Sei sulla pagina 1di 7

<b>Introduzion

e alla terza
giornata:
</b>La terza
giornata ha
luogo di
domenica
pomeriggio,
dopo la
Terza novella
<b>Narratore di 2° grado:</b> Filomena
<b>Tema centrale:</b> Acquisizione di qualcosa di molto desiderato grazie all'uso dell'astuzia.
<b>Schema narrativo: </b>A Firenze c’era una donna molto bella, la quale apparteneva ad una
famiglia
nobile e ricca. Nonostante fosse nobile, venne data in sposa ad un linaiuolo, un uomo rozzo ma
molto ricco. La donna riteneva che un uomo di bassa condizione sociale, sebbene fosse ricco, non
era degno di aver una gentil donna al suo fianco e, inoltre, riteneva che il marito era capace solo di
riconoscere o progettare un tessuto misto. La donna voleva un uomo valoroso, degno del suo amore.
Ben presto si innamorò di un uomo, ma costui non se ne accorgeva e ella, che era molto cauta,
sapeva di non poterlo informare con una lettera, dato che conosceva i possibili rischi. Un giorno
notò che l’uomo era in buoni rapporti con un frate, il quale, sebbene fosse sciocco e rozzo, era
conosciuto per la sua bontà e santità. Il giorno dopo questa andò dal frate per confessarsi e, con gli
occhi in lacrime, disse al frate che aveva bisogno del suo aiuto. Raccontò al frate che un uomo,
nonostante sapesse che era sposata, la importunava e chiese al frate di rimproverarlo e di preg
arlo di
non avere più quell’atteggiamento. Il frate, rivisto l’uomo, gli raccontò ciò che la donna gli aveva
riferito e lo rimproverò. Il valente uomo, non avendo mai fatto una cosa simile, capì la sagacità
della donna e, uscito dalla chiesa, si recò sotto casa della donna. L’uomo, nel vedere
l’atteggiamento della donna, intuì che aveva compreso il vero senso delle parole del frate e seguitò
a passare per quella strada. La donna, dopo aver capito che a costui piaceva, tornò dal santo frate.
Raccontò al frate che l’uomo non aveva smesso di infastidirla e gli raccontò ciò che aveva fatto il
giorno precedente: l’uomo le aveva fatto recapitare, attraverso una serva, una borsa e una cinta. Con
le lacrime agli occhi, diede questi oggetti al frate e lo pregò di restituirli all’uomo. In frate, fatto
chiamare l’uomo, lo rimproverò e gli restituì la borsa e la cinta; l’uomo, ancora una volta, capì la
sagacità della donna e, con quel gesto, capì i sentimenti che la donna provava. Non molto tempo
dopo, il marito si recò a Genova. La donna ritornò dal frate e, piangendo, raccontò al frate che,
quella mattina, l’uomo era entrato nel suo giardino e arrampicandosi su un albero era entrato in
camera sua. La donna, piangendo, si chiedeva come facesse a sapere che il marito era partito e
chiedeva al frate di aiutarla. Inoltre, disse al frate che se l’uomo non avesse smesso di importunarla
l’avrebbe detto al marito e promise al frate che non l’avrebbe più tormentato per questa faccenda.
Appena la donna uscì dalla chiesa, in frate chiamò l’uomo, gli disse ciò che la donna gli aveva
raccontato e lo rimproverò. L’uomo capì che la donna si stava servendo del frate per invitarlo in
casa sua, dato che il marito era partito. Quella notte l’uomo andò da lei, la quale lo aspettava nella
sua camera. Lì si sollazzarono, con l’impegno di incontrarsi altre volte senza più ricorrere al frate.

Quarta novella
<b>Narratore di 2° grado:</b> Panfilo
<b>Schema narrativo: </b>A San Brancazio c’era un uomo buono e ricco, chiamato Puccio di
Rinieri.
Puccio era molto devoto al Signore e decise di farsi terziario dell’ordine francescano e fu chiamato
frate Puccio. Quest’uomo non aveva una famiglia, aveva solo una moglie e conduceva una vita
spirituale: andava ogni giorno in chiesa, diceva i paternostri, digiunava e faceva parte di una
compagnia che praticava penitenze. La moglie, Isabetta, era una donna giovane e bella. Isabetta, a
causa del marito, faceva molto spesso lunghe diete, le quali forse non voleva fare; e quando voleva
dormire o “giocare” con il marito, egli le raccontava la vita di Cristo. A San Brancazio, tornò da
Parigi un monaco, chiamato Don Felice, il quale era bello, giovane e dotato d’ingegno. Frate Puccio
strinse una bella amicizia con il monaco. Don Felice iniziò a frequentare la casa di Puccio e si
invaghì della moglie Isabetta. Il monaco voleva assolutamente soddisfare questo suo desidero, ma
risultava impossibile perché Pucciò non andava mai fuori città. Dopo un po’ di tempo gli venne
un’idea: pensò ad un modo per riuscire ad avere la donna senza creare sospetti. Don Felice disse a
Puccio che poteva insegnargli una penitenza, la quale facevano anche il papa e i prelati per
raggiungere il Paradiso più velocemente. Puccio, incuriosito da questa cosa, iniziò a chiedergli di
insegnargli questo tipo di penitenza. Il monaco iniziò a spiegargli tutto ciò che doveva fare:
inizialmente, con grande diligenza, doveva confessare tutti i suoi peccati; doveva digiunare; per
quaranta giorni non doveva toccare la moglie; doveva pregare tutta la notte in una stanza della casa
da dove si vedesse il cielo, sdraiato per terra e con le mani a guisa di crocifisso; mentre guardava il
cielo, doveva dire trecento paternostri e trecento avemarie; giunta la mattina, poteva andare a
riposarsi. Puccio decise di iniziare quella penitenza la domenica e raccontò alla moglie ogni cosa, la
quale intuì le vere intenzioni del monaco. E mentre Puccio faceva la sua penitenza, nel frattempo,
In un’altra stanza, Don Felice poteva tranquillamente giacere con la donna per tutta la notte.

Quinta novella
<b>Narratore di 2° grado:</b> Elissa
Schema narrativo: A Pistoia, nella famiglia Vergellesi, c’era un cavaliere chiamato Francesco, un
uomo molto ricco ma anche molto avaro. Il quale, dovendo partire per Milano, aveva bisogno di un
cavallo. A Pistoia c’era un giovane il cui nome era Ricciardo, ma che tutti chiamavano Zima, era di
umili origini ma molto ricco. Questo giovane era follemente innamorato della donna di messer
Francesco, la quale era bellissima. Zima aveva uno dei più bei cavalli che ci fossero in Toscana.
Messer Francesco, fattosi chiamare Zima, gli chiede di vendergli il suo cavallo. Zima non vuole
vendere il suo cavallo ma vuole donarglielo, in cambio però, chiede di poter incontrare la moglie. Il
cavaliere, stupito che non gli avesse chiesto soldi, accettò. Il giovane, appena si pose a sedere con la
donna, le manifestò tutto il suo amore. Alle parole di Zima non venne data risposta, infatti il
cavaliere aveva detto alla moglie di non rispondere alle parole del giovane. Zima, vedendo che non
gli veniva data alcuna risposta, decise un nuovo modo d’agire: al posto della donna diede una
risposta alle sue parole. Disse, fingendo che quelle parole fossero dette dalla donna, che i suoi
sentimenti erano ricambiati e che se avesse voluto, in assenza del marito, avrebbe potuto stendere
due asciugamani alla finestra e lui vedendoli sarebbe accorso subito. Zima, dopo aver parlato al
posto della donna, iniziò a parlare per sé e disse che avrebbe fatto ciò che era stato proposto. La
donna non disse una parola e Zima, dopo averla salutata, tornò dal cavaliere e gli diede il cavallo.
Durante l’assenza del marito la donna cadde in tentazione e decise di stendere i due asciugamani,
facendogli il segno stabilito. Zima, vedendo quel segno, fu molto contento e si recò dalla gentil
donna che lo aspettava. La donna, vedendolo venire, gli corse incontro, lo abbracciò e lo baciò
trascorsero la notte insieme. Quella notte non fu l’unica.
Sesta novella
<b>Narratore di 2° grado:</b> Fiammetta
Schema narrativo: A Napoli, città antichissima, c’era un giovane nobile chiamato Ricciardo
Minutolo. Il quale, nonostante avesse una bellissima moglie, si innamorò di una donna chiamata
Catella, moglie di Filippel Sighinolfo. Catella era la più bella donna che ci fosse a Napoli. Catella
era una donna molto onesta e amava perdutamente suo marito e quindi, Ricciardo non riusciva a
soddisfare il suo desiderio. Ricciardo, per conquistare la donna, decise di ricorrere all’astuzia.
Catella era molto gelosa del suo uomo e, venuto a conoscenza di questo sua debolezza, ideò il suo
piano. Durante una gita al mare Ricciardo si avvicina alla donna e la informa che il marito se la
intendeva con sua moglie e che avrebbero avuto appuntamento in un bagno il giorno dopo.
Disinteressatamente le consigliò di presentarsi al posto di sua moglie, che era già stata avvisata,
così avrebbe potuto smascherarlo. Il giorno seguente Ricciardo si recò nel bagno prestabilito e si
mise a letto. Catella quando giunse, dato che la stanza era buia, credendo che fosse il marito,
giacque con Ricciardo. Ricciardo, dopo il rapporto, spiegò alla donna che era tutta una
messinscena e Catella, comprendendo che aveva fatto tutto per amore suo, lo perdonò e lo amò e si
divertirono altre notti insieme.

Settima novella
<b>Narratore di 2° grado:</b> Emilia
<b>Schema narrativo: </b>A Firenze c’era un giovane chiamato Tedaldo degli Elisei, il quale era
follemente innamorato di Monna Ermellina, moglie di Aldobrandino Palermini. La donna
ricambiava questo amore però un giorno, senza motivo, non volle più vederlo. Tedaldo cercò di
riconquistarla, ma ogni gesto era inutile. Triste e addolorato, decise di allontanarsi dalla città.
Giunse ad Ancona, qui , facendosi chiamare Filippo di Dan Lodeccio, iniziò a lavorare per un ricco
mercante e insieme partirono per Cipri. Sebbene fossero passati sette anni, lui continuava ad amare
perdutamente Monna Ermellina. Un giorno, sentendo cantare una canzone che lui una volta aveva
dedicato alla sua amata, gli tornarono in mente i bei ricordi e decise di ritornare a Firenze per
rivedere la sua amata. Tedaldo, travestito da pellegrino, giunse a Firenze e si recò in un albergo che
si trovava vicino alla casa della sua donna. Dopo essersi sistemato, andò davanti all’abitazione
della donna e, vedendo tutte le finestre chiuse, pensò che si fosse trasferita. Mentre ritornava in
albergo, vide quattro dei suoi fratelli tutti vestiti di nero. Naturalmente i fratelli non lo riconobbero
e lui si avvicinò ad un calzolaio e chiese all’uomo il perché quegli uomini fossero vestiti di nero. Il
calzolaio rispose che quegli uomini da poco avevano perso un fratello, chiamato Tedaldo, il quale
era stato ucciso da un uomo chiamato Aldobrandino Palermini, perché era innamorato della
moglie. Tedaldo, meravigliatosi, ritornò in albergo. In albergo, durante la notte, dato che non
riusciva a dormire, si accostò alla fessura della porta e vide tre uomini e una giovane donna.
Ascoltando i loro discordi, Tedaldo capì che erano stati loro ad uccidere l’uomo che stato confuso
con Tedaldo e, per tale omicidio, era stato condannato ingiustamente Aldobrandino. La mattina
seguente, lasciato il suo fante, si recò verso la casa della donna. Introdottosi nella casa della donna,
si fece credere un uomo di Dio e iniziarono a parlare. La donna, mentre piangeva, gli raccontò
ogni casa, cose che l’uomo conosceva già. La donna gli raccontò anche del suo amante e, in modo
astuto, l’uomo le fece confessare il perché lo aveva costretto all’esilio. La donna raccontò che lo
aveva lasciato perché un frate le aveva detto di non tradire il marito, il tradimento era peccato
mortale. L’uomo, con un abile discorso, le disse che era molto più grave mandare l’uomo che si
ama in esilio piuttosto che tradire. Vedendo la donna pentirsi perciò che aveva fatto, si tolse il
mantello e si manifestò a lei e dopo le spiegazioni dovute si riconciliarono. Tedaldo si recò dal
podestà e fece liberare il marito della donna e, dopo averlo fatto scagionare, lo fece riappacificare
con i suoi fratelli. Dopo aver chiarito questa storia, Tedaldo e Monna Ermellina poterono godersi
il loro amore.

Ottava novella
<b>Narratore di 2° grado:</b> Lauretta
Schema narrativo: In Toscana c’era un monastero, nel quale un monaco fu fatto abate. L’abate
era un santo in ogni cosa, tranne che con le donne. L’abate conobbe un ricchissimo villano,
chiamato Ferondo. Frequentando la casa di quest’uomo, l’abate si innamorò perdutamente della
moglie, la quale era bellissima. Ferondo, sebbene fosse un uomo sciocco, amava la moglie ed era
molto geloso. Un giorno la donna, dopo aver chiesto il permesso al marito, decise di andare
dall’abate per confessarsi. Durante la confessione, la donna confidò all’abate che era stufa della
gelosia del marito. L’abate, dopo aver ascoltato la donna, pensò ad un modo per poterla avere e,
finalmente, soddisfare il suo desiderio. L’abate disse alla donna che c’era un rimedio per non farlo
essere più geloso, però lei doveva essere capace di mantenere il segreto. Fingendo di dirle un
segreto, le raccontò come fare: il marito per guarire doveva morire, purificarsi in Purgatorio e
in
seguito con determinate preghiere sarebbe ritornato in vita. L’abate l’avrebbe aiutata in
questa
impresa, però, in cambio lei doveva donare all’abate il suo “amore”. La donna, fiduciosa, accettò.
L’abate diede a Ferondo un bicchiere di vino, nel quale era stata disciolta una droga che lo
avrebbe
fatto dormire. Ferondo, appena bevette il vino, addormentato, cadde. Tutti pensavano che fosse e
morto e, dopo il funerale, l’abate lo fece mettere in una tomba. L’abate, durante la notte e in
compagnia di un monaco bolognese, lo prese dalla sepoltura e lo portò in una cella sotterranea. A
volte, quando l’uomo si svegliava, andava dietro la cella e, camuffando la voce, gli faceva credere
di essere in Purgatorio e che era stato punito per la sua gelosia e, che in pochi giorni sarebbe
tornato in vita e poi gli dava altra droga per farlo dormire. Ferondo restò addormentato per dieci
mesi e in quei mesi l’abate potette stare con la donna. Nel frattempo la donna rimase incinta,
cosicché l’abate capì che era ora di “svegliare” il morto. Si recò nella cella e, quando Ferondo era
cosciente, disse che sarebbe tornato in vita e che Dio gli avrebbe regalato un figlio, il quale doveva
chiamare Benedetto. Ferondo, durante la notte, venne riportato nella sua tomba e la mattina dopo,
appena si svegliò, iniziò a gridare e con la forza riuscì ad uscire dalla tomba. Contento, ritornò
dalla moglie e non smisero mai di ringraziare il frate.

Nona novella
Narratore di 1° grado</b>: Boccaccio
<b>Narratore di 2° grado:</b> Neifile
Schema narrativo: In Francia c’era un uomo chiamato Isnardo, conte di Rossiglione. Dato che il
conte era malato, con lui stava sempre un medico chiamato Gerardo di Nerbona. Il conte aveva un
solo figlio, chiamato Beltramo, il quale era bellissimo. La figlia del medico, Giletta, era
profondamente innamorata del figlio del conte. Quando il conte morì, il giovane venne affidato
alle cure del re e dovette trasferirsi a Parigi. Giletta nel corso degli anni non riuscì mai a dimentica
Beltramo. Un giorno le accadde di udire una notizia: il re di Francia aveva una fistola che gli dava
fastidio e che nessun medico riusciva a curare. Giletta era contenta perché aveva una ragione per
recarsi a Parigi e, inoltre, se la malattia era quella che lei supponeva, facilmente poteva curarla e
avrebbe potuto chiedere al re, come ricompensa, di darle Beltrame per marito. Preparò la medicina
per il re, come il padre gli aveva insegnato e, montata a cavallo, andò a Parigi. Giunta al cospetto
del re, gli chiese di mostrarle la sua infermità. Appena vide il problema, prese fiducia e disse al re
che poteva guarirlo. Il re, dopo averla ringraziata, le disse che si era proposto di non seguire più i
consigli dei medici. La donna gli chiese di dargli otto giorni di tempo per farlo guarire e, se ci
fosse riuscita, lei avrebbe chiesto al re di dargli un marito. Il re accettò e, guarito, doveva
mantenere il patto che aveva stabilito con la donna. Giletta scelse Beltramo di Rossiglione e,
sebbene Beltramo non fosse d’accordo, furono celebrate le nozze. Dopo le nozze, il conte non si
recò con la moglie nella sua contea e, poiché non la amava e non la voleva come moglie, decise di
recarsi in Toscana, dove rimase molto tempo. La sposa, credendo di dover aspettare il conte nella
sua contea, si recò a Rossiglione. Dato che per molto tempo quel luogo era stato senza il conte, la
donna trovò ogni cosa in rovina e, con grande cura e diligenza, rimise ogni cosa in ordine. La
donna, dopo aver rimesso in ordine il paese, ordinò a due cavalieri di recarsi dal conte e di
riferirgli che, se per causa sua si asteneva dal ritornare nella sua contea, ella per accontentarlo
poteva andare via. Dopo che i cavalieri gli riferirono quelle parole, il conte disse: “faccia ciò che
voglia; io tornerò da lei quando avrà questo mio anello al dito e quando avrà in braccio un figlio
mio”. I due cavalieri ritornarono dalla donna e gli riferirono la sua risposta. La donna, dispiaciuta
e triste, iniziò a pensare se quelle due cose, che il cavaliera aveva detto, potevano essere fatte.
Giletta, con un suo cugino e con una sua cameriera, decise di recarsi a Firenze. Giunta a
destinazione, si sistemò in un albergo. Il giorno seguente vide passare davanti all’albergo Beltramo
e, sebbene sapesse che era suo marito, chiese alla donna dell’albergo chi fosse. L’albergatrice le
disse che era un uomo piacevole e molto amato in città e che era molto innamorato di una donna,
la quale era nobile ma povera. Questa giovane, sebbene fosse in età da marito, per la povertà non si
sposava e viveva con la madre; se non ci fosse stata la madre la giovane già avrebbe dato al conte
ciò che voleva. Giletta, dopo aver ascoltato con attenzione ciò che diceva l’albergatrice, iniziò a
pensare e ideò il suo piano. Saputa la casa e il nome della donna e della sua figliuola amata dal
conte, un giorno se ne andò là. Vide che la donna e la figlia erano molto povere e, dopo averle
salutate, disse alla donna che desiderava parlarle. La gentil donna e Giletta, da sole, si recarono in
una stanza. Giletta raccontò alla donna ogni cosa e le disse anche che era consapevole che il conte
era innamorato della figlia. Giletta chiese alla donna se voleva farle un favore e lei, in cambio,
avrebbe ricevuto una bella somma di denaro. La donna, sebbene l’offerta fosse appetibile, volle
sapere cosa Giletta avesse in mente. La contessa iniziò a raccontarle il suo piano: dovete,
attraverso una persona di cui vi fidate, riferire al conte che vostra figlia è disposta a soddisfare
ogni suo desiderio, però prima deve darle una prova del suo amore; se egli non le manda l’anello
che porta sul dito di una mano non crederà mai al suo amore, infatti la giovane ha sentito dire che
è molto affezionato a quell’anello. Appena vi avrà dato l’anello, gli manderete a dire che vostra
figlia è pronta per stare con lui. Al posto di vostra figlia ci sarò io e spero che Dio mi faccia la
grazia di restare incinta”. La donna accettò e tutto quello che Giletta aveva programmato accadde.
La contessa non stette con il marito sola una notte, ma tante altre, fino a quando restò incinta. La
donna e la figlia, ricevuto il denaro, andarono in campagna dai loro parenti. Beltramo, invece,
saputo che la moglie se ne era andata, ritornò nella sua contea. La contessa, saputo che il marito
era ritornato a Rossiglione, fu molto contenta e restò a Firenze fino a quando partorì due gemelli
maschi. Appena le sembrò opportuno, si mise in viaggio e si recò a Rossiglione. La donna si
presentò al conte con i figli in braccio e, dopo avergli raccontato tutto, gli mostrò l’anello. Il conte,
resosi conto che era tutto vero, apprezzò la tenacia della donne e, deposta la sua severità, abbracciò
e baciò la contessa e la riconobbe come sua legittima sposa.

Decima novella
<b>Narratore di 2° grado:</b> Dioneo
Tema centrale:“Il più piacevole servigio che a Dio si facesse era rimettere il diavolo in inferno”.
Schema narrativo: Nella città di Capsa, in Tunisia, c’era un uomo ricchissimo, il quale aveva una
bella e graziosa figlia, il suo nome era Alibech. La giovane Alibech era una donna mussulmana
attratta dal Cristianesimo. Un giorno, incuriosita da discorsi dei cristiani, chiese ad un uomo in
quale modo un cristiano poteva servire Dio. L’uomo rispose che per servire Dio bisognava
allontanarsi dalle cose terrene, come facevano colore che si rifugiavano nella solitudine del deserto
di Tebaide. La giovane decise di recarsi in eremitaggio nel deserto di Tebaide. Dopo alcuni giorni
giunse nel deserto e si avvicinò ad una casetta che aveva visto da lontano. In quella casa abitava un
santo uomo, il quale, dopo averla vista, le chiese cosa stesse cercando. Alibech disse all’uomo che
voleva servire Dio e che stava cercando qualcuno che le insegnasse a farlo. L’uomo, vedendola
giovane e molto bella e, temendo che il demonio lo avrebbe portato al peccato se egli avesse tenuto
la ragazza con sé, le disse che lì vicino c’era un uomo che poteva aiutarla. La ragazza, ascoltando
ciò che le era stato detto, giunse da quest’altro uomo e, avute da lui le stesse parole del primo, andò
più avanti e giunse alla cella di un giovane eremita, il cui nome era Rustico. La giovane fece a
Rustico la stessa domanda che aveva fatto agli altri due uomini. Rustico, volendo dimostrare la sua
fermezza, non la mandò via ma la tenne con se. Durante la notte, l’eremita si fece prendere dalla
tentazione e pensò che avrebbe potuto soddisfare i suoi desideri se si fosse servito della scusa di
dover “servire Dio”. L’uomo, per spiegare alla ragazza come "servire Dio", iniziò a parlare del
diavolo e le dimostrò che il diavolo era un nemico di Dio, poi le spiegò che il servizio che poteva
rendere felice Dio era mettere il diavolo nell’inferno, cioè di rispedire il suo nemico, il diavolo, nel
"ninferno". La fanciulla, essendo vergine ed ingenua, non sospettò l'inganno quando l’uomo si
congiunse carnalmente con lei, indicando come diavolo e inferno rispettivamente gli organi
maschili e femminili. Dopo sei congiunzioni, la giovane fu molto contenta di non provare più il
dolore iniziale e di aver "domato" il diavolo e di aver servito Dio. La pratica instillò nella giovane
una nuova simpatia per la religione cristiana: per questo essa si ripresentava sempre più spesso.
Rustico, che era gracile di fisico e provato dall'eremitaggio, non ce la faceva a stare dietro
“all'inferno" di Alibech e le disse che il suo "diavolo" è ormai ben castigato, ma che per calmare un
"inferno" ci volevano anche più "diavoli". Nel frattempo a Capsa scoppiò un incendio e tutta la
famiglia di Alibech morì, quindi lei era rimasta l’unica erede. Un giovane chiamato Neerbale,
avendo speso in magnificenze tutte le sue ricchezze, sapeva che Alibech era ancora viva e si mise a
cercarla. Dopo averla trovata, con grande piacere di Rustico e contro il volere della ragazza, la
sposò e con lei divenne erede del patrimonio che era stato lasciato alla donna. Molte donne le
chiedevano in che modo lei serviva Dio nel deserto e, dato che non era ancora stata con Neerbale,
ella rispondeva che nel deserto rimetteva il diavolo nell’inferno e che il marito aveva commesso un
grande peccato privandola di quel servizio. Le donne domandavano in cosa consisteva questo
servizio e la giovane, sia con parole sia con gesti, lo mostrò loro. Le donne scoppiarono a ridere e le
dissero che non doveva preoccuparsi perché anche con il marito poteva servire Dio. Questa storia
divenne un proverbio: “il più piacevole servigio che a Dio si facesse era rimettere il diavolo in
inferno”.

Conclusione della terza giornata


Terminate le novelle, la regina, essendo consapevole che il suo regno era terminato, si tolse la
corona d’allora e la pose sul capo di Filostrato e disse: “vedremo se il lupo saprà guidare meglio le
pecore di come le pecore hanno guidato i lupi”. Filostrato, ridendo, disse: “se mi fosse stato dato
ascolto, i lupi avrebbero insegnato alle pecore come mettere il diavolo nell’inferno meglio di come
Rustico lominsegnò a Alibech; non ci chiamate lupi, poiché voi non siete pecore: tuttavia io
governerò il regno che mi è stato affidato”. A questa battuta Neifile rispose: “Voi, volendo a noi
insegnare, vi potreste comportare come si comportò Masetto da Lamporecchio con le monache e
sareste divenuti tanto magri che le ossa si informerebbero dalla pelle e movendosi avrebbero dato
suono come quello di uno scheletro. Filostrato notò che le donne avevano pronte risposte taglienti
ad ogni suo motto pungente e quindi decise di cominciare il suo regno. Dopo aver fatto chiamare il
siniscalco e dopo aver disposto gli ordini, comunicò alla brigata il tema da seguire nelle prossime
novelle: “si narri di coloro il cui amore ebbe una fine infelice”. Giunta l’ora di cena, con grande
diletto si misero a tavola e cenarono. Filostrato, seguendo l’esempio delle regine che avevano
governato prima, appena la cena terminò, chiese a Lauretta di cantare e ballare. Lauretta, con voce
soave, iniziò a cantare. Dopo aver cantato alcune canzoni, era arrivata l’ora di dormire e tutti si
recarono nella loro camera

Potrebbero piacerti anche