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PSICHIATRIA

DISTURBI DEPRESSIVI E DISTURBI BIPOLARI


Il tono dell’umore (o tono timico) è il correlato emotivo di fondo di tutte le nostre attività mentali.
Esso presenta fisiologicamente delle oscillazioni e varia da momento a momento. Tuttavia in ognuno di noi
è possibile identificare un tono timico predominante e sostanzialmente stabile che riconosciamo come
caratteristico del soggetto e correlato ad assetti neurobiologici che sono il risultato di una dotazione
biologica di base e delle precoci interazioni del soggetto con l’ambiente (fin dalla vita intrauterina).
I neurotrasmettitori che regolano il tono dell’umore sono: serotonina, noradrenalina e dopamina.
Il tono timico può presentarsi a volte patologicamente alterato, conosciamo ad esempio:
-umore depressivo: inteso come abbassamento del tono dell’umore che si manifesta con episodi di
tristezza, abbattimento o pessimismo.
-umore ipertimico: inteso come innalzamento del tono timico che può andare dalla semplice euforia
all’intensa esaltazione.
-umore irritabile: inteso come abnorme risonanza affettiva a stimoli e situazioni di scarsa entità, che si
esprime con reazioni di ira e/o rabbia.
Gli elementi fondamentali per stabilire che un quadro clinico di alterazione del tono dell’umore è
patologico, sono:
-intensità della manifestazione affettiva: ovvero la gravità dell’espressione clinica, determinata dal numero
e dal tipo di sintomi.
-inadeguatezza rispetto a eventi e situazioni: ovvero reazioni incoerenti ad eventi esperiti (euforia per un
lutto) che però devono essere analizzati in base al quadro socioculturale del paziente che può spiegare
reazioni emotive apparentemente incomprensibili. Per tale motivo questo parametro non è considerato
fondante della diagnosi patologica.
-qualità dell’umore: cioè il tipo di vissuto che viene esperito (ad esempio sentimento inspiegabile rispetto
alle emozioni conosciute)
-durata dei sintomi
-compromissione del funzionamento sociale e lavorativo
Oltre a questi 5 criteri, esistono anche degli elementi di conferma della diagnosi che sono: i precedenti
anamnestici, le scale di auto ed etero valutazione e i correlati biologici.

PROSPETTIVE DIAGNOSTICHE
Perché si possa effettuare un corretto inquadramento clinico-diagnostico, lo psichiatra deve avvalersi di
due prospettive distinte:
-trasversale: è dedicata all’analisi della sintomatologia attuale del pz, con l’obiettivo di riconoscere e
identificare un eventuale quadro patologico di alterazione del tono dell’umore (episodio depressivo,
episodio maniacale, episodio ipomaniacale). Permette di distinguere i confini tra patologia e normalità.
-longitudinale: è dedicata all’indagine della storia clinica passata ricostruendo quanti altri episodi di
alterazione timica si sono manifestati nella vita del paziente.
Non è possibile eseguire diagnosi di disturbo affettivo se non prima si è indagata la prospettiva
longitudinale perché l’episodio di alterazione individuato tramite la trasversale potrebbe risolversi e
rimanere l’unico.
Inoltre nella storia clinica di un paziente possono presentarsi disturbi dell’umore di una sola polarità (solo
depressiva) che prendono il nome di disturbo unipolare o depressivo o episodi di polarità differente
(depressiva, maniacale, ipomaniacale), che prendono il nome unico di disturbo bipolare.
N.B.: Non esistono episodi di sola polarità maniacale o ipomaniacale, pertanto si considera che uno stato
euforico sia sempre espressione di disturbo bipolare e quindi sarà prima o poi seguito da un episodio
depressivo.
EPISODIO DEPRESSIVO MAGGIORE
E’ un periodo circoscritto di tempo durante il quale l’umore è persistentemente depresso in modo grave
rispetto al solito. Accanto all’umore depresso è presente una marcata anaedonia (incapacità di provare
piacere).
La diagnosi trasversale può essere fatta solo se emergono i seguenti elementi:
-presenza, insieme ad umore deflesso e anedonia, di almeno quattro sintomi tra: perdita/aumento di peso,
insonnia/ipersonnia, agitazione/rallentamento psichico, faticabilità, autosvalutazione, pensieri ricorrenti di
morte e difficoltà di concentrazione.
-persistenza dei sintomi per almeno due settimane
-compromissione del funzionamento sociale e lavorativo
MANIFESTAZIONI ESSENZIALI: I CLUSTER
L’episodio depressivo maggiore si presenta sul piano clinico in varie modalità con la caratteristica comune
di abbassamento del tono dell’umore.
A seconda delle funzioni compromesse si distinguono diversi tipi di raggruppamenti sintomatologici detti
“cluster”.
-cluster emotivo-affettivo: determinato da umore depresso (sintomo primario e fondamentale della
patologia). Il soggetto si sente triste, abbattuto, avvilito, ansioso e talvolta riferisce un senso di morte
interiore.
In alcuni casi, l’abbassamento del tono affettivo può manifestarsi con irrequietezza piuttosto che con
tristezza e questo capita per lo più in bambini ed adolescenti.
Un altro sintomo primario compreso nel cluster è l’anedonia, ovvero l’incapacità di provare piacere e gioia,
una sorta di indifferenza per ciò che accade intorno tanto da far venir meno l’interesse per gli hobbies. Tale
indifferenza può manifestarsi anche nei confronti dei propri cari. L’anedonia è un sintomo primario
dell’episodio depressivo maggiore e talvolta può essere anche la caratteristica fondamentale del caso
clinico.
-cluster cognitivo-percettivo: comprende i disturbi che interessano le funzioni cognitive, il pensiero, la
memoria e la percezione. Questi sono sintomi secondari e derivabili dalla depressione. Sul piano cognitivo
possiamo notare un deficit delle prestazioni intellettuali, calo del rendimento mentale, difficoltà
mnemonica, meno intuizione. Inoltre è proprio la difficoltà di concentrazione insieme con la anedonia a
determinare il venir meno degli interessi e degli svaghi. Il corso del pensiero diviene statico e fisso su
tematiche depressive. Le idee di morte arrivano fino al desiderio di porre fine alla propria vita e il rischio di
suicidio è quindi molto elevato. In alcune forme cliniche, è presente la depressione psicotica che evolve in
vere e proprie idee deliranti di persecuzione con episodi allucinatori soprattutto uditivi, olfattivi e gustativi.
-cluster psicomotorio: comprende sintomi di rallentamento motorio. Può accadere che il pz trascorra
l’intera giornata a letto in stato di inattività, scarsa igiene personale, poca cura di sé. Da notare che la
mimica, seppur rallentata resta sempre espressiva (al contrario del parkinsoniano) improntata su
sofferenza e dolore. Viceversa in alcuni pz in cui prevalgono sintomi ansiosi ed inquietudine si può
apprezzare un’agitazione psicomotoria che non trova pace e aumenta il rischio di suicidio.
-cluster somatovegetativo: comprende sintomi come variazione dell’appetito e del peso, l’astenia, la
disregolazione del ritmo sonno veglia e il calo della libido.
-cluster cronobiologico: comprende tutti gli elementi clinici che si manifestano con una oscillazione
ricorrente. Esiste la possibilità che tutto il corredo sintomatologico del pz si presenti con fluttuazioni (ad
esempio riduzione della sofferenza depressiva nelle ore notturne o stagionalità della patologia).
Nell’episodio depressivo maggiore un altro elemento fondamentale è la compromissione del
funzionamento psicosociale che si presenta con diversi gradi, certe volte addirittura il paziente riesce a
condurre una vita presso che normale nascondendo la patologia a sé stesso e agli altri.
SOTTOTIPI DI DESCRIZIONE DI EPISODIO DEPRESSIVO MAGGIORE
Gli episodi depressivi maggiori possono caratterizzarsi in diversi modi. Il rilievo di specifiche manifestazioni
sindromiche permette di inserire entro una determinata sottotipizzazione e di indirizzare la terapia
farmacologica. Ad esempio in caso di depressione di tipo psicotica, le linee guida, che solitamente
consigliano di trattare un episodio depressivo unipolare con farmaci antidepressivi o con psicoterapia
specifica, in questo caso riconoscono di escludere l’utilizzo della psicoterapia in monoterapia e consigliano
una strategia di potenziamento di antidepressivi con antipsicotici. Questi sono i principali sottotipi:
-Episodio depressivo maggiore con caratteristiche melancoliche: in questo sottotipo è presente una qualità
differente di umore depresso: il paziente percepisce una sofferenza diversa dall’abituale tristezza, si sente
come bloccato e inibito sul piano emotivo e tale sofferenza inibisce ogni altra espressione affettiva
addolorando il paziente. L’anedonia è anche molto grave e intensa. Vengono accentuati i sintomi crono
biologici e psicomotori. Questa depressione è endogena e dipende da una disposizione individuale
verosimilmente biologica piuttosto che influenzata da eventi esterni.
-Episodio depressivo maggiore con caratteristiche psicotiche: Questo è il sottotipo in cui sono presenti i
sintomi più gravi del cluster cognitivo-percettivo, i deliri e le allucinazioni. I deliri di colpa, di rovina,
ipocondriaci e negativistici sono detti congrui all’umore depresso perché derivano direttamente
dall’abbassamento patologico dell’umore. Nella condizione depressiva il pensiero tende a polarizzarsi sulle
angosce dell’esistenza umana. La colpa, il disfacimento economico o somatico costituiscono preoccupazioni
e sentimenti comuni che si accentuano nel depresso e possono nei casi più gravi strutturarsi come veri e
propri deliri. Altri deliri che possono interessare il pz depresso vengono definiti incongrui perché non
derivano direttamente dall’abbassamento del tono timico: tali deliri sono quello di persecuzione e quello di
riferimento (ogni cosa parla di lui). Le allucinazioni quando si manifestano indicano uno stato di gravità
estrema del quadro. Anche questo sottotipo è definito endogeno.
-Episodio depressivo maggiore con caratteristiche atipiche: si tratta di una forma di depressione in cui si
manifestano prevalenti sintomi somatovegetativi ma che si presentano nella forma più insolita: ipersonnia
invece che insonnia, iperfagia piuttosto della più comune perdita di apporto alimentare e aumento di peso
invece che perdita. In questo preciso caso l’umore si risolleva in risposta a eventi positivi. Importante è il
ruolo della cosiddetta “paralisi plumbea” in cui il pz riferisce di percepire gli arti molto pesanti “come di
piombo”.
-Episodio depressivo con catatonia: In questo sottotipo i sintomi sono quelli del cluster psicomotorio
eventualmente alternarti a stati di irrequietezza o agitazione psicomotoria anche molto grave.
-Episodio depressivo maggiore a carattere misto: In questo quadro si nota la prevalenza della
sintomatologia depressiva ma si manifestano alcuni sintomi della polarità opposta (maniacale e
ipomaniacale). Si passa da un episodio chiaramente e solo depressivo a uno maniacale. Nelle forme più
gravi l’umore è alterato patologicamente in modo altamente instabile con fluttuazioni da depressione ad
euforia. Si tratta di episodi particolarmente a rischio di esitare in tentativi anticonservativi (suicidi) e spesso
comporta l’ospedalizzazione del paziente per preservare la sua vita.
COMPLICANZE DI UN EPISODIO DEPRESSIVO MAGGIORE
La complicanza più grave è la morte per suicidio che interessa il 15% dei pazienti affetti da episodi
depressivi maggiori e colpisce in maggior parte i pz over 55. Un’altra possibile complicanza è l’abuso di alcol
e sostanze psicoattive nel tentativo di lenire lo stato di angoscia. Inoltre esistono 3 occasioni in cui
l’episodio può associarsi ad altri disturbi psichici:
-la depressione maggiore rappresenta l’esordio aspecifico di un altro disturbo che si caratterizza
successivamente (come un’involuzione demenziale)
-la depressione maggiore si sovrappone ad un altro disturbo preesistente.
-la depressione maggiore rappresenta l’esito della risoluzione di un disturbo di altro tipo come un disturbo
conversivo (in cui insorgono sintomi fisici simili a quelli di una patologia del sistema nervoso).
ESORDIO E DECORSO
L’episodio depressivo maggiore esordisce sia lentamente che acutamente. Trattandosi di una condizione
episodica, il suo esordio può anche essere generalmente ricostruibile con facilità a partire da eventi
drammatici subiti. Talvolta infatti il cambiamento tra prima e dopo è così netto che il paziente subisce la
cosiddetta frattura del continuum psicologico (depressione melancolica). Se non viene trattato
adeguatamente può avere un decorso da 4 mesi a 2 anni per poi andare in remissione col massimo
recupero delle funzionalità. Sono stati individuati 2 sottotipi categorizzati in base al loro tipo di esordio:
-Episodio depressivo maggiore con esordio nel peripartum: infatti la gravidanza, ma soprattutto il post-
parto è un momento che costituisce un grande rischio per la donna
-Episodio depressivo maggiore con andamento stagionale: in cui l’esordio e l’esito dell’episodio sono
riconducibili sempre allo stesso periodo dell’anno.
CORRELATI BIOLOGICI
Ad oggi non esiste un test biologico che dia specificità per il disturbo dsepressivo maggiore ma solo buoni
risultati ai fini statistici:
-Test biochimici: i neurotrasmettitori maggiormente in causa nella depressione sono la noradrenalina, la
serotonina, la dopamina, l’acetilcolina e il GABA. In un primo tempo si ritenne che la causa biologica della
depressione fosse un deficit neurotrasmettitoriale o recettoriale che portasse ad ipofunzione di
noradrenalina e serotonina. Successivamente si capì che si tratta invece di una serie di alterazioni che
coinvolgevano più neurotrasmettitori.
-Test di soppressione da desametasone (DST): si utilizza per evidenziare alterazioni della funzionalità
ipotalamo-ipofisi-surrene. Il principio si basa sul fatto che i livelli plasmatici di cortisolo hanno una
fisiologica fluttuazione con picco nelle prime ore della giornata. In soggetti sani in cui l’asse endocrino sopra
citato funzioni regolarmente, tale fluttuazione è soppressa se la sera prima viene somministrato del
desametasone, mentre in gran parte dei soggetti affetti da episodi di depressione maggiore questo non
avviene e il cortisolo aumenta nonostante la somministrazione di desametasone.
(1mg di desametasone la sera prima, dosaggio del cortisolo 3 volte il giorno dopo:
-cortisolo < 5mg risultato negativo. -cortisolo> 5mg risultato positivo)
-Modificazioni elettroencefalografiche durante il sonno: nei pz affetti si nota una discontinuità del sonno e
una ridotta fase REM.
-Studi con risonanza magnetica dimostrano con una certa frequenza che i gangli della base di pz affetti
hanno dimensioni minori.

EPISODIO DEPRESSIVO MINORE


Tutte le condizioni di tipo depressivo che non raggiungono un’intensità sintomatologica tale da poterle
inquadrare in episodio depressivo maggiore sono dette minori. La distinzione clinica è quindi di gravità e
non di sintomi. Le depressioni minori si presentano con un quadro sintomatologico meno grave e mai con
manifestazioni psicotiche. L’importanza di queste forme di depressione è data dal decorso: esso può essere
lieve e transitorio o cronico come il disturbo depressivo persistente o distimico.

EPISODIO IPOMANIACALE
Si definisce così un periodo circoscritto di tempo in cui il soggetto possiede un tono timico
persistentemente elevato, espanso o irritabile con un netto cambiamento rispetto al tono dell’umore che il
soggetto ha abitualmente. Accanto a tale alterazione vi è sempre un aumento di energia o attività che è
rilevato come anomalo.
MANIFESTAZIONI ESSENZIALI: CLUSTER
A differenza dell’episodio depressivo maggiore, il soggetto si sente soggettivamente bene e tende a
rifiutare e a negare di trovarsi in una condizione patologica.
La primaria elevazione dell’umore si manifesta con uno stato di euforia e di allegria eccessiva senza
plausibili motivazioni. In alcuni casi l’espansione del tono timico si manifesta più con irritabilità quando il
soggetto incontra delle limitazioni alla propria espansività e vitalità.
Speculare all’anedonia del depresso, l’ipomane prova piacere intenso e smodato per ogni situazione: ha un
esaltato senso del piacere e lo ricerca in ogni modo (piacere gustativo, ludico, sessuale ecc.)
-cluster cognitivo-percettivo: il soggetto si percepisce come molto lucido e iperefficiente sul piano
intellettivo. In realtà è deficitario, facilmente distraibile e soprattutto inconcludente. Il corso del suo
pensiero è accelerato e i suoi contenuti sono superficiali, futili, scherzosi e sciocchi. Il pz ha un concetto
grandioso di sé ed una scarsa capacità critica e di giudizio dei propri limiti.
Talora il contenuto del pensiero contiene sfumate idee di riferimento e persecuzione che non sfociano mai
nel delirio.
-cluster psicomotorio: l’accelerazione del pensiero si manifesta anche a livello fisico con iperattività motoria
e verbale. Caratteristica è la diminuita affaticabilità.
-cluster somatovegetativo: Il paziente ha un intenso appetito e tende a mangiare molto e a prendere peso
anche se la sua iperattività a volte lo fa dimagrire. Il sonno è ridotto quantitativamente ma ciò non viene
assolutamente percepito come un male da soggetto che anzi ritiene di non averne bisogno.
-cluster cronobiologico: stagionalità
Il funzionamento del soggetto è alterato ma la compromissione può essere anche solo parziale.
Talvolta l’episodio ipomaniacale di un disturbo bipolare può essere confuso con un disturbo delirante che
ha più o meno le stesse caratteristiche: la differenza sta nell’aumento dell’energia e nella disinibizione
dell’ipomane e soprattutto nel fatto che l’ipomania è un episodio transitorio e circoscritto mentre il
disturbo delirante tende a cronicizzare.
La complicanza più importante è l’evoluzione in episodio maniacale che interessa circa il 5-15% dei pazienti
anche se, per chi ha una propensione alla mania, l’episodio ipomaniacale sarà solo il precursore di un
episodio maniacale più grave. Un’altra complicanza importante è l’abuso di alcol e altre sostanze.
L’esordio è improvviso e la durata, se non trattato va da pochi giorni fino a 3 mesi.
CORRELATI BIOLOGICI
Non esistono correlati biologici che abbiano un’applicabilità nella pratica clinica.
In alcuni soggetti con mania si osserva tramite TC l’ampliamento dei sistemi ventricolari. Dei meccanismi di
registrazione del flusso ematico cerebrale hanno riscontrato una ipo-perfusione a livello temporo-basale
destro. Studi con risonanza magnetica hanno confermato l’ipotesi secondo la quale i soggetti con disturbo
bipolare I, vi è un’alterata regolazione del metabolismo dei fosfolipidi di membrana.

EPISODIO MANIACALE
Caratterizzato da un’abnorme e grave elevazione del tono timico che appare eccessivamente espanso ed
irritabile molto più rispetto all’ipomaniacale. Ne consegue che il grado di compromissione del
funzionamento in questo caso è marcato e chiaramente identificabile.
MANIFESTAZIONI ESSENZIALI
Il passaggio a episodio maniacale si configura quando si manifesta almeno una tra le tre condizioni:
-comparsa di sintomi psicotici quali deliri e/o allucinazioni: le idee e i sentimenti di grandiosità e stima di sé
diventano patologici assumendo caratteristiche del pensiero delirante. I deliri congrui all’umore maniacale
sono tutti i deliri di grandezza. I deliri incongrui sono quelli di persecuzione e di riferimento che nel
maniacale sono comunque frammentari e poco sistematizzati. Fenomeni allucinatori sono possibili ma poco
frequenti e per lo più uditivi.
-comparsa di grave disorientamento spazio-temporale o rispetto al sé: confusione mentale che può
comparire quando l’accelerazione delle idee diviene talmente marcata da determinare l’allentamento dei
nessi associativi e la perdita dei riferimenti spazio-temporali.
-gravi alterazioni comportamentali di tipo esplosivo: gli aspetti di iperattività motoria e di eccitazione che
dominano il quadro clinico e diventano crisi di furia incontenibile.
In tutti e tre i casi la marcata alterazione del funzionamento psicosociale impone spesso l’ospedalizzazione.
COMPLICANZE ED ESORDIO
Può degenerare verso crisi di comportamento incongruo e di aggressività spiccata. L’impiego di sostanze
psicoattive è frequente, il pz non accetta il ricovero ed è spesso necessario un T.S.O.
Compare per la prima volta nella vita di un soggetto entro i 25 anni, con esordio brusco e durata da poche
settimane a pochi mesi e decorso a parabola (evoluzione-apice-recupero).
Il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali DSM riconosce due differenze tra episodio
ipomaniacale ed episodio maniacale:
- i sintomi dell’ipomania devono essere ininterrotti per almeno 4 giorni. (non 7 come nella mania)
- l’episodio non è abbastanza grave da compromettere il funzionamento psicosociale dell’individuo.

PROSPETTIVA LONGITUDINALE
Una volta riconosciuto un episodio affettivo, è necessario valutare la patologia longitudinalmente,
indagando la storia psichiatrica del paziente e riconoscendo il disturbo dell’umore di cui l’episodio fa parte
in modo da riuscire a scegliere una strategia terapeutica adeguata ed eseguire una corretta valutazione
prognostica.
I disturbi dell’umore si dividono in bipolari (I,II e ciclotimico) e unipolari (depressivo maggiore, persistente e
distimico). Questa classificazione, è fondata sulla polarità degli episodi (prospettiva trasversale) e sul
numero di precedenti episodi manifestati nella vita del paziente.
Il disturbo depressivo maggiore si caratterizza per la presenza di uno o più episodi depressivi maggiori,
senza la presenza di episodi maniacali o ipomaniacali. E’ infatti l’assenza di una polarità opposta a quella
depressiva che permette di diagnosticare l’appartenenza dell’episodio depressivo corrente (trasversale) al
disturbo depressivo unipolare (longitudinale).
I disturbi bipolari invece si riconoscono per l’alternanza di episodi depressivi maggiori ed episodi maniacali
ed ipomaniacali (la distinzione tra bipolare I e II sta poi nella presenza nel tipo I di almeno un episodio
maniacale nella vita del paziente). Un singolo episodio di mania è sufficiente per diagnosticare un disturbo
bipolare perché in nove casi su dieci si presenterà anche un episodio depressivo.
L’identificazione longitudinale del disturbo timico di cui l’episodio fa parte è importante per sia per la
strategia terapeutica (episodio depressivo in disturbo depressivo unipolare richiede trattamento
antidepressivo, episodio depressivo in disturbo bipolare richiede terapia con stabilizzatori dell’umore) che
per la prognosi (indicazioni circa la durata del trattamento ed il rischio di ricadute) perché nel caso di
disturbo depressivo unipolare il trattamento durerà circa un anno in media, mentre per il disturbo bipolare
il trattamento deve essere mantenuto a lungo, anche a vita.

DISTURBO BIPOLARE I
Come abbiamo detto, è un disturbo in cui si presentano nel corso della vita sia episodi depressivi che
episodi maniacali. E’ infatti condizione sufficiente e necessaria per la diagnosi di tale disturbo, che sia
accorso nella vita del paziente almeno un episodio maniacale.
Colpisce entrambi i sessi in egual misura ma mentre nelle donne il primo episodio è frequentemente
depressivo, negli uomini è frequentemente maniacale. Alta familiarità.
MANIFESTAZIONI ESSENZIALI
Il trattamento deve essere condotto a lungo termine con l’obiettivo di prevenire altri episodi di malattia la
cui probabilità è del 90%. L’episodio depressivo maggiore di un disturbo bipolare può essere indistinguibile
da quello che si manifesta nel corso di un disturbo unipolare (per questo è importante la prospettiva
longitudinale). E’ tuttavia più frequente nei disturbi bipolari riscontrare ipersonnia invece che insonnia,
iperfagia invece che diminuzione dell’appetito e il rischio suicidario è superiore.
COMPLICANZE
Suicidio, comportamenti violenti, abuso di alcol e sostanze, compromissione lavorativa. E’ da sottolineare
che il recupero sintomatologico non sempre coincide con il recupero funzionale del paziente (cioè al
recupero del funzionamento psicosociale), come se ogni episodio sia tossico per il cervello e comporti un
danno irreversibile. Altre complicanze sono la comparsa di periodi a elevata frequenza di ricorrenze (rapida
ciclicità, almeno 4 episodi in un anno) e/o la scomparsa di intervalli liberi da sintomi (ciclo continuo). La
rapida ciclicità è favorita da trattamenti antidepressivi senza il supporto di stabilizzatori dell’umore.
ESORDIO E DECORSO
La maggior parte dei casi di disturbo bipolare I esordisce in età tardo adolescenziale-adulta ma in caso di
familiarità l’età d’esordio è anticipata. Un’età d’esordio precoce è correlata al rischio di subire una
ricorrenza di episodi (soprattutto maniacali) più elevata e allo sviluppo più frequente di disturbi della
personalità. Il decorso presenta alti gradi di variabilità individuale. E’ importante da analizzare il tipo di ciclo
bipolare, con cui si intende il tempo che intercorre tra un episodio e il successivo della stessa polarità.
Tale variabile è importante perché consente di prevedere l’evoluzione della patologia a breve e medio
termine e indirizza la scelta terapeutica. E’ opportuno riconoscere tale ciclo ripercorrendo le prime fasi del
disturbo prima che fossero influenzate dalla terapia. Esistono:
-ciclo mania-depressione-intervallo (mdi)
-ciclo depressione-mania-intervallo (dmi)
-cicli irregolari
Il tipo di ciclo può avere un impiego clinico in quanto ad esempio è stato dimostrato che i pz affetti da cicli
bipolari mdi rispondono meglio a trattamenti con litio.
La durata del ciclo bipolare tende a ridursi a ogni successiva ricorrenza per una riduzione della durata
dell’intervallo di tempo libero, il quale può arrivare a scomparire portando a due differenti esiti: il ciclo
continuo (semplice scomparsa dell’intervallo libero) e il ciclo rapido (scomparsa dell’intervallo libero e
almeno 4 episodi in un anno).
La polarità prevalente è data dalla durata e/o gravità maggiore o minore degli episodi di polarità opposta
lungo la vita del paziente. Nella maggioranza dei casi sono gli episodi depressivi che dominano il quadro
clinico.
DISTURBO BIPOLARE II
E’ un disturbo in cui si presentano sia episodi depressivi maggiori sia episodi ipomaniacali, ma mai
maniacali. Questo non vuol dire che questo sia un disturbo meno grave sul piano longitudinale perché è
accertato che la compromissione a lungo termine del funzionamento di questi pazienti è grave sia per la
frequenza degli episodi che per i residui deficit cognitivi durante gli intervalli liberi. Anche in questo caso è
presente un alto grado di familiarità.
I bipolari di tipo II, hanno aspetti di cronicità per certi versi maggiori e spendono più tempo in condizione
depressiva. Giungono all’attenzione dei clinici durante un episodio depressivo maggiore mentre
difficilmente riconoscono come patologici gli episodi ipomaniacali.
Fondamentale ai fini di un corretto inquadramento diagnostico è ricercare e sottolineare che esistono due
tipologie di depressioni, quelle che vengono trasversalmente diagnosticate come veri episodi depressivi
maggiori e le cosiddette depressioni agitate che sono invece episodi ipomaniacali con caratteristiche miste.
Il riscontro di tale doppia tipologia di episodi affettivi consente in taluni casi di diagnosticare il disturbo
bipolare II.
Le complicanze sono le stesse del disturbo bipolare I, ma ovviamente i rischi per comportamenti violenti,
abusi di sostanze e interventi autolesivi, sono inferiori.
L’età d’esordio è più tardiva (25-50 anni). Il decorso presenta variabilità individuale ma la frequenza degli
episodi aumenta generalmente con l’età. In alcuni casi si assiste ad intervalli liberi che durano anni, in altri
casi invece scompaiono totalmente.

DISTURBO CICLOTIMICO
E’ un disturbo bipolare caratterizzato da un alternarsi continuo di periodi in cui il paziente soffre di
sintomatologia depressiva e ipomaniacale attenuate e con un minimo intervallo libero da sintomi. Per la
diagnosi è richiesto che l’individuo non abbia mai presentato episodi di cambiamento del tono timico e che
abbia presentato nella sua vita sintomi ipomaniacali non sufficienti per diagnosticare un episodio
ipomaniacale alternati a sintomi depressivi non sufficienti per diagnosticare un episodio depressivo
maggiore.
Può comportare un “impairment” psicosociale e lavorativo anche più grave rispetto al bipolare I e II perché
il ciclotimico, seppur comprenda episodi più tenui, non ha intervalli liberi da sintomi. Nel 15-50% dei casi, il
disturbo evolve a disturbo bipolare I e II, l’esordio è lento ed insidioso e ha un decorso crtonico futtuante
senza periodi di benessere.

DISTURBO DEPRESSIVO MAGGIORE


Caratterizzato dalla comparsa di uno o più episodi depressivi maggiori in assenza di manifestazioni
maniacali e ipomaniacali.
Il disturbo depressivo maggiore può essere ad episodio singolo o ricorrente e la sua gravità è data da tre
parametri: gravità, durata e frequenza.
Nella donna la probabilità d’esordio è maggiore nel post-partum e nella menopausa.
La complicanza più grave è sempre il suicidio (15% delle morti). Il decorso del disturbo è estremamente
variabile e il numero di precedenti episodi depressivi maggiori aumenta la probabilità di presentare nel
corso della vita nuovi episodi (50% dopo il primo, 70% dopo il secondo, 90% dopo il terzo).

DISTURBO DEPRESSIVO PERSISTENTE (DISTIMIA)


E’ un disturbo unipolare con caratteristiche di cronicità, infatti per la diagnosi è necessario che sia presente
un episodio depressivo (maggiore o no) continuativo per almeno due anni. Colpisce le donne due o tre
volte di più.
Nel caso di disturbo depressivo persistente a carattere non maggiore, il quadro clinico è meno grave e mai
con manifestazioni psicotiche o melancoliche. Nella distimia si tratta di vera e propria tristezza, la
differenza con la normalità è solo quantitativa. Un altro sintomo primario è l’anedonia attenuata. Il
distimico riesce a provare piacere ma esso non è sufficiente al cambiamento del suo umore triste. Tra i
sintomi del cluster emotivo-affettivo vi è ansia.
Per il cluster cognitivo-percettivo la distimia può comportare una generica tendenza alla affaticabilità
mentale con difficolta alla concentrazione e fatica nella memorizzazione che però non sono rilevabili con gli
specifici test. Per il cluster somatovegetativo il distimico non si alimenta regolarmente, il suo sonno è
alterato qualitativamente e quantitativamente.
Non sono presenti sintomi psicomotori e cronobiologici. Si avvertono diversi gradi di compromissione della
funzionalità psico-sociale che generalmente non interferiscono dannosamente con la vita del soggetto.
Il disturbo depressivo persistente è spesso associato a disturbi della personalità soprattutto se l’esordio è
precoce.
Esso racchiude sia le forme cronicizzate di depressione maggiore, sia le forme depressive attenuate e
cronicizzate (distimia). La distimia non ha un esordio netto, il paziente non subisce una frattura del
continuum psicologico, non riconosce un “prima” ma definisce il suo stato depressivo come parte del suo
modo di essere che si è accentuato con l’età adulta. E’ dunque un esordio sfumato e il suo decorso è
continuativo con andamento fluttuante.

DISTURBO DA DISREGOLAZIONE DELL’UMORE DIROMPENTE


Disturbo dell’età infantile o adolescenziale (non si diagnostica dopo i 18 anni), caratterizzato da gravi e
ricorrenti scoppi di collera sproporzionati rispetto agli eventi che li hanno provocati. L’umore del bambino
rimane persistentemente irritabile.

DISTURBO DISFORICO PREMESTRUALE


Caratterizzato da sintomatologia affettiva associata ad altri sintomi che si presentano inevitabilmente
durante le mestruazioni e migliorano fino a scomparire dopo le mestruazioni. Per diagnosticare questo
disturbo occorre che esso comprometta il funzionamento psicosociale della donna.

TERAPIA DEI DISTURBI DELL’UMORE


Ha come obbiettivo la risoluzione dello stato patologico determinato dall’episodio in corso e dal
mantenimento del compenso psichico per prevenire eventuali episodi futuri.

TERAPIA DEL DISTURBO BIPOLARE


Si distinguono il trattamento dell’episodio depressivo maggiore, dell’episodio (ipo)maniacale e la profilassi
delle ricorrenze.
Il trattamento degli episodi acuti prevede l’impiego di farmaci che determinino la remissione della
sintomatologia senza favorire o indurre la comparsa di sintomatologia di opposta polarità. Il trattamento
dei disturbi bipolari prevede sempre un trattamento a lungo termine se non a vita ed è importante
impostare un farmaco che sia efficace nella prevenzione delle ricorrenze sia depressive che (ipo)maniacali.
TERAPIA DELL’EPISODIO DEPRESSIVO MAGGIORE IN BIPOLARITA’
Deve essere tempestivo e adeguato per alleviare la profonda sofferenza del paziente, attenuare la
compromissione sociale ed evitare il rischio di morte per suicidio. Per tale motivo può essere opportuno
ricoverare il paziente. La terapia della depressione bipolare è psicofarmacologica. Il trattamento d’elezione
è con alcuni stabilizzatori dell’umore (mentre per il disturbo depressivo unipolare si usano antidepressivi):
litio, lamotrigina, quetiapina e valproato.
I Sali di litio si sono dimostrati sicuri in molti studi clinici anche per la loro efficacia nell’effetto di riduzione
del rischio di suicidio. Essi sono efficaci ad un livello plasmatico di 0.8mEq/l (1.2 tossico).
La lamotrigina è un anticonvulsivante efficace più nella prevenzione della depressione e impiegato con un
dosaggio giornaliero di 100-300 mg a lenta titolazione per evitare la grave sindrome di Steven-Jhonson
(severa forma di eritema multiforme).
Se si necessita però di una risposta veloce al trattamento, il farmaco di prima scelta deve essere la
quetiapina, un antipsicotico che ha dimostrato, ad un dosaggio di 300-600 mg al giorno, una potente azione
antidepressiva nel disturbo bipolare.
Se il paziente è già in trattamento con stabilizzatori dell’umore, bisogna innanzitutto considerare l’aumento
della dose.
L’impiego di antidepressivi in un disturbo bipolare, sempre in associazione a stabilizzatori dell’umore, può
essere considerato in casi di inibizione psicomotoria e di scarsa risposta agli stabilizzatori, ma mai in
monoterapia. Altrettanto da evitare è l’utilizzo di antidepressivi in associazione a stabilizzatori se ci
troviamo di fronte a depressione a caratteristiche miste o a rapida ciclicità.
TERAPIA DELL’EPISODIO IPOMANIACALE IN BIPOLARITA’
Trattandosi di un paziente che si sente soggettivamente bene e che ha un diminuito senso critico con
ridotta capacità di giudizio, sarà refrattario all’idea di subire un trattamento farmacologico. In casi estremi
infatti, anche se maggiormente in casi maniacali, è necessario il T.S.O.
Due sono i presidi farmacologici impiegati in episodi ipomaniacali: gli stabilizzatori dell’umore e gli
antipsicotici.
Tra gli stabilizzatori dell’umore, sono importanti i Sali di litio e l’acido valproico.
I Sali di litio sono efficaci nel trattamento di espansione del tono timico a livelli plasmatici tra 0.8 e 1.2
mEq/l, raggiunti i quali la sintomatologia involve progressivamente fino alla normalità senza dover sedare il
paziente.
Prima dell’impiego di questi Sali però è necessaria una valutazione della funzionalità renale, cardiaca e
tiroidea del paziente. In termini di latenza della risposta terapeutica però il litio è svantaggioso anche se
meglio tollerato.
L’acido valproico, a livelli 50-100 microgrammi/ml ha tempi di risposta più rapidi.
Nell’episodio ipomaniacale gli antipsicotici sono indicati per la loro pronta ed efficace attività di sedazione,
ma con alcuni di essi aumento il rischio di comparsa di episodi depressivi, motivo per cui vengono più usati
gli anitpsicotici di nuova generazione.
Merita un accenno l’efficace trattamento delle alterazioni del ritmo sonno-veglia.
TERAPIA DELL’EPISODIO MANIACALE IN BIPOLARITA’
Gli obiettivi sono il controllo dell’agitazione psicomotoria e dell’aggressività e la remissione dei sintomi
psicotici. Il trattamento avviene con gli stessi strumenti farmacologici dell’episodio ipomaniacale ma la
gravità della condizione impone la scelta di provvedimenti specifici come l’ospedalizzazione ed
eventualmente il T.S.O.
Il trattamento prevede sempre l’utilizzo di antipsicotici associati a stabilizzatori dell’umore, il che consente
una risposta rapida, una remissione dei sintomi e una vera e propria sedazione.
La scelta dei farmaci specifici è la stessa dei casi ipomaniacali.
TERAPIA DELL’EPISODIO (IPO)MANIACALE A CARATTERISTICHE MISTE
Il trattamento è in genere sovrapponibile a quello degli episodi ipomaniacali semplici ma con due
precauzioni: prevenire il rischio suicidario ed evitare gli antipsicotici di prima generazione che aggravino la
sintomatologia depressiva. Il trattamento richiede quasi sempre l’ospedalizzazione e l’impiego di
stabilizzatori dell’umore come l’acido valproico che in questo caso risulta più efficace dei Sali di litio. La
carbamazepina risulta efficace per il suo potere sedativo e di contenimento dei comportamenti aggressivi.
Anche l’associazione di due stabilizzatori è consigliata.
Gli antidepressivi sono da evitare e qualora il paziente sia già in cura con essi, alla comparsa dei primi
sintomi maniacali è opportuno sospendere immediatamente la terapia mantenendo solo gli stabilizzatori.
TRATTAMENTO DI MANTENIMENTO
Qualunque approccio al paziente bipolare deve prevedere un trattamento profilattico a lungo termine se
non a vita con l’obiettivo di prevenire le ricorrenze, raggiungere un buono stato psichico e un
miglioramento del funzionamento globale.
I farmaci impiegati sono gli stabilizzatori dell’umore, che hanno la proprietà di trattare un episodio affettivo
senza rischare lo switch verso la polarità opposta e prevenire nel lungo termine altri episodi affettivi.
Molto usati sono i Sali di lito e l’acido valproico. I Sali di litio sono efficaci ad un range di 0.6-0.8mEq/l in
profilassi ma il loro utilizzo necessita di diverse precauzioni per gli effetti collaterali renali, cardiaci e
tiroidei.
La lamotrigina è un antiepilettico efficace soprattutto nelle ricorrenze depressive. Tra gli antipsicotici di
seconda generazione, l’olanzapina e la quetiapina hanno dimostrato una buona azione preventiva su
ricorrenze di entrambe le polarità anche se bisogna considerare un effetto collaterale fastidioso: l’aumento
di peso.
Nei casi in cui il trattamento con stabilizzatori risulti inefficace, è opportuno potenziarne l’azione
aggiungendo un secondo stabilizzatore.
Il trattamento dei disturbi bipolari deve essere protratto a lungo termine se non a vita, si considera che il
rischio associato ad un trattamento prolungato, sia meno importante del rischio di presentare ricorrenze
affettive. Si ricordi che ogni nuova ricorrenza determina un danno cerebrale e un danno cognitivo
progressivo e irreversibile. Qualora si voglia o si debba sospendere la terapia, occorre sapere che la
riduzione rapida del dosaggio aumenta il rischio di nuovi episodi (nel caso del litio anche il rischio di
suicidio).

TERAPIA DEI DISTURBI DEPRESSIVI UNIPOLARI


Richiede un trattamento tempestivo adeguato per alleviare la sofferenza, attenuare la compromissione
sociale ed evitare il rischio di suicidio.
Il trattamento richiede l’utilizzo di antidepressivi articolati in tre fasi:
-fase acuta che ha come obiettivo la remissione della sintomatologia e dura in genere 6-12 settimane
-fase di continuazione che ha come obiettivo il consolidamento e la prevenzione delle ricadute (4-9 mesi)
-fase di mantenimento, se necessaria, per prevenire ricorrenze affettive (oltre un anno)
I farmaci di prima scelta sono antidepressivi inibitori selettivi del reuptake delle monoamine: per la
serotonina, per la noradrenalina o per entrambe.
Solitamente si preferisce non combinare più di un antidepressivo e per la scelta di quello più adatto si tiene
conto della storia clinica del paziente (eventuale utilizzo di antidepressivi in passato), della tollerabilità,
della sicurezza del farmaco in sovradosaggio e dei costi.
La risposta al trattamento non è immediata ma si manifesta con una latenza di 15-20 giorni dal
raggiungimento dei livelli plasmatici adatti. La remissione della sintomatologia avviene di solito in 4-8
settimane. Se la risposta non è soddisfacente si opta per l’aumento del dosaggio o la sostituzione del
farmaco e, nel caso in cui nemmeno questo funzioni, nel potenziamento della terapia con basse dosi di
antipsicotici.
La fase di continuazione deve essere condotta mantenendo lo stesso dosaggio del farmaco usato in fase
acuta e in seguito ad essa si può optare per la fase di mantenimento se:
-si sono manifestati tre o più episodi depressivi nella vita del paziente (quindi rischio del 90% per
ricorrenze)
-il paziente soffre di depressione cronica
-si sono verificati solo due episodi ma in compresenza di specifici fattori di rischio che conferiscono una
maggiore gravità globale.
La sospensione della terapia deve assolutamente essere graduale.
Nei casi di depressioni refrattarie a ogni tipo di trattamento si può infine prendere in considerazione
l’impiego dell’elettroshock.
TERAPIA DEI DISTURBI DEPRESSIVI MINORI E DISTIMICI
Sul trattamento di questi disturbi verte un dibattito su cosa sia meglio tra psicofarmaci e psicoterapia.
La farmacologia prevede l’impiego di antidepressivi inibitori selettivi della serotonina a dosi più contenute
rispetto agli episodi depressivi maggiori, o l’utilizzo di benzodiazepine per indurre il sonno e alleviare l’ansia
diurna.
Nel caso della distimia il problema è la cronicità della malattia, infatti i farmaci sono sintomatologicamente
efficaci ma solo parzialmente perché la sospensione del trattamento porta ad un’inevitabile ricomparsa dei
sintomi. E’ per questo che molti optano per la psicoterapia.

DISTURBI D’ANSIA E DISTURBI CORRELATI A EVENTI TRAUMATICI E STRESSANTI


L’ansia è un sistema d’allarme selezionato dall’evoluzione e provvisto di specifici circuiti neuronali che ha la
funzione adattativa di permettere all’organismo di individuare potenziali pericoli e affrontarli. Tramite le
connessioni tra sistema d’allarme e memoria inoltre, aiuta l’organismo a prevenire future minacce.
Dal punto di vista biologico i circuiti che sottostanno alla reazione d’allarme vedono coinvolte alcune
strutture cerebrali ben identificate:
-l’amigdala con il suo nucleo bilaterale (che riceve informazioni dall’esterno e dall’interno) e con il suo
nucleo centrale (che coordina la risposta attivando l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e il sistema orto e para
simpatico). Inoltre il nucleo basolaterale riceve informazioni dall’ippocampo, la struttura cerebrale
implicata nei processi di memorizzazione.
E’ possibile però che l’individuo sviluppi una risposta abnorme a elementi che in passato si sono rivelati
minacciosi e che quindi continueranno a generare una risposta d’allarme anche in contesti non più
preoccupanti. L’ansia è un vissuto soggettivo che interessa sia il piano somatico che quello psicologico
dell’individuo.
Sul piano somatico si esprime con uno stato di agitazione neurovegetativa (tachicardia, tachipnea, aumento
Pa) e neuromuscolare (aumento tensione muscolare) che supportano la reazione comportamentale di
attacco o di fuga.
Sul piano psichico è un’emozione che va da un disagio fino al terrore ed è associata a contenuti di pensiero.
Vi sono diversi termini associati spesso alla reazione d’allarme (paura, fobia, ansia), ma essi hanno ognuno
un significato a sé stante:
- la paura è determinata da un oggetto o una situazione noti e che inducono lo stesso tipo d’allarme, anche
se di intensità variabile, nella maggioranza degli individui.
- la fobia è determinata da un oggetto o una situazione noti che tuttavia non inducono la stessa reazione di
allarme nella maggioranza degli individui che compongono la popolazione. Il soggetto sa di cosa ha timore
ma è consapevole che si tratta di un timore esagerato o immotivato.
- l’ansia non ha un oggetto o una situazione noti che la determinano.
Tutte e tre queste modalità d’espressione della reazione d’allarme possono tuttavia costituire una
patologia in determinati casi:
- la paura può diventare patologica in casi in cui venga indotta da un fatto di gravità estrema in cui
l’individuo può manifestare una reazione acuta e abnorme di paura (disturbo da stress acuto) o una
reazione patologica ritardata che si protrae nel tempo (disturbo da stress post-traumatico). E’ patologico il
fatto che tale reazione non svanisca.
- la fobia è per definizione una reazione abnorme ma diventa patologica solo se compromette anche il
normale funzionamento lavorativo e sociale dell’individuo.
- l’ansia eccessiva può diventare patologica e compromettere il funzionamento dell’individuo
manifestandosi in forma continuativa e cronicizzante come nel disturbo d’ansia generalizzata o
manifestandosi in forma critica nel disturbo di panico.

DISTURBO DA STRESS ACUTO


Rappresenta la reazione patologica acuta e transitoria che un fatto traumatico può generare sul piano
emotivo dell’individuo (minimo 5 giorni, massimo un mese).
Si considera grave evento traumatico un evento in cui l’individuo è stato esposto a morte, grave minaccia
per la vita personale o degli altri o aggressione sessuale. E’ previsto nei criteri diagnostici che l’individuo
debba aver avuto esperienza diretta dell’evento, sia stato vittima o testimone o ancora abbia avuto notizia
di un evento traumatico violento ed improvviso occorso a un familiare o un amico.
La sintomatologia espressa è varia, consiste tipicamente nel rievocare ripetutamente con la stessa intensità
emotiva l’evento tramite spiacevoli ricordi, incubi notturni o flashbacks.
In alcuni pazienti predomina un quadro di intenso shock emotivo con sintomi dissociativi come la
depersonalizzazione, l’anestesia emotiva e in alcuni casi l’amnesia dell’evento o con irritabilità e rabbia.
La cura consiste nel fornire all’individuo il sostegno psicologico adeguato per superare il momento acuto di
shock attraverso l’elaborazione del grave evento traumatico. L’impiego di benzodiazepine è utile a
contenere lo stato di allarme psichico e aiuta il soggetto a riposare.
Il quadro sintomatologico può comunque persistere cronicizzandosi per più di un mese dopo l’evento, in tal
caso la diagnosi sarà di disturbo da stress post-traumatico e colpisce circa la metà dei pazienti affetti da
disturbo da stress acuto se non trattati.
DISTURBO DA STRESS POST-TRAUMATICO
Rappresenta la reazione patologica protratta che un fatto gravemente traumatico può determinare
sull’individuo. In alcuni casi il disturbo può esordire dopo una latenza di qualche settimana o qualche mese
dopo l’evento (forme ritardate), più frequentemente invece è la complicanza di un precedente disturbo da
stress acuto.
In questo caso vi è un’incapacità del cervello a imparare che stimoli precedentemente associati a un
pericolo a causa dell’evento, non sono più una minaccia (ad esempio rumore di frenata o presenza di
un’autovettura).
Tra le persone esposte ad un grave evento traumatico, il rischio di sviluppare un disturbo da stress va fino a
un quarto dei casi e sono più colpite le persone che vivono da sole.
Le manifestazioni essenziali possono essere ricondotte ad alcune dimensioni sintomatologiche distinte:
- Rivivere con la stessa intensità emotiva e le stesse reazioni fisiologiche il trauma tramite ricordi, incubi o
flashback. Nel caso dei ricordi il soggetto prova intensa angoscia o terrore e presenta un drammatico
quadro di allarme neurovegetativo: sudorazione profusa, tachicardia, piloerezione ecc.
Nel caso degli incubi il soggetto si sveglia di soprassalto in grande stato di agitazione e non riesce a
riprendere sonno arrivando, in alcuni casi, a temere di addormentarsi. L’intensa risposta di allarme viene
attivata anche da stimoli che richiamano, anche solo simbolicamente, l’evento.
-Presenza di comportamenti di evitamento degli stimoli associati all’evento traumatico: il paziente tende ad
evitare situazioni oggetti o persone correlati all’evento
- Presenza di alterazioni a carico del pensiero e dell’umore legate all’evento, come l’incapacità di ricordare i
dettagli del fatto, aspettative negative e distorte sul proprio futuro o sensi di colpa immotivati e persistenti.
- Anche al di fuori degli episodi di ricordo dell’evento, il soggetto può presentare una condizione cronica di
iperarousal neurovegetativo.
Il disturbo predispone maggiormente a due complicanze:
-abuso di sostanze psicoattive
-depressione, i cui sintomi possono aumentare ed aggravarsi progressivamente nel tempo. Alto rischio di
suicidio.
Nel 50% dei casi può risolversi completamente entro tre mesi dalla comparsa, nel 10% è resistente alle cure
e cronicizza.
TERAPIA
Il trattamento prevede un approccio integrato tra psicoterapia e farmacologia, con quest’ultima impiegata
nei casi più gravi.
Il trattamento farmacologico prevede l’utilizzo di inibitori selettivi della serotonina (SSRI) come paroxetina
e fluoxetina che consentono la riduzione dei sintomi. L’impiego di benzodiazepine deve essere limitato e
controllato per l’alto rischio di abuso e dipendenza. Altri farmaci di altre classi hanno mostrato evidenze di
efficacia, ma solo in combinazione con SSRI e in forme resistenti: questi sono antidepressivi triciclici e alcuni
antipsicotici.
La psicoterapia è cognitivo-comportamentale e prevede tecniche di rilassamento associate alla
rielaborazione cognitiva dell’evento.

FOBIA SPECIFICA
Si intende il timore abnorme per oggetti o situazioni che non hanno valenza d’allarme per la maggioranza
della popolazione. Nei confronti dello stimolo fobico si stabiliscono una serie di comportamenti di
evitamento e/o fuga che rinforzano il timore.
Sul piano clinico, la fobia specifica diventa un disturbo quando interferisce in modo significativo con il
funzionamento sociale dell’individuo. I disturbi fobici sono costituiti da due sintomi specifici:
-crisi fobiche: sono manifestazioni di allarme presenti invariabilmente quando il soggetto si trova esposto
allo stimolo fobico. Oltre all’esposizione diretta può avvenire l’esposizione immaginativa.
-condotte di evitamento e/o fuga: sono il principale motivo di compromissione del funzionamento perché
costituiscono motivo di disagio. Il paziente struttura dei comportamenti che prevengano la sua esposizione
allo stimolo fobico. Spesso il soggetto non rivela le proprie paure, tuttavia è consapevole dell’abnormità
della sua reazione. Il grado di sofferenza è determinato dall’angoscia generata, dalla frequenza di
esposizione, dai comportamenti di evitamento strutturati e dall’imbarazzo che si viene a determinare.
Il DSM-5 distingue cinque casi di fobie specifiche:
-animali: esordio in età infantile
-eventi ambientali o elementi naturali: esordio in età infantile
-sangue-infezioni-ferite: unica fobia associata a reazioni vaso-vagali (svenimenti e malessere). Possiede
familiarità
-situazionali: es. claustrofobia. Hanno un picco infantile e un picco intorno ai 25 anni. Da non confondere
con agorafobia.
-altre fobie: non incluse tra le precedenti.
Per essere necessario un trattamento, il DSM richiede che l’ansia, la paura e le condotte di evitamento
siano persistenti per almeno 6 mesi.
Il paziente fobico ha un elevato rischio di incorrere in disturbo ossessivo-compulsivo o nell’abuso di
sostanze psicoattive.
L’esordio è spesso correlato ad un evento traumatico scatenante: quanto più stressante è stato lo stimolo
che ha indotto il disturbo, tanto più specifica sarà la fobia. Il decorso è variabile: può essere transitorio,
fluttuante o cronico. Peggiori sono le condotte di evitamento, tanto più il disturbo tenderà a persistere.
Il trattamento elettivo è quello comportamentale tramite l’esposizione allo stimolo: il principio è che tutte
le condotte di fuga dallo stimolo impediscono che il soggetto si abitui ad esso e metta in atto la graduale
riduzione e scomparsa di ansia, paura e stress generati. Solo la ripetuta e prolungata esposizione quindi,
determinerà la graduale riduzione della reazione d’allarme. Il paziente può venire esposto direttamente o
tramite rappresentazione mentale, gradualmente o improvvisamente (per immersione).
Dal punto di vista farmacologico gli SSRI sono efficaci.

FOBIA SOCIALE O DISTURBO D’ANSIA SOCIALE


E’ il timore fobico e l’evitamento di situazioni diverse ma tutte caratterizzate dal fatto che il soggetto si
sente esposto allo sguardo e al potenziale giudizio negativo altrui. Il pz teme di essere umiliato, deriso o
abbandonato perché si è comportato o è apparso impacciato.
Sintomi di fobia sociale sono molto presenti nella popolazione, ma il vero e proprio disturbo (caratterizzato
dalla compromissione del funzionamento) colpisce circa il 2% della popolazione europea con leggera
maggioranza nelle donne. Data la peculiare caratteristica del disturbo, il paziente non giunge
all’osservazione del medico o vi arriva tardi per via delle complicanze (depressione maggiore o abuso di
sostanze). Il pz inoltre non riesce a crearsi una rete sociale adeguata per via del suo disturbo.
Come tutti i disturbi fobici, anche la fobia sociale è caratterizzata da crisi fobiche e da comportamenti di
fuga. Le crisi fobiche si esprimono nell’ambito delle relazioni interpersonali, il pz ha il terrore della
figuraccia. In alcuni casi il timore è limitato ad alcune situazioni e compromette solo in parte il
funzionamento dell’individuo. Il paziente prova un’intensa ansia anticipatoria all’idea di dover essere
esposto socialmente, con i correlati neurovegatativi dell’ansia acuta: ipersudorazione, tachicardia,
tachipnea ecc. Ne risulta che la performance sociale appaia parzialmente compromessa.
I comportamenti di evitamento hanno lo scopo di diminuire il rischio di esposizione sociale e spesso i pz con
fobia sociale finiscono per fare lavori solitari che non implichino contatti interpersonali.
Il DSM richiede una durata dei sintomi di almeno 6 mesi per la diagnosi.
In molti pz concomita un disturbo depressivo o un abuso di alcol e benzodiazepine senza i quali il fobico
non riesce ad affrontare alcune situazioni sociali.
L’esordio avviene generalmente intorno ai 15 anni anche se il pz giunge all’osservazione molto più
tardivamente. Il decorso tende a essere cronico e progressivamente invalidante. Il trattamento si avvale sia
di terapie cognitive che farmacologiche. Dal punto di vista cognitivo si tenta di modificare il sistema di
convinzioni e pensieri tipico del fobico che ipervaluta i giudizi altrui e non tollera commenti negativi. I
farmaci efficaci sono gli SSRI e vengono mantenuti per circa un anno. Le terapie farmacologiche e cognitive
possono essere attuate separatamente o in maniera combinata a seconda della gravita.

AGORAFOBIA
Ansia legata al trovarsi in luoghi in cui sarebbe difficile allontanarsi, fuggire oppure chiedere e ricevere
soccorso, nel caso in cui si verificasse un attacco di panico o una crisi d'ansia.
Il paziente evita di frequentare luoghi non familiari ed è particolarmente spaventato dai luoghi affollati, dai
mezzi pubblici senza una persona fidata al proprio fianco che potrebbe soccorrerla. L’agorafobia è
raramente un disturbo autonomo, molto più frequentemente si associa ed è la complicanza di un disturbo
di panico. Il pz struttura comportamenti di adattamento al proprio timore che condizionano il
funzionamento. Il soggetto limita progressivamente gli spostamenti e si muove solo in ambienti noti e
circoscritti. Per la diagnosi, il DSM richiede la persistenza dei sintomi per almeno 6 mesi e la presenza di
timore in almeno due delle seguenti situazioni: mezzi pubblici, spazi aperti, spazi chiusi, trovarsi in fila,
trovarsi in luoghi affollati o uscire da soli.
L’esordio è subdolo e progressivo e segue di qualche tempo l’esordio del disturbo di panico, il decorso è
cronico e, se non trattata, l’agorafobia persiste anche nella risoluzione del disturbo di panico.
La terapia psicoterapica d’elezione è la tecnica di esposizione. L’impiego di terapie farmacologiche è
correlato alla comorbidità con altre patologie.

DISTURBO D’ANSIA GENERALIZZATA


E’ una manifestazione clinica in cui l’ansia si manifesta continuativamente in forma libera e fluttuante senza
motivi specifici e senza strutturarsi in forma fobica. E’ caratterizzata da eccessive preoccupazioni con attesa
apprensiva non diretta verso una specifica situazione o verso una molteplicità di situazioni. Il disturbo
d’ansia colpisce circa il 5% della popolazione ma di rado si presenta da solo: molto spesso prelude,
accompagna o segue un altro disturbo ansioso più strutturato o un disturbo ossessivo-compulsivo.
Il sintomo ansioso non ha un contenuto specifico, costante e caratterizzante. Il pz è costantemente teso
emotivamente e in stato di apprensione. Gli stimoli che generano lo stato di allarme sono molteplici e
mutevoli, si può dire che ogni piccolo evento della vita quotidiana può scatenare una risposta ansiosa.
Questo stato di allarme persistente compromette il funzionamento sociale dell’individuo anche perché
genera sintomi neurovegetativi e neuromuscolari quali cefalea, tachicardia, tensione muscolare, dispepsia
ecc. Il disturbo è tale quando dura, per il DSM, almeno 6 mesi. Poiché l’ansia può essere transitoria ma
sfocia in disturbo solo se si protrae fino a inficiare sul funzionamento sociale.
La terapia comprende diversi tipi di intervento, farmacologico e non, integrato e non.
Sul piano farmacologico, il disturbo trae un efficace giovamento dalle benzodiazepine, ansiolitici che
costituiscono la prima scelta. E’ importante la somministrazione di 2 o 3 dosi giornaliere in base all’emivita
per poter coprire tutta la giornata, ma il loro impiego non deve essere protratto per più di 4/6 mesi, poiché
si potrebbe incorrere in tolleranza o dipendenza dal farmaco.
In casi di disturbo grave che necessita un trattamento a lungo termine, si sono dimostrati efficaci diversi tipi
di farmaci come gli SSRI o gli SNRI (inibitori selettivi di serotonina e noradrenalina) oltre ad alcuni triciclici
come l’imipramina e alcuni antipsicotici atipici come la quetiapina (che in Italia non è indicata).
Una volta impostato il trattamento, esso andrebbe mantenuto a dosi piene per circa un anno e magari
dovrebbe essere accompagnato da terapie non farmacologiche di rilassamento o di rielaborazione e
ristrutturazione cognitiva anche attraverso la psicodinamica.

DISTURBO DI PANICO
Occorre distinguere tra attacco di panico e disturbo di panico. Il primo non costituisce di per sé un disturbo
mentale ma semplicemente un evento critico (con un inizio e una fine) talvolta isolato e talvolta
manifestazione di un disturbo psichiatrico in cui il soggetto prova un’ansia molto intensa con sintomi fisici
correlati all’attivazione del sistema d’allarme.
Il disturbo di panico invece è caratterizzato da specifici sintomi tra cui attacchi di panico inaspettati e
ricorrenti. Per la diagnosi di disturbo di panico infatti, è necessario che vi siano più attacchi di panico
inaspettati e che per via di essi o solo per il timore del loro arrivo, venga condizionata l’esistenza del
paziente fino a comprometterne il funzionamento sociale.
La prevalenza nella popolazione è di circa il 2-3%, più frequente nel sesso femminile e con una discreta
familiarità. La manifestazione essenziale di questo disturbo è l’attacco di panico, definito come:
-Episodio acuto d’ansia a insorgenza improvvisa e di breve durata (10-20 minuti) accompagnato da
malessere e sintomi somatici neurovegetativi e neuromuscolari correlati all’ansia (vampate, brividi,
parestesie ecc.). La specificità dei sintomi non è costituita dalla loro qualità ma dalla loro presentazione
acuta: rapida insorgenza, breve durata e massima intensità.
I correlati cognitivi di un attacco di panico sono invece pecuiari e presentano sempre temi ricorrenti: paura
di morire, paura di impazzire e paura di perdere il controllo.
Vi sono anche alcune manifestazioni percettive peculiari dell’attacco di panico, ovvero:
-la derealizzazione, tramite la quale il soggetto ha un’alterata percezione del mondo esterno che vede in
modo anomalo
-la depersonalizzazione, tramite la quale il soggetto ha un’alterata percezione di sé stesso vedendosi come
dall’esterno.
Spesso dopo anni di malattia il paziente presenta solo attacchi paucisintomatici ma esprime comportamenti
patologici di evitamento tali da prevenire l’attacco pieno. Nella fase iniziale del disturbo gli attacchi sono
inaspettati, isolati e ben circoscritti tali da essere facilmente ricordati. Ben presto vengono seguiti da uno
stato di paura e ansia con timore che le crisi possano ripetersi. Così il paziente vive in un costante stato di
apprensione e vigilanza detto “ansia intercritica”, un tipo d’ansia anticipatoria che è diversa dagli attacchi di
panico perché dura più a lungo e può essere ridotta e controllata (l’attacco di panico no). Con il ripetersi
degli attacchi si instaurano inoltre altri comportamenti patologici che aggravano il decorso del disturbo.
La maggior parte dei pazienti con disturbo di panico presenta altri disturbi in comorbidità che costituiscono
delle vere e proprie complicanze:
-agorafobia: rappresenta l’evoluzione più precoce
-fobia sociale
-ipocondria: consiste in un’attenzione selettiva rivolta ai sintomi fisici dell’ansia che vengono temuti e
scatenano un’ulteriore reazione d’allarme creando un circolo vizioso fino a scatenare veri e propri attacchi
di panico.
-depressione
-abuso di sostanze: benzodiazepine e alcol
Nella storia infantile dei pazienti affetti da DP viene segnalata frequentemente ansia da separazione dai
genitori.
Il disturbo esordisce tra i 15 e i 35 anni con esordio improvviso e facilmente databile. Il decorso è fluttuante
con tendenza alla cronicizzazione ma se ben trattato può regredire completamente.
La frequenza e l’intensità degli attacchi si riducono drasticamente con un adeguato trattamento
farmacologico, mentre sono scarsamente influenzate da interventi psicoterapici.
Nei pazienti con disturbo di panico vi è una risposta maggiore ai test di induzione dell’attacco. L’infusione di
lattato di sodio e anidride carbonica scatena l’attacco nei pazienti che soffrono del disturbo.
Alcune ricerche tramite neuroimaging funzionale hanno dimostrato il coinvolgimento dell’ippocampo nella
fisiopatologia del disturbo. Sul piano neurotrasmettitoriale è stato dimostrato un ruolo importante del
sistema noradrenergico, infatti la yohimbina (antagonista dei recettori alpha-2) può indurre la comparsa di
attacchi di panico potenziando la trasmissione noradrenergica.
Inoltre la stimolazione del locus coeruleus ( nucleo del tronco encefalico all'origine della maggior parte
delle azioni della noradrenalina nel cervello) provoca tachicardia, midriasi e tremore, sintomatologia degli
attacchi di panico.
La terapia può essere farmacologica o cognitivo-comportamentale.
Gli attacchi di panico rispondono meglio alla terapia farmacologica mentre le complicanze come
l’agorafobia rispondono meglio alla psicoterapia.
Sul piano farmacologico l’obiettivo è di ridurre l’intensità e la frequenza degli attacchi, l’ansia anticipatoria
e le condotte agorafobiche fino a stabilire un normale funzionamento sociale.
Quando gli attacchi tendono a manifestarsi in maniera sporadica è consigliato l’utilizzo di benzodiazepine a
breve termine come l’alprazolam, che ha dimostrato una buona efficacia antipanico (1.5mg/die in fase
iniziale, 3-4mg/die più avanti).
Nel trattamento di un disturbo di panico di media o grave intensità, si utilizzano:
-inibitori selettivi della serotonina:per la fluoxetina, la paroxetina e il citalopram è stata dimostrata una
buona efficacia anche a basso dosaggio (20 mg/die)
-inibitori del reuptake della serotonina e della noradrenalina: venlafaxina 120-200 mg/die
-antidepressivi triciclici: impiramina o clomipramina 150-200 mg/die.
La risposta in termini di riduzione fino a scomparsa degli attacchi si rende in genere evidente entro la sesta
o dodicesima settimana ed è generalmente accompagnata dalla progressiva risoluzione dell’ansia
anticipatoria e delle condotte agorafobiche. La sospensione del farmaco deve essere graduale e deve
protrarsi per 1-3 mesi. In caso di ricaduta i pazienti rispondono bene alla ripresa del trattamento con lo
stesso farmaco usato precedentemente.

D.O.C.
La caratteristica psicopatologica essenziale del disturbo è un lavorio continuo espresso sul piano mentale
e/o comportamentale, che occupa il soggetto per buona parte del suo tempo e che ha lo scopo di eliminare
o neutralizzare dei contenuti mentali. Si tratta di contenuti del pensiero inappropriati, che infastidiscono
poiché inutili o che turbano il paziente che si sente “assediato”. Il tentativo di neutralizzare un contenuto
mentale è però inefficace o meglio riesce nel suo scopo solo per un breve periodo di tempo. Il termine
compulsività esprime proprio questa ripetitività forzata.
L’attività ossessivo-compulsiva è quindi volontaria e finalistica ma inconclusiva perché il soggetto sente la
necessità di ripeterla poiché inefficace. Il paziente avrebbe la possibilità di fermarsi, ma si sente
inesorabilmente costretto a “lavorare”. Questo contenuto mentale disturbante non è specifico del paziente
ossessivo: può essere un contenuto neutro o che compare nella mente di una persona sana o può essere
un contenuto mentale abnorme ma non peculiare del disturbo perché si ritrova anche in pazienti affetti da
altri disturbi. L’elemento di specificità del disturbo ossessivo-compulsivo è la continua e inarrestabile
attività contro questo contenuto di pensiero. Quest’ultimo può essere:
-un’idea: un dubbio, un’idea o un’immagine oscena o violenta o blasfema
-una paura: timore fobico di essere contaminati, contagiati o sporcati.
-un impulso: la spinta di aggredire, fare del male, violentare
In altri casi il contenuto mentale è lo stesso che si può trovare in altre condizioni psichiatriche: è il tipo di
risposta abnorme che è differente e specifica del DOC.
Nell’ossessivo si ha un temporaneo sollievo dovuto al compimento di attività mentali o gestuali, vissute
come eccessive, volte all’allontanamento dell’impulso e non alla sua realizzazione. La fondamentale
differenza tra DOC e disturbo del controllo degli impulsi è quindi sul piano psicopatologico della risposta
che il paziente fornisce agli impulsi. Nel DOC, i sintomi raggiungono un’intensità tale da generare disagio
marcato e interferenza sul funzionamento sociale del soggetto.
Studi recenti hanno mostrato una prevalenza del 2-3% del DOC nella popolazione, un 10% dei pazienti DOC
con almeno un parente di primo grado affetto dal disturbo e una probabilità 4-5 volte maggiori per parenti
di un DOC di sviluppare lo stesso disturbo.
Il DOC è caratterizzato sul piano clinico dalla presenza di due ordini di sintomi: le ossessioni e le
compulsioni (anche se ci sono casi in cui vengono riferite solo ossessioni)
-l’ossessione è un sintomo psichico esperito a livello mentale e non obiettivabile e presenta caratteristiche
peculiari:
-persistenza e ricorrenza nella mente: l’ossessione disturba e infastidisce il soggetto.
-egodistonia: il contenuto mentale è considerato intrusivo e inappropriato e crea un disagio che deriva
Sia dalla persistenza che dal contenuto stesso. (diagnosi differenziale con delirio)
-l’individuo riconosce che l’ossessione è prodotta dalla propria mente e non imposta dall’esterno.
(diagnosi differenziale con delirio)
-incoercibilità: l’ossessione non sottostà alla volontà del soggetto, che non riesce a neutralizzarla.
Le tematiche ossessive più frequenti riguardano il timore di essersi sporcati, il dubbio relativo ad attività
quotidiane accompagnato dal timore di essere responsabili di qualcosa di grave, le idee di simmetria e
perfezione, le ossessioni numeriche, le idee ossessive aggressive o sessuali.
-la compulsione: rappresenta un sintomo espresso sul piano comportamentale e quindi obiettivabile, che
viene atto in risposta ad una ossessione. Le caratteristiche peculiari delle compulsioni sono:
-intenzionalità: il soggetto esegue la compulsione con consapevolezza (a differenza del tic)
-finalità: hanno lo scopo di neutralizzare l’ossessione
-ripetitività: il soggetto attua la compulsione ripetutamente nonostante sia consapevole della natura
Eccessiva di tali comportamenti.
Più frequentemente le compulsioni consistono in: compulsioni di controllo e verifica, di pulizia, di ordine, di
conteggio.
Esistono anche le compulsioni da accumulo che non appartengono al disturbo di accumulo solo se sono una
risposta ad una ossessione che le categorizza come compulsioni da DOC.
Oltre alle tipologie classiche di DOC esistono dei quadri sintomatologici atipici come:
-la lentezza ossessiva primaria caratterizzata da una modalità di eseguire le azioni più semplici in modi
prestabiliti, ordinati e simmetrici. Ciò rallenta molto i tempi di esecuzione e interferisce col normale
funzionamento del soggetto. E’ una patologia difficilmente presente in monosintomatologia.
-il timore ossessivo dell’AIDS
-la bowel obsession: timore che in pubblico la gente possa sentire i gorgorii del proprio intestino o che si
possa perdere il controllo sfinteriale.
Oltre alla compromissione del funzionamento vi sono dei parametri fondamentali per la diagnosi di DOC,
ovvero:
-resistenza: capacità soggettiva del paziente di lottare contro l’idea intrusiva e di controllare la messa in
atto delle compulsioni
-interferenza: si correla alla capacità di adattarsi e convivere coi propri sintomi
-insight: la consapevolezza del paziente rispetto al proprio disturbo nel riconoscere l’assurdità dei propri
gesti.

Oltre ai sintomi che definiscono il disturbo principale, possono presentarsi sintomi di natura diversa come:
-le fobie: correlate alle ossessioni o indipendenti
-la depressione: primaria (ad esordio precedente al DOC) o con più frequenza secondaria (che esordisce
dopo il DOC)
-disturbi da tic: sono relativamente frequenti in pazienti con disturbo ossessivo compulsivo ma sul piano
clinico la loro presenza assume un significato importante: secondo il DSM infatti essi segnalano una risposta
sfavorevole al trattamento farmacologico con SSRI in monoterapia e indicano un trattamento preferenziale
di combinazione tra SSRI e antipsicotici a basso dosaggio.
-abuso di sostanze
-insonnia: data dal fatto che spesso il pz proroga l’ora di andare a dormire perché non riesce a concludere
le compulsioni.
La modalità d’esordio è frequentemente subdola e insidiosa ma può anche essere acuta e preceduta da un
breve periodo con presenza di sintomi egosintonici (ovvero che vengono tollerati dal pz e non recano
disagio).
L’età d’esordio è variabile tra i 10 e i 40 anni. Il decorso viene distinto in due forme:
-decorso episodico: caratterizzato da alternanza di periodi di disturbo e periodi di remissione totale. Esso
ha un’età d’esordio più tardiva, è più frequente nelle donne, ha una maggiore prevalenza di forme
ossessive pure ed è associato a depressione primaria.
-decorso cronico: ha un’età d’esordio precoce ed è più frequente negli uomini, è associato a depressione
secondaria e a sua volta si distingue in: cronico fluttuante (50% dei casi) con periodi di aggravamento e
periodi di remissione solo parziale, cronico stabile (20%) con persistenza dei sintomi che permettono un
minimo funzionamento sociale e cronico ingravescente (10%) molto grave perché determina
impoverimento intellettivo, diminuzione delle prestazioni cognitive e grave compromissione del
funzionamento.
L’ipotesi patogenetica più accreditata sostiene che alla sintomatologia corrisponda una disregolazione di
alcuni sistemi neurotrasmettitoriali.
Il sistema serotoninergico è quello più interessato poiché nel DOC sono efficaci gli inibitori selettivi della
serotonina e in più si assiste a una ipersensibilità seratoninergica da carenza di serotonina.
Altro sistema interessato è il dopaminergico per l’elevata frequenza di sintomi ossessivo compulsivi in
pazienti con disturbi neurologici legati ad alterazioni dei gangli della base su cui la dopamina svolge la sua
funzione.
Nel DOC inoltre è stato analizzato un ciclo di eccessiva inibizione del globus pallidus (coinvolto nella
regolazione dei movimenti volontari, appartenente ai gangli della base e situato sul telencefalo).
Da un lato l’inibizione risulta determinata da una ridotta attività dell’ippocampo (dovuto a ridotta attività
serotoninergica) che fa venire meno il controllo sul paleostriato. Quest’ultimo, disinibito, aumenta la sua
attività inibitoria sul globus pallidus.
Dall’altro lato il globus pallidus viene inibito anche da un’iperattività del caudato.
La risultante è una disinibizione del talamo con attivazione di circuiti feedback positivo sulla corteccia
motoria (risultando in comportamenti motori alterati) e sulla corteccia orbito frontale (risultando in ansie
ed ossessioni).
Il trattamento del DOC è di lunga durata ma consente in alcuni casi di arrivare alla remissione dei sintomi.
Si considerano due approcci significativi: inibitori del reuptake della serotonina (SRI) e psicoterapia.
La terapia farmacologica si basa su tutti gli inibitori selettivi del reuptake della serotonina (SSRI) a dosi
medio alte superiori a quelle di comune impiego per la depressione maggiore. La farmacologia si basa
anche sull’utilizzo della clomipramina, un antidepressivo triciclico con azione preferenziale sul reuptake
della serotonina. Nessun altro triciclico è contemplato.
I benefici della farmacoterapia si apprezzano in 6-8 settimane a dosi medio alte e la risposta è disponibile
alla dodicesima settimana. La terapia deve essere continuata per 2 anni per promuovere la riduzione dei
sintomi fino alla loro scomparsa prevenendo anche le ricadute. La terapia di mantenimento può essere
mantenuta a dosi piene o ridotta del 50%.
I pazienti che rispondono male alla terapia possono giovarsi dell’aggiunta di antipsicotici a basso dosaggio
come aloperidolo e pimozide tra i tradizionali e risperidone, olanzapina tra i nuovi.
Mai da utilizzare in monoterapia ma solo in aggiunta. Per quanto concerne gli interventi psicoterapeutici
cognitivo comportamentali si utilizza il metodo dell’esposizione e della prevenzione della risposta. Occorre
prestare attenzione al rischio di ossessivizzazione della psicoterapia.

DISTURBO DA DISMORFISMO CORPOREO


La caratteristica essenziale è la preoccupazione di avere un difetto o una imperfezione nel proprio aspetto
fisico. Questa non è obiettivamente presente o se lo è vi è una netta sproporzione tra l’oggettivo difetto e
la percezione dell’individuo. In risposta a questi contenuti di pensiero, il paziente mette in atto
comportamenti ripetitivi quali un continuo guardarsi allo specchio o il tentativo di ottenere rassicurazioni
da terzi che anche quando arrivano soddisfano il soggetto solo temporaneamente. L’intensità del quadro
clinico non è delirante per il paziente riconosce l’esagerazione nella sua preoccupazione, è tuttavia
possibile che questo insight involva col passare del tempo.
Un sottotipo di questo disturbo è la il disturbo da dismorfia muscolare che colpisce in maggioranza i
maschi.
Tra le complicazioni del disturbo da dismorfismo troviamo prima su tutte la depressione maggiore con
rischio di suicidio, ma anche il rischio che questi pazienti si sottopongano a correzioni chirurgiche continue
che non li soddisferanno mai e che rischiano di peggiorare la condizione patologica.
Vi sono evidenze di una comune vulnerabilità allo sviluppo di DOC così come del coinvolgimento dello
stesso circuito neuronale (orbitofrontale-striato-corticale). Il trattamento farmacologico si avvale
dell’impiego di SSRI.

DISTURBO DA ACCUMULO (HOARDING DISORDER)


E’ una sindrome caratterizzata da persistente incapacità di gettare via oggetti di scarso valore personale
affettivo, dovuta a un bisogno percepito di conservare gli oggetti, che conduce il soggetto ad un accumulo
eccessivo e porta a ingombro degli spazi vitali, disagio e compromissione del funzionamento sociale.
L’hoarding è una condizione pericolosa per la salute dei pazienti determinando rischio di incidenti
domestici e scarsa igiene.
L’individuo ha scarsa consapevolezza della natura patologica del suo accumulo ed è presente disagio e
angoscia solo nel momento in cui si deve disfare dei suoi oggetti.
Gli elementi che differenziano il disturbo da accumulo dal DOC sono:
-il paziente con hoarding non vive il suo accumulo come intrusivo, ma come parte di un normale flusso di
pensieri che non lo porta a mettere in atto rituali di alcuna natura.
-i comportamenti di accumulo non si accompagnano a vissuti spiacevoli o ad angoscia intensa
-l’hoarding è caratterizzato da passività e il disagio compare solo quando il soggetto si trova davanti alla
prospettiva di doversi disfare degli oggetti accumulati.
-data la natura egosintonica dei sintomi, abbiamo scarso insight
-i sintomi peggiorano con l’età.
Ovviamente le compulsioni di accumulo possono anche essere sintomi del DOC e non cosituiscono diagnosi
aggiuntiva, soprattutto nei casi in ui l’accumulo non è volontario e genera ansia.
Studi preliminari indicano una efficacia solo parziale delle rerapie con antidepressivi seratoninergici se non
accompagnati da psicoterapia.

TRICOTILLOMANIA
Ricorrente strapparsi i capelli e i peli del corpo con tentativi di controllare tali comportamenti o di
nasconderli

DISTURBO DA ESCORIAZIONE
Consiste nello stuzzicarsi la pelle conducendo a lesioni dermatologiche.

DISTURBI DELL’ALIMENTAZIONE
Sono un gruppo di sindromi cliniche in cui ad una condizione psicopatologica corrisponde una persistente
alterazione della condotta alimentare e la presenza di comportamenti volti al controllo del peso e della
forma del corpo. Tali alterazioni comportano danni alla salute fisica e compromettono in misura
significativa il funzionamento psicosociale.
Nella bulimia nervosa, nel disturbo da alimentazione incontrollata e nei disturbi correlati è presente una
disregolazione nel controllo degli impulsi. Sul piano clinico questo si traduce nella presenza di ricorrenti
episodi di abbuffate. Nella bulimia il tentativo di controllo dell’impuso esagerato si traduce in
comportamenti altrettanto patologici volti ad evitare l’aumento del peso: autoinduzione del vomito, uso di
lassativi e diuretici ecc. Tali condotte di compenso non sono invece presenti nel disturbo da alimentazione
incontrollata.
Il nucleo psicologico dell’anoressia è diverso: si tratta di un rapporto patologico con il proprio corpo e la
propria identità fisica e sessuale, non con l’alimentazione. Il rifiuto di mangiare è un tentativo di
compensazione più che un problema primario di rapporto con il cibo, è il tentativo di controllare,
modificare la propria immagine. Sul piano clinico questo si traduce in una consistente perdita di peso,
un’intensa paura di ingrassare e in disturbi della propria immagine corporea.

ANORESSIA NERVOSA
Nell’anoressia il problema è un rapporto patologico con il proprio corpo che solo secondariamente
comporta un disturbo alimentare, accompagnato tra l’altro da altri comportamenti patologici ad esempio
autolesivi. Il dimagramento rappresenta il tentativo di correggere la forma del proprio corpo.
La prevalenza nella popolazione femminile maggiorenne è dello 0.8%, ma se si includono le adolescenti si
arriva al 2%. E’ infatti una patologia a prevalenza femminile.
Secondo il DSM i sintomi fondamentali per porre diagnosi di disturbo sono tre e devono essere presenti
tutti: restrizione dell’apporto energetico rispetto al necessario, timore intenso di ingrassare ed alterata
immagine corporea.
- Restrizione dell’apporto energetico rispetto al necessario:
Il DSM prevede uno specificatore di gravità dell’anoressia secondo il BMI: lieve se maggiore o uguale a 17
kg/mquadro, moderata tra 16 e 16.99, severa tra 15 e 15.99 e grave se inferiore a 15. Il dimagrimento e il
mantenimento di un peso al di sotto della norma possono avvenire attraverso differenti condotte:
- con restrizioni: la diminuzione dell’apporto calorico viene attuata o con una riduzione delle porzioni
o attraverso l’esclusione di specifici alimenti. Alcune scelte apparentemente
dietetiche, religiose, etiche, celano in realtà la necessità di doversi imporre delle
restrizioni per dimagrire.
-con abbuffate e condotte di alimentazione: i pazienti tentano di ridurre l’apporto calorico ma non
riescono a mantenere un controllo costante sul proprio comportamento
alimentare. Le limitazioni autoimposte si traducono in abbuffate. Tale perdita
di controllo è evidenziata dal fatto che le pz mangiano senza tener conto del
normale ritmo, ordine e gusto che regolano una alimentazione normale.
La riduzione di peso avviene con vomito autoindotto, abuso di diuretici e di
Lassativi. Alcuni soggetti attuano queste condotte anche dopo pasti normali,
non necessariamente abbuffate. In questo caso il disturbo è in rapporto con la
bulimia, si tratta comunque di pz anoressiche con sintomi bulimici.
Ciò che distingue i due disturbi è il peso ridotto nell’anoressia e normale
nella bulimia.
-Timore intenso di ingrassare nonostante la pz sia sottopeso. Si tratta di un atteggiamento di tipo fobico,
accompagnato da ansia intensa, che si rendono particolarmente manifesti al momento del controllo del
peso.
-Alterata immagine corporea: la pz si vede grassa. Secondo alcuni autori si tratta di sintomatologia delirante
e in effetti sul piano clinico in alcune pazienti sono rilevabili sintomi di tipo psicotico.
E’ di frequente osservazione il fatto che la paziente non presenta un alterato giudizio per l’immagine
corporea delle altre persone. L’autostima della pz anoressica è basata esclusivamente sul peso e sulla
forma del suo corpo.
Nel quadro clinico dell’anoressia si possono riscontrare altri sintomi come:
-Amenorrea da almeno tre mesi: che non è sufficiente per la diagnosi del disturbo ma è comunque un
sintomo primario. L’amenorrea psicogena è determinata da una disfunzione ipotalamica identica a quella
che si può osserva in casi di stress. In anoressia è presente una regressione dell’asse ipotalamo-ipofisi-
gonadi.
-Ritiro sociale e coartazione affettivo-sessuale: Un certo grado di isolamento e di riduzione dei rapporti
sociali si osserva con frequenza. Sul piano affettivo-sesuale la p è in genere immatura e inibita, tendendo a
evitare i rapporti interpersonali.
-Iperattività: soprattutto nelle prime fasi del disturbo le giovani pz possono apparire molto attive e piene di
energia. Dormono poco, praticano intensa attività sportiva per l’idea di poter ridurre il peso anche in
questo modo.
-Depressione dell’umore: E’ frequente osservarla dopo qualche tempo dall’esordio, quando l’iperattività
viene meno per l’impossibilità fisica di reggere tali ritmi. In alcuni casi, l’anoressia si complica con un vero e
proprio episodio depressivo maggiore che si sovrappone.
-Sintomi ossessivo-compulsivi: Sono presenti con una certa frequenza ideazione e rituali ossessivo
compulsivi centrati sul cibo (misurare e controllare ripetutamente le calorie). La frequenza dei sintomi
ossessivo compulsivi aumenta al diminuire del peso.
Sul piano somatico si rilevano numerose e variegate sintomatologie tipiche dei quadri di iponutrizione.
L’anoressia esordisce in genere tra i 14 e i 18 anni, con un aumento negli ultimi anni degli esordi tardivi e
una diminuzione di quelli precoci. L’avvio del quadro è generalmente subdolo e insidioso, seguito a una
dieta ipocalorica. In alcuni casi però insorge acutamente in seguito ad un evento stressante. Nella prima
fase la riduzione del peso si associa a benessere e sentimenti di onnipotenza, in se4guito le preoccupazioni
circa la forma del corpo e il peso diventano marcate e la paura di ingrassare persiste nonostante la
riduzione del peso. Compaiono la polarizzazione del pensiero su cibo con aspetti ossessivo compulsivi. Il
10% va incontro a morte per complicanze mediche acute o croniche e di questa percentuale il 20% avviene
per suicidio. La valutazione e il trattamento dell’anoressia nervosa richiedono un approccio
multidimensionale che comprenda la presa in carico da parte di un internista e/o dietologo per la cura delle
conseguenze dell’iponutrizione, e di un endocrinologo e/o ginecologo che trattino l’amenorrea e le
disfunzioni endocrine. Il luogo di cura in alcuni casi non può che essere l’ospedale e la scelta è influenzata,
oltre che dai sintomi somatici anche dalle difficoltà gestionali di un trattamento a domicilio.
L’intervento psicofarmacologico è sintomatico e va associato ad un intervento complesso di presa in carico
psicoterapica. L’intervento farmacologico è focalizzato sul trattamento delle complicanze psichiatriche: gli
SRI appaiono il miglior trattamento dei sintomi depressivi e la fluoxetina ad alto dosaggio 60-80mg/die è
abbastanza efficace per il controllo delle abbuffate.
L’impiego di benzamidi a basso dosaggio stimolano l’appetito, però è importante sapere che indurre
l’aumento dell’appetito in un’anoressica può comportare dei rischi perché risulta in genere sgradito o
addirittura può spaventare la paziente determinando un paradosso di demoralizzazione.
La psicoterapia è al momento la principale possibilità di trattamento ma non è sempre attuabile data la
scarsa propensione di queste pazienti a farsi curare.
-Terapie cognitivo-comportamentali: l’intervento ha il fine di correggere il comportamento alimentare
patologico e di ripristinare un rapporto con il cibo più naturale ed adeguato. Gli aspetti maggiormente
suscettibili di miglioramento sono la fobia del peso e del cibo.
-Psicoterapie ad indirizzo psicodinamico: trattamenti che mirano alla risoluzione dei conflitti inconsci che
sottendono il disturbo e quindi la ristrutturazione della personalità della paziente, in particolare riguardo a
una migliore accettazione della propria identità e maturità sessuale.
-Terapie basate sulla famiglio: Alcune dinamiche familiari patologiche possono essere modificate: madre
ipercontrollante, padre con scarso rapporto con la figlia.

BULIMIA NERVOSA
La bulimia è un disturbo dell’alimentazione caratterizzato da ricorrenti episodi di abbuffate e da
comportamenti patologici di compenso volti ad evitare l’aumento di peso. E’ un disturbo in cui un
contenuto mentale non riesce ad essere controllato e si traduce in un comportamento. Infatti il paziente
bulimico come quello DOC ha un impulso, ma mentre il DOC tenta di controllarlo tramite un lavorio, il
bulimico cede e lo traduce in un comportamento (l’abbuffata).
E’ nettamente più frequente nelle donne e si caratterizza per tre sintomi fondamentali:
- Ricorrenti crisi bulimiche: le abbuffate o crisi bulimiche sono definite dall’assunzione di una quantità di
cibo eccessiva in un breve intervallo di tempo associata alla sensazione di perdita di controllo.
L’impulso a mangiare non si manifesta necessariamente accompagnato da senso di fame ed è sempre
riferito il tentativo di opporre resistenza per non cedere all’impulso che si rivela sempre insufficiente.
Ciò che caratterizza le abbuffate è la sensazione di perdita di controllo che si manifesta nell’assunzione di
cibi cotti e crudi insieme, nella mescolanza di dolce e salato senza il rispetto delle ordinarie regole di
alimentazione.
Per la diagnosi è richiesto che le abbuffate e le condotte eliminatorie inappropriate siano almeno una volta
a settimana per tre mesi.
- Ricorrenti condotte di eliminazione o compensatorie: Il vomito autoindotto si accompagna a sentimenti di
sollievo per aver eliminato l’eccesso di cibo e frustrazione per esser ricorsi a tale espediente. Altri metodi
sono l’abuso di diuretici e lassativi, restrizioni dietetiche e digiuni tra un’abbuffata e l’altra.
- Stima di sé eccessivamente influenzata dalla forma del corpo.
La bulimia rappresenta la manifestazione più evidente di altri disordini comportamentali o disturbi del
controllo degli impulsi. Sono anche comuni disturbi di personalità, cleptomania, promiscuità sessuale e
tentativi di suicidio.
Una condizione che spesso coesiste con la bulimia è la depressione. Dal punto di vista delle conseguenze
somatiche, la bulimia determina alterazioni per l’eccesso di cibo consumato (l’obesità non è la regola) ma
soprattutto per la condotta di eliminazione che determina: ipopotassiemia, disidratazione, erosioni dello
smalto dentale, carie, gengiviti, gastriti, esofagiti, ulcere, infiammazioni del colon e il caratteristico segno di
Russell sulle mani (prodotto dallo sfregamento degli incisivi sulla mano al momento del vomito
autoindotto).
L’esordio può avvenire in relazione a una forte restrizione alimentare o in seguito a difficoltà emotive e
personali dopo eventi di vita. Il decorso è intermittente cronico: periodi più o meno prolungati di disturbo
ricorrono con intervalli liberi da sintomi. Il passaggio all’anoressia è raro.
Il trattamento generalmente è ambulatoriale con SSRI e SNRI che hanno determinato la riduzione della
frequenza delle abbuffate e dei comportamenti compensatori. In questi studi i farmaci sono stati impiegati
a dose più elevate rispetto agli episodi depressivi. La fluoxetina è stata studiata ed è risultata efficace anche
nella prevenzione delle ricadute.
Tra le psicoterapie la più indicata è quella cognitivo comportamentale con sessioni di gruppo. Le terapie
psicodinamiche possono essere indicate per la risoluzione di conflitti profondi che sostengono il disturbo.
DISTURBO DA ALIMENTAZIONE INCONTROLLATA
E’ caratterizzato da ricorrenti abbuffate senza condotte eliminatorie o compensatorie. Le abbuffate sono
identiche alle crisi bulimiche con marcato disagio. I comportamenti patologici legati, sembrano derivare
dalla difficoltà di gestire le emozioni e gli impulsi e non appaiono legati al bisogno di controllare il peso e la
forma corporea. Prevale un senso di inadeguatezza e di impotenza, con bassa autostima e tendenza alla
depressione maggiore. Le complicanze mediche somatiche sono malattie cardiovascolari, insufficienza
respiratoria, apnea notturna, dislipidemia ecc.
Gli interventi terapeutici utilizzati nella bulimia hanno mostrato una buona efficacia anche per il
trattamento di questo disturbo.

SCHIZOFRENIA
Con questo termine viene denominato un gruppo di disturbi mentali gravi, di natura psicotica, clinicamente
eterogenei, che hanno in comune un nucleo psicopatologico primario: la scissione dei processi associativi
per cui le funzioni psichiche, che nell’ambito del normale funzionamento psichico sono correlate tra loro,
operano indipendentemente (spaltung) fino alla disintegrazione completa della vita mentale (zerspaltung).
La scissione, la dissociazione, la spaccatura della vita mentale è il nucleo essenziale psicopatologico del
processo schizofrenico. La schizofrenia è la malattia mentale propriamente detta, è la rappresentante più
profonda e totale della follia umana. Della vita psichica dello schizofrenico si può avere solo una
conoscenza indiretta, ma non una effettiva comprensione poiché non si tratta di esperienze mentali affini o
in continuità con quelle da noi tutti comunemente esperite.
FATTORI DI RISCHIO
Non essendo al momento conosciute le cause delle psicosi schizofreniche, è opportuno citare i fattori di
rischio per tale disturbo. Da alcuni studi, sappiamo che è fondamentale l’interazione tra suscettibilità
genetica e fattori ambientali. Solo da questa interazione emerge il disturbo, cioè un determinato corredo
genetico rende il soggetto vulnerabile all’effetto del fattore ambientale, ma in assenza di tale interazione
questi fattori da soli non comportano un aumento del rischio.
Il primo e più significativo fattore è l’ereditarietà. Infatti per un soggetto che abbia un parente di primo
grado affetto da schizofrenia, il rischio di sviluppare il disturbo sale dall’1% (rischio della popolazione) al 4-
5% se lo schizofrenico è un genitore, per arrivare al 7-8% se lo schizofrenico è un fratello.
Le ipotesi genetiche sulla schizofrenia non sono monogeniche ma poligeniche multifattoriali. I geni correlati
ad incremento del rischio sono: DISC1 (cromosomi 1 e 11), NRG1 (8), DTNBP1 (6), COMT (22), DAOA (13).
Molti di questi geni sono implicati nella regolazione del processo di neurosviluppo cerebrale (regolano
proliferazione, migrazione neuronale e formazione delle sinapsi) ed alcuni di essi addirittura regolano
specificatamente la maturazione della corteccia prefrontale, area cerebrale critica per la schizofrenia.
I fattori di rischio ambientali possono agire:
- in epoca intrauterina/perinatale per complicanze ostetriche, stagionalità della nascita, infezioni virali o
stress materno
- in età infantile: per abuso o per ambiente impoverito con scarsi contatti sociali tra madre e figlio e traumi
cranici
- in età tardiva: per abuso di cannabis (il THC determinerebbe iperdopaminergia), esperienza di esclusione
o avversità sociale, vita in città.
CORRELATI NEUROBIOLOGICI
Sul piano macroscopico è stato dimostrato che la schizofrenia si accompagna ad alterazioni generali e
compromissione di specifiche aree cerebrali quali i lobi frontali, le strutture limbiche e i gangli della base
(oltre a riduzione di sostanza grigia cerebrale e aumento del volume ventricolare).
Tramite studi di brain imaging di tipo funzionale, dando dei compiti al pz che stimolino determinate aree
cerebrali, si è notato che negli schizofrenici è presente una inefficiente attivazione di circuiti cerebrali a
carico della corteccia prefrontale e delle alterazioni nella comunicazione tra corteccia prefrontale e talamo.
Questo circuito vede coinvolti neuroni dopaminergici.
Sul piano neurotrasmettitoriale, è evidente l’interesse della funzione dopaminergica sullo sviluppo del
disturbo, in particolare pare che siano implicati i recettori post sinaptici D2. Tale evidenza è confermata dal
fatto che le sostanze d’abuso che aumentano l’attività dopaminergica sono in grado indurre o scatenare
sintomatologia psicotica.
Nello schizofrenico la membrana presinaptica tenderebbe sotto stimolo a rilasciare quantità di dopamina
eccessive e questo determinerebbe, per meccanismo di adattamento, una riduzione della densità
recettoriale D2 postsinaptica.
Dal punto di vista biochimico quindi, la schizofrenia sarebbe un disturbo della trasmissione dopaminergica:
in particolare la sintomatologia positiva (deliri e allucinazioni) sarebbe imputabile a iperdopaminergia,
mentre la sintomatologia negativa, sarebbe causata da una ipodopaminergia a livello dei neuroni che
proiettano nella corteccia prefrontale.
Resta da capire come un’alterazione biochimica possa tradursi clinicamente in un sintomo delirante.
Secondo Kapur, la schizofrenia, nel funzionamento cerebrale normale, sarebbe implicata oltre che nel
movimento anche nell’attribuzione di un significato di rilevanza (salience) a stimoli nuovi.
La dopamina è per Kapur il neurotrasmettitore della gratificazione, che segnala che uno stimolo è
importante perché potrebbe anticipare una gratificazione, quindi serve a motivare l’individuo.
Nella schizofrenia, il sistema dopaminergico è iperfunzionante e questo si tradurrebbe in una alterata
attribuzione di significato a stimoli esterni e rappresentazioni mentali interne. Tutto diventa meritevole di
attenzione e si perde la capacità di discriminare tra eventi rilevanti e non. Gli antipsicotici, riducendo
l’attività dopaminergica, riducono anche la “salience” per eventi irrilevanti, permettendo al paziente di
manifestare un adeguato distacco emotivo.
CARATTERISTICHE PSICOPATOLOGICHE
Sappiamo che la schizofrenia comprende una serie di forme del disturbo molto diverse tra loro, ma esiste
un comune nucleo psicopatologico delle psicosi schizofreniche che possiamo descrivere partendo dal
concetto di Spaltung (dissociazione): tutti questi ammalati al di la dei loro sintomi variegati e
dall’evoluzione differente del proprio disturbo, sono tutti peculiari rispetto ad altri pazienti psichiatrici per
una serie di caratteristiche comuni espressione della dissociazione delle funzioni psichiche che operano
senza integrazione tra loro. Questa dissociazione si manifesta come:
- Disintegrazione dell’identità: non si riconosce più ciò che è proprio da ciò che è esterno da Sé (delirio di
inserzione del pensiero). Confusione o perdita di coesione del Sé nel tempo e nello spazio e perdita dei
confini tra il mondo esterno e il mondo interno
- Dissociazione tra i processi di pensiero: incongruenza tra idea e idea e perdita dei nessi associativi che si
manifesta con episodi di:
-identità basata su predicati identici: il cane è marrone, il cavallo è marrone, quindi il cane è un cavallo
-simmetria patologica: Paolo è il padre di Mario, quindi Mario è il padre di Paolo
-concretizzazione del pensiero: incapacità ad astrarre e adesione a soli concetti concreti
- Dissociazione e incongruenza tra contenuto del pensiero, affettività e volere che si manifesta con
incoerenza affettiva secondo i criteri del buon senso comune (scoppi di pianto in seguito ad eventi neutri o
allegri)
I numerosi studi effettuati hanno tracciato una compromissione cognitiva diffusa: nessuna area corticale
sembra essere risparmiata dal processo schizofrenico, tuttavia le funzioni cognitive più compromesse
sembrano essere la memoria episodica (ricordarsi di eventi trascorsi), la fluenza delle idee e alcuni aspetti a
carico dell’attenzione, mentre le funzioni maggiormente preservate sono la memoria e conoscenza
semantica.
Esistono due linee di pensiero sulla natura della schizofrenia:
- Secondo la linea di schizofrenia come malattia del neurosviluppo (risultato finale di un disturbo che inizia
durante la vita intrauterina in cui è compromesso il normale sviluppo del cervello), i deficit cognitivi
sembrano stabili nel tempo tanto da disegnare un quadro di encefalopatia stabile.
- Secondo la linee di schizofrenia come malattia neurodegenerativa (progressione del danno cerebrale con
l’evolversi del disturbo), si osserva che negli anziani la compromissione cognitiva sembra progredire.
Da un punto di vista clinico descrittivo, i sintomi schizofrenici possono essere anche divisi in: sintomi
positivi, negativi, di tipo disorganizzato e catatonici.
SINTOMI POSITIVI
Rappresentano un’abnorme produzione rispetto al normale. I sintomi, detti anche fattori di distorsione
della realtà, sono le espressioni di un plus percettivo (allucinazioni) e di un plus ideativo (deliri). Questi
sintomi sono secondari alla dissociazione, infatti compensano l’angoscia dirompente del pz che perde la
propria identità.
-Delirio: è un pensiero patologico, un’idea o una convinzione caratterizzata dalla presenza indispensabile di:
- Irrealtà: il pensiero non trae origine da alcun dato reale né da un’esperienza concreta, ma ha le
Caratteristiche di un’intuizione propria del paziente o di un’erronea interpretazione.
-Non criticabilità: il pensiero viene accettato dal paziente come reale e non criticabile e non recede
di fronte alle obiezioni poste dall’esterno.
-Anomalia del pensiero: non è necessario per la diagnosi.
I deliri schizofrenici più caratteristici sono: furto del pensiero, deliri di influenzamento, deliri di
diffusione del pensiero, di inserzione del pensiero, di persecuzione, di riferimento, tematiche di
grandezza, genealogico, erotomanico. Meno tipici sono i deliri di gelosia o di colpa.
-Allucinazione: Sono delle percezioni patologiche in cui viene percepito un oggetto inesistente, non sono
criticate dal paziente e vengono esperite come normali percezioni. Le forme più tipiche sono
quelle uditive (il pz sente voci che commentano le azioni o i pensieri, o che comandano
un’azione. Meno frequenti sono quelle tattili, viscerali o dello schema corporeo.
SINTOMI NEGATIVI
I sintomi negativi sono elementi indicativi di impoverimento ideoaffettivo e motorio: essi rappresentano la
diretta conseguenza della disorganizzazione concettuale e dell’incoerenza affettiva propria dello
schizofrenico, oltre che uno pseudocompenso comportamentale per Contenere i vissuti di integrazione.
-Alogia: forma di impoverimento dell’eloquio
-Appiattimento affettivo: impoverimento della reattività emotiva agli stimoli e incapacità di esprimere dei
sentimenti. Il pz appare piatto e freddo.
-Apatia: Il paziente mostra una indifferenza affettiva per situazioni che normalmente suscitano interesse,
ha ridotta iniziativa e trascorre molto tempo in stato di inattività.
-Anedonia: il pz prova diminuito pia cere e scarso interesse per molti aspetti della vita.
-Ritiro sociale
SINTOMI DI TIPO DISORGANIZZATO
Esprimono la perdita dei confini del Sé, il disordine dei processi di pensiero e la perdita di rapporto tra le
funzioni mentali
-Disturbi formali del pensiero: comprendono tutte le alterazioni dei nessi associativi: il deragliamento è un
discorso spontaneo in cui le idee passano da un tema all’altro, la tengenzialità è una risposta priva di senso
o lontanamente correlata, l’incoerenza è un discorso essenzialmente incomprensibile, l’illogicità è la
conclusione attraverso una deduzione illogica, la circostanzialità è un discorso inconclusivo che fatica a
venire al dunque, l’assonanza è un’associazioni tra i suoni delle parole e non tra i significati.
-Comportamenti bizzarri: sono tutti quegli atteggiamenti che appaiono non adeguate alle circostanze e
possono coinvolgere l’aspetto fisico o l’abbigliamento o il comportamento sociale e sessuale.
-Incongruità affettiva: palese e incomprensibile contrasto tra vissuto emotivo del soggetto e fatti realmente
accaduti che arriva all’inappropriatezza delle reazioni emotive (aggressività in risposta a gesto d’affetto).
SINTOMI CATATONICI
Sono sintomi psicomotori molto gravi in cui emerge un disturbo della volizione: lo stupor catatonico è uno
stato di immobilità senza manifestazioni di vita psichica, la catalessia è una resistenza plastica a movimenti
passivi che sono comunque possibili se indotti dall’esterno, la catatonia è uno stato di immobilità con
assunzione di posture stravaganti che il pz difende con rigidità muscolare qualora si tenti di modificarle,
l’ecolalia è la ripetizione di parole sentite da altri, l’ecoprassia è la ripetizione di movimenti fatti da altri,
l’ecomimia è la ripetizione di gesti e mimiche visti ad altri.
QUADRI CLINICI DI SCHIZOFRENIA

SCHIZOFRENIA DISORGANIZZATA O EBEFRENICA


Questa forma si caratterizza per la presenza prevalente dei sintomi disorganizzati. Esordisce in età
giovanile, sotto i 20 anni. Sono spesso presenti aspetti premorbosi del disturbo (disturbi di personalità,
scarso rendimento scolastico, ritiro sociale) e nella sua forma più caratteristica si stabilisce in modo lento e
progressivo proprio a partire dalle condizioni premorbose. Il decorso è cronico con periodici episodi di
riacutizzazione che lasciano ogni volta delle sequele che peggiorano il quadro clinico di base. Nei primi anni
del disturbo, le fasi di riacutizzazione sono più intense e frequenti ma si rarefanno con il progredire della
malattia. I sintomi prevalenti sono quelli di tipo disorganizzato, ma non mancano sintomi positivi durante le
riacutizzazioni e i sintomi negativi nei periodi intercritici. In questa forma di schizofrenia dominano le
alterazioni formali del pensiero, le bizzarrie comportamentali, l’incongruenza affettiva. Durante i sintomi
positivi, i temi di delirio maggiormente presenti sono: di furto, diffusione o inserzione di pensiero e le
allucinazioni sono spesso uditive e olfattive.
Nei periodi di remissione si evidenziano sintomi negativi quali alogia, ritiro sociale e ottundimento affettivo.
L’evoluzione normale della schizofrenia disorganizzata è di un progressivo impoverimento affettivo e
intellettivo con alto rischio di suicidio. La risposta alle terapie è limitata e raramente consente di portare il
pz ad un buon funzionamento sociale. La prognosi è piuttosto sfavorevole.
SCHIZOFRENIA PARANOIDE
In questa forma è la dimensione sintomatologica positiva che prevale. Esordisce più tardivamente tra i 20 e
i 35 anni e possono essere presenti elementi premorbosi del disturbo. Il decorso della schizofrenia
paranoide è cronico fluttuante con episodi di riacutizzazione che se ben trattati regrediscono anche per
lunghi periodi. Durante questi episodi dominano i sintomi positivi che sono vissuti con grande
partecipazione emotiva e con agitazione psicomotoria. Nei periodi di remissione parziale è presente una
sintomatologia positiva lieve, vissuta invece con scarsa partecipazione.
I deliri del paranoide sono costanti nel contenuto e mostrano idee ben strutturate, sistematizzate e ricche
di particolari in cui i temi più frequenti sono: persecutori, di riferimento e di grandezza.
Le allucinazioni sono vivide, ricche di particolari e congrue ai deliri. Le più comuni sono uditive, tattili e dello
schema corporeo.
I sintomi disorganizzati possono accompagnare i sintomi positivi soprattutto nelle fasi più floride del
disturbo. Se ben trattata, questa forma di schizofrenia permette un discreto funzionamento sociale ma il
rischio di suicidio, seppur meno elevato è presente soprattutto nelle fasi di recupero da una fase acuta.
SCHIZOFRENIA CATATONICA
Si tende a considerare la catatonia più come una fase evolutiva e i trattamenti farmacologici ne permettono
un buon trattamento e una buona prevenzione. Viene sottolineato che un quadro catatonico può essere
presente anche in altri disturbi (bipolari, depressivi, del neurosviluppo). Per tale motivo il trattamento della
schizofrenia è attuato in ricovero ospedaliero per: formulare diagnosi differenziali nei confronti di altri
disturbi, prevenire rischio di acting-out (ovvero espressione dei propri vissuti emotivi conflittuali attraverso
l'azione piuttosto che con il linguaggio) e monitoraggio delle condizioni.
La catatonia resistente al trattamento può costituire un’indicazione per la terapia elettroconvulsivante
(ECT).
SCHIZOFRENIA RESIDUA
Si caratterizza per la prevalenza di sintomi negativi ed esordisce frequentemente in età giovanile con fattori
premorbosi di scarso rendimento scolastico e ritiro sociale. L’esordio parte da questi fattori e il decroso
comprende rare acutizzazioni in cui compaiono sintomi positivi o di tipo disorganizzato. Il quadro
sintomatologico preponderante è quello in cui il pz appare chiuso in se stesso, parla poco, ha scarsa
reattività emotiva e manifesta incongruenza affettiva. L’evoluzione naturale è un impoverimento affettivo
ed intellettivo, è resistente alla terapia (che tratta i sintomi positivi e disorganizzati, non quelli negativi) e
ha una prognosi sfavorevole.

TERAPIA
Comprende tre fasi distinte: fase acuta in cui è necessaria l’ospedalizzazione, fase di stabilizzazione e fase di
mantenimento il cui trattamento può essere eseguito anche al domicilio o in comunità.
La cura consiste obbligatoriamente in trattamento psicofarmacologico a cui viene associata una psico-
socio-riabilitazione ed eventualmente una psicoterapia. La cura ha l’obiettivo di determinare la scomparsa
della sintomatologia psicotica, prevenire disturbi comportamentali e indurre un recupero del più alto
funzionamento sociale possibile.
La terapia di mantenimento ha come scopo mantenere la remissione sintomatologica, migliorare ancora il
funzionamento e prevenire future riacutizzazioni. Nella maggior parte dei casi il trattamento viene
condotto per tutta la vita al fine di mantenere il pz in un discreto stato di compenso psichico.
In fase acuta l’intervento principale è la farmacoterapia, in stabilizzazione ad essa si affiancano altri
trattamenti e in mantenimento la farmacoterapia permette di consentire una migliore aderenza ad altre
forme di cura.
I farmaci d’elezione sono gli antipsicotici che si dividono in: antipsicotici tradizionali o neurolettici
(antagonisti della dopamina) e antipsicotici di seconda generazione (che a loro volta includono antagonista
di serotonina e dopamina SDA, antipsicotici ad ampio spettro MARTA, l’aripiprazolo agonista parziale della
dopamina e antagonisti selettivi D2-D3).
ANTIPSICOTICI DI PRIMA GENERAZIONE
Tutti gli antipsicotici tradizionali sono antagonisti della dopamina. La loro azione antipsicotica consiste nel
blocco dei recettori post sinaptici D2 nella via dopaminergica mesolimbica, che si correla all’efficacia di
questi farmaci sui sintomi positivi (perchè l’alterazione dopaminergica è responsabile dei sintomi positivi).
L’azione di questi farmaci però, non è selettiva nei D2 mesolimbici, ma colpisce i recettori anche in altre
aree cerebrali e questo comporta degli effetti collaterali.
L’antagonismo D2 a livello della sostanza grigia dello striato, causa sintomi extrapiramidali, ovvero: distonie
acute, parkinsonismi, acatisia (incapacità di stare fermo) che possono a loro ovlta essere trattati con
antiparkinsoniani.
L’antagonismo D2 nella via dopaminergica nell’area mesencefalica della corteccia prefrontale si traduce
nell’induzione o nel potenziamento di sintomi negativi.
Inoltre per il ruolo che la dopamina svolge sulla secrezione di prolattina, il blocco esercitato dagli
antipsicotici si traduce in una ipersecrezione di prolattina che comporta effetti endocrinologici come
ginecomastia, galattorrea, amenorrea e disfunzioni sessuali oltre all’aumento di peso e alla riduzione della
densità minerale ossea.
Infine l’effetto antagonista su alpha1 potenzia la sedazione e può indurre ipotensione ortostatica.
Un evento avverso tanto raro quanto grave è la sindrome maligna da neurolettici che consiste in una triade
sintomatologica (ipertermina, rabdiolisi ovvero rottura delle cellule del muscolo scheletrico e segni
extrapiramidali soprattutto rigidità) che portano velocemente al coma (la mortalità arriva al 30%). Tale
sindrome è un evento acuto che si stabilisce soprattutto nelle fasi iniziali di un trattamento neurolettico.
ANTIPSICOTICI DI SECONDA GENERAZIONE
E’ un gruppo eterogeneo tutti caratterizzati dall’azione antagonista sul sistema dopaminergico che si
combina con un’azione antagonista sui recettori 5-HT2A della serotonina a cui essa si lega normalmente
per inibire il rilascio di dopamina. Questi recettori sono situati sulla membrana presinaptica del neurone
dopaminergico e un loro blocco da parte dell’antipsicotico contrasta l’effetto di blocco su D2 perché viene
meno l’effetto inibitorio della serotonina sul rilascio di dopamina.
L’aumento del rilascio di dopamina che ne deriva, bilancerà l’effetto di blocco D2 post sinaptico. Questa
doppia azione ridimensiona tutti gli effetti potenziali derivanti dal blocco di D2, quindi i sintomi negativi
imputabili ad ipofunzione dopaminergica saranno attenuati.
La stimolazione dei recettori 5-HT2A regola indirettamente l’attività dopaminergica attraverso l’azione su
neuroni glutammatergici. Normalmente il rilascio di serotonina stimola questi recettori posti sul corpo dei
neuroni glutammatergici i quali a loro volta proiettano sui neuroni dopaminergici mesolimbici. L’effetto
della stimolazione della via del glutammato è di determinare un ulteriore rilascio di dopamina da parte
della via mesocorticale già di per sé iperattiva per la schizofrenia. Il blocco dei recettori 5-HT2A nella
corteccia determina una riduzione del rilascio di glutammato e quindi una riduzione nel rilascio di
dopamina, effetto vantaggioso sui sintomi positivi della schizofrenia.
Gli antipsicotici MARTA con la clozapina a capo hanno, oltre all’azione inibitoria di serotonina e dopamina,
un’azione multirecettoriale responsabile di effetti collaterali.
L’aripiprazolo infine è un agonista parziale dei recettori dopaminergici D2 e dei recettori seratoninergici 5-
HT1A e un antagonista dei recettori seratoninergici 5-HT2A. L’agonismo consente di ridurre l’attività
dopaminergica (alla base dei sintomi positivi). L’aripiprazolo è efficace nel mantenimento della remissione
dei sintomi.

FASE ACUTA
E’ raccomandato l’impiego di antipsicotici in monoterapia, privilegiando quelli di seconda generazione per
la maggior tollerabilità e il minor rischio di effetti collaterali oltre al, seppur limitato, miglioramento della
sintomatologia negativi che i neurolettici classici non riescono a dare. Per i sintomi catatonici vengono
preferiti gli antagonisti D2: in questo caso la preferenza va verso i neurolettici classici, ma nei casi di
resistenza viene proposta l’associazione con antidepressivi triciclici previa sedazione del pz per evitare
esplosioni di agitazione psicomotoria. In fase acuta si richiede generalmente un trattamento a dosi piene.
In casi di ricaduta, è opportuno ipotizzare la mancata aderenza del paziente alla terapia. Nel caso in cui sia
stata deliberatamente alterata dal paziente ma in anamnesi mostrava segni positivi, si può continuare con
lo stesso farmaco allo stesso dosaggio, se invece la mancata aderenza è data dal lamento di effetti
collaterali si può considerare di cambiare farmaco.
FASE DI STABILIZZAZIONE E MANTENIMENTO
Ottenuta la risposta clinica, si passa alla fase di stabilizzazione che comporta altri 6 mesi di trattamento al
medesimo dosaggio con l’obiettivo di mantenere la riduzione dei sintomi fino alla remissione, se possibile.
Il mantenimento promuove la remissione dei sintomi, aiuta a migliorare il funzionamento sociale, previene
eventuali esacerbazioni. Durante il mantenimento si può ridurre il dosaggio in modo da ridurre gli effetti
collaterali. Si consiglia un trattamento a vita strettamente monitorato per la possibile insorgenza di
malattie metaboliche frequenti con antipsicotici di seconda generazione.

In conclusione è opportuno dire che si consiglia l’utilizzo di antipsicotici di seconda generazione in merito
alla loro efficacia e tollerabilità. Alcuni psichiatri usano ancora neurolettici classici per via delle loro
preparazioni long-acting che sono utili nei trattamenti di pazienti con problemi di aderenza alle cure. Con
questi preparati una singola somministrazione garantisce l’effetto per alcuni giorni. In caso di eventi avversi
o collateralità però, il trattamento long-acting (a rilascio prolungato) pone senza dubbio maggiori problemi
clinici.
Altri farmaci impiegati sono:
- le benzodiazepine, sempre in associazione con antipsicotici per potenziare l’azione sedativa e controllare
aggressività e agitazione.
- gli antidepressivi, indicati per uno stato depressivo che può sovrapporsi alla schizofrenia
-stabilizzatori dell’umore: per le forme schizoaffettive.

TRATTAMENTI PSICOSOCIALI E RIABILITATIVI


I trattamenti di fase acuta e di stabilizzazione hanno lo scopo di fornire informazioni sul disturbo e sulle
cure per favorire la miglior aderenza alle cure.
Nel trattamento a lungo termine gli interventi riabilitativi sono focalizzati a stimolare il recupero e
l’autosufficienza e si fondano su tecniche dell’apprendimento impiegate per pazienti gravemente
compromessi. Il modello di riferimento è la vulnerabilità-stress-copin-competence che postula che i sintomi
e le disabilità che discendono direttamente dal disturbo possono essere contrastati anche con interventi
psicosociali che sviluppino attività di coping individuali e familiari (saper fronteggiare una situazione).
Nella pratica riabilitativa si distinguono le attività mirate allo sviluppo delle abilità individuali (skill training)
e quelle mirate allo sviluppo delle risorse ambientali che possono essere d’aiuto al paziente (interventi
supporto protesici).

ALTRI DISTURBI PSICOTICI


Hanno tutti in comune il carattere psicotico di disturbo con perdita di contatto con la realtà, a differenza
del nevrotico il quale è un disturbo doloroso e grave in cui si mantiene il contatto con la realtà.
DISTURBO SCHIZOFRENIFORME
E’ una diagnosi provvisoria per tutti quei pazienti che mostrano tutti i sintomi della schizofrenia ma per i
quali il periodo di osservazione non ha ancora raggiunto i 6 mesi necessari per la diagnosi di schizofrenia.
Si stima che un terzo di questi pazienti va incontro a remissione dei sintomi, il resto evolve in disturbo
schizofrenico o schizoaffettivo.

DISTURBO SCHIZOAFFETTIVO
E’ una grave forma di disturbo mentale in cui si rilevano sia elementi schizofrenici che elementi riferibili ad
un disturbo bipolare dell’umore in cui i sintomi si presentano sia contemporaneamente che
alternativamente. Il suo decorso è fluttuante con fasi acute. Nel periodo di stabilità si manifesta un quadro
clinico essenzialmente schizofrenico, nelle fasi acute si sovraimpone un quadro di alterazione dell’umore
che condiziona anche l’espressività degli elementi schizofrenici. Il trattamento è essenzialmente improntato
sugli stabilizzatori dell’umore che consentono un discreto controllo delle fasi acute. Ad essi si associano in
genere antipsicotici per il controllo dei sintomi schizofrenici.

DISTURBO DELIRANTE
Relativamente raro, può essere diagnosticato solo se non sono mai stati soddisfatti i criteri diagnostici per
la schizofrenia, esordisce in piena età adulta e consiste nella comparsa di un delirio monotematico o di una
complessa tematica delirante senza presentare sintomi dissociativi. Il delirio è ben sistematizzata, ricca di
particolari e vissuta con intensa partecipazione emotiva, è quindi un delirio lucido che a volte inficia
minimamente sul funzionamento del soggetto. Il disturbo si caratterizza in sottotipi in base al tipo di delirio
esperito. Possono non essere presenti elementi allucinatori, l’umore e il comportamento non sono alterati
in modo patologico. Il trattamento non è facile perché gli antipsicotici hanno un’efficacia ridotta. Spesso è
più utile una terapia psicologica.
DISTURBO PSICOTICO BREVE
Si intende un episodio di grave alterazione mentale che si risolve nell’arco di qualche giorno senza esiti e
con completo recupero del compenso psichico premorboso. L’esordio è acuto, spesso in seguito ad un
evento psicologicamente stressante e si manifesta con l’improvvisa comparsa di deliri, allucinazioni, eloquio
sconnesso e incoerente e disorientamento spazio-temporale. E’ fondamentale la diagnosi differenziale con
episodio affettivo e la terapia consiste nell’utilizzo di antipsicotici.

DISTURBI CORRELATI ALLE SOSTANZE


Costituisce un capitolo della psicopatologia il rapporto che alcuni soggetti stabiliscono con determinate
sostanze: quando l’assunzione determina una compromissione delle competenze sociali o un rischio per la
salute per il suo uso continuativo e ricorrente, indicativo del fatto che il soggetto è incapace di sospendere
o controllare l’assunzione della sostanza, si parla di disturbo correlato alle sostanze. Al primo livello di
gravità si trova l’abuso, ovvero l’uso improprio (continuativo o ricorrente) da cui derivano conseguenze
negative. Si possono realizzare tre casi di uso improprio:
- consumo eccessivo di una sostanza ad ampia diffusione (alcol, nicotina, caffè)
- impiego di farmaco psicoattivo oltre la necessità terapeutica (benzodiazepine, barbiturici… )
- consumo di una sostanza psicoattiva che non ha né consumo e diffusione sociale, né valenza terapeutica
(cocaina, eroina, LSD…)
Sul piano somatico, la condizione da dipendenza viene definita da due fenomeni:
- Tolleranza: l’organismo si adatta al consumo massiccio con una riduzione del numero dei recettori su cui il
composto agisce. L’adattamento recettoriale si traduce nel bisogno di dosi notevolmente più elevate della
sostanza per raggiungere l’effetto desiderato.
- Astinenza: significa che il venir meno dell’assunzione della sostanza in un organismo che ha sviluppato
tolleranza, determina l’emergere della caratteristica sindrome da astinenza. La stessa sostanza viene
assunta per attenuare i sintomi astinenziali.
PSICOPATOLOGIA
Si può affermare che il rapporto patologico con una sostanza psicoattiva dipenda essenzialmente
dall’incontro di due fattori: l’individuo e la sostanza.
Nell’individuo si trovano le cause che hanno determinato la tossicodipendenza, perché spesso il soggetto
che va incontro all’abuso di sostanze ne è entrato in contatto per controllare vissuti che gli provocavano
disagio, per indurre vissuti positivi o per indurre vissuti al di fuori dell’esperienza umana comune.
Il secondo fattore rilevante è costituito dalle caratteristiche della sostanza assunta. Tutte hanno in comune
la caratteristica di attivare direttamente il sistema cerebrale deputato alla gratificazione (un gruppo di
strutture neurali responsabili della motivazione e delle emozioni positive, in particolare quelle che
coinvolgono il piacere come componente fondamentale che vede nella dopamina il neurotrasmettitore
principalmente coinvolto). L’attivazione del sistema della gratificazione tramite normali comportamenti
finalizzati viene quindi meno, sostituito dalla ricerca di attivazione diretta tramite l’assunzione della
sostanza psicotropa. Ogni sostanza poi differisce dalle altre per la modalità di attivazione di tale sistema.
Dal punto di vista nosografico si distinguono: disturbi da uso di sostanze e disturbi indotti da sostanze.
- disturbi da uso di sostanze: sono identificati da una modalità patologica di utilizzo che comporta secondo
il DSM5 quattro cluster:
- Alterato controllo sulle modalità di assunzione della sostanza (quantità superiori, difficoltà a
Interrompere, irrefrenabile desiderio o craving di consumare la sostanza).
- Compromissione del funzionamento sociale.
- Utilizzo della sostanza in condizioni di rischio (mentre si guida o a lavoro, con l’individuo che
è consapevole del rischio ma non riesce a farne a meno).
- Tolleranza e astinenza.
- disturbi indotti da sostanze: comprendono i quadri di intossicazione e astinenza che sono specifici per il
tipo di sostanza. Esistono poi quadri clinici in genere gravi e talvolta persistenti che sono dovuti all’uso
cronico di quantità rilevanti della sostanza e che consistono in sintomi e segni che rimandano ad altri
disturbi psichiatrici (disturbi deliranti, simil-demenziali ecc.)

BENZODIAZEPINE
L’efficacia ansiolitica e ipnoinducente, la specificità e la rapidità d’azione, associate alla scarsa presenza di
effetti collaterali hanno determinato l’ampia diffusione di questi farmaci.
Esse agiscono favorendo a livello post-sinaptico la trasmissione GABAergica (nt inibitorio) agendo sul
recettore ionotropo GABAA. Questo recettore è un complesso canale di membrana per ioni cloro. Quando
il GABA si lega al suo recettore, determina l’apertura del canale e l’ingresso nella cellula di ioni che la
polarizzano inibendo l’eccitabilità neuronale. Il complesso recettoriale GABAA oltre ad avere un sito per
GABA possiede anche altri siti di legame per barbiturici, benzodiazepine ed etanolo. Solo in presenza di
GABA, il legame con le benzodiazepine determina un potenziamento dell’apertura del canale facendo
entrare più ioni cloro e iperpolarizzando la membrana cellulare.
INTOSSICAZIONE ACUTA
La manifestazione più grave di intossicazione è la sedazione: il paziente è sonnolento, tendente al torpore e
quando è sveglio ha disturbi dell’attenzione. Nei casi più gravi di intossicazione può manifestarsi confusione
mentale e alterazioni comportamentali.
Il trattamento dell’intossicazione prevede l’utilizzo di flumazenil, antagonista del recettore per le
benzodiazepine. Si somministrano 0.2 mg in 30 secondi, se non c’è risposta si continua con 0.1mg alla volta
per 30 secondi con intervalli di un minuto e fino al raggiungimento della soglia di 2 mg totali.
INTOSSICAZIONE CRONICA
Comporta disturbi di tipo neurocognitivo: ridotta vigilanza, deficit della memoria, aumento dell’irritabilità e
dell’aggressività
ASTINENZA
La sindrome da sospensione di benzodiazepine è simile a quella dell’alcol dato che agiscono sullo stesso
recettore. Si osserva dopo un consumo prolungato di mesi con interruzione brusca. I sintomi sono sia
psichici (illusioni, allucinazioni ansia) che somatici (tachicardia, sudorazione profusa, vomito). Il trattamento
prevede la ripresa di benzodiazepine a lenta titolazione fino a scomparsa dei sintomi e progressiva
diminuzione dei dosaggi fino a sospensione.
CANNABIS
Il consumo avviene generalmente per inalazione o ingestione, l’effetto psicoattivo è determinato dal 9-
tetraidrocannabinolo THC, principio attivo presente in concentrazione dall’1 al 15% nelle foglie di marijuana
e ancora di più nella resina. L’effetto è eterogeneo: stimola il rilascio di dopamina e, attraverso il legame a
specifici recettori nel sistema nervoso centrale, causa inibizione presinaptica del rilascio di
neurotrasmettitori (in particolare dopamina e glutammato) e inibizione di aree nervose implicate nella
trasmissione del dolore.
INTOSSICAZIONE ACUTA
Determina inizialmente una sensazione di benessere con rilassamento muscolare, pensiero incentrato su
tematiche soavi e gradevoli. A dosi più elevate il soggetto diviene sedato in condizione quasi letargica che
in alcuni casi si accompagna ad allucinazioni angoscianti. Nel corso dell’intossicazione si osserva deficit delle
prestazioni e dell’efficienza mentale. Le capacità di giudizio e di critica sono ridotte.
Dal punto di vista fisico, comporta alcuni segni e sintomi che possono rendersi evidenti: tachicardia,
iperemia congiuntivale e secchezza delle fauci oltre ad una sensazione di fame.
Se grave, l’intossicazione può essere trattata con antipsicotici sedativi.
INTOSSICAZIONE CRONICA
Il soggetto è generalmente di umore lievemente depresso o irritabile, può presentare episodi di ansia
critica e fenomeni di depresonalizzazione Dal punto di vista somatico è frequente il riscontro di patologie
otorinolaringoiatriche o bronchiali ed aumento di peso.
ASTINENZA
La brusca riduzione dopo un massiccio consumo giornaliero è associata alla comparsa di sintomi come
irritabilità, rabbia, depressione, ansia e perdita di peso. Non esiste terapia farmacologica per la sindrome da
astinenza da cannabis.

COCAINA
E’ una sostanza naturale che può essere assunte in vari modi. La sua azione psicoattiva si manifesta
attraverso il blocco competitivo del trasportatore della dopamina con conseguente aumento della stessa
nello spazio sinaptico e quindi maggiore stimolazione dei recettori dopaminergici post sinaptici D1-D2.
L’uso cronico comporta una diminuzione dell’inibizione della ricaptazione e del rilascio delle catecolamine
associata ad alterata sensibilità dei recettori, cui consegue la tolleranza.
INTOSSICAZIONE ACUTA
Gli effetti si distinguono in psicologici, comportamentali e neurovegetativi.
I sintomi psicologici consistono in euforia, accelerazione del pensiero con idee di grandezza, loquacità,
ipervigilanza e socializzazione. In alcuni casi può verificarsi passaggio da stato di euforia ad ansia fino allo
sviluppo di un quadro clinico sovrapponibile ad un attacco di panico.
I sintomi comportamentali sono litigiosità, agitazione psicomotoria e irrequietezza.
I sintomi neurovegetativi comprendono tachicardia, ipertensione, nausea, brividi
Nelle forme gravi si assiste a comportamenti violenti, deliri paranoidei e crescendo di gravità si arriva a crisi
epilettiche e al coma.
Tutte le modificazioni indotte dall’intossicazione da cocaina si associano a ridotta capacità di giudizio e
compromettono il funzionamento sociale. L’intossicazione può essere controllata da benzodiazepine e
antipsicotici sedativi.
INTOSSICAZIONE CRONICA
L’uso prolungato della cocaina può indurre vari disturbi che vanno dai disturbi ansiosi con sintomi ossessivo
compulsivi a sindromi più gravi di deliri di persecuzione e allucinazioni tattili e visive che il soggetto
riconosce come effetto diretto della sostanza assunta.
ASTINENZA
Comporta l’insorgenza di un disturbo affettivo caratterizzato da depressione severa, anedonia, tentativi
anticonservativi e alterazioni fisiche. L’indicatore di astinenza da sostanze stimolanti è la bradicardia. La
sindrome si esaurisce in circa una settimana.
AMFETAMINICI
Comprendono amfetamine, metamfetamine, destroamfetamine e metilfenidato. Il meccanismo d’azione è
simile alla cocaina così come gli effetti delle intossicazioni, con la differenza che hanno una maggiore durata
degli effetti psicoattivi, una maggiore potenza degli effetti simpaticomimetici e un minor rischio di
complicanze mediche.

ALLUCINOGENI
Si distinguono in naturali (psilobicina, mescalina) e sintetiche (LSD ed ecstasy). Fanno parte degli
allucinogeni anche la fenciclidina e la ketamina.
Pur essendo diversi in farmacodinamica, agiscono tutti competendo con i recettori 5-HT2 post sinaptici.
L’ecstasy promuove anche il rilascio di serotonina e agisce come stimolante, mentre la fenciclidina
antagonizza i recettori glutammatergici con azione anticolinergica (miorilassante).
INTOSSICAZIONE ACUTA
Si manifesta con alterazioni a carico della percezione: amplificazione o distorsione della percezione,
allucinazioni ed esperienze di depersonalizzazione e derealizzazione.
L’intossicazione fa fenciclidina in particolare, comporta ideazioni paranoidee, disinibizione e impulsività
marcata.
I segni neurovegetativi sono tachicardia, ipertensione, midriasi, tremori e incoordinazione. Può avvenire il
cosiddetto “bad trip” caratterizzato da uno stato di allucinosi con intensa ansia e ideazione paranoide
(effetto ricercato dai consumatori). In alcuni casi inoltre può manifestarsi aggressività e rischio di suicidio
accidentale.
INTOSSICAZIONE CRONICA
Non è comune l’uso cronico, comporta ridotta capacità di giudizio e disturbi del carattere fino allo sviluppo
di psicosi.
ASTINENZA
Non determina dipendenza fisica né sindrome di astinenza.

OPPIACEI
Sono sostanze utilizzate anche come analgesici, anestetici e antidiarroici. Si distinguono in naturali
provenienti dall’oppio (oppio, morfina, codeina), semisintetici (eroina) e sintetici (oxycodone, metadone)
I naturali e i semisintetici sono detti oppiacei, i sintetici sono detti oppioidi.
Per tutti gli oppiacei il rischio di dipendenza è elevato.
Il sistema oppioide endogeno consta di vari sottotipi di recettori con i quali interagiscono i pentapeptidi
endogeni tra cui endorfine ed encefaline, che hanno un’azione simile agli oppiacei. La propensione verso
queste sostanze, pare si sviluppi in soggetti con vulnerabilità biologica del sistema oppioide endogeno.
INTOSSICAZIONE ACUTA
Nel soggetto normale l’assunzione di oppiacei determina un marcato viraggio del tono dell’umore vero il
polo positivo, tale per cui il soggetto sperimenta uno stato di tranquillità, calma e benessere nonostante
abbia difficoltà d’attenzione e deficit della memoria. Si accompagnano segni somatici come insensibilità a
stimoli nocicettivi, difficoltà nella respirazione, nausea e ipotensione. Il rischio di sovradosaggio e overdose
è importante per quei pazienti ricoverati in comunità che la abbandonano dimenticando di aver perso la
tolleranza e assumendo dosi prima abituali. L’overdose è indicata da una triade sintomatica: stato di coma,
costrizione pupillare e depressione respiratoria fino al coma. L’overdose deve essere immediatamente
trattata per avitare la morte. Bisogna liberare le vie aeree e metterlo in condizioni di respirazione assistita.
Somministrare naloxone (antagonista degli oppiacei) a breve emivita a dosi subentranti: prima 0.4 mg per
endovena, seguita da 0.8 mg per endovena ripetute in caso di non risposta dopo 15 minuti fino alla risposta
positiva del paziente che si presenta con dilatazione pupillare, incremento della pressione sistolica, della
frequenza e del volume respiratorio. Dato che gli oppiacei hanno generalmente lunga emivita e il naloxone
ha una emivita di 2 ore, in casi di overdose è necessario tenere in controllo il pz e in caso somministrare
ulteriori dosi di naloxone alla ricomparsa dei sintomi.
INTOSSICAZIONE CRONICA
Determina un quadro psichico caratterizzato da torpore, rallentamento psicomotorio, appiattimento della
vita affettiva e perdita dei valori etici.
ASTINENZA
L’astinenza da oppiacei è caratterizzata da ansia, irrequietezza, dolorabilità, desiderio o craving impellente
di procurarsi la dose, nausea, lacrimazione, piloerezione e febbre. Questi ultimi sintomi indicano lo stato
diastinenza anche se il paziente non ci arriva quasi mai perché riesce a procurarsi una dose in tempo.
Il trattamento dell’astinenza può essere affrontato nei seguenti modi:
-terapia sostitutiva con metadone, e avvio della riduzione graduale della dose. Si somministrano in genere
10 mg alla mattina, e 10mg ogni volta che compaiano i sintomi dell’astinenza fino a un massimo di
40 mg al giorno. Dopo aver raggiunto la stabilizzazione, si procede con lo scalare di non più di 5 mg
al giorno fino a sospensione.
- terapia sostitutiva con buprenorfina, con le stesse modalità ma a 2-4 mg al giorno.
- impiego di farmaci non oppioidi, per controllare i sintomi di iperattivazione neurovegetativa. La clonidina
È un antipertensivo in grado di inibire la reazione astinenziale sopprimendo la nausea, il vomito, la
diarrea, i crampi. Meno efficace su insonnia e craving per la sostanza.
- astinenza ultrarapida indotta, tramite utilizzo di naltrexone pretrattando il pz con clonidina per evitare la
precitazione in sindrome da astinenza. Il naltrexone è un antagonista degli oppiacei e blocca
completamente gli effetti di gratificazione, il suo impiego impedisce quindi qualsiasi piacere
derivato dall’assunzione. In questo modo ne accelera la disassuefazione se associato a clonidina.

DISTURBI CORRELATI ALL’ALCOL


Oltre al fegato, l’etanolo e i derivati del suo catabolismo possono determinare conseguenze anche in molti
altri organi e tessuti. Come nel caso dei disturbi correlati a sostanze, anche l’assunzione di alcol puo
sfociare in disturbi di abuso e dipendenza. Il confine tra consumo patologico e abuso è molto sfumato, il
motivo per cui un soggetto beve è ciò che spesso determina la differenza clinica. Infatti chi ne fa abuso
ricerca più che altro l’effetto dell’alcol sulla psiche piuttosto che sul palato. L’alcol infatti, come le sostanze
psicotrope, stimola il rilascio di dopamina. Nei casi di dipendenza, il livello di rapporto patologico è ancora
più grave perché il soggetto beve esclusivamente per evitare i sintomi dell’astinenza. Per alcuni, all’origine
dell’alcolismo, c’è la risposta patologica a condizioni di disagio e sofferenza. In alcuni casi vi è un disturbo
psichiatrico bipolare o un disturbo d’ansia che inizialmente determina l’uso improprio ed eccessivo.
Esiste anche un grado di ereditarietà, che comunque è maggiormente influenzato dal rapporto che il
fattore genetico instaura con i fattori ambientali circostanti. L’alcolismo è portatore di gravi conseguenze
sul piano sociale oltre che sanitario (i soggetti rischiano incidenti, violenza domestica e tentativi
anticonservativi). I disturbi correlati all’alcol si distinguono in disturbi neuropsichiatrici e disturbi sistemici
(esofagiti, gastriti, epatiti, cirrosi ecc) I disturbi neuropsichiatrici si distinguono per la modalità d’esordio:
acuto o subdolo dopo assunzione cronica.
INTOSSICAZIONE DA ALCOL
Comporta un quadro di sintomi caratteristici: sul piano psichico e comportamentale ritroviamo disinibizione
con sopore se l’intossicazione aumenta. Lo stato si accompagna a sintomi fisici come alito alcolico, disartria,
atassia, nistagmo. In caso di intossicazione può essere opportuno trattare il soggetto con metadoxina a
300-600 mg; tale farmaco accelera il metabolismo dell’etanolo e quindi l’eliminazione. Non bisogna
utilizzare benzodiazepine perché, agendo sullo stesso recettore dell’etanolo (GABA), potrebbero
potenziarne l’effetto. In caso di agitazione quindi, è meglio usare antipsicotici come alperidolo. Se
sopraggiunge depressione respiratoria, bisogna ventilare il pz e ristabilire l’equilibrio idroelettrolitico.
INTOSSICAZIONE IDIOSINCRASICA DA ALCOL
In un numero limitato di soggetti, l’ingestione di piccole o moderate dosi di alcol determina una condizione
acuta caratterizzata da gravi alterazioni psichiche e comportamentali con remissione sintomatica alla
diminuzione dei livelli plasmatici di etanolo. L’episodio insorge all’improvviso dopo qualche minuto
dall’ingestione di alcol e dura qualche ora. Sul piano psichico possono essere presenti allucinazioni,
pantoclastia, deliri transitori e confusione mentale. Questo stato termina con un lungo sonno e con nessun
ricordo al risveglio.
ASTINENZA
La sindrome da astinenza da alcol si manifesta nell’etilista cronico quando dopo un utilizzo prolungato se ne
sospende l’assunzione. I sintomi compaiono entro qualche ora e scompaiono nel giro di qualche giorno
salvo che la sindrome si aggravi in delirium tremens. Il soggetto presenta una serie di sintomi fisici come
tachicardia, tachipnea e sudorazione, secchezza delle fauci e tremore, malessere, agitazione ecc. In pazienti
epilettici si possono manifestare crisi tonico cloniche.
Sul piano psichico e comportamentale il soggetto è ansioso e irritabile. Nei casi gravi possono manifestarsi
alterazioni percettive. Il trattamento consiste nell’assistenza medica e psicologica ed è spesso utile una
reintegrazione di fluidi ed elettroliti.
In caso di ricovero vanno preferite benzodiazepine a lunga emivita (agiscono sullo stesso recettore
dell’etanolo quindi attenuano i sintomi dell’astinenza) somministrate per via endovenosa.
DELIRIUM TREMENS
In una percentuale ridotta di etilisti cronici, l’astinenza si aggrava in una forma più complicata detta
delirium tremens. Fattori predisponenti a questa condizione sono gli stati fisici compromettenti. Il quadro
clinico precipita in poco tempo dopo una fase di astinenza semplice e può avere esito mortale. I sintomi
comprendono innanzitutto un grave disturbo dell’attenzione e dell’orientamento temporale, spaziale ad
esordio acuto e decorso fluttuante. Al disturbo dell’orientamento si associa uno scompenso psichico
drammatico: il paziente si dimostra molto angosciato e generalmente agitato con eloquio sconnesso e
allucinazioni visive. Se sono presenti deliri, sono frammentarti e multiformi. Accanto a questi sintomi
psichici coesistono sintomi fisici come tremore, ipertermia, tachicardia e alterazioni della pressione
arteriosa. La cura consiste in un ripristino dell’idratazione, controllo della glicemia e mantenimento della
temperatura corporea. La somministrazione di vitamina B è indicata per prevenire complicanze. Il
trattamento con benzodiazepine è consigliato per sedare il pz e ad esse si può associare aloperidolo nei casi
più gravi.
ALLUCINOSI ALCOLICA
Condizione patologica a insorgenza acuta o subacuta che può insorgere quando viene interrotta
l’assunzione di alcolici. Le allucinazioni sono i sintomi essenziali: tipiche sono quelle uditive, ma si
riscontrano anche dispercezioni visive, olfattive e gustative. Tali dispercezioni sono molto nitide e il
paziente le vive con angoscia. Ne possono derivare gravi conseguenze drammatiche come tentativi
anticonservativi e pantoclastia. In genere il quadro regredisce in qualche giorno o si attenua ma dura per un
mese. La terapia consiste nell’evitare il contatto con alcolici, somministrare vitamina B e utilizzare
antipsicotici per attenuare le allucinazioni.
PARANOIA ALCOLICA (DELIRIO DI GELOSIA)
Sindrome delirante cronica che interessa gli etilisti cronici con prevalenza nel sesso maschile. Esordisce in
forma subdola e insidiosa e prosegue con decorso cronicizzante. Si tratta di una forma delirante
monotematica in cui la convinzione patologica è di gelosia nei confronti del partner. Sentimenti deliranti da
cui derivano episodi violenti. Il delirio è ben strutturato e radicato e si accompagna a una condizione di
lucidità. E’ vissuto con grande coinvolgimento emotivo e reazioni comportamentali. Il trattamento è difficile
perché queste forme deliranti godono di una resistenza agli antipsicotici. In ogni caso è opportuno avviare
un trattamento con antipsicotici a blocco dopaminergico.
DISTURBO AMNESTICO ALCOLICO (Sindrome di Korsakoff)
E’ un disturbo cognitivo che riconosce l’origine nella carenza di vitamina B1 o tiamina. Si sviluppa
sull’interazione dell’alcol sull’assorbimento gastrico di tiamina e può rappresentare l’evoluzione di una
encefalopatia acuta di Wernicke. La sindrome consiste in un deficit progressivo della memoria ì: in primo
luogo viene inficiata la capacità di fissazione dei ricordi, successivamente viene colpita anche la capacità di
rievocazione dei ricordi. L’encefalopatia di Wernicke costituisce un quadro clinico acuto e reversibile
caratterizzato da: oftalmoplegia (paralisi del bulbo oculare), atassia e confusione. Il trattamento consiste
nella somministrazione di tiamina.
DEMENZA ALCOLICA
Una storia prolungata di etilismo cronico può esitare in una grave forma di deterioramento progressivo
delle capacità cognitivo intellettive e poi in una destrutturazione della personalità del soggetto.
Il quadro demenziale esordisce lentamente e coincide nelle prime fasi con il disturbo amnestico. A questo si
associano disturbi delle funzioni esecutive come esecuzione di compiti, organizzazione e programmazione
di attività. In una fase successiva, si manifestano anche deficit delle funzioni simboliche: agnosia (incapacità
di riconoscere uno stimolo sensoriale anche in presenza di organi di senso indenni) e aprassia (amnesia
degli schemi motori appresi).
Il trattamento è di difficile impostazione perché le possibilità di miglioramento sono compromesse. Due
sono gli approcci terapeutici: la cura di tutte le conseguenze somatiche della demenza e la riabilitazione cje
mantenga il miglior adattamento sociale possibile.
TERAPIA DELLA DIPENDENZA ALCOLICA
Il trattamento della dipendenza da alcol consiste in una molteplicità di provvedimenti che mirano a
risolvere il rapporto patologico con la bevanda. Gli obiettivi generali del trattamento consistono, una volta
trattata l’astinenza, in: mantenimento dell’astinenza, prevenzione delle ricadute e prevenzione delle
complicanze derivanti dall’abuso cronico di alcol.
FARMACOTERAPIA
Si inizia innanzitutto con una dieta iperproteica e polivitaminica, con assunzione di protettori gastrici ed
epatici. In secondo luogo, se tra i fattori concausali della dipendenza esiste un disturbo psichiatrico sarà
intanto necessario impostare una cura per quello. La risoluzione del disturbo psichiatrico che c’è alla base,
non fa regredire l’etilismo ma pone delle basi per lavorare sul recupero. Il trattamento farmacologico
avviene secondo la scelta tra due modalità: trattamento avversativo che ha lo scopo di generare una
reazione fisiologica avversiva all’assunzione di alcol in modo da ridurre la sensazione di piacere e il
trattamento anticraving che mira a ridurre il forte desiderio di assunzione.
TRATTAMENTO AVVERSATIVO CON DISULFIRAM
Questo composto interagisce con i processi ossidativi implicati nel metabolismo dell’etanolo, blocca in
maniera irreversibile l’aldeide deidrogenasi in modo che si accumuli in quantità 5-10 volte maggiore al
normale. L’assunzione di alcol durante un trattamento con Disulfiram determina immediatamente una
reazione fisica spiacevole: flush al volto, cefalea pulsante tachicardia e dopo circa trenta minuti pallore,
nausea e vomito.
Questa sensazione dovrebbe distogliere il pz dalla voglia di bere per via delle conseguenze spiacevoli. La
terapia con Disulfiram presenta il massimo potenziale di beneficio in soggetti altamente motivati a
smettere di bere.
TRATTAMENTO ANTI-CRAVING
Vari sono i farmaci che possono essere impiegati per mantenere l’astinenza e prevenire la comparsa del
craving: tra essi l’acamprosato, il naltrexone e il nalmefene.
L’acamprosato agisce come anti craving riducendo l’eccitabilità neuronale glutammatergica post
astinenziale. La sua efficacia si esplica nel controllare i sintomi astinenziali impedendo al paziente di tonrare
a bere per controbilanciare gli effetti negativi dell’astinenza.
Naltrexone e nalmefene riducono il craving agendo come modulatori della ricompensa, cioè riducono le
sensazioni piacevoli che derivano dall’assunzione di alcol.
Il craving dell’etilista può essere parzialmente ridotto in taluni casi da SSRI, sebbene i risultati siano
raramente completi e duraturi.
PSICOTERAPIA
La scelta del trattamento terapico più idoneo dovrà sempre tenere conto:
-della presenza di disturbi psichici indotti dall’alcol
-della presenza di disturbi psichici che hanno concorso a determinare l’alcolismo
-dalle caratteristiche della personalità del soggetto (caratteristiche temperamentali, storia clinica ecc.)
-dalle caratteristiche personali del soggetto (età, cultura, sesso, motivazione)
Gli unici interventi psicoterapici in qualche modo specifici per le dipendenze sono gli interventi
motivazionali
TRATTAMENTI PSICOSOCIALI
I trattamenti psicosociali dell’alcolismo consistono in modelli che si fondano su dinamiche di gruppo e sul
supporto sociale (Alcolisti Anonimi, Club di Alcolisti in Trattamento…)

DISTURBI DI PERSONALITA’
PERSONALITA’, TEMPERAMENTO E CARATTERE
La personalità è un sistema complesso di caratteristiche psicologiche profonde di un individuo che sono in
gran parte inconsapevoli, essenzialmente stabili perché non possono essere mutate facilmente e che si
esprimono automaticamente in ogni aspetto del funzionamento psichico e sociale.
A determinare la personalità concorrono sia elementi biologici (temperamento) sia elementi acquisiti che
derivano da un processo di apprendimento indotto dall’esperienza all’interno del contesto relazionale
(carattere).
Il temperamento è la disposizione affettiva fondamentale di ogni persona, il tono emotivo che predispone
all’esperienza.
Per Alkam i tipi di temperamento più comuni sono:
- depressivo o distimico: soggetto tendenzialmente triste che tende a isolarsi ed è frequentemente
insoddisfatto.
- ipertimico: soggetto intraprendente, molto attivo, estroverso e tendente alla socialità
- ciclotimico: soggetto con tono affettivo fluttuante da ipo a ipertimia indipendentemente dagli eventi
Esterni.
- disforico: soggetto irascibile, insofferente e insoddisfatto.

Per Cloninger invece sono:


- novelty seeking (ricerca della novità): soggetto che necessita livelli elevati di stimolazione emozionale
Tende più o meno marcatamente all’esplorazione e alla ricerca di stimoli.
- harm avoidance (evitamento del danno)
- reward dipendence (dipendenza dalla ricompensa): propensione ad essere dipendenti dalle reazioni
Degli altri individui al proprio comportamento.

Il carattere si sviluppa dal momento in cui il soggetto incomincia ad interiorizzare e a far propri dei
complessi modelli di regole sociali del gruppo a cui appartiene. Ogni apprendimento esperenziale è tanto
più determinante quanto più avviene precocemente.
La personalità si sviluppa ed evolve quindi dalla nascita all’età adulta, quindi un’eventuale diagnosi di
disturbo della personalità non può essere eseguita prima dei 18 anni.

DISTURBI DI PERSONALITA’
Comprendono un gruppo di condizioni psicopatologiche in cui a caratterizzare il quadro clinico non è
l’emergere di una costellazione sintomatologica psichica o comportamentale in un momento della vita del
paziente, bensì una modalità pervasiva e complessa di rapporto patologico con i propri vissuti soggettivi,
con gli altri, con gli eventi esistenziali e con gli accadimenti esterni.
Il paziente ha un abnorme modo di essere, di comportarsi e di funzionare socialmente. Generalmente un pz
con disturbo della personalità presenta tre livelli di devianza:
-statistica: la personalità dell’individuo è abnorme e si discosta statisticamente da quelle più
frequentemente osservabili nella popolazione di riferimento. La devianza può manifestarsi sul piano
cognitivo, affettivo, del funzionamento o del controllo degli impulsi
-funzionale: l’individuo non riesce ad avere un funzionamento lavorativo, relazionale e sociale adeguato.
-clinica: l’abnormità determina disagio.
Per quanto concerne i diversi tipi di disturbi, il DSM propone 3 gruppi:
cluster A: caratterizzati dalla stravaganza e dall’eccentricità: paranoide, schizoide e schizotipico
cluster B: caratterizzati dalla marcata espressività delle manifestazioni cliniche: antisociale, bordeline,
istrionico e narcisistico
cluster C: caratterizzati dall’ansietà e da problemi di controllo emotivo: evitante, dipendente, ossessivo
compulsivo
I disturbi di personalità sono spesso associati a disturbi psichiatrici e la coesistenza dei due può avvenire in
modo diverso:
- il disturbo di personalità è una condizione patologica di base che ha contribuito come fattore
predisponente allo sviluppo del disturbo psichico.
- il disturbo di personalità ed il disturbo psichico sono epifenomeni della stessa condizione patologica, sono
differenti quadri clinici che si sovrappongono.

CLUSTER A
DISTURBO PARANOIDE DI PERSONALITA’
Caratterizzato da un abnorme funzionamento interpersonale dovuto a eccessiva sfiducia e sospettosità con
sentimenti e pensieri negativi che riguardano gli altri. Le altre persone vengono percepite come aggressive,
ostili, non amichevoli con atteggiamenti di diffidenza e sospettosità.
Queste idee non si strutturano in vere e proprie idee deliranti persecutorie, poiché altrimenti la diagnosi
sarebbe quella di psicosi. Il disturbo paranoide di personalità rappresenta un fattore di rischio per lo
sviluppo di episodi psicotici acuti.
DISTURBO SCHIZOIDE DI PERSONALITA’
Caratterizzato da un abnorme funzionamento affettivo e interpersonale che comporta distacco dalle
relazioni sociali e una gamma ristretta di espressività emotiva. Si tratta di soggetti freddi o insofferenti alle
reazioni affettive.
DISTURBO SCHIZOTIPICO DI PERSONALITA’
E’ un disturbo di personalità in cui sostanzialmente coesistono le caratteristiche essenziali dei due disturbi
precedentemente descritti: ideazione paranoide e chiusura relazionale e sociale.

CLUSTER B
DISTURBO ANTISOCIALE DI PERSONALITA’
L’individuo con personalità patologica di tipo antisociale frequentemente non osserva le regole
convenzionali e sociali, tende a delinquere, è aggressivo e talora violento e manifesta uno scarso controllo
degli impulsi. Non hanno rimorso per ciò che fanno.
DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITA’
Condizione psicopatologica complessa che si manifesta essenzialmente con un’abnorme instabilità in vari
ambiti: nelle relazioni interpersonali, nell’immagine di sé e nell’affettività.
I rapporti interpersonali sono dominati da sentimenti esagerati e opposti di idealizzazione o di svalutazione,
le reazioni emotive sono eccessive o sproporzionate, l’impulsività e l’aggressività non riescono ad essere
sufficientemente controllate e sono presenti disturbi dell’identità. Il rischio suicidario è più elevato rispetto
alla popolazione generale. In questi pazienti è fondamentale prevedere le crisi di scompenso psichico acuto
per farvi fronte adeguatamente. Gli SSRI sono particolarmente indicati per controllare i sintomi depressivi e
dei comportamenti impulsivi, gli antipsicotici a basso dosaggio sono utili per i sintomi simil-psicotici.
DISTURBO ISTRIONICO DI PERSONALITA’
La personalità istrionica è abbastanza caratteristica: si tratta di individui egocentrici, volutamente
appariscenti, che ricercano attenzioni da parte degli altri e tendono alle manifestazioni emotive eccessive.
Rischio per disturbi depressivi.
DISTURBO NARCISISTICO DI PERSONALITA’
Caratterizzato da un grandioso senso di sé, da un’eccessiva ricerca di ammirazione e stima, da sentimenti
d’invidia e atteggiamenti improntati a freddezza e/o arroganza.
Rischio per disturbi depressivi, anoressia e abuso di sostanze.
CLUSTER C
DISTURBO EVITANTE DI PERSONALITA’
Caratterizzato da pervasivi sentimenti di inadeguatezza e di autosvalutazione che portano il soggetto ad
isolarsi socialmente e a evitare ogni situazione che lo fa sentire alla prova o in cui è sottoposto
all’osservazione critica di altri.
Rischio per disturbi depressivi o di ansia.
DISTURBI DIPENDENTE DI PERSONALITA’
Rapporto patologico con gli altri, con legami di dipendenza, con sofferenza eccessiva per eventi di
separazione e di perdita. Ne risulta un atteggiamento sottomesso e adesivo, legato al bisogno di essere
accuditi e al timore di essere abbandonati.
DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO DI PERSONALITA’
Caratterizzato da eccessiva preoccupazione per l’ordine, una ricerca esasperata di perfezionismo, di
efficienza e inflessibilità.
I pazienti DOC manifestano il loro tentativo di controllare le loro ossessioni attraverso lavorii mentali.
I pazienti con disturbo di personalità ossessivo compulsivo manifestano un tentativo di controllare gli
eventi e il rapporto con gli altri. Il controllo degli eventi si manifesta con esagerata superstizione.
TERAPIA
L’intervento farmacologico di modulazione delle disposizioni temperamentali è un dato clinico di recente
acquisizione che riguarda soprattutto gli psicofarmaci di ultima generazione.
A parte gli eventuali sintomi che il farmaco controlla, è proprio la modalità pervasiva del paziente di
esperire i propri vissuti che cambia: la struttura di personalità viene modificata da un’intervento biologico
sulla disposizione temperamentale.
Il temperamento rappresenta la disposizione affettiva che precede l’esperienza, quindi una modifica di esso
può determinare il cambiamento dell’atteggiamento pregiudiziale con cui l’individuo si appresta a fare
esperienza e favorire l’interiorizzazione di esperienze positive.
L’intervento psicoterapico permette invece di ottenere una modulazione o una modifica del carattere
dell’individuo con la promozione diretta di nuove esperienze positive.

DISTURBI DA DEFICIT COGNITIVI


Il deficit cognitivo può essere dovuto a uno sviluppo intellettivo incompleto (in questo caso si parla di
Disabilità Intellettiva) oppure si stabilisce in un individuo che prima del disturbo aveva un normale
funzionamento (Disturbi Neurocognitivi come il Delirium).
DISABILITA’ INTELLETTIVA
E’ una condizione patologica che si stabilisce in età evolutiva caratterizzata da deficit del funzionamento sia
intellettivo che della capacità di adattamento, ad esordio nel periodo dello sviluppo. L’individuo non
raggiunge uno sviluppo completo delle funzioni cognitive e l’adattamento è deficitario.
I deficit si manifestano principalmente in tre ambiti:
-concettuale e didattico (competenze di memoria, lettura, scrittura, linguaggio, calcoli)
-sociale (capacità di riconoscere i sentimenti, abilità di comunicazione, capacità di instaurare amicizie)
-pratico (apprendimento e mantenimento di abilità di cura della persona, abilità lavorative, economiche)
Non si assiste a involuzione di funzioni che avevano raggiunto un sufficiente grado di sviluppo, ma la
maturità giunge senza un completo sviluppo delle capacità intellettive. In alcuni casi il ritardo è espressione
di una patologia somatica accertata che ha compromesso le strutture del sistema nervoso centrale (Down,
cromosoma x fragile, prematurità, alcolismo materno) in altri casi la causa non viene individuata.
Dal punto di vista patologico il ritardo mentale viene classificato a seconda del livello di gravità
dell’insufficienza intellettiva. La quantificazione avviene con la valutazione e la misura del Quoziente
Intellettivo, i cui test più usati sono la Scala di Wechsler e la Scala di Stanford-Binet. Normalmente il QI è
compreso tra 90 e 100. In soggetti con disabilità intellettiva si scende sotto 70.
DISABILITA’ INTELLETTIVA LIEVE
Il ritardo mentale lieve corrisponde ad un QI tra 55 e 70 e comprende la maggior parte dei disturbi mentali.
Si esprime spesso con dei deficit sensomotori e linguistici nei primi anni di vita molto lievi. Nell’età scolare
la disabilità emotiva inizia a rendersi evidente con difficoltà nell’apprendimento scolastico e
nell’apprendimento dell’esperienza. Spesso la memoria è ben sviluppata.
Negli adulti sono riscontrabili deficit delle funzioni esecutive. Le interazioni sociali sono mantenute, anche
se con immaturità, difficoltà nel controllare le emozioni e ridotta capacità di valutazione del rischio.
Se individuate precocemente, queste disabilità possono essere trattate con successo portando il soggetto
ad un esaustivo grado di adattamento. Il supporto psicologico è un intervento essenziale perché li aiuta
dando sostegno e rassicurazione.
DISABILITA’ INTELLETTIVA MODERATA
Interessa i soggetti con QI tra 35 e 50. Sono pazienti con deficit motorio non grave ma con un marcato
deficit del linguaggio e dell’apprendimento. Le abilità concettuali e didattiche si arrestano ad un livello
elementare. Il comportamento sociale e le capacità comunicative sono compromesse, benchè nell’ambito
dei legami familiari stretti riescano a sviluppare relazioni stabili. Con un supporto e un’assistenza continua
possono sviluppare moderatamente delle capacità che gli consentano di adattarsi in contesti lavorativi,
seppur sempre protetti.
DISABILITA’ INTELLETTIVA GRAVE
Si accompagna a QI tra 20 e 35. Sono soggetti con precoci e importanti deficit motori e linguistici e con
impossibilità di raggiungere una condizione di autonomia. Il soggetto risulta incapace di comprendere il
linguaggio scritto e i concetti su cui si basa la comunicazione semplice. L’individuo richiede assistenza e
sostegno in tutte le attività della vita quotidiana e con adeguati training riabilitativi può acquisire capacità
comunicative rudimentali.
DISABILITA’ INTELLETTIVA GRAVISSIMA
Sono soggetti con QI inferiore a 20 con precoci e grossolani deficit sensomotori. Necessitano di vivere in
ambienti protetti e assistenza continua e adeguata.

DELIRIUM
Fa parte dei Disturbi Neurocognitivi ed è una condizione patologica a esordio acuto caratterizzata da
alterazione dell’attenzione e della consapevolezza (orientamento spaziale e temporale) con eventuale
compromissione delle funzioni cognitive (deficit di memoria o di linguaggio). Caratteristica del delirium è la
fluttuazione della gravità patologica durante la giornata. Il delirium è piuttosto frequente in psichiatria
d’urgenza e anche se ha una bassa prevalenza dell’1-2% si arriva a picchi del 14% in soggetti con più di 85
anni. Si stima che fino al 20% dei pazienti over 65 si manifesti un episodio di delirium in casi di ricovero in
ospedale per una condizione medica generale che può disorientare l’individuo. Ciò accade soprattutto in
casi di grandi interventi chirurgici demolitivi.
Il sintomo principale è la confusione mentale che comporta alterazioni dell’orientamento spazio-temporale
e personale. Vi sono gradi di confusione mentale diversi: si va da forme lievi di disorientamento fino al
disorientamento della propria persona. Il soggetto non è in grado di orientarsi e di mantenere la propria
attenzione. Nei casi più lievi si allentano i nessi associativi, nei casi più gravi i pensieri sono frammentari e si
susseguono senza legame logico. È possibile che emergano pensieri deliranti di persecuzione, nocumento e
riferimento. Con la risoluzione dello stato confusionale, salvo che non vi sia un disturbo amnestico o una
demenza sottostante, la funzionalità mnesica viene recuperata. Anche la percezione è facilmente distorta:
frequenti sono le illusioni di tutti i tipi e le allucinazioni, qualora siano presenti si presentano sotto forma di
scene complesse.
L’umore dei pazienti in stato di delirium è quello di una persona che perde i propri punti di riferimento e
che ha percezioni inquietanti. A questi stati d’animo si accompagnano atteggiamenti talvolta inadeguati o
pericolosi.
Il ciclo sonno-veglia si mostra spesso alterato con insonnia notturna e sonnolenza diurna. In alcuni casi le
manifestazioni comportamentali possono aggravarsi con crisi acute di agitazione psicomotoria o di stati
catatonici. Le cause di delirium possono essere tutte quelle condizioni mediche generali o da intossicazione
che determinano una sofferenza generale acuta. Una forma particolarmente grave si manifesta
nell’astinenza complicata da alcol (delirium tremens).
Elementi psicogeni possono contribuire a determinare lo stato di delirium o a scatenarlo. Infatti il delirium
esordisce spesso in modo improvviso con tipiche oscillazioni della gravità e ha un decorso transitorio: a
parte i casi in cui il delirium sia sostenuto da quadri di demenza o disturbi cognitivi precedentemente
esistenti, il disturbo regredisce completamente. L’insorgenza costituisce un’emergenza psichiatrica che di
norma viene trattata in regime ospedaliero. Un primo approccio consiste nel rimuovere farmaci che
alimentino lo stato di disorientamento, dopo di che bisogna impostare una terapia specifica per i sintomi
confusionali: l’aloperidolo è un farmaco di prima scelta il cui dosaggio è variabile in base allla gravità della
condizione. Il range va da 1-2 mg pro die a 10 mg. In caso di agitazione psicomotoria può essere opportuno
associare neurolettici sedativi.
Le benzodiazepine sono controindicate a meno che il delirium sia provocato da astinenza da alcol o
benzodiazepine. In ogni caso si opta per benzodiazepina a breve emivita in via perfusionale.
DEMENZE (DISTURBI NEUROCOGNITIVI MAGGIORI)
Sono un gruppo di disturbi eterogenei per eziopatogenesi e decorso clinico, che hanno in comune dei
deficit cognitivi multipli (disturbo della memoria e delle funzioni simboliche quali aprassia, agnosia e afasia)
e la compromissione di funzioni intellettive superiori (capacità di concentrazione, di astrazione e di
comprensione). Per la diagnosi di demenza vi deve essere un declino delle funzioni cognitive derivante dalla
somministrazione di test che confermino performance cognitive inferiori al livello atteso.
Le demenze sono disturbi cronici gravi e in genere non curabili, va tenuto presente che in molti quadri
demenziali i fattori degenerativi e vascolari si intersecano (demenza di tipo misto)
DEMENZA DI ALZHEIMER
Comprende sia la “malattia di Alzheimer” (forma clinica del presenio) che la ”demenza degenerativa
primaria ad esordio senile”. La prevalenza è piuttosto elevata e aumenta con l’età, la quale è un fattore di
rischio importante. E’ stato riconosciuto anche che per pazienti affetti da sindrome di Down, il rischio di
insorgenza è maggiore anche a partire da 40 anni. Un altro fattore di rischio è un traua cranico.
Esiste una forma familiare a trasmissione autosomica dominante che rappresenta il 5% di tutte le forme di
Alzheimer e che riconosce alla base della malattia mutazioni a carico dei geni che codificano per la proteina
precursore dell’amiloide, posti sui cromosomi 21, 14 e 1.
La forma sporadica a esordio tardivo è più comune e riconosce come fattore di rischio un poliomorfismo a
carica del gene per l’alipoproteina E4 sul cromosoma 19 anche se questo non è da considerarsi un marker
affidabile.
Le manifestazioni sintomatologiche assumono caratteristiche peculiari se le si osserva in prospettiva
temporale: il decorso del disturbo è infatti molto descrittivo della demenza, la quale comporta innanzitutto
disturbo della memoria e dell’apprendimento: il sintomo più precoce è il deficit della fissaizone dei nuovi
ricordi, mentre conserva almeno nelle prime fasi della malattia la capacità di rievocazione.
Con l’evolvere del disturbo anche quest’ultima viene meno. Ai disturbi della memoria si associano disturbi
delle funzioni esecutive (non riesce a eseguire compiti assegnati o a pianificare e organizzare) e disturbi
delle funzioni simboliche (agnosia, aprassia e afasia)
L’agnosia si manifesta in forma acustica, ottica e talvolta è presente anche asterognosia (tattile).
L’aprassia si manifesta con incapacità di compiere atti motori banali (abbottonarsi, allacciare le scarpe…)
L’afasia si manifesta molto comunemente con la difficoltà di esprimersi e denominare oggetti.
E’ piuttosto comune che il paziente neghi o minimizzi i sintomi, la compromissione del funzionamento
sociale è precoce e importante.
La diagnosi del disturbo è essenzialmente clinica e si avvale di strumenti neuroradiologici (TAC ed RM) che
consentono di escludere altre causalità organiche.
Si riconoscono tre fasi nella progressione della demenza:
-fase prodromica: può durare da alcuni mesi a un anno e si caratterizza per l’insorgenza lenta, graduale e
subdola della compromissione mnemonica a breve termine.
-fase di stato: può durare da 3 a 7 anni in cui la sintomatologia è già piuttosto evidente
-fase terminale: in cui il paziente è ormai costretto a letto e tendente alla cachessia (perdita di peso e di
tessuto adiposo e muscolare. La durata media di vita dal momento della diagnosi è di 10 anni.
CORRELATI BIOLOGICI
Dal punto di vista macroscopico si evidenzia atrofia della corteccia cerebrale diffusa e simmetrica con
solchi, scissure e ampliamento dei ventricoli cerebrali.
Dal punto di vista microscopico si evidenziano placche extracellulari amiloidi costituite da aggregati di
amiloide beta e grovigli neurofibrillari intracellulari.
Queste formazioni danneggiano la cellula e interferiscono con il funzionamento delle sinapsi, conducendo a
morte neuronale.
TERAPIA
Non esiste al momento una terapia specifica e risolutiva, ma solo una terapia che abbia come obbiettivo il
rallentamento del declino cognitivo. I farmaci approvati sono gli inibitori dell’acetilcolinesterasi (donepezil,
rivastigmina e galantamina) e gli antagonisti per il recettore per il glutammato NMDA (memantina).
- Per quanto riguarda gli inibitori dell’acetilcolinesterasi, sono sostanze che aumentano la disponibilità di
acetilcolina a livello sinaptico (la demenza genera dalla morte di neuroni ad attività colinergica) e vengono
impiegati in casi di malattia lieve o moderata. Il donepezil si impiega a 5 o 10 mg in singola
somministrazione, la rivastigmina in 3-12 mg in doppia somministrazione e la galantamina in 8-24 mg in
singola o doppia. L’efficacia di questi farmaci si manifesta nella stabilità della sintomatologia per circa un
anno, dopo di che la progressione del declino riprende anche se con minore velocità.
- Gli antagonisti del recettore per il glutammato NMDA vengono impiegati in casi moderati o gravi , il loro
razionale d’impiego è costituito dal blocco dell’effetto tossico dell’eccessivo rilascio di glutammato che
avviene per la morte neuronale e che condurrebbe ad ulteriore danno da intossicazione glutammatergica.
La memantina è il farmaco più usato e si somministra iniziando da 5 fino a 20 mg pro die.
Nel paziente demente è inoltre opportuno trattare tutti i disturbi psichici sovrapposti: depressione,
agitazione psicomotoria, deliri e allucinazioni.
Per la depressione si utilizzano antidepressivi non triciclici per evitare l’effetto anticolinergico che può
aggravare i disturbi cognitivi. Per le manifestazioni psicotiche deliranti e allucinatorie sono utili gli
antipsicotici a basso dosaggio. Tutti gli antipsicotici vanno somministrati con estrema cautela in quanto
aumentano il rischio di patologie cerebrovascolari nei più anziani.
DEMENZA VASCOLARE O MULTIINFARTUALE
Questa demenza è determinata da sofferenza cerebrale multifocale su base arteriosclerotica.
Ha una prevalenza del 16% in pazienti over 80 e i fattori di rischio riconosciuti sono tutte le condizioni che
aumentino i processi aterosclerotici, quindi ipertensione, fumo, diabete, obesità, fibrillazione atriale.
I sintomi non sono differenti dall’Alzheimer, ma nella demenza vascolare la personalità del paziente viene
mantenuta più a lungo insieme alla consapevolezza del disturbo. Il quadro patologico è definito a
scacchiera e si può osservare il deficit selettivo di alcune funzioni con il mantenimento di altre. Questo
perché il disturbo non proviene da un deterioramento cerebrale omogeneo come accade nell’Alzheimer,
bensì dalla perdita di funzioni specifiche correlata a lesioni multiinfartuali.
Ulteriori aspetti che la differenziano dall’Alzheimer sono il decorso associato a ictus o episodi ischemici
transitori, presenza di manifestazioni neurologiche associate ed evidenza strumentale di lesioni
multiinfartuali. Un importante strumento che giova a differenziare ulteriormente la demenza vascolare da
quella di Alzheimer è la scala di Hachinski in cui sono presenti sintomi di entrambe le demenze con i
rispettivi punteggi. Ad un punteggio inferiore a 5 corrisponde l’Alzheimer, mentre da 6 in su si parla di
demenza vascolare.
Nella demenza vascolare sono di comune risontro dei segni neurologici o delle vere e proprie sindromi,
oltre a disturbi psichiatrici come depressione per la maggior consapevolezza del disturbo (insight).
L’esordio della demenza è tipicamente acuto e il decorso è multiinfartuale con episodi acuti di
aggravamento che lasciano ogni volta una condizione di base ulteriormente compromessa.
Il danno cognitivo non può essere recuperato farmacologicamente e necessita di interventi
psicosocioriabilitativi, mentre la cura delle patologie correlate a demenza multiinfartuale come
ipertensione, diabete e turbe circolatorie può prevenire, rallentare o arrestare il disturbo.
DEMENZA DA INFEZIONE DA HIV
La manifestazione clinica caratteristica è il disturbo della memoria di fissazione associato a rallentamento
ideativo e difficoltà di concentrazione. Sono frequenti apatia e ritiro sociale e in alcuni casi si riscontrano
deliri e allucinazioni.
DISTURBI NEUROCOGNITIVI LIEVI
Delineano una serie eterogenea di declini cognitivi rispetto a una condizione precedentemente intatta, che
però non sono tali da interferire con l’autonomia del soggetto il quale comunque compie uno sforzo
maggiore per mantenere il suo funzionamento psicosociale.
TERAPIE PSICHIATRICHE

TERAPIE FARMACOLOGICHE

ANTIDEPRESSIVI
Sono compresi in questa definizione farmaci il cui effetto clinico è di elevare un ton dell’umore
patologicamente depresso. Non hanno alcun effetto di modificazione dell’umore su pazienti non depressi
patologicamente. Sono impiegati in monoterapia per la cura di disturbi depressivi unipolari, e in
associazione con stabilizzatori dell’umore per la cura di disturbi bipolari. Inoltre alcuni di essi hanno
un’efficacia dimostrata anche per altri disturbi psichiatrici che non contemplino necessariamente la
depressione del tono timico.
Si distinguono in: inibitori delle monoaminossidasi (IMAO) e inibitori della ricaptazione (o reuptake) delle
monoamine. Tra questi ultimi è possibile un’ulteriore differenziazione tra antidepressivi triciclici non
selettivi e farmaci ad azione inibitoria selettiva su specifiche monoamine.
INIBITORI DELLE MONOAMINOSSIDASI
Il meccanismo d’azione prevede l’inibizione delle monoaminossidasi, enzimi mitocondriali situati nella
cellula presinaptica, deputati alla catabolizzazione di tutte le monoamine che quindi, non essendo
catabolizzate saranno presenti in maggior quantità (sappiamo che i disturbi depressivi sembrano trovare
causa nella diminuzione nel cervello di monoamine). Il blocco non è selettivo e non è reversibile. Questo
comporta che siano bloccate sia le MAO di tipo A, che sono quelle coinvolte nei sintomi depressivi
localizzate a livello cerebrale, sia quelle di tipo B prevalentemente ad azione periferica.
Attualmente l’impiego di IMAO (in Italia è disponibile solo la tranicilpromina) è limitato per la tossicità
epatica e per un problema di interazione con alcuni alimenti che contengono l’amina tiramina. Infatti il
blocco periferico delle MAO, impedisce il catabolismo della tiramina che, presente in elevate quantità,
determina crisi ipertensive, cefalea, nausea e flush cutanei.
ANTIDEPRESSIVI TRICICLICI
La loro azione consiste nel blocco della proteina trans membrana deputata alla ricaptazione delle
monoamine con conseguente aumento della loro contentrazione a livello della fessura intersinaptica.
Le monoamine sono neurotrasmettitori che vengono rilasciati all’arrivo del potenziale d’azione nello spazio
intersinaptico e vanno a legarsi ai recettori specifici che sono posti sulla mebrana post sinaptica, dove
esercitano la loro azione. Una volta rilasciate nello spazio inter sinaptico, le monoamine devono essere
eliminate per rendere nuovamente disponibile il terminale sinaptico a un nuovo potenziale d’azione. I
meccanismi di controllo sono:
- i neurotrasmettitori possono legarsi a recettori selettivi posti sulla membrana presinaptica, il cui legame
determina l’attivazione di una cascata di mediatori intracellulari il cui esito finale è di inibire l’ulteriore
rilascio delle vescicole sinaptiche nel terminale.
-la ricaptazione del neurotrasmettitore da parte del terminale presinaptico che avviene tramite proteine
specifiche
-la degradazione del neurotrasmettitore ricaptato all’interno della cellula tramite le MAO prima che venga
depositato nuovamente all’interno delle vescicole.
Il meccanismo d’azione consiste nel bloccare in maniera non selettiva le proteine deputate alla ricaptazione
di tutte le monoamine: questo si traduce nell’aumento delle concentrazioni intersinaptiche di
neurotrasmettitore, che prolunga la sua azione sui recettori post sinaptici. In un secondo tempo questa
ipersollecitazione dei recettori dovuta alla maggiore disponibilità di neurotrasmettitore, provoca una
regolazopne degli stessi che consiste nella riduzione della loro espressione sulla membrana post sinaptica.
Le differenze fra i singoli farmaci triciclici dipendono dalla diversa incisività del singolo composto nel
bloccare la ricaptazione delle monoamine.
I triciclici vengono sncors oggi impiegati in una molteplicità di condizioni cliniche diverse con tuttavia
notevoli differenze in ciascuna delle patologie psichiatriche:
-depressione maggiore: nelle forme lievi e moderate sono farmaci di seconda scelta per la maggiore
collateralità. Nelle forme più gravi può essere anche di prima scelta con range di dosaggio tra 75 e 200 mg.
E’ sconsigliato l’utilizzo di triciclici in disturbi bipolari per il rischio di switch di polarità.
-disturbo distimico: vengono impiegati in casi di cattiva risposta ad altri farmaci
-disturbo di panico: sono di seconda scelta per la scarsa tolleranza nei confronti degli effetti collaterali
-DOC: l’unico triciclico efficace è la clomipramina per la sua azione seratoninergica
Costituiscono una controindicazione all’impiego di triciclici il glaucoma e l’ipertrofia prostatica.
INIBITORI SELETTIVI DEL REUPTAKE DELLA SEROTONINA
Sono utilizzati per la loro selettività d’azione sul sistema seratoninergico e per l’estrema varietà di sindromi
che possono trattare.
Gli SSRI sono farmaci di prima scelta per:
- depressione unipolare, disturbo di panico, d’ansia generalizzata, stress post-traumatico, stress acuto,
DOC, bulimia
Si ritiene che la fluoxetina sia il maggior disinibente e attivante del gruppo, mentre la sertralina, il
citalopram e l’escitalopram hanno il vantaggio di interferie meno con altri farmaci e sono preferibili in casi
di politerapie. Gli SSRI sono comunque generalmente ben tollerati, gli effetti collaterali maggiori sono la
dispepsia e la nausea, per cui è preferibile assumerli dopo i pasti. Nel lungo termine sono frequenti effetti
collaterali sessuali e bisogna fare cautela per pazienti epilettici.
Unica controindicazione è la somministrazione in pazienti già in cura con IMAO.
INIBITORI SELETTIVI DEL REUPTAKE DELLA NORADRENALINA (NARI)
Si tratta di sostanze speculari agli SSRI con azione sull’attività noradrenergica. Vengono usati in depressione
unipolare con inibizione psicomotoria. Sono generalmente ben tollerati, ma in prima fase di trattamento
possono causare ipotensione e tachicardia. Il capostipite è la reboxetina con range da 4 a 12 mg per die.
INIBITORI SELETTIVI DEL REUPTAKE DELLA SEROTONINA E DELLA NORADRENALINA (SNRI)
Sono farmaci con duplice azione su serotonina enoradrenalina con effetto antidepressivo: uniscono buona
efficacia ad ottima tollerabilità.
In italia sono disponibili:
- la venlafaxina con range da 75 a 225 mg per trattamento di disturbo depressivo maggiore, d’ansia
generalizzata e di panico. E’ ben tollerata ma in prima fase può determinare nausea, dispepsia, stipsi e
secchezza delle fauci.
- la duloxetina con range da 60 a 120 mg ben tollerata a parte leggeri disturbi gastrointestinali. Utilizzata
per disturbo depressivo maggiore e di ansia generalizzata.
INIBITORI SELETTIVI DEL REUPTAKE DI DOPAMINA E NORADRENALINA (DNRI)
Il bupropione agisce anche con antagonista per i recettori dell’acetilcolina di tipo nicotinico, ragione per cui
si impiega nei trattamenti per la cessazione del fumo di sigaretta.
E’ utilizzato per il disturbo depressivo maggiore unipolare con inibizione psicomotoria e anedonia marcata
ad un range tra 150 e 300 mg
ANTIDEPRESSIVI NORADRENERGICI E SERATONINERGICI (NaSSA)
I nassa incrementano la trasmissione noradrenergica e seratoninergica attraverso il blocco dei recettori
alpha2adrenergici presinaptici. Infatti uno dei meccanismi di controllo, chiamato feedback negativo, sul
rilascio di monoamine nel terminale sinaptico è dato dall’azione della monoamina su recettori posti sulla
membrana presinaptica, la cui stimolazione inibisce il rilascio delle monoamine. Così normalmente la
noradrenalina blocca il proprio rilascio e quello della serotonina interagendo con questi recettori alpha2
presinaptici. Il blocco instaurato da questi antidepressivi sui recettori alpha2 consente un incremento del
rilascio delle monoamine. Il capostipite è la mirtazapina impiegata in range tra 30 e 45 mg. L’effetto
collaterale maggiore è l’induzione di sonnolenza e l’aumento di peso.
BENZAMIDI SOSTITUITE
Sono antipsicotici che agiscono in duplice azione sul sistema dopaminergico: a basso dosaggio sono
antidepressivi, a dosi elevate fungono da antipsicotici su deliri e allucinazioni.
A basse dosi il meccanismo d’azione si basa sull’interazione con i recettori dopaminergici D2 presinaptici
bloccandoli e aumentando così il rilascio di dopamina. L’impiego clinico è nelle depresisoni unipolari con
buona tollerabilità, benchè si possano manifestare effetti collaterali tipici dei neurolettici: disturbi
extrapiramibali e iperprolattinemia. Tra questi ricordiamo l’amilsulpride a dosaggio tra 25 e 50mg.
INIBITORI DEL REUPTAKE DELLA SEROTONINA E ANTAGONISTI DELLA SEROTONINA (SARI)
Il tradozone ha un meccanismo d’azione complesso:
- a basse dosi (25-150mg) ha effetto antagonista sulla serotonina quindi funge da ansiolitico e sedativo
(impiegato per indurre il sonno negli anziani)
- a dosi elevate (150-300 mg) interagisce con il ricaptatore di serotonina manifestando il suo effetto
antidepressivo in episodi depressivi maggiori unipolari.
AGOMELATINA
E’ un antidepressivo caratterizzato da azione agonista sui recettori della melatonina e antagonista sui
recettori seratoninergici. Legandosi ai recettori della melatonina esplica un’azione di regolazione dei ritmi
circadiani. Combinando l’azione sulla melatonina con l’antagonismo sui recettori seratoninergici, funge da
antidepressivo perché il blocco di tali recettori per la serotonina incremento il rilascio di noradrenalina e
dopamina a livello cerebrale. Viene utilizzato in dosaggio tra 25-50 mg e l’unica cautela da fare è sullla
funzionalità epatica perché sono stati mostrati effetti di incremento delle transaminasi in terapie con
agomelatina.

STABILIZZATORI DELL’UMORE
Sono compresi farmaci di classi diverse ma con due proprietà fondamentali: trattare un episodio acuto
affettivo senza indurre lo switch e prevenire nel lungo termine ricorrenze affettive.
A questi farmaci appartengono degli antipsicotici di seconda generazione come l’olanzapina e la quetiapina
che sono efficaci nella prevenzione in monoterapia di episodi acuti di entrambe le polarità.
SALI DI LITIO
Il litio è uno stabilizzatore che mostra in monoterapia una buona efficacia nel trattamento acuto di episodi
ipomaniacali, maniacali, depressivi bipolari e della profilassi di ricorrenze affettive.
Negli episodio di depressione unipolare viene utilizato solo per forme resistenti e in associazione ad
antidepressivi.
-Trattamento antimaniacale: Il litio esercita la propria azione con una latenza di 10-15 giorni per cui si
impiega in monoterapia nei casi lievi in cui non si necessita una azione rapida.
-Trattamento antidepressivo: è impiegato in monoterapia nella depressione bipolare o in associazione ad
altri stabilizzatori e ad antidepressivi in depressione unipolare raggiungendo livelli plasmatici tra 0.8 e
1.2mEq/l (nella depressione unipolare 0.6).
-Prevenzione del disturbo bipolare: è impiegato nel trattamento a lungo termine con range plasmatico tra
0.5 e 0.8mEq/l.
La maggiore efficacia clinica si esplica in pazienti con MDI (maniacale-depressivo-intervallo). In questi
pazienti, se inserito all’inizio o prima di un episodio maniacale, riuscirà a controllare l’episodio euforico,
prevenire l’insorgenza dell’episodio depressivo e evitare l’insorgenza del successivo ciclo.
Se invece viene assunto alla fine di un episodio euforico o all’inizio di un episodio depressivo, l’azione si
esplicherà sul ciclo successivo.
Sappiamo che l’efficacia del litio può essere soggettiva in base ai livelli plasmatici e non dipende
unicamente dalla dose assunta, che deve essere calcolata in base a: età, peso, gravità del quadro clinico.
Si inizia 300-600mg al giorno in 2-3 somministrazioni. Il litio raggiunge lo stato stazionario in 5 giorni, per
cui la prima litiemia va eseguita dopo quest’arco di tempo ed eventualmente rieseguita in casi di modifiche
del dosaggio.
I più comuni effetti collaterali sono diarrea lieve, poliuria, polidipsia e un lieve tremore alle mani.
Il trattamento a lungo termine si accompagna ad aumento del rischio di sviluppo di alterazioni nella
funzionalità di diversi apparati: a livello renale si assiste a riduzione della capacità di concentrazione
urinaria e poliuria, con riduzione della filtrazione glomerulare, a livello tiroideo determina un aumento di
valori di TSH con rischio di ipotiroidismo e a livello cardiaco è comune osservare alterazioni nel tratto ST e
inversione dell’onda T. La tossicità si manifesta a valori maggiori di 1.5mEq/l.
ACIDO VALPROICO O VALPROATO
E’ un farmaco anticonvulsivante che possiede azione stabilizzatrice dell’umore. In monoterapia appare
efficace nel trattamento acuto di episodi ipomaniacali e maniacali particolarmente se è presente rapida
ciclicità e ha una latenza minore rispetto al litio. Nel trattamento profilattico è molto efficace nel prevenire
episodi di entrambe le polarità con maggior incisività sugli episodi euforici.
Il valproato aumenta la neurotrasmissione GABAergica aumentandone la sinstesi e inibendone la
degradazione fino a potenziare gli effetti post sinaptici. Anche per l’acido valproico, come il litio, vista la
varietà individuale di assorbimento e metabolismo, si considerano validi i valori plasmatici piuttosto che la
dose assunta: tali valori devono essere compresi tra 50 e 100 microgrammi al millilito e vengono raggiunti
con una prima dose di 500 mg in 2 somministrazioni che aumenta progressivamente in qualche giorno fino
a 600-3800 mg. Gli effetti collaterali sono sonnolenza, nausea, vomito e inappetenza. Raramente può
determinare epatotossicità, tremori e aumento di peso.
CARBAMAZEPINA
E’ un farmaco anticonvulsivante e stabilizzatore dell’umore indicato principalmente per il trattamento delle
manie e per il mantenimento di disturbi bipolari, ma anche per controllare l’agitazione e i comportamenti
violenti di pz affetti da disturbi della personalità. La carbamazepina esplica la sua azione attraverso la
stabilizzazione di membrana della cellula nervosa per inibire dei potenziali d’azione sodio dipendenti. Un
problema clinico è dato dall’interferenza con altri farmaci (negli episodi maniacali è frequente la
politerapia) perché ne aumenta il catabolismo (riducendone l’efficacia).
Nella profilassi di disturbi bipolari è di seconda scelta perché ha poca efficacia a lungo termine e pertanto è
da considerare efficiente solo in pz non responsivi ad altri trattamenti. Si consiglia di mantenere un livello
plasmatico tra 6 e 12 mg/ml. Livelli che vengono raggiunti con una prima somministrazione da 400 mg in 2
volte e con un progressivo aumento del dosaggio fino a 600-1600 mg. Gli effetti collaterali più comuni sono
sonnolenza, eritemi cutanei, leucopenia e, anche se molto raramente, anemia aplastica per cui è opportuno
richiedere un emocromo prima dell’inizio del trattamento.
LAMOTRIGINA
Farmaco anticonvulsivante e stabilizzatore efficace in monoterapia nel trattamento profilattico del disturbo
bipolare e incisività sulla depressione bipolare. Non è indicato nel trattamento degli episodi espansivi per
cui è buona pratica associarlo ad altri stabilizzatori.
La lamotrigina riduce l’azione eccitatoria del glutammato interferendo con i canali di sodio e necessita una
lenta titolazione per evitare la sindrome di Steven Jhonson che sarebbe un grave eritema multiforme. Si
inizia con 23mg al giorno e si incrementa a 50 dopo 2 settimane. Dopo quattro settimane si sale di dose
fino ad arrivare a 100-300mg al giorno. Sonnolenza, cefalea e debolezza sono i più comuni effetti collaterali.

ANSIOLITICI E IPNOINDUCENTI
Il loro effetto clinico è di ridurre lo stato d’ansia e/o indurre il sonno senza sedazione, la quale può essere
una collateralità. L’azione ipnoinducente infatti, consiste nel favorire il sonno con la minor alterazione
possibile delle sue fasi.
BENZODIAZEPINE
In psichiatria si Impiegano principalmente per il loro effetto ansiolitico e ipnoinducente. Esse agiscono
aumentando la trasmissione sinaptica GABAergica, inibitoria sulla liberazione di altri neurotrasmettitori.
Sulla membrana post sinaptica è presente il recettore ionotropo GABAA. Questo recettore è un complesso
canale di membrana per ioni cloro. Quando il GABA si lega al suo recettore, determina l’apertura del canale
e l’ingresso nella cellula di ioni che la polarizzano inibendo l’eccitabilità neuronale. Il complesso recettoriale
GABAA oltre ad avere un sito per GABA possiede anche altri siti di legame per barbiturici, benzodiazepine
ed etanolo. Solo in presenza di GABA, il legame con le benzodiazepine determina un potenziamento
dell’apertura del canale facendo entrare più ioni cloro e iperpolarizzando la membrana cellulare.
Per quanto concerne i disturbi d’ansia, l’impiego di tali farmaci è stato ridimensionato negli anni perché
molti disturbi si sono mostrati più responsivi ad altri farmaci.
L’unica indicazione è il trattamento dell’ansia generalizzata. Anche in questi casi comunque, se il
trattamento deve essere fatto a lungo termine è più indicato introdurre anche degli antidepressivi.
Le benzodiazepine sono farmaci maneggevoli che possono essere prescritti con facilità per il loro basso
livello di tossicità e per i pochi effetti collaterali come sedazione, astenia e rallentamento. Tutti questi
sintomi sono presenti nei primi giorni di trattamento ma poi tendono a ridursi.
La tolleranza indotta dagli ansiolitici è un fenomeno ridotto che non condiziona il decorso di un trattamento
impostato correttamente: è quasi impossibile che, trovata la dose minima efficace, si debba elevare il
dosaggio. Il problema principale è nella sospensione, perché dopo 1-7 giorni da essa, compaiono ansietà,
insonnia e irritabilità. La dipendenza psicologica si esprime con uno stato dall’allarme ansioso sia per il venir
meno della sicurezza data dal farmaco che per il craving. Il trattamento deve essere impostato seguendo
delle direttive ben precise:
-Seguire l’indicazione clinica e non prescrivere selvaggiamente
-Scegliere la sostanza giusta tra le molteplici benzodiazepine tenendo conto della loro farmacocinetica:
l’emivita breve è da preferire quando è presente rischio di accumulo (età avanzata, patologie epatiche o
renali), l’emivita lunga è da preferire per ottenere una copertura più lunga.
-Assumere la giusta dose giornaliera che deve essere minima e distribuita in 2-3 somministrazioni
-Non protrarre il trattamento per più di 6 mesi per evitare l’insorgere di tolleranza o dipendenza.
ALTRI FARMACI
-Buspirone: ansiolitico non benzodiazepinico non disponibile in Italia.Agisce da agonista della serotonina sui
recettori 5-HT1A con conseguente diminuzione del tono seratoninergico. Esercita la sua azione dopo una
latenza di 2-3 settimane ed è indicato per il disturbo d’ansia generalizzata. Il dosaggio giornaliero è di 15-
60mg in 3 somministrazioni ed è ben tollerato
-Zopiclone: come le benzodiazepine, facilita la trasmissione GABAergica attraverso un’azione selettiva sui
recettori omega1. E’ impiegato come ipnoinducente a 7.5mg.
-Zolpidem: Stesso meccanismo d’azione di Zopiclone, ottima tollerabilità a 10mg. Ipnoinducente
-Zaleplon: Stesso meccanismo d’azione. Ipnoinducente. Latenza brevissima. Dosaggio 10mg per die.

ANTIPSICOTICI
Farmaci il cui effetto clinico è di ridurre o annullare i sintomi psicotici. Caratteristica comune a tutti gli
antipsicotici è l’azione antagonista sui recettori dopaminergici post sinaptici D2. A seconda poi della
presenza o assenza di altre azioni di blocco recettoriale, vengono divisi in:
antipsicotici classici e antipsicotici di seconda generazione.
ANTIPSICOTICI CLASSICI
In questi farmaci il blocco dei recettori D2 post sinaptici determina gli effetti antipsicotici. L’azione su questi
recettori non è selettiva e viene espressa in diverse vie cerebrali. A livello mesolimbico esprime gli effetti
antipsicotici, a livello mesocorticale determina aggravamento dei sintomi negativi (riduzione cognitiva e
intellettiva), a livello nigostriatale si esprime con sintomi extrapiramidali (distonie, parkinsonismo,
discinesia tardiva), a livello tuberoinfundibolare determina iperprolattinemia responsabile di ginecomastia,
galattorrea, amenorrea e disfunzioni sessuali.
I neurolettici interferiscono anche con il funzionamento di altri sistemi neurotrasmettitoriali: azione
antiistaminica (sedazione, sonnolenza), azione anticolinergica (secchezza delle fauci, stitichezza,
offuscamento della vista) e azione antiadrenergica (ipotensione, tachicardia).
Un raro evento avverso, ma molto temibile è la sindrome maligna da neurolettici che si esprime con una
triade sintomatica: ipertermia, rabdomiolisi e segni extrapiramidali. Può sfociare nel coma.
Sul piano clinico esiste una bilancia tra effetto sedativo e antipsicotico che si utilizza per scegliere la
sostanza giusta in base agli effetti desiderati. Infatti è stato mostrato come i neurolettici con maggiore
affinità con i recettori D2 mostrino effetti migliori nell’antipsicosi piuttosto che nella sedazione, viceversa le
sostanze con minor affinità con i recettori D2 mostrano migliori segni sedativi.
Le principali indicazioni per l’utilizzo di antipsicotici classici sono: trattamento della confusione mentale,
dell’agitazione psicomotoria e dei sintomi psicotici positivi, disorganizzati e negativi (in questo caso sono
una seconda scelta dopo gli antipsicotici di seconda generazione).
ANTIPSICOTICI DI SECONDA GENERAZIONE
Sono un insieme di farmaci diversi per caratteristiche e farmacodinamica che condividono l’azione
antipsicotica di blocco su D2 e di antagonismo a livello dei recettori seratoninergici 5-HT2A (quest’ultima
azione non viene espressa dagli antagonisti selettivi D2-D3).
Si dividono in: antagonisti della dopamina e della serotonina (SDA), antipsicotici ad azione multirecettoriale
(MARTA), agonisti dopaminergici parziali (aripiprazolo) e antagonisti selettivi D2-D3.
ANTAGONISTI DI DOPAMINA E SEROTONINA (SDA)
Sono composti in cui si combinano l’attività antagonista sulla dopamina (blocco D2) con quella sulla
serotonina (BLOCCO 5-HT2A)
L’azione sui sintomi positivi psicotici, dipende principalmente dal blocco dei recettori 5-HT2A per la
serotonina a livello mesolimbico. Infatti normalmente il rilascio di serotonina stimola recettori 5-HT2A posti
sul corpo neuronale di neuroni glutammatergici, i quali a loro volta proiettano su neuroni dopaminergici.
L’effetto è di stimolare la via del glutammato, che determina un ulteriore stimolo di rilascio di dopamina da
parte dei neuroni dopaminergici già iperattivi per via della psicosi. Il blocco sui recettori 5-HT2A eseguito
dagli SDA, determina una riduzione di rilascio di glutammato e di conseguenza anche una diminuzione di
rilascio di dopamina da cui deriva l’effetto vantaggioso degli antipsicotici sui sintomi positivi della
schizofrenia.
L’altro meccanismo d’azione, è rivolto ai recettori D2 post sinaptici e ai recettori 5-HT2A a livello delle vie
dopaminergiche. Normalmente la serotonina inibisce, legandosi a 5-HT2A, il rilascio di dopamina. Quindi il
blocco di 5-HT2A effettuato dagli antipsicotici determina un maggior rilascio di dopamina che bilancerà
l’effetto di blocco su D2 post sinaptico. Questa azione ridimensiona tutti gli effetti avversi derivanti dal
blocco D2 (quali sintomi cognitivi, extrapiramidali e iperprolattinemia). Fanno parte degli sda: risperidone,
ziprasidone e paliperidone.
RISPERIDONE
E’ un ottimo antipsicotico di efficacia pari ai neurolettici classici sui sintomi positivi e ancora più efficace su
quelli negativi. E’ infatti considerato di prima scelta nella cura della schizofrenia e degli episodi maniacali.
L’aumento di peso è il rischio più frequente ed è accompagnato dal rischio di sindrome metabolica. La dose
terapeutica si assesta tra i 3 e i 6mg al giorno e occorre sempre tenere presente che a bassi dosaggi è
attivante, ad altri dosaggi è sedativo.
PALIPERIDONE
Profilo farmaco dinamico simile a risperidone, con l’aggiunta di poter essere somministrato a rilascio
prolungato.
ZIPRASIDONE
Unisce all’effetto SDA anche il blocco della ricaptazione di serotonina e noradrenalina che spiega l’effetto
clinico notevole sui sintomi positivi ma anche sulla depressione e sui sintomi negativi. E’ infatti indicato per
il trattamento di schizofrenia ed episodi maniacali del disturbo bipolare. La dosa indicata è di 40-80mg al
giorno dopo i pasti

ANTIPSICOTICI AD AZIONE RECETTORIALE MULTIPLA (MARTA)


Questi antipsicotici hanno l’oltre l’azione SDA anche effetti multirecettoriali responsabili di effetti sia
terapeutici che collaterali. Comprendono: clozapina, olanzapina, quetiapina e asenapina.
CLOZAPINA
Agisce come antagonista dopaminergico ma si differenzia dagli antipsicotici tradizionali perché l’azione
prevalente è su D1 e D4. Inoltre è antagonista verso 5-HT2-3-6-7°. Ha anche attività alfa-adrenolitica,
antiistaminica e anticolinergica.
La clozapina è priva di effetti extrapiramidali ma determina spesso sedazione, aumento di peso e
ipersalivazione dose dipendenti. Nell’1% dei casi può determinare agranulocitosi letale, infatti prima di
iniziare un trattamento è bene fare una conta dei leucociti che devono essere >3500 e dei granulociti che
devono essere >2000 al millimetro cubo.
In italia è di seconda scelta per la minore maneggevolezza soprattutto per pazienti resistenti ad altri
antipsicotici o con discinesia tardiva concomitante, per la quale la clozapina sembra avere un effetto
terapeutico. Il dosaggio compreso tra 100 e 300mg va raggiunto in maniera estremamente graduale.
OLANZAPINA
Antagonista su molteplici recettori, è considerata un antipsicotico di prima scelta per la schizofrenia ma è
anche uno stabilizzatore dell’umore utile per episodi maniacali e nella profilassi di disturbi bipolari.
Sedazione e ipotensione sono effetti collaterali presenti ma che si riducono col procedere della terapia. Il
dosaggio è di 10-20 mg al giorno.
QUETIAPINA
Ottimo antipsicotico di prima scelta per la schizofreniama utilizzato anche nel trattamento del disturbo
bipolare per entrambe le polarità (unico tra gli antipsicotici) e nella profilassi del disturbo bipolare. Gli unici
effetti collaterali rilevanti sono la sedazione (che in caso di trattamento di insonnia negli anziani può essere
terapeutica) e l’ipotensione ortostatica. Altri effetti collaterali sono rari e minimi.
La dose terapeutica è di 150-170mg per la schizofrenia, 300-600mg per la depressione bipolare, 400-800
mg per le manie bipolari e 300-800 mg per la profilassi bipolare.
ASENAPINA
Indicata in italia solo per il trattamento delle manie bipolari, ha un alto grado di affinità sia con i recettori
seratoninergici che con i dopaminergici. È consigliata una dose di 10mg 2 volte al giorno in monoterapia e
di 5 mg 2 volte al giorno se associata a stabilizzatori.

AGONISTI DOPAMINERGICI PARZIALI (ARIPIPRAZOLO)


Antipsicotico agonista parziale dei recettori D2 e 5-HT1A. Un agonista è un farmaco che esplica la sua
azione al livello del recettore a cui si lega, identica a quella del ligando endogeno ma di minore intensità.
Nella schizofrenia vi è un eccessivo rilascio di dopamina responsabile dei sintomi positivi. L’agonismo sui
recettori D2 consente di ridurre la trasmissione dopaminergica. Dove invece i livelli dopaminergici sono
deficitari, l’aripiprazolo col suo agonismo ne incrementa la trasmissione. Si tratta quindi di un modulatore
dopaminergico e questa definizione è alla base della sua attività sui sintomi positivi.
L’aripiprazolo è efficace anche nella remissione dei sintomi psicotici. Per quanto concerne la tollerabilità,
esso è poco sedativo e ha un basso rischio di determinare sintomi extrapiramidali. Il dosaggio consigliato è
di 15 mg con possibilità di incrementare fino a 30 mg.
Trova impiego clinico sulla schizofrenia e i disturbi correlati ed è uno stabilizzatore efficace nel trattamento
della mania e nella profilassi delle ricorrenze affettive maniacali.
ANTAGONISTI SELETTIVI D2-D3: AMISULPRIDE
Agisce come antagonista selettivo dei recettori D2-D3 e a basso dosaggio presenta un’affinità maggiore per
i recettori pre-sinaptici D2 deputati all’inibizione del rilascio di dopamina. Il blocco esercitato su questi
recettori determina un incremento del rilascio di dopamina, effetto sfruttato terapeuticamente per trattare
le depressioni minori. Non si lega ad altri recettori, quindi gli effetti collaterali riscontrati per altri
antipsicotici di nuova generazione non sono qui presenti. È anche poco sedativa.

PSICOGERIATRIA
DEPRESSIONE
La depressione è molto comune nella popolazione geriatrica con prevalenza del 3% che sale al 12% per pz
istituzionalizzati. Sebbene la sintomatologia, in assenza di malattie concomitanti, sia la stessa, esistono dei
sintomi più frequenti nella depressione dell’anziano piuttosto che nelle altre epoche della vita.
L’anziano sembra esprimere il disturbo in modo diverso. Infatti i sintomi depressivi talvolta non sono
facilmente rilevabili e ai sintomi classici possono associarsi aspetti che derivano da condizioni ambientali
stressanti o sofferenze generali del sistema nervoso centrale. Nell’anziano la depressione è contraddistinta
da un’elevata compromissione cognitiva con deficit di attenzione, di memoria e di concentrazione anche
gravi. La maggior parte degli episodi depressivi nell’anziano costituisce una recidiva di disturbi affettivi
precedentemente insorti.
Nel caso in cui invece la depressione compaia nell’anziano per la prima volta (late onset), presenterà aspetti
e sintomi caratteristici e in più sarà meno importante la predisposizione genetica e più importanti gli eventi
vitali stressanti. In questo caso i sintomi depressivi saranno più lievi, mentre saranno presenti sensi di
colpa, ansia, preoccupazioni ipocondriache, idee deliranti e di riferimento.
Nei pazienti anziani gli inibitori selettivi del reuptake della serotonina hanno superato i triciclici per utilizzo
perché i triciclici mostrano effetti collaterali peggiori e più frequenti. Per gli SSRI le dosi iniziali dovrebbero
essere la metà di quelle usuali andando a aumentare settimanalmente fino al raggiungimento della dose
efficace che dovrà essere mantenuta per almeno 6 settimane prima di tentare un incremento per mancata
risposta alla terapia. Questo perché è stato dimostrato che un aumento precoce della dose si associa a più
effetti collaterali ma non ad una risposta più rapida.
Gli effetti collaterali dei SSRI per gli anziani possono essere: ipotensione, sanguinamenti, stipsi, ritenzione
urinaria, iponatremia e disfunzione cognitiva.
DISTURBO BIPOLARE GERIATRICO
Occorre sempre distinguere pazienti con disturbo bipolare che diventano anziani e pazienti che subiscono il
primo esordio bipolare dopo 50 anni (late onset bipolar).
La late onset mania è spesso associata ad aumento di comorbidità somatiche. Tra le ipotesi
eziopatogenetiche accreditate per il disturbo, troviamo l’ipotesi vascolare che mette in relazione un danno
di tipo cerebrovascolare con l’insorgenza del disturbo. Mentre per i soggetti con esordio in età giovanile c’è
un’elevata familiarità, nei late onset è meno frequente. In più tendono ad avere meno e più lievi episodi
maniacali con tendenza all’umore irritabile piuttosto che elevato. Intercorre anche un intervallo di tempo
maggiore tra un episodio depressivo e uno maniacale e si stima che gli anziani abbiano da uno a tre episodi
depressivi prima di uno maniacale. Inoltre più spesso dopo un episodio maniacale si ha una ricaduta
depressiva. Questi dati ci danno conferma di come il bipolare anziano sia diverso da quello tipico, anche per
la prevalenza dei sintomi depressivi su quelli maniacali.
Gli stabilizzatori dell’umore sono i farmaci più utilizzati, tuttavia i tassi di remissione del disturbo sono
esigui (32%).
LE PSICOSI
La schizofrenia colpisce lo 0.3% degli anziani ma solo per il 25% ha esordio in età geriatrica. La caratteristica
della late onset è la prevalenza di deliri paranoidei e allucinazioni uditive con minor prevalenza dei sintomi
negativi rispetto agli adulti. Tra le comorbidità va ricordato l’impatto della sindrome metabolica e delle
problematiche neurologiche.
I sintomi tendono a essere meno gravi e le ospedalizzazioni sono più legate a problematiche fisiche e
ricadute psicotiche.
I farmaci più utilizzati sono gli antipsicotici e anche per loro vale la regola di iniziare il trattamento con dosi
più basse e aumentare lentamente nelle settimane. L’obiettivo da raggiungere è la dose efficace col minimo
di effetti collaterali. L’associazione con farmaci anticolinergici per il trattamento dei sintomi extrapiramidali
degli antipsicotici deve essere evitata per il rischio di precipitazione in stato confusionale. Gli interventi
psicosociali sono molto utili nel migliorare il funzionamento sociale. Nel formulare quindi un trattamento, è
bene associare antipsicotici a programmi psicosociali perché la remissione aumenta statisticamente nei casi
trattati anche con la psicoterapia.
DELIRIUM
Viene definito come una sindrome caratterizzata da un’alterazione dello stato di coscienza e una
compromissione globale delle funzioni cognitive che si sviluppano per un breve periodo di tempo, distinti in
base ai criteri eziologici: delirium dovuto a condizione medica generale, indotto da sostanze, secondario ad
infezione ecc. Il segno caratteristico del delirium è una disfunzione cognitiva acuta, uno stato confusionale
caratterizzato da rapida insorgenza e da disturbi della sfera cognitiva con andamento fluttuante e disturbi
deliranti e allucinatori. In alcuni anziani il delirium può anche essere manifestazione precoce della
demenza.
Il delirium può persistere per alcune settimane o presentare un andamento ingravescente fino all’exitus,
può recidivare o può segnare l’inizio di un processo di delirio residuo con convincimenti deliranti
persistenti- Generalmente è definito una condizione morbosa transitoria. Lo scopo principale del
trattamento del delirium è di risolvere il più tempestivamente possibile ogni fattore causale o concausale di
ordine medico generale o neurologico. I farmaci sono antipsicotici ad elevata potenza come l’aloperidolo.
DEMENZE
Altamente prevalenti nella popolazione anziana, comprendono Alzheimer, demenza vascolare, fronto-
temporale e demenza a corpi di Lewy. L’età è il maggiore fattore di rischio. Nel caso dell’Alzheimer,
sappiamo che è una malattia cronica caratterizzata da progressiva perdita di memoria, di cpacità di
orientamento e disturbi del comportamento come aggressività o depressione. La principale manifestazione
associata alla demenza è rappresentata dai cosiddetti sintomi comportamentali e psicologici associati alle
demenze (BPSD). I BPSD possono essere definiti come alterazioni della percezione, del contenuto del
pensiero, dell’umore o del comportamento e interferiscono pesantemente con la gestione familiare del
paziente.
- Nella fase iniziale della demenza troviamo: minimo disorientamento temporale, difficoltà nel ricordare
eventi recenti e leggera afasia.
- Nella fase intermedia troviamo disorientamento spazio-temporale, deficit di memoria moderato-grave e
chiaro disturbo del linguaggio, bradicinesia, segni extrapiramidali e necessità di essere stimolato nella cura
della propria persona.
- Nella fase terminale troviamo: perdita delle abilità cognitive con difficoltà nel riconoscimento dei volti e
dei luoghi familiari, perdita di linguaggio fino al mutismo, rigidità, bradicinesia, aggressività, completa
perdita di autosufficienza.
La terapia corrente dell’AD (Alzheimer Disease) si basa sull’uso di farmaci che risolvano i sintomi ma non
riescono a rallentare la progressione della malattia. Si utilizzano spesso gli anticolinergici.
Per quanto riguarda i BPSD (Behavioral adn Psychological Syntoms of Dementia), dopo esser stati osservati
per 1 mese, possono essere trattati con antipsicotici.

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