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Le allergie ed intolleranze alimentari sono meglio definite come reazioni avverse agli alimenti,

ovvero manifestazioni cliniche indesiderate ed impreviste relative all’assunzione di un alimento


Le allergie alimentari sono definite come reazioni avverse derivanti da una specifica risposta
immunitaria riproducibile alla riesposizione ad un determinato cibo. Le allergie alimentari
includono: • reazioni IgE-mediate o reazioni di ipersensibilità immediata (reazioni di tipo I secondo
Gell e Coombs); • reazioni non IgE-mediate o reazioni di ipersensibilità ritardata (reazioni di tipo
IV secondo Gell e Coombs); • reazioni miste, IgE- e non IgE-mediate.

Prima fase: Sensibilizzazione – Il contatto iniziale con un allergene non provoca una reazione
allergica, ma attiva il sistema immunitario. Nei soggetti allergici, il sistema immunitario identifica
erroneamente determinate proteine come nocive. Seconda fase: Reazione – Una volta avvenuta la
sensibilizzazione, una successiva esposizione all’allergene può provocare una reazione allergica: nei
soggetti sensibilizzati tali sostanze inducono sintomi allergici (come prurito o gonfiore).
L’allergia al frumento può realizzarsi per la produzione di IgE specifiche nei confronti di diverse
classi di proteine, dalle gliadine all’alfa-amilasi; alcune di queste proteine risultano stabili alla
denaturazione termica, quindi ancora pericolose per il soggetto allergico dopo la cottura o i comuni
trattamenti tecnologici. Il frumento è uno degli alimenti più frequentemente in causa nell’anafilassi
da esercizio fisico.
ARACHIDE = Spesso responsabile di fenomeni allergici anche gravi come lo shock anafilattico.
Dal punto di vista della stabilità, il potenziale allergenico persiste ai comuni trattamenti tecnologici,
ovvero tostatura e lavorazione che porta alla produzione di derivati (burro e farina di arachide).
Risulterebbe invece tollerato dalla maggior parte dei soggetti allergici l’olio di arachide che è
sottoposto a processi di rettifica, in grado di allontanare quasi totalmente la frazione proteica. Sono
noti casi di cross‐reattività che si osservano maggiormente con la frutta a guscio (nocciola,
mandorla, noce brasiliana), piuttosto che con altri legumi (fagioli, carrube, ecc).
SOIA = Spesso utilizzata nelle formule destinate all’allattamento dei soggetti allergici al latte
vaccino, la soia si è dimostrata a sua volta in grado di indurre sensibilizzazione. E’ noto che il 10-
14% dei soggetti allergici al latte vaccino diventa allergico anche alla soia. Relativamente alla
stabilità ai trattamenti tecnologici, la soia come l’arachide mantiene il suo potenziale antigenico,
ovvero la capacità di legare le IgE circolanti, anche dopo trattamenti termici a varie temperature e
per tempi diversi. L’olio di soia, in cui la rettifica determina l’allontanamento della frazione
proteica, risulta tollerato dalla maggioranza dei soggetti allergici (EC 1997). Per quanto riguarda le
preparazioni contenenti fitosteroli/stanoli ottenuti a partire dalla soia è piuttosto improbabile che
questi prodotti contengano residui di allergene in quantità tali da causare reazioni allergiche severe,
nei soggetti allergici alla soia.
I principali frutti a guscio coinvolti sono la nocciola, la noce, l’anacardo o noce di Acajù, la noce di
Pecan, la noce del Brasile, il pistacchio, la noce del Queensland o di Macadamia, la mandorla. Non
tutti questi frutti hanno elevata diffusione nel nostro Paese, mentre è di comune riscontro l’allergia
alla nocciola. In questo caso, come per la pesca, occorre individuare attentamente il profilo di
sensibilizzazione del paziente: la nocciola contiene infatti sia profillina (correlata all’allergia al
nocciolo), ma anche LTP e Storage Protein, non denaturate dai trattamenti termici effettuati prima
della commercializzazione. Tali allergeni possono causare, nel soggetto sensibilizzato, reazioni
gravi. Esistono casi documentati di cross-reattività sia tra i diversi frutti a guscio, sia con legumi. Si
ribadisce l’importanza di una precisa valutazione allergologica fatta da specialisti e di informare
adeguatamente il paziente sul livello di rischio.
L’allergia al sedano ha una certa diffusione in Italia, in particolare nei soggetti allergici al polline di
betulla. Più rara l’ipersensibilità correlata alla sensibilizzazione all’artemisia; per quanto riguarda la
sensibilizzazione a sesamo e senape, con l’avvento della cucina etnica e la diffusione del sesamo,
quale ingrediente dei prodotti da forno (dolci e pane), il numero di soggetti allergici a questi due
alimenti è andato aumentando progressivamente. Il sedano viene consumato sia crudo sia cotto ed
in entrambi i casi sono stati registrati casi di reazioni cliniche; queste segnalazioni indicano che gli
allergeni del sedano sono almeno parzialmente termostabili (Ballmer e Weber 2000). In soggetti
altamente allergici sono stati descritti casi di reazioni anafilattiche anche a seguito del consumo di
olio di semi di sesamo.
Latte e uova sono i principali responsabili di reazioni allergiche nei primi anni di vita, mentre i
prodotti ittici (pesci, crostacei e molluschi) sono importanti sia nel bambino che nell’età adulta.
In età pediatrica l’allergia alimentare più frequente e l’allergia alle proteine del latte vaccino
(APLV), con una prevalenza del 1,9-4,9%. Esordisce quasi sempre nel primo anno di vita, in genere
più precocemente nel lattante alimentato con formula, rispetto all’allattato al seno. L’acquisizione
della tolleranza, cioè la remissione di sintomi, si verifica nel 40- 50% dei casi entro il primo anno
vita e nell’85-90% dei casi entro il terzo anno di vita. Lo spettro di manifestazioni cliniche
dell’APLV e molto ampio e comprende sintomi gastrointestinali (reflusso gastro esofageo, coliche,
stipsi, diarrea, vomito) nel 32-60% dei casi, manifestazioni cutanee (dermatite e meno
frequentemente orticaria) nel 5-9% dei casi; meno comuni sono i sintomi respiratori. L’anafilassi si
verifica nello 0,8-9% dei casi.
I meccanismi immunologici implicati sono sia di tipo IgE mediato che di tipo cellulo-mediato. I
principali allergeni presenti nel latte vaccino sono l’alfa-latto albumina, la beta-lattoglobulina e la
caseina. Tali molecole presentano un’alta omologia di struttura con proteine contenute nel latte di
altri mammiferi, in particolare ovini (capra e pecora). Minore analogia di struttura è invece
riscontrabile nel latte di equini (cavalla e asina) e di cammella; questi latti sono, pertanto, più
comunemente tollerati dai pazienti con APLV, sebbene la tolleranza vada comunque verificata caso
per caso. Non è ancora chiaramente definito il grado di tolleranza del latte vaccino contenuto in
alimenti cotti al forno ad elevate temperature (oltre 150°) e per lungo tempo (oltre 30 minuti), come
ad esempio i prodotti da forno o i dolci. La diagnosi si basa sulla storia clinica, l’eventuale utilizzo
di test allergologici (in vivo ed in vitro), la dieta di esclusione ed il test di provocazione orale
(TPO), che è il test «gold» standard. Il lattante che esegue dieta di esclusione delle proteine del latte
vaccino dovrebbe assumere, come alternativa, formule speciali dedicate rappresentate dalle formule
a base di proteine di latte vaccino estesamente idrolisate, formule a base di soia, formule a base di
idrolisati di soia e riso e miscele amminoacidiche. In caso di lattanti allattati al seno, la madre deve
optare per una dieta priva di latte e derivati associata ad adeguata supplementazione di calcio. Il
latte di altri mammiferi o bevande a base di soia o riso non rappresentano un’alternativa
nutrizionalmente adeguata al latte vaccino.
L’essere umano è in profondo rapporto con l’ambiente esterno e con il microbioma intestinale
(anch’esso considerabile come “esterno”). Alcune sostanze presenti negli alimenti possono
modificare gli scambi di materia o energia tra l’organismo umano e l’ambiente esterno/interno. Il
massimo valore di nutriente ecosistemico lo possiede l’acqua. Oltre al ruolo di sostegno di ogni
processo metabolico umano, l’acqua ha anche un importante ruolo di regolazione dei flussi di
materia ed energia all’interno del microbioma intestinale. Un altro esempio di nutrienti ecosistemici
ci è dato dalle sostanze che aiutano a riparare i danni del DNA o che, chelando i metalli pesanti,
possono proteggerci da sostanze tossiche presenti nell’ambiente.
UOVA = Sono frequentemente coinvolte nelle forme allergiche infantili con tendenza
all’acquisizione della tolleranza nei primi anni di vita. I principali allergeni sono proteine
dell’albume, in particolare ovoalbumina e ovomucoide. Il lisozima sembrerebbe responsabile della
sensibilizzazione solo in un limitato numero di soggetti. Nel tuorlo sono presenti le stesse proteine
in quantità inferiore (circa ¼). Solo nel caso della livetina si può parlare di un allergene vero e
proprio del tuorlo (Szepfalusi et al. 1994) La stabilità degli allergeni dell’uovo è elevata e le
reazioni cliniche si evidenziano sia dopo il consumo di uovo crudo che di uovo cotto. Circa la metà
dei bambini allergici all’uovo sono in grado di tollerare l’uovo cotto estensivamente al forno con il
grano (biscotti o ciambelle), ma la tolleranza va valutata caso per caso e sempre con un test di
provocazione orale condotto in ambiente protetto . La dieta dei soggetti con allergia all’uovo deve
avvalersi di un’attenta lettura delle etichette.
PESCI = Rappresentano una complessa classe di alimenti, con relazioni filogenetiche molto
diversificate. L’allergia al pesce è ben conosciuta e si manifesta sia in età pediatrica che in età
adulta. Nonostante il numero molto elevato di pesci inclusi nella dieta mondiale, solo alcuni
allergeni di origine ittica sono stati identificati dal punto di vista molecolare; tra questi, quello
meglio caratterizzato è la parvalbumina del merluzzo, nota come Allergene M. Anche nel caso del
salmone la proteina coinvolta nella sintomatologia allergica è la parvalbumina. L’Allergene M è
stabile al calore e alla digestione; un caso di anafilassi è stato registrato in seguito al consumo di
patatine fritte in un olio usato in precedenza per friggere merluzzo (Yunginger et al. 1988). La
cross‐reattività, pur frequentemente osservata nei test in vitro, trova solo parziale riscontro nella co‐
sensibilizzazione in vivo.
Anche crostacei e molluschi includono un elevato numero di specie, più o meno vicine dal punto di
vista filogenetico. Tra le diverse specie sicuramente il gambero è quello più frequentemente
responsabile di reazioni cliniche negli adulti. Anche in questo caso solo pochi allergeni sono stati
studiati dal punto di vista molecolare e tra questi, la tropomiosina è l’allergene più conosciuto. La
tropomiosina è stabile al calore e quindi può determinare reazioni cliniche dopo il consumo di
crostacei (e molluschi) sia crudi che cotti. Fenomeni di cross‐reattività sono stati osservati non solo
tra i diversi crostacei (aragosta, granchio, ecc.) e molluschi (seppie, ecc), ma anche con aracnidi
(acari della polvere) ed alcuni insetti (scarafaggi).
SINDROME ORALE ALLERGICA = • Cross-reattività tra pollini e alimenti, causata cioè da
allergeni ubiquitari (proteine termo- e gastrolabili) nel mondo vegetale • Edema, prurito e/o bruciore
localizzati al cavo orale, in genere a risoluzione spontanea • Alimenti più frequentemente in causa:
mela, pera, pesca, carota, melone • La cottura dell’alimento determina l’inattivazione dell’allergene
responsabile e consente l’assunzione dell’alimento senza alcuna reazione.
SOSPETTO DIAGNOSTICO =
Ampio spettro di manifestazioni cliniche (da lievi fino a shock anafilattico) • Latenza: da pochi
minuti a poche ore (precocità in relazione ala gravità ) • Interessamento di più̀ organi e apparati •
Nel bambino associazione più che causalità con dermatite atopica nel bambino • Gravità dipende da
tipo di proteina verso cui il soggetto sviluppa anticorpi IgE (termo- e gastroresistenza reazioni
sistemiche e/o gravi, termo- e gastrolabilità reazioni locali e/o lievi).
DIAGNOSI =
Avvio del percorso è affidato al medico di medicina generale o al pediatra di libera scelta • Diagnosi
richiede una figura specialistica, allergologo o pediatra allergologo, • Fondamentale anamnesi: o
Caratteristiche dei sintomi (analoghi sintomi nei commensali) o Latenza o Ricorrenza dei sintomi o
Esercizio fisico, assunzione di farmaci o alcol concomitanti con l’ingestione dell’alimento o
Comorbidità allergologiche cutanee e/o respiratorie o Terapia effettuata e risposta clinica.
TEST DIAGNOSTICI =
•Prick test: ampiamente utilizzato, sensibile e specifico, relativamente semplice nella sua
esecuzione, di basso costo ed a lettura immediata; • Si usano estratti allergenici purificati del
commercio (prick test) o alimenti freschi del mondo vegetale (prick by prick o prick to prick) •
Rischi modesti ma non nulli, occorre personale specializzato • Negatività: assenza di reazione IgE
mediata • Positività: sensibilizzazione, non necessariamente causalità • Sospendere antistaminici per
3-5 giorni
• IgE totali (PRIST): da effettuare sempre nell’adulto, caso per caso nel bambino • IgE specifiche
(ImmunoCap o RAST) • Negatività: assenza di reazione IgE mediata • Positività: sensibilizzazione,
non necessariamente causalità • A supporto del sospetto di reazione IgE mediata, ma non decisivi
per l’esclusione dalla dieta •Come prima indagine in caso di dermatiti estese, trattamento cronico
con antistaminico, situazioni che rendono i test cutanei non eseguibili • Criticità interpretative e
costi • Di competenza specialistica
• Le nuove tecnologie in diagnostica molecolare consente di individuare la risposta IgE mediata
verso componenti singoli degli alimenti (profilina, LTP , etc ) e distinguere fra sensibilizzazioni
“vere” e cosensibilizzazioni •E’ possibile valutare il livello di IgE specifiche verso componenti
molecolari con caratteristiche diverse di resistenza al calore, alla digestione peptica ed alla
lavorazione industriale ed indirizzare quindi il paziente verso l’esclusione oppure l’assunzione con
precauzioni (cottura, lavorazione industriale, privo della buccia etc.), sempre considerando le
correlazioni con i dati clinici. • Di competenza specialistica
Test di provocazione orale (TPO) • Gold standard della diagnostica allergologica per casi dubbi o di
polisensibilizzazione. • Possono essere eseguiti in singolo cieco, doppio cieco, doppio cieco contro
placebo • Ambiente ospedaliero (ambientazione idonea e personale esperto): fondamentale la
sicurezza per il paziente Allergia alimentare – Test diagnostici •Basophil Activation Test (BAT):
comportamento dei basofili esposti in vitro all’allergene
ANAFILASSI =
Reazione sistemica da ipersensibilità a potenziale rischio di vita • Sintomi: rapido esordio con
interessamento delle vie aeree, difficoltà respiratoria con evoluzione fino al collasso
cardiocircolatorio + orticaria, edema delle mucose (possono assenti nel 10% dei casi) • Allergia
alimentare: prima causa di anafilassi nel bambino e nell’adulto in ambiente extraospedaliero. Negli
adulti: prevalenti le cause da veleno da imenotteri e da farmaci. • Anafilassi da alimenti: esordio
variabile da pochi minuti a due ore, con una mediana di 30 minuti. •Alimenti più frequentemente in
causa: latte vaccino, uovo, grano, frutta secca, pesce e crostacei (in teoria qualsiasi alimento)
• La gestione dell’anafilassi da alimenti si distingue in terapia dell’episodio acuto e gestione a lungo
termine. • Farmaco di prima scelta: adrenalina intramuscolo (azione in 8 minuti) •Fornitura di kit di
emergenza con un copia del piano di emergenza per la gestione dell’anafilassi e farmaci per
l’automedicazione: o adrenalina autoiniettabile (anafilassi) o antistaminico ad azione rapida, non
sedativo (reazioni allergiche cutanee, laddove appropriato) • Immunoterapia a veleno di imenotteri e
desensibilizzazione per allergia ai farmaci a seconda dei casi • Formazione di pazienti e operatori
sanitari • Supporto psicologico se necessario • Attuazione del piano di emergenza per la gestione
dell’anafilassi in comunità (ad esempio scuola materna, scuola)
REAZIONI AVVERSE IMMUNOMEDIATE =
Reazioni avverse non IgE-mediate o Enterocolite allergica da proteine alimentari (Food Protein
Induced Enterocolitis Syndrome, FPIES) o Proctite da proteine alimentari o Sindrome sistemica da
allergia al nichel oCeliachia
La sindrome enterocolitica (food protein induced enterocolitis syndrome, FPIES) è una rara allergia
alimentare che viene indotta dalle proteine e a volte viene indicata come “allergia alimentare
ritardata”. La FPIES acuta si presenta tipicamente con vomito profuso, pallore, letargia,seguiti
talora da diarrea, che può condurre a disidratazione. L'esclusione del cibo offendente dalla dieta
porta a risoluzione dei sintomi in genere entro 24-48 ore. La FPIES cronica è caratterizzata da
vomito intermittente, distensione addominale, diarrea cronica, di tipo mucoso o ematica, irritabilità,
ritardo di crescita e scarso aumento del peso. Gli alimenti implicati sono generalmente due:latte
vaccino ed latte di soia. Con l’eliminazione dell’alimento dalla dieta si ha una risoluzione dei
sintomi entro alcuni giorni (più lentamente, dunque, rispetto alla forma acuta).
Le reazioni di solito si verificano introducendo i primi alimenti solidi, come i cereali per l'infanzia o
il latte in formula, che sono tipicamente prodotti con latte o soia. Un neonato può avere allergie e
intolleranze alle proteine alimentari a cui viene esposto attraverso il latte materno, ma le reazioni
FPIES di solito non si verificano nei neonati allattati al seno, indipendentemente dalla dieta della
madre. Una reazione FPIES, come vomito o diarrea, si verifica quando il bambino ha ingerito
direttamente il cibo. La Fieps si manifesta con: vomito intenso e ripetuto che si presenta dopo ore
dall'ingestione dell'alimento; diarrea, a volte ad esordio tardivo; pallore; sonnolenza; assenza di
sintomi tipici delle allergie IgE mediate, come rush, orticaria o sintomi respiratori Il modo più
efficace e sicuro per gestire la sindrome enterocolitica è quello di evitare rigorosamente il cibo che
scatena una reazione allergica. Ovviamente questo richiede la massima attenzione da parte dei
genitori alla dieta del bambino. In una prima fase, quella legata alla diagnosi, è indispensabile
tenere un diario preciso sul quale annotare quali alimenti sono stati somministrati al bambino e
quali sono state le reazioni. Una volta individuati gli alimenti allergizzanti vanno esclusi dalla dieta.
Generalmente la sindrome enterocolitica si risolve spontaneamente con la crescita. Ovviamente sarà
indispensabile far seguire il bambino da uno specialista con cui si potrà discutere degli alimenti
sicuri e delle modalità con cui affrontare la sindrome enterocolitica anno dopo anno. Il medico,
inoltre, potrà proporre un TPO (il test di provocazione orale) per monitorare la situazione con la
crescita e capire se è possibile reintrodurre l'alimento allergizzante in tutta sicurezza. Il TPO va
eseguito in ospedale seguendo le indicazioni dell'allergologo.
SINDROME SISTEMICA DA ALLERGIA AL NICHEL:
• Tra le cause più frequenti di dermatite allergica da contatto • Il metallo presente nei vegetali e
ingerito può causare eczema da contatto o sindrome sistemica (spesso coesistenza) • Sintomi:
orticaria, prurito, dolore addominale, diarrea o costipazione, flatulenza, meteorismo, e altri sintomi
aspecifici come cefalea, astenia, aftosi ricorrente • Diagnosi: dopo patch test, dieta di esclusione per
un periodo di 2-3 settimane e valutazione della risposta clinica o test di tolleranza con capsule
predosate In caso di positività all’esame, si procede dapprima con eliminare dalla dieta per un
periodo limitato alle 4-6 settimane, gli alimenti contenenti nichel tra cui albicocche, cavoli, spinaci,
arachidi, carote, pomodori, ostriche, fichi, cipolle, asparagi, lenticchie, farina di grano intero,
fagioli, liquirizia, pere cotte e crude, funghi, mais, lattuga, piselli, mandorle, thè, aragosta,
margarina, cacao e cioccolato, avocado, mirtilli, avena, grano saraceno, noci e nocciole, broccoli,
patate, lievito in polvere, ma anche alimenti cotti o conservanti in recipienti di metallo (ad
eccezione dell’alluminio). Se il paziente, da questa dietoterapia, trae significativi benefici sulla
sintomatologia si attuerà un test di provocazione specifica con il nichel e solo in caso quest’ultimo
risulti positivo si potrà fare una diagnosi di allergia sistemica al nichel, indirizzando poi il paziente
ad un trattamento desensibilizzante specifico per via orale con il nichel solfato. Questa
desensibilizzazione apporta risultati molto favorevoli sui sintomi sistemici, mentre ancora non si è
trovata la strategia terapeutica per riuscire a negativizzare la dermatite da contatto. Il trattamento
desensibilizzante è molto importante perché la dieta per attestare l’allergia al nichel comporta la
ridotta assimilazione di ferro e il paziente dopo alcuni mesi tende a mostrare una anemia dovuta
proprio a una dieta ferro priva. In caso di sospetto iniziale di allergia, ovvero nel corso della fase di
accertamento, si sconsiglia anche l’assunzione di integratori multivitaminici mentre ed è fortemente
raccomandata anche l’eliminazione dell’abitudine al fumo, limitandola se non se ne può fare a
meno a un massimo di 3-4 sigarette al giorno. Possono essere invece consumati con tranquillità
verdure quali radicchio, indivia, songino (valeriana), finocchi, melanzane, zucchine, peperoni,
cetrioli, barbabietole; alcuni tipi di frutta fra cui anguria, melone, agrumi, pesche, banane, fragole,
uva; latte e latticini (a condizione che non vi sia un concomitante malassorbimento di lattosio);
farina 00 (in assenza di malattia celiaca); riso; carne di qualunque tipo; pesce ad eccezione di mitili,
platessa e crostacei; lievito di birra. Far scorrere l’acqua per qualche minuto al mattino prima del
suo utilizzo in modo che eventuali tracce di nichel presenti nelle tubature possano essere eliminate.
Nell’impasto dei dolci, utilizzare il bicarbonato come agente lievitante in alternativa al lievito in
polvere. Cottura o conservazione dei cibi: sono indicate pentole in pirex, vetro, alluminio, ceramica
non smaltata, silargan, teflon utili ad evitare che le sostanze acide contenute nei cibi favoriscano la
dissociazione e, quindi, il rilascio del nichel dagli utensili usati.
CELIACHIA = • Patologia cronica sistemica immuno‐mediata, indotta dalle prolamine (proteina di
frumento, orzo e segale) • Predisposizione genetica legata agli aplotipi HLA DQ2/DQ8, in assenza
dei quali la diagnosi è virtualmente esclusa • Interessamento duodeno-digiunale dove si attiva una
risposta immune mediata da linfociti T con: o produzione di anticorpi IgA ed IgG contro l’enzima
transglutaminasi tissutale e contro i peptidi della gliadina o danno citotossico della mucosa con
atrofia dei villi • Malassorbimento correla con severità ed estensione del danno • Deficit di enzimi
digestivi localizzati sull’orletto a spazzola delle cellule epiteliali di rivestimento dell’intestino tenue
•Dieta aglutinata rigida e permanente
• Età pediatrica Più spesso che nell’adulto può manifestarsi con sintomi classici (celiachia classica o
major, in precedenza definita tipica), con crisi celiaca (quadro addominale acuto con nausea vomito
e diarrea profusa) o con sindrome da malassorbimento (associata a deficit staturo‐ponderale,
inappetenza, dolori addominali ricorrenti, diarrea/steatorrea, addome globoso, difetti dello smalto
dentario) • Età adulta Può esordire a qualsiasi età, spesso in modo paucisintomatico, con sintomi
sfumati o diversi da quelli tradizionalmente noti (celiachia non classica o minor, precedentemente
definita atipica) sia di tipo gastrointestinale che extraintestinale
DERMATITE ERPETIFORME DI DUHRING = • Variante cutanea di celiachia • Coinvolta
transglutaminasi diversa dalla transglutaminasi tissutale di tipo 2 (tTg2), nota come tTG3 e
localizzata prevalentemente a livello cutane o • Eruzione vescicolare estremamente pruriginosa
localizzata simmetricamente sulla superficie estensoria degli arti, sulla schiena e sui glutei •
Sensibile alla dieta aglutinata e, farmacologicamente, al dapsone
DIAGNOSI = • Case finding (familiari di I grado o pazienti con malattie autoimmuni associate) •
Eliminazione del glutine deve essere basata su criteri diagnostici rigorosi (evitare sospensione prima
della diagnosi certa) • Gestione specialistica • Centri di Riferimento regionale e Presidi di Rete
regionali • Malattia rara e di interesse sociale soggetta a certificazione.
La diagnosi di MC si effettua esclusivamente a dieta libera, prima che il glutine sia stato ridotto o
eliminato 1. Test di screening: dosaggio degli anticorpi IgA anti transglutaminasi tissutale (test in
metodica ELISA); è il test più sensibile e va sempre affiancato al dosaggio degli anticorpi IgA
totali. In caso di deficit di IgA totali, dosaggio degli anticorpi IgG anti transglutaminasi tissutale
(metodica ELISA) 2. Test di conferma: valutazione degli anticorpi anti endomisio in
immunofluorescenza indiretta (IFI): è il test più specifico, ma occorre particolare esperienza
dell’operatore (test IFI) 3. Dosaggio anticorpi IgA ed IgG anti peptidi deamidati della gliadina (età
pediatrica e follow up) 4. Valutazione assetto genetico HLA (elevatissimo valore predittivo
negativo) in caso di dubbio diagnostico e per valutare la predisposizione nei familiari di I grado
(fascia pediatrica). 5. Esofago-gastro-duodeno scopia (EGDS) e biopsie duodeno-digiunali. Da fare
sempre nell’adulto, in casi dubbi nel bambino.
TERAPIA = • Al momento l’unica terapia possibile è la dieta aglutinata (rigida e permanente; dose
massima giornaliera 10 mg) seguita con attenzione per tutta la vita , che consente il “silenziamento”
del processo autoreattivo ed il ripristino, nella maggior parte dei casi, di uno stato di buona salute
•Follow presso un centro di riferimento o un presidio di rete regionale per verificare la risposta e
l’aderenza alla dieta, identificare malattie autoimmuni o complicanze • Valutazione iniziale, poi
controllo dopo 3-6 mesi, in seguito annualmente • Miglioramento significativo del quadro clinico
entro poche settimane dall’inizio della dieta aglutinata, risoluzione totale dei sintomi entro alcuni
mesi • Restitutio ad integrum della mucosa duodeno-digiunale: fino a 2 anni di dieta aglutinata •
Tenere conto delle comorbidità • Consulenza nutrizionale • Supporto dell’Associazione Italiana
Celiachia (AIC)
NCGS (Non-celiac gluten sensitivity) = Condizione da causa ignota caratterizzata da manifestazioni
cliniche intestinali ed extraintestinali, che insorgono tempestivamente dopo ingestione di alimenti
contenenti glutine e altrettanto rapidamente scompaiono a dieta aglutinata, in assenza di malattia
celiaca e allergia al frumento. Diagnosi di esclusione, in assenza di un biomarker e di test specifici
Non nota la dose tollerata di glutine né per quanto tempo occorre escludere il glutine dalla dieta
Necessario test in doppio cieco controllato con placebo in strutture specialistiche dedicate
(conferma diagnostica e soglia di tolleranza individuale)
• Le intolleranze alimentari provocano sintomi spesso simili a quelli delle allergie, ma non sono
dovute a una reazione del sistema immunitario, e variano in relazione alla quantità ingerita
dell'alimento non tollerato. • Diagnosi differenziale: dieta scorretta o alterazioni gastrointestinali
(sindrome dell’ intestino irritabile, gastrite, reflusso gastroesofageo, diverticolite, calcolosi
colecistica) • Spesso secondarie ad altre condizioni internistiche da individuare • Classificazione o
intolleranze da difetti enzimatici o intolleranze da sostanze farmacologicamente attive o intolleranze
da meccanismi sconosciuti (es. da additivi)
DIAGNOSI = • Anamnesi accurata • Dati i sintomi in parte sovrapponibili, esclusione di un’allergia
alimentare • Valutare di condizioni internistiche che possono essere accompagnate dalle intolleranze
alimentari non immunomediate •Per intolleranza al lattosio: Breath Test specifico (metaboliti non
metabolizzati o assorbiti nell'aria espirata) •Per intolleranza farmacologica: diagnosi anamnestica
•Per intolleranze da meccanismi non definiti. test di provocazione (somministrazione dell'additivo
sospettato: nitriti, benzoati, solfiti ecc) • Approccio multidisciplinare (allergologo, gastroenterologo,
dietologo)
INTOLLERANZA AL LATTOSIO = La più frequente tra le intolleranze da difetti enzimatici nella
popolazione generale • 3‐5% dei bambini <2 anni di età •Causata dalla mancanza di lattasi (presente
nel latte per la digestione del lattosio in glucosio e galattosio) • Nel periodo dell'allattamento è quasi
sempre secondaria a patologie intestinali e si manifestano con diarrea, flatulenza e dolori
addominali • Nell’adulto è dovuta principalmente al cambiamento delle abitudini alimentari e alla
diminuzione dell'attività lattasica • A volte asintomatica (deficit di grado diverso) • La presenza
della lattasi aumenta in relazione alla quantità di latte consumato.
L’ipolattasia primaria è una condizione estremamente diffusa nella popolazione mondiale, ma con
sostanziali variazioni tra i diversi gruppi etnici; la prevalenza della malattia è minima nelle
popolazioni nord-europee e nei gruppi che da esse discendono, mentre è particolarmente elevata in
Asia, Africa e Australia. Dal punto di vista filogenetico, la “normalità” è rappresentata dalla perdita
dell’espressione della lattasi, definita “non persistenza”. Infatti, nella vita dell’uomo, come del resto
di altri mammiferi, l’alimentazione si basa esclusivamente sul latte materno solo per i primi mesi di
vita. È quindi intuibile come la regolazione dell’espressione del gene della lattasi possa prevedere il
suo progressivo declino nelle successive fasi della vita. Tuttavia, il genotipo che determina la
persistenza dell’attività lattasica, si riscontra solo nelle popolazioni nord-europee, nei loro
discendenti e in alcune tribù nomadi africane e arabe. In Europa, la persistenza o non persistenza
dell’espressione della lattasi è associata al cosiddetto polimorfismo puntiforme C/T13910, cioè alla
sostituzione di una singola base nucleotidica in una sequenza di DNA che svolge attività regolatoria
sul gene della lattasi: il genotipo CC è associato a ipolattasia (la lattasi residua è circa il 10%
rispetto ai livelli della nascita), mentre il genotipo TT a persistenza di attività lattasica. La presenza
di un genotipo CT, invece, predispone alla presenza di livelli di espressione intermedia.
In presenza di ipolattasia si verifica il malassorbimento del lattosio. La quota di lattosio non digerita
e non assorbita dall’intestino tenue raggiunge il colon. Qui viene fermentato dal microbiota con
produzione di acidi grassi a catena corta (butirrato, acetato, propionato), acqua e gas (CO2, H2,
CH4, N2). La conseguente comparsa di sintomi è direttamente dipendente da questo processo: gli
acidi grassi a catena corta, fisiologica fonte di energia per le cellule del colon, se presenti in
concentrazioni eccessive causano dolore sia per acidificazione del contenuto del viscere sia per
effetto irritativo diretto mucosale, che provoca, inoltre, un’ accelerazione dell’attività motoria del
colon e quindi diarrea, per una conseguente minore efficienza dei meccanismi di assorbiment o
dell’acqua; l’eccessivo contenuto fecale in acqua è causato anche dalla sua liberazione durante i
processi di fermentazione dello zucchero; infine, l’eccessiva produzione di gas provoca i cosiddetti
sintomi “gas-relati”, quali il meteorismo, la flatulenza e la distensione addominale che, se eccessiva,
può favorire la comparsa del dolore.
Tale cascata di eventi è identica per qualsiasi forma di zucchero che non venga assorbita
dall’intestino tenue: fruttosio, mannitolo, dolcificanti alimentari, lattulosio, compresa la fibra
alimentare. Non tutti i soggetti con malassorbimento di lattosio, tuttavia, presentano la sindrome da
intolleranza. I motivi per cui ciò accade sono parzialmente chiari. - Quantità di lattasi residua
espressa dalle cellule del tenue. - Quantità di lattosio introdotta con l’alimentazione, in quanto nel
soggetto malassorbente è noto che maggiore è il carico orale, maggiore è il rischio di sviluppare
sintomi. - Composizione del pasto, in quanto in grado di influenzare il tempo di svuotamento
gastrico. - Sensibilità viscerale. - Caratteristiche quali-quantitative del microbiota. - Fattori
psicologici possono influenzare notevolmente il livello di percezione dei sintomi e vanno tenuti in
seria considerazione nella valutazione dei disturbi riferiti dal paziente.
TEST DI LABORATORIO = -1- Analisi del pH fecale: una mancata attività della lattasi provoca un
accumulo del lattosio non metabolizzato a livello del colon dove viene fermentato con produzione
di composti che determinano una acidificazione delle feci. Quindi un pH fecale intorno a 5.5 può
essere considerato come un indicatore della presenza di acido lattico e altri acidi dovuti ad una
ridotta attività lattasica. Normalmente questo test viene eseguito in età pediatrica quando non risulta
possibile l’esecuzione di altri test. -2- Test di tolleranza al lattosio (LTT - Lactose Tolerance Test):
consiste, dopo aver determinato al soggetto in esame una glicemia a digiuno, nel somministrare per
via orale allo stesso paziente 50 g. di lattosio solubilizzati in 200 ml di acqua. Si eseguono poi
piccoli prelievi ematici, ogni 30 minuti per due ore, sui quali si andrà a dosare nuovamente la
glicemia. Se gli incrementi della glicemia non saranno significativi (meno di 20 mg/dl nelle due
ore) il test è considerato positivo in quanto gran parte del lattosio non è stato demolito per assenza o
scarsa attività della lattasi e quindi non è stato prodotto glucosio in quantità sufficiente per un
aumento significativo della glicemia stessa. E’ importante notare che detto test era usato
frequentemente prima della validazione del Breath Test al Lattosio: infatti oggi si preferisce il BT
per la sua elevata specificità/sensibilità e per l’uso di una quantità meno invasiva di lattosio. Breath
Test al Lattosio (LBT - Lactose Breath Test): come già noto è un’indagine che prevede l’analisi
dell’espirato di un soggetto a cui è stata somministrata una certa quantità di lattosio. In caso di
deficit di lattasi gran parte del lattosio arriva indigerito nel colon dove viene fermentato dalla flora
batterica anaerobica con produzione significativa di H2, CH4 e CO2. Questi gas passano nel sangue
e in parte vengono espirati a livello polmonare. I test a disposizione più usati sono H2 Lattosio
Breath Test (H2 LBT) e il 13C Lattosio Breath Test (13C LBT). Per l’H2 LBT, dopo aver fatto
espirare il paziente a digiuno in un opportuno contenitore (base), si somministrano per via orale 20
gr. di lattosio solubilizzati in 200 ml di acqua. Si raccoglie così ogni 30 minuti l’espirato per le 4 ore
successive. Sui campioni di espirato si va poi a misurare l’H2: l’aumento della sua concentrazione
(maggiore di 20 ppm) evidenzia intolleranza al lattosio. Nel caso di 13C LBT al paziente vengono
somministrati sempre per via orale 25 gr. di 13C Lattosio (lattosio arricchito con 13C isotopo non
radioattivo del carbonio). In maniera analoga al H2 LBT vengono raccolti i campioni di espirato per
tre ore: per le prime due ore gli intervalli saranno di 15 min. e di 20 min. nell’ora successiva. Si
passa così all’analisi dell’espirato in cui si andrà a determinare il rapporto 13CO2/12CO2. Come si
intuisce mentre con l’H2 LBT si indaga sul lattosio non metabolizzato a livello del tenue, con il 13C
LBT l’analisi è diretta in quanto fornisce informazioni sul glucosio e galattosio, prodotti dall’attività
lattasica, assorbiti. Durante tutto il periodo del test vengono registrati gli eventuali sintomi
(soprattutto vomito, diarrea e formazione di gas intestinali) presentati dal paziente e registrati sul
referto. Questi test vengono eseguiti al mattino, dopo un digiuno di almeno 8-10 ore avendo cura
della non assunzione di fermenti lattici o lassativi, nella settimana precedente il test, e di antibiotici
nelle 3-4 settimane antecedenti l’indagine stessa. La sera precedente è consigliabile una cena
leggera a base di riso bollito con olio e carne o pesce ai ferri o bollito. Il paziente inoltre non deve
fumare ne fare esercizio fisico intenso per almeno mezz’ora prima e durante il test. Dette avvertenze
se non rispettare possono interferire sul risultato atteso. -4- 13C Lattosio-Ureide Breath Test (13C-
LUBT): questo test è stato proposto per la valutazione non invasiva del Tempo di Transito Oro-
Cecale (TTOC) e consente anche di indagare sulla eventuale contaminazione batterica del tenue. La
lattosio-Ureide non viene metabolizzata nel piccolo intestino, ma viene rapidamente fermentata dai
batteri a livello del colon con produzione di 13CO2 che compare poi nel respiro e il cui tempo del
suo rilevamento corrisponde al TTOC. -5- Analisi Genetica Polimorfismi gene LCT: con questo test
si indaga sulla Intolleranza primaria al lattosio (PLI – Primary Lactose Intolerance) studiando la
struttura del gene LCT che codifica per la lattasi. A tale scopo, normalmente vengono utilizzati test
diagnostici basati sull’utilizzo di PCR (Polymerase Chain reaction) e sequenziamento, metodi in
grado si valutare la presenza di delezioni, variazioni di triplette o di singolo nucleotide a livello
genomico. Due sono i polimorfismi legati all’insorgenza di ipolattasia e quindi diminuzione
nell’espressione della lattasi: T/C-13910 (transizione nucleotidica con timina sostituita dalla
citosina) e A/G 22018 con sostituzione Adenina/Guanina. E’ bene chiarire che il BT al lattosio oltre
a valutare un eventuale malassorbimento ci dà indicazioni anche sulla intolleranza ossia i sintomi
eventualmente riferiti, durante il test dopo assunzione del lattosio. Il test genetico ci dice solo se il
paziente ha una predisposizione al malassorbimento del lattosio indicandoci se il paziente farà o non
farà una riduzione dell'attività lattasica, ma non dice quando questo avverrà; in pratica fornisce
informazioni solo su una eventuale predisposizione.
DIAGNOSI = FAMILIARITA’, DOSAGGIO ATTIVITA ENZIMATICA DELLA G6PD
MEDIANTE TEST DI RIDUZIONE DEL NADP+ E NADPH (<30%) E TEST DI RIDUZIONE
DELLA METEMOGLOBINA DOPO ESPOSIZIONE DELL’ERITROCITA AL BLU METILENE,
DIAGNOSI DIFFERENZIALE (SIBO) = • Caratterizzata da livelli eccessivi di flora batterica nel
tenue • Sintomi: dolore, meteorismo, diarrea, eventuali segni di malassorbimento che scompaiono
con l’eradicazione. A volte sintomi simili a sindrome dell'intestino irritabile • Fattori predisponenti:
alterazioni anatomiche o della motilità intestinale • Diagnosi non invasiva con Breath Test al
glucosio • Talvolta complicata da malassorbimento • Trattamento: eradicazione con antibiotici (in
genere rifamixina) e successiva nuova colonizzazione con probiotici • Interferenza con Breath Test
al lattosio
Il lattosio può causare un peggioramento dei sintomi gastrointestinali. Preferire il latte ed i derivati
ad alta digeribilità. Lo yogurt e i formaggi stagionati contengono ridotte quantità di lattosio.
Consigliabile consumare in quantità moderata i formaggi (2-3 volte alla settimana).
DIETE AD ALTO CONTENUTO DI ANTIOSSIDANTI = Diversi studi hanno dimostrato che i
radicali superossidi inducono una alterazione dei nocicettori attraverso una sensibilizzazione del
sistema nervoso centrale e periferico e sono implicati nell’attivazione di diverse citochine come
TNF-alfa, IL-1 beta coinvolte nel dolore mediato dall’infiammazione. • Ridurre lo stress ossidativo
con molecole ad azione antiossidante potrebbe offrire una soluzione al dolore cronico di questi
pazienti. • Gli studi con dieta vegetariana e vegana sono stati effettuati su un ridotto campione di
pazienti pertanto suscettibili di ulteriori approfondimenti scientifici.
Tra le varie diete testate negli ultimi anni c'è la excitotoxin elimination diet. • Diversi autori hanno
ipotizzato che l’esclusione del glutammato, in forma libera come in forma combinata, insieme
all’esclusione dell’aspartame, (-> regolazione del recettore NMDA) possa ridurre la sintomatologia
dolorosa della fibromialgia. Vellisca et al., nel 2014, non hanno dimostrato questa diretta
correlazione e questo settore risulta ancora ambito di studio. • Gli alimenti in cui si fa largo uso di
glutammato monosodico sono dadi da brodo, carne e verdure in scatola, salumi, prodotti congelati e
liofilizzati ed alcuni piatti pronti. Spesso l’utilizzo di questo additivo viene mascherato dalle sigle
che vanno da E620 a E625. Una attenta lettura delle etichette ci può aiutare in questo senso.
DIETA GLUTEN FREE = È ben noto che i pazienti affetti da FM hanno spesso sintomi
gastrointestinali; in particolare in letteratura è nota la correlazione tra FM e sindrome del colon
irritabile (IBS), inoltre sempre più pazienti che soffrono di celiachia o di gluten sensivity sono
diagnosticati per FM. • Il suo utilizzo nei pazienti francamente celiaci con FM sembra migliori la
sintomatologia ed il pattern infiammatorio di entrambe le patologie.
L’ABUSO DI LIEVITI ESPONE AL RISCHIO DI CANDIDOSI, CORREGGERE I FATTORI
PREDISPONENTI = ABUSO DI ANTIBIOTICI, ALCOLISMO E IMMUNODEFICENZE.
INTOLLERANZE DA SOSTANZE FARMACOLOGICAMENTE ATTIVE = Sono determinate
dall'effetto farmacologico di sostanze contenute in alcuni alimenti, quali l'istamina (vino, spinaci,
pomodori, alimenti in scatola, sardine, filetti d'acciuga, formaggi stagionati), la tiramina (formaggi
stagionati, vino, birra, lievito di birra, aringa), la caffeina, l'alcool, la solanina (patate), la
teobromina (tè, cioccolato), la triptamina (pomodori, prugne), la feniletilamina (cioccolato), la
serotonina (banane, pomodori). •Mirtilli, albicocche, banane, mele, prugne, patate, piselli, possono
contenere sostanze con un'azione simile a quelle dell'acido acetilsalicilico e quindi essere
responsabili di reazioni pseudo-allergiche. La loro effettiva importanza clinica è probabilmente
sovrastimata.
Disordini funzionali gastrointestinali (FGIDs) legati a fattori dietetici = Sostanze bioattive come
salicilati, glutamati ed amine sembra possano determinare una attivazione diretta, non
immunomediata, dei mastociti, con liberazione di cisteinil leucotrieni ad azione vasodilatatoria e
stimolanti il muscolo liscio (responsabili di anafilassi, asma, orticaria) • E’ ipotizzabile che la
stimolazione/overespressione dei canali TRP sui neuroni del sistema nervoso periferico enterico
determini sintomi gastrointestinali quali diarrea, vomito, meteorismo, addominalgie, ipersensibilità
luminale • Diete a basso contenuto di salicilati non sembrano ad oggi aver dato risposte cliniche
soddisfacenti, per la difficoltà di standardizzazione.
Le intolleranze da meccanismi non definiti riguardano reazioni avverse provocate da additivi quali
nitriti, benzoati, solfiti, per i quali non è stato ancora possibile dimostrare scientificamente un
meccanismo immunologico • La loro effettiva importanza clinica va attentamente valutata, con
diete di esclusione e reintroduzione, prima della prescrizione di una dieta definitiva di eliminazione
SINDROME SGOMBROIDE = Reazione avversa ad alimenti di tipo tossico • Manifestazioni in
parte sovrapponibili all’allergia e in parte all’intolleranza (orticaria o sintomi gastrointestinali) •
Dovuta a esposizione eccessiva ad amine biogene (soprattutto istamina) che, favorite dal
metabolismo batterico, si liberano in grandi quantità durante il processo di putrefazione del pesce,
in particolare sgombro e tonno non adeguatamente conservato • Nessun meccanismo allergico o
immunologico. La sindrome sgombroide, ribattezzata più semplicemente "mal di sushi", è una
patologia che si manifesta con sintomi molto simili a quelli di un'allergia alimentare: arrossamenti,
prurito, orticaria, mal di testa, ma anche vomito e diarrea, fino a difficoltà respiratorie. Il principale
responsabile è l'elevato contenuto di istamina nelle carni di pesce mal conservato o conservato a
temperature superiori a quelle di refrigerazione: in queste condizioni infatti, i microorganismi
presenti nelle carni (per lo più Morganelle e Klebsielle), responsabili di innescare i processi di
deterioramento, favoriscono la decarbossilazione dell'istidina libera con formazione di istamina e
altre amine biogene tossiche, che ne potenziano l'azione. Va detto che la reazione dipende dalla
sensibilità dell'individuo all'istamina (che è un mediatore già presente nel nostro organismo) e dal
consumo concomitante di altri alimenti che ne possono contenere, anch'essi, alti livelli (formaggi
stagionati, insaccati e carni in scatola). Tonni, sardine, sgombri e aringhe sono i pesci che
presentano nel muscolo il maggior contenuto di istidina libera e che infatti sono maggiormente
coinvolti nei casi di intossicazione. Meno preoccupanti, da questo punto di vista, sono i crostacei, i
molluschi e il pesce bianco. La conservazione del pesce a temperature fra 6 e 20°C, unita a scarsa
igiene o contaminazione batterica incrociata nelle fasi di preparazione, favorisce la formazione
dell'amina tossica, mentre a temperature inferiori a 6°C la sintesi batterica si arresta. Da notare che
livelli di istamina nelle carni in grado di scatenare reazioni avverse (fra i 10 e i 100mg/100g), non
sempre sono accompagnati da sapori e odori sgradevoli: alle temperature di conservazione che
favoriscono la produzione di istamina, infatti, è minore la produzione di ammoniaca, l'indicatore
principale di freschezza di un pesce che dà importanti informazioni sulla qualità e sulla bontà delle
modalità di conservazione che ha subito fino al consumo
TEST COMPLEMENTARI E ALTERNATIVI = Si tratta di metodiche che, sottoposte a valutazione
clinica attraverso studi controllati, si sono dimostrate prive di credibilità scientifica e validità
clinica. Pertanto non sono assolutamente da prescrivere. Peraltro è sempre più frequente il ricorso,
da parte dei pazienti a test "alternativi" che si propongono di identificare i cibi responsabili di
allergie o "intolleranze" alimentari. Purtroppo il termine intolleranza è sempre più interpretato in
senso generico, fino anche a indicar e un'avversione psicologica nei confronti di questo o quel cibo.
Si osserva inoltre una sovrastima, con attribuzione ad allergie o intolleranze allergica di svariate
condizioni (emicrania, colon irritabile, orticaria cronica, sindrome della fatica cronica, sindrome
ipercinetica del bambino, artriti sieronegative, otite sierosa, malattia di Crohn), anche senza prove
in proposito.
TEST IN VIVO = Test di provocazione‐neutralizzazione intradermico E’ una tecnica sia diagnostica
che terapeutica. Si basa sulla somministrazione per via sottocutanea dell'allergene o di altre sostanze
e sulla successiva osservazione del paziente per 10-12' per valutare la comparsa di qualsiasi
sintomatologia, anche aspecifica. Non ci sono limiti circa numero, gravità e tipologia di sintomi
provocati. Differisce dal test di provocazione specifico con allergene, in cui vengono di norma
testati allergeni singoli, a dosaggi crescenti e sempre compatibilmente con la storia clinica del
paziente, monitorando la comparsa di sintomi ben precisi e valutabili con indagini strumentali (es.
rinomanometria, spirometria…) ben oggettivabili. Si tratta di un test solo descrittiva la cui efficacia
viene supportata da case report. Non è da trascurare è la sua potenziale pericolosità del test
(riportato episodio di anafilassi in un paziente con mastocitosi).
Test di provocazione‐neutralizzazione sublinguale = Consiste nel porre a livello sublinguale 3 gocce
di un estratto allergenico acquoso o glicerinato (1/100 peso/volume) e nella valutazione di eventuali
reazioni che compaiono entro un tempo massimo di 10'. Quando l'esaminatore ritiene di essere in
presenza di una risposta positiva, somministra al paziente una dose di neutralizzazione di una
soluzione diluita (1/300.000 peso/volume) dello stesso estratto per verificare la regressione della
sintomatologia con un tempo di latenza analogo. Il Food Allergy Committee dell'American College
of Allergists ha valutato questo test giungendo alla conclusione che non è in grado di discriminare
l'estratto alimentare dal placebo, e ne ha quindi sconsigliato l’utilizzo. In Italia si è sviluppato un
test che si ispira sia a questa metodica sia alla kinesiologia applicata chiamato DRIA-test e proposto
dall'Associazione di Ricerca Intolleranze Alimentari in cui la somministrazione sublinguale
dell'allergene è seguita da una valutazione della forza muscolare per mezzo di un ergometro
(positività in presenza di riduzione della forza muscolare dopo 4’).
Kinesiologia applicata = Utilizzata soprattutto da chiropratici, si basa su una misurazione soggettiva
della forza muscolare. Il paziente tiene con una mano una bottiglia di vetro che contiene l'alimento
da testare, mentre con l'altra mano spinge contro la mano dell'esaminatore. La percezione da parte
di quest'ultimo di una riduzione della forza muscolare indica una risposta positiva e pertanto
un'allergia o intolleranza nei confronti dell'estratto contenuto nel recipiente. Alternativamente la
bottiglia può essere posta sul torace del paziente o vicino allo stesso, senza tuttavia che avvenga un
contatto diretto fra l'estratto di cibo e il soggetto da esaminare.
Test elettrodermici (EAV elettro agopuntura secondo Voll): Vega test, Sarm test, Biostrenght test e
varianti Questo tipo di diagnostica è utilizzata da alcuni decenni in Europa e più limitatamente
anche negli Stati Uniti. Si è sviluppata a partire dalle osservazioni dell'elettroagopuntura secondo
Voll sulle variazioni del potenziale elettrico in relazione al contatto con alimenti "non tollerati" o
"nocivi". Esistono molti tipi di apparecchiature, in tutte l'organismo viene a trovarsi in un circuito
attraverso il quale sono fatte passare deboli correnti elettriche (dell'ordine di circa 0.1 V, 7-15 mA,
7- 10 Hz) oppure specifici stimoli elettromagnetici ed elettronici. L'uso di apparecchi
apparentemente sofisticati fa nascere nel paziente l'opinione che tale diagnostica sia sorretta da
un’avanzata tecnologia, tuttavia non è mai stato dimostrato che una reazione allergica modifichi il
potenziale elettrico cutaneo.
BIORISONANZA = Si basa sulla convinzione che l'essere umano emetta onde elettromagnetiche
che possono essere buone o cattive. Per la terapia si usa un apparecchio che è considerato in grado
di filtrare le onde emesse dall'organismo e rimandarle "riabilitate" al paziente. Onde patologiche
vengono rimosse con questo processo e in questo modo può essere trattata una malattia allergica.
Sfortunatamente è stato dimostrato che l'apparecchio in commercio non è in grado di misurare il
tipo di onda elettromagnetica coinvolta.
TEST IN VITRO = Poiché molti pazienti ritengono che i loro disturbi siano legati all’assunzione di
determinati alimenti, che spesso non riconoscono, i test in vitro di rapida esecuzione rappresentano
un mercato in continua espansione, e vengono offerti al pubblico sotto nomi diversi e molto
accattivanti, sia nelle farmacie che in laboratori privati o a volte anche convenzionati. La diffusione
di tali metodiche è affidata a riviste non scientifiche, internet, a volte anche altri media; il prezzo
oscilla da 70/80 fino a 150/200 euro. Il fatto di essere un esame “ sul sangue” genera nell’utente la
convinzione di aver effettuato un esame diagnostico di alta affidabilità e riproducibilità. Due sono le
metodiche che vengono di solito utilizzate: il test di citotossicità e la ricerca di IgG4 specifiche.
TEST CITOTOSSICO = Proposto per la prima volta nel 1956, prima della scoperta delle IgE, si
basa sul principio che l'aggiunta in vitro di uno specifico allergene al sangue intero o a sospensioni
leucocitarie comporti una serie di modificazioni morfologiche nelle cellule fino alla loro citolisi.
Nel test viene fornita una scala semiquantitativa che ha nella lisi cellulare l'alterazione più
significativa. In tempi più recenti è stata anche proposta una versione automatizzata del test, che si
basa sul principio dei coulter‐counter (ALCAT). In numerosi studi successivi, è stata dimostrata la
non riproducibilità del test, che non riesce a discriminare i pazienti effettivamente allergici dai
negativi o risultati diversi nello stesso paziente in momenti diversi. Sia il test per lisi cellulare
aspecifica, sia la metodica successiva automatizzata non sono affidabili. In qeusto senso si è
pronunciata anche l'American Academy of Allergy.
Dosaggio delle IgG 4 = Tale metodica, di facile accesso in farmacie o laboratori di analisi, è
attualmente un esame molto praticato. In realtà numerosi studi scientifici hanno chiaramente
dimostrato che non è un test affidabile in quanto non distingue i soggetti con allergia vera IgE
mediata, con conseguente grave rischio di reazione qualora non siano individuati correttamente i
cibi responsabili. D’altra parte, positività di tipo IgG4 verso allergeni alimentari sono state di
comune riscontro in sieri di pazienti, senza una correlazione con la storia clinica. Il riscontro di
IgG4 positive per un alimento indicano una normale risposta del sistema immunitario ad una
prolungata esposizione ad allergeni alimentari. Alla luce di tali dati, le principali Società
Scientifiche di Allergologia e Immunologia Clinica (EEACI, AAAI, CSACI) sono concordi
nell’affermare che il dosaggio non ha un ruolo nella diagnostica delle allergie alimentari.
L’obesità è una patologia cronica ad etiopatogenesi complessa, per la quale attualmente non esiste
una strategia monodirezionale efficace, soprattutto nel lungo termine (1). La progressiva diffusione
di sovrappeso e obesità e l’assenza di una strategia di trattamento efficace, specie nel lungo termine,
hanno costituito terreno fertile per il proliferare di modelli terapeutici, più o meno ortodossi,
proposti da figure professionali molto eterogenee per formazione e competenza, oppure addirittura
da professionisti “improvvisati” (1). Da diversi anni esiste inoltre un ricchissimo mercato per la
produzione di prodotti, strumenti, strategie, programmi e qualsiasi altro mezzo che possa essere
impiegato per la perdita di peso, indipendentemente dal rapporto costo-beneficio che si riflette sul
consumatore, definito dalle Linee Guida Italiane Obesità (LIGIO99) con il termine di “diet-
industry”, che ha l’unico scopo di permettere un facile guadagno sfruttando il bisogno dei soggetti
che vogliono o devono perdere peso, la loro intenzionalità, la loro mancanza di consapevolezza e di
preparazione. Non ultimo, si trova sul mercato tutta una serie di settimanali dedicati al problema del
calo ponderale con tutta una serie di diete squilibrate e consigli che non sono affatto basati su dati
scientifici. Tutto questo mercato è aperto in particolare modo alle ciarlatanerie, alle stupidità, alle
frodi, ai falsi ideologici e alle mistificazioni. Nel complesso scenario della “diet-industry” è
possibile far convergere il cosiddetto fenomeno delle “popular diets”, definibili come “diete alla
moda”, che godono di un successo mediatico, nella gran parte dei casi temporaneo, in virtù non solo
di presunti e vantati benefici, ai limiti del miracolistico, ma anche di testimonial di successo, come
star dello spettacolo, dello sport, etc. Diverse revisioni sistematiche della letteratura (2) hannomesso
a confronto le più famose “Popular diets” (a basso contenuto di carboidrati, a basso contenuto di
grassi, a basso indice glicemico, Atkins, etc.) sottolineando che nessuna di loro può essere
considerata, in assoluto, un modello alimentare equilibrato, adeguato nutrizionalmente e sostenibile
nel lungo termine. Inoltre, ognuna di esse presenta pro e contro che vanno opportunamente valutati
in quanto non esistono studi rigorosi e a lungo termine che possano confrontare gli effetti di queste
diete (3). In tale contesto il disorientamento da parte della popolazione appare scontato e le possibili
ricadute negative, specie di tipo clinico e psicologico per trattamenti condottimale, sono tutt’altro
che trascurabili(1). Tra le tematiche molto attuali e sentite nella popolazione generale, sulle quali si
è creata una enorme confusione, vi è quella del sovrappeso/obesità quale conseguenza di una
presunta condizione di allergia o intolleranza alimentare e delle diete di esclusione quali terapia per
la riduzione delpeso. Negli ultimi anni si è, infatti, assistito ad una enorme diffusione, soprattutto
alivello mediatico (web e social network), di regimi alimentari restrittivi basati su test diagnostici di
“intolleranza alimentare” eseguiti sulle più differenti matrici biologiche (sangue, saliva, capelli),
quali soluzioni salvifiche e detossificanti perl’organismo.
Basti considerare che, da una semplice indagine con il motore di ricerca Google, i risultati che si
ottengono digitando i termini “sovrappeso e intolleranze alimentari” sono 94.600 in 0,47 secondi.
Ad onor del vero è importante specificare che la quasi totalità dei siti internet, dei blog e delle
pagine social dedicati all’argomento afferisce all’area delle co- siddette medicine non
convenzionali, così come a singoli professionisti o riviste che non hanno rilievo nell’ambito del
panorama scientifico nazionale ed internazionale. Inoltre, non è possibile trovare in rete né
attraverso i più accreditati motori di ricerca scientifici rassegne, articoli o studi clinici che trattino
l’argomento secondo i classici canoni della medicina basata sull’evidenza. I pochi studi scientifici
disponibili sul legame tra intolleranza alimentare e sovrappeso/obesità si basano, inoltre,
sull’utilizzo di metodologie diagnostiche non riconosciute dall’evidenza scientifica oppure su
ipotesi dubbie, quale ad esempio quello che l’infiammazione, che pure è una componente
fisiopatologica descritta nel contesto delle altera- zioni metaboliche indotte dall’obesità, sia il
meccanismo scatenante dell’obesità stessa (4). Non esistono, infatti, evidenze di letteratura di buona
qualità che supportino l’utilizzo di questi test per diagnosticare reazioni avverse agli alimenti o per
predire eventuali future reazioni, ciò nonostante il fenomeno sta assumendo dimensioni
preoccupanti. Pur non avendo a disposizione stime della percentuale di popolazione che si rivolge a
differenti professionisti per effettuare test di intolleranza alimentare al fine di ottenere una riduzione
di peso, basti osservare che, già nel 2012, la Società di Allergia ed Immunologia Clinica Canadese
(5) ha pubblicato un position statement sull’utilizzo di test per il dosaggio di IgG alimenti-
specifiche. Tale documento sottolinea come il mercato di questi test, proposti quali semplici modi
per identificare “sensibilità agli alimenti”, intolleranze o allergie alimentari, che in passato era
limitato ad un contesto di medicina non convenzionale o alternativa, si stia pericolosamente
estendendo non solo ai più disparati professionisti della salute (medici e non medici), ma anche a
canali di acquisto diretto da parte della popolazione. Scopo di questa rassegna è dunque quello di
effettuare un’analisi del razionale e della documentazione scientifica alla base di questo fenomeno,
valutando l’evidenza disponibile sulle tematiche relative ad allergie/intolleranze alimentari e
sovrappeso/obesità, per fornire al mondo scientifico e professionale un riferimento condiviso su
questo problema di forte impatto sulla salute della popolazione. Il documento analizza lo stato
dell’arte riguardo all’associazione tra allergie ed intolleranze alimentari e sovrappeso/obesità,
individuando i percorsi diagnostici accreditati dal punto di vista scientifico ed i relativi interventi
terapeutici.
Le allergie ed intolleranze alimentari sono meglio definite come reazioni avverse agli alimenti,
ovvero manifestazioni cliniche indesiderate ed impreviste relative all’assunzione di un alimento. Le
reazioni avverse agli alimenti (fig. 1) possono essere classificate in: • Tossiche: contaminazione
batterica (es. sindrome sgombroide), contaminazione da tossine, contaminazione da sostanze
chimiche di sintesi. • Non tossiche (da ipersensibilità): - reazioni immunomediate • IgE mediate
(allergie alimentari); • miste (IgE /cellulo mediate) es. gastroenteropatie eosinofile; • non IgE
mediate (enterocolite da proteine alimentari, celiachia, sindrome sistemica da nichel); - reazioni non
immunomediate (intolleranze alimentari).
Le allergie alimentari sono definite come reazioni avverse derivanti da una specifica risposta
immunitaria riproducibile alla riesposizione ad undeterminato cibo (6). Le allergie
alimentariincludono: •reazioni IgE-mediateo reazioni di ipersensibilità immediata (reazioni di tipo
Isecondo Gell eCoombs); •reazioni non IgE-mediateo reazioni di ipersensibilità ritardata (reazioni
di tipo IVsecondo Gell e Coombs); •reazionimiste, IgE-e non IgE-mediate. I diversi meccanismi
immunologici alla base delle allergie alimentari determinano un polimorfismo clinico. Infatti, le
allergie IgE-mediate sono tipicamente ad esordio acuto dopo il challenge con l’alimento, le reazioni
cellulo-mediate, invece, hanno un esordio ritardato; le reazioni miste IgE-mediate/cellulo-mediate,
infine, sono ad esordio immediato o ritardato. Le reazioni allergiche si manifestano in seguito
all’assunzione per via orale dell’alimento verso il quale il soggetto è sensibilizzato, ma possono
manifestarsi anche in seguito al contatto cutaneo o all’inalazione dell’odore dell’alimento. L’allergia
IgE mediata (tipo I) è l’unica veramente pericolosa per la vita; essa implica una prima fase di
sensibilizzazione, quando l’organismo viene a contatto con l’allergene e non riconoscendolo come
appartenente a sé, lo etichetta come pericoloso e inizia a produrre anticorpi specifici di classe E
(IgE). Così, ogni volta che l’organismo entrerà in contatto con l’antigene verso cui è sensibilizzato,
si scatenerà rapidamente una reazione allergica che, in casi estre- mi, può causare uno shock
anafilattico. È importante ricordare che la sensibilizzazione ad un alimento non vuol dire allergia e i
fattori che determinano concrete manifestazioni cliniche in soggetti sensibilizzati sono complessi e
relativi sia al soggetto (ad esempio livello di IgE e reattività d’organo) sia all’allergene (ad esempio
digeribilità, labilità e concentrazione) (6). Epidemiologia Secondo dati epidemiologici le allergie
alimentari (AA) interessano il 5%dei bambini di età inferiore a tre anni e circa il 4% della
popolazione adulta (7). Nella popolazione generale il concetto di “allergia alimentare” risulta molto
più diffuso (circa il 20%della popolazione ritiene di essere affetta da allergie alimentari). Per quanto
riguarda l’età pediatrica, è stato recentemente osservato un significativo incremento della
prevalenza in questa fascia di età, in generale più interessata rispetto a quella adulta da allergopatie.
Le allergie alimentari “percepite”, tuttavia, non sono sempre reali: i dati di autovalutazione, che
riportano un’incidenza compresa tra il 12,4% e il 25%, sarebbero confermati dal Test di
Provocazione Orale (TPO) solo nell’1,5-3,5% dei casi. Dal momento che pochi studi
epidemiologici hanno utilizzato il gold standard diagnostico, ossia il TPO in doppio cieco contro
placebo, sono necessarie ulteriori ricerche per una più accurata determinazione della prevalenza e
dell’incidenza dell’AA nella popolazione pediatrica. Parlando di ambito pediatrico è importante
ricordare, inoltre, che l’allergia alimentare rappresenta il primo gradino della marcia allergica e
svilupparla entro i primi 24mesi di vita significa avere la massima probabilità per i bambini di
diventare asmatici intorno ai 7 anni(8). Le allergie alimentari possono manifestarsi con sintomi
immediati o ritardati. Nel primo caso i sintomi insorgono da pochi minuti a poche ore (in genere,
massimo due ore) dall’ingestione dell’alimento offending; nel secondo caso intercorrono almeno
due ore (eccezionalmente prima) tra l’ingestione dell’alimento e la comparsa della sintomatologia.
L’espressione clinica può variare sensibilmente da grado lieve fino a forme severe (anafilassi) e
coinvolgere più organi (cute, apparati gastrointestinale, respiratorio e cardio-circolatorio). Inetà
pediatrica l’allergia alimentare più frequente è l’allergia alle proteine del latte vaccino (APLV), con
una prevalenza del 1,9-4,9%. Esordisce quasi sempre nel primo anno di vita, in genere più
precocemente nel lattante alimentato con formula, rispetto all’allattato al seno. L’acquisizione della
tolleranza, cioè la remissione di sintomi, si verifica nel 40-50% dei casi entro il primo anno vita e
nell’85-90% dei casi entro il terzo anno di vita. Lo spettro di manifestazioni cliniche dell’APLV è
molto ampio e comprende sintomi gastrointestinali (reflusso gastro esofageo, coliche, stipsi, diarrea,
vomito) nel 32-60% dei casi, manifestazioni cutanee (dermatite e meno frequentemente orticaria)
nel 5-9% dei casi; meno comuni sono i sintomi respiratori. L’anafilassi si verifica nello 0,8-9%
deicasi. I meccanismi immunologici implicati sono sia di tipo IgE mediato che di tipo cellulo-
mediato. I principali allergeni presenti nel latte vaccino sono l’alfa-latto albumina, la beta-
lattoglobulina e la caseina. Tali molecole presentano un’alta omologia di struttura con proteine
contenute nel latte di altri mammiferi, in particolare ovini (capra e pecora). Minore analogia di
struttura è invece riscontrabile nel latte di equini (cavalla e asina) e di cammella; questi latti sono,
pertanto, più comunemente tollerati dai pazienti con APLV, sebbene la tolleranza vada comunque
verificata caso per caso. Non è ancora chiaramente definito il grado di tolleranza del latte vaccino
contenuto in alimenti cotti al forno ad elevate temperature (oltre 150°)e per lungo tempo (oltre
30minuti), come ad esempio i prodotti da forno o i dolci. La diagnosi si basa sulla storia clinica,
l’eventuale utilizzo di test allergologici (in vivo ed in vitro), la dieta di esclusione edil TPO, che è il
test gold standard. Illattante che esegue dieta di esclusione delle proteine del latte vaccino dovrebbe
assumere, come alternativa, formule speciali dedicate rappresentate dalle formule a base di proteine
di latte vaccino estesamente idrolisate, formule a base di soia, formule a base di idrolisati di soia e
riso e miscele aminoacidiche. In caso di lattanti allattati al seno, la madre deve optare per una dieta
priva di latte e derivati associata ad adeguata supplementazione di calcio. Il latte di altri mammiferi
o bevande a base di soia o riso non rappresentano un’alternativa nutrizionalmente adeguata al latte
vaccino(9). Per quanto riguarda le allergie alimentari, itest diagnostici disponibili sono: • prove
allergologiche cutanee (prick test, prick byprick, patch test); • test sierologici per la ricerca di
IgEtotali (PRIST)e specifiche (mediante ImmunoCAP oRAST); • diagnosticamolecolare; • Test di
Provocazione Orale (TPO)in doppio cieco controplacebo. Il prick test per la diagnosi di allergie
alimentari è un test sensibile e specifico, relativamente semplice nella sua esecuzione, di basso
costo ed a lettura immediata; si effettua utilizzando estratti allergenici purificati del commercio
(prick test) oppure con alimenti freschi, in particolare del mondo vegetale (prick by prick o prick to
prick). Quest’ultimametodica consente di testare alimenti che, individualmente, sono considerati
possibile causa di disturbi e che non sono disponibili in commercio come estratti, ma anche per
poter testare molecole altrimenti alterate dalle procedure di estrazione. I test sierologici supportano
il sospetto di reazione IgE mediata agli alimenti, ma non sono decisivi per l’esclusione di un
alimento dalla dieta, né risultano più sensibili o specifici dei test cutanei. Tali test devono essere
utilizzati come prima indagine in caso di dermatiti estese, di trattamento cronico con antistaminico,
situazioni che rendonoi test cutanei noneseguibili. È importante sottolineare che in presenza di una
storia clinica suggestiva la negatività degli Skin Prick Test (SPT) e/o delle IgE specifiche deve
essere interpretata anche considerando la possibilità di un’allergia alimentare non IgE-me- diata. Gli
estratti allergenici, ma anche gli alimenti freschi, utilizzati nell’ambito dei test sopra citati sono per
la gran parte miscele di più proteine allergeniche. Questo è la causa potenziale di una certa
variabilità di concentrazione delle sin- gole proteine allergeniche da un lotto all’altro; inoltre,
comporta il fatto che la positività di un test con estratti (o con un alimento fresco) non indica quale
proteina presente nella fonte allergenica sia responsabile della sensibilizzazione. In altre parole, un
test negativo con un buon estratto o con un alimento fresco esclude la sensibilizzazione a quella
fonte allergenica, mentre un test positivo ci dice che il paziente è sensibilizzato, ma non fornisce
indicazione su quale sia l’allergene. Questo può costituire un grande problema nel campo delle
allergie alimentari. L’avvento delle nanotecnologie e della biologia molecolare ha portato
all’identificazione, sequenziazione, caratterizzazione e clonazione di un gran numero di molecole
allergeniche e delle loro isoforme. Queste ultime possono essere utilizzate al fine di individuare la
risposta IgE mediata verso componenti singoli degli alimenti (es. profilina, LTP), distinguere fra le
sensibilizzazioni “vere” (a rischio maggiore di reazioni avverse importanti) e co-sensibilizzazioni (a
rischio minore di reazioni importanti, come la sindrome orale allergica) ed indicare, quindi, il
livello di rischio verso reazioni più o meno gravi per il singolo paziente. E’ possibile valutare il
livello di IgE specifiche verso componenti molecolari con caratteristiche diverse di resistenza al
calore, alla digestione peptica ed alla lavorazione industriale ed indirizzare il paziente verso
l’esclusione dell’alimento oppure indicarela possibilità di assumerlo con certe precauzioni (cottura,
lavorazione industriale, privo della buccia etc.), sempre considerando le relazioni con idati clinici.
Si ribadisce l’importanza di valorizzare il risultato di tali test solo se inserito in un contesto globale
e se compatibile con i dati che emergono dalla storia clinica e dall’esame clinico approfondito. In
presenza di una storia clinica suggestiva, infatti, la negatività degli SPT e/o delle IgE specifiche
deve essere interpretata anche considerando la possibilità di un’allergia alimentare nonIgE-mediata.
Quandola storia clinica è suggestiva e il quadro clinico appare grave (anafilassi) o certamente
correlato alla ingestione di un alimento (ad esempio comparsa immediata dopo ingestione di un
singolo alimento) e la dieta di eliminazione porta alla regressione del quadro clinico, il riscontro di
una sensibilizzazione allergica verso quell’alimento viene ritenuto sufficiente alla diagnosi. In tutti
gli altri casi, dato che la sensibilità e la specificità dei test allergologici non è assoluta, per avere
unamaggiore certezza diagnostica è necessario ricorrere all’esecuzione di un test di provocazione
orale nei confronti dell’alimento sospettato. In questi casi la dieta di eliminazione diagnostica deve
essere impostata sulla base della storia clinica e dei risultati dei test allergologici (SPT e/o ricerca
delle IgE specifiche) e l’effetto della dieta deve essere valutato attentamente per 2-4 settimane. Se la
dieta di eliminazione diagnostica determina una significativa riduzione dei sintomi, deve essere
protratta fino all’eventuale esecuzione del test di provocazione orale. Al contrario, se la dieta di
eliminazione diagnostica non porta ad una significativa riduzione dei sintomi è improbabile che
l’alimento eliminato sia responsabile di un’allergia alimentare(8).
Le intolleranze alimentari consistono in reazioni indesiderate ed improvvise scatenate
dall’ingestione di uno o più alimenti, con sintomi molto simili alle allergie alimentari, caratterizzate
da meccanismi non immunomediati e dose dipendenti. Esse devono, pertanto, essere distinte dalle
allergie alimentari, definite come reazioni avverse derivanti da una specifica risposta immunitaria
riproducibile alla riesposizione ad undeterminato cibo(6). Le intolleranze alimentariincludono: •
reazioni enzimatiche, determinate cioè dalla carenza o dalla assenza di enzimi necessari a
metabolizzare alcuni substrati (ad es. l’intolleranza al lattosio, favismo); • reazioni farmacologiche,
ossia risposte a componenti alimentari farmacologicamente attivi, come le ammine vasoattive (ad
es. tiramina, istamina e caffeina) contenute in pesce, cioccolato e prodotti fermentati, oppure le
sostanze aggiunte agli alimenti, (ad es. coloranti, additivi, conservantiaromi); • reazioni indefinite,
ossia risposte su base psicologica o neurologica (ad es. “food aversion” o rinorrea causata da spezie)
(6). Spesso sono associate a condizioni cliniche diverse, in particolare patologie legate al distretto
gastrointestinale (IBS, gastrite, reflusso gastroesofageo, litiasi della colecisti). Epidemiologia Per
l’epidemiologia delle intolleranze è difficile avere una stima precisa, dato che sono tante e diverse
le reazioni avverse all’ingestione di cibo che si possono considerare intolleranze e la diagnosi può
essere difficoltosa per la man- canza di metodi diagnostici standardizzati evalidi. Manifestazioni
cliniche Le intolleranze alimentari si manifestano con sintomi e segni prevalentemente localizzati a
carico dell’apparato gastrointestinale e consistono in gonfiore addominale, alterazione dell’alvo,
dispepsia, dolori addominali, vomito; possono essere coinvolte anche la cute e le mucose con
comparsa di rush eritematoso, prurito, orticaria. Meno frequentemente possono essere presenti
difficoltà respiratoria, alterazioni pressorie, sincope e cefalea; tali sintomi, manifestandosi con
minore frequenza risultano meno attribuibili alla sintomatologia dell’intolleranza alimentare. In
generale, le manifestazioni cliniche di intolleranza alimentare sono meno gravi rispetto a quelle
tipiche delle allergie alimentari. A differenza dei soggetti allergici, che devono condurre una rigida
dieta di eliminazione dell’alimento verso il quale sono sensibilizzati, i soggetti intolleranti possono
assumere piccole quantità dell’alimento, senza sviluppare alcun sintomo (8).
Il deficit di lattasi può essere primario o secondario. Nel primo casodistinguiamo: • deficit
congenito, a trasmissione autosomica recessiva, presente fin dalla nascita, caratterizzato da diarrea
grave ed intrattabile, disidratazione e squilibrio idro-elettrolitico; • deficit ad esordio tardivo (forma
più diffusa), che si manifesta in età scolare o in età adulta ed è dovuto al decadimento dell’attività
lattasica che si verifica soprattutto nelle popolazioni mediterranee. Si tratta di una condizione
geneticamente determinata, per cui una volta insorta permane. C’è una gradazione nell’intensità
della sintomatologia e l’entità dei sintomi non correla con l’entità del deficit lattasico e con la
presenza residua di lattasi sull’orletto a spazzola. Il deficit secondario di lattasi è dovuto ad un
danno intestinale e si può verificare nelle gastroenteriti, nel malassorbimento,nella celiachia e nelle
malattie infiammatorie cronicheintestinali. Tale intolleranza è presente nel 3-5% dei bambini di età
inferiore a 2 anni, e nel 65% circa della popolazione adulta (10). Nell’adulto tale intolleranza può
essere presente in concomitanza del cambiamento delle abitudini alimentari con relativa
diminuzione della lattasi, enzima definito inducibile, poiché è stato dimostrato che la disponibilità
della lattasi è direttamente proporzionale alla quantità di latte consumato. Iprincipali sintomi sono
dolore addominale, flatulenza e diarrea correlati all’assunzione di alimenti contenenti lattosio, la
gravità della sintomatologia varia in base al grado di deficitenzimatico. Favismo Patologia
ereditaria legata al cromosoma X, causata da un deficit enzimatico della glucosio-6-fosfato
deidrogenasi (G6PD), enzima della via dei pentoso fosfati. La manifestazione clinica è
caratterizzata da crisi emolitiche in risposta all’ingestione di fave.
Intolleranze farmacologiche Sono reazioni determinate dall’effetto farmacologico esplicato da
alcune sostanze presenti negli alimenti come amine biogene o vasoattive, quali: istamina (vino,
pomodori, alimenti in scatola, sardine filetti d’acciuga, formaggi stagionati), tiramina (formaggi
stagionati, vino, birra, lievito di birra, aringa), serotonina (banane, pomodori) dopamina,
noradrenalina, feniletilamina (cioccolato). Inoltre risultano implicate anche caffeina, alcol,
teobromina (tè e cioccolato), teoffillina, triptamina (pomodori e prugne), solanina (patate),
capsicina (peperoncini),miricristina, acidoglicerritinico. Intolleranze da meccanismi non definiti
Reazioni legate all’assunzione di additivi utilizzati nell’industria alimentare come coloranti,
addensanti, conservanti, antimicrobici, antiossidanti, i più comuni sono: benzoati, nitriti, nitrati,
solfiti, glutammato di sodio (11). Prima di prescrivere una dieta definitiva di eliminazione, va fatta
una valutazione clinica con dieta di esclusione e reintroduzione (12). Diagnosi L’approccio
diagnostico nel sospetto di una intolleranza alimentare è basato innanzituttosull’anamnesi. Le
intolleranze possono manifestarsi con sintomisimili e sovrapponibili alle allergie
alimentari,pertanto, è fondamentale escludere che si tratti di allergie e valutare le condizioni
cliniche internistiche associate. Qualora in seguito all’anamnesi il medico sospetti una intolleranza
al lattosio, il test di diagnosi utilizzato è il Breath test. Si tratta di un test che valuta la presenza di
H2 nell’aria espirata(13,14). Per la diagnosi di intolleranze farmacologiche l’unico approccio è di
tipo anamnestico, invece per quelle da meccanismi non definiti è possibile effettuare il test di
provocazione con lasomministrazione dell’additivo sospettato. Diagnosi differenziale con: sindrome
sgombroide, sindrome da sovracrescita batterica intestinale (SIBO), sindrome dell’intestino
irritabile (IBS) La prima, classificata tra le reazioni avverse ad alimenti con reazione di tipo tossico,
è caratterizzata da una eccessi- va esposizione ad amine biogene, come l’istamina che favorite da
metabolismo batterico vengono prodotte in grandi quantità durante il processo di putrefazione del
pesce, in particolare di tonno e sgombro. I sintomi principali sono l’orticaria e le
manifestazionigastrointestinali(15). La seconda, caratterizzata da un eccesso di flora batterica
nell’intestino tenue, si manifesta con dolore addominale, meteorismo, diarrea ed in alcuni casi segni
di malassorbimento. La diagnosi si effettua mediante Breath test ad un carico di glucosio o
lattulosio e necessita di un trattamento con antibiotici(16).
La terza è una patologia funzionale cronica dell’intestino con eziologia non completamente nota, è
caratterizzata da sintomi come dolore addominale associato a gonfiore, distensione e alterazioni
dell’alvo in assenza di anomalie organica dell’intestino. Il dolore o il gonfiore addominale sono i
sintomi principali che spesso si attenuano con la defecazione. L’esacerbazione dei sintomi a volte è
correlata all’introduzione di cibo e può essere in parte dovuta ad una vera e propria intolleranza ad
alcuni alimenti, ma anche essere legata ad una ipersensibilità viscerale o a modificazioni del
microbiota intestinale. Spesso la riacutizzazione dei sintomi compare con l’introduzione di cibi ad
alto contenuto di fibre e di oligosaccaridi fermentescibili nonché disaccaridi, monosaccaridi e
polioli definiti dall’acronimo FODMAP (17,18). Malattia Celiaca La malattia Celiachia è una
patologia cronica sistemica immuno-mediata, dovuta ad intolleranza al glutine alimentare, sostanza
proteica presente in molti cereali quali avena, frumento, farro, kamut, orzo, segale, spelta e triticale.
Attualmente, la stima della prevalenza della celiachia è dell’1% (probabilmente sottostimata), sia a
livello mondiale che in Europa dove si manifesta prevalentemente nei paesi nordici; colpisce tutte le
fasce di età e prevalentemente il sesso femminile. InItalia, la prevalenza si aggira su 1 caso ogni
100-150 persone (19). Si tratta di una malattia geneticamente determinata, caratterizzata da
enteropatia di grado variabile (danno della mucosa intestinale con atrofia dei villi nel tratto
duodeno-digiunale)e dalla presenza di anticorpi specifici nelsiero. Sintomatologia: le sue
manifestazioni non coinvolgono solo l’apparato gastrointestinale ma possono interessare anche altri
organi ed apparati. È caratterizzata da un quadro clinico variabilissimo, che va dalla diarrea profusa
con dolori addominali alla presenza di stipsi, meteorismo e flatulenza, marcato dimagrimento, ma
anche obesità. Inoltre possono essere presenti cefalea, amenorrea, anemia sideropenica, scarso
accrescimento, dermatite erpetiforme. È possibile l’associazione con altre malattie autoimmuni
(diabete 1, ipotiroidismo, psoriasi). Diagnosi: 1°step) dosaggio degli anticorpi antitransglutaminasi
tissutale IgAe IgG(questo solo se in presenza di deficit di IgA totali); 2° step) anticorpi
antiendomisio (come conferma); 3° step) anticorpi IgA, IgG antipeptidi deamidati della gliadina (si
effettuano sia in fascia pediatrica che al follow up per la verifica di aderenza alla dieta e in caso di
deficit di IgA totali); 4° step) valutazione dell’assetto genetico HLA (Human Leukocyte Antigen)
DQ2, DQ8; 5° step) esofagogastroduodenoscopia (EGDS) e biopsia duodeno-digiunale, da
effettuarsi sempre nel soggetto adulto a conferma della diagnosi e per valutare l’entità del danno
della mucosa intestinale(20). Terapia: completa esclusione del glutine dalla dieta, che deve essere
mantenuta per l’intera vita del soggetto.
Non-Celiac GlutenSensitivity La Non-Celiac Gluten Sensitivity (NCGS), descritta dal 2010 e
riconosciuta come una nuova condizione clinica, è caratterizzata da manifestazioni cliniche
intestinali ed extraintestinali (diarrea, gonfiore, dolore addominale, dolori articolari, depressione,
annebbiamento mentale, emicrania) che insorgono tempestivamente dopo ingestione di alimenti
contenenti glutine e altrettanto rapidamente scompaiono a dieta aglutinata, in pazienti non affetti da
celiachia né da allergia al frumento IgEmediata. La patogenesi risulta attualmente ignota.
Prevalenza: varia dallo 0 al 6%,conmaggiore frequenza nel sesso femminile, si associa in alcuni casi
aduna positività degli anticorpi antigliadina (AGA) e nel 50% dei casi c’è una associazione non
significativa rispetto alla popolazione generale, con gli aplotipi DQ2e DQ8. Istologia: la mucosa
appare regolare, si rileva un aumento dei linfociti intraepiteliali in assenza di atrofia villosa. La
diagnosi differenziale va effettuata rispetto alla malattia celiaca e all’allergia algrano. Terapia:è
rappresentata dalla dieta priva di glutine per unperiodo di 24mesi (21-24).
Test alternativi non validati 163 Accanto alle procedure comunemente utilizzate nella diagnosi di
reazione avversa agli alimenti, esistono metodiche alternative per le qualimanca una evidenza
scientifica diattendibilità. Tali test sono stati considerati inappropriati e pertanto nondevono essere
prescritti (12,25-29). Anche in ambito allergologico la validità diagnostica di tali test non è
riconosciuta ed un recente documento, pubblica- to sulla Rivista di Immunologia e Allergologia
Pediatrica (RIAP), ribadisce di non effettuare tali test in caso di sospetto di allergia alimentare (tab.
1)(30). Dosaggio IgG 4: attualmente esamemolto praticato nei laboratori di analisi o nelle farmacie,
poiché di facile accesso. È stato dimostrato che il dosaggio di IgG4 specifiche non è rilevante nella
diagnosi delle allergie alimentari poiché tale dosaggio non individua i soggetti con allergie IgE
mediata, creando un grave rischio di reazione avversa nel caso non vengano individuati gli allergeni
responsabili (31). Test citotossico o test di Bryan: consiste nell’aggiunta in vitro di un allergene al
sangue intero o ad una sospensione leucocitaria del paziente con successive modificazione
morfologiche delle cellule fino alla loro completa citolisi, in caso di intolleranza all’alimento.
L’American Accademy of Allergy and Immunology ritiene il metodo inattendibile; non c’è
correlazione tra i risultati del test e la sintomatologia; inoltre, test ripetuti danno risultati diversi.
Alcat test: variante automatizzata del test di Bryan, anch’esso nonha dimostrato
attendibilitàdiagnostica. Test elettrici: Elettroagopuntura di Voll (EAV), Bioscreening, Biostrengt
test, Sarm test, Moratest, Vega test, misurano lungo i meridiani classici dell’agopuntura cinese o
altri canali una microcorrente elettrica. Il presupposto teorico è che sia possibile leggere i potenziali
elettrici cellulari, e che dalla variazione di questi e dalla rapidità di trasmissione dello stimolo
elettrico sia possibile ricavare informazioni circa la funzionalità dei distretti interessati. Si tratta di
test non riproducibili, non attendibili (32). Test kinesiologico: si effettua facendo tenere in una
mano al paziente una boccetta contenente l’alimento. L’esaminatore valuta la forza muscolare
dell’altra mano. Un decremento di forza rappresenta la positività del test. Non esiste ovviamenteuna
base teorica a supporto. Il test è dunqueprivo di qualsiasi attendibilitàdiagnostica. Dria test: consiste
nella somministrazione per via sublinguale, dell’estratto allergenico seguito dalla valutazione della
forza muscolare per mezzo di un ergometro. Il test è considerato positivo quando si manifesta una
riduzione della forza muscolare dopo 4 minuti dalla somministrazione sublinguale dell’estratto.
Questa tecnica è priva di efficacia e di fondamento scientifico. Analisi del capello: viene utilizzata
con due modalità 1) per lo studio della carenza di oligoelementi e da eventuale eccesso di metalli
pesanti, 2) utilizza le variazioni di frequenza di un pendolo, la metodica appartiene più alla sfera
della “magia” risultando, pertanto, inappropriata per la diagnosi delle allergie e/o
intolleranzealimentari.
Iridologia: valuta attraverso l’osservazione diretta dell’iride, il livello di salute di un soggetto.
Anche questo test non è basato su evidenze scientifiche. Biorisonanza: si basa sull’ipotesi che
l’organismo possa emettere onde elettromagnetiche (buone o cattive). Si usa un apparecchio in
grado di filtrare le onde emesse dall’organismo e rimandarle riabilitate al paziente. Onde
patologiche vengono rimosse, con questo strumento al fine di trattare la patologia. Non esiste alcuna
prova scientifica a tale proposito. Pulse test: si basa sull’ipotesi che la reazione avversa all’alimento
somministrato per bocca, per iniezione o per inalazione, sia in grado di modificare la frequenza
cardiaca. La modificazione di 10 battiti al minuto è considerata una risposta positiva, anche se non è
chiaro se risulti significativo, l’incremento o la diminuzione o entrambe dei battiti. Non vi è alcuna
evidenza scientifica. Riflesso cardiaco auricolare: l’alimento viene posto a 1 cm dalla cute e la
sostanza in questione dovrebbemodificare il polso radiale, come test vengono utilizzati estratti
liofilizzati di alimenti posti in speciali filtri. Privo di alcun fondamento scientifico
La terapia ufficiale delle varie forme di intolleranza e di allergia alimentare consiste nell’esclusione
dalla dieta dell’alimento/i –ingrediente –allergene responsabili della reazione avversa. La terapia
dietetica rappresenta, infatti, il cardine della gestione terapeutica di tutte le reazioni avverse, e
riveste una fondamentale importanza anche in fase diagnostica, come giàdescritto. A tal proposito,
per quanto riguarda l’ambito delle allergie alimentari, si ricorda che la dieta di eliminazione a scopo
diagnostico non va protratta oltre lo stretto tempo necessario, corrispondente a 2-4 settimane nelle
forme di allergia IgE-mediataed al massimo 8 settimane nelle formeritardate. La dieta di
eliminazione terapeutica, una volta che la diagnosi di allergia alimentare sia conclusiva, vaeffettuata
finché necessario ed implica che, almeno annualmente, venga ripetuto il TPO volto a verificare
l’avvenuta tolleranza. Diversi studi, infatti, hanno dimostrato che all’età di 3 anni il 75%dei
bambini con allergia alle proteine del latte vaccino ha acquisito la tolleranza. Il raggiungimento
della tolleranza è più tardivo e talora assente per altri alimenti quali crostacei e fruttasecca. Il
supporto professionale competente è fondamentale nella gestione della dieta di esclusione, che
costituisce una necessità di cura ben definita e che non può e non deve basarsi sulla mera
eliminazione di alimenti, ma sulla loro sostituzione. Le scelte alimentari devono essere infatti
definite in un’ottica di adeguatezza nutrizionale, varietà e sostenibilità a medio, breve e lungo
termine, in un contesto di vita sociale, lavorativa e/o scolastica, oltre che tenendoin debita
considerazione altri fattori coesistenti quali, ad esempio, la pratica di attività fisica o sportiva
oppure eventuali terapie farmacologiche in atto (33). La dieta di esclusione può avere infatti un
impatto significativo sulla qualità di vita e limitare di molto le scelte di consumo, determinando una
condizione di rischio nutrizionale, nei bambini in particolare, nei quali la prescrizione dietetica va
valutata con molta attenzione, ma anche negli adulti, che possono essere considerati a minor rischio
per quantoanch’essi esposti alla possibilità di incorrere in carenze nutrizionali(34,35). È
dunqueimportante che la terapia nutrizionale preveda anche l’educazione dei pazienti e delle
famiglie/caregiver alla attenta lettura delle etichette ed alla conoscenza degli alimenti, per garantire
una appropriata gestione delle scelte di consumo domestiche ed extradomestiche. In tal senso la
normativa vigente rappresenta un valido aiuto al supporto nutrizionale, considerato che il
Regolamento UE 1169/2011, che armonizza tutte le norme nazionali in materia di etichettatura degli
alimenti, impone l’obbligo di indicare in etichetta, in maniera chiara, usando opportuni accorgi-
menti grafici (grassetto, colore o sottolineatura), gli ingredienti che potrebbero comportare un
rischio allergenico. Tale obbligo è valido anche per la ristorazione collettiva comunitaria e
commerciale. Appare dunque chiaro che diete di esclusione autosomministrate, oppure basate su un
semplice “elenco” di alimenti da eliminare, come risultante dei test diagnostici alternativi privi di
validità scientifica suindicati, possono comportare rischi nutrizionali da non sottovalutare nella
popolazione pediatrica così come in quella adulta, oltre a non rispondere ai principi di
appropriatezza ed efficacia che devono caratterizzare tutti i percorsi diagnostici e terapeutici a
garanzia della salute deicittadini.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce l’obesità come patologia cronica legata
ad un accumulo corporeo di tessuto adiposo accompagnato da una serie di complicanze fisiche,
metaboliche e psicosociali e da una riduzione dell’attesa di vita dei soggetti affetti(36). Un soggetto
adulto viene definito obeso quando il suo Indice di Massa Corporea (IMC) (calcolato dal peso in kg
diviso il quadrato dell’altezza, espressa inmetri) è pari o superiore a 30 kg/m2,mentre il sovrappeso
corrisponde ad un valore compreso fra 25 e 29,99 kg/m2. Tali valori sono stati adottati poiché
mostrano una certa relazione con la presenza di complicanze (IMC ≥30 kg/m2) o con il rischio di
sviluppo delle stesse (IMC≥25≤29,99 kg/m2)(37). In età pediatrica (0-18 anni) non possono essere
utilizzati dei valori soglia fissi poiché il bambino cresce in altezza e la percentuale fisiologica del
grasso corporeo cambia con l’età e di conseguenza vengono utilizzati dei valori soglia legati ai
percentili in base all’età. Sulla base delle più recenti conoscenze scientifiche di ordine
fisiopatologico l’obesità è da ritenersi una malattia cronica complessa, determinata dall’interazione
di fattori genetici, ambientali e comportamentali, gravata da una serie di complicanze (43). Il
tessuto adiposo di per sé è un organo endocrino che può andare incontro a disfunzioni contribuendo
allo sviluppo di alterazioni metaboliche sistemiche. Il calo ponderale è in grado di prevenire e
curare le anomalie metaboliche concomitanti favorendo il miglioramento della funzione del tessuto
adiposo. Una disamina completa di tutti i fattori causali e della loro interazione non rientra negli
obiettivi di questo documento, ma una overview del ruolo dei fattori principali è necessaria per
comprendere l’inutilità ed a volte la pericolosità di trattamenti non basati sull’evidenza scientifica.
La causa fondamentale dell’eccedenza ponderale è uno squilibrio fra l’energia assunta e quella
spesa, dovuto ad un complesso intreccio tra predisposizione genetica e fattori ambientali. In
circostanze normali il bilancio energetico, pur oscillando fra i vari pasti o fra i giorni, non causa
variazioni a lungo termine del peso corporeo. L’organismo umano è più preparato a difendersi da un
possibile insufficiente apporto energetico che da un eccesso di assunzione di cibo (44). Genetica.
Nelle coppie di gemelli omozigoti l’ereditabilità dell’IMC è stata stimata essere circa l’80%, anche
se i ri- sultati degli studi sull’adozione e sulle famiglie concordano su un’ereditarietà generale di
circa il 33% (44). Fattori genetici sono anche importanti nella topografia dell’eccesso di grasso
corporeo e di alcune complicanze metaboliche. La trasmissione genetica dell’obesità, salvo casi
specifici è dovuta all’interazione di diversi geni (45). Sistema neuro-biochimico-ormonale. La
regolazione del peso corporeo è il risultato di una complessa rete di segnali simili e opposti fra il
cervello, l’intestino ed il tessuto adiposo che influenzano l’assunzione di energia e nutrienti, la
distribuzione del tessuto adiposo stesso e il livello di attività fisica. Le informazioni neuro-
biochimiche disponibili non ci permettono ancora di definire con certezza i meccanismi che portano
ad un eccesso di peso. Un aiuto viene, invece, da un’analisi ecologica della prevalenza di eccedenza
ponderale che vede, contemporaneamente all’aumento della prevalenza dell’eccedenza ponderale a
livello di popolazione, un aumento dell’assunzione di alimenti ad alta densità energetica e
soprattutto ricchi in grassi(46). A livello cerebrale il controllo del peso è regolato soprattutto
nell’area ipotalamica, con la sua area laterale, che controlla la fame, e la sua area ventro-mediale,
che controlla la sazietà (47). Gli ormoni intestinali coinvolti nella regolazione di fame-sazietà e del
peso corporeo sono, per le conoscenze attuali, soprattutto il polipeptide YY3-36, il polipeptide
pancreatico (PP), il polipeptide simil glucagone 1 (GLP-1), la ghrelina, la colecistochinina (CCK) e
la leptina, ma le loro numerose attività e gli organi bersaglio, come pure il loro ruolo nello sviluppo
dell’obesità sono ancora da chiarire. Solo per alcuni di questi ormoni si dispone già di informazioni
specifiche sui lororuoli. Il livello sierico del polipeptide YY3-36 aumenta dopo l’ingestione di cibo
e resta alto per molte ore dopo, suggerendo un suo ruolo nel mantenere la sensazione di sazietà (48).
La sua secrezione è aumentata anche dallo stress e dall’esercizio fisico (48) e, al contrario di quanto
accade per la leptina, i soggetti obesi conservano la sensibilità per i suoi effetti (49). Il livello
sierico di CCK aumenta in seguito all’ingestione di alimenti ricchi di proteine, lipidi e caffè
velocemente entro 25 minuti e rimane elevato per circa 3 ore (50). Il CCK riduce l’assunzione di
cibo, probabilmente attraverso il nervo vago, sia nei soggetti normopeso che negli obesi. Nei
pazienti gravemente obesi il livello sierico di CCK è minore rispetto ai soggetti normopeso o a
quelli con obesità di grado più lieve (51). La ghrelina è prodotta dalle ghiandole oxintiche dello
stomaco: il suo livello sierico aumenta prima del pasto per scendere velocemente subito dopo
l’inizio dello stesso, ed aumentaanche nella prima ora di sonno(52). La ghrelina agisce sul nucleo
arcuato dell’ipotalamo (53) ed aiuta a riconoscere gli alimenti particolarmente gratifi- canti come
quelli ricchi di grasso o zucchero (54). La leptina è principalmente ma non esclusivamente prodotta
nel tessuto adiposo ed agisce riducendo l’assunzione di cibo ed aumentando la spesa energetica
(55). I soggetti obesi presentano spesso, più che una carenza di leptina, una resistenza alla stessa
ma, dati i molteplici tessuti che la producono ed i suoi molteplici effetti, la ricerca in questo campo
richiede ulteriore sviluppo. L’area di ricerca di interesse più recente riguardo la patogenesi
dell’obesità è rivolta al ruolo del microbiota intestinale. Ilmicrobiota è l’insieme dei
microorganismi, patogeni e non, che popolano il tratto gastrointestinale, in particolare il colon: la
sua composizione è ilrisultato di una complessa interazione tra fattori genetici, abitudini alimentari
ed etnicità (56). Ipazienti obesi possiedono un’alterata composizione del microbiota con una
presenza maggiore di Firmicuti e minore di Bacterioidi. Tuttavia occorre segnalare che gran parte
degli studi disponibili sono stati effettuati in modelli animali e che i pochi disponibili nell’uomo
sono basati su campioni estremamente ridotti con risultati quindi non conclusivi (57-59). Una
prolungata esposizione ad una dieta iperlipidica modifica significativamente la microflora del colon,
con una riduzione dei Bifidobacterium e dei Lactobacillus (che svolgono azioni fisiologiche utili, ad
es. il rafforzamento della funzione protettiva della barriera mucosale intestinale), ed un aumento dei
Firmicutes e Proteobacteria (che includono specie patogene). Ipazienti obesi sottoposti a restrizione
calorica subiscono un aumento nella quantità di batteroidi (Bifidobecteri e Lattobacilli)
proporzionale alla perdita dipeso. A tal proposito, risulta molto interessante il ruolo dei probiotici: la
combinazione di due bifidobatteri e di un lattobacillo liofilizzati si è dimostrata avere efficacia nella
riduzione della massa grassa e dei lipidi ematici nei topi, migliorando in tal modo l’attività
metabolica del tessuto adiposo, nonostante non vi sia una chiara influenza a livello di riduzione
dell’IMC (60). Inoltre, è stato dimostrato che topi germ-free sono a minor rischio di sviluppare
obesità indotta dalla dieta. La composizione del microbiota intestinale, nonostante subisca varie
modificazioni durante il corso della vita in fun- zione di fattori esterni, risulta definita già al
momento della nascita: bambini nati da parto naturale hanno una predominanza di Lattobacilli,
mentre i nati con parto cesareo possiedono una microflora composta principalmente dai batteri della
pelle. Inoltre, nel post-natale, si è dimostrato che l’allattamento al seno porta ad aumento dei
batterioidi, mentre i neonati nutriti con latte in formula evidenziano unmaggior livello di
Firmicutes(61). Attività fisica. Un aumento della inattività fisica è certamente uno dei fattori
principali dello sviluppo dell’obesità, e l’incremento dell’attività fisica giornaliera uno dei cardini
del suo trattamento (62), ma la trattazione di questo specifico fattore esula dallo scopo di
questarassegna. La riduzione ponderale migliora i fattori di rischio delle malattie correlate
all’obesità, le comorbidità, la qualità di vita e riduce la mortalità (63-65). La terapia deve porsi
come obiettivo un calo ponderale realistico. Infatti, numerosi studi suggeriscono che una riduzione
di peso del 5-15% rispetto al peso iniziale riduca il rischio delle malattie correlate all’obesità (66-
70). Tuttavia, la principale sfida della terapia dell’obesità è quella di mantenere la perdita di peso
nel tempo. Negli ultimi anni numerosi sono stati i progressi di ricerca sia per quanto riguarda gli
interventi sullo stile di vita che quelli relativi alla farmacoterapia e chirurgia bariatrica. In questa
sezione sono esaminate le evidenze scientifiche che supportano l’efficacia degli interventi sullo stile
di vita, per l’approfondimento dei diversi tipi di intervento si rimanda alle linee guida di riferimento
(Standard Italiani per la Cura dell’Obesità SIO/ADI2012-2013, linee guida e stato dell’arte della
chirurgia bariatrica emetabolica in Italia SICOB,Raccomandazioni per la terapia medica
nutrizionale nel diabetemellito 2013-2014 ADI-AMD-SID,Guidelines for the Management of
Dyslipidaemias 2016 ESC/EAS,2013 AHA/ ACC/TOS Guideline for the Managementof
Overweight and Obesity in Adults). A tale riguardo, gli studi d’intervento hanno dimostrato
l’efficacia dei cambiamenti dello stile di vita, sia nella prevenzione che nella terapia dell’obesità,
quando si utilizzano programmi d’intervento strutturati e orientati contemporaneamente alla
modifica delle abitudini alimentari, all’incremento dell’attività fisica e a favorevoli cambiamenti
dello stile di vita. Infatti, il primo passo per perdere peso è diminuire l’apporto calorico ed
aumentare il dispendio energetico, mentre per mantenere il peso raggiunto a lungo termine è
necessario modificare le proprie abitudini divita. La dieta per il calo ponderale deve avere tre
requisiti: 1) un contenuto calorico inferiore a quello abitualmente introdotto, 2) caratteristiche tali
da permettere al paziente di aderire alla dieta inmodo ottimale, 3) effetti benefici generali sulla
salute. In relazione al grado di sovrappeso/obesità e all’introito calorico giornaliero abituale si può
praticare una riduzione calorica giornaliera moderata, che può variare dalle 300 alle 500 fino a 1000
kcal die rispetto al proprio fabbisogno energetico; tale restrizione, non essendo drastica, ha il
vantaggio di facilitare l’adesione del paziente alladieta. Una restrizione di 1000 kcal/die induce un
calo ponderale di circa 1 kg di peso a settimana. Tale perdita di peso è dovuta ad un dispendio
energetico di circa 7000 kcal (ossidazione di tessuto adiposo e massa magra) che divise per i 7
giorni della settimana significano un deficit calorico giornaliero di 1000 kcal. La riduzione di 300 e
500 kcal/die induce, invece, una riduzione del peso di circa 0,3 e 0,5 kg la settimana,
rispettivamente. La dieta ipocalorica deve coprire i fabbisogni nutrizionali in macro e
micronutrienti, deve essere composta da alimenti naturali e dotata di buona palatabilità, dovendo
essere seguita per tutta la vita. La restrizione calorica drastica va riservata a selezionati gruppi di
pazienti che per esigenze metaboliche opsicologiche hanno necessità di avere una perdita di peso
iniziale elevata e rapida. Le diete drasticamente ipocaloriche sono diete con un contenuto calorico
inferiore alle 800 Kcal die, nella maggior parte di casi liquide/semiliquide, contenenti circa 0,8-1,5g
di proteine/Kg di peso ideale: esse vanno integrate con vitamine e sali minerali. Tale approccio
richiede uno stretto controllo medico in quanto l’eccessiva restrizione calorica può scatenare aritmie
cardiache come conseguenza di disturbi elettrolitici associati all’aumento degli acidi grassi
circolanti in soggetticardiopatici. Un altro problema dei regimi dietetici drasticamente ipocalorici è
la perdita di massa magra (muscolo) secondaria ad uno scarso apporto proteico, anche se le più
recenti formule di diete drasticamente ipocaloriche hanno generalmente adeguati supplementi di
vitamine e sali minerali e un apporto di proteine ad elevato valore biologico più che soddisfacente e
tale da limitare i rischi osservati negli anni passati. In tutti i casi un regime a bassissimo contenuto
calorico protratto per più di 2-3 settimane va sempre attuato in regime di ricovero. Inoltre, diete con
contenuto calorico <1000 kcal sono difficilmente accettate dal paziente per periodi più lunghi di
qualche settimana e non mostrano particolari vantaggi sulla perdita di peso e sul compenso
metabolico nel lungoperiodo. Mentre sull’importanza della perdita di peso e sull’apporto calorico
della dieta c’è un consenso quasi unanime, sulla sua composizione ci sono opinioni contrastanti. Le
opinioni divergono sull’utilizzo della quantità di carboidrati, grassi e proteine della dieta. Gli studi
che hanno valutato gli effetti delle diverse quantità di grassi, proteine e carboidrati della dieta sul
calo ponderale così come del basso indice glicemico e di diete equilibrate in macronutrienti sono
numerosi ma generalmente riguardano unnumeroesiguo di partecipanti. Uno dei pochi studi
effettuati su un numero elevato di partecipanti, 811 pazienti obesi o in sovrappeso, è “The POUNDS
Lost Study” (71).Questo studio ha confrontato diete con il 20%o il 40%di grassi e diete con il 15%o
il 25%di proteine mostrando un’assenza di differenza nel calo ponderale sia a 6 mesi che a 2 anni
dall’intervento. Anche il risultato di una meta-analisi (72) di studi che hanno confrontato diete a
basso contenuto di carboidrati rispetto a diete a basso contenuto di grassi ha confermato che
l’efficacia dei due tipi di dieta è simile sia per quanto riguarda la riduzione del peso che il
miglioramento dei fattori di rischio metabolici (tab. 2). Una rassegna sistematica (73), che ha
valutato gli effetti di 17 diverse diete sulla perdita di peso, hamostrato che nessuna dieta è
miglioredell’altra. Allo stesso modo,un’altrameta-analisi (2) degli studi che hanno stimato gli effetti
sul calo ponderale delle più popolari diete utilizzate negli Stati Uniti –la dieta di Atkins, bassa in
CHO,la dieta Ornish, povera in grassi, quella Zone, bassa in CHO,la Weight Watchers, equilibrata
per composizione in nutrienti, etc.- non hamostrato alcuna differenza signifi- cativa nella perdita di
peso tra una dieta e l’altra. Irisultati di questi studi sottolineano, inoltre, che tutti i trattamenti basati
su regimi alimentari molto complessi o rigorosi falliscono nel lungo termine perché i pazienti
ritornano alle vecchie abitudini una volta superata la novità della dieta e concluso l’intervento
intensivo. Un successo più frequente è stato osservato utilizzando una strategia basata su
unamaggiore flessibilità nella composizione inmacronutrienti e utilizzando diete che aiutano a
raggiungere e mantenere un senso di sazietà, riducendo così l’apporto calorico. Negli ultimi anni,
quindi,l’attenzione è stata diretta alla valutazione dei diversi approcci nutrizionali non solo per
quanto riguarda la loro efficacia nel lungo termine ma anche riguardo alla loro sostenibilità. Una
dieta ristretta in energia, ma ricca di alimenti ad alto contenuto di fibre e/o basso indice glicemico,
svolge un ruolo importante, se non essenziale, nella gestione del peso corporeo a lungo termine. A
tal riguardo una meta-analisi di 14 studi (74) ha mostrato che diete a basso indice glicemico (IG) e
carico glicemico (CG) sono efficaci sul calo ponderale e si associano ad un miglioramento dei
livelli di proteina C-reattiva e dell’insulina a digiuno (tab. 2). Un vantaggio emerge anche
dall’utilizzo di diete moderatamente ristrette in calorie basate sul modello alimentare mediterraneo.
Una meta-analisi (75) di nove studi su 1178 pazienti ha mostrato che le diete basate sul modello
alimentare mediterraneo sono associate ad una significativa riduzione del peso corporeo e
dell’indice di massa corporea, a riduzioni dell’emoglobina glicosilata, della glicemia e
dell’insulinemia a digiuno (tab. 2). Quindi, il beneficio sul peso corporeo si associa anche ad una
riduzione dei fattori di rischio cardiovascolare (76). I benefici sull’adiposità e sulle altre anomalie
metaboliche di queste diete sono attribuibili alla loro capacità di influenzare la flora batterica
intesti- nale che, attraverso la fermentazione dei polisaccaridi non digeribili, è in grado di
influenzare la sazietà, la sensibilità insulinica, l’infiammazione subclinica e il metabolismo glico-
lipidico (61). In conclusione, le evidenze scientifiche disponibili mostrano che: 1. la riduzione
dell’introito calorico è la principale componente dell’intervento per la riduzione ponderale; 2. la
composizione in macronutrienti della dieta ha un minore impatto sul calo ponderale ma è
fondamentale per l’a- desione nel lungo termine. Essa, inoltre, contribuisce a rendere più salutare il
pattern dietetico e in alcuni pazienti è in grado di migliorare il profilo di rischio cardiometabolico
(tab. 2). 3. I risultati migliori si ottengono utilizzando modelli alimentari che hanno un background
culturale/tradizionale, come quello mediterraneo. Alla terapia nutrizionale per la perdita di peso
deve essere associato un cambiamento dello stile di vita che includa an- che un’attività fisica
regolare adatta all’età della persona, al grado di obesità e alla presenza di eventuali co-morbilità.
L’attività fisica, infatti, contribuisce ad aumentare il dispendio energetico, protegge l’organismo
dalla perdita di massa magra, migliora la fitness cardiorespiratoria e i fattori di rischio
cardiometabolici correlati all’obesità ed incrementa la sensazione di benessere. Lo studio a lungo
termine Action for Health in Diabetes (Look AHEAD) (77) è il primo studio che ha valutato, in un
ampio campione di pazienti con diabete tipo 2 (DM2) in sovrappeso o obesi, gli effetti sulla
morbilità e mortalità cardiovasco- lare di una riduzione ponderale moderata, ottenuta mediante un
intervento intensivo sullo stile di vita, che associava una restrizione energetica moderata della dieta
all’incremento giornaliero dell’attività fisica. In relazione ai fattori di rischio CV, i risultati dello
studio hanno mostrato che l’intervento intensivo sullo stile di vita, rispetto al programma di
educazione applicato abitualmente nella cura del diabete, rappresenta una strategia ottimale per
ridurre il peso corporeo e migliorare sia la pressione arteriosa che il profilo metabolico a 4 anni
dall’inizio dell’intervento (77). Inoltre, in un piccolo numero di pazienti, l’intervento è risultato
anche in grado di indurre una remissione parziale o totale del diabete (78). Questo studio mostra
che, nonostante i pazienti non avessero raggiunto il loro peso ideale, comunque si aveva una
riduzione significativa della pressione arteriosa, della glicemia, dell’HbA1c e dei trigliceridi
plasmatici, confermando i benefici che una perdita moderata di peso (7-10% del peso iniziale) ha
nel controllo delle anomalie metaboliche della malattia diabetica. Le società scientifiche
raccomandano di svolgere un’attività fisica di moderata intensità, della durata di almeno 30 minuti
per cinque giorni a settimana. Questo tipo di attività, condotta per un mese, permette di perdere
circa 0,5 kg di peso. Per ottimizzare la perdita di peso, l’attività può essere estesa a 60 minuti per 5
giorni la settimana. Andrebbero incoraggiate attività quali il camminare, andare in bicicletta, salire
le scale etc. In genere sono le persone più istruite, più giovani, in sovrappeso piuttosto che
francamente obese che più frequentemente praticano un’attività fisica regolare per ridurre il peso
corporeo. Le modifiche dei comportamenti dello stile di vita sono, invece, particolarmente
importanti per il mantenimento del peso nel lungo termine. La gestione comportamentale
comprende diverse tecniche come l’auto-monitoraggio, la gestione dello stress, il controllo dello
stimolo, le tecniche di rinforzo, la soluzione dei problemi, i cambiamenti nel comportamento
gratificanti, la ristrutturazione cognitiva, il sostegno sociale, e la formazione e prevenzione delle
ricadute (79,80). La terapia comportamentale può essere fornita in ambito clinico o mediante
programmi di auto-aiuto. La perdita di peso nel lungo termine ottenutamediante interventi di
Gruppo è paragonabile a quella ottenuta con l’intervento indivi- duale. Tuttavia, all’inizio
dell’intervento la consulenza individuale a volte è preferibile per i soggetti gravemente obesi e per
gli uominipiuttosto che per le donne. Per quanto riguarda il trattamento comportamentale
dell’obesità nei bambini, esso dovrebbe coinvolgere tutta la famiglia, o almeno la madre di un
bambino obeso. I dati sulla efficacia dei programmi comportamentali eseguiti in ambienti
controllati mostrano che la perdita media di peso è di circa il 9%nel corso di studi della durata di
~20 settimane (79). La maggiore limitazione di questi programmi è l’alta probabilità che gli
individui riguadagnino peso una volta che il trattamento comportamentale èterminato. La modifica
dei comportamenti, in particolare l’auto-controllo del bilancio energetico quotidiano, svolge un
ruolo cruciale nel successo a lungo termine del peso. L’auto-monitoraggio del peso, la dieta e
l’attività fisica quotidiana, svolti regolarmente sono importanti determinanti per il
mantenimentodella perdita dipeso. Abitudini alimentari coerenti, quali consumare regolarmente la
prima colazione, influenzano anche il risultato di ge- stione del peso. È ovvio che una particolare
attenzione deve essere prestata ai pazienti che sono inclini al fallimento nella gestione del peso a
lungo termine. Per questi pazienti un intervento integrato nutrizionale, motorio e psicologico
ripetuto nel tempo riduce il rischio diinsuccessi. La consulenza nutrizionale successiva al primo
intervento potrebbe essere rappresentata dalla visita tradizionale del paziente o essere fornita per
telefono, e-mail, o applicazioni di chat Internet (81). Il supporto psicologico è necessario per i
pazienti con depressione o con disinibizione nei confronti dell’alimentazione. Lo psicologo
dovrebbe addestrare questi pazienti a come far fronte a situazioni scatenanti la disinibizione
alimentare (ad esempio, stress, ansia e depressione). In conclusione, le evidenze scientifiche
disponibili mostrano che le modifiche dello stile di vita che includono un’attività fisica regolare
contribuiscono al mantenimento del peso perso nel lungo termine, a prevenire lo sviluppo del
diabete tipo 2 e a migliorare il profilo di rischio cardiovascolare (82). Inoltre, la modifica dei
comportamenti, in particolare l’auto-controllo del bilancio energetico quotidiano, svolge un ruolo
cruciale nel successo a lungo termine del peso. Dalla analisi critica degli studi epidemiologici,
etiopatogenetici e clinici disponibili sull’argomento, emergono evidenze solide per affermare che le
intolleranze alimentari e l’obesità sono due patologie indipendenti tra loro, senza alcun legame
etiopatogenetico. Sebbene l’attivazione cronica del sistema immune possa contribuire allo sviluppo
di insuli- no-resistenza, diabete tipo 2 e aterosclerosi causando un’infiammazione subclinica nel
tessuto adiposo, la presenza di anticorpi IgG, ed in particolare di IgG4 “alimento specifico” non
indica una condizione di allergia o intolleranza alimentare quanto piuttosto una risposta fisiologica
del sistema immune all’esposizione ai componenti contenuti negli alimenti (31). Pertanto, risultati
positivi per specifiche IgG4sono da considerarsi normali in adulti e bambini sani emisurare la
risposta dei livelli di IgG4ad un alimento, così come valutare la tolleranza attraverso altri test in
vivo (tab.1) è clinicamente irrilevante sia per la diagnosi di allergia e intolleranza alimentare che
come strategia d’intervento nutrizionale per la riduzione ponderale in persone sovrappeso/obese. I
più recenti documenti di consenso nazionali (12) ed internazionali (6) sottolineano come molti dei
test utilizzati in alternativa a quelli riconosciuti dall’evidenza scientifica per la diagnosi di
intolleranze e allergie alimentari difettino di razionale, attendibilità e validità clinica; per tali motivi
non possono che essere considerati inappropriati e non devono essere prescritti né effettuati al fine
di diagnosticare una condizione di allergia o intolleranza alimentare. Oltretutto, l’utilizzo
inappropriato di questi test aumenta solo la probabilità di falsi positivi, con la conseguenza di inutili
restrizioni dietetiche e ridotta qualità di vita. Va inoltre sottolineato che le diete di esclusione non
adeguatamente gestite e monitorate da un professionista sanitario competente possono comportare
un rischio nutrizionale non trascurabile e, nei bambini, scarsa crescita e malnutrizione. Quando si
intraprende una dieta di esclusione, anche per un solo alimento o gruppo alimentare, devono essere
infatti fornite chiare indicazioni nutrizionali, al fine di assicurare innanzitutto un adeguato apporto
calorico, oltre che di macro e micronutrienti. È indispensabile un idoneo follow up, con l’obiettivo
di valutare la compliance alla dieta, individuare precocemente i deficit nutrizionali e, nei bambini,
verificare che l’accrescimento sia regolare(30). Un altro aspetto molto importante e spesso
trascurato è infine rappresentato dal monitoraggio dell’eventuale superamento
dell’allergia/intolleranza, per valutare la reintroduzione degli alimenti/gruppi di alimenti esclusi e
reintrodurre la dieta libera. Essendo tali test spesso utilizzati per una diagnostica alla quale non
segue un follow up ma “semplicemente” un elenco di alimenti da eliminare, nell’ambito dei quali il
paziente/utente si trova a barcamenarsi spesso in maniera autogestita, tali diete vengono nella gran
parte dei casi protratte per periodi lunghi senza alcun monitoraggio né dell’andamento clinico della
“presunta” allergia o intolleranza, né tantomeno dello stato nutrizionale. Aspetto che assume ancora
maggiore pericolosità se si considera che il fenomeno è molto in crescita anche in età pediatrica e
che spesso le diete di esclusione vengono estese anche all’ambito scolastico, con le relative
ripercussioni anche sulle componenti emotive e sociali che riveste il pasto ascuola. Sulla base di
quanto analizzato nel presente documento risulta evidente che l’utilizzo di regimi alimentari
restritti- vi, basati su test diagnostici di “intolleranza o allergia alimentare” per il trattamento del
sovrappeso e dell’obesità è privo di qualsiasi fondamento scientifico e contribuisce non solo a
determinare un rischio nutrizionale, ma anche al disorientamento dei pazienti che hanno bisogno di
perdere peso, alimentando il fenomeno della “diet industry”, e rappresentando, inoltre, un costo
diretto per i pazienti/utenti ed indiretto per il Sistema Sanitario Nazionale, essendo la risposta
terapeutica inadeguata alla necessità di cura. Imedici e tutti gli operatori sanitari coinvolti nel
trattamento dell’obesità hanno il dovere di informare i pazienti che l’uso di questi metodi non solo
non è basato sulla scienza e non produce risultati a lungo termine, ma può essere molto pericoloso
per la salute. Nei pazienti obesi, per quanto difficile, è possibile ottenere un calo ponderale che
persista a lungo solo se l’intervento terapeutico è multifattoriale e se l’obiettivo di perdita di peso da
raggiungere non è eccessivamente ambizioso: anche un calo ponderale modesto, del 5-15% rispetto
al peso iniziale, ha infatti indubbi effetti benefici sul profilo di rischio cardiometabolico. Il
trattamento risulta efficace se è indirizzato a modificare lo stile di vita attraverso l’adozione di diete
non drasticamente ristrette in energia rispetto alla dieta abituale ed un incremento dell’attività fisica.
I risultati migliori si ottengono utilizzando modelli alimentari che hanno un background
culturale/tradizionale, come quello mediterraneo o che non si discostino molto da quelle che sono le
preferenze del paziente, in associazione ad un’attività fisica di circa 150 minuti la settimana.
Gli alimenti responsabili della stragrande maggioranza delle reazioni allergiche sono: latte, uova,
arachidi, pesci, frutta secca, soia nei bambini e, negli adulti, arachidi, noci, pesci, crostacei, soia,
verdura e frutta.
Nell’attesa di poter influenzare l’andamento della malattia allergica con mezzi farmacologici od
immunologici, l’attenzione dei ricercatori è a tutt’oggi rivolta alla prevenzione dietetica. Infatti
quello dietetico è il principale fattore ambientale di rischio per la sensibilizzazione allergica
alimentare, oltre che la via pressoché esclusiva di scatenamento dei sintomi. Si distinguono diversi
livelli di prevenzione: • prevenzione primaria: evitare la sensibilizzazione allergica è certamente il
campo più esplorato. Poiché l’identificazione dei candidati a rischio è piuttosto incerta, gli studi in
questo campo sono stati condotti in popolazioni assai selezionate, ad alto rischio (Kjellman et al.
1999); • prevenzione secondaria: deterrenza dell’espressione della malattia nonostante una
sensibilizzazione IgE già avvenuta. Richiederebbe un largo screening di massa per poter identificare
la popolazione a rischio; • prevenzione terziaria: minimizzazione della sintomatologia per coloro
che già hanno la malattia in atto. Può efficacemente essere ottenuta evitando gli allergeni, attraverso
un approccio detto “proibizionista”, ed in questo caso si identifica con la terapia della allergia
alimentare (Boner et al. 1998). È necessario premettere che la prevenzione primaria si sta
arricchendo delle possibilità suggerite dagli studi epidemiologici, che hanno rimarcato il ruolo della
flora intestinale nella genesi della allergia (Matricardi et al. 2000). Diverse voci si sono infatti
levate a sottolineare la possibilità di influire sullo sviluppo di allergia mediante l’uso di fattori “di
successo”, piuttosto che con l’esclusione di fattori di rischio. Obiettivo di queste strategie è quello
di modulare il sistema immune del lattante e, addirittura, della gestante, in modo da ottenere una
downregulation della risposta TH2 od una upregulation della risposta TH1 (Warner et al. 2000).
Questo rappresenta un approccio alternativo alla prevenzione primaria alimentare basata
sull’esclusione degli allergeni alimentari. L’approccio “proibizionista”, più conosciuto, e quello
“promozionista” pongono l’accento su aspetti diversi della fisiologia del sistema immune.
L’approccio proibizionista evita gli allergeni alimentari in gravidanza ed allattamento e ritarda la
introduzione di alimenti “allergizzanti” (latte vaccino, uovo ecc) dopo il sesto mese di vita. Si
propone di ridurre la frequenza di sensibilizzazione eliminando il contatto con gli allergeni o con i
fattori adiuvanti, basandosi su una serie di studi prospettici che hanno identificato molti possibili
fattori favorenti lo sviluppo di una allergia alimentare. Possiamo dividerli in studi “non
interventistici” (studi puramente epidemiologici) e studi “interventistici”. Dagli studi non
interventistici sappiamo che, con qualche dubbio legato alla impossibilità di eseguire studi
randomizzati su popolazioni alimentate al seno o no, l’allattamento materno ha un ruolo protettivo
nei confronti del rischio di allergia alimentare (Høst et al. 1999) e che l’introduzione di latte in
formula nei primi giorni di vita, in attesa della montata lattea (Saarinen et al. 1999), è associata con
lo sviluppo di allergia alle proteine del latte, come confermato da uno studio osservazionale che ha
coinvolto diverse migliaia di bambini. Sappiamo anche che l’introduzione di cibi solidi prima del 4°
mese di vita si associa con un elevato rischio di dermatite atopica fino all’età di 10 anni. Studi
interventistici sono stati eseguiti, peraltro, nel tentativo di ridurre la sensibilizzazione ad alimenti
del bambino. Si è tentato di ottenere questo risultato mediante l’esclusione di alimenti
potenzialmente allergenici dalla dieta materna durante la gravidanza, ma questi provvedimenti non
si sono dimostrati in grado di sortire alcun effetto sullo sviluppo di allergia alimentare nel bambino.
Incidentalmente, quindi, l’unica proibizione sensata in gravidanza resta l’evitare il fumo (Asher et
al. 2000). Una recente Cochrane (revisione sistematica sull’efficacia) ha solo ipotizzato che
l’impiego di una dieta oligoantigenica alle donne atopiche durante l’allattamento potrebbe ridurre il
rischio di sviluppare dermatite atopica nel figlio allattato al seno (Kramer 2007). L’età dello
svezzamento è confermata al sesto mese, ma mancano osservazioni epidemiologiche longitudinali
in grado di confermare l’effetto protettivo di una ritardata introduzione degli alimenti più
allergizzanti (Fiocchi et al. 2006). Approccio promozionista: promozione dell’allattamento al seno,
probiotici, latte idrolizzato. Misure di promozione della immunità del bambino sono in un certo
senso patrimonio acquisito della prevenzione allergologica. La più ovvia è la promozione
dell’allattamento materno esclusivo prolungato, che è una misura efficace sia nel neonato a termine
che nel pre-termine. È stato postulato che l’allattamento materno agisca diminuendo l’assorbimento
di macromolecole allergeniche sia per il suo contenuto in fattori protettivi che per una più veloce
maturazione della barriera intestinale. Tale idea trova conferme nella osservazione secondo cui un
basso contenuto di IgA nel latte materno può condurre ad una difettiva esclusione di antigeni
alimentari, predisponendo il bambino alle future allergie alimentari (Jarvinen et al. 2000). Alcuni
autori hanno sostenuto che la durata dell’allattamento materno è un fattore di rischio per dermatite
atopica (Bergmann et al. 2002). Osservazioni come questa sono però gravate dall’effetto della
causalità riversa. In poche parole il motivo per cui i bambini allattati al seno più prolungatamente
avevano una maggiore probabilità di sviluppare la dermatite atopica non era indotto
dall’allattamento al seno, ma dal fatto che le madri con familiarità atopica erano più motivate a
prolungare l’allattamento al seno come fattore protettivo. La frequenza maggiore di dermatite
atopica dipendeva dalla loro spiccata familiarità atopica e non dall’allattamento al seno. Subito
dopo non sono mancate osservazioni che hanno rimarcato tale errore procedurale (Laubereau et al.
2004). Da quando le ricerche epidemiologiche hanno puntualizzato che lo stile di vita “occidentale”
è associato con l’aumento della allergia nelle ultime decadi, nuove strade si sono intraviste per la
prevenzione della allergia alimentare. Sulla base della durata e della intensità dello stimolo
batterico, infatti, è stato ipotizzato che la flora intestinale rappresenti un fattore modulatore chiave
per l’immunità contro l’atopia e lo sviluppo di malattia allergica e che la pressione antigenica
persistentemente esercitata dai batteri che colonizzano il tratto gastrointestinale possa prevenire lo
sviluppo di malattia allergica. Peraltro una recente Cochrane ha puntualizzato che ci sono
insufficienti evidenze per raccomandare l’uso dei probiotici nella prevenzione delle allergie
alimentari (Osborn 2007). Per quanto concerne l’utilizzo di formule estensivamente idrolizzate è
stata confermata l’efficacia preventiva di tali formule in caso di mancanza o carenza del latte
materno (von Berg et al. 2003) fino all’età di 6 anni. Ovviamente, tutte le volte che si opterà per
l’utilizzo, a scopo preventivo, di una formula estensivamente idrolizzata si dovrà tener conto dei
costi, della palatabilità (l’idrolisi spinta porta infatti a modificazioni strutturali della componente
proteica, con comparsa di aromi/sapori differenti, a volte percepiti come sgradevoli) e del vantaggio
protettivo ottenibile, probabilmente, solo in un piccolo novero di bambini. Dopo che è stata
confermata la diagnosi, l’unica forma comprovata ed attualmente disponibile di trattamento
profilattico è evitare del tutto l’alimento coinvolto (Taylor et al 1999). I dati della letteratura
internazionale evidenziano come la maggior parte delle reazioni anafilattiche ad alimenti avvengano
in soggetti consapevoli della loro sensibilizzazione e rendono evidente la difficoltà di attenersi a
questa, solo in apparenza semplice, norma preventiva. Il cibo, infatti, presenta anche valenze legate
all’affettività, alla vita sociale, lavorativa e ricreativa, e alla vita familiare dell’individuo che
rendono complessa l’applicazione di rigide norme preventive. L’uso frequente di prodotti
confezionati, di cibi esotici o comunque provenienti da altri Paesi aumenta il rischio di esposizione
ad allergeni nascosti e non usuali. Le peculiarità immunologiche e chimico-fisiche degli allergeni
alimentari, come la loro maggiore o minore resistenza a calore e digestione, la cross reattività e/o il
cross riconoscimento di strutture lineari o conformazionali, dovuto alla presenza di proteine
omologhe in fonti diverse, rappresentano un rischio di esposizione inaspettata ad allergeni
alimentari (Taylor et al. 2000). I pazienti allergici al lattice, che per il 50% presentano
sensibilizzazioni alimentari dovute a cross reattività legate alla presenza di chitinasi di classe I, sono
a particolare rischio di anafilassi da cibo per ingestione degli alimenti come banana, avocado, kiwi,
castagna o altri. Il rischio di contaminazione nella processazione degli alimenti in filiere
commerciali, nel confezionamento e nella distribuzione di cibo nella ristorazione collettiva, ma a
volte anche quella casalinga, è una delle sfide affrontate da chi soffre di allergia alimentare (Taylor
et al. 2005). La mancanza di consenso sulla dose soglia di allergene alimentare necessaria allo
scatenamento della reazione, dovuta alla variabilità da cibo a cibo e da soggetto a soggetto, impone
alla produzione industriale l’applicazione del principio di precauzione e quindi la riduzione della
presenza di allergeni ai livelli più bassi tecnologicamente possibili. Devono essere prese in
considerazione anche situazioni particolari di rischio in cui inalazione e contatto con l’allergene
alimentare o la presenza di patologie concomitanti, rappresentano un motivo di esposizione se non
ad un allergene occulto, quantomeno ad un allergene alimentare inaspettato. È necessario, quindi,
evitare anche le vie di esposizione diverse dalla ingestione. I soggetti allergici all’uovo, oppure a
pesci o molluschi possono reagire alle proteine aerosolizzate di questi cibi durante la cottura; gli
allergici alle arachidi possono avere reazioni alla semplice apertura di una confezione. Le reazioni
possono essere gravi ed addirittura fatali. Sempre in soggetti particolarmente sensibili, sono state
segnalate reazioni dovute al contatto con allergeni alimentari con il bacio e attraverso il liquido
seminale. In questi casi è necessario evitare i luoghi a rischio, la mensa aziendale o scolastica, le
case altrui, alcuni ristoranti ed osservare norme precauzionali severe e limitanti la vita di relazione.
Casi sporadici, ma non per questo meno gravi, sono stati segnalati nell’ambito di altre patologie: il
ricevente di un trapianto allografico può acquisire specifiche sensibilizzazioni ad alimenti dal
donatore d’organo. Sono state riportate reazioni anafilattiche a noccioline e noci in trapiantati di
fegato, senza precedenti sensibilizzazioni ad alimenti. Con il trapianto di midollo osseo si possono
acquisire allergie alimentari, inaspettate, del donatore. La strategia vincente per evitare
l’esposizione è basata su: • identificazione precisa per ciascun paziente dell’alimento che ha causato
la reazione • riconoscimento degli allergeni cross-reattivi presenti in altri cibi • educazione del
paziente e dei caregivers sulle misure precauzionali necessarie ad evitare la esposizione ad allergeni
nascosti • educazione alla lettura delle etichette • attenzione nel mangiare fuori casa. L’ingestione di
allergeni alimentari nascosti costituisce una delle più grandi sfide e pericoli con cui devono
confrontarsi il paziente con allergia alimentare, il medico ed il dietista. La lettura delle etichette, per
quanto cruciale, si è dimostrata ancora recentemente non ottimale da parte del paziente e dei
caregivers. Allergeni occulti Il fenomeno degli allergeni occulti è legato alla presenza in modo non
esplicito di un allergene in un alimento, apparentemente non correlato al cibo verso cui è presente
allergia; un esempio classico è rappresentato dalle guarnizioni di un dolce con gelatina di pesce (che
a sua volta, potrebbe contenere tracce di proteine di altri animali). La confezione industriale dei cibi
ha enormemente amplificato la possibilità di reperire, in modo del tutto inaspettato, allergeni occulti
(es: latte o soia nei salumi, caseina nel vino...) con lo scatenamento di reazioni verso cibi totalmente
estranei ed apparentemente innocui rispetto alle sensibilizzazioni note. Inoltre, alcune pratiche
tecnologiche tradizionali ammesse, come l’utilizzo di chiarificanti di origine animale per la
preparazione di bevande alcoliche (vino e birra), hanno recentemente stimolato ricerche ed
investigazioni scientifiche funzionali a definire se le proteine allergizzanti possano – o meno –
residuare nel prodotto finito, e risultare – o meno - pericolose per gli individui allergici. Anche in
questo caso, si parla di allergeni occulti o “nascosti”. Il miglior modo di affrontare il problema degli
allergeni occulti è il rispetto della legislazione armonizzata sulle procedure di etichettatura che mira
a consentire l’esatta conoscenza degli ingredienti, compresi quelli minori. L’accuratezza di quanto
dichiarato in etichetta è essenziale per il successo delle diete di eliminazione. Da indagini svolte su
soggetti con allergia alimentare, emerge che la lettura delle etichette è considerata un problema
serio, o molto serio, da una larga quota degli intervistati, che segnalano la frequente necessità di
contattare direttamente le ditte produttrici per avere chiarimenti. In particolare la mancanza di
corretta indicazione sulla fonte di “spezie ed aromi”, l’aggiunta di nuovi ingredienti a prodotti già
utilizzati non adeguatamente segnalata, la scritta in caratteri piccoli ed in diverse lingue sono stati
fra i maggiori problemi segnalati dai pazienti. L’allergene nascosto può essere presente in un cibo
confezionato per molteplici ragioni, come errori di formulazione, errori di confezionamento, uso
non dichiarato di basi pre-lavorate o riutilizzo di rimanenze, presenza di ingredienti provenienti da
fonti dirette allergeniche, possibile carry over da additivi, coadiuvanti tecnologici e aromi (questi
ultimi possono essere supportati su matrici di origine vegetale) ma in seguito anche a fenomeni di
contaminazione accidentale a livello industriale, legati all’uso di filiere di produzione e/o
confezionamento non separate adeguatamente. La presenza di allergene “nascosto” determina,
quando rilevata, il ritiro dal mercato del lotto del prodotto interessato; inoltre, l’utilizzazione non
dichiarata di basi pre-lavorate provenienti da fonti allergeniche è già considerata una violazione
delle norme vigenti. Le domande chiave a cui bisogna ancora dare risposta per garantire la sicurezza
alimentare sono: • esiste una dose soglia di scatenamento per l’alimento allergenico o per gli
ingredienti da esso derivati? • l’esposizione a “basse dosi”, all’alimento o alle proteine allergeniche
da esso derivate, può provocare una reazione allergica? • tutti gli ingredienti provenienti da
quell’alimento rappresentano un rischio per la vita di individui sensibilizzati? • ci sono altre fonti
nascoste di allergeni? I livelli soglia non sono stati ancora determinati per la maggior parte degli
allergeni alimentari, e quelli conosciuti, uovo, arachide e latte, possono variare, da individuo ad
individuo, da pochi milligrammi a qualche grammo. Proprio per questa variabilità, al momento non
è possibile basare su questo parametro le regole di etichettatura. Soltanto per l’anidride solforosa e i
solfiti è indicato dalle disposizioni vigenti il limite di 10 mg/kg o 10 mg/l espressi come SO2, il cui
superamento implica l’obbligo di segnalazione in etichetta. Il livello di rischio posto da ingredienti
derivati da fonti allergeniche è legato alla quantità di proteine allergeniche presenti nell’ingrediente
stesso, alla natura della proteina ed al livello di uso dell’ingrediente nella formulazione
dell’alimento. Gli oli altamente raffinati, anche se provenienti da fonti allergeniche come soia ed
arachide, non rappresentano un rischio per la maggioranza dei soggetti allergici a soia ed arachide,
in quanto contengono minimi livelli residui di proteina. Alcuni prodotti contengono proteine
idrolizzate. Le proteine altamente idrolizzate sono significativamente sicure per la maggioranza dei
consumatori allergici, mentre le proteine parzialmente idrolizzate, come è noto dall’esperienza dei
latti per l’infanzia, possono rappresentare un problema. Il fatto che alcuni bimbi reagiscano anche a
latti altamente idrolizzati sottolinea la significativa variabilità individuale. È anche importante
valutare il livello di utilizzazione: diversa è la situazione quando l’alimento è l’unica fonte di
sostentamento, come nella prima infanzia, da quando è utilizzato in quantità minime come
ingrediente aggiuntivo. L’amido di grano e il lattosio sono ingredienti provenienti da fonti
allergeniche, ma non sembra esservi un reale rischio per il consumatore. Non vi sono però
sufficienti studi condotti in sottogruppi di pazienti con elevata sensibilizzazione che confermino la
non nocività. Regolamentazione della etichettatura nei vari Paesi L’Europa e gli Stati Uniti hanno
recepito negli ultimi anni le istanze delle associazioni di consumatori con AA e delle società
scientifiche, promulgando leggi e regolamenti concernenti la etichettatura degli alimenti. In Europa,
la normativa riguardante gli allergeni alimentari è stata pubblicata nel 2003 (Direttiva 2003/89/ CE
di modifica alla Dir. 2000/13/CE relativa all’etichettatura, presentazione e pubblicità degli
alimenti). È stata abolita la “regola del 25%”, che esentava dalla segnalazione in etichetta i
componenti di un ingrediente complesso (spezie, amidi, oli, ecc.) che non superasse il 25% della
formulazione. In particolare tale Direttiva riporta nell’Annex IIIa una lista di ingredienti da indicare
obbligatoriamente in etichetta, che sono: latte, uova, pesce, crostacei, arachidi, soia, frutta a guscio
(mandorle, nocciole, noci comuni, anacardi, noci di pecan, noci del Brasile, pistacchi, noci del
Queensland) e prodotti derivati sedano, senape, e sesamo.Molluschi e lupini sono stati aggiunti
successivamente con la Dir. 2006/142/CE. In seguito, nella Direttiva 2007/68/CE (recepita
nell’ordinamento nazionale con l’articolo 27 della legge 88/2009) sono riportate le esenzioni
dall’etichettatura per una serie di prodotti: sciroppi di glucosio a base di grano e di orzo; malto
destrine a base di grano; cereali utilizzati per la fabbricazione di distillati o di alcol etilico di origine
agricola per liquori ed altre bevande alcoliche; gelatina di pesce utilizzata come supporto per
preparati di vitamine o carotenoidi; gelatina o colla di pesce utilizzata come chiarificante nella birra
e nel vino; olio e grasso di soia raffinato; tocoferoli misti naturali (E 306); alpha-d-tocoferolo
naturale anche a base di soia; tocoferolo acetato e succinato; fitosteroli e fitosteroli esteri derivati da
oli vegetali a base di soia; estere di stanolo vegetale prodotto da steroli vegetali a base di soia; siero
di latte e frutta a guscio utilizzati per la fabbricazione di distillati o di alcol etilico di origine
agricola per liquori ed altre bevande alcoliche; lattitolo. Il regolamento UE 1169/2011 del
Parlamento Europeo e del Consiglio relativo alla fornitura di informazione sui prodotti alimentari ai
consumatori (che sostituirà gradualmente le norme di etichettatura del DL 109/1992), prevede
disposizioni importanti per quanto riguarda gli allergeni. In particolare stabilisce l’obbligo di
evidenziare nella lista degli ingredienti gli allergeni presenti nei prodotti alimentari e rende
obbligatoria la segnalazione della presenza dell’allergene nei prodotti non preimballati. Negli USA
la legislazione sull’etichettatura degli alimenti è in vigore dal gennaio 2006. Il Food Allergen
Labeling and Consumer Protection Act (FALCPA) ha reso obbligatorio dichiarare la fonte degli
ingredienti derivati dagli allergeni alimentari più comuni (latte, uovo, pesce, crostacei e molluschi,
soia, arachide, noci, farina). La presenza in etichetta di una fonte allergenica deve essere sempre
indicata nella lista degli ingredienti e nel caso di incertezze deve essere specificato in dettaglio
l’alimento allergenico tra parentesi. Di seguito vengono riportati alcuni esempi di ingredienti non
immediatamente riconoscibili e quindi corredati di una indicazione tra parentesi: caseinati (latte),
lecitina (soia o uovo), sieroproteine (latte), ecc.. La formulazione dettagliata consente di guidare i
consumatori e prevenire gli eventi avversi, ma può creare problemi di acquisto, in quanto alcune
sostanze segnalate sono presenti in quantità non significative, come ad esempio, lecitina di soia ed
amido di grano utilizzati nei processi di lavorazione industriale presenti solo in tracce e gelatina di
pesce. Per quest’ultima, che contiene solo collagene, non parvalbumina, il rischio allergenico è
diversamente valutato (teoricamente dovrebbe essere segnalato il nome del pesce da cui è estratta,
creando inutile allarme del consumatore) (Hansen 2004 - Kuehn 2009). Resta aperta la questione
fondamentale che la regolamentazione riguarda solo gli ingredienti aggiunti intenzionalmente e
resta comunque aperto il problema della presenza inaspettata di allergene alimentare, dovuta a
contaminazione. Da controlli effettuati dalla FDA (Food and Drug Administration) in grandi
stabilimenti di produzione alimentare è risultato che nel 25% dei casi esisteva la possibilità di una
contaminazione allergenica, sebbene tutte le ditte fossero formalmente dotate di un programma di
autocontrollo. Proprio per il timore della presenza di allergeni nascosti negli alimenti confezionati,
un numero sempre maggiore di consumatori con allergia alimentare e le loro associazioni hanno
richiesto informazioni concernenti le modalità di produzione. In risposta, l’industria alimentare ha
iniziato in maniera volontaria a segnalare in etichetta, oltre alla lista degli ingredienti obbligatori,
informazioni sulla modalità di produzione. In alcuni casi la segnalazione rispecchia una vera
attenzione al problema da parte della ditta ed è rispondente al vero, ma, purtroppo, nella
maggioranza dei casi è utilizzata dai produttori per evitare sequele legali e non è rispondente alla
reale presenza di allergeni alimentari. Le diciture possono essere diverse: ad esempio nel Regno
Unito la dicitura è “da non utilizzare in soggetti allergici a ... (allergene)”; in Canada “può
contenere...(allergene)”. In Europa e negli USA vi sono tre varianti principali: • può contenere...
(allergene), • prodotto in stabilimenti in cui viene utilizzato...(allergene), • prodotto in filiere
alimentari non separate, in cui viene processato anche...(allergene). Queste segnalazioni
precauzionali, aumentate sia in Europa che negli USA, invece di andare incontro alle esigenze dei
consumatori hanno ribaltato il carico della responsabilità sull’acquirente del prodotto. Ciò ha creato
una crescente frustrazione nei consumatori che si sono visti ulteriormente limitati ed in maniera
inadeguata nella loro possibilità di acquistare e consumare alimenti sicuri. Anche nella ristorazione
collettiva, ad esempio quella scolastica, fascia d’età in cui la frequenza di allergia alimentare è
maggiore, si è creata la necessità di verificare più del 50% dei prodotti normalmente in uso per la
comparsa sulle confezioni di diciture precauzionali. L’insicurezza attribuita ai prodotti derivanti
dall’industria alimentare causa un aumento nell’opinione pubblica della quota di quanti
attribuiscono all’allergia alimentare patologie per cui le evidenze sono scarse o nulle come colon
irritabile, orticaria cronica, obesità. Ciò crea un’ulteriore difficoltà al paziente con allergia
alimentare documentata per una distorta valutazione del rischio. Ci sono stati, negli ultimi anni,
grandi cambiamenti nella legislazione dell’etichettatura dei cibi e le informazioni per i consumatori
con allergia alimentare crescono di conseguenza. Non è stata però ancora raggiunta una
semplificazione della possibilità di praticare una dieta di esclusione e con l’etichettatura
“precauzionale” il carico della valutazione del rischio è stato ribaltato sul consumatore, creando
insicurezza e frustrazione. D’altra parte va segnalato che, senza limiti di legge, le aziende si trovano
in oggettiva difficoltà. L’obiettivo da raggiungere, mediante l’azione congiunta delle associazioni di
consumatori con allergia alimentare e delle società scientifiche specialistiche, è quello di ottenere
dal legislatore e dall’industria, etichette più consone alle reali esigenze del consumatore, la cui
lettura permetta di verificare con certezza la non allergenicità di un prodotto. L’EFSA (European
Food Safety Authority) e altri organizzazioni scientifiche (ILSI Europe) stanno valutando i dati
riportati in letteratura per arrivare a proporre soluzioni adeguate in merito alla dose minima o sul
livello soglia in grado di scatenare una reazione negli individui più sensibili.
L’AA per le sue manifestazioni peculiari, immediatezza ed imprevedibilità, necessita di una corretta
informazione di tutta la popolazione per diffondere la consapevolezza delle problematiche connesse
alla patologia e promuovere la formazione di coloro che operano nei vari ambiti in cui le reazioni
allergiche si possono verificare, allo scopo di prevenirle e curarle. • L’informazione, indirizzata alla
popolazione generale, ha i seguenti punti chiave: - il corretto inquadramento dell’AA e la sua
distinzione dall’intolleranza alimentare al fine di evitare paure infondate, ricorso a diagnostiche
alternative non validate e sottovalutazione del rischio di anafilassi nei soggetti allergici - le dosi in
grado di scatenare le reazioni allergiche possono essere anche di pochi microgrammi ed esiste una
variabilità legata a fattori individuali o all’allergenicità dell’alimento - le reazioni allergiche si
verificano più frequentemente quando i pasti vengono consumati fuori casa (scuola, pubblici
esercizi) - la terapia delle AA è legata alla necessità di evitare l’ingestione dell’alimento allergenico
- l’AA lede profondamente la qualità della vita del paziente - attualmente l’AA non ha alcun
riconoscimento che tuteli almeno parzialmente il paziente. A riguardo, sono auspicabilicampagne
informative mirate, con l’ausilio dei media, di società scientifiche, istituzioni e di associazioni di
pazienti. • L’informazione dei soggetti allergici, familiari/conviventi e la formazione delle persone
addette all’assistenza domiciliare e sanitaria hanno come punti fondamentali: - consapevolezza della
patologia e riconoscimento dell’alimento allergenico, - saper leggere ed interpretare correttamente
un’etichetta dei prodotti alimentari - aderenza alla prescrizione della dietoterapia - conoscere le
possibili cross reattività e la possibilità della contaminazione - conoscenza della terapia di
emergenza, farmaci salvavita, in particolare dell’uso di auto-iniettori di adrenalina. L’attuazione di
quanto sopra è agevolata dal contatto facilitato con associazioni di pazienti. • La formazione del
personale dell’industria alimentare o della ristorazione collettiva dovrebbe riguardare non solo i
principi di sicurezza alimentare e nutrizionale, ma anche quelli relativi alle problematiche connesse
all’AA. Il personale deve divenire consapevole che la presenza, anche in piccole quantità, di un
allergene nel cibo può determinare problemi anche gravi, persino fatali, quando ingerito da persona
allergica a quella sostanza. La formazione dovrebbe essere attuata da specialisti allergologi, o
personale qualificato e con esperienza specifica; può iniziare già durante i corsi professionali, in
particolare nella scuola alberghiera e deve comprendere, oltre alle nozioni generali, quelle
necessarie per evitare la somministrazione di alimenti responsabili di reazioni, per fornire
alternative mirate a ridurre limitazioni alla vita di relazione dei soggetti allergici e ai rischi connessi
con il processo di produzione e distribuzione degli alimenti.
In particolare, nell’ambito dell’industria alimentare la formazione riguarda: - la produzione, con
norme di buona pratica per evitare la presenza di allergeni nascosti (per contaminazione, cross
reattività o per errori grossolani) - interventi mirati a sviluppare metodiche che portino a prodotti
sicuri e facilmente riconoscibili da parte dei consumatori, ad evitare etichettatura precauzionale
(“può contenere …”), con vantaggio anche per la ditta produttrice. A livello della ristorazione, il
personale di cucina e di sala deve essere formato in merito al riconoscimento dei soggetti a rischio,
alle metodiche per evitare la somministrazione del cibo allergenico utilizzando uno specifico piano
d’azione e materiale informativo scritto. Sarebbe opportuno divenissero requisiti cogenti la
formazionedegli addetti alla ristorazione sulle problematiche correlate agli allergeni alimentari e
l’attuazione di verifiche, nell’ambito del piano di autocontrollo, per evitare la presenza di allergeni
alimentari. Un certificato di avvenuta formazione garantirebbe sia il ristoratore che l’utente da
potenziali rischi. Analogamente, un’adeguata formazione degli addetti alla distribuzione degli
alimenti sfusi (supermercati, alimentari, bar, gelaterie...) sugli alimenti allergenici più rilevanti e
sulle manifestazioni cliniche dell’AA, unitamente all’esposizione di liste degli ingredienti presenti
negli alimenti distribuiti, contribuirebbero a migliorare la qualità di vita del soggetto allergico. La
partecipazione delle associazioni di categoria può portare allo sviluppo di modalità di buona pratica
nella etichettatura e migliorare il rapporto con il consumatore. L’ambito scolastico è uno dei più
sensibili per l’AA; infatti la maggiore prevalenza della patologia nell’età infantile e la possibilità di
ingerire un alimento allergenico durante la refezione scolastica determinano l’elevata frequenza di
reazioni a scuola. Un’adeguata formazione va rivolta a tutti gli operatori della ristorazione
scolastica che devono conoscere gli allergeni alimentari, valutare l’etichettatura dei cibi ed attuare
protocolli che consentano di evitare l’alimento allergenico (www.salute.gov.it Linee di indirizzo
nazionale per la ristorazione scolastica). Devono essere fornite nozioni sul riconoscimento delle
AA, deve essere stilato un piano di azione che preveda il riconoscimento dei soggetti a rischio, le
norme preventive, procedure e terapia d’urgenza. Vanno individuati i soggetti in grado di
somministrare i farmaci salvavita necessari alla risoluzione di eventuali reazioni, con specifica
formazione sull’argomento. A tale proposito sono già state sviluppate in vari Paesi europei linee
guida per affrontare l’AA a scuola. • Formazione del personale medico e paramedico:
l’insegnamento di nozioni fondamentali sulle manifestazioni allergiche ed in particolare sulla
anafilassi deve avvenire durante il corso di studio. Ulteriore specifica formazione, attuata da
specialisti allergologi e dietologi, o personale individuato qualificato e con esperienza specifica,
deve essere indirizzata a tutti gli operatori coinvolti nella ristorazione ospedaliera e assistenziale.
Particolare attenzione deve essere posta nella prenotazione, preparazione e distribuzione della dieta
idonea per prevenire il rischio di somministrare un alimento allergenico, oltre agli interventi di
emergenza in caso di ingestione casuale. Il personale delle strutture dedicate alla medicina di
urgenza, ospedaliera e territoriale, deve avere anche nozioni indispensabili per il riconoscimento e il
trattamento delle gravi reazioni di AA. Criticità Oltre alle già citate difficoltà ad ottenere dati
scientifici validati sulla dose soglia e alla presenza di allergeni occulti, o a fenomeni di
contaminazione, si segnala una scarsa consapevolezza da parte del consumatore della funzione
fondamentale dell’etichetta, spesso dovuta a difficoltà di lettura, etichetta mutilingue e informazioni
riportate con caratteri di stampa piccoli. Il Regolamento 1169/2011/CE relativo all’informazione dei
consumatori introduce requisiti minimi di altezza dei caratteri tipografici e di visibilità delle diciture
ai fini di una migliore comprensione da parte dei consumatori I media ed internet sono mezzi di
diffusione dei messaggi molto efficaci: la creazione di siti pubblici dedicati, ove sia reperibile la
legislazione attuale e da dove sia possibile scaricare materiale informativo ”validato”,
permetterebbe di controbilanciare messaggi non corretti e potenzialmente dannosi sull’argomento.
Il Ministero della Salute, attento alle esigenze dei cittadini, intende coordinare ed armonizzare gli
interventi relativi non solo alla formazione nei vari ambiti, ma anche al miglioramento della qualità
dei prodotti alimentari. L’intento è anche quello di pervenire ad una maggiore “visibilità” delle
etichette con la collaborazione dell’industria alimentare, le società scientifiche di allergologia e
immunologia clinica, gli istituti di ricerca, le associazioni dei pazienti e dei consumatori.

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