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I fili d’erba mossi dal vento avevano cominciato ad assumere un andamento regolare, omogeneo, e la

loro figura sinuosa aveva assunto i tratti del danzatore ripiegato su sé stesso. Parevano, tutti insieme,
come respirare quell’aria salmastra, dalla quale venivano scossi in ogni dove, chinandosi ora ad
indicare il promontorio sotto il quale il mare sopiva, ora un albero vicino al quale due massi
sembravano aver segnato la fine del mondo. Il suo branco era affamato ed irrequieto, le femmine
avevano perso molte energie ad allattare i piccoli e non sarebbero potute stare all’erta come
avrebbero dovuto per gli attacchi dei predatori. I due gregari che aveva inviato oltre la catena
montuosa a cercare cibo non avevano ancora fatto ritorno. Per la prima volta da quando era diventato
capobranco, avvertì il morso freddo della paura.
La lotta contro il suo rivale era stata più semplice del previsto: si trattava di un maschio certamente
forte e robusto, ma ormai vecchio e stanco, e la prima cosa che avvertì durante la carica fu che non
avrebbe avuto la meglio con il fare affidamento solo sulla forza bruta, perché il suo avversario era ben
più prestante di lui. Occorreva sfinirlo, facendolo caricare molte volte a vuoto cercando così di fargli
scoprire il fianco, e così avvenne. Quando i suoi palchi, cresciuti sotto la luna nuova, avevano trafitto
le carni del suo rivale, più che una vittoria percepì una conferma, sottile e rassicurante, di essere
diventato ciò che era nato per essere. Ma ciò che il potere portava con sé erano anche responsabilità,
e adesso, in quella notte sul promontorio, egli era chiamato ad affrontarle.
Si trovò a lungo a meditare davanti alla luna, cercando consiglio nelle onde del mare e nelle nuvole in
lontananza, cercando di scorgerne qualche presagio. Ma ciò che la natura gli restituiva era il suo
semplice appartenere a sé stessa, la sua indifferenza alla vita che ne è insieme la sua più grande
benedizione e condanna. Si sentì solo.
Pensò ai compagni che avevano perso durante l’inverno, difendendo il branco dai predatori. Per non
turbare il branco, si erano allontanati durante la notte, andando a morire agonizzanti là dove nessuno
avrebbe potuto trovarli; quando, durante una ricognizione intravide un nugolo di mosche assediare
una carcassa, il timore di quell’amara conferma gli impedì di verificare di chi effettivamente si
trattasse. Altre volte, le condense vaporose che venivano esalate durante la notte lo rassicuravano:
sebbene feriti, respiravano ancora. Altre divinità, che intercedono sulla vita e sulla morte, avrebbero
avuto cura dei suoi compagni: sentiva intimamente che non era più compito suo vegliare su di loro.
Sfinito e frustrato, bramì alla luna. Fu un lungo urlo di disperazione quello che percorse saettando
tutta la catena rocciosa del promontorio, riecheggiando nell’abisso della risacca notturna e
infrangendosi sulla spuma del mare, che non ne sembrò per nulla scossa o turbata. Si spinse fino al
limite estremo del promontorio, valicando quei due guardiani di roccia che qualcuno sembrava aver
messo lì come un monito ancestrale, e guardò giù nel nero delle onde: un caos indistinto si agitava
sotto di lui, dove convivevano morte, smarrimento e liberazione. Improvvisamente sentì quel caos,
quello smarrimento, penetrare in lui, e di lui impossessarsi come in un amplesso: arrivava ora a
percepire l’estrema fragilità della vita e il ghigno malefico del male i cui canini lucenti riflettevano da
sotto le onde. Quando rialzò gli occhi alla volta celeste, capì di non essere lo stesso che qualche istanti
prima li aveva abbassati.

Preoccupato dall’urlo del capobranco, uno dei piccoli cervi si recò correndo sulla cima del
promontorio, ignorando i richiami delle femmine preoccupate per la sua incolumità. Superando
affannato le ultime alture prima dello spiazzo dal quale aveva sentito l’allarme, si fermò un istante a
riprendere fiato, e lo sguardo gli cadde su un cespuglio di bacche che scintillavano nel pallore lunare.
Il sapore di quelle bacche era qualcosa di mai sentito prima, e gli conferì le energie per proseguire la
scalata. Ma quando arrivò in cima, oh quale magnifica visione! Ciò che aveva davanti agli occhi non
era più il suo capobranco, ma un essere le cui corna, ramificate e sinuose, parevano contenere
perfettamente la luna, la quale gli sembrò aver percorso per infinite eternità la volta celeste
unicamente per potersi incastonare lì, in quel momento e in quel luogo, come una gemma preziosa
sul capo di quell’essere.

Anni dopo, quando egli stesso diventò capobranco, si recò egli stesso una notte su quel promontorio,
nella speranza di poter ricevere dagli dei la stessa benedizione che era toccata al suo predecessore.
Nel momento in cui si spinse sul margine estremo del promontorio non si accorse subito di star
precipitando, come se il partecipare di quell’attesa divina avesse per un attimo distorto il tempo dei
mortali. L’ultima cosa che vide, prima di infrangersi sulle rocce aguzze della baia, fu un paio di canini
lucenti scintillare sotto il pelo dell’acqua.

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