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LA GRANDE CRISI E IL NEW DEAL

UNA NUOVA CRISI GENERALE: LE CAUSE

Una crisi economica di enorme portata

Il mondo industrializzato precipitò in un’altra crisi generale. Questa nuova crisi però, soprattutto per la sua intensità e la
sua portata mondiale, fu in gran parte diversa da ogni altro fenomeno di recessione verificatosi fino ad allora nella storia
dell’economia di mercato: soltanto l’inizio della seconda guerra mondiale consentì la ripresa economica.

Il “giovedì nero”: le cause congiunturali della crisi

La crisi economica esplose il 24 ottobre 1929, il cosiddetto giovedì nero, con il crollo della Borsa di New York, che ha
sede in Wall Street. La Borsa della città era diventata la sede di movimenti speculativi di gigantesche dimensioni, frutto
dell’euforia collettiva che aveva alimentato l’intensa crescita dell’economia americana per tutti gli anni venti.
La spirale speculativa non era sottoposta a freni né a controlli. Per arginare questi movimenti speculativi, la Banca
centrale americana aveva messo in azione una manovra che, nei decenni precedenti, era stata sperimentata sempre con
successo: aumentava il tasso di interesse nei rapporti con le altre banche, facendo così crescere tutti gli interessi, con il
risultato di scoraggiare le richieste di credito volte a fini speculativi. Questa manovra però venne messa in atto troppo
tardi: la crisi travolse gli speculatori, i mediatori di Borsa, le banche; ma non poteva più restare limitata ai soli ambienti
finanziari. Negli anni precedenti, sull’onda della speculazione, era nato un grande numero di società nei più diversi
settori così i meccanismi classici della crisi agirono questa volta in misura ingigantita: le scorte di prodotti invenduti
divennero montagne, i prezzi all’ingrosso crollarono, fallimenti e licenziamenti raggiunsero cifre record.

Le cause strutturali: la tendenza alla stagnazione

Gli studiosi sono concordi ne ritenere che la causa strutturale del grande crollo fu l’eccesso di capacità produttiva.
L’aspetto saliente che lo aveva determinato era stata la profonda riorganizzazione dei sistemi produttivi basati
essenzialmente sull’innovazione tecnologica e sulla diffusione del taylorismo. Le conseguenze di questi ultimi due
fenomeni furono di ridurre la fatica e di incrementare la produttività. Questa profonda trasformazione della produzione
industriale era stata favorita da una crescita costante della domanda nella quale le esportazioni, più ancora che il
mercato interno, avevano svolto un ruolo decisivo. L’Europa soprattutto, dove la guerra aveva inferto duri colpi ai
sistemi produttivi nazionali, era diventata un grande mercato per le merci e i capitali americani.

Mercato internazionale e mercato interno

Già a partire dal 1925-26 questa condizione favorevole andò però scemando perché il vecchio continente aveva
ricominciato a essere una grande area produttiva con notevoli capacita concorrenziali anche sullo stesso mercato
statunitense; all’Europa si era poi aggiunto il Giappone. L’incremento della produttività globale provocò i primi segni di
squilibrio: il mercato risultava troppo ristretto per accogliere la crescente quantità di merci prodotte. La produzione
americana non trovava più in Europa il numero necessario di acquirenti e i prodotti rimanevano invenduti. Anche il
mercato interno aveva conosciuto una notevole espansione, in concomitanza con l’affermarsi del modello fordista: dato
che l’economia di scala e la produzione in serie richiedevano una più ampia disponibilità economica da par- te dei ceti
medi e anche popolari, per sostenere il loro potere d’acquisto si diffusero ampiamente negli anni venti agevolazioni
creditizie. Ai finanziamenti bancari, infatti, avevano fatto ricorso non solo le grandi imprese, ma anche i semplici
consumatori di beni durevoli. Con il crollo borsistico, la “chiusura dei rubinetti” da parte delle banche non solo provocò
il fallimento di società e imprese industriali, ma gettò sul lastrico chi aveva contratto debiti per acquistare case o
automobili, causando una fortissima restrizione del mercato e di conseguenza un’ulteriore caduta della produzione e
dell`occupazione. La crisi degli anni trenta fu quindi una crisi di sovrapproduzione, che dagli Stati Uniti si dilatò a
macchia d’olio in tutti i paesi a economia capitalistica. Ciò costrinse le industrie a ridurre la produzione e di
conseguenza a licenziare grandi masse di operai i quali, privi di reddito, dovettero ridurre gli acquisti, facendo cosi
diminuire le capacità di assorbimento del mercato interno statunitense. Si aprì così una drammatica spirale che travolse
l’economia americana e che toccò il culmine nel 1932.
La diffusione della crisi dagli Stati Uniti all’Europa

Le dimensioni del sisma che travolse 1’economia americana furono di tali proporzioni da sconvolgere l’intero assetto
economico delle nazioni industrializzate dell’Europa, non solo per l’intensità delle relazioni che legavano tali paesi alle
dinamiche economiche d’oltre oceano, ma anche perche in essi erano operanti le stesse tendenze che avevano
alimentato la crisi americana. Tutte le nazioni dell’Occidente industrializzato, insomma, avevano manifestato
un’analoga tendenza alla sovrapproduzione e alla stagnazione. Il crollo dei prestiti e degli investimenti americani in
Europa investì quindi un organismo economico già profondamente minato, che non aveva riassorbito a pieno gli effetti
negativi della difficile stabilizzazione postbellica.

UNA NUOVA CRISI GENERALE: GLI EFFETTI

La reazione del sistema economico

A differenza di quanto accadde nella crisi economica di fine secolo, ora la reazione dei sistemi economici
industrializzati all’eccesso di capacità produttiva consistette nel contrarre la produzione e nel sostenere i prezzi. In
sostanza di fronte al riemergere drammatico della sovrapproduzione i diversi capitalismi nazionali risposero con una
strategia omogenea. la comparsa di una nuova crisi di sovrapproduzione non determinò, come era accaduto
cinquant’anni prima, un immediato taglio dei prezzi. Ciò fu possibile per- che i prezzi non erano più regolati dal
rapporto fra domanda e offerta, ma era- no stabiliti dai grandi trust, che di fronte alla gigantesca massa delle scorte in-
vendute decisero di bloccare gli investimenti e ridurre la produzione, tagliando cioè l’offerta pur di sostenere i prezzi e
tutelare i profitti. Queste scelte si scaricarono prevalentemente sulla classe operaia e sui ceti meno protetti, che videro
un netto peggioramento delle loro condizioni di vita. Il blocco degli investimenti e della produzione si tradusse in un
drastico aumento della disoccupazione. Inoltre, a fronte dell’aumento della disoccupazione o della diminuzione dei
salari, il loro potere d’acquisto non fu neppure, come era accaduto in passato, bilanciato dalla caduta dei prezzi. Questo
processo fu a sua volta uno strumento di accelerazione e diffusione della crisi, perche ridusse ulteriormente la domanda
acuendo il problema della sovrapproduzione.

La scelta protezionistica e la segmentazione del mercato mondiale

Per uscire dalla crisi i governi dei paesi maggiormente coinvolti misero in atto una serie di misure per rilanciare la
produzione, Esse furono sostanzialmente improntate a elevare barriere protezionistiche sempre più rigide, per garantire
all’industria nazionale un mercato interno protetto; lo stato assunse progressivamente il ruolo di supremo regolatore. Gli
Stati Uniti furono i primi ad adottare queste misure: nel l930, infatti, il presidente, Herbert G. Hoover, decise un forte
rialzo delle tariffe doganali, con il risultato di paralizzare il commercio internazionale e in particolare le esportazioni
europee. A questa decisione si adeguarono altri paesi con il risultato di acutizzare la segmentazione del mercato
mondiale. Le conseguenze più gravi si ebbero in Gran Bretagna e in Germania, mentre la Francia, che disponeva di
massicce scorte auree, ne subì i contraccolpi solo a partire dal 1934, quando iniziava la ripresa per gli altri paesi. I piani
di salvataggio Dawes e Young avevano rimesso in moto l’economia tedesca, ma l’avevano resa dipendente dai capitali
statunitensi. Così, quando a causa della crisi questi capitali furono ritirati, gli effetti sull’economia tedesca furono
gravissimi: si verificò un’enorme ondata di disoccupazione che minò ulteriormente la fragile repubblica di Weimar e
alimentò i consensi intorno al partito nazionalsocialista.

Mercati nazionali protetti e politica espansionistica

La scelta protezionistica non si avvalse soltanto del tradizionale strumento dei dazi doganali, ma anche di misure come
gli accordi bilaterali tra gli stati, per regolare più razionalmente gli scambi con l’estero. Il commercio venne di fatto
sottoposto al controllo dello stato, che ne fissava le regole e i limiti. La crisi scosse il fondamento stesso su cui si
reggeva il sistema monetario internazionale, vale a dire la base aurea. L’atto formale che decretò la fine del gold
standard Exchange fu la decisione, presa dal governo inglese nel 1931, di svalutare la sterlina e di sganciarla dall’oro,
dichiarandone l’inconvertibilità; la sterlina restava la moneta dei pagamenti internazionali, ma non s poteva più chiedere
il rimborso in oro delle sterline possedute. Le altre nazioni europee, per non far perdere competitività alle loro merci sui
mercati internazionali, risposero con nuove svalutazioni. Questa politica economica messa in atto dai principali stati
produsse effetti di enorme portata anche sul piano politico. Ogni grande potenza industriale accentuò la propensione
all’allargamento delle proprie aree di influenza a scapito delle altre nazioni. Tradizionalmente le direttrici di queste
tendenze espansive erano due: imperialistiche, dirette cioè verso i paesi sottosviluppati, o verso i paesi confinanti nelle
zone sviluppate. Negli anni trenta, però, la prima via, seguita con successo dopo la grande depressione di fine
Ottocento, si rivelò impraticabile, perché si erano ormai definitivamente consumati gli spazi fisici del colonialismo.
Rimaneva aperta la seconda possibilità, assai pericolosa perché accentuava i rischi di destabilizzazione internazionale e
di guerra; ed è quella che venne seguita soprattutto dalla Germania, uno dei paesi più colpiti dal crollo di Wall Street.
Le conseguenze furono sconvolgenti: lo scoppio di una guerra mondiale più tragica della prima.

ROOSEVELT E IL NEW DEAL

Il programma di Roosevelt: dal libero mercato all’intervento dello stato nell’economia

Nel biennio 1930-31 la crisi economica conobbe negli Stati Uniti un sostanziale aggravamento. I programmi anticrisi
prospettati e messi in atto dalla presidenza Hoover erano improntati a una sorta di “paura della capacitò produttiva”, che
anziché fermare la spirale depressiva finiva con l’alimentarla. I consensi attorno al Partito repubblicano crollarono. Nel
1932 venne eletto alla presidenza il democratico Franklin Delano Roosevelt che aveva condotto tutta la campagna
elettorale su un vasto programma di risanamento della società sconvolta e prostrata dalla crisi. Il progetto rooseveltiano
era fondato su due principi fondamentali. Il primo si basava sulla convinzione che il rilancio dell’economia fosse
possibile non sostenendo i prezzi per sostenere i profitti, ma sostenendo il mercato, ossia rilanciando la domanda interna
mediante un ampio piano di interventi sociali per rimuovere la miseria e la disoccupazione e per migliorare i redditi dei
cittadini americani; il rilancio della domanda avrebbe favorito la ripresa delle attività produttive avviando così una sorta
di circolo virtuoso. Il secondo consisteva nel mettere sotto controllo il sistema bancario e le grandi corporation per
impedire il ripetersi delle speculazioni borsistiche. Questo progetto politico cominciò a essere messo in pratica nel
1933: iniziava negli Stati Uniti il New Deal, il “nuovo corso”. L’intervento dello stato nell’economia rappresentava un
mutamento assai significativo per una società che aveva uno dei suoi principi costitutivi nella libertà di mercato.
L’interventismo economico americano assunse dei connotati politici profondamente democratici, dal momento che
fondava la ripresa economica su un gigantesco processo di redistribuzione del reddito in favore dei ceti meno abbienti.

Il sostegno della domanda interna

La direzione di fondo dell’intervento rooseveltiano fu dunque il sostegno alla domanda interna. Roosevelt e il gruppo di
economisti che collaborarono con lui (il famoso Brain trust, “trust di cervelli”) si convinsero «che la ragione più
immediata ed evidente della depressione era stata la debolezza della domanda. Essi ritenevano che sarebbe stato
necessario perciò promuovere innanzitutto una politica economica per risollevare il potere d’acquisto delle grandi
masse popolari e insieme realizzare un ampio piano di lavori pubblici nell’ipotesi che una più vivace dinamica della
domanda avrebbe potuto stimolare l’iniziativa privata e favorire la ripresa economica. »

Il riordino del sistema finanziario e la riduzione della disoccupazione

I primi provvedimenti furono fatti approvare dal congresso nei primi cento giorni di presidenza. Con l’Emergence
Banking Act il governo rafforzò la Federal Reserve Bank, che divenne quasi una Banca centrale sul modello europeo, e
sottopose la Borsa, le grandi holding e le banche a più rigidi controlli, affinchè non si ripetessero i fenomeni speculativi
che erano stati all’origine della crisi. Di grande importanza fu l’introduzione della garanzia del governo federale sui
piccoli depositi, che non rischiarono più di andare in fumo per il fallimento delle banche. La presidenza Roosevelt avviò
la ricostruzione industriale limitando la concorrenza sfrenata tra le industrie attraverso un apposito ente federale. In
agricoltura limitò e programmò le aree da mettere a coltura per arginare la sovrapproduzione, concedendo nel contempo
sussidi agli agricoltori. Creò inoltre organismi speciali, come il Work Progress Administration, per aprire cantieri di
lavoro pubblici al fine di riassorbire la disoccupazione.

Le basi dello stato sociale americano

Le resistenze non mancarono, soprattutto da parte delle grandi corporation. Una di queste, la General Motors, animò
una battente campagna di opposizione e la stessa Corte suprema dichiarò incostituzionali i piani di intervento
sull’industria e sull’agricoltura. Roosevelt condusse una dura battaglia contro i monopoli privati dei servizi pubblici che
praticavano tariffe troppo elevate. Fece inoltre approvare la legge Wagner, che riconosceva pienamente i diritti sindacali
dei lavoratori. Le basi dello stato sociale americano furono poste dal Social Security Act, che per la prima volta
proteggeva i lavoratori con un sistema di assicurazioni per la vecchiaia e approntava sussidi secondo un sistema misto
di finanziamento. Nel 1936 Roosevelt fu trionfalmente rieletto. La disoccupazione, però, fu pienamente riassorbita solo
quando, con la minaccia di una guerra europea, gli Stati Uniti avviarono una politica di riarmo.

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