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La stanchezza di Marte Luigi Alfieri

L’ultimo libro di Luigi Alfieri è dedicato all’analisi della guerra come dimensione sia antropologica che politica. Tale
intento – dichiarato all’inizio e portato avanti con costanza fino alla fine – costituisce la peculiarità di questo lavoro,
la sua efficacia teorica e prospettica. Alfieri analizza la guerra come «il culmine dell’esperienza umana» (p. 9) e
riprende, per svolgerla fino in fondo con coerenza, la celebre definizione di Elias Canetti secondo cui in guerra «si
tratta di uccidere».

Il libro si apre con una domanda rispetto al rapporto tra politica e verità. Già i filosofi classici hanno cercato il luogo
del discorso vero all’interno dello spazio politico, e sono giunti alla conclusione che il governo democratico, come
spazio della conflittualità e del disaccordo, era un luogo del tutto estraneo alla parola unica del discorso vero. La
frattura tra la dimensione filosofica e la prassi politica è originaria, pertanto occorre rintracciare le basi della politica
in uno spazio situato altrove rispetto alla razionalità apollinea e alla filosofia che ne è figlia.

Per questo il Prologo del volume contiene una importante analisi antropologico-filosofica dell’identità in quanto
dimensione collettiva che si coagula attorno ad uno spazio simbolico in cui è possibile costruire il senso del Noi e
l’appartenenza ad un gruppo. Il disporsi originario dei componenti del gruppo attorno ad un simbolo, che è di altra
natura rispetto al loro essere viventi, innesca un processo di acquisizione di una identità collettiva. La differenza
originaria è necessaria in quanto svolge la funzione di fulcro attorno al quale si può dire di essere tutti uguali –
ovvero tutti differenti.

Il simbolo che sta al centro del cerchio, attorno a cui si costruisce l’identità, è un confine assoluto e un confine
interno, un perno attorno a cui tutti i componenti del gruppo girano insieme. In questo confine, che è allo stesso
tempo «inaccessibile, intoccabile, privilegiato, impuro» (p. 26), Alfieri ritrova il senso del sacro. All’origine
dell’identità, quindi, non c’è l’autoreferenzialità di un centrarsi sul noi, ma un girare attorno ad altro: «dunque
diremo di essere quelli che hanno un non/noi comune. Un qualunque possibile non-noi comune. Un qualunque
possibile non-noi, una qualsiasi dimensione del non-umano. Sarà spesso una dimensione animale.

Chi siamo noi? Siamo i Parrocchetti. O gli Opossum. O i Lupi, i Leoni, i Gattopardi» (p. 27).

René Girard interpreta questo elemento differente come il frutto di una uccisione originaria e collettiva, laddove alla
base dell’uguaglianza c’è la differenza primaria, quella che si stabilisce tra molti vivi e un solo morto. All’interno di
una conflittualità diffusa, nel gruppo emerge un elemento di differenza che caratterizza un solo individuo, e su
questo si catalizza la violenza di tutti gli altri, che sono invece indifferenti rispetto a quella specifica differenza. Allora
tutti coloro che sono uguali uccidono il diverso e così rendono manifesta la differenza originaria che è la Morte,
rappresentata nello specifico dalla sua manifestazione, ovvero da un cadavere. In ogni uccisione che si ripete, ad
essere uccisa simbolicamente è quella differenza che scombinava, che catalizzava il conflitto, ma quella differenza è
diventata la Morte. Al centro di questo cerchio della violenza sta la vittima che muore da innocente, quindi
accettando la propria uccisione, senza la quale noi non saremmo noi, gli assassini, coloro che uccidono la Morte.

Elias Canetti, al contrario, non identifica la violenza fondatrice della comunità con il mito del sacrificio della vittima,
ma interpreta la scena originaria in maniera capovolta. Il confine è doppio: sia esterno che interno. Fuori c’è il
Nemico che è il non-noi, la Morte esterna che ci assedia e che bisogna uccidere per poter rimanere vivi. Ma per
uccidere la Morte esterna si ricorre al confine interno, che è anch’esso Morte, intesa come strumento per
proteggere il gruppo.

Secondo Alfieri, entrambe le versioni della fondazione della violenza umana all’interno del gruppo dei viventi sono
giuste: né Girard, né Canetti hanno sbagliato, ma hanno ragione solo insieme. La Morte è il confine esterno, ma è
anche il confine interno, è un non-noi che sta dentro e fuori. E questo è tanto più evidente se posto in relazione alla
guerra, come paradigma della violenza, tra la seconda metà del ‘900 e l’inizio del XXI secolo. Dopo i due orrendi
estremi della Seconda Guerra Mondiale – la morte seriale nei campi di sterminio nazisti e la Bomba atomica che ha
cancellato due città del Giappone e ha lasciato dietro di sé la scia della morte per contaminazione –, la guerra ha
assunto una nuova dimensione. E noi che continuiamo a funzionare come il gruppo originario, giriamo ancora
attorno alla Morte, ma avendo diminuito e in molti casi reso virtuali le uccisioni. Ora la Morte per antonomasia è la
Bomba che potrebbe uccidere tutti definitivamente ma che tuttavia rimane virtuale: infatti, data la sua potenzialità
annichilente, nessuno vuole che scoppi per davvero.
Trasformando la morte in principio costruttivo, come scrive Alfieri: «abbiamo raggiunto il punto di non ritorno da cui
nasce una svolta radicale. La guerra l’abbiamo sempre fatta. Ma adesso, o la guerra finisce o finiamo noi» (p. 35).
Tuttavia con l’avvento della Bomba la guerra è cambiata ma non è finita, e questo fatto necessita di una riflessione
sul conflitto bellico in termini politici e giuridici. Per questo Alfieri si concentra sulla categoria politica di sovranità, e
soprattutto sulla differenza tra sovranità interna e sovranità esterna. Secondo l’autore, dopo la Seconda Guerra
Mondiale gli Stati che non posseggono nel loro arsenale la Bomba atomica non possono essere più considerati
sovrani. La sovranità esterna, infatti, non è data una volta per tutte, e «non si fonda in nessun caso su un titolo di
legittimità che non sia la guerra» (p. 42). Tutti gli Stati che non possono vantare la possibilità di fare la guerra con la
Bomba non sono più sovrani, nel senso che non possono più essere titolari di un’azione di guerra – se non in
coalizione e obbedendo a potenze nucleari. D’altro canto, chi ha la Bomba è condannato ad una sovranità che
continua fino a quando rimane in possesso dell’arma di distruzione; per questo la Russia, nonostante i profondi
mutamenti avvenuti dopo la caduta dell’URSS, è ancora uno Stato sovrano. La guerra che stabilisce la sovranità
esterna, quindi, non è più possibile, se non come un suicidio collettivo. Pertanto è diventata una non-guerra, che è
allo stesso tempo una guerra fredda o una pace nucleare tra Stati sovrani (detentori della bomba). Parallelamente, la
Dichiarazione di guerra è scomparsa nella prassi politica internazionale, e anche la stessa parola «guerra» è stata
sostituita da altre che corrispondono meglio all’orizzonte mutato.

Tuttavia, come fa notare Alfieri con logica stringente, quello che non è cambiato è il paradigma della violenza, ora
però giocato nella dimensione della sovranità interna. In questo quadro si inseriscono il terrorismo e l’ormai
decennale guerra volta a contrastarlo e ad annientarlo, che non è una guerra tra soggetti sovrani, bensì una guerra
che uccide, fiacca e irrita i giganti nucleari, ma che non sposta la situazione sul piano internazionale – almeno fino al
momento in cui il terrorismo internazionale non si dotasse di un pari arsenale nucleare, ma a quel punto diverrebbe
anch’esso un soggetto sovrano.

Con un’analisi della dimensione politica della sovranità interna, l’autore riflette – a partire da Hobbes – sul problema
del consenso alla guerra. Secondo il paradigma hobbesiano, il sovrano ha tutti gli strumenti per uccidere, e il
principale di questi è senza dubbio il consenso, che diventa “legittimità”. Ed è sul tema del consenso che Alfieri nota
una irriducibile problematicità delle considerazioni hobbesiane. Infatti la motivazione del pactum originario – col
quale i pari rinunciano alla sovranità diffusa e alla possibilità di darsi la morte l’un l’altro in favore di un unico che
può uccidere, ma che dà anche la sicurezza di pacificare tutti – non regge alle prove della storia dell’umanità. La
sovranità concentrata nelle mani del sovrano ha ucciso molto di più di quella diffusa, e anche l’antropologia culturale
fornisce prove inequivocabili in tal senso. Infatti nelle società chiamate “segmentarie” o “acefale” la violenza è
diffusa ma viene sottoposta a meccanismi di controllo che si innescano a partire dalla distribuzione quasi paritaria
delle forze in gioco e dal fatto che non vi sono forze del tutto inermi.

Ma se il sovrano non è l’elemento pacificatore perché allora si acconsente al patto? «Perché si crede, illusi o
ingannati, che pacifichi? O proprio perché non pacifica, proprio perché apre la strada a una violenza che altrimenti
sarebbe limitata, bloccata, frustrata?» (p. 53). Di nuovo due ipotesi che sembrano escludersi a vicenda ma che
secondo l’autore, non sono sbagliate se esaminate insieme perché a loro modo complementari Per accettare un
sovrano è necessario credere che questo porterà la pace e la sicurezza, ma il sovrano assolve anche al compito
simbolico di trovare un motivo per avere un destino comune, al di là della libertà di ciascuno, difesa o difendibile con
le armi. Il consenso dato al sovrano è una risposta al problema dell’isolamento nella libertà, al problema
dell’individualismo che trova il suo limite estremo nella morte. «L’indipendenza reciproca (la pari uccidibilità) può
darci la sicurezza meglio di quanto farebbe qualunque sovrano. Ma ci lascia soli con la nostra morte. E non è tanto
della morte che abbiamo paura, quanto dell’essere soli con lei: del non poter avere una storia che, collegandoci
insieme, ci apra un futuro indeterminato, ci consenta di pensare a noi, al noi anzi, rendendoci così perfettamente
tollerabile (o desiderabile, addirittura) che muoia l’io. Per questo crediamo così facilmente alla promessa del sovrano
(o aspirante tale) di darci la pace: quella pace che in realtà abbiamo già, per conto nostro, ma per conto nostro non
ha appunto senso» (p. 54). Il consenso diventa allora legittimità, e soprattutto garantisce al sovrano la possibilità di
identificare il nemico contro cui è possibile fare il salto di qualità e passare dall’essere tutti parimenti uccidibili
all’essere tutti insieme uccisori. Il sovrano hobbesiano serve a «darci la guerra» (p. 55) e non a garantire la pace, e
questa è la vera cifra della sovranità esterna. A questo punto, la connessione tra le spiegazioni politiche di matrice
antropologica della violenza e la dinamica della guerra come prodotto della sovranità portano Alfieri a trattare la
tragica vicenda della Shoah secondo la prospettiva degli assassini. L’autore ritorna sul lavoro di Elias Canetti e sulla
definizione della guerra come l’esperienza umana in cui si tratta di uccidere. La vicenda della guerra assoluta che si
esprime nello sterminio è quella già descritta con grande lucidità da Arendt e da Levi tra gli altri, e Alfieri riconduce
tale descrizione nell’alveo di una spiegazione antropologica. Nel momento in cui la guerra è dichiarata non in nome
di un territorio da conquistare, o di una offesa da risanare, ma per una nuova umanità o per qualsiasi altro concetto
astratto, individuato come fine buono e giusto, allora la separazione tra chi uccide per motivi giusti e chi viene ucciso
diventa una frattura insanabile, quindi: quelli che uccidono possono dirsi a pieno titolo i buoni: «Noi siamo i buoni,
noi vogliamo che gli uomini siano buoni, noi vogliamo che trionfi il bene: di conseguenza, tutti gli altri sono il male.
Che cosa deve fare il bene quando combatte il male? Deve ovviamente annientare il male, deve sterminarlo» (pp. 81
- 82).

Approfondito il motivo per cui è possibile, ancora oggi, andare in guerra a uccidere e a morire, seguendo un
meccanismo collettivo senza fine che ha origini antichissime e non razionali, Alfieri si occupa di fornire una
prospettiva di pace, seppure al di fuori del discorso pacifista. Le due Guerre Mondiali del ‘900, con la loro mattanza,
hanno inflitto un duro colpo alla «seduttività dell’uccidere» (p. 105): la guerra è stata incriminata come disvalore e la
pace promossa come valore, sia in politica internazionale che di fronte all’opinione pubblica. Anche se la presenza
della Bomba come arma finale non ha portato alla fine della guerra, ne ha comunque diminuito il potenziale
svolgimento su scala mondiale. Ma per sconfiggere la guerra in via definitiva occorre uscire da ogni particolarismo
individualista, e accogliere – con la prospettiva di superarlo – il meccanismo della violenza collettiva, quello che si
alimenta della costruzione del nemico come portatore di morte. Se si riuscirà a eliminare la morte che è
rappresentata dal nemico eliminando anche la suddivisione primaria tra noi e loro si sarà segnato un passo
fondamentale per la risoluzione verso la pace.

L’altra strada per sconfiggere la guerra è paradossalmente proprio quella inaugurata dalla Bomba. Con essa abbiamo
acquisito la possibilità della morte di tutta la nostra specie, e la deterrenza all’uso della Bomba funziona da oltre
mezzo secolo per impedire la guerra tra soggetti sovrani. Tuttavia la spinta faustiana alla tecnica, dopo aver ottenuto
il risultato della Bomba – che è la morte assoluta –, ci porta a lavorare alacremente sul controllo della vita biologica,
con nuove implementazioni della medicina e della farmacologia. Forse in futuro l’umanità potrà avere tra le mani le
chiavi della vita della propria specie, e a quel punto il cerchio sarà completo, senza più un nemico – una morte dal di
fuori -, e senza più una morte da uccidere dentro il cerchio simbolico, la guerra sarà debellata, ma a costo di un
controllo tecno-politico spaventoso, per quanto fantascientifico. Il capitolo finale è dedicato ai modelli di difesa
presenti nella Costituzione italiana. L’autore affronta un’analisi storica e giuridica molto precisa degli articoli 11 e 52
della Costituzione.

L’Articolo 11, dedicato alla «difesa della pace» (p. 182) è senza dubbio figlio delle mutate condizioni politiche
internazionali post-belliche, concomitanti con la nascita dell’ONU e con il forte richiamo alla necessità di mantenere
la pace (cfr. Articolo 1 della Carta delle Nazioni Unite). I costituenti non solo hanno fornito una indicazione di
principio a favore della cooperazione per la pace, ma hanno anche inserito nel testo una chiara disposizione alla
limitazione della sovranità in presenza di un ordinamento internazionale determinato ad assicurare la pace e la
giustizia. In questo modo l’ordinamento interno dello Stato italiano contiene un presupposto per rigettare la guerra
offensiva in ogni caso, ma anche difensiva di fronte ad altre soluzioni possibili.

L’Articolo 52 è dedicato invece alla «difesa della Patria» (p. 169) presentata come un «sacro» dovere del cittadino.
Alfieri nota come tale Articolo presenti una singolare ed unica ricorrenza dell’aggettivo «sacro» che per il resto non
compare in nessun’altra parte della Costituzione e sottolinea come tale ricorrenza risulti problematica per una
interpretazione giuridica. Non si tratta di un richiamo morale ma proprio di un accenno alla sfera della sacralità che
appartiene all’ambito della religione. «La Costituzione impone qui un dovere propriamente religioso, cioè un culto
della Patria. La Patria stessa è sacra, se sacro è il dovere di difenderla. E non c’è un dovere sacro, nei confronti di
sacre entità, che non sia un dovere di compiere sacrifici. Da questo significato religioso discende il solo possibile
significato giuridico della disposizione: l’affievolimento del diritto alla vita e il conferimento dell’autorizzazione a
uccidere. L’obbligo è quello di sacrificare altri, ed eventualmente di sacrificarsi, quando lo richieda lo Stato,
sacralmente trasfigurato in Patria» (p. 171). I due Articoli citati sono quindi entrambi frutto di due diverse concezioni
della funzione militare: il primo innovativo e incentrato sulla dimensione internazionale coeva; il secondo arcaico e
legato ad una visione simbolica della Patria e della sua difesa. Sottoposti ad un’attenta analisi entrambi risultano
asincroni tra di loro e non sistematizzabili in una visione univoca. Il libro si chiude con una riflessione storica, intensa
e molto documentata, sulla costruzione simbolica e politica dell’esercito italiano a partire dal Risorgimento e fino ai
nostri giorni.

Capitolo 2 Sovranità’, MORTE E POLITICA

PARTE SECONDA – LA VIOLENZA SOVRANA

Per una politica della sovranità

Se una volontà si pone come sovrana, nel rapportarsi con le volontà altrui non le riconoscerà sicuramente e per
definizione come superiori. Sarà un volontà imperante, quando incontra volontà ritenute inferiori; confliggente nel
caso in cui incontri volontà che la contrastano ma appartengono a soggetti riconosciuti come del medesimo rango.
Tra volontà pari si delimitano i rispettivi campi di competenza oppure, se non ci sono delimitazioni conosciute, ogni
volontà si presenta all’altra come totale. In questo caso il contrasto si risolve solo con un atto di forza che elimini o
sottometta una delle volontà configgenti.

Sovranità interna e sovranità esterna

Emerge una differenza tra sovranità interna e sovranità esterna. La sovranità interna si afferma come unica volontà
legittima. Le eventuali volontà in contrasto sono perciò volontà colpevoli, indegne di esistere, meritevoli di
distruzione. Nella sovranità esterna, sovrano è chiunque riesca a fare la guerra senza perderla o, pur perdendola,
riesca a convincere l’avversario che il rispetto della propria esistenza come soggetto sovrano è preferibile al tentativo
di sottometterlo o distruggerlo. In questo caso la guerra ha una funzione costitutiva perché determina il sovrano. La
sovranità esterna non è mai conquistata una volta per tutte.

Chiunque possa fare la guerra ha il diritto di contestare l’altrui sovranità perché questa sovranità non si fonda su un
titolo di legittimità che non sia la guerra.

In ogni momento storico, i soggetti sovrani costituiscono la comunità (sempre provvisoria) dei sopravvissuti alla
guerra.La sovranità continua finché dura la capacità di sopravvivere alla guerra o la convinzione degli altri soggetti
che questa capacità ci sia e non convenga sfidarla.

Quando sorgeranno dubbi, l’unico modo possibile per confermarla sarà metterla a rischio nella guerra.

L’introduzione della bomba atomica ha ridefinito l’ambito della sovranità esterna. La guerra è cambiata ma non è
finita e questo necessita di una riflessione sul conflitto bellico in termini politici e giuridici. Solo chi ha le bombe
atomiche è sovrano e riconosce come sovrani gli altri possessori di bombe. Dunque oggi la sovranità esterna
appartiene soltanto alle potenze nucleari. Tutto il resto è colonia o protettorato.

La guerra del Vietnam non è stata una sconfitta militare degli Stati Uniti ma è stata presa la decisione di abbandonare
una guerra non veramente necessaria che avrebbe provocato il rischio di un conflitto nucleare generalizzato.

Da qui si comprende l’altra innovazione fondamentale propria dell’era atomica: chi non possiede armi atomiche, non
esiste come stato sovrano. Ma chi la possiede, è sovrano finché ce l’ha a dispetto di ogni insuccesso competitivo, di
ogni crisi interna, di ogni perdita di identità.

Per questo la Russia, nonostante i profondi mutamenti avvenuti dopo la caduta dell’Urss, è ancora uno stato
sovrano. Tra potenze nucleari non ci sono più vincitori e vinti. Siamo oltre la guerra. Si parla di una non-guerra che è
allo stesso tempo una guerra fredda o una pace nucleare tra Stati sovrani (detentori della bomba).

Secondo Alfieri, quello che non è cambiato è il paradigma della violenza, ora però giocato nella dimensione della
sovranità interna. In questo quadro si inserisce il terrorismo che è l’illusione di poter fare la guerra senza essere
soggetti sovrani davvero capaci di uccidere. Una guerra che uccide, fiacca e irrita i giganti nucleari ma che non sposta
la situazione sul piano internazionale (almeno fino al momento in cui il terrorismo internazionale non si dota di un
arsenale nucleare ma quel punto diventerebbe un soggetto sovrano.

Con un’analisi della dimensione politica della sovranità interna, l’autore riflette sul problema del consenso della
guerra.
Non c’è sovrano senza sudditi ma ci sono sudditi senza sovrano

Secondo Hobbes, il sovrano ha tutti gli strumenti per uccidere e il principale di questi è senza dubbio il consenso che
diventa legittimità. Poco importa se questo consenso è argomentato e ragionevole, o convinto ed entusiastico, o
indiretto e passivo. Per questo la volontà sovrana non riconoscere altre volontà accanto a se stessa.

Qui risiede la differenza tra ribellione (criminale) e rivoluzione (legittima e fonte di legittimità perché è un
cambiamento della volontà sovrana) e la legittimità è la convinzione che il consenso sia dovuto o necessario perché è
impensabile che si possa fare a meno di quella forma di autorità.

La volontà del sovrano è la risultante della volontà dei sudditi. Il sovrano può sempre fare ciò che gli altri sudditi gli
fanno fare (ciò che lo obbligano a fare e ciò che gli permettono di fare).

Se riconoscesse vincoli diversi, negherebbe il rapporto costitutivo che lo lega al consenso.

Ci sono però molte forme di organizzazione sociale che fanno a meno della sovranità e utilizzano altri principi
ordinatori. La sovranità della legge è un modo suggestivo ed iperbolico per designare un sistema in cui c’è una rete
complessa di forze sufficientemente convergenti da potersi presentare e rappresentare come un tutto mentre la
sovranità del popolo è un modo sensato ed efficace di esprimere l’assenza di sovranità con una connotazione
positiva.

Violenza anarchica e violenza monarchica

Secondo Hobbes ci sarebbe un modo più semplice di realizzare la sicurezza senza la sovranità che individua come
l’essenza del disordine e il cuore stesso della paura: la possibilità di darsi la morte l’un l’altro in favore in favore di un
unico che può uccidere. Tutte le guerre sono prodotte da uno squilibrio di forze. Nessuno fa la guerra se non pensa di
poterla vincere o almeno di poter sopravvivere. In un contesto di uccidibilità realmente pari, la guerra non si fa. Se
davvero tutti possono uccidere tutti, il sovrano è superfluo ed è esattamente quello che ci insegna sotto un altro
profilo l’equilibrio del terrore atomico (è terrore ma equilibrio, in qualche strano modo pace e unificazione del
mondo).

Secondo Alfieri in Hobbes c’è una dimensione democratica quasi latente che consiste nell’uguaglianza degli uomini
per natura perché nessuno è per natura esente dal rischio di essere ucciso. Ad esempio, in Europa democrazia
significa poter andare a votare. In America può significare poter andare a sparare, infatti cittadino è chi può
difendere la propria libertà con le armi. Questa libertà consiste precisamente nell’essenza della sovranità
classicamente intesa, cioè nel poter uccidere. Tutti possono uccidere chi viola i loro spazi vitali, dunque tutti sono
sovrani, dunque un sovrano non c’è.

La sovranità incentrata nelle mani del sovrano ha ucciso molto più di quella diffusa e anche l’antropologia culturale
fornisce prove inequivocabili al riguardo.

Infatti nelle ”società segmentarie” o “acefale” la violenza è diffusa ma viene sottoposta a meccanismi di controllo che
si innescano a partire dalla distribuzione quasi paritaria delle forze in gioco e dal fatto che non ci sono forze del tutto
inermi.

In marcia uccisori

Secondo Alfieri per accettare un sovrano bisogna credere che questo porterà pace e sicurezza ma il sovrano assolve
anche al compito simbolico di trovare un motivo per avere un destino comune, aldilà della libertà di ciascuno, difesa
o difendibile con le armi. Può darsi che il sovrano menta senza ritegno il moltissime cose ma non mentirà quasi mai
riguardo a ciò che rappresenta l’essenza della sua promessa, la base della sua legittimità, cioè l’indicazione di un
senso, di una direzione di marcia.

Il con –senso è senso condiviso, senso comune. Consenso è ciò che ci fa procedere insieme, che ci da una direzione,
un obiettivo, che ci da un nemico.

È a questo che serve realmente il sovrano hobbesiano: a darci la guerra perché è il modo più semplice di costruire
una storia comune, di perseguire un progetto che ci consenta di proiettare la nostra storia fino a un tempo al di là di
noi, sia nel passato sia nel futuro.
Il consenso dato al sovrano è una risposta al problema dell’isolamento nella libertà, al problema dell’individualismo
che trova il suo limite estremo nella morte.

Abbiamo bisogno di salvarci dalla morte con parole che fondino e consolidino il nostro essere all’interno di una
promessa comune ed è così che la nostra storia diventa nostra, comune e con-sensuale, dicibile in un linguaggio
condiviso e compreso, racchiudibile nel mito del Noi buoni e Loro cattivi.

Ci siamo noi, i buoni: autentici, giusti, liberi e conformi alla natura delle cose, destinati.

E ci sono loro, i cattivi: finti, devianti dal giusto ordine, contorti e innaturali.

I buoni avrebbero la pace e la felicità che si meritano se non fosse per i cattivi, che vogliono corromperli, distruggerli.

Il mito del Noi ha bisogno di un narratore particolare che, oltre a garantirne la verità, deve promettere un futuro.
Deve rappresentare l’unità dei molti e guidare sovranamente la marcia, intesa come marcia degli uccisori della
morte.

Miti di guerra e di pace

Il grande mito dei Noi buoni e Loro cattivi ha tutte le varianti immaginabili, di destra e di sinistra: può essere tutto
quello che si vuole, nazionalista, razzista, conservatore, progressista. Quando capita in mano ad un artista, ad un
poeta della politica riesce a far battere il cuore anche al più saggio, disincantato o razionalista di noi..

Se i nemici e tiranni esistono davvero, una parte di colpa è di chi combatte quei nemici e si ribella ai tiranni. Si giunge
così ad una nuova versione del mito in cui Noi siamo i pacifisti e Loro sono i guerrafondai e bisogna fare guerra alla
guerra.

Secondo Alfieri dobbiamo capire che esistono dei problemi senza soluzione e il problema più insolubile è l’uomo.
Dobbiamo imparare a convivere con i problemi insolubili che significa impedire che ci uccida o almeno limitare e
contenere la sua capacità di farlo.

Dobbiamo comprendere che tutti i miti sono provvisorie configurazioni di senso, che cambiano e dobbiamo
comprendere che tutti hanno un proprio mito che magari a noi non piace ma che ad altri.

Può essere giustificato morire per il proprio mito ma non è giustificato uccidere chi ha un mito diverso dal nostro.

Dobbiamo cercare di non mostrificare la figura del nemico e di riconoscere la nostra molteplicità e variabilità.

Il Leviatano involontario e la libertà

Oggi possiamo considerare compiuto il passaggio dagli Stati nazionali ad un unico impero mondiale che ha la
particolarità di essere una sorta di “impero condominiale” in cui neanche la potenza preminente (gli Usa) può agire
senza il consenso anche implicito delle altre potenze nucleari.

I protettorati , cioè gli Stati non nucleari, sono tutti soggetti a questo condominio imperiale con alcune ripartizioni
territoriali abbastanza imprecise e molto variabili.

Oggi la sovranità è solo interna ma è una sovranità imperiale, mondiale, globalizzata, onnipresente ma non
onnipotente, senza confini e senza alternative.

Il mondo può essere solo così com’è. Ogni tanto si incontrano dei muri invisibili, nessuno ammette di averli costruiti
ma ci sono e non si riesce ad andare da un’latra parte.

In questa situazione di sovranità mondiale, il sovrano non ha vera volontà, non esercita vero governo, non ha veri
nemici, non fa più la guerra. Difficile decidere se uccide tanto o uccide poco.

Non c’è più un mito che ci da un destino e ogni tentativo di miti alternativi si perde per strada, magari dando luogo a
qualche piccolo massacro.

Diventa così un altro problema insolubile. Secondo Alfieri i problemi insolubili non devono far paura. Dobbiamo
imparare a goderceli e vederli sotto un altro aspetto. I problemi insolubili sono punti fermi. I punti fermi sono limiti
ma sono anche conquiste, basi solide su cui costruire.
Secondo Alfieri ci sono però due tendenze che cercano di togliere di mezzo i punti fermi:

• Il tentativo di trovare un nuovo nemico, di fare di nuovo la guerra, magari nell’illusione che si possa costituire un
univoco dominio mondiale. Bisogna temere la ricostituzione di schemi da guerra fredda, una nuova suddivisione del
mondo in imperi nemici che riporterebbe in un rinnovato terrore nucleare.

• Il tentativo di spezzare il rafforzamento potenzialmente totalitario dell’ordine mondiale. Si tratta di comprendere


che le vecchie identità non esistono più. Oggi non si può essere nazionalisti, razzisti o rivoluzionari e credere che
massacrarsi può cambiare il mondo.

Esistono due punti fermi:

• Il mondo è uno e una è l’umanità. È stato per secoli una delle utopie più audaci e più epiche. Cerchiamo di
considerarlo per quello che è: una vittoria, una conquista.

• Il mondo è complesso e anche se solo una l’umanità, è varia e così dev’essere anche in futuro. Questo secondo
punto fermo non è ancora così fermo, bisogna consolidarlo. Il mondo è più un incontro-scontro tra sovranità esterne
ma non deve diventare un interno murato e soffocante e che l’umanità non diventi mai uniformità ma che il rifiuto
del consenso totale non si trasformi in esplosione anarchica.

Dunque la vecchia storia è senza dubbio finita ma non è finita la storia.

Capitolo 3 CONSENSO DI MORTE. IL MALE POLITICO E IL PUNTO DI VISTA DEI PERSECUTORI

Il massacro invisibile

La connessione tra le spiegazioni politiche di matrice antropologica della violenza e la dinamica della guerra come
prodotto della sovranità portano Alfieri a trattare la tragica vicenda della Shoah secondo la prospettiva degli
assassini.

Alfieri sostiene che l’immensa oscenità della soluzione finale era invisibile agli occhi di coloro che ne erano gli autori
o complici, come se fosse coperta da un velo grigio di “normalità”.

“Sei milioni di innocenti uccisi da assassini ciechi”, inconsapevoli di essere assassini e meravigliati quando a guerra
finita vengono così definiti dai vincitori. L’orrore più grande è il loro sincero stupore di carnefici che pensavano di
essere soldati valorosi, buoni patrioti.

Non solo i morti tacciono

Di solito si scrive della Shoah dal punto di vista delle vittime. Ovviamente le vittime che testimoniano per noi sono
quelle che si sono salvate e ci lasciano quindi una sensazione di un sia pur doloroso “lieto fine”. Solo i morti
riuscirebbero ad esprimere tutto l’orrore, l’orrore che ha vinto per sempre. I carnefici sono invece visti attraverso le
lenti dell’odio, della paura e del disprezzo. Sono mostri e non ci riconosciamo in loro e questo ci da un sollievo di cui
forse non abbiamo diritto.

Accanto al silenzio dei morti, c’è il silenzio degli assassini che, non sentendosi come tali, non hanno nulla da dire sul
proprio essere assassini. Mentre uccidevano, si autorappresentavano come soldati che fanno il loro dovere.
Probabilmente quelli che ne soffrivano, si autorappresentavano come eroi che si sacrificavano, vittime del dovere.

L’atroce paradosso è questo: il più orrendo assassinio di massa della storia umana non è stato commesso da
assassini.

Ad Auschwitz, ci siamo ancora

Per procedere oltre, bisogna mettere in discussione la tesi dell’unicità della Shoah.
Da un certo punto di vista, l’unicità della Shoah è indiscutibile. Nessuno popolo è stato perseguitato più lungamente,
più duramente e tragicamente degli ebrei. C’è invece da discutere quando viene considerata come una singolarità,
qualcosa che non è mai accaduto prima, non è mai successo dopo e non succederà mai più. Se partiamo dal punto di
vista che NOI siamo innocenti, perdiamo ogni possibilità di capire di cosa si tratta.

Bisogna piuttosto chiedersi come mai NOI abbiamo potuto fare questo, noi inteso come genere umano.

Hanna Arendt ha dedicato un libro al processo Eichmann, il più importante che sia stato scritto sui carnefici della
Shoah. Arendt sostiene che non era un mostro. Nessuno dei carnefici lo era. Sicuramente tra di loro c’erano
criminali, psicopatici e sadici. A parte rare eccezioni, i carnefici erano in tutto e per tutto uomini come noi.

Il male è banale, grigio, normale come lo era Eichmann che si descrive come un semplice funzionario impegnato in
pratiche amministrative. Spediva li ebrei a morire ma non aveva mai ucciso nessuno. Ciò non impedisce però che sia
colpevole della morte di milioni di innocenti che ha mandato a morire sapendo che andavano a morire.

Anni fa ha riscosso una forte polemica una ricostruzione della storia che colpevolizzava il popolo tedesco. Non tutti i
tedeschi di allora furono colpevoli ma tutti i tedeschi di allora in qualche modo sapevano cosa stava accadendo e
hanno lasciato che succedesse.

La colpa non solo del popolo del tedesco ma è generale in quanto molti furono i complici stranieri.

Uccidere per non morire (per non essere morti)

Certamente la Shoah non è solo uno dei tanti massacri della storia. Non solo gli ebrei sono state vittime dello
sterminio. Era in progetto l’estensione della “soluzione finale” ad altre categorie come polacchi, russi. Certamente i
morti sono tutti uguali. Ma gli ebrei hanno avuto un’assoluta centralità, per questo c’è una tragica unicità degli ebrei
come vittime.

Sicuramente però non c’è un’unicità dei carnefici. Tutti gli uomini sono potenzialmente dei carnefici. Il male è banale
perché compiuto da uomini buoni. Non solo da uomini normali, mediocri ma anche da uomini buoni che, in quanto
tali, si sentono obbligati , autorizzati a compierlo. Non dimentichiamo che per i nazisti gli ebrei erano i cattivi. Loro
erano i buoni che, come tali, dovevano eliminare i cattivi, magari soffrendo pure e sentendosi per questo ancora più
buoni, ancora più legittimati ad essere assassini.

Gli uomini compiono banalmente il male perché banalmente hanno paura, una paura generica, soprattutto e nel
senso di paura del genero umano.

Nel suo celebre libro (Llanto) Garcia Lorca coglie efficacemente l’essenza del problema: descrive il torero che scende
nell’arena per uccidere davanti a noi. Possiamo uccidere la morte, se la proiettiamo, se la scarichiamo addosso a
qualcun altro. La sensazione più intensa di essere vivi la si coglie nell’immediatezza del contrapporsi ai morti ed è
enormemente più forte se la si coglie mentre si sta uccidendo.

La guerra senza fine

È una delle tesi principali del libro Massa e potere di Elias Canetti.

Gli ebrei sono specialisti in quanto vittime e meglio comprendono il fenomeno della sopravvivenza, cioè di
continuare a vivere mentre gli altri muoiono, continuare a vivere perché altri muoiono.

La ragione per cui si rischia di morire in guerra è che offre l’inestimabile occasione di uccidere senza colpa, senza
sentire la propria violenza come criminale ma in un’atmosfera quasi nobile. Bisogna rischiare la vita per essere
autorizzati ad uccidere senza colpa.

Se, come insegna Canetti, ogni guerra è fatta per uccidere, questo uccidere è generalmente condizionato da un
obiettivo dichiarato che lo giustifica e insieme lo limita.

Ottenuto quel che si voleva, non si potrebbe continuare ad uccidere senza colpa.
Ben diverso è quando l’obiettivo è assoluto: il Bene, la Nuova Umanità. Se stiamo combattendo per la nuova
umanità, il nostro nemico mortale è l’umanità vecchia e dunque la guerra non può aver fine a meno che non abbia
fine il nemico.

Quindi noi siamo i buoni e vogliamo che trionfi il bene. Tutti gli altri sono il male. quando il bene combatte il male,
deve annientarlo, sterminarlo.

Tutte le volte che un conflitto viene impostato nei termini di “BENE VS MALE” questo significa che in qualche modo
“VITA VS MORTE”. Gli uomini vogliono uccidere la morte e questa è la più grande e disastrosa utopia perché
naturalmente non si può uccidere la morte.

Il solo modo di uccidere la morte è uccidere l’uomo e in fondo ogni politica di sterminio tende inconsapevolmente
proprio a questo: ogni carnefice è travolto dalla sua opera di distruzione, ogni sterminio è in qualche modo suicida.

Perché gli ebrei?

Nella tragedia degli ebrei il fanatismo e il pregiudizio sono solo strumenti. Si vuole uccidere la morte e ci si inventa un
colpevole, dunque bisogna avere un pregiudizio che diventa l’arma.

Fin dall’inizio della loro storia, gli ebrei sono stati vittime ed è questo l’aspetto innegabile di unicità della Shoah in
quanto rappresenta la costante storia di un popolo.

Siccome bisogna uccidere gli ebrei, bisogna trovare un motivo per farlo. L’essere ebrei li etichetta come diversi
riconoscibili.

Nessun persecutore si è mai chiesto cosa sono gli ebrei davvero, altrimenti avrebbe scoperto che non c’è nessuna
differenza.

Noi, buoni nazisti

Per bloccare o scoraggiare la persecuzione, occorrono meccanismi a-ideologici, istituzioni. Se i perseguitati hanno
uno Stato, sono vendicabili e sono privati di uno dei requisiti fondamentali della vittimizzazione.

Un ulteriore passo avanti è la creazione di un vendicatore imparziale e indipendente. Già il tribunale di Norimberga è
un tentativo di dar vita ad un’istanza internazionale in grado di giudicare i comportamenti non giudicabili sulla base
dei diritti nazionali.

L’idea che al di sopra del diritto dei singoli Stati ci sia un’istanza superiore rappresenta un’innovazione di enorme
importanza e conferisce alla vittima la vendicabilità. Se la persecuzione diventa un crimine, il persecutore diventa un
delinquente e il perseguitato diventa portatore di un’identità riconosciuta e di diritti. Molte cose sono cambiate ma il
nazismo delle brave persone non è morto con Hitler.

Proprio Noi italiani che, unici in Europa, abbiamo al potere forze politiche tra cui ci sono componenti
dichiaratamente e orgogliosamente razziste, che usano in maniera assolutamente tipica il linguaggio della
persecuzione, dovremmo meno degli altri sentirci innocenti.

PARTE TERZA – LA GUERRA IMPOSSIBILE

Capitolo 4 LA GUERRA IMPOSSIBILE: DALLA DETERRENZA ALLA PACE?

Due elusioni della guerra

In guerra si uccide, ci si espone alla morte. La morte è la sostanza della guerra.

Ci sono due modi di eludere i rapporti tra guerra e morte. Il primo è quello di considerarlo troppo scontato. Il
secondo è quello di porre la questione in forma moralistica e patetica, quasi che il fatto che in guerra si uccida e si
muoia fosse sufficiente a condannarla come male assoluto e ciò fosse una cosa ovvia.

È l’elusione tipica del pacifismo, inteso come specifica ideologia: se la guerra c’è, è solo perché il potere inganna e
manipola le coscienze.
Morire per Danzica?

L’interrogativo ripropone una frase del primo ministro inglese Chamberlain alla vigilia della Seconda Guerra
Mondiale: intendeva chiedere agli inglesi se avevano voglia di morire per una sperduta città polacca diventata
oggetto del desiderio di conquista di Hitler.

Alfieri analizza qui le motivazioni che ci spingono ad andare in guerra.

È necessario distinguere:

• Le motivazioni per cui un decisore politico a ciò legittimato sceglie la guerra come mezzo per raggiungere un certo
obiettivo.

• Le motivazioni per cui un cittadino accetta che quella decisione lo vincoli e va in guerra.

L’obiettivo politico per cui un governo decide la guerra non può mai avere per il singolo un peso superiore a quello
della propria vita. Vanno in guerra quelli che vogliono vivere e sperano di tornare.

La propaganda può fare molto ma se certi inganni del potere riescono, è perché danno alla gente una buona scusa
per fare ciò che farebbero comunque. Se l’inganno fosse veramente, scatenerebbe una ribellione immediata.

La conclusione inevitabile è che la guerra non ha motivi, cioè la guerra non è concepibile, dal punto di vista di chi la
fa, come mezzo per un fine. non si può morire per Danzica, ogni possibile Danzica non è la ragione per cui si muore.
La guerra è il fine, la presunta causa è solo il mezzo per poterla fare.

La morte e il guerriero

Non si uccide per cattiveria. Anzi, la maggior parte degli uomini non potrebbero uccidere se, uccidendo, non si
sentisse buona. Per questo il fine di uccidere richiede il mezzo di una buona causa. Il vero guerriero uccide ma non
ama infliggere sofferenza e terrore.

Il guerriero, uccidendo il nemico, trionfa sulla morte. Ama la vita, per questo uccide tanto volentieri.

L’animale più coraggioso

L’uomo non può fuggire la morte e non può nemmeno temerla. Secondo Nietzsche, l’uomo è il più coraggioso degli
animali ma è anche il più sofferente perché è il debole di tutti. Quindi sfida la morte per ingannarla, catturarla.

I signori della morte

Per Elias Canetti il potere è sopravvivenza. Il potente sopravvive uccidendo o facendo uccidere. Proprio la guerra,
dunque, è la dimensione del sopravvivere; per questo gli uomini l’hanno sempre intensamente amata.

Una prospettiva non pacifista sulla pace

Da non molto qualcosa è cambiato, tanto da poter dire che oggi la pace è possibile per la prima volta nella storia.

I veri pacifisti sono i cuori miti che, come Canetti, sanno guardare il mondo con occhi di ghiaccio.

Se oggi viviamo in una condizione che possiamo chiamare pace senza che ciò significhi che ci stiamo riposando dalla
guerra e ne stiamo preparando un’altra, lo dobbiamo alla guerra. La guerra ci ha catapultato in un nuova era in cui la
sopravvivenza è diventata impossibile. Per la prima volta nella storia siamo arrivati a far coincidere la guerra e la
sconfitta. Spingendo la guerra al di là di ogni limite, l’abbiamo resa impossibile. Con questo è cominciata una nuova
storia.

La guerra è diventata impossibile secondo la logica del guerriero ma la logica del burocrate o del tecnico non ci pone
al riparo dal rischio di una fine del mondo idiota.

Il cambiamento grande ed irreversibile è che il vero nemico che abbiamo di fronte è la Morte stessa che non può più
ingannarci e che non possiamo più ingannare.
Capitolo 5 LA STANCHEZZA DI MARTE. PROSPETTIVE SULLA GUERRA GLOBALE

Statue e cadaveri

Esistono due modi di considerare la guerra:

• Quello di chi la pensa o la racconta

• Quello di chi la fa

Dal punto di vista degli storici la guerra è un comportamento politico che si pone obiettivi precisi e razionali,
seguendo procedure molto complesse. Il pensiero di politici e generali produce mutamenti di valori, simboli,
immagini in un ambito territoriale descritto come ”teatro di guerra” dove si svolgeva una sacra rappresentazione
mistica in cui le statue degli eroi risulteranno l’unica durevole concretizzazione.

Poi c’è il punto di vista dei combattenti dove il fascino diminuisce mentre cresce la monotonia: fango, sudore, fame,
fatica, paura, insonnia, esplosioni, sangue, cadaveri fino a che ci si ritira o si avanza, il nemico si ritira o avanza e
qualcuno dice che la guerra è gloriosamente vinta o gloriosamente persa ma comunque gloriosamente finita.

Secondo Alfieri la migliore teoria fenomenologica della guerra è quella di Canetti, basata sul dato apparente e
banale che in guerra si tratta di uccidere.

Il potere in guerra ha funzione seduttiva: si offre, si rende disponibile a chiunque partecipi.

Il crimine senza nome

Nel mondo contemporaneo intervengono due novità di eccezionale importanza che modificano profondamente (e
almeno in parte irreversibilmente) la struttura della guerra e il suo campo di significati:

• L’orrore indicibile delle due guerre mondiali ha inflitto un colpo durissimo alla seduttività dell’uccidere, imponendo
la criminalizzazione della guerra e l’affermazione della pace come valore

• Un cambiamento ancora più grande e decisivo è l’introduzione dell’arma nucleare e più in generale l’estremo
sviluppo tecnologico dei mezzi di distruzione con la prospettiva dell’estinzione dell’umanità a causa della guerra.+

Fine della guerra e fine della sovranità

Tra i principali esiti storici di questo cambiamento dobbiamo innanzitutto considerare:

• La fine della guerra tra grandi potenze

• La vistosa rarefazione delle guerre degli Stati sovrani

Per due motivi evidenti:

• Chi iniziasse una guerra sarebbe un criminale per la comunità internazionale

• Tutte le grandi potenze sono dotate di un armamento nucleare e quasi tutti gli Stati sono alleati o protettorati di
potenze nucleari e dunque il rischio della distruzione totale sarebbe troppo forte.

Questo significa che la guerra viene fatta in altro modo e con altri nomi: con strumenti economici, commerciali,
valutari. Con la propaganda, con i servizi segreti e vari tipi di operazioni occulte, con l’interposizione di Stati minori e
di movimenti rivoluzionari o controrivoluzionari.

La guerra è criminale, dunque dichiararla è riconoscersi autori di un crimine; deve essere criminale l’avversario per
poterlo combattere senza dichiarargli guerra

. La guerra impossibile porta con sé l’impossibilità degli Stati e non resta alternativa se non quella tra un governo
mondiale e la legge del più forte che per ora è la situazione reale.
Bombe intelligenti e martiri folli

Da una parte, il terrorismo costituisce la legittimazione principale del monopolio su scala mondiale della forza: il
mondo intero deve essere protetto dalla minaccia di organizzazioni fanatiche e criminali, l’unica superpotenza
rimasta deve farlo ed ha il diritto di farlo. È essenziale comprendere che in sostanza corrisponde ad una convinzione
di possedere una missione storica indiscutibile e ineludibile.

Dall’altra parte, l’ordine mondiale attualmente consolidato delegittima in partenza ogni identità e ogni storia che
non siano radicate nel libero mercato, nella democrazia parlamentare, nella cultura anglosassone e nella lingua
inglese. Questo determina una sensazione angosciosa di subire un processo di esclusione dal mondo e la convinzione
di avere il diritto e il dovere di resistervi ad ogni costo.

Per molto tempo la resistenza alla globalizzazione unilaterale ha potuto esprimersi efficacemente sotto forma di
movimenti rivoluzionari che non sono stati in grado però di costruire alternative sostenibili.

Quando poi per estirpare il terrorismo, l’unica superpotenza del mondo globalizzato usa le sue armi intelligenti,
naturalmente il terrorismo esplode e, per uguagliarne la potenza, deve essere estremo, sfrenato, folle.

Il ritorno del sopravvissuto

Con i terroristi non si tratta perché con il loro avversario non vogliono in nessun modo convivere. Combattono per
uccidere l’avversario, cancellarlo dal mondo.

L’umanità è stanca di guerra ormai da più di un secolo e l’entusiasmo per la guerra è sempre meno convinto e
convincente e ha sempre più il sapore di idiozia.

La guerra (terroristica) al terrorismo potrebbe davvero essere l’ultima, prima che a Marte cada di mano la spada.

Uscire dal mondo, verso il mondo

Il nostro modo di concepire la globalizzazione è ancora sorprendentemente provinciale.

Siamo una delle componenti della globalizzazione e non la meta predestinata di questa. Bisogna proporsi, lasciarsi
scegliere e non imporsi.

Un buon nemico è un grande educatore.

Se non vogliamo la guerra, dobbiamo smetterla di pensarci come conquistatori o liberatori del mondo ma piuttosto
come viaggiatori che, per arrivare in un mondo nuovo, devono prima di tutto accettare di lasciarsi alle spalle quello
che ora è riconosciuto come mondo.

Capitolo 6 LA GUERRA INDICIBILE E IL TERRORE

La criminalizzazione della guerra e la fine dello Stato

In primo luogo, il livello di distruttività delle nuove tecnologie belliche ha fatto saltare tutte le precedenti
categorizzazioni della guerra, qualificandola come atto intrinsecamente criminale.

In secondo luogo, l’apparizione dell’arma nucleare ha comportato un ulteriore aumento della distruttività bellica e
ha determinato una svolta radicale riguardo alla natura stessa del genere umano. L’uomo è diventato l’unico essere
vivente che possa suicidarsi come specie.

Non ci sono più veri Stati al mondo ma solo finti Stati da cartolina, protettorati e superpotenze nucleari: un concetto
nuovo perché in qualche modo si deve prendere atto che oggi parlare di Stati o è troppo o troppo poco.

Impossibilità della guerra

Ne consegue che la guerra come Stati è diventata impossibile. Se parliamo degli Stati “veri” come sono oggi i
protettorati, la guerra può avvenire solo su autorizzazione o delega della potenza protettrice e quindi non sarà
comunque espressione di sovranità. Riguardo alle potenze supernucleari, la guerra è da escludere perché il rischio di
perdere il controllo della situazione ed arrivare all’uso della bomba atomica è tremendamente reale. Si parla oggi di
guerre economiche, diplomatiche e simboliche.
A tutti i livelli agisce la fondamentale e universale criminalizzazione della guerra, per cui nessuno Stato può
riconoscere di farla (altrimenti verrebbe qualificato come autore di un crimine) e se la fa, deve negare di farla
sostenendo che si tratta di legittime operazioni di autodifesa.

Il cambiamento è reale ed enorme e comprende due punti:

• L’assunzione della guerra come valore in sé è ormai impossibile;

• La stessa parola “guerra” deve essere usato per designare ciò che il proprio Stato sta effettivamente facendo.

• Di conseguenza la guerra si fa in maniera diversa rispetto al passato: deve durare poco, costare poco e fare poche
vittime. Se va male bisogna finirla in fretta e il vantaggio di una guerra “indicibile” è che la si può anche perdere
senza riconoscerlo (se non c’è guerra, non c’è sconfitta).

• Niente guerre tra potenze nucleari perché non c’è nessun dubbio che si perda in ogni caso.

La pace sotto la bomba

Dunque la bomba è diventata il vero e proprio fondamento dell’ordine internazionale e senza di essa anche l’ONU
avrebbe fatto la fine ingloriosa della Società delle Nazioni.

C’è una fortissima convenienza ad averla perché si passa al grado superiore, si acquista l’unica forma di sovranità
sopravvissuta e ci si libera dalla dipendenza del benvolere altrui.

A questo punto una facile previsione è che il mondo futuro sarà fatto di potenze nucleari o di confederazioni di Stati
alcuni dei quali sono potenze nucleari affiancati da un buon numero di piccole o grandi Repubbliche di San Marino
che vendono la propria sovranità al miglior offerente e ci sono casi in cui non si può far nulla di più saggio.

Il prezzo da pagare sarà la progressiva intensificazione del rischio di una catastrofe nucleare scatenata da un
incidente tecnico o da un occasionale atto di stupidità o follia.

Ma la guerra come atto politico, come decisione più o meno razionale, sarà scomparsa definitivamente e allora la
bomba potrebbe diventare un pezzo da museo.

La bomba e i kamikaze

Questo scenario è messo in crisi da un fatto nuovo: il terrorismo nella forma suicida che è diventata ormai abituale.

Il suicidio ha un forte rapporto con la bomba: l’uso della bomba sarebbe il suicidio dell’umanità.

In un teatro di operazioni in cui la bomba non è adoperabile, il suicidio diventa la condotta bellica più conveniente:
chi si uccide, si trasforma in arma, colpisce la propria stessa morte ed è tecnicamente invincibile.

Dal punto di vista strategico, il terrorismo suicida ricostituisce la struttura della guerra di assedio: diventa decisivo il
fattore tempo, vince chi resiste di più, chi sopporta più a lungo una situazione di privazioni e sofferenze.

Giganti impotenti e nani feroci

Il terrorismo suicida è una spietata ma lucida ed efficace scelta strategica: è la sola arma che possa essere opposta
con successo a chi possiede la bomba, l’unica che riduce all’impotenza chi è onnipotente.

Questo conferma che nell’attuale panorama politico internazionale convivono megaimperi sempre più simili a
giganti incatenati e organizzazioni piccole ma transnazionali, simili a nani disperati e feroci, mobili, mimetici e
pressoché invisibili.

In questa guerra tra giganti e nani, il vantaggio è dei nani, purché siano disposti a farsi schiacciare in gran numero
mentre i giganti sopportano male anche le più piccole ferite.

È impossibile uccidere i giganti e anche se fugge a casa sua, continua a dominare l’economia mondiale e a
monopolizzare lo spazio comunicativo.
L’Occidente dovrebbe comprendere di essere tanto odiato per il suo evidentissimo monopolio del futuro, per il fatto
che a tutti gli sguardi ostili appare come l’unica forma di vita che potrà affermarsi nel mondo di domani. Si odia
nell’avversario il fatto che un giorno si dovrà essere come lui perché non ci sarà altro modo di essere.

Per questo non è sufficiente mettere in fuga in gigante. Dovrebbe morire, altrimenti vincerebbe lui.

L’incubo e la speranza

Gli uomini sono per natura uguali, come insegna Hobbes: perché tutti possono ugualmente uccidere ed essere
uccisi. Perciò ogni guerra è incerta: nessuno può sapere prima che non verrà ucciso. Proprio per questa ragione è
preferibile la pace e si afferma in una situazione in cui tutti sono ugualmente certi che sarebbero uccisi, che non ci
sarebbero vincitori.

Ma per ricondurre verso la pace, la guerra ha bisogno di tempo. Quando i sopravvissuti re imparano di essere
mortali, quando si convincono che moriranno davvero.

La Bomba paralizza la guerra perché anche la semplice eventualità del suo uso serve a ricordarci che siamo mortali.

Esistono però delle “bombette atomiche intelligenti” (bombe a neutroni) che ammazzano le persone senza
distruggere le cose e sarebbero perfette per consentire al gigante di sbarazzarsi una volta per tutte i nani molesti.
Verrà utilizzata quando la bombetta buona riuscirà ad esorcizzare il fantasma della Morte totale e ci avrà convinti di
nuovo che possiamo uccidere senza morire.

La Bombetta esiste anche in una comoda versione mignon per nani: la “bomba sporca” di cui tutti da qualche anno
aspettiamo l’esplosione in una qualsiasi delle nostre grandi città.

Finché i nuovi kamikaze sono nani, il pericolo è grave ma limitato: si può sperare di non rischiare la distruzione
totale. I nani potrebbero però crescere di statura e la Bombetta di dimensioni.

Conviene avere la Bomba, finché la si vuole proprio per non usarla, come tutte le potenze nucleari finora.

Ma se nascessero potenze nucleari di nuovo tipo, capaci di volere la bomba proprio per usarla, si trasformerebbero
nel nuovo volto del Terrore atomico.

L’attuale regime iraniano è il solo al mondo da cui si possa temere la riproposizione della strategia del suicidio fino al
punto di condurre la guerra nucleare stessa perché si tratterebbe di guerra fatta per non sopravvivere. La vittoria è
nella morte, solo morendo si sopravvive davvero.

Se ci sono religioni di guerra, l’eventualità più spaventevoli è che possano sovrapporsi alle religioni del lamento, fino
a fare del lutto l’autentica celebrazione della vittoria.

Non resta che sperare nel fatto che governi e popoli tendono a mantenere un fondo di ragionevolezza anche quando
l’ideologia ufficiale e il depositario ufficiale del potere sono puri e duri suicidi. E nel buon senso degli elettori là dove
con il voto si può scegliere davvero.

Tornare ad avere paura, non sentirci più sicuri potrebbe essere un buon segno. Potrebbe darci la spinta per
procedere dalla guerra che non può essere detta, alla guerra che, per non essere fatta, non deve più nemmeno
essere pensata.

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