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Diritto Civile Contemporaneo

Rivista trimestrale online ad accesso gratuito ISSN 2384-8537

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Anno IV, numero I, gennaio/marzo 2017


BUONA FEDE E GRAVITÀ DELL’INADEMPIMENTO NELLA
«EXCEPTIO INADIMPLETI CONTRACTUS»
Matteo Pellini

Buona fede e gravità dell’inadempimento nella «exceptio inadimpleti
contractus»

di Matteo Pellini

Con la sentenza n. 8912 del 4 maggio 2016 la Cassazione ritorna sul rapporto fra il
rimedio dell’eccezione di inadempimento e la risoluzione del contratto,
affermando che, nei contratti sinallagmatici, per poter opporre l’eccezione
inadimplenti non est adimplendum è necessario che venga accertata la gravità o la
rilevanza rispetto all’interesse della controparte, dell’inadempimento del soggetto
contro cui viene proposta tale eccezione, in caso contrario l’eccezione non supera
il vaglio della buona fede (art. 1460, secondo comma, c.c.).
Il caso: una società conveniva in giudizio l’avv. C.M., chiedendone la condanna al
risarcimento dei danni derivanti da responsabilità professionale; il legale
convenuto aveva difeso la parte attrice in una causa precedente, conclusasi con
una sentenza sfavorevole in conseguenza di alcune omissioni nello svolgimento
dell’attività difensiva compiute dal legale. L’avv. C.M. si costituiva in giudizio,
contestando la sussistenza del nesso di causalità tra i rilievi mossi dall’attrice al suo
operato e l’esito del giudizio precedente e chiedeva il rigetto delle domande
attoree, domandando in via riconvenzionale la condanna della società attrice a
corrispondere il compenso per le prestazioni professionali rese. Il Tribunale di
Busto Arsizio, con sentenza n. 583/2008, rigettava le domande rispettivamente
proposte. Con sentenza depositata il 31 agosto 2011 la Corte di Appello di Milano
rigettava l’appello proposto dall’attrice e, in accoglimento di quello incidentale, la
condannava al pagamento del compenso dovuto al legale. Dopo aver premesso
che quella del legale è un’obbligazione di mezzi e non di risultato e richiamati i
principi sui doveri di diligenza richiesti al professionista, i Giudici affermavano
che, affinché possa configurarsi la responsabilità, è necessaria la prova incombente
sul cliente del nesso di causalità fra le omissioni addebitate e l’esito del giudizio,
seppure sulla base di criteri meramente probabilistici. Successivamente veniva


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proposto ricorso in Cassazione censurando la sentenza impugnata per diversi
motivi, fra i quali, in particolare, il fatto che la Corte di appello di Milano aveva
ritenuto illegittimo il rifiuto, da parte della cliente, di pagare il corrispettivo
dell’attività professionale svolta dal legale, attesa la scarsa importanza
dell’inadempimento ascrivibile a quest’ultimo.
I giudici di legittimità, nella sentenza n. 8912/2016, affermano che, con riguardo
ai contratti a prestazioni corrispettive, qualora sia proposta da una parte
l’eccezione inadimplenti non est adimplendum il giudice deve procedere ad una
valutazione comparativa degli opposti inadempimenti, avuto riguardo anche alla
loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla
loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico e, nel caso in cui rilevi la non
gravità dell’inadempimento della parte nei cui confronti è opposta l’eccezione,
ovvero la sua scarsa importanza in relazione all’interesse dell’altra parte, deve
ritenere che il rifiuto di quest’ultima di adempiere la propria obbligazione non sia
di buona fede e, dunque, non sia giustificato ai sensi dell’art. 1460, comma
secondo, c.c.
La dottrina ha sempre distinto l’eccezione d’inadempimento dalla risoluzione del
contratto, tanto sotto il profilo degli effetti quanto su quello dei presupposti
applicativi.
La diversità dei due rimedi risiede, prima di tutto, nella differente intensità degli
effetti che essi producono sul vincolo contrattuale: l’eccezione inadimplenti non est
adimplendum ha un fine prettamente conservativo, poiché si limita a sospendere il
rapporto contrattuale, nell’attesa della corretta e completa attuazione del
sinallagma che l’eccezione stessa mira a stimolare; viceversa, la risoluzione scioglie
il vincolo mirando a liberare le parti dalle obbligazioni contrattuali (A. M.
BENEDETTI, Le autodifese contrattuali, Commentario al Codice Civile, diretto da
P. Schlesinger 2011, p. 24; nello stesso senso V. ROPPO, Il contratto, Milano, 2011,
p. 920, R. SACCO, I rimedi sinallagmatici, in R. SACCO e G. DE NOVA, Il


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contratto, in Trattato di diritto privato diretto da P. Rescigno, 10, Torino, 2002, p. 677
ss. e C.M. BIANCA, Eccezione di inadempimento e buona fede, in Il contratto. Silloge in
onore di Giorgio Oppo, Padova, 1992, p. 517 ss.).

Dalla ricostruzione della vicenda però risulta evidente come, nel caso in esame,
l’eccezione di cui all’art. 1460 c.c. sia stata utilizzata fuori dal contesto che le è
proprio: non sembra infatti avere il classico effetto sospensivo-dilatorio sul
rapporto, poiché la prestazione dell’avvocato non può più essere in concreto
correggibile e, di conseguenza, l’inadempimento sembra ormai essere definitivo ed
irrimediabile. In casi come questo, l’eccezione di inadempimento non dovrebbe
potersi utilizzare nella misura in cui l’errore del professionista ha prodotto effetti
insanabili, che il debitore non è più in grado di eliminare. E’ vero, tuttavia, che
sempre più frequentemente l’eccezione d’inadempimento viene utilizzata non già
come strumento per sospendere il contratto, bensì come una causa di estinzione
delle obbligazioni contrattuali e, quindi, di risoluzione – sia pure indiretta – del
contratto stesso. In questi casi (spesso legati proprio all’esecuzione di prestazioni
professionali) l’eccezione d’inadempimento sembra perdere quella funzione
conservativa che le è sempre stata ascritta, per diventare una sorta di causa occulta
di risoluzione del contratto (A tal proposito A.M. BENEDETTI, La deriva
dell’eccezione d’inadempimento: da rimedio sospensivo a rimedio criptorisolutorio?, in Danno e
resp., 2003, p. 754 e ss.).

La medesima posizione assunta da Cassazione n. 8912/2016 può essere


rintracciata in precedenti non troppo risalenti, e sempre relativamente a
prestazioni rese da professionisti intellettuali. La casistica ha coinvolto tipicamente
le categorie degli ingegneri e degli architetti, sempre per prestazioni che venivano
ricondotte tra gli obblighi c.d. «di risultato», ma anche normalmente gli avvocati
per l’attività difensiva (Cass. n. 5928/2002, ha confermato la decisione di secondo
grado che aveva accertato la responsabilità professionale di un difensore nella
gestione di una causa di opposizione a decreto ingiuntivo, per aver omesso di
indicare la data dell’udienza di comparizione nella copia notificata dell’atto di
opposizione e per avere omesso di citare un teste in una prova delegata, e aveva


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conseguentemente escluso che al professionista spettasse il compenso per la
propria prestazione professionale).
Salvo quanto appena osservato, i due rimedi si sono sempre distinti a partire dai
rispettivi presupposti applicativi.
Nell’eccezione d’inadempimento, la buona fede (richiamata espressamente dall’art.
1460, secondo comma, c.c.) comporta una valutazione di proporzionalità fra gli
inadempimenti che si fronteggiano nella vicenda contrattuale, quello legittimante,
di fronte al quale si invoca l’eccezione, e quello legittimato, nel quale l’eccezione si
incarna (V. ROPPO, Il contratto, cit., p. 921, secondo il quale per comprendere la
portata dell’eccezione di inadempimento occorre distinguere l’inadempimento
giustificante dall’inadempimento giustificato. L’inadempimento giustificante è il
mancato adempimento della prestazione della controparte tale da giustificare
l’eccipiente a sollevare l’eccezione di cui all’art. 1460, in forza del quale è
legittimato all’inadempimento giustificato). La buona fede, così intesa, costituisce
al tempo stesso presupposto e limite dell’eccezione inadimplenti non est adimplendum
(così A. M. BENEDETTI, Le autodifese contrattuali, cit., p. 50).
La lettera della disposizione è infatti assai chiara, nel senso che «non può rifiutarsi
l’esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona
fede»; in questo senso l’eccezione di cui all’art. 1460 c.c. si distingue dal rimedio
della risoluzione, poiché si fonda sull’altrui inadempimento ma non produce lo
scioglimento del contratto e non necessita, per il suo utilizzo, dei medesimi
presupposti soggettivi ed oggettivi (si veda, a tal proposito, E. GABRIELLI, Il
contratto e i rimedi: la sospensione dell’esecuzione, in Riv. dir. priv., 2014, p. 23). Ne
rappresenta il requisito in quanto è sicuramente contrario al principio della
correttezza esigere, in un rapporto sinallagmatico, una prestazione senza
adempiere – od offrire di adempiere – contemporaneamente la propria, salvo che
siano contrattualmente previsti termini diversi per i rispettivi adempimenti; ne
costituisce anche un limite in quanto l’esercizio dell’eccezione de quo in modo non


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conforme alla buona fede non riparerà l’eccipiente dalle conseguenze di un vero e
proprio inadempimento.
La risoluzione richiede, invece, per la maggiore gravità dei suoi effetti sul
contratto, ulteriori e più stringenti presupposti oggettivi e soggettivi: in particolare,
tra questi, la necessaria gravità dell’adempimento.
Bisogna dunque tenere distinti la rilevanza dell’inadempimento legittimante
l’eccezione dalla gravità dell’inadempimento che può dare luogo a risoluzione,
poiché quest’ultimo requisito trova il suo fondamento proprio nella radicalità
dell’effetto che consegue alla risoluzione stessa (sul punto G. COLLURA,
Importanza dell’inadempimento e teoria del contratto, Milano, 1992, p. 141.).
Per il legittimo esercizio dell’eccezione d’inadempimento è sufficiente una
valutazione comparativa dei comportamenti dei contraenti nel quadro
dell’interdipendenza delle prestazioni contrattuali, in modo tale che il rimedio in
questione appaia esercitato ragionevolmente (così A.M. BENEDETTI, Le
autodifese contrattuali, cit, p. 55, secondo cui non essendoci necessità di alcun
ulteriore requisito non devono essere mutuati parametri o criteri previsti dal
legislatore per altri e diversi rimedi contrattuali).
Anche l’orientamento tradizionale della giurisprudenza di legittimità ha più volte
ribadito che nei contratti con prestazioni corrispettive, qualora una delle parti
adduca, a giustificazione del proprio rifiuto di adempiere, l’inadempimento o la
mancata offerta di adempimento dell’altra, è necessario che il giudice proceda a
una comparazione dei rispettivi comportamenti, che tenga conto tanto
dell’elemento cronologico quanto di quello logico, essendo necessario stabilire se
vi sia relazione causale ed adeguatezza, nel senso della proporzionalità rispetto alla
funzione economico-sociale del contratto, tra l’inadempimento dell’uno e il
precedente inadempimento dell’altro (E. GABRIELLI, Il contratto e i rimedi: la
sospensione dell’esecuzione, cit, p. 23 e ss).
Si ritiene inoltre che anche un inadempimento lieve ex art. 1455 c.c. possa
giustificare la proposizione dell’eccezione di cui all’art. 1460 c.c., salva la
valutazione di proporzionalità e buona fede prevista dal secondo comma (sul


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punto si veda M. DELLA CASA, Inadempimento reciproco ed effetti preclusivi della
domanda di risoluzione, in Nuova giur. civ. comm., 2004, p. 697; nel caso in cui
l’inadempimento di lieve entità sarà più difficile, per chi reagisce ad esso
opponendo un’eccezione ex art. 1460 c.c. sperare di superare il vaglio del giudizio
di proporzionalità/buona fede; cfr. sul punto Cass., 5 marzo 1988, n. 2294, in Rep.
Foro. it., 1988, Contratto in genere, n. 425), pur non mancando pronunce
giurisprudenziali che sembrano confondere i presupposti dell’eccezione di
inadempimento con quelli necessari per la risoluzione, negando l’esperibilità della
prima per difetto di un presupposto della seconda (A.M. BENEDETTI, Le
autodifese contrattuali, cit, p. 56).
La sentenza n. 8912 del 2016 va certamente ascritta all’anzidetto orientamento
giurisprudenziale, e in questo senso la Corte di Cassazione si era precedentemente
pronunciata con altre decisioni.
Nel 2013, con la sentenza n. 7759, i giudici di legittimità hanno affermato che la
verifica sulla configurabilità della buona fede ex art. 1460, comma 2, c.c. va
effettuata sull’esistenza del grave inadempimento della controparte e sulla
conseguente e necessaria comparazione tra gli opposti inadempimenti, avuto
riguardo per lo più alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-
sociale del contratto (nello stesso senso i giudici della Suprema Corte si erano
pronunciati precedentemente con diverse sentenze. Cfr.: Cass. 6 luglio 2009, n.
15769; Cass. 16 maggio 2006, n. 11430; Cass. 3 luglio 2000, n. 8880; Cass. 3
febbraio 2000, n. 1168; Cass. 27 settembre 1999, n. 10668; Cass. 22 gennaio 1985,
n. 250; Cass. 5 marzo 1984, n. 1530; Cass. 7 maggio 1982, n. 2843; Cass. 8 luglio
1981, n. 4486). La giurisprudenza precisa, relativamente all’oggetto della
valutazione comparativa, che non assumono rilievo le sole obbligazioni principali
dedotte in contratto, ma anche le obbligazioni cd. secondarie, cioè quelle
obbligazioni che pur non riferendosi alle prestazioni principali assumono rilevanza
essenziale per le parti sul piano sinallagmatico, quali ad esempio quelle di


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collaborazione, informazione e protezione, il cui apprezzamento, ai sensi dell’art.
1455 c.c. va privilegiato qualora il loro inadempimento abbia determinato quello di
controparte (cfr. in questo senso, Cass. 16 gennaio 1997, n. 387); per la Suprema
Corte, nel caso in cui venga sollevata eccezione di inadempimento, il giudice è
chiamato a svolgere una valutazione comparativa degli opposti inadempimenti
avendo riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-
sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico,
sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse, con l’effetto che qualora
rilevi che l’inadempimento della parte nei cui confronti è opposta l’eccezione non
è grave ovvero ha scarsa importanza, in relazione all’interesse dell’altra parte a
norma dell’art. 1455 c.c., deve ritenersi che il rifiuto di quest’ultima di adempiere
la propria obbligazione non sia giustificato ai sensi dell’art. 1460, secondo comma,
c.c.

Nel 2004, con la sentenza n. 6564, la Cassazione ha stabilito che il rifiuto di


adempiere, inteso come reazione al primo inadempimento, oltre a non contrastare
con i principi generali della correttezza e della lealtà, deve risultare ragionevole e
logico in senso oggettivo, trovando concreta giustificazione nella gravità della
prestazione ineseguita, alla quale si correla la prestazione rifiutata (nel caso di
specie la S.C. ha cassato la decisione della corte di merito che aveva ritenuto
legittimo il licenziamento di un lavoratore con mansioni dirigenziali il quale, a
seguito di inadempimento del datore di lavoro consistente nel mancato
pagamento di quattro mensilità e di spese di trasferta, con l’avviso che non era
possibile fargli svolgere l’attività lavorativa per la quale era stato assunto in sevizio,
aveva reagito assentandosi dal posto di lavoro; nello stesso senso i giudici di
legittimità si erano precedentemente pronunciati con le sentenze Cass., 10
novembre 2003, n. 16822., Cass., 27 ottobre 2003, n. 16096 e Cass., 19 agosto
2003, n. 12161); ha inoltre ribadito che l’indagine sul requisito della buona fede
della parte che abbia sollevato l’eccezione di inadempimento è demandata al
giudice di merito che, a tal fine, dovrà procedere alla valutazione comparativa dei
comportamenti delle parti, non solo con riferimento all’elemento cronologico


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delle rispettive inadempienze, ma altresì ai rapporti di causalità e proporzionalità
delle stesse rispetto alla funzione economico-sociale del contratto, alla loro
incidenza sull’equilibrio sinallagmatico ed alla tutela dell’interesse essenziale
perseguito con la conclusione del contratto, al fine di stabilire se effettivamente il
comportamento di una parte giustifichi il rifiuto dell’altra di eseguire la prestazione
dovuta.
Emerge quindi un possibile profilo di criticità: tutte le decisioni in questione
sembrano confondere i presupposti dell’eccezione di inadempimento con quelli
tipici della risoluzione, in particolare ritenendo necessaria la gravità
dell’inadempimento – richiesta dall’art. 1455 c.c. – per l’esperimento
dell’eccezione inadimplenti non est adimplendum.
Il punto centrale attraverso cui si snoda tutta la questione è rappresentato dalla
nozione di buona fede e dalla sua ricostruzione (sulla buona fede la letteratura è
sterminata, per una visione di carattere generale può vedersi A. D’ANGELO, La
buona fede, nel Tratt. Dir. priv., diretto da M. Bessone, Il contratto in generale, IV, 2,
Torino, 2004, pp. 3 e ss e V. ROPPO, Il contratto, cit., p. 465 e ss).
Allora sembra che la buona fede significhi proporzionalità tra l’eccezione proposta
e l’inadempimento dalla quale essa scaturisce, al fine di valutare la sostanziale
comparabilità delle prestazioni ineseguite e di quelle rifiutate, dando così luogo a
quello che la giurisprudenza identifica come un «giudizio di proporzionalità
dell’inadempimento». In questa prospettiva è centrale il ruolo del giudice, cui
tocca svolgere un controllo ed una valutazione comparativa degli opposti
inadempimenti, nell’ambito della quale rileva non soltanto l’elemento cronologico
delle rispettive esecuzioni, ma anche la proporzionalità delle stesse sulla scorta
della causa concreta del contratto, e quindi in base agli interessi in esso dedotti,
nonché alla rispettiva incidenza di tali inadempimenti sull’equilibrio tra le
contrapposte prestazioni (E. GABRIELLI, Il contratto e i rimedi: la sospensione
dell’esecuzione, cit., p. 23 e ss.).


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Con la conseguenza che, all’esito di tale giudizio – in presenza di una valutazione
del giudice che ritenga che l’inadempimento della parte nei cui confronti è
opposta l’eccezione non è grave, ovvero ha scarsa importanza, in relazione
all’interesse dell’altra parte a norma dell’art. 1455 c.c. – deve ritenersi che il rifiuto
di colui che ha mosso l’eccezione di inadempimento non sia conforme a buona
fede e, quindi, non sia giustificato ai sensi dell’art. 1460, secondo comma, c.c.
«secondo cui l’eccezione di inadempimento deve trovare giustificazione nel
legame di corrispettività tra le prestazioni e quindi nella non scarsa importanza
dell’inadempimento imputato alla controparte».

Quest’orientamento viene però criticato da chi ritiene che debbano essere tenuti
distinti il piano della gravità dell’inadempimento da quello dell’eccezione di
inadempimento, poiché, anche secondo l’opinione di una parte della
giurisprudenza, la gravità dell’inadempimento funge da limite alla domanda di
risoluzione del contratto, mentre il rifiuto di adempiere ex art. 1460 c.c. tende,
all’opposto, a salvaguardare l’interesse all’adempimento del contratto, con la
conseguenza che la scarsa importanza dell’inadempimento e la contrarietà a buona
fede dell’eccezione non sono concetti tra loro sovrapponibili (si veda sul punto E.
GABRIELLI, Il contratto e i rimedi: la sospensione dell’esecuzione, cit., p. 25).

In questo senso si è pronunciata la Corte di Cassazione nella sentenza n. 3472 del


13 febbraio 2008, secondo cui il “grave inadempimento” che giustifica la
risoluzione si distinguerebbe dalla buona fede, prevista in relazione all’eccezione
di inadempimento, perché il primo e più rigoroso requisito si lega alla natura
distruttiva e, come tale, definitiva della risoluzione, mentre la seconda,
determinando soltanto la sospensione temporanea dell’esecuzione del contratto e
tendendo a salvaguardare l’interesse positivo all’esatto adempimento, si riferirebbe
esclusivamente al mero abuso. Secondo i giudici di legittimità l’unico requisito a
cui è subordinata l’eccezione di inadempimento è la buona fede. Viene quindi
evidenziata la sostanziale differenza fra i limiti sopra delineati (gravità
dell’inadempimento e buona fede) da ricondursi alla diversità di situazioni cui
sono riferiti, domanda di risoluzione, da un lato, e domanda di adempimento,


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dall’altro (nel caso di specie la Cassazione censura la pronuncia dei giudici di
appello, che avevano ritenuto dovuto il corrispettivo all’appaltatore, rigettando
l’eccezione d’inadempimento proposta dal committente, sul presupposto della
scarsa importanza dell’inadempimento dell’appaltatore).
Poiché infatti la domanda di risoluzione, come abbiamo visto, attiva un rimedio
distruttivo, il sistema richiede che l’operatività di tale strumento sia limitata ai soli
casi in cui l’inadempimento sia tale da alterare in modo rilevante il sinallagma
funzionale; al contrario l’eccezione di inadempimento è un rimedio di carattere
conservativo, essendo volto a tutelare gli interessi della parte alla conservazione
del rapporto, con il solo limite della conformità alla buona fede del rifiuto di
adempiere, non essendo necessaria anche la gravità dell’inadempimento stesso.
Tuttavia, questo non vuol dire che la scarsa importanza dell’inadempimento non
possa integrare una di quelle situazioni in presenza delle quali il rifiuto di
adempiere possa considerarsi contrario alla buona fede, solo che gravità e
proporzionalità non si possono sovrapporre sic et simpliciter.
Aggiunge la Corte, inoltre, che l’interesse all’esatto adempimento sarebbe tutelato,
ex art. 1372 c.c., in maniera più intensa rispetto all’interesse alla risoluzione del
contratto, e per tale ragione non sarebbe soggetto al limite rigoroso della non
scarsa importanza, quanto piuttosto al limite della buona fede in senso oggettivo,
con la conseguenza che – fermo restando il rilievo della non irrilevanza
dell’inadempimento al fine di valutare la rispondenza a buona fede del rifiuto della
prestazione – si deve in ogni caso ritenere che il concetto di buona fede e quello di
non scarsa importanza non sono fra loro coincidenti, né è possibile istituire tra
essi un rapporto di implicazione, in ragione del quale la buona fede implicherebbe
l’irrilevanza dell’inadempimento (nello stesso senso si sono espressi i giudici della
Suprema Corte nella sentenza Cass. 26 gennaio 2006, n. 1690).
D’altra parte, la migliore dottrina (C.M. BIANCA, Diritto civile, V, La responsabilità,
Milano, 1994, p. 349; F. GALGANO, Diritto civile e commerciale, 4a ed., II, Padova,


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2000, p. 574; L. BIGLIAZZI GERI, Profili sistematici dell’autotutela privata, II,
Milano, 1974, p. 342) osserva che la gravità dell’inadempimento non costituisce un
presupposto necessario dell’eccezione inadimplenti non est adimplendum ma,
esclusivamente, una delle possibili circostanze da valutarsi ai fini del giudizio di
conformità a buona fede; si sostiene, tra l’altro, che è contrario a quest’ultima il
rifiuto dell’adempimento quando ciò comporta per l’altro contraente conseguenze
eccessivamente gravose o può pregiudicare interessi inerenti alla persona dell’altro
contraente e perciò di rango superiore all’interesse economico, oppure quando
l’inadempimento dell’altro contraente sia imputabile a ragioni scusabili ovvero il
creditore vi abbia in ogni caso prestato acquiescenza.

Alla luce di tutto questo, si può constatare che la sentenza in commento si


inserisce in quel filone giurisprudenziale che tende a confondere i requisiti
necessari per poter esperire l’eccezione di inadempimento con quelli previsti per la
risoluzione, rimedi invero estremamente distanti l’uno dall’altro, tanto per la
natura quanto soprattutto per le finalità perseguite. A questo orientamento,
probabilmente maggioritario, si contrappongono alcune decisioni della Suprema
Corte – pur in linea con l’opinione prevalente della dottrina – che invece tendono
a mettere in evidenza la differenza fra i rimedi de quibus, anche e soprattutto sotto
il profili dei requisiti richiesti.

Va detto, però, che la decisione 8912/2016 sollecita una riflessione sulla stessa
natura sospensiva dell’eccezione d’inadempimento. L’utilizzo che i giudici fanno
dell’eccezione d’inadempimento sembra infatti deviare dalla funzione tipicamente
«riparatrice» ad essa assegnata, in quanto, nel caso concreto, l’attività professionale
prestata dall’avvocato non è più correggibile e quindi l’inadempimento è, in effetti,
definitivo ed irreparabile. Lo scopo degli eccipienti, dunque, non era più quello di
stimolare il debitore ad eseguire correttamente la prestazione, bensì quello di
ottenere dal giudice una sentenza che giustificasse il rifiuto di pagare gli onorari
loro richiesti. E’ evidente, dunque, che l’eccezione di inadempimento è invocata,
ed accolta dai giudici, non come giustificazione di una mera sospensione
dell’adempimento dell’eccipiente, bensì come causa di un inadempimento ormai


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radicale e definitivo da cui è derivata l’estinzione dell’obbligazione di
corrispondere il compenso. Forse, allora, bisogna rivedere i termini della
questione della natura dell’eccezione d’inadempimento o, se non altro,
riconsiderare il problema dei rapporti fra questa e la risoluzione del contratto.

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Questa Nota può essere così citata:

M. PELLINI, Buona fede e gravità dell’inadempimento nella «exceptio inadimpleti


contractus» , in Dir. civ. cont., 14 marzo 2017


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