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L a f ondaz i one del l’ e t ic it à

Critica ai precedenti fondamenti dell’agire (comunità, tradizione,


Dio, religione, ecc.).
Quindi anche nell’agire il principio dell’oggettività della norma va
trovato e posto nel soggetto
Cosa caratterizza il soggetto nell’agire? Libertà – Autonomia
Modernità e attualità del principio kantiano dell’agire
Opposizione al relativismo delle norme
Rigorosità nella formulazione "linguistica" del principio morale

Critiche all’etica kantiana


Autoriflessione della prassi
Ma cosa significa?
Auto - Riflessione

Interesse della ragione (Deleuze)


Ricerca del soggetto
Libertà
Ma appunto tale rilievo finisce con il ricadere solo sul soggetto
Hegel - Rawls

Metafisica dei costumi - Dottrina dell’eticità sostanziale


Stato Virtù
Dunque, se la ragione pratica istituisce e descrive il fondamento dell’agire,
la metafisica dei costumi ne evidenzia la realizzazione pratico-concreta, così
come la filosofia della storia e della religione ne illuminano lo sviluppo e il
compimento
Alla periferia del sistema, l’Antropologia e la Pedagogia

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Unicità della ragione – unicità del suo interesse

Si può dire in generale che la ragione tende a superare il limite del


sensibile
La ragion pura ha mostrato che il sovrasensibile non può essere
attinto dall’uomo, perlomeno in una chiave teoretica
Questo ridetermina il significato di metafisica, come del resto fin
da Descartes
Trascendere il sensibile in ambito pratico vuol dire evidenziare
quali sono le condizioni di possibilità del mio agire morale
Uso teoretico
Questo è chiaro, e soprattutto è comprensibile, perché determinato
dal darsi degli oggetti indipendentemente dalla mia volontà
Uso pratico
Qui la volontà entra direttamente in gioco
 
Facoltà di agire in base a rappresentazioni
Questo è un punto di confronto per comprendere che abbiamo a
che fare con una sola ragione

La ragione teoretica opera su rappresentazioni


La ragione pratica opera a partire da rappresentazioni = volontà
 
Se voglio conoscere il mondo devo adattarmi al modo di operare
teoretico della ragione, rinunciando alla conoscenza delle cose in
se stesse
Questo però vuol dire che la nostra volontà (individuale) è
intrinsecamente razionale, e qui sta l’interesse della razionalità
qua talis
Se voglio agire moralmente, devo anche qui adattarmi alla
struttura della ragione pratica, in quanto facoltà di principi =
incontraddittorietà linguistica nella formulazione

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Il significato della filosofia trascendentale si comprende in pieno
sommando le due istanze, teoretica e pratica. Una volta
determinato il limite dell’estensione della ragione, al suo interno
l’uomo è realmente libero

Volontà
Dipendente da moventi Dipendente da moventi puri
empirici
La volontà qui è allora il massimamente determinabile

Nel senso che essa può essere determinata da motivi tra loro
incommensurabili
E qui sta il punto: è questo allora che permette alla ragione pratica
di allargare il campo della ragione teoretica?
Ma cosa significa? La ragione teoretica non conosce nulla oltre
l’esperienza.
La ragione pratica conosce perfettamente i moventi pratici
empirici, ma li respinge in nome della sua libertà, se non
concretamente, almeno nell’intenzione

Riflessi in ambito politico 


La soluzione kantiana sarebbe allora lo stato contrattualista,
operato e realizzato non alla Hobbes-Locke, a partire da moventi
empirici, ma per creare le condizioni storiche per trasferire la
moralità dall’intenzione soggettiva al mondo oggettivo
Qui si appunta la critica di Hegel

 
Fondazione della metafisica dei costumi
DEF. «Buono senza limitazioni è la volontà buona »
Incondizionata nella sua determinazione, appunto massimamente
determinabile in quanto capace di superare i limiti del sensibile
Vale a dire senza limiti nella sua applicazione

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a. Nell’individuo come eticità
b. Nello stato come diritto
Qui c’è un doppio senso: senza confini nel realizzarsi, e senza
condizionamenti esterni nel determinarsi

HÖFFE, presuppone un concetto metaetico.


Il moralmente buono è senza limitazioni, assoluto/incondizionato
Questo può essere tradotto in termini logico-linguistici.
Illimitatamente buono in un’ottica metaetica è ciò che può essere
espresso in una proposizione che non genera contraddizioni nel
modo della sua verifica empirica

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L’oggetto sommo dell’eticità non è un oggetto reale, un qualche
bene materiale, oppure Dio o la felicità, ma la volontà buona in sé .
Buona incondizionatamente, quindi autonoma, non determinata da
un’oggettività esterna
Qui cfr. con Etica nicomachea
 
Qui si incontra il concetto del dovere. La volontà buona si
caratterizza per far emergere da sé il dovere, in presenza di certe
condizioni e limitazioni che ne costituiscono lo sfondo e lo portano
a manifestazione
In altre parole, il dovere è il senso ultimo dell’incondizionatezza di
una volontà buona, il modo della sua manifestazione, in quanto il
dovere, tradotto anche linguisticamente, significa ciò che non può
essere limitato. Nell’uomo, razionalità finita, esso si presenta
proprio perché razionale, ma si presenta contro le limitazioni di
una natura sensibile e finita, che ostacolano il raggiungimento di
una volontà buona
Da qui il dovere come imperativo
Tema del comando morale
Forma e giustificazione dell’imperativo
Realizzazione pratica del comando
Perché si ubbidisce al comando?
1. Interesse personale
2. Inclinazione al dovere
3. Dovere per il dovere
È chiaro che le prime due non valgono come moralmente buono
1) è del tutto soggettiva ed empiricamente condizionata (paura
delle conseguenze). Dipende dalle circostanze (presenza di un
potere coercitivo) – Hobbes - Locke
2) riporta la nostra attenzione alla interiorità del soggetto agente,
ma su elementi a loro volta contingenti
Può capitare oppure no di essere inclini al dovere
3) è l’unica che rivesta carattere morale

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2) e 3) rimandano entrambe alla soggettività. Quindi dov’è la
differenza? Bisogna ammettere che vi è una duplicità nel soggetto?
Tema irrisolto della ragion pratica
Ma qui si apre un problema
Riguardo alla 1), si può osservare che quel risultato lascia del tutto
fuori ogni possibilità che lo stato promuova in qualche modo il
bene nell’agire. Lo stato è l’empirico, alla Hobbes un calcolo
razionale-strumentale che deve essere pensato non razionalmente,
in senso kantiano, orientato a promuovere l’eticità del singolo,
bensì solo ad essere massimamente efficiente
Qui si può leggere la deriva strumentale della società nel ‘900 -
Scuola di Francoforte
Riguardo alla 2) le inclinazioni possono essere coltivate (ed ecco
l’importanza dello studio antropologico-pedagogico, che mostra
come Kant abbia ben in mente una condizione pratico-reale
dell’esistenza), ma non possono in alcun modo essere modificate
in altro da quello che la natura ci ha dato (lotteria naturale)
 
In base al principio metaetico adottato, rimane solo la 3) da
prendere in considerazione come fondazione della moralità
Ed è da qui, credo, che nascano le critiche la formalismo etico-
intenzionale di Kant: il soggetto disincarnato
Ma in realtà per Kant la morale non è separata dal mondo, per
esempio legge morale rivolta alle massime soggettive
 
La legge morale costituisce il motivo razionale determinante del
mondo
Da qui prenderà le mosse Fichte
Qui c’è però un altro motivo da prendere in considerazione. Se è
vero che la legge morale determina il mondo socio-politico, è
anche vero che in qualche modo finisce con il rideterminare se
stessa, dal momento che le massime a cui si rivolge sono a loro
volta espressione proprio di tale mondo socio-politico che essa
condiziona, sebbene razionalmente

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E qui entra in gioco la visione sia hegeliana che heideggeriana, di
uno sviluppo storico, ossia di un condizionamento storico delle
condizioni materiali dell’esistenza, del nostro essere sempre in un
mondo

 
HÖFFE, la volontà opera effettivamente in un mondo di condizioni
e fatti che la volontà stessa non può interamente abbracciare e
quindi prevedere nei suoi sviluppi.
Certo, se è così (ed è così perché la finitezza della volontà lo
testimonia) allora non possiamo prendere l’azione come metro di
successo nella determinazione morale del mondo, poiché questo
non è interamente determinabile dalla mia volontà e dalle mie
forze.
In altre parole, la finitezza dell’uomo rende necessario trovare
altrove le condizioni della sua moralità (incondizionata), rispetto
a quel terreno in cui le limitazioni (che vanificano la moralità) si
manifestano, ovvero la natura.

Storia e diritto Arte e religione

Che possono rispondere alla domanda: "Cosa mi è lecito sperare?"

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L’imperativo categorico e le sue travisazioni

Va inteso come un dovere, che ci ordina di "agire eticamente "


Questo sarebbe il concetto di un’eticità pura
 
Che riprende, mi sembra, il carattere fondativo della ragion pura,
fondamento del conoscere e qui dell’agire
È chiaro che allora l’interesse della ragione è anche, in questo
senso, un interesse fondativo, inteso come autonomia e libertà del
soggetto razionale, ancorché finito.
C’è però anche il problema del passaggio da una considerazione
pura, del conoscere come dell’agire, al piano della finitezza, che
rimane il problema essenziale.
Nella Critica della ragion pura Kant rinunciava comunque a
trovare il fondamento unitario delle facoltà conoscitive, sensibilità
e intelletto
 
È evidente che qui il problema è quello di confrontarsi con il
carattere non immediatamente etico di un essere comunque
razionale. Ambigua duplicità del discorso morale
HÖFFE, vuole soprattutto evitare la critica hegeliana, per cui nella
moralità di tipo kantiano l’uomo è sempre subordinato
all’imperativo, ovvero a un comando, negazione della libertà, che
cambia poco anche se è interiorizzato.
Ma in Kant non si dovrebbe parlare di un comando esteriore
(ancorché proveniente da una ragione pura-pratica), quanto
piuttosto della chiarezza dell’interesse razionale , ovvero della
nostra chiarezza morale
L’uomo è aperto all’eticità ma di fronte a essa può anche fallire
Heidegger, l’aver-da-essere e l’esistenza inautentica, non più in
chiave morale ma ontologico-esistenziale

Una dignità morale, anche alla ricerca della felicità, che si traduce
in motivi razionali

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Che sono in senso proprio essenzialmente linguistici di coerenza
interiore, poiché la ragione non può autocontraddirsi, e se lo fa
viene meno il suo carattere razionale. In altre parole, è
un’esortazione a riconoscere la propria natura razionale, e quindi
far dipendere l’agire da sé e non da motivi esteriori. La garanzia di
sfuggire alla propria individualità empirica è proprio il carattere
intrinsecamente incontraddittorio della ragione, che deve spingere
ciascuno a ricercare la formulazione etica coerente con questa
rigorosità linguistica interiore
Dal momento che l’imperativo categorico rappresenta la risposta
diretta alla domanda "cosa devo fare?", esistono tre livelli di
risposta pratica, in relazione all’estensione delle limitazioni che
adottiamo nell’organizzazione proposizionale della nostra risposta

Imperativi categorici e ipotetici

Limitazione connaturata alla natura finita dell’essere razionale


1. Imperativi tecnici dell’abilità
2. Consigli pratici della prudenza
3. Imperativi categorici in sé

1) e 2) presentano sicuramente un comando della ragione, che


come tale è illimitato, ma l’azione si presenta sotto forma di un
contenuto limitato, nel senso che la scelta del contenuto dipende
da un motivo che è puramente soggettivo
Questo è il limite dell’imperativo ipotetico
Un carattere ulteriore è quello di una neutralità grammaticale.
Gli imperativi di questo genere possono presentarsi in qualunque
forma grammaticale, perché dipendono solo dalla scelta del
singolo, e non dalla coerenza interna
3) si presenta senza alcuna limitazione, e per me evidenzia bene il
terminus ad quem l’uomo, proprio in quanto essere limitato ma
razionale, deve tendere
 

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Questo vuol dire che, prima ancora che una prassi concreta, qui ci
troviamo di fronte ad un’aspirazione (regno dei fini) che
caratterizza non più l’individuo (risolto da 1) e 2)), ma l’umanità
nella sua totalità (2° forma dell’imperativo categorico)
Come affrontare il problema dell’astrattezza del principio? Con le
massime
Questo può essere il possibile procedimento 
a. Noi agiamo in modi svariati, dettati dalle circostanze
empiriche
b. Di fronte al comando etico ci poniamo in una condizione di
riflessione razionale: "agisci eticamente" diventa "sii
razionale"
c. La forma di questa razionalità non può che essere
l’universalità (ragion pura), tradotta in chiave pratica
d. Questa traduzione assume l’aspetto della forma linguistica
della legge universale
Valore della soggettività e spazio aperto alla concretezza della
prassi
Come la legge di natura non dipende dalla specifica realtà
empirica, così la legge etica come massima universalizzata non
dipende dalle condizioni empiriche da cui noi partiamo per
costruire la proposizione linguistica dell’imperativo

Le massime

Principi pratici soggettivi


Determinazioni universali dell’agire del soggetto individuale

 
Qui c’è un parallelo con Hegel, perché anche lui afferma che
l’individuo vive una vita che tende all’universale. E questo
tendere, comune in entrambi, è quello che possiamo chiamare
ragione

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Kant-Hegel, vita dell’individuo come tendenza insopprimibile alla
razionalità
Qui si colloca il senso delle nostre massime individuali, del nostro
agire particolare, una comune direzione che deve farci
comprendere di essere accomunati a tutti gli uomini
Il nostro agire come un agire secondo ragione
Moralità delle massime e non delle regole
interiori
esteriori
Contingenti, e quindi mai di per sé valide universalmente
Soggettive, ma proprio per questo legate alla nostra costituzione
razionale
 
Il problema tra Kant e Hegel è che il primo non vede
nell’esteriorità alcuna traccia di una universalità razionale e
immanente, ma coerente con l’impianto trascendentale riconduce il
razionale al soggettivo, poi criticato da Hegel, Fede e sapere
HÖFFE, etica delle massime, pp. 171-73
 
L’imperativo categorico
Test dell’universalizzazione
Criticato perché annulla il benessere individuale = rigorismo etico
Come si può perseguire una morale che annulla l’individuo, di cui
si vorrebbe promuovere la moralità?
 
In realtà Kant indica il perseguimento del benessere, ma vuole
fondarlo razionalmente. Il test è appunto un atto fondativo,
ovvero la manifestazione concreta della nostra razionalità, la
capacità di creare una forma linguistica di massima che, a
prescindere dalle condizioni empiriche in cui viene formulata, non
entra in contraddizione con se stessa
Ora, l’atto fondativo, in ottica criticista, ricade sul soggetto, e
questo vuol dire che l’attenzione all’obbligatorietà non ricade solo

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sugli altri (per es. lo stato, la religione, ecc.), ma anche e
soprattutto su di sé.
Perfezione morale di sé
Felicità degli altri
Non si può andare contro la propria volontà = non si può volere
senza tener conto della ragione
Ed è proprio questo concetto che ci assicura l’apertura della
volontà anche alla ragione
Sulla base del postulato della natura razionale/libera della volontà.
Volontà come massimamente determinabile

Sulla nostra volontà agisce l’empirico e il razionale. Tra loro


opposti
Ed è da qui che ricaviamo il concetto di massimamente
determinabile
 
Il risultato è che la volontà non può entrare in contraddizione con
se stessa, poiché questo significherebbe che la ragione
determinerebbe ciò che non può essere determinato dalla ragione
Incontraddittorietà mediata (determinata dall’incontraddittorietà
immediata della ragione)
Logo astratto Autoidentità = autoctisi =
Incontraddittorietà immediata logo concreto
e assoluta
 
Contrasto tra due doveri = ricercare principi superiori, purché
morali e universali
Qui sembra vicino a Socrate, poiché sembra che l’agire virtuoso
non possa prescindere da
1. Riconoscimento
1. Ricerca
1. Esercizio di una razionalità pura

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L’autonomia della volontà
L’imperativo categorico e l’autonomia della volontà sono
questioni connesse
Problemi 1 e 2 della ragion pratica –> un principio come
l’imperativo categorico non può comandare se non una volontà in
sé libera
Qui abbiamo così l’indagine sulle condizioni a priori della
moralità.
In primo luogo vanno eliminati i moventi empirici , in quanto non
universali (utilitarismo)

Ma rimane difficile da spiegare perché la volontà, nella sua libertà,


dovrebbe perseguire quelli superiori, senza un motivo
determinante. Kant vuole per l’appunto fondare tale motivo senza
farlo dipendere da aspetti contingenti
l’utilitarismo di J.S. Mill cercherà di ovviare al problema
distinguendo piaceri superiori e inferiori, e valutando morali quelli
superiori
Qui compare anche il discorso sulla Felicità
contentezza per il proprio stato nei confronti di tutta l’esistenza

La definizione, per Kant, è palesemente insufficiente


1. Solo alla morte potremmo scoprire di essere felici,
quando in realtà non potremmo più esserlo
1. Dipende, nel corso dell’esistenza, da fattori
indipendenti dalla mia volontà, nei confronti dei quali
non sarei libero; e per Kant la libertà è essenziale per
essere felici
Con queste considerazioni sono esclusi tutti i motivi determinanti
materiali, di cui la felicità è il supremo.
Perciò rimane solo la forma delle massime

Legalità legiferante

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Questo è un punto importante, poiché se la forma legiferante è il
razionale, ne viene che la razionalità non ha solo una funzione di
guida, ma anche di motivo agente, è un motore di matrice
aristotelica, e quindi deve essere intesa essa stessa parte costitutiva
del soggetto empirico che concretamente agisce
La forma legiferante delle massime è la stessa libertà
trascendentale definita nella ragion pura come indipendenza da
ogni causalità naturale

Non assenza di legge ma autocausalità = libertà


Quindi andare al di là dei propri bisogni empirici e delle proprie
condizioni storico-sociali, cogliere nella propria condizione
naturale la destinazione al suo superamento. La domanda è: dove
collocare questa superiore destinazione?

Fatto della ragione


Assolutamente buono – imperativo categorico – autonomia della
volontà
 
Fatto della ragione
Bisogna dimostrare che vi è una ragione, e che questa fa mostra di
sé proprio nella dimensione pratica
Come ci rendiamo conto che in noi vi è una ragione che ci
comanda? Kant sostiene che qui si tratta della coscienza della
legge, cioè del darsi di fatto della coscienza di una obbligazione
incondizionata
Ma come renderci conto della sua incondizionatezza, senza
ricorrere a cultura, educazione, ecc.?
Questo aspetto si traduce, per Kant, nella capacità di giudicare la
legalità delle azioni che ogni uomo compie
Legalità, ovvero conformità dell’azione reale alla legge
In pratica, nel compiere un’azione sono in grado comunque di
giudicarla, a prescindere dall’inclinazione (sensibile) che me la fa
compiere

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Bisogna però chiedersi cosa veramente giudico, se l’azione in sé o
la connessione tra azione e legge?
Quindi nella dimensione dell’agire morale l’uomo non perde
contatto con la quotidianità del suo agire concreto
Ed è infatti nella quotidianità che l’uomo si imbatte nella
dimensione della propria libertà

La libertà, per così dire, è sempre davanti a noi, e noi siamo


chiamati continuamente a giudicare di essa
Ma allora mi sembra che tra libertà e soggetto giudicante vi sia
una certa differenza, per cui bisogna prima chiedersi, nel
giudicarla, se giudichiamo noi stessi oppure la nostra conformità
a un modello
La quotidianità in cui si colloca il giudizio della nostra azione
rappresenta un fatto induttivo-ermeneutico
1. Dal quotidiano del nostro agire, noi ricaviamo un fenomeno
morale, non in quanto dato empirico, ma al contrario per via
negativa, in quanto appunto si oppone alla dimensione
empirica della mia condizione
2. Poi, da questo processo induttivo sussumo sotto un concetto,
e rifletto che un concetto ce l’ho già, quello della libertà,
come ciò che si oppone ad una causalità naturale, concetto
che trovo nell’antinomia della ragione

Ci sono alcune considerazioni:


1. Si tratta allora di un concetto senza oggetto, come proprio
della ragione teoretica
2. È in gioco una funzione puramente razionale, quindi
essenzialmente teoretica, non pragmatica, rivolta cioè alla
prassi concreta (siamo riscivolati nell’uso teoretico, ma
questo potrebbe anche garantire l’unità della ragione
3. Ragione –>libertà = sintesi dell’antinomia

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Il c onc e t to r azi onal e d i di r i t to

I. IL PROBLEMA DI UNA DEDUZIONE RAZIONALE DEL DIRITTO

§ 1. Il diritto come misura delle norme


positive

La discussione che Kant conduce sul tema del diritto (pubblico e


privato), affrontata in modo particolare nella prima parte della
Metafisica dei costumi, presuppone chiaramente – fina dalla
definizione di diritto e libertà – i risultati della critica della ragion
pratica, e determina il concetto razionale del diritto come
suprema unità di misura critico-normativa. “Concetto
razionale” significa che qui non ci troviamo di fronte al cosiddetto
diritto positivo, vale a dire l’insieme delle norme e delle leggi che
regolano la vita degli individui di un certo stato, in un preciso
momento storico, bensì abbiamo a che fare con la vera e propria
idealità del diritto; ma – di nuovo – non in quanto astratta e vuota
forma del fondamento del rapporto tra persone, appunto “dotate”
di diritti (che è compito del legislatore rendere manifesti), quanto
principio regolativo alla luce del quale misurare/valutare l’effettiva
adeguatezza di un certo sistema storico di leggi e norme a tale
razionale unità di misura.
È evidente, in base a questa prima precisazione, che,
nell’impegnare il concetto generale di diritto positivo, si deve
necessariamente introdurre nell’argomentazione ciò che possiede
esistenza reale ed empirica: oggetti che diventano proprietà,
uomini reali che possono essere lesi, famiglia, minori, ecc. In
pratica, di fronte al carattere razionale del diritto come lo intende
Kant, si trovano elementi empirici che contrastano con tale
carattere razionale, ma nei quali, nondimeno, il diritto razionale
deve trovare la sua ultima destinazione. Gli elementi empirici,
infatti, benché non entrino a determinare il concetto di diritto, ne
specificano l’ambito di applicazione, che è l’esperienza delle
relazioni sociali tra gli uomini, che ovviamente hanno la necessità
di trovare la loro organizzazione e composizione all’interno della
sfera dell’agire resa possibile dal riconoscimento comune di un
diritto.
In altre parole, mentre per definire il concetto di diritto dobbiamo
avere presente la funzione e la portata di una ragione pura
pratica, per stabilire a cosa si applichi tale funzione dobbiamo
necessariamente ricorrere a realtà empiricamente condizionate .
Quindi potremmo dire che l’elaborazione del concetto di diritto in
relazione ad una ragion pura pratica comporta inevitabilmente la
necessità di operare una unione tra la pura dimensione razionale e
quella empirica del diritto di uno stato particolare in un dato
momento storico. Il diritto rappresenterebbe così un medio tra la
pura razionalità pratica, che si esprime nella legge morale e
nell’universalità della forma, e il mondo dell’esperienza, in cui
pure quella razionalità formale dovrebbe trovare compimento.
Ora, se ci si pone dal punto di vista di chi esige una realizzazione
completa di questa unione, si deve tenere presente che non è
possibile realizzare un sistema completo del diritto positivo, cioè
definire completamente l’orizzonte giuridico di uno stato,
l’insieme totale delle sue norme, l’interezza dell’efficacia della sua
azione coercitiva nella società (così come non è possibile
immaginare l’esaustività della conoscenza del mondo in un sistema
completo delle scienze naturali), ma soltanto definire i principi
generali che presiedono alla strutturazione di uno stato
giuridicamente organizzato, lasciando poi allo sviluppo della storia
il compimento degli scopi che un tale stato giuridico deve
realizzare.

1) Il concetto di ragione
La nostra intrinseca razionalità, ovvero la capacità fondativa di
operare senza condizionamenti empirici
2) La libertà esterna nella convivenza

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Ovvero l’efficacia della libertà della nostra volontà
(nell’intenzione) di operare anche nei rapporti tra individui, a
loro volta razionali e liberi
Il concetto di diritto ha due aspetti determinanti
Questi due aspetti determinati sono chiaramente costituiti dalla
unione di un elemento normativo 1) con uno descrittivo 2)
Con il che si rifiuta tanto l’arbitrarietà della determinazione
positiva del diritto, che non tenga conto della dimensione
morale/razionale dell’uomo, quanto dalla parte opposta, la pretesa
del diritto e dello stato di insegnare la virtù ai cittadini, anticamera
di ogni totalitarismo
Il diritto deve rendere possibile la convivenza di persone prima di
ogni esperienza

Quindi deve essere chiaramente fondativo, cioè incondizionato,


indipendentemente dalle condizioni empiriche, benché non possa
non essere rivolto a quelle

Quindi il diritto può fondarsi soltanto su ciò che caratterizza in sé


l’uomo, la sua libertà.
La comunità giuridica, fondata dal diritto, è perciò una comunità di
individui liberi, e non di soggetti bisognosi (di sicurezza,
protezione proprietà, ecc.)

La domanda in merito al diritto è dunque: «a quali condizioni i


soggetti salvaguardino la loro libertà esterna e malgrado ciò
possano convivere» (HÖFFE, 196)
Non vi è quindi alcun fondamento giuridico di uno stato sociale,
come diremmo oggi
Il punto mi pare abbia la sua importanza. Libertà esterna, ovvero
libertà dell’azione, non dell’intenzione. l’uomo è massimamente
libero di fronte al comando della legge morale, consapevole che
questa non potrà mai perfettamente coincidere con il "corso del
mondo". Ora è chiaro che ciò è determinato proprio dal fatto che
l’uomo si trova di fronte altri uomini. La libertà interna, qui, si

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tramuta in esterna, oppure l’esterna è qualcosa di diverso, libertà
mediata dalle forme del diritto?

Il discorso kantiano si afferma in questi termini: libertà esterna è


possibile solo in accordo con quella di tutti gli altri, secondo una
legge universale. Quindi non sulla base di leggi empiriche, ma
leggi della ragion pura pratica .
Il che dovrebbe dire che il diritto non è casuale, frutto per es. di un
calcolo, ancorché razionale, ma risultato di un comando morale,
quindi necessario
«Esso obbliga la comunità della libertà esterna alla legalità
universale così come l’imperativo categorico obbliga la volontà
personale per mezzo delle massime autodate» (HÖFFE, 197)

Questo però non vuol dire che Kant proponga un’idea morale del
diritto, ovvero una coincidenza del diritto positivo con la moralità
del singolo. Il diritto deriva direttamente dalla ragion pura pratica,
la quale si sa che comanda la pura forma universale della legge
In altre parole, mi sembra che diritto sia lì dove avviene una
trasposizione dell’universalità che noi avvertiamo individualmente
nelle nostre intenzioni in ambito esteriore, di modo che la
apparente coercizione dell’agire, determinata dal diritto, non sia
altro che la conformità del carattere impositivo delle leggi
positive con il comando della ragione pratica, il quale è ratio
cognoscendi della nostra stessa libertà

Autorizzazione alla costrizione –> derivazione rousseauiana.


Non vi può essere ordinamento giuridico basato sulla libera
convivenza in mancanza di una tale autorizzazione

La proprietà

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Difficoltà della sua definizione.
Disporre della proprietà come del proprio corpo, imponendo agli
altri un limite di spazio e di esercizio della libertà
Questo sembra fare della proprietà un’appropriazione
incondizionata, ovvero basata sul diritto del più forte. In effetti la
proprietà significa potere, e quindi in qualche modo impone una
determinata coercizione
Non è un caso che la proprietà sia stata ampiamente criticata dal
comunismo filosofico, intesa cioè come una sorta di furto, di
fronte all’affermazione di una comune proprietà di tutti
(Proudhon)
Di fronte a queste difficoltà, Kant ritiene di fondare la proprietà
come una realtà necessaria secondo ragione, quindi non legata a
motivi contingenti, ma secondo una riflessione razionale, fondata a
sua volta sulla libertà costitutiva di un ordinamento giuridico
razionale, cioè puro a priori
Ora, puro a priori vuol dire, in ambito pratico, libero. Ebbene la
proprietà viene determinata dal fatto che l’uso che un altro fa di
una mia proprietà lede la mia libertà garantita da una legge valida
a priori

Non solo, ma la mia proprietà non si limita a ciò che porto addosso
o uso ora, ma è un concetto intelligibile

1. Il che significa che la proprietà non coincide con il possesso


fisico
2. Va oltre la riflessione legata al lavoro di Locke, sul
fatto che posso ritenere mio qualcosa soltanto finché vi
applico il lavoro, salvo poi farlo tornare allo stato di natura
1. Proprio in quanto intelligibile, esso è sottoposto allo
stesso grado di incontraddittorietà della volontà

Dal che ne segue che oggetto del mio arbitrio è ciò che io posso
usare ponendolo al servizio dei miei scopi.

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La libertà esterna non si può realizzare se non posso usare di tale
concetto di realizzazione di scopi, e quindi della proprietà ad esso
connessa.
La libertà fonda la proprietà, altrimenti ci sarebbero oggetto da
porre al servizio dei miei scopi, ma che nessuno è legittimato a
usare (autocontraddittorietà)
Critica Locke sul lavoro. Per ottenere qualcosa di mio con il
lavoro, bisogna che sia già proprietario di mezzi e materiali per
esercitarlo (es. terra).
Possesso terra come bene comune, su cui ognuno può esercitare
la proprietà con l’impossessamento. Questo sembra il diritto del
più forte
Qui invece sembra quasi tornare in mente Hobbes e Rousseau:
incondizionatezza della proprietà, che cerca Kant, diventa assenza
di proprietà

Ma qui Locke ha ragione quando ritiene di intravedere dei limiti, a


loro volta razionali, sull’accumulo

Il risultato per Kant è che la proprietà, in senso di fondamento


incondizionato, esiste prima dello stato di diritto che la deve
garantire, come del resto istituzioni come matrimonio, famiglia,
figli
Anche qui cfr. Hobbes, Hegel

Il diritto pubblico
 
Diritto pubblico come fondamento dello stato di diritto
In questo senso lo stato diventa il garante della proprietà – Locke.
Libertà-proprietà –> stato-proprietà
La sicurezza giuridica è il fondamento razionale dello stato, basato
sulla libertà razionale

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In questo senso vi è una critica su Kant come difensore della
nascente società borghese-capitalista, fondando addirittura
razionalmente la libertà di impresa e di accumulo.
Sebbene si debba dire che Kant non pone solo la proprietà
nell’insieme dei diritti inalienabili, è certo che essa acquista un
peso rilevante nel discorso

Contratto

Idea della ragion pura pratica a priori, ovvero l’idea di stato che
una ragion pura pratica si forma
Non come è, ma come dovrebbe essere
Il fondamento dello stato è il contratto, il che fa di Kant erede e
sistematore del contrattualismo moderno
1. Hobbes, lo stato di natura come motivo razionale della
necessità dello stato
2. Locke, la proprietà e i diritti inalienabili
1. Montesquieu, divisione poteri
1. Rousseau, volontà generale

Il che però ci porta a considerare la critica hegeliana sul dover-


essere, ovvero sull’incompiutezza della stato kantiano,
irrealizzabile in ambito storico

Stato di natura

Anch’esso idea della ragione, quello di uno stato di libertà


illimitata, in cui ciascuno fa ciò che gli sembra giusto, a
prescindere se ciò danneggi o meno gli altri

Anche qui, di nuovo, si può anche pensare che si faccia ciò che si
deve fare (intenzione), quindi si agisce moralmente, ma senza
tener conto del corso del mondo

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In questo stato, però, i diritti mancano completamente di sicurezza,
ovvero ognuno fa valere il proprio diritto senza legalità. I diritti
perdono così il loro carattere giuridico. Sono in pratica degli
arbitrii, il cui risultato è la guerra hobbesiana

Ne consegue che, poiché i diritti sono le relazioni comandate dalla


ragione di uomini liberi, e lo stato di natura toglie il valore di tali
diritti, il suo superamento è un comando della ragione stessa, il
senso della sua incontraddittorietà
Il principio supremo posto a capo dello stato, da Kant pensato
come repubblicano, cioè in senso moderno costituzionale, è quello
della volontà generale.
La costituzione dello stato di diritto deve essere formulata come lo
prescriverebbe la volontà di ciascuna persona interessata
Ora, qui sembra una doppia difficoltà.
Kant per primo riconosce che questo livello di accordo con la
volontà generale non può essere garantito da un discorso
empirico-fattuale .
Ma poi, non credo che la volontà generale di Rousseau intendesse
dire questo, cioè porsi come garante della proprietà, e stabilire
una costituzione a partire proprio dalla condizione di proprietari
che Kant ha in mente
Qui il discorso interessante può essere fatto nel confronto con
Habermas, poiché è proprio al livello del discorso empirico-
fattuale che si deve realizzare l’accordo tra l’aspetto giuridico-
normativo con quello etico-morale che Kant relegava soltanto
nell’individualità dell’intenzione
 
Negazione del diritto alla ribellione vs. Locke, soprattutto
nell’interpretazione di Rawls.
Anche qui il motivo è razionale: una costituzione somma che lo
prevedesse non sarebbe più somma, autocontraddicendosi

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Il problema può essere di ordine metodologico, nel confrontare un
elemento a priori, il contratto, con uno storico-empirico, lo stato
giuridico concreto nel quale ogni singolo uomo vive.
Il che tra l’altro mi sembra riproduca il contrasto tra l’intenzione
morale e l’azione pratico-reale

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Fi l osof ia de l la st ori a
e de l la re l i gio ne

Cosa mi è lecito sperare?


Questa domanda apre la riflessione kantiana, ancora in ambito
pratico, alla dimensione del futuro

Non si tratta però della caratterizzazione del tempo inteso


nell’Estetica trascendentale, come pura forma per la conoscenza
dei fenomeni
Qui si può aprire un confronto con la concezione della temporalità
heideggeriana, appunto determinata dalla distinzione tra tempo
come scorrimento, e temporalità come determinazione di senso
Il tempo qui inteso, nella dimensione del futuro, implica anche il
concetto di compimento, che per Kant deve realizzarsi nella
mediazione tra natura e morale

Temporalità = storicità
Non a caso Kant stesso usa il termine "speranza", che implica un
ricorso alla dimensione della storicità, come apertura di senso,
destinazione e compimento dell’individuo

Natura-realtà come regolata da leggi necessarie, che per questo si


oppone al significato di un compimento dell’agire
Moralità, determinata dal dover-essere su base razionale, che
perciò fonda proprio il concetto di compimento
Ora, questo compimento può avvenire su due versanti
Dal punto di vista della libertà esterna del diritto = STORIA
Dal punto di vista della libertà interna della morale = RELIGIONE
1) Non fondazione critica della metodologia delle scienze storico-
sociali, ma considerazione della storia dal punto di vista pratico

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Le condizioni a priori che fanno della storia uno svolgimento
razionale e sensato

Questo svolgimento può però realizzarsi soltanto al livello della


storia universale, cioè dell’umanità
In sostanza, poiché il fine della storia può presentarsi solo a livello
di un ideale, anche il soggetto di questo sviluppo deve avere un
carattere ideale, l’idea dell’umanità
l’abbozzo di questa storia parte dalla caduta dal paradiso, regno
dell’innocenza inconsapevole dell’uomo, che però libera le
potenzialità inespresse della ragione.

Si ha sviluppo quando si passa dallo stato di bruto a quello di


individuo razionale libero
E questo può essere messo a cfr. con Hegel: la storia è sempre
scenario della costruzione della libertà
In questo senso, gli strumenti di questo sviluppo sono gli stati di
diritto, il che significa che la libertà che può trovare posto nella
storia è quella esterna dei rapporti giuridici, la giusta
regolamentazione dei rapporti di coercizione, ma non nel senso del
miglioramento storicamente determinato delle condizioni morali
del singolo.
Il senso complessivo di questa giustificazione della razionalità
della storia è pratica. In altre parole, la ragionevolezza dell’idea di
progresso, che dispiega le condizioni per lo sviluppo totale delle
facoltà dell’essere razionale

Hegel, la storia si muove alla spalle del singolo. Ma questo


significa che ogni generazione soffre di questa inconsapevolezza.
Schopenhauer e Nietzsche: pessimismo

Difficoltà di intendere un tale sviluppo nel singolo. È la specie che


progredisce
Insocievole socievolezza la tensione che muove la storia

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Il cosmopolitismo e la federazione è la proiezione di questo
contrasto di mediazione, ragionevole ma non concretizzabile

La speranza
Dio come oggetto di speranza ragionevole, cioè filosoficamente
fondata
Vedere critica di Weischedel
 
I postulati
Per essere morali non occorre la fede. Ad essa conduce la nostra
stessa moralità
La vita ha però bisogno di uno scopo ultimo come senso per il
nostro agire
Questo scopo (oggetto della ragion pratica) è il sommo bene

Il sommo bene non ha però un carattere punitivo, benché questo


non significhi che dobbiamo subordinare l’agire virtuoso al
perseguimento della felicità
La felicità è il risultato di una adeguamento necessario alla virtù,
che si realizza all’infinito (immortalità)

Il che però sembra una contraddizione, poiché l’uomo dovrebbe


trovarsi contemporaneamente a perseguire qualcosa nelle
condizioni empiriche, senza però essere più in una condizione
empirica

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