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UNIVERSITÀ DELLA CALABRIA

CORSO DI LAUREA IN SCIENZE TURISTICHE

ANNO ACCADEMICO 2013-2014

LE CIVILTÀ ITALICHE E ROMA DAL V SEC. A.C.


AL V SEC. D.C.
DISPENSE PER IL MODULO DI STORIA DELLA MAGNA GRECIA II

a cura di Alessandro Cristofori (alessandro.cristofori@unical.it)


CAPITOLO I

L’ITALIA ANTICA E I SUOI CARATTERI

1. L’oggetto del corso e i suoi limiti

Il nostro corso sarà dedicato agli sviluppi fondamentali delle civiltà italiche e della civiltà romana,
entro il quadro geografico costituito dai confini attuali dell’Italia, confini che, come vedremo, non coincido-
no sempre con il concetto che d’Italia ebbero gli antichi.

Il periodo che prenderemo in considerazione andrà dal V sec. a.C. al V sec. d.C. Il termine iniziale
è piuttosto arbitrario ed è stato scelto soprattutto perché nel V sec. a.C. il movimento di colonizzazione greca,
che aveva interessato molte regioni dell’Italia e che è stato oggetto dell’insegnamento di Storia della Magna
Grecia, si era sostanzialmente concluso, dunque questo secolo può costituire un buon punto di partenza per il
nostro corso, che verterà sulla fase italica e romana della storia dell’Italia antica. Nel V sec. a.C. inoltre si
forma, con poche eccezioni, il quadro etnico delle popolazioni italiche con il quale Roma dovrà confrontarsi
nella sua espansione nella penisola e proprio in questo periodo iniziamo ad avere le prime testimonianze di
una certa consistenza e di una qualche affidabilità sulla politica estera romana. Occorre tuttavia specificare
che in qualche caso saremo obbligati a oltrepassare questo limite cronologico, per rintracciare le origini di
alcune compagini etniche e statali dell’Italia antica: in primo luogo la stessa Roma, la cui data di fondazione
è fissata al 753 a.C. da una tradizione leggendaria da cui oggi la maggior parte degli studiosi non si discosta
di molto, almeno da un punto di vista cronologico.

Il termine finale al V sec. d.C. è anch’esso in certa misura convenzionale, ma può trovare sostegno
in una tradizione storiografica consolidata, almeno in Italia, che individua nel 476 d.C., anno della fine
dell’Impero romano d’Occidente, una cesura cronologica fondamentale, che divide l’età antica da quella me-
dievale. La data “fatidica” del 476 d.C. ha probabilmente meno senso di quanto comunemente le viene attri-
buito, soprattutto in chiave di storia economica e sociale dell’Italia, che agli inizi del VI sec. d.C. presenta un
quadro molto simile a quello del secolo precedente: per questo motivo, in particolare nella storiografia anglo-
sassone, il limite tra storia antica e storia medievale è posto in momenti differenti dal 476 d.C. e si individua
un momento di passaggio tra Antichità e Medioevo, generalmente chiamato Tarda Antichità e variamente
collocato tra la fine del III sec. e la fine dell’VIII sec. d.C., in quel lungo periodo che va da Diocleziano e
Carlo Magno. Resta il fatto che, dovendo individuare un momento conclusivo del nostro corso, il V sec. d.C.
rappresenta probabilmente la soluzione migliore, anche per evitare sovrapposizioni con l’insegnamento di
Storia bizantina.

Per quanto concerne infine i limiti tematici di questo corso, l’ossatura sarà ovviamente data dalle vi-
cende politiche dell’Italia antica, ma molto spazio verrà lasciato anche agli aspetti concernenti la civiltà, sia
nei suoi aspetti materiali (infatti ci soffermeremo brevemente sui principali siti archeologici e sui maggiori
monumenti che le popolazioni italiche e Roma ci hanno lasciato) che nei suoi caratteri culturali (in particola-
re cercheremo di chiarire quale era il quadro linguistico delle popolazioni dell’Italia preromana). Questa scel-
ta è in particolare imposta dagli obiettivi generali del corso di laurea in Scienze turistiche, di cui ovviamente
questo insegnamento deve tenere conto: una conoscenza dettagliata della storia politica, militare e istituzio-
nale dell’Italia antica è un obiettivo irrinunciabile per gli studenti iscritti, per esempio, ad un corso di laurea
in Storia, ma si rivela piuttosto inutile per i compiti che sarà chiamato a svolgere un laureato nel corso di stu-
dio di Scienze turistiche. A queste considerazioni si aggiunga il fatto che in alcune fasi della storia dell’Italia
antica è molto difficile seguirne l’evoluzione da un punto di vista strettamente politico e militare, secondo un

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rigoroso quadro cronologico: questo vale in particolare per le fasi iniziali del periodo che prenderemo in con-
siderazione, nelle quali i documenti che abbiamo a disposizione spesso non ci consentono la ricostruzione di
una storia narrativa, ma anche per il I e II sec. d.C., un lungo periodo di sostanziale pace per l’Italia, in cui i
grandi eventi bellici e politici da raccontare sono ben pochi.

2. L’evoluzione del concetto di Italia nell’Antichità

Come accennavamo in precedenza, il concetto di Italia è in continua evoluzione nel corso del perio-
do antico: in particolare assistiamo ad un progressivo avanzare verso nord dei limiti di questo termine,
dall’area dell’odierna Calabria fino giungere, grosso modo, ai confini attuali della nostra nazione. In definiti-
va, potremmo dire che anche il concetto di Italia ha una sua storia, non è stato dato una volta per tutte, ma
si è diversamente determinato nel corso del tempo, in base a considerazioni che non sempre sono state di or-
dine geografico, ma piuttosto di carattere etnico e politico.

Sulla prima fase di questa storia del termine Italia, ancora nel periodo della colonizzazione greca,
possediamo una testimonianza fondamentale del geografo Strabone, di cui avremo più volte modo di parlare
in queste dispense. Strabone visse tra la fine del I sec. a.C. e gli inizi del I sec. d.C., ma poteva attingere ad
autori molto anteriori, le cui opere spesso sono oggi per noi perdute.

Strabone, Geografia, VI, 1, 4: L’espansione del concetto d’Italia al tempo della colonizza-
zione greca
Ai Bretti appartiene il successivo tratto di costa fino allo stretto di Sicilia, lungo circa milletre-
centocinquanta stadi. Antioco nel trattato Sull’Italia afferma che questa è la regione che ebbe
nome di Italia (e di questa egli scrive), ma un tempo era denominata Enotria. Come suoi confi-
ni egli indica, verso il mar Tirreno, lo stesso che abbiamo indicato per la Lucania, il fiume Lao
e, verso il mar di Sicilia, Metaponto. Quanto al territorio di Taranto, che confina con Metapon-
to, lo pone al di fuori dell’Italia e lo chiama Iapigia. In tempi ancor più remoti, sosteneva, si
chiamavano Enotri e Itali solo quelle popolazioni che si trovavano in quell’area posta fra
l’istmo e lo stretto di Sicilia. Questo istmo largo centosessanta stadi, si trova fra due golfi,
quello di Ipponio, che Antioco chiama Napitino, e quello di Scillezio.

In questo caso Strabone si affida ad un au-


tore fondamentale per la storia della colonizzazione
greca dell’Italia, Antioco di Siracusa, uno storico
vissuto nel V sec. a.C. che fu autore di una grande
Storia della Sicilia e di un’opera minore Sull’Italia,
che qui si cita; queste opere di Antioco non ci sono
state tramandate autonomamente e sono note solo
dalla ripresa di alcuni che ne fecero autori posterio-
ri, come Tucidide e Strabone.

In questo passaggio Strabone fornisce la


lunghezza del versante tirrenico dell’attuale regione
della Calabria, abitata nell’antichità dalla popola-
zione dei Brettii (o Bruttii, come li chiamavano i
Romani): considerando che uno stadio, la misura di
lunghezza impiegata dal geografo greco, equivale a
circa 185 m., la lunghezza complessiva delle coste
Figura 1: con la linea tratteggiata doppia il confine della tirreniche abitate dai Bretti, dal confine con i Lu-
più antica Italia; con la linea tratteggiata semplice il confi-
ne dell’Italia alla metà del IV sec. a.C.
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cani fino allo Stretto di Messina, di circa 250 km. Sulla scorta di Antioco di Siracusa, Strabone precisa che
questa era la regione che si definiva Italia (o, con un termine alternativo, Enotria, la terra colonizzata
dall’eroe Enotro, giunto secondo la leggenda dalla regione greca dell’Arcadia in Italia meridionale prima del-
la guerra di Troia), presumibilmente al tempo dello stesso Antioco, nel V sec. a.C.: i suoi confini erano costi-
tuiti, sulle sponde del Tirreno, dal fiume Lao, che ancora oggi corre non lontano dal limite tra le regioni della
Basilicata e della Calabria, sul lato ionico dalla città di Metaponto, che oggi si trova in Basilicata.

Secondo quanto ci riferisce Strabone, Antioco era tuttavia a conoscenza (forse sulla base delle tradi-
zioni orali sulle quali pare che egli fidasse molto nella sua opera) di una fase ancora anteriore nella quale il
concetto d’Italia era ancora più limitato: il suo confine settentrionale si trovava sull’istmo che si trova tra il
golfo di S. Eufemia (che Antioco chiama Napitino e Strabone definisce in riferimento a Ipponio, l’odierna
Vibo Valentia) e il golfo di Squillace (figura 1). In definitiva l’Italia più antica comprendeva solamente la
parte più meridionale dell’attuale regione della Calabria.

Nel periodo immediatamente successivo alle ricerche di Antioco di Siracusa il nome di Italia inizia
il suo progressivo ampliarsi, giungendo verso la metà del IV sec. a.C. ad includere tutta la regione a sud del
golfo di Salerno e ricomprendendo dunque importanti città di origine greca come Posidonia, Elea e Taranto
(figura 1).

La fase seguente della storia del nome di Italia ci riporta ad un periodo molto successivo, agli inizi
del I sec. a.C., quando Roma aveva completato la conquista dell’area. In questo momento il termine ha un
significato ambiguo: da un punto di vista strettamente istituzionale Italia designa il territorio che è, per così
dire, smilitarizzato, nel quale cioè i magistrati non possono guidare eserciti in armi, in opposizione alle pro-
vince, quelle aree soggette a Roma nelle quali i governatori provinciali esercitano pienamente il loro impe-
rium militare. Questo territorio corrisponde a quello della penisola italiana, dallo Stretto fino ad una linea che
va all’incirca dall’Arno a Rubicone, un piccolo corso d’acqua nei pressi di Rimini. Rimangono dunque esclu-
se da questa nozione ristretta di Italia alcune importanti regioni che oggi fanno pienamente parte della nostra
nazione: la Sicilia, che costituì la prima provincia romana, creata nel 241 a.C., la Sardegna, che insieme alla
Corsica formò nel 237 a.C. la seconda provincia, e infine tutta l’Italia settentrionale, che probabilmente verso
la fine del II sec. a.C. venne organizzata nella provincia di Gallia Cisalpina, la “Gallia al di qua delle Alpi”,
in riferimento alla componente etnica un tempo prevalente in queste aree, quella gallica.

Tuttavia, in un significato più ampio, negli autori antichi si afferma talvolta una concezione più am-
pia d’Italia, che abbraccia tutto il territorio abitato dai cives Romani, i cittadini in possesso dei pieni diritti
civici dello stato romano: con la concessione della cittadinanza romana a tutte le comunità a sud del Po,
nell’88 a.C., alla fine della Guerra Sociale, e poi, nel 49 a.C., per iniziativa del dittatore Cesare, anche agli
abitanti della Transpadana, la zona a nord del Po, anche la provincia di Gallia Cisalpina entra a far parte, in
certo senso, dell’Italia. Ciò che accomuna queste diverse definizioni è il loro carattere politico (l’Italia come
area non soggetta al controllo di un governatore provinciale, o come regione interamente abitata da cittadini
romani) piuttosto che geografico (un criterio che avrebbe naturalmente portato i confini fino alla catena delle
Alpi).

Il paradosso di una regione, la Gallia Cisalpina, interamente popolata dall’elemento dominante dello
stato romano, i cittadini di pieno diritto, ma tuttavia soggetto all’arbitrio di un governatore provinciale, cessa
alla fine del I sec. a.C.: già nel 42 a.C., probabilmente, la provincia Cisalpina è abolita e nella sua successiva
riorganizzazione dello stato, Augusto include pienamente il Settentrione nell’Italia, dividendola in quattro
delle undici regioni che componevano questa area privilegiata dell’impero.

Possiamo seguire questa evoluzione leggendo un altro passo di Strabone:

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Strabone, Geografia, V, 1, 1: L’espansione del concetto d’Italia al tempo del dominio ro-
mano
Alle falde delle Alpi inizia quella che ora si chiama Italia. Gli antichi infatti chiamavano col
nome di Italìa l’Enotria, che si estendeva dallo Stretto di Sicilia fino al Golfo di Taranto e di
Posidonia; poi il nome prevalse e si estese fino alle falde delle Alpi. Arrivò a comprendere an-
che la parte della Liguria che va dai confini della Tirrenia fino a fiume Varo e la parte
dell’Istria che arriva fino a Pola. Si può supporre che i primi a chiamarsi Itali, grazie alla loro
prosperità, fecero partecipi di questo nome anche i popoli confinanti e continuarono ad esten-
derlo fino all’epoca della conquista romana. Più tardi poi, dopo che i Romani ebbero concesso
il diritto di cittadinanza agli Italici, essi decisero di concedere lo stesso onore anche ai Galli Ci-
salpini ed ai Veneti e di chiamare tutti Italici e Romani.

Il geografo greco inizialmente richiama una situazione che, come abbiamo visto, corrisponde proba-
bilmente alla metà del IV sec. a.C., in cui il nome dell’Italia era riservato all’area a sud di una linea che an-
dava dal golfo di Salerno (cui Strabone si riferisce col nome di golfo di Posidonia, dalla città allora più im-
portante della zona) al golfo di Taranto. Nota poi l’estendersi progressivo del concetto, parallelamente
all’estendersi della cittadinanza romana, fino ad arrivare, ai suoi tempi, tra la fine del I sec. a.C. e gli inizi del
secolo seguente, alle “falde delle Alpi”, ovvero al punto in cui termina la pianura Padana e si innalza la gran-
de catena montuosa. Il rilievo è molto importante, perché ci fa comprendere come ancora in età augustea la
concezione dell’Italia non sia determinata da fattori geografici (in tal caso Strabone avrebbe scritto che
l’Italia giungeva “fino alla cima delle Alpi”: è la linea dello spartiacque infatti la più significativa dal punto
di vista strettamente geografico), ma piuttosto politici: in effetti alcune vallate alpine, che dal punto di vista
geografico fanno parte della nostra regione, erano ancora abitate ai tempi di Strabone da persone che non a-
vevano la cittadinanza romana, ma erano soggette all’autorità di un governatore provinciale.

Una conferma al dato di Strabone


emerge dalla lettura di un altro geografo,
Plinio il Vecchio, che descrisse l’Italia
qualche decennio dopo, intorno alla metà
del I sec. d.C., fondandosi tuttavia su mate-
riali di età augustea. Plinio il Vecchio è la
nostra fonte migliore per conoscere i confini
delle 11 regioni in cui Augusto divise
l’Italia. Nella figura 2 vediamo come le sue
informazioni possono essere trasferite su di
una carta.

Il dato che spicca ovviamente è


quello dell’estraneità dell’Italia delle due
grandi isole mediterranee della Sicilia e del-
la Sardegna, che rimasero anche per tutto il
periodo imperiale territorio provinciale, sot-
toposte al controllo militare, giudiziario e
fiscale di un governatore romano. Le comu-
nità che facevano propriamente parte
Figura 2: le 11 regioni dell'Italia augustea dell’Italia godevano invece di un’ampia au-
tonomia interna.

Al di là di questo dato macroscopico, le dettagliate informazioni fornite da Plinio il Vecchio eviden-


ziano alcune differenze di minor rilievo con gli attuali confini settentrionali della nostra nazione (figura 3).

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Figura 3: i confini settentrionali dell’Italia augustea

Le più significative divergenze tra i confini dell’Italia augustea e quelli della nazione attuale riguar-
dano l’inclusione di un lembo di quella che oggi è la Costa Azzurra francese, fino all’antica Nicaea (oggi
Nizza) e al fiume Varo e, di converso, l’esclusione del corso superiore dei fiumi piemontesi (tra quali la Stura
di Demonte, il Maira e lo stesso Po), che un tempo facevano parte delle province delle Alpi Marittime e delle
Alpi Cozie. Nel settore centrale colpisce in particolare l’inclusione, nella regione della Transpadana, dell’alta
valle del Ticino (oggi Canton Ticino, in Svizzera), mentre la
Val Venosta, la valle dell’Isarco e la Val Pusteria erano com-
prese nelle province di Rezia (le prime due) e del Norico (la
terza). Nelle Alpi orientali i limiti dell’Italia romana ricalca-
no sostanzialmente i confini geografici e linguistici, giun-
gendo sino alle spartiacque delle Alpi Giulie e comprenden-
do buona parte dell’Istria, ma si discostano in modo signifi-
cativo dall’attuale confine dell’Italia, che in questo settore è
molto più arretrato.

La situazione che si crea nell’età di Augusto perma-


ne sostanzialmente per tre secoli, fino a quando l’imperatore
Diocleziano, che regnò tra il 285 e il 305 d.C. non intraprese
una radicale riorganizzazione delle divisioni amministrative
dell’Impero. A seguito di questa riforma l’Italia perse la sua
posizione speciale, finendo per essere anch’essa suddivisa in
province (i cui confini spesso ricalcavano quelli delle regio-
nes augustee). Le diverse province italiche ritrovavano la lo-
ro unità ad un livello amministrativo più alto, quello della
Figura 4: la diocesi Italiciana dopo le ri-
forme di Diocleziano

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cosiddetta diocesi Italiciana (figura 4), nella quale era compresa tutta le penisola, la Sicilia, la Sardegna e la
Corsica, la pianura Padana, ma anche territori al di là delle Alpi, quelli della provincia di Rezia, corrispon-
dente a parte della Svizzera orientale, dell’Austria occidentale e della Germania meridionale, fino al corso del
Danubio. Nel suo viaggio verso nord il confine settentrionale dell’Italia finì dunque per superare ampiamente
il naturale confine geografico delle Alpi.

Una simile evoluzione storica accompagna anche il nome complessivo degli abitanti dell’Italia. Sen-
za addentrarci nei particolari, ricordiamo solamente che la prima, in ordine di tempo, di queste definizioni,
quella di Italioti, aveva in origine, nel V sec. a.C., un significato piuttosto limitato: indicava in fatti i coloni
greci che si erano insediati in Italia meridionale, così come i Sicelioti erano i Greci di Sicilia. Solo in un se-
condo momento con il termine Italioti vennero designati nella lingua greca tutti gli abitanti dell’Italia, indi-
pendentemente dalla loro appartenenza etnica.

Nella lingua latina il termine più utilizzato è quello di Italici, che pure in un primo momento ha un
significato estremamente tecnico: si tratta degli abitanti delle comunità autonome dell’Italia che hanno stretto
un trattato di alleanza con Roma; tecnicamente un cittadino romano che abita anche a notevole distanza dalla
capitale non è un italicus, ma un civis romanus. Con questo significato il termine Italici si ritrova in partico-
lare nelle narrazioni della Guerra Sociale, quel violento conflitto che oppose Roma ai socii (“alleati”) che le
si erano ribellati, fra il 91 e l’88 a.C. Per venire a capo di questa guerra Roma fu costretta gradualmente a
concedere i pieni diritti civici ai suo vecchi alleati, a renderli compartecipi nel dominio dell’Impero: la di-
stinzione tra cittadini romani e alleati venne dunque a perdere di significato nel corso del I sec. a.C. e la paro-
la latina Italici venne a designare in genere gli abitanti dell’Italia.

Infine vale la pena spendere qualche parola sul termine Italiani, che ancora oggi ci definisce: le
prime attestazioni di questa parola si rintracciano in pieno Medioevo, nel XII secolo, a significare gli abitanti
della penisola che hanno le loro radici comuni nella civiltà romana e nella religione cattolica.

3. Il debito dell’Italia nei confronti dei Greci

Un elemento comune alla storia del nome di Italia e dei suoi abitanti che abbiamo brevemente trac-
ciato è dato dal fatto che le prime riflessioni a questo proposito, almeno a quanto ne sappiamo non si devono
agli abitanti stessi del paese, ma a genti venute dall’esterno, ai Greci.

In effetti l’Italia deve molto ai coloni greci venuti da oltremare: a loro spetta, come abbiamo visto, il
merito di aver riconosciuto l’unità e l’identità del paese e dei suoi abitanti. È vero che, per mancanza di do-
cumenti, non sappiamo cosa pensassero di loro stesse e del paese in cui si abitavano le popolazioni italiche,
almeno nella fase più antica della storia dell’Italia: ma a giudicare dalla frammentazione del quadro etnico e
politico che si presenta ai nostri occhi nel V sec. a.C. è verosimile che il loro orizzonte fosse piuttosto limita-
to e non andasse al di là dei confini della propria tribù.

Ai Greci (affiancati in questo caso dei Fenici, che colonizzarono parte delle coste della Sicilia) va at-
tribuita anche l’introduzione di due fondamentali elementi di civiltà: il modello della città e la tecnologia
della scrittura alfabetica.

Il tratto più caratteristico dell’organizzazione istituzionale del mondo greco è dato proprio dalla po-
lis, un termine complesso, che si traduce spesso con “città-stato”, un’espressione che tuttavia non ne esauri-
sce i molteplici significati. La polis è infatti un organismo politico autonomo, dotato di propri organi di go-
verno (in genere un’assemblea che riunisce tutti i cittadini in possesso dei pieni diritti civici, un consiglio de-
gli anziani che raccoglie i notabili dello stato, infine dei magistrati che hanno il potere esecutivo), di proprie
leggi, di propri culti; sul piano topografico il modello della polis prevede la presenza di un centro urbano,

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spesso difeso da mura, che è sede principale delle attività politiche, giudiziarie e religiose, e di un territorio
rurale circostante, sede delle attività agricole e di allevamento che danno di che vivere ai cittadini. Questa
modalità di organizzazione del territorio può apparire a noi piuttosto scontata, ma rappresentava una grande
novità nell’Italia antica, i cui abitanti vivevano ancora sparsi nel territorio, in insediamenti che avevano al
massimo le proporzioni di un villaggio, riuniti da vincoli politici piuttosto deboli. I Greci insegnano alle po-
polazioni dell’Italia ad organizzarsi in poleis: il modello si afferma rapidamente in alcune regioni, soprattutto
in Etruria, ma anche in Campania, nel Lazio e parzialmente in Umbria; altre aree, come quelle della sezione
più interna dell’Appennino centro-meridionale o dell’Italia settentrionale, oppongono resistenza e il popola-
mento rimarrà sostanzialmente organizzato per villaggi sino alla romanizzazione, quel processo di assimila-
zione ai modelli culturali e istituzionali di
Roma che si compì solamente alla fine del I
sec. a.C.

L’altro elemento fondamentale di in-


novazione portato dai Greci è rappresentato
dalla scrittura alfabetica, che i Greci a loro
volta avevano appreso dalle civiltà del Vicino
Oriente, in particolare dai Fenici. L’arrivo
dell’alfabeto in Italia, al seguito dei coloni el-
lenici segue di poco la sua introduzione in
Grecia: una delle più antiche iscrizioni in lin-
gua greca a noi note viene infatti dall’Italia, in
Figura 5: la coppa di Nestore da Pithekoussai, 725 a.C. cir- particolare da quello che veniva considerato il
ca, Museo Archeologico, Lacco Ameno (Ischia)
più antico insediamento greco nella nostra re-
gione, Pithekoussai, sull’isola di Ischia, fon-
dato secondo la tradizione verso il 770 a.C. Si tratta di un testo graffito su una tazza (figura 5), che, secondo
la maggioranza degli studiosi, può essere tradotto in questo modo: “Io sono la bella coppa di Nestore; chi
berrà da questa coppa subito lo prenderà il desiderio di Afrodite dalla bella corona”. L’allusione è alla cele-
bre tazza dell’eroe greco Nestore, descritta da Omero nell’XI libro dell’Iliade, e ai poteri afrodisiaci della be-
vanda che normalmente era contenuta dalla coppa, il vino.

Figura 6: trascrizione del testo inciso sulla coppia di Nestore

Il testo venne inciso nell’alfabeto caratteristico dell’Eubea, un’isola dell’Egeo dalla quale proveni-
vano i coloni che popolarono Pitecussa, e come molte iscrizioni arcaiche, segue un andamento sinistrorso, va
cioè da destra a sinistra, con una direzione inversa rispetto alla quella nella quale siamo abituati oggi a scri-
vere (vedi la trascrizione del testo alla figura 6). La datazione di questa iscrizione è molto discussa, ma
l’opinione prevalente è che essa possa risalire agli anni intorno al 725 a.C.

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Dagli insediamenti greci della Campania, da Pitecussa e in particolare da Cuma, la scrittura alfabeti-
ca si diffuse nel resto dell’Italia, per lo più attraverso l’intermediazione degli Etruschi. Qualche adattamento
fu reso necessario dalla struttura fonetica delle lingue che recepirono l’alfabeto greco: in particolare molte
popolazioni dell’Italia dovettero inventare un segno che esprimesse il suono F, non presente in greco; gli E-
truschi, e molte popolazioni italiche a loro imitazione, optarono per un segno che ha all’incirca la forma di un
8, mentre i Latini preferirono adottare un simbolo dell’alfabeto greco arcaico, il cosiddetto digamma inverso
(¸), che originariamente esprimeva il suono V. Dall’alfabeto greco deriva dunque anche l’alfabeto latino che
tuttora noi utilizziamo.

L’arrivo della scrittura alfabetica in Italia ci consente di ricordare anche che proprio grazie a questa
“invenzione” greca la nostra regione esce dalla Preistoria ed entra nella Storia: come è noto, il passaggio tra
queste due ere è infatti legato all’introduzione della scrittura, che ci assicura possibilità molto maggiori di
conoscere il passato. Non si tratta solo dei brevi testi epigrafici come quello inciso sulla coppa di Nestore, ma
anche degli accenni all’Italia e ai suoi abitanti che si trovano nelle opera della letteratura greca, a partire dai
poemi di Omero, fino a giungere, nel V sec. a.C. agli scritti del già ricordato Antioco di Siracusa o alle narra-
zioni di Erodoto e Tucidide (che, a differenza dell’opera di Antioco, sono fortunatamente giunte fino a noi.

4. L’Italia, una regione chiave del mondo antico

Dal momento in cui l’Italia, grazie ai Greci, entra nella storia, essa si rivela una delle regioni più im-
portanti del mondo antico. Ricordiamo infatti che proprio in Italia meridionale e in Sicilia si sviluppa una
parte molto importante e significativa della civiltà greca, con caratteri di originalità rispetto al resto del mon-
do ellenico. Sempre in Italia si sviluppa e raggiunge la fase di massimo splendore un’altra civiltà dai tratti
molto peculiari, come quella etrusca, di cui avremo di parlare più volte in queste dispense.

Tuttavia è indubbiamente a proposito della civiltà romana che l’Italia manifesta tutta la sua impor-
tanza. Si deve infatti ricordare che per gran parte delle prime due fasi cronologiche in cui si è soliti suddivi-
dere la storia romana, il teatro degli eventi è costituito dalla nostra regione. Un dato forse ancora più rilevante
è costituito dal fatto che l’Italia costituì sempre la vera base della potenza romana. Lo riconobbe molto bene
un acuto osservatore dell’ascesa di Roma a potenza mondiale, lo storico greco Polibio, che scrisse intorno
alla metà del II sec. a.C., come dimostra molto chiaramente un estratto dalle sue Storie.

Polibio, Storie, II, 24: l’Italia come base della potenza di Roma
Perché risulti chiaro, solo sulla base dei fatti, quanto era grande la potenza che Annibale osò at-
taccare e quanto grande l’impero che egli affrontò temerariamente, raggiungendo il suo propo-
sito fino al punto di precipitare i Romani in gravissime sventure, bisognerà dire i mezzi e le
quantità delle forze che erano allora a loro disposizione … Fra Romani e Campani fu registrata
una massa di circa 250 mila fanti e c’erano poi 23 mila cavalieri, mentre la quantità complessi-
va di quelli in grado di portare le armi era di oltre 700 mila fanti e di circa 70 mila cavalieri.
Contro di loro, Annibale invase l’Italia con meno di 20 mila uomini.

In questo passo Polibio sta prendendo in considerazione il potenziale militare a disposizione di Ro-
ma nel 225 a.C., pochi anni prima dello scoppio della II guerra punica (che incominciò nel 218 a.C.).
L’intento principale dello storico greco era di dimostrare quanto fosse disperata l’impresa del comandante
cartaginese Annibale, che si proponeva di abbattere una potenza che poteva mettere in campo quasi 800 mila
uomini con un esercito composto appena da 20 mila soldati (e dunque di esaltare le capacità strategiche di
questo generale, che solo per poco non riuscì in questo difficilissimo intento). Il passo polibiano ha dato adito
ad una vivace discussione sull’attendibilità delle cifre tramandate e sulla possibilità che esse si riferissero a
tutti i maschi adulti o piuttosto solamente alle persone che effettivamente potevano essere reclutate per il ser-

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vizio militare attivo. Quello che soprattutto a noi interessa rilevare è però che solo una parte minoritaria
dell’esercito romano era effettivamente costituito da cittadini romani (inclusi gli abitanti della Campania, che
in questo periodo avevano già ricevuto i pieni diritti di cittadinanza). I due terzi delle forze armate di Roma
erano forniti invece dai cosiddetti socii italici, dalle comunità formalmente autonome dell’Italia che erano
unite a Roma da un trattato di alleanza; il senso di questa alleanza è ben reso dal termine greco che Polibio e
altri autori che scrissero in questa lingua impiegarono per tradurre il termine socii: symmachoi, una parola
composta formata dalla preposizione syn, “con”, e dal verbo machomai, “combatto”, dunque letteralmente
“coloro che combattono insieme”.

È solo grazie a questo straordinario potenziale demografico (che consentì all’esercito romano della
media e tarda età repubblicana di raggiungere un numero di effettivi mai più superato in Occidente fino
all’età moderna) che Roma sconfisse Cartagine, i regni ellenistici di Macedonia e Siria, sottomise la Spagna e
la Gallia, acquisendo in un periodo relativamente breve l’egemonia su tutto il mondo allora conosciuto: quel-
lo che chiamiamo Impero romano dovrebbe essere detto più propriamente Impero italico.

5. I caratteri generali dell’Italia

In considerazione dell’importanza che l’Italia ebbe nella storia del mondo antico, vale la pena esa-
minarne brevemente alcuni dei più importanti caratteri generali. In questo non facciamo altro che porci nel
solco dei geografi e degli storici antichi, nei quali queste visioni di sintesi assumono spesso la forma della
laus Italiae, l’elogio dell’Italia. Il tono apertamente encomiastico e spesso piuttosto convenzionale di questi
brani si coglie con particolare evidenza in un passaggio delle Georgiche di Virgilio, che dal punto di vista
letterario forse costituisce una delle realizzazioni più alte del sottogenere letterario della laus Italiae.

Virgilio, Georgiche, II, 136-174: Il genere letterario della laus Italiae


Ma la terra dei Medi ricchissima di vegetazione boschiva, e il maestoso Gange e l’Ermo opaco
d’oro non gareggiano con le glorie dell’Italia, e neanche Battra e l’India e la Pancaia ricca di
sabbie sature d’incenso. Il suolo italico non fu sconvolto da tori spiranti fuoco dalla narici, se-
minati i denti del mostruoso drago, né vi spuntò una messe di guerrieri irta di elmi e di fitte
lance, ma traboccò di pregne biade e del massico umore di Bacco: lo occupavano oliveti e flo-
ridi armenti. Di qui avanza in campo eretto il cavallo da guerra, di qui, o Clitunno, le bianche
greggi e il toro, solenne vittima, molte volte aspersi dalle tue acque sacre, guidarono i trionfi
romani ai templi degli dèi. Qui è sempre primavera e, in mesi non suoi, estate; duplice è la fe-
condità del bestiame, duplice la fruttuosità degli alberi. Non vi sono furiose tigri, né la feroce
stirpe dei leoni, l’aconìto non inganna gli sventurati raccoglitori, non trascina immense volute
sulla terra lo squamoso serpente, né con tanta lunghezza si raccoglie nelle sue spire. Aggiungi
tante egregie città e fervore di opere, le numerose rocche costruite dall’uomo su scoscese mon-
tagne, i fiumi che scorrono ai piedi di antiche mura. A chi ricordare il mare che lo bagna in alto
e in basso? e gli ampi laghi? e te, vastissimo Lario, e te Benaco che sorgi in flutti e fremito ma-
rino? A che ricordare i porti e la diga sul Lucrino e la distesa marina che irata vi si frange con
alto fragore, laddove l’onda Giulia risuona del riflusso delle acque e il ribollire del Tirreno pe-
netra nel lago d’Averno? Sempre il medesimo suolo mostra vene d’argento, miniere di rame e
copiosi fiumi d’oro. Questo generò i Marsi, stirpe di duri guerrieri e la gagliardia dei Sabelli, e
i Liguri resistenti alla sventura, e i Volsci armati di spiedi, e i Decii, i Marii, i gloriosi Camilli,
gli Scipìadi aspri in guerra, e te, grandissimo Cesare, che ora, già vittorioso nelle estreme re-
gioni d’Asia, tieni lontano l’imbelle Indo dalle rocche romane. Salve, grande genitrice di mes-
si, terra Saturnia, grande madre di eroi ...

Nel testo virgiliano i cenni alla ricchezze dei campi e del sottosuolo, alla mitezza del clima e al vigo-
re guerriero delle stirpi italiche sono letteralmente sommerse da un gioco di riferimenti eruditi e di richiami
ad una geografia che è mitica più che storica, come del resto si conveniva al genere delle Georgiche. Il poeta

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inizia infatti paragonando l’Italia, e proclamandone la superiorità, con le regioni abitate dai Medi nell’Iran
settentrionale, e attraversate dal Gange, in India, e dall’Ermo (un fiume dell’Asia minore noto per le sue sab-
bie aurifere), con la regione di Battra, capitale della Battriana, nell’Iran orientale, con l’India e infine con
Pancaia, una mitica isola del mar Rosso. La prosperità agricola dell’Italia (simboleggiata dai ricchi foraggi e
dal famoso vino che nasceva di vigneti del monte Massico, ai confini fra Lazio e Campania) è poi confronta-
ta con le aspre terre della Colchide, la regione che era stata teatro delle imprese leggendarie degli Argonauti
(Virgilio in particolare allude a due imprese di Giasone, il capo degli Argonauti, che dovette domare tori che
spiravano un alito di fuoco e combattere contro dei guerrieri che erano magicamente sorti dal terreno dopo
che Giasone vi aveva seminato dei denti di drago). Nelle linee seguenti il poeta accenna alla prosperità
dell’allevamento in Italia, alludendo anche all’uso di sacrificare animali agli dèi alla conclusione della ceri-
monia del trionfo; non è chiaro per quale motivo questi animali sacrificali fossero lavati con le acque del
fiume umbro del Clitunno: forse anche questo piccolo corso d’acqua, secondo gli antichi, aveva il potere di
sbiancare il pelo degli animali, è noto infatti che durante il trionfo venivano offerti alle divinità buoi bianchi.
Ai versi successivi Virgilio si sofferma sulla mitezza del clima dell’Italia e sulla sua fertilità, notando anche
che in questa regione non si trovano animali feroci e piante pericolose per l’uomo (esemplificate dall’aconìto,
una ranuncolacea molto velenosa). La sezione seguente, dopo un breve accenno alle opere dell’uomo, è piut-
tosto dedicata alle acque: i tanti fiumi, i mari che bagnano le coste dell’Italia (il riferimento ad un mare supe-
riore, l’Adriatico, e a un mare inferiore, il Tirreno, si giustifica per il fatto che i Romani ritenevano
l’Adriatico un mare settentrionale, in considerazione del clima assai più freddo delle sue coste rispetto a
quelle tirreniche), ai grandi laghi, come il lago di Como (Lario) e il lago di Garda (Benaco), di cui si evocano
le tempeste che hanno una forza quasi pari a quelle marine. I versi successivi ci portano sulle coste della
Campania, tra Napoli e Cuma, ai due piccoli laghi costieri del Lucrino (nel quale venne costruito un ben pro-
tetto porto militare al tempo di Augusto, collegando lo specchio d’acqua al mare con un breve canale e pro-
teggendolo con dighe) e dell’Averno (a sua volta connesso al Lucrino da un altro canale).I versi 165-166, che
esaltano le ricchezze minerarie dell’Italia suonano piuttosto di maniera: come vedremo infatti l’Italia non è
certo la regione più prospera del Mediterraneo da questo punto di vista. Più efficaci i riferimenti seguenti al
valore militare delle popolazioni italiche: immancabile l’accenno ai Marsi, una popolazione che risiedeva
nella parte più interna dell’Abruzzo, e che passava per essere la più coraggiosa di tutta l’Italia; si ricordano
poi i Sabelli, qui definizione alternativa dei Sabini, stanziati all’incirca nell’odierna provincia di Rieti, i Ligu-
ri dell’Appennino centro-settentrionale, i Volsci del Lazio meridionale. Virgilio passa poi a ricordare i grandi
eroi della storia romana: Publio Decio Mure e il figlio omonimo, vissuti tra il IV e gli inizi del III sec. a.C.,
Mario, il vincitore dei Cimbri e dei Teutoni e del re numida Giugurta, Marco Furio Camillo, colui che, se-
condo la tradizione, aveva conquistato la città etrusca di Veio nel 396 a.C. aveva respinto i Galli da Roma sei
anni più tardi, gli Scipioni (detti alla greca Scipìadi), ovvero soprattutto Publio Cornelio Scipione che aveva
sconfitto Cartagine nella II guerra punica (e per questo fu detto l’Africano) e suo nipote adottivo Publio Cor-
nelio Scipione Emiliano, che distrusse la città nemica nel corso della III guerra punica. Infine Virgilio ricorda
l’eroe più grande di tutti, Cesare: non il ben noto Caio Giulio Cesare, ma suo figlio adottivo Caio Giulio Ce-
sare Ottaviano, che noi conosciamo soprattutto con il nome di Ottaviano o di Augusto, ma che gli antichi pre-
ferivano chiamare esattamente come il suo illustre patrigno. Augusto in particolare è qui ricordato come di-
fensore di Roma e dell’Occidente contro l’Oriente, rappresentato metaforicamente dal fiume Indo. Questa
lode si chiude con i famosi versi Salve magna parens frugum, Saturnia tellus, magna virum: la terra Saturnia
ovviamente non è altro che l’Italia, con allusione al fatto che il dio Saturno, cacciato dall’Olimpo dal figlio
Giove, avrebbe trovato felice esilio proprio in Italia, dove sotto il suo regno si sarebbe vissuta una sorta di età
dell’oro. In questa sintetica frase Virgilio racchiude i due motivi principali che fanno dell’Italia una regione
speciale del mondo: la sua fertilità e il coraggio delle popolazioni che la abitano.

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Una sorta di illustrazione del passo di Virgilio si può leggere nel rilievo che rappresenta probabil-
mente proprio Saturnia tellus sulla celebre Ara Pacis Augustae di Roma, più o meno coeva al testo delle Ge-
orgiche (figura 7). In questo pannello una bella figura di matrona (interpretata da molti studiosi come una
personificazione dell’Italia, da altri come Venere Genitrice o come una personificazione della Pace: ma l’una
interpretazione non esclude necessariamente l’altra) porta in grembo due bambini e alcuni frutti: allusione
alla fecondità dell’Italia, che nutre i suoi figli. Il messaggio è sostanzialmente ribadito dalle figure di una
giovenca e di una pecora che si trovano ai piedi della donna. Ai lati troviamo invece due figure di ninfe, quel-
la di sinistra assisa su un cigno, quella di destra su un drago marino; entrambe le figure recano drappi gonfiati
dal vento: forse il significato di queste due figure allude all’universalità della pace che Augusto ha stabilito,
non solo in terra (rappresentata dalla stessa figura di Tellus e dagli animali terrestri che si trovano ai suoi pie-

Figura 7: il rilievo con Saturnia tellus dall’Ara Pacis, 9 a.C., Roma

di), ma anche nei cieli e sui mari.

Oltre a quello testuale di Virgilio e a quello iconografico dell’Ara Pacis, esistono molti altri elogi
dell’Italia, ad opera di autori quali Varrone, Dionigi di Alicarnasso, Strabone e Plinio, in cui i riferimenti
spesso sono molto più concreti (anche se le laudes Italiae sono pur sempre condizionate dalle convenzioni
proprie del genere letterario). Nella trattazione che seguirà cercheremo di "smontare" questi brani per esemi-
nare in un ordine logico i principali caratteri dell’Italia.

Una delle caratteristiche dell’Italia che emerge con maggiore evidenza è la straordinaria varietà delle
sue condizioni climatiche, della vegetazione, delle risorse naturali ma anche della geografia umana.
L’Italia in effetti, con la sua conformazione allungata da nord a sud, pur non essendo una regione molto am-
pia, presenta una vasta gamma di climi, uniti comunque, secondo gli antichi, dalla cifra comune della mitez-
za. Nel brano riportato qui di seguito, Varrone, autore latino che nella seconda metà del I sec. a.C. scrisse
manuale di agricoltura, riferisce un dialogo immaginario svoltosi nel tempio della dea Tellus dove aveva in-
contrato Caio Fundanio, suo suocero, il cavaliere e filosofo socratico Caio Agrio e l’appaltatore di imposte

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Publio Agrasio, intenti a guardare una mappa dell’Italia (spectantes in pariete pictam Italiam, interessante
testimonianza sulla diffusione delle carte geografiche nel mondo romano).

Varrone, Sull’Agricoltura, I, 2, 3-4: la mitezza del clima dell’Italia


Seduti che fummo, Agrasio disse: "Voi che avete viaggiato per molti paesi, ne avete mai visto
uno coltivato meglio dell’Italia? "Io invero", disse Agrio, "penso che non ce ne sia nessuno che
sia così ben coltivato in tutte le sue parti. Per prima cose l’orbe terrestre è stato diviso da Era-
tostene in due emisferi, uno dei quali - in maniera del tutto conforme all’ordine naturale - espo-
sto a sud, l’altro a nord. Ora poiché, senza dubbio, la parte settentrionale è più salubre di quella
meridionale ed è pur vero che i luoghi più salubri sono anche i più fertili, e in questa parte vi è
l’Italia, bisogna dire che essa fu sempre più adatta alla coltivazione che non l’Asia. Prima di
tutto perché è situata in Europa, secondariamente perché ha un clima più temperato delle re-
gioni al centro di questo continente. Nell’interno dell’Europa infatti vi è quasi un continuo in-
verno. Né deve far meraviglia, per esservi regioni situate fra il circolo polare artico e il polo
nord, dove il sole non si vede anche per sei mesi consecutivi. Pertanto dicono che in tale parte
non si può nemmeno navigare nell’Oceano perché il mare è ghiacciato.

Il passo colpisce per le informazioni abbastanza precise che Varrone aveva delle regioni polari, ma
ci interessa in particolare per la motivazione che viene data della fertilità dell’Italia: la posizione intermedia,
tra le terre infuocate dell’Asia e le regioni interne dell’Europa, strette dalla morsa del gelo, che determina la
mitezza del suo clima.

Il geografo Strabone pone l’accento piuttosto sulla varietà dei climi e delle temperature dell’Italia,
dovuta alla particolare conformazione della regione, assai allungata da nord a sud. Questa particolare con-
formazione consente all’Italia di avere una grande diversità biologica, con numerose varietà di specie vegeta-
li e animali.

Strabone, Geografia, VI, 4, 1: la varietà dei climi dell’Italia


L’Italia è soggetta a condizioni assai varie di clima e di temperatura, e questo fatto le compor-
ta, nel bene e nel male, di avere anche una grande varietà di animali, di piante e, in generale, di
tutto ciò che serve ai bisogni della vita. Essa si estende per lo più in lunghezza, da settentrione
verso mezzogiorno ... l’Italia attuale, estendendosi per così grande lunghezza fra i due opposti
estremi, beneficia al massimo del clima temperato e ne trae moltissimi vantaggi.

Al di là di questi generici elogi della felicità del clima italico, di cui potremmo citare molti altri e-
sempi, le indagini di paleoclimatologia hanno rivelato che nell’area mediterranea ad una fase fredda e umi-
da, durata fino al 200 a.C., subentrò un periodo in cui le temperature andarono progressivamente mitigando-
si: ne è testimone, tra gli altri, l’agronomo Saserna (citato negli scritti di un altro agronomo posteriore, Co-
lumella, Sull’agricoltura, I, 5) il quale afferma che ai suoi tempi, nella prima metà del I sec. a.C., la coltiva-
zione della vite e dell’olivo aveva potuto estendersi in territori nei quali in precedenza questi alberi non pote-
vano crescere a causa del clima rigido. A partire dal III sec. d.C. e fino al V sec. d.C. non solo la temperatura
fu mediamente piuttosto alta, ma il livello delle precipitazioni diminuì nettamente, un fenomeno che proba-
bilmente può spiegare, almeno in parte, l’abbandono di molti territori dell’Africa settentrionale, densamente
abitati nella prima età imperiale. Nei primi due secoli dell’impero, comunque, il clima dell’Italia non doveva
essere molto diverso da quello di oggi, o meglio, di quello di qualche decennio fa, prima dei repentini cam-
biamenti climatici ai quali stiamo assistendo in questi ultimi anni.

Se questa ipotesi coglie nel segno, nella parte settentrionale dell’Italia antica le condizioni dovevano
essere meno favorevoli di quanto prospettino le fonti classiche. La regione presenta in effetti ancora oggi ca-
ratteristiche climatiche assai simili a quelle dell’Europa continentale, con inverni che possono essere assai

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rigidi. Le precipitazioni non sono molto copiose, ma sono ben distribuite nel corso delle diverse stagioni. La
breve siccità estiva è compensata dalle acque di scioglimento dei nevai e dei ghiacciai delle Alpi.

Il clima dell’Italia peninsulare presenta invece caratteristiche decisamente più mediterranee, con for-
ti precipitazioni invernali, di carattere nevoso sulle cime degli Appennini, e un periodo di siccità più o meno
prolungato durante l’estate. Le temperature, sia d’estate che di inverno, sono molto mitigate dalla presenza
del mare, tranne che nelle regioni più interne. Dobbiamo dunque presumere che gli autori antichi pensassero
soprattutto all’Italia peninsulare quando scrivevano della dolcezza del clima del nostro paese, con
un’identificazione della totalità dell’Italia con alcune delle sue aree più caratterizzate che, del resto, ritrovia-
mo anche nella opinione comune contemporanea.

Dal punto di vista geologico l’Italia è una terra relativamente giovane, che anche nell’antichità
venne spesso colpita da terremoti e da eruzioni vulcaniche: una catena di vulcani parte dall’Etna, prosegue
nelle isole Lipari, accompagna la costa tirrenica dalla Campania (col Vesuvio) al Lazio (i colli Albani) alla
Toscana, per giungere fino ai colli Euganei. La maggior parte di questi vulcani era peraltro già estinta in età
romana: lo stesso Vesuvio, fino alla sua tragica eruzione del 79 d.C., era rimasto tranquillo.

Il rilievo dell’Italia è caratterizzato da due catene principali, gli Appennini e le Alpi. I primi attra-
versano l’intera Italia peninsulare, non solo ostacolando le comunicazioni tra costa adriatica / ionica e quella
tirrenica, come vedremo meglio in seguito, ma determinando di fatto sviluppi politici, sociali ed economici
assai differenti tra le aree montuose e le regioni pianeggianti limitrofe. Dal punto di vista economico le genti
dell’Appennino praticavano la pastorizia e un’agricoltura di mero sostentamento; le alte vallate montane in
effetti non potevano sostenere una popolazione molto numerosa. Dal punto di vista sociale e culturale, questa
area rimase molto a lungo sostanzialmente impermeabile alle influenze esterne, in ogni caso più a lungo e più
profondamente delle regioni costiere. Il risultato fu che la regioni interne dell’Appennino rimasero in larga
misura non urbanizzate, anche nel periodo seguente la conquista romana e, quando nel I sec. a.C. si avviò il
processo di urbanizzazione, questo fu legato più ad eventi politici e alla volontà di Roma di imporre la pro-
pria cultura a genti che ancora nella Guerra Sociale del 91-89 a.C. le avevano opposto una strenua resistenza,
piuttosto che ad uno sviluppo culturale interno.

Le Alpi rappresentarono una formidabile barriera, soprattutto prima che gli ingegneri romani trac-
ciassero arditi percorsi nelle loro vallate. Certo, qualche invasore riuscì a penetrarvi (in età repubblicana ri-
cordiamo l’infiltrazione delle tribù celtiche, l’epica traversata di Annibale del 218 a.C. attraverso uno dei
passi delle Alpi occidentali, e l’invasione dei Cimbri del 101 a.C., attraverso il passo del Brennero), anche
perché il versante alpino rivolto verso il continente è assai meno aspro di quello italiano. Non si può tuttavia
negare che le Alpi abbiano assolto a quella funzione di protezione dell’Italia che era ben evidente agli stessi
antichi. Così scriveva Strabone nel suo elogio dell’Italia:

Strabone, Geografia, VI, 4, 1: l’Italia è una regione ben protetta


L’Italia si può considerare quasi un’isola ben protetta intorno dai mari, ad eccezione di poche
parti, che sono comunque anch’esse difese dai monti, difficilmente valicabili.

La catena alpina e quella appenninica lasciano spazio ad alcune pianure, di cui la maggiore, la pia-
nura Padana, si trova nella Gallia Cisalpina. Le pianure dell’Italia peninsulare, in particolare quelle che si al-
lungano sulla costa tirrenica dall’Etruria alla Campania, sono di estensione assai minore, ma godevano di una
fertilità leggendaria per gli antichi, dovuta sia alla mitezza del clima, sia all’azione fertilizzante delle ceneri
vulcaniche che si erano depositate nelle regione fin dalla Preistoria.

Per quanto riguarda le vie di comunicazione, la notevole estensione dell’Italia nel senso della lati-
tudine costituisce di per sé un notevole problema. Gli stessi contatti tra la costa tirrenica e quella adriatico-

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ionica sono in certa misura ostacolati dalla catena degli Appennini, soprattutto nel settore meridionale, dove i
passi sono più rari e meno agevoli. Nell’inverno del 69-70 d.C. anche un esercito ben organizzato come quel-
lo dei sostenitori di Vespasiano, che stava calando su Roma per attaccare l’imperatore Vitellio, andò incontro
a gravissime difficoltà nell’attraversare gli Appennini, nonostante i vitelliani non avessero fatto nulla per o-
stacolarli, come ci racconta lo storico latino Tacito:

Tacito, Storie, III, 59, 2: un difficile attraversamento degli Appennini nell’inverno 69-70
d.C.
Ma nel valicare l’Appennino l’esercito [di Vespasiano] incontrò difficoltà a causa del rigido
inverno; e poiché senza molestie da parte del nemico, le truppe stentavano a superare le nevi,
apparve loro chiaro che grave prova avrebbero dovuto affrontare se non fosse intervenuta a far
indietreggiare Vitellio la fortuna.

Le comunicazioni con l’Europa continentale dovevano inoltre fare i conti con la formidabile catena
alpina. Nonostante queste condizioni non proprio favorevoli, le strade romane riuscirono a divenire uno dei
più importanti fattori di coesione dell’Italia, un successo che è dimostrato, tra l’altro, dal fatto che ancora og-
gi la rete stradale del nostro paese ricalca sostanzialmente nei suoi percorsi quella di età romana.

Un alternativa ai percorsi terrestri, spesso più rapida ed economica, era offerta dalla navigazione
fluviale: non solo i grandi fiumi dell’Italia settentrionale, ma anche i minori corsi d’acqua dell’Italia peninsu-
lare, come per esempio il Crati, erano navigabili in misura oggi insospettabile. In parte ciò si deve al fatto che
la loro portata, non intercettata dalle numerose dighe che oggi sbarrano il corso dei fiumi e probabilmente
alimentata da precipitazioni più copiose, doveva essere maggiore di quella odierna; in parte però anche al ri-
dotto pescaggio delle imbarcazioni fluviali dell’antichità, alle quali erano sufficienti poche decine di centime-
tri d’acqua per navigare.

In particolare i fiumi venivano utilizzati per il trasporto del legname per fluitazione; lo storico greco
Dionigi di Alicarnasso alla fine del I sec. a.C. a questo proposito scriveva quanto segue:

Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, I, 37, 4: il trasporto fluviale del legname


E questo legname non presenta difficoltà di trasporto, né si trova lontano dai luoghi dove abbi-
sogna, ma è facilmente lavorabile e trasportabile, grazie ai numerosi fiumi che scorrono attra-
verso tutta la penisola e rendono economici il trasporto e lo scambio dei prodotti della terra.

A dispetto del lungo sviluppo delle sue coste, l’Italia non presenta la straordinaria abbondanza di
porti naturali che è offerta, per esempio, dalla Grecia o dall’Illirico, anche se non mancavano alcuni siti par-
ticolarmente favorevoli, come notava Strabone (Geografia, VI, 4, 1: “le coste dell’Italia sono, in generale,
sprovviste di porti, ma, quando ci sono, sono grandi e mirabili”).

Queste constatazioni valgono in particolare per la costa dell’Adriatico, che tra Brindisi e Trieste pre-
senta un solo ampio porto naturale, quello di Ancona. Ciò nonostante il maggiore volume di traffico tra
l’Italia e il resto del mondo antico avveniva appunto attraverso il mare: in particolare i Romani seppero sfrut-
tare abilmente la conformazione delle coste, utilizzando appieno, per esempio, le foci dei fiumi e, dove ciò
era necessario, completarono l’opera della natura con grandiosi lavori artificiali, come per esempio ad Ostia.

Nell’Adriatico il porto maggiore era quello di Brindisi, che in età romana soppiantò quasi comple-
tamente Taranto nelle rotte per la Grecia e l’Oriente; più a nord Ancona e il porto militare di Classe, nei pres-
si di Ravenna; nell’Adriatico settentrionale il porto fluviale di Aquileia, sul fiume Natisone, aveva maggiore
importanza di quello marittimo di Tergeste (l’odierna Trieste). Sul Tirreno Puteoli (l’attuale Pozzuoli) rimase
lo scalo più importante per merci e viaggiatori diretti a Roma, provenienti dall’Africa e dalla Spagna ma an-

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che dal Mediterraneo orientale, almeno fino a quando Claudio non intraprese la costruzione di un grande por-
to artificiale alle foci del Tevere, nei pressi di Ostia. Nel Tirreno settentrionale già nel periodo antico spicca-
va per la sua importanza il porto di Genova.

Passando al capitolo delle risorse naturali e in primo luogo alle risorse agricole, occorre notare
come l’Italia, e in particolare l’Italia peninsulare, caratterizzata da terreni piuttosto accidentati e da precipita-
zioni non molto abbondanti, avesse potenzialità agricole minori rispetto ad altri paesi europei, come la Fran-
cia e l’Inghilterra. Nell’orizzonte mediterraneo degli antichi, tuttavia, l’Italia appariva come terra fertilissima,
in particolare nel confronto con l’arida e sassosa Grecia, come notava per esempio il già citato agronomo
Varrone.

Varrone, Sull’agricoltura, I, 2, 6-7: la fertilità dell’Italia


In Italia cosa vi è di utile che non solo nasca ma non venga anche bene. Quale farro si potrebbe
mai paragonare a quello della Campania? Quale frumento a quello dell’Apulia? Quale vino al
Falerno? Quale olio a quello di Venafro? Non è l’Italia piantata ad alberi in modo da sembrare
tutta un frutteto? ... In quale parte del mondo uno iugero [1/4 di ettaro circa] produce 10 o an-
che 15 cullei di vino [rispettivamente 52 e 78 hl circa], quanto ne producono alcune regioni
d’Italia?

Le interrogative retoriche di Varrone esaltano la produzione cerealicola della Campania e della Pu-
glia, tuttora celebri, e ricordano il vino Falerno prodotto nella Campania settentrionale, forse il grand cru più
apprezzato dai Romani, come anche l’olio di Venafrum (una cittadina che si trova oggi in provincia di Iser-
nia, in Molise, ma a poca distanza dal Lazio e dalla Campania), concludendo colla menzione della straordina-
ria produttività vinicola di alcune regioni dell’Italia, come per esempio la Romagna.

Come già si accennava in precedenza, secondo gli autori antichi questa grande fertilità era dovuta
soprattutto alla particolare conformazione dell’Italia e alla varietà di condizioni che in essa si trovavano. È
chiarissimo in questo senso Strabone:

Strabone, Geografia, VI, 4, 1: la ricchezza e la varietà delle risorse economiche dell’Italia


Dal momento che gli Appennini si estendono per tutta la lunghezza dell’Italia, lasciando su en-
trambi i versanti pianure e colline assai fertili, non c’è parte di questo paese che non si trovi a
godere dei vantaggi della montagna e di quella della pianura. A tutto ciò si aggiunge ancora la
grandezza e il numero dei suoi corsi d’acqua e dei suoi laghi e, inoltre, la presenza di molti
luoghi di sorgenti di acque calde e fredde, predisposte dalla natura per proteggere la salute; c’è
infine una gran ricchezza e varietà di miniere. Quanto poi all’abbondanza di legname e di nu-
trimento per gli uomini come per gli animali e quanto all’eccellenza dei prodotti agricoli, non
si può nemmeno parlarne in modo adeguato.

In confronto alle sue risorse agricole, l'Italia non brillava particolarmente per le ricchezze del sotto-
suolo, nonostante le affermazioni che ritroviamo in alcune fonti antiche, come per esempio nel brano di Stra-
bone che si è appena citato. A questo proposito possiamo tuttavia ricordare le miniere di ferro dell'isola del-
l'Elba, che alimentarono una notevole attività metallurgica, concentrata in particolare sulle coste dell'Etruria,
le cave di marmo di Luni (oggi noto come marmo di Carrara) nell'Etruria settentrionale, di travertino da Ti-
bur (odierna Tivoli) e di pozzolana, estratta nell'area di Napoli e impiegata per la preparazione di malte di
grande resistenza.

La buona produttività del suolo italico (almeno nell'ambito del mondo mediterraneo) da un lato e
l'afflusso delle risorse da tutto l'impero dall'altro spiegano l'alta densità di popolazione dell'Italia nella pri-
ma età imperiale, intesa naturalmente in relazione al numero di abitanti del mondo antico, molto inferiore ri-
spetto ad oggi.

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Per la verità sulle cifre assolute degli abitanti dell'Italia nei primi secoli dell'impero la valutazioni
sono molto discordanti, andando da un minimo di 6 o 7 milioni ad un massimo di 14 milioni. Il dato di par-
tenza è offerto da un discusso passaggio delle Res Gestae divi Augusti, il celeberrimo resoconto delle imprese
di Augusto redatto dallo stesso imperatore poco prima della sua morte e a noi noto principalmente da un'i-
scrizione proveniente dal tempio di Roma e Augusto ad Ancyra, la moderna Ankara.

Res Gestae divi Augusti, 8: le cifre dei censimenti di età augustea


Celebrai il lustrum dopo 42 anni (28 a.C.). In occasione di quel lustrum vennero censiti
4.063.000 cittadini romani (civium capita).E per una seconda volta celebrai, da solo e dotato di
poteri consolari, il lustrum, sotto il consolato di Caio Censorino e di Caio Asinio (8 a.C.), in
occasione del quale vennero censiti 4.233.000 cittadini romani. E per una terza volta, dotato di
poteri consolari e avendo come collega mio figlio Tiberio Cesare, celebrai il lustrum, sotto il
consolato di Sesto Pompeo e di Sesto Appuleio (14 d.C.); in occasione di quel lustrum vennero
censiti 4.937.000 cittadini romani.

L'imperatore ricorda dunque di aver compiuto il censimento dei cittadini romani in tre occasioni (il
riferimento è propriamente al lustrum, il sacrificio di purificazione che chiudeva le operazioni di censimento;
poiché il censimento avveniva di regola ogni cinque anni, il termine "lustro" in italiano ha assunto il signifi-
cato, appunto, di quinquennio), dopo una lunga interruzione: l'ultimo censimento dell'età repubblicana risali-
va infatti agli anni 70-69 a.C.

Il dibattito si è concentrato sul significato da dare all'espressione civium capita: in età repubblicana
certamente designava solamente i maschi adulti in possesso della cittadinanza romana, ma Julius Beloch, lo
studioso tedesco che ha segnato una tappa fondamentale nello studio della demografia antica, riteneva che
l'espressione avesse mutato di senso in età imperiale: in effetti, a parere del Beloch, non si poteva giustificare
altrimenti l'enorme aumento nel numero dei cittadini romani rispetto al censimento del 70-69 a.C. Riguardo a
quest'ultimo censimento abbiamo due testimonianze: la prima ci viene dall'Epitome della Storia di Roma dal-
la sua fondazione di Tito Livio, un riassunto assai stringato della grande opera liviana, compilato forse nel IV
d.C.: nell'Epitome del libro 98, 3 si ricorda che vennero censiti 900.000 cittadini romani; leggermente discor-
dante il dato riferito da Flegonte di Tralles, autore di età adrianea, che scrive di 910.000 cittadini (l'opera di
Flegonte ci è conservata solo in citazioni di autori posteriori; il passo che ci interessa è nel frammento 12, 6,
che si consulterà nella monumentale opera di F. Jacoby, Die Fragmente der griechischer Historiker, II B,
Leiden 1962, p. 1165). Sia che si accolga il dato dell'epitome liviana, sia che si accordi preferenza a quello di
Flegonte, in ogni caso il totale dei cittadini censito nel 70-69 a.C. è di circa quattro volte inferiore rispetto a
quello del 28 a.C. Il Beloch ritenne dunque che l'espressione civium capita nelle Res Gestae designasse tutti i
cittadini romani, compresi dunque le donne e i bambini.

La posizione del Beloch, ripresa negli anni Settanta da un altro autorevole esperto di problemi de-
mografici dell'Italia antica, il Brunt, portava a concludere che il totale complessivo della popolazione dell'Ita-
lia romana in età augustea non doveva superare i 6 o 7 milioni: alle cifre dei censimenti sarebbero infatti da
aggiungere gli schiavi, certamente molto numerosi, ma da sottrarre i cittadini romani residenti nelle province,
che il Brunt valuta tra 1.200.000 e 1.800.000 in età augustea.

Contro le interpretazioni di Beloch e Brunt, altri studiosi, come Tenney Frank e Arnold Jones, hanno
rilevato che il forte aumento delle cifre dei censimenti tra il 70-69 a.C. e l'età augustea poteva essere giustifi-
cato in larga misura dall'estendersi della cittadinanza romana negli ultimi decenni dell'età repubblicana (ri-
cordiamo infatti che nel 49 a.C. Cesare aveva concesso i pieni diritti agli abitanti della popolosa Transpada-
na), dall'altro alla decentralizzazione e al significativo miglioramento delle operazioni di censimento in età
augustea, che avrebbe ridotto ad una proporzione trascurabile il numero dei non censiti, molto alto in occa-

16
sione degli ultimi rilevamenti di età repubblicana, quando ancora per essere registrati occorreva recarsi a
Roma.

Queste argomentazioni sono state recentemente riprese da Elio Lo Cascio, che da parte sua ha rile-
vato l'implausibilità di uno stravolgimento delle operazioni di censimento da parte di Augusto, un rivoluzio-
nario che amava presentarsi come un tradizionalista. Per Lo Cascio dunque la cifra dei civium capita dei cen-
simenti di Augusto non può che riferirsi, come in età repubblicana, ai soli maschi adulti: valutando che questi
rappresentassero circa il 30% della popolazione totale e tenuto conto dei cives romani che abitavano nelle
province, Lo Cascio ha concluso che in età augustea la popolazione libera dell'Italia doveva presumibilmente
avvicinarsi ai 12 milioni di abitanti, il che ci porterebbe ad una densità vicina ai 50 abitanti per kmq., tenendo
conto che la superficie dell'Italia romana era minore rispetto a quella della nostra nazione e doveva aggirarsi
intorno ai 240.000 kmq.

Il confronto tra le cifre stabilite da Lo Cascio (che peraltro non sono universalmente accettate da tut-
ti gli studiosi) e quelle relative agli ultimi dati sulla popolazione dell'Italia diffusi dall'ISTAT, relativi al 2008
(al 31 dicembre di quell'anno il nostro paese aveva circa 59.600.000 abitanti, distribuiti su una superficie di
301.401 kmq., per una densità di circa 198 abitanti per kmq.) sarebbe ingannevole: le cifre assolute e la strut-
tura della popolazione dell'Italia di oggi sono il risultato di una rivoluzione demografica relativamente recen-
te, dovuta al forte aumento dell'età media di vita, al drastico calo della mortalità infantile e ai flussi di immi-
grazione. I dati dell'Italia romana andrebbero piuttosto confrontati con quelli di altre regioni del mondo anti-
co, riguardo alle quali, purtroppo lo stato delle nostre conoscenze è ancora più frammentario è incerto. L'im-
pressione è che l'Italia fosse un paese densamente abitato, sia nel confronto con le altre regioni del Mediter-
raneo, sia in rapporto ai paesi dell'Europa centrale e settentrionale.

6. Per saperne di più

• In generale sull’Italia antica, con particolare riferimento al periodo romano: C. Nicolet, Strutture
dell’Italia romana, sec. III - I a.C., Roma 1984 [BAU 937.02 S 9/1 e STO COLL. PROVV. 911 NIC 2];
J.-M. David, La romanizzazione dell’Italia, Roma - Bari 2002 [BAU 937.02 S 8]

• Sul concetto di Italia in età antica: A. Giardina, L'Italia romana. Storie di un'identità incompiuta, Roma -
Bari 2000 [BAU 937 S 24], particolarmente il saggio L’identità incompiuta dell’Italia romana.

• Sulle vie di comunicazione R. Cappelli, Viae publicae romanae, Roma 1991 [BAU 913.7 CS 2] e R. A.
Staccioli, Strade romane, Roma 2003 [BAU 913.7 CS 1].

• Sugli aspetti economici, con particolare riferimento alle risorse agricole: A. Marcone, Storia
dell’agricoltura romana, Roma 1997 [Tarantelli MAR 630.973].

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CAPITOLO II

LE FONTI PER LO STUDIO DELL’ITALIA ANTICA

1. I caratteri generali delle fonti sull’Italia antica

Ogni studio di carattere storico non può prescindere dalle fonti, cioè dai documenti di vario genere
che ci sono giunti dal passato e che ci aiutano a ricostruirne le vicende. In effetti la Storia altro non è che un
incontro tra il passato e il presente, una relazione fra i documenti che il passato ci ha lasciato e
l’interpretazione che noi, uomini del presente, ne diamo. La documentazione antica è dunque il primo e fon-
damentale pilastro sul quale si basa ogni ricostruzione storica.

Occorre sottolineare che il concetto di fonte è molto ampio, comprendendo tutto ciò che ci viene dal
passato: dunque non solo gli scritti degli autori antichi, ma per esempio anche i segni che quelle lontane epo-
che hanno lasciato nel paesaggio attuale. In particolare nella ricostruzione della storia del mondo antico, per
la quale le fonti a disposizione sono piuttosto scarse, non possiamo trascurare alcun tipo di informazione che
ci giunge dal passato.

Le fonti possono essere classificate in vario modo: una delle suddivisioni più pratiche è quella fon-
data sul supporto materiale che ci ha conservato questi documenti. Per quanto concerne la storia antica si può
dunque parlare di:

1. Fonti letterarie

2. Fonti epigrafiche

3. Fonti papiracee

4. Fonti numismatiche

5. Fonti archeologiche

A queste cinque grandi tipologie della documentazione, nelle quali possono rientrare le fonti relative
a quasi tutti i temi della storia antica, per il nostro argomento particolare, la storia dell’Italia, possiamo ag-
giungere altre tre categorie di grande rilevanza:

1. Segni del paesaggio

2. Toponomastica

3. Fonti medievali

Tutte queste varie tipologie della documentazione per la storia antica hanno dei tratti comuni, che
condizionano fortemente il modo in cui noi possiamo conoscere questo lontano passato. In primo luogo dob-
biamo sottolineare la scarsità delle fonti che noi antichisti abbiamo a disposizione in confronto con gli storici
che studiano le epoche posteriori, una scarsità che è dovuta al fatto che lo scorrere del tempo inevitabilmente
porta ad una progressiva distruzione delle testimonianze. Un altro elemento caratteristico è costituito dal fatto
che uno storico antico (a differenza, per esempio, di un contemporaneista) non può mai utilizzare le sue fon-
ti in modo immediato: ogni documento infatti deve essere decifrato (un’impresa non sempre semplice, se
consideriamo che molti documenti antichi vennero redatti in una scrittura diversa dalla nostra, con una grafia
non facilmente comprensibile, e che non di rado hanno subito gravi danni), tradotto dalla lingua morta in cui
venne scritto, interpretato nel suo significato storico e, a questo scopo, collocato in un preciso orizzonte cro-

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nologico (il che può risultare problematico, dal momento che molti documenti antichi non contengono una
datazione interna e, quando questa è presente, fa riferimento a sistemi cronologici diversi dal nostro). Un ter-
zo tratto peculiare della storia antica è dato dalla sostanziale mancanza di trattazioni organiche di un pro-
blema storico: nella grandissima maggioranza dei casi, per indagare a fondo un tema, siamo costretti a rivol-
gerci a tipologie di documenti molto disparate, per esempio a un brano letterario, a un documento della vita
materiale come un’anfora, ai segni del paesaggio antico che ancora oggi si possono verificare su una carta
geografica. Ciò comporta il fatto che lo storico dell’antichità deve possedere competenze molto ampie, che
gli consentano di interpretare correttamente fonti di tipo assai diverso. Un ultimo elemento comune da ri-
chiamare a proposito delle fonti antiche e che esse non ci consentono di fare un uso statistico dei dati, se
non in casi piuttosto rari (e anche in tali casi la valutazione dei dati quantitativi è sempre piuttosto problema-
tica: ne abbiamo visto un esempio a proposito delle cifre dei censimenti augustei nel capitolo precedente). I
dati quantitativi che le fonti antiche ci offrono, per la verità, sono relativamente numerosi, ma solo raramente
si possono inserire in una serie omogenea e coerente; quanto poi ad uno uso statistico di alcuni materiali che
nell’antichità vennero prodotti in serie o comunque in grandi quantità (come per esempio le monete, le anfore
o le iscrizioni sepolcrali), bisogna in primo luogo notare che il campione da noi posseduto rappresenta una
percentuale tutto sommato irrisoria della totalità di questi materiali, poiché la gran parte di essi è andata di-
strutta nel corso del tempo; inoltre si tratta di un campione assolutamente casuale, la cui consistenza può es-
sere determinata da fattori contingenti, come per esempio il fatto che un’area è stata ben indagata dal punto di
vista archeologico, mentre una zona vicina, che ci potrebbe restituire altrettanti documenti, è stata finora tra-
scurata.

2. Le fonti letterarie

Dopo aver tratteggiato rapidamente le caratteristiche fondamentali della documentazione antica, e-


saminiamo le singole tipologie di fonti partendo, come è tradizione, dalle opere della letteratura greca e lati-
na. Tali opere fino a qualche tempo fa erano ritenute le fonti basilari per la ricostruzione storica, poiché illu-
minano i temi politici, militari e culturali che erano ritenuti i soli oggetti degni di una ricostruzione storica.
Oggi, con l’allargamento del concetto di Storia a temi come la società, l’economia, il paesaggio che sono
meglio illustrati da altre tipologie di documenti, le fonti letterarie hanno perso parte di questa loro esclusiva
preminenza, conservando tuttavia un’importanza fondamentale.

Le opere della letteratura greca e latina sono giunte a noi in genere attraverso la mediazione della
tradizione manoscritta medievale, con l’eccezione di pochi scritti tramandati direttamente dall’antichità da
fortunati ritrovamenti di papiri letterari. Questo ha fatto sì che spesso tra l’originaria redazione di un’opera
letteraria e la sua prima edizione a stampa, tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento, siano tra-
scorsi molti secoli, fino a 22-23 per le opere più antiche della letteratura greca, come l’epica omerica o gli
scritti del poeta Esiodo. In questo lunghissimo lasso di tempo la trasmissione dei testi e la loro stessa soprav-
vivenza è stata assicurata solo da una catena di copie manoscritte, per lo più redatte nei monasteri che durante
il Medioevo furono custodi della cultura classica. Chiunque abbia avuto esperienza di ricopiatura di un testo
scritto a mano sa benissimo che questa operazione comporta inevitabilmente errori e omissioni: la secolare
trasmissione delle opere classiche ha dunque portato ad una grave corruzione dei testi, che ha interessato so-
prattutto le cifre, in sé prive di senso compiuto e dunque particolarmente soggette ad essere malamente tra-
scritte da qualche monaco distratto o affaticato. Alla scienza della Filologia classica spetta oggi il compito di
ricostruire, sulla base dei manoscritti esistenti, un testo il più vicino possibile a quello redatto originariamente
dall’autore: il lavoro interpretativo che è stato compiuto dai filologi ha portato ad eccellenti risultati, ma an-
cora possiamo incontrare dei passaggi delle opere della letteratura greca e latina di incerta interpretazione o

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addirittura del tutto incomprensibili, a causa dell’inestricabile confusione dei manoscritti a nostra disposizio-
ne.

La ricostruzione delle vicende dell’Italia antica deve rifarsi ad una pluralità di opere appartenenti a
generi letterari molto vari: un’altra particolarità della storia antica è data dal fatto che si è spesso costretti a
contare esclusivamente, in mancanza di strumenti migliori, a testi che gli storici che si occupano di altri pe-
riodi cronologici esiterebbero a impiegare: gli antichisti dunque sono obbligati a fidare talvolta su romanzi o
testi poetici, come per esempio il brano delle Georgiche di Virgilio che abbiamo analizzato nel capitolo pre-
cedente, mentre difficilmente, per fare un solo e banale esempio, uno storico dell’età moderna baserà una sua
ricostruzione della società milanese del Seicento su I promessi sposi di Alessandro Manzoni.

Resta il fatto che alcuni generi letterari hanno un’importanza maggiore rispetto ad altri per la rico-
struzione delle vicende dell’Italia. In primo luogo dobbiamo ovviamente ricordare la storiografia. Tra gli
storici di maggiore interesse per il nostro tema, seguendo un ordine cronologico del periodo in cui vissero, si
deve menzionare Polibio, nato a Megalopoli, in Arcadia, intorno al 200 a.C. Uomo politico di spicco della
Lega Achea, uno stato federale che riuniva diverse città del Peloponneso, nella Grecia meridionale, Polibio
fu deportato a Roma dopo la III guerra macedonica per essere processato insieme ad altri 1.000 Achei sospet-
tati di aver parteggiato per il re macedone Perseo. Qui il nostro personaggio entrò in contatto con l'élite poli-
tica e culturale della città, stringendo in particolare amicizia con Scipione Emiliano, che poi accompagnò nel-
le sue campagne militari. Forte di queste esperienze, Polibio si propose di scrivere una storia universale che
aveva il suo filo conduttore nell'ascesa di Roma a potenza egemone del Mediterraneo. Il periodo coperto dal-
la sua opera storiografica va dal 264 a.C. (allo scoppio della I guerra punica, che portò per la prima volta gli
eserciti di Roma al di fuori della penisola italiana) fino al 146 a.C., anno della distruzione di Cartagine e Co-
rinto. Degli originari 40 libri delle sue Storie si conservano integralmente solo i primi 5, che abbracciano le
vicende di Roma, Cartagine e degli stati ellenistici nel tra il 264 e il 216 a.C. Il VI libro, che proponeva un
quadro delle istituzioni politiche di Roma, ci è giunto in forma incompleta. Dei libri seguenti possediamo so-
lo frammenti ed estratti.

Come Polibio, scrisse in greco anche Diodoro Siculo, attivo in età augustea. La sua Biblioteca sto-
rica, è una storia universale compilata a tavolino, che vale soprattutto in relazione alle fonti che utilizza: per
le vicende di Roma Diodoro sembra essersi fondato in particolare sull'opera di Posidonio di Apamea, che
aveva continuato le Storie di Polibio dal 146 a.C. fino all'età sillana. Dei 40 libri originari dell’opera di Dio-
doro ci rimangono solamente il libri I-V, concernenti la storia del Vicino Oriente antico, e il libri XI-XX, che
abbracciano le vicende della Grecia e di Roma dal 480 al 302 a.C.

Più o meno coevo di Diodoro è il retore greco Dionigi di Alicarnasso, che pubblicò nel 7 a.C. una
Archeologia romana (il termine "archeologia" è qui usato nel suo senso etimologico di "storia arcaica") nella
quale narrava la storia di Roma dalle sue origini fino al 264 a.C., anno dello scoppio della I guerra punica.
Dei 20 libri originari si conservano integri solo i primi 10, mentre l'XI è giunto a noi in forma lacunosa; dei
libri rimanenti possediamo qualche estratto. L'intento di Dionigi sembra quello di convincere l'élite delle città
greche che il dominio di Roma non era solo inevitabile, ma anche auspicabile, essendo in grado di assicurare
finalmente quella pace interna ed esterna che si era rivelata irraggiungibile durante l'egemonia delle poleis
greche. Questa amara constatazione doveva secondo Dionigi essere addolcita dal fatto che Roma stessa era
una città greca, come egli si sforzò di dimostrare nella sua opera.

Tito Livio, nato a Padova nel 59 a.C. e morto nel 17 d.C., compilò in età augustea una gigantesca
Storia di Roma dalla sua fondazione in lingua latina, che andava dalle origini mitiche della città fino al 9
a.C., in ben 142 libri. Di essi sono giunti fino a noi solo i libri I-X, che raccontavano le vicende dalla fonda-
zione di Roma fino al 293 a.C., e i libri XXI-XLV, che abbracciano il periodo tra il 218 e il 167 a.C., dallo

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scoppio della II guerra punica alla fine della III guerra macedonica. Dei libri rimanenti restano solo brevi
riassunti, le Periochae, compilate tra il I e il II sec. d.C. Anche Livio era uno storico da tavolino, che si fon-
dava quasi esclusivamente su narrazioni anteriori, almeno per la parte che ci è conservata: gli annalisti roma-
ni per il periodo più antico, principalmente Polibio per l'età delle grandi guerre di espansione nel Mediterra-
neo. Ma Livio seppe rielaborare questa materia con una maestria stilistica che rese immediatamente popola-
rissima la sua opera, la quale finì così per oscurare tutta la produzione annalistica anteriore, che in effetti è
andata per noi perduta.

Possiamo ricordare qui anche l’opera di Plutarco di Cheronea, in Beozia (45-120 d.C. circa), anche
se egli non era propriamente uno storico, ma un intellettuale a tutto tondo, formatosi alla filosofia platonica, i
cui interessi si concentravano principalmente su problemi filosofici ed etici. Nel passato egli cercava soprat-
tutto dei modelli, positivi o negativi, da seguire o da evitare; e la biografia, meglio di altri generi storiografi-
ci, gli avrebbe consentito di additare quegli esempi di comportamento individuale ai quali egli e il suo pub-
blico erano particolarmente interessati. Le Vite parallele di Plutarco ci presentano dunque le biografie di
grandi personaggi della storia greca e della storia romana, messi in paragone a coppie.

Possiamo concludere questa breve scelta degli storici più interessanti per la storia dell’Italia antica
con Appiano di Alessandria, appartenente all'ordine e equestre e funzionario dell'amministrazione sotto l'im-
pero di Antonino Pio, scrisse intorno al 160 d.C. una Storia romana in greco, organizzata in base alle guerre
che Roma aveva dovuto sostenere, a partire dalla sua espansione in Italia fino alle conflitti civili dell'età del
II triumvirato. I 5 libri delle Guerre civili trattavano invece delle vicende interne di Roma tra il periodo grac-
cano e il II triumvirato, tra gli anni Trenta del II sec. a.C. e gli anni Trenta del secolo seguente.

Un altro genere letterario di fondamentale importanza per il nostro tema è costituito dalla geografia.
Per quanto concerne l'Italia antica sono da rammentare in particolare due autori. Il primo è il già ricordato
Strabone di Amasea, nel Ponto. Nato intorno al 64 a.C. da una famiglia di notabili, Strabone ebbe, come di
consueto ai suoi tempi, una formazione completa, che lo portò ad interessarsi di grammatica, filosofia e storia
(una sua opera giovanile, per noi perduta, continuava in 47 libri le Storie di Polibio), ma è noto soprattutto
per la sua grande Geografia, in 17 libri, giuntaci pressoché completa e contenente una descrizione del mondo
allora conosciuto: i libri V e VI sono appunto dedicati all'Italia. L'opera risale ai tempi del principato di Au-
gusto e ai primi anni del suo successore, Tiberio, non a caso, dunque, ad un periodo nel quale la grande e-
spansione dell'Impero romano assicurava migliori possibilità di conoscenza dell'ecumene. L'approccio di
Strabone alla geografia risente in misura minore di altri geografi dell'influenza della matematica e della co-
smologia: il nostro autore preferisce concentrarsi su una descrizione impressionistica dei territori e delle po-
polazioni che li abitavano, fondandosi non tanto sulla propria esperienza diretta, l'autopsia (anche se dobbia-
mo ricordare che Strabone soggiornò a lungo a Roma e le descrizioni di alcune località dell'Italia, come per
esempio l’etrusca Populonia, indicano una loro visione diretta da parte dell'autore), quanto piuttosto sulle no-
tizie che egli trovava in autori precedenti: non poche sono dunque in Strabone le digressioni storiche sulle
vicende, anche molto lontane nel tempo, che interessarono le regioni descritte.

La seconda opera, dopo la Geografia di Strabone, fondamentale per il nostro soggetto è la Storia na-
turale di Plinio il Vecchio, di cui parimenti abbiamo già avuto modo di parlare. Si tratta di una sorta di enci-
clopedia, in lingua latina, di tutto lo scibile in 37 libri, di cui i libri III-VI sono dedicati alla geografia: riguar-
dano l'Italia i capitoli 38-138 del libro III. Plinio, che ebbe un importante carriera nell'esercito e nell'ammini-
strazione imperiale sotto gli ultimi due imperatori della dinastia giulio-claudia, Claudio e Nerone, e in parti-
colare sotto Vespasiano e il figlio Tito, fu un infaticabile compilatore, forse non sempre in grado di selezio-
nare il materiale che consultava, né di comprenderne con acume il senso, ma certo animato da una insaziabile
curiosità, che ci ha conservato moltissime notizie che altrimenti sarebbero andate irrimediabilmente perdute.
E proprio per troppa curiosità Plinio trovò la morte: nel 79 d.C., al momento della rovinosa eruzione del Ve-

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suvio, il vecchio enciclopedista si trovava non lontano dal luogo della tragedia, al comando della flotta impe-
riale di Miseno, all'altro capo del golfo di Napoli; spinto dal desiderio di osservare meglio il fenomeno, si av-
vicinò troppo e finì per morire soffocato dalle esalazioni del vulcano.

Accanto a Strabone e Plinio, possiamo ricordare il matematico, astronomo e geografo Tolemeo, at-
tivo ad Alessandria nella seconda metà del II sec. d.C. Della sua vasta produzione scientifica interessa qui la
Geografia, in 8 libri, il cui nucleo è costituito da lunghe liste di località individuate attraverso un sistema di
coordinate di longitudine e latitudine, cui si aggiungono talvolta brevi descrizioni. Certamente l'opera costi-
tuisce il lavoro preparatorio per una mappa, ma non sappiamo se lo stesso Tolemeo avesse pubblicato una
carta geografica insieme al suo registro: le mappe che accompagnano i manoscritti della sua opera, spesso di
eccellente fattura, vennero redatte in effetti in età medievale, sulla base di un archetipo bizantino. Tolemeo
rimase sino al Rinascimento l'autorità riconosciuta nelle discipline geografiche. Un accenno tra le opere geo-
grafiche meritano infine anche il De chorographia di Pomponio Mela (scritto nel 43-44 d.C.) e la Descriptio
orbis di Rufio Festo Avienio (metà del IV sec. d.C.).

Fondamentali per la conoscenza dell’Italia antiche sono anche le opere della letteratura tecnica,
che, nelle sua diverse espressioni, era rivolta ad un pubblico di specialisti ed era libera da quelle preoccupa-
zioni retoriche e stilistiche che caratterizzano gran parte della produzione in prosa e poesia in greco e in lati-
no. Le numerose informazioni storiche che le opere appartenenti a questo ci forniscono sono per questo mo-
tivo ancora più preziose.

A questo proposito un ruolo di speciale preminenza hanno i manuali di agricoltura redatti in lingua
latina da Catone (239-149 a.C.), dal già menzionato Varrone (117-27 a.C.), da Columella (attivo intorno alla
metà del I sec. d.C.) e infine da Palladio (vissuto probabilmente alla metà del V sec. d.C.), fondamentali per
conoscere come si svolgeva la principale attività economica dell’Italia antica. Molto importanti anche gli
scritti degli agrimensori romani, quei tecnici che avevano il compito di dividere i lotti di terreno agricolo in
vista della loro assegnazione ai coloni: da tali opere ricaveremo soprattutto la cognizione teorica che i Roma-
ni avevano dello spazio e delle sue suddivisioni. In uno dei trattati rifluiti nel corpus degli scritti degli agri-
mensori, il cosiddetto Liber coloniarum, si troveranno peraltro anche puntuali notizie sui singoli centri, pre-
ziosissime per la ricostruzione della loro topografia.

Tra le opere di carattere tecnico credo sia interessante soffermarsi soprattutto sugli Itinerari, guide
di carattere pratico che contenevano elenchi di città e di stazioni per il cambio dei cavalli lungo un determi-
nato percorso, con le distanze che le separavano; questi itinerari potevano apparire in forma testuale (in tal
caso si parla di itineraria descripta o adnotata) o in forma di carta geografica (itineraria picta).

Interessa l’Italia antica soprattutto il cosiddetto Itinerarium provinciarum Antonini Augusti, con
l'elenco delle stazioni di cambio e le distanze espresse in miglia romane (propriamente in milia passuum
"mille passi"; poiché il passo corrispondeva a 1, 48 m., il miglio romano era di 1.480 m.) su numerosi percor-
si, raggruppati per regioni. Vediamo per esempio l'inizio della sezione dedicata all'Italia, con la descrizione
di un percorso che conduceva da Milano alla località di Ad Columnam, sullo stretto di Messina (il riferimento
è una colonna in forma di torre eretta poco a nord della loro città dagli abitanti della greca Rhegion, l'odierna
Reggio Calabria).

Itinerarium provinciarum Antonini Augusti, p. 98, l. 2 - p. 100, l. 1 Wesseling


Italiae. Iter quod a Mediolano per Picenum et Campaniam ad Columnam id est Traiectum Si-
ciliae, ducit. m(ilia) p(assuum) DCCCCS. A Mediolano Laude civitas m(ilia) p(assuum) XVI.
Placentia civitas m(ilia) p(assuum) XXIIII. Fidentiola vicus m(ilia) p(assuum) XXIIII. Parme
civitas m(ilia) p(assuum) XV. Regio civitas m(ilia) p(assuum) XVIII. Mutina civitas m(ilia)
p(assuum) XVII. Bononia civitas m(ilia) p(assuum) XXV. Foro Corneli civitas m(ilia)

22
p(assuum) XXIIII. Faventia civitas m(ilia) p(assuum) X. Cesena civitas m(ilia) p(assuum)
XXIIII. Ariminum civitas m(ilia) p(assuum) XX.

(Itinerari) dell'Italia. Itinerario che conduce da Milano, attraverso il Piceno e la Campania, alla
colonna, cioè al traghetto per la Sicilia. 900, 5 miglia. Da Milano alla città di Lodi, 16 miglia.
Alla città di Piacenza, 24 miglia. Alla città di Fidenza, 24 miglia. Alla città di Parma, 15 mi-
glia. Alla città di Reggio, 18 miglia. Alla città di Modena, 17 miglia. Alla città di Bologna, 25
miglia. Alla città di Imola, 24 miglia. Alla città di Faenza, 10 miglia. Alla città di Cesena, 24
miglia. Alla città di Rimini, 20 miglia.

Nella forma in cui ci è giunto, l'Itinerarium provinciarum Antonini Augusti, detto anche semplice-
mente Itinerarium Antonini, sembra essere una compilazione dell'età di Diocleziano, alla fine del III sec.
d.C., basato su materiali essenzialmente databili al regno di Caracalla, agli inizi di quello stesso secolo (l'An-
tonino nominato nel titolo potrebbe in effetti essere proprio Caracalla, il cui nome ufficiale era quello di
Marcus Aurelius Antoninus).

Attraverso la tradizione manoscritta ci è giunto anche il cosiddetto Itinerarium Maritimum Antonini


Augusti, nel quale vengono riportate diverse rotte che attraversavano il Mediterraneo, tra le quali molte in
partenza dall'Italia, come per esempio quella che attraversava il golfo di Taranto e che toccava Crotone, capo
Zefirio – oggi capo Bruzzano – e Reggio. In questo itinerario marittimo le distanze sono espresse in stadi (u-
na misura di lunghezza che, nel mondo romano, equivaleva a 125 passi, cioè a 185 m.). Possiamo inoltre ri-
cordare anche l'Itinerarium Burdigalense o Hierosolymitanum, che elencava le stazioni di viaggio tra Burdi-
gala, l'odierna Bordeaux, in Francia, e Gerusalemme, compilato forse nella seconda metà del IV sec. d.C. in
evidente connessione con il diffondersi della pratica dei pellegrinaggi in Terrasanta. L'itinerario, che presenta
chiare analogie con i percorsi ricompresi nell'Itinerarium Antonini, tocca l'Italia settentrionale, ma non
l’attuale Calabria.

Accanto a questi itineraria adnotata, composti dunque solamente da notazioni testuali, dobbiamo ri-
cordare anche uno straordinario esempio di itinerarium pictum, la cosiddetta Tabula Peutingeriana. Si tratta
di una mappa del mondo antico dipinta su un rotolo di pergamena verso il 1200 nella cittadina francese di
Colmar, copia di una carta certamente molto più antica: la sua esatta datazione è molto discussa, ma la mag-
gioranza degli studiosi è orientata a pensare che l'originale risalga al II - III sec. d.C., con rielaborazioni nel
IV sec. d.C. L'eccezionale documento venne scoperto dall'umanista Konrad Celtis e da lui donato nel 1508 ad

Figura 1: un particolare, rappresentante l’Italia meridionale, del segmento VII della Tabula Peutingeriana, co-
pia medievale del 1200 circa di una carta originale del II-III sec. d.C., Vienna, Biblioteca Nazionale

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un notabile della città di Augusta, in Germania, Konrad Peutinger, dal quale la nostra tabula ha preso il no-
me; si conserva oggi nella Biblioteca Nazionale di Vienna. La Tabula rappresentava in 12 segmenti il mondo
abitato, dalla Spagna all'India. Il primo segmento, corrispondente al Marocco, la Spagna e parte della Britan-
nia e dell'Irlanda, era già andato perduto quando venne redatta la copia medievale che noi possediamo. Non
vi troveremo una rappresentazione fedele dei contorni delle terre: in effetti la carta presenta un fortissimo sti-
ramento nel senso della longitudine, quindi da ovest a est; la parte superstite è lunga ben 6, 82 m., contro
un'altezza di soli 34 cm. Le aree periferiche e i mari appaiono fortemente ridotti, come appare chiaramente
per il Golfo di Taranto dal particolare riportato alla figura 1, tratto dal segmento VII.

Nella Tabula Peutingeriana le strade


sono segnate come linee rette, interrotte da
piccoli segmenti che indicano le stazioni di
cambio. Le città sono diversamente simboleg-
giate: i centri maggiori dell'Impero, come
Roma, Costantinopoli e Antiochia, sono rap-
presentati in forma di figure simboliche entro
un cerchio, altre città importanti possono esse-
re raffigurate in forma vagamente realistica
con mura, torri e case, come Aquileia
nell’esempio riportato alla figura 2, mentre i
Figura 2: particolare della sezione della Tabula Peutinge- centri di media grandezza semplicemente con
riana con la regione di Aquileia (facsimile di K. Miller)
due edifici affiancati (vedi per esempio a figu-
ra 3 la città di Balentia, ovvero l’odierna Vibo
Valentia). I centri termali hanno una simbolo-
gia speciale, una vasca circondata da edifici
(vd. per esempio a figura 3 il sito di Fonte Ti-
mavi, presso Aquileia). Le località che pren-
devano il nome da un tempio, (come per e-
sempio Fanum Fortunae, l'odierna Fano), so-
no rappresentate invece da un edificio allun-
gato, con una porta e delle finestre, forse raf-
figurante uno di quegli ostelli in cui trovavano
ospitalità i pellegrini che si recavano nel san-

Figura 3: particolare della sezione della Tabula Peutinge- tuario. Il porto di Ostia è raffigurato invece in
riana con la Calabria meridionale (facsimile di K. Miller) modo naturalistico, con i suoi moli, il foro e
gli edifici circostanti. Gli altri elementi del
paesaggio, come fiumi, laghi, catene montuose, sono tracciati in modo puramente convenzionale, senza ri-
spetto per la loro reale posizione. La carta è accompagnata da numerose didascalie, che riportano nomi di lo-
calità, di fiumi e di regioni.

3. Le fonti epigrafiche

Le iscrizioni incise su pietra, metallo o altri materiali durevoli, sono spesso gli unici documenti che
ci possono restituire informazioni puntuali sulla condizione giuridica, l'amministrazione, l'attività edilizia e la
vita sociale ed economica dei centri dell'Italia, spesso del tutto trascurati dagli autori letterari. È una docu-
mentazione plurilingue, nella quale si distinguono testi negli idiomi dell’Italia preromana, dal siculo della

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Sicilia, al celtico e al retico dell’Italia settentrionale, un buon numero di testi greci, in particolare dalle aree
dell’Italia meridionale che furono interessate dal fenomeno della colonizzazione e che talvolta continaurono a
scrivere in greco anche in piena età romana (a Neapolis, l’odierna Napoli, vennero incise ancora epigrafi nel
II sec. d.C.), e soprattutto migliaia di testi in lingua latina.

Ai fini della ricostruzione della topografia e della geografia umana del nostro territorio nell'antichità
si rivelano particolarmente utili alcune classi di epigrafi latine: i milliari stradali, le cosiddette iscrizioni itine-
rarie, le iscrizioni relative alla costruzione di opere di interesse pubblico, i cippi terminali.

I milliari, che avevano la funzione principale di segnalare


la distanza, espressa in miglia, di un dato punto di una strada dall'i-
nizio della via stessa o da un centro importante, appaiono general-
mente su supporti in forma di colonna cilindrica, o talvolta tronco-
conica. Oltre all'indicazione di distanza, riportano solitamente il no-
me dell'autorità, un magistrato in età repubblicana, l'imperatore in
età imperiale, che aveva promosso la costruzione della via o il suo
restauro. Nell'esempio riportato alla figura 4 abbiamo un milliare
rivenuto nel territorio della cittadina umbra di Allerona, che riporta il
seguente testo:

Corpus Inscriptionum Latinarum, XI, 8104: un milliare


della via Traiana nova da Allerona (Umbria)
Imp(erator) Caesar, / divi Nervae f(ilius), / Nerva Traianus /
Aug(ustus), Germ(anicus), Dacic(us), pont(ifex) max(imus),
trib(unicia) p(otestate) XII, / imp(erator) VI, co(n)s(ul) V,
p(ater) p(atriae), / viam novam Traian(am) / a Volsinis ad
fines / Clusinorum fecit. / XVII.

L'imperatore Cesare Nerva Traiano Augusto Germanico Da-


cico, figlio del divo Nerva, pontefice massimo, avendo rive-
stito per dodicesima volta la potestà tribunizia, essendo stato
acclamato imperatore per la sesta volta ed essendo console
Figura 4: i milliare della via Traia- per la quinta volta, padre della patria, fece la via Traiana nuo-
na Nova da Allerona, 108 d.C. va da Volsinii ai confini di Chiusi. Diciasettesimo miglio.

L'epigrafe è stata pubblicata nella grande raccolta delle iscrizioni latine chiamata Corpus Inscriptio-
num Latinarum, promossa nella seconda metà dell’Ottocento dal famoso storico dell’antichità Theodor
Mommsen. Il testo registra la costruzione di una altrimenti sconosciuta via Traiana nuova tra Chiusi e Volsi-
nii (probabilmente la città chiamata Volsinii Novi che sorgeva nei pressi dell'attuale Bolsena, piuttosto che
l'antica città etrusca di Volsinii Veteres, identificata da alcuni studiosi con l'odierna Orvieto) da parte di
Traiano; la titolatura imperiale, in particolare la menzione della dodicesima tribunicia potestas, i poteri dei
tribuni delle plebe che l’imperatore vedeva rinnovarsi di anno in anno dal momento della sua accessione al
trono e il cui numero dunque equivale sostanzialmente al numero degli anni di regno, ci consente di datare
l'intervento al 108 d.C.

I milliari dunque si rivelano preziosi non solo per localizzare il tracciato di una via (sempre che sia-
no stati ritrovati nel loro contesto originario: un milliare in effetti, anche per la sua forma cilindrica, può fa-
cilmente essere portato, semplicemente facendolo rotolare su se stesso, anche ad una notevole distanza e
reimpiegato), ma anche per ricostruire la loro storia: quale autorità in quale momento ne aveva promosso la
costruzione oppure eventuali restauri e rifacimenti.

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Le iscrizioni itinerarie, non molto numerose, riportavano le tappe lungo una via o lungo un percor-
so che abbracciava più vie, e presentano dunque stringenti analogie con gli itineraria adnotata, noti dalla tra-
dizione manoscritta, di cui si è detto in precedenza. Tra gli esempi più celebri ricordiamo l'iscrizione che
commemorava la costruzione della via da Reggio Calabria a Capua, comunemente chiamata via Popilia, rin-
venuta a Polla, in provincia di Salerno, registrando anche le distanze parziali tra le stazioni che sorgevano tra
Capua e Reggio e la distanza totale del percorso. Tratteremo di questo celebre testo più avanti.

Singolari esempi di iscrizioni itinera-


rie ci vengono anche da quattro bicchieri in
argento ritrovati, tra altri doni votivi, presso la
fonte termale delle Aquae Apollinares, l'o-
dierna Vicarello, sul lago di Bracciano (Cor-
pus Inscriptionum Latinarum XI, 3281-3284).
Su questi oggetti, risalenti agli inizi del IV
sec. d.C., venne inciso l'itinerario che andava
dalla città spagnola di Gades (l'odierna Cadi-
ce) fino a Roma, con le distanze parziali tra le
località che sorgevano lungo il percorso.

È difficile comprendere per quale


motivo i bicchieri offerti in dono alla divinità che presiedeva e dava il nome alle Aquae Apollinares, Apollo,
riportassero il percorso Cadice-Roma. Certo i quattro bicchieri, per il testo che riportano e per la loro forma,
che riproduce in scala miniaturizzata quella di un milliare, sembrano aver lo scopo di ringraziare il dio per
aver protetto l'avventuroso viaggio via terra tra Cadice a Roma: tuttavia l'itinerario non prevedeva un passag-
gio da Vicarello, ma giungeva a Roma dalla via Flaminia, attraverso Narnia (Narni) e Ocriculum (Otricoli),
circa 30 km. più est, né gli oggetti sembrano presentare un qualche rapporto con Apollo. Inoltre il fatto che
Gades sia il punto di partenza degli itinerari sembra implicare che i bicchieri siano stati prodotti nella città
della Spagna meridionale: si è dunque supposto che gli oggetti siano stati donati ad Apollo da alcuni mercan-
ti gaditani, forse recatisi a Roma per vendere uno dei prodotti caratteristici della loro terra, l'olio o il garum,
la salsa di pesce molto apprezzata nella cucina romana: non riusciamo tuttavia a spiegarci per quale motivo
questi commercianti avessero scelto di percorrere una via terrestre lunga oltre 2.700 km., quando le merci
spagnole seguivano sempre la assai più rapida ed economica via marittima. La presenza a Vicarello di questi
singolari documenti resta insomma, per alcuni aspetti, enigmatica.

Le iscrizioni relative alla costruzione di opere di interesse pubblico (o che commemorano


l’abbellimento o il restauro di una di queste opere) spesso costituiscono l'unica fonte a nostra disposizione
per la ricostruzione della topografia e dell'urbanistica delle città dell'Italia romana, che certo non ricevettero
l'attenzione riservata dalle fonti letterarie alla città di Roma. Secondo la tradizionale classificazione proposta
dall’architetto romano Vitruvio, vissuto nel I sec. a.C. (De architectura, I, 3, 1) tali opere possono suddivi-
dersi in tre categorie:

• Opere di difesa, come moenia, “mura”, portae, “porte”, turres, “torri”.

• Opere della religione, come aedes o templa (“templi”), sacella (“tempietti, sacelli”).

• Opere dell’opportunitas, che avevano cioè il fine della comodità: è la categoria più vasta, che
poteva a sua volta comprendere:

o Opere per l'igiene, come acquedotti (aquae), fognature (cloacae), bagni (balnea), fon-
tane (lacus, fontes).

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o Opere per la circolazione, come strade (viae, clivi) e ponti (pontes).

o Opere per la vita economica, come piazze per mercati e incontri (fora), luoghi coperti,
che assolvevano al medesimo scopo (porticus, atria, basilicae), botteghe (tabernae),
mercati e magazzini (horrea, emporia, macella).

o Opere per la vita politica, come sedi del Senato o dei consigli municipali (curiae), ar-
chivi (tabularia).

o Opere per gli spettacoli, come teatri (theatra), anfiteatri (amphitheatra), circhi (circi).

o Opere per la cultura, come biblioteche (bibliothecae).

o Opere di arredamento urbano, come statue (statuae, signa), archi (arcus), orologi (ho-
rologia), obelischi (obelisci), giardini (horti), fontane decorative (nymphea).

Nelle iscrizioni relative alle opere pubbliche generalmente compare in testa il nome della persona
che ha curato l'intervento, la natura dell'intervento stesso, che può essere la costruzione ex novo o il restauro
dell'opera, l'indicazione dell'opera (non di rado sottaciuta: dal momento che spesso l'iscrizione era apposta
direttamente sul monumento stesso, il riferimento doveva essere chiarissimo per gli antichi; nel caso l'iscri-
zione sia oggi decontestualizzata il messaggio diventa invece per noi del tutto oscuro), talvolta il motivo del-
la costruzione, lo stato giuridico del terreno sul quale sorgeva l'opera pubblica ed eventualmente l'autorità
che aveva dato il permesso di eseguire i lavori, infine, nel caso di restauri, il grado di scadimento dell'opera e
il motivo del degrado che avevano reso necessario l'intervento; a proposito dei templi può apparire, in caso
dativo, il nome della divinità alla quale l'edificio sacro era dedicato. Come esempio di epigrafi di questa clas-
se esaminiamo un testo proveniente da Roma.

Corpus Inscriptionum Latinarum I2, 626:


la costruzione di un tempio dedicato a
Ercole
L(ucius) Mummi(us) L(uci) f(ilius),
co(n)s(ul), duct(u), / auspicio imperioque /
eius Achaia capt(a), Corint(h)o / deleto,
Romam redieit / triumphans; ob hasce / res
bene gestas, quod / in bello voverat, / hanc
aedem et signu(m) / Herculis Victoris / im-
perator dedicat.

Lucio Mummio figlio di Lucio, console,


conquistata l’Acaia sotto la sua guida, i suoi
auspici e il suo comando, distrutta Corinto,
ritornò a Roma trionfante; per aver portato
felicemente a conclusione queste imprese,
come aveva fatto voto durante la guerra,
Figura 6: l’iscrizione relativa alla costruzione di un
dedica da imperator questo tempio e la sta-
tempio di Ercole a Roma, Corpus Inscriptionum Lati-
narum I2, 626, 145-142 a.C. tua di Ercole Vincitore.

L’iscrizione appare incisa su una lastra in travertino, che originariamente doveva essere applicata al
tempio di Ercole. Venne rinvenuta nel 1786 sul colle Celio, dove la ricerca archeologica per il momento non
ci ha rivelato edifici sacri ad Ercole, ma dove è attestato dalle fonti letterarie un culto reso all’eroe. Formal-
mente il testo si presenta come iscrizione religiosa, di carattere votivo, dedicata ad Ercole dopo che il dio a-
veva esaudito un voto, ma il ricordo delle opere monumentali votate può farla rientrare nella categoria delle

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epigrafi relative a opere pubbliche. Il promotore dell’opera fu L. Mummio, che nel 146 a.C., quando aveva la
carica di console, aveva battuto definitivamente gli eserciti della Lega Achea e distrutto la principale città
della lega, Corinto, guadagnandosi il cognome Achaicus, uno di quei caratteristici cognomina ex virtute
(“cognomi per il valore”) che veniva assegnati per celebrare una vittoria. Nel linguaggio istituzionale di Ro-
ma, sempre molto preciso, Mummio precisa che tali imprese erano state condotte sotto la sua guida (ductu),
sotto i suoi auspici (gli auspicia erano una categoria di segni che i Romani ritenevano gli dèi inviassero loro,
per esprimere il loro consenso o dissenso nei confronti di una particolare decisione; a Roma nulla si faceva se
prima non si era accertata la volontà delle divinità: in particolare in guerra solo il comandante supremo
dell’esercito aveva il potere di trarre e interpretare gli auspicia), e sotto il suo imperium (il potere supremo di
carattere militare che i magistrati maggiori di Roma esercitavano al di fuori della città). L’iscrizione si data
tra il 145 a.C., anno in cui Mummio Acaico ritornò a Roma celebrando il trionfo per il suo successo militare,
e il 142 a.C., anno in cui egli fu censore, una importante e prestigiosa carica, che egli non avrebbe mancato di
menzionare nella sua epigrafe se in quello momento l’avesse rivestita. La motivazione dell’opera è lo scio-
glimento di un voto pronunciato che Mummio per la felice conclusione della campagna contro gli Achei;
l’opera stessa consisteva in un tempio (aedes) dedicato ad Ercole vincitore e una statua (signum) dell’eroe.

Infine, tra i documenti epigrafici


di particolare interesse per la ricostruzio-
ne del passato dell’Italia dobbiamo infine
ricordare i cippi terminali, attestati nelle
nostre regioni, per esempio, per delimita-
re i confini fra i territori di diverse comu-
nità cittadine. Come esempio possiamo
esaminare un testo inciso sulla parete
Figura 7: iscrizione confinaria del monte Coldai, Supplementa rocciosa del monte Coldai, nel gruppo del
Italica, nuova serie 4, p. 217, n°1a, I sec. d.C. Civetta (Dolomiti).

Il testo, che è stato pubblicato in


Supplementa Italica, nuova serie 4, p. 217, n°1a, è molto semplice: Fîn(es) / Bel(lunatorum), Iul(iensium)
(“Confine dei Bellunati e dei Giuliensi”) e, insieme ad alcuni testi gemelli, segnava il confine tra le comunità
di Bellunum e Iulium Carnicum (odierna Zuglio, in Friuli). L’epigrafe è stata datata al I sec. d.C.

4. Le fonti numismatiche

Per il nostro tema di studio, l’Italia antica, i papiri non rivestono certo un’importanza fondamentale;
non che nel nostro paese in età romana non si scrivesse su questo pratico supporto: ma purtroppo le condi-
zioni climatiche non hanno consentito la conservazione di questo delicato materiale organico, a differenza di
quanto è avvenuto in Egitto e in altre aree del Vicino Oriente dal clima molto secco. Per la verità qualche nu-
cleo di papiri è stato rinvenuto anche nel nostro paese: a Ercolano si conservano molti rotoli di papiro appar-
tenenti alla biblioteca della nobile famiglia dei Calpurni Pisoni, che si sono lentamente carbonizzati, senza
distruggersi, in occasione dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Oggi gli esperti dell’Officina dei Papiri Erco-
lanesi di Napoli sono in grado di svolgere con grande delicatezza i rotoli combusti e di leggerne il contenuto:
si tratta quasi esclusivamente di opere del filosofo epicureo Filodemo di Gadara, un protetto dei Calpurni Pi-
soni. Piccoli nuclei di papiri sono noti anche a Ravenna, a Monza e a Roma: si tratta tuttavia di testi prodotti
in età altomedievale, prima che il papiro venisse soppiantato definitivamente dalla pergamena come supporto
scrittorio. Di fatto dunque i documenti su papiro prodotti nel nostro paese e giunti fino a noi non hanno inte-
resse per la storia dell’Italia antica.

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Possiamo dunque passare direttamente alla successiva categoria documentaria, quella delle fonti
numismatiche. Dal punto di vista dell’indagine storica, in una moneta antica convivono due aspetti distinti:
un aspetto materiale, costituito dal peso e dalla composizione della lega metallica, che ha una particolare
rilevanza per lo studio della storia economica: l’adeguamento delle coniazioni di stati diversi ad uno stesso
standard ponderale, che si può verificare per esempio in alcuni momenti della storia greca, segnala la volontà
di creare una sorta di “mercato economico comune” a più poleis, in cui gli scambi sono facilitati dal fatto che
non sono più necessarie complicate operazioni di cambio; il drastico calo del peso di una moneta o l’uso di
un metallo più vile sono invece testimonianza della difficoltà finanziarie dello stato emittente: ciò accade per
accade per esempio a Roma, a partire dalla fine del II sec. d.C. e ancora di più agli inizi del secolo seguente,
quando le enormi spese militari che l’Impero deve sostenere costringono a calare il peso delle monete in cir-
colazione e a inserirvi quantità sempre maggiori di bronzo, rispetto al più prezioso argento.

Nella moneta vi è tuttavia anche un aspetto comu-


nicativo, costituito dalla legenda, la scritta che appare di re-
gola nella monetazione greca e romana, e dal tipo, ovvero
dalle immagini che vengono riprodotto sul tondello, che pure
possono darci preziose informazioni in ordine alla storia po-
litica, ma anche economica e sociale.

I due distinti aspetti del documento numismatico


possono essere verificati nell’esempio riportato a figura 8: si
tratta del rovescio di un aureo, la moneta più preziosa conia-
ta dall’Impero romano, emesso dall’imperatore Adriano tra il
125 e il 128 d.C. Per quanto concerne l’aspetto materiale, il
peso è di 7,28 gr., mentre il metallo è utilizzato, come indica
il nome stesso della moneta, è l’oro; per quanto riguarda
Figura 8: rovescio di un aureo di Adriano,
125-128 d.C. l’aspetto comunicativo, la legenda riporta l’indicazione
co(n)s(ul) III, che si fa sapere che l’imperatore Adriano, al
tempo in cui veniva coniata questa moneta, aveva rivestito
per la terza volta il consolato (in effetti le vecchie magistratu-
re della Roma repubblicana sopravvissero anche in età impe-
riale, anche se avevano perso gran parte del loro significato
politico); il tipo infine è rappresentato dalla raffigurazione
della lupa che allatta i gemelli, che ci riporta alla famosa leg-
genda delle origini di Roma.

Un chiaro, seppur semplice esempio del valore che


la documentazione numismatica può avere per la ricostruzio-
ne storica ci viene offerto dall’esempio riportato alla figura 9:
si tratta di una moneta argentea chiamata nomos, del peso di
Figura 9: nomos di Metaponto, 540-510 7,95 gr., che riporta la legenda META, che chiaramente iden-
a.C. circa
tifica città emittente, e il caratteristico tipo della spiga, che
allude alla principale risorsa economica di questa colonia
greca della Lucania, la coltivazione dei cereali. Nel suo linguaggio sintetico ma efficace il documento numi-
smatico ci trasmette dunque una interessante informazione di tipo economico.

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Un secondo esempio ci riporta al mondo roma-
no, in particolare alla città di Caesaraugusta, l’odierna
Saragozza, in Spagna, dove venne coniato fra il 4 e il 3
a.C. il sesterzio argenteo di figura 10. La legenda è la se-
guente: Caesaraugusta. II vir(i) Cn(eus) Dom(itius) Am-
plian(us), C(aius) Vet(urius) Lancia. Oltre al nome della
città emittente, troviamo il ricordo anche di quelli che nel
4-3 a.C. erano i massimi magistrati della comunità, i duo-
viri, una carica che, come molto spesso accade nel mondo
romano, prende il nome dal nome dei suoi componenti, in
questo caso appunto 2. Molto interessante anche il tipo,
non molto leggibile in questo esemplare, ma meglio noto
Figura 10: sesterzio da Caesaraugusta, 4- 3 a.C. da altre monete appartenenti alla stessa Caesaraugusta:
vi sono raffigurati infatti i vessilli di tre legioni, la IV, la
VI e la X, i cui veterano erano stati stanziati da Augusto in Spagna e avevano formato il primo nucleo di co-
loni di Saragozza.

Per quanto concerne in generale il valore della numismatica come fonte per la ricostruzione della
storia dell’Italia antica, si deve almeno accennare al valore che le monete hanno nella ricerca archeologica,
poiché forniscono un aggancio cronologico che permette di datare uno strato archeologico: certo non può
trattarsi di una datazione di grande precisione, ma piuttosto dell’indicazione di un terminus post quem, poi-
ché le monete antiche rimanevano in uso molto a lungo; tuttavia, in mancanza di altri elementi datanti, anche
questa informazione, per quanto vaga, può risultare preziosa.

Si deve inoltre rilevare come in aree di colonizzazione il ritrovamento di monete greche o romane
può denunciare la presenza di coloni in un determinato periodo, anche in assenza di informazioni a proposi-
to nelle fonti letterarie, anche se va precisato che i ritrovamenti isolati di piccoli nuclei di monete possono
essere spiegati anche da semplici motivazioni commerciali o dalla pratica del mercenariato, ovvero dal ritor-
no nei luoghi di origine di un mercenario che riportava con sé il salario che aveva guadagnato servendo uno
stato straniero: in questo modo possono essere spiegati, per esempio, i sorprendenti rinvenimenti di monete
emesse da stati ellenistici dell’Oriente mediterraneo nelle località interne dell’Italia centro-meridionale, dalle
quali provenivano in effetti molti valorosi soldati.

Infine il ritrovamento di nuclei più consistenti di monete, detti in genere gruzzoli o tesoretti, può
denunciare un momento di crisi in una determinata area e in un determinato periodo: all’approssimarsi di un
esercito ostile, in effetti, chi aveva da parte una somma di denaro piuttosto consistente aveva spesso l’idea di
seppellirla, per metterla al riparo dai saccheggi, ripromettendosi di andarla a riprendere una volta che la tran-
quillità fosse tornata. Non sempre evidentemente questo era possibile e oggi ritrovamenti di tesoretti ci con-
sentono di ricostruire la geografia delle aree che furono teatro in un’incursione o di scontri militari, dandoci
anche qualche indicazione cronologica (fondata sulla datazione dell’ultimo esemplare in ordine di tempo del
gruzzolo).

5. Le fonti archeologiche

Una compiuta valutazione del ruolo che le fonti archeologiche hanno nella ricostruzione della storia
del mondo antico richiederebbe un corso a sé. Qui ci limitiamo a rilevare che il termine “archeologia” ha
avuto anch’esso un’evoluzione. Già gli antichi lo utilizzarono nel suo senso etimologico di “studio del passa-
to”: Tucidide per esempio premette al racconto della guerra del Peloponneso fra Sparta e Atene, che è ogget-

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to principale della sua opera, una Archaiologhia nella quale riassume per sommi capi la storia del mondo
greco nel periodo che precedette il grande scontro. In senso moderno l’archeologia è oggi considerata la
scienza che studia le fonti materiali della storia passata, distinta dalle discipline che si occupano piuttosto di
analizzare le fonti scritte. A questo proposito va ricordato che anche molto documenti iscritti, tra i quali papi-
ri, epigrafi e monete, ci vengono oggi rivelati dall’indagine archeologica. In linea di principio l’archeologo
tuttavia si occupa di questi documenti solo nella fase che riguarda il loro inserimento nel contesto di scavo e
il loro restauro, passandoli poi, per un loro studio più approfondito e per la loro valorizzazione ai fini della
ricostruzione storica, agli specialisti nell’analisi di vari generi di documenti: papirologi, epigrafisti, numisma-
tici. Nel caso di materiali non iscritti (sia che si tratti di strutture insediative o di semplici oggetti mobili), in-
vece, anche questa seconda fase di studio spetta all’archeologo, anche se non sempre alla stessa figura dello
scavatore che li ha ritrovati.

Per riassumere brevemente il valore che la documentazione archeologica propriamente detta può a-
vere per la conoscenza dell’Italia antica, possiamo ricordare in primo luogo che si tratta una testimonianza
diretta dell’attività umana nel territorio, che in genere non fa difetto nemmeno nelle aree più marginali, sulle
quali le fonti letterarie non ci hanno conservato alcuna notizia e nelle quali anche la documentazione epigra-
fica e numismatica è piuttosto scarsa.

L’esplorazione di interi complessi archeologici, da un centro urbano come Pompei, fino ad arrivare
alla villa o alla semplice fattoria, ci rivela le forme di occupazione del territorio nell’antichità e spesso anche
la funzione assolta da un particolare edificio, grazie alla sua conformazione funzionale, rivelandoci così gli
spazi riservati alla politica, allo spettacolo, alla religione o alle attività economica. Tuttavia anche i ritrova-
menti isolati di oggetti mobili, come un’anfora, una lucerna o vasellame da tavola, possono dare importanti
informazioni, in particolare sulla storia economica di un territorio, le attività produttive che vi avevano sede o
i contatti commerciali che lo legavano ad altre aree.

Va infine ricordato che la documentazione archeologica ci mette in contatto con quella che era la
cultura materiale di tutti gli strati della società, , anche di quelli medio-bassi e non solo dell’élite, sulla quale
si concentrano gran parte delle informazioni che ci giungono dalle altre tipologie di fonti, in particolare dalle
fonti letterarie.

6. I segni del paesaggio

Talvolta, per conoscere il passato dell’Italia, non è necessario scavare: i segni dell’organizzazione
dello spazio nell’antichità spesso sono ancora sotto i nostri occhi, dal momento che gli insediamenti umani,
le strade, le opere di bonifica attuali non di rado non fanno che riprodurre una situazione che si è venuta a
determinare in età romana. Questi segni che il passato ha lasciato nel paesaggio attuale si possono leggere più
facilmente in carte geografiche, mappe topografiche, fotografie aeree, che, grazie alla loro sinteticità, metto-
no in luce aspetti difficilmente visibili all’osservazione diretta.

In particolare gli elementi notati dalle carte geografiche (percorsi stradali, corsi d’acqua naturali o
artificiali, insediamenti, aree dalla morfologia particolare, come boschi o paludi) ci riportano talvolta alla
conformazione del territorio nell’antichità. Una speciale rilevanza a questo proposito hanno le mappe topo-
grafiche più dettagliate, con scala di 1:50.000 (in cui un centimetro rappresenta 500 metri) o superiore, in
particolare le mappe prodotte dall’Istituto Geografico Militare di Firenze. Di grande interesse è pero anche la
cartografia del passato, dal Medioevo al XIX secolo, che talvolta conserva elementi del paesaggio antico ora
scomparsi.

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Un classico esempio ci riporta in Romagna, nella zona immediatamente a nord di Cesena, dove gra-
zie ad una carta 1:25.000 dell’Istituto Geografico Militare possiamo facilmente rilevare l’esistenza di una
sorta di “griglia” a maglie perfettamente quadrate, determinata oggi da strade, sentieri interpoderali, fossati,
filari di alberi. Andando a misurare il lato di questi quadrati ci accorgiamo che esso è di circa 710 m, equiva-
lenti in misure romane a 20 actus (1 actus equivaleva infatti a circa 35 m).La consultazione degli scritti degli
agrimensori romani, ai quali abbiamo avuto già modo di accennare, ci fa sapere che la misura di 20 actus
corrispondeva al lato di una centuria, l’unità fondamentale di divisione del territorio agricolo nelle aree della
colonizzazione romana, che ha dato il nome stesso a questa pratica di delimitazione del paesaggio, la centu-
riazione. Grazie alla loro funzionalità (in particolare i cardini, ovvero gli assi della centuriazione orientati
grosso modo in direzione nord-sud, seguivano la linea di massima pendenza ed erano accompagnati sul ter-
reno da fossati di drenaggio, che hanno conservato la loro utilità fino ai nostri giorni; lo stesso potrebbe dirsi
di molti antichi percorsi interpoderali, sui quali si imposta ancora oggi la viabilità locale), i segni della centu-
riazione romana si sono talvolta conservati fino ai nostri giorni, in particolare nella pianura Padana (altre aree
in cui tali segni sono ancora facilmente leggibili si trovano nel Modenese e nel Padovano), mentre nell’Italia
centro-meridionale la conformazione del terreno, più accidentata, in molti casi ha cancellato le tracce della
centuriazione romana. Quello che importa soprattutto rilevare è che una mappa topografica attuale si può ri-
velare una fonte storica, che ci informa, in questo caso, sulla colonizzazione romana e la distribuzione di lotti
di terreno nella pianura romagnola nel II sec. a.C.

Un altro strumento di grande utilità per cogliere nel paesaggio attuale qualche immagine che provie-
ne da un antico passato è costituito dalla fotografia aerea. La fotografia aerea assolve una funzione di sintesi
simile a quella delle carte geografiche: ma in questo caso la selezione degli elementi non è risultato di una
scelta consapevole del cartografo, ma è piuttosto operata involontariamente dall’obiettivo della macchina fo-
tografica e dall’occhio umano. L’utilizzo di questo strumento ai fini dell’indagine archeologica è tutto som-
mato piuttosto recente: le prime immagini aeree vennero impiegate nelle ricerca sull’Italia antica dopo la II
Guerra Mondiale, sfruttando le immagini scattate dalla Royal Air Force durante il conflitto, per scopi eviden-
temente assai meno pacifici.

In genere la fotografia aerea


non nota niente di più di quanto pos-
sa vedere l’occhio umano, ma, ab-
bracciando un’area molto ampia e
fissandone l’immagine, aiuta a com-
prendere meglio i segni del paesag-
gio. Va inoltre ricordato che la foto-
grafia aerea talvolta permette anche
di vedere anche quello che si trova
sotto al terreno, in base al principio
secondo il quale il terreno assume
colorazioni e toni diversi a seconda
della sua natura, dei dislivelli anche
Figura 12: fotografia aerea di un tempietto romano a Remiencourt, minimi che presenta, delle coltiva-
Somme (Francia)
zioni e del modo in cui crescono,
dell’umidità presente, del suo potere
di riflessione. La visione di alcuni di questi segni può essere resa più evidente dall’impiego di alcuni filtri e
pellicole particolari.

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Nell’esempio riportato a figura 2 vediamo una fotografia aerea
scattata nell’area di Remiencourt, nel dipartimento della Somme (Fran-
cia settentrionale). L’immagine mostra chiaramente le aree in cui la ve-
getazione ha una crescita più stentata, a causa della presenza di strutture
murarie sottostanti, rivelando chiaramente la pianta di un tempietto di
età romana, con una pianta molto semplice. La ricognizione a livello del
terreno (figura 13) fornisce risultati assai meno leggibili, ma, con la pre-
senza di pietrame, conferma l’esistenza di una struttura antica.

7. La toponomastica

Utili indicazioni sulla storia dell’Italia antica c possono venire


anche dalla toponomastica, la scienza che studia l significato, l’origine e
sviluppo dei toponimi, i nomi di luogo. I nomi di luogo in effetti manife-
stano spesso un forte conservativismo, che riguarda in particolare gli i-
Figura 13: le tracce sul terreno dronimi (i nomi di corsi d’acqua e di laghi) e gli oronimi (i nomi dei
nell’area del tempietto romano di monti) e che ha portato a mantenere ad un sito il suo nome antichissimo,
Remiencourt
anche quando non se ne comprendeva più il significato.

La toponomastica, come tutte le discipline storiche, non è certo una scienza esatta, ma è comunque
una disciplina che ha le sue regole, che attengono in particolare gli sviluppi fonetici, dalle lingue antiche a
quelle attuali. Non ci si deve far ingannare dalle casuali assonanze: per esempio l’attuale poleonimo Venti-
miglia, relativo ad una cittadina della riviera ligure di Ponente, potrebbe lasciar pensare che il nome sia nato
in relazione alla distanza di 20 miglia che separava la località da un qualche altro punto di riferimento. In re-
altà l’etimologia è del tutto diversa: l’attuale toponimo italiano è il risultato di una trasformazione dal latino
Albintimilium, forma contratta di Albium Intemelium, dalla radice alb-, che nell’antica lingua ligure signifi-
cava “collina, montagna”, e dal nome degli Intemelii, una tribù ligure: l’odierna Ventimiglia dunque era ori-
ginariamente “la collina degli Intemelii”, un insediamento d’altura di questa antica popolazione.

Diversi toponimi antichi sono giunti a noi invariati o con pochi mutamenti, rivelandoci in questo
modo la localizzazione di insediamenti antichi: pensiamo, nella nostra regione, a nomi di città come Con-
sentia (l’attuale Cosenza) Croton (Crotone), Vibo Valentia (il cui nome è oggi lo stesso che la città aveva in
età romana, dopo il dotto recupero del toponimo antico nel 1928: fino a quell’anno Vibo aveva conservato il
nome medievale di Monteleone), Rhegium Iulium – Reggio Calabria. A questo proposito si deve tuttavia fare
attenzione ai possibili trasferimenti di toponimi, che oggi identificano luoghi diversi rispetto a quelli che
designavano nell’antichità; è questo il caso, per esempio, dell’antica Capua, in Campania: quando la città
venne distrutta nell’841 dai Saraceni gli abitanti si trasferirono nella vicina Casilinum, che ribattezzarono
Capua; l’antica città di Capua risorse più tardi, con il nome di S. Maria Capua Vetere; qui oggi ci dovremmo
recare se volessimo visitare le vestigia dell’insediamento antico. Un caso simile è offerto dal nome regionale
di Calabria. Il toponimo Calabria, in età romana, non designava la nostra regione, che i Romani conoscevano
con il nome della tribù dei Bruttii che vi erano insediati, ma il Salento, la parte più meridionale dell’odierna
Puglia, abitata dalla popolazione dei Calabri. In età bizantina il nome di Calabria si estese anche al territorio
dei Bruzi, che insieme al Salento formava la provincia bizantina dell’Italia meridionale; quando poi i bizanti-
ni persero il controllo della Puglia a favore dei Normanni il nome di Calabria finì per rimanere esclusivamen-
te connesso alla punta dello stivale, secondo l’uso che ancora oggi è in vigore. Talvolta queste ambigue di-
slocazioni di toponimi antichi sono il risultato di un erronea ripresa dell’illustre nome di luogo antico
nell’Ottocento o agli inizi del Novecento: abbiamo visto un esempio con Monteleone, ribattezzata nella pri-

33
ma metà del XX secolo Vibo Valentia, con una corretta di identificazione di quello che effettivamente era
l’insediamento antico con questo nome. Nel caso di Caulonia si incorse invece in uno sbaglio: in questo mo-
do venne ribattezzata nel 1863 la cittadina di Castelvetere, immaginando che in questo luogo si trovasse la
colonia greca di Kaulon; solo qualche anno dopo l’archeologo Paolo Orsi identificò il sito della città greca
qualche chilometro più a nord, nell’attuale comune di Monasterace.

I nomi di luogo, se correttamente analizzati, ci possono raccontare interessanti storie. In primo luogo
la radice linguistica di un toponimo può rivelare l’insediamento originario di una popolazione appartenente
a quel gruppo linguistico. Gli esempi che si potrebbero fare, relativi ai diversi gruppi linguistici che abitarono
l’Italia dall’antichità ai giorni nostri, sono innumerevoli: per quanto riguarda la lingua ligure, abbiamo già
ricordato un esempio di toponimo formati dalla radice alb- “monte” (vedi inoltre Albium Ingaunum, l’attuale
Albenga); i toponimi formati col suffisso -ena, -enna, ina (come per esempio Ravenna o Felsina, l’odierna
Bologna) rimandano piuttosto ad insediamenti etruschi; per quanto riguarda gli idiomi illirici possiamo piut-
tosto menzionare i nomi di luoghi fondati sulla radice tergo “mercato” (come per esempio Tergeste, oggi
Trieste); ben testimoniati anche i nomi di città formati dal greco, come per esempio l’odierna Ancona, dal
greco ankon, “gomito”, che indicava la particolare collocazione della città, un promontorio del monte Conero
che veniva a formare una sorta di gomito sul mare Adriatico. In Italia settentrionale non pochi toponimi han-
no un’origine celtica: così Milano, l’antica Mediolanum, il cui nome nella lingua dei Gallia significa “in
mezzo alla pianura”. Arriviamo infine alle soglie dell’età medievale con le numerose località dell’Italia che
prendono in nome di Gualdo, dal germanico wald, “bosco”.

In secondo luogo un toponimo, attraverso lo studio della sua etimologia può rivelarci alcuni elemen-
ti sulle origini e la storia successiva della località che designava. Ricordiamo in particolare i tanti nomi di
luogo dell’Italia formati sul vocabolo forum (nel significato di “mercato”), per esempio Forum Traiani,
l’attuale Fordongianus, in Sardegna: una località potenziata, se non proprio fondata, dall’imperatore Traiano
come luogo di scambi e di commerci per la valle del Tirso. Un’altra classe di toponimi di questo tipo è costi-
tuita da quelli che descrivono una posizione geografica: oltre al caso della greca Ankon, potremmo rammen-
tare quello di Interamnia, l’attuale Teramo (da inter amnes, “tra i fiumi”: in effetti la città sorge ancora oggi
alla confluenza dei fiumi Vezzola e Tordino).Altri nomi di luogo derivano dalla presenza di un antico culto:
così per esempio Minerbio, in provincia di Bologna, che ricorda la devozione nei confronti della dea Miner-
va (anche in questo caso le assonanze possono ingannare: molti eruditi del passato hanno spiegato il nome
del massiccio del Pollino, che divide la Calabria dalla Basilicata, in riferimento ad un mons Apollinis, una
montagna sacra al dio Apollo; l’etimologia corretta rimanda molto più semplicemente alla presenza in questa
area montuose di numerose polle, risorgive d’acqua che assicurano la fertilità dei suoi pasco-
li).Numerosissimi i toponimi che derivano dal computo in miglia lungo una strada, a partire da un punto di
riferimento di un importante città: tra i numerosi esempi che si potrebbero fare, anche a livello locale, ricor-
diamo solo Sesto Fiorentino, a 6 miglia da Firenze. Altri nomi di luogo nascono in età medievale o moderna,
ma ci danno comunque informazioni pertinenti l’età antica: così i toponimi che segnalano la presenza di resti
antichi, come per esempio località Bamboccio, poco a nord di Roma, che rimanda alla scoperta di un’antica
statua, volgarmente definita “bamboccio”, oppure località Centocamerelle, di cui esistono numerosi esempi
(uno anche nella nostra regione, a Locri), tutti in riferimento alla scoperta di un quartiere composto da molti
piccoli ambienti. Tra i toponimi più interessanti di questa categoria sono senz’altro da menzionare quelli che
fanno riferimento a qualche importante eventi storico dell’antichità: per esempio la località di Saxa Rubra,
qualche chilometro a nord del centro di Roma, il cui significato “i sassi rossi”, dal latino, può essere connes-
so alla presenza sul luogo di una pietra tufacea di colore rossastro, ma anche dai sassi tinti di rosso dal san-
gue dei caduti della grande battaglia che qui si combatté nel 312 d.C. tra Costantino e il suo avversario Mas-
senzio.

34
Una categoria di microtoponimi di speciale interesse per gli storici dell’antichità è costituita dai co-
siddetti prediali, da praedium, “proprietà terriera”, “fondo”). Nelle culture antiche impiantate in Italia questi
nomi di fondi agricoli venivano spesso creati partendo da un elemento onomastico del proprietario del terre-
no stesso (in genere il suo gentilizio), con l'aggiunta di un suffisso: per esempio, il campo di proprietà di un
M. Tullius Cicero veniva in genere chiamato Tullianum. I suffissi impiegati per la formazione dei prediali
sono diversi nelle differenti lingue dell'Italia romana: in latino il suffisso impiegato era -anum, nelle lingue
celtiche –acum, che continuano oggi in toponimi come Assago, nei pressi di Milano, o come Remanzacco,
vicino a Cividale del Friuli, in ligure –ascum (cf. oggi Bogliasco, a pochi chilometri di Genova), in retico –
enum (cf. oggi Aldeno, poco a sud di Trento).

I nomi di luogo ci sono rivelati da una pluralità di fonti: in primo luogo dalla cartografia attuale, in
particolare nelle carte dell’Istituto Geografico Militare (in questo caso tuttavia si deve porre attenzione ai
fraintendimenti che possono essere nati a seguito della traduzione italiana della forma dialettale del toponi-
mo: per esempio ricordiamo il caso del toponimo lucano Timpa del Ponto, letteralmente “spuntone di roc-
cia”, divenuto nella cartografia italiana Timpa del Ponte, anche se in effetti nella zona non si trova nessun
ponte). Altre preziose fonti di informazioni sono assicurate dalla cartografia del passato, dalle fonti letterarie
e documentarie, dall’antichità fino alle soglie dell’età contemporanea, che ci conservano toponimi oggi
scomparsi. Infine da non sottovalutare le testimonianze orali, grazie alle quali possiamo conoscere microto-
ponimi che non hanno mai avuto una documentazione scritta.

8. Le fonti medievali

Il Medioevo per molti aspetti, quali le forme dell'insediamento umano, è il diretto continuatore
dell'antichità. In particolare l'organizzazione della Chiesa, che era stata modellata in base alla situazione am-
ministrativa e alla rete cittadina del mondo tardoantico, conservò a lungo quelle forme, anche molti secoli
dopo il tramonto dell'Impero romano. La stessa presenza di pievi rurali in molti casi riproduce il quadro inse-
diativo delle campagne di età romana.

La documentazione medievale, benché spesso piuttosto trascurata, si rivela dunque preziosissima


per la ricostruzione del quadro geografico e topografico antico. Le cronache cittadine e le fonti storiche ge-
nerali, in cui i riferimenti all'antichità sono spesso frutto di ricostruzioni erudite o di tradizioni popolari prive
di reale fondamento, devono per la verità essere vagliate con grande prudenza e, in genere, non si rivelano di
grande utilità: vi sono naturalmente preziose eccezioni, come quella del Liber pontificalis Ecclesiae Raven-
natis di Agnello, un'opera del VIII sec. d.C. che costituisce la migliore fonte in nostro possesso per la rico-
struzione della topografia di Ravenna anche per il periodo romano. In genere, tuttavia, le informazioni più
preziose ci giungono da documenti non strettamente storiografici, come per esempio l'enorme massa di atti e
contratti privati che il Medioevo ci ha lasciato, nei quali numerosi sono gli accenni a dati della toponoma-
stica o alla presenza di opere monumentali antiche oggi scomparse.

Un particolare interesse rivestono le cosiddette Rationes decimarum. Si tratta dei documenti conta-
bili presentati dagli esattori diocesani alla camera apostolica del Vaticano, in cui sono registrate le esazioni
della decima, una tassa regolarmente riscossa dal Papato nel XIII e XIV secolo dagli enti ecclesiastici (par-
rocchie, pievi rurali, etc.). Le Rationes decimarum riportano, diocesi per diocesi, l’ente, con la sua dedicazio-
ne e la sua ubicazione, e la somma pagata o da pagare; gli enti esentati sono talvolta riportati in un elenco a
parte. Gli elenchi delle parrocchie e delle pievi rurali che dipendevano dalle singole diocesi ci consentono
indirettamente di ricostruire l'estensione di queste ultime. Si è spesso ripetuto che i confini delle diocesi me-
dievali riproducevano quelli dei precedenti municipi di età romana: l'affermazione va certamente attenuata e
limitata, ma è tuttavia indubbio che le Rationes, soprattutto se supportate dall'esame di altri elementi, siano

35
una fonte preziosa per la conoscenza del territorio antico. Come esempio riportiamo un frammento relativo al
pagamento della decima nella diocesi di Aversa, in Campania, periodo 1308-1310:

La decima del 1308-1310 nel territorio di Aversa


In Atellano, diocesis Aversane. Presbiter Nicolaus de Cancia capellanus S. Andree solvit tar.
III 1/2. Presbiter Aversanus capellanus S. Symeonis tar. I. Presbiter Iohannes Frandine capel-
lanus S. Blasii tar. III. Presbiter Iohannes Fractulone capellanus S. Mauri de Villa fracta tar.
III gr. VII. Presbiter Nicolaus de Ambrosio capellanus S. Antonii de eadem villa tar. IIII 1/2.
Presbiter Laurentius Severini capellanus S. Barbare de villa Caynone tar. VII. Presbiter Tho-
mas de Fracta capellanus S. Sossi tar. III. Presbiter Angelus de Marco capellanus S. Laurentii
de Foyano tar. III gr. IIII. Presbiter Iohannes de Donato capellanus S. Marie tar. II. Presbiter
Martinus capellanus S. Marie de villa Casale Valentiano tar. I 1/2. […]. Summa unc. II, tar.
XXVII, gr. VII.

Il frammento si riferisce ad un’area della diocesi di Aversa, quella relativa alla antica città romana di
Atella, oggi scomparsa. Come sopra ricordato, per ogni ente ecclesiastico è ricordato il sacerdote titolare, la
dedica al santo e la somma versata, indicata in once, tarì e grana, monete medievali di valore decrescente.
Alla fine compare la somma totale che era stata esatta dal territorio in questione.

8. Per saperne di più

• In generale sulle fonti per lo studio della storia antica: L. Cracco Ruggini (a cura di), Storia an-
tica: come leggere le fonti, Bologna 1996 [BAU 930.07 A 6]; M. Crawford – E. Gabba – F.
Millar – A. Snodgrass, Le basi documentarie della storia antica, Bologna 1984 [BAU 930.07 A
2/1].

• Un commento sulla fonte letteraria più importante per l’Italia antica: N. Biffi, L'Italia di Stra-
bone. Testo, traduzione e commento dei libri V e VI della "Geografia", Genova 1988.

• Sulle iscrizioni latine: I. Calabi Limentani, Epigrafia latina, Milano 1974 (o successiva edizio-
ne) [BAU STO/D 417.7 Cal o STO/C C/a Cal 1/1]

• Sulla numismatica: F. Catalli, Numismatica greca e romana, Firenze 2003 [BAU 737.4 G 11];
E. Arslan, La numismatica antica, Bologna 2005 [BAU 737.4 A A/7].

• Sui metodi della ricerca archeologica: C. Renfrew - P. Bahn, Archeologia: teorie, metodi, prati-
ca, Bologna 1995 [BATS 930.1 Ren 1]

• Sull’indagine archeologica attraverso le fotografie aeree: L’Archéologie aerienne dans la Fran-


ce du Nord, all’indirizzo http://www.archeologie-aerienne.culture.gouv.fr/; Laboratorio di Ar-
cheologia dei Paesaggi & Telerilevamento - Università di Siena, all’indirizzo
http://www.lapetlab.it/.

• Sul paesaggio come fonte: F. Cambi - N. Terrenato, Introduzione all’archeologia dei paesaggi,
Roma 1994 [BAU ART 930.102 TEC 2].

• Sulla toponomastica: L. Quilici - S. Quilici Gigli, Introduzione alla topografia antica, Bologna
2007, partic. pp. 23-61 [BAU 937 E1].

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CAPITOLO III

IL QUADRO ETNICO DELL’ITALIA AGLI INIZI DEL V SEC. A.C.:


L’ITALIA MERIDIONALE

1. Un mosaico di popolazioni

Iniziamo con questo capitolo ad esaminare il quadro etnico che si presentava in Italia agli inizi del V
sec. a.C., nel momento cioè in cui Roma iniziò, prima timidamente, poi con maggiore decisione, quel movi-
mento espansionistico che la portò ad acquisire l’egemonia sull’intera penisola.

Il primo dato che emerge con maggiore evidenza è in questo momento storico la nostra penisola si
presenta come un mosaico molto variegato di popolazioni, ancora lontano dall’essere conosciuto in modo
approfondito. Le fonti a nostra disposizione in effetti ci consentono soprattutto di ricostruire un quadro di ca-
rattere culturale, in cui emergono differenze sul piano linguistico (note soprattutto dalla documentazione epi-
grafica delle lingue preromane) e, in minor misura, sul piano della cultura materiale. Queste unità culturali
tuttavia non corrispondono necessariamente a realtà politiche ben definite: conosciamo in effetti almeno un
caso in cui due popolazioni che hanno la medesima lingua, i Campani e i Sanniti, erano divise sul piano poli-
tico e militare da una profonda ostilità. Non sempre tuttavia la nostra documentazione ci consente di giungere
a conclusioni simili per altre aree dell’Italia antica: infatti le notizie che ci vengono dall’epigrafia e
dall’archeologia sono solo parzialmente integrabili con le informazioni che ci vengono dalla storiografia gre-
ca e romana, piuttosto scarse e comunque marcatamente di parte, dal momento che vennero prodotti in am-
bienti (le poleis greche, Roma) spesso ostili alle popolazioni italiche.

Il quadro
linguistico comples-
sivo dell’Italia antica
agli inizi del V sec.
a.C. può essere rico-
struito secondo la
mappa riportata alla
figura 1. Da rilevare
che il grande blocco
delle lingue italiche,
qui segnato in colore
ocra potrebbe essere
ulteriormente distinto
in aree in cui si par-
lavano i singoli idio-
mi appartenenti a
questa grande fami-
glia (il piceno,
l’umbro, il latino, le
lingue osche dell’Ap-
pennino centro-
Figura 1: le lingue dell’Italia preromana meridionale, il sicu-

37
lo, lo stesso venetico, parlato nell’area segnata in questa cartina in colore azzurro chiaro).

Una situazione
molto frastagliata era pre-
sente nella stessa Italia me-
ridionale, dalla quale inizie-
remo il nostro esame. Nella
mappa riportata alla figura 2
colpisce la presenza dei
Greci (in verde) sulle coste
di quasi tutta l’Italia meri-
dionale e della Sicilia, tran-
ne che nella sezione più oc-
cidentale, occupata dai Car-
taginesi, che parlavano e
scrivevano in una lingua
semitica, non appartenente
alla grande famiglia indoeu-
Figura 2: il quadro linguistico dell’Italia meridionale nel periodo preromano ropea. L’interno della re-
gione era invece in genere
occupato da popoli che parlavano lingue italiche, abbastanza affini al latino (e per questo a noi abbastanza
ben note, pur con qualche incertezza).Facevano eccezione l’area pugliese, qui evidenziata in colore azzurro,
le cui varie tribù scrivevano in una lingua probabilmente indoeuropea, ma comunque molto diversa dalle al-
tre lingue italiche, e quella campana, in particolare con le città di Capua e Nola, in cui si parlava un idioma
che apparentemente non ha rapporti con le altre lingue conosciute del mondo antico, l’etrusco.

2. La Sicilia

Il popolamento della Sicilia era caratterizzato da una netta differenziazione tra l’interno, abitato da
popolazioni indigene, e le coste, sulle quali si erano stanziati coloni venuti dall’esterno. Non ci soffermeremo
sulla presenza greca nella parte orientale dell’isola, ma spenderemo piuttosto qualche parola sulla presenza
dei Fenici nelle regioni occidentali. La frequentazione della Sicilia da parte dei Fenici, originari di una regio-
ne che oggi corrisponde all’incirca al Libano, era assai antica ma in un primo momento si limitò alla creazio-
ne di empori commerciali, nei quali si scambiavano merci con le popolazioni dell’interno, senza che si desse
vita ad alcun insediamento stabile. Il massiccio arrivo, nella parte orientale e meridionale della Sicilia, di co-
loni greci che potevano mettere in crisi l’egemonia commerciale fenicia nel Mediterraneo occidentale, indus-
se anche i Fenici a consolidare le loro posizioni, sotto la direzione della più potente colonia fenicia
d’Occidente, Cartagine. Si ebbe così la nascita di alcune vere e proprie città, sostanzialmente dipendenti da
Cartagine: Panormos (l’odierna Palermo), Solunto, pochi chilomentri a ovest della stessa Palermo, e infine
Mozia, un’isoletta a pochissima distanza dalla costa, nei pressi dell’attuale Marsala. Questi sviluppi sono
chiaramente delineati dal grande storico greco Tucidide, che scrisse alla fine del V sec. a.C. ed ebbe modo di
occuparsi delle vicende della Sicilia a proposito della grande spedizione intrapresa da Atene contro Siracusa
nel 415-413 a.C.:

Tucidide, VI, 2, 6: la presenza fenicia in Sicilia


Abitarono poi anche i Fenici tutte le coste della Sicilia, avendo occupato i promontori sul mare
e le isolette vicine, a causa del commercio con i Siculi. Ma quando poi i Greci vi giunsero per

38
mare, lasciata la maggior parte dell’isola, abitarono a Mozia, Solunto e Panormo, vicino agli
Elimi, avendole confederate, fidando nell’alleanza degli Elimi e perché, da quel punto, Carta-
gine dista dalla Sicilia di una brevissima navigazione.

I Fenici spesso sceglievano per i loro


insediamenti collocazioni molto caratteristi-
che, aperte sul mare, spesso su penisole o ad-
dirittura isolette a breve distanza dalla costa,
facilmente difendibili e rifornibili via mare,
sul quale i Fenici (o Punici, come sono chia-
mati anche i Fenici d’Occidente, in particolare
i Cartaginesi) avevano in genere il controllo,
in ragione della loro abilità di navigatori. E-
semplare in questo senso la già citata Mozia,
come risulta molto chiaramente dalla fotogra-
fia aerea riportata alla figura 3. La città sorge-
va su un’isoletta di circa 45 ettari, unita alla
terraferma da una diga, oggi sommersa dal
mare. Venne fondata probabilmente alla fine
del VIII a.C. e fino agli inizi del IV sec. a.C.

Figura 3: un’immagine dall’alto dell’insediamento fenicio fu uno dei principali caposaldi della “provin-
di Mozia. cia” cartaginese di Sicilia. Nel 397 a.C. tutta-
via venne espugnata dal tiranno di Siracusa
Dionisio I e non si riprese più dal saccheggio che seguì. Oggi è l’insediamento fenicio meglio noto della Sici-
lia dal punto di vista archeologico: se ne conoscono in particolare le mura difensive, il caratteristico santuario
in cui si celebravano sacrifici, il tophet (un elemento tipico delle città puniche, di cui avremo modo di parlare
in seguito, a proposito della presenza fenicia in Sardegna) il porto artificiale (il bacino rettangolare visibile
nella parte destra dell’immagine) e alcuni quartieri abitativi.

Fin dal VI sec. a.C. uno stato di ostilità latente, che non di rado sfociò in conflitto aperto, divise il
dominio cartaginese della Sicilia occidentale dalle poleis greche della parte orientale dell’isola, in particolare
la maggiore di esse, Siracusa. Tra questi contrasti cercarono di barcamenarsi le popolazioni indigene della
Sicilia, accostandosi ora ai Greci, ora a Cartaginesi, nel tentativo di conservare la propria indipendenza. Tra
tali popoli ricordiamo i Sicani, ai quali la tradizione greca attribuiva un’origine africana o spagnola, stanziati
nella parte centro-occidentale dell’isola, gli Elimi, forse di antichissima provenienza anatolica, nella parte
occidentale dell’isola, intorno alla città di Segesta e a diretto contatto con la provincia dei Cartaginesi, dei
quali in genere furono alleati, e infine i Siculi, una popolazione di lingua italica, stanziata nella parte orienta-
le dell’isola. Le fonti letterarie che possediamo a proposito di queste popolazioni, oltre a trattare del loro co-
involgimento nei diversi conflitti greco-cartaginesi, si soffermano in particolare sulle loro origini mitiche,
come possiamo vedere nei due passi seguenti, tratti ancora una volta dall’opera di Tucidide:

Tucidide, VI, 2, 2: l’origine dei Sicani


I primi abitatori dopo di loro [ovvero dopo le mitiche popolazioni dei Lestrigoni e dei Ciclopi]
sembra che siano stati i Sicani, a loro dire anteriormente ai Lestrigoni e ai Ciclopi per il fatto
che erano autoctoni, mentre secondo verità erano Iberi scacciati dai Liguri dal fiume Sicano
nell’Iberia. E quindi da loro l’isola fu chiamata Sicania, mentre prima era chiamata Trinacria:
anche ora abitano la Sicilia, nelle parti occidentali.

39
Tucidide, VI, 2, 3: l’origine degli Elimi

Espugnata Ilio, alcuni dei Troiani, sfuggiti agli Achei, approdarono con le loro imbarcazioni in
Sicilia, dove si stabilirono ai confini con i Sicani; e tutti insieme ebbero il nome di Elimi: Erice
e Segesta furono le loro città. Ad essi si aggiunsero e con loro abitarono alcuni dei Focei che,
al ritorno da Troia, erano stati sbattuti dalla tempesta prima in Libia e di là poi in Sicilia.

Al di là della credibilità della provenienza spagnola dei Sicani e asiatica degli Elimi (un dato peral-
tro che, a parere di alcuni archeologi, trova conferma nella cultura materiale delle due popolazioni) interessa
qui vedere il metodo storiografico che Tucidide applica alla materia. Colpisce in particolare il fatto che per
questo storico, come in genere tutta la storiografia antica, il mito ha una dimensione perfettamente reale: Tu-
cidide non esita infatti a ricorrere ai dati dell’epica omerica, ricordando i Lestrigoni e i Ciclopi, che secondo
l’Odissea Ulisse avrebbe incontrato in Sicilia, o identificando gli Elimi con Troiani che erano sfuggiti alla
distruzione della loro città. A questi dati che vengono dal mito si mescolano tradizioni orali, che forse Tuci-
dide aveva recepito con l’intermediazione di Antioco di Siracusa: si registra infatti la pretesa dei Sicani stessi
di essere una popolazione antichissima, stanziata da tempo immemorabile in Sicilia. Un altro elemento carat-
teristico è la facilità con le quale quelle che potrebbero essere casuali assonanze sono assunte come prove per
creare connessioni: l’esistenza di un fiume di nome Sicano in Iberia (la Spagna dei Greci) è sufficiente per
ipotizzare un’origine spagnola della tribù dei Sicani. È del tutto ovvio che il nostro atteggiamento davanti a
questo genere di argomentazioni deve essere molto più prudente.

Se dal punto di vista politico gli Elimi,


pur conservando la loro indipendenza, guardarono
piuttosto con simpatia i Cartaginesi, da un punto di
vista culturale essi subirono l’influenza della civil-
tà greca. Il loro centro principale, Segesta, in effet-
ti dal punto di vista archeologico non si distingue
affatto da una qualsiasi poleis greca di Sicilia, co-
me bene illustra l’esempio del suo tempio dorico,
eretto nel V sec. a.C. (figura 4).

Figura 4: Segesta, il tempio dorico, V sec. a.C. Tradizioni diverse da quelle degli Elimi e
dei Sicani riguardavano la più orientale delle po-
polazioni indigene della Sicilia, i Siculi. Ancora
una volta è opportuno lasciare la parola a Tucidide:

Tucidide, VI, 2, 4: l’arrivo dei Siculi in Sicilia


I Siculi dall’Italia (ivi infatti abitavano) passarono in Sicilia, fuggendo gli Opici, su zattere, se-
condo la leggenda e la verosimiglianza, dopo aver aspettato di passare allo spirare di un vento
favorevole o forse sbarcando in qualche altro modo. Nell’Italia vi sono ancora dei Siculi e il
paese fu chiamato Italia da Italo, un re dei Siculi che aveva questo nome. Giunti in Sicilia,
grosso popolo com’erano, vinsero in battaglia i Sicani, li scacciarono verso le parti meridionali
e occidentali del paese e fecero sì che la terra si chiamasse Sicilia invece di Sicania. La abita-
rono possedendo, dopo la traversata, le parti migliori della terra, circa 300 anni prima della ve-
nuta dei Greci in Sicilia. Anche ora posseggono le regioni centrali e quelle volte a settentrione.

Come si accennava in precedenza, secondo la tradizione antica, i Siculi erano una popolazione di o-
rigine italica: secondo Tucidide sarebbero giunti in Sicilia, dopo un avventurosa traversata dello stretto di
Messina, per sfuggire alla pressione delle popolazioni osche, di cui avremo modo di parlare in seguito (gli
Opici di Tucidide); una frazione del popolo siculo, ai tempi in cui scriveva lo storico, era ancora stanziata

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nell’estrema regione meridionale della Calabria, e addirittura da un loro re, Italo, avrebbe preso il nome
l’Italia. Lo storico registra poi la vittoria dei Siculi sui Sicani, che portò ad un cambiamento del nome
dell’isola in cui si insediarono.

Stanziati nella parte centrale e settentrionale della Sicilia, i


Siculi si trovavano a diretto contatto con le colonie greche che
punteggiavano le coste dell’isola. I loro rapporti politici con le
potenze elleniche furono piuttosto tormentati, ma le relazioni
culturali furono costanti. I Siculi tuttavia non si manifestano come
pedissequi imitatori delle forme dell’arte greca: in particolare nella
scultura alcune delle loro realizzazioni dimostrano una certa
originalità, che si riaggancia piuttosto alle tradizioni iconografiche
delle altre popolazioni greche. Ne una dimostrazione la statuetta di
una divinità femminile assisa in trono, rinvenuta nel sito
archeologico di Terravecchia di Granmichele e risalente alla seconda
metà del VI sec. a.C. (figura 5)
Dal punto di vista linguistico i Siculi si differenziavano piut-
tosto nettamente dalle altre popolazioni indigene della Sicilia: quanto
conosciamo della loro lingua fa presumere un’appartenenza al ceppo
indoeuropeo delle lingue italiche, con più di una somiglianza con il
latino. Va tuttavia precisato che la nostra conoscenza dell’idioma dei
Siculi è lontana dell’essere approfondita, a causa della scarsità di te-
Figura 5: dea in trono da Terravecchia
di Granmichele, seconda metà del VI testi a noi noti.
sec. a.C., Siracusa, Museo Archeologi-
co Regionale Un esempio abbastanza interessante è testimoniato da
un’iscrizione graffita su una coppa a figure nere, oggi conservata
presso la Soprintendenza Archeologica per la Sicilia occidentale di
Palermo).Il testo è molto semplice: Ata Tuka emi, che potremmo tra-
durre “Io sono di Ata Tuka”. Ritroviamo qui un motivo piuttosto
frequente nell’epigrafia arcaica, quello dell’oggetto parlante: il sog-
getto che parla in effetti è il manufatto stesso, che ricorda il suo esse-
re di proprietà di un certo personaggio; del resto la funzione delle
iscrizioni graffite su oggetti mobili è quasi sempre quella di definire
la sua appartenenza. L’alfabeto utilizzato è ovviamente quello greco;
per quanto concerne la lingua, a parte la forma onomastica indigena
Figura 6: coppa a vernice nera con Ata Tuka, che dovrebbe riferirsi ad una donna, abbiamo la voce ver-
graffito, V sec. a.C., Palermo, Soprin- bale emi “io sono”, che trova uno stretto confronto con il greco eimi;
tendenza Archeologica per la Sicilia
occidentale resta incerto se l’assonanza derivi dalla comune radice indoeuropea
del siculo e del greco oppure se la dama sicula Ata Tuka stesse scri-
vendo in greco, con un’ortografia divergente da quella corretta forse a causa del modo in cui i Siculi pronun-
ciavano il greco.

Per un breve periodo, intorno alla metà del V sec. a.C. parve possibile che i Siculi riuscissero a con-
quistare una completa autonomia politica: in questi anni effetti la Sicilia stava attraversando una fase di stasi:
Cartagine era ancora prostrata dalla sconfitta di Imera, che le era stata inflitta dai Greci di Siracusa e Agri-
gento (480 a.C.), mentre le città greche erano indebolite dai contrasti interni, in una fase che vedeva il pas-
saggio da regimi tirannici a governi democratici. Approfittando di questa situazione il leader siculo Ducezio
(evidente la connessione fra questo nome e il termine dux, “comandante, guida”) diede vita ad una confede-

41
razione delle città sicule che aveva come centro un santuario dedicato ai Palikói, divinità indigene. Minaccia-
te dall’espansionismo di Ducezio le due principali città greche della Sicilia, Siracusa e Agrigento, seppero
tuttavia ritrovare per un momento la capacità di collaborare: vistosi alle strette, Ducezio fu costretto a conse-
gnarsi ai Siracusani che lo esiliarono a Corinto (450 a.C.). Qualche anno dopo il comandante siculo tentò una
rivincita: tornato in Sicilia, fondò una nuova capitale a Calacte (445 a.C.); tuttavia la morte, avvenuta nel 440
a.C., gli impedì di portare a termine i suoi piani; con la sua scomparsa tramontò definitivamente l’idea di uno
stato unitario siculo.

3. La Sardegna

L’altra grande isola mediterranea, la Sardegna, presenta alcune analogie con la Sicilia nel quadro del
popolamento: anche qui vi è una differenziazione piuttosto netta tra l’interno, abitato da popolazioni indige-
ne, e le coste, sulle quali si erano insediate genti venute dall’esterno, che tuttavia nel caso della Sardegna si
identificano esclusivamente con i Fenici (nonostante qualche tentativo, ai Greci non riuscì mai di insediarsi
in questa regione).

I principali insediamenti fenici della Sardegna (che come i loro omologhi della Sicilia caddero pro-
gressivamente sotto l’egemonia di Cartagine) si trovavano sulle coste: Karalis, l’odierna Cagliari, Nora e
Sulcis sulla costa meridionale, Tharros sulla costa occidentale, su una stretta penisola che chiude il golfo di
Oristano.

Tra i centri meglio noti


dal punto di vista archeologico vi è
indubbiamente Sulcis, in una posi-
zione che ricorda da vicino quella
di Mozia, in Sicilia: anche in que-
sto caso ci troviamo in un’isoletta,
quella di S. Antioco, che sorgeva a
breve distanza dalla costa sarda, in
una posizione particolarmente op-
portuna da punto di vista commer-
ciale e difensivo. Il complesso più
spettacolare di Sulcis è probabil-
mente il caratteristico santuario,
detto tophet, che rimase in uso per
lunghissimo tempo, dall’VIII sec.
a.C. fino alla piena età romana (fi-
gura 7).Il tophet è un luogo molto
discusso delle città fenicie: secon-
do gli autori greci e latini vi si sa-
Figura 7: il tophet di Sulcis, VIII sec. a.C. – età romana rebbero infatti svolti sacrifici uma-
ni di bambini; va tuttavia rilevato
che queste testimonianze provengono da una parte pregiudizialmente ostile a Fenici e Punici, che aveva ogni
interesse a dimostrare la crudeltà della loro cultura. Gli studiosi sono piuttosto inclini oggi a ritenere che le
poche testimonianze di resti umani che si rinvengono nei tophet siano da riferire a bambini morti alla nascita
e che i Fenici sacrificassero soprattutto animali, a somiglianza di quanto avveniva in altre civiltà del mondo
antico.

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Dal tophet di Sulcis proviene anche la famosa stele a
frontone triangolare riprodotta a figura 8: vi è raffigurato pro-
babilmente un sacerdote, ornato di una sorta di stola sulla spal-
la sinistra e recante nella mano destra un simbolo, il cosiddetto
ankh, che in Egitto rimandava al concetto di vita e che nel
mondo fenicio era collegato alla grande dea Tanit, una delle
patrone di Cartagine, che i Romani identificheranno con Giu-
none. La stele pare risalire al IV-III sec. a.C.

La stele sulcitana ci fornisce l’occasione per ricordare


che, attraverso l’intermediazione fenicia, l’Italia venne in con-
tatto anche con un’altra grande civiltà del mondo antico, quella
egiziana. I rapporti culturali tra la Fenicia e l’Egitto erano in
effetti molto stretti: le due regioni non sono molto distanti tra
loro e l’Egitto per alcuni periodi della sua lunga storia aveva
avuto il controllo politico di tutta la regione siro-palestinese. I
coloni fenici che si stanziarono nel Mediterraneo occidentale,
Figura 8: stele da Sulcis, IV-III sec. a.C., S. An- sulle coste dell’Africa settentrionale, della Sicilia, della Sarde-
tioco, Museo Comunale gna e della Spagna, portano dunque con loro le influenze che
avevano ricevuto dalla civiltà egiziana.

Ne dà una chiara dimostrazione la piccola testa femmi-


nile riprodotta alla figura 9, che proviene da un altro importante
centro archeologico della Sardegna fenicia, Tharros, ma che og-
gi si conserva al Museo Archeologico Nazionale di Cagliari: non
serve essere esperti di storia dell’arte antica per notare le forti
somiglianze tra questa opera e la statuaria egizia.

Come si accennava in precedenza, l’egemonia politica


fenicio-punica in Sardegna rimase quasi esclusivamente confi-
nata alla striscia costiera. Vi fu qualche tentativo di spingere la
zona di influenza alla regioni interne (tentativi testimonianti tra
l’altro dalla presenza di una fortezza cartaginese a Monte Sirai,
presso Carbonia), che però venne sostanzialmente bloccato dalla
tenace resistenza delle popolazioni sarde. Questo peraltro sa-
rebbe solo il primo episodio di una sorta di “filo rosso” che at-
traversa, secondo alcuni storici, tutte le vicende della Sardegna,
e che è dato proprio dalla strenua opposizione a tutti gli invasori,
dai Fenici ai Romani, dai Saraceni ai Genovesi, fino ad arrivare
Figura 9: testa femminile da Tharros
(Cagliari, Museo Archeologico Nazionale) sulle soglie dell’età contemporanea ai Piemontesi.

A condurre questa resistenza fu una civiltà che si è soliti chiamare “nuragica”, dal nome dalla sua
principale realizzazione architettonica, i nuraghi, presenti in migliaia di esemplari in tutto il territorio della
Sardegna. Come si vede dalla figura 10, che raffigura il nuraghe di S. Antine, presso Torralba, si trattava di
strutture a forma di torre circolare, create con un sapiente uso di pietre connesse a secco (proprio dal termine
sardo nur, “mucchio di pietre”, deriverebbe il nome con il quale sono conosciuti oggi questi monumenti).
Assai discussa è la funzione di questi edifici: in passato l’ipotesi prevalente vi vedeva delle postazioni milita-
ri, di carattere difensivo, mentre oggi si tende piuttosto ad enfatizzare la loro funzione religiosa e residenzia-
le, come sede delle autorità politiche e religiose di una tribù, il che potrebbe giustificare l’esistenza di alcuni

43
complessi, come quello di
Su Nuraxi a Barumini, in
cui la torre era circondata da
un vero e proprio villaggio,
composto da decine di abi-
tazioni.

La civiltà nuragica
ha una storia antichissima:
si sviluppa già nell’età del
Bronzo, verso il XV sec.
a.C., giungendo a notevoli
realizzazioni, come gli stessi
nuraghi in campo architet-
tonico e, in campo artistico,
Figura 10: il nuraghe di S. Antine, Torralba da una sorprendente produ-
zione di bronzetti, di cui
possiamo ammirare un esempio a figura 11. Del resto una delle grandi ricchezze dell’isola era rappresentata
dalla sue miniere: ancora oggi la Sardegna è la regione dell’Italia che presenta le maggiori ricchezze del sot-
tosuolo; nell’antichità tuttavia non si sfruttava, come si è fatto sino a pochi anni fa, i ricchi giacimenti di car-
bone (l’uso del carbone minerale rimase sostanzialmente ignoto agli antichi), ma piuttosto le vene metallife-
re, che alimentavano, oltre alla produzione artistica locale, anche una intensa esportazione.

I promettenti sviluppi della civiltà nuragica furono bruscamente interrotti dalla creazione di una sor-
ta di “impero cartaginese”, che riunì sotto la sua egemonia i centri fenici della costa. I Sardi si ritirarono ver-
so l’interno, instaurando con gli invasori forme di interazione culturale, ma opponendo ad essi una risoluta ed
efficace resistenza che assicurò loro l’autonomia politica. Del resto il valore dei guerrieri sardi era univer-
salmente riconosciuto: quando non erano impegnati nel combattere contro i Cartaginesi si posero al loro ser-
vizio in qualità di mercenari, distinguendosi per il loro coraggio.

Il carattere guerriero della civiltà sarda è ben dimostrato dal


bronzetto proveniente dalla località di Teti (figura 11), che rappresenta
appunto un guerriero: le capacità straordinarie di questo personaggio
sono simboleggiate in modo piuttosto inconsueto da una duplicazione di
alcuni dei suoi organi: vediamo in particolare quattro occhi e quattro
braccia, oltre a due scudi e un alto elmo dotato di antenne; un modo in-
genuo, eppure efficace, per affermare che questo combattente valeva
per due. Qualche parola finale merita l’antica lingua sarda, da non con-
fondere ovviamente con l’attuale sardo, un idioma neolatino che, nel
suo tipico conservativismo insulare, ha conservato molti tratti comuni al
latino. Il sardo antico invece non era una lingua indoeuropea, per quel
poco che ne possiamo sapere: in effetti i Sardi non ci hanno lasciato te-
stimonianze scritte e tutto quello che noi sappiamo della loro lingua
viene da citazioni di nomi di luogo e di persona che troviamo nelle fonti
Figura 11: bronzetto con guerriero greche e latine.
sardo da Teti, Cagliari, Museo Ar-
cheologico Nazionale

44
4. Le popolazioni italiche del Meridione

Passando finalmente alla penisola, esaminiamo in primo luogo un gruppo di popolazioni strettamen-
te affini dal punto di vista etnico e linguistico (parlavano tutte un dialetto italico, abbastanza affine al latino,
che in genere i linguisti definiscono osco), ma che diedero vita a compagni politiche differenti. Si tratta dei
Sanniti, stanziati nelle zone interne dell’Appennino abruzzese, molisano e campano, dei Campani, che in-
vece abitavano le pianure della Campania centrale, a contatto con i Greci e gli Etruschi, degli Aurunci, loca-
lizzati ai confini tra Lazio e Campania, dei Lucani, stanziati nelle zone interne della Basilicata e della Cala-
bria settentrionale, e infine dei Bruzi, che, staccatisi dai Lucani per secessione alla metà del IV sec. a.C. oc-
cuparono le zone interne dell’attuale Calabria.

Partendo dalla più settentrionale di queste popolazioni, i Sanniti, va immediatamente precisato che
non si trattava di una popolazione unitaria, ma di una lega, formata da quattro tribù distinte, quelle dei Pentri,
dei Carricini, dei Caudini e degli Irpini, che potevano federarsi in caso di bisogno, per esempio per condurre
un’azione militare comune, come quelle che opposero la Lega Sannitica a Roma tra il IV e III sec. a.C. Il ter-
ritorio delle tribù si divideva a sua volta in diversi pagi, un termine latino che può essere tradotto con “canto-
ni”, corrispondenti alle diverse vallate appenniniche. Entro questi pagi i Sanniti vivevano sparsi per villaggi:
il Sannio in effetti era privo di città in senso proprio.

Figura 12: Il teatro del santuario di Pietrabbondante

Uno dei centri più rilevanti del territorio sannita (e dei siti archeologici meglio noti di questa civiltà)
si trova nel comune di Pietrabbondante, in provincia di Isernia, nell’area un tempo occupata dalla tribù dei
Pentri. L’identificazione tra Pietrabbondante e Bovianum Vetus, che le fonti letterarie ricordano come uno dei
maggiori centri del Sannio, è tuttora discussa, ma indubbiamente il santuario che sorgeva in località Calcatel-
lo, a circa 1.000 m di quota era un punto di riferimento religioso per tutte le tribù sannitiche, tanto che talvol-
ta lo si definisce un santuario federale dei Sanniti, dotato anche di una forte valenza politica. I resti che oggi
possiamo ammirare, relativi in particolare a due templi e ad un teatro (vedi figura 12), risalgono alla piena età
della romanizzazione.

La tradizione storiografica e geografica degli antichi ha conservato la memoria di una provenienza


da nord delle tribù sannitiche, che in effetti appartenevano a quell’ondata migratoria indoeuropea che era
giunta in Italia da settentrione, attraverso le Alpi. Le migrazioni dei Sanniti, secondo gli autori antichi, a-
vrebbero avuto talvolta come guida un animale sacro, che le avrebbe guidate nelle loro sedi definitive. Ecco
come Strabone ricorda in effetti lo stanziamento della tribù sannitica degli Irpini nei territori delle attuali
province di Avellino e Benevento:

45
Strabone, V, 4, 12: l’origine del nome degli Irpini
Viene poi il popolo degli Irpini, anch'essi di ceppo sannita. Ricevettero questo nome dal lupo
che fece da guida alla loro migrazione: i Sanniti chiamano hirpos il lupo. Confinano con i Lu-
cani dell'entroterra.

Il territorio occupato dai Sanniti a seguito di queste migrazioni occupava un'area prevalentemente
montuosa, nella quale era certo possibile lo sfruttamento agricolo, in particolare nei fondovalle e sugli alti-
piani, ma che era soprattutto favorevole alla pastorizia. In ogni caso il Sannio, se comparato con altre regioni
dell'Italia, era relativamente povero e incapace di sostenere la forte crescita demografica che pare caratteriz-
zare le popolazioni sannitiche: l'unico rimedio alle carestie era spesso la migrazione verso terre più fertili.

Fu essenzialmente per questo motivo che nel corso del V sec. a.C. alcune popolazioni, staccatesi dai
Sanniti, occuparono le ricche regioni pianeggianti e costiere della Campania: nel 423 a.C. i nuovi venuti, che
assunsero il nome di Campani, si impadronirono della grande città di Capua, un tempo etrusca. Appena due
anni dopo anche la greca Cuma cadde nelle mani dei nuovi venuti, mentre la popolazione greca fu costretta a
rifugiarsi nella vicina Neapolis (l’odierna Napoli); nella stessa Neapolis, nei decenni seguenti, si assiste ad
una lenta infiltrazione di elementi campani, che affiancano la vecchia classe dirigente ellenica.

Nelle loro nuove sedi le popolazioni campane, sotto l'influenza di Etruschi e Greci, si allontanarono
progressivamente, dal punto di vista culturale e politico, dai loro connazionali rimasti nel Sannio, adottando
tra l'altro l'organizzazione politica della città-stato. Alcune di esse erano riunite, nella prima metà del IV sec.
a.C., in una Lega Campana, che aveva il suo centro principale in Ca-
pua, un tempo etrusca. Nonostante le affinità etniche, i contrasti poli-
tici tra i Sanniti e i Campani si vennero sempre più acuendo, fino a
sfociare in guerra aperta, come avremo modo di vedere trattando della
I guerra sannitica.

La forte affinità etnica tra Campani e Sanniti è tuttavia dimo-


strata dall’identità della loro lingua. Tra le testimonianze più interes-
santi del dialetto osco parlato dai Sanniti ricordiamo la cosiddetta Ta-
vola di Agnone, una tabella in bronzo incisa su entrambi i lati, rinve-
nuta in questa cittadina, oggi in provincia di Isernia (vedi figura 13).
La tavoletta appare ancora oggi corredata da una catenella, all’altro
capo del quale si trova un chiodo: al momento del ritrovamento que-
sto era ancora infisso in una pietra: evidente la tavoletta doveva essere
stata in antico fissata ad un muro. Il testo, uno dei più lunghi a noti in
lingua osca, contiene il calendario dei sacrifici che si dovevano com-
piere presso un luogo sacro, curiosamente denominato con la parola
osca húrz, che significa “l’orto”, e un inventario degli altari che vi si
trovavano. L’iscrizione è stata datata su base paleografica, ovvero sul-
Figura 13: la Tavola di Agnone, la base della forma delle lettere, alla metà del III sec. a.C., ma potreb-
Londra, British Museum
be anche essere posteriore di qualche decennio.

Fra i documenti più caratteristici prodotti dai Campani presentiamo qui una cosiddetta diovila, rap-
presentante di una particolare classe di iscrizioni di carattere religioso (vedi figura 14), incisi in genere su
blocchi di tufo o su laterizi: il nome deriva dalla parola osca diuvila o iuvila, che appare di frequente in questi
testi e che stata messa in rapporto con Giove; designava probabilmente un oggetto che veniva usualmente
dedicato al dio, di cui tuttavia non conosciamo la natura. Nell’esempio riportato a figura 14 siamo davanti ad
un documento opistografo, ovvero scritto su entrambi i lati, proveniente da Capua; su uno di essi troviamo

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inciso il seguente testo: Kluvatiium / pumperias pustm[---], che
potremmo tradurre: “Della famiglia dei Clovatii. Alle feste ulti-
me…”. Da notare il vocabolo pumperias, che è in rapporto con il
greco pompé, “festa”, e l’incompleto aggettivo pustm[---], è da
confrontare piuttosto con il latino postumus, “postumo”. La lingua
parlata dai Campani e dai Sanniti trova dunque dei paralleli in
lingue a noi molto meglio note, come il latino e il greco, e proprio
questo ci assicura la possibilità di comprendere i testi in osco.
Non crea particolari difficoltà nemmeno l’alfabeto utilizzato: in
questa iscrizione è usato il caratteristico alfabeto osco, derivante
da quello greco; altri testi sono redatti in alfabeto greco o, più tar-
di, latino.

Alla medesima famiglia linguistica dei Campani e dei


Sanniti apparteneva anche la popolazione che abitava la regione
immediatamente a sud, i Lucani. Le affinità tra queste diverse
popolazioni sono interpretate dagli autori antichi in termini di de-
Figura 14: rivazione: secondo Strabone infatti i Lucani altro non sarebbero
una diovila con testo in lingua osca, Ca- che dei coloni dei Sanniti.
pua, Museo Campano

Strabone, Geografia, VI, 1, 2: i Lucani, coloni dei Sanniti


Prima che venissero i Greci non c'erano ancora i Lucani, ma questi luoghi erano occupati da
Conii ed Enotri. Avendo poi i Sanniti accresciuto di molto la loro potenza, cacciarono Conii ed
Enotri ed insediarono in questi territori alcuni Lucani; frattanto anche i Greci occupavano am-
bedue i litorali fino allo Stretto e per lungo tempo Greci e Barbari si fecero reciprocamente
guerra.

Nella visione di Strabone la parte più meridionale dell’Italia, corrispondente alle odierne regioni del-
la Basilicata e della Calabria, sarebbe stata occupata dalle antichissime popolazioni dei Conii e degli Enotri,
la cui identificazione con una delle culture archeologiche note nella regione nell’età protostorica non è affatto
certa. Questi originari abitanti sarebbero poi stati travolti dalle popolazioni di lingua osca provenienti da
nord, che assunsero il nome di Lucani. Significativamente Strabone mette in evidenza, nell’ultima parte del
suo brano, come contemporaneamente a queste trasformazioni che interessarono le aree italiche dell’interno,
sulle coste del Tirreno e dello Ionio si andassero sviluppando gli insediamenti coloniali greci.

Anche in questa regione, come abbiamo visto accadere in Sicilia e in Sardegna, si realizza dunque
una dicotomia tra il popolamento delle coste e quello dell’interno, una dicotomia che si risolve, dal punto di
vista politico e militare, in opposizione e scontro aperto. Particolarmente nel V e IV a.C. tra i Lucani e le città
greche della costa vige uno stato quasi permanente di ostilità, talvolta fomentata dalla Siracusa, che sfrutta la
minaccia lucana per tenere sotto pressione le città greche dell’Italia meridionale a lei ostili. L'offensiva luca-
na culmina nella conquista dell’antica città greca di Posidonia (che i Lucani ribattezzano Paiston e i Romani
chiameranno Paestum, nome con il quale la località è ancora oggi nota) intorno al 420 a.C. Qui le magnifiche
lastre tombali raccontano, nello stile dell'arte greca, la storia dei nuovi conquistatori. Particolarmente fre-
quente è il tema del "ritorno del guerriero", rappresentato anche nella lastra di figura 15, rinvenuta in una del-
le necropoli di Posidonia. Opere come questa e come le altre che si sono rinvenute nella Paiston lucana ci
fanno capire ancora una volta come il confronto politico e militare non escluda i proficui scambi culturali: gli
artisti che lavorano a queste opere sono profondamente ellenizzati o, forse più probabilmente, sono essi stessi

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dei Greci, che continuano ad impiegare il linguaggio figu-
rativo dei decenni precedenti, quando ancora Posidonia era
una poleis greca indipendente.

I soggetti raffigurati nelle necropoli della Paiston


lucana sono spesso dei guerrieri: questo dato si accorda
perfettamente con quel poco che dalle fonti letterarie sap-
piamo delle strutture politiche dei Lucani, che sembrano
aver sovrapposto alle istituzioni delle poleis greche da loro
conquistate una sorta di democrazia militare, in cui il pote-
re è nelle mani di chi è in grado di portare le armi. Le città
lucane, in caso di guerra, potevano unirsi in una lega, sce-
gliendo un comandante supremo dell’esercito federale che
nelle fonti greche è noto con il titolo di basileus, “re”.

Negli scontri con i Greci i Lucani sembrano fidare


soprattutto sulla loro forte cavalleria. È quanto ci conferma
anche un’altra famosa testimonianza dell’arte lucana, la
statuetta in bronzo di un cavaliere lucano ritrovata a Gru-
mentum, un centro dell’interno della regione, risalente an-
Figura 15: il tema del “ritorno del cavaliere”,
cora agli anni centrali del VI sec. a.C. (figura 16).
lastra 12 della necropoli di Andriuolo, presso
Paestum
Anche i bellicosi Lucani avrebbero tuttavia dovuto
subire uno scacco militare intorno alla metà del IV sec. a.C.,
in occasione della secessione che diede origine ad una nuo-
va entità politica, quella dei Bruzi (i Brettii dei Greci), una
popolazione che ci interessa in particolare, anche se la sua
parabola storica fu relativamente breve, tra IV e II sec. a.C.,
perché assunse il controllo di buona parte dell’attuale regio-
ne Calabria. Lo sviluppo dell’interesse sui Bruzi è relativa-
mente recente, anche dal punto di vista dell’indagine arche-
ologica, ma le intense ricerche che sono state condotte negli
decenni stanno rivelando una civiltà che, dal punto di vista
della cultura materiale, della produzione epigrafica e numi-
smatica, presenta forti caratteri di ellenizzazione. Il quadro
che emerge contrasta abbastanza nettamente con quello che
ci viene presentato dalle fonti letterarie, che caratterizzano i
Bruzi come popolazione “barbara”, che si oppone strenua-
mente ai Greci prima e ai Romani poi.
Figura 16: statua in bronzo di un cavaliere luca-
no da Grumentum, 5560-550 a.C. circa, Londra, Sulla formazione del nuovo popolo dei Bruzi an-
British Museum cora una volta le testimonianza fondamentale ci viene forni-
ta dal geografo Strabone:

Strabone, Geografia, VI, 1, 4: l’origine dei Bruzi


Un poco oltre rispetto ai Lucani ci sono i Brettii, che abitano una penisola nella quale è inclusa
un'altra penisola, quella cioè, il cui istmo va da Scillezio fino al golfo di Ipponio. Il popolo
suddetto ha ricevuto il nome dai Lucani: infatti questi ultimi chiamano «Brettii» i ribelli. Que-
sti Brettii dunque, che prima erano dediti alla pastorizia al servizio dei Lucani, essendo poi di-

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venuti liberi per l'indulgenza dei loro padroni, si ribellarono, a quanto dicono, quando Dione
fece guerra a Dionisio e sollevò tutti questi popoli gli uni contro gli altri.

Il popolo dei Bruzi dunque nasce da una secessione nei confronti dei Lucani negli anni delle lotte tra
Dionisio II di Siracusa e il suo oppositore Dione, intorno al 356 a.C. In senso stretto, il passo straboniano pa-
re implicare che sia stato lo stesso Dione a sollecitare la ribellione di Bruzi, forse per farne uno strumento di
pressione contro le città greche della Calabria meridionale alleate con il tiranno di Siracusa, in particolare
Locri; ma è pure possibile interpretare il passo del geografo in senso più sfumato, ipotizzando che i Bruzi ab-
biano approfittato della confusa situazione politica e militare per affrancarsi dall'egemonia lucana. Al di là di
questi problemi interpretativi, anche le altre fonti letterarie greche e latine concordano sostanzialmente con
Strabone nell’affermare che l’identità “nazionale” dei Bruzi si forma intorno alla metà del IV sec. a.C., da
una secessione dai Lucani. I protagonisti della secessione sarebbero stati elementi di origine servile, subordi-
nati all’élite dirigente lucana, impegnati in attività di sfruttamento dei pascoli e dei boschi della Sila.

Dopo la secessione la definizione della nuova entità politica


avvenne grazie a notevoli capacità militari, che permisero ai Bruzi di
affermarsi prima contro i Lucani, poi contro le città greche. In effetti
nonostante la forte ellenizzazione culturale, i rapporti politici fra
Bruzi e poleis greche furono costantemente ostili: sappiamo che i
Bruzi attaccarono e ridussero a malpartito Turii e Crotone, giungen-
do addirittura conquistare Hipponion, la futura Vibo Valentia. Fu
proprio questa ostilità a determinare l’atteggiamento, fortemente cri-
tico, delle fonti greche e poi di quelle latine nei confronti dei Bruzi.

Per quanto concerne l’assetto istituzionale, i Bruzi svilup-


parono solo lentamente organi di governo comuni, che comunque
lasciarono sempre molto spazio alle iniziative di singoli gruppi. Uno
struttura politica caratterizzata da unità cantonali e da qualche città
(Petelia, nel territorio dell’attuale Strongoli, Consentia, Pandosia,
città di discussa localizzazione), largamente autonome. Al contempo
tuttavia i Bruzi diedero vita ad una lega che agiva soprattutto in caso
di guerra, esprimendo un esercito comune; centro di questa Lega dei
Bruzi sarebbe stata Consentia. Le testimonianze sull’unità federale
dei Bruzi non vengono solo dalla tradizione letterarie, ma anche dal-
la documentazione numismatica: alla figura 17 abbiamo la riprodu-
Figura 17: moneta d’argento della Lega
zione di una moneta d’argento risalente al III sec. a.C., che riporta al
dei Bruzi, III sec. a.C., (Siracusa, Mu-
seo Archeologico Regionale) dritto, la testa del dio Ares (il Marte dei Romani), barbata con elmo,
al rovescio Nike, la dea della Vittoria che incorona un trofeo e la le-
genda in greco Brettion, (“dei Brettii”). La moneta non solo è prova dell’esistenza di un organismo federale
che aveva diritto di battere moneta, ma illustra anche il carattere bellicoso della cultura bruzia, con il suo ri-
chiamo a divinità guerriere come Ares e Nike.

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Tra i siti archeologici più interessanti della civiltà
bruzia è da ricordare senza dubbio quello di Castiglione di
Paludi, a poca distanza dalla costa ionica, nei pressi di
Rossano. Qui colpiscono in modo particolare le potenti
fortificazioni che difendevano l’abitato (vedi figura 18),
risalenti al IV sec. a.C.: le mura e le torri, costruite impie-
gando grosse pietre connesse a secco, riflettono una tecnica
edilizia e una concezione difensiva che veniva dalla Gre-
cia. A Castiglione di Paludi si conosce tuttavia anche un
edificio semicircolare, forse un luogo di riunione
dell’assemblea popolare, e alcune abitazioni.

Figura 18: le mura di Castiglione di Paludi

Il debito culturale che lega i Bruzi al


mondo greco si dimostra non solo in architettu-
ra, come a Castiglione, ma anche nei corredi fu-
nebri rinvenuti nelle necropoli, che spesso con-
servano oggetti di prestigio prodotti in botteghe
delle poleis greche dell’Italia meridionale e della
stessa Grecia. Così accade per esempio nella ne-
cropoli bruzia di Marcellina, sulla costa tirrenica
settentrionale della Calabria. Nel sito di Marcel-
lina sorgeva con ogni probabilità la città greca
Figura 19: Rhyton a testa di mulo, da una tomba maschi-
le a camera di Marcellina, seconda metà del IV sec. a.C. di Laos, una subcolonia di Sibari, che verosi-
milmente cadde anch’essa vittima dell’espansio-
nismo dei Bruzi. Qui, in una tomba a camera della seconda metà del IV
sec. a.C., destinata ad accogliere una sepoltura maschile, è stato ritrovato
un caratteristico rhyton, un recipiente utilizzato per bere il vino, che pre-
senta un’ampia apertura superiore e un più stretto foro nella parte inferio-
re; spesso il rhyton si presenta nella forma di una testa animale, come
nell’esemplare di figura 19, che riproduce una testa di mulo.

L’indagine archeologica, oltre a queste significative testimonian-


ze degli stretti rapporti culturali e commerciali tra mondo bruzio e mondo
greco, ha rivelato anche alcune manifestazioni artistiche più originali
dell’arte indigena. È il caso, per esempio di una scultura in pietra, sempre
Figura 20: testa masgile da-
Castiglione di Paludi, IV sec. proveniente dal sito di Castiglione di Paludi, che rappresenta un volto
a.C.? (Sibari, Museo della Si- maschile (figura 20). La scultura, che si data ipoteticamente al IV sec.
baritide)
a.C., mostra una notevole distanza dai canoni artistici della grecità.

5. Le popolazioni “illiriche” della Puglia

Per concludere la nostra rassegna sul quadro etnico dell’’Italia meridionale nel V sec. a.C. non resta
che parlare brevemente delle popolazioni insediate nell’area dell’antica Puglia.

50
In quest’area la situazione etnica si presenta molto complicata,
a causa della stratificazione di diversi nomi di popoli nel corso del tem-
po: nelle fonti greche più antiche prevale per tutte queste genti il nome di
Iapigi, ma nel corso del tempo appaiono etnici distinti, che individuano,
nella parte settentrionale della regione, corrispondente all’incirca
all’odierna provincia di Foggia, i Dauni; al centro, nel territorio dell’at-
tuale provincia di Bari, i Peucezi (chiamati Poediculi nelle fonti latine) e
infine nella parte meridionale, corrispondente alla regione del Salento, i
Messapi, con le affini tribù dei Calabri e dei Sallentini, che emergono in
età romana e hanno rispettivamente dato il nome alla regione in età im-
periale (Calabria) e ai giorni nostri (Salento). Nell’estrema parte setten-
trionale della regione abitava una popolazione distinta, che parlava un
dialetto osco: sono gli Apuli, il cui nome finirà per imporsi su quello
delle altre etnie e per applicarsi all’intera regione, che alla fine dell’età
repubblicana e in età imperiale si chiamerà infatti Apulia. Gli originari
Apuli erano tuttavia insediati in un’area molto più ristretta, nella zona del
Figura 21: vaso da Canosa,
Gargano e di Teanum Apulum (oggi S. Paolo di Civitate, in provincia di
fine IV sec. a.C. (Bari, Museo Foggia), che era il loro centro principale.
Archeologico)
Gli stessi autori antichi, davanti al quadro etnico della Puglia,
dimostrano di avere le idee abbastanza confuse. Ne è testimonianza il
passo seguente di Strabone:

Strabone, Geografia, VI, 3,1: le popolazioni della Puglia


Dopo aver descritto l'Italia antica fino a Metaponto, dobbiamo
parlare delle regioni che la seguono. La prima è la Iapigia: i Gre-
ci la chiamano Messapia, gli indigeni la distinguono in Salento
(la parte intorno al promontorio Iapigio) e Calabria. A nord di
queste si trovano le popolazioni chiamate in greco Peucezi e
Dauni, ma gli indigeni chiamano Apulia tutta le regione dopo la
Calabria e Apuli la popolazione. Alcuni, in particolare i Peucezi,
sono chiamati anche Pedicli.

I rapporti tra queste diverse popolazioni e i Greci stanziati sulle


coste, in particolare nella grande città di Taranto, non sono troppo dis-
simili da quelli che abbiamo visto essere in atti tra le popolazioni indi-
gene e le colonie greche in Lucania e nel Bruzio: dal punto di vista poli-
tico e militare si succedono gli scontri, con alterna fortuna, ma dal punto
di vista culturale gli scambi sono fecondi. Le popolazioni della Puglia in
effetti assorbono ed interpretano a loro modo la civiltà greca, con esiti
artistici quantomeno originali. In questo senso è significativa soprattutto
l’abbondante produzione vascolare di Canosa, di cui abbiamo un esem-
pio nella figura 21.

Sono proprio le testimonianze della cultura materiale a caratte-


rizzare meglio le popolazioni pugliesi: i Dauni, per esempio, sono parti-
colarmente noti per la loro straordinaria produzione di stele antropomor-
Figura 22: statua-stele della fe (le cosiddette “statue-stele della Daunia”, di cui si conoscono circa
Daunia, Museo di Manfredonia
2.000 esempi, per lo più conservati nel Museo di Manfredonia), che ha il

51
suo inizio in realizzazioni che risalgono alla fine del X sec. a.C., ma trova la sua più compiuta espressione fra
il VII e il VI sec. a.C. Si tratta di segnacoli funerari, posti al di sopra del tumulo che accoglieva le spoglie del
defunto. Le stele riproducevano schematicamente un corpo umano, molto spesso di sesso femminile, come
nell'esemplare qui presentato a figura 22. Le teste erano abitualmente di forma conica per le donne, di forma
ovoidale o sferica per gli uomini, e talvolta presentavano incisi i tratti somatici essenziali. La lastra, che rap-
presentava il corpo del defunto, era incisa con rappresentazioni di ornamenti e armi, ma anche con motivi
geometrici, figure di animali e uomini, talvolta scene di battaglia, di caccia o di vita quotidiana; particolare
rilievo hanno le raffigurazioni delle esequie funebri.

L’originalità artistica dei Dauni, dimostrata dalle loro statue-stele e da una peculiare produzione ce-
ramica, si deve con ogni probabilità al fatto che, essendo la più settentrionale delle popolazioni della Puglia,
meno intensi erano stati i contatti culturali con Taranto e dunque la civiltà figurativa della Daunia ebbe la
possibilità di svilupparsi più liberamente, almeno in una prima fase. Nel corso del tempo, tuttavia, gli influssi
ellenici si fecero sentire anche in questa regione (ricordiamo che in effetti Canosa, della quale abbiamo giù
segnalato la singolare ceramica, era ascritta ai Dauni, sebbene si trovasse ai margini meridionali del loro ter-
ritorio), portando all’abbandono del modello delle stele antropomorfe.

Immediatamente a sud dei Dauni era


stanziata la popolazione dei Peucezi. Come
abbiamo detto, l’area da loro occupata corri-
spondeva all'incirca all'odierna provincia di
Bari, una città che in effetti nacque come inse-
diamento dei Peucezi, così come anche Egna-
tia. I centri dei Peucezi meglio noti dal punto
di vista archeologico sono tuttavia quelli
dell'interno, come per esempio quello di Monte
Sannace, nei pressi di Gioia del Colle, di cui si
può vedere un’immagine a figura 23. L’inse-
Figura 23: l’insediamento di Monte Sannace diamento, la cui occupazione inizia verso il
VII sec. a.C., fiorì particolarmente nel IV e III sec. a.C. Spetta-
colari i resti delle diverse cinte murarie, di cui quella più ester-
na abbracciava un’area ben più vasta di quella occupata
dall’abitato, forse allo scopo di accogliere temporaneamente le
popolazioni delle campagne minacciate da un attacco esterno e
di proteggere alcuni campi, che potevano essere coltivati in ca-
so di un lungo assedio.

Anche la più meridionale delle civiltà della Puglia an-


tica, quella messapica, si può caratterizzare per una particolare
produzione artistica, una singolare forma di vasi detti "trozzel-
le", dai dischi che ne decorano i manici (“trozze”, appunto, nel
dialetto pugliese); ne possiamo vedere un esempio nell'imma-
gine riportata a figura 25, che raffigura un vaso messapico del
IV sec. a.C. oggi conservato a Lione (ma numerosissime sono
le trozzelle che si possono ammirare nel Museo Archeologico
di Brindisi); l’esemplare qui riportato esibisce un’elegante de-
Figura 24: trozzella messapica del IV sec. corazione floreale, ma nella maggior parte dei casi le trozzelle
a.C., Lione, Musée des Beaux-Arts
presentavano semplici motivi geometrici.

52
Dauni, Peucezi e Messapi, sebbene distinti dal punto di vista politico, parlavano tutti la medesima
lingua, tuttora malnota, che apparteneva alla grande famiglia indoeuropea, ma era assai diversa da tutte le al-
tre lingue italiche, accostandosi piuttosto agli idiomi parlati sulla sponda orientale dell’Adriatico, detti “illiri-
ci”. Per convenzione questa lingua è chiamata messapica, dal momento che la maggior parte delle testimo-
nianze proviene proprio dal territorio dei Messapi. Vediamone un esempio nell’iscrizione riportata alla figura
25.

Figura 25: capitello in pietra leccese con iscrizione messapica, da Ceglie

L’iscrizione appare su un capitello in pietra locale, rinvenuto a Ceglie, in provincia di Brindisi, ed è


incisa in caratteri greci. Il testo si può leggere come segue: Ana Aprodita Lahona Theoto/ridda Hipaka-thi.
Theotoriddath, / [Th]aotoras Keosorrihi biliva, Nell’interpretazione data da C. De Simone, Gli studi recenti
sulla lingua messapica, «Italia omnium terrarum parens», Milano 1989, p. 657 la traduzione potrebbe esse-
re: “Ad Afrodite Ana da parte di Lahona Theotoriddath e di Hipaka. Theotoriddath, figlia di Thaotor Keosor-
res”. Si tratta di una dedica ad una divinità, Aprodita, che è l’interpretazione locale di Afrodite - Venere, con
l'appellativo, non ben chiarito, di Ana, da parte di una donna di nome Lahona Theotoriddath: la formula o-
nomastica è bimembre: il primo elemento, Lahona, era il nome personale della dedicante, il secondo sembra
essere una sorta di patronimico, derivato da quello del padre di Lahona, Thaotor. Codedicante, insieme a La-
hona, è una tal Hipaka (la particella -thi rappresenta una congiunzione enclitica, che assolve la medesima
funzione che ha la particella -que, in latino). Hipaka è designata da un solo nome, per questo motivo si è pen-
sato che fosse una donna di condizione inferiore, forse una schiava: in effetti per la sola Lahona Theotorid-
dath si precisa che era figlia (biliva) di Thaotor Keosorres. Anche quest'ultimo personaggio è designato da
due nomi: un nome personale, Thaotor, e quello che sembra essere un gentilizio (dunque un nome di fami-
glia, con una funzione simile a quella del nostro cognome): Keosorres.

6. Per saperne di più

• Sulla presenza cartaginese in Sicilia: V. Tusa, I Fenici e i Cartaginesi, «Sikanie. Storia e civiltà
della Sicilia greca», a cura di G. Pugliese Carratelli, Milano 1986, pp. 577-631 [BAU STO
COL. PROVV. 938 PUG 5]

• Sulle popolazioni indigene della Sicilia: V. La Rosa, Le popolazioni della Sicilia: Sicani, Siculi,
Elimi,«Italia omnium terrarum parens», Milano 1989, pp. 3-110 [BAU STO/C I A/a 2].

• Sulle antiche civiltà della Sardegna: Ichnussa: la Sardegna dalle origini all’età classica, Mila-
no 1993 [BAU ART 937.9 S 1], particolarmente l’articolo di F. Barreca, La Sardegna e i Feni-
ci, pp. 351-417.

53
• Sulle civiltà della Campania preromana: alcuni articoli in G. Pugliese Carratelli (a cura di), Sto-
ria e civiltà della Campania, I, L’evo antico, Napoli 1991 [BAU ART 945. 72 S1]; B.
D’Agostino, Le genti della Campania antica, «Italia omnium terrarum alumna», Milano 1988,
pp. 531-589 [BAU STO/C I A/a 2]

• Sui Sanniti: E.T. Salmon, Il Sannio e i Sanniti, Torino 1985 [BAU STO/D 937. 5 SAL]; A. La
Regina, I Sanniti, «Italia omnium terrarum parens», Milano 1989, pp. 301-402 [BAU STO/C
A/a 2]; D. Monaco, I Sanniti. Archeologia dell’antico Sannio
http://xoomer.alice.it/davmonac/sanniti/index.html

• Sui Lucani: A. Pontrandolfo Greco, I Lucani: etnografia e archeologia di una regione antica,
Milano 1982 [BAU ART 937. 7 A LUC/4]; B. D’Agostino, Le genti della Lucania antica, «Ita-
lia omnium terrarum parens», Milano 1989, pp. 193-246 [BAU STO/C A/a 2]

• Sui Bruzi: P.G. Guzzo, I Brettii. Storia e archeologia della Calabria preromana, Milano 1989
[BAU ART 937. 7 A CAL/1]; M. Lombardo, I Brettii, «Italia omnium terrarum parens», Mila-
no 1989, pp. 249-297 [BAU STO/C A/a 2]; G. De Sensi Sestito (a cura di), I Bretti, I, Cultura,
lingua e documentazione storico-archeologica, Soveria Mannelli 1995 [BAU ART 937. 7 A
CAL/2]

• Sui Messapi e i Peucezi: F. D’Andria, Messapi e Peuceti, «Italia omnium terrarum alumna»,
Milano 1988, pp. 653-715 [BAU STO/C I A/a 2]; F. D’Andria (a cura di), Archeologia dei
Messapi, Bari 1990 [BAU ART 937. 7 A PUG/5]; A. Ciaccio et alii, Monte Sannace: gli scavi
dell’acropoli (1978-1983), Galatina 1989 [BAU STO?]

• Sui Dauni: E.M. De Juliis, L’origine delle genti iapigie e la civiltà dei Dauni, «Italia omnium
terrarum alumna», Milano 1988, pp. 593-650 [STO/C I A/a 2].

54
CAPITOLO IV

IL QUADRO ETNICO DELL’ITALIA AGLI INIZI DEL V SEC. A.C.:


L’ITALIA CENTRALE

Da un punto di vista
strettamente etnico e linguistico
il quadro del popolamento
dell’Italia centrale agli inizi del
V sec. a.C. si presenta come no-
tevolmente più semplice rispetto
alla situazione che abbiamo os-
servato per il Meridione (figura
1). Due grandi gruppi linguistici
si fronteggiano, con il Tevere
come confine: a sud-est del fiu-
me i popoli parlanti lingue itali-
che, appartenenti alla famiglia
indoeuropea; a nord-ovest del
Tevere le genti di lingua etrusca,
un idioma non indoeuropeo.

Figura 1: il quadro linguistico nell’Italia centro-settentrionale nell’età pre- Tuttavia, se dal piano
romana
linguistico passiamo a quello
politico, la prospettiva si com-
plica notevolmente: tra le popolazioni italiche si possono individuare i Latini sulle coste del Lazio centro-
meridionale, con le loro città-stato, tra le quali possiamo annoverare anche Roma, i Sabini del Lazio interno
e dell’attuale provincia dell’Aquila e le cosiddette popolazioni sabelliche minori stanziate anch’esse tra Ap-
pennino laziale e Abruzzo, gli Umbri dell’Umbria orientale e infine i Piceni nelle Marche centro-
meridionali. La stessa popolazione etrusca, piuttosto omogenea dal punto di vista culturale, sotto il profilo
politico non costituiva affatto un’unità, ma era suddivisa in molte città-stato.

1. I Latini e Roma

Originariamente la popo-
lazione dei Latini abitava un’area
piuttosto ristretta, compresa tra il
Tevere a nord-ovest e l’area del
Colli Albani a sud-est: era questa
la regione nota con il nome di La-
tium vetus, il “Lazio vecchio” o
“Lazio originario” (figura 2. Nella
parte meridionale dell’attuale re-
gione Lazio era occupata da popo-
lazioni affini linguisticamente ai
Latini, ma a loro ostili: gli Aurun-
Figura 2: l'area del Latium Vetus

55
ci, ai quali abbiamo accennato nel capitolo precedente, e i Volsci e gli Equi, di cui si dirà più avanti in questo
stesso capitolo; questa area divenne più tardi nota con il nome di Latium adiectum, “Lazio aggiunto”, poiché
venne aggregato al Latium vetus dopo la conquista romana.

La lingua parlata dai Latini consente di ascriverli con certezza a quelle stirpe indoeuropea giunte in
Italia da nord: questa popolazione mostra particolari affinità linguistiche, oltre che con i vicini Falisci, di cui
avremo modo di parlare in seguito in questo stesso capitolo, anche con i Siculi stanziati prima nell’estremo
sud della penisola e poi in Sicilia. Molto tuttavia si discute sul momento di arrivo dei Latini nelle loro sedi
storiche: un indizio è dato dalla documentazione archeologica, che mostra verso il X sec. a.C. un mutamento
nei rituali funerari praticati nel Lazio, dall’inumazione all’incinerazione, che come vedremo in seguito, pare
caratteristica dei Latini; questo cambiamento è stato interpretato da alcuni studiosi in rapporto all’arrivo di
genti latine nei territori che diventeranno il Latium vetus.

In questa età antichissima il popolamento del Lazio antico ha un carattere prevalentemente sparso,
per fattorie e piccoli aggregati rurali, anche se inizia a formarsi qualche roccaforte, in cui la popolazione delle
campagne poteva rifugiarsi in caso di pericolo. Attraverso il mar Tirreno, tuttavia, il Lazio è particolarmente
aperto agli influssi della civiltà greca: ed è per questo motivo che il modello della polis penetra piuttosto pre-
cocemente nelle regione, già alla metà dell’VIII a.C.: iniziano dunque a formarsi insediamenti di carattere
cittadino di una certa rilevanza, i più importanti dei quali erano Alba Longa, Lavinium (Pratica di Mare),
Praeneste (Palestrina), Tibur (Tivoli) e Tusculum. Nonostante questo frazionamento politico il ricordo
dell’unità originaria del popolo latino non venne meno, come dimostra la formazione di una Lega delle città

Figura 3: Capanna in terracotta da Castelgandolfo,


IX sec. a.C. (Roma, Museo Gregoriano Etrusco) Figura 4: Statua di offerente in terracot-
ta da Lavinio

latine, che vedremo agire in età storica, in rapporto a Roma.

Tra i prodotti più caratteristici della cultura materiale dei Latini vanno senza dubbio ricordate le co-
siddette urne cinerarie a capanna. Si tratta di copie in miniatura di capanne, modellate in terracotta, in cui
le genti latine erano solite porre le ceneri del defunto: in effetti, i Latini praticavano questo rituale di sepoltu-
ra, nell’Italia antica più diffuso rispetto alla inumazione. Questa particolarità del rito funerario riveste per noi

56
una singolare importanza, dal momento che ci permette indirettamente di farci un’idea abbastanza precisa
dell’architettura domestica dei Latini. Nella figura 3 è riprodotta una di queste urne a capanna, ritrovata nella
località di Castelgandolfo e risalente probabilmente al IX sec. a.C.

Tra i siti archeologici più rilevanti del Latium vetus da ricordare Lavinium, corrispondente
all’odierna Pratica di Mare. Lavinio oltre ad essere un importante insediamento, era anche una sorta di “città
santa” dei Latini, un ruolo che le derivava dalla presenza di alcuni notevoli luoghi sacri: il cosiddetto santua-
rio dei tredici altari, dal numero di are che vi si sono rinvenute, un’area sacra dedicata al culto dell’eroe tro-
iano Enea, che proprio qui, secondo la leggenda, sarebbe sbarcato al termine dei suoi viaggi, e infine il cele-
bre santuario della dea Minerva. Da quest’ultima località proviene un’interessante serie di statue, terracotta.
Alla figura 4 vediamo in particolare una bella statua di un devoto che reca offerte alla dea (nelle mani sembra
in effetti stringere dei frutti, forse delle primizie da offrire a Minerva).

Tra le città del Latium vetus dobbiamo annoverare la stessa Roma, le cui origini sono strettamente
intrecciate con la popolazione dei Latini, a partire dallo stesso mito della fondazione della città. La leggen-
da, in particolare nella versione resa canonica dall’Eneide di Virgilio e dalla Storia di Roma dalla sua fonda-
zione di Livio, alla fine del I sec. a.C., è molto nota, ma è comunque opportuno richiamarne gli elementi
principali. Secondo questo mito, l’eroe troiano Enea, dopo la distruzione della sua città da parte dei Greci, e
dopo aver affrontato numerose peripezie, sarebbe approdato sulle coste del Lazio. Qui avrebbe sposato Lavi-
nia, la figlia del re locale Latino il sovrano eponimo della stirpe Latina; in onore della giovane sposa Enea
avrebbe fondato come sua sede la città di Lavinium, governando su Troiani e Latini. Alla morte di Enea, suo
figlio Ascanio (detto anche Iulo e considerato il capostipite della gens Iulia, cui apparteneva Cesare), fondò a
sua volta un’altra città latina di nome Alba Longa, sulla quale regnarono poi dodici re suoi discendenti. Alla
dodicesima generazione la corte di Alba Longa è teatro di un dramma dal sapore shakespeariano: il vecchio
re Numitore è privato del trono dal perfido fratello minore Amulio; quest’ultimo, per impedire che la discen-
denza di Numitore possa vendicare il sovrano spodestato costringe la figlia di Numitore, di nome Rea Silvia,
a divenire Vestale, un sacerdozio che obbligava al voto di castità. Rea Silvia comunque rimane misteriosa-
mente incinta, si dice del dio Marte, e dà alla luce due gemelli, Romolo e Remo.Il tentativo di Amulio di eli-
minare i due bambini abbandonandoli in una cesta sulle acque del Tevere fallisce per una caso fortunato: la
cesta approda sulle rive su cui più tardi verrà fondata Roma e i due gemelli sono tratti in salvo e allattati da
una lupa; sarà poi il pastore Faustolo ad allevarli come i suoi figli. Una volta cresciuti e appresa la triste vi-
cenda del nonno Numitore e della madre Rea Silvia, Romolo e Remo, radunati attorno a sé un gruppo di co-
raggiosi pastori latini, partono alla riscossa: liquidato il malvagio Amulio, i gemelli restituiscono il regno di
Alba Longa a Numitore. L’orizzonte di Alba Longa tuttavia ormai però va stretto ai due coraggiosi figli di
Marte, che decidono di fondare, insieme ai loro compagni di avventure, una nuova città, nel punto esatto in
cui la cesta che li aveva trasportati da bambini si era fermata sulle sponde del Tevere: Roma.

Le leggende di Enea e di Romolo e Remo hanno ovviamente numerose consonanze con altri miti di
civiltà diverse, e sono forse più interessanti dal punto di vista dell’antropologia culturale che sotto il profilo
strettamente storico. Per il nostro oggetto di studio tuttavia questo patrimonio mitico è interessante perché
crea una linea di derivazione Lavinium – Alba Longa – Roma e connette chiaramente le origini della città sul
Tevere con la casa regnante della latina Alba Longa.

Non meno significativo è il seguito della vicenda, che ci riporta al momento della nascita di Roma,
un evento che gli antichi datavano con molta esattezza al 21 aprile del 753 a.C.: come è noto, tra i due gemel-
li Romolo e Remo sorge una contesa per stabilire chi dei due sarà il fondatore della nuova città. Gli dèi ac-
cordano il loro favore a Romolo, ma mentre questi si appresta a celebrare i riti di inaugurazione della nuova
città si accende lo scontro con Remo; nella rissa che segue Remo cade ucciso. L’intera vicenda è narrata con
la consueta vivacità da Livio:

57
Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione, I, 7, 1-3: la sanguinosa cronaca della fondazio-
ne di Roma
Si dice che a Remo per primo apparvero come segno augurale sei avvoltoi; e poiché, quando
ormai l’augurio era stato annunciato, se ne erano mostrati a Romolo il doppio, le rispettive
schiere li avevano acclamati re entrambi: gli uni pretendevano di avere diritto al regno per la
priorità nel tempo, gli altri invece per il numero degli uccelli. Venuti quindi a parole, dalla foga
della discussione furono spinti alla strage; fu allora che Remo cadde colpito nella mischia. È
più diffusa la tradizione che Remo, in atto di scherno verso il fratello, abbia varcato con un sal-
to le nuove mura e che per questo sia stato ucciso da Romolo infuriato, il quale, inveendo an-
che a parole, avrebbe aggiunto “Così d’ora in poi perisca chiunque altro varcherà le mie mu-
ra!”. Pertanto Romolo ebbe da solo il potere; fondata la città essa ebbe il nome dal suo fondato-
re.

Il racconto tradizionale, anche se nei suoi particolari è destituito da ogni fondamento di storicità (ba-
sti pensare che Livio, che visse in età augustea, scrisse circa 750 anni dopo la data presunta degli eventi e so-
stanzialmente non poteva basarsi su documenti anteriori al III sec. a.C.), ci conserva alcune preziose infor-
mazioni, anche se queste si riferiscono ad un età molto posteriore alla data tradizionale della fondazione di
Roma: la pratica di consultare la volontà degli dèi scrutando il volo degli uccelli, il rituale di fondazione di
una città, che prevedeva il tracciato con l’aratro del confine sacro, sul quale sarebbero sorte le mura, la conte-
sa tra i due fratelli, che è quasi un presagio del lungo periodo di guerre civili che aveva insanguinato Roma
negli anni immediatamente precedenti quelli in cui era vissuto Livio.

Passando dal piano delle leggende a quello della storia gli studiosi oggi ritengono che Roma non
venne creata in un giorno, ma fu piuttosto il risultato di un processo, lento e graduale, di fusione dei piccoli
villaggi che sorgevano sui famosi colli di Roma. Questa evoluzione, nella quale un ruolo preminente ebbe
forse il villaggio del colle Palatino, si sarebbe verificata alla metà dell’VIII sec. a.C. quindi ad una data sor-
prendentemente vicina a quella della tradizione letterarie, che verrebbe così almeno parzialmente confermata:
è quanto emerge dalla ricerche archeologiche, tra le quali quella, recente e clamorosa, relativa al rinvenimen-
to dei resti di una cinta muraria che secondo l’archeologo Andrea Carandini risalirebbe all’VIII sec. a.C. e
che è stato immediatamente ribattezzato “muro di Romolo”.

Scarsa credibilità storica hanno anche i rac-


conti relativi ai primi quattro re di Roma, alterna-
tivamente appartenenti all’etnia latina e a quella sa-
bina, che dopo un primo momento di ostilità avrebbe
avuto, secondo la tradizione, un ruolo fondamentale
nelle origini di Roma (ne parleremo più avanti nel
corso di questo stesso capitolo). Non si può tuttavia
dubitare dell’esistenza di un regime monarchico nel
momento delle origini di Roma. Lo confermano, tra
l’altro, alcune testimonianze documentarie, tra cui la
famosa iscrizione del cippo del Foro (figura 5). Si
tratta di un testo redatto in un latino molto arcaico,
che gli studiosi sono oggi orientati a datare al VI sec.
a.C. è che è stato rinvenuto nell’area del Foro roma-
no, al di sotto di un tratto di pavimentazione della
piazza che distacca dal resto del lastricato per il suo
colore nero (per questo motivo talvolta si parla
dell’iscrizione del Lapis niger, la “pietra nera”). Il

58
Figura 6: l’iscrizione del cippo del Foro, VI sec. a.C.
senso dell’iscrizione, a causa dei caratteri molto antichi in cui essa è incisa e soprattutto dell’arcaicità della
lingua, è ancora incerto, anche se si dovrebbe trattare del testo di un qualche regolamento di natura religiosa
(per questo motivo probabilmente, quando il cippo venne nascosto da una nuova pavimentazione del Foro il
punto in cui sorgeva venne contraddistinto dall’uso di una pietra nera, che in qualche segnalava il fatto che
l’area era sacra): per i nostri scopi ci limitiamo a ricordare che l’epigrafe riporta la parola recei, equivalente
al latino classico regi, ovvero “al re”, testimoniandoci quindi l’esistenza di questo istituto nella prima Roma.

Una seconda testimonianza ci viene sempre


dall’area del Foro, nel punto in cui sorgeva la cosiddetta
Regia, secondo la tradizione originariamente la dimora
del re, che in età storica divenne la sede di rappresentan-
za di un dei massimi magistrati della Repubblica di Ro-
ma, il pontifex maximus. In questa zona è stato rinvenuto
il frammento di una coppa in bucchero, la caratteristica
ceramica di tradizione etrusca, sulla quale appare incisa
la parola rex, a intendere probabilmente che questo og-
getto era di proprietà del re. Le caratteristiche tipologi-
che della coppa la fanno datare intorno al 530 a.C. (vedi
figura 6)

Dai pochi dati storicamente attendibili ricavia-


Figura 7: Graffito su coppa di bucchero, dalla Re- mo che questa prima monarchia latino-sabina non poteva
gia, 530 a.C. (Roma, Antiquarium del Palatino)
certo dirsi assoluta: nell’assumere le sue decisioni il re
era moralmente vincolato a tener conto del parere espres-
so da quel consiglio che in età storica sarà noto come Senato: questo consesso raccoglieva gli esponenti più
anziani e autorevoli delle gentes, quei gruppi di famiglie che si riconoscevano in un antenato comune e che
potremmo tradurre con il termine “clan”. Alla morte dei re i suoi poteri tornavano ai capi delle gentes, chia-
mati patres, che sceglievano un nuovo sovrano tra i personaggi più degni della carica: l’originaria monarchia
di Roma è insomma una monarchia elettiva, in cui il potere non si trasmette per via dinastica, di padre in fi-
glio.

I caratteri della regalità romana cambiano decisamente nella sua ultima fase, quella della cosiddetta
monarchia etrusca, corrispondente all’incirca a periodo che va dalla fine del VII alla fine del VI sec. a.C. La
fase prende il nome dal succedersi sul trono di Roma di tre sovrani originari appunto dell’Etruria: Tarquinio
Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo (anche se sull’origine del secondo di essi, Servio Tullio, esiste-
vano tradizioni che lo riconnettevano piuttosto all’etnia latina). In questo periodo storico le strutture politiche
di Roma si precisano e la città si dota di istituzioni di governo stabili ed efficienti. Lo stesso sovrano rafforza
i suoi poteri e li esercita in modo diretto, senza lasciarsi condizionare dal consiglio dei patres. La trasmissio-
ne del potere avviene ora per via dinastica, all’interno della famiglia dei Tarquini, alla quale lo stesso Servio
Tullio può essere ascritto: allevato nel palazzo di Tarquinio Prisco, gode della benevolenza della regina Ta-
naquilla e dopo la morte del vecchio sovrano ne sposerà la figlia, legittimando così la sua successione sul
trono di Roma.

In questa fase le indagini archeologiche testimoniano un notevole sviluppo edilizio di Roma: si può
dire che la vera e propria città nasce, almeno dal punto di vista urbanistico, con i sovrani etruschi. Ricordia-
mo a questo proposito le opere di canalizzazione e bonifica che portano, con la costruzione della Cloaca ma-
xima, al prosciugamento dell’area del Foro, che per la prima volta viene pavimentato proprio alla fine del VII
sec. a.C., divenendo il centro politico della città di Roma. Al tempo della monarchia dei Tarquini risale
l’inizio della costruzione del maggiore tempio di Roma, che sorgeva sul colle Campidoglio ed era dedicato a

59
Giove Ottimo Massimo; già nel VI sec. a.C. venne inol-
tre completata l’area sacra che si trova presso la chiesa di
S. Omobono, nel quartiere del Foro Boario, presso il Te-
vere. Vi sorgevano verso la metà del VI sec. a.C. due
templi, l’uno dedicato a Fortuna, l’altro a Mater Matuta,
la dea del Mattino. Dall’area di S. Omobono proviene
uno spettacolare gruppo statuario, in terracotta, rappre-
sentante la dea Minerva e l’eroe Ercole (vedi figura 7).

Lo sviluppo delle tendenze autocratiche della


monarchia etrusca, anche se aveva portato a notevoli rea-
lizzazioni urbanistiche, come quelle alle quali abbiamo
accennato, e anche se aveva fatto di Roma la potenza e-
gemone dell’intero Lazio, aveva scontentato la vecchia
aristocrazia dei patres che si riuniva nel Senato. I re della
dinastia dei Tarquini avevano poggiato il proprio potere
piuttosto su un rapporto con gli strati sociali inferiori di
Roma, tra i quali si potevano contare ora anche molti
immigrati dall’Etruria, attirati dalle possibilità economi-
che che la città offriva. Per questo motivo si ritiene per-
fettamente credibile il racconto tradizionale della cacciata
di Tarquinio il Superbo ad opera di una congiura di patri-
zi (i patricii, ovvero, alla lettera, i discendenti degli ori-
Figura 8: Minerva e Ercole, dall’area sacra di S.
Omobono, metà del VI sec. a.C.
ginari patres che sedevano nel Senato creato dal fondato-
re Romolo), sebbene alcuni particolari dell’episodio ab-
biano chiaramente un carattere romanzesco e la stessa figura di Tarquinio assomigli in modo sospetto in al-
cuni suoi tratti a quella dei tiranni greci. Di fatto con la data tradizionale del 510 a.C. si chiudeva la fase mo-
narchica della storia di Roma e si apriva il periodo repubblicano, che sarà particolarmente oggetto della se-
conda parte del nostro corso.

Prima di chiudere
questa lunga sezione dedi-
cata a Roma e ai Latini è
necessario un breve cenno
ad una popolazione che
abitava a nord del fiume
Tevere, nella regione
dell’Etruria, ma che aveva
profonde affinità etniche
con i Latini. Si tratta del
popolo dei Falisci. Questa
popolazione, insediata tra i
Figura 9: Coppa con Dioniso che abbraccia una Menade, dall’agro falisco, IV sec. monti Cimini e il corso del
a.C. (Roma, Museo Nazionale di Villa Giulia) Tevere, aveva i suoi centri
principali Questa popola-
zione, i cui centri principali in Falerii (odierna Civita Castellana) e Capena, parlava una lingue che, sebbene
fosse scritta in alfabeto etrusco, è strettamente imparentata col latino, anche se non può propriamente qualifi-

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carsi come un semplice dialetto latino. Ne abbiamo una testimonianza nella coppa riprodotta a figura 8:
l’elegante raffigurazione riporta la figura del dio Dioniso nell’atto di abbracciare una Menade, una delle don-
ne devote al dio; il legame con Dioniso ci fa comprendere che la coppa era destinata al consumo del vino, il
prodotto di cui questa divinità era patrona. Al consumo di vino è legata anche l’iscrizione in lingua falisca
dipinta all’esterno dell’immagine e che è la seguente: foied vino pafo, cra carefo, ovvero “oggi bevo vino,
domani mancherà”; in latino questa stessa frase suonerebbe hodie vinum bibam, cras carebo: la parentela
linguistica tra Falisci e Latini è evidente. Anche in questo caso la comunanza etnica non trovò riscontro nelle
vicende politiche: Falisci, insediati sulla sponda etrusca del Tevere, si schierarono regolarmente al fianco de-
gli avversari etruschi di Roma, prima con Veio, poi con Tarquinia. La ribellione di Falerii, che sorgeva in un
forte posizione, arroccata alle pendici dei monti Cimini, contro l’egemonia di Roma nel 241 a.C. fu l’ultimo
atto della città: Falerii venne distrutta e ricostruita nella pianura, dove l’insediamento era più facilmente con-
trollabile, con il nome di Falerii Novi.

2. I Sabini e le popolazioni sabelliche

Tra le popolazioni di stirpe italica dell’Italia centrale, quella la cui storia è più strettamente connessa
con le vicende di Roma è indubbiamente quella dei Sabini. Questa tribù era stanziata in due zone dai caratte-
ri abbastanza distinti: la prima era costituita dalle valli dei fiumi Nar e Avens (rispettivamente gli odierni Ne-
ra e Velino, dunque in un territorio oggi corrispondente all’incirca alla provincia di Rieti: e in effetti Reate
era uno dei centri maggiori dei Sabini) e dal territorio sulla sponda sinistra del Tevere: è la cosiddetta Sabina
tiberina, un territorio relativamente fertile, che valse alla Sabina fama di ricchezza; la seconda zona era costi-
tuita dalla vallata superiore dell’Aternus (un fiume ancora oggi noto con il nome di Aterno nel suo corso su-
periore, mentre nel tratto inferiore assume il nome di Pescara, sfociando nell’Adriatico all’altezza
dell’omonima città), una regione assai più aspra e montuosa, il cui centro principale era costituito da Amiter-
num, a pochi chilometri dall’Aquila.

Gli autori antichi avevano opinioni assai diverse sull’origine di questo popolo: secondo Catone (in
un frammento tramandatoci da Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, II, 49, 2) essi presero il nome da
Sabino, figlio dell’antichissima divinità Sancus, e provenivano dalla località di Testruna, ai piedi del Gran
Sasso, nella regione di Amiternum.Secondo lo storico della fine del II sec. a.C. Cneo Gellio (in un frammento
tradito da un grammatico del IV sec. d.C. Servio nel suo Commento all’Eneide, VIII, 638) essi discendevano
dall’eroe spartano Sabus (e la leggenda dell’origine spartana dei Sabini, che traeva la sua giustificazione dal-
la bellicosità di quest’ultimo popolo e dall’asprezza di alcune delle regioni da esso abitate, in effetti godrà di
una certa fortuna); secondo il greco Zenodoto di Trezene (la cui opinione ci è nota ancora una volta attraver-
so Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, II, 49, 1; di Zenodoto altro di certo non si può dire, se non che
si tratta di uno storico di età ellenistica) i Sabini erano invece una popolazione di origine umbra che, cacciata
dalle loro sedi originarie dai mitici Pelasgi, si erano stabiliti intorno a Rieti. Strabone aveva un’opinione dif-
ferente:

Strabone, Geografia, V, 3, 1: l’origine dei Sabini e la loro diffusione in Italia


I Sabini sono un popolo antichissimo e autoctono: sono loro coloni i Picentini e i Sanniti, di cui
sono coloni i Lucani, dei quali sono, a loro volta, coloni i Brettii. Come prova della loro anti-
chità si potrebbe addurre il coraggio e tutte le virtù grazie alle quali hanno resistito fino al pre-
sente. Afferma lo storico Fabio che i Romani conobbero la ricchezza per la prima volta allor-
ché diventarono signori di questo popolo.

Secondo l’autorevole geografo greco dunque i Sabini erano una popolazione autoctona, che da sem-
pre aveva abitato l’Italia: anzi, proprio dai Sabini avrebbero tratto origine le tante popolazioni italiche che

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occuparono buona parte della penisola, dai Picentini (o Piceni, come erano meglio noti ai Romani) delle co-
ste marchigiane, fino ai Brettii della Calabria. In questo interessante passaggio Strabone cita anche il primo
storico romano a noi noto, Quinto Fabio Pittore, autore alla fine del III sec. a.C. di una Storia di Roma dalle
origini fino ai suoi giorni: secondo Fabio Pittore la conquista della Sabina segnò per Roma per un enorme
progresso economico; l’allusione deve dunque essere alla fertile Sabina tiberina.

Si è detta che la storia dei Sabini è strettamente intrecciata con quella di Roma: sarà sufficiente ac-
cennare al celebre episodio del ratto delle Sabine e alla doppia monarchia che si sarebbe stabilita nella Roma
dell’VIII sec. a.C.:, con l’affiancarsi a Romolo del sabino Tito Tazio, dopo che le ostilità seguite al rapimento
delle ragazze sabine si erano ricomposte. L’integrazione fra Roma e i Sabini nei secoli seguenti può assume-
re forme pacifiche, come quelle dell’emigrazione a Roma dell’intero clan dei Claudi, guidato da Appio Clau-
dio (o Atto Clauso, come i Sabini chiamavano questo personaggio), un episodio variamente datato dalle no-
stre fonti, ma che probabilmente va collocato nei primi anni della Repubblica, agli inizi del V sec. a.C. Non
mancano tuttavia momenti conflittuali, come l’incursione su Roma che il sabino Appio Erdonio tentò nel 460
a.C., riuscendo addirittura ad impadronirsi per breve tempo della rocca di Roma, il Campidoglio.

Nelle regioni a sud-est della Sabina erano stanziate numerose piccole popolazioni affini ai Sabini
stessi, come è chiaro dalla denominazione collettiva di Sabelli, con le quali sono note: in effetti Sabellus in
latino è il diminutivo di Sabinus. Tra questi “piccoli Sabini” ricordiamo per primi gli Equi, che abitavano
nella regione ai confini meridionali della Sabina, sulle sponde nord-occidentali dell’antico lago del Fúcino,
oggi bonificato. Tra la fine del VI e gli inizi del V sec. a.C. da queste loro sedi originarie gli Equi iniziarono
a premere verso le pianure del Lazio, occupando parte dell’area dei Colli Albani e minacciando le città latine
di Tibur e Praeneste, con un movimento del tutto analogo a quello intrapreso dai Sanniti verso la fertile piana
campana. Scarse sono le testimonianze archeologiche che gli Equi, una popolazione che viveva sparsa in vil-
laggi, ci ha lasciato: le belle mura poligonali dell’insediamento di Nersae (oggi Civitella di Nesce, in provin-
cia di Rieti) potrebbero anche risalire al periodo in cui gli Equi erano stati sterminati e la loro regione era ca-
duta nelle mani di Roma. La fine precoce dell’etnia degli Equi potrebbe spiegare anche l’assoluta mancanza
di dati linguistici su questa popolazione.

Nell’azione offensiva contro le zone costiere del Lazio gli


Equi vennero assistiti dai loro vicini meridionali, i Volsci, che origi-
nariamente erano insediati nelle montagne del Lazio meridionale e
lungo il medio corso del fiume Liri; i loro centri principali si trovano
oggi nella provincia di Frosinone ed erano Sora, Arpino (la patria di
Cicerone, di Caio Mario e Agrippa, l’amico e collaboratore di Augu-
sto) e Atina, ma che alla fine del VI sec. a.C. riuscirono a occupare
tutta la pianura Pontina e le città di latine di Terracina, Circei e An-
zio, approfittando anche dello stato di temporanea debolezza di Ro-
ma. A differenza degli Equi, per i Volsci siamo a conoscenza di alcu-
ne iscrizioni, che ci fanno conoscere una lingua italica, piuttosto affi-
ne al dialetto degli Umbri. Tra i siti archeologici più significativi del-
la regione di stanziamento originario dei Volsci, Arpino mostra anco-
ra oggi una bella cinta muraria del IV sec. a.C., anch’essa in opera
Figura 10: arco a sesto acuto nelle poligonale, nella quale si apre una sorprendente porta a sesto acuto,
mura poligonali di Arpino, IV sec.
a.C. 1.600 anni prima dello stile gotico.

Strategicamente incuneata tra il territorio dei Volsci e quello


degli Equi e a loro ostile, si trovava la popolazione degli Ernici, stanziati nella valle del fiume Trerus,
l’odierno Sacco. Le informazioni in nostro possesso sulla lingua parlata da questa piccola tribù sono

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scarsissime, mentre meglio noti sono i suoi
molti insediamenti, che sembrano essersi uniti
in una confederazione, nota con il nome di
Lega Ernica. Tra di essi sono da ricordare A-
nagnia (oggi Anagni) e soprattutto Aletrium
(l’odierna Alatri), con una acropoli difesa da
imponenti mura ciclopiche della lunghezza di
circa 2 km e risalenti probabilmente al IV sec.
a.C. Lungo queste mura, assai ben conservate,
si aprono tuttora alcune porte: celebre la co-
siddetta porta Maggiore, sovrastata da un ar-
chitrave monolitico che si stima avere il peso
Figura 11: la porta Maggiore delle mura di Alatri (IV sec. di circa 27 tonnellate.
a.C.)
Passiamo al versante adriatico con la popolazione dei
Vestini, che occupavano la media vallata dell’Aterno e la
sponda adriatica immediatamente a sud del Piceno, nei pressi
dell’attuale Pescara. Molto scarse sono le informazioni che
possediamo su questa popolazione prima che entrasse in con-
tatto con i Romani, alla fine del IV sec. a.C., e poco noti anche
i loro insediamenti. Tuttavia proprio dal territorio dei Vestini
proviene uno dei documenti più famosi delle civiltà dell’Italia
preromana, il cosiddetto Guerriero di Capestrano, dalla loca-
lità oggi in provincia dell’Aquila in cui venne ritrovata nel
1934 questa statua che pare risalire ancora al VI sec. a.C. Essa
rappresenta, in proporzioni maggiori del reale, un personaggio
armato di tutto punto, con un grande elmo a disco e una spada
sul petto; la figura è sostenuta da due pilastrini laterali; su
quello di sinistra appare l’iscrizione ma kupri koram opsut A-
ninis raki Nevii Pomp[uled]ii, che è stata tradotta come “me
bella statua fece Aninis per il re Nevio Pompuledio”: un testo
interessantissimo perché ci fa probabilmente conoscere il nome
del personaggio rappresentato, Nevio Pompuledio, ed anche
uno dei primi artisti italici, lo scultore Aninis. Inoltre questo
documento ci fa sapere che le popolazioni italiche in questo
periodo molto antico erano ancora organizzate in forma mo-
narchica, mentre per il periodo successivo sono piuttosto atte-
stati regimi repubblicani, con l’elezione annuale di magistrati.
Figura 12: il Guerriero di Capestrano, VI Dal punto di vista linguistico l’epigrafe è stata ascritta, piutto-
sec. a.C., Chieti, Museo Archeologico Na-
zionale sto che ai Vestini, ai loro vicini settentrionali, i Piceni: questo
dato è confermato dal dato onomastico, Nevio Pompuledio è
infatti un nome tipicamente piceno, come anche dalle assonanze stilistiche che il Guerriero di Capestrano
presenta con le statue rinvenute a Numana, nei pressi di Ancona. Nel VI sec. a.C. dunque probabilmente i
Piceni estendevano ancora la loro influenza anche su questa zona dell’Abruzzo, che qualche decennio dopo
appare invece sotto il controllo dei Vestini.

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Sulle sponde sudorientali dell’antico lago del Fúcino abitavano invece i Marsi, una bellicosa stirpe
che il mito talvolta connetteva con il dio Marte, mentre altri autori li ritenevano capaci di incantare i serpenti,
dal cui morso sarebbero stati immuni. Leggiamo a questo proposito la testimonianza di Aulo Gellio, un eru-
dito vissuto nel II sec. d.C.

Aulo Gellio, Notti Attiche, XVI, 11, 1: i Marsi, incantatori di serpenti


Della gente dei Marsi in Italia si dice che discendeva da un figlio di Circe. Questa stirpe di
uomini, poiché fino ad oggi le loro famiglie non si sono mescolate con gente forestiera, possie-
de una specie di abilità innata nel domare i serpenti velenosi e con incantamenti e succhi di
certe erbe opera guarigioni miracolose.

In Gellio le prodigiose capacità dei Marsi come incantatori di serpenti e guaritori sono spiegate, co-
me di frequente fanno gli autori antichi, come ereditate da un mitico progenitore, in questo caso la maga Cir-
ce, protagonista di celebri episodi dell’Odissea di Omero. In una prospettiva più razionale è probabile che
queste leggende trovino la loro origine nello straordinario coraggio dei Marsi: essi in effetti erano considerati
i soldati più valorosi di tutta l’Italia. I loro centri principali erano Antinum (odierna Civita d’Antino), con
l’immancabile cerchia di mura poligonali del V sec. a.C., e Marruvium (oggi S. Benedetto dei Marsi), i cui
resti archeologici oggi visibili risalgono tuttavia all’età romana.

Ad oriente dei Marsi erano stanziati i Peligni, che abitavano nella media valle dell’Aterno, intorno a
Corfinio, una regione montuosa e fredda (l’espressione frigor pelignus, "freddo peligno", divenne proverbia-
le). Insieme a Corfinium uno dei loro centri principali era Sulmo, l’odierna Sulmona. Lungo il basso corso
dell’Aterno era infine stanziata la piccola popolazione dei Marrucini, nel cui territorio si trovava in pratica
un solo centro urbano di rilievo, Teate, l’odierna Chieti. Nonostante la loro debole consistenza numerica
(probabilmente entrambe le popolazioni non potevano contare che su poche migliaia di abitanti) Peligni e
Marrucini erano famosi nell’antichità per il loro coraggio, pari a quello dei vicini Marsi. Lo straordinario va-
lore dei Marrucini e dei Peligni si esaltò soprattutto nella battaglia di Pidna del 167 a.C., combattuta dai Ro-
mani e dai loro alleati Italici, al comando di L. Emilio Paolo, contro i macedoni del re Perseo. Leggiamo la
drammatica descrizione che Plutarco riprese, nella sua Vita di Emilio Paolo, da un testimone oculare degli
avvenimenti.

Plutarco, Vita di Emilio Paolo, 20, 1-4: straordinario valore dei reparti dei Peligni e dei
Marrucini nella battaglia di Pidna
Sull’altro fronte, dal momento che i Romani contrappostisi alla falange, non riuscivano ad ave-
re la meglio, Salvio, il comandante dei Peligni, afferrata l’insegna dei suoi sottoposti, la gettò
fra i nemici. Ed essendosi i Peligni lanciati all’assalto di corsa in direzione di quel luogo (per
gli Italici infatti, non è né lecito né pio abbandonare un’insegna), ci furono azioni e sofferenze
terribili per entrambe le parti che si erano scontrate. Gli uni, infatti, si sforzavano di far cadere
con le spade le sarisse e di premerle con gli scudi e di allontanarle afferrandole con le stesse
mani: gli altri invece, rafforzando la difesa con entrambe le mani e trapassando gli assalitori
con le stesse armi, senza che né scudo né corazza riuscissero a fermare l’impeto della sarissa,
sollevavano in alto i corpi dei Peligni e dei Marrucini, i quali, senza alcun calcolo, ma con be-
stiale animosità, si gettavano incontro ai colpi degli avversari e a una morte certa.

Il coraggio mostrato dai Peligni e dai Marrucini nella battaglia di Pidna confina con la stoltezza:
piuttosto che sopportare il disonore di aver perduto l’insegna del proprio reparto, essi si gettano contro
quell’autentica foresta di lance (le sarisse, lunghe fino a 7 m) che era costituita dalla falange macedone, an-
dando incontro a una morte sicura. Ad onore dei coraggiosi ma folli Italici va ricordato che la falange in que-
sta azione perse la sua compattezza e i soldati macedoni erano spossati dal massacro che avevano operato: il

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comandante romano Emilio Paolo se ne rese conto e organizzò con le sue truppe di riserva un rapido contrat-
tacco, che portò alla vittoria finale.

Sulla costa adriatica, tra


il territorio dell’Apulia e quello
dei Marrucini, si trovavano i
Frentani, una popolazione di
cui già Strabone notava l’affinità
etnica con i Sanniti, ma che dal
punto di vista politico si man-
tennero indipendenti dalla Lega
Sannitica e spesso di discostaro-
no dall’atteggiamento antiroma-
Figura 13: un sextans in bronzo da Larinum, di poco posteriore al 211
no di questi loro connazionali. I
a.C. loro centri principali erano Hi-
stonium, l’odierna Vasto, e La-
rinum i cui resti si possono ancora oggi vedere nei pressi della moderna Larino. Proprio da Larinum viene la
moneta riportata alla figura 13: si tratta di un sextans, ovvero di una monetina in bronzo che aveva il modesto
valore di 1/6 di asse (l’unità di valore più diffusa nell’Italia in età repubblicana). Al dritto la moneta presenta
una testa femminile, mentre al rovescio appare un delfino e la legenda Ladinod, probabilmente il nome fren-
tano della città nota in latino come Larinum; sempre al rovescio compare il segno di valore rappresentato da
due pallini: in effetti l’asse si divideva in 12 once, dunque la moneta che rappresentava 1/6 di asse aveva il
valore di 2 once. Questa moneta risale agli anni immediatamente seguenti il 211 a.C., dunque ad un periodo
in cui i Frentani e la città di Larinum erano ormai entrati nell’orbita egemonica di Roma, ma conservano co-
munque la loro autonomia interna, dimostrata dal diritto di battere moneta, e le loro tradizioni culturali e lin-
guistiche: in effetti il sestante qui raffigurato riporta una legenda in lingua frentana e non in latino.

Figura 14: scena di transumanza in un rilievo di Sulmona, Museo Civico di Sulmona, I sec. a.C.

Al termine di questo excursus sulle genti sabelliche occorre ricordare che esse, anche se frazionate
dal punto di vista politico, avevano strutture sociali ed economiche ampiamente comuni. Dal punto di vista
delle attività, a parte poche aree particolarmente fertili, collocate prevalentemente nella Sabina tiberina, il ter-
ritorio era caratterizzato da un agricoltura di puro sostentamento. L’attività economica più caratterizzante
della regione, come anche del territorio sannitico, non era però la coltivazione dei campi, ma l’allevamento.
Le alte terre della Sabina e del Sannio, in effetti, offrivano eccellenti pascoli estivi per le greggi che trascor-
revano l’inverno nelle piane del Lazio o della Puglia settentrionale. Attraverso una fitta rete di tratturi il be-
stiame, in particolare ovini, si spostava periodicamente secondo l’antica pratica della transumanza, ancora in
voga fino a pochi decenni fa: il rilievo di Sulmona qui riportato a figura 14 ne riproduce probabilmente una
scena, nelle forme ingenue dell’arte popolare italica. Sul lato sinistro di questo bassorilievo possiamo osser-

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vare un pastore, con il suo caratteristico bastone con terminazione ricurva e un mantello con cappuccio, in-
tento a sorvegliare un piccolo gregge composto da sei pecore; al centro vediamo invece un carro a due ruote,
sul quale è caricato un grosso otre; il veicolo è trainato da due cavalli, tenuti alle briglie da un secondo pasto-
re, anch’esso incappucciato; sull’estrema destra della raffigurazione una figura, forse femminile, pare osser-
vare l’intera scena. Il rilievo, che sembra datarsi al I sec. a.C., è oggi conservato al Museo Civico di Sulmo-
na.

3. Gli Umbri

Risalendo la penisola, incontriamo un’altra popolazione di ceppo italico, quella degli Umbri, che era
considerata la più antica d’Italia.

Plinio il Vecchio, Storia naturale, V, 112: l’antichità degli Umbri


La popolazione umbra è ritenuta la più antica d’Italia, si crede infatti che gli Umbri fossero sta-
ti chiamati Ombrii dai Greci perché sarebbero sopravvissuti alle piogge quando la terra fu i-
nondata. È attestato che gli Etruschi sottomisero trecento città umbre.

In questo passaggio di Plinio il Vecchio colpisce soprattutto la fantasiosa etimologia, che faceva de-
rivare il nome degli Umbri dal nome greco della pioggia, ombros, facendo così di essi una popolazione addi-
rittura precedente il diluvio universale (un episodio che è presente anche nella mitologia greca e romana, ol-
tre che nelle tradizioni del Vicino Oriente e nel racconto biblico). Un altro dato interessante è costituito dal
ricordo di un’area originaria di insediamento degli Umbri molto più vasta di quella che era osservabile in età
storica: uno dei motivi conduttori delle fonti antiche su questa popolazione è proprio la sua originaria presen-
za in molte regioni dell’Italia, dalle quali sarebbe stata cacciata dall’invasione di popolazioni giunte in tempi
successivi, come gli Etruschi, ai quali Plinio accenna nel passo che abbiamo appena visto, o i Galli.

Un altro tratto tipico che la letteratura antica attribuisce agli Umbri è quello della loro mollezza, , in
contrasto con la fama di bellicosità di cui generalmente godevano le popolazioni italiche: così scriveva lo sto-
rico greco del IV sec. a.C. Teopompo, in un frammento conservatoci ne I dotti a banchetto, un’opera di Ate-
neo di Naucrati, scritta intorno al 200 d.C. che è un’autentica miniera di citazioni altrimenti sconosciute:

Ateneo, I dotti a banchetto, 526 f: la mollezza degli Umbri


Teopompo nel ventunesimo libro della Storia dell'età di Filippo parla anche degli Umbri –
stanziati appunto lungo la costiera adriatica – e dice che erano un popolo piuttosto molle e raf-
finato: avevano abitudini di vita pressoché simili a quelle dei Lidi e abitavano una regione u-
bertosa, fatto da cui ebbe origine la loro prosperità.

Per la loro vita agiata e i costumi raffinati, gli Umbri si possono accostare agli Etruschi (denominati
Lidi nel passaggio di Ateneo: vedremo in seguito il motivo di questa definizione): e in effetti le popolazioni
dell'Umbria molto dovevano dal punto di vista culturale ai loro vicini, in particolare a proposito della spinta
verso l'urbanizzazione che si nota nell'Umbria interna a partire dal V sec. a.C., dopo una lunga fase in cui il
popolamento era prevalentemente organizzato per villaggi.

Gli Umbri parlavano una lingua italica, variante settentrionale delle lingue osche dell’Italia centro-
meridionale, scritta inizialmente in un alfabeto locale, derivato da quello etrusco e in seguito anche in alfabe-
to latino. Un breve documento in questo lingua compare anche in una delle testimonianze più celebri
dell’arte italica, il cosiddetto Marte di Todi, dal luogo del suo ritrovamento presso questa cittadina umbra,
qui ripreso alla figura 15. La statua in bronzo, alta circa 1,40 m e risalente forse agli anni intorno al 400 a.C.,
rappresenta un soldato protetto da una corazza, colto nell’attimo in cui sta compiendo un sacrificio, pro-

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babilmente prima della battaglia: nella mano destra te-
neva infatti una tazza, mentre nella sinistra si appoggia-
va ad una lancia (questi due elementi oggi sono conser-
vati a parte). Curiosamente questa rara e preziosa testi-
monianza della scultura italica è stata ritrovata sepolta
sotto lastre di travertino, come se deliberatamente si sia
voluto nasconderla alla vista: alcuni studiosi hanno ipo-
tizzato che fosse stata colpita da un fulmine e per questo
fosse stata considerata dagli antichi come maledetta. Sul
gonnellino della statua appare una breve iscrizione in
lingua umbra, redatta in alfabeto etrusco che ci fa cono-
scere colui che dedicò questa bella statua: Ahal Trutitis
dunum dede (“Ahal Trutidio diede in dono”). Nel breve
testo colpisce l’assonanza con la lingua latina, la formu-
la di dedica dunum dede suonerebbe infatti in latino
classico donum dedit, ma anche il nome del dedicante
Trutitis, che è stato accostato da alcuni studiosi alla lin-
gua celtica: è dunque possibile che si trattasse di un per-
sonaggio di origine gallica, ben integrato nella comunità
umbra di Todi, tanto da rendersi autore di un costoso
dono, forse ad un santuario locale.
Figura 15: il Marte di Todi, 400 a.C. circa, Ro-
ma, Musei Vaticani Ben altro sviluppo hanno altri famosi testi della
lingua umbra: stiamo parlando delle famose Tavole I-
guvine, una serie di sette tabelle in bronzo rinvenute nel
XV secolo a Iguvium (l'odierna Gubbio), databili tra gli
inizi del II sec. a.C. e gli inizi del secolo seguente, dun-
que già nel momento in cui l'Umbria era pienamente
sotto l'egemonia di Roma. Le tabulae, le più antiche
delle quali sono scritte in alfabeto locale, di derivazione
etrusca, mentre quelle in caratteri latini, rappresentano,
per contenuto e per lunghezza del testo, il più importan-
te documento della lingua umbra e senza dubbio uno
dei maggiori per quanto concerne le antiche lingue itali-
che. Il contenuto delle tavole di Iguvium riguarda prin-
cipalmente le cerimonie officiate da una confraternita
religiosa quella degli Atiedii.

Oltre a Iguvium (in lingua umbra Ikuvium), gli


Umbri abitavano molte altre città-stato, tra le quali pos-
siamo ricordare Assisi, Interamna Nahars (oggi Terni),
Cameria (l’odierna Camerino, nelle Marche).

4. I Piceni

I vicini orientali degli Umbri erano Piceni, det-


Figura 16: Tavola in bronzo da Iguvium, con i-
ti anche Picentes o Picentini, una popolazione che, era
scrizione in lingua umbra, fine II sec. a.C. , Gub-
bio Palazzo dei Consoli
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stanziata in età storica, insieme a una tribù loro affine, quella dei Pretuzzi, nelle odierne Marche centro-
meridionali e nell’Abruzzo settentrionale. Questa almeno è la situazione che si presenta nel momento in cui i
Piceni entrano in contatto con Roma, agli inizi del III sec. a.C.: ma, come abbiamo visto nel caso degli Um-
bri, anche i Piceni probabilmente occupavano un’area più vasta rispetto ai limiti che abbiamo appena indica-
to. Secondo la tradizione registrata da Strabone, questa popolazione traeva origine da una secessione dai Sa-
bini, ancora una volta nelle forme dell’emigrazione al seguito di un animale totemico, che abbiamo già os-
servato a proposito della nascita della tribù sannitica degli Irpini:

Strabone, Geografia, V, 4, 2: origine dei Piceni


Dopo le città dell’Umbria che si trovano fra Rimini e Ancona, vi è il Piceno. Originari della
Sabina, i Picentini migrarono nelle loro sedi sotto la guida di un picchio che mostrò la strada ai
loro antichi progenitori; chiamano questo uccello picus e lo ritengono sacro ad Ares.

Strabone, scrivendo nella tarda età augustea, correttamente ascrive la costa delle Marche settentrio-
nali, tra Rimini e Ancona, all’Umbria: in effetti, nella divisionale regionale augustea questo tratto della costa
Adriatica, che propriamente era chiamato ager Gallicus, dal momento che era stato occupato da una tribù
celtica, era entrato a far parte della regio VI, il cui nome completo era Umbria et ager Gallicus.

Tornando ai Piceni, la leggenda di


una loro origine sabina dovrebbe avere un
qualche fondamento e in effetti può trovare
conferma in alcuni dati archeologici e lin-
guistici, come vedremo in seguito. Comun-
que sia, sulle coste dell'Adriatico i Piceni
diedero vita ad una civiltà originale, aperta
sia agli influssi orientali, che giunsero via
mare, sia a quelli della vicina Etruria. Tra i
principali siti archeologici della civiltà pi-
cena va annoverata senza dubbio la necro-
poli protostorica di Campovalano di Cam-
Figura 17: una tomba a fossa dalla necropoli di Campovalano
di Campli pli, in provincia di Teramo, nella quale so-
no state rinvenute numerose tombe a fossa,
generalmente racchiuse entro un circolo di pietre, come si può vedere
nell'immagine riportata (figura 17). La necropoli, che venne impiegata
dalla fine del X al III sec. a.C., ha restituito ricchi corredi funerari con
materiali in parte di produzione locale, in parte di importazione.

Interessante anche la produzione statuaria della civiltà picena, le


cui principali testimonianze ci vengono da Numana, una località della
riviera del Conero, poco a sud di Ancona. Confrontando queste realizza-
zioni (per esempio la testa di guerriero riportata alla figura 18, oggi al
Museo Archeologico Nazionale delle Marche di Ancona) con il Guerriero
di Capestrano di cui abbiamo parlato in precedenza, emergono chiara-
mente delle consonanze stilistiche: del resto abbiamo detto che le consi-
derazioni di ordine linguistico e onomastico permettono di ipotizzare che

Figura 18: Testa di guerriero, lo stesso Guerriero sia un prodotto della civiltà picena, piuttosto che di
Ancona, Museo Archeologico quei Vestini che in età storica occupavano l’area di Capestrano.
Nazionale delle Marche

68
La civiltà picena ci ha lasciato anche notevoli testimonianze
epigrafiche, in una lingua indigena, affine piuttosto all'umbro che alle
parlate osche meridionali, che convenzionalmente è chiamata sudpice-
na. Alcuni dei documenti più rilevanti provengono dalla località di
Penna S. Andrea, in provincia di Teramo e confermano, tra l'altro, l'esi-
stenza di un effettivo rapporto tra i Sabini e le popolazioni del medio
Adriatico nella prima metà del V sec. a.C., periodo nel quale sembra si
possano datare le iscrizioni di questa località abruzzese. Nel documento
qui raffigurato si può leggere la frammentaria iscrizione [---]nis Safi-
núm nerf persukant p[---], che potrebbe essere tradotto “i principi del
Sabini celebrano”). Particolarmente interessante il fatti che questi Pice-
ni si autodefinivano come Sabini (Safinim probabilmente era la forma
indigena per questo nome etnico).

Nella sezione più settentrionale dell’area occupata dai Piceni


Figura 19: Una stele in lingua abbiamo anche testimonianze di una lingua completamente diversa dal
sudpicena da Penna S. Andrea sudpiceno: questo idioma, chiamato convenzionalmente nordpiceno,
sostanzialmente non è stato
ancora decifrato, anche perché
non sembra avere alcun rap-
porto con le altre lingue itali-
che a noi note, né appartiene
alla famiglie delle lingue in-
doeuropee, non consentendoci
dunque di fare quei confronti
che soli ci consentono di in-
terpretare una lingua morta.
La documentazione nordpice-
na proviene in particolare dal
sito archeologico di Novilara,
in provincia di Pesaro, con
Figura 20: Scena di battaglia navale, con due imbarcazioni da guerra e una stele che presentano non solo
nave commerciale, 600 a.C. circa, Pesaro, Museo Oliveriano
testi nell’enigmatica lingua,
ma anche vivaci rappresenta-
zioni della vita di queste popolazioni. Nella figura 20 è riportata una grande lastra che raffigura una scena di
battaglia navale, risalente al 600 a.C. circa: nella parte superiore è rappresentata una grande nave commercia-
le, con ampia vela di forma quadrata; in basso si trovano invece due imbarcazioni più piccole, mosse sola-
mente da remi: si tratta presumibilmente di due barche da guerra, i cui equipaggi sono raffigurati nell’atto di
scagliare qualche arma, probabilmente delle lance, contro la nave da trasporto; intorno ai due natanti si nota-
no delle figurine in posizione orizzontale, che forse rappresentano i corpi degli uomini colpiti, che galleggia-
no sul mare. Questa stele di Novilara potrebbe testimoniare che la popolazione nordpicena praticava una par-
ticolare attività economica, se così la possiamo definire, ovvero la pirateria.

5. Gli Etruschi

Per la sua complessità e per la ricchezza delle testimonianze che ci ha lasciato, la civiltà etrusca me-
riterebbe un corso a sé: qui possiamo solo limitarci a ricordarne gli elementi fondamentali.

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In primo luogo possiamo ricordare che si trattava di un popolo dai tanti nomi: gli Etruschi infatti
chiamavano se stessi Rasna o Rasenna. Ai Greci invece erano noti come Tyrrhenoi o Tyrsenoi, una denomi-
nazione che si conserva oggi nel nome del mare Tirreno, al quale si affacciava l’Etruria; nella documentazio-
ne in lingua greca tuttavia possono apparire anche con il nome di Lidi, dal loro presunto luogo di origine. I
Romani invece chiamavano questo popolo Etrusci o Tusci, da cui deriva il nome che ancora noi oggi utiliz-
ziamo, come anche il nome della moderna regione Toscana.

Molto dibattuto, già nell’antichità, il problema dell’origine di questo popolo, per molti aspetti mi-
sterioso. Secondo Erodoto, il celebre “padre della storia”, che scrisse verso la fine del V sec. a.C., si trattava
di genti provenienti dalla Lidia, una regione dell’Asia minore, che erano state costrette ad emigrare in Italia
in seguito ad una carestia che aveva colpito la loro patria. Leggiamo la testimonianza erodotea:

Erodoto I, 94, 3-7: L’origine lidia degli Etruschi


Al tempo di Atys, figlio del re Mane, ci fu in tutta la Lidia una tremenda carestia e i Lidi per
qualche tempo continuavano a vivere sopportandola, ma poi, poiché non cessava, cercarono
rimedi e chi ne inventava uno, chi un altro. Allora furono inventati i giochi dei dadi e degli a-
stragali e della palla e ogni altra specie di giochi, tranne quello degli scacchi; l'invenzione di
questo infatti i Lidi non se la attribuiscono. E, inventatili, agivano contro la fame nel modo se-
guente: un giorno giocavano per tutta la giornata, in modo da non cercar cibo, e l'altro mangia-
vano cessando i giochi. In tal modo trascorsero 18 anni. Ma poiché la carestia non diminuiva,
anzi infuriava ancor di più, il re, divisi in due gruppi tutti i Lidi, ne sorteggiò uno per rimanere,
l'altro per emigrare dal paese e quello dei gruppi cui toccava di restare lì si mise a capo lui stes-
so come re, all'altro che se ne andava pose a capo suo figlio, che aveva nome Tirreno. Quelli di
loro che ebbero in sorte di partire dal paese scesero a Smirne e costruirono navi e, posti su di
esse tutti gli oggetti che erano loro utili, si misero in mare alla ricerca di mezzi di sostentamen-
to e di terra, finché, oltrepassati molti popoli, giunsero al paese degli Umbri, ove costruirono
città e abitano tuttora. Ma in luogo di Lidi mutarono il nome, prendendolo da quello del figlio
del re che li guidava, e si chiamarono Tirreni.

La teoria di un’origine asiatica degli Etruschi ha goduto di grande fortuna fino a tempi vicini a noi
ed è stata in qualche misura rilanciata dalla recente scoperta di un’iscrizione a Lemno, un’isola dell’Egeo set-
tentrionale, scritta in una lingua vicina per alcuni aspetti all’etrusco: Lemno fu forse una delle tappe nel lun-
go viaggio che portò gli Etruschi dall’Anatolia fino all’Italia centrale?

Già nell’antichità vi era una teoria secondo la quale gli Etruschi non erano venuti dall’esterno, ma
era un’antichissima popolazione indigena dell’Italia. A testimonianza di questa ipotesi vediamo un passo
del già citato Dionigi di Alicarnasso:

Dionigi di Alicarnasso, I, 30, 1-2: l’origine autoctona degli Etruschi


Proprio in base a questo criterio [ovvero il criterio di affinità linguistica] io sono convinto della
diversità etnica esistente tra Tirreni e Pelasgi e non penso neppure che i Tirreni siano coloni dei
Lidi: non presentano infatti lo stesso linguaggio, né si può dire che, pur non essendo più di lin-
gua affine, conservino almeno qualche ricordo della madrepatria. Non venerano neppure le
stesse divinità dei Lidi, né osservano leggi e costumanze simili, sono anzi questi gli aspetti per
i quali i Tirreni differiscono maggiormente dai Lidi che non dai Pelasgi. Sono forse più vicini
alla verità quelli che sostengono che i Tirreni non sono emigrati da nessun luogo, ma sono in-
vece un popolo indigeno, poiché in ogni sua manifestazione presenta molti caratteri di arcaici-
tà; sia per linguaggio che per modo di vivere non lo si ritrova affine ad alcun altro popolo.

Il dibattito sull’origine della civiltà etrusca, nato nell’antichità, continua tuttora, con posizioni spesso
ancora divergenti. L’ipotesi oggi più accreditata in un certo senso combina alcuni aspetti della ipotesi di Dio-
nigi con elementi di quella di Erodoto. Si ritiene infatti che la cultura etrusca rappresenti lo sviluppo di una

70
civiltà precedente, chiamata Villanoviana (dal sito archeologico di Villanova di Castenaso, nei pressi di Bo-
logna, che ha restituito alcune delle testimonianze più interessanti di questa cultura), che si realizza nell’area
delimitata a nord dal corso dell’Arno, a sud da quello del Tevere e sembra compiersi pienamente tra VIII e
VII sec. a.C.: in effetti in questa area possiamo vedere una sostanziale continuità, evidente soprattutto nelle
forme di insediamento, tra il periodo villanoviano e quello etrusco. Questo sviluppo vede per protagoniste
genti indigene, ma è stimolato da apporti esterni che vengono da Oriente, soprattutto dal mondo greco: sia
direttamente, attraverso il mar Tirreno, sia indirettamente, con l’intermediazione delle colonie greche
dell’Italia meridionale.

Sul carattere di tali apporti gli studiosi an-


cora una volta si dividono: vi è chi pensa ad consi-
stente arrivo di genti da Oriente, che avrebbero co-
stituito gli strati sociali superiori della società etru-
sca, mentre i ceti subordinati sarebbero stati com-
posti dai discendenti delle popolazioni indigene,
mentre altri ricercatori pensano soprattutto
all’arrivo di merci, idee e innovazioni culturali,
come l’alfabeto e il modello della polis, di cui ab-
biamo già avuto modo di parlare, o ancora le tecni-
che di combattimento, fondate sulla fanteria pe-
sante degli opliti: il termine deriva dal greco hó-
plon, “scudo”, il principale strumento di difesa di
questo tipo di soldati, mentre l’arma di offesa fon-
damentale era una lunga lancia; la fanteria oplitica
in Greca combatteva in una formazione serrata,
Figura 21: Un guerriero etrusco, 600 a.C. circa, Siena,
detta falange, in cui ciascun soldato proteggeva
Museo Archeologico con il grande scudo rotondo, oltre che se stesso, il
compagno che stava alla sua sinistra nella fila.
L’adozione della falange oplitica da parte degli Etruschi è tra l’altro testimoniata da alcuni reperti archeolo-
gici, come un bronzetto, rappresentante appunto un oplita etrusco, risalente al 600 a.C. circa e riprodotto alla
figura 21. In questa immagine sono da notare il grande elmo crestato, gli schinieri che proteggono le caviglie,
ma soprattutto il grande hóplon rotondo; la lancia che il guerriero brandiva nella mano destra è andata perdu-
ta.

Nella fase della loro massima espansione gli Etruschi controllavano buona parte dell’Italia, dalla
pianura Padana, fino alla Campania, soprattutto sul versante tirrenico. Tuttavia questa civiltà non diede mai
vita ad uno stato unitario e centralizzato: fin dal loro apparire nella storia, gli Etruschi appaiono organizzati
in città-stato (questo modello istituzionale è un altro dei prestiti che essi avevano avuto dai Greci), dapprima
governati da re, detti lucumoni, poi da magistrati eletti di anno in anno. Una lega riuniva le 12 principali città
dell’Etruria (Veio, Cere, Tarquinia, Vulci, Roselle, Vetulonia, Volterra, Chiusi, Cortona, Perugia, Arezzo e
Fiesole), ma gli scopi di questa confederazione non erano politici o militari, quanto piuttosto religiosi.
L’organizzazione sociale delle diverse poleis etrusche era omogenea: ovunque dominava un’aristocrazia di
proprietari terrieri e grandi commercianti, che manteneva un saldo controllo su un ceto sociale di dipendenti,
non assimilabili agli schiavi “classici” ma pur sempre subordinati alla nobiltà.

L’aspetto della civiltà etrusca a noi meglio noto e indubbiamente anche il più affascinante, già
nell’antichità, è quello religioso. Gli Etruschi avevano una religione ben codificata, nella quale particolare
cura era posta nei riti e soprattutto nelle modalità di interpretazione dei segni che le divinità inviavano agli

71
uomini. Gli dèi del pantheon etrusco in parte de-
rivavano dalle divinità olimpiche dei Greci o, in
ogni caso, a queste furono presto assimilate: per
esempio il dio supremo Tinia è una divinità che
abita nei cieli e dispone dei fulmini, come lo
Zeus dei Greci (e il Giove dei Romani). Tinia e
gli altri dèi parlavano in continuazione con i loro
fedeli, attraverso segni alla cui interpretazione
gli Etruschi, come detto, prestarono una partico-
lare attenzione. Caratteristica di questa civiltà
era soprattutto l’aruspicina, una pratica di con-
sultazione della volontà divina attraverso
Figura 22: L’aruspice etrusco Lars Pulena, III sec. a.C., l’esame delle viscere, soprattutto del fegato, de-
Tarquinia, Museo Archeologico
gli animali sacrificali. Questo rito era praticato
da sacerdoti specializzati, gli aruspici. Alla figura 22 possiamo vedere il ritratto di uno di questi sacerdoti, di
nome Lars Pulena (un tipicissimo nome etrusco), che aveva la funzione di coperchio della sua urna cineraria.
Il monumento, che è stato ritrovato nell’area di Tarquinia, risale al III sec. a.C. Per tutta l’antichità
l’aruspicina rimase un monopolio degli Etruschi: anche in piena età romana, quando si intendeva comprende-
re il volere degli dèi attraverso la consultazione delle interiora delle vittime sacrificali si ricorreva costante-
mente ad esperti provenienti dall’Etruria.

Gli Etruschi tuttavia praticavano anche un


altro sistema di consultazione delle divinità, meno
cruento, fondato sull’osservazione del volo degli
uccelli e di altri fenomeni del cielo, come per e-
sempio i fulmini. Anche questa pratica, comune
pure al mondo romano, aveva i suoi specialisti, gli
àuguri. Due di questi sacerdoti sono raffigurati in
una celebre tomba di Tarquinia, detta appunto de-
gli Auguri, risalente agli anni intorno al 530 a.C.
(vedi figura 23).

Figura 23: tomba degli Auguri, 530 a.C. circa, Tarquinia Molto importanti nella religiosità etrusca
erano anche le concezioni che riguardavano
l’Oltretomba: gli Etruschi concepivano la morte come un prolungamento della vita, con le sue stesse esigen-
ze e per questo motivo le sontuose tombe etrusche hanno una struttura che ricorda da vicino le case dei vivi e
si organizzano in vere e proprie “città dei morti”, le necropoli, di cui sono particolarmente famose quelle di
Tarquinia e di Cere (l’odierna Cerveteri). Soprattutto nelle fasi più antiche in queste tombe, che hanno di re-
gola la forma di camere sotterranee, venivano deposte offerte di cibo e bevande, che il defunto avrebbe con-
sumato nella sua vita dopo la vita, oltre naturalmente ai simboli del suo status sociale, che si pensava egli a-
vrebbe conservato anche dopo la morte.

Accanto a queste particolare credenze religiose, un secondo elemento ha contribuito ad alimentare il


mito della “misteriosa” civiltà etrusca: le difficoltà di interpretazione della sua lingua. In realtà non abbiamo
nessuna difficoltà a leggere i testi in etrusco, redatti in un alfabeto che è una adattamento di quello greco. Il
problema è che questi segni ben noti trascrivono una lingua non indoeuropea, che non trova confronti con
agli altri idiomi dell’antichità a noi noti. Inoltre i testi che ci sono giunti, anche se sono molto numerosi, sono
il più delle volte assai brevi e contengono soprattutto nomi personali: difficile comprendere pienamente le

72
strutture di una lingua da queste poche
righe. Fanno eccezione alcuni docu-
menti di una certa estensione, come il
cosiddetto Liber linteus (“libro di li-
no”) di Zagabria: si tratta di un drappo
di lino con un lungo testo in lingua e-
trusca, concernente un calendario di
feste e riti religiosi redatto verso la me-
tà del III sec. a.C.; la tela venne poi
reimpiegata, in circostanze non ancora
chiarite, in Egitto per avvolgere la
mummia di una donna indigena, di no-
me Nesi-hensu, e a ciò si deve la sua
conservazione; lo straordinario docu-
mento è conservato oggi nel Museo ar-
cheologico di Zagabria, in Croazia.
L’etrusco inoltre manca ancora di un
documento analogo alla famosa stele di
Figura 24: laminette auree di Pyrgi con testo fenicio (a sinistra) ed Rosetta, l’iscrizione bilingue, in egizia-
etrusco (a destra), fine VI – inizi V sec. a.C., Roma, Museo Nazionale no e greco, che molto ha aiutato nella
di Villa Giulia
decifrazione dei geroglifici: le speranza
che erano state suscitate dal ritrovamento di un testo bilingue, in etrusco e in lingua fenicia, su laminette au-
ree a Pyrgi, (l’attuale Santa Severa, presso Civitavecchia, vedi figura 24) sono andate parzialmente deluse,
dal momento che i due testi, da quanto riusciamo a comprendere, non hanno un contenuto perfettamente i-
dentico. La laminette comunque riferiscono della dedica di un tempio a Pyrgi alla divinità fenicio- punica
Astarte, da parte di un certo Thefarie Velianas, un magistrato della città etrusca di Cere, di cui Pyrgi era lo
scalo portuale. Gli interessanti testi si datano tra la fine del VI e gli inizi del V sec. a.C. e confermano
l’esistenza di buoni rapporti tra l’Etruria e Cartagine in questo periodo.

Dal punto di vista della cultu-


ra materiale, come si accennava in
precedenza, noi conosciamo meglio le
città dei morti, le necropoli, piuttosto
che le città dei vivi: un’eccezione è co-
stituita dall’insediamento di Marzabot-
to, che peraltro si trova nell’Appennino
bolognese, al di fuori dei confini
dell’Etruria vera e propria. La statuaria
etrusca ci ha comunque lasciato alcuni
capolavori, come per esempio la cele-
bre Chimera di Arezzo (vedi figura
25), una statua in bronzo prodotta tra la

Figura 25: la Chimera di Arezzo, fine V – inizi IV sec. a.C., Firenze, fine del V e gli inizi del IV sec. a.C.
Museo Archeologico Nazionale che raffigurava il mitico mostro con il
corpo e la testa di leone, la coda a for-
ma di serpente e una testa di capra sul dorso. Questa bella statua bronzea ci permette di ricordare che, tra le

73
attività economiche più significative praticate dagli Etruschi vi era
l’estrazione e la lavorazione dei metalli, sfruttando le miniere delle Col-
line Metallifere della Toscana e dell’isola d’Elba.

Gli Etruschi tuttavia non ci hanno lasciato capolavori solamente


nel settore della toreutica, ovvero nell’arte della lavorazione del bronzo.
Siamo a conoscenza per esempio di una notevole produzione di statue in
terracotta. In questo settore spicca l’opera dello scultore Vulca, nativo di
Vulci, al quale viene attribuita la bellissima statua di Apollo ritrovata in
santuario della città etrusca di Veio e databile agli anni intorno al 500
a.C. Secondo le fonti romane Vulca sarebbe stato attivo anche a Roma,
dove avrebbe scolpito la statua di culto per il tempio di Giove Ottimo
Massimo sul Campidoglio.

Figura 26: l’Apollo di Veio, 500


a.C. circa, Roma, Museo Nazionale
di Villa Giulia

6. Per saperne di più

• Sui Latini: G. Colonna, I Latini e gli altri popoli del Lazio, «Italia omnium terrarum alumna»,
Milano 1988, pp. 411-528 [BAU STO/C I A/a 2]

• Sulle origini di Roma le opere che si potrebbero ricordare sono molte; mi limito a ricordare il
recente A. Carandini, La nascita di Roma: dèi, lari, eroi e uomini all’alba di una civiltà, Torino
1997 [BAU 937.01 S 2], dalla cui bibliografia si potrà agevolmente risalire ad altre opere sul
tema.

• Sui Sabini: M.G. Bruno, I Sabini e la loro lingua, Bologna 1969 [BAU LIN Coll. Provv. 462].

• Sugli Equi: Archeologia nel Cicolano (Lazio): Gli Equicoli, all’indirizzo


http://www.equicoli.it/.

• Sui Piceni: M. Landolfi, I Piceni, «Italia omnium terrarum alumna», Milano 1988, pp. 315-372
[BAU STO/C I A/a 2].

• Sugli Umbri: F. Roncalli, Gli Umbri, «Italia omnium terrarum alumna», Milano 1988, pp. 375-
407 [BAU STO/C I A/a 2] e il sito web Istituto di ricerche e documentazione sugli antichi Um-
bri, all’indirizzo http://www.irdau.org/.

• Ricchissima la bibliografia sugli Etruschi; tra i numerosi titoli segnalo M. Cristofani (a cura di),
Gli Etruschi: una nuova immagine, Firenze 1984 [BAU ART 937.5 S 1]; R. Bloch, Gli Etru-
schi, Milano 1990 [BAU STO/D 937.5 BLO]; G. Camporeale, Gli Etruschi: storia e civiltà, To-
rino 2000 [937.5 S 6]; M. Torelli (a cura di), Gli Etruschi, Milano 2000 [BAU 937.5 S 4].

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CAPITOLO V

IL QUADRO ETNICO DELL’ITALIA AGLI INIZI DEL V SEC. A.C.:


L’ITALIA SETTENTRIONALE

La situazione che si presenta ai nostri occhi nell’Italia settentrionale al principio del V sec. a.C. è
molto meno chiara del quadro che abbiamo potuto delineare per le altre aree della penisola. Questo dato di-
scende principalmente da due fattori: da un lato siamo indubbiamente davanti all’area dell’Italia più attardata
dal punto di vista culturale e che per questo motivo ha prodotto una documentazione quantitativamente e for-
se anche qualitativamente minore rispetto ad altre regioni dell’Italia: basti pensare alle fonti epigrafiche nelle
lingue indigene del Settentrione, piuttosto scarse, soprattutto per quanto il periodo più arcaico. Inoltre in que-
sta area gli interessi delle colonie greche e, almeno fino al III sec. a.C., della stessa Roma sono piuttosto de-
boli: non possediamo dunque sulle popolazioni del nord nel V sec. a.C. quelle informazioni che, magari solo
incidentalmente, le fonti greche e latine ci tramandano sulle etnie dell’Italia centromeridionale nel momento
in cui esse si incontrano, o si scontrano, con le poleis greche o con Roma.

1. La Cispadana

Nel nostro esame sulle popolazioni dell’Italia settentrionale partiamo dalla più meridionale delle re-
gioni di questa area, la Cispadana, ovvero il territorio al di qua del Po, in particolare nella sua sezione più o-
rientale (un territorio grosso modo corrispondente all’odierna regione Emilia-Romagna.

Nella Cispadana, prima che le invasioni celtiche venissero a mutare profondamente il quadro etnico,
incontriamo le aree di influenza di due popolazioni il cui nucleo principale si trovava a sud degli Appennini,
gli Umbri e gli Etruschi. I confini di queste aree sono piuttosto sfumati, ma in linea di massima si può af-
fermare che gli Umbri si concentrarono nella parte orientale della regione, corrispondente all’odierna Roma-
gna, mentre i più significativi insediamenti etruschi si trovano piuttosto nella sezione centro-occidentale, in
quella che oggi è l’Emilia propriamente detta. Un discorso a parte va fatto per l’Appennino tosco-emiliano,
area di insediamento dei Liguri, una popolazione della quale parleremo in seguito.

Per quanto concerne il settore “umbro” della Cispadana è da ricordare che, così come avviene
nell’Umbria propriamente detta, anche a nord degli Appennini questa popolazione tende ad organizzarsi per
città-stato, tra le quali possiamo ricordare Sassina o Sarsina, capitale di uno stato che i Romani definiranno
con il nome di tribus Sapinia (il nome deriva probabilmente dal fiume Sapis, l’odierno Savio), Mevaniola (i
cui resti archeologici si possono vedere oggi presso Galeata, in provincia di Forlì-Cesena) e la stessa Raven-
na, tra le paludi costiere, in una posizione facilmente difendibile che nell’antichità doveva essere molto simi-
le a quella della Venezia medievale; altre tradizioni peraltro riconducono Ravenna ad una fondazione etrusca,
un dato che troverebbe conferma nel toponimo, che nella sua terminazione –enna sembra proprio ricondurre
alla lingua etrusca. Un riconoscimento del carattere umbro, se non di Ravenna, almeno dei centri
dell’Appennino, venne dalla divisione regionale augustea, che assegnò Sarsina e Mevaniola non alla regio
VIII – Aemilia, come sarebbe stato logico dal punto di vista geografico, ma alla regio VI – Umbria, tenendo
piuttosto conto dei tratti culturali di queste due città.

Maggiori informazioni possediamo sulla presenza etrusca nella regione, attestata già nel VII sec.
a.C., ma che si consolida nel secolo seguente intorno agli insediamenti di Marzabotto, sull’Appennino bolo-
gnese, di Felsina, sul sito dell’odierna Bologna, e forse anche di Mutina, ovvero l’odierna Modena, soprattut-
to a giudicare dal toponimo, di tradizione etrusca, e dai notevoli rinvenimenti riferibili a questa civiltà che

75
provengono dal territorio vicino a questa città. Secondo la tradizione questa Etruria padana, i cui confini su-
peravano anche il corso del Po, spingendosi fino a Mantova, che in effetti è città di origine etrusca, avrebbe
contato 12 città, come l’Etruria propriamente detta. La massiccia colonizzazione della pianura padana da par-
ti di genti provenienti dall’Etruria nel corso del VI sec. a.C. deve probabilmente essere visto in relazione ad
una certa chiusura dell’orizzonte tirrenico, nel quale gli Etruschi devono fare i conti con la crescente potenza
delle città greche dell’Italia meridionale e all’esigenza di trovare dunque nuove direttrici all’espansione
politica e commerciale, questa volta verso nord.

Nell’Etruria padana è par-


ticolarmente degno di nota il sito
archeologico di Marzabotto. Il
nome antico di questa città etrusca
non è noto, anche se qualche stu-
dioso ha supposto che sia Misa;
quello che è certo è che il sito,
prima sede di sparse capanne, ven-
ne completamente riorganizzato
intorno al 500 a.C. con un piano
urbanistico rigorosamente ortogo-
nale, caratterizzato da ampie strade
Figura 1: l’impianto urbano della città di Marzabotto, intorno al 500 a.C. che si incrociavano ad angolo ret-
to, da abitazioni di forma rettango-
lare, che si aprivano su di un cortile interno, e da una acropoli dove sono stati messi alla luce diversi edifici
sacri. L’impianto urbano di Marzabotto, di cui può vedere un’immagine alla figura 1, è tra i meglio noti di
tutta l’area occupata dagli Etruschi.

Un’altra interessante testimonianza della presenza


etrusca nella Cispadana ci viene da Rubiera, una località
posta sulla via Emilia, tra Modena e Reggio Emilia. Qui,
tra il 1983 e il 1985 sono stati ritrovati due cippi iscritti,
attribuibili, in base alla stile delle raffigurazioni che ripor-
tano, tra la fine del VII e gli inizi del VI sec. a.C., dunque
ancora nella prima fase dell’espansione etrusca nella valle
Padana. Verosimilmente i cippi avevano la funzione di
segnacoli sepolcrali, decorati con cortei di animali fanta-
stici e completati da iscrizioni, in una delle quali possiamo
leggere la parola zilath, “magistrato”, seguito
dall’espressione misalalati, un locativo in riferimento alla
città, di nome Misala o Misa, nella quale questo personag-
gio aveva esercitato la sua carica: qualche studioso ha ipo-
tizzato che Misala o Misa possa essere il nome antico
dell’insedia-mento etrusco di Marzabotto.

Un altro sito archeologico molto noto dell’Etruria


Figura 2: particolare di uno dei cippi di Rubiera, padana è Spina, nei pressi dell’attuale Comacchio, in pro-
con l’iscrizione di uno zilath, 600 a.C. circa Bolo- vincia di Ferrara, anche se definire “etrusca” questa città
gna, Museo Civico Archeologico
può essere un’indebita semplificazione. Qui, in una serie
di ritrovamenti archeologici avvenuti in occasione della bonifica del Basso Ferrarese, è stata scoperto un atti-

76
vo porto fluviale su un ramo del fiu-
me Po, a poca distanza dal mare, a-
perto ai traffici che, attraverso il
grande fiume e il mare Adriatico,
mettevano in contatto la pianura Pa-
dana con il mondo greco. Spina era
quello che i Greci chiamavano un
emporion, una stazione commerciale
nella quale avremmo visto incrociarsi
Etruschi, Greci, Veneti e, più tardi,
anche Celti. A Spina, più che il mo-
desto abitato, colpiscono le estesis-
sime necropoli, con oltre 4 mila tom-
ba, spesso dotate di un prestigioso
corredo di vasi greci: in effetti da
Figura 3: Particolare di un vaso attico a figure rosse, 490 a.C. circa, Fer- Spina partivano per la Grecia cereali,
rara, Museo Archeologico Nazionale pelli e forse anche carne suina; in
cambio arrivavano le raffinate pro-
duzioni dei ceramisti greci, soprattutto di Atene, nei confronti delle quali la popolazione di Spina nutriva una
vera e propria passione. Per questo motivo il Museo Archeologico Nazionale di Ferrara, dove sono conserva-
ti i materiali provenienti dalle necropoli di Spina, ha una delle più importanti collezioni al mondo di vasi atti-
ci (ovvero prodotti nell’Attica, la regione di Atene).Un bel esempio è riportato alla figura 3: si tratta di un
vaso a figure rosse prodotto verso il 490 a.C., con la realistica rappresentazione di un leone.

La fortunata collocazione di Spina era il risultato di un delicato equilibrio delle forze della natura,
che in età romana si spezzò, conducendo alla rapida rovina della città. Leggiamo quanto scrive a proposito
Strabone:

Strabone, Geografia, V, 1, 7: la sorte di Spina


… Spina, che ora è solo un villaggio, ma anticamente era una ragguardevole città greca. A Del-
fi si mostra infatti il tesoro degli abitanti di Spina ed altre cose si raccontano intorno ad essi,
come di un popolo assai potente sul mare. Dicono anche che una volta la località fosse sul ma-
re, ma ora è nell’entroterra e dista dal mare circa 90 stadi [ovvero più di 16 km].

Significativa nel geografo la definizione di Spina come città greca: abbiamo detto in effetti che que-
sto emporio era un vero e proprio crocevia di etnie, anche se forse era prevalente quella etrusca. A far rientra-
re l’insediamento adriatico nell’orbita del mondo greco contribuì senza dubbio il fatto che gli Spineti invia-
rono doni al grande santuario di Apollo a Delfi, forse il principale luogo di culto della Grecia, accreditandosi
in questo modo come appartenenti, almeno per cultura, al mondo ellenico. La fortuna di Spina, ovvero il suo
sorgere su un braccio del Po che sfociava nell’Adriatico, rappresentò anche la sua disgrazia: i sedimenti por-
tati ogni anno dal grande fiume allontanarono progressivamente la linea di costa da Spina, tanto che ai tempi
di Strabone l’insediamento si trovava a circa 16 km dal mare; il porto, un tempo così attivo, si interrò e Spi-
na, da grande emporio commerciale, in età augustea si era trasformata in un misero villaggio.

2. I Liguri

Gli antichi Liguri erano stanziati in una regione molto più ampia della attuale Liguria, che compren-
deva un’ampia area della Francia meridionale e dell’Italia nord-occidentale, tra il Tirreno, gli Appennini e le

77
Alpi occidentali, cui tuttavia non corrisponde un’area culturale archeologica ben definita. L’etnia non costituì
mai uno stato unitario ligure, ma ancora al momento dello scontro con Roma appare divisa in tribù, capaci
tuttavia di coalizzarsi contro il comune nemico: tra queste tribù possiamo ricordare gli Ingauni e gli Intemelii
della costa ligure, gli Apuani del versante toscano degli Appennini, i Friniati dell’Appennino modenese. Gli
insediamenti in cui vivevano i membri di queste tribù erano costituiti da modesti agglomerati di capanne, an-
che se alcune tribù, al momento di opporsi ai Romani, crearono sulle cime delle montagne degli insediamenti
fortificati di maggiori dimensioni, in cui gli abitanti dei villaggi vicini potevano trovare rifugio.

La modestia degli insediamenti liguri corrisponde alle difficili condizioni economiche in questa po-
polazione viveva: è vero che Liguri avevano a disposizione per importazioni ed esportazioni l’eccellente por-
to naturale di Genova, ma le merci che potevano essere scambiate in questo emporio commerciale erano mol-
to scarse. L’antica Liguria era infatti una terra aspra e montuosa, la cui produzione agricola poteva al massi-
mo garantire la sopravvivenza, non certo delle eccedenze da esportare. È quanto emerge chiaramente da que-
sto passo di Strabone:

Strabone, Geografia, V, 2, 1: condizioni economiche della Liguria


Si parlerà ora della seconda parte dell’Italia, la Liguria, situata proprio nella zona degli Appen-
nini, fra la Celtica di cui abbiamo parlato e la Tirrenia. Questa regione non ha niente che meriti
di essere descritto, a parte il fatto che gli abitanti vivono sparsi in villaggi, arando e zappando
una terra aspra, o piuttosto, come dice Posidonio, “tagliando sassi”.

Il disprezzo che traspare nelle parole di Strabone è co-


mune a tutta la letteratura greca e latina, che in genere considera
i Liguri come la popolazione più miserevole e barbara dell’Italia:
un giudizio che non si fatica a comprendere se, per esempio, si
misura la distanza esistente tra i modelli della statuaria greca di
età classica, il punto di riferimento per tutta l’arte antica, e le
sconcertanti realizzazioni della scultura ligure, rappresentate dal-
le cosiddette statue-stele della Lunigiana, dal nome della regione
intorno a Luni, in provincia di La Spezia, da cui provengono la
maggior parte di questi documenti. Osserviamo per esempio la
statua chiamata Filetto I (dal luogo di ritrovamento, un piccolo
borgo in provincia di Massa e Carrara) rappresentata alla figura
4. Questo documento appartiene alla fase più tarda delle statue-
stele della Lunigiana, che prende avvio già agli inizi del I mil-
lennio a.C. per concludersi nell’età della romanizzazione e pre-
senta dunque caratteri già piuttosto evoluti rispetto alle fasi pre-
Figura 4: la statua-stele Filetto I, La Spe- cedenti, come una resa del volto più naturalistica e la presenza
zia, Museo Civico delle armi, in questo caso due piccoli giavellotti e un pugnale.

78
Alcune statue-stele più recenti riportano anche brevi iscrizioni in li-
gure. Le testimonianze su questa lingua sono per la verità scarsissime, tanto
che gli studiosi non si sono ancora riusciti a decidere se si tratti di un idioma
indoeuropeo, affine alle lingue celtiche, o piuttosto di una lingua preindoeuro-
pea. Nell’esempio riportato alla figura 5 abbiamo un monumento rinvenuto a
Zignago, in provincia di La Spezia, e che dovrebbe risalire al VI-V sec. a.C.
Siamo davanti, piuttosto che a una stele, a un cippo (a causa del suo notevole
spessore), sormontato da una testa stilizzata. Sul corpo del cippo appare una
breve iscrizione con le lettere mezunemusus, che sono state interpretate come
un nome personale; non mancano tuttavia interpretazioni divergenti, in ragio-
ne delle numerose incertezze che ancora oggi sussistono a proposito di questa
misteriosa lingua.

3. Le popolazioni della Transpadana

Con il termine Transpadana, che Augusto adotterà per definire la re-


gione XI nella sua riorganizzazione dell’Italia, intendiamo quella regione a
Figura 5: cippo iscritto da Zi-
gnago, VI-V sec. a.C., Geno- nord del Po che corrisponde alle odierne regioni della Val d’Aosta, del Piemon-
va, Museo Civico di Archeo- te centro-settentrionale e della Lombardia centro-occidentale. Il quadro etnico
logia Ligure
di questa area è piuttosto complicato: gli autori classici non conoscono infatti
nessun nome collettivo per designare le popolazioni che vi erano insediate, ma ricordano numerose tribù, che
talvolta sono considerate appartenenti all’etnia ligure, talvolta piuttosto affini ai Celti. Tra le principali di
queste popolazioni possiamo ricordare gli Orobi, i Leponzi, gli Euganei, i Camuni, i Trumplini, i cui nomi
oggi trovano continuità nelle denominazioni di catene montuose (le Alpi Orobie, sopra Bergamo, le Alpi Le-
pontine a nord del Lago Maggiore, i Colli Euganei presso Padova) o di valli alpine (la val Camonica e la val
Trompia, entrambe nel Bresciano). Riguardo alle relazioni esistenti tra queste tribù e altre popolazioni
dell’Italia già nell’antichità esistevano molte incertezze: gli autori Greci e Latini le accostavano a volte ai Li-
guri, a volte piuttosto alle popolazioni celtiche.

Dal punto di vista archeologico emergono da questo quadro abbastanza confuso due culture: quella
cosiddetta di Golasecca e quella della Val Camonica.

La cultura di Golasecca, che prende il no-


me da una località in provincia di Varese nella quale
vennero per la prima volte scoperte testimonianze
riferibili a questa civiltà, si sviluppò tra il IX e il IV
sec. a.C. in un ampia area del Piemonte Orientale,
della Lombardia occidentale e del Canton Ticino. La
sua fioritura è forse legata al ruolo di intermediazio-
ne commerciale che i Golasecchiani esercitavano tra
la pianura Padana e il mondo mediterraneo da un lato
(in primo luogo l’Etruria, ma dall’area golasecchiana
transitavano anche merci provenienti dalla Grecia) e
Figura 6: carro del tumulo di Lazzago, 480-450 a.C., le regioni a nord delle Alpi dall’altro. Le manifesta-
Como, Museo Civico “Paolo Giovio”
zioni della cultura di Golasecca a noi note provengo-
no soprattutto dalle necropoli, nelle quali veniva praticato il rito dell’incinerazione; le urne cinerarie dei

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membri della classe dirigente erano poi sepolte, insieme ad armi e a oggetti della vita quotidiana appartenuti
al defunto, sotto grandi tumuli di terra, segnati e circondati da pietre; in un caso eccezionale di un tumulo di
Lazzago, in provincia di Como, è stato rinvenuto addirittura un carro a quattro ruote, risalente agli anni 480-
450 a.C. (vedi figura 6). A giudicare dal buon numero di iscrizioni (dette convenzionalmente “leponzie”, dal
nome di uno dei popoli che secondo gli autori classici abitava nella zona) i Golasecchiani erano imparentati
con i Galli: le loro epigrafi in effetti, sebbene scritte in un alfabeto di derivazione etrusca, mostrano tratti co-
muni alle lingue celtiche. Nel corso del tempo e a seguito dei contatti sempre più stretti con gli Etruschi, due
insediamenti sembrano assumere sempre maggiore importanza, proprio in ragione del loro ruolo di tramiti
commerciali: la stessa Golasecca e soprattutto Como, una città-stato con la quale anche Roma si trovò a trat-
tare nel momento in cui si affacciò in questa regione.

La civiltà della Val Camonica è stretta-


mente legata alla tribù dei Camuni, più volte ricor-
dati nelle fonti letterarie latine e greche e stanziati
nella valle almeno a partire dagli inizi del I millen-
nio a.C. Le ricerche archeologiche al momento non
hanno rivelato molto a proposito degli insediamenti
e della cultura materiale dei Camuni e per questo lo
straordinario numero di incisioni rupestri della Val
Camonica acquista ancor maggior valore, offrendo-
ci le migliori possibilità per conoscere qualcosa
della vita di questo popolo. I glifi incisi sulle rocce
della Val Camonica dall’età Mesolitica (VIII mil-
lennio a.C.) fino all’età medievale sarebbero addi-
rittura 300 mila, ma solamente quelli del I millen-
nio a.C., che peraltro costituiscono oltre due terzi
del totale, sono attribuibili al popolo dei Camuni. In
questo periodo tra i soggetti più frequenti delle in-
cisioni vi sono guerrieri, scene di duello, raffigura-
zioni della vita economica, con immagini di caccia

Figura 7: la rappresentazione di un cervo in un’incisione (da una di esse è tratto il suggestivo cervide della
rupestre della Val Camonica figura 7), ma anche di agricoltura, riproduzioni di
armi e di oggetti della vita quotidiana. Non mancano incisioni recanti brevi testi in un alfabeto derivato da
quello etrusco: la lingua nella quale sono stati redatti, chiamata convenzionalmente camuno, non è stata deci-
frata, ma secondo alcuni studiosi ha strette affinità con quella retica, parlata dai vicini orientali dei Camuni.

4. I Reti

Veniamo ora a trattare proprio dei Reti. Questa popolazione occupava in Italia una zona che corri-
sponde oggi all’incirca alla regione Trentino – Alto Adige, ma nel complesso la loro area di stanziamento,
secondo le testimonianze degli autori classici, era assai più vasta, comprendendo i territori della Svizzera oc-
cidentale (con la regione dell’Engadina) e della regione austriaca del Tirolo. Questa area corrisponde alla dif-
fusione di una cultura che gli archeologi denominano di Fritzens – Sanzeno, dal nome dei due siti archeolo-
gici che ci hanno restituito i reperti più significativi di questa civiltà (Fritzens si trova oggi in Austria, mentre
Sanzeno è un villaggio della Val di Non, in Trentino). È stato dunque semplice associare i reperti materiali
della cultura di Fritzens – Sanzeno ai Reti.

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L’impressione che abbiamo dei Reti dalle fonti a nostra disposizione è quella di una popolazione di-
visa in numerose tribù, il cui territorio spesso coincideva con diverse vallate alpine, sostanzialmente pacifica
e soprattutto dedita all’agricoltura, anche se la regione che abitavano non era propriamente la più adatta a
questo tipo di attività: in alcune aree limitate comunque vi erano produzioni che raggiungevano livelli di ec-
cellenza, come per esempio il vino, che diverrà celebre in età romana.

Molto sviluppata, almeno sulla base delle nostre conoscenze, la vita religiosa. In essa spicca il culto
di una dea il cui nome stesso richiama i Reti, ovvero Reitia, forse una grande divinità “nazionale” di tutta
questa popolazione, sebbene, come vedremo, ci sono interpretazioni alternative a proposito di questa divinità.
Al suo fianco era molto venerato un dio maschile dell’agricoltura, che i Romani più tardi identificarono con
Saturno, ma il cui nome retico è ignoto. I siti e la documentazione archeo-
logica più interessanti della civiltà retica sono proprio legati alla sfera reli-
giosa. Un santuario nella già citata località di Sanzeno ci ha restituito nu-
merose statuette in bronzo offerte dai fedeli come ex-voto. Questo uso dei
bronzetti votivi veniva dagli Etruschi, che furono il punto di riferimento
culturale anche per i Reti; ma, dopo una prima fase in cui gli oggetti da
offrire al dio venivano importati dall’Etruria, nacque abbastanza precoce-
mente una produzione locale, di abbiamo testimonianza, per esempio, nel-
la statuetta di guerriero riportata alla figura 8, risalente al 450 a.C. circa.

Alcuni degli ex-voto ritrovati a Sanzeno riportano brevi epigrafi


dedicatorie in una lingua che mostra talvolta singolari punti di contatto
con l’etrusco. È il caso anche l’iscrizione che appare su un corno di cervo
donato a Reitia nel santuario che questa dea aveva a Magrè, in provincia di
Vicenza (vedi figura 9). Su questo singolare manufatto, che si data tra il
III e il II sec. a.C., compare la voce verbale t’inake, da confrontare con
Figura 8: statuetta votiva da
Sanzeno, 450 a.C., Sanzeno, Mu- l’etrusco zinake, “ha fatto”. È dunque possibile che tra la lingua retica e
seo Retico quella etrusca esistesse una qualche parentela, o quantomeno che i Reti

Figura 9: corno di cervo con dedica a Reitia, III-II sec. a.C., Este, Museo Nazionale Atestino

abbiano preso alcuni termini in prestito dagli Etruschi, così come utilizzarono il loro alfabeto.

5. I Veneti

L’ultima popolazione di cui dobbiamo parlare è quella dei Veneti, stanziata, nel momento della sua
massima espansione, nel territorio compreso fra il Po e l’Adriatico a sud, il lago di Garda e il fiume Mincio a
ovest, le Prealpi a nord e l’Isonzo a est e che aveva i suoi centri principali a Este e a Padova. Le fonti lettera-
rie greche e latine riconnettevano i Veneti con il mito di Troia: un eroe troiano di nome Antenore, come E-
nea scampato al disastro della sua città, sarebbe infatti fuggito verso Occidente con alcuni suoi compagni e,

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approdato nell’Italia settentrionale avrebbe fondato quella che in seguito sarebbe stata nota come la metropoli
dei Veneti, Padova. Una versione di questa leggenda è raccontata da Strabone:

Strabone, Geografia, V, 1, 4: l’ascendenza troiana dei Veneti


Quanto agli Eneti, c’è su di loro una duplice tradizione: alcuni infatti sostengono che sono
anch’essi coloni di quei Celti omonimi che abitano lungo le coste dell’Oceano, altri, invece,
che, dopo la guerra di Troia, alcuni degli Eneti della Paflagonia trovarono scampo qui, sotto la
guida di Antenore: adducono, a testimonianza di ciò, la cura cui attendono all’allevamento dei
cavalli, attività che oggi è quasi scomparsa del tutto, ma che una volta era tenuta in grande o-
nore presso di loro a ricordo dell’antico zelo verso le cavalle generatrici di mule. Di ciò fa
menzione anche Omero quando dice: «tra gli Eneti, da dove proviene la stirpe delle mule sel-
vagge».

Secondo un procedimento caratteristico dell’etnografia antica, Strabone lavora soprattutto sulle as-
sonanze fra i nomi dei popoli: poiché gli Eneti (il nome con il quale la popolazione veneta è chiamata dai
Greci) sono noti anche in Gallia, in particolare nell’odierna regione della Bretagna, che si affaccia
sull’Oceano Atlantico, Strabone ricorda la tradizione che fa dei Veneti dei coloni dei Celti. D’altra parte de-
gli Eneti erano ricordati da Omero anche in Asia minore (la Paflagonia ricordata dal geografo è infatti una
regione che si trova sulle coste del Mar Nero), nel suo racconto sulla guerra di Troia: ed ecco dunque che
Strabone coglie l’occasione per accennare brevemente all’impresa di Antenore; a riprova di questa ultima
teoria il nostro autore ricorda la comune cura che gli Eneti della Paflagonia e quelli dell’Italia avevano per
l’allevamento dei cavalli.

La leggenda delle origini troiane dei Veneti non può essere semplicemente relegate nell’ambito del
mito: il fatto che questa popolazione fosse stanziata sulle coste dell’Adriatico settentrionale in effetti la ren-
deva particolarmente aperta e ricettiva nei confronti degli influssi culturali che, attraverso quel mare, giunge-
vano da Oriente e dalla Grecia in particolare: centro di scambio di merci e di idee in questa area era in parti-
colare il centro di Adria, che oggi si trova in provincia di Rovigo, e che nell’antichità svolgeva, a nord del
Po, un ruolo simile a quello che la già citata Spina aveva a sud del grande fiume.

Dal punto di vista etnico tuttavia non vi è dubbio che i


Veneti fossero una popolazione indoeuropea, affine ad altre
tribù italiche: la lingua degli antichi Veneti mostra in particola-
re molte somiglianze con il latino, un elemento che induce a
dare credito alle affermazioni di un’antichissima parentela tra
Romani e Veneti, anche se per le fonti classiche questo rappor-
to era creato dalle comuni origini troiane dei due popoli.

Si è già ricordato come la civiltà veneta fosse partico-


larmente pronta ad accogliere le influenze culturali esterne: ol-
tre all’apporto greco è da sottolineare l’importanza dei contatti
con l’Etruria e, nel momento in cui le popolazioni galliche si
stanziarono nel territorio a ovest del Veneto, con i Celti della
pianura Padana, nonostante tra i due popoli i rapporti fossero
spesso piuttosto tesi dal punto di vista politico e militare. A lo-
ro volta i Veneti furono in grado di trasmettere elementi della
Figura 10: situla Benvenuti, fine VII sec. loro cultura ad alcuni popoli vicini, per certi aspetti più arretra-
a.C., Este, Museo Nazionale Atestino ti, come gli Istri che abitavano il territorio oltre l’Isonzo, e i già
ricordati Reti, stanziati a nord dei Veneti.

82
Tra i prodotti della cultura materiale veneta emergono per la loro originalità le cosiddette situle: si
tra di una sorta di vaso a forma di secchiello, di foggia troncoconica, in genere in bronzo, che presenta il più
delle volte una decorazione a sbalzo. La situla è una forma vascolare nota anche ad altre culture antiche; i
Veneti tuttavia diedero alle loro produzioni un’impronta particolare, grazie soprattutto alle decorazioni, che
fanno delle situle venete una preziosa testimonianza sui riti religiosi, ma anche sulla vita quotidiana di questo
popolo. Nell’immagine di figura 10 possiamo ammirare uno dei massimi esempio dell’arte veneta delle situ-
le, la cosiddetta situla Benvenuti, risalente alla fine del VII sec. a.C. e rinvenuta nel corredo di una tomba
femminile. Le ricche decorazioni di questo oggetto rappresentano in particolare scene di banchetto di cui so-
no protagonisti i nobili, spesso abbigliati con pesanti mantelli, grandi cappelli a tesa larga e singolari calzatu-
re a punta. Una curiosa scena di ferratura di cavalli ci conferma poi il ruolo importante che questi animali a-
vevano nella cultura veneta: a questo proposito sappiamo tra l’altro che il tiranno di Siracusa fece arrivare in
Sicilia cavalle venete, al preciso scopo di creare un allevamento di destrieri con i quali gareggiare nei giochi
olimpici.

Non conosciamo molto della religiosità veneta, se non per quanto riguarda i riti legati alla morte,
che prevedevano l’incinerazione e la celebrazione di un banchetto funebre in onore del defunto, le cui ceneri
erano deposte insieme ad un corredo. Sappiamo tuttavia che erano molto praticati i culti legati alle acque me-
dicamentose, che sgorgavano, allora come oggi, particolarmente nell’area dei colli Euganei: il dio Aponus,
che ha dato il nome alla nota località di Abano Terme, sebbene le informazioni che possediamo risalgano so-
prattutto all’età romana, era già venerato dagli antichi Veneti.

Una valenza salutare aveva forse anche un’altra di-


vinità, che abbiamo già avuto modo di incontrare a proposito
della popolazione dei Reti, ma il cui culto era diffuso anche
nell’area veneta: Reitia. Secondo un’ipotesi l’origine del cul-
to di Reitia va individuato proprio nell’area alpina e sarebbe
giunto in Veneto in conseguenza di quei contatti culturali fra
Reti e Veneti di cui si accennava in precedenza Secondo al-
tri studiosi Reitia era invece una dea originariamente veneta,
il cui nome sarebbe da connettere con la radice indoeuropea
rekt-, col significato di “raddrizzare”: dunque una divinità
guaritrice, in grado di “raddrizzare” le condizioni di salute
dei fedeli che a lei si rivolgevano; è probabile che la divinità
proteggesse la fertilità della natura e della donna. A testimo-
nianza del culto di Reitia si riporta alla figura 11 una sottile
laminetta bronzea rinvenuta ad Este, dove esisteva un santua-
rio dedicato alla dea, attivo tra il IV e il II sec. a.C. Il docu-
mento raffigura una figura femminile, talvolta identifi-cata
con una fedele di Reitia, talvolta con la stessa dea.
L’abbigliamento è quello caratteristico delle donne venete:
una lunga tunica, trattenuta in vita da un cinturone.

Figura 11: Lamina di bronzo con immagine


della dea Reitia di Este (IV-II sec. a.C.)

83
Si è già accennato al ca-
rattere indoeuropeo della lingua
venetica e alle sue somiglianze
con la lingua latina: le iscrizioni
in questo idioma sono documen-
tate fin dal VI sec. a.C., incise in
un alfabeto di derivazione etru-
sca di cui si può vedere un e-
sempio ancora fra III e II sec.
a.C. in un documento sempre
proveniente dal santuario di Este
in cui è incisa la dedica posta da
Figura 11: Laminetta in bronzo con dedica a Reitia ed esercizi di scrittu-
ra, III-II sec. a.C., Este, Museo Nazionale Atestino parte di un personaggio di nome
Voltiomnos a Reitia (vedi figura
12). Nella parte inferiore di questa laminetta in bronzo, conservata ad Este, nel Museo Nazionale Atestino,
sono invece riportati degli esercizi di scrittura in cui forse lo stesso Voltiomnos incise più volte le stesse lette-
re (nelle prime quattro linee) e poi tutta la sequenza alfabetica della lingua veneta (alla quinta linea).

I documenti più tardi in lingua vene-


tica vennero redatti invece in alfabeto latino.
Ne vediamo una testimonianza nella figura
13, una stele proveniente da una delle altre
principali città dei Veneti, Padova, nella qua-
le è nota una produzione artistica di stele fi-
gurate, che risale alla piena età della roma-
nizzazione. L’esempio qui riportato è forse
l’ultima in ordine cronologico di questa serie
e risale già al I sec. a.C. (Padova, Museo Ci-
vico); queste stele, che avevano una funzione
funeraria, prendevano in lingua veneta il no-
me di ecupetaris (il termine, al singolare e
nella forma equpetars appare alla fine
dell’epigrafe). In questa stele appare una de-
funta di nome Ostiala Gallenia con il tipico
costume veneto: quella tunica stretta in vita
che abbiamo già visto nella laminetta di Rei-
tia; qui l’indumento è accompagnato da una
mantellina allacciata sul petto. Ostiala appare
Figura 13: stele di Ostiala Gallenia, I sec. a.C., Padova, Mu- in viaggio su un elegante carro a due ruote,
seo Civico trainato da due cavalli: si tratta di un evidente
simbolo del viaggio verso l’Oltretomba, con
un linguaggio per immagini che ritorna anche in altre aree dell’Italia antica (per esempio nelle urne cinerarie
della città etrusca di Volterra, dove si trovano altri esempi di raffigurazioni di veicoli da trasporto, a simbo-
leggiare appunto l’estremo viaggio).

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6. Per saperne di più

• Sui Liguri: R. De Marinis, Liguri e Celto-liguri, «Italia omnium terrarum alumna», Milano 1988,
pp. 159-259 [BAU STO/C I A/a 2].

• Sui Reti: R. De Marinis, Le popolazioni alpine di stirpe retica, «Italia omnium terrarum alumna»,
Milano 1988, pp. 101-155 [BAU STO/C I A/a 2]

• Sui Veneti: A.M. Chieco Bianchi, I Veneti, «Italia omnium terrarum alumna», Milano 1988, pp. 3-
98 [BAU STO/C I A/a 2].

85
CAPITOLO VI

ROMA ACQUISISCE L’EGEMONIA SUL LAZIO

1. La situazione del Lazio alla caduta della monarchia di Roma

Alla caduta della monarchia etrusca Roma, secondo la tradizione letteraria, controllava nell'antico
Lazio un territorio che si estendeva dal Tevere alla regione Pontina, a seguito delle conquiste, ma anche del-
l'accorta politica matrimoniale condotta dai re etruschi (Tarquinio il Superbo, per esempio, aveva dato in
sposa la figlia ad un notabile della città latina di Tusculum, Ottavo Mamilio).Il dato è confermato da un im-
portantissimo documento, il I trattato romano-cartaginese conservatoci da Polibio.

Polibio, Storie, III, 22: Il I trattato romano-cartaginese


Ebbene, il primo trattato tra Romani e Cartaginesi è dell'epoca di Lucio Giunio Bruto e Marco
Orazio, i primi consoli che furono eletti dopo la fine della monarchia, dai quali fu anche consa-
crato il santuario di Giove Capitolino. Questi eventi accaddero 28 anni prima del passaggio di
Serse in Grecia. L'abbiamo trascritto dandone l'interpretazione più precisa possibile. La diffe-
renza tra la lingua dei Romani di oggi e quella antica è così forte, infatti, che anche i più esperti
conoscitori a stento comprendono qualcosa, dopo avervi fissato la loro attenzione. Il trattato è
il seguente: «A queste condizioni ci sia amicizia tra i Romani e gli alleati dei Romani e i Car-
taginesi e gli alleati dei Cartaginesi: né i Romani né gli alleati dei Romani navighino al di là
del promontorio Bello, a meno che non vi siano costretti da una tempesta o da nemici; qualora
uno vi sia trasportato a forza, non gli sia permesso comprare né prendere nulla, tranne quanto
gli occorre per riparare l'imbarcazione o per compiere sacrifici, e si allontani entro cinque gior-
ni. A quelli che giungono per commercio non sia possibile portare a termine alcuna transazio-
ne, se non in presenza di un araldo o di un cancelliere. Quanto sia venduto alla presenza di co-
storo, se venduto in Libia o in Sardegna, sia dovuto al venditore sotto la garanzia dello stato.
Qualora un romano giunga in Sicilia, nella parte controllata dai Cartaginesi, siano uguali tutti i
diritti dei Romani. I Cartaginesi non commettano torti ai danni degli abitanti di Ardea, Anzio,
Laurento, Circei, Terracina, né di alcun altro dei Latini, quanti sono soggetti; nel caso di quelli
non soggetti, si tengano lontani dalle loro città: ciò che prendano, restituiscano ai Romani intat-
to. Non costruiscano fortezze nel Lazio. Qualora penetrino da nemici nella regione, non passi-
no la notte nella regione».

Secondo Polibio questo primo trattato di alleanza tra Romani e Cartaginesi risaliva al primo anno
della Repubblica, nel momento in cui al potere dei re era succeduto quello dei consoli; nella tradizione roma-
na questo evento era datato al 509 a.C.; Polibio, proponendo un sincronismo con un famoso evento della sto-
ria greca, la seconda invasione persiana della Grecia, sotto la guida di Serse, che risale al 480 a.C. e datando
la stesura del patto 28 anni prima di questo episodio, ci fornisce una data di un anno posteriore, il 508 a.C.
Tuttavia il fatto che più cin interessa è che in questo documento i Cartaginesi si impegnavano a non attaccare
Ardea, Anzio, Lavinio, Circei e Terracina e ogni altra città del Lazio soggetta a Roma; per quanto concerne-
va le città latine non soggette a Roma, se un esercito punico le avesse conquistate, avrebbe dovuto conse-
gnarle all'alleato. Il trattato romano-cartaginese, dunque, riflettendo la situazione politica che si era formata
negli ultimi anni della monarchia etrusca, ci fa sapere che Roma aveva sostanzialmente il controllo di tutta
quella regione che era nota con il nome di Latium vetus.

Pochi anni dopo l’egemonia di Roma sul Lazio rischiò seriamente di crollare: buona parte delle città
latine approfittarono infatti delle difficoltà interne di Roma per affrancarsi dalla sua egemonia. Le città latine
si strinsero in una lega i cui membri condividevano alcuni diritti, forse ricordo dell’originaria unità etnica del

86
popolo latino, precedente alla creazione delle diverse città-stato: lo ius connubii, il diritto di contrarre matri-
moni legittimi con cittadini di altre comunità latine, lo ius commercii, il diritto di siglare contratti aventi valo-
re legale fra cittadini appartenenti a comunità diverse (di particolare importanza, dal momento che consentiva
ad un membro della lega di possedere terre entro i confini di una città diversa dalla propria) e infine lo ius
migrationis, grazie al quale un latino poteva assumere i pieni diritti civici in una comunità diversa da quella
in cui era nato semplicemente prendendovi residenza.

A questo periodo di indipendenza dei Latini risale forse il testo di un’antica iscrizione che Catone il
Censore (uomo politico vissuto tra la fine del III e la prima metà del II sec. a.C., autore della prima opera sto-
rica in lingua latina: i suoi predecessori scrissero infatti in greco) poté consultare e riportò nel suo trattato dal
titolo Le origini:

Catone, Origini, II, 28 ed. Chassignet: le comunità latine fondano un lucus


Il bosco sacro di Diana fu consacrato nella foresta di Aricia da Egerio Bebio di Tusculo, ditta-
tore dei Latini. Questi i popoli riuniti: i Tusculani, gli Aricini, i Lanuvini, i Laurenti, i Corani, i
Tiburtini, i Pometini, i Rutuli di Ardea ...

L'elenco delle comunità latine ricordate da Catone non rappresenta la totalità dei membri della Lega
Latina ed è in effetti molto più breve di quello delle città latine che si strinsero in lega contro Roma che ci è
fornito da Dionigi di Alicarnasso e che esamineremo in seguito. La differenza è spiegabile ricordando che
questo passo delle Origini di Catone ci è stato conservato solamente attraverso una citazione di Prisciano, un
grammatico vissuto tra il V e il VI sec. d.C., che era interessato soprattutto alla forma dell’etnico Ardeatis e
che dunque potrebbe aver interrotto la citazione dopo questo termine, anche se nell'opera di Catone l'enume-
razione proseguiva. Si aggiunga che il documento citato da Catone a rigor di termini non ricorda i membri di
una lega anti-romana, ma solamente le comunità che presero parte alla dedica di un bosco sacro (in termini
latini un lucus) alla dea Diana, nei pressi di Aricia; significativo il fatto che in questo documento la figura di
leader dei Latini sia rappresentata da un uomo della città di Tusculum, che come vedremo sembra aver avuto
un ruolo di guida nella Lega.

2. La battaglia del lago Regillo e il foedus Cassianum

La Lega Latina diede buona prova sul campo di battaglia sconfiggendo nella battaglia di Aricia, in-
sieme ad Aristodemo di Cuma, Arrunte, figlio del re di Chiusi, Porsenna. Quest’ultimo già da qualche tempo
tentava di inserirsi nel vuoto di potere lasciato dai Tarquini e di acquisire il controllo del Lazio: sono noti in-
fatti anche i suoi tentativi di conquistare Roma, anche questi falliti secondo la tradizione romana.

Qualche anno dopo la vittoria di Aricia la Lega tentò di affermarsi definitivamente attaccando la
stessa Roma: secondo la tradizione letteraria la guerra sarebbe stata suscitata dal già ricordato Ottavo Mami-
lio di Tusculum, con la speranza di ricollocare sul trono di Roma il proprio suocero, Tarquinio il Superbo; ma
è un procedimento caratteristico della storiografia sulla Roma arcaica spiegare in termini di connessioni fa-
miliari gli eventi politici e militari, un’interpretazione che ovviamente non sempre è del tutto credibile. Ecco
in effetti come presenta i termini della questione Dionigi di Alicarnasso:

Dionigi di Alicarnasso, Storia di Roma arcaica, V, 50, 1: la rivolta dei Latini contro Roma
Al tempo della 70° Olimpiade, nella quale vinse la corsa dello stadio Nicea di Opunto, nella
Locride, mentre Smiro era arconte ad Atene (500/499 a.C.), assunsero la dignità consolare Po-
stumo Cominio e T. Larcio (501 a.C.). Nel corso del loro ufficio, le città latine si staccarono
dall'amicizia con i Romani, poiché Ottavo Mamilio, il genero di Tarquinio, aveva convinto gli

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uomini più illustri di ciascuna città, in parte con promesse di doni, in parte con preghiere, a co-
operare al ritorno degli esuli.

In un passo di poco seguente quello che abbiamo appena visto Dionigi di Alicarnasso evoca
l’assemblea della Lega Latina nella quale, non senza un acceso dibattito, si decise di dichiarare guerra a Ro-
ma, ricordando anche le città che strinsero solennemente alleanza:

Dionigi di Alicarnasso, Storia di Roma arcaica, V, 61, 1-3: la Lega Latina in guerra
Riunitasi a Ferentino un'assemblea generale, coloro che esortavano a fare ricorso alle armi, e in
particolare Tarquinio e suo genero Mamilio, insieme coi capi della città di Aricia, accusarono
con violenza coloro che cercavano di opporsi alla guerra. Trascinati dai discorsi di costoro, tut-
ti i delegati della nazione latina decisero di intraprendere la guerra contro i Romani; e perché
nessuna città tradisse la causa comune o interrompesse le ostilità senza il consenso di tutti,
pronunciarono giuramenti reciproci e decretarono che coloro che non avessero osservato gli
accordi sarebbero stati esclusi dai trattati di alleanza, maledetti e considerati nemici di tutti. I
delegati che sottoscrissero i patti e pronunciarono i giuramenti provenivano da queste città:
Ardea, Aricia, Boville, Bubento, Cora, Carvento, Circea, Corioli, Corbio, Cabo, Fortinea, Ga-
bii, Laurento, Lanuvio, Lavinio, Labici, Nomento, Norba, Preneste, Pedo, Quercetola, Satrico,
Scazia, Sezia, Tivoli, Tusculo, Tolerio, Tellene e Velletri; da tutte queste città bisognava sce-
gliere gli uomini idonei alla spedizione, nella quantità che sarebbe parsa opportuna ai coman-
danti, Ottavo Mamilio e Sesto Tarquinio: essi, infatti erano stati scelti generali con pieni poteri.

In una leggendaria battaglia combattuta nel 496 a.C. sul lago Regillo, un piccolo specchio d’acqua
del Lazio oggi scomparso, questa coalizione venne battuta dai Romani. Tra gli esiti dello scontro si ebbe l'u-
scita di scena di Tarquinio, che finì i suoi giorni a Cuma, presso Aristodemo, ma soprattutto la conclusione di
un trattato che avrebbe regolato i rapporti tra Roma e i Latini per i successivi 150 anni.

Il trattato, siglato nel 493 a.C. da parte romana dal console di quell'anno Spurio Cassio e dunque no-
to come trattato Cassiano (foedus Cassianum), prevedeva un accordo bilaterale tra Roma e la Lega Latina: le
due parti si impegnavano non solo a mantenere tra di loro la pace e a comporre amichevolmente eventuali
dispute commerciali, ma anche a prestarsi aiuto nel caso una delle due parti fosse stata attaccata; l'eventuale
bottino delle campagne di guerra comuni sarebbe stato equamente suddiviso. Inoltre i nuovi alleati, Roma da
una lato e i Latini dall’altro, si riconoscevano reciprocamente i diritti che abbiamo visto valere all'interno del-
la Lega Latina: ius connubii, ius commercii e ius migrationis.

Tra gli strumenti più efficaci, grazie ai quali gli alleati riuscirono a consolidare le proprie vittorie
militari e a distribuire equamente i frutti della conquista, è da ricordare la fondazione di colonie sul territorio
strappato ai nemici. I cittadini dei nuovi centri provenivano sia da Roma, sia dalle altre comunità latine; spes-
so vi venivano inglobati anche gli abitanti originari della località colonizzata che non erano caduti in guerra o
non erano stati scacciati dalle loro sedi.

Ecco come Dionigi di Alicarnasso ci riferisce i termini del trattato Cassiano:

Dionigi di Alicarnasso, Storia di Roma arcaica, VI, 95, 1-2: il foedus Cassianum
«Ci sia pace reciproca tra i Romani e le città latine, finché il cielo e la terra abbiano la medesi-
ma posizione. Né essi combattano tra loro, né conducano nemici da altre nazioni, né a chi porta
guerra offrano strade sicure, aiutino con ogni mezzo chi di loro è coinvolto in una guerra, en-
trambi abbiano parti uguali delle prede e del bottino fatto a danno dei nemici comuni. Le sen-
tenze sui contratti privati vengano pronunciate entro dieci giorni, presso la popolazione in cui
sia stato fatto il contratto. A questi patti non sarà lecito aggiungere o togliere alcunché se non
ciò su cui consentano Romani e Latini tutti».

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Nel 486 a.C. Roma completò il suo sistema di alleanze stringendo un accordo con gli Ernici, una
popolazione che, come abbiamo visto nel cap. IV, abitava la valle del fiume Sacco, a sud-est di Roma, in un
territorio incuneato tra i due popoli ostili degli Equi e dei Volsci e che dunque aveva un particolare valore
strategico. I termini dell'alleanza con gli Ernici sarebbero stati i medesimi del trattato Cassiano.

3. I conflitti con Sabini, Equi e Volsci

L'alleanza stretta da Roma con la Lega Latina e gli Ernici si rivelò particolarmente preziosa per
fronteggiare la minaccia proveniente da tre popolazioni che dagli Appennini premevano verso occidente, ver-
so la piana costiera del Lazio: i Sabini, gli Equi e i Volsci. Questo movimento del resto faceva parte di un
moto più generale, che coinvolse quasi tutta l'Italia centro-meridionale tra la fine del VI sec. a.C. e gli inizi
del secolo seguente e di cui furono protagoniste le popolazioni italiche di lingua osca. Così come le popola-
zioni sannitiche cercavano di espandersi verso le pianure della Campania (un tentativo coronato da successo,
come abbiamo visto nel cap. III, e che diede vita alla nuova Lega Campana), così i loro vicini settentrionali
tentarono di fare altrettanto verso le aree pianeggianti del Lazio, scontrandosi però con Roma e i suoi alleati.

Le fonti riportano per il V sec. a.C. una serie interminabile di conflitti tra Roma e queste popolazioni
montanare, in particolare gli Equi e i Volsci. Spesso l'esito fu favorevole a Roma e ai suoi alleati, ma mai si
giunse ad una svolta definitiva. È lecito pensare che, piuttosto che di vere e proprie campagne di guerra su
vasta scala, si sia trattato di razzie o di scaramucce che videro impegnati da una parte e dall'altra pochi arma-
ti.

Partendo da meridione, il primo popolo che si incontra è quello dei Volsci. Discesa dagli Appennini
verso la fine del VI sec. a.C., questa popolazione riuscì ad occupare tutta la pianura Pontina e le città latine di
Terracina, Circei, Anzio, Cora e Velletri (l'antica Velitrae): in pratica in pochi anni tutta la parte meridionale
del Lazio, un tempo parte del regno di Tarquinio il Superbo, era andata perduta per Roma.

Nell'area dei Colli Albani l'avanzata dei Volsci si saldò con quella degli Equi, i quali, dalla sponda
occidentale del Lago del Fucino, avanzarono conquistando la regione dei monti Prenestini e almeno due im-
portanti città latine, Tivoli (l'antica Tibur) e Praeneste, e minacciando la stessa Tusculum. Gli alleati Romani,
Latini ed Ernici riuscirono a bloccare l’invasione ai Colli Albani, in particolare al passo dell'Algido, teatro di
un'importante vittoria contro gli eserciti coalizzati di Equi e Volsci nel 431 a.C.

Ancora più a nord erano i Sabini a minacciare direttamente Roma. Abbiamo visto come gli antichi
stessi riconoscessero il ruolo avuto da questa popolazione nei primi tempi di Roma. Il processo di integrazio-
ne come abbiamo già ricordato, poteva assumere il volto pacifico di una migrazione di massa come quella
della gens sabina dei Claudii, ma anche quello più inquietante di improvvisi attacchi, come quello condotto
su Roma, nel 460 a.C., dal sabino Appio Erdonio, sventato solo grazie al soccorso delle truppe alleate di Tu-
sculum.

Alcuni aspetti del lungo conflitto con gli Equi e Volsci emergono con chiarezza dal seguente passo
di Livio, che si riferisce ad eventi del 459 a.C.

Livio, III, 22, 2-4: Gli alleati Romani, Latini ed Ernici contro i Volsci e gli Equi
Sotto i consoli Quinto Fabio e Lucio Cornelio, subito all'inizio dell'anno, s'ebbero dei disordini.
I tribuni istigavano la plebe; Latini ed Ernici annunciavano una grossa guerra da parte dei Vol-
sci e degli Equi: le legioni dei Volsci, essi dicevano, si trovavano già ad Anzio. Si aveva un
gran timore che anche la colonia sarebbe passata al nemico; e stento si ottenne dai tribuni della
plebe il consenso a che fosse data precedenza alla guerra. I consoli si divisero quindi i compiti:
a Fabio fu dato l'incarico di condurre le legioni ad Anzio, a Cornelio di rimanere di presidio a

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Roma, perché una parte dei nemici non venisse, com'era abitudine degli Equi, a compiere sac-
cheggi. Gli Ernici e i Latini furono invitati a fornire truppe, secondo quanto era stabilito dal
trattato, e l'esercito risultò costituito per due terzi di alleati, per un terzo di cittadini.

Nella testimonianza di Livio in primo luogo è da notare l'intreccio tra le questioni di politica estera e
la politica interna: non dobbiamo dimenticare infatti che negli stessi anni in cui Roma doveva affrontare la
minaccia delle popolazioni appenniniche, il dissidio interno tra la componente patrizia e quella plebea (gui-
data dai suoi leader, i tribuni della plebe) lacerava lo stato. La presenza di un costante pericolo alle frontiere
consentiva alla plebe, che forniva gran parte delle truppe per l'esercito, di usare come arma politica contro il
patriziato la renitenza alla leva; nell’episodio narrato da Livio il rischio di lasciare Roma priva di difese fu
evitato solo di poco. Un secondo elemento rilevante è dato dal ruolo fondamentale degli alleati Latini ed Er-
nici, che in questa occasione, come in altre, fornirono lealmente il loro contributo di soldati, doppio rispetto
al contingente romano.

4. Il conflitto con Veio

Se, per bloccare l'avanzata


delle popolazioni montanare, Roma
poté contare sul decisivo aiuto di La-
tini ed Ernici, essa si trovò a fronteg-
giare da sola un avversario assai me-
glio organizzato delle tribù appenni-
niche, col quale confinava a setten-
trione: la potente città etrusca di
Veio, situata a circa 15 km. a nord di
Roma e sua rivale nel controllo delle
vie di comunicazione lungo il basso
corso del Tevere e delle saline che si
trovavano alla foce del fiume (vedi
figura 1).

Figura 1: il territorio di Roma e Veio Il contrasto tra Roma e Veio


attraversò tutto il V sec. a.C., per
concludersi solo all'inizio del secolo seguente, e sfociò in particolare in tre guerre. Nella prima (483-474
a.C.) i Veienti riuscirono a segnare un punto a loro favore occupando un avamposto sulla riva sinistra, la riva
"latina", del Tevere: Fidene. Il tentativo di reazione di Roma finì con una tragedia: un esercito di circa 300
soldati, composto esclusivamente dai membri della gens Fabia e dai loro clienti, venne annientato sul fiume
Cremera, piccolo affluente di sinistra del Tevere. L'epopea del Cremera, che senza dubbio, nella forma in cui
ci è tramandata, deve molto al modello dell'eroica resistenza dei 300 Spartani di Leonida alle Termopili, mo-
stra l'ultimo e più chiaro esempio di una forma di guerra "aristocratica", che già allora stava per essere sop-
piantata dagli eserciti di opliti schierati a falange. A seguito della vittoria, Veio si vide riconoscere il posses-
so su Fidene.

Nella II guerra veiente (437-426 a.C.) i Romani riuscirono a vendicare la sconfitta: il romano Aulo
Cornelio Cosso uccise in duello quello che le fonti chiamano il tiranno di Veio, Lars Tolumnio; Fidene venne
conquistata e infine distrutta dai Romani.

Nella III guerra veiente (405-396 a.C.) il teatro delle operazioni si spostò lungo le mura della stessa
Veio, che poteva godere di un’invidiabile posizione difensiva, dal momento che sorgeva su una collina, dife-

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sa da ripide scarpate e dal corso dei torrenti Valchetta e Due Fossi. L’assedio di Veio sarebbe durato ben die-
ci anni e già questo particolare ci fa capire come il racconto delle operazioni sia chiaramente esemplificato su
quello della presa di Troia. Inoltre tutta la vicenda della conquista della città etrusca è pervasa da un atmosfe-
ra di fatalità e misticismo che ha contribuito in modo determinante a disegnare la figura del conquistatore di
Veio, Marco Furio Camillo. Significativo, in questo senso, il racconto di come Camillo avesse privato i
Veienti della loro divinità protettrice, Giunone, promettendo alla dea un tempio ed un culto a Roma. Il voto
fu regolarmente esaudito dopo la conquista della città, con l’assenso della stessa Giunone, come ci racconta il
biografo Plutarco:

Plutarco, Vita di Camillo, 6, 1-2: Camillo trasferisce a Roma il culto di Giunone


Dopo il sacco della città Camillo decise di trasferire a Roma la statua di Giunone, secondo il
voto. Radunati allo scopo gli operai, cominciò a sacrificare e invocò la dea di gradire il loro ze-
lo e di abitare propizia con gli dèi di Roma; la statua allora, dicono, bisbigliò sommessamente
che accettava volentieri. Livio racconta, invece, che Camillo pregava e invitava la dea tenendo
una mano sulla statua, e alcuni dei presenti risposero che essa accettava volentieri e bramava di
seguirli.

Alla fine del lungo assedio, la città venne presa e distrutta: Veio scontò il particolarismo delle città
etrusche, che ufficialmente non le prestarono alcun soccorso o addirittura, come Cere, si schierarono dalla
parte di Roma; gli unici aiuti vennero dalle città falische di Capena e Falerii, che come abbiamo detto erano
abitate da una popolazione affine etnicamente ai Latini, ma che da tempo era nell'orbita culturale e politica
degli Etruschi, per la sua posizione geografica sulla sponda destra del Tevere.

La presa di Veio segnò una svolta importante per Roma: il lunghissimo assedio aveva tenuto per
molti anni i soldati romani lontani dai loro campi. Per questo motivo si rese necessaria l'introduzione di una
paga, detta stipendium. Proprio per far fronte alle accresciute spese militari venne introdotta una tassa straor-
dinaria chiamata tributum, che gravava in misura proporzionale sulle diverse classi di censo in cui erano in-
quadrati i cittadini romani, a seconda delle loro proprietà. L’entusiasmo suscitato da questo provvedimento
fra i soldati plebei fu presto smorzato dai capi della plebe, i tribuni, che mostrarono come quella che, con
termine moderno, potremmo chiamare la copertura finanziaria della paga ai soldati poteva essere garantita
solo istituendo una nuova tassa, che in larga misura sarebbe stata pagata dalla stessa plebe. Leggiamo infatti
cosa scrisse a questo proposito Livio:

Livio, IV, 59, 11 – 60, 3: l'istituzione dello stipendium e del tributum


S'aggiunse poi la concessione più opportuna fra tutte quelle fatte dai maggiorenti alla moltitu-
dine: prima che la plebe e i suoi tribuni vi facessero alcun accenno, il Senato decretò che i sol-
dati ricevessero la paga dallo stato, mentre fino a quel tempo avevano compiuto il servizio mi-
litare a proprie spese. Si tramanda che mai nessuna concessione fu accolta dalla plebe con tanta
gioia... Ma i tribuni della plebe, gli unici che non condividevano la letizia e la concordia comu-
ne dei due ordini, sostenevano che il provvedimento non sarebbe stato così gradito ai patrizi
né così favorevole a tutti i cittadini come essi credevano: in effetti era a prima vista migliore di
quello che si sarebbe in realtà dimostrato. Infatti da dove si poteva raccogliere il denaro neces-
sario, dicevano i tribuni, se non imponendo un tributo al popolo?

Non dobbiamo tuttavia dimenticare che la vittoria su Veio fruttò soprattutto la conquista di un ampio
e fertile territorio, nel quale vennero insediati numerosi coloni romani provenienti dalle fila della stessa ple-
be, alleviando così notevolmente le difficoltà economiche in cui versavano gli strati sociali inferiori della po-
polazione romana.

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5. Per saperne di più

• Sui temi trattati in questo e nei capitoli seguenti, dunque sulla conquista dell’Italia da parte di
Roma e sulle vicende della regione fino alla fine del mondo antico un utile punto di partenza
verrà dalle sezioni corrispondenti di un buon manuale generale di storia romana, come per e-
sempio M. Cary – H.H. Scullard, Storia di Roma, Bologna 1981 [BAU 937 S 15]; M.A. Levi –
P. Meloni, Storia romana dalle origini al 476 d.C., Milano 19865 [BAU STO COLL. PROVV.
937 LEV 2]; G. Clemente, Guida alla storia romana: eventi, strutture sociali, metodi di ricer-
ca, Milano 1990 [937 S 11]; L. Bessone – R. Scuderi, Manuale di storia romana, Bologna
19992 [BAU 937 S 9]; E. Gabba et alii, Introduzione alla storia di Roma, Milano 1999 [BAU
937 S 10].

• R.M. Ogilvie, Le origini di Roma, Bologna 1995 [BAU 937.01 S 6].

• M.A. Levi, Plebei e patrizi nella Roma arcaica, Como 1992 [BAU STO COLL. PROVV.
937(D) LEV].

• A.M. Moretti Sgubini (a cura di), Cerveteri, Vulci. Città d'Etruria a confronto. Catalogo della
Mostra. Roma, Museo nazionale etrusco di Villa Giulia, Villa Poniatowski, 1 ottobre-30 dicem-
bre 2001, Roma 2001 [BAU 937.5 A 8].

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CAPITOLO VII

LA PENETRAZIONE CELTICA IN ITALIA

1. Origini e caratteri generali delle popolazioni celtiche

I risultati raggiunti da Roma con il successo su Veio furono momentaneamente messi in pericolo da
un evento improvviso e drammatico: la calata di una tribù celtica sulla città. Questo evento ci consente tra
l’altro di soffermarci su quello che fu, in ordine di tempo, l’ultimo apporto etnico al popolamento dell’Italia
antica, quello appunto dei Celti. Con quest’ultimo termine, di origine greca, si è solito designare un ampio
gruppo di popolazioni accomunate da una stessa lingua, appartenente alla famiglia indoeuropea.

Le origini di queste popolazioni, secondo alcuni studiosi, vanno ricercate nelle steppe a nord del
Mar Nero, dalle quali i Celti si sarebbero progressivamente spostati verso occidente. Altri ricercatori preferi-
scono appuntare la loro attenzione sulle fasi più recenti della storia di questi popoli, identificandoli con i por-
tatori di quella cultura che, dal nome di un sito archeologico dell’Austria, nei pressi di Salisburgo, è detta di
Hallstatt. La cultura di Hallstatt, verso il VI sec. a.C. si sviluppa senza bruschi cambiamenti in una civiltà
diversa, che prende anch’essa il nome dal luogo che ci ha restituito le testimonianze archeologiche più inte-
ressanti di questa fase culturale, La Tène, un piccolo villaggio sulle rive del lago di Neuchâtel, in Svizzera
(vedi figura 1).

Figura 1: la diffusione delle popolazioni celtiche in Europa

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Il nucleo centrale della cultura di La Tène si trova in un’area tra Francia orientale, Svizzera setten-
trionale e Germania meridionale, ma nel corso dei secoli le popolazioni celtiche si diffusero in ogni direzio-
ne, occupando buona parte dell’Europa: in direzione occidentale, popolando tutta la Francia e spingendosi
nella penisola iberica, dove si fusero con le tribù locali dando vita alla popolazione mista dei Celtiberi; a
nord, occupando le isole britanniche (dove ancora oggi, in Cornovaglia, nel Galles e soprattutto in Irlanda
esistono minoranze linguistiche celtiche), che appunto dai celti Britanni prendono il nome; verso oriente, do-
ve occuparono l’area danubiana e le regioni settentrionali della penisola balcanica; da queste sedi, tra la fine
del IV secolo a.C. e gli inizi del secolo seguente si spinsero con alcune incursioni fino in Grecia e in Asia
minore, dove alcune tribù celtiche finirono per stabilirsi definitivamente, in particolare nelle aree più interne
della regione: queste popolazione celtiche orientali sono in genere note con il nome greco di Galati.

Le popolazioni celtiche non mancarono di prendere anche la via del Mezzogiorno, penetrando in Ita-
lia, secondo modalità e con una cronologia che sono state oggetto di lunghe discussioni. Gli autori antichi
spiegavano la presenza di tribù celtiche nell’Italia settentrionale in termini di invasione, ma non concordava-
no sulla data nella quale questo evento traumatico si collocava. Livio datava la prima invasione dei Galli
(come i Romani chiamavano le popolazioni celtiche della pianura Padana e dell’odierna Francia con le quali
vennero in contatto) ai tempi in cui a Roma regnava Tarquinio Prisco, ovvero intorno alla metà del VI sec.
a.C. Livio individua le ragioni dell’invasione nel sovrapopolamento della Gallia in quel periodo,
un’invasione che del resto sarebbe stata accuratamente pianificata, indirizzando una schiera, al comando di
un tal Segoveso, verso la Spagna, un secondo gruppo, guidato da Belloveso, verso l’Italia. Questa prima on-
data celtica, dopo aver battuto gli Etruschi, avrebbe dato vita alla tribù degli Insubri, riprendendo il nome di
una popolazione locale, e alla fondazione di Mediolanum, l’odierna Milano. Nei decenni seguenti si sarebbe-
ro aggiunte via via nuove tribù, che, spingendosi sempre verso est e verso sud avrebbero occupato tutta la
pianura Padana.

Livio, V, 34-35: L’invasione celtica dell’Italia settentrionale


Quanto al passaggio dei Galli in Italia, ecco le notizie che ci sono pervenute: mentre a Roma
regnava Tarquinio Prisco, il supremo potere sui Celti, che rappresentavano un terzo della Gal-
lia, era nelle mani dei Biturigi; questi mettevano a capo di tutti i Celti un re. Tale fu Ambigato,
uomo assai potente per valore e per ricchezza, sia propria che pubblica, perché sotto il suo go-
verno la Gallia fu così ricca di prodotti e di uomini da sembrare che la numerosa popolazione
si potesse a stento dominare. Costui, già in età avanzata com’era, desiderando liberare il regno
dal peso di quel sovraffollamento, lasciò intendere che era disposto a mandare i nipoti Bellove-
so e Segoveso, giovani animosi, in quelle sedi che gli dèi avessero indicato… A Belloveso gli
dèi indicavano una via ben più allettante: quella verso l’Italia. … Essi poi, attraverso i monti
Taurini e la valle della Dora, varcarono le Alpi e, sconfitti in battaglia gli Etruschi non lontano
dal Ticino, avendo sentito dire che quello in cui si erano fermati si chiamava territorio degli In-
subri, lo stesso nome che aveva un cantone degli Edui, accogliendo l’augurio del luogo, vi fon-
darono una città che chiamarono Mediolanum. Successivamente un’altra schiera, quella dei
Cenomani, sotto il comando di Etitovio, seguì le tracce dei precedenti popoli e, col favore di
Belloveso, passate le Alpi attraverso lo stesso valico, si stanziò nelle terre dove oggi sorgono le
città di Brescia e Verona. Dopo di loro i Libui e i Salluvi si fermano presso l’antica popolazio-
ne dei Leivi Liguri, che abitavano nelle vicinanze del fiume Ticino. È quindi la volta dei Boi e
dei Lingoni, i quali, calati attraverso il Pennino, poiché erano già tutte occupate le terre com-
prese tra il Po e le Alpi, dopo aver varcato il Po su zattere, scacciando dal loro territorio non
soltanto gli Etruschi ma anche gli Umbri, senza tuttavia passare gli Appennini. Infine i Senoni,
ultimi degli invasori, occuparono il territorio che va dal fiume Utente all’Esino.

Diverge per alcuni aspetti l’altra fonte principale che possediamo sull’invasione celtica dell’Italia
settentrionale, ovvero Polibio: come è chiaro dal contesto in cui si inserisce il brano seguente, lo storico gre-
co datava l’attacco dei Celti ai danni degli Etruschi tra la fine del V sec. a.C. e i primi anni del IV sec. a.C.,

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quindi oltre un secolo dopo la data fornita da Livio, e precisava che la penetrazione delle popolazioni transal-
pine era avvenuta in un'unica ondata. Molto interessante in Polibio è il motivo dell’invasione celtica, che an-
dava ricercato nell’invidia nei confronti della prosperità degli insediamenti etruschi della valle Padana.

Polibio, II, 17, 3 – 18,1.: L’invasione celtica dell’Italia settentrionale


I Celti, che avevano con loro [gli Etruschi] frequenti relazioni in ragione della vicinanza e
guardavano con invidia alla bellezza del loro territorio, li assalirono improvvisamente, sulla
base di un piccolo pretesto, con un grande esercito, cacciarono i Tirreni dalla regione padana e
occuparono essi stessi la pianura. Si stabilirono, dunque, nelle zone all'estremità della pianura,
situate presso le fonti del Po, i Lai e i Lebeci, e dopo loro gli Insubri, che erano il popolo più
grande fra loro; immediatamente dopo questi, lungo il fiume, i Cenomani ... Si insediarono nel-
le zone al di là del Po, presso l'Appennino, per primi gli Anari e dopo di loro i Boi; subito dopo
questi, verso l'Adriatico, i Lingoni e per ultimi, sul mare, i Senoni ... In origine, dunque, non
solo dominavano sulla regione, ma avevano anche assoggettato molti dei popoli vicini, atterriti
dalla loro audacia.

Gli studiosi oggi tendono a dare la preferenza alla cronologia “alta” di Livio piuttosto che a quella
“bassa” di Polibio, anche sulla base di testimonianze archeologiche ed epigrafiche che sembrano attestare la
presenza di Celti in Italia settentrionale già nel VI sec. a.C. o nella prima metà del secolo seguente; rigettano
tuttavia la teoria dell’invasione violenta, ritenendo piuttosto che la presenza celtica nella pianura Padana vada
piuttosto spiegata in termini di una lenta infiltrazione di popolazioni dall’Europa centro-settentrionali, che
assorbirono e si fusero con le locali etnie liguri, golasecchiane, retiche e venete: è la cosiddetta teoria detta
del “farsi della celticità”, proprio perché l’identità delle tribù celtiche di cui abbiamo notizia nelle fonti let-
terarie relativamente al IV e al III sec. a.C. sarebbe il risultato finale di questa integrazione con le popolazioni
locali.

Di fatto, quando la situazione si stabilizza, agli inizi del IV sec. a.C., il quadro etnico e politico
dell’Italia settentrionale che abbiamo esaminato nel capitolo V era profondamente cambiato: gli Etruschi in
pratica erano stati spazzati via e i loro principali insediamenti di Felsina, Marzabotto e Mantova erano caduti
nelle mani dei Galli; i Liguri, i Golasecchiani, i Reti e gli Umbri erano stati respinti verso le zone montuose
delle Alpi e degli Appennini, marginali ri-
spetto alla pianura Padana; solo i Veneti e-
rano riusciti a resistere efficacemente ai
Celti, anche se vennero sospinti a est del
fiume Adige. Le popolazioni celtiche si or-
ganizzarono in tribù, le maggiori delle quali
erano quelle degli Insubri della Lombardia
occidentale, con la già citata Mediolanum, i
Cenomani delle attuali regioni di Brescia e
Verona (che erano anche i principali centri
del loro dominio), i Boi dell’Emilia centra-
le, con gli insediamenti che in età romana
saranno noti con il nome di Mutina (Mode-
na) e Bononia (Bologna), i Lingoni del Fer-
rarese e della Romagna settentrionale, infi-
ne i Sènoni, l’ultima delle tribù che secon-
do la tradizione sarebbe penetrata in Italia e
Figura 2: corona aurea dalla necropoli gallica di Monteforti- che dunque avrebbe occupato la zona più
no, fine IV - inizi III sec. a.C., Ancona, Museo Archeologico
Nazionale
meridionale, intorno a Rimini e nella parte

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settentrionale delle odierne Marche, un territorio che più tardi i Romani chiameranno ager Gallicus.

È proprio nell’area marchigiana che le popolazioni celtiche entrano più direttamente a contatto con
la civiltà greca e in particolare con la colonia di Ancona. Presso i Galli Sènoni, come presso altre popolazioni
dell’Italia antica, le produzioni artistiche greche assumono il valore di oggetti di prestigio, che spesso il pro-
prietario voleva portare con sé anche dopo la sua morte: è il caso per esempio di un splendida corona in fo-
glie d’oro rinvenuta in una tomba femminile della necropoli gallica di Montefortino; il finissimo gioiello ri-
sale alla fine del IV sec. a.C. o agli inizi del secolo seguente (vedi figura 2).

Figura 3: Fibula d’oro di tipo La Tène da Este (?), seconda metà del III sec. a.C., Padova, Museo Civico Ar-
cheologico

Le stesse popolazioni celtiche sono tuttavia portatrici di un cultura artistica degna di nota, soprattut-
to per la sua forte impronta naturalistica, Oggetti caratteristici sono i cosiddetti torques, utilizzati come col-
lane e bracciali soprattutto dalla nobiltà celtica e che verranno adottati come oggetti di ornamento anche dai
Romani. Ben rappresentata anche la produzione di fibule, la grandi spille che nell’antichità erano di uso fre-
quentissimo per fissare gli abiti, in assenza di bottoni: nell’immagine riportata alla figura 3 si può vedere uno
splendido esempio di fibula in oro del tipo detto di La Tène (il sito che, come abbiamo visto, ha dato il nome
alla cultura archeologica associata ai Celti): il luogo di ritrovamento di questo manufatto è incerto, ma alcuni
studiosi ipotizzano che provenga da Este, dunque dal territorio veneto, a conferma di altre testimonianze che
attestano scambi commerciali tra i Veneti e i loro vicini Celti; la fibula risale ad un periodo relativamente a-
vanzato, ovvero alla seconda metà del III sec. a.C.

2. Il sacco di Roma

Ritornando all’episodio che abbiamo evocato all’inizio di questo capitolo nel 390 a.C., secondo la
cronologia tradizionale, i Galli Sènoni, partendo dalle loro basi nelle Marche, invasero l'Italia centrale e at-
taccarono Roma, in cerca di nuove sedi secondo le fonti antiche, assai più probabilmente per una semplice
spedizione di razzia secondo gli studiosi moderni. Il loro primo obiettivo fu la città etrusca di Chiusi; da qui
essi si diressero su Roma. L'esercito romano frettolosamente arruolato per affrontarli, più che essere sconfit-
to, si dissolse letteralmente al primo contatto avvenuto sull'Allia, un piccolo affluente del Tevere, atterrito in

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particolare dai carri da guerra, un arma
che le civiltà mediterranee non conosce-
vano più da lungo tempo (vedi figura 4).
Mentre i resti delle legioni trovavano ri-
fugio tra le rovine di Veio, Roma, rimasta
priva di difese, venne presa e saccheggia-
ta. Poi i Galli, paghi del bottino conqui-
stato e, forse, del riscatto pagato loro dai
Romani, scomparvero tanto rapidamente
quanto erano comparsi, forse in cerca di
nuove imprese: sappiamo in effetti che
pochi mesi dopo il sacco di Roma il
tiranno Dionisio di Siracusa arruolò mer-
Figura 4: ricostruzione di un carro da guerra celtico
cenari celtici per la guerra che intendeva
condurre contro le città greche dell'Italia
meridionale. Secondo un’altra tradizione,
registrata da Polibio, i Galli sarebbero stati costretti a tornare in Italia settentrionale perché i loro territori e-
rano stati attaccati dai Veneti: una ricostruzione che ha tutta l’aria di una giustificazione a posteriori
dell’alleanza romano-veneta che si stabilì in funzione anticeltica alla fine del III sec. a.C.

Parte della tradizione storiografica romana tentò di salvare l'onore della patria immaginando che la
rocca di Roma, il Campidoglio, avesse resistito agli invasori e che, quando i difensori, stremati dall'assedio,
si erano decisi a pagare un riscatto, Marco Furio Camillo, il conquistatore di Veio, fosse piombato sui Galli
mettendoli in rotta. Lo storico greco Polibio, con maggiore obiettività, non accenna a questa rivincita di Ca-
millo (anche se ricorda la resistenza romana sul Campidoglio); a suo parere Roma riuscì a liberarsi degli in-
vasori solo grazie al provvidenziale intervento dei Veneti, che attaccarono i Galli alle spalle:

Polibio, II, 18, 3: il sacco gallico


Dopo qualche tempo, avendo sconfitto in battaglia i Romani e quelli schierati con loro, inse-
guendo i fuggitivi, tre giorni dopo la battaglia occuparono la stessa Roma, a eccezione del
Campidoglio. Ma poiché sorse un ostacolo e i Veneti fecero irruzione nel loro territorio, allora,
conclusi patti con i Romani e restituita la città, fecero ritorno nella propria terra.

Nella storiografia “nazionale” romana, che ci è nota soprattutto dal racconto di Livio, si ricordano
immense perdite di vite umane e immani distruzioni subite da Roma ad opera dei Galli. Anche queste notizie
non sono molto credibili: la battaglia dell'Allia, come si è detto, si risolse in una rotta generale piuttosto che
in un massacro e, almeno per il momento, la ricerca archeologica non ha rivelato i segni evidenti del suppo-
sto incendio che i Galli avrebbero appiccato alla città, distruggendola completamente

3. La ripresa

La prova migliore che il disastro gallico fu un evento certo traumatico, ma con conseguenze meno
gravi di quelle che le fonti antiche lasciano intendere, è costituito dalla rapidità con la quale Roma si riprese e
dal nuovo impulso che animò la sua politica estera a partire dal 390 a.C.

A lungo termine gli effetti della conquista e della distribuzione ai cittadini romani del vasto e fertile
territorio di Veio si rivelarono più decisivi dell'umiliazione subita dai Galli. Pochi anni dopo il sacco gallico
iniziò probabilmente la costruzione delle cosiddette mura serviane (così chiamate perché attribuite dalla tra-
dizione a Servio Tullio), sfruttando il tufo delle cave di Grotta Oscura, nei pressi di Veio: proprio la prove-

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nienza del materiale
ha indotto gli studiosi
ad abbassare la cro-
nologia di questa
grande impresa edili-
zia dalla metà del VI
sec. a.C. alla prima
metà del IV sec. a.C.,
quando Roma, dopo
aver sconfitto e di-
strutto Veio, poteva
effettivamente sfrut-
tare le sue cave. La
cinta muraria, che
doveva proteggere la
città da nuove incur-
sioni galliche e che si
rivelò negli anni se-
guenti decisiva per
Figura 5: il circuito delle mura serviane (in verde) e quello delle mura aureliane (in scoraggiare ogni vellei-
rosa) che proteggevano Roma
tà di assedio da parte di
invasori come Pirro e
Annibale, abbracciava un’estensione vastissima, che dimostra come Roma fosse senza dubbio la città più
grande dell'Italia centrale già in quel periodo. Nella cartina riportata alla figura 5 le mura di età repubblicana
sono segnate in verde, mentre il circuito più esterno, in colore rosa, è quello della cinta difensiva fatta co-
struire dall’imperatore Aureliano alla fine del III sec. a.C.

Questo significa che per circa 600


anni le mura serviane rimasero l’unica dife-
sa di Roma: in effetti ancora oggi possiamo
ammirare numerosi tratti di questa impo-
nente opera: particolarmente nota e sugge-
stiva è la cortina murarie che sorge proprio
davanti alla stazione Termini, qui riportata
alla figura 6.

Nonostante la costruzione di questa


potente opera offensiva, l'atteggiamento di
Roma nei decenni successivi al sacco galli-
Figura 6: il tratto delle mura serviane nei pressi della stazio- co fu comunque decisamente improntato ad
ne Termini
un'azione offensiva, che trovò il suo “brac-
cio armato” in Camillo, la figura dominante
di questo periodo. Già pochi anni dopo la conquista della città da parte dei Sènoni, gli Equi vennero annienta-
ti. Più lunga e difficile la lotta contro i Volsci, che trovarono inaspettato appoggio nei vecchi alleati di Roma,
gli Ernici e alcune città latine, forse stanchi di un'alleanza in cui Roma giocava ormai un ruolo egemone. Nel
381 a.C. la città latina di Tusculum, dopo essere stata battuta, venne annessa al territorio romano, senza tutta-
via che la sua identità venisse cancellata. La città conservò le sue strutture di governo e la sua autonomia in-

98
terna, ma ai suoi abitanti vennero assegnati i medesimi diritti e doveri dei cittadini romani; in altre parole Tu-
sculum divenne il primo esempio di quello che gli storici chiamano municipium, termine col quale si desi-
gnano le comunità incorporate nello stato romano che tuttavia conservarono la loro indipendenza interna. Il
comportamento tutto sommato piuttosto moderato che Roma sapeva tenere con i nemici vinti (anche se non
in tutte le occasioni, come avrebbero potuto testimoniare gli Equi) sorprendeva non poco gli osservatori pro-
venienti dal mondo greco, che ricordavano bene il comportamento tirannico che città come Atene e Sparta
avevano tenuto nei confronti dei loro soggetti; tutto ciò traspare bene dalle parole di Dionigi di Alicarnasso:

Dionigi di Alicarnasso, Storia di Roma arcaica, XIV, 6, 2-3: la concessione della cittadi-
nanza a Tusculum
Altro fatto degno di ammirazione nei Romani è che non recarono offese a nessuno degli abi-
tanti di Tusculo, ma li lasciarono impuniti nonostante le loro colpe. Ancor più ammirevole fu il
trattamento di favore che usarono loro dopo il perdono delle colpe: mirando infatti ad evitare il
ripetersi in quella città di fatti simili e l'insorgere di pretesti per una ribellione, non ritennero
necessario introdurre sull'acropoli una guarnigione, né farsi consegnare ostaggi dai notabili, né
privare delle armi i loro possessori, né dare altro segno proprio di un rapporto di amicizia non
creduta. Ritenendo che l'unico elemento coagulante di tutti coloro che sono legati l'uno all'altro
da qualche vincolo di parentela o amicizia sia un'uguale ripartizione dei beni, decisero di con-
cedere ai vinti la cittadinanza, facendoli partecipi di tutti i diritti di cui godono per natura i
Romani, in ciò tenendo una condotta ben diversa da quella degli aspiranti alla supremazia in
Grecia, gli Ateniesi e gli Spartani.

Il processo di conquista del Lazio si completò nei decenni seguenti: nel 358 a.C. i Volsci furono co-
stretti a cedere la piana Pontina, gli Ernici parte dei loro territori nella valle del fiume Sacco: in entrambi i
territori vennero insediati cittadini romani. Nel 354 a.C. cessò anche la resistenza delle due più potenti città
latine, Tibur e Praeneste. Negli stessi anni anche gli Etruschi di Tarquinia e Cere, che dopo la caduta di Veio
si sentivano direttamente minacciati, furono costretti a siglare una lunga tregua, insieme con il centro falisco
di Falerii.

5. Per saperne di più

• Sulle popolazioni celtiche dell’Italia settentrionale: V. Kruta, I Celti, «Italia omnium terrarum
alumna», Milano 1988, pp. 263-311 [BAU STO/C I A/a 2]; P. Piana Agostinetti (a cura di),
Celti d’Italia, Roma 2004 (Popoli e civiltà dell’Italia antica, 12) [BAU 937.01 S1].

• Sulle vicende storiche del periodo: G. Bandelli, La frontiera settentrionale: l’ondata celtica e il
nuovo sistema di alleanze, «Storia di Roma, I, Roma in Italia», Torino 1988, pp. 505-525 [BAU
STO/D 937 STO I].

99
CAPITOLO VIII

LE GUERRE SANNITICHE

1. Il primo confronto con i Sanniti

La posizione di potere raggiunta da Roma nel Lazio meridionale trova espressione nel trattato che
venne concluso con i Sanniti nel 354 a.C., nel quale il confine tra le zone di egemonia delle due potenze ve-
niva probabilmente fissato al fiume Liri.

I Sanniti in questo periodo occupavano un'area assai più vasta di quella controllata da Roma. Essa si
estendeva lungo la catena appenninica centro-meridionale, tra i fiumi Sangro e Ofanto: come abbiamo visto
nel capitolo III, si trattava di un'area prevalentemente montuosa, per i suoi caratteri non in grado di sostenere
l’impetuosa crescita demografica della popolazione sannita. Abbiamo visto come, nel corso del V sec. a.C.,
alcune popolazioni staccatesi dai Sanniti avessero occupato le ricche regioni costiere della Campania, dando
origine alla Lega Campana. Tuttavia la spinta migratoria delle popolazioni appenniniche non si era esaurita e
anche nel secolo seguente i Sanniti guardavano con interesse alle vicine pianure, entrando così in contrasto
con i loro vecchi connazionali.

La tensione sfociò in guerra aperta nel 343 a.C., quando i Sanniti attaccarono la città di Teano, nella
Campania settentrionale, occupata da un'altra popolazione osco-sabellica, i Sidicini. Costoro si rivolsero per
aiuto alla Lega Campana la quale, a sua volta incapace di fronteggiare l'offensiva dei Sanniti, chiese l'aiuto di
Roma. La decisione di intervenire contro i Sanniti, contravvenendo al trattato da poco concluso, sarebbe ve-
nuta secondo Livio solamente quando i Campani, disperati, decisero di consegnarsi totalmente a Roma, con
la procedura della deditio in fidem (letteralmente “il consegnarsi alla fiducia”). È più probabile che a Roma si
giudicasse imperdibile l'occasione che si offriva di impadronirsi della regione più ricca e fertile d'Italia (o di
impedire che ad impossessarsene fossero i Sanniti), anche a costo di calpestare i patti. L’intento di giustifica-
re la scelta di Roma di scendere in guerra nonostante il trattato recentemente concluso è evidente nel racconto
che Livio ci propone:

Livio,VII, 29, 3-7: il conflitto per Teano e la richiesta di aiuto dei Campani a Roma
L'occasione della guerra coi Sanniti si presentò ai Romani, essendo essi uniti da alleanza ed
amicizia, dal di fuori, non nacque tra di loro. Avendo i Sanniti mosso guerra ingiustamente,
perché erano i più forti, ai Sidicini, costoro furono costretti, deboli com'erano, a ricorrere all'a-
iuto di popoli più potenti, e si unirono ai Campani. I Campani portarono a difesa degli alleati
più la loro fama che le forze e, snervati dalla vita lussuriosa che conducevano, furono respinti
da quella gente, rotta all'uso delle armi, nel territorio dei Sidicini, tirandosi addosso tutto il pe-
so della guerra. Infatti i Sanniti ..., dopo aver occupato con un forte presidio i Tifata, le alture
che dominano Capua, discesero di là in file serrate nella pianura che si stende tra Capua e i Ti-
fata. Ivi si combatté nuovamente; e i Campani, sconfitti e respinti entro le proprie mura, non
avendo a portata di mano alcuna speranza dopo che era stato annientato il fiore della loro gio-
ventù, furono costretti e chiedere aiuto ai Romani.

La I guerra sannitica (343-341 a.C.) si risolse rapidamente: già nel primo anno di guerra i Romani
riuscirono a sloggiare il nemico, impegnato nell'assedio di Capua. Roma d'altra parte non fu grado di prose-
guire energicamente l'offensiva a causa di una rivolta dell'esercito impegnato in Campania, dunque acconsen-
tì alle richieste di pace avanzate dai Sanniti nel 341 a.C.: il trattato rinnovava l'alleanza del 354 a.C., ricono-
scendo a Roma Capua e la Campania e ai Sanniti Teano.

100
2. La grande guerra latina

L'accordo del 341 a.C. portò ad un sorprendente ribaltamento delle alleanze, costringendo Roma,
sostenuta dai Sanniti, a fronteggiare i suoi vecchi alleati Latini, Campani e Sidicini, cui si aggiunsero gli e-
terni nemici, i Volsci, e la popolazione osco-sabellica degli Aurunci, insediati sulla costa tra i Volsci stessi e i
Campani. L'insoddisfazione di Campani e Sidicini per gli esiti della I guerra sannitica, che aveva dato frutti
minori di quelli sperati, si saldò alla volontà dei Latini di distaccarsi da un'alleanza con Roma che ormai era
divenuta un abbraccio soffocante e al desiderio dei Volsci di prendersi una rivincita dopo le sconfitte subite.
Quanto agli Aurunci, forse giocò un ruolo decisivo il timore di vedersi accerchiati dalla crescente potenza
romana.

Il conflitto (341-338 a.C.), noto come grande guerra latina, fu durissimo e solo a fatica Roma riuscì
a prevalere; ma i suoi esiti si rivelarono decisivi per l'organizzazione di quella che si avviava a diventare l'Ita-
lia romana. Ecco come Livio ci presenta la sistemazione che Roma diede al territorio sotto la sua egemonia
alla conclusione della grande guerra latina:

Livio, VIII, 14, 2-11: l'organizzazione della conquista alla fine della guerra latina
Ai Lanuvini fu concessa la cittadinanza romana e furono lasciati i propri culti religiosi ... Gli
Aricini, i Nomentani e i Pedani furono accolti nella cittadinanza alle stesse condizioni dei La-
nuvini. Ai Tuscolani fu lasciata la cittadinanza, che essi già avevano ... I Velletrani, antichi cit-
tadini romani, furono trattati duramente, perché tante volte si erano ribellati: furono abbattute
le mura della città, i membri del senato furono allontanati e costretti ad abitare al di là del Te-
vere ... Nelle terre appartenenti ai nobili furono mandati dei coloni, e con la loro immissione
Velletri riprese l'antico aspetto popoloso. Anche ad Anzio fu mandata una nuova colonia e fu
concessa facoltà agli Anziati di iscriversi anch'essi come coloni se lo volevano. Furono tolte
agli Anziati le navi da guerra e fu interdetta a quel popolo la navigazione marittima, ma fu
concessa la cittadinanza romana. I Tiburtini e i Prenestini furono privati di una parte delle ter-
re, non soltanto per la recente ribellione, colpa che era comune agli altri Latini, ma perché un
tempo, per insofferenza della dominazione romana, avevano unito le loro armi a quelle dei
Galli, popolo barbaro. Alle altre popolazioni latine fu tolto il diritto di matrimonio, di commer-
cio e di riunione fra le diverse città. Ai Campani, in grazia dei loro cavalieri, perché non ave-
vano voluto prendere parte alla ribellione insieme coi Latini, e ai Fondani e ai Formiani, perché
il passaggio dei Romani attraverso le loro terre era stato sempre sicuro e tranquillo, fu concessa
la cittadinanza senza diritto di suffragio

Dunque la Lega Latina venne disciolta: alcune delle città che ne avevano fatto parte vennero sempli-
cemente incorporate nello stato romano, in qualità di municipi, come era avvenuto qualche decennio prima
per Tusculo. Altre, come Ardea, conservarono la propria indipendenza formale e i consueti diritti di connu-
bium, commercium e migratio con Roma, ma non poterono più intrattenere alcuna relazione tra di loro. Alle
vecchie città latine ben presto si vennero ad aggiungere le nuove colonie latine, fondate su iniziativa di Roma
e composte sia da cittadini romani sia da alleati: costoro, una volta insediati nella nuova comunità, perdevano
la propria precedente cittadinanza, per acquistare quella della nuova colonia, insieme ai diritti che avevano
caratterizzato i rapporti fra Roma e le città latine. Lo status di Latino perdette dunque la sua connotazione
etnica e venne semplicemente a designare una condizione giuridica in rapporto con i cittadini romani. Latini
vecchi e nuovi furono obbligati a fornire truppe a Roma in caso di necessità. I Latini ottennero peraltro il di-
ritto di voto nelle assemblee popolari di Roma nel caso si fossero trovati in città nel momento in cui venivano
convocati i comizi, pratica che è attestata per la prima volta nel 212 a.C.

La nuova concezione dello status latino è chiaramente dimostrata dal caso di due tra le città che si
erano ribellate a Roma, Tibur e Praeneste: nonostante gli abitanti delle due città fossero di etnia latina, essi
vennero privati dei privilegi di connubium, commercium e migratio e divennero semplici alleati (socii) di

101
Roma, una categoria giuridica che si rivelò di particolare importanza nei decenni successivi. Il rapporto veni-
va creato da trattati che, pur lasciando alle comunità alleante una completa autonomia interna, le legavano
strettamente alla potenza egemone per quanto concerneva la politica estera e le obbligavano a fornire un cer-
to contingente di truppe in caso di guerra. Questi trattati consentirono a Roma di ampliare la propria egemo-
nia e il proprio potenziale militare senza costringerla ad assumersi i compiti di governo locale che le sue
strutture politiche, rimaste sostanzialmente quelle di una città-stato con un territorio di pochi chilometri qua-
drati, non erano in grado di reggere. Dal momento che i socii dovevano impegnarsi a mantenere a proprie
spese i contingenti di truppe che fornivano, Roma inoltre poté mantenere il suo impegno finanziario relati-
vamente limitato, senza essere costretta a richiedere un tributo diretto che le avrebbe indubbiamente attirato
l'odio degli alleati.

Al di fuori dell'antico Lazio, in particolare nelle città dei Volsci e dei Campani, Roma attuò la con-
cessione di una forma parziale di cittadinanza romana, la civitas sine suffragio. I titolari erano tenuti agli
stessi obblighi dei cittadini romani, in particolare a prestare il servizio di leva e a pagare il tributum, ma non
avevano diritto di voto nelle assemblee popolari di Roma, né potevano essere eletti alle magistrature dello
stato romano; per il resto potevano conservare un'ampia autonomia interna.

Figura 1: il sistema di egemonia di Roma in Italia alla vigilia dello scoppio della II guerra punica: in verde le
comunità di diritto romano, in giallo le comunità di diritto latino, in rosa le comunità alleate

Ad Anzio, infine, venne creata una piccola colonia i cui abitanti conservarono la piena cittadinanza
romana. Nei decenni seguenti verranno fondate altre colonie romane, sul modello di quella di Anzio, gene-
ralmente composte di soli 300 coloni e destinate a sorvegliare le coste.

Alla conclusione della grande guerra latina Roma aveva dunque legato a sé, secondo forme e gradi
di dipendenza differenti, tutte le regioni che andavano dalla sponda sinistra del Tevere a nord, al golfo di Na-
poli a sud, dal Tirreno a ovest, ai contrafforti degli Appennini ad est: un territorio non tanto ampio quanto
quello controllato dai Sanniti, ma certamente più ricco e densamente popolato. Nei decenni seguenti questo
schema verrà progressivamente esteso alle nuove aree conquistate, fino a giungere a comprendere tutta

102
l’Italia peninsulare, come si può vedere dalla cartina riportata alla figura 1, che rappresenta la situazione alla
vigilia dello scoppio della II guerra punica, nel 218 a.C.

È da sottolineare in particolare l’importanza che nel processo di costruzione dell’egemonia romana


in Italia ebbero le colonie, sia latine che romane, sia come caposaldi strategico-militari, sia come centri di
irradiazione della civiltà romana verso i territori circostanti. Tale rilievo è ben evidenziato da Cicerone nella
sua orazione Sulla legge agraria, pronunciata nel 63 a.C.:

Cicerone, Sulla legge agraria, II, 73: la funzione delle colonie


E a proposito di questa questione, come pure in tutti gli altri affari di stato, vale la pena di ri-
cordare il saggio zelo dei nostri antenati, che stanziarono delle colonie in luoghi così adatti a
difenderli da un pericolo anche solo immaginato, che venivano ritenute non tanto delle città
dell'Italia, quanto dei baluardi avanzati del nostro impero (propugnacula imperii).

3. La II guerra sannitica

La fondazione di colonie di diritto latino a Cales, nel territorio strappato qualche anno prima agli
Aurunci, e soprattutto a Fregelle, sulla sponda orientale del fiume Sacco, che i Sanniti consideravano di pro-
pria pertinenza, provocò una nuova crisi nei rapporti tra le due potenze. La causa concreta della II guerra
sannitica (326-304 a.C.) è da ricercare nelle divisioni interne di Napoli, l'ultima città greca della Campania
rimasta indipendente, dove si fronteggiavano le masse popolari, favorevoli ai Sanniti, e le classi più agiate, di
sentimenti filoromani: una situazione che vedremo regolarmente ripresentarsi nelle città coinvolte nei conflit-
ti seguenti tra Roma e i suoi avversari. Ecco come ci presenta il quadro Dionigi di Alicarnasso:

Dionigi di Alicarnasso, XV, 6, 1-2; 5: la situazione a Napoli allo scoppio della guerra
Si radunò il senato della città [di Neapolis], alla presenza del quale furono pronunciati molti di-
scorsi da parte degli ambasciatori e dei loro seguaci; le opinioni erano divise, anche se i mem-
bri più influenti sembravano favorire la causa dei Romani. Per quel giorno non fu emesso nes-
sun decreto e si rimandò a un'altra seduta la decisione concernente le opposte ambascerie.
Vennero allora a Neapolis in gran numero i più influenti dei Sanniti e, ingraziatisi con alcuni
favori gli uomini che erano a capo dello stato, convinsero il senato a rimettere al popolo la de-
cisione relativa al pubblico interesse ... La parte assennata della città, in grado di prevedere le
sciagure che avrebbero colpito Neapolis in seguito alla guerra, voleva la pace, ma la parte aspi-
rante ai cambiamenti e che mirava ai guadagni derivanti da un generale rivolgimento, favoriva
la guerra. Ci furono mutue recriminazioni e zuffe e la contesa degenerò sino a lanci di pietre;
alla fine i peggiori prevalsero sui migliori, cosicché gli ambasciatori romani se ne partirono
senza aver combinato niente. Per queste ragioni il senato romano dichiarò guerra ai Neapolita-
ni.

I Romani riuscirono abbastanza rapidamente a sconfiggere la guarnigione che i Sanniti aveva instal-
lato a Napoli e a conquistare la città, ma il tentativo di penetrare a fondo nel Sannio e di raggiungere Luceria
(l’odierna Lucera, nella Daunia), nella speranza di coinvolgere le comunità della Puglia settentrionale in
un’alleanza antisannita, si risolse in un fallimento: nel 321 a.C. gli eserciti romani vennero circondati al pas-
so delle Forche Caudine, tra Capua e Benevento, e costretti alla resa. L’episodio ci viene raccontato da Livio:

Livio, IX, 2, 6-10: il disastro delle Forche Caudine

Due vie conducevano a Luceria, una lungo il litorale del mare superiore, ampia ed aperta, ma,
quanto più sicura, tanto forse più lunga, l'altra attraverso le Forche Caudine, più breve; la con-
formazione del luogo però è la seguente: vi sono due passi alti, stretti e selvosi, congiunti tra di
loro tutt'intorno da una serie ininterrotta di monti. Tra di essi è racchiusa una pianura, ab-

103
bastanza ampia, erbosa e ricca d'acqua, nel mezzo della quale passa la strada; ma avanti che tu
giunga a quella pianura, bisogna entrare nella prima gola, e poi o rifare all'indietro la stessa via
per la quale sei entrato oppure, se vuoi proseguire oltre, uscire per l'altro passo, più stretto e
malagevole. I Romani, fatto scendere l'esercito per la prima di tali vie, scavata nella roccia,
proseguendo direttamente verso l'altra gola, la trovarono sbarrata da alberi abbattuti e da un
cumulo ingombrante di grossi macigni. Era ormai apparso evidente l'inganno dei nemici, quan-
do si scorge un presidio anche sulla sommità del passo. Cercano quindi di tornare indietro, ri-
facendo in fretta la via per la quale erano venuti; ma trovano anche questa bloccata da uno
sbarramento e da uomini armati.

Dopo il disastro delle Forche Caudine per qualche anno vi fu un'interruzione nelle operazioni milita-
ri, anche se non è chiaro se fosse stata siglata una vera e propria pace o solamente una tregua momentanea. I
Romani approfittarono di questo intervallo per compensare la perdita di Cales e Fregelle, avvenuta a seguito
della sconfitta del 321 a.C., rinforzando le proprie posizioni in Campania e allacciando una serie di rapporti
con le comunità dell'Apulia e della Lucania, nella speranza di isolare e circondare la Lega Sannitica.

In questi stessi anni Roma procedette ad adeguare il suo esercito al confronto finale con i Sanniti. Il
compatto schieramento a falange, irresistibile in una pianura senza ostacoli, si era rivelato incapace di mano-
vrare su di un terreno accidentato come quello del Sannio ed era incorso nel disastro delle Forche Caudine.
La legione venne allora suddivisa in 30 reparti, detti manipoli, ognuno dei comprendeva intorno ai 120 uo-
mini. La legione veniva schierata su tre linee, ciascuna delle quali era composta da 10 manipoli: i primi ad
affrontare il nemico erano, come indica il loro stesso nome, i principes, venivano poi gli hastati e infine i
triarii. L'ordinamento manipolare era in grado di assicurare una maggiore flessibilità all'esercito romano im-
pegnato nelle regioni montuose dell'Italia centro-meridionale. Negli stessi anni cambiò anche l'equipaggia-
mento dei legionari, che adottarono lo scudo rettangolare e il giavellotto in uso presso gli stessi Sanniti:
l’episodio rivela una capacità caratteristica di Roma, quella di saper cogliere e far proprio, in campo militare
come in altri settori, quanto di buono vi era presso altre popolazioni, come emerge dal discorso tenuto agli
ambasciatori cartaginesi dal romano Cesone, un personaggio non meglio identificato, prima dello scoppio
della I guerra punica. In questo passo, conservatoci da una fonte storica anonima chiamata Ineditum Vatica-
num, perché tramandata su un manoscritto della Biblioteca Vaticana, Cesone ammonisce i suoi interlocutori a
non sfidare i Romani sul mare, fidando nella loro inesperienza: Roma è abituata a far sue le tecniche di com-
battimento e gli armamenti degli avversari e a superarli sul loro stesso terreno. Tra gli esempi si ricorda ap-
punto l'adozione dello scudo lungo e dei giavellotti, caratteristici dei Sanniti.

Ineditum Vaticanum, 3: i Romani adottano l'armamento sannita


Parimenti lo scudo lungo sannita non faceva parte del nostro armamento, né avevano giavellot-
ti, ma combattevamo con scudi rotondi e lance, né avevamo una forte cavalleria, ma la potenza
dei Romani stava tutta o in larga parte nella fanteria. Ma quando ci trovammo in guerra contro
i Sanniti, ci armammo di scudi lunghi e giavellotti e ci imponemmo su di loro negli scontri di
cavalleria e, copiando l'armamento straniero, sottomettemmo coloro che erano pieni di presun-
zione.

Le ostilità si riaccesero nel 316 a.C. per responsabilità dei Romani. Le prime operazioni furono nuo-
vamente favorevoli ai Sanniti, ma negli anni successivi Roma iniziò a recuperare il terreno perduto, con una
tenacia e una strategia a lungo termine che un organismo dalle deboli strutture centrali come la Lega Sanniti-
ca non era in grado di sviluppare. Fregelle venne ripresa, le comunicazioni con la Campania ristabilite e mi-
gliorate grazie alla costruzione del primo tratto, tra Roma e Capua, della via Appia (dal nome del suo costrut-
tore, il censore Appio Claudio Cieco); una serie di colonie latine, tra le quali la più importante fu quella di
Luceria, fondata nell'Apulia settentrionale nel 312 a.C., iniziarono a cingere il Sannio in una sorta di assedio.

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Nel frattempo a nord si era formata una coalizione di stati etruschi, tra i quali verosimilmente le
maggiori città dell'Etruria interna, che aveva stretto alleanza con i Sanniti. Gli Etruschi peraltro furono battuti
e costretti a siglare una tregua nel 308 a.C. Scongiurato per il momento il pericolo etrusco, gli eserciti romani
poterono concentrare il proprio sforzo contro il Sannio, coronato dalla conquista di Boviano, uno dei centri
maggiori dai Sanniti, e dalla pace del 304 a.C. Il trattato di alleanza tra Roma e i Sanniti del 354 a.C. venne
ancora una volta rinnovato e Roma tornò definitivamente in possesso di Fregelle e Cales.

Ma i vantaggi territoriali più consistenti si ebbero nella regione degli Appennini centrali, a seguito
delle operazioni militari che accompagnarono l'ultima fase della II guerra sannitica. Gli Ernici, accusati di
ribellione, vennero inglobati nello stato romano come cittadini senza diritto di voto. Gli Equi, che pure ave-
vano tentato un'ultima e disperata rivolta, furono sterminati; nel loro territorio vennero insediati coloni roma-
ni. Le popolazioni minori osco-sabelliche dei Marsi, dei Peligni, dei Marrucini, dei Frentani e dei Vestini,
che abitavano nell'odierno Abruzzo, furono rapidamente costrette a concludere trattati di alleanza con Roma,
indotte a ciò dalla tremenda sorte cui erano andati incontro gli Equi.

4. La III guerra sannitica

La sconfitta del 304 a.C. era stata grave, ma non aveva indebolito considerevolmente i Sanniti. La
scontro decisivo con Roma si riaprì nel 298 a.C., quando i Sanniti attaccarono i Lucani, con i quali confina-
vano a meridione. I Romani accorsero prontamente in aiuto degli aggrediti, con i quali forse conclusero un
trattato. Le trattative diplomatiche che precedettero l’apertura delle ostilità sono raccontate da Livio:

Livio, X, 11, 11 - 12, 3: lo scoppio della III guerra sannitica


All'inizio di tale anno [298 a.C.] vennero dai nuovi consoli parlamentari dei Lucani, a lamen-
tarsi del fatto che i Sanniti, avendo fallito le trattative per indurli a un'alleanza d'armi, erano en-
trati nel loro territorio devastandolo e cercando così di costringerli con una guerra a un'altra
guerra. Il popolo lucano – essi dissero – aveva commesso in passato anche troppi errori; adesso
la loro decisione era così irrevocabile che preferivano affrontare e sopportare qualsiasi evento
piuttosto che far torto ancora una volta alla potenza di Roma. Essi pregavano i senatori di ac-
cogliere i Lucani sotto la loro protezione e di difenderli dalla violenza e dagli attacchi dei San-
niti ... Breve fu la consultazione del Senato; tutti all'unanimità decidono di stringere alleanza
con i Lucani e di chiedere riparazione ai Sanniti. Si rispose benevolmente ai Lucani e fu con-
cluso il patto. Si inviarono i feziali a imporre ai Sanniti di ritirarsi dal territorio degli alleati e di
condurre via l'esercito dal paese dei Lucani; ma i Sanniti mandarono incontro a loro degli uo-
mini per avvertirli che, se si fossero presentati a qualche adunanza nel Sannio, non sarebbero
tornati illesi. Quando a Roma si seppe ciò, il Senato decise e il popolo decretò la guerra contro
i Sanniti.

Nel passo di Livio ci sono due elementi di particolare interesse. In primo luogo vediamo emergere
una linea di politica estera che lo stato romano ha sempre adottato nel corso della sua lunga storia: intervenire
in soccorso di una comunità attaccata dai suoi vicini più potenti, presentandosi così, almeno nominalmente,
non come l’aggressore, ma come il difensore dei deboli contro le prepotenze dei forti: è il medesimo schema
che abbiamo visto applicarsi al momento dello scoppio della I guerra sannitica, quando Roma, in apparenza
riluttante, era intervenuta in aiuto della Lega Campana, minacciata dagli stessi Sanniti. Un secondo dato che
emerge dal passo di Livio è il ruolo che un gruppo di sacerdoti particolari, i feziali, avevano nelle questioni
di politica internazionale: ai feziali spettava la gestione dei riti religiosi connessi alla dichiarazione di guerra
e alla conclusione della pace; qui li vediamo incaricati di presentare un ultimatum ai Sanniti.

Le prime operazioni della III guerra sannitica si svolsero in Lucania: al contrario di quanto lascia in-
tendere Livio nel passo precedente, la regione non era infatti schierata compattamente dalla parte di Roma e

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alcune comunità lucane parteggiavano piuttosto per i Sanniti. A queste operazioni accenna l’iscrizione elo-
giativa che venne incisa sul sarcofago di L. Cornelio Scipione Barbato, il più antico del complesso monu-
mentale in cui si trovano le tombe di questa illustre famiglia, che sorge poco al di fuori delle mura serviane,
lungo la via Appia (vedi figura 2).

Figura 2: sarcofago di L. Cornelio Scipione Barbato, metà del III sec. a.C., Roma

Corpus Inscriptionum Latinarum I2 6: l’elogio di Scipione Barbato


Cornelius Lucius Scipio Barbatus, Gnaivod patre / prognatus, fortis vir sapiensque, quoius
forma virtutei parisuma / fuit, consol, censor, aidilis quei fuit apud vos, Taurasia, Cisauna
Samnio cepit, subigit omne Loucanam opsidesque abducit.

Lucio Cornelio Scipione, figlio di Gneo, / uomo forte e saggio, il cui aspetto fu in tutto pari al
valore, / fu console, censore, edile presso di voi. / Prese Taurasia e Cisauna nel Sannio, assog-
gettò tutta la Lucania e ne portò ostaggi.

L’elogio, scritto in un latino ancora arcaico, ricorda le virtù di Scipione, associando in modo singo-
lare al valore e alla saggezza anche una certa bellezza fisica, registra le cariche più importanti da lui rivestite
e infine attesta che il personaggio, proprio durante il suo consolato del 298 a.C., conquistò due località del
Sannio altrimenti sconosciute, Taurasia e Cisauna, e assoggettò tutta la Lucania.

Le sorti della guerra tuttavia non si decisero nel Sannio o in Lucania, ma nell’Italia centro-
settentrionale. Qui il comandante supremo dei Sanniti, Gellio Egnazio, dopo una marcia di centinaia di chi-
lometri con il suo esercito, era riuscito a mettere in piedi una potente coalizione antiromana che comprendeva
anche gli Etruschi, i Galli Sènoni e gli Umbri, le cui città avevano toccato con mano la minaccia costituita da
Roma nelle operazioni condotte ai loro confini ai tempi della II guerra sannitica, quando Roma aveva attacca-
to le città dell’Etruria interna. Lo scontro decisivo avvenne nel 295 a.C. a Sentino, forse nei pressi dell'odier-
na Sassoferrato, ai confini tra le attuali regioni dell'Umbria e delle Marche. Gli eserciti riuniti dei due consoli
romani, Quinto Fabio Rulliano e Publio Decio Mure, riuscirono a prevalere su Sanniti e Galli, approfittando
dell'assenza dal campo di battaglia dei reparti etruschi e umbri e potendo contare su contingenti di alleati su-

106
periori al numero stesso dei legionari romani: il sistema di egemonia, che aveva preso forma dopo la grande
guerra latina, evidentemente cominciava a dare i suoi frutti, assicurando a Roma un potenziale militare pre-
ponderante.

L’esito della battaglia di Sentino, uno scontro epocale che secondo alcuni storici decise la sorte
dell’Italia spianando la via alla sua unificazione da parte di Roma, tuttavia era stato a lungo incerto: secondo
la tradizione romana il successo era stato reso possibile solo dal gesto eroico del console P. Decio Mure, che
nel momento decisivo della battaglia, quando l’esercito romano sembrava in difficoltà, aveva sacrificato se
stesso per la vittoria romana con il rito arcaico della devotio, sull'esempio di quanto aveva fatto il padre du-
rante la grande guerra latina, nella battaglia del fiume Veseri. Ecco come racconta questo episodio Livio:

Livio, X, 28, 12 – 29, 4: il sacrificio di P. Decio Mure, momento culminante della battaglia
di Sentinum
Decio gridava loro dove volevano fuggire e quale speranza riponevano nella fuga; si parava in-
nanzi a quelli che indietreggiavano e richiamava i dispersi; quindi, visto che nessuna forza va-
leva a trattenere quegli uomini sgominati, chiamando per nome il padre Publio Decio, disse:
«Cos'altro aspetto ad andare incontro al fato della mia famiglia? Questo è il destino della nostra
stirpe, di essere vittime espiatorie per stornare i pubblici pericoli. Ora io offrirò in sacrificio in-
sieme con me le legioni dei nemici alla Terra e agli dèi Mani». Detto ciò, ordinò al pontefice
Marco Livio ... di suggerirgli le parole con le quali doveva immolare sé stesso e le legioni dei
nemici per la salvezza dell'esercito del popolo romano dei Quiriti. Immolatosi quindi con la
stessa preghiera e nello stesso atteggiamento con cui aveva voluto essere immolato suo padre
Publio Decio presso il Veseri, nella guerra latina, dopo aver aggiunto con formula solenne che
egli cacciava avanti a sé la paura, la fuga, la strage e il sangue, l'ira degli dèi celesti ed inferi,
che avrebbe colpito con funeste maledizioni le insegne, i dardi e le armi dei nemici e che lo
stesso luogo sarebbe stato la tomba sua, dei Galli e dei Sanniti, dopo aver così imprecato con-
tro sé stesso e contro i nemici, spronò il cavallo dove più folta vedeva la schiera dei Galli e, e-
sponendosi volontariamente ai dardi nemici, cadde ucciso. La battaglia assunse poi un aspetto
quasi sovrumano. I Romani, perduto il comandante, avvenimento questo che altre volte suole
essere causa di terrore, cessavano di fuggire e volevano ricominciare daccapo il combattimen-
to; I Galli, e soprattutto lo stuolo che si assiepava attorno al cadavere del console, come usciti
di sé sprecavano i loro dardi scagliandoli a vuoto; alcuni erano storditi e non pensavano né al
combattimento né alla fuga. Dall'altra parte invece il pontefice Livio, al quale Decio aveva pas-
sato i littori e aveva ordinato di assumere le funzioni di comandante, gridava che i Romani a-
vevano vinto, che si erano disimpegnati con la morte del console; i Galli e i Sanniti appartene-
vano alla madre Terra e gli dèi Mani; Decio trascinava e chiamava a sé la schiera immolata in-
sieme con lui e presso i nemici regnavano ovunque la furia e lo spavento.

Tanto grande era stato il pericolo corso da Roma nella battaglia di Sentino, quanto maggiori furono i
frutti della vittoria: i Sanniti, battuti in un'altra battaglia campale ad Aquilonia (293 a.C.), incapaci di reagire
alla fondazione della grande colonia latina di Venosa nella zona sud-orientale del loro territorio e costretti ad
assistere impotenti alla devastazione del Sannio, si videro obbligati a chiedere la pace nel 290 a.C.

A nord si ebbe l'avanzata più spettacolare. L'occasione venne data da un tentativo dei Galli, alleati di
alcune città etrusche, di penetrare nuovamente nell'Italia centrale. L'attacco dei Galli e degli Etruschi fu bloc-
cato nel 283 a.C. nella battaglia del lago Vadimone (un piccolo specchio d'acqua non lontano da Bomarzo,
nel Lazio settentrionale). La controffensiva romana colpì dapprima le città dell'Etruria meridionale (tra le
quali Volsinii, Vulci e Cere), poi raggiunse anche l'Etruria settentrionale e la vicina Umbria. Queste operazio-
ni militari, peraltro, sono assai poco note, a causa della perdita della narrazione di Livio (che si arresta agli
avvenimenti del 293 a.C.) e di Diodoro Siculo (di cui possediamo solo estratti per il periodo posteriore al 302
a.C.).

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Nella marcia verso l'Adriatico, già nel 290 a.C. erano stati sconfitti i Sabini e i Pretuzzi dell'Abruzzo
settentrionale. Parte del loro territorio fu confiscato per dedurvi la colonia latina di Hadria (la moderna Atri);
agli altri abitanti dell'ager Praetuttiorum venne concessa la cittadinanza senza diritto di voto, come del resto
ai Sabini. Nell'Adriatico settentrionale venne annesso il territorio un tempo appartenuto alla tribù dei Sènoni,
alla quale appartenevano i conquistatori di Roma del 390 a.C. In questa regione, nota col nome di ager Galli-
cus, venne fondata subito dopo la conquista la colonia romana di Sena Gallica (oggi Senigallia) e qualche
anno più tardi, nel 268 a.C. la colonia latina di Ariminum (Rimini), che portò Roma ad affacciarsi alla pianu-
ra Padana. Vistisi circondati da ogni parte, i Piceni, che abitavano nelle attuali Marche centro-meridionali,
tentarono una disperata guerra contro Roma nel 269 a.C. Pochi anni dopo furono costretti alla resa: in parte
vennero deportati nella regione di Sorrento, in parte ricevettero la civitas sine suffragio. Conservarono la
propria autonomia il centro principale della regione, Ascoli, e la città greca di Ancona; la conquista del Pice-
no venne consolidata con la creazione di una colonia latina a Fermo nel 264 a.C.

Il risultato di queste operazioni militari, certo a largo raggio, ma che non sembrano aver comportato
gravi rischi per gli eserciti romani, fu che in circa 30 anni dalla battaglia di Sentino Roma era riuscita a porta-
re i confini settentrionali del territorio sotto il suo controllo lungo la linea che andava dall'Arno a Rimini.

5. Per saperne di più

• G. Bandelli, La frontiera settentrionale: l’ondata celtica e il nuovo sistema di alleanze, «Storia


di Roma, I, Roma in Italia», Torino 1988, pp. 505-525 [BAU STO/D 937 STO I].

• D. Musti, La spinta verso sud: espansione romana e rapporti «internazionali», «Storia di Ro-
ma, I, Roma in Italia», Torino 1988, pp. 527-542 [BAU STO/D 937 STO I].

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CAPITOLO IX

LA GUERRA CONTRO TARANTO E PIRRO

1. Taranto

Nel Mezzogiorno d'Italia la situazione era ancora fluida. Dopo la sconfitta nella III guerra, i Sanniti
erano prostrati, ma non definitivamente domati, alcune popolazioni loro affini, come in particolare i Lucani e
i Bruzi, conservavano la loro indipendenza, così come la più ricca e potente città greca dell'Italia, Taranto.
Quest’ultima città poteva poi contare tradizionalmente sull’aiuto degli stati della madrepatria, della Gre-
cia, come si era potuto verificare più volte nel corso dei decenni precedenti: nel 342 a.C. Taranto si era rivol-
ta a Sparta, la città dalla quale provenivano i coloni che l’avevano fondata diversi secoli prima, per avere un
aiuto contro i Lucani; gli Spartani inviarono il loro re Archidamo III, che tuttavia perse la vita nel 338 a.C.
sotto le mura di Manduria, una città della Puglia. Pochi anni dopo, nel 334 a.C. i Tarantini fecero appello ad
Alessandro il Molosso (zio del più famoso Alessandro Magno, in quanto fratello di sua madre Olimpia) af-
finché li liberasse della sempre incombente minaccia delle popolazioni italiche: Alessandro, che sperava di
conquistarsi in Occidente un impero come quello che suo nipote stava creando in Oriente, rispose prontamen-
te alla richiesta d’aiuto. Le prime operazioni contro le popolazioni della Puglia, i Lucani e i Bruzi furono for-
tunate, ma i seguito i rapporti con Taranto si guastarono e il Molosso trovò la morte a Pandosia, nel territorio
dei Bruzi.

In anni più vicini alla minaccia degli Italici si era aggiunta quella di Roma: preoccupata dal successo
che la nuova potenza aveva conseguito nella II guerra sannitica, nel 303 a.C. Taranto aveva richiesto ancora
una volta l’assistenza della sua metropoli Sparta. Questa volta fu inviato il principe di sangue reale Cleoni-
mo, la cui sola fama indusse i Lucani a concludere un trattato di pace con Taranto. Anche i Romani strinsero
patti con la città greca e fu probabilmente in questa occasione che Roma si impegnò a non oltrepassare con le
sue navi da guerra il Capo Lacinio, poco a sud di Crotone, e dunque a non penetrare nelle acque del golfo di
Taranto. Come era accaduto anche con Alessandro il Molosso, una volta passato il pericolo immediato i Ta-
rantini si stancarono presto del loro “liberatore”. Cleonimo fu dunque costretto a sgombrare il campo e a cer-
care un nuovo campo d’azione nell’Adriatico settentrionale: sbarcato nei luoghi in cui parecchi secoli dopo
sorgerà Venezia, il principe spartano venne tuttavia sconfitto e ucciso dai Veneti.

Il periodo di accordo tra Roma e Taranto non durò a lungo: nel 282 a.C. una città greca che sorgeva
sulle rive calabresi del golfo, Turii, minacciata dai Lucani, richiese l'aiuto di Roma. Nelle successive opera-
zioni in difesa dei Turini i Romani insediarono una guarnigione nella città e, con gesto di sfida forse delibe-
rato, inviarono una flotta davanti alle acque di Taranto. Di fronte alla provocazione e alla minaccia rappre-
sentata dalla occupazione romana di Turii, a Taranto prevalse la fazione democratica, ostile a Roma, sull'ari-
stocrazia che, come era avvenuto a Napoli qualche decennio prima, era piuttosto incline all'accordo con la
nuova potenza italica. I Tarantini quindi attaccarono le navi romane, affondandone alcune, poi marciarono su
Turii, espellendone la guarnigione romana e gli aristocratici che la sostenevano. Le richieste di soddisfazione
da parte di Roma vennero ignorate e la guerra divenne inevitabile.

2. L’intervento di Pirro e le prime fasi della guerra

Taranto si vide peraltro ben presto ridotta a mal partito e decise di ricorrere ancora una volta al soc-
corso di un condottiero della madrepatria greca. La scelta di Pirro, re dei Molossi (la medesima popolazione

109
cui apparteneva anche Alessandro) e comandante della lega Epirotica, era del tutto logica: l'Epiro, corrispon-
dente all'incirca alla Grecia nord-occidentale e all'Albania meridionale, si trovava proprio sulla costa adriati-
ca antistante la Puglia; Pirro inoltre aveva fama di generale di eccezionali qualità e di grandi ambizioni, come
mette in luce anche Plutarco nella sua biografia:

Plutarco, Vita di Pirro, 3, 1: i Tarantini chiedono il soccorso di Pirro

I Romani facevano allora guerra contro i Tarantini, ma questi non potevano sostenere il conflit-
to né mettervi fine per la temerità e la pervicacia di coloro dai quali il popolo si lasciava gover-
nare. E allora stabilirono di darne il comando a Pirro, affidando a lui la condotta della guerra,
perché egli in quel momento, tra tutti gli altri re, non aveva nessun altra occupazione ed era ri-
tenuto uomo di grande esperienza.

Con abile mossa politica, il re dei Molossi diede alla


sua spedizione il carattere di una sorta di crociata in difesa dei
Greci d'Occidente, minacciati dai barbari romani e cartaginesi
(se, come pare probabile, egli aveva compreso fin dall'inizio la
Sicilia nella sua possibile sfera d'azione), procurando così
l’appoggio di tutte le potenze ellenistiche, del resto liete di sba-
razzarsi di un interlocutore scomodo come il re dei Molossi.

Nella sua azione propagandistica Pirro si richiamò poi


alla sua discendenza da Achille, per giustificare l'attacco contro
la “troiana” Roma. Ma anche altre parentele, assai più vicine
nel tempo, richiamavano il re dei Molossi verso l'Italia e la Si-
cilia: Pirro in effetti era imparentato con Alessandro il Grande
(la madre del re macedone, Olimpia, come ricordato appartene-
va alla casata reale dei Molossi) e con Alessandro il Molosso e
poteva dunque rivendicare a ragione la ripresa dei progetti di
Figura 1: busto di Pirro conquista dell'Occidente che avevano animato i due. Pirro inol-
tre aveva sposato nel 295 a.C. Lanassa, figlia del re di Siracusa
Agatocle. Con la scomparsa di Agatocle, nel 289 a.C., era crol-
lato anche il sistema di egemonia da lui costruito nella Sicilia
occidentale e nell'Italia meridionale, lasciando un vuoto di po-
tere che il genero Pirro poteva sperare di colmare.

Nel 280 a.C. Pirro sbarcò in Italia con esercito di circa


22.000 fanti, 3.000 cavalieri e 20 elefanti da guerra, contando
anche sulle truppe che potevano fornirgli Taranto e le popola-
zioni italiche che sperava di poter portare dalla sua parte. Per
affrontare questo temibile schieramento, Roma si vide costretta
ad arruolare per la prima volta i capite censi, i nullatenenti fino
ad allora esentati dal servizio militare. Nonostante la superiori-
tà numerica, i Romani subirono una sanguinosa sconfitta ad
Eraclea, in Lucania, dovuta tanto all'abilità tattica di Pirro
quanto al devastante effetto psicologico che gli elefanti ebbero
sui soldati romani (vedi figura 2): la battaglia costò tuttavia
gravissime perdite anche all'esercito epirota.

Figura 2
110
La battaglia di Eraclea mise gravemente in pericolo le posizioni romane nell'Italia meridionale: le
città greche, i Lucani e i Bruzi si schierarono dalla parte di Pirro, seguiti dai Sanniti che, per la quarta volta in
settanta anni, presero le armi contro i Romani. Ciò nonostante Pirro non seppe cogliere i frutti del suo suc-
cesso: il suo tentativo di suscitare una ribellione tra gli alleati di Roma nell'Italia centrale e di collegarsi con
gli Etruschi fallì. L'esercito epirota d'altra parte era assolutamente insufficiente per assediare la città nemica,
ben difesa dalle sue mura. Per questo motivo Pirro decise di intavolare trattative di pace, inviando a Roma il
suo ambasciatore Cinea, uno degli oratori migliori del tempo. L'epirota chiedeva libertà e autonomia per le
città greche dell'Italia meridionale e la restituzione dei territori strappati a Lucani, Bruzi e Sanniti: richieste
durissime, che vennero prese in seria considerazione dal senato e furono respinte solamente dopo l'intervento
del vecchio Appio Claudio Cieco, a dimostrazione delle difficoltà in cui si trovava Roma. Il contenuto delle
proposte di pace avanzate da Pirro ci è noto attraverso il resoconto di Appiano:

Appiano, Le guerre sannitiche, 10, 1-6: l’ambasceria di Cinea


Pirro, re dell'Epiro, avendo ottenuto una vittoria sui Romani e desiderando recuperare le sue
forze dopo il duro scontro, pensando che i Romani fossero particolarmente desiderosi di giun-
gere ad un accordo, inviò a Roma il tessalo Cinea, tanto famoso per la sua eloquenza da essere
paragonato a Demostene. Quando Cinea fu ammesso in Senato, esaltò il re per diverse ragioni,
sottolineando la sua moderazione dopo la vittoria, poiché non aveva marciato direttamente
contro la città, né aveva attaccato l'accampamento dei vinti. Egli offrì loro pace, amicizia e un
trattato di alleanza con Pirro, a patto che includessero i Tarantini nello stesso trattato, lasciasse-
ro liberi e autonomi i Greci d'Italia e restituissero ciò che avevano tolto in guerra ai Lucani, ai
Sanniti, ai Dauni e ai Bruzi. Se avessero fatto ciò, Cinea disse che Pirro avrebbe restituito tutti i
prigionieri senza riscatto.

In risposta al fallimento delle trattative Pirro, dopo aver rafforzato il suo esercito reclutando merce-
nari, mosse verso l'Apulia settentrionale, minacciando le colonie latine di Venosa e Luceria. Lo scontro con il
nuovo esercito romano inviato per bloccare la sua avanzata avvenne ad Ausculum (oggi Ascoli Satriano), sul-
le rive del fiume Ofanto nel 279 a.C.: ancora una volta la vittoria fu del re del Molossi, ma di nuovo le sue
perdite furono fortissime, come lo stesso Pirro dovette constatare:

Plutarco, Vita di Pirro, 21, 14-15: amare considerazioni di Pirro dopo Ausculum
I due eserciti si separarono e si narra che Pirro abbia detto a uno di quelli che si congratulavano
con lui: «Se otterremo ancora una vittoria sui Romani, saremo completamente perduti». Aveva
infatti perduto gran parte delle truppe che aveva portate con sé e quasi tutti i suoi amici e i suoi
generali; non ne aveva altri da far venire e vedeva scemare l'ardore dei suoi alleati d'Italia,
mentre l'accampamento dei Romani si riempiva facilmente e rapidamente, come da una fonte
inesauribile situata nel paese stesso, e le sconfitte non facevano perdere loro il coraggio, ma
anzi l'ira infondeva loro nuova forza ed ostinazione per combattere.

3. La spedizione in Sicilia e la fine della guerra

Pirro aveva vinto due grandi battaglie, ma non riusciva a concludere la guerra. Protetta dalla sue mu-
ra e forte dell'immenso potenziale umano fornito dai Latini e dagli altri alleati dell'Italia centrale, Roma sem-
brava in grado di poter resistere all'infinito, mentre i rapporti tra l'epirota e i suoi alleati dell'Italia meridiona-
le si andavano deteriorando, soprattutto a causa delle pesanti richieste finanziarie che Pirro era stato costretto
ad imporre per mantenere il suo esercito e colmare le perdite con truppe mercenarie. Per questo motivo Pirro
accolse le domande di aiuto che gli venivano da Siracusa: la città, a causa dei dissensi interni, non era infatti
più in grado di sostenere da sola la lotta secolare che aveva intrapreso contro i Cartaginesi per il dominio del-
la Sicilia. Pirro ritenne che il possesso di quella grande e ricchissima isola, ove lo richiamava anche la già

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ricordata parentela con il re di Siracusa Agatocle, avrebbe grandemente accresciuto la sua potenza, consen-
tendogli di imprimere una svolta decisiva anche alla guerra contro Roma; d'altra parte, se avesse rifiutato di
accorrere in aiuto di Siracusa, tutta la sua costruzione propagandistica, fondata sulla difesa della grecità
d'Occidente contro i barbari, sarebbe crollata. Decise quindi di recarsi in Sicilia con parte del suo esercito,
lasciando peraltro una forte guarnigione a Taranto. La posizione del re dei Molossi era tuttavia assai precaria,
dal momento che nello stesso anno 279 a.C. Roma e Cartagine avevano stretto un'alleanza difensiva che pre-
vedeva la mutua collaborazione militare contro il comune nemico. Le clausole di questo trattato di alleanza
romano-punico ci sono ricordate da Polibio: in particolare lo storico attesta che, se una delle due potenze
avesse concluso pace con Pirro, avrebbe dovuto far includere nel trattato la possibilità soccorrere l’alleato nel
caso di un attacco dell’epirota (di fatto questa clausola impediva la possibilità di una pace separata); inoltre i
Cartaginesi si impegnava ad assistere i Romani nelle operazioni che avessero richiesto l’intervento di forze
navali.

Polibio, Storie, III, 25, 1-5: il trattato di alleanza romano-cartaginese contro Pirro
I Romani quindi concludono ancora un ultimo trattato al tempo della traversata di Pirro, prima
che i Cartaginesi muovano la guerra per la Sicilia; in esso conservano tutti gli altri punti alle
condizioni esistenti, e a questi viene aggiunto quanto scritto di seguito: «Qualora facciano alle-
anza con Pirro, gli uni e gli altri mettano per iscritto che sia permesso portarsi soccorso a vi-
cenda nel territorio di chi viene attaccato; a quale dei due abbia bisogno di soccorso, i Cartagi-
nesi forniscano le imbarcazioni sia per l'andata, sia per il ritorno, e gli uni e gli altri gli stipendi
ai rispettivi uomini. I Cartaginesi portino soccorso ai Romani anche per mare, se c'è bisogno.
Nessuno costringa gli equipaggi a sbarcare contro la loro volontà».

In Sicilia Pirro passò di vittoria in vittoria, costringendo i Cartaginesi a chiudersi a Lilibeo, all'e-
stremità occidentale dell'isola: l'assedio di questa fortezza si rivelò tuttavia infruttuoso, dal momento che Li-
libeo poteva essere costantemente rifornita via mare, dove i Cartaginesi godevano di un'assoluta superiorità.
Pirro immaginò di sbloccare la situazione invadendo l'Africa, come aveva fatto qualche anno prima Agatocle,
ma il progetto fallì perché le continue richieste di uomini e denaro e i suoi modi autoritari gli avevano ormai
alienato, anche in Sicilia, le simpatie degli alleati, alcuni dei quali passarono addirittura dalla parte dei Carta-
ginesi.

Figura 3: Tavoletta in bronzo in cui Locri chiede un prestito al santuario di Zeus, 350-250 a.C., Reggio Calabria,
Museo Archeologico Nazionale

Anche in Italia la situazione stava precipitando: approfittando dell'assenza del re epirota, i Romani
avevano riconquistato posizioni su posizioni. Rispondendo al disperato appello di Sanniti, Lucani e Bruzi,
Pirro decise di lasciare incompiuta la sua impresa siciliana e di ritornare in Italia, subendo gravi perdite nella
traversata dello Stretto di Messina ad opera di una flotta cartaginese. I nuovi vuoti che si erano aperti nelle

112
sue fila dopo la spedizione in Sicilia dovevano essere colmate con il reclutamento di altri mercenari. Nel suo
disperato bisogno di denaro Pirro si vide dapprima costretto ad imporre un contributo straordinario a Taranto
e alle città della Magna Grecia, di cui è probabilmente testimonianza una tavoletta in bronzo che è stata rin-
venuta a Locri e che attesta come questa città richiese un prestito al locale santuario di Zeus per far fronte al
contributo richiesto “dal re”: il nome del sovrano non è esplicitamente ricordato, ma l’arco cronologico che è
stato proposta per il documento, sulla base della forma delle lettere (metà del IV a.C. – metà del III sec. a.C.)
e soprattutto il tenore del testo rendono del tutto credibile l’ipotesi che questo sovrano sia proprio Pirro. Da
notare la funzione, per certi aspetti simile a quelle delle odierne banche, che i templi svolgevano
nell’antichità: questo ruolo nasceva dal fatto che nei santuari erano depositate le immense ricchezze costituite
dalle offerte dei fedeli (che potevano anche essere messe a frutto, appunto attraverso la concessione di presti-
ti) e che si trattava di luoghi relativamente sicuri da furti e saccheggi.

Tuttavia, nell’ultima parte della sua campagna d’Italia la situazione finanziaria di Pirro era talmente
compromessa che il re fu costretto addirittura al furto sacrilego dei beni del templi. Su uno di questi episodi,
commesso ai danni di un altro santuario locrese, quello della dea Persefone, ci informa Dionigi di Alicarnas-
so:

Dionigi di Alicarnasso, Storia di Roma arcaica, XX, 9, 1-2: Pirro depreda il santuario di
Persefone a Locri
Vedendo che Pirro era in difficoltà finanziarie e che ricercava ogni possibile sorta di entrate, i
peggiori e più empi dei suoi amici, Evagora, figlio di Teodoro, Balacro, figlio di Nicandro, e
Dinarco, figlio di Nicia, seguaci di dottrine ostili agli dèi e ai culti, gli suggerirono un sa-
crilego mezzo di avere empi beni, quello di aprire i tesori sacri di Persefone. C’era infatti nella
città [di Locri] un tempio a lei dedicato, che conteneva molte ricchezze lì accumulate da molto
tempo e mai violate e, tra l'altro, un'immensa quantità di oro nascosto alla vista di tutti, perché
posto sotto terra. Sedotto dunque da tali adulatori e costretto dalla sua necessità che era più for-
te di ogni altra considerazione, Pirro si servì come agenti del sacrilegio dei medesimi che gli
avevano dato il consiglio e imbarcò il denaro sottratto al tempio, assieme agli altri beni, su al-
cune navi che inviò a Taranto, tutto pieno di allegria.

L’allegria di Pirro era del tutto immotivata: se anche non possiamo credere, come facevano gli anti-
chi, che il sacrilegio avesse attirato sul re dei Molossi la maledizione degli dèi, certo dobbiamo sottolineare
come atti di questo genere gli abbiano definitivamente alienato le simpatie di cui godeva nelle colonie greche
dell’Italia meridionale: il difensore e baluardo della grecità si era rivelato un avido oppressore e un empio
profanatore di templi; considerando la prospettiva di un suo dominio sulla Magna Grecia tutto sommato
l’idea di sottomettersi ai “barbari” Romani, che in guerra si erano comunque comportati con una certa corret-
tezza, non era in fondo così disastrosa.

Lo scontro decisivo tra Pirro e le forze romane, al comando del console Manio Curio Dentato av-
venne nel 275 a.C. a Malventum. In latino il nome del sito suonava di cattivo auspicio, ma questa volta
l’esercito romano, che aveva una schiacciante superiorità numerica, sconfisse e mise in fuga le truppe di Pir-
ro. In conseguenza di questa vittoria qualche anno più tardi Malventum venne ribattezzata col nome celebra-
tivo di Beneventum e vi venne insediata una colonia latina.

Il re dei Molossi capì che la partita era perduta: per non dare l'impressione di aver completamente
abbandonato gli alleati lasciò una guarnigione a Taranto, ma decise comunque di far ritorno in Epiro con la
maggior parte del suo esercito. Lanciatosi in nuove imprese dinastiche e militari in Grecia, Pirro morì nel 272
a.C. in una scaramuccia per le vie di Argo, nel Peloponneso. In quello stesso anno Taranto, disperando ormai
di poter resistere, si arrese insieme al presidio epirota. La vittoria romana venne completata negli anni imme-
diatamente seguenti con operazioni nel Salento e intorno a Reggio: come conseguenza Taranto e tutte le altre

113
colonie greche dell’Italia meridionale furono costrette ad entrare nell’alleanza con Roma, in particolare con
l’obbligo di fornire navi ed equipaggi alla debole flotta romana. D’altra parte le città greche del Mezzogiorno
conservavano intatte le loro istituzioni, le loro leggi, la loro autonomia interna; Roma poi seppe dimostrarsi
una padrona più sollecita nei confronti delle città a lei soggette rispetto a Pirro, come fu evidente in un episo-
dio avvenuto a Reggio nel 270 a.C.: in questo anno una guarnigione di soldati campani, che qualche tempo
prima era stata insediata in città e che si era macchiata di gravi soprusi e violenze, venne duramente punita
dai Romani a seguito delle proteste dei Reggini.

4. Per saperne di più

• D. Musti, La spinta verso sud: espansione romana e rapporti «internazionali», «Storia di Ro-
ma, I, Roma in Italia», Torino 1988, pp. 527-542 [BAU STO/D 937 STO I].

• E. Santagati Ruggeri, Un re tra Cartagine e i Mamertini. Pirro e la Sicilia, Roma 1997 [BAU
938.08 B PIR B/2]

• D. Zodda, Tra Egitto, Macedonia e Sparta. Pirro, un monarca in Epiro, Roma 1997 [BAU
938.08 B PIR B/2]

114
CAPITOLO X

LA CONQUISTA ROMANA DELLA SICILIA E DELLA SARDEGNA

1. La questione dei Mamertini e lo scoppio della I guerra punica

Dopo la vittoria su Pirro, Roma controllava ormai tutta l'Italia peninsulare, da nord, al di sotto di una
linea che andava dal fiume Arno fino a Rimini, a sud fino allo stretto di Messina. Proprio nell’area dello
Stretto, di fondamentale importanza economica e strategica, gli interessi di Roma entrarono per la prima vol-
ta in seria collisione con quelli di Cartagine, con la quale fino a quel momento era sempre stata legata da
buoni rapporti, recentemente rinnovati con il trattato del 279 a.C. Lo scontro venne precipitato dalla questio-
ne dei Mamertini, mercenari di origine italica (avevano in effetti preso il nome da Mamers, come veniva
chiamato in lingua osca il dio della guerra Marte) che dopo essere stati congedati dal re di Siracusa, Agato-
cle, si erano impadroniti con la forza di Messina, dedicandosi alla redditizia attività di saccheggiare le vicine
città. Questo comportamento provocò la reazione dei Siracusani, guidati dal generale Ierone, che inflisse ai
Mamertini una severa sconfitta e avanzò verso Messina. I Mamertini accolsero dunque l'offerta di aiuto di
una flotta cartaginese che incrociava nelle acque di Messina e che ovviamente vedeva con preoccupazione la
possibilità che i Siracusani si impadronissero della zona dello Stretto: una guarnigione cartaginese si installò
in Messina e Ierone fu costretto a far ritorno a Siracusa, dove venne proclamato re a seguito delle sue vittorie.

I Mamertini peraltro si stancarono ben presto della tutela cartaginese e decisero di fare appello a
Roma, dove iniziò un serrato dibattito a favore o contro l'intervento a Messina. Sostenere i Mamertini poteva
apparire incongruente con il comportamento tenuto qualche anno prima al di là dello Stretto, a Reggio, dove i
Romani erano intervenuti per punire una guarnigione di soldati campani che, imitando i Mamertini, aveva
cercato di impadronirsi del governo della città, come abbiamo visto nel capitolo precedente. Era chiaro inol-
tre che l'intervento a Messina avrebbe causato un grave incidente con Cartagine e, probabilmente, con Sira-
cusa.

Soprattutto la prima era avversaria da non sottovalutare: Cartagine, colonia fondata dai Fenici di Ti-
ro a poca distanza dalla attuale Tunisi, era al centro di un vasto impero, formato da comunità alleate e da po-
polazioni soggette, che si estendeva dalle coste dell'Africa settentrionale a quelle della Spagna meridionale,
dalla Sardegna alla parte occidentale della Sicilia. Saldamente guidata da un regime oligarchico, grazie ai
suoi enormi mezzi finanziari, Cartagine poteva mettere in campo grandi eserciti, in parte forniti dalle popola-
zioni soggette, in parte costituiti da mercenari, e soprattutto potenti flotte.

Si discute poi se l'intervento in Sicilia abbia potuto costituire una palese violazione degli accordi che
Roma aveva concluso con Cartagine: il dibattito ruota intorno all'autenticità di una clausola che includeva la
Sicilia nella sfera dell'egemonia cartaginese, la penisola italiana nell'ambito dell'influenza di Roma. Questa
clausola era ricordata da Filino, uno storico greco di sentimenti filocartaginesi, ma l'unica testimonianza al
riguardo è quella, indiretta, di Polibio, che ne negava l'esistenza, affermando di non aver trovato negli archivi
di Roma copia del presunto "trattato di Filino".

Polibio, Storie, III, 26, 1-5: il “trattato di Filino”


Essendo i trattati tuttora conservati in tavole di bronzo presso il tempio di Giove Capitolino,
nel tesoro degli edili, chi non avrebbe ragione di meravigliarsi, non perché lo storico Filino li
ignorava – cosa che non deve sorprendere, poiché ancora ai nostri giorni i Romani e i Cartagi-
nesi più anziani e ritenuti maggiormente interessati agli affari pubblici li ignoravano – ma me-

115
ravigliarsi di perché e come osò scrivere il contrario di ciò, che cioè esistevano accordi tra
Romani e Cartaginesi in base ai quali i Romani dovevano tenersi lontani da tutta la Sicilia, i
Cartaginesi dall'Italia e che i Romani violarono i patti quando per la prima volta attraversarono
il mare diretti in Sicilia, quando non è assolutamente mai esistito né esiste alcun trattato scritto
del genere?

Nonostante l'autorevole opinione di Polibio, è possibile che tra le due potenze esistesse un qualche
accordo per una delimitazione delle rispettive sfere d'interesse, anche se non forse in termini meno espliciti di
quelli formulati da Filino: lo potrebbe far sospettare il fatto che l'apparizione di una flotta punica davanti alle
acque di Taranto nel 272 a.C. costituì, secondo le fonti romane, una violazione dei patti.

Se molte ragioni dunque consigliavano di mantenere la pace, d'altra parte far cadere nel vuoto l'ap-
pello dei Mamertini significava lasciare ai Cartaginesi il controllo della zona strategica dello Stretto e perdere
la migliore delle occasioni per mettere piede nella ricchissima Sicilia. Secondo il racconto di Polibio proprio
questa motivazione economica avrebbe indotto l'assemblea popolare, cui il senato, diviso al suo interno, ave-
va demandato la questione, a votare l'invio di un esercito in soccorso dei Mamertini.

2. La I guerra punica

Di fatto questa decisione segnò lo scoppio della lunghissima I guerra punica (264-241 a.C.). I primi
anni di guerra furono decisivi: i Romani riuscirono a respingere da Messina Cartaginesi e Siracusani, che a-
vevano deciso di allearsi con i loro vecchi nemici contro la coalizione tra Roma e i Mamertini; già nel 263
a.C. il re Ierone comprese che l'innaturale alleanza con Cartagine era pericolosa per Siracusa: decise quindi di
concludere una pace, che lo lasciò in possesso in un ampio territorio nella Sicilia occidentale, e di schierarsi
dalla parte di Roma. Il leale sostegno di Ierone si rivelò indispensabile per superare le difficoltà di riforni-
mento degli eserciti romani impegnati nelle operazioni in Sicilia. Le rispettive motivazioni di Ierone e dei
Romani sono chiaramente messe in luce da Polibio nel brano che segue:

Polibio, Storie, I, 16, 4-8: Ierone II conclude la pace con Roma


Ierone, osservando il turbamento e lo spavento dei Sicelioti, nonché il numero e la forza delle
legioni romane, da tutto ciò concluse che le prospettive dei Romani fossero più brillanti di
quelle dei Cartaginesi. Perciò, orientato in questo senso dalle sue riflessioni, mandava inviati ai
consoli, parlando di pace e di amicizia. I Romani accettarono, soprattutto a causa degli approv-
vigionamenti: dal momento, infatti, che i Cartaginesi dominavano il mare, essi temevano di es-
sere tagliati fuori su tutti i lati dai rifornimenti essenziali, anche perché fra le legioni sbarcate
prima c'era stata una grave penuria di viveri. Perciò, comprendendo che Ierone sarebbe stato
loro di grande utilità sotto questo punto di vista, accettarono volentieri la sua amicizia.

L’appoggio siracusano si rivelò decisivo già dal 262 a.C. quando, dopo un lungo assedio, cadde nel-
le mani romane la grande base cartaginese di Agrigento, una vittoria che convinse i Romani della possibilità
di impadronirsi di tutta la Sicilia. Grazie alla sua netta superiorità nelle forze navali, Cartagine conservava
tuttavia un saldo controllo su molte località costiere della Sicilia: a Roma si decise quindi per la prima volta
la creazione di una grande flotta di quinquiremi, contando anche sull'aiuto dei cosiddetti socii navales, in par-
ticolare le città greche dell'Italia meridionale, che fornirono buona parte dei marinai e dei comandanti. Lo
sforzo fu premiato nel 260 a.C. da una clamorosa vittoria del console Caio Duilio sulla flotta cartaginese nel-
le acque di Milazzo.

Il trionfo di Duilio venne celebrato con l’erezione nel Foro di una colonna rostrata, adornata cioè
con gli speroni (rostra) e con le ancore delle navi cartaginesi che erano state catturate a Milazzo. La colonna
è oggi andata distrutta, ma possiamo vedere alla figura 1 un tentativo di ricostruzione che si trova oggi al

116
Museo Nazionale della Civiltà Romana di Roma. Si conserva invece, anche se in un rifacimento che proba-
bilmente risale all’età augustea, la base della colonna rostrata, con un iscrizione che ricordava i meriti di C.
Duilio.

Corpus Inscriptionum Latinarum, I2, 25: la vittoria


di C. Duilio a Milazzo
Console, liberò i Segestani, alleati del popolo Roma-
no, dall'assedio dei Cartaginesi e le legioni dei Carta-
ginesi e il loro comandante supremo dopo nove giorni
fuggirono dal loro accampamento e prese combatten-
do la città di Macella. Durante la medesima carica,
essendo console per primo conseguì un successo na-
vale per mare e per primo equipaggiò e allestì una
flotta navale; e con queste navi vinse in battaglia
combattuta in mare aperto tutte le flotte cartaginesi e
parimenti le maggiori forze cartaginesi, in presenza di
Annibale, il loro dittatore, e con la forza catturò le se-
guenti navi con gli equipaggi: una nave a sette ordini
di remi, 30 quinquiremi e quadriremi; ne affondò 13.
Oro preso: 3.700 pezzi, argento preso come bottino
100.000 pezzi [o più]. Totale del denaro preso: [tra
2.900.000 e 3.400.000] sesterzi. Celebrato il trionfo
navale, donò il bottino al popolo Romano e fece sfila-
re cittadini liberi di Cartagine...

Figura 1: ricostruzione della colonna rostrata L’epigrafe si sofferma in primo luogo sulle opera-
di C. Duilio, Roma, Museo Nazionale della Ci- zioni terrestri condotte da Duilio, tra l’altro facendoci sapere
viltà Romana
che in Sicilia i Romani potevano contare anche
sull’appoggio degli Elimi di Segesta (nella conclusione di questa alleanza ebbe probabilmente una certa im-
portanza il motivo propagandistico dell’origine troiana degli Elimi, alla quale abbiamo avuto modo di accen-
nare nel capitolo III, che naturalmente doveva favorire l’amicizia con la troiana Roma); si ricorda poi la con-
quista di una città di nome Macella, la cui identificazione è tuttora oggetto di discussione. Nella seconda par-
te l’iscrizione si sofferma sulla grande vittoria di Milazzo, mettendo in evidenza l’elemento che ancora oggi
colpisce particolarmente: il fatto cioè che Roma, che per la prima volta aveva allestito una grande flotta da
guerra, riuscì a sconfiggere una marineria di secolari tradizioni come quella punica. Nell’ultima parte del te-
sto si ricorda l’enorme bottino conquistato, una notazione che ci permette di sottolineare la valenza anche e-
conomica delle grandi guerre di conquista di Roma; da notare infine come il redattore del testo, come era pra-
tica consueta nella storiografia romana, adattò le istituzioni di uno stato straniero, in questo caso Cartagine, al
lessico istituzionale romano: le truppe di terra cartaginesi sono definite “legioni”, il comandante supremo
delle forze puniche, Annibale (da non confondere con il più famoso generale che invase l’Italia durante la II
guerra punica), è chiamato semplicemente “dittatore”, richiamando il comando straordinario al quale a Roma
si ricorreva nei momenti di emergenza.

Dopo la vittoria navale di Milazzo a Roma si pensò di poter assestare un colpo mortale a Cartagine
attaccandola direttamente nei suoi possedimenti africani: l'invasione (256-255 a.C.), iniziata sotto i migliori
auspici, si concluse in un fallimento: l’esercito romano, al comando di M. Atilio Regolo, fu duramente battu-
to dai Cartaginesi, comandanti da un generale mercenario, lo spartano Santippo. Per completare il disastro, la
flotta romana, che era riuscita a trarre in salvo i superstiti della sconfitta, incappò in una tempesta e perse
buona parte delle sue navi.

117
Il duplice smacco allontanò la possibilità di una rapida conclusione della guerra: le posizioni che i
Cartaginesi tenevano ancora sulle coste della Sicilia occidentale, tra le quali Trapani e Lilibeo, potevano es-
sere prese solo se bloccate anche dal lato del mare. Ma l'imperizia dei comandanti romani provocò la perdita
delle flotte che erano state allestite con grande sforzo finanziario: nel 249 a.C., a seguito della sconfitta nella
battaglia navale di Trapani e dell'ennesimo naufragio al largo di Capo Pachino, Roma era ormai priva di for-
ze navali e dei mezzi necessari per approntare una nuova flotta. D'altro canto i Cartaginesi, anch'essi esausti,
non seppero sfruttare la loro superiorità sui mari, mentre sulla terra furono costretti a limitarsi ad azioni di
disturbo degli eserciti romani che assediavano Trapani e Lilibeo e a incursioni sulle coste dell’Italia meridio-
nale; queste operazioni, brillantemente condotte da Amilcare Barca (padre del famoso Annibale), tuttavia non
potevano dare una svolta decisiva alla guerra.

Solo dopo qualche anno Roma fu in grado di costruire una nuova flotta, ricorrendo ad un prestito di
guerra dai cittadini più facoltosi, che sarebbe stato restituito in caso di vittoria. Grazie a questo espediente,
venne allestita una flotta di 200 quinquiremi, immediatamente inviata al comando del console Caio Lutazio
Catulo a bloccare Trapani e Lilibeo. La flotta che i Cartaginesi avevano frettolosamente equipaggiato, per
spezzare il cerchio che si stringeva intorno alle loro basi nella Sicilia occidentale, fu sconfitta alle isole Egadi
nel 241 a.C. A Cartagine si comprese che non vi era più alcuni possibilità di resistere e si domandò la pace:
le clausole del trattato che mise fine al conflitto prevedevano tra l'altro lo sgombero dell'intera Sicilia e delle
isole che si trovavano tra la Sicilia e l'Africa (le Lipari e le Egadi) e il pagamento di un indennizzo di guerra,
come ci testimonia Polibio:

Polibio, Storie, I, 62, 7 – 63, 3: le clausole di pace del 241 a.C.


Avendo Lutazio accolto di buon animo le richieste, poiché era consapevole che la condizione
dei suoi era ormai logorata e sfinita dalla guerra, pose fine alla contesa, dopo che furono redatti
i seguenti patti: «Ci sia amicizia tra Cartaginesi e Romani a queste condizioni, se anche il po-
polo dei Romani dà il suo consenso. I Cartaginesi si ritirino da tutta la Sicilia e non facciano
guerra a Ierone né impugnino le armi contro i Siracusani né contro gli alleati dei Siracusani. I
Cartaginesi restituiscano ai Romani senza riscatto tutti i prigionieri. I Cartaginesi versino ai
Romani in vent'anni 2.200 talenti euboici d'argento». Quando furono riferite a Roma queste
condizioni il popolo non accettò i patti, ma inviò dieci uomini per esaminare la situazione. Es-
si, una volta arrivati, non cambiarono più nulla, nell'insieme, ma imposero ai Cartaginesi con-
dizioni un po' più dure. Dimezzarono infatti il tempo a disposizione per pagare il tributo, cui
aggiunsero 1.000 talenti, e imposero inoltre che i Cartaginesi si ritirassero da tutte le isole che
si trovano tra l'Italia e la Sicilia.

3. La Sicilia, prima provincia romana

A seguito della I guerra punica Roma per la prima volta era venuta in possesso di un ampio territorio
al di fuori della penisola italiana, costituito dalle regioni della Sicilia centro-occidentale un tempo parte del
dominio cartaginese.

Il sistema col quale Roma integrò questi nuovi possedimenti segnò una svolta nella sua storia istitu-
zionale. Nella penisola, città e popolazioni erano state direttamente incorporate nello stato romano oppure
legate da trattati, che prevedevano l'invio di truppe in aiuto della potenza egemone, ma non il pagamento di
tributi in denaro, e lasciavano alle comunità sociae una larga autonomia interna. In Sicilia la strada intrapresa
fu diversa: alle comunità un tempo soggette a Cartagine venne imposto il pagamento di un tributo annuale,
consistente in una parte del raccolto di cereali, di cui la Sicilia era grande produttrice. Nella forma che è me-
glio nota per gli inizi del I sec. a.C. il tributo siciliano consisteva nel versamento di un decimo della produ-
zione cerealicola, secondo uno schema che Roma probabilmente aveva tratto dal sistema contributivo vigente
nello stato siracusano.

118
L'amministrazione della giustizia, il mantenimento dell'ordine interno e la difesa dalle aggressioni
esterne nei nuovi possedimenti siciliani vennero affidati ad un magistrato romano inviato annualmente nell'i-
sola. Nei primi anni probabilmente il compito fu affidato a un magistrato di rango minore, uno dei quattro
questori della flotta (quaestores classici), che erano stati creati per la prima volta nel 267 a.C. A partire dal
227 a.C. vennero eletti due nuovi pretori (magistrati per importanza secondi solo ai consoli): uno dei due
nuovi pretori venne inviato in Sicilia, l'altro in Sardegna, che, come vedremo, era da poco caduta in potere di
Roma. Da questo momento il termine provincia, che originariamente indicava semplicemente la sfera di
competenza di un magistrato, viene ad assumere progressivamente il significato di territorio soggetto all'auto-
rità di un magistrato romano, col quale è meglio noto.

I caratteri della provincia romana di Sicilia sono illustrati, con la consueta maestria oratoria, da Ci-
cerone in questo passo tratto dalla Seconda orazione contro Verre, scritta nel 70 a.C. L’insistenza sulla fedel-
tà di questa provincia è naturalmente motivata da un interesse di parte: nel processo cui questa orazione è le-
gata Cicerone era l’avvocato dei provinciali siciliani, che avevano fatto causa contro il governatore romano
dell’isola, Caio Verre, macchiatosi di soprusi e ruberie durante la sua amministrazione nel periodo 73-71
a.C.; Cicerone dunque aveva ogni interesse a mettere i suoi clienti sotto la luce migliore.

Cicerone, Seconda orazione contro Verre, II, 2-3: la Sicilia, prima provincia romana
E tuttavia, prima di esporvi le sventure della Sicilia, mi pare doveroso parlare brevemente della
nobiltà di questa provincia, della sua antichità e dei vantaggi che ne abbiamo tratti. E se voi,
signori giurati, dovete tenere scrupolosamente conto degli interessi di tutti gli alleati e di tutte
le province, in un conto particolare dovete tenere quelli della Sicilia, e le ragioni sono numero-
sissime e giustissime; anzitutto perché di tutte le popolazioni straniere è stata la prima a volere
l'amicizia e la protezione del popolo romano, la prima a ricevere … il nome di provincia, la
prima a rendere i nostri avi consapevoli della gloria insita nel dominio di popoli stranieri; ed è
stata la sola a mostrarsi così fedele e ben disposta verso il popolo romano che le città di quest'i-
sola, una volta legatesi in amicizia con noi, non hanno in seguito mai defezionato; anzi, la
maggior parte di esse e le più illustri sono rimaste ininterrottamente nostre fedeli alleate. È per
questo che i nostri alleati mossero da questa provincia per estendere il nostro impero in Africa;
in effetti l'immensa potenza di Cartagine non sarebbe stata abbattuta così facilmente, se la Sici-
lia non ci avesse riforniti di grano e non avesse offerto alle nostre flotte il rifugio dei suoi porti.

Pur con la prudenza necessaria, in ragione del particolare punto di vista di Cicerone, il passo è testi-
monianza eloquente del rilievo che la provincia di Sicilia ebbe nella costruzione del dominio romano sul Me-
diterraneo. È tuttavia importante notare che la provincia romana non si estendeva sull'intera isola: esistevano
ancora alcuni stati formalmente indipendenti, anche se legati a Roma da trattati, tra quali sono da ricordare il
regno siracusano di Ierone e la città alleata di Messina.

4. La creazione della provincia di Sardegna e Corsica

Per Cartagine i primi anni dopo la sconfitta nella I guerra punica furono drammatici: la città, spossa-
ta dal punto di vista finanziario, non era in grado di assicurare il pagamento delle numerose truppe mercena-
rie che avevano combattuto contro i Romani. I mercenari, stanchi di attendere, si ribellarono, coinvolgendo
alcune delle popolazioni dell'Africa settentrionale soggette a Cartagine (241-237 a.C.). La rivolta fu soffocata
solo a caro prezzo da Amilcare Barca. Quando però i Cartaginesi allestirono una spedizione per recuperare la
Sardegna, dove pure le guarnigioni dei mercenari si erano ribellate si dovettero scontrare con l'opposizione di
Roma, cui i mercenari avevano fatto appello per ricevere protezione. Cartagine fu accusata di prepararsi ad
aprire le ostilità contro Roma stessa, che si disse pronta a dichiarare guerra. I Cartaginesi, che non avevano
alcuna possibilità di affrontare un nuovo conflitto, si piegarono, accettando di pagare un indennizzo supple-

119
mentare e cedere la Sardegna, che insieme alla Corsica andò a formare la seconda provincia romana, dopo la
Sicilia (237 a.C.). La vicenda è lucidamente narrata da Polibio:

Polibio, Storie, I, 88, 8-12: i Romani si impadroniscono della Sardegna


I Romani in questo periodo, chiamati dai mercenari che dalla Sardegna avevano disertato per
passare a loro, si misero in rotta verso quest’isola. Poiché i Cartaginesi erano irritati perché ri-
tenevano che il dominio sui Sardi spettasse di più a loro e si preparavano a punire coloro che
avevano spinto l'isola a ribellarsi loro, i Romani, sfruttando questo pretesto, decretarono la
guerra contro i Cartaginesi, sostenendo che costoro facevano i preparativi non contro i Sardi,
ma contro di loro. Quelli, che erano inaspettatamente scampati alla guerra di cui s’è detto e non
erano assolutamente in grado, sul momento, di riprendere le ostilità con i Romani, cedendo alle
circostanze non solo rinunciarono alla Sardegna, ma concessero anche ai Romani, in aggiunta,
altri 1.200 talenti, a condizione di non subire la guerra al momento attuale.

La conquista delle nuova provincia, che ebbe un’organizzazione definitiva nel 227 a.C., con l’invio
di un nuovo pretore come governatore, sembrava assicurare a Roma il dominio incontrastato del Mediterra-
neo occidentale. Tuttavia, almeno in un prima fase, la sottomissione della Sardegna e della Corsica procurò a
Roma più danni che vantaggi: in primo luogo il proditorio ultimatum con il quale Cartagine, prostrata dalla
guerra contro i mercenari, fu costretta a cedere questi suoi antichi possedimenti, venne sentito nella città pu-
nica come un’autentica pugnalata alla spalle, accendendo un feroce desiderio di rivincita che fu una delle mo-
tivazioni principali dello scoppio, dopo pochi anni, della II guerra punica, con i suoi devastanti effetti su Ro-
ma e sull’Italia. Inoltre il controllo della Sardegna non si rivelò affatto facile: già pochi anni dopo
l’annessione le popolazioni sarde diedero inizio a un’interminabile serie di ribellioni, inizialmente sobillate e
finanziate dalla stessa Cartagine, ma che si prolungarono in pratica per tutta l’età repubblicana, costringendo
Roma a tenere impegnata nell’isola una forte guarnigione. Nonostante questo notevole dispendio di forze, il
controllo sulle zone più interne e montuose della Sardegna da parte dei Romani rimase sempre precario: le
regioni centro-occidentali dell’isola erano considerate terre di barbari, restii ad accogliere i segni della civiltà
romana, dunque una Barbaria, termine dal quale deriva l’odierno nome di Barbagia per l’area del massiccio
del Gennargentu.

5. Per saperne di più

• M.I. Finley, Storia della Sicilia antica, Roma – Bari 19985 [BAU STO Coll. provv. 938 FIN
11].

• E. Gabba, La prima guerra punica e gli inizi dell’espansione transmarina, «Storia di Roma, II,
L’impero mediterraneo, 1, La repubblica imperiale», a cura di G. Clemente – F. Coarelli – E.
Gabba, Torino 1990, pp. 55-67 [BAU STO/D 937 STO II].

120
CAPITOLO XI

LA GUERRA ANNIBALICA E LA CONQUISTA DELL’ITALIA SETTENTRIONALE

1. L’avanzata di Roma in Italia settentrionale prima della guerra annibalica

Come abbiamo visto nel capitolo VIII, l’orizzonte di Roma si era allargato all’Italia settentrionale
dopo la battaglia di Sentino del 295 a.C. e la successiva sconfitta dei Galli Sènoni. Per qualche tempo tuttavia
i Romani si limitarono a sorvegliare il territorio e a mettersi al sicuro da possibili attacchi provenienti da set-
tentrione. A questo scopo nel 268 a.C. venne fondata alle foci del fiume Marecchia la forte colonia latina di
Ariminum, dove secondo alcune fonti vennero insediati 6.000 capifamiglia, il potenziale di un’intera legione.

Dopo qualche decennio di calma, l'attenzione di Roma in questa zona venne richiamata da un’incur-
sione di Galli, che si arrestò proprio davanti alla colonia di Rimini nel 236 a.C. Quattro anni dopo, il tribuno
della plebe Caio Flaminio propose di distribuire a singoli cittadini romani il cosiddetto l'ager Gallicus, la
regione strappata qualche decennio prima ai Sènoni tra la Romagna meridionale e le Marche settentrionali: il
provvedimento, oltre ad avere un indubbio carattere politico e sociale, consentiva di fatto di sorvegliare
meglio il corridoio adriatico attraverso il quale i Galli potevano penetrare nell'Italia centrale. Per questo
motivo, secondo Polibio, la legge Flaminia destò l'allarme dei Galli Boi, che abitavano le regione intorno
all'attuale Bologna, e fu una delle cause della guerra gallica che scoppiò poco dopo: non a torto i Boi teme-
vano che il movimento di colonizzazione romana non si sarebbe arrestato all’area marchigiana, ma presto
avrebbe interessato l’intera Italia settentrionale, riservando a loro la stessa triste sorte toccata ai Sènoni qual-
che decennio prima.

Nello scontro le due principali popolazioni della


Gallia Cisalpina, i Boi e gli Insubri (che, come abbiamo
visto nel capitolo VII, erano stanziati nella regione di Mi-
lano), ottennero l'appoggio di truppe provenienti dalla
Transalpina, i cosiddetti Gesati: il nome di questi ultimi
deriva da gaesum, un tipo di lancia in uso in Gallia; forse,
più che di una vera e propria tribù si deve parlare di sol-
dati mercenari assoldati dai Boi e dagli Insubri. I Galli
Cenomani del territorio bresciano e i Veneti preferirono
invece schierarsi dalla parte di Roma. I Galli riuscirono a
penetrare in Etruria e ad ottenere qualche successo, ma
nel 225 a.C. vennero annientati nella battaglia di Talamo-
ne, una località nell’attuale provincia di Grosseto. A que-
sto punto, a Roma ci rese conto che la conquista della
Valle Padana non solo era possibile, ma era anche neces-
saria per allontanare definitivamente la minaccia delle
incursioni galliche. La breve, ma violenta campagna mili-
tare fu coronata nel 222 a.C. dalla vittoria sugli Insubri a
Figura 1: la galleria romana del Furlo, 76-77 d.C. Casteggio, nell’Oltrepo pavese, e dalla conquista del loro
centro principale, Mediolanum (attuale Milano).

Le comunicazioni con l’Italia settentrionale vennero assicurate dalla costruzione, a partire dal 220
a.C. della via Flaminia, ad opera di quello stesso Caio Flaminio (ora nella sua qualità di censore) che qualche

121
anno prima aveva fatto distribuire lotti di terreno ai coloni romani nell’ager Gallicus. La via Flaminia usciva
da Roma dall'omonima porta e penetrava poi in Umbria, toccando Ocriculum, l'odierna Otricoli, per poi rag-
giungere Narni, dove con un ardito ponte, i cui resti sono ancora oggi visibili, scavalcava le gole della Nera.
Dopo Narni il tracciato originario della Flaminia passava per Fulginiae (Foligno) per poi attraversare lo spar-
tiacque appenninico al passo di Scheggia. Da qui la strada seguiva un ardito percorso lungo le gole del fiumi
che scendevano verso l'Adriatico: celeberrima è la galleria stradale della gola del Furlo, che è tuttora percor-
ribile e che peraltro risale ad un intervento dell’imperatore Vespasiano, nel 76-77 d.C. (vedi figura 1).La
strada poi scendeva nella valle del Metauro, toccando Forum Sempronii (oggi Fossombrone) e raggiungendo
la costa a Fano; da qui, seguendo un tracciato parallelo alla riva adriatica e passando per Pisaurum (odierna
Pesaro), arrivava sino a Rimini. Per tutta l’età antica la via Flaminia rimarrà la principale arteria di collega-
mento tra Roma e l’Italia settentrionale.

La fondazione nel 218 a.C. di due grandi colonie latine a Piacenza e Cremona, con 6.000 coloni cia-
scuna, doveva consolidare la conquista, controllando in particolare il medio corso del Po: ma tutti i risultati
raggiunti in questi anni vennero rimessi in gioco dall’invasione di Annibale.

2. La guerra annibalica

La sconfitta del 241 a.C. e soprattutto l'umiliazione subita quattro anni dopo, quando Roma si era
impadronita della Sardegna, avevano creato a Cartagine un forte sentimento di rivincita contro Roma, che
animava soprattutto la famiglia dei Barca: Amilcare, il generale che nella fase finale della I guerra punica a-
veva duramente impegnato i Romani, senza mai essere battuto, e che era riuscito a sconfiggere i mercenari
ribelli dopo la conclusione della guerra, e soprattutto suo figlio Annibale, cui il padre, secondo una notissima
leggenda, aveva fatto giurare odio eterno ai Romani quando ancora era un bambino.

Dopo la perdita della Sicilia e della Sardegna, Cartagi-


ne aveva ricostruito le basi materiali per una riscossa in Spagna,
dove la sua influenza politica fino a quel momento era limitata
agli insediamenti fenici della costa sud-orientale, tra i quali è da
ricordare Gades, l'odierna Cadice. La conquista della Spagna
potrebbe apparire quasi un affare privato della famiglia Barca:
in effetti le operazioni furono condotte prima da Amilcare, poi
dal genero Asdrubale, infine dal figlio di Amilcare, Annibale;
questo tuttavia non significa che i Barca agissero nella penisola
iberica senza il consenso o addirittura in contrasto con il gover-
no cartaginese, come talvolta si è sostenuto. L'avanzata dei Bar-
ca destò l'allarme della città greca di Massalia (oggi Marsiglia),
che nella Spagna settentrionale aveva interessi economici ed a-
veva impiantato alcuni insediamenti commerciali, e naturalmen-
Figura 2: Busto di Annibale, Napoli, Museo te di Roma, di cui Marsiglia era fedele alleata. Nel 226 a.C. una
Archeologico Nazionale
ambasceria del senato concluse con Asdrubale un trattato in ba-
se al quale pare che il confine tra le zone di influenza delle due
potenze fosse fissato al fiume Ebro, nella Spagna settentrionale; un potenziale elemento di contrasto tra Ro-
ma e Cartagine era tuttavia costituito dal trattato di alleanza, di carattere non meglio precisabile, stretto da
Roma con la città iberica di Sagunto, che in effetti si trovava a sud dell'Ebro, in quella che doveva essere
l’area di egemonia di Cartagine.

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Succeduto al cognato Asdrubale al comando delle forze cartaginesi in Spagna nel 221 a.C., Annibale
iniziò ad elaborare un piano di guerra contro Roma che era assai rischioso, ma che allo stesso tempo era l'u-
nico che avrebbe potuto assicurare la vittoria di Cartagine. Nella riflessione di Annibale, Roma doveva la vit-
toria nella I guerra punica non tanto alle capacità del suoi generali, quanto all'immenso potenziale umano e
finanziario assicurato dal suo dominio sull'Italia; era dunque necessario colpire il nemico nella base della sua
potenza, cercando di staccare da Roma i suoi alleati italici. Tuttavia, dal momento che i Cartaginesi avevano
un'assoluta inferiorità nelle forze navali, dopo le sconfitte subite nella I guerra punica, l'invasione dell'Italia
poteva avvenire solamente via terra, attraverso le sua frontiera alpina settentrionale. Nelle regioni dell’Italia
settentrionale tra l’altro Annibale contava di guadagnare l'appoggio delle tribù galliche da poco sottomesse
da Roma, ma non ancora rassegnate alla perdita dell’indipendenza.

Il comandante cartaginese sfruttò sagacemente il problema costituito da Sagunto: ponendo l’assedio


alla città, costrinse in effetti i Romani a dichiarare guerra in un momento in cui si trovavano impreparati. A-
vuta rapidamente ragione della resistenza della città iberica, Annibale partì per la sua spedizione in Italia nel-
la primavera del 218 a.C. dalla base di Nova Carthago (l'odierna Cartagena) con un imponente esercito, raf-
forzato dalle eccellenti truppe spagnole e ben allenato alla disciplina militare dalle dure campagne condotte
nella penisola iberica negli anni precedenti. Valicati i Pirenei, Annibale riuscì ad evitare lo scontro con l'eser-
cito romano al comando di Publio Cornelio Scipione, inviato in Spagna per intercettarlo. L'esercito cartagine-
se riuscì ad attraversare le Alpi, subendo peraltro gravi perdite, ma riscuotendo l'immediato sostegno delle
due principali tribù galliche dell’Italia settentrionale, i Boi e gli Insubri. Sul fiume Ticino le superiori forze di
cavalleria cartaginese prevalsero su quelle romane, comandate dallo stesso Scipione. Il primo grande scontro
si ebbe sul fiume Trebbia, dove Annibale sconfisse gli eserciti di Scipione e del suo collega nel consolato Ti-
berio Sempronio Longo. L’effetto di queste due sconfitte fu per Roma rovinoso: la colonia latina di Piacenza,
ancora in fase di organizzazione e priva di difese, venne travolta dai Cartaginesi e dal Galli in rivolta; non
abbiamo notizie sull’insediamento gemello di Cremona, ma presumibilmente la sua sorte fu la stessa. I coloni
cercarono per qualche tempo di arroccarsi a Modena, che aveva una cinta difensiva, ma, privi dell’appoggio
delle legioni, dovettero probabilmente arrendersi poco dopo. Un tentativo di riscossa nel 216 a.C. finì in un
disastro: l’esercito romano cadde in un imboscata nella silva Litana, una foresta dell’Appennino emiliano
non meglio identificata, e venne quasi totalmente annientato. Il risultato di questa serie di rovesci fu che Ro-
ma in pratica perse quel controllo sull’Italia settentrionale che aveva faticosamente acquisito negli anni pre-
cedenti la guerra.

Nel frattempo Annibale iniziò a mettere in opera il disegno politico che aveva concepito: privare
Roma del sostegno dei suoi alleati. Le mosse propagandistiche del comandante cartaginese sono bene messe
in luce da Polibio nel passo seguente:

Polibio, Storie, III, 77, 3-7: la propaganda filoitalica di Annibale


Annibale, svernando in Gallia, teneva sotto severa sorveglianza i Romani fatti prigionieri in
battaglia, facendo loro somministrare solo i viveri strettamente necessari, trattava invece con
grande mitezza i loro alleati; infine riunì tutti insieme questi ultimi, per rivolgere loro un'allo-
cuzione e dichiarare che non era venuto per combatterli, ma per combattere in loro difesa con-
tro i Romani. Se conoscevano il loro interesse, egli disse, dovevano assolutamente abbracciare
la sua causa. Egli era lì infatti prima di tutto per ristabilire l'indipendenza degli Italici e insieme
per recuperare le città e il territorio di cui ognuno era stato privato ad opera dei Romani. Detto
questo, lasciò che tutti ritornassero senza riscatto alle proprie case, volendo così da una parte
accattivarsi gli abitanti dell'Italia, dall'altra alienare gli animi dai Romani e incitare alla ribel-
lione quanti stimavano che le loro città o i loro porti avessero subito qualche danno a causa del
dominio romano.

123
Annibale cercò dunque di presentarsi come il difensore dell’indipendenza e dell’autonomia delle
comunità italiche contro l’oppressione di Roma. La promessa di una revisione degli assetti territoriali dopo
che Roma fosse stata sconfitta fu accompagnata da segni concreti di benevolenza: i soldati italici che erano
caduti nelle mani dei Cartaginesi vennero trattati con un certo riguardo (mentre i cittadini romani dovettero
scontare una dura prigionia) e infine liberati senza il pagamento del consueto riscatto.

Nell'anno seguente, il 217 a.C. il generale cartaginese conseguì nuovi e spettacolari vittorie: in pri-
mo luogo riuscì ad eludere gli eserciti romani che tentavano di impedirgli il passaggio degli Appennini e a
sorprendere le truppe del console Caio Flaminio (lo stesso che qualche anno prima, come tribuno della plebe,
aveva proposto la distribuzione delle terre dell'ager Gallicus e, come censore, aveva promosso la costruzione
dell'omonima via) al lago Trasimeno. L'esercito romano venne annientato, lo stesso Flaminio fu tra le vitti-
me. A Roma si fece strada l'idea che fosse impossibile sconfiggere Annibale in campo aperto, secondo quan-
to sosteneva in particolare l'ex-console Quinto Fabio Massimo, che venne immediatamente nominato dittato-
re. Secondo la strategia di Fabio Massimo era necessario evitare le battaglie campali e limitarsi a controllare
le mosse di Annibale e ad impedire che da Cartagine o dalla Spagna gli giungessero degli aiuti: prima o poi
la scarsità di mezzi e di uomini a sua disposizione lo avrebbe costretto ad arrendersi alle superiori forze ro-
mane o ad abbandonare l'Italia.

La strategia di Fabio Massimo alla lunga avrebbe portato alla vittoria, ma a breve termine significa-
va che Roma avrebbe dovuto assistere impotente alla devastazione dell'Italia da parte dell'esercito cartagine-
se, che attraversò incontrastato le regioni del Piceno, del Sannio e dell'Apulia. Per questo motivo, scaduti i
sei mesi della dittatura di Fabio Massimo, a Roma si decise di passare nuovamente all'offensiva, sperando di
poter schiacciare Annibale con la semplice superiorità numerica: ma nel 216 a.C. Annibale riuscì a distrugge-
re gli eserciti congiunti dei consoli Marco Terenzio Varrone e Lucio Emilio Paolo nella piana di Canne, pres-
so Canosa di Puglia, in una battaglia che è considerata tuttora un capolavoro dell'arte militare.

La guerra pareva ormai perduta per Roma. Numerose comunità dell'Italia meridionale, tra le quali
Capua, insieme alle popolazioni dei Sanniti, dei Lucani e dei Bruzi, si ribellarono. Nel 212 a.C. anche Taran-
to si schierò dalla parte dei Cartaginesi, ma un piccolo presidio romano continuò ad occupare la cittadella e a
sorvegliare il porto, impedendo ad Annibale di ottenere via mare quei rinforzi di cui aveva disperato bisogno.
In ogni caso il sistema di egemonia che Roma aveva costruito in Italia sembrava ormai a pezzi, come fu co-
stretto a constatare lo stesso Livio:

Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione, XXII, 61, 10-13: defezioni da Roma dopo
Canne
Quanto poi quella disfatta sia stata più grande delle precedenti, lo prova almeno questo fatto,
che la fedeltà degli alleati, che fino a quel giorno era rimasta salda, allora cominciò a vacillare,
certamente per nessun altra ragione, se non perché gli alleati avevano disperato che Roma po-
tesse conservare la sua supremazia. Passarono quindi ai Cartaginesi queste popolazioni: Cam-
pani, Atellani, Calatini, Irpini, parte dell'Apulia, i Sanniti tranne i Pentri, tutti i Bruzi, i Lucani
e, oltre a questi, gli Uzentini, quasi tutto il litorale greco, i Tarentini, quelli di Metaponto, i
Crotoniati, i Locresi e tutti i Galli cisalpini.

Tuttavia Roma, con una capacità di ripresa che già abbiamo notato spesso nei conflitti precedenti,
ma che non manca di impressionarci anche in questa occasione, dopo una disfatta delle proporzioni di Canne,
riuscì a resistere e poi a riguadagnare terreno, lentamente e tenacemente. A determinare questi sviluppi con-
tribuì senza dubbio la fedeltà delle colonie latine e di molti socii dell’Italia centrale. Al contempo la propa-
ganda filoitalica di Annibale iniziava a mostrare i suoi limiti: a parole i Cartaginesi si proclamavano protetto-
ri degli Italici, ma di fatto devastavano e saccheggiavano i territori di quelli che dovevano essere i loro pro-

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tetti, anche se questo comportamento era in certa misura obbligato dalla necessità che Annibale di procurarsi
rifornimenti per il suo esercito. Nel frattempo Roma era ritornata alla strategia attendista di Quinto Fabio
Massimo: gli scontri campali con Annibale, la cui superiorità tattica era stata ormai riconosciuta, vennero ac-
curatamente evitati, cercando piuttosto di impedire che l’esercito cartaginese ricevesse rinforzi e approvvi-
gionamenti dalla madrepatria e di attaccare gli alleati italici del generale cartaginese negli scenari di guerra in
cui egli non era presente: in questo modo nel 211 a.C. i Romani riuscirono a recuperare Capua.

Le speranze di un successo finale per Annibale si affievolirono di molto quando fallì la spedizione
di soccorso guidata da suo fratello Asdrubale: l’esercito guidato da quest’ultimo aveva ripercorso con succes-
so il cammino, dalla Spagna all’Italia settentrionale, seguito qualche anno prima dallo stesso Annibale; ma
giunto sul fiume Metauro, nelle Marche, il corpo di spedizione fu affrontato e distrutto dagli eserciti riuniti
dei due consoli; anche Asdrubale cadde in battaglia (207 a.C.). L’azione di Annibale era ormai paralizzata: il
comandante cartaginese non era in grado di imprimere una svolta decisiva alla guerra né con una seconda
Canne, dal momento che i Romani rifiutavano sistematicamente di impegnarsi in uno scontro campale, né
impadronendosi della città nemica, poiché le truppe cartaginesi erano insufficienti anche solo a circondare
Roma, dunque non sarebbero mai state in grado di superare la sue forti difese, assicurate dalla mura “servia-
ne”. Nella stesso tempo, dopo il fallimento dell’impresa di Asdrubale e in considerazione del controllo sui
mari che Roma continuava a tenere, Annibale non poteva sperare di ricevere aiuti dalla madrepatria: incalza-
to da forze sempre più numerose, abbandonato da buona parte degli Italici, l’esercito cartaginese fu costretto
a rinchiudersi in una sorta di ridotta difensiva, nel territorio degli alleati più fedeli che restavano loro, i Bruzi.

Nel frattempo i Romani erano riusciti ad affermarsi negli altri teatri di guerra che furono interessati
dal conflitto: la Sicilia, la Macedonia e soprattutto la Spagna, dove si distinse il figlio omonimo di quel Pu-
blio Cornelio Scipione che era stato battuto da Annibale nel 218 a.C. Con una mossa strategica geniale, il
giovane Scipione portò nel 204 a.C. la guerra in Africa, quando ancora Annibale si trovava acquartierato nei
pressi di Crotone. Di importanza fondamentale per il successo della spedizione si rivelò l'alleanza con Massi-
nissa, un capotribù numida in rivolta contro Cartagine. Nel 203 a.C. Scipione e Massinissa colsero un'impor-
tante vittoria nella battaglia dei Campi Magni (una pianura a circa 130 km. ad est di Cartagine).Le speranze a
Cartagine si riaccesero quando Annibale, che era stato precipitosamente richiamato in patria, sbarcò in Africa
con il suo esercito di veterani, ancora imbattuto. La battaglia che pose fine al conflitto si svolse nel 202 a.C.
nei pressi della città di Zama: nonostante Annibale anche in quella occasione avesse dato prova del suo genio
tattico, la cavalleria numida di Massinissa diede questa volta la vittoria ai Romani. Le trattative di pace, che
si conclusero solo nell’anno seguente, comportarono clausole durissime per Cartagine, che tuttavia non inte-
ressano direttamente il tema che ci siamo riproposti di trattare.

3. Gli effetti della II guerra punica in Italia

Vale piuttosto la pena soffermarsi brevemente su quelli che furono gli effetti della guerra annibalica
sugli assetti dell’Italia, soprattutto dal punto di vista sociale ed economico. Il dato più importante che emerge
negli anni successivi alla guerra punica è la crisi dei piccoli e medi proprietari terrieri, che costituivano la
classe sociale più importante dell’Italia, dal punto di vista quantitativo come da quello qualitativo.

Questa crisi ebbe diverse motivazioni. In primo luogo dobbiamo ricordare le durissime perdite di vi-
te umane nell’esercito dei Romani e degli alleati, nell’ordine delle decine di migliaia di caduti: a questo pro-
posito dobbiamo rammentare che la gran parte delle reclute proveniva appunto del ceto dei piccoli e medi
contadini e che almeno parte delle vittime morì prima di avere il tempo di mettere alla luce dei figli; a causa
di ciò la crisi demografica innescata dalla II guerra punica si prolungò nei suoi effetti anche nelle generazioni
successive. In seconda analisi non si può sottovalutare il peso delle distruzioni materiali causate dagli eserciti

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contrapposti, che per circa 16 anni avevano percorso l’Italia in tutta la sua lunghezza, incendiando e saccheg-
giando intere regioni. Si aggiunga che anche i campi che erano fortunosamente scampati alle devastazioni
della guerra, e i cui proprietari altrettanto fortunosamente erano sopravvissuti al conflitto, molto spesso si tro-
vavano in condizioni disastrose, a causa dei lunghi anni di incuria. Da rammentare infine, a proposito delle
proprietà degli Italici che erano passati dalla parte di Annibale, il fatto che Roma, alla conclusione della guer-
ra, operò a scopo punitivo numerose confische che ridussero quelli che un tempo erano possedimenti privati
nelle condizioni di ager publicus, ovvero di terreno demaniale, di proprietà dello stato: è vero che alcuni lotti
tornarono ad essere coltivati dai vecchi proprietari, ora in qualità di affittuari che dovevano versare un canone
allo stato; ma non si può negare che queste confische abbiano avuto effetti economici devastanti in quelle a-
ree in cui le confische furono particolarmente dure, come nei territori dei Bruzi, gli ultimi e irriducibili soste-
nitori di Annibale.

Gli sviluppi che si ebbero nel II secolo a.C. non fecero che acuire i germi di crisi della piccola e me-
dia proprietà contadina, nati in ragione della guerra annibalica. Anche in questo caso le ragioni possono esse-
re molteplici: decisivo fu probabilmente il fatto che le grandi guerre di conquista, che in questo secolo diede-
ro a Roma il controllo su tutto il Mediterraneo, continuarono ad assorbire masse sempre più grandi, e per pe-
riodi sempre più lunghi, di contadini-soldati. La cura dei campi per molti di costoro non divenne altro che un
saltuario intermezzo tra una campagna e l’altra. In ampie porzioni della penisola si andava inoltre affermando
un modello di sfruttamento del territorio alternativo a quello, un tempo prevalente, della piccola famiglia di
agricoltori che coltivava i campi essenzialmente per l’autoconsumo. L’aristocrazia romana, che aveva la sua
roccaforte nel Senato, estese sempre più le sue proprietà, investendo nell’acquisto di terre gli enormi bottini
conquistati dai suoi membri, in qualità di comandanti militari di fortunate e redditizie campagne, ma anche
usurpando terreni che erano proprietà dello stato o di qualche piccolo proprietario, assente perché impegnato
in qualche guerra lontana. In questi latifondi lavora una massa crescente di schiavi, secondo un modello e-
conomico che a breve termine poteva risultare redditizio: gli schiavi in effetti, a differenza dei salariati di li-
bera condizione, non erano soggetti al servizio militare, quindi potevano essere disponibili in modo perma-
nente; potevano poi essere sfruttati implacabilmente, al solo prezzo di quel poco di cibo che consentiva loro
di sopravvivere; infine, quando uno schiavo moriva, poteva essere agevolmente rimpiazzato ad un costo rela-
tivamente modesto: i mercati del II secolo a.C. pullulavano di persone private della libertà, in particolare di
prigionieri di guerra, ma anche persone che erano state rapite dai pirati o bambini che erano stati venduti dai
genitori che non avevano la possibilità di mantenerli; i figli nati dalle unioni informali fra schiavi andavano
poi ad alimentare ulteriormente questa riserva di forza-lavoro. Nei latifondi lavorati da schiavi, accanto alle
tradizionali colture cerealicole, si affermano coltivazioni intensive, in particolare quelle dell’ulivo e della vi-
te, i cui prodotti erano destinati alla commercializzazione e che assicuravano consistenti guadagni: in alcune
aree dell’Italia, in particolare nelle regioni del Tirreno centrale, come l’Etruria, il Lazio e la Campania, ma
anche in alcune zone dell’odierna Calabria, si passò dunque da un’agricoltura di autosostentamento ad
un’agricoltura che potremmo definire un’agricoltura “capitalista”, con termine certamente improprio, ma che
può rendere conto delle profonda evoluzione economica che interessò questo periodo.

Gli sviluppi che abbiamo rapidamente tratteggiato non furono uniformi, né generalizzati: non in tut-
ta l’Italia la crisi della piccola e media proprietà contadina fu ugualmente profonda. In effetti le regioni che
risultarono maggiormente colpite sembrano essere state quelle dell’Italia centro-meridionale, tanto che alcuni
studiosi hanno voluto rintracciare le radici dell’ancora attuale arretratezza economica del Mezzogiorno ri-
spetto ad altre regioni dell’Italia proprio nel II sec. a.C., con una logica che tuttavia rischia di disconoscere
responsabilità più precise e vicine nel tempo. Al di là di queste limitazioni, non vi è però dubbio che le diffi-
coltà della piccola proprietà contadina e l’avanzata del latifondo coltivato da schiavi fosse una delle chiavi
interpretative principali delle vicende del II e I sec. a.C. per gli storici antichi, come ad esempio per Appiano:

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Appiano, Le guerre civili, I, 29-30: l’estendersi del latifondo a manodopera schiavile
I ricchi, occupata la maggior parte della terra indivisa e resi sicuri col passar del tempo che
nessuno più l'avrebbe loro tolta, compravano con la persuasione o prendevano con la forza le
altre piccole proprietà dei poveri erano loro vicine, sì da coltivare estesi latifondi in luogo di
semplici poderi. Essi vi impiegavano, come agricoltori e pastori, degli schiavi acquistati, dato
che i liberi sarebbero stati distolti per il servizio militare dalle fatiche della terra. D'altro canto
il capitale rappresentato da questa mano d'opera arrecava loro molto profitto per la prolificità
degli schiavi, che si moltiplicavano senza pericoli, stante la loro esclusione dalla milizia. In tal
modo i potenti diventavano sempre più ricchi e gli schiavi aumentavano per le campagne, men-
tre la scarsità e la mancanza di popolazione affliggevano gli Italici, rovinati dalla povertà, dalle
imposte e dal servizio militare.

4. La soluzione alla crisi: riconquista e colonizzazione della pianura Padana

Nel II sec. a.C. la principale risposta alla crisi per i piccoli contadini, soprattutto dell’Italia centro-
meridionale, fu rappresentata dall’emigrazione, che prese diverse direzioni.

In parte tale emigrazione si orientò verso Roma, nella quale in questo periodo si assiste ad un vero e
proprio decollo demografico, nella speranza che la grande città potesse offrire qualche occasione di lavoro e
di sussistenza. L’emigrazione verso la capitale alimentò la crescita di un ampio sottoproletariato urbano,
scontento delle proprie condizioni sociali ed economiche e quindi propenso ad accogliere ogni cambiamento
che poteva migliorare la sua situazione. Si trattava in effetti di una massa dal peso politico non indifferente: a
differenza degli schiavi, che erano privi di qualsiasi diritto e difficilmente potevano concertare un’azione
comune, perché non avevano libertà di movimento e talvolta non riuscivano nemmeno a intendersi tra loro,
in quanto provenienti da paesi diversi, questi sottoproletari erano in possesso dei pieni diritti politici e pote-
vano dunque votare nelle assemblee popolari; inoltre parlavano tutti il latino e avevano spesso molto tempo a
disposizione per riunirsi, potevano dunque coordinarsi rapidamente: per il momento mancava loro solamente
un leader da seguire.

Un’altra parte dei coloni venne invece insediata nel Mezzogiorno, che fu oggetto di un programma
di colonizzazione piuttosto intenso nei primissimi anni del II sec. a.C. e più precisamente tra il 197 e il 192
a.C. In questo breve periodo vennero create ben 8 colonie di diritto romano, che probabilmente contavano
solamente 300 capifamiglia ciascuna, come era avvenuto anche in precedenza per questa tipologia. I nuovi
insediamenti si trovavano in Campania (Puteoli, ovvero l’odierna Pozzuoli, Liternum, nei pressi dell’attuale
Villa Literno, Volturnum, alle foci dell’omonimo fiume, dove oggi sorge Castel Volturno e infine Salernum,
ovvero l’odierna Salerno), in Apulia (Sipontum, nei pressi di Manfredonia), in Lucania (Buxuntum, l’odierna
Policastro Bussentino) e nel territorio dei Bruzi (Croto, nel sito dell’odierna Crotone e Tempsa, città di di-
scussa identificazione, ma che buone ragioni inducono a cercare nei pressi dell’odierna Falerna, sulla costa
tirrenica della Calabria).

Il programma fu completato con la deduzione di due più popolose colonie di diritto latino nel territo-
rio bruzio: la prima dove sorgevano le vecchie città greche di Sibari prima e di Turii poi, che prese il nome
benaugurante di Copia (“abbondanza”, con probabile riferimento alla fertilità della piana di Sibari, soprattut-
to per la produzione cerealicola); nel nuovo insediamento vennero installati 3.300 capifamiglia, ciascuno dei
quali ricevette lotti di terreno piuttosto ampi, che andavano dai 40 iugeri (circa 10 ettari, dal momento che la
misura di superficie dello iugero corrisponde a circa 2.500 m2) per gli appartenenti alla classe dei cosiddetti
equites (“cavalieri”), ai 20 iugeri (circa 5 ettari) per i semplici pedites (“fanti”). La seconda colonia sorse do-
ve un tempo si trova la colonia greca di Hipponion, ribattezzata Vibo dai Bruzi che l’avevano conquistata:
anch’essa ebbe un nome di buon auspicio come Valentia; qui vennero installati 4.000 coloni, con appezza-

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menti di terreno che andavano dai 30 iugeri dei cavalieri (circa 7,5 ettari) ai 15 iugeri dei fanti (poco meno di
4 ettari).

La colonizzazione romana dell’Italia meridionale riveste molteplici elementi di interesse, a partire


dal rapporto con gli antichi insediamenti greci: in effetti molte delle nuove colonie romane e latine sorge-
vano laddove vi erano delle preesistenti città greche, come per esempio Dikearchia (a Pozzuoli), Pyxous (Po-
licastro Bussentino), Kroton (Crotone), Temesa (quasi certamente contigua alla colonia romana di Tempsa),
oltre alle già ricordate Thurioi e Hipponion. L’impressione è che Roma abbia inviato i suoi coloni solo in
quei territori che risultavano quasi completamente spopolati, a causa delle vicende della recente guerra anni-
balica, e in cui l’elemento etnico e culturale greco era in completo declino, mentre rispettò scrupolosamente
le città magnogreche più vivaci e popolose, come Napoli, Reggio e Taranto. In qualche caso poi il centro ur-
bano della nuova colonia era forse leggermente discostato rispetto al vecchio insediamento greco: così forse
a Crotone, dove gli archeologi hanno rinvenuto tracce di un abitato di età romana nelle zona di capo Colonna,
a qualche chilometro di distanza dalla città greca, che sorgeva dove oggi si trova il centro storico moderno.

Un altro motivo di dibattito riguarda le ragioni di questo programma di colonizzazione: vi erano e-


videnti motivi di ordine sociale, che consigliavano di trasferire in queste aree, spesso sottopopolate, i conta-
dini impoveriti trasformatisi in proletari urbani e i veterani che erano stati congedati dall’esercito; ma gli stu-
diosi moderni hanno messo l’accento anche su una motivazione contingente, ovvero la necessità di protegge-
re le coste dell’Italia meridionale dalla temuta invasione via mare ad opera di Filippo V di Macedonia e di
Antioco III di Siria, i due sovrani ellenistici con i quali Roma scese in guerra nel primo decennio del II sec.
a.C. Personalmente non credo che questa ragione sia stata essenziale, ma è indubbio che anche queste colonie
del Mezzogiorno avessero una funzione militare (a confermarlo basterebbe il nome di “cavalieri” e “fanti”
che abbiamo visto essere applicato alle due classi delle colonie latine di Copia e Valentia): tuttavia io credo
che questa funzione di presidio fosse rivolta, piuttosto che all’esterno, verso l’interno, a sorvegliare le ancora
riottose popolazioni del Meridione, in particolare i Bruzi.

Sul problema delle ragioni della colonizzazione si è poi innestato un dibattito riguardo agli effetti e
alla fortuna di questo programma: il fatto che Roma avesse di mira soprattutto i suoi interessi strategici più
che la rivitalizzazione sociale ed economica dell’Italia meridionale giustificherebbe alcuni sintomi di diffi-
coltà nell’esecuzione del programma. Sembra in effetti che ci sia stato qualche problema nel reclutamento dei
coloni, poiché non si trovava un numero sufficiente di persone disposte a trasferirsi nei nuovi insediamenti:
forse i nomi di buon augurio di Copia e Valentia possono essere interpretati proprio come una sorta di “mos-
sa pubblicitaria” per invogliare i cittadini ad iscriversi nelle due colonie. Sappiamo poi che appena anno dopo
la fondazione di Buxentum e Sipontum i consoli trovarono le due colonie completamente spopolate: gli abi-
tanti se ne erano semplicemente andati via, in cerca di sedi migliori. La stessa definizione di Liternum come
vicus ignobilis ac deserta palus (“villaggio oscuro e deserta palude”) che ritroviamo in un autore degli inizi
del I sec. d.C., Valerio Massimo. Tuttavia definire in blocco come fallimentare la colonizzazione romana
dell’Italia meridionale sarebbe certamente sbagliato: Puteoli divenne il porto con maggiori traffici di tutta
l’Italia e una delle città più importanti e popolose della penisola, ma anche le due colonie bruzie di Copia e
Valentia ebbero un certo successo. Questi esempi ci inducono a ritenere necessario un esame più attento de-
gli effetti della colonizzazione nell’Italia meridionale, che distingua le diverse situazioni locali: del resto la
rinascita dell’interesse per la storia e l’archeologia del periodo romano nel Mezzogiorno lascia ben sperare
sulle prospettive future.

È indubbio tuttavia che gli effetti più spettacolari della colonizzazione romana si ebbero nella pia-
nura Padana. Qui in primo luogo Roma doveva riprendere il controllo del territorio, che aveva perduto ai
tempi dell’invasione annibalica e dell’insurrezione delle tribù celtiche.

128
Il segnale della riconquista venne dato nel 203 a.C., quando un esercito romano riuscì a sconfiggere
nel territorio degli Insubri un altro dei fratelli di Annibale, Magone, che era sbarcato qualche anno prima sul-
le coste della Liguria con un piccolo corpo di spedizione cartaginese per alimentare la ribellione delle tribù
celtiche. Negli anni seguenti, in cui pure Roma era impegnata sul fronte orientale, contro le già ricordate mo-
narchie ellenistiche di Macedonia e di Siria, assistiamo ad una serie di campagne sistematiche contro i Galli e
poi, a partire dal 193 a.C., anche contro le tribù liguri dell’Appennino. Già nel 190 a.C. i Galli Boi furono
definitivamente sconfitti e si videro espropriati di metà delle loro terre: verosimilmente si trattava delle zone
dell’alta pianura emiliana, ai piedi degli Appennini, che erano meglio drenate e più favorevoli all’agricoltura,
mentre le popolazioni celtiche superstiti conservarono il possesso delle zone più prossime al Po, ancora in
larga misura occupate da boschi e paludi. Stranamente furono proprio i disprezzati Liguri, piuttosto che i te-
mutissimi Galli, a dare maggiore filo da torcere a Roma, con incessanti operazioni di guerriglia nel loro diffi-
cile territorio montuoso. Solamente negli anni Settanta del II sec. a.C. la situazione poteva dirsi sotto control-
lo, se non completamente pacificata, dopo che Roma era ricorsa a mezzi drastici, come la deportazione di
migliaia di Liguri: esemplificativo di questa strategia soprattutto il trasferimento forzato di 47.000 Liguri
Apuani nell’area di Benevento, avvenuto nel 180 a.C.

La riconquista e la pacificazione del territorio ne aprirono le possibilità di sfruttamento attraverso la


colonizzazione, che fu particolarmente intesa nella regione della Cispadana: già nel 190 a.C. le colonie latine
di Piacenza e Cremona, che come abbiamo visto avevano subito gravi danni nelle prime fasi della guerra an-
nibalica, furono rafforzate con l’invio di 3.000 capifamiglia in ciascuna di esse. Nell’anno seguente fu la vol-
ta della fondazione della colonia, sempre di diritto latino, di Bononia (Bologna), con 3.000 famiglie, ciascuna
delle quali ricevette appezzamenti di 70 iugeri (la classe dei cavalieri) o 50 iugeri (gli altri coloni). Nel 183
a.C. vennero invece create due nuove colonie romane: Mutina (Modena) e Parma: forse fu in questa occasio-
ne che per la prima volta venne abbandonato per gli insediamenti di diritto romano il tradizionale numero di
300 coloni: ciascuna delle due nuove città ricevette infatti 2.000 capifamiglia. I lotti di terreno tuttavia erano
assai più limitati rispetto a quelli distribuiti pochi anni prima a Bononia: 8 iugeri a Parma, appena 5 a Mode-
na.

La ragione di questa disparità va probabilmente ricercata nel fatto che gli abitanti di una colonia ro-
mana erano in possesso dei pieni diritti civici: assegnare loro estesi appezzamenti di terra avrebbe comporta-
to la loro iscrizione in una delle classi superiori di censo che, a causa del particolare meccanismo di voto
dell’assemblea popolare romana, avevano in pratica il controllo sulle decisioni politiche; avrebbe dunque si-
gnificato dare un notevole peso a questi coloni, che spesso provenivano dalla classe dei nullatenenti, scon-
volgendo gli equilibri politici esistenti. La classe dirigente romana preferiva dunque assegnare campi di e-
stensione piuttosto limitata, la cui proprietà dava accesso alle classi di censo inferiori, più facilmente control-
labili.

Gli abitanti di una colonia latina invece erano formalmente i cittadini di uno stato straniero: lo ius
migrationis dava ai Latini la possibilità di votare nelle assemblee popolari romane qualora si fossero trovati
nell’Urbe al momento di una riunione dell’assemblea, ma in ogni caso l’influenza che potevano esercitare era
molto limitata. Per questo motivo (ma anche per invogliare molti cittadini romani a rinunciare al loro diritto
di cittadinanza per iscriversi nella nuova colonia) i lotti di terreno assegnati nelle deduzioni di diritto latino
potevano essere anche molto estesi. È quanto accadde anche nel 181 a.C., quando fu fondata una forte colo-
nia latina ad Aquileia, nella quale furono insediati 3.000 capifamiglia, con lotti di estensione variabile tra i 50
e i 140 iugeri, a seconda dell’appartenenza ad una delle tre classi nelle quali era suddiviso il corpo civico. Il
nuovo insediamento, nel 169 a.C. rafforzato con l’invio di altri 1.500 capifamiglia, sorgeva nella bassa pianu-
ra friulana, a sorveglianza del vulnerabile confine nord-orientale dell’Italia, che nel 186 a.C. era stato varcato
da gruppi di Galli, intenzionati a stabilirsi nella regione.

129
Nel 173 a.C., alla conclusione delle guerre liguri, nuovi appezzamenti di terreno nella Cispadana fu-
rono distribuiti individualmente (senza cioè che vi fosse la creazione di nuovi centri urbani) a migliaia di co-
loni di diritto latino e romano. L’emigrazione dall’Italia centro-meridionale verso la pianura Padana proseguì
anche nei decenni seguenti, anche se principalmente per iniziativa dei singoli. Lo stato si preoccupò piuttosto
di migliorare le comunicazioni nell’Italia settentrionale, con la costruzione di nuove strade. Il primo asse
fondamentale fu la via Emilia, la cui costruzione fu intrapresa nel 187 a.C. dal console M. Emilio Lepido: la
strada congiungeva le due colonie latine di Placentia e Ariminum (da dove, seguendo il percorso della via
Flaminia, si poteva raggiungere Roma), attraversando i nuovi insediamenti di Parma, Mutina e Bononia. Nel
148 a.C. iniziò poi la costruzione della via Postumia, che attraversava in diagonale tutta l’Italia settentrionale,
partendo da Genua (Genova), incrociando la via Emilia a Piacenza, toccando l’altra colonia latina di Cremo-
na e giungendo fino ad Aquileia.

5. Per saperne di più

• G. Clemente, La guerra annibalica, «Storia di Roma, II, L’impero mediterraneo, 1, La repub-


blica imperiale», a cura di G. Clemente – F. Coarelli – E. Gabba, Torino 1990, pp. 79-80 [BAU
STO/D 937 STO II].

• E. Gabba, La conquista della Gallia Cisalpina, «Storia di Roma, II, L’impero mediterraneo, 1,
La repubblica imperiale», a cura di G. Clemente – F. Coarelli – E. Gabba, Torino 1990, pp. 69-
77 [BAU STO/D 937 STO II].

• A.J. Toynbee, L’eredità di Annibale, Torino 1981 [BAU STO/D 937 TOY I].

130
CAPITOLO XII

L’ITALIA NELLA TARDA ETÀ REPUBBLICANA

1. La crisi dell’alleanza romano-italica e la guerra sociale

A partire dalle metà del II sec. a.C. il sistema di egemonia attraverso il quale Roma aveva legato a sé
le comunità dell’Italia mostra segni evidenti di uno sfaldamento. Anche in questo caso le ragioni che si pos-
sono richiamare sono molteplici.

In primo luogo sono da mettere in luce le ragioni di ordine culturale: le profonde differenze esi-
stenti in questo ambito tra le diverse aree dell’Italia si erano andate attenuando fortemente, soprattutto a livel-
lo di classi dirigenti: queste ormai possedevano un linguaggio artistico e letterario comune, fortemente in-
fluenzato dalla cultura ellenistica, e anche una lingua franca comune, il latino. Certo non si tratta della lingua
letteraria che siamo abituati a conoscere: è piuttosto la lingua parlata dei soldati, dei veterani, dei coloni e dei
mercanti, oppure l’idioma dell’amministrazione romana, che era influenzato dalla lingua letteraria, ma pre-
sentava le sue peculiarità. Tuttavia rimaneva pur sempre la lingua della città egemone: conoscere il latino
probabilmente doveva conferire una dignità e un prestigio speciali ad un abitante di un piccolo centro, po-
niamo, umbro o piceno. La latinizzazione dell'Italia non sembra essere stata imposta da Roma, ma è piuttosto
il risultato di spinte di vario tipo: in primo luogo naturalmente il latino si diffonde nella penisola grazie ai co-
loni provenienti da Roma e dal Lazio; dalle isole costituite dalle colonie romane e latine la lingua di Roma
deve essersi diffusa nelle zone circostanti, forse soprattutto a seguito di matrimoni misti con gli indigeni. An-
che i mercanti e i soldati possono avere avuto un ruolo in questo senso, sebbene di portata probabilmente mi-
nore. L’assimilazione culturale, anche sotto il profilo linguistico, procedette in modo assai più lento fra i ceti
inferiori e si completò solamente con l’età augustea, ma già alla metà del II sec. a.C. il processo di unifica-
zione era già abbastanza avanzato da rendere stridente il contrasto con le disparità esistenti a livello istituzio-
nale e giuridico.

Non mancavano ovviamente motivazioni di carattere più concreto: come abbiamo avuto più volte
modo di accennare, l’esercito romano fin dal V sec. a.C. era composto in misura significativa da alleati di
diritto latino o da socii italici. Nella grandi guerre di espansione che nel II sec. a.C. avevano dato a Roma il
dominio su tutto il mondo mediterraneo gli alleati ormai costituivano di regola almeno i due terzi
dell’esercito romano. Nonostante il grave tributo di sangue che avevano dato per costruire un impero, gli al-
leati italici non avevano alcuna voce nel determinare la politica estera di Roma: dovevano semplicemente
prendere atto delle decisioni della città egemone e inviare, anche in caso di una guerra non voluta da loro, i
contingenti di truppe stabiliti nei trattati di alleanza.

Inoltre gli alleati non avevano goduto che in misura molto minore rispetto ai cittadini romani dei
benefici che erano venuti dalla conquista di un impero: clamorosa in questo senso l’abolizione del tribu-
tum, la tasse pro-capite che abbiamo visto esser stata istituita, secondo la tradizione, ai tempi dell’assedio di
Veio, e che non venne più riscossa, se non in casi eccezionali, a partire dal 167 a.C., in conseguenza
dell’enorme bottino che era venuto a Roma dopo la sconfitta del re Perseo nella III guerra macedonica. Que-

131
sto provvedimento di straordinaria portata tuttavia aveva interessato solo i cittadini romani, mentre i socii ita-
lici avevano continuato a versare regolarmente le loro tasse locali, che in buona parte servivano per mantene-
re i reparti militari inviati a combattere per Roma. Inoltre, nella spartizione del bottino sul campo di battaglia,
dobbiamo sottolineare come i soldati degli stati alleati avessero diritto ad una parte minore di esso, mentre
erano ancora soggetti a dure punizioni corporali da parte dei comandanti romani, punizioni dalle quali i le-
gionari romani, in forza proprio del loro diritto di cittadinanza, erano al riparo. Queste disparità si erano acui-
te al tempo del tribunato della plebe dei due fratelli Gracchi. Il maggiore dei due, Tiberio Sempronio Gracco,
nel 133 a.C. era faticosamente riuscito a far passare una legge che confiscava ai latifondisti le porzioni di ter-
reno demaniale (il cosiddetto ager publicus), delle quali si erano abusivamente impadroniti, eccedenti i 500
iugeri (o 1.000 iugeri, nel caso questi grandi proprietari avessero due figli). Il territorio agricolo così recupe-
rato doveva essere suddiviso in lotti di 30 iugeri ciascuno, che dovevano poi essere assegnati ai contadini im-
poveriti che, come abbiamo visto nel capitolo precedente, avevano ingrossato le fila del proletariato urbano.
Il provvedimento colpiva anche i grandi proprietari terrieri italici (i quali, al pari dell’aristocrazia romana,
non avevano esitato ad usurpare il possesso di ampie porzioni di ager publicus), ma non arrecava alcun van-
taggio ai contadini poveri italici, solo i cittadini romani potevano infatti beneficiare delle redistribuzioni del
terreno demaniale: da questo provvedimento, in definitiva, gli alleati avevano solo da perdere. La storia si
ripeté quando il fratello di Tiberio, Caio Sempronio Gracco, tribuno della plebe nel 123-122 a.C. fece passare
la sua legge frumentaria, che aveva lo scopo di calmierare il mercato dei cereali ed evitare fenomeni specula-
tivi. Questa legge assicurò una quota mensile di grano a prezzo agevolato a ogni cittadino residente a Roma:
ma ancora una volta le necessità dei socii italici vennero dimenticate.

Il malcontento degli Italici sfociò nella richiesta, sempre più pressante, di accedere alla piena citta-
dinanza romana per godere finalmente di quei diritti ai quali essi sentivano di avere titolo, particolarmente in
ragione del grave tributo di sangue che avevano pagato a Roma nel decenni precedenti. Per un momento par-
ve possibile dare una soluzione politica alla crisi: nel 91 a.C. venne infatti eletto al tribunato della plebe
Marco Livio Druso, una figura piuttosto ambigua di aristocratico, che nell’ambito del suo vasto programma
di riforme presentò anche una proposta di legge per il conferimento della piena cittadinanza ai socii, ripren-
dendo una vecchia idea che già era stata di Caio Gracco. Il progetto tuttavia incontrò una ferma opposizione,
in cui gli interessi dell’aristocrazia senatoria si saldarono con il geloso esclusivismo della plebe urbana di
Roma, che non voleva spartire con nessuno i privilegi che le venivano dalla cittadinanza. Il Senato dunque
dichiarò nulla tutta l’opera legislativa di Druso e il tribuno stesso venne misteriosamente ucciso. Gli uomini
politici italici che avevano collaborato con Druso e lo avevano sostenuto fino all’ultimo momento si convin-
sero a questo punto che non era più possibile risolvere il problema attraverso vie pacifiche e che l’unico mo-
do per indurre Roma a recedere dal suo atteggiamento egoistico era quello di ricorrere alla forza.

Il segnale dello scoppio della cosiddetta Guerra Sociale (che prese il nome dai socii, gli alleati itali-
ci che si ribellarono a Roma) venne da Ascoli, nel Piceno, dove nell’inverno 91-90 a.C. un pretore e tutti i
cittadini romani residenti nella città vennero massacrati. La rivolta si estese molto rapidamente alle popola-
zioni del versante medio-adriatico: Piceni, Vestini, Marrucini, Frentani; nell’Appennino centrale si distinsero
fra i ribelli i bellicosi Marsi e Peligni: anzi, dall’accanimento con il quale i Marsi combatterono contro Roma
il conflitto presso alcuni autori antichi prese il nome di guerra Marsica. Nella sezione più meridionale della
catena appenninica aderirono alla rivolta i Sanniti e i Lucani. Non sappiamo in pratica nulla

132
dell’atteggiamento tenuto dai Bruzi. Gli Apuli e quelli dei Campani che ancora non godevano dalla civitas
romana si aggiunsero ai rivoltosi in un secondo momento.

Non aderirono alla ribellione


invece gli abitanti della Gallia
cisalpina, gli Etruschi e gli Umbri.
Rimasero fedeli anche le città che
godevano del diritto latino, e che
dunque erano già privilegiate rispetto
ai semplici alleati, come anche le
poleis greche dell’Italia meridionale,
le quali probabilmente non erano
molto interessate ad una piena
romanizzazione istituzionale, prefe-
rendo piuttosto mantenere la loro
individualità culturale e politica di
impronta ellenica. La geografia della
rivolta può essere visualizzata nella
cartina riportata alla figura 1.

Le motivazioni e le origine
della guerra sociale sono descritte con
una certa obiettività da Velleio
Patercolo, uno storico romano che fu
attivo negli anni intorno al 30 d.C. e
che era particolarmente attento alle
ragioni degli alleati italici, anche se
Figura 1: le popolazioni che aderirono alla rivolta contro Roma ai un suo antenato, di nome Minato
tempi della Guerra Sociale
Magio, era stato tra i pochi rappresen-
tanti della tribù sannitica degli Irpini a rimanere fedele a Roma.

Velleio Patercolo, Storia romana, II, 15, 1-3: lo scoppio della guerra sociale
La morte di Druso provocò lo scoppio della guerra italica che già da tempo covava. Centoventi
anni orsono, quando erano consoli Lucio Cesare e Publio Rutilio [90 a.C.] tutta l'Italia si levò
in armi contro Roma. La rivolta fu originata dagli Ascolani che avevano ucciso il pretore Ser-
vilio e il suo luogotenente Fonteio e successivamente proseguita dai Marsi si estese a tutte le
regioni. Come di quelle popolazioni fu atroce il destino, così senza dubbio giustissime le loro
ragioni. Chiedevano infatti di essere cittadini di quella città della quale difendevano con le ar-
mi il dominio: «Si sobbarcavano ogni anno, per ogni guerra, un duplice contributo di fanti e di
cavalieri, senza venire ammessi a godere del diritto di quella città che, grazie a loro, era giunta
proprio all'apice di una potenza che le permetteva di disprezzare come nemici e come stranieri
uomini della sua stessa razza e del suo stesso sangue». Questa guerra si portò via più di trecen-
tomila giovani Italici.

133
La guerra fu aspra. I Romani in effetti si trovarono ad affrontare eserciti armati e addestrati allo stesso
loro modo, che adottavano identiche tattiche di attacco e difesa.. Gli insorti si erano dati nel frattempo istitu-
zioni federali comuni: una capitale, Corfinium, nel territorio dei Peligni, che venne ribattezzata Italica, una
monetazione propria, che fu veicolo propagandistico delle loro idee.

Nell’immagine qui a fianco possiamo per esempio ve-


dere una moneta coniata dai rivoltosi, in cui è raffigurata una
personificazione dell’Italia (come chiarisce la legenda, in lati-
no), seduta su un mucchio di scudi e incoronata da una secon-
da figura femminile alata, che è da identificare con la dea Vit-
toria. Si tratta di un documento di eccezionale importanza:
infatti forse qui per la prima volta sono gli Italici stessi a defi-
nire l’Italia, mentre in precedenza questo concetto era stato
elaborato dai Greci e poi ripreso dai Romani per designare i
loro alleati.

È significativo che in questo momento storico l’idea di


Figura 2: una moneta dei ribelli italici con la Italia si determini in opposizione o addirittura in ostilità a
personificazione dell’Italia Roma. Il concetto emerge con grande chiarezza in una secon-
da moneta, riportata alla figura 3, nella quale appare l’animale
totemico degli Italici nell’atto di incornare la lupa romana. La
legenda è questa volta in alfabeto in uso presso i sanniti e ri-
porta il nome Viteliu, ovvero la denominazione di Italia in
lingua osca.

Non tutti i rivoltosi avevano gli stessi scopi: per alcune


delle popolazioni italiche lo scopo era semplicemente quello
di costringere Roma a concedere la cittadinanza. In altre tribù
prevaleva lo spirito di rivalsa contro la città egemone e il de-
siderio di riacquistare una completa indipendenza: così per
esempio tra i Sanniti.
Figura 3: una moneta dei ribelli italici con il
toro italico nell’atto di incornare la lupa ro- Inizialmente le operazioni militari non andarono bene
mana
per i Romani: addirittura il console al comando degli eserciti
nel settore centro settentrionale fu sconfitto e ucciso dagli insorti, comandati dal marso Poppedio Silone.
Questo e altri insuccessi convinsero Roma a fare ciò che fino a pochi mesi prima aveva ostinatamente rifiuta-
to: dare al conflitto una soluzione politica. Già nel 90 a.C. una lex Iulia de civitate, proposta dal console su-
perstite Lucio Giulio Cesare, concesse la cittadinanza romana agli alleati rimasti fedeli e alle comunità che
avessero deposto le armi entro un termine di tempo prestabilito. Nel successivo anno successivo 89 a.C., la
lex Plautia Papiria (promossa dai tribuni della plebe Caio Papirio Carbone e Marco Plauzio Silvano) estese
la cittadinanza a quanti degli Italici si fossero registrati presso il pretore di Roma entro sessanta giorni. Nel
medesimo anno il nuovo console Cneo Pompeo Strabone (padre del famoso Pompeo Magno) attribuì con la
sua lex Pompeia il diritto latino alle comunità alleate a nord del Po. Ecco come Appiano descrive gli effetti
sortiti dal primo dei provvedimenti ricordati, la lex Iulia de civitate:

Appiano, Le guerre civili, I, 212-213: la lex Iulia de civitate


Il senato allora, timoroso che la guerra, circondando i Romani da ogni parte, fosse incontrolla-
bile, [...] decretò che divenissero cittadini, cosa che sopra ogni altra praticamente tutti deside-
ravano, gli alleati Italici rimasti ancora fedeli. Divulgato questo provvedimento fra gli Etruschi,

134
costoro accolsero la cittadinanza con gioia. Con tale concessione il senato rese gli alleati già
ben disposti ancora più favorevoli, rafforzò gli esitanti, attenuò l'ostilità di quelli che erano in
armi per la speranza di provvedimenti consimili.

Le misure prese da Roma in effetti circoscrissero la rivolta, anche se la guerra si trascinò fino all’88
a.C. in particolare intorno ad Ascoli e nel Sannio. Gli effetti tuttavia furono profondi: gli Italici in effetti era-
no stati sconfitti dal punto di vista militare, ma uscivano vincitori dal punto di vista politico: per circoscrivere
la rivolta Roma era stata infatti costretta a concedere la cittadinanza romana in pratica a tutti agli alleati, fino
al Po, anche se il loro inserimento nelle strutture politiche dello stato fu piuttosto lenta. Da questo momento
parte dunque un processo di integrazione che alla fine vide la nobiltà italica entrare a far parte del Senato, i
cittadini delle comunità un tempo alleate finalmente intitolati a votare per i magistrati della Repubblica e so-
prattutto a militare fianco a fianco dei vecchi cives Romani nelle legioni. Il processo si completò in modo de-
finitivo nel 49 a.C., allo scoppio della guerra civile tra Pompeo e Cesare, quando quest’ultimo, assunta la dit-
tatura, promosse anche gli abitanti della Transpadana (provincia di cui egli era governatore e in cui godeva di
massiccio sostegno) alla piena cittadinanza romana.

2. La questione dei veterani

Parallelamente allo svolgersi della crisi sullo statuto degli alleati italici, si aprì una questione che fu
di importanza cruciale per le vicende storiche della tarda repubblica romana e che ebbe profondi riflessi an-
che sugli assetti dell’Italia: la questione dei veterani.

Fino al II sec. a.C. di regola servivano nelle legioni romani solamente coloro che erano in possesso
di un certo censo, in particolare coloro che erano proprietari di un lotto di terreno che ne assicurasse una di-
gnitosa sussistenza; i nullatenenti erano invece esentati dal servizio militare, se non casi di eccezionale emer-
genza. La crisi della piccola e media proprietà contadina che caratterizzò questo secolo e che abbiamo bre-
vemente descritto nel capitolo precedente determinò tuttavia una pericolosa diminuzione numerica della base
di reclutamento dell’esercito romano. Per rimediare a questo problema si era progressivamente abbassato il
censo minimo necessario per la coscrizione nelle legioni: ma nel 107 a.C. il console Caio Mario, in procinto
di partire per una campagna contro il re di Numidia, Giugurta, e in vista del pericolo costituito da due tribù
germaniche, quelle dei Cimbri e dei Teutoni, che minacciavano di invadere l’Italia, decise di abbandonare
completamente il vecchio principio e di arruolare massicciamente nel suo esercito i capite censi, ovvero co-
loro che erano “censiti per testa” (caput), non avendo alcun possedimento: in definitiva, i nullatenenti. Ecco
come lo storico romano Sallustio, attivi negli ultimi anni dell’età repubblicana, descrisse questa fondamenta-
le riforma nella sua opera dedicata alla guerra giugurtina, proponendo anche le diverse interpretazioni che ne
vennero date:

Sallustio, La guerra giugurtina, 86, 2-3: l’arruolamento dei nullatenenti


[Mario] intanto arruola soldati, non secondo l’uso antico e per classi di censo, ma tramite una
coscrizione volontaria, soprattutto di nullatenenti. Taluni affermano che egli l’avesse fatto per
mancanza di uomini forniti di censo, altri per amore di popolarità personale, perché da quegli
stessi proletari egli riceveva favore e grandezza e a un uomo che cerca potenza giovano di più i
più poveri che, nulla possedendo, non hanno interessi propri e tutto ciò che offre guadagno
sembra loro onesto.

Con questa innovazione Mario conseguì due obiettivi: da un lato rafforzò gli effettivi delle legioni
romane, in declino negli ultimi decenni, il che gli consentì prima di sconfiggere Giugurta e poi di annientare i
Cimbri e i Teutoni; dall’altro offrì un futuro alla massa di disoccupati che in particolare affollava Roma: la
carriera nell’esercito. Tuttavia il provvedimento creò anche un problema: quando ad essere arruolati erano

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quasi esclusivamente i piccoli e medi proprietari terrieri, al momento del congedo essi avevano un campo ad
attenderli e una serena vita da contadini alla quale tornare; per i capite censi, che non avevano alcuna pro-
prietà o occupazione prima dell’arruolamento, si poneva invece il drammatico problema di come assicurarsi
di che vivere in questa seconda parte delle loro vita (una seconda parte che poteva essere anche piuttosto
lunga: i legionari erano arruolati giovanissimi e il periodo di ferma in genere non durava più di 20 anni; dun-
que di regola un veterano veniva congedato quando ancora non era quarantenne, un’età non troppo avanzata
anche in un mondo in cui la speranza di vita era molto più bassa dell’attuale).

A Roma, per tutto il periodo tardorepubblicano non ci si preoccupò di dare una soluzione istituzio-
nale al problema del “pensionamento” dei veterani: solo Augusto, dando ennesima prova del suo straordina-
rio acume politico, creò un’apposita cassa statale che avrebbe dovuto finanziare i premi di congedo ai soldati.
In mancanza di provvedimenti da parte dello stato era abbastanza naturale che i soldati riponessero tutte le
loro speranze nei generali che li avevano vittoriosamente condotti in battaglia e che, sfruttando il loro peso
politico, potevano far passare un apposito provvedimento straordinario in loro favore. Si crea dunque una
sorta di rapporto clientelare tra il comandante e il suo esercito: il generale si sente moralmente obbligato a
provvedere alle necessità dei soldati che avevano combattuto ai suoi ordini, ma questi ultimi a loro volta era-
no pronti a sostenerlo con cieca fedeltà in ogni sua iniziativa. È sostanzialmente per questo motivo che le
grandi figure militari e politiche del I secolo a.C., come lo stesso Mario e il suo avversario Silla, come Cesare
e Pompeo nella generazione successiva, come ancora, negli anni del tramonto della Repubblica, Antonio e
Ottaviano (il futuro primo imperatore di Roma, che conosciamo meglio con l’epiteto onorifico di Augusto)
furono in grado di utilizzare le legioni al loro comando per il raggiungimento di scopi personali, come la
conquista del potere assoluto, spesso in contrasto con i legittimi organi dello stato: i soldati ormai obbediva-
no a loro, piuttosto che alla Repubblica.

Per tutta l’età tardorepubblicana il premio di congedo consisteva essenzialmente non in denaro li-
quido, ma in terre da coltivare. Il problema era che le grandi masse di veterani degli eserciti tardorepubbli-
cani, che avevano combattuto nelle guerre esterne, come quelle già ricordate di Mario contro Giugurta e le
popolazioni germaniche, o le campagne orientali di Pompeo o ancora la spedizione in Gallia di Cesare, ma
anche nelle continue guerre civili tra i “signori della guerra” che abbiamo ricordato nel paragrafo precedente
e che insanguinarono gli ultimi decenni della storia repubblicana, richiedevano enormi estensioni di terreno
come ricompensa. In Italia tuttavia le terre spopolate o che potevano essere recuperate all’agricoltura attra-
verso disboscamenti e bonifiche erano ormai poche. La soluzione per avere lotti di terreno da distribuire ai
veterani fu in genere quella di procedere a confische, soprattutto ai danni degli oppositori politici. Per le co-
munità dell’Italia iniziò un periodo di decisioni difficili, in cui schierarsi a fianco della parte che sarebbe ri-
sultata perdente poteva avere conseguenze drammatiche per il futuro. Allo stesso tempo l’insediamento dei
veterani luoghi diversi da quelli in cui erano originari provocò un profondo cambiamento negli assetti del
popolamento dell’Italia e negli stessi equilibri politici locali: in alcune comunità che avevano scelto la parte
“sbagliata” nelle guerre civili, la vecchia classe dirigente locale venne quasi totalmente decapitata e sostituita
da elementi di spicco provenienti dall’esercito, spesso ex-centurioni, gli ufficiali che servivano nelle legioni.

A dimostrazione di questi sviluppi vorrei richiamare due documenti che riguardano proprio la nostra
regione. Il primo è un passaggio di Appiano, nel quale si richiamano le decisione assunte da Ottaviano, An-
tonio e Lepido nel momento in cui i tre, esponenti di spicco del “partito cesariano”, strinsero l’alleanza poli-
tica che poi venne ufficializzata con il nome di secondo triumvirato, nel 43 a.C. Dovendo rinsaldare la fedeltà
dei propri eserciti, nell’imminenza dello scontro con Bruto e Cassio, che avevano guidato la congiura in cui
Cesare era caduto vittima, i triumviri non trovarono sistema migliore che promettere ai soldati, dopo la vitto-
riosa conclusione della campagna, la distribuzione di terre in diverse città dell’Italia:

136
Appiano, Le guerre civili, IV, 10-12: Ottaviano, Antonio e Lepido designano le città da
colpire con confische (43 a.C.)
Intanto [Ottaviano, Antonio e Lepido] alimentavano nell’esercito la speranza di vittoria con va-
ri donativi e con la promessa di colonie di costituire in 18 città italiche che, spiccando sulle al-
tre per ricchezza, fertilità della terra e bellezza, sarebbero state loro distribuite in luogo di terre,
come fossero state conquistate in guerra. Diverse erano quelle città: le più famose erano Capua,
Reggio, Venosa, Benevento, Nocera, Rimini e Ipponio. In tal modo essi concedevano ai soldati
le regioni più belle d’Italia.

Nell’elenco delle sfortunate città che sarebbero state colpite da confische, presumibilmente perché
schieratesi dalla parte degli uccisori di Cesare, si trovano anche due importanti centri del territorio bruzio:
Reggio e Vibo Valentia (che Appiano designa ancora con il vecchio nome greco di Hipponion). L’evolversi
degli eventi risparmiò alle due città questa sorte: qualche anno dopo le decisioni assunte nel 43 a.C. Ottavia-
no si trovò nella necessità di fare affidamento proprio su Reggio e Vibo come basi navali per la sua offensiva
contro il suo avversario Sesto Pompeo, uno dei figli del famoso Pompeo, che aveva fatto della Sicilia un suo
possedimento personale. Per ingraziarsi il favore delle due città, che erano essenziali per la riuscita del suo
piano strategico, Ottaviano depennò opportunamente il nome di esse dall’elenco che era stato redatto qualche
anno prima; ma altre comunità dell’Italia non furono così fortunate.

Il secondo documento ha almeno in apparenza, una portata molto minore; si tratta infatti di un sem-
plice iscrizione sepolcrale, come se ne conoscono a migliaia dall’Italia romana, che venne ritrovata verso il
1786 nel podere “Il Russo”, nell’area archeologica dell’antica Locri.

Corpus Inscriptionum Latinarum, X, 18:


[.] Aticius T(iti) f(ilius) Pol(lia tribu), / Mutina, (centurio) l(egionis) XXX / Classicae.

… Aticio, figlio di Tito, iscritto nella tribù Pollia, di Modena, centurione della Trentesima le-
gione di marina.

Dietro questo lapidario testo si nasconde probabilmente una storia interessante: per quale motivo un
centurione modenese, come è esplicitamente affermato nell’epigrafe dal ricordo della città d’origine del de-
funto e ribadito nella sua iscrizione alla circoscrizione elettorale (la tribus, nel lessico istituzionale romano)
alla quale appartenevano i cittadini di Mutina, la Pollia, finì i suoi giorni a Locri? La probabile datazione di
questo testo e le vicende delle legione nella quale Aticio fu centurione, la XXX Classica (l’epiteto viene da
classis, “flotta”: si trattava verosimilmente di una legione di fanteria di marina) consente quanto meno di ipo-
tizzare che il modenese sia stato impegnato proprio nelle operazioni contro Sesto Pompeo. Ottaviano, alla
conclusione della guerra in Sicilia nel 36 a.C., dovendo rispettare gli impegni assunti nei confronti delle città
di Reggio e di Locri, fu probabilmente obbligato ad operare confische nelle città vicine, tra le quali appunto
Locri: e qui venne insediato, e poi trovò la morte, il centurione modenese Aticio. Una storia modesta, ma for-
se esemplare di tante vicende personali che interessarono l’Italia negli ultimi anni della Repubblica.

5. Per saperne di più

• E. Campanile, L’assimilazione culturale del mondo italico, «Storia di Roma, II, L’impero
mediterraneo, 1, La repubblica imperiale», a cura di G. Clemente – F. Coarelli – E. Gabba,
Torino 1990, pp. 305-312 [BAU STO/D 937 STO II].

• G. De Sanctis, La guerra sociale, a cura di L. Polverini, Firenze 1976 [BAU STO/C V DeS 1].

• E. Gabba, Italia Romana, Como 1994 [STO COLL PROVV. 911 GAB].

137
• Id., Il processo di integrazione dell’Italia nel II secolo, «Storia di Roma, II, L’impero mediter-
raneo, 1, La repubblica imperiale», a cura di G. Clemente – F. Coarelli – E. Gabba, Torino
1990, pp. 267-283 [BAU STO/D 937 STO II].

• Id., Dallo stato-città allo stato municipale, «Storia di Roma, II, L’impero mediterraneo, 1, La
repubblica imperiale», a cura di G. Clemente – F. Coarelli – E. Gabba, Torino 1990, pp. 697-
714 [BAU STO/D 937 STO II].

• A. Giardina, L'Italia romana. Storie di un'identità incompiuta, Roma - Bari 1997 [BAU 937 S
24].

• U. Laffi, Il sistema di alleanze italico, «Storia di Roma, II, L’impero mediterraneo, 1, La re-
pubblica imperiale», a cura di G. Clemente – F. Coarelli – E. Gabba, Torino 1990, pp. 285-304
[BAU STO/D 937 STO II].

• C. Nicolet, Strutture dell'Italia romana, III - I sec. a.C., Roma 1984 [BAU 937.02 S 9/1].

138
CAPITOLO XIII

L’ITALIA IN ETÀ IMPERIALE: UNA REGIONE SENZA STORIA?

1. L’Italia al tempo del II triumvirato

L’Italia vive una stagione storica molto intensa e assai ben documentata negli anni dell’ascesa al po-
tere di Caio Giulio Cesare Ottaviano, il creatore del regime imperiale che sarà meglio noto con l’epiteto o-
norifico di Augusto, assegnatogli nel 27 a.C. Questo personaggio
era salito sul grande proscenio della storia all’età di appena 19 anni,
all’indomani dell’uccisione di Cesare, il 15 marzo del 44 a.C. In
quel momento il giovane Caio Ottavio (questo era allora il suo no-
me) si trovava ad Apollonia, sulle coste dell’attuale Albania, al se-
guito del grande esercito che Cesare stava radunando per la sua
progettata spedizione contro i Parti: il dittatore, privo di figli ma-
schi, sembrava in effetti riporre speranze in questo suo pronipote
(sua sorella Giulia era la nonna di Caio Ottavio). Tale predilezione
fu confermata al momento dell’apertura del testamento di Cesare: in
esso Caio Ottavio era nominato erede per i tre quarti della fortuna
del dittatore e veniva adottato, in forma postuma, come figlio. Ap-
presa la notizia Ottavio si affrettò verso Roma per reclamare la pro-
pria parte dell’eredità e per rivendicare la propria adozione da parte
di Cesare: da questo momento assunse ufficialmente il nome del
padre adottivo Caio Giulio Cesare, al quale si aggiunse il secondo
Figura 1: ritratto di Ottaviano, al tempo cognome Ottaviano, a ricordo della famiglia originaria di apparte-
della sua comparsa sulla scena politica
nenza, l’Octavia.

I rapporti di Ottaviano con gli altri due leader della fa-


zione cesariana, il braccio destro del defunto dittatore Marco Anto-
nio (figura 2) e Marco Emilio Lepido, esponente di una prestigiosa
e antica famiglia aristocratica, furono inizialmente tempestosi, tra
incomprensioni e diffidenze reciproche. Per qualche tempo Otta-
viano addirittura si accostò al partito conservatore guidato dal vec-
chio oratore Cicerone, che aveva salutato con gioia l’uccisione di
Cesare, sperando che questo atto potesse segnare una piena restau-
razione del regime repubblicano. Si giunse addirittura ad uno scon-
tro aperto tra Antonio e Ottaviano sotto le mura della città di Mo-
dena, nel 43 a.C.: ma dopo questo episodio Ottaviano, che era fi-
nissimo politico nonostante la giovane età, si rese conto che i con-
servatori incedevano sfruttare la popolarità che gli veniva
dall’essere il figlio di Cesare per fare di lui un’arma contro l’odiato
Figura 2: ritratto di Antonio, braccio de- Antonio; una volta che quest’ultimo avesse cessato di essere una
stro di Cesare minaccia, lo stesso Ottaviano sarebbe stato liquidato senza troppi
rimpianti. Con un improvviso voltafaccia Ottaviano dunque marciò
su Roma con quell’esercito che gli stato affidato per combattere contro Antonio e si impadronì di fatto del

139
potere; riallacciò poi i contatti con Antonio e Lepido, concludendo un patto di alleanza che portò alla costitu-
zione del cosiddetto II triumvirato, sul finire del 43 a.C. I tre triumviri, Ottaviano, Antonio e Lepido, gode-
vano di amplissimi poteri, paragonabili a quelli dei massimi magistrati della Repubblica, i consoli, poteri che
tuttavia non avevano la consueta durata annuale, ma che dovevano estendersi per un quinquennio.

Il compito più urgente che attendeva i triumviri era quello di affrontare l’esercito che i due principali
esponenti della congiura che aveva portato all’uccisione di Cesare, Marco Giunio Bruto e Caio Cassio Lon-
gino, avevano radunato in Oriente. Lasciato Lepido a sorvegliare Roma, Antonio e Ottaviano attraversarono
l’Adriatico e si scontrarono con Bruto e Cassio nella decisiva battaglia di Filippi del 42 a.C., che terminò con
il trionfo dei cesariani e la morte dei cesaricidi.

Dopo la battaglia di Filippi i triumviri si spartirono l’Impero romano in sfere di influenza: in particola-
re Antonio, al quale spettavano i meriti maggiori della vittoria sui cesaricidi, si riservò, oltre alla Gallia, le
ricche province orientali e il compito di intraprendere la campagna contro i Parti che Cesare aveva pianificato
(e ciò in certo senso faceva di lui l’autentico erede politico del defunto dittatore), Lepido finì per essere so-
stanzialmente relegato nelle province africane, mentre ad Ottaviano fu lasciato il controllo della Spagna e
dell’Italia. Quest’ultimo incarico nascondeva non poche insidie: il giovane figlio adottivo di Cesare infatti
venne sostanzialmente lasciato da solo a fare i conti con Sesto Pompeo, figlio di Pompeo Magno che, come
abbiamo visto nella lezione precedente, si era impadronito della Sicilia e da questa base minacciava di inter-
rompere gli approvvigionamenti granari diretti alla città di Roma (provenienti dalla Sicilia stessa e dalle vici-
ne province di Sardegna e di Africa); inoltre ad Ottaviano sarebbe spettato il delicato compito di assegnare
terreni come ricompensa ai numerosi veterani che erano stati congedati dopo la battaglia di Filippi: come
abbiamo visto nella lezione precedente, per trovare lotti coltivabili da assegnare in questo periodo si era or-
mai costretti a ricorrere soprattutto alle confische, il che era potenzialmente poteva creare disordini e ostilità
nei confronti di colui che doveva dirigere l’opera di assegnazione.Allo stesso tempo la spartizione dopo Fi-
lippi consentiva ad Ottaviano di tenere sotto controllo l’area che allora costituiva il maggiore serbatoio di re-
clute per le legioni, l’Italia, e di essere vicino al centro del potere, al luogo dove si formavano le decisioni
politiche, la città di Roma.

In un primo momento Ottaviano si trovò in gravi difficoltà: il malcontento dei piccoli e medi proprie-
tari terrieri che avevano dovuto subire le confische dei loro terreni a favore dei soldati congedati, sfociò in
un’aperta rivolta, fomentata anche da Fulvia, moglie di Marco Antonio, e da Lucio Antonio, fratello di Mar-
co, che ritenevano imminente la rottura del triumvirato e in tale prospettiva intendevano conquistare posizio-
ni di vantaggio per il loro congiunto; solo a fatica Ottaviano riuscì a domare la ribellione, in operazioni mili-
tari che si svolsero in particolare intorno alla città di Perugia, tra il 41 e il 40 a.C.; delicata fu anche l’opera di
riavvicinamento con Marco Antonio, che forse non aveva condiviso le iniziative della moglie e del fratello,
ma che certo non poteva tollerare che Ottaviano conducesse un’aperta guerra contro i suoi sostenitori. Grazie
all’intermediazione di amici comuni, tra i quali anche il famoso Mecenate (colui che sarebbe divenuto uno
dei principali collaboratori di Augusto) e dei vecchi ufficiali dell’esercito cesariano, che volevano un riavvi-
cinamento tra i due eredi politici del dittatore, Ottaviano e Antonio trovarono un’intesa nella conferenza di
Brindisi del 40 a.C.: il patto confermava ad Antonio la supervisione sulle province orientali e affidava a Ot-
taviano il controllo completo delle province occidentali (escluse quelle africane, che furono confermate a Le-
pido), compresa la Gallia; l’accordo fu suggellato dalle nozze fra Antonio e la sorella di Ottaviano, Ottavia
(Fulvia nel frattempo era opportunamente uscita di scena per morte prematura).

Anche il confronto con Sesto Pompeo vide in quegli anni un Ottaviano in serio imbarazzo: il figlio di
Pompeo aveva esteso il suo potere anche sulla Sardegna e la Corsica e stringeva in un cerchio sempre più
stretto l’Italia, tagliando i rifornimenti che arrivavano dal mare. Il forte malcontento che questa situazione
creava in particolare nella città di Roma, che soprattutto per gli approvvigionamenti di grano dipendeva quasi

140
interamente dalle province, consigliò Ottaviano di cercare un intesa con Sesto, prima sposando una sua pa-
rente e poi riconoscendogli una posizione ufficiale nello stato, in accordo con lo stesso Antonio: nella confe-
renza di Miseno del 39 a.C. i due triumviri acconsentirono a concedere un’amnistia ai sostenitori di Sesto
Pompeo e Antonio convenne di aggiungere ai domini di Sesto (Sicilia, Sardegna e Corsica) anche il Pelo-
ponneso, la regione più meridionale della Grecia. La mancata consegna del Peloponneso da parte di Antonio
scatenò la reazione di Sesto, che iniziò una serie di scorrerie contro le coste dell’Italia. Ottaviano riuscì a re-
cuperare la Sardegna e la Corsica, ma il suo tentativo di invadere la Sicilia fu bloccato da una sonora sconfit-
ta. Il giovane triumviro, in questa delicata situazione poté però contare sul sostegno di Antonio, che gli inviò
120 navi di rinforzo, sulla collaborazione con Lepido, che promise di attaccare Sesto dalle coste dell’Africa,
e infine dal prezioso aiuto del suo amico Marco Vipsanio Agrippa, che riorganizzò e porto ad un alto grado
di efficienza la flotta. Partendo dalla nuova base logistica della flotta romana, nel golfo di Napoli, e dai punti
di appoggio avanzati costituiti dai porti di Vibo Valentia e di Reggio, Agrippa nel 36 a.C. attaccò nuovamen-
te Sesto Pompeo e lo sconfisse in modo decisivo nella battaglia navale di Nauloco. Seguì l’invasione della
Sicilia da parte degli eserciti di terra di Ottaviano e Lepido, che costrinse Sesto Pompeo alla fuga; Lepido ac-
campò pretese sul territorio appena conquistato, ma nel corso di questo scontro politico con Ottaviano fu ab-
bandonato dalle sue truppe: Ottaviano poté dunque privarlo del territorio dell’Africa, di tutti i suoi poteri
(tranne che del titolo di pontefice massimo, che aveva un contenuto sacrale e che pareva empio togliergli) e
spedirlo in un dorato esilio sulle coste del Circeo.

Con l’uscita di scena di Lepido, solo due triumviri controllavano ormai il mondo romano. I rapporti
tra Antonio e Ottaviano erano sempre stati contraddistinti da un alternanza di alti e bassi, ma nella seconda
metà degli anni Trenta del I sec. a.C. andarono rapidamente deteriorandosi. Mentre Ottaviano regolava a fati-
ca, ma alla fine con successo, i problemi dell’Occidente, Antonio in Oriente si era legato politicamente e sen-
timentalmente all’ultima regina d’Egitto, Cleopatra (e questo aggiungeva una caratteristica nota personale al
contrasto politico tra i due triumviri, con Ottaviano nella parte del fratello offeso dall’onta subita da Ottavia).
In primo luogo Antonio cercò di consolidare il suo controllo sull’area orientale, preferendo affidarsi soprat-
tutto alla collaborazione principi locali a lui fedeli piuttosto che inglobare direttamente questi territori nello
stato romano; addirittura alcune area che in passato avevano fatto parte di province romane vennero assegna-
te a Cleopatra, fatto che suscitò un certo sdegno in Italia, alimentato dalla propaganda ottavianea: un Antonio
ormai irretito dalla sua amante egiziana si permetteva persino di donarle territori che erano del popolo roma-
no.

Il prestigio di Antonio in tutto il mondo romano subì un duro colpo in occasione della già ricordata
campagna contro i Parti: la spedizione si concluse infatti con modeste acquisizioni territoriali e con gravissi-
me perdite. Quando Antonio, nel 35 a.C., chiese rinforzi a Ottaviano in cambio dell’assistenza che gli aveva
prestato nel conflitto con Sesto Pompeo, il suo collega gli inviò piuttosto provocatoriamente uno striminzito
contingente di 2 mila soldati e la sorella Ottavia, la moglie tradita di Antonio; quest’ultimo cadde nella trap-
pola e rispedì la povera Ottavia in Italia, offrendo a Ottaviano la possibilità di presentarsi come parte offesa
da un degenerato, schiavo della sua passione per l’amante orientale, dalla quale tra l’altro aveva avuto due
gemelli.

Lo scontro politico e propagandistico tra Ottaviano e Antonio, già in atto da lungo tempo, esplose in
guerra aperta solo nel 31 a.C.: l’atto decisivo, dopo che senatori filoantoniani erano fuggiti da Roma per rag-
giungere il loro leader in Oriente e dopo che Antonio aveva inviato notifica di ripudio a Ottavia, fu la prodi-
toria apertura e lettura del testamento del rivale da parte di Ottaviano: in esso Antonio rivelava di voler essere
sepolto ad Alessandria, accanto all’amata Cleopatra, e attribuiva regni e territori a Tolemeo Cesarione (il fi-
glio che Cleopatra aveva avuto da una relazione con Cesare, la cui sola esistenza rappresentava una minaccia
per colui che, in fondo, era solo il figlio adottivo di Cesare, Ottaviano) e ai figli che egli aveva avuto con la

141
regina egiziana. L’effetto provocato da queste rivelazioni si sommò ai risultati che già la propaganda di Otta-
viano aveva raggiunto, dipingendo gli atteggiamenti anticonformistici di Antonio con i tratti del dispotismo e
dell’amore del lusso, tipicamente orientali; le sue disposizioni testamentarie indussero addirittura il sospetto
che egli volesse trasferire la capitale dell’Impero ad Alessandria e intendesse trasformare la Repubblica in
una monarchia di stampo ellenistico, alla cui guida vi sarebbero un giorno stati i figli di Cleopatra. Ottaviano
ebbe buon gioco nel presentarsi come il difensore delle buone e vecchie tradizioni costituzionali e morali (il
cosiddetto cos maiorum, il “costume degli antenati”) dell’Italia e dell’Occidente. Antonio venne ufficialmen-
te privato di tutti i suoi poteri e si giunse anche ad una dichiarazione di guerra: ma molto abilmente, in una
Roma che era ormai stanca di contrasti civili, la guerra contro Antonio venne presentata da Ottaviano come
una guerra esterna, formalmente dichiarata contro la sola Cleopatra, che, tra le altre colpe, aveva anche quella
di aver irretito e sconvolto la mente di un valoroso generale romano, che ormai era solo un burattino nelle sue
mani. Il carattere di “crociata” dell’Italia e dell’Occidente contro l’Oriente che Ottaviano seppe abilmente
dare al conflitto fu rafforzato da un solenne giuramento di fedeltà che tutte le comunità dell’Italia e delle pro-
vince occidentali prestarono al figlio adottivo di Cesare.

La soluzione militare venne rapidamente nella battaglia navale di Zio, davanti alle coste dell’Epiro,
nella quale la flotta di Ottaviano, ancora una volta guidata da Agrippa, sconfisse le squadre navali avversarie
nel settembre del 31 a.C. La battagli venne descritta da Virgilio nell’Eneide, non certo con la precisione dello
storico, ma piuttosto con la sintesi immaginifica che è propria del poeta. Nel libro VIII della sua opera Virgi-
lio descrive lo scudo di Enea, sul quale immagina siano raffigurati, come in una sorta di profezia per imma-
gini, i principali episodi futuri della storia di Roma. Fedele interprete della propaganda di Ottaviano, il poeta
presenta la battaglia di Azio come un epocale scontro tra l’Italia e i suoi dèi, tra i quali spicca Apollo, che
proprio ad Azio aveva un importante santuario, e le barbare forze dell’Oriente, sostenute da mostruose divi-
nità che hanno l’aspetti di animali (secondo una nota iconografia degli dèi egizi) e scandalosamente guidate,
più che da Antonio, che in questo passaggio è una figura piuttosto scolorita, da una donna, Cleopatra.

Virgilio, Eneide, VIII, 675-723: L’Occidente contro l’Oriente nella battaglia di Azio
Nel mezzo si potevano vedere le flotte di bronzo, la battaglia di Azio, e tutto intero sotto lo
schieramento di Marte avresti veduto ribollire il Leucate e d'oro brillare le onde. Di qua Cesare
Augusto che guida in battaglia gli Italici, insieme al senato e al popolo, i Penati e i grandi dèi,
ritto sull'alta poppa; le sue tempie esultanti emettono due fiamme gemelle e sul suo capo riluce
la stella del padre. Non lontano, con i venti e gli dèi favorevoli, Agrippa guida in piedi la flot-
ta; a lui, superba insegna di guerra, le tempie risplendono della corona navale rostrata. Di là,
con un esercito di barbari e con armi diverse Antonio, vittorioso sui popoli dell'Aurora e sul
Mar Rosso, trascina con sé l'Egitto e le forze d'Oriente e la remota Battra, e lo segue (orrore!)
la sposa egizia. S'avventano tutti insieme l'un contro l'altro e il mare intero spumeggia, scon-
volto dal ritrarsi dei remi e dai rostri tricuspidi. Si dirigono al largo: crederesti che navighino
divelte tra i flutti le Cicladi o che con monti eccelsi si scontrino altri monti, tanto grande è la
mole delle poppe turrite, irte di uomini. Scagliano a mano stoppa ardente e con archi fulminan-
ti saette, le distese di Nettuno rosseggiano d'una strage mai vista. La regina nel mezzo richiama
le schiere col patrio sistro e ancora non vede alle sue spalle una coppia di serpenti che l'attende.
Mostri divini d'ogni specie e Anubi che latra impugnano i dardi contro Nettuno, Venere e Mi-
nerva; infuria in mezzo alla lotta Marte, cesellato in ferro, e le Furie sinistre che vengono giù
dall'etere; avanza esultante la Discordia col mantello stracciato e la segue Bellona col flagello
sanguinante. Dall'alto, guardando gli eventi, Apollo aziaco tendeva l'arco; per terrore di lui, tut-
ti gli Egiziani, gli Indiani, tutti gli Arabi e i Sabei, volgevano il dorso.

Nell’anno seguente lo scontro dipinto in modo tanto magistrale da Virgilio in questo passaggio,
l’ultima guerra civile si chiuse in toni da tragedia d’amore, con l’invasione dell’Egitto da parte di Ottaviano e
il suicidio di Antonio e Cleopatra.

142
2. L’Italia augustea

Il 30 a.C. segna una data epocale nella storia di Roma, discrimine tra l’età repubblicana e quella im-
periale. Non possiamo certo seguire qui in quale modo Augusto (possiamo iniziare a chiamare così Ottavia-
no, in considerazione del fatto che questo epiteto, come abbiamo ricordato, gli venne assegnato nel 27 a.C.)
riuscì a dare una forma completamente nuova al vecchio stato repubblicano, trasformandolo di fatto in regi-
me di carattere monarchico, ma dai tratti assolutamente peculiari, che lo differenziano dalle classiche monar-
chie del mondo antico e di quello moderno. Concentriamoci piuttosto sui provvedimenti che egli prese nei
confronti dell’Italia, una regione che del resto era sempre in cima ai pensieri del princeps: l’Italia infatti era
stata la principale base della sua potenza e la difesa dei valori etici dell’Italia gli aveva dato il supporto pro-
pagandistico della sua guerra con Antonio e Cleopatra.

Figura 3: La zona alpina; in rosa le conquiste di Augusto

A questo proposito si può iniziare ricordando il consoli-


damento dei confini settentrionali della nostra regione, con la de-
finitiva conquista dell’area alpina (vedi la cartina alla figura 3,
nella quale le conquiste dell’età augustea sono segnate in colore
rosa). Le operazioni iniziarono nell’arco alpino occidentale, con-
tro la popolazione dei Salassi, stanziata nell’odierna Valle
d’Aosta, che rappresentava una minaccia costante nelle comuni-
cazioni tra Italia e Gallia: i Salassi furono sconfitti nel 25 a.C. in
una dura campagna militare; i superstiti furono ridotti in schiavitù
a decine di migliaia. La conquista venne consolidata dalla crea-
zione di una colonia che recuperava l’antica funzione militare di
questi insediamenti: Augusta Praetoria, l’odierna Aosta, il cui
famoso arco celebra appunto la vittoria di Augusto (figura 4).
Figura 4: l’arco di Augusto ad Aosta

143
Le ragioni dell’intervento romano in questa area marginale dell’Italia e i modi spietati con i quali
l’azione venne condotta sono bene illustrati da Strabone nella sua Geografia:

Strabone, Geografia, IV, 6, 7: la campagna contro i Salassi


Fino ai tempi più recenti [i Salassi], a volte combattendo, a volte sospendendo la guerra contro
i Romani, mantenevano una potenza pressoché inalterata e recavano molti danni a quanti cer-
cavano di attraversare i loro monti con la pratica del brigantaggio … Una volta queste genti ru-
barono anche il denaro di Cesare e rotolarono dei massi sulle colonne di soldati, col pretesto di
costruire delle strade o di gettare ponti sui fiumi. Finalmente Augusto li sottomise definitiva-
mente e li vendette tutti come prede di guerra, deportandoli a Eporedia [l’attuale Ivrea]. Furono
contati in tutto più di 36 mila prigionieri e 8 mila guerrieri; furono venduti tutti all'asta da Te-
renzio Varrone, il generale che li aveva sconfitti; Cesare, inviando 3 mila Romani, fondò la cit-
tà di Augusta nel luogo in cui Varrone aveva posto l'accampamento e ora tutta la regione circo-
stante è in pace fino alle vette più alte della montagna.

Dopo la conclusione delle operazioni contro i Salassi il fulcro dell’azione si spostò gradualmente
verso il settore centro-orientale, a partire dal 17 a.C. con le campagne contro i Camunni dell’odierna Val
Camonica e le operazioni condotte nel 15 a.C. contro i Reti che, come abbiamo visto nel cap. V, abitavano
sul versante meridionale delle Alpi l’attuale regione del Trentino – Alto Adige, su quello settentrionale le a-
ree del Tirolo e della Baviera, sino al Danubio; queste fortunate operazioni, in cui si distinsero come coman-
danti i figliastri di Augusto, Tiberio e Druso (erano i figli di primo letto dell’ultima moglie dell’imperatore,
Livia), portarono alla creazione della nuova provincia di Rezia, anche se la vera e propria organizzazione in
forma di provincia di questo distretto probabilmente avvenne solo dopo qualche decennio. Negli anni se-
guenti Roma assunse anche il controllo della regione che confinava a oriente con la Rezia, il Norico, corri-
spondente all’attuale Austria centro-orientale; anche in questo settore il confine venne portato sul Danubio,
un grande fiume che assicurava con il suo stesso corso buone possibilità difensive.

Nel 14 a.C. si ebbero infine le operazioni militari contro


le popolazioni liguri nel settore delle Alpi Marittime. Il dinasta che
controllava la regione immediatamente a nord di questa area, di
nome Cozio (da lui hanno preso il nome le Alpi Cozie, come sono
ancora oggi note queste montagne), offrì spontaneamente la sua
collaborazione a Roma; l’offerta fu prontamente accettata e Cozio
di fatto mantenne il controllo dei suoi vecchi domini, ora però per
conto di Roma e con il titolo romano di praefectus. Questa enne-
sima dimostrazione della flessibilità con la quale Roma aveva
condotto tutta la conquista dell’Italia ci è nota soprattutto grazie
all’iscrizione che Cozio fece incidere nel 9 a.C. in onore di Augu-
sto su di un arco eretto nella sua capitale, Segusio, l’odierna Susa
(figura 5). In questo breve ma significativo testo da notare la titola-
tura imperiale, nella quale incontriamo alcuni elementi già rilevati
nel milliare di Traiano esaminato nel cap. II: la potestà tribunizia,
Figura 5: l’arco di Susa in onore di che Augusto rinnovò regolarmente a partire dal 23 a.C. e le accla-
Augusto mazioni come imperator, ovvero come comandante vittorioso. Da
sottolineare anche l’orgoglioso ricordo del fatto che Augusto era divi f(ilius), figlio del divinizzato Cesare, il
che accresceva ancora di più l’aura di sacralità attorno alla figura dell’imperatore. Interessante anche il fatto
che Cozio, nel momento in cui diviene parte integrante del sistema politico romano, assume la cittadinanza

144
romana e prende dunque i caratteristici tre nomi (prenome, gentilizio e cognome) dei cives Romani: Marcus
Iulius Cottius.

Corpus Inscriptionum Latinarum V, 7231: l’iscrizione dell’arco di Susa


All’imperatore Cesare Augusto, figlio del divino (Cesare), pontefice massimo, nella sua quin-
dicesima potestà tribunizia, salutato come imperator per 13 volte, Marco Giulio Cozio, figlio
del re Donno, prefetto delle comunità seguenti [seguono i nomi di 14 popoli] e le comunità di
cui egli fu prefetto.

A coronamento di questa sottomissione


delle tribù alpine e pacificazione di un’area che,
per le sue caratteristiche geografiche e morfologi-
che era finora sfuggita al controllo di Roma, nel 7
a.C. il Senato e il popolo Romano eressero in ono-
re di Augusto un gigantesco monumento, noto co-
me Tropaeum Alpium (il “trofeo delle Alpi”; nella
cartine a figura 4 è segnato con il nome di Tropa-
eum Augusti). Ancora oggi se ne possono ammira-
re i resti nella località francese di La Turbie, sulle
colline che sovrastano il principato di Monaco.

L’iscrizione che corredava il monumento


Figura 6: Il Tropaeum Alpium a La Turbie
è stata conservata da Plinio il Vecchio:

Plinio il Vecchio, Storia naturale, III, 136-137: l’iscrizione del Tropaeum Alpium
Mi sembra opportuno inserire a questo punto l’iscrizione del trofeo delle Alpi. Eccola:
«All’imperatore Cesare Augusto, figlio del divino (Cesare), pontefice massimo, salutato come
imperator per 14 volte, nella sua diciassettesima potestà tribunizia, il Senato e il popolo Roma-
no, poiché sotto la sua guida e i suoi auspici tutte le popolazioni alpine che si estendevano dal
mare Adriatico fino al Tirreno sono state ridotte sotto il potere del popolo Romano [seguono i
nomi di 46 popoli alpini]».

A seguito di queste conquiste nel suo settore settentrionale il concetto di Italia romana si avvicinò
decisamente ai confini geografici della nostra nazione: dopo che già con Cesare, nel 49 a.C., l’antica provin-
cia di Gallia Cisalpina era stata inglobata nell’Italia, anche buona parte della Valle d’Aosta (ad eccezione
delle cime delle montagne) come pure il Trentino – Alto Adige, almeno sino alla conca di Bolzano, vennero
annesse alla regione. Come abbiamo visto nel cap. I di queste dispense, la definizione di Italia anche in que-
sto periodo non dipendeva da criteri geografici, ma piuttosto di criteri di ordine politico: oltre alle piccole
divergenze nel settore settentrionale rispetto allo spartiacque alpino, ricordiamo ancora una volta che per i
Romani di età augustea le isole della Sicilia e della Sardegna non facevano parte dell’Italia.

Se ora vogliamo cercare di precisare questa definizione, il modo più semplice è probabilmente quel-
lo di partire da cosa non è l’Italia. L’Italia non è una provincia: i suoi abitanti infatti, a differenza dei pro-
vinciali che sono soggetti a vari tributi personali nei confronti di Roma, non pagano tasse dirette, ma solo
alcune imposte indirette, come quella del 5% sui lasciti testamentari o quella dell’1% sul valore dei beni ven-
duti (una sorta di antenata dell’odierna IVA). L’abolizione del tributai, la tassa personale sui redditi dei citta-
dini romani del resto era già avvenuta nel 167 a.C., come abbiamo ricordato nel capitolo precedente: ma le
altissime spese militari che si ebbero nel periodo delle guerre civili comportarono la saltuaria reintroduzione

145
di questa imposta; la pacificazione del mondo, uno dei risultati più notevoli della politica di Augusto, ebbe
tra le sue conseguenze anche l’accantonamento definitivo del tributum per gli abitanti dell’Italia.

Un secondo elemento di distinzione è dato dal fatto che Roma non invia suoi governatori in Italia,
come invece faceva regolarmente nelle province. Tra i compiti principali di questi governatori provinciali vi
era quello di amministrare la giustizia: in Italia le cause sono invece giudicate dai magistrati locali delle sin-
gole comunità, secondo il dettato di leggi che si sono ormai completamente uniformate al modello romano.

Un altro fondamentale compito dei governatori provinciali era quello di difendere il distretto al qua-
le erano preposti da minacce esterne e da disordini interni, avendo in genere a loro disposizione importanti
guarnigioni costituite da legioni e unità ausiliarie. Invece in Italia non esistono guarnigioni legionarie
permanenti: la conquista dell’area alpina aveva definitivamente messo in sicurezza i confini settentrionali
della nostra regione, mentre le legioni di stanza sul Danubio assicuravano una difesa avanzata. L’ordine in-
terno era assicurato, nella città di Roma, dalle dodici coorti dei cosiddetti urbaniciani e soprattutto dalla
guardia del corpo imperiale, le nove coorti dei pretoriani, dei quali avremo modo di parlare anche in seguito;
nei municipi dell’Italia si ricorreva a forze locali, forse prestate da alcune corporazioni professionali, che in
casi di particolare emergenza potevano essere spalleggiate dai pretoriani inviati da Roma.

Se è semplice definire l’Italia in negativo, mettendo in luce le sue differenze con i territori ad ammi-
nistrazione provinciale, è ugualmente possibile distinguere questa regione dalle altre che componevano
l’Impero romano in positivo, in particolare mettendo in luce i privilegi esclusivi che spettano ai suoi abitanti
di libera condizione. In primo luogo, ai soli Italici è riservato il diritto di intraprendere una carriera poli-
tica a livello centrale e, attraverso questa strada, entrare nel Senato di Roma, un privilegio che l’Italia tuttavia
perse con l’imperatore Claudio, che alla metà del I sec. d.C. aprì la possibilità di ingresso nel Senato anche ai
notabili delle province della Gallia, non senza resistenze da parte della vecchia aristocrazia senatoria. A que-
sto proposito è opportuno riportare per intero, nella magistrale rielaborazione che ne fece lo storico Tacito, il
discorso che Claudio tenne in Senato per superare l’opposizione dei conservatori:

Tacito, Annali, XI, 24: il discorso di Claudio in Senato sull’apertura della carriera politi-
ca ai notabili della Gallia
I miei progenitori (il più antico tra loro, Clauso, di origine sabina, fu accolto contemporanea-
mente nella cittadinanza romana e nel patriziato) inducono a seguire nel governo criteri analo-
ghi ai loro, applicando qui ciò che altrove fu efficace. So bene infatti che la famiglia Giulia fu
fatta venire da Alba, i Coruncani da Camerio, i Porci da Tuscolo e che, tralasciando esempi
remoti, famiglie di senatori furono accolte dall'Etruria, dalla Lucania e da ogni parte d'Italia:
più tardi l'Italia stessa fu ampliata fino alle Alpi, sicché non solo gli individui singolarmente,
ma le terre e i popoli furono unificati nel nome di Roma. La nostra patria fu in duratura pace, e
fummo potenti sui nemici esterni, proprio quando i Transpadani furono accolti nella cittadi-
nanza, e quando con l'invio di legionari in ogni angolo della terra si sostenne un dominio stre-
mato, con il supporto validissimo dei provinciali. Ci rincresce forse la venuta dei Balbi dalla
Spagna, e di altri non meno grandi uomini dalla Gallia Narbonense? Restano i loro discendenti
e amano questa patria non meno di noi. Quale altra scelta rovinò Sparta e Atene, pur forti nelle
armi, se non il fatto di tenere lontani come stranieri i nemici sconfitti? Invece Romolo, il nostro
fondatore, fu tanto più saggio, da saper considerare molti popoli, nello stesso giorno, prima
nemici, poi concittadini. Vi furono stranieri tra i nostri re; l'affidamento di cariche pubbliche a
figli di liberti non è, come molti erroneamente pensano, recente innovazione, ma frequente pra-
tica dei nostri antenati. Certo i Senoni furono nostri nemici: ma Volsci ed Equi non si schiera-
rono mai contro di noi? Fummo sconfitti dai Galli: ma demmo ostaggi anche agli Etruschi e
subimmo il giogo dei Sanniti. Eppure, a riconsiderare tutte le nostre guerre, nessuna fu conclu-
sa così in breve quanto quella contro i Galli, e allora la pace fu duratura e leale. Ormai essi so-
no uniti a noi grazie ad usi, attività, parentele: contribuiscano anche con l'oro e le risorse, piut-
tosto che possederli per sé soli. Tutti gli istituti, o senatori, che ora son giudicati di grande anti-

146
chità, furono innovazioni: le magistrature concesse ai plebei dopo i patrizi, ai Latini dopo i
plebei, a tutti i popoli d'Italia dopo i Latini. Anche questo diverrà consuetudine, e ciò che oggi
giustifichiamo con l'esempio del passato, sarà a sua volta di esempio.

Il passo è molto significativo perché dimostra la consapevolezza che a Roma si aveva, almeno da
parte delle personalità più aperte, di uno dei principali segreti del successo della città: la sua capacità di in-
tegrazione di popolazioni straniere, che si era applicata in primo luogo nella stessa Italia, come abbiamo po-
tuto verificare nei precedenti capitoli, e che da Claudio in poi si estenderà anche ai provinciali, sino a giunge-
re all’epocale provvedimento di concessione della cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’Impero che e-
samineremo con maggio dettaglio nel capitolo successivo.

Nel primo periodo imperiale l’Italia rimaneva ancora una regione speciale nel mondo romano.Un al-
tro dei segni di questo privilegio è dato dal fatto che a lungo solo gli abitanti di libera condizione dell’Italia
vennero ammessi nelle decuriae, le giurie dei tribunali speciali che a Roma erano incaricate di emettere le
sentenze su particolari delitti, le cosiddette quaestiones perpetuae, espressione che potremmo tradurre con
“tribunali permanenti”.

Infine per circa due secoli solo gli Italici ebbero il diritto di entrare a far parte dell’élite
dell’esercito romano, le già ricordate coorti pretoriane; in questo caso, oltre all’indubbio prestigio che de-
rivava dall’appartenenza alla guardia del corpo imperiale, si abbinavano i concreti vantaggi di una paga mol-
to superiore rispetto a quella dei comuni legionari, di un periodo di ferma più breve (normalmente 16 anni,
contro i 20 o più dei legionari) e di una vita infinitamente più agiata e meno pericolosa, nelle comode caser-
me di Roma, piuttosto che in qualche sperduto accampamento ai confini dell’Impero, sotto la costante mi-
naccia di un attacco da parte di popolazioni ostili.

Sotto il profilo amministrativo,


l’Italia era divisa in circa 400 comunità
dotate di una forte autonomia interna,
che gli studiosi sono soliti chiamare con
il nome di municipi, anche se propria-
mente il termine municipium si applica
solo ad alcune di queste comunità, men-
tre altre potevano fregiarsi del titolo più
prestigioso di colonie (sulle differenze
tra queste due tipologie di comunità si
rimanda a quanto scritto nel cap. VIII,
pp. 101-103). Il territorio di questo mu-
nicipi aveva un’ampiezza piuttosto va-
riabile (particolarmente in Italia setten-
trionale esistevano municipia di enorme
estensione, come Brixia, l’attuale Bre-
scia, o Tridentum, l’odierna Trento, o
ancora Aquileia), ma in genere si colloca
in un ordine di grandezza intermedio tra
quello degli attuali comuni e quella delle
odierne province. Uno sguardo ai muni-
cipi presenti nella regione corrispondente
all’odierna Calabria (figura 7) può chia-

Figura 7: la regione dei Bruttii e le sue comunità in età romana

147
rire questo dato. Partendo da nord incontriamo le
comunità autonome di Blanda Iulia (nei pressi di
Tortora, ai confini tra Basilicata e Calabria), Copia
(sul sito di Sibari), Consentia (l’attuale Cosenza),
Petelia (l’odierna Strongoli), le colonie di Tempsa
(probabilmente nei pressi di Falerna) e Croto
(l’attuale Crotone), Terina (da localizzare al limite
settentrionale della piana di Lamezia), Scolacium
(l’attuale Squillace), Vibo Valentia, Locri e infine
Rhegium Iulium (l’attuale Reggio Calabria).

Proprio con Augusto si introduce tuttavia


un quadro territoriale intermedio tra l’Italia e i tan-
ti piccoli municipi che la compongono: sono le
regiones, alle quali abbiamo già avuto modo di
accennare nel cap. I e che sarà ora opportuno esa-
minare più da vicino. Grazie alla testimonianza di
Figura 8: le undici regiones dell'Italia augustea Plinio il Vecchio siamo infatti in grado di cono-
scere abbastanza bene le denominazioni di tali re-
gioni (originariamente contraddistinte solo da un
numero, che ben presto però venne affiancato da un nome) e i loro confini.

Per la precisione le undici regiones individuate da Augusto (figura 8) furono le seguenti:

• Regio I: Latium et Campania

• Regio II: Apulia et Calabria

• Regio III: Lucania et Bruttii

• Regio IV: Samnium

• Regio V: Picenum

• Regio VI: Umbria et Ager Gallicus

• Regio VII: Etruria

• Regio VIII: Cispadana e poi Aemilia

• Regio IX: Liguria

• Regio X: Venetia et Histria

• Regio XI: Transpadana

Come si vede, la maggior parte delle regioni assunse un nome che ricalcava quello dell’etnia (o delle
etnie) prevalente all’interno di essa; fanno eccezione rispetto a questo schema la regio VIII, che inizialmente
prese il nome di natura geografica di Cispadana (il territorio al di qua del Po) e poi divenne nota con il nome
di Aemilia, lo stesso della strada che l’attraversava per tutta la sua lunghezza, da Rimini a Piacenza, e la regio
XI, con il nome di carattere geografico di Transpadana (il territorio al di là del Po).

Assai meno chiaro dei confini geografici delle singole regioni è dei loro nomi è il significato di
questa riforma, che probabilmente Augusto introdusse intorno al 7 a.C., l’anno in cui l’imperatore divise la
città di Roma in 14 quartieri, detti anch’essi regiones. A questo proposito si confrontano sostanzialmente

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due opinioni: la prima, che risale in definitiva alla figura del grande Theodor Mommsen e che è stata in buo-
na misura ripresa da un importante studioso dell'Italia romana, Gianfranco Tibiletti, ritiene che la divisione
regionale augustea non fosse finalizzata a precisi scopi pratici, ma semplicemente alla creazione di un nuovo
quadro in cui inserire, per scopi semplicemente statistici, i dati relativi all'Italia romana, come per esempio
il numero dei suoi abitanti. Una seconda teoria, che ha trovato sostegno in particolare negli scritti di France-
sco De Martino e, da ultimo, di Claude Nicolet, ritiene piuttosto che la creazione delle regioni dell'Italia ob-
bedisse alle esigenze di una riorganizzazione amministrativa: è vero che il censimento forse veniva con-
dotto ancora secondo la vecchia suddivisione in tribù, anche se i suoi dati potevano essere presentati per re-
gioni (così Plinio il Vecchio, Storia naturale, VII, 163-164 ci può presentare una statistica degli ultracentena-
ri residenti nella regione dell'Aemilia); ma le regioni erano il quadro operativo (e non solo statistico) di altre
importanti azioni di carattere amministrativo, come per esempio la gestione delle numerose proprietà che
l'imperatore aveva in Italia, o la riscossione delle tasse indirette alle quali abbiamo accennato pocanzi, o an-
cora il censimento dei territori non centuriati, rimasti di proprietà del demanio pubblico, i cosiddetti subseci-
va.

3. Una regione senza storia?

Con la fine delle guerre civili e l’inizio del periodo imperiale i riflettori che le fonti letterarie aveva-
no acceso per secoli sull’Italia si spengono per almeno due secoli. I grandi eventi politici e militari che inte-
ressano in modo quasi esclusivo la storiografia antica ormai si giocano in altri luoghi: in primo luogo nella
corte di Roma con i suoi intrighi, le sue congiure, i suoi contrasti politici; oppure lungo i lontani confini
dell’Impero, teatro delle incursioni delle popolazioni straniere e delle offensive dell’esercito romano, come
anche di frequenti ribellioni militari. Se si escludono pochi eventi calamitosi, come le guerre civili degli anni
69-70 d.C., che ebbero fra i teatri principali l’Italia settentrionale, o qualche disastro naturale, come
l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., l’impressione che desta l’Italia è quella di una regione in cui non accade
nulla, in cui la storia si è fermata.

Questa impressione è in definitiva erronea: se è vero che il silenzio delle fonti letterarie, giustificato
del resto dal fatto che per lo più i municipi dell’Italia conducono un esistenza tranquilla, non turbata da even-
ti clamorosi, i primi due secoli dell’Impero sono quelli in cui la documentazione epigrafica e archeologica è
più ricca e ci consente di conoscere molti aspetti della vita culturale, sociale ed economica delle molte comu-
nità italiche, aspetti che invece molto spesso ci sfuggono per il periodo anteriore, quello repubblicano, e quel-
lo posteriore, l’età tardoantica, più ricchi di eventi traumatici che fanno parte della “grande Storia”.

Una ricostruzione di questi elementi di “vita quotidiana” dell’Italia nel I e nel II sec. d.C. esula dagli
scopi di queste dispense. Mi limito dunque a proporre due casi esemplari, che forse potranno dare un’idea
della prospettiva storica, un poco diversa rispetto a quella cui siamo abituati a pensare per l’antichità, si apra
in questo periodo.

Il primo esempio riguarda la storia economica e in particolare lo sviluppo del porto di Ostia, a
partire dalla metà del I sec. a.C. Per tutta l’età repubblicana il principale porto dell’Italia romana era stato in-
fatti quello di Puteoli (oggi Pozzuoli), l’antica colonia greca di Dicearchia, rifondata dai Romani come colo-
nia con questo nome nel 194 a.C. Puteoli eclissò quasi completamente gli scali dell'antichissima colonia gre-
ca di Cuma e della vicina Neapolis, separata da Pozzuoli dal capo di Posillipo. La baia di Pozzuoli, che offri-
va un buon porto naturale, venne completata da imponenti opere artificiali, per accogliere le grandi navi gra-
narie provenienti dall'Africa e dall'Egitto, il cui carico era essenzialmente destinato alla città di Roma e veni-
va qui trasbordato su navi di minore tonnellaggio, che prima costeggiavano il Tirreno fino alle foci del Teve-
re e poi risaliva il corso del Tevere, sino al porto fluviale di Roma. Purtroppo il fenomeno del bradisismo ha

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causato uno sprofondamento nel mare di buona parte delle installazioni portuali di Puteoli, che conosciamo
assai meno di quanto vorremmo. Sappiamo peraltro che Pozzuoli era anche un porto di esportazione, dal qua-
le partivano carichi con gli apprezzati prodotti della terra campana, soprattutto il vino, e delle locali industrie
vetrarie e ceramiche.

In pratica Puteoli rimase il porto principale di Roma fino a quando Claudio non intraprese la costru-
zione di un grande scalo artificiale nei pressi di Ostia. Per la verità Ostia era utilizzata come porto di Roma
fin dalla media età repubblicana, ma le condizioni naturali non erano certo favorevoli all'approdo delle grandi
navi marittime, a causa dei forti depositi alluvionali accumulati dal Tevere nelle acque antistanti, che rende-
vano la costa bassa e insidiosa. A questo proposito si può leggere quello che scrisse Strabone a proposito del-
lo scalo di Ostia in età augustea:

Strabone, Geografia, V, 2, 5: l'approdo ad Ostia prima della costruzione di un porto arti-


ficiale
Fra le città latine che sorgono sul mare vi è Ostia. È una città senza porto a causa dei depositi
alluvionali che vi ammassa il Tevere, ingrossato da numerosi affluenti. La navi da carico sono
perciò costrette ad ormeggiare al largo, in mare aperto, senza difesa; ma i vantaggi superano il
rischio; un gran numero di barche a remi, che caricano e scaricano le merci, consente alle navi
di ripartire immediatamente, senza aver affrontato la corrente del fiume; ma ci sono anche navi
che, liberatesi di parte del carico, entrano nel fiume e lo risalgono per 190 stadi [circa 35 km.],
fino a Roma.

La situazione mutò completamente quando l'imperatore Claudio (41-54 d.C.) decise la costruzione
di un porto artificiale 3 km. a nord della foce del Tevere. Ce ne informa rapidamente il biografo imperiale
Svetonio:

Svetonio, Vita di Claudio, 20: la costruzione di un porto artificiale a Ostia


[Claudio] costruì il porto di Ostia, avendolo circondato con un braccio a destra e a sinistra, e
facendo elevare un molo all'ingresso, in acque profonde. Per poter gettare delle fondamenta più
stabili, affondò dapprima la nave con cui avevano portato dall'Egitto l'obelisco grande, e quin-
di, infittivi i pilastri, vi costruì sopra un'altissima torre, prendendo ad esempio il Faro di Ales-
sandria, perché dirigesse con le sue luci notturne la rotta delle navi.

Nella descrizione di Svetonio colpisce in particolare l'ingegnoso espediente di utilizzare, per le fon-
dazioni del grande faro (Lighthouse, nella cartina riportata a figura 9), l'enorme imbarcazione che aveva por-
tato dall'Egitto, durante l'impero di Caligola, l'obelisco del circo Vaticano (che oggi si trova in piazza S. Pie-
tro). Le motivazioni economiche che furono alla base della decisione di Claudio e che lo spinsero ad affron-
tare l’impresa nonostante i suoi costi esorbitanti, sono illustrate con maggiori dettagli dallo storico greco
Cassio Dione:

Cassio Dione LX, 11, 1-4: le motivazioni di Claudio nella costruzione di un porto artificia-
le a Ostia
Quando si abbatté una grave carestia, [Claudio] si diede pensiero di provvedere non solo all'at-
tuale mancanza di approvvigionamenti, ma di risolvere il problema definitivamente. Quasi tut-
to il grano per i Romani era un prodotto di importazione e il territorio alle foci del Tevere, a
causa del fatto che non aveva dei punti di approdo sicuri né dei porti adatti, non consentiva loro
di sfruttare le potenzialità del mare; infatti, ad eccezione delle merci importate durante la sta-
gione estiva e immagazzinate nei depositi, nulla veniva commerciato durante il periodo inver-
nale, e se mai qualcuno si arrischiava a viaggiare durante questa stagione, finiva con l'andare in
rovina. Essendo dunque al corrente di questa situazione, Claudio si accinse a costruire un porto
e non cambiò neppure idea quando, nel momento in cui egli chiese un preventivo della spesa,

150
gli architetti gli risposero: «Tu non devi costruirlo!» Così essi sperarono che, se avesse saputo
in anticipo l'enormità della spesa, ne sarebbe stato dissuaso; tuttavia volle comunque prendere
in considerazione un'opera all'altezza della gloria e della grandezza di Roma e la portò a com-
pimento. Innanzitutto, dopo aver scavato un tratto non piccolo di terra, costruì un molo lungo
tutta la parte circostante lo scavo e allagò l'area facendovi entrare l'acqua del mare; dopo di che
nel mare stesso gettò degli argini da entrambe le parti del porto, cingendo così una vasta por-
zione di mare, in mezzo al quale realizzò un'isola e su di essa una torre provvista di segnale
luminoso.

Come è evidente da questo passo di Cassio Dione, la principale preoccupazione di Roma era quella
di assicurare l’approvvigionamento alimentare di Roma. Per quanto riguarda in particolare i cereali (che,
consumati in forma di pane o di una sorta di polenta, fornivano la schiacciante maggioranza del fabbisogno
energetico della popolazione), l’enorme città, che secondo alcuni studiosi toccava il milione di abitanti, di-
pendeva quasi esclusivamente dalle importazioni via mare dalle province cerealicole: nella prima età impe-
riale la Sicilia e la Sardegna, che avevano assolto tale funzione negli ultimi tempi della Repubblica, erano
state affiancate e poi superate dalle province d’Africa e d’Egitto. Nel periodo invernale, durante il quale per
le debolezze strutturali delle imbarcazioni antiche la navigazione diveniva difficile, la rotta di cabotaggio da
Pozzuoli alle foci del Tevere o il complesso sistema di trasbordo dalle navi marittime alle imbarcazioni di
minore tonnellaggio davanti alle coste di Ostia risultava molto pericolosa, a causa delle forti onde e dei venti
impetuosi che potevano battere le coste del Tirreno. L’unica soluzione era quella di costruire un porto artifi-
ciale ad Ostia, a poca distanza da Roma, dove le grandi navi che attraversavano il Mediterraneo avrebbero
trovato un rifugio sicuro, in cui effettuare con tranquillità le operazioni di scarico delle merci.

Figura 9: Ostia e il suo porto

151
In questo senso il grande porto
claudiano (denominato Portus Augusti
nella cartina di figura 9), che racchiu-
deva un'area di circa 80 ettari davanti al
mare, non si rivelò tuttavia completa-
mente sicuro: nel 62 d.C. una tempesta
distrusse quasi 200 navi che vi erano
alla fonda. Anche per questo motivo
l’imperatore Traiano (98-117 d.C.) in-
traprese la costruzione di un bacino più
Figura 10: i resti del Piazzale delle Corporazioni a Ostia interno e riparato, di forma esagonale
(circa 33 ettari; nella cartina di figura 9
appare con il nome di Portus Traiani
Felicis). I due bacini erano uniti da ca-
nali al Tevere, consentendo così un col-
legamento diretto tra Portus, come ve-
niva semplicemente chiamato il nuovo
insediamento nato intorno ai bacini ar-
tificiali, e Roma.

Portus rimase per tutta la pri-


ma età imperiale sotto il controllo dei
magistrati cittadini di Ostia e da Ostia
veniva anche la grande maggioranza
dei lavoratori portuali. La prosperità di
Portus fece anche la prosperità di O-
Figura 11: una ricostruzione virtuale del Piazzale delle Corporazioni
di Ostia
stia: il segno più evidente della ricchez-
za che i commerci avevano portato nel-
la città è il cosiddetto Piazzale delle
Corporazioni, una grande piazza che
sorgeva dietro il teatro ed era circonda-
ta da un duplice colonnato (vedi i resti
che di questo complesso ancora oggi si
possono ammirare alla figura 10; cf.
anche la ricostruzione di come doveva
apparire la grande piazza nella prima
età imperiale, alla figura 11). Su questo
colonnato si aprivano circa 60 uffici di
imprese commerciali che trasportavano
ogni genere di mercanzie dai quattro
Figura 12: il mosaico – insegna della ditta dei navicularii lignarii nel angoli dell’Impero al porto di Roma.
Piazzale delle Corporazioni
Sul lato anteriore di questi uf-
fici spesso si trovano dei mosaici con iscrizioni, che assolvevano la funzione di insegne. Nell’immagine ri-
portata alla figura 12 è raffigurata l’insegna dell’ufficio di una ditta di navicularii lignarii, che si occupava
cioè del trasporto di legname via mare; nel mosaico si nota anche la vivace rappresentazione di due navi da

152
carico e, al centro, del famoso faro di cui ci parlano le fonti (raffigurato come una tozza torre cilindrica
sormontata da fiamme).

Nei due insediamenti di Ostia e


Portus vennero costruiti grandi depositi di
merci su più piani, ovvero utilizzando gran-
di contenitori di argilla infossati nel terreno,
detti dolia defossa, come si mostra nell'im-
magine alla figura. Nel maggiore di questi
magazzini sono stati ritrovate oltre 100 di
queste grandi giare, che nel complesso po-
tevano contenere più di 84.000 litri di olio o
di vino.

La maggior parte di queste merci


venivano caricate su battelli fluviali che ri-
Figura 13: un magazzino di Ostia, con i grandi otri in ceramica
(dolia) in cui erano conservati gli alimenti salivano il corso del Tevere trainati da ani-
mali, per raggiungere il porto fluviale di
Roma. Nella fase più antica questa impor-
tante infrastruttura si trovava nella zona del
Foro Boario (in corrispondenza dell'odierna
Piazza Bocca della Verità), tra il Palatino e
l'Aventino. Il vecchio bacino portuale venne
poi interrato in età imperiale. Il porto, il co-
siddetto Emporium, in questo periodo era
già stato spostato più a valle, sulle rive ai
piedi delle pendici meridionali dell'Aventi-
no, dove già agli inizi del II sec. a.C. si ini-
ziò la costruzione di banchine e magazzini,
poi ristrutturati in età imperiale. Imponenti
Figura 14: un’immagine dell’Ottocento dei magazzini del porto resti di questo porto fluviale vennero sco-
fluviale dell’antica Roma perti nel corso di scavi ottocenteschi, do-
cumentati dall'immagine riportata alla figu-
ra 14. Nella zona vi erano anche depositi di marmi, che hanno dato al quartiere il suo attuale nome di Mar-
morata. A sud dell'Emporium venivano gettati i contenitori di ceramica adibiti al trasporto di generi alimenta-
ri, in particolare le anfore olearie provenienti dalla Spagna meridionale, fino a far crescere un mons Testa-
ceus, una collina di cocci che ha dato il nome al quartiere di Testaccio. Le migliaia di frammenti di anfora del
Testaccio, molti dei quali riportano bolli o iscrizioni dipinte relative al loro contenuto e ai loro produttori, co-
stituiscono uno straordinario documento per la conoscenza delle strutture commerciali dell'impero e dell'ap-
provvigiona mento della capitale.

Il secondo esempio che vorrei proporre riguarda piuttosto la storia sociale di uno dei tanti municipi
dell’Italia romana: si tratta di Auximum (l’attuale Osimo), un piccolo centro della regio V Picenum. In questa
località importanti interventi edilizi che vennero effettuati alla fine del Quattrocento portarono alla fortuita
scoperta dell’area forense della città romana, con numerosi monumenti onorari, tra i quali anche la base i-
scritta destinata a supportare una statua (figura 15) che riportava il seguente testo (figura 16):

153
Corpus Inscriptionum Latinarum IX, 5836: la carriera di un notabile municipale di Auxi-
mum
Q(uinto) Plotio Maximo / Col(lina tribu) Trebellio Peli/diano, equo p(ublico), / trib(uno)
leg(ionis) II Traian(ae) Fort(is), / trib(uno) coh(ortis) XXXII Volunt(ariorum), / trib(uno)
leg(ionis) VI Victricis, / proc(uratori) Aug(usti) pro magistro / XX hereditatium, / praef(ecto)
vehiculor(um), / q(uin)q(uennali), p(atrono) c(oloniae) et suo, pont(ifici). / Colleg(ium)
cent(onariorum) Auximat(ium) / ob eximium in muni/cipes suos amorem. / L(ocus) d(atus)
d(ecreto) d(ecurionum).

A Quinto Plozio Massimo Trebellio Pelidiano, iscritto nella tribù Collina, membro dell'ordine
equestre con cavallo pubblico, ufficiale nella II legione Traiana Valorosa, comandante della
coorte XXXII dei Volontari, ufficiale nella legione VI Vincitrice, funzionario per la riscossione
della tassa del 5% sulle successioni ereditarie, funzionario ai trasporti, magistrato supremo, pa-
trono della colonia e proprio. L'associazione dei fabbricanti di coperte di Osimo per lo straor-
dinario amore dimostrato da Pelidiano nei confronti dei suoi concittadini. Luogo concesso per
decreto del consiglio municipale.

Il documento in oggetto è una semplice i-


scrizione posta su un monumento onorario.
L’onorato, che porta il lungo nome di Quinto Plozio
Massimo Trebellio Pelidiano e si qualifica come cit-
tadino romano di pieno diritto, in forza della sua i-
scrizione nella tribù Collina, la circoscrizione eletto-
rale nella quale egli sarebbe stato chiamato a votare
per eleggere i massimi magistrati di Roma o le leggi
sottoposte all’assemblea popolare (anche se in realtà
in età imperiale queste votazioni erano ormai solo un
ricordo: ma l’iscrizione ad una tribù rimaneva un im-
portante segno di prestigio). Non si trattava peraltro
di un cittadino comune: Pelidiano infatti era diventa-
to membro del secondo ordine dello stato, dopo quel-
lo senatorio, l’ordine equestre; la curiosa formula con
la quale l’iscrizione ricorda questa appartenenza, e-
quo publico (letteralmente “con cavallo pubblico”)
ricorda il fatto che in età repubblicana lo stato era
Figura 15: la base in onore di Pelidiano ad Auximum solito premiare le persone che si erano in qualche
modo distinte, pur non avendo i requisiti di censo
per appartenere all’ordine equestre (e dunque per poter affrontare le ingenti spese di mantenimento di un
proprio cavallo privato), con il dono di un cavallo pubblico: in tal modo personaggi meritevoli, ma di mode-
sta ricchezza, potevano entrare a far parte del prestigioso ordine dei cavalieri. In età imperiale tuttavia questa
consuetudine era ormai solo un ricordo e la formula equo publico era semplicemente un modo per segnalare
l’appartenenza di una persona all’ordo equester, che tra l’altro richiedeva un censo minimo di 400 mila se-
sterzi.

Il fatto che Pelidiano fosse una persona con uno status economico e sociale rilevante è dimostrato
anche dalla sua carriera, che l’iscrizione riferisce presumibilmente in ordine cronologico: tale carriera partì
dall’esercito, dove il nostro personaggio fu in primo luogo tribunus, ovvero ufficiale di stato maggiore, nella
legio II Traiana Fortis, un’unità che venne creata nel 105 d.C. dall’imperatore Traiano in occasione delle sue
campagne in Dacia; è probabile che Pelidiano abbia rivestito questo grado quando ancora la legione si trova-

154
va di stanza nella Mesia inferiore (una provincia corrispondente all’incirca all’odierna Bulgaria settentriona-
le), prima del suo impiego nelle campagne contro i Parti e del suo definitivo trasferimento in Egitto. Pelidia-
no ebbe poi il comando della cohors XXXII Voluntariorum, un’unità ausiliaria di fanteria, che combatteva in
appoggio alle legioni di stanza nella Germania superiore; ritorno infine nello stato maggiore di una legione,
la VI Victrix, sempre in qualità di tribuno; questa antica unità legionaria (era stata probabilmente creata du-
rante le guerre civili, poco prima del 41 a.C.) nel periodo in questione era di guarnigione nella provincia della
Germania inferiore; nel 117 d.C. Adriano la spostò in Britannia.

Dopo questa ragguardevole milizia


nell’esercito, Pelidiano si dedicò a incarichi di
natura civile (un passaggio che è piuttosto fre-
quente nelle carriere dei notabili italici nella se-
conda metà del I sec. DC e nel II sec. d.C.): ini-
zialmente egli occupò un posto di rilievo negli
uffici finanziari di Roma che si occupavano della
riscossione della tassa del 5% sul valore dei lasci-
ti testamentari, la vicesima hereditatium (lette-
ralmente “la tassa di un ventesimo delle eredità”);
questa posizione di procurator pro magistro dava
diritto ad uno stipendio annuo di 60 mila sesterzi.
Pelidiano passò poi alla direzione del servizio
della posta imperiale, il cosiddetto cursus publi-
cus, un’infrastruttura nevralgica per l’ammini-
strazione dell’Impero, che consentiva agli organi
di governo di Roma di mantenersi in contatto co-
stante e relativamente rapido con le province e
che era fondato su una complessa rete di stazioni
di sosta e di cambio dei cavalli; sappiamo che
Figura 16: particolare dell’iscrizione in onore di Pelidiano questo servizio venne affidato alla direzione di un
praefectus vehiculorum dall’imperatore Adriano
e questo elemento, insieme alla milizia nella legio II Traiana Fortis, creata come abbiamo visto nel 105 d.C.,
ci consente di datare la carriera di questo notabile di Osimo nei primi decenni del II sec. d.C.

Pelidiano tornò infine nella sua piccola patria di Auximum: forte del prestigio grazie al servizio
nell’esercito e negli uffici imperiali di Roma, non fu difficile per lui ottenere nella sua città natale importanti
incarichi direttivi: divenne infatti pontifex, un sacerdozio che esisteva sia nella città di Roma, sia nei municipi
dell’Italia romana e che poteva essere rivestito da uomini che avevano intrapreso una normale carriera politi-
ca (questa commistione tra incarichi di natura religiosa e incarichi di natura politica è del tutto caratteristico
nell’antica Roma); ma soprattutto fu eletto quinquennalis, un titolo particolare che designava ogni 5 anni il
massimo magistrato della comunità municipale: a questa scadenza infatti si teneva un evento importantissimo
per ogni comunità romana: il censimento. Le operazioni del censimento non consistevano solo nel contare la
popolazione, ma soprattutto nel valutare il patrimonio dei singoli e tutti gli altri requisiti, anche di ordine mo-
rale, che potevano dare loro diritto ad una posizione privilegiata all’interno della comunità: con il censimento
si stabiliva, per esempio, se una data persona aveva diritto a intraprendere una carriera politica e di entrare a
far parte del consiglio municipale. Nella Roma repubblicana questo compito era svolto da magistrati apposi-
tamente eletti ogni 5 anni, i censori.A livello municipale la delicata incombenza era invece assegnata ai due
supremi magistrati ordinari, il cui compito principale era quello di giudicare le cause locali e che per questo

155
di regola prendono il nome di duoviri iure dicundo (una maldestra traduzione letterale potrebbe suonare: “i
due [magistrati] che proclamano il diritto”); Auximum per la verità rappresenta in certa misura un’eccezione a
questo schema, nel senso che qui i magistrati supremi giurisdicenti avevano il prestigioso titolo di praetores;
ma si tratta solo una divergenza terminologica, i loro poteri erano di fatto identici a quelli dei duoviri iure
dicundo. Nell’anno del censimento tuttavia quelli che potremmo definire “i sindaci” della comunità locale
aggiungevano al loro normale titolo l’aggettivo quinquennalis, “quinquennale”, a rimarcare la particolare
importanza dei loro doveri in quell’anno: avremmo dunque incontrato dei duoviri quinquennales o, ad Auxi-
mum, dei praetores quinquennales; per amore di brevità la nostra iscrizione definisce questa magistrature
semplicemente con il titolo di quinquennalis. La delicatezza dell’incarico faceva sì che alla quinquennalità
fossero solitamente eletti personaggi di provata esperienza, che per esempio avevano già rivestito il duovirato
“semplice”, o figure di assoluto prestigio, come doveva essere il nostro Pelidiano.

Il fatto che Pelidiano in questo incarico si fosse comportato degnamente potrebbe essere dedotto dal-
la sua nomina a patrono, ovvero a protettore della colonia di Auximum, un titolo al quale del resto non dove-
va estranea la sua buona conoscenza degli uffici governativi di Roma, maturata negli anni in cui era stato
procurator pro magistro della vicesima hereditatium e praefectus vehiculorum: tra i compiti principali che un
patrono aveva vi era in effetti quello di perorare la causa dei propri assistiti, per esempio in una contesa giu-
diziaria con qualche comunità vicina o nella richiesta di qualche privilegio, presso gli organi amministrativi
centrali; e allora (come del resto oggi), la capacità di muoversi nel “Palazzo” e magari qualche influente co-
noscenza personale potevano essere decisivi per far avanzare più velocemente le pratiche che interessavano.

Pelidiano al contempo era anche patrono di una piccola comunità che effettivamente si incaricò di
erigere a proprie spese il monumento onorario: si tratta di un’associazione professionale (collegium), quella
dei centonarii. Il mestiere di centonarius deriva chiaramente dal termine centones, che designava dei panni
creati cucendo insieme pezzi di stoffa diversi, adibiti ad usi differenti: come indumenti o coperte da parte del-
le persone di modesta condizione economica, come gualdrappe per i cavalli, ma anche come protezione dal
fuoco, secondo quanto è attestato da diversi autori antichi. I centonarii erano dunque coloro che confe-
zionavano e probabilmente vendevano questi centones.

Il problema è che l’importanza di questa associazione professionale (conosciamo collegia centona-


riorum in moltissime località dell’Italia e delle province occidente e in alcune di queste la corporazione pote-
va contare su centinaia di aderenti) non sembra commisurata alla rilevanza, tutto sommato modesta, della lo-
ro attività lavorativa e della merce di cui trattavano. Colpisce per esempio il fatto che a Flavia Solva, una cit-
tadina della provincia del Norico, nell’attuale Austria, esistesse una corporazione di centonarii che contava
circa un centinaio di membri: possibile che tutti costoro fossero impegnati nella fabbricazione dei particola-
rissimi centones in una comunità che non doveva contare, al massimo, che poche migliaia di abitanti? Si è
dunque supposto, da un lato, che i collegia centonariorum accogliessero non solo i veri e propri centonarii,
ma anche tutti i lavoratori dell’esteso e importante settore tessile, per esempio anche coloro che più propria-
mente, nelle proprie epigrafi sepolcrali, si definiscono con il nome di vestiarii (fabbricanti e commercianti di
abiti) o lanarii (fabbricanti e commercianti di indumenti di lana). Dall’altro lato si è supposto che la rilevanza
sociale dell’associazione dei centonarii aveva nelle città antiche, rilevanza che si è poi tradotta nel numero
stesso dei documenti che questo collegium ci ha lasciato, fosse legata, piuttosto che all’attività professionale
dei suoi membri, ai servizi civici che essa prestava. Si è accennato all’uso dei centones come protezione con-
tro il fuoco: altri indizi permettono di pensare che i centonarii avessero la funzione di vigili del fuoco volon-
tari, accanto ai membri di altre due corporazioni, quella dei fabri (termine che dovremmo tradurre, meglio
che con il suo corrispettivo italiano “fabbri”, con il generico “operai”) e quella dei dendrofori
(un’associazione che pare avere un carattere soprattutto religioso, anche se la sua traduzione letterale di “por-
tatori dell’albero” ha spesso indotto gli studiosi a vedervi dei professionisti in qualche modo legati alla lavo-

156
razione, al trasporto o al commercio del legname). Era questa una funzione assolutamente sentita nelle città
del mondo romano: le numerose fiamme libere che servivano a scopo di illuminazione o di riscaldamento
innescavano periodicamente rovinosamente incendi in case in cui abbondavano i materiali altamente infiam-
mabili, a partire dal legno che era ampiamente utilizzato come materiale edilizio. D’altra parte per combatte-
re queste calamità solo Roma e poche altre grandi città dell’Impero si erano dotate di squadre di pompieri
professionisti, i vigiles; nelle tante altre comunità del mondo romano il compito di combattere contro gli in-
cendi potrebbe proprio essere stato affidato ai volontari della associazioni professionali; a tale incombenza
potrebbe essere stata affiancata quella di sorveglianza dell’ordine interno: ma per questa ipotesi dei membri
dei collegia, tra i quali i collegia centonariorum, come guardie civiche ci muoviamo su di un terreno ancora
più incerto.

Piuttosto interessante la motivazione con la quale i centonarii di Osimo giustificano la decisione di


erigere un monumento onorario per Pelidiano: ob eximium in municipio suos amorem, espressione che po-
tremmo tradurre con “per l’eccellente sollecitudine nei confronti dei suoi concittadini”; certo ne vorremmo
sapere di più, per esempio in quali atti concreti si fosse realizzato questo amor di Pelidiano nei confronti de-
gli Osimati, o ancora se egli avesse qualche benemerenza specifica in particolare nei confronti della corpora-
zione dei centonarii: ma, come capita di frequente quando si esaminano le sintetiche fonti epigrafiche, alcune
curiosità sono destinate a rimanere senza risposta.

Il nostro documento si chiude con una formula molto consueta nell’epigrafia onoraria dell’Italia ro-
mana, L(ocus) d(atus) d(ecreto) d(ecurionum), nella comune abbreviazione L. D. D. D., ovvero “terreno con-
cesso per decreto del consiglio municipale”: in effetti, come abbiamo detto aprendo l’esame di questo docu-
mento, la base in onore di Pelidiano venne ritrovata in quello che anticamente era il Foro di Auximum, uno
spazio di proprietà pubblica, che non era lecito occupare con costruzioni di alcun tipo se non dopo aver otte-
nuto uno speciale permesso da parte dell’ordo decurionum, il consiglio municipale che nelle comunità del
mondo romano assolveva alle importanti funzioni politiche e amministrative che nella Roma repubblicana
erano proprie del Senato.

4. Per saperne di più

• W. Eck, L' Italia nell'impero romano. Stato e amministrazione in epoca imperiale, Bari 1999 [BAU
937.06 S 18].

• C. Nicolet, L'inventario del mondo. Geografia e politica alle origini dell'impero romano, Roma - Bari
1989 [BAU in catalogazione].

• Princeps urbium: cultura e vita sociale dell’Italia romana, Milano 1991 [BAU STO COLL PROVV.
937 C AND]

• G. Tibiletti, Storie locali dell’Italia romana, Pavia 1978 [BAU STO/D 937 (B) TIB]

157
CAPITOLO XIV

L’ITALIA TARDOANTICA: UN’ETÀ DI CAMBIAMENTI

1. La fine della posizione speciale dell’Italia

A partire dalla fine del II sec. d.C., per una serie di fattori politici ed economici, l’Italia inizia a per-
dere progressivamente i numerosi privilegi che fino a quel momento l’avevano contraddistinta rispetto alle
altre regioni dell’Impero.

Un primo colpo, che almeno inizialmente ebbe conseguen-


ze soprattutto di ordine psicologico, venne attestato con la fine del
clima di pace e sicurezza che per circa due secoli aveva regnato in
Italia: nel 167 d.C. le popolazioni germaniche dei Quadi e dei Mar-
comanni, approfittando del fatto che la frontiera del Danubio era
sguarnita (molti reparti erano stati inviati in Oriente per l’ennesima
guerra contro gli eterni nemici di Roma, i Parti), valicarono il grande
fiume e invasero le province di Pannonia, Rezia e Norico. La loro
offensiva tuttavia non si fermo qui: attraversate le Alpi orientali, mi-
sero sotto assedio Aquileia. La risposta dell’imperatore di quel mo-
mento, Marco Aurelio (a figura 1 se ne può vedere la celebre statua
equestre che campeggia in piazza del Campidoglio, a Roma, ora in
una copia moderna), non si fece attendere: i barbari vennero rapida-
mente respinti da Aquileia, ma solo nel 175 d.C., dopo campagne
durate quasi dieci anni, che sono illustrate dai fregi della famosa Co-
Figura 1: la statua equestre di Marco lonna Antonina, il confine del Danubio poté essere ristabilito, men-
Aurelio dalla piazza del Campidoglio, a tre nel frattempo veniva creata una linea difensiva fortificata sul con-
Roma
fine delle Alpi orientali.Gli effetti concreti dell’invasione germanica
furono dunque molto contenuti, ma questo episodio minò il sentimento di tranquillità degli Italici: per la pri-
ma volta dopo quasi tre secoli la penisola vedeva degli eserciti stranieri sul suo suolo (la precedente occasio-
ne era stata al momento dell'invasione dei Cimbri e dei Teutoni, alla fine del II sec. a.C.). Inoltre, negli stessi
anni dell’impero di Marco Aurelio una pestilenza, portata dall’esercito di ritorno dall’Oriente, provocò seve-
re perdite umane anche in Italia, accrescendo il clima di insicurezza.

Tra la fine del II sec. d.C. e gli inizi del secolo seguente, a
seguito di un processo lente e graduale, divenne evidente che gli Ita-
lici avevano perso la preminenza nelle strutture di governo. Que-
sta circostanza è particolarmente evidente se si osserva la composi-
zione del Senato, nel quale ormai i membri di origine italica erano
una minoranza, soverchiati da Galli, Spagnoli (dalla penisola iberica
provenivano del resto gli imperatori Traiano e Adriano), Africani (a
Leptis Magna, nell’attuale Libia, era nato l’imperatore Settimio Se-
vero, vd. figura 2) e Orientali: il Senato insomma si era progressi-
vamente trasformato, da un consiglio in cui sedevano i notabili
Figura 2: un ritratto monetale dell’Italia dei tempi di Augusto, a una sorta di assemblea rappresen-
dell’imperatore Settimio Severo

158
tativa di tutte le élite dirigenti dell’Impero.

Altri due segni della preminenza dell’Italia vennero a mancare nel periodo di governo
dell’imperatore Settimio Severo (193-211 d.C., vd. figura 2): questi era giunto al potere a seguito di una se-
rie di guerre civili, la prima della quali lo aveva visto scontrarsi, nella sua qualità di governatore della pro-
vincia di Pannonia, con Didio Giuliano, che era stato acclamato imperatore a Roma dai pretoriani dopo aver
versato loro un ingente donativo. Dopo aver battuto Giuliano, Set-
timio Severo congedò i vecchi pretoriani, che, come abbiamo visto
nel capitolo precedente, erano esclusivamente Italici, e li sostituì
con i migliori elementi delle sue legioni, che erano in larga preva-
lenza originari delle province balcaniche. Ad ogni buon conto, per
cautelarsi da futuri e sempre possibili colpi di testa delle coorti
pretoriane, Settimio Severo decise di stanziare una forte legione,
da lui reclutata in quegli anni, ad Albano a pochi chilometri a sud
di Roma: si trattava della legio II Parthica, il cui simbolo era un
centauro, come si può vedere nella moneta aurea riprodotta a figu-
ra 3. In pochi dunque l’Italia aveva perse il privilegio esclusivo di
Figura 3: un aureo che ricorda la legio II dare all’imperatore la sua guardia del corpo e di essere una regione
Parthica e il suo simbolo, il centauro smilitarizzata.

In questo senso un altro provvedimento di enorme porta-


ta venne preso dal figlio e successore di Settimio Severo, Cara-
calla (figura 4). Questi, probabilmente nel 212 d.C., concesse la
piena cittadinanza romana a tutti gli abitanti di libera condizio-
ne dell'Impero, ad eccezione dei cosiddetti dediticii (un termine
parola che aveva il significato letterale di "coloro che si sono arre-
si", ma che in questo periodo è forse da riferire ai barbari non an-
cora assimilati alla cultura greco-romana). Il provvedimento, noto
in forma riassuntiva da un documento papiraceo, il famoso Pa-
pyrus Gissensis 40 (figura 5), e da numerosi accenni delle fonti
letterarie è di discusso significato: molti studiosi vi vedono la lo-
gica conclusione di un processo di progressiva estensione dei di-
ritti civici anche ai provinciali, processo che aveva visto una signi-
ficativa accelerazione con Marco Aurelio e Settimo Severo; altri
Figura 4: un ritratto di Caracalla, Musei pensano piuttosto ad una misura strumentale, volta a rendere sog-
Capitolini, Roma
getti alle tasse indirette che i cittadini romani dovevano versare al
tesoro imperiale tutti i provinciali, che in precedenza ne erano e-
sentati. Quest’ultima interpretazione trova conforto da un lato nelle serie condizioni in cui versavano le casse
statali in quel periodo, dopo che Settimio Severo e lo stesso Caracalla avevano dovuto aumentare fortemente
il soldo dei legionari per conservarne la fedeltà, dall’altro nella testimonianza di uno storico coevo agli avve-
nimenti, Cassio Dione:

Cassio Dione, Storia romana, LXXVII, 9, 4-6: la concessione della cittadinanza ha moti-
vazioni fiscali
[...] e le tasse, sia quelle nuove da lui istituite, sia la tassa del 10% che egli creò al posto della
tassa del 5% sulla manomissione degli schiavi e su tutti i lasciti testamentari, avendo egli abo-
lito il diritto di successione e l'esenzione dalle imposte che in questi casi era stata concessa a
coloro che erano strettamente imparentati al defunto. Questa fu la ragione per la quale rese cit-

159
tadini romani tutti coloro che abitavano nel suo impero: a parole egli rendeva loro un onore,
ma il suo vero scopo era quello di aumentare in questo modo le sue rendite, poiché coloro che
non avevano la cittadinanza romana non erano soggetti al pagamento della maggior parte di
queste tasse.

Figura 5: il Papyrus Gissensis 40, che conserva in forma riassuntiva l’editto di Caracalla relativo alla concessione
della cittadinanza romana a tutti gli abitanti liberi dell’Impero, Universitätsbibliothek, Giessen

La preminenza sempre più decisa dell’elemento militare fu il tratto più caratteristico dell’età dei
Severi, che si concluse nel 235 d.C., con l’uccisione dell’ultimo esponente della dinastia, Alessandro Severo,
significativamente da parte di un gruppo di ufficiali dell’esercito insoddisfatti della sua politica: ormai i sol-
dati e i loro comandanti avevano imparato che il potere di creare e distruggere gli imperatori stava nelle loro
mani. Di questo potere l’esercito fece un uso smodato nei 50 anni successivi, che videro succedersi sul trono
imperiale un carosello di figure, alcune insignificanti, altre di tragica grandezza. Il moltiplicarsi delle guer-
re civili portò a sguarnire le frontiere, sulle quali premevano nuove coalizioni di popoli germanici, come i
Franchi, gli Alamanni e i Goti; a Oriente il vecchio regno partico, che non era mai riuscito a riprendersi dalla
batoste che gli aveva inflitto Settimio Severo, era stato abbattuto da una dinastia di origine persiana, quella
dei Sassanidi, che avevano dato vita ad un nuovo e aggressivo stato iranico, che reclamava come suoi tutti i
territori dell’Impero romano che avevano fatto parte del grande regno achemenide di Dario I e Serse, nel V
sec. a.C. e che era pronto alla guerra per sostenere queste rivendicazioni. Al tempo dell’imperatore Gallieno
(260-268 d.C.) sembrò che l’Impero fosse destinato ad andare a breve in pezzi. Il vecchio imperatore Vale-
riano, padre di Gallieno, era stato catturato in battaglia dal re persiano Shapur e finì i suoi giorni in prigionia;
a seguito di questa disfatta i Persiani avevano invaso le province orientali; ne erano stati ricacciati ad opera
del principe della città carovaniera di Palmira, Odenato, che tuttavia aveva approfittato della situazione per
ritagliarsi in Oriente un dominio personale, ormai quasi completamente autonomo dal governo di Roma: Gal-
lieno, impossibilitato a reagire, non poté che prendere atto della situazione e, alla morte di Odenato, ricono-
scerne gli stessi poteri alla sua vedova, Zenobia. In Occidente le cose non andavano meglio: sotto la costante
minaccia delle incursioni germaniche, la popolazione e gli eserciti della Gallia avevano proclamato un loro
imperatore nella persona del generale Postumo, che aveva guadagnato alla causa di questo Imperium Gallia-
rum anche la Spagna e la Britannia. Di tutti i vasti territori nominalmente appartenenti all’Impero romano,

160
Gallieno controllava effettivamente solo l’Africa, messa al riparo dalle invasioni dalla sua posizione geogra-
fica, la penisola balcanica, peraltro soggetta a continue incursioni barbariche e a periodiche ribellioni
dell’esercito. Rimaneva poi naturalmente l’Italia, che pure era seriamente minacciata ai suoi confini
settentrionali: a sua difesa Gallieno pensò di stanziare forti contingenti di cavalleria nella pianura padana.

Nonostante la disastrosa situazione in


cui versava l’Impero, grazie alle capacità milita-
ri di una serie di generali di origine illirica che
si succedettero al trono nella seconda metà del
III sec. d.C. (Claudio il Gotico, Aureliano, Pro-
bo) l’unità dello stato romano poté faticosamen-
te essere ripristinata e conservata. Tuttavia era
chiaro che la situazione era completamente mu-
tata rispetto al clima di pace e sicurezza che a-
veva regnato nel II sec. d.C.: non solo l’Italia era
direttamente minacciata (lo rammentò un incur-
sione della tribù germanica degli Iutungi che du-
Figura 6: un tratto ben conservato delle cinta muraria di
Roma, originariamente eretta da Aureliano
rante l’impero di Aureliano – 270-275 d.C. –
giunse fino a Pesaro), ma la stessa Roma ri-
schiava di venire attaccata. Con straordinaria rapidità Aureliano fece dunque erigere una nuova cerchia di
mura, molto di più ampia di quella “serviana” del IV sec. a.C., a protezione della città: questa imponente
cinta di fortificazioni, anche se con rifacimenti e restauri di età tardoantica, medievale e moderna, può essere
ammirata ancora oggi nella sua quasi totale completezza (figura 6); del resto, ancora nel 1860 la Roma dei
Papi si difese dall’attacco dei bersaglieri del Regno d’Italia dietro le mura di Aureliano.

2. Le riforme di Diocleziano

L’opera degli imperatori illirici venne portata a conclusione da una grande figura, anch’essa origina-
ria della penisola balcanica, con la quale secondo molti studiosi inizia una nuova stagione della storia roma-
na: Diocleziano (285-305 d.C.). Arrivato al trono imperiale dopo l’ennesima guerra civile, Diocleziano com-
prese in primo luogo che lo stato era troppo vasto e minacciato su troppi fronti perché un solo imperatore po-
tesse tenere sotto controllo la situazione: decise dunque di spartirsi il potere con l’amico e collaboratore Mas-
simiano, cui affidò in particolare la difesa delle province occidentali, mentre lui stesso avrebbe preso cura
dell’Oriente; dopo poco cooptò per sé e per Massimiano due giovani “assistenti”, che ebbero il titolo di Cae-
sares, che avrebbero dovuti aiutare i due imperatori anziani, che portavano il nome di Augusti: si trattava di
Galerio, cui venne affidato il governo della penisola balcanica, e Costanzo Cloro, il Cesare incaricato della
difesa della Gallia e della Britannia (vd. figura 7).

Si realizzava così il cosiddetto sistema tetrarchico, che vedeva alla testa dello stato quattro impera-
tori, due di rango superiore, gli Augusti, e due di rango inferiore, i Cesari. Lo scopo principale di questa ri-
forma era quella di assicurare la presenza di un imperatore su ciascuno dei punti caldi della lunghissima fron-
tiera romana, consentendone così una difesa più efficace e al contempo evitando che il generale al comando
delle truppe di un settore approfittasse della lontananza dell’imperatore per ribellarsi.

Allo stesso tempo il sistema tetrarchico doveva anche assicurare una successione indolore sul trono
imperiale, una questione che fin da Augusto non era mai stata regolata con chiarezza, anche se il principio
dinastico di trasmissione del potere aveva sempre fatto sentire la sua influenza. Affinché la morte
dell’imperatore non provocasse una crisi e uno scontro tra i diversi pretendenti, come era accaduto di

161
Figura 7: la divisione dei compiti su base territoriale nel sistema tetrarchico

frequente nel cinquantennio di anarchia del III sec. d.C.,


Diocleziano stabilì che al momento della morte o
dell’abdicazione degli Augusti, il loro posto sarebbe stato
preso dai Cesari: costoro si sarebbero preoccupati di
scegliere immediatamente due nuovi Cesari, destinato a
suo tempo alla successione.

Il buon funzionamento del sistema tetrarchico


dipendeva ovviamente dalla lealtà e dalla coesione esi-
stente fra i quattro imperatori, celebrata nel famoso Grup-
po dei Tetrarchi, in porfido rosso, che si trova oggi a Ve-
nezia (figura 8). Questa armonia tuttavia era dovuta, più
che alla funzionalità intrinseca del sistema, al carisma
della figura di Diocleziano: scomparso Diocleziano, la
sua ingegnosa costruzione andò quasi completamente in
pezzi.

Ebbe effetti più duraturi e immediati sulle condi-


zioni dell’Italia la riforma territoriale introdotta da Dio-
cleziano: le province, la cui estensione era andata dimi-
nuendo nel corso del tempo, mentre di converso il loro
numero aumentava, vennero raggruppate in distretti di
Figura 8: il Gruppo dei Tetrarchi, oggi murato maggiori dimensioni, detti diocesi, in numero inizialmen-
in un angolo della basilica di S. Marco,
a Venezia

162
te di dodici (tale numero variò poi nel corso del tempo). Tra le diocesi ve ne era anche una denominata Itali-
ciana, nella quale era appunto compreso il vecchio territorio dell’Italia insieme a quello di alcune province
limitrofe, come la Sicilia, la Sardegna e la Corsica, la Rezia (figura 9). Abbiamo già accennato a questa sud-
divisione territoriale nel cap. I, ma ora possiamo esaminarla più da vicino, guardando le province che origi-
nariamente componevano la diocesi, partendo da sud:

• Sicilia

• Lucania et Bruttii

• Apulia et Calabria

• Sardinia

• Samnium et Campania

• Corsica

• Tuscia et Umbria

• Flaminia et Picenum

• Alpes Cottiae

• Liguria et Aemilia

• Venetia et Histria

• Raetia
Figura 9: la diocesi Italiciana e le sue province
nell’età di Diocleziano

Nel periodo tardoantico queste circoscrizioni territoriali cambiarono più volte numero, denomina-
zione ed estensione; il fatto più importante da notare è tuttavia che non si trattava più di semplici regiones,
ma di vere e proprie provinciae, in cui Roma inviava un proprio governatore: in altre parole, l’Italia subì un
processo di provincializzazione, che la mise alla stregua delle altre aree dell’Impero e privava le sue comu-
nità di una parte della loro tradizionale autonomia.

Negli stessi anni in cui veniva creata la diocesi Italiciana, l’Italia perdeva anche il suo ultimo privi-
legio: nel riformato sistema fiscale introdotto da Diocleziano anche gli abitanti della penisola vennero sog-
getti al pagamento della tassazione diretta, che gravava in particolare sulla produzione agricola: si trattava
della cosiddetta annona.

La diocesi Italiciana originariamente fece parte, insieme a quell’d’Africa, del territorio soggetto
all’Augusto Massimiano. Questi, per essere più vicino
alla frontiera danubiana, che era il punto nevralgico
della sua parte di Impero, scelse come propria sede
Mediolanum, l’odierna Milano, facendone in pratica la
capitale dell’Occidente. Certo Roma rimaneva il centro
ideale e spirituale dell’Impero, oltre che la sede del Se-
nato e delle vecchie magistrature repubblicane: co-
munque la scelta di Massimiano diede avvio a quel
dualismo tra le “due capitali” d’Italia ch ancora oggi
non ci ha abbandonato. A figura 10 è riportato uno dei
Figura 10: le colonne romane antistanti la basilica
di S. Lorenzo, a Milano
163
pochi resti della città romana di Milano ancora oggi visibile, il colonnato che sorge davanti alla chiesa paleo-
cristiana di S. Lorenzo.

3. L’opera di Costantino

Coerentemente con quanto aveva annunciato,


Diocleziano abdicò nel 305 d.C., ventesimo anniversario
della sua accessione al trono, inducendo a fare altrettan-
to un riluttante Massimiano; il meccanismo della tetrar-
chia sembrò in un primo momento funzionare, ma le sue
debolezze e contraddizioni esplosero alla morte
dell’Augusto Costanzo Cloro, nel 306 d.C., davanti alle
pretese del figlio dello stesso Costanzo Cloro, Costanti-
no, e del figlio di Massimiano, Massenzio, che si ri-
chiamavano al principio dinastico contro il complicato
meccanismo della Tetrarchia. Nonostante gli sforzi
dell’Augusto anziano, Galerio, e dello stesso Dioclezia-
no, che abbandonò per qualche tempo la sua dorata pen-
sione nel palazzo di Spalato per cercare di ricomporre i
contrasti, la soluzione venne dalle armi: i numerosi Au-
gusti e Cesari del periodo si eliminarono gli uni con gli
altri, finché non ne rimasero che due: Costantino in Oc-
cidente e Licinio Liciniano in Oriente; nel 324 d.C. tra i
due si ebbe uno scontro ad Adrianopoli, nella penisola
Figura 11: ritratto colossale di Costantino, Musei
Capitolini, Roma balcanica, dal quale emerse finalmente come vincitore e
unico padrone dell’Impero Costantino (a figura 11 un
celebre busto colossale di questo imperatore).

Costantino stravolge il senso di molti degli indirizzi politici di Diocleziano: insieme alla sua opera di
smantellamento del sistema tetrarchico dobbiamo ricordare almeno la sua netta opposizione rispetto alla poli-
tica religiosa del predecessore. Diocleziano aveva tentato di dare una coesione ideologica allo stato rivitaliz-
zando i tradizionali culti pagani e in particolare il culto dell’imperatore vivente; questo tentativo si era peral-
tro risolto soprattutto in una violenta persecuzione dei Cristiani, ormai molto numerosi nell’Impero e so-
prattutto decisi a non scendere ad alcun compromesso nel conservare un’esclusiva devozione nei confronti
del loro Dio. L’attività anticristiana ebbe durata e intensità diverse nelle differenti sezioni della Tetrarchia: in
Occidente, soprattutto nelle regioni sottoposte al governo di Costanzo Cloro, essa fu piuttosto mite cessò
quasi subito; in Oriente, invece, fu cruenta e durò diversi anni.

Anche Costantino si era reso conto dell’importanza della religione come fattore di unificazione
dell’Impero, ma a suo parere solo il Cristianesimo, piuttosto che i culti pagani del passato, che ormai non ri-
spondevano più alla sensibilità e allo spirito dei tempi, poteva assolvere a questa funzione: se Costantino ab-
bia maturato questa convinzione spinto da un’autentica fede nel Dio cristiano o semplicemente per cinico
calcolo politico è questione dibattuta fin dall’Antichità ma probabilmente non risolvibile (e forse nemmeno
molto interessante da un punto di vista strettamente storico). In ogni caso Costantino, che negli anni della
gioventù aveva manifestato le sue simpatie per il culto monoteistico del dio Sole, scoprì le sue carte alla vigi-
lia dello scontro decisivo con il suo rivale in Occidente, Massenzio, nel 312 d.C.: la notte precedente la bat-
taglia di ponte Milvio, alle porte di Roma, Costantino asserì di aver ricevuto in sogno l’ordine di porre sugli

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scudi dei suoi soldati il monogramma con le lettere greche XP (chi e rho), iniziali del nome Christos e che
quel segno gli avrebbe assicurato la vittoria. Il racconto più antico di questo famoso episodio si trova
nell’autore cristiano Lattanzio:

Lattanzio, La morte dei persecutori, 44, 3-5: il Cristogramma a Ponte Milvio


Ebbe luogo un combattimento in cui le truppe di Massenzio ebbero la meglio, sino a che Co-
stantino, in una seconda fase, ripreso coraggio e pronto o per la vittoria o per la morte, avvicinò
tutte le sue forze a Roma e prese posizione nella zona del ponte Milvio [...]. Costantino fu esor-
tato in sogno a far contrassegnare gli scudi dei suoi soldati con i segni celesti di Dio e a iniziare
quindi la battaglia. Egli fece così e, girando e piegando su se stessa la punta superiore della let-
tera chi, scrisse in forma abbreviata “Cristo” sugli scudi.

Il trionfo di ponte Milvio fu quindi anche il trionfo del Dio cristiano. Costantino perseguì coerente-
mente questa politica nell’anno successivo, quando, incontratosi a Milano con il suo collega d’Oriente Lici-
nio, fece emanare il cosiddetto “editto di Milano”, con il quale le persecuzioni contro i Cristiani dovevano
ufficialmente cessare e la religione venuta dalla Palestina acquisiva diritto e dignità di essere praticata pub-
blicamente.

Con la decisione di Milano il Cristianesimo divenne reli-


gione ammessa dallo stato, non religione di stato: ma Costantino ma-
nifestò chiaramente il suo favore nei confronti del nuovo culto, in
primo luogo sostenendone le iniziative edilizie: dopo anni in cui i
Cristiani avevano dovuto riunirsi in modo clandestino, con il 313
d.C. si manifestò la necessità di edifici in cui praticare pubblicamente
i propri riti. I Cristiani si orientarono verso la trasformazione in luo-
go religioso di un tradizionale edificio civile dell’architettura roma-
na, la basilica. Le città dell’Impero, prime tra tutte quelle dell’Italia,
iniziarono dunque a mutare il loro volto urbanistico in senso cristia-
no, con la costruzione di basiliche cattedrali, in cui si trovava cioè la
cattedra del vescovo, il capo della Chiesa locale, e di altri luoghi di
culto. Costantino e sua madre Elena, donna assai devota, diedero
spesso il loro sostegno economico a queste iniziative, come gli impe-
Figura 12: la basilica di S. Ambrogio a ratori del passato avevano di frequente finanziato costruzioni e re-
Milano stauri di opere pubbliche nei municipi dell’Italia romana. Tra gli e-
sempi di queste nuove costruzioni, anche se posteriore di qualche de-
cennio all’impero di Costantino, possiamo ricordare la basilica di S. Ambrogio a Milano (figura 12).

Costantino rivelò inoltre un profondo interesse per le questioni interne della Chiesa, preoccupato so-
prattutto di conservarne l’unità, minacciata da eresie e scismi. Era un comportamento perfettamente coerente:
se Costantino vedeva nella religione cristiana uno degli elementi che potevano rafforzare la coesione
dell’Impero non poteva tollerare che la Chiesa stessa fosse dilaniata da divisioni che potevano ripercuotersi,
oltre che nell’ambito religioso, anche nella sfera civile. Una chiara dimostrazione di questo atteggiamento si
ebbe nel 325 d.C. quando Costantino convocò e presiedette personalmente a Nicea un Concilio che intendeva
superare la controversia ariana, che prendeva il nome da Ario, un sacerdote che negava la natura divina di
Cristo. Nonostante gli sforzi di Costantino, non fu possibile comporre il dissidio tra Ario e i suoi avversari: la
dottrina ariana venne condannata come eretica, creando future che, come vedremo, saranno piuttosto gravi e
inaugurando una pericolosa commistione tra politica e religione, tra Stato e Chiesa.

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Rammentiamo infine brevemente che Costantino fu il fondatore della nuova capitale del mondo ro-
mano, Costantinopoli, sul sito della vecchia città greca di Bisanzio (e dell’odierna Istanbul). Tra le motiva-
zioni che spinsero l’imperatore a questa impegnativa impresa vi fu probabilmente anche la volontà di elegge-
re come propria residenza una città completamente nuova, che non fosse intaccata dalle tradizioni pagane;
ma dovette essere prevalente nella decisione l’importanza strategica del sito di Costantinopoli, facilmente
difendibile perché circondata su tre lati dal mare e favorevolmente collocato tra Mar Nero e Mediterraneo. La
scelta di porre la nuova sede dell’imperatore sulle rive del Bosforo piuttosto che su quelle del Tevere manife-
sta inoltre il ruolo sempre più importante che dal punto di vista economico e militare giocavano le province
orientali, come anche la ormai irreversibile perdita di centralità dell’Italia.

4. L’Italia e il declino dell’Impero

La geniale opera politica di Costantino aveva posto alcune delle premesse per una continuità
dell’idea di Roma che ha pochi paragoni nella storia della civiltà umana, ma non poteva risolvere completa-
mente i problemi concreti dello stato romano del IV sec. d.C. Sulle cause della decadenza dell’Impero ro-
mano ogni generazione di storici ha dato molteplici risposte; del resto, per un evento tanto complesso, non è
possibile proporre un’unica motivazione. Tra le tante cause complesse credo tuttavia sia da rilevare l’enorme
estensione di un territorio che le strutture militari ed economiche dell’Impero alla lunga non potevano soste-
nere e difendere: l’esercito romano del periodo tardoantico toccava e probabilmente superava i 500 mila ef-
fettivi e questa enorme massa di persone (alle quali dobbiamo aggiungere parecchie migliaia di funzionari
che mandavano avanti la macchina burocratica dello stato) dovevano essere alimentate e pagate da un ceto
contadino sempre più in difficoltà, relativamente poco numeroso, in possesso di tecniche agricole piuttosto
primitive, schiacciato sempre più dalle stesse esigenze fiscali dello stato, ostacolato da condizioni di trasporto
tremendamente lente e difficili. Non a caso qualche storico ha dichiarato che la domanda corretta da porsi
non è “perché l’Impero romano è caduto”, ma piuttosto “perché è caduto così tardi”.

Allo stesso tempo le condizioni di vita all’interno dei confini dell’Impero erano incomparabilmente
migliori di quelle esistenti al di fuori di esso: questo dato determinò una crescente pressione delle popola-
zioni esterne, soprattutto appartenenti a stirpi germaniche dell’Europa settentrionale e orientale. Gli esiti tal-
volta traumatici di questa pressione non devono farci dimenticare che in genere i cosiddetti barbari non ave-
vano affatto l’intenzione di distruggere l’Impero romano, ma volevano piuttosto entrarne a far parte. Un po-
tente veicolo di integrazione si rivelò l’esercito: erano forti le difficoltà di reclutamento dell’enorme numero
di soldati che abbiamo visto essere necessario per assicurare le difesa dei confini, anche perché non si poteva
ricorrere in modo troppo massiccio al tradizionale “serbatoio” di reclute del ceto contadino senza danneggia-
re gli interessi fiscali dello stato e senza scontrarsi con la renitenza alle leva degli agricoltori, spesso spalleg-
giati dagli aristocratici nei cui campi lavoravano come coloni. La soluzione naturale era quella di completare
i ranghi dell’esercito ricorrendo a popolazioni esterne all’Impero: questo sistema era stato praticato anche nei
primi secoli dell’Impero, ma divenne sempre più usuale nel IV e V sec. d.C., anche con la differenza qualita-
tiva, rispetto al passato, di un arruolamento non più di singoli individui, ma di intere bande, che continuavano
a combattere sotto i loro capi e mantenevano così una certa coesione etnica che ne rallentava la romanizza-
zione. Secondo una consolidata tradizione dell’esercito romano, anche a questi soldati di origine barbarica
venivano assegnate come ricompensa terre da coltivare: questo fenomeno interessò anche l’Italia, in partico-
lare le regioni settentrionali, nelle quali gli stanziamenti dei soldati germanici che combatterono per l’Impero
hanno lasciato qualche traccia nella toponomastica.

La carriera militare inoltre si rivelò, per gli elementi di spicco appartenenti alle tribù germaniche, un
utile strumento di promozione politica e sociale. Una delle caratteristiche di spicco dell’amministrazione ro-

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mana nell’età della Repubblica e nei primi de secoli dell’Impero era stato quella della commistione tra inca-
richi civili e incarichi militari: una stessa persona, nel corso della sua carriera, poteva alternare il comando di
truppe a funzioni di carattere amministrativo. Nel periodo tardoantico le due carriere erano sostanzialmente
separate: le funzioni amministrative continuarono ad essere appannaggio di persone provenienti dalla vecchia
aristocrazia senatoria romana, mentre nella carriera militare, nella quale più che l’appartenenza a qualche il-
lustre famiglia contavano le effettive capacità, si fecero sempre più strada personaggi di origine barbarica,
che giunsero fino ad occupare il grado di magister militum (“generale”) o magister utriusque militiae (lette-
ralmente “comandante di entrambe le armi”, cioè della fanteria e della cavalleria; il titolo latino viene talvolta
tradotto con il termine “generalissimo”, poiché di fatto designava il comandante supremo dell’esercito).

A complicare la situazione dell’Impero nella seconda metà del IV sec. d.C. intervennero dei fattori
di quello che potremmo definire il quadro geopolitico internazionale: in questa fase infatti, sotto la guida di
alcuni abili comandanti militari, prese forma nelle steppe dell’Ucraina un’entità che esiteremmo a definire
statale, dal momento che era sostanzialmente priva di strutture di governo, ma che poteva contare su un note-
vole potenziale militare: gli Unni. Si è soliti figurarsi gli Unni come una popolazione asiatica, dai caratteri
ben definiti: pare che in realtà si trattasse di un coacervo di persone, in cui erano certamente presenti cavalieri
dell’Asia centrale, che nei loro spostamenti verso Occidente avevano tuttavia raccolto con sé individui di di-
versa origine etnica, iranica e soprattutto germanica.

Alcuni gruppi di Germani, piuttosto che l’assimilazione agli Unni, preferirono rivolgersi all’Impero
romano: così accadde per consistenti gruppi di Goti, che chiesero il permesso di stanziarsi pacificamente nel-
la penisola balcanica. La delicata operazione di trasferimento tuttavia non andò a buon fine e si venne allo
scontro frontale che si combatté nel 378 d.C. ad Adrianopoli, in Tracia: fu un tragica disfatta per l’esercito
romano, paragonata dal grande storico Ammiano Marcellino, coevo agli eventi, a quella di Canne del 216
a.C. contro Annibale:

Ammiano Marcellino, Storie, XXXI, 13: il disastro di Adrianopoli


Al primo scendere delle tenebre l'imperatore [Valente] – così almeno si poteva supporre in
quanto nessuno dichiarò di averlo visto o di essersi trovato presente – cadde tra i soldati colpito
mortalmente da una freccia e subito spirò. Né fu poi visto in alcuna parte. Infatti, a causa di
pochi nemici che per derubare i cadaveri s'aggirarono a lungo in quella zona, nessun fuggitivo
o abitante osò accostarvisi [...]. Risulta che si salvò appena un terzo dell'esercito. Gli annali
non ricordano una disfatta simile a questa, ad eccezione della battaglia di Canne, sebbene i
Romani, tratti in inganno alcune volte dalla Fortuna che spirava avversa, abbiano ceduto per
qualche tempo all'avversità delle guerre e per quanto i leggendari canti funebri dei Greci ab-
biano pianto su molte battaglie.

A differenza di Canne, Roma non seppe riprendersi completamente da questa tragedia, anche per-
ché, come nota Ammiano Marcellino, la maggior parte dei soldati romani erano caduti e lo stesso imperatore
Valente era stato ucciso in battaglia. Il nuovo imperatore Teodosio riconobbe che una soluzione militare al
contrasto con i Goti era impossibile e concluse nel 382 d.C. con loro un trattato, un foedus, che ne faceva ap-
punto dei foederati: in base a questo trattato i Goti potevano stabilirsi nelle province balcaniche, conservando
la propria autonomia e l’esenzione da qualsiasi tributo, ma promettendo in cambio di inviare truppe in aiuto
all’esercito romano.

Teodosio poté validamente contare sul sostegno gotico nel conflitto con il rivale Eugenio, che con-
trollava le province occidentali con il sostegno del generale di origine franca Arbogaste, e riuscì in tal modo
a riunificare per breve tempo l’Impero, nel 395 d.C., ma con il trattato concluso coi Goti aveva in pratica per-
messo che si creasse uno stato germanico autonomo all’interno dei confini dell’Impero. Inoltre il foedus ave-
va acceso un potenziale e pericoloso conflitto religioso: i Goti, come molte altre popolazioni germaniche si

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si erano in effetti convertite al Cristianesimo, ma avevano aderito alle
dottrine ariane predicate dal missionario Wulfila. I rapporti di coabita-
zione tra popolazione romana e popolazione germanica, già piuttosto
tesi, erano complicati ulteriormente dal fatto che i Romani erano cattoli-
ci, i Germani ariani; tra l’altro questo elemento costituiva un ostacolo ai
matrimoni “misti”, che non erano visti con favore dalle gerarchie eccle-
siastiche, proprio a motivo della differenza di confessione. Di questa
tensione si ebbero diversi esempi in questi anni nelle province balcani-
che e nei decenni successivi in Spagna, in Africa e soprattutto in Italia.

Poco dopo il suo trionfo su Eugenio e la riunificazione


dell’Impero, Teodosio morì, lasciando al figlio maggiore Arcadio
l’Oriente, al minore Onorio l’Occidente. Di fatto la divisione tra un
Impero d’Occidente e un Impero d’Oriente si rivelò permanente,
probabilmente al di là delle intenzioni dello stesso Teodosio, che aveva
voluto in qualche modo garantire l’unità dello stato affidando entrambi i
figli, che erano ancora giovanissimi, alla tutela del generalissimo Stili-
cone (a figura 13 un celebre ritratto di questo personaggio, sul dittico in
avorio che ne celebrava il consolato), un valoroso militare di origine
vandala. Arcadio e l’Oriente tuttavia si liberarono presto
Figura 13: dittico in avorio con ri-
dall’ingombrante presenza di Stilicone, che dovette concentrarsi sulla
tratto di Stilicone, Tesoro del Duo-
mo, Monza difesa delle province occidentali.

Qui la situazione si era fatta drammati-


ca, soprattutto a causa dei Goti che, a dispetto
del patto concluso qualche tempo prima con Te-
odosio, si erano rimessi in moto, cercando di
stabilirsi nella stessa Italia, nella quale dilagò il
panico: lo stesso imperatore Onorio abbandonò
l’esposta Milano per rifugiarsi a Ravenna, pro-
tetta dalle paludi che la circondavano, che di-
venne la nuova capitale dell’Impero d’Occidente
(a figura 14 uno dei monumenti più famosi della
Ravenna tardoantica, il mausoleo della sorella di
Figura 14: il mausoleo di Galla Placidia a Ravenna Onorio, Galla Placidia, fatto costruire verso il
430 d.C.). La popolazione gotica appare ora di-
visa in due gruppi ben distinti: i Visigoti (“Goti
occidentali”) su cui regnava Alarico, e gli Ostrogoti (“Goti orientali”), guidati da Radagaiso. Stilicone riuscì
a sconfiggere e respingere sia i Visigoti che gli Ostrogoti, ma non poté far nulla per difendere la Gallia e la
Britannia, le cui guarnigioni erano state indebolite a causa di una usurpazione e dalla necessità di concentrare
le truppe in Italia: mentre gli eserciti romani si ritiravano definitivamente dalla Britannia, ampie parti della
Gallia cadevano nelle mani di popolazioni germaniche quali i Burgundi e i Franchi; Vandali e Suebi, dopo
aver attraversato le regioni dell’attuale Francia, attarversarono i Pirenei e si stabilirono in Spagna.

Davanti a questo disastro, Stilicone cercò un’intesa almeno con i Visigoti di Alarico, che continua-
vano a costituire la principale minaccia per l’Italia; ma negli ambienti della corte di Ravenna questa realistica
politica venne considerata un tradimento del barbaro Stilicone in favore dei barbari Visigoti: lo stesso Onorio
si schierò contro il suo tutore e lo fece mettere a morte nel 408 d.C. Era un errore gravissimo e Onorio se ne

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rese conto dopo poco: prendendo a pretesto l’eliminazione dell’amico Stilicone, Alarico invase nuovamente
l’Italia e questa volta l’esercito romano, privato della sua guida non poté opporre alcuna resistenza. Dopo un
breve assedio, la stessa Roma venne presa e saccheggiata dai Visigoti nel 410 d.C., 800 anni dopo il sacco
gallico del 390 a.C. Questo avvenimento epocale causò un’enorme impressione in tutto l’Impero, come atte-
sta una lettera di S. Gerolamo, il grande Padre della Chiesa, che in quel momento si trovava a Gerusalemme e
che descrive la caduta di Roma con accenti decisamente macabri:

Gerolamo, Epistole, 127: la disperazione per il sacco di Roma


Dall'Occidente ci giunge la terribile notizia che Roma viene assediata, che si compra a peso
d'oro l’incolumità dei cittadini, ma che dopo queste estorsioni riprende l'assedio: a quelli che
già sono stati privati dei beni si vuol togliere anche la vita. Mi viene a mancare la voce, il pian-
to mi impedisce di dettare. La città che ha conquistato il mondo è conquistata: anzi cade per
fame prima ancora che per l'impeto delle armi, tanto che a stento vi si trova qualcuno da pren-
dere prigioniero. La fame disperata fa sì che ci si getti su cibi nefandi: gli affamati si sbranano
l'uno con l'altro, perfino la madre non risparmia il figlio lattante e inghiotte nel suo ventre ciò
che ha appena partorito.

Dopo la presa di Roma Alarico si diresse verso l’Italia meridionale, trovando improvvisamente la
morte in Calabria (la leggenda vuole che egli sia stato sepolto, insieme al suo favoloso tesoro, sotto il letto
del fiume Busento). I Visigoti, guidati dal nuovo re Ataulfo, sebbene avessero l’Italia alla loro mercé, preferi-
rono ritirarsi nella Gallia meridionale, dove fondarono un regno che aveva come capitale Tolosa e che ben
presto si estese anche alla Spagna settentrionale. Onorio tirò un sospiro di sollievo e raggiunse un intesa con
Ataulfo, dandogli in sposa la sorella Gallia Placidia. La linea politica di Ataulfo, così come viene esposta dal-
lo storico Paolo Orosio, contemporaneo a quegli eventi, è molto significativa del fascino che Roma esercita-
va sui capi germanici e della loro convinzione che la civiltà romana non potesse e non dovesse essere distrut-
ta:

Orosio, Storie contro i pagani, VII, 43: i Germani e l’idea di Roma


[Ataulfo] soleva raccontare di aver dapprima ardentemente bramato di cancellare il nome ro-
mano, di fare di tutto il territorio l'impero dei Goti o – per usare un'espressione popolare – che
fosse Gotia ciò ch'era stato Romania, e d'essere lui, Ataulfo, nel suo tempo quello che un tem-
po era stato Cesare Augusto. Ma che, convintosi per lunga esperienza che né i Goti potevano in
alcun modo ubbidire alle leggi, a motivo della loro sfrenata barbarie, né era opportuno abroga-
re le leggi dello stato, senza le quali lo stato non è stato, scelse di procacciarsi con le forze dei
Goti almeno la gloria di restaurare nella sua integrità, anzi di accrescere, il nome romano e
d'essere stimato presso i posteri restauratore dell'impero di Roma, dal momento che non aveva
potuto trasformarlo.

Alla morte di Ataulfo Gallia Placidia, che aveva una personalità politica assai più spiccata di quella
del timoroso Onorio, sposò il generale Flavio Costanzo: dal matrimonio nacque l’erede all’Impero, Valenti-
niano III. Valentiniano III assurse al trono di Ravenna nel 425 d.C., alla morte dello zio Onorio: aveva allora
appena 6 anni e le redini del governo durante il suo lunghissimo regno (fino al 455 d.C.) furono tenute dalla
madre Galla Placidia e dai generalissimi dell’esercito, tra i quali si distinse Flavio Ezio. La situazione in poli-
tica estera si faceva sempre più grave. Durante il regno di Valentiniano l’Impero d’Occidente perse anche le
province africane, che finora erano rimaste relativamente indenni da invasioni e che erano fondamentali so-
prattutto dal punto di vista economico e dell’approvvigionamento granario di Roma e delle altre grandi città
dell’Italia: infatti nel 429 d.C. i Vandali, chiamati dal comandante romano Bonifacio, che era in contrasto
con Ezio, passarono dalla Spagna in Africa, dove, contrariamente ai patti stabiliti, conquistarono Cartagine e
crearono un proprio regno in quella che era stata la vecchia provincia d’Africa proconsolare. Ezio cercò di
salvare il salvabile usando contro i barbari i barbari stessi: già nel 435 d.C. si ingraziò il favore degli Unni

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assegnando loro terre in Pannonia, per poi invitarli ad attaccare i Burgundi. Quando poi nel 451 d.C., sotto la
guida dell’ambizioso Attila, gli Unni attaccarono la Gallia, Ezio riuscì a mettere in piedi una vasta coalizione
di popoli germanici che riuscì a sconfiggere gli Unni nella battaglia dei Campi Catalaunici, nella Francia
settentrionale. Gli Unni erano stati fermati, ma non certo sconfitti definitivamente: nell’anno seguente si pre-
sentarono nella pianura padana, senza che Ezio potesse fare molto per bloccarli: ma a seguito di un colloquio
sul fiume Mincio con il papa Leone I, Attila decise sorprendentemente di abbandonare l’Italia. L’evento fece
gridare al miracolo: e indubbiamente, anche se nella decisione di Attila può aver giocato il fatto che egli si
sentiva minacciato alle spalle dalle forze dell’Impero d’Oriente, l’episodio è significativo annuncio del basi-
lare ruolo politico che il pontefice di Roma avrebbe esercitato per molti secoli a venire in Italia. Negli anni
seguenti vennero a mancare i due grandi protagonisti dell’epoca: Attila scomparve per morte naturale nel 453
d.C. e la coalizione unna, che la sua personalità aveva tenuto insieme, in pratica si dissolse; nel 454 d.C. Ezio
fu eliminato da Valentiniano III, in una vicenda che ricorda molto da vicino quella che aveva opposto Stili-
cone a Onorio.

Eliminato Valentiniano III da una congiura nel 455


d.C. alla testa dell’Impero d’Occidente (che ormai era limita-
to dal punto di vista territoriale all’Italia e ad alcune regioni
della Gallia meridionale e si trovava sotto la costante minac-
cia dei Vandali, che arrivarono anche a saccheggiare per la
seconda volta Roma) si succedono una serie di deboli figure.
Il vero potere era nelle mani dei generalissimi di origine
germanica, tra i quali spicca Flavio Ricimero, uno suebo-
visigoto che fu il vero padrone dell’Impero tra il 456 e il 472.
Nel 474 d.C. il nuovo generalissimo Oreste proclamò impera-
tore il figlioletto Romolo, detto Augustulus (“il piccolo Au-
gusto”, in effetti era solo un ragazzino, vd. figura 15). Nel
Figura 15: un ritratto monetale di Romolo Au- 476 d.C. la farsa ebbe fine: Oreste rifiutò di concedere terre
gustolo, ultimo imperatore d’Occidente ad un contingente germanico dell’esercito romano, comanda-
to da Odoacre; Odoacre dunque eliminò Oreste e depose Ro-
molo Augustolo. Tuttavia, invece di impadronirsi del titolo di generalissimo e nominare un nuovo imperatore
fantoccio, come tutti si attendevano, Odoacre decise di rinviare le insegne imperiali a Zenone, l’Augusto
d’Oriente, dichiarandosi disposto a governare l’Italia a suo nome. Il 476 d.C. è considerato un anno chiave e,
in particolare nella storiografia italiana, segna la cesura tra storia antica e medievale. In effetti i contem-
poranei non ignorarono l’importanza del gesto di Odoacre, mentre altri autori, come lo storico bizantino
Malco di Filadelfia, registrarono l’evento non toni piuttosto distaccati:

Malco di Filadelfia, Storia bizantina, frammento 10 Müller: la caduta “senza rumore”


dell’Impero d’Occidente
[Romolo Augustolo] indusse il senato ad inviare un'ambasceria a Zenone per comunicargli che
per i senatori non ci sarebbe stato più bisogno di un Impero a se stante in Occidente, perché sa-
rebbe bastato un solo imperatore in comune per le entrambe le parti. Gli si doveva comunicare,
infatti, che dagli stessi senatori Odoacre, dotato com'era di intelligenza politica e insieme mili-
tare, era stato riconosciuto idoneo a preservare il governo degli affari pubblici nelle loro mani;
si chiedeva perciò a Zenone il conferimento a Odoacre della dignità di patrizio e del governo
della diocesi italiciana.

170
5. La fine dell’unità dell’Italia

Nonostante i notevoli elementi di continuità a livello sociale, economico, istituzionale e culturale, il


476 d.C. segna in effetti un forte stacco dal punto di vista politico, anche perché Odoacre, nonostante le ini-
ziali e rassicuranti promesse all’imperatore d’Occidente, si comportò poi in modo assolutamente indipenden-
te da Costantinopoli, arrivando anche a proclamarsi rex Italiae. L’imperatore d’Oriente Zenone decise dun-
que di inviare in Italia, contro Odoacre, gli Ostrogoti, che allora erano stanziati in Pannonia ed erano guidati
da un giovane e capace principe, Teoderico: questa mossa consentiva in un colpo solo di liberarsi
dall’ingombrante presenza ostrogota nella penisola balcanica e di eliminare il riottoso rex Italiae, sostituen-
dolo con quello che si pensava fosse il più malleabile Teoderico (che in effetti era cresciuto alla corte di Co-
stantinopoli). Il capo ostrogoto riuscì ad eliminare abbastanza rapidamente Odoacre, assumendo a sua volta il
titolo di re d’Italia e stabilendo la sua corte a Ravenna (493 d.C.).

L’Italia di Teoderico, che regnò fino al 526 d.C., fu una regione relativamente pacifica e prospe-
ra: il re ostrogoto riuscì a mantenere buoni rapporti con l’Impero d’Oriente, di cui riconobbe la teorica su-
premazia; in realtà condusse una politica estera del tutto autonoma da Costantinopoli; in particolare Teoderi-
co riuscì a imporre il suo prestigio sugli altri regni romano-germanici che si erano nel frattempo formati sulle
spoglie dell’Impero d’Occidente (tra i più importanti ricordiamo il regno dei Franchi nella Gallia settentrio-
nale, quello dei Visigoti tra Gallia meridionale e Spagna, quello dei Vandali nell’Africa settentrionale, vd.
figura 16).

Figura 16: i regni romano-germanici agli inizi del VI sec. d.C.

171
In politica interna Teoderico si presentò piuttosto che come un vassallo dell’Impero d’Oriente, come
l’erede degli Augusti romani, a partire dal suo titolo ufficiale di Flavius Theodericus rex, ma anche con
l’allestimento dei tradizionali giochi del circo e dell’anfiteatro e il restauro dei monumenti della classicità e
delle strade dell’Italia. Ce ne fornisce prova un’iscrizione latina relativa ad un restauro della via Appia, in un
tratto, detto Decennovio, che attraversava la pianura Pontina, a sud di Roma e che era soggetto a impaluda-
menti:

Corpus Inscriptionum Latinarum X, 6850: Teoderico restaura la via Appia


Il nostro signore, il gloriosissimo e inclito re Teoderico, vincitore e trionfatore sempre Augu-
sto, nato per il bene della cosa pubblica, custode della libertà e propagatore del nome romano,
soggiogatore di popoli, ha restituito all'uso pubblico e alla sicurezza dei viaggiatori, con ammi-
revole successo, grazie al favore divino, la strada del Decennovio della via Appia, cioè il tratto
che va da Treponti a Terracina, e i luoghi che sotto tutti i precedenti principi erano sommersi
dalle paludi che vi confluivano da entrambe le parti; impegnandosi attivamente nell'opera asse-
gnatagli e ottemperando felicemente ai proclami del clementissimo principe, il rampollo della
specie dei Deci, Cecina Mavorzio Basilio Decio, uomo clarissimo e illustre, già prefetto del-
l'urbe, già prefetto al pretorio, già console ordinario, patrizio, che per perpetuare la gloria di un
così gran signore, deviata in mare l'acqua per mezzo di innumerevoli canali prima inesistenti, li
riportò a una condizione asciutta, ignota agli avi perché troppo antica.

Nell’iscrizione sono da notare titoli victor ac triumfator semper Augustus (“vincitore e trionfatore,
sempre Augusto”) e bono rei publicae natus (“nato per il bene della cosa pubblica”), che riprendono epiteti
caratteristici degli imperatori tardoantichi e pongono dunque Teoderico in una linea di continuità con i vecchi
Augusti. Notevole anche il fatto che l’effettivo curatore dell’opera era un aristocratico romano, Cecina Ma-
vorzio Basilio Decio, a testimonianza del fatto che il re ostrogoto poté contare, almeno per buona parte del
suo governo, sulla pronta collaborazione della vecchia nobiltà italica.

Proprio sul fronte interno il problema più delicato che il nuovo re dovette affrontare fu quello dello
stanziamento dei suoi Ostrogoti in Italia: si calcola che in totale i Germani che si stabilirono in Italia fossero
circa 100-125 mila, una debole minoranza rispetto alla popolazione romana. Gli Ostrogoti, secondo un vec-
chio istituto giuridico che prendeva il nome di hospitalitas, ebbero diritto ad un terzo delle terre dell’Italia;
secondo alcuni studiosi in realtà i Germani si accontentarono di incassare un terzo delle imposte sulla produ-
zione dei campi, che continuarono a essere lavorati dalla vecchia popolazione romana; in ogni caso lo stan-
ziamento avvenne in forme pacifiche. Gli Ostrogoti erano presenti soprattutto nella fascia prealpina, nella
pianura padana (dove si trovava la loro seconda capitale, dopo Ravenna, Ticinum, l’odierna Pavia),
nell’Umbria e nelle Marche. Nell’Italia meridionale erano presenti solo sparse guarnigioni gotiche nelle città
principali.

Saggiamente Teoderico lasciò intatto l’ordinamento amministrativo e burocratico dell’età romana,


limitandosi a collocare Ostrogoti nei posti chiave di carattere militare. Questa politica portò, più che una fu-
sione tra i due elementi etnici dell’Italia di allora, a una sorta di dualismo: dal punto di vista amministrativo,
se l’amministrazione civile era nelle mani dei Romani, quella militare era controllata da Ostrogoti; dal punto
di vista giudiziario sappiamo dell’esistenza di tribunali distinti per Romani e Ostrogoti, che giudicavano le
cause secondo codici legislativi differenti; infine dal punto di vista religioso, con chiese e gerarchie ecclesia-
stiche differenti per i Romani cattolici e gli Ostrogoti ariani. con tribunali e diritti diversi per i due elementi).
Questo dualismo, pur con tutti i suoi limiti, riuscì tutto sommato ad assicurare una pacifica convivenza tra i
due elementi etnici. Si sofferma sull’armonia che doveva regnare in ambito giudiziario tra Ostrogoti e Roma-
ni e sulla particolare forma di amministrazione delle giustizia (che prevedeva corti distinte a seconda
dell’etnia di appartenenza dei litiganti) il passo seguente, tratto dalle Varie di Cassiodoro: questo raffinato
letterato, originario di Scolacium (l’odierna Squillace) fu un ministro delle corte di Teoderico, che spesso se

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ne servì per redigere le sue disposizioni; Cassiodoro poi, una volta ritiratosi della vita politica (egli abbracciò
la vita monastica e fondò un monastero a Vivarium, nei pressi di Squillace, che divenne un centro importan-
tissimo per lo studio e la trasmissione della letteratura antica), raccolse appunto nelle Varie le lettere e i
provvedimenti che egli aveva scritto per conto dei re ostrogoti. Il passo seguente è sostanzialmente un model-
lo di lettera che Cassiodoro aveva predisposto per la popolazione romana di una provincia del regno in occa-
sione dell’invio di un funzionario, detto comes, che avrebbe dovuto giudicare le cause tra Goti:

Cassiodoro, Varie, VII, 3: la convivenza tra Romani e Goti


Poiché sappiamo che, con l'aiuto di Dio, i Goti vivono commisti a voi, affinché non nascano li-
ti tra vicini, come spesso accade, abbiamo ritenuto necessario inviarvi, in qualità di comes, un
uomo esimio, a noi ben noto per gli specchiati costumi di vita. Egli dovrà decidere, secondo i
nostri editti, delle controversie che insorgono tra due Goti. Nel caso che nascano questioni tra
un Goto e un Romano egli, associatosi un Romano esperto di diritto, risolverà la contesa in spi-
rito di equità. In caso di lite tra due Romani, la causa sarà discussa davanti a quei giudici Ro-
mani che noi mandiamo nelle province perché sia fatta giustizia ad ognuno e, pur nella diversi-
tà dei giudici, una sola giustizia tutti abbracci. Così, se Dio ci assiste, entrambi i popoli go-
dranno in pace di una vita serena.

Fu proprio in ambito religioso che, negli ultimi anni del regno di Teoderico, si manifestarono alcuni
scricchiolii nel suo edificio politico: a il re ostrogoto era riuscito a mantenere buoni rapporti con la gerarchia
cattolica, mantenendo grande equilibrio anche quando venne coinvolto nelle dispute interne della Chiesa di
Roma. Questo atteggiamento iniziò a venir meno quando l’Impero d’Oriente manifestò apertamente la pro-
pria ostilità nei confronti del credo ariano, scatenando vere e proprie persecuzioni. La tensione religiosa
crebbe di conseguenza anche in Italia, sfociando in episodi clamorosi, come l’imprigionamento di papa Gio-
vanni I da parte di Teoderico.

Ma questo non era che un sintomo del fallimento dell’esperimento di convivenza tra Romani e O-
strogoti, una fallimento che è testimoniato anche dalle uccisioni di Simmaco e Boezio, due tra i principali
collaboratori romani di Teoderico. Tra le cause dell’esito negativo della politica di Teoderico vanno ricordati
fattori di ordine sociale interno, in particolare la crescente ostilità che opponeva la vecchia aristocrazia roma-
na, ancora ricchissima e potente, ai ceti emergenti ostrogoti, che si facevano forti della loro posizione
nell’esercito; ma vi erano anche motivazioni di carattere internazionale, soprattutto l’ascesa del regno dei
Franchi sotto la guida di Clodoveo, che tolse a Teoderico la leadership dell’Occidente, e la crescente ostilità
dell’Impero d’Oriente, verso il quale la nobiltà di origine romana iniziò a guardare con speranza.

La tensione tra il regno ostrogoto d’Italia e l’impero d’Oriente crebbe dopo la morte di Teoderico
nel 526 d.C., nonostante il tentativi di mediazione della regina Amalasunta, figlia del defunto re. L’uccisione
di Amalasunta da parte del marito Teodato, nuovo re degli Ostrogoti, diede al nuovo imperatore d’Oriente, il
famoso Giustiniano, il pretesto per intervenire in Italia. La campagna del resto si inseriva nel grandioso pro-
getto giustinianeo di restaurazione dell’Impero romano nei suoi vecchi confini, che già aveva portato alla ri-
conquista dell’Africa settentrionale, dove i Vandali erano stati annientati, e della Spagna meridionale, strap-
pata ai Visigoti. La guerra in Italia, iniziata nel 535 d.C., sembrava dovesse concludersi presto come una spe-
cie di passeggiata militare: in realtà si prolungò almeno fino al 553 d.C., per la tenace resistenza degli Ostro-
goti. In questo ventennio l’Italia fu percorsa più volte dagli eserciti bizantino e goto, con confische e le di-
struzioni provocarono danni materiali gravissimi, che misero in ginocchio la regione dal punto di vista eco-
nomico e demografico. Questa disastrosa situazione è bene messa in luce da Procopio, il grande storico delle
guerre di Giustiniano:

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Procopio di Cesarea, Guerra gotica, II, 20: l’Italia ai tempi della guerra gotica
L'anno avanzava verso l'estate, e già il grano cresceva spontaneamente anche se però non nella
stessa quantità che in passato, ma assai meno. Infatti, non essendo stato interrato nei solchi con
l'aratro, né con mano d'uomo, era rimasto in superficie e la terra non poté fecondarne che una
piccola parte. Non essendovi poi nessuno che lo mietesse, arrivato a maturità cadde a terra e
niente poi ne nacque. La stessa cosa avvenne anche in Emilia, così che la gente di quelle locali-
tà, lasciate le loro case, si recarono nel Piceno pensando che quella regione, essendo sul mare,
non dovesse essere del tutto afflitta dalla carestia. Altrettanto afflitti dalla fame per la stessa ra-
gione furono i Toscani: tra loro quanti abitavano in montagna, macinando ghiande di quercia
come grano, ne facevano del pane da mangiare. Com'era naturale, la maggior parte era colta da
malattie di ogni tipo e solo pochi erano quelli che riuscivano a sopravvivere.

L’Italia non fece nemmeno in tempo a riaversi dai gravi danni subiti in questa guerra prima che si
abbattesse un nuovo disastro: l’invasione dei Longobardi. Era questa una popolazione germanica, originaria
della Scandinavia meridionale, che si era mossa più tardi rispetto alle altre tribù della stessa etnia. Alla metà
del VI sec. d.C. i Longobardi erano stanziati in Pannonia e molti di loro avevano combattuto contro i Goti
nelle fila dell’esercito bizantino. Pochi anni dopo la conclusione di quel conflitto, nel 569 d.C., i Longobardi
decisero di trasferirsi in massa in Italia, anche perché premuti alle spalle da una popolazione affine agli Unni,
gli Avari. Guidati dal re Alboino, i Longobardi travolsero le deboli difese bizantine, ma questa nuova inva-
sione portò al collasso le strutture dell’Italia antica, già duramente provate dopo la guerra gotica. Un testimo-
ne oculare di quei tempi, papa Gregorio Magno, intravvede addirittura nella rovina di quei giorni i segni della
fine del mondo:

Gregorio Magno, Dialoghi, III, 38:


la fine del mondo
Le città sono spopolate, le fortezze di-
strutte, le chiese bruciate, i conventi
sia maschili che femminili sono abbat-
tuti, deserte le campagne e abbandona-
te da coloro che le potevano coltivare,
solitaria e vuota è la terra che nessun
proprietario abita più, e bestie feroci si
sono insediate nei luoghi dove prima
abitavano numerosi uomini. Non so
quello che accadde in altre parti del
mondo. Comunque, in questo paese in
cui viviamo la fine del mondo non so-
lo si annuncia, ma si mostra.

I Longobardi tuttavia, a causa della


loro carente organizzazione politico-militare
(combattevano infatti per bande, agli ordini di
duchi che conservavano una notevole indi-
pendenza da re), non riuscirono a coordinare
e propri sforzi e non furono quindi in grado di
conquistare l’intera Italia. La penisola si tro-
vò così divisa in due stati, ostili tra di loro: da Figura 14: l’Italia longobarda e bizantina
un lato il regno longobardo (con capitale Pa-
via) che controllava in particolare l’Italia settentrionale, tranne le regioni costiere, la Toscana, parte
dell’Umbria, come anche alcune aree delle odierne regioni dell’Abruzzo, del Molise, della Campania e della
Lucania; la coesione del regno era peraltro minata dalla gelosa autonomia che i singoli duchi si riservarono

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contro il potere centrale del sovrano; dall’altro quanto rimaneva del dominio bizantino (il cui centro principa-
le rimase la vecchia capitale dell’Impero d’Occidente, Ravenna), sostanzialmente limitato alla fascia costiera
della Liguria, del Veneto, alla Romagna e alle Marche, al Lazio (dove tuttavia il papa stava acquisendo un
sempre maggiore potere anche dal punto di vista politico e dell’amministrazione civile, a dispetto dei funzio-
nari bizantini), alle città della costa campana, oltre che su buona parte del Mezzogiorno e sulle isole (vd. fi-
gura 17)

Con la fine dell’unità politica della penisola si può dire che si compia la parabola storica dell’Italia
antica: i risultati del lungo processo di unificazione che si era avviato nel segno di Roma nel V sec. a.C. era-
no ormai vanificati. In questo senso è giusto affermare che per l’Italia l’età antica si chiude e quella me-
dievale si apre veramente solo con la conquista longobarda.

6. Per saperne di più

• H. Brandt, L'epoca tardoantica, Bologna 2005.

• A. Cameron, Il tardo impero romano, Bologna 1995 [BAU 937.09 S 5].

• L. Cracco Ruggini, Economia e società nell' "Italia annonaria". Rapporti tra agricoltura e commercio
dal IV al VI secolo d.C., Bari 19952 [BAU 338.1 SIT A/1].

• A. Giardina, La formazione dell’Italia provinciale, «Storia di Roma, III, L’età tardoantica, 1, Crisi e
trasformazioni», a cura di A. Carandini – L. Cracco Ruggini – A. Giardina, Torino 1993, pp. 51-68
[BAU STO/D 937 STO 3/1].

• A. Marcone, Costantino il Grande, Roma - Bari 2000 [BAU 937.08 B COS B/6].

• A. Marcone, Il mondo tardoantico. Antologia delle fonti, Roma 2000 [BAU 937.08 F 1].

• C. Pavolini, Le città dell’Italia suburbicaria, «Storia di Roma, III, L’età tardoantica, 2, I luoghi e le cul-
ture», a cura di A. Carandini – L. Cracco Ruggini – A. Giardina, Torino 1993, pp. 177-198 [BAU
STO/D 937 STO 3/2].

• F. Rebecchi, Le città dell’Italia annonaria, , «Storia di Roma, III, L’età tardoantica, 2, I luoghi e le cul-
ture», a cura di A. Carandini – L. Cracco Ruggini – A. Giardina, Torino 1993, pp. 199-227 [BAU
STO/D 937 STO 3/2].

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