento, della
battuta o delle battute cui fa specifico riferimento)].

COMUNITA’ 1.

Sabato, 7 febbraio 1967.


Presenti alla seduta:

68 degenti

8 infermieri

5 monitori

4 assistenti sociali

1 psicologo

5 medici

Tutti i nomi dei degenti sono fittizi.

1.

SIGNORA BASSANI Io avevo pensato, siccome la paga diversi la


percepiscono anche tre, quattro, cinque mesi senza lavorare, ed è
ingiusto che prendano via a uno che lavora come a uno che non
lavora, se il lavoro non rende; e in più non abbiamo lavoro, non c’è
lavoro, questo lavoro che abbiamo noi nel nostro reparto e negli altri
reparti in diversi punti manca; e allora ho pensato così: quelli che
hanno sulle 300, 400 lire di fare metà, una specie di disoccupazione
continua fino a che non venga lavoro certo, e poi se viene il lavoro,
riprende la paga di prima: io credo che sarebbe una cosa giusta con
la quale si potrebbe anche risparmiare appunto le 25 mila lire che ci
mancano: tra quelle e quelle si fa un resoconto giusto, perché sono
duecentosettanta malati che prendono la paga, e mediante questo
credo che arriveremo a levar fuori queste 25 mila lire, dato che
siamo in deficit. E’ una cosa certo non bella quella che dico, e non
parlo per rabbia perché io non ho mai avuto una paga, parlo
realmente perché ci si trova in difficoltà in tutti i modi, non si può
andar avanti così. Il dottor Tesi ha fatto facile lui le cose, quando uno
insisteva sull’aumento qui si alzava la mano «facciamo 200 di più, va
bene, la paga è fatta». Questo è stato sbagliato per conto mio,
perché in generale lavorano quelli che lavorano, a quelli che non
lavorano si dà una specie di disoccupazione, torno a dire, perché
anche fuori un operaio che non lavora e che rimane a casa tre, sei
mesi di seguito, finché ha la cassa malati ha 1000 lire, anche 800,
poi gli fanno 600, anche 300 prendono i disoccupati, conforme che
pagano; e a mio modo di pensare, in generale l’unica cosa da fare è
così: fare una paga base uguale a tutti quelli che non lavorano, a
quelli che lavorano certo bisogna dare, ma anche bisogna vedere il
lavoro che fanno, il rendimento che dànno, quello che fanno, perché
va bene, come il nostro direttore dice, che è una specie di terapia,
ma una terapia fino ad un certo punto, e quando ci si trova in
difficoltà di trovare questi soldi e di poterci mettere a posto di nuovo,
credo che il mio modo di pensare sia questo. Adesso dite voi, è
giusto o è sbagliato?

COMMENTO 1.

1. Siedono dietro al tavolo della presidenza tre degenti: un


presidente, il signor Massi, una presidente, la signora Bassani, e la
segretaria, signorina Danieli.

Queste cariche vengono designate con modalità variabili, non di


rado per acclamazione, e durano una settimana. A volte, ma non
spesso, le cariche vengono rinnovate per varie settimane di seguito:
ciò si verifica quasi sempre quando vi è un dibattito di particolare
importanza, che si protrae per un lungo periodo di tempo.
Attualmente la presidenza è alla sua quarta settimana.

In questo primo intervento della presidente, che riassume un punto


di vista abbastanza diffuso fra i pazienti (confronta “comm. 6” ) sono
contenuti alcuni riferimenti impliciti all’organizzazione del lavoro
terapeutico nell’ospedale, che può essere utile chiarire brevemente
per la ulteriore comprensione del testo.

I pazienti che lavorano sono attualmente circa duecentosettanta (in


numero quasi eguale fra uomini e donne) su cinquecentotrenta
presenti; erano circa ottantacinque anni or sono, e tutti lavoravano ai
«servizi generali» dell’ospedale, o alla pulizia dei reparti, o nella
colonia agricola. Un incremento assai rapido del numero dei
lavoratori, fino a raggiungere pressocché il livello attuale, si è avuto
già nei primi due anni, quando la necessità di smuovere la stagnante
situazione asilare ha imposto come una delle prime iniziative quella
di mobilizzare in qualche modo il grande numero dei pazienti
affondati nel vuoto motivazionale della routinaria vita quotidiana nel
reparto. La uscita del paziente dai reparti ha rappresentato la prima
tappa per la concreta apertura dei reparti stessi; e il suo recarsi sul
lavoro, svincolato dal rapporto di custodia, la prima alternativa
offertagli sulla via di una liberalizzazione dei suoi rapporti
interpersonali all’interno dell’istituzione. Insieme con questi lati certo
positivi, l’avvio di un così rilevante numero di pazienti a una attività
ha comportato notevoli problemi, ed ha forse anzi accentuato alcune
delle contraddizioni del lavoro terapeutico nella istituzione. I luoghi e
le caratteristiche del lavoro sono rimasti in grande misura gli stessi;
in molti casi è rimasto immodificato il tipo di rapporto tra il leader
istituzionale (infermiere-operaio addetto ai servizi) e l’agglomerato,
solo più numeroso e ipertrofico, di individui più o meno attivi. Sono,
sì, iniziate delle attività industriali (gruppi di lavoro imperniati sulla
presenza di un monitore, che eseguono prestazioni commissionate
da piccole industrie locali: impagliatura sedie, confezione di
bambole, fiaschi, scatole, parchetti, eccetera); ma vi sono attivi
attualmente solo quaranta pazienti su duecentosettanta: un numero
insufficiente dunque a dare un tono e una impostazione nuovi al
lavoro nell’ospedale, e che per di più corre il rischio di
istituzionalizzarsi, di assumere cioè molte delle caratteristiche della
«ergoterapia» tradizionale in favore dell’istituzione. Un fatto nuovo è
rappresentato invece dalla comparsa del denaro come forma di
retribuzione: questa era in origine corrisposta in natura, sotto forma
di tabacco o altro, per lo più solo agli uomini, e certo non a tutti i
pazienti lavoratori; la introduzione del denaro contante come unica
forma di retribuzione, la maggior perequazione fra uomini e donne, e
soprattutto la retribuzione di tutti i lavoratori, hanno formalmente e
apparentemente sanato alcune delle più stridenti forme di privilegio:
ma non hanno certo risolto le contraddizioni della ergoterapia
ospedaliera, e sotto alcuni aspetti le hanno anche accentuate. La
somma a disposizione per i compensi è progressivamente
aumentata da meno di uno a 6 milioni annui; e la retribuzione media
settimanale per paziente da un valore minimo, difficilmente
precisabile, a 480 lire settimanali (distribuite al sabato, in busta paga
nominativa, sul luogo di lavoro). La contraddizione maggiore è
rappresentata appunto da questa cifra media, che nasconde divari
tra le 100 e le 1300 lire settimanali: la retribuzione non ha fatto che
sancire una gradualità di valore tra le varie attività, lontana in
definitiva sia dalla valutazione terapeutica sia da quella economica
del lavoro ospedaliero. Si sono così riproposti gli squilibri fra le
diverse carriere retributive; l’intervento medico, teso fin dall’inizio ad
una generica giustizia distributiva («innanzitutto la paga a tutti») non
è certo riuscito, a meno di interventi autoritari rifiutati per scelta, ad
impedire il riproporsi di tali squilibrii.

Essi hanno avuto origine in un primo tempo dalla concorrenza fra i


diversi gruppi, rappresentati paternalisticamente dal relativo
infermiere; in un secondo tempo principalmente per la iniziativa
liberistica dei singoli pazienti, forti della loro efficienza sul lavoro per
la istituzione, al di fuori di qualsiasi contrattazione in gruppo. Il
riconoscimento e la valutazione delle istanze di aumento erano
devoluti in un primo tempo a una ristretta commissione formata
esclusivamente da personale sanitario (un medico ed un infermiere)
senza partecipazione dei pazienti; la parziale dissoluzione della
struttura gerarchico-burocratica alla quale hanno teso via via le
iniziative comunitarie ha reso possibile, con l’avvio delle assemblee
comunitarie, che le istanze fossero proposte al giudizio di tutti: ma
non per questo le contraddizioni, come si vede dall’intervento della
presidente, si sono risolte. Una ulteriore difficoltà è data dalle attività
discontinue, in relazione alle fluttuazioni dell’offerta di lavoro da parte
delle industrie locali; è questa la «disoccupazione» cui si fa cenno: la
logica economica, ma non quella terapeutica, imporrebbe la
sospensione della retribuzione nel periodo della temporanea
mancanza di lavoro. L’avvio di nuovi pazienti in nuovi gruppi di
lavoro richiede poi, ovviamente, una retribuzione, la quale facilmente
si attesta fin dall’inizio su una base superiore alla media, anche per
le più coscienti possibilità «contrattuali» di quei pazienti che da poco,
e per breve tempo, si sono inseriti nella nuova situazione
istituzionale. Queste, sommariamente, le ragioni «obiettive» del
deficit di cui si discute: esso ammonta a 25 mila lire settimanali, ed
appare a prima vista recuperabile solo con la decurtazione globale
del 20% della cifra destinata dal bilancio ospedaliero ai compensi
settimanali.

2.

SIGNORINA DANIELI E’ giusto perché non viene levato via niente,


viene quel poco, ma è sempre lo stesso.

3.

SIGNOR LUCCHI Io non voglio che sia levata la paga a chi ha 500
lire, quello non si deve toccare.

4.

DANIELI No, quello era il calcolo del signor Milani, quella era una
proposta da rivedere e da eventualmente accettare in parte.

5.

BASSANI Signor Milani, ogni medico del reparto deve fare un


controllo esatto, questo deve fare, e chiedere cosa fa quello, cosa fa
quell’altro, per arrivare al punto giusto; perché è inutile dire «a quella
300 perché mi fa pena, non ha nessuno»: quando si fa una cosa
giusta per tutti, nessuno ha da protestare, perché quel poco lo
ricevono tutti, e il mio modo di pensare è giusto perché nessuno può
protestare «a me tanto o a lei tanto», oppure «ci dànno tanto, bene
quello che prendiamo, tanto non si va a lavorare». Quando viene il
lavoro ci torna la paga di prima perché il lavoro rende, rende quel
poco, ma insomma rende; per poter rimettere a posto questo mezzo
milione dobbiamo fare così e io credo che, nel mio modo di
spiegarvi, così è giusto per tutti e nessuno protesta, non dice «quello
ha di più, quell’altro di meno».
6.

PROFESSOR BASAGLIA E’ qui Milani?

7.

DANIELI E qui Milani, sì.

8.

BASSANI Milani, crede lei di arrivare alla conclusione di giungere a


trovare queste quattro lire?

9.

SIGNOR MILANI Bisognerebbe vedere prima chi non lavora, certo.


Chi lavora poco riceve poco, ha 150 lire, 200 massimo; chi lavora
invece ha un poco di più.

10.

SIGNOR CIANI Non sono tutti che hanno sempre 150 lire, hanno
300 anche 400, e non lavorano.

11.

SIGNOR MASSI Allora bisogna formare una commissione.

12.

SIGNORA SFILIGOJ Si capisce, formare la commissione e levare


via la metà.

13.

SIGNOR PEGORARI Ci sono vari modi di non lavorare, ci sono


quelli che non lavorano niente, ci sono quelli che lavorano
saltuariamente e quelli che lavorano poco.
14.

BASSANI Bisogna fare un controllo, eh!

15.

PEGORARI Torno a chiedere a lei, chi intende lei veramente che


lavori?

16.

LUCCHI Io intendo la cucina che lavorano, perché là è una attività


che debbono continuare, la lavanderia poi non si parla, perché
anche là lavorano.

17.

SIGNOR VALLI In cucina sono diciotto persone, lì lavorano sì, ma


qualche lavoretto, così giusto per passare il tempo.

18.

SIGNOR VISINTIN E con questo? Sono otto ore occupati e devono


stare sempre lì.

19.

LUCCHI Ma si vede, quando si va a cercare qualcuno che vada in


cucina ad aiutare, non va nessuno, e quindi si vede che il lavoro non
è tanto piacevole, allora in cucina non si deve toccare la paga, quelle
di 500 in su non dico, ma 500 in giù nessuno deve toccare.

20.

SIGNORA SBRIZZI Allora se sono occupate otto ore quelle della


cucina, penso che siano più di otto ore occupati quelli che sono nei
reparti, perché lavorano anche quelli tutto il giorno, fanno i letti, le
pulizie.
21.

SFILIGOJ Tutto il giorno non si fanno i letti, si fanno la mattina, in


un’ora e venti minuti si finisce tutto il lavoro.

22.

VISINTIN Ma tutto il giorno non si pelano le patate.

23.

LUCCHI Ma è più lavoro in cucina che non nei reparti, perché nei
reparti ci sono più persone che aiutano.

24.

SIGNOR ORZAN Nel reparto è un lavoro, e quello nell’umidità,


nell’acqua, nel vapore della cucina è un altro lavoro.

25.

LUCCHI Ma lei cosa fa?

26.

ORZAN Io non prendo paga niente, io non ho fame, a me non


interessa.

27.

LUCCHI Allora perché si interessa degli affari degli altri?

28.

ORZAN Lei non stia a pensare, io nei vostri affari non m’intrigo, ve
l’ho già detto.

29.
BASAGLIA Venga qui lei, venga, ci spieghi, cosa deve dire lei
riguardo al lavoro?

30.

ORZAN Lui dice che cosa, dice che la paga è la metà, ma l’anno
scorso ho dovuto fare andare avanti da solo la caldaia, e chi mi
paga?

31.

LUCCHI Sono affari personali che a noi non riguardano.

32.

DANIELI Dunque ritornando all’argomento paghe, cosa vi pare della


proposta della signora Bassani, chiedo a voi il parere, cioè quello di
dare il sussidio di disoccupazione a quelli che lavorano poco.

33.

MASSI E’ un sussidio continuato?

34.

DANIELI Sì, continuato fino a quando non viene il lavoro. Che ve ne


pare?

35.

ORZAN Un momento Sandra, ancora una parola ti dico, io sono


sempre andato a protestare che ci aumentino le paghe a tutti quanti,
a quelli che lavorano nei servizi generali, e le caldaie sono anche un
lavoro dei servizi generali, hai capito? Io sono sempre andato a
chiedere aumenti di paga per tutti i servizi generali e per te anche e
non parlare che io ho chiesto di calarti la paga per darla a me. Io
sono andato sempre a protestare di aumentarti la paga.

36.
VOCE E’ andato via.

37.

DANIELI E’ andato via perché sa che ha torto.

38.

BASSANI Noi non ci siamo trovati mai in una situazione così


scabrosa, speriamo che il nostro signor direttore ci possa risollevare
da questo impiccio.

39.

DANIELI Il direttore non può fare niente, purtroppo. Il direttore è qui


per porci davanti questo problema, cari figlioli abbiamo
cinquecentomila lire di deficit, copriamolo in qualche modo, come?

40.

BASSANI L’unica cosa è di calare le paghe…

41.

SIGNOR MEDEOT Ma calare le paghe suscita un malcontento


perché nessuno è disposto a rinunciare alle 50 o 100 lire, quelli che
hanno 1000 lire si sono fatti avanti volontari perché l’eccesso di paga
venga dato a favore del deficit.

42.

PEGORARI Si dovrebbe prevedere un accertamento di quei casi…

43.

DANIELI Esatto, sì, questo accertamento viene fatto insieme al


signor Milani e una piccola commissione nostra, cioè noi nominiamo
due, tre persone che insieme al signor Milani si incaricano di
accertare chi lavora e chi non lavora, naturalmente i capireparto
sanno chi lavora e chi non lavora, sanno anche quali persone hanno
bisogno della paga, quali possono farne a meno perché pensionati,
o perché hanno i parenti che li aiutano.

COMMENTO 2.

2-43. In termini espliciti anche se ancora vaghi viene formulato il


disagio per la «situazione scabrosa» che si è creata con la minaccia
di riduzione delle paghe (38). L’affermazione non è casuale, e si
situa in un momento ben determinato di una più lunga discussione,
iniziata già nelle precedenti assemblee.

In realtà, il problema della riduzione, formulato nei suoi termini crudi


e reali di «necessità», non sembra trovare nell’assemblea una
possibilità di sviluppo: si richiede ai pazienti una decisione su un
problema che, visto nella loro prospettiva, è pressoché insolubile;
esso è fruito dai pazienti come uno pseudo-problema, al quale si
attagliano solo pseudo-decisioni, vaghe, imprecisate e non vissute,
che vengono a sovrapporsi alla vera decisione - riguardante la
diminuzione necessaria - vissuta come già presa e imposta da altri. Il
diffuso disagio conseguente a questa contraddizione non
dialettizzabile, e la preoccupazione per gli effetti concreti della
minaccia della diminuzione, conducono ciononostante a numerosi
interventi individuali tendenti a «soluzioni» rassicuranti, che
preservino l’integrazione. Si propongono così soluzioni chiaramente
“ideologiche” (5, 11, 43) come la richiesta ripetuta di una
commissione di controllo che dovrebbe essere in grado di assicurare
il perfetto funzionamento del meccanismo comunitario e l’assoluta
giustizia retributiva; o soluzioni tipicamente “fantasmatiche” (38,
174), proiettando sul «signor direttore» possibilità di intervento
taumaturgico e carismatico; o, infine, soluzioni semplicemente
“regressive”, nelle quali si accetta, con apparente spontaneità, la
«necessità» della decisione, come naturale nella realtà istituzionale:
si accetta quindi di decurtare i salari (1, 40, 43), di valutare
criticamente la reciproca produttività (13, 21) ed il valore delle
prestazioni altrui, di avallare il grado di priorità dei lavori che la
istituzione suggerisce sulla base di criteri produttivistici (16). Si può
notare inoltre come la tensione oscilli di continuo tra una vaga
tendenza all’autocolpevolizzazione e la ricerca continua di un capro
espiatorio, e come finisca per trovarne l’oggetto, momentaneamente,
all’interno del gruppo, con manifestazioni d’intolleranza (27, 31, 37).
Tutti e tre questi tipi di soluzione (ideologica, fantasmatica,
regressiva) forzano d’altra parte la realtà, e trovano prontamente la
loro negazione da parte degli stessi pazienti (35, 39, 41).

Se l’assemblea di comunità avesse come esplicito scopo il prendere


una decisione su un problema così posto, ogni ulteriore dinamica
potrebbe a questo punto arrestarsi, e forse non ci si potrebbe
attendere che una rigida iterazione di queste soluzioni apparenti. Ciò
in parte si verificherà nei successivi interventi delle due sedute, nella
misura in cui il condizionamento istituzionale ostacolerà i pazienti
nella presa di coscienza del problema dibattuto.

Ma una riunione di comunità ha uno scopo diverso: in essa problemi


e contraddizioni non trovano primariamente una soluzione, bensì
appena una possibilità di espressione diretta e in parte non
condizionata; vi vengono confrontate le posizioni di copertura che
individualmente pazienti, medici, infermieri tendono a crearsi; col
confronto tali posizioni riacquistano la loro dimensione relativa, per il
continuo reciproco richiamo alla realtà. Una funzione importante
nell’avvio di questo processo dialettico hanno gli interventi, supportivi
ma non direttivi, dei medici e degli altri leaders tecnici presenti.

44.

BASAGLIA Ma se uno ha volontà di lavorare, e non può lavorare


perché la malattia non glielo permette?

45.

DANIELI Beh, questo è un caso patologico che riguarda lei, perché


se uno ha volontà, ma la malattia non gli permette di lavorare, noi
non possiamo fare altro che dire, se puoi lavora e se proprio non
puoi, perché la malattia non ti permette, fa’ a meno; non si può
costringere uno a lavorare.
46.

BASAGLIA Ma allora non prende niente.

47.

PEGORARI Signorina Danieli, allora questo ammalato per la società


è un ammalato, e non ha bisogno…

48.

DANIELI Eh già, chi non lavora non prende, chi non lavora non
guadagna, questa è una legge economica che vale per tutti, chi non
lavora non guadagna, chi non guadagna non mangia, ma questo
ammalato mangia lo stesso anche se è ammalato.

49.

DANIELI Appunto, la società quando uno si trova nell’impossibilità di


lavorare perché è ammalato gli dà un sussidio di disoccupazione che
dura sei mesi.

50.

PEGORARI E dopo?

51.

DANIELI E dopo la società dice: arrangiati.

52.

PEGORARI Non è vero niente, perché se dopo è in condizioni che


non può lavorare?

53

BASSANI Prende la pensione.


54.

LUCCHI E può fare una domanda per la pensione.

55.

DANIELI Sì, per la pensione di invalidità, uno che non può lavorare
non fa altro che prendere la Cassa malati per sei mesi che gli spetta
e poi fa una domanda di pensione d’invalidità per inabilità. La società
per lo meno civile ci dice così.

COMMENTO 3.

44-55. Si riconducono il lavoro e la paga al loro rapporto col


problema terapeutico. Da un lato l’intervento del direttore ricorda
l’eventuale potenzialità terapeutica del lavoro; da un altro lato
sottolinea l’assurdità del criterio del rendimento, fino al punto da
suggerire che un paziente non debba essere «punito» con una
sospensione della retribuzione per il solo fatto di essere incapace
(magari temporaneamente) di lavorare a causa della malattia. (Si
può notare a questo proposito che nell’ospedale vige la
consuetudine di mantenere la paga a quei pazienti che, abitualmente
lavoratori, si trovino momentaneamente nell’impossibilità di lavorare
a causa della malattia).

E interessante notare che in questa fase della discussione il


problema viene esaminato soltanto per un aspetto molto parziale, e
sostanzialmente viene svilito. Il punto di riferimento è la società
esterna: vista da alcuni come una realtà dalle leggi dure («chi non
lavora non mangia», «arrangiati»); da altri, senza che vi sia una
reale contraddizione, come un’organizzazione assistenziale ben
funzionante.

Nei due casi il paziente sembra concepire la realtà esterna in modo


tale da passivizzarsi nei suoi confronti, e non sembra intravvedere
affatto la possibilità che la «società civile» debba pensare alla
riabilitazione piuttosto che al sussidio. In questo senso i malati
rispecchiano una realtà culturale che informa larghi strati della
società e non riguarda solo l’ospedale.

56.

PEGORARI Noi ospedale, da che altra parte ricaviamo proventi utili


per l’ammortamento di questo deficit?

57.

MASSI E’ una retrocessione quella di calare le paghe, perché


abbiamo fatto tanto per crescerle e poi ad un certo punto ci troviamo
in condizione di dover calare queste paghe. C’era anche una
proposta che ha suscitato un grande malcontento ed era quella di
parificare le paghe. Tutti una paga uguale. Questa proposta è stata
fatta.

58.

SIGNORA ROSSI E naturalmente tutti hanno detto no.

59.

MEDEOT Eh già chi ha 1000 lire non vuol mica avere 500, no.

60.

DANIELI Perché tra chi ha 1500-1300 lire e quelli che hanno 250 il
dislivello è enorme, in sé è poca cosa, ma il dislivello è enorme, se si
pensa a quelli che hanno 150 lire di paga e quelli che hanno 1400
lire, come il signor Ciani. Allora attualmente livellando le paghe si
arriverebbe a prendere 380 lire a testa, da diminuire poi per ricavare
quelle 500 mila lire.

61.

BASAGLIA No, no, sarebbero 390 lire di media dopo la diminuzione.

62.
DANIELI Eh, ma quello che prende 1300 non è disposto a perdere
810 lire.

63.

DOTTOR SLAVICH Beh, potrebbe anche essere che chi prende


adesso 500 non è disposto che un altro ne prenda 1400.

64.

BASSANI D’accordo, ma questo si sa, questa è normale invidia per


uno che prende di più da uno che prende di meno. Non è invidia, è
un senso di giustizia che ci spinge a dire: ma perché tu che lavori
come me prendi 1400 e io che lavoro come te prendo soltanto 300-
400 lire?

65.

SLAVICH Può dire anche: io lavoro, tu non lavori e prendi come me!

66.

DANIELI Io proporrei di fare a metà, a quelli che hanno più di 500


lire (non 300 lire come diceva il signor Milani), a quelli che hanno più
di 500 lire calare le paghe in ragione ad una percentuale X,
naturalmente io proporrei di fare la percentuale, non di dire 100 lire,
ma di fare una percentuale, perché con la percentuale chi ha di più
viene colpito. Cioè aumentato il capitale e rimanendo fissa la
percentuale chi ha di più viene più colpito, chi ha di meno viene
meno colpito, così a percentuale tutti hanno una diminuzione in
misura uguale rispetto alla percentuale. Non so, del 10% per
esempio, così chi ha cinquecento viene colpito di 50 lire, e chi ha
1000 lire viene colpito con 100 lire o del 20%, indifferente. Si tratta di
vedere in quale modo va applicata. Dunque, da 500 a 1300-1400
diminuire, e poi fare come ha detto la signora Bassani, cioè a quelli
che lavorano poco dare un sussidio di disoccupazione, quindi
abbiamo due proposte che vengono unite per fare una sola
soluzione.
67.

LUCCHI E allora come si copre il deficit?

68.

DANIELI In questo modo, ricavando una parte dalla diminuzione


delle paghe, e una parte sempre dalla diminuzione delle paghe ma
dando un sussidio di disoccupazione a quelli che non lavorano; in
definitiva si tratta sempre di diminuzione di paghe.

69.

BASAGLIA Mi sembra molto complicato questo…

70.

DANIELI E d’altra parte io una cosa più semplice non la so.

71.

CIANI Perché non vai a lavorare anche tu, non occorre che vai…

72.

DANIELI Io lavoro già per conto mio, basta, basta. Non si è qui per
discutere di queste cose, si è qui per discutere di un preciso
argomento, argomento paghe, quindi gli altri discorsi sono da
scartare. Il percento dovrebbe rimanere fisso, il 20% per esempio,
da 500 lire in poi. Se non si coprono le spese soltanto levando dalle
500 in poi, bisognerebbe levare dalle 300 in poi; ma il signor Lucchi
è contrario di levare dalle 300, e allora noi facciamo dalle 500 in poi.
Il rimanente, la somma che manca, viene presa riducendo le paghe
da chi non lavora.

73.

SLAVICH Però quelli con la paga tanto alta sono anche quelli che
lavorano di più.
74.

BASSANI Eh sì, quelli lavorano, si capisce, ma bisogna pure tirare


fuori questo mezzo milione. E quando si pagherà questo debito,
dopo forse verranno migliori lavori, ci aumenteranno un’altra volta,
ma per il momento non si può perché si deve pagare questo debito.

75.

DANIELI Naturalmente se vengono lavori in più è logico che


vengono dati più soldi, più lavori più soldi; naturalmente i soldi però
non li prendi né tu né nessuno: per le paghe a noi viene un tanto che
è sempre quello.

76.

LUCCHI Ma se noi diamo modo a maggiori guadagni, ci daranno di


più per le paghe.

77.

VALLI Non ci daranno di più.

78.

LUCCHI Ma se noi diamo modo all’ospedale di prendere più soldi,


l’ospedale deve darci di più. Deve.

79.

VALLI Non dà di più. Quelli sono suoi soldi e basta.

80.

LUCCHI E allora è inutile aumentare i lavori se ci dànno sempre


questa quota.

81.
BASAGLIA Giusto, signor Lucchi, è inutile aumentare il lavoro se
dopo non viene riconosciuto.

82.

CIANI Allora è meglio incrociare le mani.

83.

LUCCHI E’ inutile aumentare i lavori se ci concedono sempre la


stessa somma. E’ inutile cercare lavoro in quel modo lì.

84.

CIANI D’accordo, ma allora cosa facciamo, incrociamo le mani, tanto


ci hanno dato quei proventi per le paghe, e se noi lavoriamo o non
lavoriamo…

COMMENTO 4.

82-84. La proposta di incrociare le braccia ricorre (almeno


nell’assemblea) soltanto su un piano verbale. Il problema non viene
mai affrontato con realismo: in alcuni casi isolati esso è stato vissuto
come protesta individuale, generalmente con la frase «se mi
diminuiscono la paga di sole 5 lire non vado più a lavorare». Manca
quasi del tutto l’idea della solidarietà: la istituzionalizzazione sembra
aver diviso gli ammalati gli uni dagli altri, favorendo solo rapporti di
solidarietà fra piccoli gruppi, ma soprattutto rapporti di dipendenza.
In genere sono gli uomini a parlare più facilmente di sciopero: questo
avviene anche probabilmente perché i loro immediati superiori, che
fanno parte quasi sempre del personale laico, hanno una minor
tendenza ad instaurare nei loro confronti rapporti di protezione
paternalistica. Il paragone fra la situazione di lavoro all’interno
dell’ospedale e la situazione lavorativa «normale» nella società
esterna dimostra differenze grandissime, che vengono in luce al
momento in cui si parla di sciopero. Il datore di lavoro, in ospedale, è
“ambiguo”, soprattutto in quanto non è facilmente distinguibile, per il
malato, da quella che è l’istanza e l’organizzazione terapeutica; in
secondo luogo la vendita della forza-lavoro non è reale perché
nasce come qualcosa che “viene dovuto” all’organizzazione. In
questa situazione parlare di sciopero non ha senso, perché il malato
non si trova in una situazione tale da potersi coalizzare con gli altri in
modo tale da contrapporsi al datore di lavoro. Gli interventi
sull’argomento, infatti, cadono nel vuoto.

85.

BASAGLIA Incrociamo le mani lei dice? Esistono delle attività che


non sono lavori, per esempio: pitturare, disegnare, tagliare la carta,
eccetera.

86.

PEGORARI Ma viene fatto sempre a scopo terapeutico.

87.

BASSANI Certo.

88.

DANIELI Perché è un hobby e uno svago. In tempi normali, cioè tra


persone normali nella vita civile, nella vita esterna diciamo così,
quello lì viene considerato un hobby, un passatempo, mentre da noi
viene considerata terapia, un passatempo però sempre a scopo
terapeutico.

89.

BASAGLIA Lei dice che nella vita esterna la realtà è il lavoro, non è
il tagliar la carta; e allora cosa dobbiamo pensare del tagliare la carta
nei confronti del lavoro in ospedale?

90.

DANIELI Prenderlo; dato che ci sono lavori che sono veramente


lavori, mentre quelli che fanno la terapia con lo svago sono le
persone più deboli, che non hanno la facoltà di lavorare.

91.

BASAGLIA Quelli dobbiamo pagarli, o no?

92.

DANIELI Quelli normalmente non si dovrebbero pagare.

93.

CIANI Come?

94.

DANIELI Non si dovrebbero pagare quelli che fanno la terapia;


oppure dare un sussidio di disoccupazione, una piccolezza, tanto
per invogliarli ad esercitare il loro hobby, perché è un hobby imposto,
non è un hobby scelto; come quello della creta, uno mi dice: «Vieni
con me a fare la creta», non è che io dico «ho voglia di fare la
creta».

95.

BASAGLIA E uno che sceglie di andare in cucina invece?

96.

LUCCHI Quello vuol dire che si sente forte per lavorare.

97.

DANIELI Quella è una cosa scelta, non è imposta.

98.

SLAVICH Quindi si finirebbe per pagare i forti, che sono in fondo


quelli che hanno meno bisogno, e non pagare quelli che hanno più
bisogno.

99.

DANIELI No, i forti, c’è una lieve differenza fra la parola «forte». I
forti normalmente non sono tanto forti da sopportare un lavoro
esterno, sono deboli in fondo, ma sono i forti tra i deboli. Sono forti
tra i deboli, sono cioè meno deboli direi.

100.

BASAGLIA E a questi debolissimi le paghe si dànno?

101.

DANIELI Appunto, ai debolissimi si dà un incentivo per invogliarli ad


essere deboli, non debolissimi; perché uno che fa un’attività non è
più debolissimo, è già debole.

102.

BASAGLIA Ma questa attività è imposta?

103.

DANIELI E’ una attività imposta sì, perché loro non hanno una
volontà da imporre.

104.

BASAGLIA Ma in ospedale dovrebbe essere tutto terapeutico, anche


il lavoro.

105.

DANIELI Certo. Il lavoro è terapeutico, è terapia. Noi abbiamo


bisogno di lavorare non perché abbiamo bisogno di guadagnare le
300-400 lire, ma abbiamo bisogno di lavorare per sentirci più
completi.
106.

BASAGLIA Ma il signor Verzegnassi dice che non è vero, dice che


noi abbiamo bisogno delle 300 lire.

107.

DANIELI No, io dico di no. Perché se l’ospedale non ci desse i


proventi, in reparto si lavorerebbe lo stesso.

108.

LUCCHI Non parlare così; perché tu non hai bisogno, ma se tu non


avessi un soldo per andare a casa, vedresti tu di parlare così.

109.

DANIELI No, io dico che se non ci dessero nessun provento qui si


lavorerebbe lo stesso, nei reparti si lavorerebbe lo stesso. Quelle
che fanno i letti lo farebbero anche senza la paga.

110.

BASAGLIA Bisogna vedere il grado della debolezza, perché più


sono deboli più lavorano per niente.

111.

PEGORARI Sì è vero, più deboli sono, tanto più lavorano per niente,
esatto.

112.

BASAGLIA Quello è un tipo d’imposizione, di lavoro imposto.

113.

DANIELI Sì, quando il lavoro è imposto viene pagato poco; e quelli


sono deboli, perché i debolissimi non lavorano affatto; noi vediamo
che ci sono persone che non lavorano, e quelli sono i debolissimi, i
deboli lavorano, e i meno deboli lavorano di più.

114

BASAGLIA E i forti?

115.

DANIELI I forti sono fuori.

116.

BASAGLIA Chi lavora per hobby e chi lavora per necessità? Chi fa
ad esempio la musicoterapia, chi lavora la creta, chi taglia la carta,
per questi il lavoro è un hobby?

117.

DANIELI Sì, è un hobby, viene considerato un hobby.

118.

BASAGLIA Questi si devono pagare o no?

119.

DANIELI Guardi io penso di sì, ma la paga deve essere minima,


abbiamo già detto che sono i meno deboli.

120.

BASAGLIA Sentiamo anche gli altri.

121.

DANIELI Beh, certo.

122.
CIANI Io credo che tanti non andrebbero più a lavorare se non
prendessero niente.

123.

BASAGLIA Io vorrei un po’ discutere su questi due tipi di attività.

124.

DANIELI Attività per hobby e attività scelta. Attività imposta e attività


scelta.

125.

BASAGLIA Perché negli ospedali ci sono due tipi di lavoro. Per


esempio c’è il lavoro imposto come dice la signorina Danieli…

126.

PEGORARI Non è imposto, perché dopo l’ammalato si sente da solo


la voglia di andare a fare questa terapia.

127.

BASAGLIA E questo lavoro non dà nessun utile alla collettività.

128.

PEGORARI No, è utile per se stesso, per l’ammalato.

129.

BASAGLIA Ma per gli altri, no!

130.

LUCCHI No.

131.
BASAGLIA Perché è un lavoro imposto; il lavoro scelto, il lavoro dei
servizi generali, invece, dà un utile alla collettività?

132.

LUCCHI Sì, e deve essere retribuito di più e di più di quello che


viene retribuito, più del lavoro imposto, del lavoro che non dà utilità
agli altri.

COMMENTO 5.

85-132. Si introduce il discorso sulle attività occupazionali, come


alternativa al lavoro tradizionale, fatto per la istituzione. L’intervento
viene raccolto, e suscita una discussione più approfondita, nella
quale l’assemblea riesce a distaccarsi per un momento dai discorsi
spiccioli per prendere coscienza in modo più articolato dei problemi
che li sottendono.

Le attività occupazionali vengono subito qualificate come hobby, e


se ne accentua il carattere giocoso, legato alla possibilità di fruire
con piena disponibilità del proprio «tempo libero»: ed in quanto tali
vengono proiettate all’esterno, come proprie della vita civile.
Emergono tuttavia nel corso della discussione una serie di
contraddizioni, di mano in mano risolte e riproposte a livelli diversi.

Infatti, si dice che l’hobby è imposto, ma in un secondo momento


può venire scelto: inizialmente viene «somministrato» (94, 103), e
pare che il paziente sia costretto a subire più o meno passivamente
l’indicazione del medico: ma nel corso del trattamento può
abbandonare questo atteggiamento passivo, e «sentirsi da solo la
voglia di far questa terapia» (126). In questo senso l’hobby, che è
per i deboli (90), li aiuta a diventare meno deboli. Si tratta comunque
di una terapia, utile solo per l’ammalato, non per la collettività (127,
130). Pertanto l’hobby non dovrebbe normalmente essere pagato
(92): però può essere necessario che per questa sua attività
l’ammalato abbia una remunerazione, sia pur modesta (94, 101,
1l9): essa si prospetta come «incentivo», ed in qualche modo
compenserebbe il paziente dall’imposizione che è costretto a subire
(94).

Il complesso delle valutazioni che i pazienti dànno della terapia


occupazionale lascia intravvedere come il potenziale valore ed il
significato terapeutici di questo tipo di attività non venga còlto; ciò
senza dubbio è da ricondursi anche al fatto che queste attività sono
di recente formazione ed ancora poco sviluppate in ospedale, e per
esse non esiste ancora una specifica «cultura».

Il lavoro istituzionale sembra invece - negli interventi - investito di


valori positivi: confrontato con le attività occupazionali esso diviene
una cosa seria, vera; e, ciò che a tutta prima può sembrare
sorprendente, viene vissuto come espressione di una scelta
responsabile (97). Esso è utile alla collettività (132), viene fatto lai
«più forti» (96), e deve essere oggetto di maggiore retribuzione
(132).

Ma vi è nell’assemblea stessa chi fa rilevare una pericolosa


incrinatura in questo edificio: potrebbe accadere che la retribuzione
venisse diminuita e le prestazioni dei pazienti ai servizi generali
continuassero (107, 109): ciò non è sicuro (122), ma se accadesse
avrebbe il significato di un regresso: «più deboli sono e più lavorano
per niente» (110, 111). (D’altra parte, questa interpretazione, anche
se accettata dai pazienti, è loro suggerita dal direttore).

Si è dunque giunti a proporre in qualche modo il denaro come


misura, pur dialettica e contraddittoria, della scelta e della libertà del
paziente: sia in senso positivo che in senso negativo. Tuttavia il
rapporto fra lavoro, denaro, tempo libero, terapia, sarà ulteriormente
approfondito nel corso della discussione.

Fermiamoci ora a considerare più da vicino il rapporto tra lavoro e


denaro: mentre sussiste ancora in molti ospedali psichiatrici
l’abitudine di utilizzare il lavoro del malato senza alcun compenso, si
è venuti accettando negli ultimi anni l’idea che non sia «giusto»
lavorare per niente, sia pure in ospedale, e si cerca oggi di trovare il
criterio da seguire per stabilire questa paga in modo da non
«derubare» il malato del suo lavoro, offrendogli una paga che gli
renda, sia pure parzialmente, il prodotto del suo lavoro
(“Encyclopédie médico-chirurgicale, Psychiatrie”, vol. terzo, 37930, A
30). E’ ovvio che non si tratta qui del lavoro terapeutico inteso come
terapia occupazionale o come terapia industriale, ma della forza-
lavoro che serve all’istituzione per il suo funzionamento e che può
essere facilmente reperita all’interno della istituzione come prodotto
dei pazienti che di essa fanno parte. Pertanto, mentre il salario nella
società capitalistica sancisce la vendita della forza-lavoro
dell’operaio al datore di lavoro, nell’ospedale psichiatrico la
situazione è totalmente diversa, sia dalla parte del venditore della
forza-lavoro che dalla parte del compratore.

«Affinché il possessore della forza-lavoro la venda come merce, egli


deve poterne disporre, e quindi essere “libero proprietario” della
propria capacità di lavoro, della propria persona. Egli si incontra sul
mercato con il possessore di denaro e i due entrano in rapporto
reciproco come “possessori di merci”, distinti solo per essere l’uno
compratore, l’altro venditore, persone dunque “giuridicamente
uguali”. La continuazione di questo rapporto esige che il proprietario
della forza-lavoro la venda sempre e soltanto per un “tempo
determinato”, poiché se la vende in blocco, una volta per tutte,
vende se stesso, si trasforma da libero in schiavo, da possessore di
merce in merce» (Marx, “Il capitale”, I, 1, p.p. 184-85).

Nel nostro caso non sussiste un rapporto tra «persone


giuridicamente uguali», e l’incontro non avviene «sul mercato». Colui
che è disposto a cedere la propria forza-lavoro (il paziente) non ne è
libero proprietario (anche se può illudersi di esserlo) proprio perché
non è più «libero proprietario della propria persona»; e anche se
potesse in qualche modo entrare in questo rapporto contrattuale,
non potrebbe determinarne l’inizio e la fine, poiché il «tempo
determinato» gli sfugge; e ancora, non è neppur più in grado di
vendersi una volta per tutte, di «trasformarsi da libero in schiavo, da
possessore di merce in merce»: giacché quando varca i cancelli
dell’istituto si è già consumato l’atto di spoliazione, ed egli è privato
della libertà di vendersi, che qualcun altro detiene in sua vece e di
cui può esser fatto a sua insaputa un uso tale da «mercificarlo» e da
renderlo «schiavo».

La situazione è uguale e contraria per l’istituzione: essa non è infatti


un libero compratore di forza-lavoro, ma ha in sé diverse e
discordanti funzioni; coesistono in essa ambiguamente le funzioni di
«datore di lavoro» e «datore di terapia»; inoltre, avendo «preso in
consegna», per mandato della società, la persona di cui è spogliato
il paziente, lo assume in sé e non riesce a distanziarsene. La
istituzione è un meccanismo di integrazione gerarchico-burocratica,
e il paziente ne è membro, parte integrante, e ragione stessa della
sua esistenza.

Pur avendo bisogno di forza-lavoro ed essendo portata ad usare


quella che trova dentro di sé, la istituzione non può dunque
“acquistare” la forza-lavoro del paziente, ché non esiste libero
incontro fra liberi contraenti.

Il rapporto si configura in altro modo: in esso «la dipendenza


personale caratterizza tanto i rapporti sociali della produzione
materiale, quanto le sfere di vita su di esso edificate. Ma proprio
perché rapporti personali di dipendenza costituiscono il fondamento
sociale dato, lavori e prodotti non hanno bisogno di assumere una
figura fantastica differente dalla loro realtà: si risolvono
nell’ingranaggio della società come servizi in natura e prestazioni in
natura» (Marx, “Il capitale”, I, 1, p. 91).

Per quanto interessa il nostro problema, possiamo riconoscere che


sia i rapporti sociali della produzione materiale, come le sfere di vita
su di esso edificate, si articolano nell’ambito delle condizioni
oggettive in cui si trova nella società l’ospedale psichiatrico: infatti,
questo è chiuso (e tale rimane nei confronti della società anche
quando se ne sia completamente aperto lo spazio interno), e
pertanto costringe il paziente a spogliarsi all’ingresso della libertà e
dei suoi diritti rendendolo in tale modo dipendente da chi li conserva
e detiene il potere di renderglieli; in secondo luogo, lo costringe a
muoversi nell’universo stratificato di un campo chiuso, in cui la
stratificazione esprime appunto e regola le dipendenze personali
(confronta I. Belknap, “Human Problems of a State Mental Hospital”,
McGrawhill, New York 1956); in terzo luogo, lo consegna al magico
potere del medico, nella dipendenza terapeutica.

In questa cornice, gli «scambi in natura» avvengono secondo una


“funzionalità al sistema istituzionale” che persegue soltanto se
stessa, e viene controllata nell’accurata distribuzione dei privilegi.
Inizialmente, questi sono tali da sancire univocamente il rapporto di
dipendenza, senza prestarsi ad alcun altro scambio (es. il permesso
di uscire da un reparto chiuso). In un secondo tempo, si concretano
in oggetti (un pacco di tabacco per un mese di lavoro in cucina, un
cappello per un anno di lavoro in colonia) che, per quanto
eventualmente utilizzabili per altri scambi, hanno ancora la funzione
naturale di sottolineare il rapporto di dipendenza. L’introduzione di un
premio in denaro non modifica di per sé le strutture di questa
situazione (anche se è l’indispensabile premessa per ogni ulteriore
sviluppo): il piccolissimo compenso in denaro che sostituisce un
compenso in natura non è il frutto di una libera contrattazione, ma il
volto nuovo di un’antica dipendenza.

La condizione del malato all’interno dell’ospedale psichiatrico è stata


infatti spesso descritta come una condizione di “colonizzato”. Con
questo termine si vuole indicare sia il fatto che l’ospedale
rappresenta un’isola a struttura precapitalistica nell’ambito di un
mondo capitalista, al quale è utile e funzionale; sia anche il fatto che
il singolo malato è nei confronti del potere medico-burocratico in una
situazione di passività che ricorda quella livellata del suddito
coloniale. Infatti, «se si esaminano i procedimenti di ammissione
nell’istituzione totale, si tende a essere colpiti dagli aspetti di
impermeabilità dell’organizzazione, giacché i processi di spoliazione
e di livellamento che hanno luogo a questo momento tagliano
trasversalmente le differenze sociali di coloro che entrano»
(Goffman, “Asylums”, p. 119).

A questo punto, l’introduzione del concetto di «terapeuticità» del


lavoro, che viene formalmente riconosciuto dai pazienti, quasi
d’ufficio (confronta “Comunità 1”, 105; “Comunità 2”, 169), in
condiscendenza al principio teorico che ogni cosa che si fa in
ospedale debba essere terapeutica, nasconde dunque (se riferita
alle prestazioni dei pazienti in favore dell’istituzione), soltanto una
mistificazione, della quale purtroppo rischiamo di rimanere noi stessi
vittime proprio perché ci sarebbe grato rendere al paziente il suo
plus-lavoro, sotto forma di terapia.

133.

BASSANI Questo è stato uno sbaglio dal principio nel nostro


ospedale. Siccome per tanti lavori che sono in giro, lavori che
realmente rendono e anche per le persone che sono utili
nell’ospedale per tante e tante cose, veniva una richiesta di
aumento, si lottava un poco, due giorni, tre, poi tutti alzavano la
mano, aumentare. E’ un po’ come in famiglia, quando si spreca di
più e poi ci si trova alla fine del mese malamente. Così siamo ridotti
noi. Se invece fin dal principio si andava diritti e la paga rimaneva
quella che era, io credo che non si arrivava a questo punto, questo
dico io.

134.

BASAGLIA Di chi è la colpa?

135.

BASSANI Di tutti in generale, perché acconsentivano, tutti volevano


questi aumenti, allora tante volte abbiamo chiesto anche a lei se si
può aumentare e lei ha detto: «mah! fate voi». E allora questo è
stato il primo sbaglio di questa assemblea. Così è come in famiglia,
perché siamo una famiglia.

136.

BASAGLIA Per mantenere la pace!

137.
LUCCHI Per mantenere la pace, ma adesso incomincia lo sfogo di
nuovo!

138.

SLAVICH Non è che si siano fatti tanti lussi, però. Perché quando le
paghe erano di 50 lire si faceva presto ad aumentare, perché se
anche diventavano 100 o 200 era sempre molto poco.

139.

BASSANI Va bene, anche a questo le do ragione. Anche un operaio


che lavora e che ha una paga mensile, se non sa regolarsi, arriva al
giorno 20 e lui è già morto; così è qui, si faceva tutto facilmente,
invece già dal principio ci voleva. Il padrone non vuole aumentargli,
al nostro direttore, non vuole dargli il mezzo milione che manca, e
così il passo è uguale a quello di uno di fuori, siamo ridotti a questo
punto. Ora adesso bisogna stringere, bisogna fare quello che ho
detto io, e allora forse arriveremo a salvare la situazione e dopo
tornano di nuovo le paghe di prima. E adesso paghiamo gli errori, sì,
non si doveva aumentare così facilmente.

140.

BASAGLIA Ma era effettivamente errore?

141.

MEDEOT Si capisce che lo era. Sì.

142.

PEGORARI I fatti sembrano dare ragione alla signora Bassani.

143.

BASSANI I fatti sono giusti. Perché quello che faceva i parchetti


lavorava tutto il giorno e riceveva 1000 lire la settimana, ecco
umanamente, adesso ragionando proprio nel mio povero come mi
spiego io, aveva diritto di prendere queste 1000 lire, perché
lavorava. Ma sono diversi che hanno 1000-1200 e fanno una ora,
una ora e mezza di lavoro e dopo se ne vanno in reparto pacifici.
Non è giusto che quel disgraziato lavori per 500-1000 lire e a
quell’altro perché fa un po’ di pena gli si dà 1300 per una ora che
lavora. E allora, può darmi lei se io le chiedo 100 mila, se non li ha?
Non può darmeli. E così noi non possiamo darli perché non li
abbiamo. Se si vuole fare una cosa giusta si deve fare proprio quel
lavoro lì. Disoccupazione, e diminuire 200 lire a quelli che hanno di
più delle 500 lire, e allora va bene.

144.

MASSI Noi non possiamo dire che queste sono paghe, sono dei
compensi e tali compensi non vanno diminuiti.

COMMENTO 6.

133-44. I pazienti tendono a scorgere nei differenti livelli di paga


gradi diversi di libertà (131, 132): le paghe superiori sembrano
attributo naturale dei pazienti più «forti» la cui attività è più simile a
quella del salariato «libero» appartenente alla società esterna, e la
dinamica delle paghe sembra promettere una dinamica parallela del
grado di coercitività a cui il paziente è ancora sottoposto
nell’istituzione. Per analoghi motivi, i pazienti tendono a scorgere nei
diversi livelli di paga una misura della forza-lavoro da loro
effettivamente ceduta a beneficio della collettività.

Questa ideologizzazione della dinamica dei premi in denaro si


colloca con estrema naturalezza nella «visione del mondo» che
emerge dagli interventi della signora Bassani (in particolare 133,
135, 139, 143). Vi ritroviamo infatti un buon senso amministrativo in
cui la necessità di giustificare quelli che si sono fatti alzare la paga
(133) coesiste con la denuncia di chi gode oggi di questi aumenti in
modo privilegiato e senza più meriti di lavoro (143): ed entrambe le
valutazioni sono tese alla realizzazione di una giusta ridistribuzione
dei beni della collettività, ai fini di una salvaguardia della «grande
famiglia» da pericolose leggerezze.
Attraverso questi interventi (che rappresentano degnamente il livello
di maturità e le esigenze di una larga parte dei degenti), traspare il
desiderio di poter costruire, all’interno dell’ospedale, una comunità le
cui contraddizioni vengano stemperate in un clima di amichevole
collaborazione e risolte secondo giustizia, per mezzo del buon
senso. In prospettiva il «villaggio per pensionati» si profila come il
luogo ideale per il paziente lungodegente, a cui è negato il ritorno
nella società esterna: esso deve poggiare, ovviamente, sulla
protezione illuminata e paternalistica del direttore (e dei suoi
collaboratori), e tende a sfociare nella ricerca di realizzazioni sempre
più vistose ed efficienti.

Ma tutto questo castello si scontra con la realtà, e costringe tutti a


nuovi ripensamenti.

145.

BASSANI Sì, però ci sono 6 milioni che servono per gli operai, per
gli ammalati; ecco, sono sempre con quei soldi che si deve pagare.
Come dobbiamo dire che non è un lavoro: è un lavoro. Perché uno
che è in attività, che faccia le sedie, che faccia quello, che faccia
quell’altro, deve lavorare, il suo lavoro deve essere presentato, vuol
dire che è stata una attività.

146.

BASAGLIA Signora Bassani, quei 6 milioni lei li considera come


fondi perduti o rendono?

147.

BASSANI No, questi 6 milioni, sono per i malati, per gli operai.

148.

BASAGLIA Ma si trae un profitto da questi 6 milioni?

149.
BASSANI Non so, da dove arriva questo profitto. Non arriva. Dove
arrivano a rendere in un anno 6 milioni i lavori che sono qui dentro?
Ha un profitto morale, nel senso che aiuta a guarire molto presto.

150.

BASAGLIA Ma secondo lei questi 6 milioni vanno a fondo perduto o


rendono?

151.

BASSANI Sì, rendono. Però renderanno per un punto; ma nel


secondo punto, come produzione che è qui dentro, come lavori, non
possono rendere.

152.

BASAGLIA Ma se abbiamo detto che rendono!

153.

BASSANI Rendono nel senso che se no si deve assumere più


personale, perché se non sono i malati che lavorano, non bastano
quattro infermiere per cento ammalate, siamo più di cento in reparto
e non bastano. E che gli diano 80-90 mila lire al mese, non bastano
quattro infermiere. Basterebbero sei operai, sette mettiamo? Invece
qui lavorano duecentosettanta persone, anche se lavorano e non
lavorano.

154.

LUCCHI E allora non gli basterebbero nemmeno 20 milioni!

155.

CIANI Sì, e con quei quattro soldi si paga tanta gente!

156.
VISINTIN E allora sarebbe giusto che si pretendessero di più dei 6
milioni.

157.

MEDEOT Sì. E’ giusto che noi pretendiamo di più. E’ giusto.

158.

LUCCHI Io vi dico che non basterebbero 20 milioni per prendere gli


operai affinché non lavorino gli ammalati! Vi dico io la verità!

159.

BASAGLIA Ma se è così allora questi lavori non sono terapeutici. E’


uno sfruttamento?

160.

DANIELI Non è uno sfruttamento, però è anche un lavoro di terapia.

161.

PEGORARI Ma la signora Natalina diceva proprio di essere


sfruttata! Diceva lei che per 100 lire la settimana fa degli strofinacci
ad uncinetto e dice se io non faccio i strofinacci mi levano la paga,
sono costretta a lavorare e quindi sono sfruttata, perché ho poca
paga e devo fare per prendere le 100 lire per settimana.

162.

DANIELI Quanti strofinacci fa per settimana? Due, tre?

163.

BASSANI Beh io facevo dieci al giorno per niente là, e per quattro
anni di fila, e tutti i reparti avevano i strofinacci, io non ho mai preso
niente.
164.

MEDEOT D’altra parte guai se non ci fosse questa paura di perdere


la paga, altrimenti se noi abbiamo la sicurezza di non perdere la
paga penso che pochi lavorerebbero.

165.

BASSANI Insomma lei deve trovare ancora il mezzo milione che


manca.

166.

BASAGLIA Devo cercare mezzo milione di più, oppure, come devo


regolarmi per fare a meno di mezzo milione?

167.

SIGNOR DONDA Perché?

168.

LUCCHI Perché? Perché siamo in deficit! E’ evidente.

169.

CIANI Ragionando con questo spauracchio sempre presente qua,


che non si può avere soldi in più, ma possibile! Tanto poveri?

170.

BASSANI Sì, è uno spauracchio. Il nostro direttore è venuto qua con


questo pensiero, di fare contenti tutti, lui farebbe anche i miracoli,
che la gente sia sollevata, invece la vedi lei con la sua bontà ha
combinato un guaio con i soldi. Con la sua bontà no, adesso non le
faccio un complimento, le dico così. E’ stato forse uno sbaglio,
perché troppa generosità a volte fa male. E così siamo a terra di
mezzo milione.
171.

BASAGLIA Questa azione è stata terapeutica?

172.

BASSANI No, lei ha fatto per lo scopo terapeutico, ma noi non siamo
arrivati a quel punto!

173.

MASSI Anche la bontà è una terapia. Si capisce. Perché quando


vediamo lei non ci tremano le gambe, una volta ci tremavano le
gambe, erano tutti sull’attenti anche quelli che non capivano.

174.

LUCCHI Guardate che anni indietro qui eravamo tutti «morti». E


adesso invece siamo tutti contenti e tutto questo chi ha fatto? Il
nostro direttore. E lui può fare anche questo, adesso.

175.

SLAVICH Se siamo ancora qua, a discutere di queste cose, ciò


dimostra che proprio non è cambiato tutto!

176.

LUCCHI Beh, comunque siamo più contenti ora che prima. Qua
siamo a casa, abbiamo almeno quel sollievo di non avere
quell’ansia, quella paura, si vive più in armonia.
177.

BASAGLIA C’è ancora qualche grosso problema, ma siete tutti


impegnati a curarvi l’uno con l’altro.

178.

DANIELI Sì, cerchiamo di aiutarci uno con l’altro.

179.

SIGNOR VERZEGNASSI E’ sempre stato però che quelli di fuori


guardano di malo occhio i malati psichiatrici! E quanto noi stiamo
lottando per fargli cadere questo pregiudizio! Perché in fondo se
qualcuno di fuori venisse ad assistere alle nostre assemblee
vedrebbero che sono gente che ragionano anche qui, e non soltanto
loro che sono fuori. E poi non per niente il manicomio è scritto per
fuori, perché i malati sono più fuori che dentro. Soltanto con la
differenza che quelli di dentro si fanno curare.

180.

CIANI Sì, però meglio si sta fuori che dentro.

181.

MASSI Signori, sono le 11 e 5 dovremo ricominciare lunedì di nuovo.


La seduta è sciolta.

COMMENTO 7.

145-81. I «sei milioni» sono una cifra reale, il suo significato e la sua
importanza sono ben noti a quasi tutti i componenti l’assemblea:
essa rappresenta un limite imposto dalla realtà, che viene
menzionato prima o poi in tutte le discussioni sui salari e che le
riconduce su una base più realistica. Dopo i tentativi di astrazione,
sui possibili significati del lavoro in ospedale, la comparsa di questo
fattore concreto fa prender subito un corso diverso e nuovo alla
discussione. Nel dubbio che il valore effettivo della somma sia visto
in termini astratti e vaghi, si suggerisce la correlazione con il valore
del lavoro prodotto dai malati (146, 148). La prima risposta viene
dalla presidente ed è, secondo il suo stile (confronta comm. 6)
conformistica e in apparenza contraddittoria. Solo in apparenza
però: quando la presidente si riferisce al lavoro industriale «per
l’esterno» (145) essa stessa rivendica il valore del prodotto; mentre
quando passa a considerare il lavoro per l’ospedale nel suo
complesso, pare che tale valore, e quindi il profitto, svanisca (151 ) e
divenga conformisticamente un profitto teorico, «morale, perché
aiuta a guarire» (149). Ma questo intervento non sembra in grado di
sopire la tensione che sta crescendo, e sembra anzi accentuarla: si
susseguono una serie di interventi di acceso tono protestatario, nei
quali il problema viene posto in termini concreti e realistici (153-62).
E’ il solo momento di questa prima assemblea nel quale giunge a
verbalizzarsi, in una pluralità di interventi, una “contestazione” del
sistema; non si tratta più, si badi bene, di individualistiche proposte
di «sciopero», bensì di un’aggressività verbale quasi corale, alla
quale sembra sottesa la momentanea presa di coscienza di un
possibile rapporto duale fra il paziente come prestatore di forza-
lavoro e la istituzione; il movimento dinamico porta i leaders di
questo grosso gruppo a costituire come capro espiatorio un
«altrove» non ben determinato (l’ospedale? i medici? la società?), al
quale viene chiesto conto del valore del lavoro istituzionale (154,
158, 169): in questo momento il gruppo sembra accantonare (con la
sola eccezione di un nuovo intervento della presidente, 163), il
modulo delle soluzioni apparenti che si giustappongono alle
determinazioni dettate altrove, per affrontare direttamente la
sostanza del problema, su un piano di realtà. E’ assai verosimile che
questo traguardo, irraggiungibile sul luogo di lavoro - dove in modo
immediato si estrinseca il rapporto di dipendenza personale dalla
istituzione - venga raggiunto solo nella situazione di incontro, faccia
a faccia, nell’assemblea; il rinforzo reciproco attraverso il confronto
collettivo riesce momentaneamente a sovvertire la condizione di
atomizzazione e di serializzazione nella quale il paziente è forzato
durante il suo lavoro per l’istituzione. Gli interventi sono
conseguentemente aggressivi sul piano verbale, ma non durano a
lungo; presto riaffiora l’esperienza di impossibilità a superare
l’ostacolo, torna a gravare la “minaccia” concreta (164, 169, 170), si
riprospetta lo squilibrio fra la durezza del problema e la debolezza
contrattuale dei pazienti (164), sia pure espressa in gruppo. Si
rimette quindi subito in moto il meccanismo dinamico della ricerca di
“rassicurazione”: la figura fantasmatica del direttore viene recuperata
come «buona», e capace quindi di rassicurazione paternalistica
(170, 172, 173); vengono posti completamente fra parentesi gli
aspetti negativi (che si tenta di sottolineare - 175 -, ma che vengono
rifiutati), e si accentuano invece, enfatizzandoli, i momenti vissuti
come positivi della condizione attuale della vita quotidiana
ospedaliera; il confronto globale e indiscriminato fra il «prima» e il
«dopo» riesce in apparenza assai rassicurante ed è, da sempre, uno
dei modi con i quali l’assemblea tenta di risolvere le «situazioni
scabrose» che saltuariamente minacciano le condizioni di vita
acquisite. L’intervento del direttore, al riguardo, è supportivo e
riconvoglia il tutto verso una globale ideologia terapeutica
comunitaria: esso viene subito raccolto, forse perché soddisfa il
bisogno di integrazione e di protezione che si accompagna alle
istanze regressive che l’assemblea esprime in questo momento.

COMUNITA’ 2.

Lunedì, 9 gennaio 1967.

Presenti alla seduta:

54 degenti

9 infermieri

1 monitore

3 assistenti sociali

1 psicologo

2 medici
1.

SIGNORINA DANIELI Allora io vorrei fare un riepilogo breve di


quanto ho inciso. Microfono per favore.

2.

SIGNOR LUCCHI Parla lo stesso.

3.

DANIELI Riepilogo questo, cioè diminuire le paghe del 20% a chi ha


da 500 in su e poi fare una revisione col signor Milani di quelli che
lavorano e di quelli che non lavorano, fare una revisione, e vedere
un po’ quelli che meritano la paga e quelli che non la meritano.

4.

VOCE NON IDENTIFICATA Brava, brava, brava.

5.

DANIELI Dal resoconto della revisione si tirano le somme e vediamo


quanto ricaviamo. Il resto si fa con la diminuzione del 20% dalle 500
lire in su, questo è il riepilogo delle proposte più importanti che finora
siano state fatte qui. Sicuramente è sottinteso che a coloro che verrà
riconosciuto che la paga è data senza merito verrà diminuita la paga,
questo è sottinteso. Coraggio, cosa diciamo, concludiamo così
l’argomento paghe, non è nessuno che faccia obiezioni.

6.

DOTTOR PIRELLA La sola obiezione da fare è questa, che in un


argomento così importante ci sia una assenza dei lavoratori.

7.

DANIELI Ma non posso mica portarli in braccio qui all’assemblea, se


non vogliono venire non vengono, io sono andata al bar a sollecitare
che vengano all’assemblea, non hanno voluto venire. Non vengono
perché le cose sono state tirate troppo alla lunga, e dicono che qui
non si conclude mai niente. E oggi invece è proprio una giornata
conclusiva, e l’assemblea è quasi deserta, tranne noi che siamo qui.
Beh, non ha importanza, perché loro hanno discusso le proposte, la
sala era pur piena quando si discutevano le proposte. Ora si tratta
solo di tirare le somme, nient’altro, ora quello che è fatto è fatto,
abbiamo già parlato a sufficienza, ancora tutta la settimana scorsa.
Oggi mi sembra ci sia da tirare le somme, per tirare le somme non ci
vuole mica tanto.

8.

SIGNORA BASSANI Ieri era Milani da me, e lui ha fatto i conti, ha


calcolato che deve calare anche quelli con 500 lire a 400, perché la
somma che ha fatto, il calcolo come avevamo parlato noi, non basta,
deve levare quelle da 200 a 100 per arrivare alle 25 mila altrimenti la
somma risulta di L. 13800.

9.

DANIELI Sì, sì lo so.

10.

BASSANI Deve ancora calare.

11.

DANIELI Da 500 in poi, cominciando dalle 500 comprese.

12.

BASSANI Dare come un regalo, ad uno che ha 300 dare 200, ad


uno che ha 200 dare 150: allora sì che si arriverà alla somma delle
22-25 mila.

13.
DANIELI Dunque, dato che l’argomento paghe è esaurito, per ora,
dato che non ci sono lavoratori qui presenti che fanno obiezioni e io
non posso stare qui a discutere e fare le obiezioni da me, proporrei
di parlare di altri argomenti, quali il telefono al bar e quali la mensa di
frutta, cioè di fare un reparto della frutta nel nostro ospedale, anche
lì verrebbero guadagnati dei soldini per vendere la frutta; e poi il
telefono al bar, ecco, abbiamo parlato anche di questo, di mettere il
telefono al bar, perché se il signor direttore è al bar e qualcuno lo
cerca, insomma se il signor direttore è al bar, pronto, telefono al bar
e lì parlo con il direttore, il signor direttore ha bisogno di incontrarsi
con qualcuno al bar, il bar lo convoca telefonicamente, per me il
telefono al bar è una cosa necessaria.

14.

SIGNOR VERZEGNASSI Per me no.

15.

DANIELI Per me sì. Perché molte volte bisogna, se qualcuno cerca il


direttore e il direttore è al bar, telefonano al reparto D, e da qui
mandano un emissario a cercare il direttore al bar, mentre se ci
fosse il telefono al bar non occorrerebbe questo emissario.

16.

PROFESSOR BASAGLIA Scusa Sandra, ma chi ti ha dato così


l’incarico di non continuare il discorso delle paghe?

17.

DANIELI Nessuno, visto che nessuno ha da contraddire, non posso


mica parlare solo io. Io ho chiesto, avete qualcosa da dire a
proposito delle paghe? Avanti, c’è stato solo il dottor Pirella che ha
detto qualcosa. Avanti.

18.
BASSANI Un momento, non gridare. Siccome il signor Milani oggi
non c’è, allora lui domani viene a verificare a guardare per poter far
saltare fuori queste 25 mila lire. Ma però ha detto che dobbiamo
aspettare fino a martedì che verrà lui in assemblea, allora si
discuterà qui esattamente.

19.

DANIELI Allora rimandiamo a domani.

20.

SIGNOR MASSI Io volevo domandare se questo debito è proprio


necessario pagarlo tutto in un anno? Subito?

21.

BASSANI Sarebbe meglio.

22.

SIGNOR MEDEOT Sarebbe meglio, ma se non si può, si può dare


quello che si può e poi si troverà più avanti altro.

23.

DANIELI Certo. Dipende da noi.

24.

BASSANI Ma un altro anno sarà non mezzo milione, sarà un


milione. Se andiamo avanti così senza ridurre le paghe, il prossimo
anno avremo un milione da pagare.

25.

MEDEOT Su questo siamo d’accordo, di diminuire, ma di non


pagare subito questo mezzo milione.
26.

MASSI Giusto, se non si arriva si dovrà per forza pagarlo in due


volte.

COMMENTO 8.

1-26. Il «riepilogo» con il quale si apre questa seconda assemblea


prende in considerazione due proposte che, integrate, potrebbero
permettere di «concludere l’argomento paghe».

Abbiamo già notato come si tratti di pseudosoluzioni (confronta


comm. 2). Dobbiamo aggiungere a questo punto che intervengono
altre modalità di rifiuto del problema. Una di esse è la «fretta di
concludere», e questa nasce anche dal silenzio in cui cadono le
parole della presidenza (graficamente non riproducibile, ma assai
pesante nella realtà). E’ quasi troppo ovvio rilevare che il silenzio
degli intervenuti accentua il disagio della presidenza, che cerca di
diminuire la propria ansia attraverso un rapido accordo che permetta
di accantonare l’argomento (e l’accordo proposto, come si rileva
nella nota 6 della precedente assemblea, è abbastanza elaborato da
corrispondere alla necessità di una giustizia distributiva di tipo
legalitario e conformista).

Contro questa fretta di concludere si leva la voce di un medico, che


rileva un’altra modalità di rifiuto: l’assenza dei lavoratori.

E’ opportuno rilevare che l’analisi di questa assenza deve essere


collocata nel quadro più generale della partecipazione all’assemblea,
sia da parte dei pazienti in generale, sia da parte di determinate
categorie di pazienti (ad esempio i lavoratori): non sarebbe infatti
neanche possibile iniziare questo discorso se non fosse chiaro che
la partecipazione all’assemblea non è obbligatoria. I pazienti, come i
medici, gli infermieri, tutto il personale dell’O.P.P. sanno che «alle
dieci c’è l’assemblea». I pazienti sono a volte incoraggiati a
partecipare, a volte invece scoraggiati a parole o col silenzio (spesso
purtroppo a motivo della loro utilità sul lavoro), a volte soli e liberi nel
loro muoversi nel «campo» dell’ospedale, altre volte legati
all’accompagnamento dell’infermiere (dal reparto al luogo della
assemblea) ed è chiaro che per ciascuno il grado di «spontaneità» è
diverso. La partecipazione è comunque sempre (ci sia concesso il
termine) «consensuale», e le stimolazioni sempre meno pressanti.

Il fenomeno delle fluttuazioni nella presenza alle assemblee ha


richiamato la nostra attenzione particolarmente nei casi in cui esso si
manifesta con vistose caratteristiche quantitative o qualitative:
partecipazione molto scarsa, o particolare affollamento; assenza di
frequentatori abituali o di gruppi particolari (lavoratori, pazienti di un
certo reparto, eccetera). Non è difficile a volte indicare il motivo di
queste fluttuazioni: ad esempio, la ricorrente assenza del sabato può
essere messa in relazione col fatto che il sabato è giorno di paga, e
la busta viene consegnata in mattinata, a volte prima delle 10, ma
spesso anche dopo.

Oggi possiamo stabilire una correlazione fra l’assenza dei lavoratori


e il tema che viene trattato (confronta 30-40, 43) anche perché
sappiamo che parte di essi hanno scelto di andare al bar, e di là
«non hanno voluto venire» (7).

Collocato in un piccolo fabbricato in mezzo al parco, non lontano dal


reparto in cui si svolge l’assemblea di comunità, il bar rappresenta
un importante centro di vita sociale. E’ gestito dai pazienti, è formato
da due locali, di cui uno col «banco» e uno col jukebox: somiglia in
pratica a un qualsiasi bar della città. I pazienti ci vanno per prendere
un caffè, per fare due chiacchiere, per incontrarsi con gli amici, ed in
esso si compongono e si scompongono diversi gruppi informali. Il
bar viene così ad assumere il significato di un luogo all’interno del
campo ospedaliero, verso il quale si va, quando ci si allontana dal
reparto o dal luogo di lavoro. In particolare, il fatto che sia uno dei
luoghi più simili «all’esterno» e meno «gestiti» dai medici, meno
investiti dalla organizzazione istituzionale, lo rende assai adatto
all’incontro dei «protestatari» e ne fa in pratica, in certe condizioni, la
sola alternativa all’assemblea. (E nel nuovo movimento di rifiuto del
problema - il tentativo di passare a un altro argomento (13), - la
scelta del tema «il telefono al bar» non è forse del tutto casuale).
Vorremmo a questo punto notare che le interpretazioni date ai vari
movimenti dell’assemblea e alle sue dinamiche si collocano in una
prospettiva assai diversa da quella che regola le riunioni di reparto.

Le principali differenze fra l’assemblea di comunità e le riunioni di


reparto possono essere analizzate sia dal punto di vista dei
contenuti che da quello delle dinamiche.

L’assemblea di comunità è un luogo nel quale si trattano


prevalentemente temi di interesse generale, che possono avere
diverse caratteristiche: problemi organizzativi del Club «aiutiamoci a
guarire», relativi a gite, feste, eccetera; problemi di gestione
democratica dell’ospedale (a volte vissuti e risolti nel democraticismo
dei comitati); problemi teorici generali, spesso sollevati in occasione
di particolari avvenimenti intra-ed extra-ospedalieri: fra questi, ad
esempio, il tema «noi e gli altri», con la problematica
dell’«esclusione», ha occupato in passato molte sedute,
riaccendendosi in occasione della partecipazione all’assemblea di
visitatori.

L’assemblea è il luogo in cui possono incontrarsi tutte le persone che


si muovono nel campo dell’ospedale. Vi partecipano i pazienti, brevi
e lungodegenti, in misura variabile (da un decimo a un quinto circa
della popolazione ospedaliera totale); tutti o quasi tutti i medici; le
assistenti sociali; parecchi infermieri e monitori. In questa assemblea
tutto l’ospedale si rappresenta, in un libero confronto, in cui i ruoli
risultano indistinti e tendono, al limite, a confondersi sul piano della
contestazione reciproca; è il momento in cui la cultura dell’ospedale
prende coscienza della propria esistenza e si configura come unità
globale al punto di confluenza delle varie culture di reparto e dei
sottosistemi sociali dell’ospedale.

Si distacca in queste riunioni, in modo netto, la figura del direttore,


che ne costituisce il polo dinamico principale, e viene
fantasmatizzato come colui che rappresenta e integra l’omogeneità
della situazione comunitaria, e ne testimonia la «realtà».
In modo eminente convivono nel ruolo del direttore le contraddizioni
di tutta l’istituzione: l’incontro che avviene - nella sua persona - tra la
«società esterna» e la microsocietà ospedaliera, fra il potere
istituzionale e il potere terapeutico, determina l’ambiguità di questo
ruolo. Questa ambiguità viene vissuta criticamente, e ne viene
accettato il rischio: altrimenti la figura del direttore si fisserebbe in
uno stereotipo di onnipotenza paternalistica e l’ospedale si
configurerebbe intorno a lui come microsocietà ideale, che lo
ricomprende, lo condiziona e in conclusione lo possiede (sembra
esser stato questo il destino di H. Simon, fondatore della ergoterapia
tradizionale, che è sepolto a Gütersloh all’interno del «suo»
ospedale).

Assai diverse dall’assemblea di comunità, sono invece le riunioni di


reparto. Bisettimanali nei reparti di lungodegenti, quotidiane nei
reparti di osservazione, esse esprimono la cultura particolare del
reparto, ed hanno un tono che rispecchia la storia del reparto e dei
pazienti che ci vivono. In genere sono meno numerose
dell’assemblea di comunità (variando fra le venti e le cinquanta
persone circa) e, pur riprendendo a volte i temi in essa trattati, si
rivolgono prevalentemente ad argomenti più concreti e si articolano
su rapporti interpersonali più ravvicinati, nei quali è più facile
l’identificazione reciproca. In esse il ruolo del medico di reparto (uno,
a volte due) è assai meno indistinto che nell’assemblea di comunità,
più investito dalla situazione, e più spesso richiesto di prestazioni
tecniche.

27.

LUCCHI Quelli che hanno 300 è giusto calare di 100 lire? Senta
signorina Sandra, a quelli che hanno oltre 500 si cava via, a quelli
che hanno 1000 si cava via 500, paga unica.

28.

DANIELI E’ giusto. Noi però parliamo del 20% sulle somme da 500 a
1000.
29..

SIGNOR CIANI No 20% ma 50% addirittura sarebbe meglio.

30.

SIGNORA SLOKAR Eh non si può, non si può.

31.

SIGNOR PEGORARI Come non si può? Però a quello che ha 300 si


calerà le 100 lire no?

32.

DANIELI No, quello non viene toccato per niente, a quello rimane la
paga di 300 lire, quello non viene toccato.

33.

LUCCHI Paga unica, cavare via quelli che hanno oltre lire 1000.

34.

SLOKAR Sarebbe bello, sì.

COMMENTO 9.

27-34. Il tema della paga unica viene proposto qui per la seconda
volta, dopo essere già stato menzionato nell’assemblea precedente
(1, 37 segg.), e scartato in una breve serie di interventi. Qui il
discorso non viene neppure aperto: la paga unica viene vista come
«cavare via a quelli che hanno oltre 500» (27) o «oltre 1000» (33) (le
cifre sono discordanti e il fatto non viene rilevato); ed ottiene come
unico commento un «sarebbe bello, sì». Sembrerebbe dunque che il
discorso sia stato nella precedente assemblea esaurito, e
riconosciuto come buono ma irrealizzabile: la paga unica verrebbe a
coincidere con l’abolizione dei privilegi, ma questo programma ideale
non sarebbe realizzabile. Ci sembra opportuno tuttavia rivedere gli
interventi dell’assemblea precedente su questo tema: notiamo
innanzitutto l’indicazione inesatta della cifra relativa alla paga media
(390 lire): questa cifra corrisponde invece alla media che verrebbe
percepita da tutti dopo la diminuzione. Perché questa errata
valutazione? Non pare casuale il fatto che la paga unica venga vista
con tale pessimismo. La citazione di una cifra veramente irrisoria, e
ancora soggetta alla minaccia incombente di una decurtazione è
insultante e provocatoria per i «bravi lavoratori» che da tempo
prendono 1000 lire settimanali. Possiamo quindi pensare che questo
pessimismo esprima ed appoggi la protesta dei più privilegiati che
tendano quindi soltanto alla protezione di una personale posizione di
favore. Nessuna voce si leva da parte di chi beneficierebbe in questo
modo di un aumento; tacciono le lavoratrici interne dei reparti, ad
esempio, che percepiscono 100 o 150 lire settimanali, ma che
ancora partecipano più raramente all’assemblea, e quando
partecipano di rado prendono la parola. Solo in una assemblea di
lavoratori, convocata in precedenza per discutere specificamente
questo argomento della paga alla presenza di tutti i diretti interessati,
si è creata l’occasione in cui molte voci si sono levate, una dopo
l’altra, in una denuncia della personale situazione, proprio da parte
delle lavoratrici interne, meno pagate ed anche più regredite. Nella
serie di proteste e rivendicazioni così espresse non si coglie ancora
una presa di coscienza della comune situazione. La denuncia cade
nel vuoto, e nessuno nell’assemblea ritiene di doversi fare portavoce
e sostenitore dei meno abbienti. E non a caso. La proposta della
paga unica non viene mai, a nostro avviso, presentata come una
alternativa reale; non viene neppure dialettizzata ed articolata nei
significati che potrebbe assumere: essa esiste solo polemicamente
come prospettiva estrema, tagliando alla radice ogni discussione
sulle paghe privilegiate. Di fronte alla difficoltà concreta di stabilire
un sistema articolato di paghe avente carattere di equità, e di fronte
alle difficoltà interpersonali che sorgerebbero a tutti i livelli,
l’egualitarismo si prospetta come seducente per il suo carattere al
tempo stesso radicale e poco impegnativo a livello decisionale. Il
sistema della paga unica eliminerebbe in pratica una serie di scelte
difficili e imbarazzanti. In altri termini, l’egualitarismo ingenuo (che
sarebbe poi un egualitarismo nei confronti della retribuzione, ma non
nei confronti del lavoro prodotto) viene identificato con «la
soluzione» (radicale) contro l’esistenza dei privilegi: esso è
sostanzialmente contrario ai malati «forti», e favorisce i «deboli».
Tuttavia non potrebbe venir proposto che con un atto radicale di tipo
autoritario: e, per essere messo in atto, comporterebbe in pratica
anche l’allontanamento dei malati «forti» dal loro ruolo di leaders
nelle attività comunitarie, senza che sia stato dato modo e tempo ad
alcuno per sostituirli, da un giorno all’altro, nella funzione che oggi
svolgono. Chi lavora poco - per inerzia o per malattia - diverrebbe
privilegiato; andrebbe inequivocabilmente perduto ogni rapporto del
denaro con il lavoro: non vi sarebbero più diverse retribuzioni per
diversi lavori, né diverse motivazioni per variare le retribuzioni. La
paga assumerebbe per tutti il significato di un sussidio assistenziale,
ed il lavoro sarebbe di nuovo - come per il passato - un obbligo cieco
senza incentivi. (Ciò non significa negare il fatto che il denaro
costituisca uno dei bisogni primari del paziente e quindi una sua
necessità anche terapeutica. Ma questo è un aspetto diverso del
problema, che verrà ripreso in ulteriori interventi).

Esiste forse un’alternativa: che la comunità, a livello dei gruppi di


lavoro, costituisca in se stessa, con atto volontario, una gestione del
denaro disponibile al fine di ottenere una somma globale da
distribuirsi - comunitariamente - a ciascuno secondo il bisogno, che
potrebbe esser colto come simile per tutti. Un simile livello di
maturità è irreale allo stato attuale di evoluzione dell’ospedale: è
vero invece che la coscienza di un rapporto fra il lavoro svolto e la
paga ricevuta (per quanto bassa) rappresenta, col suo contenuto
individualisticamente incentivante, il livello di consapevolezza sociale
sul quale si muove oggi questa comunità. Abbiamo infatti già
osservato come non sia vero che le paghe più alte corrispondano a
un maggior grado di libertà, non sia vero che le «paghe» misurino
una reale vendita di forza-lavoro: i differenti livelli di paga misurano
in realtà ed esemplificano i diversi tipi di adattamento e di
dipendenza nei confronti dell’istituzione, e misurano non una regola
collettiva di libertà ma un adattamento personale alle varie «nicchie»
sociali che i malati riescono a scavarsi, con la protezione
dell’istituzione, nell’ambito della istituzione stessa.
Il complesso sistema di lavoro che regola la vita quotidiana di
moltissimi pazienti negli ospedali psichiatrici non può dunque venir
considerato come una compartecipazione a certe modalità di vita
della società esterna, ma rientra interamente in quella che è stata
definita come «istituzionalizzazione» negli ospedali psichiatrici: cioè
nel sistema più vasto con cui l’istituzione crea nuovi rapporti e ruoli
all’interno della propria sfera burocratico-organizzativa. Il lavoro dei
pazienti negli ospedali è “totalmente” istituzionalizzato, cioè artificiale
al confronto con le dinamiche della società esterna; e il grado di
istituzionalizzazione non è affatto in un rapporto inverso con il tipo di
lavoro o con il livello del premio in denaro (confronta al riguardo il già
citato libro di Goffman). Mansioni lavorative «importanti»
relativamente ben pagate, come sono quelle tipiche di alcuni pazienti
«prominenti» che prestano la loro opera a beneficio della istituzione,
corrispondono spesso ad un grado elevato di istituzionalizzazione,
cioè a una dipendenza psicologica grave e acritica nei confronti del
burocratismo (o del paternalismo) del potere istituzionale. D’altro lato
i premi in denaro e i diversi ruoli lavorativi dei pazienti in ospedale
rappresentano anche una “premessa possibile” ad una presa di
coscienza critica da parte dei malati. Ma per svilupparsi questa
presa di coscienza deve superare una “impasse”, ben precisa,
costituita dall’illusione che il lavoro e la paga siano univocamente
legati da un preciso rapporto economico, liberamente contrattabili e
contestabili all‘“interno” della illibertà del sistema.

35.

SIGNORA GORIAN Andate a vedere in cucina e vedrete che lavoro


che è. Lì si lavora dalla mattina alla sera e prima di mezzogiorno
deve essere tutto pronto; come il capocuoco, non si troverà mai un
uomo così come lui. Non m’importa, ma io so sinceramente che
dobbiamo guardare il lavoro e tenere unita la famiglia. E così di
niente si fa tanto.

36.

LUCCHI Giusto lei è brava, tutti lo dicono che lei è brava.


37.

CIANI Brava, orco di Bacco, ma che brava!

38.

DANIELI Cosa dobbiamo decidere, aspettiamo domani allora?

39.

BASAGLIA Penso di no; quelle molte persone che non sono venute,
non si capisce perché non sono venute.

40.

MASSI Perché sono malcontenti, perché parlate di calare la


paghetta.

41.

BASSANI Eh, non si può fare a meno, se ci sarebbe un’altra


soluzione io sarei la prima.

42.

VERZEGNASSI L’unica soluzione è di pagare la metà, e di aiutare i


più indigenti.

43.

PIRELLA Io penso che effettivamente non vengano qua perché


pensano che è inutile venire qua per parlare di calare la paga, inutile
venire qua a confermare con la loro presenza affinché le paghe
vengano diminuite.

44.

BASAGLIA Che fare?


45.

MASSI Cercare di non toccare le paghe. Per la prossima settimana


siamo ancora alla paga normale, no?

46.

BASAGLIA Andiamo avanti così per una settimana ancora, e l’altra


settimana…

47.

DANIELI Ma professore, dobbiamo decidere questa settimana,


abbiamo discusso tutta la settimana scorsa, non è possibile tirare più
avanti.

48.

MASSI No, ma questa settimana ci sono le 22 mila della Coca-Cola.

49.

BASSANI D’accordo, ma era già dell’altra settimana la somma di lire


22 mila della Coca-Cola.

50.

BASAGLIA Questa settimana ci sono altre 25 mila per il club


«Aiutiamoci a guarire», e si può vedere, per questa settimana.

VERZEGNASSI Ah ecco, una settimana per così una settimana per


colà, questo va bene, vuol dire che da qualche parte si fa su qualche
soldo.

52.

BASAGLIA La prossima settimana si deve arrivare ad una


conclusione!
53.

DANIELI La prossima settimana senz’altro si dovrà finire il problema.

54.

BASAGLIA Non avremo neanche la somma della Coca-Cola o del


Club.

55.

VOCE NON IDENTIFICATA Allora?

56.

VERZEGNASSI Riguardo al telefono al bar io non approvo niente!

57.

BASAGLIA Signor Verzegnassi, abbiamo così poco tempo per


parlare di questo problema delle paghe, che ci conviene proseguire!

58.

VERZEGNASSI Ma io credevo fosse finito!

59.

BASAGLIA Magari fosse finito!

60.

BASSANI Qui si dovrebbe fare come a Padova, quella volta che ero
laggiù ci hanno riferito così, che quando hanno un bel mucchio di
lavoro, coi proventi dei soldi che si riceve dal lavoro che si è fatto,
qualcuno guadagna in dieci giorni anche 12-13 mila lire, e lo pagano,
e poi non lo pagano più. Quella era produzione che fanno loro.
Invece qui si lavora due mesi e si paga per un anno, è giusto?
61.

MASSI Sì.

62.

BASSANI E’ mal fatto no? Perché è sbagliato dare sempre e non


lavorare, è sbagliato.

63.

VISINTIN Ma chi è che non lavora, se lavorano tutti!

64.

LUCCHI Non lavorano? Non è vero, le paghe del nostro reparto


sono state fatte tutte con criterio, non è vero che sono state regalate.
Qui tutti lavorano.

65.

SIGNORA DEVETAK Attualmente il signor Milani ha detto che dove


al reparto B ci sono venticinque lavoratrici, basterebbero quattro
persone e ventuno mandarle a spasso. Sono ventun persone che
prendono la paga, e non fanno quasi niente! Dove lavorano
venticinque persone basterebbero quattro persone per fare quel
lavoro! Lo ha detto il signor Milani sabato scorso. Lui ha la situazione
in pugno perché ha lui in mano le paghe, è lui che dà fuori le paghe.

66.

BASAGLIA Anche il dottor Tesi presiede a dare il lavoro!

67.

DANIELI E madre Secondiana sa meglio del dottor Tesi, perché lei è


tutto il giorno con malate, il dottor Tesi viene soltanto, sì c’è lui, ma
chi conosce veramente la situazione è la caporeparto.
68.

DOTTOR SCHITTAR Senta Sandra, Milani diceva che un lavoro può


essere fatto bene da quattro persone invece che da ventuno; a lei
sembra male che siano ventuno?

69.

DANIELI Sì è giusto che siano ventuno, perché così tutti con poco
contribuiscono, magari in piccola misura in un lavoro complessivo,
facendo le somme un piccolo lavoro tu, l’altro tu, si fa un grande
lavoro. Ma non è detto che sia necessario mantenere venticinque
persone al lavoro, non è detto che sia necessario, in tempi di
carestia si potrebbe ridurre anche il personale e dare a queste
persone, non dico di tirare via la paga, ma dare come dice la signora
Giovanna, un sussidio di disoccupazione. E’ necessario ridurre la
paga non soltanto a chi non lavora, è necessario ridurla anche a
quelli che lavorano, per coprire questo deficit. Qui il problema è
diverso.

70.

BASAGLIA Io vorrei sapere, qui in ospedale devono lavorare quattro


persone quando invece sarebbe necessaria solo una persona, o no?

71.

BASSANI Nel nostro reparto ci sono dodici che lavorano sui


copriletti, aiutano a fare i letti, sono piccolezze che fanno tutto in
un’ora, di meno anche: e prendono 200-250-300.

72.

PEGORARI Qui in ospedale a me sembra che è più importante


venire incontro a questi che lavorano poco, questi sì che hanno
bisogno d’un incentivo, in quanto gli altri lavorano sempre, no?

73.
BASSANI Capisco, ma siccome si è parlato anche dei pensionati,
no, si è parlato insomma quando si fa la conferenza nei reparti si
chiede se quella ha bisogno o non ha bisogno, soltanto ai singoli, si
potrebbe chiedere se a quella necessitano proprio quelle 200 lire, le
prende proprio per sport anche, perché buone sono! Finché
vengono! Vede, sono tanti punti da esaminare prima di fare una cosa
concreta, non è facile. Io penso al mio modo. Su quelle venti-
ventuno che prendono la paga, saranno sempre quelle dieci
pensionate che prendono anche dalla famiglia; non è questa una
carità che si fa, si dà la paga perché quando c’è lavoro, si fanno
queste scatole o quello che viene, i lavori insomma in generale tutti,
allora si fa un esame e si dice: ha lavorato tanto e adesso basta,
sono passati anche cinque-sei mesi e non fanno più niente, allora
non è giusto che questi prendano la paga. Invece un ammalato o
un’ammalata, che si interessa di ogni piccolezza, che scopa, che
lava i pavimenti, in ogni reparto si ha bisogno, allora lì si può dare
200-250 lire perché non hanno di più che quelle; ma diverse che non
lavorano, che non vanno a lavorare, prendono la metà paga lo
stesso sulle 300-400, non so. Io non parlo per invidia, non ho nessun
interesse, ma mi sembra una cosa errata, non è giusto. Quando uno
smette di lavorare e non lavora due-tre mesi e si vede che il lavoro
non arriva da nessuna parte si dice: noi non li prendiamo e non li
possiamo dare. Allora mettiamo adesso che duri un anno o un anno
e mezzo che non ci sia più niente lavoro, bisogna pure che vengano
in qualche maniera questi soldi per pagare gli ammalati.

74.

DANIELI Io sono d’accordo che è meglio la sottoccupazione alla


disoccupazione, così almeno qualcuno fa qualcosa, come riguardo
al problema del reparto B, dove sono venticinque persone occupate
che fanno il lavoro di cinque persone. Sono convinta che è meglio la
sottoccupazione che la disoccupazione completa, almeno così si fa
qualcosa, però è anche vero che un sottoccupato riceve meno di
uno che è occupato.

COMMENTO 10.
60-74. Alcuni interventi introducono dei temi che denunciano
l’infiltrarsi di una certa perplessità nell’assemblea nel confronto fra il
lavoro che si svolge all’interno dell’istituzione e il lavoro come si
presenta all’esterno, «nel mondo civile». Il punto di partenza è dato
dal raffronto tra il criterio di rimunerazione seguito in questo
ospedale per un certo lavoro e quello seguito per un analogo lavoro
in un altro ospedale: in entrambi i casi si tratta di una prestazione
che i pazienti svolgono per una ditta esterna, e che non ha carattere
di continuità ma alterna periodi di intensa attività a periodi di
stagnazione. Notiamo innanzitutto che a questi lavori non possono
essere applicate tout-court le analisi svolte in precedenza relative al
lavoro per l’istituzione, poiché il rapporto con un datore di lavoro
esterno è strutturato (o per lo meno: può essere strutturato) in modo
diverso. Se valgono ancora le cautele relative alla libera
contrattazione, e dunque quelle relative ad un lineare rapporto tra
lavoro e denaro in ospedale psichiatrico, bisogna notare che
esistono in questo caso le premesse per una maggiore presa di
coscienza da parte dei pazienti delle condizioni oggettive in cui si
colloca l’utilizzazione del loro lavoro: nel rapporto con la ditta esterna
cadono molte ambiguità inerenti ai ruoli e ai valori dell’istituzione; i
pazienti riescono più facilmente a identificare il padrone, e a cogliere
gli aspetti contrattuali di un rapporto di lavoro e gli impegni reciproci
che esso comporta. Il raffronto fra i due sistemi di pagamento seguiti
nei due diversi ospedali ripropone il rapporto tra rendimento e
rimunerazione: in questo confronto i degenti colgono le
contraddizioni esistenti fra la funzione terapeutica del lavoro, la
produttività, e la funzione terapeutica del denaro. Emergono infatti i
valori positivi di un modo di lavoro estraneo alla società esterna: è
giusto che ventuno persone facciano un lavoro che potrebbe essere
svolto da quattro sole («perché così tutti con poco contribuiscono,
magari in piccola misura in un lavoro complessivo»; 69).

Il significato di questa definizione può venir svilito (74: «meglio la


sottoccupazione che la disoccupazione, così almeno si fa
qualcosa»); ma introduce ugualmente un concetto di grande
importanza e indica la possibilità che i pazienti ne prendano
conoscenza.
La compartecipazione di tanti ad uno stesso lavoro è infatti una delle
caratteristiche positive fondamentali delle occupazioni lavorative
artigianali oggi in atto nell’ospedale: in esse il gruppo è coinvolto
nella produzione, ma non nel senso (di nuovo alienante,
serializzante) di un lavoro a catena, in cui si formano tanti «operai
parziali». Si cerca, al contrario, di mettere a disposizione di ciascuno
la conoscenza di tutte le fasi di lavorazione, perché su questa
«cooperazione semplice» si fonda in parte la possibilità di una libera
interazione, e quindi il significato terapeutico dell’attività in gruppo.
Inoltre il riconoscimento positivo dei «tanti che fanno il lavoro di
pochi» implica anche il riconoscimento che vi sono diversi ritmi di
lavoro e che ciascuno può seguire il proprio tempo: anche questo
può essere un fattore «liberante», se consente a ciascuno di
appropriarsi del suo tempo, di non agire sotto lo stimolo immediato di
una efficienza, di un rendimento che si misuri in quantità di denaro.
Vogliamo però notare che questa presa di coscienza dell’assemblea,
anche se parziali, riflette gli squilibrii esistenti all’interno
dell’ospedale, che si muove contemporaneamente a diversi livelli di
maturità sociale. Il discorso della cooperazione, da noi dilatato nei
suoi spunti positivi, si è mosso partendo dai lavori interni del reparto
B donne: ed il settore dei lavori interni nei reparti femminili di
lungodegenti si presenta tra i più istituzionalizzati. Infatti mentre nei
reparti maschili le pulizie sono fatte in gran parte da una «squadra
pulizie» che si muove in modo abbastanza autonomo da un reparto
all’altro, e che percepisce compensi fra i più alti, nei reparti femminili
il lavoro viene svolto all’interno di ciascun reparto, e vengono
chiamate a parteciparvi moltissime degenti, che «tengono la casa»
per i compensi più esigui. Ciò riflette indubbiamente sia la differenza
del ruolo tradizionale della donna nei confronti dei «lavori
domestici», sia il diverso impulso dato, nella storia dell’ospedale, ai
reparti maschili: ma ci fa comprendere come situazioni più avanzate
(quali consideriamo quelle dei reparti maschili) possano essere
«integrate» al sistema istituzionale se non vengono continuamente
messe in discussione e come, d’altra parte, le situazioni più arretrate
possano offrire ancora un margine di reale contestazione sia pure
timidamente espressa nella protesta individuale.
75.

DOTTOR L. JERVIS Io le domando signora Giovanna come vede lei


questo lavoro: durerà, aumenterà o diminuirà?

76.

BASSANI Se non si interesseranno non aumenterà mai, perché


nessuno prende iniziative, qua. Nessuno si interessa più di tanto,
allora bisogna trovare, cercare.

77.

DANIELI Io ho già detto in altra assemblea che qui manca la


persona che coordina, tra il datore di lavoro e il produttore, tra il
produttore e il datore di lavoro, manca questa persona che coordina.

78.

LUCCHI Va bene, va bene ma non devi ragionare in quel modo lì. Il


lavoro loro lo accettano anche oggi, se viene.

79.

DANIELI Ma il lavoro chi lo procura qui, nessuno! Il procacciatore di


affari qui chi è? Nessuno!

80.

PEGORARI Certo che ci vorrebbe una persona messa appunto per


questo e che si interessasse un po’ di più della gente, così avrebbe
qualcosa da fare.

81.

MEDEOT Quante persone sono che lavorano alle scatole? Sono


sempre una decina, e se non c’è lavoro di scatole restano
disoccupate.
82.

BASSANI Io non sono contraria. Io dico che sarebbe la più bella


cosa levare via a quelli che hanno 1000 lire o 600-700, levare via
quel poco, se non arrivano a raccogliere 25 mila lire si prendano 15
mila, intanto è sempre una cosa fissa, un aiuto fisso.

COMMENTO 11.

75-82. Chi deve prendere e sostenere l’iniziativa di procurare del


lavoro alternativo a quello per la istituzione? E nel caso delle attività
«per l’esterno», a chi spetta il coordinamento tra l’impresa e il
gruppo produttore di forza-lavoro? Sono quesiti posti dagli stessi
pazienti, i quali sembrano comunque sostenere l’indispensabilità di
questo ruolo di mediazione, sulla base della esperienza di quanto
sta avvenendo nell’ospedale; in assenza di una tale funzione il
lavoro può essere discontinuo (81) e scarso (82). E’ interessante
notare anche come, quando si parla di intervento nei lavori che
dànno un profitto, i pazienti si riferiscano sempre e solo ai lavori
artigianali-industriali per le ditte esterne (confronta comm. 10).

Senza dubbio è un problema che va posto, del quale i pazienti


sembrano aver una precisa coscienza (77, 79, 80). E’ necessario
che il medico, o comunque chi determina le iniziative ergoterapiche,
sia in grado di distanziarsi dall’istituzione per compiere una serie di
scelte, organizzative e di principio, che portino ad una valorizzazione
di quelle attività lavorative che offrono una provvisoria garanzia di
avere un qualche senso terapeutico. Resta però il dubbio se questo
tramite di mediazione debba essere rappresentato necessariamente
da un intervento medico; a questi è richiesta una indicazione dei
criteri di impostazione delle attività lavorative in gruppo, in armonia
con le finalità terapeutiche (in questo caso non più «eventuali»);
partecipa a questa finalità anche una messa a punto del significato e
del valore del denaro come retribuzione nei diversi casi (confronta
comm. 13; ma difficilmente il medico può rappresentare l’unico
tramite fra la società esterna e il mondo ospedaliero: egli può
allargare il suo campo d’intervento, come in Inghilterra hanno fatto
Clark e altri, svolgendo una sorta di «terapia amministrativa» tesa a
coinvolgere e coscienzializzare enti e istituzioni della società esterna
nei confronti dei problemi dell’assistenza psichiatrica intra-ed
extraospedaliera; ma è anche necessario che queste nuove istanze
siano presto in grado di fare a meno dello schermo protettivo della
mediazione medica, per costituirsi in quell‘“organismo di solidarietà”
prefigurato da Bonnafè, Chaurand, Tosquelles, che sia un reale
intermediario fra il malato, l’ospedale, la società («Ann. méd.-
psychol.», 1947, I, 209).

E’ certo questa una mediazione difficile; essa potrebbe forse riuscire,


ma solo nella misura in cui questo organismo di solidarietà operasse
in un reale contatto con la realtà ospedaliera, al di là di qualsiasi
tentazione paternalistica, con finalità che non fossero solo quella
della reintegrazione rapida del malato in un contesto sociale le cui
artificiosità continuassero ad essere considerate come mali
indispensabili. Una mediazione di tal genere potrebbe essere attuata
forse anche nei confronti del lavoro terapeutico: predisponendo o
agevolando, ad esempio, strutture per il lavoro, ospedaliere ed
extraospedaliere, nelle quali la «protezione» che si offre sia un reale
sostegno psicodinamico alla riabilitazione del singolo individuo, e
non una tutela cautelativa in vista di una reintegrazione automatica,
che le strutture socioeconomiche esterne non saranno poi in grado
in molti casi di assicurare. Tutto ciò d’altra parte difficilmente
potrebbe realizzarsi se le istituzioni psichiatriche, nelle attuali loro
dimensioni e caratteristiche, continuassero a sussistere come un
male necessario, o come una realtà che si possa solo riformare con
un atto volontaristico.

83.

MASSI E’ mobile, ma al di sotto del quale non si scende, caso mai si


sale.

84.

BASSANI Perché a tutti dispiace perdere quella piccolezza, è poco,


ma un’anima che non ha nessuno, che prende queste 600-700 lire è
una carità per modo di dire, ma per uno che non ha è una gran cosa,
perché dice, guarda, li ho presi e posso prendermi un caffè; ma chi
ne ha e li percepisce lo stesso è una cosa ingiusta. Si dovrebbe
esaminare questo. Chi li ha dalla famiglia, da tante parti, a quelli no,
perché sono diversi. Ecco lì è un punto giusto di levarli via.

85.

BASAGLIA Certo tutto questo discorso porta anche ad un altro


discorso: che significato ha in ospedale la paga?

86.

DANIELI Premio! Un premio alla costanza di chi lavora.

87.

BASSANI No, non è vero niente. La paga per gli ammalati, quelli che
fanno e che non fanno, o come si sentono, viene percepita non so,
come ammettiamo anche nelle mie povere parole, anche come un
sollievo e una terapia, perché tira su di morale, dà il coraggio, si
sente più in forza ecco. Credo che sia questo. Non perché hanno
fatto un po’ di lavoro, più per sollevare il cuore. Cosa vuole, con
quella paga lì si fanno pochi salti!

88.

BASAGLIA Se si deve diminuire o aumentare bisogna vedere che


significato ha per ognuno la paga! Che significato è se ha 200-300 o
1000 lire per settimana? Perché li prende?

89.

BASSANI Li prende perché se li ha meritati; però è anche, torno a


ripetere, che se si mette a lavorare vuol dire che la mente, insomma
è una specie di cura, nel mio modo di pensare, per lui è anche cura
di lavoro. Ha la mente occupata dal lavoro e la situazione quindi
cambia. Non è più il mezzo insceminito, seduto là che pensa. E’ già
occupato al lavoro, ma però torno a ripetere, c’è chi rende e chi non
rende.

90.

CIANI Io dico questo però, lei ha preso 6 milioni e 6 milioni se li


consuma, e non oltre il muro, non oltre la rete. Quel che si riceve si
riceve e non toccare la paga a nessuno. E se no l’ospedale prenda
gli operai e paghi. Quelli che si ha si consuma, e non andare oltre il
muro.

91.

DOTTOR SLAVICH A me pare che ci sia un grosso equivoco, qui si


parla sempre di quelli che prendono la paga e non lavorano, ma non
sappiamo chi sono, nome e cognome, e quanti sono per poter dire…
Lei lo sa?

92.

CIANI Io non voglio sporcare nessuno io.

93.

SLAVICH Non si tratta di sporcare.

94.

CIANI Io non voglio sporcare nessuno, se non lo sapete voi,


abbastanza male. Bisogna fare un controllo, chi lavora e chi non
lavora, inutile qui parlare tanto.

95.

BASAGLIA Ma l’ospedale è una industria? E’ una fabbrica?

96.
LUCCHI No, neanche per sogno, che fabbrica è? Qua non c’è
niente.

97.

CIANI E allora dove avete messo questo mezzo milione? Dove è


andato a finirla?

98.

BASAGLIA E’ la paga ai degenti, è la paga ai malati!

99.

CIANI Non occorreva dare di più, solo un tanto, 6 milioni sono e


quelli si devono consumare, non di più.

100.

BASAGLIA Ed è per questo che ho chiesto quale significato ha la


paga per chi lavora in ospedale!

101.

VERZEGNASSI Io dico che c’è quello che lavora e ha anche 200


lire, e chi non lavora e ha 1000 lire sa! E poi avete cominciato qui
come col bar, aumentiamo o non aumentiamo, e in una volta è tutto
sparito, così sarà anche questa volta.

102.

BASAGLIA Perché è tutto sparito?

103.

CIANI Perché il governo stesso vi aumenterà! Vedrete, di giorno in


giorno, vi aumenterà.

104.
MASSI Solo le bibite aumenta il governo, il caffè lo aumenteremo
noi.

105.

CIANI E allora se a uno diminuite la paga e aumenterete il prezzo


del caffè vuol dire che non berrà più, no.

106.

MEDEOT Io non vado sicuro a bere più.

107.

MASSI Invece di prendere dieci caffè ne prenderete cinque.

108.

MEDEOT Sì, ma incasserete meno!

109.

MASSI D’accordo, incasseremo meno, ma quello che si incassa, si


incassa anche a favore del C.

110.

CIANI Io ho chiesto oggi a due di loro, venite a lavorare con me


fuori! Va’…!, mi hanno risposto.

111.

SIGNOR HUMAR Non vogliono lavorare!

112.

BASAGLIA Perché non vogliono?

113.
CIANI Perché non hanno volontà, sono abituati a stare dentro e non
vanno più fuori.

114.

PIRELLA Forse non vogliono lavorare con lei!

115.

CIANI Ah, con me sì!

116.

BASAGLIA Allora se sono abituati a stare dentro e non vogliono


venire più fuori, cosa bisogna fare, lasciarli dentro?

117.

CIANI Faccia quello che vuole, peccato che quell’ospedale vecchio è


chiuso, perché si poteva portarli lassù.

118.

BASAGLIA A cosa fare, lassù?

119.

CIANI Lassù si svegliavano un po’.

120.

VERZEGNASSI E anche lei dottore è come questo qua, datevi la


mano assieme! Può dire cosa vuole lei, è come quelli di Roma.

COMMENTO 12.

110-20. Un referendum fra i pazienti aveva approvato, con una


leggera maggioranza, un aumento dei prezzi del bar, il cui ricavato
sarebbe andato a favore dei pazienti dei reparti chiusi (reparti C),
visti in genere come i più indigenti e più impossibilitati a
«guadagnare» del denaro con il lavoro (la minaccia di una
decurtazione dei salari, della quale si sta discutendo, aveva poi fatto
rientrare provvisoriamente la decisione; 101).

In genere la presenza dei due reparti chiusi nell’ospedale sembra


vissuta dai pazienti in modo ambivalente e in apparenza
contraddittorio; prevale di solito, su un piano superficiale, un
atteggiamento oblativo, si ostenta nelle assemblee uno spirito
«caritatevole» nel richiedere l’apertura anche di quei due reparti,
perché tutti, anche quei «poveretti» possano godere della libertà. Un
certo peso può avere al riguardo anche il fantasma della
«punizione», sentita tradizionalmente come ancora possibile, e
realizzabile, in maniera non simbolica, con la limitazione della libertà
di movimento. In realtà, però, la presenza del reparto chiuso sembra
assolvere nel vissuto del paziente a funzioni più profonde. La sua
esistenza consente sempre al paziente di crearsi una distanza, di
proiettare in uno spazio circoscritto, esterno al suo spazio, tutto
quanto di negativo (paure, inferiorità, bisogni) è insito nella
condizione da lui stesso vissuta. Alla mancata o incompleta
coscienza della sua propria esclusione sociale egli supplisce con
questa sorta di “esclusione interna” e il reparto chiuso finisce con
l’assolvere nell’ospedale alla medesima funzione che l’ospedale
chiuso assolve nei confronti della società. In questo senso, di difesa
attraverso un meccanismo di esclusione interna, vanno intese
probabilmente le distinzioni fra pazienti «debolissimi, deboli, meno
forti», dibattute nell’assemblea precedente (1, 101, 111, 113); ritorna
ora questa esclusione con la valutazione negativa della capacità
lavorativa dei pazienti dei reparti C (111, 113, 117, 119 ). Sarebbe del
tutto illogico, d’altra parte, attendersi che il meccanismo della
esclusione, così diffuso nella società «sana», svanisca all’interno
dell’ospedale per essere sostituita da una solidarietà senza
contraddizioni; è, questa dell’esclusione interna, una realtà di cui si
deve tener conto, per evitare che molti degli interventi e delle prese
di posizione di queste due assemblee rimangano oscuri.

121.
BASAGLIA Chi sarebbero questi?

122.

VERZEGNASSI I nostri cari parlamentari, parliamo di politica


adesso. Grave è.

123.

BASSANI Dunque l’unica cosa sarebbe che lunedì ogni medico del
suo reparto quando ha la conferenza, informarsi esattamente chi
lavora, quanti mesi prendono i soldi, quanto guadagna, perché
altrimenti qui non si può né crescere, né aumentare, né calare, né
voltare, né girare. Perché è un caos che non si risolve niente. Quella
piccolezza, qualcuno ha 150-200, non so, cosa vuole tirare via là?
Le sembra a lei signor direttore, no? Fare un esame fra tutti noi.

124.

BASAGLIA Bisogna vedere la resa di chi lavora, e il fatto che vada a


lavorare.

125.

HUMAR Bisogna vedere chi lavora e chi non lavora!

126.

CIANI Lui non vede niente, perché se uno non ha una posizione
giusta non può fare niente. Lui scrive, fa le paghe, è d’accordo e
basta. Lì ci vuole un esame giusto, vedere, controllare e poi fare la
paga.

127.

BASAGLIA Mi sembra che il problema delle paghe sia interessante


per due cose; prima di tutto che senso ha la paga per chi lavora in
generale? E, secondo, bisogna badare l’efficienza, cioè alla resa di
lavoro, o è sufficiente che uno vada a lavorare per prendere la paga,
dato che, come ripeto, l’ospedale non è una industria?

128.

BASSANI Appunto, io ho detto già prima, è qualcuno che prende il


lavoro anche con soddisfazione in quanto si svaga, va fuori, cambia
reparto, e si perde così; tanto piuttosto che stare senza fare niente,
si lavora quel poco. Qualcuno riceve invece quella piccolezza di cui
non avrà bisogno!

129.

DANIELI Il signor direttore ha chiesto che significato abbia la paga


per chi lavora, viene risposto che la paga è considerata quale premio
alla costanza e alla buona volontà che ha dimostrato l’ammalato nel
lavoro.

130.

BASSANI Un ammalato che va a lavorare si sente già in via di


guarigione, guarigione magari no, ma insomma, si sarebbe più
imbambiniti, tutti a pezzi.

131.

SLAVICH E allora non occorre che venga pagato questo lavoro.

132.

DANIELI Ma pagano, per spingere gli ammalati a lavorare, è logico.

133.

BASSANI Non è vero niente, è un sollievo anche.

134.
DANIELI Sì è anche un sollievo a lavorare, tutti i premi che si
ricevono sono sollievi.

135.

SLAVICH Secondo me c’è qualcuno che non dice giusto. Siccome il


lavoro è una cura, è una terapia, dice, allora non deve essere pagato
perché la terapia non deve essere pagata. Per me è sbagliato.

136.

LUCCHI Ma siccome hanno sempre bisogno di qualche cosa,


bisogna dare, almeno un po’.

137.

SLAVICH Cioè allora anche i soldi sono una cura.

138.

LUCCHI Certo i soldi sono la prima cosa. C’è qualcuno che ha detto
la miglior cura è la paga. Qualcuno ha detto così, la miglior cura è la
paga! Naturalmente per prendere la paga bisogna lavorare ed è
sottinteso che chi prende la paga lavora, è sottinteso.

139.

VERZEGNASSI C’è stato proprio quel signore che ieri ha fatto una
proposta al bar, ha detto di ricorrere all’aiuto dei parenti.

140.

SLAVICH Mi pare che si dicesse che è necessario avere qualche


liretta per prendere il caffè e sigarette. Dunque si potrebbe anche
dire che non tanto i soldi sono la cura, quanto il non avere i soldi è
una non-cura, è una anticura, qualcosa che fa male, insomma.

141.
BASSANI Per incoraggiare una persona, qualcosa gli si deve dare,
perché sono cose necessarie.

142.

PIRELLA Io penso che il lavoro terapeutico è visto in due direzioni,


anzitutto come cura, in secondo luogo perché permette di ottenere
questo po’ di denaro la cui disponibilità dà un certo senso di
liberazione, perché non è vero che tutti spendono con comodo, io so
di persone le quali mettono via gran parte di queste quote. Allora il
senso è questo che a loro dà soddisfazione fare questo svago, allora
questo è senz’altro un lavoro terapeutico, cioè avere la disponibilità
di una somma di denaro.

143.

CIANI Questa è una malattia che circola da per tutto, anche fuori.
Domandi alle suore dei reparti, hanno gli armadi pieni di scatole tutte
piene di soldi, le donne non spendono come gli uomini, sa.

144.

MEDEOT Risparmiano, per spendere in seguito.

145.

MASSI Le donne sono quelle che hanno più soddisfazione ad avere


le paghe.

146.

BASSANI Sì, perché loro non sprecano. Perché risparmiano, poi si


comprano un capo di vestiario che è necessario per loro, quindi
hanno soddisfazione di indossare un pezzo nuovo.

147.

BASAGLIA Io direi che quello che ha detto il dottor Pirella è una


cosa importante, e io sono d’accordo con lui nel senso del denaro, il
senso del denaro è tanto, vuol dire il significato di libertà che è
nell’ospedale.

148.

BASSANI E per chi lavora non rappresenta neanche un ospedale. E’


convinto lei professore di questo? Si è chiusi, ma non rappresenta
un ospedale. E’ già un’altra cosa, ci si sente in attività, è un altro
modo di vivere, non è più quello. Perché non sono a letto quelli che
vanno a lavorare, vanno a spasso, vanno fuori, si sentono chiusi sì,
mentre nello stesso tempo a loro sembra una villeggiatura, in un
certo senso.

149.

PIRELLA Vivono come i pensionati.

150.

BASSANI Ecco, vivono come i pensionati.

151.

DANIELI Già san Paolo diceva, chi non lavora non mangia! Mentre
qui mangiano anche quelli che non lavorano, anzi prendono anche la
paga quelli che non lavorano.

152.

MASSI L’unica soluzione è fare una revisione reparto per reparto,


altrimenti qui non si potrà mai fare niente.

153.

BASAGLIA Se è vero che il senso del denaro in ospedale è libertà,


allora diminuendo i soldi diminuiamo la libertà?

154.
DANIELI Certo, non gliene resta tanta. Ma se non si può fare a
meno, cosa dobbiamo fare?

155.

LUCCHI Era lei in ospedale vent’anni fa?

156.

DANIELI No, non ero neanche nata, io.

157.

LUCCHI Beh oggi è Parigi al confronto, Parigi.

158.

VERZEGNASSI Sì, oggi è Parigi qui al confronto di vent’anni fa. E il


governo non ci pensa?

159.

MASSI Siamo dimenticati caro signor Verzegnassi, ormai siamo già


catalogati.

160.

VERZEGNASSI Ma fra venti-venticinque anni non sarà più così.

161.

DEVETAK Beh speriamo.

162.

BASSANI Io direi in una situazione come la nostra, fare una


revisione reparto per reparto e toccare quelli che hanno troppa paga.

163.
MEDEOT Troppa non è mai, cosa vuole, uno che ha, ha 1000 o
poco più, non è troppo.

164.

VISINTIN Io dico, perché obbligate un uomo che non ha niente, è


ammalato, che non ha nessuno, lo obbligate a lavorare? Se dite che
non potete più aiutare quelli del reparto C, e adesso levate anche
questo, e come li potete aiutare in questo modo?

165.

CIANI Come vuole che li aiuti, se non hanno aumentato niente, non
hanno fatto niente ancora, verrà discusso per un mese ancora.

166.

MASSI Ma siamo in chiusura della seduta e proporrei di chiudere


con un augurio, che tutto possa essere risolto.

167.

BASAGLIA Il fatto di sapere cos’è il senso del lavoro veramente mi


fa sperare che non si dovrà diminuire questo mezzo milione.

168.

DANIELI Il senso del lavoro è terapia e abbiamo già discusso in


sedute passate, e l’ha chiesto lei professore. Il senso del lavoro è
terapia. Uno si sente di lavorare, i forti, i meno forti, abbiamo fatto
già la discussione sabato scorso.

169.

PIRELLA E allora noi medici possiamo dire che togliere i soldi come
compensi è come diminuire per esempio i soldi per i farmaci, le
medicine.

170.
DANIELI Esatto sì. Anzi direi che aiuta più il lavoro che le medicine,
le medicine sono di contorno, le medicine mettono in condizione
l’ammalato di lavorare, ma poi quando l’ammalato lavora, è più la
terapia che riceve dal lavoro che dalle medicine.

171.

BASAGLIA Questo mese allora come ci comportiamo?

172.

BASSANI Intanto risparmiando, caso mai si può sempre poi


aumentare.

173.

BASAGLIA Allora è meglio decidere già adesso come comportarsi


per questo prossimo mese.

174.

MASSI Cioè se con questo mese dobbiamo pagare di meno o no?

175.

BASSANI Sì, pagare di meno.

176.

BASAGLIA Sentiamo una persona che lavora, sentiamo cosa dice


lei.

177.

MEDEOT Secondo me è da andare reparto per reparto e vedere


dove tirare via e a quel che possono tirare via, e il debito se non si
paga in una volta se lo pagherà in due volte.

178.
BASSANI Siccome, non per nominare di nuovo Milani, lui mi ha
detto così che senza toccare tanti, a 13800 lire potrebbe già arrivare,
dunque sarebbe 14 mila lire ecco che dopo entro un mese,
dobbiamo discutere, cioè si può ragionare anche per quelle dieci che
manca.

179.

BASAGLIA Scusi Giovanna, la prossima settimana con cosa


pagheremo?

180.

BASSANI E cosa vuole che le dica, intanto si tira via queste 13 mila
insomma non toccare le paghe piccole, sarebbe sulle 13800.

181.

MASSI Beh, sono le 11, signori, la seduta è tolta.

COMMENTO 13.

129-81. L’accento del discorso si sposta ora dal senso del lavoro a
quello della «paga»: in una lunga serie di interventi la discussione
sembra liberarsi dal vicolo cieco della correlazione fra lavoro,
produzione e retribuzione, per considerare più attentamente il
significato dei compensi, e del denaro che conseguentemente
circola in ospedale. Da più parti si afferma, semplicemente, che la
paga serve a soddisfare alcuni bisogni elementari (133, 134, 136,
141). Si potrebbe essere tentati, commentando queste affermazioni,
di sottolinearne la ovvietà e la banalità, ma sarebbe forse un
apprezzamento precipitoso, perché ben difficilmente è possibile
comprendere empaticamente la situazione vissuta da una persona
che per lungo tempo sia priva della più piccola somma di denaro. Si
tratta di un tipo di povertà individuale assoluta, conosciuta forse solo
all’interno della istituzione totale, tanto più paradossale e alienante in
quanto quasi tutti i bisogni elementari soddisfacibili serialmente in
massa (cibo, calore, sonno, entro certi limiti anche il vestiario), sono
soddisfatti automaticamente dalla istituzione, mentre viene quasi
sempre negata ogni forma di proprietà individuale, sia in natura sia
soprattutto in denaro, e quindi il soddisfacimento di ogni bisogno
“individuale” elementare. Non vi è dubbio che la privazione completa
e continua di denaro sia in sé gravemente «disumanizzante»; a
questa conclusione giunge anche Vail, il quale in una serie di
interviste a pazienti ricoverati in un ospedale americano, alla
domanda su quali fattori potessero rendere «più umana» la vita in
ospedale otteneva frequentemente la risposta ottativa «l’avere un
centesimo in tasca» (D. J. Vail, “Dehumanization and the Institutional
Career”, Charles e Thomas Publishers, Springfield [Ill.] 1966, p.p.
169 segg.). La disponibilità individuale di denaro appare quindi un
fatto positivo innanzitutto in via riflessa, in quanto viene a mancare
uno dei più pesanti fattori di istituzionalizzazione, la indigenza
assoluta, che isola il paziente in un cerchio di impossibilità
agevolandone la passivizzazione e la dipendenza; è poi appena il
caso di sottolineare come il possesso di denaro e la sua circolazione
abbiano una positiva funzione di stimolo al porsi individuale del
paziente nel tessuto delle relazioni interpersonali, sul piano delle
scelte spontanee quotidiane; come consenta, ad esempio, la
gestione del tempo libero, e la personalizzazione del proprio tempo
vissuto su un «ritmo di spesa», scelto al di fuori di ogni
condizionamento e di ogni controllo.

Non si è certo dunque molto lontani dal vero quando si suggerisce la


formulazione «il denaro è sinonimo di libertà nell’ospedale» (147).
Due sembrano essere le vie secondo le quali può esprimersi questa
libertà: come “libertà nei consumi” e come “libertà nel risparmio”
(142, 146). Non vi è dubbio che la prima è vissuta dai pazienti in
modo più spontaneo e diretto della seconda: né potrebbe essere
diversamente, se il denaro viene vissuto, come si è visto, come
possibilità di soddisfare alcuni bisogni elementari individuali. E’ da
notare d’altra parte che le spese sono sempre modeste («con quella
paga lì, si fanno pochi salti»; 87), ed avvengono comunque sempre
nell’unica alternativa di mercato disponibile nel campo ospedaliero,
nel bar, per un caffè, una bibita, un pacchetto di sigarette eccetera.
La restrizione del campo contribuisce indubbiamente a rendere più
sopportabili (in termini di potere d’acquisto) gli esigui compensi: ma
ne relativizza anche il significato di libertà. Più problematica sembra
invece la cosiddetta «libertà di risparmio». Essa è un fenomeno
vistoso, come viene anche sottolineato (143 ), soprattutto nei reparti
femminili, e non manca di irritare gli uomini (e anche di contribuire
indirettamente al perpetuarsi del dislivello di paga media fra uomini e
donne). La «naturale inclinazione al risparmio» della donna, che
trova riscontro anche nella cultura extraistituzionale (per la quale il
vero e proprio consumo voluttuario è prerogativa dell’uomo) è stata
incoraggiata in alcuni reparti femminili con lo scopo - in astratto
«buono» - di rendere possibile l’acquisto di capi di vestiario
personali, scelti secondo il gusto di ciascuna e tenuti con più cura. In
pratica però molto spesso il «risparmio» si riduce ad una consegna
del proprio compenso alla caporeparto, e, al limite, ad un successivo
disinteresse per la somma raccolta, che non è più vissuta come
propria. Dato che questo modo di «amministrare» soddisfa le istanze
di controllo burocratico della istituzione, la gratificazione
rappresentata dal denaro, con le sue valenze liberalizzanti, è di
nuovo sostituita con quella della approvazione da parte dei superiori,
con le inevitabili valenze di dipendenza.

La libertà derivante dal possesso di denaro, seppure


molteplicemente condizionata, si configura in ospedale
prevalentemente come libertà di consumo. E’ ben difficile che essa
possa nelle condizioni attuali portare al raggiungimento di una sorta
di microsocietà del benessere: sarebbe questo comunque un
pericolo latente, che rischierebbe di rendere del tutto artificiosa la
struttura terapeutica dell’istituzione. Seppur in molti casi una
corresponsione in denaro, che echeggia formalmente il
«pensionamento», viene mantenuta a scopo terapeutico
sociodinamico, indubbiamente la condizione del «pensionato» (in
favore della quale esiste una corrente di opinione fra i pazienti; 148)
non sembra avere molto senso in una situazione terapeutica. Appare
d’altronde dagli interventi come siano gli stessi pazienti a sentire la
necessità di ancorare ad altre motivazioni concrete il significato del
denaro che percepiscono. Esso è visto da alcuni come “premio”
«alla costanza di chi lavora» (129). Distinto, ma messo ancora in
relazione con la produzione di forza-lavoro, questo premio, così
come è configurato dai pazienti, mette di nuovo in luce
realisticamente l’aspetto di «dipendenza personale», come ambito
riconoscimento di una prestazione che si accompagni con la
doverosa virtù morale della costanza. D’altro lato questi interventi,
riprendendo il corretto termine amministrativo istituzionale («Premi in
denaro ai ricoverati lavoratori») sottolineano la totale incongruità
dell’uso del termine «paga»: non c’è salario reale in questa
situazione, la dimensione stessa dei premi lo rende evidente.

Non tutti i pazienti sembrano però accettare questi minacciosi aspetti


personalistici legati al «premiare» (che tra l’altro richiamano anche,
corrispettivamente, quelli legati al «punire»): esistono all’interno della
microsocietà ospedaliera forze meno arretrate, e più coinvolte nei
riverberi del sistema liberistico esterno, forze per le quali la visione
del denaro come premio svilisce la serietà dell’impegno lavorativo.
Per molti di questi pazienti la retribuzione è piuttosto un “incentivo”
(Comunità 1, 94, 101; Comunità 2, 141): è questa una definizione
alla quale corrisponde la parziale presa di coscienza di un
meccanismo di incentivazione realmente in uso nella prassi; esso è
visto però contemporaneamente da due angoli visuali: quando i
pazienti che intervengono riferiscono la incentivazione a se stessi, al
proprio lavoro, essi ripropongono il meccanismo di«esclusione
interna» che, mutuando dal concetto di libertà borghese il diritto
all’ascesa economica individuale, contribuisce ad una nuova
stratificazione della società ospedaliera (realizzata, in maniera
simbolica e non, dalle classi di paga); quando invece sembrano
intravvedere la potenziale finalità terapeutica della incentivazione,
mostrano di ritenerla applicabile soprattutto ai pazienti «deboli» dei
reparti chiusi: ciò che in realtà non avviene, e non può avvenire.
Infatti se per il paziente ancora segregato nel reparto chiuso la
proposta di un incentivo in denaro può valere a svincolarlo dalla
passività reificante dell’indigenza assoluta, non dobbiamo
dimenticare che, nel “momento stesso” in cui egli viene realmente a
partecipare alla situazione comunitaria, il meccanismo della
incentivazione economica si tramuta per lui in un pesante handicap:
non sarà infatti certo una situazione lavorativa concorrenziale,
basata sull’incentivo economico alla produzione, che potrà aiutarlo
nello stabilire nuovi rapporti interpersonali in un gruppo di lavoro nel
quale egli possa scegliere il suo tempo e il suo modo di porsi. In
realtà una incentivazione che consenta una mobilità ascendente dei
salari e che sia legata in modo più diretto alla produzione sarebbe
forse, in via ipotetica, realizzabile solo nel caso di gruppi molto
omogenei, che abbiano maturato una coscienza del loro rapporto
ambiguo con la istituzione come datore di lavoro, e che siano in
grado di seguire l’aumento “visibile” della loro produzione (una
situazione dunque nella quale potrebbe realizzarsi il tipo di
«cooperazione» fra i pazienti che è visto come senz’altro possibile
da Bonnafè e coll.); in questo caso l’angusto margine «terapeutico»
dell’incentivo potrebbe essere rappresentato da una prima forma di
contrattazione cosciente, come mezzo di autoidentificazione nel
rapporto dialettico con il gruppo; rimane però il dubbio che ciò non
sia possibile in seno al più vasto contesto istituzionale, anche per il
rischio che questo «spirito cooperativo» finisca per assommare
all’esclusione interna tra individuo e individuo quella fra i diversi
gruppi lavorativi.

La discussione sul finire di questa seconda assemblea si perde di


nuovo nel viluppo di contraddizioni già più volte emerse, e nei
provvisori tentativi di soluzione compensatoria. Di nuovo, per un
momento, la situazione vissuta attualmente al confronto col passato
diventa «Parigi»: ma non durerà a lungo, non tarderanno a
ripresentarsi, in forma e su temi diversi, tutta la serie di
contraddizioni insanabili che animano e dànno corpo alla vita
comunitaria. In queste due assemblee i pazienti intervenuti ne hanno
indicate molte: la tendenza alla assoluta giustizia retributiva che
coesiste con la difesa del privilegio acquisito; la retribuzione che è
vista come sussidio assistenziale che libera dal bisogno, ma anche
come premio che sancisce una dipendenza, o incentivo che
permette una ascesa liberistica nella scala sociale interna; il lavoro
come hobby, come «terapia», ma anche come cosa «seria» e
impegnativa; la accettazione passiva della situazione e la attiva
contestazione del sistema; la integrazione comunitaria che si regge
però anche sui meccanismi di esclusione interna; e così via. Non
dovrebbe meravigliare, un simile cumulo di contraddizioni; all’interno
del campo ospedaliero non possono non riverberarsi tutte quelle
della società esterna, e non possono che essere accentuate dalla
struttura caratteristica della istituzione totale: solo che vi sia il tempo
e il luogo - come queste assemblee - nel quale esse possano venir
ventilate, e se ne possa prendere una coscienza sia pure parziale. E’
importante piuttosto che coloro che detengono il potere istituzionale
non cedano alla tentazione di sanare d’un tratto anche tutte queste
contraddizioni, con una serie di decisioni «obiettivamente giuste»;
per quanto concerne ad esempio il lavoro terapeutico in ospedale, è
importante che non si giunga ad assimilare il lavoro produttivo della
società esterna con il lavoro in ospedale, scotomizzando le peculiari
caratteristiche di quest’ultimo; che non si presuma di aver ristabilito
l’equazione economica del corretto rapporto lavorativo distribuendo
compensi solo simbolici, e non si tralasci di tenere presente che il
lavoro in una istituzione terapeutica è primariamente una “occasione
terapeutica”, e non economica. Che poi i pazienti riscoprano un
significato economico al loro lavoro quotidiano è un fatto altamente
positivo, ancorché prevedibile; ma non ci si potrà meravigliare se,
contemporaneamente, scopriranno anche le caratteristiche spesso
alienanti e (non per loro) «imbarazzanti» di questo lavoro, cogliendo
anche in questo fatto un indice della loro “esclusione sociale”.

E’ la presa di coscienza di questa esclusione che costituisce forse


l’unica forma di libertà acquisibile attivamente dal paziente nelle
attuali istituzioni ospedaliere; e se una attività lavorativa in gruppo
può contribuire - come sembrerebbe da queste due assemblee - a
dotarlo di una qualche possibilità di contestazione dialettica del
sistema in cui vive, in questo caso una tale attività assolve in gran
parte alla sua funzione.
JOHN CONOLLY, DALLA
FILANTROPIA ALLA PSICHIATRIA
SOCIALE
di Agostino Pirella e Domenico Casagrande.

Nell’attuale dibattito attorno al rinnovamento dell’assistenza


psichiatrica si è soliti oggi, in Italia, portare ad esempio esperienze di
altri paesi, e particolarmente quelle della Gran Bretagna, che si
presentano come soluzioni avanzate sia sul piano scientifico che su
quello sociale. Un preciso riferimento legislativo è poi costituito dal
Mental Health Act del 1959, che viene ritenuto il coronamento
dell’abolizione pressoché completa di restrizioni legali nei confronti
dei malati di mente, e perciò della caduta delle tradizionali barriere
che separano la «società sana» dal mondo dell’alienazione.

Tale abolizione e le soluzioni ad essa collegate non sono il frutto di


una fortunata intuizione, né della concomitanza di fattori casuali,
bensì il logico sbocco, comprensibile sul piano storico-sociale, di una
evoluzione della società civile, e degli atteggiamenti scientifici, che
può trovare le sue origini fin nel secolo scorso.

E’ stato celebrato in Inghilterra nel 1966 il centenario della morte di


una significativa figura di psichiatra, John Conolly, che rappresenta,
ancora oggi per noi, un punto di riferimento essenziale. Alcune
caratteristiche del suo lavoro e delle sue proposte possono portare
luce a questioni tuttora attuali nella realtà psichiatrica italiana. Qual è
stata l’importanza del lavoro di John Conolly?

Dal dibattito che si è svolto nell’occasione celebrativa cui si è fatto


cenno, emerge che non si è in grado di valutare esattamente, a
distanza di più di un secolo, quale sia stata l’incidenza del lavoro di
Conolly sul piano delle realizzazioni pratiche, almeno per quanto
riguarda la grande questione del clima istituzionale negli «asili» per
malati mentali.

Vi è tuttora una certa discordanza di opinioni su ciò, anche se tutti gli


studiosi sono disposti ad ammetterne la rara forza espositiva e la
chiarezza dell’impostazione teorica. Questo fatto è dimostrato, tra
l’altro, dalla risonanza europea delle sue idee, che gli è valsa
l’attribuzione della “leadership” di un movimento rinnovatore
chiamato appunto «conollysm». Certo è il fatto che Conolly si è
inserito, con tutto il suo vigore polemico e la sua passione civile, in
un momento di essenziale mutamento delle strutture assistenziali
psichiatriche: non è per caso che, tra l’altro, proprio attorno al 1841
la vecchia denominazione di “Lunatic Asylum” (pressoché
corrispondente al nostro «manicomio») veniva sostituita con quella
di “Hospital for the Insane”.

I fautori del rinnovamento, che non può considerarsi legato soltanto


a queste variazioni verbali, non limitavano le loro critiche alle
caratteristiche puramente ambientali (per cui gli edifici venivano
abbelliti, le sale e le corsie rese più pulite ed accoglienti), ma
investivano la concezione stessa del rapporto con il malato, il quale
non solo non doveva più essere considerato un «colpevole da
punire», ma neppure un «oggetto mostruoso», «una macchina folle»
da isolare, da separare dalla società. Cominciava ad emergere una
concezione che da un lato sottolineava gli aspetti «medici» del
problema e che dall’altro si preoccupava delle conseguenze
psicologiche che certi atteggiamenti coercitivi potevano provocare
sul malato. Ciò che si cominciava a mettere in discussione era la
dinamica stessa della segregazione mortificante, che non solo non
poteva pretendere di recuperare il malato ad una vita dignitosa
all’interno delle istituzioni, ma che era essa stessa responsabile della
degradazione di coloro che di volta in volta ne subivano i rigori.
Questa dinamica tradizionale, trascinantesi nel corso dei secoli ai
danni di diverse categorie di «esclusi sociali», dai lebbrosi ai luetici
agli stessi malati mentali, aveva trovato sia nei rivolgimenti sociali sia
nelle nuove esigenze mediche che si rendevano man mano
manifeste, una seria opposizione e successivamente una certa
limitazione.

Si sa che già Chiarugi e Pinel avevano cominciato a «scegliere»


negli ospedali di Firenze e di Parigi verso la fine del secolo
diciottesimo, quei malati che potevano essere liberi rispetto a quelli
che dovevano rimanere incatenati, e che inoltre le proteste di alcuni
degli internati nei vari asili avevano, prima ancora di riuscire a
mutare il clima istituzionale degli asili stessi, permesso a taluno dei
ricoverati di essere trasferito in luoghi più decenti o addirittura di
essere liberato.

- La filantropia religiosa e il «Ritiro» di York.

E’ in questo contesto di tumultuoso rinnovamento (una legge


francese del 1790 aveva previsto la costituzione di numerosi
ospedali per malati mentali) che per iniziativa di un gruppo di
quaccheri, i quali intendevano offrire un’adeguata assistenza ai
malati mentali delle famiglie appartenenti alla loro setta (una delle
diverse Società degli amici) si progettava (1792) e poi si realizzava
(1796) un «Ritiro» vicino alla città di York, il quale costituì poi un
esempio e un punto di riferimento per quegli istituti che intendevano
offrire ai degenti un ambiente più accogliente, una sistemazione
asilare da cui fosse bandita ogni forma di violenza precostituita, allo
scopo di recuperare il malato se non alla società, almeno ad una
convivenza istituzionale legata ad attività lavorative e sociali.

Il «Ritiro» di York era situato su una collina, in luogo ameno, cintato.


All’interno la vita vi si svolgeva - come riferisce Samuel Tuke, nipote
del fondatore William Tuke, nel suo “Description of the Retreat, an
Institution near York” (1813 ) - con una certa libertà di movimento,
senza restrizioni fisiche: le porte erano aperte, le finestre senza
sbarre o grate, i mezzi di contenzione erano usati molto raramente e
mai in modo continuo. I malati potevano lavorare nei campi e nel
giardino e accudire ad altre attività. Il momento dello svago e della
cerimonia religiosa era salvaguardato in modo particolare. L’autorità
dei gerenti era trasferita dal piano della forza fisica a quello del
rapporto psicologico.
Sono infatti descritti esempi in cui atteggiamenti di ribellione e di
violenza da parte di taluni malati sono stati sedati dalla
contrapposizione di un atteggiamento fermo e sereno da parte degli
assistenti. Singolare è la descrizione di un caso di paziente che
giunge al «Ritiro» avvinto in catene e in uno stato di notevole
eccitazione. Gli assistenti lo liberano, lo invitano a mangiare con
loro, lo accompagnano nella sua stanza, e, introducendolo
nell’ambiente, gli ricordano le regole di convivenza che vigono in
esso, tra cui la norma che non si farà uso di mezzi di coercizione se
egli osserverà un comportamento corretto. Il malato è cioè
considerato come un bambino cui il «buon genitore» ricorda le
regole di convivenza, e la triste necessità della punizione in caso di
trasgressione.

Dal punto di vista etico-religioso l’esperienza del «Ritiro» è


comprensibile come esempio di filantropia che intende salvare
nell’altro uomo, anche se offuscato nelle sue capacità critiche ed
intellettive, l’immagine divina cui si modella. Essenziale appare
essere non tanto un fine «medico» di terapia, quanto una modalità
«umana» di rapporto, basata sulla fiducia nelle possibilità dello
spirito di trionfare sulle «cattive tendenze».

D’altra parte ciò poteva ben collegarsi alla fiducia illuministica nella
ragione, che, su un versante opposto, tendeva a rafforzare tale
scelta (1), saldando singolarmente l’ottimismo filantropico religioso
con quello illuministico.

Dal punto di vista economico il «Ritiro» si fondava sul contributo dei


membri di una delle numerose Società degli amici (Society of
Friends) fiorite in Inghilterra in quell’epoca. L’impresa risultò attiva -
se ne conoscono le entrate annuali - pur proponendosi di venire
incontro alle necessità degli affiliati che non potessero ricorrere ad
altri istituti privati, in caso di malattia mentale. Essa si situava in una
corrente di analoghe imprese, favorite dalla legislazione inglese del
diciottesimo secolo, che tendeva ad incoraggiare l’iniziativa privata in
tema di assistenza.

- Dal riformismo umanitario alla psichiatria: John Conolly.


Proprio negli stessi anni in cui si stava realizzando il «Ritiro» di York,
e cioè nel 1794, nacque, da una famiglia irlandese, John Conolly.

Avviatosi agli studi di medicina, fu subito un fervido sostenitore di


ogni soluzione avanzata in medicina sociale (ad esempio
dell’esigenza della vaccinazione, questione sorta dopo un’epidemia
di vaiolo), fondatore di Dispensari per indigenti, oppositore della
libera professione, in quanto pronto a dedicarsi alle sole attività di
insegnamento e di ricerca. Fu, soprattutto nei primi anni di lavoro, un
uomo che amava prendere posizione sulle diverse questioni che
venivano dibattute a tutti i livelli, dall’opinione pubblica alle cattedre
universitarie. Il suo primo incontro con la psichiatria avvenne nel
1816 quando conobbe William C. Ellis, che aveva fondato un
«Rifugio» per malati di mente, ispirato ai principi del «Ritiro» di York.
Singolarmente, poi, Conolly successe ad Ellis nel manicomio di
Hanwell (1839), la cui conduzione doveva costituire il riferimento
pratico e la verifica scientifica delle idee che Conolly sosteneva. Nel
frattempo (1821) egli aveva anche conosciuto Samuel Tuke.

Dal 1824 al 1828 fu medico ispettore nelle Case per malati mentali di
Warwickshire, e ciò ci permette di collegare questa sua attività al
tormentato periodo immediatamente successivo alla famosa
inchiesta presso il manicomio di York (da non confondere con il
«Ritiro»), nel 1815, che appassionò e divise l’opinione pubblica sul
grande tema delle condizioni di internamento degli alienati. Su di
esse esistono infatti impressionanti documenti, consistenti nelle
relazioni degli ispettori incaricati di riferire sulla vita che vi si
svolgeva. Uno di essi scrive dopo una visita: «Entrai in un andito e
trovai quattro celle, penso di circa otto piedi quadrati, in condizioni di
sporcizia veramente orribile; la paglia appariva pressoché satura di
orina e di escrementi; c’erano alcune brande poste sulla paglia in
una cella, nelle altre solo paglia sparsa… i muri erano imbrattati di
escrementi… salii al piano di sopra e egli [il custode] mi introdusse in
una stanza che lo pregai di misurare e che risultò di tre metri e
sessantacinque per due e quaranta; in questa stanza stavano tredici
donne che avevano passato tutta la notte nelle celle sottostanti». E
ancora: «la seconda volta che visitai la casa, tre pazienti erano
incatenati sullo stesso letto, due erano distesi per il lungo e il terzo
era disteso sugli altri due» (2). Questa situazione costituiva, contro
ogni ottimismo di derivazione illuminista, una tragica sconfitta della
ragione, cui Conolly voleva contribuire a dare una risposta. Nel 1830
(in un momento in cui insegnava all’Università) egli pubblicò un libro
intitolato “The Indications of Insanity”, con un significativo sottotitolo:
«Con suggerimenti per una migliore protezione e cura del malato di
mente». In esso sono contenute delle indicazioni che oggi diremmo
di politica sanitaria, in quanto dirette a precisare - sulla base
dell’esperienza maturata tra l’altro nelle ispezioni ai vari manicomi - i
nuovi criteri di assistenza generale al malato di mente, criteri medici
e sociali insieme. Egli parla di un servizio nazionale di salute
mentale compendiato in quattro punti, che comprende anche la cura
domiciliare consigliata nei casi più lievi, e per evitare i danni derivanti
da una prolungata degenza. C’è in Conolly anche la preoccupazione
di potenziare l’assistenza nella società di fronte alla difficoltà di
migliorare in modo soddisfacente le istituzioni asilari. I punti sono: 1)
la malattia mentale non è di per sé ragione sufficiente per
l’isolamento; 2) ogni malato di mente deve essere assistito dallo
Stato, mentre ogni manicomio deve divenire proprietà statale sotto
controllo centrale; 3) ogni manicomio deve divenire una scuola di
istruzione per studenti in medicina, e un luogo di educazione per
infermieri; 4) ogni manicomio si deve preoccupare del benessere del
malato nella comunità in collaborazione con i medici generici.

Come si vede l’accento è posto prevalentemente sull’assistenza


extra e postospedaliera (come diremmo oggi), e sull’organizzazione
dell’assistenza, più che sulla questione del miglioramento delle
condizioni di vita e di trattamento nelle istituzioni. Conolly non aveva
ancora fatto quella esperienza fondamentale di dirigente ospedaliero
che cominciò, come si è detto, nel 1839, nel manicomio di Hanwell.
In esso egli trovò, nonostante la precedente direzione di Ellis, un
clima di coercizione, con l’impiego di mezzi di contenzione e regole
di restrizione personale, fatto d’altra parte comune anche nei migliori
istituti, in cui la riforma, quando veniva applicata, riguardava
soprattutto l’igiene degli ambienti, la sistemazione dell’arredamento
e la semplice limitazione dei mezzi di contenzione. Conolly prese
posizione in modo radicale. Cominciò infatti a predisporre
l’abolizione totale dei mezzi di restrizione fisica, ma non si limitò a
questo. Le sue proposte investivano anche forme di restrizione di
tipo istituzionale: l’isolamento, la privazione di oggetti, e così via.
Entro quattro mesi dall’inizio del suo impegno ad Hanwell, Conolly
aveva appunto abolito tutte le forme di restrizione personale. La
novità non era costituita tanto dal fatto che pressoché per la prima
volta si era realizzata una tale condizione in un istituto pubblico,
quanto per la lucidità scientifica e la passione con cui egli la
sosteneva. Nasceva, questa sì per la prima volta, la consapevolezza
che il problema era contemporaneamente sociale e scientifico,
economico-politico e «psichiatrico». Nasceva, con Conolly, la
psichiatria istituzionale. Fermezza nel portare avanti l’esperimento e
chiarezza nel cogliere tutte le implicazioni del problema furono le sue
doti migliori.

Scriveva un estimatore nel 1901: «Conolly fu apprezzato per


l’abolizione delle restrizioni; ma non è questo che deve essere
ammirato quanto il suo coraggio e la sua determinazione nell’averla
portata avanti a breve e definita scadenza in un istituto pubblico con
uno staff relativamente piccolo e in cui molti pazienti erano stati resi
intrattabili dall’abuso di restrizioni» (3). L’istituto di Hanwell ospitava
850 malati mentali di ogni tipo e poté ben presto presentarsi come
un luogo di cura, il cui clima era radicalmente mutato:
«l’atteggiamento degli assistenti si modificò da quello di custodi a
quello di infermieri; la violenza divenne eccezionale; pazienti ribelli
trovarono il loro posto ed il loro lavoro nella comunità ospedaliera; la
percentuale dei dimessi sugli entrati aumentò a più che i due terzi»
(Hunter).

Nonostante questi risultati, l’iniziativa non fu accolta con unanime


benevolenza. Sembra anzi opportuno segnalare il significato di
vigorose proteste che accompagnarono e seguirono la realizzazione
dei principi del “non-restraint” totale ad Hanwell. L’opinione pubblica,
se era preparata, in una certa misura, alla diminuzione delle
coercizioni all’interno dei manicomi, non era affatto disposta ad
accogliere un nuovo atteggiamento verso il malato di mente, che
implicasse la caduta della tradizionale paura, delle barriere,
l’assunzione infine di una responsabilità nei confronti della
alienazione. Ciò che era disposta a dare, la società inglese del
diciannovesimo secolo, era una riforma marginale che attutisse il
suo senso di colpa, le angosce scaturite dalla conoscenza della vita
asilare. Conolly sembrava in qualche modo turbare una coscienza
che si stava tranquillizzando; scriveva di temi che implicavano una
precisa responsabilità pubblica, una scelta sociopolitica, nei termini
di una nuova scienza, la psichiatria.

Le polemiche contro Conolly continuarono anche dopo la sua


rinuncia, pare per ragioni di salute, dopo cinque anni di direzione
(1866). Vi fu chi lo accusava di «ciarlataneria» e di «aver sfidato
l’opinione pubblica»; altri si limitavano a sottolineare l’esigenza di
salvaguardare la società ed il personale di assistenza “dal” malato.

Conolly continuò a controbattere questi temi, con raro equilibrio,


dimostrando che proprio il sistema coercitivo portava alle maggiori
violenze e a «nocivi eccitamenti». In ciò fu coadiuvato da suo
genero, Henry Maudsley (al cui nome oggi è intitolato un famoso
ospedale londinese); assieme ad una cerchia di fervidi sostenitori
essi continuarono a battersi per la penetrazione del nuovo metodo
nei diversi istituti inglesi.

Fu, fino al 1852, medico visitatore e consulente presso lo stesso


istituto di Hanwell, e, nel frattempo, preparava e ordinava i suoi scritti
più significativi: “The Construction and Government of Lunatic
Asylums and Hospitals for the Insane” (1847) e “The Treatment of
the Insane without Mechanical Restraints” (1856). In quegli anni si
occupò anche di pazienti subnormali e contribuì a fondare istituti per
idioti. Fino al 1866, anno della morte, fu attivo come presidente di
diverse associazioni mediche.

Abbiamo già visto che l’esperienza del «Ritiro» di York era sorta
sulla base di esigenze umanitarie, con un profondo legame con le
concezioni religiose degli aderenti quaccheri alla Società degli amici.
Essi non erano guidati dalla esigenza puramente scientifica di
portare un contributo alla risoluzione del problema della malattia
mentale e della sua cura, ma erano animati dalla speranza di
trovare, anche nel più disordinato dei malati, la rispondenza
adeguata, motivata dalla fede religiosa, ad un atteggiamento
umanitario e non violento.

Conolly, che già aveva citato Pinel nella sua tesi di laurea “De statu
mentis in insania et melancholia”, riprende dallo psichiatra francese il
criterio scientifico di organizzare l’assistenza asilare come
assistenza medica psichiatrica, allo scopo di raggiungere risultati
terapeutici. Ma, di fronte alla situazione delle istituzioni psichiatriche
dell’epoca, egli si rende conto che ogni intervento scientifico non può
non incidere sulle strutture socioeconomiche e non può, d’altra
parte, non esserne condizionato. Da ciò i suoi interventi pubblici, la
sua concezione generale di un’assistenza psichiatrica che sia
assistenza sociale statale, la richiesta di istituire l’insegnamento
della psichiatria nelle università, e soprattutto, dopo la sua
esperienza ad Hanwell, l’esigenza preliminare di modificare
profondamente il clima asilare, sulla base del rifiuto delle restrizioni
fisiche e, in parte, psicologiche, e sulla base del nuovo metodo
terapeutico che ne deriva, il «moral treatment». Ciò qualifica Conolly
come uomo del suo tempo, legato alle questioni concrete, le cui
proposte potevano apparire utopistiche, ma che - alla luce di ciò che
nel secolo successivo si è realizzato - risultano essere le più
rigorose e le più adeguate. Esse comportavano una profonda
modificazione dell’atteggiamento verso i malati mentali, e la rinuncia
- almeno nelle forme più clamorose-a modalità di separazione e di
esclusione, non giustificabili sia sul piano scientifico che umanitario.
Con questo esempio la scienza si trova collegata alle più
significative e profonde esigenze della cultura e della società.

- Il manicomio e la «psicoterapia istituzionale».

Nel corso della celebrazione del centenario della morte di Conolly,


uno studioso inglese, Richard Hunter, considerava lo psichiatra
irlandese come un precursore della moderna comunità terapeutica.
E lo psichiatra francese Philippe Koechlin, in uno scritto sulla
psicoterapia istituzionale cita le esperienze di Conolly come
particolarmente significative soprattutto perché il sistema “open
door” viene realizzato solo per mezzo di riunioni dei degenti e del
personale (4). Indubbiamente alcuni dei principi teorici così
chiaramente indicati da Conolly possono essere considerati valide
premesse a quella psicoterapia istituzionale che oggi ha contribuito a
trasferire il fuoco dell’attenzione dal farmaco alla situazione
«relazionale» ed al clima istituzionale, e dal medico come unico
agente terapeutico al personale di assistenza. «L’applicazione della
scienza medica - scrive Conolly - in nessuna malattia è limitata alla
somministrazione di farmaci… tanto meno nelle malattie del sistema
nervoso… Per la cura della mente, le occasioni sono continue: e il
materiale esiste nell’organizzazione generale dell’istituto; la
regolazione della dieta, l’esercizio fisico, le ore di riposo, le
occupazioni, i divertimenti, i vestiti e la condotta diventano di larga
applicazione e di estrema importanza. Queste cose, ben
organizzate, diventano medicine generali».

Queste considerazioni tendono a porre il malato al centro di una


coordinata attività, di un «tempo pieno terapeutico, ordinato da un
pensiero medico» come scriverà, oltre un secolo dopo, Tosquelles
(5). E, d’altra parte, sul ruolo del personale in questa impresa
terapeutica: «Il medico che intenda nel giusto senso il sistema del
“non-restraint” sa bene che gli infermieri sono i suoi più essenziali
strumenti… Essi spesso possono essere addirittura considerati le
sue migliori medicine… Egli affida loro, di giorno e di notte, la felicità
di tutti i pazienti che sono sotto la loro speciale attenzione». Se il
recupero di un significato terapeutico globale dell’istituzione deve
passare attraverso una giustificazione prescrittiva, Conolly sembra
aver attraversato questa fase con il minimo di direttività. A questo
proposito vi sono parole di estrema schiettezza, non usuali nella
letteratura psichiatrica del tempo.

«La pura abolizione di fasce di contenzione e di restrizioni fisiche


costituisce solo una parte di ciò che chiamiamo sistema del “non-
restraint”». E aggiunge che legare un malato ha un effetto negativo
sulla assistenza generale, ed è degradante sia per il malato che per
il personale: «quando un paziente è legato, ogni considerazione per
lui viene a cessare».

E, ancora, sul significato psicoterapeutico del lavoro medico: «Il


medico… non deve vergognarsi di riconoscere, per quanto riguarda i
fenomeni mentali… che il suo ufficio va assumendo, di questi tempi,
un carattere tanto più elevato quanto più egli cessa di essere un
mero prescrittore di medicine». Con maggior precisione, con una
singolare anticipazione di soluzioni psicoterapeutiche globali, di
stampo analitico ortodosso: il principio del “non-restraint” «abolisce
la contenzione meccanica ed inoltre… regola ogni parola, sguardo e
azione di tutti coloro che vengono a contatto con il malato di mente».
E’ comprensibile, anche se forse ingenuo, che a ciò si colleghi la
tenace richiesta di un lavoro didattico in profondità per medici ed
infermieri, cui non può affidarsi la realizzazione di un nuovo metodo,
se non attraverso una profonda modificazione del tradizionale
atteggiamento verso il malato mentale. Nei casi migliori lo si
considerava infatti, secondo criteri medici correnti, come un malato
somatico, cui somministrare farmaci o speciali trattamenti fisici
(opinioni che, si deve dire, hanno ancora oggi un corso favorevole).
Conolly tende, anche qui, a trasferire l’interesse terapeutico dal
corpo alla psiche (“mind”), sviluppando un’implicita polemica con la
medicina tradizionale, pessimista ed inerte: «Per quanto nella
maggior parte delle malattie mentali è necessario anzitutto tener
conto delle condizioni somatiche…, tuttavia le loro cause e i loro
sintomi frequentemente dimostrano che i nostri sforzi debbono
essere concentrati sulla psiche (“mind”). Io non esito ad affermare
che un maggior numero di malati mentali sarebbero curati se un
trattamento ‘morale’ (“moral treatment”) fosse meglio compreso e
somministrato a suo tempo».

E’ particolarmente significativo che tutte le affermazioni qui citate


abbiano trovato una precisa verifica nell’esperienza presso il
manicomio di Hanwell, anche se la sua durata fu limitata a cinque
anni. Essa fu sufficiente tuttavia, almeno a quanto si disse poi
intorno a ciò, a dimostrarne l’efficacia pratica: non solo vi fu un
aumento della percentuale delle dimissioni (come già detto) fino a
due terzi di tutti i casi recenti, ma soprattutto una profonda
modificazione del clima asilare.

«Non solo è possibile - scrive nel ‘42, dopo tre anni di lavoro -
dirigere un grosso manicomio senza applicare ai pazienti la
coercizione fisica, ma dopo l’abolizione totale di tale metodo di
controllo, le caratteristiche di un manicomio subiscono un graduale e
benefico cambiamento». E’ proprio questa particolare esperienza
istituzionale che fa mutare, in modo sensibile, il progetto psichiatrico
che Conolly aveva prospettato prima di essa (e particolarmente nel
suo libro del ‘30).

Egli sostiene ora, con maggior forza, che l’intervento terapeutico non
può più trascurare l’impegno di modificare le strutture asilari, sia per
la necessità di favorire la degenza in tutti i casi in cui si rende
necessaria, sia per il valore didattico che l’istituto può assumere nei
confronti della classe medica generale. La scotomizzazione di
questo problema non avrebbe portato che al perpetuarsi di una
arretratezza degli istituti con la conseguenza di non permettere alcun
rinnovamento reale.

- L’esclusione e l’istituzionalizzazione.

Un altro tema che appare con netta evidenza negli scritti di Conolly e
nel suo modo di intendere il problema sociale del malato di mente, è
quello che ancora oggi viene considerato di fondamentale
importanza per la risoluzione delle difficoltà che si frappongono ad
una assistenza e ad un trattamento adeguati, cioè quello della
tendenza alla segregazione e all’esclusione del malato, come
provvedimento puramente difensivo. La convinzione che ogni malato
aveva diritto ad un rapporto interpersonale (come si direbbe oggi) in
cui non rischiasse di perdere la propria identità, era fortemente
collegata alla consapevolezza dei gravi danni derivanti da una vita
asilare coartata ed indegna. I due poli della esclusione da una parte
e della «istituzionalizzazione» dall’altra, si trovano in Conolly con
una certa chiarezza, del tutto insolita in psichiatri contemporanei.
Egli si riferisce spesso al fatto che l’isolamento, la mancanza di
visite, di stimoli adeguati, la stessa separazione dalla vita sociale
costituiscono uno dei maggiori pericoli per la sorte del ricoverato.

Soltanto dalla negazione di questa condizione imposta era possibile


porre le premesse per un processo di riabilitazione, o almeno per
una convivenza asilare più «umana». Il circolo chiuso: «esclusione -
mortificazione asilare - passività e violenza - esclusione» doveva
essere spezzato non perché ciò era richiesto da considerazioni
umanitarie o filantropiche, ma per motivi sociali e scientifici. Mentre
la nuova società industriale cominciava a richiedere mano d’opera in
quantità crescente, Conolly si faceva portavoce di esigenze
parzialmente contraddittorie. La liberazione totale dei degenti ed il
sorgere di una psicoterapia istituzionale globale si ponevano sia
come esigenze rigorosamente scientifiche ed internamente coerenti,
che come motivi di frattura e di dissenso. La lotta contro la violenza
istituzionalizzata e contro la esclusione trovarono occasioni che a noi
appaiono oggi paradossali.

In uno scritto della maturità egli si riferisce infatti alla tendenza alla
esclusione di malati di mente appartenenti a famiglie facoltose. Essi
venivano spesso segregati in case o ville isolate, di proprietà della
famiglia, con uno o più assistenti, quasi sempre non esperti. La vita
che vi trascorrevano era di disperata solitudine e non raramente di
degradazione. La visita del medico era considerata come
un’intrusione, mentre ogni tentativo di recupero, in tali condizioni,
risultava vano. Conolly cerca di confrontare, con accenti che
suonano oggi involontariamente ironici, l’assistenza psichiatrica
pubblica con queste pseudosoluzioni per malati abbienti,
valorizzando la prima, e formulando un atto di accusa verso la
dinamica della segregazione che ne veniva confermata. Anche da
questi esempi emergeva cioè la necessità di un servizio pubblico
che svolgesse i compiti di un’assistenza adeguata per tutti, capace
di rompere il circolo vizioso che deriva sia dalla esclusione del
malato dalla società che dalla sua mortificazione istituzionale.
Conolly e tutti coloro che ne condividevano le opinioni, si rendevano
conto che non ci si poteva limitare ad uno solo di questi poli di
intervento, che non si poteva cioè agire solo nell’istituzione (perché
questo non avrebbe eluso la tendenza alla segregazione) o solo
nella società (perché troppi fattori, tra cui proprio l’arretratezza degli
istituti, perpetuavano tale tendenza).

Si trova qui una interessante sovrapposizione di preoccupazioni di


derivazione scientifica e di esigenze pratico-sociali che
caratterizzerà poi, con alterna fortuna, il dibattito successivo in Gran
Bretagna, fino alla sanzione legislativa del 195 9.

Tuttavia, in Conolly, anche l’approfondimento puramente medico,


psichiatrico, delle questioni relative all’istituzione ed ai suoi
inconvenienti, fu particolarmente rilevante. In uno scritto egli ricorda
in modo molto esplicito: «Il ricorso a strumenti di coercizione
meccanica era già in contrasto rispetto a ogni giudizio medico sulle
varie forme di malattia mentale, e sulle loro cause, e lo è diventato
tanto più in considerazione dei numerosi mezzi ausiliari di tipo
‘morale’ cui si è ampiamente fatto ricorso nel momento in cui gli
antichi metodi di controllo hanno cessato di essere utilizzati… Mi
sembra che soltanto allora può iniziare la corretta analisi della
malattia mentale; l’abolizione delle coercizioni, e di tutti i metodi di
controllo violenti ed irritanti per la prima volta ora permettono allo
studioso di osservare i disturbi della psiche nella loro semplicità, e
non più alterati da trattamenti esasperanti. I pazienti possono allora
presentarsi alla loro osservazione come soggetti di studio e di
ripensamento». Tutta la tematica sugli «artefatti manicomiali» e sulla
«istituzionalizzazione» viene apertamente affrontata, forse per la
prima volta. La questione ne riceve particolare dignità scientifica,
mentre viene nuovamente ricordata l’importanza dell’atteggiamento
del personale nella determinazione del comportamento dei pazienti.
Questi temi particolari, all’interno della più generale questione che si
è esaminata, conservano riferimenti piuttosto importanti ancora oggi.
Ogni volta che si prende coscienza, nelle varie sedi di discussione,
del fallimento della psichiatria istituzionale, ci si confronta
nuovamente con questi nodi, che possono essere sciolti con il
rovesciamento dell’atteggiamento tradizionale, con la negazione
della violenza, la negazione dell’esclusione, la negazione del clima
istituzionale dell’asilo.
A questo punto è evidente che dalla negazione dello stato di cose
esistente, dal rovesciamento pratico della situazione può emergere
un modo nuovo di organizzare la violenza, un esercizio del potere
sul malato che, escluse le forme più evidenti e brutali di oppressione,
tuttavia contribuisca nuovamente ad annientarne la personalità (6).
Ma, nel riprendere la domanda che ci eravamo posti all’inizio, nel
domandarci cioè quale sia stata l’importanza del lavoro di Conolly,
crediamo di poter ritenere che le proposte da lui fatte e, in minor
misura, le sue realizzazioni, possano intendersi libere dal pericolo di
tali degenerazioni. Infatti vi sono nello psichiatra irlandese almeno
due esigenze fondamentali che vanno nuovamente sottolineate.
Anzitutto l’esigenza di un controllo collettivo di ciò che avviene negli
istituti, controllo scientifico principalmente, in ciò anticipando quasi
certe moderne proposte scientiste, di stampo analitico classico.
Inoltre l’esigenza della creazione di un servizio psichiatrico sociale
pubblico, aperto all’esterno, attivo nei vari settori dell’assistenza. La
prima esigenza tenderebbe se mai a trasferire l’atteggiamento
paternalistico-autoritario nella direzione di un efficiente «potere»
psicoterapeutico, la cui «efficienza» troverebbe però un limite nelle
contraddizioni pratico-sociali (come ad esempio è avvenuto negli
Usa) (7), mentre la seconda non altererebbe, adeguandovisi, quel
tipo di paternalismo che anche la società «sana» tollera o
incoraggia. In ogni caso, ad un secolo di distanza, il lavoro di Conolly
si pone in una cornice di estrema chiarezza (nelle sue implicazioni
contraddittorie, di rovesciamento «negativo» e di ottimismo
progressista), almeno per coloro che intendono sia importante
sottoporre a verifica, senza dare nulla per scontato, sia l’assetto
strutturale delle varie istanze di assistenza psichiatrica, sia le
modalità psicosociali di approccio al malato.

Se oggi noi abbiamo a che fare con vecchie e nuove forme di


violenza, con una realtà oppressiva ancora una volta frutto del
fallimento istituzionale e delle contraddizioni sociali, possiamo ben
ricordare l’impegno di Conolly nel rovesciare sulla società, sugli
assistenti, sui «sani» la responsabilità di questo fallimento e di
queste contraddizioni.
La dinamica dell’esclusione, la tendenza a scaricare su taluni
membri deboli le tensioni irrisolte, non possono più trovare
giustificazione. In questo senso ci sembra giusto ricordare che se
Conolly fu da qualche contemporaneo tacciato di «fervore
iconoclasta», la risposta più significativa oggi è quella che noi stessi,
prendendo posizione di fronte alla realtà, siamo disposti a dare.

Nota.

Nello scritto facciamo numerose citazioni da scritti di Conolly. Per


coloro che volessero meglio documentarsi direttamente rimandiamo
ai volumi:

1) “An Inquiry Concerning the Indications of Insanity, with


Suggestions for the Better Protection and Care of the Insane”,
London 1830.

2) “Four Lectures on the Study and Practice of Medicine”, London


1832.

3) “On the Construction and Government of Lunatic Asylums and


Hospitals for the Insane”, London 1847.

4) “The Treatment of the Insane without Mechanical Restraints”,


London 1856.

Si vedano anche gli scritti apparsi sulle seguenti riviste:

1) «Lond. Med. Rep. Rev.» n. s. 4, 1827 1-24.

2) «J. Ment. Sci», 5, 1859 411-20.

3) «Med. Times Gaz.», 1, 1860 6.

La celebrazione del centenario della morte di Conolly è riportata


estesamente con diversi contributi (di R. Hunter, D. Bennett E. S.
Stern, A. Walk), in «Proceedings of the Royal Society of Medicine»,
vol. 60, I, 1967, p.p. 85-91.
Infine particolari valutazioni sulla sua opera sono contenute nelle
seguenti pubblicazioni:

1) J. CLARK, “A Memoir of John Conolly”, London 1869.

2) R. HUNTER e I. MALCAPINE, “Biographical Introduction to


Reprint of John Conolly’s «An Inquiry Concerning the Indications of
Insanity»” (1830), London 1964.
STORIA E POLITICA IN PSICHIATRIA:
ALCUNE PROPOSTE DI STUDIO
di Giovanni Jervis e Lucio Schittar.

La lotta per il rinnovamento delle istituzioni psichiatriche rischia forse


di essere combattuta su trincee vecchie di cento anni?

Non è questo il nostro parere, ma il dubbio è pienamente legittimo.


Non si può non rimanere colpiti dal fatto che alcune delle più tipiche
proposte della nuova psichiatria istituzionale vennero formulate, in
termini molto simili, prima della metà del secolo scorso.

Si parla oggi di reparti e di ospedali aperti, di abolizione delle


restrizioni fisiche e di qualsiasi forma, anche larvata, di punitività
verso i malati di mente; si parla di un sistema ospedaliero
psichiatrico basato sulla massima libertà per i degenti, sul massimo
rapporto con la società esterna, sulla fiducia nell’autodisciplina di
gruppo, sull’abolizione di ogni atteggiamento coattivo e autoritario; si
parla di superamento della psichiatria manicomiale e di
potenziamento della terapia extramurale: ma poi si scopre con un
misto di divertimento e di frustrazione che tutte queste cose e questi
principi erano stati previsti lucidamente, e anche messi in pratica con
realismo, da Conolly prima del 1850 (1).

Già prima dell’epoca illuministica, secondo Schmitz (2) erano


esistiti centri psichiatrici basati sulla libertà di movimento, sui giochi e
sul lavoro: così nella Spagna del Quattrocento sotto la dominazione
araba. Ma la vera riforma del trattamento asilare nasce come è noto
alla fine del Settecento, con Vincenzo Chiarugi e Pinel, e in seguito,
nell’Ottocento, con i Tuke e soprattutto con Conolly. Più in qua,
prima dell’inizio del Novecento altre testimonianze ci dimostrano che
un modo «nuovo» di concepire l’assistenza psichiatrica continua a
polemizzare attraverso l’Europa (in Russia, Korsakov fu fortemente
influenzato da Conolly) contro una maggioranza di psichiatri,
amministratori e politici autoritari e tradizionalisti. Ci accorgiamo oggi
che la comunità terapeutica di Maxwell Jones e degli psichiatri
britannici, così come la «psicoterapia istituzionale» di derivazione
psicoanalitica dei moderni psichiatri francesi, hanno una storia lunga
e complessa.

Molte cose restano da capire. Qual è la vera storia della psichiatria


asilare? Confessiamo la nostra ignoranza. Una ricerca nelle
biblioteche e nelle riviste mediche europee, dalla metà del secolo
scorso a oggi, potrebbe senza dubbio fornirci una risposta: e
sarebbe una risposta affascinante. Al momento attuale, possiamo
partire dalla constatazione che in centocinquanta e più anni la
psichiatria asilare sembra aver fatto poca strada. Possiamo
esprimere alcune ipotesi, ma dobbiamo in primo luogo riaffermare
l’importanza del problema. Ci rendiamo conto oggi che oltre alla
psichiatria accademica, ufficiale, e al di là delle sue illusioni e dei
suoi fallimenti, al di fuori della sua ostinazione tassonomica e degli
sforzi interpretativi, esiste un’altra psichiatria, che non esitiamo a
considerare più importante, costituita dalla storia “reale” dei rapporti
fra gli psichiatri e i malati di mente. Questa psichiatria prende in
esame le forme in cui i ruoli impliciti in questi rapporti si costituiscono
in sistemi sociali (istituzionali) e si rivolge quindi in primo luogo alle
organizzazioni che oggi come un secolo fa, raccolgono la
maggioranza di coloro che, etichettati come folli, vengono
sequestrati dal commercio sociale ordinario e “gestiti” in reclusori
specializzati. Il fatto che da dieci anni a questa parte si torni a
parlare in tutto il mondo del problema psichiatrico istituzionale non
può essere considerato casuale, e non può che riflettere, almeno in
parte, la situazione in cui si trova oggi la teoria terapeutica delle
malattie mentali.

Non si tratta qui, beninteso, di rivalutare una storia sociologica della


psichiatria: si tratta di stabilire quali sono i rapporti, e quali le
contraddizioni, che intercorrono fra la “teoria” psichiatrica clinica e la
“pratica” psichiatrica dentro e fuori le organizzazioni specializzate.
Non si ha in tal modo null’altro se non la psichiatria “reale”, in una
prospettiva che non può non essere storica.

La prima tentazione che compare a questo punto è semplice e


cattivante: negare che la psichiatria abbia una storia. Si tratta di una
tentazione non superficiale, e il pericolo è maggiore di quanto possa
sembrare a prima vista.

In una simile prospettiva non si contesta il progresso, né l’evolversi


delle idee e dei costumi: semplicemente, li si riduce a una
successiva stratificazione archeologica di situazioni teorico-
organizzative. In altre parole, e in termini più concreti, la tentazione
consiste nel rispondere al quesito «come mai la psichiatria asilare ha
fatto così poca strada?» dicendo in primo luogo: «i problemi sono
sempre gli stessi». Ma su questa prima risposta, più o meno
esplicita, si costruisce tutta una architettura antistorica per cui ogni
modificazione del problema asilare nel tempo viene isolata ed
esaminata come problema “strutturale”. Da un lato si viene così ad
affermare che i problemi dei manicomi, e della riforma dei medesimi,
sono riconducibili a una lotta che ha qualcosa di perenne (e che
sempre viene riportata a zero) fra tendenze psicologiche e
sociologiche contrastanti, fra esigenze tecniche retrive e esigenze
avanzate, fra successive antitesi di autoritarismi reazionari e di
rivolte liberatrici. Da un altro lato, questa stessa concezione
strutturalista afferma implicitamente che non esiste un rapporto reale
fra la problematica «senza storia» del rinnovamento istituzionale
(sempre tentato e mai diffusamente accettato) e la problematica
storia del modificarsi delle concezioni morali, sociali, politiche del
mondo esterno ai manicomi.

Di fronte a questa concezione non possiamo che rispondere: Conolly


e Maxwell Jones a un secolo di distanza uno dall’altro non ci dicono
le stesse cose, anche quando usano linguaggi simili, perché le loro
parole hanno un diverso significato, oggi, per i compiti psichiatrici
che concretamente ci troviamo dinanzi. Le coincidenze di linguaggio
di alcuni testi remoti debbono rimandarci da un lato a uno studio del
significato di quei testi in quella società, e quindi al successivo
evolversi del loro significato nel corso dei decenni; da un altro lato
debbono invitarci a riformulare oggi una serie di proposte “nuove”
che, tenendo conto delle proposte di ieri, siano veramente congrue
agli strumenti che la nostra epoca ci offre.

Le idee di rinnovamento formulate nel secolo scorso non ci


insegnerebbero nulla se venissero semplicemente riscoperte come
soluzioni tecniche perennemente utili; ciò che dobbiamo fare, al
contrario, è indagare se da quelle testimonianze di ieri non sia
possibile oggi sviluppare un discorso critico utile in un contesto
diverso.

E’ necessario qui riferirci ad un esempio concreto. Esso mette in


luce il carattere di “pseudonovità” di alcune proposte recenti sulla
riforma degli ospedali psichiatrici; allo stesso tempo, distanziando
queste proposte in una prospettiva storica, fornisce l’occasione per
alcune osservazioni sui pericoli di uno “pseudo-rivoluzionarismo”
manicomiale.

La prima testimonianza alla quale vogliamo riferirci è quella di uno


psichiatra asilare francese della fine dell’Ottocento, E. Marandon de
Montyel, che difende il sistema conollyano dell’«open door» e del
«no restraint» (3).

L’inizio della polemica è duplice: da un lato l’autore lamenta che non


si mettano in opera in Francia i principi istituzionali «nuovi» che già
vigono in altri paesi europei; da un altro lato polemizza con alcune
delle vedute che venivano allora considerate fra le più avanzate.

Attaccando un collega per la limitatezza dei suoi principi riformatori,


egli scrive:

“[il relatore] ci dice solamente che l’asilo moderno deve divenire


sereno, e impiegare i malati, nella misura del possibile, ai lavori
agricoli” (p. 391).
Questo punto di attacco critico non è casuale. Possiamo subito
osservare, a questo proposito, che la pretesa di riabilitare i malati
mettendoli puramente e semplicemente a lavorare nei campi (così
come il falso problema dell’abbellimento dell’ospedale come
modalità di riforma) ha sempre servito, almeno da cento anni a
questa parte, sia a mascherare lo sfruttamento dei pazienti
«tranquilli» in una attività sul cui valore terapeutico si possono
sollevare nella maggior parte dei casi seri dubbi, sia anche a
costituire una falsa soluzione da esibire come vanto di modernità
della istituzione.

La critica di Marandon de Montyel è, a questo proposito, diretta e


precisa e precorre i moderni studi sul malato di mente ospedalizzato:

“Il primo punto da stabilire è che i nostri asili attuali con i loro muri di
prigione o di chiostro, con le loro disposizioni regolari e simmetriche
sono, per un numero assai grande di alienati, delle fabbriche di
incurabili; noi stessi, a causa dell’isolamento che imponiamo ai
malati, per la vita di reclusi alla quale li condanniamo, per la
disciplina severa che imponiamo loro, siamo, in un grande numero di
casi, inconsciamente e con le migliori intenzioni del mondo, dei
fabbricanti di cronici” (p. 391).

La storia della psichiatria asilare, vista nel 1896, merita una citazione
più lunga per la precisione con cui fin da allora viene identificato il
principio dell’isolamento del paziente dalla società esterna come
fatto costitutivo della mortificazione manicomiale:

“Dall’epoca della riforma di Pinel, due principi hanno presieduto alla


costruzione degli asili per alienati. Il primo, è che questi erano malati,
e che pertanto gli stabilimenti destinati a riceverli dovevano essere
ospedali; il secondo, è che essi erano malati di un tipo particolare,
per i quali era necessario associare l’isolamento
all’ospedalizzazione, essendo essi pericolosi, e anche in base
all’idea che solo la separazione dal resto del mondo potesse guarirli.
Si costruirono dunque edifici ben chiusi, dotati di alte mura,
indubbiamente confortevoli e igienici, ma senza vista sull’esterno,
veri chiostri ai quali non doveva neppure pervenire alcun rumore, al
fine di preservare il cervello ammalato da qualsiasi emozione, così
come un arto fratturato viene protetto da qualsiasi scossa.
L’orizzonte dell’isolato fu limitato alla vista da mura: là, in quello
spazio ristretto, separato dai suoi e dagli amici, lontano dal mondo
doveva tornargli la ragione.

Ben presto ci si rese conto che un simile sistema era letale per lo
spirito. In quell’isolamento completo, il malato abbandonato
intieramente a se stesso, senza alcuna distrazione, ruminava il suo
delirio che, anziché attenuarsi andava fortificandosi. Si capì subito
che era necessario farlo uscire il più spesso possibile da quei
quartieri murati rendendolo occupato, soprattutto all’aria aperta,
impegnandolo in lavori fisici tali da assorbire tutte le forze vive
dell’organismo, in modo tale che stancandosi il corpo il cervello
potesse riposarsi. Non si rinunziò tuttavia all’isolamento. Così, se
agli asili furono annessi terreni coltivati e laboratori (ateliers), non si
sacrificò per questo né una pietra dei muri esterni, né dei muri
interni; i terreni coltivati furono cintati come gli ambienti di lavoro e,
rientrato dal lavoro, l’alienato si ritrovò nei vecchi quartieri mutati […]
Abbiamo finito per convincerci dei benefici del lavoro negli ateliers e
soprattutto nei campi, delle abitazioni gaie con veduta sulla
campagna, e persino delle distrazioni accordate ai malati; ma non
siamo ancora riusciti a sbarazzarci di questa falsa idea, secondo la
quale l’alienato per guarire deve vivere a parte, di una vita diversa
da quella di tutti” (p.p. 393-94).

Si può osservare a questo proposito che forse l’autore non poteva


rendersi conto, a quell’epoca, del fatto che le attività di lavoro e la
gaiezza dei luoghi perdevano completamente di significato
nell’ambito di un mondo autoritario e impermeabile agli scambi con
l’esterno.

Le proposte di riforma sono chiare:

“Così il nuovo metodo di ospedalizzazione degli alienati, quello che


saremmo ben felici di vedere applicato anche da noi, parte, per la
costruzione degli asili, da principi diametralmente opposti. Il primo di
tali principi è l’abolizione della sequestrazione del malato; il nuovo
metodo rende all’alienato tutta la sua libertà; nulla, nell’ambiente in
cui si trova, gli ricorda che egli è un essere anormale, separato
momentaneamente dal resto della società. In apparenza, egli è
completamente libero. Di conseguenza, dove egli abita, tutti i muri
sono soppressi, non vi sono barriere né all’esterno né all’interno. Ma
ciò non basta: bisogna anche che possa entrare e uscire a volontà,
così che all’abolizione delle muraglie si accompagna quella delle
serrature; è l’asilo dalle porte e dalle finestre aperte, è l‘“open door”.
Si può convenire che un simile tipo di edificio differisce un poco da
quelli che costruiamo con grandi spese, e dei quali si è potuto dire
giustamente che il funzionario più importante era il portinaio.

Questo alienato che si crede libero, che va e viene, che entra e esce
a volontà, che non scorge alcun vero limite alla propria libertà, è egli
veramente libero? Può liberamente commettere il male? Per nulla
affatto, poiché in ogni istante, senza che lo sappia, egli è oggetto di
una sorveglianza occulta, in cui i suoi più piccoli atti e le sue parole
sono visti e ascoltati: muraglie e serrature sono state soppresse, ma
sono state sostituite da un personale che veglia giorno e notte.
Come in tutte le agglomerazioni umane preoccupate della propria
sicurezza e tranquillità, vi sono poliziotti diurni e poliziotti notturni.
Tutta la sua vita di malato ne viene affiancata, a volte senza che egli
ne possa fare a meno; in Francia soprattutto, egli troverebbe strana
l’assenza di questa tutela. La presenza di tali guardiani, anziché
infastidirlo, gli pare naturale e lo rassicura.

In queste condizioni di assoluta libertà, sarebbe un errore ritenere


che le evasioni siano troppo frequenti. Ciò può sembrare
paradossale, ma esse sono forse meno frequenti con questo
sistema che negli asili chiusi dove le muraglie sono abbastanza alte
da determinare l’impressione della cattività, ma non abbastanza alte
da impedire la loro scalata. Là, tutto invita l’alienato a fuggire, mentre
negli istituti che noi preconizziamo egli non deve sospirare una
libertà che già possiede. Del resto ho potuto acquistare una certa
esperienza negli otto anni in cui ho lasciato ai miei malati la massima
libertà di movimento; e ho potuto convincermi che il miglior sistema
di impedire le evasioni era di spalancare le porte” (p.p. 396-97).
Ci si rende conto facilmente oggi che al di là della modernità di
intenti dell’autore vi è nelle sue intenzioni qualcosa che stride. Egli
non desidera rendere il paziente più libero se non «in apparenza».
Nella misura in cui lo rende libero, lo inganna costruendogli intorno
una comunità falsamente non-ospedaliera, in cui possa (per
sempre?) sentirsi come a casa propria. Tutto l’accento viene posto
sul momento soggettivo, per cui indipendentemente dalla realtà
istituzionale, e anzi a dispetto di essa, il paziente si “crede” libero. La
sorveglianza occulta a cui il malato viene sottoposto ribadisce in
forma totalmente mistificata, più sottile ma ancora più ferrea ed
efficace, la sua totale, segreta subordinazione all’istituzione. Questa
subordinazione può giungere ad essere ancor meno violenta, e
basarsi su fattori di ordine psicologico, ma la realtà non cambia:

“Affermo che non solo la più estrema libertà è compatibile con il


buon ordine e con la disciplina, ma, ciò che è meglio, che essa
assicura in modo più vantaggioso l’uno e l’altra. I malati, difatti, sono
allo stesso tempo riconoscenti del bene che si cerca di fare per loro,
e fieri di godere di una simile fiducia; essi si fanno un punto d’onore
nel mostrarsene degni al punto che i soggetti ribelli e insubordinati in
ambiente chiuso divengono obbedienti e lavoratori non appena si
aprano le porte” (p. 410).

Su questo importante problema ci sentiamo di affermare che dal


1896 a oggi settant’anni di psichiatria non debbono essere passati
invano. Un discorso di riforma ospedaliera che riprendesse gli stessi
argomenti di Marandon de Montyel non dovrebbe essere accettato
oggi, in quanto arretrato, contraddittorio, non sufficientemente
coraggioso, e incompleto. L’autore non libera i malati: li addomestica
con astuzia; toglie loro i legami più brutali e controproducenti ma li
consegna a un ordinato regime di polizia. Esiste in questo passaggio
un indubbio movimento di liberazione “reale” (le porte aperte,
eccetera) che fa parlare all’autore di «condizione di assoluta libertà»,
ma vi è anche, subito dopo, un contraddittorio movimento coercitivo
apertamente teorizzato. Nell’«open door» è nascosta una
considerazione psichiatrica di grande portata (i malati, non legati,
trattati con rispetto, sono più calmi e non fuggono) ma l’autore
nasconde completamente a se stesso e al lettore il fatto che la
liberalizzazione dell’ospedale restituisce ai pazienti (malgrado la
presenza della «polizia» di cui egli parla) una dimensione «più
umana» di cui è giustificato in qualche modo andare fieri,
“moralmente”, al di fuori di qualsiasi considerazione psichiatrica. La
spinta moralistica dell’autore è sicuramente importante, ma viene
taciuta, forse perché insicura per il proprio carattere impreciso,
soggettivistico e forse anche velleitario.

Queste contraddizioni possono essere chiarite oggi mediante


strumenti critici che ci permettano di renderci conto in quale misura il
malato può essere reso “veramente” libero, e non “apparentemente”
libero in una comunità poliziesca «umanizzata».

A nostro avviso, tuttavia, il problema non è pienamente risolto


neppure oggi. Constatiamo che alcuni fra i più grandi riformatori
moderni degli ospedali psichiatrici conservano l’esistenza di uno
squilibrio fra la libertà soggettiva (l’illusorio «sentirsi libero» del
paziente) e la presenza di un autoritarismo più o meno larvato.
Questo autoritarismo assume l’aspetto del paternalismo illuminato
ed esercita sul paziente una autorità che nel “migliore” dei casi viene
ammessa e riconosciuta come tale (la «latent authority» di Maxwell
Jones) e nel “peggiore” dei casi si attua occultamente mediante
meccanismi psicodinamici di tipo transferale e di «culto della
personalità» facilmente mascherabili.

Secondo il nostro parere per risolvere questa contraddizione


saranno necessarie alcune condizioni. In primo luogo che si
riconoscano, e si esaminino francamente, le componenti
moralistiche e «umanitarie» di ogni riformismo psichiatrico,
collegandole alle esigenze democratiche e civili dell’ambiente
sociale, e studiando in qual modo gli psichiatri riformatori possano
essere, consciamente o inconsciamente, i “portatori” di proteste
religiose, moralistiche e politiche presenti nell’ambiente nel quale
vivono. In secondo luogo, che si teorizzi in modo sistematico la
possibilità di fondare una psichiatria che tenda a “liberare” il malato
di mente (precisando quindi in sede psichiatrica e sociopsichiatrica il
significato di questo termine). In terzo luogo, che si riconosca la
preminenza del momento “obiettivo” (cioè della possibilità di una
prospettiva di libertà reale) sul momento “soggettivo” (libertà
«sentita» come libertà psicologica, in realtà sempre mistificata nella
misura in cui non corrisponde alle scelte possibili in una società
coercitiva).

Si può osservare a questo proposito che nella società borghese


esiste una ideologia della libertà, per cui le strutture storiche del
potere vengono sistematicamente mascherate da un richiamo
all’esame della psicologia individuale. La società viene spacciata per
un tutto quantificabile, costituito da una serialità intercambiabile di
individui la cui eventuale non-integrazione nel sistema appare
sempre «curabile» con le armi della psicologia e della psichiatria. Di
fronte alla concezione secondo la quale i conflitti reali non esistono,
mentre esistono solo conflitti psicologici, noi siamo del parere che
sia necessario pronunziare un discorso opposto: i conflitti psicologici
(psichiatrici) possono venir capiti nel loro vero significato solo se visti
nell’ambito di conflitti (politici) reali. Il mascheramento del problema
(reale) del potere e della libertà dietro al problema della libertà
psicologica individuale è tanto più grave quando si passi a
esaminare, invece che la società dei «sani» nel mondo esterno, la
società dei malati di mente nel mondo manicomiale. In questo
universo istituzionale, infatti, non solo esiste “già” una tendenza a
risolvere ogni problema sul piano psicologico e psichiatrico, ma
esiste anche una impossibilità a prospettarsi lotte sociali e
prospettive politiche che, sovvertendo l’ordine costituito, prefigurino
una libertà futura “reale”. D’altro lato, come si vedrà in seguito, il
«confronto con la realtà» che costituisce il cardine della moderna
terapia comunitaria, tende appunto a dare ai malati la possibilità di
scavalcare il mondo fittizio della libertà-illibertà psicologica del quale
sono soggettivamente prigionieri, per giungere ad un esame della
situazione reale della quale sono obiettivamente prigionieri: l’esame
delle libertà e delle illibertà “reali” e la possibilità di una
contestazione della struttura di potere costituisce in tal modo uno
strumento terapeutico.
I limiti storici del discorso di Marandon de Montyel si rivelano, in
base a quanto abbiamo detto, anche in un altro passo:

“Tuttavia, riconosco volentieri che questo sistema di libertà integrale,


dell’asilo con porte e finestre aperte (l’«open door») non è
applicabile a tutti gli alienati senza eccezioni. Esistono fra loro
individui molto pericolosi, che non potremmo lasciare circolare senza
pericolo per la sicurezza altrui; ve ne sono anche di agitati che, liberi
nei loro movimenti, darebbero fastidio agli altri e disturberebbero la
loro tranquillità. Costoro, necessariamente, debbono essere
mantenuti rinchiusi nei loro reparti. Ma costituiscono la minoranza:
non ve ne sono in questa situazione più del 30%, essendo capaci gli
altri, sotto la sorveglianza occulta di cui abbiamo parlato, di godere
della loro libertà […] Ma anche per il 30% di malati pericolosi o
agitati, il nuovo metodo respinge ogni disposizione che richiami
troppo da vicino la prigione: così, anche nei reparti chiusi, non vi
sono né inferriate né muraglioni” (p.p. 398-99).

Parole sante? Si può eccepire. Anche oggi, in un ospedale


psichiatrico «aperto» retto col sistema della comunità terapeutica,
come il nostro di Gorizia, esiste una minoranza di pazienti che
vengono trattenuti in due reparti chiusi (maschile e femminile): si
tratta di senili, di gravissimi oligofrenici, di alcuni psicotici. I motivi di
questo «residuo manicomiale» sono comprensibili: aprire le porte a
tutti non è concepibile oggi, per “qualsiasi” tipo di paziente, come un
provvedimento terapeutico fine a se stesso, ma implica una
riorganizzazione complessa, ben servita dal personale
infermieristico, impostata sulla base di attività di gruppo. Un
programma di tal genere, attuabile e auspicabile, può rimanere di
difficile realizzazione per un certo numero di anni, a causa di
contingenze essenzialmente pratiche. Si tratta di un insuccesso,
però, né valgono a mitigarlo infinite altre scuse e considerazioni,
come ad esempio il pensiero che oggi, a differenza che ai tempi di
Marandon de Montyel, gli psicofarmaci, la psicoterapia, le attività di
gruppo e la socioterapia comunitaria permettono comunque di
dimettere o di tenere fuori dai reparti chiusi alcuni soggetti (forse non
molti) che settant’anni or sono vi sarebbero stati irrimediabilmente
confinati. Eppure è risultato a tutti ben chiaro, nel corso della nostra
attività presso l’ospedale di Gorizia, che finché in un ospedale
rimarrà un solo reparto «chiuso» si ricreeranno sempre, nel
personale curante come nei pazienti, vecchi atteggiamenti
manicomiali di discriminazione o di minaccia, distinzioni fra buoni e
cattivi, fra recuperabili e irrecuperabili, fra quelli «veramente matti,
che non capiscono» (confinati adesso non nell’ospedale nel suo
insieme, ma nei reparti chiusi) e i «migliori», privilegiati per una
moderna organizzazione istituzionale. La stessa implicita minaccia di
«andare al reparto chiuso» benché formalmente bandita e di fatto da
tempo esclusa in seguito al provvedimento da noi adottato di far solo
uscire i pazienti da quei reparti, ma non farci entrare più nessuno,
continua ad agire come una riproduzione fedele, all’interno della
comunità ospedaliera, della discriminazione esterna fra sani e
«poveri folli».

A questo proposito si può forse sostenere l’ipotesi che lo psichiatra


francese non si rendesse neppure pienamente conto del carattere di
rottura dell’«open door», cioè del suo carattere di necessaria
“apertura” verso altre e più avanzate forme di terapia (la comunità
terapeutica, la psicoterapia istituzionale), così come del suo
carattere di chiusura, di rottura nei confronti delle vecchie (già
vecchie a quell’epoca!) concezioni ergoterapiche e ricreative:

“Si solleveranno contro l’emancipazione del malato le stesse


vigorose resistenze che furono organizzate ai suoi tempi contro Pinel
quando volle togliere le catene, e contro Ferrus e Parchappe,
quando vollero mettere strumenti di lavoro fra le mani dei malati […]
Importa prevedere le grida di protesta e le opposizioni, per non
lasciarsene smuovere né scoraggiare. Con prudenza e
perseveranza, giungeremo a liberare l’alienato dal suo ospedale-
prigione così come i nostri padri sono giunti a liberarlo dai suoi ferri e
a trasformarlo in lavoratore” (p 401).

Più in là, tuttavia, l’autore sembra comprendere il carattere


necessariamente globale della riforma manicomiale:
“Il metodo, nel suo insieme, forma un “blocco”: esso va accettato o
respinto. In un asilo chiuso e costruito secondo il sistema antico,
dove, per timore di incidenti, il medico non organizzerà il lavoro sulle
basi più larghe…, dove i parenti non avranno la possibilità di
mangiare con i loro malati e di portarli fuori; dove gli alienati saranno
costretti a scrivere a ore e a giorni fissi su una quantità di carta
misurata con cura; dove non vi saranno né congedi provvisori né
dimissioni prolungate; dove saranno ancora in auge le punizioni
sotto le varie forme di docce orizzontali e verticali, i bagni prolungati
da quattro a sei ore e gli isolamenti in cella; dove regnerà una
disciplina inflessibile; in tali asili anche le visite a volontà dei parenti
ai loro malati sarebbero una contraddizione” (p. 407).

Non si può fare a meno di pensare che l’ottimismo di Marandon de


Montyel sarebbe stato fortemente scosso se egli avesse potuto
sospettare che settanta anni più tardi, in più di un paese «civile», la
situazione organizzativa di molti manicomi sarebbe stata così
arretrata da giustificare critiche ancora più incisive e severe. In realtà
il nostro autore francese è un moderato: egli non si sofferma né sulle
camicie di forza, né sulle forme di vera e propria tortura a cui allora,
come in anni recentissimi, i malati erano sottoposti. Non prende in
esame il fatto che i mezzi di contenzione si trasformano per lo più,
senza soluzione di continuità, in strumenti esclusivamente punitivi, o
di sadismo istituzionalizzato: sembra quasi che egli senta un certo
grado di solidarietà di categoria, o forse di timore, nel criticare gli
aspetti più inumani dei manicomi tradizionali. Eppure lo stretto
rapporto a cui si accennava più sopra fra riformismo psichiatrico e
indignazione morale rispecchia uno stato di fatto ben preciso: lo
stretto rapporto, cioè, fra la coercizione dei malati di mente e la
messa in opera di meccanismi sadici nei loro confronti. Dalla camicia
di forza alla “maschera” di cui si faceva uso fino a pochissimi anni or
sono in un ospedale psichiatrico dell’Europa «civile» il passaggio è
esclusivamente di gradi. (Per la cronaca, la «maschera» consisteva
nell’applicare attorno alla testa del paziente una tela che,
progressivamente bagnata con acqua, diveniva impermeabile all’aria
fino a determinare un transitorio soffocamento: è sintomatico notare
che questo genere di tortura venne usato in Algeria e viene usato
oggi nel Viet Nam; a chi la priorità dell’invenzione? Nei confronti di
un malato di mente venne usata, in un giorno non troppo lontano,
urina al posto dell’acqua: una raffinatezza alla quale i «parà» forse
non avevano pensato).

Marandon de Montyel ebbe un oppositore: un moderato anche lui,


ma sulla trincea opposta. Vale la pena di riprodurre qui alcuni brani
di un alienista non illustre, e di cui preferiamo tacere il nome, con cui
nel 1897 i canoni del «buon senso» manicomiale venivano usati a
sostegno della difesa della tradizione, e contro le idee del nostro
autore. Questo scritto non ha alcun valore scientifico in se stesso: è
molto utile citarlo, sia perché contribuisce a definire una complessa
problematica, sia perché ci sembra di ritrovare in esso uno “stile”
particolare, fatto di malafede e di ipocrisia (4).

“Sembra che noi corriamo un grande pericolo, che siamo minacciati


da una catastrofe. In paesi più o meno lontani, in Germania, in
Scozia, perfino in America, hanno inventato un metodo mirabile di
trattare e di guarire gli alienati: è il metodo de «l’asilo senza mura
esterne né interne, con porte e finestre aperte», detto altrimenti
l’«open door». Invenzione ammirevole, che è divenuta dappertutto la
preoccupazione dominante, salvo in Francia, dove restiamo gli
«esseri più consuetudinari del mondo», indifferenti al progresso, e
dove limitiamo le nostre ambizioni a «ricominciare domani le stesse
faccende di oggi, e a rifare ogni giorno lo stesso cammino». Del che
il signor Marandon è afflitto. Perché si tratta, né più né meno, che di
una «rivoluzione» che «romba alle nostre porte» e ci spazzerà via
noi e i nostri asili; a meno che, più fortunato di Cassandra, egli non
arrivi a «scrollare i nostri torpori», a tirarci fuori da «l’indifferenza
nella quale siamo sprofondati». Come volergliene se egli si affanna a
gridare forte, più che a gridare giusto? Quando si tira fuori dall’acqua
qualcuno che annega non ci si preoccupa di sapere se gli si strappa
una ciocca di capelli o se gli si graffia la pelle.

Dobbiamo dunque ringraziare il signor Marandon per la sua


sollecitudine. Tuttavia bisogna pure che gli dica che io non condivido
i suoi timori né i suoi entusiasmi. In questo meraviglioso «open
door» io vedo così poche cose nuove che non vale la pena di
soffermarvisi. Ciò che vi si trova di buono è vecchio e conosciuto; ciò
che vi si trova di nuovo e di inedito è contestabilissimo, se non del
tutto impraticabile” (p. 69).

A proposito della libertà di visita dei parenti ai ricoverati, sulla quale


peraltro non ha nulla da eccepire, lo psichiatra tradizionalista
difende, con distaccata ironia, la modernità del proprio istituto:

“Vi sono alcune ombre nel quadro: le indigestioni non sono


assolutamente rare; alcuni paralitici progressivi si sono quasi
soffocati mangiando troppo ingordamente i dolci e la frutta che gli
erano stati portati. Ma questi sono piccoli inconvenienti sui quali non
voglio insistere. C’è bisogno di aggiungere che non si sa a
Charenton ciò che sia una doccia di punizione? Che la camicia di
forza alla quale, malgrado tutto, io riconosco dei vantaggi, non è
impiegata se non molto raramente, e a titolo eccezionale? Io ho
sempre pensato e penso ancora che quando un alienato ha la mania
di lacerarsi i vestiti e di denudarsi, è nel suo stesso interesse
mantenergli le braccia in un corpetto di tessuto morbido” (p. 71).

A proposito delle mura di cinta dell’ospedale, la presa di posizione di


questo signore è però assai più precisa. E’ importante notare come
l’autore, nel controbattere i suggerimenti di Marandon de Montyel,
identifichi con straordinaria chiarezza i legami organici fra il senso e
il “valore” borghese della proprietà privata, e l’atteggiamento
reificante di chi isola, “gestendoli” a parte, e “al sicuro”, i malati di
mente. Il richiamo finale alle piante rampicanti e all’addolcimento
«decorativo» del manicomio non poteva mancare, e si rivela come
parte integrante della sua concezione:

“Ciò nonostante è assodato che, da sempre, sotto tutte le latitudini,


ogni proprietario ha avuto la tendenza “naturale” [corsivo nostro] e
istintiva, a recintare il suo possedimento grande o piccolo. Se lo
circonda di un muro, il che raramente non fa, è perché tiene,
soprattutto, a essere proprio a casa propria e al riparo da sguardi
indiscreti. Se, ciò che gli auguro, il signor Marandon possiede
anch’egli qualche villa o qualche proprietà campestre, sono sicuro
che l’avrà circondata di una cinta protettrice. Poiché il muro
impedisce sì di uscire, ma impedisce anche di entrare e, secondo la
mia esperienza, ciò non è cosa indifferente. Non è inutile proteggere
i nostri alienati contro la curiosità, spesso fuor di luogo, dell’esterno.
Essi stessi non brillano sempre per una tenuta irreprensibile: non vi
è alcun vantaggio a mettere in mostra le loro miserie; dobbiamo fare
in modo di velarle con discrezione.

Io sottoscrivo che, dove i muri non sono indispensabili, vengano


sostituiti con delle grate: ma questo c’è già. A Charenton tutti i nostri
cortili, tutti senza eccezioni, ornati di alberi e di cespugli di fiori, sono
orientati a mezzogiorno, con una bellissima vista sulla campagna.
Nessun muro che interrompa il paesaggio, dappertutto delle grate,
quando è possibile provviste di verzura e di piante rampicanti […] Le
nostre celle sono divenute camerette bene illuminate e riscaldate.
Non abbiamo ancora soppresso le chiavi: ma bisogna pur lasciare
qualcosa da fare ai nostri successori. Parlerò delle distrazioni che
diamo ai nostri pensionanti? Essi scrivono quanto vogliono e tutto
ciò che vogliono: noi forniamo loro largamente la carta. Essi ne
fanno uso, a giudicare dalla quantità di lettere, di memoriali, di
rapporti che ci consegnano ogni mattina all’ora della visita” (p.p. 71-
72).

Già dalle parole che abbiamo citato il lettore scaltrito avrà potuto
identificare un certo tipo di realtà asilare. Ma più oltre il nostro
psichiatra tradizionalista scopre le proprie batterie e si riferisce (forse
con maggior chiarezza di quanto, con visione e intenti ben diversi,
non avesse fatto Marandon de Montyel) a una ben precisa
concezione del malato di mente:

“Ciò che mi ha colpito nell’argomentazione, non voglio dire


requisitoria, del signor Marandon, è il modo in cui egli concepisce
l’alienato […] Noi in realtà erriamo sullo stato d’animo dell’alienato,
perché lo giudichiamo in base al nostro. Ragioniamo su di lui, così
come ragioneremmo su noi stessi. Ci immaginiamo molto bene ciò
che proveremmo se, improvvisamente, venissimo strappati dai nostri
affari, dal nostro focolare e rinchiusi fra quattro mura (le terribili
mura): noi supponiamo, erroneamente, che l’alienato risenta queste
cose allo stesso modo. E’ là, a mio vedere, lo sbaglio profondo.
L’alienato reagisce in modo del tutto diverso da noi. I suoi rapporti
col mondo esterno sono del tutto diversi dai nostri. Io sono persuaso
che quando un alienato legge un libro, un giornale, legge in realtà,
molto meno di ciò che vi si trova realmente, di ciò che vi
leggeremmo noi, e legge piuttosto ciò che vi mette, cioè le sue idee
deliranti, le sue illusioni, le sue concezioni morbose. Egli si fa un’idea
particolare su tutto ciò che lo circonda, e questa idea non ha alcuna
analogia con quelle che ci potremmo fare noi stessi” (p.p. 73-74).

Le conclusioni che seguono, nel loro aspetto di disprezzo e, allo


stesso tempo, di indifferenza per il malato, erano già implicite nel
discorso precedente:

“Ciò che è indubbio, è che esiste in lui una perversione profonda,


assoluta, dei sentimenti affettivi, e che egli manifesta in ogni
circostanza un egoismo che nulla può scalfire”.

La condanna moralistica al malato di mente espressa visceralmente


in queste parole non tollera una unica spiegazione, né a livello
storico né a quello psicologico. Può essere molto illuminante però
ricordare una testimonianza precedente, dove l’aggressività dello
psichiatra verso il malato si situa in un contesto che ne illumina
chiaramente alcune motivazioni.

Secondo Boucher de Nantes, nel 1848, la malattia mentale ha una


origine essenzialmente sociale, risultato dell’evoluzione della civiltà
che crea delle lotte costanti: «questa terribile malattia, conseguenza
di aspirazioni deluse, di appetiti eccitati senza posa, di istinti
contrariati» ha «pervertito i sentimenti», essa non è che la
conseguenza «del principio dell’individualismo portato all’eccesso»,
il suo rimedio si trova nella «disposizione contraria».
L’organizzazione dell’ospedale dovrà quindi permettere «la
regolarizzazione degli atti sottomessi alla direzione di un pensiero
estraneo (al malato)»; così posto nell’ospedale in un quadro
autoritario dove «i suoi scarti saranno repressi»; il malato potrà
rimettersi progressivamente e lentamente in contatto con «l’élite
intellettuale e morale della vita sociale»: il lavoro sarà evidentemente
l’arma terapeutica indispensabile e il suo aspetto positivo dovrà
chiaramente apparire (5).

Il fatto che un discorso così penetrante, così chiaro e così


conseguentemente reazionario, fosse possibile e «naturale» nel
1848, più che sessanta o settant’anni dopo, non può stupirci. Non
dobbiamo arrestarci, qui, alla relativa ingenuità del determinismo
sociopsichiatrico di Boucher de Nantes; importa notare piuttosto che
con ogni probabilità la concezione della follia della prima metà
dell’Ottocento permetteva di arrivare “direttamente” a scorgere
l’esistenza di rapporti che legavano il modo di concepire il malato di
mente con il modo di concepire la società.

La follia come problema «morale» aveva probabilmente due facce


opposte, rappresentata la prima dal riformismo religioso dei Tuke
(che erano, non lo si dimentichi, dei quaccheri) e la seconda dal
farisaismo manicheo e sadicamente punitivo dei probi difensori
dell’ordine sociale e della normalità «virtuosa» contro le minacce e i
rischi del disordine e della sovversione.

L’evoluzione ulteriore del pensiero psichiatrico in senso naturalistico


e «scientifico» riuscì a mascherare per più d’un secolo l’esistenza
dei legami fra psichiatria e concezioni sociopolitiche. L’avvento e il
regno della psichiatria positivistica (che ancora ci condiziona
pesantemente in Italia), hanno costituito una svolta involutiva di cui
solo oggi cominciamo a comprendere la gravità.

Sotto l’aspetto asilare, la psichiatria del Novecento è migliore di


quella dell’Ottocento? Per molti aspetti è lecito dubitarne. Fra
l’Ottocento e i primi decenni del Novecento la psichiatria asilare ha
subito, secondo la fondata opinione di numerosi autori, un regresso.
In uno studio del 1963 di B. Rubin e A. Goldberg (al quale
rimandiamo anche per i riferimenti bibliografici pregevoli e completi)
si possono leggere queste considerazioni:

“In generale, il periodo fra il 1850 e il 1940 segnò un cambiamento


da una viva preoccupazione sulla necessità di aprire gli ospedali a
un abbandono pressoché totale dell’idea. Cameron sostiene che
«forze sconosciute» mutarono in qualche modo l’opinione pubblica.
Le ipotesi su queste «forze sconosciute» si riferiscono abitualmente
all’aumento dell’industrializzazione, alla concentrazione urbana,
all’aumento di dimensione degli ospedali psichiatrici, alla accresciuta
incapacità a tollerare i malati di mente nelle famiglie, e all’avvento
della medicina «scientifica» con le psicosi organiche come modello”
(6).

E’ probabile che sarebbero necessari nuovi studi storici sia per


precisare le modalità con cui tale regresso può essere avvenuto, sia
anche per stabilire in quale misura vi sia stata, invece, una continuità
poco nota fra la riforma conollyana e quella britannica del secondo
dopoguerra, anche attraverso l’opera ben nota di Simon (1923-29).
Anche la distanza di anni indicata da Rubin e Goldberg (1850-1940)
ci pare troppo vasta per essere considerata in blocco: il periodo a
nostro avviso più importante per uno studio sul «regresso
istituzionale» dovrebbe essere quello che va fra la fine dell’Ottocento
e il 1940-45.

Quanto alle ipotesi sulle cause di questo regresso, il discorso diviene


evidentemente più difficile, sconfinando largamente nel campo
dell’opinabile: i possibili suggerimenti esprimibili in questa sede
valgono più che altro come uno stimolo per ricerche ulteriori. Con
una distinzione forse un po’ artificiosa si possono riprendere gli
argomenti di Rubin e Goldberg (confronta più sopra) e separare da
un lato le cause sociali, e da un altro lato le cause legate agli indirizzi
della psichiatria scientifica. Mentre nell’Ottocento la psichiatria si
identificava necessariamente, nella sua quasi totalità, con la
psichiatria asilare, già alla fine del secolo il sorgere della moderna
psichiatria clinica poneva una alternativa di studio sul “caso”,
proposte di guarigione individuale, selezione di casi
psicologicamente e socialmente «adatti» a un trattamento. Anche il
tramonto del moralismo riformistico psichiatrico del Settecento e
dell’Ottocento e della stessa «cura morale» della follia, a cui
abbiamo accennato in precedenza, può avere avuto una importanza
determinante nel distogliere l’attenzione dai «problemi umani» negli
asili. Vale la pena di citare un brano di Henry Ey:

“Ridotto a non essere altro che un insieme di sensazioni o di


movimenti automatici, libero da catene ma rinchiuso, l’alienato
subisce la sorte che il compatimento sociale gli riserva, in uno spazio
chiuso in cui rimane abbandonato al gioco dei propri meccanicismi.
Questo fascio di riflessi, questa carica di esplosivo, questa macchina
sregolata che cigola e gira a vuoto è certamente considerato con il
rispetto dovuto a un malato che ha perduto il senno, ma il medico
che se lo rappresenta come una marionetta e che, in qualche modo,
ha fabbricato questo robot non può liberarsi del tutto dall’illusione
che egli stesso si è creato. Le leggi che in tutti i paesi hanno
codificato questo atteggiamento della società di fronte alla follia, per
quanto possano essere state filantropiche e onorevoli, per quanto
possano essere state efficaci, hanno cristallizzato l’immagine del
folle-macchina. Costui, «per essere protetto contro se stesso», per
poter essere reso inoffensivo per gli altri, viene allora internato.
L’internamento assicura il suo riposo, quello della sua famiglia, dei
suoi amici solleciti e compassionevoli. E’ allora che nasce tutta una
«architettura asilare» la cui funzione essenziale è assicurata dai muri
di cinta. Nel seno di questa fortezza, bagni per calmare i malati,
cortili circondati da reti per assicurare loro un posto al sole, cellette
pulite ma ben dotate di catenacci per isolarli, camicie di forza per
evitare loro di ferirsi o di evadere, una visita cordiale e quotidiana del
medico per incoraggiarli, una somma di denaro per ricompensarli del
lavoro che essi debbono all’istituzione quando sono calmi e
ragionevoli, guardiani robusti per contenere i loro tristi furori, visite
controllate nel loro stesso interesse, disposizioni di regolamento atte
ad assicurare l’amministrazione dei beni che essi non possono
gestire in modo ragionevole, la sollecitudine dei magistrati e del
potere pubblico che vegliano sulla loro libertà individuale, tutte
queste misure di sicurezza, tutte queste previdenze, queste vigilanze
e questi zeli amministrativi costituiscono lo statuto
dell‘“internamento” […] Tutto sommato, dopo essere stati così cattivi
verso gli alienati nel medioevo, conveniva adesso dimostrarsi “buoni”
nei loro riguardi, «non contrariarli», lasciarli in pace mantenendoli al
sicuro. Principi questi fondamentali della prescrizione terapeutica
usuale a quell’epoca (fine dell’Ottocento), pregiudizi che, come
ognuno ben sa, sono solidamente ancorati nei pregiudizi e proverbi
dell’opinione volgare per cui il folle è «incurabile». Tutto si trovava
quindi in un ordine logico alla fine di quel diciannovesimo secolo, che
aveva forgiato allo stesso tempo la farragine dottrinaria e l‘“asilo”
della «malattia mentale». Quest’ultima, monolitica nel suo rigoroso
inquadramento nosografico, era divenuta il solo oggetto della
psichiatria e questa, tutto sommato, si allontanava dall’uomo
«malato mentale» per non interessarsi se non alla specie della
«malattia mentale» dalla quale egli «era colpito»” (7).

Questo brano di Ey sottolinea implicitamente due ipotesi di notevole


importanza: la prima è che un atteggiamento «umanitario» razionale
può condurre a una reclusione istituzionale organizzatissima,
igienica, educata e caritatevole ma non per ciò meno ferrea; la
seconda, è che lo sviluppo, tipico della fine dell’Ottocento, di una
concezione «medica», «scientifica» della malattia mentale, con le
sue speranze e i continui rinvii della guarigione, non è affatto
incompatibile con il mantenimento della segregazione istituzionale,
ma tende anzi a rafforzarla.

Possiamo chiederci: la diagnosi tratteggiata da Ey è valida anche


per i primi decenni del Novecento? A nostro avviso sì, e anzi a
maggior ragione. Il riformismo psichiatrico, fin da Pinel, è figlio (fra
l’altro) dell’illuminismo, ma è la stessa volontà ordinatrice e
razionalizzante del pensiero illuminista quella che “sistema”
l’irrazionalità della follia in una pianificazione oggettivante che
conduce, senza soluzioni di continuità, alla asettica eliminazione
fisica degli «inguaribili» operata dagli psichiatri nazisti. Dopo
Horkheimer e Adorno, sappiamo che una certa dialettica della
ragione ha prodotto dei mostri, e sarebbe interessante studiare con
più cura in qual modo anche la psichiatria della fine dell’Ottocento e
del Novecento non si sia sottratta alla logica involutiva del pensiero
illuminista. Come in parte aveva intuito Foucault, la follia, negazione
dell’ordine «razionale» della società, è stata negata a sua volta
mediante l’espulsione del folle dal corso storico della società; la follia
è stata resa puro oggetto, da esaminare nei laboratori e da gestire
attraverso la impersonale e vertiginosa minuzia dei regolamenti
manicomiali. Volendo limitarci alle teorie psichiatriche, sarebbe
anche interessante chiedersi fino a che punto tre studiosi che
possono venir considerati padri della psichiatria moderna abbiano
influito negativamente, con le loro teorie, sulla riforma della
psichiatria asilare: Kraepelin con il suo determinismo clinico e col
pessimismo sulla prognosi della demenza precoce; Jaspers con la
teoria della «incomprensibilità» psicotica, vero muro concettuale
frapposto a ogni tentativo di rapporto col malato; Freud stesso (o i
freudiani) in modo più sottile ma forse ancora più nefasto, con la
insistenza sulla unicità del sondaggio psicoanalitico come rapporto
interpersonale isolato e privilegiato.

Si può osservare a questo proposito che se il «nuovo» riformismo


asilare ha un debito nei confronti di Freud, gli squilibri della
organizzazione psichiatrica degli Stati Uniti testimoniano, fra l’altro,
del fatto che una prospettiva di assistenza psichiatrica basata quasi
esclusivamente sul rapporto psicoanalitico individuale finisce
coll’interessare soltanto gli strati più abbienti della popolazione,
favorendo indirettamente il ritardo organizzativo degli ospedali
statali.

Un esame critico della psichiatria (teoretica) del Novecento, dal


punto di vista dei suoi possibili influssi sulla stagnazione, o sul
regresso, della organizzazione asilare, ci porterebbe troppo lontano.
Anche qui, ci limitiamo a segnalare l’importanza del problema. E’
possibile, del resto, che fattori storici, sociologici, politici e culturali
(anche nel senso della teorizzazione «colta» degli obblighi
assistenziali della società nei confronti dei malati così come dei
«sottoprivilegiati») abbiano avuto una influenza “diretta” sulla
situazione asilare.

Inoltre, se da un lato non è facile distinguere l’importanza rispettiva


dei due ordini di fattori (psichiatrico-teoretici, e storico-culturali), da
un altro lato è molto importante chiedersi fino a che punto anche le
formulazioni della psichiatria teoretica non possano esser state
direttamente influenzate dal «Zeitgeist» colto europeo, e quindi, dalla
ideologia degli strati dirigenti borghesi prima e durante il periodo
delle guerre mondiali.

Eppure da quello stesso travaglio europeo, fra l’epoca vittoriana e il


secondo dopoguerra, sono emersi una serie di positivi strumenti
critici, e una serie di nuove consapevolezze e esigenze, che
costituiscono oggi la base necessaria per una nuova riforma degli
ospedali psichiatrici. Anche qui però è difficile distinguere fino a che
punto la psichiatria del Novecento (in particolare con Freud) abbia
operato una “rottura” della distanza che separava in precedenza il
medico dal malato di mente, utile ai fini della riforma asilare, e fino a
che punto, invece, le esigenze attuali di riforma degli ospedali
nascano prevalentemente da consapevolezze e considerazioni
extrapsichiatriche, come quelle sociologiche sui ruoli nei gruppi e
sulle minoranze e quelle politiche sui diritti dei sottoprivilegiati.

La consapevolezza di queste interazioni complesse si ripete al livello


di una analisi non più storica ma sincronica della organizzazione
psichiatrica. Ricorderemo brevemente come la psichiatria, essendo
divenuta “oggetto” di numerosi e penetranti studi sociologici, abbia
saputo trovare, contemporaneamente alla sociologia, la via di un
autonomo ripensamento come studio del rapporto interpersonale
(specificatamente, fra lo psichiatra e il paziente) come rapporto in un
ambiente sociale “determinato”. La consapevolezza sociologica e la
nuova consapevolezza psichiatrica hanno finito col tendersi la mano,
e lo studio della organizzazione della assistenza psichiatrica si è
identificato largamente con lo studio della psichiatria.

In questo processo, se è vero che il malato di mente ha perso una


precedente astratta genericità, ricomponendo la scissione fra la
“persona” e la “malattia”, è vero anche che lo psichiatra ha perso,
con qualche resistenza ma indubbiamente con suo vantaggio, quella
rispettabilità «data» e «garantita» che era suo privilegio ancora nei
primi decenni di questo secolo.

La psichiatria sociale ha contribuito a svelare in qual modo la pratica


psichiatrica (come terapia e organizzazione), acquisti il suo vero
significato, nell’ambito della società occidentale, solo se vista come
parte integrante di una “pratica sociale” che si articola in primo luogo
secondo strutture di classe (8). La psichiatria si colloca così nel suo
vero contesto, come pratica, ma non si svela necessariamente come
ideologia. Per quest’ultimo aspetto vale la pena piuttosto, di riferirci
succintamente ad alcune considerazioni di Talcott Parsons; a lui e
alla sua scuola dobbiamo infatti quegli studi sulla sociologia della
psichiatria, che ci permettono di impadronirci di alcuni strumenti di
analisi utili per collegare la pratica sociale reale della psichiatria
all‘“idea” che la psichiatria si fa di se stessa (9).

Secondo Parsons e la sua scuola, la professione medica è un


insieme di comportamenti istituzionalizzati: è un insieme di ruoli che
fanno parte di un determinato ambito culturale. Più specificamente, è
un sottosistema di minoranza, perché i medici formano una
minoranza nell’ambito della popolazione allargata che viene
considerata però, qui, come priva di caratteristiche di classe. Nel
linguaggio sociologico, essa è un sottosistema di minoranza
istituzionalizzato, cioè organizzato secondo modelli di ruolo; la
professione medica risente di determinati orientamenti di valore che
sono prevalenti nella società. Più precisamente, potremmo
aggiungere, questi orientamenti di valore vengono elaborati come
sistematizzazione ideologica dei privilegi della classe al potere, e
resi «pubblici» cioè assorbiti a livello delle altre classi come valori
«comuni» o (falsamente) «naturali».

L‘“ideologia” dello psichiatra evidenzia e acuisce sulla base delle


premesse parsonsiane, il sistema di valori proprio della ideologia
medica generale. Quest’ultima si riassume in alcuni principi
tradizionali: che il medico operi con disinteresse missionario,
anteponga il benessere del paziente al proprio, escluda dalle proprie
motivazioni il motivo del profitto (almeno come motivazione
importante) e sia affettivamente interessato, ma personalmente
“neutrale”, nei confronti del malato.

Questa ideologia del medico non esclude sottoideologie più


specifiche che andrebbero esaminate. La prima osservazione che si
impone nei suoi riguardi è comunque che si tratta di una ideologia
“falsa”. In altre parole, essa non regge a un semplicissimo confronto
con una realtà da “tutti” osservabile, purché questa realtà venga
esaminata con occhio sincero.

Secondo Parsons, essa è tuttavia una ideologia in qualche modo


“necessaria”: il medico esercita sul paziente un “potere”, che è assai
vasto, ma il paziente non ha gli strumenti per esaminare questo
potere; egli è inerme nelle mani del medico eppure «deve» credere
in lui. E’ necessario sottolineare in questa sede il fatto che il potere
psichiatrico è, in questo caso, assai più radicale e più propriamente
globale di quello del medico generico: sia per i provvedimenti
terapeutici e giuridici con cui esso si esercita, sia perché fa presa
direttamente sul malato come totalità (e non attraverso la
considerazione tecnica di un organo da riparare) sia ancora perché il
paziente psichiatrico non sa fino a che punto il suo stesso disturbo
gli impedisca di valutare l’opera di chi si prende cura di lui.

La ideologia (mistificata) dello psichiatra è veramente necessaria,


oltre che alla società in generale, al paziente per “rassicurarsi”, o
non è invece, in primo luogo, necessaria allo psichiatra? Affermare
che l’ideologia del medico è necessaria al paziente non equivale
forse al suggerire che l’ideologia del medico sia solo una modalità
transferale, cioè riguardi l’atteggiamento del paziente verso il
medico? Si può obiettare che l’ideologia del medico è, invece, una
modalità controtransferale e riguarda l’atteggiamento del medico
verso il paziente; l’ideologia tradizionale del medico è dunque una
difesa che il medico ha costruito contro ciò che la malattia e il
paziente hanno di minaccioso per lui: essa giustifica la violenza che
la società esercita sul malato attraverso il mandato «psichiatrico».
Ma forse non è questo il punto: le stesse categorie psicoanalitiche
del transfert e controtransfert sono insufficienti a spiegare il
reciproco rispecchiarsi della ideologia medica nel medico e nel
malato; il contenuto di tale ideologia non è risolvibile in termini
psicodinamici, ma politico-sociali. Lo psichiatra agisce come membro
di una determinata classe (e Hollingshead e Redlich si sono
preoccupati di documentare in qual modo le decisioni «terapeutiche»
risentano in modo determinante di questa collocazione di classe) ma
ciò non basta: lo psichiatra si nasconde anche dietro una serie di
difese teoriche, che vanno dal semplice vanto retorico della
«nobiltà» e «disinteresse» della professione medica fino alle
autodifese più sottili, elaborate e impermeabili, escogitate dalla
psicoanalisi. Ma la verità più dura sulla “pratica” psichiatrica risiede,
una volta di più, nei manicomi: è qui che esplode in modo clamoroso
la contraddizione fra la psichiatria ufficiale e quella reale. Qui il
«potere medico» di cui si parlava viene giustificato sia come
“modalità terapeutica”, secondo la tradizione, sia anche come
“modalità burocratico-carceraria”; il fatto che questi due mandati
sociali riescano a fondersi svela la nascosta violenza già presente
nel potere medico (quale esercitato di fatto) e lascia piena libertà al
medico manicomiale per svolgere senza contestazioni possibili e
senza reale controllo la propria autorità sul malato. Nell’ospedale
psichiatrico la classica mistificazione borghese che spaccia per
autorità “tecnica” ciò che è già irrimediabilmente compromesso con
la violenza del potere «politico» dell’uomo sull’uomo, 6i rivela in tutta
la sua chiarezza.

Gli studi sociologici sui manicomi portano alla definizione di una


sindrome particolare la cui esistenza era già stata da tempo
presentita. Essa è la istituzionalizzazione di Martin (10), o nevrosi
istituzionale di Barton (11) o sindrome da istituzionalizzazione totale
di Goffman (12) o sindrome asilare di Freudenberg (13) o
regressione istituzionale di Basaglia (14).

Non è il caso di esaminare in questa sede le caratteristiche di questa


che può essere considerata come una vera e propria malattia
mentale. Dall’esame della letteratura e dalla esperienza risulta in
modo chiaro che non si tratta di una modificazione aggiunta alla
malattia mentale che condusse al ricovero, quanto piuttosto di un
modo di essere patologico che dopo un breve numero di anni
diventa dominante nella maggior parte dei degenti negli ospedali
psichiatrici. Il fatto che nei campi di concentramento e nelle prigioni
(e anche, in forme analoghe ma non identiche, nei brefotrofi e
orfanotrofi) si osservi una sindrome mentale assai simile rende
difficile la distinzione fra i sintomi della malattia primitiva e i sintomi
osservabili dopo più di due anni di degenza. Il problema diviene
ancora più complesso se si considerano altri elementi: in primo
luogo il fatto che la cosiddetta «malattia primitiva» è già il risultato di
una complessa interazione fra il paziente e un ambiente che fin
dall’inizio ha “gestito” in qualche modo le sue difficoltà; in secondo
luogo il fatto che alcuni sintomi psicotici possono essere perpetuati
nei manicomi sotto forma di difese istituzionali (15).

A questo punto il cerchio si chiude; la psichiatria, come oggetto di


studio sociologico, finisce con l’uscire dai limiti stessi della sociologia
per rientrare nuovamente in quelli della clinica, ma in una modalità
contraria a quella convenzionale. La psichiatria come disciplina
scientifica e pratica terapeutica è chiusa nella propria patologia e
non esterna ad essa: è fonte di disturbi mentali, patologia essa
stessa.

Il punto di vista della psichiatria clinica su questo stesso problema


comporta indubbiamente una certa maggiore autoindulgenza:
tuttavia esiste nella psichiatria moderna una serie convergente di
correnti di ricerca che tendono a porre in crisi come oggetto della
ricerca stessa, il rapporto medico-paziente (16).

Si ha, all’interno del pensiero psicanalitico, una ininterrotta tendenza


a privare l’analista della propria «verginità»: lo studio si è spostato al
controtransfert, alla realtà del «rapporto» (l’analisi come analisi del
transfert nella situazione “attuale”), alla struttura della comunicazione
interpersonale dentro e fuori la mediazione psicoanalitica.

La scuola antropofenomenologica tende a cogliere il modo di porsi


dello psichiatra nel rapporto con il paziente, non meno che quello del
paziente stesso; gli studi psicoanalitici sui gruppi coinvolgono
direttamente la figura del medico; gli studi della comunicazione
interpersonale a livello psichiatrico dimostrano, portando alle sue
logiche conseguenze il concetto di metacomunicazione, che il
rapporto verbale medico-paziente viene reso significante per l’una e
per l’altra parte da un sistema complesso di rapporti non verbali che
coinvolgono la “struttura” stessa del rapporto concepita come
totalità, il “setting” in cui tale rapporto avviene, e la collocazione
sociale delle due persone implicate nel rapporto (17). In tal modo la
riflessione dello psichiatra sul senso e sulla funzione del proprio
comportamento non è più confinata ai limiti imposti dagli strumenti di
tipo psicologico e psicoanalitico, ma si sposta a considerazioni di
ordine sociale.

In altre parole la psichiatria non esamina più se stessa con schemi


esclusivamente psicologistici: essa ritrova, paradossalmente, la
propria vera realtà psicologica a condizione di venir messa in
discussione come rapporto tra persone aventi una collocazione
reciproca che non è risolvibile in termini psicologici. Il rapporto
psichiatrico in quanto tale può venire esaminato in modo reale, e non
mistificato, quando esso ritrovi la propria concretezza su uno sfondo
ben diverso da quello troppo comodo del mantello di Ippocrate: le
contraddizioni politiche e sociali che determinano i ruoli dei due
protagonisti del rapporto rappresentano lo “sfondo generale” che
permette al singolo episodio del confronto medico-paziente di venire
esaminato nella propria concreta “particolarità”.

Anche qui il cerchio si chiude, ma in senso opposto: lo studio


«psichiatrico» del rapporto terapeutico esce dai confini della
psichiatria per rientrare in quelli della sociologia. Dalla sociologia, la
psichiatria sociale si muove per recuperare, nello studio del rapporto
interpersonale, il significato della “clinica”. In questa ricomposizione
la psichiatria rischia però di perdere, al termine del proprio “iter”
interdisciplinare, il significato del discorso “politico” che si era
affacciato.

Ciò non deve avvenire. La psichiatria sociale esce sia dai confini
della analiticità sociologica, sia dai confini della analiticità freudiana e
postfreudiana per divenire ricerca “polemica” (cioè politica) dei
rapporti «necessari» fra psichiatria e società. La psichiatria sociale si
ricongiunge dunque alla storia della psichiatria intesa nel senso
indicato più sopra.

Questa dimensione politica non è solo esterna ai problemi


terapeutici, ma anche interna ad essi. E’ abbastanza facile pensare
a tutto un aspetto della pratica psichiatrica che non ha direttamente
a che fare con la cura dei malati di mente, bensì con la “gestione”
dei malati in quanto elementi di disturbo nella società. Ma questa
gestione può essere tenuta distinta dalla terapia psichiatrica vera e
propria? Non crediamo. I comportamenti devianti vengono
controllati, fin dal momento della loro comparsa, secondo modalità
formali ed informali istituzionalizzate in una data cultura: dalle
reazioni dei parenti fino alla espulsione dall’ambito sociale
«normale» e alla segregazione negli ospedali specializzati. Il fatto
che un comportamento deviante venga etichettato come psichiatrico
dipende assai meno da motivazioni scientifiche e razionali, che da
fattori di ordine sociale; il destino del malato di mente viene deciso in
base a giudizi di valore che fanno parte integrante della ideologia
dominante in una data società, e il «curriculum» di questo malato
viene stabilito in una serie di verdetti che risentono di discriminazioni
di classe, di convenzioni legali, di giudizi e pregiudizi che
costituiscono lo stesso substrato su cui si edifica la prassi
terapeutica.

Sono questi i fattori che decidono se un soggetto con un


comportamento deviante debba restare o no in famiglia, essere
respinto ai margini della comunità, venir giudicato come delinquente
e finire in prigione, o essere giudicato malato e finire sul divano dello
psicoanalista nelle anticamere di infiniti ambulatori mutualistici, in
una clinica privata o in manicomio.

I complessi meccanismi psicologici per cui nella persona «sana» si


formano paure, ostilità, desideri di esclusione nei confronti dei malati
di mente, non possono venir valutati correttamente se non nei modi
in cui tali atteggiamenti e tale aggressività prendono forma e
vengono gestiti e rinforzati dalle istituzioni sociali. La aggressività per
il folle da un lato si lega a una prassi sociale e a una concezione del
mondo che ha una precisa radice storica (essa non è riscontrabile in
tutte le culture); da un altro lato si esplica attraverso canali in cui
confluiscono modalità aggressive già presenti nella società. La
polizia che veglia sui sonni del cittadino onesto è la stessa che
consegna sotto «ordinanza» i malati di mente: il mandato che essa
ha ricevuto è sempre identico.

Il fatto che la psichiatria sia dipendente, nella sua stessa


teorizzazione, dalle esigenze del potere politico può essere
dimenticato dagli psichiatri, ma non viene mai dimenticato dai politici.
In un editoriale anonimo, comparso sul «Corriere della sera» sotto il
titolo “Troppa indulgenza”, risultano chiaramente non solo l’origine
del mandato psichiatrico, ma anche la natura del mandato stesso; lo
stesso tipo di autoritarismo che impone maggiore coercività nei
confronti del malato di mente, teorizza anche, in modo implicito,
l’ipotesi che la «pericolosità» di quest’ultimo non sia affatto il risultato
di una pratica psichiatrica inefficiente e autoritaria.

“Prendiamo alcuni recenti fatti di cronaca. A Roma, è indiziato come


autore di un efferato duplice omicidio per rapina un giovane, che era
latitante per un precedente mancato omicidio, sempre per rapina. A
Milano viene arrestato un pregiudicato pericoloso, che poi risulta in
temporanea licenza da un manicomio. A Firenze viene arrestato per
tentata rapina un evaso dalle prigioni di Livorno. Un latitante, un
pazzo e un evaso. Dunque circolano liberamente malfattori, che
dovrebbero invece stare in galera o in manicomio. Dunque vi è un
difetto evidente di prevenzione rispetto a soggetti socialmente
pericolosi.

I casi citati sono di natura diversa, ma a base di tutti c è un fattore


comune; la tendenza cioè delle autorità verso l’indulgenza, la
benignità, l’umanitarismo, che però tiene conto di colui che agisce, e
non tiene conto delle vittime. I medici psichiatrici hanno
compassione per i folli, i carcerieri sono generosi verso i detenuti, la
polizia è stata privata di molti mezzi per amore di civiltà” (18).

All’interno degli ospedali psichiatrici il problema «politico» della


psichiatria è molto più serio: esso si arricchisce di dinamiche
sociologiche complesse e particolari, ma riflette sempre una
situazione e dei «mandati» provenienti dalla società esterna.
L’ospedale deve venir esaminato nella sua struttura e nella sua
storia, situato in una società che lo gestisce e ne giustifica
l’esistenza, collegato a quelle forze che, all’esterno come all’interno
della sua cinta perimetrale, tendono a determinarne l’immobilità
burocratico-amministrativa, la violenza e l’autoritarismo tradizionali,
la brutalità spacciata come esigenza tecnica, oppure, come oggi
avviene, le esigenze di rinnovamento.

Esso non esiste in astratto, così come non è astratto e generico il


procedimento che ha portato il malato a esservi rinchiuso: la
«manicomialità» come categoria ipostatizzata nella struttura
ospedaliera non è se non un artificioso mascheramento di
responsabilità identificabili e denunciabili. La follia dei manicomi, non
è colpa di un ambiente: è colpa di persone. Può quindi essere
illusorio separare i problemi socio-politici della assistenza da quelli
«realmente psichiatrici»: all’interno di questi ultimi gli aspetti
«politici» si ripresentano sotto l’aspetto delle responsabilità
individuali e di gruppo che presiedono alle scelte terapeutiche.
Quando poi si considerino i problemi che sorgono nella «nuova»
riforma psichiatrica, diviene necessario portare all’interno della
psichiatria un discorso politico ancora più ampio. La politicizzazione
dell’assistenza ai malati di mente “esiste già di fatto” nella pratica, e
il riconoscerne l’esistenza, anche in teoria, è il rischio che si deve
correre per ritrovare una nuova ragione di essere alla psichiatria, al
di là della distruzione della sua “facies” tradizionale.

Ma qui si apre un nuovo discorso, che non è possibile esaminare in


questa sede.
PRESUPPOSTI A UNA
PSICOTERAPIA ISTITUZIONALE
di Michele Risso.

“Ils restaient, pour la pluspart, comme pris dans la masse d’une


humanité trop folle elle même pour que la folie prit, à ses yeux, un
sens” (1).

Anna Maria L., anni ventinove.

Nulla di particolare sui precedenti familiari paterni e materni. I nonni


della paziente morirono in tarda età per cause non meglio precisate.
Due zii paterni affetti da malattie del ricambio, uno di questi morì per
diabete. Un fratello della madre soffre di «esaurimento nervoso»:
non è possibile avere notizie più dettagliate, fu curato con
ricostituenti, non fu necessario ricovero in clinica o ospedale
psichiatrico.

La paziente e i familiari negano malattie mentali negli ascendenti e


collaterali. Genitori viventi e sani.

La paziente è nata da parto eutocico a termine di gravidanza


fisiologica. Allattamento materno sino a otto mesi. Primo sviluppo
fisico e psichico normali. Dentizione, deambulazione e favella in
epoca fisiologica. Ha superato le comuni malattie dell’infanzia senza
complicazioni. Tonsillectomia a sei anni. Frequentò le scuole
elementari con discreto profitto. Non poté continuare gli studi perché
la famiglia mancava di adeguati mezzi finanziari. Menarca a dodici
anni, in seguito mestruazioni dapprima irregolari poi normali come
flusso, quantità e durata.

A sedici anni la paziente inizia il lavoro in fabbrica e le sue


prestazioni sono soddisfacenti.

A diciotto anni crisi di cefalea frontale sinistra con lacrimazione e


fotofobia, violente e ripetute: esami radiologici negativi. Il medico
curante diagnostica emicrania. I disturbi non regrediscono sotto
l’azione di comuni farmaci; scompaiono spontaneamente dopo un
anno. A vent’anni appendicectomia, in seguito a colite non meglio
precisata. A ventidue anni matrimonio con uomo sano. Due
gravidanze normali, ha oggi due figli in età di cinque e tre anni. Dopo
il matrimonio saltuariamente dismenoroica e sofferente per
febbricole la cui eziologia non è stata sinora chiarita: esami
radiologici del torace s.p., velocità di sedimentazione e formula
leucocitaria normale, esame orine nella norma, metabolismo basale
normale.

Normale mangiatrice, modica bevitrice, nega lue e veneree (ha


avuto un aborto provocato, senza complicazioni, un anno fa). Alvo
piuttosto irregolare con alternanza di stipsi e diarrea, diuresi nella
norma.

Sei mesi fa, senza alcun motivo reale, la paziente cominciò a dire di
sentirsi stranamente osservata per strada. In seguito ebbe
l’impressione che le vicine cominciassero a dir male di lei, che lei
trascurava la casa e non si occupava dei bambini (in realtà la
paziente è una diligente e accurata donna di casa).

Fu consultato un medico che diagnosticò esaurimento nervoso e


prescrisse riposo, ricostituenti e sedativi. Le cure non ebbero
risultato. La paziente divenne irrequieta e sempre più ansiosa:
comparvero allucinazioni uditive, la malata sentiva voci che la
accusavano di essere una «disgraziata delinquente».
Riferisce oggi le voci ad una vicina di casa «che le vuol male».
All’ingresso in clinica ben orientata nel tempo nello spazio e sulla
propria persona. Non evidenti disturbi dell’ideazione e della
condotta. Notevole angoscia, umore chiaramente depressivo. Insiste
sulla realtà delle voci. Esami somatici e neurologici normali.

Diagnosi: Probabile schizofrenia paranoide iniziale con componente


depressiva. Terapia: E. S.

Si tratta di una cartella clinica quale normalmente si può trovare oggi


in molti ospedali psichiatrici italiani. In alcuni non si trova neppure
questo. Le storie cliniche, in tal caso, sono più succinte, spesso
lapidarie e, comunque, sterili: brevissimi accenni dove il medico
precisa, per esempio, che il paziente ha fatto il servizio militare, è
stato operato di ernia, è un modico mangiatore e discreto bevitore,
per poi descrivere brevemente «un arresto psicomotorio»
dell’esaminando all’atto dell’entrata in ospedale. Una vera anamnesi
psichiatrica, una analisi psicodinamica della vita del malato manca
totalmente. Le origini di tali fatti sono risapute.

La psichiatria è nata male. Ibrido derivante dal connubio tra una


anatomopatologia neurologica classificante e localizzatoria ed una
medicina in piena fioritura positivista, la psichiatria è stata costretta,
sin dall’inizio, da un lato negli schemi della neuropatologia e dall’altro
nel letto della clinica medica. Come dice Henry Ey, le condizioni di
nascita della psichiatria sono state disastrose per il malato mentale.
Il substrato dei primi tentativi di classificazione nosologica e di
localizzazione anatomica delle malattie mentali oggi chiamate
endogene è stata la paralisi progressiva, una malattia luetica
timbrata dalla vergogna, considerata con orrore; un male incurabile.
La realtà anatomopatologica e clinica di tale malattia ha certo avuto
una influenza non trascurabile nel determinare l‘“atteggiamento”
degli psichiatri di fronte alla malattia di mente.

Poiché ci occupiamo, in particolare, della situazione della psichiatria


in Italia, consultiamo, a questo proposito, il “Trattato delle malattie
mentali” di Tanzi e Lugaro che contribuì in modo essenziale alla
formazione di due generazioni di psichiatri. Vengono qui riportati
brani della terza edizione (1923) che illustrano quale fosse la
posizione nosologica della demenza precoce nei confronti della
paralisi progressiva, nel primo quarto di questo secolo. Quest’ultima
malattia ha

“… un decorso inesorabilmente progressivo, per quanto abbastanza


spesso inframezzato da soste e da remissioni, e uccide in pochi
anni, dopo aver determinato una graduale dissoluzione
dell’intelligenza e del carattere, accompagnata da sintomi
d’irritazione e di difetto in ogni campo del sistema nervoso e da
disturbi generali della nutrizione che giungono alla più profonda
cachessia. Il processo irritativo e distruttivo dei centri nervosi che
costituisce la ragione immediata della paralisi progressiva è ben
conosciuto nel suo aspetto anatomico; esso è indubbiamente dovuto
all’agente specifico della sifilide, quando riesce ad insediarsi
nell’intimo della corteccia cerebrale” (p. 97).

Sulla schizofrenia:

“La demenza precoce è un processo di disorganizzazione mentale a


decorso cronico, mai regolare, sempre esposto a soste, a
miglioramenti che rasentano la guarigione e durano per mesi, anni e
decenni, a crisi transitorie di peggioramento acuto.

Essa coglie individui predestinati ma fino allora intelligenti, per lo più


giovani. La guarigione completa è possibile, ma eccezionale; ed è
tanto meno probabile quanto più il male è inveterato. Di solito, gli
ammalati, dopo una serie di episodi turbolenti, rimangono in uno
stato di tranquilla deficienza, caratterizzato più che da vere lacune
psichiche, da dissociazioni abituali. “I processi demenziali sin qui
considerati, che hanno per base, come la paralisi progressiva e la
demenza senile, distruzioni ed atrofie diffuse di elementi nervosi” (2),
conducono sempre a qualche perdita irreparabile del patrimonio
psichico…” (p. 465).

Sulla anatomia patologica della demenza precoce:


“Il cervello dei dementi precoci non sempre dà reperti positivi. “In
molti casi la più diligente e raffinata ricerca non permette di rivelare
che alterazioni minime, del tutto inadeguate all’imponenza dei
sintomi notati in vita, e ad ogni modo di assai dubbio nesso con la
malattia mentale” (2), potendosi riconnettere piuttosto a fatti agonici,
alla malattia terminale che determinò la morte, all’età, a
arteriosclerosi o ad una incipiente involuzione senile” (p. 526).

C’è una contraddizione evidente tra quanto gli autori dicono nella
loro definizione della demenza precoce, e quello che affermano
trattandone la parte anatomopatologica. La certezza di un substrato
organico, affermata nella parte introduttiva, viene, in seguito,
chiaramente messa in dubbio.

Lo schema della medicina: eziologia - patogenesi anatomia


patologica - sintomatologia - diagnosi - terapia, applicato alla
disciplina psichiatrica, rivelò sin dall’inizio interi settori pieni di
interrogativi insoluti. Pur rimanendo l’eziologia, la patogenesi e
l’anatomia patologica oscure, la nosografia psichiatrica fu costruita
sulla falsa riga della nosografia neurologica. La sintomatologia -
psichica - portò ad una serie di classificazioni diagnostiche, prive,
tutte, ovviamente, di un substrato organico accertato. “La malattia
mentale fu vista, comunque, come uno stato di cui non si conosceva
ancora l’origine, mentre veniva dato per scontato che questa origine
non poteva essere che organica”.

Non sarà il caso, qui, di rifare la storia della psichiatria, né, in


particolare, della psichiatria italiana. I malati di mente sono stati, sino
a pochi anni fa, come in attesa di giudizio; gli psichiatri hanno
continuato - senza frutto - a domandarsi «che cosa» fosse la
malattia mentale, trascurando l’esistenza ed il problema del malato
di mente.

Per buoni cento anni, in attesa di identificazione, i malati di mente


sono rimasti «a letto», rinchiusi, isolati; intorno a loro si è
organizzata, per successive incrostazioni, la macchina dell’ospedale
psichiatrico, tendente, essenzialmente, a difendere la società dal
“mistero” della malattia mentale. Poiché una presenza misteriosa è
malamente sopportabile, è fatale che questa, col tempo, si realizzi
come “pericolo”. Non sapendo «che cosa» avessero questi
disgraziati si è «saputo», in ogni caso, che erano pericolosi.
Pericolosi, ma malati: degni, quindi, di attenzione “medica”. Così, le
malattie mentali, sono rimaste imprigionate nell’ambito della
casualità medica ed i malati sono stati «curati» in ospedali costruiti,
ovviamente, sul modello delle cliniche mediche; con i necessari
accorgimenti per proteggere la società da questi esseri «pericolosi a
sé ed agli altri».

Il contenuto della cartella clinica riportata sopra non deve stupire:


essa appare come patente documento del grave malinteso che sta
alla base della psichiatria. E’ chiaro, l’esame del malato avviene
secondo lo schema fisso della medicina tradizionale: il medico
riempie la cartella di dati che, da un punto di vista psichiatrico, sono
del tutto accessori; la vita del paziente viene configurata non come
storia, ma come sequenza di “avvenimenti isolati”, di carattere
morboso, intercalati da periodi di benessere. Allo stesso modo come
la paziente ha avuto il morbillo, o è stata tonsillectomizzata a sei
anni, così essa, ad un certo punto, comincia a dire di sentirsi
stranamente osservata per strada. Prima, non è «successo» nulla,
così come la appendice cecale della paziente, prima di essere
infiammata, era certamente sana. Questa “distorsione destorificante”
della realtà della paziente, questa “Einstellung” del medico che non
cambia, sia che si tratti di angoscia che di colecistite, la possiamo
trovare in diecine di migliaia di esemplari nei nostri ospedali
psichiatrici; ed abbiamo ragione di ritenere che molte delle cartelle
cliniche psichiatriche, ancora oggi, in Italia, vengono compilate sulla
base di questo schema destorificante.

“The history of somatic treatment procedures in psychiatry has not


been a logical development” (3).

Come immediata conseguenza del fatto che la nosografia


psichiatrica prende forma sistematica sulla falsa riga di quella
medica, vediamo che la terapia psichiatrica subisce l’impronta, lo
stile della terapia medica. Anche se lo schema eziologia -
patogenesi - eccetera, fondamentale per la medicina, si è rivelato
inefficiente per la psichiatria delle psicosi endogene, la terapia
psichiatrica torna ad essere una terapia «causale». La storia delle
terapie tradizionali psichiatriche parla chiaro. Tali mezzi hanno un
orario, una tecnica, un ambiente per la applicazione, dopodiché il
malato, «curato», viene lasciato a se stesso, in attesa che la terapia
faccia effetto.

“The first successful step in somatic therapy of «mental illness» was


based on observations of clinical improvement in «psychotic» (4)
patiens during intercurrent infections.

In 1917 Wagner-Jauregg introduced malaria treatment in general


paresis, the first successfuly treatment of a mental illness on a purely
organic basis” (5).

Gli autori diranno più avanti, che col tempo ci si rese conto che la
febbre aveva fatto effetto sulla infezione luetica e “non” sui sintomi
psicotici; tuttavia essi parlano, sì, di paralisi progressiva, ma parlano,
in genere, di malattie mentali, di pazienti psicotici. “Il fatto che la
paralisi progressiva abbia un substrato anatomopatologico accertato
e che la si possa curare con mezzi medici lascia sperare che, prima
o dopo, questo sia possibile anche per le malattie mentali
endogene”.

Questo è un grave malinteso, responsabile in parte del ritardo dello


sviluppo della psichiatria e della impasse in cui si trova oggi la
maggior parte degli ospedali psichiatrici. Tra il 1933 ed il 1937
fioriscono i trattamenti somatici in psichiatria: compaiono la terapia
insulinica di Sakel, la terapia convulsivante di von Meduna, l’E. S. di
Bini e Cerletti, la leucotomia di Moniz. Si sviluppa così una serie
infinita di ricerche, indagini, lavori statistici che giungono a
conclusioni spesso forzate dal desiderio di avere conferma della
validità dei mezzi impiegati (vedasi a questo proposito M. Müller
1949 e 1952). Per la verità, in parte, con successo: è indubbio, per
esempio, che l’E. S., come ha provato Hoffet (1962) in tutti i quadri
clinici di gravi depressioni endogene o endoreattive, dà migliori
risultati di tutte le altre terapie. Ma non di questo si tratta: “la
speranza riposta nelle terapie somatiche ha distratto l’attenzione
degli psichiatri dal problema delle istituzioni psichiatriche”, che -
salvo alcune modificazioni trascurabili e tendenti più a sedare i sensi
di colpa dei medici che non a modificare sostanzialmente l’ambiente
- sono rimaste tali e quali: luoghi di segregazione e di isolamento,
nei migliori dei casi modernizzati e perfezionistici, ma nella sostanza
immutati.

Come le vecchie cartelle cliniche medico-psichiatriche vengono


riempite sulla base di uno schema destorificante, così le terapie
somatiche di shock e la leucotomia frontale mostrano la stessa
impronta: esse hanno il carattere di una imposizione violenta,
provocano una tagliante alterazione dello stato di coscienza,
rappresentano una frattura nel vissuto dei pazienti, localizzano nel
tempo la malattia senza rispettare la continuità dell’esistenza dei
malati. La somatoterapia dimostra poi il colmo del paradosso e della
cecità con la leucotomia frontale, ultimo segno della destorificazione
e della denaturazione della malattia mentale a malattia cerebrale.

Nel 1952 ha inizio la rivoluzione psichiatrica determinata dalle


sostanze neurolettiche. La comparsa di questi farmaci ha posto gli
psichiatri di fronte a pazienti non più minacciosi, ma tranquilli e
facilmente controllabili; d’altra parte ha permesso, in molti, la nascita
di un ambiguo ideale psichiatrico fatto di comoda attesa in una
atmosfera priva di sintomi. L’ospedale psichiatrico rischia, in tal caso,
di divenire un ambiente sterile, ordinato, pulito e funzionale, in cui la
malattia di mente non viene vista come fenomeno individuale
nell’ambito di un contesto familiare e sociale, ma, ancora una volta,
come «disturbo», per il paziente, i familiari e la società. Disturbo che,
con l’aiuto di opportune sostanze, può essere «cancellato», almeno
temporaneamente. Destorifìcato, insomma, ancora una volta; certo,
con mezzi meno violenti, con una coercizione più larvata, con l’aiuto
di una guida paternalistica da parte del medico, fonte di consigli e
direttive rivolte ad un essere in stato di inferiorità. Per fortuna, in
molti casi, la comparsa dei neurolettici ha messo gli psichiatri di
fronte a malati non più «pericolosi» che richiedevano, con la loro
presenza e la loro disponibilità, con la riacquistata capacità di
contatto, che si facesse qualcosa per loro, che ci si occupasse della
loro anziché soltanto della loro malattia.

“Die einzige zur Zeit ernst zu nehmende Therapie der Schizophrenie


im ganzen ist die psychische. Leider sind wir aber auch da noch
nicht weit über eine blosse Empirie hinaus. Da die Symptomatologie
der Krankheit von den Komplexen beherrscht wird, und da man von
diesen aus oft in die Psyche der Kranken eindringen kann, sollte
man erwarten, dass man sie von da aus beinflussen könnte.
Besserungen auf psychische Einflüsse finden auch unzweifelhaft
statt, aber wir können im einzelnen Fall nicht sagen, was zu tun ist,
um die Besserung herbeizuführen, wir sind also auf Tasten
angewiesen, ja ich möchte sagen darauf, dem Zufall recht viele
Moglichkeiten zu bieten, damit er eine derselben benutzen könne.
Tut man das und im richtigen Moment, so kann man aber recht viel
erreichen”.

[«Per il momento, l’unica terapia della schizofrenia che noi possiamo


prendere sul serio è quella psichica. Purtroppo, anche qui non
andiamo al di là dei dati puramente empirici. Poiché la
sintomatologia della malattia è dominata dai complessi e poiché,
partendo da questi, spesso si può penetrare nella psiche del malato,
ci si dovrebbe aspettare di poterla influenzare servendoci di questo
particolare approccio. Senza dubbio si verificano miglioramenti in
seguito ad influssi psichici: purtroppo noi non possiamo dire, nel
caso specifico, che cosa si debba fare per provocare un
miglioramento; noi procediamo, insomma, a tentoni, e porgiamo al
caso il massimo delle possibilità sperando che esso scelga e utilizzi
una di queste. Facendo questo, ed al momento giusto, si può
ottenere veramente molto»] (6).

Nella fondamentale monografia di Bleuler (1911) le teorie di Freud


trovano accoglienza e risonanza. Bleuler dice testualmente nella sua
introduzione:

“… l’idea complessiva della demenza precoce deriva da Kraepelin; a


lui dobbiamo quasi esclusivamente anche il raggruppamento e la
distinzione dei singoli sintomi […] Una parte importante del tentativo
di sviluppare le nostre conoscenze in questo campo della patologia
non è altro che la applicazione delle idee di Freud alla demenza
precoce. Io penso che ogni lettore avrà chiara conoscenza di quanto
noi dobbiamo a questo autore…” (7).

Nel Burghözli Abraham e Jung si interessano attivamente dei


meccanismi psicogenetici delle psicosi endogene. Nei paesi della
Mitteleuropa, a lato delle ricerche di indirizzo organicistico, si
sviluppano le ricerche sulla psicogenesi e psicoterapia delle malattie
mentali. [Vedansi a questo proposito, tra gli altri, i lavori riassuntivi di
Ellenberger 1955, Benedetti 1956, C. Müller 1959 e la monografia di
Wyss 1961]. Siamo all’inizio di questo secolo. In Italia, in questo
periodo, ed in seguito, non succede nulla; la cultura
neuropsichiatrica italiana rimane impermeabile alle teorie
psicodinamiche. E’ interessante, a questo proposito, leggere alcuni
brani del “Trattato delle malattie mentali” di Tanzi e Lugaro, che nella
terza edizione del 1923 (ben dodici anni dopo l’opera di E. Bleuler) si
esprime così:

“Una teoria elaborata da S. Freud, che da principio non tendeva se


non a precisare e a generalizzare l’origine dei sintomi isterici fu
spinta alla spiegazione dell’omosessualità ed estesa da ultimo a
formare il fondamento patogenetico di tutte le psicosi funzionali Anzi,
“non manca nemmeno chi tenta applicarla persino alla genesi di
psicosi nelle quali è dimostrabile una lesione anatomica della
corteccia cerebrale” (8). S. Freud è ormai circondato da una schiera
di seguaci fanatici, che dànno alle idee, già molto farraginose, del
maestro uno sviluppo fantastico ed una pubblicità clamorosa” (p.
85).

“… la parte dottrinale della teoria che Freud propugna e che mira a


spiegare l’origine di molti fenomeni psicopatici per mezzo del
subcosciente e dell’incosciente […] non è che un edifizio di
ingegnose metafore che esprimono fenomeni e stati subiettivi in una
maniera pittoresca, ma che non indicano nulla di preciso, e non
riescono, malgrado il loro carattere descrittivo, a renderci alcun
conto del processo “organico” (8. che ad essi corrisponde” (p. 90).
Sulla interpretazione dei sogni:

“… anche su questa indagine incombe la plumbea preoccupazione


dei pervertimenti sessuali: i sogni, secondo Freud, non
rappresenterebbero che la realizzazione di un desiderio represso,
sempre di indole sessuale, e quasi sempre di natura perversa […]
Non ci saremmo indugiati su questo argomento, se queste
elucubrazioni dottrinarie non suscitassero un interesse che per molti
versi sa di patologico. Ma l’infatuazione dei neofiti passerà, e già
nella chiesa psicanalitica s’avverano scismi precursori dello sfacelo”
(p. 516).

Non stupisce che, dopo queste premesse, a distanza di parecchi


anni, il voluminoso trattato di “Psichiatria clinica e forense” di C.
Ferrio (1959, complessive 2216 pagine) dedichi a Freud quattro
brevissime citazioni che, messe insieme, coprono a fatica mezza
pagina. L’autore rimanda a trattati specialistici, dicendo
indirettamente che psichiatria e psicanalisi hanno poco da spartire.

In campo di psicoterapia delle psicosi, sinora, in Italia, non è


successo davvero nulla. Il citato lavoro di C. Müller (1959),
contenente 507 voci bibliografiche dalla letteratura internazionale,
contiene un unico richiamo ad un lavoro pubblicato in italiano, sulla
psicanalisi della epilessia. Sarà qui opportuno vedere brevemente
quello che è successo all’estero.

Negli altri paesi la psicoterapia è entrata in ospedale psichiatrico per


merito della psicoanalisi. Essa ha tentato sin dall’inizio,
contrariamente alle terapie somatiche e farmacologiche, di mettere
in risalto la storia, e non soltanto la storia clinica, del malato; ha
tentato di rendere chiare le dinamiche psicologiche che hanno
preceduto il manifestarsi di sintomi psicopatologici conclamati.
Soprattutto essa ha voluto salvare la “continuità” dell’esistenza del
malato, prima fratturata dagli interventi di shock.

Purtroppo si deve dire che la psicoterapia, pure avendo un profondo


e rivoluzionario significato per quanto riguarda il futuro della
psichiatria, non è riuscita nel suo intento clinico. “Questa nuova
corrente, nell’ambito delle cliniche psichiatriche, si è inserita ed
allineata accanto alle altre terapie, affrontando queste ultime ad un
livello tecnico, avente come base il criterio - molto dibattuto - del
miglioramento, anziché prendere una posizione di contestazione,
tendente a mettere in crisi il significato della istituzione e delle
terapie in essa praticate ed a subordinare queste ultime ad una
visione essenzialmente psicoterapica dell’istituzione psichiatrica”. Il
compito della psicoterapia sarebbe quello di rivoluzionare la struttura
dell’ospedale psichiatrico, di porre in discussione ed in crisi un gran
numero di presupposti e pregiudizi nosografici che hanno da un lato
la comoda e passiva approvazione di buona parte degli psichiatri e
confermano dall’altro la validità della istituzione psichiatrica quale
essa è stata sinora. Invece la psicoterapia ha accettato il
compromesso ed il malinteso psichiatrico. Essa è stata
«somministrata» in un ambiente che con i suoi sistemi di controllo e
di sicurezza, aventi le loro radici nel terrore della malattia mentale,
impedisce una vera comunicazione tra paziente e medico ed elimina
le possibilità di stabilire un vero e proprio contatto terapeutico. Un
altro malinteso ha avuto come base il tentativo, da parte degli
psicanalisti, di dimostrare che le schizofrenie croniche possono
essere curate con gli strumenti terapeutici della psicanalisi. Tale
tendenza ha portato gli psicanalisti a dibattere il problema eziologico
della malattia mentale: in tal modo una ricerca eziologico-
psicogenetica si è allineata e contrapposta ad altre ricerche nel
campo della somatogenesi di queste malattie. Così è continuata la
sterile polemica tra psicogenetisti e somatogenetisti nei confronti
della malattia mentale. Intanto, gli ospedali psichiatrici continuano ad
essere quello che sono: luoghi di custodia e di eventuale ricupero
dei malati mentali. La psicoterapia ha avuto il torto di fare di alcuni
casi psichiatrici «bei casi» casi «interessanti» anziché mettere in
crisi l’intera istituzione, pretendendo una nuova struttura degli
ospedali psichiatrici, nella quale sia possibile una psicoterapia.
D’altra parte è ovvio che le cose siano andate così. La maggior parte
degli psicoterapeuti delle schizofrenie è costituita da psicanalisti:
essi, per formazione e per indirizzo specialistico sono portati a dare il
massimo risalto alla dinamica individuale del paziente, trascurando
talvolta più vasti problemi di carattere sociale. Nella maggior parte
dei casi essi hanno una funzione subordinata nell’istituzione
psichiatrica, il che li rende dipendenti e dà loro scarsa possibilità di
decisione e di scelta. Inoltre, come abbiamo visto, per affermare la
validità del loro metodo terapeutico nel campo delle schizofrenie,
essi hanno rivolto la loro attenzione ai casi «cronici», ritenuti
irrecuperabili; questo perché i casi acuti hanno, in genere, una
evoluzione «benigna». Così, la psicoterapia delle schizofrenie,
anziché rivolgere la sua preminente attenzione alle prime
manifestazioni di questo male (9), ha tentato di guarire alcuni casi
che erano stati abbandonati al loro destino dalla psichiatria
tradizionale, dopo svariati tentativi di cure somatiche. Una buona
parte delle imprese terapeutiche nel campo delle schizofrenie
croniche ha dato risultati incerti, ciò ha permesso agli psichiatri
tradizionali di dubitare della validità della psicoterapia delle psicosi e
di confermare la necessità inevitabile dell’attuale istituzione
psichiatrica.

In altre parole, la psicoterapia, entrata nell’ospedale psichiatrico con


il significato di una rivoluzione “totale” di questa istituzione
anacronistica, ne è uscita per tornare nello studio degli psicanalisti o
entrare nelle cliniche private. Ma non poteva andare diversamente.
Psicoterapeuti che hanno tentato una esperienza attiva in ospedale
psichiatrico hanno espresso giudizi pessimistici sulla possibilità di un
approccio psicoterapico nell’interno della istituzione psichiatrica;
Rosen considera, per esempio, l’ospedale psichiatrico come un
ambiente dannoso allo schizofrenico; Sullivan vede questa
istituzione «diabolicamente organizzata per rendere il malato
incurabile»; Meerwein indica quanto sia difficile per uno
psicoterapeuta fare veramente qualcosa in ospedale psichiatrico
(citati da Ellenberger 1955 e C. Müller 1959). Per non citare che
alcuni nomi: tutti coloro che hanno avuto una personale esperienza
di psicoterapia delle psicosi sanno che è praticamente impossibile
curare un malato nell’interno di una istituzione che nega, con il suo
«funzionamento», il significato ed il vero problema della malattia
mentale. E questo succede in paesi ben più evoluti del nostro.
“Parlare del ruolo della psicoterapia in riferimento all’organizzazione
ospedaliera psichiatrica in Italia, presuppone la conoscenza dello
stato reale della stessa psichiatria in Italia: conoscendo su quale
piano si muova, su quale realtà sociale e culturale poggi, a quale
grado di istituzionalizzazione sia giunta, parlare di psicoterapia come
routine di lavoro suona quasi un’irrisione verso i ricoverati della
maggior parte dei nostri istituti psichiatrici” (10).

Ci troviamo, in Italia, di fronte ad un tutto da fare meglio, ad un tutto


da disfare, ad un tutto da rifare. Non dobbiamo, tenendo conto della
altrui esperienza, compiere l’errore di inserire la psicoterapia
individuale tra le terapie somatiche nell’ambito chiuso, coartato ed
anacronistico della istituzione psichiatrica. Uno psicoterapeuta che si
adatti, all’interno di una simile istituzione, a somministrare colloqui
ad un singolo malato, compirà una fatica di sisifo, tentando di
trasportare l’atmosfera dello studio psicanalistico in una prigione
condotta paternalisticamente con criteri che vogliono soltanto
rendere il malato tranquillo ed inoffensivo.

Purtroppo, in Italia, noi cominciamo spesso dalla fine: riceviamo


elasticamente e senza troppo meditare i prodotti importati da culture
psichiatriche che hanno ben altre radici e dimensioni storiche e
sociali delle nostre e li immettiamo, con deprecabile intenzione di
«aggiornamento» nelle nostre decrepite tradizionali strutture.
Accettiamo tutto, siamo aperti a tutto: così, in un ospedale o in una
clinica dove i pazienti vengono tenuti a letto, dove continua ad
essere praticato il giro dell’aiuto con i suoi assistenti, dove l’esame
psichiatrico del malato viene fatto praticamente in pubblico, dove
l’elettroshock viene somministrato in presenza di altri malati, ad un
certo punto si presenta qualche psicoterapeuta sprovveduto che,
ritirandosi in una camera casualmente disponibile pretende di creare
un approccio psicoterapico. Il direttore dell’ospedale potrà così
affermare che nel suo istituto si pratica “anche” la psicoterapia: e
questo è prodotto da inequivocabile malafede. “La psicoterapia può
essere realizzata esclusivamente in un ambiente che sia, di per sé,
psicoterapico”: i pazienti non dovrebbero neppure accorgersi che «si
fa» della psicoterapia.
In Italia, ed altrove, la psichiatria deve percorrere inevitabili sviluppi.
Nell’ambito di tali sviluppi la psicoterapia, intesa come cura
caratterizzata da un rapporto personale, intenso e regolare tra il
medico e il malato e dall’analisi dei fattori personali, familiari e sociali
che possono aver determinato o favorito dei disturbi psichici,
costituisce l’ultima di una serie di innovazioni attraverso le quali deve
passare l’istituzione psichiatrica. Sino ad oggi, nonostante l’infinita
serie di accuratissime ricerche condotte soprattutto dagli autori di
lingua tedesca, non abbiamo criteri prognostici sufficientemente
validi nel campo delle schizofrenie; noi non sappiamo, in realtà,
quale sia il decorso spontaneo delle malattie mentali endogene per il
semplice fatto che i pazienti sinora esaminati sono stati mantenuti in
un’istituzione in cui la spontaneità di un decorso è stata
sfavorevolmente influenzata dall’isolamento, dalla impossibilità di un
rapporto umano, da incredibili ed inutili sistemi di controllo. I nostri
strumenti di giudizio nei confronti dei decorsi della malattia sono stati
sinora fortemente limitati da una realtà istituzionale che anziché
tentare di guarire la malattia non ha fatto altro che alimentarla
considerandola oggetto di ricerca al difuori di ogni contesto umano.
Soltanto in un ospedale psichiatrico veramente libero e nuovo,
soltanto in una atmosfera di comunicazione ai diversi livelli - tra
pazienti, personale e medici - noi avremo possibilità di stabilire forse
nuovi criteri prognostici, di distinguere tra decorsi e forme più o
meno gravi, d intravedere la possibilità di una nuova nosografia
psichiatrica. Questo è il primo fondamentale passo che deve fare la
psichiatria.

La psichiatria è giunta ad una svolta in cui non sono più possibili


piccole riforme o trattamenti aggiunti. Allo stesso modo, la
psicoterapia non può essere considerata qualcosa che viene dato
«in più» al malato di mente, non può entrare a far parte delle
incrostazioni successive che si sono depositate a formare
l’istituzione psichiatrica; essa deve, soprattutto, mettere in crisi
questa istituzione ed imporre la necessità di ospedali psichiatrici
completamente nuovi.
Questo significa: una concezione del tutto nuova della architettura
psichiatrica; un personale di assistenza opportunamente istruito,
cosciente, responsabile e partecipante a tutti i livelli della vita
dell’ospedale; una équipe di psicologi, sociologi e assistenti sociali
specificatamente preparati, una équipe medico-psichiatrica dotata di
buone conoscenze in campo psicanalitico e psicodinamico,
conoscenze altrettanto utili per una direzione psicoterapica
dell’istituto, quanto per il superamento dei problemi interpersonali
all’interno dei gruppi.

Il problema della psichiatria italiana è, in effetti, ancora più grave di


quanto possa apparire ad una prima analisi. Saranno necessari
addirittura decenni per rivoluzionare alla base le istituzioni
psichiatriche: sarà necessario preparare tempestivamente centinaia
di medici provvisti di una preparazione specifica, in grado di curare i
malati e formare il personale di assistenza; sarà necessario che
psicanalisi, psicoterapia e psichiatria clinica stabiliscano una aperta
collaborazione che in altri paesi è stata iniziata da tempo e che da
noi, a causa di vecchi problemi di priorità e della chiusura cieca ed
assoluta di alcuni centri di potere, non esiste ancora.

Le persone responsabili dell’attuale stato dell’istituzione psichiatrica


italiana devono provvedere con una urgente ed adeguata
legislazione e pianificazione: se questo non avviene, rischieremo di
ridurci sempre di più nello stato di una colonia che importa con
inevitabile ritardo idee e innovazioni che in altri paesi si sono
affermate da tempo per inserirle frettolosamente in strutture
istituzionali indegne di un paese civile.

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COMMENTO A E. GOFFMAN,
“LA CARRIERA MORALE DEL MALATO MENTALE”

di Franca Ongaro Basaglia (1).

“… parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta:


ecco perché è non-umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui
l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo”.

PRIMO LEVI

Il termine «carriera» è riservato abitualmente ad un tipo di privilegi


goduti da chi progredisce, secondo tappe graduali, in una
professione di successo. Si usa tuttavia lo stesso termine, in senso
più ampio, per riferirsi ad una sorta di filo conduttore - di carattere
sociale - seguito nel ciclo dell’intera vita di una persona. Si adottano
qui i metodi delle scienze naturali, tralasciando cioè i singoli risultati
particolari, per mettere l’accento sui mutamenti fondamentali che si
rivelano comuni, nel tempo, ai membri di una categoria sociale, pur
verificandosi in modo indipendente. E’ dunque evidente che una
carriera, intesa in tal senso, non può essere ritenuta né brillante né
deludente, né un successo né un fallimento e appunto, sotto questa
luce, intendo avvicinare il malato mentale.

Uno dei vantaggi del concetto di carriera è che presenta,


contemporaneamente, due facce. L’una si ricollega a meccanismi
interni, gelosamente custoditi, come l’immagine di “sé” ed il
sentimento di identità; l’altra riguarda invece la posizione ufficiale, la
figura giuridica, lo stile di vita e fa parte di un complesso istituzionale
che proviene dall’esterno. Un tale concetto permette di passare dal
personale al pubblico e viceversa, senza dover ricorrere, per la
raccolta dei dati, all’immagine di “sé” che ogni persona si costruisce.

Questo articolo è un saggio sullo studio del “sé” nell’ambito di un


istituto e concerne, soprattutto, gli aspetti “morali” della carriera che
in esso si svolge - vale a dire l’insieme di mutamenti regolari nel “sé”
e nell’immagine di “sé” di una persona, così come nel giudizio di “sé”
e degli altri che tale carriera comporta.

La categoria dei «malati mentali» è qui intesa in senso strettamente


sociologico [1] [* I numeri fra parentesi quadra rinviano al commento
di Franca Basaglia Ongaro, alla fine del saggio]. In questa
prospettiva la valutazione psichiatrica di una persona assume
significato solo nel momento in cui essa ne alteri il destino sociale -
alterazione che diventa fondamentale nella nostra società quando, e
soltanto quando, la persona viene immessa nel processo di
ospedalizzazione. Escludo quindi altre categorie affini: i possibili
candidati che sarebbero giudicati «malati» secondo criteri
psichiatrici, ma che non arrivano mai al punto di essere ritenuti tali
da sé o dagli altri, sebbene possano causare notevoli difficoltà; il
paziente che lo psichiatra ritiene di poter trattare ambulatoriamente
con farmaci o shock; o quello in trattamento psicoterapico. Includo
invece chiunque venga preso, in un modo o nell’altro, nel pesante
ingranaggio del servizio ospedaliero psichiatrico, indipendentemente
dalla sua struttura personale. In questo senso gli effetti derivanti
dall’essere trattato come malato mentale, possono essere tenuti
distinti da quelli cui va incontro una persona con caratteristiche che
un clinico riterrebbe psicopatologiche. I malati che si ricoverano negli
ospedali psichiatrici variano fra di loro nel tipo di malattia, nel grado
di gravità diagnosticato dallo psichiatra e nelle caratteristiche con cui
li descriverebbe un profano. Pure, una volta immessi in questa
dimensione, si trovano ad affrontare circostanze del tutto analoghe,
cui reagiscono in maniera del tutto analoga. Siccome però queste
analogie non derivano dalla malattia mentale, si potrebbe dire si
verifichino suo malgrado. E’ quindi un riconoscimento del Potere
delle forze sociali il fatto che la condizione uniforme di «malato
mentale» sia in grado di determinare in un insieme di persone, un
destino e quindi un carattere comune, tenendo anche presente che
questo tipo di pressione sociale si verifica sul materiale umano più
ostinatamente diverso che si possa raggruppare. Manca qui il
frequente costituirsi di una vita protettiva di gruppo fra ex ricoverati,
per poter illustrare il ciclo classico di reazioni, attraverso le quali,
persone «disadattate» si trovano a costituire, psicodinamicamente,
dei sottogruppi nella società.

Questa prospettiva sociologica generale è notevolmente rafforzata


da una scoperta cruciale, messa in luce da studiosi di sociologia, nel
corso di ricerche in ospedali psichiatrici. Come è stato più volte
dimostrato nello studio di società preletterate, il disgusto, il disagio e
l’impressione di barbarie provocati da una cultura estranea alla
propria, possono diminuire nella misura in cui lo studioso si
familiarizza con la concezione di vita di chi sta esaminando. In modo
analogo colui che fa ricerche in un ospedale psichiatrico può
scoprire che la follia o il «comportamento malato» attribuito al
paziente è, in gran parte, prodotta dalla distanza sociale fra chi
giudica e la situazione in cui il paziente si trova e non,
principalmente, dalla malattia mentale [2]. Indipendentemente dalla
precisione della diagnosi dei vari pazienti, e indipendentemente dai
particolari aspetti per cui la vita sociale all’interno dell’ospedale
risulta unica, il ricercatore può rendersi conto di partecipare ad una
comunità che non differisce in modo significativo da qualsiasi altra
abbia studiato. Naturalmente, se vive ristretto nei limiti di un reparto
semiaperto, può avere l’impressione - come del resto accade ad
alcuni pazienti - che la vita nei reparti chiusi sia invece strana; se si
trova in un reparto chiuso di osservazione o convalescenza, può
avere l’impressione che i reparti per cronici siano luoghi socialmente
assurdi. Basta però che partecipi direttamente alla vita dei reparti
«peggiori» dell’ospedale, per mettere anche questi socialmente a
fuoco come un mondo vivo e pieno di sempre nuovi significati. Il che
non esclude tuttavia che possa trovare, in ogni reparto o gruppo di
pazienti, una minoranza che continua ad apparirgli come incapace di
seguire le regole di un’organizzazione sociale; oppure che
l’adattamento alle regole della comunità sia reso, in parte, possibile
da misure strategiche che si sono istituzionalizzate negli ospedali
psichiatrici.

La carriera del malato mentale comprende, come si sa, tre fasi


principali: il periodo che precede l’ospedalizzazione che chiamerò la
fase del “predegente”; il periodo del ricovero, cioè la fase del
“degente”; e il periodo successivo alla dimissione dall’ospedale, se
questa avviene, cioè la fase dell‘“ex degente”. Questo articolo si
limiterà all’analisi delle due prime fasi.

- La fase del predegente.

Un numero relativamente piccolo di predegenti entra in ospedale


psichiatrico spontaneamente, perché lo ritiene utile o perché
concorda appieno con le decisioni dei familiari. E’ probabile che
queste reclute si siano trovate ad agire in modo da dimostrare a se
stesse che stavano perdendo il senno o il controllo di sé. Nella
nostra società, questo modo di vedersi, di giudicarsi, sembra una
delle più gravi minacce che possa colpire il “sé”, specialmente
perché è facile sopravvenga quando la persona è già abbastanza
turbata per rivelare il tipo di sintomi che essa stessa è in grado di
giudicare. Sullivan così lo descrive:

“Ciò che scopriamo nel sistema del sé di una persona che cade
vittima di un’evoluzione schizofrenica o di un processo schizofrenico
è, dunque, nella sua forma più semplice, una perplessità fortemente
caratterizzata da un sentimento di timore, che consiste nell’uso di
processi di pensiero piuttosto generalizzati e per nulla perfezionati;
processi cui si ricorre nel tentativo di far fronte all’incapacità di
essere uomo - all’incapacità, cioè, di essere qualcosa che possa
venire rispettata come degna di esistere”.

Alla necessità di ricostruire la propria disintegrazione si associa - in


chi ne soffre - la necessità, quasi altrettanto opprimente, di
nascondere agli altri quelli che ritiene dei mutamenti fondamentali
avvenuti in lui, e di tentare di scoprire se anche gli altri se ne sono
accorti. Ciò che intendo dire è che la percezione di perdere il senno
è legata a stereotipi culturali e sociali che riconoscono grande
importanza a sintomi quali l’udire voci, perdere l’orientamento
spaziotemporale, avere la sensazione d’essere inseguiti; sintomi
che, in realtà, sono spesso psichiatricamente ritenuti un semplice e
temporaneo sconvolgimento emotivo in una situazione stressante,
per quanto terrificante possa risultare una tale esperienza per chi la
vive [3]. Analogamente, l’ansia scatenata da questa percezione di
“sé” e le strategie adottate per ridurla, non sono di per sé anormali,
ma corrispondono esattamente a quelle che manifesterebbe
chiunque appartenesse alla nostra cultura ed avvertisse di essere
sul punto di perdere il senno. E’ interessante notare come le varie
subculture nella società americana differiscano palesemente nella
quantità di stereotipi e nel tipo di incitamento che offrono per una
tale visione di sé, così che si riscontrano livelli diversi di
“autodenunce”. Comunque, questa capacità di giudicare il grado
della propria disintegrazione, senza alcun intervento da parte di
psichiatri, sembra uno dei privilegi culturali - alquanto discutibile -
delle classi superiori.

Per colui il quale sia giunto a considerarsi - in modo più o meno


giustificato - come mentalmente squilibrato, l’entrata in ospedale
psichiatrico può talvolta portare sollievo, forse, in parte, a causa
della rapida trasformazione del suo status sociale: invece di essere,
ai propri occhi, una persona discutibile che tenta di conservare il
ruolo di persona integra, diventa una persona ufficialmente discussa
ma che, ai propri occhi, non lo è poi tanto. In altri casi invece
l’ospedalizzazione può peggiorare lo stato del malato che si ricovera
spontaneamente, nel suo riconoscere confermato, in una situazione
obiettiva, ciò che era stato prima solo un’esperienza personale.

Una volta entrato in ospedale, il malato che si ricovera


spontaneamente viene immesso nella stessa routine di esperienze
di chi viene ricoverato a forza. E’ comunque a quest’ultimo tipo che
voglio riferirmi, dato che attualmente in America esso costituisce il
gruppo di gran lunga più numeroso. L’ingresso dei pazienti
nell’ospedale può avvenire secondo tre forme classiche: perché
supplicati dai familiari o sotto la minaccia di perdere i legami con la
famiglia qualora rifiutino di entrare «spontaneamente»; con la forza,
accompagnati dalla polizia; a loro insaputa, indotti con sotterfugi da
altri, caso quest’ultimo limitato soprattutto ai giovani.

La carriera del predegente può essere ritenuta un modello di


esclusione [4]: egli si presenta come un uomo dotato di diritti e di
legami con il mondo, di cui già all’inizio del suo soggiorno in
ospedale, non rivela quasi più traccia. Gli aspetti morali di tale
carriera incominciano quindi, di solito, con un’esperienza di
abbandono, di slealtà e di amarezza, sia che siano gli altri a ritenere
necessario il ricovero, sia che il malato stesso, una volta entrato in
ospedale, concordi con una tale soluzione.

La storia della maggior parte dei pazienti mentali presenta casi di


trasgressione alle norme del vivere sociale - nel proprio ambiente
familiare, nel posto di lavoro, in una organizzazione semipubblica
come una chiesa o un grande magazzino, in zone pubbliche come
strade o parchi. Spesso la cosa viene riferita da un “accusatore” che
risulta così colui che ha dato l’avvio al ciclo che porterà l’accusato
alla ospedalizzazione. Costui può anche non essere quello che fa il
primo passo, ma quello che ha portato alla prima azione
determinante. E’ qui che comincia “socialmente” la carriera del
paziente, e ciò prescindendo dal momento in cui può collocarsi
l’inizio psicologico della sua malattia mentale.

I tipi di trasgressione che portano all’ospedalizzazione sono


socialmente vissuti in modo diverso da quelli che portano ad altri
esempi di esclusione - detenzione, divorzio, perdita del lavoro,
ripudio, esilio, trattamento psichiatrico non istituzionale eccetera.
Ben poco si sa però sui fattori che determinerebbero tali differenze e
quando si studiano i fatti relativi ad un internamento, risulta spesso
evidente che sarebbe stato possibile trovare anche altre soluzioni.
Appare vero, inoltre, che per ogni tipo di trasgressione che porti ad
una denuncia, ve ne sono molte altre - simili dal punto di vista
psichiatrico - che tuttavia non portano alle medesime conseguenze.
Nessuna azione viene intrapresa; oppure viene intrapresa un’azione
che porta ad altro tipo di esclusione; oppure l’azione intrapresa non
ha effetti determinanti dato che serve a tranquillizzare l’accusatore o
a farlo desistere dalla denuncia. Così, come Clausen e Yarrow
hanno dimostrato, anche trasgressori delle norme che, alla fine,
vengono ospedalizzati, spesso sono già stati oggetto di una serie di
azioni intraprese contro di loro, senza risultato.

Separando le trasgressioni che avrebbero potuto essere prese come


giustificazione al ricovero, da quelle che sono effettivamente usate a
questo scopo, si trova un gran numero di ciò che gli studiosi
dell’occupazione e del lavoro chiamano «contingenze di carriera».
Alcune di queste contingenze nella carriera del malato mentale sono
già state indicate, se non proprio indagate: la condizione economica,
la clamorosità della trasgressione, la vicinanza di un ospedale
psichiatrico, la possibilità di trattamento, l’opinione della comunità sul
tipo di trattamento attuato negli ospedali disponibili e così via. Per
ulteriori informazioni su altre serie di contingenze ci si può riferire a
fatti di cronaca: uno psicotico è tollerato dalla moglie fino a quando
non si sia trovata un amico, o dai figli adulti finché non si siano
trasferiti in un altro appartamento; un alcolista viene inviato in
ospedale psichiatrico perché non c’è posto in prigione; un
tossicomane perché rifiuta un trattamento psichiatrico ambulatoriale;
una adolescente ribelle perché non viene più tollerata in famiglia in
seguito ad una relazione con un uomo non adatto, eccetera. In
corrispondenza ad esse, esiste tuttavia una serie di contingenze
opposte, altrettanto importanti, che consentono di evitare questo
destino. Quando poi il predegente entra in ospedale, sarà ancora
una serie di contingenze che contribuirà a determinare il momento
della dimissione: il desiderio della famiglia di riaverlo in casa, la
possibilità di trovare un lavoro adatto e così via. Il fatto dunque che
la società ritenga, ufficialmente, che i ricoverati negli ospedali
psichiatrici si trovino in quella situazione perché sono dei malati
mentali, non pare corrisponda alla realtà. Se si pensa che i «malati
di mente» che vivono liberamente fuori dagli ospedali si avvicinano,
come numerose addirittura non lo superano - a quelli che sono
invece ricoverati, si potrebbe concludere che ciò che distingue i
secondi dai primi non è il tipo di malattia, quanto piuttosto un certo
numero di contingenze.
Le contingenze di carriera si verificano, per il predegente, associate
ad un altro elemento: il circuito di agenti e di enti che influiscono sul
suo destino nel passaggio dallo status civile a quello di degente. Si
ha qui un esempio di quell’importante insieme del sistema sociale,
costituito appunto da agenti ed enti, che convergono nell’occuparsi
della stessa persona, spingendola verso l’ospedale. E’ il caso di
citare alcuni di questi ruoli di agente, tenendo conto che in ogni
insieme, un ruolo può essere coperto più di una volta, e che una
persona può coprirne più d’uno.

Primo, la «“persona di fiducia”» (next-of-relation), colui che il malato


considera il più accessibile e disponibile in caso di bisogno: l’ultimo a
metterne in dubbio lo stato di salute mentale e il primo disposto a
fare il possibile per salvarlo dal destino che gli si prepara. Si tratta di
solito di un parente stretto, ma ho qui preferito usare questo termine
specifico, perché non è detto che lo debba essere sempre. In
secondo luogo c’è l‘“accusatore”, quello che per primo ha dato
l’avvio alla serie di contingenze che portano il paziente
all’ospedalizzazione. Ultimi i “mediatori”, l’insieme di agenti ed enti
cui il predegente viene segnalato e che lo segue nel suo procedere
verso l’ospedale: polizia, clero, medici generici, psichiatri, personale
di cliniche, legali, assistenti sociali, insegnanti scolastici, eccetera.
Solo uno di questi personaggi avrà il mandato legale di consegnare il
paziente all’ospedale, mentre gli altri avranno soltanto partecipato ad
un processo le cui conseguenze non erano ancora definite. Quando i
mediatori escono dalla scena, è allora che il predegente diventa un
degente, affidato ad un unico agente che è il direttore dell’ospedale.

L’accusatore non agisce, abitualmente, in veste professionale ma


come cittadino, come datore di lavoro, come vicino di casa o parente
del paziente; mentre i mediatori sono, per lo più, specialisti che
presentano una notevole distanza dall’oggetto di cui si occupano:
hanno un’esperienza cui riferirsi nel trattare i problemi e quindi un
certo distacco professionale. Ad eccezione dei poliziotti e forse di
una parte del clero, essi tendono a formarsi un orientamento
psichiatrico così da poter diagnosticare - più di quanto non possa
fare il profano - quando si presenta la necessità di un trattamento [5].
Un aspetto interessante è dato dagli effetti del reciproco interagire
dei ruoli. Ad esempio i sentimenti del paziente possono essere
diversamente influenzati a seconda che colui che esercita il ruolo di
accusatore abbia, più o meno, anche quello di “persona di fiducia”,
combinazione alquanto imbarazzante che si verifica più di frequente
nelle classi superiori che in quelle inferiori. Consideriamo ora alcuni
degli effetti che ne derivano.

Nel cammino che da casa lo conduce all’ospedale, il paziente può


viversi come l’oggetto di ciò che ritiene una sorta di coalizione
“alienante”. La “persona di fiducia” fa pressione su di lui perché vada
a discutere a fondo la cosa con un medico, uno psichiatra, o
comunque un competente. Se rifiuta di farlo, si minaccia di
abbandonarlo e di ricorrere ad azioni legali; oppure gli si assicura
che si tratta di un incontro di carattere puramente interlocutorio. Nel
frattempo però la “persona di fiducia” si sarà preoccupata di
predisporre la visita scegliendo il professionista, stabilendo
l’appuntamento, illustrandone già prima il caso: passi questi che
tendono, in effetti, a definire la posizione della “persona di fiducia”
come la responsabile cui si può comunicare i risultati dell’incontro, e
la posizione dell’altro, come quella di un malato. Spesso il
predegente va a farsi visitare presumendo di essere esattamente
allo stesso livello del suo accompagnatore, cui è legato tanto
intimamente da non supporre che una terza persona sia in grado di
interferire fra di loro su questioni fondamentali (il che del resto è uno
dei modi in cui vengono definiti i legami profondi nella nostra
società). Pure, non appena entra nell’ambulatorio, il predegente
scopre che a lui e alla “persona di fiducia” che lo accompagna non
sono riconosciuti gli stessi ruoli; che una evidente, precedente intesa
lega il suo accompagnatore al professionista, e ciò a suo danno.
Spesso il professionista può intrattenersi prima con il paziente da
solo - per formulare una diagnosi - e successivamente con la
“persona di fiducia” per darle un responso, evitando accuratamente
di discutere la cosa seriamente in presenza di entrambi. Anche nei
casi in cui non si tratta, in realtà, di una consultazione, quanto
piuttosto di un’azione di forza intesa a strappare il malato alla
famiglia che vorrebbe tenerlo con sé, la “persona di fiducia” è spesso
indotta a prender parte all’azione generale, per cui il predegente si
sente oggetto di una sorta di “coalizione alienante” organizzata
contro di lui.

La percezione di essere l’oggetto di una congiura di tal tipo può


amareggiare il predegente, soprattutto per il fatto che i disturbi di cui
soffre lo hanno già portato - è probabile - ad un certo distacco dalla
“persona di fiducia”. Tuttavia, dopo il suo ingresso in ospedale, il
fatto che la “persona di fiducia” venga a visitarlo spesso, può dargli
la consapevolezza che tutto sia stato fatto nel suo interesse; mentre
le prime visite lo potranno rinforzare, temporaneamente, nella
convinzione di essere stato abbandonato. Accade allora facilmente
che il paziente implori l’amico di farlo uscire di là, di fargli almeno
ottenere qualche privilegio o di capire la mostruosità della sua
situazione - al che l’amico non può che rispondere incitandolo a
sperare, non «dando seguito» alle sue richieste, oppure
rassicurandolo sulle capacità tecniche dei sanitari che faranno il loro
meglio per curarlo. Tuttavia, a questo punto, il visitatore se ne va,
ritornando - semplicemente - nel mondo che il paziente sa, ricco di
libertà e privilegi, mentre a lui resta il sospetto che l’amico stia solo
tentando di stendere un velo di pietà su un caso palese di
abbandono e di tradimento.

Questo amaro sentimento può essere aggravato, inoltre, dalla


presenza di un estraneo che agisce come testimone della sua
posizione; fattore, quest’ultimo, che ha grande importanza in molte
situazioni a tre. E’ facile infatti che una persona offesa si comporti
con tolleranza ed accondiscendenza verso chi l’ha offesa, qualora i
due contendenti siano soli, anteponendo il quieto vivere alla
giustizia. La presenza di un testimone sembra, invece, aggiungere
un significato particolare all’offesa, perché non è più in potere
dell’offeso e dell’offensore, dimenticare, cancellare e rimuovere
l’accaduto: l’offesa è diventata un fatto sociale, un avvenimento
pubblico. Se poi - come talvolta succede - il testimone di un tale
tradimento sia la commissione giuridica di igiene mentale, la cosa
assume allora il carattere di una «cerimonia di degradazione». In
questo caso il paziente offeso può sentire la necessità di un ampio
atto riparatorio, per ristabilire il suo onore ed il suo valore sociale.

Sono da ricordare altri due elementi impliciti nel sentimento di


tradimento. Primo, il fatto che coloro i quali hanno spinto il malato al
ricovero è probabile non gli abbiano dato una visione realistica di
quanto la cosa possa incidere in lui. Spesso gli viene solo detto che
lì potrà avere il trattamento medico di cui ha bisogno ed un periodo
di riposo: potrà dunque uscire in pochi mesi. In alcuni casi chi lo
incita al ricovero nasconde al malato ciò che sa, ma penso, in
generale, dicano quello che credono sia vero. In realtà, c’è una
differenza notevole fra il punto di vista del degente e quello dei
mediatori professionali. I “mediatori”, più di quanto non faccia il
pubblico in genere, non giudicano gli ospedali psichiatrici luoghi di
esilio forzato, ma istituzioni sanitarie per degenze a breve scadenza,
nelle quali si può ottenere la cura e il riposo necessari [6]. Quando
però il predegente entra in ospedale, impara molto rapidamente che
le cose sono ben diverse e scopre allora che le informazioni avute
sulla vita dell’ospedale sono servite soltanto a fargli opporre meno
resistenza al suo ricovero, di quanta ne avrebbe opposta se
realmente avesse saputo come stavano le cose. Così, quali che
fossero le intenzioni di coloro che hanno contribuito al suo passaggio
dal ruolo di persona a quello di paziente, non può vivere la nuova
esperienza che come un inganno, che l’ha condotto alla sua attuale
penosa situazione.

Ciò che intendo dire è che il predegente inizia la sua carriera con
almeno una parte di diritti, libertà, soddisfazioni propri di un civile, e
finisce in un reparto psichiatrico, spogliato quasi completamente di
tutto. Il problema è ora il “modo” in cui questo accade, ed è il
secondo aspetto del tradimento che voglio considerare.

Così come lo può vedere il predegente, il cerchio di figure


determinanti nella sua carriera assume, ai suoi occhi, il significato di
una sorta di «vortice degli inganni». Il passaggio dal ruolo di persona
a quello di degente può, infatti, avvenire attraverso una serie di fasi
collegate, ciascuna controllata da un agente diverso. Mentre ogni
fase tende a portare una netta diminuzione nello status di persona
libera del predegente, ogni agente può tentare di fingere che non ci
saranno ulteriori diminuzioni e può perfino riuscire ad indirizzare il
predegente all’agente successivo, mantenendo una tale finzione.
Inoltre ogni agente richiede implicitamente al predegente con parole,
cenni, gesti - di intrattenersi con lui in una conversazione superficiale
ed educata evitando, con tatto, di toccare certi aspetti amministrativi
della situazione; conversazione che va facendosi gradualmente
sempre più irreale, in netto contrasto con la situazione concreta [7].
La moglie preferisce non dover piangere per convincere il marito a
farsi visitare dallo psichiatra; lo psichiatra preferisce evitare scene
clamorose nel momento in cui il predegente capisce che dovrà
essere visitato separatamente dalla moglie, e in modo diverso; la
polizia raramente porta un predegente all’ospedale in camicia di
forza: trova più comodo offrirgli sigarette, dirgli parole gentili e dargli
la possibilità di rilassarsi sul sedile posteriore dell’automobile; lo
stesso psichiatra addetto all’accettazione dei malati trova più
conveniente fare il suo lavoro nella quiete e nell’eleganza del suo
studio, dove ci siano segni, indicazioni puramente accidentali, che
possano far ritenere l’ospedale come un luogo veramente
confortevole. Se il predegente presta ascolto a queste implicite
richieste e si comporta nel complesso discretamente, può percorrere
l’intero ciclo da casa all’ospedale, senza costringere chi gli sta
attorno a rendersi conto di quello che sta realmente succedendo,
evitandogli quindi di affrontare la cruda emozione che la drammatica
situazione potrebbe fargli esprimere. Il suo tenere in considerazione
quelli che lo spingono verso l’ospedale, consente loro di tenerlo, a
sua volta, in considerazione, con il risultato che queste interazioni
riescono a sostenersi sulla base dell’armonia protettiva, tipica dei
normali rapporti amichevoli che intercorrono fra due persone. Ma, se
appena il nuovo degente ripercorre con la mente la sequenza dei
passi che l’hanno portato all’ospedale, può avvertire che ci si è dati
da fare per mantenere in equilibrio il benessere momentaneo di tutti,
a scapito del suo benessere futuro, e una tale scoperta può
costituire un’esperienza morale che lo separa ulteriormente dal
mondo «di fuori».
Ora considererò l’insieme degli agenti partecipanti alla carriera del
malato, dal loro punto di vista. I “mediatori” che partecipano al suo
passaggio dallo status civile a quello di degente - così come coloro
che ne curano la custodia una volta ricoverato - hanno interesse a
stabilire che la “persona di fiducia” responsabile assuma, nei
confronti del degente, il ruolo di tutore o di “guardiano”; ove non ci
fosse un candidato naturale per questo ruolo, se ne può trovare uno
e persuaderlo ad accettare l’incarico. In questo modo, mentre l’uno
si trasforma gradualmente in paziente, l’altro si trasforma in
guardiano. Con un guardiano sulla scena, l’intero processo di
transizione può “mantenersi pulito” [8]. Il “guardiano” dovrebbe
occuparsi delle implicazioni civili e degli interessi del predegente,
collegandone i fili smarriti che, altrimenti, potrebbero imbrogliare le
cose nella vita dell’ospedale. Alcuni dei diritti civili abrogati al
paziente possono venire trasferiti a lui, aiutando così a mantenere,
agli occhi del degente, la finzione legale secondo cui, pur trovandosi
egli nella condizione di non avere più alcun diritto effettivo, in
qualche modo non li ha completamente perduti tutti.

Normalmente i degenti - almeno per qualche tempo - vivono il


ricovero come una grave, ingiusta privazione e talvolta riescono a
convincere in questo senso anche persone del mondo esterno. In
questo caso può risultare spesso utile per coloro che sono ritenuti
responsabili - anche se in maniera giustificata - di queste privazioni,
riuscire ad accordarsi e a contare sulla collaborazione di qualcuno il
cui legame con il paziente lo metta al di là di ogni sospetto, essendo
chiaramente colui che ha veramente a cuore i suoi interessi. Se il
“guardiano” è soddisfatto di come vanno le cose al nuovo paziente,
pure la società dovrebbe esserlo.

Ora sembrerebbe che quanto maggiore interesse personale e


legittimo abbia una parte nei confronti dell’altra, tanto più possa
assumerne il ruolo di “guardiano”. Ma socialmente gli atti legali che
sanciscono la fusione ufficiale degli interessi di due persone,
comportano altre conseguenze. Perché la persona cui il paziente
ricorre per essere aiutato e difeso dal pericolo di venire imprigionato,
è la medesima cui mediatori ed amministratori dell’ospedale si
rivolgono per averne l’autorizzazione al ricovero. E’ quindi
comprensibile come i pazienti avvertano, almeno per un periodo, che
il fatto di essere parenti o intimamente legati a qualcuno, non ne
garantisce la fedeltà.

Ci sono altri effetti funzionali derivanti da questa complementarietà


dei ruoli. Se e quando la “persona di fiducia” chiede aiuto ai
“mediatori”, per far fronte alle difficoltà che incontra con il
predegente, può - in effetti - non pensare all’ospedalizzazione. Anzi,
può addirittura non considerare il predegente come un malato
mentale o, se lo fa, il suo può non essere ancora un giudizio
definitivo. E’ l’insieme dei mediatori - con la loro preparazione
psichiatrica e la loro certezza circa il carattere medico degli ospedali
psichiatrici - che spesso definisce la situazione alla “persona di
fiducia”, assicurandole che l’ospedalizzazione può essere una
soluzione, che essa non comporta alcun tradimento nei confronti del
malato dato che si tratta solo di un’azione medica, decisa per il suo
bene [9]. E’ ora che il familiare impari che, per fare il suo dovere
verso il predegente, è facile ne perda la fiducia e che, per questo, il
malato può arrivare anche ad odiarlo. Ma già il fatto che la cosa sia
stata suggerita e proposta da professionisti e che sia stata da loro
definita come un dovere morale, scarica in parte il senso di colpa
che la “persona di fiducia” avverte nei confronti del malato. E’ un
fatto doloroso che un figlio o una figlia adulti siano qualche volta
spinti al ruolo di mediatori, dato che l’ostilità che altrimenti si sarebbe
riversata sul coniuge, viene scaricata su di loro.

Una volta ricoverato il malato, lo stesso sentimento di colpa nei suoi


confronti vissuto dalla “persona di fiducia”, può diventare un
elemento significativo su cui lo staff può agire. Le spiegazioni che lo
scagionino dall’aver tradito il paziente - anche se il paziente continua
a pensarlo - possono servirgli, in seguito, come una linea di difesa
da seguire al prossimo incontro con il malato in ospedale e come la
garanzia che il rapporto con lui possa venire ristabilito, dopo il
periodo del ricovero. Naturalmente, qualora la cosa sia percepita dal
paziente, può fornire ai suoi occhi delle attenuanti per la “persona di
fiducia” nel caso gliele chieda.
Così, mentre la “persona di fiducia” può svolgere funzioni importanti
per i mediatori, e gli amministratori dell’ospedale, essi stessi
possono, a loro volta, svolgerne altre importanti per lei. Dal che si
può vedere emergere un complesso di scambi e di reciprocità senza
alcuna intenzionalità, dato che questo tipo di funzioni è spesso non
intenzionale.

Il punto finale che voglio ora considerare nella carriera del


predegente è il suo particolare carattere “retroattivo”. Finché una
persona non entra effettivamente in ospedale, in genere non pare vi
sia modo di prevedere con certezza il suo destino in tal senso,
tenendo conto del ruolo determinante che qui giocano le
contingenze di carriera. Oltre al fatto che, finché non ha varcato la
soglia dell’istituto, il predegente è ancora nella possibilità di non
considerarsi e di non essere considerato dagli altri una persona che
sta per diventare un malato mentale. Tuttavia, poiché egli sarà
trattenuto in ospedale contro la sua volontà, la “persona di fiducia” e
lo staff ospedaliero avranno bisogno di razionalizzare le difficoltà di
rapporto che devono affrontare e, fra il personale, i medici
necessiteranno di prove capaci di testimoniare che si tratta di un
paziente della loro specialità. Questi problemi sono ridotti -
indubbiamente senza intenzione - dall’anamnesi del caso: essa si
basa sulla ricostruzione del passato del paziente e ciò con l’effetto di
dimostrare che già da molto tempo si stava ammalando, che infine si
è ammalato seriamente, e che cose ben peggiori gli sarebbero
accadute se non fosse stato ricoverato in ospedale - il che,
naturalmente, può anche essere vero [10]. Per inciso, se il paziente
vuole ricavare un senso dal suo soggiorno in ospedale e se - come
già suggerito - vuole mantenere viva la possibilità di riabilitare ai suoi
occhi la “persona di fiducia” come degna di rispetto e le cui intenzioni
non possono essere messe in dubbio, anch’egli si troverà a dover
credere a qualche rielaborazione psichiatrica del suo passato.

Questo è un momento cruciale per l’analisi sociologica della carriera.


Un elemento importantissimo di ogni carriera è l’idea che ci si
costruisce, quando ci si volta a guardare il cammino percorso. E
purtuttavia, in un certo senso, l’intera carriera del predegente deriva
da questa ricostruzione. L’aver avuto una carriera di predegente,
incominciata in seguito ad un’accusa reale, diventa un elemento
determinante per quello che sarà il malato mentale; ma il fatto che
un tale elemento entri in gioco soltanto dopo il ricovero, prova che
ciò che il paziente aveva e non ha più - è una carriera di predegente.

- La fase del degente.

L’ultimo passo della carriera del predegente può corrispondere alla


sua presa di coscienza - più o meno giustificata - di essere stato
abbandonato dalla società e tagliato fuori da ogni rapporto. ~
interessante notare come il paziente - soprattutto se di prima
ammissione - tenti di impedirsi di rendersene conto, anche se in
realtà si trovi già in un reparto chiuso di un ospedale psichiatrico. Al
suo ingresso in ospedale può provare il bisogno violento di non
rivelarsi, agli occhi degli altri, come persona capace di ridursi in
condizioni tanto degradanti, o di comportarsi così come si è
comportato prima del ricovero. Eviterà quindi di parlare; si manterrà
per quanto possibile, appartato e perfino “fuori contatto” o “maniaco”,
per non rischiare di convalidare qualsiasi rapporto gli richieda un
ruolo di reciproca cortesia e o possa esporre a dimostrarsi, agli occhi
degli altri, per ciò che è diventato. Quando la “persona di fiducia” si
sforza di andarlo a trovare, può essere respinta dal suo mutismo o
dal rifiuto di recarsi in «parlatorio». Molto spesso questo tipo di
strategia fa supporre quanto il paziente si aggrappi a ciò che resta
dell’antico rapporto che lo univa a coloro che facevano parte del suo
passato, e di come stia tentando di proteggerne gli ultimi resti dalla
distruzione totale, rifiutando di trattare con le persone nuove che essi
sono diventati [11].

Di solito finisce per rinunciare a questo sforzo snervante, inteso a


mantenere l’anonimato e a negare la sua presenza lì, ed incomincia
a cercare, nella comunità ospedaliera, rapporti sociali di tipo
convenzionale. Da allora in poi si ritrarrà solo in qualche modo
particolare - usando sempre il suo nomignolo, firmando l’articolo nel
settimanale dell’ospedale solo con le iniziali, servendosi dell’innocuo
indirizzo di «copertura» fornito con tatto da alcuni ospedali; oppure in
qualche circostanza particolare - quando un gruppo della scuola
infermieri fa un breve giro nel reparto, o quando, nei limiti consentiti
dallo spazio ospedaliero, incontra all’improvviso un civile che
conosceva prima. Talvolta questo arrendersi viene definito dagli
infermieri come un «adattamento». In realtà, esso denota una nuova
posizione, presa e sostenuta apertamente dal paziente, che ricorda il
processo del “rivelarsi” cui si assiste in altri gruppi. Una volta che il
predegente abbia incominciato ad “adattarsi”, le linee principali del
suo destino tendono a seguire quelle di un’intera categoria di
segregazioni - prigioni, campi di concentramento, campi di lavoro
eccetera, nella cui area l’internato trascorre tutta la vita, vivendo
passo passo la sua giornata irreggimentata, a stretto contatto con
altri compagni della medesima condizione istituzionale.

Come il neofita in molte di queste «istituzioni totali» [12], il nuovo


degente si trova completamente spogliato di ogni convinzione,
soddisfazione e difesa abituali, soggetto com’è ad una serie di
esperienze mortificanti: impossibilitato a muoversi liberamente se
non entro limiti consentiti; costretto ad una vita in comune;
sottomesso all’autorità di un’intera squadra di comandanti. E’ qui che
si incomincia ad apprendere quanto sia limitata l’estensione entro la
quale può essere mantenuto il concetto di sé, qualora l’insieme di
sostegni abituale venga improvvisamente a mancare.

Nel sottostare a queste esperienze degradanti, il degente impara a


muoversi secondo il «sistema del reparto». Negli ospedali psichiatrici
pubblici ciò consiste, generalmente, in una serie di livelli di vita che
si svolgono attorno ai reparti, nelle unità amministrative chiamate
«servizi», negli ambiti entro i quali i pazienti possono essere lasciati
liberi. Il livello «peggiore» non offre spesso che panche di legno per
sedersi, cibo piuttosto cattivo ed un angolo per dormire. Il livello
«migliore» può comprendere una stanza per persona, il privilegio di
muoversi nell’area ospedaliera e di andare in città, rapporti non
troppo mortificanti con il personale, cibo discreto ed ampie possibilità
ricreative. Se disobbedisce alle norme generali dell’istituto, il
degente riceverà una severa punizione tradotta in termini di perdita
di privilegi; se invece ubbidisce, gli sarà perfino concesso di godere
nuovamente di qualche piccolo piacere che - prima di entrare in
ospedale - riteneva ovvio soddisfare.

L’istituzionalizzazione di questi livelli di vita radicalmente diversi,


mette in luce l’influenza dell’ambiente sociale sulla formazione del
“sé”. Ciò significa che il “sé” non trae origine semplicemente da un
processo di interazioni significative fra l’io e gli altri, ma anche dal
tipo di strutture che gli si organizza intorno.

Difficilmente una persona riconoscerebbe certi ambienti come


espressione o estensione di sé. Quando un turista visita i bassifondi,
si diverte non tanto nella misura in cui si riconosce nella situazione,
quanto piuttosto perché la sente tanto assurdamente lontana. I
«salotti» ad esempio possono essere usati come luoghi dove si può
influenzare a proprio favore l’opinione degli altri. Altri ambienti, come
i posti di lavoro, esprimono il livello professionale del lavoratore,
livello sul quale però egli non ha alcun controllo decisivo dato che
viene esercitato seppure con tatto - dal suo datore di lavoro. Gli
ospedali psichiatrici sono un esempio limite di quest’ultima
possibilità, e ciò è dovuto non solo al livello di vita particolarmente
degradante cui sono soggetti i pazienti, ma anche al modo
particolare in cui viene qui reso esplicito il valore di “sé”, e ciò in
maniera persistente, penetrante e sistematica.

Una volta che il degente si sia stabilito in un reparto, gli si spiega


subito che le restrizioni e le privazioni cui andrà incontro non sono
dovute a norme tramandate o a criteri economici - il che non avrebbe
niente a che fare con il valore del “sé” - ma fanno parte intenzionale
della cura, corrispondono a ciò di cui in quel momento egli ha
esattamente bisogno: sono quindi espressione del livello di
degradazione cui è arrivato. Avendo tutti i motivi per richiedere un
trattamento migliore, se lo fa, gli si risponde che quando lo riterranno
«capace di affrontare» o «pronto» per un reparto di livello superiore,
allora decideranno il da farsi. Ciò significa che l’assegnazione ad un
dato reparto non viene presentata come un premio o una punizione,
ma come espressione del grado di socialità e delle condizioni del
paziente [13]. Premettendo che i reparti «peggiori» offrono un livello
di vita che i malati mentali organici possono sopportare con una
certa facilità - e quei minorati sono lì a testimoniarlo - si possono
valutare alcuni degli effetti prodotti dall’ospedale.

Il sistema del reparto diventa allora un caso limite di come le


strutture fisiche di un’istituzione possano venire esplicitamente usate
per definire il concetto di sé di una persona. Inoltre lo stesso
mandato psichiatrico dell’ospedale contribuisce ad incidere con
aggressioni, anche più dirette e più violente, sul modo in cui il malato
concepisce se stesso. Quanto più «medico» e moderno è un
ospedale psichiatrico - quanto più cerca di assolvere la sua funzione
terapeutica, rifiutando di limitarsi alla sola custodia - tanto più il
malato si troverà di fronte ad uno staff altamente qualificato che gli
dimostrerà come il suo passato sia stato un fallimento; che la causa
è dentro di lui, che il suo atteggiamento verso la vita è sbagliato e
che se vuole essere un uomo, dovrà mutare il tipo di rapporti che
instaura e l’immagine che ha di se stesso. Spesso il valore morale di
queste aggressioni verbali gli verrà imposto attraverso la richiesta di
esercitarsi ad accettare l’interpretazione psichiatrica data su di lui,
durante le periodiche confessioni organizzate sia in corso di
psicoterapia individuale, che di gruppo.

Si può ora puntualizzare, nella carriera morale dei ricoverati, un


fenomeno generale che si riscontra in molte carriere morali. Dato il
grado raggiunto in qualsiasi carriera, si nota che ci si costruisce
un’immagine della propria vita - passato, presente, futuro -
selezionando, scegliendo e distorcendo i fatti per fornire un quadro
di noi stessi, tale da poter essere vantaggiosamente presentato nella
vita quotidiana. Generalmente il criterio difensivo che si segue per
ciò che riguarda il sé porta ad allinearsi con i valori fondamentali
della società in cui si vive, nel qual caso si parlerà di un‘“apologia”.
Qualora si sia in grado di fornire un quadro della situazione
quotidiana nel quale possano evidenziarsi qualità personali espresse
nel passato, ed un destino favorevole che ci attende, questa potrà
essere una “storia di successo”. Nel caso invece il passato e il
presente siano terribilmente cupi, sarà meglio che la persona
dimostri di non essere responsabile di ciò che è successo e il
termine “una storia triste” sarà perfettamente adatto al caso. E’
piuttosto interessante notare come, quanto più il passato ha fatto
deviare la persona dall’apparente allineamento con i valori morali
fondamentali, tanto più spesso sembra costretta a raccontare - in
qualsiasi compagnia si trovi - la sua triste storia. Il che forse
risponde, in parte, al bisogno che avverte negli altri di non vedere
insultato il significato della propria vita. Comunque, è soprattutto fra
carcerati, alcolisti e prostitute che si trovano sempre pronte le storie
più tristi. Ora vorrei prendere in esame le vicende della “triste storia”
del malato mentale.

Nell’ospedale psichiatrico le strutture e le regole dell’istituto


contribuiscono a convincere il malato che - in fondo - è un caso
mentale, che ha sofferto di una sorta di collasso sociale avendo
completamente fallito: la sua presenza in quel luogo ha quindi uno
scarso peso sociale, poiché egli sarebbe difficilmente in grado di
comportarsi da persona normale [14]. Un tale tipo di umiliazioni è
probabilmente avvertito più acutamente da malati borghesi, dato che
la loro precedente condizione di vita li immunizza scarsamente
contro questo tipo di offese; pure, tutti i pazienti avvertono una
qualche degradazione. Esattamente come qualunque persona del
medesimo livello subculturale, spesso il paziente reagisce a questa
situazione, raccontando una triste storia, nel tentativo di dimostrare
di non essere «malato», che i «piccoli guai» in cui è incorso sono
stati, in verità, causati da altri, che la sua vita passata era retta ed
onorata e che perciò l’ospedale è ingiusto ad imporgli la condizione
di malato mentale. Questa tendenza al mantenimento della propria
dignità agli occhi degli altri è fortemente istituzionalizzata nella
comunità dei malati, dove i contatti sociali si conservano
generalmente entro i limiti di una semplice informazione volontaria
sulla sistemazione nel reparto e sulla durata del soggiorno, senza
arrivare mai a dare spiegazioni sul motivo della loro presenza lì - il
che è, del resto, abituale nelle normali conversazioni superficiali.
Una volta familiarizzati, in genere i pazienti forniscono
spontaneamente una versione relativamente accettabile del loro
ricovero, accettando a loro volta - senza domande indiscrete - le
versioni fornite dagli altri. Vengono, ad esempio, raccontate e
apertamente accettate storie come queste:

“Frequentavo la scuola serale perché volevo laurearmi e,


contemporaneamente, lavoravo. L’impegno è stato troppo per me”.

“Gli altri qui sono malati di mente. Ma io ho solo un esaurimento


nervoso ed è per questo che ho queste fobie”.

“Sono qui per errore, a causa di una diagnosi di diabete e sarò


dimesso in un paio di giorni”. [Il paziente era in ospedale da sette
settimane].

“Fallii come bambino e più tardi, con mia moglie, cercai un rapporto
di dipendenza”.

“Il mio guaio è che non posso lavorare. Questo è il motivo per cui
sono qui. Avevo due lavori, una bella casa e tutto il denaro che
volevo”.

A volte il degente sottolinea queste storie fornendo una


rappresentazione ottimistica del tipo di occupazione cui si dedicava:
se era riuscito ad ottenere un’audizione per annunciatori radio, si
atteggia a radio-annunciatore; se aveva lavorato alcuni mesi come
fattorino in un giornale, essendogli stato assegnato un lavoro di
reporter da cui fu licenziato tre settimane dopo, si definisce reporter.

Sulla base di queste finzioni reciprocamente sostenute, è possibile


ricostruire un intero ruolo sociale nella comunità dei malati, dato che
tali convenevoli reciproci sono generalmente confermati anche dalle
chiacchiere fatte alle spalle che - rispetto alle versioni originali - si
avvicinano soltanto di un grado ai «fatti obiettivi». Il che ricorda,
tuttavia, una delle classiche funzioni sociali dei rapporti informali fra
persone dello stesso livello, rapporti che servono da auditorio
reciproco per storie costruite a sostegno della propria
rappresentazione di sé.
Tuttavia, l‘“apologia” del degente viene menzionata solo in
circostanze particolari, poiché poche altre situazioni possono essere
altrettanto lesive nei confronti della rappresentazione di sé data dal
malato, come quella manicomiale; ammenocché non si tratti,
naturalmente, di una versione costruita secondo criteri psichiatrici.
Questa capacità distruttiva dell’istituto si fonda comunque su
qualche cosa di più del documento che dichiara il paziente insano di
mente, pericoloso a sé e agli altri - anche se tale attestazione
sembra già incidere profondamente sull’orgoglio del degente e sulla
sua possibilità di averne.

Le stesse condizioni degradanti dell’ambiente ospedaliero


contribuiscono, naturalmente, a smascherare molte di queste
rappresentazioni ottimistiche di sé proposte dai pazienti: il che è del
resto confermato dal fatto stesso che i protagonisti sono ricoverati in
un ospedale psichiatrico. Inoltre, non sempre c’è, fra i degenti, un
grado di solidarietà sufficiente ad impedire che l’uno discrediti l’altro;
esattamente come non c’è sempre un numero sufficiente di
infermieri con ruoli professionali, tale da impedire che uno di questi
screditi un paziente. Un paziente chiedeva ripetutamente ad un
compagno:

«Se sei così in gamba, come mai sei capitato qui?»

Tuttavia gli ordinamenti ospedalieri hanno un potere ancor più lesivo.


Il personale ha tutto da guadagnare screditando la versione
raccontata dal degente, qualunque sia il motivo che lo spinga a farlo.
Se la finalità dell’ospedale è riuscire a controllare la situazione
giornaliera senza lamentele o richieste da parte del degente,
risulterà utile fargli notare che i diritti che reclama e sui quali
razionalizza le sue pretese, sono falsi; che egli non è ciò che dice di
essere, e che in effetti non è altro che un fallito [15]. Se i medici
vogliono convincere il paziente della loro interpretazione psichiatrica
sul suo bisogno di mascherarsi di fronte agli altri, devono essere in
grado di dimostrare dettagliatamente come la versione da loro data
del passato e del carattere del paziente, sia molto più reale della
sua. Se gli infermieri addetti alla custodia e lo staff addetto alla cura
vogliono farlo cooperare al trattamento necessario, risulterà utile che
lo distolgano dall’idea che egli si è fatta circa i loro scopi e gli
facciano capire che sanno quello che fanno e che fanno esattamente
il meglio. Le complicazioni causate da un paziente sono dunque
strettamente legate alla versione che egli dà di ciò che gli è
accaduto, e se si vuole che sia collaborativo è necessario che
questa versione venga screditata. Il degente deve arrivare a
convincersi «interiormente» di accettare e di far accettare il giudizio
che l’ospedale ha su di lui.

Il personale dispone poi di mezzi ideologici - oltre all’influenza


dell’ambiente - per rifiutare le ragioni del degente. L’attuale dottrina
psichiatrica definisce il disordine mentale come qualcosa che può
avere le sue radici nei primi anni del paziente; che mostra i segni
della sua presenza nell’intero corso della vita e invade quasi ogni
settore della sua attività. Nessun punto particolare del passato o del
presente viene così a trovarsi fuori della giurisdizione psichiatrica.
Gli ospedali psichiatrici istituzionalizzano burocraticamente questo
mandato così vasto, basando la cura del malato essenzialmente
sulla formulazione della diagnosi e sull’interpretazione psichiatrica
del suo passato, che da una tale diagnosi proviene.

La cartella clinica lo evidenzia chiaramente. Si tratta infatti di un


dossier dove non si registrano mai le circostanze in cui il paziente ha
dimostrato di essere in grado di affrontare dignitosamente e con
successo difficili situazioni di vita, né vi si segnala la media di
comportamento della sua condotta passata. Uno dei suoi scopi è
dimostrare i diversi modi in cui il paziente è «malato» e la ragione
per la quale era giusto rinchiuderlo in ospedale ed è tuttora giusto
tenervelo rinchiuso [16]. Il che viene attuato ricavando dal corso di
tutta la sua vita un elenco di quei fatti che hanno o potrebbero aver
avuto un valore «sintomatico». Vengono citate le disavventure dei
genitori o dei fratelli che potrebbero far pensare ad una tara
familiare. Vengono segnalati fatti precedenti in cui il paziente
dimostrò un «disturbo di giudizio» o qualche alterazione emotiva; si
descrivono situazioni in cui agì in modo strano, tale da poter essere
giudicato da un profano come un immorale, un pervertito sessuale,
debole, infantile, sconsiderato, impulsivo, pazzo. E’ probabile vi si
riportino dettagliatamente scorrettezze fatte dal paziente che
qualcuno considerò come l’ultima goccia, causa di provvedimenti
immediati nei suoi confronti. Vi sarà descritto, inoltre, lo stato al
momento del suo ingresso in ospedale - momento non certo facile e
calmo per lui. Potranno esservi riferite risposte devianti date dal
paziente a domande imbarazzanti, facendolo apparire come persona
che presenta e fa affermazioni in evidente contrasto con i fatti:

“Asserisce di vivere con la figlia maggiore o con le sorelle soltanto


quando è ammalata e bisognosa di cure; altrimenti con il marito - ma
il marito stesso afferma di non vivere con lei da dodici anni”.

“Contrariamente a quanto riferisce il personale, egli asserisce di non


sbattere più sul pavimento o di gridare al mattino”.

“… nasconde il fatto di essere stata isterectomizzata, pretende di


avere ancora le mestruazioni”.

“Dapprima negò di aver avuto esperienze sessuali prematrimoniali,


ma quando le fu chiesto di Jim, disse di averlo dimenticato perché la
cosa era stata spiacevole”.

Qualora l’autore della documentazione non conosca fatti negativi, la


loro eventuale presenza viene scrupolosamente annotata come
possibile:

“La paziente negò ogni esperienza eterosessuale, non si riuscì


neppure a farle ammettere di essere stata incinta o di aver fatto
qualsiasi tipo di esperienza sessuale, negando pure la
masturbazione”.

“Anche sottoposta a considerevoli pressioni, non risultò disposta ad


impegnarsi in proiezioni di meccanismi paranoidi”.

“Nessun contenuto psicotico poté essere allora dedotto”.


In mancanza di fatti più precisi, appaiono spesso note di scredito
nelle descrizioni del comportamento generale del paziente in
ospedale:

“Quando veniva interrogato si mostrava mite, apparentemente sicuro


di sé e, parlando, faceva affermazioni di carattere generale, gratuite
e altisonanti”.

“Di aspetto pulito, baffetti alla Hitler ben curati, quest’uomo di


quarantacinque anni, che ha passato gli ultimi cinque o più
ricoverato, è riuscito ad adattarsi alla vita ospedaliera dimostrandosi
un uomo allegro ed elegante che non solo supera intellettualmente i
compagni, ma è anche molto virile con le donne. Il suo discorso è
pieno di parole multisillabe che usa generalmente a proposito, ma se
parla un po’ a lungo appare chiaro che, completamente perso nella
sua diarrea verbale, ciò che dice risulta quasi del tutto privo di
senso”.

I fatti registrati nella cartella clinica sono dunque esattamente quelli


che il profano considererebbe calunniosi, diffamatori, portatori di
discredito. Si deve anche precisare che il personale ospedaliero, a
tutti i livelli, non riesce in genere a trattare questo materiale con la
neutralità morale proclamata necessaria in dichiarazioni mediche e
diagnosi psichiatriche, ma partecipa invece con il tono e con i gesti
(se non con altri mezzi) alla reazione tipica dei profani verso questi
atti. Ciò accade sia nel rapporto personale-paziente, che in quello fra
i diversi membri dello staff in assenza del paziente [17].

In alcuni ospedali psichiatrici l’accesso alle documentazioni cliniche


è tecnicamente limitato ai medici e agli infermieri più qualificati;
tuttavia il personale di grado inferiore può avervi accesso - se pur
non ufficiale - ed ottenere nuove informazioni. Inoltre si riconosce
comunemente al personale dei reparti il diritto di essere informato
sugli aspetti della vita passata del paziente che - sommati alla
situazione in atto - rendono possibile il trattarlo opportunamente, a
suo vantaggio e a minor rischio degli altri. I diversi livelli dello staff
hanno poi accesso alle note giornaliere tenute dagli infermieri del
reparto sul corso della malattia e del comportamento del paziente;
note che forniscono, per il presente, il tipo di informazioni che le
cartelle cliniche dànno per il passato.

Ritengo che la maggior parte delle informazioni raccolte nelle


cartelle cliniche sia esatta, per quanto si potrebbe obiettare che nella
vita di ciascuno di noi può essere riscontrato un numero sufficiente
di fatti negativi la cui documentazione potrebbe giustificare il
ricovero. Comunque non voglio soffermarmi qui sull’opportunità di
mantenere la documentazione dei casi, o sui motivi che lo staff ha di
conservarla. Il punto è che - nella misura in cui questi fatti relativi al
paziente sono veri - egli non potrà certo sottrarsi alla normale
pressione culturale che lo spinge a nasconderli, e si sentirà forse
maggiormente minacciato nel sapere che essi sono a disposizione di
altri e che egli non è in grado di avere alcun controllo su chi ne viene
a conoscenza. Un giovane - dall’aspetto virile - reagisce al richiamo
alle armi scappando dalla caserma e nascondendosi nell’armadio di
una stanza d’albergo, dove la madre lo trova in lacrime; una donna
viaggia dallo Utah a Washington per avvisare il presidente
dell’incombente giudizio universale; un uomo si spoglia davanti a tre
ragazze; un ragazzo chiude la sorella fuori dalla porta e le rompe
due denti quando tenta di rientrare dalla finestra. Ognuna di queste
persone ha fatto qualcosa che vorrà, ovviamente, nascondere agli
altri ed avrà motivi per mentire al riguardo.

Il tipo di comunicazioni che mantiene collegati i membri dello staff


tende poi ad ampliare le notizie già divulgate dalle cartelle cliniche.
Un atto che screditi il degente, accaduto in un momento della
giornata e in un settore della comunità ospedaliera, sarà
probabilmente riferito a chi controlla altri settori della sua vita ed il
paziente si troverà costretto a negare di aver potuto agire in quel
modo.

Significativa - come del resto in altre istituzioni sociali - è l’abitudine


sempre più frequente di organizzare riunioni a tutti i livelli dello staff,
riunioni nelle quali si espongono i diversi punti di vista sui pazienti e
si concorda collegialmente la linea di condotta da far loro seguire e
quella dello staff nei loro confronti. Un paziente che instauri un
rapporto «personale» con un infermiere o che lo renda ansioso
accusandolo insistentemente di imperizia, può essere rimesso al suo
posto per mezzo della riunione del personale, dove si fa presente e
si conferma all’infermiere il fatto che il degente è «malato». In questo
senso l’immagine differenziale di sé che ciascuno vede riflessa in
coloro che - a vari livelli - gli stanno attorno, viene qui ad essere
unificata dietro le quinte, in un unico tipo di approccio: è facile quindi
che il paziente si trovi, in questa situazione, come di fronte ad una
sorta di coalizione contro di lui, anche se si ritiene sinceramente di
fare tutto per il suo bene [18].

Si aggiunge poi il fatto che il trasferimento formale di un paziente da


un reparto o servizio ad un altro, avviene abitualmente
trasmettendone - in modo informale - le note caratteristiche, e ciò
per semplificare il lavoro di colui al quale il paziente viene affidato.
Infine, le conversazioni del personale durante il pranzo o la sosta per
il caffè, spesso vertono - al più informale dei livelli - sulle ultime
prodezze del paziente, dato che qui il pettegolezzo, tipico di ogni
istituzione sociale, è intensificato dal fatto che tutto quanto concerne
il paziente riguarda, in qualche modo, il personale dell’ospedale. In
teoria non dovrebbe esservi ragione alcuna perché tale pettegolezzo
non abbia a presentare una visione migliore, piuttosto che peggiore,
della persona di cui si parla, a meno che non si affermi che tutto ciò
che si dice alle spalle degli assenti, tende sempre ad essere una
critica, al fine di mantenere l’integrità e il prestigio della cerchia di
persone con cui si sta parlando [19]. Anche se chi parla sembra
animato dalle migliori intenzioni, il discorso implica, inevitabilmente, il
fatto che il malato non è un uomo “completo”. Per esempio, un
coscienzioso terapista di gruppo, veramente partecipe ai problemi
dei pazienti, così raccontava ad un gruppo di colleghi al bar:

“Ho avuto all’incirca tre elementi negativi per l’integrazione del


gruppo. Uno in particolare, un avvocato [sotto voce] James Wilson -
veramente intelligente, che mi rendeva le cose molto penose e che
dovevo sempre incalzare a partecipare in qualche modo, a fare
qualcosa. Ebbene, stavo proprio disperando quando incontrai il suo
terapista che mi spiegò come, dietro a quella sua aria da bluff,
avesse un gran bisogno del gruppo: per lui probabilmente il gruppo
aveva un significato maggiore di qualsiasi altro beneficio avesse
potuto ricavare dall’ospedale. Aveva appunto bisogno di sostegno.
Bene, questo mi fece cambiare opinione nei suoi confronti. E adesso
è fuori”.

In generale, dunque, gli ospedali psichiatrici provvedono


sistematicamente a far circolare su ciascun paziente il genere di
informazioni che egli cercherebbe di nascondere e che ogni giorno -
in modo più o meno dettagliato - vengono usate per frustrarne le
pretese. Al momento dell’ammissione o durante i colloqui
diagnostici, gli verranno rivolte domande alle quali - se vorrà
mantenere il rispetto di sé - non potrà che dare risposte false e allora
gli potrebbe venir rinfacciata quella vera. Un infermiere cui il
paziente dia una versione personale del suo passato e della causa
del ricovero, può sorridere in modo incredulo e dire «Non è così che
l’ho sentita», secondo i criteri psichiatrici che tendono a riportare il
malato ad un livello di realtà. Nel caso un paziente si avvicini ad un
medico o ad un infermiere nel reparto per domandare un favore o
chiedere di essere dimesso, gli si risponde con domande cui non
può ribattere dicendo la verità, se non richiamando alla memoria un
momento del passato in cui ebbe a comportarsi in modo
vergognoso. Quando poi interviene alle discussioni durante la
psicoterapia di gruppo, il terapista - nella sua qualità di esaminatore -
può tentare di disingannarlo circa l’interpretazione che egli dà al fine
di salvare il proprio rispetto di sé, incoraggiandolo invece a giudicarsi
come persona da biasimare e che deve cambiare. Nel caso
sostenga con il personale o con i compagni di sentirsi bene e di non
essere mai stato veramente ammalato, vi può essere qualcuno
pronto ad illustrargli dettagliatamente il modo in cui - solo un mese
prima - se ne andava pavoneggiandosi come una ragazza; o
pretendeva di essere Dio o rifiutava di parlare o di mangiare, o
metteva gomma nei capelli.

Ogni qual volta lo staff demolisce le rivendicazioni del degente, il


giudizio su ciò che dovrebbe essere una persona e ciò che
dovrebbero essere le regole su cui si basano i rapporti sociali fra
individui dello stesso livello, induce il paziente a ricostruire
nuovamente la sua rappresentazione di sé; ma ogni qual volta lo fa, i
criteri custodialistici o psichiatrici su cui lo staff si uniforma possono
portare a screditargliela nuovamente.

Sotto queste oscillazioni del “sé” del paziente prodotte dal giudizio
degli altri, anche la base istituzionale continua a muoversi in modo
altrettanto precario. Contrariamente a quanto si pensa, il «sistema
del reparto» consente, soprattutto durante il primo anno di ricovero,
un notevole grado di mobilità sociale all’interno degli ospedali
psichiatrici [20]. In questo primo periodo, il degente può essere stato
trasferito una volta da un dipartimento all’altro, tre o quattro volte da
un reparto ad un altro e può essergli stato mutato parecchie altre
volte il grado di libertà consentitogli; cambiamenti questi che
possono venir da lui vissuti come buoni o cattivi. Ognuno di questi
movimenti comporta un drastico mutamento del livello di vita e del
materiale a disposizione per costruirsi un certo giro di attività,
capace di servire da sostegno al “sé” del paziente; il significato di un
tale mutamento equivale - per così dire - al passaggio da una classe
all’altra in un sistema di classi più ampio. Inoltre i compagni con i
quali il degente è parzialmente identificato, si sposteranno in
maniera analoga ma in differenti direzioni e a ritmo diverso, il che
non può non provocare in lui sentimenti di mutamento sociale, anche
quando non ne sia il diretto protagonista. Come si è già detto, gli
stessi criteri psichiatrici possono contribuire ad aumentare le
fluttuazioni sociali del sistema del reparto. Una corrente psichiatrica
attuale considera, infatti, questi sistemi di reparto come una sorta di
«serra» sociale, nella quale i pazienti incominciano la loro carriera
come infanti sociali, e la finiscono - entro un anno - come adulti
risocializzati in un reparto per convalescenti. Questo modo di
interpretare la cosa aumenta sensibilmente il grado di merito e di
orgoglio con cui il personale può vivere il proprio ruolo [21] e occorre
una notevole dose di cecità - specie ai più alti livelli dello staff - per
non dare al sistema del reparto significati diversi, riconoscendolo, ad
esempio, come un mezzo per disciplinare, attraverso punizioni e
ricompense, persone difficili da governare. Ad ogni modo, questa
tendenza alla risocializzazione, può trovarsi a dare un’importanza
eccessiva al grado in cui i pazienti dei reparti peggiori sono incapaci
di un comportamento socializzato, e al livello in cui i pazienti dei
reparti migliori sono invece disposti a partecipare al gioco sociale.
Dato che il sistema del reparto è qualche cosa di più di una «camera
di risocializzazione», i ricoverati hanno modo di trovarvi molte
occasioni per «far disordine» o per mettersi nei pasticci, il che
significa molte occasioni per essere retrocessi alla condizione dei
reparti meno privilegiati. Questi spostamenti possono essere
ufficialmente considerati come ricadute di carattere psichiatrico o
slittamenti morali, confermando in ciò l’indirizzo dell’ospedale
tendente alla risocializzazione. Secondo un’interpretazione di tal
tipo, una semplice infrazione alle regole, con conseguente
degradazione sociale, viene dunque vista come l’espressione diretta
delle condizioni psichiche del paziente. Analogamente le promozioni
- imputabili a sovraffollamento del reparto, al bisogno in un altro
reparto di un «paziente-lavoratore», o ad altri motivi irrilevanti dal
punto di vista psichiatrico - possono trasformarsi in qualche cosa che
risulti come l’espressione profonda delle condizioni psichiche del
paziente [22]. Inoltre, lo staff può in qualche modo pretendere che il
paziente stesso si sforzi, in modo personale, di guarire in meno di un
anno, così che sarà da lui costantemente stimolato a pensare in
termini di successo o di fallimento. In questo contesto i ricoverati
possono scoprire che, nella loro condizione, le degradazioni morali
non sono poi così terribili come avevano immaginato. Dopotutto,
infrazioni in grado di provocare un tal tipo di retrocessione, non
possono accompagnarsi a sanzioni legali o alla riduzione allo stato
di malato mentale, dato che questa è già appunto la loro condizione
presente. Inoltre nessun delitto, passato o presente, sembra tanto
orrido da far estromettere un malato dalla comunità dei malati. E’ per
questo che i fallimenti rispetto ad una condotta normale vengono qui
a perdere parte del loro significato stigmatizzante. Infine, accettando
la versione data dall’ospedale sulla sua caduta in disgrazia, il
degente può decidere di «ravvedersi» ed ottenere così simpatia,
privilegi ed indulgenza da parte dello staff che vuole incoraggiarlo in
questa sua decisione.
Imparare a vivere costantemente soggetto a smascheramenti e ad
oscillazioni su ciò che è il proprio valore (con scarsa possibilità di
controllo quando un tale valore gli venga riconosciuto e quando
negato) è un passo molto importante nel processo di socializzazione
del degente, tale da poter dire qualcosa di veramente significativo su
ciò che è un ricoverato in un ospedale psichiatrico. Il fatto di avere i
propri errori passati e la situazione presente sotto costante critica
morale, sembra richiedere un adattamento particolare che consiste
in un atteggiamento - meno morale - verso gli «ideali dell’io» [23]. I
propri errori e i propri successi diventano un problema troppo
centrale e continuamente contraddetto per permettere che ci si
possa preoccupare - in modo normale - del punto di vista degli altri
al proposito. Non è molto consigliabile tentare di reclamare qualche
fondato diritto personale. Il degente tende ad imparare che non
bisogna dare troppo peso alla propria degradazione e alla
ricostruzione del proprio valore apprendendo - insieme - che il
personale ed i ricoverati sono disposti a guardare con una certa
indifferenza all’espandersi e al restringersi del “sé” di un individuo.
Apprende che un’immagine giustificabile di sé può essere
considerata come qualcosa di estraneo alla persona stessa,
qualcosa che può essere costruita, perduta, ricostruita, e tutto ciò
con grande rapidità ed una certa indifferenza. Impara così il modo
per arrivare ad assumere un punto di vista - e quindi un “sé” al di
fuori di quello che l’ospedale può dargli e togliergli.

L’ambiente sembra allora generare una sorta di sofisticazione


cosmopolita, di apatia civica. In questo contesto morale, non «serio»
anche se assurdamente esagerato, il fatto di costruirsi un’immagine
di sé o di vedersela distruggere, diventa parte di un gioco privo di
pudori e l’imparare a considerare questo processo - che pure è così
vitale - un gioco, sembra favorire un certo scadimento morale. In
ospedale il degente può, dunque, apprendere che il “sé” non è una
fortezza, quanto piuttosto una cittadella aperta e può disgustarsi di
dover continuare a mostrarsi felice quando è nelle mani delle sue
truppe, e addolorarsi quando è nelle mani del nemico. Una volta
imparato cosa significhi essere definito dalla società come persona
che manca di un “sé” vitale, questa minacciosa definizione -
minacciosa nella misura in cui è in grado di spingere le persone ad
aderire al “sé” che la società concede loro - diventa più debole. Il
paziente sembra aver raggiunto un nuovo livello di equilibrio quando
ha imparato che può sopravvivere se agisce in un modo che la
società giudica lesivo per lui stesso [24].

Si potrebbero dare qui alcuni esempi di scadimento e di


rilassamento morale. Negli ospedali psichiatrici di stato sembra
comunemente accettata, da parte dei degenti, e più o meno tollerata
dal personale, una sorta di «moratoria matrimoniale». Se un
paziente «corteggia» contemporaneamente più di un partner, si può
assistere ad una certa pressione informale nei suoi confronti da
parte dei compagni; ma lo stringere una relazione,
temporaneamente costante, con un membro dell’altro sesso, sembra
provocare solo scarsa disapprovazione, anche se si sa che entrambi
sono sposati, hanno figli e perfino ricevono regolarmente le visite dei
coniugi. Negli ospedali psichiatrici, insomma, c’è la libertà di
ricominciare a corteggiarsi, beninteso però che non ne risulti nulla di
serio e permanente. Come gli amori che nascono a bordo delle navi
o in vacanza, questi legami testimoniano in che modo l’ospedale è
tagliato fuori dalla realtà esterna, diventato ormai un mondo a sé,
che funziona a beneficio dei suoi stessi cittadini. Indubbiamente un
tal tipo di «moratoria» è espressione del distacco e dell’ostilità che i
degenti avvertono verso coloro ai quali erano strettamente legati
prima del ricovero. Ma, oltre a questo, è anche l’evidenza del
rilassamento morale che deriva dal vivere in un mondo all’interno del
mondo, in condizioni che rendono difficile riconoscere la piena
serietà dei valori, sia dell’uno che dell’altro.

Il secondo esempio riguarda il sistema del reparto. Al livello del


reparto peggiore, pare siano frequenti fatti disdicevoli, causati in
parte dalla mancanza di opportunità di vita, in parte dagli scherni e
dal sarcasmo che sembrano essere la regola su cui si fonda il
controllo sociale del personale addetto ai reparti. Nel contempo, la
scarsità di attrezzature e di diritti cui rifarsi corrisponde alla limitata
possibilità, data al degente, di ricostruirsi un “sé”. Egli si trova così
costantemente sul punto di perdere l’equilibrio, avendo a
disposizione uno spazio ristrettissimo dove poter cadere. In alcuni di
questi reparti pare si sviluppi una specie di umorismo macabro, con
notevole libertà da parte dei degenti di far fronte al personale,
rendendo offesa per offesa. Se questi pazienti possono essere
puniti, non è infatti altrettanto facile che possano venire ad esempio
disprezzati, dato che godono di ben pochi privilegi per poter essere
feriti da qualche offesa sottile. Come per le prostitute in ciò che
riguarda il sesso, i ricoverati in questi reparti hanno ben poco da
perdere in reputazione e diritti, per cui possono permettersi anche
certe libertà. Ma, man mano che si sale a livelli superiori nel sistema
dei reparti, il degente può riuscire, a poco a poco, ad evitare gli
incidenti che possano frustrare la sua pretesa ad essere uomo, e ad
acquistare un numero sempre maggiore di elementi diversi che
possano portare alla ricostruzione del rispetto di sé. Ma se infine si
troverà a cadere - e questo succede - la caduta lo farà precipitare
molto più in basso. Il degente privilegiato, per esempio, vive in una
dimensione più ampia di quella definita dai limiti del reparto. E’ il
mondo costruito dai terapisti addetti alle attività ricreative, i quali
possono - su richiesta - concedere dolci, carte da gioco, palline da
ping-pong, biglietti per il cinema, carta da lettere. Dato però che
questi privilegi non si pagano - e il pagamento è, nel mondo esterno,
il mezzo di controllo sociale esercitato da chi ne riceve qualcosa in
cambio - il degente corre il rischio che anche un esponente dello
staff di buon cuore possa, ad una sua richiesta, umiliarlo dicendogli
di aspettare che finisca di parlare, o molestarlo continuando a
chiedergli ragione di ciò che ha domandato, o rispondergli con un
lungo silenzio e con uno sguardo freddo di valutazione [25].

Lo spostarsi in un senso o nell’altro all’interno del sistema del


reparto, non ha dunque soltanto il significato di una rotazione delle
risorse disponibili per costruirsi il “sé”, un significato per la
condizione che ne deriva, ma anche quello di un cambiamento nel
calcolo dei rischi. La valutazione dei rischi su ciò che riguarda il
concetto di sé fa parte dell’esperienza morale di ognuno; ma arrivare
a comprendere che un dato livello di rischio non è che un dispositivo
sociale, rappresenta un tipo di esperienza più raro, tale da
contribuire a disincantare la persona che lo prova.
Un terzo esempio di rilassamento morale lo si nota a proposito delle
condizioni in cui spesso il malato si trova al momento della
dimissione. Egli viene dimesso sovente sotto il controllo e la
responsabilità giuridica della “persona di fiducia” o di un datore di
lavoro, scelto appositamente e particolarmente vigile. Se il paziente
fa qualcosa che non va mentre si trova sotto la loro protezione, essi
potranno ottenerne l’immediata riammissione in ospedale. Ciò
significa che il paziente viene a trovarsi sotto il potere speciale di
persone che, normalmente, non avrebbero su di lui questo tipo di
potere e verso i quali potrebbe, inoltre, aver avuto precedenti motivi
di acredine. Tuttavia, per poter uscire dall’ospedale, può nascondere
il suo malcontento al riguardo e farsi vedere disposto - almeno finché
non sia stato cancellato con certezza dalla lista dei degenti - ad
accettare un tal tipo di custodia. Queste procedure per la dimissione
forniscono quindi un esempio esplicativo di come si possa assumere
in modo esplicito un ruolo, evitando quelle che sono le implicazioni
personali dell’accordo; il che sembra aumentare maggiormente la
distanza che separa la persona dal mondo che gli altri prendono
tanto sul serio [26].

La carriera morale di un individuo di una data categoria sociale


implica un susseguirsi standardizzato di mutamenti nel modo di
giudicarsi includendo - in maniera significativa - il modo di concepire
il proprio “sé”. Questo processo quasi sotterraneo può essere
seguito studiando le sue esperienze morali - cioè i fatti che segnano
una svolta nel modo in cui egli considera il mondo - sebbene sia
difficile stabilire le particolarità di questo modo di concepirlo. Si
prende nota di tattiche e strategie evidenti, vale a dire delle posizioni
prese dal soggetto in esame, di fronte a determinate altre persone,
qualunque sia la natura nascosta e variabile della sua adesione
interna a queste posizioni da lui assunte. Prendendo nota di
esperienze morali o di prese di posizioni personali apertamente
sostenute, si può ottenere un tracciato relativamente obiettivo di
questioni relativamente soggettive.

Ogni carriera morale, e, dietro ad essa, ogni “sé” si svolge entro i


confini di un sistema istituzionale, sia esso una istituzione sociale
come un ospedale psichiatrico o un complesso di rapporti personali
e professionali. Il “sé” può essere quindi visto come qualcosa che
risiede nel sistema di accordi che prevale in una società. In questo
senso esso non risulta di proprietà della persona cui viene attribuito,
ma risiede piuttosto nella dinamica del controllo sociale esercitato su
di lei, dalla persona stessa e da coloro che la circondano. Questo
tipo particolare di ordinamenti istituzionali, più che servire di
sostegno al “sé” lo costituisce.

In questo articolo sono stati presi in considerazione due tipi di


ordinamenti istituzionali, per puntualizzare ciò che accade quando
queste regole vengono a mancare. Il primo riguarda la fedeltà della
“persona di fiducia”. Il “sé” del predegente è descritto come una
funzione del modo in cui sono messi in relazione tre ruoli,
aumentando e diminuendo il tipo di legame che esiste fra la
“persona di fiducia” e i mediatori. Il secondo riguarda la protezione
necessaria per la costruzione di un’immagine di sé da presentare
agli altri e il modo in cui il progressivo venir meno di questa
protezione può costituire un aspetto sistematico, se non
intenzionale, del funzionamento di un istituto. Desidero sottolineare
che questi sono solo due tipi di ordinamenti le cui regole incidono
nella formazione del “sé”; altri che non sono stati considerati in
questo articolo, sono tuttavia altrettanto importanti.

Nel ciclo normale di socializzazione seguito dall’adulto, ci si aspetta


che dopo l’alienazione e la mortificazione segua un nuovo insieme di
credenze riguardo al mondo ed un nuovo modo di concepire se
stessi. Nel caso del degente dell’ospedale psichiatrico, questa
rinascita avviene qualche volta prendendo la forma di una
incrollabile fiducia nelle prospettive psichiatriche o, almeno per
qualche tempo, nell’impegno sociale a trovare un trattamento
migliore per il malato mentale. La sua carriera ha, tuttavia, un
interesse unico poiché può evidenziare la possibilità che il malato -
nello spogliarsi dell’abito del vecchio “sé”, o nel vederselo strappare
- non ne abbia a cercare uno nuovo e non debba adoperarsi per
trovare un nuovo pubblico di fronte al quale nascondersi. Può, al
contrario, imparare, almeno per un certo tempo, a praticare di fronte
a tutti i gruppi l’arte amorale della spudoratezza.

COMMENTO DI FRANCA BASAGLIA ONGARO.

1. La limitazione del problema alla sola prospettiva sociologica, è ciò


che può rivelare il ruolo relativo giocato dalla malattia nel processo di
istituzionalizzazione del malato mentale. L’analisi di Goffman
evidenzia, infatti, il processo di graduale limitazione e restringimento
di sé al quale è costretto il malato mentale dal momento in cui è
“ufficialmente” riconosciuto come malato; processo la cui evoluzione
risulta staccata dalla malattia che si trova qui a giocare un ruolo
puramente casuale.

La tecnica della «messa fra parentesi» della sindrome di cui il malato


è affetto, può risultare dunque utile anche a livello psichiatrico, se si
voglia riuscire ad individuare quale parte - nel disastroso processo di
demolizione personale tipica del degente nel ricovero psichiatrico -
sia imputabile all’azione dell’istituto e quale alla malattia. Questo tipo
di prospettiva presenta il vantaggio di consentire di avvicinare il
problema senza preconcetti o etichettamenti che ne possano falsare
il significato, dato che non esiste una classificazione
sociologicamente codificata del mondo istituzionale psichiatrico che
abbia la rigidità della classificazione nosografica delle sindromi.

Del resto l’esempio di altre situazioni concentrazionali e l’analisi dei


loro risultati, presentano una base comune - uno stereotipo di vita, di
relazioni e di reazioni - che, non potendo essere imputato alla
malattia mentale, non può che essere motivato dalla comune vita
concentrazionale. Un approccio sociologico al problema si rivela
quindi utile se si voglia chiaramente comprendere se il malato
mentale sia ciò che è in quanto malato mentale, o in quanto costretto
ad una vita concentrazionale. Il che potrebbe essere di enorme
interesse per ciò che concerne la malattia mentale e l’immagine,
tuttora in uso, che di tale malattia è stata costruita.

Se essa non è il solo elemento che porta alla totale disintegrazione


dell’uomo, l’indagine di ciò che è l’azione dell’istituto sul malato e del
potere del giudizio esclusorio di chi lo circonda, potrebbe mettere a
nudo quello che sarebbe la malattia se non fosse già
precedentemente fissata in un giudizio irreversibile, dato una volta
per tutte.

In questo senso l’analisi sociologica della vita istituzionale


psichiatrica potrebbe risultare chiarificatrice per ciò che concerne il
significato di alcuni sintomi di malattia, una volta che essi venissero
riconosciuti prodotti dal livello coercitivo e arbitrariamente autoritario
della comunità ospedaliera. Una tale verifica sarebbe attuabile
attraverso l’analisi del rovesciamento avvenuto in una comunità
psichiatrica prevalentemente aperta, dove il nuovo clima istituzionale
abbia già modificato lo stato del degente liberandolo - ad un certo
grado - delle sovrastrutture impostegli dal processo di
istituzionalizzazione.

2. Su questo principio si basa l’istituzione psichiatrica di tipo


comunitario. Il raccorciamento delle distanze che separano i diversi
ruoli all’interno dell’organizzazione ospedaliera (malati, infermieri e
medici) si impone, originariamente, come primo passo
indispensabile nel momento in cui si tenda ad una reciprocità di
rapporto a tutti i livelli. Una volta in atto, però, esso agisce in
profondità, nel senso che ogni membro della comunità si trova -
seppure entro i limiti del suo ruolo - a partecipare direttamente della
situazione degli altri, imparando a conoscerla nella sua realtà e non
nell’immagine riflessa ed estranea che la “distanza” ne può
rifrangere. In questo caso la lontananza verrebbe ad avere la
funzione di uno spazio in cui si possono proiettare i propri
meccanismi di difesa di fronte all’abnorme, al mostruoso, a ciò che
non si conosce: il che servirebbe di schermo per rendere ancor più
estranea la situazione intravista a distanza.

Le riunioni o assemblee generali che si svolgono in un ospedale di


tipo comunitario, verrebbero quindi ad agire come occasioni nelle
quali i diversi livelli che costituiscono la vita ospedaliera si trovano a
fondersi o comunque ad affrontarsi: ciascuno nella possibilità di
conoscere le modalità di vita dell’altro ed il loro significato. In questo
modo si tende a ridurre (o almeno a dialettizzare) il persistere di
tecniche esclusorie quale quella del “capro espiatorio” che,
all’interno dell’ospedale, si concreta nella distanza qualitativa fra un
gruppo di malati “liberi” e la categoria dei submalati in cui i primi
tendono a racchiudere il “male” da cui vogliono salvarsi.

L’esistenza di reparti ancora chiusi all’interno dell’organizzazione


ospedaliera ed il modo in cui essi sono vissuti dai malati “liberi”,
rivela la possibilità di meccanismi opposti:

a) Ad un grado di maturità ancora scarso, il reparto chiuso (posto a


distanza e quindi concretato agli occhi del degente come diverso)
può essere vissuto come la testimonianza della propria “diversità”
nei confronti del malato più grave che necessita di essere rinchiuso
in un reparto con maggiori garanzie di tutela. In un certo senso, il
livello di integrità del malato “libero” sarebbe confermato
dall’esistenza di un livello peggiore cui egli non partecipa: ciò si
concretizzerebbe ai suoi occhi come la garanzia dell’integrità del
gruppo cui appartiene, con il conseguente costituirsi di un senso di
appartenenza, sconosciuto in regime asilare di tipo tradizionale. Se
questo senso di appartenenza può risultare positivo all’inizio del
processo di riabilitazione del malato, esso si mantiene però nei limiti
di una reazione vendicativa, dove l’elemento più significativo è
rappresentato dall’esistenza di un valore inferiore al proprio, il cui
riconoscimento serve di garanzia al proprio valore.

Ci si manterrebbe dunque ancora in pieno terreno razzista, nel


senso che la propria affermazione di sé è data soltanto dal fatto di
riconoscere (se non proprio di creare) l’esistenza di un livello di vita
inferiore a quello di chi giudica. Il che è, comunque, uno dei
meccanismi abituali nei rapporti interpersonali e non certo tipico del
malato mentale.

b) Ad un successivo grado di maturità, la consapevolezza delle


privazioni subite e del livello di coercizione sopportato nei reparti
chiusi, porta il malato che gode ormai di una certa libertà a
comprendere la situazione del degente ancora “prigioniero”, in modo
da rifiutarla in suo nome. Ma una comprensione di tal natura, risulta
possibile solo qualora l’ammalato “libero” abbia raggiunto un grado
di consapevolezza del proprio valore personale (e quindi un grado di
integrazione di sé), capace di sussistere senza bisogno di essere
confermato dal confronto con altri. Il che è, in fondo, difficilmente
riscontrabile in una società ad alto livello competitivo, anche nei
rapporti normali dove, molto spesso, il proprio valore risulta costruito
solo in rapporto al valore o al giudizio altrui.

c) Il persistere della dimensione manicomiale - seppure


notevolmente ridotta - all’interno di una organizzazione comunitaria,
agisce tuttavia come l’avallo da parte dell’organizzazione stessa dei
meccanismi di esclusione attuati dai malati “liberi” nei confronti di
quelli coatti.

Pur servendo questo confronto di occasione per la dialettizzazione


comunitaria di tali processi, non si può negare che il fatto stesso che
questa dimensione manicomiale sussista, confermi all’interno della
struttura ospedaliera l’esistenza di una differenziazione qualitativa.

Il malato “libero” vive infatti una situazione ambivalente dato che,


all’interno dell’ospedale, gode di una certa libertà ed autonomia,
continuando però - contemporaneamente - a mantenere il ruolo di
escluso nei confronti del mondo esterno. Si trova dunque a subire
l’atto di esclusione della società che lo relega nello spazio a lui
dedicato, dove la esistenza di un livello peggiore al proprio gli dà la
possibilità di affermarsi per confronto, vendicando il rifiuto subito
dall’esterno.

In questo senso la scomparsa di zone in cui poter concentrare ciò


che il malato rifiuta in sé, può agire come l’inizio della distruzione di
un meccanismo di tal genere, facendo spostare il rifiuto della propria
condizione, dall’oggetto su cui viene abitualmente concretato, al
soggetto che lo determina: la società come responsabile di questa
esclusione originaria. Ciò significa che può, in questo modo, essere
messo in discussione e razionalizzato lo stesso processo messo in
atto dalla società nei confronti del malato di mente, e ciò da parte del
malato stesso che viene così acquistando una sempre maggior
consapevolezza della propria identità e del proprio rapporto con il
reale. L’esistenza del malato ad un livello inferiore al proprio, pare
invece mantenere confuso in una certa ambiguità il ruolo del malato
“libero”, che può trovare più facilmente le sue gratificazioni
nell’affermarsi sul debole, che non nel combattere il forte.

Questi meccanismi - che si rivelano mescolati e confusi a seconda


del diverso grado di maturità - sono comunque tipici di ogni rapporto
interpersonale e non particolari del mondo malato. Se è dunque
riconosciuto che la società mantiene ancora nei confronti di questa
categoria di malati il suo giudizio di tipo esclusorio, non è poco che
una comunità psichiatrica tenda a sviluppare nei ricoverati -
attraverso la comprensione e la dialettizzazione della loro situazione
- una presa di coscienza della realtà, capace di far mettere in
discussione uno dei processi fondamentali su cui si basano
abitualmente i rapporti interpersonali.

3. Questo implica, naturalmente, la netta distinzione fra ciò che è


normale e ciò che non lo è, fra un male ed un bene stabilito al di
fuori della propria misura personale, il cui valore ha assunto un
carattere dogmatico e definitivo. La “norma” è dunque un limite entro
cui l’uomo sa di dover vivere, tanto che il superarlo può scatenare in
lui crisi violente di disadattamento dovute non tanto allo stato
emotivo in cui si trova, quanto all’ansia che gli provoca la
consapevolezza dell’abnormità della sua condotta, rispetto ad un
valore medio accettato e riconosciuto come unico e definitivo.

Si tratterebbe qui di una sorta di “ideologia della norma” i cui valori


non hanno più nulla di personalmente vissuto, ma alla quale tutti
tendono ad uniformarsi per sfuggire all’ansia di trovarsi soli, al di
fuori di ogni schema. Il fatto che i primi sintomi di alterazione
psichica non siano ritenuti di grave entità da parte dello psichiatra -
così come più oltre afferma Goffman - e che questa rassicurazione
non incida minimamente su chi ne soffre, comprova quanto si va qui
affermando. Oltre all’azione degli stereotipi culturali che riconoscono
un carattere di gravità ai sintomi riferiti da Goffman come l’udire voci
o l’avere allucinazioni, è evidente che esiste un limite, varcato il
quale l’uomo si trova in balia di se stesso, senza le necessarie
implicite rassicurazioni del gruppo cui appartiene. La percezione di
aver varcato questo limite e di trovarsi solo di fronte alle proprie
esperienze, potrebbe essere l’occasione allo scatenarsi di uno stato
d’ansia che, una volta messo in moto, creerebbe un circuito
difficilmente arrestabile.

4. L’analisi della «carriera morale» del malato mentale è infatti


l’analisi del graduale processo di esclusione di cui è oggetto dal
momento nel quale viene individuato come “malato”. Un tale
processo si muove a più livelli, costantemente interagenti fra di loro,
causa e nello stesso tempo effetto l’uno dell’altro: l’esclusione che il
malato fa del reale e l’esclusione che il reale fa ai danni del malato. Il
retrocedere del reale agli occhi del paziente psichiatrico è, infatti,
confermato dal restringimento dello spazio vitale che gli viene
concesso, tanto che alla fine di un simile processo - di fronte al
malato istituzionalizzato dei ricoveri psichiatrici - non si è in grado di
riconoscere fino a qual punto abbia agito la malattia o la realtà
dell’internamento.

Che il malato mentale sia soprattutto un “escluso” è del resto


confermato dalla motivazione originaria alla sua reclusione:
«Pericoloso a sé e agli altri e di pubblico scandalo». Così viene
definito al momento del suo ingresso in ospedale, non tenendo
evidentemente conto del suo essere un soggetto che soffre di una
particolare malattia, ma solo del fatto di essere la personalizzazione
oggettuale di ciò di cui la società ha paura. Un giudizio tanto relativo
che, implicitamente, riconosce l’impotenza dello psichiatra di fronte
alla malattia mentale nel suo definirla «incomprensibile» e quindi
«pericolosa», ha tuttavia portato a conclusioni tanto assolute come
quelle che, dalla definizione di «pericolosità» del malato, sono
venute a determinare la natura dello spazio in cui doveva essere
circoscritto. Ciò perché l’incertezza dello psichiatra veniva a
coincidere con il bisogno della società di accantonare in qualche
modo il problema che non era in grado di affrontare direttamente.

«Di fronte alle sue paure e alla necessità di assumersi le proprie


responsabilità, l’uomo tende ad oggettivare nell’altro la parte di sé
che non sa dominare: ad escludere l’altro che ha in sé come sua
contingenza. E’ un modo di negarla in sé, negando l’altro; di
allontanarla, escludendo i gruppi in cui è stata oggettivata… è la
scelta di un mondo manicheo dove la parte del male è sempre
recitata dall’altro, appunto dall’escluso; dove solo in questo
escludere affermo la mia forza e mi differenzio» (F. Basaglia e F.
Basaglia Ongaro, “Un problema di psichiatria istituzionale”, in «Riv.
sper. di fren.», vol. 90, fasc. 6, 1966).

Questo concetto dell’esclusione come proiezione ed oggettivazione


nell’altro di ciò che si rifiuta in sé, è fondamentale nella
comprensione della carriera del malato mentale. L’istituzione è stata
creata, infatti, essenzialmente a tutela dei sani, quindi con l’evidente
finalità di accogliere - in una dimensione costruita per loro - gli
esclusi dalla società che, nel momento in cui isola in uno spazio
concreto le proprie contraddizioni, può continuare ad illudersi di
essere al sicuro. Ciò però le richiede di erigere contro i suoi stessi
membri e quindi nel suo stesso seno, barriere che siano in grado di
proteggerla da quella realtà che continua a negare, altrimenti essa
potrà minare la solidità del sistema su cui poggia.

La storia della psichiatria ne fa, del resto, testimonianza come, in


altro campo, sono testimonianza di questo stesso tipo di “esclusione”
gli esempi più recenti e clamorosi dei campi di eliminazione nazisti o
la condizione dei colonizzati.

L’analisi di Goffman del ricoverato negli ospedali psichiatrici o quella


di Franz Fanon sulla condizione del negro, o quella ancora, di Primo
Levi sul prigioniero dei campi di eliminazione nazisti, parlano tutte lo
stesso linguaggio perché si riferiscono tutte allo stesso fenomeno.

Quando Goffman dice: «La carriera del predegente può essere


ritenuta un modello di esclusione: egli si presenta come un uomo
dotato di diritti e di legami con il mondo, di cui, già all’inizio del suo
soggiorno in ospedale, non rivela quasi più traccia». Primo Levi
risponde: «Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone
amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto
infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto,
ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento,
poiché accade facilmente a chi ha perso tutto di perdere se stesso»
(“Se questo è un uomo”, Silva, Torino 1947). Franz Fanon incalza:
«E’ il colono ad aver fatto e a continuare a fare il colonizzato… fin
dalla nascita è chiaro per lui che quel mondo ristretto, cosparso di
divieti, non può essere ripreso in esame se non attraverso la
violenza assoluta… il mondo coloniale è un mondo a scomparti…
l’indigeno è un essere chiuso in un recinto, l’apartheid non è che una
modalità della divisione in scomparti del mondo coloniale» (“I dannati
della terra”, trad. di Cignetti, Einaudi, Torino 1962).

Prescindendo dalla malattia in sé, è evidente che si tratta qui del


medesimo fenomeno di esclusione; il che significa che quando si
parla della condizione asilare del malato mentale, la malattia si trova
ad avere un valore puramente accessorio nel processo di ciò che
Primo Levi chiama la «demolizione» dell’uomo e D. Vail
(“Dehumanization and the Institutional Career”, Charles e Thomas
Publishers, Springfield [Ill.] 1966) la «disumanizzazione» cui si
assiste.

In questo senso la presa di coscienza, da parte dell’escluso, del suo


essere stato rifiutato da una società che ha visto nei sintomi di cui
soffriva (o nel colore della pelle) solo la pericolosità per sé, può
risultare il punto di partenza per la comprensione da parte del malato
(così come del colonizzato e del prigioniero) del suo ruolo reale, che
gli appare per la prima volta libero da ogni significato di malattia (o di
inferiorità). Questa presa di coscienza del reale, del proprio ruolo di
escluso, può essere l’avvio ad una presa di coscienza da parte del
malato nei confronti della malattia stessa, dato che in questa sua
opposizione o contestazione all’esclusione, egli va acquistando un
graduale rafforzamento dell’io la cui demolizione era stata attuata dal
processo di istituzionalizzazione.

Un esempio della dialettica esclusione-contestazione è riscontrabile


nel tema trattato in una riunione di comunità. La discussione
generale verteva sulla morte dei malati e sul fatto che l’intera
comunità ospedaliera non ne fosse messa al corrente, come è d’uso
nella zona, con un tocco di campana per le donne, due tocchi per gli
uomini. La cosa non giustificava tuttavia la partecipazione emotiva
dei ricoverati all’argomento, finché non si evidenziò che il silenzio
che accompagnava la morte di un compagno li faceva sentire
accomunati all’unica morte che non viene annunciata con i tocchi di
campana: quella del suicida che riconoscevano, in qualche modo
vicino nel suo essere escluso dalla realtà, tanto da volersene
escludere volontariamente.

Il prendere coscienza di una tale situazione (dell’essere cioè trattati


alla stessa stregua dei suicidi) aveva provocato in un primo tempo
un livello di mortificazione generale, concretatosi in lunghi silenzi
pieni di significato. Finché la tensione si sbloccò nella conferma del
precedente rifiuto di non essere accompagnati dal tocco di campana
dopo la morte, rifiutando in ciò di essere considerati concretamente
degli esclusi da accomunarsi ai suicidi.

L’esempio, didatticamente valido, della dialettica esclusione-


contestazione ha, quindi, evidenziato la possibilità, attraverso un tale
processo, del ricupero, da parte dei membri della comunità, dello
stato di mortificazione in cui la presa di coscienza del loro ruolo reale
li aveva lasciati.

5. La suddivisione sociologica delle varie categorie con cui quello


che diventerà un malato mentale si trova in contatto (gli accusatori, i
mediatori e i tecnici professionali) sembra molto importante per ciò
che riguarda il loro diverso modo di viverlo.

E’ qui il caso di puntualizzare una situazione che sarà analizzata più


oltre: «l‘“accusatore” non agisce abitualmente in veste
professionale» e la sua accusa ha un peso ancora relativo nella
carriera del malato mentale. Ciò che invece pare determinante, se
non ancora definitivo, è l’incontro con i “mediatori” che
corrisponderebbero alla prima categoria professionale, con un ruolo
tecnico da esplicare, in cui si imbatte la persona psichicamente
disturbata, prima di essere stigmatizzata scientificamente.
Sembra interessante notare come, in questa trafila che porta il
predegente al ruolo di degente, l’incontro del malato con il
professionista, il tecnico, sembri il momento in cui il suo destino
viene segnato. Fino a questo momento, infatti, egli riesce a
mantenere con gli altri un tipo di rapporto in cui gli si riconosce
ancora un ruolo personale: il datore di lavoro che si lamenta delle
sue stranezze, il familiare che lo colpevolizza per il suo
comportamento, stanno ancora pretendendo da lui qualcosa il cui
ottenimento lo manterrebbe ai loro occhi su un terreno
d’uguaglianza. Il lamentarsi di un comportamento presume il ritenere
la possibilità che un tale comportamento venga modificato in seguito
al proprio intervento, tenendo conto, contemporaneamente, delle
ragioni che verranno opposte a spiegazione o a giustificazione del
comportamento stesso.

Ma il tecnico (il mediatore prima e il professionista specialistico


dopo) sembrano invece strappare il malato da questo rapporto
ancora personale (con la possibilità di una reciproca aggressività e
di una reciproca difesa in esso implicite), per fissarlo in un ruolo
oggettuale, nel momento in cui diventa l’oggetto della loro ricerca e
della loro cura. Nei suoi rapporti con i mediatori difficilmente il malato
viene contraddetto o rimproverato: la realtà comincia, già molto
prima del suo internamento definitivo, ad apparirgli ambigua e
gradualmente sempre più aproblematica, nel senso che se
originariamente egli voleva - attraverso acting-out qualche volta
apparentemente ingiustificati - contestare il mondo, ora è il mondo
stesso a venirgli incontro lasciandosi contestare in modo irreale.
Questa azione del mediatore e del tecnico assume così il significato
di un giudizio che definisce e nello stesso tempo deresponsabilizza il
comportamento del malato, aiutandolo a staccarsi dal reale il cui
confronto è per lui tanto problematico.

Quando questo giudizio tecnico sia stato formulato, il malato cessa


di essere vissuto da chi lo circonda come un problema costante che
richiede costanti prese di posizione reali, per diventare un fantasma,
liberato di volta in volta da ogni vincolo di responsabilità e di
consapevolezza. Il che non può non agire sul malato come la
dimostrazione che, il fatto di essere stato riconosciuto “malato” dai
tecnici, lo autorizza a regredire perdendo ogni controllo sulla propria
vita.

Questo processo di oggettivazione del malato nel momento del suo


incontro con il «mondo tecnico», sembrerebbe del resto ricalcare ciò
che è già accaduto nella evoluzione storica della malattia mentale.

Fintantoché la malattia mentale era considerata una delle modalità


umane con cui l’uomo conviveva, esisteva fra la società e i malati un
rapporto del tipo di quello ora esaminato fra il malato e
l‘“accusatore”: una partecipazione all’abnorme attraverso una vita
comune, in cui il malato conserva agli occhi della società, il suo
carattere contraddittorio, così come lo conserva la realtà agli occhi
del malato (confronta al proposito M. Foucault, “La storia della follia”,
Rizzoli, Milano 1963 e Gregory Zilboorg, “Storia della psichiatria”,
Feltrinelli, Milano 1963). Ma, dal momento in cui la scienza lo ha
individuato come oggetto di ricerca, lo ha fissato in modo così
definito nel suo nuovo ruolo di “diverso”, da dover creare uno spazio
per lui dove questa sua diversità avrebbe trovato conferma. La realtà
del malato, così come la realtà dell’istituzione costruita per lui, si
sono trovate a muoversi in una sola dimensione, dove le
contraddizioni o erano eliminate o venivano inglobate e definite nei
sintomi della malattia. Esattamente come succede nel rapporto fra
quello che sarà il malato e la categoria dei mediatori e dei tecnici
che, nella individuazione della malattia, esplicano il loro ruolo e
trovano un significato alla loro azione.

6. Il fatto che i “mediatori” non giudichino gli ospedali psichiatrici


luoghi di esilio forzato, ma istituzioni sanitarie, merita qui una
precisazione.

Non si tratta né di un «errore di giudizio», né di un tradimento ai


danni del malato, ma di un meccanismo del tutto diverso. I mediatori
sono investiti del loro ruolo professionale che li porta a credere nella
validità delle istituzioni da cui dipendono, per garantirsi la validità
della propria azione. Dubitare delle istituzioni, equivarrebbe a
dubitare di sé; così come riconoscerne il valore, equivale ad
incorporarlo in se stessi come suoi diretti artefici.

In questo senso i mediatori (per lo più specialisti: polizia, clero,


medici generici, psichiatri, personale di cliniche, legali, assistenti
sociali, insegnanti scolastici eccetera, come Goffman li definisce)
sono i mandati della società che - per mezzo delle istituzioni da cui
dipendono - cerca di risolvere i problemi di un dato settore. Il loro
ruolo è dunque originariamente ambiguo, nell’essere legati ad una
istituzione per mezzo della quale si affermano personalmente, e
nell’agire insieme come espressione della società che affida loro un
dato mandato.

Ciò comporta da parte loro una totale adesione all’istituzione, il che


corrisponde all’avallo incondizionato delle sue regole: si tende cioè a
riconoscere come buone e valide situazioni che, in realtà, lo
sarebbero solo in parte, unicamente perché vi si partecipa con un
ruolo preciso che deve essere a tutti i costi mantenuto.

E’ dunque ovvio che il giudizio, e quindi l’atteggiamento dei mediatori


nei confronti degli ospedali psichiatrici, sia decisamente positivo,
quanto quello del pubblico è negativo. Per i mediatori ne va del loro
prestigio: fuori dall’ingranaggio dell’istituzione di cui si sentono un
elemento determinante, cadrebbero nel vuoto - completamente persi
nella loro stessa identità. Il pubblico invece - per cui l’istituzione è
preparata - la subisce senza ricavarne alcun compenso, né reale né
psicologico, e vede quindi la situazione senza schermi o diaframmi.
E’ tuttavia vero che i mediatori potrebbero, a loro volta, trovarsi nella
situazione di dover essere ricoverati, il che naturalmente li
porterebbe a modificare il loro giudizio sull’istituzione. La loro
selezione professionale si trova però a corrispondere ad una
categoria sociale che abitualmente sfugge al ricovero coatto,
trovando altre soluzioni meno drastiche e meno distruttive.

E’ solo se la realtà istituzionale psichiatrica muta, che muterà nel


pubblico il preconcetto che l’ospedale psichiatrico sia «un luogo di
esilio forzato», dato che questo preconcetto proviene dall’esperienza
reale che il pubblico fa durante l’ospedalizzazione propria o di un
parente. Le attestazioni dei mediatori o dei tecnici circa la perfetta
efficienza dell’istituzione, non riusciranno certo a smuovere un tale
pregiudizio che, per il momento, risulta molto più vicino alla realtà, di
quanto non siano le ideologiche sicurezze dei tecnici.

7. Si è già puntualizzato l’ammorbidirsi della realtà attorno a colui


che è stato individuato come un malato mentale.

La descrizione di Goffman circa il tipo di rapporto che il malato può


incontrare, evidenzia come il mondo si vada facendo attorno a lui
sempre più aproblematico ed irreale. Un suo atto di protesta o di
provocazione non ha più mordente, come se all’improvviso non
trovasse più una realtà da scalfire e su cui lasciare il segno della sua
presenza. Dal momento in cui è stato individuato come “malato”,
proprio per il suo disturbato rapporto con il reale, egli risulta non
soltanto l’oggetto di una congiura nel senso che lo si spinge verso
l’ospedalizzazione, ma l’oggetto di una serie di rapporti irreali, a-
contraddittori che contribuiscono a confermare la frattura già in atto
fra il malato e la realtà.

Così come, “prima”, il mondo doveva presentarsi ai suoi occhi in


tutta la sua greve problematicità, tale che egli non era riuscito a farvi
fronte; ora si sente, invece, immerso in una realtà lievissima, dove
vengono prospettate veloci soluzioni per tutto, che non possono non
apparirgli come una rete tesa per prenderlo in trappola.

Questo capovolgersi della realtà è il momento decisivo nel quale il


“malato” è definitivamente oggettivato nel suo nuovo ruolo. Postosi
come problema di fronte alla realtà, è la realtà a rifiutarlo come
problema, ammorbidendone tutte le contraddizioni per poter facilitare
la sua ospedalizzazione. Una volta entrato in ospedale psichiatrico,
si troverà in un mondo ad una sola dimensione dove
l’aproblematicità della sua esistenza verrà data per scontata, poiché
vengono esplicitamente negati tutti gli elementi che potrebbero farla
sussistere.

Si ritorna qui, ancora una volta, al significato dell’incontro del malato


con il «mondo tecnico», dove ogni valore personale viene trasceso e
giustificato nella malattia, quindi non più contraddetto o contestato. Il
che significa che viene completamente negato.

8. L’istituto in questo modo si trova a coinvolgere nella sua azione


anche la “persona di fiducia” che viene delegata a tutelare gli
interessi del malato. Nel momento in cui - dal ruolo socialmente
indifferente che ricopriva - le viene affidato un ruolo ufficiale (come
tutore o “guardiano”) le si richiede, implicitamente, di partecipare
all’azione regressiva sul degente «incitandolo a sperare, non dando
seguito alle sue proteste o rassicurandolo sulle capacità tecniche dei
sanitari». Il che non può che portare la “persona di fiducia” a stabilire
con il malato il rapporto di tipo aproblematico ed oggettivante che
l’istituto ha già stabilito.

Il degente viene così a trovarsi in una posizione ambivalente nei


confronti del suo “guardiano”. Da un lato lo vive come un
prolungamento dell’istituto nel senso che - pur agendo egli
apparentemente nell’interesse del suo protetto - si muove in realtà
per l’istituzione e per il suo buon andamento. Dall’altro egli
rappresenta ancora l’unico legame con il mondo da cui il degente è
stato tagliato fuori e quindi può essere, ai suoi occhi, la
dimostrazione del suo possedere ancora un linguaggio comune ed
un comune terreno d’intesa e di valori con la realtà esterna. In
questo senso il malato si troverebbe nella necessità di identificarsi
con il “guardiano” attraverso un rapporto fantasmatico che gli
consenta di trascendere la propria situazione per riuscire a
sopportarla.

«Bettelheim (B. Bettelheim, “The Informed Heart”, The Free Press,


Elencoe 1960) e Steiner (J. D. Steiner, “Treblinka”, Fayard, Paris
1966) sostengono un analogo punto di vista per quanto riguarda la
sopravvivenza di internati in campi di eliminazione nazisti, attraverso
l’adesione fantasmatica ai valori dei dominatori, adesione che veniva
quasi a giustificare la situazione di completa soggezione in cui
doveva vivere». (F. Basaglia e F. Basaglia Ongaro, “Un problema di
psichiatria istituzionale” cit.).
Il fatto che, solitamente, i malati più regrediti siano quelli che i parenti
(in veste di persone di fiducia, di guardiano o di tutore) non vengono
più a visitare, evidenzia l’ambivalenza di questo rapporto che - pur
essendo oggettivante in quanto strettamente legato al mandato
dell’istituto - agisce ancora sul malato come l’unico richiamo
possibile alla realtà e come la presenza nella sua vita di un valore
altrui capace di dare un significato alla sua attesa ed uno scopo alla
lotta. Che il rapporto fra degente e “guardiano” non sia del tutto
oggettivante è del resto confermato dalla ripresa delle “visite”, una
volta che il malato risalga, attraverso un processo di riabilitazione,
dallo stato di totale istituzionalizzazione. Ciò significa che, nel
momento in cui il malato si riabilita agli occhi del “guardiano” - il
guardiano stesso riesce ad impostare con lui un rapporto ad un certo
livello di reciprocità, nella misura in cui in questo incontro sente di
poter trovare qualche compenso.

In tal modo si spiegherebbe l’aggressività e la fantasmatizzazione


insieme del “guardiano” da parte del degente che vede in lui,
contemporaneamente, l’istituto e una realtà così ricca di valori che,
proprio in quanto tale, gli permette di sopportare la propria
situazione.

9. Si evidenzia qui nuovamente il momento della frattura fra la


situazione reale del malato e della “persona di fiducia” (ancora
reciprocamente legati in un rapporto problematico e contraddittorio)
e la situazione ideologica del tecnico in cui il malato si trova costretto
ad entrare (caratterizzata da una totale aproblematicità).

E’ ancora l’incontro con il «mondo tecnico» che convince la “persona


di fiducia” ad agire verso il malato in un modo che, oscuramente,
percepisce come negativo o distruttivo nei suoi confronti. Ed è
ancora il «mondo tecnico» che se ne assume la responsabilità,
sollevandola dalle spalle della “persona di fiducia”, che viene così a
trovarsi privata di uno degli elementi che la legavano al malato: la
loro storia comune che la portava ad essere coinvolta in un comune
destino. Entrambi si trovano quindi staccati dalla loro storia: il malato
nel senso che essa sarà vista - da questo momento in poi - solo in
funzione della malattia; la “persona di fiducia” nel senso che si trova
ad affidare alla istituzione non soltanto il malato che tutelava, ma
anche il tipo di rapporto che aveva con lui, per assumerne uno che
non tiene conto dei legami reciproci (seppure li aggressività e
colpevolizzazione) che li teneva uniti.

10. E’ qui evidente il processo destorificante (confronta anche il


lavoro di Michele Risso sulla psicoterapia istituzionale) che si attua
nell’anamnesi. Partendo da una conclusione (il giudizio di malattia e
quindi la diagnosi) si ricostruisce il passato in funzione di questa,
non tenendo conto che - se il numero di contingenze che ha portato
il «disturbato mentale» all’ospedalizzazione fosse stato diverso,
anche la sua storia, il suo passato sarebbero stati visti in una diversa
prospettiva. Quindi anche il passato - così come il suo futuro - si
trova in balia di quel numero di circostanze che lo hanno portato al
ricovero.

In tal modo l’immagine di sé che gli viene proposta non può


coincidere con quella - seppur disturbata ed alterata - che il malato
aveva “prima”, dato che si rivela strettamente legata ad una serie di
contingenze esterne che egli non può riconoscere come proiezione
di sé.

11. Il momento del ricovero stabilisce dunque il passaggio dal ruolo


di «persona intenzionale» a quello di «persona malata» che, proprio
in quanto tale, ha perso ogni intenzionalità o è ridotta ad una pura
«intenzionalità malata».

Una tale dimensione, fondamentale in ogni comportamento, non può


tuttavia sparire: se essa scompare è solo in quanto non viene più
riconosciuta come intenzione degli atti del malato, ma
semplicemente ridotta a sintomo di malattia. In questo senso, una
volta negatagli la possibilità di rapporti problematici e quindi
intenzionali, il malato si trova rinchiuso in un ruolo oggettivante che
di per sé inibisce ogni intenzionalità. Così quello che era nato
originariamente come un’interpretazione soggettiva del suo
comportamento da parte dell’istituto, diventa una situazione
obiettiva, reale, confermata dalla stolidità e dall’incomprensibilità dei
suoi atti.

Come più oltre precisa Goffman, ciò che viene interpretato come
l‘“adattarsi” all’ambiente da parte del degente, può essere invece
espressione della sua intenzione - e quindi della scelta di un nuovo
comportamento che gli faccia vivere meno dolorosamente la
frustrante esperienza di essere stato escluso e rifiutato.

In un rapporto comunitario il far leva sulla presa di coscienza di


questo momento - l’esclusione - per poter sopportare il quale il
malato si è trovato costretto ad inventare un nuovo modo
intenzionale di vivere, potrebbe costituire il punto di partenza più
immediato per il riconoscimento in lui di una intenzionalità ancora
presente, anche se definita e racchiusa nei limiti della «malattia».

12. Il problema dell‘“istituzionalismo” è, in realtà, il problema centrale


della carriera del malato mentale.

Goffman dedica un intero capitolo del suo libro “Asylums” all’analisi


delle “istituzioni totali” che così definisce: «Le istituzioni sociali sono
luoghi… dove si svolge con regolarità una certa attività… Ogni
istituzione si impadronisce di una parte di tempo e di interessi di
coloro che ad essa fanno capo, provvedendo loro in cambio un
particolare tipo di mondo. Ogni istituzione tende quindi a circuire i
suoi componenti in una sorta di accerchiamento… Questo carattere
appunto ‘accerchiante’ o totale è simbolizzato nell’impedimento allo
scambio sociale con il mondo esterno e nelle premesse, spesso
concretamente fondate sulle stesse strutture fisiche dell’istituzione:
porte chiuse, alte mura, filo spinato, rocce, corsi d’acqua, foreste o
brughiere. Questo tipo di istituzioni io lo chiamo “istituzioni totali”».
Le caratteristiche di queste istituzioni individuate da Goffman sono:
«Primo, che tutti gli aspetti della vita si svolgono nello stesso luogo e
sotto la stessa, unica autorità. Secondo, che ogni fase delle attività
giornaliere si svolge a stretto contatto di un enorme gruppo di
persone, trattate tutte allo stesso modo e tutte obbligate a fare le
stesse cose. Terzo, che le diverse fasi delle attività giornaliere sono
rigorosamente schedate secondo un ritmo prestabilito che le porta
dall’una all’altra, dato che il complesso di attività è imposto da un
sistema di regole formali esplicite e da un corpo di addetti alla loro
esecuzione. Infine che le varie attività forzate sono organizzate
secondo un unico piano razionale, significativamente designato per
raggiungere lo scopo ufficiale dell’istituzione».

In queste poche righe Goffman fissa già il significato essenziale delle


istituzioni totali: organizzazioni burocratiche di interi gruppi di
persone la cui finalità trascende la «persona» per risolversi
nell’organizzazione stessa.

Da una tale premessa, risulta ovvio il conseguente processo di


istituzionalizzazione del malato, il quale si trova costretto ad aderire
ad un istituto in cui viene totalmente incorporato. La «nevrosi
istituzionale» di Barton, o l‘“istituzione totale” di Goffman, o la
«istituzionalizzazione» di Martin, o la «disumanizzazione» di Vail,
parlano tutte del fenomeno di regressione istituzionale di cui il
degente è oggetto dal momento della sua ospedalizzazione. Il
malato si trova a perdere le proprie caratteristiche personali, per
assumere l’unica che gli è consentita: quella di essere un oggetto
dell’istituto.

In termini sociologici Levinson e Gallagher (D. J. Levinson e E. B.


Gallagher, “Patienthood in the Mental Hospital”, Houghton Milfin
Company, Boston 1964) considerano la “istituzione totale” di
Goffman come una comunità «quasi burocratica» considerando
l’ospedale psichiatrico un sistema correttivo-terapeutico-educativo
paragonabile alle prigioni nel suo aspetto correttivo, agli ospedali
generali, nel suo aspetto terapeutico e ai collegi, nel suo aspetto
educativo.

Si rimanda comunque, per l’analisi del problema


dell’istituzionalizzazione, ai già citati autori e, in particolare a R.
Barton, “Institutional Neurosis”, Wright, Bristol 1959; R. K. Merton,
“Social Theory and Social Structure”, The Free Press, Glencoe [Ill.]
1957; B. Bettelheim, “The Informed Heart” cit.; D. V. Martin,
“Institutionalisation”, in «Lancet», 3, 1955, 1188-90; D. J. Vail,
“Dehumanization and the Institutional Career” cit., per non citare che
i più importanti, puntualizzando comunque che il lavoro di Goffman
su “Asylums” non è altro che la precisa analisi del processo di
istituzionalizzazione del malato mentale.

13. E’ qui da precisare però che, se anche l’assegnazione del


degente ad un dato reparto venisse presentata come un premio o
una punizione, lo stato di restringimento di sé non ne verrebbe in
alcun modo ridotto, né il concetto di sé risulterebbe avvantaggiato,
dato che si manterrebbe in balia di oscillazioni legate, sempre, a
giudizi di valore.

Verrebbe dunque a mutare soltanto apparentemente la natura della


coercizione in cui il degente è costretto: il clima paternalistico lo
continuerebbe a mantenere alla stessa distanza da chi ha in mano la
sua sorte e la retrocessione ad un reparto peggiore, come simbolo
delle sue condizioni psichiche o come punizione in seguito ad una
sua azione riprovevole, avrebbe sempre ai suoi occhi il valore di una
sopraffazione morale contro la quale non ha armi a disposizione.

Direi di più che nel caso della punizione e del premio (che non
possono non essere legate ad un giudizio di carattere «morale»
nella netta distinzione fra un comportamento «buono» e uno
«cattivo») entrerebbe in gioco anche la presa di coscienza, da parte
del degente, della bontà sia del premio che della punizione, con la
sua diretta identificazione al giudizio formulato.

La retrocessione ad un reparto «peggiore» come «espressione del


grado di socialità e delle condizioni del paziente» conserva ancora
un carattere aggressivo nei confronti del degente stesso che gli
consente di reagire con pari aggressività alle imposizioni subite. Nel
caso del «premio» e della «punizione» si entrerebbe, invece, nella
pericolosa situazione - solo apparentemente più liberale - di
un’organizzazione psichiatrica di tipo paternalistico, dove il malato
troverebbe un clima più profondamente istituzionalizzante di quello
tradizionalmente coercitivo.

F. Basaglia (“La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di


istituzionalizzazione”, in «Ann. neurol. psichiatr.», e «Ann. osp.
psich. di Perugia», LIX, fasc. 1, 1965) afferma che «lo scioglimento
delle contenzioni fisiche ha attualmente liberato il malato dal suo
stato di soggezione alla ‘forza’ cui, comunque, riusciva
“deliberatamente” e “personalmente” a ribellarsi - attraverso i suoi
‘eccessi’. La libertà donatagli dal medico e dal nuovo clima
ospedaliero può produrre ora in lui uno stato di soggezione ancora
più alienante, perché frammisto a sentimenti di dedizione e di
riconoscenza che lo legano al medico in un rapporto ancora più
stretto, più infrangibile, più profondamente mortificante e distruttivo
di qualsiasi contenzione fisica: un rapporto di assoluta soggezione e
dedizione al ‘buono’ che si dedica a lui, che si china - dalla sua
altezza - ad ascoltarlo e non dice mai di no. Ciò non potrà che
accelerare il processo regressivo che lo spingerà a sprofondare
gradualmente in un morbido, indolore annientamento totale che
chiamerei una sorta di “istituzionalizzazione molle”».

14. Da questa precisazione risulterebbe che l’intenzionalità di cui il


malato sembra privo sia stata incorporata dalle strutture fisiche
dell’organizzazione ospedaliera, che agiscono su di lui con intenzioni
esplicitamente regredenti. E’ dunque ovvio che egli si difenda,
attraverso meccanismi di malafede o di «fantasmatizzazione di sé»,
per riuscire a sopravvivere alle continue allusioni, estremamente
significative, che le strutture e le regole dell’istituto continuano a
proporgli circa il suo valore tanto discusso.

In questo senso risulta comprensibile la tendenza, di cui parla più


oltre Goffman, al mantenimento della propria dignità almeno agli
occhi dei «compagni di sventura», dato che una tale dignità sembra
essere il bersaglio, sistematicamente scelto dall’istituzione, come
oggetto specifico dei suoi attacchi.

Le giustificazioni e le «storie» costruite dal paziente sono dunque


ancora l’espressione del sopravvivere in lui di una propria misura
personale e del conservarsi di uno schema di valori sovrapponibile a
quello su cui si allinea la vita quotidiana del mondo esterno. Se non
avesse l’esatta percezione del livello di degradazione cui è giunto,
non sentirebbe la necessità di mantenere, agli occhi degli altri, una
«facciata» che gli consenta, per quanto possibile, di conservare il
rispetto di sé attraverso il rispetto che gli altri hanno di lui.

15. E’ esattamente questa premessa - che si trova alla base


dell’organizzazione ospedaliera tradizionale - a condizionare l’intero
significato dell’ospedalizzazione e della cura. Se la finalità è
l’efficienza dell’istituto, ogni interferenza del malato, ogni sua azione
spontanea che vada oltre le regole che irreggimentano la sua vita,
viene ovviamente ritenuta di ostacolo all’andamento generale. Il
malato non «collaborativo», secondo il criterio istituzionale, è
semplicemente quello che si presenta come la persona non ancora
del tutto serializzata.

Questo è il punto cruciale dell’intero trattamento istituzionale del


malato mentale: il malato si presenta all’istituto come un problema e
come tale viene negato sistematicamente perché non
problematicizzi l’intera istituzione. I risultati di una simile
trasposizione di valori (dall’uomo, all’efficienza dell’organizzazione
che lo tutela), sono evidenti e riconosciuti come negativi: ci si limita a
risolvere i problemi del malato negandone la problematicità e
costruendogli attorno una realtà ad una sola dimensione dove ogni
contraddizione viene implicitamente risolta attraverso la negazione
della contraddittorietà dei termini.

Nel momento in cui l’istituzione rifiuta il malato come problema che


possa metterla in discussione, non ha altra alternativa oltre quella di
annullarlo, istituzionalizzandolo. Ma se il malato riesce a
problematicizzare l’istituto; se l’istituto non si propone di risolverne i
problemi, pianificandolo, ma li assume comunitariamente su di sé in
modo che il nuovo entrato partecipi con gli altri alla loro
dialettizzazione, allora si incomincia a creare un terreno in cui i
rapporti non sono inevitabilmente oggettivanti e ad una sola via,
dove i problemi rimettono in discussione dall’interno ogni posizione
raggiunta e il malato partecipa - così come tutti gli altri poli presenti
nell’ospedale - alla finalità di una istituzione che non si propone di
risolvere i problemi, ma di affrontarli tentando di dialettizzarne la
drammaticità.
16. La cartella clinica sembrerebbe dunque più una pezza di
giustificazione che l’ospedale prepara per motivare il ricovero, che
non un documento in cui risulti la storia del paziente. E’ quindi
evidente che l’iniziale formulazione della diagnosi illumina di un
colorito particolare ogni atto o avvenimento, evidenziandone solo gli
elementi che possano appunto essere interpretati sotto questa luce.

Si può dire che con la formulazione della diagnosi si assiste, nella


cartella clinica, non solo alla ricostruzione a posteriori di una
malattia, ma alla ricostruzione di una storia che sembra sia stata
vissuta solo in funzione di questa malattia e, soprattutto in funzione
del ricovero. Il che (se ci si rifà al problema delle “contingenze” di cui
parlava prima Goffman e su cui ci si è soffermati) non sembra reale.

Così come il malato si costruisce la storia della propria vita,


selezionando gli avvenimenti più ottimistici e lusinghieri per poter
presentare un’immagine di sé accettabile dagli altri; la cartella clinica
sembra intenzionata ad individuare gli elementi più negativi, i
fallimenti più nascosti, gli avvenimenti vergognosi per costruire un
quadro del malato che egli non potrà mai riconoscere come sua
immagine.

Inoltre la presenza in negativo (il parlarne cioè per negarli) di fatti


della cui esistenza non si hanno prove, è una dimostrazione
evidente della necessità di creare un quadro interamente coerente
con le premesse. In assenza di elementi reali, il negare la loro
esistenza non fa che puntualizzarne, in qualche modo, la presenza
nella vita del malato; anche se è dato per sottinteso che non si tratta
di notizie sicure. Tutto ciò assume un significato screditante per il
ricoverato che, non solo risulta aver avuto esperienze tanto
vergognose, ma anche le nega.

Dagli esempi proposti da Goffman, che il paziente sia o non sia ciò
che appare sulla cartella, il risultato sembrerebbe lo stesso: lo si fa
diventare ciò che si vuole, giungendo al punto di metterne in dubbio i
sintomi, qualora non corrispondano alla diagnosi ormai formulata
(confronta ad esempio: «Nessun contenuto psicotico poté essere
allora dedotto» oppure: «Anche sottoposta a considerevoli pressioni,
non risultò disposta ad impegnarsi in proiezioni di meccanismi
paranoidi»).

In definitiva, attraverso la cartella clinica si potrebbe riconoscere la


presenza dell’intenzionalità che pareva scomparsa dalla dimensione
del malato: si tratta però di una intenzionalità solo negativa,
un’intenzionalità “malata” confermata, appunto, dall’intero quadro
sindromico.

17. La preparazione tecnica del personale - a tutti i livelli - non


implica infatti una liberazione dalla paura di ciò che, socialmente,
viene ritenuto un «male». Se la società considera ancora il malato
mentale e la sua malattia come qualcosa di pauroso da escludere,
sarà difficile che coloro che ne sono i rappresentanti all’interno
dell’ospedale non ne continuino a garantire i valori.

In una dimensione comunitaria però questa libertà dai valori, per


così dire, “esterni”, può essere l’oggetto di una conquista da parte
del personale medico ed infermieristico, attraverso la conquista della
libertà reale del malato. Si verrebbero a creare così i presupposti per
un’azione veramente reciproca, nel senso che tutti i poli
dell’organizzazione comunitaria possono trovare - ciascuno nell’altro
- il proprio significato.

18. Se questa puntualizzazione di Goffman è esatta per quanto


riguarda l’immagine di sé che viene proposta al malato in modo
univoco da tutto lo staff ospedaliero, si deve qui precisare che ciò
accade però sempre in una situazione - seppure tecnicamente
perfetta - che si mantiene ad un livello tradizionale. Il malato cui
viene proposta un’immagine di sé costruita per lui «dietro le quinte»,
è sempre l’oggetto della costruzione fatta da altri, di quell’immagine
che dovrà incorporare.

Se però le riunioni a tutti i livelli dello staff sono alternate a riunioni


comunitarie di tutti i livelli che compongono il campo ospedaliero,
compresi quindi i malati, questi ultimi si troveranno a partecipare -
per quanto possibile - ad ogni decisione da prendere nei confronti
loro e dell’intera comunità. Per cui se si trama qualcosa alle loro
spalle, questo qualcosa verrà verificato o smascherato nelle
assemblee di comunità dove nessuno sfugge alla contestazione
dell’altro.

Una bugia intenzionale detta dal medico o dall’infermiere ad un


malato, sarà continuamente riproposta come un inganno. Un
impegno preso e non mantenuto diventa agli occhi di tutti “un
impegno preso e non mantenuto” che necessita di essere giustificato
e dialettizzato agli occhi di tutti.

In una situazione del genere la sola presenza dell’altro dovrebbe


creare i limiti e le responsabilità reciproche, così che ognuno
costruisce di fronte all’altro la propria immagine di sé, attraverso la
contestazione che l’altro gli oppone, senza che ci si occupi di
prepararne una alle spalle, per presentargliela già confezionata.

19. Il meccanismo del quale parla Goffman pare possa essere


riportato al concetto di esclusione (di cui al punto «4») intesa come
proiezione nell’altro di ciò che si rifiuta in sé. Denigrando l’altro, in
qualche modo ci si afferma, stabilendo una distanza fra il proprio
valore e quello altrui.

Nel caso del malato mentale il cui «scarso» valore sociale è già dato
per scontato, la distanza dai «sani» è stabilita in partenza e questo
presupposto è inevitabilmente sempre presente in ogni tipo di
rapporto che si instauri: con lui, in sua presenza o in sua assenza.

Qualora però si parli di un ospedale aperto, retto comunitariamente,


una volta che la realtà con le sue contraddizioni sia penetrata nel
mondo istituzionale, si può riconoscere che il «pettegolezzo» o il
commento denigratorio fatto alle spalle, è uno dei modi abituali di
impostare i rapporti. Grave è quando questo modo si mantiene -
come nelle organizzazioni tradizionali - ad una sola via. Ma nella
misura in cui anche i malati possono usufruire, in seguito al
raccorciamento della distanza fra i diversi ruoli, della stessa tecnica,
si può instaurare un certo livello di reciprocità, basato anche su
questo piano.
20. Se, come precisa Goffman, il grado di mobilità sociale all’interno
dell’ospedale può portare a continue fluttuazioni e oscillazioni del
“sé” del paziente a causa del mutamento delle strutture e delle
persone in cui tende ad identificarsi, ciò può d’altra parte risultare
positivo qualora, in un mondo dove tutto è dato per garantito, il
mutamento (come simbolo di vita, di movimento, di rottura) risponda
ad una esigenza comunitariamente valida.

Ciò significa che, finché il “mutamento” viene vissuto come


imposizione dall’alto, il malato si troverà defraudato di quei pochi
beni che era riuscito a costruirsi: l’amico, l’angolo personale,
l’infermiere comprensivo, eccetera.

Ma se partecipa alla decisione comunitaria dello spostamento di un


dato gruppo in un dato reparto, secondo una finalità che sia stata
scelta insieme, ciò che perde lo può riconquistare attraverso il suo
essere coinvolto in un’azione comune che gli creerà nuovi compensi.
E ciò ad un livello diverso di maturità e di risocializzazione.

21. Se la preparazione tecnica del personale non prevede un


mutamento radicale del tipo di rapporto tradizionale con il malato; se
cioè non si stacca dal rapporto oggettivante dell’organizzazione
psichiatrica di tipo gerarchico-autoritario, il ruolo del paziente resta
sempre un ruolo passivo nel suo essere completamente affidato
nelle mani di chi si cura di lui. Quanto più sarà scarsa la sua
partecipazione alla guarigione, tanto più il personale tecnico
aumenterà «il grado di merito e di orgoglio» (come dice Goffman),
con cui vive la propria azione terapeutica, confermando in ciò
l’antiterapeuticità della sua impostazione.

Dove esiste un dare e un ricevere la distanza è incolmabile e non


esiste reciprocità fra i due poli. Dove non esiste reciprocità non
esiste un rapporto. Quindi il malato che passa nella «serra di
risocializzazione» dal reparto infanti al reparto convalescenti e il
personale che si congratula fra sé per i successi ottenuti, non si
sono neppure sfiorati, non hanno scambiato uno sguardo che possa
dirsi umano: l’uno chiuso nella sua passività agli occhi dell’altro;
l’altro occupato a trascendersi nel proprio ruolo.
22. Questo è il modo tradizionale di considerare le oscillazioni nel
comportamento del malato come sintomo di malattia, quindi come
espressione di una ricaduta o di un miglioramento. Ciò deriva dal
fatto che la diagnosi di malattia ha assunto nell’istituzione un valore
definitivo nel quale il malato stesso viene ad essere incorporato,
tanto che ogni suo atto o reazione all’ambiente, viene
inevitabilmente interpretato come un sintomo.

E’ grave tuttavia il fatto che, secondo questo criterio, sarà ritenuta


come auspicabile la condizione del malato completamente
istituzionalizzato il quale - con il suo comportamento ormai amorfo e
privo di un solo «guizzo» personale - risulterà il malato ideale, il cui
livello di morbosità sarà ritenuto inferiore a quello del malato, ad
esempio, «provocatorio».

Questo però non potrà non incidere sul sistema di valori all’interno
dell’organizzazione ospedaliera che additerà il malato
istituzionalizzato, completamente ammansito ai voleri dell’istituto,
come la condizione ideale cui tutti dovrebbero tendere.

23. «Il furto fra Häftlinge viene generalmente punito, ma la punizione


colpisce con uguale gravità il ladro e il derubato. Vorremmo ora
invitare il lettore a riflettere, che cosa potessero significare in Lager
le nostre parole ‘bene’ e ‘male’, ‘giusto’ e ‘ingiusto’; giudichi ognuno,
in base al quadro che abbiamo delineato e agli esempi sopra
esposti, quanto del nostro comune mondo morale potesse sussistere
al di qua del filo spinato» (Primo Levi, “Se questo è un uomo” cit.).

E’ evidente da questa sovrapposizione di analisi come sia la


condizione umana del coatto a creare simili analogie e non tanto la
malattia mentale come fonte di degradazione e di decadimento
morale.

Levi continua più oltre dicendo che «parte del nostro esistere ha
sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-umana
l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa
agli occhi dell’uomo». Il che significa che nei rapporti siamo noi a
dover essere ciò che vogliamo che gli altri siano e, nel caso
dell’istituzione psichiatrica, sono le sue strutture a dover essere
modificate ad immagine e somiglianza di ciò che si vuole sia un
uomo, anche se un malato mentale: libere, contraddittorie e dotate di
alternative esplicite.

24. Sarebbe da vedere se non si tratti dello stesso processo cui si


assiste analizzando il rapporto fra il malato mentale e la famiglia (R.
Laing e A. Esterson, “Sanity Madness and the Family, Families of
Schizophrenics”, Tavistock Publications, 1964).

Qualora la famiglia agisca sul malato con la stessa forza distruttrice


e regredente dell’ospedale psichiatrico - il che succede molto spesso
- il malato potrebbe trovare una forma di equilibrio imparando che,
per riuscire a sopravvivere in modo personale, deve inventare una
forma di comportamento che la società considererà autolesionista.

Il fatto però, anziché dargli una misura personale con la quale


opporsi al mondo, lo porterà molto velocemente all’ospedalizzazione
dove - se non riuscirà a guarire l’alternativa che gli verrà proposta
sarà quella di scegliere fra l’essere un malato aggressivo o un mite
istituzionalizzato.

25. Questo punto segnato da Goffman sulla degradazione morale


del ricoverato, sembra molto importante per comprendere il
procedere di una carriera che viene organizzandosi definitivamente
in quello che è ormai il suo mondo: l’istituzione.

Da una parte esiste il malato dei reparti peggiori, quello che non ha
nulla da perdere, al quale viene concesso - come per la prostituta -
di comportarsi senza freni o controlli. Il suo apparente opporsi al
sorvegliante non è, infatti, vissuto da quest’ultimo come una
provocazione, ma come un comportamento abnorme che si svela
dinanzi a lui come in uno spettacolo di cui si sente artefice, nella
misura in cui è in suo potere concedere o ritirare la libertà di cui il
malato gode. E’ infatti la libertà concessa dal sorvegliante che
consente al malato di fantasmatizzarlo in modo tale da poter
sopportare il livello di degradazione morale cui egli è giunto.
Dall’altra esiste il degente «privilegiato» il quale invece non può
permettersi questo tipo di degradazione morale, perché altrimenti
verrebbe a perdere i privilegi acquisiti. Tuttavia proprio in nome di
questi privilegi che possono arbitrariamente essergli concessi, così
come arbitrariamente possono venirgli rifiutati, egli si trova
continuamente esposto ad un tipo di prevaricazione particolare. Sarà
ancora questo meccanismo a far fantasmatizzare agli occhi del
paziente il suo terapista.

26. Il terzo esempio di degradazione morale si nota, non più


all’interno ma all’esterno dell’ospedale: quando il malato viene
dimesso. Nel mondo esterno egli continua a portarsi appresso la sua
dimensione manicomiale, controllato dalla “persona di fiducia” che
ha, su di lui, lo stesso potere che aveva l’istituto.

Il malato dimesso resta uno stigmatizzato in cui l’esperienza


manicomiale ha lasciato un segno indelebile, tale da fissarlo, anche
nel mondo esterno, entro i limiti che l’istituto gli aveva concesso sulla
parola, sulla fiducia. E’ infatti costretto a mantenersi allo stesso
livello di regressione istituzionale che gli era abituale, perché
soltanto questo può garantire all’istituto, alla “persona di fiducia”
demandata alla sua custodia e quindi alla società, la certezza che
non darà preoccupazioni, né creerà problemi.
NOTE.
NOTE A: “La libertà comunitaria come alternativa alla regressione
istituzionale”

di Franco Basaglia.

(1). Confronta A. PIRELLA e D. CASAGRANDE, “John Conolly, dalla


filantropia alla psichiatria sociale”, in questo volume.

(2). Confronta A. SLAVICH e L. JERVIS COMBA, “Il lavoro rende


liberi?”, in questo volume.

NOTE A: Dibattito avvenuto nel corso dell’incontro tra la delegazione


di infermieri e amministratori dell’O.P.P. di Colorno (Parma) e il
personale sanitario, infermieri e degenti dell’O.P.P. di Gorizia il giorno
20 dicembre 1966.

(1). Questo dibattito, non preparato e trascritto pressoché


fedelmente dal nastro magnetico con qualche correzione marginale,
si è svolto in modo assolutamente non formale, come si può notare
dalla trascrizione che qui viene riportata. La discussione non è stata
rigidamente coordinata, non aveva un tema specifico, ed è risultata
simile, nella sua libera dinamica, a quella delle assemblee di
comunità dell’Ospedale psichiatrico di Gorizia.

Da segnalare particolarmente l’insistenza con cui si cerca, da più


parti, di ricercare le cause della persistenza di reparti chiusi, i quali
vengono o giustificati in modo ingenuo o sentiti come un forte limite,
sul piano della realtà concreta, nello sforzo di liberalizzare
l’ospedale. Essi sembrano rappresentare una specie di negativo che
non può essere soppresso né esorcizzato, ma inserito in una
situazione dialettica come lo stesso dibattito permette di dimostrare.
Tuttavia il superamento di tale negativo non può avvenire nelle
parole e nel semplice confronto delle opinioni, ma attraverso la
modificazione della realtà istituzionale, attraverso la progressiva
presa di coscienza di ciò che accade a coloro che sono, come malati
come medici, come infermieri, nell’istituzione chiamata ospedale
psichiatrico.

NOTE A: “John Conolly, dalla filantropia alla psichiatria sociale” (di


Agostino Pirella e Domenico Casagrande).

(1). Singolare, e rigorosa, a questo proposito, una pagina di Hegel:


«La vera cura psichica si regola sul concetto che la follia non è una
perdita astratta della ragione, né per quanto riguarda l’intelligenza né
per quanto riguarda la volontà e la sua responsabilità, ma un
semplice disordine dello spirito, una contraddizione nella ragione la
quale esiste ancora, così come la malattia fisica non è una perdita
astratta, cioè completa, della salute (questo sarebbe la morte), ma
una contraddizione in quest’ultima. Tale cura umana, ossia
amorevole e ragionevole, della follia… presuppone che il malato
possa ragionare e trova in ciò un punto solido per prenderlo da
questo lato» (HEGEL, “Enciclopedta delle scienze filosofiche”,
paragrafo 408 nota, cit. da M. FOUCAULT, “La storia della follia”,
trad. di Franco Festucci, Rizzoli, Milano 1963).

(2). Si vedano le citazioni in D. STAFFORD-CLARK, “Psichiatria


d’oggi”, trad. di P. Braccialarghe, Milano 1962.

(3). H. H. NEWINGTON, in «J. Ment. Sci.», 1901 (cit. da R. A.


HUNTER, “The Rise and Fall of Mental Nursing”, in «The Lancet»,
14 gennaio 1956).

(4). P. KOECHLIN, in «Psychothérapie institutionelle», relazione


ciclostilata, 3 febbraio 1966.

(5). Si veda la citazione, con altri riferimenti in tema di psicoterapia


istituzionale, in J. AYME’, P. RAPPARD e H. TORRUBIA,
“Thérapeutique institutionelle”, in “Encyclopédie médico-chiturgicale,
Psychiatrie”, 37930, G 10.
(6). Confronta G. JERVIS e L. SCHITTAR, “Storia e politica in
psichiatria: alcune proposte di studio”, in questo volume.

(7). Si veda il volume, recentemente tradotto in italiano da G. Jervis,


“Classi sociali e malattie mentali”, di A. B. HOLLINGSHEAD e F. C.
REDLICH, Torìno 1965.

NOTE A: “Storia e politica in psichiatria: alcune proposte di studio”


(di Giovanni Jervis e Lucio Schittar).

(1). Confronta A. PIRELLA e D. CASAGRANDE, “John Conolly, dalla


filantropia alla psichiatria sociale”, in questo volume.

(2). Confronta P. HASSOE, in «Am. J. of Psychiat.», maggio 1945,


p.p. 731 segg.

(3). E. MARANDON DE MONTYEL, “L’«open door» et le congrès de


Nancy”, in «Ann. méd.-psychol.», novembre-dicembre 1896, p.p.
390 segg.

(4). «Ann. méd.-psychol.», gennaio-febbraio 1897.

(5). Da uno scritto ciclostilato di P. KOECHLIN, in «Psychothérapie


institutionnelle», del 3 febbraio 1966.

(6). RUBIN e A. GOLDBERG, in «Arch. Gen. Psychiat.», 8 marzo


1963, p.p. 269-70.

(7). H. EY, in “Encyclopédie médico-chirurgicale, Psychiatrie”, I,


37005, A 10, p. 10.

(8). Gli studi americani sulla stratificazione sociale come substrato


che “domina” la pratica psichiatrica indicano, più che dimostrarla, la
importanza a questo riguardo della divisione della società in classi e
non si configurano quasi mai come discorso politico. (Confronta A.
B. HOLLINGSHEAD e F. C. REDLICH, “Classi sociali e malattie
mentali”, Torino 1965, e le considerazioni svolte da uno di noi nella
introduzione al volume).
(9). Ci riferiamo in particolare al cap. 10 del “Sistema sociale” di
TALCOTT PARSONS, Milano 1965, e allo scritto dello stesso autore
(dal titolo “Considerazioni teoriche intorno alla sociologia della
medicina”), in «Quaderni di sociologia», luglio-settembre 1962.

(10). D. V. MARTIN, “Institutionalisation”, in «Lancet», 2, 1955, 1188-


90.

(11). R. BARTON, “Institutional Neurosis”, Wright, Bristol 1959.

(12). E. GOFFMAN, “Asylums”, Anchor Books, New York 1961 (trad.


it. di Franca Basaglia, “Asylums. Le istituzioni totali”, introduzione di
Franco e Franca Basaglla, Einaudi, Torino 1968).

(13). R. K. FREUDENBERG, “Das Anstaltsyndrome und seine


Ueberwindung”, Nervenartz 1962, 165 segg.

(14). Confronta F. BASAGLIA, “La libertà comunitaria come


alternativa alla regressione istituzionale”, in questo volume.

(15). A. PIRELLA, “Sul problema della stereotipia schizofrenica


come sintomo significativo e come «reazione istituzionale»”, in
«Giorn. psichiat. e neuropatol.», XCIII, 4, 1965.

(16). Per il problema sociopsichiatrico del medico, confronta G.


JERVIS, “Alcune considerazioni in margine allo studio della
psichiatria sociale”, in «Ann. neurol. psichiat.» LIX, suppl. 3, Perugia
1965.

(17). G. JERVIS, “Ruoli e valori nel processo di comunicazione in


psichiatria”, relazione tenuta il 4 novembre 1966 a Arenzano al
Seminario sui problemi di comunicazione in psicoterapia (Gruppo
milanese per lo sviluppo della psicoterapia).

(18). «Il Corriere della Sera», 1 febbraio 1967.

NOTE A: “Presupposti a una psicoterapia istituzionale” (di Michele


Risso).
(1). EY 1955, p. 2.

(2). Il corsivo è mio.

(3). KALINOWSKY e HOCH 1961, p. 1.

(4). Le virgolette sono aggiunte da me.

(5). KALINOWSKY e HOCH 1961, p. 2.

(6). BLEULER 1911, p. 384.

(7). BLEULER 1911, Prefazione.

(8). Il corsivo è mio.

(9). Secondo Eissler, citato da Ellenberger 1955, dal trattamento di


inizio di una psicosi schizofrenica alle sue prime manifestazioni
dipende sovente l’evoluzione della malattia verso la guarigione o la
cronicità.

(10). BASAGLIA 1966.

NOTE A: “Commento a E. Goffman, «La carriera morale del malato


mentale»” (di Franca Ongaro Basaglia).

(1). Confronta E. GOFFMAN, “La carriera morale del malato


mentale”, in “Asylums. Le istituzioni totali”, introduzione di Franco e
Franca Basaglia, traduzione di Franca Basaglia, Einaudi, Torino
1968, p.p. 151-94.

Erving Goffman è professore di sociologia presso l’Università di


California, Berkeley. Le sue pubblicazioni principali, oltre ad
“Asylums” (Anchor Books, 1961) sono “The Presentation of Self in
Every Day Life” (Anchor Books, 1959) e “Stigma” (Prentice-Hall,
1963).

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