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KANT (1724-1804)

“[…] LA METAFISICA, DELLA QUALE IO HO IL


DESTINO DI ESSERE INNAMORATO […]”

“Ma è stato un destino in cui l’innamorato non ha raggiunto


l’oggetto del suo amore […]. […] Kant ha lottato per tutta la vita
per dare alla metafisica un fondamento scientifico […].”

1. periodo precritico

2. il 1770 – la svolta

3. periodo critico

1. Nel periodo precritico i suoi principali interessi ruotano


attorno alla fisica di Newton e alla metafisica di stampo
razionalista di Leibniz e Wolff.
Era convinto che ormai la fisica avesse raggiunto risultati di
una tale perfezione da renderla una scienza sicura, stabile e
completamente autonoma.
Era inoltre convinto che la metafisica dovesse essere ripensata
a fondo e ristrutturata metodologicamente per poter
raggiungere quei risultati di perfezione e concretezza raggiunti
dalla fisica.

Il problema metodologico diventa quindi fondamentale: qual è


il metodo adeguato alle domande fondamentali della
metafisica?

1762 – La lettura di Hume lo sveglia dal “sonno dogmatico”;


rimane molto colpito e influenzato dalla critica scettica di
Hume che smonta il dogmatismo tipico della metafisica
razionalistica. Il metodo logico utilizzato dai razionalisti è
puramente formale e produce solo “castelli in aria”. Pertanto
le prove logiche dell’esistenza di Dio (cfr. Cartesio) vengono
confutate e la metafisica – di cui è e rimane innamorato –
viene definita “un abisso senza fondo”, “un oceano privo
di sponde e di fari”, perché la conoscenza, per come è intesa
dai razionalisti, non è assolutamente efficace, non ci fa
conoscere niente di reale.

1764 – In due scritti di questo anno ribadisce che in metafisica,


se si vogliono ottenere dei risultati, occorre procedere con lo
stesso metodo che Newton ha introdotto nella fisica facendola
progredire; occorre cioè ricercare le regole in base alle quali si
svolgono i fenomeni, “con esperienza sicura” (esperienza
sensibile) e con “l’ausilio della geometria”.
L’altro passo compiuto in questo hanno consiste nella
separazione tra la conoscenza razionale, teoretica del vero e la
facoltà con cui cogliamo il bene che consisterebbe non nella
ragione ma in una sorta di sentimento morale > separazione tra
etica e teoretica.

1766 – I sogni della metafisica spiegati con i sogni di un


visionario – Le dottrine metafisiche (come il mondo delle monadi
di Leibniz) sono solo “sogni razionali” e come tali sono solo
privati e non comunicabili agli altri. La scienza fisica
newtoniana è invece oggettiva e pubblica perché i suoi risultati
sono verificabili da tutti.
A questo punto la metafisica sembra essere sempre di più la
“scienza dei limiti della ragione”, cioè un concetto
negativo che ci dice solo e semplicemente dove la nostra ragione
non può arrivare.
Eppure è proprio in questa opera che se ne dichiara
innamorato…

“La metafisica della quale io ho in sorte di essere innamorato,


quantunque solo raramente possa gloriarmi di qualche suo
favore, dà due vantaggi. Il primo è questo: soddisfare i compiti
proposti dall’animo desideroso di sapere, scrutando con la
ragione le proprietà più profonde delle cose. Ma in questo l’esito
troppo spesso non fa che deludere le speranze. […] L’altro
vantaggio è più conforme alla natura dell’intelletto umano e
consiste in ciò: conoscere se il compito è anche determinato per
ciò che si può sapere e qual rapporto ha la questione con i
concetti dell’esperienza, sui quali debbono sempre poggiare tutti
i nostri giudizi. In quanto la metafisica è scienza dei limiti della
ragione umana, ed in quanto in generale, per un piccolo paese
che è sempre molto limitato, importa ancor più conoscere bene e
tenere i propri possedimenti, che andare alla cieca in cerca di
conquiste, così questa utilità dell’accennata scienza è la più
sconosciuta e nel tempo stesso la più importante.”

Il problema principale diventa allora quello di capire in cosa


consista e su cosa si basi la validità della ragione > “Che cosa
posso conoscere?”

Per rispondere occorre porsi dal punto di vista critico, occorre


cioè un esame preliminare della ragione per capire fin dove essa
possa giungere con le proprie forze > CRITICISMO: stabilire
preliminarmente gli ambiti e i limiti della ragione, quali sono le
condizioni del conoscere (cfr. Locke, la candela o lo scandaglio).
Solo il criticismo può aiutarci ad evitare il dogmatismo, errore
tipico del razionalismo, e lo scetticismo, errore tipico
dell’empirismo.
Già questo, però, segna il passaggio ad una prospettiva diversa
perché l’attenzione non è più rivolta alla conoscenza delle cose e
alla loro verità ma è rivolta a cogliere le leggi che regolano il
funzionamento della mente umana, a cogliere i principi
universali, soggettivi e necessari della ragione > la validità dei
procedimenti della mente.

2. L’anno 1769-1770 apporta per Kant una “grande luce”,


una svolta prospettica e metodologica che lui comincerà
a mettere per inscritto nella cosiddetta dissertazione del ’70
con cui diventa docente universitario. Si apre una nuova
prospettiva gnoseologica che lo stesso Kant definirà la sua
“rivoluzione copernicana”

“Finora si è creduto che ogni nostra conoscenza debba


regolarsi sugli oggetti; ma tutti i tentativi, condotti a partire da
questo presupposto, di stabilire, tramite concetti, qualcosa a
priori intorno agli oggetti, onde allargare in tal modo la nostra
conoscenza, sono andati a vuoto. È venuto il momento di tentare
una buona volta, anche nel campo della metafisica, il cammino
inverso, muovendo dall’ipotesi che siano gli oggetti a dover
regolarsi sulla nostra conoscenza; ciò si accorda meglio con
l’auspicata possibilità di una conoscenza a priori degli oggetti,
che affermi qualcosa nei loro riguardi prima che ci siano dati”

“Ma benché ogni nostra conoscenza cominci con l’esperienza,


da ciò non segue che essa derivi interamente dall’esperienza.
Potrebbe infatti avvenire che la nostra stessa conoscenza
empirica sia un composto di ciò che riceviamo mediante le
impressioni e di ciò che la nostra facoltà conoscitiva vi aggiunge
da sé sola.”

“[…] la regola debbo presupporla in me, ancor prima che mi


siano dati gli oggetti, e cioè a priori; e questa regola si concreta
in concetti a priori, rispetto ai quali tutti gli oggetti
dell’esperienza debbono regolarsi e coi quali debbono
accordarsi; […] l’esperienza stessa è un modo di conoscenza che
richiede il concorso dell’intelletto, del quale devo presupporre in
me stesso la regola prima che gli oggetti mi siano dati.”

Quindi, si ha uno spostamento del baricentro della conoscenza,


dagli oggetti reali alla ragione umana, e si afferma che la ragione
trova nella natura ciò che essa stessa vi ha posto > la ragione
vede quello che lei stessa produce secondo il proprio disegno. È
proprio su questo che si basa la scientificità della geometria e
della fisica e che invece ancora manca alla metafisica.
Molte cose finora erano rimaste inspiegate e non conosciute
perché ci si spiegava la conoscenza supponendo che fosse il
soggetto a ruotare attorno all’oggetto dipendendo da esso. Kant
inverte i ruoli e afferma che è l’oggetto che ruota attorno al
soggetto e dipende da esso. Nel momento in cui l’uomo conosce
non scopre le leggi dell’oggetto ma è, invece, proprio l’oggetto
che, nel momento in cui viene conosciuto, si adatta alle leggi
della sensibilità e della ragione del conoscente.

 Ab esse ad nosse diventa Ab nosse ad esse

Non è la nostra intuizione sensibile (sensibilità) a regolarsi


sulla natura degli oggetti e ad adeguarsi ad essa ma sono gli
oggetti a regolarsi sulla nostra facoltà intuitiva, sulla nostra
sensibilità.
Allo stesso modo, non è il nostro intelletto che si adegua agli
oggetti per estrarne i concetti, ma sono al contrario gli oggetti
che nel momento in cui vengono pensati si adeguano ai concetti
già presenti a priori.
Quindi noi conosciamo solamente ciò che a priori mettiamo
nelle cose.

“Chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupi, in


generale, non tanto degli oggetti, quanto del nostro modo di
conoscere gli oggetti nella misura in cui questo deve essere
possibile a priori.”

Il concetto di TRASCENDENTALE si riferisce, allora, ai


principi e alle strutture di cui è costituita la nostra ragione e che
ne garantiscono la validità conoscitiva. Si tratta di principi
soggettivi e indipendenti dall’esperienza >
A PRIORI che precedono l’esperienza determinandola.

Queste strutture sono sostanzialmente la SENSIBILITA’ e


l’INTELLETTO: sono strutture a priori e sono le condizioni
senza delle quali non è possibile nessuna conoscenza di nessun
oggetto.

Quindi il TRASCENDENTALE è la condizione della


conoscibilità degli oggetti; ciò che il soggetto mette nelle cose
nell’atto stesso e nel momento stesso del conoscerle.

La conseguenza è che “l’ESPERIENZA è il primo prodotto


che il nostro intelletto fornisce, quando esso elabora la materia
grezza delle sensazioni empiriche.”

“L’INTELLETTO è l’autore dell’esperienza.”

Non è l’autore della realtà ma è comunque l’autore


dell’esperienza che si riduce a ciò che noi possiamo conoscere
della realtà grazie alla nostra struttura trascendentale.

3. Il periodo critico – 1781 La Critica della ragion pura– la


domanda fondamentale che Kant si pone è: che cosa posso
conoscere? In altri termini, si chiede quale sia il
fondamento della conoscenza scientifica, quali siano i
principi che garantiscono un sapere valido universalmente e
necessariamente.

Afferma che la conoscenza vera/scientifica è una SINTESI A


PRIORI che si basa sul GIUDIZIO SINTETICO A PRIORI.

La scienza consta di conoscenze che:

- Hanno un valore universale e necessario;


- Incrementano sempre di più la conoscenza.
I giudizi scientifici, che hanno cioè queste caratteristiche sono
per questo definiti giudizi sintetici a priori.

Il giudizio è sempre la connessione di due concetti dei quali


uno funge da soggetto e l’altro da predicato.

Possiamo infatti avere tre tipi di giudizio:

a. Giudizi analitici: sono quelle proposizioni in cui il


predicato è già da sempre contenuto nel soggetto da cui è
ricavabile per semplice analisi.
(Verità di ragione, Leibniz; relazioni di idee, Hume)
Il giudizio analitico è predicato a priori senza bisogno di
ricorrere all’esperienza perché con esso esprimiamo lo
stesso concetto che è contenuto nel soggetto. Per questo
motivo il giudizio analitico ha un valore universale e
necessario ma non amplifica laconoscenza perché non ci
dice nulla di nuovo.
Il principio su cui si fondano i giudizi analitici è il principio
di identità e di non contraddizione perché c’è identità tra
soggetto e predicato e il contrario di quanto affermato
sarebbe impossibile.

b. Giudizi sintetici: sono quelle proposizioni in cui il


predicato non è contenuto implicitamente nel soggetto,
eppure si addice ad esso aggiungendo al soggetto qualcosa
che non è ricavabile per semplice analisi. Per questo
motivo il giudizio è detto sintetico (sintetizza, aggiunge
qualcosa di nuovo). È un giudizio sperimentale perché è in
grado di ampliare la conoscenza aggiungendo sempre
qualcosa di nuovo ricavato dall’esperienza.
(Verità di fatto, Leibniz; materie di fatto, Hume)
Però proprio perché si fondano sull’esperienza sono a
posteriori e la scienza non può basarsi su di essi perché non
hanno valore universale e necessario.
c. Giudizi sintetici a priori: sono i giudizi propri della
scienza, i veri e propri giudizi scientifici perché, nello stesso
tempo, presentano l’universalità e la necessità dei giudizi
analitici e ci forniscono conoscenze nuove e feconde come i
giudizi sintetici. Sono giudizi di questo tipo tutte le
operazioni matematiche (7+5=12) e tutte le affermazioni
della geometria come pure della fisica.

Anche la metafisica, se vuole raggiungere risultati scientifici al


pari delle altre scienze, deve basarsi su giudizi sintetici apriori e
utilizzarli.
Per questo motivo diventa necessario capire quale sia il
fondamento di tali giudizi. Non si fondano sul principio di
identità e di non-contraddizione perché il loro predicato non è già
implicito nel soggetto. Non si fondano sull’esperienza perché
sono a priori e inoltre sono universali e necessari mentre tutto
ciò che deriva dall’esperienza non lo è.

Ed ecco che allora comprendiamo meglio gli effetti e le


conseguenza della grande luce prodotta, secondo Kant, dalla
rivoluzione copernicana: il fondamento dei giudizi sintetici a
priori è la nostra struttura trascendentale che si afferma come
la condizione dell’esperienza e della conoscenza; i giudizi
sintetici a priori sono universali e necessari e nello stesso tempo ci
fanno conoscere qualcosa di nuovo non perché si adeguano alla
realtà fuori di noi ma perché sono il frutto di ciò che la nostra
struttura conoscitiva proietta sulla realtà nel momento in cui la
esperisce e la conosce. Attraverso i giudizi sintetici a priori noi
conosciamo ciò che noi stessi mettiamo nelle cose, quindi il loro
fondamento è la nostra struttura trascendentale.

Si capovolge, di conseguenza, il modo di intendere la


conoscenza.
CONOSCENZA

sensibilità intelletto ragione

le cose vengono le cose vengono i concetti


date > intuizioni pensate > vengono
sensibili concetti connessi > idee

estetica analitica dialettica


trascendentale trascendentale trascendentale

a. ESTETICA TRASCENDENTALE – La nostra esperienza


sensibile risulta essere determinata dallo spazio e dal tempo.
Che cosa sono?

- Newton > esistenza reale di uno spazio e di un tempo


assoluti, come se fossero degli oggetti reali al pari di tutti gli
altri oggetti;
- Leibniz > Sono semplici relazioni tra i corpi, quindi
dipendenti da essi (prima/dopo, lontano/vicino); sono modi
di essere delle cose, Aristotele li aveva inseriti tra le
categorie.

- Kant > spazio e tempo sono forme soggettive a priori della


nostra sensibilità. Sono, dunque, le condizioni
trascendentali apriori dell’esperienza sensibile.
La sensibilità è la nostra facoltà di ricevere sensazioni,
intuizioni sensibili.
Per Kant, l’unico tipo di intuizione di cui l’uomo è capace è
appunto l’intuizione sensibile.
La sensazione è una modificazione che il soggetto subisce e
riceve passivamente ad opera di un oggetto fuori di lui; è una
azione che l’oggetto compie sul soggetto modificandolo.
L’oggetto dell’intuizione sensibile, ciò che noi intuiamo, è il
fenomeno cioè non l’oggetto per come è in sé e per sé ma
l’oggetto per come ci appare, per come si manifesta a noi
nell’esperienza.

Ora, nel fenomeno Kant distingue:

- Una materia, che è data dalle singole modificazioni che


l’oggetto produce sui nostri organi di senso e che pertanto
deve essere necessariamente a posteriori, dipendente
dall’esperienza.
- Una forma, che, invece, non viene dall’esperienza e
dall’oggetto ma esclusivamente dal soggetto ed è ciò per
cui i molteplici dati sensoriali “vengono ordinati in
determinati rapporti”. Nel momento in cui la nostra
sensibilità riceve i dati sensoriali li elabora e li sistema in
base alla struttura a priori che è in noi.

Tale struttura a priori è costituita dalle forme della sensibilità


che Kant chiama intuizioni pure e che sono lo spazio e il
tempo.

Spazio e tempo, quindi, non sono più determinazioni


ontologiche o strutture degli oggetti ma semplicemente sono
forme soggettive, trascendentali e a priori della nostra
sensibilità, modi e funzioni propri del soggetto, che fungono
da condizioni a priori dell’esperienza perché la precedono
rendendola possibile.
In particolare:
- lo spazio è l’intuizione pura del senso esterno che mette
ordine tra gli oggetti fuori di noi (tutto ciò che ci appare
come esteriore) secondo l’idea di lontananza e vicinanza;
- il tempo è l’intuizione pura del senso interno che in un
certo senso mette ordine tra gli stati d’animo interiori (tutto
ciò che ci appare interiore) secondo l’idea di prima e dopo.

La matematica e la geometria hanno valore scientifico proprio


perché si basano sullo spazio e sul tempo:
- tutti i giudizi sintetici a priori della geometria si basano
sull’intuizione pura dello spazio;
- mentre tutti i giudizi sintetici a priori della matematica si
basano sull’intuizione pura del tempo dal momento che tutte
le operazioni matematiche come tali si dispiegano nel tempo.
- Dunque i giudizi della matematica e della geometria sono
scientifici, cioè giudizi sintetici a priori proprio perché e
solo perché si basano sulla struttura trascendentale a priori
della sensibilità.

Di conseguenza possiamo dire che l’estetica trascendentale


è la scienza di tutti i principi trascendentali a priori
della sensibilità.

Ma la conoscenza che ne deriva è soltanto una conoscenza


fenomenica: la nostra intuizione sensibilenon ci permette di
cogliere gli oggetti reali per come sono in sé ma solo gli
oggetti per come ci appaiono secondo le rappresentazioni che
ce ne facciamo, cioè secondo l’elaborazione delle nostre
intuizioni pure > fenomeno. Infatti il contenuto della nostra
intuizione sensibile proviene dall’esterno ma la forma dipende
da noi, proviene dal nostro interno.
Pertanto, anche la conoscenza scientifica, universale e
necessaria, della matematica e della geometria si restringe al
semplice ambito fenomenico.
b. ANALITICA TRASCENDENTALE – come l’estetica si
occupa della conoscenza sensibile ed è trascendentale in
quanto si fonda sulle condizioni a priori che la rendono
possibile, così l’analitica studia la conoscenza intellettiva
ed è trascendentale in quanto si fonda sulle condizioni a
priori del funzionamento dell’intelletto.

“Il problema vero e proprio della ragion pura è contenuto


nella domanda: come sono possibili giudizi sintetici a priori?”

È proprio l’intelletto che, partendo dai dati elaborati


nell’esperienza sensibile, forma, grazie alla sua struttura
trascendentale, i giudizi sintetici a priori; l’intelletto è infatti la
facoltà dei giudizi.
I giudizi sintetici a priori sono possibili grazie alle forme
apriori dell’intelletto > le categorie: gli elementi presenti
apriori nella nostra facoltà conoscitiva che rendono possibili i
giudizi sintetici a priori; tramite le categorie l’intelletto elabora il
fenomeno fornitogli dall’esperienza sensibile ed esprime su di
esso un giudizio dotato di universalità e necessità.

In questo modo Kant estende la rivoluzione copernicana


dall’ambito dell’estetica a quello dell’analitica che assume così
l’aggettivo trascendentale > l’insieme degli elementi della
sensibilità e dell’intelletto che, offerti dal soggetto e già
presenti in esso a priori, permettono la conoscenza
dell’oggetto ridotto a fenomeno.

L’estetica trascendentale è sufficiente a spiegare i giudizi


sintetici a priori propri della matematica e della geometria.
L’analitica trascendentale è invece necessaria per fondare i
giudizi scientifici propri della fisica dove, infatti, entra in gioco
l’attività dell’intelletto.
Ora, la sensibilità presentava ancora un certo grado di passività
rispetto alla materia dell’esperienza sensibile. L’intelletto invece
svolge un ruolo attivo lavorando sul materiale offerto dalla
sensibilità collegandolo in vario modo, cioè unificando i concetti
in giudizi. L’intelletto unifica e mette ordine, per mezzo dei
giudizi, tra le sensazioni dell’esperienza grazie alle categorie.

Le categorie sono quei concetti che non provengono dagli


oggetti reali della realtà esterna per mezzo dell’astrazione ma, al
contrario, sono concetti puri, cioè sono presenti a priori
nell’intelletto; vengono tuttavia utilizzate in riferimento agli
oggetti esterni che vengono ordinati per mezzo dei giudizi.
La funzione propria dell’intelletto è quella di unificare i
concetti molteplici in unità > sintesi.
I vari modi attraverso cui l’intelletto opera questa sintesi sono
proprio i concetti puri, le categorie.

- universali
quantità - particolari
- singolari
Giudizi

- affermativi
qualità - negativi
- infiniti

- categorici
relazione - ipotetici
- disgiuntivi

- problematici
modalità - assertori
- apodittici
unità
quantità pluralità
Categorie totalità

realtà
qualità negazione
limitazione

sostanza
relazione causa
azione reciproca

possibilità
modalità esistenza
necessità

Ma qui si assiste al drammatico capovolgimento del


significato del termine categoria, in corrispondenza del nuovo
modo (rivoluzione copernicana) di intendere la dinamica della
conoscenza:
- in Aristotele le categorie erano le supreme classi e
caratteristiche dell’essere, e conseguentemente le supreme
classi dei predicati con cui nei giudizi si esprime ciò che è
colto nell’essere;
- in Kant le categorie sono i modi con cui le intuizioni
empiriche vengono unificate e sintetizzate nei giudizi.

La domanda che ora emerge però è: come fanno i concetti puri


a priori, le categorie, a riferirsi a degli oggetti reali?
È il problema della deduzione delle categorie, cioè della
giustificazione della loro validità. Che diritto ha l’intelletto di
unificare in un modo piuttosto che in un altro i dati empirici? E
chi può assicurare che la natura si conformerà alle categorie
dell’intelletto presentandosi a me secondo il mio modo di
pensarla?
Il punto centrale della deduzione è che l’uomo – come già
avviene nella sensibilità – non conosce la cosa in sé ma solo il
fenomeno, cioè come la cosa mi appare. Pertanto non è la realtà
in quanto tale che si adegua alle forme a priori dell’intelletto ma
solamente il materiale che, proveniente dalla realtà, viene
sintetizzato in un determinato modo > fenomeno; la realtà in
quanto tale, la cosa in sé, rimane per l’uomo inconoscibile >
noumeno

c. DIALETTICA TRASCENDENTALE

Il senso e il valore della parola dialettica > Platone.


In Kant ha un valore negativo > logica dell’apparenza

Non possiamo spingerci al di là dell’esperienza possibile.

Nel momento in cui la RAGIONE tenta di farlo cade in una


serie di errori e illusioni > non sono illusioni volontarie, bensì
illusioni involontarie e strutturali. La DIALETTICA è
appunto la critica di queste illusioni.

Però, anche nel momento in cui la dialettica denuncia e


smaschera queste illusioni della ragione, esse rimangono perché
sono errori naturali, che possono essere compresi e, a volte,
evitati ma non eliminati.

“Vi è dunque dialettica naturale e necessaria della ragion


pura; non la dialettica in cui si avviluppi, per esempio, un
guastamestieri per mancanza di cognizioni, o che un qualunque
sofista abbia escogitata ad arte per imbrogliare la gente
ragionevole; ma la dialettica che è inscindibilmente legata alla
ragione umana, e che anche dopo che noi ne avremo scoperta
l’illusione, non cesserà tuttavia di adescarla e trascinarla
incessantemente in errori momentanei, che avranno sempre
bisogno di essere eliminati.”

 Il pensiero umano è limitato dal punto di vista della


conoscenza all’esperienza sensibile
 C’è però una tendenza naturale e irrefrenabile della
ragione ad andare oltre l’esperienza che dipende da
un bisogno e da un’esigenza che fa parte della
natura umana
 Però non appena si va oltre i limiti dell’esperienza
sensibile si cade in errore
 Kant chiama dialettica sia questa dinamica che porta
all’errore, sia lo studio critico di questi errori.

La dialettica studia la ragione e le sue strutture. In Kant


ragione (Vernunft) ha quindi due significati:
- Un significato generale che intende la ragione come
facoltà conoscitiva in generale
- Un significato tecnico e specifico usato nella dialettica
trascendentale per cui la ragione è la FACOLTÀ
DELL’INCONDIZIONATO. Se l’intelletto (Verstand) si
deve riferire necessariamente ai dati dell’esperienza
sensibile e rimanere nel suo raggio, la ragione (Vernunft)
non può evitare di tentare di andare oltre i limiti
dell’esperienza possibile. È la facoltà che non smette
mai di spingere l’uomo al di là del finito, alla ricerca dei
fondamenti ultimi e supremi di tutto. La ragione è quindi
strutturalmente una FACOLTÀ METAFISICA che però è
incapace di raggiungere il suo obiettivo e non può fare
altro che rimanere una esigenza e un bisogno > bisogno
frustrato.
Come l’intelletto ha i suoi concetti puri che sono le categorie,
così anche la ragione ha i suoi concetti puri a priori che in questo
caso Kant chiama IDEE > significato e mutamento del termine
idea: non si tratta più delle supreme realtà trascendenti ma di
forme pure della ragione, forme trascendentali (e non
trascendenti) ed esigenze strutturali della ragione.

 Anima > idea psicologica


 Cosmo > idea cosmologica
 Dio > idea teologica

 ANIMA: il principio incondizionato e assoluto da cui


dipendono e derivano tutti i fenomeni psichici interni.
Nel momento in cui la ragione crede e afferma che
questo principio esista realmente cade in errore >
paralogismi. L’errore consiste nel trasformare l’IO
PENSO, unità sintetica di appercezione, in una unità
ontologica sostanziale. L’Io penso invece non può
essere una sostanza perché non è qualcosa che
appartiene all’esperienza sensibile, ma una pura attività
formale, una funzione. Noi siamo coscienti di noi stessi
come esseri pensanti ma ci conosciamo solo come
fenomeni perché non conosciamo il sostrato noumenico
del nostro io: l’anima, il “me” metafisico ci sfugge.

 MONDO, inteso come totalità ontologica, intero


metafisico, e non come somma dei vari fenomeni.
L’errore in cui cade la ragione quando vuole considerare
il mondo non nel suo aspetto fenomenico ma noumenico
conduce a delle antinomie, ragionamenti in cui tesi e
antitesi si contraddicono a vicenda > una contraddizione
strutturale. Entrambe sono false perché si riferiscono ad
un oggetto irreale perché va oltre i limiti dell’esperienza.
 DIO, l’incondizionato supremo e assoluto,
condizione di tutte le cose. Stando alle regole e alla
dinamica della conoscenza affermata da Kant noi
rimaniamo nella più perfetta ignoranza circa l’esistenza o
meno di questo Essere supremo e le varie prove
apportate durante i secoli per affermare la sua esistenza
sono false.
- Prova ontologica
- Prova cosmologica
- Prova fisico-teologica

La conseguenza di tutto questo è che, secondo Kant, una


metafisica come scienza è impossibile perché la sintesi a
priori su cui si basa la conoscenza impone all’intelletto di riferirsi
sempre all’esperienza sensibile.

Le idee si trasformano in errori e illusioni solo nel momento in


cui vengono prese come principi costitutivi o si attribuisce loro
un uso costitutivo.
Le idee hanno invece solo un uso e una funzione regolativa:
valgono come schemi utili a mettere ordine nell’esperienza ed
unificare il più possibili i vari concetti che nascono dai giudizi;
valgono come regole per ordinare le conoscenze COME SE (als
ob)
- tutto ciò che riguarda l’uomo dipendesse dall’anima
- tutti i fenomeni della natura dipendessero da un unico
principio ontologico
- la totalità delle cose dipendesse da una intelligenza
suprema

Le idee, quindi, non allargano la nostra conoscenza, ma la


unificano e la regolano ordinandola.

La Critica della ragion pura si conclude affermando che ci può


essere una conoscenza scientifica solo nei limiti dell’esperienza
sensibile e secondo la struttura trascendentale a priori della nostra
mente. Possiamo conoscere solo il fenomeno. Eppure il
noumeno viene comunque affermato.

Non sarà allora ipotizzabile l’esistenza di un’altra via per


raggiungere il noumeno diversa da quella gnoseologica della
conoscenza scientifica?

CRITICA DELLA RAGION PRATICA

Ragion pratica > la facoltà capace di determinare la volontà e


l’azione morale > questo è il ruolo svolto dalla ragione pura
pratica.

La critica in questo caso non si rivolge alla ragione pura pratica


perché questa, a differenza della ragione pura teoretica (il titolo
della prima critica era implicitamente: Critica della ragion pura
teoretica), non tende ad esorbitare dai propri limiti come accade
invece per la ragione pura teoretica nella dialettica
trascendentale.
La critica si rivolge alla ragione pratica in generale o, meglio,
alla ragione pratica che si lascia determinare empiricamente > è
la ragione pratica empirica che tende ad andare oltre i propri
limiti volendo determinare la morale a partire dall’esperienza e
non a partire dalla sola ragione pura pratica.

 Nella ragione pura teoretica – che deve sempre rimanere


vincolata alla sfera sensibile – l’errore stava nell’andare
oltre l’esperienza.
 Nella ragione pratica in generale l’errore sta nel rimanere
vincolata all’esperienza. Per questo nel titolo non c’è
l’aggettivo pura, perché qui l’errore è nella ragione pratica
empirica, che invece funzionerebbe bene se riuscisse ad
essere pura.
La ragione pratica è sufficiente da sola (cioè se è pura) a
muovere la volontà > solo in questo caso ci possono essere leggi
morali universali.

- Principi pratici: regole e determinazioni generali della


volontà
 Le massime: principi pratici soggettivi che non
hanno un valore universale
 Gli imperativi: principi pratici oggettivi e quindi
validi per tutti. Sono doveri che esprimono la
necessità oggettiva dell’azione.
 Ipotetici: si impongono alla volontà
condizionandola ad un fine da raggiungere;
se…allora devi. Valgono nell’ipotesi che si
voglia quel fine e valgono oggettivamente per
tutti coloro che vogliono quel fine.
Imperatività condizionata.
 Categorici: quando l’imperativo determina la
volontà non in vista di un determinato fine,
ma semplicemente come volontà
prescindendo da ogni fine. Devi perché devi
> Solo gli imperativi categorici sono vere
leggi pratiche.

In quanto uniche vere leggi morali, gli imperativi categorici


sono universali e necessari, ma non come le leggi naturali.
Queste non possono non attuarsi (essere necessario mussen),
mentre le leggi morali (dovere morale sollen) hanno bisogno di
imporsi perché l’uomo può anche non attuarle dal momento che la
sua ragione pratica non è soggetta solo alla volontà ma anche alle
inclinazioni sensibili.

L’imperativo categorico in quanto legge morale non può


dipendere da un contenuto. Legge materiale è quella che
dipende da un contenuto (> utilitarismo, empirismo).
Se la legge morale non dipende dal contenuto allora è
determinata solo dalla sua forma > vuota di contenuto, vale solo
per la sua pura razionalità (devi perché devi) e io devo rispettarla
solo in quanto legge. Solo per questa sua forma vuota di
contenuto ha valore universale e necessario.

 Formalismo
 Ciò vuol dire che la legge morale può riguardare solo
l’intenzione con cui si fanno le cose e non ciò che
concretamente si fa: l’essenza dell’imperativo categorico
consiste nel comandarmi non cosa devo volere ma soltanto
come debbo volerlo.

La moralità non consiste in ciò che si fa


ma in come si fa ciò che si fa.

Di conseguenza l’imperativo categorico è uno solo:

“Agisci in modo che la massima della tua volontà possa


valere sempre, al tempo stesso, come principio di una
legislazione universale.”

Devi fare in modo che la tua massima soggettiva diventi una


legge universale oggettiva.
Nel momento in cui vado ad agire praticamente devo
paragonare l’azione che sto per compiere alla massima e vedere
se la mia azione potrebbe valere come legge universale: la
massima, come schema o tipo, diventa quel modello di paragone
che mi fa subito capire se la mia azione è morale o no. Elevando
la mia massima soggettiva a valore universale ne comprendo
l’eventuale moralità. Occorre guardare le proprie azioni
nell’ottica dell’universale per comprendere se sono morali.

Caratteristica fondamentale della volontà, e conseguenza del


formalismo della legge morale, è anche la loro autonomia, il
fatto cioè che la ragione pura pratica pone a se stessa la propria
legge e quindi si autodetermina senza dipendere da nient’altro.
Nel momento in cui la volontà e la legge morale dipendono dal
proprio contenuto materiale allora sono eteronome: ogni volta
che la morale dipende da un contenuto compromette la propria
autonomia. Tutte le morali precedenti sono eteronome e quindi
fallaci
In particolare è eteronoma anche una morale che si basi sulla
ricerca della felicità in quanto inquina la purezza e la formalità
della morale con la felicità vista come contenuto materiale. Viene
rovesciata tutta la morale antica che è eudaimonistica.
Non bisogna agire per ottenere la felicità, ma bisogna agire
unicamente per il puro dovere. Così facendo, però, si diventa
degni della felicità….

Da ciò si comprende anche il rigorismo della morale kantiana.


Non basta che la mia azione sia secondo la legge > legalità,
occorre che sia davvero morale, occorre cioè che la mia volontà
debba essere determinata solo e immediatamente dal dovere. I
sentimenti e le emozioni che intervengono nella mia azione ne
inquinano la moralità.
L’unico sentimento ammesso è il rispetto, che però non è altro
che il rispetto verso la legge morale stessa che supera e abbatte
tutte i nostri impulsi e inclinazioni > la legge morale esprime
pertanto una coercizione pratica delle inclinazioni, una loro
sottomissione.

 La conseguenza più rilevante, però, è che il mondo


noumenico, che era risultato irraggiungibile a livello
gnoseologico, è invece accessibile per via pratica. Libertà,
immortalità e Dio, da idee della ragione pura teoretica
diventano ora POSTULATI della ragione pura pratica. Noi
siamo costretti ad ammetterli per poter spiegare la legge
morale, ma ciò non vuol dire che li conosciamo > non si
tratta di un ampliamento della conoscenza
speculativa
 Libertà: il dovere e la legge morale implicano
necessariamente la nostra libertà. Noi acquistiamo coscienza
della libertà perché prima di tutto abbiamo coscienza del
dovere morale. L’imperativo che mi comanda di volere
secondo la pura forma della legge mi comanda anche
(implica) di essere libero. Il dovere morale è addirittura
elevato a giudizio sintetico a priori in ambito noumenico
che mi conduce ad ammettere la libertà. Il dovere mi dice
che sono libero è mi fa postulare in questo modo una realtà
noumenica che va al di là della sfera del fenomeno
(esperienza sensibile). Il fatto che io la debba postulare non
vuol dire però che posso conoscerla perché c’è conoscenza
solo quando c’è conoscenza scientifica a partire dalla
sensibilità.
L’uomo comprende quindi di appartenere a due mondi, l’uno
fenomenico e l’altro noumenico

 Dio: la virtù, cioè l’adeguarsi alla legge morale non in vista


della felicità ma solo per rispetto nei suoi confronti, è
concepita come il sommo bene. Esso non è però ancora
compiuto e intero perché manca della felicità, che in questo
mondo regolato da leggi meccaniche è impossibile. Il
sommo bene perfetto è la virtù unita alla felicità. L’uomo
che cerca la virtù per se stessa diviene degno della felicità,
che però è raggiungibile solo postulando un mondo
intelligibile e un Dio onnisciente e buono che adegui la
felicità ai meriti.

 Immortalità dell’anima: l’adeguatezza della volontà alla


legge morale richiesta dalla virtù è la santità. Nessuno però
in questo mondo la può realizzare pienamente e risulta quasi
un progresso all’infinito. Tale progresso all’infinito è
ipotizzabile solo ammettendo una persona che possa durare
all’infinito e dunque postulandone l’immortalità
Le esigenze della ragione pura teoretica vengono così
soddisfatte dalla ragione pura pratica, e tale soddisfazione è
permessa non da realtà oggettive, ma piuttosto da realtà
morali postulabili di cui però non ci potrà mai essere vera e
propria conoscenza.

“Ho dovuto mettere da parte il sapere


per far posto alla fede”

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