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C.

Principi

19. Studio del diritto per problemi. Diritto privato, diritto pubblico e diritto civile.
Il diritto è frazionato didatticamente in una pluralità di settori in base al rapporto che
disciplinano.
La tradizione vuole che il diritto pubblico disciplini il rapporto tra lo Stato ed il cittadino, il
diritto privato disciplini il rapporto tra privati.
Queste definizioni non possono più valere, perché lo Stato agisce delle volte da privato.
Quindi tali definizioni sono superate ed ora si possono qualificare di diritto pubblico
solo le regole che istituiscono e disciplinano l’organizzazione interna dello Stato e degli altri enti
locali che rappresentano la sua sovranità.
In ogni settore abbiamo sia nome pubbliche che private: a volte si soddisfa l’interesse privato, in
quanto si soddisfa direttamente l’interesse dei singoli; a volte quello pubblico, perché si soddisfa
quello della collettività.
L’interesse pubblico deve essere considerato come interesse di tutti, di molti o strumentale che
deve essere soddisfatto affinché altri interessi individuali vengano soddisfatti.
Tale interesse non prevale su quello individuale perché è più ampio, cioè più generale.
Sono di diritto civile le regole e i princìpi riconducibili al principio di eguaglianza; sono
di diritto pubblico le norme che istituiscono una differenza tra soggetti comuni (i privati) e gli
enti pubblici.
Tuttavia l’etichetta di diritto privato, va’ sostituita con quella di diritto civile, inteso come il
diritto in condizioni di eguaglianza, disciplina il rapporto tra i cives (cittadini).

20. Personalismo e solidarismo costituzionale.


Il personalismo è la dottrina che riconosce l’uomo come individuo che si realizzi nella sua
personalità.
La Costituzione si fa garante della tutela dei cosiddetti diritti inviolabili, affinché l’uomo si
realizzi senza ostacoli di alcun genere (art. 2 cost.).
La Costituzione riconosce anche la solidarietà intesa come la cura dell’altro, che esprime la
cooperazione e l’eguaglianza dei diritti fondamentali di tutti.
Essa riconosce anche i gruppi come luogo di sviluppo della persona, ma li subordina ad
essa: sono le formazioni sociali, che sono tutelate solo se idonee a garantire lo sviluppo di ogni
persona che ne faccia parte.

21. Principio di democraticità. La democrazia è uno dei principi cardini del nostro Stato: essa è
una procedura di decisione con un libero confronto di opinioni e con deliberazioni raggiunte
dalla maggioranza, senza dimenticare i diritti insopprimibili della minoranza.
È inseparabile dall’eguaglianza perché altrimenti non si giustificherebbe il diritto di
partecipazione di tutti alle decisioni, dalla persona perché non tutte le decisioni maggioritarie
sono legittime.
L’attuazione della democrazia nella società si manifesta mediante il rispetto reciproco,
l’eguaglianza morale e giuridica: ricordiamo i sindacati e i partiti che devono essere a base
democratica.

22. Principio della divisione dei poteri e principio della legalità.


Lo Stato garantisce una prevenzione di abuso di potere con la separazione delle sue funzioni
tipiche; esiste il potere legislativo (Parlamento), potere esecutivo (Governo) e potere
giudiziario (Magistratura).
Tutti e tre coesistono in condizione di equilibrio e di reciproco controllo impedendo la
prevaricazione dell’uno sull’altro.
Nella Costituzione sono previsti organi ai quali sono affidate funzioni non riconducibili alla
predetta tripartizione: così il Presidente della Repubblica o la Corte Costituzionale (134 cost., il
compito di dirimere i conflitti tra poteri dello Stato); così il Consiglio Superiore della
Magistratura (104 cost.).
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Un importante potere è quello giudiziario, che riconosce l’indipendenza e l’inamovibilità del
magistrato (art. 107 cost.).
Il giudice è soggetto solo alla legge (art. 101 cost.) pretendendo una ragionevolezza
nell’emanazione della sentenza, in quanto non può giudicare secondo le proprie visioni del
mondo.
La legalità scaturente dalla Costituzione non si riduce a quella del codice civile: è legalità
di uno Stato sociale di diritto, fondato sulla libertà, sulla solidarietà e sull’eguaglianza.

23. Principio di eguaglianza.


Art. 3 ― Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge (1),
senza distinzione di sesso, di razza, di lingua , di religione, di opinioni politiche, di condizioni
personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,
limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini (2), impediscono il pieno sviluppo della
persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica,
economica e sociale del Paese.
(1) L’ordinamento repubblicano riconosce al cittadino un unico titolo di dignità, il
lavoro. Tutti coloro che concorrono al progresso materiale e spirituale del Paese sono eguali fra
loro e dinanzi alla legge; nessun privilegio può consentire di porsi al di sopra della legge.
L’eguaglianza così intesa sancisce la subordinazione di tutti i consociati, compresi i poteri dello
Stato e gli enti pubblici, all’osservanza della legge.
Eguaglianza non vuol dire egualitarismo (eguali condizioni sociali), ma deve essere
intesa nel fatto di offrire a tutti le pari opportunità senza effettuare discriminazioni.
Questo principio è leso quando o situazioni uguali sono giudicate diversamente o quando
situazioni diverse sono giudicate in ugual modo.
Il principio di uguaglianza è unitario.
La distinzione tra eguaglianza formale ed eguaglianza sostanziale è arbitraria: l’una e l’altra sono
in funzione reciproca; entrambe esprimono un unico principio, quello dell’eguaglianza nella
giustizia sociale.
Si è cercato di fare a meno dell’eguaglianza sostanziale, riducendo l’eguaglianza alla
mera parità di trattamento.
In tal modo si perde di vista il nesso tra eguaglianza, pari dignità e sviluppo della persona; si
perde di vista la centralità del rispetto dei diritti fondamentali a favore di quelli patrimoniali.
(2) La prima parte della norma, nell’affermare il principio di eguaglianza formale,
considera l’individuo nella sua astrattezza, indipendentemente dalle condizioni materiali e
sociali in cui egli concretamente si trova.
Il principio d’eguaglianza sostanziale, invece, sancisce il passaggio dall’ordinamento liberale
classico (in cui la società era organizzata sulla base della proprietà privata e dell’assoluta
libertà economica) allo Stato sociale ed interventista, che si impegna a creare le condizioni
necessarie per consentire l’accesso di tutti a determinate utilità sociali messe a disposizione
della comunità, come la salute [v. 32], il lavoro [v. 38], l’istruzione [v. 34].
Quindi essa è attuata non soltanto con la redistribuzione dei beni e con discipline diversificate in
ragione della disuguaglianza di fatto, ma anche con la garanzia di un’effettiva partecipazione
degli individui alla dinamica dei rapporti di diritto civile.

24. Funzione legislativa e giustizia costituzionale.


Sono limiti della funzione legislativa l’irretroattività e la riserva di legge.
L’irretroattività afferma che, nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in
vigore prima del fatto commesso (25² cost.).
Solo nella materia penale è regola di rango costituzionale; negli altri àmbiti è un principio: le
leggi retroattive sono legittime purché non in contrasto con l’eguaglianza, la ragionevolezza e il
principio di legalità.

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La riserva di legge è la previsione (implicita o esplicita) di materie, riportate nella
Costituzione, in cui la disciplina è prevista soltanto con legge.
Esse sono: assolute, il legislatore deve specificare nei dettagli la materia riservata; relative,
impone al legislatore di determinare la disciplina di principio e lasciando a fonti secondarie
quella di dettaglio; rinforzata, quando la Costituzione indica anche quali debbano essere i
contenuti della legge.
Ruolo di controllo della costituzionalità delle leggi è svolto dalla Corte Costituzionale, il
cui strumento di controllo è la ragionevolezza.
Le sentenze sono di:
• inammissibilità, quando il processo non si avvia perché mancano i requisiti;
• rigetto, quando la Corte accerta l’infondatezza della questione di incostituzionalità e
impone che la legge resti in vigore;
• accoglimento, quando la Corte accerta l’incostituzionalità della legge e la elimina tutta o in
parte.
Esistono anche le sentenze interpretative di rigetto, quando la legge è dichiarata costituzionale
perché interpretata in un certo modo e interpretative di accoglimento, quando la legge è
dichiarata incostituzionale perché interpretata in un certo modo.
La differenza tra le due sentenze di interpretazione è che con quella di rigetto la
disposizione resta in vigore, perché non ha una forza legale vincolante; mentre con quella di
accoglimento essa viene eliminata e non può essere applicata da nessuno
Esiste anche la sentenza additiva, quando la legge è dichiarata incostituzionale non per quello
che dice, ma per quello che non dice.
Pertanto l’attività della Corte incide comunque nella funzione legislativa e impone una
collaborazione con il Parlamento.
Quindi la Corte si pone non pochi problemi nel dichiarare sentenze di incostituzionalità.
Proliferano, allora, i modelli di intervento:
a) sentenze monito: la questione è decisa con una sentenza di rigetto e si auspica un
intervento del Parlamento, perché si teme che si possa determinare un “vuoto
legislativo”;
b) sentenze di incostituzionalità sopravvenuta: si impedisce che gli effetti della
dichiarazione di incostituzionalità siano retroattivi, per ridurre il costo della sentenza;
sentenze a incostituzionalità differita: si assegna un termine al legislatore per
provvedere, ritardando gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità;
c) sentenze attuative dell’eguaglianza “verso il basso”, nelle quali, piuttosto che
estendere un benefico a categorie non comprese da una legge, si preferisce toglierlo a chi
lo ha attualmente, con un risultato opposto a quello delle sentenze additive di prestazione;
d) sentenze additive di principio, nelle quali, invece di imporre allo Stato una prestazione
a favore di una determinata categoria, la Corte dichiara incostituzionale una legge vigente
e indica non la regola, ma il principio.

25. Funzione legislativa e funzione di mercato.


La legge non può discostarsi o entrare in conflitto con il mercato perché esso, non solo è tutelato
dalla Costituzione (es: la libertà di iniziativa economica art. 41 cost.), ma è indirettamente una
fonte (es: i contratti e gli accordi di lavoro).
Quindi, il mercato pretende una certa indipendenza dallo Stato, il quale non solo lo aiuta, ma può
intervenire nei casi in cui sono lesi i diritti fondamentali dell’uomo.
L’intervento dello Stato nel mercato si configura tramite: intervento pubblico (impresa
pubblica e società private a partecipazione pubblica), aiuto finanziario pubblico all’impresa
privata (sgravi fiscali, finanziamenti a tasso agevolato o a fondo perduto) e l’antitrust
(regolamentazione giuridica della correttezza del mercato).
L’antitrust trova i suoi fondamenti nella Costituzione: la libertà di concorrenza è
implicita nella libertà di iniziativa economica, essa è un mezzo per realizzare l’utilità sociale o
l’effettiva partecipazione di tutti all’organizzazione economica e sociale del Paese.
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Tuttavia la tutela del mercato trova un maggiore sviluppo a livello comunitario (Trattato di
Amsterdam dal 1° maggio 1999), mediante il divieto di alcune azioni da parte delle imprese,
come ad esempio:
— divieto di intese pregiudizievoli al commercio tra gli Stati membri e restrittive della
concorrenza all’interno del mercato comune (art. 81) disponendo la nullità delle intese,
eventualmente concluse, con efficacia retroattiva;
— divieto, alle imprese che hanno una posizione dominante nel mercato comune, di farne un
esercizio abusivo (art. 82);
— disciplina delle relazioni finanziarie tra i poteri pubblici e le imprese pubbliche, nonché le
imprese alle quali gli Stati affidano la gestione di servizi nell’interesse generale (art. 86);
— regolamentazione degli interventi degli Stati membri nell’economia, per impedire che gli
aiuti economici alle imprese generino limitazioni e modifiche al libero esplicarsi della
concorrenza (artt. 87-89).
In particolari settori, come formazione educativa e informazione, l’antitrust assume un
ruolo politico e istituzionale, perché rappresenta lo strumento di difesa del diritto all’istruzione e
all’informazione.
Numerose sono le leggi speciali a riguardo, fra cui la Legge 416 del 1981, che vieta le
concentrazioni quando comportino l’assunzione di una posizione dominante nel mercato
editoriale, indipendentemente da ogni abuso; la Legge 223/1990 sulla disciplina del sistema
radiotelevisivo pubblico e privato, che ha esteso le regole antimonopolistiche e di trasparenza
dell’editoria a tutto il settore dell’informazione.
È stata inoltre istituita l’Autorità garante per la radiodiffusione e l’editoria poi soppressa e
sostituita dall’Autorità garante per le telecomunicazioni.
Antitrust e intervento pubblico sono giustificati, dal punto di vista costituzionale e
comunitario, solo se finalizzati al miglioramento delle condizioni di vita, alla socialità,
all’attuazione del sistema dei valori costituzionali.

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