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LA TUTELA GIURISDIZIONALE

DEGLI INTERESSI COLLETTIVI


PUBBLICAZIONI DEL DIPARTIMENTO DI SCIENZE GIURIDICHE
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA «LA SAPIENZA»

1. LEOPOLDO TULLIO (a cura di), La nuova disciplina del trasporto aereo. Commento
della Convenzione di Montreal del 28 maggio 1999, 2006.
2. FABIO VECCHI, Gli accordi tra potestà civili ed autorità episcopali, 2006.
3. ANDREA LONGO, I valori costituzionali come categoria dogmatica. Problemi e ipo-
tesi, 2007.
4. BEATRICE SERRA, Arbitrium et aequitas nel diritto amministrativo canonico, 2007.
5. GIANLUCA BASCHERINI, Immigrazione e diritti fondamentali. L’esperienza italiana
tra storia costituzionale e prospettive europee, 2007.
6. LUIGI COLACINO CINNANTE, Pubblica amministrazione e trasformazioni dell’ordi-
namento, 2007.
7. G. CASSANDRO - A. LEONI - F. VECCHI (a cura di), Arturo Carlo Jemolo. Vita ed
opere di un italiano illustre. Un Professore dell’Università di Roma, 2007.
8. ROBERTA CALVANO (a cura di), Legalità costituzionale e mandato d’arresto europeo,
2007.
9. LAURA RONCHETTI, Il nomos infranto: globalizzazione e costituzioni. Del limite
come principio essenziale degli ordinamenti giuridici, 2007.
10. VINCENZO CERULLI IRELLI (a cura di), Il procedimento amministrativo, 2007.
11. FABIO FRANCESCHI, La condizione degli enti ecclesiastici in Italia nelle vicende
politico-giuridiche del XIX secolo, 2007.
12. SILVIA SEGNALINI, L’editto Carboniano, 2007.
13. VINCENZO MARINELLI, Studi sul diritto vivente. Prefazione di Augusto Cerri,
2008.
14. PAOLA COCO, L’imputazione del contributo concorsuale atipico, 2008.
15. MAURA GARCEA, I gruppi di società di persone, 2008.
16. FRANCO MODUGNO - PAOLO CARNEVALE (a cura di), Trasformazioni della funzione
legislativa. IV. Ancora in tema di fonti del diritto e rapporti Stato-Regione dopo la
riforma del Titolo V della Costituzione, 2008.
17. MARCO GAMBARDELLA, L’abrogazione della norma incriminatrice, 2008.
18. GIUSEPPE CRICENTI, I diritti sul corpo, 2008.
19. DONATELLA BOCCHESE, L’ipoteca sulla nave in costruzione, 2008.
20. ELEONORA RINALDI, Legge ed autonomia locale, 2008.
21. LUCIA GIZZI, Il getto pericoloso di cose, 2008.
22. GIANLUCA CIAMPA, Il delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù,
2008.
23. ROMOLO DONZELLI, La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi, 2008.
ROMOLO DONZELLI

LA TUTELA GIURISDIZIONALE
DEGLI INTERESSI COLLETTIVI

JOVENE EDITORE
NAPOLI 2008
DIRITTI D’AUTORE RISERVATI

© Copyright 2008
ISBN 88-243-1778-2

JOVENE EDITORE S.P.A.


Via Mezzocannone 109
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pari a quanto previsto dall’art. 68, co. 4, L. 22 aprile 1941 n. 633.

Printed in Italy
Stampato in Italia
a papà
e
a Nicolò
Un sentito ringraziamento al Prof. Lucio Lanfranchi per gli inse-
gnamenti, il sostegno e l’esempio che mi ha regalato in questi anni.
INDICE

Premessa ........................................................................................................... p. XXI

CAPITOLO PRIMO
LE VICENDE GIURIDICHE DELL’INTERESSE COLLETTIVO
NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE:
DAL PERIODO TARDO-LIBERALE
ALL’ORDINAMENTO CORPORATIVO

1. Considerazioni introduttive: la tutela giurisdizionale degli interessi


sovraindividuali, un problema nuovo, ma non troppo............................ » 1
2. I primi casi di emersione in campo giuridico del concetto di interesse
collettivo a cavallo tra Ottocento e Novecento........................................ » 6
2.1. Uno sguardo preliminare al processo amministrativo ...................... » 6
2.1.1. Gli interessi collettivi in due progetti di riforma alle origini
del sistema italiano di giustizia amministrativa ....................... » 8
2.1.2. Il contributo al tema della tutela degli interessi collettivi da
parte dello studio avanzato da Emilio Bonaudi ...................... » 16
2.1.3. Le conclusioni di Bonaudi ....................................................... » 26
2.2. L’interesse collettivo nelle origini del diritto del lavoro nello Stato
tardo-liberale ....................................................................................... » 28
2.2.1. Le riflessioni di Giuseppe Messina sull’interesse da tute-
larsi in sede di concordato collettivo ....................................... » 28
2.2.2. La proiezione dell’interesse collettivo dei lavoratori all’in-
terno del processo: i progetti di riforma della «magistratura»
probivirale e l’affannoso tentativo di configurazione di con-
troversie collettive ..................................................................... » 35
2.2.2.1. Premesse: l’intervento di Lodovico Mortara.............. » 35
2.2.2.2. Il Questionario di Inchiesta per la riforma della
legge 15 giugno 1893................................................... » 38
2.2.2.3. Il progetto di riforma dei probiviri del 1909 ed il
contributo di Enrico Redenti...................................... » 47
3. L’interesse collettivo nell’esperienza giuridica del corporativismo ......... » 50
3.1. L’interesse collettivo: la pietra angolare per la costruzione del
nuovo apparato concettuale ............................................................... » 50
3.1.1. L’interesse collettivo nel pensiero di Widar Cesarini Sforza .. » 54
3.1.2. L’interesse collettivo nel pensiero di Francesco Carnelutti .... » 60
XII INDICE

3.2. La sentenza con efficacia collettiva nell’ordinamento corporativo... p. 67


3.2.1. La distinzione tra le controversie individuali e le controver-
sie collettive............................................................................... » 71
3.2.2. Il fondamento giuridico-formale sotteso alla legittimazione
esclusiva dell’associazione sindacale ........................................ » 74
4. Considerazioni conclusive ......................................................................... » 84

CAPITOLO SECONDO
LE VICENDE GIURIDICHE DELL’INTERESSE COLLETTIVO
NELL’ESPERIENZA POST-COSTITUZIONALE
SINO ALL’INIZIO DEGLI ANNI SETTANTA

1. Considerazioni introduttive....................................................................... » 89
2. L’interesse collettivo nella Costituzione repubblicana............................. » 90
3. «La Costituzione inattuata» e i rapporti tra interessi collettivi e dot-
trina............................................................................................................. » 98
4. La nozione di interesse collettivo nella dottrina giuslavorista post-co-
stituzionale.................................................................................................. » 101
4.1. La nozione di interesse collettivo secondo Francesco Santoro Pas-
sarelli.................................................................................................... » 101
4.2. L’interesse collettivo come «combinazione» o «sintesi» degli inte-
ressi individuali ................................................................................... » 106
5. Altri studi sulla nozione di interesse collettivo ........................................ » 111
6. Interessi collettivi e processo: il giudizio di repressione della concor-
renza sleale ................................................................................................. » 116
6.1. Corsi e ricorsi storici: la sentenza della Corte di cassazione n. 171
del 5 febbraio 1948 ............................................................................. » 119
6.2. Le diverse tesi sulla natura del giudizio di repressione della concor-
renza sleale ex art. 2598 c.c.: tesi «soggettive» e tesi «oggettive».... » 125
6.3. La natura dell’azione collettiva ex art. 2601 c.c. per le tesi «sog-
gettive» dell’illecito ............................................................................. » 128
6.4. La natura dell’azione collettiva ex art. 2601 c.c. per le tesi «ogget-
tive» dell’illecito .................................................................................. » 136
7. Considerazioni conclusive ......................................................................... » 138

CAPITOLO TERZO
LE VICENDE GIURIDICHE DELL’INTERESSE COLLETTIVO
DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI

1. Cornice generale ........................................................................................ » 142


1.1. Considerazioni introduttive ................................................................ » 142
1.2. Il quadro culturale di riferimento: la ri-scoperta della Costituzione » 146
1.3. L’evoluzione socio-economica e i conflitti di massa.......................... » 148
INDICE XIII

1.4. L’istanza di tutela degli interessi sovraindividuali come species del-


l’istanza partecipatoria ........................................................................ p. 151
2. Gli interessi sovraindividuali: le nozioni .................................................. » 158
2.1. Considerazioni introduttive ................................................................ » 158
2.2. La distinzione tra interessi collettivi e diffusi: la tesi monista, la tesi
dualista oggettiva, la tesi dualista soggettiva ..................................... » 162
2.3. La tesi monista e la tesi dualista oggettiva in particolare ................. » 168
2.4. L’analisi della posizione di Massimo Severo Giannini come stru-
mento di comprensione e re-inquadramento della dottrina dualista
soggettiva ............................................................................................. » 171
2.5. Precisazioni sul ruolo dell’ente rappresentativo all’interno della
dottrina (talora solo apparentemente) dualista soggettiva................ » 177
2.6. Considerazioni di sintesi sul dibattito dottrinale sulle diverse no-
zioni di interesse superindividuale ..................................................... » 182
3. La giuridicizzazione degli interessi sovraindividuali................................ » 185
3.1. I limiti dell’ordinamento giuridico..................................................... » 185
3.2. Le diversità strutturali intercorrenti tra il processo civile e il pro-
cesso amministrativo ........................................................................... » 190
3.3. La giuridicizzazione degli interessi sovraindividuali per coloro che
configurano i medesimi come insieme di più interessi individuali .. » 195
3.3.1. La configurazione sostanziale................................................... » 195
3.3.1.1. La tesi dominate: riconducibilità degli interessi (so-
vra-)individuali alle figure del diritto soggettivo o
dell’interesse legittimo................................................. » 195
3.3.1.2. La tesi minoritaria: non riconducibilità degli inte-
ressi (sovra-)individuali alle figure tradizionali del
diritto soggettivo o dell’interesse legittimo ................ » 210
3.3.2. L’individuazione dei legittimati ad agire: la legittimazione
individuale diffusa..................................................................... » 213
3.4. La giuridicizzazione degli interessi sovraindividuali per coloro che
configurano i medesimi come entità unitaria .................................... » 217
3.4.1. L’azione collettiva a legittimazione concentrata ...................... » 217
3.4.1.1. L’azione collettiva come rappresentanza ideologica
(la lettura innovativa della posizione giuridica del-
l’ente rappresentativo)................................................. » 221
3.4.1.2. L’azione collettiva come mera azione (la lettura pro-
cessualistica della posizione giuridica dell’ente rap-
presentativo) ................................................................ » 225
3.4.1.3. L’azione collettiva come mera conseguenza della ti-
tolarità di una situazione soggettiva sostanziale (la
lettura sostanzialistica della posizione dell’ente rap-
presentativo) ................................................................ » 228
3.4.1.3.1. Considerazioni generali............................... » 228
XIV INDICE

3.4.1.3.2. Ipotesi giurisprudenziale tipica: la giuri-


sprudenza amministrativa in materia di tu-
tela degli interessi collettivi in senso pro-
prio ............................................................... p. 229
3.4.1.4. L’azione collettiva e i diritti soggettivi collettivi ........ » 238
3.4.2. La legittimazione concentrata e la sua compatibilità con i
principi costituzionali ............................................................... » 244
4. Il trattamento processuale delle controversie collettive: in partico-
lare i limiti soggettivi del giudicato.................................................... » 246
4.1. Considerazioni introduttive ................................................................ » 246
4.2. I diversi orientamenti dottrinali ......................................................... » 248

CAPITOLO QUARTO
IL CONCETTO DI INTERESSE
E DI INTERESSE COLLETTIVO

1. Considerazioni introduttive: sintesi del percorso ricostruttivo ............... » 255


2. Precisazioni di metodo sull’impiego del concetto di interesse nello stu-
dio del diritto ............................................................................................. » 256
3. La nozione di interesse .............................................................................. » 259
4. L’attività di perseguimento dell’interesse.................................................. » 268
5. Le relazioni tra interessi ............................................................................ » 270
6. La nozione di interesse collettivo.............................................................. » 273
6.1. Premesse sulle due (apparentemente) possibili concezioni prin-
cipali..................................................................................................... » 273
6.2. L’origine dei concetti di interesse collettivo-sintesi e di interesse
collettivo-somma di interessi individuali ........................................... » 285
6.3. Precisazioni esplicative sul concetto di interesse collettivo-sintesi... » 290
7. L’interesse protetto dai rimedi giurisdizionali a tutela degli interessi
collettivi ...................................................................................................... » 297
8. Precisazioni sulla nozione di interesse diffuso, interesse generale ed
interesse pubblico ...................................................................................... » 302

CAPITOLO QUINTO
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE:
LA TECNICA DEL DIRITTO SOGGETTIVO

1. Considerazioni introduttive....................................................................... » 305


2. Esame critico delle diverse nozioni di diritto soggettivo......................... » 312
2.1. Considerazioni introduttive ................................................................ » 312
2.2. Il diritto soggettivo come potere della volontà: critica ..................... » 317
2.3. Il diritto soggettivo come posizione attiva di libertà ........................ » 322
2.3.1. I rapporti tra la possibilità di agire e l’obbligo nelle conce-
zioni del diritto soggettivo come posizione di libertà............. » 335
INDICE XV

2.3.2. Critica alla concezione del diritto soggettivo come posizione


di libertà .................................................................................... p. 343
2.3.2.1. Considerazioni introduttive ........................................ » 343
2.3.2.2. La distinzione tra libertà e diritto .............................. » 344
2.3.2.3. L’equivoco concetto di «libertà protetta» .................. » 351
2.4. Il diritto soggettivo come posizione di destinatarietà dell’obbligo o
come facoltà di pretendere ................................................................. » 357
2.5. Il diritto soggettivo nella prospettiva delle diverse tecniche di pro-
tezione giuridica degli interessi .......................................................... » 364
2.5.1. Il diritto soggettivo dall’«interesse giuridicamente protetto»
alla «protezione giuridica dell’interesse»................................. » 364
2.5.2. Il diritto soggettivo dalla «protezione giuridica dell’inte-
resse» a pura tecnica di tutela giuridica .................................. » 371
2.5.3. Quadro esemplificativo di sintesi di alcune possibili tecniche
di tutela giuridica degli interessi .............................................. » 377
2.5.4. Considerazioni conclusive ........................................................ » 381
2.5.4.1. Critica al concetto di soggettivazione del diritto ....... » 386
2.5.4.2. Inscindibilità della dimensione strutturale e funzio-
nale: il diritto soggettivo come interesse giuridica-
mente protetto mediante l’imposizione di obblighi
sostanziali ..................................................................... » 389

CAPITOLO SESTO
PROFILI GENERALI
DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE
DEGLI INTERESSI COLLETTIVI

1. Considerazioni introduttive....................................................................... » 397


2. Gli interessi collettivi tutelabili innanzi la magistratura ordinaria
«sono» diritti soggettivi ............................................................................. » 398
3. Soluzione dei principali ostacoli alla ricostruzione degli interessi col-
lettivi in termini di diritti soggettivi.......................................................... » 400
4. La posizione dell’ente esponenziale.......................................................... » 407
5. I limiti soggettivi del giudicato ................................................................. » 420
5.1. Considerazioni preliminari sui profili funzional-strutturali dei giu-
dizi collettivi ........................................................................................ » 420
5.1.1. Giudizi collettivi a tutela di interessi individuali compatibili
concorrenti: giudizi collettivi in senso proprio ....................... » 421
5.1.2. Giudizi collettivi a tutela di interessi individuali esclusivi:
giudizi collettivi in senso improprio ........................................ » 424
5.1.3. Ipotesi intermedie e tecniche di semplificazione .................... » 430
5.2. Il problema dell’oggetto dell’accertamento nei giudizi collettivi
inibitori previsti dal nostro ordinamento .......................................... » 437
5.2.1. Considerazioni introduttive...................................................... » 437
XVI INDICE

5.2.2. L’oggetto dell’accertamento nei giudizi inibitori: l’obbligo di


astensione .................................................................................. p. 439
5.2.3. L’oggetto dell’accertamento nei giudizi inibitori: l’antigiuri-
dicità della condotta ................................................................. » 447
5.3. Le possibili soluzioni teoriche al problema dei limiti soggettivi del
giudicato in materia di giudizi collettivi nel nostro ordinamento .... » 459
5.3.1. Concorso soggettivo di azioni .................................................. » 466
5.3.2. Giudicato secundum eventum litis ........................................... » 472
5.3.3. Estensione ultra partes e litisconsorzio necessario .................. » 475
5.4. Valutazione comparativa dei risultati ottenuti e giudizio di sintesi . » 485
5.4.1. Considerazioni introduttive e superamento del concorso
soggettivo di azioni ................................................................... » 485
5.4.2. Valutazione comparativa del giudicato secundum eventum
litis e del giudicato erga omnes: loro armonizzabilità con il
sistema positivo ......................................................................... » 486
5.4.2.1. Il giudicato secundum eventum litis ed i tradizionali
ostacoli all’estensione ultra partes dell’efficacia di-
retta del giudicato........................................................ » 488
5.4.3. Valutazione comparativa del giudicato secundum eventum
litis e del giudicato erga omnes alla luce delle garanzie co-
stituzionali ................................................................................. » 498
5.4. Conclusioni.......................................................................................... » 503

CAPITOLO SETTIMO
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE

1. Considerazioni introduttive....................................................................... » 505


2. La dottrina favorevole al coordinamento delle azioni ............................. » 511
2.1. Le diverse qualificazioni della posizione giuridica attribuita al sin-
dacato legittimato................................................................................ » 511
2.1.1. Il potere di azione sindacale come attribuzione di un mero
diritto di azione......................................................................... » 511
2.1.2. Il potere di azione sindacale come conseguenza dell’attribu-
zione di un diritto soggettivo sostanziale ................................ » 516
2.1.3. Giudizio propriamente rivolto a tutela di interessi collettivi e
giudizio a contenuto oggettivo................................................. » 521
2.2. Gli strumenti di coordinamento tra i due giudizi: litisconsorzio
necessario o estensione ultra partes degli effetti del giudicato ......... » 525
3. La dottrina favorevole al parallelismo delle azioni .................................. » 529
3.1. Il «diritto collettivo» del sindacato .................................................... » 531
3.1.1. L’interesse collettivo quale risultante organizzatoria del
gruppo ....................................................................................... » 531
3.1.2. La piena autonomia del giudizio speciale rispetto alle inizia-
tive dei singoli lavoratori .......................................................... » 535
3.2. Il diritto soggettivo (inteso in senso tradizionale) del sindacato...... » 538
INDICE XVII

4. Esame critico della giurisprudenza ........................................................... p. 544


4.1. L’autonomia e l’indipendenza delle azioni nell’opinione giurispru-
denziale ................................................................................................ » 544
4.2. Uno sguardo oltre i principi: l’individuazione dei limiti esatti in cui
viene ad essere intesa l’autonomia e l’indipendenza delle azioni..... » 548
4.3. L’oggetto del giudizio per la repressione della condotta antisinda-
cale: l’interesse collettivo o diritto soggettivo?.................................. » 552
5. Considerazioni ricostruttive ...................................................................... » 559
5.1. La rilevanza paradigmatica del dibattito in materia di azione ex art.
28 e gli influssi di ordine lato sensu politico che lo hanno carat-
terizzato ............................................................................................... » 559
5.2. Precisazioni sul concetto di illecito antisindacale plurioffensivo ..... » 561
5.2.1. Considerazioni introduttive...................................................... » 561
5.2.2. Ambiente di lavoro e persona .................................................. » 564
5.2.3. L’unicità dell’illecito antisindacale ........................................... » 568
5.3. L’oggetto del giudizio collettivo e la natura dell’azione sindacale ... » 575
5.4. Gli effetti del giudicato emesso in sede collettiva............................. » 579
5.5. La legittimazione ad agire in via sommaria-inibitoria del singolo e
dei sindacati che non rispondono ai requisiti di legittimazione pre-
visti dall’art. 28 S.L ............................................................................. » 582
5.6. Il diritto soggettivo del sindacato al pagamento da parte del datore
delle retribuzioni o del risarcimento del danno subito dal lavo-
ratore.................................................................................................... » 594

CAPITOLO OTTAVO
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA

1. Considerazioni introduttive....................................................................... » 601


2. Ricognizione dei tratti sistematici essenziali della tutela collettiva
antidiscriminatoria ..................................................................................... » 604
2.1. La tutela antidiscriminatoria per ragioni di sesso ............................. » 604
2.1.1. Dalla l. n. 300/70 alla l. n. 125/91 ........................................... » 604
2.1.2. Dalla l. n. 125/91 alla d.legisl. n. 198/2006............................. » 607
2.1.3. Sintesi del quadro delle tutele.................................................. » 612
2.2. Gli altri strumenti di tutela collettiva antidiscriminatoria: dal
d.legisl. n. 286/98 alla l. n. 67/2006................................................... » 614
2.3. Conclusioni.......................................................................................... » 619
3. La dottrina in materia di oggetto ed effetti dell’azione collettiva anti-
discriminatoria ........................................................................................... » 620
3.1. Considerazioni introduttive ................................................................ » 620
3.2. La tesi del doppio binario .................................................................. » 621
3.2.1. L’interesse tutelato nel giudizio collettivo ............................... » 621
3.2.2. La posizione sostanziale e processuale riconosciuta all’ente
esponenziale .............................................................................. » 629
3.2.3. Gli effetti del provvedimento conclusivo ................................ » 631
XVIII INDICE

3.3. Considerazioni ricostruttive................................................................ p. 634


3.3.1. L’identità delle fattispecie sostanziali legittimanti l’azione dei
soggetti discriminati e l’azione dell’ente esponenziale............ » 634
3.3.2. la funzione direttamente riparatoria del rimedio processuale
collettivo: ulteriori precisazioni................................................ » 642
3.3.3. Precisazioni sul carattere collettivo della discriminazione...... » 643
3.3.4. Precisazioni sull’azione collettiva riferita alle sole discrimi-
nazioni di soggetti non individuabili in via diretta e imme-
diata ........................................................................................... » 648
3.3.5. Gli effetti del provvedimento conclusivo ................................ » 651
3.3.5.1. L’accertamento della discriminatorietà del compor-
tamento tenuto dall’autore dell’illecito e degli ob-
blighi di astensione e rimozione degli effetti ............. » 654
3.3.5.2. Gli atti discriminatori complessi e i loro effetti sulle
vicende del processo.................................................... » 656
3.3.5.3. La richiesta di risarcimento del danno da parte del-
l’ente esponenziale....................................................... » 660
4. Brevi osservazioni conclusive sulla natura dell’ordine di definizione del
piano di rimozione delle discriminazioni accertate.................................. » 669

CAPITOLO NONO
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE

1. Considerazioni introduttive....................................................................... » 675


2. I primi tentativi di tutela giuridica dell’ambiente .................................... » 677
2.1. Considerazioni preliminari ................................................................. » 677
2.2. Le posizioni orientate verso la valorizzazione dei profili individuali
e soggettivi della tutela ....................................................................... » 680
2.3. Le posizioni orientate verso la valorizzazione dei profili collettivi e
oggettivi della tutela............................................................................ » 689
3. La riflessione dottrinale in materia di danno ambientale nella legge
istitutiva del Ministero dell’ambiente ....................................................... » 696
3.1. Cenni sulla fattispecie ......................................................................... » 696
3.2. Le difficoltà interpretative presentate dalla norma........................... » 697
3.3. Il mancato riconoscimento della legittimazione ad agire al singolo
e alle formazioni sociali: la critica della dottrina............................... » 700
3.4. L’interesse tutelato: natura e titolarità ............................................... » 707
3.4.1. Le concezioni soggettive della tutela: tesi propriamente
pubblicistiche e privatistiche-collettivistiche........................... » 707
3.4.2. Le concezioni oggettive della tutela......................................... » 714
3.4.3. Una tesi a parte: la proprietà collettiva dell’ambiente............ » 716
3.5. La posizione processuale degli enti pubblici territoriali legittimati
all’azione e delle associazioni ambientaliste legittimate all’inter-
vento nel giudizio di danno ambientale............................................. » 723
INDICE XIX

4. Gli interventi legislativi successivi alla l. n. 349 del 1986 ....................... p. 727
4.1. La l. 3 agosto 1999, n. 265 e il successivo d.legisl. 18 agosto 2000,
n. 267: il riconoscimento della legittimazione ad agire ai singoli e
alle associazioni ambientaliste ............................................................ » 727
4.2. Il d.legisl. 3 aprile 2006, n. 152.......................................................... » 730
4.2.1. Considerazioni introduttive...................................................... » 730
4.2.2. I Titoli I e II della Parte VI del d.legisl. n. 152/2006 ............ » 732
4.2.3. Il Titolo III della Parte VI del d.legisl. n. 152/2006 .............. » 735
4.2.4. L’azione pubblica del Ministero dell’ambiente e del terri-
torio in rapporto con l’interesse collettivo all’ambiente......... » 737
4.2.5. L’inevitabile supervalutazione delle tutele alternative ............ » 746

CAPITOLO DECIMO
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI

1. Considerazioni introduttive....................................................................... » 754


2. Le tappe del progressivo itinerario di riconoscimento di azioni collet-
tive a tutela degli interessi dei consumatori ............................................. » 758
2.1. L’iniziale vuoto normativo e l’apporto della dottrina ....................... » 758
2.1.1. I tentativi di tutelare gli interessi dei consumatori all’interno
del giudizio di repressione della concorrenza sleale............... » 759
2.1.1.1. Esame delle principali opzioni interpretative ............ » 759
2.1.2. L’edificazione in via sistematica dell’azione collettiva a tutela
dei consumatori......................................................................... » 770
2.2. I principali strumenti di tutela giurisdizionale degli interessi collet-
tivi dei consumatori attualmente previsti dal nostro ordinamento .. » 775
3. La natura delle azioni collettive a tutela dei consumatori....................... » 784
3.1. Considerazioni introduttive ................................................................ » 784
3.2. Le azioni collettive inibitorie.............................................................. » 785
3.2.1. Esame del dibattito sulla natura dell’azione collettiva inibi-
toria in materia di clausole abusive.......................................... » 785
3.2.1.1. La deduzione della natura dell’azione dalla natura
degli interessi tutelati................................................... » 785
3.2.1.2. L’incerto inquadramento dogmatico dell’azione ini-
bitoria collettiva in materia di clausole abusive......... » 794
3.2.2. Esame del dibattito sulla natura dell’azione collettiva inibi-
toria generale a tutela dei consumatori ................................... » 799
3.2.2.1. La possibile natura plurioffensiva della condotta
antigiuridica: considerazioni introduttive e di me-
todo .............................................................................. » 799
3.2.2.2. Sistemazione ragionata delle diverse posizioni soste-
nute in dottrina............................................................ » 802
3.2.2.3. Le ricadute dogmatiche del nuovo quadro norma-
tivo in materia di azione inibitoria generale .............. » 807
XX INDICE

3.2.2.4. La difficile coesistenza tra la dominante concezione


dell’azione collettiva riservata agli enti rappresenta-
tivi e le «misure idonee a correggere o eliminare gli
effetti dannosi delle violazioni accertate» .................. p. 810
3.2.3. Considerazioni ricostruttive ..................................................... » 815
3.2.3.1. La ridefinizione dei requisiti funzionali e strutturali
delle azioni collettive inibitorie conseguente all’in-
troduzione del nuovo art. 140 bis............................... » 815
3.2.3.2. La natura delle azioni collettive inibitorie a tutela
dei consumatori ........................................................... » 816
3.2.3.3. La legittimazione ad agire del singolo consumatore a
tutela dell’interesse collettivo...................................... » 821
3.2.3.4. La natura della posizione giuridica attribuita all’ente
esponenziale ................................................................. » 823
3.2.3.5. I limiti soggettivi del giudicato inibitorio collettivo .. » 826
3.2.3.6. Il problema dei rapporti tra giudicato collettivo e
giudizi individuali sugli effetti conseguenti................ » 836
3.3. L’azione collettiva risarcitoria ............................................................. » 842
3.3.1. Il nuovo art. 140 bis del codice del consumo ......................... » 842
3.3.2. L’ambito di applicazione .......................................................... » 846
3.3.3. La legittimazione ad agire ........................................................ » 851
3.3.4. L’oggetto del giudizio ............................................................... » 858
3.3.4.1. Considerazioni introduttive ........................................ » 858
3.3.4.2. Giudizio su diritti o giudizio sull’illecito ................... » 863
3.3.4.3. Le indicazioni ricostruttive offerte dalla disciplina
dell’adesione................................................................. » 864
3.3.4.4. Le indicazioni ricostruttive offerte dalla disciplina
dell’intervento .............................................................. » 867
3.3.4.5. Conclusioni ricostruttive: il giudizio collettivo come
giudizio ad oggetto variabile....................................... » 869
3.3.5. Gli effetti del giudizio collettivo risarcitorio ed il suo coordi-
namento con le azioni collettive inibitorie .............................. » 875
3.3.5.1. I rapporti tra il giudizio collettivo risarcitorio e i giu-
dizi individuali di completamento .............................. » 875
3.3.5.2. Gli effetti del giudizio collettivo risarcitorio nei con-
fronti degli altri legittimati ad agire in via collettiva . » 879
3.3.5.3. Gli effetti del giudizio collettivo risarcitorio e le sue
ricadute sulla configurazione del giudizio collettivo
inibitorio....................................................................... » 882

Indice degli autori citati .................................................................................. » 885

Indice analitico ................................................................................................ » 897


PREMESSA

La tutela giurisdizionale degli interessi sovraindividuali rappresenta


da tempo una tematica di riflessione piuttosto familiare per la scienza
giuridica.
In particolare, tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta l’attenzione de-
dicata all’argomento è stata straordinaria ed assolutamente trasversale,
investendo la dottrina del diritto civile, amministrativo e penale, tanto
nella prospettiva sostanziale, quanto nella successiva e complementare
prospettiva processuale.
Da quel momento in poi la riflessione giuridica ha tracciato un iti-
nerario di studio pressoché ininterrotto che, in una prima fase, ha avuto
ad oggetto la risoluzione delle problematiche di inquadramento generale
della materia e, successivamente, ha interessato l’interpretazione dei di-
versi strumenti di tutela che via via il legislatore ha introdotto nel nostro
ordinamento.
Di recente, ad esempio, proprio l’introduzione dell’azione collettiva
risarcitoria a tutela dei consumatori ha conferito nuovo vigore al dibat-
tito, dando luogo in breve tempo a numerosi scritti dedicati allo studio
del nuovo rimedio processuale e riaccendendo l’interesse per le situa-
zioni giuridiche a rilevanza sovraindividuale.
L’ampia produzione scientifica ora ricordata non è tuttavia riuscita a
diradare l’alone di incertezza che da sempre gravita attorno alla materia.
Sono numerose, infatti, le questioni che tuttora si presentano ben lungi
dal trovare uno stabile e condiviso inquadramento.
In primo luogo la stessa natura degli interessi tutelandi.
Per averne un’idea è sufficiente scorrere le pagine che la manuali-
stica dedica alle situazioni giuridiche soggettive. Il rigore classificatorio e
definitorio che appartiene alla trattazione delle figure soggettive tradizio-
nali scende rapidamente di grado allorché il lettore si approssimi alla
presentazione dell’incerta figura dell’interesse collettivo o alla consimile
figura dell’interesse diffuso; alle quali, peraltro, è dedicata sovente scarsa
attenzione.
D’altronde, come vedremo nel corso del nostro lavoro di ricerca, la
letteratura dedicatasi ex professo allo studio della tematica presenta un
quadro generale sostanzialmente affine a quello ora indicato.
XXII PREMESSA

Il naturale rapporto di strumentalità che lega il diritto materiale


al processo costituisce – poi – la corretta chiave di lettura per com-
prendere le ricadute che tale incertezza qualificatoria ha posseduto e pos-
siede tuttora sulla soluzione delle altre fondamentali questioni interpre-
tative che sono sorte in questo ambito di studio; ovvero il tema della le-
gittimazione ad agire ed il tema dei limiti oggettivi e soggettivi del
giudicato.
La letteratura in materia di tutela giurisdizionale degli interessi so-
vraindividuali palesa – insomma – la necessità di addivenire ad una sta-
bile sistemazione dei requisiti funzionali e strutturali che appartengono ai
giudizi volti alla tutela di tali interessi.
Proprio questa consapevolezza ha indotto chi scrive a porre al cen-
tro della ricerca le questioni ora indicate.
Nei primi tre capitoli di questo lavoro esamineremo le vicende giu-
ridiche dell’interesse collettivo dal periodo tardo-liberale ai giorni nostri
(cap. I), rincorrendo la figura sin dalle origini dell’odierno diritto del la-
voro, attraversando – poi – l’esperienza del corporativismo (cap. I) e la
successiva fase post-costituzionale (cap. II), fino – appunto – ad arrivare
ai tentativi ricostruttivi avanzati in dottrina ed in giurisprudenza a partire
dagli anni Settanta per consentire la tutela giurisdizionale delle nuove
esigenze collettive (cap. III).
Da questo percorso emergeranno piuttosto chiaramente i due
grandi ostacoli teorico-sistematici che sinora hanno impedito una chiara
e serena riflessione sul tema oggetto delle nostre attenzioni: in primo
luogo, le incertezze in merito alla corretta nozione di interesse tout court
(ancor prima che in riferimento alle diverse nozioni di interesse sovrain-
dividuale) ed, in secondo luogo, la difficoltà di adattamento ai nuovi con-
tenuti di tutela delle figure dogmatiche tradizionali.
In relazione alla primo profilo ora indicato, presenteremo una defi-
nizione stipulativa del concetto di interesse, grazie alla quale sarà possi-
bile determinare il concetto di interesse collettivo alla luce della relazione
logica di compatibilità e concorrenza reciproca che lega tra loro più inte-
ressi, superando così – a favore della prima opzione – la divaricazione ri-
costruttiva tra la tendenza a concepire l’interesse collettivo come un ag-
gregato di distinti interessi individuali e l’opposta configurazione unitaria
e inscindibile dello stesso (cap. IV).
Sotto il secondo profilo, prenderemo in esame le diverse nozioni di
diritto soggettivo presentate dalla dottrina per verificare quale sia la più
appagante in chiave teorico-generale.
PREMESSA XXIII

Questo percorso, condotto con metodo logico-empirico, ci con-


durrà ad apprezzare un duplice piano di intellezione del fenomeno giuri-
dico: quello funzionale e quello propriamente strutturale.
Ragionando in senso strutturale e formale assieme, ovvero orien-
tando la ricerca verso la rilevazione degli strumenti che il diritto presenta
come «costanti invariabili»1 in ordine al soddisfacimento degli interessi,
ravviseremo nel piano dei comportamenti umani il «piano di incidenza»
del diritto e nell’obbligo il «punto di incidenza» del diritto stesso su tale
piano (cap. V).
Più semplicemente l’obbligo verrà a rappresentare l’elemento strut-
turale elementare ed essenziale che il diritto impiega per il soddisfaci-
mento degli interessi ed il concetto di diritto soggettivo verrà a costituire
la formula di sintesi di un fenomeno giuridico dinamico, composto da
elementi funzionali e strutturali assieme, in cui appunto un comporta-
mento doveroso è diretto al soddisfacimento dell’interesse normativa-
mente rilevante di un soggetto titolare del potere di azione (cap. V).
Giungeremo per questa via al cuore della ricerca, ovvero alla parte
dedicata allo studio dei profili funzionali e strutturali del giudizio col-
lettivo.
Per quel che riguarda il tema della legittimazione ad agire, propor-
remo di esaminare le norme che tutelano gli interessi collettivi prestando
attenzione non solo all’espressa attribuzione del potere di azione ai sog-
getti che in via istituzionale difendono e promuovono gli interessi della
collettività rappresentata, ma anche a quella parte della norma che quali-
fica come illecite talune attività e da cui emerge la proiezione funzionale
della stessa e conseguentemente gli interessi normativamente rilevanti e
tutelati in via primaria dalla legge.
L’applicazione del principio costituzionale di atipicità dell’azione,
che sancisce la naturale e ordinaria titolarità di tale potere in capo al ti-
tolare dell’interesse normativamente rilevante (ex art. 24 Cost.), ci con-
durrà, quindi, a ritenere che l’azione inibitoria a tutela degli interessi col-
lettivi spetti anche, se non in primo luogo, ai titolari di tali interessi, ov-
vero ai singoli soggetti lesi, legittimati in via ordinaria a richiedere la
repressione giurisdizionale del comportamento illecito (cap. VI).
Sempre in questa parte della ricerca affronteremo il tema dell’og-
getto del giudizio collettivo e, supportati dalle indicazioni che ci derivano
anche dalle forme di tutela giurisdizionale collettiva adottate in altri or-

1 CAMMARATA, A.E., Limiti tra formalismo e dommatica nelle figure di qualificazione giu-
ridica [1936], in Formalismo e sapere giuridico, Studi, Milano, 1963, p. 345 ss.
XXIV PREMESSA

dinamenti, avremo occasione di individuare tre principali modelli di giu-


dizio collettivo.
Il giudizio collettivo proprio, tipicamente rappresentato dal giudizio
collettivo inibitorio, nel quale l’accertamento giudiziale coinvolge un
unico obbligo sostanziale volto al soddisfacimento di un interesse collet-
tivo, ovvero di più interessi individuali compatibili concorrenti; il giudi-
zio collettivo improprio, tipicamente rappresentato dal giudizio collettivo
risarcitorio, nel quale la tutela giurisdizionale non è tesa a realizzare il
soddisfacimento di interessi collettivi, bensì il soddisfacimento di distinti
interessi individuali esclusivi al pagamento di somme da versarsi a titolo
di risarcimento, e nel quale – appunto – l’accertamento non cade su un
unico obbligo sostanziale, ma su tanti obblighi a contenuto risarcitorio; il
giudizio collettivo su questioni, che si pone in posizione intermedia tra i
due modelli appena indicati, in quanto rappresenta una modalità di sem-
plificazione del secondo ed al contempo, come il primo, mira alla realiz-
zazione di un interesse collettivo (in questo caso di tenore processuale)
appartenente ad una certo gruppo di soggetti pregiudicati dall’illecito ed
avente ad oggetto l’accertamento della questione o delle questioni co-
muni alla diverse pretese risarcitorie o restitutorie (cap. VI).
In particolare riferimento ai giudizi collettivi inibitori, verificheremo
in quali limiti sia possibile ritenere che l’efficacia di accertamento della
sentenza coinvolga non solo l’obbligo negativo e continuativo accertato
in via specificativa dal giudice, ma anche il comportamento illecito pre-
supposto.
Assunta quindi la debita chiarezza in merito all’ambito oggettivo
dell’accertamento, lo studio affronterà il tema dei limiti soggettivi del
giudicato ed a tal proposito, nell’assenza di una regolamentazione legale
espressa e dettagliata del regime di vincolatività della sentenza, nonché
anche di un adeguato e giusto processo collettivo, il giudicato secundum
eventum litis risulterà l’opzione comparativamente preferibile rispetto,
da un lato, all’efficacia erga omnes della sentenza e, dall’altro, alla stretta
osservanza del principio di relatività del giudicato (cap. VI).
Completata la parte della nostra ricerca relativa all’approfondimento
delle questioni ricostruttive a carattere generale, affronteremo l’esame e la
sistemazione dei principali strumenti di tutela collettiva positivamente
previsti dal nostro ordinamento: l’azione per la repressione della condotta
antisindacale (cap. VII), i giudizi di tutela collettiva antidiscriminatoria
(cap. VIII), l’azione pubblica di risarcimento del danno ambientale (cap.
IX) ed infine i rimedi di tutela collettiva degli interessi dei consumatori,
tra cui la già citata azione risarcitoria recentemente introdotta (cap. X).
PREMESSA XXV

A chiusura di questa breve premessa, preme peraltro avanzare


un’ultima osservazione.
A nostro parere il tema della tutela giurisdizionale degli interessi so-
vraindividuali impone all’interprete ed al legislatore, che si appresti ad
introdurre nuovi strumenti di tutela, di acquisire la debita chiarezza sulla
natura di tali interessi valorizzando la riferibilità degli stessi alla persona
acquisita in quella sua duplice dimensione individuale e collettiva a cui
dà rilievo la nostra Costituzione. Solo muovendo da questa premessa è
possibile interpretare gli attuali strumenti giuridici conformemente ai va-
lori accolti dal nostro ordinamento ed apprestarne dei nuovi.
Occorre, insomma, muovere dal diritto al processo.
Orientandosi in questa prospettiva si realizza l’inadeguatezza dell’at-
tuale quadro positivo in materia e l’assoluta necessità di concepire un
giusto processo collettivo, ovvero un processo appositamente discipli-
nato per dare accoglimento alle situazioni giuridiche soggettive in esame.
È questa la più grave ed incolmabile lacuna palesata dal nostro or-
dinamento, nel quale le disposizioni in materia di tutela degli interessi so-
vraindividuali si limitano ad abbozzare il regime della legittimazione ad
agire, nonché a definire la fattispecie lesiva degli interessi materiali.
Sul processo, sulle sue forme, sull’efficacia della sentenza, vige il
quasi completo silenzio.
CAPITOLO PRIMO

LE VICENDE GIURIDICHE DELL’INTERESSE COLLETTIVO


NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE:
DAL PERIODO TARDO-LIBERALE
ALL’ORDINAMENTO CORPORATIVO

SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive: la tutela giurisdizionale degli interessi so-


vraindividuali, un problema nuovo, ma non troppo. – 2. I primi casi di emersione
in campo giuridico del concetto di interesse collettivo a cavallo tra Ottocento e
Novecento. – 2.1. Uno sguardo preliminare al processo amministrativo. – 2.1.1.
Gli interessi collettivi in due progetti di riforma alle origini del sistema italiano di
giustizia amministrativa. – 2.1.2. Il contributo al tema della tutela degli interessi
collettivi da parte dello studio avanzato da Emilio Bonaudi. – 2.1.3. Le conclusioni
di Bonaudi. – 2.2. L’interesse collettivo nelle origini del diritto del lavoro nello
Stato tardo-liberale. – 2.2.1. Le riflessioni di Giuseppe Messina sull’interesse da
tutelarsi in sede di concordato collettivo. – 2.2.2. La proiezione dell’interesse col-
lettivo dei lavoratori all’interno del processo: i progetti di riforma della «magistra-
tura» probivirale e l’affannoso tentativo di configurazione di controversie collet-
tive. – 2.2.2.1. Premesse: l’intervento di Lodovico Mortara. – 2.2.2.2. Il Questio-
nario di Inchiesta per la riforma della legge 15 giugno 1893. – 2.2.2.3. Il progetto
di riforma dei probiviri del 1909 ed il contributo di Enrico Redenti. – 3. L’interesse
collettivo nell’esperienza giuridica del corporativismo. – 3.1. L’interesse collettivo:
la pietra angolare per la costruzione del nuovo apparato concettuale. – 3.1.1. L’in-
teresse collettivo nel pensiero di Widar Cesarini Sforza. – 3.1.2. L’interesse collet-
tivo nel pensiero di Francesco Carnelutti. – 3.2. La sentenza con efficacia collettiva
nell’ordinamento corporativo. – 3.2.1. La distinzione tra le controversie in-
dividuali e le controversie collettive. – 3.2.2. Il fondamento giuridico-formale sot-
teso alla legittimazione esclusiva dell’associazione sindacale. – 4. Considerazioni
conclusive.

1. Considerazioni introduttive: la tutela giurisdizionale degli interessi so-


vraindividuali, un problema nuovo, ma non troppo
Gli accadimenti fisici e naturalistici costituiscono fenomeni che la
scienza umana è in grado di descrivere secondo leggi deterministico-ma-
tematiche, ovvero secondo formule capaci di riassumerli e spiegarli me-
diante rapporti di causa/effetto.
2 CAPITOLO PRIMO

Diversamente accade nei fenomeni sociali, nonché in quelli giuridici


che danno loro generalmente seguito. In questi campi dell’esperienza
umana, infatti, è cosa improbabile, se non fallace, orientarsi alla ricerca
di vere e proprie cause efficienti, ma, nonostante questo, lungo le «linee»
del divenire, è comunque possibile riscontrare l’esistenza di «punti» ca-
paci di dare spiegazione a quelli che li seguono, come se in essi si verifi-
casse una concentrazione di forze casuali per le quali, nella catena fat-
tuale, uno o più eventi si elevano al di sopra degli altri e si propongono
come causa di quelli che essi precedono.
In questa prospettiva, si può facilmente convenire sul fatto che tra i
fattori che più degli altri hanno favorito l’emersione della problematica
relativa alla tutela degli interessi a carattere sovraindividuale, nonché la
successiva affermazione di detta problematica come tema fondamentale e
assolutamente trasversale del dibattito giuridico a seguire degli anni Set-
tanta, debba riservarsi sicuramente un posto privilegiato all’introduzione
nel nostro ordinamento dell’azione civile di repressione della condotta
antisindacale del datore di lavoro, nonché ai diversi interventi giurispru-
denziali che in sede di processo amministrativo hanno avviato l’opera di
progressivo superamento della concezione esclusivamente individuali-
stica-personalistica della tutela apprestata1.
D’altra parte, deve essere rilevato sin d’ora che l’ampia riflessione
sviluppatasi a partire dagli anni Settanta in poi non ha costituito il mo-
mento iniziale di un percorso scientifico propriamente inedito. Il tema
della tutela degli interessi lato sensu collettivi2, infatti, rappresentava un
argomento di studio già abbondantemente noto all’esperienza giuridica
del nostro Paese, tanto da poter dire che l’attenzione dedicata alla pro-
blematica e mostrata dagli studiosi delle più varie discipline giuridiche
negli ultimi trent’anni rappresenta il più recente e significativo episodio

1 Sul procedimento per la repressione della condotta antisindacale, previsto dall’art. 28


dello Statuto dei lavoratori, v. infra, il cap. VII; per la ricognizione della giurisprudenza am-
ministrativa in materia di interessi collettivi e diffusi, v., invece, infra, cap. III.
2 Specie nei primi capitoli del nostro itinerario di studio utilizzeremo il termine inte-

resse collettivo in senso ampio, ovvero privi dell’intenzione di contrapporlo al termine, o, più
precisamente al concetto, di interesse diffuso. Quando peraltro, per la natura degli argomenti
trattati, dovremo tenere con chiarezza distinte le due figure, allora, nel riferirci genericamente
agli interessi non esclusivamente individuali, utilizzeremo il termine più generico ed onni-
comprensivo di interessi sovraindividuali o superindividuali se non anche metaindividuali.
Solo nella parte ricostruttiva del lavoro, ovvero a partire dal capitolo IV, dimostrata l’indi-
stinguibilità ontologica tra l’interesse collettivo e l’interesse diffuso, il termine di interesse col-
lettivo verrà impiegato in senso proprio, ovvero indicante una precisa relazione logica tra più
interessi individuali.
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 3

di un processo di lenta evoluzione, che – da tempo avviatosi – per di-


verse vicende legate alla nostra storia politica e sociale, era rimasto la-
tente, non riuscendo mai ad imporsi stabilmente quale tematica di fron-
tiera e/o di rottura rispetto alle concezioni dominanti e tradizionalmente
appartenenti al nostro ordinamento sia sul piano del diritto sostanziale
che sul piano del diritto processuale.
Così, se nel corso degli anni Settanta l’esigenza di protezione giuri-
sdizionale di quegli interessi sostanziali non unicamente (o tradizional-
mente) riconducibili in capo al singolo individuo si fa viva, pressante ed
improcrastinabile in primo luogo nei due settori dell’esperienza giuridica
poc’anzi indicati (diritto processuale del lavoro e giustizia amministra-
tiva), tale circostanza rappresenta un fenomeno tutt’altro che occasio-
nale. Al contrario è l’indiscutibile manifestazione di un movimento evo-
lutivo preesistente, capace di dare i migliori e più maturi frutti, proprio
in quei settori dell’ordinamento in cui, già sul finire dell’Ottocento, si era
mostrata una maggiore sensibilità ad avviare fenomeni di inclusione di
valori nuovi all’interno del sistema.
I vecchi valori erano sicuramente quelli a cui, seppur in diversa mi-
sura, erano ispirate le codificazioni ottocentesche, figlie delle dottrine del
giusnaturalismo.
I nuovi, invece, erano l’espressione del rinnovato contesto sociale.
Come è noto, nel corso dell’Ottocento, il sistema economico muta
completamente volto, orientandosi nettamente in senso capitalistico e il
rapido sviluppo dell’industria, a scapito dei tradizionali modelli di pro-
duzione, favorisce la nascita di lacerazioni e contrapposizioni sociali
prima pressoché ignote.
Gioele Solari – autore di mirabili pagine sui rapporti intercorrenti
tra diritto e ideologia3 – sintetizza efficacemente il nuovo scenario socio-
culturale nei termini che seguono: «da Rousseau a Saint-Simon le condi-
zioni si erano profondamente modificate. Nel secolo XVIII il problema
fondamentale dell’epoca era sopratutto giuridico e politico. La scuola del
diritto naturale aveva idealizzato le aspirazioni della borghesia in lotta
contro il passato, contro il privilegio, contro il dispotismo. […] Sopra-
tutto si imponeva la necessità di garantire l’individuo, la personalità, i
suoi naturali diritti dalle violazioni del potere sovrano. […] Senonché la
società nuova uscita dalla Rivoluzione non realizzava che parzialmente e

3 Per quel che qui interessa, cfr. Socialismo e diritto privato, Influenza delle odierne dot-
trine socialiste sul diritto privato [1906], Milano, 1980, edizione postuma a cura di P. Ungari.
4 CAPITOLO PRIMO

imperfettamente le idealità dei giusnaturalisti. L’affermazione dei diritti


dell’uomo lungi dal costituire rimedio ai mali sociali, lungi dall’instaurare
l’ordine, l’armonia, aveva in realtà accentuato il dissidio tra quelle idea-
lità e le condizioni di fatto rendendo più amaro il disinganno. Nuove
lotte si andavano delineando: la scienza colle sue scoperte e applicazioni
aveva originato una nuova rivoluzione in campo economico, nei sistemi
di produzione. L’oppressione risorgeva sotto altra forma: le violazioni
delle libertà, e della personalità apparivano non più sotto forma politica
ma economica. Non era più la borghesia in lotta con il feudalismo per la
conquista delle libertà civili e politiche: la borghesia vittoriosa de’ suoi
privilegi, sfruttando a suo vantaggio le conquiste della Rivoluzione e
della scienza si era resa a sua volta oppressiva del proletariato, che era ri-
pagato della sua cooperazione all’opera rivoluzionaria, colla miseria, con
le lunghe ore di lavoro, con salari irrisori»4.
In estrema sintesi, dunque, al problema politico e giuridico si an-
dava sostituendo il problema economico e sociale.
Come avremo modo di osservare con maggior dettaglio, allorché ci
soffermeremo sulla nascita della nozione moderna del diritto soggettivo5,
il giusnaturalismo razionale era rivolto ad esaltare il valore dell’uomo,
colto come individuo singolo e contrapposto in condizione di ugua-
glianza, per un verso, ai suoi simili e, dall’altro, al riparo da ogni inge-
renza nei suoi affari privati, allo Stato.
Ma le nuove condizioni socio-economiche che andarono realizzan-
dosi nella seconda metà dell’Ottocento posero in contraddizione questa
concezione atomistica dei rapporti intersoggettivi favorendo – di contro
– l’emergere dei legami, delle comunanze, anziché delle distanze o delle
fratture tra le diverse esistenze umane; l’uguale condizione in cui versa-
vano le classi lavoratrici – infatti, spostò l’attenzione da valori già acqui-
siti, quali la libertà e l’uguaglianza formale, a valori o aspetti della realtà
prima trascurati, quali la dimensione sociale dell’uomo6 e i vincoli di so-
lidarietà sussistenti tra le diverse esistenze7.

4 SOLARI, G., Socialismo e diritto privato, cit., p. 132 ss.


5 V. infra, cap. V.
6 Per Giuseppe CARLE, La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, Roma-To-

rino-Firenze, 1880, p. 2, «l’individuo e la società, la personalità individuale e l’ente collettivo


sembrano, allo stato delle investigazioni attuali, rispecchiarsi e riverberarsi l’uno nell’altra,
per guisa che mentre la società trova nell’individuo il suo elemento primordiale, l’individuo
trova invece nella società la propria esplicazione e il proprio compimento».
7 In particolare, v. la posizione di Giuseppe SALVIOLI, I difetti sociali delle leggi vigenti

di fronte al proletariato e il diritto nuovo, Palermo, 1906, p. 91, per il quale la solidarietà «è la
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 5

Tra l’uomo e lo Stato – o, se si preferisce tra gli uomini, colti cia-


scuno individualmente, e lo Stato – tendono – insomma – ad inserirsi fi-
gure intermedie: la stessa «società», le «classi», i «gruppi», ecc.8
Ciò determina un’alterazione oramai irreversibile nella configura-
zione delle dinamiche reali.
Quest’ultime non più sono la risultante dell’azione di singoli indivi-
dui, bensì appaiono essere meglio comprese come l’effetto dell’intera-

legge del mondo fisico e quello della società umana. La vita sociale è un assieme di solidarietà
che si incrociano. L’uomo non è isolato, ma vive, opera, produce, possiede, in quanto trovasi
in mezzo ad altri uomini ai quali deve coordinare la sua azione. Come ogni bene viene dalla
società, così ogni atto ha un valore sociale, una funzione sociale. Da ciò la norma della vita e
l’ideale etico devono coesistere nella composizione degli interessi». Per approfondimenti, v.
COSTA, P., Il «solidarismo giuridico» di Giuseppe Salvioli, in Quaderni fiorentini, 1974-1975, I,
Il «socialismo giuridico», Ipotesi e letture, p. 457 ss. Come si vedrà in questo capitolo, specie
nelle pagine dedicate alle esperienze giuridiche tardo-liberali nel diritto del lavoro e sinda-
cale, proprio il vincolo solidaristico tra gli interessi dei soggetti che facendo parte di un
gruppo contribuiscono alla nascita dell’interesse collettivo costituisce uno dei tratti maggior-
mente significativi delle prime prospettazioni della nozione. In particolare cfr. le posizioni di
Messina, Galizia, Barassi, ma anche talune posizioni espresse dalla dottrina riguardo le di-
verse prospettive di riforma della magistratura probivirale su cui ci intratteremo più avanti
nel testo ed in nota.
8 Ancora preziose sono le parole di SOLARI, G., Socialismo e diritto privato, cit., p. 202

s.: «il concetto nuovo che veniva a sconvolgere il criterio tradizionale di distinzione tra diritto
pubblico e privato fu il concetto di società. Né i Greci, né i Romani distinsero tra società e
Stato. La stessa indistinzione noi troviamo nelle teorie contrattualiste, le quali movendo dal
concetto atomistico dello Stato, cioè dal considerare questo come la somma degli individui
singoli, non potevano assorgere al concetto di società. Società e Stato in tali teorie che furono
predominanti nel periodo di elaborazione della nostra legislazione civile, dovevano apparire
come una cosa sola. Ma nel secolo XIX noi assistiamo a una ricostruzione storica e teorica del
concetto di società. La Rivoluzione sotto l’influenza dell’individualismo dominante aveva la-
vorato a distruggere ogni forma corporativa e associativa, tendente a limitare in qualche
modo l’individualità. L’individuo sciolto ormai dai vincoli che nel passato lo tenevano avvinto
alla famiglia, alla corporazione, veniva a trovarsi solo in rapporto diretto con lo Stato. Il pro-
blema dei rapporti tra diritto e Stato era sopratutto politico cioè riguardava l’individuo nei
suoi rapporti con la sovranità. Il concetto di diritto pubblico doveva pertanto avere un con-
tenuto esclusivamente politico, e avere una sfera di estensione limitata non essendo prevalsa
la dottrina di Rousseau che tendeva ad assorbire gli individui e i loro diritti nella personalità
dello Stato. Il secolo XIX ricostruiva quel concetto di società che la Rivoluzione aveva di-
strutto. Le esigenze della grande produzione determinarono un concentramento degli indivi-
dui dispersi in gruppi sociali tenuti insieme da unità di coscienza e di scopi. Accanto alla vita
degli individui e dello Stato vediamo sotto l’azione riorganizzatrice della grande industria ri-
costruirsi le associazioni professionali, vediamo agitarsi le classi sociali in vista di determinati
scopi. Né solo gli interessi economici, ma gli interessi intellettuali, religiosi, artistici determi-
nano la differenziazione sociale e producono lotte e contrasti non più di carattere politico,
non essendo più in gioco la costituzione dello Stato, ma essenzialmente di carattere sociale,
trattandosi d’interesse di classe» (c.vi miei).
6 CAPITOLO PRIMO

zione e contrapposizione di «gruppi», ovvero, genericamente, di soggetti


collettivi unitariamente intesi. L’uomo non si proietta più individual-
mente verso il raggiungimento dei suoi fini, ma è integrato in processi di
aggregazione in cui risulta essere parte di un tutto.
Le aspirazioni umane, da patrimonio gelosamente custodito nell’in-
dividuo, si estendono solidaristicamente al gruppo che le condivide: se
dalle concezioni utilitaristiche si era ereditata la nozione di comporta-
mento umano come prodotto del perseguimento dell’interesse indivi-
duale, ora l’unità del gruppo, che è innanzitutto organizzazione, che è in-
nanzitutto comportamento collettivo, determina la nascita di interessi
non più individuali, ma collettivi anch’essi9.
È da questa fase della nostra storia sociale ed istituzionale che oc-
corre, dunque, prendere le mosse per tracciare un itinerario completo
dei diversi tentativi, che gli interessi a carattere collettivo hanno attuato
per conseguire il risultato della loro giuridicizzazione.
Come meglio emergerà nel prosieguo della trattazione, infatti, seb-
bene le aree di emersione della problematica sono state sovente con-
traddistinte da un discreto tasso di reciproca eterogeneità, per altro
verso, è ben possibile tracciare una linea evolutiva – dotata di buona con-
tinuità – lungo la quale la dottrina – a più riprese – ha tentato di indivi-
duare gli elementi costitutivi della struttura formale da assegnare all’inte-
resse collettivo; linea evolutiva che certamente ha inizio nel momento
storico in cui la pressione applicata dalle nuove esigenze sulle strutture
dell’ordinamento si è rivelata massima: il periodo tardo-liberale, ap-
punto.

2. I primi casi di emersione in campo giuridico del concetto di interesse


collettivo a cavallo tra Ottocento e Novecento
2.1. Uno sguardo preliminare al processo amministrativo
In questa fase storica del nostro Paese si verifica quella profonda
alterazione delle dinamiche reali e della tradizionale rappresentazione
dell’individuo all’interno della società che, a cavallo tra Ottocento e No-
vecento, favorisce l’attivarsi di un intenso dibattito per la riforma del

9 Sul rapporto tra comportamento necessariamente collettivo in ordine al persegui-

mento dell’interesse e configurazione strutturale del concetto di interesse collettivo, v. infra,


cap. IV, § 6.3.
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 7

diritto privato10 e dà il via alla produzione della prima legislazione so-


ciale11.
In questo rinnovato contesto, gli interessi collettivi realizzano ap-
prezzabili tentativi di affermazione sulla scena giuridica in qualità di
nuovi interessi di natura sostanziale, bisognosi di tutela e di riconosci-
mento. E ciò accadde nel processo di nascita e sviluppo delle nuove dot-
trine giuslavoriste, nel successivo ordinamento corporativo, ma anche nel
travagliato iter legislativo e dottrinale che avrebbe portato, a definitiva
maturazione, alla strutturazione dell’attuale sistema italiano di giustizia
amministrativa.
Come chiarito nelle pagine introduttive del lavoro, se lo studio della
tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi innanzi al giudice
10 L’ansia di rinnovamento del diritto privato è ben rappresentato dal movimento del
socialismo giuridico, su cui, v.: UNGARI, P., In memoria del socialismo giuridico, I, Le «scuole
del diritto privato sociale», in Pol. dir., 1970, p. 241 ss.; ID., In memoria del socialismo giuri-
dico, II, Crisi e tramonto del movimento, in Pol. dir., 1970, p. 387 ss.; RAMM, T., Juristensozia-
lismus in Deutscland, in Quaderni fiorentini, 1974-1975, 3-4, t. 1, Il «socialismo giuridico»,
Ipotesi e letture, p. 7 ss.; ARNAUD, N. - ARNAUD, A., Le socialisme juridique à la «belle époque»:
visage d’une aberration, ivi, p. 25 ss.; GERRATANA, V., Antonio Labriola di fronte al socialismo
giuridico, ivi, p. 55 ss.; SEELMANN, K., Zur marxinterpretation bei Anton Menger, Gustav Rad-
bruch und Karl Renner, ivi, p. 73 ss.; POCAR, V., Riflessioni sul rapporto fra «socialismo giuri-
dico» e sociologia del diritto, ivi, p. 145 ss.; REICH, N., Der juristensozialismus von Anton Men-
ger (1841-1906) in neunzehnten jahrhundert und heute, ivi, p. 157 ss.; ORRÙ, G., «Idealismo»
e «realismo» nel socialismo giuridico di Menger, ivi, p. 183 ss.; CARONI, P., Anton Menger ed il
codice civile svizzero del 1907, ivi, p. 273 ss.; DILCHER, G., Genossenschaftstherie und soziall-
recht: ein «juristensozialismus» otto v. Gierkes?, ivi, p. 319 ss.; WEYL, R. - WEYL, M.P., Socia-
lisme et justice dans la France de 1895: le «bon juge Magnaud», ivi, p. 367 ss.; DI MAJO, A.,
Enrico cimbali e le idee del socialismo giuridico, ivi, p. 383 ss.; D’AMELIO, G., Positivismo, sto-
ricismo, materialismo storico in Icilio Vanni, ivi, p. 431 ss.; COSTA, P., Il «solidarismo giuridico»
di Giuseppe Salvioli, ivi, p. 457 ss.; CASSESE, S., Socialismo giuridico e «diritto operaio», La cri-
tica di Sergio Panunzio al socialismo giuridico, ivi, p. 495 ss.; SBRICCOLI, M., Il diritto penale so-
ciale, 1883-1912, ivi, p. 557 ss.; POCAR, V., A proposito di alcuni recenti studi sul socialismo giu-
ridico, in Soc. dir., 1977, p. 189 ss.; GUERRA MEDICI, M.T., Per la storia del socialismo giuridico,
in Rivista di storia del diritto contemporaneo, 1977, p. 153 ss.; ORLANDO, M., Francesco Co-
sentini, un contributo alla storia del «socialismo giuridico», in Materiali per una storia della cul-
tura giuridica, 1977, p. 37 ss.; TREVES, R., Il rinnovato interesse per il socialismo giuridico in
Italia e la recente pubblicazione di un manoscritto di Gieole Solari, in Soc. dir., 1983, p. 21 ss.;
CASCAVILLA, M., Il socialismo giuridico italiano, sui fondamenti del riformismo sociale, Urbino,
1987; GROSSI, P., «La scienza del diritto privato», Una rivista-progetto nella Firenze di fine se-
colo (1893-1896), Milano, 1988. V. anche il prezioso lavoro di SBRICCOLI, M., Elementi per una
bibliografia del socialismo giuridico, in Quaderni fiorentini, 1974-1975, t. 2, Il «socialismo giu-
ridico», Ipotesi e letture, p. 873 ss.
11 Sulla prima legislazione sociale, v. MARTONE, L., Le prime leggi sociali nell’Italia libe-
rale (1883-1886), in Quaderni fiorentini, 1974-1975, t. 1, cit., p. 103 ss. In generale, per un’ef-
ficace sintesi dell’evoluzione legislativa in materia, v., di recente, RIMOLI, F., Stato sociale (dir.
cost.), in Enc. giur. Trec., XXX, Roma, 2004 e dottrina ivi citata.
8 CAPITOLO PRIMO

amministrativo esorbita i limiti imposti all’indagine, è pur vero che il pro-


posito di tentare la ricostruzione sistematica dei procedimenti che il no-
stro ordinamento processuale civile dedica alla protezione di interessi su-
perindividuali impone di tener presente anche talune delle vicende legi-
slative e dottrinali, che, sebbene appartenenti all’evoluzione del diritto
sostanziale e processuale amministrativo, possono comunque contribuire
a fornire interessanti – per non dire fondamentali – elementi di rifles-
sione ai fini della nostra ricerca.
Anche in questo capitolo d’avvio, dunque, prima di affrontare l’esa-
me delle vicende giuridiche pre-costituzionali dell’interesse collettivo in
quella materia – il diritto sostanziale e processuale del lavoro – in cui in-
tensamente si è avvertita la necessità di revisionare e talora rinnovare le
tradizionali strutture formali del diritto comune, è più che mai oppor-
tuno soffermarsi, seppur brevemente, su quei momenti in cui, tanto l’e-
voluzione normativa del sistema di giustizia amministrativa, quanto la ri-
flessione dottrinale rivolta all’interpretazione di questa, furono rispettiva-
mente più vicine ad aprire le porte della tutela giurisdizionale anche agli
interessi a rilevanza superindividuale.

2.1.1. Gli interessi collettivi in due progetti di riforma alle origini del si-
stema italiano di giustizia amministrativa
Le trame della vicenda politica, legislativa, dottrinale e giurispru-
denziale che dalla seconda metà dell’Ottocento ai giorni nostri ha dato
vita al sistema italiano di giurisdizione amministrativa «come uno dei si-
stemi [più] originali dell’esperienza giuridica dell’occidente» sono state
oggetto di ampi e numerosi studi in dottrina e sarebbe assolutamente
privo di significato ripercorrerle in questa sede12.

12 Sulla nascita e sull’evoluzione del sistema italiano di giustizia amministrativa, v. BEN-


VENUTI, F., Giustizia: II) Giustizia amministrativa, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, p. 589 ss.;
GIANNINI, M.S., Profili storici della scienza del diritto amministrativo, in Quaderni fiorentini,
1973, p. 179 ss.; GIANNINI, M.S. - PIRAS, A., Giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordi-
naria nei confronti della pubblica amministrazione, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, p. 229 ss.;
BERTI, G., Momenti della trasformazione della giustizia amministrativa, in Riv. trim. dir. pubb.,
1972, 1861 ss.; ROMANO, A., Giurisdizione amministrativa e limiti della giurisdizione ordinaria,
Milano, 1975, p. 2 ss.; CERULLI IRELLI, V., Il problema del riparto delle giurisdizioni: premesse
allo studio del sistema vigente, Pescara, 1979; REBUFFA, G., La formazione del diritto ammini-
strativo in Italia, Bologna, 1981; SORDI, B., Giustizia e amministrazione nell’Italia liberale: la
formazione della nozione di interesse legittimo, Bologna, 1985; AIMO, P., Le origini della giu-
stizia amministrativa, Milano, 1990; CANNADA BARTOLI, E., Giustizia amministrativa, in Dig.
disc. pubbl., VII, Torino, 1991, p. 508 ss.; PENE VIDARI, G.S., Giustizia amministrativa (Storia),
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 9

L’attenzione va quindi rivolta ad alcune tappe estremamente signifi-


cative di questo itinerario evolutivo.
La prima tappa è costituita proprio dalla stessa legge abolitrice del
contenzioso amministrativo.
Come è noto con il sistema di giurisdizione unica che si andava in-
troducendo nel nostro ordinamento mediante la riforma del 1865, si mi-
rava a trovare un punto di equilibrio tra due opposte esigenze che erano
emerse all’indomani dell’unificazione, ovverosia si mirava a dare una so-
luzione al conflitto tra cittadino ed amministrazione, cioè al conflitto tra
libertà del primo e potere della seconda, nel rispetto tra l’altro del prin-
cipio – caro al costituzionalismo liberal-democratico – della divisione dei
poteri. Come è stato osservato, dunque, se, da un lato, la violazione del
precetto legale avrebbe ricondotto anche l’amministrazione nell’orbita di
diritto comune, sottoponendola al sindacato del giudice unico, dall’altro,
l’amministrazione, che «era anche ed essenzialmente potere» andava tu-
telata nella sua libertà, ovvero «non doveva essere intralciata nella sua
funzione di “amministrare”»13.
Rispondeva ad entrambe le esigenze l’allegato E alla legge del 20
marzo del 1865, n. 2248, che, con l’art. 1, aboliva i tribunali speciali sino
ad allora investiti della giurisdizione del contenzioso amministrativo, con
l’art. 2, devolveva alla giurisdizione ordinaria tutte le materie nelle quali
si facesse «questione di un diritto civile e politico», e, di contro, con l’art.
3, attribuiva alla stessa autorità amministrativa gli «affari» non compresi
nell’articolo precedente, riguardanti appunto gli atti di c.d. «amministra-
zione pura»; rispetto ai quali, quindi, veniva ad escludersi qualsiasi sin-
dacato e tutela giurisdizionale14.

in Dig. disc. pubbl., VII, Torino, 1991, p. 502 ss.; MANNORI, L. - SORDI, B., Storia del diritto
amministrativo, Roma-Bari, 2006. L’essenzialità della prospettiva storico-ricostruttiva in or-
dine alla comprensione del sistema di giustizia amministrativa italiano fa sì che l’argomento
riceva ampia trattazione anche nella manualistica. Comunemente riconosciuta è poi la persi-
stente utilità scientifica dell’opera di SALANDRA, A., La giustizia amministrativa nei governi li-
beri: con speciale riguardo al vigente diritto italiano, Torino, 1904.
13 Così, SORDI, B., Giustizia e amministrazione nell’Italia liberale, cit., p. 39; ma, nello

stesso senso, v. anche GIANNINI, M.S. - PIRAS, A., Giurisdizione amministrativa e giurisdizione
ordinaria nei confronti della pubblica amministrazione, cit., p. 234, che evidenziano come il
punto di equilibrio tra garanzie del cittadino nei confronti degli atti della pubblica ammini-
strazione e potere autoritativo della stessa fu raggiunto a vantaggio del secondo e non delle
prime.
14 Come ricorda SALANDRA, A., La giustizia amministrativa nei governi liberi, cit., p. 324,

«nonostante la sua fede nella efficacia pratica dei principi razionali, la Commissione non di-
sconobbe la difficoltà di tradurre il suo “concetto astratto e scientifico in formule legislative”.
10 CAPITOLO PRIMO

Ciò è noto a tutti.


Meno noto è che il testo originariamente presentato come disegno
di legge dalla Commissione parlamentare istituita per la riforma presen-
tava difformità tutt’altro che irrilevanti rispetto la formulazione poi defi-
nitivamente approvata.
Scorrendo le pagine della preziosa opera di Antonio Salandra, in-
fatti, si rileva che l’incipit dell’art. 3 del progetto di legge prevedeva che
«la cognizione dei ricorsi contro gli atti di pura amministrazione, riguar-
danti gl’interessi individuali o collettivi degli amministrati, spetta esclusi-
vamente alle autorità amministrative […]»15, e non semplicemente –
come poi sarebbe stato nel testo definitivamente approvato – che «gli af-
fari non compresi nell’articolo precedente saranno attribuiti alle autorità
amministrative».
Ad ulteriore chiarimento, la Relazione che accompagnava il disegno
di legge, per mezzo delle parole dell’on. Borgatti, evidenziava come si
dovesse escludere che «dalle leggi amministrative possano derivarsi di-
ritti nel senso proprio e strettamente giuridico di questa parola», rite-
nendo al contrario che «ne derivino degl’interessi, i quali sono generali,
collettivi od individuali, secondo che i rapporti, che per queste leggi ven-
gono stabiliti, concernono la generalità, un aggregazione speciale degli
amministrati, o un solo individuo»16.
Insomma, nella formulazione originaria dei primi tre articoli della
legge il «concetto informatore», il «principio fondamentale», era espres-

Ma reputò d’avere, dopo molto studio, trovato un sicuro criterio di ripartizione della distin-
zione fra diritti dei cittadini, ai quali bisogna accordare ampia e piena difesa giurisdizionale,
ed i meri interessi, i quali di fronte al potere esecutivo non possono pretendere ad alcuna gua-
rentigia, da quella in fuori del ricorso in via gerarchica».
15 SALANDRA, A., La giustizia amministrativa nei governi liberi, cit., p. 325.
16 V. SALANDRA, A., La giustizia amministrativa nei governi liberi, cit., p. 325-326. Si leg-

gano anche le parole del discorso alla Camera di Mancini, riportato da Salandra a p. 329 ss.
(ma v. per il passo che segue p. 351), nei quali si rilevò quanto segue: «possono esserci inte-
ressi ragionevoli, rispettabili, legittimi nell’ordine delle convenienze e delle utilità private e
sociali; ma questi interessi non sono assicurati da una legge, che li innalzi al grado di diritti e
crei in loro favore un’azione esperibile in giudizio. Se dunque esistono semplici interessi di
questa specie, è chiaro che non tutti gli interessi sono diritti; ed arbitro regolatore ed estima-
tore appunto di questi interessi, che sono numerosissimi, non può essere che il potere ammi-
nistrativo […]. Questo, o signori, è il concetto informatore della proposta della commissione.
Esso è scolpito negli articoli secondo e terzo del progetto di legge, meritando in essi speciale
attenzione le due formule caratteristiche: cioè, nell’articolo secondo Controversie che riguar-
dano i diritti civili e politici; e nell’articolo terzo Atti di pura amministrazione riguardanti
gl’interessi individuali o collettivi degli amministrati. La Camera ha udito come il criterio fon-
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 11

samente costituito dalla contrapposizione tra diritto ed interesse17, ov-


vero tra interessi giuridicamente protetti e interessi meri; ed in partico-
lare quest’ultima categoria – rimessa ai rimedi interni all’amministrazione
su richiesta degli «interessati» – avrebbe potuto abbracciare non solo i
tradizionali interessi individuali, ma anche quelli collettivi e generali.
In altri termini quell’insieme di interessi, che negli sviluppi succes-
sivi sarebbero stati sottratti alla tutela «graziosa» per essere attribuiti alle
cure del giudice amministrativo, già in questa prima tappa dell’evolu-
zione del sistema venivano sì degradati a meri interessi soggetti al potere
amministrativo, ma per altro verso venivano naturalmente percepiti in
una loro possibile dimensione anche meta-individuale, potendo appunto
riguardare non solo un singolo individuo ma anche la «generalità» o una
«aggregazione speciale degli amministrati».
Archiviata questa possibilità di vedere riconosciuta espressamente
l’esistenza di interessi non unicamente individuali da parte del nostro or-
dinamento giuridico, un’altra significativa occasione si presentò qualche
anno dopo sul percorso che dall’abolizione del contenzioso portava all’i-
stituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato.
Le disfunzioni del sistema parlamentare18, la crescente tendenza dei
governi a rispondere con l’amministrazione al moltiplicarsi delle esigenze
che emergevano dal tessuto sociale e le tradite speranze nella forza
espansiva del sindacato del giudice ordinario19 acuirono i limiti di un si-
stema – quello della giurisdizione unica – che sin dalla sua nascita aveva
mostrato il difetto di garanzie nei confronti dei cittadini20.

damentale, secondo il concetto della Commissione, della distinzione tra le funzioni dell’am-
ministrazione e le funzioni contenziose spettanti alla giustizia, consiste nell’elemento dell’in-
teresse, contrapposto all’elemento del diritto».
17 Il primo documento in cui è presente la distinzione-contrapposizione tra «interesse»

e «diritto» è la Relazione Boncompagni sul Disegno di legge Galvano presentata al Parla-


mento subalpino del 1850, su cui v. SCOCA, F.G., Contributo sulla figura dell’interesse legit-
timo, Milano, 1990, p. 9 s.
18 Sulle relazioni sussistenti tra «parlamentarismo» e «giustizia nell’amministrazione»,

v. ancora SORDI, B., Giustizia e amministrazione nell’Italia liberale, cit., p. 111 ss.
19 GIANNINI, M.S. - PIRAS, A., Giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria nei

confronti della pubblica amministrazione, cit., p. 235, che ricordano, ad esempio, come la
riforma del 1865, con la formula dei «diritti civili e politici», avesse lasciato sguarnita di tu-
tela la materia del diritto pubblico relativa ai corpi morali legalmente riconosciuti, cioè quella
relativa ai comuni ed alle province.
20 Sul punto, v. SORDI, B., Giustizia e amministrazione nell’Italia liberale, cit., p. 31 nel

testo e a nota 10 che ricorda le critiche al progetto mosse da Cordova, Rattazzi e Crispi, il
quale ultimo si interrogava «se tra le questioni le quali insorgano nell’esercizio delle attribu-
12 CAPITOLO PRIMO

Si giungeva, dunque, attraverso un acceso dibattito, all’istituzione


della IV Sezione del Consiglio di Stato «per la giustizia amministrativa»
con la legge 31 marzo 1889, n. 599221, che all’art. 3 prevedeva: «spetta
alla Sezione IV del Consiglio di Stato di decidere sui ricorsi per incom-
petenza, per eccesso di potere o per violazione di legge contro atti e
provvedimenti di un’autorità amministrativa o di un corpo amministra-
tivo deliberante, che abbiano per oggetto un interesse di individui o di
enti morali giuridici, quando i ricorsi medesimi non siano di competenza
dell’autorità giudiziaria, né si tratti di materia spettante alla giurisdizione
od alle attribuzioni contenziose di corpi o collegi speciali».
Ma anche in tal caso, come per la legge del 1865, l’innovazione legi-
slativa, richiamando come oggetto del giudizio unicamente gli interessi
individuali, si era lasciata alle spalle la possibilità di accogliere nel nostro
ordinamento forme di tutela espressamente rivolte alla protezione di in-
teressi superindividuali.
L’occasione perduta era rappresentata dalla proposta di legge elabo-
rata da Mantellini, mai presentata alla Camera e rimasta solo in bozze –
come nuovamente Salandra ricorda ne La giustizia amministrativa nei go-
verni liberi – nella quale, dopo aver riconosciuto la ricorribilità in via
contenziosa innanzi al Consiglio di Stato per motivi di legittimità, di con-
venienza e di merito avverso i provvedimenti amministrativi che afferis-
sero a categorie predeterminate (ad es. in materia di polizia, professio-
nale, d’esercizi, d’usi e spettacoli pubblici, ecc.)22, si prevedeva all’art. 2
che – si badi bene – «nell’interesse collettivo il ricorso è interposto da
chiunque partecipi a quell’interesse, e nell’interesse individuale da chi lo

zioni che rimarranno all’amministrazione si debbano richiedere delle guarentigie che premu-
niscano i cittadini e la società da qualunque offesa che possa venire da parte degli agenti del
Governo»; rilievo quest’ultimo a cui replicava Mancini: «non è questa la legge in cui dob-
biamo occuparci delle garantie dell’esercizio dell’amministrazione pura».
21 Sull’iter formativo della legge, v. SALANDRA, A., La giustizia amministrativa nei go-

verni liberi, cit., p. 497 ss. Occorre d’altra parte far cenno al coevo progetto di legge n. 305
del 19 marzo 1885 presentato dall’on. Luchini in materia di azione popolare; il quale appunto
mirava ad introdurre un’ipotesi di azione popolare generale. Prospettiva di riforma, quest’ul-
tima, in grado di incidere profondamente sulla configurazione tradizionale dell’istituto, non-
ché sulla teoria generale delle situazioni giuridiche protette e del loro accesso alla tutela giu-
risdizionale. Sul progetto v. le osservazioni di BORGHESI, D., Azione popolare, interessi diffusi
e diritto all’informazione, in Pol. dir., 1985, p. 259 ss., spec. p. 264. Per il testo del progetto,
v. invece TROCCOLI, A., Un istituto giuridico da rivalutare: l’azione popolare, in Rass. parla-
mentare, 1971, p. 85 ss., spec. p. 90 s.
22 Cfr. l’art. 1 del Progetto riportato da SALANDRA, A., La giustizia amministrativa nei

governi liberi, cit., p. p. 477, nota 2.


INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 13

ha o lo rappresenta». Tra l’altro, la particolarità della previsione prospet-


tata nel progetto legislativo appena richiamato non sfuggiva nemmeno
allo stesso Salandra, che a commento, sottolineava come in tale maniera
si finisse per ammettere alla proposizione del ricorso, «con una specie di
azione popolare, anche chi partecipasse ad un interesse collettivo»23.
D’altra parte, l’opzione avanzata da Mantellini era il frutto, sul
piano positivo, di quella concezione della giustizia amministrativa che
aveva riscontrato ampio consenso all’interno del dibattito sulla «giustizia
nell’amministrazione» per mezzo delle parole di Silvio Spaventa24.
Quest’ultimo, infatti, nel celebre discorso tenuto davanti l’Associa-
zione costituzionale di Bergamo il 6 maggio del 1880, nel rimarcare che
la libertà dovesse cercarsi non tanto nella costituzione o nelle leggi poli-
tiche, quanto nell’amministrazione e nelle leggi amministrative25, rispon-
deva in effetti all’esigenza di garantire, con la giustizia nell’amministra-
zione, la stabilità del potere e dell’apparato amministrativo, prospettando
di conseguenza un modello di tutela giurisdizionale amministrativa orien-
tato in senso oggettivo anziché soggettivo, ovverosia – come sarebbe
stato chiarito più avanti26 – funzionale non alla tutela di situazioni giuri-
diche soggettive di vantaggio da farsi valere contro i provvedimenti della
pubblica amministrazione, ma alla osservanza del diritto obiettivo, al per-

23 SALANDRA, A., La giustizia amministrativa nei governi liberi, cit., p. 477, nota 2.
24 Sulla figura di Giuseppe Mantellini, v. le sottolineature di CANNADA BARTOLI, E., Giu-
stizia amministrativa, cit., p. 518 s.
25 SPAVENTA, S., Giustizia nell’amministrazione (Discorso pronunciato all’Associazione

costituzionale di Bergamo, la sera del 7 maggio 1880), in La giustizia nell’amministrazione,


Torino, 1949, p. 57 ss., spec. p. 69 ss. Ricorda SALANDRA, A., La giustizia amministrativa nei
governi liberi, cit., p. 471, in relazione al citato discorso, che «nessun documento dottrinale o
politico ebbe maggior eco di consenso nella opinione delle persone più colte e più duratura
efficacia sopra lo svolgimento ulteriore della nostra legislazione amministrativa. Non mai in-
fatti in Italia, né prima né dopo dello Spaventa, furono meglio condensate in una serie di for-
mule precise e perspicue le più alte dottrine del diritto pubblico moderno, e poste al servigio
delle esigenze positive del nostro progresso civile». Per approfondimenti sul rapporto tra la
tematica della «giustizia nell’amministrazione» ed il dibattito concernente le disfunzioni del
sistema parlamentare liberale, specie in ordine ad una lettura della prima quale strumento ri-
mediale, ovvero correttivo, a dette disfunzioni, v., in particolare, SORDI, B., Giustizia e ammi-
nistrazione nell’Italia liberale, cit., p. 71 ss., ma spec. p. 111 ss., il quale evidenzia (p. 114-115)
come «la battaglia per la “giustizia nell’amministrazione” esprimeva certamente l’esigenza di
un potenziamento dell’Esecutivo, di un rafforzamento delle strutture del potere, che sembra-
vano in grado di assicurare una nuova e più duratura stabilità allo Stato liberale», mentre «il
rafforzamento delle garanzie giuridiche del cittadino […] costituì un frutto evidente, ma in-
diretto delle riforme proposte».
26 SPAVENTA, S., Per l’inaugurazione della IV Sezione del Consiglio di Stato, in La giusti-

zia nell’amministrazione, cit., p. 211 ss., ma spec. p. 235.


14 CAPITOLO PRIMO

seguimento dell’interesse generale ed al rispetto dell’imparzialità nell’o-


perato dell’amministrazione.
Il legame tra questa concezione e tale proposta era indubbio, visto
che lo stesso Mantellini, puntualizzava con estremo rigore le ragioni di
una netta distinzione tra giustizia amministrativa e giustizia civile. Que-
st’ultima, difatti, presentava come sua materia il diritto soggettivo, come
fine l’utilità individuale e come criterio regolatore quello giuridico; di-
versamente nella giustizia amministrativa, l’oggetto era costituito dal di-
ritto obiettivo, il fine corrispondeva all’utile pubblico ed il criterio era
politico27.
Ora, quello che preme qui sottolineare è che, in questi due momenti
altamente significativi ed in grado di condizionare fortemente la succes-
siva evoluzione ed elaborazione dottrinale e giurisprudenziale del sistema
di giustizia amministrativa, gli interessi collettivi venivano ad essere assai
vicini ad un loro espresso riconoscimento normativo.
Si pensi alla riforma del 1865. Quanto possa avere influito sulla suc-
cessiva evoluzione del sistema di giustizia amministrativa il discrimen ori-
ginariamente individuato tra interessi meritevoli di tutela giurisdizionale
nei confronti degli atti autoritativi dell’amministrazione e interessi vice-
versa abbandonati all’«irrilevante giuridico»28 è cosa che non occorre evi-
denziare in questa sede, sia che si accolga l’opinione di coloro che nella
legge abolitrice del contenzioso hanno intravisto – sebbene in chiave im-
plicita – le ragioni delle successive regole di riparto e della successiva na-
scita ed affermazione della nozione di interesse legittimo, sia che diversa-
mente si aderisca alla tesi di coloro che, pur evidenziando l’importanza
delle soluzioni adottate con la normazione del 1865, hanno cercato di
porre in risalto, ai fini della completa maturazione del processo evolutivo
ora in esame, la funzione «creativa» svolta dalla dottrina a cavallo dei due
secoli29.

27 Così, MANTELLINI, G., Lo Stato e il Codice civile, III, Firenze, 1879-1882, p. 307.
28 SORDI, B., Giustizia e amministrazione nell’Italia liberale, cit., p. 34.
29 Per la prima lettura, v. ad es. BENVENUTI, F., Giustizia: II) Giustizia amministrativa,

cit., p. 599 ss.; nonché BERTI, G., Amministrazione autonoma e giustizia amministrativa nella
legislazione unificatrice del 1865: il contributo del deputato Francesco Borgatti, in L’unificazione
amministrativa e i suoi protagonisti, a cura di Benvenuti e Miglio, Atti del congresso celebra-
tivo del centenario delle leggi amministrative dell’unificazione, Milano, 1969, p. 409 ss. Per la
seconda lettura v. SORDI, B., Giustizia e amministrazione nell’Italia liberale, cit., p. 30, nota 9
e poi p. 367, nota 66, per il quale «l’apparente perfezione del sistema era forse già compro-
messa, sin dalle scelte dell’unificazione dalla drammatizzazione e dall’eccessiva inafferrabilità
del criterio del riparto, dalla distinzione precaria e naturalmente conflittuale fissata dalla
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 15

Ciò posto, se il «principio fondamentale» della distinzione tra di-


ritto ed interesse rimase comunque implicito nella legge (appartenendo
irrimediabilmente alla struttura concettuale su cui riposava la regola del
riparto), al contrario l’eliminazione della sua formulazione espressa nel
testo normativo ebbe la conseguenza di cancellare il riferimento agli in-
teressi collettivi.
Se poi questo rilievo viene coordinato con il fatto che – nel succes-
sivo intervento istitutivo della IV Sezione del Consiglio di Stato – la
scelta legislativa fu quella di elevare – senza andare ad incidere sull’area
di operatività prima riservata al sindacato giurisdizionale svolto dalla ma-
gistratura ordinaria – quegli stessi interessi, prima abbandonati all’ammi-
nistrazione pura, a quel grado di meritevolezza sufficientemente idoneo a
garantirne la tutela innanzi al giudice amministrativo, allora può venire
da chiedersi quale sarebbe stata la soluzione concretamente adottata e gli
itinerari concettuali percorsi dalle successive ricostruzioni concettuali in
materia, qualora il riferimento espresso agli interessi anche collettivi oltre
che individuali fosse rimasto presente nell’art. 3 della legge senza venir
soppiantato dalla implicita – oltre che generica ai nostri fini – distinzione
tra diritti ed interessi.
Se, invece, si passa all’esame della proposta Mantellini, non solo
sorge nuovamente – e forse con maggiore intensità – questo medesimo
interrogativo, ma ci si imbatte – come avrebbero confermato con mag-
giore evidenza l’evoluzione del sistema di giustizia amministrativa – in
una delle questioni ricostruttive fondamentali del successivo dibattito,
cioè quella relativa alla qualificazione della natura dell’attività giurisdi-
zionale svolta; ovvero alla possibile alternativa di prospettare la giurisdi-
zione amministrativa in chiave soggettiva o diversamente in chiave og-
gettiva.
Più precisamente va sin d’ora rilevato come non fosse casuale l’a-
pertura a favore della tutela di interessi collettivi all’interno di una certa
ricostruzione dogmatica dell’attività giurisdizionale svolta da parte del
giudice amministrativo. Difatti, la proposta Mantellini, procedendo nel-
l’ottica de-soggettivizzata della giurisdizione a contenuto oggettivo, ov-
vero di una giurisdizione in fin dei conti rivolta alla tutela di interessi ge-

legge abolitiva del contenzioso tra diritto e interesse», ma «non è possibile […] passare sotto
silenzio l’importante funzione “creativa” svolta dalla scienza giuridica negli anni a cavallo tra
i due secoli che, attraverso una revisione globale dei modelli amministrativi, ispirò da una
parte l’intera sistematica amministrativa, dall’altra il “nuovo corso” giurisprudenziale che tro-
verà, negli anni ’30, nel concordato D’Amelio-Romano la definitiva consacrazione».
16 CAPITOLO PRIMO

nerali, si presentava naturalmente più propensa a superare gli angusti


confini imposti dalla comune nozione di interesse individuale30. Nelle
successive fasi del dibattito, invece, con l’affermazione di una nozione in
chiave soggettiva della giurisdizione amministrativa – cioè di una nozione
aderente ai tradizionali crismi intorno ai quali erano andati sviluppandosi
i rapporti tra diritto e processo in materia civile – si sarebbe fatta assai
più impervia la strada del riconoscimento degli interessi collettivi e dif-
fusi31.

2.1.2. Il contributo al tema della tutela degli interessi collettivi da parte


dello studio avanzato da Emilio Bonaudi
Per verificare quanto le mancate riforme legislative appena indicate
abbiano influito sui successivi sviluppi della riflessione dottrinale in ma-
teria di giustiziabilità degli interessi a carattere sovraindividuale nel pro-
cesso amministrativo particolarmente prezioso è il rinvio ad uno studio,
che, sebbene datato 1911, già dimostrava, per un verso, una spiccata
sensibilità per la tematica oggetto delle nostre ricerche, e, dall’altro, an-
che quanto fosse impervia la strada che occorreva – e forse occorre tut-
toggi – percorre per superare la logica della tutela esclusivamente indi-
viduale.
Il riferimento è alla monografia di Emilio Bonaudi su La tutela degli
interessi collettivi 32; opera degna della massima attenzione da parte della
dottrina attuale che intenda tracciare il travagliato percorso che gli inte-
ressi collettivi da più di un secolo hanno intrapreso per assurgere al

30 V., infatti, le considerazioni avanzate da Bonaudi al riguardo e riportate infra, nel te-
sto § 2.1.3. Nel dibattito successivo agli anni Settanta la configurazione in chiave oggettiva
della tutela giurisdizionale innanzi al giudice amministrativo ha rappresentato la strada rico-
struttiva privilegiata in ordine al riconoscimento di più ampie possibilità di tutela degli inte-
ressi sovraindividuali in particolare nella posizione di A. Romano, su cui appunto, v. infra,
cap. III, 3.3.1.2., spec. nota 97.
31 Sul punto, v. il cap. III. Per un esame dell’evoluzione del concetto di interesse legit-

timo con specifica attenzione, da un lato, alla prospettiva storico-evolutiva della nozione e,
dall’altro, al rapporto della stessa con la tematica degli interessi collettivi e diffusi, v., in par-
ticolare, CRESTI, M., Contributo allo studio della tutela degli interessi diffusi, Milano, 1992, p.
9 ss.
32 BONAUDI, E., La tutela degli interessi collettivi, Milano-Torino-Roma, 1911, opera fre-

quentemente richiamata dalla dottrina successiva: cfr. ad es. TARZIA, G., Le associazioni di ca-
tegoria nei processi civili con rilevanza collettiva, in Riv. dir. proc., 1987, p. 774 ss. e CARAVITA,
B., Interessi diffusi e collettivi (Problemi di tutela), in Dir. soc., 1982, p. 167 ss., ma spec. p.
183, nota 39, il quale peraltro ammette quanto sia poco conosciuto dalla più recente dottrina
il lavoro ora richiamato, nonostante la sua impostazione «sorprendentemente moderna».
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 17

rango di interessi rilevanti, e ciò al fine di isolare le questioni che possano


offrire una spiegazione delle ragioni di tanto stentato processo di eman-
cipazione dall’irrilevante giuridico.
Innanzitutto, sotto il profilo storico-ricostruttivo, l’opera dà pieno
riscontro di come i nuovi contesti sociali, a cui prima si accennava, po-
tessero operare nel senso di una profonda alterazione della configura-
zione dell’individuo all’interno delle dinamiche reali, premendo appunto
su una scienza – quella giuridica – ontologicamente rivolta a ricomporre
armoniosamente il rapporto-conflitto tra società e regole.
Alla questione l’opera dedica le sue primissime pagine.
Si riconosce, infatti, «il rapido e rigoglioso sviluppo della vita eco-
nomica moderna», il legame tra «regime della grande industria» e «for-
mazione […] delle classi sociali», la costituzione di «associazioni ed altri
simili enti per la tutela dei loro interessi sia collettivi che individuali»; e
si evidenzia come «siffatto movimento, se interessa gli studiosi delle di-
scipline sociologiche, non può riuscire indifferente al giurista per il quale
ha particolare interesse il vedere, quale influenza possono ricevere […] le
norme giuridiche che, per secolare tradizione, hanno finora governato i
rapporti sociali»33.
Ma, d’altra parte, si richiama l’attenzione su quanto «le norme tra-
dizionali del diritto, quali furono tramandate dalla sapienza romana, […]
siano […] insufficienti a governare istituti e rapporti i quali, sconosciuti
nell’antichità, sono invece un prodotto peculiare dell’odierna civiltà ed
una conseguenza delle avvenute trasformazioni sociali», invitando a tal
proposito il lettore a riflettere su «come il diritto romano […], che è il
portato di una civiltà sviluppatasi in un regime d’economia essenzial-
mente individualistica, sia invece impari allo scopo allorquando debbasi
provvedere a rapporti nei quali si trovino in giuoco interessi che ecce-
dono la sfera individuale»34.

33 BONAUDI, E., La tutela degli interessi collettivi, cit., p. 3-4.


34 BONAUDI, E., La tutela degli interessi collettivi, cit., p. 4. La critica alla matrice indi-
vidualistica del diritto civile tradizionale, figlia delle concezioni filosofiche sottese al diritto
romano (ma l’osservazione è qui riportata acriticamente, dovendosi poi esaminare quanto il
carattere individualistico del diritto privato tradizionale fosse effettivamente da rinvenirsi alle
origini romane o alle successive elaborazioni giusnaturalistiche ed illuministiche del diritto ci-
vile), sarà nota di riflessione più volte sollevata da parte della dottrina occupatasi del nostro
tema. Più avanti – in questo stesso capitolo – avremo modo di vedere le opinioni di Mortara
a tal riguardo; primo, tra i processualcivilisti, a rimarcare il conflitto tra le nuove esigenze so-
ciali e le forme tradizionali di protezione giurisdizionale. Questa constatazione sarà poi ricor-
rente all’interno del successivo dibattito avviatosi a partire dagli anni Settanta, ma – come
avremo occasione di vedere – senza che tale presa di coscienza abbia determinato una nuova
18 CAPITOLO PRIMO

C’è, insomma, in queste prime riflessioni introduttive l’individua-


zione dell’assoluta necessità – alla luce delle rinnovate esigenze – di riat-
tivare e vitalizzare quel rapporto osmotico tra regole giuridiche e dina-
miche reali, ma d’altro canto, sin da questa prima opera di contestualiz-
zazione, emerge il vero punctum dolens dello studio, che tra l’altro sarà
ugualmente rilevato e non risolto dalla dottrina successiva35.
L’Autore, infatti, sul presupposto dell’esistenza – «fenomeno carat-
teristico dell’età nostra» – di interessi riferibili a «collettività speciali»,
ovvero di «categorie» o «classi» di individui all’interno della più generale
compagine sociale, rileva il possibile istaurarsi di un conflitto tra questa
tipologia di interessi e l’interesse generale, da un lato, o gli interessi indi-
viduali, dall’altro.
Il passo, sebbene presenti una nozione di interesse collettivo che,
come chiaramente emergerà nel prosieguo del nostro lavoro, non appare
esente da significativi elementi di contraddittorietà36, merita di essere ri-
portato.
Osserva Bonaudi: «gli interessi di siffatte collettività speciali, che tal-
volta sono costituiti semplicemente dalla somma o dalla risultante dei sin-
goli interessi individuali dei loro componenti, tale altra invece, pur com-
prendendoli, non si identificano con essi, non sempre coincidono o
quanto meno s’armonizzano con gli interessi del corpo sociale conside-
rato nella sua generalità: anzi bene spesso accade che queste speciali col-
lettività intanto si manifestano e costituiscono particolari organizzazioni,
ovvero assumono una posizione decisiva di fronte alla generalità dei cit-

riflessione sulle figure concettuali che per tradizione hanno rivestito il ruolo di strumenti ri-
costruttivi elementari del nostro sistema giuridico. Più precisamente, se in ambito ammini-
strativistico il tema della giustiziabilità degli interessi sovraindividuali ha in larga misura rap-
presentato un occasione per interrogarsi nuovamente sul concetto di interesse legittimo, in
ambito civilistico, il raffronto tra interessi lato sensu collettivi e diritto soggettivo non ha dato
luogo a tentativi di tal fatta; tanto che la dottrina nemmeno ha sentito il bisogno di verificare
l’armonizzabilità dei primi con il secondo distinguendo tra le pur diverse nozioni di diritto
soggettivo avanzate dall’inteso dibattito svoltosi in Italia nella prima metà del Novecento. Sul
punto, v. infra, capp. III e V.
35 V. in particolare infra, cap. III, § 3.1. e 3.2., in cui ripercorreremo i rilievi che la dot-

trina da più parti – sostanzialista e processualista – ha mosso nel corso del dibattito generale
avviatosi a seguire degli anni settanta sul fondamentale quesito concernente la possibile giu-
ridicizzazione degli interessi a carattere sovraindividuale. Per il superamento delle problema-
tiche attinenti al profilo della giuridicizzazione degli interessi, ovvero, più precisamente, per
il superamento degli scogli che la dogmatica tradizionale sembrerebbe opporre al riconosci-
mento degli interessi lato sensu collettivi, v. infra, cap. V e VI.
36 V. infra, cap. IV, § 2. ss.
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 19

tadini ed alla pubblica amministrazione, in quanto tendono a far preva-


lere, mediante lo sforzo collettivo, interessi loro proprii, contrastanti con
gli interessi generali dello Stato o con quelli speciali di altre categorie o
classi»37.
Non importa, per il momento, esaminare se sia più corretto, sotto il
profilo concettuale, il riferimento alla «somma» anziché alla «risultante»,
o in che misura – sempre in un tentativo ricostruttivo – le due distinte
prospettive siano tra loro compatibili e possano quindi coesistere in
un’unica formula definitoria38, ciò che viceversa merita di essere eviden-
ziato nei rilievi di Emilio Bonaudi è il carattere differenziale dell’interesse
collettivo; il quale – appunto – tende a distinguersi tanto dall’interesse
individuale, quanto dall’interesse generale e come tale è virtualmente
idoneo ad entrare in conflitto con entrambi.
L’interrogativo che ne discende è in definitiva quello a cui ancora
oggi, mutatis mutandis, si cerca di offrire risposta: «avranno le collettività
speciali dei mezzi per tutelare, giuridicamente, il loro particolare inte-
resse in confronto della pubblica amministrazione?»39. Più specifica-

37 BONAUDI, E., La tutela degli interessi collettivi, cit., p. 5-6 (c.vo mio).
38 Il concetto è successivamente approfondito da BONAUDI, E., La tutela degli interessi
collettivi, cit., p. 20, in sede di distinzione tra l’interesse individuale e l’interesse collettivo; si
sostiene, infatti, la necessità di operare questa ferma contrapposizione in virtù della circo-
stanza secondo cui, se così non fosse, «tutti gli interessi collettivi verrebbero in fin dei conti
a trasformarsi in interessi individuali e cadrebbe perciò la distinzione tra gli uni e gli altri: il
che non può ammettersi perché la distinzione non è semplicemente formale ma di sostanza,
e deriva dal fatto che l’interesse collettivo, se in taluni casi può eventualmente consistere nella
somma o nella risultante di interessi individuali, cosicché, per esprimere più chiaramente il
concetto, si può dire che è in rapporto a questi ultimi qualcosa di sostanzialmente identico,
ma di maggiore estensione, in altri casi invece, e specialmente in una società progredita, esso
è affatto distinto e non può trovare riscontro con l’interesse individuale, o tutt’al più que-
st’ultimo può riscontrarvisi, ma attenuato di tanto da apparire radicalmente diverso». Come
si può agevolmente notare sin d’ora le affermazioni riportate non vanno oltre la mera decla-
mazione, essendo assolutamente prive di qualsiasi capacità dimostrativa ed al contrario affi-
date – come peraltro avviene tuttora – ad una impostazione intuitiva del quid da definire.
Mancano, infatti, nelle riflessioni di Bonaudi sia il tentativo di cogliere nell’aspetto unitario
dell’interesse collettivo (inteso alla luce del vincolo solidaristico che unisce gli interessi del
gruppo) il discrimen che lo separa dai singoli interessi individuali (v., al contrario, infra, la di-
versa impostazione di Giuseppe Messina), sia il tentativo di rinvenire un’eventuale ragione di
distinzione nel processo di tipizzazione/astrazione degli interessi concreti individuali (v. infra,
specialmente la posizione di Francesco Carnelutti).
39 Più in generale Bonaudi osserva (p. 8) come «la tutela degli interessi di siffatte col-

lettività speciali o classi [possa] quindi attuarsi in due modi diversi: o per iniziativa dello
Stato (inteso in senso largo e cioè comprendente gli organi della pubblica amministrazione in
generale […]), ovvero per opera diretta degli interessati». Ma precisa anche come sia effetti-
20 CAPITOLO PRIMO

mente l’Autore articola il quesito interrogandosi se la tutela dell’interesse


collettivo possa essere azionata innanzi il giudice amministrativo o dai
«singoli membri della collettività […] coll’assumere la veste di rappre-
sentanti, analogamente a quanto si opera in taluni casi, nel campo dei di-
ritti, mediante l’esercizio dell’azione popolare» o dagli «enti sorti dal
seno delle classi per la tutela generica degli interessi alle medesime atti-
nenti, anche nel caso in cui abbiano una semplice esistenza di fatto e
siano privi di capacità giuridica»40.
È – insomma – l’opzione ricostruttiva alternativa che più volte verrà
avanzata dalla dottrina nello studio delle tecniche di tutela degli interessi
collettivi, ovvero la possibilità di rimettere il potere di iniziativa proces-
suale al singolo o ad un corpo collettivo; questione, quest’ultima, da leg-
gersi in massima parte quale conseguenza processuale dell’incerto e non
definitivo apprezzamento della struttura formale di questi interessi mate-
riali41.
L’approccio particolarmente selettivo prescelto negli occasionali,
sebbene necessari e assai proficui, momenti di sconfinamento della no-
stra ricerca nella materia del diritto amministrativo impone peraltro di
esaminare questo primo studio specificamente dedicato alla tutela degli
interessi collettivi in chiave sintetica. E ciò poiché gran parte delle diret-
trici analitiche proposte da Bonaudi vanno ad intersecarsi con la tratta-
zione di problematiche generali – oggetto allora di controversi dibattiti
dottrinali – che in parte attenuano le ragioni che potrebbero incentivare
la presentazione di un esame più dettagliato del lavoro svolto dall’Au-
tore.
Un chiaro esempio di quanto si va ora cercando di chiarire emerge
dalla lettura della prima parte de La tutela degli interessi collettivi, in cui
la riflessione è incentrata sui rimedi concessi al singolo per attivare la
protezione dell’interesse sovraindividuale. Qui Bonaudi si trova a dover
individuare come necessario crocevia di qualsiasi ricerca in materia di tu-
tela giurisdizionale degli interessi collettivi nel processo amministrativo la
corretta interpretazione della legge istitutrice della IV sezione del Consi-

vamente possibile, per un verso, una divergenza di apprezzamento dell’interesse collettivo a


seconda che questo sia rappresentato da parte degli interessati o da parte dello Stato e, per
l’altro, come in effetti la stessa attività dello Stato sia rivolta alla tutela diretta non dell’inte-
resse collettivo-particolare ma di quello generale. È così dunque che emerge viva l’esigenza di
tutela giurisdizionale contro l’attività della pubblica amministrazione anche su iniziativa di
soggetti privati (cfr. p. 8-9).
40 BONAUDI, E., La tutela degli interessi collettivi, cit., p. 14-15.
41 In tal senso, v. infra la posizione di Mortara e Redenti.
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 21

glio di Stato, con la conseguenza di doversi far carico di tutte le proble-


matiche interpretative da questa derivanti. Infatti, se, da un lato, si rileva
come si debba prendere atto che «il principio stesso che informa tutto
l’ordinamento della nostra giustizia amministrativa […] s’impernia in so-
stanza nella difesa degli interessi, lesi da un atto o provvedimento del-
l’autorità amministrativa», dall’altro, si evidenzia anche che «la legge sul
Consiglio di Stato, che è fondamentale in questa materia, ammette il ri-
corso soltanto contro “atti e provvedimenti di un’autorità amministrativa
o di un corpo amministrativo deliberante, e che abbiano ad oggetto un
interesse d’individui […]”»42.
In altri termini, le premesse metodologico-esegetiche suggeriscono,
se non impongono, di inserire l’indagine svolta dall’Autore all’interno del
dibattito teso all’individuazione dell’interesse giuridico che possibilità il
ricorso innanzi al giudice amministrativo; derivandone – quindi – che lo
studio delle tecniche di tutela degli interessi collettivi scolorisce sovente
negli approdi e nei tentativi, allora ancora provvisori, in materia di ela-
borazione della nozione di interesse legittimo o, più genericamente, delle
condizioni necessariamente sussistenti per ammettere la legittimazione
all’azione innanzi il giudice amministrativo.
La dottrina in questione si trovava, infatti, ad affrontare il tema de-
gli interessi collettivi in un momento storico in cui la configurazione dog-
matica del processo amministrativo era ancora ben lungi dal consegui-
mento di una stabile sistemazione. Non è un caso che Bonaudi si ri-
chiami, per sciogliere i nodi esegetici che la legge sul Consiglio di Stato
poneva, ad opinioni dottrinali (Mortara, Cammeo, Orlando e Ranelletti)
che, per ciò che riguardava la ricostruzione formale dell’azione esercitata
innanzi il Consiglio di Stato, avevano dimostrato orientamenti niente af-
fatto uniformi43.

42 BONAUDI, E., La tutela degli interessi collettivi, cit., p. 13-14 (corsivi dell’A.).
43 In Vittorio Emanuele ORLANDO (La giustizia amministrativa, in Primo trattato di di-
ritto amministrativo completo, a cura di V.E. Orlando, III, Milano, 1901, p. 784 ss.) l’attività
della IV sezione del Consiglio di Stato è ricostruita in termini oggettivi e l’«interesse» richia-
mato dall’art. 24, lungi dall’assumere le vesti di una situazione giuridica soggettiva, appare
come mero interesse a ricorrere sulla falsa riga di ciò che dispone l’art. 36 del codice civile di
rito del 1865. Al contrario, in Lodovico MORTARA (Commentario del codice e delle leggi di pro-
cedura civile, I, Teoria e sistema della giurisdizione civile, Milano, s.d ma 1905, p. 29 ss.) l’ac-
centuazione del carattere rigorosamente giurisdizionale dell’attività espletata dalla IV sezione
passa attraverso una svalutazione della sfera di discrezionalità della pubblica amministrazione
a vantaggio del riconoscimento di diritti pubblici soggettivi in capo ai cittadini in ordine al ri-
spetto della legalità negli atti dello Stato (posizione che riecheggia – almeno in parte – anche
in CAMMEO, F., Commentario delle leggi sulla giustizia amministrativa, Milano, s.d., p. 129). In
22 CAPITOLO PRIMO

Peraltro, se, per un verso, ciò induce ad ammettere il carattere in un


certo senso «datato» del lavoro di Bonaudi, in quanto fortemente anco-
rato ad una fase ancora non matura del dibattito in materia di condizioni
di giustiziabilità degli interessi materiali nel processo amministrativo, dal-
l’altro, v’è dimostrazione di quanto, pur in un quadro in cui la nozione di
interesse legittimo – inteso come situazione sostanziale individuale og-
getto di tutela in sede di giurisdizione del Consiglio di Stato – non aveva
ancora preso definitivamente forma, la matrice individualistica profonda-
mente radicata nella tradizione giuridica (e stigmatizzata dalla veduta for-
mula legale – «interesse d’individui» – prevista dalla legge istitutrice
della IV Sezione del Consiglio di Stato) costituisse un sufficiente ostacolo
al riconoscimento di opzioni di tutela effettivamente rivolte alla prote-
zione di interessi collettivi.
La lettura dell’opera svela, infatti, come Bonaudi, nell’esame dei ri-
medi riservati al singolo individuo, cerchi innanzitutto di investigare
quale sia la natura dell’interesse sostanziale generalmente condizionante
l’accesso alla tutela giurisdizionale amministrativa e nel far ciò, rilevi, sin
da un piano di analisi preliminare, l’occorrenza «che l’interesse generico
al retto funzionamento della pubblica amministrazione ed al rispetto
della norma di diritto si trasformi in interesse speciale»44.
Già nel contributo di Bonaudi, quindi, è la specializzazione dell’inte-
resse a rappresentare la condizione giuridica di accesso al giudizio; spe-
cializzazione dell’interesse che a null’altro corrisponde se non all’indivi-
dualizzazione del medesimo.

Oreste RANELLETTI (A proposito di una questione di competenza della IV sezione del Consiglio
di Stato, Avezzano, 19892, p. 33 ss.; ID., Nota a Cass. Roma, S.U., 27 marzo 1893, in Foro it.,
1893, I, p. 470 ss., opere alle quali Bonaudi rinvia, essendo stato pubblicato il primo volume
dei Principi di diritto amministrativo, Introduzione e nozioni fondamentali, a Napoli nel 1912)
la concezione soggettiva della giurisdizione amministrativa, coniugandosi con la valorizza-
zione del potere discrezionale della pubblica amministrazione, conduce all’elaborazione della
figura dell’interesse legittimo nelle due species dell’interesse occasionalmente protetto e del
diritto affievolito. L’eterogeneità delle soluzioni teoriche, nonché la diversa cornice ideologica
e culturale che contraddistingue l’opera degli AA. ora indicati, dimostra – a noi sembra piut-
tosto inequivocabilmente – il vero limite del lavoro di Emilio Bonaudi; il quale, trovatosi ad
affrontare il tema della giustiziabilità degli interessi collettivi in un momento in cui una sta-
bile sistemazione dei requisiti legittimanti il ricorso innanzi al giudice amministrativo era an-
cora lontana da venire, evitò nella sostanza la prospettiva propriamente ricostruttiva (che al
contrario ancora presentava ampie possibilità argomentative in ordine ad una visione meno
personalistica della tutela), attestandosi in una posizione di sostanziale chiusura esegetica, at-
tenuata – se non effettivamente contraddetta – dalla rilevazione dell’assoluta necessità di ri-
conoscimento giuridico dei nuovi interessi materiali emergenti.
44 BONAUDI, E., La tutela degli interessi collettivi, cit., p. 24 (corsivi dell’A.).
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 23

L’interesse è qualificabile come giuridico in quanto sia personale ed è


tale solo allorché un’attenta valutazione giudiziale – diversamente dal
quel che accadeva (ed accade tuttora) nel processo civile, in cui l’opera
di «individualizzazione» dell’interesse è già svolta dalla norma a priori
con l’elevazione dello stesso al rango di diritto soggettivo45 – verifichi
caso per caso quando sia possibile configurare in capo al ricorrente un’u-
tilità o un vantaggio derivante dall’annullamento dell’atto amministrativo
o diversamente un eventuale danno che il medesimo possa patire in ra-
gione della violazione della norma46.
Stante questa interpretazione della disposizione legale, nonché an-
che la postulata distinzione ontologica tra interesse individuale e collet-
tivo47, sono piuttosto prevedibili le conseguenze interpretative.

45 «Una attenta disamina ci induce […] a rilevare come la determinazione degli inte-

ressi, tutelabili in sede amministrativa, possa uscire assai più difficile di quella concernente gli
interessi che sono fondamento dell’azione giudiziale. Ciò proviene dal fatto che, a differenza
dei diritti (i quali sono comunemente definiti interessi forniti d’azione), gli interessi ammini-
strativi sono di regola di difficile individualizzazione»: così, BONAUDI, E., La tutela degli inte-
ressi collettivi, cit., p. 29-30.
46 Le incerte coordinate dogmatiche in cui opera l’Autore (cfr. retro, nota 43) sembrano

emergere con chiarezza laddove (La tutela degli interessi collettivi, cit., p. 26) si rileva che «sif-
fatto interesse personale non può essere arbitrario: esso deve valutarsi secondo l’opinione me-
dia degli uomini nei casi normali, poiché altrimenti il giudizio sull’esistenza o meno dell’inte-
resse riuscirebbe impossibile, dovendo aversi riferimento all’apprezzamento soggettivo della
parte. Perciò […] l’indagine relativa costituisce spesso una questione di fatto, che va risolta
caso per caso. Senza approfondire l’indagine – continua l’A. –, basti ricordare come l’inte-
resse personale, secondo la dottrina e la giurisprudenza ormai prevalenti, deve concretarsi in
un vantaggio positivo per l’individuo, senza che per ciò occorra che il medesimo sia di natura
economica o patrimoniale, bastando che esso abbia un contenuto effettivo e non soltanto
ideale o morale».
47 Come risulterà più chiaro negli svolgimenti successivi del lavoro, se numerosi osta-

coli alla tutela degli interessi collettivi sono derivati dall’impiego di talune concezioni dogma-
tiche tradizionali tanto in sede di diritto sostanziale, quanto in sede di diritto processuale, al-
trettanti ostacoli sono discesi dall’utilizzo di nozioni dell’interesse collettivo talora lontane da
quella corretta o anche semplicemente abbozzate; nozioni comunque ritenute adeguatamente
appaganti per poter procedere alla complessiva ricostruzione degli strumenti di tutela del me-
desimo. Nello studio di Bonaudi, la nozione di interesse collettivo non solo è contraddittoria
nel suo volersi proporre alternativamente come somma o risultante di interessi individuali,
ma è anche ritenuta ontologicamente distinta dall’interesse individuale. Questa concezione,
tanto frequentemente riproposta dalla dottrina successiva, si coordina perfettamente con
l’impostazione tradizionalista-individualista-esclusivista, conducendo l’A. ad escludere che
l’interesse di individui richiamato dalla legge istitutrice della IV sezione del Consiglio di Stato
sia compatibile con la tutela dell’interesse collettivo, ovvero che l’interesse collettivo non sia
sufficientemente individualizzato da poter costituire idonea condizione d’accesso alla tutela
giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione.
24 CAPITOLO PRIMO

Per Bonaudi, infatti, la tutela dell’interesse collettivo può realizzarsi


– ma unicamente in via indiretta e occasionale – solo nei casi in cui il sin-
golo, richiedendo la protezione del suo interesse individuale, produrrà,
grazie alla eventuale coincidenza di contenuto tra il suo interesse e quello
collettivo, anche la tutela – appunto in via di ricaduta meramente fattuale
– di quest’ultimo48. Resta preclusa invece la possibilità di ritenere il sin-
golo legittimato a far valere in sede di ricorso non tanto il suo interesse
individuale-personale, ma piuttosto – direttamente – quello collettivo in
qualità di rappresentante del medesimo mediante l’esercizio di un’azione
popolare49.
Se, infatti, l’interesse tutelando deve differenziarsi in ragione dell’u-
tilità che l’accoglimento del ricorso produce in capo al singolo, allora la
posizione di colui che agisce in qualità di titolare o rappresentante del-
l’interesse collettivo, corrisponde a quella di colui che agisce per la tutela
dell’interesse ad una generica generica osservanza delle norme giuridi-
che, cioè per il rispetto del diritto obiettivo, ma – come osserva Bonaudi
– per «i principi dominanti la nostra legislazione processuale […] l’eser-
cizio di siffatta azione fu dal legislatore ammesso in casi tassativamente
determinati»50 e ciò sia «per ragioni di convenienza politica e coll’intento
di rendere maggiormente agevole, mediante il concorso diretto dei citta-
dini, il retto adempimento di talune funzioni che sono di sommo inte-
resse per l’ordinamento dello Stato»51, sia poiché «sarebbe praticamente
48 A seguito di un’analisi dei casi tipici e rari in cui l’annullamento del provvedimento
promosso per la tutela dell’interesse individuale realizzi la tutela degli interessi collettivi con-
tenutisticamente omogenei grazie all’efficacia erga omnes del provvedimento giurisdizionale
di accoglimento, si afferma: «devesi necessariamente concludere che, nel nostro ordinamento
giurisdizioinale amministrativo, la tutela dell’interesse collettivo non può, di regola, operarsi
che soltanto indirettamente ed occasionalmente, e solo quando siffatto interesse coincide con
l’interesse individuale. Ed in siffatto caso, poiché le decisioni amministrative non fanno stato
che nei rapporti del ricorrente, esse non possono avere forza obbligatoria per l’autorità am-
ministrativa nei confronti con quelli che, pur avendo col ricorrente identico interesse, si man-
tennero estranei al giudizio; cosicché non vi è altra sanzione a difesa della collettività che
quella del dovere morale, che incombe all’amministrazione, di uniformare alla decisione la
sua linea di condotta nei casi analoghi» (BONAUDI, La tutela degli interessi collettivi, cit., p. 52).
49 BONAUDI, E., La tutela degli interessi collettivi, cit., p. 53 ss.
50 BONAUDI, E., La tutela degli interessi collettivi, cit., p. 24; l’eccezionalità dell’azione

popolare nel nostro ordinamento trova origine nelle decisioni del Consiglio di Stato ancor
prima della legge del 1889, ovvero in materia di Ricorsi al Re, come ricordano GIANNINI, M.S.
- PIRAS, A., Giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria nei confronti della pubblica
amministrazione, cit., p. 236 s., richiamati da CRESTI, M., Contributo allo studio della tutela de-
gli interessi diffusi, cit., p. 10, nota 1. Sul punto, v. anche infra, cap. III.
51 Così, BONAUDI, E., La tutela degli interessi collettivi, cit., p. 54, che anticipa una delle

osservazioni più comuni riguardo alla giustiziabilità degli interessi collettivi: piuttosto di re-
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 25

impossibile un regolare funzionamento dell’amministrazione e della giu-


stizia amministrativa, ove si dovesse provvedere sui ricorsi che qualsiasi
cittadino ritenesse di avanzare, ed a tutela di interessi anche di minima
valutazione»52, sia ancora – ed infine – perché «la stessa lettera della
legge nel disciplinare l’ammessione del ricorso in via amministrativa e
concedendolo ai soli interessati, implicitamente dichiara che non tutti i
cittadini debbano ritenersi ugualmente interessati alla tutela della norma
che si pretende violata e che di conseguenza l’interesse, che dalla mede-
sima si vuole protetto, deve variare a seconda del diverso rapporto in cui
la norma si trova rispetto a determinate persone»53.
A migliori esiti non si giunge nemmeno nelle pagine in cui ci si in-
terroga sulla possibilità di rimettere la tutela degli interessi collettivi ad
enti o ad associazioni emerse all’interno della collettività.
In questa sede, infatti, dopo l’esame dei casi in cui detta funzione
viene ad essere svolta dagli enti di diritto pubblico come ad esempio i
Comuni54, la dottrina ora in esame si scontra con le posizioni allora tra-
dizionali e dominanti, secondo le quali la mancata attribuzione della per-
sonalità giuridica alle associazioni di fatto si opponeva, tanto al ricono-
scimento della legitimatio ad processum, quanto al conseguente riconosci-
mento della legitimatio ad causam e, dunque, della stessa titolarità del
diritto d’azione55.
D’altra parte, pur volendo risolvere positivamente le questioni ap-
pena indicate, è lo stesso Bonaudi ad ammettere un’ulteriore ostacolo ri-
costruttivo; costituito – quest’ultimo – dal riconoscimento dell’azione al
soggetto collettivo per la tutela non degli interessi «che si riferiscano alla
vita interna dell’ente», ma al contrario relativamente «a quelli assunti dal-
l’ente come suoi proprii per averlo espressamente dichiarato nell’atto co-
stitutivo». In altri termini, al problema del mancato riconoscimento della
personalità giuridica andava ad aggiungersi anche la delicata questione
della mancanza della rappresentanza legale degli interessi della classe per

cente, v. CASSESE, S., Gli interessi diffusi e la loro tutela, in La tutela giurisdizionale degli inte-
ressi collettivi e diffusi, a cura di L. Lanfranchi, Torino, 2003, p. 569.
52 BONAUDI, E., La tutela degli interessi collettivi, cit., p. 25.
53 BONAUDI, E., La tutela degli interessi collettivi, cit., p. 25.
54 La possibilità di individuare nei comuni i soggetti collettivi idonei a porsi come enti

portatori degli interessi sovraindividuali ha trovato particolare svolgimento anche nel dibat-
tito avviatovi a partire dagli anni Settanta: cfr. in particolare ANGIULI, A., Interessi collettivi e
tutela giurisdizionale, Le azioni comunali e surrogatorie, Napoli, 1986, su cui v. infra, cap. III,
nota 123.
55 Per lo studio delle azioni riservate agli enti, v. BONAUDI, E., La tutela degli interessi

collettivi, cit., p. 89 ss.


26 CAPITOLO PRIMO

la cui tutela l’ente si era costituito56. La contraddittoria concezione del-


l’interesse collettivo presentata da Bonaudi, insomma, nel suo essere
tanto somma che risultante di interessi individuali, da un lato, impediva
la riferibilità dell’interesse al soggetto singolo e la sua conseguente azio-
nabilità, ma, dall’altro, rendeva anche difficoltoso privare completamente
l’interesse della sua componente personale57.

2.1.3. Le conclusioni di Bonaudi


Lo studio ora in esame, come appena rilevato, giungeva dunque a ri-
sultati assai poco soddisfacenti. All’interrogativo posto a fondamento
della ricerca, infatti, l’Autore si trovava a dover contrapporre la non tu-
telabilità – de iure condito – in nessuna delle due vie logicamente possi-
bili: l’azione proposta dal singolo in rappresentanza della classe o l’azio-
ne collettiva proposta da associazioni di fatto sorte all’interno della col-
lettività.
Il patente conflitto tra esigenza e rimedio, ovvero lo scarto sussi-
stente tra le premesse all’indagine di profilo lato sensu sociologico e gli
strumenti tecnici concretamente offerti dall’ordinamento allora vigente,
era peraltro questione palesemente chiara all’Autore ed infatti l’inade-
guetezza dei risultati raggiunti costituiva ragion sufficiente per riflettere
sulla possibilità di una revisione dei modelli interpretativi comunemente
adottati, specie in relazione alle questioni che più delle altre costituivano
ostacolo al riconoscimento dei nuovi interessi emergenti.
Il punto critico, dunque, il fulcro attorno al quale ruotavano le di-
verse problematiche interpretative, veniva correttamente individuato
nella stessa concezione generale in cui era inteso il sistema di giustizia
amministrativa, specie nel rapporto tra norma e interessi in essa sottesi,
da un lato, e cittadino, dall’altro.
Come la dottrina più avvertita avrebbe indicato successivamente, in-
fatti, in una diversa concezione della giustizia amministrativa orientata in

56 Su quest’aspetto v. BONAUDI, E., La tutela degli interessi collettivi, cit., p. 118 ss. (i

passi riportati nel testo si trovano a p. 121). In particolare si vedano le decisioni del Consiglio
di Stato riportate dall’A. a p. 122 ss.
57 Come vedremo in numerose occasioni nel prosieguo del lavoro, l’alternativa confi-

gurazione dell’interesse collettivo come somma o sintesi di interessi individuali ha di regola


condotto la dottrina a riferire l’interesse collettivo o ai singoli (nel primo caso) o alla colletti-
vità e – poi – all’ente rappresentativo (nel secondo caso). Alla luce di queste osservazioni è
comprensibile che Bonaudi, riferendosi all’interesse collettivo tanto come somma che come
risultante, abbia poi avuto difficoltà ad imputare detto interesse sia ai singoli che ai soggetti
collettivi. Per approfondimenti, v. infra, cap. IV.
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 27

senso oggettivo, avrebbe perso di importanza la distinzione tra interessi


collettivi ed interessi individuali, poiché in ogni caso l’interesse sarebbe
stato determinato, nel suo contenuto, non già rispetto al soggetto a cui fa
riferimento (individuo o collettività), ma all’oggetto verso il quale è di-
retto58 e cioè il rispetto della norma. Sorgeva, dunque, l’opportunità di
rimeditare la stessa funzione/struttura della giustizia amministrativa nel-
l’ottica delle garanzie riconosciute al cittadino all’interno dello «Stato
giuridico».
L’esistenza di interessi collettivi e la necessità di apprestarvi forme
adeguate di tutela giurisdizionale induceva, quindi, Bonaudi ad accedere
alle tesi di coloro che riconoscevano al cittadino «un diritto soggettivo,
pubblico, individuale, a che il potere esecutivo osservi la legge, o meglio,
il diritto obiettivo, in quanto che la norma giuridica, a differenza di
quanto avviene negli Stati dispotici, garantisce i diritti del cittadino e non
i diritti, ossia la volontà, del sovrano»59.
Si osservava, difatti, con largo anticipo rispetto alle posizioni che
avrebbero alimentato il dibattito nei suoi successivi sviluppi, che nel di-
ritto italiano la distinzione fra «diritto» e «interesse» può apparire «più
formale che materiale».
In altri termini, se nel processo civile la condizione indispensabile
d’accesso alla tutela era rappresentata da «l’esistenza di un soggetto del
diritto, esattamente determinato, il quale non può essere che la persona
fisica o quella giuridica», nel giudizio di legittimità (e non di merito) in-
nanzi al Consiglio di Stato l’azione poteva ben essere riconosciuta al
«quivis de populo», visto che «per dichiarare la legittimità o meno di una
norma di diritto che si pretende violata, l’esistenza di un soggetto non
[doveva] ritenersi indispensabile»60.
Nella ricerca di Bonaudi, in conclusione, emergevano già molte
delle tematiche fondamentali che amplia riflessione avrebbero suscitato
nel successivo dibattito post-costituzionale: ovvero la dimensione so-
vraindividuale dei nuovi interessi emergenti, la natura individualistica o,
più correttamente esclusivistica, degli interessi tutelati dal processo, la
consenguente necessità di interrogarsi sulla rispondenza dei concetti giu-
ridici tradizionali alle esigenze concrete di tutela.

58 BONAUDI,E., La tutela degli interessi collettivi, cit., p. 22-23.


59 CosìBONAUDI, E., La tutela degli interessi collettivi, cit., p. 178 nel richiamare le tesi
di Mortara, Orlando e Cardon.
60 BONAUDI, E., La tutela degli interessi collettivi, cit., p. 180.
28 CAPITOLO PRIMO

2.2. L’interesse collettivo nelle origini del diritto del lavoro nello Stato
tardo-liberale
2.2.1. Le riflessioni di Giuseppe Messina sull’interesse da tutelarsi in sede
di concordato collettivo
Operato questo breve excursus sul processo amministrativo, occorre
volgere il nostro sguardo al campo dell’esperienza giuridica che – tra
tutti – specie nel periodo storico ora in esame, ha dimostrato la più spic-
cata propensione ad interrogarsi sul possibile riconoscimento giuridico
di interessi metaindividuali. Il riferimento è, come ovvio, al diritto so-
stanziale e processuale del lavoro.
Ciò risulta, d’altra parte, assai comprensibile alla luce del rapporto
di massima prossimità, che legava detto settore a quell’area dei rapporti
sociali che si era presentata come terreno di elezione per l’attivarsi dei
nuovi conflitti e per l’esprimersi dei nuovi interessi.
La contraddizione tra dinamica reale e disciplina giuridica era, in-
fatti, riguardo la regolamentazione dei rapporti di lavoro, insopportabile.
61 Su questo aspetto v. CASTELVETRI, L., Il diritto del lavoro delle origini, Milano, 1994,
che rileva come i pur diversificati contributi degli Autori anteriori all’opera di BARASSI «pro-
spettarono […] regolamentazioni variamente articolate delle diverse forme di lavoro, deri-
vando pur sempre la configurazione negoziale della fattispecie di riferimento alla definizione
codicistica di lavoro d’opera, per tutti positivamente vincolante. Basti pensare che al di là
della ricorrente critica del codice civile, gli autori sopra citati subirono la suggestione […] di
procedere alla costruzione scientifica della fattispecie attraverso la tecnica della classificazione
per genere e per differenze specifiche, sulla scorta più o meno coerente e fedele, della traccia
fornita dal sistema di definizioni e classificazioni concatenate dei negozi locativi di cui agli ar-
ticoli 1568-1570 e 1627 del codice civile del 1865»; cfr. anche SPAGUOLO VIGORITA, L., Subor-
dinazione e diritto del lavoro. Problemi storico-critici, Napoli, 1967; ROMAGNOLI, U., Alle ori-
gini del diritto del lavoro: l’età preindustriale, in Riv. it. dir. lav., 1985, I, p. 514 ss.; ID., All’o-
rigine dei rapporti tra capitale e lavoro: locazione d’opere e società, in Lavoratori e sindacati tra
vecchio e nuovo diritto, Bologna, 1974, p. 13 ss.
62 V., sul punto, SOLARI, G., Socialismo e diritto privato, cit., p. 198, che descrive le con-
dizioni che in Germania favorirono l’introduzione della legislazione sociale: «il salario rap-
presenta per l’operaio la condizione stessa della vita, e il più delle volte l’operaio disoccupato
premuto dal bisogno non discute i patti del lavoro ma li subisce e cede la sua forza di lavoro
per quel tempo e quel prezzo che l’imprenditore vuole. Il presupposto giuridico della libera
volontà e dell’uguaglianza delle parti non vale per il contratto di lavoro industriale. In realtà
il rapporto di lavoro non sancisce l’uguaglianza ma la dipendenza dell’operaio ossia il predo-
minio dell’imprenditore. La contraddizione tra la forma giuridica e il contenuto economico
diventa evidente. È vero che l’operaio ha consentito al contratto: coactus sed tamen voluit: ma
non sempre quando l’accordo di volontà di due persone è richiesto per formare un negozio
giuridico, la dichiarazione di volontà ha per entrambi lo stesso significato. Ciò vale pel for-
malismo dei giuristi, ma chiunque guarda al contenuto reale del rapporto non potrà a meno
che constatare che nel contratto di lavoro si consacra un vero e proprio dominio dell’im-
prenditore sugli operai, dominio che esclude la libertà e l’uguaglianza giuridica».
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 29

Il contratto di lavoro subordinato era ricondotto, come tradizione


romana voleva, alla locatio operarum61 e, come tale, alla disciplina gene-
rale dei contratti, che, nelle codificazioni illuministiche, era immediata
espressione del principio dell’uguaglianza delle parti e della libertà con-
trattuale delle medesime. Ma il trapasso dalla forma alla sostanza era do-
lorosissimo62. Difatti, sul piano reale dei rapporti, il sistema di produ-
zione industriale presentava una forte asimmetria di posizione contrat-
tuale tra datore e lavoratore.
È in questo contesto quindi che, seppure in ritardo rispetto ad altri
paesi europei, si sviluppa in Italia l’associazionismo tra lavoratori e, pa-
rallelamente, la dottrina avanza i primi tentativi atti a fornire una qualifi-
cazione giuridica alle nuove prassi che andranno prendendo sempre più
piede nel mondo del lavoro63.
Dato l’oggetto ben determinato dell’indagine che si intende svolgere,
non è nostro obiettivo esaminare nel dettaglio il fiorire dei nuovi studi che
vengono ad avviarsi a cavallo tra Otto e Novecento64, ma è interessante
63 «Del nuovo atteggiamento rispetto ad una prassi delle relazioni industriali fino a quel
momento illegittima – sintetizza CASTELVETRI, L., Il diritto del lavoro delle origini, cit., p. 221
– ebbe immediata percezione la dottrina: l’assenza di interventi legislativi sulla diretta quali-
ficazione giuridica dei fenomeni collettivi o sulla tipizzazione normativa del contratto di la-
voro suscitò, anzi, l’impegno a dispiegare tutte le risorse interpretative per dare più coerente
sistemazione ai pochi materiali normativi esistenti. Da allora al primo lustro del Novecento,
la nascita di una dottrina del diritto del lavoro è testimoniata da una produzione scientifica
solo in un primo tempo arroccata nella critica del codice e dei suoi principi individualistici e
liberal-borghesi, ma poi sempre più impegnata a identificare e catalogare, nel repertorio del
vecchio e del nuovo diritto, gli spunti utili a costruire l’istituto del lavoro subordinato». Sem-
pre all’A. appena citata si rimanda per l’esame dei due principali orientamenti in cui il dibat-
tito dottrinale si era articolato: i cc.dd. novatori o neoterici, che, accomunati dalla critica del
diritto vigente, auspicavano l’introduzione di un nuovo codice «privato-sociale» e la dottrina
al contrario attestata su posizioni di stampo maggiormente tradizionalista. Distinzione que-
st’ultima che per la Castelvetri (p. 246 s.) non sarebbe comunque raffigurabile in termini di
contrapposizione visto che «gli orientamenti critici ebbero senz’altro il merito di segnalare al-
l’attenzione della dottrina civilistica l’esigenza di individuare i rimedi alle diseguaglianze so-
stanziali, ma non suscitarono nei giuristi pre-barassiani alcuna “invenzione” tecnico-interpre-
tativa né alcun realistico progetto d’intervento per tradurre l’istanza di tutela in soluzioni
emancipate dalla logica tradizionale ed indiscussa del collegamento della disciplina ad una
fattispecie contrattuale»; circostanza, quest’ultima indicata, tale da condurre alla negazione
«dell’esistenza in seno alla dottrina italiana di una linea politica legislativa durevolmente e so-
stanzialmente alternativa a quella astensionistica espressa dal Barassi nel Filangeri nel 1899
[…]». Per un profilo storico del dibattito v. GROSSI, P., «La scienza del diritto privato». Una
rivista-progetto nella Firenze di fine secolo. 1893-1896, cit., passim., cui adde la dottrina cit.
alle note che seguono.
64 Per una panoramica assai ampia e completa v. ancora CASTELVETRI, L., Il diritto del la-
voro delle origini, cit.; ID., Le origini dottrinali del diritto del lavoro, in Riv. trim. dir. proc. civ.,
1987, p. 246 ss.
30 CAPITOLO PRIMO

notare come già in essi sia possibile scorgere i primi tentativi, più o meno
definitoriamente orientati, di apprezzamento concettuale dell’interesse
collettivo; già in questi prodromi, infatti, è agevole rilevare i tratti costitu-
tivi che verranno a far parte anche dei successivi sforzi definitori.
Si pensi, ad esempio, ad alcuni fondamentali passaggi che si riscon-
trano negli scritti di Giuseppe Messina, cioè di colui che, come efficace-
mente sostenuto, «ha avuto il merito – nel nostro Paese – di far uscire il
pensiero giuridico-sindacale dalla minore età»65.
Sul piano nominalistico, ad esempio, l’interesse non si presenta an-
cora stabilmente qualificato come collettivo, bensì sovente si presenta in
termini di interesse comune ai membri del gruppo66. Ma al di là di que-
st’ultimo profilo, numerosi sono i suggerimenti rivolti, nella sostanza, alle
successive elaborazioni.
65 Così, ROMAGNOLI, U., Le origini del pensiero giuridico-sindacale in Italia, in Lavoratori

e sindacati tra vecchio e nuovo diritto, cit., p. 161; e cfr. anche ID., I «concordati» di Giuseppe
Messina: nota introduttiva, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1986, p. 107 ss. Per l’esame del dibat-
tito dottrinale in materia di contrattazione collettiva nel periodo tardo-liberale, oltre al con-
tributo più volte richiamato della CASTELVETRI, L., Il diritto del lavoro delle origini, cit., p. 291
ss., v. PASSANTI, P., Storia del diritto del lavoro, I, La questione del contratto di lavoro nell’Ita-
lia liberale (1865-1920), Milano, 2006, spec. p. 446 ss. per l’esame della posizione di Messina.
Sul tema, cfr. anche ROMAGNOLI, U., Le origini del pensiero giuridico-sindacale in Italia, cit., p.
123 ss.; ID., Per uno studio sul contratto collettivo: il contributo del Consiglio superiore del la-
voro, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1969, p. 446 ss.; VENEZIANI, B., I conflitti collettivi e la loro
composizione nel periodo precorporativo, in Riv. dir. lav., 1972, I, p. 208 ss.; CAPPELLETTO, M.,
Per una storia del diritto del lavoro: il contratto collettivo ed i probiviri, in Riv. trim. dir. proc.
civ., 1977, p. 1198 ss.; VARDARO, G., L’inderogabilità del contratto collettivo e le origini del pen-
siero giuridico-sindacale, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1979, p. 537 ss.; CASANOVA, M., Il diritto
del lavoro nei primi decenni del secolo: rievocazioni e considerazioni, in Riv. it. dir. lav., 1986,
I, p. 231 ss.; MENGONI, L., Il contratto collettivo nell’ordinamento giuridico italiano, ora in Di-
ritto e valori, Bologna, 1985, p. 247 ss.; CASTELVETRI, L., Le origini dottrinali del diritto del la-
voro, cit., p. 246 ss.; VENEZIANI, B. - VARDARO, G., La rivista di diritto commerciale e la dottrina
giuslavoristica delle origini, in Quaderni fiorentini, 1987, p. 441 ss.; CAZZETTA, G., Leggi so-
ciali, cultura giuridica ed origini della scienza giuslavoristica in Italia tra Otto e Novecento, in
Quaderni fiorentini, 1988, p. 155 ss.; ID., L’autonomia del diritto del lavoro nel dibattito giuri-
dico tra fascismo e Repubblica, in Quaderni fiorentini, 1999, p. 385 ss. Per un profilo più pro-
priamente storico del fenomeno sindacale in generale, v. CRAVERI, P., Sindacato (storia), in Enc.
dir., 1990, XLII, p. 659 ss.
66 V. MESSINA, G., I concordati di tariffe nell’ordinamento giuridico del lavoro, in Riv. dir.

comm., 1904, I, p. 458 ss., e successivamente – fonte dalla quale prenderemo le citazioni – in
Scritti giuridici, IV, Scritti di diritto del lavoro, Milano, 1948, in cui l’illustre A., oltre che al-
l’interesse «collettivo» si riferisce a «interessi comuni da soddisfare» (p. 5), a «interessi co-
muni della classe operaia» (p. 11), piuttosto che a «interessi […] al miglioramento di una
classe, di una professione». Il celebre saggio a cui ci riferiamo è stato successivamente ripub-
blicato nel Giorn. dir. lav. rel. ind., 1986, p. 113 ss., con la già citata presentazione di ROMA-
GNOLI, U., I «concordati» di Giuseppe Messina: nota introduttiva.
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 31

Innanzitutto è possibile sin d’ora cogliere l’aspetto unitario e globale


dell’interesse collettivo. E ciò emerge inequivocabilmente laddove ven-
gono sottolineate da Messina le «relazioni di dipendenza che legano ogni
subietto ai suoi simili, relazioni che sfruttate convenientemente possibili-
tano ed assicurano un’influenza nelle volontà individuali»67.
L’attenzione dell’Autore non manca di concentrarsi su quei vincoli
che sussistono tra gli interessi dei singoli lavoratori; vincoli che permet-
tono di poter individuare nel concordato di tariffa uno strumento che
«tende a soddisfare uno stesso interesse»68, inteso dunque in senso unita-
rio, poiché «anche nella determinazione di clausole di interesse indivi-
duale, la direzione battuta […] è quella di tutelarlo considerando i mem-
bri delle parti contraenti non uti singuli, ma come membri di un
gruppo»69.
Al di là di questo aspetto, poi, ancor più interessante è notare come
nell’impostazione dell’illustre giurista già si presentino due profili della
nozione che, tanto nel periodo corporativo, che post-corporativo, ver-
ranno ad essere confermati dalla maggioranza degli apporti dottrinali.
Ci riferiamo alla tendenza ad avanzare una nozione dell’interesse
collettivo avente natura astratta e seriale.
Dice Giuseppe Messina: «l’unità di intento che abbiamo veduto
campeggiare nel contratto di tariffa determina un’altra particolarità dei
suoi subietti. Questa cioè che la pluralità dei membri di una parte dev’es-
sere costituita da consorti del mestiere, sempre che l’interesse da realiz-
zare non sia comune a mestieri diversi. Poiché, se per l’azione negativa
costituita dai mezzi di coercizione psicologica è possibile l’unione dei la-
voratori non tenuti assieme da vincolo professionale (ad es., per lo scio-
pero di solidarietà) lo stesso non potrebbe dirsi quando si tratta di co-
spirazione per effetti giuridici positivi. Questa presuppone l’omogeneità
dell’interesse da tutelare»70.
E più avanti: «la parte operaia non appare come una pluralità di in-
dividui determinati, ma come una pluralità di personae incertae, contras-
segnate obiettivamente dall’appartenenza ad un mestiere».

67 MESSINA, G., I concordati di tariffe nell’ordinamento giuridico del lavoro, cit., p. 9-10.

Per l’indicazione riassuntiva degli AA. che successivamente valorizzeranno l’aspetto unitario
dell’interesse collettivo lungo la linea del vincolo solidaristico che abbraccia i diversi interes-
sati, v. infra, cap. IV, nota 42.
68 MESSINA, G., I concordati di tariffe nell’ordinamento giuridico del lavoro, cit., p. 24.
69 MESSINA, G., I concordati di tariffe nell’ordinamento giuridico del lavoro, cit., p. 24 ss.
70 MESSINA, G., I concordati di tariffe nell’ordinamento giuridico del lavoro, cit., p. 25.
32 CAPITOLO PRIMO

«Quando la maestranza di una fabbrica compare come parte con-


traente, bisogna configurarla […] come una pluralità non chiusa, indefi-
nita ed agente come se racchiudesse in sé i futuri partecipi della mae-
stranza, i successori di fatto degli attuali componenti»71.
L’interesse «comune» è pertanto configurato in senso astratto, poi-
ché si determina in relazione alla maestranza, ovvero più specificamente
in relazione alla possibilità di riferirlo alla maestranza in quanto tale; e la
stessa maestranza che lo determina è configurata come un insieme ideale
di persone, svincolato dalle concrete vicende e dalle fluttuazioni del
gruppo. Emerge, come vedremo più chiaramente espresso da Francesco
Carnelutti, il concetto di interesse seriale.
Ulteriormente apprezzabili sono alcuni passi di Galizia – Autore vi-
cino alle posizioni di Messina – nei quali, sebbene in presenza delle con-
suete oscillazioni nominalistiche, l’interesse, comune o collettivo che sia,
viene ad essere tratteggiato nella sua configurazione unitaria, allorché si
evidenzia come il conflitto industriale, «ha prodotto […] nei rapporti tra
gli operai, un sentimento e un vincolo nuovo, che tutti li riunisce in una
comunanza di interessi e di aspirazioni e per cui, oggi, nessuno di essi si
crede mai estraneo a gli interessi dell’altro: voglio dire – sintetizza Gali-
zia – il sentimento e il vincolo della solidarietà professionale»72.
Ma ancor più interessante è lo studio degli effetti realizzati dal vin-
colo solidaristico che tiene assieme i diversi interessi, poiché detto vin-
colo, non solo determina il sorgere delle associazioni sindacali, ma fa sì
che, nella formazione del contratto collettivo, «le volontà dei singoli non
rimangono separate e distinte, né la volontà dell’associazione è una
somma meccanica della volontà dei singoli, ma queste, organicamente e
armonicamente manifestandosi e coordinandosi, per il raggiungimento
dello scopo fissato nel contratto, si fondono in una volontà organica e
unica»73; cosicché – chiarisce Galizia ponendo ancora in risalto gli aspetti

71 MESSINA, G., I concordati di tariffe nell’ordinamento giuridico del lavoro, cit., p. 26.
72 GALIZIA, A., Il contratto collettivo di lavoro, Napoli, 1907, ora nella ristampa con pre-
sentazione di Napoli, Milano, 2000, p. 73.
73 GALIZIA, A., Il contratto collettivo di lavoro, cit., p. 78 (c.vo mio). Può essere oppor-

tuno chiarire che, sia la dottrina di Messina, sia quella di Galizia – per potersi ben compren-
dere – necessitano di essere proiettate sullo sfondo del dibattito che li vede partecipi. L’o-
biettivo essenziale che, difatti, dà ragion d’essere alle riflessioni della dottrina ora indicata è –
come noto – rappresentato dall’obiettivo di elaborare una nozione di contratto collettivo non
coincidente con la mera sommatoria di pur separati contratti individuali; e ciò – ovviamente
– allo scopo di impedire che la contrattazione delle condizioni di lavoro si svolgesse in regime
di concorrenza tra lavoratori, fenomeno quest’ultimo disastroso per i lavoratori che, costretti
dalle ineluttabili necessità del sopravvivere, erano disposti, se colti individualmente, ad accet-
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 33

del suo pensiero che a noi maggiormente interessano in questa sede – «in

tare condizioni miserrime. E questo risultato poteva essere raggiunto appunto sostenendo,
per un verso, che i lavoratori venissero, per via dell’accordo, ad obbligarsi non solo rispetto
al datore, ma anche tra loro, e, dall’altro, che per il datore, la violazione delle disposizioni del
patto in relazione ad un singolo rapporto di lavoro, costituisse violazione dell’accordo in toto.
Ecco, dunque, che MESSINA, G., I concordati di tariffe nell’ordinamento giuridico del lavoro,
cit., p. 40-41, avanza la tesi del concordato di tariffa come atto complesso – cfr. sul punto an-
che GALIZIA, A., Il contratto collettivo di lavoro, cit., p. 87 – grazie al quale viene a configu-
rarsi un accordo interno tra lavoratori, a cui consegue «la riduzione della pluralità dei mem-
bri di una parte contraente ad un unico pasciscente» e che GALIZIA, A., Il contratto collettivo
di lavoro, cit., p. 78, viene a parlare della «volontà organica e unica» di cui nel testo. In que-
sti AA. si assiste dunque allo sforzo di trasportare nel mondo del diritto quel vincolo di soli-
darietà che emergeva prepotentemente dalla realtà delle relazioni. Contra, cfr. BARASSI, L., Il
contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, II, Milano, 1917, p. 98 ss., che critica le posi-
zioni di Messina e Galizia per ciò che riguarda la possibilità di avanzare una concezione uni-
ficante delle singole posizioni individuali mediante la loro conversione in un «unico pasci-
scente» o in una «volontà organica e unica». Per Barassi infatti occorre opporsi a «questa si-
stematica artificiosa che utilizza giochi di parole per travisare la realtà». Come afferma
l’illustre Autore: «è un po’ una sistematica da prestigiatore, che riesce a nascondere più og-
getti in uno solo come se un solo oggetto complessivamente sussista». Così Barassi preferisce
riferirsi all’associazione sindacale come ad un «organismo plurimo, ma vivente, con tratta-
mento giuridico prevalentemente atomistico» (p. 96), ma, d’altra parte, non nega la necessità
di dar riconoscimento giuridico a «quella solidarietà e indivisibilità che stringe i membri della
collettività contraente»; ciò che contesta è la strada seguita dalla dottrina criticata per rag-
giungere detto risultato interpretativo. In ordine alle nostre finalità di studio, peraltro, non
sussiste un interesse primario all’approfondimento della struttura del contratto collettivo
avanzata nella dottrina di Barassi, ma preme piuttosto investigare su quale sia la nozione ac-
colta di interesse collettivo. Proprio quest’ultimo, infatti, viene chiamato in causa per dare
fondamento giuridico al nesso di interdipendenza che lega i diversi vincoli contrattuali dei
singoli lavoratori. Rileva Barassi che detto vincolo può derivare o da una espressa previsione
in sede di accordo, o, qualora questa manchi, dall’insieme delle circostanze ed in particolar
modo dal fatto che l’affare per cui si contrae sia «comune obiettivamente, in modo da creare
una indivisibilità tra i partecipanti» (p. 99). Ma nel contratto collettivo, in assenza delle con-
dizioni or ora accennate, può raggiugersi il medesimo risultato alla luce del vincolo solidari-
stico sussistente tra gli interessi dei lavoratori. Afferma, difatti, Barassi: «la sussistenza di una
solidarietà interna reagente anche esternamente sui singoli rapporti giuridici non è dubbia an-
che, e specialmente, quando si tratti di un concordato preliminare di lavoro. Si dice infatti
che questo tutela appunto l’interesse comune, e non i singoli interessi individuali. Ora, io vo-
glio anche ammettere che questa sia qualità caratteristica […] di tutti gli accordi con colletti-
vità […] a tipo sindacale, per cui […] l’accordo collettivo è arma pacifica nella competizione
con l’altro contraente, per far valere un interesse solidale […]. Ciò posto mi par certo che
questa caratteristica del concordato lo compenetri così sostanzialmente da creare un legame
tra le singole posizioni contrattuali parallele” (p. 99-100), con la conseguenza che “questo ri-
sultato […] si possa generalizzare a qualunque accordo con collettività di persone preordi-
nata appunto a far valere con quell’accordo un interesse collettivo» (p. 100; si noti anche qui
il profilo lessicale, evidenziato dai corsivi appositamente introdotti). Insomma sembra possi-
bile ritenere che anche per Barassi, l’interesse collettivo, sebbene non operi nel senso di ren-
34 CAPITOLO PRIMO

tal modo si ha la subordinazione della volontà e dell’interesse individuale


a la volontà e all’interesse collettivo»74.
Tanto nelle parole del Messina, quanto in quelle del Galizia, dun-
que, l’interesse collettivo non è ancora oggetto di un tentativo rigoroso di
configurazione dogmatica, come avverrà nei successivi sviluppi del di-
ritto sindacale75, né assume quel ruolo di strumento assolutamente essen-
ziale per la ricostruzione formale dei fenomeni giuridici sindacali, ma –
ciò che importa – è comunque la dimensione collettiva del conflitto tra
classi che determina l’attivarsi dei tentativi dottrinali rivolti alla costru-
zione dei nuovi istituti del diritto del lavoro e la pur sfocata immagine
concettuale che ci viene fornita dalla dottrina indicata manifesta il suo sa-
persi modellare alle concrete esigenze ricostruttive e di tutela76. In altri
termini, l’interesse collettivo è già presente come motore del rinnova-
mento, ma non ha ancora raggiunto quel grado di elaborazione concet-
tuale che lo porterà, nei futuri sviluppi del diritto sindacale, a presentarsi
come realtà ontologica, come un’entità pseudo-corporea, da cui non po-
ter prescindere nella ricostruzione giuridica.

dere unitaria la posizione contrattuale dei lavoratori assieme, comunque serva a gettare i
ponti tra i vari vincoli individuali ed inoltre – cosa che a noi interessa maggiormente – sem-
bra effettivamente plausibile assimilare la posizione di Barassi a quella di Messina e di Gali-
zia per ciò che specificamente attiene alla configurazione dell’interesse collettivo in una veste
unitaria e distinta dagli interessi individuali. Considerazione – quest’ultima – che trae con-
ferma dall’effetto unificante che comunque, sebbene in diversa forma e misura, appartiene al-
l’interesse ed anche dall’adesione espressa di Barassi alle tesi che sostengono che il contratto
collettivo «tutela appunto l’interesse comune, e non i singoli interessi individuali».
74 GALIZIA, A., Il contratto collettivo di lavoro, cit., p. 79 (c.vo mio). Si noti con atten-

zione come dalle parole di Galizia emerga uno degli aspetti fondamentali delle successive ela-
borazioni, per ciò che riguarda i rapporti tra interesse collettivo e interesse individuale, tanto
durante il periodo corporativo, quanto nelle evoluzioni dottrinali post-costituzionali. Il feno-
meno è il seguente e sarà approfondito più avanti (v. infra), ma è utile farvi un cenno sin
d’ora: allorché si configura un interesse collettivo distinto dalla somma degli interessi indivi-
duali, viene a crearsi un’ontologica frattura tra interesse collettivo ed interesse individuale e
da ciò ne consegue il problema del coordinamento tra le due entità. Galizia parla a tal pro-
posito di rapporto di subordinazione, come nei medesimi termini vi si riferisce anche MES-
SINA, G., I concordati di tariffe nell’ordinamento giuridico del lavoro, cit., p. 10 ss., per il quale
«la lotta acuta di concorrenza impegnata nelle relazioni industriali giustifica il sacrificio di
parte dell’indipendenza e della libertà individuale a favore del gruppo». Sarà interessante tra
breve notare come questa problematica venga ripresa e sapientemente sfruttata dall’ideologia
del regime fascista: su cui v. infra, § 3 ss.
75 V. ad esempio le ben limate definizioni avanzate durante il periodo corporativo da

Carnelutti e Cesarini Sforza, o, successivamente all’entrata in vigore dell’ordinamento costi-


tuzionale, la nota posizione di Francesco Santoro Passarelli.
76 V., in particolare, le osservazioni avanzate alla nota 73.
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 35

2.2.2. La proiezione dell’interesse collettivo dei lavoratori all’interno del


processo: i progetti di riforma della «magistratura» probivirale e l’af-
fannoso tentativo di configurazione di controversie collettive
2.2.2.1. Premesse: l’intervento di Lodovico Mortara. – Lo studio delle
origini delle odierne discipline giuslavoristiche offre interessanti spunti,
non solo sul piano sostanziale, ovvero in ordine all’elaborazione della fi-
gura soggettiva sostanziale tutelanda, bensì anche sul piano processuale.
Il conflitto industriale, infatti, in questo periodo della storia del nostro
Paese, non solo vuole imporsi al diritto materiale per la nascita di nuovi
istituti giuridici che possano fungere da strumenti di tutela dei nuovi bi-
sogni collettivi, ma aspira anche ad un suo riconoscimento all’interno del
processo. Così, l’affermazione secondo la quale «il problema che da un
secolo all’altro incombeva era quello della fattispecie e dei suoi limiti sog-
gettivi – fosse contratto, fosse sentenza –»77 sembra veramente capace di
rendere l’idea di come i nuovi interessi emergenti – gli interessi collettivi
dei lavoratori uniti in lotta per il riconoscimento delle loro prerogative –
costituiscano la spinta verso l’abbattimento delle tradizionali strutture
concettuali, siano esse di diritto sostanziale, siano esse di diritto proces-
suale. In altri termini, ai tentativi di elaborazione della figura del con-
tratto collettivo di lavoro, si affiancano, in stretta dipendenza, i tentativi
di elaborazione del processo collettivo.
In ambito giurisdizionale la rilevanza economica e sociale del con-
flitto industriale tra datore e gruppi di lavoratori, aveva portato all’istitu-
zione dei Collegi di probiviri con la legge n. 295 del 15 giugno del
189378; collegi introdotti anche in Italia, inizialmente, come strumento di

77 CAPRIOLI, S., Redenti giurista empirico, introduzione alla ristampa di REDENTI, E.,
Massimario della giurisprudenza dei probiviri, Torino, 1992, p. 9.
78 Sui probiviri industriali, v., tra i primi interventi di commento, LESSONA, C., Codice

dei probiviri, Firenze, 1894; successivamente si tenga presente l’opera di sistemazione di RE-
DENTI, E., Sulla funzione delle Magistrature industriali, Introduzione al Massimario della giuri-
sprudenza dei probiviri, Roma, 1906, ora in Scritti e discorsi giuridici di mezzo secolo, Milano,
1962, II, p. 577 ss. Attualmente si veda la citata ristampa del Massimario, a cura e con l’in-
troduzione di CAPRIOLI, S., Redenti giurista empirico, cit., a cui si riferiscono i richiami che se-
guono; l’ampia voce di DI FRANCO, L., Probiviri, in Dig. it., XIX, 2, Milano, 1908-1913, p.
260-339. Per la dottrina successiva, sebbene in relazione a prospettive d’indagine non ricon-
ducibili ad unità, v. GRANDI, M., Profilo storico della composizione delle controversie di lavoro
in Italia nel periodo pre-fascista, in Lavoro e sicurezza sociale, 1959, p. 89 ss.; VENEZIANI, B., I
conflitti collettivi e la loro composizione nel periodo pre-corporativo, in Riv. dir. lav., 1972, I, p.
208 ss.; CAZZOLA, G., Valutazioni critiche sull’esperienza italiana dei collegi dei probiviri alla
luce della riforma del processo del lavoro, in Riv. giur. lav., 1973, I, p. 361 ss.; MONTELEONE,
G., Una magistratura del lavoro: i collegi dei probiviri nell’industria (1883-1911), in Studi sto-
36 CAPITOLO PRIMO

pacificazione del conflitto industriale sulla scia dell’esempio francese, ma


poi rapidamente orientatisi in funzione propriamente giurisdizionale;
funzione che – come osservava Enrico Redenti – «dovette invece nella
pratica rivelarsi attiva ed avente una propria, ben diversa da quella pre-
conizzata, ma pur feconda efficacia e ragion d’essere»79.
D’altra parte, già a breve distanza dalla loro introduzione, si era ri-
velata l’inadeguatezza di un processo che, a fronte della particolare na-
tura collettiva degli interessi coinvolti, per un verso, rimaneva chiuso alle
«controversie collettive», per le quali non sussisteva competenza innanzi
ai collegi probivirali80, e, per l’altro, guardava alle «controversie indivi-
duali» riducendole ad un conflitto dal perimetro limitato al datore ed al
lavoratore singolo, in netto contrasto con la comune percezione della di-
namica reale del contrasto.
È in questa prospettiva, dunque, che l’insofferenza per una configu-
razione tradizionalistica del giudizio prese veste esteriore per mezzo delle
parole di Lodovico Mortara, nella Relazione sui collegi dei probiviri per le
industrie, letta nella seduta del 28 giugno 1902 della Commissione per la
statistica giudiziaria e notarile di cui era membro come professore di pro-
cedura civile81; occasione, nella quale l’autorevole giurista mantovano

rici, 1977, p. 88 ss.; CAPPELLETTO, M., Per una storia del diritto del lavoro: il contratto collet-
tivo e i probiviri, cit., p. 1198 ss.; BORGHESI, D., Contratto collettivo e processo, Bologna, 1980;
OFFEDDU, M., Attualità di una ricerca storica: Probiviri industriali e licenziamenti, in Giorn. dir.
lav. rel. ind., 1981, p. 59 ss.; PROTO PISANI, A., Controversie individuali in materia di lavoro,
Cenni sulla storia della giustizia del lavoro, in Noviss. Dig. it., Appendice, IV, Torino, 1983, p.
612 ss.; CECCHELLA, C., L’arbitrato nelle controversie di lavoro, Milano, 1990, p. 35 ss.; CA-
STELVETRI, L., Il diritto del lavoro delle origini, cit., p. 173 ss. Sul tema, v. di recente PASSANTI,
P., Storia del diritto del lavoro, cit., p. 355 ss. cfr. anche CAZZOLA, G., La giustizia del lavoro in
crisi: dal passato un rimedio possibile, in Dir. lav. rel. ind., 2006, p. 379 ss.
79 REDENTI, E., Sulla funzione delle Magistrature industriali, cit., p. 86, che aggiunge:

«quanto avviene oggidì dei nostri probiviri ci è documento anche di ciò, giacché, rimanendo
tuttora inalterato il loro ordinamento primitivo, essi falliscono il loro compito di pacifica-
zione, ma come organi giurisdizionali (sia “in via giudiziaria”, sia in via di conciliazione stricto
sensu), funzionano effettivamente […]».
80 «La lacuna appare intollerabile – rileva ROMAGNOLI, U., Le associazioni sindacali nel

processo, Milano, 1969, p. 4 ss. – non appena si prende coscienza, ancorché in maniera ap-
prossimativa, che la controversia di cui può essere investito il collegio probivirale in qualità
di organo giurisdizionale è in realtà una controversia pseudo-individuale o, quanto meno, una
controversia individuale nei risvolti della quale si cela normalmene un interesse collettivo
(non meglio identificato)». Su quest’aspetto della legislazione probivirale, v., anche per i rela-
tivi riferimenti bibliografici, CASTELVETRI, L., Il diritto del lavoro delle origini, cit., p. 185 ss.;
CECCHELLA, C., L’arbitrato nelle controversie di lavoro, cit., p. 67 ss.
81 MORTARA, L., Sui collegi dei probiviri per le industrie, in Annali di statistica, Atti della

Commissione per la statistica giudiziaria e notarile, sessione del giugno 1902, Roma, 1903, p.
181 ss., cit., p. 182.
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 37

sollevò due distinte, quanto connesse questioni, che da lì a breve avreb-


bero rappresentato il centro di gravitazione del dibattito successivo e che
riguardavano l’allora inesplorata prospettiva di dare ingresso nel nostro
ordinamento a strumenti di risoluzione di controversie collettive anziché
individuali.
In primo luogo, Mortara si chiede «se l’indole e i fini sociali ed eco-
nomici di questa giurisdizione consentono che essa sia obbligata a fon-
dare rigorosamente le sue pronunce sulle norme dello strictum ius, appli-
cando caso per caso, le regole del diritto positivo vigente; o non si addica
meglio ad un simile organo del diritto industriale quella funzione di con-
ditor iuris che è la caratteristica storica e logica, di ogni giurisdizione
creata al servizio di nuove categorie di rapporti giuridici, evolventisi, con
mutabilità di condizioni e di circostanze in una determinata epoca, come
avviene appunto oggi per i rapporti derivanti dal contratto di lavoro in
relazione al rapido incremento della vita industriale» 82.
Di certo, comunque, specie in ordine alla specifica prospettiva di
studio qui seguita, il primo passo verso l’affermazione degli interessi col-
lettivi nel processo va rilevato nel secondo interrogativo che anima la Re-
lazione di Mortara. Il quesito proposto è difatti volto a verificare «se gli
effetti delle sentenze proferite debbano rimanere circoscritti, secondo i
tradizionali canoni del diritto giudiziario privato, fra le persone dei liti-
ganti e sulla cosa controversa, o non giovi meglio allargare i confini entro
i quali si svolge l’autorità del giudicato, per evitare la ripetizione contem-
poranea o immediatamente successiva di controversie analoghe a quella
decisa, quando sia unica o identica la causa del dissidio». E ciò essen-
zialmente poiché, nell’opinione di Mortara, «non vi sono più o non vi
sono in misura considerevole attriti giuridici fra individuo e individuo
delle classi industriali e operaia; vi sono soltanto o sono prevalenti e in
prima linea gli attriti e gli urti di carattere collettivo. Anzi questo carat-
tere è diventato tanto assorbente, che non di rado l’urto fra due individui
[…] determina lo scoppio della contesa collettiva o di classe»83.

82 MORTARA, L., Sui collegi dei probiviri per le industrie, cit., p. 182; per l’esame ap-
profondito del dibattito, colto nelle sue diverse implicazioni, specie in riferimento alla con-
nessione sussistente tra l’allora dominante nozione di contratto collettivo di lavoro ed effica-
cia della sentenza, v. innanzitutto ROMAGNOLI, U., Le associazioni sindacali nel processo, cit., p.
4 ss.; e BORGHESI, D., Contratto collettivo e processo, cit., p. 24 ss.
83 Come vedremo tra breve nel testo, l’opinione di Mortara era destinata ad influire in-

delebilmente tanto sui progetti di riforma successivi in materia di giurisdizione probivirale,


quanto anche in ordine ai successivi svolgimenti legislativi che avrebbero interessato le con-
troversie colletive di lavoro durante l’ordinamento corporativo. Per meglio comprendere l’e-
38 CAPITOLO PRIMO

Due erano, quindi, i nuovi orizzonti che venivano ad essere tracciati


da questo pur breve intervento: il superamento del principio di relatività
della cosa giudicata, non più aderente alle esigenze concernenti contro-
versie che – come proiezione processuale dei conflitti reali – dovevano
essere concepite anch’esse come collettive e la necessità di una giurispru-
denza creatrice ed innovatrice che sapesse farsi carico di adeguare il di-
ritto tradizionale – specie contrattuale – alle nuove esigenze sociali.

2.2.2.2. Il Questionario di Inchiesta per la riforma della legge 15 giu-


gno 1893. – Queste osservazioni ebbero vasta eco all’interno del dibattito
dottrinale e di lì a breve, in occasione del progetto di riforma Cabrini del
190384, furono accolte dall’Ufficio del lavoro nella formulazione di un
Questionario d’inchiesta85, che – inviato «alle Camere di commercio, alle

satta posizione di Mortara, sembra d’altra parte opportuno riportare anche ciò che emerge
dai verbali della seduta della Commissione, in cui appunto Mortara, dopo le osservazioni –
talora perplesse – degli altri membri della Commissione suscitate dalla lettura della Relazione,
si trovava a precisare che la possibilità di estendere gli effetti della sentenza ultra partes tro-
vava la sua ragion d’essere nel fatto che «avviene sovente che nei rapporti tra industriali ed
operai si svolga contemporaneamente uno stesso fatto contenzioso che ha per conseguenza o
il licenziamento di operai, o il riconoscimento delle loro ragioni o altra decisione diversa»;
circostanza, quest’ultima, dalla quale poteva derivare che «una serie di controversie consimili
le quali allo stato delle cose potrebbero essere decise con giudicati opposti». Da qui la ne-
cessità di prevedere l’estensione ultra partes degli effetti della sentenza in relazione ai «con-
flitti sorti in un dato momento, per un identico fatto controverso, non essendovi diversità che
nelle parti contendenti» (Annali di statistica, Atti della Commissione per la statistica giudizia-
ria e notarile, sessione del giugno 1902, Roma, 1903, p. 26-27). Per Mortara, insomma, l’ac-
certamento la cui vincolatività doveva andare ad estendersi oltre le parti del giudizio concer-
neva precisamente l’evento storico rappresentante il cuore di pur consimili controversie. Pro-
prio laddove si rimarca l’identità oggettiva dei giudizi, messi appunto da parte gli elementi
soggettivi degli stessi, le precisazioni di Mortara inducono a ritenere che, sebbene la natura
del processo collettivo prospettato fosse indicata con rapidi e sintetici cenni, questo dovesse
intendersi come un giudizio su questioni, ovvero come un giudizio precisamente orientato al-
l’accertamento della questione comune a più controversie. Ciò conferma l’assoluta modernità
del pensiero di Lodovico Mortara sul punto, nonché la sua capacità di adeguare i principi del
processo alle emergenti esigenze di tutela. Sulla natura del giudizio collettivo su questioni, v.
infra, cap. VI, § 5.1.3.
84 Atti parlamentari, Camera dei deputati, leg. XXI, sessione 1902-1903, p. 7693 ss.
85 I probiviri industriali. Inchiesta dell’Ufficio del Lavoro per la riforma della legge 15

giugno 1893, Pubblicazioni dell’Ufficio del Lavoro, Serie B - N. 1, Roma, 1904. L’inchiesta si
sviluppò nell’invio di tre questionari, di cui il terzo, il Questionario C, fu inviato, come detto
nel testo, alle Camere di commercio, alle organizzazioni industriali, alle organizzazioni di la-
voratori ed ai cultori delle scienze giuridiche tra cui in particolare i professori di diritto pro-
cessuale civile. Per approfondimenti sui diversi quesiti avanzati, v. DI FRANCO, L., Probiviri,
cit., p. 260 ss.
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 39

organizzazioni industriali, alle organizzazioni di lavoro, nonché ai cultori


di scienze giuridiche, ed in ispecie ai professori di procedura civile»86 –
appunto a dette osservazioni si ispirava fedelmente.
Va d’altra parte rilevato, che, come esattamente posto in risalto dal-
l’attenta dottrina che successivamente si è dedicata allo studio del dibat-
tito87, i quesiti avanzati dall’Ufficio del lavoro erano concepiti imperfet-
tamente, poiché nel proporre le varie questioni bisognose di approva-
zione e chiarimento da parte degli studiosi, le diverse problematiche non
erano presentate isolatamente l’una dall’altra, con l’immediata conse-
guenza di venire a costituire – detto difetto di impostazione – un osta-
colo a che il dibattito potesse instradarsi sui corretti binari di riflessione.
Di ciò è agevole rendersi conto ora, che, con gli occhi del presente,
ci si rivolge al passato per trarne utili indicazioni riguardo i fondamentali
temi che a tutt’oggi appartengono alla problematica della tutela giurisdi-
zionale degli interessi collettivi.
Si prendano in attenzione, ad esempio, il terzo ed il quindicesimo
quesito del Questionario d’inchiesta88.
Il terzo, quello disciplinante la competenza della magistratura pro-
bivirale, sollevava l’interrogativo se «estendere la giurisdizione dei Col-
legi a tutte le controversie inerenti al contratto di lavoro, tanto indivi-
duali che collettive, ancorché – e qui si annidava il sottile distinguo non
da tutti preso in adeguata o quanto meno espressa considerazione – pre-
cedenti, concomitanti e susseguenti la stipulazione».
Mentre il quindicesimo quesito, quello relativo all’efficacia della
sentenza, sebbene si proponesse l’estensione dei limiti soggettivi al di là
delle parti del giudizio al ricorrere di «controversie identiche», aggiun-
geva, in chiaro ossequio all’impostazione del Mortara, che lo scopo del-
l’innovazione sarebbe dovuto essere quello di evitare «la ripetizione con-
temporanea, o immediatamente successiva di controversie analoghe a
quella decisa, quando sia unica o identica la causa del dissidio».
Le variabili da prendere in considerazione erano dunque molteplici
e necessitavano di essere disaggregate per poter condurre a risposte pie-
namente concludenti.
Infatti, per risolvere il quesito relativo all’estensione degli effetti
della sentenza, occorreva tener separato – come è ovvio – il processo che
86 Così chiarisce Giovanni MONTEMARTINI, l’allora direttore dell’Ufficio del lavoro, nella
presentazione all’inchiesta, I probiviri industriali, cit., p. 2.
87 ROMAGNOLI, U., Le associazioni sindacali nel processo, cit., p. 10.
88 I quindici quesiti costituenti il Questionario in esame possono essere letti nella pre-

sentazione di Montemartini addietro citata (cfr. nota 86).


40 CAPITOLO PRIMO

avesse ad oggetto controversie individuali da quello relativo alle collet-


tive, per poi, in relazione a ciascuna delle due ipotesi, distinguere ulte-
riormente tra le controversie susseguenti la stipulazione e quelle prece-
denti o concomitanti la medesima.
Se si pensa, poi, che le opinioni dottrinali nei primissimi anni del
Novecento erano ovviamente lontane dall’acquisire una condivisa ra-
gione di distinzione tra controversie individuali e collettive89, ben si com-
prende quanto gli esiti del dibattito potessero risultare falsati a causa del-
l’incertezza su tali premesse di impostazione generale della proble-
matica90.
Redenti, ad esempio, sosteneva nella sua Introduzione al Massimario,
ovvero nella sua prima presa di posizione sul punto, che in relazione ai
«conflitti collettivi», «ogni definizione sarebbe davvero “periculosa”» e,
con una buona dose di relativismo, spiegava come genericamente ci si ri-
ferisse, con tale terminologia – alla quale tra l’altro riteneva di poter ade-
rire – ad «ogni divergenza fra uno o più industriali ed un gruppo d’ope-
rai, quando gli uni vogliono far consentire gli altri in certi determinati
contratti o patti contrattuali o concordati di tariffa, mediante la minaccia
o il fatto della sospensione concordata e contemporanea del servizio»,
chiarendo, dunque, come nel linguaggio comune la nozione di contro-

89 «A ben vedere – rileva BORGHESI, D., Contratto collettivo e processo, cit., p. 26 – ciò
che falsava i termini del dibattito era una concezione ancora generica e fluttuante di contro-
versia collettiva e una estrema difficoltà nel segnare i confini tra questa e la controversia in-
dividuale». Non a caso si era acutamente osservato, in relazione al Progetto Cabrini (TURATI,
F., Per la riforma della legge sui Probiviri Industriali, Relazione, in Atti del Consiglio superiore
del lavoro, seconda sessione, marzo 1904, Roma, 1904, p. 30 ss.), che tale progetto, «pure
menzionando le controversie collettive all’art. 1°, se ne dimentica affatto nei successivi 59 ar-
ticoli […]. Onde tutti i gravissimi problemi, che si riconnettono a così importante materia, ri-
mangono non soltanto insoluti, ma quasi diremo neppure sospettati. È questo questo difetto
massimo del progetto: difetto che trae origine dall’esser voluto attenersi alla vecchia e fragile
trama di una legge concepita in vista dei conflitti strettamente individuali per inserirvi una
materia tanto più vasta e complicata per via di rappezzi e cuciture». E ancora, dubitanto del-
l’opportunità di lasciare insolute le delicate questioni processuali connesse alla risoluzione
delle controversie collettive, si avanzavano polemicamente i seguenti quesiti: «Come si conte-
sta la lite e si investono di giurisdizione i conciliatori o i giudici? Come se ne determina il
mandato? E chi ha esso potere di vincolare? Tutti gli interessati nella controversia, tutti co-
loro che intervennero a un’assemblea deliberante, anche gli assenti e i dissenzianti? Il dis-
senso si presume dal silenzio o come deve farsi constatare? Come le parti collettive si citano
a vicenda? Come sono rappresentate nelle successive vicende della causa? Ogni atto dei rap-
presentati, ogni ammissione, ogni transazione, concessione o rinunzia obbligherà i rappresen-
tati? Come e da chi si notificano le sentenze? Come se ne assicura l’efficacia?».
90 In questo senso, cfr. ROMAGNOLI, U., Le associazioni sindacali nel processo, cit., p. 10.
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 41

versia collettiva fosse ridotta alle sole controversie collettive precedenti o


concomitanti la stipulazione91.
Altri, invece, nel voler propendere verso soluzioni più d’avanguar-
dia, negavano ogni distinzioni tra controversie individuali e collettive92,
sostenendo che «allorquando gli operai di uno stabilimento sono orga-
nizzati, essi non sono mai terzi gli uni rispetto agli altri, nelle controver-
sie individuali per l’interpretazione e l’esecuzione dell’unico e comune
contratto di lavoro»; e ciò pur rilevando acutamente la necessità di tener
ferma la distinzione – questa sì di natura squisitamente logica – tra «con-
troversie contrattuali» e «controversie extracontrattuali», ovvero – que-
ste seconde – «destinate a provocare nuovi accordi collettivi»93.
Potrà ben comprendersi, dunque, quanto poco agevole si riveli lo
studio retrospettivo del dibattito dottrinale in questione, in virtù di un
clima culturale contrassegnato da soverchie incertezze sugli aspetti asso-
lutamente pregiudiziali alla corretta impostazione delle problematiche lo-
gicamente conseguenti, tra cui innanzitutto l’esatta configurazione del
concetto di controversia collettiva ed in secondo luogo la connessa tema-
tica dei limiti soggettivi della sentenza.
91 REDENTI, E., Sulla funzione delle Magistrature industriali, cit., p. 91.
92 Così, RATTO, L., L’efficacia collettiva delle sentenze nelle controversie del lavoro, in La
legge, 1904, p. 10. «L’individuo isolato è un’astrazione arbitraria nel campo giuridico» so-
sterrà ancora RATTO, L., in I problemi del lavoro (Prolusione al Corso di Filosofia del diritto
letta il giorno II dicembre 1903 alla R. Università di Roma), in Il contratto di lavoro, Roma,
1904, p. 13, come 3° principio fondamentale della nuova disciplina del contratto di lavoro.
Una prospettiva rivolta ad estinguere ogni possibilità di distinzione si ritrova anche nelle pa-
role di TURATI, F., Per la riforma della legge sui Probiviri Industriali, cit., p. 30, che sostiene:
«per controversie collettive noi intendiamo, coll’universale, tutte quelle che riguardano
schiere di lavoratori in conflitto, per ragioni di lavoro o di contratto di lavoro, con uno o più
padroni o imprenditori. Il carattere collettivo del conflitto o della controversia non è dato
dalla forma esteriore e meccanica del contratto, ma dalla natura intima delle cose: dalle esi-
genze dell’industria moderna, dall’accentramento degli operai nelle officine, dall’arruola-
mento in comune dei lavoratori della terra, dall’identità od analogia di condizioni di lavoro,
di mercedi, di disciplina, di pretese, di aspirazioni, per le quali obiettivamente, il contratto in-
dividuale di lavoro tramonta sempre più nel passato, e i conflitti, animati da ragioni inelutta-
bili di solidarietà, diventano lotte di categorie, lotte di ceti, qualche volta lotte di classe».
93 Cfr. RATTO, L., L’efficacia collettiva delle sentenze nelle controversie di lavoro, cit., p.

21, che, dalle controversie aventi ad oggetto gli accordi già stipulati, tiene separate «le con-
troversie logicamente distinte», ovvero quelle «extracontrattuali», cioè «destinate a provocare
nuovi accordi contrattuali», rispetto alle quali «esula totalmente la funzione del giudice, e
mancherebbero del resto criteri di giustizia da applicarsi, perché la stessa vertenza in due cen-
tri industriali diversi può esigere opposta soluzione»; non altrettanto chiara la distinzione in
LESSONA, C., La giurisdizione dei probiviri rispetto al contratto collettivo di lavoro, in Riv. dir.
comm., 1903, I, p. 224 ss., spec. p. 233 ss. Sul punto, v. anche TURATI, F., Per la riforma della
legge sui Probiviri Industriali, cit., p. 33 ss.
42 CAPITOLO PRIMO

Il lavoro di analisi presenta effettivamente minori difficoltà in riferi-


mento alle opinioni di coloro che, in maggior numero94, fedeli ad un’ot-
tica tradizionalista poco incline a cogliere l’attivarsi delle nuove interela-
zioni tra esigenze sociali e processo, risposero risolutamente in senso ne-
gativo al quesito concernente l’opportunità di estendere gli effetti delle
pronunce probivirali oltre i partecipanti al giudizio.
Assai rappresentativa è, ad esempio, la posizione di Giuseppe Chio-
venda, che si oppose non nettezza all’accoglimento della nuova pro-
spettiva, sostenendo di non contemplare ragione alcuna per derogare al
principio fondamentale della cosa giudicata, poiché, come chiarì, se il
contratto collettivo richiedeva veramente un particolare trattamento pro-
cessuale, questo deveva ottenersi con opportune estensioni dell’istituto
dell’intervento in causa e della integrazione del giudizio, non della cosa
giudicata, perché altrimenti delle possibili decisioni identiche, la prima,
vale a dire la più immatura, si sarebbe cristallizzata venendo a costituire
la norma a venire95.

94 Cfr. I probiviri industriali. Inchiesta dell’Ufficio del Lavoro per la riforma della legge

15 giugno 1893, cit., p. 83 ss.


95 Cfr. la risposta al Questionario riportata in I probiviri industriali. Inchiesta dell’Ufficio

del Lavoro per la riforma della legge 15 giugno 1893, cit., p. 84; ma si veda anche il saggio Le
riforme processuali e le correnti del pensiero moderno [1907], in Saggi di diritto processuale ci-
vile, III Milano, 1993, p. 379 ss., spec. p. 389, in cui la critica delle opinioni di Mortara e
Ratto assume toni decisamente più sprezzanti che vale la pena richiamare: «a riguardo dei
probiviri si sono dette e proposte cose inesatte o esagerate. Taluno ha voluto ravvisare nella
giuria dei probiviri un potere quasi-legislativo, evocando il pretore romano. Altri ha propo-
sto, come cosa richiesta dalle esigenze del contratto collettivo, e dei conflitti fra industriali e
operai, la soppressione dei limiti soggettivi della cosa giudicata, cioè l’estensione delle sen-
tenze dei probiviri a tutti gli interessati in questioni affini; e rifuggendo dai ricordi dei classici
ha cercato precedenti nella Nuova Zelanda, ed è tornato da questo lontano viaggio giuridico
proclamando i nuovi orizzonti della cosa giudicata! Per conto mio, credo che i probiviri siano
giudici come tutti gli altri; e che non vi sia nessuna ragione di sacrificare alla questione sociale
l’antico principio – per ciò solo che è antico – della res inter alios acta. Tutto sta ad intenderlo
a dovere; e soprattutto a non confondere problemi e istituti processuali diversi». Quanto ora
riportato potrebbe dar conferma di come l’impostazione di Giuseppe Chiovenda possa ben
rappresentare la non completa consapevolezza che la dottrina interpellata sul Questionario
dimostrò con riguardo alla stretta relazione intercorrente tra l’estensione dell’efficacia della
sentenza ultra partes e la configurazione di controversie non individuali, ma appunto collet-
tive. Le parole di Chiovenda – per dirla in altri termini – sembrerebbero dar fondamento alle
critiche di ROMAGNOLI, U., Le associazioni sindacali nel processo, cit., p. 10, che ha evidenziato
come la maggior parte degli interpellati «preferiscono “leggere” il quesito come se contenesse
la proposta di estendere gli effetti della pronuncia a chi non è stato parte del giudizio instau-
rato tra singolo datore e singolo prestatore di lavoro». Per altro verso, pare difficile immagi-
nare che ad uno studioso dalla sensibilità tecnico-dogmatica di Chiovenda potesse sfuggire la
distanza concettuale che separa la controversia avente ad oggetto il singolo rapporto di lavoro
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 43

Sul fronte opposto, sebbene meno numeroso del precedente, si re-


spirava, invece, l’aria di una propensione intellettuale comunque più
aperta all’innovazione e meglio disposta a prospettare nuove soluzioni in
risposta alle nuove richieste; significativa è, ad esempio, la dottrina, che,
dopo aver negato – come poc’anzi accennato – la distinzione tra le con-
troversie individuali e collettive e con esclusivo riferimento alle contro-
versie vertenti su accordi già stipulati, si orientava sostenendo che «le
sentenze emanate su domanda di un solo fanno stato contro tutti, tranne
per la parte che concerne la quota individuale di azione, cioè di diritti e
doveri, di chi ha promosso la causa di comune interesse», poiché «si in-
tende che in tal caso l’attore riveste la qualità di mandatario dei conde-
bitori di lavoro, tranne che per la propria quota».
Peraltro, sul Questionario si pronunciò anche Mortara96, la cui posi-
zione, d’altra parte, forse anche in ragione del rapporto di paternità
ideale che la legava alla formulazione dei quesiti, offre al lettore odierno

e quella avente al contrario ad oggetto il contratto collettivo. Sicché pare più plausibile rite-
nere che proprio l’estensione ultra partes del giudicato fosse il risultato interpretativo valutato
negativamente e comunque superabile tramite la corretta applicazione dell’istituto dell’inter-
vento o dell’integrazione del contraddittorio; opzione, quest’ultima, che peraltro Chiovenda
avrebbe di lì a breve sostenuto potersi compiere anche mediante l’uso della notificazione per
pubblici proclami (Sul litisconsorzio necessario [1904], in Saggi di diritto processuale civile, II,
cit., p. 427 ss., spec. 449, in nota). Siamo, insomma, di fronte ad uno dei casi che ben dimo-
strano il rapporto tra concezione liberale e impronta pubblicistica assegnata al processo; due
anime che sovente all’interno del pensiero del Maestro si scontrano e si fondono, disegnando
– in occasione dei diversi istituti – differenti punti di equilibrio. Anche in questa occasione,
infatti, la posizione di Chiovenda si dimostra strettamente ossequiosa della piena libertà di
azione in capo alle parti, preferendo operare un coordinamento delle decisioni mediante la
via dell’intervento o dell’integrazione del contraddittorio; strade processuali che comunque,
nell’impostazione chiovendiana, assegnavano direttamente ai soggetti coinvolti nella lite il po-
tere di attivazione del rimedio processuale. Ciò è ancor più vero se si riflette sul fatto che an-
che in materia di litisconsorzio necessario, ad esempio, l’autorevole processualista riteneva
non spettasse al giudice ordinare l’integrazione, afferendo detta questione al tema della legit-
timazione ad agire, ovvero al potere di azione di titolarità delle parti (cfr. CHIOVENDA, G., Sul
litisconsorzio necessario, cit., spec. p. 435). E non è un caso, forse, che in una posizione più
aperta a fenomeni di estensione ultra partes del giudicato si fosse posto – come vedremo tra
breve – Enrico Redenti, che proprio sulla questione ora indicata, da un lato, riteneva che la
legittimazione ad agire non si ponesse come condizione dell’azione (ma in posizione interme-
dia tra rito e merito) e, dall’altro, proprio al giudice – argomentando sulla base del disposto
dell’art. 205 c.p.c. – attribuiva il potere di integrare il contraddittorio nei giudizi in cui non
fossero state chiamate o presenti tutte le parti legittimate (REDENTI, E., Il giudizio civile con
pluralità di parti, 1911, p. 311 ss.).
96 MORTARA, L., Per la riforma della legge sui probiviri (15 giugno 1893), (Risposta ad al-

cuni dei quesiti proposti dall’onorevole Ufficio del lavoro per la riforma della legge predetta), in
Giur. it., 1904, IV, p. 25 ss.
44 CAPITOLO PRIMO

l’immagine altamente rappresentativa di un dibattito giuridico ancora


lungi dall’addivenire ad un concetto stabile e condiviso di controversia
collettiva.
Nelle osservazioni di commento al terzo quesito poc’anzi indicato,
infatti, l’attenzione di Mortara fu sostanzialmente attratta dalle sole con-
troversie «precedenti» e «concomitanti», rispetto alle quali l’insigne giu-
rista rilevava il configurarsi di un diritto di azione inedito per la scienza
processuale, in quanto slegato dall’esistenza di diritto di obbligazione già
perfetto.
A tal riguardo – osservava Mortara – «abbiamo […] la figura di un
diritto di azione mediante il quale non si persegue in giudizio l’adempi-
mento di obbligazioni preesistenti, ma bensì si persegue il perfeziona-
mento di rapporti contrattuali, sottoponendo la libertà dei contraenti alla
potestà moderatrice e coercitrice di un organo giurisdizionale, che non
può essere […] se non una giurisdizione di equità, fornita del potere di
creare il diritto materiale per la virtù dei suoi pronunciati (ius edicendi).
Né tale nuova specie di azioni può avere altro oggetto se non la tutela di
interessi collettivi. L’individuo scompare; o per lo meno, l’attività dell’in-
dividuo è espressione ed istromento dell’interesse della collettività».
Se, quindi, il giurista mantovano rilevava con esattezza il significato
innovatore dell’inciso «controversie […] precedenti, concomitanti […]
la stipulazione», d’altra parte, lasciava piuttosto nell’ombra il significato
proprio da attribuire sul piano tecnico-giuridico al concetto di contro-
versia collettiva, anche – tra l’altro – in riferimento alle controversie non
sorte anteriormente alla stipulazione, ma ad essa «susseguenti»97.
L’insufficienza della mera proiezione funzionale assegnata a tali con-
troversie – in mancanza di adeguate precisazioni sull’oggetto del giudizio
e sul concetto stesso di interesse collettivo – non risultava inoltre com-
pensata dalle osservazioni avanzate dall’Autore in relazione al quesito
concernente la possibile estensione ultra partes dell’efficacia soggettiva
della sentenza.
Osservava, infatti, Mortara: «ond’è che io non scorgo la possibilità di
scindere il problema della giurisdizione su controversie collettive da
quello dell’autorità del giudicato assunta in un aspetto nuovo, che si di-
stacchi dal tradizionale dogmatismo della formula res inter alios iudicata».
E si aggiungeva subito dopo: «certamente non conviene esagerare né
fraintendere questa seconda parte del problema. Nessun uomo di buon
senso può dire o pensare che qualunque controversia sul lavoro agitata

97 Cfr. la dottrina tra breve citata alla nota 101.


INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 45

nell’interesse e nei rapporti fra due individui (padrone ed operaio) debba


reputarsi decisa nell’interesse rispettivo delle due classi; si ché ogni sen-
tenza di un tribunale di probiviri abbia l’autorità di un editto pretorio. Ma
nemmeno è dato negare che il brocardo del diritto individualistico: res in-
ter alios iudicata alteri non nocet nec prodest, sia incompatibile col regime
della tutela giurisdizionale di diritti o interessi collettivi»98.
Per Mortara, insomma, le controversie collettive erano semplice-
mente quelle volte a tutela degli interessi collettivi, rispetto alle quali –
inoltre – il principio di relatività della cosa giudicata poteva essere dero-
gato. Quale poi fossero i criteri da impiegare per l’individuazione esatta
del discrimen tra controversia individuale e collettiva era questione non
trattata nell’intervento in esame.
Particolarmente interessanti sono peraltro le osservazioni relative al
delicato tema della legittimazione ad agire, rispetto al quale venivano ad
essere prospettate le due soluzioni alternative già rilevate nella monogra-
fia poc’anzi ricordata di Emilio Bonaudi.
In primo luogo, infatti, si rinviava all’istituto dell’azione popolare,
nella quale «la rappresentanza che un cittadino assume, in questi giudizi,
dell’interesse o diritto di tutti, non toglie a questo interesse o diritto il
suo carattere universale», cosicché «riconoscere che la difesa del diritto
obiettivo economico è interesse collettivo di una classe e che vi siano casi
in cui ciascun membro di essa, quasi attore popolare, possa assumerne la
rivendicazione mediante l’esercizio di azione giudiziaria da essere decisa
nell’interesse della collettività cui quella controversia riguarda, non […]
pare […] un passo soverchiamente ardito e prematuro»99. Ma, d’altra
parte, si aggiungeva anche che il «riconoscere […] organismi collettivi,
abili ad esercitare azioni inerenti al contratto di lavoro nell’interesse di
tutti gli individui che compongono una data collettività, con la conse-
guenza del giudicato obbligatorio per tutti costoro, non […] sembra
neppure una idea nuova né una riforma sovvertitrice di principi già ac-
colti dal diritto positivo»100.
In conclusione, insomma, nonostante la posizione di Mortara fosse
affetta da incertezze dogmatiche che solo successivamente avrebbero tro-
vato risposte più esaurienti101, d’altra parte, occorre riconoscere a Mor-

98 MORTARA, L., Per la riforma della legge sui probiviri (15 giugno 1893), cit., p. 31.
99 MORTARA, L., Per la riforma della legge sui probiviri (15 giugno 1893), cit., p. 32.
100 MORTARA, L., Per la riforma della legge sui probiviri (15 giugno 1893), cit., p. 32.
101 Osserva BORGHESI, D., Contratto collettivo e processo, cit., p. 28, in relazione alla po-

sizione di Mortara da noi richiamata nel testo, che il rinvio operato all’istituto dell’azione po-
polare «presupponeva il carattere collettivo di un buon numero di azioni proposte da singoli
46 CAPITOLO PRIMO

tara il merito dell’«ardita modernità»102; ovvero di aver dimostrato una


spiccata propensione a confrontarsi con i dogmi del diritto processuale
civile, operandone una sensibile relativizzazione alla luce delle nuove esi-
genze di tutela dei bisogni collettivi; dovendosi, sotto diverso profilo,
comprendere le naturali incertezze che gravavano su un clima culturale
(e soprattutto di quelle che si fondavano sul concordato di tariffa), senza però indicare sulla
base di quali criteri queste si distinguevano dalle azioni individuali»; ROMAGNOLI, U., Le as-
sociazioni sindacali nel processo, cit., p. 11, dopo aver rilevato come in Mortara si colga la ne-
cessità di prospettare l’allargamento dei limiti soggettivi della sentenza solo in relazione alle
controversie collettive, poi aggiunge che «neppure il Mortara riesce a liberarsi completa-
mente dalla (criticata) concezione individualistica» rimanendo, nel richiamo dell’azione po-
polare, nella sostanza «ancorato al dogma liberale, che ha come corollario l’esaltazione dei va-
lori individuali, per cui la soddisfazione dell’interesse individuale è al tempo stesso soddisfa-
zione dell’interesse pubblico e, nel caso dispecie, di quello collettivo». Cfr. anche CECCHELLA,
C., L’arbitrato nelle controversie di lavoro, cit., p. 69, nota 52, in cui sembra potersi indivi-
duare una critica al Romagnoli, per non aver adeguatamente sottolineato come in effetti la
posizione di Mortara vada riferita, non al tema dell’efficacia ultra partes della sentenza, ma al-
l’ambito «degli arbitraggi delle controversie collettive il cui risultato finale è, né più, né meno,
un contratto collettivo (perfezionato dalla volontà del terzo arbitratore) al quale va assimilato
anche per l’ambito dell’efficacia collettiva». Si può peraltro aggiungere in coda a queste con-
siderazioni, qualche rapida osservazione. Come accennato nel testo, a conferma delle pun-
tualizzazioni di Cecchella, sembra chiaro che la controversia collettiva sia quella che: a) è a tu-
tela di interessi collettivi; b) è decisa da una sentenza con autorità di editto pretorio, essendo
la decisione non rivolta ad accertare obblighi preesistenti, ma a crearne dei nuovi; c) è decisa
da una sentenza, per la quale la relatività degli effetti del giudicato costituisce principio de-
rogabile. In altri termini è controversia collettiva solo quella non propriamente giurisdizio-
nale, ma rivolta alla gestione degli interessi in conflitto in ordine alla conclusione di un nuovo
accordo. Va d’altro canto osservato come il richiamo dell’azione popolare rappresenti un ele-
mento di distonia nella prospettiva presentata da Mortara. Si potrebbe in effetti comprendere
il richiamo all’azione popolare in riferimento, non alla sua natura propriamente giurisdizio-
nale, nella quale appunto si ravviserebbe l’incongruenza, ma unicamente alla possibilità di
individuare in essa un caso di tutela (intesa in senso lato) rimessa all’attivazione del singolo.
In altri termini il richiamo operato da Mortara avrebbe unicamente lo scopo di giustificare la
concessione dell’azione anche al singolo seppur in presenza di interessi a dimensione so-
vraindividuale, in una prospettiva isolata da quelle che sono le caratteristiche strutturali del-
l’azione popolare, specie per quel che riguarda il suo rapporto con la violazione di norme di
diritto obiettivo. Ma proprio questa alternativa interpretativa del pensiero di Mortara è da
egli stesso smentita allorché, come visto, ritiene che il «riconoscere che la difesa del diritto
obiettivo economico è interesse collettivo di una classe e che vi siano casi in cui ciascun mem-
bro di essa, quasi attore popolare, possa assumerne la rivendicazione mediante l’esercizio di
azione giudiziaria da essere decisa nell’interesse della collettività cui quella controversia ri-
guarda, non […] pare […] un passo soverchiamente ardito e prematuro». Rimane, dunque,
confermato – come appunto indicato nel testo – che la posizione di Mortara non si concede
a facili classificazioni e ciò verosimilmente per il frequente slittamento dell’argomentazione
dal piano giurisdizionale al piano contrattuale-negoziale.
102 Così TURATI, F., Per la riforma della legge sui Probiviri Industriali, cit., p. 34, in rela-

zione alle parole di Mortara.


INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 47

ancora immaturo e ben descritto dalla dottrina recente col rilevare il rap-
porto di identificazione generalmente instaurato agli inizi del Novecento
tra pronunce equitative dei probiviri e contratto collettivo in ragione del
fatto che anche la «sentenza-contratto» aspirava a proporsi come regola-
mentazione dotata di validità generale103.

2.2.2.3. Il progetto di riforma dei probiviri del 1909 ed il contributo di


Enrico Redenti. – Una maggior chiarificazione dei rapporti intercorrenti
tra controversie collettive e controversie individuali si ottenne, peraltro,
qualche anno più tardi per opera di Enrico Redenti.
L’occasione venne offerta da un nuovo progetto di riforma presen-
tato dai ministri Cocco, Ortu e Orlando nel 1909104. In questo – diversa-
mente che nel progetto Cabrini poc’anzi richiamato – furono escluse dal
novero delle controversie devolute alla giurisdizione dei probiviri le con-
troversie «extracontrattuali»105, ossia quelle che non inerivano alla viola-
zione di obblighi preesistenti, spettando ai collegi unicamente la decisione
de «le controversie, individuali o collettive, attinenti all’interpretazione,
all’esecuzione e alla risoluzione dei concordati e dei contratti di lavoro».
La funzione dei probiviri andava quindi configurandosi lungo una
direzione essenzialmente e prettamente giurisdizional-sanzionatoria106 e
così, al contempo, il dibattito veniva ad essere depurato da uno dei fat-
tori che con certezza avevano influito negativamente sulla corretta impo-
stazione della problematica nei suoi diversi aspetti, permettendo dunque
l’emersione delle questioni veramente centrali: l’individuazione dell’og-
getto del giudizio e degli effetti della sentenza.
Se ne avvide subito Redenti che, in commento al progetto, eviden-
ziava: «bisogna […] innanzi tutto […] domandarci che cosa sono coteste
‘controversie collettive’ […] il termine infatti non ha, […] un significato
tecnico e il progetto lo usa ripetutamente […] ma non esprime cosa in-
tenda»107.

103 Così, BORGHESI, D., Contratto collettivo e processo, cit., p. 22.


104 Atti parlamentari Camera, leg. XXII, tornata 27 settembre 1909, p. 4532.
105 Così – come visto – erano state definite da RATTO, L., L’efficacia collettiva delle sen-

tenze nelle controversie del lavoro, cit., p. 21-22. ROMAGNOLI, U., Le associazioni sindacali nel
processo, cit., p. 38 ss., rileva come solo in questo momento si acquisisca definitiva consape-
volezza circa l’importanza della distinzione tra controversie giuridiche e controversie econo-
miche; distinzione che in effetti era già stata colta da Messina, ma al quale, come osserva Ro-
magnoli (p. 39), «essa appariva astratta e scolastica».
106 Lo osserva con immediatezza REDENTI, E., La riforma dei probiviri, in Riv. dir.

comm., 1910, I, p. 626 ss., spec. p. 629.


107 REDENTI, E., La riforma dei probiviri, cit., p. 635.
48 CAPITOLO PRIMO

E a tal scopo il contributo di Redenti era effettivamente determi-


nante; si chiariva, infatti, che a suo modo di vedere col termine «moder-
nista» di «controversie collettive» era possibile riferirsi a due realtà so-
stanziali profondamente differenti, ovvero – come efficacemente stigma-
tizzato – ad una «cosa vecchia» oppure ad una «cosa nuova».
Nell’opinione di Redenti, la «cosa vecchia» era rappresentata dalle
«controversie cumulate e riunite per connessione […] o per la cosiddetta
affinità di questioni», mentre la «cosa nuova» poteva trarre origine da al-
cune ristrette e particolari ipotesi di violazione del concordato di tariffa.
Più precisamente per Redenti queste particolari ipotesi potevano ri-
correre allorquando «uno o più stipulanti […] vogliano agire per l’accer-
tamento del concordato stesso, o per la sua risoluzione o per il suo an-
nullamento», in tal caso infatti si avrebbe avuto «un giudizio collettivo di
tipo diverso dal precedente, perché là si trattava di decidere più contro-
versie sia pure connesse e in modo conforme, qua un’unica controversia
fra tutti»108.
Come avrebbe evidenziato la dottrina successiva, dunque, il dibat-
tito pre-corporativo, riusciva a sottrarsi all’impasse in cui versava relati-
vamente al trattamento processuale delle controversie collettive sin dall’i-
stituzione dei collegi probivirali, grazie all’intervento chiarificatore di Re-
denti, che sapientemente individuava il punto focale della problematica,
rappresentato dal saper cogliere «la norma collettiva in quanto tale e non
[…] in quanto trasferita nel contenuto di un contratto individuale di la-
voro»109.
Era, insomma, centrale – nella riflessione di Redenti – l’esatta deter-
minazione dell’oggetto del giudizio e, correlativamente, l’esatto inqua-
dramento del concordato di tariffa, descritto dall’illustre processualcivili-
sta come «un atto complesso con cui una pluralità di operai e uno o più
imprenditori concludono una specie di patto normativo di contratti in
corso o di futuri ed eventuali contratti di lavoro da concludersi fra
loro»110; sicché, essendo tale patto vincolante non solo con riguardo ad i

108 REDENTI, E., La riforma dei probiviri, cit., p. 637 (c.vo mio).
109 ROMAGNOLI, U., Le associazioni sindacali nel processo, cit., p. 37.
110 REDENTI, E., La riforma dei probiviri, cit., p. 636, che si richiama alla dottrina di

MESSINA, G., I concordati di tariffe nell’ordinamento giuridico del lavoro, cit., p. 41, per il
quale, lo si ricorda, «il concordato di tariffa ha questa caratteristica che o nella proposta o
nell’accettazione, almeno, risulta da un atto complesso». Si noti, dunque, come Redenti
giunga alle conclusioni che riportiamo nel testo, solo dopo aver determinato l’esatta consi-
stenza strutturale dell’oggetto del giudizio e solo dopo aver superato la sua originaria conce-
zione del contratto collettivo come atto meramente cumulativo (Contratto «cumulativo» di la-
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 49

contrapposti stipulandi, ma anche per i soggetti che stipulavano con pari


veste, e ponendosi il processo come strumento per accertare il patto in sé
o per incidervi in senso latamente costitutivo, allora detta controversia
non doveva essere intesa come controversia individuale, ma appunto col-
lettiva, poiché non riguardava il singolo, ma al contrario investiva tutti
coloro che erano vincolati al concordato.
Il regime processuale di dette controversie era poi per Redenti – che
nello stesso lasso di tempo avviava alla stampa Il giudizio civile con plu-
ralità di parti – strettamente dipendente dall’oggetto delle medesime: al-
lorquando «uno o più stipulanti […] vogliano agire […] dovranno citare
in giudizio […] tutti gli stipulanti, non solo quelli frontistanti a loro, ma
anche i colleghi parallelamente stipulanti, poiché si tratta di accertare o
risolvere un unico vincolo giuridico che in diversi sensi, e con diversa ef-
ficacia nei diversi sensi, vincola purtuttavia ciascuno degli stipulanti di
fronte a tutti quanti gli altri»111.
Peraltro, anche l’illustre dottrina qui richiamata avanzava due solu-
zioni alternative alla partecipazione necessaria di tutti gli stipulanti al giu-
dizio, ovvero, per un verso, prospettava l’opportunità di estendere ultra
partes gli effetti della sentenza (specie alla luce delle «proporzioni colos-
sali» che la controversia poteva assumere) e, per l’altro, riteneva auspica-
bile l’ammettere «in qualche modo ciascuno degli opposti gruppi di sti-
pulanti ad agire come tali», rilevando – tra l’altro – come la pratica at-
tuabilità di dette alternative dipendesse dall’esistenza di una disciplina
legale espressa, tanto per la deroga ai limiti soggettivi del giudicato,
quanto per il riconoscimento della legitimatio ad processum e ad causam
in capo al gruppo. Previsioni queste ultime due, che mancavano – come
rilevava ironicamente lo stesso Autore – nel progetto di riforma112.

voro e licenziamento, in Riv. dir. comm., 1907, II, p. 145 ss.) a vantaggio dell’atto complesso,
caratterizzato appunto dall’inscindibilità della regolamentazione pattizia. Per un approfon-
dito ed ampio esame dei rapporti tra configurazione giuridica della contrattazione collettiva
e sentenza con efficacia collettiva, v. ancora ROMAGNOLI, U., Le associazioni sindacali nel pro-
cesso, cit., spec. p. 13 ss.
111 REDENTI, E., La riforma dei probiviri, cit., p. 637; ma vedi anche Il giudizio civile con

pluralità di parti, cit., p. 287 ss.


112 REDENTI, E., La riforma dei probiviri, cit., p. 639 ss. Alla luce di ciò si comprende

il disagio dell’A. nell’esame delle restanti disposizioni a carattere processuale del progetto di
riforma del 1909. In esso, non solo mancavano le auspicate innovazioni in tema di legitti-
mazione e limiti del giudicato, ma erano presenti disposizioni che risultano poco comprensi-
bili. Così, ad esempio, la possibilità, prevista dall’art. 38 del progetto – secondo la quale
«nelle controversie collettive e in quelle individuali che coinvolgono un interesse collettivo,
tanto i lavoratori quanto l’altra parte contendente possono conferire ad uno o più interessati
50 CAPITOLO PRIMO

3. L’interesse collettivo nell’esperienza giuridica del corporativismo


3.1. L’interesse collettivo: la pietra angolare per la costruzione del nuovo
apparato concettuale
Dalla riflessione relativa ai progetti di riforma appena esaminati, il
percorso dell’interesse collettivo nei suoi rapporti con la tutela giurisdi-
zionale vede come seconda tappa fondamentale del suo itinerario di af-
francazione dal pre-giuridico l’avvento del regime corporativo.
In questa triste pagina della storia istituzionale e civile del nostro
Paese, l’associazionismo volontario subisce un duro colpo ed il dibattito
dottrinale viene – più o meno forzatamente – ad orientarsi verso i temi
strumentali all’affermazione della nuova concezione dello Stato, nonché
verso i suoi rapporti con il singolo cittadino e le collettività intermedie,
tra cui innanzitutto le associazioni sindacali113.

il mandato di proporre l’azione dell’interesse collettivo con un’unica domanda e provo-


cando un giudizio unico e collettivo, tanto se l’interesse ad agire dei singoli membri del
gruppo è fondato su titolo unico, quanto su titoli distinti» – era oggetto di secca critica da
parte di Redenti, che evidenziava come, per un verso, nulla potesse innovare sul piano delle
«controversie connesse od affini e cumulate» e, dall’altro, non risolvesse le problematiche
de iure condendo viceversa bisognose di definizione. «Ancora più perplesso», poi, si dichia-
rava l’illustre giurista qui richiamato di fronte a disposizioni secondo le quali, «qualunque in-
teressato può, prima dell’udienza, dichiarare anche verbalmente nella cancelleria del collegio
investito della cognizione della controversia che accetta gli effetti della conciliazione o della
decisione della controversia stessa»; previsione, quest’ultima, che non riuscì a sottrarsi agli
strali delle rigorose argomentazioni dell’insigne processualista, per il quale, il quesito da porsi
era sempre il medesimo, ovverosia a quale tipologia di controversie detta previsione si
dovesse applicare. Si rilevava, infatti, l’inutilità o, quanto meno l’incongruità, di una disposi-
zione che, se riferita all’ipotesi di più controversie individuali connesse e cumulate in un
unico processo, non avrebbe avuto altro effetto che estendere, in virtù della dichiarazione
dell’interessato, l’oggetto del giudizio ad una domanda nuova, ma in opinabile deroga alle
norme ordinarie in tema di intervento volontario, e, che, se diversamente riferita alle con-
troversie collettive, avrebbe reso ulteriormente oscura questa categoria di «interessati» che
non erano parti necessarie nel giudizio, ma potevano comunque aderirvi a seguito della di-
chiarazione.
113 Sul tema, v. in primo luogo AQUARONE, A., L’organizzazione dello Stato totalitario,

con introduzione di Lombardi, 1995, Torino; nonché ORNAGHI, L., Stato e corporazione, Mi-
lano, 1984; TARELLO, G., Corporativismo, in Enc. Feltrinelli-Fischer, Milano, 1970, p. 68 ss.;
JOCTEAU, G.C., L’ordinamento corporativo, in Storia del sindacato, Dalle origini al corporativi-
smo fascista, Venezia, 1982, 192 ss. Sulle connessioni tra ideologia nazional-fascista e legisla-
zione corporativa, v., per tutti, UNGARI, P., Alfredo Rocco e l’ideologia giuridica del fascismo,
Brescia, 1963. Di recente, anche per ulteriori indicazioni ed approfondimenti, v. MARTONE,
M., Governo dell’economia e azione sindacale, Padova, 2006, in particolare l’ampio e com-
pleto cap. III, intitolato Ordine totalitario e sindacato pubblico.
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 51

Nel rinnovato contesto sociale e politico c’è, come si suol dire, chi
vince e chi perde; quasi tutti perdono, siano persone o siano valori. L’in-
teresse collettivo no; l’interesse collettivo ha in destino la buona sorte;
come molte nozioni ideali, infatti, ben si presta ad esser servo dei nuovi
padroni.
Al fenomeno ora descritto contribuirono essenzialmente due fattori.
Sul piano politico la nozione rispondeva ad un’esigenza ben defi-
nita, vale a dir quella, nutrita dall’intelligentia del regime, di individuare
i concetti che più degli altri potessero contribuire all’edificazione del
nuovo apparato ideologico. In ciò l’interesse collettivo rivestiva un ruolo
di non poco conto, poiché rappresentava lo strumento capace di consen-
tire la subordinazione degli interessi particolari a quello dello Stato in
un’armonica visione di generale elevazione spirituale; rappresentava lo
strumento di mediazione tra Stato ed individuo114, in un radicale muta-

114 Per avere un’idea di questa «mediazione» si legga in particolare BATTAGLIA, F., Dal-
l’individuo allo Stato, in Riv. int. fil. dir., 1933, p. 302 ss.; ID., Il Corporativismo come essenza
assoluta dello Stato, in Arch. studi corporativi, 1935, p. 312 ss., che, in relazione al rapporto
tra Stato e individuo, afferma: «se vogliamo ora chiarire l’originalità della concezione fascista
dello Stato, diremo che essa sta nel porre tra l’un termine e l’altro del rapporto un medio in
cui quelli si inverino, infine nel riguardare individuo e Stato non due ma uno. Lo Stato, non
più astratta entità soprordinata ed altra dai soggetti individui, si estende ad abbracciare il più
vasto mondo sociale, a conoscere una infinità di rapporti i più vari, etici, religiosi, culturali,
economici, tutto un ordine di posizioni umane dianzi ignote alla pubblica autorità; l’indivi-
duo esce dalla sua puntualità, costituisce a sé nuovi campi di azione, si foggia nuove pretese
e nuovi obblighi giuridici, svolge quel mondo sopra visto su cui lo Stato opererà. Sul terreno
sociale, nell’organizzazione, individuo e Stato si incontrano» (p. 321); «nello Stato, totalitaria
organizzazione corporativa, si compie il ciclo dialettico, per cui, attraverso la società, lo Stato
fa suo l’individuo e l’individuo si riconosce nello Stato. Mediazione assoluta fonda l’assolu-
tezza dello Stato nell’assolutezza del principio corporativo». Significativi, tra i tanti, sono gli
scritti di FOVEL, N.M., L’individuo e lo Stato nell’economia corporativa, e di VOLPICELLI, A., I
fondamenti ideali del corporativismo, entrambi in Arch. studi corporativi, 1930, rispettiva-
mente a p. 101 ss. e 196 ss., fortemente orientati nella dimostrazione di quella unità formale
tra Stato ed individuo, posta come fondamentale pilastro programmatico nella Prima Dichia-
razione della Carta del lavoro del 1927, in cui si leggeva che «La Nazione italiana è un orga-
nismo avente fini, vita, mezzi di azione superiori a quelli degli individui divisi o raggruppati
che la compongono. È unità morale, politica ed economica, che si realizza integralmente nello
Stato». Per una lettura più attenta a distinguere – per quanto fosse possibile – i profili giuri-
dici da quelli puramente ideologici, v. le osservazioni critiche avanzate da Widar Cesarini
Sforza nei confronti della posizione di Volpicelli, (Corporativismo e scienza del diritto, in Arc.
studi corporativi, 1932, p. 199 ss. ed a p. 422 ss., v. la replica di Volpicelli allo scritto ora ci-
tato), il quale precisa che «in realtà, quando si assevera tout court l’identità di individuo e
Stato, si fanno nascere grossi equivoci. Comunemente – osserva il filosofo del diritto – si
pensa a ragione che una cosa può essere identica soltanto a sé stessa […]. Quando invece la
filosofia idealista afferma che individuo e Stato (o società) s’identificano, allude ad una iden-
52 CAPITOLO PRIMO

mento di prospettiva funzionale, che, secondo un ardito fenomeno di


eterogenesi dei fini, trasformava l’interesse collettivo da mezzo di con-
trapposizione, di lotta sociale e politica, a strumento di pacificazione dei
rapporti115.
Sul piano scientifico, l’elaborazione della nozione si andava a coor-
dinare, invece, con una oramai rinnovata metodologia giuridica, sempre
più sensibile alle suggestioni formalistiche del dogmatismo logico-siste-
matico.
Possano bastare a titolo d’esempio le parole dell’Avvertimento che
Francesco Carnelutti pose ad introduzione della sua fortunata Teoria del
regolamento collettivo dei rapporti di lavoro: «Io non intendo fare, in que-
ste lezioni, – chiariva l’illustre studioso – il commento della legge italiana

tificazione, come suol dirsi dialettica […]. Senonché, qual senso può avere, codesta dialettica,
per la scienza del diritto? Secondo me nessuno. Finché si resta nella dialettica, cioè nella fi-
losofia, individuo e Stato sono momenti di un infinito processo di reciproca conversione […].
Ma alla scienza codesto processo di ascesa e discesa sfugge necessariamente; ciò che essa co-
glie e può cogliere è solo il punto di partenza o quello di arrivo. La logica scientifica è preci-
samente la logica formale: A=A, individuo=individuo, Stato=Stato. Quindi la scienza del di-
ritto potrà soltanto stabilire delle coincidenze fra individuo e Stato, cioè fra volontà, interessi
e fini individuali e volontà, interessi e fini statali: coincidenze che sono appunto la traduzione,
in termini empirici e contingenti, dell’identità ideale».
115 Basti pensare che, se l’interesse collettivo delle classi lavoratrici era nello Stato

tardo-liberale il vessillo intorno a cui stringersi per contrapporsi al datore di lavoro, con il
corporativismo l’interesse collettivo, nel divenire interesse di categoria, si trasforma in stru-
mento per impedire la lotta di classe e per permettere la pacificazione e l’istituzionalizzazione
del conflitto. L’interesse collettivo – insomma – nella nuova cornice ideologica acquisisce un
ruolo determinante per la costruzione giuridica del sistema. Difatti, sia l’interesse della cate-
goria, che l’interesse della nazione sono species del comune genus «interesse collettivo»; sic-
ché, quest’ultimo, permette di ricostruire il processo di ascensione dall’interesse individuale a
quello generale come processo di successive sintesi di interessi relativamente particolari. Ma
tale processo può essere invertito di segno se: a) la sintesi non è altro che attività interpreta-
zione degli interessi particolari – come avviene per l’associazione dei lavoratori che interpreta
l’interesse della categoria, a cui partecipano anche coloro che non sono iscritti –; e soprat-
tutto, b) l’interpretazione non è libera ma vincolata alla direttiva di subordinazione degli in-
teressi particolari all’interesse nazionale; cosicché il processo è formalmente ascendente (da-
gli interessi particolari all’interesse nazionale attraverso successivi momenti di sintesi), ma so-
stanzialmente discendente; il processo non ha natura induttiva, ma deduttiva; e proprio
l’interesse collettivo maschera sul piano formale l’inversione sostanziale dei nessi di determi-
nazione dell’interesse. Si veda a tal riguardo anche la definizione di «corporativismo» che
avanza JAEGER, N., Principi di diritto corporativo, Padova, 1939, p. 74: «l’insieme dei comandi
giuridici diretti a regolare l’attività e i rapporti professionali secondo un indirizzo unitario de-
terminato dal contemperamento degli interessi delle categorie apprezzati in funzione degli in-
teressi generali nella Nazione» (c.vo mio). Sul punto, v. le attente riflessioni di EINAUDI, L.,
Lezioni di politica sociale, Torino, 2004, spec. p. 101.
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 53

sul regolamento dei rapporti collettivi del lavoro. Voglio invece tentarne
una sistemazione teorica. Questo è ora il compito più urgente e più alto
della scienza. Sindacato, contratto collettivo, magistrato del lavoro, reato
di sciopero e di serrata sono nuove figure giuridiche, che occorre prima
di tutto, mettere al loro posto nell’ordine degli istituti, che costituiscono
il nostro diritto»116.
Ecco dunque che la sostanza incontrava la forma; che i contenuti
trovavano la veste strutturale che più si addiceva loro.
L’operare congiunto dei due fattori contribuì, quindi, per un verso,
a favorire l’affinamento della nozione e, dall’altro, ad assegnare definiti-
vamente all’interesse collettivo il ruolo di strumento indispensabile per la
ricostruzione dei fenomeni giuridici: l’interesse collettivo non è più solo
una chiave di lettura dei meccanismi sociali, bensì entra a pieno titolo nel
mondo del diritto.
Certo è, peraltro, che l’elaborazione dottrinale era un’elaborazione
vincolata; vincolata – cioè – alle finalità del regime, ovverosia l’istituzio-
nalizzazione e la pubblicizzazione della gestione del conflitto di classe.
Così, l’interesse collettivo si presenta in questa fase storica del no-
stro Paese essenzialmente sub specie di interesse di categoria o interesse
professionale e, in quanto tale, risente dei vincoli imposti dal nuovo si-
stema corporativo.
Come recitava la III Dichiarazione della Carta del lavoro del 1927
«l’organizzazione professionale o sindacale è libera. Ma solo il sindacato
legalmente riconosciuto e sottoposto al controllo dello Stato ha il diritto
di rappresentare legalmente tutta la categoria di datori di lavoro o di la-
voratori per cui è costituito, di tutelarne, di fronte allo Stato o alle altre
associazioni professionali, gli interessi; di stipulare contratti collettivi di
lavoro obbligatori per tutti gli appartenenti alla categoria, di imporre
loro contributi e di esercitare rispetto ad essa funzioni delegate di inte-
resse pubblico».
Ugualmente orientata la legge n. 563 del 3 aprile del 1926 (Disci-
plina giuridica dei rapporti collettivi del lavoro). Si prevedeva, infatti, al-
l’art. 5 che «le associazioni legalmente riconosciute hanno la personalità
giuridica e rappresentano legalmente tutti i datori di lavoro, lavoratori,
artisti e professionisti della categoria, per cui sono costituite, vi siano o
non vi siano iscritti, nell’ambito della circoscrizione territoriale, dove
operano». Inoltre, stando all’art. 6 della medesima legge, «non può es-

116 CARNELUTTI, F., Teoria del regolamento collettivo dei rapporti di lavoro, Padova, 1930,
p. 3 (corsivo mio).
54 CAPITOLO PRIMO

sere riconosciuta, per ciascuna categoria di datori di lavoro, lavoratori,


artisti e professionisti, che una sola associazione». Ed infine nell’art. 10,
come deduzione logica dai principi, si chiariva che «i contratti collettivi
di lavoro stipulati dalle associazioni […] legalmente riconosciute, hanno
effetto per tutti i datori di lavoro, i lavoratori, gli artisti e i professionisti
della categoria a cui il contratto di lavoro si riferisce, e che esse rappre-
sentano a norma dell’art. 5».
Questi, dunque, erano i principi, i parametri fissi, «dati» – come si
suol dire – da cui l’elaborazione dottrinale doveva prendere il via o di cui
comunque occorreva tener conto: esigenze, appunto, non più essenzial-
mente sociali, ma in massima parte ideologiche.

3.1.1. L’interesse collettivo nel pensiero di Widar Cesarini Sforza


Il dibattito dottrinale, teso alla ricostruzione sistematica del nuovo
ordinamento corporativo, si sviluppa in una compiosissima letteratura,
all’interno della quale le osservazioni in merito al concetto che è al cen-
tro delle nostre attenzioni sono pressoché onnipresenti. È di palmare evi-
denza, insomma, quanto la nozione di interesse collettivo costituisca la
pietra angolare del sistema. D’altra parte, nonostante i numerosi richiami
operati da più voci, tra i diversi Autori a cui si deve lo studio a carattere
scientifico della nozione di interesse di categoria spiccano senz’altro Wi-
dar Cesarini Sforza e Francesco Carnelutti117.

117 I due Autori svolgono profonde ed articolate riflessioni sulla nozione di interesse

collettivo, offrendo preziosi elementi di riflessione anche a coloro che si cimentano nello stu-
dio delle attuali tematiche relative alla tutela degli interessi collettivi e diffusi. Nella lettura
dei contributi di Cesarini Sforza e di Carnelutti è infatti possibile approfondire la nozione di
interesse tout court, di interesse individuale e di interesse collettivo, saggiando le diverse pro-
spettive ricostruttive adottate dagli Autori. L’elevato grado di elaborazione delle nozioni che
si riscontra nei loro contributi induce quindi a svolgere un esame dettagliato delle due di-
stinte prospettive. A mo’ di avvertenza si può sin d’ora anticipare come i due illustri giuristi
indicati nella sostanza convergano su una nozione composita di interesse, costituita da un ele-
mento oggettivo ed uno soggettivo, dovendosi attenuare le divergenze che potrebbero diver-
samente emergere da una prima lettura delle due ipotesi ricostruttive. Una eterogeneità più
marcata di prospettiva è, invece, sensibilmente percepibile riguardo la nozione di interesse
collettivo, configurata da parte di Cesarini Sforza in senso soggettivo e da parte di Carnelutti
in senso rigorosamente oggettivo. Più in generale – come già accennato nel testo – occorre os-
servare come i riferimenti più o meno ampi alla nozione di interesse collettivo siano frequen-
tissimi nella letteratura coeva, quasi a mo’ di atto dovuto o invocazione benaugurale. D’altra
parte i rinvii alla nozione si trasformano raramente in articolate riflessioni. Eccezione signifi-
cativa sono di certo gli studi di Nicola Jaeger, che, pur aderendo nella sostanza alle posizioni
del Carnelutti, avanza considerazioni dotate di un elevato grado di approfondimento (v. infra,
nota 152).
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 55

I due Autori svolsero, infatti, in un contesto argomentativo tenden-


zialmente alieno dai falsanti stilemi retorici della letteratura del periodo
corporativo118, profonde ed articolate riflessioni sulla nozione dell’inte-
resse collettivo e sulle nozioni contigue, offrendo preziosi elementi di ri-
flessione, che ne giustificano un dettagliato esame.
Il singolare intento speculativo, tanto raro negli contributi che nel
tempo si sono alternati nello studio della nostra materia, consiglia di pro-
cedere in primo luogo dall’analisi della posizione di Cesarini Sforza, dalla
quale subito emerge l’importanza – anche sul piano del metodo – di ad-
divenire ad una soddisfacente nozione generale di interesse ancor prima
della sua specificazione in interesse collettivo.
Per interesse viene quindi assunto quel «concetto di relazione», che
«denota […] non una cosa ma quod inter est fra un soggetto e una cosa»;
più precisamente «l’interesse è la valutazione di un bene, cioè l’apprezza-
mento di ciò che, in relazione a un fine (ad un bisogno), costituisce posi-
tivamente un bene»119.
«Vi sono dunque nel concetto di interesse – rileva con esattezza Ce-
sarini Sforza – due elementi: uno obiettivo, formato dal fine e dal mezzo,
ed uno subiettivo, che è la valutazione del mezzo in rapporto al fine; ed il
primo elemento è fisso, mentre il secondo è variabile: posto un fine, può
variare il giudizio di un soggetto sull’utilità di un dato mezzo per rag-
giungerlo e quindi il suo interesse per codesto mezzo»120.
Ciò premesso, di notevole rilievo sono poi i tentativi di distinzione
tra l’interesse comune, l’interesse collettivo e l’interesse generale.
118 Sulla stretta compenetrazione tra diritto e ideologia nella letteratura del periodo, v.,
ad esempio, la Recensione di Carnelutti a SERMONTI, A., Il diritto sindacale italiano, Roma,
1929, in Riv. dir. proc. civ., 1929, p. 387, in cui si addita la «smania, tanto comune quanto
nociva, di mescolare il diritto colla politica». Sui rapporti tra dottrina e regime, v. CAZZETTA,
G., L’autonomia del diritto del lavoro nel dibattito giuridico tra fascismo e Repubblica, cit.,
p. 385 ss.
119 CESARINI SFORZA, W., Lezioni di teoria generale del diritto, I, Padova, 1930, p. 127.

Chiarisce ulteriormente l’A. che «se questo apprezzamento positivo è impossibile, allora l’in-
teresse manca (giudizio d’inutilità); se diventa negativo dopo essere stato positivo, allora l’u-
tilità si converte nel suo contrario, cioè nella dannosità, e il bene diventa male».
120 CESARINI SFORZA, W., Lezioni di teoria generale del diritto, cit., p. 127 (c.vo mio).

L’A. approfondisce ulteriormente la nozione rilevando le variazioni che la nozione subisce al-
lorché, nella relazione tra soggetto e bene, interviene l’agire di un secondo soggetto; elemento
quest’ultimo esseziale per la comprensione del trapasso della nozione di interesse dai rapporti
pre-giuridici a quelli giuridici. In tale ambito, infatti, sia l’interesse che la nozione di bene,
tendono a mutare natura. Infatti il bene giuridico non è più «la cosa utile», ma «la possibilità
di utilizzarla» e l’interesse giuridico non è più «l’apprezzamento dell’utilità della cosa», ma
«l’apprezzamento dell’azione altrui» in quanto è condizione per l’utilizzazione della cosa
stessa.
56 CAPITOLO PRIMO

L’obiettivo dell’Autore è, infatti, quello di percepire i mutamenti


che il concetto di interesse subisce nel nostro pensiero nel passaggio dal-
l’interesse individuale a quello di categoria e poi da questo a quello na-
zionale121.
L’analisi dell’illustre studioso si articola in diversi scritti e può essere
oggetto di esame seguendo diverse prospettive. Un buon punto di par-
tenza, peraltro, può essere costituito dall’approfondimento della nozione
di interesse generale che Cesarini Sforza svolge in relazione alla categoria
professionale.
L’Autore procede empiricamente prospettando tre ipotesi: a) quella
in cui la categoria sia assunta come gruppo determinato di persone e in
una data unità di tempo ed in cui la categoria sia composta da soggetti
aventi tutti un interesse individuale identico; b) quella in cui la categoria,
pur mantenendo la caratteristica dell’omogeneità contenutistica degli in-
teressi che la compongono, sia assunta come gruppo allo stato fluido,
vuoi perché rappresentato da un numero indeterminato e variabile di
persone o perché assunto in una progressione di tempo; c) quella in cui
gli interessi individuali si caratterizzano per il loro essere ognuno diffe-
rente dall’altro. Ed in relazione a queste tre ipotesi è posta la seguente
domanda: quale criterio occorre adottare per individuare nei singoli casi
l’interesse generale della categoria?
In risposta al quesito Cesarini Sforza evidenzia come in tutti e tre i
casi non sussiste possibilità alcuna di individuare un interesse che in
quanto generale sia distinto dagli interessi dei singoli componenti la ca-
tegoria.
Ad esempio, in relazione alla prima ipotesi sarà possibile parlare
solo di interesse comune, esprimendo «elitticamente» con tale locuzione
il fatto che «gli interessi individuali di tanti soggetti diversi sono qualita-
tivamente identici», ma non nel senso «che un unico interesse appar-
tenga contemporaneamente a diversi soggetti, come se ciascuno ne avesse
un frammento»122, né potendosi nemmeno «parlare della loro somma
come di una entità diversa o superiore»123.
121 Così, CESARINI SFORZA, W., Studi sul concetto d’interesse generale, in Arc. studi cor-
porativi, 1935, parte I, p. 51 ss., parte II, p. 172 ss., e poi in Il corporativismo come esperienza
giuridica, Milano, 1942, p. 125, da dove prenderemo le citazioni riportate nel testo.
122 CESARINI SFORZA, W., Preliminari sul diritto collettivo [1936], in Il diritto dei privati,

con presentazione di Salv. Romano, Milano, 1963, p. 104, nota 2.


123 CESARINI SFORZA, W., Studi sul concetto d’interesse generale, cit., p. 133, che chiari-

sce: «trattasi di tanti interessi identici […] ai quali potrà essere attribuito più peso pratico che
a un interesse isolato; spesso accade, infatti, che si distingua quantitativamente tra l’interesse
di una sola persona, e quello che, appartenendo invece a cento od centomila persone, sembra
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 57

Mancherà in altre parole «un criterio obiettivo per decidere se l’in-


teresse soggettivamente definito in tal guisa è o non è l’interesse gene-
rale»124.
Così ugualmente nella seconda ipotesi; in relazione alla quale Cesa-
rini Sforza evidenzia unicamente la possibilità di osservare il persistere
della medesima valutazione di apprezzamento (l’interesse appunto) an-
che al variare dei soggetti o al variare dell’unità di tempo, fenomeno que-
st’ultimo che favorisce il percepire «in quella valutazione un qualcosa esi-
stente di per sé e perciò indipendente dai variabili criteri e gusti indivi-
duali», con la conseguente «trasformazione dell’interesse in una specie di
entità oggettiva, librantesi sopra le valutazioni soggettive dei singoli»125.
Per non parlare della terza ed ultima ipotesi, in cui l’impossibilità di
andare oltre la rappresentazione di un aggregato di più interessi indivi-
duali, viene ad essere stigmatizzato dalla diversità dei vari apprezzamenti
individuali126. Né peraltro alla definizione dell’interesse contribuisce la
nozione di categoria, che è concetto astratto, non apprezzabile in con-
creto, poiché, come visto, variabile nel numero dei componenti e nel
tempo127.
È peraltro proprio la constatazione dell’insuccesso delle vie intra-
prese che, da un lato, consente la determinazione delle ragioni di tale in-
successo interpretativo e, dall’altro, indica la via per uscirne.
Nell’opinione di Cesarini Sforza, infatti, l’ostacolo è rappresentato
dal concepire l’individuo nella sua singolarità anziché come parte di un

più degno di essere preso in considerazione; ma dal punto di vista quantitativo nessuna di-
stinzione è possibile, nessuna trasformazione dell’interesse interviene per il fatto che invece di
appartenere a una sola persona, appartiene a cento od a centomila» (c.vo mio).
124 CESARINI SFORZA, W., Studi sul concetto d’interesse generale, cit., p. 146.
125 CESARINI SFORZA, W., Studi sul concetto d’interesse generale, cit., p. 134.
126 CESARINI SFORZA, W., Studi sul concetto d’interesse generale, cit., p. 135.
127 Su quest’aspetto v. anche CESARINI SFORZA, W., Corso di diritto corporativo, Padova,

1935, p. 96. L’A. fa l’esempio in cui all’interno di una categoria di cento persone, novanta-
nove abbiano un interesse comune contrapposto all’interesse solitario del soggetto restante.
«È evidente – sottolinea CESARINI SFORZA, Studi sul concetto d’interesse generale, cit., p. 136 ss.
– che la valutazione dei novantanove non potrà essere qualificata come valutazione o inte-
resse della categoria in opposizione alla valutazione o interesse dell’uno, perché l’ipotesi è che
la categoria sia formata non da novantanove persone, ma da novantanove più una. Potrà dirsi
che i novantanove aventi un solo e identico interesse formano una categoria a sé, ma allora il
contrasto sarà tra un gruppo di d’interessi individuali comuni […] e un altro interesse indi-
viduale». In altri termini, «quando, identificata una categoria […], appariscano entro di essa
degli interessi divergenti […] nulla vieta logicamente di pensare che esistano non più una, ma
due, tre … categorie distinte». Conclude dunque l’A. che, «come non si può derivare la no-
zione di categoria da quella di interesse, così non si può assolutamente derivare la nozione
d’interesse da quella di categoria».
58 CAPITOLO PRIMO

tutto, o, il che è lo stesso, il concepire la categoria come «collettività»,


ovvero come insieme di individui, e non come un tutto distinto e sepa-
rato da questi128.
Di conseguenza la soluzione all’impasse, è il «pensare, invece che
alla “collettività” formata da A più B più C, al tutto A, B, C», il che si-
gnifica, come chiarisce l’Autore, «che si pensa ad A che è anche B e C, a
B che è anche A e C, a C che è anche A e B»129.
Ma detta operazione – spiega la dottrina qui in esame – può realiz-
zarsi in due differenti modalità.
La prima si realizza quando «i singoli individui attraverso la defini-
zione soggettiva che essi ne danno, li riferiscono non a se stessi, ma alla
collettività». Ma anche per questa strada non si raggiunge l’obiettivo; e
ciò poiché, tale operazione «in quanto costituisce un’esperienza spiri-
tuale di ciascun individuo […] si esaurisce, per ciascuno, dentro la sua
individuale soggettività», individuando, dunque, una nozione di interesse
generale valida pur soggettivamente, ma non oggettivamente
Né la soluzione cambia, allorché questa operazione intrasoggettiva si
realizzi con riferimento ad un interesse comune; in tale ipotesi, infatti,
ovvero quando ci si confronti con un’omogeneità di apprezzamenti che
ogni individuo non valuti come propri, ma come comuni, l’interesse sarà
collettivo, ovvero individuale ed extraindividuale insieme, ma non ancora
generale, poiché «la collettività di coloro ai quali appartiene l’interesse
comune collettivizzato non è un ente distinguibile dal complesso o tota-
lità dei suoi componenti»130.
L’unica strada ritenuta idonea per giungere alla definizione dell’inte-
resse generale è quindi rappresentata dal far concepire la categoria come
«tutto», ma non da parte dei singoli membri, ma da parte di un ente
terzo rispetto ai soggetti che la compongono, permettendo appunto l’ap-
prezzamento non più soggettivo, bensì oggettivo dell’interesse131. Que-
sto, infatti, da particolare (cioè imputabile ai singoli componenti, vuoi

128 «Concepire gli individui – sintetizza efficacemente CESARINI SFORZA, W., Studi sul

concetto d’interesse generale, cit., p. 142 – come parti di un tutto equivale a concepirli nella
loro unificazione entro il tutto, ma se invece da questo si staccano le parti ossia gli individui
e ciascuno di essi viene considerato fuori dal tutto, quest’ultimo scompare».
129 CESARINI SFORZA, W., Studi sul concetto d’interesse generale, cit., p. 144.
130 CESARINI SFORZA, W., Preliminari sul diritto collettivo, cit., p. 105.
131 «Se una collettività o comunità d’individui – spiega CESARINI SFORZA, W., Preliminari

sul diritto collettivo, cit., p. 107 – non viene entificata, ossia non viene pensata come distinta
non solo da ciascuno dei singoli che la compongono, ma anche dalla totalità dei singoli stessi:
o si definiscono tanti interessi individuali (che potranno essere comuni), o si definiscono de-
gli interessi che pur essendo individuali, sono anche collettivi».
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 59

come meri interessi individuali, o come interessi comuni, o anche collet-


tivi) diviene generale (cioè imputabile alla categoria come tutto) per il
fatto di essere il risultato dell’interpretazione non più delle singole parti-
celle dell’insieme, ma dell’associazione professionale.
Quest’ultima, grazie al suo rapporto di alterità rispetto alla categoria
è appunto in grado di rapportarsi ad essa come ad un tutto distinto dalle
singole parti, apprezzandone l’interesse generale in termini oggettivi132,
sicché all’associazione è attribuito sia il compito di addivenire alla de-
terminazione della categoria, sia l’individuazione dell’interesse profes-
sionale133.
In definitiva – come chiarisce ancora l’Autore – «l’interesse profes-
sionale non esiste di per sé, come un dato specifico che si accompagna
ipso facto alla nozione di categoria, ma occorre che vi sia qualcuno che lo
definisca, ossia che si assuma di interpretarlo in base a una particolare
valutazione e secondo un certo criterio. A volte, in tal modo, apparirà
come interesse della categoria quello della maggioranza dei componenti
la categoria stessa, altre volte sarà quello di una minoranza lungimirante
[che] riescirà ad imporre la definizione alla maggioranza»134.
In altri termini, nel distinguere l’interesse generale della categoria
dagli interessi particolari dei soggetti che la compongono, Cesarini

132 Questa mi pare l’interpretazione più plausibile del pensiero dell’A., che in effetti

tratta della questione a più riprese, rendendo non sempre di immediata comprensione la sua
tesi. Negli Studi sul concetto d’interesse generale, cit., infatti, l’indagine procede in una pro-
spettiva ricostruttiva che pone sul medesimo piano, sia per ciò che riguarda l’oggetto di stu-
dio, sia per quel che riguarda i risultati interpretativi, l’interesse generale della categoria e
l’interesse generale nazionale, ma non dando rilevanza al processo di entificazione, che però
sembra esserne un presupposto necessario, né avanzando la definizione di interesse collettivo;
nei Preliminari sul diritto collettivo, cit., invece, l’attenzione dell’A. è rivolta essenzialmente a
distinguere l’interesse comune e quello collettivo – in questa sede introdotto – dall’interesse
generale, operazione che è affidata in gran parte al processo di entificazione, ma con partico-
lare riguardo all’interesse nazionale. Nel testo si propone una lettura del pensiero dell’A. che
tenga conto degli apporti che derivano da entrambi gli scritti, in una prospettiva di compe-
netrazione e reciproco chiarimento degli apparati argomentativi presentati da Cesarini Sforza
nei due saggi, operazione quest’ultima che si è svolta massimizzando i punti in comune e mi-
nimizzando quelli quanto meno apparentemente di conflitto.
133 Così CESARINI SFORZA, W., Studi sul concetto d’interesse generale, cit., p. 144, che

d’altro canto osserva che in tal caso «la soluzione – alla conversione dell’interesse comune o
collettivo in generale – è presupposta, la quale rimane naturalmente estranea a quella o a
quelle soggettive; si tratta, perciò, di un surrogato di soluzione. La definizione dell’interesse
di categoria ad opera dell’associazione professionale che deve tutelarlo e che serve innanzi-
tutto a delimitare la categoria, è un tipico esempio di tale pseudosoluzione, empiricamente
sufficiente».
134 CESARINI SFORZA, W., Corso di diritto corporativo, cit., p. 98.
60 CAPITOLO PRIMO

Sforza si sentiva garantito unicamente dal criterio meramente formale


della determinazione dell’interesse da parte dell’associazione sindacale ri-
conosciuta, che in quanto tale aveva il compito di individuare l’interesse
riferibile al tutto e non alle parti. Quali fossero poi i criteri sostanziali tra-
mite i quali si determinava il contenuto concreto all’interesse non aveva
alcuna importanza in questo modello teorico135.
Cercando – quindi – di fare opera di sintesi, possiamo dire che per
Cesarini Sforza all’interesse comune corrisponde l’insieme di interessi in-
dividuali ugualmente orientati riferibili ai componenti di una collettività;
quando poi a questa condizione oggettiva, viene ad aggiungersi la condi-
zione soggettiva del concepire l’interesse non come proprio, ma come
appartenente al gruppo, l’interesse diviene collettivo. Per uscire infine dal
novero degli interessi particolari a cui questi ultimi comunque apparten-
gono, l’unica strada praticamente percorribile è rimettere la determina-
zione dell’interesse ab externo, il che equivale a rimetterla allo Stato per
quel che riguarda l’interesse generale nazionale o all’associazione sinda-
cale per quel che riguarda l’interesse generale della categoria.

3.1.2. L’interesse collettivo nel pensiero di Francesco Carnelutti


Anche per comprendere la nozione di interesse collettivo avanzata
da Carnelutti, non è dato prescindere dall’impostazione di teoria gene-
rale che l’illustre giurista accoglie per quel che riguarda la nozione di in-
teresse tout court136.
L’Autore costruisce la sua nozione facendo perno su tre concetti:
quello di bisogno, quello di bene e quello di rapporto.
Si rifletta sulle seguenti affermazioni: a) «l’interesse è […] un rap-
porto tra un bisogno dell’uomo e un quid atto a soddisfarlo»; b) «l’inte-
resse si definisce come una situazione favorevole al soddisfacimento di
un bisogno»; c) «uomo e bene sono i due termini del rapporto, che noi
chiamiamo interesse»137.

135 V. ad esempio le sprezzanti considerazioni di Cesarini Sforza in Studi sul concetto


d’interesse generale, cit., p. 147, in riferimento agli strumenti adottati dal sistema democratico
per la determinazione dell’interesse generale, con particolare attenzione al principio di mag-
gioranza, definito appunto «criterio rozzamente empirico» tramite al quale solo apparente-
mente si opera la necessaria conversione della «collettività» in «tutto».
136 Sulla nozione v. CARNELUTTI, F., Lezioni di diritto processuale civile, I, Introduzione

(1920), Padova, rist. 1930, p. 3 ss., per il quale «la nozione fondamentale per lo studio del di-
ritto è la nozione di interesse» (anche in Sistema di diritto processuale civile, I, Funzione e com-
posizione del processo, Padova, 1936, p. 7).
137 CARNELUTTI, F., Lezioni di diritto processuale civile, cit., p. 3.
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 61

Chiaramente le tre affermazioni sono state da noi estrapolate dal


loro contesto argomentativo ed appositamente isolate, ma ciò non toglie,
per un verso, che tutte manifestino palesemente il loro intento definito-
rio e, dall’altro, che le tre definizioni così ottenute siano tutt’altro che
equivalenti o reciprocamente esplicative.
Le prime due possono essere agevolmente ricondotte ad una confi-
gurazione oggettiva della nozione di interesse; configurazione in cui per
penetrare il concetto si fa perno su valori oggettivi (rapporto tra due ter-
mini o situazione favorevole). Mentre la seconda, nel suo porre in risalto
l’uomo in rapporto al bene, è più proiettata in una prospettiva soggetti-
vistica.
Passando dalle considerazioni generali a quelle più specifiche, ri-
guardo alla prima, si può osservare che, se il «quid atto a soddisfare il bi-
sogno» – come si affrettava a chiarire il Carnelutti – non corrisponde a
null’altro che alla nozione di bene, allora pare corretto leggere tale defi-
nizione come se dicesse che l’interesse è il «rapporto tra un bisogno del-
l’uomo ed un bene».
Incertezze sorgono però dalla considerazione del fatto che, pas-
sando alla seconda definizione, la stessa «situazione favorevole al soddi-
sfacimento del bisogno», potrebbe essa stessa coincidere con la nozione
di bene. In altri termini nella «situazione favorevole» potrebbe ben ve-
dersi quella situazione di godimento del bene idonea a soddisfare il biso-
gno. Ma così facendo la nozione di interesse, non più sarebbe il rapporto
tra bene e bisogno, ma andrebbe direttamente a sovrapporsi a quella di
bene, privando una delle due nozioni di autonomia concettuale.
Se poi si pensa alla terza ed ultima definizione presa in esame, si può
in essa notare un’attenuazione sensibile, se non una perfetta inversione,
della prospettiva oggettiva, in quanto l’interesse da rapporto oggettivo
bene/bisogno, diviene appunto il rapporto tra uomo e bene. Come chiari-
sce Carnelutti, aggravando i nostri dubbi, riguardo all’affermazione
poc’anzi richiamata: «subietto dell’interesse è l’uomo», «obbietto dell’in-
teresse è il bene»138.
La domanda che sembrerebbe doversi porre è dunque la seguente:
la nozione di interesse accolta da Carnelutti ha tenore soggettivo oppure
oggettivo, ovvero, la nozione di interesse si apprezza in relazione alle va-
lutazioni intrasoggettive dell’individuo, come già riscontrato in Cesarini
Sforza, o in relazione al rapporto obiettivo tra due termini, quali il biso-
gno e il bene?
138 CARNELUTTI, F., Lezioni di diritto processuale civile, cit., p. 3; ID., Sistema di diritto
processuale civile, cit., p. 7.
62 CAPITOLO PRIMO

Trovare la risposta è operazione non da poco, visto che Carnelutti,


finché rimane sul piano definitorio, opera successivi slittamenti dal piano
soggettivo a quello oggettivo e viceversa139, presentando al lettore una de-
finizione sensibilmente meno precisa e sintetica se rapportata a quella di
Cesarini Sforza140. Detto questo, però, si crede che non costituisca co-
munque un forzatura, tale da falsare il pensiero dell’Autore, individuare
in un preciso passaggio dell’apparato argomentativo il possibile bandolo
della matassa.
Si presti dunque attenzione al passo in cui Carnelutti, in chiaro ri-
chiamo delle dottrine filosofiche utilitaristiche, sostiene che «lo svolgi-
mento di un interesse, cioè la determinazione di una condizione favore-
vole per il soddisfacimento del bisogno, esige naturalmente l’opera del-
l’uomo; appunto, secondo il principio edonistico, la attività umana non
trova altro impulso che il soddisfacimento dei bisogni e così lo svolgi-
mento degli interessi umani»141.
Se si coniuga, infatti, questa affermazione con quelle più propria-
mente riconducibili ad una prospettiva oggettiva, si può forse prospet-
tare una lettura armonizzante in grado di superare le antinomie.
È certo che un punto fondamentale dell’impostazione carneluttiana
è il richiamare con insistenza l’attenzione sull’aspetto, in un certo senso
strutturale, che è proprio del concetto di interesse.
L’interesse è essenzialmente presentato, infatti, come in Cesarini
Sforza, in veste di concetto di relazione, ovverosia come quel concetto che
è caratterizzato dal fatto di porsi a ponte tra due termini, il bisogno (ad
es. nutrirsi) ed il bene (il quid atto a soddisfare il bisogno, ad es. un bene
alimentare), i quali vanno correlati in rapporto di mezzo a fine.
139 Si rivolga l’attenzione alla seguente affermazione (CARNELUTTI, F., Lezioni di diritto
processuale civile, cit., p. 3): «se io ho interesse a godere un fondo, cioè se godere un fondo è
un mio interesse [apparente prevalenza della prospettiva soggettiva ?], ciò vuol dire che il go-
dimento del fondo costituisce una situazione favorevole per il soddisfacimento di un mio bi-
sogno o di più miei bisogni [apparente prevalenza della prospettiva oggettiva ?]».
140 Vale la pena, peraltro, di riportare quale fosse il giudizio di Francesco Carnelutti ri-
guardo agli studi di Cesarini Sforza. Quanto segue rappresenta, infatti, la significativa Recen-
sione alle Lezioni di teoria generale del diritto di Cesarini Sforza a firma di Francesco Carne-
lutti nella Riv. dir. proc., 1930, p. 287: «Interessanti. Il corso, dopo un’introduzione sull’og-
getto e sul metodo della teoria generale del diritto, è impostato su due parti dedicate al
fenomeno giuridico nella sua struttura e nella sua attuazione. Questa partizione mi par di-
scutibile; più di una pagina lascia desiderare maggior chiarezza e, soprattutto, se non mi in-
ganno, maggior osservanza dei confini tra la teoria generale e la filosofia, sebbene debbasi
lealmente riconoscere la incertezza di questi confini e perciò la difficoltà di rendersene conto
a ogni passo; ma nel complesso lo sforzo è lodevole e non privo – se ne sarà compiaciuto il
Cesarini Sforza – di buoni risultati».
141 CARNELUTTI, F., Lezioni di diritto processuale civile, cit., p. 9.
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 63

Ma, messa in risalto questa caratteristica strutturale, rimane ancora


da chiedersi quando questo nesso relazionale si realizzi ed è proprio in
questo ulteriore tentativo di definizione che trova spazio la compenetra-
zione tra le due prospettive.
La relatio tra bene e bisogno viene, infatti, a realizzarsi allorquando
il soggetto valuta un determinato bene come situazione favorevole al sod-
disfacimento del bisogno. Come afferma Carnelutti, «lo svolgimento di
un interesse, cioè la determinazione di una condizione favorevole per il
soddisfacimento del bisogno, esige naturalmente l’opera dell’uomo»; il
che vale a dire che, il contributo del soggetto, prima marginalizzato, se
non escluso, nell’approfondimento dell’aspetto strutturale, si recupera in
sede di attivazione del rapporto, in veste appunto di giudizio soggettivo
di congruità del bene al soddisfacimento del bisogno142.
Prendendo per buona questa lettura della complessa posizione di
Carnelutti, è possibile esaminare la nozione di interesse collettivo, prima,
nel suo distinguersi dall’interesse individuale e, poi, nella sua applicazione
concreta, relativa alla ricostruzione della nozione dell’interesse di categoria.
Per ciò che riguarda il primo aspetto, ruolo determinante ha la na-
tura del bene oggetto di aspirazione; sostiene, difatti, Carnelutti che la
distinzione tra interessi individuali e collettivi, grava interamente sul fatto
che, mentre per i primi «la situazione favorevole per il soddisfacimento
di un bisogno può determinarsi rispetto ad un individuo soltanto», per i
secondi, «la situazione favorevole per il soddisfacimento di un bisogno
non può determinarsi se non rispetto a più individui insieme»143.
142 Così operando, dunque, la posizione di Carnelutti può essere ricondotta alla pro-
spettiva di Cesarini Sforza per ciò che riguarda la nozione generale di interesse, ovverosia
quella nozione in cui si assiste alla compresenza di un elemento oggettivo e di uno soggettivo.
Dare eccessivo rilievo all’attenzione che Carnelutti ripone nell’evidenziare l’aspetto oggettivo,
sembrerebbe non corretto, non solo in riferimento alle affermazioni riportate nel testo, che
già sole dimostrano una piena consapevolezza da parte dell’A. riguardo all’imprescindibile
elemento di valutazione soggettiva del singolo, ma anche in relazione alla distinzione, che a
breve andremo ad esaminare, tra interesse inteso in senso concreto ed interesse in senso
astratto. Distinzione quest’ultima, che difficilmente potrebbe trovare spazio nella sistematica
carneluttiana, se in essa non fosse appunto presente e rilevante l’apprezzamento soggettivo
del bene quale congruo rispetto il soddisfacimento del bisogno.
143 CARNELUTTI, F., Lezioni di diritto processuale civile, cit., p. 6, che esemplifica a mo’

di chiarimento: «il godimento di una casa è un interesse individuale perché ciascuno può
avere una casa per sé; il godimento di una grande via di comunicazione è un interesse collet-
tivo perché questa non può aprirsi per la soddisfazione isolata dei bisogni di un uomo solo,
ma solo per la soddisfazione contemporanea dei bisogni dei più, di molti uomini». V. anche
ID., Teoria generale del diritto, Roma, 1951, p. 12, in cui si precisa che «nel campo, come si
suol dire, intersoggettivo la solidarietà si risolve in ciò che un bisogno dell’uno non può es-
sere soddisfatto se non sia soddisfatto anche un bisogno dell’altro […]. Si delinea per tal
64 CAPITOLO PRIMO

La prospettiva oggettiva acquista sicuramente un rilievo maggiore.


Al contrario di quanto visto in Cesarini Sforza, il quale avanza una no-
zione di interesse collettivo interamente rimessa alla valutazione dei sin-
goli componenti una collettività, per Carnelutti si hanno interessi collet-
tivi quando la situazione favorevole al soddisfacimento del bisogno si
realizza necessariamente rispetto a più soggetti.
Si hanno, dunque, interessi collettivi in rapporto a beni la cui frui-
zione è necessariamente (in quanto dipendente dalla loro oggettiva na-
tura) collettiva, o, se si preferisce, in rapporto a beni che soddisfano ne-
cessariamente più bisogni individuali.
L’esempio della grande via di comunicazione offerto da Carnelutti
sembra essere abbastanza esplicativo al riguardo.
Per ciò che concerne il secondo aspetto, invece, ovvero per ciò che
attiene allo studio della nozione dell’interesse di categoria, l’attenzione
dell’Autore è rivolta essenzialmente nei confronti di due questioni: l’aspet-
to strutturale dell’interesse e la sua titolarità (con la connessa opera di ge-
stione).
Innanzitutto Carnelutti sostiene, in relazione all’interesse di catego-
ria che anima il conflitto collettivo, che quest’interesse va inteso come la
serie di interessi individuali. La serie, infatti, diversamente dalla somma
non è finita, ma aperta; ciò poiché nel conflitto collettivo «i portatori de-
gli interessi della serie […] non sono, né nominati, né numerati, né pre-
senti; contano anche gli ignoti, gli assenti, i futuri»144.
Chiari pertanto sono i profili di continuità con le consimili rifles-
sioni di Giuseppe Messina, che – come visto145 – aveva già richiamato
l’attenzione sul concetto di gruppo, da intendersi appunto come insieme
«aperto» di individui piuttosto che «chiuso»146.
Ma l’aspetto più interessante è la distinzione, preliminare alla risolu-
zione della problematica relativa alla titolarità degli interessi, fra l’inte-
resse inteso in senso concreto o particolare e l’interesse inteso in senso ti-
pico o astratto.
Secondo questa dottrina, il primo deve essere assunto come l’inte-

modo la nozione dell’interesse comune o collettivo in antitesi all’interesse singolare o indivi-


duale». Cfr. anche ID., Sistema di diritto processuale civile, cit., p. 8.
144 CARNELUTTI, F., Teoria del regolamento collettivo, cit., p. 139; ID., Funzione del pro-

cesso del lavoro, in Riv. dir. proc. civ., 1930, p. 109 ss., spec. p. 122 s.
145 Cfr. retro, § 2.2.1.
146 Osserva in generale ROMAGNOLI, U., Le associazioni sindacali nel processo, cit., p. 60-

61, che «la legislazione sindacale del periodo corporativo recupera la nozione sociologica di
interesse collettivo professionale rozzamente elaborata agli albori del “grande decollo” indu-
striale».
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 65

resse che concretamente anima l’uomo nella sua vita reale, mentre il se-
condo si caratterizza per il fatto di essere slegato dalle contingenze con-
crete, conseguenza quest’ultima che deriva dal concepire, su un piano
ideale e aprioristico, il soggetto come membro di una «data» categoria, da
cui, per le sue caratteristiche oggettive, trae origine l’interesse «tipico»147.
È appunto una serie di interessi tipici quella che corrisponde all’in-
teresse di categoria e non una serie di interessi concreti; precisazione che
si rivela gravida di implicazioni applicative148.
Infatti, a seguito del processo di astrazione, l’interesse tipico perde
il suo titolare. Gli interessi tipici, in quanto tali, in quanto svincolati dalle
reali contingenze, non sono più dei singoli soggetti e sono alla ricerca di
qualcuno che li sostenga e li tuteli.
Questo qualcuno è per Carnelutti il sindacato, che non è nean-
ch’esso chiaramente il titolare degli interessi149, ma a cui viene attribuito
«il potere di manifestare la volontà decisiva per la loro tutela»150.
147 Questa distinzione è tanto ovvia quanto fondamentale per coloro che vogliano fare
impiego del concetto di interesse per la sistemazione degli istituti giuridici; specie poiché ne
va fatto doveroso uso per distinguere l’interesse concreto e pregiuridico da quello astratto
normativamente rilevante, ovvero cristallizzato nella prospettiva funzionale del precetto nor-
mativo (cfr. la nota che segue ed infra, soprattutto il cap. IV, ma anche i capp. V e VI). Cio-
nonostante troppo frequentemente tale distinzione non trova corretta applicazione in sede in-
terpretativa, con il risultato di falsarne completamente il rigore logico-ricostruttivo. A parte
questo, va detto che l’interesse della categoria al quale Carnelutti si riferisce quale interesse
tipico in realtà è un interesse concreto. Il punto è che – come si dice nel testo – Carnelutti fa
impiego della distinzione tra interesse concreto ed interesse tipico per trovare una giustifica-
zione logico-formale che giustifichi l’attribuzione dello stesso in titolarità all’associazione rap-
presentativa.
148 Chiarissima è la spiegazione che Carnelutti offre riguardo al processo di derivazione
degli interessi tipici da quelli concreti (Funzione del processo del lavoro, cit., p. 113 s.): «Il
presupposto della formazione delle norme materiali è la esistenza di una serie di conflitti si-
milari, onde sia possibile astrarre il conflitto tipico, rispetto al quale viene pronunciato il co-
mando. La serie dei conflitti simili si risolve naturalmente in una duplice serie di soggetti
(persone fisiche o giuridiche), ai quali appartengono i singoli interessi in conflitto. Questa se-
rie di soggetti è ciò che la legge chiama la categoria. Il c.d. interesse di categoria o interesse pro-
fessionale è precisamente l’interesse tipico astratto dalla serie. L’interesse di categoria è reale
nel senso che sono reali gli interessi dei membri della categoria, ma non è un interesse di-
stinto da questi; è semplicemente uno (un esemplare) di questi».
149 «Si abitui – ammonisce CARNELUTTI, F., Funzione del processo del lavoro, cit., 121 –
a non confondere tra interessi di sindacato e interessi di categoria: quest’ultimo è l’interesse
tipo di ciascun membro della categoria, associato o non associato, presente o futuro; il primo
è la somma degli interessi comuni dei lavoratori o degli imprenditori, che fanno parte del sin-
dacato. Il sindacato ha la tutela dell’interesse della categoria, ma questo non è l’interesse del
sindacato».
150 CARNELUTTI, F., Teoria del regolamento collettivo, cit., p. 139-140; ID., Funzione del
processo del lavoro, cit., 114.
66 CAPITOLO PRIMO

In sintesi e in conclusione, dunque, nell’impostazione ora rappre-


sentata, l’interesse di categoria vive nella realtà dei rapporti sociali come
insieme di interessi individuali concreti e si eleva a interesse tipico per il
suo essere riferito alla categoria intera grazie all’opera interpretativa del
sindacato.
Si intende quindi far notare che, sebbene Carnelutti presenti il sin-
dacato come interprete dell’interesse della categoria a seguito o – se si
vuole – quale conseguenza della mancanza di un titolare effettivo degli
interessi tipici, in realtà le due questioni sono strettamente connesse ed
anzi in rapporto di causa/effetto esattamente invertito. Infatti gli interessi
non possono che rimanere concreti in assenza di un intervento di sele-
zione e interpretazione che ne realizzi l’astrazione. In altri termini è la ne-
cessità di riferire gli interessi alla categoria come gruppo, necessità inde-
rogabilmente imposta dalle leggi del sistema corporativo, che ne postula
la necessaria astrazione e obiettivizzazione, scopo quest’ultimo a cui
provvede il sindacato151.
In tale maniera, insomma, vengono superate tutte le problematiche
concettuali derivanti dal fatto che il sindacato è rappresentante legale e
coattivo degli interessi di coloro che appartengono alla categoria, siano o
non siano iscritti all’associazione. Si lasciano sullo sfondo ed inerti gli in-
teressi realmente pulsanti all’interno dei rapporti sociali e si imputa alla
categoria un insieme di interessi che nel loro essere tipici sono in realtà
prodotto delle valutazioni del sindacato152.

151 Assai esplicito sul punto è ad esempio il pensiero di un illustre giurista che abbiamo
già incontrato nel periodo pre-corporativo, ovvero BARASSI, L., Diritto sindacale e corporativo,
Milano, 1934, p. 108 ss., per il quale, sebbene i titolari dell’interesse collettivo siano i com-
ponenti della categoria, va d’altro canto osservato che «questi interessi sono raggruppati in
una sintesi astratta e tipica; la quale finisce con riferirsi alla professione, alla categoria non
concepita nell’analisi di ciascun interesse individuale», con la conseguenza che l’interesse di
categoria null’altro è che «l’interesse quale risulta dalla valutazione globale che sa farne con
la sua sensibilità l’associazione sindacale».
152 Come detto (v. retro, nota 117) alla riflessione di Carnelutti può – in massima parte

– essere assimilata la posizione di Nicola JAEGER (di cui cfr. in particolare il Contributo alla de-
terminazione del concetto di «rapporto collettivo», in Riv. dir. comm., 1937, I, p. 619 ss., ma si
vedano anche i Principi di diritto corporativo, cit., p. 31 ss., il Corso di diritto processuale del
lavoro, Padova, 1936, nonché il saggio su Le controversie collettive di lavoro e la competenza
della Magistratura del Lavoro, in Dir. lav., 1931, I, p. 345 ss.). Da Carnelutti l’A. richiamato
mutua innanzitutto l’accentuazione dei profili oggettivi che contraddistinguono, tanto la no-
zione di interesse tour court, quanto quella di interesse collettivo. Anche per Nicola Jaeger, in-
fatti, gli «interessi collettivi si hanno quando la situazione favorevole per il soddisfacimento
di un bisogno non può determinarsi se non rispetto a più individui insieme», quando in-
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 67

3.2. La sentenza con efficacia collettiva nell’ordinamento corporativo


Poc’anzi, per introdurre le soluzioni teoriche avanzate da Cesarini
Sforza e Carnelutti in merito alla nozione di interesse collettivo, si è av-
vertita la necessità di richiamare, pur sommariamente, i principi e i rife-
rimenti normativi in materia di riconoscimento giuridico delle associa-
zioni sindacali, nonché quelli relativi all’efficacia dei contratti collettivi
da queste stipulati. Questioni, che – come evidenziato – costituivano le
coordinate giuridiche positive – fedele specchio di quelle ideologiche –
all’interno delle quali dovevano operare le diverse ricostruzioni dottrinali

somma il bene a cui si aspira è collettivo in quanto «idoneo a soddisfare congiuntamente i bi-
sogni di tutti» (Contributo alla determinazione del concetto di «rapporto collettivo», cit., p. 622
s., da cui sono tratti i passi che seguono). Ugualmente va detto circa la configurazione
«aperta» dell’insieme di soggetti che partecipano alla collettività di riferimento ai fini della
determinazione dell’interesse. Aspetto quest’ultimo su cui va richiamata l’attenzione per la si-
gnificativa «sottodistinzione tra interessi collettivi e interessi plurali […] – avanzata dall’Au-
tore –, a seconda che la situazione favorevole identica possa presentarsi nei riguardi di una
collettività indeterminata di persone – pur determinabili, al momento opportuno, in ordine a
dati caratteri – ovvero che essa riguardi un gruppo limitato di soggetti, specificatamente de-
terminati». Stando alle osservazioni proposte da questa dottrina, «è sensibile la differenza che
corre, sotto questo aspetto, tra lo Stato, la provincia, il comune, gli enti pubblici in genere da
un lato e una società commerciale dall’altro […]. La stabilità nel tempo dell’organizzazione,
e delle funzioni da essa assunte, è un ulteriore conseguenza dei caratteri tipici della colletti-
vità, che è, di solito, anche nel tempo, illimitata. Si può osservare infine che la indetermina-
tezza della collettività può influire anche sulla variabilità delle valutazioni degli interessi col-
lettivi, mentre gli interessi plurali sono contraddistinti (data la specificazione dei loro titolari
e del vincolo che li unisce) da una particolare certezza». «Sottodistinzione» che, tra l’altro, si
riflette con incisività su piano operativo della gestione dell’interesse visto che «per tutte que-
ste caratteristiche, gli interessi plurali presentano notevoli analogie con gli interessi indivi-
duali e la loro attribuzione, che di solito di essi si fa, ad un unico soggetto (la persona giuri-
dica) è un traslato molto meno ardito di quello che si compie configurando come titolare de-
gli interessi collettivi quella organizzazione giuridica (Stato, comune ecc.) che assume
propriamente solo la funzione di determinarli». Il sindacato dunque è il mezzo di cui l’ordi-
namento si serve per la determinazione e la successiva gestione dell’interesse. Questione, que-
st’ultima, che non confligge, ma diversamente si coordina con la ricerca del/i titolare/i del-
l’interesse collettivo. A tal proposito si osserva infatti che i titolari «non possono essere né la
categoria, la quale è mera astrazione, e piuttosto qualità distintiva dei singoli che gruppo di
essi, né l’associazione sindacale, che è soltanto l’organizzazione formatasi per la tutela di tali
interessi, agli organi della quale l’ordine giuridico riconosce il potere di volontà necessario a
tale scopo; ma invece agli individui, che appartengono o apparterranno, anche in seguito, alla
categoria, i quali soltanto, come persone fisiche, possono essere titolari di bisogni e interessi
(in senso proprio), con avvertenza però che essi sono soggetti dell’interesse collettivo non uti
singuli, ma uti universi, vale a dire in quanto membri della collettività […]». Per ulteriori ap-
profondimenti circa l’opinione dell’Autore in materia di interessi colletivi, v. anche infra, cap.
II, § 5.
68 CAPITOLO PRIMO

e che parimenti costituivano alcuni dei pilastri su cui riposava il nuovo si-
stema ordinamentale153.
Il completamento ed il perfezionamento del novero degli strumenti
tecnici destinati all’opera di «pacificazione» dei conflitti sindacali e al-
l’attuazione del successivo intento di subordinazione degli interessi parti-
colari a quello nazionale conformemente al dogma dell’unità ideale dello
Stato con l’individuo era realizzato, per un verso, dal divieto – penal-
mente sanzionato154 – di autotutela degli interessi dei lavoratori e, per
l’altro, dall’istituzione di un organo giurisdizionale – la magistratura del
lavoro – precipuamente chiamato a dirimere i conflitti collettivi all’in-
terno del processo.
Con ciò, dunque, si chiudeva il cerchio: se la gestione dei conflitti
collettivi era, sul piano sostanziale, rimessa al monopolio delle associa-
zioni sindacali riconosciute e controllate dal regime, parimenti l’even-
tuale crisi dell’attività di gestione dei medesimi conflitti veniva ad essere
«anestetizzata» mediante, da un lato, il divieto di autotutela e, dall’altro,
il ricorso allo strumento giurisdizionale ugualmente riservato all’iniziativa
esclusiva dell’associazione.
Così, quindi, alla magistratura del lavoro era assegnato il ruolo di
«supremo congegno di regolamento e di freno della conflittualità sociale,
in funzione di “superamento” e di divieto dell’autodifesa di classe»155.
Più nello specifico, l’art. 13 del Capo III (Della magistratura del la-
voro) della citata legge n. 563 del 1926 prevedeva che «tutte le contro-
versie relative alla disciplina dei rapporti collettivi del lavoro, che con-
cernono, sia l’applicazione dei contratti collettivi o di altre norme esi-

153 Evidenzia JOCTEAU, G.C., Lo Stato fascista e le origini della magistratura del lavoro,

in Pol. dir., 1973, p. 163 ss., ma p. 178, richiamando il discorso di Alfredo Rocco al Senato
per la presentazione della legge sulla disciplina dei rapporti collettivi di lavoro: «i “punti fon-
damentali”, logicamente concatenati, del nuovo ordinamento del lavoro sono i seguenti: “ri-
conoscimento giuridico dei Sindacati sotto il più rigoroso controllo dello Stato; efficacia dei
contratti collettivi; magistratura del lavoro esercitante la giurisdizione nei conflitti collettivi;
divieto dell’autodifesa e sanzioni penali in caso di violazione”». «Questi sono i quattro punti
del disegno di legge […] e sono quattro anelli di una medesima catena. Noi non potremmo
abbandonarne uno solo senza far crollare tutto il sistema».
154 V. in proposito il Capo III (Della serrata e dello sciopero) della legge 563 del 1926.
155 Così, JOCTEAU, G.C., Lo Stato fascista e le origini della magistratura del lavoro, cit.,

p. 173; di cui cfr. anche ID., La magistratura e i conflitti di lavoro, Milano, 1978; v. anche
ROMAGNOLI, U., Le associazioni sindacali nel processo, cit., p. 52 ss.; ID., Il diritto sindacale
corporativo ed i suoi interpreti, in Lavoratori e sindacati tra vecchio e nuovo diritto, cit., p.
187 ss.; più in generale, NEPPI MODONA, G., La magistratura e il fascismo, in Pol. dir., 1972, p.
563 ss.
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 69

stenti, sia la richiesta di nuove condizioni di lavoro, sono di competenza


delle corti di appello funzionanti come magistrature del lavoro»156.
L’art. 17 prevedeva, inoltre, al 1° comma, che «l’azione per le con-
troversie relative ai rapporti collettivi del lavoro, spetta unicamente alle
associazioni legalmente riconosciute», le quali, stando al comma 3° del
medesimo articolo, «rappresentano in giudizio tutti i datori di lavoro e
tutti i lavoratori della categoria, per la quale sono costituite, entro i limiti
della circoscrizione territoriale loro assegnata»157.
Circa l’efficacia della sentenza emessa in sede di «controversie col-
lettive» disponeva, invece, tanto il 4° comma dell’art. 17, per il quale «le
decisioni emesse in loro confronto – ovvero nei confronti delle associa-
zioni legalmente riconosciute – fanno stato di fronte a tutti gli interes-
sati», quanto la normativa di attuazione della legge n. 563 all’art. 87,
stando alla quale «la sentenza che pronuncia in materia di rapporti col-
lettivi del lavoro, stabilendo nuove condizioni di lavoro, produce tutti gli
effetti del contratto collettivo»158.
Alla luce di quanto ora riportato, ben si comprendono – quindi – gli
innegabili profili di continuità che – pur nella stravolta cornice ideolo-
gica e istituzionale – contrassegnano l’evoluzione del dibattito riguar-
dante la tematica delle controversie collettive nel suo passaggio dal pe-
riodo pre-corporativo alla successiva legislazione fascista159.

156 Cfr. anche le Norme per l’attuazione della legge 3 aprile 1926, n. 563, sulla disciplina
giuridica dei rapporti collettivi di lavoro (R.D. 1° luglio 1926, n. 1130), che, all’art. 68, comma
1, riconoscevano alle contrapposte associazioni sindacali riconosciute la legittimazione ad
agire passiva e che, al comma 2 del medesimo articolo, per quel che riguarda le controversie
relative alla formulazione di nuove norme, ammettevano l’azione anche «quando sia interve-
nuto il contratto collettivo, e anche prima della scadenza del termine in questo stabilito per
la sua durata, purché si sia verificato un notevole mutamento dello stato di fatto esistente al
momento della stipulazione». Sulla domanda di revisione v. anche l’art. 89.
157 Ma l’art. 68 delle Norme per l’attuazione, cit., estendeva la legittimazione ad agire in

materia di controversie collettive anche al pubblico ministero «quando l’interesse pubblico lo


esiga».
158 Con l’ulteriore conseguenza, prevista dal secondo comma dell’art. 87, che, «se,

dopo che una controversia individuale del lavoro sia decisa con sentenza passata in giudicato,
intervenga una sentenza del magistrato del lavoro in materia di rapporti collettivi, alle quali
le parti siano vincolate e che sia con quella incompatibile, ognuna delle parti e il pubblico mi-
nistero possono denunciarla alla magistratura del lavoro per l’annullamento».
159 Per riflessioni concernenti questo profilo di continuità a cui si accenna nel testo, v.

ROMAGNOLI, U., Il diritto sindacale ed i suoi interpreti, cit., p. 192 ss., ma soprattutto ID., Le
associazioni nel processo, cit., p. 52 ss., ove si rileva come, «in epoca precorporativa la con-
troversia collettiva giuridica non è immediatamente valutabile come controversia tra i gruppi,
perché il livello contrattuale prevalente è, nei primi anni del secolo, quello aziendale e i con-
cordati aziendali sono, in genere, stipulati tra le maestranze sindacalmente non organizzate ed
70 CAPITOLO PRIMO

Si presti attenzione, ad esempio, alla formulazione del richiamato


art. 13 della legge 563, il quale riecheggiava con evidenza la distinzione,
proposta in primis dal Mortara e poi, come visto, accolta nel Questiona-
rio in materia di riforma dei collegi probivirali poc’anzi esaminato, tra
controversie collettive «precedenti» o «concomitanti», da un lato, e con-
troversie collettive «susseguenti», dall’altro, ovvero tra controversie eco-
nomiche e controversie giuridiche160.
Così, sebbene in un mutato contesto ideologico e legislativo, la ri-
flessione dottrinale del periodo ora in esame si trovava – come quella che
la precedeva – ugualmente costretta a determinare l’esatto inquadra-
mento concettuale della nozione di «controversia collettiva»161 con parti-

i singoli imprenditori. Se con l’estendersi della contrattazione collettiva di carattere territo-


riale aumenta, almeno dal lato dei lavoratori, il numero delle associazioni sindacali capaci di
sopravvivere alla stipulazione dei concordati, esse tuttavia operano in condizioni giuridiche
“inferiori” che impediscono loro di acquistare la titolarità di rapporti di diritto sostanziale o
processuale. […] Ciononostante, nell’esperienza giuridica pre-corporativa sono già tracciate
le linee di un disegno sistematico che la successiva legislazione doveva compiutamente svi-
luppare, dando così prova di modesta originalità, ma di grande coerenza interna». Sul tema
v. anche BORGHESI, D., Contratto collettivo e processo, cit., p. 30 ss.
160 Lo rileva anche COSTAMAGNA, C., Magistratura del Lavoro, in Nuovo Dig. it., VIII,

Torino, 1939, p. 11.


161 La dottrina dedicatasi allo studio delle controversie collettive di lavoro in vigenza

dell’ordinamento corporativo è estremamente ampia. Per quel che riguarda la nozione di


controversia collettiva bastino i seguenti richiami: ANDRIOLI, V., Le sentenze della Magistratura
del Lavoro dal punto di vista processuale, in Arch. studi corporativi, 1931, p. 147 ss.; ASQUINI,
A., Controversie collettive e controversie individuali di lavoro, in Dir. lav., 1930, I, p. 231 ss.;
AZZARITI, G., Le controversie collettive per l’applicazione dei patti di lavoro e i limiti della com-
petenza del magistrato del lavoro, in Dir. lav., 1927, I, p. 1215 ss.; BALELLA, G., Lezioni di le-
gislazione del lavoro, I, Roma, 1927; ID., La nozione di controversia collettiva nella legge sin-
dacale, in Studi di diritto pubblico e corporativo, 1928, p. 8 ss.; ID., Sul diritto di azione del sin-
dacato per la difesa dell’interesse professionale, in Mass. giur. lav., 1930, I, p. 5 ss.; ID.,
L’intervento delle associazioni professionali nelle controversie individuali del lavoro, in Dir. lav.,
1930, 124 ss.; CARNELUTTI, F., Teoria del regolamento collettivo, cit., passim; ID., Funzione del
processo del lavoro, cit.; CALAMANDREI, P., La natura delle decisioni della Magistratura del La-
voro in Italia, in Studi sul processo civile, III, Padova, 1934, p. 141 ss., ora in Opere giuridiche,
IX, Napoli, 1983, p. 365 ss.; CAPOBIANCO, G.L., Sindacalismo e diritto, Milano, 1929, p. 83 ss.;
CIOFFI, A., La nozione di controversia collettiva di lavoro, in Dir. lav., 1930, I, p. 281 ss.; CO-
NIGLIO, A., Controversie collettive e controversie individuali, in Riv. dir. proc. civ., 1929, II, p.
260 ss.; COSTAMAGNA, C., Magistratura del Lavoro, cit.; ID., Diritto corporativo italiano, Torino,
1928, p. 396; D’AGOSTINO, G., Il processo collettivo del lavoro, Parte generale, Padova, 1938;
DE LITALA, L., Diritto processuale del lavoro, Torino, 1938; GRECO, P., Azione individuale e
azione sindacale per l’applicazione del regolamento, in Dir. lav., 1928, I, p. 448 ss.; GUIDI, D.,
Note di diritto corporativo, IV, La nozione di «rapporto collettivo di lavoro», in Dir. lav., 1927,
I, p. 1038 ss.; GUIDOTTI, F., La nozione di controversia collettiva di lavoro, Padova, 1931; JAE-
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 71

colare riferimento – specie dopo l’introduzione delle disposizioni in ma-


teria di controversie individuali di lavoro162 – al rapporto tra, da un lato,
l’azione riservata all’associazione sindacale ed avente ad oggetto l’«appli-
cazione dei contratti collettivi», nonché la «richiesta di nuove condizioni
di lavoro» (azione attribuita alla competenza delle corti di appello in fun-
zione di magistratura del lavoro e caratterizzata, tra l’altro, dall’esten-
sione dell’efficacia soggettiva a tutti i c.d. «interessati» del provvedi-
mento conclusivo del giudizio) e, dall’altro, l’azione individuale spettante
alle singole parti del rapporto di lavoro (viceversa aderente alle regole or-
dinarie, tanto per quel che riguardava la competenza, quanto per ciò che
atteneva ai limiti soggettivi del giudicato).

3.2.1. La distinzione tra le controversie individuali e le controversie collet-


tive
I punti di questo dibattito che maggiormente richiamano la nostra
attenzione sono certamente le soluzioni prospettate dalla dottrina per de-
terminare il proprium delle controversie collettive espressamente previste
dall’ordinamento corporativo, ovverosia, in primis, l’oggetto del giudizio
e, in secundis, la relazione intercorrente tra questo (l’oggetto del pro-
cesso) e il legittimato ad agire (il sindacato riconosciuto).

GER, N., Corso di diritto processuale del lavoro, cit.; ID., Le controversie collettive di lavoro e la
competenza della Magistratura del Lavoro, cit.; ID., Contributo alla determinazione del concetto
di «rapporto collettivo», cit.; MARCHETTI, D., Competenza, litispendenza e legittimazione nel
processo collettivo, in Dir. lav., 1937, I, p. 379 ss.; MAZZONI, G., L’applicazione dei contratti col-
lettivi e la distinzione tra controversia collettiva e individuale di lavoro, in Dir. lav., 1931, I, p.
397 ss.; PERGOLESI, F., La Magistratura del Lavoro, Roma, 1928; RASELLI, A., La Magistratura
del Lavoro, Giurisdizione ed azione, Padova, 1934; ID., Appunti intorno alla funzione della ma-
gistratura del lavoro, in Studi di diritto processuale in onore di Giuseppe Chiovenda, Padova,
1927, p. 689 ss.; ROMANO CASTELLANA, A., Diritto processuale del lavoro, Roma, 1933; RO-
VELLI, F., La sentenza della Magistratura del Lavoro, Urbino, 1932; ID., La legge sulla disciplina
giuridica dei rapporti collettivi di lavoro, in Studi dedicati alla memoria di Pier Paolo Zanzucchi,
Milano, 1927, p. 263 ss.; SECRETI, G., La distinzione tra controversia individuale e controversia
collettiva, in Mass. giur. lav., 1929, p. 85 ss.; SEGNI, A., I tribunali del lavoro in Italia, in Studi
di diritto processuale civile in onore di Giuseppe Chiovenda, cit., p. 769 ss.; in Scritti giuridici,
I, Torino, 1965, p. 453 ss.; SERMONTI, A., Le azioni di accertamento del regolamento collettivo,
in Studi di diritto corporativo, 1928, p. 181 ss.; ID., Il diritto sindacale italiano, Roma, 1929;
ID., Intervento del Sindacato nelle controversie individuali di lavoro, in Dir. lav., 1929, p. 3 ss.;
ID., Ancora sull’intervento del Sindacato nelle controversie individuali di lavoro, in Dir. lav.,
1930, p. 3 ss.; VIGLIONE, R., La competenza «ratione materiae» della Magistratura del lavoro, in
Dir. lav., 1927, I, p. 397 ss.
162 R.D. 26 febbraio 1928, n. 471 (Norme per la decisione delle controversie individuali

del lavoro).
72 CAPITOLO PRIMO

Per quel che riguarda il primo aspetto, la dottrina assolutamente


maggioritaria, riconoscendo nell’esatta individuazione dello scopo del
giudizio la via ricostruttiva idonea a dare spiegazione della distinta na-
tura dell’azione sindacale collettiva rispetto a quella del singolo lavora-
tore, propose di individuare la summa divisio in questione sulla base
della disomogeneità degli interessi rispettivamente tutelati.
Più in particolare, si ritenne che la funzione della controversia col-
lettiva, tanto in riferimento al processo volto all’applicazione dei con-
tratti di lavoro, quanto in riferimento alla richiesta di nuove condizioni
lavorative, fosse rappresentata dalla tutela dell’interesse collettivo della
categoria professionale163.
Come emerso dalle riflessioni svolte addietro, peraltro, sebbene nel
periodo corporativo la nozione di interesse collettivo attraversasse un
momento estremamente propizio, tanto da divenire uno degli strumenti

163 Questione distinta e maggiormente controversa – e che, tra l’altro, in questa sede
viene ad essere unicamente accennata – è quella relativa a quando la controversia coinvolga
l’interesse collettivo anziché quello individuale. In altri termini, dato per assodato (se non po-
stulato) il fatto che la controversia collettiva è rivolta ad una funzione di tutela dell’interesse
collettivo, rimaneva da verificare – cosa da non poco se si pensa al dibattito svoltosi nel pe-
riodo storico immediatamente precedente (cfr. retro) – quando il sindacato potesse farlo va-
lere in giudizio. In altri termini, dire che l’azione sindacale e la controversia collettiva con-
cernevano l’interesse collettivo della categoria corrispondeva all’accoglimento di una pro-
spettiva di studio puramente funzionale che anziché risolvere il problema non faceva altro
che spostarlo. A titolo meramente esemplificativo, si segnala la tesi, molto criticata, di BA-
LELLA, G., Lezioni di legislazione del lavoro, cit., p. 468 s.; ID., La nozione di controversia col-
lettiva, cit., p. 8 ss.; ID., Sul diritto di azione del sindacato, cit., p. 5 ss., il quale riteneva de-
terminante l’aspetto numerico dei lavoratori interessati; a cui si contrapponeva la tesi di co-
loro che ritenevano essenziale il fatto che la controversia avesse ad oggetto immediato e
diretto il contratto collettivo o la sua formazione come chiaramente richiedeva l’art. 13 della
legge 563 del 1926. Evidenziava, difatti, l’essenzialità dell’individuazione di discrimen che tro-
vasse fondamento nel dettato normativo PERGOLESI, F., La magistratura del lavoro, cit., p. 43
ss., secondo cui, d’altra parte, «ogni interpretazione di un c.c., sia pure in occasione di una
controversia individuale, ha in largo senso un interesse collettivo, in quanto è di interesse co-
mune che la norma contenuta nel c.c. sia in ogni caso rettamente interpretata, perché ap-
punto si pone […] per trovare applicazione nei rapporti concreti. […] É del resto quel che
si avvera per tutto il diritto: ogni individuo ha interesse che l’ordinamento giuridico di un
dato Paese sia conforme a giustizia, e d’altro canto è interesse pubblico, in largo senso, che
ogni rapporto individuale si svolga in armonia al diritto. Ma questo non impedisce che pos-
sano trovarsi i criteri per distinguere il diritto pubblico da quello privato, e la controversia
collettiva dall’individuale. Ora il criterio non possiamo trovarlo nell’elemento pre-giuridico o
post-giuridico dell’interesse, ma nell’ambito, rigidamente giuridico, della legge da interpre-
tare». Considerazioni di profilo metodologico, quest’ultime, che valgono allora come oggi, e
sulle quali avremo occasione di tornare più volte.
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 73

privilegiati per la ricostruzione dei nuovi fenomeni giuridici appartenenti


all’esperienza corporativa, pur nella multitudo di voci che si servirono
della nozione, rari furono gli interventi che effettivamente si impegna-
rono nell’individuazione della sua esatta configurazione, mentre al con-
trario ampio riscontro trovò la definizione proposta dal Carnelutti sulla
quale ci siamo soffermati poc’anzi.
L’autorevolezza del Maestro era infatti unanimemente riconosciuta e
la maggior parte della dottrina, più o meno esplicitamente, accolse una
nozione di interesse collettivo inteso appunto come serie aperta di inte-
ressi individuali tipici164, rimanendo sullo sfondo le opinioni che, negan-
done la natura seriale, al contrario propendevano per una sua configura-
zione quale «risultante» o «composizione» degli interessi individuali165, o

164 L’accentuazione operata da Carnelutti della natura «tipica» dell’interesse della cate-

goria trova ampio riscontro nella letteratura coeva. In questo senso, v. anche ANDRIOLI, V., Le
sentenze della Magistratura del Lavoro dal punto di vista processuale, cit., 149, che parla di
conferimento al sindacato di un potere di tutela di «una serie di interessi uguali». Similmente,
v. la posizione di BALELLA, G., Sul diritto di azione del sindacato per la difesa dell’interesse pro-
fessionale, cit., p. 5 ss., che, in relazione alla nozione di interesse professionale o di categoria,
pur operando una ingiustificata quanto frequente sovrapposizione tra nozione di interesse e
nozione di utilità, afferma: «alcuni la individuano nell’interesse comune a tutti gli apparte-
nenti alla categoria professionale in quanto tali. Ed io riterrei accettabile la definizione dal
punto di vista economico sociale, e non strettamente giuridico, qualora, però, per l’interesse
dei singoli si potesse intendere […] l’utilità soggettiva che per ciascuno di essi può essere co-
stituita da una determinata situazione di fatto […]. L’interesse professionale, invece, non è
costituito, esattamente, dall’interesse comune ai singoli appartenenti alla professione, allorché
si tratta di far rispettare certe altre norme di legge, pur sempre dettate a tutela della catego-
ria […]; qui, l’utilità soggettiva dei lavoratori non coincide con la loro utilità obbiettiva». Con
la conseguenza che «l’interesse professionale non è affatto costituito dall’interesse comune ai
singoli appartenenti alla professione, ma da questo si diversifica, allorché si tratta di far ri-
spettare norme di legge che impongono determinati oneri a carico dei singoli». Diversifica-
zione che, tra l’altro, si realizza poiché «l’interesse professionale si fonda anche, e special-
mente, sull’utilità futura dei singoli, che può essere inferiore all’utilità immediata» derivan-
done pertanto la possibilità di «parlare […] di interessi professionali di categoria diversi ed
autonomi da quelli individuali».
165 Per la prima lettura ricostruttiva (quella che ritiene essere l’interesse collettivo la

risultante dei diversi interessi individuali particolari) v. ASQUINI, A., Controversie collettive
e controversie individuali di lavoro, cit., p. 334; per la seconda lettura (quella della «com-
posizione» degli interessi individuali) v. RASELLI, A., La magistratura del lavoro, cit., p. 92.
Non diversamente orientato CIOFFI, A., La nozione di controversia collettiva di lavoro, cit.,
p. 287, che rileva che «l’interesse professionale è […] diverso da quello individuale, giac-
ché condensa gli interessi di tutti che appartengono o possono appartenere […] alla ca-
tegoria». Va pur rilevato, peraltro, come queste distinzioni non sembra posseggano rica-
dute di rilievo sul piano pratico della diversa configurazione giuridica degli istituti sostanziali
e processuali inerenti alla nozione di interesse collettivo. Vedremo più avanti (cfr. infra,
74 CAPITOLO PRIMO

che, diversamente, negandone la natura «astratta» cioè «tipica», ne riaf-


fermavano il carattere «concreto»166.

3.2.2. Il fondamento giuridico-formale sotteso alla legittimazione esclusiva


dell’associazione sindacale
Se, quindi, nel periodo storico ora in esame si realizza una diffusa
concordia circa la diversificazione funzionale dei due giudizi, quello in-
dividuale, da un lato, e quello collettivo, dall’altro – concordia certa-
mente dovuta, in gran parte, alla singolare influenza ed attrattiva che la
figura dell’interesse collettivo possiede sulle menti degli studiosi del pe-
riodo – diversamente accade per il secondo e più delicato profilo con-
cernente il rapporto tra l’interesse tutelato – quello collettivo appunto –
e l’associazione sindacale titolare esclusiva dell’azione, ovvero, per dirla
con altre parole, l’esatto inquadramento dogmatico della posizione giuri-
dica da assegnare al sindacato.
Questa è una circostanza sin troppo frequente nella nostra materia
di studio; circostanza che in più occasioni avremo modo di rilevare. So-
vente, infatti, la dottrina e la giurisprudenza dedicatasi alla sistemazione
dei rimedi giurisdizionali collettivi hanno ritenuto opportuno affidare la
soluzione dell’inquadramento giuridico del processo collettivo alla pre-
sunta contrapposizione tra l’interesse collettivo e l’interesse individuale,
impostando cioè la riflessione su un piano esclusivamente funzionale sle-
gato da considerazioni attente invece agli aspetti strutturali della proble-
matica.
Tornando, peraltro, al dibattito ora in esame e rinviando l’ap-
profondimento di tali questioni ad uno stadio più maturo della nostra in-

cap. II, § 4.) come soltanto successivamente al periodo corporativo si svilupperà un filone
dottrinale, inaugurato da Santoro Passarelli, che nel fenomeno di «sintesi» degli interessi
individuali per mezzo del momento organizzatorio sindacale individuerà una componente
specifica dell’interesse collettivo. In Raselli o in Cioffi, l’interesse collettivo è la «risul-
tante», l’interesse collettivo «condensa»; ma tali formule sono da valutarsi come meramente
verbali, non ricevendo alcuna particolare valorizzazione in sede di argomentazione rico-
struttiva.
166 In particolare v. RASELLI, A., La magistratura del lavoro, cit., p. 90 e poi, più chiara-

mente e incisivamente, p. 153, dove si legge a nota 1: «l’interesse di categoria, nascente dalla
necessità di un’azione comune fra i membri per ottenere eque condizioni di lavoro e riferito
giuridicamente ad un ente superiore, che agisce per queste finalità, non deve essere conside-
rato come un interesse individuale astratto, ma un interesse collettivo concreto, che ha per
contenuto l’ottenere determinate condizioni di lavoro e che è soddisfatto dalla sentenza che
fissa tali condizioni».
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 75

dagine, con un certo sforzo di sintesi è comunque possibile individuare


due grandi filoni interpretativi167.
Il primo di questi può essere circoscritto alle opinioni tendenzial-
mente propense alla configurazione della posizione del sindacato agente
in termini di titolarità di un diritto soggettivo proprio.
Mentre il secondo orientamento è composto dalle opinioni rivolte
alla costruzione di una nuova ed inedita nozione di «lite collettiva».
Più in particolare, all’interno del primo filone individuato, possono
ricondursi, in primis, le opinioni di coloro che sostenevano la possibilità
di configurare, alla luce della legislazione sindacale corporativa, la cate-
goria professionale come «un’entità giuridica vera e propria», indivi-
duando nel «sindacato riconosciuto […] lo strumento attraverso il quale
l’entità astratta “categoria professionale” entra nel nostro sistema giuri-
dico come soggetto di diritti e di doveri»168. Ed ugualmente possono ivi
ricondursi tanto le tesi, che, senza dedicarsi a più o meno sofisticati ten-

167 Per l’esame della problematica in termini di diritto sostanziale, ovvero per ciò che
attiene alla qualificazione della posizione giuridica del sindacato rispetto agli appartenenti
alla categoria, si rimanda alla sintesi di PERSIANI, M., I soggetti del contratto collettivo con effi-
cacia generale, in Dir. lav., 1958, I, p. 97 s., ove sono ricordate le ipotesi ricostruttive preva-
lenti: quella della sostituzione avanzata da SANTORO PASSARELLI, F., Contratto e rapporto col-
lettivo, in Riv. dir. pubbl., 1933, p. 357 ss.; quella della rappresentanza in senso tecnico avan-
zata da BALZARINI, R., Atti e negozi di diritto corporativo, Milano, 1938, p. 106 ss., CESARINI
SFORZA, W., Corso di diritto corporativo, cit., p. 133 s., BARASSI, L., Diritto sindacale e diritto
corporativo, cit., p. 133 ss., e da PUGLIATTI, S., Dalle obbligazioni in solido alla rappresentanza
sindacale, in Dir. lav., 1931, I, p. 239 ss.; quella della rappresentanza di diritto pubblico so-
stenuta da ZANOBINI, G., Corso di diritto corporativo, Milano, 1939, p. 104 ss.; quella della
rappresentanza politica sostenuta da ASCARELLI, T., Sul contratto collettivo di lavoro, in Archi-
vio giuridico, 1929, p. 184 e 189, da CARNELUTTI, F., Nuove riflessioni sul comando collettivo,
in Arch. studi corporativi, 1932, p. 145 ss., ma spec. p. 157, e da GALLI, P., Rappresentanza sin-
dacale, Firenze, 1937, p. 44 e 108; quella della rappresentanza istituzionale proposta da ESPO-
SITO, C., La rappresentanza istituzionale, Tolentino, 1938, e da MAZZONI, G., Il principio cor-
porativo nell’ordinamento giuridico italiano, Padova, 1940, p. 48-49. Non va dimenticata, pe-
raltro, l’opinione di ROMANO, Santi, Contratti collettivi di lavoro e norme giuridiche, in Arch.
studi corporativi, 1930, p. 27 ss., ma spec. p. 34, che di contro rilevava come la natura della
rappresentanza sindacale apparisse questione in fin dei conti secondaria all’interno dell’ordi-
namento corporativo, vista l’indiscussa attribuzione al sindacato di una serie di poteri e fun-
zioni dal vincolante esercizio per i partecipanti alla categoria e posta comunque la conciliabi-
lità teorica tra la figura del contratto e la norma giuridica.
168 Così, GUIDI, D., Note di diritto corporativo, cit., p. 1044; SECRETI, G., La distinzione

tra controversia individuale e controversia collettiva, cit., p. 87; alla personificazione della ca-
tegoria accennano anche ASQUINI, A., Controversie collettive e controversie individuali di la-
voro, cit., p. 334, e RASELLI, A., La magistratura del lavoro, cit., p. 86, 157, che, però, coordi-
nano questa via ricostruttiva con quella mirante a configurare un vero e proprio «rapporto in-
tersindacale» tra contrapposte associazioni (su cui v. infra, nel testo e in nota).
76 CAPITOLO PRIMO

tativi di ricostruzione formale, riconoscevano sic et sempliciter in capo


allo stesso sindacato la titolarità dell’interesse professionale169 o diretta-
mente un diritto soggettivo170 – magari attribuendogli nuovo smalto con
l’appellativo di «diritto collettivo»171 – quanto le tesi, che, in una lettura
fortemente pubblicistica della funzione sindacale, ricostruivano la realtà
normativa in termini di «rapporto intersindacale»; volendo alludere con
questa terminologia all’esistenza di rapporti, intercorrenti tra le diverse e
contrapposte associazioni sindacali riconosciute, di diritto-obbligo alla
collaborazione armonica «per mantenere la giustizia e la pace nei rap-
porti di lavoro» e configurando, in altri termini, in capo ai sindacati un
vero e proprio «dovere, non solo di entrare in trattative per concludere il
contratto collettivo, ma anche di ridurre le reciproche pretese fino a ren-
der possibile la giusta formulazione del contratto stesso»172.

169 MARCHETTI, D., Competenza, litispendenza e legittimazione nel processo collettivo,

cit., p. 387; AZZARITI, G., Le controversie collettive per l’applicazione dei patti di lavoro e i li-
miti della competenza del magistrato del lavoro, cit., p. 1222; forse anche GRECO, P., Azione in-
dividuale e azione sindacale per l’applicazione del regolamento, cit., p. 448 ss., la cui posizione,
d’altra parte risulta difficilmente sussumibile in una delle due principali categorie di opinioni
individuate nel testo. Stesse considerazioni valgono per ROVELLI, F., La legge sulla disciplina
giuridica dei rapporti collettivi di lavoro, cit., p. 301, 305.
170 BALELLA, G., Sul diritto di azione del sindacato per la difesa dell’interesse professio-

nale, cit., p. 7, per il quale «per ammettere il diritto di azione dei sindacati per la difesa del-
l’interesse professionale, è necessario ritenere che questo interesse professionale, allorché è
protetto dal diritto obiettivo, costituisca per il sindacato un diritto soggettivo. Non basta, evi-
dentemente dimostrare l’esistenza dell’interesse professionale, non basta, evidentemente, di-
mostrare che la tutela di tale interesse è compito principale ed esclusivo del sindacato: l’inte-
resse, a cui è accordata azione giurisdizionale di fronte la magistratura ordinaria, è esclusiva-
mente l’interesse immediatamente protetto dal diritto obiettivo, è, cioè, il diritto soggettivo».
171 MAZZONI, G., L’applicazione dei contratti collettivi e la distinzione tra controversia

collettiva e individuale di lavoro, cit., p. 602. Come vedremo nel prosieguo del lavoro ed in
particolare in materia di repressione della condotta antisindacale (cfr. cap. VII, § 3.1.), la for-
mula del «diritto collettivo» ha trovato sovente impiego per dare un appellativo specifico alla
posizione giuridica degli enti esponenziali legittimati ad agire. Ma va sin d’ora detto che tale
formula non va oltre il risultato di scambiare un termine con un altro. Difatti, parlare di «di-
ritto soggettivo» o di «diritto collettivo» è perfettamente equivalente sul piano giuridico, rap-
presentando solo il tentativo di nascondere – con il lessico – la realtà delle cose, ovvero l’at-
tribuzione di un diritto soggettivo puro e semplice alle associazioni rappresentative, che lo
eserciteranno quando il loro interesse verrà – più o meno occasionalmente – a coincidere con
l’interesse tutelato dalle norme e senza necessità di uniformarsi agli interessi concreti dei sog-
getti appartenenti alla categoria protetta.
172 Così, RASELLI, A., La magistratura del lavoro, cit., p. 167, che, a p. 85, chiarisce ulte-

riormente il concetto sostenendo che «le associazioni, come persone giuridiche pubbliche,
poste e riconosciute per soddisfare l’interesse dello Stato all’ordinato svolgimento dei rap-
porti di lavoro, sono giuridicamente obbligate ad agire nel modo più opportuno per raggiun-
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 77

In generale, dunque, queste opinioni, sebbene guardassero alla


realtà dei conflitti di lavoro sub specie di contrasto tra opposti interessi
collettivi di categoria, operando la ricostruzione formale nei termini del
diritto soggettivo del sindacato, giungevano – de facto e indipendente-
mente dai diversi percorsi esegetici intrapresi – a ridurre sensibilmente,
se non annullare, gli eventuali elementi di novità, che sarebbero verosi-
milmente potuti appartenere alla ricostruzione giuridica nell’atto del suo
confrontarsi con dimensioni di interesse non individuali, bensì collettive.
Esemplificativa – e in quanto tale interamente estendibile, nel suo
intimo significato, alle altre tesi appartenenti al medesimo genus indivi-
duato – è a tal riguardo l’opinione della dottrina favorevole alla personi-
ficazione della categoria nel sindacato, che, relativamente alle opinioni
dell’esponente più autorevole dell’opposto orientamento che tra breve
andremo a esaminare, si esprimeva nei seguenti termini: «numerosi sono
i casi che il Carnelutti, studiando il processo collettivo, è costretto a pre-
sentare come profonde deroghe al diritto processuale comune […]; men-
tre ogni carattere eccezionale sparisce allorché si parte dalla nozione
della categoria professionale come persona juris […]»173.

gere tale scopo». Ma v. anche ID., Appunti intorno alla funzione della magistratura del lavoro,
cit., p. 712 ss., ove si chiarisce che, operando nella prospettiva del «rapporto intersindacale»,
anche le controversie rivolte alla richiesta di nuove condizioni di lavoro godono perfetta-
mente dei caratteri tipici della tutela propriamente giurisdizionale, condividendo di essa sia il
carattere repressivo che quello sostitutivo, visto che, anche in tale ipotesi si assiste all’ina-
dempimento da parte delle associazioni interessate di cooperare al fine di convenire le giuste
condizioni contrattuali. Si rifà alla nozione di «rapporto intersindacale» – come anticipato re-
tro – anche ASQUINI, A., Controversie collettive e controversie individuali di lavoro, cit., p. 334.
173 GUIDI, D., Note di diritto corporativo, cit., p. 1052; ma v. anche le osservazioni del

BALELLA, G., Sul diritto di azione del sindacato per la difesa dell’interesse professionale, cit., p.
7, per il quale «non ci troviamo di fronte ad un caso di rappresentanza o di sostituzione pro-
cessuale, perché […] il sindacato agisce in nome proprio e per conto proprio». Va, d’altra
parte, evidenziata la secca replica di CARNELUTTI, F., La funzione del processo del lavoro, cit.,
p. 117, che rilevò: «tutto quello che si è detto per dimostrare che esiste un interesse di cate-
goria distinto dall’interesse dei singoli membri di questo e perciò un rapporto giuridico co-
stituito tra le categorie dall’ordinanza, dal contratto o dalla sentenza collettiva appartiene al-
l’ordine delle illusioni generate dal generale impeto di entusiasmo, che la legge corporativa ha
sollevato anche tra gli studiosi. Questo impeto ha lasciato credere che venga diminuita la ori-
ginalità e la efficacia del nuovo ordine giuridico da chi non si adatti a riconoscere la pretesa
autonomia dell’interesse professionale in confronto con l’interesse dei singoli lavoratori e im-
prenditori. Nelle sue punte più ardite questo impeto ha trascinato qualche giovane scrittore
fino ad azzardare la tesi della personalità giuridica della categoria. Allorché questo impeto si
sarà calmato e l’entusiasmo lascerà il campo alla pacata meditazione si riconoscerà agevol-
mente che nessun pericolo al pieno rendimento della legge corporativa può derivare dalla co-
struzione esatta dei suoi principi e che l’interprete serve meglio il legislatore con l’indagine
austera che con la idolatria».
78 CAPITOLO PRIMO

Se, dunque, questi erano i risultati interpretativi a cui perveniva


questo primo ed ampio gruppo di studiosi, diversamente accadeva sul
fronte opposto.
Il punto centrale di questo secondo orientamento era costituito dal
tentativo di configurare una «nuova» nozione di controversia, in cui l’in-
dice di novità potesse corrispondere a quegli adattamenti concettuali in
punto di legittimazione, oggetto e limiti del giudicato, che rappresenta-
vano la necessaria conseguenza della natura non individuale, bensì col-
lettiva dell’interesse tutelato in via giurisdizionale.
In diversi termini, il punto di partenza – non meramente verbale, in
quanto realmente capace di incidere sulla definizione delle forme pro-
cessuali – era rappresentato, come già Enrico Redenti aveva indicato,
dall’oggetto del giudizio, ovvero dall’interesse collettivo nei suoi aspetti
caratteristici più volte richiamati.
Come sostenne Carnelutti, «la pietra di paragone per la diagnosi del
processo collettivo in confronto col processo singolare è la lite collettiva,
il cui carattere essenziale consiste nel conflitto tra due interessi di catego-
ria»174. «Non si deve identificare il processo collettivo col processo tra

174 CARNELUTTI, F., La funzione del processo del lavoro, cit., p. 122 da cui sono anche
tratti i passi che seguono nel testo. Non solo per ragioni di completezza, occorre ricordare
come, in una prima fase (Teoria del regolamento collettivo, cit., p. 137 ss.), anteriore all’ap-
provazione della legge sulle controversie individuali del lavoro del 1928, Carnelutti propose
una lettura riduttiva della legge del 1926; lettura incentrata sulla distinzione presente nel te-
sto normativo all’art. 13 tra le controversie per la formazione del regolamento collettivo e
quelle diversamente rivolte all’applicazione del medesimo, ritenendo che solo le prime potes-
sero qualificarsi come effettivamente collettive e non le seconde. Indicando, infatti, nel
lemma «applicazione» un «vocabolo tecnico» significante «non solo verificazione del modo
di essere della norma, ma altresì del modo di essere del fatto», il Carnelutti ritenne di dover
qualificare questo secondo novero di controversie come «pseudo collettive», ovvero effettiva-
mente individuali. Il risultato interpretativo implicava che, in questa seconda ipotesi, non va-
lessero le considerazioni ricostruttive proposte per la sistemazione delle controversie propria-
mente collettive, ma occorreva intraprendere un diverso percorso ermeneutico. L’opinione
del Maestro mutò, come detto, a seguito della legge del 1928 sulle controversie individuali,
che all’art. 1 attribuiva ad un giudice diverso dalla sezione della Corte d’appello – compe-
tente invece ai sensi della legge del 1926 anche per le controversie riguardanti l’«applica-
zione» del regolamento oltre che per quelle relative alla formazione dello stesso – tutte le con-
troversie individuali, rendendo normativamente inaccettabile la qualificazione delle contro-
versie sull’«applicazione» come individuali o pseudo-collettive. La conseguenza fu, da un
lato, quella di dover ritenere il termine «applicazione» in senso atecnico, ovvero riguardante
anche l’esistenza o la interpretazione del regolamento e, dall’altro, quella di estendere anche
a questa species di controversie collettive le considerazioni interpretative sviluppate per l’altra
species diversamente riguardante la formazione del regolamento (su tutte queste questioni, v.
La funzione del processo del lavoro, cit., p. 116 ss.). Nel testo, dunque, per palesi ragioni di
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 79

sindacati», «un sindacato può stare così nel processo collettivo come nel
processo individuale; ma vi sta in funzione diversa: nel primo in rappre-
sentanza della categoria, nel secondo in rappresentanza dei suoi
membri».
«L’interesse di categoria – si badi bene –, non l’azione del sindacato
è il carattere differenziale del processo collettivo».
«Neanche è permesso di confondere il processo collettivo col pro-
cesso cumulativo. Più liti individuali non diventano punto una lite collet-
tiva. L’interesse di categoria non è la somma ma il tipo degli interessi dei
membri della categoria; non può esserne la somma, prima di tutto perché
la categoria, non essendo un gruppo, ma una serie, non è finita. Pertanto

sintesi e chiarezza espositiva, abbiamo preferito riportare solo le riflessioni proposte da Car-
nelutti, prima, per la ricostruzione delle controversie propriamente collettive e, poi, estese an-
che a tutte le controversie genericamente collettive. Va comunque riportata, sebbene concen-
trando l’attenzione unicamente sugli aspetti di maggior interesse, anche l’opzione interpreta-
tiva proposta in un primo momento per la ricostruzione delle controversie pseudo-collettive.
In queste, infatti, Carnelutti, non individuava come oggetto del processo l’interesse di cate-
goria inteso come serie – e dunque come interesse «esemplare» – di interessi individuali tipici
e astratti, ma i singoli rapporti intercorrenti tra datore di lavoro e dipendente. «Pertanto – so-
steneva Carnelutti – la attribuzione della azione per la decisione di tali controversie al sinda-
cato non può teoricamente costruirsi in modo diverso che come un caso di sostituzione pro-
cessuale: l’azione spetta a un soggetto diverso dal soggetto della lite, in quanto quel soggetto
si trova con la lite stessa in una particolare relazione, per cui si reputa che la sua azione possa
essere proficua per lo svolgimento dei compiti affidati alla parte» (v. la Teoria del regolamento
collettivo, cit., p. 174 ss.). In questo caso, dunque, l’illustre Autore non esitava a spiegare la
relazione tra titolare dell’azione e titolare dell’interesse sostanziale in termini di sostituzione
processuale. Nelle controversie «pseudo-collettive» l’oggetto del giudizio era costituito da di-
ritti soggettivi ovvero da rapporti bilaterali. Nell’altra invece, non tanto la nozione di serie –
ovvero l’indeterminatezza quantitativa dell’oggetto del giudizio – si opponeva a una meglio
definita relazione tra legittimato ad agire e titolare dell’interesse, quanto la natura tipica del-
l’interesse di categoria. La natura tipica dell’interesse di categoria – che tra l’altro derivava
esclusivamente dal doversi accertare, interpretare, costituire o modificare un regolamento ge-
nerale e collettivo (rectius normativo) di futuri rapporti – realizzava quella astrazione dell’in-
teresse dai titolari concreti che non poteva che condurre ad una nozione di titolarità an-
ch’essa astratta. L’interesse spetta a «chiunque» o, il che è lo stesso, «non spetta a nessuno»
(in particolare) (v. infra, nel testo). È anche interessante notare il quesito che sollevò Carne-
lutti a fronte della legittimazione esclusiva – appunto qualificabile come sostituzione proces-
suale – del sindacato legalmente riconosciuto a dedurre innanzi alla Corte d’appello in fun-
zione di magistratura del lavoro i rapporti giuridici intercorrenti tra datore e lavoratori. A tal
proposito infatti l’A. si chiese se tale previsione escludesse o meno l’azione dell’imprenditore
singolo o del lavoratore. La risposta fu quella che riportiamo qui di seguito: «secondo i prin-
cipi della sostituzione processuale, se è attribuita facoltà di agire al sostituto per la tutela di
un interesse altrui, non è tolta la facoltà di agire al titolare di questo […]. Non vedo né una
norma né un motivo perché, nel nostro caso, questi principi non abbiano da essere rispettati»
(Teoria del regolamento collettivo, cit., p. 180 s.).
80 CAPITOLO PRIMO

il processo, in cui più lavoratori o più imprenditori deducono le loro pre-


tese relative a liti connesse, è un processo individuale cumulativo, non un
processo collettivo».
Stando, dunque, alle affermazioni di Carnelutti or ora riportate, se
l’interesse collettivo doveva essere inteso come un aggregato seriale di in-
teressi tipici, il processo non poteva avere ad oggetto l’interesse di natura
necessariamente individuale dell’associazione sindacale175, né comunque
poteva essere raffigurato come una lite ad oggetto determinato, bensì – ri-
chiamando le parole esplicative di Nicola Jaeger – unicamente mediante il
rinvio concettuale a «una serie indeterminata di liti identiche» o, il che era
equivalente, alla «composizione della lite-tipo o lite di categoria»176.
Con ciò, dunque, venivano a prendersi le distanze dalle opinioni
poc’anzi esaminate, che avevano tentato di fornire una spiegazione for-
male della nuova categoria di controversie mediante il riconoscimento di
un diritto soggettivo in capo all’associazione; opzione quest’ultima, che,
tra l’altro, aveva favorito la pretermissione, o semmai la non adeguata
considerazione, dei caratteri di specificità propri dell’azione che il sinda-
cato esercitava in funzione della tutela dell’interesse di categoria, anziché
di quello suo proprio ed esclusivo177.

175 Nello stesso senso ed amplius, v. JAEGER, N., Corso di diritto processuale del lavoro,

cit., p. 25 ss.; ID., Le controversie collettive di lavoro e la competenza della Magistratura del La-
voro, cit., p. 350; ID., Contributo alla determinazione del concetto di «rapporto collettivo», cit.,
p., 621; nonché, D’AGOSTINO, G., Il processo collettivo del lavoro, cit., p. 50.
176 JAEGER, N., Le controversie collettive di lavoro e la competenza della Magistratura del

Lavoro, cit., p. 347.


177 La distinzione era estremamente rilevante per la corretta ricostruzione delle azioni

in cui il sindacato legalmente riconosciuto si riteneva potesse agire contro l’associazione con-
trapposta per accertare la responsabilità conseguente la violazione degli obblighi assunti, ad
esempio nella parte obbligatoria del contratto collettivo, anziché in quella normativa, diretta-
mente nei confronti dell’altra associazione. In queste ipotesi, infatti, mentre parte della dot-
trina che riconosceva nell’oggetto del giudizio collettivo un diritto soggettivo del sindacato,
non faceva differenza tra le due tipologie di azioni ritenendo che in entrambi i casi si tutelas-
sero gli interessi collettivi della categoria, (v. ad es. RASELLI, A., La magistratura del lavoro, cit.,
p. 111 ss., 155; ASQUINI, A., Controversie collettive e controversie individuali di lavoro, cit., p.
335; ROVELLI, F., La legge sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro, cit., p. 305;
contra, sebbene all’interno dello stesso orientamento, MAZZONI, G., L’applicazione dei con-
tratti collettivi e la distinzione tra controversia collettiva e individuale di lavoro, cit., p. 603), gli
studiosi, che negavano in capo al sindacato la titolarità di un diritto soggettivo ogni qual volta
si richiedesse la tutela dell’interesse collettivo professionale, distinguevano appunto tra lite o
controversia propriamente collettiva e lite o controversia intersindacale non collettiva o indi-
viduale (v. ad es. JAEGER, N., Corso di diritto processuale del lavoro, cit., p. 25 ss.; D’AGOSTINO,
G., Il processo collettivo del lavoro, cit., p. 50).
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 81

Partendo da queste premesse, la dottrina in esame si trovava com-


prensibilmente nel dovere di rilevare la non riconducibilità della «lite di
categoria», ovvero della «controversia collettiva», ai principi comuni in
materia di rapporto tra l’interesse materiale tutelato, la posizione sostan-
ziale di vantaggio giuridicamente vincolante e il diritto d’azione.
Così, ad esempio, per quel che riguardava la problematica della le-
gittimazione, Francesco Carnelutti giungeva ad affermare che «i sindacati
sono parti come soggetti dell’azione, non come soggetti dell’interesse, il
quale appartiene non al sindacato ma alla categoria o, più precisamente,
poiché la categoria non è più che un’astrazione, non appartiene a nes-
suno»178; altri rilevavano nel sindacato la veste di parte in senso proces-
suale – la cui volontà era decisiva, appunto, ai fini della tutela proces-
suale – e riconoscevano diversamente la qualità di parte in senso sostan-
ziale al «chiunque» si trovasse, o si fosse trovato, nella condizione di far
parte della categoria179; altri ancora, invece, pur ritenendo corretto l’in-
quadramento della posizione dell’associazione nei termini della parte in
senso processuale, cercavano di penetrare più in profondità la natura del
rapporto tra titolarità dell’interesse tutelato e titolarità del potere di agire
in giudizio, richiamandosi ad un’inedita nozione di rappresentanza, che
era caratterizzata, in primis, dal fatto di gettare un ponte tra il sindacato
e la categoria unitariamente intesa, anziché rispetto i singoli lavoratori,
ed, in secundis, dal fatto di non essere riconducibile alla nozione di rap-
presentanza legale in senso civilistico (ovvero in termini di rappresen-
tanza di volontà), ma al contrario di essere meglio intesa grazie ad un suo
accostamento alla rappresentanza politica, cioè alla rappresentanza di in-
teressi180.
Sempre questo stesso secondo orientamento, poi, dedicava partico-
lare attenzione alla problematica dell’efficacia ultra partes della sentenza.
178 CARNELUTTI, F., Teoria del regolamento, cit., p. 140.
179 JAEGER, N., Corso di diritto processuale del lavoro, cit., p. 81 ss.; ID., Le controversie
collettive di lavoro e la competenza della Magistratura del Lavoro, cit., p. 350-351.
180 Così, D’AGOSTINO, G., Il processo collettivo del lavoro, cit., p. 142 ss., ma anche p. 65
ss.; ma va anche detto che CARNELUTTI, F., Nuove riflessioni sul comando collettivo, cit., p. 147
ss., dopo aver negato con decise osservazioni l’impossibilità di ricondurre la rappresentanza
del sindacato nei confronti della categoria alla rappresentanza di volontà, aveva già puntual-
mente affermato: «il sindacato rappresenta la categoria nel senso che agisce per tutelarne gli
interessi; ma questa è ciò che si chiama la rappresentanza politica: difesa di interessi, non so-
stituzione di volontà» (p. 157). Affermazione, quest’ultima che, sebbene espressa con riferi-
mento alla natura del contratto collettivo, vedeva come premessa di indagine l’indubbia
«equivalenza delle tre fonti del comando collettivo», ovvero del contratto concluso dalle as-
sociazioni rappresentative, della sentenza della magistratura del lavoro e dell’ordinanza della
corporazione.
82 CAPITOLO PRIMO

Riguardo a questo aspetto, difatti, la nozione accreditata di interesse


collettivo presentava ricadute sistematiche di non poco conto.
Così, dunque, nell’interpretare l’art. 17 della legge 563 del 1926, si
rilevava la sussistenza di una deroga al principio comune della relatività
della cosa giudicata previsto all’art. 1351 del codice civile allora vigente.
Ma, ciò che d’altra parte caratterizzava nell’opinione di questa dottrina la
«sentenza collettiva» non era tanto, o solo, l’estensione ultra partes della
sua efficacia, quanto il fatto che detta efficacia investisse una cerchia in-
determinata di soggetti.
Più precisamente, osservava ancora Carnelutti, «il limite dell’impe-
ratività della sentenza collettiva consiste non più nella identità della lite
ma nella identità della categoria» e ciò poiché «la differenza nel risultato
del processo tra il processo individuale e il processo collettivo non è l’an-
titesi tra l’uno e i più, ma tra uno e chiunque, cioè tra il soggetto determi-
nato e il soggetto indeterminato»181.
Questa impostazione, tesa a rimarcare l’astrattezza dell’interesse tu-
telato dalla sentenza collettiva, veniva peraltro sviluppata sino alle sue
estreme conseguenze attribuendo a tale sentenza un’efficacia giuridica
sua propria e distinta da quella comunemente appartenente al provvedi-
mento giurisdizionale dichiarativo.
Se, da un lato, Virgilio Andrioli, ponendosi in linea di continuità
con le osservazioni di Mortara addietro riportate e con riferimento alle
sentenze collettive aventi ad oggetto le c.d. controversie economiche (ov-
vero le controversie sorte per la determinazione delle nuove condizioni
di lavoro), negava risolutamente che tali provvedimenti avessero natura
giurisdizionale e potessero essere ricondotti all’efficacia propria della res
judicata182, dall’altro, Piero Calamandrei riteneva valido tale risultato in-
terpretativo anche in riferimento alle controversie giuridiche, ovvero
aventi ad oggetto l’applicazione dei contratti collettivi o di altre norme
preesistenti183.

181 Così, CARNELUTTI, F., La funzione del processo del lavoro, cit., rispettivamente a p.

133 e 131; ma similmente in Teoria del regolamento, cit., p. 152 ss. e nel Sistema di diritto pro-
cessuale civile, cit., p. 291. Negli stessi termini, anche JAEGER, N., Corso di diritto processuale
del lavoro, cit., p. 154 s.; D’AGOSTINO, G., Il processo collettivo del lavoro, cit., p. 140 ss.
182 ANDRIOLI, V., Le sentenze della Magistratura del Lavoro dal punto di vista processuale,

cit., p. 147 ss., il cui studio, differentemente da quello di Calamandrei a cui ci stiamo per ri-
ferire nel testo, era destinato all’inquadramento delle sole sentenze collettive volte alla risolu-
zione delle controversie c.d. economiche.
183 CALAMANDREI, P., La natura delle decisioni della Magistratura del Lavoro in Italia, cit.,

p. 145. Sul punto, anche per ulteriori riferimenti bibliografici, BORGHESI, D., Contratto collet-
tivo e processo, cit., spec. p. 41 ss.
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 83

Si osservava, infatti, che, sebbene la forma dell’atto fosse quello


della sentenza, i provvedimenti che chiudevano il giudizio collettivo di-
vergevano da questa tanto per funzione che per regime di efficacia; e ciò
in virtù del fatto che in essi la pronuncia giudiziale, lungi dall’avere ad
oggetto una regola speciale e concreta con effetti limitati al singolo rap-
porto controverso, conteneva al contrario una norma astratta e generale
volta a disciplinare futuri ed indeterminati rapporti giuridici.
Le sentenze collettive, insomma, non solo con riferimento alle con-
troversie economiche, nelle quali tale fenomeno era ancor più enfatizzato
dall’efficacia costitutiva ed innovativa della pronuncia, ma anche nelle
controversie giuridiche, presentavano «quella forma logica di giudizio
ipotetico» tipicamente propria della legge e tale da qualificare l’efficacia
loro propria come effettivamente «normativa» piuttosto che dichiara-
tiva184.
Più precisamente, peraltro, secondo questa lettura, alla sentenza col-
lettiva doveva essere attribuito un doppio regime di efficacia. Nei con-
fronti dei singoli lavoratori e datori di lavoro, svolgeva – come detto – un
effetto propriamente normativo, ma nei confronti delle parti contraenti,
cioè nei confronti delle associazioni sindacali stipulatrici legittimate al-
l’azione, la sentenza si andava ad imporre come tale, ovvero con l’effica-
cia vincolante sua propria in quanto atto giurisdizionale185.

184 «L’efficacia normativa che queste decisioni esercitano in astratto su tutta la serie dei
rapporti individuali possibili in futuro ma non ancora esistenti, non ha niente a che vedere
colla autorità della cosa giudicata, ma ha al contrario tutti gli effetti che sono propri della
legge: perché se regolare in concreto un rapporto già esistente è proprio del giudice, regolare
in astratto una serie di rapporti non ancora esistenti, ma considerati come possibili nell’avve-
nire, è proprio del legislatore» (così, CALAMANDREI, P., La natura delle decisioni della Magi-
stratura del Lavoro in Italia, cit., p. 145). Come avremo modo di osservare in particolare nel
cap. X dedicato allo studio degli strumenti di tutela degli interessi collettivi dei consumatori
anche la dottrina più recente ha ritenuto opportuno predicare l’efficacia normativa della sen-
tenza inibitoria (cfr. in particolare MARINUCCI, E., Gli effetti della sentenza inibitoria prevista
dall’art. 1469 sexies c.c., in Riv. dir. proc., 2002, p. 216 ss.; ID., Azioni collettive e azioni inibi-
torie da parte delle associazioni dei consumatori, in Riv. dir. proc., 2005, p. 125 ss.), peraltro
– come meglio vedremo – in tale ipotesi la sentenza contiene l’accertamento di un obbligo
attuale che esclude la possibilità di rinvenire l’enunciazione di regole non concrete e non
speciali.
185 Tale ambivalenza rappresentava la trasposizione sul piano processuale della conce-

zione di Santi Romano in merito alla natura del contratto collettivo (cfr. Contratti collettivi di
lavoro e norme giuridiche, cit., p. 27 ss.). L’autorevole giurista, infatti, con magistrale chia-
rezza, posta la completa compatibilità della figura del contratto con il concetto di norma,
prima aveva ritenuto che dal contratto collettivo discendessero norme pubbliche e generali e
poi aveva rilevato come il contratto collettivo valesse come tale solo nei confronti delle asso-
ciazioni stipulanti, che di contro non erano le destinatarie delle norme ivi stabilite.
84 CAPITOLO PRIMO

4. Considerazioni conclusive
Al termine di questa prima fase del nostro lavoro dedicata allo stu-
dio dell’esperienza giuridica dell’interesse collettivo a cavallo tra Otto-
cento e Novecento, prima di procedere innanzi passando all’esame del
successivo dibattito avviatosi dopo l’approvazione della nostra Carta co-
stituzionale, è opportuno evidenziare le questioni di maggior rilievo che
sino ad ora sono emerse.
Già sul piano storico-evolutivo ci sembra interessante notare come
le numerose e preziose indicazioni di metodo e propriamente ricostrut-
tive che ci giungono dall’autorevole dottrina poc’anzi esaminata siano
state assai poco valorizzate dalla riflessione più recente, la quale – a par-
tire dagli anni Settanta in poi – ha visto nel tema della tutela degli inte-
ressi collettivi e diffusi un fenomeno nuovo ed inesplorato, quando in
realtà molte delle problematiche su cui tuttora ci si interroga erano state
già oggetto di studio diverso tempo addietro186.
Nel prosieguo del lavoro su molte di queste questioni avremo più
volte occasione di tornare, per cui è inopportuno che queste siano ora in-
vestite da una profonda riflessione critica; peraltro, non ci si può esone-
rare dal rilevare come già nel periodo storico esaminato in questo primo
capitolo si palesino piuttosto chiaramente tutte le questioni attorno alle
quali si svilupperà l’itinerario tracciato dal dibattito successivo: a) confi-
gurazione strutturale dell’interesse collettivo con annesse ricadute in ter-
mini di titolatità-legittimazione ad agire; b) posizione giuridica dell’ente
esponenziale eventualmente legittimato ed oggetto del giudizio; c) limiti
soggettivi del giudicato.
Per ciò che riguarda il primo punto, sin d’ora emerge un aspetto ti-
pico del dibattito sulla nozione di interesse collettivo, ovvero l’eterno
conflitto che in esso si anima tra individuo e collettività; conflitto da se-
coli al centro della riflessione filosofica e politica della cultura occiden-
tale e che nel nostro ambito di studio si traduce – come ben vedremo più
avanti – nella contrapposizione tra nozione aggregata o unitaria dell’inte-
resse collettivo. Il punto sarà oggetto di ampia riflessione nel prosieguo
del lavoro, ma par certo che sin da questi primi momenti della riflessione
giuridica sul concetto di interesse collettivo si palesi chiaramente l’aspet-

186 Ciò forse è dovuto al marchio ideologico che rimane impresso sulla riflessione rela-
tiva al processo collettivo corporativo. Ma è proprio l’interelazione tra ideologia e strumenti
giuridici a rendere non solo utile ma veramente affascinante lo studio di questo periodo sto-
rico, in quanto lo studioso ha la possibilità di rilevare con nettezza le dinamiche di condizio-
namento sviluppatesi tra idee e strutture normative.
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 85

to drammatico della figura, ovvero l’eterno conflitto – noto alle dottrine


filosofiche, oltre che politiche e sociologiche – che in questo si agita tra
individuo e gruppo. L’interesse collettivo mostra il suo aspetto ontologi-
camente bifronte, che – come testimoniano le osservazioni di Mortara e
Redenti – sul piano processuale corrisponde all’alternativa tra legittima-
zione ad agire in via associativa o in via individuale.
Sotto questo profilo sono illuminanti le riflessioni di Cesarini Sforza
laddove indica il bisogno di «riflettere alla differenza che corre tra il con-
cepire una cosa come parte di un tutto unitario, e il concepirla come se-
parata dal tutto. La differenza è essenziale. Concepire gli individui come
parti di un tutto equivale a concepirli nella loro unificazione entro il
tutto. Ma se, invece, dal tutto si staccano le parti cioè gli individui, e cia-
scuno di essi viene considerato fuori dal tutto, quest’ultimo scompare.
[…] Ciò significa che noi non possiamo pensare contemporaneamente
l’individuo nella sua singolarità e come parte del tutto»187.
O l’interesse collettivo è – insomma – un quid unitario da intendersi
come separato ed autonomo rispetto all’interesse individuale che in esso
viene pertanto assorbito o è l’interesse individuale a prevalere sul collet-
tivo privandolo di autonomia concettuale.
In questo periodo storico diversi fattori premono sulle coscienze a
vantaggio della prima configurazione; e ciò sebbene all’interno di im-
postazioni definitorie non sempre pienamente volute o scevre di con-
traddizioni.
La concezione unitaria dell’interesse collettivo è opzione concet-
tuale estremamente utile nell’elaborazione del contratto collettivo come
atto complesso avanzata da Giuseppe Messina e a ciò consegue un’ac-
centuazione delle tensioni solidaristiche che pervadono il collettivo, non-
ché una concezione tendenzialmente astratta ed oggettiva dello stesso.
Quest’ultima concezione è successivamente favorita non solo dalle
innegabili premesse ideologiche e giuridiche che saranno proprie dell’or-
dinamento corporativo, ma anche dal fatto che gli studiosi si riferiscono
sempre a problematiche relative all’interpretazione, applicazione, crea-
zione, ecc. di regole contrattuali collettive; ovvero di regole volte a com-
porre in via astratta il conflitto di cui è parte l’interesse collettivo tipiz-
zato dalla norma contrattuale188.
L’interesse collettivo appare in questa veste già determinato e per-
fettamente oggettivato, sicché può ben esser percepito come «qualcosa

187 CESARINI SFORZA, Studi sul concetto di interesse generale, cit., p. 128 s.
188 Sulla distinzione tra interesse concreto ed interesse astratto, v. infra, cap. IV.
86 CAPITOLO PRIMO

esistente di per sé e perciò indipendente dai variabili criteri e gusti indi-


viduali»; realizzandosi, così, la «trasformazione dell’interesse in una spe-
cie di entità oggettiva, librantesi sopra le valutazioni dei singoli»189.
Quanto ora detto offre la spiegazione delle apparenti contraddizioni
che si ritrovano in Carnelutti, che, se, da un lato, accentua la natura ti-
pica dell’interesse collettivo sostenendo che esso «non appartiene a nes-
suno»190, dall’altro, risolutamente afferma che «tutto quello che si è detto
per dimostrare che esiste un interesse di categoria distinto dall’interesse
dei singoli membri di questo […] appartiene all’ordine delle illusioni»191.
E non è un caso, quindi, che proprio la posizione giuridica del sin-
dacato legittimato ad agire nel processo collettivo corporativo per la tu-
tela di un interesse sostanziale di incerta paternità, per un verso, porti
alla critica dell’orientamento teso a ricostruire la posizione dell’associa-
zione in termini di diritto soggettivo e, dall’altro, rappresenti un ostacolo
ricostruttivo non agevolmente superabile tanto per le opinioni limitatesi
al riconoscimento in capo all’associazione della qualità di parte in senso
formale quanto per quelle volte a intravedere nel sindacato un ente «por-
tatore» dell’interesse sulla falsa riga di ciò che avviene nel fenomeno
della rappresentanza politica degli interessi192.
Indipendentemente dalle difficoltà di determinazione del concetto
di interesse collettivo specie sotto il profilo della titolarità dello stesso e
dalle assolute incertezze che gravano sulla qualificazione dogmatica della
posizione giuridica da attribuire all’ente esponenziale legittimato ad
agire, resta comunque ferma l’importanza centrale che sotto il profilo del
metodo assume l’esatta determinazione dell’oggetto del giudizio.
Questo è un punto la cui centralità – come vedremo – non è tuttora
adeguatamente acquisita dalla dottrina contemporanea la quale troppo
frequentemente – specie quando è il momento di deteminare i rapporti
tra diversi giudizi193 – vede nell’interesse collettivo uno strumento di let-
tura del fenomeno giuridico in grado di assorbire ogni altro profilo di ri-
flessione.
189 CESARINI SFORZA, W., Studi sul concetto d’interesse generale, cit., p. 134.
190 CARNELUTTI, F., Teoria del regolamento, cit., p. 140.
191 CARNELUTTI, F., La funzione del processo del lavoro, cit., p. 117.
192 Il termine «portatore» riceve impiego, ad esempio, in CARNELUTTI, F., Teoria del re-

golamento collettivo, cit., p. 139; e in ROVELLI, F., La legge sulla disciplina giuridica dei rapporti
collettivi di lavoro, p. 301.
193 Si prenda come esempio il rapporto tra l’azione di repressione della condotta anti-

sindacale e l’azione individuale del singolo lavoratore o il rapporto tra l’azione a tutela degli
interessi collettivi dei consumatori e le azioni che al contrario spettano esclusivamente loro
(cfr. infra, cap. VII e cap. X).
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA PRE-COSTITUZIONALE 87

Fatto sta che l’itinerario sino ad ora esaminato chiaramente dimo-


stra, da un lato, l’assoluta imponderabilità di considerazioni impostate
sul piano meramente funzionale e, dall’altro, la chiarezza che viceversa
interviene allorché l’attenzione sia posta sui profili oggettivi del giudizio.
Si pensi, ad esempio, al dibattito relativo alla riforma del processo
probivirale; in cui la distinzione tra controversie collettive e controversie
individuali appariva pressoché impossibile se non ancorata all’esatta de-
terminazione dell’oggetto del giudizio che appunto per primo Redenti
chiariva essere la norma del contratto collettivo di lavoro colta ancor
prima o indipendentemente dalla singola controversia individuale.
Questione che – come visto poc’anzi – viene ripresa ed ulterior-
mente sviluppata dalla dottrina successiva che su tali basi elabora una
nozione di controversia giurisdizionale collettiva volta a tutelare l’«inte-
resse esemplare» appartenente al «chiunque» si trovi a far parte della ca-
tegoria194, o ancor più dalla dottrina che, valorizzando in termini più pro-
nunciati la particolare natura dell’oggetto del giudizio, riconduce l’atti-
vità giudiziale espletata alla produzione normativa piuttosto che
all’attuazione delle regole preesistenti del diritto obiettivo e alla tutela
degli interessi a queste riconnessi.
Nei prossimi due capitoli proseguiremo il nostro itinerario di studio
cercando di prestare attenzione proprio alle questioni indicate nelle con-
siderazioni poste a chiusura del presente capitolo ed in particolare alla
configurazione formale dell’interesse collettivo, nonché all’esatta deter-
minazione dell’oggetto dei giudizi volti a tutelarlo.

194 Su quest’aspetto, v. retro, § 3.2.2.


CAPITOLO SECONDO

LE VICENDE GIURIDICHE DELL’INTERESSE COLLETTIVO


NELL’ESPERIENZA POST-COSTITUZIONALE
SINO ALL’INIZIO DEGLI ANNI SETTANTA

SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. – 2. L’interesse collettivo nella Costituzione


repubblicana. – 3. «La Costituzione inattuata» e i rapporti tra interessi collettivi e
dottrina. – 4. La nozione di interesse collettivo nella dottrina giuslavorista post-co-
stituzionale. – 4.1. La nozione di interesse collettivo secondo Francesco Santoro
Passarelli. – 4.2. L’interesse collettivo come «combinazione» o «sintesi» degli inte-
ressi individuali. – 5. Altri studi sulla nozione di interesse collettivo. – 6. Interessi
collettivi e processo: il giudizio di repressione della concorrenza sleale. – 6.1. Corsi
e ricorsi storici: la sentenza della Corte di cassazione n. 171 del 5 febbraio 1948. –
6.2. Le diverse tesi sulla natura del giudizio di repressione della concorrenza sleale
ex art. 2598 c.c.: tesi «soggettive» e tesi «oggettive». – 6.3. La natura dell’azione
collettiva ex art. 2601 c.c. per le tesi «soggettive» dell’illecito. – 6.4. La natura del-
l’azione collettiva ex art. 2601 c.c. per le tesi «oggettive» dell’illecito. – 7. Consi-
derazioni conclusive.

1. Considerazioni introduttive
Il profilo storico delle vicende giuridiche dell’interesse collettivo dal
finire dell’Ottocento alla legislazione fascista mostra con nitidezza come
la spiegazione della comparsa e del tentativo di affermazione giuridica
della nozione debba essere ricercata in una risposta di adeguamento del
sistema ad una nuova categoria di bisogni ed ancor più al profilarsi di
una nuova dimensione dell’individuo all’interno dell’ordinamento.
D’altra parte, sebbene la ragionevole proiezione in avanti di tale li-
nea evolutiva dovrebbe indurre ad attendersi – nel passaggio dalla legi-
slazione fascista alla nuova fase costituzionale – un momento di ulteriore
maturazione dell’itinerario sinora tracciato, al contrario il periodo che va
dall’approvazione della Costituzione agli inizi degli anni Settanta si pa-
lesa fondamentalmente come un momento preparatorio di quello suc-
cessivo.
Il tema della tutela giuridica e giurisdizionale degli interessi collettivi
continua, infatti, a crescere fecondando essenzialmente motivi che già gli
90 CAPITOLO SECONDO

appartenevano nelle fasi anteriori, sicché – in effetti – per riscontrare una


reale accelerazione nello sviluppo della tematica occorre attendere il rin-
novarsi della sensibilità giuridica che avrà luogo qualche anno più avanti.
Ciò non toglie, peraltro, che anche all’interno di questo segmento
del percorso di affrancazione dal pregiuridico del concetto di interesse
collettivo sia dato rinvenire significativi elementi di riflessione in grado di
arricchire la nostra ricerca tanto sul piano storico-evolutivo, quanto sul
piano più propriamente speculativo.
Come avremo occasione di constatare, infatti, proprio sotto que-
st’ultimo profilo indicato sarà possibile individuare sin d’ora le due prin-
cipali questioni ricostruttive che gravano sul tema oggetto della nostra ri-
cerca impedendo che la tutela degli interessi sovraindividuali possa rag-
giungere un livello di effettività che al contrario essa merita.

2. L’interesse collettivo nella Costituzione repubblicana


Naturalmente il primo passo che può essere compiuto per avviarci
lungo questa ulteriore frazione del nostro percorso è verificare prelimi-
narmente il rapporto – in termini di riconoscimento ovviamente – che in-
tercorre tra interesse collettivo e testo della Costituzione. Così proce-
dendo, però, ovvero conducendo un esame propriamente testuale della
nostra Carta costituzionale non si conseguono risultati effettivamente ap-
paganti.
La formula «interesse collettivo», infatti, si presenta solo in riferi-
mento al diritto alla salute che viene appunto ad essere qualificato all’art.
32 anche come «interesse della collettività». Frequente, d’altro canto, è il
rinvio all’«interesse generale»; richiamato quest’ultimo all’art. 34, in ma-
teria di libertà di emigrazione, all’art. 42, in materia di espropriazione, al-
l’art. 43, in materia di servizi pubblici essenziali, di fonti di energia e si-
tuazioni di monopolio, all’art. 82, sul potere di inchiesta di ciascuna Ca-
mera ed, in materia di enti pubblici territoriali, all’art. 118. Ancor più
frequente è poi il riferimento al «sociale»; termine, quest’ultimo, che si
ritrova nel testo costituzionale all’art. 2, per ben tre volte all’art. 3 e, più
avanti, agli artt. 30, 38, 41, 42, 45, 46, 59, 99, 117 e 119.
L’estrema ampiezza semantica di tali formule lessicali, nonché la
loro eterogenea collocazione all’interno del testo costituzionale, impone
– d’altra parte – di accogliere una prospettiva di studio più selettiva.
In questo senso, ad esempio, si è orientata l’autorevole dottrina che,
lungo percorsi di studio quanto meno in parte conformi a quella ora se-
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA POST-COSTITUZIONALE 91

guita1, proprio col rimarcare la genericità delle formule or ora menzio-


nate rispetto al concetto proprio di interesse collettivo, ha indicato quale
direttiva di metodo idonea a far emergere l’apprezzamento superindivi-
duale degli interessi da parte della Costituzione il contrapporre la di-
mensione «collettiva» della persona con la dimensione puramente «indi-
viduale» della stessa2. Procedendo lungo questa direttrice, quindi, il rife-
rimento va in primo luogo rivolto all’art. 2, laddove «la Repubblica
riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia
nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità». Ed in questa
prospettiva andrebbero, quindi, rimarcate le disposizioni costituzionali
che colgono la dimensione sociale e collettiva dell’uomo nella tutela e nel
riconoscimento delle «collettività intermedie»3; quali ad esempio le auto-

1 CESARINI SFORZA, W., Gli interessi collettivi e la Costituzione, in Dir. lav., 1964, I,

p. 47 ss.
2 CESARINI SFORZA, W., Gli interessi collettivi e la Costituzione, cit., p. 48, che rileva

come l’«individuo» non sia mai nominato dal testo costituzionale.


3 La letteratura in materia di «formazioni sociali» è assai ampia e si snoda attraverso va-

rie direttrici, quali l’individuazione delle formazioni sociali costituzionalmente garantite,


quella relativa alla determinazione del ruolo delle formazioni sociali come strumento di svi-
luppo della persona, ed infine quella dei rapporti tra persona e formazioni sociali specie sotto
il profilo della tutela della prima nei confronti della seconda. Su queste problematiche, v.,
senza pretesa di completezza, BARILE, P., Associazione: I) Associazione (diritto di), in Enc. dir.,
III, Milano, 1958, p. 837 ss.; RESCIGNO, P., Le società intermedie, in Il mulino, 1958, p. 3 ss.;
in Persona, società intermedie e Stato, Roma, 1958, p. 50 ss. (ed ora in Persona e comunità,
Saggi di diritto privato, 1987, rist., Padova, p. 29 ss.); MORTATI, C., La persona, lo Stato e le co-
munità intermedie, Torino, 1959; LOMBARDI, G., Potere privato e diritti fondamentali, I, To-
rino, 1970; RESCIGNO, P., La tutela della personalità nella famiglia, nella scuola, nelle associa-
zioni, in AA.VV., Tutela della personalità nelle formazioni sociali, Perugia, 1972; BARBERA, A.,
Commento all’art. 2 Cost., in Commentario della Costituzione, Principi fondamentali, a cura di
G. Branca, Bologna-Roma, 1975, p. 50 ss.; BOBBIO, N., Libertà fondamentali e formazioni so-
ciali, Introduzione storica, in Pol. dir., 1975, p. 431 ss.; JEMOLO, A.C., Lo Stato, i gruppi, gli in-
dividui, in Aspetti e tendenze del diritto costituzionale, Scritti in onore di Costantino Mortati, I,
Milano, 1977, p. 183 ss.; PACE, A., Commento all’art. 18 Cost., in Commentario della Costitu-
zione, Rapporti civili, a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1977, p. 191 ss.; MORTATI, C., Note
introduttive ad uno studio sulle garanzie dei diritti dei singoli nelle formazioni sociali, in Studi
in onore di Salvatore Pugliatti, III, Diritto pubblico, Milano, 1978, p. 1563 ss.; PIZZORUSSO, A.,
Stato, cittadino, formazioni sociali: introduzione al diritto pubblico, Bologna, 1979; BUONCRI-
STIANO, M., Profili della tutela civile contro i poteri privati, Padova, 1986; ROSSI, E., Le forma-
zioni sociali nella Costituzione italiana, Padova, 1989; D’ALESSIO, Commento all’art. 2 Cost., in
Commentario breve alla Costituzione, a cura di V. Crisafulli e L. Paladin, Padova, 1990, p. 10
s.; PEDRAZZA GORLERO, M., Libertà costituzionali e democrazia interna nelle formazioni sociali,
in Dir. e soc., 1992, p. 257 ss.; RESCIGNO, P., Le formazioni sociali intermedie, in Riv. dir. civ.,
1998, I, p. 301 ss.; LEVI, G., Le formazioni sociali, Milano, 1999. Da ultimo, v. ancora ROSSI,
E., Commento all’art. 2 Cost., in Commentario alla Costituzione, I, Milano, 2006, p. 38 ss.
92 CAPITOLO SECONDO

nomie locali (art. 5), le minoranze linguistiche (art. 6), le confessioni e le


associazioni religiose (artt. 8 e 20), le libere associazioni di cittadini (art.
18), la famiglia (art. 29), la scuola (art. 34); le società mutue cooperative
(art. 45), i partiti politici (art. 49), e soprattutto le organizzazioni sinda-
cali (art. 39); ambito, quest’ultimo, in cui da subito la dottrina ha rilevato
la sede normativa – assieme con il seguente articolo in materia di scio-
pero – in cui massimamente le garanzie costituzionali si presentano ri-
volte alla tutela di interessi collettivi4.
D’altra parte, pur procedendo in questo senso, non si aprono sce-
nari di riflessione particolarmente suggestivi in ordine agli obiettivi della
nostra ricerca; e ciò, forse, in ragione del fatto che tale direttrice di stu-
dio postula una contrapposizione tra due distinte modalità di apprezza-
mento del soggetto che non sembra corrispondere alla dimensione entro
cui viene ad essere accolto l’uomo dal dettato costituzionale; cosa peral-
tro dimostrata dalla circostanza che di «interesse individuale» non si
parla mai e che l’«interesse collettivo» è presente solo nel fugace cenno
poc’anzi riferito. Al contrario i tre principi fondamentali a cui si ispira
l’architettura costituzionale, ovvero il principio personalistico, democra-
tico e pluralistico, tendono a dare un’immagine assolutamente integrata
ed armonizzante – piuttosto che contrapposta e divaricante – delle due
dimensioni dell’uomo poc’anzi indicate; ed in ciò il concetto di parteci-
pazione – previsto tanto in sede di articolo 3, al 2° comma, quanto nel già
citato art. 2, proprio laddove le formazioni sociali sono assunte come
luogo di svolgimento della personalità – si pone come momento di sutura

4 In questo senso, v. significativamente CESARINI SFORZA, W., Gli interessi collettivi e la


Costituzione, cit., passim, ma anche CHIARELLI, G., Gli interessi collettivi e la Costituzione, in
Dir. lav., 1966, I, p. 3 ss., i cui contributi, alla ricerca delle forme di tutela degli interessi col-
lettivi apprestate all’interno del dettato costituzionale, concentrano l’indagine, nella sostanza
solo sugli artt. 39 e 40 Cost. Sulle connessioni tra interesse collettivo e libertà sindacale ex art.
39 Cost., v. soprattutto GIUGNI, G., Commento all’art. 39 Cost., in Commentario della Costi-
tuzione, Rapporti economici, I, a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1979, p. 257 ss., spec.
266; ma sul punto torneremo ampliamente infra, in materia di procedimento per la repres-
sione della condotta antisindacale, ovvero nel cap. VII. Va però detto che la dottrina si è in-
teressata al rapporto tra interessi collettivi e Costituzione in particolar modo a partire dagli
anni Settanta in poi ed in tale contesto la dimensione sovraindividuale degli interessi ivi tute-
lati – di regola strettamente connessa anche con il tenore non patrimoniale degli stessi – è
stata rimarcata – sebbene con diversi accenti ed esiti – da quasi tutti gli studiosi intervenuti
sul punto. Più nello specifico, v. RECCHIA, G., Considerazioni sulla tutela degli interessi diffusi
nella Costituzione, in La tutela degli interessi diffusi nel diritto comparato con particolare ri-
guardo alla protezione dell’ambiente e dei consumatori (Atti del convegno di Salerno, 22-25
maggio 1975), Milano, 1976, p. 27 ss.
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA POST-COSTITUZIONALE 93

tra le due possibili proiezioni della persona. Non casualmente, difatti,


come avremo occasione di rilevare nel prossimo capitolo, proprio nell’i-
stanza partecipativa la dottrina dedicatasi allo studio della nostra tema-
tica a partire dagli anni Settanta in poi ha ritenuto opportuno individuare
uno dei fondamenti costituzionali primari per promuovere l’introduzione
e l’ampliamento degli strumenti di tutela giurisdizionale degli interessi
collettivi.
Va peraltro detto che la prospettiva di studio che anima questo la-
voro induce ad un approccio ancor più selettivo; appunto intento a veri-
ficare quale sia lo specifico rapporto tra interesse collettivo e tutela giuri-
sdizionale. Per dirla con altre parole, sembrerebbe particolarmente op-
portuno constatare in quale misura l’interesse collettivo possa essere
predicato – alla luce del dettato costituzionale – in termini di situazione
giuridica sostanziale bisognosa di tutela.
Ma giungendo su questo piano di studio l’unico riferimento pre-
sente è il già citato art. 32 Cost., laddove la tutela della salute viene ad es-
sere qualificata non solo come «fondamentale diritto dell’individuo», ma
anche come «interesse della collettività».
Nessuna apertura, poi, è dato riscontrare nella norma che più delle
altre attrae le nostre attenzioni, ovvero la norma che riconosce la garan-
zia costituzionale dell’azionabilità in giudizio delle situazioni giuridiche
sostanziali: quell’art. 24 della Costituzione che pone l’azione – e con essa
la tutela giurisdizionale – al servizio dei diritti soggettivi e degli interessi
legittimi.
Autorevole dottrina, riguardo l’impalcatura giuridico-concettuale
che caratterizza la nostra Costituzione, ha ritenuto opportuno porre in ri-
salto la sussistenza di una «contraddizione […] fra l’ideologia dei costi-
tuenti e la loro cultura giuridica, fra un ispirazione ideologica che supe-
rava la vecchia concezione liberale dello Stato e una cultura giuridica an-
cora pienamente liberale, fra un’ispirazione ideologica e politica animata
da volontà di futuro e una cultura giuridica innestata su una malcelata
nostalgia della grande tradizione della scienza giuridica prussiana»5; con-

5 BARBERA, A., Commento all’art. 2 Cost., cit., p. 60, che sottolinea come, d’altra parte,

dietro le posizioni dei costituenti vi fossero «posizioni culturali sviluppatesi dopo la crisi del-
l’ideologia liberale: le elaborazioni del cattolicesimo sociale francese (e soprattutto di Mari-
tain e Mounier), le elaborazioni del corporativismo cattolico italiano (da Toniolo a Murri), il
socialismo tecnocratico e liberale di Beveridge, il mazzinianesimo, la riscoperta del valore uni-
versale delle libertà borghesi da parte della cultura marxista, la formazione crociana di diri-
genti comunisti, le lezioni sulla libertà di Gaetano Salvemini e Guido De Ruggiero». Si sotto-
linea anche come «le due grandi correnti culturali, cattolica e marxista, che hanno dominato
94 CAPITOLO SECONDO

traddizione che avrebbe favorito il perpetuarsi di una propensione cultu-


rale ancora incentrata sulla dialettica Stato-individuo e conseguente-
mente tributaria della «dottrina della libertà come diritti pubblici sog-
gettivi» e altresì preoccupata «di dare ai diritti di libertà strutture dog-
matiche […] analoghe al diritto di proprietà, inteso […] come
espressione massima dei diritti soggettivi se non come schema generale
dello stesso diritto»6.
È difficile negare che la lettura proposta, al di là di un possibile giu-
dizio esteso a tutta l’impalcatura costituzionale, non possa essere signifi-
cativamente accostata a quanto previsto nel testo del primo comma del-
l’art. 24 Cost.
In quest’ultimo il collegamento strumentale del diritto di azione al
diritto soggettivo e all’interesse legittimo può – sotto un certo profilo –
essere letto proprio come un residuo di una concezione di impronta in-
dividualistica dei rapporti giuridici secondo la quale l’individuo, posto al
centro del sistema, è contrapposto, da un lato, ad altri individui (conce-
piti come solito nella loro dimensione isolata ed astratta) e, dall’altro, allo
Stato. Il rapporto dialettico emergente sarebbe pertanto quello indivi-
duo-individuo o individuo-Stato.

la Costituente rinunziarono purtroppo a rinvenire un comune terreno di intesa che riflettesse


originalmente le rispettive posizioni; il terreno di intesa che si troverà non è certo il frutto, nel
settore delle libertà, di un compromesso fra le due posizioni: è piuttosto il frutto del comune
convergere verso le antiche e rassicuranti posizioni liberali, opportunamente aggiornate. Tra
l’altro, dietro i Costituenti stava anche una comune cultura giuridica liberale frenante e de-
viante; quella cultura, la quale, appunto, si era espressa attraverso l’assimilazione, da parte sia
di giuristi che di politici del costituzionalismo francese (per il tramite soprattutto di Orlando)
e tedesco (per il tramite soprattutto di Ranelletti). Dal primo era stata assimilata la abbaci-
nante fiducia nella legge, quale strumento principe di garanzia delle libertà; dal secondo l’in-
genua fiducia nella impalcatura dei diritti pubblici subiettivi, quale sicuro e robusto argine
nei confronti del prepotere statale». Similmente, GHISALBERTI, C., Storia costituzionale d’Italia
1848/1948, Bari, 1997, p. 410 ss., per il quale «malgrado il rifiuto della tradizione liberale e
la contestazione degli schemi statutari da parte delle forze politiche […] la Costituente volle
e seppe salvare il principio della continuità dello Stato». «Tale continuità – si aggiunge – ap-
parve fondata sulla visione della Resistenza come di un secondo Risorgimento»; così, «sul
piano contenutistico […] la costituzione repubblicana elaborata dall’assemblea costituente fi-
niva con l’apparire nella linea di svolgimento e di sviluppo di quel costituzionalismo liberale
nato nel Risorgimento». Con il risultato che «le novità totali o parziali introdotte dalla costi-
tuzione repubblicana nel nostro diritto pubblico apparvero quasi immediatamente come il
completamento e il perfezionamento degli istituti essenziali sui quali si era venuto costruendo
e sviluppando l’apparato statale italiano […]».
6 Per approfondimenti sul rapporto tra modelli costituzionali e cultura giuridica v. il vo-

lume collettaneo Scelte della Costituente e cultura giuridica, I, Costituzione Italiana e modelli
stranieri, a cura di U. De Siervo, Bologna, 1980.
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA POST-COSTITUZIONALE 95

Questa prospettiva sembra essere anche confermata dal dibattito,


svoltosi in sede di Assemblea costituente, attorno alla formulazione del-
l’art. 19 del Progetto di Costituzione7 e provocato da Codacci Pisanelli
nella seduta pomeridiana del 28 marzo del 19478. Questi, infatti, rimar-
cando l’essenzialità della distinzione tra interessi giuridicamente rilevanti
(ed in quanto tali tutelabili in via giurisdizionale) e interessi giuridica-
mente irrilevanti (e quindi non azionabili in giudizio), evidenziò l’oppor-
tunità di modificare l’art. 19 del Progetto, prevedendo una formulazione
più lata, secondo la quale l’articolo citato avrebbe dovuto disporre che
«tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi
giuridicamente protetti».
La tesi dell’Autore ora indicato puntava a richiamare l’attenzione
dei Costituenti sull’esistenza di ipotesi – sempre più frequenti – di inte-
ressi pur giuridicamente rilevanti ma ciononostante non riconducibili alla
figura del diritto soggettivo. Se, difatti, l’interesse legittimo era espres-
sione di un primo ampliamento della tutela giurisdizionale degli interessi
dell’uomo nei confronti del potere della pubblica amministrazione, d’al-
tra parte, le più recenti esigenze di tutela parimenti indicavano interessi
sostanziali sempre più bisognosi di protezione giuridica e con significa-
tive affinità strutturali con l’interesse legittimo di diritto amministrativo.
Esemplificazioni di questo fenomeno venivano indicate nei poteri di im-
pugnativa negoziale rimessi a «coloro che ne abbiano interesse», oppure
nella figura dell’abuso del diritto, se non anche nel divieto di atti emu-
lativi.
In altre parole si richiamava l’attenzione sulla mancata esaustività
della formula «diritto soggettivo», dovendosi al contrario estendere la ga-
ranzia costituzionale del diritto di azione anche agli interessi meritevoli
di tutela non riconducibili a tale contenitore classificatorio.
D’altra parte, come lo stesso attuale disposto del primo comma del-
l’art. 24 sta tuttora a dimostrare, il suggerimento avanzato da Codacci Pi-

7 Sul punto, v. COMOGLIO, L.P., Commento all’art. 24 Cost., in Commentario della Co-
stituzione, Rapporti civili, a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1981, p. 1 ss., ma spec. p. 18
ss.; ID., La garanzia costituzionale dell’azione ed il processo civile, Padova, 1970, p. 105 ss.; per
il Progetto di Costituzione v. il Commentario sistematico alla Costituzione italiana, I, Firenze,
1950, a cura di P. Calamandrei e A. Levi, p. XI ss.
8 Atti dell’Assemblea costituente, seduta pomeridiana di venerdì 28 marzo 1947, in La

Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, I, Roma, 1970,
p. 721 ss. Sul ruolo di Codacci Pisanelli nella formazione della nostra Carta fondamentale, v.
WOJETEK PANKIEWICZ, A., Codacci Pisanelli e la Costituente, Napoli, 1995.
96 CAPITOLO SECONDO

sanelli – sebbene accolto da taluni esponenti dell’Assemblea9 – venne co-


munque respinto10.
Ma l’interesse che tuttora riveste l’episodio appena richiamato non
sta tanto – o solo – nel suo esito conclusivo, quanto nella circostanza che
tramite le parole del giurista romano, la tematica della c.d. «crisi» del di-
ritto soggettivo – sulla quale avremo occasione di ritornare ed entro cui
è ben possibile ricondurre la stessa domanda di tutela degli interessi su-
perindividuali – lasciava un segno anche sul percorso di elaborazione
della norma fondativa dei principi che tuttora governano i rapporti tra
diritto e processo nel nostro ordinamento.
In altri termini, proprio l’episodio or ora riportato potrebbe indurre
a rilevare nel superamento della prospettiva indicata da Codacci Pisanelli
la riaffermazione in sede di art. 24 Cost. di quella concezione individua-
listica tradizionale, a cui poc’anzi ci si riferiva, effettivamente antitetica,
oltre che ostativa, al riconoscimento dell’interesse collettivo quale situa-
zione giuridica tutelata.
Posto, peraltro, che un interrogativo di tal fatta potrà essere convin-
centemente sciolto solo in uno stadio più avanzato del nostro lavoro, va
sin d’ora detto che se si propendesse per la lettura ora indicata, si incor-
rerebbe in un errore interpretativo di particolare gravità.
9 Il suggerimento fu accolto in seguito, nella seduta antimeridiana del 15 aprile del 1947,
dall’on. Domenidò, che, sulla scia di Codacci Pisanelli, propose anch’egli di modificare l’art.
19 del progetto, ritenendo di doversi sostituire le parole «diritti e interessi legittimi» con «di-
ritti e interessi» o, come già proposto da Codacci Pisanelli, con «diritti e interessi giuridica-
mente protetti»; cfr. Atti dell’Assemblea costituente, seduta antimeridiana di martedì 15 aprile
1947, in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, cit.,
p. 888 ss. Va peraltro ricordato che lo stesso Calamandrei, riprendendo riflessioni già emerse
nel noto saggio su La relatività del concetto di azione (in Riv. dir. proc., I, 1939, p. 22 ss., ora in
Opere giuridiche, I, Napoli, 1965, p. 427 ss.), osservava nel suo intervento nella Seduta pome-
ridiana di giovedì 9 gennaio 1947 (in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori del-
l’Assemblea Costituente, VIII, Commissione per la Costituzione, Seconda Sottocommissione. Se-
conda Sezione, Roma, 1971, p. 1985) quanto segue : «è difficilissimo capire esattamente dove
finisca il compito della magistratura ordinaria e dove cominci quello delle Sezioni Giurisdizio-
nali del Consiglio di Stato. La differenza tra diritto soggettivo ed interesse legittimo va diven-
tando sempre più capillare e sottile. Una differenza sostanziale vi poteva essere quando vi era
una netta distinzione tra il diritto pubblico ed il diritto privato; ma quando, come avviene at-
tualmente in una quantità sempre maggiore di rapporti, gli istituti del diritto pubblico si vanno
rivestendo di carattere privato e in istituti che erano prima di puro interesse privato si va sem-
pre più infiltrando l’interesse collettivo, riesce difficilissimo vedere fin dove arrivi il diritto sog-
gettivo e dove invece cominci l’interesse occasionalmente protetto».
10 V. la secca replica di Tupini, in Atti dell’Assemblea costituente, seduta antimeridiana
di martedì 15 aprile 1947, in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’As-
semblea Costituente, cit., p. 892: «L’innovazione proposta […] pecca di imprudenza e le av-
venture nel campo del diritto sono sempre da evitare».
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA POST-COSTITUZIONALE 97

La conferma giunge proprio dall’intervento di Codacci Pisanelli.


Se tale intervento, infatti, da un certo punto di vista può essere in-
teso come un’occasione mancata in ordine all’inserimento di una formula
più ampia che presumibilmente avrebbe potuto favorire il riconosci-
mento e la tutela degli interessi sovraindividuali, d’altra parte, è altret-
tanto agevole – oltre che maggiormente corretto – rilevare nelle parole di
Codacci Pisanelli quella stessa ingiustificatamente rigida impostazione
dogmatica che qualche anno più avanti avrebbe condotto gran parte
della dottrina a sostenere la non riconducibilità degli interessi collettivi
alle figure concettuali tradizionalmente impiegate nell’opera di sistema-
zione del nostro ordinamento.
Senza ampliare il discorso a riflessioni critico-ricostruttive che se-
guiranno nei capitoli a venire11, basti al momento osservare come la po-
sizione di Codacci Pisanelli possa essere valutata come «progressista»
solo in un senso apparente. Nel rimarcare, infatti, la non riconducibilità
di talune tipologie di interessi sostanziali – pur meritevoli di tutela – al
concetto di diritto soggettivo andava riaffermandosi una concezione di
impronta tipicamente proprietaria del concetto richiamato12, che, pro-
prio nell’escludere la tutelabilità di esigenze sociali diverse, imponeva la
creazione di figure giuridiche nuove.
In altri termini, l’errore insito nella prospettiva indicata dal Costi-
tuente era quello di riferire il concetto di diritto soggettivo non ad una
realtà tecnico-giuridica idonea ad adeguarsi – in quanto categoria ordi-
nante apicale del sistema – ai diversi contenuti di tutela di volta in volta
promossi dall’ordinamento, ma a contenuti di tutela specifici e storica-
mente determinati.
Come meglio vedremo più avanti, invece, la strada più corretta da
seguire – ancor più in forza di quanto disposto dall’art. 24 Cost. – è ve-
dere nella formula «diritto soggettivo» l’indicazione di un contenitore
classificatorio in grado di accogliere ogni tipologia di interessi giuridica-
mente rilevanti in relazione ai diversi contenuti che questi possono di
volta in volta assumere13; contenuti che appunto vanno tratti da tutte le

11 Cfr. in particolare i capp. IV-VI.


12 Ciò è palese nel riferimento agli atti emulativi, all’abuso del diritto e all’interesse le-
gittimo di diritto privato; figure giuridiche che trovano tutte la loro ragion d’essere in una
concezione del diritto soggettivo come posizione attiva di libertà, la quale entra immediata-
mente in crisi ogni qual volta si trovi innanzi a fenomeni giuridici diversi quali – senza andar
troppo lontano – gli stessi diritti di credito. Sul punto, v. infra, cap. V.
13 Sulla opportunità di leggere in senso estensivo le formule inserite nel primo comma

dell’art. 24 Cost., v., per tutti, ancora COMOGLIO, L.P., La garanzia costituzionale dell’azione ed
98 CAPITOLO SECONDO

fonti di diritto idonee a darvi consistenza, tra cui in primo luogo la stessa
Costituzione, ed anche – ovviamente – laddove tali contenuti testimo-
niano la dimensione ultra-individuale dell’interesse che viene ad assu-
mere prevalenza nella regolamentazione giuridica del conflitto di aspi-
razioni14.

3. «La Costituzione inattuata» e i rapporti tra interessi collettivi e dot-


trina
Esaminato – seppur per brevi cenni preliminari – il rapporto tra in-
teressi collettivi e Carta costituzionale, un’eccellente rappresentazione
dei tratti storico-evolutivi tipici del dibattito dottrinale svoltosi durante il
periodo ora in esame ci è offerta dalle riflessioni che due insigni perso-
nalità della stessa Assemblea costituente svolgevano di lì a breve circa la
concreta incidenza del nuovo corso ordinamentale sulle istituzioni civili e
politiche del nostro Paese.

il processo civile, cit., p. 107; e soprattutto ID., Commento all’art. 24 Cost., cit., p. 18 ss., in cui
si afferma che la formulazione dell’articolo 24 «si presta agevolmente ad un’operazione ri-
duttiva, la quale, anche nell’ottica costituzionale, al diritto soggettivo perfetto tende a con-
trapporre, o ad affiancare, l’interesse legittimo in senso proprio», ma «ad un’analisi meno su-
perficiale non sfugge, però, che il vero significato, “innovatore” e funzionale, della norma è
dato non tanto (o non soltanto) dal fatto di consacrare solennemente nella Costituzione una
distinzione subiettiva di fondamentale rilievo nell’evoluzione storica delle guarentigie indivi-
duali, quanto piuttosto dall’esigenza di offrire un’efficace “copertura” garantistica a qualsiasi
posizione di vantaggio, individuale o collettiva, comunque e da chiunque azionabile in giu-
dizio».
14 È quindi vero che la formulazione dell’art. 24 risentiva di un’impostazione tradizio-

nalistica della tutela giurisdizionale e delle situazioni giuridiche soggettive, ma ciò – come vi-
sto anche alla nota che precede – non autorizza la lettura delle formule impiegate al di fuori
di una necessaria opera di storicizzazione da condursi tenendo presenti proprio quegli stessi
valori sostanziali emergenti dal dettato costituzionale. In conclusione, quindi, palesi sono le
eredità della secolare tradizione giuridica in riferimento alla formulazione letterale del primo
comma dell’art. 24 Cost., ma come sottolineato dalla dottrina che si è interrogata sui precisi
limiti di influenza di detta tradizione giuridica (DE SIERVO, U., Introduzione, in Scelte della Co-
stituente e cultura giuridica, I, Costituzione Italiana e modelli stranieri, a cura di U. De Siervo,
Bologna, 1980, spec. p. 16 s.), nello studio delle disposizioni costituzionali, occorre evitare di
far uso di un metodo di studio che «colga» i diversi istituti in una prospettiva antistorica e
che si riveli incapace di inserirli nel più ampio assetto istituzionale proposto dalla Costitu-
zione. Non v’è dubbio, dunque, che i diversi istituti possono (ed aspirino ad) accogliere nuovi
contenuti se illuminati da diverse luci. Così, se le illuminanti luci sono quelle – ad esempio –
dei principi personalistico, pluralistico e solidaristico (che gli articoli, specie 2 e 3, proiettano
su tutto l’edificio costituzionale), anche formule – quali in particolare quella del diritto sog-
gettivo – altamente emblematiche ed evocative acquistano colori e toni inusitati.
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA POST-COSTITUZIONALE 99

Osservava, ad esempio, Piero Calamandrei che «[…] caduto il fasci-


smo e la monarchia, […] non vi era stata una rivoluzione che avesse co-
minciato dal far tabula rasa di tutto l’ordinamento precedente, per poi
mettersi a ricostruire con nuovi materiali su un terreno sgombro dalle
macerie. […] Al contrario, la nuova Costituzione si appoggiava in gran
parte su antiche mura in rovina: dietro le nuove facciate c’erano ancora
le vecchie stanze, nelle quali erano rimasti ad abitare, o sarebbero tornati
dopo breve assenza, i soliti padroni»15.
A breve distanza dall’approvazione della nostra Carta fondamentale,
dunque, veniva lanciato il tenace invito ad abbandonare lo «spirito del
rinvio» che sino ad allora aveva ostacolato l’attuazione ed il pieno con-
cretamento del disegno costituzionale. «Spirito del rinvio» che induceva
l’illustre studioso a rilevare amaramente come la «continuità giuridica
dello Stato» – limitata ed effettivamente recisa solo nella «forma dei su-
premi organi costituzionali» – non fosse stata spezzata ad altri livelli del-
l’ordinamento giuridico post-costituzionale.
Non meno accorati erano i toni della critica mossa avverso il sistema
politico e di potere da parte di Giuseppe Dossetti, che in un celebre in-
tervento sulle funzioni dello Stato moderno rilevava che all’indomani
della fine del conflitto mondiale «in brevissimi mesi veniva contenuta la
spinta rinnovatrice, e, in pochi anni, progressivamente compressa sino ad
essere praticamente annullata […] quasi ovunque», e ciò per il fatto che
«mentre le forze propulsive, o almeno quelle sanamente propulsive […]
del rinnovamento statale hanno già subito un forte logorio in pochissimi
anni, o, se si vuole hanno già mostrato la loro insufficienza di contenuto
spirituale e di peso materiale, per contro i gruppi e le forze sociali più in-
teressate alla conservazione del vecchio Stato hanno ormai saputo adat-
tarsi alla nuova situazione e reinserirsi in essa»16.
Se, dunque, la storia istituzionale del nostro Paese andava regi-
strando difficoltà, resistenze e movimenti di segno involutivo, un feno-
meno non dissimile interessava anche lo sviluppo della scienza giuridica
successivamente al gennaio del 1948.
Era, infatti, il momento della polemica – giocata tra revisionisti (la
maggioranza) e abrogazionisti (la minoranza) – sul carattere fascista dei

15 CALAMANDREI, P., La Costituzione e le leggi per attuarla, in Opere giuridiche, a cura di


M. Cappelletti, Napoli, 1968, p. 511 ss., cit., p. 519.
16 DOSSETTI, G., Funzioni e ordinamento dello Stato moderno, in Funzioni e ordinamento

dello Stato moderno, Atti del Convegno Nazionale di studio, 12-14 novembre 1951, Roma,
1961, ma agevolmente reperibile anche su internet.
100 CAPITOLO SECONDO

codici dati alla luce durante il regime17; il momento della disputa sulla
natura precettiva o programmatica delle norme costituzionali (risolta
solo nel 1956 con la prima sentenza della Corte costituzionale); il mo-
mento di una riflessione dottrinale ancora legata – sul piano tanto cultu-
rale che metodologico – alla tradizione pandettistica inaugurata negli
anni Venti e Trenta; una tradizione, per un verso, formalistica ed ostile ad
introdurre nel procedimento di costruzione del sistema i criteri di vali-
dità sostanziale veicolati dalla Carta costituzionale18 e, dall’altro, incapace
di offrire adeguate risposte «elastiche» al rapido evolversi e diversificarsi
della realtà sociale19.
In altri termini, come generalmente riconosciuto20, tra le istanze di
mutamento e i profili di continuità, la scienza giuridica, successivamente

17 Sull’argomento, anche per gli opportuni riferimenti, v. GROSSI, P., Scienza giuridica

italiana, Un profilo storico 1860-1950, Milano, 2000, p. 287 ss.; ALPA, G., La cultura delle re-
gole, Storia del diritto civile italiano, Roma-Bari, 2000, p. 323 s.
18 Estremamente chiaro sul punto è FERRAJOLI, L., La cultura giuridica nell’Italia del No-

vecento, Roma-Bari, 1999, p. 55, che indica al lettore il «mutamento di paradigma dello stesso
diritto positivo indotto dalla Costituzione. Ess[o] consiste nella rottura dei due antichi dogmi
della coerenza e della completezza dell’ordinamento che il vecchio modello pandettistico af-
fidava all’opera d’interpretazione e ricostruzione sistematica della scienza giuridica. La costi-
tuzione, infatti, equivale a un diritto sul diritto, che altera la struttura formale dell’ordina-
mento, codificando i principi assiologici cui la stessa legislazione è obbligata a uniformarsi».
19 Così, di recente, ALPA, G., La cultura delle regole, cit., p. 324; sostanzialmente anche

GROSSI, P., Scienza giuridica italiana, cit., p. 281.


20 L’assoluta prevalenza della cultura giuridica di impostazione pandettistica nel pe-

riodo successivo all’approvazione della Costituzione e la sua opera di resistenza alla penetra-
zione nell’ordinamento dei valori costituzionali è giudizio che riceve ampli ed autorevoli con-
sensi: ALPA, G., La cultura delle regole, cit., p. 324 ss.; FERRAJOLI, L., La cultura giuridica, cit.,
p. 58, che rileva come «almeno fino a tutti gli anni sessanta, il tecnicismo giuridico si ricon-
ferma insomma come l’abito “scientifico” del giurista, grazie al quale lo Stato e il diritto pos-
sono essere ancora sottratti alla politica, cui viene ora associata la costituzione, e la scienza
giuridica può celebrare, autoreferenzialmente, la propria continuità. Perfino la filosofia giuri-
dica e la nascente teoria generale del diritto sembrano ignorare la costituzione ed il costitu-
zionalismo. Prova ne sia che la stessa rivolta contro il giuspositivismo, espressa nei primi anni
cinquanta da quanti ad esso addebitavano d’aver avallato o comunque non frenato gli orrori
del nazismo, non trovò di meglio che proporre l’antica strada di un improbabile “ritorno al
diritto naturale”»; GROSSI, P., Scienza giuridica italiana, cit., p. 281; PATTI, S., Codificazioni ed
evoluzione del diritto privato, Roma-Bari, 1999, p. 17. Vedi anche gli scritti di IRTI, N., raccolti
in Scuole e figure del diritto civile, Milano, 2002. Nello stesso senso la dottrina processualcivi-
listica: v. ad es. TARUFFO, M., La giustizia civile in Italia dal ‘700 a oggi, Bologna, 1980, p. 314,
che cita la conforme opinione di DENTI, V., Intervento, in Atti del IX Convegno Nazionale
dell’Associazione tra gli studiosi del processo civile, Milano, 1974, p. 87 ss. e PROTO PISANI, A.,
Il processo di cognizione a trent’anni dal codice, la dottrina, ivi, p. 18 ss., di cui v. anche Il co-
dice di procedura civile del 1940 fra pubblico e privato: una continuità nella cultura processual-
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA POST-COSTITUZIONALE 101

all’approvazione della Carta costituzionale, si orientava di certo nel dar


prevalenza ai secondi.
Per assistere all’opera di costituzionalizzazione del diritto civile so-
stanziale e processuale si sarebbe dovuto attendere – come noto – «la
svolta» degli anni Settanta, arco temporale in cui la «riscoperta» della
Costituzione avrebbe condotto ad una nuova lettura del sistema, ispirata
– ora sì – ai nuovi valori da tempo in attesa di riconoscimento effettivo21;
operazione scientifica e culturale a cui peraltro – come vedremo nel pros-
simo capitolo – anche l’esplosione del dibattito sugli interessi collettivi e
diffusi deve essere di certo ricondotta.
Ciò detto, comunque, la tematica della tutela degli interessi collet-
tivi, quale tematica che già numerosi frutti aveva offerto in sede dottri-
nale e legislativa ancor prima della nascita del nuovo ordinamento costi-
tuzionale, pur non potendosi ancora avvantaggiare della effettiva attua-
zione e realizzazione dottrinale e legislativa del medesimo, proprio nel
prevalere della «continuità» sul «mutamento»22 veniva a trovare un clima
culturale ugualmente idoneo a favorirne un ulteriore sviluppo scientifico.

4. La nozione di interesse collettivo nella dottrina giuslavorista post-co-


stituzionale
4.1. La nozione di interesse collettivo secondo Francesco Santoro Passarelli
Tali profili di continuità con il dibattito pre-costituzionale sono in
primo luogo rappresentati dagli studi che Francesco Santoro Passarelli
svolse in materia di diritto del lavoro a partire dagli anni Cinquanta23;

civilistica rotta con cinquanta anni di ritardo, in Quaderni fiorentini, 1999, p. 712 ss., ma spec.
– per la questione che qui preme evidenziare – p. 734 ss. Sul punto, v. anche infra, cap. III,
§§ 3. ss.
21 Sul tema, v. di recente PERLINGIERI, P., La dottrina del diritto civile nella legalità costi-

tuzionale, in Rass. dir. civ., 2007, p. 497 ss. Cfr. anche GALGANO, F., Il diritto privato tra codice
e Costituzione, Bologna, 1988; FERRAJOLI, L., Per un costituzionalismo di diritto privato, in Riv.
crit. dir. priv., 2004, p. 11 ss.
22 Per un esame storico attento a cogliere, nel periodo immediatamente successivo al-

l’entrata in vigore della Costituzione, lo sviluppo storico della scienza giuridica italiana se-
condo le linee sinusoidali dell’alternanza e dei rapporti di prevalenza tra «continuità» e «mu-
tamento», v. ancora GROSSI, P., Scienza giuridica italiana, cit., p. 275 ss.
23 Autore a cui si deve – come puntualmente osservato – la «rifondazione del diritto del

lavoro nel nuovo ordinamento democratico» (così, BENEDETTI, G., Elogio di un civilista con-
vinto: una testimonianza del sistema scientifico di F. Santoro-Passarelli, in Riv. dir. priv., 1996,
p. 497 ss., ma cit., p. 502)
102 CAPITOLO SECONDO

profili di continuità, dunque, che appartengono tanto al metodo che al-


l’ambito di emersione della problematica24.
Con la caduta del regime, infatti, e più precisamente con il regio de-
creto legislativo n. 721 del 9 agosto del 1943, nonché con il successivo
decreto luogotenenziale legislativo n. 369 del 23 novembre del 1944, si
chiudeva la parentesi dell’ordinamento corporativo e le sorti del diritto
sindacale venivano a trovarsi nuovamente – come ai suoi albori – in un
contesto giuridico dai contorni in gran parte metapositivi25. L’assenza di
una legislazione di rango ordinario attuativa della normativa costituzio-
nale in materia di libertà sindacale ed efficacia della contrattazione col-
lettiva, nonché la forte crescita dell’associazionismo, rendevano peraltro
pressante la necessità di addivenire ad un sistema di diritto sindacale
post-costituzionale che fosse in grado di dare risposte alle note esigenze

24 Non va dimenticato che sebbene la fortuna della nozione di interesse collettivo fosse

legata al fenomeno gius-sindacale, le riflessioni più profonde sul concetto erano giunte da
giuristi (Carnelutti e Cesarini Sforza) particolarmente attenti alle implicazioni tra la figura
dell’interesse e la teoria generale del diritto. Similmente Santoro Passarelli, se da un lato,
come stiamo per vedere nel testo, sviluppava la nozione allo scopo di inserire in una cornice
concettuale stabile ed appagante il diritto sindacale post-costituzionale, parimenti, dall’altro,
era autore di un’opera tuttora fortunata – le Dottrine generali del diritto civile (inizialmente
intitolata Istituzioni di diritto civile, sino all’edizione del 1946) – che rappresentava il frutto
altamente emblematico di una cultura giuridica ancora strettamente legata al formalismo dog-
matico pandettistico, opera in cui appunto «il diritto è pura, purissima forma declinata sulla
base logica coerente e rigida come una corazza», in cui il diritto «è rappresentato come un
“qui” e un “ora”, descritto come un dato indiscutibile, indefettibile, immodificabile e le co-
struzioni concettuali come il suo sostegno connaturale» (così, ALPA, G., La cultura delle re-
gole, cit., p. 326; ugualmente GROSSI, P., Scienza giuridica italiana, cit., p. 280 ss., che vi af-
fianca, nel ramo delle scienze giuspubblicistiche, i Principi di diritto amministrativo, Pisa,
1945, di Giovanni Miele).
25 Per un analisi comparativa dei due significativi periodi evolutivi del diritto sindacale

italiano, v., anche per gli opportuni riferimenti, TARELLO, G., Teorie e ideologie nel diritto sin-
dacale, L’esperienza italiana dopo la Costituzione, Milano, 1967, spec. p. 24 ss., (p. 25 ss. della
seconda edizione del 1972) in cui si evidenzia come «per procedere alla concreta creazione di
un nuovo diritto sindacale sulla base dei modesti elementi offerti (non più dal diritto costitu-
zionale, ma) dal diritto civile (chiamato “diritto comune”), la dottrina lavoristica si trovò nella
necessità di adottare metodi costruttivi estremamente elastici e disinvolti […]. Tali metodi
consistono essenzialmente, in un primo tempo, nella elaborazione di concetti dogmatici rita-
gliati non sulla terminologia delle norme della codificazione civile, bensì su di una terminolo-
gia relativa a fenomeni sociali, o asseriti tali, prequalificati in funzione dei risultati normativi
che si volevano raggiungere». Con ciò dunque la «dottrina lavoristica […] si differenzia ma-
croscopicamente, sotto il profilo metodico, dalla dottrina civilistica: la quale dottrina civili-
stica invece, negli stessi anni, accentuava i caratteri che le erano stati peculiari nel periodo tra
le due guerre, e cioè un esasperato formalismo interpretativo e una tenace aderenza al dato
legislativo nella sua formulazione letterale».
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA POST-COSTITUZIONALE 103

di giuridificazione degli strumenti di tutela collettiva degli interessi dei


lavoratori. In questo contesto, appunto, l’interesse collettivo veniva nuo-
vamente a porsi come uno strumento ricostruttivo imprescindibile, ov-
vero la «nozione chiave» attorno alla quale edificare il nuovo assetto giu-
ridico26, nonché la «costante culturale» che avrebbe informato tutto il
successivo dibattito scientifico27.
A tale esigenza, dunque, rispondeva – come detto – la definizione di
interesse collettivo avanzata da Francesco Santoro Passarelli28: «l’inte-

26 Così, TARELLO, G., Teorie e ideologie nel diritto sindacale, cit., p. 29. Come evidenzia
con estrema efficacia GIUGNI, G., Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, Milano,
1961, p. 101 s., «venuto meno […] il supporto di una struttura pubblicistica, che conduceva
tout court il “collettivo” ad identificarsi con la totalità della categoria professionale, si è aperto
il problema […] della identificazione di un interesse di gruppo che non è la somma di inte-
ressi singoli, ma neppure è predeterminato nel suo contesto economico-sociale, ed appare
oscillante dalle più ristrette formazioni di gruppo, fino ai più vasti aggregati di categoria e di
settore».
27 Così, PERSIANI, M., Diritto sindacale, Padova, 2003, p. 27; allo stesso A., in Saggio sul-

l’autonomia privata collettiva, Milano, 1972, p. 30 ss., spec. nota 92 ss., ci si può indirizzare
per i riferimenti relativi alla dottrina giuslavorista minoritaria tesa a ridurre significativamente
l’importanza costruttiva del concetto. Tra questi, v. ad esempio FLAMMIA, R., Contributo all’a-
nalisi dei sindacati di fatto, I, Autotutela degli interessi del lavoro, Milano, 1963, p. 7, il quale
sostiene come «l’ordinamento sindacale possa essere analizzato e descritto solo in quanto
[…] momento iniziale e finale dell’analisi sia il singolo soggetto»; considerazione che porta la
dottrina appena citata (cfr. la nota 4 a p. 7) a sostenere, in polemica con le tesi della dottrina
dominante, che, «a tali tendenze si potrebbe replicare che il numero o la quantità degli inte-
ressi coinvolti in un fenomeno giuridico non valgono a spiegare il perché qualitativamente il
fenomeno si differenzi da tutti gli altri fenomeni giuridici possibili. E se si pensa […] che la
fattispecie sindacale abbia una sua autonomia logica e giuridica, tale autonomia dovrà anche
essere fondata sugli attributi qualitativi che la distinguono, piuttosto che sull’estensione quan-
titativa degli interessi coinvolti». Si aggiunge (p. 22) ancora, in segno di secca frattura rispetto
all’ordinamento corporativo che «per ciò che concerne l’ordine sindacale, gli artt. 2, 3 e 39,
primo comma, della Costituzione hanno rovesciato il rapporto Stato-singolo esistente nell’or-
dinamento previgente: la libertà del soggetto privato si trasforma in soggezione o subordina-
zione – sindacale – del medesimo solo in quanto egli voglia tale soggezione. Alla valutazione
delle opportunità da parte dei singoli è affidata la scelta; dalla effettiva capacità di afferma-
zione da parte dei singoli dei propri interessi dipende la tutela sindacale, che nell’ordina-
mento vigente è tutela voluta. Così operando, in virtù dei principi ex artt. 2 e 3 Cost., con-
nessi alla complessa regola della libertà sindacale (primo comma dell’art. 39), non può non
essere posto al centro dell’indagine il soggetto singolo, più precisamente l’attività del soggetto
singolo».
28 Sul ruolo rivestito da Santoro Passarelli in questa delicata fase evolutiva del nostro

ordinamento, v. SUPPIEJ, G., Tradizione civilistica e Costituzione nel magistero di Francesco


Santoro-Passarelli, in Dir. lav., 1990, I, p. 3 ss.; BENEDETTI, G., Elogio di un civilista convinto:
una testimonianza del sistema scientifico di F. Santoro-Passarelli, cit., p. 497 ss.; ROMAGNOLI, U.
- GIUGNI, G. - DELL’OLIO, M. - PERSIANI, M., Francesco Santoro Passarelli e il diritto del lavoro,
104 CAPITOLO SECONDO

resse collettivo è l’interesse di una pluralità di persone a un bene idoneo


a soddisfare un bisogno comune. Esso non è la somma di interessi indi-
viduali, ma la loro combinazione, ed è indivisibile, nel senso che viene
soddisfatto, non già da più beni atti a soddisfare bisogni individuali, ma
da un unico bene atto a soddisfare il bisogno della collettività»29.
Secondo una linea di pensiero già rilevata nelle concezioni di Cesa-
rini Sforza e Carnelutti addietro esaminate, la dimensione collettiva del-
l’interesse traeva origine essenzialmente dalla natura del bene oggetto di
aspirazione, cioè – più correttamente – dalla sua idoneità a realizzare il
soddisfacimento dell’interesse di una pluralità di persone.
D’altra parte, come ampliamente avremo occasione di esaminare nel
prosieguo del lavoro, in detta definizione la natura collettiva dell’inte-
resse, e soprattutto la sua indivisibilità, venivano a legarsi ad un elemento
ricostruttivo tutt’altro che omogeneo all’idoneità del «bene comune» or
ora evidenziata; difatti l’interesse collettivo era tale ed indivisibile anche
poiché – come ben chiariva Santoro Passarelli riferendosi alla disciplina
della concorrenza sleale – tale interesse «non può essere conseguito dai
singoli separatamente, ma solo congiuntamente da tutti»30.
In ciò quindi l’interesse collettivo – come talora sostenuto anche du-
rante il periodo corporativo31 – non appariva né come somma, né come
serie di più interessi individuali, ma al contrario quale «combinazione»32
degli stessi; e, nel suo esser tale, andava attribuito in titolarità alla plura-
lità stessa di persone costituenti la categoria professionale «che – come
osservava l’autorevole dottrina ora in esame –, nell’attuale struttura eco-
nomica e sociale, si determina per l’esistenza di un interesse professio-

in Arg. dir. lav., 1997, p. 1 ss. Per un quadro più analitico del progressivo mutamento delle
concezioni riguardanti la nozione di interesse collettivo realizzatosi in seguito all’approva-
zione del testo costituzionale, un efficace sguardo di sintesi lo si può trovare in PERSIANI, M.,
I soggetti del contratto collettivo con efficacia generale, in Dir. lav., 1958, I, p. 88 s. Più in ge-
nerale, per un’attenta riflessione sul passaggio dalla concezione pubblicistica dell’autonomia
sindacale vigente in costanza dell’ordinamento corporativo alla concezione privatistica affer-
matasi successivamente all’entrata in vigore della nostra Carta costituzionale, v., oltre al già ci-
tato TARELLO, G., Teorie e ideologie nel diritto sindacale, cit., passim, il recente lavoro di MAR-
TONE, M., Governo dell’economia e azione sindacale, Padova, 2006, p. 103 ss.
29 SANTORO PASSARELLI, F., Nozioni di diritto del lavoro, Napoli, 1995, p. 29.
30 SANTORO PASSARELLI, F., Nozioni di diritto del lavoro, cit., p. 29.
31 Si ricordino a titolo esemplificativo le definizioni di Asquini, Raselli e Cioffi, ripor-

tate retro, cap. I, nota 165.


32 Autorevole dottrina ha rilevato essere – tale concezione combinatoria o di sintesi del-

l’interesse collettivo – un elemento centrale dell’insegnamento di Santoro Passarelli (così,


DELL’OLIO, M., in Francesco Santoro Passarelli e il diritto del lavoro, cit., p. 26).
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA POST-COSTITUZIONALE 105

nale, comune a più soggetti che esercitano professionalmente la mede-


sima attività economica»33.
Ulteriori considerazioni di rilievo concernevano la natura pubblica o
privata dell’interesse collettivo, specie in relazione ai profili di gestione
dello stesso, ed infine i suoi rapporti con l’interesse individuale.
Per quel che attiene alla prima questione – profilo lungo il quale si
opera il distacco (non solamente ideologico) dalle dottrine corporative in
materia di interesse collettivo – Santoro Passarelli affermava che «l’inte-
resse collettivo che non sia un interesse generale, cioè dell’intera colletti-
vità, è di per sé un interesse privato, e gli strumenti per la sua realizza-
zione sono quelli del diritto privato»34. In altri termini, l’interesse collet-
tivo se non è talmente ampio da coincidere con l’interesse generale,
rimane un interesse particolare e come tale ha natura privata ed è rimesso
alla gestione dell’autonomia privata collettiva, che rappresenta la potestà
di regolare liberamente i propri interessi e che trova fondamento su «l’or-
ganizzazione del gruppo, grazie alla quale un soggetto, […] il sindacato, è
abilitato all’attività giuridica nell’interesse del gruppo»35.
Come chiariva l’illustre studioso: «l’ordinamento riconosce a questi
soggetti la funzione di provvedere alla tutela degli interessi del gruppo,
investendoli di un ufficio di diritto privato, poiché il gruppo non assurge
a centro di imputazioni giuridiche»36.

33 SANTORO PASSARELLI, F., Autonomia: d) Autonomia collettiva, in Enc. dir., IV, Mi-
lano, 1959, p. 369 ss., ma cit., p. 370 (ora in Saggi di diritto civile, Napoli, 1961, p. 255 ss.).
Per osservazioni critico-ricostruttive riguardanti la nozione ora in esame, v. infra, cap. IV,
§ 7.
34 SANTORO PASSARELLI, F., Autonomia collettiva, giurisdizione, diritto di sciopero (1949),

in Scritti giuridici in onore di Francesco Carnelutti, IV, Diritto pubblico e storia del diritto, Pa-
dova, 1950, p. 437 ss. (ora in Saggi di diritto civile, Napoli, 1961, p. 442 ss.). D’altra parte, di-
versamente dalla dottrina corporativa, le cui coordinate «assiologiche» erano dettate dalla
Carta del lavoro, la posizione di Santoro Passarelli è saldamente inserita nella prospettiva co-
stituzionale e l’A., non perde l’occasione per chiarirlo, laddove afferma che «per rendersi me-
glio conto dell’essenza del fenomeno è bene muovere dalla constatazione dell’esistenza e del-
l’importanza dei gruppi intermedi tra individuo e società generale, che trovano testuale rico-
noscimento in una norma della nostra Costituzione, dove “garantisce i diritti inviolabili
dell’uomo sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” (art.
2)». Riferimento poi precisamente indirizzato ai gruppi intermedi di «fondamentale impor-
tanza», ovverosia la famiglia e la categoria professionale. Cfr. anche Autonomia: d) Autonomia
collettiva, cit., spec. p. 370.
35 SANTORO PASSARELLI, F., Autonomia: d) Autonomia collettiva, cit., p. 371.
36 SANTORO PASSARELLI, F., Autonomia: d) Autonomia collettiva, cit., p. 371, ma sulla na-

tura privatistica del sindacato v. anche Stato e sindacato, in Studi in onore di A. Cicu, Milano,
1951, I, p. 666 ss.
106 CAPITOLO SECONDO

Ma con ciò venivano a determinarsi anche i rapporti di prevalenza


dell’interesse collettivo sull’interesse individuale. Il sindacato, infatti,
colto essenzialmente come fenomeno di organizzazione, ovvero come lo
strumento grazie al quale il gruppo, nella «libertà» ed «uguaglianza» di
ciascun membro, procedeva alla determinazione dei suoi interessi e delle
vie per tutelarli, portava in sé – come fenomeno – la necessaria «disci-
plina» e «subordinazione degli interessi degli organizzati a quelli dell’or-
ganizzazione»37.

4.2. L’interesse collettivo come «combinazione» o «sintesi» degli interessi


individuali
Ciò detto, prima di procedere in avanti lungo il nostro percorso di
studio occorre richiamare l’attenzione del lettore su taluni profili tipici
della definizione di interesse collettivo or ora esaminata; e ciò poiché in
essa sono presenti elementi concettuali inediti rispetto a quelli sino ad
ora riscontrati e sui quali avremo occasione di tornare tra due capitoli,
ovvero allorquando verrà il momento per avanzare la definizione di inte-
resse collettivo a nostro giudizio preferibile.
Rispetto alle nozioni elaborate prima e durante il periodo corpora-
tivo – ad esempio – va innanzitutto rilevata – come rapidamente accen-
nato addietro – la perdita della configurazione seriale dell’interesse col-
lettivo.
Abbiamo avuto modo di rimarcare più volte come questo elemento
avesse rappresentato un tratto significativo della nozione sin dai primi
tentativi di configurazione – per certi versi anche inconsapevoli – di Mes-
sina, rilevando peraltro la particolare importanza che detto profilo aveva
assunto in sede ricostruttiva durante il periodo successivo, specie nell’o-
pera di Francesco Carnelutti. Nella nozione proposta da Santoro Passa-
relli, invece (nozione capace di porsi come punto di riferimento dogma-
tico per tutta la dottrina successiva)38, questo aspetto viene meno e ciò
costituisce il sintomo di un sensibile mutamento di prospettiva nello stu-
dio del fenomeno.

37 SANTORO PASSARELLI, F., Autonomia: d) Autonomia collettiva, cit., p. 371.


38 La nozione proposta da Santoro Passarelli è assunta, talora implicitamente talaltra
esplicitamente, come nozione base, ovvero come efficace strumento dogmatico di ricostru-
zione del diritto sindacale post-corporativo dalla gran parte della dottrina successiva; sul
punto, v. in particolare GAROFALO, M.G., Interessi collettivi e comportamento antisindacale
dell’imprenditore, Napoli, 1979, p. 142 ss.
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA POST-COSTITUZIONALE 107

La spiegazione è evidentemente da ricercarsi nel diverso contesto


nel quale l’interesse collettivo si trova ad operare. Vigente l’ordinamento
corporativo e vigente l’«inquadramento costitutivo» della categoria pro-
fessionale39, quest’ultima si poneva in una posizione logicamente antece-
dente rispetto all’interesse collettivo, il quale appunto veniva a configu-
rarsi come l’interesse riferibile all’insieme aperto di soggetti a tale cate-
goria professionale corrispondente.
Il passaggio da un sindacalismo autoritario ad un sindacalismo de-
mocratico, peraltro, ovvero un contesto costituzionale caratterizzato da
un regime di effettiva libertà sindacale, non poteva non avere decisiva in-
fluenza sui processi di configurazione dell’interesse collettivo.
In sintesi il mutamento di prospettiva può essere descritto nei ter-
mini che seguono.
Nel periodo corporativo, la categoria professionale è il prius, mentre
l’interesse collettivo è il posterius; è la categoria che determina l’interesse
collettivo e gli conferisce l’aspetto seriale.
Questo fenomeno è il riflesso della posizione assegnata al sindacato
rispetto alla categoria stessa. Il sindacato, infatti, si trova in una posizione
esterna rispetto alla categoria dalla quale guarda e determina l’interesse
collettivo che a questa dovrebbe essere imputato. In questo modello, sul
piano formale l’interesse collettivo appare come l’interesse di tutti i sog-
getti che a tale categoria professionale appartengono; interesse aliunde
determinatosi ed in attesa di ricevere mera esternazione mediante il sin-
dacato. Sul piano della sostanza, peraltro, sempre in questo modello, l’u-
nico operatore attivo è il sindacato a cui spetta la determinazione autori-
taria della categoria e del suo interesse, e, come vedremo più avanti, es-
sendo il sindacato un soggetto sostanzialmente esterno al gruppo,
l’interesse è eterodeterminato.
In regime di libertà sindacale, invece, cessa questo compito di pa-
ternalistica sostituzione ed emerge il ruolo dell’organizzazione, come mo-
mento di libera aggregazione degli interessi. Come puntualmente chiari-
sce la dottrina a cui ora rivolgiamo attenzione, «la solidarietà degli inte-
ressi di gruppo ha […] natura dinamica e non statica: essa si esprime
cioè realizzandosi attraverso l’attività di coalizione e non attraverso la
semplice identità di posizioni definita da una serie astratta di interessi in-
dividuali»40.

39 Cfr.PERSIANI, M., I soggetti del contratto collettivo con efficacia generale, cit., p. 88 s.
40 Così, GHERA, E., Considerazioni sulla giurisprudenza in tema di sciopero, in AA.VV.,
Indagine sul sindacato, Milano, 1970, p. 343; ma nello stesso senso v. anche SCOGNAMIGLIO,
108 CAPITOLO SECONDO

È dunque l’organizzazione a porsi a monte dell’interesse collettivo


nei rapporti di causa/effetto e l’interesse collettivo da «serie» diviene
«sintesi», o, utilizzando la terminologia adottata da Santoro Passarelli,
«combinazione»; il che, in una prospettiva generale, significa assegnare ai
processi soggettivi una prevalenza su quelli oggettivi nei rapporti di de-
terminazione dell’interesse collettivo. Il sindacato non è più collocato in
una posizione esterna al fenomeno, ma è condotto al centro di questo41.
È forse in quest’aspetto – più che negli altri – che la nozione avan-
zata da Santoro Passarelli segna il passo rispetto alle concezioni prece-
denti, inaugurando un filone di studi che proprio nel procedimento di
«sintesi» rileverà il tratto fenomenologico caratteristico di quella com-
plessa situazione dinamica che con formula breviloquente viene chiamata
«interesse collettivo»42.

Autonomia sindacale ed efficacia del contratto collettivo, in Riv. dir. civ., 1971, I, p. 140 ss., ma
spec. p. 156 ss.
41 In una certa assonanza con la lettura proposta nel testo si pongono le riflessioni di

MANCINI, G.P., Libertà sindacale e contratto collettivo «erga omnes», in Riv. trim. dir. proc. civ.,
1963, p. 570 ss., ma spec. p. 580 ss. Come avremo occasione di esaminare più avanti (cfr. in-
fra, cap. III, § 2.5. e cap. VII, § 3.1.), il momento organizzatorio – e di conseguenza il ruolo
dell’associazione sindacale – acquisterà una posizione centrale in uno degli studi più ap-
profonditi presentati in materia di procedimento per la repressione della condotta antisinda-
cale (GAROFALO, M.G., Interessi collettivi e comportamento antisindacale dell’imprenditore,
cit.).
42 Va dunque respinta l’opinione della dottrina (VIGORITI, V., Interessi collettivi e pro-

cesso, La legittimazione ad agire, Milano, 1979, p. 45 ss) per la quale la concezione dell’inte-
resse collettivo inteso come «sintesi» di interessi individuali sarebbe stata dominante durante
il periodo corporativo e poi successivamente ripresa, «nonostante gli echi corporativi e la
sgradevole sensazione di equivocità», dalla dottrina successiva ed in particolar modo da San-
toro Passarelli. In realtà, come avrà notato l’attento lettore delle pagine del primo capitolo
(cfr. retro, cap. I, § 3.2.2.), in vigenza dell’ordinamento corporativo, la nozione di «sintesi» è
quasi assente dalle espresse formulazioni della dottrina, e nei casi in cui potrebbe effettiva-
mente ricorrere (v. ad esempio Asquini, Raselli e Cioffi,), non è mai impiegata nella sua acce-
zione che si rivela più pregnante in ordine all’argomento trattato, ovverosia nel suo stretto ri-
ferimento al momento organizzatorio di cui si presenta come essenziale prodotto. Ciò è ancor
più vero se il riferimento è specificamente rivolto alla posizione di Carnelutti (così, appunto,
VIGORITI, V., Interessi collettivi e processo, cit., p. 47), A. dal quale, come visto, la maggioranza
della dottrina più o meno espressamente mutuò la nozione. A tal proposito, infatti, occorre
rilevare come, per un verso, in Carnelutti l’interesse collettivo non sia assolutamente «sin-
tesi», bensì «serie» e, dall’altro, che, sebbene, come da numerosa dottrina rilevato, la nozione
di Santoro Passarelli presenti assonanze significative con la dottrina corporativa, grave errore
sarebbe quello di permettere che l’attenzione risulti polarizzata dagli elementi di somiglianza
anziché da quelli di diversità appartenenti alla nozione stessa. È in questa seconda direzione,
infatti, che la nozione di Santoro Passarelli deve essere apprezzata; e deve esserlo proprio per
il riferimento all’elemento della «combinazione». Quella che potrebbe apparire – un poco su-
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA POST-COSTITUZIONALE 109

Al procedimento di «sintesi» – intesa quest’ultima come il risultato


dell’attività organizzatoria – verrà assegnato il ruolo di discrimen, non
solo quantitativo, ma soprattutto qualitativo, idoneo a tracciare la diffe-
renza tra interessi meramente individuali ed interessi collettivi43 e soprat-
tutto il ruolo di momento qualificante dall’attività sindacale. Momento di
«scelta» e «selezione» di interessi diversi con superamento sia dei vincoli
di «subordinazione» che del «sacrificio degli interessi individuali a un in-
teresse collettivo», grazie alla «volontà concorde degli stessi titolari, di
una scelta, o della determinazione di una scala di priorità, tra gli interessi
da perseguire»44.
In conclusione, quindi, al concetto di sintesi verranno ad essere as-
segnati fondamentali compiti di revisione e rinnovamento delle conce-

perficialmente – come una difformità più lessicale che sostanziale, in realtà altera completa-
mente la dinamica costruttiva e il profilo strutturale della nozione e rivela il diverso contesto
ideologico e sociale in cui si inserisce.
43 In tal senso, v. specialmente PERSIANI, M., Saggio sull’autonomia privata collettiva, cit.,

p. 26, che evidenzia come l’interesse collettivo sia «una sintesi e non una somma di interessi
individuali, da questi non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente distinto e come
tale riferibile ai singoli soltanto uti universi […]» (il concetto è rimarcato anche a p. 29, ma
spec. a p. 94, 102). La prospettiva di Persiani risulta sotto tale profilo significativamente rap-
presentativa del mutato contesto, sociale e giuridico, post-costituzionale nella misura in cui
accentua la componente di sintesi ed organizzativa che appartiene alla nozione. Va pur detto,
però, che l’iter d’indagine dell’A. risulta, per altri versi, scarsamente utilizzabile ai nostri fini
per lo stretto legame che l’approfondimento della nozione di interesse collettivo possiede ri-
spetto alle finalità di ricerca perseguite da Persiani, il quale svolge un attento studio sulla na-
tura e sull’efficacia dell’autonomia privata collettiva, ma ponendo a fondamento dell’inda-
gine, quale vero e proprio «fatto normativo» l’orientamento giurisprudenziale favorevole al-
l’inderogabilità del contratto collettivo (cfr. tra le altre p. 30, 50-51, 60). Ciò porta Persiani ad
assumere tale orientamento come indice di valutazione da parte dell’ordinamento giuridico
della rilevanza dell’interesse collettivo, con profonde ripercussioni sull’elaborazione stessa
della nozione, che ne risulta sensibilmente funzionalizzata. È lo stesso Persiani ad ammetterlo
laddove (p. 140 s.) chiarisce al lettore che «le conclusioni alle quali la nostra indagine è finora
pervenuta inducono […] a ritenere che il concetto di interesse collettivo non possa avere che
un significato convenzionale e relativo. Senonché, e questo è il punto, la costruzione di un in-
teresse collettivo dei lavoratori inteso […] come sintesi e non come somma di interessi indi-
viduali, trova oramai […] il suo fondamento e la sua giustificazione nell’inderogabilità che i
giudici attribuiscono al contratto collettivo».
44 Così, DELL’OLIO, M., in DELL’OLIO, M. - BRANCA, G., L’organizzazione e l’azione sin-

dacale, in Enciclopedia giuridica del Lavoro, diretta da G. Mazzoni, Padova, 1980, p. 43 ss.,
per il quale «sintesi» e «organizzazione» sono concetti talmente prossimi l’uno con l’altro da
poterne operare una lettura rivolta a intenderli addirittura come coincidenti: «Anzi in realtà
quella che finora si è chiamata sintesi o combinazione si può già più esattamente, senza con
ciò negarne ma se mai sviluppandone ed articolandone il senso logico, chiamare a sua volta
organizzazione di interessi» (p. 47).
110 CAPITOLO SECONDO

zioni preesistenti: a) innanzitutto per questa via si giungerà a ridimensio-


nare e stemperare i toni della tradizionale contrapposizione (causa poi
del successivo rapporto di subordinazione) tra l’interesse collettivo e l’in-
teresse individuale, visto che «gli interessi prescelti […] o assunti quali
collettivi, possono essere guardati in una prospettiva di continuità, se
non addirittura di immedesimazione, con quelli individuali […] i quali
[…] vengono se mai consolidati e non certo sacrificati»45; b) in secondo
luogo si cercherà di superare quella dimensione di astrattezza e di lonta-
nanza talora caratterizzante la nozione di interesse collettivo nelle confi-
gurazione tradizionali46; c) ed infine verrà ad essere oggetto di dovuto ri-
dimensionamento lo stesso concetto di «indivisibilità» dell’interesse47.
Un altro profilo che probabilmente distingue la prospettiva di stu-
dio inaugurata da Santoro Passarelli rispetto a quella propria della dot-
trina attiva durante l’ordinamento corporativo si apprezza poi all’interno
di una cornice più ampia.
Si noti bene. Esaminando le tappe fondamentali della parabola si-
nora tracciata delle vicende giuridiche dell’interesse collettivo può no-
tarsi come questo entri a far parte dei processi di ricostruzione del nostro
ordinamento per esigenze particolari, ovvero quelle proprie delle na-
scenti discipline giuslavoriste, naturalmente propense a farsi veicolo di
una nuova dimensione sociale dell’uomo all’interno dell’universo giuri-
dico. Durante il periodo corporativo, poi, la nozione continua a trovare
applicazione nei tentativi di interpretazione della legislazione sindacale,
ma, un po’ forse per l’autorevolezza e l’eclettismo dei suoi principali in-

45 DELL’OLIO, M., in DELL’OLIO, M. - BRANCA, G., L’organizzazione e l’azione sindacale,


cit., p. 48.
46 DELL’OLIO, M., in DELL’OLIO, M. - BRANCA, G., L’organizzazione e l’azione sindacale,

cit., p. 49.
47 A tal riguardo, v. ancora DELL’OLIO, M., in DELL’OLIO, M. - BRANCA, G., L’organizza-

zione e l’azione sindacale, cit., p. 49 s.: «La stessa indivisibilità, infine, affermata ma non sem-
pre dimostrata nella concezione tradizionale dell’interesse collettivo, può essere ora recupe-
rata come caratteristica immanente degli interessi e dei loro modi di realizzazione. Tipica nel-
l’esperienza sindacale più recente, invero, come già accennato, deve dirsi la tendenza a
perseguire interessi che appaiano, nella situazione concreta, indivisibili di per sé e non attra-
verso l’intermediazione, in qualche modo implicita nella concezione tradizionale, nell’inte-
resse all’eliminazione della concorrenza. Di per sé suscettibili, cioè, solo di soddisfazione uni-
taria o congiunta per tutti i loro “portatori”. Onde l’interesse è al tempo stesso comune e
uniforme. Comè, per fare esempi a vari livelli […] per quelli a certe condizioni di ambiente,
al superamento di certi ritmi, a un certo assetto dell’organizzazione aziendale o di suoi re-
parti, al mantenimento o al raggiungimento di certi livelli di occupazione, a certe scelte di po-
litica economica e sociale e così via, fino all’intero assetto politico generale».
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA POST-COSTITUZIONALE 111

terlocutori dottrinali, un po’ forse per il contesto culturale e l’indirizzo


formalistico degli studi giuridici, riceve, in questa fase della sua storia,
un’attenzione rivolta ad un approfondimento generalizzante, che di per
sé «prepara» ed «introduce» la nozione ad un suo utilizzo più ampio48.
Caduto il regime e abrogato l’ordinamento corporativo, è ancora in
sede sindacale che le esigenze reali rendono imprescindibile l’utilizzo
della nozione ed è esclusivamente allo scopo di procedere alla formula-
zione giuridica degli istituti inerenti alla ricostruzione dei fenomeni di
contrattazione collettiva che questa riceve applicazione. Si perde, dun-
que, in questa fase dello studio quella tipica caratteristica che era propria
degli studi precedenti, ovvero quella di condurre l’indagine ricostruttiva
in una dimensione, quanto meno anche, sub specie aeternitatis.
Ciò che cambia, dunque, indipendentemente dai risultati conseguiti
o dalle motivazioni ideologiche che li favoriscono, è la prospettiva gno-
seologica. Durante il periodo corporativo, specie negli studi di Carnelutti
e di Cesarini Sforza, l’interesse collettivo è nozione generale, mentre nel
filone di studi dottrinali inaugurati dal Santoro Passarelli, l’interesse col-
lettivo è, in parte come già era – mutatis mutandis – nel periodo tardo-li-
berale, la nozione che di volta in volta meglio si adatta ad offrire una
quanto più aderente lettura in termini giuridici della prassi sindacale.

5. Altri studi sulla nozione di interesse collettivo


In una prospettiva per certi versi più generale, oltre che maggior-
mente vicina alle nostre finalità di studio, ed ancora nell’indubbia preva-
lenza dei profili di continuità su quelli di mutamento, vanno ricondotte le
riflessioni sull’interesse collettivo avanzate da Nicola e Pier Giusto Jaeger.
Il primo con riguardo allo studio delle attività processuali con efficacia
normativa e della tutela giurisdizionale degli interessi generali di serie49 ed

48 Sebbene la nozione riceva applicazione massiccia in sede di interpretazione dell’or-

dinamento corporativo, la sua trattazione ed il suo inserimento in sede di nozioni generali ed


introduttive in opere quali la Teoria generale del diritto di Carnelutti e le Lezioni di teoria ge-
nerale del diritto di Cesarini Sforza è questione emblematica di questo processo di generaliz-
zazione della nozione. In queste opere l’interesse collettivo è uno strumento «pronto all’uso»
in qualsiasi campo giuridico di applicazione e assolutamente non «relegato» allo studio dei fe-
nomeni giuridici propri della contrattazione collettiva o dei conflitti collettivi.
49 JAEGER, N., Attività processuali con efficacia normativa e tutela di interessi generali (di

serie), in Studi in Onore di Antonio Segni, III, Milano, 1967, p. 3 ss., ma v. anche ID., Diritto
pubblico e diritto privato nella disciplina del rapporto di lavoro, in Riv. trim. dir. pubbl., 1951,
p. 567 ss.
112 CAPITOLO SECONDO

il secondo nel contesto dell’inquadramento sistematico dell’interesse so-


ciale50.
Questi studi rappresentano, infatti, l’effettiva prosecuzione del di-
battito – già esaminato nel capitolo che precede con prevalente riferi-
mento alla posizione di Carnelutti e Cesarini Sforza – sul concetto di in-
teresse e di interesse collettivo; nozioni, queste ultime, inserite in una
prospettiva di indagine generale appunto costruita attorno al concetto di
interesse come strumento di lettura dei fenomeni giuridici.
La nostra attenzione è dunque attratta non solo dal profilo storico-
evolutivo che dette concezioni contribuiscono a tratteggiare, ma soprat-
tutto per gli ulteriori spunti di riflessione che possono giungere in ordine
alle questioni centrali che sono oggetto della ricerca.
Sotto il primo profilo, va in primo luogo rimarcata la propensione
che questi studiosi manifestano nel cercare di ricavare una nozione ten-
denzialmente oggettiva del concetto di interesse, il quale – precisata la
nozione di bene («tutto ciò che è atto a soddisfare un bisogno umano»)
anche nelle ulteriori e opportune sottodistinzioni che lo riguardano (beni
diretti o immediati, strumentali, polivalenti, giuridicamente rilevanti e ir-
rilevanti, esclusivamente giuridici ecc.) – è concetto volto a «designare il
rapporto, che si può idealmente istituire fra la persona o le persone (fisi-
che) titolari di un dato bisogno ed il bene atto a soddisfare il bisogno
stesso»51.
Anche qui, insomma, come in Carnelutti, l’interesse, come «rap-
porto» tra persona e bene, assume connotazioni di marca oggettiva, rima-
nendo piuttosto nell’ombra l’elemento del giudizio del soggetto, che ab-
biamo – al contrario – visto rivestire una posizione centrale nella formula
definitoria avanzata da Cesarini Sforza. L’impronta oggettiva ora rimar-
cata, peraltro, come vedremo anche più avanti, corrisponde ad una pro-
pensione ricostruttiva piuttosto frequente, che costituisce il riflesso del ti-
more del giurista di perdere qualsiasi possibilità di impiego in senso scien-
tifico-ricostruttivo del concetto allorché questo venga assunto in una
dimensione propriamente soggettiva ed in quanto tale volubile ed impon-
derabile52. E nella dottrina ora in esame questa preoccupazione viene ma-
nifestata espressamente53. Da un lato, infatti, viene ad essere rimarcata

50 JAEGER, P.G., L’interesse sociale, Milano, 1964.


51 JAEGER, N., Attività processuali con efficacia normativa, cit., p. 11.
52 Cfr. infra, cap. IV, § 3.
53 Così, JAEGER, N., Attività processuali con efficacia normativa, cit., p. 10-11. Se l’im-

portanza di operare in sede ermeneutica con una nozione oggettiva di interesse è corretta-
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA POST-COSTITUZIONALE 113

l’assoluta necessità di accogliere una nozione obiettiva di interesse in


quanto idonea – essa sola – a consentire la successiva opera di rilevazione
delle relazioni logiche intercorrenti tra diversi interessi individuali e, dal-
l’altro, la sterilizzazione dei profili soggettivistici del concetto di «inte-
resse» è perfezionata sul piano definitorio operando la contrapposizione
del concetto stesso a quello di «motivo». Mentre al primo, pertanto, do-
vrebbe corrispondere la «relazione tra un soggetto, cui fa capo un biso-
gno, e il bene idoneo a soddisfare tale bisogno» (così come «determinata
nella previsione generale ed astratta di una norma»54), il secondo an-
drebbe inteso alla luce delle valutazioni operate dal soggetto concreto55.
È proprio l’accezione rigorosamente oggettiva assegnata al concetto
di interesse che poi permette la descrizione delle possibili relazioni logi-
che intercorrenti tra diversi interessi. Queste sono appunto la relazione
di indifferenza, allorché «l’attuazione o la mancata attuazione dell’uno
non comprometta, né determini o agevoli l’attuazione dell’altro»; la rela-
zione di incompatibilità, «nel senso che la soddisfazione dell’uno esclude
la possibilità dell’attuazione di un altro»; e la relazione di strumentalità,

mente individuata dalla dottrina qui richiamata e va in prima approssimazione condivisa, va


d’altra parte anche rilevato come la distinzione operata dall’A. tra interesse in senso oggettivo
ed interesse in senso soggettivo non venga adeguatamente chiarita (cfr. p. 11 s.). Manca, ad
esempio, nell’operazione concettuale avanzata dalla dottrina ora richiamata il riferimento alla
norma, ovvero al fondamentale momento di astrazione e oggettivazione normativa dell’inte-
resse concreto. Il processo, che verrà esaminato con maggior attenzione nel prosieguo (v. in-
fra, cap. IV) è in breve il seguente. L’interesse, come concetto relazionale che trova origine
nelle valutazioni imperscrutabili del soggetto è ontologicamente (potremmo dire per defini-
zione) non oggettivo ed al contrario è altamente instabile e volubile. Nella selezione degli in-
teressi c.d. meritevoli di tutela la norma però presenta un interesse oggettivato nella misura in
cui essa si riferisce sin dalla sua formazione all’interesse tipico, ovvero socialmente o statisti-
camente prevalente: si realizza – in altri termini – un procedimento di selezione e astrazione
che depura l’interesse della variabilità soggettiva. Pertanto l’interesse può essere inteso nelle
due distinte e coessenziali prospettive, quella concreta e soggettiva o quella normativa e og-
gettiva. Va inoltre detto che, come avremo modo di vedere, entrambe sono necessarie per
comprendere l’ordinamento nella sua componente dinamica ed inoltre la necessità di trac-
ciare le possibili relazioni tra interessi non è in nulla ostacolata dal carattere concreto dello
stesso, in quanto, ovviamente, in tal caso gli interessi concreti saranno ipotizzati come esi-
stenti e articolati secondo un certo assetto.
54 JAEGER, P.G., L’interesse sociale, cit., p. 3.
55 «La distinzione fra interesse e motivo è […] essenziale. Innanzitutto […], chi attri-

buisce al termine interesse un significato soggettivo, come sinonimo di motivo, non riesce a
dare alcun senso a norme positive che a questo termine fanno riferimento. Inoltre, soltanto
sulla base di una concezione obiettiva dell’interesse è possibile utilizzare tale nozione come
strumento dogmatico di ricerca, configurando rapporti e combinazioni di interessi, fra i quali
assume importanza primaria il concetto di interesse collettivo»; così, JAEGER, P.G., L’interesse
sociale, cit., p. 5-6.
114 CAPITOLO SECONDO

«che può collegare più interessi dello stesso soggetto, in funzione della
[…] distinzione tra beni diretti e strumentali». Interessi e relazioni che in
capo ad uno stesso soggetto possono dar luogo a «sistemi di interessi»56.
Ed è proprio lo studio delle relazioni potenzialmente instaurabili tra
diversi interessi ad aprire la strada alla riflessione attorno al concetto di
interesse collettivo, rispetto al quale, peraltro, va registrata una diversità
di vedute tra i due studiosi ora in esame relativamente ad un aspetto già
rimarcato in riferimento alla concezione avanzata da Santoro Passarelli;
aspetto assolutamente centrale per addivenire ad una corretta ricostru-
zione del fenomeno superando le difficoltà di apprezzamento della strut-
tura dell’interesse collettivo da sempre presenti in dottrina57.
La questione è quella che segue.
Per Nicola Jaeger con la locutio «interesse collettivo» occorre rife-
rirsi al «rapporto di coincidenza» che si realizza tra più interessi indivi-
duali allorquando «un unico bene è atto a soddisfare i bisogni di tutti».
Rilievo primario spetta pertanto all’oggetto dell’interesse, ovvero al
«bene collettivo», che è tale appunto in virtù alla sua idoneità «a soddi-
sfare congiuntamente, in modo diretto oppure indiretto, i bisogni di più
persone»58.
Per Pier Giusto Jaeger, invece, la coincidenza di due o più interessi,
che di per sé può anche dar luogo ad un rapporto di incompatibilità tra
gli stessi, abbisogna dell’instaurarsi di un ulteriore vincolo per dar vita al-
l’interesse collettivo, ovvero quel vincolo di solidarietà, ben emerso nel
capitolo precedente in ambito giuslavoristico59; vincolo, che si realizza al-

56 I passi riportati nel testo sono di JAEGER, N., Attività processuali con efficacia norma-
tiva, cit., p. 13 ss.; ma ugualmente JAEGER, P.G., L’interesse sociale, cit., p. 7.
57 Cfr. infra, cap. IV.
58 JAEGER, N., Attività processuali con efficacia normativa, cit., p. 17.
59 Come si ricorderà, il vincolo di solidarietà sussistente tra i diversi interessi costituisce

un aspetto del fenomeno illuminato sin dai primi interventi del Messina e della dottrina gius-
sindacale pre-corporativa. Ugualmente rivolta ad esaltare il vincolo solidaristico è la succes-
siva posizione di RASELLI, A., Giustizia e socialità, in Studi in onore di Enrico Redenti, Milano,
1951, 249 ss., che rileva come «sui fenomeni della solidarietà e dell’interdipendenza sociale si
basa […] la nozione di interesse collettivo, che ha un’importanza fondamentale nello sviluppo
della socialità e nella sua organizzazione giuridica. Tale nozione si distingue da quella di inte-
resse comune a più singoli. Nella nozione di interesse comune vengono unificati, con un pro-
cesso di astrazione e di sintesi concettuale, gli interessi particolari di più soggetti, che si diri-
gono ad un unico scopo ed il cui soddisfacimento ha importanza solo per i titolari degli inte-
ressi stessi. Per esempio è interesse comune quello di più persone che si uniscono per un
impresa economica, all’unico scopo di trarne un vantaggio per loro. Sorge la nozione di inte-
resse collettivo, quando gli effetti del soddisfacimento di un interesse (che può essere indivi-
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA POST-COSTITUZIONALE 115

lorché venga a sussistere un rapporto di strumentalità reciproca tra gli


stessi, determinata dal fatto che solo la collaborazione fra gli interessati
permette il conseguimento del bene e il contestuale soddisfacimento del
bisogno60.
In definitiva, se si riflette sulla prima impostazione, si nota agevol-
mente come la mera idoneità del bene a realizzare il soddisfacimento di
più interessi costuisca il fondamento concettuale della nascita del collet-
tivo. Nella seconda impostazione, invece, è il necessario perseguimento
congiunto a dar sostanza al concetto di interesse collettivo. Si privilegia,
insomma, una visione dinamica agevolmente riconducibile alla linea di
pensiero poc’anzi esaminata in Santoro Passarelli in cui l’organizzazione
e la sintesi degli interessi divengono elementi strutturali imprescindibili
per poter intendere il fenomeno oggetto delle nostre attenzioni.
Ciò che va comunque rimarcato è che nonostante non vi sia concor-
dia sul criterio costruttivo primario del concetto, l’interesse collettivo
viene comunque imputato da entrambi gli Autori in questione in capo ai
singoli soggetti che appartengono al gruppo di riferimento e non al
gruppo in sé come soggetto distinto dai singoli. Questo è un dato su cui
occorre portare l’attenzione sin d’ora. Come avremo più volte occasione
di rilevare nell’arco di questo studio, infatti, le concezioni unitarie del-
l’interesse collettivo, ovvero le concezioni tendenti a tracciare una linea
differenziale ontologica tra interesse individuale e collettivo, per poi im-
putare quest’ultimo alla collettività entificata o all’ente esponenziale della
stessa, hanno talora cercato di giustificare detta impostazione raffigura-
tiva facendo perno proprio sull’elemento organizzatorio degli interessi.
Elemento in grado di giustificare l’astrazione dell’interesse dal singolo
per ricondurlo alla collettività. Nella dottrina ora indicata, invece – e non
solo in Pier Giusto Jaeger, nella cui impostazione l’attività di persegui-
mento necessariamente collettivo dell’interesse figura anche nella defini-
zione del concetto, ma anche in Nicola Jaeger, che dedica comunque am-
pie riflessioni ai processi di «gestione» o «governo» degli interessi61 –

duale o comune) non si esauriscono nei soggetti di esso, ma riguardano, per un processo di
ripercussioni e di risultati indiretti più o meno estesi, una cerchia più vasta di persone, deter-
minata da rapporti sociali in precedenza costituiti» (p. 262 c.vo mio).
60 JAEGER, P.G., L’interesse sociale, cit., p. 8.
61 Sulla questione l’A. accentua con particolare vigore la differenza intercorrente tra in-

teressi collettivi di «gruppo» (ovvero appartenenti ad una «pluralità determinata, finita,


chiusa di individui») ed interessi collettivi di «serie» (viceversa relativi ad pluralità aperta ed
infinita – anche rispetto la variabile temporale – di individui) (così, JAEGER, N., Attività pro-
cessuali con efficacia normativa, cit., p. 39 s.). E ciò proprio in ordine alla specifica rilevanza
116 CAPITOLO SECONDO

l’interesse collettivo è interesse che comunque appartiene ai singoli indi-


vidui62.

6. Interessi collettivi e processo: il giudizio di repressione della concor-


renza sleale
Lasciando per il momento il piano della riflessione concernente la
configurazione del concetto di interesse e venendo, invece, al rapporto

che tale distinzione possiede con riguardo ai fenomeni di «gestione» dell’interesse, ovvero ai
processi di organizzazione che sono naturale conseguenza della percezione, da parte di una
data collettività, dell’esistenza di un bene comune cui tendono le aspirazioni dei suoi compo-
nenti. Detta attività di «governo degli interessi», infatti, sarebbe costituita da quel complesso
di attività rivolte: a) all’accertamento della sussistenza dell’interesse; b) alla valutazione del
medesimo (cioè dell’intensità e dell’urgenza dei bisogno comparativamente con il costo e le
condizioni di conseguimento o conservazione dei bene); c) alla valutazione comparativa dei
diversi interessi; d) all’atto di volizione che, tra diversi interessi incompatibili, determina
quello preminente a fronte della subordinazione a questo dei restanti o, alternativamente,
uno schema di contemperamento tra i diversi interessi; e) alla scelta dei mezzi, dei modi, dei
procedimenti adeguati all’attuazione dell’interesse prescelto; f) all’attuazione dei comporta-
menti (azioni o omissioni), che nel mantenere o modificare la situazione di fatto consenti-
ranno di conservare o procurare il bene. Questo complesso di attività, appunto, secondo l’A.,
presenterebbe decisive modificazioni a seconda del suo riferirsi ad un interesse collettivo di
gruppo o collettivo di serie. Alla tendenziale coincidenza realizzantesi tra soggetti partecipi
all’organizzazione dell’interesse e soggetti astrattamente interessati nella gestione degli inte-
ressi di gruppo, nella gestione degli interessi collettivi di serie verrebbe meno detta coinci-
denza in ragione dell’estensione del numero degli interessati, sicché all’attività di «autogo-
verno» degli interessi si sostituirebbe quella di «eterogoverno»; un’attività, cioè, come già a
suo tempo evidenziato, altruista in un senso ed autoritaria nell’altro (cfr. appunto, JAEGER, N.,
Principi di diritto corporativo, Padova, 1939, p. 33: in cui appunto era stata evidenziata detta
ambivalenza necessariamente appartenente all’organizzazione degli interessi: «altruista, in
quanto la soddisfazione dell’interesse perseguito giova a tutti i componenti della categoria
compresi gli apatici, i dissenzienti ed i futuri; autoritaria, in quanto la valutazione dell’inte-
resse da perseguire è inevitabilmente sottratta ad una parte, anzi alla maggior parte dei tito-
lari, ed a questi non rimane che rimettersi alla decisione adottata dai membri della collettività,
e dagli esponenti di questi ultimi»).
62 Per JAEGER, N., Attività processuali con efficacia normativa, cit., p. 17, non volendo

«modificare […] le definizioni di bene e di interesse (procedimento purtroppo frequente, an-


che se non voluto, ma che non si può considerare scientificamente corretto)» non si può non
«ammettere che i titolari di quelli – gli interessi collettivi – sono sempre ed esclusivamente le
singole persone fisiche portatrici dei bisogni che richiedono soddisfazione»; mentre per JAE-
GER, P.G., L’interesse sociale, cit., p. 9, «l’interesse individuale non può essere distinto dall’in-
teresse collettivo, in quanto si tratta di concetti non omogenei». Più di preciso, coerente-
mente alla concezione di interesse collettivo accolta, «il termine collettivo si contrappone
[…] logicamente ai concetti di conflitto di interessi o di indifferenza tra interessi, espri-
mendo, al pari di questi, una relazione fra interessi di diversi soggetti, e non una qualità dei
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA POST-COSTITUZIONALE 117

tra interessi collettivi e processo, va detto che nel periodo ora in esame si
registra una sostanziale stasi evolutiva. Occorrerà, infatti, attendere l’ini-
zio degli anni Settanta per vedere la dottrina tornare ad interrogarsi ex
professo ed in termini più attuali sulla necessità di estendere la tutela giu-
risdizionale agli interessi sovraindividuali emergenti e per assistere all’in-
troduzione nel nostro ordinamento dei primi rimedi volti a dar loro pro-
tezione.
Ciononostante segnali di apertura circa i rapporti tra interessi col-
lettivi e processo, specie nella prospettiva della necessità di adeguamento
degli strumenti di tutela giurisdizionale al mutato contesto sociale, si ri-
scontrano nelle riflessioni avanzate dallo stesso Nicola Jaeger63, in cui ap-
punto si rileva l’opportunità di concepire un processo collettivo nuovo,
strutturato per dare le adeguate garanzie processuali da secoli riservate ai
soli interessi particolari64; e a queste osservazioni fa eco parte della dot-
medesimi». In entrambe le impostazioni, quindi, l’interesse collettivo appare indicare la rela-
zione o, se si preferisce, il rapporto tra interessi individuali, con la differenza che in Pier Giu-
sto Jaeger l’elemento organizzativo degli interessi ha rilievo primario.
63 In realtà alle riflessioni che Jaeger avanza sulla tutela giurisdizionale degli interessi

collettivi di serie va riservata un’attenzione sotto il profilo storico-evolutivo più che propria-
mente interpretativo-operativo, in quanto nel quadro del diritto positivamente accolto dal no-
stro ordinamento erano allora pressoché assenti – fatta eccezione per l’azione di repressione
della concorrenza sleale di cui diremo tra breve nel testo – effettivi esempi di tutela giurisdi-
zionale degli interessi collettivi. Ed, infatti, l’A. nel cercare strumenti di tutela di interessi se-
riali fa cadere l’attenzione o sull’abrogato processo collettivo corporativo o su altre ipotesi
particolari di provvedimenti a «contenuto normativo», come il giudizio di legittimità innanzi
alla Corte costituzionale e la tutela degli interessi dei creditori in sede di concordato preven-
tivo o fallimentare (JAEGER, N., Attività processuali con efficacia normativa, cit., p. 39 s.). Ma
al di là da questi riferimenti sparsi e a dir il vero non del tutto omogenei dal punto di vista
strutturale e funzionale, va detto che per la prima volta si presenta il problema della giusti-
ziabilità degli interessi collettivi in una prospettiva post-costituzionale, come può notarsi leg-
gendo la nota che segue.
64 Osserva, difatti, JAEGER, N., Attività processuali con efficacia normativa, cit., p. 39 s.,

che, «poiché – almeno per quanto sappiamo – è questa la prima volta che problemi simili
vengono posti all’esame degli studiosi nei termini qui prospettati, non possiamo attenderci di
trovare nel diritto positivo molti esempi di attuazione del principio enunciato; ma anche un
numero limitato di essi potrà risultare sufficiente allo scopo che ci siamo proposti, di invitare
i legislatori a dettare le norme più opportune affinché la tutela giurisdizionale di interessi di
serie dei tipi qui considerati – ed eventualmente anche di molti altri facilmente rilevabili –
possa attuarsi con garanzie comparabili a quelle concesse da secoli agli interessi particolari,
individuali o di gruppo». D’altra parte, è ancora la dottrina qui richiamata ad evidenziare la
necessità di «riconoscere che proprio i progressi culturali ed economici […] hanno provocato
e continuano a provocare sempre di più il formarsi e la percezione di interessi collettivi del
tutto nuovi, che esigono nuove strutture e nuove forme di organizzazione adeguata»; «non è
più possibile concepire una comunità politica costruita giuridicamente su due soli termini o
tipi di soggetti: l’individuo da un lato e lo Stato dall’altro».
118 CAPITOLO SECONDO

trina amministrativistica, anch’essa orientata a rimarcare la necessità –


specie nel mutato quadro ordinamentale – di pervenire ad un supera-
mento di una lettura dei fenomeni giuridici alla luce di una divaricante
ed assorbente contrapposizione tra individuo e Stato65.
Peraltro, a parte questi primi segnali di evoluzione della sensibilità
scientifica riguardo al problema della tutela giurisdizionale degli interessi
sovraindividuali, va comunque detto che un’esperienza giuridica partico-
larmente significativa in ordine all’individuazione e all’approfondimento
delle delicate questioni interpretative che successivamente si ripropor-
ranno quasi inalterate in altri ambiti di studio è rappresentata dal dibat-
tito attorno alla natura dell’azione di repressione della concorrenza
sleale.
Difatti, con la soppressione dell’ordinamento corporativo, nono-
stante venissero espunte dal sistema le controversie collettive di lavoro,
d’altro canto, sopravviveva – stando alla tesi di gran lunga prevalente66 –

65 Ci riferiamo a SANDULLI, A.M., Per una più piena realizzazione dello Stato di diritto, in
Stato sociale, 1960, p. 3 ss.; e soprattutto a SPAGNUOLO VIGORITA, V., Principio individualistico
nel processo amministrativo e difesa dell’interesse pubblico, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1962, p.
630 ss., scritto nel quale ritroviamo anticipati molti dei temi che verranno a costituire le que-
stioni principalmente sviluppate a partire dagli anni ’70 dal successivo dibattito. Si pensi, ad
esempio, alle osservazioni volte a rilevare i limiti di un processo amministrativo ordinario «in-
teramente impregnato dell’ottocentesco spirito liberale di acceso individualismo», ovvero
«l’intima contraddizione d’un ordinamento processuale che, proponendosi come ragione
della sua esistenza la soddisfazione di un interesse generale, subordini questa rigidamente al
vantaggio dei singoli» (p. 632 ss.). Si pensi ancora al suggerimento di riconoscere forme di tu-
tela degli interessi appartenenti a gruppi o collettività e non unicamente ad interessi di natura
meramente egoistico-personale, come accaduto ad esempio in materia di contenzioso eletto-
rale in cui, viene ad essere riscontrata «una prima percezione dell’esistenza di interessi collet-
tivi comprendenti e trascendenti quelli individuali, e tuttavia a loro volta ben riconoscibili»
(p. 642). Andavano, dunque, emergendo molti elementi di un dibattito che si sarebbe svilup-
pato intensamente di lì a breve, ovvero: a) l’improcrastinabilità del riconoscimento giuridico
di interessi di dimensione anche superindividuale e non per questo «non-individuale» o
«anti-individuale», o comunque non sufficientemente «individualizzati» da potersi perdere
nel magma informe degli interessi generali; b) l’esistenza di gruppi o comunità o categorie –
variamente intermedie tra la generalità indistinta ed i singoli – riflettenti «una convergenza
d’interessi omogenei, circoscritta o circoscrivibile in rapporto a diversi indici di raggruppa-
mento (il luogo, la nascita, l’attività lavorativa, l’appartenenza al medesimo centro economico,
la particolare soggezione allo stesso ente, ecc.)»; c) il riconoscimento di queste figure all’in-
terno della nostra Carta costituzionale (p. 649).
66 Per l’abrogazione della norma v., in particolare, GUGLIELMETTI, G., La concorrenza e

i consorzi, in Trattato di diritto civile italiano, diretto da F. Vassalli, X, Torino, 1970, p. 217 ss.,
che argomenta la tesi sostenendo che il fondamento giuridico su cui faceva perno la disposi-
zione durante il periodo corporativo fosse proprio il regime di rappresentanza legale ed uni-
taria della categoria, venuto meno il quale perderebbe consistenza la ratio della stessa; cfr. an-
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA POST-COSTITUZIONALE 119

quanto disposto dal codice civile agli artt. 2598 ss. ed in particolare all’art.
2601, in cui era ed è previsto che «quando gli atti di concorrenza sleale
pregiudicano gli interessi di una categoria professionale, l’azione per la re-
pressione della concorrenza sleale può essere promossa anche dalle asso-
ciazioni professionali e dagli enti che rappresentano la categoria».
Si può dunque dire – insomma – che il dibattito attorno alla natura
dell’azione collettiva di repressione della concorrenza sleale viene a de-
scrivere i limiti di un’area di riflessione dottrinale sugli strumenti di tu-
tela giurisdizionale degli interessi collettivi, che, similmente ad una sorta
di corridoio immaginario, congiunge il dibattito pre-costituzionale rela-
tivo all’oggetto del nostro studio a quello avviatosi successivamente agli
anni Settanta. E ciò non solo – come è naturale – in quanto l’istituto ora
richiamato rimane in vigore in ben tre delle fasi della periodizzazione qui
proposta (periodo corporativo, primo periodo post-costituzionale e se-
condo periodo post-costituzionale), ma ancor più perché l’inquadra-
mento del rimedio in questione ha nel tempo suscitato dubbi interpreta-
tivi omogenei a quelli sorti nell’interpretazione degli strumenti di tutela
giurisdizionale collettiva introdotti successivamente dal nostro legislatore
per la tutela degli interessi collettivi di nuova generazione.
Come infatti vedremo nel prosieguo del lavoro, cioè allorquando ci
soffermeremo sui tentativi di ricostruzione sistematica tesi a fornire an-
che agli interessi collettivi dei consumatori adeguati strumenti di tutela
giurisdizionale67, proprio l’azione di repressione della concorrenza sleale
ha rappresentato uno degli appigli positivi privilegiati attraverso i quali
dare risonanza ai nuovi interessi sociali bisognosi di protezione giuridica.
Lo strumento processuale in questione si presenta, quindi, non solo
come un fedele compagno di viaggio lungo quasi tutto l’itinerario evolu-
tivo che andiamo ad esaminare, ma anche come un luogo di espressione
delle diverse concezioni tecnico-processuali ed ancor più delle diverse
esigenze sostanziali e dei diversi valori di riferimento in materia di tutela
giurisdizionale degli interessi collettivi.

6.1. Corsi e ricorsi storici: la sentenza della Corte di cassazione n. 171 del
5 febbraio 1948
Una buona introduzione all’esame delle diverse propensioni rico-
struttive presenti in materia può esser costituito dall’esame di alcuni
che ID., Sulla legittimazione ad agire in materia di concorrenza sleale dei consorzi di produttori,
in Riv. dir. ind., 1961, I, p. 321 ss.
67 Cfr. infra, cap. X, § 2.1.
120 CAPITOLO SECONDO

passi di un’interessante sentenza pronunciata dalla Corte di cassazione


nel febbraio del 194868.
La lettura della sentenza ora indicata, infatti, rappresenta e palesa
proprio quelle questioni interpretative che più in là negli anni riemerge-
ranno in diversi settori di studio senza che la dottrina successiva abbia
percezione alcuna del doversi confrontare con tematiche già in prece-
denza affrontate in ordine alla sistemazione di diversi strumenti di tutela
giurisdizionale. In altri termini, si assiste con chiarezza ad una disconti-
nuità di riflessione scientifica che non è solo o semplicemente temporale,
ma piuttosto anche tematica, ovvero che coinvolge – a fasi alterne e senza
significative o comunque risolutive interferenze reciproche – differenti
aree di riflessione giuridica. Ciò fa sì che questioni simili si presentino di
volta in volta come nuove ai diversi studiosi e che questi non si avvedano
di potersi avvantaggiare – quanto meno in parte – delle riflessioni già
svolte in altri settori di studio.
Emerge insomma chiaramente l’assoluta necessità nella nostra mate-
ria di un’indagine non solo particolarmente attenta ai profili teorici che
la problematica presenta, ma anche fortemente indirizzata in una proie-
zione sistematica in grado di ridurre ad armonica e convincente unità le
frammentarie discipline giuridiche degli strumenti di tutela degli inte-
ressi collettivi.
Ciò premesso, comunque, torniamo al punto. La questione che si
presentava alla Corte era quella di verificare se l’Ente serico nazionale,
ente pubblico istituito in vigenza del sistema corporativo, fosse legitti-
mato ad agire ex art. 2601 c.c. per la repressione della concorrenza sleale
facendo valere in giudizio il diritto al risarcimento per i danni derivanti
dalla contraffazione di un marchio collettivo.
La serie logica seguita dalla Corte nel risolvere positivamente il que-
sito era la seguente: a) l’Ente serico nazionale appartiene al novero degli
enti pubblici istituiti «per affidar loro l’attuazione e la tutela degli inte-
ressi collettivi»; b) gli interessi protetti nel giudizio sono gli interessi tu-
telati dal marchio e pregiudicati dalla contraffazione; c) detti interessi
hanno natura privata ed appartengono ai soggetti giuridici privati, pre-
giudicati nell’uso e nel godimento del marchio e non all’Ente; d) peraltro,
detti «interessi complessi» si presentano in una «unitaria essenza», deter-
minata dal ricorrere di «danni diffusi in maniera indeterminata in una

68 Cass., 5 febbraio 1948, n. 171, in Giur. compl. C. Cass., 1948, I, p. 39 ss., con nota di

GHIRON, M., La legittimazione ad agire di enti ed associazioni in materia di marchi e di sleale


concorrenza.
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA POST-COSTITUZIONALE 121

massa indistinta di patrimoni» e dalla presenza di una posizione di godi-


mento comune e non relativa a «quote distinte ed autonome»; e) l’azione
appartiene, dunque, iure proprio all’ente; f) e l’esercizio di detta azione
da parte dell’ente – «organo» della collettività – si presenta, vista ap-
punto l’unitarietà dell’interesse tutelato, «necessario e indefettibile»,
nonché indipendente dalla volontà dei soggetti titolari degli «interessi
privati, pure tutelati dal marchio in funzione di marchio collettivo».
Quanti siano i temi di riflessione anticipati da questa pronuncia po-
trà esser chiaro solo in uno stadio più avanzato del nostro lavoro, si deve
peraltro manifestare sin d’ora lo sconcerto che si prova nel leggere una
sentenza che ben potrebbe prendere il posto – specie alla luce del suo
apparato argomentativo – delle più recenti pronunce in materia di tutela
dei consumatori o di quelle emesse in materia di repressione della con-
dotta antisindacale a metà degli anni Settanta.
Pari riflessione viene suscitata dalla polemica sorta tra i commenta-
tori della sentenza; polemica in cui appunto si assiste alla stessa anticipa-
zione di opzioni ricostruttive successivamente adottate dalla dottrina in
altri ambiti di studio.
Così, un primo orientamento poneva al centro della trama argomen-
tativa la lettera della legge: «l’articolo parla soltanto di legittimazione ad
agire. Ora nessuno può mettere in dubbio la differenza che intercede fra
la legittimazione ad agire e la titolarità del diritto. Sta bene che si possa
essere legittimati ad agire per un diritto altrui, ma è innegabile che la
legge dalla quale risulta una legittimazione così fatta e non altro, non crea
titolarità di sorta»69.
E si aggiungeva: «l’art. 2601 c.c. stabilì che quando gli atti di con-
correnza sleale pregiudicano gli interessi di una categoria, l’azione può
essere esercitata anche dalle associazioni professionali e dagli enti che la
rappresentano. Dunque, in tale articolo, non si concede a questi organi-
smi collettivi la titolarità del diritto, non si concede nemmeno la legitti-
mazione in forma esclusiva, ma nulla dicendosi circa la titolarità, la si la-
scia manifestamente ai singoli […]»70.
Veniva, quindi, presentato un modello processuale ispirato alla con-
corrente legittimazione ad agire in via sostitutiva degli enti rappresenta-
tivi, anche in ordine alla richiesta di condanna del risarcimento del

69 GHIRON, M., La legittimazione ad agire di enti ed associazioni in materia di marchi e di

sleale concorrenza, cit., p. 46.


70 GHIRON, M., La legittimazione ad agire di enti ed associazioni in materia di marchi e di

sleale concorrenza, cit., p. 47.


122 CAPITOLO SECONDO

danno da liquidarsi poi – magari in via equitativa (come nel caso di danni
«indifferenziati») – a favore dei singoli imprenditori pregiudicati, i quali
ultimi avrebbero poi vantato nei confronti dell’ente un diritto al paga-
mento delle somme percepite a titolo di risarcimento71.
Sul fronte opposto, invece, era proprio il diniego della mera titola-
rità del diritto di azione in capo all’ente rappresentativo in ordine al di-
ritto al risarcimento dei danni subiti dal singolo imprenditore ad essere
assunto come premessa per i successivi passaggi della complessiva opera
di sistemazione del rimedio; e ciò in ragione del fatto che, argomentando
in maniera differente, si sarebbe realizzato «uno spostamento non giusti-
ficato di diritti, dal singolo alla categoria»72.
Ciò posto, dunque, e ritenuto anche che «gli enti, come tali, non pos-
sono risentire danno», si prospettava uno scenario alternativo, rappresen-
tato dall’ipotesi in cui «gli interessi danneggiati» fossero gli interessi del-
l’intero «ramo della produzione» e non gli interessi «individualizzati» ap-
partenenti ai singoli soggetti, che possano agire per la loro difesa.
Si configurava, quindi, un «danno indeterminato, nella categoria di
tutti i produttori», legittimante l’ente – costituito appunto in ordine alla
tutela di quegli interessi – all’esercizio di un proprio diritto al risarci-
mento.

71 L’A. affronta anche il problema dei limiti del giudicato sostenendo (GHIRON, M., La

legittimazione ad agire di enti ed associazioni in materia di marchi e di sleale concorrenza, cit.,


p. 48 s.) che l’accertamento ottenuto in sede di giudizio collettivo, sia in caso di pronuncia di
mero accertamento, di inibitoria, o di condanna al pagamento della somma dovuta a titolo di
risarcimento, operi erga omnes, in virtù del principio (si rinvia ai Principi di diritto processuale
civile di CHIOVENDA, G., Napoli, 1912, p. 598) secondo il quale, come avviene in relazione al-
l’azione surrogatoria ex art. 2900 c.c., la sentenza ottenuta dal sostituto processuale svolge ef-
ficacia anche nei confronti del sostituito. A contemperamento di dette conseguenze si so-
stiene la possibilità di esercitare i poteri previsti ex art. 107 c.p.c., nonché la limitazione –
chiaramente valida solo a fronte di danni che non siano indifferenziati – dell’efficacia di ac-
certamento nei confronti dei soggetti titolari del diritto al risarcimento che sia stato specifi-
camente dedotto in giudizio dall’ente rappresentativo.
72 AULETTA, G., Soggetti passivi della concorrenza sleale e diritto al risarcimento del

danno, in Giur. it., 1948, I, 1, p. 217 ss., spec. p. 220, che in realtà pone a fondamento della
critica mossa all’opposta tesi di Ghiron le riflessioni avanzate da quest’ultimo in uno scritto
anteriore relativo ad una fattispecie analoga ma non coincidente, poiché riferita al sistema vi-
gente prima della caduta dell’ordinamento corporativo. In detta ipotesi, GHIRON, M., La di-
sciplina dei traffici, gli organismi di vigilanza e la loro costituzione di parte civile nei processi pe-
nali, in Foro it., 1933, II, p. 842 ss., aveva sostenuto – in estrema sintesi – la possibilità che
l’ente agisse in rappresentanza ex lege della pluralità dei concorrenti potendo inoltre spen-
dere le somme conseguite per la tutela degli interessi generali previsti dalle finalità statutarie
senza obbligo di distribuzione ai singoli; tesi, quest’ultima, come visto, rivista nello scritto in
esame nel testo.
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA POST-COSTITUZIONALE 123

Il discrimen tra azione individuale e azione collettiva doveva pertanto


essere rilevato nella presenza o meno di danni «individualizzati» o – per
dirla con terminologia forse più recente – di interessi «differenziati», in
assenza dei quali, preclusa l’azione individuale, la finalità risarcitoria degli
interessi della categoria veniva ad essere «affidata sussidiariamente al-
l’ente, rendendolo titolare degli interessi offesi non individualizzati»73.
Anche in questa duplice ed opposta lettura dottrinale, dunque, in-
dipendentemente dalla maggiore o minore plausibilità che possa al mo-
mento essere attribuita ad una delle due impostazioni, ci si trova comun-
que innanzi a motivi ed argomenti di riflessione che, se fossero isolati dal
loro contesto, ben potrebbero adattarsi al dibattito successivo; e ciò in
primo luogo in riferimento alla contrapposizione tra una concezione uni-
taria dell’interesse collettivo ed una concezione viceversa aggregata dello
stesso74. Si pensi ancora – ed ancora per finalità meramente esemplifica-
tive – al delicato rapporto tra legittimazione dell’ente esponenziale e ri-
sarcimento del danno75. Tutti temi su cui negli anni successivi – sino a
tutt’oggi – saranno scritti fiumi di inchiostro.

6.2. Le diverse tesi sulla natura del giudizio di repressione della concor-
renza sleale ex art. 2598 c.c.: tesi «soggettive» e tesi «oggettive»
Al termine di questo significativo excursus possiamo più distesa-
mente tornare all’esame delle diverse tesi proposte in merito alla natura
dell’azione collettiva di repressione della concorrenza sleale, verificando
quali siano le diverse opzioni ricostruttive proposte in materia dalla dot-
trina tradizionale riguardo la determinazione dell’oggetto del processo e,
di conseguenza, la qualificazione giuridica della situazione legittimante
l’azione collettiva, i rapporti tra giudizio collettivo e giudizio individuale,
nonché altre ulteriori questioni che a breve indicheremo.
Va d’altra parte premesso che l’esatto inquadramento dell’azione
collettiva in tutti gli specifici aspetti ora indicati non ha potuto sottrarsi

73 AULETTA, G., Soggetti passivi della concorrenza sleale e diritto al risarcimento del
danno, cit., p. 222.
74 Sul tema, in una prospettiva di riflessione generale, v. il cap. III. Il punto è poi og-

getto di riflessione in tutti i capitoli successivi ed in riferimento ai diversi rimedi apprestati


dal nostro ordinamento per la tutela degli interessi collettivi. Per considerazioni critico-rico-
struttive, v. peraltro, ancora in chiave generale, il cap. IV, appunto dedicato al concetto di in-
teresse.
75 Sul punto, v. in particolare il cap. VII, § 5.6., in materia di repressione della condotta

antisindacale, nonché il cap. X, § 3.3., in materia di tutela dei consumatori.


124 CAPITOLO SECONDO

all’influenza della più ampia problematica concernente l’opportuna qua-


lificazione dello stesso generale divieto di concorrenza sleale appunto
previsto dall’art. 2598 c.c.76 ed in particolare al progressivo superamento
della impostazione tradizionale – volta a vedere nella normativa de qua la
composizione di conflitti intersoggettivi tra interessi individuali, configu-
rabili appunto in termini di diritti soggettivi preesistenti e violati77 – ad

76 Per un esame dei profili evolutivi accennati nel testo, v., in generale, MANGINI, V.,

Sub. art. 2598, in AULETTA, G.C. - MANGINI, V., Invenzioni industriali, Modelli di utilità e di-
segni ornamentali, Concorrenza, in Commentario del Codice Civile, a cura di A. Scialoja e G.
Branca, Bologna-Roma, 1973, p. 141; FRANCESCHELLI, R., Concorrenza: II) Concorrenza sleale,
in Enc. giur. Trec., VII, Roma, 1988, spec. p. 21 ss.; più di recente, sebbene nell’ottica più spe-
cifica delle relazioni tra concorrenza sleale e tutela dei consumatori, v. CACCIATORE, A., Con-
correnza sleale e tutela del consumatore, in Riv. dir. imp., 2005, p. 283 ss.; sul tema, cfr. anche
infra, cap. X, § 2.1.1., appunto per le circuitazioni tra detta prospettiva e la possibile apertura
del giudizio di repressione della concorrenza sleale alla tutela degli interessi dei consumatori.
77 In questo senso è orientata gran parte della dottrina, specie quella tradizionale, favo-

revole a ritenere che gli interessi tutelati dall’art. 2598 c.c. siano gli interessi individuali degli
imprenditori in concorrenza sotto forma di diritti soggettivi. Diverso poi è il contenuto del-
l’interesse tutelato e la configurazione giuridica dell’interesse sostanziale ritenuta preferibile
(diritto assoluto o relativo; bene materiale o immateriale; interesse patrimoniale o non patri-
moniale ecc.). Queste questioni hanno sollevato un intenso dibattito all’interno della dottrina
classica e ciò per la difficoltà di adattare il concetto di diritto soggettivo inteso in senso tra-
dizionale alla tutela offerta dalle disposizioni in esame. L’approfondimento di tali profili ri-
sulta peraltro piuttosto marginale in ordine alle nostre finalità di ricerca, rimanendo per noi
essenziale la natura individuale o generale dell’interesse tutelato e la qualificazione oggettiva
o soggettiva delle norme di riferimento. Esemplificando, comunque, in dottrina si parla di di-
ritto patrimoniale assoluto di godimento dell’azienda (MOSCO, L., La concorrenza sleale, Mi-
lano, 1956, p. 108 ss.) di diritto all’azienda-organizzazione (FERRARA, F., La teoria giuridica
dell’azienda, Firenze, 1949, p. 113 ss.) di diritto all’avviamento (v. CASANOVA, M., Le imprese
commerciali, Torino, 1955, p. 633 ss.; ID., Impresa e azienda, Le imprese commerciali, in Trat-
tato di diritto civile italiano, diretto da F. Vassalli, X, t. 1, p. 698 ss., ma spec. p. 724; ID., Con-
correnza, in Noviss. dig. it., III, Torino, 1959, 1957, p. 993 ss., ma spec. p. 1000; ma v. da
prima CARNELUTTI, F., Usucapione della proprietà industriale, Milano, 1938, p. 32 ss., che qua-
lifica l’avviamento come opera dell’ingegno; LA LUMIA, I., Tutela giuridica della «azienda com-
merciale», in Riv. dir. comm., 1940, I, p. 413 ss., ma spec. p. 426 ss.), di diritto alla clientela
(AULETTA, G., Sub. art. 2598, in Azienda, Opere dell’ingegno e invenzioni industriali, Concor-
renza, in Commentario del Codice Civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma,
1956, p. 335 ss.) di diritto relativo «alla lealtà della concorrenza», meglio specificato come
«diritto di personalità» (ASCARELLI, T., Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, Lezioni
di diritto industriale, Milano, 1960, p. 188 ss.; cfr. anche GUGLIELMETTI, G., La concorrenza e
i consorzi, cit., p. 102 ss., che però ritiene che detto diritto della personalità, diversamente da
quanto sostenuto da Ascarelli, abbia natura assoluta) e così via. Per un esame analitico-critico
delle diverse posizioni espresse da parte della dottrina classica, v., GUGLIELMETTI, G., La con-
correnza e i consorzi, cit., p. 80 ss.; CASANOVA, M., Impresa e azienda, Le imprese commerciali,
cit., p. 689 ss.; JAEGER, P.G., Valutazione comparativa di interessi e concorrenza sleale, in Riv.
dir. ind., 1970, I, p. 5 ss.; per un panorama di efficace sintesi, v. GRECO, F., Sub. Art. 2598, in
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA POST-COSTITUZIONALE 125

opera di un’opposta concezione di stampo oggettivo, tesa a rinvenire nel


divieto legale la mera imposizione di doveri di astensione78. Sicché per

Azienda, Diritto d’autore e di brevetto, Concorrenza e consorzi, Norme penali su società e con-
sorzi, t. 2, Libro V, Del lavoro, in Commentario teorico-pratico al codice civile, diretto da V. de
Martino, Roma, p. 926 ss.
78 Tra coloro che per primi hanno contrapposto con ampiezza di argomentazioni la na-

tura oggettiva delle norme sulla concorrenza sleale alle tesi «soggettive», v. SANTINI, G., I di-
ritti della personalità nel diritto industriale, Padova, 1959, p. 112 ss., (ma anche ID., Concor-
renza sleale ed impresa, in Riv. dir. civ., 1959, I, p. 125 ss.) che appunto sostiene: «il diritto di
libertà economica e la libertà economica stessa preesistono all’impresa e sono del tutto indi-
pendenti dalle norme che reprimono gli atti di concorrenza sleale»; norme che per l’A. risul-
tano meramente impositive di «divieti» e quindi «limiti» a detti diritti e libertà. Va comunque
rimarcato che anche secondo questa lettura gli interessi sostanziali tutelati dalla norma rimar-
rebbero gli interessi individuali degli imprenditori, non predicabili – però – in termini di «di-
ritti soggettivi veri e propri». Stando a ciò, dunque, il richiamo alla natura oggettiva delle
norme non vale ad indicare la natura pubblica o generale degli interessi tutelati (che tra l’al-
tro l’A. ritiene essere appartenuta alle norme nella loro genitura corporativa; p. 117-118), ma
unicamente appare come scelta tecnica di strutturazione formale del mezzo di tutela (cfr. le
affermazioni inequivocabili a p. 113 e 117). È in quest’ottica, infatti, che giunge il richiamo
sistematico ad altri rimedi civili assimilabili all’azione inibitoria prevista ex art. 2599 c.c., quali
le azioni nunciatorie ed in particolare le azioni a tutela del possesso (spec. p. 122 e 124 ss.);
ipotesi quest’ultima in cui si assiste – sul piano sostanziale – all’esercizio di poteri di fatto
(cioè ad attività materiali), tutelati nella forma dell’attribuzione di «mere azioni» o, al più, di
diritti soggettivi che sorgerebbero in capo all’imprenditore «quando il suo interesse fosse
(già) leso per effetto d’una violazione in atto del dovere (generale) di non compiere atti di
concorrenza sleale e della situazione di pericolo in tal modo creatasi». Si sarebbe, dunque, in
presenza sì di diritti soggettivi, ma diritti soggettivi conseguenti alla violazione del diritto og-
gettivo e non effetto della violazione di preesistenti diritti soggettivi. Successivamente, detta
lettura «oggettiva» è stata ripresa ed ulteriormente approfondita nel fondamentale saggio di
JAEGER, P.G., Valutazione comparativa di interessi e concorrenza sleale, cit., spec. p. 31 ss. Qui,
l’A. richiamato, in un ampio ed articolato itinerario critico-argomentativo, pone a principio
della sua lettura ricostruttiva il confronto tra teoria dell’illecito civile e divieto di concorrenza
sleale, sostenendo, in ambo i casi, il superamento delle tesi che dell’illecito individuano il pre-
supposto necessario nella lesione di diritti soggettivi, piuttosto che nella violazione di «do-
veri» e, peraltro, proseguendo – in senso ricostruttivo – col rimarcare la necessità di rispon-
dere all’ulteriore quesito relativo al «perché quei doveri sono imposti, e nell’interesse di chi
sono stabilite quelle regole». In altri termini, come per Santini, anche per Pier Giusto Jaeger,
il predicare la natura oggettiva del divieto di concorrenza sleale non implica il riconoscere che
l’interesse tutelato abbia natura pubblica o collettiva e, pertanto, pur premessa la natura og-
gettiva delle norme, rimane aperto l’interrogativo concernente l’individuazione della natura
degli interessi che dette norme tutelano. Così, anche per Jaeger, l’interesse sostanziale pro-
tetto in via «primaria e diretta» è e rimane l’interesse che appartiene a ciascun imprenditore
concorrente, come devesi argomentare sulla base della legittimazione ad agire riconosciuta
solamente a questi soggetti (spec. p. 51). Altra cosa, peraltro, – ed è qui che l’A. mira a di-
stinguersi dalla dottrina precedente – è dare rilievo in sede interpretativa agli interessi collet-
tivi appartenenti ai consociati e ai consumatori assumendo gli stessi come «parametri di valu-
tazione degli interessi degli imprenditori in conflitto» (p. 101) per assegnare la prevalenza al-
126 CAPITOLO SECONDO

meglio orientarci all’interno delle diverse posizioni è opportuno tener


presente questa cornice qualificatoria generale, senza la quale non si riu-

l’interesse imprenditoriale maggiormente conforme all’utilità sociale. Gli interessi collettivi,


come lo stesso A. ammette, in coerenza col nesso di strumentalità che li lega agli interessi im-
prenditoriali, sarebbero tutelati «in maniera indiretta» ossia «attraverso la diretta difesa di in-
teressi propri del singolo o di singoli concorrenti» (cfr. p. 101, ma anche p. 102, in termini
ancora espressi). Vi sarebbero due piani: quello, preso ad oggetto diretto della tutela, relativo
al conflitto tra interessi individuali imprenditoriali e quello superiore, ma rilevante solo in via
indiretta, concernente gli interessi della collettività. Cfr. anche quanto sostenuto in ID., I sog-
getti della concorrenza sleale, in Riv. dir. ind., 1971, I, p. 169 ss., ma spec. p. 171, in merito al-
l’impossibilità di estendere la legittimazione ad agire ex art. 2601 c.c. alle associazioni dei
consumatori; ID., Pubblicità e «principio di verità», in Riv. dir. ind., 1971, I, p. 331 ss. Sul tema
relativo al maggior ruolo riconosciuto in sede ricostruttiva a questa dimensione collettiva de-
gli interessi in via mediata dalla normativa, v., seppur brevemente, infra, cap. X, § 2.1.1., al-
lorché appunto saremo orientati a porre in rilievo questa specifica questione, che, per il mo-
mento, rimane secondaria. Va dunque, sotto un profilo teorico generale, tenuta ben distinta
la questione relativa alla presunta natura oggettiva delle norme, da quella viceversa attinente
alla natura individuale o general-collettiva degli interessi tutelati; se sovente le due questioni
si presentano correlate ed anzi la prima è conseguenza classificatoria formale della seconda,
talora ciò non accade e così è, inequivocabilmente nella posizione di Santini e P.G. Jaeger.
Cade in errore, dunque, la dottrina che, di recente, specie a commento della posizione as-
sunta da Jaeger, confonde i due piani sostenendo che il divieto di concorrenza sleale sia per
l’A. posto a tutela di interessi collettivi, dell’economia generale ed anche degli interessi dei
consumatori (così, ad es. PETRILLO, C., La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi nella
concorrenza sleale, in La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, a cura di L.
Lanfranchi, Torino, 2003, p. 419 ss., ma spec. p. 422 nel testo ed in nota; più correttamente,
invece, CACCIATORE, A., Concorrenza sleale e tutela del consumatore, cit., 287, nota 17 in fine).
Per una visione più completa della tesi di P.G. Jaeger, inclusiva anche delle osservazioni che
l’A. propone ai fini dell’interpretazione del giudizio collettivo ex art. 2601 c.c., v. infra, in
nota e nel testo. Escludono che la normativa in materia di concorrenza sleale possa essere
agevolmente ricondotta alla tradizionale figura del diritto soggettivo anche altre autorevoli
voci in dottrina; e ciò sebbene il superamento di questa prospettiva approdi – come solito –
a lidi dogmaticamente incerti. Cfr., pur all’interno di diverse impostazioni, l’attento saggio di
BONASI BENUCCI, E., Atto illecito e concorrenza sleale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1957, p. 563
ss., ma spec. 580. Cfr. anche PUGLIATTI, S., Il trasferimento delle situazioni soggettive, I, Mi-
lano, 1964, p. 63; TRIMARCHI, P., Illecito: b) Diritto privato, in Enc. dir., XX, Milano, 1970, p.
90 ss., ma spec. 94, in cui, a margine di riflessioni dirette a lumeggiare il rapporto di non ne-
cessaria correlazione tra illecito civile e violazione di un preesistente diritto soggettivo, os-
serva come la concorrenza sleale non può essere concepita come un riconoscimento di diritti
soggettivi in capo agli imprenditori e ciò per la fondamentale questione della mancanza del
«nucleo» storico della nozione di diritto soggettivo, ovvero «il carattere “attributivo” di
beni»; SANTAGATA, C., Concorrenza sleale e interessi protetti, Napoli, 1975, p. 34, 47, in cui
l’accoglimento della tesi oggettiva, negatoria di diritti soggettivi preesistenti alla violazione del
dovere, apre la strada alla tesi dell’A. favorevole ad ammettere la legittimazione ad agire an-
che a favore delle associazioni dei consumatori; ID., Le nuove prospettive della concorrenza
sleale, in Riv. dir. comm., 1971, I, p. 141 ss., ma spec. 155; FINZI, E., Repressione della con-
correnza sleale e responsabilità per fatto illecito, in Riv. dir. ind., 1952, II, p. 7 ss.; più di re-
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA POST-COSTITUZIONALE 127

scirebbe a dare l’adeguata contestualizzazione dogmatica alle questioni


poc’anzi indicate.

cente v. anche DI MAJO, A., La tutela civile dei diritti, Milano, 2003, p. 141 ss. Interessanti
sono anche altre prospettive ricostruttive in un certo senso eclettiche che non si orientano
verso la tesi del diritto oggettivo, ma ugualmente fanno emergere le difficoltà teoriche di in-
quadramento sistematico della norma nelle categorie dogmatiche tradizionali: cfr. ad es. CA-
MILLI, C., I soggetti della concorrenza sleale, in Riv. dir. ind., 1968, I, p. 363 ss., ma spec. p. 385
ss., che preferisce non accostare la normativa in esame all’illecito, ma ugualmente evidenzia
come l’interesse tutelato dalla norma, ovvero la «lealtà della concorrenza», venga realizzato
non mediante l’attribuzione di beni nella forma del diritto assoluto, bensì attraverso l’impo-
sizione di «una serie di specifici divieti», ovvero «divieti di astensione» funzionalizzati a tute-
lare interessi individuali degli imprenditori (e non interessi generali), che, secondo l’A., de-
vono essere ricondotti al concetto tecnico di obbligazione (si richiama GIORGIANNI, M., L’ob-
bligazione, Catania, 1945) e non a quello di obbligo generico; prospettiva ricostruttiva
quest’ultima, simile a quella prima indicata da DI PAOLO, A., Concetto giuridico di concor-
renza, in Monitore trib., 1948, p. 259 ss. che afferma che «l’atto di concorrenza sleale non è
atto emulativo o abusivo esercizio di un diritto, non attentato all’altrui diritto individuale o
reale e nemmeno lesione colposa o dolosa di un diritto altrui, ma […] violazione di un ob-
bligo legale e più precisamente di inadempimento (art. 1218 c.c.)». V. anche la posizioni di
MINERVINI, G., Concorrenza e consorzi, in Trattato di diritto civile, diretto da G. Grosso e F.
Santoro Passarelli, Torino, 1955, p. 11-12, per il quale «il divieto di concorrenza sleale altro
non è se non la limitazione del contenuto del diritto di libertà di iniziativa economica nei re-
ciproci rapporti» e che poi (cfr. p. 18, c.vo mio), correttamente osserva che «il divieto della
concorrenza sleale è un limite del diritto di libertà di iniziativa economica, così come le cc.dd.
servitù legali sono limiti del diritto di proprietà; ed è un limite in senso tecnico, non già un
c.d. limite funzionale, vale a dire un’ipotesi di divieto di abuso di diritto»; con riferimento, in-
vece, all’abuso di diritto v. il richiamo di NATOLI, U., Note preliminari ad una teoria dell’abuso
del diritto nell’ordinamento italiano, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, p. 18 ss., ma spec. p. 30-
31; proprio ad un limite funzionale, approda, peraltro, FLORIDIA, G., Correttezza e responsabi-
lità dell’impresa, Milano, 1982, spec. p. 244 ss. (cfr. anche, più di recente, ID., Dall’illecito con-
correnziale al diritto soggettivo e Le valutazioni in termini di correttezza professionale, in AU-
TERI, P. - FLORIDIA, G. - MANGINI, V. - OLIVIERI, G. - RICOLFI, M. - SPADA, P., Diritto industriale,
Proprietà intellettuale e concorrenza, Torino, 2005, rispettivamente p. 289 ss. e 308 ss.), che (p.
243, nota 99), negata la possibilità di utilizzare la figura dell’abuso del diritto (teoria che «pre-
suppone e perpetua una visione rigidamente garantistica dell’ordinamento pervasa dall’otti-
mistica convinzione che l’esercizio non condizionato dei diritti adempie nel contempo la tu-
tela dell’interesse generale» e «si inserisce non già per dare rilievo agli interessi collettivi,
bensì per consentire la coesistenza e il pacifico esercizio di diritti individuali limitrofi e con-
fliggenti») e negata anche la possibilità di parlare di norme di diritto oggettivo (la critica è
volta avverso la posizione di Santini), presenta la figura del «diritto d’impresa-funzione dell’u-
tilità sociale», ovvero di un diritto soggettivo limitato ab interno, in ragione del necessario col-
legamento tra la clausola generale dei «principi di correttezza professionale» prevista ex art.
2598 e il precetto costituzionale espresso dall’art. 41, comma 2. Limiti comunque operanti
solo all’interno dei rapporti tra imprenditori (cfr. infra, cap. X, § 2.1.1.). Secondo una linea
molto simile a quella sviluppata da Jaeger (il quale però nega il necessario rinvio alle norme
costituzionali e si riferisce in via diretta agli interessi collettivi) e da altri Autori su cui ci sof-
fermeremo nel capitolo del nostro lavoro dedicato alla tutela degli interessi dei consumatori,
128 CAPITOLO SECONDO

6.3. La natura dell’azione collettiva ex art. 2601 c.c. per le tesi «sogget-
tive» dell’illecito
Se ci confrontiamo, dunque, con le teorie che hanno ritenuto – sep-
pur con diversi accenti – che il divieto ex art. 2598 c.c. sia posto a tutela
di diritti soggettivi propri degli imprenditori concorrenti, è possibile ope-
rare una ulteriore sotto-distinzione tra due diversi orientamenti.
Secondo una prima lettura, anche l’oggetto del giudizio collettivo
sarebbe costituito dai diritti soggettivi degli imprenditori pregiudicati; e
tale questione – ovviamente – dovrebbe essere accolta come presupposto
in ordine alla soluzione del successivo quesito relativo alla determina-
zione del titolo legittimante l’azione dell’associazione.
Su questo piano, andrebbe messo nell’adeguato risalto il mutato re-
gime giuridico delle associazioni sindacali. Se, infatti, prima dell’aboli-
zione dell’ordinamento corporativo, il potere di rappresentanza unitaria
e legale attribuito alle associazioni riconosciute consentiva l’esercizio del-

dunque, anche qui l’«utilità sociale» opera come «criterio di risoluzione di un conflitto inter-
soggettivo fra due imprenditori concorrenti» (p. 246). Esemplificando, l’applicazione del li-
mite interno al diritto soggettivo d’impresa costituito dall’«utilità sociale» potrebbe condurre:
a) «ad escludere la qualificazione di illiceità di atti di gestione dell’impresa socialmente utili
anche se pregiudizievoli per un concorrente determinato (o per l’intera categoria imprendi-
toriale di appartenenza)», garantendo così, la «sovraordinazione degli interessi “terzi” ri-
spetto a quelli imprenditoriali» (p. 295, c.vo mio); b) condurre «al risultato della qualifica-
zione di illiceità di un atto di gestione d’impresa in quanto socialmente dannoso anche se non
pregiudizievole per un concorrente determinato». Mettendo per ora da parte i riflessi di detta
interpretazione sulla determinazione dell’interesse tutelato nel giudizio – che chiaramente
verrebbe ad essere, quanto meno anche, l’interesse collettivo espressione dell’utilità sociale
(solo così infatti può ammettersi la prevalenza di detto interesse sugli interessi imprendito-
riali!) – e rinviando queste osservazioni al capitolo X, va però richiamata l’attenzione, dal
punto di vista teorico-dogmatico, sulla figura del diritto soggettivo-funzione, che in realtà si
presenta come un vero e proprio ossimoro concettuale e che, come fin troppe volte vedremo
nel nostro studio, è figlio delle concezioni che confondono il concetto di diritto soggettivo
con il concetto di libertà. Se si presuppone, infatti, che il concetto di diritto soggettivo abbia
come contenuto la libertà di agire, l’imposizione di limiti a detta libertà viene a creare delle
difficoltà ricostruttive che impongono agli interpreti evoluzioni ricostruttive idonee a ricon-
durre a logica il fenomeno complessivo. Così si può approdare al concetto di abuso del di-
ritto oppure – come nella dottrina qui richiamata – all’equivoca figura del diritto soggettivo-
funzione. Il punto, peraltro, è che un soggetto o è libero di porre in essere i comportamenti
che meglio rispondono ai propri interessi, ovvero è messo dall’ordinamento in una posizione
di libertà o al contrario subisce dei vincoli che dal punto di vista teorico non sono null’altro
che obblighi, ovvero comportamenti doverosi. Ciò posto, il concetto di limite esterno o in-
terno è francamente poco convincente, come poco convincente è la creazione di figure dog-
matiche nuove per cercare di giustificare la non tenuta concettuale di altre concezioni dog-
matiche erronee. Sul punto, v. amplius, cap. V.
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA POST-COSTITUZIONALE 129

l’azione a tutela dell’interesse dell’intera categoria, venuto meno detto re-


gime totalitario e pubblicistico, occorreva ritenere che la rappresentanza
ex lege fosse stata sostituita da un regime di rappresentanza volontaria
soggettivamente limitata agli aderenti.
Secondo questa impostazione l’ente potrebbe, quindi, dedurre in
giudizio unicamente i diritti soggettivi dei soci79. Il fondamento sostan-
ziale del potere di azione verrebbe ad essere costituito dal vincolo asso-
ciativo, mentre sul piano più propriamente tecnico-processuale detto po-
tere di azione sarebbe più precisamente da ricondursi ad un ipotesi di so-
stituzione processuale80, o, come sostenuto da altre opinioni, sebbene per

79 In questo senso, v. GHIRON, M., La legittimazione ad agire di enti ed associazioni in

materia di marchi e di sleale concorrenza, cit., p. 44, ma spec. 47-48, che non pone in grande
risalto l’effetto legittimante del rapporto associativo sottostante, ma anzi sottolinea la perdu-
rante funzione di rappresentanza degli interessi di categoria che si propongono le associazioni
rappresentative, sebbene nella sostanza poi emerga chiaramente – specie nell’approfondi-
mento dei rapporti tra azioni individuali e azione collettiva – il fondamento dell’azione ex art.
2601 c.c. Così, anche MINERVINI, G., Concorrenza e consorzi, Milano, 1961, p. 45-46. Separa-
tamente vanno annoverati GHIDINI, G., La concorrenza sleale, Torino, 2001, p. 61, che aderi-
sce a questa impostazione, ma solo per il caso in cui «l’ente agisca per tutelare un interesse
non strettamente proprio ma solo degli aderenti»; ancora diversa è la posizione di GUGLIEL-
METTI, G., La concorrenza e i consorzi, cit., p. 217 ss., ma spec. p. 220, che, coerentemente alla
sua opinione circa l’avvenuta abrogazione dell’art. 2601 c.c., pone a fondamento dell’azione
solo il contratto associativo e il potere di rappresentanza processuale da cui discendono logi-
camente le relative conseguenze (cfr. anche, ID., Sulla legittimazione ad agire in materia di con-
correnza sleale dei consorzi di produttori, cit., p. 334).
80 Così, GHIRON, M., La legittimazione ad agire di enti ed associazioni in materia di mar-

chi e di sleale concorrenza, cit., p. 44, ma spec. p. 47-48; ID., La concorrenza e i consorzi, in
Trattato di diritto civile italiano, diretto da F. Vassalli, Torino, 1949, p. 68; a cui aderisce MI-
NERVINI, G., Concorrenza e consorzi, cit., p. 45-46; alla sostituzione processuale si richiama an-
che LIBERTINI, M., Azioni e sanzioni nella disciplina della concorrenza sleale, in La concorrenza
e i consorzi, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, diretto da F.
Galgano, IV, Padova, 1981, p. 268, che però, distingue tra le ipotesi in cui si realizzi un pre-
giudizio differenziato in capo ad uno o più soggetti e le ipotesi di danno indifferenziato; nel
primo caso per l’A. sarebbe appunto opportuno parlare di sostituzione processuale, ma non
viene specificato se detto potere di azione sia fondato – come nelle tesi affini – sul rapporto
associativo e sia dunque limitato all’azionabilità dei soli diritti dei soci; nel secondo caso, in-
vece, si ritiene che il diritto al risarcimento spetti direttamente all’ente in virtù dell’attività
promozionale che svolge e senza obbligo di ripartizione della somma tra i soggetti danneg-
giati; similmente, GHIDINI, G., La concorrenza sleale, cit., p. 61 (ed ugualmente nella prece-
dente edizione del 1970 del lavoro da poco richiamato, oltre che in ID., Della concorrenza
sleale, in Il Codice Civile, Commentario, diretto da P. Schlesinger, Milano, 1991, p. 459), fa-
vorevole al rinvio all’art. 81 c.p.c., ma, come detto, solo nel caso in cui «l’ente agisca per tu-
telare un interesse non strettamente proprio ma solo degli aderenti», e che tra l’altro eviden-
zia come detta tesi sembrerebbe confermata dall’attribuzione della legittimazione ad agire alle
Camere di commercio ai sensi dell’art. 2, comma 5, della l. 29 dicembre 1993, n. 580. In base
130 CAPITOLO SECONDO

lo più prescindendo dalla portata precettiva dell’art. 2601 c.c.81, ad un


caso di rappresentanza processuale82.
Da ciò deriverebbe inoltre: a) l’obbligo di determinare ex ante i di-
ritti soggettivi dedotti in giudizio e pregiudicati dal comportamento anti-
giuridico; b) l’obbligo – qualora si ritenesse possibile proporre anche una
domanda di condanna al risarcimento del danno da parte dell’ente col-
lettivo83 – di distribuzione agli iscritti delle somme conseguite a titolo di
risarcimento84; c) nonché anche la limitazione degli effetti del giudicato ai
rapporti giuridici specificamente dedotti in giudizio85.
Anche all’interno della posizione ora sunteggiata è peraltro possibile
rinvenire una ulteriore articolazione interpretativa in virtù della seguente
questione.

a questa legge – sostiene Ghidini – le associazioni professionali sembrerebbero agire in via so-
stitutiva, mentre le Camere di commercio sembrerebbero agire iure proprio, in virtù della
«rappresentanza unitaria e globale degli interessi generali delle imprese» conferita loro.
81 GUGLIELMETTI, G., La concorrenza e i consorzi, cit., p. 220 (ma si tenga sempre pre-

sente la sua particolare prospettiva ricostruttiva); similmente si pone ASCARELLI, T., Teoria della
concorrenza e dei beni immateriali, cit., p. 263 ss., che ritiene che le associazioni possano agire
in rappresentanza degli associati, magari – in tal caso – richiedendo in nome loro anche il ri-
sarcimento dei danni; peraltro, Ascarelli ammette anche in via autonoma – ex art. 2601 c.c. –
un’azione collettiva a meri fini inibitori. In altri termini, sia Guglielmetti che Ascarelli si ri-
chiamerebbero alla rappresentanza processuale senza «passare» per il disposto dell’art. 2601
c.c., ma in base alla disciplina ordinaria; per il primo, poi, la norma sarebbe stata abrogata,
mentre per il secondo ne residuerebbe un utilizzo a fini inibitori.
82 La differenza tra le due ipotesi ricostruttive è – come osserva GHIDINI, G., Concorrenza

sleale, in Enc. dir., Aggiornamento, III, Milano, 1999, p. 377 ss., ma spec. p. 413 – rappre-
sentata dalla seguente circostanza: se si aderisce alla tesi della sostituzione processuale si può
realizzare un concorso tra azione dell’associazione ed azione del socio, mentre, diversamente,
aderendo alla tesi della rappresentanza processuale detto concorso non si verificherebbe.
83 Tra le tesi rientranti in questo orientamento, nega l’ipotesi dell’azione collettiva di ri-

sarcimento, salvo la volontaria ipotesi di rappresentanza conferita dai soci all’ente, ASCARELLI,
T., Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, cit., p. 264, che ritiene esperibile solo l’a-
zione inibitoria della pratica sleale: unica fattispecie che sarebbe richiamata dall’art. 2601 c.c.;
probabilmente va avvicinata a questa tesi quella di FRANCESCHELLI, R., Sulla legittimazione ad
agire in concorrenza sleale delle associazioni professionali e dei consorzi e sulla pretesa giustifi-
cazione dei principi della correttezza professionale con l’art. 41 della Costituzione e la protezione
dei consumatori, in Riv. dir. ind., 1983, II, p. 29 ss., spec. p. 31, che d’altronde non chiarisce
quali siano i presupposti di esercizio dell’azione collettiva e che qui richiamiamo solo in or-
dine alla negazione dell’azionabilità del diritto al risarcimento da parte delle associazioni.
84 GHIRON, M., La legittimazione ad agire di enti ed associazioni in materia di marchi e di

sleale concorrenza, cit., p. 48; MINERVINI, G., Concorrenza e consorzi, cit., p. 46.
85 GHIRON, M., La legittimazione ad agire di enti ed associazioni in materia di marchi e di

sleale concorrenza, cit., p. 48; GUGLIELMETTI, G., La concorrenza e i consorzi, cit., p. 220 (ma si
tenga sempre presente la sua particolare prospettiva ricostruttiva).
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA POST-COSTITUZIONALE 131

Visti i caratteri della fattispecie lesiva, infatti, in questa materia può


ben accadere che il comportamento antigiuridico si riveli concretamente
o potenzialmente pregiudizievole di uno o più soggetti appartenenti ad
una certa categoria o, diversamente, colpisca la categoria produttiva nel
suo complesso (c.d. atti a offensività o lesività indiscriminata o plu-
rima)86. Vi sarebbero, dunque, fattispecie concrete in cui taluni soggetti
possono essere collocati in una posizione differenziata rispetto ad altri e
fattispecie in cui il pregiudizio si verificherebbe (o potrebbe verificarsi)
in via indifferenziata per tutti i membri della categoria.
Premesso – dunque – il quadro fenomenologico ora rappresentato,
all’interno dell’orientamento appena esposto, ben si comprende poiché
secondo alcuni, l’azione collettiva potrebbe essere esercitata tanto allor-
ché l’atto pregiudizievole produca effetti differenziati e specifici in capo
a uno o più imprenditori, quanto nell’ipotesi in cui il pregiudizio colpi-
sca indifferentemente l’intera categoria di imprenditori (ferma, comun-
que, non solo la legittimazione dei singoli membri della categoria, ma an-
che la previa esistenza del rapporto associativo tra soggetto individuale
e collettivo e quindi limitatamente agli iscritti)87; mentre per altri l’azione
collettiva sostitutiva potrebbe essere esercitata solo nel primo caso88.
A questa linea interpretativa, si contrappone poi un ampio orienta-
mento accomunato – in ordine alla spiegazione del potere di azione at-
tribuito alle associazioni sindacali – dal fatto di non ritenere necessaria la
ricerca sul piano sostanziale di vincoli lato sensu contrattuali idonei a sur-
rogare il caduto regime di rappresentanza legale da parte delle associa-
zioni.
In altri termini, il minimo comune denominatore rilevabile in queste
pur diverse tesi che stiamo per esaminare sarebbe costituito dall’attri-
buire un significato precettivo nuovo e più attuale all’art. 2601 c.c.89.

86 Per tutti, v. GHIDINI, G., Della concorrenza sleale, cit., p. 453, che, con estrema chia-
rezza spiega: «è evidente […] che oltre all’abituale schema “concorrente contro concor-
rente”, la lotta concorrenziale può vedere impegnati: – un soggetto contro più concorrenti; –
più soggetti contro un unico concorrente; - più concorrenti contro più concorrenti».
87 Cfr. ancora GHIRON, M., La legittimazione ad agire di enti ed associazioni in materia

di marchi e di sleale concorrenza, cit., p. 47-48. V. anche, implicitamente, GUGLIELMETTI, G.,


La concorrenza e i consorzi, cit., p. 220 (ma si tenga sempre presente la sua particolare pro-
spettiva ricostruttiva), nonché, ancora implicitamente, ASCARELLI, T., Teoria della concorrenza
e dei beni immateriali, cit., p. 264, specie in relazione all’azione inibitoria.
88 GHIDINI, G., La concorrenza sleale, cit., p. 61, su cui cfr. retro, nota 79.
89 Come opportunamente ha asservato JAEGER, P.G., Sulla legittimazione delle «associa-

zioni professionali» ad agire per la concorrenza sleale (art. 2601 c.c.), in Problemi attuali del di-
ritto industriale, Milano, 1977, p. 639 ss., ma spec. p. 644. Non v’è dubbio, infatti, che l’os-
132 CAPITOLO SECONDO

Così, secondo una prima opzione ricostruttiva, la via esegetica da


doversi privilegiare passerebbe comunque per il coordinato disposto del-
l’art. 2601 c.c. con l’art. 81 c.p.c.90.
In stretta affinità – come vedremo – con le tesi sostenute con am-
piezza di argomentazioni in materia di repressione della condotta anti-
sindacale da parte della dottrina processualcivilistica, dunque, proprio
nell’art. 2601 c.c. dovrebbe individuarsi quel «caso espressamente previ-
sto dalla legge» richiesto in via eccezionale dalla disposizione sulla sosti-
tuzione processuale presente nel nostro codice di rito91.
D’altra parte, stando ad una seconda e più folta schiera di giuristi –
il cui orientamento, peraltro, è stato già anticipato incidentalmente in via
esemplificativa durante l’esame delle sentenza della Cassazione poc’anzi
riportata – l’azione collettiva ex art. 2601 c.c. sarebbe attribuita alle asso-
ciazioni iure proprio92.

servazione colga nel segno come dimostra il fatto che alcuni AA. prescindano completamente
dall’articolo in questione in ordine al tema della legittimazione ad agire delle associazioni (cfr.
appunto, ad es., ASCARELLI, T., Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, cit., p. 263 ss.),
ma non vale peraltro ad escludere il richiamo della sostituzione processuale.
90 Ancora a favore della sostituzione processuale, v. SPOLIDORO, M.S., Costituzione e li-
mitazioni soggettive della legittimazione ad agire per concorrenza sleale, in Giur. comm., 1982,
II, p. 74 ss., ma spec. p. 91, che, sostenendo la tesi dell’esercizio in via sostitutiva dei diritti
dei singoli imprenditori, ritiene che, fermo il presupposto che legittima l’azione collettiva, ov-
vero il «pregiudizio degli interessi che esse rappresentano», «si può […] escludere che esista
uno specifico interesse di categoria che imponga il risarcimento dei danni subiti dai singoli
imprenditori che siano stati le vittime degli atti di concorrenza sleale, del tipo di quello che,
ad esempio, giustifica […] la surrogazione dei creditori ex art. 2900 c.c.»; precedentemente,
già MOSCO, L., La concorrenza sleale, cit., p. 258 ss.; A. che la dottrina dedicatasi allo studio
della legittimazione delle associazioni professionali generalmente ed incomprensibilmente an-
novera tra i sostenitori della tesi del diritto soggettivo dell’associazione, ma che, invece, deve
essere ricondotto alla tesi della sostituzione processuale fondata non sul rapporto di rappre-
sentanza, ma sulla previsione legale del diritto di azione. Mosco, infatti, si riferisce espressa-
mente alla sostituzione processuale (p. 260, 261) e ritiene che l’«interesse connesso» che
detto potere di azione richiede non debba essere quello del singolo, ma quello – appunto –
collettivo della categoria, sicché l’azione collettiva sarebbe ammissibile solo a fronte di atti di
concorrenza sleale che pregiudicano gli interessi della categoria; questione, quest’ultima, che
porta l’A. ad ammettere solo la tutela inibitoria e non quella risarcitoria.
91 SPOLIDORO, M.S., Costituzione e limitazioni soggettive della legittimazione ad agire per
concorrenza sleale, cit., p. 93. Sussiste effettivamente un forte somiglianza tanto tra la fatti-
specie prevista dall’art. 2601 c.c. e quella del’art. 28 dello Statuto dei lavoratori, quanto tra la
tesi presentata nel testo e la tesi autorevolmente sostenuta in materia di repressione della con-
dotta antisindacale da Lanfranchi, su cui v. infra, cap. VII, § 2.1.1.
92 In primo luogo, v. il già citato AULETTA, G., Soggetti passivi della concorrenza sleale e

diritto al risarcimento del danno, cit., p. 217 ss.; seguito da LO CIGNO, O., Sub. art. 2958, in
Del Lavoro, V, t. 4, Commentario del codice civile, redatto a cura di magistrati e docenti, To-
rino, 1978, p. 216; LIBERTINI, M., Azioni e sanzioni nella disciplina della concorrenza sleale, cit.,
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA POST-COSTITUZIONALE 133

L’argomento principale posto a sostegno della lettura interpretativa


ora indicata troverebbe spunto nel noto brocardo ubi rimedium ibi ius,
ovvero, per dirla con altre parole, la legittimazione ad agire dovrebbe es-
sere intesa come il mero riflesso sul piano processuale della titolarità so-
stanziale di un diritto soggettivo.
Secondo alcuni, peraltro, il diritto soggettivo assegnato all’associa-
zione rappresenterebbe uno strumento giuridico di tutela di un «inte-
resse proprio», ovvero, come meglio detto da altri, degli «interessi morali
e non economici» delle associazioni93; il diritto soggettivo costituirebbe,
dunque, una tecnica di giuridicizzazione di un interesse individuale ap-
partenente all’ente in sé per sé considerato.
Secondo diversa prospettiva, invece, il diritto soggettivo ricono-
sciuto varrebbe a tutelare l’interesse dell’intera categoria. Conforme-
mente ad una linea interpretativa che sin troppo di frequente avremo oc-
casione di rilevare anche in altri ambiti di studio, posta l’esistenza di un
interesse collettivo alla concorrenza leale, questo dovrebbe essere impu-
tato in capo all’ente rappresentativo ed ivi giuridicizzato nella forma del
diritto soggettivo, con la conseguenza pratica – prevista appunto dalla
dottrina ora in esame – di riconoscere l’azione collettiva solo allorché il
pregiudizio si riveli indirizzato non in via differenziata nei confronti di
uno o più imprenditori determinati, ma al contrario in via diffusa ed in-
differenziata verso la categoria nel suo complesso94.

p. 268, ma solo nell’ipotesi in cui si verifichi un danno indifferenziato che colpisca l’intero
ramo della produzione, mentre nel caso opposto l’azione sarebbe esercitata – come visto re-
tro – in via sostitutiva; FERRI, G., Manuale di diritto commerciale, a cura di C. Angelici e G.B.
Ferri, Torino, 2001, p. 163 (ma così anche nelle edizioni precedenti: cfr. ad esempio l’edizione
da noi consultata del 1960, a p. 124); ROVELLI, R., La concorrenza sleale e i beni immateriali di
diritto industriale, Torino, 1970, p. 29 ss.; UBERTAZZI, L.C., Legittimazione ad agire delle asso-
ciazioni di consumatori e procedimenti comunitari antitrust, in Monitore trib., 1977, p. 186 ss.,
ma spec. p. 200; FLORIDIA, G., Legittimazione ad agire delle associazioni professionali di cate-
goria e qualificazione di illiceità dell’atto di concorrenza ex art. 2601 c.c., in Monitore. trib.,
1970, 712 ss., ma spec. 720 ss.; ID., Correttezza e responsabilità dell’impresa, cit., p. 281 ss. e
p. 288 ss.; ID., Concorrenza sleale e camere di commercio: un ritorno al futuro, in Dir. ind.,
1994, p. 851 ss.; ID., Dall’illecito concorrenziale al diritto soggettivo e Le valutazioni in termini
di correttezza professionale, cit., p. 289 ss. e 308 ss. Di recente, la tesi è stata sostenuta da GHI-
DINI, G., La concorrenza sleale, cit., p. 61, in relazione, però, all’attribuzione della legittima-
zione ad agire alle Camere di commercio ai sensi dell’art. 2, comma 5, della l. 29 dicembre
1993, n. 580.
93 FERRI, G., Manuale di diritto commerciale, cit., p. 163; di recente, v. COSTANTINO, G.,

Note sulle tecniche di tutela collettiva (disegni di legge sulla tutela del risparmio e dei consu-
matori), in Riv. dir. proc., 2004, p. 1009 ss., ma spec. p. 1029 s.
94 V. innanzitutto la già esaminata posizione di AULETTA, G., Soggetti passivi della con-

correnza sleale e diritto al risarcimento del danno, cit., p. 222; cui adde, MOSCO, L., La concor-
134 CAPITOLO SECONDO

Completando il discorso riguardo alle tesi or ora in esame, quindi,


all’art. 2601 c.c. apparterrebbe una spiccata natura sostanziale, la quale
non deriverebbe solamente dall’attribuzione – in titolarità dei soggetti
rappresentativi richiamati dalla norma – di posizioni di diritto soggettivo
distinte da quelle riconosciute ai singoli imprenditori, ma anche se non
soprattutto dal riconoscimento di un ambito di operatività appartenente
all’art. 2601 c.c. effettivamente proprio ed autonomo rispetto all’art.
2598 c.c. Più precisamente i comportamenti oggetto di repressione in
sede di giudizio collettivo non dovrebbero presentare i requisiti di anti-
giuridicità previsti dall’art. 2598 c.c. (in particolare l’idoneità a danneg-
giare l’altrui azienda), ma dovrebbero unicamente rispondere a quanto
prescritto dall’art. 2601 c.c., ovvero essere capaci di «pregiudicare gli in-
teressi di una categoria professionale»95.

renza sleale, cit., 258 ss.; LO CIGNO, O., Sub. art. 2958, cit., p. 216; ROVELLI, R., La concorrenza
sleale e i beni immateriali di diritto industriale, cit., p. 30; FLORIDIA, G., Legittimazione ad
agire delle associazioni professionali di categoria e qualificazione di illiceità dell’atto di concor-
renza ex art. 2601 c.c., cit., ma spec. 720 ss. (e poi in ID., Correttezza e responsabilità dell’im-
presa, cit., spec. p. 54; ID, La tutela degli interessi dei consumatori di prodotti alimentari, in
Riv. dir. ind., 1986, I, p. 45 ss., ma spec. 59-60; ID., Concorrenza sleale e camere di commercio:
un ritorno al futuro, cit., p. 851 ss.; ID., Dall’illecito concorrenziale al diritto soggettivo e Le va-
lutazioni in termini di correttezza professionale, cit., p. 289 ss. e 308 ss.); LIBERTINI, M., Azioni
e sanzioni nella disciplina della concorrenza sleale, cit., p. 268; implicitamente, BROCK, F., Sulla
legittimazione ad agire ex art. 2601 c.c., in Riv. dir. ind., 1997, II, p. 47 ss., ma spec. 52.
95 In sintesi la natura sostanziale della norma può operare o unicamente al fine di rico-

noscere un’azione iure proprio dell’associazione aggiuntiva e concorrente rispetto a quelle in-
dividuali o piuttosto in diretto riferimento alla fattispecie repressiva rendendola autonoma ri-
spetto al disposto dell’art. 2598 c.c. Sulla questione, cfr., in particolare, AUTERI, P., La concor-
renza sleale, in Trattato di diritto privato, XVIII, t. 4, Impresa e lavoro, a cura di P. Rescigno,
Torino, 1983, p. 356 s., che – in relazione alla tesi della sostituzione processuale e a quella
della legittimazione ad agire iure proprio – osserva puntualmente: «la differenza tra le due
opinioni tende a ridursi se non a scomparire se si considera, da un lato, che a norma dell’art.
2601 c.c. le associazioni professionali sono legittimate ad agire “quando gli atti di concor-
renza sleale pregiudicano gli interessi di una categoria professionale” e non anche quando
l’atto arreca o può arrecare danno solo a determinati concorrenti, e che, pur relativizzando in
omaggio alla prima opinione il concetto di “pregiudizio agli interessi della categoria profes-
sionale”, questo non si identifica col danno (patrimoniale) ai singoli associati; dall’altro lato
che, anche se si segue la seconda opinione, la legittimazione delle associazioni professionali
(dotate di rappresentatività) presuppone pur sempre l’esistenza di un atto di concorrenza
sleale idoneo, secondo la definizione dell’art. 2598, n. 3 c.c., a danneggiare l’azienda di uno o
più concorrenti (anche se non necessariamente membri dell’associazione)». Continua poi Au-
teri, cogliendo veramente il punto: «la differenza fra le due opinioni o tendenze sarebbe in-
vece incolmabile se muovendo dalla seconda si ritenesse […] che le associazioni professionali
possono agire anche per la repressione di atti che siano contrari alla correttezza professionale,
ma non anche necessariamente idonei a danneggiare l’azienda di uno o più concorrenti, es-
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA POST-COSTITUZIONALE 135

Proprio questa lettura, infatti, è stata sostenuta con ampiezza di ar-


gomentazioni evidenziando il vizio in cui incorrerebbero le tesi favorevoli
alla natura meramente processuale dell’art. 2601 c.c., ovvero il «voler tra-
sferire la norma dal terreno della qualificazione sostanziale di illiceità
dell’atto di concorrenza a quello della mera legittimazione ad agire in
giudizio»96.
Secondo questa opinione il fulcro della disposizione dovrebbe es-
sere individuato nell’«idoneità a pregiudicare gli interessi della catego-
ria»; elemento testuale, quest’ultimo, emblematicamente rappresentativo
della funzione pubblicistica assegnata alla norma in vigenza dell’ordina-
mento corporativo, e – caduto questo – da ritenersi comunque centrale
nelle plausibili interpretazioni da prospettare alla luce del nuovo dettato
costituzionale97.
La rilettura costituzionalizzante della normativa in materia di con-
correnza sleale alla luce dell’art. 41 Cost.98 condurrebbe, dunque, con ri-

sendo sufficiente che essi pregiudichino l’interesse collettivo o diffuso della categoria. È evi-
dente infatti che se così fosse, l’art. 2601 non si limiterebbe a regolare la legittimazione ad
agire, ma modificherebbe la fattispecie della concorrenza sleale caratterizzati dalla contrarietà
ai principi della correttezza professionale e dal pregiudizio agli interessi di una categoria pro-
fessionale, anziché dalla idoneità a danneggiare l’altrui azienda». E si conclude: «non sembra
però che questa opinione trovi fondamento nel sistema della legge e nel tenore dell’art. 2601
c.c.: questa disposizione si limita ad attribuire la legittimazione ad agire anche (e cioè in ag-
giunta o in luogo dei concorrenti) alle associazioni professionali e quindi presuppone l’esi-
stenza di atti di concorrenza conformi alla definizione contenuta nell’art. 2598 c.c. e quindi
idonei a danneggiare uno o più concorrenti». Oltre a ciò si può anche osservare che, come vi-
sto, la particolarità della fattispecie repressiva (che unanimemente è rivolta ad inibire com-
portamenti che si presentino anche solo potenzialmente dannosi di una certa cerchia di im-
prenditori legittimando l’azione inibitoria da parte di questi) non permette di separare i ri-
medi individuali da quelli collettivi-associativi in termini di due distinte sfere di tutela, come
se, da un lato, vi fossero le azioni a tutela di interessi individuali determinati e, dall’altro, vi
fosse l’autonoma e distinta azione a tutela dell’interesse collettivo globale e sovraordinato. Al
ricorrere di comportamenti ad offensività diffusa concorreranno comunque le azioni pari-
menti diffuse dei singoli imprenditori minacciati con la diversa azione collettiva.
96 FLORIDIA, G., Correttezza e responsabilità dell’impresa, cit., p. 288; ID., Dall’illecito

concorrenziale al diritto soggettivo, cit., p. 302.


97 FLORIDIA, G., Correttezza e responsabilità dell’impresa, cit., p. 289 ss.; ID., Concor-

renza sleale e camere di commercio: un ritorno al futuro, cit., p. 855; ID., Dall’illecito concor-
renziale al diritto soggettivo, cit., p. 302.
98 Per FLORIDIA, G., Correttezza e responsabilità dell’impresa, cit., p. 291, (ma anche in

ID., Concorrenza sleale e camere di commercio: un ritorno al futuro, cit., p. 855; ID., Dall’ille-
cito concorrenziale al diritto soggettivo, cit., p. 302) l’art. 41 Cost. «proprio in contrapposi-
zione con l’ideologia corporativa, ha inteso attribuire diretta rilevanza ed autonomia di tutela
a quegli interessi diffusi che fanno capo a categorie di persone, indeterminate nell’estensione
numerica, ma individuabili in funzione di caratteristiche e qualità o anche solo circostanze di
136 CAPITOLO SECONDO

ferimento specifico all’art. 2601 c.c., a «trasferire la rilevanza giuridica


dell’interesse collettivo dal piano interno degli scopi dell’associazione a
quello esterno della sua tutela giudiziaria contro il compimento di atti di
gestione dell’impresa che siano tali tipicamente da ledere l’interesse della
categoria associativamente organizzata». In altri e più decisi termini: «se
esiste un’associazione oppure un ente che abbiano lo scopo di tutelare gli
interessi di una categoria quest’associazione e questo ente possono pro-
muovere l’azione per la repressione della concorrenza sleale contro atti di
concorrenza che pregiudicano gli interessi della categoria»99.

6.4. La natura dell’azione collettiva ex art. 2601 c.c. per le tesi «oggettive»
dell’illecito
Se si abbandona l’orientamento tradizionale, che – come visto – ri-
tiene che le norme sulla concorrenza sleale siano poste a tutela di diritti
soggettivi e si volge lo sguardo verso le tesi c.d. oggettive, due sono le po-
sizioni che vanno richiamate in questa sede.
Tra queste, poi, messa da parte la tesi che riconosce alle associazioni
professionali un’azione «propria» a tutela di un interesse «proprio»100 (e
che, nella sostanza, può essere assimilata alle posizioni che riconoscono a
dette associazioni un diritto soggettivo per la tutela dei suoi «interessi
morali e non economici»101), merita particolare approfondimento l’op-
zione ricostruttiva secondo cui l’oggetto del giudizio collettivo sarebbe

fatto che acquistano un significato “aggregante” rispetto ad un determinato interesse la cui ti-
tolarità viene così a configurarsi come collettiva a confronto della efficacia pregiudizievole
diffusa dell’atto lesivo».
99 FLORIDIA, G., Correttezza e responsabilità dell’impresa, cit., p. 293, per entrambi i

passi riportati. Ma v. anche ID., Concorrenza sleale e camere di commercio: un ritorno al futuro,
cit., p. 855.
100 SANTINI, G., I diritti della personalità nel diritto industriale, cit., p. 117, nota 37, che

parla di «azione propria» riconosciuta a tutela di un «interesse proprio» dell’associazione, ma


il riferimento all’«azione» piuttosto che al «diritto» deve essere contestualizzata avendo ri-
guardo alla ricostruzione oggettiva dell’A., che appunto ritiene che in detta fattispecie si
possa parlare di diritto soggettivo dell’associazione solo a seguito della lesione (cfr. retro, nota
78). Questa posizione potrebbe, dunque, essere accostata alle tesi che hanno ritenuto poter
qualificare come azione concreta la posizione rivestita dalle azioni riconosciute alle associa-
zioni dei consumatori ex art. 1469 sexies (cfr. infra, cap. X, § 3.2.1.2.) oppure anche, sotto un
certo profilo, alla posizione sostenuta da Garbagnati in materia di repressione della condotta
antisindacale, secondo cui appunto, come meglio vedremo (cap. VII, § 2.1.2.), il diritto alla
repressione della condotta antisindacale dell’associazione verrebbe a costituirsi rispetto agli
illeciti plurioffensivi solo a seguito della violazione del diritto del singolo lavoratore.
101 Cfr. retro in particolare la posizione di Ferri.
INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA POST-COSTITUZIONALE 137

costituito direttamente dall’«interesse della categoria»; inteso, quest’ul-


timo, come interesse «di serie», cioè «comune, come tale, a tutti gli ap-
partenenti, “attuali e futuri” alla “categoria professionale”»102.
La cornice entro cui circoscrivere questa impostazione è in primo
luogo la constatazione secondo cui «il corporativismo ha attribuito all’in-
teresse di categoria una determinata rilevanza, e ha elaborato una parti-
colare disciplina, attribuendo alle associazioni sindacali legalmente rico-
nosciute la rappresentanza “istituzionale” di tale interesse; ma non ha,
evidentemente, “inventato” l’interesse di categoria, né si può dire che
questo concetto non è sopravvissuto alla soppressione di quella disci-
plina»103. Il secondo elemento attorno al quale ruota detta ricostruzione
è poi la già accennata natura oggettiva dell’illecito ex art. 2598 c.c.;
norma che come tale dovrebbe porsi a fondamento tanto delle azioni in-
dividuali singolarmente azionabili per la tutela degli interessi individuali
lesi dalla condotta concorrenziale sleale quanto dell’azione collettiva at-
tribuita all’associazione professionale ed esperibile ex art. 2601 c.c.
L’azione collettiva, quindi, non dovrebbe essere spiegata, né come
un caso di sostituzione processuale, né come un’ipotesi di esercizio di un
diritto proprio dell’associazione.
Sotto il primo profilo, infatti, pur essendo plausibile la qualifica-
zione dell’art. 2601 c.c. in termini di norma a «carattere essenzialmente
processuale», maggiormente corretto sarebbe rinvenire nell’azione rap-
presentativa uno strumento volto alla tutela diretta dell’interesse dell’in-
tera categoria piuttosto che di diritti soggettivi altrui. E parimenti, seb-
bene la configurazione giuridica del potere di azione dell’associazione in
termini di preesistente diritto soggettivo attribuisca risalto alla funzione
lato sensu pubblicistica della previsione svincolando la legittimazione ad
agire dalla volontà dei singoli imprenditori, anch’essa non si rivelerebbe
appagante dal punto di vista formale per il voler ricollegare l’azione alla
tutela di un interesse proprio della associazione, anziché ad un interesse
altrui.
L’azione collettiva prevista dall’art. 2601 c.c. dovrebbe, dunque, es-
sere valutata come una «sorta di azione popolare», cioè come un’ipotesi
di «legittimazione straordinaria ad esercitare azioni di concorrenza sleale
nell’interesse generale ed indifferenziato della categoria».

102 JAEGER, P.G., Sulla legittimazione delle «associazioni professionali» ad agire per la

concorrenza sleale (art. 2601 c.c.), cit., p. 644 ss.


103 JAEGER, P.G., Sulla legittimazione delle «associazioni professionali» ad agire per la

concorrenza sleale (art. 2601 c.c.), cit., p. 644 ss.


138 CAPITOLO SECONDO

La conseguenze di detta qualificazione sarebbero, quindi, le se-


guenti.
In primo luogo l’esercizio dell’azione collettiva sarebbe ammissibile
solo allorché il pregiudizio colpisca l’intera categoria e non unicamente
un determinato membro della medesima104. Ed in secondo luogo l’azione
collettiva potrebbe essere esercitata non solo per finalità meramente ini-
bitorie, ma anche in ordine alla richiesta del risarcimento del danno pro-
curato all’intera categoria; soluzione, quest’ultima, resa possibile o me-
diante il ricorso all’istituto della condanna generica – ottenuta la quale
spetterebbe eventualmente al singolo provare l’entità del pregiudizio su-
bito – o mediante l’imposizione di un obbligo da parte dell’ente rappre-
sentativo ad impiegare le somme ottenute a favore della categoria, magari
costituendo un fondo da destinarsi alle iniziative statutarie105.

7. Considerazioni conclusive
Anche al termine di questo capitolo è opportuno chiudere il di-
scorso sul periodo storico qui oggetto di ricognizione individuando –
seppur con poche battute – le questioni di maggior rilievo da tener pre-
senti nei successivi passi del nostro itinerario di studio.
Sotto il profilo storico-evolutivo, il punto è presto fatto, in quanto a
più riprese abbiamo evidenziato come i profili di continuità della rifles-
sione scientifica rispetto alla fase pre-costituzionale siano di gran lunga
prevalenti e determinanti ai fini della prosecuzione e della maturazione
del dibattito attorno al tema degli interessi collettivi, nonché in riferi-
mento alla loro tutela giurisdizionale.
Sotto il profilo teorico, invece, va in primo luogo rimarcata la ten-
denziale accentuazione del contrasto tra due possibili raffigurazioni del
concetto di interesse collettivo. Nelle tesi incontrate in questo capitolo, in-
fatti, è agevole rilevare il delinearsi della coesistenza di queste due distinte
impostazioni: da un lato, quella che fa perno sull’elemento dinamico del-
l’organizzazione e con esso sul necessario perseguimento collettivo del-
l’interesse e, dall’altro, quella che al contrario insiste sulla natura del bene
oggetto di aspirazione sotto il profilo della sua idoneità a porsi come si-
tuazione volta a realizzare il contestuale soddisfacimento di più interessi.

104 JAEGER, P.G., Sulla legittimazione delle «associazioni professionali» ad agire per la

concorrenza sleale (art. 2601 c.c.), cit., p. 646 nel testo ed in nota.
105 JAEGER, P.G., Sulla legittimazione delle «associazioni professionali» ad agire per la

concorrenza sleale (art. 2601 c.c.), cit., p. 647 s.


INTERESSE COLLETTIVO NELL’ESPERIENZA POST-COSTITUZIONALE 139

Questo è un aspetto a cui prestare la debita attenzione, poiché


– come visto peraltro anche in questo stesso capitolo – su tale piano si
gioca in gran parte la possibilità di concepire l’interesse collettivo come
ontologicamente distinto dall’interesse individuale, ragion per cui nel
prosieguo non mancheranno occasioni per stressare tale diversa imposta-
zione definitoria e per portare su tali questioni la dovuta chiarezza.
Un secondo aspetto che sul piano più propriamente teorico-dogma-
tico è emerso piuttosto nettamente nel corso di queste pagine è poi rap-
presentato dalla sostanziale difficoltà che la dottrina ha incontrato in ri-
ferimento all’opzione formale da scegliere per qualificare l’azione collet-
tiva e ancor più in generale l’illecito previsto dall’art. 2598 c.c.
È quest’ultima una questione ricostruttiva che nelle parti successive
del nostro lavoro assurgerà ad elemento essenziale di riflessione, ovvero
la difficoltà di giuridicizzazione degli interessi sostanziali che non agevol-
mente rispondono ai contenuti di tutela offerti dai tradizionali diritti sog-
gettivi di derivazione giusnaturalistica: diritto di proprietà in testa a tutti.
Il discorso è stato già fugacemente toccato in occasione del richiamo
all’intervento in sede di Assemblea costituente svolto da Codacci Pisa-
nelli; intervento in cui la proposta di modifica dell’art. 19 del Progetto di
Costituzione si giustificava proprio alla luce del timore che taluni inte-
ressi sostanziali pur meritevoli di protezione non trovassero riconosci-
mento all’interno del dettato costituzionale in virtù della loro irricondu-
cibilità al concetto di diritto soggettivo.
Molte delle difficoltà qualificatorie che si riscontrano nel percorso
tracciato dalla dottrina in merito alla ricostruzione del giudizio di repres-
sione della concorrenza sleale non sono altro che la conseguenza della ri-
gidità concettuale appartenente alle nozioni tradizionali del diritto sog-
gettivo; rigidità da cui deriva l’esigenza di concepire figure dogmatiche
alternative dai contorni né chiari né chiariti e che in una fase più matura
del nostro lavoro ci condurrà a ripercorrere le diverse nozioni di diritto
soggettivo per verificarne l’effettiva compatibilità con le esigenze emer-
genti in materia di interessi collettivi.
In conclusione, sin da questo secondo capitolo iniziano a palesarsi
piuttosto nettamente i due punti fondamentali intorno ai quali far gravi-
tare il nostro studio e che da tempo rappresentano la vera causa delle dif-
ficoltà di inquadramento della generale tematica della tutela giurisdizio-
nale degli interessi collettivi: da un lato, i concetti di interesse e di inte-
resse collettivo e, dall’altro, il concetto di diritto soggettivo.
Nel prossimo capitolo, ponendo sempre attenzione ai profili storico-
evolutivi che qui interessano per dare adeguata contestualizzazione alla
140 CAPITOLO SECONDO

tematica oggetto della nostra ricerca, la ricognizione del dibattito svilup-


patosi in dottrina a partire dagli anni Settanta verrà condotta proprio po-
nendo in risalto l’apprezzamento pregiuridico degli interessi sostanziali e
la loro conseguente giuridicizzazione attraverso i contenitori classificatori
adoperati per veicolare gli stessi nel mondo del diritto.
CAPITOLO TERZO

LE VICENDE GIURIDICHE DELL’INTERESSE COLLETTIVO


DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI

SOMMARIO: 1. Cornice generale. – 1.1. Considerazioni introduttive. – 1.2. Il quadro cul-


turale di riferimento: la ri-scoperta della Costituzione. – 1.3. L’evoluzione socio-
economica e i conflitti di massa. – 1.4. L’istanza di tutela degli interessi sovraindi-
viduali come species dell’istanza partecipatoria. – 2. Gli interessi sovraindividuali:
le nozioni. – 2.1. Considerazioni introduttive. – 2.2. La distinzione tra interessi col-
lettivi e diffusi: la tesi monista, la tesi dualista oggettiva, la tesi dualista soggettiva.
– 2.3. La tesi monista e la tesi dualista oggettiva in particolare. – 2.4. L’analisi della
posizione di Massimo Severo Giannini come strumento di comprensione e re-in-
quadramento della dottrina dualista soggettiva. – 2.5. Precisazioni sul ruolo del-
l’ente rappresentativo all’interno della dottrina (talora solo apparentemente) duali-
sta soggettiva. – 2.6. Considerazioni di sintesi sul dibattito dottrinale sulle diverse
nozioni di interesse superindividuale. – 3. La giuridicizzazione degli interessi so-
vraindividuali. – 3.1. I limiti dell’ordinamento giuridico. – 3.2. Le diversità strut-
turali intercorrenti tra il processo civile e il processo amministrativo. – 3.3. La giu-
ridicizzazione degli interessi sovraindividuali per coloro che configurano i mede-
simi come insieme di più interessi individuali. – 3.3.1. La configurazione
sostanziale. – 3.3.1.1. La tesi dominate: riconducibilità degli interessi (sovra-)indi-
viduali alle figure del diritto soggettivo o dell’interesse legittimo. – 3.3.1.2. La tesi
minoritaria: non riconducibilità degli interessi (sovra-)individuali alle figure tradi-
zionali del diritto soggettivo o dell’interesse legittimo. – 3.3.2. L’individuazione dei
legittimati ad agire: la legittimazione individuale diffusa. – 3.4. La giuridicizzazione
degli interessi sovraindividuali per coloro che configurano i medesimi come entità
unitaria. – 3.4.1. L’azione collettiva a legittimazione concentrata. – 3.4.1.1. L’azione
collettiva come rappresentanza ideologica (la lettura innovativa della posizione
giuridica dell’ente rappresentativo). – 3.4.1.2. L’azione collettiva come mera azione
(la lettura processualistica della posizione giuridica dell’ente rappresentativo). –
3.4.1.3. L’azione collettiva come mera conseguenza della titolarità di una situazione
soggettiva sostanziale (la lettura sostanzialistica della posizione dell’ente rappre-
sentativo). – 3.4.1.3.1. Considerazioni generali. – 3.4.1.3.2. Ipotesi giurispruden-
ziale tipica: la giurisprudenza amministrativa in materia di tutela degli interessi col-
lettivi in senso proprio. – 3.4.1.4. L’azione collettiva e i diritti soggettivi collettivi.
– 3.4.2. La legittimazione concentrata e la sua compatibilità con i principi costitu-
zionali. – 4. Il trattamento processuale delle controversie collettive: in particolare i
limiti soggettivi del giudicato. – 4.1. Considerazioni introduttive. – 4.2. I diversi
orientamenti dottrinali.
142 CAPITOLO TERZO

1. Cornice generale
1.1. Considerazioni introduttive
Delle quattro fasi in cui abbiamo ritenuto opportuno periodizzare il
nostro itinerario di studio l’arco temporale che si sviluppa dagli anni Set-
tanta sino ai giorni nostri costituisce sicuramente il momento di massimo
interesse scientifico per la nostra tematica.
È sin dagli inizi degli anni Settanta, infatti, che l’attenzione dedicata
dalla dottrina giuridica alla tutela degli interessi genericamente definibili
come sovraindividuali, specie sotto il profilo della loro protezione giuri-
sdizionale, raggiunge un’intensità mai raggiunta prima.
Non c’è dubbio – e l’abbiamo evidenziato più volte – che tanto du-
rante la fase tardo-liberale, quanto durante la parentesi del corporativi-
smo, la tutela degli interessi collettivi abbia goduto delle attenzioni spe-
culative di numerosi ed illustri studiosi del diritto. Anzi, come si ricor-
derà, proprio allorché la relazione tra l’ordinamento e la tutelabilità degli
interessi collettivi costituiva ancora un territorio d’indagine pressoché
inesplorato, potevano apprezzarsi le attualissime aperture di Mortara a
favore dell’introduzione di un’azione ad esercizio individuale e/o rappre-
sentativo destinata alla tutela degli interessi dei lavoratori.
Né un «passo soverchiamente ardito e prematuro», né una «riforma
sovvertitrice di principi già accolti dal diritto positivo» era per l’illustre
giurista l’opzione di politica del diritto appena richiamata1.
Non vanno d’altra parte nemmeno dimenticati gli articolati e ap-
profonditi tentativi di definizione del concetto di interesse collettivo
avanzati da Cesarini Sforza e da Carnelutti. Operazioni ricostruttive il cui
elevato grado di elaborazione è testimoniato dal loro frequente richiamo
operato da gran parte della dottrina successivamente dedicatasi allo stu-
dio dell’argomento.
Se – insomma – non si può di certo sostenere che la tutela degli in-
teressi collettivi costituisca, agli albori degli anni Settanta, una tematica
interamente nuova, è pur vero che numerosi sono gli elementi di rottura
rispetto alle esperienze anteriori.
La gran parte dei profili di novità ora accennati saranno oggetto di
riflessione nelle prossime pagine, allorquando procederemo all’esame
delle diverse posizioni interpretative proposte in materia. D’altro canto
alcuni di questi è bene siano indicati sin d’ora e ciò fondamentalmente
poiché il loro esame introduce e contribuisce a spiegare le ragioni che ri-
1 Cfr. retro, cap. I, § 2.2.2.2.
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 143

siedono alla base delle scelte di metodo che si è ritenuto opportuno


doversi seguire nella trattazione di questa fondamentale fase del nostro
studio.
Con questo obiettivo vanno prima di ogni cosa rilevate, non solo, la
già menzionata intensità, ma anche, e piuttosto, l’ampiezza assunta dal
dibattito dottrinale in materia.
Sotto il primo profilo, si pensi – per esemplificare – oltre alla multi-
tudo di scritti prodotti, alla proliferazione dei numerosi convegni rivolti
all’inquadramento e all’approfondimento della problematica, che ap-
punto via via vengono organizzati in un arco temporale piuttosto breve,
ovvero da poco prima della metà degli anni Settanta ai primi inizi degli
anni Ottanta2.
Venendo al secondo profilo, invece, se nelle esperienze giuridiche
antecedenti la tematica della tutela degli interessi collettivi si era imposta
in particolari settori del nostro ordinamento, quali in primo luogo il di-
ritto del lavoro, nella fase storica ora in esame la ricerca di adeguati stru-
menti di tutela degli interessi sovraindividuali tende ad abbattere ogni
barriera, spaziando dal diritto civile al diritto amministrativo, piuttosto
che dal diritto processuale civile al diritto processuale penale. Si presenta
agli studiosi delle più diverse discipline l’occasione di una vera e propria
rilettura di ampi settori dell’ordinamento.
Specie quest’ultima circostanza, dunque, rende meno agevole rag-
giungere l’obiettivo che sin dall’inizio dell’indagine ci siamo posti; ovvero
quello di offrire al lettore una rappresentazione chiara e ragionata del-
l’evoluzione del dibattito in materia.
Occorre, peraltro, dar conto anche di un’ulteriore e non secondaria
circostanza.

2A titolo di esempio, tra gli incontri congressuali propriamente dedicati all’approfon-


dimento generale delle problematiche attinenti alla tutela delle nuove esigenze sovraindivi-
duali, v.: AA.VV., Le azioni a tutela di interessi collettivi (Atti del convegno di Pavia, 11-12
giugno, 1974), Padova, 1976; AA.VV., La tutela degli interessi diffusi nel diritto comparato con
particolare riguardo alla protezione dell’ambiente e dei consumatori (Atti del convegno di Sa-
lerno, 22-25 maggio 1975), Milano, 1976; AA.VV., Rilevanza e tutela degli interessi diffusi:
modi e forme di individuazione e protezione degli interessi della collettività (Atti del XXIII
convegno di scienza dell’amministrazione svoltosi a Varenna 22-24 settembre 1977), Milano,
1978; AA.VV., Strumenti per la tutela degli interessi diffusi della collettività (Atti del convegno
nazionale promosso dalla sezione di Bologna di Italia Nostra, Bologna, 5 dicembre 1981), Ri-
mini, 1982. Di recente, i primi passi della nostra tematica a partire dagli anni Settanta in poi
rivivono nel racconto di VIGORITI, V., Impossibile la class action in Italia? Attualità del pen-
siero di Mauro Cappelletti, in Resp. civ. e prev., 2006, p. 31 ss., con particolare attenzione al
ruolo propulsivo svolto a tal proposito da Cappelletti.
144 CAPITOLO TERZO

La riflessione che la scienza giuridica è andata sviluppando nell’ul-


timo trentennio in materia di interessi collettivi, specie nel settore –
quello della tutela processualcivilistica – a cui massimamente è rivolto il
nostro interesse, risulta contrassegnata da due opposte propensioni, che,
se colte nel loro sviluppo cronologico, appaiono reciprocamente con-
nesse in un rapporto di inversa proporzionalità.
Ci si riferisce alla tendenza ad inquadrare lo studio delle tecniche di
tutela degli interessi sovraindividuali in una prospettiva generale, o, al-
ternativamente, in una prospettiva settoriale, ovvero privilegiando l’ana-
lisi e la possibile soluzione delle problematiche di ordine sistematico e
dogmatico (tanto di ordine sostanziale, quanto di ordine processuale), o,
alternativamente, l’interpretazione dei singoli e particolari strumenti di
tutela degli interessi sovraindividuali positivamente previsti dall’ordina-
mento.
In altri termini si assiste a due fondamentali direttrici di riflessione:
una rivolta allo studio della tutela degli interessi sovraindividuali tout
court (collettivi o diffusi che siano) e l’altra rivolta – tanto per esemplifi-
care – allo studio della tutela della libertà sindacale, piuttosto che alla tu-
tela dell’ambiente, oppure alla tutela degli interessi dei consumatori e de-
gli utenti, piuttosto che a quella antidiscriminatoria.
Ed il rapporto di inversa proporzionalità, che poc’anzi si è eviden-
ziato potersi cogliere nello sviluppo cronologico del dibattito, sta ad in-
dicare la linea di tendenza secondo cui all’iniziale predominanza della
prima prospettiva di sintesi è andata sostituendosi una maggior atten-
zione verso le questioni di analisi; e ciò con un graduale assottigliamento
della riflessione concernente le problematiche di ordine generale che la
materia in questione solleva.
Allo stato attuale del nostro ordinamento positivo e della riflessione
dottrinale e giurisprudenziale l’intensità ed ampiezza del dibattito, non-
ché il diversificarsi e il moltiplicarsi delle prospettive d’indagine ren-
dono, dunque, lo studio degli strumenti di tutela degli interessi generica-
mente qualificabili come sovraindividuali una materia di riflessione scien-
tifica semplicemente immensa e sconfinata3.
Una «gestione» del materiale di studio prodotto nel corso anni è
tanto più complessa e delicata quanto più ci si approssimi ai giorni no-

3 Si rileva, con particolare efficacia, che «le posizioni dottrinali e giurisprudenziali in

materia sono divenute più di mille, come le celebri fiabe orientali»; così, LANFRANCHI, L., Le
animulae vagulae blandulae e l’altra faccia della luna, in La tutela giurisdizionale degli interessi
collettivi e diffusi, a cura di L. Lanfranchi, Torino, 2003, p. XXVI.
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 145

stri, in cui ormai l’originaria unitarietà tematica è andata sfrangiandosi in


mille diversi rivoli di ricerca settoriale, lasciandosi peraltro alle spalle
fondamentali, e più che altro irrisolti, nodi ricostruttivi.
Alla luce di queste succinte premesse, quindi, dovrebbe risultare
piuttosto comprensibile quanto importante si riveli un’accurata scelta di
metodo che riesca a «sezionare» questa multiforme massa di materiale in
maniera tale da farne apparire i diversi e principali filoni ricostruttivi,
nonché quindi le diverse problematiche disseminate lungo il tortuoso
percorso che va dalla presa di coscienza della dimensione sovraindivi-
duale dei nuovi conflitti alla predisposizione degli adeguati ed opportuni
strumenti di composizione giuridica (e dunque di tutela) dei nuovi in-
teressi.
In quest’ordine di idee sembra costituire una scelta congrua agli
obiettivi individuati quella di separare, per quanto possibile, le riflessioni
dottrinali votatesi alla prima direttrice speculativa da quelle viceversa ri-
volte allo studio di aree maggiormente delimitate del nostro ordina-
mento.
Ma – lo si ripete – per quanto possibile.
Non sempre, infatti, è facilmente attuabile l’intento di operare – con
un secco colpo di coltello – la netta divisione tra le due diverse aree del
dibattito. Talora l’atto di scelta, che è la premessa della classificazione,
può rivelarsi opinabile sotto più profili. Vi sono, d’altra parte, delle
«terre di mezzo» in cui è oggettivamente difficile poter distinguere e la
scelta rimane fondamentalmente rimessa ad una valutazione soggettiva
circa il pensiero dei diversi autori.
D’altra parte, l’assoluta necessità di non confondere i due piani, non
solo corrisponde ad un’esigenza operativa di ordine pratico, di chiarezza
espositiva potremmo dire, ma fondamentalmente corrisponde – anche e
soprattutto – ad un’esigenza ricostruttiva di natura più propriamente lo-
gico-teorica.
Come – infatti – emergerà dal prosieguo, e come – d’altra parte –
dovrebbe essere emerso anche dalle riflessioni che abbiamo svolto nei
precedenti capitoli, proprio le questioni teorico-dogmatiche di ordine ge-
nerale costituiscono il campo su cui deve essere combattuta e vinta la
battaglia a favore della tutela degli interessi sovraindividuali: è qui che si
incontrano gli scogli ricostruttivi più aspri ed è qui che il dibattito dot-
trinale presenta le maggiori incertezze.
È per questa stessa ragione che, come già fatto in precedenza, parti-
colare attenzione dovrà essere dedicata alle riflessioni svolte in seno alla
scienza giuridica amministrativistica, che, pur non essendo al centro del
146 CAPITOLO TERZO

nostro studio, risulta tuttavia un area di approfondimento sotto certi pro-


fili imprescindibile.
La trasversalità del dibattito a cui si è già fatto cenno quale carattere
peculiare del periodo in esame, infatti, interessa in primo luogo la tema-
tica – assolutamente centrale – concernente la determinazione di una
corretta ed appropriata nozione di interesse sovraindividuale.
La conseguenza di questa trasversalità – in altri termini – si rivela in
una riflessione dottrinale che gradatamente propende a distinguere al-
l’interno della categoria generale degli interessi sovraindividuali, tra, da
un lato, gli interessi collettivi e, dall’altro, quelli diffusi.
Senza inoltrarci per il momento nei caratteri differenziali apparte-
nenti alle due diverse figure, basti qui solamente accennare che un’ope-
razione scientifica diretta ad isolare, da un lato, i contributi formalmente
riconducibili all’interpretazione del diritto civile e, da un lato, quelli di-
versamente appartenenti alla materia del diritto amministrativo risulte-
rebbe altamente inappagante, se non propriamente scorretta. In altri ter-
mini, con riguardo allo studio della nozione di interesse sovraindividuale
tutelabile, le barriere disciplinari non possono essere a priori sostenute.
Non entrare ad esempio nel merito delle scelte ermeneutiche che la dot-
trina – specie o comunque originariamente – amministrativistica ha ope-
rato per contrapporre gli interessi diffusi a quelli collettivi precluderebbe
nella maniera più assoluta la possibilità di approdare a risultati appaganti
in merito ad una nozione scientificamente attendibile di interesse collet-
tivo, perdendo così l’occasione di verificare una volta per tutte se tale
contrapposizione ha ragion d’essere sul piano ontologico o se è la mera
ricaduta di circostanze storiche.

1.2. Il quadro culturale di riferimento: la ri-scoperta della Costituzione


Ciò detto su di un piano generale se non generalissimo, come nei ca-
pitoli che ci siamo lasciati alle spalle, si ritiene opportuno iniziare l’esame
con un’ulteriore opera di contestualizzazione del dibattito che tenda a
porre in evidenza i dati ambientali di natura lato sensu culturale entro cui
esso si è sviluppato. Ed in quest’ordine di idee va in primo luogo ricor-
dato quanto constatato nel capitolo precedente, in cui era emerso che il
passaggio dal periodo corporativo a quello successivo all’approvazione
della nostra Carta costituzionale era stato caratterizzato dalla prevalenza –
a più livelli – dei profili di «continuità» su quelli di «mutamento»4.

4 Cfr. retro, cap. II, § 3.


INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 147

Questa sostanziale linearità evolutiva viene al contrario interrotta


con decisione dal dibattito che si avvia dagli anni Settanta in poi, in
quanto viene a realizzarsi quel complesso ed articolato fenomeno di rin-
novamento traente origine dalla c.d. riscoperta della Costituzione e con-
cretatosi nell’applicazione dei principi e dei valori costituzionali. È la
tanto attesa opera di costituzionalizzazione del diritto positivo a cui
prende parte la dottrina giuridica nostrana. Cade – così – il mito della
neutralità del diritto; la sostanza degli interessi tutelati acquista premi-
nenza sulle ragioni della forma; entra in crisi la netta distinzione tra di-
ritto pubblico e diritto privato; tramonta la concezione patrimonialistica
del diritto a favore di una concezione esistenzialistica degli interessi
umani, in virtù della quale il centro dell’ordinamento viene finalmente ad
essere costituito dalla persona. E naturalmente tale rivoluzione coperni-
cana coinvolge anche la scienza processualcivilistica, aprendo una nuova
dimensione delle garanzie giurisdizionali, quella dell’effettività, che si
proietta in avanti sino ad oggi dando vita all’ampio tema del c.d. giusto
processo5.
Si realizzano, dunque, una serie di condizioni capaci di costituire la
cornice ideale affinché la questione della tutela degli interessi sovraindi-
viduali possa trovare la dimensione culturale più propizia per la sua defi-
nitiva esplosione6.

5 Si pensi, a mero titolo d’esempio, al fiorire degli studi sulla garanzia costituzionale
dell’azione, che, salvo il lavoro di Virgilio Andrioli (La tutela giurisdizionale dei diritti nella
Costituzione, in Nuova riv. dir. comm., 1954, p. 314 ss.) si moltiplicano proprio a partire dagli
anni ’70: cfr. COMOGLIO, L.P., La garanzia costituzionale dell’azione ed il processo civile, Pa-
dova, 1970 (e successivamente ID., Commento all’art. 24 Cost., in Commentario della Costitu-
zione, Rapporti civili, a cura di G. Branca, Bologna, 1981, p. 1 ss.); CAPPELLETTI, M. - VIGO-
RITI, V., I diritti costituzionali delle parti nel processo civile italiano, in Riv. dir. proc., 1971, p.
604 ss.; VIGORITI, V., Garanzie costituzionali del processo civile: due process of law e art. 24
Cost., Milano, 1973; TROCKER, N., Processo civile e costituzione, Milano, 1974, p. 191 ss. È così
che, gradatamente, si sviluppa il dibattito all’interno del nostro ordinamento attorno alla te-
matica del c.d. «giusto processo». Si pensi, ad esempio, che «solo» nel 1989 il Convegno Na-
zionale dell’Associazione fra gli studiosi del processo civile, prende come argomento di con-
fronto il tema de I procedimenti in camera di consiglio e la tutela dei diritti (cfr. gli Atti del
XVII Convegno Nazionale, Palermo 6-7 ottobre 1989, Milano, 1991). Sull’argomento in que-
stione, v., per tutti, LANFRANCHI, L., La roccia non incrinata, Garanzia costituzionale del pro-
cesso civile e tutela dei diritti, Torino, 2004; cui adde, ANDOLINA, I. - VIGNERA, G., I fonda-
menti costituzionali della giustizia civile: il modello costituzionale del processo civile italiano,
Torino, 1997; COMOGLIO, L.P., Etica e tecnica del «giusto processo», Torino, 2004.
6 Rileva RESCIGNO, P., Introduzione al Codice civile, Bari-Roma, 1991, p. 59, con rara ca-

pacità di sintesi ed anticipando temi di indagine sui quali ci soffermeremo a lungo tra breve,
come nel periodo in esame si realizzi «l’affermazione di valori e dignità non patrimoniali con-
tro una concezione tipica del diritto privato e dei codici civili, inclini ad apprezzare i valori
148 CAPITOLO TERZO

1.3. L’evoluzione socio-economica e i conflitti di massa


La tutelabilità giurisdizionale di situazioni sostanziali a dimensione
sovraindividuale costituisce, come si vedrà, una prospettiva evolutiva in
grado di scuotere sin dalle fondamenta l’ordinamento giuridico tradizio-
nale.
Appare comprensibile, dunque, che sia la stessa dottrina occupatasi
ex professo del tema – specie in un primo stadio della riflessione – a porsi
l’interrogativo volto a ricercare le possibili ragioni alla luce delle quali
spiegare l’emersione decisa e definitiva della problematica.
Risulta agevole comprendere la sentita necessità dottrinale di scan-
dagliare in profondità anche le pieghe pregiuridiche del fenomeno, per
meglio circoscriverlo, comprenderlo e penetrarlo nei nessi funzionali più
remoti e successivamente operarne il confronto con l’ordinamento al fine
di verificare l’esistenza o l’inesistenza di possibili strumenti di tutela.
In quest’ordine di idee la dottrina dominante ha prestato particolare
attenzione ai profondi mutamenti sociali che hanno interessato il nostro
Paese nel secondo dopoguerra.
Facendo opera di sintesi, è possibile isolare fondamentalmente due
principali direttrici di riflessione.
«Non occorre essere sociologi di professione – ha indicato la dot-
trina che più delle altre ha seguito una prima direttrice – per riconoscere
che la società […] nella quale viviamo, è una società, o civiltà, di produ-

della persona in termini puramente patrimoniali, riducibili al denaro che rappresenta il modo
più semplice di valutare la persona alla stregua di un bene. Si comprende allora come pene-
trino nell’ambito dello studio del privatista – promuovendo i suoi sforzi per trovare il fonda-
mento di una tutela costituzionale – interessi, beni valori che secondo la concezione rigida-
mente patrimoniale del diritto privato rifuggirebbero dalla considerazione del diritto in
primo luogo perché non sono appropriabili da parte dei singoli. Quando parliamo di tutela
dell’ambiente, della natura, dei beni culturali, e cioè di realtà in cui l’individuo si trova inse-
rito e che contribuisce a creare e trasformare, finiamo con l’attribuire a singoli o a gruppi
azioni a tutela di beni non solamente non suscettibili di appropriazione, ma per i quali manca
quel carattere di alienità rispetto alla persona, nel senso in cui abitualmente intendiamo la
conservazione e il godimento delle cose nella concezione che ha dominato e ancora costitui-
sce il segno tipico del diritto privato». E si rileva ancora con particolare efficacia: «si verifica
altresì […] la scoperta che le fonti di regolamento della condotta privata non sono racchiuse
soltanto nel contratto; altre se ne aggiungono, talvolta risiedono in un potere esterno e in con-
creto autoritario, pur se passa attraverso le forme tipiche del diritto privato, in apparenza co-
struite in termini di eguaglianza ma capaci di nascondere situazioni effettive di forza e sogge-
zione. Sorge allora il problema, sempre alla luce dei principi costituzionali, della necessità di
controllare l’esercizio delle autorità, di riportare a una parità sostanziale le situazioni di egua-
glianza formale, di scoprire la radice delle imposizioni: in breve, di escogitare forme di con-
trollo che corrispondano all’interesse della collettività circa i modi di esercizio dei poteri».
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 149

zione di massa, […] di conflitti di massa […]. Ne deriva che anche le si-
tuazioni di vita, che il diritto deve regolare, sono divenute sempre più
complesse, mentre a sua volta la tutela giurisdizionale – la “giustizia” –
sarà invocata non solo più soltanto contro violazioni di carattere indivi-
duale, ma sempre più spesso anche di carattere collettivo, in quanto coin-
volgono gruppi, classi, collettività. Si tratta, in altre parole, di “violazioni
di massa”»7.
Si assiste insomma ad una profonda alterazione delle dinamiche so-
ciali e dei rapporti inter-individuali, alla luce della quale numerose con-
dotte – incidendo su beni di rilevanza sovraindividuale, come l’ambiente,
la salute, la parità e molti altri valori fortemente legati alla qualità della
vita8 – risultano essere potenzialmente e simultaneamente lesive di plura-
lità di individui o categoria di persone, dando luogo, sotto il profilo
quantitativo, ad una polverizzazione del pregiudizio, tale da rendere il
medesimo esiguo se colto nella sua dimensione individuale, ma assai am-
pio se colto nella sua dimensione collettiva aggregata: di massa appunto9.

7 CAPPELLETTI, M., Formazioni sociali e interessi di gruppo davanti la giustizia civile, in

Riv. dir. proc., 1975, p. 363; ma anche ID., Appunti sulla tutela giurisdizionale di interessi col-
lettivi o diffusi, in Le azioni a tutela degli interessi collettivi, cit., p. 191 ss. (pubblicato anche
in Giur. it., 1975, IV, p. 49 s.); ID., Accesso alla giustizia come programma di riforma e come
metodo di pensiero, in Riv. dir. proc., 1982, p. 233 ss., ma spec. 237. Ma nel medesimo senso,
ovvero con l’intenzione di evidenziare l’incidenza che il passaggio ad una società di «capitali-
smo maturo» ha determinato sull’emersione della problematica relativa alla tutelabilità giuri-
sdizionale degli interessi sovraindividuali ed in particolare sulla realizzazione di conflitti di
massa, v. anche, TROCKER, N., Interessi collettivi e diffusi, in Enc. giur. Trec., XVII, Roma,
1989, p. 1; VARRONE, C., Sulla tutela degli interessi diffusi nel processo amministrativo, in Riv.
dir. proc., 1976, p. 781 ss.; PANETTA, E., Gli interessi allo stato diffuso e le loro possibili forme
di tutela, in Rilevanza e tutela degli interessi diffusi, cit., p. 379 (pubblicato anche in Riv.
amm. Rep. it., 1978, p. 9 ss.); RUFFOLO, U., Interessi collettivi e diffusi e tutela del consumatore,
I, Il problema e il metodo, Legittimazione, azione e ruolo degli enti associativi esponenziali, Mi-
lano, 1985, p. 106; TROCKER, N., Gli interessi diffusi e la loro tutela dinanzi al giudice civile, in
Nuove dimensioni nei diritti di libertà, Scritti in onore di Paolo Barile, Padova, 1990, p. 193
ss., ma spec. p. 195 (pubblicato anche in lingua inglese con il titolo The Protection of Group
Interests through the Civil Courts, in Italian Yearbook of Civil Procedure, I, Milano, 1991, p.
125 ss.); FERRARA, R., Interessi collettivi e diffusi (ricorso giurisdizionale amministrativo), in
Dig. disc. pubbl., VIII, Torino, 1993, p. 481 ss., ma spec. 483.
8 Sulla natura dei beni che attivano la formazione degli interessi collettivi e sul ruolo

che gli stessi rivestono all’interno delle diverse ricostruzioni, ci soffermeremo tra breve nel te-
sto e in nota.
9 V. ancora CAPPELLETTI, M., Formazioni sociali e interessi di gruppo davanti la giustizia

civile, cit., p. 365. Di «carattere dispersivo» della lesione parla TROCKER, N., Gli interessi dif-
fusi e la loro tutela dinanzi al giudice civile, cit., p. 195. L’argomento ricorre sovente in dot-
trina e sovente viene ad essere utilizzato per risolvere la delicata problematica dei rapporti tra
150 CAPITOLO TERZO

D’altra parte, non è mancato chi – viceversa – ha negato la corret-


tezza di questa chiave di lettura, rilevando l’opportunità di dubitare se-
riamente «della “novità” di posizioni (collettive) in realtà non create ma
solo esaltate di fatto dalle mutate condizioni socio-economiche e sul
piano del diritto da un più esplicito riconoscimento»10. Si è in altri ter-
mini cercato di infirmare o ridimensionare l’opinione secondo la quale
l’emersione degli interessi sovraindividuali e la loro aspirazione alla giu-
ridicità sia diretta ed immediata conseguenza della diffusione di una con-
flittualità di massa, dovuta tanto agli effetti degenerativi del processo di
industrializzazione, quanto ai profili patologici della nuova società di
consumi, sostenendo al contrario l’esistenza di aspirazioni di natura so-
vraindividuale anche in altre e precedenti epoche storiche; epoche in cui
esigenze similari già erano emerse, sebbene, magari, in diverse prospet-
tive e, più che altro, aspirando a differenti forme e modalità di tutela11.
Osservato ex post, ovvero in uno stadio di maturazione del dibattito
sugli interessi sovraindividuali in cui le ragioni lato sensu sociologiche
sono definitivamente acquisite al medesimo, la diversità di letture appena
riportata può apparire di secondaria importanza, ma in realtà, in un iti-
nerario di studio che, come il nostro, voglia anche cogliere l’evoluzione
storica dei profili problematici, questa stessa diversità permette di far ap-
prezzare con maggiore concretezza quanto determinante si riveli il gene-
rale contesto culturale, specie sotto il profilo riguardante i valori di rife-
rimento ed il metodo adottato, a cui dapprima abbiamo fatto cenno.
In questa sede non ricorre certamente la necessità di interrogarsi se
siano le componenti ideali o di pensiero, anziché quelle più propria-
mente reali ad incidere in maggior misura, determinandone l’andamento,
sui fenomeni sociali nell’ambito dei quali lo stesso diritto, per sua natura,
deve essere chiaramente ricondotto; e questo non solo per la semplice os-
servazione che i nessi di causa/effetto nel divenire storico non presentano

singolo e gruppo, ovvero tra gestione individuale o collettiva della controversia, specie in
tema di legittimazione ad agire. Sulla questione v. infra, § 3.4.1.1.
10 Così, GRASSO, E., Gli interessi della collettività e l’azione collettiva, in Riv. dir. proc.,

1983, p. 24 ss., spec. p. 30; ma in linea con l’osservazione riportata v. anche TUCCI, M.A.,
Spunti per un diverso approccio metodologico allo studio degli interessi collettivi, in T.A.R.,
1983, II, p. 165 ss., ma spec. 168 ss.; SENSALE, M., La tutela degli interessi diffusi: un problema
ancora aperto, in Giust. civ., 1983, II, p. 140 ss., ma spec. p. 141.
11 V. oltre agli AA. cit. alla nota precedente, anche VIGORITI, V., Interessi collettivi e pro-

cesso, I, La legittimazione ad agire, Milano, 1979, p. 14, per il quale, «l’aggregazione in forma
collettiva degli interessi, di certi interessi in particolare, non è sicuramente fenomeno pecu-
liare dei nostri tempi, ma nuova è l’aspirazione di questi interessi a ricevere tutela giurisdi-
zionale nella loro dimensione reale, in quanto collettivi».
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 151

rapporti immutabili, ma piuttosto poiché appare francamente difficile


porre in secondo piano l’individuazione delle modificazioni radicali che
la società italiana ha subito nel suo passaggio da paese agricolo arretrato
a paese altamente industrializzato; modificazioni che come giustamente
evidenziato non necessitano di particolari cognizioni tecniche per poter
essere rilevate. Differente questione, però, è quella di ritenere queste
spiegazioni, del resto abbastanza semplificative, completamente esau-
rienti sotto il profilo eziologico accennato. Se in termini generali, infatti,
qualsiasi fenomeno per essere posto ad oggetto di studio necessita degli
strumenti di rilevazione dotati della sensibilità sufficiente, discorso non
dissimile deve essere fatto anche nel nostro caso. È difatti la ormai ac-
quisita sensibilità ai valori costituzionali, nonché il loro concreto utilizzo
in sede ermeneutica che in questa fase storica guidano, come tra breve si
vedrà meglio, la riflessione dottrinale sugli interessi sovraindividuali. Si
assiste quindi ad una circolarità tra elementi reali e ideali che di certo
giova all’affermazione della nostra tematica. Al di fuori di questa pro-
spettiva, probabilmente, i nostri interessi sarebbero rimasti per sempre
agli occhi degli studiosi come i raggi ultravioletti agli occhi dell’uomo,
ovvero presenti ma invisibili12.

1.4. L’istanza di tutela degli interessi sovraindividuali come species dell’i-


stanza partecipatoria
Oltre alla prospettiva appena richiamata, poi, ampia parte della dot-
trina, specie – ma non solo – amministrativistica, per dar spiegazione
delle ragioni sociali sottese alle diffuse pressioni rivolte ad ottenere una
maggiore tutela giurisdizionale degli interessi sovraindividuali, ha richia-
mato l’attenzione degli studiosi sulla crescente domanda di partecipa-
zione presente nel corpo sociale13.

12 Si istaura, in altri termini, un processo di circolare andamento tra testo costituzionale

e mutata sensibilità sociale in cui le istanze provenienti dalla seconda trovano nel primo una
giusta sede di catalizzazione, contribuendo ad arricchirlo di nuovi contenuti e valori. Esem-
plificando si pensi alla tutela dell’ambiente in cui l’attivarsi di una nuova coscienza ambien-
tale contribuisce a dare nuova lettura agli artt. 9 e 32 sino all’elaborazione giurisprudenziale
del «valore» ambiente. Non è un caso, a tal riguardo, che la prima sentenza della Consulta in
cui ricorre l’uso del termine «ambiente» (n. 79), risalga al 1971, come segnalato da BILE, R.,
La giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia ambientale, in Giurisdizione e controllo
per l’effettività del diritto umano all’ambiente, a cura di Postiglione, Napoli, 2001, p. 225 ss.,
ma spec. 228.
13 Per NIGRO, M., Le due facce dell’interesse diffuso: ambiguità della formula e media-

zioni della giurisprudenza, in Foro it., 1987, V, p. 12, «l’intera tematica dell’interesse diffuso si
152 CAPITOLO TERZO

Una delle voci che meglio delle altre è riuscita a individuare gli esatti
nessi tra i due fenomeni ha puntato l’attenzione sul ruolo maggiormente
attivo della società civile all’interno delle dinamiche istituzionali. Si è così
rilevato che, diversamente da quel che si verificava nello Stato liberale, in
cui la sua organizzazione assorbiva ogni possibile contrasto con la so-
cietà, restando impregiudicata la sola possibilità di configurare rapporti
conflittuali tra individuo e Stato, nello Stato sociale, «non […] più ca-
pace di assorbire i conflitti tra società e poteri, […] rimangono aperti e
visibili dei conflitti in aree di interessi collettivi tagliate fuori dall’orga-
nizzazione statale»14. Più precisamente, in una democrazia partecipativa
come la nostra, la società viene ad essere «animata da quell’ansia di par-
tecipazione che è propria delle democrazie mature, una volontà di non
rimanere esclusi, la volontà dei cittadini di non rimanere fuori dalla por-

muove, ben inteso, all’interno del fenomeno della partecipazione, al di là e prima dell’entrata
in campo dell’interesse collettivo»; vedi anche ID., Il nodo della partecipazione, in Riv. trim.
dir. proc. civ., 1980, p. 225 ss., ma spec. p. 232 ss.; ID., Procedimento amministrativo e tutela
giurisdizionale contro la pubblica amministrazione (il problema di una legge generale sul proce-
dimento amministrativo), in Riv. dir. proc., 1980, p. 252 ss., ma spec. p. 267, in cui l’A. indi-
vidua il fondamentale nesso tra interessi diffusi e partecipazione procedimentale, questione
su cui amplius, v. infra, nota 93. Cfr. anche BARILE, P., Diritti dell’uomo e libertà fondamentali,
Bologna, 1984, p. 94; ROMANO, A., Intervento, in Le azioni a tutela di interessi collettivi, cit.,
289 ss.; BERTI, G., Interessi senza struttura (i c.d. interessi diffusi), in Studi in onore di A.
Amorth, I, Milano, 1982, p. 67 ss.; ID., Il giudizio amministrativo e l’interesse diffuso, in Jus,
1982, p. 68 ss., ma spec. 73 s.; VARRONE, C., Sulla tutela degli interessi diffusi nel processo am-
ministrativo, cit., p. 781, ma anche 785 e poi p. 787, che parla a tal proposito di un processo
di «socializzazione del potere»; ARRIA, C., L’individuazione e la tutela degli interessi collettivi,
in Nuovo diritto, 1977, p. 340 ss., ma spec. p. 344; PATRONI GRIFFI, F., Note in tema di tutela
giudiziaria degli interessi diffusi, in Giust. civ., 1980, p. 294 ss., ma spec. 298; CARAVITA, B., In-
teressi diffusi e collettivi (Problemi di tutela), in Dir. soc., 1982, p. 167 ss., ma spec., p. 191 ss.;
COCCO, G., Spunti problematici in ordine all’individuazione ed alla tutela degli interessi diffusi,
in Rilevanza e tutela degli interessi diffusi della collettività, cit., p. 348; SANTANIELLO, G., La tu-
tela giurisdizionale degli interessi diffusi nella prospettiva costituzionale, in Giustizia ammini-
strativa e attuazione della Costituzione, I, Controlli, Istruzione, Partecipazione, Padova, 1985,
p. 13 ss.; SANDULLI, A.M., Considerazioni conclusive e di sintesi (in tema di partecipazione e
giustiziabilità), in Giustizia amministrativa e attuazione della Costituzione, cit., p. 86 ss.; FE-
DERICI, R., Interessi diffusi, Il problema della loro tutela nel diritto amministrativo, Padova,
1984, spec. p. 18 s., ma v. anche p. 91, 111, 131 s.; FERRARA, R., Gli interessi superindividuali
fra giudice amministrativo e processo: problemi e orientamenti, in Dir. proc. amm., 1984, p. 48
ss.; ID., Interessi collettivi e diffusi (ricorso giurisdizionale amministrativo), cit., p. 483; ID.,
Contributo allo studio della tutela del consumatore, Profili pubblicistici, Milano, 1983, p. 391
ss.; ID., Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, a cura di A. Romano, Pa-
dova, 2001, p. 364; CRESTI, M., Contributo allo studio della tutela degli interessi diffusi, Mi-
lano, 1992, p. 92 ss.
14 BERTI, G., Interessi senza struttura, cit., p. 70.
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 153

tata del potere», aspirando anzi «ad essere anche essi partecipi della rea-
lizzazione dell’interesse pubblico»15.
La dottrina prende atto del verificarsi di un complesso fenomeno in
cui la crisi di rappresentatività dei partiti politici e dei sindacati16, il pas-
saggio dallo Stato c.d. monoclasse a quello pluriclasse17, l’articolazione e
la frammentazione dell’apparato organizzativo della pubblica ammini-
strazione18, il graduale passaggio dal rigore del principio di legalità a
quello della ricerca del consenso come principi regolatori dell’attività
della pubblica amministrazione19 e non in ultimo la «liberazione» da

15 SANDULLI, A.M., Considerazioni conclusive e di sintesi, cit., p. 87.


16 SANDULLI, A.M., Considerazioni conclusive e di sintesi, cit., p. 87; ma v. anche COCCO,
G., Spunti problematici in ordine all’individuazione ed alla tutela degli interessi diffusi, cit., p.
348, per il quale, «l’emergere della tutela degli interessi diffusi si aggancia alla richiesta di
partecipazione sempre maggiore di tutti i cittadini alla gestione della res publica, manifestatasi
parallelamente al crollo del mito della rappresentanza (intesa secondo lo schema di stampo li-
berale classico) che prevedeva la delega degli interessi della collettività (intesi come interessi
pubblici) nelle mani della ristretta minoranza di cittadini e riconosceva uno spazio autonomo
al singolo solo nel limitato ambito privatistico».
17 V. il richiamo di FERRARA, R., Interessi collettivi e diffusi (ricorso giurisdizionale am-

ministrativo), cit., p. 483, alla nota distinzione di GIANNINI, M.S., Il pubblico potere, Bologna,
1986, passim; ID., I pubblici poteri negli Stati pluriclasse, in Riv. trim. dir. pubbl., 1979, p. 389
ss. ed ancor prima Diritto amministrativo, I, Milano, 1970, p. 45 in cui appunto, alla luce del
passaggio da uno «Stato censitario» ad uno «Stato formalmente democratico», si individuano
i cambiamenti nella concezione del potere pubblico. «Sino al sorgere dello Stato pluriclasse –
si afferma (p. 106 s.) – la teorizzazione che facevano i giuristi era semplice: da un lato si po-
nevano gli interessi dei privati, rimessi al principio di autonomia privata; dall’altro l’interesse
pubblico, inteso come interesse della collettività statale […]. Con l’avvento dello Stato pluri-
classe questa teorizzazione si rivelò inadeguata, poiché accadde che gli interessi di gruppi ete-
rogenei furono gli uni e gli altri qualificati pubblici, e tutelati da apposite leggi dello Stato
[…]. Talché il mondo degli interessi di cui sono portatori soggetti pubblici si presenta oggi
identico al mondo degli interessi di cui sono portatori soggetti privati. Secondo i giuristi
meno recenti quest’ultimo era dominato e doveva essere dominato dalla regola del libero
gioco, mentre il primo doveva essere dominato da regole di ordine fra i vari interessi, perché,
si diceva, gli interessi del secondo erano eterogenei, quelli del primo omogenei perché pub-
blici. Oggi la realtà ci mostra che anche gli interessi della sfera pubblica sono eterogenei».
18 «L’amministrazione a sua volta si rompe in una pluralità disordinata di soggetti ed è

per questo incapace di imparzialità e di efficienza»; così, ancora BERTI, G., Interessi senza
struttura, cit., p. 72.
19 FEDERICI, R., Interessi diffusi, cit., 131 s., ove si evidenzia in richiamo della dottrina

amministrativistica (ARCIDIACONO, L., Organizzazione pluralistica e strumenti di collegamento -


profili dogmatici, Milano, 1974, p. 116), che «se l’interesse della collettività è sempre pub-
blico, non è vero l’inverso. È solo vero quando tutte le forze politiche e sociali capaci di ma-
nifestare il proprio indirizzo possono esprimersi in posizione di uguaglianza; ciò avviene in un
ordinamento pluralistico, decentrato (art. 5 Cost.) e imparziale (art. 97 Cost.), in cui le libertà
formali siano anche sostanziali (art. 3-4 Cost.)».
154 CAPITOLO TERZO

parte della Costituzione di un numero sempre crescente di valori ed in-


teressi da dover veicolare e a cui dare attuazione e garanzia da parte della
medesima organizzazione ed attività pubblica20 hanno determinato la
crisi della tradizionale coincidenza (tutta formale) tra Stato e società con
la conseguente nascita dell’aspirazione di quest’ultima ad entrare diretta-
mente a far parte del processo di individuazione dell’interesse pub-
blico21, non più volto a tutelare unicamente «gli interessi elitari» o «l’in-
teresse nazionale» determinato dai «benpensanti», bensì «l’interesse ge-
nerale come interesse di tutti», ovvero «come mediazione dell’interesse
di tutti»22.
Come magistralmente indicato, «lo Stato contemporaneo ha […]
per programma autentico l’uguaglianza, la solidarietà, la socialità, la rea-
lizzazione di un armonia contrattata, un concorso universale alla conquista
del “bene comune”»23.
Ma ciò che desta maggiore interesse se non anche motivo di attenta
e meditata riflessione e soprattutto di chiarimento sono le circuitazioni
che in questa prospettiva vengono a realizzarsi tra funzione giurisdizio-
nale e istanza partecipativa.
Parte della dottrina ha infatti rilevato il profilarsi di un fenomeno
per il quale «l’ordinamento viene a rifugiarsi nella funzione giurisdizio-
nale, che viene così apparentemente potenziata oltre misura», eviden-
ziando che «nel momento nel quale si allenta la compattezza dell’unità
esclusiva dello Stato e si appannano i confini fra i poteri dello Stato,

20 BERTI, G., Interessi senza struttura, cit., p. 71.


21 Come efficacemente afferma NIGRO, M., Il nodo della partecipazione, cit., p. 233 e
235, se, da una parte, la partecipazione incondizionata degli interessi diffusi equivale «alla
prevalenza definitiva della società sullo stato e quindi alla morte di questo», dall’altra, «a ro-
vescio, mediante la partecipazione, la società si fa stato»; sul punto cfr. anche LEVI, F., Parte-
cipazione e organizzazione, in Rilevanza e tutela degli interessi diffusi della collettività, cit., p.
151, (ma anche in Riv. trim. dir. pubbl., 1977, p. 1628).
22 SANDULLI, A.M., Considerazioni conclusive e di sintesi, cit., 88.
23 SANDULLI, A.M., Considerazioni conclusive e di sintesi, cit., p. 88 (c.vo mio). Ma v. an-

che le ampie e articolate riflessioni proposte da CRESTI, M., Contributo allo studio della tutela
degli interessi diffusi, p. 92 ss., per il quale, «siamo di fronte ad una evoluzione della stessa
nozione di interesse pubblico, da intendersi oggi non più come interesse riferito alla pubblica
amministrazione, completamente estraneo alla sfera giuridica dei cittadini, ma come valore
che emerge da una armonizzazione, da una comparazione di tutti gli interessi in qualche
modo coinvolti dall’azione dei pubblici poteri» (p. 92); realizzandosi, in altri termini, «un’at-
tività non tanto di comparazione di un interesse primario con gli interessi coinvolti dalla sua
attuazione, ma di definizione stessa dei fini da perseguire» con la conseguenza che «la pon-
derazione degli interessi è volta in primo luogo alla individuazione di quali siano meritevoli
di essere assunti fra le finalità di interesse pubblico» (p. 121).
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 155

prende risalto, come funzione residuale, la giurisdizione, in quanto


espressione più prossima e più tangibile dell’esigenza di garanzia»24.
In sintesi «il procedimento giurisdizionale è utilizzato come veicolo
di realizzazione del principio partecipatorio»25.
Va comunque rilevato, che, sebbene sia innanzitutto la dottrina am-
ministrativistica a rilevare con particolare insistenza il nesso intercorrente
tra partecipazione e tutela degli interessi sovraindividuali, anche da parte
della dottrina processualcivilistica autorevoli voci hanno seguito la mede-
sima prospettiva26.
Ciò peraltro, sebbene sia accaduto talora in riferimento al processo
amministrativo o in altri casi sotto un profilo d’analisi generale, induce
comunque a meditare sin d’ora sull’opportunità di accostarsi alla tema-
tica relativa alla tutelabilità giurisdizionale degli interessi sovraindividuali
senza operare i necessari distinguo tra processo civile e processo ammi-
nistrativo.
Questo è infatti un errore di metodo o, se si vuole, di prospettiva,
che fin troppo spesso ricorre nelle riflessioni della dottrina (e non solo
con riguardo al tema della partecipazione), la quale passa con spiccata di-
sinvoltura dall’uno all’altro ambito ritenendo che sussista nel merito un
buon grado di fungibilità tra argomenti ricostruttivi adottabili in una
sede piuttosto che nell’altra.
È opportuno, invece, porre taluni distinguo per verificare adeguata-
mente se il tema degli interessi sovraindividuali si risolva in quello della
partecipazione tanto nel processo amministrativo, quanto nel processo
civile. Insomma non è questione di chiedersi semplicemente se di parte-
cipazione possa parlarsi solo in riferimento all’attività legislativa o ammi-
nistrativa e non anche a quella giurisdizionale; questo sì, sarebbe franca-

24 BERTI, G., Interessi senza struttura, cit., p. 73.


25 SANTANIELLO, G., La tutela giurisdizionale degli interessi diffusi nella prospettiva costi-
tuzionale, cit., p. 13 ss.
26 V. ad esempio DENTI, V., Relazione introduttiva, in Le azioni a tutela di interessi col-

lettivi, cit., p. 7 ss. (pubblicata anche in Riv. dir. proc., 1974, p. 533 ss.), che però a ben ve-
dere, svolge le sue riflessioni, non tanto in relazione al processo civile, ma piuttosto in rela-
zione a quello amministrativo; uguale considerazione vale in riferimento a ID., Interessi dif-
fusi, in Noviss. Dig. it., Appendice, IV, Torino, 1983, p. 305 ss., ma spec. p. 307 s.; ID.,
L’avvocato e la difesa di interessi collettivi, in Foro it., 1978, V, p. 112 ss., ma spec. p. 119; cfr.
anche CAPPELLETTI, M., Accesso alla giustizia come programma di riforma e come metodo di
pensiero, cit., p. 241 ss.; GABRIELLI, E., Appunti su diritti soggettivi, interessi legittimi, interessi
collettivi, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1984, p. 969 ss., ma spec. p. 993; LENER, A., Violazione
di norme di condotta e tutela civile dell’interesse all’ambiente, in Foro it., 1980, V, p. 105 ss.,
ma spec. 107; RUFFOLO, U., Interessi collettivi o diffusi e tutela del consumatore, cit., p. 89.
156 CAPITOLO TERZO

mente – come in effetti sostenuto27 – fuori luogo; il punto è costituito al


contrario dal chiedersi se la partecipazione sia la chiave di lettura cor-
retta, se in altri termini sia la formula sintetica più appropriata per indi-
viduare il carattere specifico, peculiare, ovvero propriamente tipico del
fenomeno.
Parte della dottrina processualcivilistica ha, come detto, operato in
questo senso, rilevando la possibilità di individuare le relazioni tra parte-
cipazione e giustizia sotto più profili: quello dell’intervento popolare di-
retto (presenza di laici nella fase decisoria giurisdizionale ed elezione dei
giudici), quello relativo all’intervento popolare indiretto (ovvero quello
del controllo sull’esercizio della funzione da parte dei destinatari della
funzione stessa), nonché infine quello, «più significativo e pregnante», in
cui è lo stesso procedimento giurisdizionale a fungere da strumento di
realizzazione del principio partecipatorio; situazione, quest’ultima, che si
realizzerebbe in particolar modo nelle «ipotesi in cui i singoli e i gruppi
agiscono e intervengono in giudizio a tutela di interessi di carattere
sovraindividuale»28.
Ma, posta in questi termini, la prospettiva sembra allargarsi a tal
punto da porre in serio pericolo la possibilità di utilizzare il concetto di
partecipazione come strumento realmente efficace sul piano euristico.
Si pensi, esemplificando, al caso di un consumatore o di un’associa-
zione di consumatori che richieda al giudice di inibire all’imprenditore
l’utilizzo di una clausola abusiva inserita illegittimamente nelle condi-
zioni generali del contratto; oppure alla lavoratrice che richieda al giu-
dice di ordinare al datore di lavoro la cessazione di un comportamento
concretatosi nell’utilizzo di requisiti discriminatori di assunzione: in que-
ste ed altre eventuali nonché similari ipotesi, l’obiettivo perseguito sem-
bra forse quello di partecipare?
In queste ipotesi si chiede per ottenere e non per partecipare.
Si chiede, più precisamente, per ottenere ciò che è dovuto, per otte-
nere che la regola preesistente sia applicata; non certo per modificarla,
innovarla o crearla, come invece si dovrebbe verosimilmente ritenere se
fenomeni di questo genere potessero e dovessero essere ricondotti ad un
concetto di partecipazione da intendersi in un’accezione più selettiva, ov-
vero quella che richiama l’atto di voler «prender parte al momento deci-
sionale», il «farsi da oggetto soggetti della decisione» divenendo «da de-
stinatari autori delle scelte»29.
27 VIGORITI, V., Interessi collettivi e processo, cit., p. 8.
28 VIGORITI, V., Interessi collettivi e processo, cit., p. 13.
29 Così, lo stesso VIGORITI, V., Interessi collettivi e processo, cit., p. 5.
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 157

Diversamente, invece, si può ragionare avendo riguardo tanto all’at-


tività amministrativa che al processo amministrativo.
Se si opera in uno schema formale di perfetta coincidenza tra pub-
blica amministrazione e società o, più precisamente, di perfetta coinci-
denza tra l’interesse pubblico (in quanto appunto formalmente imputato
all’ente pubblico) e l’interesse generale della collettività, appare ovvio che
il rapporto tra p.a. e cittadino possa essere concepito come un rapporto
tra due soggetti individuali ed il processo amministrativo come momento
di composizione di un conflitto (giuridicamente regolato) tra interessi in-
dividuali. Ma se si mette in crisi la capacità della p.a. di esprimere o – se
si preferisce – interpretare, l’interesse generale della collettività, il che
non altro significa che il poter concepire un dualismo tra interesse gene-
rale (poiché concretamente appartenente alla collettività) e interesse pub-
blico (poiché concretamente espresso dall’apparato pubblico), allora si
comprende il rischio che la collettività e i suoi interessi siano i grandi
esclusi tanto dal procedimento che dal processo amministrativo e si com-
prende quanto pregnante sia il riferimento alla partecipazione in questo
contesto, ovvero il riferimento all’aspirazione dei titolari di interessi so-
vraindividuali a partecipare al procedimento di formazione dell’interesse
pubblico concreto per essere appunto i veri «autori delle scelte» stesse e
successivamente avere accesso al loro sindacato giurisdizionale.
Non è un caso, difatti, che la stessa dottrina amministrativistica ab-
bia individuato nel procedimento amministrativo, e non solo nel pro-
cesso, il luogo istituzionale di tutela degli interessi sovraindividuali, spe-
cie per la possibilità che in questo i titolari degli interessi sovraindividuali
hanno di incidere anche sull’ambito delle scelte discrezionali riservate
alla p.a., ovvero proprio sull’attività di valutazione e bilanciamento dei
diversi interessi confliggenti30 e non solo ex post, cioè sub specie di con-
trollo dei vizi del provvedimento amministrativo.
Accostare partecipazione e giurisdizione in occasione dello studio
degli strumenti di tutela degli interessi sovraindividuali può quindi creare
degli equivoci se tale operazione viene posta in essere in assenza dei do-
verosi distinguo.

30 La prospettiva riportata nel testo trova la sua espressione più netta nella tesi della
dottrina che ritiene che gli interessi diffusi in senso più proprio, ovvero capaci di distinguersi
dalle figure del diritto soggettivo e dell’interesse legittimo, siano rappresentati dagli interessi
rivolti a contestare il merito dell’azione amministrativa; così, ROTA, R., Gli interessi diffusi nel-
l’azione della pubblica amministrazione, Milano, 1998, p. 54 s., ma cfr. infra, ad es. la signifi-
cativa posizione di Nigro, esaminata infra, alla nota 93.
158 CAPITOLO TERZO

Garantire l’accesso alla tutela giurisdizionale civile di gruppi o cate-


gorie di soggetti per consentire il sindacato sul rispetto dei requisiti di le-
galità richiesti per l’esercizio di attività private potenzialmente lesive di
beni collettivi di rilevanza costituzionale è fenomeno che certamente può
essere letto – forse in chiave più lato sensu politica che giuridica – alla
luce del concetto di partecipazione, ma solamente in una prospettiva as-
sai generale se non generica, visto che l’obiettivo fondamentale in mate-
ria civile è innanzitutto l’applicazione della regola di condotta che acco-
glie il valore giuridico che si intende tutelare oltre che, ovviamente,
quello di individuare i legittimati a richiederne l’osservanza. Nel pro-
cesso amministrativo invece il discorso cambia e il concetto di partecipa-
zione assume un significato tutto particolare, più pregnante ed in grado
di rivelarsi assai utile anche e soprattutto sotto il profilo più propria-
mente teorico in quanto capace di infirmare i tradizionali modelli di con-
figurazione dei rapporti sostanziali e processuali tra p.a. e cittadini31.

2. Gli interessi sovraindividuali: le nozioni


2.1. Considerazioni introduttive
Nelle riflessioni appena proposte si è già avuto modo di rinviare fu-
gacemente alla distinzione – operata dalla dottrina ed accolta dalla giuri-
sprudenza, all’interno della generica categoria degli interessi sovraindivi-
duali – tra gli interessi collettivi e gli interessi diffusi.
Ora, nell’esaminare il dibattito dottrinale in punto di tutelabilità
giurisdizionale degli interessi sovraindividuali si ritiene corretto intra-
prendere questo percorso di studio proprio dai tentativi definitori di
queste nozioni base; e ciò non solo per l’assoluta centralità che tali no-
zioni posseggono ai fini del nostro studio, non solo perché tali nozioni
costituiscono una delle sedi elettive per il concretarsi dell’approccio si-
stematico, che si ritiene necessario adottare, ma anche poiché, così fa-
cendo, si mima quello stesso iter che la dottrina – specie nei primi mo-
menti del dibattito – ha seguito nello studio della nostra tematica, vol-
gendo innanzitutto lo sguardo a quegli aspetti anche pregiuridici di una
più ampia operazione ricostruttiva, il cui corretto inquadramento rimane

31 Per la dottrina amministrativistica che con maggior chiarezza ed incisività ha ap-

profondito la prospettiva riportata nel testo, v. CRESTI, M., Contributo allo studio della tutela
degli interessi diffusi, cit., spec. p. 92 ss.
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 159

centrale per poter poi procedere ad una costruzione concettuale basata


su stabili fondamenta32.
D’altra parte, la ricognizione delle diverse posizioni dottrinali è
tutt’altro che immediata, specie al punto in cui ci troviamo del nostro
percorso di ricerca, in cui la confidenza con la prospettiva definitoria in
materia di interessi lato sensu collettivi, ha raggiunto quel grado di matu-
razione consentitole dall’esame di poco meno di un secolo di osserva-
zioni definitorie avanzate dalla scienza giuridica in proposito.
Potremmo, ad esempio, limitarci alla constatazione del sostanziale
consolidamento di un approccio ricostruttivo, probabilmente maggiorita-
rio, per il quale, all’interno della categoria degli interessi sovraindivi-
duali, ovvero di quella tipologia di interessi genericamente non riferibili
in via esclusiva al singolo individuo, occorre tenere separati gli interessi
collettivi da quelli più propriamente diffusi.
Come è stato infatti osservato, è ben possibile rilevare una linea evo-
lutiva secondo la quale, a fronte di un iniziale utilizzo sinonimico dei due
diversi strumenti terminologici (realizzatosi specie nei primi incontri con-
gressuali in materia), alla distinzione meramente nominale è andata nel
tempo accostandosi anche e soprattutto una distinzione concettuale33.

32 Come correttamente osservato riguardo alle dominanti configurazioni dell’interesse

sovraindividuale, «la dicotomia prodotta dalla concezione oggettiva e da quella soggettiva


produce l’inconveniente logico di creare un doppio binario d’indagine e di analisi del con-
cetto; per cui, rotta l’iniziale unità logica del concetto stesso, esso si pone in termini diversi a
seconda dell’accezione che ognuno possa avere del termine interesse. Si tratta, come per la
nozione di diritto soggettivo e di azione, di attribuzione ad un concetto di predicati logici
e giuridici che aggregandosi tra loro in diversa maniera, modificano la struttura del con-
cetto ed attraverso cambiamenti logico-formali ne forniscono un diverso risultato sostanzia-
le»; così, GABRIELLI, E., Appunti su diritti soggettivi, interessi legittimi, interessi collettivi, cit.,
p. 991.
33 Sul punto, in particolare, v. FERRARA, R., Commentario breve alle leggi sulla giustizia

amministrativa, cit., p. 367, che rileva: «La (relativamente) fresca emersione del tema degli in-
teressi superindividuali ha originato un dibattito particolarmente nutrito, che non sembra
esente, tuttavia, da ambiguità e da confusioni, anche linguistiche e terminologiche. […] Tali
interessi furono definiti, in un primo momento, come collettivi […], per essere successiva-
mente qualificati come interessi diffusi […], per divenire, poi, in un’altra celebrazione con-
gressuale, interessi diffusi della collettività […]. Sembra fuori discussione che, almeno in un
primo momento, le espressioni “interessi collettivi”, “interessi superindividuali” furono usate
come (quasi) perfettamente fungibili e reciprocamente indifferenti, e che solo in una seconda
fase si elaborarono criteri e fattori di identificazione e di differenziazione degli uni rispetto
agli altri». Cfr. anche, ID., Interessi collettivi e diffusi (ricorso giurisdizionale amministrativo),
cit., p. 487 ss.; CARRATTA, A., Profili processuali della tutela degli interessi collettivi e diffusi, in
La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, a cura di L. Lanfranchi, Torino,
2003, p. 84.
160 CAPITOLO TERZO

Potremmo dunque limitarci a distinguere tra coloro che, specie tut-


tora, presentano due nozioni autonome di interesse collettivo e diffuso e
coloro che tendono a concepire il fenomeno in termini unitari; tra coloro
che insomma parlano di interessi collettivi e interessi diffusi e coloro che
diversamente parlano di interessi collettivi o diffusi. Ma ciò, da una
parte, toglierebbe sostanza ad un dibattito dottrinale eccezionalmente
più problematico (e sfumato nelle sue articolazioni e nelle diverse com-
ponenti concettuali) di quanto in realtà tale lineare e sintetica prospetta-
zione – peraltro tradizionalmente proposta dalla dottrina – è in grado di
rappresentare, e, dall’altra, condurrebbe ad un’operazione da taglio di
coltello, se non impossibile, sicuramente di estrema difficoltà.
Sin dal Convegno di Pavia la dottrina aveva rilevato nella formula
degli interessi collettivi un’«espressione altamente equivoca» e ciò fonda-
mentalmente per il fatto di essere «adoperata in significati spesso radi-
calmente diversi dagli amministrativisti, dai civilisti, dai costituzionalisti,
dai giuslavoristi».
Il punto era il seguente.
«Ciascuno – si evidenziava – ha presente dei fenomeni e problemi
particolari – non sempre esplicitati – e con riferimento ad essi ed ad essi
soli rischia spesso di svolgere un discorso che, almeno apparentemente,
ha la pretesa della generalità»34.
Tale propensione mentale, in grado di disseminare numerosi ele-
menti spurii all’interno del dibattito dottrinale nel suo complesso, è ri-
masta nel tempo, non solo – seppure con diversità di toni – costante-
mente presente, ma è andata anche gradualmente accentuandosi, in pa-
rallelo al progressivo consolidarsi delle diverse prospettive definitorie,
tanto in ambito giurisprudenziale, quanto in ambito dottrinale. Tali pro-
spettive, infatti, ed in particolar modo quella giurisprudenziale, hanno si-
curamente operato un’influenza «concretizzante», tale da accentuare la
tendenza degli studiosi ad avvicinarsi al fenomeno percorrendo, magari
inconsciamente, percorsi mentali già noti e approfonditi ed in quanto tali
effettivamente «ingessanti», rispetto un approccio di studio più libero e
scevro da condizionamenti e riserve mentali.
Un ulteriore aspetto di cui tener conto è inoltre rappresentato dalla
seguente circostanza.
Se si osservano i primi svolgimenti della riflessione, ben si nota la
tendenza ad affrontare l’inquadramento del fenomeno degli interessi so-

34 PROTO PISANI, A., Appunti preliminari per uno studio sulla tutela giurisdizionale degli
interessi collettivi, cit., p. 263 ss.
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 161

vraindividuali in una prospettiva gnoseologica in cui si procede muo-


vendo da una iniziale analisi pregiuridica35, per poi verificare in che mi-
sura i risultati così ottenuti possano essere accolti dall’ordinamento; in al-
tre parole il piano di riflessione lato sensu sociologico e pregiuridico ri-
mane abbastanza distinto da quello più propriamente giuridico.
Col passare degli anni, però, la divisione dei piani di apprezzamento
del fenomeno tende ad essere superata e, sebbene in un quadro di diritto
positivo contraddistinto da nessuna vera certezza in materia, sono le so-
luzioni tecnico-giuridiche prospettabili ad incidere a ritroso sulla siste-
mazione delle problematiche concernenti i profili ontologici del concetto
di interesse sovraindividuale, realizzandosi, quindi, un processo di segno
inverso, ovvero non propriamente orientato alla migliore definizione
delle nozioni in aderenza alle concrete esigenze reali socialmente rile-
vanti.

35 Questa prospettiva è, come si avrà modo di osservare nella trattazione che segue nel
testo e in nota, sicuramente ben presente nella letteratura in materia di interessi collettivi e
diffusi, sebbene in diversa misura e con finalità omogenee. Ciò rappresenta – d’altra parte –
la naturale risposta di una riflessione dottrinale che, di fronte ad una nuova classe di interessi
e nell’indubbia difficoltà di agevolarne il loro incontro con l’ordinamento, ha cercato innan-
zitutto di comprendere le dinamiche – in primo luogo – reali che attraversavano e animavano
il fenomeno. All’analisi particolareggiata della dottrina, va d’altra parte anteposta la posizione
di coloro che, più degli altri, o magari solo più espressamente, hanno nella sostanza negato la
possibilità di percorrere la prospettiva definitoria, specie se condotta su di un piano diverso
dai criteri di ricostruzione formale dettati dall’ordinamento. Si segnala ad esempio la posi-
zione di PARDOLESI, R., Il problema degli interessi collettivi e i problemi dei giuristi, in Le azioni
a tutela di interessi collettivi, cit., (ma anche in Riv. trim. dir. proc. civ., 1975, p. 1520 ss.) p.
259 s., per il quale è cosa impossibile fare uso di «un parametro rigoroso» idoneo a fungere
da strumento conoscitivo sul piano giuridico, rimanendo gli interessi collettivi una «nebulosa
dai contorni vaghi ed oscillanti». «L’alternativa – si è rilevato – tra una nozione che affondi le
sue radici nel “mondo” del diritto ed un’altra, che mutui altrove i suoi indici di rilevazione,
sembra […] destinata a sciogliersi, a tutto favore della seconda». Significativo è anche lo scet-
ticismo palesato da VOCINO, C., Sui cosiddetti interessi diffusi, in Studi in memoria di Salvatore
Satta, II, Padova, 1982, p. 1879 ss., per il quale, «per quanto ci si sforzi di trovare delle di-
versità nelle rappresentazioni di cui i vari scritti sull’argomento sono espressione, una vasta
letteratura, in larga misura ripetitiva, insiste a più e differenti voci, col medesimo registro e
col medesimo tono, sovra un unico leit-motiv e sovra le stesse superficialità, e non ci chiari-
sce sempre neppure se la superiore definizione intenda all’individuazione d’una categoria
d’interessi specificatamente contemplati dall’ordinamento […] o si limiti a rilevare l’esistenza
di quegli interessi come un dato empirico, una tesi d’esperienza, al fine d’invocare per la loro
protezione l’intervento legislativo» (p. 1883). Né le «solite giaculatorie sulla caratteristica
massificazione dell’attuale civiltà», né le «appassionate orazioni sulla progressiva metamorfosi
fatta subire al nostro stato da liberale a socializzato od a stato socialista tout court» (p. 1889)
sarebbero in grado di evitare che gli interessi collettivi o diffusi o sovraindividuali rimangano
un mero «turbinio di animulae vagulae blandulae» in attesa di riconoscimento.
162 CAPITOLO TERZO

In sintesi, dunque, l’analisi del dibattito dottrinale in materia è reso


difficoltoso dai seguenti fattori:
a) alcuni, tra coloro che intraprendono il tentativo definitorio della
nozione di interesse sovraindividuale, non tengono adeguatamente di-
stinto il piano giuridico da quello pregiuridico, con il risultato di non
rendere agevole per il lettore l’individuazione di quali siano i tratti si-
gnificativi-costitutivi di una certa nozione proposta, che risiedano effetti-
vamente sul piano ontologico, anziché derivare da esigenze di ricostru-
zione giuridica dettate dall’ordinamento o dai modelli ricostruttivi co-
muni;
b) alcuni, nel tentativo definitorio, sebbene non esplicitamente, pre-
sentano come nozioni di carattere generale, nozioni che invece trovano
fondamento in fenomeni reali, determinati e specifici;
c) altri, pressoché inconsapevoli di queste difficoltà, presentano for-
mule incerte e contraddittorie, credendo viceversa di far impiego di no-
zioni ben determinate e distinguibili;
d) talora, ed in particolar modo con riferimento alle circostanze sub
a) e b), le problematiche attinenti al rigore del metodo utilizzato ivi indi-
cate coesistono, rendendo nella sostanza vano ogni tentativo di discerni-
mento classificatorio, che, se portato avanti, in assenza di validi e solidi
appigli, più verosimilmente decade ad una mera operazione di interpre-
tazione dell’interprete in cui ogni lettura proposta può essere plausibile e
accettabile.

2.2. La distinzione tra interessi collettivi e diffusi: la tesi monista, la tesi


dualista oggettiva, la tesi dualista soggettiva
Alla luce di queste fondamentali premesse è ben possibile procedere
all’esame delle diverse posizioni, operando in successione su due piani:
un primo, a minore tasso di problematicità e maggiormente descrittivo,
ed un secondo, in cui – al contrario – cercheremo di apprezzare più in
profondità le ragioni dei diversi distinguo.
Iniziando dal primo, possiamo innanzitutto riferirci alle posizioni
che, specie – ma non solo – in una prima fase della riflessione, hanno ri-
tenuto che gli interessi collettivi e gli interessi diffusi siano espressioni
ugualmente idonee a contrassegnare il concetto di interesse sovraindivi-
duale, propendendo – così – per una piena fungibilità terminologica
delle due espressioni.
Significativa è – per voler esemplificare – la posizione di Mauro
Cappelletti, che, operando su di un piano di massima generalità e fluidità
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 163

terminologica, ha ritenuto che detti interessi «coinvolgono non singoli


soggetti soltanto, isolatamente presi, ma gruppi, classi, categorie intere»;
interessi, quindi, a «“carattere diffuso”, “collettivo”, poiché non appar-
tengono a singoli individui in quanto tali ma alla collettività»36.
Per queste posizioni, interesse collettivo, interesse diffuso – se non
anche – interesse sovraindividuale o superindividuale costituiscono tutti
strumenti terminologici equivalenti in ordine all’identificazione di inte-
ressi non esclusivamente individuali37.

36 CAPPELLETTI, M., Appunti sulla tutela giurisdizionale di interessi collettivi o diffusi,


cit., p. 192.
37 La dottrina che preferisce affrontare la tematica della tutela giurisdizionale degli in-

teressi superindividuali in una prospettiva generale priva di nette distinzioni tra nozione di in-
teresse collettivo e diffuso è piuttosto ampia. Ciò può essere spiegato in virtù di diverse con-
siderazioni: a) sicuramente in una prima fase – come acutamente rilevato dalla dottrina citata
retro alla nota 33 – le due espressioni sono state impiegate con piena fungibilità; b) successi-
vamente, il richiamo da parte di alcuni A. sulla necessità di tenere distinti i due fenomeni –
cfr. innanzitutto l’Intervento di Giannini al Convegno di Pavia su cui v. infra, 2.4. – inizia pro-
gressivamente a svolgere la sua influenza, incentivando la dottrina successiva a porsi quanto
meno il quesito circa la correttezza formale di tale summa divisio, così favorendo evidente-
mente il crescere di posizioni dualiste; c) in generale il dibattito sulla preferibile nozione di in-
teresse sovraindividuale si è sviluppato – salvo rilevanti eccezioni che esamineremo tra breve
– su un piano di riflessione sovente poco problematica, ovvero non rilevando l’importanza di
penetrare la struttura formale dell’interesse superindividuale ai fini di una corretta ricostru-
zione giuridica che tenga inalterati i nessi tra soggetto e situazione favorevole tutelata dal di-
ritto (cfr. infra, capp. IV e V). Ciò premesso, senza alcuna pretesa di completezza, per la dot-
trina non orientata a tener separati gli interessi collettivi dai diffusi, v.: DENTI, V., Relazione
introduttiva, cit., p. 16, per il quale «la stessa nozione di interessi collettivi non è priva di am-
biguità, e ciò non soltanto per gli echi di sapore corporativo che inevitabilmente suscita a chi
ricordi le sottili distinzioni tra interessi di gruppo e interessi generali, o di serie, che caratte-
rizzarono la dottrina di quel periodo»; CAPPELLETTI, M., Appunti sulla tutela giurisdizionale di
interessi collettivi o diffusi, cit., p. 192; ID., Formazioni sociali e interessi di gruppo davanti alla
giustizia civile, cit., p. 361 ss.; PROTO PISANI, A., Appunti preliminari per uno studio sulla tu-
tela giurisdizionale degli interessi collettivi, cit., p. 263, che, rilevando come l’espressione «in-
teressi collettivi» si presenti sotto il profilo definitorio «altamente equivoca», nonché difficil-
mente distinguibile rispetto a quella di «interessi diffusi» predilige riferirsi genericamente agli
«interessi superindividuali»; cfr. anche ID., Nuovi diritti e tecniche di tutela, in Dir. e giur.,
1991, p. 227 ss., spec. 236 ss., in cui si riferisce genericamente agli «interessi collettivi»;
SCOCA, F.G., La tutela degli interessi collettivi nel processo amministrativo, in Le azioni a tutela
di interessi collettivi, cit., p. 70 s., per il quale l’interesse collettivo non è distinto dall’interesse
diffuso, entrambi appartenenti a «una serie più o meno vasta di […] soggetti […] titolari
dello stesso interesse»; «non c’è contraddizione tra interesse collettivo e interesse personale;
l’interesse collettivo può essere la somma, o la risultante, di più interessi personali» (c.vo
mio); CARPI, F., Intervento, in Le azioni a tutela di interessi collettivi, cit., p. 304 ss. (anche in
Riv. trim. dir. proc. civ., 1974, p. 544 ss., con il titolo Cenni sulla tutela degli interessi col-
lettivi); ma v. anche ID., L’efficacia «ultra partes» della sentenza civile, Milano, 1974, p. 99 ss.;
164 CAPITOLO TERZO

Sul fronte opposto, invece, militano le posizioni di coloro che ten-


dono a voler porre in risalto come due e diversi siano i fenomeni in cui si

ZANUTTIGH, L., La tutela degli interessi collettivi (a proposito di un recente convegno), in Foro
it., 1975, V, p. 71 ss., ma spec. p. 77, secondo la quale «conviene osservare come forse im-
propriamente si siano definiti “collettivi” interessi che probabilmente si potevano qualificare
semplicemente “superindividuali” (nel senso di non meramente individuali) o diffusi (nel
senso di comuni ad un numero indeterminato di soggetti)»; stessa prospettiva di studio che
sembra emergere anche in ID., Intervento, in Le azioni a tutela di interessi collettivi, cit., p.
310 ss.; COSTANTINO, G., Brevi note sulla tutela giurisdizionale degli interessi collettivi davanti
al giudice civile, in Le azioni a tutela di interessi collettivi, cit., p. 223 ss.; ID., Contributo allo
studio del litisconsorzio necessario, Napoli, 1979, p. 7 ss.; RAPISARDA, C., Gruppi privi di rico-
noscimento e processo, I, Problemi di accesso al giudizio civile, in Riv. giur. lav., 1977, IV, p.
609 ss.; POSTIGLIONE, A., L’iniziativa dei cittadini per la difesa degli interessi collettivi, in Giust.
civ., 1978, p. 1216 ss.; RUSSO, E., Interessi diffusi e teoria delle situazioni soggettive, in Vita no-
tarile, 1979, p. 793 ss. (ma anche in Annali della Facoltà di giurisprudenza dell’Università de-
gli Studi di Perugia, VI, Perugia, 1980, p. 63 ss.); CERRI, A., Interessi diffusi, interessi comuni
– Azione e difesa, in Dir. soc., 1979, p. 83 ss., che definisce gli interessi diffusi come «interessi
omogenei […] che presuppongono un bene suscettibile di godimento non separato bensì ne-
cessariamente (per natura o per legge) congiunto da parte di un insieme di consociati», ap-
partenenti a «collettività più o meno ampi[e] ed anche, talvolta, all’intera collettività nazio-
nale»; PIRAINO, S., L’interesse diffuso nella tematica degli interessi giuridicamente protetti, in
Riv. dir. proc., 1979, p. 202 ss.; LENER, A., Violazione di norme di condotta e tutela civile del-
l’interesse all’ambiente, in Foro it., 1980, V, p. 105 ss.; COMOGLIO, L.P., Commento all’art. 24
Cost., cit., p. 16; COLACINO, L., Alcune notazioni ricostruttive in tema di interesse legittimo, in-
teresse diffuso e interesse collettivo, in Giur. mer., 1981, p. 1086 ss., ma spec. p. 1100; GRASSO,
E., Gli interessi della collettività e l’interesse collettivo, in Riv. dir. proc., 1983, cit., 39 s., per il
quale «è illusorio pensare che il passaggio dalla collettività al gruppo organizzato comporti un
mero processo di soggettivazione dell’interesse della prima», anche se «l’interesse perseguito
dal gruppo è di regola quello di soddisfare gli interessi della collettività più ampia alla quale
appartenevano i suoi membri prima di organizzarsi»; interesse, quello della collettività, «non
soggettivo e non soggettivabile, per la genericità del punto di imputazione», che «ha invece
una sua naturale fluidità connessa con la normale evoluzione degli elementi socio-economici
che stanno alla sua base»; TUCCI, M.A., Spunti per un diverso approccio metodologico allo stu-
dio degli interessi collettivi, in TAR, 1983, II, p. 165 ss., ma spec., p. 188; GABRIELLI, E., Ap-
punti su diritti soggettivi, interessi legittimi, interessi collettivi, cit., p. 969 ss.; RUFFOLO, U., In-
teressi collettivi o diffusi e tutela del consumatore, cit., spec. p. 94 e 95; TROCKER, N., Interessi
collettivi e diffusi, cit., p. 1 s., che si riferisce a «interessi o situazioni giuridiche che perten-
gono identicamente ad una pluralità di soggetti più o meno determinata e determinabile,
eventualmente unificata più o meno strettamente in una collettività, e che hanno per oggetto
beni non suscettibili di appropriazione esclusiva»; ma già prima in ID., Processo civile e Co-
stituzione, Problemi di diritto tedesco e italiano, Milano, 1974, p. 204 ss.; FAZZALARI, E., Isti-
tuzioni di diritto processuale, Padova, 1996, p. 282, per il quale gli «“interessi diffusi” o, me-
glio, “collettivi”, [sono] empiricamente intesi come rapporti di utilità – rispetto a beni e/o si-
tuazioni –, i quali non hanno titolari individuati dalla legge (come accade, invece, per
l’interesse che costituisce il substrato del diritto soggettivo […]), ma riguardano la collettività
in genere o gruppi di essa»; ID., Il processo ordinario di cognizione, I, Primo grado, Torino,
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 165

esprime la dimensione non meramente individualistica degli interessi


umani, ovvero, da un lato, gli «interessi collettivi» e, dall’altro, gli «inte-
ressi diffusi».
Più in particolare, questi ultimi sarebbero degli interessi presenti
allo stadio fluido all’interno di un’ampia collettività generale di riferi-
mento ed in quanto tali – per il loro carattere di diffusione appunto –
«adespoti», ovvero non riferibili ad un soggetto determinato e dunque
privi di un proprio portatore38.
Il giurista dovrebbe prendere atto della presenza di una particolare
tipologia di interessi – come efficacemente detto – «senza struttura», ov-
vero di un interesse capace di rappresentare «di per se stesso la nega-
zione […] della possibilità di isolare la conoscenza giuridica dalla storia
in primo luogo e poi dalla scienza politica, dalla sociologia»; di un inte-

1989, p. 46 s.; TOMMASEO, F., Lezioni di diritto processuale civile, I, Disposizioni generali, Pa-
dova, 2002, p. 22; LANFRANCHI, L., Le animulae vagulae blandulae e l’altra faccia della luna,
cit., p. XVI ss., che, affrontando lo studio della tematica in una prospettiva generale si pone
in chiave critica rispetto a tale distinzione, specie in relazione agli effetti giuridico-ricostrut-
tivi prevalentemente fatti conseguire a detta distinzione dalle teorie che viceversa la accol-
gono; ma in questo senso già in Situazioni giuridiche individuali a rilevanza collettiva ed at-
tuazione della condanna alla reintegrazione del lavoratore, in Riv. giur. lav., 1977, I, p. 343 ss.,
in cui è presente il riferimento agli interessi collettivi in senso proprio intesi come «situazioni
sostanziali a titolarità diffusa e/o indeterminabile»; ugualmente CARRATTA, A., Profili proces-
suali della tutela degli interessi collettivi e diffusi, cit., p. 84 ss. (su cui cfr. infra, nota 45); sotto
il profilo ontologico non sembra distinguere nemmeno BIANCA, C.M., Note sugli interessi dif-
fusi, in La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, cit., spec. p. 68 s., che rileva
che «l’espressione interessi collettivi ha una tradizionale connotazione legata al mondo delle
categorie professionali» ovvero «collettività a composizione indeterminata ma gli interessi che
vi fanno capo […] sono assunti da enti (ordini o organizzazioni sindacali) che hanno specifi-
che competenze e funzioni e che appartengono ormai ad un autonomo settore del diritto pri-
vato». Ma poi aggiunge: «può quindi dirsi che gli interessi collettivi sono interessi diffusi qua-
lificati, aventi un’autonoma rilevanza giuridica quali interessi di categorie professionali» (c.vo
mio). Al di là della distinguibilità storicamente determinata tra le due espressioni, quindi, il
nucleo comune a ambo due i fenomeni sarebbe costituito dal loro riferirsi ad una «collettività
a composizione indeterminata».
38 GIANNINI, M.S., Diritto amministrativo, II, Milano, 1970, p. 882 s.; tesi confermata

successivamente nella Relazione (La tutela degli interessi collettivi nei procedimenti ammini-
strativi) e nell’Intervento, al Convegno di Pavia, entrambi in Le azioni a tutela di interessi col-
lettivi, cit., rispettivamente a p. 23 ss. e 352 ss. Ancora la dottrina amministrativistica – CAIA-
NIELLO, V., Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, 2003, p. 183 – ha acuta-
mente osservato come il concepire l’interesse privo di un suo referente soggettivo costituisca
sul piano concettuale una contraddizione in grado di mettere in discussione la stessa nozione
generale di interesse e a tal riguardo si è precisato come l’espressione «adespota» debba es-
sere intesa in senso non letterale, ma «traslato, dovendosi con esso esprimere il concetto di
interesse diffuso non frazionabile in capo ai singoli».
166 CAPITOLO TERZO

resse, o più precisamente di un concetto, che «depone la sua polvere


sulle linee di confine tra tali ambiti di conoscenza e concorre a cancel-
larle»39.
Mentre per altri, in una più accentuata propensione definitoria, tali
interessi si determinerebbero più propriamente in relazione alla natura
del bene oggetto dell’aspirazione soggettiva diffusa; «beni di rilevanza
generale», non suscettibili quindi di appropriazione esclusiva e rispetto ai
quali il godimento dei singoli, o dei gruppi, non potrebbe essere limitato
dal concorrente godimento degli altri membri della collettività40.
Gli interessi collettivi poi, stando sempre a questo filone dottri-
nale, sarebbero costituiti da quegli interessi a carattere sovraindividuale
come quelli diffusi, ma distinguibili da essi in virtù di un criterio sog-
gettivo di discernimento (tesi dualiste soggettive) o, secondo altri, alla
luce dell’applicazione di un criterio di natura oggettiva (tesi dualiste og-
gettive)41.
La prospettiva soggettiva è seguita da coloro che, facendo perno sul
carattere «adespota» degli interessi diffusi, ravvedono nell’interesse col-
lettivo il realizzarsi di un fenomeno di aggregazione organizzatoria degli
interessi, idoneo a dar luogo a strutture associative preposte alla tutela
degli interessi del gruppo e capaci di porsi all’esterno come enti rappre-
sentativi di tali interessi. Il coagularsi degli interessi attorno all’ente por-

39 BERTI, G., Interessi senza struttura, cit., p. 67.


40 DENTI, V., Interessi diffusi, cit., p. 307. Ma già in L’avvocato e la difesa degli interessi
collettivi, cit., p. 112 ss.; e poi in La giustizia civile, Bologna, 1989, p. 114. Tra l’altro, in rela-
zione a tale caratteristica oggettiva, «gli interessi diffusi – rileva DENTI, V., Interessi diffusi,
cit., p. 307, ponendo in luce una ulteriore e rilevante distinzione che particolare rilievo assu-
merà in materia di tutela dei consumatori (cfr. infra, cap. X, spec. § 3.2.1.1.) – prescindono
dalla titolarità, nei soggetti portatori, di rapporti giuridici comuni ad una pluralità di conso-
ciati o aventi comunque elementi di collegamento nell’identità dell’interesse perseguito. Ciò
comporta la necessità di distinguere, nell’ambito di fenomeni che solitamente si riportano al-
l’area degli interessi diffusi (quali la tutela dei consumatori o degli utenti di pubblici servizi),
la domanda di tutela da parte di soggetti identificabili per la titolarità di rapporti contrattuali
in atto (gli acquirenti di un dato prodotto, gli utenti di un dato servizio) dalla domanda di tu-
tela in via generale e preventiva da parte di consumatori o di utenti potenziali, che facciano
valere l’interesse generale, ad esempio, alla lealtà della informazione pubblicitaria o alla cor-
rettezza nell’uso dei mezzi di comunicazione».
41 Di difficile classificazione sono quelle posizioni, che nell’accogliere la distinzione in

esame richiamano, in ordine alla differenziazione e l’individuazione degli interessi collettivi,


sia l’elemento oggettivo relativo alla natura della categoria di riferibilità dell’interesse, sia l’e-
lemento soggettivo della presenza dell’ente esponenziale, oppure più o meno esplicitamente
distinguono in riferimento ad esperienze concrete e storicamente determinate: cfr. ad es.
BIANCA, C.M., Note sugli interessi diffusi, cit., p. 67 ss.
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 167

tatore costituirebbe il passaggio obbligato per sottrarre gli interessi dif-


fusi dallo stato di adespotia42.
Diversamente per l’impostazione oggettivistica, secondo cui la di-
stanza tra gli interessi diffusi e quelli collettivi sarebbe segnata dai carat-
teri obiettivi della categoria di riferimento. Gli interessi collettivi, infatti,
si apprezzerebbero in relazione a gruppi non occasionali, ma stabili, fa-
cilmente determinati o comunque determinabili, propri di una colletti-
vità più ristretta e delimitabile all’interno di una indifferenziata colletti-
vità generale; da ciò il carattere propriamente «corporativo» dell’inte-
resse, di cui l’archetipo per eccellenza è ritenuto essere l’interesse dei
lavoratori43.

42 Salvo le precisazioni che seguono nel testo e in nota, in prima approssimazione pos-
siamo annoverare tra i sostenitori di questa tesi: GIANNINI, M.S., Diritto amministrativo, II,
cit., p. 882 s.; ID., Relazione e Intervento, in Le azioni a tutela di interessi collettivi, cit., ri-
spettivamente a p. 23 ss. e 352 ss., ma per l’esame più approfondito della posizione del Gian-
nini v. tra breve nel testo e in nota; VIGORITI, V., Interessi collettivi e processo, cit., p. 17 ss.;
LUCIANI, M., Il diritto costituzionale alla salute, in Dir. soc., 1980, p. 769 ss., ma spec. p. 794
s.; CARAVITA, B., Interessi diffusi e collettivi (Problemi di tutela), in Dir. soc., 1982, p. 167 ss.;
ID., La tutela giurisprudenziale degli interessi diffusi e collettivi, in Riv. crit. dir. priv., 1985, p.
31 ss.; NIGRO, M., Le due facce dell’interesse diffuso, cit., p. 8 ss.; SANTANIELLO, G., La tutela
giurisdizionale degli interessi diffusi nella prospettiva costituzionale, cit., p. 13 ss., ma spec. p.
16; ALPA, G., Interessi diffusi, in Dig. disc. priv., sez. civ., IX, Torino, 1993, p. 609 ss., ma spec.
610, per il quale «gli interessi diffusi differiscono dagli interessi collettivi e dagli interessi di
settore, perché non sono autorganizzati come i primi, né la loro cura è affidata ad un soggetto
istituzionalmente deputato a proteggerli»; CATALDO, A., Gli interessi diffusi, legittimazione at-
tiva al procedimento amministrativo ma non al processo, in Giur. mer., 1997, III, p. 367 ss.;
PUNZI, C., La tutela giudiziale degli interessi diffusi e degli interessi collettivi, in La tutela giu-
risdizionale degli interessi collettivi e diffusi, cit., p. 17 s.; PERUGINI, S., Interessi diffusi e col-
lettivi: profili sostanziali, in Gli interessi protetti nella responsabilità civile, III, Torino, 2005, p.
27 ss., spec. p. 32; CARINGELLA, F., Corso di diritto amministrativo, I, Milano, 2005, p. 643 ss.;
CASETTA, E., Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2006, p. 305.
43 In questo senso sembra indirizzarsi la dottrina che, secondo una prima linea di svi-

luppo del concetto, evidenzia il carattere corporativo dell’interesse collettivo, necessaria-


mente appartenente ad una collettività ben delimitata o delimitabile. Così, DENTI, V., Interessi
diffusi, cit., p. 307, per il quale «il criterio distintivo, quindi, non è dato dalla organizzazione
degli interessi, che può essere presente (ma non necessariamente) anche nel perseguimento
degli interessi diffusi, ma dal carattere “corporativo”, in senso proprio, degli interessi mede-
simi»; v. anche ID., Profili civilistici della tutela degli interessi diffusi, in Strumenti per la tutela
degli interessi diffusi, cit., p. 48; in definitiva, se gli interessi diffusi «sono e restano interessi
generali, anche quando interviene una organizzazione per la loro tutela, gli interessi collettivi
sono interessi di categoria, necessariamente imputabili ai gruppi o alle associazioni che se ne
fanno portatori». Così anche CORASANITI, A., La tutela degli interessi diffusi davanti al giudice
ordinario, in Riv. dir. civ., 1978, p. 180 ss., ma spec. p. 182, ove si rileva la differenza tra inte-
ressi collettivi e diffusi nel fatto che «i primi appaiono incentrati in una formazione sociale
ben individuata o individuabile, munita di struttura organizzatoria destinata a farli valere al-
168 CAPITOLO TERZO

2.3. La tesi monista e la tesi dualista oggettiva in particolare


Detto questo su un piano generale si può procedere in una prospet-
tiva più analitica rilevando taluni tratti essenziali appartenenti ai due
ampi orientamenti ora sommariamente indicati.

l’esterno (ed a gestirli dall’interno); gli interessi diffusi, invece, appaiono correlati a forma-
zioni sociali “allo stato diffuso”, cioè a formazioni ancora in fase di piena presa di coscienza
di sé e di autodistinzione nel seno della collettività generale (o di una più ampia collettività di
riferimento), ovvero a collettività assimilabili a mere categorie, la cui individuazione è affidata
ad altri, e in primo luogo al giurista, attraverso la rilevazione di una lesione, di una prevari-
cazione, di uno squilibrio di tutela attuati appunto in pregiudizio di una pluralità di individui
da questo accomunati»; sul punto cfr. anche, ID., Interessi diffusi, in Dizionari del diritto pri-
vato, I, Diritto civile, a cura di N. Irti, Milano, 1980, p. 419 ss. Nello stesso senso cfr. anche
FERRARA, R., Interessi collettivi e diffusi (ricorso giurisdizionale amministrativo), cit., p. 486 ss.,
che sembra comunque anteporre alle considerazioni di natura più propriamente giuridica (ri-
volte all’analisi delle diverse alternative di tutela degli interessi individuali nel processo am-
ministrativo), un piano pregiuridico-sociologico, sul quale l’interesse collettivo si apprezza
come effettivamente «corporativo», «comune ad una collettività determinata», mentre l’inte-
resse diffuso in senso proprio «vive […] allo stato fluido e magmatico, in quanto è riferibile
a collettività indeterminate, o non agevolmente determinabili di cittadini, ed ha ad oggetto
beni della vita a fruizione collettiva i quali non sempre risultano imputabili ad uno specifico
soggetto, e solo ad esso». Il fatto che sia il criterio oggettivo, quantomeno sul piano sociolo-
gico a fungere da discrimen tra i due fenomeni risulta confermato laddove l’A. afferma che
l’interesse collettivo, «pur grazie ad un’ingegnosa fictio iuris (il suo radicarsi presso l’ente
esponenziale, staccandosi, per così dire, dal gruppo come entità sociologica e dalla sfera dei
singoli membri del gruppo) è comunque giuridicizzato». Così anche SATTA, F., Giustizia am-
ministrativa, Padova, 1986, p. 153 ss. che, dopo aver ricondotto gli interessi diffusi a quelli
semplici e non tutelabili in sede giurisdizionale osserva: «assai diverso è il caso in cui l’inte-
resse si presenti riferito ad una categoria ben determinata di soggetti, che si presentano asso-
ciati […]; qui l’interesse viene riferito ad una universitas, non ad una collettività indetermi-
nata; e questo nulla toglie alla sua individualità». Nelle osservazioni avanzate dagli AA. ap-
pena citati la distinzione tra piano ontologico e ricostruzione giuridica sembrano potersi
apprezzare con particolare nitidezza. Cfr. anche TARZIA, G., Le associazioni di categoria nei
processi civili con rilevanza collettiva, in Riv. dir. proc., 1987, p. 774 ss., ma spec. p. 797, per il
quale gli interessi collettivi e quelli diffusi corrisponderebbero rispettivamente agli interessi di
gruppo ed a quelli di serie; ROTA, R., Gli interessi diffusi nell’azione della pubblica ammini-
strazione, Milano, 1998, p. XIV s., per la quale, occorre tener distinti dagli interessi diffusi,
«oltre che gli interessi privati in senso particolare del termine, anche gli interessi collettivi, in-
tesi come interessi aventi come portatore una associazione o gruppo che fa valere degli inte-
ressi specifici di categoria, anch’essi come interessi privati, non necessariamente coincidenti –
come al contrario accadrebbe nel pensiero dell’A. per gli interessi diffusi – con gli interessi
generali». Anche in tale ultima opinione, dunque, al di là della presenza dell’ente portatore,
ciò che differenzierebbe le due tipologie di interessi dovrebbe essere costituito dal porsi quali
settoriali i collettivi e generali i diffusi. Ma ugualmente a questo filone dottrinale può essere
ricondotto chi, al contrario, si sofferma più sulla «stabilità» del gruppo che sulla sua minore
o maggiore delimitabilità all’interno di una più ampia collettività: in tal senso sembra orien-
tarsi CRESTI, M., Contributo allo studio della tutela degli interessi diffusi, cit., p. 3 ss., che, seb-
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 169

Il primo, ad esempio, ovvero l’orientamento propenso a negare dif-


ferenze ontologiche tra gli interessi collettivi e diffusi (tesi monista), si
presenza caratterizzato al suo interno da una discreta disomogeneità di
impostazioni ricostruttive.
Vi coesistono in particolare coloro che, animati da un intento gene-
ralizzante e senza avanzare nemmeno un tentativo di abbozzo definitorio,
non entrano assolutamente nel merito della distinzione tra interessi col-
lettivi e diffusi e coloro che – al contrario – pongono più semplicemente
in dubbio la plausibilità della distinzione44.
In tale ordine di idee, appunto, si rileva, in contrapposizione alle tesi
dualiste, come non sia «sempre chiaro quali caratteri debba avere questo
gruppo e quali connotati il suo aspetto organizzativo perché l’interesse si
specifichi, da interesse diffuso in interesse collettivo»; presentandosi tale
«distinzione […] non sotto il profilo ontologico, bensì sotto il profilo
estrinseco del grado di aggregazione e delimitazione del gruppo» e come
tale – dunque – inidonea a «penetrare la “specificità” giuridica di quella
data categoria di interessi»45.

bene all’interno di un’analisi, che, come quella di Ferrara, è prevalentemente rivolta all’esame
delle diverse forme di tutela offerta agli interessi superindividuali all’interno del processo am-
ministrativo, recuperando un’affermazione di Giannini e pur ammettendo che gli interessi
diffusi possano talora appartenere a collettività indeterminate e indeterminabili, e talatra an-
che a collettività delimitate e più ristrette, e pur affermando che in tale ultima ipotesi gli in-
teressi diffusi si presentino in una veste similare agli interessi collettivi (anche in relazione alle
problematiche giuridiche che sollevano), comunque ritiene che gli interessi collettivi si di-
stinguano dai primi in relazione al carattere della «stabilità». Cfr. anche TRAVI, A., Lezioni di
giustizia amministrativa, Torino, 2005, p. 85 ss., per il quale gli interessi collettivi o di catego-
ria sono quelli comuni agli appartenenti ad un certo ceto professionale o gruppo di lavora-
tori, mentre gli interessi diffusi coincidono con l’«interesse generale dei cittadini a certi beni
comuni», sebbene, perealtro, la distinzione risulti più difficile allorché la cerchia di soggetti
interessati sia talmente ampia da estendersi sino alla generalità come nel caso degli interessi
collettivi dei consumatori; CARLETTI, F., Lesione degli interessi diffusi, in I precedenti, la for-
mazione giurisprudenziale del diritto civile, a cura di Bigiavi, II, Torino, 2000, p. 1161 ss., ma
spec. p. 1167 per il quale gli interessi collettivi sono «tipici di collettività “omogenee” a forte
e stabile autorganizzazione […] e sono qualificati proprio dai requisiti di appartenenza a quel
gruppo non occasionale al quale normativamente il legislatore riconosce rilevanza».
44 Cfr. retro nota 37.
45 TROCKER, N., Interessi collettivi e diffusi, cit., p. 2; ID., Gli interessi diffusi e la loro tu-

tela, cit., p. 194. Più di recente CARRATTA, A., Profili processuali della tutela degli interessi col-
lettivi e diffusi, cit., p. 95, ove si osserva che «in realtà, la presenza di una formazione sociale
in grado di far valere all’esterno l’interesse non […] pare di per sé idonea a trasformare la na-
tura intrinseca dell’interesse. Perché delle due, l’una: o l’interesse fa riferimento ad una cate-
goria ben delimitata di persone, e allora è definibile come “collettivo” anche in mancanza di
una formazione sociale che la rappresenti e la faccia valere all’esterno; oppure, fa riferimento
ad un gruppo diffuso di persone, e allora la presenza di una formazione sociale che persegua
170 CAPITOLO TERZO

Così, allo scopo di determinare le circostanze veramente qualificanti


il fenomeno degli interessi sovraindividuali, si rinviene come elemento in
grado di superare la distinzione tra interessi collettivi e diffusi proprio
l’esistenza di «un bene suscettibile di godimento non separato bensì ne-
cessariamente (per natura o per legge) congiunto da parte di un insieme
di consociati», con la conseguente attivazione di più interessi omogenei46.
la sua tutela non ne determina la trasformazione in interesse collettivo, ma semplicemente ne
rafforza le possibilità di tutela». Ugualmente orientato SENSALE, M., La tutela degli interessi
diffusi: un problema ancora aperto, cit., p. 140; ma già RODOTÀ, S., Le azioni civilistiche, in Le
azioni a tutela di interessi collettivi, cit., p. 96, puntualmente rilevava: «si può […] certamente
ritenere che la corrispondenza tra un interesse diffuso nella collettività e un gruppo che ne as-
suma la cura costituisca un indizio significativo per concludere nel senso della rilevanza giu-
ridica di tale interesse. Ma detto questo, ci si deve poi domandare se ciò significhi chiudere
nell’ambito di quello specifico gruppo la possibilità di far valere in giudizio l’interesse o se,
invece, il costituirsi dell’interesse come principio organizzativo del gruppo non costituisca un
fattore di emersione giuridica di cui possa da quel momento in poi giovarsi qualsiasi porta-
tore». Similmente PARDOLESI, R., Il problema degli interessi, cit., p. 244, aspramente critico ri-
guardo alla prospettiva che assegna al fattore soggettivo dell’esistenza o meno di un portatore
un ruolo essenziale nella determinazione del concetto di interesse collettivo. Si afferma, in-
fatti, che «evidentemente, ciò che permette di operare la selezione è la presenza di un so-
strato, consistente in una pluralità di soggetti legati da una connessione d’interessi omogenei.
Ecco allora che la natura oggettiva degli interessi collettivi, cacciata dalla proverbiale porta,
rientra dalla finestra per farla da padrona. Il risultato inevitabile è che il criterio di indivi-
duazione appaia affetto da un vero e proprio “paralogismo da circolarità”: come dire che
sono interessi collettivi quelli di cui si faccia carico un portatore di interessi collettivi». A di-
fesa dell’impostazione soggettiva si è peraltro osservato che (CARAVITA, B., Interessi diffusi e
collettivi, cit., p. 176) «la dottrina che differenzia le due nozioni sulla base del diverso grado
di organizzazione non è mossa da intenzioni “punitive” nei confronti degli “interessi diffusi”:
al contrario, tenta di ricondurre al termine “interessi collettivi”, già di per sé noto […] e for-
nito di sufficiente elaborazione, il termine ignoto o meno noto, o comunque nuovo nella con-
creta dinamica istituzionale, cercando di strappare per queste nuove situazioni la stessa posi-
zione nell’ordinamento che gli interessi collettivi avevano già ottenuto». La prospettiva ac-
cennata si ritrova anche in ANGIULI, A., Interessi collettivi e tutela giurisdizionale, Le azioni
comunali e surrogatorie, Napoli, 1986, p. 28, per la quale la figura dell’interesse collettivo, per
la sua lunga tradizione, ha rappresentato per la dottrina «l’indubbio vantaggio di essere ri-
collegabile a figure soggettive determinate o quanto meno determinabili […]».
46 Così, CERRI, A., Interessi diffusi, interessi comuni, cit., p. 83 ss., ma spec. p. 89 s.; cfr.

anche COSTANTINO, G., Brevi note sulla tutela giurisdizionale degli interessi collettivi, cit., p.
231 s.; TROCKER, N., Interessi collettivi e diffusi, cit., p. 2; ZANUTTIGH, L., Intervento, in Le
azioni a tutela di interessi collettivi, cit., p. 312; RAPISARDA, C., Gruppi privi di riconoscimento
e processo, cit., p. 628, per la quale «non può farsi sicuramente dipendere la natura diffusa
dell’interesse dalla semplice riferibilità del medesimo ad un numero indeterminato di sog-
getti, quanto piuttosto dal tipo particolare di bene cui esso risulta collegato e dal carattere
stesso del collegamento – tipicamente non proprietario – tra soggetto e bene»; nella sostanza
anche LENER, A., Violazione di norme di condotta, cit., p. 108, che parla di «nuovi interessi la
cui tutela non passa attraverso l’attribuzione di una “nuova possidenza”, incongrua a beni
come la salute e l’ambiente».
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 171

Sotto un certo profilo, quindi, questa posizione è piuttosto prossima


a quella della dottrina pur orientata a discriminare tra interessi collettivi
e diffusi, ma facendo uso di criteri fondamentalmente «quantitativi».
Il riferimento è a coloro che ravvedono negli interessi collettivi degli
interessi sovraindividuali propri di collettività più ristrette e delimitabili
all’interno di quella generale. Anche in questo orientamento, infatti, per
un verso, si critica l’impostazione dottrinale per la quale l’elemento sog-
gettivo coincidente con la presenza o meno di un «portatore» degli inte-
ressi sarebbe capace di incidere sulla natura degli stessi47 e, dall’altro, si
evidenzia – come già visto – la natura collettiva dei beni oggetto di aspi-
razione48 o diversamente si individua nell’omogeneità di contenuto delle
posizioni dei membri del gruppo il vero ed unico tratto distintivo dell’e-
sperienza in parola49.
In altri termini, finché la ratio distinguendi rimane ancorata esclusi-
vamente a criteri oggettivi (magari anche rilevando come il carattere lato
sensu corporativo dell’interesse offra sotto il profilo esclusivamente pra-
tico maggiori chances all’attivarsi ed al sorgere di momenti organizzativi),
il solco tracciato tra interessi diffusi ed interessi collettivi non sembra poi
essere così profondo.

2.4. L’analisi della posizione di Massimo Severo Giannini come strumento


di comprensione e re-inquadramento della dottrina dualista soggettiva
Alla luce delle osservazioni ora avanzate, si può dunque dire che la
distanza maggiore sul piano della raffigurazione concettuale del feno-
meno in esame intercorre tra le tesi che adottano criteri oggettivi di di-

47 DENTI, V., Interessi diffusi, cit., p. 307; ID., Il processo come alienazione, in Soc. dir.,

1976, p. 149 ss., ma spec. p. 156; CORASANITI, A., La tutela degli interessi diffusi, cit., p. 183,
per il quale è preferibile avvicinarsi allo studio degli interessi diffusi in un ottica oggettiva, vi-
sto che, «a tale angolazione non può certamente addebitarsi, come a quella soggettivistica, di
presupporre un’influenza della struttura organizzatoria, considerata come modo di essere del
soggetto, conformativa del modo di essere dell’esperienza giuridica, laddove i rapporti fra i
due modi di essere, specialmente in relazione a questo tipo di esperienza giuridica, dovrebbe
essere rovesciato»; cfr. anche ID., Interessi diffusi, cit., p. 427, in cui si osserva che la prospet-
tiva soggettivistica travisa l’esperienza degli interessi superindividuali «raccogliendo l’eredità
della teoria “organica” degli enti».
48 DENTI, V., Interessi diffusi, cit., p. 307; FERRARA, R., Interessi collettivi e diffusi, cit.,

p. 483.
49 Cfr. ancora DENTI, V., Interessi diffusi, cit., p. 307. Ma soprattutto CORASANITI, per il

quale il proprium degli interessi diffusi è costituito solamente dall’«omogeneità di contenuto


delle posizioni del gruppo» (cfr. spec. Interessi diffusi, cit., p. 426, ma v. anche La tutela degli
interessi diffusi, cit., p. 186).
172 CAPITOLO TERZO

scernimento (sia moniste che dualiste) e le tesi che diversamente affidano


la lettura dell’esperienza degli interessi sovraindividuali al criterio sog-
gettivo più volte evidenziato (sussistenza di un ente rappresentativo
quale effetto organizzatorio degli interessi).
Peraltro, va pure detto che all’interno delle opinioni dottrinali che
tradizionalmente vengono ascritte a questa categoria risulta sovente diffi-
cile distinguere tra coloro che operano chiaramente sul piano dell’ap-
prezzamento ontologico degli interessi e coloro che al contrario ragio-
nano direttamente in termini di tutelabilità giuridica.
La differenza è essenziale, poiché, procedendo nel primo senso, si
distinguono due momenti: un primo momento in cui il fattore organizza-
torio incide sulla natura stessa degli interessi, modificandone la confor-
mazione strutturale, ed un secondo in cui è lo stesso ordinamento che
deve «prendere atto» e confrontarsi con una realtà di cui il processo or-
ganizzativo costituisce tratto oramai essenziale, imprescindibile e preesi-
stente50. Mentre, procedendo nel secondo senso, è nell’ordinamento
stesso che vengono rinvenute le ragioni che giustificano l’impiego di un
criterio soggettivo di ricostruzione come quello in parola. Così proce-
dendo, il ruolo assunto dall’ente portatore non si apprezza più sul piano
ontologico-pregiuridico, ma solo sul piano normativo, in cui tale ente
rappresenta lo strumento tecnico di cui il diritto si serve per la gestione
ed il governo degli interessi, divenendo un mero centro di riferimento
giuridico dell’interesse51.
Ciò premesso, se si esaminano con attenzione le tesi dottrinali dua-
liste soggettive ci si accorge che la maggior parte di queste operano nella
seconda prospettiva e non nella prima.
Così, ad esempio, è avvenuto per l’autorevole dottrina che per
prima ha avvertito la necessità di tener ben separati gli interessi collettivi
da quelli diffusi, ovvero Massimo Severo Giannini.
La lettura del volume II del suo Diritto amministrativo52 è a tal pro-
posito illuminante.
In relazione alle possibili parti del procedimento amministrativo, se-
condo l’illustre amministrativista, è ben possibile, facendo uso di un cri-
terio di discernimento soggettivo, individuare «interessi che hanno un
portatore, e interessi che non lo hanno». «Questi – si osserva – sono, in
50 In questo senso, v. all’interno di questo stesso capitolo la posizione di Vigoriti (cfr.
infra, § 2.5.).
51 V. in particolare le osservazioni di Fazzalari riportate infra, § 3.4.1.3.1.
52 GIANNINI, M.S., Diritto amministrativo, II, cit., p. 882 s., da cui sono tratti i passi che

seguono nel testo.


INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 173

dottrina, chiamati interessi «diffusi», ma meglio si direbbero «adespoti»,


perché non necessariamente essi sono diffusi: in ogni paese del nostro
tempo vi possono essere gruppi imprenditoriali o lavorativi anche impor-
tanti, che non hanno proprie organizzazioni rappresentative; gli interessi
che li concernono non si possono dire diffusi, sono solo privi di un’orga-
nizzazione che ne disponga. La maggioranza degli interessi che possono
sussistere in un gruppo generale, ha un proprio portatore: ogni privato,
in quanto soggetto dell’ordinamento generale, è portatore di interessi
particolari; i gruppi professionali che si organizzano in figure soggettive
sono portatori di interessi collettivi; vi sono infine i centri di riferimento
degli interessi pubblici, che possono essere generali e settoriali».
Sul piano più propriamente giuridico del procedimento amministra-
tivo, però, mentre, da una parte, opera la regola generale per la quale
«ogni centro di riferimento di interessi pubblici è virtualmente parte di
qualunque procedimento amministrativo», dall’altra, risulta «meno
chiara la posizione degli enti esponenziali di interessi collettivi»; e ciò
poiché «non vi sono in proposito, nell’ordinamento da noi vigente,
norme scritte», bensì unicamente la prassi – ispirata ad una regola non
scritta – «che attribuisce a detti enti una legittimazione sostanzialmente
uguale a quella dei centri di riferimento di interessi pubblici: sì che an-
ch’essi sono parti virtuali di procedimenti amministrativi».
In altri termini, «l’interesse collettivo, nel procedimento amministra-
tivo, è trattato come se fosse un interesse pubblico»; circostanza que-
st’ultima del resto comprensibile visto che – si precisa – «molti interessi
pubblici sono settoriali, onde sono molto vicini agli interessi collettivi»53.
Stando a quanto or ora riportato, quindi, Giannini contemplava
espressamente tre tipologie di interessi: gli interessi pubblici, generali o
anche settoriali; gli interessi collettivi, relativi a gruppi professionali o la-
vorativi; gli interessi particolari, appartenenti ad ogni soggetto privato.
Varrebbe la pena di chiedersi quindi, se l’Autore, sebbene non espli-
citandolo pienamente, facesse comunque uso di un criterio discretivo di
natura oggettiva e se, più nello specifico, siano apprezzabili, in questa ri-
costruzione, delle differenze appunto oggettive, ovvero ontologiche, tra
gli interessi pubblici e gli interessi collettivi?
La lettura del passo appena riportato dà soluzione ad entrambi i
quesiti.
La risposta al primo interrogativo è già presente nella precisazione
secondo la quale gli interessi professionali in assenza di portatore «non si

53 GIANNINI, M.S., Diritto amministrativo, II, cit., p. 885 s.


174 CAPITOLO TERZO

possono dire diffusi, sono solo privi di un’organizzazione che ne di-


sponga». Ma ulteriori conferme si traggono dalle lucide considerazioni
che l’Autore avrebbe avanzato qualche anno dopo nella sua Relazione al
Convegno di Pavia. In quest’occasione, infatti, Giannini si riferisce
espressamente agli interessi collettivi come a quegli interessi relativi ad
un «gruppo non occasionale […] che non abbia una durata effimera o
comunque contingente, ossia costituisca una componente sociologica-
mente individuabile di una collettività territoriale generale»54. Ciò sta
dunque a significare che, sebbene – come tra l’altro risulterà ancor più
chiaramente tra breve – il criterio soggettivo di qualificazione era nel
pensiero dell’Autore di rilevanza assolutamente predominante, il criterio
oggettivo trovava comunque piena applicazione; anzi, tale criterio non
veniva ad essere escluso, ma presupposto alla successiva applicazione di
quello soggettivo.
La risposta al primo quesito poc’anzi accennato è dunque la se-
guente: gli interessi collettivi, con o senza portatore, non sono diffusi, ov-
vero indifferenziati, dotati di contorni evanescenti che scoloriscono in
quelli della collettività generale, possono al contrario essere circoscritti e
determinati in riferimento a parametri sociologici che descrivono una
collettività più ristretta all’interno di quella generale.
Non sembra quindi costituire una forzatura del pensiero dell’Autore
ritenere che prima dell’«intervento» del portatore, nella lettura proposta,
i diversi interessi possano essere apprezzati sotto il profilo oggettivo su
tre livelli dimensionali simili a sfere concentriche: gli interessi diffusi o
più propriamente generali, gli interessi collettivi o di gruppo e gli inte-
ressi individuali-esclusivi.
Per ciò che riguarda gli interessi pubblici, dunque, – e con ciò si
giunge a dar risposta al secondo quesito avanzato – questi sembrano es-
sere tali unicamente per il fatto di essere assunti a cura da parte della
pubblica amministrazione e, di conseguenza, difficilmente distinguibili,
sul piano esclusivamente oggettivo, rispetto a quelli collettivi. E ciò trova
conferma nel fatto che è lo stesso Autore a precisare che questi possono
essere tanto «generali» quanto «settoriali», ipotesi in cui appunto essi di-
ventano «molto vicini agli interessi collettivi».
Solamente dopo aver chiarito questi punti è quindi possibile com-
prendere quale ruolo giochi il criterio di discernimento soggettivo tanto
posto in risalto da Giannini e dalla letteratura successiva che il suo pen-
siero ha informato.
54 GIANNINI, M.S., La tutela degli interessi collettivi nei procedimenti amministrativi, cit.,
p. 23.
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 175

Il punto è piuttosto chiaro: indipendentemente dalla loro struttura


oggettiva, da un lato, si trovano gli interessi dotati di un portatore e, dal-
l’altro, si trovano gli interessi che ne sono privi, ossia «adespoti».
Ma in quali termini deve essere assunta tale ultima qualificazione?
Giannini, infatti, non si interroga se sia possibile concepire una tito-
larità individuale degli interessi collettivi privi di associazione rappresen-
tativa che si faccia portatrice dei medesimi, ovvero se sia concepibile ri-
mettere ad ognuno dei singoli la disponibilità dell’interesse, piuttosto al-
ternativamente imputare quell’interesse alla collettività assunta come
ente a sé stante.
La spiegazione giunge piuttosto chiara dall’Intervento al Convegno
di Pavia55, in cui l’illustre Autore si trovava a precisare ed approfondire
concetti già espressi nella Relazione56 esposta nel medesimo incontro di
studio.
In tale occasione Giannini afferma che nello Stato moderno, per di-
stinguere l’interesse collettivo da quello pubblico, da un lato, e da quello
privato, dall’altro, non è sufficiente un mero «criterio oggettivo» che
qualifichi come collettivo «qualsiasi interesse di gruppo formale, forma-
lizzato, ma anche informale» bensì occorre rifarsi alla «qualificazione nor-
mativa del suo portatore»57. Due sono i fattori che determinano la riu-
scita del processo di definizione degli interessi collettivi: non solo la pre-
senza di un ente rappresentativo che si faccia «portatore» dell’interesse,
ma anche la presenza della norma «che individua e qualifica l’interesse».
Da queste osservazioni si comprende chiaramente come la tesi avan-
zata da Giannini non si muova in una prospettiva ricostruttiva che, pro-
cedendo per gradi, trova origine, specie per ciò che riguarda la defini-
zione dell’interesse collettivo, in un ottica pregiuridica, per poi – solo
successivamente – porsi il problema della eventuale tutelabilità e delle
eventuali vie attraverso le quali può essere riconosciuto come meritevole
55 GIANNINI, M.S., Intervento, cit., p. 350 ss.
56 GIANNINI, M.S., La tutela degli interessi collettivi nei procedimenti amministrativi, cit.,
p. 23 ss.
57 GIANNINI, M.S., già nella sua Relazione al Convegno, (La tutela degli interessi collet-

tivi, cit., p. 23 ss.), aveva esposto chiaramente l’ottica normativa in cui si poneva la sua ana-
lisi, rilevando che «gli interessi collettivi […] non sono caratterizzati, nel procedimento am-
ministrativo, diversamente da come siano caratterizzati in altri settori dell’ordinamento giuri-
dico positivo. Essi sono pertanto quegli interessi che, nell’ordinamento positivo, si
individuano sulla base di un criterio puramente soggettivo, che è quello del loro: sono tali in-
teressi che hanno come portatore (o centro di riferimento: in questa sede le due nozioni si
equivalgono) un ente esponenziale di un gruppo non occasionale». Per un esame critico com-
plessivo delle posizioni espresse nel Convegno di Pavia da parte di Giannini, v. ZANUTTIGH,
L., La tutela degli interessi collettivi, cit., p. 71 ss.
176 CAPITOLO TERZO

di protezione giuridica da parte dell’ordinamento l’interesse sostanziale.


Al contrario detta tesi affronta il tema degli interessi collettivi diretta-
mente come interessi giuridicamente tutelabili e nel far ciò, ovvero nel se-
guire una prospettiva che evidentemente trova fondamento e colloca-
zione naturale nelle ragioni del diritto amministrativo, propone un di-
scorso che – per dirla con l’espressione prima richiamata che Proto
Pisani utilizzava in quello stesso Convegno58 – solo apparentemente ha la
pretesa della generalità.
Di ciò si ha ulteriore conferma laddove l’illustre amministrativista ri-
chiama l’attenzione sugli interessi diffusi evidenziando che tali interessi
«non sono però interessi né pubblici né collettivi: sono interessi adespoti,
cioè interessi che non hanno un loro portatore»; tra l’altro, aggiungendo
– immediatamente dopo – quanto segue: «il giorno in cui un interesse
diffuso trovi un portatore, diventa o collettivo o pubblico a seconda di
come avviene, in termini positivi, la vicenda».
Tirando le somme, dunque, per Giannini l’interesse collettivo è un
interesse appartenente ad una collettività ben definita o definibile. Ma
tale distinzione per Giannini ha scarso significato sul piano giuridico,
poiché ciò che conta per l’ordinamento è la presenza di un portatore
qualificato dalla legge e quindi legittimato a disporne, senza il quale l’in-
teresse rimane di conseguenza adespota.
Ne deriva – in conclusione – che tale effetto – l’essere adespota ap-
punto – è una qualificazione che trova fondamento esclusivamente nei
criteri imposti dall’ordinamento giuridico e non nella realtà fenomenica.
In altri e più espliciti termini: per Giannini l’obiettivo è vedere come l’in-
teresse superindividuale possa ricevere tutela all’interno del procedi-
mento amministrativo e a tal fine ciò che serve è un portatore qualificato
che ne abbia il legittimo governo59. Nulla di più.

58 PROTO PISANI, A., Appunti preliminari per uno studio sulla tutela giurisdizionale degli
interessi collettivi, cit., p. 263 ss.
59 Va francamente ammesso peraltro, che, la distinzione tra i due piani operativi pre-

senti nella riflessione proposta da Giannini non sono comunque tenuti adeguatamente di-
stinti; e ciò probabilmente per il fatto che l’interesse dell’Autore è tutto polarizzato dalla pro-
spettiva soggettiva necessariamente privilegiata in ordine al fine di trovare accesso alla tutela
amministrativa in sede di procedimento. Conferme in tal senso derivano peraltro da un altro
illustre amministrativista nell’opinione del quale al contrario la distanza tra piano ontologico-
pregiuridico e piano ricostruttivo giuridico è nettissima. Cfr., a tal proposito, SANDULLI, A.M.,
Considerazioni conclusive e di sintesi, cit., p. 86 ss., ma spec. p. 90, per il quale, «su un piano
fattuale e pregiuridico (o metagiuridico) gli interessi rilevanti non sono soltanto gli interessi
individuali e gli interessi seriali […], bensì anche gli interessi comuni […], e cioè gli interessi
collettivi, cioè di gruppo, di categoria, settoriali, comunitari […], gli interessi delle comunità
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 177

Insomma una cosa è – come autorevolmente evidenziato – «il mo-


mento della soggettivizzazione giuridica», altra è l’apprezzamento degli
interessi prima che questi incontrino l’ordinamento e le sue regole. Per
Giannini ciò che conta nello studio del fenomeno è essenzialmente il mo-
mento della soggettivazione giuridica e non l’altro.

2.5. Precisazioni sul ruolo dell’ente rappresentativo all’interno della dot-


trina (talora solo apparentemente) dualista soggettiva
La prospettiva ricostruttiva da ultimo esaminata, dunque, gravitava
attorno al tentativo di individuazione degli strumenti di tutela degli in-
teressi superindividuali che l’ordinamento, e in particolare il diritto am-
ministrativo per opera del formante giurisprudenziale, già poneva sul
campo agli inizi degli anni Settanta e nel far ciò, naturalmente, presen-
tava come matrice concettuale il dogma della tutelabilità giurisdizionale
territoriali, quelli dell’intera comunità nazionale». «Se ci spostiamo sul piano giuridico esi-
stono infatti soltanto due tipi di interesse: l’interesse pubblico e l’interesse soggettivo». Se il
primo per l’illustre Autore è quello imputato in capo ai pubblici poteri, un «interesse da per-
seguire necessariamente, doverosamente, funzionalmente», il secondo possono essere tutelato
dall’ordinamento solo se imputato ad un soggetto che ne diventa portatore per l’ordina-
mento. «Quindi – si sottolinea – quando parliamo di interessi diffusi […], di interessi ade-
spoti […] evidentemente facciamo delle divagazioni, perché fino a quando questi interessi
non siano soggettivizzati non sono interessi giuridici, non assurgono alla dignità di interessi
protetti dall’ordinamento giuridico in testa a un soggetto». «Il problema è farli uscire dallo
stato di adespotìa e di dare loro un padrone». E ciò, avverte Sandulli, può avvenire in vari
modi: universalizzando la soggettivizzazione, come nelle azioni popolari o accentrando la sog-
gettivizzazione, ossia imputandoli in capo ad un ente specifico. Ma questo, evidentemente, è
un problema normativo, ovvero tutto attinente a come l’ordinamento ritiene opportuno dare
riconoscimento agli interessi emergenti e meritevoli di tutela. Con pari chiarezza si esprime
LUCIANI, M., Il diritto costituzionale alla salute, cit., spec. p. 794 ss., per il quale la «differen-
ziazione» tra interessi collettivi e diffusi, «non è […] ontologica, ma solo di grado, poiché
non è dato riscontrare interessi che siano in sé diffusi, ovvero in sé collettivi». Al contrario,
«non appena un interesse inizialmente ad uno stato di aggregazione ancora “fluido”, si radica
in un gruppo sociale non effimero, e non appena si costituisce un organismo (persona giuri-
dica o associazione non riconosciuta) che si pone quale esponente qualificato di quell’inte-
resse facente capo a quel gruppo, la qualificazione giuridica dell’interesse stesso dovrà essere
modificata, e si dovrà segnare il suo passaggio dalla sotto-categoria degli interessi diffusi, alla
sotto-categoria degli interessi collettivi» (c.vo mio). Si prosegue peraltro affermando che «fin-
ché questo rimane diffuso, non può logicamente porsi il problema della sua azionabilità che
da parte dei singoli componenti della collettività di riferimento, attraverso lo strumento della
loro legittimazione a titolo individuale. Per definizione (certamente convenzionale, ma pur-
tuttavia fondata su dati oggettivi) infatti, nel caso dell’interesse diffuso manca del tutto un
soggetto, alternativo ai singoli, che possa farlo valere in giudizio». Quando ciò avverrà, af-
ferma Luciani, ci si dovrà porre il problema «dell’alternatività o complementarietà dell’inter-
vento dell’attore collettivo rispetto a quello dell’attore individuale».
178 CAPITOLO TERZO

dei soli interessi sostanziali qualificati e differenziati; con piena esclu-


sione, quindi, salvo l’eccezionale ipotesi dell’azione popolare, della tutela
degli interessi di latitudine generale ed indifferenziati.
Ora, se si riflette sull’influenza che ha operato la lettura avanzata da
Giannini sul dibattito relativo alla tutela giurisdizionale degli interessi so-
vraindividuali, tanto in riferimento alle posizioni che nella sostanza
hanno aderito a tale prospettiva, quanto in relazione alle posizioni che al
contrario hanno seguito strade alternative, è ben possibile notare come
sia sul primo che sul secondo fronte ora indicati non vi sia stata la dovuta
accortezza nel tenere ferma la distinzione dei livelli ricostruttivi che in
questa sede abbiamo invece cercato di mettere in massima evidenza.
In altre parole, la possibilità, nonché l’importanza – in termini di ri-
gore del metodo ed evidentemente di risultati conseguibili – di distin-
guere tra piano sociologico o meta-giuridico e piano propriamente tec-
nico-giuridico non è stata sempre e da tutti apprezzata adeguatamente;
con il risultato indiretto – specie per la dottrina in prevalenza ammini-
strativistica sostanzialmente adesiva – di atrofizzare il tasso di problema-
ticità proprio di una tematica – quella della tutela degli interessi superin-
dividuali – che, nel suo porsi come campo di studio d’avanguardia, ri-
chiedeva e richiede di esaminare i profili strutturali e le dinamiche dei
nuovi interessi in una fase sicuramente preliminare al confronto tra i me-
desimi e le regole di un ordinamento concepito in relazione a strutture e
contenuti dissimili.
Va peraltro rilevato come le osservazioni appena proposte mirino a
porre in risalto una linea di tendenza, che, per un verso, frequentemente
riposa – all’interno delle diverse posizioni – su di un piano della rifles-
sione implicito o comunque non sempre adeguatamente espresso e che,
dall’altro, contempla nettissime eccezioni; eccezioni che si realizzano al-
lorché la distinzione tra i due diversi livelli di studio emerge netta dal
complesso dell’impalcatura argomentativa, tanto che si proceda alla rico-
struzione del fenomeno in una prospettiva – in prima battuta – pregiuri-
dica, quanto che si proceda in chiave problematica nello studio della sola
ottica «imposta» dall’interpretazione giurisprudenziale.
Così è per coloro che, all’interno della dottrina amministrativistica,
operando nel secondo senso or ora accennato, hanno sì valutato l’appre-
stamento di strutture organizzatorie portanti gli interessi diffusi come
un’occasione «di vera e propria trasformazione», di «una sorta di muta-
zione genetica di tale categoria di interessi» in interessi collettivi, ma in
espresso ed esclusivo riferimento ad un orientamento giurisprudenziale
– tra l’altro oggetto di penetrante critica – che per questa via ha tentato
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 179

di rispondere al tanto auspicato quanto necessario «requisito dell’indivi-


dualità» dell’interesse sostanziale tutelato60.
Oppure per coloro che, procedendo in senso opposto, hanno intera-
mente abbracciato la prospettiva dell’analisi fenomenologica pregiuridica,
individuando nel momento organizzatorio la nascita di una relazione ti-
pica tra gli interessi preesistenti grazie alla quale questi, variando sostan-
zialmente natura, da diffusi diverrebbero effettivamente collettivi61.
Più precisamente, alla luce delle considerazioni sinora svolte, l’o-
rientamento dottrinale ora indicato è forse l’unico che, operando su un
piano di analisi generale, ha rinvenuto nel momento organizzatorio il rea-
lizzarsi di una mutazione ontologica dell’interesse superindividuale indi-
pendentemente e antecedentemente dal suo incontro con le «ragioni» del
mondo del diritto ed in particolare del diritto processuale62.
60 Così, NIGRO, M., Le due facce dell’interesse diffuso, cit., p. 10 e 11. «Con l’acquisi-

zione della struttura – chiarisce l’A. interpretando l’indirizzo giurisprudenziale del giudice
amministrativo –, subentra qualcosa di più o di diverso, non un semplice accrescimento
quantitativo, ma una trasformazione “qualitativa”: l’interesse diffuso diventa totalmente ed
esclusivamente un interesse collettivo». Ed ancora: «Non v’ha dubbio che tutte le volte che
l’interesse diffuso emerga giurisdizionalmente mediante la tecnica della struttura di imputa-
zione, vecchia o nuova che sia la materia, l’interesse diffuso si è dissolto ed ha lasciato il po-
sto ad un interesse collettivo». Cfr. anche, sul punto, NIGRO, M., Ma che cos’è questo interesse
legittimo?, in Foro amm., 1988, I, p. 316 ss., ma spec. p. 322. Per l’analisi del pensiero dell’A.,
v. comunque infra, allorché ci soffermeremo, non più sulle distinzioni classificatorie tra inte-
ressi collettivi o diffusi, ma sul rapporto tra individuo e collettività all’interno delle diverse
posizioni dottrinali; argomento, quest’ultimo, tra i più delicati in materia, come più volte ab-
biamo osservato in questo lavoro.
61 VIGORITI, V., Interessi collettivi e processo, cit., passim.
62 Questo è un aspetto particolarmente importante per la nostra ricerca, in quanto

porta chiarimento non solo sulla distinzione tra interesse collettivo e diffuso, ma anche sulle
posizioni che, più in generale, vedono la soggettivazione dell’interesse sovraindividuale nel
suo riferimento ad un ente esponenziale quale risposta alla necessità giuridica di assegnare la
posizione di vantaggio ad un soggetto sostanzialmente unico e determinato che poi diventi il
«padrone» – il «despota» appunto – dell’interesse sovraindividuale. Nella concezione di Vi-
goriti, ad esempio, come peraltro in quella di Angiuli (su cui v. infra, nota 123) o Garofalo (v.
infra, cap. VII, § 3.1.) il momento organizzatorio possiede una funzione propriamente aggre-
gante che dal piano fenomenologico poi proietta le sue conseguenze su quello tecnico-giuri-
dico giustificandone le soluzioni. In altre lettura, come ad esempio in Sandulli e Luciani (cfr.
retro, nota 59), è ugualmente presente il menzionato duplice piano di apprezzamento degli
interessi tutelandi; e pur sostenendosi la necessaria soggettivazione dell’interesse, si prospetta
l’alternativa tra una legittimazione diffusa o popolare ed un regime di legittimazione concen-
trata, con ciò dando evidentemente a far intendere una concezione ontologica dell’interesse
sovraindividuale come insieme di interessi individuali. Vi sono poi posizioni in cui l’atten-
zione alla consistenza di tali interessi sul piano pregiuridico è nella sostanza assente, come è
assente – di conseguenza – il rilievo attribuito al momento organizzatorio ai fini di una con-
figurazione unitaria dell’interesse tutelando. Così è in Giannini, Berti ed anche in Fazzalari,
180 CAPITOLO TERZO

Recuperando, difatti, le tradizionali osservazioni carneluttiane sulle


possibili relazioni logiche sussistenti tra gli interessi63, la premessa teorica
posta a fondamento dell’esito ricostruttivo ora sommariamente accen-
nato è stata la distinzione – a noi nota – tra concezioni oggettive e sog-
gettive dell’interesse 64.
Stando alle prime «si può parlare di interessi collettivi quando la si-
tuazione favorevole al soddisfacimento di un certo interesse può deter-
minarsi solo rispetto a tutti gli individui che lo condividono» e dunque la
relazione tra gli interessi dipende «dall’attitudine del bene ad essere go-
duto da più soggetti contemporaneamente»; mentre per le seconde, in-
vece, «il collettivo può benissimo formarsi per soddisfare aspirazioni
verso beni obiettivamente divisibili, e in astratto magari anche indivi-
dualmente perseguibili, ma a giudizio dei cointeressati meglio persegui-
bili coordinando le aspettative»65.
Nell’orientamento dottrinale in questione viene ad essere accolta in-
teramente la seconda prospettiva, giungendo così alla conclusione che
«non conta tanto il carattere del bene o dei beni verso cui si accentrano
le aspirazioni di più soggetti, quanto piuttosto la consapevolezza nei sin-
goli della relazione che lega i loro interessi»; in ciò dunque si apprezza la
«valenza» della relazione in esame, ovvero nel «giudizio soggettivo» cor-
rispondente all’«intenzione dei singoli di riferire l’interesse non a se
stessi, ma alla collettività»; intenzione che poi si concreta nell’organizza-
zione di quegli stessi interessi66.
che applicando la regola della necessaria soggettivazione dell’interesse in ordine alla sua tute-
labilità giuridica e rinvenendo nell’imputazione dell’interesse a soggetti collettivi, pur non
svolgendo considerazioni sulla natura di questi interessi prima del loro incontro con le esi-
genze della tecnica giuridica, adombrano comunque una concezione dell’interesse sostanziale
di natura priamente asoggettiva.
63 VIGORITI, V., Interessi collettivi e processo, cit., p. 17 ss.
64 VIGORITI, V., Interessi collettivi e processo, cit., p. 20 ss. Sul punto, cfr. retro, cap. I, la

contrapposizione tra le definizioni del concetto di interesse avanzate da Cesarini Sforza e


quelle proposte da Carnelutti. Oppure, nel cap. II, le riflessioni di Nicola e Pier Giusto Jae-
ger. Per osservazioni a carattere ricostruttivo, v. invece infra, cap. IV.
65 La prospettiva seguita è quella che potremmo definire del perseguimento necessaria-

mente (o preferibilmente) collettivo di interessi individuali. Il caso tipico è quello dell’aumento


salariale o delle migliori condizioni di lavoro a cui può aspirare un gruppo di lavoratori. Al
ricorrere di tali ipotesi, dice Vigoriti, tale condizione, tale vincolo solidaristico tra gli interessi
(cfr. retro, cap. I, la posizione di Messina), fa sì che l’interesse è «sentito» come comune a
tutti e dunque anche questo è qualificabile come «collettivo» (cfr. ancora retro, cap. II, l’im-
postazione di marca soggettivistica seguita da Cesarini Sforza). Per considerazioni critiche su
questo approccio ricostruttivo, v. infra, cap. IV, §§ 6.3. e 7., in cui evidenzieremo la distin-
zione tra attività di perseguimento dell’interesse e soddisfacimento dello stesso.
66 VIGORITI, V., Interessi collettivi e processo, cit., spec. p. 21.
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 181

Secondo questa ricostruzione, quindi, gli interessi definibili come


collettivi sarebbero: a) «interessi di uguale contenuto»; b) «facenti capo a
soggetti diversi»; c) «organizzati per il raggiungimento del medesimo
fine»67. Sicché, proprio la conseguenza organizzatoria condurrebbe alla
distinzione degli interessi diffusi da quelli collettivi. Entrambe le formule
verbali starebbero ad indicare una pluralità di interessi individuali di-
stinti e di uguale contenuto, ma i primi rimarrebbero allo stato diffuso,
cioè dovrebbero essere considerati «atomisticamente», mentre i secondi,
in virtù della loro organizzazione, pur non perdendo la loro individualità,
acquisirebbero una veste unitaria, comportante sul piano pratico il coor-
dinamento delle volontà e la loro gestione unitaria68.
67 VIGORITI, V., Interessi collettivi e processo, cit., p. 19. La distinzione tra interessi col-
lettivi e diffusi appare più sfumata nel più recente scritto ID., Impossibile la class action in Ita-
lia? Attualità del pensiero di Mauro Cappelletti, cit., p. 31 ss., spec. p. 33, in cui si osserva
come «la differenza tra le due figure è da alcuni sottolineata con puntiglio eccessivo, essendo
pacifico che essa non si pone né in termini di qualità, né di dimensione, che è sempre supe-
rindividuale, né di riferibilità, che è sempre agli individui, ma solo in termini di organizza-
zione, che è qualcosa di estrinseco, sempre realizzabile».
68 Chiarisce VIGORITI, V., Interessi collettivi e processo, cit., p. 43 s.: «le due formule

concernono entrambe i processi di aggregazione degli interessi individuali ed indicano due


stadi diversi di fenomeni omogenei nella sostanza», ma «a livello semplicemente diffuso man-
cano i meccanismi di coordinamento delle volontà, non si sono saldati quei vincoli che pos-
sono dare un carattere unitario ad un fascio di interessi uguali», mentre «a livello collettivo
esiste invece un’organizzazione, nel senso che esistono strumenti di direzione e di controllo,
e la dimensione supraindividuale degli interessi acquista una sua precisa rilevanza giuridica».
A tale prospettiva aderisce nettamente SANTANIELLO, G., La tutela giurisdizionale degli inte-
ressi diffusi, cit., p. 16, per il quale «la differenza essenziale e fondamentale fra gli interessi
collettivi e quelli diffusi sta proprio qui. Entrambe le formule si riferiscono ad una pluralità
di situazioni di vantaggio, ma nel primo caso esiste una organizzazione, espressione tenden-
zialmente unitaria del collettivo, che assicura unicità di trattazione degli interessi correlati ed
uniformità di azioni. Nel secondo caso, quello degli interessi diffusi, gli interessi vengono an-
cora atomisticamente considerati e mancano gli strumenti per una valutazione unitaria».
Nella medesima prospettiva si pone CATALDO, A., Gli interessi diffusi, legittimazione attiva al
procedimento amministrativo ma non al processo, cit., p. 368, che ritiene – in strettissima affi-
nità con la terminologia di Vigoriti – che gli interessi collettivi e diffusi indichino «due stadi
diversi (sotto il profilo organizzativo) di fenomeni che nella loro sostanza sono omogenei»; vi-
sto che «nell’interesse a livello diffuso difettano meccanismi di coordinamento delle volontà,
ovvero non vi sono saldati quei vincoli che danno carattere unitario ad un insieme di interessi
uguali». Ancora ad una prospettiva soggettiva simile a quella di Vigoriti può essere riportata
la posizione di CARAVITA, B., Interessi diffusi e collettivi, cit., p. 183 ss., per il quale – attra-
verso un percorso ricostruttivo articolato, riportato qui solo in chiave sintetica – il concetto
di interesse collettivo: a) «presuppone che la comunanza (solidarietà) di interessi sia cono-
sciuta ai portatori degli interessi (o alla maggior parte di essi); presuppone, cioè, che esista un
criterio di identificazione di questi soggetti tale renderli conoscibili ab externo e soprattutto
ab interno, vale a dire la possibilità di conoscere gli altri portatori. Questa condizione vale ad
escludere che nella nozione di interesse collettivo possa rientrare l’interesse (collettivo) gene-
182 CAPITOLO TERZO

2.6. Considerazioni di sintesi sul dibattito dottrinale sulle nozioni di inte-


resse superindividuale
Prima di procedere nell’esame della dottrina per approfondire le
questioni più propriamente legate alla ricostruzione giuridica in materia
di tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e/o diffusi è opportuno
avanzare, in aggiunta e completamento delle considerazioni introduttive
previamente avanzate, altre osservazioni di insieme che possono essere
tratte da questo sguardo retrospettivo del dibattito in punto di nozioni.
Queste osservazioni possono essere articolate nei seguenti passaggi.
Dagli anni Settanta in poi la riflessione giuridica si trova nuova-
mente a dover ricomporre il conflitto tra nuove categorie di interessi e
ordinamento. In questa prospettiva, come già accaduto in altri periodi
storici riguardanti l’emersione degli interessi superindividuali e la loro
aspirazione al riconoscimento giuridico, la prospettiva gnoseologica si in-
dirizza allo studio e alla comprensione della natura e della struttura dei
nuovi interessi, procedendo necessariamente in un ambito operativo ten-
denzialmente preliminare alla ricostruzione più propriamente giuridica.

rale, cioè l’interesse di tutti i soggetti facenti parte di una collettività, e l’interesse (collettivo)
di serie, quello i cui portatori non siano a priori identificabili»; b) «presuppone anche che la
comunanza di interessi non sia un dato naturale o acquisito per tradizione» ma «il risultato di
una volontà attiva». L’interesse collettivo sarebbe, dunque, l’«interesse i cui portatori sono
(sia pure astrattamente) identificabili tramite l’appartenenza ad un gruppo (ancora entità
astratta) in cui il dato unificante è costituito da condizioni di status, da qualità soggettive, da
condizioni lavorative o professionali comuni» e la cui reale identificazione avviene solo
quando sorge al suo interno una organizzazione; momento in cui, «in seguito alla individua-
zione, sintesi e ridefinizione di una base di interessi comuni […] il gruppo assume una sua
connotazione». Gli interessi diffusi in senso stretto, invece, sarebbero quelli che: a) hanno
«un radicamento ed una dimensione territoriale, cioè ne siano portatori (consapevoli o in-
consapevoli) soggetti fra loro collegati (o collegabili) in una dimensione territoriale»; b) espri-
mono «un bisogno di riorganizzazione di un dato ambito territoriale in modi tali da soddi-
sfare esigenze primarie (o anche non primarie […]) dei soggetti ivi insediati». Cfr. anche ID.,
La tutela giurisprudenziale degli interessi diffusi e collettivi, cit., p. 41, nota 21, in cui si af-
ferma che «più matura riflessione ci spinge a ritenere che anche gli interessi individuali attra-
verso il collegamento ed il radicamento territoriale vadano ricompresi nella categoria degli in-
teressi collettivi» restando comunque valido «il tentativo […] compiuto di individuare due
canali di aggregazione degli interessi: uno a base territoriale (che sfocia nella rappresentanza
politica); l’altro a base funzionale, che sfocia nelle diverse forme di rappresentanza (neo) cor-
porativa». In altri termini, sebbene anche in questa ricostruzione, si avverte l’influenza, in
sede di inquadramento astratto del fenomeno, di vicende concretamente e storicamente de-
terminate, l’elemento soggettivo dell’organizzazione, della «ridefinizione di una base comune
di interessi», della presa di coscienza della solidarietà degli interessi, sebbene agevolata e con-
sentita da «canali di aggregazione» obiettivamente esistenti, rappresenta il punto di separa-
zione dell’interesse collettivo dagli interessi presenti allo stato diffuso all’interno della società.
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 183

Il rigore metodologico è però, in talune ipotesi, vulnerato dalla non


sempre limpida volontà o comunque dall’effettiva capacità di tenere se-
parate le «esigenze» degli interessi superindividuali in sé e le esigenze vi-
ceversa appartenenti all’ordinamento preesistente: in altri termini, in ta-
luni casi, l’obiettivo di consentire l’adattamento del mondo del diritto
alle nuove realtà, segnando un’inversione delle prospettive, conduce al ri-
sultato che le seconde debbano adattarsi al primo e non viceversa.
Nonostante il tentativo di strutturazione formale dei nuovi interessi
possa avvantaggiarsi delle riflessioni, più o meno settoriali, appartenenti
alla dottrina intervenuta in materia nei periodi anteriori, in realtà il mar-
chio ideologico che grava su queste ricostruzioni (in primo luogo quelle
avanzate durante il periodo corporativo) impedisce una loro utilizzazione
e rivisitazione che vada oltre la mera riproposizione di formule di facile e
pronta utilizzazione.
Ciò non è certo causato unicamente dal fatto che – come parte della
dottrina sembra voler indicare69 – i contenuti che ora animano gli inte-
ressi lato sensu collettivi (ad es. il diritto all’ambiente, o l’interesse alla si-
curezza dei consumatori, ecc.) siano profondamente diversi da quelli che
animavano le esperienze pregresse; sul punto, infatti, basti riflettere – an-
che solo superficialmente – su quanto la dottrina giuridica più recente sia
comunque debitrice delle elaborazioni «tradizionali» dei concetti fonda-
mentali propri di ciascuna materia di studio (diritto soggettivo, interesse
legittimo, diritto di azione, ecc.) o su come il dibattito scientifico in me-
rito a queste nozioni non possa comunque tuttora prescindere dal con-
tributo dei grandi maestri, sebbene anche in questi campi, riguardo a
dette nozioni, i contenuti da travasare nelle formalizzazioni giuridiche
siano ben diversi da quelli originari.
In materia di interessi superindividuali, invece, la riflessione dottri-
nale anteriore – per quanto settoriale (appartenente cioè in prevalenza
allo studio dei fenomeni sindacali), per quanto sicuramente più acerba (se
confrontata con la secolare elaborazione concernente altre nozioni), e per
quanto anche ideologicamente condizionata (dalle note ragioni storiche e
politiche) – viene ad essere nella sostanza declassata nella sua rilevanza
scientifica, apparendo in definitiva negletta alla dottrina più recente70.

69 Cfr., ad es., PROTO PISANI, A., Appunti preliminari per uno studio sulla tutela giurisdi-
zionale degli interessi collettivi, cit., p. 263.
70 Quanto detto nel testo, talora, emerge dalle stesse affermazioni della dottrina più re-

cente, talaltra, si desume agevolmente dallo scarso interesse dimostrato dagli studiosi nei con-
fronti delle esperienze anteriori.
184 CAPITOLO TERZO

Occorre inoltre rilevare, che, a fronte di una copiosa letteratura


avanzata in materia, non tutti i contributi affrontano ex professo il tema
dell’elaborazione della corretta nozione di interesse superindividuale, al
contrario recuperando – semplicemente – concezioni avanzate da altri, o
presupponendo – erroneamente – pacifiche e condivise concettualizza-
zioni. E peraltro, tra coloro che diversamente si imbarcano nella pro-
spettiva definitoria, ancora più rari sono i contributi in cui effettivamente
lo studio della nozione si fa veramente approfondito.
Il paradosso sta nel fatto che l’importanza di addivenire ad una cor-
retta nozione di interesse lato sensu collettivo è opinione abbastanza dif-
fusa, in termini più o meno espliciti, ma in rari casi da tale considera-
zione derivano conseguenze pratiche degne di rilievo.
Questo generale contesto porta con sé, d’altra parte, le ormai note
conseguenze.
E «la» conseguenza per eccellenza è costituita dalla divaricazione
degli interessi superindividuali in interessi collettivi, da un lato, e inte-
ressi diffusi, dall’altro.
Tale distinzione – che, come avremo occasione di rilevare, quanto-
meno nei termini proposti dalla dottrina, non va condivisa – sicuramente
trae linfa vitale da un dibattito non adeguatamente soffermatosi sul con-
cetto stesso di interesse71 e risulta suffragata da ricostruzioni che, come
visto, tendono a relegare – più o meno consciamente – la formula degli
interessi collettivi ad un’esperienza storica precisamente definita, impe-
dendo il pieno sviluppo di una riflessione orientata all’astrazione concet-
tuale, generalizzante e induttiva, favorendo così incertezze nella corretta
individuazione dei tratti costitutivi effettivamente ontologici del feno-
meno e, ancor più, nel loro discernimento rispetto a quelli al contrario
espressione dell’atteggiarsi storicamente e concretamente determinato
del fenomeno stesso.
Risulta ancora incoraggiata – la nota distinzione – dal difetto di
comparazione delle diverse prospettive ricostruttive proposte sia in senso
storico-diacronico, sia in senso interdisciplinare-sincronico. Il riferi-
mento – sotto il secondo profilo – è tutto rivolto alla fortissima influenza,
che il dogma (della tutelabilità giurisdizionale in sede amministrativa)
dell’interesse qualificato e differenziato rivela nella distinzione tra inte-
ressi diffusi e collettivi. È tutta all’interno della sistematica propria del
diritto processuale amministrativo, infatti, – sebbene come riflesso e de-
rivazione storica di una concezione del diritto in senso soggettivo da in-

71 Su cui, per approfondimenti, v. cap. IV.


INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 185

tendersi quale interesse (meramente individuale) giuridicamente protetto


– che le ragioni di detta distinzione risiedono.
In tale ambito si cumulano due condizioni poco favorevoli: da una
lato, la commistione tra piano d’analisi fenomenologica e piano d’analisi
propriamente giuridica e, dall’altro, il riferimento più o meno implicito a
esperienze concrete e settoriali. Di ciò c’è chiara traccia nelle significative
decisioni del giudice amministrativo che anche tra breve esamineremo.
C’è innegabile conferma nella prospettiva di studio seguita da Giannini
sin dal Convegno di Pavia e seguita – seppur in diversa misura – da
un’ampia parte della dottrina amministrativistica. C’è ancora conferma
nel fatto che questa stessa dottrina amministrativistica delinea sicura-
mente l’ambito di studio in cui la distinzione tra interessi collettivi e in-
teressi diffusi è attualmente consolidata72; mentre uno sguardo alla dot-
trina civilistica e processualcivilistica presenta un quadro assai più fluido,
sebbene non scevro di incertezze73.

3. La giuridicizzazione degli interessi sovraindividuali


3.1. I limiti dell’ordinamento giuridico
Sin dalle prime attenzioni rivolte dalla dottrina al tema della giusti-
ziabilità dei nuovi interessi a carattere sovraindividuale, il dibattito scien-
tifico – indipendentemente dalle diverse soluzioni ricostruttive avanzate
e, più in generale, dalla maggiore o minore apertura dimostrata dagli stu-
diosi nei riguardi della nuova tematica – ha indicato quale principale
questione di fondo da porre ad oggetto della riflessione la distanza, tanto
ideologica, quanto conseguentemente strutturale, intercorrente tra gli

72 La distinzione tra interessi collettivi e diffusi è comunque accolta, oltre che dagli AA.
già citati alle note precedenti, anche da ANTONIUCCI, M.G., Elementi di diritto processuale am-
ministrativo, Milano, 2002, p. 13 ss.; CAIANIELLO, V., Manuale di diritto processuale ammini-
strativo, cit., p. 182; MARUOTTI, L., La tutela degli interessi diffusi e degli interessi collettivi in
sede di giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo: questioni di giurisdizione e sele-
zione dei soggetti legittimati alla impugnazione, in Dir. proc. amm., 1992, p. 255 ss.; GRASSANO,
P., In tema di interessi diffusi, Degli interessi diffusi quale momento di partecipazione dei citta-
dini nella tutela di interessi superindividuali e momento di supplenza giudiziale, in Nuova ras-
segna di dottrina, legislazione e giurisprudenza, 2002, p. 1091 ss.; FRITTELLI, A., L’interesse pub-
blico e le situazioni soggettive nel procedimento amministrativo, in Nuova rassegna di dottrina,
legislazione e giurisprudenza, 1997, p. 1119 ss.; VERBARI, G.B., Principi di diritto processuale
amministrativo, Milano, 2000, p. 165; SCIARRETTA, S., Appunti di giustizia amministrativa, Mi-
lano, 2002, p. 29.
73 Cfr. gli AA. citati retro, a nota 37.
186 CAPITOLO TERZO

strumenti di tutela apprestati dall’ordinamento giuridico tradizionale (o,


secondo diverse letture, tradizionalmente concepito) e la natura delle
nuove istanze collettive.
Se si osserva il dibattito in chiave generale è agevole rilevare come
l’attenzione degli studiosi appartenenti alle varie discipline si sia indiriz-
zata sin dai primi interventi del Convegno di Pavia74, per un verso, nei
confronti della concezione individualistica tradizional-borghese del di-
ritto75, considerata il codice identificativo e genetico dell’attuale ordina-
mento giuridico ispirato alla esclusivistica dicotomia pubblico-privato76
74 Cfr, tra gli altri DENTI, V., Relazione introduttiva, cit., p. 7 ss.
75 La matrice individualistica degli istituti giuridici di origine liberale è unanimemente
riconosciuta dalla dottrina come una delle cause della difficoltà di adattamento delle attuali
tecniche di tutela in ordine alla protezione delle nuove esigenze collettive. Sul punto, con di-
versità di accenti e prospettive, v. gli AA. citati alle note che seguono.
76 Sul punto, cfr. in particolare CAPPELLETTI, M., Formazioni sociali e interessi di gruppo

davanti alla giustizia civile, cit., p. 367 ss., ID., Appunti sulla tutela giurisdizionale di interessi
collettivi o diffusi, cit., p., 191 ss.; che evidenzia come detta dicotomia si rifletta sulle correnti
concezioni in materia di tutele processuali. Secondo l’A. infatti l’esclusivo riferimento ad una
delle due tipologie di interesse sostanziale (individuale o pubblico) porta con sé la regola se-
condo la quale di norma nel processo civile il legittimato ad agire, a fronte di interessi indivi-
duali, è rappresentato dal titolare esclusivo della situazione giuridica soggettiva, mentre, allor-
ché l’interesse da tutelare sia anche, se non esclusivamente, pubblico, l’azione viene attribuita
anche al pubblico ministero. Situazione – quest’ultima – che trova completo svolgimento nel
processo penale, rivolto come è alla protezione esclusiva degli interessi pubblici. Si realizza,
quindi, un «profondo abisso» tra pubblico e privato in ragione del quale l’ordinamento so-
stanziale e processuale è rivolto sì – sotto il profilo dei contenuti – alla tutela di interessi ma-
teriali, ma per altro verso è concepito per offrire protezione unicamente a quelli che possano
essere qualificati come privati-individuali o alternativamente come pubblici, non sussistendo
dunque all’interno del sistema opzioni alternative volte alla tutela di interessi collettivi, ov-
vero interessi che si pongano in posizione intermedia tra i due opposti poli positivamente
contemplati. In dottrina ci si è inoltre interrogati sulla natura pubblica o privata di questa
particolare classe di interessi, ma il tema non solo ha dimostrato nel tempo tutta la sua steri-
lità, ma ha anche dimostrato essere il frutto di un errore di metodo in cui è incorsa la dot-
trina, che, pur consapevole dell’insufficienza della dicotomia pubblico-privato, non ha però
affrontato il tema con rinnovati strumenti di analisi. Il problema è stato, infatti, essenzial-
mente mal posto, come chiariscono definitivamente le osservazioni di DENTI, V., Profili civili-
stici della tutela degli interessi diffusi, cit., p. 44, per il quale «dovrebbe essere ormai chiaro
[…] che un interesse è “pubblico” non in ragione della qualità del bene che costituisce il suo
riferimento oggettivo, ma in ragione della qualità del soggetto al quale la gestione del bene è
istituzionalmente affidata. Gli interessi “pubblici” sono, quindi, tipicamente gli interessi per-
seguiti dalle pubbliche amministrazioni, di fronte ai quali stanno gli interessi di altri soggetti,
intesi alla fruizione dei medesimi beni, che in quanto non suscettibili di appropriazione esclu-
siva, danno luogo alle situazioni di interesse diffuso. Gli interessi diffusi sono, quindi, tipica-
mente interessi “privati” […]». Sulla crisi della distinzione pubblico/privato, v., in generale,
anche GIORGIANNI, M., Il diritto privato e i suoi attuali confini, in Riv. trim. dir. proc. civ.,
1961, p. 391 ss.; PUGLIATTI, S., Diritto pubblico e privato, in Enc. dir., XII, Milano, 1964, p.
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 187

e, dall’altro, nei confronti del concettualismo dogmatico di derivazione


pandettistica77. Tanto la prima, quanto la seconda componente segna-
vano un insuperabile iato tra strutture tradizionali e nuovi contenuti di
tutela.
In particolare, da parte della dottrina civilistica, si rilevava come
tutto il sistema del diritto privato fosse stato concettualmente edificato
intorno all’archetipo del diritto di proprietà, tradizionale usbergo di in-
teressi squisitamente individuali. Si prendeva, quindi, atto della necessità
di operare una generale revisione della teoria delle situazioni soggettive
in conformità al dettato costituzionale, assumendo come centrale il va-
lore della persona, per poi orientarsi verso la rivisitazione della stessa teo-
ria dei beni in una prospettiva non più squisitamente patrimoniale; pro-
spettiva in grado di influire positivamente sulle tecniche di tutela e di ri-
storo degli interessi pregiudicati per liberarle dai limiti di una funzione
meramente risarcitoria78.

696 ss.; CERRONI, U., Sulla storicità della distinzione fra diritto privato e diritto pubblico, in Riv.
int. fil. dir., 1960, p. 355 ss.;
77 Il peso del tradizionale formalismo dogmatico di derivazione pandettistica è in parti-

colare evidenziato dai civilisti (su cui v. la nota che segue), ma non ha mancato di sollevare
considerazioni anche da parte della dottrina processualcivilistica: v. a tal proposito, sin dal
Convegno di Pavia, DENTI, V., Relazione introduttiva, cit., p. 18; successivamente CARRATTA,
A., Profili processuali della tutela degli interessi collettivi e diffusi, cit., p. 81. In una prospet-
tiva comparatistica, v., TARUFFO, M., Some Remarkson Group Litigation in Comparative Per-
spective, in 11 Duke J. of Comp. & Int. l L., 405 (2001).
78 Così, con particolare efficacia, RODOTÀ, S., Le azioni civilistiche, cit., p. 90, che rileva

«la peculiarità degli strumenti civilistici, conformati in modo da servire alla tutela di interessi
esclusivamente individualistici e, di conseguenza, inadatti a risolvere conflitti non integral-
mente interprivati, a dar rilievo ad interessi non riconducibili alla sfera del singolo». È inte-
ressante notare come l’A. con sintetici ma incisivi cenni evidenzi l’influenza che la concezione
strutturale del diritto di proprietà ha rivestito nella configurazione di istituti che diversa-
mente potevano favorire per loro natura una diversa e maggiore valorizzazione della dimen-
sione collettiva degli interessi sostanziali tutelati: «tale vicenda si scorge in modo particolar-
mente netto – osserva a tal proposito l’A. – seguendo la storia dell’istituto della proprietà, in
cui è ravvisabile una linea lungo la quale si collocano […] lo smantellamento delle proprietà
collettive e la risoluzione della proprietà pubblica nella proprietà individuale dello Stato; la
costruzione in forme atomistiche anche della comproprietà identificandosi la posizione dei
comproprietari più con la titolarità di una singola quota “ideale” (accentuandosi cioè l’a-
spetto individualistico); l’utilizzazione dello schema della proprietà individuale come mezzo
per fissare in capo al singolo gli interessi di cui si fa portatore, scorporando tutti quelli che
non possono trovare un punto di riferimento in una situazione proprietaria formalizzata».
Cfr. PARDOLESI, R., Il problema degli interessi collettivi e i problemi dei giuristi, cit., p. 262, che
rileva quale ostacolo che si oppone al riconoscimento ed alla piena tutela degli interessi so-
vraindividuali «lo “spessore” degli istituti privatistici; o, per meglio dire, il modo di essere
della cultura giuridica che li tramanda, sorda ad ogni logica diversa da quella individuale».
188 CAPITOLO TERZO

Ugualmente la dottrina processualcivilistica rimarcava l’inadegua-


tezza del sistema processuale tradizionale, evidenziando come esso stesso
fosse stato concepito – sotto numerosi e fondamentali profili – su misura
per offrire regolamento a rapporti bilaterali (o semmai plurilaterali ma
con soggetti identificati o identificabili). Gli istituti processuali a maggior
grado di inadeguatezza rispetto i nuovi oggetti di tutela erano indicati nel
tema della legittimazione ad agire e nella connessa nozione di giusta parte
(intesa appunto come coincidente con il titolare del rapporto dedotto in
giudizio); nella disciplina delle garanzie processuali (sub specie di diritto al
contraddittorio e diritto di difesa); nell’ordinario regime dei limiti ogget-
tivi e soggettivi del giudicato civile; nella funzione meramente repressiva e
nel contenuto risarcitorio delle misure sanzionatorie dell’illecito79.

Sulla stessa scia, successivamente RUFFOLO, U., Interessi collettivi o diffusi, cit., p. 106 ss., ma
spec. p. 130; GABRIELLI, E., Appunti su diritti soggettivi, interessi legittimi, interessi collettivi,
cit., p. 973 ss., che rileva la «trasposizione dal piano filosofico-giusnaturalistico al piano giu-
ridico-positivo dell’idea dell’individuo-soggetto di diritto, con tutti i suoi attributi e i suoi
predicati», operata dalla Scuola storica con tutte le note conseguenze in termini di entifica-
zione delle nozioni, astrazione e generalizzazione del concettualismo giuridico; fenomeni pa-
radigmaticamente rappresentati dal profilo storico della nozione di diritto soggettivo (su cui
v. infra, cap. V). Particolarmente interessanti si rivelano sul punto le osservazioni di RUSSO, E.,
Interessi diffusi e teoria delle situazioni soggettive, cit., p. 794 ss., per il quale la dottrina ha
«perpetuato un ricorrente equivoco dogmatico; quello cioè di attribuire alla teoria delle si-
tuazioni soggettive, così come elaborate sulla base dei dati offerti dagli ordinamenti prece-
denti nel tempo, una validità universale e cioè non condizionata a quella degli ordinamenti ri-
spetto ai quali era stata elaborata». Con acuta sinteticità l’A. evidenzia infatti nel suo saggio
come non si sia sufficientemente «considerato che il diritto soggettivo e l’interesse legittimo
come strumenti di tutela, sono lo svolgimento coerente di […] concezioni, fondate su alcune
premesse ideologiche facilmente enucleabili: 1) parità delle parti del rapporto; 2) corrispon-
denza e simmetria tra obbligo e pretesa; 3) irrilevanza della qualità o della natura del soggetto
cui è attribuita la pretesa; 4) prevalenza assoluta della sfera patrimoniale individuale come og-
getto da tutelare; 5) assorbimento dell’interesse collettivo o diffuso nel generale interesse
pubblico di cui è gestore esclusivo la Pubblica Amministrazione; 6) delega assoluta ed in
bianco alla P.A. per enucleare e soddisfare i bisogni e gli interessi della comunità».
79 In dottrina, sebbene con differenti accentuazioni, v. CAPPELLETTI, M., Appunti sulla

tutela giurisdizionale di interessi collettivi o diffusi, cit., p. 199 ss., che appunto si riferisce alle
«quattro difficoltà» indicate nel testo come quelle principali da doversi superare per assicu-
rare la giustiziabilità degli interessi collettivi; DENTI, V., Relazione introduttiva, cit., p. 15 ss.;
COSTANTINO, G., Brevi note sulla tutela giurisdizionale degli interessi collettivi davanti al giu-
dice civile, cit., p. 223; ZANUTTIGH, L., Intervento, cit., p. 310. Successivamente, cfr. ancora
CAPPELLETTI, M., Formazioni sociali e interessi di gruppo davanti alla giustizia civile, cit., p. 365
ss.; CORASANITI, A., La tutela degli interessi diffusi davanti il giudice ordinario, cit., p. 181; VI-
GORITI, V., Interessi collettivi e processo, cit., p. 15, ed in particolare, sui limiti delle tradizio-
nali configurazioni della nozione di legittimazione ad agire p. 65 ss.; ALPA, G., Interessi dif-
fusi, cit., p. 611; DENTI, V., La giustizia civile, cit., p. 113, che evidenzia come i nostri codici
(civile e procedura civile) abbiano «come punto di riferimento i rapporti soggettivi interpri-
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 189

Ancora, all’interno della dottrina amministrativistica, come già indi-


cato da tempo, si rimarcava la concezione individualistica del processo80,
costruito in stretta simmetria con quello civile, ossia come giudizio
avente ad oggetto conflitti intersoggettivi intercorrenti tra p.a. e cittadino
e rivolto ad offrire tutela ad interessi meramente individuali, in virtù di
una nozione risalente di interesse legittimo, naturale trasposizione in am-
bito amministrativistico – mediante i tradizionali principi applicativi del-
l’affievolimento, della degradazione o della necessaria differenziazione e
qualificazione dell’interesse – del concetto di diritto soggettivo81.

vati, bilaterali o plurilaterali, che fanno capo alle situazioni giuridiche tradizionali: i diritti
reali e i diritti di obbligazione. Ciò emerge chiaramente sia dalle norme che disciplinano la in-
staurazione del contraddittorio (artt. 101 e 102 c.p.c.), sia dalle norme che regolano i limiti
soggettivi della cosa giudicata (art. 2909 c.c.). Tutte queste disposizioni, infatti, muovono
dalla premessa che nel processo sia dedotto un rapporto giuridico facente capo a soggetti in-
dividuati o individuabili, anche se ne sia difficile la identificazione e sia possibile ricorrere alla
eccezionale notizia del processo mediante la notificazione per pubblici proclami (art. 150
c.p.c.). La regola fondamentale, al riguardo, è data dall’art. 102 c.p.c., che richiede la pre-
senza nel giudizio di tutti i soggetti nei confronti dei quali la sentenza deve produrre effetti
[…]»; mentre l’estensione ultra partes dell’efficacia della sentenza, magari secundum eventum
litis, è fenomeno – ricorda Denti in riferimento all’art. 2377 c.c. – del tutto eccezionale; cfr.
anche ID., Interessi diffusi, cit., p. 312. Più di recente, v. CARRATTA, A., Profili processuali della
tutela degli interessi collettivi e diffusi, cit., p. 109; RESCIGNO, P., Sulla compatibilità tra il mo-
dello processuale della «class action» ed i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico ita-
liano, in Giur. it., 2000, p. 2224 ss.; MENCHINI, S., Azioni seriali e tutela giurisdizionale: aspetti
critici e prospettive ricostruttive, in www.judicium.it.
80 Cfr. retro, cap. II, nota 65 le osservazioni di Spagnuolo Vigorita e cap. I, § 2.1.3. s.,

quelle di Bonaudi.
81 Cfr. in particolare la Relazione di F.G. SCOCA al Convegno di Pavia (La tutela degli in-

teressi collettivi nel processo amministrativo, cit., p. 44 ss.), in cui l’A. richiama l’attenzione
sulla necessità di risolvere i problemi di diritto processuale procedendo innanzitutto da uno
studio delle questioni di diritto sostanziale ed in particolar modo dall’approfondimento e
dalla rimeditazione attenta di quella «raffinatissima creatura giuridica» costituita dall’inte-
resse legittimo. Più in particolare si rileva come «la giurisprudenza amministrativa ha conti-
nuato ad attenersi all’idea dell’interesse differenziato e qualificato, trovando sempre o quasi
sempre il criterio di differenziazione nel collegamento con un diritto soggettivo, anzi con al-
cuni diritti soggettivi, quali quello di proprietà e quello di impresa» (p. 63). «L’interesse le-
gittimo nasce, per separazione o partogenesi, dall’interesse semplice; e viene immediatamente
inteso come un nuovo strumento di protezione di utilità sostanziali già protette in termini di
diritto soggettivo» (p. 65). In definitiva, osserva Scoca, sin dalle prime decisioni il giudice am-
ministrativo «tendeva ad occuparsi più dei diritti, sia pure compressi, affievoliti o degradati,
che non degli interessi non derivanti da diritti; e, in conseguenza di ciò, tendeva a trasferire
nel processo amministrativo concetti, quali quello della tutela strettamente individuale, pro-
pri (forse) del processo civile» (p. 68). Cfr. anche, ROMANO, A., Intervento, cit., p. 289 ss.; ID.,
Il giudice amministrativo di fronte al problema della tutela degli interessi c.d. diffusi, in Foro it.,
1978, V, p. 8 ss.; spec. p. 8 e 12 in cui si riferisce all’evoluzione ricostruttiva in materia di in-
teresse legittimo rimarcando l’«esaltazione dei momenti individuali, e della loro protezione
190 CAPITOLO TERZO

Come indicato con grande efficacia espressiva, l’emersione degli in-


teressi a dimensione sovraindividuale avrebbe dovuto segnare il «crepu-
scolo» delle «divinità concettuali» che per lungo tempo avevano domi-
nato la scena della sistematica sostanziale e processuale tradizionale82.

3.2. Le diversità strutturali intercorrenti tra il processo civile e il processo


amministrativo
Nelle osservazioni introduttive di questo capitolo, nel dar conto del-
l’opportunità di tenere distinta l’analisi della riflessione dottrinale orien-
tata ad uno studio generale della tematica da quella al contrario orientata
verso argomenti più specifici, avevamo evidenziato l’intensificarsi della
seconda a svantaggio della prima come conseguenza del progressivo au-
mento delle disposizioni di legge precipuamente rivolte a risolvere le
problematiche di tutela relative ai diversi settori di emersione delle
istanze collettive (libertà sindacale, parità di trattamento, tutela dell’am-
biente, tutela del consumatore).
normativa, nel rapporto tra amministrazione e singolo; esaltazione che ha portato a rico-
struire l’interesse privato in termini in un certo senso analoghi a quelli del diritto soggettivo,
a quelli della situazione giuridica individuale per eccellenza»; cfr. anche ID., Interessi «indivi-
duali» e tutela giurisdizionale amministrativa, cit., p. 269 ss.; CERRI, A., Interessi diffusi, inte-
ressi comuni, Azione e difesa, cit., p. 85, che peraltro a p. 96 s. evidenzia come le critiche
mosse al liberalismo in ispecie dal pensiero conservatore, dalla riflessione cattolica e dal na-
scente socialismo possano non negare l’apporto originale e fecondo del liberalismo medesimo
se si tiene assieme la spontaneità del singolo con la sua intrinseca socialità; si rileva in altri ter-
mini un eventuale nesso di compatibilità tra ideologia liberale e coesistenza della dimensione
individuale e sociale del singolo; prospettiva indicata anche da PIRAINO, S., L’interesse diffuso
nella tematica degli interessi giuridicamente protetti, cit., p. 204, secondo il quale, «più che di
un superamento della dottrina individualistica, può parlarsi di adeguamento di tale dottrina
alle esigenze di una realtà che vede emergere rapporti essenzialmente collettivi o di gruppo.
E tale adeguamento non può che avvenire proprio attraverso l’ampliamento del concetto di
interesse individuale, che esca dallo schema tradizionale che ne fa un mero interesse perso-
nale e speciale». Cfr. anche NIGRO, M., Le due facce dell’interesse diffuso, cit., p. 17; ID., Il
nodo della partecipazione, cit., p. 235; CARAVITA, B., La tutela giurisprudenziale degli interessi
diffusi e collettivi, cit., p. 45; FERRARA, R., Interessi collettivi e diffusi (ricorso giurisdizionale
amministrativo), cit., p. 482, ID., Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa,
cit., p. 364. Ciò che è interessante notare – ma ciò non desta meraviglia se si pensa all’evolu-
zione storica della giustizia amministrativa – è come nell’opinione di questi AA. l’attenzione
e la critica della concezione individualistica sia rivolta non tanto nei riguardi dell’ordina-
mento inteso come dato preesistente e concepito come frutto di una certa ideologia, ma più
che altro nei confronti delle tradizionali e dominanti modalità di interpretarlo. All’interno dei
civilisti, v. sul punto le osservazioni di RUFFOLO, U., Interessi collettivi o diffusi e tutela del con-
sumatore, cit., p. 130 s. (su cui, amplius, v. infra, cap. X, § 2.1.2.)
82 Così, CAPPELLETTI, M., Appunti sulla tutela giurisdizionale di interessi collettivi o dif-

fusi, cit., p. 195.


INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 191

Quest’aspetto va ora ripreso e integrato di ulteriori elementi di ri-


flessione.
Le questioni di maggior interesse sono nella sostanza due.
Innanzitutto occorre rilevare come l’andamento decrescente e – lo si
ricorda – comunque tendenziale appena richiamato è pienamente ap-
prezzabile in particolare riferimento all’itinerario descritto dal dibattito
attivatosi all’interno della dottrina civilistica e processualcivilistica.
In questa sede è palese il sostituirsi di una riflessione di settore ad
una riflessione maggiormente incline ad una visione sistematica e gene-
rale del problema: progressivamente degrada l’interesse dottrinale nei
confronti di una configurazione dogmatica di nuove figure sostanziali e
degli strumenti processuali più idonei a darvi protezione.
Così – invece – non è nel dibattito avviatosi in seno alla dottrina am-
ministrativistica.
Qui, sebbene si registri una progressiva perdita di originalità dei
contributi e un simmetrico appiattimento del dibattito sulle soluzioni in-
terpretative – fondamentalmente giurisprudenziali – consolidatesi negli
anni, la riflessione continua comunque a svolgersi sempre all’interno di
una prospettiva generale, ovvero sul terreno della rivisitazione, dell’adat-
tamento o dell’ampliamento dei presupposti di accesso alla giustizia am-
ministrativa.
La seconda questione (strettamente connessa alla prima) che poi in-
tendiamo evidenziare è relativa alla natura del dibattito ed essa stessa è in
grado di lumeggiare le ragioni di questo diverso atteggiarsi della rifles-
sione dottrinale nei due distinti campi disciplinari or ora indicati.
Il punto è il seguente. Agli inizi degli anni Settanta la dottrina tutta
acquisisce la consapevolezza di doversi confrontare con la tematica degli
interessi sovraindividuali e la stragrande maggioranza di questa com-
prende la necessità di non mandare inevase le nuove richieste di tutela.
Ma a questa communis opinio, effettivamente trasversale, fa da contral-
tare un sistema di diritto sostanziale e processuale profondamente diffe-
rente nei meccanismi strutturali a seconda che ci si riferisca al diritto ci-
vile o al diritto amministrativo.
In quest’ultimo ambito, tutto il sistema di rapporti tra diritto e pro-
cesso riposa, da un lato, sulla normativa che di volta in volta legittima
l’attività delle pubbliche amministrazioni, e, dall’altro, su di un sistema di
accesso al sindacato di legittimità del provvedimento amministrativo re-
golato nella sostanza, anche dopo l’introduzione dei Tribunali ammini-
strativi regionali, dall’ampia formula prevista dall’art. 26 del T.U. sul
Consiglio di Stato del 1924.
192 CAPITOLO TERZO

Si opera – dunque – in un sistema in cui la tipicità dei poteri della


pubblica amministrazione rappresenta una trama di regole e di criteri di
esercizio del potere che sollevano il quesito su chi sia legittimato a invo-
carne il mancato rispetto. Da qui chiaramente la nascita della figura e
della problematica dell’interesse legittimo, della sua natura processuale o
sostanziale, dei suoi presupposti e del suo rapporto con l’interesse gene-
rale. Tutte questioni rispetto alle quali la tematica degli interessi collettivi
e diffusi ha per certi versi costituito il naturale proseguimento di un di-
battito – quello sulla natura dell’interesse legittimo, appunto – pressoché
mai arrestatosi.
In materia civile, invece, i caratteri del sistema con cui la dottrina ha
dovuto confrontarsi nel risolvere le problematiche processuali ed ancor
più sostanziali sono stati profondamente differenti.
Ammessa infatti l’opportunità di offrire tutela ai nuovi interessi
emergenti ed indipendentemente dalla configurazione dogmatica da do-
versi adottare (ossia dalla preferibile ricostruzione della tutela in termini
di protezione di diritti soggettivi in senso tradizionale piuttosto che di
nuove ed incerte figure giuridiche), ciò che ostacolava il raggiungimento
di tale risultato era la mancanza del requisito strutturale minimo necessa-
rio per poter raffigurare una regola di condotta di cui lamentare la viola-
zione in sede giurisdizionale: l’esistenza dell’obbligo.
L’esistenza di un obbligo di condotta è, infatti, il prius logico-giuri-
dico che precede la proposizione e la eventuale soluzione di tutti i suc-
cessivi interrogativi circa la natura degli interessi tutelati, la titolarità dei
medesimi, la migliore configurazione dogmatica degli stessi, la natura
dell’attività giurisdizionale svolta83.

83 Questa fondamentale distinzione di prospettiva sembra essere stata correttamente ri-


levata solo da DENTI, V., Profili civilistici della tutela degli interessi diffusi, cit., p. 41, che d’al-
tra parte nel rilevare le distanze tra processo civile e processo amministrativo, individua, in
posizione di priorità logico-giuridica, non l’esistenza di una posizione di obbligo, bensì l’esi-
stenza di una situazione soggettiva tutelabile, di un diritto soggettivo. Come indicato nel te-
sto, invece, a nostro parere è più corretto individuare nell’imposizione di un obbligo giuri-
dico l’iniziale anello della catena, costituendo quest’ultimo l’elemento protettivo strutturale
minimo ed ineliminabile di cui il diritto si serve per tutelare gli interessi (sul punto, v. infra,
cap. V). Indipendentemente da questa precisazione teorica, coglie puntualmente il nucleo del
problema PROTO PISANI, A., Nuovi diritti e tecniche di tutela, cit., p. 237, che sostiene come
«il processualcivilista in quanto tale non abbia alcun titolo, non possieda alcuno strumento
particolare per risolvere il problema di fondo che è dietro la problematica della tutela dei c.d.
interessi collettivi: cioè il problema di selezionare, alla stregua del nostro ordinamento, gli in-
teressi superindividuali giuridicamente protetti o da giuridicizzare. Un simile problema altro
non è se non o un tipico problema di diritto sostanziale o un problema eminentemente poli-
tico. Non certo un problema processuale».
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 193

All’interno della dottrina civilistica e processualcivilistica la consa-


pevolezza circa la necessità – anche ed innanzitutto costituzionale – di
aprire le porte del processo alla nuova classe di interessi è stata infatti
tendenzialmente pari alla consapevolezza circa i limiti positivi presenti
nell’ordinamento.
È tutt’altro che un caso che all’interno del dibattito – a carattere ge-
nerale ovviamente – sulla tutela degli interessi sovraindividuali nel pro-
cesso civile sia stata in prevalenza invocata la necessità di impostare lo
studio de iure condendo, alla luce dell’impossibilità di procedere facendo
unico affidamento sulla vis interpretativa degli studiosi ed in assenza di
interventi legislativi sul punto84; mentre la tutela di quegli stessi interessi,
diversamente calati all’interno del processo amministrativo, non ha solle-
citato queste stesse corde in seno all’ampia riflessione apertasi in materia,
ma al contrario, salvo rare eccezioni85, ha invitato la dottrina ad interro-
garsi sulla possibilità di reinterpretare, alla luce del dettato costituzio-
nale, il sistema vigente, tra cui in primo luogo il citato art. 26 del T.U. sul
Consiglio di Stato, ovvero – in altri termini – ha suggerito il riesame della
compatibilità costituzionale dell’interpretazione giurisprudenziale e dot-
84 Il problema della corretta prospettiva – de iure condito o de iure condendo – con cui
rivolgersi al tema della tutela degli interessi superindividuali è stato oggetto, assieme alle que-
stioni ivi connesse (ruolo dell’interprete, del metodo, del giudice, della legge, ecc.), di varie
prese di posizione specie nelle prime fasi del dibattito. Sul punto, v., già durante il Convegno
di Pavia, CAPPELLETTI, M., Appunti sulla tutela giurisdizionale di interessi collettivi o diffusi,
cit., p. 208, che, se per un verso veniva ad interrogarsi – richiamandosi a Calamandrei – sulla
«responsabilità della dottrina» in materia, per altro verso rimarcava di attendere una «radi-
cale riforma normativa». Nello stesso senso, sebbene con diverse sfumature (ad es. alcuni AA.
non escludono comunque l’opportunità – sebbene in attesa di un auspicabile intervento legi-
slativo riformatore – di far uso di tutti gli strumenti che l’ordinamento de iure condito mette
a disposizione per ampliare, in osservanza al dettato costituzionale, la sfera di tutela di posi-
zioni soggettive a rilevanza superindividuale) RODOTÀ, S., Le azioni civilistiche, cit., p. 83 ss.;
PROTO PISANI, A., Appunti preliminari per uno studio sulla tutela giurisdizionale degli interessi
collettivi, cit., p. 267 ss., ma, ancor più esplicitamente per ciò che riguarda i limiti imposti al-
l’interprete, in Nuovi diritti e tecniche di tutela, cit., p. 237; TARUFFO, M., Intervento, cit., p.
330. Cfr. anche DENTI, V., La giustizia civile, cit., p. 115; ID., Interessi diffusi, cit., p. 312; ID.,
Strumenti, cit., p. 52; ma in particolare ID., L’idea di codice e la riforma del processo civile, cit.,
p. 100 ss., ma spec. p. 104 ss., in cui l’A. ribadisce il suo favore per una normazione a carat-
tere generale, di stampo pubblicistico, in materia di tutela giurisdizionale degli interessi col-
lettivi e diffusi, piuttosto che – come dimostrerà l’esperienza evolutiva del nostro ordina-
mento – a carattere settoriale; nella sostanza anche VIGORITI, V., Interessi collettivi e processo,
cit., p. 15; SENSALE, M., La tutela degli interessi diffusi: un problema ancora aperto, cit., p. 145
ss.; FAZZALARI, E., Istituzioni di diritto processuale, cit., p. 285.
85 Cfr. POLI, M., Gli interessi diffusi davanti al Consiglio di Stato, in Arch. giur., 1981, p.

65 ss., ma spec. p. 81, espressamente a favore di un intervento di riforma dei requisiti di ac-
cesso alla giustizia innanzi al giudice amministrativo.
194 CAPITOLO TERZO

trinale dominante della nozione di interesse legittimo sotto il profilo


della necessaria qualificazione, differenziazione e personalità dell’inte-
resse sostanziale dedotto in giudizio86.
86 Ben si comprende allora la tendenza della dottrina amministrativistica ad auspicare
una funzione di supplenza giudiziale in materia, in quanto tutta l’opera di definizione dei li-
miti di accesso al giudizio amministrativo è per tradizione frutto di una giurisprudenza pre-
toria che è la naturale conseguenza del sistema. Sul punto, basti richiamare le parole di RO-
MANO, A., Interessi «individuali» e tutela giurisdizionale amministrativa, cit., p. 271, (ma nello
stesso senso cfr. anche ID., Giurisdizione amministrativa e limiti della giurisdizione ordinaria,
Milano, 1975, p. 312) che al riguardo, nell’auspicare una concezione più ampia di «interesse
individuale», afferma: «nei testi normativi, nulla sta di scritto, sembra che impedisca simili
evoluzioni interpretative. Niente di queste non è ricomprensibile nella formula “… interessi
d’individui o di enti morali giuridici”. Il giudice amministrativo, dunque, non incontrerebbe
ostacoli a muoversi secondo le direttrici indicate; o meglio, incontrerebbe solo gli ostacoli dei
propri precedenti». Diversamente nel processo civile, in cui attribuire il medesimo ruolo alla
giurisprudenza assume contorni ben diversi. Nel processo amministrativo, infatti, l’offrire tu-
tela agli interessi sovraindividuali costituisce un’operazione che incide essenzialmente sul
fronte della legittimazione ad agire. Nel processo civile, invece, la medesima operazione si
concreta innanzitutto nella creazione e nell’imposizione di obblighi, ovverosia nella creazione
di nuovi precetti sostanziali che vincolano soggetti in ordine alla tutela di nuovi interessi
prima non giuridicamente rilevanti e degni di protezione. Si pensi, per esemplificare, ai risul-
tati che la giurisprudenza amministrativa ha conseguito sul fronte della tutela degli interessi
sovraindividuali anche in assenza di interventi del legislatore (cfr. le decisioni citate infra, nota
94, tra cui, in particolar modo la decisione dell’Adunanza plenaria del 1979); legislatore, che,
allorquando ha regolamentato con legge settori rilevanti della materia in esame, come quello
ad esempio della tutela dell’ambiente, ha introdotto un’ipotesi di legittimazione ex lege che è
andata per l’appunto sovrapponendosi, sebbene con tutte le delicate questioni interpretative
ivi connesse, ai criteri giurisprudenziali già consolidatesi (sul punto v. ancora la giurispru-
denza citata infra, nota 95, con particolare riguardo all’orientamento teso a ritenere mera-
mente integrativi i criteri di legittimazione prima previsti dalla legge n. 349/86 rispetto al c.d.
requisito della vicinitas). In materia civile, invece, l’innovazione legislativa ha costituito il vei-
colo necessario, prima che per consentire il controllo di attività private da parte di un numero
maggiore di interessati, in primo luogo per sottoporre dette attività a vincoli di condotta giu-
ridicamente rilevanti (cfr. la tutela dell’ambiente e del consumatore in particolare). Mentre,
anteriormente a tali interventi di normazione positiva, i medesimi valori giuridici hanno ten-
tato di trovare varchi di tutela cercando di piegare a proprio vantaggio rimedi palesemente
concepiti non tanto per tutelare cerchie ristrette e non estese di interessati, quanto beni giu-
ridici di contenuto differente (cfr. infra, nota 94, la paradigmatica giurisprudenza sul diritto
all’ambiente salubre o le letture interpretative evolutive in materia di immissioni ex art. 844
c.c., su cui amplius, v. infra, cap. IX, 2.2.). All’interno della dottrina processualcivilistica la
funzione di «supplenza giudiziale» è rimarcata da DENTI, V., Interessi diffusi, cit., p. 307 ss.,
ID., Profili civilistici della tutela degli interessi diffusi, cit., p. 52, sebbene talora in riferimento
al processo amministrativo; non è un caso infatti che l’A., per un verso, richiami l’attenzione
degli studiosi sulle diversità strutturali del processo amministrativo rispetto a quello civile e,
riguardo a quest’ultimo, invochi un intervento di riforma legislativa. In un contesto più gene-
rale e generico, v. invece ZANUTTIGH, L., Intervento, cit., 321-322; RAPISARDA, C., Bilancio e
prospettive della tutela degli interessi diffusi negli anni ottanta (note in margine ad un recente
convegno), in Foro it., 1982, V, p. 86 ss., ma spec. 92.
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 195

La massima chiarezza su questa diversa prospettiva è essenziale per


ben comprendere l’animus dei due diversi itinerari di studio e per potersi
avvantaggiare con maggior consapevolezza dei risultati che derivano
dalla comparazione dei medesimi.
Fatte, dunque, le debite precisazioni sulle diverse prospettive rico-
struttive che talora contraddistinguono i singoli contributi, si può final-
mente volgere lo sguardo verso le questioni più propriamente giuridiche
che la dottrina ha dovuto risolvere nell’ideazione di un modello di tutela
giurisdizionale precipuamente rivolto ad offrire protezione agli interessi
sovraindividuali. E le questioni che maggiormente hanno attratto l’atten-
zione degli studiosi sono state grosso modo tre: la migliore configura-
zione dogmatica dei nuovi strumenti di tutela, la corretta individuazione
dei legittimati ad agire, il trattamento processuale della controversia con
particolare riferimento al problema dei limiti soggettivi del giudicato.
Chiaramente tutti e tre gli argomenti di studio si sono rilevati solo in
parte distinguibili o isolabili l’uno dall’altro, risultando al contrario cia-
scuno di essi uno specifico aspetto di un fenomeno globale più com-
plesso, in gran parte determinato – peraltro – dalla configurazione so-
stanziale assegnata all’interesse tutelando.
In altri termini, le diverse strade prospettate dalla dottrina per giuri-
dicizzare gli interessi sovraindividuali sono apparse – seppur tendenzial-
mente – la necessaria conseguenza logico-giuridica dell’accoglimento di
una certa nozione di interesse sovraindividuale.
Ciò, da un lato, contribuisce a dare ulteriore risalto e importanza al-
l’opera di determinazione del concetto di interesse sovraindividuale e, dal-
l’altro, induce chi scrive a ritenere quale strada più corretta per impostare
l’esposizione delle diverse teorie proprio quella che meglio delle altre evi-
denzi il condizionamento che il concetto di interesse sovraindividuale pre-
scelto ha svolto nelle soluzioni tecnico-giuridiche adottate.

3.3. La giuridicizzazione degli interessi sovraindividuali per coloro che con-


figurano i medesimi come insieme di più interessi individuali
3.3.1. La configurazione sostanziale
3.3.1.1. La tesi dominate: riconducibilità degli interessi (sovra-)indivi-
duali alle figure del diritto soggettivo o dell’interesse legittimo. – Come è
emerso dall’analisi delle differenti concezioni dell’interesse sovraindivi-
duale proposte dalla dottrina, è ben possibile orientarsi all’interno del di-
battito in materia contrapponendo le tesi moniste a quelle dualiste, ov-
196 CAPITOLO TERZO

vero a quelle propense a distinguere tra interessi collettivi e diffusi. Si è


inoltre osservato come secondo questo orientamento, la partogenesi delle
due categorie all’interno dell’ampio genus degli interessi sovraindividuali
possa essere il frutto dell’applicazione di criteri discretivi soggettivi o og-
gettivi; ma si è anche rilevato, che, al di là di questa consuetudinaria
summa divisio, possa ravvisarsi una certa affinità strutturale tra le opi-
nioni che, appartenendo o alla tesi monista o a quella dualista oggettiva,
descrivono l’interesse sovraindividuale (collettivo o diffuso che sia) come
un aggregato, un fascio, un insieme di più interessi individuali ugual-
mente orientati (ossia di uguale contenuto) verso un unico bene, idoneo
a realizzare il compatibile soddisfacimento di tutte le aspirazioni (bene
collettivo).
Ora, se si prende come riferimento quest’ultima modalità rappre-
sentativa dell’interesse sovraindividuale, vi si può facilmente contrap-
porre una opposta concezione che tende a raffigurarlo in una dimensione
unitaria ed inscindibile87.
Sul punto credo non si debba insistere molto, visto che l’alternativa
ricostruttiva è nota al lettore sin dai primi capitoli di questo lavoro, rap-
presentando in effetti un leitmotiv del dibattito in materia di interessi
lato sensu collettivi. Nemmeno credo si debba per il momento eviden-
ziare come a questa seconda lettura si giunga sovente attribuendo al mo-
mento organizzatorio una particolare efficacia conformativa dell’inte-
resse. Il punto è già stato trattato addietro e ulteriori e definitive precisa-
zioni verranno oltre.
Ora, invece, preme rilevare l’influenza che questa alternativa rico-
struttiva ha svolto sulla scelta delle diverse opzioni di ricostruzione giu-
ridica88.

87 Tra gli AA. che giustamente evidenziano questa duplice possibilità di raffigurazione,
nella fase storica più recente, cfr. innanzitutto NIGRO, M., Le due facce dell’interesse diffuso,
cit., p. 7 ss., la cui posizione è nel dettaglio presa in esame infra, nota 93; ma v. anche, SCOCA,
F.G., Interessi protetti (dir. amm.), cit., p. 15; ID., Contributo sulla figura dell’interesse legit-
timo, cit., p. 46; e più, di recente, LANFRANCHI, L., Le animulae vagulae blandulae e l’altra fac-
cia della luna, cit., p. XXII.
88 Come vedremo nelle pagine che seguono, la dottrina maggiormente propensa a per-

cepire la natura non esclusivamente ma anche individuale dell’interesse, tende a riconoscere


una posizione di azionabilità dell’interesse stesso in capo al singolo o mediante l’attribuzione
ad esso di un diritto soggettivo o interesse legittimo o mediante un regime di azione popolare.
Vi sono degli AA., peraltro, che, pur percependo chiaramente la natura anche individuale
dell’interesse, altrettanto chiaramente evidenziano le diverse ed alternative vie di giuridicizza-
zione dell’interesse che – pertanto – può essere imputato dal diritto anche ad un soggetto di-
verso dal titolare ed in particolare all’ente rappresentativo: v., sul punto, le chiarissime osser-
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 197

Se, infatti, si osservano le strade imboccate da coloro che intendono


l’interesse sovraindividuale come un ampio insieme di più interessi indi-
viduali ugualmente orientati, è ben possibile apprezzare una tendenza ri-
costruttiva volta a configurare gli interessi protetti, a seconda delle aree
di afferenza, come diritti soggettivi o interessi legittimi89.

vazioni di Aldo Sandulli (v. retro, nota 59) o di Angiuli (v. infra, nota 123). Già diversamente
accade in Fazzalari (v. infra, § 3.4.1.3.1.). Anche nella opinione presentata dall’autorevole
dottrina ora menzionata, è chiara la distinzione tra, da un lato, il piano meramente fattuale e
pregiuridico e, dall’altro, il piano della giuridicizzazione, ma, in assenza di ulteriori precisa-
zioni, la necessità giuridica di soggettivare l’interesse tutelato unicamente mediante l’imputa-
zione dell’interesse sovraindividuale ad un ente portatore, in realtà sembra mascherare una
concezione sostanzialmente asoggettiva del preesistente interesse materiale (su questo punto,
v. retro, nota 62).
89 Ammessa la possibilità di configurare gli interessi sovraindividuali in termini di inte-

ressi giuridicamente rilevanti e protetti, parte della dottrina civilistica e processualcivilistica


riconduce tali interessi ai tradizionali diritti soggettivi individuali. Cfr. COSTANTINO, G., Brevi
note sulla tutela giurisdizionale degli interessi collettivi davanti al giudice civile, cit., p. 231 ss.
(di cui, peraltro, v. di recente ID., Note sulle tecniche di tutela collettiva - disegni di legge sulla
tutela del risparmio e dei consumatori, in Riv. dir. proc., 2004, p. 1009 ss., ma spec. p. 1029 s.,
ove l’interesse tutelato dalle azioni nominate previste dal nostro ordinamento in materia di re-
pressione della condotta antisindacale, concorrenza sleale, danno ambientale ecc., è l’«inte-
resse istituzionale» dell’associazione legittimata ex lege); PROTO PISANI, A., Appunti prelimi-
nari per uno studio sulla tutela giurisdizionale degli interessi collettivi, cit., p. 263 ss., ma più
nettamente in Nuovi diritti e tecniche di tutela, cit., p. 241 ss.; CORASANITI, A., La tutela degli
interessi diffusi davanti al giudice ordinario, cit., p. 183 ss.; ID., Interessi diffusi, cit., p. 428 ss.;
GABRIELLI, E., Appunti su diritti soggettivi, interessi legittimi, interessi collettivi, cit., p. 993 ss.;
RUSSO, E., Interessi diffusi e teoria delle situazioni soggettive, cit., p. 796 ss.; BORGHESI, D.,
Azione popolare, interessi diffusi e diritto all’informazione, in Pol. dir., 1985, p. 259 ss., ma
spec. p. 275. Di recente, LANFRANCHI, L., Le animulae vagulae blandulae e l’altra faccia della
luna, cit., spec. p. XXV, in cui si esclude la plausibilità della ricostruzione degli strumenti di
tutela degli interessi sovraindividuali come eventuale tertium genus da tenere distinto dagli di-
ritti soggettivi o dagli interessi legittimi; e ciò a fronte di una disciplina legale ordinaria e co-
stituzionale inequivocabile sul punto. Cfr. anche le osservazioni avanzate dalla dottrina ora ri-
portata già in riferimento all’art. 28 dello Statuto del lavoratori (ID., Situazioni giuridiche in-
dividuali a rilevanza collettiva ed attuazione della condanna alla reintegrazione del lavoratore,
cit., p. 351); occasione in cui si rilevava l’opportunità di rinunciare «ad una eccessiva enfatiz-
zazione degli interessi collettivi in senso proprio […] scrutinando con maggiore attenzione se
veramente, in taluni settori dell’esperienza giuridica, d’interessi collettivi in senso proprio si
tratti, o non piuttosto di altre situazioni sostanziali». Come è naturale, in posizione critica alla
dottrina appena indicata si collocano, in particolare, tutte quelle posizioni che accolgono la
natura lato sensu oggettiva dell’interesse sovraindividuale, su cui v. infra, § 3.4. Le osserva-
zioni critiche al riguardo più significative appaiono, peraltro, le seguenti. Per ciò che riguarda
il processo civile, v. ALPA, G., Interessi diffusi, cit., p. 609, per il quale «non avrebbe senso
parlare di interesse diffuso se esso si identificasse con il diritto soggettivo: categoria ormai
troppo connotata, anche se non meno complessa nella storia e nella definizione; questo acco-
stamento può essere ricondotto alla tendenza classificatrice di quanti rifuggono dal consen-
198 CAPITOLO TERZO

Le strutture giuridiche invocate a dare protezione ai nuovi interessi


sarebbero in un certo senso quelle tradizionali, sebbene talora debita-
mente aggiornate e sviluppate per far sì che le vesti formali si adattino
senza far grinze ai nuovi contenuti.
Preziosi spunti si sono ad esempio avuti all’interno della dottrina ci-
vilistica che ha sapientemente indicato la necessità di porre da parte una

tire la individuazione di componenti o figure simili e così autonome da sfuggire all’assorbi-


mento nei modelli più collaudati e tutto sommato più tranquillanti, che ci derivano dalla tra-
dizione ottocentesca»; LENER, A., Violazione di norme di condotta e tutela civile dell’interesse
all’ambiente, cit., p. 116, per il quale gli interessi collettivi sembrerebbero apparire come in-
teressi non «personalizzati» sulla scorta della possibilità, ammessa dal diritto civile, che non
sempre a fronte di una norma di condotta corrispondano diritti soggettivi; di recente, v. CAR-
RATTA, A., Profili processuali della tutela degli interessi collettivi e diffusi, cit., p. 102 ss., che in
particolare nega la riconduzione degli interessi sovraindividuali alla figura dei diritti sogget-
tivi tanto individuali, che plurisoggettivi (ma sul punto v. anche infra, note 110 e 152), rile-
vando, sulla scorta di osservazioni di Taruffo e Grasso, come a questa configurazione ostino
diverse circostanze; ed in particolare, oltre all’indeterminatezza o indeterminabilità dei singoli
appartenenti alla categoria interessata: a) la distinzione all’interno del nostro ordinamento, a
livello di disposizione costituzionale (cfr. art. 32 Cost.) tra diritto fondamentale dell’individuo
e «interesse della collettività»; b) la configurabilità, in virtù delle direttive comunitarie (cfr.
dir. 98/27/CE) di interessi collettivi non ricomprendenti «la somma degli interessi individuali
lesi»; c) l’impossibilità di offrire adeguata tutela giurisdizionale agli interessi collettivi e diffusi
secondo le forme di tutela dei diritti soggettivi tradizionali; d) le difficoltà del singolo inte-
ressato ad attivarsi tempestivamente ai fini dell’ottenimento di una tutela preventiva piuttosto
che solamente repressiva o risarcitoria; e) la non convenienza del singolo ad attivare, alla luce
dell’esiguità eventuale del danno subito, una tutela giurisdizionale a fini unicamente risarci-
tori; f) la consapevolezza che la tutela degli interessi diffusi è rivolta anche a favore delle ge-
nerazioni future e non solo dei soggetti individualmente interessati in un dato momento sto-
rico. All’interno della dottrina amministrativistica, in senso favorevole all’accoglimento degli
interessi sovraindividuali – specie diffusi – all’interno della categoria dogmatica dell’interesse
legittimo, sulla scorta dell’osservazione che un interesse, per il semplice fatto che possa ine-
rire ad un ampio novero di soggetti non perda il proprio carattere individuale-personale, v.,
sebbene all’interno di prospettive dotate ciascuna di propria originalità, SCOCA, F.G., La tu-
tela degli interessi collettivi nel processo amministrativo, cit., spec. p. 70 s.; CARAVITA, B., Inte-
ressi diffusi e collettivi, cit., p. 196 ss.; DELFINO, F., Ambiente, interessi «diffusi» e tutela giuri-
sdizionale, in Dem. soc., 1980, p. 629 ss., ma spec. p. 634 ss.; PIRAINO, S., L’interesse diffuso
nella tematica degli interessi giuridicamente protetti, cit., p. 219 in nota; ID., L’azione nel pro-
cesso amministrativo, Milano, 1981, 170 s.; CERRI, A., Interessi diffusi, interessi comuni -
Azione e difesa, cit., p. 90 s.; COLACINO, L., Alcune notazioni ricostruttive in tema di interesse
legittimo, interesse diffuso e interesse collettivo, cit., p. 1098; NIGRO, M., Le due facce dell’in-
teresse diffuso, cit., spec. p. 17; ID., Il nodo della partecipazione, cit., p. 233; ID., Procedimento
amministrativo e tutela giurisdizionale contro la pubblica amministrazione, Il problema di una
legge generale sul procedimento amministrativo, in Riv. dir. proc., 1980, p. 253 ss.; ID., Giusti-
zia amministrativa, cit., p. 108 ss.; FEDERICI, R., Gli interessi diffusi, cit., p. 19 ss., 40 e 41, e
poi 151; CRESTI, M., Contributo allo studio della tutela degli interessi diffusi, cit., p. 83 s.; VER-
BARI, G.B., Principi di diritto processuale amministrativo, cit., p. 165 ss.
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 199

nozione unitaria di diritto soggettivo a vantaggio dell’affermazione di un


ampio novero di situazioni sostanziali protette, in particolare eviden-
ziando l’opportunità di introdurre nella categoria delle situazioni sogget-
tive il «concetto di intensità» della tutela giuridica, individuando di volta
in volta, all’interno di connotati comuni generalissimi, gli specifici pre-
supposti (oggettivi e soggettivi) al ricorrere dei quali è concessa la tutela
ed i limiti entro i quali questa è concessa90. Mentre altri hanno opportu-
namente rilevato come «i caratteri di collettività e persino di diffusione,
che si presentano allorché sia configurabile una pluralità di interessi di
eguale contenuto in ordine ad un medesimo ambito di utilità, non sono
assolutamente incompatibili con l’individualizzazione immanente alla
struttura del diritto soggettivo»91.
Sicuramente però, la necessità di ricorrere alle figure tradizionali at-
traverso un necessario adeguamento delle stesse è stata avvertita con
maggiore intensità in riferimento al processo amministrativo.
Qui, tanto la dottrina, quanto la giurisprudenza, nel ricondurre i
nuovi interessi alla categoria dell’interesse legittimo, hanno gioco forza
dovuto orientarsi nel senso di un superamento o di una rimodulazione
della concezione dogmatica della nozione, recuperando un dibattito risa-
lente. Hanno in altri termini dovuto fare i conti con un processo ammi-
nistrativo ispirato per tradizione al fondamentale principio, poc’anzi ri-
chiamato, della esclusiva tutelabilità giurisdizionale degli interessi sostan-
ziali differenziati, qualificati e personali92.
In dottrina, ad esempio, a fronte di posizioni sostenenti la perfetta
antinomia concettuale e logica tra interesse legittimo e interessi sovrain-
dividuali, in particolar modo diffusi, autorevoli voci hanno rilevato come

90 Per tutti, v. RUSSO, E., Interessi diffusi e teoria delle situazioni soggettive, cit., p. 796

ss., che in un certo senso si spinge anche oltre, rimarcando l’opportunità di prendere atto del
«passaggio, per la tutela di certi interessi, da un sistema fondato sul diritto soggettivo o su un
interesse qualificato, ad un sistema di actiones». In una prospettiva assimilabile, di recente, v.
GENTILI, A., A proposito de «il diritto soggettivo», in Riv. dir. civ., 2004, p. 351 ss., ma spec.
362 s., in cui l’A. spezza una lancia a favore di un ordinamento costruito non più attorno ai
diritti soggettivi ma ai «rimedi» (c.d. diritto rimediale). Sulla questione v. comunque infra,
cap. V. Occorre inoltre ricordare come questa via interpretativa sia stata seguita anche dalla
Corte di cassazione nelle famose decisioni emesse in sede di regolamento di giurisdizione nel
corso del 1979, richiamate in questo cap. infra, nota 94 ed esaminate nel cap. IX, § 2.2.
91 Sono le osservazioni di CORASANITI, A., Profili generali di tutela giurisdizionale contro

il danno ecologico, in La responsabilità dell’impresa per danni all’ambiente e ai consumatori,


Milano, 1978, p. 40 ss., ma cit., p. 47, sul cui pensiero, per ulteriori riferimenti, v. anche il
cap. IX, § 2.2.
92 Cfr. le decisioni riportate infra.
200 CAPITOLO TERZO

la nozione tradizionale di interesse legittimo sia il frutto – storicamente


datato e storicamente spiegabile, in virtù delle dominanti concezioni del-
l’ordinamento – dell’interpretazione giurisprudenziale e dottrinale di una
formula legislativa in realtà priva di vincoli ostativi riguardanti auspica-
bili opzioni di aggiornamento capaci di accogliere al loro interno inte-
ressi non esclusivi ma di certo comunque individuali 93.

93 Il presupposto di partenza in virtù del quale opera la dottrina amministrativistica fa-

vorevole alla riconduzione dei nuovi interessi all’interno della nozione di interesse legittimo
opportunamente rivisitata è il valore storico della interpretazione dominante: cfr., sul punto,
oltre all’opinione di Romano (che però preferisce optare per soluzioni alternative all’amplia-
mento dei margini concettuali dell’interesse legittimo; cfr. infra, nota 97), quella di SCOCA,
F.G., La tutela degli interessi collettivi nel processo amministrativo, cit., p. 60 e CERRI, A., In-
teressi diffusi, interessi comuni, cit., p. 90 s.; autorevoli opinioni, quest’ultime ricordate, con-
cordi nel ritenere tutt’altro che incompatibile il requisito della differenziazione dell’interesse
con il fenomeno degli interessi diffusi ed ugualmente concordi nel ritenere non richiesto dalla
legge l’ulteriore requisito di esclusività dell’interesse stesso. Sul punto, v. anche le consimili
osservazioni di NIGRO, M., Le due facce dell’interesse diffuso, cit., p. 18, la cui posizione, pe-
raltro, spicca per la lucidità e la chiarezza con cui è evidenziata la duplice configurazione del-
l’interesse sovraindividuale a seconda della propensione mentale coltivata: ossia la possibilità
di massimizzare la dimensione diffusa, dispersiva, sociale dell’interesse oppure, alternativa-
mente, cogliendo l’irriducibile individualità dell’interesse pur nella sua ripetibilità in capo a
più soggetti. Con particolare chiarezza Nigro riconosce come seguendo la prima direzione
l’interesse diffuso appaia «una realtà statica unica e compatta», «un’entità oggettiva». Così
operando – osserva figurativamente l’A. – «interno all’interesse diffuso si stringe un cerchio
di isolamento e di impenetrabilità che […] è insuperabile». Secondo questo modello si orien-
terebbero, dunque, le tesi per le quali la soglia della giustiziabilità dell’interesse è varcata con
l’imputazione ad una formazione sociale legittimata a richiederne tutela. Secondo questa linea
interpretativa, infatti, l’ente rappresentativo avrebbe la funzione di dotare di struttura l’inte-
resse diffuso (il riferimento è chiaramente alla definizione di Berti), favorendo – per mezzo di
questa «mutazione genetica» – la necessaria soggettivazione dell’interesse, la trasformazione
«qualitativa» e non «quantitativa» in virtù della quale l’interesse diffuso «diventa totalmente
ed esclusivamente un interesse collettivo». Con la conseguenza che, stando a questa ricostru-
zione votata all’«ideologia del controllo sociale», sebbene la trasfigurazione dell’interesse dif-
fuso in collettivo attribuisca una struttura capace di traghettare l’interesse all’interno del pro-
cesso, «quella struttura di cui per definizione manca in generale, viene acquistata non dall’in-
tera fascia degli interessi diffusi del settore considerato ma da quelle parti di esso alle quali si
riconosce “la condensazione” in formazioni sociali». Osserva, al contrario, Nigro come «la
adeguata considerazione del profilo soggettivo dell’interesse diffuso indirizzerebbe così, in
via astratta, […] verso un modello totalmente diverso […] che ha al suo centro appunto il
soggetto (soggetti) titolari (titolari) dell’interesse al quale l’interesse pertiene come “proprio”,
come “personale”. Niente (sempre in via di principio) strutture intermedie e intermediarie,
niente interessi sostitutivi (come sono quelli collettivi). La “individualità” dell’interesse ne fa
un interesse legittimo di tipo puro e comporta la tutelabilità piena di esso avanti la giustizia
amministrativa». Sul punto, v. anche ID., Il nodo della partecipazione, cit., p. 233, in cui l’A.
evidenzia tutti i tratti dell’interesse diffuso che conducono a coglierne l’essenza intimamente
individuale. Si afferma, infatti: «al massimo della dispersione – si intende quella propria degli
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 201

D’altra parte, anche all’interno della giurisprudenza amministrativa


si sono riscontrate decisioni che si sono orientate nella prospettiva rico-

interessi diffusi – viene allora a corrispondere il massimo della vigenza, e può così accadere
che, mentre ci accingiamo a negare, per la sua diffusione e diluizione, rilevanza specifica e im-
putabilità soggettiva ad un interesse, ci accorgiamo che da questa sua massima diffusione,
dalla sua inerenza alla essenza “umana” dei soggetti deriva all’interesse una riferibilità imme-
diata e necessaria all’uomo come tale nella sua assoluta e gelosa singolarità, la quale giustifica
invece l’attribuzione ad esso interesse del massimo grado di soggettivazione». La complessa
posizione dell’A. vede comunque la natura individuale degli interessi diffusi come uno solo
degli elementi su cui basarsi per risolvere il problema della tutela giurisdizionale di questa
particolare tipologia di interessi. Particolare peso, infatti, per giungere alla definitiva giuridi-
cizzazione dei medesimi hanno ulteriori due considerazioni in stretta interdipendenza tra
loro: in primis il carattere dialettico dell’interesse diffuso e in secundis l’aspirazione parteci-
patoria che ad esso va ricollegata. In questa prospettiva, né la legittimazione sempre diffusa,
né la legittimazione concentrata nell’ente esponenziale costituiscono la soluzione privilegiata
(su questo profilo, v. in particolare NIGRO, M., Procedimento amministrativo e tutela giurisdi-
zionale contro la pubblica amministrazione, cit., p. 267, da cui è tratta la citazione che segue;
ID., Giustizia amministrativa, cit., p. 108 ss.), che al contrario viene ravvisata in una opzione
più elastica, rappresentata dall’attribuire al procedimento amministrativo, in virtù del suo
ruolo «immediatamente strumentale» nei confronti del processo giurisdizionale, il compito di
operare «come sede di prima coagulazione degli interessi diffusi». «È nel procedimento, in-
fatti, che gli interessi rivelano la loro consistenza, il loro valore, il loro fondamento normativo
e prendono, per così dire, grado nella scala delle aspirazione alla tutela giurisdizionale. Per
tali interessi, la tutela procedimentale non è solo l’anticamera della tutela giurisdizionale, ma
addirittura il luogo di acquisto della legittimazione stessa». Per la giurisprudenza presentata
a favore di questa opzione interpretativa, anche dopo l’introduzione dell’art. 9 della legge
241/90 (per il quale «qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, nonché i
portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiu-
dizio dal provvedimento, hanno facoltà di intervenire nel procedimento») si tenga presente
un isolato gruppo di pronunce (Tar Lazio, sez. II, 22 aprile 1992, n. 433, in Cons. St., 1992,
I, p. 1838 ss., in TAR, 1992, I, p. 1838; Tar Veneto, sez. I, 16 dicembre 1998, n. 2509, in Ra-
giusan, 2000, p. 189), a cui si contrappone un ampio filone giurisprudenziale contrario (Cons.
St., Ad. gen., 19 febbraio 1987, n. 7, in Foro it., 1988, III, p. 22 ss.; Cons. St., sez. IV, 4 set-
tembre 1992, n. 724, in Foro amm., 1992, p. 1857 ss.; in Cons. St., 1992, I, p. 1042; Tar Friuli-
Venezia Giulia, 30 ottobre 1993, n. 541, in Cons. St., 1993, I, p. 4561; Tar Lazio, sez. II, 1
agosto 1995, n. 1474, in TAR, 1995, I, p. 3456; Tar Umbria, 19 agosto 1996, n. 304, in Giur.
merito, 1996, p. 366 ss.; Cons. St., sez. VI, 12 aprile 2000, n. 2185, in Foro amm., 2000, p.
1364; in Giur. it., 2000, p. 1945; in Urb. e app., 2000, p. 751 ss.; in Vita notar., 2000, p. 832;
Tar Veneto, 20 dicembre 1999, n. 2479, in TAR, 2000, I, p. 695 ss.; Cons. St., sez. IV, 22
marzo 2001, n. 1683, in Foro amm., CDS, 2001, p. 399; Cons. St., sez. IV, 29 agosto 2002, n.
4343, in Foro amm., CDS, 2002, p. 1672; Cons. St., sez. VI, 1 febbraio 2007, n. 416, in Foro
amm., CDS, 2007, p. 586). Diversamente per quel che attiene alla partecipazione c.d. orga-
nica, ovvero la cooptazione normativa dei rappresentanti degli enti esponenziali all’interno di
organismi amministrativi titolari di attribuzioni in materia di beni collettivi, questione rite-
nuta dalla giurisprudenza costante sufficiente ai fini della qualificazione dell’interesse e del
conseguente riconoscimento in capo all’ente della legittimazione ad agire per l’annullamento
dell’atto: cfr. Cons St., Ad. plen., 19 ottobre 1979, n. 24, in Foro it., 1980, III, p. 1 ss., con
202 CAPITOLO TERZO

struttiva or ora accennata, suscitando vasta eco all’interno del dibattito in


materia.

nota di A. Romano; in Le regioni, 1980, p. 733 ss., con nota di BERTI, G., La legge tutela l’in-
teresse diffuso, ma il giudice ne ricava un interesse individuale; Tar Lazio, sez. III, 4 ottobre
1980, n. 850, in TAR, 1980, I, p. 3806; Cons. St., sez. VI, 8 maggio 1981, n. 192, in Giur. it.,
1982, III, 1, p. 9 ss.; in Foro amm., 1981, I, p. 1110; in Cons. St., 1981, I, p. 552; Cons. St.,
sez. VI, 27 agosto 1982, n. 407, in Cons. St., 1982, I, p. 1103; Tar Friuli-Venezia Giulia, 22
marzo 1984, n. 91, in Foro it., 1985, III, p. 197 ss.; Cons. St., sez. VI, 16 maggio 1986, n. 486,
in Cons. St., 1986, I, p. 935; Cons. St., sez. VI, 7 luglio 1986, n. 491, in Foro amm., 1986, p.
1367; Cons. St., sez. V, 19 aprile 1994, n. 302, in Foro amm., 1994, p. 800; per ulteriori ap-
profondimenti, v. comunque FERRARA, R., Commentario breve alle leggi sulla giustizia ammi-
nistrativa, cit., p. 370 ss.; ID., Interessi collettivi e diffusi, cit., p. 491 ss. Volgendo nuovamente
lo sguardo alla dottrina, invece, una prospettiva affine a quella di Mario Nigro si rinviene
nello studio di CRESTI, M., Contributo allo studio della tutela degli interessi diffusi, cit., spec.
p. 91 ss., in cui appunto la premessa da cui muovere è costituita dalla più volte rilevata crisi
della nozione di interesse pubblico «da intendersi oggi non più come interesse riferito alla
pubblica amministrazione, completamente estraneo alla sfera giuridica dei cittadini, ma come
valore che emerge da una armonizzazione di tutti gli interessi in qualche modo coinvolti dal-
l’azione pubblica» (p. 85 e 93). Da ciò, infatti, deriverebbero nell’opinione dell’A. varie con-
seguenze. La prima è il tipico rapporto che intercorre tra interesse diffuso e interesse pub-
blico, in quanto l’interesse diffuso si presenta «come componente dell’interesse pubblico,
come interesse che emerge all’interno del processo diretto alla individuazione ed alla realiz-
zazione di quest’ultimo» (p. 93). In sostanza secondo Cresti l’interesse diffuso si porrebbe ri-
spetto l’interesse pubblico, non in termini di contrapposizione, come i tradizionali interessi so-
stanziali tutelati in via di interesse legittimo, destinati ad essere sacrificati dall’azione ammini-
strativa, salvo l’inosservanza dei limiti imposti dalla legge all’esercizio del potere, ma di
collaborazione, ossia in posizione funzionale alla sua individuazione e determinazione (spec.
p. 94, 111, 124-125). Ulteriori conseguenze sarebbero, quindi, non tanto la «trasformazione
del principio di imparzialità» quanto piuttosto il suo stesso superamento, dovuto alla «pre-
senza infatti di un’attività non tanto di comparazione di un interesse primario con gli interessi
sociali coinvolti nella sua attuazione, ma di definizione stessa dei fini da perseguire» (p. 121;
c.vo mio). Il particolare rapporto di collaborazione tra interessi diffusi e interesse pubblico
porterebbe con sé, infine, come conseguenza determinate la valorizzazione del momento
della partecipazione al procedimento amministrativo da parte dei titolari dell’interesse dif-
fuso. «L’esperienza del processo amministrativo – osserva, infatti, Cresti – ha dimostrato […]
che la possibilità di un effettivo ed incisivo sindacato da parte del giudice è in buona misura
legata alle garanzie offerte sul piano sostanziale al titolare dell’interesse; garanzie che si con-
cretano anzitutto nell’intervento di questo soggetto nel procedimento amministrativo» (p.
126). La conclusione a cui giunge l’A. è dunque la seguente: mentre nel processo posto a tu-
tela di posizioni individuali, il giudizio tende sempre ad una effettiva tutela dell’interesse ma-
teriale del ricorrente, sebbene in via mediata, ovvero attraverso l’accertamento delle regole e
dei criteri secondo cui deve svolgersi in sede procedimentale il confronto tra autorità ed am-
ministrato, il giudizio a tutela degli interessi diffusi «è volto non alla realizzazione dell’inte-
resse materiale fatto valere dal ricorrente, ma alla individuazione di regole di carattere proce-
dimentale, secondo cui deve avvenire la comparazione dei diversi interessi coinvolti dalle
scelte dell’amministrazione. Regole che non si riferiscono agli aspetti formali del procedi-
mento, ma tendono invece ad assicurare che l’istruttoria sia completa, nel senso che l’ammi-
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 203

E a tal proposito non si può che rinviare alla decisione dell’Adu-


nanza plenaria del Consiglio di Stato del 1979 emessa in materia di tutela
di interessi ambientali94.

nistrazione pervenga alla individuazione della misura da adottare sulla base di una valuta-
zione comparativa delle diverse alternative cui i fatti in esame possono dar luogo» (p. 164).
Come nell’impostazione di Cresti, viene assegnato autonomo rilevo logico-giuridico agli inte-
ressi diffusi rispetto agli interessi tradizionalmente riconducibili alla figura dell’interesse le-
gittimo da ROTA, R., Gli interessi diffusi nell’azione della pubblica amministrazione, cit., spec.
p. 49 ss., per la quale (p. 55) «la situazione giuridica di interesse diffuso, distinta dalle situa-
zioni giuridiche di diritto soggettivo e interesse legittimo con riguardo all’ambito non solo
soggettivo ma anche funzionale, si configura invece allorché, di fronte ad una scelta della
P.A:, un soggetto privato o un ente esponenziale portatore di interessi generali intenda con-
testare il merito di detta azione». Diversa impostazione si trova, poi, più di recente, in VER-
BARI, G.B., Principi di diritto processuale amministrativo, cit., p. 165 ss., secondo cui il pro-
blema della tutela degli interessi diffusi deve essere impostato – in sintesi – negli stessi termini
in cui in ambito civilistico è stato risolto il problema dei diritti della personalità, ossia tute-
lando all’interno della veste giuridica dell’interesse legittimo quegli stessi interessi della per-
sonalità che mirano a tutelare un bene della vita che inerisce alla persona medesima e ai suoi
valori morali e sociali.
94 Cons. St., Ad. plen., 19 ottobre 1979, n. 24, cit. Il caso traeva origine dal ricorso pro-

posto da «Italia nostra» avverso il nulla osta rilasciato dalla Sopraintendenza ai monumenti
per l’Abruzzo e il Molise per la costruzione di una seggiovia in località – il Parco Nazionale
d’Abruzzo – soggetta a vincolo paesaggistico. Rigettato il ricorso da parte del TAR, la Sesta
sezione del Consiglio di Stato, chiamata a giudicare in sede di appello, con ordinanza rimet-
teva la questione all’Adunanza plenaria (in Foro it., 1977, III, p. 65). Allo stesso modello di
tutela va ricondotta anche la giurisprudenza della Corte di cassazione concretatasi in sede di
regolamento di giurisdizione in materia di interessi ambientali e rivolta a configurare i mede-
simi alternativamente, a seconda delle aree di afferenza, o come diritti soggettivi, o come in-
teressi legittimi. Al primo ambito devono essere ricondotte innanzitutto Cass., S.U., 9 marzo
1979, n. 1463 (in Giust. civ., 1979, I, p. 764 ss., con nota di POSTIGLIONE, A., Localizzazione
di centrali nucleari e tutela della salute e dell’ambiente e di PIGA, F., Diritti soggettivi, interessi
legittimi, interessi diffusi e tutela giurisdizionale, p. 703 ss.; in Giur. it., 1979, I, 1, p. 1493, con
nota di MONTESANO, L., Sulla tutela giurisdizionale degli «interessi diffusi» e sul difetto di giu-
risdizione per «improponibilità della domanda», in Riv. dir. proc., 1979, p. 720 ss., con nota di
ZANUTTIGH, L., Diritto all’ambiente e tutela giurisdizionale) e Cass., S.U., 6 ottobre 1979, n.
5172 (in Giur. it., 1980, I, 1, p. 464 ss., con note a p. 859 ss. di PATTI, S., Diritto all’ambiente
e tutela della persona e SALVI, C., La tutela civile dell’ambiente: diritto individuale o interesse
collettivo?; in Dem. e dir., 1980, p. 140 ss., con nota di SALVI, C., La cassazione, il diritto al-
l’ambiente e la supplenza dei giudici; in Riv. dir. proc., 1980, p. 342 ss., con nota di ZANUTTIGH,
L., Giudice ordinario e diritto all’ambiente: un passo avanti della Cassazione). Decisioni – le
due qui richiamate – nelle quali la Suprema corte giungeva ad attribuire rilevanza e tutelabi-
lità giurisdizionale agli interessi ambientali attraendo i medesimi nella sfera di protezione giu-
ridica offerta dal diritto di proprietà o dal diritto alla salute. Nella prima sentenza si rilevava
la possibilità di configurare il bene ambiente in termini di «bene collettivo divisibile», ossia di
un bene a «fruizione diretta» da parte dei singoli, imputabile solo in «via riflessa» alla società
e oggetto di «una pluralità d’interessi individuali dello stesso contenuto», precisando però
che detta utilità, sul piano giuridico, non era assicurata per il solo «essere una persona fisica»,
204 CAPITOLO TERZO

La decisione appena richiamata, infatti, oltre ad aver influenzato

ma piuttosto per il particolare legame concretamente instauratosi tra individuo ed ambiente


circostante. Detta condizione, capace di operare l’insostituibile effetto di differenziazione ne-
cessario per configurare l’interesse all’ambiente come diritto soggettivo, poteva certamente ri-
tenersi sussitente allorché il potere di fruizione dell’ambiente stesso fosse collegato «alla di-
sponibilità esclusiva di un bene», ovvero alla proprietà di beni immobili, «i quali traggano
dall’ambiente il loro particolare pregio». Nella seconda sentenza, si osservava, sul piano più
propriamente teorico generale, «che non può essere negata tutela a chiunque sia interessato
in relazione a un bene giuridicamente protetto per la sola ragione che questo non appare at-
tribuito né attribuibile a lui in modo esclusivo». Si precisava correttamente, infatti, che «la
prospettiva secondo la quale vi è protezione giuridica soltanto in caso di collegamento esclu-
sivo fra un bene (o una frazione di esso) ed un solo determinato individuo, o un gruppo per-
sonificato – e quindi assimilato all’individuo – è condizionata da un’impostazione di tipo pa-
trimoniale della giuridicità e rischia di mortificare in ragione del condizionamento l’irresisti-
bile tendenza all’azionabilità delle pretese che è cardine della nostra Costituzione (art. 24)».
Il baricentro della tutela giuridica offerta agli interessi ambientali si spostava dalla disponibi-
lità esclusiva del bene (diritto di proprietà) al «soggetto reale», ossia ai beni rilevanti in
quanto attinenti alla «persona umana» e l’approdo tecnico era la specificazione del diritto alla
salute, non più solo diritto alla vita o all’incolumità fisica, ma anche «diritto all’ambiente sa-
lubre». Al secondo ambito dapprima menzionato, invece, ovvero alle ipotesi in cui gli inte-
ressi sovraindividuali hanno trovato riconoscimento nelle forme dell’interesse legittimo,
vanno ricondotte le seguenti pronunce: Cass. S.U., 20 dicembre 1972, n. 3626, in Foro it.,
1973, I, p. 42 ss. e in Giust. civ., 1973, I, p. 415 ss.; Cass., S.U., 20 aprile 1974, n. 1094, in
Foro it., 1974, I, p. 2355 ss., con nota di C.M. Barone e in Giust. civ., 1974, I, p. 1432 ss., con
nota di MORELLI, M.R., Interessi di categoria e tutela giurisdizionale amministrativa; Cass.,
S.U., 24 febbraio 1975, n. 729, in Foro it., 1975, I, p. 1097, con nota di A. Romano; Cass.,
S.U., 5 luglio 1979 n. 3819, in Giust. civ., 1980, I, p. 687 ss., con nota di MORELLI, M.R., In-
teressi superindividuali e tutela giurisdizionale amministrativa; ma cfr. anche CONSOLI, G., La
tutela degli interessi diffusi alla salute e all’ambiente, in Giur. agr. it., 1979, p. 464 ss. In que-
ste decisioni, in contrasto con l’orientamento restrittivo del Consiglio di Stato, si presentava
il seguente principio: «per la qualificabilità di una situazione come interesse legittimo è ne-
cessario e sufficiente che essa sia collegata all’interesse pubblico perseguito dal potere ammi-
nistrativo mediante un certo elemento […] di collegamento […] che determina l’inclusione
della situazione stessa di cui il provvedimento è atto di gestione» (sent. n. 3819/79). Detto
criterio di collegamento veniva dalla Corte individuato da «speciali status, qualità, situazioni
del soggetto, che assumono rilevanza nel settore operativo (materia) in cui si spiega il potere
o più precisamente nel rapporto in cui si iscrive o cui dà luogo l’esercizio del potere secondo
le norme relative al potere stesso» (sent. n. 1094/74). «È connaturale al provvedimento am-
ministrativo – si osservava –, anche al di fuori dell’ipotesi dell’atto plurimo, gestire, in una
con lo specifico interesse pubblico tipico perseguito per conto dell’intera collettività, intere
categorie, classi, cerchie di situazioni a contenuto uniforme e per così dire tipizzato, vale a
dire “interessi di serie” che sono inevitabilmente coinvolti nell’azione amministrativa in ra-
gione del territorio, del mercato, della materia, del settore: interessi cioè di categoria, di
gruppo, nell’ambito dei quali l’azione sotto uno di tali aspetti, interferisce. Sicché non si può
negare qualificazione e tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione a
tali interessi, per il fatto che essi sono “di serie”, senza ferire il principio espresso negli artt.
24 e 113 Cost., che è cardine e forza trainante del nostro ordinamento, ed insieme principi,
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 205

gran parte della giurisprudenza successiva95, ha ben evidenziato la linea

pure espressi nella Carta costituzionale, concernenti l’attuazione delle esigenze di partecipa-
zione e di controllo democratico, da parte di quanti sono soggetti ad un potere pubblico,
quanto all’esercizio di esso (artt. 3 e 5), esigenze le quali, a ben vedere, alla luce dei detti prin-
cipi sono da ritenere implicite nella stessa previsione normativa di ogni potere pubblico e
nella regolazione normativa dell’esercizio di esso». Circostanza non casuale, si crede, è rap-
presentata dal fatto che l’estensore di tutte le decisioni appena esaminate, fosse Aldo Corasa-
niti. È ben apprezzabile infatti nell’architettura argomentativa di dette decisioni la trasfusione
dei principi ricostruttivi presentati dall’A. nei saggi già richiamati retro ed in particolare in La
tutela degli interessi diffusi davanti il giudice ordinario, cit., p. 184 ss. e Interessi diffusi, cit., p.
432 ss.; ossia la prospettazione di due distinti modelli di tutela degli interessi sovraindividuali.
Il modello garantistico di esclusione o difesa, in cui si apprezzano una pluralità di posizioni
sostanziali, riconducibili agli schemi strutturali del diritto soggettivo, imputabili in capo ai
soggetti reali di una collettività e vantati all’esterno di questa, cioè nei confronti di soggetti
esterni alla collettività stessa; ed il modello partecipativo, in cui si apprezzano una pluralità di
posizioni sostanziali, riconducibili agli schemi strutturali dell’interesse legittimo, imputabili a
soggetti membri di una collettività e vantati all’interno di questa, verso atti di gestione della
collettività stessa.
95 Come già indicato nel testo, l’esame della giurisprudenza amministrativa in merito al-

l’applicazione del criterio della vicinitas, dimostra interesse ai nostri fini sotto il profilo, squi-
sitamente teorico, della riconducibilità degli interessi sovraindividuali alle figure soggettive
sostanziali note nel nostro ordinamento. Esorbita chiaramente da questo ambito qualsiasi giu-
dizio di merito sulla congruità propria di detto criterio, con particolare riguardo alle conse-
guenze che discendono dalla sua applicazione e più precisamente dall’effetto di circoscrizione
dell’ambito dei legittimati ai soggetti singoli e collettivi così individuati. Sul punto, v., tra gli
altri, BERTI, G., La legge tutela l’interesse diffuso, ma il giudice ne ricava un interesse indivi-
duale, cit. Sull’origine giurisprudenziale di tale criterio v. infra, la nota che segue. Detto crite-
rio, peraltro, ha trovato spazio applicativo anche a fronte della legittimazione ad agire ex lege,
prevista dal comma 5 dell’art. 18 l. 349/86 (da leggersi ora in coordinato disposto con l’art.
310 del d.legisl. 152/2006) ed attribuita alle associazioni ambientaliste riconosciute ai sensi
dell’art. 13 della menzionata l. 349; con ciò determinando un potenziale concorso tra il crite-
rio di legittimazione di origine giurisprudenziale ed il criterio di legittimazione collettiva po-
sitivamente previsto. In breve sintesi si può innanzitutto osservare come il concorso appena
accennato si possa verificare astrattamente solo all’interno dei margini applicativi oggettivi
dell’azione attribuita in sede di giustizia amministrativa alle associazioni ambientaliste rico-
nosciute, ossia, stando ai criteri interpretativi enucleati dalla giurisprudenza, solo allorché il
ricorso sia avanzato ai fini della tutela di interessi a carattere ambientale e non meramente ur-
banistico, cioè allorquando il provvedimento amministrativo sia idoneo a pregiudicare il bene
ambiente nella sua qualificazione giuridica positiva (sull’interpretazione giurisprudenziale dei
limiti oggettivi di applicazione dell’art. 18 della l. n. 349/86, cfr., tra l’altro, Cons. St., sez. IV,
28 febbraio 1992, n. 223, in Riv. giur. amb., 1992, con nota di CIVITARESE MATTEUCCI, S., An-
cora sulla nozione giuridica di ambiente e sulla legittimazione delle associazioni ambientaliste
all’impugnazione di atti amministrativi; in Foro it., 1993, III, p. 97 ss., con nota di BENINI, S.,
Beni culturali e interessi diffusi; in Dir. proc. amm., 1994, p. 511, con nota di PUGLIESE, F., La
legittimazione ad agire delle associazioni ambientaliste: il limite è nella legge; Tar Marche, 21
settembre 1995, n. 457, in Foro amm., 1996, p. 2001; Cons. St., sez. V., 10 marzo 1998, n. 278,
in Cons. St., 1998, I, p. 386 ss.; Cons. St., sez. IV, 11 luglio 2001, n. 3878, in www.giuffre.it/ri-
206 CAPITOLO TERZO

interpretativa adottata nell’orientamento ora in esame, ossia l’iniziale


configurazione degli interessi sovraindividuali (in particolare interessi
diffusi ambientali) come serie aperta di interessi individuali comunque

viste/rga, con massima annotata da MAESTRONI, A., La legittimazione delle associazioni am-
bientaliste all’impugnazione di atti urbanistici con valenza ambientale: il contrasto interno al
Consiglio di Stato e il criterio dello stabile collegamento come fonte di legittimazione attiva di
associazioni e privati, in Riv. giur. amb., 2002, p. 750 ss.; Cons. St., sez. IV, 12 marzo 2001, n.
1382, in Riv. giur. amb., 2002, p. 526 ss., con nota di MARCHESE, S., Legittimazione ad agire
delle associazioni ambientaliste riconosciute nel processo amministrativo e concetto giuridico di
ambiente; Tar Liguria, sez. I, 3 febbraio 2003, n. 129, in www.giuffre.it/riviste/foro, 2003,
fasc. 2, con massima annotata da GANDINO, A., Legittimazione delle associazioni ambientaliste
e natura del provvedimento impugnato: gli incerti confini del «valore ambiente», in Foro amm.,
TAR, 2003, p. 875; Tar Lazio, sez. I, 31 maggio 2004, n. 5118, in Foro amm., TAR, 2004, p.
1397 ss.; Tar Toscana, sez. III, 20 ottobre 2006, n. 4568, in Foro amm., TAR, 2006, p. 3200).
Per la giurisprudenza che applica il criterio del collegamento stabile ai fini del riconosci-
mento della legittimazione ad agire a singoli privati e dunque riconducendo gli interessi dif-
fusi alla figura dell’interesse legittimo, cfr. Cons. St., sez. IV, 27 agosto 1984, n. 646, in Foro
it., 1985, III, p. 1 ss.; in Foro amm., 1984, p. 1441; Cons. St., sez. VI, 7 febbraio 1996, n. 182,
in Foro it., 1996, III, p. 496; in Giur. it., 1996, III, 1, p. 354 ss.; in Riv. giur. amb., 1996, p.
694 ss., con nota di MAESTRONI, A., Il Consiglio di Stato e l’autocoscienza dell’effetto espansivo
del giudicato amministrativo: linee guida in tema di accordi di programma; in Foro amm., 1996,
p. 589; in Cons. St., 1996, I, p. 259; Cons. St., sez. VI, 26 luglio 2001, n. 4123, in www.giuf-
fre.it/riviste/rga, con massima annotata da MAESTRONI, A., La legittimazione delle associazioni
ambientaliste all’impugnazione di atti urbanistici con valenza ambientale, cit.; Cons. St., sez.
VI, 15 ottobre 2001, n. 5411, in Foro amm., 2001, p. 2851 ss.; Tar Lombardia, sez. II, 6 di-
cembre 2002, n. 5093, in TAR, 2002, I, p. 3329 ss.; in www.giuffre.it/riviste/foro, 2002, fasc.
12, con massima annotata da CALABRÒ, M., Sui presupposti della legittimazione ad agire delle
associazioni ambientaliste, in Foro amm., TAR, 2003, p. 410 ss.; Cons. St., sez. VI, 27 marzo
2003, n. 1600, in Cons. St., 2003, p. 723 ss.; Tar Lombardia, sez. II, 7 ottobre 2003, n. 4513,
in TAR, 2003, I, p. 4601 ss.; Tar Marche, 29 agosto 2003, n. 980, in Riv. giur. amb., 2004, p.
302 ss.). Per ciò che invece attiene alla legittimazione degli enti esponenziali, sempre in ma-
teria di interessi ambientali in senso proprio, parte della giurisprudenza amministrativa ri-
tiene che il criterio legale di legittimazione previsto dall’art. 18 della l. 349 del 1986 non ab-
bia «carattere preclusivo», ma solo «permissivo», sussistendo in materia un duplice sistema di
accertamento – c.d. doppio binario – della rappresentatività dell’ente esponenziale e correla-
tivamente un duplice criterio di attribuzione della legittimazione ad agire: uno legale, ope-
rante ex ante, in virtù del riconoscimento ministeriale ed uno giudiziale, operante in concreto
e rivolto ad attribuire al giudice il potere di accertare caso per caso la rappresentatività della
formazione intermedia: cfr., in tal senso, Tar Lazio, sez. II, 14 settembre 1990, n. 1342, in
Foro it., 1991, III, p. 180 ss.; Cons. St., sez. VI, 7 febbraio 1996, n. 182, cit.; Cons. St., sez.
VI, 7 febbraio 1996, n. 182, in Giur. it., 1996, III, 1, p. 354 ss.; Cons. St., sez. III, 9 agosto
1997, n. 1010, in Foro it., 1997, III, p. 264 ss.; Tar Veneto, sez. II, 12 agosto 1998, n. 1414, in
Riv. giur. amb., 1999, p. 364, con nota di S. Civitarese Matteucci; in Dir. e giur. agr., 1999, p.
110, con nota di DI SCIASCIO, E., Legittimazione delle associazioni ambientaliste e obbligo di
motivazione sugli strumenti urbanistici in materia di autorizzazione alla coltivazione di cave;
Tar Veneto, sez. I, 16 dicembre 1998, n. 2509, in Riv. giur. amb., 1999, p. 893, con nota di
MAESTRONI, A., Nuovi orientamenti giurisprudenziali in tema di impugnazione di provvedi-
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 207

qualificabili come interessi legittimi. Premesso l’interesse pubblico alla


protezione dei beni ambientali, si osservava che in relazione a quegli
stessi beni poteva ben configurarsi l’esistenza di interessi individuali di
altro contenuto, ovvero relativi alla «garanzia di godimento da parte dei
cittadini dei valori che si esprimono in quei beni». In altri termini, si ri-
levava correttamente che «una finalità esclusivamente pubblica non im-
pedisce affatto che i vantaggi inerenti a siffatto godimento possano, in ta-
luni casi e in date condizioni, assumere anche il rilievo di interessi legit-
timi». In particolare, si sosteneva – questo il primo fondamentale
passaggio logico della ricostruzione – come gli interessi diffusi non siano
concepibili unicamente come riferiti alla collettività in quanto tale, ma
anche in termini di «interessi caratterizzati dalla simultaneità del loro ri-
ferimento soggettivo a tutti o parte dei componenti di una data colletti-
vità, individualmente considerati, riguardo al medesimo bene».

menti di localizzazione di discariche; in Ragiusan, 2000, fasc. 189, p. 129; Tar Lombardia Bre-
scia, 19 settembre 2000, n. 696, in Riv. giur. amb., 2001, 639 ss., con nota di BELTRAME, S.,
Conferenza di servizi, valutazione di impatto ambientale e funzionalità della circolazione delle
informazioni sull’ambiente alla protezione dell’ecosistema; Cons. St., sez. VI, 26 luglio 2001, n.
4123, cit.; Tar Marche, 30 agosto 2001, n. 987, in Foro amm., 2001, p. 2485; Tar Lombardia,
sez. II, 6 dicembre 2002, n. 5093, cit.; Tar Marche, 29 agosto 2003, n. 980, cit.; Cons. St., sez.
IV, 9 novembre 2004, n. 7246, in Foro amm.-Cons. St., 2004, p. 3157; Tar Liguria, sez. I, 18
marzo 2004, n. 267, in Riv. giur. edil., 2004, I, p. 1444 ss., con nota di DAMONTE, R., Il T.A.R.
Liguria fa il punto sulla legittimazione a ricorrere in giudizio di un ente privato costituito a tu-
tela dell’ambiente; Cons. St., sez. VI, 20 maggio 2005, n. 2534, in Foro amm.-Cons. St., 2005,
p. 1557; Cons. St., sez. IV, 2 ottobre 2006, n. 5760, in Riv. giur. amb., 2007, p. 360 ss., con
nota di ORLINI, F., Ancora sulla legittimazione processuale delle associazioni ambientaliste:
quali limiti processuali e quali provvedimenti impugnabili; Cons. St., sez. IV, 14 aprile 2006, n.
2151, in Foro it., 2006, II, p. 449, con nota di DALFINO, D., Legittimazione e intervento in
causa delle associazioni ambientaliste; Cons. St., sez. V, 23 aprile 2007, n. 1830, in Resp. civ. e
prev., 2007, p. 1343 ss., con nota di POTO, M., Un semplice comitato di cittadini nulla può av-
verso la decisione di costruire una discarica. In senso contrario, v. però Cons. St., sez. VI, 16
luglio 1990, n. 728, in Riv. giur. amb., 1991, p. 90 ss.; Tar Trentino Alto Adige, 23 ottobre
1991, n. 161, in Riv. giur. amb., 1992, p. 905; Cons. St., sez. VI, 14 ottobre 1992, n. 756, in
Cons. St., 1992, I, p. 1389 ss.; Tar Lazio, sez. II, 16 marzo 1993, n. 302, in Riv. giur. amb.,
1994, p. 275 ss.; Tar Molise, 21 dicembre 1995, n. 297, in TAR, 1996, I, 609; Cons. St., sez.
V, 10 marzo 1998, n. 278, in Foro it., 1998, III, p. 267 ss.; Cons. St., sez. IV, 11 luglio 2001,
n. 3878, in Foro it., 2003, III, p. 18 ss., con nota di V. Molaschi; in Riv. giur. amb., 2002, p.
751 ss., con nota di MAESTRONI, A., Associazioni ambientaliste e territorio. La legittimazione
delle associazioni ambientaliste all’impugnazione di atti urbanistici con valenza ambientale: il
contrasto interno al Consiglio di Stato e il criterio dello stabile collegamento come fonte di le-
gittimazione; Tar Marche, 23 novembre 2001, n. 1223, in Foro amm., 2001, p. 2963; Cons. St.,
sez. V, 5 dicembre 2002, n. 6657, in Riv. giur. amb., 2003, p. 781; Cons. St., sez. V, 17 luglio
2004, n. 5136, in Foro amm.-Cons. St., 2004, p. 2192; Tar Liguria, sez. I, 12 ottobre 2005, n.
1349, in Foro amm.-TAR, 2005, p. 3117.
208 CAPITOLO TERZO

Su questa base poi, si procedeva nella ricerca dei criteri di qualifica-


zione da applicare alla fattispecie e, rilevata a tale scopo l’insufficienza
del solo collegamento alla titolarità – in capo al legittimato ad agire – di
diritti di natura prevalentemente patrimoniali, si evidenziava l’opportu-
nità, in materia di conservazione del paesaggio e delle bellezze naturali,
di dare la più piena «rilevanza a tutta una ben più ampia e varia sfera di
possibilità di fruizione individuale di siffatti beni».
Sotto il diverso profilo della differenziazione si rilevava, invece,
come non fosse «più contestabile la esistenza di profili di differenzia-
zione nell’ambito degli interessi globalmente riannodantisi a un dato am-
biente naturale considerato nel suo unitario complesso, allorché tali inte-
ressi facciano capo ai soggetti in quest’ultimo insediati e mirino alla sal-
vaguardia di quell’equilibrio fra natura e uomo sul quale si regge
l’aspetto psico-fisico e sociale dell’uomo stesso, come specie, ma altresì
dell’individuo».
Si richiamava – in definitiva – quel criterio, già fatto proprio dal giu-
dice amministrativo nell’interpretazione dell’art. 10 della legge ponte, ov-
vero il criterio dell’«insediamento abitativo non occasionale, né precario,
del soggetto in un determinato ambiente naturale»96; criterio idoneo a

96 Il riferimento è a Cons. St., sez. V, 9 giugno 1970, n. 523, in Giur. it., 1970, III, 1, p.

193 ss., con nota di GUICCIARDI, E., La decisione del «chiunque»; per l’ampia riflessione aper-
tasi in dottrina a seguito della decisione v., oltre al contributo del Guicciardi appena citato,
SANDULLI, A.M., L’azione popolare contro le licenze edilizie, in Riv. giur. edil., 1968, II, p. 3 ss.;
SPAGNUOLO VIGORITA, V., Interesse pubblico popolare nella legge ponte per l’urbanistica, in Riv.
giur. edil., 1967, II, 398; TERESI, F., Considerazioni sull’azione popolare avverso le licenze edili-
zie e spunti di ricostruzione per l’azione popolare in genere, in Foro amm., 1971, III, 836 ss. Il
caso traeva origine dall’introduzione nel nostro ordinamento della legge del 6 agosto 1967 ed
in particolare da quanto previsto all’art. 10, comma 9, secondo il quale «chiunque può pren-
dere visione presso gli uffici comunali, della licenza edilizia e dei relativi atti di progetto» e –
questo era il punto – «ricorrere contro il rilascio della licenza edilizia in quanto in contrasto
con le disposizioni di leggi o dei regolamenti o con le prescrizioni di piano regolatore gene-
rale e dei piani particolareggiati di esecuzione». Sul punto il giudice amministrativo presen-
tava una decisione in gran parte ambivalente. Essa, infatti, andava a porsi perfettamente a ca-
valiere tra vecchio e nuovo corso. Se, da una parte, infatti, era possibile riscontrare nella de-
cisione un atteggiamento ermeneutico di indubbia chiusura, dall’altra, non mancavano
importanti aperture verso il superamento delle concezioni tradizionali meramente individua-
listiche in punto di accesso al giudizio amministrativo. Nella prima prospettiva si muoveva di
certo quella parte della decisione volta a sciogliere l’interrogativo se la menzionata disposi-
zione introducesse un nuovo caso di azione popolare nel nostro ordinamento. La ricerca di
una risposta al quesito in questione conduceva, infatti, il giudice ad una perfetta inversione
dell’iter dimostrativo, ponendosi l’impossibilità di ricondurre la fattispecie indicata all’istituto
dell’azione popolare non come risultato, ma bensì come premessa dell’argomentazione. Il po-
stulato fondamentale era il seguente: «le azioni popolari […] sono, nel nostro ordinamento,
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 209

qualificare e differenziare l’interesse tutelando e a legittimare il singolo al


ricorso.
istituti singolari, che non possono trovare applicazione fuori dai casi previsti e disciplinati
dalla legge». Ciò posto, pur presentando una ricostruzione dell’azione popolare decisamente
condivisibile, tesa a rimarcare la differenza tra l’interesse dello Stato-amministrazione e l’in-
teresse – eventualmente contrapposto e comunque autonomo – dell’attore popolare, si rite-
neva inopportuno attribuire «troppo largo significato al “chiunque”» previsto dal testo nor-
mativo, poiché – così facendo – sarebbe venuto meno «il criterio della differenziazione del-
l’interesse che è il fondamento non solo processuale ma anche sostanziale della protezione
indiretta accordata dall’ordinamento»; sarebbe anche venuta meno «la possibilità della dimo-
strazione che il ricorrente abbia effettivamente subito una lesione, cioè un pregiudizio anti-
giuridico alla sua posizione soggettiva», con il risultato che l’interesse della collettività all’im-
pugnazione dell’atto avrebbe perso «una propria sicura consistenza», riducendosi al «puro
interesse alla legittimità dell’atto amministrativo»; e ciò, ovviamente, tenendo anche in debito
conto il pericolo «dei gravi problemi pratici», delle «incertezze», in cui sarebbe rimasto «in-
vischiato il giudizio amministrativo, con pregiudizio per il funzionamento della giustizia». Fu,
peraltro, nella parte più propriamente ricostruttiva della sentenza che trovarono giusta sede
gli spunti interpretativi che sarebbero stai poi ripresi dalla giurisprudenza successiva. Il Con-
siglio di Stato, infatti, dopo aver ribadito la necessità che l’interesse tutelando dovesse posse-
dere i tre requisiti consuetudinariamente richiesti per poter assurgere al rango di interesse le-
gittimo (qualificazione, differenziazione e personalità), si indirizzava verso il superamento
dell’ottica tradizionale escludendo che tali requisiti dovessero ricorrere unicamente a fronte
di un collegamento giuridico derivante da un «rapporto reale piuttosto che da un rapporto
obbligatorio o di altra natura». La strada battuta fu quella di ricercare nella normativa di ri-
ferimento i «valori urbanistici» da porre a fondamento degli strumenti di tutela. In tale pro-
spettiva emerse, dunque, la volontà legislativa di accogliere una «visione più funzionale ed or-
ganica» di detti valori, intesi appunto come «naturalmente inerenti all’ambiente di vita so-
ciale». Si rilevava, dunque, nelle argomentazione del Consiglio di Stato, come il bene tutelato
da tale normativa fosse costituito dal c.d. «insediamento abitativo», da intendersi come «la
stabile ubicazione, cioè la radicazione in loco, degli interessi di vita del soggetto (familiari,
economici, di qualificati e consolidati rapporti sociali) e quindi, innanzi tutto, il luogo in cui
la persona ha la residenza o il domicilio». Il valore giuridico dell’insediamento abitativo ve-
niva, quindi, ad assumere il ruolo di criterio giuridico idoneo a realizzare la qualificazione e
la differenziazione dell’interesse con la conseguenza di legittimare il singolo cittadino che si
trovasse in tale condizione a ricorrere per l’annullamento del provvedimento amministrativo.
Il carattere ambivalente della decisione è esattamente rilevato da SCOCA, F.G., Modello tradi-
zionale e trasformazioni del processo amministrativo dopo il primo decennio di attività dei tri-
bunali amministrativi regionali, in Dir. proc. amm., 1985, p. 253 ss., ma spec. p. 279, in cui si
afferma che non «deve sembrare strano che proprio una decisione finalizzata in modo chia-
rissimo a ridurre l’area dei legittimati (in tema di licenza edilizia) abbia dato origine ad un
movimento giurisprudenziale di segno completamente opposto: gli è che, nel respingere l’a-
zione popolare, la Quinta Sezione ha dovuto allargare la nozione stessa di legittimazione, per
non essere costretta a dichiarare del tutto inutile la disposizione sul “chiunque”». È alla luce
di queste considerazioni che si è ritenuto (cfr. ancora SCOCA, F.G., Interessi protetti (dir.
amm.), in Enc. giur. Trec., XVII, Roma, 1989, p. 13; CRESTI, M., Contributo allo studio della
tutela degli interessi diffusi, cit., p. 42 ss.) potersi individuare in questa fondamentale deci-
sione il momento di inizio del movimento evolutivo giurisprudenziale teso ad allargare i cri-
teri di determinazione della legittimazione ad agire.
210 CAPITOLO TERZO

3.3.1.2. La tesi minoritaria: non riconducibilità degli interessi (sovra-)


individuali alle figure tradizionali del diritto soggettivo o dell’interesse le-
gittimo. – All’interno degli studiosi che configurano i nuovi interessi va-
lorizzando anche se non soprattutto la dimensione individuale dei mede-
simi, decisamente minoritaria è, invece, l’opinione di coloro che hanno
ritenuto di non poter far uso delle tradizionali figure sostanziali cono-
sciute dal nostro ordinamento.
In questo senso si è rivolta ad esempio parte della dottrina ammini-
strativistica, che ha sostenuto la giustiziabilità degli interessi sovraindivi-
duali all’interno di un ampio progetto di revisione della tradizionale con-
figurazione «soggettiva» del processo amministrativo, orientandosi – al
contrario – a favore di una sua configurazione in senso oggettivo. Se-
condo questa prospettiva, infatti, la necessità di invertire il paradossale
rapporto di inversa proporzionalità intercorrente tra rilevanza sociale de-
gli interessi e giustiziabilità degli stessi, troverebbe soluzione e risposta
più soddisfacente, anziché in uno snaturante ampliamento delle maglie
concettuali della nozione di interesse legittimo (proseguendo quindi a ri-
costruire il processo amministrativo – in parallelo con quello civile –
come essenzialmente rivolto alla tutela di situazioni giuridiche soggettive
sostanziali preesistenti), configurando il giudizio amministrativo come
mero sindacato di legittimità del provvedimento97.
97 In particolare, v. ROMANO, A., Interessi «individuali» e tutela giurisdizionale ammini-
strativa, cit., p. 269 ss.; ID., Intervento, cit., p. 288; ID., Il giudice amministrativo di fronte il
problema della tutela degli interessi c.d. diffusi, cit., p. 8 ss.; ID., Diritto soggettivo, interesse le-
gittimo e assetto costituzionale, in Foro it., 1980, V., p. 258; ma, per una visione più completa
del pensiero dell’A., v. ID., Giurisdizione amministrativa e limiti della giurisdizione ordinaria,
cit., passim, e per le conclusioni concernenti l’opportunità anche costituzionale di superare la
concezione di un processo amministrativo strutturato attorno alla funzione di tutela di situa-
zioni giuridiche sostanziali, v. p. 309 ss. Più in particolare Romano confronta l’esigenza del
necessario ampliamento della cerchia dei legittimati all’impugnazione dell’atto amministrativo
– esigenza dovuta al contraddittorio rapporto di inversa proporzionalità tra rilevanza sociale
dell’interesse e giustiziabilità del medesimo – e le soluzione teoricamente prospettabili sul
piano ricostruttivo. Seguendo questa linea di sviluppo l’A. rileva l’impossibilità di ampliare la
nozione di interesse legittimo («operazione concettuale non si sa se più irrazionale o più inu-
tile»), determinata dalla difficoltà di mettere in ombra «un suo elemento che è parso essere
così essenzialmente caratterizzante, come appunto il nesso tra interesse individuale protetto e
norma di protezione» («perché una volta superata questa correlazione, non si vede poi su
quali altre basi una sua definizione logicamente conclusa potrebbe essere recuperata […]»).
E d’altra parte evidenzia la preferibile via di ricostruire il processo amministrativo in chiave
obiettiva. Così facendo, osserva Romano, non si ricadrebbe però in un sistema processuale di
azione popolare generalizzata, dovendosi comunque attribuire rilevanza all’interesse materiale
soggettivato. Si tratterebbe di un interesse privo di un di un collegamento necessario «non
solo con quel che sarà poi l’oggetto del giudizio, ma neppure con la norma che si afferma che
l’atto abbia violato, e addirittura col vizio dal quale dunque questo atto si afferma essere af-
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 211

Prospettiva ricostruttiva quest’ultima in parte seguita da coloro98


che, in chiave sempre funzionale ad una maggiore tutelabilità degli inte-
ressi sovraindividuali nel giudizio amministrativo, hanno indicato, quali
strade alternative a quelle tradizionali, gli orientamenti giurisprudenziali
propensi a valorizzare, ai fini dell’accesso al giudizio amministrativo, o –
procedendo in un ottica più sostanzialistica – la nozione di «interesse
non illegittimo» o – procedendo in un ottica più propriamente proces-
sualistica – l’istituto dell’«interesse al ricorso». In particolare rilevando
come quest’ultimo istituto – il «più dinamico e creativo del sistema di
giustizia amministrativa»99 – possa svolgere correttamente la funzione di
fetto», essendo viceversa sufficiente la presenza di «un interesse in qualche modo pertinente
al ricorrente, collegato con i nessi più vari con i suoi scopi quando esso non sia una persona
fisica, che in qualche modo sia stato leso dall’atto impugnato, ugualmente con i nessi più vari
a questo collegato, secondo la estrema multiformità rilevabili solo in fatto e a posteriori». Se-
guendo questa direttrice interpretativa non si incontrerebbero ostacoli, né nella normativa or-
dinaria, ed in ispecie nell’art. 26 del testo unico sul Consiglio di Stato, né nelle disposizioni
costituzionali che innanzitutto «hanno in tutta evidenza un valore garantistico della tutela
giurisdizionale amministrativa», ragion per cui «sarebbe logicamente e giuridicamente inac-
cettabile una loro interpretazione che ne forzasse il contenuto fino a farlo diventare limite di
utilizzazione di quella tutela stessa».
98 FERRARA, R., Gli interessi superindividuali fra giudice amministrativo e processo: pro-
blemi e orientamenti, cit., p. 48 ss.; ID., Interessi collettivi e diffusi (ricorso giurisdizionale am-
ministrativo), cit., p. 481 ss.; ID., Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa,
cit., p. 363 ss.
99 FERRARA, R., Interessi collettivi e diffusi (ricorso giurisdizionale amministrativo), cit., p.
499. È questa la via privilegiata dalla dottrina in questione, come si evince nel Commentario
breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, cit., p. 375, in cui si rimarca che «non è proce-
dendosi ad una eccessiva frantumazione della nozione di interesse legittimo, ovvero alla mol-
tiplicazione delle figure soggettive in qualche modo riconducibili a tale primaria nozione di
base, che si possono ottenere risultati appaganti, sebbene operando sull’istituto processuale
dell’interesse al ricorso, il quale finisce col divenire il primo, e fondamentale, fattore di legit-
timazione all’impugnazione per la tutela giudiziale degli interessi diffusi della collettività». Ri-
sulterà chiaro al lettore come questa osservazione, se coordinata con quella dello stesso A., se-
condo la quale l’oggetto di un processo così concepito «non può consistere che nell’obiettiva
verificazione della legalità dell’azione amministrativa, almeno quando si tratti di far valere nel
giudizio amministrativo pretese allo stato diffuso non agevolmente individualizzabili e perso-
nalizzabili presso uno specifico soggetto» (Interessi collettivi e diffusi - ricorso giurisdizionale
amministrativo, cit., p. 499), presenta una linea interpretativa – quanto meno riguardo ai giu-
dizi a tutela degli interessi sovraindividuali – di particolare affinità rispetto a quella tratteg-
giata da Romano (cfr. retro, nota 97). Ciò che distingue le due direttrici ricostruttive sta nel
fatto che la valorizzazione da parte di Ferrara dell’interesse al ricorso e dell’interesse non il-
legittimo, come fattori in grado di differenziare e qualificare l’interesse sostanziale legitti-
mando al ricorso, sembra operare – diversamente dal quel che accade in Romano per ciò che
riguarda la configurazione oggettiva del processo amministrativo – non come strada sostitu-
tiva, ma alternativa ed aggiuntiva a quella tradizionale degli interessi legittimi (sul punto con
maggiore chiarezza v. ancora Interessi collettivi e diffusi - ricorso giurisdizionale amministra-
tivo, cit., p. 486).
212 CAPITOLO TERZO

individuare dal punto di vista processuale i legittimati all’impugnazione,


potendosi poi completare la giuridicizzazione degli interessi, alla luce dei
primari valori costituzionali100.
Infine, sempre nel senso della valorizzazione di istituti alternativi al
diritto soggettivo o all’interesse legittimo, si è orientata la dottrina favo-
revole all’ammissibilità di strumenti di azione popolare a vantaggio dei ti-
tolari degli interessi sovraindividuali101, rilevando acutamente come l’ec-
cezionalità dell’azione popolare nel nostro ordinamento, nonché la sua
tradizionale riconducibilità alla funzione di tutela dell’interesse generale
alla legalità, se non anche il suo sostanziale mancato sviluppo, siano tutte
conseguenze della volontà di negare tutela, sul piano sostanziale e non
processuale, a interessi materiali ben precisi102.

100 FERRARA, R., Interessi collettivi e diffusi - ricorso giurisdizionale amministrativo, cit.,
in particolare p. 497-498.
101 AGRIFOGLIO, S., Riflessioni critiche sulle azioni popolari come strumento di tutela de-

gli interessi collettivi, in Le azioni a tutela di interessi collettivi, cit., p. 181 ss.; BIAGINI, C., L’a-
zione popolare (e la tutela degli interessi diffusi), in Rilevanza e tutela degli interessi diffusi, cit.,
p. 177 ss. ma anche in Cons. St., 1977, II, p. 862 ss.; BORGHESI, D., Azione popolare, interessi
diffusi e diritto all’informazione, cit., p. 259 ss., spec. p. 275 s.
102 Così, in particolare, BIAGINI, C., L’azione popolare (e la tutela degli interessi diffusi),

cit., p. 879 ss. A tal proposito rileva, d’altra parte, BORGHESI, D., Azione popolare, interessi dif-
fusi e diritto all’informazione, cit., p. 276, che, procedendo secondo le posizioni ricostruttive
tradizionali, è comprensibile «che l’a.p. non sia considerata come un punto, sia pure estremo,
cui può approdare l’azione ordinaria senza tuttavia rompere il normale schema della legitti-
mazione, ma piuttosto come un’azione oggettiva che ha alla base un interesse generale, co-
mune e indifferenziato e che perciò sfugge agli ordinati criteri di legittimazione, non presen-
tando, neppure ridotto ai minimi termini, l’ordinario collegamento tra l’azione e la situazione
soggettiva di chi la propone». «In buona sostanza – osserva efficacemente l’A. – se si ipotizza
un’utilizzazione dell’a.p. in materia di interessi diffusi, rappresentando i due termini secondo
la concezione della giurisprudenza maggioritaria, si ottiene il paradossale risultato di porre
delle azioni senza diritto a tutela di diritti senza azione e di considerare il cittadino legittimato
a proporre nell’interesse della collettività quella stessa azione che non può esperire a tutela del
proprio interesse». Ben si coordinano con queste osservazioni quelle avanzate da PROTO PI-
SANI, A., Nuovi diritti e tecniche di tutela, cit., p. 241. Si interroga infatti l’A.: «se il diritto fatto
valere con l’azione popolare è un diritto proprio ancorché inerente a un bene collettivo, che
bisogno c’è di discorrere di ammissibilità o no dell’azione popolare quasi che un simile diritto
di azione non esista prima della sua specifica, tipica, attribuzione in via legislativa?». E la ri-
sposta che ne consegue è decisamente risolutiva: «o il diritto, l’interesse protetto, alla stregua
del nostro ordinamento esiste davvero, ed allora il titolare del diritto ha il diritto di azione in
forza della clausola generale dell’art. 24, comma 1, Cost. – in forza del principio di atipicità del
diritto di azione –, senza necessità alcuna di fare ricorso allo schermo equivoco dell’azione po-
polare e peggio ancora alla necessità di una norma che conferisca in via tipica il diritto di
azione. O, invece, il diritto, l’interesse protetto, alla stregua del nostro ordinamento non esite,
ed allora il problema vero è quello tutto politico della giuridicizzazione dell’interesse: ed il ri-
chiamo all’azione popolare e all’esigenza del suo riconoscimento in via tipica, altro non è se
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 213

3.3.2. L’individuazione dei legittimati ad agire: la legittimazione indivi-


duale diffusa.
Alla luce delle considerazioni appena svolte in riferimento alla dot-
trina propensa a configurare gli interessi sovraindividuali in termini di ag-
gregato di distinti interessi individuali di pari contenuto risulta piuttosto
agevole comprendere l’esito ricostruttivo a cui questo orientamento è per-
venuto sul piano della determinazione dei soggetti legittimati ad agire in
giudizio.
Il problema, infatti, è così intimamente correlato alla previa risolu-
zione del corretto collocamento dogmatico da attribuire agli interessi tu-
telandi che, in molte delle impostazioni seguite all’interno del filone dot-
trinale in questione, nemmeno viene ad essere affrontato ex professo, ri-
sultando semplicemente una necessaria conseguenza interpretativa (arg.
ex art. 24 Cost.) l’attribuzione della legittimazione ad agire al singolo ti-
tolare del diritto soggettivo o dell’interesse legittimo.

non l’evocazione di tale diverso problema […]». Ciò chiarisce – aggiungiamo – come in effetti
il richiamo dell’istituto non solo di per sé non offra nulla in più sul piano dell’effettività della
tutela dei singoli eventualmente legittimati ad invocare la protezione giurisdizionale del bene
collettivo, ma coltivi l’equivoco, non solo giuridico-formale – come esattamente osserva Proto
Pisani –, ma anche – per così dire – di sostanza, che il legittimato ad agire in via diffusa non
promuova l’azione per un interesse suo proprio. Ciò dimostra come il rinvio all’istituto dell’a-
zione popolare, sviluppatosi in un modello giurisdizionale fondato sulla dicotomica ed esclu-
siva contrapposizione tra interessi individuali-singolari e interessi pubblici-generali, risulti
privo di significato quantomeno sicuramente all’interno del processo civile e con grande pro-
babilità anche all’interno del processo amministrativo, in cui il rimando alla nozione, proprio
operandosi nel tentativo di cercare di far salve le prassi interpretative dominanti, specie in ma-
teria di interesse legittimo, nega lo stesso nucleo concettuale che si cerca di porre in risalto me-
diante l’apertura della legittimazione ai presunti attori popolari, ossia la titolarità individuale di
quegli interessi. In una prospettiva simile agli AA. citati in queste ultime note si colloca anche
la lettura avanzata da MADDALENA, P., Il diritto all’ambiente come fondamentale diritto dell’in-
dividuo ed interesse generale della collettività, in Cons. St., 1983, II, p. 427 ss., ma spec. p. 430.
Per questo A., infatti, stante il superamento della dicotomia pubblico-privato alla luce del det-
tato costituzionale, specie con riferimento al principio di sovranità popolare, l’interesse “col-
lettivo” o “diffuso” «è “pubblico” in quanto affidato alle cure di un Ente pubblico, ma è nello
stesso tempo “privato”, in quanto appartenente a tutti i singoli cittadini, che ne sono titolari in
quanto “singoli” ed in quanto “cittadini”». Da ciò deriverebbe, che a quest’ultimi spettino sia
gli strumenti di tutela riconducibili, come da tradizione, alla nozione del diritto soggettivo, sia
nuove forme di tutela consistenti nella possibilità di richiedere l’attuazione del diritto obiet-
tivo, scomparendo «l’interesse “formale” all’osservanza della legge» e subentrando – visto il
rapporto di appartenenza dello stesso interesse generale ai singoli – «al suo posto l’interesse
“sostanziale” all’attuazione concreta dell’ordinamento». Apparterrebbe quindi al singolo, os-
serva Maddalena, non un diritto individuale del cittadino, ma una mera azione, ossia il «diritto
di far valere il diritto obiettivo». Sull’articolata posizione di Maddalena, v. peraltro infra, cap.
IX, § 3.4.3.
214 CAPITOLO TERZO

Nonostante questo – però – la questione in esame è di tale rilievo e


delicatezza che sembra opportuno esplicitarla adeguatamente, eviden-
ziando innanzitutto come in effetti la sequenza logico-ricostruttiva se-
guita in prevalenza dalla dottrina (sebbene non sempre con la dovuta
consapevolezza e lucidità) nello studio delle tecniche possibili di tutela
degli interessi sovraindividuali, trovi origine nella configurazione struttu-
rale dell’interesse sovraindividuale e, passando per la più appropriata
qualificazione dogmatica, giunga infine al tema della determinazione dei
soggetti abilitati ad attivare la tutela giurisdizionale.
In fin dei conti, al di là delle questioni di forma, è su quest’ultimo
segmento concettuale della sequenza ricostruttiva che si apprezza la netta
divaricazione tra questo filone dottrinale e quello che andremo ad esami-
nare tra breve.
Potremmo dire: si chiami l’interesse sovraindividuale come si vuole,
lo si riconduca alla sede dogmatica che più aggrada, ma alla fine si dica
se anche il singolo può provocarne la protezione o se debba al contrario
sperare o aspettare l’azione di un soggetto terzo – l’ente rappresentativo
– più o meno istituzionalmente sorto ed attivo per la difesa di detti inte-
ressi.
Come appena accennato, all’interno di questo filone ricostruttivo la
strada maestra indicata è quella di attribuire innanzitutto la legittima-
zione al singolo «interessato»103 e magari «corroborare» questa previ-

103 Premettendo la considerazione già chiarita nel testo, e cioè che all’interno del filone

dottrinale individuato il problema è affrontato e risolto in senso implicito, ovvero come con-
seguenza delle scelte operate in sede di comprensione pregiuridica e poi di ricostruzione giu-
ridica degli interessi, possono richiamarsi le osservazioni proposte dagli AA. al contrario più
propensi a palesare le ragioni di una scelta favorevole all’attribuzione della legittimazione ad
agire anche ai singoli soggetti interessati. A tal proposito vanno ad es. richiamate in questa
sede le già note osservazioni di NIGRO, M., Le due facce dell’interesse diffuso, cit., spec. p. 12,
che rileva come la soluzione della legittimazione collettiva concentrata nelle mani degli enti
esponenziali sia ispirata alla «ideologia del controllo sociale» e vulneri l’aspirazione parteci-
patoria nonché il carattere dialettico dell’interesse diffuso. Nella medesima direzione si
orienta SCOCA, F.G., Interessi protetti (dir. amm.), cit., p. 15; ID., Contributo sulla figura del-
l’interesse legittimo, cit., p. 46, che, nell’evidenziare le questioni che inducono a privilegiare
l’opzione ricostruttiva favorevole alla legittimazione diffusa piuttosto che concentrata, rileva
come quest’ultima: a) «è di difficile attuazione, in quanto l’organizzazione del gruppo facil-
mente si pubblicizza, con la conseguenza che l’interesse diffuso rileverà semplicemente come
interesse pubblico»; b) «essa è peraltro anche poco opportuna, perché la figura soggettiva
espressa dal gruppo, per la forza delle cose, quanto più sarà formalizzata tanto più sarà in-
terprete meno autentica del modo di avvertire l’interesse da parte del gruppo stesso». Ancora
all’interno della dottrina amministrativistica, particolare interesse posseggono le osservazioni
critiche proposte nei confronti della configurazione giurisprudenziale dominante in materia
di tutela degli interessi collettivi (in senso proprio) nel processo amministrativo. Come
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 215

sione, con la possibilità di adire il giudice anche in forma associata (arg.

avremo occasione di esaminare con buona ampiezza (cfr. infra, nota 129), infatti, la giuri-
sprudenza amministrativa suole riconoscere la legittimazione ad agire a tutela dell’interesse
collettivo in senso proprio unicamente alle associazioni rappresentative della categoria di ri-
ferimento, escludendo invece quella dei singoli appartenenti alla medesima; sicché, in rela-
zione a questo filone giurisprudenziale ed in contrapposizione alle soluzioni diversamente ac-
colte in materia di legittimazione a tutela degli interessi diffusi (prima fra tutte la soluzione
accolta dalla decisione dell’Adunanza plenaria del 1979), si è acutamente osservato che «è
forse proprio sul terreno degli interessi collettivi che l’emarginazione del singolo appare più
stridente ed arbitraria, giacché non esiste alcuna ragione logico-giuridica – a parte, s’intende,
precise esigenze di economia processuale – che possa spingere a privilegiare il ricorso del-
l’organizzazione sindacale o dell’ordine professionale in luogo di quello del singolo allorché
la situazione giuridica soggettiva incisa dal provvedimento impugnato non sia riferibile in
modo nitido, e soprattutto esclusivo, all’ente esponenziale rappresentativo di interessi di
gruppo». Così, FERRARA, R., Interessi collettivi e diffusi (ricorso giurisdizionale amministrativo),
cit., p. 499; ma nello stesso senso v. le osservazioni di CRESTI, M., Contributo allo studio della
tutela degli interessi diffusi, cit., p. 6-7. La dottrina da ultimo citata, infatti, pur accogliendo
la distinzione dottrinale e giurisprudenziale sussistente tra interessi sovraindividuali diffusi e
interessi sovraindividuali collettivi, ha rilevato tutta la problematicità insita in tale classifica-
zione, cogliendo esattamente il punto maggiormente critico della medesima, ovverosia la ten-
denza (vedremo infra, in quale misura presente) a configurare gli interessi di categoria in una
dimensione unitaria capace di recidere il legame tra interesse ed interessato reale. All’interno
della dottrina processualistica – la cui posizione complessiva emergerà chiaramente solo al
termine dello studio delle diverse propensioni ricostruttive concernenti anche i singoli e spe-
cifici procedimenti giurisdizionali rivolti a tutela di interessi lato sensu metaindividuali – la
questione è stata di recente oggetto di particolare attenzione da parte di LANFRANCHI, L., Le
animulae vagulae blandulae e l’altra faccia della luna, cit., XXI ss., secondo il quale «l’unico
porto sicuro d’arrivo per il riconoscimento effettivo degli interessi evocati dalla problematica
in esame è quello che è stato definito“modello soggettivo”», raggiungibile attraverso le «pos-
sibilità offerte innanzi tutto dall’interpretazione costituzionalizzante di molti istituti sostan-
ziali e processuali da sempre previsti per la tutela di pluralità omogenee di soggetti interessati
al medesimo bene-comportamento». Sempre secondo questa linea di pensiero l’A. critica
l’opposto modello «oggettivo», propenso al contrario a cogliere nel «momento organizzativo»
un ruolo effettivamente genetico dell’interesse collettivo; approccio, quest’ultimo richiamato,
valutato dall’autorevole dottrina ora richiamata effettivamente «paradossale» nella misura in
cui «capovolge il rapporto tra mezzo e fine nell’ottica di un esasperato presupposto ideolo-
gico». Ancora all’interno della dottrina processualcivilistica, cfr. la posizione di PROTO PISANI,
A., Nuovi diritti e tecniche di tutela, cit., p. 242 (ma anche precedentemente in Appunti preli-
minari per uno studio sulla tutela giurisdizionale degli interessi collettivi, cit., p. 274 ss.), se-
condo il quale è bn possibile configurare due modelli normativi di tutela. E nello specifico,
«se il diritto di azione del garante – ossia, secondo la terminologia dell’A., l’ente rappresen-
tativo – non esclude il diritto di azione dei singoli […], si è in presenza o di un fenomeno di
legittimazione straordinaria (del tutto analogo ad es. a quello previsto dagli artt. 117 e 417
c.c. in tema di azione attribuita al pubblico ministero), o della creazione di una sovrastruttura
giuridica di un soggetto ulteriore cui imputare l’interesse collettivo giuridicamente protetto
senza però espropriazione alcuna del diritto soggettivo dei singoli». «Se, invece, – prosegue
Proto Pisani – il diritto di azione del garante esclude il diritto di azione dei singoli, allora –
piaccia o non piaccia questa soluzione – al giurista non resta che prendere atto che il processo
216 CAPITOLO TERZO

ex art. 2 Cost.) ossia attribuendo la legittimazione ad agire anche ad


eventuali enti rappresentativi104.

di lenta giuridificazione a livello di diritti soggettivi degli interessi pubblici generali non è an-
cora giunto a piena maturazione. In casi di questa specie il legislatore, parlando in termini di
diritto di azione, nella realtà escludendo il diritto di azione dei singoli, esclude il loro diritto
soggettivo sostanziale: se infatti una situazione soggettiva è riconosciuta a livello sostanziale
quale diritto soggettivo, il suo titolare non può essere privato del diritto di azione, del diritto
di agire a sua tutela. Ne segue che in ipotesi di tale specie si è alla presenza di una situazione
ibrida in cui ad un interesse collettivo non è attribuita più la mera rilevanza di interesse pub-
blico generale riferibile esclusivamente allo Stato, ma neanche la rilevanza di vero diritto sog-
gettivo; e questo è plasticamente evidenziato dalla circostanza che il potere discrezionale di
decidere se agire o no a tutela di tale interesse in caso di sua violazione o minaccia è attribuito
in via esclusiva al garante, che finisce in tal modo col porsi come “filtro” tra la norma gene-
rale astratta e la sua attuazione giurisdizionale». D’altra parte, è lo stesso A. ad aggiungere
che detta seconda soluzione ibrida «può essere accettata solo se si abbia consapevolezza del
suo carattere transitorio e se essa in tempi brevi si risolva nel pieno riconoscimento anche ai
singoli del diritto soggettivo sostanziale e quindi del diritto di azione», rilevando inoltre – in
relazione alla frequente considerazione secondo la quale la soluzione della legittimazione con-
centrata ovvierebbe ai rischi di paralisi processuale inerenti al modello della legittimazione
diffusa (si ricordi che già in Bonaudi veniva rilevata la questione; cfr. retro, cap. I, 2.1.2., spec.
nota 51) – che «a rilievi di tal genere il processualista deve rispondere con fermezza osser-
vando per un verso che il diritto di azione (eccezione fatta per forse per la tutela di valori su-
premi dell’ordinamento quale in corretto funzionamento della giurisdizione) non tollera filtri
preventivi di alcuna specie, per altro verso la disciplina delle obbligazioni indivisibili […] non
ha dato mai adito a quei rischi che si agitano come fantasmi contro l’unica soluzione davvero
coerente coi principi». Il punto qui appena esaminato attraverso le puntualizzazioni dottrinali
più significative, sarà chiaramente oggetto di riflessione accurata anche nel prosieguo del la-
voro (cfr. spec. cap. VI), d’altra parte, si può sin d’ora avanzare una considerazione per l’ap-
punto suggerita da quanto ora riportato, ovvero l’interrogativo se sia logicamente e giuridica-
mente possibile ritenere non rilevanti sul piano sostanziale gli interessi collettivi ritenuti ap-
partenenti ai singoli membri del gruppo allorché l’azione per la loro tutela sia attribuita ex
lege all’ente esponenziale. Il quesito è tutt’altro che peregrino, poiché se il quesito qui espo-
sto si risolvesse – come chiaramente deve essere risolto dando per buone le circostanze ap-
pena presupposte – nel senso della meritevolezza sostanziale di detti interessi, ecco che subito
rispunterebbe, in piena e doverosa applicazione dell’art. 24 Cost., il diritto di azione indivi-
duale. Ciò dovrebbe dimostrare due cose: l’importanza di comprendere la struttura degli in-
teressi (lato sensu) collettivi e l’intima incoerenza logico-sistematica della soluzione «ibrida»
menzionata da Proto Pisani allorché si acceda ad una certa nozione di interesse collettivo. Il
tema è efficacemente evidenziato anche da COSTANTINO, G., Contributo allo studio del liti-
sconsorzio necessario, cit., spec. p. 522, per il quale «il problema degli interessi collettivi è di
diritto sostanziale, ché si tratta di individuare le situazioni soggettive. Ma, una volta che que-
ste siano state individuate, non può negarsi la tutela giurisdizionale, perché la loro tutela può
essere anche assicurata dall’attività di organi amministrativi: se questi si attivano, tanto me-
glio; se, come di fatto avviene, restano inoperosi, i titolari degli interessi giuridicamente pro-
tetti devono avere la possibilità di rivolgersi al giudice».
104 La legittimazione collettiva (rectius, istituzionale; sul punto cfr. infra, cap. VI, § 4) si

atteggia, dunque, come strumento di perfezionamento della legittimazione individuale e da


quest’ultima trae origine. Un nitido esempio di questa prospettiva interpretativa si ritrova in
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 217

3.4. La giuridicizzazione degli interessi sovraindividuali per coloro che con-


figurano i medesimi come entità unitaria
3.4.1. L’azione collettiva a legittimazione concentrata
La ricostruzione alternativa a quella appena esaminata configura,
come accennato, gli interessi sovraindividuali (rectius, l’interesse sovrain-
dividuale) come una realtà unitaria ed indivisibile.

ambito giurisprudenziale nuovamente nella nota decisione del Consiglio di Stato del 1979
prima citata. L’Adunanza plenaria, infatti, dopo aver determinato la legittimazione ad agire
dei singoli, in virtù della rinvenuta titolarità in capo ai medesimi di una posizione di interesse
legittimo, applicando il criterio dello stabile insediamento abitativo, esaminava la possibilità
di estendere la legittimazione ad agire anche ad associazioni rappresentative degli stessi sog-
getti interessati, trovandosi – peraltro – a dover risolvere preliminarmente la questione rela-
tiva alla necessità o meno della personalità giuridica in capo a soggetti collettivi ai fini del ri-
conoscimento della legitimatio ad processum. La questione, per tradizione giurisprudenziale
risolta in senso restrittivo, era stata poco prima oggetto di significative aperture. Relativa-
mente alle associazioni sindacali non riconosciute, infatti, il giudice amministrativo (cfr. Cons.
St., sez. VI, 10 novembre 1978, n. 1187 in Cons. St., 1978, I, p. 1759 ss.; per approfondimenti
v. CARULLO, A., Il sindacato e il processo amministrativo, in Riv. dir. lav., 1978, I, p. 125 ss.)
aveva già rilevato la necessità di rivedere l’orientamento teso a negare il difetto di legittima-
zione processuale di tali organismi, sostenendo di dover prendere atto della mutata «realtà
politico-sociale», sulla scorta del rilievo che le associazioni sindacali avevano oramai stabil-
mente acquisito in sede di contrattazione collettiva; questione quest’ultima da valutarsi
quindi come «giuridicamente rilevante» e non solo in termini di mero dato «metagiuridico».
Già in questa sede si era dunque osservato che «l’art. 26 t.u. n. 1054/1924 è stato formulato
in un momento storico diverso dall’attuale in cui prevaleva la considerazione individualistica
dell’interesse». Si osservava peraltro che, «superato […] dall’ordinamento […] lo stadio me-
ramente individualistico dell’interesse e riconosciuta la capacità di imputazione giuridica e di
agire anche ai soggetti sforniti di personalità giuridica (associazioni non riconosciute, con-
sorzi, società di fatto, ecc.), quest’ultima non si pone più come condizione necessaria e l’art.
24 Cost. va interpretato anche in coerenza con la norma costituzionale contenuta nell’art.
113». L’Adunanza plenaria, inserendosi nel medesimo solco con argomentazioni di rilievo ge-
neralmente riferibile a tutti gli enti rappresentativi privi della personalità giuridica, affermava:
«si deve […] ritenere che il riconoscimento governativo non sia né condizione sufficiente
della legittimazione sostanziale, e nemmeno presupposto necessario di quella processuale».
Se dunque la legitimatio ad processum doveva astrattamente riconoscersi anche alle associa-
zioni prive di personalità giuridica, l’interrogativo da doversi porre successivamente verteva
appunto sulla legittimazione ad agire: era il singolo membro della categoria a poter richiedere
la tutela o l’associazione rappresentativa della stessa? La risposta al quesito suonava come se-
gue: il «fatto che tale interesse, pur senza perdere il carattere dell’individualità, inerisca però
simultaneamente a tutti o a parte dei componenti di una collettività, non soltanto rende pos-
sibile, ma evidentemente agevola, ed anzi incoraggia siffatti fenomeni di aggregazione». Più in
particolare, con il richiamo all’art. 2 Cost., il giudice amministrativo, alla luce della garanzia
costituzionale dei diritti dell’uomo non solo come singolo, ma anche all’interno delle forma-
zioni sociali, giungeva a riconoscere l’accesso al giudizio, oltre che ai singoli legittimati, anche
alle formazioni sociali – sebbene prive di riconoscimento legale – che costituissero aggrega-
218 CAPITOLO TERZO

La strada concettuale seguita per conseguire una rappresentazione


di tal fatta può in effetti trovare ispirazione nella valorizzazione di diffe-
renti fattori appartenenti all’ampio fenomeno qui in esame.
Il risultato è quello che si raggiunge facendo cadere l’accento, all’in-
terno della ossimorica contrapposizione tra il «sovra» e l’«individuale»,
sul primo termine piuttosto che sul secondo.
Si può, seguendo una linea ideale di pensiero, cogliere l’interesse
nella sua dimensione dispersiva, per così dire anti-individuale, a-sogget-
tiva, e dunque più propriamente oggettiva105.

zione dei soggetti interessati valorizzando il momento organizzatorio degli interessi. Il per-
corso logico era dunque quello di individuare previamente i singoli soggetti legittimati e suc-
cessivamente ammettere alla tutela giurisdizionale gli stessi, non solo, tramite il ricorso indi-
viduale, ma anche mediante il ricorso in via associata. La legittimazione collettiva assumeva
quindi i contorni di una legittimazione derivata, ossia traente ragione e fondamento dalla pre-
via tutelabilità degli interessi in via individuale. La conseguenza, sotto altro profilo, era quella
di escludere la legittimazione degli enti rappresentativi – come nel caso di specie «Italia no-
stra» – che promuovessero la tutela dei medesimi beni nella loro dimensione astratta, non lo-
calizzata o comunque non localizzabile in un particolare ambiente naturale e ciò poiché,
come è evidente, in tale ipotesi, l’associazione veniva a perdere la funzione rappresentativa e
organizzativa dei soggetti appartenenti ad un determinato insediamento abitativo e con ciò la
possibilità di mutuare da tali soggetti la tutelabilità giurisdizionale dei loro interessi, presup-
posto imprescindibile per acconsentire l’accesso alla tutela di enti rappresentativi.
105 Esemplare, sul punto, è la posizione di GRASSO, E., Gli interessi della collettività e

l’azione collettiva, cit., p. 24 ss., la cui ricostruzione è, tra quelle qui in esame, una delle più
chiare e approfondite. Il presupposto alla luce del quale si muove l’A. è quello della «illimi-
tata libertà della norma nel conferire rilevanza alla realtà sociale, e di stabilire il modo in cui
questa diviene giuridicamente apprezzabile» (p. 36), presupposto accolto implicitamente an-
che da altri studiosi in materia (cfr. ad es. la posizione di Giannini), ma svolto da Grasso con
particolare ampiezza argomentativa. È questo il punto di partenza da cui muove l’A. per rile-
vare all’interno dell’ordinamento l’incontestabilmente diversa valutazione operata dal sistema
giuridico degli interessi collettivi rispetto a quelli individuali. L’appiglio esegetico sarebbe da
rinvenirsi nell’art. 32 della Costituzione, nel quale «la distinzione tra interesse (tutelato) del
singolo e interesse (anch’esso tutelato) della collettività, appuntati sullo stesso bene, è posta
nettamente» (p. 35). Da ciò, quindi, la conseguenza secondo la quale, «se l’ordinamento si li-
mita a normatizzare l’interesse della sola collettività come un corpo amorfo o come quid in-
determinabile non è possibile trarne conclusioni diverse a favore degli enti finiti ossia degli
individui che la compongono». Per Grasso, dunque, l’interesse della collettività deve essere
assunto come realtà oggettiva. Falsante sarebbe l’ottica proposta dalla dottrina al contrario
orientata a tutti i costi nel senso di soggettivare l’interesse collettivo. Questa tendenza costi-
tuirebbe per Grasso la risultante della tradizionale propensione della scienza giuridica verso
la soggettivazione degli interessi tutelati e la loro conseguente e necessaria traduzione in ter-
mini di situazioni giuridiche soggettive sostanziali. Come chiaramente si esprime Grasso, «l’i-
dea che l’ordinamento possa realizzarsi, proprio attraverso il processo, per l’azione di un sog-
getto che non sia titolare dell’interesse protetto, e addirittura per forza propria senza che die-
tro vi sia “alcun subietto giuridico, investito del compito di perseguirlo”, resta tuttora
estranea alla cultura giuridica contemporanea e, piuttosto che accettarla, si preferisce elevare
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 219

Ma si può anche enfatizzare la dimensione collettiva e dunque il ca-


rattere solidale degli interessi, arrivando a realizzare – più o meno consa-
pevolmente – una sorta di entificazione della categoria, intesa come un
quasi-soggetto a cui imputare un interesse suo proprio distinto da quello
individuale dei membri e capace di librarsi su un piano più elevato, se
non sovraordinato, rispetto a quello dei singoli106.
Evocando, invece, esigenze di natura più propriamente giuridica, si
può per altra via ottenere la perfetta reductio ad unitatem dell’interesse
sovraindividuale ritenendolo proprio di un ente votato a rappresentarlo.
Si può, in altri termini, dare piena applicazione al principio della neces-
saria soggettivazione degli interessi giuridicamente rilevanti e ritenere ti-
tolare dell’interesse il soggetto a cui è attribuito il potere di chiederne la
tutela. Si parte, così, da più interessi virtualmente riferibili a più soggetti,
che passando attraverso gli ingranaggi dell’ordinamento mutano in inte-
resse individuale esclusivo107.

a soggetto la stessa generalità dei cittadini o la mitica figura del popolo». L’interesse collet-
tivo, quindi, non potrebbe essere imputato, né ai singoli membri della collettività (vista la di-
stinzione ontologica tra l’interesse individuale e l’interesse collettivo), né in capo alla colletti-
vità entificata, né in capo al gruppo organizzato o all’ente giuridico preposto a promuoverne
la tutela. In relazione a quest’ultima ipotesi, in particolare, l’A. rileverebbe la necessità di di-
stinguere tra l’interesse oggettivo della collettività e l’interesse, appartenente al soggetto col-
lettivo in quanto tale, al perseguimento dello scopo sociale. Quest’ultimo, costituzionalmente
tutelato se non illegittimo dall’art. 18 Cost., viene a costituire una «situazione giuridica sog-
gettiva che è una specificazione del generale diritto di libertà, e si risolve tutta nella possibilità
del gruppo di svolgere nella realtà socio-politica-economica attività comunque rivolta allo
scopo sociale» (p. 38-39). Visto però, osserva Grasso, che l’interesse perseguito è general-
mente quello di soddisfare l’interesse della comunità più ampia rispetto a quello del gruppo
organizzato, accade che si possa realizzare una sovrapposizione concettuale tra due entità che
al contrario devono rimanere distinte, ossia «l’interesse del gruppo (al perseguimento dello
scopo sociale e all’attività necessaria) che è una situazione soggettiva protetta, e l’interesse
della collettività al godimento del bene (anch’esso garantito, ma obiettivamente, dalla legge)».
«La confusione – evidenzia correttamente Grasso –, alimentata dall’idea ricorrente di un ente
“esponenziale”, quale porzione organizzata della collettività, è effetto della mancata perce-
zione di due entità giuridicamente apprezzabili, e ha avuto conseguenze decisive nello studio
degli interessi collettivi» (p. 39). Una prospettiva consimile a quella ora riportata la si trova in
CARRATTA, A., Brevi osservazioni sull’inibitoria a tutela di consumatori e utenti, in Giusto pro-
cesso civile e procedimenti decisori sommari, a cura di L. Lanfranchi, Torino, 2001, p. 119 ss.,
spec. p. 135; ID., Profili processuali della tutela degli interessi collettivi e diffusi, cit., p. 79 ss.,
ma spec. p. 102 ss. e poi p. 126.
106 Esemplare sul punto è la giurisprudenza amministrativa dominante in materia di tu-

tela giurisdizionale degli interessi collettivi in senso proprio, su cui, amplius, v. infra, in nota
e nel testo.
107 La strada è evidentemente quella proposta da Giannini, la cui posizione è già stata

esaminata retro nel testo ed in nota.


220 CAPITOLO TERZO

Si può infine, seguendo un approccio di matrice lato sensu sociolo-


gica, valorizzare i legami attivati tra i diversi interessi da parte del mo-
mento organizzatorio, conferendo a quest’ultimo proprio il compito di
dare unità a ciò che prima si presentava diviso in separate entità108.
Indipendentemente dalla strada seguita o dai criteri adottati il risul-
tato finale è comunque quello di confrontarsi con una realtà tendenzial-
mente monolitica.
Questa configurazione ha sicuramente il pregio di offrire una vi-
sione grandangolare dell’interesse sovraindividuale, valorizzandone l’a-
spetto globale, ma, come è ovvio, lascia in ombra l’altro lato della meda-
glia, ossia l’antitetica dimensione personale.
La conseguenza più appariscente è – come si attenderà – la tenden-
ziale109 o talora assoluta esclusione dei singoli soggetti appartenenti alla
collettività di riferimento dal novero dei legittimati ad agire110.
La gestione processuale dell’interesse viene infatti attribuita ad un
soggetto ragionevolmente capace di rappresentare, nonché interpretare
l’interesse della collettività, ossia il già noto ente esponenziale.
D’altra parte, una lettura approfondita delle posizioni dottrinali ri-
conducibili a questo generale orientamento consente la possibilità di
porre interessanti distinguo tra le varie opzioni ricostruttive; distinguo

108 Sul punto, v., per tutti, VIGORITI, Interessi collettivi e processo, cit., passim, la cui po-
sizione riguardo la nozione di interesse collettivo è stata già esaminata retro, nel testo ed in
nota, mentre, per ciò che attiene alle più specifiche problematiche relative alla legittimazione
e al trattamento processuale in materia di controversie collettive, v. infra, nel testo ed in nota.
109 Diciamo «tendenziale» per il fatto che in parte della dottrina che andremo ad esa-

minare, ovvero in quella traente ispirazione dalla disciplina delle class action nord-americane,
il privilegio accordato alla legittimazione concentrata in capo ad associazioni rappresentative,
non è una conseguenza di principio (ed in quanto tale assoluta), ma risponde per lo più ad
una scelta di opportunità.
110 Una rilevante eccezione la si trova in CARRATTA, A., in Profili processuali della tutela

degli interessi collettivi e diffusi, cit., p. 133. Se l’A., infatti, come già visto, sostiene, da un
lato, la tesi della distinzione ontologica dell’interesse collettivo rispetto a quello individuale
(v. p. 102 ss.), dall’altro, ritiene comunque doversi ammettere che, in caso di inerzia da parte
delle associazioni rappresentative, «non vi siano plausibili ragioni – una volta che si riconosca
la configurabilità degli interessi collettivi e diffusi come situazioni giuridiche superindividuali
rilevanti per l’ordinamento concorrenti con i diritti soggettivi e gli interessi legittimi dei sin-
goli – per negare il diritto ad agire in giudizio (costituzionalmente garantito) all’appartenente
alla categoria alla quale pertiene il tutelando interesse collettivo e diffuso. Ed anzi, non pos-
sono non far sorgere legittimi dubbi di conformità proprio con la garanzia costituzionale del
diritto di azione previsioni legislative che espressamente privino i singoli […] del potere di
agire in giudizio […] anche per la tutela […] dell’interesse collettivo e diffuso configurabile
in capo alla categoria alla quale essi appartengono».
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 221

che sotto il profilo teorico possono agevolare una visione più dinamica
dei diversi nessi di corrispondenza sussistenti tra premesse concettuali di
volta in volta accolte e conseguenze interpretative raggiunte.
Così operando è possibile individuare all’interno della dottrina pro-
pensa alla raffigurazione unitaria dell’interesse sovraindividuale ben
quattro indirizzi ricostruttivi.

3.4.1.1. L’azione collettiva come rappresentanza ideologica (la lettura


innovativa della posizione giuridica dell’ente rappresentativo). – Un primo
orientamento è rappresentato da quella parte della dottrina, che, preva-
lentemente orientata in una prospettiva de iure condendo, ha ricostruito
un modello di tutela processuale degli interessi lato sensu collettivi sulla
scorta dell’esperienza maturata oltreoceano con l’istituto delle class ac-
tions111.
I presupposti operativi che hanno costituito la cornice concettuale
di questo indirizzo sono stati in sintesi due: da una parte, il necessario su-
peramento dei tradizionali strumenti ricostruttivi (in particolar modo in
punto di legittimazione ad agire, nonché di nozione di giusta parte) a
fronte della natura non meramente individuale delle controversie collet-
tive; dall’altra, la realizzazione di nuove vie di formalizzazione giuridica
che fossero pienamente capaci di far emergere la dimensione collettiva
del conflitto.

111 Sul tema delle class actions, nella letteratura italiana, v., oltre agli AA. che richia-

miamo in questo stesso paragrafo, soprattutto l’ampio lavoro monografico di GIUSSANI, A.,
Studi sulle «class actions», Padova, 1996, cui adde: TARUFFO, M., I limiti soggettivi del giudi-
cato e le «class actions», in Riv. dir. proc., 1969, p. 609 ss.; PATTI, S., L’esperienza delle «class
actions» in due libri recenti, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1979, p. 1559 ss.; VIGORITI, V., Interessi
collettivi e processo, cit., p. 251 ss.; DONDI, A., Funzione «remedial» delle «injunctive class ac-
tions», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1988, p. 245 ss.; GIUSSANI, A., Le «mass tort class actions»
negli Stati uniti, in Riv. crit. dir. priv., 1988, p. 331 ss.; ID., Un libro sulla storia della «class ac-
tion», in Riv. crit. dir. priv., 1989, p. 171 ss.; ID., La prova statistica nelle «class actions», in Riv.
dir. proc. civ., 1989, p. 1029 ss.; CONSOLO, C., «Class actions» fuori dagli USA? Un’indagine
preliminare sul versante della tutela dei crediti di massa: funzione sostanziale e struttura pro-
cessuale, in Riv. dir. civ., 1993, I, p. 609 ss.; RESCIGNO, P., Sulla compatibilità tra il modello pro-
cessuale della «class action» ed i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano, cit.,
p. 2224 ss.; CORAPI, D., La tutela dei consumatori e degli investitori nel diritto statunitense:
«class actions» e «derivative suites», in La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e dif-
fusi, cit., p. 145 ss.; TARUFFO, M., Modelli di tutela giurisdizionale degli interessi collettivi, in
La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, cit., p. 53 ss., ma spec. p. 57 ss.;
GIUGGIOLI, P.F., «Class action» e azioni di gruppo, Padova, 2006. Sull’argomento, anche per
ulteriori riferimenti, v. infra, cap. VI, §§ 5.1. ss. ma v. anche cap. X, § 3.3.
222 CAPITOLO TERZO

Svolgendo questa linea di pensiero la dottrina in esame ha presen-


tato una nozione di azione collettiva in senso proprio112, caratterizzata,

112 Per la definizione di azione collettiva in senso proprio v., per tutti, DENTI, V., Inte-
ressi diffusi, cit., p. 312; e poi, con maggior ampiezza di argomentazioni, ID., Profili civilistici
della tutela degli interessi diffusi, cit., p. 48. In questo scritto, infatti, l’A. avanza una serie di
precisazioni assai utili ai fini del nostro studio, per conseguire risultati condivisibili anche
nella prospettiva, tanto cara al giurista, propriamente definitoria. Stando a questa dottrina l’a-
zione collettiva in senso proprio sarebbe quella idonea, ponendosi su un piano di analisi fun-
zionale, a far emergere la dimensione collettiva della controversia, specie al fine di estendere
la cognizione del giudice alle reali dimensioni della causa, in particolare in riferimento all’a-
spetto istruttorio. Sebbene quindi – osserva Denti – l’uso dell’espressione in esame, invalso
nella prassi, tenda a riferire la nozione prevalentemente alle azioni promosse da gruppi o as-
sociazioni a tutela degli interessi collettivi in senso proprio, in realtà il suo utilizzo può ben
essere esteso, viste le affinità di materia, anche alla tutela degli interessi propriamente diffusi
(che per l’A. in esame – lo si ricorda – si differenziano dai primi per il difetto di carattere cor-
porativo). Questa scelta lessicale dovrebbe, quindi, caratterizzare le azioni promosse da parte
degli enti esponenziali relativamente ad entrambe le tipologie di interesse. Ed in particolare
dovrebbe essere preferito a diverse formule viceversa privilegiate all’estero, tra cui, in primis
la formula delle «azioni pubbliche», utilizzabile in sistemi, come quello nord-americano in cui
il concetto di interesse pubblico – ed in ciò l’A. rimarca correttamente una distinzione troppo
frequentemente oscurata dalla nostra dottrina – equivale a quello di interesse generale. Ma,
precisa Denti, «l’azione a tutela di interessi diffusi è azione collettiva anche quando è fatta va-
lere del singolo portatore dell’interesse, e non soltanto quando è promossa dal gruppo o dal-
l’associazione: il termine designa quindi, non l’aspetto soggettivo, bensì l’aspetto oggettivo
della domanda di tutela, e pone l’esigenza di una dimensione collettiva del processo, attra-
verso la possibilità di ampliamento del contraddittorio» (c.vo mio). Che il significato più
profondo sotteso a questo orientamento sia la necessità di concepire strumenti di tutela ca-
paci di far emergere la dimensione collettiva del conflitto risulta confermato anche dalle os-
servazioni di CAPPELLETTI, M., Appunti sulla tutela giurisdizionale di interessi collettivi o dif-
fusi, cit., p. 202, che, in relazione all’auspicabile accoglimento nel nostro sistema processuale
della figura del «pubblico ministero privato», non esclude che detto istituto possa trovare at-
tuazione sia «a livello individuale», sia «a livello associazionistico»; nello stesso senso, con
ampiezza di esempi mutuati dal diritto straniero, cfr. ID., Formazioni sociali e interessi di
gruppo davanti alla giustizia civile, cit., p. 380 ss., riguardo a organismi pubblici specializzati,
e p. 385 ss., riguardo ad altre opzioni relative a soggetti privati individuali o collettivi. Ma per
una più precisa esposizione della prospettiva seguita dall’A. qui richiamato cfr. la nota che se-
gue. Diversamente da quanto sostenuto da Denti, comunque, la dottrina che successivamente
nei diversi ambiti tratterà il tema della tutela giurisdizionale degli interessi sovraindividuali
tenderà a riferirsi all’«azione collettiva» come all’azione assegnata di volta in volta dal legisla-
tore alle associazioni legittimate, dando, dunque, l’apparenza di una concezione fondamen-
talmente soggettiva della stessa (ovvero intenzionata unicamente a rilevare l’attribuzione del
potere di azione ad un soggetto collettivo) ma al contrario, nella sostanza, celando una con-
cezione di detta azione tutta fondata sulla distinzione ontologica dell’interesse collettivo ri-
spetto l’interesse individuale. Cfr., ad esempio, CAPPONI, B., Diritto comunitario e azioni di in-
teresse collettivo dei consumatori, in Foro it., 1994, IV, p. 439 ss., spec. p. 449, ove si afferma:
«l’azione collettiva […] non può essere confusa con la class action del diritto nordamericano:
in quest’ultimo sistema, il soggetto che il giudice riconosce legittimato ad agire dà impulso ad
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 223

sotto il profilo funzionale dal suo essere rivolta all’instaurazione di un


giudizio chiamato ad accertare la violazione collettiva nella sua interezza
e, sotto il profilo strutturale, dal particolare legame sussistente tra titolare
del potere di azione e interesse materiale tutelando.
Stando a questo orientamento, infatti, bisognerebbe scorgere sul
fondo della legittimazione ad agire, non un legame propriamente giuri-
dico, ma una «relazione o connessione “ideologica”»113.
Il fondamento del rapporto intercorrente tra azione e interesse ma-
teriale dovrebbe essere individuato non più, come per le note situazioni
giuridiche individuali (diritto soggettivo o interesse legittimo), nella tito-
larità esclusiva114 dell’interesse sostanziale in capo al legittimato, ma al

un procedimento destinato a produrre effetti per l’intera classe, senza che abbia rilevanza
concreta la distinzione tra interesse “individuale” e interesse “collettivo”; il sistema dell’a-
zione collettiva nasce invece proprio dalla distinzione tra interesse individuale del singolo
(che può coincidere, ma non necessariamente coincide, con quello della collettività) e inte-
resse collettivo (o diffuso, superindividuale, ecc.) del gruppo organizzato».
113 Sul punto, in particolare, v. CAPPELLETTI, M., Appunti sulla tutela giurisdizionale di

interessi collettivi o diffusi, cit., p. 199 ss., di cui l’espressione cit., nel testo (p. 200), sulla scia
del fondamentale saggio di JAFFE, L.L., The Citizen as Litigant in Pubblic Action: the Non-
Hohfeldian or Ideological Plaintiff, 116 U. Pa. Law Rev. 1033 (1968). Cfr., poi, ancora CAP-
PELLETTI, M., Formazioni sociali e interessi di gruppo davanti alla giustizia civile, cit., p. 373 ss.;
DENTI, V., Relazione introduttiva, cit., p. 15 ss., per il quale il problema della tutela giurisdi-
zionale degli interessi collettivi appare «probabilmente insolubile» se impostato in termini di
legittimazione processuale. La strada indicata dall’A., sin da questo primo momento del di-
battito ed in relazione alle prime esperienze dottrinali in materia di azione per la repressione
della condotta antisindacale, è quella di evitare l’applicazione dei tradizionali istituti (diritto
soggettivo, sostituzione processuale, aut similia) e di scrutinare le feconde opzioni ricostrut-
tive che possono emergere dallo studio delle azioni pubbliche e dal concetto di mera azione;
ID., Interessi diffusi, cit., p. 312; ID., Interessi diffusi e controllo sulla legittimazione, in Le
regioni, 1983, p. 540, con particolare riferimento alla giurisprudenza amministrativa e alla di-
stinzione concettuale tra individuazione dei legittimati e determinazione della posizione di
interesse legittimo in capo all’ente rappresentativo; ID., Profili civilistici della tutela degli inte-
ressi diffusi, cit., p. 48 ss. Cfr. anche, ZANUTTIGH, L., Intervento, cit., p. 312; ID., La tutela de-
gli interessi collettivi, cit., p. 71 ss. (di cui v. anche, per ciò che attiene questa precisa que-
stione, ID., Diritto all’ambiente e tutela giurisdizionale in Riv. dir. proc., 1979, p. 720 ss., ma
spec., 360-361; ID; Legittimazione e danno nell’azione di parte civile degli enti esponenziali, in
Studi in onore di E.T. Liebman, IV, Milano, 1979, p. 2744 ss.); TARUFFO, M., Intervento, cit.,
p. 333.
114 Nel testo si riporta in corsivo l’espressione «titolarità esclusiva» non solo per con-

trapporla a quella di poco successiva dell’«adeguata rappresentatività», ma anche, se non so-


prattutto, per evidenziare – questione che si vuole chiarire proprio con queste righe di nota
– come in queste tesi non si realizzi, o quanto meno non si realizzi necessariamente, la per-
fetta recisione tra legittimato ad agire e interesse materiale, come invece accadrà con partico-
lare chiarezza nella tesi processuale sostenuta da Grasso che tra breve esamineremo. Per un
raffronto più analitico delle due prospettive ora indicate, cfr. infra, nota 118.
224 CAPITOLO TERZO

contrario nella adeguata rappresentatività dell’interesse sostanziale da


parte dell’ente rappresentativo115.
La strada da seguire sarebbe quindi – sul piano teorico – quella di
superare le tradizionali nozioni, sia sul piano sostanziale, sia sul piano
processuale, affidandosi a modelli più elastici e per questo idonei ad
adattarsi alle emergenti esigenze.
Sul piano più propriamente pratico, con riguardo alla delimitazione
della cerchia dei legittimati, la conclusione a cui invece perviene questa
dottrina è, se non assolutamente di chiusura, comunque di forte sfavore
nei confronti del conferimento dell’azione ai singoli membri della collet-
tività; e ciò per la poco probabile evenienza che un quisque de populo
possa presentarsi con le carte in regola per superare il vaglio di rappre-
sentatività necessario per l’ammissione all’esercizio dell’azione collet-
tiva116.

115 È in questa sede che, secondo questa dottrina – cfr. gli AA. cit., alla nota precedente
– dovrebbe trovare massima applicazione la funzione di «supplenza giudiziale», chiamata a
valutare, caso per caso, il requisito dell’adeguata rappresentatività. Specie in questo segmento
della progressione logico-ricostruttiva – ossia la determinazione dei legittimati ad agire – si
apprezza quindi l’influenza dell’esempio nord-americano delle class actions nell’orientamento
in esame. Non è un caso che questa tesi abbia trovato intenso svolgimento – come accennato
– specie nella prima fase del dibattito in materia; periodo in cui la linea seguita dal legislatore
nel disciplinare questo delicato aspetto processuale, era – tanto nel processo civile che ammi-
nistrativo – ben lungi dall’apparire chiaramente. È lo stesso DENTI, V., L’idea di codice e la
riforma del processo civile, cit., p. 105, infatti, che, in relazione alla opportunità di risolvere at-
traverso l’intervento legislativo le delicate questioni sostanziali e processuali che ineriscono
alla materia in esame ed in relazione alla già rilevata preferenza dell’A. per una normazione a
carattere generale piuttosto che settoriale, rileva il rischio di pervenire all’individuazione dei
legittimati in via di predeterminazione legale. Si evidenzia a tal proposito che «la ragione di
questi filtri preventivi sta nell’esigenza di controllare la serietà dell’agire delle associazioni, ma
il risultato che ne consegue è un rafforzamento dell’iniziativa di impresa, o del potere del
contraente forte». Ugualmente in Profili civilistici della tutela degli interessi diffusi, cit., p. 53.
Ancora esplicitamente per la verifica della rappresentatività «in concreto» e non per prede-
terminazione legislativa, v. CAPPELLETTI, M., Appunti sulla tutela giurisdizionale di interessi col-
lettivi o diffusi, cit., p. 204-205. Contra, GRASSO, E., Gli interessi della collettività e l’azione
collettiva, cit., p. 32, nota 30, per il quale, «nel nostro ordinamento non v’è norma che con-
senta al giudice di conferire caso per caso al gruppo la legittimazione ad agire nell’interesse
della collettività, secondo un suo “prudente apprezzamento”»; particolarmente perplesso
circa questa possibilità anche TROCKER, N., Interessi collettivi e diffusi, cit., p. 7; ID., Gli inte-
ressi diffusi e la loro tutela, cit., p. 211; con ampiezza di riflessione, VIGORITI, V., Interessi col-
lettivi e processo, cit., a p. 225 ss.; aperto ad entrambe le opzioni, PROTO PISANI, A., Appunti
preliminari per uno studio sulla tutela giurisdizionale degli interessi collettivi, cit., p. 275.
116 La questione può prestarsi a fraintendimenti. Sul punto si tenga presente quanto

scrive CAPPELLETTI, M., Formazioni sociali e interessi di gruppo davanti alla giustizia civile, cit.,
p. 374: «l’individuo, “personalmente leso”, legittimato ad agire esclusivamente per la ripara-
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 225

3.4.1.2. L’azione collettiva come mera azione (la lettura processualistica


della posizione giuridica dell’ente rappresentativo). – Secondo un altro
orientamento, invece, la corretta qualificazione formale della posizione

zione del danno da lui subito, non è in grado di assicurare né a se stesso né alla collettività
un’adeguata tutela contro violazioni di interessi collettivi; non è in grado soprattutto, di mo-
nopolizzare tale tutela, la quale assume caratteristiche del tutto particolari e un’importanza
sconosciuta finora nella storia del diritto» (c.vo mio). «Si prenda il caso del consumatore –
continua la dottrina in esame – che debba proteggersi contro violazioni prodotte in serie, “a
catena”, da una grande industria. Il danno da lui personalmente subito sarà, normalmente,
troppo esiguo per incoraggiarlo ad agire contro un così potente avversario; e in ogni caso l’e-
ventuale condanna, limitandosi al danno subito da qualcuno soltanto fra migliaia o milioni di
danneggiati, sarà priva di un’efficace conseguenza, preventiva o repressiva, nei confronti del
danneggiante ed a vantaggio della collettività. Il consumatore isolato, da solo, non agisce; se
lo fa è un eroe; ma soltanto se è legittimato ad agire non meramente per sé, ma per l’intero
gruppo di cui è membro, tale “eroe” sarà sottratto al ridicolo destino del Don Chisciotte in
vana quanto patetica lotta contro i mulini a vento. Gli eroi di oggi […] sono coloro, cioè, che
sanno organizzare sul piano della lotta di gruppo la difesa degli interessi diffusi, collettivi, me-
taindividuali, riuscendo a piegare le tradizionali strutture individualistiche di tutela – tra cui
quelle giudiziarie – a bisogni nuovi, tipici delle moderne società “di massa”». Il passo appena
riportato rappresenta con particolare chiarezza l’iter logico seguito da questa parte della dot-
trina. L’azione individuale, se limitata agli effetti «individuali», è sostanzialmente inutile ai fini
collettivi e comunque praticamente poco vantaggiosa anche per il singolo. L’azione collettiva
– ossia quella rivolta a dedurre in giudizio l’intera violazione prodotta e dunque il globale in-
teresse alla repressione del comportamento antigiuridico – è l’unica capace di far emergere il
nucleo collettivo della controversia. D’altra parte, quest’ultima, non può essere attribuita in
«monopolio» al singolo – altrimenti inesorabilmente destinato a destini poco felici (v. Don
Chisciotte) – ma necessariamente a soggetti – quelli collettivi-associativi appunto – in grado
di impostare il conflitto come «lotta di gruppo». Sul punto, v., in particolare, anche DENTI,
V., Relazione introduttiva, cit., p. 15 ss.; ID., Interessi diffusi, cit., 312; ID., Profili civilistici
della tutela degli interessi diffusi, cit., p. 48 ss. In definitiva ciò che in termini di principio
deve essere escluso in materia di azioni collettiva, sembra essere, secondo questi AA., il fram-
mentamento della controversia in tanti rapporti bilaterali, ossia in giudizi aventi ad oggetto il
singolo interesse individuale e non tutto il fascio di interessi. In questa prospettiva, quindi, la
legittimazione individuale sembra essere esclusa solo se intesa nei termini appena esposti, ma
non nel senso della possibile deduzione da parte del singolo di tutto il fascio di interessi. Su
questo piano, invece, opera il requisito di adeguata rappresentatività, che pone seri ostacoli
pratici a che il singolo consegua la legittimazione nell’interesse di tutti. In conclusione, nelle
teorie appena esposte, l’esclusione del singolo dal processo non discende direttamente e pu-
ramente da un’applicazione dei principi, ma piuttosto deriva dalle ragioni di opportunità che
l’applicazione di detti principi porta con sé. Come vedremo tra breve, diversamente è da dire
in relazione alle tesi (in particolare quella di Vigoriti) in cui al requisito dell’adeguata rappre-
sentatività si affianca il fattore organizzatorio. Quest’ultimo, infatti, coordinandosi al princi-
pio della adeguata rappresentatività, si presenta in grado di escludere, anche su un piano più
propriamente teorico, la legittimazione del singolo interessato. Sul punto, v. infra, § 3.4.1.4.
Indipendente da tale distinguo, comunque, in relazione alle tesi, qui richiamate, sensibili al-
l’influenza delle esperienze nordamericane è possibile sollevare due diversi motivi di critica.
In primo luogo questo orientamento non tiene in adeguata distinzione le controversie pro-
226 CAPITOLO TERZO

dell’ente rappresentativo non dovrebbe passare attraverso la creazione di


strutture sostanziali e processuali tanto inedite quanto equivoche, ma do-
vrebbe più semplicemente affidarsi alle categorie ricostruttive già presenti
nel nostro ordinamento e perfettamente capaci di tradurre in termini giu-
ridici il carattere oggettivo degli interessi tutelati.
In quest’ottica, quindi, fruttuoso impiego troverebbe la nozione di
mera azione di chiovendiana memoria, già fecondamente applicata dalla
dottrina giuridica rivolta all’inquadramento dogmatico dell’azione popo-
lare nonché in materia di azione attribuita al pubblico ministero; ambiti
– come quello in esame – contrassegnati da una configurazione norma-
tiva dell’interesse in termini di diritto senza soggetto117.
Indipendentemente però dalle soluzioni di natura più propriamente
formale ciò che caratterizza questa scelta ricostruttiva sono i rapporti tra
legittimato ad agire e titolari dell’interesse sostanziale.
Il raffronto tra questo indirizzo e quello che precede rappresenta
chiaramente il salto concettuale che si realizza nel passaggio dall’uno al-
l’altro.
Sia il primo che il secondo assegnano la legittimazione ad agire ad
un ente collettivo, operando una svalutazione della portata personale del-
l’interesse sostanziale, ma, sotto entrambi i profili, detta operazione con-

priamente collettive da quelle collettive in senso improprio, ovvero da quelle non relative alla
lesione di un interesse collettivo, ma di tanti consimili interessi individuali-esclusivi. Gran
parte delle considerazioni svolte, infatti, possono valere più per le controversie collettive ri-
sarcitorie che per le controversie collettive inibitorie. In altri termini, non è stata prestata la
necessaria attenzione nel tener ferme le differenze funzional-strutturali che separano le due ti-
pologie di liti ora indicate. Sul punto avremo occasione di soffermarci in uno stadio più avan-
zato del nostro lavoro e pertanto rinviamo a quella sede ulteriori considerazioni esplicative
concernenti la questione ora sollevata (cfr. infra, cap. VI, § 5.1.). L’altra ragione di critica è
anch’essa relativa al piano del metodo ed è riferita alla tendenza – presente sovente nelle tesi
propense a configurare l’interesse collettivo in termini unitari – a risolvere le problematiche
che attengono alla gestione processuale delle controversie collettive sul piano dei rapporti tra
diritto e processo, operando – così – una perfetta inversione dell’itinerario ricostruttivo più
corretto, che vede al primo posto l’acquisizione della dovuta certezza sulla natura e sulla
struttura dell’interesse tutelato per poi adeguare ad esso il meccanismo processuale. È in
ballo lo stesso fondamentale principio di strumentalità del diritto processuale a quello so-
stanziale. Principio che impone che il processo segua le ragioni della sostanza e non viceversa.
Tutte le considerazioni inerenti alla indubbia difficoltà di concepire un processo a misura di
controversie collettive sono sicuramente fondate, ma non possono portare oltre il dovuto, ov-
verosia nella direzione di anteporre le ragioni del processo alle ragioni degli interessi tutelati,
cioè risolvendosi in una chiusura sul fronte della legittimazione ad agire, ovvero sul fronte
della tutelabilità stessa dei propri interessi.
117 GRASSO, E., Gli interessi della collettività e l’azione collettiva, cit., p. 45.
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 227

cettuale si realizza secondo un indice di grado diverso e precisamente: re-


lativo, nel primo orientamento, e assoluto nel secondo118.
In quest’ultimo, infatti, ovvero nella tesi in esame in questo para-
grafo, si assiste ad una recisione perfetta e completa del legame intercor-
rente tra titolare dell’interesse e legittimato ad agire; tanto che – ai fini
della determinazione del soggetto collettivo abilitato a provocare l’attua-
zione dell’ordinamento per via giurisdizionale – detto legame viene «arti-
ficialmente» ricostituito tramite l’attribuzione della legittimazione ex lege
al soggetto collettivo119.
118 Si noti come la nozione di mera azione avanzata da Grasso costituisca la perfetta
rappresentazione giuridica della concezione oggettiva dell’interesse collettivo. In essa, difatti,
si realizza la completa scissione tra legittimato e titolare dell’interesse. Non a caso il tertium
comparationis proposto è – come detto nel testo – l’azione del pubblico ministero o la figura
dell’attore popolare. Ipotesi in cui appunto il titolare dell’azione agisce, per tradizionale con-
cezione, per la tutela di un interesse non personale ma alieno nel senso più puro, ossia l’inte-
resse generale all’osservanza del precetto legale. Questo stesso discorso, infatti, non vale in
egual misura per la dottrina propensa a individuare negli interessi sovraindividuali un tertium
genus rispetto le tradizionali figure soggettive e rivolta nel senso del superamento della no-
zione tradizionale di giusta parte ovvero del principio della necessaria coincidenza tra legitti-
mato e titolare esclusivo dell’interesse sostanziale. In queste teorie, infatti, sebbene talora ri-
corra il riferimento alla nozione di mera azione in un significato vicino a quello accolto dal
Grasso (cfr. ad es. DENTI, V., Relazione introduttiva, cit., p. 16) è comunque tendenzialmente
percepibile la volontà di mantenere un aggancio tra legittimato e interesse tutelato. È lo
stesso Grasso (p. 34) ad osservarlo, laddove rileva all’interno dell’opposto filone ricostruttivo
la persistente «logica delle situazioni soggettive» e la volontà di respingere con l’appellativo
«sovraindividuale» una ricostruzione dell’interesse come «non individuale» e propriamente
«della collettività». In altre parole, in tale prospettiva, se va perdendosi il requisito dell’esclu-
sività, resiste – sebbene diluito – quello della riferibilità dell’interesse stesso. Significativi pas-
saggi illuminano questo importante punto di disomogeneità tra le due prospettive qui in
esame. Si noti ad esempio come importanti esponenti della tesi prevalente, non rinuncino –
in taluni casi e sebbene all’interno di un generale quadro ricostruttivo non sempre omogeneo
– a riferirsi, riguardo agli interessi collettivi, pur sempre in termini di diritti soggettivi. È il
caso di CAPPELLETTI, M., Formazioni sociali e interessi di gruppo davanti alla giustizia civile,
cit., p. 372, che si riferisce a «diritti che appartengono allo stesso tempo, a tutti e a nessuno».
È ancora – e soprattutto – il caso di DENTI, V., Profili civilistici della tutela degli interessi dif-
fusi, cit., p. 44-45, che, in una fase da egli stesso ritenuta più matura della sua riflessione («ab-
biamo l’impressione – afferma l’A. a p. 47 in riferimento ai primi incontri congressuali in ma-
teria – che ci occupassimo di fantasmi, mentre oggi siamo di fronte ad esperienze reali»), so-
stiene essere, gli interessi diffusi, «interessi privati» o, «più radicalmente, per dissipare un
equivoco terminologico che sin dall’inizio ha oscurato i nostri problemi […] “diritti” privati,
caratterizzati dalla pari fruizione dei beni suscettibili di usi generali, senza che la possibilità di
riferirli alla collettività dei cittadini debba portare a confonderli con gli interessi “pubblici”
in senso proprio».
119 Piuttosto chiara sul punto appare la posizione sostenuta da GRASSO, E., Gli interessi

della collettività e l’azione collettiva, cit., p. 43-44, riguardo alla legittimazione dell’ente espo-
nenziale. «La legittimazione ad agire per la tutela del diritto di perseguire il fine sociale non
228 CAPITOLO TERZO

Nella linea interpretativa seguita dalla dottrina appartenente al


primo orientamento, invece, si perde il carattere di esclusività, ma non la
riferibilità dell’interesse a soggetti reali ed è proprio dalla diluizione del
legame intercorrente tra interesse collettivo e soggetto singolo, che deriva
poi l’esigenza di una sorta di «rafforzamento» del medesimo mediante il
requisito della adeguata rappresentatività.

3.4.1.3. L’azione collettiva come mera conseguenza della titolarità di


una situazione soggettiva sostanziale (la lettura sostanzialistica della posi-
zione dell’ente rappresentativo).

3.4.1.3.1. Considerazioni generali. – A soluzioni praticamente assai


simili all’orientamento appena esaminato giunge un altro modello rico-
struttivo, ugualmente incline a concepire l’interesse sovraindividuale in
una dimensione unitaria ed inscindibile, nonché ad attribuire in via
esclusiva la legittimazione ad agire alle associazioni rappresentative.
Mentre però nella lettura processualistica pura appena esaminata
tale risultato interpretativo è raggiunto accogliendo una configurazione
perfettamente asoggettiva e dispersiva dell’interesse materiale, tale ap-
punto da non lasciare in mano al legittimato null’altro che un diritto me-
ramente processuale, nelle tesi ora in esame il medesimo obiettivo è rag-
giunto operando nella direzione della soggettivazione più assoluta o, per
meglio dire, più concentrata dell’interesse sostanziale.
La strada intrapresa è infatti quella della piana e piena applicazione
del principio della necessaria soggettivazione degli interessi giuridica-
mente tutelati.
Operando in questo senso, infatti, l’attribuzione del potere di azione
in capo all’ente rappresentativo è letta semplicemente come un atto di as-
sunzione, da parte dell’ordinamento, del medesimo soggetto collettivo a
centro di riferimento giuridico degli interessi sostanziali.
La conseguenza giuridico-formale traente origine da questa impo-
stazione è quindi la seguente: «l’interesse è “collettivo” come matrice
pratica, ma sul piano giuridico esso è ormai “individuato”»120 e il risul-
tato ricostruttivo che pianamente discende allorché ci si trovi innanzi ad
un interesse individuale giuridicamente tutelato è – come è ovvio –

può essere confusa con la legittimazione ad agire per la tutela dell’interesse della collettività»;
infatti, mentre la prima rappresenta una «naturale legittimazione del gruppo», la seconda è
concepibile solo alla condizione che l’agente ne sia investito «in forza di una specifica legitti-
mazione originaria», attribuita ex lege da una altrettanto «specifica previsione normativa».
120 FAZZALARI, E., Istituzioni di diritto processuale, cit., p. 285.
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 229

quello di condurlo alla categoria, a seconda dei casi, del diritto soggettivo
o dell’interesse legittimo; posizioni giuridiche questa volta non più –
come nelle tesi favorevoli alla configurazione dell’interesse collettivo
quale semplice aggregato di più entità distinte – di titolarità dei singoli
soggetti facenti parte il gruppo interessato, ma direttamente dell’ente
esponenziale legittimato.
Si noti, quindi, come questa opzione ricostruttiva, sebbene sul piano
più puramente formale possa apparire assai distante dall’ultima tesi esa-
minata, specie per l’operazione di sostanzializzazione dell’interesse tute-
lato, al contrario le si rivela assai prossima sotto il profilo funzionale. An-
che in questa posizione ricostruttiva, infatti, si realizza, tanto l’effetto di
recisione tra membri della collettività di riferimento e interesse giuridica-
mente tutelato, quanto l’instaurazione di un collegamento «artificiale», di
natura esclusivamente legale, tra legittimato ed interesse materiale.
L’attribuzione della legittimazione in via legale ad un ente rappre-
sentativo è letta da questi due orientamenti come uno strumento di cui
l’ordinamento si serve per creare un ponte tra interesse e titolare del di-
ritto di azione: nel primo, poi, la traduzione formale del fenomeno passa
per il richiamo del concetto di mera azione; nel secondo, invece, l’attri-
buzione del diritto di azione è interpretata come riflesso processuale
della previa titolarità di una posizione sostanziale soggettiva.

3.4.1.3.2. Ipotesi giurisprudenziale tipica: la giurisprudenza ammini-


strativa in materia di tutela degli interessi collettivi in senso proprio. –
Questa ricostruzione, che buona fortuna – come vedremo – ha avuto in
materia di giudizio per la repressione della condotta sindacale, ha trovato
sostegno anche da parte della dottrina, tanto civilistica121, che proces-
sualcivilistica122, occupatasi dello studio della problematica in una pro-
spettiva generale, ma in particolar modo ha trovato ampia occasione di

121 BIANCA, C.M., Note sugli interessi diffusi, cit., p. 70-71, per il quale «è artificioso ne-

gare la qualifica di diritti a situazioni di interessi individualmente tutelati: se vi è un interesse


del soggetto avente tutela giuridica, ivi è un diritto soggettivo». D’altra parte, «pur se giuri-
dicamente meritevole di tutela, l’interesse diffuso non è inquadrabile nello schema del diritto
soggettivo fin quando esso rimanga riferibile ad un gruppo di persone a composizione inde-
terminata. Il gruppo a composizione indeterminata (es.: consumatori) non è infatti un sog-
getto in cui possa identificarsi il titolare del diritto». Così, «l’esigenza che alla meritevolezza
della tutela degli interessi diffusi corrisponda l’effettività della tutela giurisdizionale trova ri-
sposta nell’assunzione di questi interessi da parte di enti esponenziali. In tal caso l’interesse
diffuso è fatto proprio dall’ente esponenziale, al quale vanno allora riconosciute le relative
posizioni giuridiche soggettive del diritto o dell’interesse legittimo».
122 Cfr. FAZZALARI, E., Istituzioni di diritto processuale, cit., p. 285.
230 CAPITOLO TERZO

svolgimento all’interno della dottrina amministrativistica123, nonché al-


l’interno della giurisprudenza del giudice amministrativo pronunciatasi

123 Per tutti, v. la posizione di Giannini, ampliamente esaminata retro, nel testo ed in
nota. Il principio dell’imputazione dell’interesse individuale ad un soggetto idoneo a rappre-
sentarlo e a determinarne la soggettivazione ha trovato applicazione anche nelle teorie che,
sebbene all’interno di una diversa cornice ricostruttiva, hanno comunque ritenuto opportuno
imputare l’interesse sovraindividuale, ed in particolare quello diffuso, o direttamente in capo
a soggetti pubblici, o in capo a soggetti riconosciuti dallo Stato quali idonei a promuoverne
la tutela in affiancamento ai pubblici poteri. Questa opzione interpretativa, che costituisce in
un certo senso la variante pubblicistica della tesi esposta nel testo, è caratterizzata da una
profonda affinità concettuale con le tesi appena esposte. Come in queste l’interesse sovrain-
dividuale è concepito in senso unitario, ossia privilegiandone la dimensione globale a scapito
di quella particolare e, ancora come in queste, l’interesse viene ad essere imputato ad un sog-
getto collettivo che, in virtù di questo processo di sua assunzione a centro di riferimento giu-
ridico dell’interesse, ne diviene titolare formale e gestore. Ciò che cambia è la natura dell’ente
portatore. La strada seguita da queste tesi, infatti, è forse la più tradizionale delle tradizionali,
ossia si rivolge nel senso di imputare l’interesse della collettività, generale, diffuso, indifferen-
ziato ecc. direttamente a soggetti pubblici. Nella prospettiva appena esposta v. ancora GIAN-
NINI, M.S., nel Rapporto sui principali problemi dell’amministrazione dello Stato, in Foro it.,
1979, V, p. 289 ss., nonché in Foro amm., 1979, p. 2667 ss., ma spec. p. 2695 s., relativamente
alla costituzione di «associazioni di interesse nazionale», nonché il d.d.l. Spadolini del 19 ago-
sto 1981, su cui cfr. anche CARAVITA, B., Materiali legislativi sulla tutela degli interessi diffusi e
collettivi, in Riv. crit. dir. priv., 1985, p. 115 ss., ma spec. p. 121. Per un imputazione dell’in-
teresse sovraindividuale direttamente a soggetti pubblici ed in particolar modo agli enti pub-
blici territoriali tra cui in primis il comune, v. spec. ANGIULI, A., Interessi collettivi e tutela giu-
risdizionale, cit.; lavoro, quest’ultimo richiamato, in cui l’A. muove severa critica agli orienta-
menti tendenti a trovare spazi di giustiziabilità degli interessi sovraindividuali mediante
operazioni interpretative di adattamento delle situazioni giuridiche soggettive e ciò in parti-
colar riferimento alla nozione di interesse legittimo e ai criteri di determinazione del mede-
simo, ovvero i requisiti di differenziazione e qualificazione dell’interesse tutelato. Sotto il
primo profilo, infatti, si osserva come «gli stessi procedimenti proposti in sede dottrinaria e
giurisprudenziale per la soggettivizzazione del c.d. interesse diffuso non sempre appaiono
soddisfacenti: quest’ultimo, infatti, il più delle volte – rileva appunto Angiuli (p. 86) – si
confonde con l’interesse pubblico generale, di tal che la sua riferibilità ad un individuo […]
presuppone un processo di “privatizzazione” che mal si concilia con la natura pubblica del
bene tutelato». Sotto il secondo profilo, invece, quello della qualificazione (v. in particolare p.
90-93), si osserva che l’«imputazione (o imputabilità) ad un soggetto dell’ordinamento, del
c.d. interesse diffuso […] non è, tuttavia, sufficiente a far sorgere una situazione giuridica au-
tonomamente azionabile dinanzi al giudice amministrativo. Nessuno dubita che il singolo sia
titolare dell’interesse che condivide con gli altri della collettività più o meno ampia di cui fa
parte; così come, del pari, nessuno dubita che l’interesse “esposto” da una formazione sociale
sia proprio di quest’ultima, poiché da essa assunto tra le proprie finalità ed in fatto perse-
guito. Ma trattasi – come ognun vede – di interessi di mero fatto, la lesione dei quali non le-
gittima i titolari a promuovere un giudizio amministrativo». La questione a cui – insomma –
i diversi tentativi di adattamento dei concetti tradizionali non darebbero risposta rimarrebbe
proprio quella concernente la «giuridica rilevanza» dell’interesse. È svolgendo questa linea di
pensiero, dunque, che la dottrina ora in esame si indirizza verso lo studio della disciplina giu-
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 231

in materia di tutela giurisdizionale degli interessi collettivi in senso


stretto. E proprio in questa sede – forse – si sono riscontrate le più inte-
ressanti esperienze dal punto di vista ricostruttivo.

ridica degli enti pubblici territoriali ed in particolare verso lo studio della disciplina degli isti-
tuti maggiormente caratterizzati dalla valenza sovraindividuale degli interessi tutelati: la difesa
dei diritti di uso civico, della c.d. proprietà pubblica collettiva, dei diritti di uso pubblico. Ciò
che comunque interessa sotto il profilo più squisitamente teorico che qui si intende lumeg-
giare, non sono tanto o solo le soluzioni concretamente ritenute preferibili (azione attribuita
all’ente territoriale ed eventualmente in via surrogatoria dal singolo interessato in caso di
inerzia del soggetto pubblico), ma la strada seguita per conseguirle. Ammessa, infatti, la rife-
ribilità degli interessi collettivi esaminati anche ai singoli cives, Angiuli, per un verso (p. 162),
non si sottrae all’ammettere serie «perplessità esistenti in ordine alla giuridica possibilità di
configurare come autonomo soggetto di diritti una collettività al più individuabile alla stregua
di criteri meramente sociologici» e, dall’altro (p. 163), afferma «la sostanziale identità tra la
universitas degli utenti e l’ente collettivo di diritto pubblico costituito per l’amministrazione
e la tutela degli interessi collettivi». «Quest’ultimo, infatti, – afferma con particolare chiarezza
Angiuli – altro non è se non la struttura organizzatoria della prima, interprete qualificato e
“portavoce” di interessi che si manifestano nel mondo esterno soltanto attraverso l’associa-
zione […] entificata» (c.vo mio). Si realizza, come ben vedremo nel prossimo capitolo, quella
sorta di trasposizione concettuale in virtù della quale: a) l’interesse collettivo è concepito
nella sua visione unitaria e non aggregata; b) detto interesse è imputato alla categoria, intesa
come universitas; c) la categoria è assunta come sostanzialmente coincidente con l’ente giuri-
dico espressione organizzatoria della medesima o, più correttamente, di una parte di essa. La
sequenza logica appena esposta è tanto chiara in Angiuli quanto nella tesi – più articolata sul
punto specifico, ma non per questo meno criticabile – avanzata da Garofalo in materia di
procedimento per la repressione della condotta antisindacale in riferimento – chiaramente –
alla posizione dell’associazione sindacale legittimata (sul punto v. infra, cap. VII, § 3.1.). Non
è casuale, ma al contrario è perfettamente congruo alle premesse, anche l’approdo ricostrut-
tivo espresso in punto di qualificazione formale della posizione processuale dell’ente pub-
blico. Si osserva infatti (p. 163 s.) che, «in una situazione giuridica così caratterizzata, ricor-
rere agli schemi propri della sostituzione processuale per spiegare il fondamento della legitti-
mazione dell’ente di diritto pubblico ad agire in giudizio a tutela dell’interesse collettivo
all’uso civico sembra, in realtà, eccessivo. Nella fattispecie in argomento non appaiono, in-
fatti, nettamente distinguibili due soggetti giuridici […]». La conclusione è, dunque, rappre-
sentata dal ritenere che l’interesse sostanziale dedotto in giudizio sia di titolarità propria del-
l’ente, poiché assunto quale suo fine istituzionale ed in quanto «pertinente simultaneamente
all’intera comunità che costituisce il substrato personale dell’ente». Ancora nel senso della
pubblicizzazione dell’interesse sovraindividuale si tenga presente in giurisprudenza la posi-
zione assunta a cavallo tra anni Settanta ed Ottanta dalla Corte dei conti in materia di danno
ambientale. Cfr., ad es. C. conti, sez. I, 15 maggio 1973, n. 39, in Foro amm., 1973, I, p. 247
ss.; C. conti, sez. I, 20 settembre 1975, n. 108, in Foro it., 1977, III, p. 349 ss.; C. conti, sez.
I, 8 ottobre 1979, n. 61, in Foro it., III, p. 593 ss.; C. conti, sez. I, 18 settembre 1980, n. 86,
in Foro it., 1981, III, p. 167 ss.; C. conti, sez. I, 22 maggio 1982, n. 10, in Riv. Corte dei conti,
1982, I, p. 89 ss. In dottrina, su questo orientamento giurisprudenziale, v. la sintesi di CARA-
VITA, B., Corte dei conti e interessi diffusi. Un caso di interpretazione estensiva, in Dem. dir.,
1982, fasc. 3, p. 41 ss.; v. inoltre (oltre ai numerosi scritti di Paolo Maddalena su cui infra,
cap. IX) SCOCA, F.G., Giurisprudenza amministrativa e tutela dell’ambiente nella prospettiva di
232 CAPITOLO TERZO

Se in effetti si erano già ravvisate aperture a favore della ricorribilità


da parte degli ordini o collegi professionali – enti pubblici dotati di per-
sonalità giuridica, nonché a formazione esclusiva e ad appartenenza neces-
saria – avverso i provvedimenti amministrativi che fossero lesivi degli in-
teressi corporativi della categoria rappresentata, è ancora negli anni Set-
tanta che si apre un nuovo filone giurisprudenziale rivolto ad ammettere
la tutela degli interessi collettivi di gruppi e categorie limitate e ben de-
terminate di soggetti da parte di associazioni ed enti rappresentativi,
privi della personalità giuridica, ma soprattutto a formazione concorrente
e ad appartenenza volontaria124.
Due sono le decisioni che possono essere prese come punto di rife-
rimento per l’esame di questo filone giurisprudenziale che con diverse ar-
ticolazioni giunge sino ai giorni nostri presentando per l’interprete un
campo di studio straordinariamente interessante sotto il profilo teorico
della configurazione del concetto di interesse collettivo: due decisioni
per due diverse ed opposte modalità di concepire l’interesse collettivo tu-
telabile125.
Nella prima126, fondamentalmente in materia di legittimazione degli
ordini professionali, l’argomentazione giudiziale si allargava al tema della

un orientamento omogeneo delle giurisdizioni, in Unità delle giurisdizioni e tutela dell’am-


biente, Milano, 1986, p. 280 ss.; D’ORTA, C., Ambiente e danno ambientale: dalla giurispru-
denza della Corte dei Conti alla legge sul Ministero dell’ambiente, in Riv. trim. dir. pubbl.,
1987, p. 60 ss.; ANGIOLINI, V., Il danno ambientale: dalla giurisprudenza della Corte dei conti
alla legge 349/1986, in Amministrare, 1987, p. 215 ss.; COLOMBINI, G., Profili della responsa-
bilità amministrativa nel governo del territorio e dell’ambiente, in Riv. trim. dir. pubbl., 1987,
p. 3 ss., ma spec. p. 57.
124 La distinzione proposta nel testo è mutuata dall’attenta analisi giurisprudenziale di

CASSARINO, S., Il processo amministrativo nella legislazione e nella giurisprudenza, I, I presup-


posti, Milano, 1984, p. 615 ss., a cui si rinvia anche per l’analisi della giurisprudenza ante-
riore. Ma su tale distinzione torna anche CRESTI, M., Contributo allo studio della tutela degli
interessi diffusi, cit., p. 55 ss., che rileva come «nell’ambito della tutela delle categorie econo-
miche o professionali, si sia posta per la prima volta, molto tempo prima che emergesse la
problematica dell’interesse diffuso, la questione dell’accesso delle formazioni sociali al giu-
dice amministrativo. Questa è stata vista esclusivamente come un problema di legittimazione
dell’associazione a far valere un interesse che non è suo personale, ma appartiene invece ai
membri della categoria rappresentata. Non sono sorti invece, a differenza di quanto si veri-
fica con gli interessi diffusi, interrogativi sulla possibilità di includere l’interesse azionato fra
le situazioni meritevoli di tutela, essendo apparso qualificato e differenziato grazie al collega-
mento con ben definiti status imprenditoriali e professionali».
125 Sull’importanza delle due decisioni in esame per l’evoluzione giurisprudenziale in

tema di tutela degli interessi collettivi nel processo amministrativo, v., per tutti, CRESTI, M.,
Contributo allo studio della tutela degli interessi diffusi, cit., p. 55 ss.
126 Cons. St., sez. VI, 10 novembre 1978, n. 1187, cit.
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 233

legittimazione della associazioni non riconosciute e, distinguendosi anche


qui tra interessi diffusi e interessi collettivi in senso stretto, si rinveniva il
significato profondo della tutela dei secondi proprio nella previa tutela-
bilità degli interessi individuali di ciascun membro del gruppo. Alla luce
di tale presupposto si riteneva, dunque, sussistente la legittimazione agli
enti rappresentativi di questi interessi «omogenei ed autonomamente
azionabili», per il fatto che i singoli interessati, «iscrivendosi all’ordine o
consiglio professionale ovvero associandosi al sindacato […], conferi-
scono implicitamente a questi ultimi il potere di rappresentarli in tutto
ciò che attiene alla tutela delle questioni di comune interesse», ma riba-
dendo comunque a chiare lettere che «l’area della legittimazione dell’as-
sociazione viene […] a coincidere con la somma delle aree dei singoli as-
sociati». Sebbene in un contesto differente dalla sentenza dell’Adunanza
plenaria del 1979, anche qui la legittimazione ad agire dell’associazione
era legata a doppio filo con la legittimazione previamente conferita in
capo ai singoli. L’interesse giuridicamente rilevante, collettivo in quanto
appartenente ad un gruppo differenziato e organizzato, era tutelabile
proprio in ragione e non oltre i limiti in cui lo fosse l’interesse dei singoli.
La legittimazione dell’associazione era insomma una legittimazione deri-
vata e l’interesse collettivo doveva essere inteso come somma degli inte-
ressi individuali127. Si seguiva, in altri termini, un’impostazione concet-
tuale riconducibile pianamente al primo filone ricostruttivo esaminato,
ovvero tendente a raffigurare l’interesse collettivo come aggregato di di-
stinte posizioni individuali.

127 La decisione in esame introduce un principio, in punto di configurazione dell’inte-


resse collettivo, che sembra essere accolto anche dalla giurisprudenza successiva: v. ad esem-
pio, Tar Piemente, sez. II, 10 ottobre 1985, n. 430, in Foro amm., 1986, p. 158, per il quale
l’«associazione ricorrente è costituita da soggetti che, in quanto portatori di interessi omoge-
nei, si iscrivono all’ente e gli conferiscono implicitamente il potere di rappresentarli in tutto
ciò che attiene alla tutela delle questioni di comune interesse».; Cons. St., sez. VI, 13 luglio
1993, n. 531, in Cons. St., 1993, I, p. 951 ss., secondo cui «le associazioni sindacali sono le-
gittimate ad agire in giudizio per far valere non solo interessi propri, ma anche quelli degli as-
sociati, in quanto la tutela di costoro costituisce il loro fine istituzionale» ed in quanto i sog-
getti interessati hanno conferito il mandato all’associazione; Tar Lazio, sez. II, 10 luglio 1996,
n. 1394, in TAR, 1996, I, p. 2975, per il quale «è noto che alle associazioni sindacali va rico-
nosciuta la legittimazione ad impugnare atti che incidono non solo direttamente nella sfera
giuridica dell’Ente esponenziale della categoria, ma anche sugli interessi del gruppo di cui co-
stituiscono stabile ed organizzato centro di riferimento in virtù del mandato ricevuto dai la-
voratori aderenti»; Tar Toscana, sez. I, 12 giugno 2000, n. 1222, in TAR, 2000, I, p. 3881, che
rileva la possibilità che siano fatti valere non solo gli interessi propri dell’associazione, ma an-
che quelli «particolari degli associati», appunto «aderenti» alla medesima, allorché la tutela di
questi corrisponda al suo fine istituzionale.
234 CAPITOLO TERZO

In senso opposto si muoveva invece una coeva pronuncia della VI


Sezione del Consiglio di Stato, la cui trama argomentativa costituisce un
fulgido esempio dell’orientamento ricostruttivo ora in esame128.
La prospettiva seguita, quantomeno per ciò che atteneva ai presup-
posti applicativi, era quella tradizionale: ricercare i requisiti di qualifica-
zione e differenziazione dell’interesse materiale.
In tal senso la ricerca giungeva rapidamente ad un esito positivo,
stante il rilievo che la normativa in materia risultava rivolta, non solo, alla
tutela dell’interesse pubblico, ma anche a quella dell’interesse – più ri-
stretto – comune alla categoria professionale.
Ciò che si evidenziava – quindi – era la circostanza che, proprio in
ragione dell’effetto di differenziazione operato, l’interesse giuridicamente
rilevante, non essendo concepibile come semplice interesse diffuso, ma
essendo al contrario limitato ad una categoria determinata, dovesse es-
sere qualificato come propriamente collettivo.
Ciò posto, d’altro canto, occorreva determinare chi fosse legittimato
a far valere in giudizio tale situazione soggettiva sostanziale: era il singolo
membro della categoria a poter attivare la tutela oppure anche o solo
l’associazione rappresentativa della categoria stessa?
Sotto questo profilo, il Consiglio di Stato svolgeva riflessioni di par-
ticolare interesse per il nostro studio, poiché rilevava la possibilità di
concepire condotte «attualmente lesive se considerate in relazione ad un
interesse generale di categoria, ma […] non […] nei confronti del sin-
golo appartenente». In altri termini, se sussisteva la possibilità di rivol-
gersi all’interesse collettivo apprezzando la dimensione particolare-singo-
lare del medesimo, ritenendolo di conseguenza appartenente ai singoli
membri del gruppo, alternativamente, poteva anche ritenersi che quello
stesso interesse dovesse essere assunto come trascendente l’interesse in-
dividuale, acquistando «un valore superindividuale e quindi tipico [e]
proprio della collettività»129.

128 Cons. St., sez. VI, 15 giugno 1979, n. 494, in Foro it., 1980, III, p. 54 ss., con nota

di R. Ferrara, in cui il giudice amministrativo veniva ad essere chiamato a decidere sul ricorso
delle associazioni di categoria del personale di volo contro i provvedimenti con i quali il Re-
gistro areonautico italiano modificava la composizione dell’equipaggio minimo per talune ti-
pologie di areomobile.
129 Si noti bene, nella decisione appena riportata nel testo, l’orientamento seguito è nel

senso di tenere distinti l’interesse collettivo in senso unitario dai singoli interessi esclusiva-
mente individuali. Da qui la possibilità di concepire la giuridicità e la tutelabilità dell’inte-
resse collettivo riferendolo alla categoria come entità a sé. In questi termini, la giuridicizza-
zione dell’interesse collettivo risulta essere questione autonoma e distinta rispetto alla giuri-
dicizzazione degli interessi individuali dei singoli membri del gruppo. Anzi, operando in
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 235

Seguendo questa seconda strada, si apriva allora la seguente oppor-


tunità: configurare, da un lato, un interesse legittimo individuale, allorché

questo senso, si può concepire la lesione del primo e non dei secondi, legittimando poi al ri-
corso l’associazione rappresentativa della categoria per la tutela dell’«interesse legittimo col-
lettivo». In altri termini, se il provvedimento amministrativo pregiudica direttamente un inte-
resse giuridicamente rilevante di titolarità individuale, allora si verte in tema di interessi le-
gittimi individuali e il singolo è legittimato a agire; se diversamente il pregiudizio si realizza
su un piano superiore che coinvolge direttamente e indifferenziatamente la collettività tutta,
allora si verte in tema di interessi legittimi collettivi e legittimata ad agire sarà l’associazione
esponenziale. Si segue, quindi, un’opzione ricostruttiva antitetica a quella sostenuta dal Con-
siglio di Stato con l’applicazione del criterio della vicinitas, in cui la legittimazione dell’ente
rappresentativo era derivata, ovvero condizionata da un previo riconoscimento in capo ai sin-
goli di una situazione di interesse legittimo all’annullamento del provvedimento. Nella sen-
tenza in esame, invece, la legittimazione è – come accennato anche nel testo – originaria ed
esclusiva, ovvero non solo indipendente ed autonoma rispetto a quella dei singoli, ma anche
riservata unicamente all’associazione, in virtù delle sue finalità rappresentative perseguite. In
questo senso sembra orientata, sebbene non sempre con una chiarezza definitoria adeguata,
gran parte della giurisprudenza: Cons. St., sez. V, 27 novembre 1981, n. 613, in Cons. St.,
1981, I, p. 1265 ss.; Tar Liguria, 28 novembre 1984, n. 638, in Foro it., 1986, III, p. 26 ss.; Tar
Lombardia, Brescia, 9 maggio 1984, n. 444, in Foro it., 1984, III, p. 243 ss.; Cons. St., sez. IV,
15 aprile 1985, n. 265, in Foro amm., 1986, 650 ss.; Cons. St., sez. V, 11 luglio 1985, n. 261,
in Cons. St., 1985, I, p. 725; Cons. St., sez. VI, 29 novembre 1988, n. 1291, in Foro it., 1989,
III, p. 423 ss.; Cons. St., sez. VI, 12 marzo 1990, n. 374, in Foro it., 1991, III, p. 270 ss.; Trga
Trentino-Alto Adige, 6 marzo 1990, n. 116, in TAR, 1990, I, p. 2003; Tar Toscana, sez. I, 27
novembre 1991, n. 651, in TAR, 1992, I, p. 253; Cons. St., sez. IV, 14 luglio 1995, n. 562, in
Foro amm., 1995, p. 1489; Cons. St., sez. V, 3 giugno 1996, in Cons. St., 1996, I, p. 887; Tar
Friuli-Venezia Giulia, 30 aprile 1996, n. 419, in Foro it., 1996, III, p. 578; Cons. St., sez. IV,
25 agosto 1997, n. 907, in Cons. St., 1997, I, p. 1032 s.; Tar Lombardia, 9 gennaio 1997, n.
11, in TAR, 1997, I, p. 955; Tar Veneto, 11 febbraio, n. 363, in TAR, 1997, I, p. 1331; Cons.
St., sez. IV, 27 maggio 2002, n. 2915, in Foro amm., CDS, 2002, p. 1197; Cons. St., sez. V, 1
luglio 2002, n. 3586, in Foro amm., CDS, 2002, p. 2935 ss.; Cons. St., sez. IV, 7 novembre
2002, n. 6049, in Foro amm., CDS, 2002, p. 2806; Tar Bari, sez. I, 11 giugno 2003, n. 2394, in
TAR, 2003, I, 1363 ss.; Cons. St., sez. VI, 27 gennaio 2003, n. 426, in Foro it., 2004, III, p. 86
ss.; Cons. St., sez. VI, 27 gennaio 2003, n. 438, in Giur. it., 2003, p. 1489 ss.; Cons. St., sez.
V, 18 settembre 2003, n. 5307, in Foro amm., CDS, 2003, p. 2566; Tar Marche, 3 marzo 2003,
n. 51, in Ragiufarm, 2003, fasc. 76, p. 20 ss.; Tar Lazio, sez III ter, 25 novembre 2004, n.
14062, in TAR, 2004, I, p. 2800; Cons. St., sez. VI, 14 giugno 2004, n. 3874, in Cons. St.,
2004, I, p. 1229; Cons. St., sez. VI, 22 settembre 2004, n. 6185, in Cons. St., 2004, p. 1889 ss.;
Tar Lazio, sez. III, 11 marzo 2004, n. 2375, in TAR, 2004, I, p. 21 ss. V. anche Tar Lazio, sez.
I, 27 novembre 1985, n. 1440, in Foro amm., 1986, p. 876 ss.; Tar Lazio, sez. III-ter, 3 giugno
2003, n. 5417, in Ragiufarm, 2004, fasc. 79, p. 19 ss.; Cons. St., sez. IV, 2 aprile 2004, n. 1826,
in Foro amm., CDS, 2004, p. 1054; decisioni di particolare interesse, poiché si ritiene che il
provvedimento amministrativo possa essere concepito anche come plurioffensivo, ovvero re-
cante pregiudizio sia all’interesse di singoli, sia all’interesse della generalità della categoria e
si legittima all’azione pertanto, in contrasto con la giurisprudenza dominante, sia il singolo sia
l’ente rappresentativo. A fronte di questo gruppo di pronunce che in maniera più chiara
esprimono i principi richiamati, ve ne sono poi altre la cui interpretazione è meno immediata.
Un primo gruppo è costituito dalle decisioni in cui la legittimazione ad agire dell’ente espo-
236 CAPITOLO TERZO

il provvedimento amministrativo arrecasse direttamente pregiudizio al-


l’interesse – appunto – esclusivamente individuale del singolo membro

nenziale è negata allorché gli interessi degli iscritti o degli appartenenti alla categoria non
siano univocamente conformi all’interesse a tutela del quale l’associazione agisce e possa sus-
sistere contrasto all’interno di essa. In questo senso, v. Tar Liguria, 28 novembre 1984, n. 638,
cit.; Trga Trentino-Alto Adige, 6 marzo 1990, n. 116, cit; Cons. St., sez. IV, 22 aprile 1996, n.
523, in Foro amm., 1996, p. 1178; in Cons. St., 1996, I, p. 565; Tar Veneto, 11 febbraio 1997,
n. 363, in TAR, 1997, I, p. 1330 ss.; Tar Emilia-Romagna, Bologna, sez. II, 11 marzo 1998, n.
131, in TAR, 1998, I, p. 1904 ss.; Tar Sicilia, Palermo, sez. II, 8 aprile 2002, n. 901, in Foro
amm., TAR, 2002, p. 893; Tar Lazio, sez. II, 6 luglio 2002, n. 5298, in TAR, 2002, I, p. 2331;
Tar Sicilia, Palermo, sez. II, 8 aprile 2002, n. 893, in Foro amm., TAR, 2002, p. 1400; Tar Sar-
degna, 29 agosto 2003, n. 1045, in Ragiusan, 2004, fasc. 241-242, p. 349 ss.; Cons. St., sez. IV,
15 giugno 2004, n. 4020, in Foro amm., CDS, 2004, 1687 s.; Tar Milano, sez. I, 29 settembre
2004, n. 4196, in TAR, 2004, I, p. 2836 ss.; Tar Lazio, sez. II, 13 novembre 2006, n. 12320, in
Corr. merito, 2007, p. 674; Tar Lazio, sez. I, 31 luglio 2006, n. 6615, in Foro amm., TAR, 2006,
p. 2495; Cons. St., sez. VI, 1 febbraio 2007, n. 416 cit. Questo orientamento, d’altro canto,
deve essere semplicemente inteso come una diversa rappresentazione della posizione domi-
nante esaminata in questa nota, in quanto nel rimarcare il contrasto tra interesse del singolo
ed interesse della categoria per negare la legittimazione dell’ente rappresentativo, non si af-
ferma null’altro che l’irrilevanza dell’interesse collettivo, in quanto la differenziazione si rea-
lizza sul piano individuale (ovvero in riferimento a posizioni specifiche e singolari) e non su
quello collettivo (ovvero in riferimento alla categoria nel complesso). Con altre parole: se si
ritiene che la tutela dell’interesse legittimo collettivo sia possibile a fronte di pregiudizi indif-
ferenziati dei soggetti appartenenti alla categoria, allora il pregiudizio differenziato derivante
dalla lesione di una posizione individuale esclude a priori la rilevanza giuridica dell’interesse
collettivo. D’altra parte occorre anche rilevare che, probabilmente, proprio le decisioni che
cercano di trovare un ragionevole fondamento logico ad una concezione dell’interesse collet-
tivo che non si risolva nella mera sommatoria di interessi individuali (in particolare, v. Cons.
St., sez. V, 27 novembre 1981, n. 613, cit.; Tar Lombardia, Brescia, 9 maggio 1984, 444, cit.;
Tar Sardegna, 12 luglio 1994, n. 1118, in TAR, 1994, I, p. 3501; Cons. St., sez. IV, 27 maggio
2002, n. 2921, cit.), incorrono in contraddizioni che, se risulteranno di maggior evidenza al-
lorché cercheremo di tirare le somme circa la corretta nozione di interesse collettivo, sin da
ora devono essere rimarcate. Ci si riferisce alle decisioni che evidenziano l’elevazione dell’in-
teresse sul piano sovraindividuale e l’effetto della sintesi operata mediante il momento orga-
nizzatorio (l’importanza del passaggio logico è già emersa retro, cap. II, § 4.2., negli accenni
alle nozioni post-costituzionali dell’interesse collettivo in ambito sindacale). Esemplare sul
punto è Cons. St., sez. V, 27 novembre 1981, n. 613, cit., – ma v. anche Cons. St., sez. VI, 12
marzo 1990, n. 374, cit., – secondo il quale le associazioni sindacali costituiscono il «modulo
organizzativo» con il quale i singoli esercitano i loro diritti costituzionalmente garantiti; co-
sicché è possibile concepire le associazioni come «soggetti collettivi» sotto due distinti profili:
1) «perché rappresentano collettività di individui liberamente associati, i quali fanno parte
dell’associazione non uti singuli, bensì uti universi»; 2) «perché rappresentano interessi col-
lettivi, interessi cioè che sono propri della pluralità dei componenti una data collettività di
persone indeterminate e che sono sentiti da ciascuno dei membri in quanto tali». Si rileva an-
che che «la coesistenza nelle persone degli associati delle due qualità (il singulus e l’univer-
sum), che può divenire divaricazione, fa sì che l’organizzazione sindacale deve agire come
unità e che l’interesse collettivo sindacale è interesse unitario del gruppo, sotto la specie della
reductio ad unitatem delle volontà, anche divergenti, degli associati. Ecco perché l’interesse
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 237

della categoria e concepire, dall’altro, un interesse legittimo collettivo, al-


lorché non fosse dimostrata la lesione diretta in capo al singolo, ma fosse

collettivo sindacale non è puramente e semplicemente somma di interessi individuali, bensì


sintesi, cioè superamento degli interessi dei singoli nell’interesse dell’universitas, e l’area della
legittimazione dell’associazione non coincide con la somma delle aree dei singoli associati
[…], onde non vi è contraddizione […] tra il negare la legittimazione dei singoli e l’affermare
quella dell’associazione». Avverso questo modo di argomentare, peraltro, vanno contrapposte
due osservazioni. In primo luogo va rimarcato – come meglio vedremo avanti – che la con-
trapposizione tra l’interesse collettivo-somma e l’interesse collettivo-sintesi di interessi indivi-
duali rappresenta un’opzione interpretativa fuorviante che non risolve il problema della strut-
tura da assegnare all’interesse collettivo, anche sotto il profilo della sua riferibilità soggettiva
(sul punto non possiamo soffermarci in questa sede e rinviamo il lettore alle argomentazioni
svolte infra, cap. IV). A questo, poi, va aggiunto che pur volendo assegnare al momento or-
ganizzatorio un ruolo effettivo all’interno dell’opera di determinazione degli interessi collet-
tivi occorrerebbe per coerenza limitare l’effetto aggregante che a tale momento appartiene ai
soli soggetti che partecipano all’associazione e non agli esterni; sicché, così, ragionando oc-
correrebbe escludere dalla rilevanza giuridica tutti gli interessi ad essa esterni che sono privi
di effetto condizionante sulla formazione dell’interesse collettivo. In altre parole è logica-
mente accettabile l’operazione concettuale che individua nella sintesi organizzativa, capace di
coordinare le diverse volontà, il mezzo per «costruire» un interesse collettivo autonomo e di-
stinto, ma così operando l’interesse collettivo coprirà necessariamente solo i soggetti che par-
tecipano al fenomeno, ovvero gli associati che aderiscono all’ente esponenziale. In altri ter-
mini, muovendo da queste premesse, nemmeno per ipotesi si potrebbe trovare il fondamento
dell’interesse della categoria unitariamente intesa, ma solo quello del gruppo organizzato uni-
tariamente inteso. La giurisprudenza sotto questo profilo non sembra sempre conscia delle
necessarie implicazioni che tale distinzione sottende ed infatti il gruppo organizzato e la ca-
tegoria sono concetti spesso fungibili nelle decisioni giurisprudenziali: cfr. Tar Toscana, sez. I,
27 novembre 1991, n. 651, cit.; Tar Toscana, sez. I, 24 aprile 1996, n. 391, in TAR, 1996, I, p.
2558; Cons. St., sez. V, 29 gennaio 1999, n. 69, in Foro amm., 1999, p. 91; Tar Bari, sez. I, 11
giugno 2003, n. 2395, in TAR, 2003, I, p. 1363. E ciò è perfettamente coerente – come acca-
duto in materia di repressione della condotta antisindacale – con la ricostruzione di una si-
tuazione giuridica sostanziale autonoma direttamente in capo all’associazione anziché in capo
alla categoria entificata; seguendo la strada interpretativa qui criticata, infatti, l’interesse col-
lettivo è direttamente imputato all’associazione, divenendo in realtà un interesse individuale
della stessa: v. sul punto ancora Cons. St., sez. V, 27 novembre 1981, n. 613, cit., che afferma
che l’«associazione è legittima portatrice degli interessi collettivi della categoria e, in quanto
tale, è legittimata a ricorrere contro gli atti amministrativi lesivi di quegli interessi che appar-
tengono alla sua sfera giuridica così come gli interessi individuali concernenti la sua attività pri-
vata». Occorre infine dar conto di un altro e più restrittivo orientamento che riconosce le as-
sociazioni rappresentative quali legittimate ad agire solo per la tutela delle posizioni giuridi-
che soggettive che le appartengono iure proprio in quanto soggetto giuridico: Cons. St., sez.
IV, 9 novembre, 1995, n. 898, in Foro amm., 1995, p. 2529 ss., in Cons. St., 1995, I, p. 1503
ss.; Tar Lazio, sez. I, 19 maggio 1998, n. 1726, in Lav. e prev. oggi, 1998, p. 1431 ss.; Tar Tren-
tino Alto-Adige, Bolzano, 17 settembre 2003, n. 395, in www.giuffre.it/riviste/foro, 2003,
fasc. 9, che articola la decisione su tre distinti e chiari punti: 1) «È principio fondamentale del
nostro ordinamento quello per cui, a fronte di un’espressa affermazione del potere in capo
alle associazioni non riconosciute di stare in giudizio (cfr. artt. 36, comma 2, c.c. e 45, comma
4, c.p.c.), a queste ultime sia consentito di agire solo per la tutela di diritti o interessi propri:
238 CAPITOLO TERZO

diversamente apprezzabile solo in relazione all’interesse superindividuale


della categoria. Nella seconda ipotesi, la legittimazione ad agire sarebbe
stata riconosciuta – come è comprensibile alla luce delle premesse – solo
in capo all’ente esponenziale, ritenuto «naturale portatore» dell’interesse
di categoria.
Come avrebbe precisato la giurisprudenza successiva130, recupe-
rando un concetto di certo a noi non sconosciuto, l’interesse collettivo
doveva configurarsi come sintesi degli interessi individuali, realizzando
quell’elevazione del medesimo su di un piano superindividuale, auto-
nomo e distinto da quello esclusivamente individuale, divenendo – la le-
gittimazione ad agire dell’associazione – originaria ed esclusiva.

3.4.1.4. L’azione collettiva e i diritti soggettivi collettivi. – L’ultima


opzione ricostruttiva si pone rispetto agli altri indirizzi appena esaminati
con significativi elementi di originalità.
Non è casuale – infatti – la scelta di presentarne la trattazione dopo
aver reso note al lettore le altre tre diverse opzioni ricostruttive ugual-
mente riconducibili al filone dottrinale in esame, in quanto, solo avendo
ben chiari i caratteri di queste, nonché avendo adeguatamente inteso le
diverse variabili che possono influire sulle modalità di impostazione del
problema, si può più facilmente penetrare la specificità di quest’ultima
opzione.
Anche qui – come negli altri casi – l’interesse collettivo è assunto
nella sua dimensione globale ed anche qui la legittimazione ad agire è at-
chiaro è in proposito il disposto di cui all’art. 81 c.p.c. il quale stabilisce che “fuori dei casi
espressamente stabiliti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome proprio un di-
ritto altrui”»; 2) «Il sindacato potrebbe agire in giudizio per far valere l’interesse generale o
collettivo dei propri aderenti solo nell’ipotesi di rappresentanza processuale volontaria (ma in
questo caso, occorrerà, argomentando ex art. 77 c.p.c., che il potere rappresentativo proces-
suale sia attribuito a chi abbia una procura generale o speciale ad negotia e che risulti espres-
samente da un atto scritto) o nel caso in cui fosse la stessa legge in via eccezionale a ricono-
scere tale potere (si pensi, ad esempio, alle c.d. «azioni popolari» di cui all’art. 7 della legge
18 giugno 1990, n. 142, alla legge 8 luglio 1986, n. 349 istitutiva del Ministero dell’ambiente
che autorizza le «associazioni ambientali» ad agire in sede di giustizia amministrativa e, in-
fine, più recentemente alla legge 30 luglio 1998, n. 281, la quale attribuisce alle associazioni
dei consumatori ed utenti la legittimazione ad agire a tutela degli interessi collettivi)»; 3) Poi-
ché con riferimento al caso de quo non ricorre certamente un’ipotesi di conferimento di rap-
presentanza processuale volontaria, né fino ad oggi è dato rinvenire alcuna norma di legge
che legittimi (in via autonoma o solo in via di intervento) il sindacato a sostituirsi al lavora-
tore anche al fine di far valere interessi collettivi».
130 Cons. St., sez. V, 27 novembre 1981, n. 613, cit.
131 VIGORITI, V., Interessi collettivi e processo, cit., p. 24, per il quale: a) «il collettivo è

una qualifica che tocca un gruppo di interessi fra loro correlati, ma non designa una situa-
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 239

tribuita – preferibilmente – in via esclusiva all’associazione rappresenta-


tiva della collettività interessata, ma l’iter logico-giuridico seguito da que-
sta dottrina, pur presentando elementi di somiglianza con le tesi prece-
denti, se ne differenzia sotto più profili.
Innanzitutto la stessa riconducibilità della prospettiva in esame al
novero delle tesi favorevoli a confrontarsi con la dimensione unitaria e
globale dell’interesse sovraindividuale necessita di precisazioni, visto che
una prima lettura della posizione a cui ci riferiamo potrebbe far pensare
il contrario.
Da un lato, infatti, questo orientamento, con ampiezza di argomen-
tazioni, non esita a qualificare gli interessi collettivi pur sempre come in-
teressi aventi natura individuale, evidenziando di contro come il carattere
collettivo, senza operare una fusione dei medesimi in un’unica entità,
consenta solo di cogliere la relazione soggettiva (organizzatoria) sussi-
stente tra gli stessi131.
Non solo; questa prospettiva di per sé non subisce mutamento al-
lorché al fenomeno in questione si sovrapponga il filtro giuridico. Detti
interessi individuali, difatti, qualora ricevano protezione dall’ordina-
mento in quanto giuridicamente rilevanti, rimangono comunque tali e
pertanto sono qualificabili in termini di diritti soggettivi, o, più precisa-
mente, «diritti soggettivi collettivi» o «interessi legittimi collettivi»132.
Da ciò ne consegue, tanto l’impossibilità di imputare dette posizioni
giuridiche alla categoria entificata, quanto la necessità di ricorrere a qua-
lificazioni giuridiche diverse, alternative, o comunque non riconducibili a
quelle tradizionali133.
Ma – ecco il punto – la relazione organizzatoria che si istaura tra i
diversi interessi, ossia la valenza collettiva della situazione giuridica, in-
cide sul suo contenuto e sul suo esercizio134.
zione di vantaggio di natura diversa da quelle aggregate, per cui si può parlare di “diritti sog-
gettivi collettivi” […] oppure di “interessi legittimi collettivi”»; b) «non si può certo […] ar-
rivare a dire che è la comunità ad essere titolare degli interessi comuni dei suoi membri», vi-
sto che «ricostruzioni di questo tipo, riferendosi al collettivo come a un qualcosa del tutto di-
verso e sovraordinato all’individuale, finiscono sempre col distogliere l’attenzione dal
protagonista effettivo del fenomeno collettivo, e cioè dalla persona, a cui gli interessi, anche
se a rilevanza superindividuale, non cessano mai di appartenere» (p. 58); c) «tutto ciò implica
il rifiuto delle dottrine che sembrano considerare gli interessi collettivi e quelli diffusi, come
qualcosa del tutto diverso dalle posizioni di vantaggio conosciute, un tertium genus ad esse
completamente alternativo» (p. 25).
132 Cfr. le note che precedono.
133 Cfr. le note che precedono.
134 Così, espressamente, VIGORITI, V., Interessi collettivi e processo, cit., p. 25. Va detto

sin d’ora – peraltro – che, come vedremo approfonditamente nel capitolo V, il concetto di di-
240 CAPITOLO TERZO

Più precisamente, sebbene – osserva questa dottrina – la disciplina


positiva presenti ipotesi di fattispecie legali a rilevanza collettiva ispirate
al principio della legittimazione ad agire diffusa e sebbene questa solu-
zione possa in astratto apparire preferibile, in realtà, in assenza di op-
portuni bilanciamenti e correttivi si presta ad inaccettabili inconve-
nienti135.
Al contrario, l’opzione da privilegiarsi in punto di legittimazione ad
agire nel campo della tutela degli interessi sovraindividuali sarebbe
quella di attribuire il potere di azione solo ad alcuni dei titolari dell’inte-
resse ed in particolare agli enti rappresentativi che, presentandosi come

ritto soggettivo non può prescindere dalla possibilità riconosciuta al soggetto titolare dell’in-
teresse tutelato di attivare con il suo comportamento normativamente tipizzato l’attuazione
giudiziale degli obblighi sostanziali posti a tutela del suo interesse, sicché il sostenere che ai
singoli spettino diritti soggettivi sebbene con modalità di esercizio differenti ed effettiva-
mente esproprianti del loro potere di azione è operazione ricostruttiva incompatibile col con-
cetto di diritto soggettivo. In questa ricostruzione, infatti, l’unica posizione giuridica che può
essere predicata in termini di diritto soggettivo è quella dell’ente esponenziale e giammai
quella dei singoli. In ciò maggior coerenza dimostrano forse le tesi che – come quella in
esame – impiegano il veicolo organizzatorio per elevare gli interessi dal gruppo sino all’im-
putazione unificante in capo all’ente esponenziale e che poi, però, abbandonano gli interessi
dei singoli allo stato dell’irrilevanza giuridica, giammai assurgendo – detti interessi – al rango
di diritto soggettivo. Qui, invece, gli interessi dei singoli rimangono in campo accanto all’in-
teresse dell’associazione e, come quest’ultimo, sono qualificati in termini di diritti soggettivi,
seppur non azionabili.
135 Cfr. VIGORITI, V., Interessi collettivi e processo, cit., p. 107 ss., ove l’A. si sofferma

nell’esame della disciplina delle impugnazioni delle delibere assembleari e sull’istituto delle
azioni popolari, rilevando in particolare le problematiche di coordinamento (spec. p. 130 ss.)
che conseguono ad un’impostazione processuale di tal fatta in materia di interessi sovraindi-
viduali e concludendo nel senso che, sebbene detta opzione costituisca un efficace strumento
di partecipazione popolare alla giustizia, «proprio il fatto che l’iniziativa diretta ad ottenere
tutela giurisdizionale di posizioni superindividuali possa essere assunta da uno qualsiasi dei
legittimati, senza alcuna possibilità di verificare se questi sia davvero in grado di tutelare l’in-
teresse, costituisce un grave rischio e insieme il limite di questo tipo di situazioni, soprattutto
quando il numero dei legittimati è particolarmente rilevante». Come il lettore attento avrà no-
tato, il passo appena riportato mostra chiaramente quanto la prospettiva seguita da Vigoriti
presenti forti somiglianze con quella seguita dal primo degli orientamenti esaminati, ossia con
quello proposto in particolare da Cappelletti e Denti. Se si confrontano le osservazioni di Vi-
goriti con quelle di Cappelletti proposte retro (nota 116), infatti, le similitudini emergono
chiaramente. Emerge chiaramente, ad esempio, la volontà di concepire la controversia in ter-
mini necessariamente collettivi, globali, unitari, ossia finalizzata a porre giustizia una volta per
tutte riguardo alla lesione collettiva. Emerge anche – peraltro – quella tendenza a far sì che le
problematiche processuali, pur accuratamente esaminate dall’A., incidano, procedendo a ri-
troso, sul tema della legittimazione e dunque sulle questioni pienamente riconducibili al
piano più propriamente sostanziale o, se si vuole, dei rapporti tra diritto e processo.
136 VIGORITI, V., Interessi collettivi e processo, cit., p. 145 ss.
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 241

la risultante organizzatoria degli interessi collettivi, possono ben essere


ritenuti gli «adeguati portatori» degli stessi136.
Dette associazioni, lungi dall’agire in giudizio in qualità rappresen-
tanti o di legittimati straordinari, assumerebbero la veste di legittimati or-
dinari, sebbene sui generis; circostanza quest’ultima, determinata dal
fatto che la tutela giurisdizionale invocata troverebbe fondamento se-
condo questa teoria nel bisogno di protezione di un interesse «almeno in
un certo senso» altrui, ma di certo anche appartenente dell’associazione
stessa137.

137 VIGORITI, V., Interessi collettivi e processo, cit., a p. 146 ss. Si noti che le opinioni che

ricostruiscono, come lo stesso Vigoriti, gli interessi collettivi in termini di distinti diritti sog-
gettivi, qualificano poi la legittimazione ad agire attribuita all’ente rappresentativo come so-
stituzione processuale (LANFRANCHI, L., Le animulae vagulae blandulae e l’altra faccia della
luna, cit., p. XLVI) o legittimazione straordinaria (così, invece, PROTO PISANI, A., Nuovi diritti
e tecniche di tutela, cit., p. 242). Nell’impostazione ora in esame, invece, queste soluzioni sono
valutate come inappaganti. Ciò emerge con chiarezza dalle seguenti osservazioni proposte
dall’A.: «i legittimati […] agendo in giudizio tutelano anche interessi, di uguale contenuto ed
ugualmente diretti, che non sono però loro propri, per cui, sotto questo profilo, essi si tro-
vano in una posizione analoga a quella dei legittimati straordinari; d’altra parte i legittimati
non traggono il loro titolo da uno status, o da una appartenenza ad una certa categoria, o
dalla titolarità di un rapporto legato da vincoli di pregiudizialità-dipendenza con quello de-
dotto in giudizio, ma lo traggono dalla titolarità di una delle posizioni sostanziali correlate in
maniera collettiva, e dalla loro capacità di tutelarla in giudizio in maniera rispondente alle esi-
genze di difesa di tutte le loro posizioni sostanziali globalmente considerate. Manca quindi in
questi casi anche quella piena dissociazione fra i titolari del diritto litigioso e i legittimati ad
agire, tipica delle ipotesi di legittimazione straordinaria. Si aggiunga ancora che spiegare in
termini di legittimazione straordinaria queste ipotesi porterebbe a gravissimi inconvenienti. E
infatti anche ritenendo che i principi fondamentali della legittimazione ad agire vadano adat-
tati al tipo di situazioni sostanziali a cui si riferiscono, sarebbe difficile superare un ostacolo
come quello della tassatività delle ipotesi di legittimazione straordinaria» (p. 149). «Si trat-
terà, se si vuole di una legittimazione ordinaria sui generis, perché essa presenta motivi e
tracce della legittimazione straordinaria, ma sembra indubbio che la concentrazione della le-
gittimazione in alcuni adeguati portatori, la quale traduce sul piano tecnico il senso di obiet-
tive esigenze di tutela degli interessi collettivi, sia fenomeno che rimane nella sfera della le-
gittimazione ordinaria» (p. 150). Sulle ragioni di perplessità sollevate dalla figura della legit-
timazione ad agire sui generis, v. infra, cap. VI, nota 17. Sin d’ora – comunque – va detto che
l’origine di questa equivoca figura è tutta da rilevarsi nelle premesse sostanziali da cui muove
la dottrina in questione e rispetto alle quali già sono state avanzate le dovute ragioni di per-
plessità (cfr. retro, nota 134). Indipendentemente da ciò, peraltro, è piuttosto agevole dimo-
strare che il qualificare la legittimazione come ordinaria, per poi aggiungervi la precisazione
del «sui generis», non dice nulla, né sotto il profilo tecnico-formale, né sotto quello delle ri-
sultanze concrete, e ciò non tanto perché la legittimazione ad agire in giudizio o è ordinaria o
è straordinaria senza possibili opzioni intermedie, ma fondamentalmente perché, se l’oggetto
del giudizio verrà ad essere costituito – come appunto stando alla tesi di Vigoriti occorre ri-
tenere – dal fascio di quegli interessi/diritti soggettivi collettivi tra cui andrà annoverato an-
242 CAPITOLO TERZO

Proprio il «collettivo», proprio la «relatio» intercorrente tra gli inte-


ressi collettivi, viene dunque a costituire il fondamento concettuale favo-
revole all’attribuzione esclusiva della legittimazione ad agire.
Si noti bene: nella prima tesi presa in esame e indirizzata verso il su-
peramento delle categorie tradizionali, lo sfavore per una legittimazione
riservata ad ogni singolo interessato veniva a costituire il frutto più che
altro di una valutazione di opportunità. Ciò che impostava la linea diret-
trice della progressione logica seguita era la natura necessariamente col-
lettiva della controversia, questione da cui appunto derivava quel requi-
sito di adeguata rappresentatività da cui solo de facto conseguiva la diffi-
cile rinvenibilità in capo al singolo di tale attributo.
Nella dottrina ora in esame il discorso è diverso. Qui l’elemento or-
ganizzatorio, operando come il veicolo teso al coordinamento delle vo-
lontà, si proietta all’interno del processo e costituisce lo strumento logico
e concettuale per una gestione processuale centralizzata dell’interesse tu-
telando.
In un certo senso, la legittimazione esclusiva ad agire da parte delle
associazioni costituisce l’unica soluzione pienamente coerente con i prin-
cipi per ottenere tutela di interessi che possono essere concepiti come
collettivi proprio e solo in quanto organizzati138.
Ciò peraltro dovrebbe indurre chi legge a percepire l’effettiva posi-
zione della dottrina in esame riguardo la configurazione dell’interesse
collettivo. La configurazione del medesimo come fascio di interessi indi-

che quello dell’associazione, allora – gioco forza – l’ente rappresentativo farà valere in giudi-
zio – per dirla in termini estesi – un diritto proprio in nome proprio e più diritti altrui in
nome proprio; più semplicemente cumulerà in sé tanto la veste del legittimato ordinario
quanto quella di legittimato straordinario, sollevando – peraltro – tutte le problematiche in-
terpretative individuate da Vigoriti, tra cui in primis la necessaria previsione legale in materia
di sostituzione processuale ex art. 81.
138 Tutto ciò trova coerente conferma nelle precisazioni che VIGORITI, V., Interessi col-

lettivi e processo, cit., a p. 221, svolge riguardo alla valutazione dei requisiti di cui tener conto
ai fini del conferimento dell’azione all’ente portatore. A tal scopo si osserva che la valutazione
dell’adeguatezza non deve dipendere unicamente da considerazioni che tengono conto della
«capacità tecnica nell’uso dello strumento giudiziale», ma al contrario deve essere incentrata
sulla base della «rappresentatività», requisito da ritenersi «la componente essenziale dell’ade-
guatezza». La rappresentatività viene, infatti, in questa tesi ad assumere il ruolo di indice este-
riore della coesione organizzatoria instauratasi tra gli interessi collettivi. Va comunque detto
che non è esclusa la possibilità di ammettere la legittimazione dei singoli non in via esclusiva,
ma congiuntamente con alcune formazioni sociali; «quello che importa – si osserva infatti
contaminando, a nostro parere, la linea ricostruttiva fondamentale sotto il profilo più squisi-
tamente teorico – non è la natura individuale o collettiva dei legittimati; quanto piuttosto l’i-
doneità di questi ad assumere o proseguire nell’iniziativa processuale».
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 243

viduali e di diritti soggettivi, ossia come aggregato di distinte posizioni,


costituisce un risultato interpretativo dal valore più verbale (o, se si vuole
formale) che effettivo.
Emerge, infatti, una concezione dell’interesse collettivo rigorosa-
mente unitaria, globale. Il peso del vincolo relazionale sussistente tra i di-
versi interessi ha, nell’economia complessiva di questa ricostruzione,
un’incidenza ben maggiore di quanto effettivamente si voglia ammettere
in punto di principio, come risulta chiaramente sul piano concreto della
esistenza giuridica e pregiuridica di questi interessi139.
Nella sostanza dunque questa dottrina, sebbene parli dell’interesse
collettivo come espressione traslata diretta ad indicare diversi interessi e
diritti distinti ed autonomi, sebbene circondi di specificazioni correttive
– il riferimento è ovviamente al «sui generis» – la legittimazione ordina-
ria attribuita alle associazioni rappresentative, in nulla si differenzia dalle

139 Così, alle considerazioni avanzate dall’A. per ribadire la natura comunque indivi-
duale dei singoli interessi confluenti nel collettivo, fanno da contro-altare le osservazioni che
l’A. propone per porre in risalto la dimensione globale dell’interesse. Ciò, ad esempio, accade
in riferimento all’interesse collettivo colto nella sua dimensione pre-giuridica: «nel fenomeno
collettivo i bisogni possono e debbono essere soddisfatti attraverso un unico bene […]» ed
«appunto per questo fine le posizioni di vantaggio si organizzano e tendono a presentarsi al-
l’esterno come se fosse un’unica posizione di vantaggio, un unico interesse». Oppure allorché
si sottolinea l’incidenza dell’organizzazione sulla struttura formale dell’interesse, anche ai fini
della gestione processuale del medesimo: «l’organizzazione degli interessi assicurando la re-
golamentazione delle attività dirette al raggiungimento dello scopo comune, garantisce, anche
sul piano processuale, unità di trattazione delle posizioni di vantaggio collegate e uniformità
di effetti dell’accertamento giurisdizionale» (p. 60-61); «i legittimati, esercitando l’azione, de-
ducono in giudizio l’interesse collettivo unitariamente inteso, e cioè deducono in giudizio
tutto il fascio delle posizioni sostanziali correlate in modo collettivo». Vigoriti, insomma, se
da una parte predica l’individualità degli interessi collettivi e la loro indipendenza anche a
seguito del fattore organizzativo, de facto nega quanto la prima che la seconda osservazione,
visto che nella gestione dei medesimi premia unicamente il carattere unitario che l’interesse
collettivo assume a seguito della nascita dell’ente rappresentativo all’interno del gruppo degli
interessati. Potremmo dire che in Vigoriti, rispetto alla posizione di Cappelletti, il ruolo fon-
damentale riconosciuto al requisito della rappresentatività (in termini non solo di legittima-
zione, ma anche di garanzie processuali ed effetti della pronuncia) viene sostituito o comun-
que almeno corroborato dal momento organizzativo, che si coordina con quello della ade-
guata rappresentatività, conducendo, anche sul piano teorico, lì dove invece di per sé solo il
requisito della adeguata rappresentatività non conduceva, ovverosia alla preferibile legittima-
zione collettiva a fronte di quella individuale. Come vedremo tra breve, tutte queste osserva-
zioni trovano piena conferma nella posizione assunta dall’A. in riferimento alla compatibilità
di questa prospettiva ricostruttiva con la garanzia costituzionale del diritto di azione. È in
questo ambito, infatti, che la posizione dell’A. svela definitivamente una concezione unitaria
dell’interesse che sul piano pratico, al di là delle formule utilizzate, non si presenta in nulla
diversa dalle tre tesi poc’anzi esaminate.
244 CAPITOLO TERZO

posizioni che, sostanzializzando l’interesse collettivo previamente impu-


tato all’organizzazione, attribuiscano in capo alla stessa un diritto sogget-
tivo proprio. Né, ancora nella sostanza, come oramai la lunga riflessione
teorica svolta dovrebbe aver dimostrato, questa dottrina si distanzia dalla
tesi propensa – e ciò è particolarmente significativo – a de-soggettivizzare
completamente l’interesse collettivo.

3.4.2. La legittimazione concentrata e la sua compatibilità con i principi


costituzionali
Non è per nulla casuale – quindi – che anche la tesi da ultimo esa-
minata si presenti – rispetto a quelle trattate nei paragrafi che precedono
– in una posizione di perfetto allineamento concettuale riguardo alla de-
licata questione della compatibilità della legittimazione «concentrata»
con la garanzia costituzionale del diritto di azione. E ancora meno ca-
suale è poi il fatto che, pur seguendo prospettive in parte diverse, tutte le
concezioni ora in esame, nel giungere alle medesime conclusioni, si affi-
dino in definitiva alla particolare natura collettiva e non meramente indi-
viduale dell’interesse da tutelare in via giurisdizionale.
Così è per la dottrina che invita al superamento di un garantismo
tradizional-individualistico a favore di un nuovo garantismo collettivo140.
O per la dottrina che appunto evidenzia il diverso atteggiarsi delle ga-
ranzie costituzionali con riferimento ad interessi che presentano esigenze
di garanzia e tutela «obiettivamente diverse»141.

140 Così, in particolare, CAPPELLETTI, M., Formazioni sociali e interessi di gruppo davanti

alla giustizia civile, cit., spec. p. 401.


141 Cfr. ancora VIGORITI, V., Interessi collettivi e processo, cit., spec. p. 150 ss., che, apo-

ditticamente afferma in relazione all’art. 24 Cost.: «il contenuto precettivo essenziale della
norma costituzionale non soffre deroghe per il fatto che in presenza di più interessi uguali, fra
loro correlati in maniera collettiva, la legittimazione ad agire venga attribuita ad alcuni sol-
tanto dei titolari di tali situazioni. In questi casi, infatti, le esigenze di garanzia e di tutela sono
obiettivamente diverse da quelle degli interessi strettamente individuali e il principio della
correlazione fra titolarità della posizione sostanziale e legittimazione ad agire adattandosi a
tali esigenze viene ad assumere un contenuto particolare. Esso suona nel senso che, mentre
sarebbe incostituzionale negare a tutti i titolari delle situazioni correlate la legittimazione ad
agire […] non è affatto necessario che tutti i titolari indistintamente debbano essere legitti-
mati ad agire, e non è pertanto in contrasto con l’art. 24 Cost. considerare in maniera unita-
ria il fascio delle situazioni sostanziali fra loro correlate ed attribuite ad alcuni soltanto dei
molti titolari la legittimazione ad agire a tutela dell’interesse proprio e collettivo». Queste os-
servazioni, d’altro canto, sollevano anch’esse diversi motivi di perplessità. Il discorso merite-
rebbe uno svolgimento in questa sede non possibile, ma in estrema sintesi i punti essenziali di
questo sono quelli che seguono. In primo luogo va di certo condivisa l’affermazione secondo
cui le garanzie costituzionali in materia di interessi collettivi si atteggiano in veste diversa ri-
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 245

O ancora per la dottrina che, stante il carattere asoggettivo puro del-


l’interesse tutelato, ritiene che la problematica relativa alla tutela giuri-
sdizionale degli interessi della collettività, tanto per ciò che attiene alla
configurazione sostanziale di questi interessi, quanto per il delicato pro-
blema della determinazione dei legittimati ad agire, esorbiti l’ambito di
applicazione dell’art. 24 Cost. Il diritto costituzionale di azionabilità de-
gli interessi materiali sarebbe riferibile, infatti, solo agli interessi – giuri-
dicamente rilevanti – soggettivati, individuali, come quelli tradizional-
mente ricondotti alle categorie del diritto soggettivo e dell’interesse legit-
timo, ma non ad interessi sostanziali, pur rilevanti, ma comunque assunti
dall’ordinamento nella loro dimensione puramente oggettiva142.
spetto alla tutela degli interessi individuali (per noi, come vedremo, interessi individuali esclu-
sivi). Ma tale premessa non può andare ad operare sul fronte della legittimazione ad agire nei
termini ora riportati senza andare a vulnerare l’essenza stessa del concetto di tutela giuridica
dell’interesse. La natura collettiva dell’interesse tutelato, infatti, incide di certo sull’esclusività
della legittimazione. Ovvero, per dirla con altre parole, allorché la tutela giuridica sia indiriz-
zata verso più interessi concorrenti evidentemente viene meno quel monopolio sull’azione e
sul processo che al contrario si realizza allorché l’interesse tutelato sia proprio di un solo sog-
getto. Questa circostanza, però, non incide sull’intensità della tutela giuridica apprestata dal-
l’ordinamento e semmai l’incrementa, visto che la concorrenza di legittimazioni porta con sé
un naturale innalzamento della tensione all’attuazione degli oblighi legali da parte dei soggetti
passivi onerati (sul punto, v. infra, cap. V, § 2.5.3.). Operando entro questi limiti, quindi, è
ben concepibile immaginare un processo avviato da un solo soggetto tra i legittimati e magari
capace di irradiare i suoi effetti nei confronti di tutta la collettività purché lo svolgimento di
questo sia ragionevolmente idoneo a garantire l’accertamento della verità materiale. Diverso
è premettere la rilevanza giuridica di un fascio di interessi ugualmente orientati ed attribuire
solo ad alcuni degli interessati la legittimazione ad agire. Così operando, infatti, si spezza
quella linea ideale che spetta al diritto garantire e che corre tra interesse e garanzia giuridica
del suo soddisfacimento. Se, infatti, un interessato vede in pericolo il soddisfacimento del suo
interesse e d’altro canto preclusa la strada dell’attivazione dei rimedi giurisdizionali a tal
scopo apprestati, ciò sta a significare che quel certo interesse non è tutelato, non è un inte-
resse protetto. Se al contrario si ritiene che tale interesse sia giuridicamente rilevante, o si ri-
conosce la legittimazione ad agire o si realizza un’insanabile violazione della regola costitu-
zionale secondo cui tutti possono agire per la tutela dei propri diritti soggettivi, ovvero per la
tutela degli interessi che l’ordinamento riconosce ed il cui soddisfacimento per quanto possi-
bile garantisce. Il riservare il monopolio dell’azione all’ente esponenziale non costituisce in al-
cun modo la via adeguata per sanare questo vulnus. E a ciò nemmeno supplisce il momento
organizzatorio, il quale non rappresenta uno strumento in grado di veicolare in guisa giuridi-
camente attendibile l’impulso del singolo pregiudicato alla tutela giudiziale del proprio inte-
resse. Ciò perché in primo luogo gli enti esponenziali sono soggetti autonomi rispetto ai sin-
goli ed espongono un interesse che è in primo luogo proprio e solo tendenzialmente si
uniforma a quello dei membri della collettività ed in secondo luogo il momento organizzato-
rio – comunque non sufficiente per le ragioni ora indicate – rimane peraltro limitato a solo
una parte estremamente ristretta della collettività di riferimento, rappresentanto quindi un fil-
tro tra lesione e tutela su cui il singolo non ha alcun potere di incidenza. Come vedremo più
avanti, quindi, l’unica via idonea a risolvere la questione in esame non attribuendo ad ognuno
246 CAPITOLO TERZO

4. Il trattamento processuale delle controversie collettive: in particolare i


limiti soggettivi del giudicato
4.1. Considerazioni introduttive
Nell’esame dei contributi che la dottrina ha offerto in materia di stu-
dio delle tecniche di tutela giurisdizionale degli interessi sovraindividuali
a partire dagli anni Settanta, abbiamo sino ad ora privilegiato una scelta
espositiva capace di far emergere i profili teorico-dogmatici che lo studio
di questa tematica involge, in particolar modo riguardo alla centrale que-
stione concernente la corretta configurazione della nozione di interesse
sovraindividuale. Ciò per la fondamentale importanza che tale profilo
presenta in riferimento alla determinazione dell’oggetto del giudizio;
operazione, quest’ultima, che, qualunque orientamento teorico si predi-
liga seguire, rappresenta comunque un momento essenziale nel percorso
di determinazione dell’efficacia – anche soggettiva – della sentenza.
Esaminato, dunque, tutto l’ampio ventaglio delle possibili soluzioni
che la dottrina ha saputo individuare coordinando diversamente le varia-
bili che governano la materia, è giunto il momento di occuparsi delle op-
zioni ricostruttive avanzate nella predisposizione teorica di un modello
processuale appositamente rivolto alla risoluzione di controversie che,
nel loro essere protese verso il ristoro di lesioni di interessi a carattere so-
vraindividuale, possiamo sinteticamente chiamare – per il momento
senza alcuna pretesa definitoria – collettive143.
Ma prima di entrare nel merito dell’esame dei diversi indirizzi al ri-
guardo, occorre anteporre qualche breve ma fondamentale considera-
zione introduttiva.
Una prima appartiene probabilmente alla sfera dell’ovvio, ma ciono-
nostante la si propone.
Ci riferiamo al fatto, or ora ricordato, che le soluzioni processuali
avanzate in dottrina per la gestione delle controversie collettive risentono
chiaramente dell’impostazione assunta in sede di configurazione della
struttura formale da attribuire all’oggetto del giudizio e dunque della

dei soggetti titolari dell’interesse giuridicamente protetto la legittimazione ad agire è costi-


tuita da un regime di azione pubblica, ovvero da un regime in cui la titolarità dell’azione è
attribuita esclusivamente ad un soggetto, ma il cui esercizio non è libero bensì doveroso.
142 «L’art. 24 […] – osserva GRASSO, E., Gli interessi della collettività e l’azione collet-

tiva, cit., p. 43, nota 59 – postula la soggettivazione della situazione protetta perché volto a
garantire la libertà del singolo e a proporre una fattispecie alla quale è quindi necessariamente
estranea l’idea di un interesse non individuale».
143 Sul concetto di controversia collettiva torneremo infra, cap. VI, § 5.1., spec. nota 26.
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 247

strada ricostruttiva concretamente adottata per tradurre in vesti giuridi-


che l’esigenza di tutela degli interessi sovraindividuali più volte richia-
mata.
D’altra parte, la considerazione più ovvia apre la strada ad un’altra
che lo è meno e che si riferisce alla circostanza, ben avvertibile nella let-
tura dei contributi sul punto, relativa alla particolare influenza che pro-
prio lo studio del trattamento processuale di questa tipologia di contro-
versie ed in particolare delle problematiche che queste medesime pre-
sentano ha esercitato sulla configurazione stessa dell’oggetto del giudizio
e sulla determinazione delle soluzioni da doversi adottare lungo l’itinera-
rio ricostruttivo – questo in effetti prevalentemente sostanziale – volto
alla formalizzazione giuridica degli interessi sovraindividuali.
Ci riferiamo alla già rilevata tendenza144 a risolvere le indubbie diffi-
coltà di gestione processuale delle controversie in esame (specie con ri-
guardo al problema del coordinamento delle decisioni) non, come lo
stesso fondamentale principio di strumentalità del diritto formale a
quello materiale vorrebbe, in sede di disciplina processuale delle contro-
versie stesse, quanto piuttosto in sede di configurazione sostanziale delle
situazioni giuridiche tutelate. La tendenza, in altri termini, a far ricadere,
magari inconsapevolmente, il peso delle effettive difficoltà di gestione
processuale di queste controversie sul piano, logicamente antecedente,
della prospettazione sostanziale delle pretese collettive.
Ancora in chiave di premessa va poi rilevato il fatto che la questione
del trattamento processuale delle controversie collettive è stato nel tempo
oggetto di studio esclusivamente da parte della dottrina del processo ci-
vile, rimanendo viceversa estranea ai contributi provenienti dalla dottrina
amministrativistica, evidentemente agevolata dal carattere impugnatorio e
dai rigorosi termini di decadenza del processo amministrativo145.
Ultima questione da evidenziare è, infine, il rapporto che con ri-
guardo al tema in esame è andato realizzandosi tra riflessione de iure con-
dendo e riflessione de iure condito.
Se, difatti, come più volte ricordato, la riflessione giuridica sugli in-
teressi sovraindividuali si è progressivamente orientata verso un’analisi
specifica degli interventi legislativi di volta riconducibili all’alveo della
tutela giurisdizionale degli interessi sovraindividuali, sulla questione ora
in esame questa tendenza evolutiva non si è verificata per la triste circo-

144 Cfr. retro note 116 e 135 in particolare in relazione alla posizione di Cappelletti e di
Vigoriti.
145 Lo osserva CERRI, G., Interessi diffusi, interessi comuni, cit., p. 92.
248 CAPITOLO TERZO

stanza che il legislatore, pur intervenuto in significative aree di incidenza


della problematica, non ha mai dettato una disciplina specificamente de-
dicata alla decisione delle controversie collettive, limitandosi – al contra-
rio – a disciplinare i caratteri antigiuridici della condotta ed abbozzando
l’area dei legittimati146.
Così, la riflessione scientifica ha dovuto orientarsi sino ad oggi nella
direzione dell’adattamento di una disciplina legale e di una prassi inter-
pretativa sorte e consolidatesi in diretto riferimento a controversie rivolte
alla tutela di interessi meramente individuali o, con maggior precisione, in
riferimento a controversie aventi ad oggetto rapporti giuridici agevol-
mente rappresentabili in termini bilaterali o, se eccezionalmente plurilate-
rali, comunque con titolari (attivi e passivi) determinati o determinabili147.

4.2. I diversi orientamenti dottrinali


In attesa di affrontare l’argomento in chiave problematico-ricostrut-
tiva e dovendo necessariamente rinviare ai prossimi capitoli l’analisi delle
soluzioni avanzate in riferimento agli specifici strumenti di tutela nel
tempo introdotti dal legislatore, va al momento rimarcato che il dato di
sintesi che emerge ben nitido dalla lettura dei contributi dottrinali sinora
esaminati è rappresentato dall’aver assunto, quale direttiva fondamentale
per la risoluzione delle diverse questioni attinenti al trattamento proces-
suale delle controversie collettive, la necessità di tradurre con le forme
del processo la dimensione sovraindividuale dell’esigenza di tutela sot-
tesa all’oggetto dedotto in giudizio.
Ci riferiamo volutamente e genericamente alla dimensione sovrain-
dividuale dell’esigenza di tutela, poiché la necessità appena indicata, seb-
bene con diversi intendimenti e risultati, è ben presente, tanto nell’orien-
tamento propenso a ricostruire l’interesse collettivo come aggregato di
distinte posizioni soggettive, quanto nelle teorie viceversa favorevoli alla
concezione unitaria dello stesso.
Diverse sono però, come risulta comprensibile, le soluzioni concre-
tamente prospettate per dare risposta alla medesima esigenza.

146 Il difetto di regolamentazione giuridica sulle delicate questioni concernenti il tratta-

mento processuale delle controversie collettive è stato rilevato anche di recente dalla dottrina
più avvertita: cfr. CARRATTA, A., Profili processuali della tutela degli interessi collettivi e diffusi,
cit., p. 82-83, ma spec. p. 110 s.
147 La considerazione è comune, in via implicita o esplicita, a tutti gli AA. intervenuti

in materia (su cui cfr. i riferimenti presenti retro a nota 79). Con particolare sintesi e chia-
rezza, v. comunque DENTI, V., La giustizia civile, cit., p. 113.
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 249

In sintesi e in via preliminare possiamo sin d’ora osservare come la


necessità di adeguamento delle trame del processo alla natura sovraindi-
viduale dell’oggetto del giudizio ha per lo più interessato: la pubblicità
da riservare all’atto introduttivo del giudizio; i poteri direttivi del giu-
dice; i limiti soggettivi dell’efficacia della sentenza148.
Sotto il primo profilo, si è avvertita la necessità di rendere nota la
pendenza del processo a tutti i membri della categoria «interessata», me-
diante l’applicazione – favorita dall’ampia formulazione della norma –
della notificazione per pubblici proclami ex art. 150 c.p.c.149; ciò fonda-
mentalmente per l’impossibilità di identificare aprioristicamente l’iden-
tità dei soggetti interessati, nonché per il notevole costo eventualmente
derivante dall’applicazione della disciplina ordinaria in materia.
148 I tre profili accennati nel testo indicano appunto le principali questioni poste al cen-
tro della riflessione dottrinale, specie nella prospettiva de iure condito. In una prospettiva, in-
vece, de iure condendo, sin dalle riflessioni emerse durante il Convegno di Pavia, la dottrina
si è anche soffermata sulla possibilità di configurare, oltre che chiaramente meccanismi di
controllo giudiziale della legittimazione ad agire, una particolare disciplina in tema di acqui-
sizione delle prove, di distribuzione dell’onere probatorio, di estinzione del processo, di con-
danna alle spese, di contenuto non meramente risarcitorio ma anche inibitorio del provvedi-
mento conclusivo, di limiti soggettivi (non solo dell’efficacia di accertamento della sentenza,
ma anche) dell’efficacia esecutiva della stessa, di anticipazione delle spese necessarie per pro-
cedere all’esecuzione di obblighi di fare o non fare ex art. 612 c.p.c., di misure sanzionatorie
per inottemperanza dell’ordine giudiziale, di regime della legittimazione all’impugnazione
ecc.; tutte questioni raramente prese in considerazione nei procedimenti positivamente previ-
sti dal legislatore.
149 Cfr., tra gli altri, PROTO PISANI, A., Appunti preliminari per uno studio sulla tutela giu-
risdizionale degli interessi collettivi, cit., p. 279-280; ID., Nuovi diritti e tecniche di tutela, cit., p.
239-240; DENTI, V., Relazione introduttiva, cit., p. 21; ID., Interessi diffusi, cit., p. 312; ID., Pro-
fili civilistici della tutela degli interessi diffusi, cit., p. 49, che parla di un «processo aperto alla
generalità»; ANDRIOLI, V., Diritto processuale civile, I, 1979, Napoli, p. 528; ID., Giustizia civile
e inquinamento atmosferico, in Ecologia e disciplina del territorio (Atti del Conegno di Pontre-
moli, 29-31 maggio 1975), Milano, 1976, p. 33 ss., ma anche in Il controllo sociale delle attività
private, a cura di S. Rodotà, Bologna, 1977, p. 437 ss., ma spec. p. 446-7; ID., Un po’ di «Ma-
teriellesjustizrecht», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1984, p. 949 ss., ma spec. p. 960 s., in cui si ri-
tiene doversi dare amplia applicazione in materia di tutela degli interessi collettivi agli artt.
106, 107, 70, comma 3, 150 c.p.c. in ordine a tre fondamentali obiettivi: uniformità di accerta-
menti, risparmio di energie processuali, effettività della tutela giurisdizionale; TROCKER, N., In-
teressi collettivi e diffusi, cit., p. 7; ALPA, G., Interessi diffusi, cit., p. 616. Più di recente la dot-
trina civilistica, però, ha posto in dubbio – pur in palese contrasto la lettera dell’art. 150 c.p.c.
(«quando la notificazione nei modi ordinari è sommamente difficile per il rilevante numero dei
destinatari o per la difficoltà di identificarli tutti») e forse anche con la ratio della disposizione,
la possibilità di far uso della notificazione per pubblici proclami in confronto di una serie di
soggetti non previamente determinati, per il conflitto che verrebbe ad instaurarsi con l’art. 101
c.p.c.; così, RESCIGNO, P., Sulla compatibilità tra il modello processuale della «class action» ed i
principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano, in Giur. it., 2000, p. 2224 ss., ma spec.
p. 2227. Sul punto, v. infra, cap. VI, nota 122.
250 CAPITOLO TERZO

Sotto il secondo profilo, invece, la dottrina ha evidenziato l’oppor-


tunità di riconoscere in capo al giudice una posizione particolarmente
«presente» all’interno del processo rivolto alla tutela degli interessi so-
vraindividuali e ciò tanto ai fini propriamente direttivi, quanto ai fini vi-
ceversa attinenti al tema dell’acquisizione delle prove, o ancora in ordine
all’opportunità di provocare la partecipazione di terzi al giudizio me-
diante il potere previsto all’art. 107 del nostro codice civile di rito.
Proprio l’intervento iussu iudicis, infatti, attivando – seppur media-
tamente – l’esercizio di poteri processuali appartenenti a soggetti diversi
dalle parti originarie, avrebbe, secondo la dottrina, la funzione di rendere
de facto meno insidiosi i rischi connessi a condotte processuali – se non
collusive – anche semplicemente inadeguate, omissive, o incomplete sul
piano dei poteri allegativi e probatori150.
Sotto il terzo profilo, infine, l’orientamento prevalente si è rivolto
con favore verso l’ampliamento dei limiti soggettivi dell’efficacia della
sentenza.
Più di preciso, parte della dottrina – ed in particolar modo, come fa-
cilmente si intenderà, le posizioni favorevoli a concepire l’interesse col-
lettivo in senso unitario151 – ha ritenuto pienamente confacente all’esi-
genza di tutela giurisdizionale degli interessi in questione il superamento
dei limiti previsti dalla lettera dell’art. 2909 c.c. a favore di un’efficacia
erga omnes della pronuncia.
Al contrario, altra dottrina – in questo caso prevalentemente favore-
vole alla concezione dell’interesse collettivo in senso aggregato152 – ha ri-

150 Sebbene con diversità di accenti, cfr. PROTO PISANI, A., Appunti preliminari per uno
studio sulla tutela giurisdizionale degli interessi collettivi, cit., p. 279-280; ID., Nuovi diritti e
tecniche di tutela, cit., p. 240; TROCKER, N., Interessi collettivi e diffusi, cit., p. 7; ID., Gli inte-
ressi diffusi e la loro tutela, cit., p. 211; COSTANTINO, G., Contributo allo studio del litisconsor-
zio necessario, cit., p. 524.
151 In tal senso, CAPPELLETTI, M., Appunti sulla tutela giurisdizionale di interessi collet-

tivi o diffusi, cit., p. 205; ID., Formazioni sociali e interessi di gruppo davanti alla giustizia ci-
vile, cit., p. 398 ss.; VIGORITI, Interessi collettivi e processo, cit., spec. p. 150 ss.; ma v. anche
TROCKER, N., Interessi collettivi e diffusi, cit., p. 7; ID., Gli interessi diffusi e la loro tutela, cit.,
p. 211; CARPI, F., Intervento, in Le azioni a tutela di interessi collettivi, cit., p. 304 ss., ma spec.
p. 309; ALPA, G., Interessi diffusi, cit., p. 616; LANFRANCHI, L., Le animulae vagulae blandulae
e l’altra faccia della luna, cit., p. XLVI.
152 Così, infatti, COSTANTINO, G., Brevi note sulla tutela giurisdizionale degli interessi col-

lettivi davanti al giudice civile, cit., p. 234 ss.; ID., Contributo allo studio del litisconsorzio ne-
cessario, cit., p. 516; PROTO PISANI, A., Appunti preliminari per uno studio sulla tutela giurisdi-
zionale degli interessi collettivi, cit., p. 279-280; ID., Nuovi diritti e tecniche di tutela, cit., p.
240; i quali muovono dal presupposto della generalizzabilità della disciplina prevista in ma-
teria di obbligazioni indivisibili; LANFRANCHI, L., Le animulae vagulae blandulae e l’altra faccia
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 251

tenuto più opportuno propendere per una soluzione più moderata, ossia
tesa a riconoscere l’estensione ultra partes solo degli effetti c.d. favorevoli
della sentenza.

della luna, cit., p. XLVI. Cfr. anche TARUFFO, M., Intervento, cit., p. 335, che, sebbene so-
stenga la necessità di un intervento legislativo idoneo a configurare un modello processuale
capace di rispondere alle esigenze di tutela collettive, in particolare sotto il profilo del deli-
cato equilibrio tra effettività della tutela e garanzie processuali per i soggetti coinvolti, d’altra
parte, evidenzia che, in mancanza di meccanismi appositamente preposti a tutela del diritto
di difesa dei terzi, nella secca alternativa tra estensione indiscriminata degli effetti della sen-
tenza e rigorosa applicazione del principio di relatività del giudicato civile, la soluzione del
giudicato secundum eventum litis, sebbene sorto per la disciplina di rapporti non a titolarità
aprioristicamente indeterminata o indeterminabile, comunque consegue un effetto di allarga-
mento della tutela coessenziale alla natura degli interessi tutelati. Sul punto, v. anche ID.,
Some Remarks on Group Litigation in Comparative Perspective, cit., 417. Per ulteriori argo-
menti a favore del giudicato secundum eventum litis in materia di tutela giurisdizionale degli
interessi collettivi, v. anche gli scritti di Ada Pellegrini Grinover (Le garanzie costituzionali del
processo nelle azioni collettive, in Studi in onore di Enrico Allorio, Milano, 1989, I, p. 471 ss.;
Il nuovo processo brasiliano del consumatore, in Riv. dir. proc., 1991, p. 1057 ss.; Significato so-
ciale, politico e giuridico della tutela degli interessi diffusi, in Riv. dir. proc., 1999, p. 17 ss.; e,
più di recente, La difesa degli interessi transindividuali: Brasile e Iberoamerica, in La tutela giu-
risdizionale degli interessi collettivi e diffusi, cit., p. 154 ss.). D’altra parte in dottrina si sono
sollevate diverse obiezioni nei confronti di detto regime degli effetti della sentenza tanto sotto
il profilo della sua ammissibilità tecnico-teorica, quanto sotto il profilo della sua stessa op-
portunità pratica: nel primo senso, oltre alla particolare posizione di Denti, che esamineremo
tra breve all’interno di questa stessa nota, cfr., VOCINO, C., Sui cosiddetti interessi diffusi, cit.,
spec. p. 1907. In entrambi i sensi cfr., invece, VIGORITI, V., Interessi collettivi e processo, cit.,
p. 110 s., che, da una parte, rileva l’impossibilità di attribuire valore paradigmatico alla disci-
plina delle obbligazioni indivisibili, specie riguardo ad una tematica di assoluta novità come
la tutela degli interessi collettivi, e, dall’altra, evidenzia l’onere eccessivo a cui è sottoposta la
parte eventualmente vittoriosa – ma costretta a subire ripetuti giudizi da parte dei soggetti
non investiti dal vincolo preclusivo sfavorevole – a fronte di preoccupazioni individualistiche
eccessive e alla lunga controproducenti. Più di recente, v. CARRATTA, A., Profili processuali
della tutela degli interessi collettivi e diffusi, cit., p. 102 ss., che parimenti, da una parte, nega
la riconducibilità dei nuovi interessi alla struttura formale dei rapporti obbligatori solidali o
indivisibili (specie in ragione dell’«estrema indeterminatezza e indeterminabilità dei singoli
appartenenti alla categoria», nonché della conseguente necessità di ammettere forme di tutela
giurisdizionale non rigorosamente ispirate al principio di corrispondenza tra legittimato ad
agire e titolare del diritto sostanziale; sul punto, v. amplius, le osservazioni riportate retro,
nota 89) e, dall’altra, sottolinea – a fronte del silenzio legislativo sulla delicata questione dei
limiti soggettivi del giudicato in materia – tutti i profili di problematicità insiti sia nella scelta
favorevole alla soluzione dell’efficacia secundum eventum litis, sia in quella favorevole all’e-
stensione generalizzata dell’efficacia della sentenza, specie – sotto un primo profilo – in rela-
zione alla svantaggiosa posizione del titolare passivo del rapporto, ma anche – sotto un se-
condo profilo – in relazione alle garanzie da riconoscersi ai soggetti interessati rimasti estra-
nei al giudizio. Su quest’ultimo aspetto, su cui torneremo più avanti, si ricordino, d’altra
parte, le osservazioni avanzate da PROTO PISANI, A., preliminari per uno studio sulla tutela giu-
risdizionale degli interessi collettivi, cit., spec. p. 285; ID., Nuovi diritti e tecniche di tutela, cit.,
252 CAPITOLO TERZO

La strada seguita è stata quella dell’accostamento della struttura for-


male dei rapporti giuridici riconducibili al tema degli interessi collettivi a
quella tipica delle obbligazioni indivisibili.
La pluralità di interessati confluenti nel collettivo, infatti, mirerebbe
ad ottenere l’adempimento di una corrispondente serie di obblighi, in ti-
tolarità del medesimo debitore, ed aventi ad oggetto un unico comporta-
mento idoneo a soddisfare simultaneamente tutte le aspirazioni. Da ciò la
possibilità di applicare alla tematica qui in esame – appunto tramite la
triangolazione offerta dagli artt. 1316 e 1317 c.c. – la disciplina del giu-
dicato secundum eventum litis prevista all’art. 1306 c.c.
p. 240, per il quale la soluzione del giudicato secundum eventum litis non risulterebbe co-
munque squilibrata a sfavore del debitore vittorioso in giudizio avverso uno solo dei concre-
ditori, visto che il «convenuto, presunto obbligato, che voglia ottenere un accertamento del-
l’inesistenza del suo obbligo efficace nei confronti di tutti i possibili concreditori potrà sem-
pre chiamarli in causa ex artt. 106 e 269, utilizzando se del caso anche la notificazione per
pubblici proclami»; soluzione quest’ultima, come lo stesso A. evidenzia, utile anche ai fini
dell’anticipazione delle spese per il procedimento di notificazione, che diversamente rende-
rebbero eccessivamente gravoso il ricorso alla tutela giurisdizionale. A tal riguardo, anche per
evitare una sterile contrapposizione tra tesi di segno diverso, va evidenziato come la dottrina
critica nei confronti dell’estensione dei soli effetti favorevoli (cfr. in particolare Vigoriti e Car-
ratta), specie nel rimarcare le conseguenze dannose che detta scelta implica nei riguardi del
debitore vittorioso, ma ugualmente esposto a eventuali ed ulteriori iniziative processuali, pur
richiamando in chiave critica la posizione di Proto Pisani, non prenda però posizione ri-
guardo la possibilità di riequilibrare lo svantaggio appena indicato mediante la chiamata in
causa ex art. 106 c.p.c, specie se corroborata dalla particolare forma di pubblicità prevista al-
l’art. 150 c.p.c. Con ciò non risulta ben evidente se le considerazioni critiche svolte siano sol-
levate con implicito riconoscimento dell’inapplicabilità o dell’inadeguatezza dei correttivi ap-
pena indicati o se, al contrario, operino più che altro in chiave generale o magari de iure con-
dendo. Sul punto, comunque, per ulteriori approfondimenti, v. cap. VI, §§ 5.3. ss. Particolare
menzione merita, poi, la posizione di DENTI, V., Relazione introduttiva, cit., p. 21; ID., Inte-
ressi diffusi, cit., p. 313; ID., Profili civilistici della tutela degli interessi diffusi, cit., p. 51. Que-
st’A., infatti, presenta una significativa evoluzione del suo pensiero riguardo al profilo pro-
blematico qui in esame. In particolare l’opinione di Denti sembra atteggiarsi favorevolmente
– specie in linea di principio – nei confronti del giudicato secundum eventum litis, sin dalla
Relazione presentata al Convegno di Pavia, rimanendo tale sino al Convegno di Bologna del
1981. In un primo momento però, la posizione dell’A. è caratterizzata da un maggior tasso di
problematicità, probabilmente dovuto alla ritenuta inapplicabilità della disciplina prevista in
materia di obbligazioni indivisibili in materia di controversie collettive: cfr. in particolare In-
teressi diffusi, cit., p. 313. In un secondo momento, invece, detta prospettiva interpretativa è
abbracciata con maggior decisione, specie per la possibilità di contemperamento che questa
disciplina consentirebbe tra estensione ultra partes dell’efficacia della sentenza e diritto costi-
tuzionalmente tutelato di azione e difesa. In quest’occasione, infatti, l’A. non esita a promuo-
vere uno studio della opzione ricostruttiva in esame libero da «aprioristiche preclusioni» e
con diretto riferimento, tanto all’annullamento delle delibere assembleari, quanto, anche, alle
obbligazioni indivisibili: cfr. in particolare, Profili civilistici della tutela degli interessi diffusi,
cit., p. 51.
INTERESSE COLLETTIVO DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI 253

Detto questo in termini descrittivi e sintetici, si può però osservare


il diverso atteggiamento che si riscontra in dottrina riguardo al rapporto
intercorrente tra le tre distinte linee di adeguamento del processo ora ri-
portate; e ciò con particolare riguardo al rapporto sussistente tra, da un
lato, i primi due profili indicati e, dall’altro, il terzo ed ultimo degli stessi.
Secondo un primo orientamento, infatti, i correttivi processuali ac-
cennati, tra cui la pubblicità da doversi riservare all’atto introduttivo del
giudizio, non dovrebbero essere intesi come conseguenza unicamente
propria dell’estensione erga omnes dell’efficacia della sentenza; non rap-
presenterebbero in altri termini una soluzione proposta a fini specifica-
mente garantistici, ma più che altro avrebbero la finalità di realizzare il
più ampio contraddittorio all’interno del processo in stretta aderenza alle
particolare natura dell’oggetto del giudizio153.
Per altri, invece, tanto la notificazione per pubblici proclami,
quanto il rafforzamento dei poteri ad esercizio ufficioso rappresentereb-
bero dei contrappesi funzionali all’ammissibilità dell’estensione dei limiti
soggettivi di efficacia della sentenza; soluzione, quest’ultima, plausibile
solo allorché vengano garantiti l’effettiva possibilità di partecipare al giu-
dizio ai vari interessati ed una maggiore funzionalizzazione dello stesso
alla ricerca della verità materiale, ovvero al conseguimento di un risultato
di effettiva giustizia154.
Per altri ancora, infine, la natura collettiva della controversia impli-
cherebbe necessariamente solo l’estensione ultra partes dell’efficacia della
sentenza e non anche gli altri adeguamenti.
A quest’ultima posizione hanno in particolare aderito le tesi orien-
tate a favore della concezione unitaria dell’interesse collettivo, anzi, a dir
il vero, alcune di queste posizioni – come già visto – sono giunte ad una
configurazione di tal fatta, proprio sulla scorta delle irrisolvibili proble-
matiche processuali emergenti allorché si attribuisca anche ai singoli la
legittimazione ad agire.
Così, se per le tesi che hanno configurato in termini asoggettivi l’in-
teresse collettivo, ritenendolo attribuibile in titolarità esclusiva in capo
alle associazioni esponenziali, la questione attinente alla garanzia del-

153 Così, PROTO PISANI, A., Appunti preliminari per uno studio sulla tutela giurisdizionale

degli interessi collettivi, cit., p. 279-280. Cfr. anche, in seguito, ID., Nuovi diritti e tecniche di
tutela, cit., p. 240.
154 TROCKER, N., Interessi collettivi e diffusi, cit., p. 7; ID., Gli interessi diffusi e la loro

tutela, cit., p. 211; implicitamente, nonché in chiave di mera opzione, cfr. anche DENTI, V.,
Profili civilistici della tutela degli interessi diffusi, cit., p. 51 e, adesivamente, ALPA, G., Inte-
ressi diffusi, cit., p. 616.
254 CAPITOLO TERZO

l’esercizio completo e ragionevolmente effettivo del diritto di azione e di


difesa da parte dei singoli soggetti interessati nemmeno doveva propria-
mente porsi155; nelle altre tesi ugualmente appartenenti a questo orienta-
mento, in cui il garantismo individuale è stato sostituito dal garantismo
collettivo156, le diverse problematiche attinenti al trattamento processuale
delle controversie collettive sono state in gran parte assorbite dal requi-
sito dell’adeguata rappresentatività del soggetto legittimato; requisito ca-
ricato del compito di assicurare la piena e completa effettività della tutela
giurisdizionale apprestata157.

155 Cfr., in particolare, le osservazioni proposte da GRASSO, E., Gli interessi della col-

lettività e l’azione collettiva, cit., p. 54 ss., che afferma: «quanto al contraddittorio, scartata
l’ipotesi del litisconsorzio necessario, si teorizza un’ampia pubblicizzazione del processo, an-
che con ricorso allo strumento dei pubblici proclami, tale da consentire ad ogni interessato di
intervenire. In realtà, l’opportunità di questi interventi, con funzione di controllo più che di
effettivo ausilio, è evidente solo nella concezione di un soggetto agente che sia legittimato alla
tutela dell’interesse collettivo per essere già titolare di un proprio interesse collegato al primo,
ma dal quale, per le ragioni già esposte, si differenzia e col quale in astratto può anche entrare
in conflitto. La stessa opportunità non si ravvisa, o assume scarsa rilevanza, nell’ipotesi di
soggetto dotato di mera azione per la tutela dell’interesse della collettività, risolvendosi nel-
l’attendibilità che può e deve attribuirsi ad un siffatto sistema di tutela la cui efficacia è affi-
data al civismo dei legittimati e alla sensibilità e alla cultura giuridica dei magistrati (pubblico
ministero agente e giudice) più che alle tecniche processuali». La conseguenza che logica-
mente discende da questa impostazione è l’insussistenza della problematica relativa ai limiti
del giudicato. Come afferma Grasso, infatti, la sentenza è «priva di limiti soggettivi i quali
presuppongono due parti titolari di una propria situazione di diritto sostanziale dedotta in
giudizio, posizione di cui l’agente popolare è privo».
156 In questo senso, v. ancora CAPPELLETTI, M., Formazioni sociali e interessi di gruppo

davanti alla giustizia civile, cit., spec. p. 401.


157 «Tutti i membri della classe, ancorché non individuati, non notificati, insomma non

individualmente “sentiti”, avranno tuttavia avuto il loro fair hearing attraverso le garanzie di
difesa e di contraddittorio assicurate al rappresentante ideologico o private attorney general
della classe medesima»; così CAPPELLETTI, M., Formazioni sociali e interessi di gruppo davanti
alla giustizia civile, cit., spec. p. 401. Con l’attribuzione della legittimazione alle formazioni
sociali, «meno pressante appare […] la necessità di una disciplina differenziata per la pub-
blicità degli atti del giudizio, né esiste un particolare bisogno di attribuire al giudice poteri in-
quisitori, di fissare regole di prova differenziate, di dettare una disciplina particolare per le
ipotesi di estinzione del processo»; così VIGORITI, V., Interessi collettivi e processo, cit., p. 218.
CAPITOLO QUARTO

IL CONCETTO DI INTERESSE
E DI INTERESSE COLLETTIVO

SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive: sintesi del percorso ricostruttivo. – 2. Precisa-


zioni di metodo sull’impiego del concetto di interesse nello studio del diritto. –
3. La nozione di interesse. – 4. L’attività di perseguimento dell’interesse. – 5. Le re-
lazioni tra interessi. – 6. La nozione di interesse collettivo. – 6.1. Premesse sulle due
(apparentemente) possibili concezioni principali. – 6.2. L’origine dei concetti di in-
teresse collettivo-sintesi e di interesse collettivo-somma di interessi individuali. –
6.3. Precisazioni esplicative sul concetto di interesse collettivo-sintesi. – 7. L’in-
teresse protetto dai rimedi giurisdizionali a tutela degli interessi collettivi. – 8. Pre-
cisazioni sulla nozione di interesse diffuso, interesse generale ed interesse pubblico.

1. Considerazioni introduttive: sintesi del percorso ricostruttivo


Come detto sin dalle pagine introduttive di questo volume, svolto
l’esame delle riflessioni teoriche che la dottrina ha offerto in più di cento
anni di itinerario scientifico sulla natura delle situazioni sostanziali a
carattere genericamente superindividuale, è ora il momento di arrestare il
nostro percorso per soffermarci sulle questioni che hanno impedito un
corretto inquadramento formale di tali situazioni soggettive, nonché per
procedere all’elaborazione di un modello teorico, che sappia rispondere
alle esigenze di tutela appartenenti a questa tipologia di interessi, supe-
rando così le difficoltà di giuridicizzazione che a più riprese abbiamo vi-
sto emergere nelle riflessioni che ci lasciamo alle spalle e che nuovamente
vedremo essere riproposte nella loro essenza dal dibattito dottrinale e
giurisprudenziale avviatosi nei contesti interpretativi più specifici concer-
nenti le azioni collettive introdotte nel corso degli anni dal nostro legi-
slatore.
Più precisamente, nel perseguire l’obiettivo appena indicato, artico-
leremo l’iter ricostruttivo nelle seguenti tappe.
In primo luogo, determineremo la corretta nozione di interesse, spe-
cificando i rapporti che possono sussistere tra l’interesse astratto, cristal-
lizzato dalla portata precettiva della norma, e l’interesse concreto, ani-
mante i soggetti che operano nella realtà materiale.
256 CAPITOLO QUARTO

In secondo luogo, estenderemo la riflessione agli interessi a carattere


sovraindividuale, studiandone la struttura formale in senso statico e nei
profili di formazione dinamica. Nel far questo giungeremo alla corretta
nozione di interesse collettivo, superando la tradizionale contrapposi-
zione tra due opposte concezioni dell’interesse sovra-individuale e preci-
sando, sul piano terminologico e concettuale, una serie di nozioni affini
quali quelle di interesse diffuso, generale, pubblico, ecc.
Così facendo, avremo concluso la prima parte di questa fase del no-
stro lavoro destinata all’impostazione teorico-generale della problema-
tica, ovvero quella concernente la definizione dei concetti di interesse e
di interesse collettivo sul piano pregiuridico.
Specie nel capitolo che ci lasciamo alle spalle, infatti, potendo esami-
nare il quadro completo descritto dai numerosi contributi che la dottrina
ha avanzato nel tentativo di studiare la nostra materia sotto un profilo ge-
nerale, ci siamo trovati nella condizione di poter guardare al dibattito in
una prospettiva più ampia, la quale, non essendo legata a singole fattispe-
cie, ha consentito una migliore percezione delle dinamiche e dei percorsi
ricostruttivi prevalentemente seguiti. Questa panoramica dall’alto ha per-
messo di rilevare quanto fondamentale sia, sotto il profilo metodologico,
tener ben separato il piano dell’apprezzamento lato sensu ontologico, ov-
vero pre-giudirico, degli interessi umani tutelandi da quello più propria-
mente tecnico-giuridico; e ciò per evitare – come troppo frequentemente
è accaduto – che il peso delle strutture logico-formali, proprie del se-
condo, ricada o più correttamente inquini e corrompa la riflessione che
appartiene al primo, così pregiudicando irreparabilmente la plausibilità
scientifica dei risultati finali a cui è dato pervenire.
Solo dopo aver determinato la corretta struttura dell’interesse col-
lettivo, ancor prima che questo si incontri col mondo delle strutture giu-
ridiche, potremo affrontare con cognizione di causa i nodi teorici fonda-
mentali che hanno afflitto il piano più propriamente tecnico-giuridico e
così completare il nostro percorso ricostruttivo diretto all’agognato
obiettivo della corretta giuridicizzazione di tali interessi.

2. Precisazioni di metodo sull’impiego del concetto di interesse nello stu-


dio del diritto
«È inutile parlare dell’interesse della comunità, senza comprendere
che cosa è l’interesse dell’individuo»1.

1 BENTHAM, J., An introduction to Principles of Moral and Legislation (1789), London-


IL CONCETTO DI INTERESSE E DI INTERESSE COLLETTIVO 257

È sicuramente questa, come insegnano le parole di Jeremy Bentham,


la direttrice metodologica fondamentale che occorre far propria per pe-
netrare la natura degli interessi collettivi. Il concetto stesso di interesse
collettivo – come vedremo – presuppone, infatti, il concetto di interesse,
il quale a sua volta, nell’essere per sua natura riferito all’uomo, è nato e
si è sviluppato in relazione all’individuo singolo, cioè come interesse in-
dividuale2.
D’altra parte, il domandarsi che cosa sia l’interesse o, più corretta-
mente, quale concetto si voglia indicare mediante questa comunissima
formula verbale, impone preliminarmente di dar risposta ad un ulteriore
quesito. E questo quesito, di tutt’altra natura del precedente, investe ad-
dirittura l’opportunità se non la correttezza scientifica dello stesso im-
piego del concetto di interesse in funzione di mezzo privilegiato di com-
prensione e ricostruzione dei fenomeni giuridici.
Basterebbe forse questo interrogativo per far saltare definitivamente
il piano della nostra indagine, tanto è acerrimamente problematico il
quesito. D’altro canto, anche questa questione merita qualche pur breve
cenno che possa incanalare la riflessione che svolgeremo nelle prossime
pagine per la retta via.
Va tosto detto, dunque, che alla risposta positiva conducono una se-
rie di motivazioni.
In primo luogo occorre rimarcare la fortuna che il concetto in que-
stione ha goduto, non solo nel linguaggio comune, ma in particolare al-
l’interno della filosofia morale e delle dottrine politiche, le quali – rivolte
allo studio dei comportamenti umani, pur nelle diverse sfere di rilevanza
– hanno sovente visto nella figura dell’interesse la possibile spiegazione
di questi3.

New York, 1982, cap. I, § 5, p. 12. In lingua italiana, Introduzione ai principi della morale e
della legislazione, a cura di E. Lecaldano, trad. S. Di Pietro, Torino, 1998.
2 Di ciò si ha dimostrazione nella normale coincidenza che nelle riflessioni dottrinali

– giuridiche e non – si riscontra tra la nozione di interesse tout court e la nozione di inte-
resse individuale. È allora comprensibile che CARNELUTTI, F., Lezioni di diritto processuale
civile, I, Introduzione (1920), Padova, rist. 1930, p. 5; ID., Sistema di diritto processuale ci-
vile, I, Funzione e composizione del processo, Padova, 1936, p. 8, affermi – tra l’altro im-
piegando (per le ragioni spiegate infra, § 3.) il termine «bisogno» al posto di quello di «in-
teresse» – che «tutti i bisogni sono individuali. Il bisogno è attitudine dell’uomo singolo;
non vi sono bisogni della collettività come tale; quando si parla di bisogni collettivi si usa
un’espressione traslata per significare che sono sentiti da tutti gli individui appartenenti a un
dato gruppo».
3 Sul punto, per tutti, v. ORNAGHI, L., Introduzione a Il concetto di «interesse», antolo-

gia a cura di L. Ornaghi, Milano, 1984, p. 3 ss.


258 CAPITOLO QUARTO

Paradigmatica è all’uopo la definizione di Helvetius – «l’intérêt est


la mesure des actions des hommes»4 – che meglio di qualsiasi altra affer-
mazione stigmatizza l’affidamento gneosologico che è stato riposto sulla
nozione da parte delle diverse scienze sociali.
Non ultima la scienza giuridica, nella quale – come è noto – il con-
cetto ha trovato frequentissima applicazione anche in riferimento ad isti-
tuti cardine. Si pensi tra tutti all’interesse legittimo, ma anche alla no-
zione di interesse ad agire ed in ultimo, se si vuole, proprio all’oggetto
del nostro studio; tutte ipotesi, quest’ultime indicate, in cui il concetto in
questione è apparso a tal punto centrale nella costruzione degli istituti
elencati da contribuire esso stesso a darvi il nome.
Oltre alle ragioni appena richiamate, ve ne sono diverse, peraltro,
che potrebbero far propendere per la soluzione opposta; e non è casuale
che il capitolo delle ragioni contrarie all’impiego del concetto nello stu-
dio del diritto si apra proprio dopo aver richiamato tre fra le più contro-
verse figure del nostro ordinamento, alle quali, evidentemente, la stretta
contiguità non solo concettuale ma anche terminologica con l’«interesse»
sembra proprio non aver giovato.
Ciò – forse – può essere spiegato con l’estrema ritrosia che comune-
mente la figura in questione ha dimostrato e dimostra nel farsi incasellare
in una cornice concettuale chiara, definita e soprattutto stabile. Al con-
trario, il termine e lo stesso concetto di interesse si presenta sovente in
posizione di fungibilità con il concetto di scopo, motivazione, fine, uti-
lità, bisogno, desiderio, aspirazione, ecc. Tutte espressioni verbali che
nella sostanza rimandano al foro interno del soggetto e condividono,
dunque, dell’interesse, la natura eminentemente soggettiva, variabile, im-
perscrutabile.

4 De l’esprit, Paris, 1758, D. III, ch. IV, cit., da FALZEA, A., Introduzione alle scienze giu-
ridiche, I, Il concetto di diritto, Milano, 1996, p. 180, che, nel presentare una panoramica sulle
teorie giuridiche dell’interesse (p. 155 ss.), ripercorre l’itinerario che la nozione di interesse
ha compiuto partendo dalle dottrine utilitaristiche inglesi, passando poi per l’illuminismo
continentale francese di Helvetius ed approdando in campo giuridico ad opera di Rudolf von
Jhering. È interessante notare, tra l’altro, che se – come ad esempio osserva PROTO PISANI, A.,
Dell’esercizio dell’azione, Art. 100, Interesse a agire, in Commentario del codice di procedura ci-
vile, diretto da E. Allorio, I, 2, Torino, 1973, p. 1066 – la formula prevista dall’art. 100 c.p.c.
deriva dall’art. 36 c.p.c. del 1865 in cui si «elevò a dignità di norma giuridica la corrente di
idee particolarmente diffusa nella dottrina e giurisprudenza francese espressa dagli aforismi
“point d’intérêt, point d’action”, ovvero “l’intérêt est la mesure des actions”», allora probabil-
mente proprio nella formula di Helvetius riportata nel testo è da rinvenirsi anche l’origine del
nostro art. 100 c.p.c., in cui l’«azione», intesa originariamente come attività materiale umana,
sarebbe divenuta poi l’«azione» come concetto giuridico processuale.
IL CONCETTO DI INTERESSE E DI INTERESSE COLLETTIVO 259

L’impiego del termine interesse condurrebbe, quindi, verso un


deformante psicologismo, estremamente dannoso per le discipline di stu-
dio che, come quelle indicate e come appunto il diritto, accolgono sì l’in-
teresse come oggetto di riflessione, ma non in posizione finale, bensì
quale strumento di investigazione dei comportamenti umani, cioè di fatti
e non di rappresentazioni mentali.
Quest’ultime, al contrario, non solo si rivelano tendenzialmente
esterne all’oggetto di indagine del diritto, ma peraltro appaiono difficil-
mente penetrabili con uno strumento – l’interesse appunto – se non sem-
plificante quantomeno falsante riguardo ai processi psicologici che deter-
minano i comportamenti umani. Il concetto di interesse, d’altra parte,
trova notoriamente sviluppo e fortuna in quella fase storica della cultura
occidentale – precendente alla nascita ed all’affermazione delle dottrine
psicanalitiche – di impronta marcatamente razionalistica in cui i nessi tra
psiche e comportamento vengono acquisiti in termini meccanicistici, de-
terministici; in cui l’uomo vede, valuta e vuole secondo rapporti di causa-
effetto quasi matematicamente schematizzabili5.
I rischi insiti nella tendenza appena accennata, peraltro, come con-
cretamente vedremo tra breve, possono essere evitati, da un lato, conce-
dendo assai poco allo scivoloso piano delle rappresentazioni mentali e,
dall’altro, ponendo il dovuto accento – cosa troppo spesso non accaduta
– sulla differenza intercorrente tra l’interesse in senso concreto e l’inte-
resse in senso normativo, nonché – ancora – tenendo sempre presente il
valore strumentale che la nozione di interesse assume nello studio del di-
ritto, in cui appunto vale – al di là di ogni intento di speculazione filoso-
fica – unicamente come formula sintetica, descrittiva e fondamental-
mente semplificativa di fenomeni più complessi.

3. La nozione di interesse
Precisati i limiti entro cui occorre muoversi per trarre massimo
frutto dall’impiego della figura, possiamo finalmente chiedersi cosa si
debba intendere con tale formula verbale.
Sebbene la dottrina giuridica – da Jhering ad oggi – se ne sia servita
frequentissimamente, non sono molti gli Autori che si sono «attardati» a
chiarire il loro concetto di interesse. E se, peraltro, si osservano le defini-

5 Sul punto, a titolo esemplificativo, v. la concezione avanzata da Arturo Rocco e ripor-


tata infra, nota 10.
260 CAPITOLO QUARTO

zioni proposte da autorevoli giuristi nel tempo intervenuti sul punto, il


quadro generale che emerge è tutt’altro che chiaro ed univoco6.
Stando ad una prima definizione l’interesse sarebbe «la situazione
favorevole al soddisfacimento di un bisogno»7. Si afferma, dunque, esem-
plificando: «se godere un fondo è un mio interesse, ciò vuol dire che il
godimento del fondo costituisce una situazione favorevole per il soddi-
sfacimento di un mio bisogno».
In questa prospettiva, dunque, l’interesse acquista una connotazione
propriamente oggettiva, andando, infatti, a corrispondere alla «situa-
zione favorevole»8. Di contro, la dimensione soggettiva del fenomeno
sembrerebbe risiedere all’interno del concetto di «bisogno». Ma in
realtà, a ben vedere, con tale riferimento la dimensione soggettiva appena
indicata tende effettivamente a svanire. Per questa via, infatti, la defini-
zione di interesse viene ad essere polarizzata dal concetto di bisogno, che
a sua volta si presenta come la ragione che definisce a priori ciò che è e
ciò che non è – quasi secondo un nesso di meccanicistica determina-
zione9 – «favorevole» per il soggetto.
6 Uno dei problemi che hanno da sempre afflitto l’efficacia dell’impiego del concetto in

sede dogmatica è rappresentato non tanto e non solo dalla pur deprecabile circostanza che
sono presenti diverse nozioni dello stesso all’interno del dibattito scientifico, ma piuttosto dal
fatto che – in genere – non viene chiarita quale sia la definizione di interesse a cui si fa riferi-
mento, con la conseguenza che anche all’interno di uno stesso contributo, spesso si alternano
diverse nozioni usate promiscuamente. Se a ciò si aggiunge, inoltre, che talora il termine in-
teresse è servito non solo per contrassegnare una realtà pregiuridica, ma anche una certa ti-
pologia di situazioni giuridiche allora ci si rende conto di quale grado di incertezza concet-
tuale e terminologica abbia potuto colpire l’argomentazione giuridica. In quest’ultimo senso,
v. ad es. GUARINO, G., Potere giuridico e diritto soggettivo, Napoli, 1949 (estratto da Rass. dir.
pubbl., 1949), nel cui studio, in sede di esame delle situazioni giuridiche inattive (p. 37 ss., 47
ss.), l’A. indicato fa uso del termine «interesse» tanto per indicare la posizione favorevole di
un soggetto (detta appunto «di interesse») quanto per accostare alla pretesa e alla soggezione
una terza species di situazione giuridica inattiva: l’«interesse» appunto. Con il risultato di co-
struire proposizioni in cui il lettore deve compiere uno sforzo di decifrazione del linguaggio
che poteva di certo evitarsi; circostanza, quest’ultima, che rende palese l’errore di tecnica de-
finitoria in cui si incorre. Il punto è che la scienza giuridica crea concetti di realtà fittizie,
ideali; e per questo semplice motivo la relazione che intercorre tra linguaggio e concetto è
strettissima, in quanto di regola manca un quid materiale che dia consistenza fattuale all’og-
getto delineato in sede definitoria. La scelta linguistica è quindi investita di una portata con-
cretante enorme e per questa ragione deve, per quanto possibile, essere maneggiata con cura
e scrupolosità.
7 CARNELUTTI, F., Lezioni di diritto processuale civile, I, cit., p. 3; ID., Sistema di diritto

processuale civile, I, cit., p. 7.


8 CARNELUTTI, F., Sistema di diritto processuale civile, cit., p. 7, in cui si afferma risoluta-

mente: «l’interesse non è un giudizio».


9 Cfr. la nota che segue.
IL CONCETTO DI INTERESSE E DI INTERESSE COLLETTIVO 261

Il riferimento al bisogno – peraltro – ben si comprende; la sua giu-


stificazione, infatti, risiede proprio nella mal celata volontà di ancorare la
definizione ad un entità tendenzialmente oggettiva, preesistente alla valu-
tazione soggettiva dell’individuo ed in quanto tale non mutevole10. In al-

10 La rappresentazione più evidente di quanto si afferma nel testo la si riscontra in


ROCCO, Art., L’oggetto del reato e della tutela giuridica penale, Milano-Torino-Roma, 1913, p.
243 ss. (fedelmente seguito da ROCCO, U., L’autorità della cosa giudicata e i suoi limiti sogget-
tivi, I, Arpino, 1916, p. 193 ss.; ID., Trattato di diritto processuale civile, I, Parte generale, To-
rino, 1957, p. 14 ss.), a cui si deve di certo uno studio particolarmente approfondito della no-
zione di interesse. Per Arturo Rocco, infatti, la nozione di interesse si snoda attorno le no-
zioni di bisogno, bene ed utilità. Secondo l’autore in questione «il bisogno, come necessità,
come esigenza dell’esitenza umana, procede dall’istinto: esso è una legge naturale dell’organi-
smo umano, fisiologico e psichico, ed ha come tale, una sanzione naturale nell’emozione del
piacere e del dolore: la soddisfazione del bisogno genera, infatti, un sentimento di piacere: l’in-
soddisfazione di esso un sentimento di dolore. Piacere e dolore spingono l’uomo ad agire per
la soddisfazione del bisogno, a procurarsi ciò che è conforme alle esigenze della propria esi-
stenza e a respingere ciò che ad esse è contrario. Di qui lo stimolo o impulso ad agire che al-
tro non è se non il bisogno considerato come forza motrice, come propulsore della volontà.
Nascendo dall’istinto e poggiando sul sentimento, il bisogno, come tale, non si discute; si
constata» (p. 262). Alla nozione di bisogno segue quella di «bene», che è definito come «tutto
ciò che può soddisfare o soddisfa un bisogno umano» (p. 262) e di «utilità», consistente nella
«l’idoneità» cioè nell’«attitudine […] di una qualche cosa a soddisfare un bisogno umano»
(p. 264). L’«interesse» risulta quindi essere «la valutazione, il giudizio di utilità o di valore
[…] di un oggetto […], in quanto parte dal soggetto che sente il bisogno». Già quanto ri-
portato dà, quindi, il dovuto riscontro dell’assoluta cogenza (necessità, piacere/dolore, ecc.)
del bisogno rispetto alle determinazioni umane; bisogno che in realtà nega in radice tutti i
momenti soggettivi (interesse, giudizio, utilità ecc.) che vengono introdotti a temperamento
della proiezione deterministica imposta dal concetto di bisogno. Tale concezione, inoltre, pa-
lesa il meccanicismo più deformante a cui è improntata ogni riflessione che voglia andare ol-
tre la ricognizione dei dati elementari, come anche la superfetazione concettuale che si rea-
lizza allorché si conceda eccessivo rilievo alle cause intrasoggettive che stanno a monte del
comportamento umano. Insomma, qui il bisogno («forza motrice della volontà») rende inu-
tili gli elementi concettuali successivi. Il bene, definito come «tutto ciò che può soddisfare e
soddisfa un bisogno», rende inutile il discorso sull’«utilità», visto che l’«attitudine […] a sod-
disfare un bisogno umano», appartiene già al concetto di bene; e così via … Considerazioni
simili possono valere in relazione alla nozione avanzata da JAEGER, N., Attività processuali con
efficacia normativa e tutela di interessi generali (di serie), in Studi in onore di Antonio Segni,
III, Milano, 1967, p. 11, che appunto ritiene l’interesse come il «rapporto, che si può ideal-
mente istituire fra la persona o le persone (fisiche) titolari di un dato bisogno ed il bene atto
a soddisfare il bisogno stesso». Come in Carnelutti, infatti, l’interesse non dipende dal sog-
getto, ma è oggettivamente esistente e dipendente dall’idoneità del bene a soddisfare il biso-
gno. La concezione soggettiva è anche qui rinnegata e sempre sul presupposto della sua in-
servibilità a fini ricostruttivi. Negli stessi termini JAEGER, P.G., L’interesse sociale, Milano,
1964, p. 3, che però, contrariamente a Nicola Jaeger, specifica chiaramente la volontà di rife-
rirsi all’interesse così come è assunto dalla norma. Non al bisogno, ma all’«esigenza» è anco-
rata la definizione di VIGORITI, V., Interessi collettivi e processo, La legittimazione ad agire, Mi-
262 CAPITOLO QUARTO

tri termini, il carattere di soggettività, di personalità, che al comune con-


cetto appartiene, in questa definizione viene sterilizzato tanto, da un lato,
con il ricorso al concetto di bisogno, quanto, dall’altro, con la riduzione
dell’interesse alla «situazione favorevole» stessa11. È comprensibile,
quindi, che per questa via si realizzi una sovrapposizione concettuale tra
diverse nozioni, in quanto ad una entità concettuale in realtà unitaria
vengono a farsi corrispondere più simboli lessicali. Così, si afferma – ad
esempio – che «i mezzi per la soddisfazione dei bisogni sono i beni». Ma,
è agevole osservare che, se l’«interesse» è la «situazione favorevole» per
il soddisfacimento di un «bisogno», ecco allora che il concetto di «bene»
viene praticamente a coincidere con il concetto di «interesse»12. Ab-
biamo insomma due termini o simboli («bene» e «interesse») che, in
un’unica formula definitoria, posseggono lo stesso significato13.
Più convincente è una seconda definizione in cui l’interesse è «qua-
lunque situazione della realtà in quanto le si attribuisca, per qualsiasi mo-
tivo, una qualifica positiva». In essa, infatti, proprio allo scopo di evitare
che la definizione si risolva in un rinvio ad un concetto – quello di biso-
gno – che, se inteso oggettivamente, manifesta una portata cogente –
come detto – eccessiva e che, se inteso soggettivamente, attribuisce ulte-
riore incertezza alla definizione per il duplicarsi dei momenti soggettivi

lano, 1979, p. 17, che però – più condivisibilmente – definisce il concetto in senso soggettivo,
ovvero come l’«aspirazione dell’uomo verso determinati beni (intesi in senso lato) capaci di
soddisfare un’esigenza individuale».
11 Condivisibili sono, quindi, le critiche che FALZEA, A., Introduzione alle scienze giuri-

diche, cit., p. 384-385, ha rivolto alla definizione avanzata da Carnelutti: «quando […] si de-
finisce nel modo corrente l’interesse come situazione utile alla soddisfazione dei bisogni del-
l’uomo, da un lato si danno equivalenti tautologici di ciò che si tratta di chiarire – utilità, sod-
disfazione, bisogno; dall’altro si riferisce all’oggetto – la situazione – un fenomeno che
comunque si intenda è da riportare al soggetto – l’interesse è sempre di qualcuno –; da un al-
tro lato ancora si fa rimando a fenomeni fisiologici e psicologici, quali i bisogni, che oltre ad
essere incapaci, per la loro portata meramente individuale, a spiegare la vita sociale ed esterna
del diritto – e lo abbiamo riscontrato nel pensiero utilitaristico inglese – presuppongono in
fondo l’originaria esperienza del reale in noi e fuori di noi sotto la categoria del valore».
12 Un’ulteriore sovrapposizione concettuale in definizioni di tal fatta si rinviene nel

fatto che il fenomeno del soddisfacimento coinvolge tanto l’interesse che il bisogno.
13 Così, infatti, è allorché CARNELUTTI, F., Lezioni di diritto processuale civile, I, cit., p. 3

sostiene: «Se interesse è la situazione di un uomo favorevole al soddisfacimento di un biso-


gno, questa situazione si verifica dunque rispetto a un bene: uomo e bene sono i due termini
del rapporto, che noi chiamiamo interesse. Subietto dell’interesse è l’uomo: obbietto dell’in-
teresse è il bene». Si noti come l’inserimento del concetto di bene nella definizione ne porta
la definitiva corruzione visto che l’interesse sembra perdere la sua coincidenza con la situa-
zione favorevole, abbandonando la dimensione oggettiva e riappropriandosi di quella sogget-
tiva.
IL CONCETTO DI INTERESSE E DI INTERESSE COLLETTIVO 263

(determinazione del bisogno e giudizio di idoneità della situazione al


soddisfacimento del bisogno stesso), detto concetto viene ad essere sosti-
tuito da un più corretto «per qualsiasi motivo»; inciso che sta proprio ad
indicare l’impotenza e l’indifferenza del giurista di fronte alle recondite
ragioni che conducono l’uomo ad un giudizio di valore positivo circa una
certa situazione della realtà.
Ma – e sotto questo profilo nemmeno quest’ultima impostazione si
dimostra pienamente appagante – nella definizione appena riportata,
forse ancora per il timore di incorrere in una lettura di impronta sogget-
tivistica, l’interesse va a coincidere, come nella definizione che precede,
con una «situazione della realtà». È vero che la formula definitoria pro-
segue dicendo: «in quanto le si attribuisca […] una qualifica positiva».
Ma ciò evidentemente non cambia nulla riguardo al fatto che l’interesse
è nuovamente ridotto a cosa, a situazione14. Ci troviamo anche qui di

14 Per FALZEA, A., Introduzione alle scienze giuridiche, cit., p. 384-385, come visto, (a)
l’«interesse» viene ad essere definito come «qualunque situazione della realtà in quanto le si
attribuisca, per qualsiasi motivo, una qualifica positiva di valore» (p. 385). Il «bisogno», in-
vece, viene a rifluire all’interno della più ampia categoria dell’interesse stesso (p. 325 ss.). La
ragione è che secondo questa autorevole dottrina, se nelle sfere inferiori della vita il bisogno
materiale riveste un ruolo primario (si fa l’esempio del bisogno di nutrizione), nelle sfere su-
periori e spirituali, «nei quali la libertà conquista spazi via via maggiori», detto concetto si
stempera in quello di interesse, indicando quest’ultimo non, come il primo, un’idea di neces-
sità, ma piuttosto di possibilità (p. 326-327). Lo stesso A., peraltro, poco prima osserva anche
che: (b) «le situazioni esterne sono utili o favorevoli se influiscono beneficamente sul soddi-
sfacimento dei bisogni vitali e così sull’essere o sul benessere del vivente» e nel far ciò, a
quanto pare, cade in contraddizione. Se si coordinano, infatti, i due distinti ordini di consi-
derazioni – ovvero quelle riportate dopo (a) con quelle riportate dopo (b) – ne deriverebbe
che una situazione della realtà è «di interesse» allorché sia favorevole al soddisfacimento del
bisogno ovvero (appartenendo quest’ultimo concetto alla più ampia categoria dell’interesse)
al soddisfacimento dell’interesse stesso. Anche questa definizione si trasformerebbe per que-
sta via in tautologia. Premettendo, infatti, come chiarito nel testo, che tutte le nostre osserva-
zioni non mirano ad altro che a dare una rappresentazione di sintesi delle dinamiche dei rap-
porti tra uomo e realtà circostante nella misura in cui ciò rilevi per la comprensione del
mondo del diritto ed escludendo, dunque, qualsiasi finalità pur latamente filosofica, va detto
che, per coerenza argomentativa, o l’interesse è premessa della positiva valutazione della
realtà o l’interesse è conseguenza della valutazione positiva della realtà. La dottrina, da ultimo
richiamata, laddove indica il bisogno, prima species dell’interesse e poi causa della valutazione
positiva di valore della situazione della realtà, sembrerebbe propendere per il primo corno
dell’alternativa. Laddove, invece, definisce l’interesse come la «situazione della realtà in
quanto le si attribuisca, per qualsiasi motivo, una qualifica positiva di valore» sembrerebbe
propendere per il secondo corno dell’alternativa, ovvero intendere appunto l’interesse come
il risultato se non la stessa «qualifica positiva», ponendo, per altro verso, il «qualsiasi motivo»
come causa di detta qualifica. Da quanto osservato, dunque, per maggior chiarezza, a nostro
parere il fenomeno in questione dovrebbe descriversi nei termini che seguono. L’uomo entra
264 CAPITOLO QUARTO

fronte al tentativo di espungere la dimensione soggettiva dal concetto di


interesse e ciò per il timore – privo di effettiva giustificazione – che una
nozione di marca soggettiva possa rivelarsi inservibile sul piano della si-
stemazione giuridica15. Nella prospettiva da ultimo indicata si viene,
quindi, a perdere una distinzione che anche nel parlare comune è ben
presente, cioè quella tra oggetto dell’interesse e interesse stesso.
Ci si orienta, invece, nella giusta direzione passando per una terza
definizione, secondo cui l’interesse è «la valutazione di un bene, cioè
l’apprezzamento di ciò che, in relazione a un fine (ad un bisogno), costi-
tuisce positivamente un bene»16. Si precisa, infatti: «vi sono dunque nel
concetto di interesse due elementi: uno obbiettivo, formato da fine e dal
mezzo, ed uno subbiettivo, che è la valutazione del mezzo in rapporto al
fine»17. È vero che anche nella lettura ora riportata si ripresenta – e ciò
solleva le perplessità già avanzate – la tendenza ad ancorare la valuta-
zione della situazione della realtà ad un’entità preesistente ed intesa in
senso espressamente oggettivo, ma, d’altra parte, emerge anche – chiaris-
simamente – la natura relazionale dell’interesse, nonché l’impossibilità di
accedere al concetto di interesse senza valorizzare il giudizio dell’uomo
sulla realtà.

in relazione con la realtà esterna. I più diversi fattori influiscono sulle valutazioni di detta
realtà. Tali fattori possono essere rappresentati da bisogni imprescindibilmente legati alla sua
stessa natura ed esitenza (v. l’esempio del nutrimento proposto da Falzea) o da attitudini
dello spirito (a loro volta influenzate da esperienze familiari, culturali, ecc.) o addirittura da
atti di pura follia; ciò, ai fini della definizione della struttura formale dell’interesse (specie in
senso normativo), peraltro, poco importa. Con la valutazione positiva e dunque col giudizio
favorevole circa la situazione della realtà, si attiva l’interesse, ovvero la tensione dell’uomo alla
situazione predetta. È per questa ragione, e solo per questa, quindi, che si ritiene inserire
nella nostra definizione, al posto del «bisogno», il «qualsiasi motivo», ovvero per evidenziare
l’imprescrutinabilità delle ragioni che nella dinamica dell’interesse – si badi bene – concreto
determinano la valutazione positiva della situazione della realtà. Se, invece, si cercano di com-
prendere le ragioni che hanno condotto la dottrina qui in esame a espungere il riferimento al
bisogno nella definizione di interesse, allora probabilmente ciò deve ricercarsi nell’intenzione
di fornire una definizione di interesse sostanzialmente valida tanto in riferimento all’interesse
concreto quanto in riferimento all’interesse astratto (v. a tal riguardo le osservazioni nel testo),
ovvero, più precisamente nella necessità di depurare il concetto da quella «portata mera-
mente individuale» del bisogno, che, secondo l’A. (cfr. quanto riportato retro, nota 11), im-
pedisce di spiegare «la vita sociale ed esterna del diritto».
15 Ciò emerge chiaramente dalle magistrali pagine di FALZEA, A., Introduzione alle

scienze giuridiche, cit., p. 155, laddove, riguardo alle diverse concezioni esaminate, di volta in
volta viene evidenziato se la concezione in esame sia o non sia di impronta soggettivistica.
16 CESARINI SFORZA, W., Lezioni di teoria generale del diritto, I, Padova, 1930, p. 127.
17 CESARINI SFORZA, W., Lezioni di teoria generale del diritto, cit., p. 127.
IL CONCETTO DI INTERESSE E DI INTERESSE COLLETTIVO 265

Ciò detto, ovvero esaminate in via esemplificativa talune definizioni


del concetto di interesse ed evidenziati quelli che possono risultare i pro
ed i contra delle stesse, possiamo tentare una definizione stipulativa della
nazione che si presenti come nostro utile strumento di lavoro18.
Innanzitutto si crede opportuno procedere valorizzando la pre-
gnanza che al termine appartiene, dimostrata dal frequentissimo impiego
del lemma nel linguaggio comune, e che ben si palesa non nel rinvio ad
una definizione cartesianamente concepita, ma, al contrario, nell’imma-
gine pur non perfettamente definita, ma straordinariamente forte che
questo evoca.
È questo il punto da cui partire o, meglio, da non disconoscere.
Abbandoniamo solo per un attimo, quindi, le dotte riflessioni e os-
serviamo l’immagine che ci si materializza innanzi al solo interrogativo di
che cosa significhino le seguenti comuni locuzioni: «avere interesse in
qualcosa», «fare qualcosa senza interesse», «conflitto di interessi», «per-
sona interessante», ecc.
L’idea che trasmettono è un idea di attrazione, di aspirazione, di ten-
sione; cioè tutti concetti che esprimono quanto il lemma porta con sé
dalla sua origine ovvero: «inter-esse», «essere-tra»19.
Se, quindi, si coordinano le riflessioni che precedono con queste pur
banali osservazioni possiamo definire l’interesse ciò che sta tra l’uomo e
qualunque situazione della realtà fatta oggetto – per qualsiasi motivo20 –
di valutazione positiva. Più distesamente, l’interesse può essere inteso
come la tensione21, o ancor più semplicemente la relazione, che, da un

18 È singolare che lo stesso BENTHAM, J., An introduction to Principles of Moral and Le-
gislation, cit., cap. I, § 5, p. 12, affermi in nota al suo celeberrimo lavoro che l’«interesse è una
di quelle parole che, non avendo nessun genere superiore, non può essere definita nel modo
ordinario».
19 Il lemma «interesse» costituisce la forma sostantivata dell’infinito latino «inter-esse»,

cioè «essere-tra» (v. ORNAGHI, L., Introduzione a Il concetto di «interesse», cit., p. 4).
20 Nel nostro modello il motivo, ciò che appartiene alla dimensione intrasoggettiva del

concetto è fuori dal campo di indagine. Ciò determina il fatto che nel nostro sistema per ri-
spondere all’interrogativo se una situazione sia favorevole o non favorevole per un certo sog-
getto, non importa verificare ciò che il soggetto in questione si rappresenta nel foro interno,
ma, o si postula detta relazione in via di ipotesi, o ci si limita a dedurre dal comportamento
concreto l’esistenza o meno di un interesse che lo sorregga. Per il giurista è semplice potersi
muovere in questo senso, poiché egli ha a che fare non con interessi concreti, ma con interessi
normativamente rilevanti. Ha a che fare, per dirla in altri termini, con schemi relazionali
«soggetto↔situazione favorevole» già astrattamente determinati, in quanto l’interesse tute-
lato è sempre un interesse la cui meritevolezza è già stata valutata in sede legislativa.
21 Il termine «tensione» è preferito ad «aspirazione» adottato da altra definizione come

la nostra di marca soggettiva (VIGORITI, V., Interessi collettivi e processo, cit., p. 17), ma ciò
266 CAPITOLO QUARTO

lato, si attiva tra l’uomo e la situazione della realtà allorché questa sia og-
getto di valutazione positiva e che, dall’altro, si esaurisce – è evidente-
mente il fenomeno del soddisfacimento dell’interesse22 – allorché detta si-
tuazione si verifichi. Volendo esprimere il concetto con una formula po-
tremmo scrivere:
soggetto↔situazione favorevole
in cui il simbolo ↔ è posto a rappresentare ciò che appunto sta tra
l’uomo e la situazione favorevole della realtà, ovvero l’inter-esse.
Stando a quanto detto, dunque, il concetto di interesse ha una va-
lenza eminentemente soggettiva, in quanto nasce sì in riferimento alla
realtà, ma attraverso l’uomo; ed in tale dimensione soggettiva risiede la
natura concreta e mutevole dell’interesse stesso23.

solo per una ragione squisitamente lessicale e non concettuale, essendo il termine «tensione»
più neutro rispetto al termine «aspirazione», più frequentemente adottato in riferimento a
fini elevati eticamente.
22 Il termine «soddisfacimento» è da preferirsi a quello di «attuazione» utilizzato da JAE-

GER, N., Attività processuali con efficacia normativa e tutela di interessi generali (di serie), spec.
p. 13. Ciò non solo perché tale scelta trova corrispondenza nel linguaggio comune, ma anche
perché il soddisfacimento si consegue ogni qual volta si realizzi la situazione favorevole e non,
necessariamente, mediante un’azione del soggetto titolare dell’interesse. Il termine «attua-
zione» invece, sembra rinviare al comportamento del soggetto, cioè all’interesse che, per
mezzo della volontà, si traduce in atto. Se peraltro vi sono delle ipotesi in cui può accadere che
la situazione favorevole includa al suo interno – per come viene ad essere concepita – anche
un comportamento del titolare, ciò non sempre si verifica. Se, invece, si verifica detta circo-
stanza, questa particolare situazione va definita – anche qui in aderenza al lessico comune –
come «perseguimento» dell’interesse, intendendo con tale termine l’attività necessaria che il
soggetto titolare dell’interesse deve compiere per consentire il realizzarsi della situazione favo-
revole. Da ciò si evince anche che il concetto di «soddisfacimento» è distinto, seppur talora
praticamente dipendente, dal concetto di «perseguimento». Sul punto v. ampiamente nel testo.
23 La tendenza del concetto di interesse a sfuggire da inquadramenti definitori è dun-

que determinata da due circostanze, la prima è rappresentata dalla valenza soggettiva della
nozione, ancorata al giudizio di valore positivo sulla situazione della realtà. La realizzazione
di tale giudizio di valore è, infatti, rimessa alla più piena libertà del singolo. Ad es. l’assun-
zione di Tizio al posto di lavoro appare verosimilmente come una situazione favorevole per
Tizio ed a tal riguardo possiamo ragionevolmente affermare che Tizio ha interesse all’assun-
zione. In altri termini, è naturale prospettarsi questa dinamica, visto che Tizio, il soggetto che
sarà assunto, è colui su cui ricadono i vantaggi diretti della situazione. Ma si potrebbe imma-
ginare che anche un soggetto terzo abbia interesse all’assunzione di Tizio. Si pensi a Caia, ma-
dre di Tizio, per la quale l’assunzione del figlio è evidentemente una situazione favorevole, vi-
sto che la solleva dalle preoccupazioni che le derivano dal vedere il figlio disoccupato. Così,
il rapporto di strumentalità che si realizza tra i diversi interessi, congiunto con la piena libertà
di valutazione del soggetto, apre la strada ad una facile moltiplicazione degli interessi all’in-
terno della quale è evidentemente facile perdersi. La seconda circostanza è determinata, in-
vece, dal fatto che il divenire storico è rappresentato da un infinita successione di situazioni
IL CONCETTO DI INTERESSE E DI INTERESSE COLLETTIVO 267

Possiamo quindi riferirci all’interesse in senso concreto intendendo


l’interesse o gli interessi che nella vita reale si attivano riguardo ad una
certa situazione ritenuta favorevole24, oppure possiamo riferirci – ed è
questo il punto che evidentemente richiama la nostra attenzione – all’in-
teresse in senso normativo (o normativamente rilevante), che si ottiene
quando questo venga privato della mutevolezza e della concretezza che gli
è propria mediante la sua cristallizzazione all’interno del precetto legale25.
La norma, infatti, nel disciplinare la regola che prescrive il compor-
tamento idoneo a garantire il soddisfacimento dell’interesse, ovvero –
come da definizione – il verificarsi della situazione favorevole, assume
quest’ultimo nella sua dimensione astratta ed in quanto tale oggettiva al-
l’interno di uno schema fenomenologico tipico che essa stessa descrive.
Ad esempio, prendendo ad ipotesi il caso del proprietario di un
fondo, l’interesse in senso normativo, cioè l’interesse tipicamente tutelato
dalla normativa sostanziale è l’interesse del proprietario al comporta-
mento di astensione da parte degli omnes. La legge, infatti, come meglio
vedremo nel prossimo capitolo, impone ai consociati un obbligo di asten-
sione che costituisce lo strumento giuridico per garantire il verificarsi
della situazione favorevole26.

della realtà, cosicché la concatenazione tra queste situazioni conduce anche alla difficoltà di
isolare con precisione le situazioni della realtà a cui dare rilievo nella ricostruzione della di-
namica degli interessi, favorendo anche sotto questo profilo una dannosa e difficilmente ge-
stibile complessificazione del quadro fenomenologico a cui ci si riferisce. Se però si pone ad
oggetto della riflessione non l’interesse concreto ma l’interesse astratto cioè quello normati-
vamente rilevante allora la situazione si semplifica, poiché è sufficiente esaminare la natura
degli obblighi che la legge impone ai consociati per determinare con esattezza quale sia la si-
tuazione favorevole la cui realizzazione è garantita dalla legge e dalla quale si può procedere
per la determinazione dei soggetti giuridicamente interessati a detta situazione. Come già
detto addietro, (cfr. nota 14 in fine) nel doversi confrontare con interessi normativamente ri-
levanti, noi operiamo con schemi relazionali tipici, in cui, cioè, la norma determina la classe
dei comportamenti doverosi (cioè la situazione favorevole) e la classe dei soggetti interessati
a tale situazione (cioè il titolare dell’interesse), con esclusione assoluta, tanto di altre e diverse
situazioni favorevoli, quanto di altri e diversi soggetti interessati sul piano normativo.
24 Potremmo parlare anche di interesse medio o interesse in senso sociologico per inten-

dere l’interesse statisticamente prevalente all’interno di un certo corpo sociale, ma ciò in fun-
zione meramente classificatoria, vista la possibilità che detto interesse pur statisticamente pre-
valente non sia attratto nell’orbita del giuridicamente rilevante.
25 Sulla distinzione tra interesse in senso psicologico ed interesse in senso normativo, v.

tra gli altri, BETTI, E., Interesse (teoria generale), in Noviss. Dig. it., VIII, Torino, 1962, p. 838
ss., spec. p. 839.
26 Con ciò si vuol dire che la situazione favorevole la cui realizzazione il diritto – per

quanto possibile – garantisce non è il godimento della cosa, come sembrerebbe ad esempio
leggendo il disposto dell’art. 832 c.c. Tale godimento, infatti, dipende dal soggetto titolare del
268 CAPITOLO QUARTO

Se, invece, pensiamo – per proseguire nell’esemplificazione – ad un


diritto di credito avente ad oggetto il pagamento di una somma di de-
naro, la situazione favorevole il cui verificarsi la legge garantisce con l’im-
posizione dell’obbligo è la consegna della somma di denaro da parte del
debitore al creditore.
Abbiamo, in altri termini, a che fare con un fenomeno di selezione e
conseguente astrazione degli interessi che concretamente animano una
certa comunità organizzata, in virtù del quale, tra gli infiniti interessi che
all’interno di questa potrebbero avere ad oggetto una data situazione
della realtà, ne è assunto uno come tipico e meritevole di tutela, con la
conseguenza, che questo stesso interesse, percepibile oramai nella sua di-
mensione astratta e oggettivata, si presenta anche – come evidenziato in
dottrina – in termini di valore sociale e giuridico27.
Non bisogna, dunque, lasciarsi intimorire dalla mutevolezza che ap-
partiene all’interesse come conseguenza naturale del suo carattere perso-
nale, in quando il giurista, avendo a che fare con interessi in senso nor-
mativo, opera sempre in schemi predefiniti, in cui le diverse relazioni di
interesse (soggetto↔situazione favorevole) sono date per oggettive ed in
quanto tali stabili e non mutevoli28.

4. L’attività di perseguimento dell’interesse


Chiarita quest’ultima distinzione, prima di chiudere il discorso sulla
nozione di interesse è opportuno dedicare qualche cenno al fenomeno
che generalmente, anche nel linguaggio comune, è noto come attività di
perseguimento dell’interesse e che spesso, come vedremo, si trova a fon-
damento delle incertezze definitorie che hanno afflitto il concetto di in-
teresse collettivo.

diritto oltre che da numerose circostanze su cui il diritto non ha modo di influire (cfr. am-
plius, il prossimo capitolo, spec. § 2.3.2. nel testo e in nota). Ciò che è garantito sono invece
i comportamenti di non godimento della res, che così è posta a servizio del titolare del diritto
che – concretamente – può o non può – a seconda del suo effettivo interesse nonché pratica
possibilità – avvantaggiarsi di essa.
27 Sul punto, v. ancora FALZEA, A., Introduzione alle scienze giuridiche, cit., p. 385:

«come l’interesse sociale valutato positivamente diventa valore giuridico, così l’azione del
consociato, fatta oggetto di valutazione positiva in funzione dell’interesse assunto a valore
giuridico, diventa a sua volta valore giuridico». E così ancora, «la definizione del diritto come
un insieme di valori dell’azione umana utilizza una forma letteraria ellittica per significare che
il diritto è un insieme di valori di azione collegati funzionalmente ad un insieme di interessi
valutati giuridicamente in forma positiva».
28 Cfr. retro, note 14 (in fine) e 23.
IL CONCETTO DI INTERESSE E DI INTERESSE COLLETTIVO 269

In termini schematici, quanto appena indicato si verifica semplice-


mente allorché la situazione favorevole, oggetto di interesse, includa al
suo interno, per come è concepita, anche un’attività del soggetto titolare
dell’interesse ipotizzato. Quando questo accade il verificarsi della situa-
zione favorevole, ovvero il soddisfacimento dell’interesse, dipende –
come è ovvio – da un atto del soggetto titolare dell’interesse. Ciò può ac-
cadere come non accadere; è in realtà solo un problema di come viene ad
essere concepita la situazione favorevole: può ben essere, infatti, che que-
sta sia costituita o comprenda al suo interno solamente un comporta-
mento altrui, ma può anche essere che questa includa un comportamento
proprio, oltre che altrui, e così via dicendo.
Riprendiamo l’esempio poc’anzi indicato del diritto di proprietà:
qui, come visto, la legge tutela l’interesse tipico all’astensione dal godi-
mento da parte dei consociati. Questa è la situazione favorevole il cui
realizzarsi l’ordinamento – per quanto possibile – garantisce con l’impo-
sizione degli obblighi agli omnes. Ovviamente, peraltro, questa situazione
è tutelata per porre colui che è proprietario nella possibilità di godere del
bene nella maniera più completa, ma, come ugnun vede, detta attività di
godimento concreto da parte del proprietario necessita di un suo proprio
comportamento. Vedendo le cose nell’ottica del proprietario, possiamo
immaginare che il suo interesse finale (ovviamente in senso relativo) sia
rappresentato dall’effettivo godimento della cosa; interesse, quest’ultimo,
legato in termini di strumentalità29 all’interesse che la legge tutela e che
corrisponde al comportamento di generale astensione. Ci accorgiamo, in
altri termini, che la legge garantisce, mediante l’imposizione di obblighi
ai consociati, ovvero comportamenti doverosi, solo una parte della situa-
zione della realtà che il soggetto si prefigura come suo interesse finale.
Sta infatti al soggetto, se vuole, godere della cosa. Per il realizzarsi della
situazione favorevole finale, quindi, occorre l’azione individuale del sog-
getto interessato, la quale è necessaria – come da definizione – per con-
seguire il soddisfacimento dell’interesse. Quando si parla, dunque, di
perseguimento dell’interesse non si ha a che fare con fenomeni che alte-
rano la struttura dell’interesse, ma ci si riferisce semplicemente a quelle
ipotesi in cui la situazione favorevole si assume essere coincidente, al-
meno in parte, con un comportamento dello stesso titolare dell’interesse,
cosicché il verificarsi della situazione dipende anche dal suo comporta-
mento. Facendo nuovamente uso della formula già impiegata, in riferi-
mento all’esempio appena proposto, assumendo Tizio come titolare del

29 V. nel prossimo paragrafo la definizione di interesse strumentale.


270 CAPITOLO QUARTO

diritto e gli omnes come tutti i consociati ad esclusione di Tizio, po-


tremmo dire che l’interesse del proprietario tutelato dalla legge corri-
sponde al seguente schema30:
Tizio↔(comportamento-X)omnes
Mentre l’interesse al godimento effettivo del bene può essere reso
con quest’altra formula31:
Tizio↔(comportamento-X)omnes + (comportamento-Y)Tizio
Così ben si visualizza che la situazione favorevole dipende da due
componenti, rispettivamente rappresentate dal generale comportamento
di astensione e dal comportamento proprio del soggetto titolare dell’in-
teresse.

5. Le relazioni tra interessi


Chiarita la definizione di interesse che riteniamo poter assumere
come strumento di lavoro, oltre che precisata adeguatamente la sua uti-
lità sul piano euristico, il primo passo da compiersi lungo la strada che
gradatamente conduce all’elaborazione del concetto di interesse collet-
tivo è, come già autorevolmente dimostrato dalla dottrina tradizional-
mente cara al tema32, la determinazione dei possibili nessi relazionali che
intercorrono tra diversi interessi.

30 Nel quale, appunto, il comportamento-X corrisponde al comportamento negativo di

astensione.
31 In cui il comportamento-Y sta ad indicare l’attività di godimento del bene.
32 Il tema delle relazioni tra interessi è generalmente trattato dalla dottrina dedicatasi al

tema degli interessi collettivi: v. infatti CARNELUTTI, F., Lezioni di diritto processuale civile, I,
cit., p. 4 ss.; ID., Sistema di diritto processuale civile, cit., p. 12 ss.; CESARINI SFORZA, W., Le-
zioni di teoria generale del diritto, cit., p. 130 ss.; JAEGER, N., Attività processuali con efficacia
normativa e tutela di interessi generali (di serie), cit., p. 14 ss.; JAEGER, P.G., L’interesse sociale,
cit., p. 7; VIGORITI, V., Interessi collettivi e processo, cit., p. 18 s. Le nostre definizioni non
sempre coincidono con quelle proposte da queste posizioni e ciò è comprensibilmente do-
vuto alla difforme definizione di interesse accolta. È per lo più superfluo, dunque, entrare
nell’esame critico specifico delle diverse definizioni relazionali proposte, visto che le ragioni
di dissenso sul punto in questione replicano e derivano in gran parte le ragioni di dissenso sul
concetto di interesse. Su un piano più generale, premesso l’eccesso classificatorio in cui talora
la dottrina incorre (v. ad es. JAEGER, N., Attività processuali con efficacia normativa e tutela di
interessi generali (di serie), cit., p. 14 ss.), si può comunque dire che le categorie prevalente-
mente individuate sono quelle della relazione di «indifferenza», «incompatibilità», «strumen-
talità» e «coincidenza» (a cui taluno – Nicola e Pier Giusto Jaeger – riconduce l’«interesse
collettivo» e talaltro – Vigoriti – riconduce il concetto di «interesse diffuso»). Questa classifi-
IL CONCETTO DI INTERESSE E DI INTERESSE COLLETTIVO 271

Muovendoci su questo piano possiamo innanzitutto individuare due


grandi categorie: la categoria degli interessi compatibili e la categoria de-
gli interessi incompatibili.

cazione però non va condivisa, poiché contrappone quattro catagorie classificatorie tra loro
reciprocamente disomogenee. Occorre al contrario con attenzione determinare quali delle
quattro qualificazioni indicate si pongano come genus e quali come species: cfr., sul punto,
COPI, I.M. - COHEN, C., Introduzione alla logica, Bologna, 1999, p. 153 ss. Le categorie di «in-
differenza» e «incompatibilità», infatti, sebbene con un ritocco terminologico, sono le due
uniche categorie che presentano quel nucleo concettuale minimo tale da essere erette a genus,
ovvero a categoria autonoma. Le classi della «strumentalità» e della «coincidenza», invece,
sono spurie, cioè non autonome. Il quadro complessivo va dunque impostato diversamente.
È corretto, innanzitutto, contrapporre il concetto di «incompatibilità» all’opposto, che si rea-
lizza, come ammette la dottrina indicata, allorché il soddisfacimento di un interesse non
esclude il soddisfacimento di un altro interesse. Ma così poste le cose, ognun vede quanto sia
preferibile parlare di «compatibilità» in senso opposto all’«incompatibilità». Al concetto di
«indifferenza», che fornisce un immagine più di non-relazione che di relazione, va preferito,
per favorire la corrispondenza tra lessico e concetto, il termine «compatibilità», che più esat-
tamente contrassegna quel rapporto di non esclusione che lega due interessi. Se poi si esa-
mina la categoria della «strumentalità» ci si accorge, come detto, che questa non è un genus
autonomo, ma al contrario una species della «compatibilità». Qui si ha una relazione tra gli
interessi che, infatti, specifica quella di «compatibilità», come si dice nel testo: il soddisfaci-
mento di un interesse non solo non esclude l’altro, ma lo condiziona. Se, infine, si esamina la
categoria della «coincidenza», anche qui ci si avvede come questa sia inesatta. Innanzitutto se
questa categoria ha una minima portata identificativa di una certa relazione, dovrebbe averla
anche l’opposta, quella della «diversità», che al contrario poco illumina sulla relazione che
contraddistingue gli interessi che vi dovrebbero appartenere. Ma anche qui, il punto è lo
stesso, non siamo in presenza di una categoria autonoma. La relazione che intercorre tra gli
interessi in questione, va invece apprezzata come ulteriore specificazione della categoria della
«compatibilità». In essa, infatti, vanno ricondotti tutti gli interessi in cui il soddisfacimento
dell’uno non solo non esclude – cioè non è incompatibile con – quello dell’altro, ma, più pre-
cisamente, include il suo soddisfacimento. Ma, per finire, quest’ultima categoria indicata deve
probabilmente anch’essa, come quella di «indifferenza», essere ritoccata sul piano lessicale.
La dottrina parla a tal riguardo di interessi uguali, coincidenti, comuni, omogenei ecc. Ma a
noi sembra che in realtà questi non sono né uguali, né coincidenti, né omogenei e nemmeno
comuni. Se è vero, infatti, che la situazione favorevole è unica per tutti gli interessi (il bene
collettivo, appunto), è altrettanto vero che il concetto di interesse comprende per noi anche
il soggetto (tensione che si attiva tra uomo e situazione giudicata favorevole), allora potremmo
dire che questi interessi, pur uguali sul fronte oggettivo, divergono su quello soggettivo. Più
adeguata quindi sembra l’idea della «concorrenza», che indica appunto l’uguale orienta-
mento di più soggetti, più tensioni – reciprocamente compatibili – allo stesso bene. Anche il
concetto di comunanza deve essere quindi escluso. Possiamo, dunque, parlare per semplicità
o per consuetudine, di interessi uguali o comuni, visto che con queste formule si indica so-
vente il fenomeno che noi vogliamo diversamente contraddistinguere sul piano lessicale, ma
tenendo ben presenti le osservazioni appena proposte. Operando diversamente, si potrebbe
giungere alle non condivisibili, ma in un certo senso coerenti, considerazioni di JAEGER, P.G.,
L’interesse sociale, cit., p. 20, che rileva come la coincidenza di due interessi in capo a due o
più soggetti possa alternativamente dar luogo a due opposte dinamiche: si può, infatti, assi-
272 CAPITOLO QUARTO

La prima ipotesi indicata si verifica quando il soddisfacimento di un


interesse non esclude il soddisfacimento di un altro interesse, mentre la
seconda al contrario si verifica quando il soddisfacimento dell’uno
esclude quello dell’altro.
Ad esempio: l’interesse di Tizio al godimento esclusivo del fondo X
è compatibile con l’interesse di Caio al godimento esclusivo del fondo
confinante Y. Le situazioni favorevoli possono verificarsi entrambe. Al-
ternativamente: l’interesse di Tizio al godimento esclusivo del fondo X è
incompatibile con l’interesse di Caio al godimento esclusivo dello stesso
fondo X. Le situazioni favorevoli, per come appunto sono concepite, non
possono – in una data unità di tempo – verificarsi entrambe.
All’interno della categoria degli interessi compatibili possiamo poi
distinguere tra la sub-categoria degli interessi concorrenti e quella degli
interessi strumentali.
Nella prima abbiamo due interessi rispetto ai quali non solo il rea-
lizzarsi dell’uno non esclude il realizzarsi dell’altro (prima condizione ge-
nerica di appartenenza alla categoria interessi compatibili), ma al realiz-
zarsi dell’uno consegue necessariamente il realizzarsi dell’altro (seconda
condizione di specificazione della categoria in interessi compatibili con-
correnti). Ciò avviene quando il verificarsi di una situazione favorevole
soddisfa contemporaneamente due o più interessi.

stere – sostiene l’A. ora citato – ad una situazione di conflitto tra gli interessi, allorché il bene
sia inidoneo a soddisfare il bisogno di tutti o, alternativamente, si può assistere ad una situa-
zione di solidarietà, che si realizza allorché sussista una strumentalità reciproca tra gli inte-
ressi, determinata dal fatto che solo la collaborazione fra gli interessati permette il consegui-
mento del bene e il contestuale soddisfacimento del bisogno. Ma queste proposizioni sono
particolarmente oscure in quanto sono gravate di numerose contraddizioni definitorie. Si so-
stiene, infatti, una tesi, che non solo non appare condivisibile per ciò che riguarda la pretesa
coincidenza degli interessi (che appunto non sussiste), ma ancor più per il tentativo di com-
pletare l’attività definitoria – ovvero specificare la categoria della «coincidenza» – facendo
uso, prima del criterio della idoneità/inidoneità di una situazione a soddisfare gli interessi di
più soggetti (l’ottica del soddisfacimento) e poi del criterio della necessaria/non necessaria col-
laborazione dei soggetti interessati in ordine al perseguimento dell’interesse (ottica del perse-
guimento). Appare evidente, dunque, sotto un profilo più generale, l’errore di metodo insito
nel mutare criterio classificatorio in corso d’opera e, sotto un profilo più specifico, l’inconfe-
renza del criterio del soddisfacimento per determinare la relazione tra i diversi interessi esi-
stenti (cfr. infra, §§ 6.3. ss.). Sicché, se la dottrina ora richiamata avesse operato diversamente,
si sarebbe di certo dovuta arrestare nel rilevare la contrapposizione tra compatibilità ed in-
compatibilità ed avrebbe semplicemente affermato – sempre alla luce delle regole che gover-
nano il sistema proposto – che a fronte di un unico bene possono realizzarsi due distinte si-
tuazioni: una prima, in cui due o più interessi coincidenti (rectius: concorrenti) sono incom-
patibili ed un’altra in cui questi sono al contrario compatibili, ovvero il soddisfacimento
dell’uno non esclude quello dell’altro.
IL CONCETTO DI INTERESSE E DI INTERESSE COLLETTIVO 273

Gli interessi strumentali, invece, si hanno, quando, non solo il rea-


lizzarsi dell’uno non esclude il realizzarsi dell’altro (prima condizione ge-
nerica di appartenenza alla categoria interessi compatibili), ma quando il
soddisfacimento di uno costituisce una condizione necessaria per il sod-
disfacimento dell’altro (seconda condizione di specificazione della ca-
tegoria in interessi compatibili strumentali), cioè il verificarsi di una
situazione favorevole è condizione necessaria a che si verifichi anche
l’altra.

6. La nozione di interesse collettivo


6.1. Premesse sulle due (apparentemente) possibili concezioni principali
Note quali possano essere le principali relazioni tra due o più inte-
ressi individuali possiamo ora procedere più agevolmente verso la defini-
zione del concetto di interesse collettivo.
Nell’itinerario di studio che ci lasciamo alle spalle abbiamo avuto
modo di confrontarci con numerose concezioni dell’interesse collettivo o
di altre figure ad esso affini (interesse diffuso, sovraindividuale ecc.) ed
altre ancora emergeranno nei prossimi capitoli.
Si fa impiego del termine «concezione» non a caso, poiché tra co-
loro che hanno fatto uso del concetto, se alcuni hanno proposto vere de-
finizioni che fossero il risultato di una meditata riflessione sulla possibile
natura e sulla struttura di questo interesse, altri hanno più semplicemente
fatto ricorso al concetto in contesti argomentativi privi di intenti defini-
tori, ma dando comunque ad intendere – talvolta espressamente talaltra
più implicitamente – una certa configurazione dell’entità33.

33 Quanto affermato nel testo determina la difficoltà in cui sovente ci si imbatte nel de-
cifrare le opinioni che i diversi studiosi nutrono riguardo la nozione di interesse collettivo.
Ciò diviene particolarmente arduo specie, come è ovvio, in riferimento alle posizioni che
hanno per lo più affrontato l’interpretazione degli specifici strumenti – positivamente previ-
sti – di tutela giurisdizionale di interessi sovraindividuali, spesso – ahimé – prescindendo da
uno studio a carattere generale della nozione che a noi interessa. D’altra parte, mentre la dot-
trina che costruisce l’azione civile collettiva come autonoma e distinta dalle azioni civili indi-
viduali sente tendenzialmente la necessità di riferirsi una concezione dell’interesse collettivo
tale da giustificare l’operazione ricostruttiva proposta e, quantomeno con formule di mero
rinvio, manifesta l’accoglimento di una concezione lato sensu oggettiva ovvero unitaria del-
l’interesse collettivo, al contrario, la dottrina che non propone ricostruzioni giuridiche di tal
fatta e che magari nella specie mira a riconoscere anche al singolo la legittimazione ad agire
per la repressione dei comportamenti pregiudizievoli degli interessi collettivi, sovente non fa
cenno alcuno circa la struttura formale da attribuirsi a questi interessi sul piano pregiuridico.
274 CAPITOLO QUARTO

Non possono qui richiamarsi tutte le diverse concezioni presentate


dagli studiosi nel corso di un itinerario che ormai si proietta nel passato
per più di un secolo, ma sicuramente possiamo e dobbiamo evidenziare
la grande e fondamentale contrapposizione tra concezioni che vedono
nell’interesse sovraindividuale un aggregato di distinte posizioni di inte-
resse individuale comunque non riconducibili ad unità e concezioni al
contrario unitarie o, più precisamente monolitiche dell’interesse.
Semplificando, alla prima conclusione sono giunti tendenzialmente
coloro che hanno valorizzato la dimensione soggettiva o, più corretta-
mente, personale dell’interesse o coloro che passando per la rassegna e
l’analisi delle diverse e possibili relazioni intercorrenti tra gli interessi in-
dividuali hanno visto nell’interesse collettivo il fenomeno che si verifica
quando uno stesso bene è idoneo a soddisfare più interessi34.

In altri termini, la confutazione della concezione lato sensu oggettiva ed unitaria dell’interesse
collettivo, non sempre appare – grave errore! – il campo o uno dei campi su cui deve essere
sconfitta la tesi dell’ontologica contrapposizione tra azione collettiva ed azione individuale.
Ciò – appunto – rende più difficile per chi scrive intendere – e quindi riportare al lettore – le
concezioni accolte, magari implicamente, in particolare da quella parte della dottrina più
propensa ad attribuire al singolo un ruolo attivo sul piano della tutela giurisdizionale. Ciò
pertanto valga come premessa per intendere i riferimenti che si propongono al lettore nelle
note che seguono, in cui porremo in evidenza la prospettiva generale o specifica di studio
seguita dai diversi AA. citati ed inoltre cercheremo, per quanto praticamente possibile, di
distinguere tra coloro che piuttosto espressamente danno conto dell’accoglimento di una
certa concezione dell’interesse collettivo e coloro, invece, la cui posizione è possibile evincere
dalle soluzioni tecnico giuridiche adottate specie per ciò che riguarda i rapporti tra l’azione
individuale e l’azione collettiva; operazione quest’ultima particolarmente complessa, visto
che, come detto, lo studio della dottrina dimostra che le soluzioni prese sul piano pregiu-
ridico non sono la necessaria premessa di quelle accolte sul piano ricostruttivo giuridico e
viceversa.
34 L’orientamento indicato nel testo determina la nozione di interesse collettivo sullo

stesso piano in cui si determina la nozione di interesse individuale, ovvero il piano del soddi-
sfacimento. Così, se una situazione è idonea a realizzare un solo interesse individuale avremo
un bene individuale ed un interesse individuale solitario; se, invece, una situazione è idonea a
realizzare il soddisfacimento di più interessi, avremo un bene collettivo e un interesse collet-
tivo, cioè un insieme di interessi individuali. Questo è quanto sostenuto più o meno implici-
tamente e pur all’interno di diverse prospettive ricostruttive dagli AA. cit. alla nota che segue.
Va peraltro ricordato che l’accento sul bene comune è presente anche in SANTORO PASSARELLI,
F., Nozioni di diritto del lavoro, Napoli, 1995, p. 29, ma con aspetti di contraddittorietà (che
meglio chiariremo infra nel testo), che lo conducono a ritenere peraltro l’interesse collettivo
la «combinazione» degli interessi della collettività. Similmente VIGORITI, V., Interessi collettivi
e processo, cit., p. 19, che, però, si riferisce unicamente all’interesse diffuso, ovvero comune a
più soggetti, cioè ad un insieme di interessi «identici», e da questi distingue l’interesse «col-
lettivo», in cui l’identità del bene oggetto di aspirazione è superata dall’elemento dell’orga-
nizzazione.
IL CONCETTO DI INTERESSE E DI INTERESSE COLLETTIVO 275

L’interesse collettivo è dunque apparso semplicemente come un in-


sieme di interessi individuali35; insieme che talora – come visto sin dal

35 In una prospettiva generale, v.: CARNELUTTI, F., Lezioni di diritto processuale civile,
cit., p. 6; ID., Sistema di diritto processuale civile, I, cit., p. 7 ss.; ID., Teoria generale del diritto,
Roma, 1951, p. 12; JAEGER, N., Contributo alla determinazione del concetto di «rapporto col-
lettivo», in Riv. dir. comm., 1937, I, p. 619; ID., Attività processuali con efficacia normativa e
tutela di interessi generali (di serie), cit., p. 17, seguito, seppur con particolarità di accenti, da
JAEGER, P.G., L’interesse sociale, cit., p. 20; Nel dibattito successivo agli anni ’70, al quale per
i doverosi approfondimenti si deve rimandare necessariamente alle riflessioni svolte retro, al
cap. III, indipendentemente dalle soluzioni accolte sul conseguente piano della giuridicizza-
zione, gli interessi sovraindividuali (collettivi o diffusi che siano) sono stati apprezzati come
più interessi rivolti ad un unico bene da gran parte della dottrina. Tra coloro che sembrano
seguire questa prospettiva ricostruttiva con maggior decisione, v., in particolare, SCOCA, F.G.,
La tutela degli interessi collettivi nel processo amministrativo, in Le azioni a tutela di interessi
collettivi, cit., p. 44 ss., spec. p. 70 s.; AGRIFOGLIO, S., Riflessioni critiche sulle azioni popolari
come strumento di tutela degli interessi collettivi, in Le azioni a tutela di interessi collettivi, cit.,
p. 181 ss.; COSTANTINO, G., Brevi note sulla tutela giurisdizionale degli interessi collettivi, in Le
azioni a tutela di interessi collettivi, cit., p. 231 s.; PROTO PISANI, A., Appunti preliminari per
uno studio sulla tutela giurisdizionale degli interessi collettivi, in Le azioni a tutela di interessi
collettivi, cit., p. 263 ss. (e poi in Nuovi diritti e tecniche di tutela, in Dir. e giur., 1991, p. 227
ss., spec. p. 241 ss.); ROMANO, A., Intervento, in Le azioni a tutela di interessi collettivi, cit., p.
289 ss. (ma spec. in Il giudice amministrativo di fronte il problema della tutela degli interessi
c.d. diffusi, in Foro it., 1978, V, p. 8 ss.; ma per altre citazioni, v. retro, cap. III, nota 97);
DENTI, V., Il processo come alienazione, in Soc. dir., 1976, p. 156 (ma anche in ID., Interessi dif-
fusi, in Noviss. dig. it., Appendice, IV, Torino, 1983, p. 307 e soprattutto in Profili civilistici
della tutela degli interessi diffusi, in Strumenti per la tutela degli interessi diffusi della colletti-
vità, Atti del convegno nazionale promosso dalla sezione di Bologna di Italia Nostra, Bolo-
gna, 5 dicembre 1981, Rimini, 1982, p. 44-45); BIAGINI, C., L’azione popolare (e la tutela degli
interessi diffusi), in Cons. St., 1977, II, p. 862 ss.; LANFRANCHI, L., Situazioni giuridiche indivi-
duali a rilevanza collettiva ed attuazione della condanna alla reintegrazione del lavoratore, in
Riv. giur. lav., 1977, I, spec. p. 343 (e, di recente, in Le animulae vagulae blandulae e l’altra
faccia della luna, in La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, Torino, 2003, a
cura di L. Lanfranchi, p. XLIII); CORASANITI, A., La tutela degli interessi diffusi davanti al giu-
dice ordinario, in Riv. dir. civ., 1978, p. 180 ss., spec. p. 183 (ma anche in ID., Interessi diffusi,
in Dizionari del diritto privato, I, Diritto civile, a cura di N. Irti, Milano, 1980, p. 419 ss., spec.
p. 426); CERRI, A., Interessi diffusi, interessi comuni - Azioni e difesa, in Dir. e soc., 1979, p. 83
ss., ma spec. p. 89 s.; PIRAINO, S., L’interesse diffuso nella tematica degli interessi giuridica-
mente protetti, in Riv. dir. proc., 1979, p. 202 ss., spec. p. 219 in nota (anche in ID., L’azione
nel processo amministrativo, Milano, 1981, 170 s.); LUCIANI, M., Il diritto costituzionale alla sa-
lute, in Dir. e soc., 1980, p. 769 ss., ma spec. p. 794 s. (su cui v. retro, cap. III, note 59 e 62);
COLACINO, L., Alcune notazioni ricostruttive in tema di interesse legittimo, interesse diffuso e
interesse collettivo, in Giur. mer., 1981, p. 1086 ss., spec. p. 1098; CARAVITA, B., Interessi dif-
fusi e collettivi (Problemi di tutela), in Dir. e soc., 1982, p. 167 ss.; FEDERICI, R., Interessi dif-
fusi, Il problema della loro tutela nel diritto amministrativo, Padova, 1984, p. 19 ss., 40 s., 151;
GABRIELLI, Appunti su diritti soggettivi, interessi legittimi, interessi collettivi, in Riv. trim. dir.
proc. civ., 1984, p. 969 ss., spec. p. 992 ss.; BORGHESI, D., Azione popolare, interessi diffusi e
diritto all’informazione, in Pol. dir., 1985, p. 259 ss., spec. p. 275; SANDULLI, A.M., Considera-
276 CAPITOLO QUARTO

zioni di sintesi e conclusive (in tema di partecipazione e giustiziabilità), in Giustizia ammini-


strativa e attuazione della Costituzione, Padova, 1985, p. 86 ss., ma spec. p. 90 (cfr. amplius,
retro, cap. III, note 59 e 62); NIGRO, M., Le due facce dell’interesse diffuso: ambiguità di una
formula e mediazioni della giurisprudenza, in Foro it., 1987, p. 8 ss., spec. p. 18 (su cui am-
plius, anche per ulteriori cit., v. retro, cap. III, nota 93); TROCKER, N., Interessi collettivi e dif-
fusi, in Enc. giur. Trecc., XVII, Roma, 1988, p. 2; FERRARA, R., Interessi collettivi e diffusi (ri-
corso giurisdizionale amministrativo), in Dig. disc. pubbl., VIII, Torino, 1993, p. 481 ss., (su cui
amplius, anche per ulteriori cit., v. retro, cap. III, spec. nota 99); CRESTI, M., Contributo allo
studio della tutela degli interessi diffusi, Milano, 1992, p. 83 s. (su cui, amplius, v. retro, cap.
III, spec. nota 93); VERBARI, G.B., Principi di diritto processuale amministrativo, Milano, 2000,
p. 165. Nella giuridicizzazione dell’interesse, poi, molti di questi AA. – la maggior parte –
configurano l’interesse sovraindividuale come un insieme o serie di diritti soggettivi o inte-
ressi legittimi da attribuirsi in capo ai membri della collettività. Altri evitano la «sostanzia-
zione» dell’interesse individuale e preferiscono parlare di azione popolare o giurisdizione og-
gettiva (ad es. Borghesi, Romano, Ferrara, ecc.; v. cap. III, § 3.3.1.2.). Il discorso, articolato e
complesso, è stato oggetto di amplia riflessione nel cap. III ed ivi si rimanda per approfondi-
menti, oltre che per l’esame dell’ampia giurisprudenza amministrativa e civile che hanno ac-
colto questa concezione (v. spec. note 95 ss. sul c.d. criterio della vicinitas). In materia di
azione collettiva avverso i comportamenti di concorrenza sleale, l’interesse della collettività
appare come l’insieme di più interessi individuali specie nella lettura proposta da GHIRON,
M., La legittimazione ad agire di enti ed associazioni in materia di marchi e di sleale concor-
renza, in Giurisprudenza completa della Corte Suprema di Cassazione, a cura di S. Galgano,
1948, I, p. 39 ss., ma spec. 47-48, visto che l’A. ritiene che l’associazione possa agire a tutela
degli interessi degli associati anche a fronte di una lesione indifferenziata – è questo ovvia-
mente il punto – degli interessi imprenditoriali; con tale specificazione, infatti, anche in as-
senza di espresse prese di posizione sul punto, si comprende che per l’A. anche una lesione
che colpisce indifferenziatamente i membri della collettività non deve essere intesa come le-
sione di un interesse superiore ai singoli ed a questi non riconducibile; il fatto che poi l’A. ri-
tenga che l’azione possa essere esercitata solo a vantaggio degli associati poco importa, visto
che ciò che conta è la riconducibilità dell’interesse in capo al singolo (cfr. retro, cap. II, nota
79). In riferimento al giudizio antidiscriminatorio, v. LANFRANCHI, L., Le animulae vagulae
blandulae e l’altra faccia della luna, cit., p. XXXV ss.; DONZELLI, R., Considerazioni sul proce-
dimento per la repressione della condotta antisindacale alla luce delle tecniche di tutela giuri-
sdizionale degli interessi collettivi e/o diffusi, ivi, p. 227, nota 135; ma più ampliamente in ID.,
Considerazioni sulla natura dell’azione esercitata dal consigliere di parità, cit., p. 632 ss.; BOR-
GHESI, D., in Il processo del lavoro, a cura di Borghesi, 2005, p., p. 489 ss. In materia di inte-
resse all’ambiente e prima della l. n. 349/86, v. CORASANITI, A., Profili generali di tutela giuri-
sdizionale contro il danno ecologico, in La responsabilità dell’impresa per i danni all’ambiente e
ai consumatori, Milano, 1978, p. 41 ss.; PATTI, S., La tutela civile dell’ambiente, 1979, spec. p.
53 ss.; POSTIGLIONE, A., Ambiente: suo significato giuridico unitario, in Riv. trim. dir. pubbl.,
1985, p. 32 ss. Dopo la l. n. 349/86, v., in particolare, POSTIGLIONE, A., L’azione civile in di-
fesa dell’ambiente, in Riv. trim. dir. pubbl., 1987, p. 303 ss., spec. p. 315; TARUFFO, M., La le-
gittimazione ad agire e le tecniche di tutela nella nuova disciplina del danno ambientale, in Riv.
crit. dir. priv., 1987, p. 429 ss.; DELL’ACQUA, Lo Stato, gli enti territoriali, e le associazioni, in
Danno ambientale e tutela giuridica (legge 8 luglio 1986 n. 349), a cura di Cesarò, Padova,
1987, p. 15 ss., ma spec. 16; v. anche la particolare posizione di MADDALENA, P., Il diritto al-
IL CONCETTO DI INTERESSE E DI INTERESSE COLLETTIVO 277

primo capitolo di questo lavoro – è stato meglio definito dalla dottrina ri-
correndo al concetto di serie di interessi individuali36.
Alla seconda concezione sono giunti coloro che, al contrario, hanno
valorizzato la dimensione lato sensu oggettiva dell’interesse37. Ciò è ap-
parso chiaramente, ad esempio, in tutte quelle letture che, pur talora
prendendo atto di una situazione di infinita duplicazione di interessi
ugualmente orientati, proprio per l’adespotia dell’interesse, ovvero per
l’impossibilità di riferire lo stesso ad un soggetto in particolare, hanno

l’ambiente come fondamentale diritto dell’individuo ed interesse generale della collettività, in


Cons. St., 1983, II, p. 427 ss.; ID., Danno pubblico ambientale, Bologna, 1990, passim; ID., Il
diritto all’ambiente come diritto inviolabile dell’uomo, in Cons. St., 1995, II, p. 1897 ss. Se-
condo questa lettura, in sintesi e semplificazione estrema, l’interesse tutelato spetta sia ai sin-
goli che alla Collettività, ovvero anche allo Stato (amplius, v. infra, cap. IX, spec. § 3.4.3.): si-
milmente sembrano porsi OLIVIERI, G., Danno ambientale e tutela, in Dizionario di contabilità
pubblica, a cura di Barettoni Arleri, Milano, 1989, p. 249 ss., spec. p. 254 ss. e LANDI, P., La
tutela processuale dell’ambiente - art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349, Padova, 1991, p. 38
ss. In materia di tutela degli interessi dei consumatori, v. già DI MAJO, A., Il controllo giudi-
ziale delle condizioni generali di contratto, in Riv. dir. comm., 1970, p. 192 ss., spec. p. 243 s.;
sebbene in riferimeno all’art. 2601 c.c., v. anche GHIDINI, G., La concorrenza sleale: i principi,
in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, diretto da F. Galgano, IV,
Padova, 1981, p. 69 ss., ma spec. 149.
36 È interessante ricordare che il concetto di serie è già presente in MESSINA, G., I con-

cordati di tariffe nell’ordinamento giuridico del lavoro, in Scritti giuridici, IV, Scritti di diritto
del lavoro, Milano, 1948, p. 26 (cfr. retro, cap. I, § 2.2.1.); torna più chiaramente in CARNE-
LUTTI, F., spec. in Teoria del regolamento collettivo dei rapporti di lavoro, Padova, 1930, p. 139,
e in Funzione del processo del lavoro, in Riv. dir. proc. civ., 1930, p. 122 (cfr. retro, cap. I, §
3.1.2.). In JAEGER, N., Contributo alla determinazione del concetto di «rapporto collettivo», in
Riv. dir. comm., 1937, I, p. 619, invece, si distingue tra «interessi collettivi» ed «interessi plu-
rali» e poi lo stesso A. in Attività processuali con efficacia normativa e tutela di interessi gene-
rali (di serie), cit., p. 19, ripropone la distinzione contrapponendo gli «interessi collettivi di
gruppo» e «interessi collettivi di genere (o serie)» o «interessi generali»; opinione ripresa
nella sostanza da JAEGER, P.G., L’interesse sociale, cit.; ID., Sulla legittimazione delle «associa-
zioni professionali» ad agire per la concorrenza sleale (art. 2601 c.c.), in Problemi attuali del di-
ritto industriale, Milano, 1977, p. 639 ss., ma spec. p. 644 ss. Per certi versi, questa distinzione
sembra anticipare la teoria dualista oggettiva (su v. retro, cap. III, § 2.2. e 2.3.): cfr., ad esem-
pio, TARZIA, G., Le associazioni di categoria nei processi civili con rilevanza collettiva, in Riv.
dir. proc., 1987, p. 774 ss., ma spec. p. 797, per il quale gli interessi collettivi e quelli diffusi
corrisponderebbero rispettivamente agli interessi di gruppo ed a quelli di serie.
37 Oltre agli AA. citati nelle note che seguono, una certa valorizzazione della dimen-

sione unitaria è presente anche in MORTARA, L., Per la riforma della legge sui probiviri. 15 giu-
gno 1893, in Giur. it., 1904, IV, p. 25 ss. (su cui v. retro, cap. I, § 2.2.2.1. s.). Particolare ac-
cento è posto dalla giurisprudenza amministrativa sulla nozione di «interesse legittimo collet-
tivo» (v. retro, cap. III, nota 129); nonché dalla giurisprudenza in materia di azione ex art. 28
S.L. (v. infra, cap. VII, § 3.)
278 CAPITOLO QUARTO

preferito concepire questo magma di interessi indifferenziati come un’en-


tità asoggettiva unica ed inscindibile38.

38 È il fenomeno che esemplarmente si è verificato in riferimento alla figura dell’inte-


resse diffuso nel dibattito generale sugli interessi superindividuali a partire degli anni ’70 in
poi. Origine di questo orientamento è la posizione espressa da GIANNINI, M.S., nel Diritto am-
ministrativo, II, Milano, 1970, p. 882 s., successivamente avanzata nella Relazione (La tutela
degli interessi collettivi nei procedimenti amministrativi) e nell’Intervento, al Convegno di Pa-
via, entrambi in Le azioni a tutela di interessi collettivi, cit., rispettivamente a p. 23 ss. e 352
ss. (sulla quale, nonché per ulteriori citazioni, v. amplius, retro, cap. III, §§ 2.2. ss.). Immagine
altrettanto chiara di questa concezione ricorre nella definizione dell’interesse collettivo come
«interesse senza struttura» proposta da BERTI, G., Interessi senza struttura (i c.d. interessi dif-
fusi), in Studi in onore di A. Amorth, I, Milano, 1982, p. 67 ss. A queste letture possono con
una certa cautela essere accostate quelle in cui, sebbene si presenti con maggior nitidezza la
distinzione del piano pre-giuridico da quello della giuridicizzazione dell’interesse, d’altro
canto la necessità giuridica di soggettivare l’interesse tutelato mediante l’imputazione dello
stesso ad un ente portatore tende a mascherare una concezione sostanzialmente a-soggettiva
dell’interesse materiale. Così è, ad es., in FAZZALARI, E., Istituzioni di diritto processuale, Pa-
dova, 1996, p. 285. Sulla questione v. retro, cap. III, nota 62. Peraltro, questa concezione del-
l’interesse sovraindividuale, in cui la polverizzazione del referente soggettivo conduce ad una
visione unitaria dell’interesse che lo distingue da quello individuale si ritrova anche in altri
settori. In materia di concorrenza sleale (cfr. retro, cap. II, § 6), v. ad es. le tesi che, pur con
presentando espressamente definizioni dell’interesse collettivo, ritengono che all’azione col-
lettiva corrisponda, non tanto e non solo un diritto soggettivo dell’associazione, quanto un di-
ritto soggettivo da esercitarsi unicamente quando si verifichi un pregiudizio indifferenziato
dei membri della collettività: v. in particolare AULETTA, G., Soggetti passivi della concorrenza
sleale e diritto al risarcimento del danno, in Giur. it., 1948, I, 1, p. 217 ss., spec. p. 222; cui
adde, MOSCO, L., La concorrenza sleale, Milano, 1956, p. 258 ss.; LO CIGNO, O., Sub. art. 2958,
in Del Lavoro, V, t. 4, Commentario del codice civile, redatto a cura di magistrati e docenti, To-
rino, 1978, p. 216; ROVELLI, F., La concorrenza sleale e i beni immateriali di diritto industriale,
Torino, 1970, p. 30; v. anche LIBERTINI, M., Azioni e sanzioni nella disciplina della concorrenza
sleale, in La concorrenza e i consorzi, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico del-
l’economia, diretto da F. Galgano, IV, Padova, 1981, p. 268, che ritiene che l’azione collettiva
sia esercitata iure proprio solo allorché si verifichi un danno indifferenziato che colpisca l’in-
tero ramo della produzione, mentre nel caso opposto l’azione sarebbe esercitata in via sosti-
tutiva. Sempre in materia di concorrenza sleale, ma in termini più marcatamente favorevoli
alla contrapposizione ontologica tra interesse individuale ed interesse collettivo, v. FLORIDIA,
G., Legittimazione ad agire delle associazioni professionali di categoria e qualificazione di illi-
ceità dell’atto di concorrenza ex art. 2601 c.c., in Mon. trib., 1970, p. 712 ss., ma spec. 720 ss.;
ID., Correttezza e responsabilità dell’impresa, Milano, 1982, spec. p. 54; ID, La tutela degli in-
teressi dei consumatori di prodotti alimentari, in Riv. dir. ind., 1986, I, p. 45 ss., ma spec. 59-
60; ID., Concorrenza sleale e camere di commercio: un ritorno al futuro, in Dir. ind., 1994, p.
851 ss.; ID., Dall’illecito concorrenziale al diritto soggettivo e Le valutazioni in termini di cor-
rettezza professionale, in AUTERI, P. - FLORIDIA, G. - MANGINI, V. - OLIVIERI, G. - RICOLFI, M. -
SPADA, P., Diritto industriale, Proprietà intellettuale e concorrenza, Torino, 2005, rispettiva-
mente p. 289 ss. e 308 ss. Uguale concezione sembra ricorrere nelle sentenze del giudice am-
ministrativo richiamate retro, cap. III, nota 129, in cui la legittimazione dell’associazione rap-
presentativa è negata se sussista un contrasto di interessi all’interno della categoria. Anche in
IL CONCETTO DI INTERESSE E DI INTERESSE COLLETTIVO 279

Si è già detto come questa concezione sia stata in massima parte in-
fluenzata dalla mancata separazione tra ottica pre-giuridica ed ottica pro-
priamente giuridica o, più correttamente, come quest’ultima abbia irrime-
diabilmente gravato sulle conclusioni cui giungere muovendosi sul primo
piano di studio indicato. La questione – nel suo profilo destruens – è stata
peraltro già ampliamente dimostrata39 e va per il momento accantonata
per tornarvi – nel suo profilo construens – nel prossimo capitolo.
Interessante è ancora notare, invece, come la concezione unitaria in
esame sia stata anche favorita da una visione antropomorfa della colletti-
vità, concepita come soggetto d’interesse autonomo rispetto ai membri
della stessa40 o dalla più decisa imputazione dell’interesse, nemmeno –

tal caso, infatti, il presupposto dogmatico da cui si muove sembra essere il carattere indiffe-
renziato degli interessi che confluiscono nel collettivo. Stesso discorso vale, poi, per le tesi
che, in materia di giudizio antidiscriminatorio, vedono l’azione pubblica-collettiva a tutela di
un interesse generale ed in assenza di lesione di soggetti individuali. In particolare, v. RAPI-
SARDA, C., Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro, IV, La tutela
dei soggetti discriminati, Azione individuale, Azione pubblica e tentativo di conciliazione, in Le
nuove leggi civ. comm., 1994, p. 73 ss., spec. p. 75 (ma cfr. infra, cap. VIII, § 3.2.1.). In mate-
ria di tutela dell’ambiente ed in riferimento all’art. 18 della l. n. 349/86 questa concezione
sembra essere il presupposto delle seguenti tesi: GIAMPIETRO, F., Danno all’ambiente e legitti-
mazione al giudizio dello Stato, degli enti territoriali e delle associazioni protezionistiche - art.
18 della legge n. 349/1986, in Riv. giur. amb., 1987, p. 541 ss. (oltre che in ID., La responsabi-
lità per danno all’ambiente, Profili amministrativi, civili e penali, Milano, 1988, p. 334; ID.,
Azione dello Stato e degli enti territoriali. Poteri di intervento in giudizio delle associazioni am-
bientali, in AA.VV., Il danno ambientale con riferimento alla responsabilità civile, a cura di
Perlingieri, Napoli, 1991, p. 171 ss.); GRECO, G., Danno ambientale e tutela giurisdizionale, in
Riv. giur. amb., 1987, p. 525 ss.; ALBAMONTE, A., Danni all’ambiente e responsabilità civile, Pa-
dova, 1989, p. 14 ss.; BORGONOVO RE, D., Contributo allo studio del danno ambientale, in Riv.
giur. amb., 1992, p. 257 ss.; SPAGNA MUSSO, B., Riflessioni critiche in tema di tutela civilistica
dell’ambiente, in Rass. dir. civ., 1991, p. 837 ss., spec. p. 839; AMATO, A., Le azioni delle asso-
ciazioni nei giudizi di danno ambientale, in Dir. giur. agr. e amb., 1995, p. 337. Tutte posizione
in cui l’interesse non è proprio dello Stato ente, ma dell’intera collettività da questo rappre-
sentata (amplius, v. infra, cap. IX, § 3.4.1.). La prospettiva oggettiva è poi particolarmente
marcata nella tesi secondo cui la tutela è rivolta direttamente al bene e non ad interessi: cfr.
FRANCARIO, L., in particolare in Danni ambientali e tutela civile, Napoli, 1990 (su cui, v. infra,
cap. IX, § 3.4.2.).
39 V. retro, cap. III, §§ 2.4. e 2.5.
40 Sin dal periodo tardo-liberale, tale concezione è presente in MESSINA, G., I concordati

di tariffe nell’ordinamento giuridico del lavoro, cit., p. 24. Nel sistema corporativo, (cfr. retro,
cap. I, § 3.2.1.) pur in assenza di pretese definitorie espresse l’entificazione della collettività (e
le sue ricadute in termini di conseguente possibile imputazione dell’interesse ad essa) costitui-
sce una immagine rappresentativa del fenomeno che sovente ricorre: v. ad es. GUIDI, D., Note
di diritto corporativo, IV, La nozione di «rapporto collettivo di lavoro», in Dir. lav., 1927, I, p.
1038 ss., spec. 1044, che parla in riferimento alla categoria di «un’entità giuridica vera e pro-
pria»; SECRETI, G., La distinzione tra controversia individuale e controversia collettiva, in Mass.
280 CAPITOLO QUARTO

come nelle tesi appena richiamate – alla collettività, ma direttamente al


soggetto rappresentativo della stessa41.

giur. lav., 1929, p. 85 ss., spec. p. 87; la medesima soluzione è implicita evidentemente anche
in chi parla di personificazione della categoria come sostenuto da ASQUINI, A., Controversie col-
lettive e controversie individuali di lavoro, in Dir. lav., 1930, I, p. 231 ss., p. 334. All’interno del
dibattito a carattere generale sulla nozione, l’imputazione dell’interesse collettivo alla colletti-
vità piuttosto che al singolo è soluzione espressamente sostenuta da CAPPELLETTI, M., Appunti
sulla tutela giurisdizionale di interessi collettivi o diffusi, in Le azioni a tutela di interessi collet-
tivi (Atti del convegno di Pavia, 11-12 giugno, 1974), Padova, 1976, 191 ss., ma p. 192;
GRASSO, E., Gli interessi della collettività e l’azione collettiva, in Riv. dir. proc., 1983, p. 24 ss.,
argomentando sulla base dell’art. 32 Cost.; più di recente, CARRATTA, A., Brevi osservazioni sul-
l’inibitoria a tutela di consumatori e utenti, in Giusto processo civile e procedimenti decisori som-
mari, a cura di L. Lanfranchi, Torino, 2001, p. 119 ss., spec. p. 135; ID., Profili processuali della
tutela degli interessi collettivi e diffusi, in La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e dif-
fusi, cit., p. 79 ss., ma spec. p. 102 ss. e poi p. 126, che peraltro, nonostante questa concezione,
ammette la legittimazione ad agire del singolo membro della collettività; in questo senso sem-
bra orientarsi anche BIANCA, C.M., Note sugli interessi diffusi, in La tutela giurisdizionale degli
interessi collettivi e diffusi, cit., p. 70-71; CHIARLONI, S., Appunti sulle tecniche di tutela collet-
tiva dei consumatori, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2005, p. 385 ss., ma spec. p. 395 e 398. In ma-
teria di repressione della condotta antisindacale, v. PROTO PISANI, A., Il procedimento di repres-
sione dell’attività antisindacale, in Studi di diritto processuale del lavoro, Milano, 1976, p. 13 ss.,
spec. 58. In riferimento all’interesse all’ambiente, v., in particolare, DI GIOVANNI, F., Strumenti
privatistici e tutela dell’«ambiente», Padova, 1982, p. 89; SALVI, C., spec. in Ambiente, giustizia
civile e partecipazione, in Dem. e dir., 1982, p. 5 ss., spec. p. 8; ID., Il danno extracontrattuale,
Modelli e funzioni, Napoli, 1985, p. 274.
41 Non ci si riferisce alle tesi che nell’imputazione l’interesse sovraindividuale materiale

all’ente esponenziale vedono il necessario presupposto della tutela giuridica – vuoi disinteres-
sandosi sostanzialmente di apprezzare la struttura formale dell’interesse sul piano pregiuridico
(ad es, Giannini ed in parte Fazzalari), vuoi imputando l’interesse materiale alla collettività (ad
es. Bianca) – quanto, piuttosto a coloro che ritengono che l’interesse materiale tutelato sia pro-
prio dell’ente rappresentativo come soggetto giuridico e non come imputazione di un interesse
che appartiene ad una collettività indeterminata (come appunto in Giannini o Fazzalari). In
materia di concorrenza sleale, v. FERRI, G., Manuale di diritto commerciale, a cura di C. Ange-
lici e G.B. Ferri, Torino, 2001, p. 163 (ma così anche nelle edizioni precedenti: cfr. ad esempio
l’edizione da noi consultata del 1960, a p. 124), che ritiene che l’interesse fatto valere sia quello
morale e non economico dell’associazione. In relazione alle azioni previste dal nostro ordina-
mento in materia di repressione della condotta antisindacale, dell’azione di concorrenza sleale,
di danno ambientale, alle azioni a tutela dei consumatori, v. COSTANTINO, G., Note sulle tecni-
che di tutela collettiva - disegni di legge sulla tutela del risparmio e dei consumatori, in Riv. dir.
proc., 2004, p. 1009 ss., ma spec. p. 1029 s.; ID., La tutela dei risparmiatori: i nuovi orizzonti
della tutela collettiva, in Società, 2005, p. 325 ss., ma spec. p. 327. In materia di azione di re-
pressione della condotta antisindacale, si pensi ad es. agli AA. che nel rimedio in questione ve-
dono uno strumento di tutela di un interesse dell’associazione stessa: tra gli altri, v. TARUFFO,
M., Efficacia della pronuncia sul licenziamento per motivi antisindacali, in Riv. trim. dir. proc.
civ., 1971, p. 1503 ss.; GARBAGNATI, E., Profili processuali del licenziamento per motivi antisin-
dacali, in Riv. dir. proc., 1973, p. 596 ss.; SANTORO PASSARELLI, F., Diritto soggettivo e interesse
legittimo dei sindacati al rispetto della libertà sindacale nei luoghi di lavoro, in Riv. dir. lav.,
IL CONCETTO DI INTERESSE E DI INTERESSE COLLETTIVO 281

Altri, peraltro, sono giunti al medesimo risultato valorizzando l’ele-


mento solidaristico proprio dell’interesse collettivo42 o il momento orga-

1973, I, p. 4 ss.; GRANDI, M., Attività sindacale e repressione della condotta antisindacale, in Riv.
it. dir. lav., 1978, p. 13 ss.; CIPRESSI, P., I comportamenti antisindacali del datore di lavoro, Mi-
lano, 1983, p. 42. Va detto che in questa materia la posizione in questione è apparsa più com-
prensibile in ragione dell’indubbio interesse dell’associazione stessa ad operare senza limita-
zioni del suo diritto di libertà ed attività sindacale. In materia di tutela dell’ambiente ed in ri-
ferimento all’art. 18 della l. 349/86, v., in particolare, TISCI, A., Azione di risarcimento ed
intervento delle associazioni nel giudizio civile, in Danno ambientale e tutela giuridica (legge 8
luglio 1986 n. 349), a cura di Cesarò, Padova, 1987, p. 7 ss. Per quel che concerne la tutela de-
gli interessi collettivi dei consumatori, oltre al già citato Costantino, v. CAMERO, R. - DELLA
VALLE, S., La nuova disciplina dei diritti del consumatore, Milano, 1999, p. 33. In questa cate-
goria, per il risultato a cui pervengono, andrebbero anche inserite le tesi che, affidandosi al
momento organizzatorio, vedono appunto nell’ente rappresentativo la struttura organizzatoria
dell’interesse e per questa via giungono a rappresentare un rapporto di coicidenza tra colletti-
vità ed ente e tra interesse collettivo e interesse individuale dell’ente. Ciò è particolarmente
chiaro nella tesi di Garofalo (cfr. infra, cap. VII, § 3.1.) in cui: a) l’interesse trova origine e ri-
levanza giuridica nella e con l’organizzazione; b) l’interesse collettivo, in quanto interesse e in
quanto collettivo, deve essere attribuito in titolarità ad un ente collettivo; c) questo soggetto
collettivo è costituito dal gruppo organizzato; d) gruppo organizzato, organizzazione e sinda-
cato, sono sinonimi indicanti la stessa realtà pratica e concettuale, in quanto il sindacato non è
una realtà organizzatoria diversa dal gruppo, ma anzi con esso coincide. Ma, visto il ruolo spe-
cifico che è attribuito all’organizzazione degli interessi in queste letture sembra più corretto te-
nere separato questo filone ricostruttivo.
42 Si pensi alle parole di GALIZIA, A., Il contratto collettivo di lavoro, Napoli, 1907, ora

nella ristampa con presentazione di Napoli, Milano, 2000, p. 73, per il quale il conflitto in-
dustriale «ha prodotto […] nei rapporti tra gli operai, un sentimento e un vincolo nuovo, che
tutti li riunisce in una comunanza di interessi e di aspirazioni e per cui, oggi, nessuno di essi
si crede mai estraneo a gli interessi dell’altro: voglio dire – sintetizza Galizia – il sentimento e
il vincolo della solidarietà professionale»; BARASSI, L., Il contratto di lavoro nel diritto positivo
italiano, II, Milano, 1917, p. 100; RATTO, L., L’efficacia collettiva delle sentenze nelle contro-
versie del lavoro, in La legge, 1904, p. 21; RASELLI, A., Giustizia e socialità, in Studi in onore di
Enrico Redenti, Milano, 1951, 249 ss., che rileva come «sui fenomeni della solidarietà e del-
l’interdipendenza sociale si basa […] la nozione di interesse collettivo, che ha un’importanza
fondamentale nello sviluppo della socialità e nella sua organizzazione giuridica. Tale nozione
si distingue da quella di interesse comune a più singoli. Nella nozione di interesse comune
vengono unificati, con un processo di astrazione e di sintesi concettuale, gli interessi partico-
lari di più soggetti, che si dirigono ad un unico scopo ed il cui soddisfacimento ha importanza
solo per i titolari degli interessi stessi. Per esempio è interesse comune quello di più persone
che si uniscono per un impresa economica, all’unico scopo di trarne un vantaggio per loro.
Sorge la nozione di interesse collettivo, quando gli effetti del soddisfacimento di un interesse
(che può essere individuale o comune) non si esauriscono nei soggetti di esso, ma riguardano,
per un processo di ripercussioni e di risultati indiretti più o meno estesi, una cerchia più va-
sta di persone, determinata da rapporti sociali in precedenza costituiti». Cr. anche JAEGER,
P.G., L’interesse sociale, cit., p. 20. Echi di questa concezione sono presenti anche in VIGORITI,
V., Interessi collettivi e processo, cit., p. 19.
282 CAPITOLO QUARTO

nizzatorio che a questo apparterrebbe43; collanti, questi ultimi due indi-


cati, diversamente ma ugualmente capaci di garantire la coesione del fa-
scio di interessi in un unico nerbo.
Se poi qualcuno ha evidenziato l’inefficacia sul piano euristico della
contrapposizione concettuale tra interesse collettivo-somma (di interessi
individuali) ed interesse collettivo-sintesi (di interessi individuali), altri
ancora, proprio nell’essere sintesi e non somma (di interessi individuali),

43 L’elemento organizzatorio acquista particolare rilievo all’interno delle dottrine giu-

slavoriste nell’ordinamento sindacale post-costituzionale (come evidenziato retro, cap. II,


§ 4.2.). In generale, v. in primo luogo SANTORO PASSARELLI, F., Autonomia: d) Autonomia col-
lettiva, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, p. 369 ss., ma spec. p. 371; e successivamente DELL’O-
LIO, M., in DELL’OLIO, M. - BRANCA, L’organizzazione e l’azione sindacale, in Enciclopedia giu-
ridica del Lavoro, diretta da Mazzoni, Padova, 1980, p. 48 ss. Nel dibattito che si sviluppa in-
tensissimo a partire dagli anni Settanta l’elemento organizzativo viene a rappresentare la ratio
discriminandi tra interesse collettivo ed interesse diffuso per tutti coloro che distinguono le
due figure sulla base di un criterio soggettivo (tesi dualiste soggettive, su cui v. retro, cap. III,
§ 2.2., spec. nota 42). Ma – si badi bene – non tutti questi AA. ritengono che ciò produca ef-
fetti modificativi sulla struttura formale dell’interesse sovraindividuale (v. ad es. la posizione
di CORASANITI, A., La tutela degli interessi diffusi davanti al giudice ordinario, cit., p. 182-183).
Vi sono inoltre diversi AA., in gran parte amministrativisti, che con l’elemento dell’organiz-
zazione ritengono sì che venga a realizzarsi la necessaria soggettivazione dell’interesse so-
vraindividuale richiesta dall’ordinamento, ma in realtà, come dimostrato (cfr. retro, cap. III,
§§ 2.4. e 2.5.), questo indirizzo ricostruttivo (che trova origine nella dottrina di Giannini) più
che un mutamento ontologico dell’interesse cercano solo una strada per garantire la tutela
giuridica dello stesso, ovvero per sottrarlo all’irrilevanza giuridica. L’elemento organizzatorio,
quale via di coordinamento delle volontà, diventa al contrario l’insopprimibile strumento che
giustifica – indipendentemente e prima dalle ragioni del diritto (cfr. retro, cap. III, spec. nota
62) – la nascita di un interesse ontologicamente diverso rispetto all’interesse diffuso e l’inte-
resse individuale nel pensiero di VIGORITI, V., Interessi collettivi e processo, cit., p. 19 ss.; CA-
RAVITA, B., Interessi diffusi e collettivi (Problemi di tutela), in Dir. e soc., 1982, p. 167 ss., ma
spec. p. 183 ss.; SANTANIELLO, G., La tutela giurisdizionale degli interessi diffusi nella prospet-
tiva costituzionale, in Giustizia amministrativa e attuazione della Costituzione, I, Controlli,
Istruzione, Partecipazione, Padova, 1985, p. 13 ss., ma spec. p. 16; ANGIULI, A., Interessi col-
lettivi e tutela giurisdizionale, Le azioni comunali e surrogatorie, Napoli, 1986, p. 90-93 (sulla
cui articolata ricostruzione v. retro, cap. III, nota 123). In tutte queste tesi, pur con diversi ac-
centi e grado di approfondimento, l’elemento organizzatorio è lo strumento di vera «sintesi»
e «creazione» dell’interesse collettivo. La formulazione più estrema di questa posizione rico-
struttiva la si trova in materia di giudizio di repressione della condotta antisindacale da parte
di GAROFALO, G.M., Interessi collettivi e comportamento antisindacale dell’imprenditore, Na-
poli, 1979, spec. p. 165, ove si afferma che l’organizzazione «non è un elemento meramente
strumentale al perseguimento di interessi collettivi, ma è condizione stessa per parlare di inte-
ressi collettivi» (sul punto v., amplius, infra, cap. VII, § 2.2.1.1.). Similmente, CECCHELLA, C.,
Coordinamento tra azione individuale e azione sindacale nel procedimento ex art. 28 dello Sta-
tuto dei lavoratori, in Riv. it. dir. lav., 1984, I, p. 408 ss., spec. 424; DELL’OLIO, L’art. 28 della
legge 20 maggio 1970, n. 300: profili processuali, in Il processo del lavoro nell’esperienza della
riforma, Milano, 1985, p. 184.
IL CONCETTO DI INTERESSE E DI INTERESSE COLLETTIVO 283

hanno visto la ragione giustificativa della distinzione tra l’interesse collet-


tivo e l’interesse dei singoli membri della collettività nonché della so-
vraordinazione del primo rispetto al secondo44.
44 Il concetto emerge nelle riflessioni di BONAUDI, E., La tutela degli interessi collettivi,
Milano-Torino-Roma, 1911, che prima (p. 5-6) ammette la possibile coesistenza delle nozioni
e poi (p. 20), proprio partendo dal concetto di interesse collettivo-sintesi, argomenta la di-
stinzione tra interesse collettivo ed interesse individuale; cfr. anche GALIZIA, A., Il contratto
collettivo di lavoro, cit., p. 78. Successivamente, v. le posizioni di CESARINI SFORZA, W., Preli-
minari sul diritto collettivo [1936], in Il diritto dei privati, con presentazione di Salv. Romano,
Milano, 1963, spec. p. 107, che – al di là della terminologia impiegata – sembra accogliere un
concetto di interesse collettivo-sintesi conseguibile per etero-determinazione (sul concetto, v.
infra, § 6.2.; mentre per una più articolata lettura della complessa posizione dell’A., v. retro,
cap. I, § 3.1.1.); nello stesso senso BARASSI, L., Diritto sindacale e corporativo, Milano, 1934, p.
108 s.; cfr. anche CARNELUTTI, F., in Teoria del regolamento collettivo dei rapporti di lavoro, Pa-
dova, 1930, p. 139-140 e in Funzione del processo del lavoro, in Riv. dir. proc. civ., 1930, p.
114, che però, pur rimettendo la determinazione dell’interesse collettivo all’associazione sin-
dacale imputa poi – correttamente – l’interesse ai membri della categoria. Al concetto di «ri-
sultante» o «composizione» si rifanno ASQUINI, A., Controversie collettive e controversie indi-
viduali di lavoro, in Il diritto del lavoro, 1930, I, p. 231 ss., ma spec. p. 234 e RASELLI, A., La
Magistratura del Lavoro, Giurisdizione ed azione, Padova, 1934, p. 92. Successivamente al-
l’approvazione della Carta costituzionale, il concetto in questione torna all’interno delle dot-
trine giuslavoriste post-costituzionali: cfr., in primis, SANTORO PASSARELLI, F., Nozioni di diritto
del lavoro, Napoli, 1995, p. 29; ma la definizione più chiara la si trova in PERSIANI, M., Saggio
sull’autonomia privata collettiva, Milano, 1972, p. 26. Interessante applicazione è presente an-
che in CARPI, F., L’efficacia «ultra partes» della sentenza civile, Milano, 1974, p. 67 e 70. Nel
dibattito sugli interessi collettivi dei consumatori, v. già VERARDI, C.M., Riflessioni introdut-
tive, La protezione del consumatore tra strumenti di tutela individuale ed azioni collettive, in
CAPPONI, B. - GASPARINETTI, M. - VERARDI, C.M., La tutela collettiva dei consumatori, Profili di
diritto sostanziale e processuale, Napoli, 1995, p. 5 ss., ma spec. p. 39. Successivamente, la ne-
gazione che gli interessi collettivi siano «mera sommatoria» degli interessi individuali è un
motivo dominante del dibattito, o, più precisamente, un cliché: v., tra gli altri, CAMERO, R. -
DELLA VALLE, S., La nuova disciplina dei diritti del consumatore, Milano, 1999, p. 138; PAGNI,
I., Tutela individuale e tutela collettiva nella nuova disciplina dei diritti dei consumatori e degli
utenti (Prime riflessioni sull’art. 3, l. 30.7.1998, n. 281), in La disciplina dei diritti dei consu-
matori e degli utenti: l. 30 luglio 1998, n. 281, a cura di A. Barba, Napoli, 2000, p. 145, nota
16; RESCIGNO, P., Sulla compatibilità tra il modello processuale della «class action» ed i principi
fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano, in Giur. it., 2000, p. 2224 ss., ma spec. p.
2226; PETRELLI, P., Interessi collettivi e responsabilità civile, Padova, 2003, p. 1 ss., 141, 152 s.;
CHINÈ, G., Legittimazione ad agire (art. 3), in I diritti dei consumatori e degli utenti, Un com-
mento alle leggi 30.7.1998, n. 281 e 24.11.2000, n. 340 e al decreto legislativo 23.4.2001, n.
224, a cura di G. Alpa e V. Levi, Milano, 2001, p. 35; PONCIBÒ, C., Le azioni di interesse col-
lettivo per la tutela dei consumatori, in Riv. crit. dir. priv., 2002, p. 659 ss.; CARRATTA, A., Pro-
fili processuali della tutela degli interessi collettivi e diffusi, in La tutela giurisdizionale degli in-
teressi collettivi e diffusi, cit., p. 79 ss., ma spec. p. 105; CARBONARA, F., Gli interessi collettivi
e diffusi e l’azione inibitoria dell’art. 1469 sexies c.c., ivi, p. 478; FAZZIO, G., Tutela dell’inte-
resse collettivo dei consumatori, in Contratti, 2003, p. 1007 ss.; MARINUCCI, E., Azioni collettive
e azioni inibitorie da parte delle associazioni dei consumatori, in Riv. dir. proc., 2005, p. 125 ss.,
spec. p. 143; MINERVINI, E., La tutela collettiva dei consumatori in materia contrattuale, in I
284 CAPITOLO QUARTO

Tale ultima argomentazione, peraltro, è apparsa frequentemente un


rinvio a formule note e non bisognose di dimostrazione. In altri termini,
è come se fosse stato detto: «si sa, l’interesse collettivo è la sintesi degli
interessi individuali e dunque da questi si distingue».
In realtà la riflessione che la scienza giuridica ha dedicato alla no-
zione di interesse collettivo è apparsa spesso piuttosto superficiale. En-
trambi gli orientamenti appena indicati, pur nella sovente eterogeneità
degli approcci di studio prescelti, hanno evitato di confutare sul piano
dell’elaborazione concettuale la concezione opposta.
Così, la maggior parte degli studiosi intervenuti sul punto nemmeno
si è posta il quesito se sia effettivamente possibile la coesistenza di due
distinte concezioni. E nemmeno – a fortiori – ci si è chiesti quali fossero
e se vi fossero ragioni sufficienti a giustificare due diversi ed opposti ri-
sultati ricostruttivi.
Se per esempio si esaminano le tesi che vedono nell’interesse collet-
tivo una sintesi degli interessi individuali, ci si accorge che queste stesse
tesi hanno sovente glissato sulla componente organizzatoria che general-
mente giustifica detto risultato di formalizzazione concettuale45. Ed al
contrario, coloro che dell’organizzazione hanno fatto il perno del loro
studio nonché la giustificazione del concetto di interesse collettivo hanno
negato che questo possa essere concepito come risultato di una sintesi ed
addirittura hanno etichettato la contrapposizione tra interesse-somma ed
interesse-sintesi come un residuato concettuale di modelli politici e giuri-
dici superati46.
Le motivazioni che hanno favorito il quadro di insieme appena ac-
cennato sono probabilmente molteplici e tra queste vanno senz’altro an-
noverate quelle lato sensu ideologiche, ma, poste queste da un lato, con
certezza la stessa volatilità del concetto di interesse ha giocato un ruolo
essenziale nell’infirmare la stabilità del piano di studio su cui la scienza
giuridica si è mossa.
Definito l’interesse nei termini poc’anzi accennati sembra ora possi-
bile contare sull’esistenza di solide fondamenta su cui procedere nella co-
struzione del concetto di interesse collettivo.
E nel far ciò, un ulteriore e fondamentale passo da compiere è
quello di comprendere, ancor prima della loro possibile applicazione alla

contratti dei consumatori, t. 1, a cura di E. Gabrielli e E. Minervini, in Trattato dei contratti,


diretto da P. Rescigno e E. Gabrielli, 2005, p. 427 ss., spec. p. 468. In riferimento alla tutela
dell’ambiente, v. MADDALENA, P., ID., Danno pubblico ambientale, cit.
45 Cfr. ad es. MADDALENA, P., Danno pubblico ambientale, cit., p. 69 ss.
46 VIGORITI, V., Interessi collettivi e processo, cit., p. 44 ss.
IL CONCETTO DI INTERESSE E DI INTERESSE COLLETTIVO 285

nostra materia di indagine, le cause che hanno dato vita e il significato


che si suole attribuire alle formule secondo cui l’interesse collettivo è la
sintesi degli interessi individuali o, alternativamente, la somma di inte-
ressi individuali. Senza far questo, infatti, parlare dell’una o dell’altra op-
zione raffigurativa appare una questione meramente terminologica priva
dell’adeguato riscontro concettuale.

6.2. L’origine dei concetti di interesse collettivo-sintesi e di interesse collet-


tivo-somma di interessi individuali
Per dare risposta all’interrogativo da ultimo proposto, occorre ab-
bandonare per un attimo il campo della riflessione più strettamente giu-
ridica per volgere lo sguardo alla filosofia morale e politica. È qui, infatti,
che si rinvengono le origini delle formule poc’anzi indicate. Più precisa-
mente ciò avviene nelle dottrine filosofiche che, seppur all’insegna di fi-
nalità speculative non sempre perfettamente collimanti, si sono interro-
gate sull’annosa questione dei rapporti tra Stato ed individuo, ovvero tra
interesse generale ed interesse individuale.
Il tema è – come ognun comprende – straordinariamente affasci-
nante, ma è parimenti ampio e complesso. Nonostante questo, però, an-
che un approccio particolarmente selettivo, che sappia centrare le que-
stioni di maggior rilevanza ai fini della nostra indagine, si rivela ricco di
utilità in ordine alla prosecuzione del nostro itinerario di studio sugli
strumenti di tutela giurisdizionale degli interessi collettivi.
Iniziamo dalla formula secondo cui l’interesse collettivo rappresenta
la somma degli interessi individuali.
Essa rappresenta la chiara trasposizione sul piano giuridico-applica-
tivo del c.d. principio di massimazione; già formulato da Cesare Beccaria
nel suo Dei delitti e delle pene47 e successivamente eretto a cardine del
modello teorico-politico proposto da Jeremy Bentham al fine di garantire

47 BECCARIA, C., Dei delitti e delle pene (1764), Milano, 1964, p. 7: «apriamo le istorie,
e vedremo che le leggi, che pur sono, o dovrebbero essere patti di uomini liberi, non sono
state per lo più che lo strumento delle passioni di alcuni pochi, o nate da una fortuita e pas-
seggera necessità; non già dettate da un freddo esaminatore della natura umana, che in un sol
punto concentrasse le azioni di una moltitudine di uomini, e che le concentrasse in questo
punto di vista: – la massima felicità divisa nel maggior numero –». Per ulteriori indicazioni
circa l’utilizzazione del principio di massimazione nella letteratura che ha influenzato il pen-
siero benthamiano, v. FALZEA, A., Introduzione alle scienze giuridiche, cit., p. 186, spec. nota
283. Sui rapporti tra Cesare Beccaria e Jeremy Bentham, v. anche qualche cenno in FASSÒ, G.,
Storia della filosofia del diritto, III, Ottocento e Novecento, Bari-Roma, 2002, spec. p. 25.
286 CAPITOLO QUARTO

l’applicazione del suo celebre principio di utilità48 – come criterio di va-


lutazione delle azioni umane – non solo rispetto al singolo ma anche ri-
spetto all’intero corpo sociale.
Stando a questo principio, infatti, «è la più grande felicità per il
maggior numero di persone quella che dà la misura del giusto e dell’in-
giusto»49.
In altri termini, se «la comunità è un corpo fittizio, composto dalle
persone individuali considerate costitutive di tale corpo come se fossero
le sue membra» allora «l’interesse della comunità è […] la somma degli
interessi dei diversi membri che la compongono»50.
Alla determinazione del concetto di interesse generale si giunge
dunque – come per quello individuale peraltro – mediante un procedi-
mento di determinazione aritmetica che si basa sulla convinzione di un
possibile apprezzamento meramente quantitativo dello stesso e che, in
quanto tale, implica l’impossibilità logica di concepire un interesse col-
lettivo diverso – dal punto di vista contenutistico – e, a fortiori, superiore
– in senso qualitativo – rispetto agli interessi individuali (o quanto meno,
ovviamente, alla maggioranza di quelli); interessi individuali, da cui esso
nemmeno trae propriamente origine, ma di cui più precisamente è
espressione51.
Siamo ancora in una prospettiva – con particolare riferimento a quel
che a noi interessa52 – pienamente compatibile con l’individualismo libe-
rale di stampo lockiano in cui, appunto, l’individuo è «principio e fine
dell’ordinamento» e lo Stato è lo strumento che non sottrarre l’uomo

48 «Con l’espressione principio di utilità si intende quel principio che approva o disap-
prova ogni azione, qualunque essa sia, in conformità alla tendenza che l’azione stessa sembra
avere ad aumentare o a diminuire la felicità della parte di cui è in giuoco l’interesse. […] E
dico ogni azione, qualunque essa sia; e di conseguenza non solo ogni azione di un individuo
privato, ma anche ogni misura di governo»; così, BENTHAM, J., An Introduction to the Princi-
ples of Moral and Legislation, cit., cap. I, § 2., p. 12.
49 BENTHAM, J., A Fragment on Government, London, 1823, Preface, p. 3; cfr., se si

vuole, la traduzione in italiano, Un frammento sul governo, a cura di S. Marcucci, Milano,


1990, Prefazione, p. 37; cfr., anche, gli sviluppi in ID., An Introduction to the Principles of
Moral and Legislation, cit., cap. I, § 3 ss., p. 12 ss.
50 BENTHAM, J., An Introduction to the Principles of Moral and Legislation, cit., cap. I,

§ 5, p. 12.
51 V. tra breve, invece, il mutamento dei rapporti tra interesse collettivo-generale ed in-

teresse individuale che avviene nella celebre dottrina di Rousseau.


52 Ossia in relazione al rapporto interesse individuale-interesse collettivo e non, ovvia-

mente, dal punto di vista della concezione filosofica di riferimento. In Bentham si ha la radi-
cale negazione di ogni radice giusnaturalistica della teoria della legge e dello Stato che invece
sono centrali in Locke. Ai diritti naturali si sostituisce, infatti, il principio di utilità.
IL CONCETTO DI INTERESSE E DI INTERESSE COLLETTIVO 287

dallo stato di natura, ma piuttosto garantisce l’osservanza della legge na-


turale e con essa il rispetto dei diritti innati (libertà, uguaglianza e pro-
prietà); siamo in altri termini in un sistema in cui è inconcepibile un in-
teresse generale diverso e sovraordinato agli interessi individuali53.
La svolta si ha, invece, con Rousseau e, più precisamente, con la sua
elaborazione del concetto di «volontà generale».
È nel pensiero del filosofo ginevrino, infatti, che lo Stato – secondo
una visione latamente antropomorfa – diviene un «ente collettivo» dotato
a tutti gli effetti di vita propria; ontologicamente autonomo e distinto dal
singolo.
Il ponte concettuale che garantisce il passaggio dall’«individuo»
all’«ente collettivo», dalla «volontà individuale» alla «volontà generale»,
dall’«interesse individuale» all’«interesse generale» è rappresentato dal
tipico strumento giusnaturalistico del contratto sociale, con il quale l’in-
dividuo aliena completamente se stesso ed i propri diritti alla collettività,
ma – è questo il punto centrale della teoria in esame – «ciascuno, dandosi
a tutti, non si dà a nessuno»54. Come precisa Rousseau: «ciascuno di noi
mette in comune la sua persona e tutto il suo potere sotto la direzione su-
prema della volontà generale; e noi riceviamo come totalità ciascun mem-
bro come parte indivisibile del tutto»55.
Con Rousseau, ogni individuo si perde nello Stato per ritrovarsi in
esso; è per questa via che si realizza la separazione tra «volontà di tutti»
e «volontà generale»: «questa considera soltanto l’interesse comune; l’al-
tra ha di mira l’interesse privato, e non è che la somma di volontà parti-
colari»56.
In questo modello teorico, diversamente da quello che precede, si
profila quella distinzione ontologica tra interesse collettivo e interesse in-

53 Su questi aspetti, v. le belle pagine di SOLARI, G., Filosofia del diritto privato, I, Indi-
vidualismo e diritto privato, Torino, 1939, p. 23 ss., ma spec. p. 32, per l’esame dei rapporti
tra individuo e Stato nel pensiero del filosofo inglese, da cui sono tratte – peraltro – le parole
virgolettate richiamate nel testo. Il principio di massimazione è accolto ad esempio anche da
LEIBNIZ, G.W., De tribus Juris naturae et gentium grandibus, in Lesebuch zur geschichte der
deutschen staatswissenschaft, Tübingen, 1891, p. 83 ss., su cui v. ancora, SOLARI, G., Filosofia
del diritto privato, I, cit., p. 72 s. Sul pensiero giuridico di Locke, v. anche FASSÒ, G., Storia
della filosofia del diritto, II, L’età moderna, Bari-Roma, 2003, p. 152 ss., nonché p. 397 ss. per
amplissime indicazioni bibliografiche in materia.
54 ROUSSEAU, J.J., Du contract social, ou essai sur la forme de la république, I, cap. 6. Nu-

merosissime sono le traduzioni italiane della celebre opera in questione e ulteriori citazioni
appaiono superflue.
55 ROUSSEAU, J.J., Du contract social, I, cap. 6.
56 ROUSSEAU, J.J., Du contract social, II, cap. 2.
288 CAPITOLO QUARTO

dividuale a cui tante volte la dottrina – non sempre con la dovuta consa-
pevolezza – ha fatto riferimento.
L’interesse generale trova alla sua origine l’interesse individuale per
poi affrancarsi da questo ed assumere una dimensione sua propria e di-
versa: autonoma.
Questo aspetto è un punto cruciale di qualunque teoria sugli inte-
ressi, o più precisamente – come chiariremo tra breve57 – di qualunque
teoria che studia i comportamenti collettivi per mezzo della nozione di in-
teresse. L’autonomia ontologica dell’interesse collettivo rispetto all’inte-
resse individuale autorizza, infatti, – sul piano logico – a ritenere che l’in-
teresse di un gruppo ristretto di individui o, per ipotesi, l’interesse sin-
golare di un individuo, si presenti come interesse generale; e ciò poiché
l’interesse generale per giustificare sé stesso non abbisogna più del pre-
sentarsi come «massima felicità per il massimo numero di persone»58. Ed
inoltre, per questa via, l’interesse collettivo finale può non trovare nes-
suna corrispondenza, sotto il profilo del contenuto, con gli interessi indi-
viduali iniziali 59.
É questa insomma la strada che conduce al concetto di interesse col-
lettivo-sintesi, il quale non indica null’altro che un meccanismo formale
– in quanto ovviamente disarcorato da valutazioni assiologiche – di coor-
dinamento di più interessi individuali incompatibili.
Noi possiamo, infatti, distinguere nel processo di determinazione
dell’interesse collettivo tre momenti: un momento iniziale, di partenza, in
cui si presentano interessi individuali originari incompatibili; un mo-
mento dinamico, o genetico, in cui si realizza la determinazione del rap-
porto di prevalenza tra i diversi interessi; un momento conclusivo in cui
sul campo rimane un unico interesse finale collettivo.
Come la stessa storia ha dimostrato, la possibilità di concepire un in-
teresse collettivo distinto dagli interessi individuali originari rappresenta
– sul piano logico – il primo passo per liberare l’interesse collettivo dai
vincoli di derivazione che – più o meno strettamente – possono legarlo
all’interesse individuale. Si può, in definitiva, giungere ad un modello
teorico in cui i legami tra l’interesse collettivo finale e gli interessi indivi-
duali iniziali risultano completamente recisi.
Impostato nei termini da ultimo indicati, infatti, il punto focale del-
l’annosa problematica circa i rapporti tra interesse individuale ed inte-

57 V. il prossimo paragrafo.
58 Cfr. retro.
59 V. infra, § 6.3. e nota 66.
IL CONCETTO DI INTERESSE E DI INTERESSE COLLETTIVO 289

resse della collettività si sposta gradatamente dalla possibilità di conce-


pire un interesse collettivo come distinto dall’interesse individuale al de-
licato tema delle regole che disciplinano il meccanismo di selezione degli
interessi 60.
Il sacrificio degli interessi individuali originari, infatti, dipende stret-
tamente dalle modalità di determinazione del rapporto di prevalenza tra
i diversi interessi; dipende – in parole povere – da come si svolge la sin-
tesi o, magari, da chi la realizza. Ci troviamo innanzi alla fondamentale
contrapposizione tra un modello di autodeterminazione dell’interesse col-
lettivo, di cui il sistema democratico costituisce espressione evidente, ed
un modello di eterodeterminazione dell’interesse collettivo, di cui il si-
stema corporativo è un ipotesi altrettanto significativa61.
Si badi bene, in Rousseau, il risultato, ovvero la distinzione ontolo-
gica tra interesse generale ed interesse individuale originario, è giustifi-
cata proprio dalle premesse, ovvero dalla volontaria ed ugualitaria parte-
cipazione al processo di sintesi degli interessi individuali.
Se, da un lato, si afferma che «quel che rende generale la volontà
non è tanto il numero di voti, quanto l’interesse comune che li unisce»,
oppure che «perché una volontà sia generale non è sempre necessario
che sia unanime», dall’altro, si ribadisce che «è necessario che si tenga
conto di tutti i voti; ogni esclusione formale rompe la generalità»62; op-
pure «che ogni cittadino ragioni soltanto con la propria testa» ecc.
Tutto è retto dal principio – come detto – secondo cui «ciascuno,
dandosi a tutti, non si dà a nessuno», e ciò «perché in questa istituzione
ciascuno si sottomette necessariamente alle condizioni che impone agli
altri» e quindi «finché i sudditi sono sottomessi soltanto a simili conven-
zioni, non obbediscono a nessuno, ma solo alla propria volontà».

60 FASSÒ, G., Storia della filosofia del diritto, II, cit., p. 289, evidenzia, infatti, la perico-
losità latente insita nella concezione roussoviana dell’interesse e della volontà generale. Si è
infatti evidenziato che in essa «resta il germe della teoria che sarà detta dello Stato etico, dello
Stato cioè che, pretendendo con argomentazioni filosofiche di rappresentare e di realizzare la
volontà dell’individuo anche all’insaputa od a dispetto di questo […] in realtà gli impone la
volontà propria intesa come volontà avente valore assoluto, aprendo la via ad una nuova
forma di assolutismo».
61 È la distinzione che abbiamo nella sostanza già esaminato nella contrapposizione tra

«autogoverno» ed «eterogoverno» degli interessi proposta da JAEGER, N., Attività processuali


con efficacia normativa, cit., p. 39 s., su cui, v. retro, cap. II, nota 61. Si ricorda, inoltre, quanto
sostenuto da CESARINI SFORZA, W., Preliminari sul diritto collettivo, cit., p. 107, secondo cui
l’etero-determinazione appariva essere l’unica via per concepire un interesse generale impu-
tabile alla colletività come tutto, cfr. retro, cap. I, § 3.1.1.
62 ROUSSEAU, J.J., Du contract social, II, cap. 2, nota 1.
290 CAPITOLO QUARTO

Peraltro, ammette Rousseau, «questo non vuol dire che gli ordini
dei capi non possano passare per volontà generali, finché il corpo sociale,
che è libero di opporvisi, non lo faccia», ma, anche «in tal caso, dal si-
lenzio universale si deve presumere il consenso del popolo».
L’individuo – e con esso l’interesse individuale – è, quindi, posto al
centro della sintesi nel ruolo di matrice genetica dello stesso, secondo un
modello efficacemente definito di «democrazia totalitaria»63.

6.3. Precisazioni esplicative sul concetto di interesse collettivo-sintesi


Comprese, dunque, le origini ed il significato del concetto di inte-
resse-somma e di interesse-sintesi, è ora opportuno interrogarsi sulle ra-
gioni che hanno condotto la speculazione filosofica all’elaborazione di
questi concetti e avanzare qualche dovuta precisazione correttiva sul con-
cetto di interesse collettivo-sintesi.
Per ciò che attiene al primo profilo, la questione su cui occorre ri-
flettere è la seguente: vi sono situazioni della realtà che, oggetto di inte-
resse da uno o più soggetti (ciò non importa), possono realizzarsi solo at-
traverso un comportamento collettivo (rectius: un insieme di comporta-
menti individuali coordinati uniformi), ovvero un comportamento
implicante il coordinamento degli interessi individuali, cioè – come
stiamo per vedere – il superamento di rapporti di reciproca incompatibi-
lità a vantaggio di rapporti di concorrenza.
Iniziamo l’esemplificazione pensando ad un soggetto individuale Ti-
zio. Questi ha interesse alla situazione A ed alla situazione B, ovvero en-
trambe sono valutate favorevolmente. Nell’unità di tempo x, però, Tizio
con la sua attività può consentire il realizzarsi unicamente della situazione
A o B, ma non di entrambe. Ad esempio Tizio ha interesse a vedersi con
gli amici per la classica partita a carte del venerdì sera e, dall’altro lato, ha
interesse ad uscire con Caia che, prendendo l’iniziativa, l’ha invitato a
cena. Non possedendo il dono dell’ubiquità, Tizio, che con la sua azione
contribuisce al realizzarsi di entrambe le situazioni favorevoli, deve sce-
gliere, ovvero determinare il suo attuale interesse, cioè il rapporto di pre-
valenza tra i due distinti interessi incompatibili (che potremmo dire po-
tenziali) e consentire la realizzazione della situazione A o di quella B e con
essa il soddisfacimento dell’interesse A o dell’interesse B.
In questo esempio si nota bene la distinzione tra l’ottica del perse-
guimento e quella del soddisfacimento dell’interesse. Il primo fenomeno si

63 FASSÒ, G., Storia della filosofia del diritto, II, cit., p. 289.
IL CONCETTO DI INTERESSE E DI INTERESSE COLLETTIVO 291

presenta – come visto – in riferimento all’attività che un soggetto deve


compiere affinché si realizzi la situazione favorevole oggetto dell’inte-
resse. Il secondo, invece, come visto, è correlato al realizzarsi stesso della
situazione favorevole. In questo stesso esempio, inoltre, si evidenzia
come l’attività di perseguimento, anche in un soggetto individuale, può
avviare quel processo di selezione degli interessi incompatibili che con-
duce all’unica azione idonea a consentire il realizzarsi della situazione fa-
vorevole. Possiamo dire che Tizio avrebbe avuto interesse ad entrambe le
situazioni A e B, ma, potendone far realizzare solo una, alla fine ha di-
mostrato di aver interesse effettivo ed attuale solo per A o per B.
Ora, applichiamo questo stesso modello elementare di spiegazione
dei comportamenti umani a soggetti collettivi.
Immaginiamo un gruppo di cari amici nell’organizzazione dell’at-
teso sabato sera: Tizio ha interesse ad invitare a cena i suoi amici per con-
fidar loro – le cose corrono – la prospettiva di sposare Caia; Caio vuole
invece convincere gli altri a sfidare i suoi colleghi di lavoro ad una partita
a calcio64; Sempronio ha interesse, infine, ad incontrare gli altri amici per
giocare la già menzionata partita a carte.
Tutte e tre le situazioni favorevoli possono verificarsi solo se tutti gli
amici collaborano e pongono in essere un comportamento collettivo uni-
tario. Abbiamo tre interessi individuali che potremmo dire originari o
potenziali, ma il cui soddisfacimento dipende da un’azione comune e
che, per le circostanze più diverse (nel caso di specie anche solamente il
vincolo temporale), sono incompatibili. Abbiamo – cioè – tre interessi
originari (o potenziali) individuali incompatibili il cui soddisfacimento
dipende dall’attività comune.
I tre buoni amici si consulteranno e, applicando criteri di priorità
ovvero di prevalenza il cui contenuto qui non interessa, decideranno di
cimentarsi, ad esempio, nella impresa sportiva – oramai comune – pro-
posta da Caio. Avverà, dunque, la sintesi e la determinazione dell’inte-
resse finale (o attuale) collettivo.
Anche in questo esempio, come in quello precedente, si nota la re-
lazione tra attività di perseguimento ed interesse. La situazione favore-
vole, include, per come è concepita, un comportamento collettivo, ossia
il soddisfacimento di ogni interesse individuale potenziale dipende da un
comportamento collettivo, per avere il quale occorre a monte attivare un

64 Chiaramente l’interesse di Caio è un interesse mediato, perché quello finale è vin-

cere, o forse, quello veramente finale, il «più finale» di tutti, è vantarsi l’indomani della so-
nora sconfitta inferta ai colleghi.
292 CAPITOLO QUARTO

interesse collettivo ad una futura situazione della realtà che verrà in esi-
stenza solo se tutti lo vorranno.
Chiedo ora al lettore: c’è conflitto in questa ipotesi tra l’interesse di
ogni singolo individuo e interesse finale collettivo?
Chi ha risposto affermativamente è in errore.
Il processo di sintesi modifica gli interessi individuali potenziali. Ti-
zio, Caio e Sempronio si trovavano in una condizione iniziale di conflitto
di interessi, ma al termine del processo di sintesi hanno tutti lo stesso in-
teresse; ed infatti – a riprova di ciò – porranno in essere il comporta-
mento collettivo che consentirà il realizzarsi della situazione favorevole65.
Favorevole per chi? Solo per Caio che era il titolare originario di
quell’interesse? Ovviamente no; anche per Sempronio e Tizio, il cui inte-
resse individuale originario è cambiato nell’indicato interesse individuale
finale66.
Può sì realizzarsi il conflitto tra interesse individuale originario po-
tenziale ed interesse collettivo finale, ma non tra interesse individuale fi-

65 V. le esatte riflessioni di DELL’OLIO, M., in DELL’OLIO, M. - BRANCA, L’organizzazione


e l’azione sindacale, cit., p. 48, per il quale attraverso l’organizzazione sindacale «gli interessi
prescelti […] o assunti quali collettivi, possono essere guardati in una prospettiva di conti-
nuità, se non addirittura di immedesimazione, con quelli individuali […] i quali […] vengono
se mai consolidati e non certo sacrificati».
66 Riassumiamo: Tizio si prefigura una situazione della realtà che ritiene favorevole, ma

che per realizzarsi vede la necessaria partecipazione di Caio e Sempronio. Caio si prefigura
una diversa situazione favorevole, che però, come l’altra, necessità di un comportamento di
Sempronio e Tizio. Senza ripetersi, lo stesso vale, mutatis mutandis, per Sempronio. Abbiamo
tre interessi individuali esclusivi che sono incompatibili per il fatto che, anche per il solo vin-
colo temporale (il sabato sera), se si verifica una delle tre situazioni della realtà non si verifi-
cano le altre. Secondo la formula proposta potremmo rendere questi tre interessi potenziali
incompatibili, come segue:
Tizio ↔ (comportamento-X)Tizio + (comportamento-X)Caio + (comportamento
X)Sempronio
Caio ↔ (comportamento-Y)Tizio + (comportamento-Y)Caio + (comportamento
Y)Sempronio
Sempronio↔ (comportamento-K)Tizio + (comportamento-K)Caio + (comportamento
K)Sempronio
In cui, ovviamente le lettere X, Y, K corrispondono alla natura dei tre diversi compor-
tamenti individuali che ogni soggetto configura essere quello idoneo a soddisfare il suo inte-
resse individuale esclusivo. Se i tre amici giungeranno, per qualsiasi motivo, ad un accordo, la
situazione che verrà a realizzarsi sarà ad esempio la seguente:
Tizio↔
Caio↔
Sempronio↔
} (comportamento-Y)Tizio + (comportamento-Y)Caio + (comportamento
Y)Sempronio
IL CONCETTO DI INTERESSE E DI INTERESSE COLLETTIVO 293

nale ed interesse collettivo finale: se l’interesse individuale finale rappre-


senta l’interesse che attualmente può essere riferito al soggetto che pone
in essere il comportamento collettivo, ecco che il conflitto non sussiste.
Figurativamente, si realizza un processo ascenzionale, in cui dall’in-
dividualità e dal particolare si giunge, con la selezione degli interessi, ad
un punto comune, l’interesse collettivo, sintesi e non somma degli inte-
ressi individuali originari, e a cui consegue un processo discenzionale, in
cui l’interesse collettivo torna in capo ai singoli riparcellizzandosi in tanti
interessi individuali finali, i quali descrivono quello che è l’attuale e defi-
nitivo (in senso relativo ovviamente) giudizio di valore di tutti i soggetti
coinvolti circa la situazione della realtà al cui realizzarsi contribuiranno
con il comportamento collettivo, cioè, più correttamente, con un insieme
di comportamenti individuali coordinati e conformi67.

67 Posto il problema in termini formali, non si può pervenire ad altro risultato. Di ciò

non si avvede JELLINEK, G., Sistema dei diritti pubblici soggettivi, trad. it. G. Vitigliano, Mi-
lano, 1912, p. 78, la cui posizione tanta influenza ha avuto sulla dottrina italiana. Tra i tanti si
porta a titolo di esempio – e ciò per la convinzione con la quale è riproposta la lettura del giu-
rista tedesco – l’impostazione di CASSARINO, S., Le situazioni giuridiche e l’oggetto della giuri-
sdizione amministrativa, Milano, 1956, p. 43 (c.vo mio): «l’interesse generale non è la somma
degli interessi di tutti i membri della collettività, poiché è chiaro che, di fronte a qualsiasi
comportamento, anche se l’interesse di moltissimi consociati viene a coincidere, tuttavia ci
sarà sempre un interesse opposto di alcuni soggetti. Si dice che è la risultante degli interessi
della maggioranza degli individui che compongono la collettività, ma neanche ciò è esatto,
come è dimostrato dagli ordinamenti di tipo non democratico, nei quali spesso viene presen-
tato come interesse generale ciò che in effetti è solo l’interesse della minoranza al potere.
Sembra invece che per giungere ad una soddisfacente nozione si debba abbandonare ogni ri-
ferimento ai singoli individui e rivolgere piuttosto lo sguardo all’intera collettività, concepita
come entità unitaria e soprattutto diversa dai soggetti che in un dato momento storico la
compongono». Ora, se ci fermassimo a criticare ogni passo di quanto riportato inizieremmo
un discorso in gran parte già svolto nel testo. Basti qui evidenziare i seguenti punti. Che
all’interno di una data collettività siano presenti soggetti portatori di un interesse differente
dall’interesse collettivo è cosa tanto ovvia quanto comune, ma ciò non incide sull’opera di
determinazione della struttura formale dell’interesse collettivo. I soggetti in questione, difatti,
saranno posti innanzi alla seguente alternativa: a) uscire – sempre che possano – dal gruppo;
b) continuare a far parte di esso. Nel primo caso, l’interesse collettivo non sarà più anche il
loro; nel secondo, invece, o – con gli strumenti consentiti – riusciranno ad incidere sull’inte-
resse collettivo modificando o, anche e necessariamente per loro, in quanto parti del gruppo,
varrà l’interesse collettivo del gruppo stesso. Infinite obiezioni si possono rivolgere avverso la
scelta di far uso di un metodo formale di tal fatta, ma non ai risultati a cui perviene una volta
che ne si faccia applicazione. La questione si risolve, dunque, nel ricercare quale metodo di
spiegazione dei comportamenti umani collettivi sia la più corretta e quale sia la più adatta re-
lativamente ad uno specifico problema. Per chi scrive tale metodo è particolarmente utile al
giurista perché fornisce un semplice modello di comprensione delle relazioni tra uomo e si-
tuazione della realtà. Se poi lo si confronta con un’indagine assiologicamente orientata, in cui
294 CAPITOLO QUARTO

Da ciò deriva che, ogni qual volta ci riferiamo all’interesse collettivo


questo è sempre un aggregato di più interessi individuali, o, più corretta-
mente, di interessi individuali compatibili concorrenti.
Si potrebbe obiettare che ciò dipende dalle regole di sintesi adot-
tate, ma si cadrebbe anche in tal caso in errore.
Ci si spiega meglio. Nell’esempio da ultimo indicato ci siamo riferiti
ad un modello che assume l’interesse individuale come valore. Il gruppo
Tizio, Caio e Sempronio è concepito come un gruppo volontario, ovvero
a partecipazione non necessaria, all’interno del quale ogni interesse si
presenta con pari dignità tanto prima che durante il processo selettivo.
Colui il cui interesse individuale originario verrà sacrificato dalla
sintesi è posto in una situazione assai simile a quella – poc’anzi vista – in
cui il soggetto individuale viene a trovarsi nello scegliere qual è il suo in-
teresse individuale attuale. Nel gruppo collettivo l’accettazione dell’inte-
resse individuale originario altrui come interesse proprio può derivare
dal fatto che, ad esempio, in Tizio e Sempronio è forte l’affectio amicalis,
o che, così facendo, otterranno di veder soddisfatto il proprio interesse
appena ciò sarà nuovamente possibile (magari il sabato sera seguente,
stando nuovamente al nostro esempio).
Peraltro, come in riferimento al soggetto individuale sono irrilevanti
le motivazioni psicologiche che lo conducono a determinare l’interesse
individuale prevalente, parimenti vale in riferimento al soggetto collet-
tivo. Questo modello, infatti, per come è concepito, è svincolato dalla
prospettiva assiologica68.
Ma alla medesima conclusione si giunge anche in un ipotesi perfet-
tamente antitetica all’ultima indicata, ovvero in un modello teorico in cui
il valore dell’interesse individuale è negato; in altri termini in un modello
teorico in cui l’interesse individuale è dis-valore.

rileva il piano – per così dire – ideologico o valoristico, sembra che tale approccio metodolo-
gico ponga adeguatamente in risalto i nessi logico-strutturali di derivazione dell’interesse col-
lettivo da quelli individuali-esclusivi, evidenziando, quindi, quanto delicata sia l’elaborazione
di una regola di selezione degli interessi che sappia garantire il minor trauma nel passaggio
dall’interesse individuale potenziale all’interesse collettivo finale. Sul punto, v. anche le note
che seguono, ma spec. nota 70.
68 Si noti come il sistema democratico, per come è concepito, può essere perfetta espres-

sione del modello teorico-formale adottato nel testo; un modello cioè in cui il contenuto del-
l’interesse è irrelevante. Non è un caso, infatti, che il sistema democratico si sia specificato nel
sistema democratico costituzionale, nel quale, appunto la costituzione, veicolando valori,
esclude che certi interessi possano prevalere nel processo di sintesi. In questo senso la costi-
tuzione può essere intesa come uno strumento di correzione del processo di sintesi democra-
tica degli interessi della collettività.
IL CONCETTO DI INTERESSE E DI INTERESSE COLLETTIVO 295

Si pensi ad un sistema non imperniato, come quello che precede, sul


principio democratico, ma ad un sistema di eterodeterminazione dell’in-
teresse collettivo. Qui l’interesse della collettività è determinato ab ex-
terno, magari anche tramite il lancio della moneta. Ma ciò non significa
che l’interesse collettivo cessi di essere – come detto – la fomula per in-
dicare un aggregato di più interessi individuali. Nemmeno qui si realizza,
infatti, un contrasto tra interesse individuale originario ed interesse finale
collettivo e ciò perché l’interesse individuale originario – in questo mo-
dello, per come esso è concepito – è irrilevante e dunque è coerente-
mente escluso dal processo di sintesi69. In una collettività che si ispira a
questo modello avremo – come nell’altra – un atto collettivo di persegui-
mento dell’interesse, verosimilmente ottenuto – però – con l’impiego
della forza.
Tutte le teorie che hanno cercato di fornire una spiegazione dei
comportamenti collettivi facendo uso della nozione di interesse, hanno
visto nella collettività un ente vitale cui imputare l’interesse collettivo ed
alla cui determinazione si giungeva secondo un processo che replicava i
meccanismi psicologici che avvengono nel soggetto individuale. Queste
tesi, poi, abbagliate – da un lato – dal contrasto che può verificarsi tra
l’interesse individuale originario e l’interesse collettivo, nonché favorite
– dall’altro – dall’immagine antropomorfa della collettività, hanno rite-
nuto che l’interesse collettivo fosse divenuto qualcosa di diverso e sepa-
rato dagli interessi dei singoli membri che compongono la collettività,
così non rendendosi conto che la sintesi incide proprio sugli interessi del
singolo e sui suoi comportamenti, che non rimangono quelli originaria-
mente prefigurati, ma si modificano. Il comportamento collettivo, cioè
l’insieme di più comportamenti individuali coordinati e conformi, indica
proprio l’esitenza in capo ad essi di uguali interessi individuali finali.
69 In altre parole si opererebbe in un mondo in cui il soggetto non è libero di determi-
nare quali sono i suoi interessi e i comportamenti che contribuiscono a realizzarli. La corretta
applicazione del fenomeno indicato la si ritrova in CARNELUTTI, F., in Teoria del regolamento
collettivo dei rapporti di lavoro, Padova, 1930, p. 139-140 e in Funzione del processo del lavoro,
in Riv. dir. proc. civ., 1930, p. 114, che, pur rimettendo la determinazione dell’interesse col-
lettivo all’associazione sindacale, imputa poi – correttamente – l’interesse ai membri della ca-
tegoria; e in tutti gli AA. che, pur ritenendo che sia un soggetto terzo a determinare l’inte-
resse collettivo, riferiscono poi questo interesse ai singoli: cfr. ad es. JAEGER, N., Contributo
alla determinazione del concetto di «rapporto collettivo», cit., p. 622 ss. Queste ricostruzioni
sono assolutamente corrette in senso formale, poiché, posto che l’interesse collettivo corri-
sponde alla concorrenza di più interessi individuali in ordine allo stesso bene, allora, se ad un
soggetto terzo spetta la determinazione dell’interesse di una data collettività, nel senso che è
in grado di vincolarla nelle concrete sue scelte, l’interesse così determinato varrà – nei fatti –
come interesse collettivo.
296 CAPITOLO QUARTO

In conclusione, dunque, la contrapposizione tra la configurazione


dell’interesse collettivo come somma oppure come sintesi degli interessi
individuali trova origine nei tentativi di spostare il concetto di interesse,
quale strumento di spiegazione dei comportamenti umani, dal singolo in-
dividuo alla collettività. Tale diverso ambito di applicazione causa però
l’esternazione dei processi di determinazione dell’interesse, nel senso
che, mentre nel singolo tali processi afferivano alla sfera interiore del sog-
getto e lì rimanevano sostanzialmente inesplorati (anche perché rimessi al
suo libero ed imperscrutabile arbitrio), nei corpi collettivi, invece, tali
processi acquistano la massima rilevanza. Ma ciò accade – come è sempre
accaduto – solo nei casi in cui la situazione favorevole include un com-
portamento della collettività stessa (costruzione di un’opera pubblica,
approvazione di una legge, ecc.). Qui, ovviamente, la collettività, come se
fosse un soggetto individuale, deve determinare quale sia il suo interesse
per poi porre in essere quel comportamento collettivo che ne garantisce
il soddisfacimento. Questi processi di determinazione, dunque, che si è
cercato di governare mediante l’impiego delle formule interesse-sintesi o
interesse-somma70, non hanno nulla a che fare con la struttura dell’inte-
resse collettivo, la quale si apprezza – ovviamente – solo data l’entità che
si vuole definire e non prima che questa sia venuta ad esistenza.

70 In altri termini, le due formule hanno avuto impiego non per illuminare una diversa

natura dell’interesse collettivo, ma solo per cercare di influire sulle modalità di determina-
zione dell’interesse collettivo in tutte le ipotesi in cui occorreva conseguire risultati mediante
comportamenti collettivi uniformi, come tipicamente avviene nell’attività legislativa (in cui
appunto hanno trovato origine), in virtù della quale è posta una regola da tutti e – più che al-
tro – per tutti. Più di preciso il concetto di interesse somma cerca di far sì che il bene che
deve essere di interesse per tutti (bene collettivo) lo sia almeno per la maggior parte della col-
lettività, mentre la formula dell’interesse sintesi tende a superare questo vincolo quantitativo
in una lettura che per alcuni versi assume contorni ancor più formali, poiché, se è vero, come
già rilevato nel testo, che il perno del meccanismo della determinazione dell’interesse collet-
tivo risiede nella completa e totalitaria partecipazione della collettività al processo di sintesi è
pur vero che, come afferma Rousseau, «questo non vuol dire che gli ordini dei capi non pos-
sano passare per volontà generali, finché il corpo sociale, che è libero di opporvisi, non lo fac-
cia», proprio perché «in tal caso, dal silenzio universale si deve presumere il consenso del po-
polo». In questa affermazione si apprezza tutta la tenuta rigorosamente formale della costru-
zione, che poi è quella stessa che ci ha consentito di poter dire che anche in un sistema di
eterodeterminazione degli interessi collettivi, l’interesse collettivo sarà comunque sempre l’in-
teresse collettivo di tutti, ovvero un aggregato di interessi individuali concorrenti. Uscendo
dai parametri formali è evidente che in tal caso l’interesse collettivo è in realtà verosimilmente
solo l’interesse del sovrano che ha la forza di imporlo agli altri. Ma rientrando in un modello
puramente logico-formale, quell’interesse, che vale, comunque per tutti, è l’interesse di tutti
e cioè appare nella prassi come interesse collettivo e non come interesse individuale – esclu-
sivo – del sovrano.
IL CONCETTO DI INTERESSE E DI INTERESSE COLLETTIVO 297

7. L’interesse protetto dai rimedi giurisdizionali a tutela degli interessi


collettivi
Con queste ultime considerazioni si offre risposta al quesito propo-
sto poc’anzi, il quale mirava a rendere chiaro quale differenza concet-
tuale intercorresse tra la nozione di interesse collettivo-sintesi e quella di
interesse collettivo-somma, nonché a comprendere le ragioni pratiche
che hanno indotto la riflessione filosofica a tale duplice elaborazione.
Rimane ancora pendente il secondo quesito che – lo si ricorda – in-
tendeva verificare se dette nozioni fossero applicabili alla nostra materia
di studio.
Lo si anticipa: la risposta ha esito negativo.
Come appena visto la contrapposizione tra interesse collettivo-sin-
tesi ed interesse collettivo-somma trova la sua ragion d’essere in riferi-
mento alla necessità di spiegare, mediante l’applicazione del concetto di
interesse, tutte le ipotesi della vita reale in cui una certa situazione favo-
revole include al suo interno un comportamento conforme di più sog-
getti; in tali ipotesi l’attività di perseguimento dell’interesse, ovvero l’atti-
vità che l’uomo deve esplicare affinché si realizzi la situazione favorevole
non è individuale, ma necessariamente collettiva.
Alla luce delle osservazioni svolte è agevole comprendere perché il
concetto di sintesi degli interessi e la correlativa (nonché fuorviante) no-
zione di interesse collettivo-sintesi abbiano trovato un settore di appli-
cazione elettiva in quella branca della riflessione giuridica – il diritto sin-
dacale – orientata fondamentalmente nella prospettiva del persegui-
mento materiale degli interessi umani mediante comportamenti collettivi.
Si pensi, tra tutti, alla nozione proposta da Santoro Passarelli ed esami-
nata nel secondo capitolo di questo volume71. Qui, se, da un lato, l’inte-
resse collettivo – come visto72– è descritto come «l’interesse di una plu-
ralità di persone a un bene idoneo a soddisfare un bisogno comune», dal-
l’altro, ricorrono affermazioni il cui pieno contrasto con la definizione
appena riportata dovrebbe apparire al lettore ora evidente. Così, l’inte-
resse collettivo «non è la somma di interessi individuali, ma la loro com-

71 Ma v. anche infra, cap. VII, la concezione avanzata da Garofalo, che ha successiva-


mente sviluppato sino alle estreme consueguenze la nozione di Santoro Passarelli per dare si-
stemazione teorica all’azione di repressione della condotta antisindacale prevista dall’art. 28
dello Statuto dei lavoratori; sviluppo ed estremizzazione non a caso praticate facendo perno
sulla componente organizzatoria che appare quale momento genetico dell’interesse collettivo.
72 Cfr. retro, cap. II, § 4.1.
298 CAPITOLO QUARTO

binazione»73; è un «interesse diverso dall’interesse individuale, e superiore


all’interesse degli individui appartenenti al gruppo»74.
In poche parole, prima si rinviene la definizione di interesse collet-
tivo ponendo correttamente l’accento sul concetto di soddisfacimento (si
ha interesse collettivo allorché più interessi siano soddisfatti da un unico
bene) e poi si corrompe tale prospettiva e si scivola sul piano del perse-
guimento, ovvero su quel piano che non vuole investigare cosa sia un in-
teresse collettivo, ma quali siano i comportamenti umani che condizio-
nano il realizzarsi della situazione favorevole ai più75. Si afferma, infatti, a
titolo di esemplificazione che «la disciplina della concorrenza è un bene
che soddisfa un interesse collettivo, perché non può essere conseguito dai
singoli separatamente, ma solo congiuntamente da tutti»76.
Come già rapidamente accennato, peraltro, è comprensibile che
questi slittamenti di prospettiva si registrino nel diritto sindacale, in
quanto questa particolare disciplina giuridica ha ben presente la vistosa
necessità che all’attività dell’imprenditore si contrapponga la forza collet-
tiva dei lavoratori coesi per l’ottenimento di risultati viceversa difficil-
mente conseguibili. In questo ambito, beni individuali o collettivi – quali
possono ad esempio essere l’aumento del salario, la diminuzione dell’o-
rario lavorativo o lo sviluppo degli impianti di sicurezza dell’azienda – si
pongono sovente in termini di interessi (relativamente) finali rispetto al-
l’interesse strumentale all’astensione collettiva dal lavoro, che rappre-
senta il comportamento collettivo unitario (rectius: comportamenti indi-
viduali conformi) a cui più volte abbiamo fatto cenno. Si comprendono
allora le concezioni lato sensu solidaristiche dell’interesse collettivo che
sono il segnale della comune percezione di versare tutti nella medesima
condizione di svantaggio dalla quale non si esce da soli ma assieme. In
questi casi lo studioso è colpito dall’attività di coordinamento delle vo-
lontà umane che anticipa i comportamenti individuali uniformi e così è

73 SANTORO PASSARELLI, F., Nozioni di diritto del lavoro, Napoli, 1995, p. 29.
74 SANTORO PASSARELLI, F., Autonomia: d) Autonomia collettiva, in Enc. dir., IV, Milano,
1959, p. 369 ss., ma cit., p. 369-370 (c.vo mio).
75 Una non limpida distinzione delle due diverse prospettive sembra ricorrere in alcuni

passi di CARNELUTTI, F., Lezioni di diritto processuale civile, cit., p. 8; chiara, invece, è la so-
vrapposizione delle prospettive in JAEGER, P.G., L’interesse sociale, cit., p. 20, che, come già
visto, nell’interesse collettivo vede tanto il rapporto di coincidenza, quanto quello di solida-
rietà, che si realizza allorché sussista una strumentalità reciproca tra gli interessi, determinata
dal fatto che solo la collaborazione fra gli interessati permette il conseguimento del bene e il
contestuale soddisfacimento del bisogno.
76 SANTORO PASSARELLI, F., Nozioni di diritto del lavoro, cit., p. 29, (c.vo mio).
IL CONCETTO DI INTERESSE E DI INTERESSE COLLETTIVO 299

tratto in errore nel credere che per questa via si giunga alla nozione di in-
teresse collettivo77.
In realtà tutte le teorie che seguono questa strada non si avvedono
di operare una falsante sovrapposizione di prospettive, da tenersi al con-
trario separate, e non si avvedono che l’impiego del concetto di processo
di sintesi degli interessi, come nulla dice – in riferimento al singolo –
sulla nozione di interesse individuale, nulla dice – in riferimento ad una
collettività – sulla nozione di interesse collettivo.
Possiamo, dunque, parlare di interesse individuale-sintesi per voler
evidenziare le dinamiche che nel foro interno portano il soggetto a de-
terminare quale sia il suo interesse prevalente ed attuale; e possiamo pa-
rimenti fare – come visto – in riferimento ad una collettività entificata.
Tanto nel primo, quanto nel secondo caso il concetto di interesse-sintesi,
non incide sulla nozione strutturale (ovvero logico-relazionale) di inte-
resse (individuale o collettivo che sia), che è al contrario indipendente e
presupposta.

77 Esemplificative sono le osservazioni di MESSINA, G., I concordati di tariffe nell’ordi-

namento giuridico del lavoro, cit., p. 9-10, per il quale sussistono «relazioni di dipendenza che
legano ogni subietto ai suoi simili, relazioni che sfruttate convenientemente possibilitano ed
assicurano un’influenza nelle volontà individuali»; ma non si dimentichi GALIZIA, A., Il con-
tratto collettivo di lavoro, cit., p. 78, che evidenzia come «le volontà dei singoli non riman-
gono separate e distinte, né la volontà dell’associazione è una somma meccanica della volontà
dei singoli, ma queste, organicamente e armonicamente manifestandosi e coordinandosi, per
il raggiungimento dello scopo fissato nel contratto, si fondono in una volontà organica e
unica». All’interno della giurisprudenza amministrativa, v. Cons. St., sez. V, 27 novembre
1981, n. 613, in Cons. St., 1981, I, p. 1265 ss., secondo cui «la coesistenza nelle persone degli
associati delle due qualità (il singulus e l’universum), che può divenire divaricazione, fa sì che
l’organizzazione sindacale deve agire come unità e che l’interesse collettivo sindacale è inte-
resse unitario del gruppo, sotto la specie della reductio ad unitatem delle volontà, anche di-
vergenti, degli associati. Ecco perché l’interesse collettivo sindacale non è puramente e sem-
plicemente somma di interessi individuali, bensì sintesi, cioè superamento degli interessi dei
singoli nell’interesse dell’universitas, e l’area della legittimazione dell’associazione non coin-
cide con la somma delle aree dei singoli associati […], onde non vi è contraddizione […] tra
il negare la legittimazione dei singoli e l’affermare quella dell’associazione». Sull’interesse col-
lettivo in ambito sindacale, v. retro, il cap. II, § 4.1. s., nonché infra, cap. VII, in riferimento
all’azione ex art. 28 S.L., all’interno del quale ambito, particolare menzione merita la dottrina
di Garofalo, riportata specificatamente al § 3.1. Il fenomeno indicato nel testo trova piena
corrispondenza nelle osservazioni di PERSIANI, M., Diritto sindacale, Padova, 2005, p. 30, nel
quale si rimarcano le seguenti tre fondamentali questioni: a) la titolarità dell’interesse spetta
solo alle persone fisiche; b) l’indivisibilità dell’interesse è da cogliersi nella circostanza che
l’interesse non può che risultare soddisfatto o insoddisfatto per tutti (la relazione di compati-
bilità e concorrenza, appunto); c) la contrattazione collettiva ed ogni altra attività sindacale
mira comunque sempre alla realizzazione di interessi individuali.
300 CAPITOLO QUARTO

In definitiva, se il concetto di interesse è la tensione che si realizza


tra il soggetto ed una certa situazione valutata positivamente; se il soddi-
sfacimento dell’interesse si apprezza con il realizzarsi della situazione fa-
vorevole; e se, infine, gli interessi concorrenti sono quegli interessi com-
patibili in cui al soddisfacimento dell’uno consegue necessariamente il
soddisfacimento dell’altro, allora appunto possiamo ribadire che ciò che
va sotto il nome di interesse collettivo non è null’altro che un’insieme
– aperto o chiuso – di interessi individuali compatibili concorrenti.
La formula per rendere quanto si dice può essere la seguente:
Tizio↔
Caio↔
Sempronio ↔
} comportamento-XMevio

assumendo, come situazione favorevole, il comportamento di un soggetto


terzo rispetto alla ristretta comunità formata da Tizio, Caio e Sempronio.
Che poi la situazione favorevole, includa al suo interno un compor-
tamento collettivo, ovvero per realizzarsi necessiti o meno un’azione che
implichi il coordinamento di più iniziative, ciò non muta la struttura del-
l’interesse, che potrebbe, per ipotesi, dar luogo ad una formula del ge-
nere che riportiamo:
Tizio↔
Caio↔
Sempronio ↔
} comportamento-X Tizio +comportamento-X Caio +
comportamento-XSempronio

In ogni caso, insomma, il concetto di interesse collettivo, si coglie in


riferimento all’idoneità di una stessa situazione della realtà a soddisfare
più interessi e dimostrazione ne è data, per un verso, dal fatto che anche
passando attraverso il processo di sintesi, che uniforma le volontà, la
struttura formale dell’interesse collettivo non cambia o, per altro verso,
dal fatto che possono ben esservi ipotesi in cui è dato parlare di interesse
collettivo senza che ricorra la necessità di una previa attività di persegui-
mento collettivo dello stesso. Pensiamo al banale esempio del sole che
sorge ogni giorno; situazione che può essere agevolmente intesa – per ipo-
tesi – come favorevole per la collettività. A questa situazione favorevole
l’attività umana non prende parte, eppure, possiamo tranquillamente par-
lare di un interesse collettivo, intendendo per tale la serie di interessi in-
dividuali concorrenti soddisfatti ogni giorno dal sorgere del sole.
Se riportiamo queste considerazioni sul piano normativo, tutto sem-
bra incredibilmente più chiaro e si comprende non tanto e non solo –
IL CONCETTO DI INTERESSE E DI INTERESSE COLLETTIVO 301

cosa che dovrebbe oramai essere definitivamente appurata – che il pro-


cesso di sintesi degli interessi non ha nulla a che fare con loro struttura
formale, ma anche e soprattutto che lo stesso richiamo a detto fenomeno
è completamente fuori luogo nelle fattispecie legali che a noi interessano
in quanto giammai il verificarsi della situazione favorevole dipende dal
comportamento del soggetto titolare dell’interesse tutelato.
Ci spieghiamo meglio.
In tutti i rimedi giurisdizionali propriamente a tutela di interessi col-
lettivi, l’ordinamento tutela detti interessi mediante l’imposizione di ob-
blighi giuridici in capo a soggetti esterni al gruppo, cioè garantisce per
questa via che si realizzi una situazione della realtà favorevole per un in-
sieme aperto o chiuso di soggetti.
Come accade nelle fattispecie sostanziali volte a tutelare l’interessi di
natura individuale-esclusiva, in cui l’osservanza dell’obbligo opera il sod-
disfacimento dell’interesse stesso, così, anche in riferimento alle fattispe-
cie rivolte a tutela di interessi collettivi, è l’osservanza dell’obbligo legale
che realizza il soddisfacimento degli interessi individuali compatibili con-
correnti.
Si pensi alla tutela degli interessi collettivi dei consumatori ad esem-
pio. All’imprenditore sono imposti una serie di obblighi di varia natura
che nel loro insieme assicurano la sicurezza e correttezza del mercato. Il
realizzarsi di questa situazione favorevole – in altri termini, il bene col-
lettivo – dipende dal comportamento (positivo o negativo) del soggetto
obbligato ed è posto a vantaggio di tutti i singoli consumatori che si tro-
vano ad operare sul mercato. Gli interessi tutelati sono quindi gli inte-
ressi individuali compatibili concorrenti della comunità di consumatori,
più brevemente, l’interesse collettivo dei consumatori.
Chi, dunque, applica in questo caso, come in altri, il concetto di in-
teresse collettivo-sintesi78 per affermare l’esistenza di un interesse distinto
dagli interessi individuali dei singoli consumatori commette un doppio er-
rore: in primo luogo dimostra di non aver inteso correttamente la strut-
tura formale dell’interesse collettivo, che, in ogni caso, si presenta – come
dimostrato – quale insieme di interessi individuali tipicamente correlati;
in secondo luogo, procede all’applicazione di un schema formale di ra-
gionamento, ovvero il c.d. processo di selezione-sintesi degli interessi,

78 Ma nemmeno, ovviamente, il concetto di interesse collettivo-somma, che come l’altro

non ha alcun ruolo nello spiegare la struttura dell’interesse collettivo, che rappresenta una ti-
pica reazione di interessi individuali non traducibile né con il concetto di somma né con
quello di sintesi.
302 CAPITOLO QUARTO

laddove esso non ha alcuna ragion d’essere, visto che il soddisfacimento


dell’interesse non passa per un comportamento necessariamente collet-
tivo del gruppo, ma è garantito dalla legge mediante l’imposizione di ob-
blighi legali che gravano su soggetti terzi alla collettività.

8. Precisazioni sulla nozione di interesse diffuso, interesse generale ed in-


teresse pubblico
Alla luce di quanto sinora detto, dunque, possiamo concludere di-
cendo che quando l’interprete si confronta con azioni e rimedi giurisdi-
zionali posti a tutela di interessi collettivi, l’interesse materiale tutelato è
costituito da un’insieme di interessi individuali compatibili concorrenti.
Se ciò è vero, l’ulteriore passo che si desidera compiere è liberare il
campo da altre frequenti ragioni di confusione che hanno afflitto il di-
battito, talora in ragione di un effettivo fondamento concettuale, talaltra
per la sola consueta vischiosità ed evocatività che naturalmente il lin-
guaggio possiede.
Sul primo piano va apprezzata la contrapposizione tra interessi dif-
fusi ed interessi collettivi. Sul secondo, va invece colta la distinzione che
corre tra l’interesse collettivo, l’interesse generale e l’interesse pubblico.
Per quel che riguarda la prima questione, possiamo riprendere il filo
del discorso avviato nel terzo capitolo del volume.
In quella sede avevamo individuato tre diversi orientamenti classifi-
catori riguardo agli interessi sovraindividuali79. Emerge, infatti, dall’am-
pia letteratura in materia: una primo indirizzo monista, in cui gli interessi
genericamente sovraindividuali, collettivi o diffusi, sono accolti all’in-
terno di una stessa – sostanzialmente omogenea – categoria; una seconda
tesi dualista soggettiva, in base alla quale gli interessi collettivi si dovreb-
bero distinguere dagli interessi diffusi mediante l’applicazione dell’ele-
mento soggettivo-organizzatorio rappresentato dalla presenza di un ente
portatore e capace per questa via di operare la necessaria soggettivazione
di interessi prima appunto «adespoti», o «senza struttura», o comunque
«allo stato fluido»; e un terzo ed ultimo orientamento dualista oggettivo,
in cui la distinzione tra le due tipologie di interessi sovraindividuali an-
drebbe apprezzata in virtù di criteri oggettivi, come la non occasionalità,
la stabilità e determinabilità del gruppo di riferimento all’interno di una
indifferenziata collettività generale.

79 V. retro, cap. III, § 2.2.


IL CONCETTO DI INTERESSE E DI INTERESSE COLLETTIVO 303

Alla luce di quanto sin qui osservato, tanto la seconda concezione,


quanto la terza, non hanno fondamento teorico, ma derivano semplice-
mente dalla sovrapposizione di piani logici di riflessione da tener separati
e distinti80.
Gli argomenti che hanno evidenziato l’irrilevanza della distinzione
tra interesse collettivo sintesi o somma di interessi individuali in ordine
alla spiegazione della struttura dell’interesse collettivo sono perfetta-
mente idonei a dimostrare l’infondatezza delle concezioni che vedono nel
momento organizzatorio la vera e propria genesi dell’interesse collet-
tivo81. Anche qui si confonde l’ottica del perseguimento degli interessi
con l’apprezzamento della struttura dell’interesse collettivo, che invece
appare essere semplicemente quella particolare relazione di compatibilità
e concorrenza tra distinti interessi individuali determinata dalla circo-
stanza che un’unica situazione, con il suo avverarsi, è idonea a soddisfare
più interessi. Che poi, come già più volte ripetuto, sia talora necessario
che si realizzi un comportamento collettivo per garantire l’avverarsi della
situazione favorevole ciò non cambia nulla nella struttura dell’interesse.
Qui, evidentemente, la riflessione scientifica ha subito l’influsso della co-
mune percezione di esperienze fortemente caratterizzate (di cui un esem-
pio tipico abbiamo visto poter essere rappresentato dal diritto sindacale)
e peraltro ha trasposto questo modo di vedere il fenomeno in ambiti,
quali quello della tutela giuridica, in cui nemmeno si pongono le dinami-
che del necessario perseguimento collettivo dell’interesse. Si è commesso,
in altri termini, il doppio errore da noi rimarcato al termine del prece-
dente paragrafo.
Oltre a ciò, buon gioco ha avuto anche la tendenza a confondere
piano pregiuridico e piano giuridico, ossia – come già rilevato82 – la pro-
pensione a permettere che le difficoltà di ricondurre gli strumenti di tu-
tela tradizionale alle nuove esigenze collettive si ripercuotessero sull’ap-
prezzamento degli interessi sostanziali prima del loro incontro con le
questioni propriamente attinenti alla tecnica di tutela giuridica degli in-
teressi.
Per ciò che, invece, riguarda le concezioni dualiste oggettive, ovvero
le concezioni che si sono orientate nel distinguere gli interessi collettivi
da quelli diffusi in ragione dei caratteri di stabilità dei primi e della loro

80 Cfr. retro, cap. III, § 2.2.


81 Cfr. gli AA. cit., retro, nota 43.
82 Cfr. retro, cap. III, spec. §§ 2.4. e 2.5., ma anche le note 116 e 135, nonché infra il

prossimo capitolo per gli ulteriori e necessari approfondimenti.


304 CAPITOLO QUARTO

isolabilità all’interno dell’indeterminatezza soggettiva viceversa propria


degli interessi generali, è evidente che le riflessioni svolte addientro con-
ducano ad escludere anche questa tecnica di differenziazione. Difatti, po-
sta una situazione favorevole, sotto il profilo logico-formale è dato unica-
mente verificare quali relazioni logiche possano sussistere tra i diversi in-
teressi che a questa sono rivolti e queste relazioni sono già state indicate:
compatibilità, incompatibilità, strumentalità e concorrenza. Premessa
detta griglia concettuale possiamo distinguere all’insegna dei più diversi
criteri; è questa una questione di fantasia oltre che di utilità classificato-
ria. Potremo quindi parlare di interessi particolari contrapponendoli a
quelli generali (criterio tutto/parte) oppure di interessi (individuali) sin-
golari per distinguerli dagli interessi (individuali) plurimi (criterio
uno/più). Ma ciò, lo si ripete, costituisce un’operazione meramente clas-
sificatoria di una realtà già definita e non definenda. Sicuramente è er-
rore logico-concettuale contrapporre gli interessi individuali a quelli
pubblici, in quanto si contrappongono grandezze disomogenee. Il con-
trassegnare come pubblico un certo interesse non dice nulla, difatti, sulla
sua struttura formale, ma serve solo per evidenziare la natura doverosa
dell’attività che deve esser svolta per il soddisfacimento del medesimo. È
dunque questo un problema solamente giuridico e non lato sensu onto-
logico.
Possiamo concludere, quindi, rilevando che la stessa distinzione-
contrapposizione tra interesse individuale e interesse collettivo appare
fuorviante, in quanto in entrambi i fenomeni abbiamo a che fare con in-
teressi, che – in quanto tali – non possono che essere individuali, ossia
appartenenti all’individuo. Sarebbe più corretto, quindi, per differen-
ziare, distinguere tra interessi (individuali) esclusivi e interessi (indivi-
duali) collettivi. Nonostante questo, visto il lungo itinerario storico che
possiede la figura dell’interesse collettivo nonché quella dell’interesse in-
dividuale, proseguiremo a far uso di tale distinzione nel prosieguo del la-
voro, avendo peraltro ben presente che con il termine «interesse collet-
tivo» non indichiamo nulla di diverso – per ciò che attiene alla relazione
soggetto ↔ situazione – rispetto all’interesse individuale, ma solamente
un insieme di interessi individuali legati da quella tipica relazione di con-
correnza addietro chiarita.
CAPITOLO QUINTO

LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE:


LA TECNICA DEL DIRITTO SOGGETTIVO

SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. – 2. Esame critico delle diverse nozioni di di-


ritto soggettivo. – 2.1. Considerazioni introduttive. – 2.2. Il diritto soggettivo come
potere della volontà: critica. – 2.3. Il diritto soggettivo come posizione attiva di li-
bertà. – 2.3.1. I rapporti tra la possibilità di agire e l’obbligo nelle concezioni del
diritto soggettivo come posizione di libertà. – 2.3.2. Critica alla concezione del di-
ritto soggettivo come posizione di libertà. – 2.3.2.1. Considerazioni introduttive. –
2.3.2.2. La distinzione tra libertà e diritto. – 2.3.2.3. L’equivoco concetto di «li-
bertà protetta». – 2.4. Il diritto soggettivo come posizione di destinatarietà del-
l’obbligo o come facoltà di pretendere. – 2.5. Il diritto soggettivo nella prospettiva
delle diverse tecniche di protezione giuridica degli interessi. – 2.5.1. Il diritto sog-
gettivo dall’«interesse giuridicamente protetto» alla «protezione giuridica dell’inte-
resse». – 2.5.2. Il diritto soggettivo dalla «protezione giuridica dell’interesse» a
pura tecnica di tutela giuridica. – 2.5.3. Quadro esemplificativo di sintesi di alcune
possibili tecniche di tutela giuridica degli interessi. – 2.5.4. Considerazioni conclu-
sive. – 2.5.4.1. Critica al concetto di soggettivazione del diritto. – 2.5.4.2. Inscindi-
bilità della dimensione strutturale e funzionale: il diritto soggettivo come interesse
giuridicamente protetto mediante l’imposizione di obblighi sostanziali.

1. Considerazioni introduttive
Seguendo il criterio metodologico che in più occasioni abbiamo
avuto modo di ribadire, una volta acquisito il dovuto grado di certezza
sulla nozione di interesse collettivo e chiarito, dunque, che non ci rife-
riamo ad una «nebulosa dai contorni vaghi ed oscillanti»1 non traducibile
in un contesto giuridico scientificamente rigoroso, sono maturi i tempi
per confrontare detta nozione con le categorie dogmatiche più adatte a
rivestire la figura delle appropriate forme giuridiche e a veicolarla all’in-
terno dell’ordinamento.

1 PARDOLESI, R., Il problema degli interessi collettivi e i problemi dei giuristi, in Le azioni

a tutela di interessi collettivi (Atti del convegno di Pavia, 11-12 giugno, 1974), Padova, 1976,
(ma anche in Riv. trim. dir. proc. civ., 1975, p. 1520 ss.) p. 259 s.
306 CAPITOLO QUINTO

Nel terzo capitolo di questo lavoro è stata posta in risalto la diffi-


coltà e talora l’imbarazzo che la dottrina ha manifestato nel confrontare i
nuovi contenuti di tutela con le categorie tradizionali. In tale sede par-
lammo proprio di «limiti dell’ordinamento». A tal riguardo possiamo sin
d’ora dire che, come rilevato dalla dottrina2, tali limiti appartenevano –
per lo meno per ciò che riguarda fondamentalmente il piano sostanziale
– più alle concezioni dominanti, tra l’altro non sempre espressamente pa-
lesate e relative a talune categorie dogmatiche fondamentali, piuttosto
che all’ordinamento positivo concepito come prius rispetto all’opera di
sistemazione ed interpretazione giurisprudenziale e dottrinale.
Sul punto torneremo più avanti e non c’è ragione di anticipare con-
siderazioni che più agevolmente potremo svolgere a conclusione di que-
sto passaggio fondamentale del nostro lavoro che è per l’appunto volto
alla delicata fase della giuridicizzazione di tali interessi; ciò che per il mo-
mento va rimarcata è però quella sorta di repulsione, di rigetto, che ha
investito gli interessi collettivi sul piano tecnico-giuridico allorché si è
posta l’esigenza del loro riconoscimento.
Come visto, numerosi e autorevoli sono stati gli studiosi che si sono
impegnati – pur nelle differenti aree di appartenenza – nell’individuare la
più corretta ricostruzione dogmatica di detti interessi.
Se dovessimo indicare l’itinerario ricostruttivo prevalentemente se-
guito dalla dottrina dovremmo nuovamente rimarcare l’influenza che la
struttura attribuita a questi interessi sul piano pregiuridico ha svolto sulle
conclusioni cui addivenire circa la corretta situazione giuridica soggettiva
da chiamare in causa in ordine alla loro sistemazione dogmatica. Ad
esempio, le concezioni dell’interesse collettivo come aggregato di separati
interessi individuali hanno naturalmente condotto – come abbiamo visto
e vedremo ancora – a situazioni giuridiche soggettive tradizionali ed in
particolar modo, ovviamente, al diritto soggettivo; entità costruttiva ele-
mentare in un sistema privatistico posto in prevalenza a tutela di interessi
individuali. Al contrario gli orientamenti che hanno accolto l’opposta
concezione dell’interesse collettivo, ovvero la sua configurazione unitaria
ed inscindibile, si sono trovati in una situazione più complessa sul piano
della giuridicizzazione degli interessi. A monte di tale questione, infatti,
si è posto ineludibilmente il problema dell’imputazione del macro-inte-
resse ad un soggetto in grado di attivarne la tutela e più in generale di ga-

2 Così, già RUFFOLO, U., Interessi collettivi o diffusi e tutela del consumatore, I, Il pro-

blema e il metodo - Legittimazione, azione e ruolo degli enti associativi esponenziali, Milano,
1985, p. 130 s., su cui v. infra, cap. X, § 2.1.2.
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 307

rantirne la gestione, si è – per dirla più sinteticamente – dovuto rispon-


dere all’esigenza della soggettivazione dell’interesse; operazione necessa-
ria per dare a detti interessi l’unica struttura compatibile con i meccani-
smi di funzionamento del sistema3. Fatto questo, poi il problema della
giuridicizzazione dell’interesse si è solo in parte semplificato, perché l’at-
tribuir l’interesse di tutti ad uno non è stata cosa facilmente formalizza-
bile sul piano tecnico-giuridico. E così: o si è optato ancora – ma se-
guendo una linea ricostruttiva per certi versi sicuramente deformante –
per la figura del diritto soggettivo, ovviamente attribuito all’ente espo-
nenziale, o si sono scelte formule più vaghe o comunque figure eccezio-
nali, quali la legittimazione sui generis, la legittimazione straordinaria,
ecc.
Il fatto stesso, però, che l’opera di distinzione tra piano pre-giuri-
dico e piano propriamente giuridico non sia stata mai effettivamente as-
sunta come criterio di metodo essenziale ai fini ricostruttivi, dimostra,
sotto altro profilo, come in realtà – sebbene in talune ricostruzioni più
nettamente sia apparso quanto le categorie e le concezioni dogmatiche
dominanti abbiano inciso, operando a ritroso, sull’apprezzamento della
natura di questi interessi4 – un processo di tal fatta abbia comunque
coinvolto tutta la riflessione sugli interessi collettivi.
Per dirla in termini più concreti, l’iter logico-ricostruttivo più cor-
retto doveva essere il seguente: prima comprendere che natura avessero
detti interessi e poi capire se detti interessi, una volta divenuti giuridica-
mente protetti (per usare una formula tanto semplice quanto generica,
come vedremo)5, dovessero essere predicati in termini di diritti sogget-
tivi, interessi legittimi, azioni popolari, mere azioni e così via. Al contra-
rio la dottrina è stata gioco forza influenzata dalle difficoltà che si ri-
scontravano nel far rientrare questi interessi nelle «scatole» concettuali
tradizionalmente note o tradizionalmente concepite e da dette difficoltà
ci si è più o meno consapevolmente mossi per percorrere la strada che
dall’apprezzamento di talune particolari esigenze di protezione conduce
alla loro tutela giuridica, invertendo – così – l’intinerario ricostruttivo
corretto.

3 Per tutti, v. SANDULLI, A.M., Considerazioni conclusive e di sintesi (in tema di parteci-

pazione e giustiziabilità), in Giustizia amministrativa e attuazione della Costituzione, I, Con-


trolli, Istruzione, Partecipazione, Padova, 1985, p. 86 ss., ma spec. p. 90, sulle cui puntuali os-
servazioni v. retro, cap. III, spec. nota 59.
4 Per tutti, v. la posizione di Massimo Severo Giannini, con particolare riguardo alla di-

stinzione tra interesse collettivo e interesse diffuso (cfr. retro, cap. III, §§ 2.4. e 2.5.).
5 Cfr. infra, §§ 2.5.1. ss.
308 CAPITOLO QUINTO

Valga un esempio per tutti: come fare a ricondurre alla nozione di


diritto soggettivo una serie infinita ed indeterminata di interessi che tra
l’altro si presentano a contenuto – come si è più volte rilevato – non ap-
propriativo ma meramente conservativo?
Tale domanda, peraltro, nella sua apparente specificità, rappresenta
a ben vedere un pertugio attraverso cui volger la vista verso orizzonti ben
più ampi.
Il punto su cui si vuole attirare l’attenzione è in sostanza il seguente:
sul tema a noi caro ha gravato da sempre non solo la profonda incertezza
di una nozione – quella di interesse con le sue derivazioni (interesse col-
lettivo, diffuso, sovraindividuale ecc.) – mai propriamente definita ma
ciononostante da tutti utilizzata pur nella perenne plurivalenza concet-
tuale che le appartiene (utilità, bisogno, tensione, aspirazione, situazione
favorevole, ecc.)6, ma anche il difficile inquadramento di certi meccani-
smi di tutela giuridica non agevolmente riconducibili sotto il pur ampio
ed accogliente ombrello del diritto soggettivo. Sotto questo profilo la te-
matica degli interessi collettivi è – si perdoni il termine ma rende bene l’i-
dea – incappata in una tematica ben più grande e complessa, a cui tra
l’altro appartengono tutte quelle forme di tutela che, con la nozione di
diritto soggettivo, da sempre non si sono trovate granché a proprio agio.
Se ne dà un elenco esemplificativo che non è tratto chissà da dove,
ma proprio dalla letteratura in materia di interessi collettivi. Abuso del
diritto, interesse legittimo di diritto privato, diritto giudiziario, mera
azione, legittimazione straordinaria, giurisdizione sui fatti, giurisdizione a
contenuto oggettivo, ecc. Tutte figure ed istituti che sovente la dottrina
ha – pur nelle più disparate impostazioni dogmatiche, pur in riferimento
a fattispecie ben diverse tra loro e pur, ciò che più importa, procedendo
da difformi concezioni dell’interesse collettivo – dovuto richiamare per
dare adeguata spiegazione ed interpretazione agli strumenti di tutela di
tali interessi.
Piero Calamandrei, nel celebre saggio su La relatività del concetto di
azione, intervenendo nella nota polemica sugli orientamenti della scienza
del processo, valutava le diverse teorie sulla nozione quali «altrettante
tappe di questo graduale impoverimento del diritto soggettivo di cui l’e-
voluzione del concetto di azione non è che un riflesso teorico» e nel far
ciò indicava taluni e significativi esempi di questo itinerario segnante
l’«opera di erosione» degli «elementi corporei del concetto di azione»: le
sentenze costitutive necessarie, le sentenze determinative o dispositive, la

6 Cfr. retro, cap. IV, §§ 2. e 3.


LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 309

giustizia amministrativa come giurisdizione di diritto oggettivo ed infine


i casi in cui «il potere di provocare il provvedimento giurisdizionale è
conferito a persone diverse dai soggetti del rapporto controverso: si
pensi, per esempio, a certi provvedimenti che nel campo dei diritti di fa-
miglia possono essere provocati da persone non direttamente interessate
al rapporto, ma appartenenti a una categoria di legittimati che la legge in
certi casi fa coincidere con la ristretta cerchia famigliare, ma in certi altri
casi può allargarsi fino a comprendere genericamente tutti gli interessati
[…] o addirittura, come avviene nella figura limite dell’azione popolare,
a quisquis de populo»7.
Se l’illustre studioso avesse scritto in costanza del dibattito succes-
sivo sugli interessi collettivi sembra ragionevole ritenere che detta pro-
blematica avrebbe potuto meritare un posto d’onore nell’ultima catego-
ria indicata.
Più avanti avremo occasione di ritornare su queste osservazioni, spe-
cie per porci l’attraente quesito se le ipotesi indicate dalla dottrina richia-
mata rappresentino effettivamente casi di manifesta crisi del diritto sog-
gettivo oppure se tale crisi sia un effetto apparente dovuto alla difettosa
prospettiva dalla quale si guarda a tale fenomeno; per il momento ciò che
va posto in evidenza è la sottile linea rossa che unisce tutti gli istituti
richiamati; e tale è la seguente: la tematica concernente la tutela giurisdi-
zionale degli interessi collettivi si trova collocata assieme alle altre in quel
cono d’ombra che la nozione di diritto soggettivo necessariamente
proietta sull’ordinamento allorché lo si voglia concepire (o, meglio, perce-
pire) essenzialmente8 come entità appartenente ed al servizio del soggetto.
Se quanto ora rilevato corrisponde al vero – e avremo modo di con-
statarlo –, allora la questione relativa alla corretta veste dogmatica da at-
tribuire a questi interessi acquista non solo una posizione meramente
consequenziale alla loro previa definizione sul piano latu sensu ontolo-
gico, ma anche una sua rilevantissima posizione autonoma; e ciò sia per
il fatto che essa rappresenta una specificazione del dibattito sul concetto
di diritto soggettivo, sia perché all’interno della riflessione dedicata allo
studio degli interessi collettivi, detta necessità di inquadramento dogma-

7 CALAMANDREI, P., La relatività del concetto di azione, in Riv. dir. proc., I, 1939, p. 22 ss.,

ora in Opere giuridiche, I, Napoli, 1965, p. 427 ss., ma cit., p. 444 (da cui trarremo i passi ri-
portati nel testo).
8 Il vocabolo è utilizzato nel testo nella sua accezione più piena, ovvero riferita all’«es-

senza»; e ciò poiché – come vedremo nel prosieguo – la letteratura sull’argomento proprio
all’«essenza» del diritto soggettivo guarda sempre per ricavare il criterio sicuro per giungere
alla corretta definizione dello stesso.
310 CAPITOLO QUINTO

tico ha rappresentato un passaggio centrale se non talora assorbente – ed


in questo senso appunto pregiudiziale – in ordine alla risoluzione dei de-
licati problemi che più in generale appartengono alla materia.
All’interno del dibattito avviatosi a partire dagli anni Settanta vi
erano state talune voci – a dir il vero poche – che avevano indicato quale
strada privilegiata per accostarsi con profitto al tema degli interessi col-
lettivi e diffusi quella di confrontarsi direttamente ed ex novo con la no-
zione di diritto soggettivo, ponendone da parte una nozione unitaria a
vantaggio dell’affermazione di un ampio novero di situazioni sostanziali
protette. In particolare si era evidenziata l’opportunità di introdurre
nella categoria delle situazioni soggettive il «concetto di intensità» della
tutela giuridica, individuando di volta in volta, all’interno di connotati
comuni generalissimi, gli specifici presupposti (oggettivi e soggettivi) al
ricorrere dei quali è concessa la tutela ed i limiti entro i quali questa è
concessa9. Altri, come già visto, avevano anche rilevato come «i caratteri
di collettività e persino di diffusione, che si presentano allorché sia con-
figurabile una pluralità di interessi di eguale contenuto in ordine ad un
medesimo ambito di utilità, non sono assolutamente incompatibili con
l’individualizzazione immanente alla struttura del diritto soggettivo»10.
Altri ancora – cogliendo veramente il punto – affermavano che «il fatto
stesso di chiedersi come fare a portare tali situazioni davanti al giudice ci-
vile presuppone che sia possibile attribuire loro la qualifica di diritti sog-

9 Per tutti, v. RUSSO, E., Interessi diffusi e teoria delle situazioni soggettive, in Vita nota-

rile, 1979, p. 793 ss., ma cit., p. 796 ss., che in un certo senso si spinge anche oltre, lungo una
linea di pensiero secondo cui occorrerebbe prendere atto del «passaggio, per la tutela di certi
interessi, da un sistema fondato sul diritto soggettivo o su un interesse qualificato, ad un si-
stema di actiones». Sul punto cfr. retro, cap. III, nota 78. La prospettiva indicata ha trovato
ulteriore e recente svolgimento nella voce Diritto soggettivo, I, Teoria generale, in Enc. giur.
Trec., Roma, XI, 2005. Sulla posizione dell’A. appena richiamato ci soffermeremo tra breve
(cfr. infra, nota 25), va sin d’ora detto, peraltro, che la prospettiva consistente nel negare alla
nozione di diritto soggettivo la capacità di accogliere al suo interno tutte le diverse forme di
tutela e l’alternativa opzione rappresentata dall’operare una graduazione tra diverse situazioni
soggettive rappresentano entrambe soluzioni a nostro parere inopportune; e ciò perché, così
procedendo, da un lato, si incide sull’armonia sistematica dell’ordinamento, che è garantita
anche dalla centralità del concetto di diritto soggettivo (cfr. ad es. l’art. 24 Cost., per quel che
attiene ai rapporti tra diritto sostanziale e processuale), e, dall’altro, si tende ad edificare ele-
menti strutturali nuovi (situazioni giuridiche soggettive) in ragione della mera differenza di
intensità della tutela apprestata, confondendo così profili strutturali e funzionali nello studio
del diritto.
10 Sono le osservazioni di CORASANITI, A., Profili generali di tutela giurisdizionale contro

il danno ecologico, in La responsabilità dell’impresa per danni all’ambiente e ai consumatori,


Milano, 1978, p. 40 ss., ma cit., p. 47.
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 311

gettivi o […] quella di interessi legittimi»; e chiosavano coerentemente


affermando che «pertanto, è pregiudiziale ad ogni discorso in subiecta
materia un problema di qualificazione giuridica e, vale a dire, una analisi
di diritto sostanziale che consenta di individuare i fenomeni cui può at-
tribuirsi la qualifica di interessi collettivi o diffusi»11.
Questa direttrice di studio, peraltro, pur a fronte della generale con-
sapevolezza circa l’opportunità di una rinnovata riflessione su taluni con-
cetti generali della dommatica tradizionale, è rimasta nel tempo senza
sufficiente svolgimento concreto, ed al contrario, se, da un lato, si è rile-
vata l’inadeguatezza di talune formule ricostruttive tradizionali, dall’al-
tro, tali formule sono state ciononostante applicate ai fini interpretativi,
predeterminando ingiustificatamente i risultati della stessa ricostruzione
giuridica. Valga come esempio il seguente, logoro, sillogismo:
– il diritto soggettivo è situazione giuridica soggettiva posta a tutela
di interessi individuali;
– gli interessi collettivi non sono interessi individuali;
– gli interessi collettivi non possono essere predicati come diritti
soggettivi.
In altri termini, il dibattito sugli interessi collettivi – sebbene diret-
tamente o indirettamente ne sia stata rilevata l’opportunità – non si è mai
posto come dibattito attorno al diritto soggettivo. Nella letteratura in ma-
teria non vi è uno studioso che nel raffrontare tale ignota figura dell’in-
teresse collettivo col diritto soggettivo – tanto per predicarne l’assimila-
zione, quanto per sostenerne l’irriconducibilità – quantomeno precisi a
quale nozione di diritto soggettivo ritiene più opportuno riferirsi!
Le cose ad esempio si pongono in maniera diversa tra gli ammini-
strativisti. Sarà che la figura dell’interesse legittimo rappresenta un can-
tiere sempre aperto, ma non v’è dubbio che in questo settore di studio il
problema della tutela degli interessi collettivi e diffusi ha sovente coin-
ciso con l’operazione di chiarimento/adeguamento della nozione di inte-
resse legittimo12.

11 COSTANTINO, G., Contributo allo studio del litisconsorzio necessario, Napoli, 1979, p.
10-11.
12 Si vedano in particolare i contributi di Romano (specie la monografia Giurisdizione

amministrativa e limiti della giurisdizione ordinaria, Milano, 1975), Ferrara (sin dal Contributo
allo studio della tutela del consumatore, Profili pubblicistici, Milano, 1983, e poi in Gli interessi
superindividuali fra giudice amministrativo e processo: problemi e orientamenti, in Dir. proc.
amm., 1984, p. 48 ss.; Interessi collettivi e diffusi - ricorso giurisdizionale amministrativo, in
Dig. disc. pubbl., Torino, 1993, p. 481 ss.; Commentario breve alle leggi sulla giustizia ammi-
nistrativa, a cura di A. Romano, Padova, 2001, p. 364), Cresti (Contributo allo studio della tu-
312 CAPITOLO QUINTO

Nel giudizio civile il tema degli interessi collettivi e diffusi si è posto,


invece, più che prevalentemente, come questione di legittimazione, ov-
vero come questione presupponente la previa determinazione del quid
sostanziale da far valere in giudizio13.
In conclusione, le osservazioni ora avanzate pongono in rilievo
quanto delicata, decisiva e necessaria sia la fase dell’inquadramento dog-
matico degli interessi collettivi nella prospettiva della loro giuridicizza-
zione e indicano come detta operazione debba innanzitutto porre il suo
centro di gravitazione in un esame critico della diverse nozioni di diritto
soggettivo.
Il prosieguo dell’indagine non solo darà agevole conferma della cor-
rettezza di questa direttrice di studio, ma offrirà spunti di riflessione inat-
tesi e assai fruttuosi per la soluzione di molte incertezze che da sempre
affliggono il tema nostro di ricerca e non solo.

2. Esame critico delle diverse nozioni di diritto soggettivo


2.1. Considerazioni introduttive
Se le osservazioni che precedono danno corpo alla necessità di rico-
gnizione critica delle principali nozioni che la dottrina tradizionale ha
elaborato riguardo la centrale figura del diritto soggettivo è pur vero che
tale oggetto di studio rappresenta un tema di riflessione che – sebbene
trattato incidentalmente – fa tremare i polsi tanto è sterminata la lettera-
tura sul punto e tale è l’autorevolezza degli studiosi intervenuti in mate-
ria. Per poter penetrare con un certo profitto nel coacervo delle infinite
nozioni e degli altrettanto infiniti percorsi ricostruttivi è dunque quanto
mai opportuno premettere qualche breve riflessione introduttiva volta a
fornire al lettore delle prime indicazioni di sintesi che servano da orien-
tamento all’interno del più ampio discorso che stiamo per svolgere.
Innanzitutto, specie in ragione del supremo valore evocativo che ap-
partiene alla figura in questione, è essenziale palesare – pur a fronte di
una possibile accusa di ovvietà – la scelta «strategica» che informa le ri-
flessioni che andiamo a svolgere nelle pagine che seguono.

tela degli interessi diffusi, Milano, 1992), sulle cui posizioni v. le riflessioni svolte retro, cap.
III, spec. note 93, 97 e 99.
13 Sotto questo profilo il dibattito esposto nel capitolo III rappresenta una esemplifica-

zione particolarmente significativa; volendo entrare più nello specifico, v. ad esempio l’ampio
lavoro di VIGORITI, V., Interessi collettivi e processo, cit., spec. p. 65 ss., tutto incentrato sul
tema della legittimazione ad agire e senza riferimento alcuno al concetto di diritto soggettivo.
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 313

Il tema del diritto soggettivo, infatti, è suscettibile di infiniti piani di


studio: filosofico, antropologico, psicologico, linguistico, dogmatico,
ecc14. E su ognuno di questi diversi piani sarebbe possibile tracciare un
profilo storico della nozione o dell’idea. Non si tratta solo di distinte pro-
spettive da cui guardare lo stesso fenomeno. Chi muovesse da questa
convinzione incorrerebbe in un fatale errore di superficialità. Più corret-
tamente, sotto il comune intento speculativo, attorno alla figura possono
celarsi materie di riflessione non sempre omogenee. La pluridimensiona-
lità dell’oggetto delle nostre attenzioni deve, dunque, necessariamente,
condurre ad una rigorosa selezione della prospettiva d’indagine prescelta
e ciò, ovviamente, in stretta aderenza ai problemi che si intendono risol-
vere, ovvero agli obiettivi prefissati.
Per uscir dalla genericità delle parole, si rifletta ad esempio sul fatto
che uno studio teorico sulla nozione di diritto soggettivo che sia rivolto a
cogliere la stessa nella sua connotazione tecnica, ovvero quale strumento
di tutela degli interessi sostanziali, si disinteressa dell’indagine sul «di-
ritto», ovvero delle connessioni del concetto con istanze di giustizia ma-
teriale. Anche questo aspetto, evidentemente fondamentale in un profilo
storico-ideologico-filosofico della figura, è e deve rimanere esterno al
percorso tracciato da un’indagine a carattere formale sul concetto di di-
ritto soggettivo. È un dato ormai acquisito, infatti, che il campo della
scienza giuridica («quid iuris?») vada tenuto ben distinto – salvo poi non
compararne i risultati rispettivamente ottenuti – da quello («quid ius?»)
della filosofia15.
Un secondo ordine di osservazioni, anch’esso di carattere generale,
è legato al noto tema della relatività dei concetti giuridici16.
Come autorevolmente evidenziato17, ad ogni sistemazione giuridica
appartiene un ineliminabile grado di arbitrarietà, legata quest’ultima al-

14 Un’ampia panoramica dei diversi piani di studio la si trova in GRAZIADEI, M., Diritto

soggettivo, potere, interesse, in Trattato di diritto civile, diretto da R. Sacco, La parte generale
del diritto civile, 2, Il diritto soggettivo, Torino, 2001, p. 3 ss.
15 Per tutti, v. DEL VECCHIO, G., Lezioni di filosofia del diritto, Milano, 1948, p. 2; ID.,

Il concetto del diritto, Bologna, 1906. Cfr. poi il saggio di BOBBIO, N., Filosofia del diritto e teo-
ria generale del diritto, in Scritti giuridici in onore di F. Carnelutti, I, Padova, 1950, p. 43 ss.,
nonché il noto lavoro monografico sviluppato sul medesimo argomento ID., Teoria generale
della scienza giuridica, Torino, 1950.
16 Sul tema, v. i classici scritti di Salvatore Pugliatti, Arturo Carlo Jemolo, Guido Calo-

gero e Widar Cesarini Sforza, di recente raccolti e ripubblicati da Giuffrè nel volume La po-
lemica sui concetti giuridici, a cura di N. Irti, Milano, 2004.
17 Cfr. infra, note 20-22.
314 CAPITOLO QUINTO

l’unilateralità del punto di vista prescelto per confrontarsi col fenomeno


giuridico e alla storicità – intesa come intrinseca mutevolezza – del dato
giuridico stesso.
Questa osservazione di metodo, indiscutibile nel suo nucleo di ve-
rità, deve essere però essa stessa relativizzata e propriamente assunta
come uno dei diversi indici di orientamento. Non è sufficiente, infatti,
che l’attività di elaborazione dei concetti giuridici si traduca in un’attività
classificatoria logicamente fedele ai criteri di classificazione – questi sì ar-
bitrariamente – a priori adottati. L’essenziale valore strumentale che al di-
ritto – quale prodotto dell’uomo e per l’uomo – appartiene deve infatti
conformare l’interpretazione giuridica in ogni suo aspetto. In altri ter-
mini, se lo studio del diritto si palesa ontologicamente come scienza
«praticamente orientata»18, allora l’opera classificatoria dei concetti deve
essere non solo formalmente corretta, ma praticamente utile.
Questa direttiva di metodo, calata nello specifico tema dello studio
delle situazioni giuridiche soggettive, si traduce innanzitutto in termini di
forte diffidenza nei riguardi di ogni prospettiva ricostruttiva che conduca
a concepire tali situazioni come sovrastrutture rispetto alla norma. Ci ri-
feriamo alla tendenza entificante, stigmatizzata da autorevolissime voci
del dibattito scientifico19, che, sebbene lungo distinti percorsi tecnico-ri-

18 L’espressione è presa da FALZEA, A., Efficacia giuridica, in Enc dir., XIV, Milano,
1965, p. 432 ss., ma p. 500.
19 L’A. che ha sviluppato con maggior argomenti la tipica tendenza all’ontologismo che

appartiene agli studi attorno al concetto di diritto soggettivo, è sicuramente Riccardo ORE-
STANO nella voce Azione (storia del problema), in Enc. dir., IV, Milano, 1959, p. 785 ss. e nel
saggio Diritti soggettivi e diritti senza soggetto, linee di una vicenda concettuale, in Jus, 1960,
p. 149 ss., ora in Azione, diritti soggettivi, persone giuridiche, Bologna, 1978, rispettivamente
p. 11 ss. e p. 113 ss., ma spec. 71 ss. e 173 ss. Ma l’insegnamento in questione ci giunge an-
che da illustre dottrina processualistica, v., infatti, SATTA, S., Interesse ad agire e legittimazione,
in Foro it., 1954, IV, p. 169 ss., ma spec. p. 171, che tra l’altro precisa a piè di pagina come le
idee esposte nello scritto or ora citato siano state oggetto di «comune meditazione e discus-
sione col collega carissimo Riccardo Orestano»; ALLORIO, E., L’ordinamento giuridico nel pri-
sma dell’accertamento giudiziale, in Problemi di diritto, I, Milano, 1957, p. 3 ss., ma spec. p.
83; ID., Saggio polemico sulla «giurisdizione» volontaria, in Problemi di diritto, II, Milano,
1957, p. 3 ss., ma spec. p. 53; IRTI, N., Introduzione allo studio del diritto privato, 1990, spec.
p. 48. Sulla questione, in particolare riferimento alla giurisprudenza dei concetti, v. le fonda-
mentali pagine di WIEACKER, F., Storia del diritto privato moderno con particolare riguardo alla
germania, II, Milano, 1980, p. 123 ss., ove si afferma che «per tener l’occhio sulla forza ger-
minale della “costruzione produttiva”, questo tipo di Giurisprudenza concettuale finisce con
il perdere di vista che tutti i principi e concetti giuridici si fondano su norme e su complessi
di norme e quindi sono affermazioni concernenti un dover essere giuridico e non un essere
materiale».
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 315

costruttivi o comunque alla luce di pur diverse premesse lato sensu ideo-
logiche, ha condotto – e inesorabilmente conduce tutt’ora – alla crea-
zione di astrazioni concettuali che, più o meno figlie in origine della
norma o delle norme, finiscono per rendersi autonome rispetto ad esse e
mutare il loro stato di fattore condizionato in fattore condizionante. Tale
tendenza va guardata con sospetto in quanto genera sovrastrutture che,
inserite nel tessuto ricostruttivo, possono determinarvi una necessaria
piega ogni qual volta a tali entificazioni concettuali si debba ricorrere20.
Di ciò, l’esperienza dottrinale e giurisprudenziale relativa agli interessi
collettivi è prova schiacciante (oltre che sconfortante).
In estrema sintesi, la direttrice di metodo che sembra dover essere la
guida di ogni riflessione sul punto è quella precisamente chiarita dalle
parole di Enrico Allorio: «il diritto soggettivo non è, né una realtà natu-
rale riposta […], né alcunché di necessariamente connaturato con le
norme, quasi una proiezione di esse. Si tratta invece di una nozione di
comodo, cui si dà un contenuto e si attribuiscono confini, che […] ri-
spondono a un utile intento sistematico»21.

20 «Di fronte alla serie infinita dei comportamenti individuali, di fronte ai rapporti in-
tersoggettivi e alle aggregazioni sociali, di fronte alle strutture organizzative e ai loro elementi
normativi impliciti, di fronte alle credenze e alle ideologie che su questi fatti si creano e si in-
trecciano, di fronte a quella che con espressione riassuntiva abbiamo chiamata “realtà con-
creta’, il giurista è portato a costruire su di essa una rete di concetti (i “suoi” concetti) con i
quali cerca di coglierla, di analizzarla, di descriverla, di possederla, di dominarla, di ordinarla,
di volerla spesso ricondurre a schemi tipici, di plasmarla, di vincolarla. Da qui l’incessante
formarsi – a miriadi – di metafore, di immagini, di figure, di moduli, di stereotipi, di catego-
rie, di simboli, di miti e altre forme intellettive che sono sempre e soltanto il risultato di “rap-
presentazioni” empiriche basate sull’esperienza. […] Tali nozione astratte svolgono in qua-
lunque discorso una funzione vicariale della realtà, tanto più accentuata quanto più forte è il
distacco dai fatti sui quali ciascuna esperienza si è costituita. […] Il processo di “reificazione”
delle astrazioni, nel senso di attribuir loro un valore di sostanze, è evidente in più campi. Ma
certo è di assoluta chiarezza nell’esperienza giuridica, in cui spesso le concettualizzazioni dei
fatti finiscono poi per porsi […] sul piano dei fatti medesimi, generando a loro volta nuovi
fatti, nuove astrazioni enuova esperienza […]. Le astrazioni fanno parte – inovviabilmente –
del nucleo primario, costitutivo della scienza iuris e ad esse sono da ricondurre gli altri pro-
cedimenti in cui si concreta l’attività di ogni giurista. Ma proprio per questo è assolutamente
indispensabile che ciascuno si renda cosciente – con lucidità estrema – delle implicazioni e
dei limiti che queste comportano. Le astrazioni sono infatti in primo luogo “strumenti” del
pensiero», così, ORESTANO, R., Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna, 1987, p.
396 ss.
21 ALLORIO, E., L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale, cit., p.

90. Per questa questione di metodo, tanto ovvia quanto frequentemente disattesa in dottrina,
cfr. le puntuali osservazioni di TAVORMINA, V., Contributo alla teoria dei mezzi di impugnazione
delle sentenze, Milano, 1990, p. 4, nota 3 ed ancor prima l’ammonimento di REDENTI, E., Il
316 CAPITOLO QUINTO

Sulla scorta di queste osservazioni vien naturale anticipare la consta-


tazione secondo cui, nell’itinerario storico-dogmatico che ci apprestiamo
ad intraprendere, è agevole rilevare una linea evolutiva progressivamente
orientata verso l’affrancazione del concetto di diritto soggettivo dalla sua
stessa idea, da quella sua immagine tradizionale, storicamente e ideologi-
camente determinata, appartenente ad una dimensione separata e a priori
rispetto alla norma.
Anche in questo itinerario «sulle definizioni» è evidente la meta-
morfosi a cui è necessariamente sottoposta la nozione che a noi qui inte-
ressa nel momento in cui, nel conflitto tra diritto soggettivo e regola, il
primo termine non si pone più come vero antagonista del secondo, ma
anch’esso si presenta come un quid che vi deve essere ricondotto. È que-
sto il momento che sul piano teorico contrassegna ciò che viene comu-
nemente detta la crisi del diritto soggettivo22: non la crisi ideologica23, ma
la sua crisi dogmatica. La stessa vicenda della progressiva affermazione
del concetto di situazione giuridica e del frequente moltiplicarsi delle fi-
gure a tale genus riconducibili rappresentano due connesse manifesta-
zioni di questa crisi.
Come a questa crisi può in un certo senso ricondursi il tema stesso
degli interessi collettivi e diffusi. Solo in un certo senso, peraltro, poiché
– in realtà – l’emersione della problematica attorno cui da tempo oramai
svolgiamo la riflessione non rappresenta – come avremo modo di vedere
– un momento di crisi di quello strumento giuridico che convenzional-
mente chiamiamo diritto soggettivo, ma solo di specifiche e ben conno-
tate – oltre che inadeguate – modalità di rappresentazione dello stesso.

giudizio civile con pluralità di parti, Milano, 1911, p. 24: «i concetti di entità giuridiche, che
ciascuno può foggiare a proprio talento, sono infiniti, illimitati; ma solo quelli, che possono
servire di ausilio alla soluzione dei problemi giuridici e cioè in sostanza all’integrazione del
corpo del diritto, meritano di essere introdotti per così dire nel commercio scientifico da
prima e nel commercio volgare di poi, in materia di diritto. Onde non basta dimostrare che
un proprio preteso concetto non è assurdo o contraddittorio in se stesso e che non contrad-
dice alla legge, per essere legittimati ad avvalersene in una esposizione o discussione scienti-
fica; occorre dimostrare che esso ha valore pratico nel senso sopra veduto. Ciò sembra aver
dimenticato la moderna scienza giuridica, soprattutto del diritto processuale, onde ci dibat-
tiamo in un pelago di concetti e concettuzzi individuali e personali ed arbitrarii, senza poter
giungere a quella feconda collaborazione collettiva, da cui solo può emergere la invocata for-
mazione del sistema».
22 Cfr. ad es. BALLADORE PALLIERI, G., Diritto soggettivo e diritto reale, in Jus, 1952, p.

1 ss.
23 Su cui, per tutti, v. LA TORRE, M., La lotta contro il diritto soggettivo: Karl Larenz e la

dottrina giuridica nazional socialista, Milano, 1988.


LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 317

2.2. Il diritto soggettivo come potere della volontà: critica


L’indagine che ci siamo appena proposti di svolgere non può che
prendere il suo avvio dalla celebre definizione da tempo avanzata da
Windscheid e anche di recente rilanciata all’interno della dottrina no-
strana24; definizione secondo cui il diritto soggettivo è «una potestà o si-
gnoria della volontà impartita dall’ordine giuridico»25. Tale nozione trova
fondamento nel fatto che «del diritto come facoltà (diritto in senso sog-
gettivo, diritto soggettivo) si parla in doppio senso». E più precisamente:
«diritto ad un determinato comportamento, fatto o omissione, delle per-
sone, che si trovano di fronte al titolare, o di una singola persona» op-
pure, «quando p. es. si dice, che il proprietario ha il diritto di alienare la
cosa sua, che il creditore ha il diritto di cedere il suo credito, che ad un

24 RUSSO, E., Diritto soggettivo, I, cit., su cui, v. la nota che segue.


25 WINDSCHEID, B., Diritto delle pandette, tradotto e annotato da C. Fadda e P.E. Bensa,
Torino, 1902, I, 1, p. 169 ss. Alla definizione di Windscheid aderisce di recente, come già ri-
cordato, RUSSO, E., Diritto soggettivo, I, cit., spec. p. 3 ss. (di cui v. anche ID., Le nozioni ge-
nerali del diritto civile, Padova, 2005, p. 99 ss.), il quale afferma la «straordinaria vitalità della
formulazione di Windscheid», visto che, «a prescindere dagli omaggi di facciata alla statalità
del diritto», in tale definizione emergono il «carattere disponibile e dispositivo della norma ci-
vile». In una concezione marcatamente ontologica del diritto soggettivo, prevalentemente
prodotta – nell’opinione dell’A. – da una ricognizione di diritto positivo, i caratteri essenziali
del diritto soggettivo vengono ad essere individuati nella necessaria «patrimonialità», nella
«disponibilità», nell’«esclusività» e nell’«assolutezza». Tutte le situazioni sostanziali che non
presenterebbero tali caratteristiche dovrebbero pertanto essere escluse dal concetto tecnico
di diritto soggettivo (p. 7, 10, 14). L’opzione concettuale ora indicata solleva, peraltro, diverse
ragioni di perplessità. In primo luogo, sulla base della ricognizione di alcuni dati normativi –
arbitrariamente selezionati –, che l’A. ritiene significativi e confermativi della giustezza del-
l’intuizione di Windscheid, si giunge a costruire il concetto di diritto soggettivo come situa-
zione giuridica complessa in cui rientrano diverse situazioni giuridiche elementari tra cui, pe-
raltro, anche il diritto di azione (p. 13) oltre che il diritto di disporre della situazione stessa
(p. 11). A nostro giudizio, invece, costruire queste macro-situazioni giuridiche soggettive che
si presentano come sintesi ed aggregati di diversi effetti derivanti da distinte disposizioni nor-
mative costituisce operazione teorica inopportuna, sebbene dotata di un’indubbia utilità de-
scrittiva dei diversi istituti; e ciò poiché tale modalità rappresentativa tende inesorabilmente
all’entificazione dei concetti ovvero si orienta in un apprezzamento del fenomeno giuridico
poco attento alle specificità strutturali degli strumenti che il diritto impiega per il soddisfaci-
mento degli interessi. Detto questo sul piano teorico, sul piano applicativo, la soluzione qui
presentata conduce – come diremo anche nel testo – ad escludere dal novero dei diritti sog-
gettivi, tanto i diritti indisponibili, quanto le situazioni di contitolarità di diritti, nelle quali,
ovviamente, la volontà di un soggetto non appare decisiva, né sul fronte della disponibilità
del diritto, né sul fronte della sua tutela giurisdizionale. E non che in ipotesi di tal genere le
formule lessicali impiegate dal diritto positivo – su cui la dottrina in questione ritiene di po-
ter fondare la propria concezione – non si riferiscano espressamente al «diritto soggettivo».
Su quest’ultima questione, v. peraltro le posizioni critiche riportate infra, alla nota 36.
318 CAPITOLO QUINTO

contraente compete il diritto di recesso o quello di disdetta». Nel primo


caso «l’ordine giuridico ha emesso un precetto […] e posto questo pre-
cetto a libera disposizione di colui, a cui favore esso lo ha emanato. Esso
rimette in lui di valersi o no del precetto, ed in particolare di porre o no
in opera i mezzi garantiti dall’ordine giuridico contro il recalcitrante.
Quindi la sua volontà è decisiva per l’attuazione del precetto emesso dal-
l’ordine giuridico. Questo si è spogliato a favore di quello del precetto
che ha pronunciato: del precetto proprio ha fatto un precetto di lui. Il di-
ritto è divenuto il diritto di lui». Nel secondo caso «colla parola diritto si
intende, che la volontà del titolare è decisiva per la nascita di diritti della
specie prima considerata, o per l’estinzione o modificazione de’ già nati.
Al titolare si attribuisce una volontà decisiva, non già per l’attuazione, ma
per l’esistenza di precetti dell’ordine giuridico».
La formula definitoria di sintesi («diritto è una potestà o signoria
della volontà impartita dall’ordine giuridico») appare dunque la radice
comune di due distinte specie di diritti: i diritti soggettivi a cui corri-
spondono obblighi di comportamento ed i diritti comunemente noti
come diritti potestativi.
Tuttavia, sul piano definitorio, appaiono con evidenza alcune incon-
gruenze specie in relazione alla prima categoria di diritti. Mentre ri-
guardo ai diritti potestativi si può ben intravedere nella situazione giuri-
dica in questione quella signoria della volontà che al diritto soggettivo
dovrebbe corrispondere26, nell’altra classe di diritti essa si palesa tutt’al-
tro che chiaramente ed è su questo piano, infatti, che la teoria in esame
ha manifestato le sue insuperabili contraddizioni attirando le puntuali
critiche della dottrina. Se, infatti, la signoria della volontà in cui do-
vrebbe corrispondere il diritto soggettivo è quella che opera in riferi-
mento all’attuazione del precetto è evidente che la situazione giuridica
individuata non può essere il quid che deve essere attuato, e cioè il diritto
soggettivo sostanziale, ma il diritto all’attuazione del precetto, o, più bre-
vemente, l’azione27; conclusione quest’ultima smentita dallo stesso Wind-
26 Sul diritto potestativo, sulle diverse opzioni ricostruttive al riguardo proposte, non-
ché per la critica di detta figura concettuale, v. infra, nota 172.
27 Per tutti, v. le risolutive osservazioni di GARBAGNATI, E., Diritto subiettivo e potere

giuridico, I, Il diritto subiettivo non è un potere giuridico, in Jus, 1941, p. 550 ss., spec. p. 560
s., (saggio poco dopo entrato a far parte della nota monografia La sostituzione processuale,
Milano, 1942, p. 25 ss.) che, tra l’altro, evidenzia come il precetto rispetto al quale è decisiva
la volontà del titolare del diritto, non sia il precetto primario, ovvero quello su cui si do-
vrebbe fondare il diritto soggettivo, ma solamente il precetto secondario a carattere sanzio-
natorio. Si tengano presenti anche le acute riflessioni svolte da PUGLIESE, G., Actio e diritto su-
biettivo, Milano, 1939, p. 47 ss.; ID., Introduzione, in WINDSCHEID, B. - MUTHER, T., Polemica
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 319

scheid con l’escludere che l’azione appartenga al concetto di diritto28. In


tali diritti allora il potere di volere dovrebbe essere inteso nella sua di-
mensione propriamente ideale29, ovvero come potere-forza, energia voli-
tiva, che si dirige all’obbligato. Ma la dottrina ha avuto gioco facile nel
mettere in luce come tale energia si presenti quale «inutile doppione» del
diritto oggettivo, il quale «sprigiona da sé la necessitas […] di osservare
la norma come regola di condotta»30, con l’evidente paradosso che, se si

intorno all’«actio», Firenze, 1954, p. XXXII, che non solo ha – come tra l’altro l’appena ci-
tato Garbagnati e gli AA. richiamati infra, nota 30 – avanzato critiche riguardo la possibilità
di concepire il diritto soggettivo come «potere» su un piano generale, ma ha anche dimo-
strato come il coerente svolgimento di questa direttrice ricostruttiva conduca a risolvere il di-
ritto soggettivo nell’unico potere che al titolare dello stesso sicuramente appartiene, ovvero
l’azione.
28 WINDSCHEID, B., Diritto delle pandette, cit., p. 171-172. V. peraltro, ovviamente,

ID., L’«actio» del diritto civile romano dal punto di vista del diritto odierno, in WINDSCHEID, B.
- MUTHER, T., Polemica interno all’«actio», cit., p. 3 ss.
29 Questa componente appartiene a molte delle teorie che riguardo al diritto soggettivo

valorizzano l’idea del potere o del comando soggettivatosi. Tra breve nel testo si riporterà la
concezione di Carnelutti, ma gran parte delle teorie che ricorrono all’idea del potere sono
state da noi esaminate non tanto assumendo come elemento caratterizzante il profilo appena
accennato, quanto il contenuto di libertà che da tale potere dovrebbe essere «protetto». È, in-
fatti, quest’ultimo aspetto indicato, un profilo molto più insidioso rispetto alla valorizzazione
dell’elemento del potere, il quale – in realtà – appare come la traduzione in chiave idealistica
del carattere stesso di giuridicità e vincolatività della norma proiettato sul soggetto; carattere
che, in un discorso animato da un intento ricostruttivo dogmatico-formale, è evidentemente
assunto come elemento «dato», ovvero, presupposto al concetto di diritto soggettivo. Tale
tentativo di voler far partecipare il diritto soggettivo all’idea di protezione giuridica, di forza
imperativa, ecc. è peraltro comune a diverse impostazioni e si esterna valorizzando il ruolo
del comando che dovrebbe appartenere al soggetto (Carnelutti), o la desività della volontà ri-
spetto alla vincolatività del precetto (Windschied), o nel riconoscimento della volontà del
soggetto (Pugliatti, su cui infra, nel testo e in nota), se non anche nella pretesa che il titolare
del diritto rivolge alla comunità organizzata in ordinamento (Cicala, su cui v. infra, nota 59 e,
per osservazioni critiche, nota 88). Sul punto, v. anche la nota che segue.
30 Le parole riportate nel testo sono di BARBERO, D., Il diritto soggettivo, in Foro it.,

1939, IV, p. 1 ss., ma p. 21 (ma anche in Studi di teoria generale del diritto, Diritto naturale e
diritto positivo, Diritto soggettivo e credito, Milano, 1953, p. 79 ss.). Ma l’argomento critico in-
dicato era stato già rilevato da THON, A., Norma giuridica e diritto soggettivo (Rechtsnorm und
subjectives recht, Weimar, 1878), traduzione italiana con annotazioni di A. Levi, Padova,
1951, p. 118, a cui Windscheid aveva replicato nella nota al testo della successiva edizione
delle Pandette con affermazioni di adesione («chi attraversa un fondo altrui viola il diritto del
proprietario, sebbene questi non gli abbia proibito ciò; chi al tempo debito non soddisfa il
proprio creditore, viola il diritto del creditore, sebbene questi gli abbia ingiunto di soddi-
sfarlo»; «la volontà imperante nel diritto soggettivo è soltanto la volontà dell’ordinamento
giuridico, non la volontà del titolare»), ma senza ritenere di dover mutare la definizione pre-
viamente avanzata di diritto soggettivo, visto che «per questo precetto, emanato a favore del
titolare, l’ordine giuridico ha resa decisiva la volontà del titolare medesimo. La sua volontà è
320 CAPITOLO QUINTO

seguisse questa impostazione, la volontà del titolare del diritto, dalla sua
formale posizione di signoria verrebbe ad essere ridotta «ad un pallido,
quasi evanescente riflesso del volere dello Stato»31.
Questa medesima obiezione può essere rivolta, peraltro, alla posi-
zione sostenuta da Francesco Carnelutti – assai simile nell’essenza a
quella appena esposta – che concepisce il diritto soggettivo come «po-
tenza di comandare inter partes», «iubere licere»32. Secondo questa let-
tura, infatti, il diritto soggettivo dovrebbe essere individuato in quelle
ipotesi in cui la tutela dell’interesse sostanziale che anima la norma è ri-
messa al comando dell’interessato, in cui l’obbligo corrispondente al di-
ritto «esista per virtù non soltanto del comando giuridico, ma altresì
della volontà del titolare dell’interesse garantito»33. Si pensi al seguente

norma al comportamento di coloro cui si trova di fronte, perché dispone di un comando giu-
ridico che a sua volta è norma al loro comportamento». Comprensibile l’accusa di «giuoco di
parole, con cui si vuol larvare la contraddizione effettiva» avanzata da Fadda e Bensa, nelle
note al Diritto delle pandette, p. 539 s. Ugualmente, v. KELSEN, H., Problemi fondamentali
della dottrina del diritto pubblico, esposti a partire dalla dottrina della proposizione giuridica
(Hauptprobleme der Staatsrechtslehre, entwickelt aus der Lehre vom Rechtssatze, Tübingen,
1911), trad. it. A. Carrino e G. Stella, Napoli, 1997, p. 645 ss., spec. p. 650 s. Sul punto, ol-
tre agli AA. appena citati, per ulteriori posizioni critiche, v. anche BALLADORE PALLIERI, G.,
Diritto soggettivo e diritto reale, cit., p. 1 ss., ma spec. 8; LEVI, A., Teoria generale del diritto,
Padova, 1953, p. 269 ss.; ATTARDI, A., L’interesse ad agire, Padova, 1955, p. 89; CASSARINO, S.,
Le situazioni giuridiche e l’oggetto della giurisdizione amministrativa, Milano, 1956, p. 79-80;
opinioni, queste ultime indicate, tutte dirette ad evidenziare l’insuperabile contraddizione che
viene a porsi configurando il diritto soggettivo come potere. Sul puto, v. ancora le lucide os-
servazioni di Barbero riportate infra, nota 58.
31 LEVI, A., Teoria generale del diritto, cit., 273. In una prospettiva assimilabile v., già

JHERING, R., L’esprit du droit romain dans le diverses phases de son développement (Geist des
römischen Rechts auf den verschiedenen Stufen seiner Entwicklung, III, Leipzig), traduzione
francese di O. de Meulenaere, Paris, 1880, p. 317, a cui, come è noto, si deve la critica più vi-
gorosa alla teoria della volontà.
32 CARNELUTTI, F., Sistema di diritto processuale civile, I, Funzione e composizione del

processo, Padova, 1936, p. 25 ss.; ID., Teoria generale del diritto, Roma, 1951, p. 154 ss. La de-
finizione riportata nel testo la si può anche trovare coniugata in stretto riferimento all’inte-
resse sostanziale del titolare del diritto e così il diritto soggettivo si presenta come potere di
far prevalere il proprio interesse (v. ad es. ancora il Sistema di diritto processuale civile, I, cit.,
p. 25); se d’altro canto si riflette sul fatto che, con l’attribuzione del diritto soggettivo, all’in-
teresse sostanziale tutelato la posizione di prevalenza è già stata assegnata e garantita, ci si av-
vede come tale definizione presenti la stessa contraddizione intrinseca di quella riportata nel
testo; cfr. infatti, le puntuali critiche di NICOLÒ, R., L’adempimento dell’obbligo altrui, Milano,
1936, p. 73; BARBERO, D., Il diritto soggettivo, cit., p. 24; NATOLI, U., Il diritto soggettivo, Mi-
lano, 1943, p. 26 s. e poi 47 s.; SPERDUTI, G., Contributo alla teoria delle situazioni giuridiche
soggettive, Milano, 1944, p. 55 ss.; PUGLIESE, G., Introduzione, in WINDSCHEID, B. - MUTHER,
T., Polemica intorno all’«actio», cit., XXXII.
33 CARNELUTTI, F., Sistema di diritto processuale civile, I, cit., p. 26.
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 321

esempio: «la proprietà è un diritto soggettivo e non una facoltà proprio


perché i non domini non tanto hanno obbligo, senz’altro, di astenersi dal
godimento della cosa mia, quanto sono soggetti per tale godimento al
mio giudizio e perciò possono o non possono godere secondo che a me
piace»34. È evidente come questa concezione trovi fondamento su un
equivoco. Si tenga presente il caso in cui si verifichi il godimento del
bene da parte del non proprietario: a) con il consenso del proprietario; b)
oppure dopo il comando di astenersi da tale attività; c) oppure in assenza
tanto del consenso che del comando. Se si dovesse accogliere tale conce-
zione del diritto soggettivo ci si troverebbe nell’assurda impossibilità di
qualificare lesiva del diritto soggettivo la terza ed ultima ipotesi. Il fatto
che il proprietario possa con il proprio consenso paralizzare la precetti-
vità dell’obbligo «neutralizzando» la carica antigiuridica dei comporta-
menti contrari ad esso o che la violazione dell’obbligo possa essere fatta
valere in giudizio solo dal titolare del diritto non pone in dubbio, ma anzi
conferma, l’assoluta priorità dell’obbligo rispetto al volere del titolare, il
quale non ne condiziona assolutamente l’esistenza, ma anzi su di essa fa
perno per dal vita a fenomeni giuridici ulteriori e diversi (disposizione o
azionabilità in giudizio)35.
Sul piano teorico, dunque, le teorie che fanno perno sul valore deci-
sivo della volontà nei termini or ora accennati rispondono all’esigenza di
rinvenire un punto di incontro, una misura di possibile coesistenza, tra
diritto oggettivo e soggettivo; esigenza tanto costante quanto fortemente
avvertita – seppur in diversa misura – da tutti i partecipanti al dibattito
attorno al diritto soggettivo e che nel caso di specie si traduce nel tenta-
tivo, forzato ed infruttuoso, di affidarsi al processo di soggettivazione del
precetto che consiste nell’appropriazione dello stesso da parte del tito-
lare.

34 CARNELUTTI, F., Teoria generale del diritto, cit., p. 158.


35 V., già, THON, A., Norma giuridica e diritto soggettivo, cit., p. 118. Cfr. poi ancora
GARBAGNATI, E., Diritto subiettivo e potere giuridico, I, cit., p. 569, in specifica critica a Car-
nelutti, nonché gli AA. cit., retro, nota 32, cui adde BALLADORE PALLIERI, G., Diritto soggettivo
e diritto reale, cit., p. 8. Va peraltro osservato che lo stesso CARNELUTTI, F., Sistema di diritto
processuale civile, I, cit., p. 28, non evitava di precisare, proponendo argomentazioni di re-
plica particolarmente affini a quelle avanzate da Windscheid nei confronti di Thon (cf. retro,
nota 30), che «è un errore dall’identità del nome dedurre che il diritto subbiettivo, anziché
un interesse protetto mediante la (dipendenza della tutela dalla) volontà del titolare, sia una
forza attribuita al titolare medesimo; la forza non è dell’interessato, ma dello Stato o in altri
termini la forza non è il diritto subbiettivo ma il diritto obbiettivo […]; ciò che appartiene al
titolare non è dunque più che, da una parte, l’interesse e, dall’altra, la volontà efficace ri-
spetto a quella tutela, la quale non dalla sua forza procede ma da quella dello Stato».
322 CAPITOLO QUINTO

Sul piano pratico-applicativo, peraltro, lo svolgimento coerente del


criterio definitorio adottato conduce a soluzioni difficilmente accettabili;
ovvero all’escludere dal novero dei diritti soggettivi le ipotesi normative
in cui il valore della volontà del soggetto non si presenta come decisivo
rispetto l’attuazione del precetto o rispetto alla sua modificazione. Si ma-
nifesta, sotto questo profilo, tutta l’intonazione tipicamente e stretta-
mente individualistica-esclusivistica della nozione, che appunto osta alla
riconducibilità ad essa non solo dei diritti indisponibili, ma anche dei di-
ritti che generalmente si configurano in contitolarità di più soggetti o che
si presentino secondo uno schema di reciproca concorrenza36.

2.3. Il diritto soggettivo come posizione attiva di libertà


Quasi tutte le principali teorie in materia di diritto soggettivo mal
celano la radice giusnaturalistica che a tale concetto appartiene e di essa
danno diversa risonanza. Nell’ultima appena esposta tale tendenza è par-
ticolarmente evidente proprio nel processo di appropriazione del pre-
cetto testè indicato37; operazione concettuale a cui spetta il compito di
conciliare l’inconciliabile, ovvero rendere possibile la convivenza di un
ordine oggettivo preesistente con una nozione di diritto soggettivo il cui
vigore giuridico derivi dal soggetto stesso, ovvero di una concezione in
cui il diritto soggettivo nasce – non dal diritto oggettivo, ma – nell’uomo
e dall’uomo si proietta verso l’esterno imponendosi agli altri.

36 Cfr., di recente, RUSSO, E., Diritto soggettivo, I, cit., p. 7, 10, 14. La critica a questa

impostazione, con particolare riguardo all’esclusione dei diritti indisponibili dalla generale
categoria del diritto soggettivo, è d’altra parte già presente in THON, A., Norma giuridica e di-
ritto soggettivo, cit., p. 206. Sul punto, v. anche GARBAGNATI, E., Diritto subiettivo e potere giu-
ridico, I, cit., p. 558; cui adde BALLADORE PALLIERI, G., Diritto soggettivo e diritto reale, cit., p.
8. Riguardo, invece, alla contitolarità di diritti – questione rilevante per la materia oggetto
della nostra ricerca – è interessante notare che CARNELUTTI, F., Sistema di diritto processuale
civile, I, cit., p. 27, se, da una parte, affermava che per poter apprezzare la distinzione tra in-
teresse protetto e diritto soggettivo occorre «intendere per diritto subbiettivo quell’interesse
la cui tutela dipende non già solo in parte, ma totalmente dalla volontà dell’interessato», suc-
cessivamente osservava che l’interesse tutelato può essere tanto un interesse «individuale»
quanto un interesse «collettivo» ed in quest’ultima ipotesi «si presenta egualmente la figura
del diritto subbiettivo, con questo solo di diverso che […] la tutela avviene mediante la vo-
lontà di uno o di alcuni anziché di tutti gli interessati».
37 Per tutti, v. appunto la già citata osservazione di WINDSCHEID, B., Diritto delle pan-

dette, cit., p. 170, che plasticamente descrive tale fenomeno laddove afferma che con l’asse-
gnare alla volontà del soggetto il valore decisivo in ordine all’attuazione, l’ordinamento giuri-
dico «si è spogliato a favore di quello del precetto che ha pronunciato: del precetto proprio
ha fatto un precetto di lui. Il diritto è divenuto il diritto di lui».
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 323

A tale vano tentativo rinuncia – quantomeno in prevalenza38 – un se-


condo ed ampio gruppo di teorie ugualmente orientate verso un’imma-
gine giusnaturalistica del diritto soggettivo, ma stabilmente radicate su
una mutata concezione dei rapporti tra norma e soggetto o, se si vuole,
tra soggetto e ordinamento.
Diversamente dalle dottrine esaminate nel paragrafo che precede,
infatti, il soggetto non appare più posto sullo stesso piano della norma
per decretarne la ragion d’essere, ma è anzi la norma, entità libera ed au-
tonoma rispetto alla volontà del soggetto, che si proietta sul piano dei
comportamenti umani qualificandoli ed imponendo loro il suo punto di
vista: quello dell’ordine giuridico appunto39.
Come si noterà più avanti, tale concezione rappresenta lo svolgi-
mento di una linea di pensiero comune alle diverse teorie tese a porre la
figura dell’obbligo al centro della ricostruzione dogmatica, ma nell’am-
pio orientamento ora in esame, l’armonizzazione tra dimensione sogget-
tiva e oggettiva del diritto conduce le varie posizioni che vi appartengono
a rivolgersi nella direzione opposta a quella ora accennata ovvero a valo-
rizzare l’idea – anch’essa di evidente derivazione giusnaturalistica – di li-
bertà che appartiene al diritto soggettivo40.
L’acquisita priorità logico-giuridica della norma rispetto al diritto
soggettivo e l’idea di libertà sono le due direttrici che informano, dun-
que, questo ampio numero di concezioni che particolare successo hanno
riscontrato nella nostra dottrina. Diverse sono le architetture concettuali

38 Come vedremo, infatti, anche nell’ampio orientamento a cui ci riferiamo nel testo,

sono presenti teorie in cui si assiste all’impiego del concetto di potere all’interno della defini-
zione del diritto soggettivo, e ciò non tanto nel tentativo di ritrovare il fondamento della vin-
colatività della regola giuridica – più o meno direttamente – nella volontà del titolare del di-
ritto (come accade nella concezione avanzata da Windscheid o nella posizione di Carnelutti),
ma più limitatamente come strumento concettuale per far partecipare il diritto soggettivo alla
forza giuridica che appartiene alla norma. Sul punto, v., come esemplare esemplificazione di
quanto si sta dicendo, la posizione di Pugliatti riportata infra, nel testo e alla nota 65, nonché
le osservazioni critiche avanzate da Barbero richiamate alla nota 30.
39 Ed, infatti, si osserva acutamente che queste concezioni che si vanno ad esaminare

mantengono il discorso pur sempre nella prospettiva normativistica: così, MAIORCA, C., Di-
ritto soggettivo: I) Teoria generale, in Enc. giur. Trec., XI, Roma, 1989, p. 4. In dottrina si è an-
che rilevata la possibilità di distinguere due grandi orientamenti fondamentali in materia di
diritto soggettivo, quella in cui il potere della volontà si fa legge agli altri e quella in cui la vo-
lontà è posta sotto il potere della legge: così, condivisibilmente, FROSINI, V., Diritto soggettivo
e dovere giuridico, in Raccolta di scritti in onore di Arturo Carlo Jemolo, IV, Milano, 1963, p.
207 ss., ma spec. 218 (anche in Riv. dir. civ., 1961, I, p. 124 ss.).
40 Per tutti, KELSEN, H., Problemi fondamentali della dottrina del diritto pubblico, cit.,

p. 629.
324 CAPITOLO QUINTO

impiegate, che talora appaiono semplici e lineari, talaltra, invece, si pre-


sentano articolate e complesse. Diverse possono anche apparire – prima
facie – le conclusioni teorico-formali a cui pervengono le distinte teorie,
ma fuor dall’apparenza tutte condividono in qualità di matrici essenziali
le due questioni appena indicate.
Quanto affermato si presenta con evidenza nelle concezioni di di-
versi studiosi41, ma la rappresentazione più nitida e rigorosamente svolta
è offerta dalla posizione di Barbero, che spezza il rapporto giuridico che
lega i soggetti di diritto tra loro e pone gli stessi direttamente e separata-
mente di fronte all’ordinamento42 e così, «avere dovere significa precisa-

41 Cfr. ad es. NATOLI, U., Il diritto soggettivo, cit., p. 27, 60 ed espressamente a p. 41,

ove si afferma: «la situazione del soggetto esprime una relazione tra il soggetto e la norma,
che culmina in un giudizio di possibilità (diritto), o di necessità (obbligo) di un comporta-
mento». Va detto peraltro che per Natoli il rapporto giuridico è ritenuto essere una relazione
funzionale tra due diverse situazioni soggettive e non, come in Barbero, tra soggetto e norma.
V. anche la complessa posizione di GUARINO, G., Potere giuridico e diritto soggettivo, cit., p.
25 ss., in cui si sostiene che il diritto soggettivo e il dovere sono situazioni giuridiche attive
che «attengono non all’atto ma alla posizione del soggetto, e loro contenuto non è un com-
portamento, ma un rapporto» cioè «il rapporto che intercorre tra un soggetto e la fattispecie
normativa di un comportamento dello stesso soggetto». Tale rapporto può essere di «liceità»
o di «necessità», nel primo caso «la norma si limita a stabilire che tanto la situazione attuale,
quanto il comportamento futuro sono leciti» e «quindi il soggetto si trova, di fronte alla
norma, in una posizione consentita sia che permanga nella situazione iniziale, sia che questa
abbandoni per assumere il comportamento dalla norma previsto in schema»; nel secondo
caso «la norma dispone che solo il comportamento in esso previsto è lecito e che quindi il
soggetto, ove non lo assuma, si trova, di fronte alla norma, in posizione non tutelata, illecita».
«Quando il rapporto è di liceità si ha il diritto soggettivo: quando il rapporto è di necessità si
ha il dovere» e così, dunque, «il diritto soggettivo […] è agere licere, il dovere necessitas
agendi».
42 Affermato che la concezione tradizionale del rapporto giuridico appare lo «stru-

mento più imperfetto, attraverso il quale si possa guardare la realtà giuridica», si sostiene che
«diritto (soggettivo) e dovere non si stanno […] di fronte, sebbene l’uno possa accompagnarsi
all’altro nel senso di coesistere simultaneamente all’altro per virtù di una stessa norma […];
essi stanno, ciascuno per conto proprio, di fronte alla norma; non comunicano fra loro, ma
comunicano con la norma»; così, BARBERO, D., Il diritto soggettivo, cit., p. 31-32, che afferma
ancora (p. 35-36): «viene spontaneo obiettare che è una specie di assurdo affermare che il de-
bitore ignori (non casualmente, ma direi, costituzionalmente) il proprio creditore. L’assurdo
non c’è ed è tutta una questione d’intendere il valore di questa conoscenza, che il debitore
non solo normalmente ha, ma deve regolarmente avere del proprio creditore. Questa è la co-
noscenza non dell’altro termine del rapporto giuridico, non di colui a cui debba sottomis-
sione, ma d’un elemento di fatto, assunto nel comando della norma, la conoscenza del quale
è perciò necessaria come condizione per avere la conoscenza stessa del comando che da
quella emana e poter, quindi, prestare ad essa l’obbedienza che vuole». Affinità con tale im-
postazioni sono ben rilevabili nella nota tesi di Cicala, tra i primi a rigettare la figura del rap-
porto giuridico in senso savigniano, ovvero in senso intersoggettivo: cfr. infra, nota 59.
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 325

mente essere legati di fronte alla norma e aver diritto significa invece es-
sere sciolti di fronte alla norma»43, ragion per cui il diritto soggettivo ap-
pare essere la «valutazione dell’agire d’un soggetto rispetto alla volontà
manifestata della norma, che culmina nel giudizio di licitum o di licere»44.
43 BARBERO, D., Il diritto soggettivo, cit., p. 34.
44 BARBERO, D., Il diritto soggettivo, cit., p. 28. Di recente, nella manualistica, v. AA.VV.,
Diritto privato, I, Torino, 2003, p. 148 ss. Va posta peraltro in evidenza l’adesione a tale orien-
tamento da parte di ALLORIO, E., L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudi-
ziale, cit., p. 61, ma solo con riguardo ad un ordinamento a carattere paritario e non nell’am-
bito del diritto statale. In questa seconda prospettiva, ovvero nella prospettiva marcatamente
kelseniana in cui gli unici destinatari delle norme sono i giudici, il diritto soggettivo dovrebbe
essere concepito in diversa guisa. Più precisamente i punti essenziali che indicano le direttrici
lungo le quali si sviluppa la costruzione del concetto di diritto soggettivo da parte dell’illustre
processualcivilista sono i seguenti: a) l’appena indicata concezione della norma; b) la centra-
lità della stessa quale criterio esclusivo di qualificazione giuridica; c) l’accertamento giudiziale
come «ragione sistematica» di determinazione dell’entità «diritto soggettivo» (p. 81; ma cfr.
anche, almeno ID., Saggio sulla «giurisdizione» volontaria, in Riv. trim. dir. proc. dir., 1948, p.
487 ss., ma ora in Problemi di diritto, II, Milano, 1957, p. 3 ss., ma spec. p. 53 ss.); d) l’o-
rientamento di pensiero volto a valorizzare il ruolo attivo del soggetto all’interno dell’orien-
tamento. Questi quattro fattori ed in particolare quelli riportati al punto b) e d) – più che i ri-
manenti – conducono Allorio a vedere nel potere giuridico (su cui v. infra, nota 172) l’ele-
mento formale in cui il singolo, rispetto all’ordinamento, «è di scena»; sicché, il diritto
soggettivo diviene un potere o gruppo di poteri suscettibile/i di accertamento giurisdizionale
(spec. p. 76 ss.). Ma anche la concezione appena richiamata solleva diversi motivi di perples-
sità. In primo luogo, come meglio vedremo tra breve nel testo, anche questa concezione si fa
fuorviare dalla necessità di ricercare qualche pur esistente forma di soggettivazione del diritto
obiettivo per poter invertire la prospettiva oggettiva in soggettiva non sul piano funzionale
ma formale (cfr. infra, § 2.5.4.1.). Con riferimento più specifico all’architettura interna della
ricostruzione, invece (per quanto sia possibile separare i due piani), in primo luogo emerge
l’inconciliabilità tra la concezione della norma propugnata, da un lato, e il preteso oggetto
dell’accertamento, dall’altro. Afferma Allorio: «le norme del diritto privato, non le reputo
giudizi-regole sulla condotta dei privati, bensì giudizi-regole, rivolti a disciplinare il contegno,
principalmente, degli uffici giurisdizionali nella decisione sulle pretese dei privati» (p. 48).
Esemplificando: «in presenza di una fattispecie così e così descritta, se X non adempie una
certa prestazione, il giudice avrà il dovere di prendere un determinato provvedimento (che
tecnicamente si chiama condanna)» (p. 49). Stando così le cose, in questa concezione non ab-
biamo insomma un obbligo del soggetto privato, ma il comportamento non voluto dall’ordi-
namento da parte di tale soggetto diviene la fattispecie costitutiva del dovere giudiziale. Bene.
Si chiede ora: posta questa norma, come è possibile sostenere che l’accertamento cada sui po-
teri che secondo Allorio dovrebbero essere il contenuto del diritto soggettivo (p. 76 ss.)?
Questi sarebbero: il potere concreto di azione dichiarativa e condannatoria, il potere di co-
stituzione in mora, il potere di disposizione, il potere d’iniziativa surrogatoria e revocatoria
ecc., per ciò che riguarda il diritto di credito. Il potere concreto di azione dichiarativa, il po-
tere di disposizione, il potere concreto di rivendica, di azione negatoria ecc., per ciò che at-
tiene al diritto di proprietà. Il potere di far nascere con la proposizione della domanda e con
le iniziative successive, il dovere giudiziale di rendere una sentenza costitutiva ed il potere di
disposizione, per ciò che riguarda il diritto potestativo (su cui cfr. infra, nota 172). È evidente
326 CAPITOLO QUINTO

Valorizzando l’idea di libertà che appartiene al concetto di diritto


soggettivo, l’«immagine» che queste concezioni rilanciano dello stesso

– e lo dice lo stesso Allorio nello spiegare lo schema ipotetico in cui a suo parere si risolve la
norma (cfr. retro) – che appare difficile – partendo da tali premesse – trovare un ragionevole
punto di compromesso tra questi due aspetti della sistematica proposta. Se, infatti, una
norma siffatta è rivolta al giudice, l’accertamento può investire gioco forza solo l’unico effetto
giuridico rimasto in piedi, ovvero il dovere del giudice di condannare (cfr. l’es. poc’anzi ri-
chiamato) o – forse più correttamente – il dovere dell’apparato giurisdizionale di procedere
esecutivamente nei confronti dell’obbligato. L’accertamento non investirà di certo l’insieme
eterogeneo di poteri elencati per ogni distinta categoria di diritto soggettivo. Il punto è che
Allorio, come in tutte le teorie che andiamo esaminando nel testo, è ugualmente attratto dal
contenuto di attività, dalla posizione di possibilità che appartiene al diritto soggettivo e non
si avvede che, cedendo a tale naturale propensione mentale, infirma una geniale intuizione
quale quella del valore sistematico dell’accertamento in ordine alla determinazione dell’entità
formale da apprezzare sul piano sostanziale. Prendiamo per semplicità l’esempio del diritto di
credito. In un’azione di condanna, posta o non posta la norma poc’anzi citata, non sembra
plausibile ritenere che il giudice accerti il diritto soggettivo di credito nel senso di accertare il
potere concreto di azione inteso come potere di costituire il dovere giudiziale di pronunciare
sentenza favorevole. E così deve dirsi riguardo al potere di costituire in mora l’obbligato o
agli altri poteri enumerati. Così ragionando andrebbe perso quanto meno il principale effetto
che, realizzatasi la fattispecie costitutiva, si è prodotto sul piano sostanziale, ovvero l’obbligo
del debitore di pagare la somma dovuta. E non è un caso – ovvero un fenomeno giuridico se-
parato dal precedente accertamento – che tale dovere debba essere spontaneamente adem-
piuto dal debitore o, alternativamente, attuato in via coattiva con l’espropriazione forzata. Al
contrario, se il potere è un effetto che deve essere concepito per dare sistemazione alla proie-
zione dinamica dell’ordinamento (cfr. infra, nota 132), pare difficile immaginare che il titolare
del diritto desideri ottenere l’accertamento di sue «possibilità» future e non di «necessità» at-
tuali dell’obbligato ed infatti è stato giustamente rilevato (TAVORMINA, V., Contributo alla teo-
ria dei mezzi di impugnazione delle sentenze, cit., p. 20) che «non ha senso parlare di un po-
tere che miri a farsi accertare». La questione meriterebbe in effetti riflessioni più ampie delle
misere osservazioni avanzate in questa nota, ma pur muovendo da questi brevi spunti, sem-
bra a chi scrive che la dottrina qui in esame corra – per così dire – su due binari paralleli: da
un lato, la concezione della norma, che, pur depurata dalla coloritura sanzionatoria del do-
vere giudiziale, nel suo esser indirizzata agli organi giudiziari, ovvero proprio per come è con-
cepita, rimane comunque rivolta all’epilogo coattivo-attuativo del diritto (cfr. infatti l’origina-
ria concezione di Kelsen, che pur Allorio critica, individuando nel tener ferma la concezione
della norma come «programma di sanzione» uno degli «aspetti caduchi» della dottrina kelse-
niana); dall’altro, la supervalutazione della prospettiva strutturale (posta a superamento di
quella finalistica e capace di fornire l’esauriente spiegazione dei fenomeni giuridici), la quale
conduce l’illustre processualista a cogliere l’essenza della giurisdizione nel giudicato, quale
l’effetto tipico dell’attività giurisdizionale (spec. Saggio sulla «giurisdizione» volontaria, cit., p.
48 ss.), con ciò isolando l’istituto rispetto alla sua funzione, ovvero, più precisamente, da quel
«processo di determinazione del concreto» che si realizza nella «progressione ideale dalla
legge all’azione» (secondo la formula insuperabilmente insegnataci da SATTA, S., Il processo
nell’unità dell’ordinamento, in Soliloqui e colloqui di un giurista, Padova, 1968, p. 116 ss.). Per
dirla con altre parole la regola espressa dall’art. 2909 c.c. è una regola tra le tante. Ovvero, se
colta nella sua dimensione puramente formale, giammai illuminerà sull’essenza dell’istituto,
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 327

presenta quindi – e non a caso, ovviamente – forti affinità con quella già
avanzata da Savigny45 e di chiara ascendenza Kantiana46, specie laddove,
da un lato, il diritto in senso soggettivo è descritto come «una sfera nella
quale la volontà di questa regna, e regna con il suo consenso»47, oppure
come «il riconoscimento di una invisibile linea di confine, entro la quale
la esitenza e la attività di ciascuno possa godere di uno spazio libero e si-
curo» e, dall’altro, si precisa che «la regola, che fissa quel confine e de-
termina questo spazio libero, è il diritto»48.
È vero che Savigny si riferisce al diritto soggettivo quale «potere,
che spetta a ciascuna persona»49, ma tale «potere» non si appalesa nella
veste «spirituale» propria delle letture poc’anzi esaminate, bensì piutto-
sto come attività sul mondo materiale consentita e protetta dalla regola di
diritto50.

sul suo fondamento, che è a priori e non stà nelle forme. In altri termini, il rilevare che l’atto
«sentenza passata in giudicato» è più stabile rispetto all’atto «provvedimento amministrativo
inimpugnabile» piuttosto che all’atto «lodo non impugnabile» di per sé chiarisce unicamente
«qualità relative» dell’oggetto. Per capirci, noi possiamo dire che Tizio corre più veloce di
Caio, ma da tale constatazione giammai sapremo perché ciò avviene. Così, la regola di stabi-
lità della sentenza a cui ci riferiamo non può dirci nulla sulla sua essenza, sulla – come piace
dire ai noi giuristi – «natura» dell’attività giurisdizionale che ad essa conduce, se non viene
inserita – quale elemento logico imprescindibile – in quel percorso di concretamento del di-
ritto che è il processo.
45 Il legame sussistente tra la teoria del Savigny e quelle che nella definizione del diritto

soggettivo valorizzano il lato c.d. interno del diritto, ovvero la libertà che spetta al titolare
dello stesso è rilevato correttamente da BALLADORE PALLIERI, G., Diritto soggettivo e diritto
reale, cit., spec. p. 3.
46 Cfr. il concetto di diritto in KANT, I., Metafisica dei costumi, Introduzione alla dottrina

del diritto, § B (VI, p. 230), diretto a rispondere all’esigenza di coordinamento delle libertà
individuali: «Il diritto è l’insieme delle condizioni per le quali l’arbitrio di ognuno può accor-
darsi con l’arbitrio di altri secondo una legge universale di libertà»; la quale «legge univer-
sale» risulta la seguente: «agisci esternamente in modo che il libero uso del tuo arbitrio possa
accordarsi con la libertà di ogni altro secondo una legge universale». Su questa definizione v.
le stimolanti osservazioni di CESARINI SFORZA, W., Diritto, Teoria generale: IV) Diritto sogget-
tivo, in Enc. dir., XII, Milano, 1964, p. 659 ss., spec. p. 680 ss. Per ulteriori riferimenti, anche
riguardo le radici filosofiche di questo modo di vedere, v., per tutti, ESPOSITO, C., Lineamenti
di una dottrina del diritto, Fabriano, 1930, p. 50 ss.
47 SAVIGNY, F.C., Sistema del diritto romano attuale, traduzione italiana di V. Scialoja, I,

Torino, 1886, p. 36.


48 SAVIGNY, F.C., Sistema del diritto romano attuale, cit., p. 331.
49 SAVIGNY, F.C., Sistema del diritto romano attuale, cit., p. 36.
50 Cfr. le puntuali osservazioni di BARBERO, D., Il diritto soggettivo, cit., p. 1-2, nota 1,

che comunque da tale posizione prende le distanze proprio per l’inserzione nella definizione
del diritto soggettivo del concetto di potere. Sul punto, sebbene in preciso riferimento alla
posizione di Pugliatti (su cui infra, nota 65) v. anche PUGLIESE, G., Actio e diritto subiettivo,
cit., p. 62, nota 2.
328 CAPITOLO QUINTO

Quanto affermato, ovvero tale affinità rappresentativa, si manifesta


talora anche sul piano esplicito delle definizioni, visto che il diritto sog-
gettivo appare come: «facoltà o potestà giuridica» intesa come «una cer-
chia o sfera assegnata a ciascun soggetto» in cui «tutto ciò che in essa è
compreso […] non può essere da alcun altro soggetto impedito»51; «po-
tere di volere riconosciuto e tutelato dalla legge» cioè «libertà (facoltà) di
agire nei termini a ciò segnati dal diritto oggettivo»52; «potere della vo-
lontà» inteso come «una facoltà di agire entro limiti segnati dal diritto
obbiettivo, potere che è da questo tutelato e protetto»53; situazione sog-
gettiva favorevole il cui contenuto «non può che essere quello di facoltà,
di possibilità di assumere un certo comportamento i cui limiti sono da ri-
cercare nella norma»54; «facultas, cioè […] libertà del titolare del diritto
di muoversi a suo agio entro i limiti garantiti alla propria sfera giuridica
dal diritto oggettivo»55; «attribuzione di una zona di potere nella quale
egli può muoversi a suo criterio»56. L’elencazione potrebbe essere tanto
lunga quanto superflua57, ciò che al contrario va evidenziato è che, seb-
bene in alcune di queste definizioni si ritrovino inseriti – come peraltro
in Savigny – i concetti di potere e di volontà e sebbene ciò rappresenti
senz’altro un indice di minor precisione concettuale rispetto alla defini-
zione poc’anzi riportata di Barbero, ciononostante, l’idea di fondo che si
vuole veicolare è sempre la stessa: quella del diritto soggettivo concepito
come posizione di libertà garantita dall’ordinamento giuridico58.

51 DEL VECCHIO, G., Il concetto del diritto, Bologna, 1906, p. 95 ss.


52 CHIRONI, G.P., Istituzioni di diritto civile italiano, I, Milano-Torino-Roma, 1912,
p. 48.
53 DE
RUGGIERO, R., Istituzioni di diritto civile, I, Introduzione e parte generale, Diritto
delle persone, Messina, s.d., p. 191.
54 NATOLI, U., Il diritto soggettivo, cit., p. 59.
55 LEVI, A., Teoria generale del diritto, cit., p. 284, ma anche p. 253.
56 TRIMARCHI, P., Istituzioni di diritto privato, Milano, 1996, p. 44, che mantiene questa

definizione nonostante poi (p. 55 ss.) dia pieno accoglimento ai risultati della giurisprudenza
analitica circa la relazione tra diritto e obbligo ed affermi che la presenza di pretese è nel di-
ritto soggettivo «essenziale».
57 Cfr. infra, anche la posizione di Pugliatti, tra poco citata nel testo e quella di Cicala,

che esaminiamo alla fine della nota 59.


58 Insuperabile a me sembra la critica che BARBERO, D., Il diritto soggettivo, cit., p. 3 ss.,

13 ss. e poi 21 ss., svolge nei confronti dell’impiego del concetto di potere nella definizione
del diritto soggettivo. Si osserva, infatti, che (p. 25) posta una norma, emanato il comando
giuridico da parte dell’ordinamento, «tutto è […] trasformato nelle condizioni d’ambiente
esteriori al soggetto, in quanto, mentre prima, allo stato naturale, doveva adoperare forza
contro forza per far prevalere il proprio interesse, ora non già deve operarne di meno oppure
ne ha di più a disposizione, ma non deve impiegarne affatto, non ne ha bisogno, perché nes-
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 329

Se dunque quella appena esposta è la modalità di presentazione e di


intellezione delle posizioni in esame che meglio pone in rilievo gli ele-
menti di comunanza che appartengono alle stesse, allora all’orientamento
appena individuato sembrerebbe nella sostanza potersi ricondurre, non
solo la complessa posizione di Cicala59, ma anche la posizione della dot-

suno può ormai lecitamente impedirgli di soddisfarlo senza incorrere nel torto. Direi così che
l’interesse, anziché trasformato – come recentemente si è detto – in un quid diverso e formale
che sarebbe il potere [la critica è rivolta a NICOLÒ, R., L’adempimento dell’obbligo altrui, cit.,
p. 72], è trasportato in un ambiente diverso: un ambiente di giuridica composizione d’ogni
conflitto. Cos’è, ora, che in questa situazione ha ragion di diritto soggettivo? Precisamente
l’opposto, a me sembra, di ciò che prima e fuori dell’ordine giuridico, aveva ragione di forza.
Non preminenza o superiorità o, comunque, attrezzatura di forza, di potere-forza; ma antitesi
e superfluità della forza (fin quando non intervenga la violazione e con questa sia già in atto
il torto). Al dovere degli obbligati non fa così da contrapposto, come diritto soggettivo, il po-
tere d’un altro soggetto esprimentesi a fianco del diritto del diritto obiettivo nell’irradiazione
(da questo soggetto) di una nuova pretesa reclamante l’osservanza del comando, ma fa da
contrapposto ciò che può empiricamente chiamarsi «avere, mancando il conflitto, la via libera
al soddisfarsi». Sul punto, tra gli altri, cfr. anche GUARINO, G., Potere giuridico e diritto sog-
gettivo, cit., p. 10-11; PUGLIESE, G., Actio e diritto subiettivo, cit., p. 47 ss.
59 Per CICALA, F.B., Il rapporto giuridico, Milano, 1959, p. 21, il diritto soggettivo sa-

rebbe l’effetto del rapporto giuridico ideale «dal carattere squisitamente tecnico-giuridico e
filosofico insieme», che, distinto da «qualsiasi speciale relazione empirica tra l’una e l’altra
persona», si instaura «tutte le volte che l’individuo, volontariamente o non, entrerà in una
delle condizioni previste dall’ordinamento giuridico, […] tra l’individuo (termine soggettivo,
o soggetto) e le norme giuridiche (termine oggettivo, od oggetto del rapporto medesimo) ap-
plicabili alla rispettiva fattispecie» (p. 18). L’«essenza» di tale effetto, ovvero, l’«essenza» del
diritto soggettivo sarebbe dunque un «potere ideale che sorge in favore del soggetto, sulla
sfera d’influenza del termine oggettivo del rapporto»; sfera di influenza corrispondente alla
«società retta da un determinato ordinamento giuridico» (p. 60, ma anche 21). Come spiega
lo stesso Autore, «in sostanza […] avere un comando (essere, cioè, titolare di un diritto su-
biettivo) equivale ad avere un potere: il potere del soggetto, sulla sfera sopra accennata, non
è che l’impero della stessa norma, ma non già obiettivo ed astratto, bensì subiettivo (per de-
finizione), cioè concretatosi nel soggetto» (p. 62). Nell’ulteriore svolgimento del concetto si
precisa – poi – che, se l’oggetto del diritto soggettivo è – come detto – la «giuridica comu-
nanza» quale sfera di influenza della norma, allora l’oggetto del diritto soggettivo può essere
inteso anche come l’«entità ideale oggettiva» che «emana e si svolge dal diritto soggettivo»,
ovvero il «bene ideale, giuridico» che appartiene al soggetto. Nella prospettiva così reimpo-
stata l’oggetto del diritto soggettivo diventa la «pretesa astratta che, in virtù del proprio di-
ritto, egli avanza di fronte a tutti i consociati in generale» (p. 96), ovvero «la generale ed
astratta affermazione di un’attività, concepita come possibile, spettante al soggetto del rap-
porto giuridico» (p. 97-98). Su questa base, quindi, i diritti soggettivi possono essere meglio
definiti come «la legittimazione del soggetto ad avanzare delle pretese nella giuridica comu-
nanza» (p. 97) ed, infine, il contenuto del diritto soggettivo può essere accolto secondo due
direzioni: rispetto al soggetto, il contenuto dovrà essere apprezzato in riferimento al conte-
nuto della pretesa astratta, è sarà dunque rappresentato dalle «facoltà astratte», cioè dall’«at-
tività astratta, concepita come possibile» (p. 110-111); rispetto ai consociati il contenuto del
330 CAPITOLO QUINTO

trina60 che ha ritenuto corretto dare ampio svolgimento teorico alla defi-
nizione di diritto soggettivo quale «potestà di volere che ha l’uomo, rico-

diritto del soggetto consisterà nel loro «giuridico assoggettamento al comando o potere di
lui», cioè nell’obbligo imposto ai consociati da cui deriverà, da un lato, «una necessità gene-
rale ed assoluta, di non violare i rapporti giuridici che s’incentrano nel soggetto» e, dall’altro
– allorché «si aggiunga una particolare relazione col soggetto» – «una necessità, specifica, re-
lativa, dell’obbligato, di compiere determinati atti, a cui espressamente si dirige la pretesa del
soggetto, o di astenersi da atti cui il soggetto espressamente proibisce» (p. 112). Anche in Ci-
cala, dunque, depurando tale lettura dalla proiezione idealistica che la caratterizza, non v’è
dubbio che la sostanza del fenomeno vada a concentrarsi nelle «facoltà astratte», cioè
nell’«attività astratta, concepita come possibile». Non è un caso, ma anzi risponde ad una ben
precisa esigenza ricostruttiva, quindi, che dalla ricostruzione di Cicala venga escluso il rap-
porto che si instaura tra titolare dell’obbligo e norma. Se, infatti, il rapporto giuridico si in-
staura semplicemente ogni qual volta «l’individuo, volontariamente o non, entrerà in una
delle condizioni previste dall’ordinamento giuridico», ci si chiede prima di ogni cosa per
quale ragione tale fenomeno non si verifichi in egual misura riguardo il titolare dell’obbligo
oltre che riguardo il titolare del diritto. Nessuno credo possa dubitare del fatto che quanto-
meno anche il titolare dell’obbligo entri nelle condizioni previste dalla norma. Peraltro que-
sto è il naturale esito a cui è giunta la dottrina che, come Cicala, ha ritenuto corretto rigettare
la tradizionale concezione intersoggettiva del rapporto giuridico, ponendo il soggetto diretta-
mente in relazione con la norma (cfr. infatti retro, nota 42, la posizione di Barbero). Anche
l’articolata posizione di Cicala, quindi, rilancia l’idea del diritto soggettivo concepito attorno
all’idea di libertà del soggetto, del poter fare. Ed anche qui torna immancabilmente l’imma-
gine del diritto soggettivo formato da «il lato positivo: quello che si riferisce al soggetto, da
cui parte, erga omnes, l’affermazione astratta delle proprie pretese, riguardo alla libera espli-
cazione della propria volontà, entro la sfera delimitata dalle norme di diritto» e da «il lato ne-
gativo: quello che si rivolge ai consociati e allo Stato» e che «nega implicitamente qualsiasi in-
debita menomazione della propria libertà di azione (o di omissione)» (p. 439-440, conclusioni
espresse da Cicala con riguardo ai diritti di libertà, ma con esplicita possibilità di estensione
a tutti i diritti soggettivi, cfr., infatti, anche p. 110 s.). Per ulteriori considerazioni sulla posi-
zione di Cicala, v. infra, nel testo e nota 88.
60 Per tutti, v. PUGLIATTI, S., Esecuzione forzata e diritto sostanziale, Milano, 1935, p. 56-

60. A questa concezione detta frequentemente combinatoria o mista aderiscono, ancor prima
di Pugliatti, ROCCO, Alf., La sentenza civile, Torino, 1906, p. 26 (p. 23, della ristampa del
1962); CAMMEO, F., Commentario delle leggi sulla giustizia amministrativa, I, Milano, s.d., p.
13 ss.; ROCCO, Art., L’oggetto del reato e della tutela giuridica penale, Milano-Torino-Roma,
1913, p. 570 ss.; ROCCO, U., L’autorità della cosa giudicata e i suoi limiti soggettivi, I, Roma,
1917, p. 241, in nota; con particolare chiarezza e rigore, BETTI, E., Il concetto dell’obbligazione
costruito dal punto di vista dell’azione (1920), ora in Diritto sostanziale e processo, Milano,
2006, p. 11-12, anche in nota; ID., Diritto romano, I, Padova 1935, p., 70 ss. Cfr. anche, FI-
LOMUSI GUELFI, F., Enciclopedia giuridica, Napoli, 1904, p. 10-11; ID., Introduzione alle scienze
giuridiche e istituzioni di diritto civile, Roma, 1897, p. 28; COVIELLO, N., Manuale di diritto ci-
vile italiano, Parte generale, Milano, 1915, p. 18 s.; SIMONCELLI, V., Istituzioni di diritto privato
italiano, Roma, 1917, p. 41; DE RUGGIERO, R., Istituzioni di diritto civile, cit., p. 191 ss.; BOZZI,
C., Diritto subiettivo e interesse, in Nuovo Dig. it., a cura di M. D’Amelio, IV, Torino, 1938,
p. 1232 ss., ma spec. p. 1233; ROCCO, U., Trattato di diritto processuale civile, I, Parte generale,
Torino, 1957, p. 21; FURNO, C., Disegno sistematico delle opposizioni nel processo esecutivo, Fi-
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 331

nosciuta e protetta dall’ordinamento giuridico, in quanto sia rivolta ad


un bene o ad un interesse»61.
Generalmente – forse per necessità di semplificazione classificatoria
– si suole qualificare questa opzione ricostruttiva, come intermedia, poi-
ché determinata dalla combinazione della già esaminata teoria del diritto
soggettivo come «potere della volontà» con l’opposta concezione – che
più avanti esamineremo – del diritto soggettivo quale «interesse giuridi-
camente protetto»62.
In realtà, però, evidenziare il nesso di derivazione che lega la defini-
zione in esame a tali ed opposti orientamenti, ben poco dice sulla conce-
zione di fondo che si nasconde dietro lo schermo della sintesi definitoria
e ciò è ancor più evidente laddove si noti, da un lato, che la formula «po-
tere della volontà» può rinviare a concetti – come visto – ben diversi e,
dall’altro, che anche la formula «interesse giuridicamente protetto» rilan-
cia la necessita di chiarire non tanto e non solo che cosa si intenda per in-
teresse, ma in primo luogo in cosa consista la giuridica protezione che a
questo è asservita63.
Se si esamina con attenzione il profondo svolgimento che di questa
teoria ha operato Pugliatti le osservazioni avanzate appaiono più evi-
denti.
Per quest’Autore il potere di volere corrisponde al «riconosci-
mento» della volontà del soggetto, mediante il quale «la norma non pone
[…] alcuna gerarchia tra le volontà individuali in quanto tali, ma garan-
tisce il risultato dell’atto volitivo di un soggetto di fronte agli altri sog-
getti in generale»64.

renze, 1942, p. 31, spec. nota 3; DE CUPIS, A., Istituzioni di diritto privato, Milano, 1977, p.
23 s.; più di recente, v. TRABUCCHI, A., Istituzioni di diritto civile, Padova, 1998, p. 50 s.; SAN-
TORO PASSARELLI, F., Dottrine generali del diritto civile, Napoli, rist. 2002, p. 70; PERLINGIERI,
P., Manuale di diritto privato, Napoli, 2003, p. 67 e 68; TORRENTE, A. - SCHLESINGER, P., Ma-
nuale di diritto privato, Milano, 2004, p. 64 s.; ALPA, G., Manuale di diritto privato, Padova,
2005, p. 174; GAZZONI, F., Manuale di diritto privato, Napoli, 2006, p. 56-57.
61 JELLINEK, G., System der subjektiven öffentlichen recte, Tübingen, 1905, p. 44; nella

versione italiana, Sistema dei diritti pubblici soggettivi, trad. it. G. Vitigliano, Milano, 1912, p.
49. Ma la concezione a cui ci riferiamo trova origine in BERNATZIK, E., Kritische Studien über
Begriff der juristischen Person und über die jurisdische Persönlichkeit der Behörden insbeson-
dere, in Archiv für öffentliches Recht, 1890, V, p. 169 ss.
62 Di teoria combinatoria parlava già KELSEN, H., Problemi fondamentali della dottrina

del diritto pubblico, cit., p. 655.


63 Puntualmente ALLORIO, E., L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giu-

diziale, cit., p. 69 e CESARINI SFORZA, W., Diritto, Teoria generale: IV), cit., p. 684.
64 PUGLIATTI, S., Esecuzione forzata e diritto sostanziale, cit., p. 50.
332 CAPITOLO QUINTO

Se, infatti, «l’interesse è stimolo ad agire e la volontà è la molla del-


l’azione», allora «il diritto […] protegge gl’interessi, mediante il ricono-
scimento della volontà che li persegue, e la volontà non astrattamente
considerata, come facoltà del soggetto umano, sibbene come concreta
energia che si muove verso l’attuazione di uno scopo determinato»65.

65 PUGLIATTI, S., Esecuzione forzata e diritto sostanziale, cit., p. 59. Come si accennava in
chiave problematica poc’anzi nel testo, il riferimento all’«interesse protetto» presente nella
definizione di Pugliatti, ed ereditato fondamentalmente da Jellinek e Bernatzik, è qualcosa di
completamente diverso da quello che vuole esprimere Jhering mediante l’impiego di tale for-
mula. Per Jhering, infatti, lo strumento di protezione dell’interesse, non è la volontà, ma la tu-
tela giurisdizionale, l’azione (cfr. infra, § 2.5.1.). Per farsi chiarezza su come la volontà possa
proteggere l’interesse del titolare del diritto non c’è insomma altra strada che comprendere a
fondo la tesi in esame. Lontano dal vero sarebbe chi ritenesse che secondo Pugliatti la vo-
lontà protegge l’interesse nel senso che essa è decisiva per l’attuazione del precetto violato o,
semmai, del precetto secondario-sanzionatorio. Volendo semplificare l’architettura concet-
tuale a cui si affida Pugliatti per spiegare il rapporto tra la tutela giuridica e l’interesse (già au-
torevolmente fatta propria da BETTI, E., Il concetto dell’obbligazione costruito dal punto di vi-
sta dell’azione, cit., p. 11), il ragionamento dovrebbe essere impostato come segue. L’ordina-
mento giuridico consente al titolare del diritto di volgere la sua volontà verso il
perseguimento dei suoi interessi, ovvero – liberandosi da formule equivoche che hanno solo
l’effetto di rendere oscuro ciò che si vuole esprimere – di porre in essere quei comportamenti
che costituiscono attuazione concreta delle facoltà che il diritto gli riconosce. Ad es. il pro-
prietario può coltivare il fondo (potere di volere) per trarne frutto (interesse del proprieta-
rio). Visto che la coltivazione del fondo costituisce un’attività consentita e protetta da parte
dell’ordinamento la quale rappresenta il concretarsi della volontà del soggetto e visto che con
essa questi persegue l’interesse a trarre frutti dal fondo, allora possiamo dire che tale interesse
è protetto dall’ordinamento. Con questi chiarimenti credo si possa comprendere quanto af-
fermato dall’autorevole giurista laddove, senza alcuna esemplificazione concreta e ripren-
dendo formule note alla dottrina (interesse occasionalmente protetto, interesse legittimo,
ecc.), si distingue tra protezione dell’interesse in via diretta e quella in via indiretta (p. 57 ss.).
La diretta corrisponde al diritto soggettivo e si realizza – come detto – allorché si realizzi il
meccanismo del c.d. «riconoscimento della volontà» del soggetto titolare del diritto (esempio
appena indicato qui in nota). Alla tutela indiretta invece può corrispondere tanto l’«interesse
semplice» quanto l’«interesse occasionalmente protetto». La prima ipotesi si ha quando, pur
mancando il riconoscimento della volontà del soggetto, questi si avvantaggia indifferenziata-
mente, uti cives, della tutela diretta di un interesse generale, mentre la seconda ipotesi è
quando l’interesse del soggetto riceve dalla tutela diretta dell’interesse pubblico un vantaggio
particolare. L’interesse legittimo, infine, è protetto direttamente ma «vive nella sfera di un in-
teresse pubblico, il quale, acquistando prevalenza, può neutralizzare o annullare la prote-
zione» (p. 58-9). Riguardo questa classificazione numerose sarebbero le critiche di dettaglio
da avanzare, ma ciò ci porterebbe molto lontano dal punto specifico. Messa da parte, dun-
que, la questione relativa all’opportunità ed alla correttezza di riferirsi ad una tutela diretta ed
indiretta dell’interesse, specie se condotta nei termini appena accennati ovvero ancorati alla
rilevazione del vantaggio più o meno particolare ricevuto dal soggetto (ma v. infra, nel testo
§ 2.5.3. e a nota 131), basti, per tutte, la seguente osservazione: l’operazione concettuale pro-
posta da Pugliatti, secondo la quale l’interesse protetto è l’interesse a cui mira la volontà che
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 333

Allorché Pugliatti fa uso della formula in questione («potere della


volontà»), quindi, non si riferisce alla forza che la volontà del soggetto
esercita sulla norma, ma appunto alla «concreta energia» che si traduce
in comportamento attivo e che viene ad essere protetta dalla ordina-
mento giuridico mediante l’attribuzione di un «potere giuridico»66. Dal
potere del soggetto sulla norma si passa insomma al potere della norma
al soggetto.
Se, dunque, si depura questa concezione del forte volontarismo che
la permea e si vede nel concetto di potere null’altro che l’«alone protet-
tivo»67 con cui la norma avvolge l’attività lecita del singolo e che si
si concreta in attività consentite e protette conduce ad un risultato inaccettabile, ovvero
quello di porre una necessaria equazione tra l’insieme di tutti gli interessi a cui può astratta-
mente indirizzarsi la volontà del titolare del soggetto e l’interesse tutelato dall’ordinamento.
Ma ciò non è rispondente al vero. L’ordinamento opera solo influendo sui comportamenti
umani e così tutela e protegge solo (ma v. le precisazioni svolte infra, al § 2.5.3.) interessi che
potremmo definire al comportamento doveroso. Nell’esempio da noi proposto poc’anzi, allo
scopo di penetrare più agevolmente nella posizione di Pugliatti, appare evidente che l’ordi-
namento non protegge in alcun modo l’interesse a trarre frutti dal fondo, né peraltro l’inte-
resse a quest’ultimo strumentale del coltivare, ma solo a che nessun altro soggetto possa im-
pedire tale attività o interferirvi. La garanzia giuridica del soddisfacimento dell’interesse opera
solo, ovvero ha ad oggetto, ciò che il diritto – per quanto possibile – può garantire, cioè so-
lamente che gli altri consociati si astengano dal godimento del bene. Per meglio intenderci,
potremmo qui ricordare le formule che nel capitolo quarto (cfr. § 4, in fine) abbiamo usato
proprio per distinguere le due seguenti situazioni: a) Tizio↔(comportamento X)omnes, in
contrapposizione a b) Tizio↔(comportamento X)omnes + (comportamento Y)Tizio.
66 Elementi di affinità con questa concezione ricorrono in quella di FERRANTE, M., Il

concetto di diritto soggettivo ed alcune sue applicazioni, Milano, 1947, spec. p. 48 s., in cui si
constata che «tutte le prescrizioni giuridiche che contengono la determinazione che l’uomo
faccia valere un dato aspetto di sé, conferiscono, automaticamente, alla volontà individuale il
potere di attuare il contenuto normativo necessario a realizzare l’aspetto della vita preso in
considerazione: tale potere chiamiamo diritto soggettivo». Ulteriori elementi di affinità con le
tesi in esame sono presenti, seppur all’interno di un’impostazione teorica originale, in FRO-
SINI, V., Diritto soggettivo, in Noviss. Dig. it., V, Torino, 1960, p. 1048 ss.; ID., La struttura del
diritto, cit., p. 3 ss.; ID., Diritto soggettivo e dovere giuridico, cit., p. 207 ss., che nel diritto sog-
gettivo vede «l’esigenza di far valere la volontà soggettiva dell’agente come una volontà og-
gettiva (cioè legalmente definita), ed è dunque una facultas exigendi, una facoltà di esigere un
certo riconoscimento giuridico della propria azione» (p. 211), un «diritto al diritto» (p. 223);
non sembra dunque doversi ricondurre questa posizione all’orientamento che intende il di-
ritto soggettivo come diritto di pretendere l’adempimento dell’obbligo (su cui infra, § 2.4.),
come, invece, risulterebbe dalla lettura datane da COMPORTI, M., Formalismo e realismo in
tema di diritto soggettivo, in Riv. dir. civ., 1970, I, p. 435 ss., spec. p. 444, nota 26. La dicoto-
mia potere-dovere la si trova anche in RESCIGNO, P., Manuale di diritto privato, Milano, 2000,
p. 206 ss., ma senza il carico concettuale e dogmatico che generalmente si assegna alla figura
del potere quale situazione attiva all’interno del rapporto giuridico.
67 NATOLI, U., Il diritto soggettivo, cit., p. 60, seppur in riferimento alla figura della pre-

tesa.
334 CAPITOLO QUINTO

proietta nel concetto di diritto soggettivo per far partecipare questo all’i-
dea di protezione e di prevalenza giuridica che in realtà già a quella
stessa norma appartiene68, allora diviene agevole rendersi conto come la
definizione del diritto soggettivo in questione rinvii, pur rivestendola di
diverse forme terminologiche e con la moltiplicazione delle componenti
concettuali, alla stessa sostanza del fenomeno cui si dà rilievo nelle più
appaganti teorie del diritto soggettivo come agere licere, che non necessi-
tano né della figura del potere, né di quella della volontà, né – ancora –
del concetto di interesse per dare veste giuridica alla posizione di libertà
che è vista animare l’essenza del diritto soggettivo.

68 Questo tentativo è evidente laddove si cerca di porre in risalto il processo di sogget-


tivazione che si realizza con l’attribuzione al soggetto del diritto soggettivo da parte dell’or-
dinamento giuridico; si afferma infatti (PUGLIATTI, S., Esecuzione forzata e diritto sostanziale,
cit., p. 48-49): «ogni norma giuridica da cui derivi un potere di volere, si specifica in relazione
ad una concreta situazione, e finisce col garantire ad un determinato soggetto una posizione
di libertà o di preminenza»; così, «se a ciascun uomo è concesso un potere, come riflesso im-
mediato e generale della norma, e questo potere astratto e generale diviene concreto, il sem-
plice riflesso immediato della norma in rapporto al soggetto astrattamente considerato, di-
viene un potere specifico di un singolo soggetto, e quindi un suo diritto soggettivo». Secondo
questa lettura, si realizzerebbe, dunque, un processo di soggettivazione secondo il quale, at-
tribuendo la norma un potere di volere ad una certa classe di soggetti (ad es. i proprietari), al
realizzarsi dei fatti che condizionano l’effetto normativo (cioè l’attribuzione del potere di vo-
lere appunto), tale potere, prima astrattamente previsto, si concreta in capo al soggetto spe-
cifico rispetto al quale detti fatti si sono realizzati, divenendo un potere di volere suo, ovvero
un suo diritto, un diritto soggettivo. In questo senso, v. già BETTI, E., Il concetto dell’obbliga-
zione costruito dal punto di vista dell’azione, cit., p. 13; successivamente, anche NICOLÒ, R.,
L’adempimento dell’obbligo altrui, cit., spec. p. 75 ss., nel quale troviamo lo stesso processo di
soggettivazione del potere, ma all’interno di una linea ricostruttiva che esclude l’interesse da-
gli elementi costitutivi formali della nozione di diritto soggettivo: cfr. ID., Istituzioni di diritto
privato, Milano, 1962, p. 16 ss., laddove si evidenzia la preminenza del «momento del potere,
di quella situazione di forza, alla quale inerisce una situazione di libertà» (p. 18-19). Non dis-
simile, in fondo, INVREA, F., Diritti e potestà, in Riv. dir. comm., 1932, I, p. 125 ss., che vede
nel diritto soggettivo la «forza» che senza il diritto oggettivo la persona non avrebbe, «forza
che vale ad assicurarle (in linea etica) la signoria effettiva su ciò che è suum»; cfr. anche ID.,
La parte generale del diritto, Padova, 1935, p. 24 ss. Altra formula elegante di questo processo
di soggettivazione del potere la si trova in CICALA, F.B., Il rapporto giuridico, cit., p. 69, per il
quale il potere deve essere inteso non come potere materiale sul bene, ma come «lo stesso im-
pero della norma subiettivatasi», cosicché esso «esisterà indipendentemente dalla sua realiz-
zazione pratica, sulla società […] soggetta alla norma medesima». Cfr. retro, le osservazioni
critiche riportate alle note 30 e 58, in riferimento all’equazione tra diritto soggettivo e potere.
Per altre formule di soggettivazione, v. inoltre, retro, la posizione di Windscheid ed infra, le
osservazioni di Kelsen e Pekelis nella parte finale del § 2.5.2., nonché a nota 163; ed ancora,
per una riflessioni più specificamente rivolta alla critica del concetto di soggettivazione del di-
ritto sul piano metodologico, v. infra, § 2.5.4.1.
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 335

È ben comprensibile, dunque, che anche questa teoria, allorché


debba determinare il contenuto del diritto soggettivo, finisca per dar ri-
salto alla facoltà (o alle facoltà) protetta e tutelata dall’ordinamento giuri-
dico e che a questa sia assegnato il compito di fungere da «schema
astratto» di «un’attività considerata come possibile e come tipica»69, nel
senso che alla facoltà così concepita – è questo il punto a cui si vuol dare
risalto – spetta il compito di segnare i limiti – eccoci ancora all’immagine
savigniana della sfera come spazio libero e sicuro … – entro cui il diritto
protegge l’attività concreta del soggetto titolare del diritto soggettivo70.

2.3.1. I rapporti tra la possibilità di agire e l’obbligo nelle concezioni del di-
ritto soggettivo come posizione di libertà
Determinata, dunque, questa classe di teorie, tutte nella sostanza
concepite attorno all’idea del diritto soggettivo come posizione di libertà
del soggetto, si può ora concentrare l’attenzione proprio sulle osserva-
zioni critiche che contro il nucleo centrale di queste concezioni possono
essere rivolte, che poi è in fin dei conti la stessa idea di diritto soggettivo
come posizione di libertà.
Indirizzandoci, dunque, verso l’obiettivo or ora indicato, è peraltro
opportuno dar conto – procedendo per esemplificazioni significative – di
alcuni aspetti, solo apparentemente di dettaglio, che caratterizzano que-
ste teorie e che meglio definiscono l’immagine complessiva della strut-
tura concettuale da queste definita diritto soggettivo; è opportuno, in al-
tri termini, esaminare più analiticamente tale struttura formale nel suo
aspetto complessivo e non unicamente limitato alla componente ritenuta
essenziale.
A tal scopo appare fondamentale distinguere al loro interno tra due
fondamentali orientamenti ricostruttivi di cui il primo – la consistenza
del quale si andrà ora a chiarire – trova un’adeguata rappresentazione se
non, forse, nella posizione di Pugliatti, sicuramente in quella elaborata da
Natoli71.

69 PUGLIATTI, S., Esecuzione forzata e diritto sostanziale, cit., p. 87.


70 Così, PUGLIATTI, S., Esecuzione forzata e diritto sostanziale, cit., p. 92.
71 Come si legge nel testo, ciò che distingue la ricostruzione di Natoli rispetto a quella

degli altri AA. è l’aver ritenuto possibile concepire il diritto soggettivo quale possibilità di
agire senza la necessità di circondarlo di obblighi che lo assistono; concezione a cui ad es.
aderisce BIGLIAZZI GERI, L., Contributo ad una teoria dell’interesse legittimo nel diritto privato,
Milano, 1976, p. 71 ss. Vista poi anzi la posizione di PUGLIATTI, S., Esecuzione forzata e diritto
sostanziale, cit. (appunto caratterizzata dal rinvenire l’essenza del diritto soggettivo nel rico-
noscimento della volontà del soggetto che si indirizza, concretandosi, al soddisfacimento dei
336 CAPITOLO QUINTO

Il punto di partenza da cui muove questa concezione è la negazione


del rapporto giuridico nella sua configurazione dogmatica tradizionale,
concepita come contrapposizione di due situazioni giuridiche comple-
mentari (il diritto soggettivo e l’obbligo, ovviamente)72. Ponendo, infatti,
a fondamento di ogni indagine sulle situazioni giuridiche la norma e con-
statando come questa ricolleghi, come conseguenza, una situazione giuri-
dica (situazione-conseguenza) al verificarsi di una certa situazione di
fatto (situazione di fatto-presupposto), l’Autore in esame sostiene la pos-
sibilità che (a) da uno stesso fatto possano scaturire una situazione giuri-
dica o più situazioni giuridiche tra loro indipendenti o che (b) da uno
stesso fatto derivi l’investitura di più soggetti in situazioni giuridiche re-
suoi interessi: cfr. retro nel testo e in nota), potrebbe – pertanto – risultare corretto assimilare
tale posizione a quella di Natoli piuttosto che agli altri AA. citati nelle note che seguono e che
appartengono all’altro orientamento che si è ritenuto opportuno individuare nel testo. Tale
questione classificatoria, d’altra parte, è in fin dei conti secondaria rispetto agli obiettivi del-
l’indagine che svolgiamo. Basti ad es. pensare alla posizione di BETTI, E., Il concetto dell’ob-
bligazione costruito dal punto di vista dell’azione, cit., p. 11 ss., che già aveva visto – come
detto – nel diritto soggettivo il potere giuridico riconosciuto al soggetto in ordine al soddi-
sfacimento dell’interesse, ma che, d’altra parte, pur concependo in posizione correlativa al di-
ritto soggettivo solamente «limitazioni (soggezioni) giuridiche», talora non escludeva il ricor-
rere di veri e propri obblighi di condotta. Stesso discorso vale per le sorprendentemente si-
mili concezioni di ROCCO, Alf., La sentenza civile, cit., p. 26; ROCCO, Art., L’oggetto del reato
e della tutela giuridica penale, cit., p. 570 ss.; ROCCO, U., L’autorità della cosa giudicata e i suoi
limiti soggettivi, cit., p. 241, il quale ultimo – richiamato tra questi a scopo meramente esem-
plificativo – molto ha insistito sulla priorità dell’obbligo, rispetto al diritto (spec. p. 209, nota
2), ma che, d’altra parte, non ha poi esitato a ribaltare perfettamente la prospettiva riguardo
i diritti reali, nei quali gli obblighi di astensione dei soggetti passivi del rapporto apparireb-
bero come «conseguenza» delle facultates agendi riconosciute e protette al titolare del diritto
(ID., Trattato di diritto processuale civile, cit., p. 22). Tornando alla ricerca delle affinità sussi-
stenti tra la posizione di Natoli e le altre avanzate in dottrina, viene alla mente la voce di
GIORGIANNI, M., Diritti reali (diritto civile), in Noviss. Dig. it., V, Torino, 1957, p. 748 ss., ma
spec. p. 751, specie ove si sostiene che, diversamente dai diritti di credito, l’interesse del pro-
prietario non è realizzato mediante il comportamento di altri soggetti, «per cui, ammesso che
al diritto del proprietario corrisponda un dovere di tutti gli altri soggetti (e non piuttosto,
come noi propendiamo a credere, una soggezione), manca qualsiasi corrispondenza tra tale
dovere ed il potere del proprietario. L’imposizione di siffatto dovere ai consociati è espres-
sione semplicemente del precetto generico del neminem laedere. L’interesse del proprietario,
di godere in modo pieno ed esclusivo, è invece perfettamente realizzato da un potere imme-
diato sulla cosa, ovverosia del permesso di soddisfare direttamente sulla cosa l’interesse (di
godimento) protetto». Concezione, quest’ultima richiamata, che riecheggia evidentemente
quella di ROMANO, Santi, L’ordinamento giuridico, Firenze, 1946, p. 93 ss., ma soprattutto ID.,
Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1953, p. 52 ss., ma spec. p. 58 e poi 103, su cui
v. infra il cenno nel testo e le relative riflessioni critiche in nota 97.
72 NATOLI, U., Il diritto soggettivo, cit., p. 9 ss.; DUSI, B., Diritti subiettivi e facoltà giuri-

diche, nuove considerazioni intorno alla categoria degli atti meramente facoltativi, in Studi se-
nesi, 1902, ora in Scritti giuridici, I, Torino, 1965, p. 45.
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 337

ciprocamente funzionali. Solo in quest’ultimo caso si realizzerebbe un


rapporto giuridico, inteso come «relazione di funzionalità che lega due o
più situazioni giuridiche aventi in comune una identica [b]ase di fatto»73.
Su questo sfondo teorico si giustificherebbe la possibilità di conce-
pire taluni diritti soggettivi, ed in particolare quelli reali di godimento,
come situazioni giuridiche soggettive autonome («possibilità di agire au-
tonoma»), ovvero non legate – come al contrario dovrebbe accadere nei
diritti di credito o di obbligazione («possibilità di agire funzionale a una
necessità di agire») – da un vincolo di funzionalità (rapporto giuridico)
con un’altra74.
Per dirla in altri termini nei diritti di godimento la facultas agendi
starebbe lì da sola, autonoma, autosufficiente, senza necessità di conce-
pire accanto ad essa obblighi di astensione «serventi»75.
Diversamente accade nel secondo e ben più ampio orientamento te-
stè indicato, che, pur rappresentando il diritto soggettivo come agere li-
cere o facultas agendi, opera comunque all’interno della concezione bila-
terale della norma; ragion per cui alla posizione di libertà corrispondente
al diritto soggettivo fa da contrappunto la figura dell’obbligo.
Si pensi, ad esempio, alla rappresentativa immagine che ci dà Del
Vecchio; per il quale la facoltà giuridica dovrebbe essere scomposta in
due «momenti logici, che procedono […] da una sola ragione genera-
trice: l’uno, che di essa facoltà o diritto potrebbe dirsi il lato interiore,
rappresenta la possibilità del soggetto di agire in conformità e dentro i li-
miti degl’imperativi; l’altro, il lato esteriore, denota l’impossibilità di ogni
impedimento, e rispettivamente la possibilità del soggetto di reagir contro
questo, secondo lo stesso ordine d’imperativi per cui la prima possibilità
è istituita»76.
73 NATOLI, U., Il diritto soggettivo, cit., p. 15 ss., ma cit., p. 18.
74 NATOLI, U., Il diritto soggettivo, cit., spec. p. 27 ss., 48 ss., p. 71 ss. per l’esame dei
contenuti del diritto soggettivo.
75 L’immagine più nitida della concezione contraria la si trova in CARNELUTTI, F., Teoria

generale del diritto, cit., p. 171, per il quale la «combinazione tra facoltà e obbligo consiste in
due uomini, uno dei quali è libero e l’altro guardato da un terzo armato, pronto a impedirgli
di sbarrare al primo la strada».
76 DEL VECCHIO, G., Il concetto del diritto, cit., p. 99. Cfr. anche ID., Lezioni di filosofia

del diritto, Milano, 1965, p. 225: «se si afferma che una data azione è, in questo senso obiet-
tivo, conforme al principio etico, si afferma con ciò soltanto che non deve avvenire da parte
di altri un’azione incompatibile con essa: ciò che un soggetto può fare non deve essere im-
pedito da un altro soggetto. Il principio etico in questa forma tende dunque ad istituire un
coordinamento obiettivo dell’operare, e si traduce in una serie correlativa di possibilità e im-
possibilità di contegno rispetto a più soggetti. Questo coordinamento etico obiettivo è il
campo del diritto». La coesistenza tra lato interno ed esterno del diritto, così concepita, oltre
338 CAPITOLO QUINTO

In altri termini, il diritto soggettivo potrebbe essere concepito come


una medaglia dalle due facce, rappresentate, l’una, dalla possibilità di
agire e, l’altra, dalla «esigibilità giuridica del rispetto» ed in cui questa se-
conda faccia è rivolta verso il dovere che necessariamente gli corri-
sponde77.
Questa immagine raffigurativa (aspetto interno ed esterno del di-
ritto) la troviamo analogamente in molti illustri Autori, quali, tra i tanti,
Santoro Passarelli78, ma riceve particolare svolgimento in Levi, secondo il

che in Del Vecchio, la cui immagine di presentazione è particolarmente suggestiva, si ritrova


in molti studiosi; di questi, tra poco, vedremo più da vicino la concezione di Alessandro Levi
per la significatività di taluni aspetti della stessa. V. inoltre gli AA. cit., alla nota 78, oltre al
già esaminato Cicala, su cui, v. retro, nota 59.
77 DEL VECCHIO, G., Il concetto del diritto, cit., p. 99 e 100. Si precisa inoltre che l’esi-

gibilità del rispetto, ossia la ragion di pretendere si riscontra in ogni diritto, ma sarebbe,
prima della violazione, solamente «latente», divenendo a seguito di essa vera «reazione giuri-
dica» ed esprimendosi sul piano concreto e tecnico con l’azione (p. 101 s.).
78 SANTORO PASSARELLI, F., Dottrine generali del diritto civile, cit., p. 71. V. anche DO-

NATI, B., Interesse e attività giuridica, Bologna, 1909, p. 44 ss.; VANNI, I., Lezioni di filosofia del
diritto, Bologna, 1920, p. 106; BARASSI, L., Istituzioni di diritto civile, Milano, 1921, p. 48 e
102 ss.; RAVÀ, A., Istituzioni di diritto privato, Padova, 1938, p. 25, che cita Romagnosi per il
quale il diritto è «la potestà dell’uomo tanto di agire senza ostacolo a norma di legge, quanto
di conseguire da altri ciò che gli è dovuto in forza della legge medesima»; ID., Lezioni di filo-
sofia del diritto, III, Il concetto del diritto, Padova, 1936, p. 147 ss.; BARILE, G., I diritti asso-
luti nell’ordinamento internazionale, Milano, 1951, p. 31 ss.; BATTAGLIA, F., Alcune osserva-
zioni sulla struttura e sulla funzione del diritto, in Riv. dir. civ., 1955, p. 509 ss.; ID., Corso di
filosofia del diritto, II, Roma, 1957, p. 165 ss.; GASPARRI, P., Relatività dei concetti di diritto og-
gettivo e di diritto soggettivo, in Studi in onore di G.M. De Francesco, Milano, 1957, p. 267 ss.,
che (spec. 295) afferma che «il riconoscimento di una facoltà di agire è connesso, e bisogna
che sia connesso, perché la facoltà non rimanga sterile di effetti pratici, con [la] pretesa», pro-
ponendo – così – un esempio la cui inesattezza rileviamo infra, nel testo: «la mia facoltà di
camminare sulle pubbliche vie non avrebbe praticamente senso, se io non avessi anche la fa-
coltà di reagire nei modi legalmente stabiliti contro chi mi impedisca la deambulazione». Seb-
bene all’interno della sua particolare concezione, v. anche FROSINI, V., Diritto soggettivo e do-
vere giuridico, cit., p. 233. Questo orientamento tende poi ad evolversi nelle concezione
«composite» del diritto soggettivo, il quale diviene aggregato di situazioni soggettive semplici:
cfr. oltre agli AA. che si citano nel testo (spec. Guarino), la posizione di Fazzalari, su cui v.
infra, nota 99, ma spec. nota 122. Nella manualistica più recente, specie per ragioni di sem-
plificazione espositiva, questo orientamento trova peraltro un buon seguito, tant’è che – so-
vente – la materia da trattare è organizzata proprio prevedendo una parte più generale dedi-
cata alle «situazioni giuridiche soggettive», che si sottoarticola in più voci tra cui il diritto sog-
gettivo, il quale appare come aggregato di più situazioni soggettive semplici. Cfr., ad es.:
TRIMARCHI, P., Istituzioni di diritto privato, cit., p. 60, che evidenzia l’essenzialità della sola
pretesa nel concetto di diritto soggettivo, ma ciononostante non ritiene opportuno superare
la nozione di questo quale insieme di pretese, facoltà, poteri, immunità; GALLO, P., Istituzioni
di diritto privato, Torino, 2000, p. 41 ss.; NIVARRA, L. - RICCIUTO., V. - SCOGNAMIGLIO, C., Isti-
tuzioni di diritto privato, Torino, 2002, p. 49 ss.; IUDICA, G. - ZATTI, P., Linguaggio e regole del
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 339

quale il diritto soggettivo dovrebbe essere concepito attorno all’idea del


licere, ed in particolare, non del licere «semplice» quanto del licere «qua-
lificato», corrispondente – appunto – al diritto in senso soggettivo79. Ciò
posto, però, l’illustre studioso or ora citato, constatato che tale situazione
di liceità non ha per contenuto un esse del soggetto, ma un habere dello
stesso, trova naturale chiedersi – e non a caso, come vedremo – «di
fronte a chi» tale liceità sussista. Emerge così l’«aspetto intersoggettivo
inerente ad ogni facoltà, cioè la pretesa, la pretesa di non essere impedito
da chi che sia […] in quello ch’è il legittimo esercizio di facoltà»80; come
viene ulteriormente chiarito con altre parole: «se […] il carattere speci-
fico della valutazione giuridica è quello di considerare i comportamenti
nel loro aspetto intersoggettivo, è evidente che il momento della facoltà,
se pur necessario, non è tuttavia sufficiente per caratterizzare il feno-
meno del diritto soggettivo, cioè per identificarne il concetto»81. Ma da
questa osservazione sgorga, quale naturale conseguenza dell’aver co-
struito il concetto di facoltà assieme a quello di pretesa82, la necessità di
porsi un secondo l’interrogativo teso a individuare la «prestazione com-
plementare a tale pretesa»; ed ecco che, come in Del Vecchio, in posi-
zione corrispettiva al diritto soggettivo, quale sintesi della facoltà (lato in-
teriore) e della pretesa (lato esteriore), si pone il dovere83.
Ancora nella sostanza fedele a questa linea interpretativa appare la
posizione di Sperduti, per il quale il diritto soggettivo è una «situazione
composta», data dalla risultante di una pretesa (concepita come mera de-
stinatarietà dell’obbligo) e di una facoltà di agire84. E ciò che rende molto
diritto privato, Padova, 2003, p. 48 ss.; MAJELLO, U., Situazioni soggettive e rapporti giuridici.
Fatti atti e negozi giuridici, in Istituzioni di diritto privato, a cura di M. Bessone, Torino, 2004,
p. 63 ss.; ZATTI, P., Corso di diritto civile, Padova, 2006, p. 13 ss.
79 LEVI, A., Teoria generale del diritto, cit., p. 248 ss.
80 LEVI, A., Teoria generale del diritto, cit., p. 253.
81 LEVI, A., Teoria generale del diritto, cit., p. 286.
82 Punto sul quale v. anche le note di Levi a THON, A., Norma giuridica e diritto sogget-

tivo, cit., spec. p. 147.


83 LEVI, A., Teoria generale del diritto, cit., p. 253, 280 ss., 301 ss.
84 SPERDUTI, G., Contributo alla teoria delle situazioni giuridiche soggettive, cit., p. 83 ss.

Preme notare che la posizione dell’A. indicato muove proprio dalla necessaria intersoggetti-
vità delle norme (p. 68 ss.) ponendo in risalto l’importanza sistematica della posizione di «de-
stinatarietà» dell’obbligo (su cui v. infra, § 2.4.) quale situazione favorevole inattiva (p. 71). È
così che l’A. giunge a chiedersi come definire tale posizione e se ad essa corrisponda il diritto
soggettivo. La risposta negativa a tale ultimo quesito giunge sulla scorta dell’osservazione se-
condo la quale «o si rifiuta il concetto di “agere licere”, di lecito in senso giuridico – ma chi
vorrà farlo per appianare una questione terminologica –; o si conclude per la non coincidenza
dei concetti di diritto soggettivo e di situazione giuridica risultante dalla combinazione della
destinatarietà di obblighi altrui con proprie facoltà di agire, per quanto intimo possa essere il
340 CAPITOLO QUINTO

vicina quest’ultima lettura indicata alle due precedenti è, sebbene all’in-


terno di una costruzione comunque sua propria, l’inscindibilità della fa-
cultas dalla pretesa; aspetto che anche qui assurge a punto ugualmente
centrale della ricostruzione85.
Il discorso di fondo non cambia nemmeno nella posizione di Bar-
bero, che, nel suo rigore ricostruttivo non cede alle lusinghe che il con-
cetto di pretesa avanza al fine di dar risalto formale-strutturale al carat-
tere intersoggettivo del diritto; in questa posizione, anzi, tale rilievo for-
male è escluso dalla stessa negazione del rapporto giuridico come legame
intersoggettivo; ma ugualmente si ritiene che dalla norma derivi, pur in
assenza di comunicazione reciproca, una situazione di necessitas (dovere)
accanto ad una di licitas (diritto), innegabilmente palesando – tra l’altro
anche esplicitamente – il legame funzionale che lega l’una all’altra86.
Ed alla figura dell’obbligo non si può rinunciare nemmeno nella po-
sizione di Cicala, che – come Barbero – valorizza la relazione giuridica
norma-soggetto anziché quella intersoggettiva, ma limita il concetto di
rapporto giuridico al solo titolare del diritto87. Così, l’obbligo appare as-
sorbito all’interno dello stesso diritto soggettivo. Infatti, il contenuto di
questo viene a presentare due lati, il primo, positivo, da cogliersi rispetto
al titolare del diritto, corrispondente alla «pretesa astratta» rivolta alla
«comunanza giuridica» da parte del soggetto del rapporto giuridico di

legame tra l’uno e l’altro elemento, per quanto possa avvenire – ed avviene in caso di attri-
buzione di obblighi di “pati”, di lasciar fare – che l’uno è semplicemente inconcepibile senza
l’altro» (p. 75-76). Tale considerazione porta, dunque, Sperduti a definire tale posizione di
destinatarietà come «pretesa» riservando al diritto soggettivo il compito di tenere assieme l’a-
gere licere con la pretesa. È proprio sulla base dell’impossibilità di concepire la facoltà di
agire slegata dall’obbligo, dunque, (cfr. anche la nota che segue) che tale scelta classificatoria
trova origine.
85 SPERDUTI, G., Contributo alla teoria delle situazioni giuridiche soggettive, cit., p. 85-86,

ove si afferma: «sempre, in una maniera o in un’altra, ma imprescindibilmente, lo svolgimento


di facoltà d’agire è garantito mediante obblighi di altri soggetti. Ciò significa che esse sempre
si accompagnano a pretese giuridiche, pur non essendo vero il viceversa». Tale impostazione è
peraltro coerentemente svolta, sicché per Sperduti anche al c.d. lecito semplice corrisponde un
obbligo, che è quello dell’alterum non laedere, mentre per il lecito qualificato, corrispondente
al diritto soggettivo, l’obbligo da generico si specifica sotto il profilo del suo contenuto (cfr. p.
84 ss.). Sul problema della rilevanza giuridica della sfera del lecito, v. infra, nota 99.
86 BARBERO, D., Il diritto soggettivo, cit., p. 28, 32, ma spec. p. 25, nota 53, ove si af-

ferma che la norma «sia pure guidata al fine di dar luogo a dei diritti, impone però, appunto
per raggiungere questo fine, direttamente e immediatamente dei doveri. Il diritto potrà, or sì
or no, secondo la ragion politica, precedere al dovere, come fine del comando: ma non può
mai preesistere logicamente (cronologicamente poi coesistono) come effetto del comando
medesimo».
87 Cfr. retro, nota 59.
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 341

un’attività concepita come possibile, ed il secondo, negativo, necessaria


integrazione del primo, viceversa apprezzabile rispetto a tale «giuridica
comunanza» e corrispondente all’«assoggettamento» di questa al co-
mando del titolare; «assoggettamento» che si tradurrebbe o in «una ne-
cessità generale ed assoluta, di non violare i rapporti giuridici che s’incen-
trano nel soggetto», o, se «si aggiunga una particolare relazione col sog-
getto», in «una necessità specifica, relativa, dell’obbligato, di compiere
determinati atti»; in tal caso il potere del soggetto avrebbe effetto «non
solo di fronte a tutta la società retta da un determinato ordinamento giu-
ridico […], ma anche, in particolare, su di una sfera più ristretta»88.
Da tenersi collocata in una posizione a parte, infine, pare la lettura
di Guarino. Il punto di partenza di tale complessa ed articolata ricostru-
zione è rappresentato dalla classificazione delle «fattispecie dinami-
che»89, le quali possono consistere in fattispecie normative di comporta-
menti interamente vincolati (cioè determinati in ogni loro elemento)90 e

88 CICALA, F.B., Il rapporto giuridico, cit., p. 110 ss., e poi, p. 439 ss. Riguardo questa dot-
trina, numerose sarebbero le osservazioni critiche da muovere, ma – tolte quelle che diretta-
mente attengono alla concezione del diritto soggettivo come libertà (sulle quali ci dilugheremo
ampliamente nel testo), nonché quelle (su cui, cfr. retro, nota 59) che potrebbero essere mosse
contro la proiezione idealistica che anima tale impostazione (proiezione che peraltro qui si ma-
nifesta in una variante particolarmente forte visto che la pretesa si dimostra essere effettiva-
mente generatrice dell’assoggettamento e dell’obbligo dei consociati), nonché ancora quella re-
lativa all’inspiegabile assenza di un rapporto giuridico ugualmente instaurantesi tra titolare
dell’obbligo e norma giuridica (su cui v. ancora retro, nota 59) – ci limitiamo in questa sede ad
evidenziare l’insostenibilità della contestuale esistenza di una necessità generica con una ne-
cessità specifica. Qui si è in presenta di una lampante forzatura ricostruttiva, dovuta all’effetto
congiunto dell’impronta idealistica della concezione, assieme alla tenace propensione a co-
struire il concetto di diritto soggettivo prendendo a modello esemplare ed esaurientemente
rappresentativo i diritti assoluti. Così, se si assume – per definizione – che il diritto soggettivo
consista in una pretesa, che parte dal soggetto per dirigersi verso tutta la collettività organiz-
zata, imponendo ad ogni consociato di riconoscere al titolare del diritto il libero esercizio della
sua attività lecita, allora, nelle ipotesi in cui, come tipicamente accade nei diritti di credito, il
contenuto della regola di diritto impone comportamenti attivi e specifici da parte degli stessi
consociati, occorre anche far sì che questo ulteriore fenomeno trovi posto nella definizione of-
ferta ed ecco che lungo questa linea si approda necessariamente alla coesistenza di una «ne-
cessità generale» con una «necessità specifica». Ma detto epilogo non solo è evidentemente ar-
tificioso, ma è anche intrinsecamente contraddittorio oltre che oscuro, poiché non è spiegato
per quale ragione la portata lato sensu costitutiva della pretesa, talora possegga una portata ge-
nerica e talaltra una portata specifica oltre che anche generica. La concezione di Cicala appare
in realtà, come molte altre, gravata dall’ennesima superfetazione di componenti concettuali
inutili. Anche in essa si è troppo legati ad immagini e metafore; immagini che poi si pongono
come necessari interlocutori da cui non è più dato prescindere.
89 GUARINO, G., Potere giuridico e diritto soggettivo, cit., p. 15 ss.
90 GUARINO, G., Potere giuridico e diritto soggettivo, cit., spec. p. 23-24.
342 CAPITOLO QUINTO

in fattispecie normative di comportamenti liberi (nella cui descrizione,


cioè, rimane anche solo uno «spazio bianco», non specificato, indetermi-
nato). Alle prime corrisponderebbe il c.d. «comportamento prescritto»,
alle seconde, invece, corrisponderebbe la «facoltà» («fattispecie norma-
tiva di un comportamento libero che consiste in una modificazione del
mondo materiale») e il «potere» («fattispecie normativa di un comporta-
mento libero che si pone come espressione della volontà di un pre-
cetto»).
Ciò premesso, secondo un’impostazione simile a quella già chiara-
mente espressa in Barbero, il diritto soggettivo e il dovere costituireb-
bero concetti da non riferirsi «all’atto ma alla posizione del soggetto, e
loro contenuto non è un comportamento, ma un rapporto» il quale «in-
tercorre tra un soggetto e la fattispecie normativa di un comportamento
dello stesso soggetto» e così, il primo indicherebbe un rapporto di
«liceità», mentre il secondo di «necessità»91; tali due «situazioni attive»
darebbero, dunque, origine ad una serie di combinazioni possibili in ri-
ferimento a ciascun tipo di fattispecie normativa dinamica, ovvero: di-
ritti-poteri, diritti-potestà, diritti-comportamenti-prescritti, oppure do-
veri-poteri, doveri-facoltà, doveri-comportamenti-prescritti.
Poste quindi da un lato le situazioni attive (diritto e dovere) che
comportano un agere, l’Autore in questione individua le situazioni inat-
tive, cioè quelle che «sorgono rispetto alla situazione altrui, che si riflette
su di un altro soggetto indipendentemente dalla di lui volontà o atti-
vità»92. Le favorevoli darebbero luogo, per un verso, alla «pretesa», che è
«la situazione favorevole (di interesse) di un soggetto corrispondente al-
l’obbligo o ad un vincolo della fattispecie normativa del comportamento
altrui» e, dall’altro, all’«interesse», che «è la situazione favorevole (di in-
teresse) di un soggetto, che casualmente si connette ad una situazione at-
tiva altrui o ad una parte del contenuto, senza che la norma abbia previ-
sto o voluto il collegamento tra il vantaggio del titolare della situazione
inattiva e la situazione attiva altrui». L’unica situazione inattiva sfavore-
vole sarebbe invece la «soggezione», che è «la situazione in cui viene a
trovarsi un soggetto rispetto ad una situazione attiva altrui o a una parte
del suo contenuto»93.

91 GUARINO, G., Potere giuridico e diritto soggettivo, cit., p. 25 ss., ma cfr. anche retro,
nota 41. Da ciò deriva la possibilità di concepire una serie di possibili combinazioni tra fatti-
specie normative dinamiche e situazioni attive: diritti-poteri, diritti-potestà, diritti-comporta-
menti prescritti, doveri-poteri, doveri-facoltà, doveri-comportamenti-prescritti (cfr. p. 31)
92 GUARINO, G., Potere giuridico e diritto soggettivo, cit., p. 37.
93 GUARINO, G., Potere giuridico e diritto soggettivo, cit., p. 39.
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 343

Diversamente da quanto accade nelle posizioni prima esaminate la


pretesa non è una parte del diritto soggettivo, né si confonde con esso,
contribuendo con la facoltà a darvi corpo, ma al contrario presenta ca-
rettiristiche opposte, ovvero: «il diritto soggettivo è una situazione attiva,
la pretesa una situazione inattiva; il diritto soggettivo è relativo alla fatti-
specie normativa di un comportamento dello stesso titolare, la pretesa è
relativa alla fattispecie normativa di un comportamento altrui; il diritto è
la possibilità di agire, la pretesa è un attendere»94.
L’epilogo di queste osservazioni è, in altri termini, la netta separa-
zione concettuale operata tra la posizione di libertà – cioè il diritto sog-
gettivo – e quella di pretesa. Circostanza quest’ultima che logicamente
conduce a sostenere – questo è un punto fondamentale – che la prima
(l’agere licere, il diritto soggettivo) non è suscettibile di violazione, ma solo
di impedimento di fatto, mentre così non è per la seconda (la pretesa), la
cui violazione si realizza con la violazione dell’obbligo95.
Lasciando al lettore la possibilità – se ne ha voglia – di inoltrarsi ul-
teriormente nell’architettura concettuale che dall’Autore in questione è
sapientemente edificata, giungiamo direttamente alle conclusioni che più
ci interessano: le strutture formali che di consueto vengono definite come
«diritti di credito» o «diritti reali» sono in realtà «situazioni complesse».
Nei primi confluiscono tanto una serie di diritti-poteri, quanto una pre-
tesa fondamentale a cui corrisponde l’obbligo del debitore. Ai secondi
appartengono tanto diritti-facoltà e diritti-poteri, quanto pretese a cui
corrispondono gli obblighi degli omnes96.

2.3.2. Critica alla concezione del diritto soggettivo come posizione di libertà

2.3.2.1. Considerazioni introduttive. – Riassumendo e semplificando,


la serie logica che queste teorie propongono è la seguente: presupposto
di tutte è ovviamente la norma giuridica attributiva di un diritto sogget-
tivo concepito come licitas o facultas; ma, mentre per un primo gruppo
di teorie, da questa norma può derivare anche solo una posizione di fa-
cultas, per un secondo gruppo di teorie, la facultas si accompagna con la
pretesa, che corrisponde al rovescio del dovere. All’interno di questo se-
condo gruppo è poi possibile distinguere tra coloro che concepiscono la
facultas agendi e la pretesa come due aspetti pur distinti ma pronti a

94 GUARINO, G., Potere giuridico e diritto soggettivo, cit., p. 40-41.


95 GUARINO, G., Potere giuridico e diritto soggettivo, cit., p. 80.
96 GUARINO, G., Potere giuridico e diritto soggettivo, cit., spec. p. 89 s.
344 CAPITOLO QUINTO

confondersi in un’unica entità concettuale e coloro che, al contrario, pur


ritenendo necessaria la loro simultanea presenza, pongono i due concetti
su piani assolutamente separati.
Ciò posto, possiamo subito evidenziare che la critica di questi orien-
tamenti può articolarsi in due successivi seppur connessi momenti che
corrispondono alla principale ragione di distinzione appena rimarcata tra
le diverse teorie indicate.
Innanzitutto, muovendosi su un piano di analisi logico-empirica, va
sottoposta a rigorosa verifica la possibilità di dare veste formale a quel-
l’insieme di fenomeni che comunemente riconduciamo alla nozione di di-
ritto soggettivo facendo affidamento esclusivo sull’entità strutturale es-
senziale corrispondente alla facoltà.
In secondo luogo, occorre verificare se l’impostazione teorica ap-
pena indicata è suscettibile di perfezionamento nel senso indicato dal-
l’ampio numero di teorie che nel diritto soggettivo vedono la coestistenza
della facoltà con la pretesa in ragione del carattere intersoggettivo della
posizione giuridica qui in esame.

2.3.2.2. La distinzione tra libertà e diritto. – Va subito detto che la


tendenza, diversamente manifestata, a ricondurre il diritto soggettivo al-
l’idea di libertà non tanto rileva per la sua inesattezza quanto per gli ef-
fetti distorsivi che produce rispetto al quid – questo ben presente a tutti
nel sua dimensione fenomenica – da rappresentare.
In relazione al primo vaglio critico – poc’anzi indicato – a cui oc-
corre sottoporre le teorie in esame, una prospettiva interessante da cui
prender le mosse, è quella già emersa in sede di studio della posizione di
Guarino e che si specifica nel chiedersi se sia possibile, configurando il
diritto soggettivo come pura possibilità giuridica, concepirne una viola-
zione senza ricorrere alla figura dell’obbligo.
Sembrerebbe di no, se lo stesso Santi Romano, espellendo dal con-
cetto di diritto assoluto il c.d. lato esterno e costruendo lo stesso come
rapporto intercorrente tra titolare del diritto e res, abbia dovuto comun-
que rinviare al generale e generico dovere che ha ciascuno di non turbare
l’altrui sfera giuridica per garantire al proprietario la sussistenza di tale
rapporto97.

97 ROMANO, Santi, Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1953, p. 52 ss., ma


spec. p. 58 e poi 103. Sul punto, v. le fondamentali osservazioni di PUGLIESE, G., Actio e di-
ritto subiettivo, cit., p. 53, nota 1, in cui, in critica alla concezione di Santi Romano poc’anzi
menzionata nel testo, si osserva come essa sia influenzata da «una concezione giusnaturali-
stica, che prescinde dall’esistenza di un diritto statuale» e si aggiunge: «soltanto con la limi-
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 345

Ed infatti, le teorie esaminate sino ad ora, e volutamente presentate


ponendo in risalto la posizione di libertà (dal precetto normativo) che
tutte ritengono animare l’idea di diritto soggettivo ed attorno alla quale
ne costruiscono il concetto, correttamente avvertono che tale posizione
di libertà va ritenuta semplicemente opposta a quella di dovere.
Come emerge ad esempio con estrema chiarezza dalla parole di Bar-
bero, infatti, il comportamento libero non è vietato e, al contrario, il
comportamento vietato non è libero. Ma – questo è il punto – muovendo
da questa constatazione, dette teorie poi cadono in errore proprio nel vo-
ler sovrapporre – seppur con diverse tecniche di formalizzazione – a tale
posizione di libertà il concetto di diritto soggettivo sino a decretarne la
coincidenza logica. È in questo successivo passaggio che tali dottrine non
si avvedono che il diritto soggettivo diviene anch’esso opposto del dovere,
mentre, al contrario, dovrebbe esserne il correlativo98.
Si tengano presenti le due seguenti norme X e Y99:
X) se A, allora Tizio può godere del bene;
Y) se A, allora il non godimento del bene è doveroso per Caio e
Sempronio.

tazione della libertà dei terzi la figura del diritto reale e quella del diritto assoluto in genere
possono sorgere in un ordinamento positivo». Similmente in ID., Diritti soggettivi: b) Diritti
reali, in Enc. dir., XII, Milano, 1964, p. 755 ss., ma spec. p. 765 s. Cfr. anche GIULIANO, M.,
Norma giuridica, diritto soggettivo ed obbligo giuridico, Modena, 1952, p. 26; ALLORIO, E.,
L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale, cit., p. 60; SANTORO PASSA-
RELLI, F., Diritti soggettivi: a) Diritti assoluti e relativi, in Enc. dir., XII, Milano, 1964, p. 748 ss.,
ma spec. p. 751 ss.
98 AUSTIN, J., Lectures on Jurisprudence or The Philosofy of Positive Law, London, 1873,

p. 353 ss. e poi 404 ss.; ma successivamente tali concetti sono stati definitivamente chiariti da
HOHFELD, W.N., Concetti giuridici fondamentali (Fundamental Legal Conceptions, New Ha-
ven, 1923), Torino, 1969, p. spec. p. 17 ss.; e poi, ROSS, A., Diritto e giustizia (On Law and Ju-
stice, London, 1958), trad. it., Torino, 2001, spec. p. 149 ss., 154 ss.
99 Come appare ovvio il presupposto logico dell’esemplificazione che andiamo svol-
gendo nel testo è che il non vietato sia lecito. Ossia concepiamo l’ordinamento come votato a
«ritagliare», all’interno degli infiniti possibili comportamenti umani, quelli doverosi; ciò pe-
raltro può esser sostenuto o immaginando che il lecito cada nell’irrilevante giuridico o imma-
ginando che sia posta una norma generale che qualifica come lecite tutte le attività umane e
che faccia da sfondo alle norme specifiche rivolte ad isolare quelle vietate (così, ad es., PU-
GLIESE, G., Facoltà e proprietà temporanea nella struttura dell’usufrutto, in Riv. trim. dir. proc.
civ., 1956, p. 444 ss., p. 458; cfr. anche ID., Usufrutto, uso e abitazione, in Trattato di diritto ci-
vile italiano, Torino, 1972, p. 56 s.). La questione è tanto delicata quanto importante: proce-
diamo cautamente. Nelle esemplificazioni presentate nel testo facciamo spesso impiego di un
linguaggio con funzione prescrittiva, che potrebbe far pensare che gli schemi logici delineati
possano trovare fondamento solo all’interno di una concezione imperativistica del diritto.
Questa opinione ad esempio la si ritrova in FAZZALARI, E., Note in tema di diritto e processo,
cit., p. 68 ss. (ma cfr. anche Introduzione alla giurisprudenza, Padova, 1984, p. 54 s.), secondo
346 CAPITOLO QUINTO

Dall’interpretazione di questa seconda norma Y deriva che: né Caio


né Sempronio possono godere del bene. Sulla posizione di Tizio la
cui risulterebbe decisivo, per attribuire alla «facoltà» la dignità di situazione giuridica auto-
noma, da un lato, il superamento dell’impostazione imperativistica e, dall’altro, la stessa pre-
visione positiva di attività facoltative ricondotte alla figura del diritto soggettivo. Ma né la
prima né la seconda questione, incidono – a parer nostro – sulla possibilità di concepire la fa-
coltà come situazione giuridica soggettiva autonoma e nemmeno consentono – come vedremo
nel testo e anche in questa stessa nota – di scalsare la correlazione logica necessaria che inter-
corre tra obbligo e diritto soggettivo e non tra obbligo e libertà. Così, parimenti non condi-
visibili sono le affermazioni secondo cui (p. 71) le facoltà protette costituiscono il «presup-
posto», il «prius logico» del divieto (cfr. infra, nel testo e in nota). Né seguire l’impostazione
secondo cui l’essenza del diritto non consiste nel comandare ma anche nel qualificare tutti i
comportamenti umani altera i termini del problema (v. sul punto le giuste critiche di COR-
DERO, F., Le situazioni soggettive nel processo penale, Torino, 1956, p. 245). Chi segue questa
linea di pensiero, infatti, (cfr. il già citato PUGLIESE, G., Facoltà e proprietà temporanea nella
struttura dell’usufrutto, cit., spec. 449 ss.; e similmente CASSARINO, S., Le situazioni giuridiche
e l’oggetto della giurisdizione amministrativa, cit., p. 46 ss.), dopo aver correttamente rilevato
la mancata coincidenza tra diritto soggettivo e facoltà, afferma anche che occorre tener di-
stinto il piano della protezione e il piano della qualificazione giuridica, al quale ultimo la fa-
coltà apparterrebbe. Secondo questa impostazione si potrebbe, quindi, parlare di un «com-
portamento non protetto», ossia non garantito mediante l’imposizione di obblighi altrui, e di
un «comportamento irrilevante», cioè privo di conseguenze giuridiche, ma non di un «com-
portamento indifferente», ossia non qualificato dal diritto (p. 456). Ma anche tale imposta-
zione non potrebbe in alcun modo condurre a ritenere che sia possibile costruire lo schema
formale-strutturale del diritto soggettivo mediante l’uso della facoltà, né ad attribuire a que-
sta la veste di situazione soggettiva elementare da far rifluire nel più ampio e complesso
schema del diritto soggettivo. Difatti, se si ritenesse corretto seguire la lettura da ultimo ri-
portata, si dovrebbe certamente ritenere che tutti i comportamenti non vietati – qualsiasi na-
tura essi abbiano – siano da ritenersi qualificati dall’ordinamento come leciti, ma, d’altro
canto, tale ultima circostanza, non avrebbe alcuna specifica relazione strutturale con l’appa-
rato protettivo che il diritto appresta (di ciò, pur distinguendo con molto rigore la facoltà dal
diritto soggettivo, non sembra avvedersi né PUGLIESE, G., Facoltà e proprietà temporanea nella
struttura dell’usufrutto, cit., p. 461, ma v. anche le precisazioni in Usufrutto, uso e abitazione,
cit., spec. p. 59; né CASSARINO, S., Le situazioni giuridiche e l’oggetto della giurisdizione ammi-
nistrativa, cit., p. 105). Se insomma si seguisse questa prospettiva, per esemplificare, dire che
la facoltà di godimento corrisponde ad una situazione giuridica elementare che contribuisce
a «costruire» il diritto soggettivo di proprietà equivarebbe a dire che la facoltà del creditore
di maledire il debitore inadempiente appartiene alla veste strutturale del diritto di credito. Ha
dunque perfettamente ragione CESARINI SFORZA, W., Diritto, Teoria generale: IV), cit., p. 690,
nota 89, nel sostenere l’inutilità di tale ulteriore qualificazione: il permesso di fare qualcosa –
in cui la facoltà si risolverebbe – avrebbe l’unico significato di avvertire che un dato compor-
tamento prima vietato ora non lo è più, «né vale il dire che appunto con tale dichiarazione il
diritto mostra di interessarsi di quel comportamento, perché in realtà, se ne interessa per av-
vertire … che se ne disinteressa». Volendo inoltre essere completamente rigorosi – a giudizio
di chi scrive – si presenta un ulteriore decisivo argomento contro la valorizzazione della fa-
coltà sul piano tecnico-giuridico, e ciò non tanto e non solo in riferimento alla possibilità (v.
le osservazioni svolte nel testo) di portarla a coincidenza con la figura del diritto soggettivo,
ma anche – solamente – in relazione alla possibilità di concepirla come situazione giuridica
autonoma. Nel testo andiamo scrivendo che la posizione di libertà corrisponde all’esenzione
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 347

norma tace e dunque, se immaginiamo che al non vietato corrisponda il


lecito, ne consegue che Tizio può godere del bene. Tradotto in situazioni
dall’obbligo (cfr. già AUSTIN, J., Lectures on Jurisprudence or The Philosofy of Positive Law,
cit., p. 355). Si pensi, dunque, alla norma n che impone a Caio il comportamento doveroso Y.
Muovendo dalla concezione che vede nella norma un giudizio valutativo (già Zitelmann e poi
Kelsen) potremmo dire che, stando alla norma n il comportamento Y di Tizio è valutato
come lecito, in quanto per Tizio manca l’obbligo. Come affermato da Barbero (su cui cfr. re-
tro nota 42): «avere dovere significa precisamente essere legati di fronte alla norma e aver di-
ritto significa invece essere sciolti di fronte alla norma». Ma rispetto questo modo di rappre-
sentare la norma è possibile formulare due osservazioni che, se non ne inficiano la corret-
tezza, quanto meno evidenziano la relatività di questa tecnica rappresentativa. La prima
osservazione che va proposta è quella che mira ad evidenziare il fatto che, sovente, noi siamo
abituati a descrivere il comportamento c.d. doveroso separando il comportamento dal sog-
getto e così diciamo che il comportamento X, pagare la somma dovuta, è doveroso per Tizio
o per Sempronio; ma come esattamente osservato (cfr. IRTI, N., Sul concetto di titolarità (Per-
sona fisica e obbligo giuridico), in Due saggi sul dovere giuridico (obbligo-onere), Napoli, 1973,
p. 1 ss., ma p. 26 ss.) ciò costituisce «un processo di duplicazione che rompe la compatta realtà
del contegno e separa chi agisce da ciò che è agito». La seconda osservazione riguarda, in-
vece, proprio la possibilità di concepire la norma come giudizio di valutazione. Difatti la
norma, colta in sé stessa, nella sua assolutezza, come formula descrittiva di una dimensione
dell’essere perfettamente autonoma, può essere rappresentata anche in maniera differente,
privando questa delle valutazioni di valore che vi dovrebbero appartenere e che invece ap-
partengono all’uomo che con tale realtà si relaziona ab externo. Pensiamo alla norma che al
ricorrere di una certa fattispecie pone in capo a Tizio l’obbligo di pagare una certa somma di
denaro. Potremmo dire, facendo uso di un linguaggio prescrittivo: se A, allora Tizio deve pa-
gare. Ma svolgendo la linea di pensiero testé indicata possiamo semplicemente dire, se A, Ti-
zio paga. Sotto questo profilo potrebbe apparire veramente puntuale l’osservazione di ROSS,
A., Diritto e giustizia, cit., p. 149 ss., volta a rimarcare la stessa connotazione ideologica del
termine «dovere». In altri termini, assumiamo la norma come schema logico che descrive una
realtà fenomenica normativa autosufficiente ed autonoma. Su questo piano, il comporta-
mento non è doveroso, ma «è» e basta. La c.d. doverosità, la c.d. necessità giuridica non sono
connotazioni che appartengono alla norma in sé, ma proiettano sulla norma il dramma del
suo solo possibile concretarsi. Invece, noi potremmo ragionare in questi termini: è come se
ogni singola norma rappresentasse la descrizione di un fenomeno che si svolge in una dimen-
sione autonoma e separata, di cui la fattispecie costitutiva rappresenta la condizione di esi-
stenza, il limite dell’essere, ed entro cui appunto si svolge il fenomeno descritto. È come se la
norma dicesse: «nel mondo in cui Tizio ha concluso il contratto con Caio, Tizio paga la
somma di denaro». Procedendo da questa rigorosa separazione dei diversi piani di intelle-
zione del fenomeno normativo, conseguenza necessaria appare – per ciò che riguarda la no-
stra specifica questione – l’impossibilità di qualificare il comportamento di Caio come lecito.
Infatti il comportamento di Caio è un quid diverso dal comportamento di Tizio e riguardo ad
esso la norma nulla dice! All’interno della cornice fenomenica che la norma si autoimpone, il
comportamento di Caio, la facoltà di Caio non esite! Così impostata la questione ci si sottrae
ai possibili equivoci che possono derivare dal ritenere la norma un giudizio valutativo. In
questa prospettiva, infatti, è più facile confondersi e ritenere che la prescrizione di un certo
comportamento di Tizio possa equivalere ad un giudizio di liceità rispetto ad un pari com-
portamento di Caio. Alla luce di queste considerazioni, nonché di quelle che andiamo svi-
luppando nel testo, occorre quindi dar ragione all’orientamento dottrinale che già da tempo
si è dimostrato propenso a porre la sfera del lecito nell’irrilevante giuridico (già, THON, A.,
348 CAPITOLO QUINTO

soggettive abbiamo, un obbligo, cioè un comportamento doveroso di


Caio e di Sempronio, ed una posizione di libertà di Tizio.

Norma giuridica e diritto soggettivo, cit., spec. p. 279 ss. da noi, cfr. FERRARA, F., Trattato di di-
ritto civile italiano, I, cit., p. 325 ss.; ma soprattutto ALLORIO, E., L’ordinamento giuridico nel
prisma dell’accertamento giudiziale, cit., p. 16; CESARINI SFORZA, W., Il diritto soggettivo, in Riv.
it. sc. giur., 1947, p. 181 ss., ma spec. p. 205; ID., Diritto, Teoria generale: IV), cit., p. 689 ss.;
ROSS, A., Diritto e giustizia, cit., p. 155; più di recente, IRTI, N., Introduzione allo studio del di-
ritto privato, cit., p. 51 ss.). Così, ugualmente, coglieva nel segno THON, A., Norma giuridica e
diritto soggettivo, cit., affermando che l’attività di godimento – che di regola è configurata
quale contenuto del diritto di proprietà in tutte le teorie che muovono dall’idea di diritto sog-
gettivo come libertà – è, di per sé, attività di mero fatto. La diversa opinione ha condotto ad
aporie concettuali di non poco rilievo. Non solo, infatti, come diamo conto nel testo, anche il
contenuto del diritto di credito è stato concepito come possibilità giuridica, ma è stato anche
negato che, in ipotesi quali la nuda proprietà, si verifichi la separazione della facoltà di godi-
mento dal contenuto del diritto di cui fa parte, ritenendo che tale fenomeno sia al contrario
una particolare manifestazione di questa stessa facoltà di godimento o della facoltà di dispo-
sizione. Più precisamente si è detto che in tali casi il soggetto «non si spoglia della facoltà di
godimento, ma pone dei limiti (naturalmente temporanei) alla libera esplicazione di essa, legit-
timando nella sfera del proprio diritto l’attività di godimento di un altro soggetto» (NATOLI,
U., Il diritto soggettivo, cit., p. 81-82). Ma, ammesso – come queste tesi ammettono (cfr. Pu-
gliatti, Natoli) – che la tutela offerta dal diritto soggettivo non investa il godimento effettivo,
ma la possibilità di godimento – appartenendo al diritto quale suo contenuto non l’attività
concreta ma lo schema secondo cui questa attività deve svolgersi (PUGLIATTI, S., Esecuzione
forzata e diritto sostanziale, cit., p. 87; NATOLI, U., Il diritto soggettivo, cit., p. 75) – ci si chiede
come sia possibile non avvedersi che proprio tale schema non appartiene più attualmente al
contenuto del diritto soggettivo in questione e che tali «limiti (naturalmente temporanei)» a
cui si fa riferimento, altro non sono che l’obbligo del proprietario di astenersi dal godimento
del bene; obbligo che – come ben può accadere – non si proietta nell’eternità, ma la cui sus-
sistenza è a priori limitata nel tempo. Né è dotata di efficacia dimostrativa l’affermazione se-
condo cui, «se […] scopo del diritto ne è l’attuazione, la possibilità di godimento ne è un mo-
mento essenziale» (come afferma FINZI, E., Il possesso dei diritti, Milano, 1968, p. 300).
Ognun vede, infatti, che una cosa è ritenere che il diritto abbia come scopo quello di realiz-
zare a favore del proprietario la migliore condizione (giuridicamente possibile) per trarre dal
bene tutte le utilità che esso gli può offrire, altra cosa è determinare quali siano gli strumenti
che il diritto utilizza per raggiungere detto scopo. Questo modo di vedere è comunque straor-
dinariamente radicato nella nostra dottrina, come è dimostrato dal recente ed ampio lavoro
di GRAZIADEI, M., Diritto soggettivo, potere, interesse, cit., p. 53 ss. In conclusione, quindi, la
questione che dovrebbe essere chiara al termine di questa lunga nota è la seguente: anche l’o-
rientamento metodologico che pone la norma al centro del fenomeno giuridico, pur costi-
tuendo un passo avanti lungo la strada dell’affrancamento del concetto di diritto soggettivo
dalla prospettiva giusnaturalistica, può dar luogo a distorzioni dovute alla stessa concezione
della norma accolta. La concezione della norma come giudizio di valutazione, prevalente-
mente seguita – sebbene lungo percorsi non sempre lineari – dalla nostra dottrina, ne può
creare di particolarmente dannosi allorché si guardi alla proposizione normativa come ad una
possibile fonte di infiniti criteri di valutazione dei comportamenti umani. Da questa prospet-
tiva la dottrina tende a tessere infinite trame tra diverse qualificazioni, cioè tra diversi nessi
relazionali che possono essere istaurati tra norma e fatto, tra norma e comportamento, tra
norma e soggetto. Questa è ad esempio la strada che conduce alla proliferazione delle situa-
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 349

Dall’interpretazione della norma X deriva invece che Tizio può go-


dere del bene. La norma nulla dice riguardo Caio e Sempronio, cosicché
il godimento del bene risulta giuridicamente possibile, perché non vie-
tato, anche a Caio e Sempronio. Si potrebbe in effetti ritenere – ope-
rando una lettura a contrario – che la norma X, nel permettere il godi-
mento da parte di Tizio, non faccia altrettanto per Caio e Sempronio, ma
seguendo questa lettura daremmo alla norma X lo stesso significato di Y,
ovvero riterremmo che la formula verbale più breve presentata dalla
norma X abbia in realtà lo stesso contenuto precettivo della norma Y.
Avremmo cioè a che fare non con due norme diverse, ma con una stessa,
unica, norma; una stessa, unica regola.
Ma se ciò è vero l’attribuire una posizione di libertà a Tizio non
esclude la pari libertà di Caio e Sempronio. Posta, dunque, la norma X,
se uno dei tre soggetti ideali a cui ci riferiamo, ad esempio Tizio, volesse
conseguire una posizione di godimento esclusivo dovrebbe far affida-
mento sull’altruismo di Caio e Sempronio, far ricorso alla sua capacità di
persuasione, oppure all’utilizzo della forza100.
Se dunque noi vogliamo dare a Tizio quella posizione di vantaggio
che siamo soliti chiamare proprietà, dobbiamo porre la norma Y; non la
norma X; né la norma X assieme alla norma Y, poiché posta Y, X – che in
realtà lo è comunque se non interpretata secondo il significato fato palese
da Y – è inutile101. E nel far ciò certamente attribuiremmo a Tizio la pro-

zioni giuridiche c.d. elementari (facoltà, potere, onere, dovere, aspettativa, ecc.); assunte poi
come elementi costitutivi di situazioni complesse (tra cui, come visto retro, nota 78, ovvia-
mente in testa il diritto soggettivo, o, come vedremo infra, nota 183, lo stesso concetto di
azione). A queste concezioni, spesso seguite come visto nella manualistica, non è stata riser-
vata specifica trattazione nel testo, in quanto anch’esse sono sostanzialmente fondate sull’idea
di poter concepire il diritto soggettivo come posizione di libertà, di possibilità di agire, ecc.
La critica svolta nel testo alla concezione appena indicata, nonché la critica alla raffigurazione
della facoltà come situazione giuridica elementare – argomentata in questa stessa nota – im-
plicano, ovviamente, anche la presa di distanza dall’impostazione metodoligica appena ac-
cennata. Sul punto, già ALLORIO, E., L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giu-
diziale, cit., p. 10 s., avanzava seccate critiche avverso la tendenza proliferante delle situazioni
giuridiche elementari che ad esempio rilevava nell’impostazione carneluttiana (di «flora giu-
ridica» parlava l’illustre giurista).
100 Il possibile ricorso alla forza per tramutare la libertà in prevalenza ed esclusività o

se si vuole in «privilegio» è proprio il segnale dell’assenza di diritto ovvero della mancanza di


un l’obbligo di mettersi d’accordo e di non ostacolarsi reciprocamente; cosa che ad esempio
ritroviamo – e non a caso – nella comunione, in cui la convivenza di tre libertà relativamente
esclusive è garantita dall’obbligo di non impedire agli altri partecipanti di fare parimenti uso
del bene (art. 1102 c.c.).
101 E così, se in questa prospettiva osserviamo l’art. 832 c.c., noteremo anche che tale

disposizione non si limita a descrivere il contenuto del diritto affermando che il proprietario
350 CAPITOLO QUINTO

prietà del bene, ma non dando a Tizio la libertà di goderne, ma esclu-


dendo, mediante l’imposizione degli obblighi in capo a Caio e Sempronio,
che loro possano fare altrettanto.
Da quanto detto sembrerebbero derivare due risultati.
In primo luogo parrebbe che lo strumento tipico che il diritto ha
per incidere sul piano della realtà materiale è quello di vincolare i com-
portamenti umani imponendo obblighi; ne risulterebbe ribadito il dogma
dell’essenzialità del dovere per la ricostruzione dei fenomeni giuridici102.
In secondo luogo sembrerebbe che dal diritto soggettivo vada tenuta
ben distinta la posizione di libertà, la quale sta più limitatamente a signi-
ficare l’esenzione dall’obbligo e non la titolarità di un diritto soggettivo103.
Difatti, stando a quanto detto, se, all’agere licere dovesse farsi coincidere
il diritto, si giungerebbe al punto da renderne – come coerentemente (alla
luce di tale prospettiva) già affermato da Guarino – impossibile la viola-
zione (!), alterando così in profondità l’intimo del concetto da averlo in
realtà sostituito con un altro ideologicamente preconfezionato.

«ha diritto di godere» e non si limita nemmeno a dire che tale diritto gli è riconosciuto «in
modo pieno», ma, aggiunge – dando risalto esplicito al contenuto precettivo della norma –
che tale godimento è garantito in modo «esclusivo»; cosa che sta a voler significare che il pro-
prietario, «e non tutti», ha il diritto di godere del bene. E potremmo addirittura dire che se
il requisito dell’«esclusività» non apparisse espressamente nella disposizione legislativa in
questione, si dovrebbe leggere la stessa come se tale requisito vi fosse; sempre ovviamente
ammettendo che al proprietario si voglia dare la posizione di vantaggio rappresentata dal quid
che noi chiamiamo diritto di proprietà. D’altra parte, come autorevolmente osservato (CAR-
CATERRA, G., Il normativismo e la forza costitutiva delle norme, Roma, 1988, p. 11) «l’impor-
tanza del nesso norma-linguaggio stà in ciò: se non si può dire che ogni norma è sempre at-
tualmente espressa in un enunciato del legislatore, si può dire che essa è sempre potenzial-
mente esprimibile in un enunciato ricostruttivo del giurista».
102 Cfr., per tutti, KELSEN, H., Problemi fondamentali della dottrina del diritto pubblico,

cit., p. 357.
103 V. già AUSTIN, J., Lectures on Jurisprudence or The Philosofy of Positive Law, cit., p.

355, che riguardo al termine «libertà» afferma: «a term which, not unfrequently, is synony-
mous with right; but which often denotes simply exeption from obbligation». Sulla sua scia, v.
KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello Stato (General Theory of Law and State, Cam-
bridge-Mass., 1945), trad. it. S. Cotta e G. Treves, 2000, p. 75-76: «dicendo: io ho il diritto di
fare qualcosa, può darsi che intenda dire soltanto: io non sono obbligato ad astenermi dal
farlo; e dicendo: io ho il diritto di astenermi dal fare qualcosa, può darsi che intenda dire sol-
tanto: io non sono obbligato a farlo». Successivamente, v. HOHFELD, W.N., Concetti giuridici
fondamentali, cit., p. 17 ss.; ROSS, A., Diritto e giustizia, cit., p. 156, il quale, se, da un lato, af-
ferma che «la mia libertà dopotutto, significa soltanto che gli altri non hanno alcuna pretesa
su di me, cioè non possono giuridicamente impedirmi di godere della libertà», dall’altro, su-
bito aggiunge che «d’altra parte, nella libertà non è insita alcuna pretesa affinché gli altri mi
concedano di fatto la piena possibilità di fare come mi garba».
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 351

2.3.2.3. L’equivoco concetto di «libertà protetta». – Una tagliente


obiezione potrebbe peraltro essere rivolta a questo modo di vedere; e tale
obiezione potrebbe consistere nel sostenere che l’attribuzione di una li-
bertà in capo a Tizio implica di per sé l’obbligo di non intralciarne l’eser-
cizio e dunque il riconoscere la libertà di godimento in capo a Tizio ba-
sterebbe ad attribuirgli l’accennato diritto soggettivo104.
Così impostata la questione, peraltro, i termini del problema risulte-
rebbero sensibilmente alterati e dall’eventuale plausibilità della conce-
zione secondo cui il diritto soggettivo corrisponde ad una pura «possibi-
lità di agire autonoma» si passerebbe alla verifica del nucleo concettuale
su cui fanno perno tutte le posizioni che rappresentano la facoltà e l’ob-
bligo come due facce della stessa medaglia.
Questo modo di vedere è quanto mai frequente e ciò che si dimostra
di particolare interesse è notare che esso sembrerebbe perfettamente
compatibile con il ruolo essenziale che all’obbligo va assegnato in sede
dogmatica da note concezioni dottrinali105: se infatti, come appena ripe-

104 Vorrei far notare come questa coessenzialità che lega libertà ed obbligo trova la sua
espressione più manifesta nell’impostazione di Cicala in cui, non solo l’obbligo è il riflesso
della libertà, ma esso non deriva nemmeno, come nelle altre concezioni, dalla posizione del-
l’obbligato rispetto alla norma. Difatti la sola relazione a cui l’A. richiamato ritiene dover dare
rilievo è quella che intercorre tra titolare del diritto e norma. Così l’obbligo nasce diretta-
mente dall’assoggettamento in cui si trovano i consociati in ragione della pretesa astratta che
a loro è rivolta da parte del titolare del diritto (cfr. retro, note 59 e 88).
105 Si pensi innanzitutto – oltre ovviamente alle concezioni che ho poc’anzi esposto e
che nel costruire il diritto soggettivo si affidano a diverse forme di sintesi tra facoltà e pretesa
– a KELSEN, H., Problemi fondamentali della dottrina del diritto pubblico, cit., p. 632-633; ID.,
Teoria generale del diritto e dello Stato, cit., p. 76, che, sebbene sostenga che il diritto è cor-
relativo del dovere sembra non fare applicazione rigorosa di tale principio, nel far coincidere
diritto e possibilità di agire. Afferma l’illustre studioso: «per essere giuridicamente libero, ri-
spetto ad un dato comportamento, un altro individuo o tutti gli altri individui devono essere
obbligati ad una linea di condotta corrispondente. Io non sono giuridicamente libero di fare
ciò che desidero, se gli altri non sono giuridicamente obbligati a lasciarmi fare ciò che desidero.
La mia libertà giuridica è sempre il vincolo giuridico altrui, il mio diritto è sempre l’altrui do-
vere giuridico» (c.vo mio). Cfr. anche BOBBIO, N., Norma giuridica, in Noviss. Dig. it., XI, To-
rino, 1957, p. 330 ss., ma spec. 333; ID., Teoria della norma giuridica, Torino, 1958, p. 30 s.,
ove si sostiene che «avere un diritto […] significa […] avere il potere di compiere una certa
azione», visto che «il diritto non è che il riflesso soggettivo di una norma autorizzativa», men-
tre «il dovere non è che il riflesso soggettivo di una norma imperativa»; cfr. anche ID., Teoria
generale del diritto, cit., p. 250. Ma questo modo di vedere – estremamente frequente tra i
giuristi – non convince appieno. Oltre agli scritti più volte citati di Hohfeld e Ross, v. le acute
osservazioni di PUGLIESE, G., Facoltà e proprietà temporanea nella struttura dell’usufrutto, cit.,
spec. 449 ss., rivolte all’affermazione di Kelsen poc’anzi citata, che però, conformemente alla
sua impostazione (cfr. retro, nota 99), parla di «tutela» della «facoltà» in relazione al fatto che
gli organi giurisdizionali «non hanno il potere di giudicare in concreto illecito quel compor-
352 CAPITOLO QUINTO

tuto, facoltà ed obbligo vanno concepite come facce della stessa medaglia
allora è pur vero che l’uno protegge l’altra, ma anche vero che esso esiste
in funzione di quella106.
Il problema a cui ci riferiamo è nella sua essenza lo stesso che ri-
corre riguardo al concetto di «libertà protetta», per intendere il quale ba-
sti il ricordo delle chiare parole di Norberto Bobbio107.
L’illustre filosofo del diritto distingue, infatti, tra «libertà protetta» e
«libertà non protetta», identificando la prima con la libertà «che viene ri-
conosciuta nel momento stesso in cui viene imposto ai terzi l’obbligo giu-
ridico […] di non impedirne l’esercizio» ed identificando la seconda con
la «libertà non garantita contro l’altrui impedimento».
Ma, sulla scorta di tale distinzione, si evidenzia che se tale seconda ca-
tegoria dovesse essere contemplata «ciò vorrebbe dire che l’uso della forza
da parte di un terzo per impedire l’esercizio di questa libertà sarebbe
lecito». In altre parole la «libertà non protetta» significherebbe «liceità
dell’uso della forza». L’unica conclusione logicamente corretta, stante il
monopolio dell’uso della forza da parte dello Stato negli ordinamenti sta-
tuali moderni, sarebbe dunque l’inammissibilità di tale seconda categoria.
Procediamo ancora per esemplificazioni.
Pensiamo per ipotesi ad una comunità formata dai soggetti A, B, C
e D, che ritiene di regolare i reciproci rapporti mediante una sola regola
di comportamento: il divieto per tutti di far uso della forza. Ogni altro
comportamento è libero. A, B, C, D hanno ad esempio la libertà di ru-
bare, la libertà di ingannarsi a vicenda, la libertà di insultarsi reciproca-
tamento o la sua omissione, né di autorizzare od irrorare qualsiasi misura contro il soggetto»;
osservazione quest’ultima non sottrattasi alla giusta critica di CORDERO, F., Le situazioni sog-
gettive nel processo penale, cit., p. 247, nota 21, che però sembra cedere anch’Egli all’idea
della «libertà protetta» (cfr. p. 247, nota 22). Puntuale è invece CESARINI SFORZA, W., Diritto,
Teoria generale: IV), cit., p. 691.
106 È evidentemente in questa cornice teorica che si pone il problema della c.d. priorità

dell’obbligo. Che peraltro, proprio all’interno di tale cornice rappresenta uno pseudo-pro-
blema. Difatti secondo queste teorie facoltà ed obbligo sono due facce della stessa medaglia.
I passaggi logici in cui si articola questo modo di vedere è il seguente: il diritto è facoltà; l’ob-
bligo protegge la facoltà; il rapporto giuridico è dato dal diritto, da un lato, e dall’obbligo,
dall’altro. Come ognun vede, se così fosse, sarebbe effettivamente inutile interrogarsi sulla
priorità dell’obbligo sul diritto o viceversa, in quanto equivarrebbe a chiedersi quale metà di
una mela nasca prima allorché la si tagli in due con un coltello: è evidente, le due parti na-
scono assieme! A scopo esemplificativo si pensi alle posizioni di Alfredo, Ugo e Arturo Rocco
(cfr. retro, nota 71), che, da un lato, insistono sulla priorità dell’obbligo e sull’essere il diritto
soggettivo il mero riflesso dell’obbligo (HOLD VON FERNECK, A., Die Rechtswidrigkeit, I, Jena,
1903, p. 98 ss., ma spec. p. 120) e poi, dall’altro, con contraddizione palese, ritengono che, in
taluni diritti, l’obbligo sia la mera conseguenza del riconoscimento delle facoltà di agire.
107 BOBBIO, N., Teoria generale del diritto, cit., p. 250.
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 353

mente, ecc. Possiamo dire che queste libertà sono protette solo perché
non è possibile che qualcuno ne impedisca l’esercizio con l’uso della
forza? La risposta spontanea è negativa, ovviamente. Ed è quella cor-
retta. Ma dove si annida allora l’errore?
Immaginiamo, una diversa ipotesi, in cui, A, B, C e D, pongono la
seguente regola (solo questa, per ora): per C e D il godimento del bene b
è vietato.
Stando a quanto detto poc’anzi, A e B possono godere del bene. Ol-
tre a ciò potremmo dire che essi hanno il diritto a che C e D si astengano
dal godimento. Ma l’aspetto su cui occorre prestare attenzione, è piutto-
sto il rapporto tra la libertà di A e quella di B. Entrambi – come detto –
possono godere del bene, ma se uno dei due volesse conseguire il godi-
mento esclusivo per evitare l’intralcio che gli arreca la pari libertà dell’al-
tro, potrebbe porre in essere tutti i comportamenti idonei a raggiungere
tale scopo. Questi comportamenti possono essere i più vari incluso l’uso
della forza. E ciò è evidente, in quanto nell’ideale ordinamento in que-
stione manca la regola secondo cui A, B, C e D devono astenersi dal far
ricorso alla forza per perseguire i loro interessi. Se viene inserita anche
questa regola, vorrà dire – ora sì – che, A e B non possono far uso della
forza per conseguire il godimento esclusivo e dovranno-potranno «far
uso» di tutti i possibili comportamenti che nel loro micro-ordinamento
sono «non esclusi» dal lecito. Anche qui, come prima, il divieto di far uso
della forza «protegge» forse la libertà di godimento di A e di B? La pro-
tegge come, nel primo esempio fatto, proteggeva la libertà di rubare e le
altre libertà richiamate; ossia la protegge nella misura in cui esclude uno
dei possibili comportamenti che possono impedirla in concreto.
Il fatto che, dunque, un certo comportamento X, potenzialmente
impeditivo di una certa attività facoltativa Y, sia escluso dal lecito me-
diante un dovere di astensione non dà alcuna dignità teorico-formale alla
figura delle «libertà protetta». Ragionando in questi termini tutte le fa-
coltà sono protette, ma tale qualificazione nulla dice in quale esatta mi-
sura precisamente esse lo siano, ovvero quali, tra gli infiniti possibili com-
portamenti incompatibili con quello facoltativo per ipotesi preso in con-
siderazione, non sono ammessi dall’ordinamento108.

108 È facile spiegare allora anche la controversa polemica sul lecito giuridico e sulla dif-
ficoltà/necessità di distinguere il lecito qualificato dal lecito semplice (per tutti, v. LEVI, A.,
Lecito, illecito, non tutelato, in Saggi di teoria del diritto, Bologna, 1924, p. 129; ROCCO, U.,
L’autorità della cosa giudicata e i suoi limiti soggettivi, cit., p. 298 ss., ove si distingue tra «le-
cito giuridico in senso stretto», corrispondente ad un «diritto generalissimo» di libertà indi-
viduale e «lecito giuridico propriamente obbligatorio»). Se si ritiene che al «non vietato» cor-
354 CAPITOLO QUINTO

Il concetto di «libertà protetta» è quindi altamente equivoco e rei-


tera l’immagine di una libertà che ha ragion di esistere solo perché sussi-
ste l’obbligo in capo agli altri di non impedirne l’esercizio; postula una
inammissibile equazione tra facoltà e dovere di non impedirne l’eserci-
zio109. Il concetto puramente logico della libertà va legato invece alla
semplice assenza di un dovere che la esclude: libertà e dovere sono in-
somma due concetti opposti.
Da ciò risulta anche confermato che il concetto di libertà non corri-
sponde a quello di diritto, che, come detto è correlativo dell’obbligo.
Io potrei dire che ho il «diritto» – perché mi è lecito, cioè non mi è
vietato – ogni mattina di uscire di casa e recarmi in automobile al lavoro.
O potrei dire che la «libertà» di andare al lavoro ogni giorno in automo-
bile è «protetta», intendendo con ciò dire che nessuno me lo può impe-
dire facendo uso della forza, legandomi – ad esempio – al letto la mattina
o impedendomi di uscire di casa. Ma questo modo di parlare sarebbe im-
preciso e fuorviante. Per me che vivo in una grande città, infatti, ogni
mattina, allo scoccare di ogni scatto semaforico, non solo sono «libero»
di rimanere bloccato per ore in mezzo al traffico, ma sono anche «libero»
di constatare che tale mio presunto «diritto» è praticamente ben poca
cosa in assenza di un obbligo che escluda agli altri la medesima libertà: in
realtà, manca l’obbligo e manca il mio diritto110.

risponda un’area di rilevanza giuridica esplicantesi nella qualificazione di liceità dei compor-
tamenti ivi riconducibili, il problema che si pone all’interprete è il seguente: in che cosa con-
siste questa rilevanza. Una conclusione apparentemente congrua rispetto alle premesse è
quella di ritenere che tali attività lecite siano «riconosciute» e quindi anche «garantite»; e così
si è ritenuto che tutte «le azioni comprese nella sfera della libertà siano atti di esercizio di un
diritto della personalità e trovino in questo la propria legittimazione, giustificazione e rile-
vanza giuridica» (cfr., esemplarmente, CICALA, F.B., Il rapporto giuridico, cit., p. 425 ss., spec.
p. 433, ma anche prima a p. 102, nota 98). Ma in cosa consista precisamente questo diritto
della personalità e come poi si coordini con i diritti soggettivi la cui sussistenza dipende da
obblighi specifici diviene allora il quesito problematico successivo; quesito, peraltro, a cui
non è possibile rispondere in termini convincenti. Se, infatti, il diritto soggettivo corrisponde
all’agere licere, cioè il suo contenuto è costituito da comportamenti leciti, una volta concepito
un diritto soggettivo che include tutti questi comportamenti, non residua più spazio per so-
stenere l’esitenza di diritti soggettivi ulteriori, in quanto questi sarebbero figure sostanzial-
mente superflue. E se così non è, ovvero si avverte la necessità di concepire diritti soggettivi
«assistiti» da obblighi specifici, allora ciò sta a rimarcare l’inconsistenza del diritto soggettivo
generico, ovvero, l’irrilevanza giuridica – in termini di configurabilità di situazioni giuridiche
soggettive autonome – della sfera del lecito.
109 Sul punto, v. le osservazioni di CARCATERRA, G., Il normativismo e la forza costitutiva

delle norme, cit., p. 86-87.


110 Tornando alle teorie esposte e criticate nel testo, ora è agevole individuare l’errore

che le affligge e da cui forse solo Guarino si sottrae, ovvero quello di pensare che la mia li-
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 355

Se da questa prospettiva si guarda ora allo «spazio libero e sicuro»


di derivazione Savigniana, costruito su misura al diritto di proprietà, ci si
avvede che esso non è la sfera della libertà, che di per sé non ha limiti
sino a quando non incontra un obbligo che tale posizione di libertà di
fronte alla norma viene ad escludere, ma è la sfera del «privilegio»111, ov-
vero della libertà esclusiva, la quale viene ad essere descritta non dal li-
mite imposto alla libertà del titolare del diritto (secondo un’assurda re-
gola quale ad es.: Tizio può godere solo del bene X; oppure: l’astensione
dal godimento dei beni diversi da X è doverosa per Tizio), ma dal limite
imposto alla libertà degli omnes.
Le considerazioni appena svolte verranno riprese tra breve; al mo-
mento, per chiudere il discorso sulle concezioni in esame possiamo com-

bertà dipenda da un obbligo altrui. Ciò è inesatto. La mia libertà non dipende dall’obbligo al-
trui, ma solo dal fatto che l’ordinamento non richiede che il mio comportamento si debba
conformare all’obbligo. Per me una data attività è libera semplicemente perché non vietata.
L’ordinamento ben potrebbe consentirmi una certa attività e poi fare lo stesso con un altro
soggetto riguardo ad un’attività incompatibile con la prima. È proprio per questa ragione che
il diritto esprime un concetto diverso da quello di libertà e che tale concetto deve essere co-
struito partendo dall’obbligo, che è la figura fondamentale con cui costruire l’ordinamento,
in quanto è quella che traduce in strumento tecnico le modalità con cui il diritto opera sulla
vita reale dell’uomo, ovvero vincolando taluni degli infiniti comportamenti umani possibili. Il
fatto, peraltro, che sovente al diritto vada accostato un contenuto di libertà ha più di una
spiegazione. Già l’evidenza del risultato – per così dire – pratico che l’apparato protettivo
produce in capo al titolare dei diritti reali di godimento basterebbe per darne una giustifica-
zione. In altri termini, specie nei diritti che si risolvono in obblighi di astensione (come ap-
punto tipicamente accade nei diritti reali), l’osservazione della realtà sulla quale incide la di-
sciplina giuridica palesa l’attività libera di coloro che dall’ordinamento sono posti in posi-
zione di vantaggio piuttosto che la non attività dei soggetti vincolati all’osservanza del dovere.
Difatti, non a caso, molte posizioni dottrinali proprio da tale risultato pratico si sono fatte ab-
bagliare nell’elaborazione del concetto di diritto soggettivo; e ciò non solo vale per le conce-
zioni che valorizzano l’idea di libertà appartenente al loro modo di vedere il diritto sogget-
tivo, ma anche per quelle che hanno dato particolare rilievo al «vantaggio», all’«utilità», alla
«posizione di preminenza» ecc., che si realizza in ragione della regolamentazione giuridica
(sul punto, v. le tesi richiamate infra, nota 122). Ma, oltre a questa ragione si può anche ag-
giungere la stessa origine storica delle libertà civili; intese come libertà dal sovrano e poi dallo
Stato. Esse, infatti, possono sì essere concepite come diritti nel più ristretto e corretto signifi-
cato che si può attribuire a questo termine, perché esprimono il principio, o – se si vuole – la
regola, secondo cui certi comportamenti sono doverosi da parte del sovrano o dello Stato nei
confronti dei sudditi; comportamenti, che, a seconda della fase storica a cui è possibile rife-
rirsi, possono aver avuto il carattere di comportamenti negativi, come nella tradizionale im-
postazione liberale, o positivi come si confà, invece, all’ideologia dello Stato sociale e nello
Stato costituzionale. Un cenno a questo fenomeno è presente già in AUSTIN, J., Lectures on
Jurisprudence or The Philosofy of Positive Law, cit., p. 366-367.
111 AUSTIN, J., Lectures on Jurisprudence or The Philosofy of Positive Law, cit., p. 366;

ROSS, A., Diritto e giustizia, cit., p. 166.


356 CAPITOLO QUINTO

pletare le osservazioni critiche che le riguardano dando conto delle rica-


dute sistematiche che tale posizione teorica porta con sé. Come per la
tesi del potere della volontà, caro è il prezzo che queste teorie fanno pa-
gare al sistema, visto che il coerente svolgimento delle premesse da cui
esse muovono porta ad escludere dal novero dei diritti soggettivi tutte
quelle situazioni giuridiche nelle quali non è dato constatare la possibilità
giuridica di agire quale contenuto tipico del diritto ed in primis i diritti
di credito112.
Si badi bene. Alcuni Autori hanno accolto espressamente e coeren-
temente questa «circostanza sistematica» quale conseguenza necessaria
della loro concezione113. Molto similmente a questi, altri si sono limitati a
dare una presentazione formale più «digeribile» a tale conclusione me-
diante l’applicazione di un accorgimento di tecnica classificatoria, ovvero
manifestando la possibilità di concepire una categoria ordinante di ampia
latitudine, il diritto soggettivo in senso lato, in cui far rientrare, oltre i di-
ritti soggettivi in senso stretto, anche gli interessi in qualunque forma
protetti, come gli interessi legittimi, le pretese, ecc.114
Ma parte della dottrina tesa a configurare il diritto soggettivo in ter-
mini di possibilità giuridica di agire è giunta a mascherare questo neces-
sario approdo della loro impostazione con argomentazioni prive della
ben che minima efficacia persuasiva115. Si pensi ad esempio a chi ha rite-
nuto che anche al credito corrisponda un contenuto di attività tutelata
del soggetto titolare e precisamente una «facoltà di pretendere o pretesa
(creditoria)»116 che indica «un comportamento che si dirige verso un al-
tro soggetto ben determinato e titolare di una situazione passiva comple-
mentare»117; a chi ha ritenuto che nei rapporti di obbligazione si assista
112 BALLADORE PALLIERI, G., Diritto soggettivo e diritto reale, cit., p. 14 s.
113 Per tutti, v. BARBERO, D., Il diritto soggettivo, cit., p. 37 ss.; ID., Il credito nel sistema
dei rapporti giuridici, in Studi di teoria generale del diritto, cit., p. 143 ss.; ID., Sistema istitu-
zionale del diritto privato italiano, I, Torino, 1950, spec. p. 128 ss. Che raccoglie l’apprezza-
mento di ALLORIO, E., L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale, cit.,
p. 62, ma solo riguardo ad un ordinamento paritario.
114 SPERDUTI, G., Contributo alla teoria delle situazioni giuridiche soggettive, cit., p. 118 s.
115 Cfr., tra gli altri, le critiche di GARBAGNATI, E., Diritto subiettivo e potere giuridico, I,

p. 554, anche a nota 2; cui adde, PUGLIESE, G., Actio e diritto subiettivo, cit., p. 49 ss.; ID.,
Usufrutto, uso e abitazione, cit., p. 56 s.
116 NATOLI, U., Il diritto soggettivo, cit., p. 76.
117 NATOLI, U., Il diritto soggettivo, cit., p. 96. Destano perplessità le affermazioni che

dovrebbero chiarire che cosa corrisponda a tale comportamento che si dirige al debitore:
«l’affermazione […] che il titolare dei cosiddetti diritti di credito non possa esplicare alcuna
attività rispetto all’oggetto del preteso diritto è certamente dovuta ad una non chiara nozione
di oggetto del diritto. Anche ove si voglia infatti partire da una nozione economica di questo
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 357

solo ad una semplice «prevalenza» del momento della pretesa su quello


della facoltà118. Ora, che al titolare del diritto di credito siano attribuiti
poteri per la miglior tutela del proprio diritto non v’è dubbio, ma nem-
meno è dubbio che tali attribuizioni non partecipino al contenuto di pro-
tezione tipico che, con tale diritto, l’ordinamento dà al titolare119.

2.4. Il diritto soggettivo come posizione di destinatarietà dell’obbligo o fa-


coltà di pretendere
Stando ai risultati che emergono dal paragrafo che precede, risulta
acclarato il seguente punto fondamentale: con il termine diritto sogget-
tivo occorrerebbe riferirsi alla posizione giuridica correlativa a quella del-
l’obbligo. Ciò non si esaurisce in una constatazione formale della rela-
zione logica che intercorre tra i due elementi indicati (diritto-obbligo):
tutt’altro. Essa evidenzia tanto l’irriducibile carattere intersoggettivo del
diritto quale espressione della sua socialità120, quanto la tecnica da questo

e concepire l’oggetto del diritto in termini di utilità, come bene (materiale o immateriale), la
nozione comprenderebbe evidentemente anche la prestazione del soggetto passivo del rap-
porto, ad ottenere la quale è rivolto il comportamento del titolare del diritto di credito» (p.
100). Ciò che vuole affermare Natoli ben si comprende allorché si proceda nella sua conce-
zione del diritto soggettivo come contenitore in cui far rientrare distinte facoltà (diritti com-
plessi; cfr. p. 72), cosicché, se il diritto di credito comprende nel suo contenuto anche una
sola facoltà (ad es. la facoltà di mettere in mora il debitore), allora il diritto di credito può es-
sere predicato come facultas agendi. Ma il risultato paradossale in cui incorre questa conce-
zione è che dal concetto di diritto di credito – come detto nel testo – verrebbe escluso il di-
ritto di ottenere il bene dovuto a vantaggio del diritto ad attivare l’adempimento dell’obbligo.
Cfr., infatti, più correttamente GUARINO, G., Potere giuridico e diritto soggettivo, cit., p. 89-90,
su cui, v. infra, nel testo.
118 LEVI, A., Teoria generale del diritto, cit., spec. p. 304 s. Similmente, RAVÀ, A., Istitu-

zioni di diritto privato, cit., p. 25; GASPARRI, P., Relatività dei concetti di diritto oggettivo e di
diritto soggettivo, cit., p. 291; SANTORO PASSARELLI, F., Dottrine generali del diritto civile, cit.,
p. 71:
119 Per tutti, v. le acute osservazioni di GARBAGNATI, E., Diritto subiettivo e potere

giuridico, I, cit., p. 554-555 e poi p. 563 ss. Cfr. anche ATTARDI, A., L’interesse ad agire, cit.,
p. 89; CASSARINO, S., Le situazioni giuridiche e l’oggetto della giurisdizione amministrativa, cit.,
p. 87-88.
120 Carattere intersoggettivo, che sta semplicemente a significare che il diritto opera in-

cidendo su relazioni intersoggettive che possiamo anche concepire come rapporti tra diversi
soggetti animati al loro interno da conflitti tra interessi incompatibili che la regola di diritto
mira a risolvere a favore di uno degli interessi antagonisti. Ma ciò non sta a significare che tale
modo di configurare la relazione tra diritto e circostanze della vita reale possa tradursi in
un’assunzione di tali rapporti e tali relazioni sul piano formale. Sul punto, v. insuperabilmente
ALLORIO, E., L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale, cit., p. 18, che af-
ferma: «nel momento finalistico della norma, è presente senza dubbio la considerazione del-
358 CAPITOLO QUINTO

adottata per assicurare la tutela degli interessi umani, ovvero regolare i


comportamenti121 mediante l’imposizione di limiti e vincoli ad essi.
L’analisi logico-empira porta, infatti, alla fondamentale conclusione,
che il piano di incidenza pratica del diritto è quello dei comportamenti
umani e che su tale piano il punto di incidenza è segnato dall’obbligo; ri-
sultato la cui plastica dimostrazione, peraltro, è data dall’esito esecutivo-
attuativo della tutela giurisdizionale.
Quanto appena osservato può ben rappresentare la cornice teo-
rica essenziale entro cui circoscrivere un ulteriore gruppo di teo-
rie che, attorno a tale nucleo logico comune122, hanno concepito
l’esistenza di conflitti d’interessi fra soggetti, dovuti alla limitatezza dei beni in natura dispo-
nibili; ma codesto momento teleologico, se deve essere ricordato nell’interpretazione della
norma, non si traduce in una parte integrante della struttura di questa. Il concetto di “rap-
porto giuridico” non è pertanto un concetto genuinamente giuridico».
121 In ciò il diritto è veramente «morfologia della prassi»: così, SPERDUTI, V., La strut-

tura del diritto, cit., p. 17.


122 A chi scrive appare di particolare rilievo osservare che questo stessa impostazione è

stata seguita da altra illustre dottrina (BALLADORE PALLIERI, G., Diritto soggettivo e diritto
reale, cit.; e soprattutto GARBAGNATI, E., Diritto subiettivo e potere giuridico, I e II, cit., ma v.
spec. II, p. 217 ss., a cui si riferiscono le frasi qui di seguito riportate) che ha visto nel diritto
soggettivo «la posizione giuridica di vantaggio di un subietto relativamente ad un dato bene,
creato dal diritto obiettivo mediante un concreto comando giuridico, diretto a favore del su-
bietto medesimo». L’interesse che questa concezione presenta è proprio insito nella circo-
stanza che l’A., come il gruppo di teorie presentato nel testo, correttamente: a) esclude che
nel diritto soggettivo debba vedersi una posizione di potere o una posizione di libertà nelle
diverse accezioni che queste due hanno assunto nel dibattito dottrinario; b) pone al centro
del fenomeno il vincolo che l’imperativo (abbiamo a che fare – ma questo ai nostri fini può
anche essere una questione secondaria – con una concezione imperativistica assai simile a
quella proposta da Thon, su cui, v. infra, § 2.5.1.; cfr., infatti, GARBAGNATI, E., Diritto subiet-
tivo e potere giuridico, II, cit., p. 212 ss.) proietta sui comportamenti umani colorandoli di ne-
cessità giuridica; c) esclude che si possa far ricorso alla figura della possibilità di pretendere
senza incorrere nelle imperfezioni definitorie di cui diamo cenno nel testo. Ma esclude anche
che il diritto soggettivo possa essere concepito come mera destinatarietà dell’obbligo e ciò
per il fatto che, se così si sostenesse, si giungerebbe a «spezzare l’unità concettuale dei diritti
subiettivi assoluti» ed essi dovrebbero «scindersi nella somma di altrettanti diritti subiettivi,
quanti sono gli obblighi negativi dei terzi, e quindi in un numero indefinito di diritti» (simile
osservazione in COMPORTI, M., Formalismo e realismo in tema di diritto soggettivo, cit., p. 444,
nota 24, ma v. sul punto le osservazioni di CASSARINO, S., Le situazioni giuridiche e l’oggetto
della giurisdizione amministrativa, cit., p. 98). Ecco, dunque, che anche l’impostazione ora ri-
portata non evita di «lasciarsi ipnotizzare dai diritti reali» (per riprendere l’espressione di
BALLADORE PALLIERI, G., Diritto soggettivo e diritto reale, cit., p. 15) e dalla loro immagine di
«spazio libero e sicuro», di «sfera» entro cui l’uomo liberamente opera. Anche qui, per dirla
con diverse parole, si cede al dare rilevanza all’effetto pratico che il diritto, quale strumento
tecnico, produce sulla realtà. Ma sul piano tecnico-teorico, ossia ponendosi l’obiettivo di iso-
lare gli elementi strutturali con cui il diritto opera, questo aspetto, ovvero il risultato pratico
prodotto, è irrilevante di per sé. Potrà esser rilevante sul piano dei contenuti, cioè con riferi-
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 359

il diritto soggettivo o come la posizione di destinatarietà dell’obbli-


mento alla determinazione della particolare regola di comportamento che viene imposta ai
soggetti, ma non sul piano degli elementi formali. È comprensibile, dunque, che detta posi-
zione si esponga facilmente a critiche del tenore di quella mossale da BARBERO, D., Il credito
nel sistema dei rapporti giuridici, cit., p. 145, nota 2; ID., Sistema istituzionale del diritto pri-
vato italiano, cit., p. 120, nota 2, che riguardo alla definizione di Edoardo Garbagnati parla
di nozione «topografica» piuttosto che concettuale. In realtà, anche la definizione di Garba-
gnati si presenta fortemente viziata di apriorismo. Come è possibile, infatti, sostenere «l’unità
concettuale dei diritti subiettivi assoluti» (c.vo mio)? Logicamente tale unità non esite ed è ben
possibile ipotizzare infiniti spezzettamenti dello stesso con una progressiva complessifica-
zione dei rapporti tra proprietario ed omnes. Cfr. sul punto, i citati scritti di Hohfeld e Ross.
Ma comunque l’argomento di critica decisivo consiste nel rilevare che «la posizione giuridica
di vantaggio di un subietto relativamente ad un dato bene, creato dal diritto obiettivo me-
diante un concreto comando giuridico» di per sé non corrisponde assolutamente a ciò che
chiamiamo diritto soggettivo e ciò poiché, posta la necessità giuridica di un comportamento,
allorché quel comportamento si realizzi, tale evento potrà essere di vantaggio per infiniti ed
indeterminati soggetti, ai quali peraltro non spetta un diritto soggettivo. Se ci si limitasse a
questo piano occorrerebbe scrutinare in capo a quale soggetto si produce un vantaggio mag-
giore o minore e tale giudizio di valore, assolutamente arbitrario, ci porterebbe al di fuori dei
limiti della scienza giuridica. Ecco allora che occorre aggiungere – come fa Garbagnati – che
il «concreto comando giuridico» è «diretto a favore del subietto medesimo»; ed ecco che la
prima parte della definizione proposta dall’autorevole processualcivilista diventa nella so-
stanza inutile. L’impostazione appena rilevata in Garbagnati, ovvero la tendenza a definire la
nozione formale di diritto soggettivo dando rilievo al risultato pratico che gli strumenti giuri-
dici producono sul piano reale, si ritrova peraltro in diversi studiosi. In questo senso, ad
esempio, si poneva già CHIOVENDA, G., Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1928, p.
30, che vedeva nel diritto soggettivo l’«aspettazione di un bene della vita, garantita dalla vo-
lontà dello Stato», aggiungendo subito dopo – ad eccezion fatta che per la categoria dei di-
ritti potestativi (su cui v. infra, nota 172) – come detta «aspettazione» si realizzi «imponendo
altrui un dato contegno positivo o negativo (comandi, divieti)» (p. 33-34, c.vo mio); ID., Istitu-
zioni di diritto processuale civile, I, Napoli, 1933, p. 3. Cfr., similmente, ALESSI, R., La crisi at-
tuale della nozione di diritto soggettivo e i suoi possibili riflessi nel campo del diritto pubblico,
in Riv. trim. dir. pubbl., 1953, p. 307 ss., p. 315, per il quale il diritto soggettivo sarebbe «la
garanzia legislativa di una utilità sostanziale diretta e immediata, attraverso l’imposizione ad
altri di un vincolo a contenuto positivo o negativo». Questa stessa tendenza a valorizzare –
come ad es. in Garbagnati o in Chiovenda – più il risultato direi pratico, che al soggetto de-
riva dalla tutela giuridica, piuttosto che gli strumenti tecnici di cui il diritto fa impiego per as-
sicurarlo, può costituire un elemento da ritenersi comune anche ad altre teorie. Cfr., ad es.
MIELE, G., Potere, diritto soggettivo e interesse, in Riv. dir. comm., 1944, I, p. 114 ss.; ID., Prin-
cipi di diritto amministrativo, I, Padova, 1953, p. 44, ove si afferma che il diritto soggettivo è
la «particolare e autonoma posizione che l’ordinamento giuridico fa a un soggetto, assicuran-
dogli determinati vantaggi in ordine a un bene per la tutela dei propri interessi»; ATTARDI, A.,
L’interesse ad agire, cit., p. 90, che vede nel diritto soggettivo «la posizione di vantaggio di un
soggetto», evidenziando, peraltro, che tale posizione è «correlativa all’imposizione di un ob-
bligo su un altro soggetto o sulla generalità dei soggetti rispetto al bene che forma oggetto del
diritto soggettivo»; BALLADORE PALLIERI, G., Diritto soggettivo e diritto reale, cit., p. 20, che si
riferisce alla «situazione giuridica assai complessa dalla quale discendono sia dei poteri
(azione processuale) sia ampliamenti nella sfera della propria libertà di agire (legittima difesa
360 CAPITOLO QUINTO

go123 o come la facoltà di pretendere l’adempimento dell’obbligo al-

ecc.)»; ROMANO, Santi, Principi di diritto costituzionale generale, Milano, 1947, p. 106 ss.; ID.,
Frammenti di un dizionario giuridico, cit., p. 172 ss.; FAZZALARI, E., Introduzione alla giuri-
sprudenza, cit., p. 57 ss.; ma più ampliamente in ID., Note in tema di diritto e processo, cit., p.
56 ss., spec. p. 83 ss., in cui, poste le posizione soggettive primarie (facoltà, potere, dovere),
si ritiene che esse si colleghino sino a formare una posizione soggettiva complessa (il diritto
soggettivo appunto) per la comunanza dell’oggetto a cui esse si riferiscono, cosicché il diritto
soggettivo sarebbe la «posizione di preminenza […] rispetto ad un bene […]» che «è realiz-
zata mediante le facoltà del titolare e/o i doveri degli altri»; COMPORTI, M., Formalismo e rea-
lismo in tema di diritto soggettivo, cit., p. 463, che parla di «una particolare situazione ogget-
tiva, effettiva e concreta di utilità instauratasi nella relazione tra soggetto e bene» o di «fon-
damentale situazione giuridica di tutela accordata in modo diretto e speciale dalla norma ad
un soggetto rispetto a determinati beni, per la realizzazione di interessi ritenuti meritevoli di
protezione dall’ordinamento». Tutte queste concezioni sollevano, come si potrà immaginare
alla luce delle considerazioni svolte nel testo, diverse obiezioni circa la modalità costruttiva
del concetto, tra cui ad esempio, la valorizzazione sul piano formale del contenuto di attività
che al diritto soggettivo dovrebbe appartenere, ma peraltro destano perplessità ancor mag-
giori proprio per l’intenzione di porre al centro della definizione una realtà non giuridica, ma
«economico-sociale» (per riprendere la critica che già BETTI, E., Il concetto dell’obbligazione
costruito dal punto di vista dell’azione, cit., p. 11, nota 2, muoveva alla citata definizione di
Chiovenda e alla, tra breve ricordata, definizione di Dernburg); realtà altamente sfuggente,
come la posizione di preminenza, utilità, o vantaggio ecc. Che l’ordinamento ponga regole di
comportamento in capo a terzi per creare posizioni di vantaggio in capo ad altri, qui non è
dato contestare, ma che tale elemento funzionale voglia essere assunto sul piano formale al
pari dell’obbligo è inaccettabile e determina la stessa opzione interpretativa indicata riguardo
la concezione di Garbagnati. Ovvero: o si depura il piano rigorosamente formale dal riferi-
mento all’utilità, al vantaggio, ecc. e si tiene per buono solo il riferimento agli elementi strut-
turali che tali teorie reclutano per determinare il risultato pratico a cui tanto rilievo esse
danno (salvo poi vedere se tali strutture reclutate siano quelle corrette, come in Garbagnati,
in Chiovenda e in Attardi o non lo siano, come ad esempio in Fazzalari, con particolare rife-
rimento – ovviamente – alla facoltà); o si accolgono nella loro interezza, destinandole peral-
tro alla loro inservibilità dogmatica, alla stregua di teorie quali quella avanzata da DERNBURG,
H., Pandette, trad. it. a cura di B. Cicala, I, Torino, 1906, § 39 («la quota di beni della vita ga-
rantita dall’ordinamento giuridico al soggetto»), o come l’altrettanto nota definizione di DA-
BIN, J., Le droit subiectif, Paris, 1952, p. 80 («relation d’appartenance entre le sujet et une
cose»). Per chiudere, richiamiamo le parole di ALLORIO, E., L’ordinamento giuridico nel pri-
sma dell’accertamento giudiziale, cit., p. 60 s., che, riguardo a nozioni di tal fatta, affermava:
«chi parla di signoria, o peggio di rapporto con la cosa, non formula nulla di specificatamente
giuridico; spiega obscurum per obscurius».
123 Già JHERING, R., L’esprit du droit romain dans le diverses phases de son développe-

ment, cit., p. 326, osservava che «il destinatario di tutto il diritto è l’uomo», ma ovviamente
tale affermazione non aveva il rilievo tecnico che invece qui interessa. Alla concezione del di-
ritto soggettivo come destinatarietà dell’obbligo pervengono diversi studiosi. Sul punto, in
particolare, v. IRTI, N., Introduzione allo studio del diritto privato, cit., p. 34 ss., che spiega: «in
taluni casi la norma enuncia la valutazione di doverosità, disinteressandosi delle attese o del
sentire dei consociati; in altri, invece, la volge e la indirizza ad uno o più soggetti determinati.
Qui si profilano veri e propri destinatari dell’obbligo, che perciò si isolano e si caratterizzano
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 361

trui124. In dette concezioni, infatti, sotto diverse formule verbali, si na-

rispetto a tutti i consociati. Tale posizione di destinatari, o di destinatarietà, è ciò che si suole
definire diritto soggettivo e che a rigore è soltanto il riflesso secondario ed eventuale dell’ob-
bligo altrui. Diciamo eventuale, poiché la considerazione dei destinatari non è indispensabile
al giudizio normativo di doverosità». Si aggiunge poi: «abbiamo finora parlato di destinatario
dell’obbligo, e non di destinatario del comportamento dovuto. Le due figure non coincidono.
La destinazione dell’obbligo identifica il titolare del diritto soggettivo; la destinazione del
comportamento dovuto identifica il soggetto a cui l’obbligato indirizza la propria condotta». Ed
ancora: «risolto nella mera destinatarietà dell’obbligo altrui, il diritto soggettivo ha soltanto il
compito di identificare la persona, che proponendo la domanda, fa sorgere nel giudice il do-
vere di pronunciare una sentenza sfavorevole all’obbligato». Già da tempo questa concezione
trova conferma in sede di giurisprudenza analitica: cfr. già AUSTIN, J., Lectures on Jurispru-
dence or The Philosofy of Positive Law, cit., p. 353 ss.; e poi HOHFELD, W.N., Concetti giuri-
dici fondamentali, cit., p. 17 ss.; ROSS, A., Diritto e giustizia, cit., spec. p. 149 ss. Ugualmente,
il già citato, HOLD VON FERNECK, A., Die Rechtswidrigkeit, cit., spec. p. 120. Nella nostra dot-
trina, oltre alla fondamentali osservazioni poc’anzi riportate di Natalino Irti, v. anche GIU-
LIANO, M., Norma giuridica, diritto soggettivo ed obbligo giuridico, cit., p. 23; FAZZALARI, E., La
volontaria giurisdizione, Profilo sistematico, Padova, 1953, p. 84 ss. (ma poi v. l’articolata po-
sizione espressa in ID., Note in tema di diritto e processo, cit., p. 55 ss., su cui cfr. retro, 122);
nella sostanza sembra essere questa (ma v. le precisazioni retro, nota 99) la posizione di PU-
GLIESE, G., Actio e diritto subiettivo, cit., p. 65; ID., «Res corporales», «res incorporales» e il
problema del diritto soggettivo, in Riv. it. sc. giur., 1951, p. 237 ss., spec. 272 ss.; ID., Usu-
frutto, uso e abitazione, cit., p. 52 ss.; ID., Facoltà e proprietà temporanea nella struttura del-
l’usufrutto, cit., spec. 449 ss.; ALLARA, M., Le nozioni fondamentali del diritto civile, I, Torino,
1953, p. 229 ss., sebbene – come noto – molto legato al concetto di rapporto giuridico; CA-
SETTA, E., Diritto soggettivo e interesse legittimo: problemi della loro tutela giurisdizionale, in
Riv. trim. dir. pubbl., 1952, p. 611 ss.; in una elegante ricostruzione CESARINI SFORZA, W., Di-
ritto, Teoria generale: IV), cit., p. 692 e poi p. 694; ID., Il diritto soggettivo, cit., p. 195 ss.; TA-
VORMINA, V., Profili dell’azione civile di cognizione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1973, p. 959 ss.
spec. 968 ss.; ID., In tema di condanna, accertamento ed efficacia esecutiva, in Riv. dir. civ.,
1989, II, p. 21 ss., spec. p. 25 nota 12.
124 Spero di non tediare il lettore se mi dilungo nella citazione di PEROZZI, S., Istituzioni

di diritto romano, I, 1947, rist., p. 82, nota 1 (ma ugualmente nella più breve edizione del
1906, p. 58, nota 1): «noi diciamo che il diritto subiettivo è la “facoltà di esigere una certa
condotta altrui” e non “facoltà di tenere una certa condotta” perché il diritto obiettivo ridu-
cendosi […] a norme con le quali il sovrano vieta di fare o impone di fare, ma non anche per-
mette di fare, non può appunto procurare ad una persona che la facoltà di esigere che altri
faccia o non faccia, ma non anche la facoltà di fare. Talora nella definizione dei singoli diritti
subiettivi questa natura del diritto si rende manifesta. Ciò avviene ad es., quando si dice che
il venditore ha diritto che gli sia pagato il prezzo. Talora invece resta nascosta. Così ad es.
quando si dice che il proprietario ha il diritto di disporre della sua cosa, si descrive apparen-
temente una facoltà di tenere una condotta e non di esigerla da altri. Nel fatto però anche il
proprietario di una cosa non riceve dal sovrano che la facoltà di esigere che gli altri si asten-
gano dall’intervenire senza il suo consenso nella cosa. È solo perché questa facoltà ha per ef-
fetto che egli sia in grado di esplicare le sue facoltà organiche di azione sulla cosa, senza te-
mere l’opposizione altrui, che si trova più opportuno definire questo diritto subiettivo dal-
l’effetto che importa anzi che dalla sua vera essenza. Il riguardo all’effetto che hanno per
362 CAPITOLO QUINTO

sconde lo stesso concetto, ovvero si vuole evidenziare il nesso di correla-


zione che lega il diritto all’obbligo, ma, mentre la prima definizione di-
mostra la serena rinuncia al carattere attivo che tradizionalmente con-
traddistingue l’immagine tipica del diritto soggettivo (sia questo potere o
possibilità di agire)125, l’altra, con il richiamo alla figura della pretesa,
sembra voler trasferire sul piano formale un qualche contenuto di atti-
vità, che però, date le premesse da cui si muove, è irrimediabilmente sva-
nito126.
Non v’è dubbio, dunque, che, posta la centralità dell’obbligo, la tesi
della destinatarietà presenti una formula definitoria più rigorosa e coe-
rente; difatti, l’idea del pretendere o proietta il concetto del diritto sog-
gettivo in una prospettiva processuale, o, come quella del potere, vuole
far partecipare il concetto all’idea di necessitas, di forza ideale, che, sem-
mai, è propria del diritto oggettivo, o, ancora, dà rilievo ad una tensione
psicologica che nella dimensione giuridica non trova ovviamente cittadi-
nanza127. Queste osservazioni, peraltro, vanno poste sul piano secondario
della definizione perfetta128; ciò che ci interessa, invece, è la sostanza del

l’uno le imposizioni di non fare rivolte agli altri importa che nell’uso, anche scientifico, si
parli di diritto in senso subiettivo e si identifichino i diritti subiettivi come facoltà di fare in
infinite altre ipotesi. Contro quest’uso non v’ha nulla da obiettare; esso è giustificato dall’e-
sprimersi con esso appunto che le facoltà organiche naturali d’azione d’un uomo sono tute-
late dal diritto obiettivo nella loro esplicazione con le prescrizioni di non fare rivolte agli al-
tri uomini. Ma quando si viene alla definizione del diritto subiettivo, allora la scienza, se
vuole cogliere questo nella sua realtà, deve muovere, come abbiamo fatto, dal concetto di di-
ritto obiettivo e fermar la sua mira al potere che questo dà all’uomo e cui questi prima non
aveva». Cfr. anche BOZZI, C., Interesse e diritto, in Noviss. Dig. it., VIII, Torino, 1957, p. 844
ss., ma spec. p. 850; ESPOSITO, C., Lineamenti di una dottrina del diritto, cit., p. 50 ss.; GAL-
GANO, F., Diritto civile e commerciale, I, Le categorie generali, Le persone, La proprietà, Pa-
dova, 1993, p. 24 ss.; ID., Diritto privato, Padova, 2001, p. 20.
125 Su questa linea, già HOLD VON FERNECK, A., Die Rechtswidrigkeit, cit., p. 120.
126 Per tutti, v. CARNELUTTI, Diritto e processo nella teoria delle obbligazioni, in Studi

di diritto processuale civile in onore di Giuseppe Chiovenda, Padova, 1927, p. 221 ss., spec.
p. 281 ss., poi in Studi di diritto processuale, II, Padova, 1928, p. 190 ss. e recentemente
ripubblicato in Diritto sostanziale e processo, Milano, 2006, p. 203 ss.; GARBAGNATI, E., Di-
ritto subiettivo e potere giuridico, I, cit., p. 554; FAZZALARI, E., Note in tema di diritto e pro-
cesso, Milano, 1957, p. 60; CASSARINO, S., Le situazioni giuridiche e l’oggetto della giurisdi-
zione amministrativa, cit., p. 80 e poi 109 s.; PUGLIESE, G., Actio e diritto subiettivo, cit., p. 49
ss.; ID., Introduzione, in WINDSCHEID, B. - MUTHER, T., Polemica intorno all’«actio», cit.,
XXXIII.
127 Per quest’ultima considerazione, oltre agli AA. cit. alla nota precedente, v. CAMMA-

RATA, A.E., Limiti tra formalismo e dogmatica nelle figure di qualificazione giuridica [1936], in
Formalismo e sapere giuridico, Studi, Milano, 1963, p. 345 ss., spec. p. 369 ss.
128 «Problema di nomi», dice FAZZALARI, E., La volontaria giurisdizione, cit., p. 87.
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 363

problema129. Ed è qui che sorgono difficoltà non lievi per le teorie in


esame; le quali tutte, rischiano di infrangersi contro uno scoglio interpre-
tativo di non poco conto.
Se, difatti, come ritiene l’unanime dottrina a qualunque orienta-
mento appartenente, la corrispondenza del diritto soggettivo all’obbligo
è imperfetta, cioè non sempre è biunivoca130, il problema fondamentale
che questo orientamento deve risolvere è quale debba essere il criterio da
adottare per determinare i casi in cui dalla norma derivino non solo ob-
blighi, ma anche diritti soggettivi.
In punto è il seguente: costruito il concetto di diritto soggettivo pro-
cedendo dall’obbligo e rilevando il nesso logico di correlazione che lega il
primo al secondo, se poi si parli di posizione di destinatarietà o di pre-
tesa poco importa, risolvendosi tale questione in una maggiore o minore
aderenza del lessico a ciò che si vuole comunicare. Ciò che importa, in-
vece, è rilevare che la possibilità di concepire obblighi senza corrispon-
denti diritti solleva l’ulteriore e cruciale interrogativo testè indicato; il
che sta a significare o che anche tale risultato teorico è inappagante o che
abbisogna di ulteriore precisazione.
Così impostato, il problema della determinazione del concetto di di-
ritto soggettivo sembra essere nuovamente fuori controllo ed occorre af-
frettarsi ad esaminare la riflessione dottrinale che, contestualizzando la fi-
gura del diritto soggettivo all’interno delle diverse tecniche di tutela che
l’ordinamento appresta, ha valorizzato gli elementi di specificità che con-
traddistinguono la situazione giuridica in questione.
Questa linea di svolgimento teorico appare evidente evidenziando la
progressiva accentuazione e rigorizzazione di tale impostazione di me-
todo che si riscontra passando dalla concezione di Jhering a quella di
Thon ed infine a quella di Kelsen131.

129 Non casuale è peraltro il fatto che le due definizioni si presentano sovente come
fungibili.
130 L’opinione è talmente frequente che ogni citazione risulta superflua.
131 Solo apparentemente supera l’ostacolo la tesi avanzata da CASSARINO, S., Le situa-
zioni giuridiche e l’oggetto della giurisdizione amministrativa, cit., p. 102 ss. Questa conce-
zione può essere così sintetizzata: le situazioni giuridiche primarie sono due e cioè la facoltà
e l’obbligo; situazioni che riflettono la duplice valutazione che l’ordinamento offre dei com-
portamenti umani. Con ciò, da un lato, i comportamenti facoltativi non sono indifferenti per
il diritto (p. 46 ss., 168 ss.) e, dall’altro, l’obbligo appare lo strumento con cui il diritto inter-
viene per soddisfare gli interessi umani e rispetto al quale il diritto soggettivo deve essere po-
sto in posizione correlativa (p. 98). Si giunge così alla definizione secondo cui il diritto sog-
gettivo è «la situazione di interesse correlativa all’obbligo altrui». Anche questa concezione,
d’altra parte, pur presentando particolari affinità con quella da noi presentata tra breve nel
364 CAPITOLO QUINTO

2.5. Il diritto soggettivo nella prospettiva delle diverse tecniche di prote-


zione giuridica degli interessi
2.5.1. Il diritto soggettivo dall’«interesse giuridicamente protetto» alla
«protezione giuridica dell’interesse»
Nel passaggio dall’esame del primo gruppo di teorie esaminate al se-
condo si è rilevata, posto un pari nesso di derivazione ideologica dal con-
testo non convince appieno sotto taluni profili. In primo luogo va osservato che anche se-
condo questa concezione dovrebbe apprezzarsi, sul piano formale, una situazione giuridica
inattiva da contrapporre all’obbligo, il che, come diremo nel testo (cfr. infra, § 2.5.4.2.), non
sembra soluzione condivisibile e ciò in ragione del fatto che sotto il profilo ricostruttivo – e
non solo metodologico – risulta opportuno tenere separato il piano funzionale da quello
strutturale, sul quale ultimo il diritto sostanziale presenta solo la figura dell’obbligo, mentre
l’interesse – in questa prospettiva – corrisponde al nulla. In secondo luogo, nella posizione
qui in esame, da un lato, si ritiene che, per poter parlare di diritto soggettivo, l’interesse deve
appartenere ad uno o più soggetti determinati (mentre non è possibile parlare di diritto sog-
gettivo se l’interesse è della collettività intera: cfr. p. 112) e, dall’altro, si sostiene l’inutilità di
rinvenire nell’attribuzione dell’azione al titolare del diritto un elemento di cui far uso per de-
terminare i casi in cui all’obbligo corrisponda il diritto soggettivo. Si osserva, infatti, che l’a-
zione è il posterius e non il prius, infatti, «non l’esitenza dell’azione può gettar luce sull’esi-
stenza del diritto soggettivo, ma viceversa questa su quella» (p. 107). Ma la prospettiva ora in-
dicata non solo non convince in virtù dell’aprioristica delimitazione del concetto di diritto
soggettivo ai casi in cui l’interesse appartenga ad uno o più soggetti determinati, ma anche in
relazione al rapporto tracciato tra diritto ed azione. Sotto questo profilo, infatti, non v’è dub-
bio che la tutelabilità giurisdizionale di un certo interesse sia fenomeno logicamente conse-
guente alla sua rilevanza sul piano sostanziale e nemmeno è dubbio che il fenomeno giuridico
dell’azione debba essere proiettato in una sfera di sistemazione del diritto – il diritto proces-
suale, appunto – diversa da quello sostanziale, ma ciò non toglie, d’altro canto, che l’attribui-
zione del diritto di azione rappresenti un indice decisivo di rilevanza giuridica di un certo in-
teresse secondo un legame di corrispondenza biunivoca sancito dalla stessa Costituzione al-
l’art. 24. Se si ragionasse in senso opposto potremmo anche arrivare al risultato che l’obbligo
X sia correlativo del diritto soggettivo di A, sebbene il soggetto B (e non A) possa esercitare
l’azione. Ed è questa la soluzione a cui in effetti giunge Cassarino allorché, evidenziando il
fatto che ciò che conta è la tutela diretta dell’interesse (spec. p. 262), afferma sia più corretto
parlare di «interesse occasionalmente protetto», e non di diritto soggettivo, allorché una
norma attribuisca l’azione ad un soggetto, ma dimostri di non tutelare direttamente il suo in-
teresse. Ma questo modo di vedere proprio non convince e – sebbene abbia il suo fonda-
mento nelle concezioni tradizionali della nozione di interesse legittimo – per svelarne i profili
di incongruità concettuale si può procedere proprio prendendo ad esame una fattispecie ti-
pica di tutela degli interessi collettivi. Si pensi, dunque, al caso di un’associazione di consu-
matori che esercita l’azione per la dichiarazione dell’abusività di una certa clausola inserita
nelle condizioni generali di contratto. Qui potremmo dire che l’associazione è titolare di un
interesse occasionalmente protetto, poiché il suo interesse immediato è ad esempio acquisire
notorietà per aumentare il numero degli iscritti e la tutela giuridica apprestata dall’ordina-
mento si pone come strumentale rispetto a tale obiettivo. Oppure, ragionando al contrario,
potremmo dire che l’interesse tutelato non è quello dell’associazione, ma quello dei consu-
matori, sicché, appunto, l’interesse dell’ente esponenziale riceve tutela solo in via indiretta.
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 365

cetto giusnaturalistico di diritto soggettivo, una certa inflessione nell’in-


cidenza di detta matrice nell’elaborazione del concetto.

Ma questo modo di ragionare sarebbe alquanto singolare e comunque non condivisibile. Se,
infatti, l’interesse alla rimozione della clausola è di certo un interesse che sul piano normativo
viene ad essere riferito ai consumatori (e ciò in ragione del fatto che sono loro – e non l’as-
sociazione – ad operare sul mercato), ciononostante è dato rilevare un interesse protetto,
avente il medesimo oggetto, anche in capo all’associazione; interesse che è appunto strumen-
tale rispetto ad altri ed ulteriori interessi (relativamente) finali e giuridicamente irrilevanti. La
considerazione che l’ente esponenziale abbia come movente dell’azione la speranza del sod-
disfacimento di un interesse ulteriore (quale ad esempio quello alla notorietà o all’acquisi-
zione di nuovi iscritti) non può condurre ad un ribaltamento della prospettiva imposta dalla
norma negando che la dichiarazione di abusività della clausola rappresenti una situazione fa-
vorevole – e quindi di interesse – anche per l’associazione. Sicché, prendere come punto di vi-
sta privilegiato per la ricostruzione del fenomeno in questione il possibile interesse finale che
anima in concreto l’associazione sovrapponendolo all’interesse preso in rilievo dalla norma
costituisce un’operazione non corretta. Ciò a cui al contrario occorre attribuire rilevanza sono
gli schemi normativi di interesse che possono essere tracciati sulla base della legge in ordine
ad una certa situazione; sicché, in questo caso, la dichiarazione di abusività è oggetto di inte-
resse tanto per i consumatori, quanto per gli enti esponenziali legittimati. La tutela è quindi
diretta: qui come sempre. In altri termini, la rimozione della clausola rappresenta una situa-
zione tutt’altro che indifferente per l’associazione; che poi ciò avvenga perché l’interesse alla
dichiarazione accennata si pone come interesse mediato rispetto a quello finale poc’anzi indi-
cato (acquisizione notorietà, ecc.) o ad altri interessi ancora, ciò non autorizza a concepire
una tutela indiretta di eventuali e prefigurabili interessi finali. Il concetto di interesse occa-
sionalmente protetto nasce invece nella prospettiva opposta, generalmente seguita in materia
di interesse legittimo, come detto (cfr. i tradizionali contributi di RANELLETTI, O., Diritti su-
biettivi e interessi legittimi nella competenza, in Foro it., 1893, I, p. 490 ss.; ID., Principi di di-
ritto amministrativo, Napoli, 1912, I, nn. 256 ss.; ID., Le guarentigie della giustizia nella pub-
blica amministrazione, Milano, 1934, p. 150 ss.; ZANOBINI, G., Interessi occasionalmente pro-
tetti nel diritto privato, in Studi in memoria di Francesco Ferrara, II, Milano, 1943, p. 705 ss.
oltre che in Studi di diritto pubblico, Milano, 1955, p. 345 ss.; per una pungente critica del
concetto, v. SATTA, A., Ultime tendenze della teoria dell’azione, ora in Soliloqui e colloqui di un
giurista, Padova, 1968, p. 223 ss., ma spec. p. 231.). Si pensi all’espropriazione del bene di
Caio da parte della p.a.: Caio ha evidentemente interesse alla conservazione della proprietà
sul bene (interesse finale non tutelato) e se fosse per lui farebbe qualsiasi cosa per trattenerla,
ma l’ordinamento riserva prevalenza al suo interesse solo nei limiti in cui l’atto amministra-
tivo possa essere rimosso (interesse strumentale tutelato). L’immagine tradizionalmente for-
nita di questo fenomeno è che la tutela diretta sia quella riservata all’interesse generale, cioè
all’interesse alla legittimità del provvedimento; sicché si dice che l’interesse di Caio è tutelato
occasionalmente, ovvero solo nella misura in cui coincida con l’interesse generale. Ma questo
modo di vedere non appare pienamente convincente. D’altra parte, offrire una ricostruzione
maggiormente condivisibile di questo fenomeno giuridico è tutt’altro che agevole e ciò fon-
damentalmente per due questioni. La prima concerne la determinazione dei rapporti tra in-
teresse generale, interesse pubblico e interesse del cittadino. La seconda è, invece, relativa al
fatto che il fenomeno giuridico in questione non concerne direttamente il soddisfacimento
degli interessi mediante l’imposizione di obblighi che vincolano i comportamenti materiali,
ma piuttosto il momento logicamente anteriore e relativo alla modificazione-produzione delle
norme; sicché, per addivenire ad una sistemazione soddisfacente della fattispecie in esame oc-
366 CAPITOLO QUINTO

La circostanza in esame è ancor più evidente nella definizione di Ru-


dolf von Jhering, per il quale, come è a tutti noto, il diritto soggettivo è

corre rifarsi al concetto di potere giuridico e ciò con le complicazioni ulteriori che a questo
consegue (sul concetto di potere giuridico, v. infra, nota 172). Cercando, dunque, di fare uno
sforzo di sintesi, a giudizio di chi scrive occorre in primo luogo soffermarsi sulle due que-
stioni ora indicate. Riguardo alla prima occorre subito evidenziare che l’impiego del concetto
di interesse conduce nella fattispecie esemplificativa appena indicata alla rilevazione di un du-
plice piano di conflitti di interesse. Cercando di semplificare un discorso assai complesso,
muoviamo dal comma 3 dell’art. 42 Cost., laddove è previsto che la proprietà privata può es-
sere nei casi previsti dalla legge e salvo indennizzo espropriata per motivi di interesse gene-
rale ed immaginiamo per un attimo – con uno sforzo di fantasia – che la collettività intera
possa essere concepita in veste antropomorfa e pienamente in grado di determinare i suoi in-
teressi. Se così fosse, sempre al ricorrere dei casi previsti dalla legge, allorché il soggetto-col-
lettività ritenesse suo interesse appropriarsi del bene in proprietà di Caio, potrebbe senz’altro
espropriare il bene in ragione del rapporto di prevalenza che la legge assegna al suo interesse
rispetto a quello di Caio. D’altra parte, operando la collettività per mano della p.a. ed es-
sendo la p.a. un soggetto distinto dalla collettività unitariamente intesa, occorre contemplare
e tenere distinti sul piano concettuale, da un lato, l’interesse generale e, dall’altro, l’interesse
(del soggetto) pubblico (sulla distinzione tra interesse pubblico e generale, v. retro, cap. IV,
§ 8). Compito dell’amministrazione procedente è proprio quello di farsi interprete dell’inte-
resse generale, ovvero uniformare l’interesse concreto della p.a. a detto interesse attraverso
l’operazione di selezione e contemperamento degli interessi in sede di procedimento ammi-
nistrativo. Se da questo punto di vista guardiamo al conflitto di interessi che si realizza tra
p.a. e cittadino, ci si avvede che la prevalenza dell’interesse della p.a. su quello del cittadino
dipende dalla corrispondenza dell’interesse della stessa con quello della collettività, nonché
dal rispetto degli ulteriori profili che incidono sulla legittimità del provvedimento ammini-
strativo. Vi sono, quindi, due distinti piani di interesse, quello dei rapporti tra l’interesse della
p.a. e l’interesse del cittadino e quello del rapporto tra interesse della collettività e l’interesse
della p.a., con la particolarità, peraltro, che dal rapporto di conformità-difformità intercor-
rente tra questi ultimi due interessi, dipende il rapporto di prevalenza dell’interesse della p.a.
su quello del cittadino. Venendo all’altra questione, ovvero alla particolare tecnica di soddi-
sfacimento degli interessi qui in esame, va detto per l’appunto che la fattispecie indicata ne-
cessita dell’impiego della nozione generale di potere giuridico (v. infra, nota 172). La partico-
larità di questo effetto sta nel fatto che il diritto, mediante l’attribuzione di poteri giuridici,
garantisce ai soggetti il soddisfacimento di interessi strumentali (cfr., per tutti, PERASSI, T., In-
troduzione alle scienze giuridiche [1922], Padova, 1967, p. 51), ovvero di interessi che non in-
cidono direttamente sui comportamenti umani per l’attribuzione – come si suol dire – di beni
della vita ai consociati, ma piuttosto sulle regole di diritto che a questo provvedono. Sicché
potremmo per semplicità parlare, anziché di interessi al comportamento di interessi alla modi-
ficazione giuridica. Nella fattispecie in questione, quindi, l’interesse della p.a. trova come suo
strumento di tutela un potere giuridico di modificazione della regola di diritto che assegna la
proprietà del bene a Caio e quest’ultimo è titolare di un contro-potere di modificazione (po-
tere di annullamento) volto alla conservazione della regola di diritto preesistente che assegna
a lui la posizione prevista dall’art. 832 c.c. Il contenuto dell’interesse legittimo, in questo
caso, ha anch’esso natura strumentale ed è dunque rappresentato dall’interesse alla conserva-
zione della regola, mentre il limite della sua tutela, ovvero più precisamente il punto di in-
versione dei rapporti di prevalenza tra l’interesse della p.a. e l’interesse del cittadino è segnato
dalla legittimità del provvedimento, ovvero dal corretto esercizio del potere pubblico. In altri
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 367

null’altro che un «interesse giuridicamente protetto»132; qui, infatti,


emerge più nettamente non tanto la recisione tra diritto soggettivo e sog-
getto, quanto la loro separazione; tra di essi si insinua la norma che de-
creta la metamorfosi di ciò che appartiene al soggetto prima ed indipen-
dentemente dal diritto (l’interesse) in diritto soggettivo.
Separazione, ma non completa recisione, come detto, poiché ciò che
assicura l’«umanità»133 – direi – del diritto soggettivo è proprio l’inte-
resse che entra esso stesso nella definizione del concetto come suo ele-
mento imprescindibile.
Due sono, infatti, per Jhering gli elementi costitutivi del diritto:
quello «sostanziale», nel quale risiede lo scopo pratico del diritto e che
viene ad essere rappresentato appunto dall’interesse, qui inteso come uti-
lità, vantaggio, o godimento e quello «formale», l’elemento protettivo,
rappresentato dall’azione giudiziaria134.
Tanto nota la definizione quanto peraltro note sono le critiche che
ha sollevato, fondamentalmente dirette a rilevare l’estraneità dell’inte-
resse dal concetto giuridico di diritto soggettivo135; tra queste, spicca
quella genialmente sviluppata da parte di August Thon.

termini, fintanto che il provvedimento è legittimo, ovvero sono stati rispettati i requisiti che
la legge prescrive, garantendo – così – anche la conformità dell’interesse generale all’interesse
della p.a., quest’ultimo è prevalente rispetto all’interesse del cittadino, allorché, invece, il
provvedimento è illegittimo il rapporto di prevalenza tra i due interessi ora indicati si inverte
e prevale l’interesse del cittadino.
132 JHERING, R., L’esprit du droit romain dans le diverses phases de son développement,

cit., p. 326. Sul superamento della prospettiva giusnaturalistica avvenuto nella celebre defini-
zione a cui ora ci riferiamo, v. le considerazioni di LA TORRE, M., Disavventure del diritto sog-
gettivo, Una vicenda teorica, Milano, 1996, p. 63. La nozione avanzata da Jhering trova talora
accoglimento nella nostra dottrina: cfr. ZATTI, P. - COLUSSI, V., Lineamenti di diritto privato,
1997, p. 77 ss.; BIANCA, C.M., Diritto civile, VI, La proprietà, Milano, 1999, p. 12 e poi 20, che
difende la genericità della nozione osservando come essa sia l’unica in grado di assicurare la
sicura unitarietà sul piano sistematico e normativo, ponendosi come punto di riferimento per
l’applicazione di principi comuni. Particolare interesse desta a tal riguardo la posizione di RE-
DENTI, E., Profili pratici del diritto processuale civile, Milano, 1938, p. 12 s., che fa chiaramente
impiego del concetto di interesse per descrivere la posizione di diritto soggettivo, ma con l’ac-
cortezza di dare particolare risalto formale al dovere (o anche alla soggezione), che si pone
correlativamente al diritto soggettivo; va detto peraltro, che la concezione in esame assegna
poi eccessivo risalto formale alla figura del rapporto giuridico come rapporto intersoggettivo
(p. 18 s.); ID., Diritto processuale civile, I, Milano, 1957, p. 15.
133 Cfr. JHERING, R., L’esprit du droit romain dans le diverses phases de son développe-

ment, cit., p. 325.


134 JHERING, R., L’esprit du droit romain dans le diverses phases de son développement,

cit., p. 325-326.
135 Le citazioni sarebbero superflue, basti ricordare la replica dello stesso WINDSCHEID,

B., Diritto delle pandette, cit., p. 170, nota 3.


368 CAPITOLO QUINTO

Se Jhering – avanzando un’ulteriore variante concettuale dell’idea


del diritto soggettivo come situazione composta da un lato interno ed
uno esterno – affermava che l’elemento materiale e quello formale pote-
vano essere immaginati figurativamente come il frutto avvolto nella
scorsa protettiva, Thon rileva una volta per tutte l’errore insito in conce-
zioni di tal fatta, osservando che «il diritto è soltanto un mezzo, non mai
uno scopo di per sé stesso». Richiamandosi all’immagine appena ricor-
data osserva: «nel diritto non devesi distinguere la scorza protettiva – la
tutela giuridica – ed il nocciolo – l’interesse –; no, soltanto la scorza co-
stituisce il diritto, il nocciolo non appartiene più ad esso»136. E con que-
ste parole segna l’affrancazione del concetto di diritto soggettivo dall’im-
postazione giusnaturalistica ed evidenzia il carattere strumentale del di-
ritto valorizzandone la dimensione tecnica.
La lettura della fondamentale opera del Maestro manifesta tutt’ora
la straordinaria attualità che gli appartiene inalterata.
Centrale, nella dottrina in esame, è la concezione accolta dell’ordi-
namento giuridico. Quest’ultimo – secondo una lettura che sarà successi-
vamente sviluppata dal normativismo kelseniano, pur sempre di conce-
zione imperativistica, ma con maggiore attenzione all’analisi della strut-
tura della norma – non è concepito come sistema di diritti, ovvero come
un insieme di entificazioni pseudocorporee che entrano in un rapporto
conflittuale con esso, attivando un’irriducibile dualismo tra dimensione
oggettiva e soggettiva dello stesso, ma come «complesso d’imperativi».
L’ordinamento è presentato nella sua dimensione normativa, virtuale
ed artificiale137. Esso appare separato dalla dimensione reale dei compor-

136 THON, A., Norma giuridica e diritto soggettivo, cit., p. 207, il quale peraltro, pur va-

lorizzando la prospettiva indicata nel testo, dimostra comunque di continuare a far uso del-
l’interesse per la comprensione dei fenomeni giuridici. Successivamente, KELSEN, H., Pro-
blemi fondamentali della dottrina del diritto pubblico, cit., p. 632 ss.; ID., Teoria generale del
diritto e dello Stato, cit., p. 81, la cui critica, però, ampliamente svolta, ha un’impostazione
più accentuatamente formale. Ragionando con formule breviloquenti potremmo dire che per
Jhering il diritto soggettivo è l’«interesse protetto», per Thon è la «protezione dell’interesse»,
per Kelsen è solo «protezione», mera tecnica, struttura formale. L’influsso di Thon è evidente
in FERRARA, F., Trattato di diritto civile italiano, I, cit., p. 319. Con tutta franchezza, peraltro,
non si comprende come sia possibile sostenere (CASSARINO, S., Le situazioni giuridiche e l’og-
getto della giurisdizione amministrativa, cit., p. 83) che tale critica mossa da Thon alla defi-
nizione di Jhering «colga nel segno solo se si concepisce il diritto soggettivo come potere o
facoltà».
137 «Il normativismo, sciogliendosi dalla fisicità terrestre e dalla concretezza dell’ordine

originario, rivela intera la potenza dell’artificialità. Il ‘fare con arte’ è proprio del diritto se-
colarizzato. Divisa per sempre dal diritto naturale, la norma si fa positiva, cioè posta dalla vo-
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 369

tamenti umani e posto su un piano parallelo rispetto a questi sul quale


vive di vita propria138. È un sistema autosufficiente che risponde al mu-
tamento dei fatti in virtù del rapporto di condizionamento che lega l’im-
perativo ad essi, ma da essi rimane sempre separato, su essi non produce
alcuna conseguenza, né, di per sé stesso, è rivolto a produrla.
Come afferma lo stesso Thon: «di conseguenze giuridiche dell’illi-
ceità si parla per lo più in maniera, che lascia intendere una certa pro-
pensione a non annoverare anche queste medesime conseguenze fra le
norme, bensì a separarle concettualmente dalle stesse. In contrapposto a
ciò dev’essere affermato con tutta risolutezza che anche le conseguenze
giuridiche della trasgressione della norma, sia che si propongano per
iscopo la punizione del trasgressore, sia che servano ad altri fini, non
consistono se non nell’entrare in vigore di nuovi imperativi oppure nel
venir meno d’imperativi fino allora vigenti»139. Cosicché, a fronte della
violazione del precetto, si verifica una «trasformazione per forza di
legge» grazie alla quale all’«obbligo originario» si sostituisce la «norma
secondaria» e «lo scopo della disposizione è […] immediatamente rag-
giunto»140.
Ciò peraltro non esclude ma anzi giustifica il duplice piano di intel-
lezione del fenomeno giuridico. La separatezza tra la «sfera ideale» delle
norme e quella dei comportamenti umani, se da un lato garantisce l’a-
pollinea perfezione che regna nella prima, nella quale l’ordinamento ha il
potere di «rendere assolutamente impossibili spostamenti sgraditi», dal-
l’altro, evidenzia la mancanza di «eguale forza contro non desiderati mu-
tamenti nel mondo materiale»141. Ciò sta a significare che se la violazione
della norma rappresenta, all’interno dell’ordine normativo, un fenomeno
che appartiene al naturale svolgimento dello stesso, così non è rispetto
agli uomini e agli interessi che tali norme si prefiggono di tutelare142.

lontà dell’uomo. La sua posizione – secondo le procedure di ciascun ordinamento – è la sua


unica ed esclusiva verità. Il diritto non accoglie né rispecchia le cose del mondo esterno, non
le imita né riproduce. Ma conferisce ad esse un significato, che altrimenti non avrebbero, e
che esse ricevono e conservano soltanto per il diritto e nel diritto»: così, IRTI, N., Norma e luo-
ghi, Problemi di geo-diritto, Bologna-Roma, 2001, p. 49.
138 THON, A., Norma giuridica e diritto soggettivo, cit., p. 22.
139 THON, A., Norma giuridica e diritto soggettivo, cit., p. 16-17.
140 THON, A., Norma giuridica e diritto soggettivo, cit., p. 132.
141 THON, A., Norma giuridica e diritto soggettivo, cit., p. 22.
142 Come è noto questa concezione troverà la sua massima espressione nella dottrina

pura del diritto elaborata da Kelsen. Ma come si vede nel testo, tale idea di fondo la si trova
già in Thon, la cui diffusione del pensiero si deve proprio a Kelsen (Problemi fondamentali
della dottrina del diritto pubblico, cit., p. 650 ss.). Ciò che però attrae dell’opera di Thon è
370 CAPITOLO QUINTO

È da questa concezione dell’ordinamento che emerge una verità in


grado di illuminare ora come allora i rapporti tra diritto e processo. Le
norme vivono di vita propria e rispondono al mutamento dei fatti «rin-
novandosi» senza soluzione di continuità. L’ordinamento appare – pren-
dendo in prestito una efficace immagine di Redenti – come «mens rego-
latrice»143 esistente in un empireo isolato.
La norma, ostentatamente neutrale se colta in sé per sé, si colora di
contenuto solo se posta in relazione con la dimensione pratica sulla quale
deve incidere, cioè con i comportamenti e gli interessi a questi connessi
che l’uomo che l’ha posta aspira che essa governi. Il processo appare al-
lora essenzialmente come strumento pratico, ovvero come strumento di
adeguamento del fatto alla norma, come il necessario canale di comunica-
zione tra dimensione virtuale e dimensione pratica dell’ordinamento. Im-
magine, quest’ultima, che, ulteriormente affinata e sviluppata in una vi-
sione dinamica e dialettica dell’ordinamento stesso, giunge a ricomporlo
ad unità come «processo di determinazione del concreto consistente in
questa progressione ideale dalla legge all’azione»144. È la garanzia del

proprio la necessità di concretamento dell’«imperativo» che emerge chiarissima da tale con-


cezione quale completamento dell’apparato protettivo che l’ordinamento offre al soggetto e
ai suoi interessi. Questi, infatti, nella concezione di Thon, pur estromessi dal concetto tecnico
di diritto, si fanno ben sentire – come nel testo cerchiamo di evidenziare – consentendo, da
un lato, la chiara percezione del potenziale conflitto tra norma e prassi e con esso il signifi-
cato profondo del processo e della tutela giurisdizionale ed evitando, dall’altro, quella scarni-
ficazione dell’ordinamento che si realizza invece più compiutamente nel formalismo norma-
tivo di Kelsen.
143 REDENTI, E., Intorno al concetto di giurisdizione, in Studi in onore di V. Simoncelli,

Napoli, 1916, p. 493 ss., ma cit., p. 498, (ora in Scritti e discorsi giuridici di mezzo secolo, I,
Milano, 1962, p. 227 ss.), che afferma: «le singole norme oggi, non bisogna dimenticarlo, non
hanno esistenza empirica come cose finite e materiali del mondo esterno, come un quadro, un
libro, una pianta, cosicché il diritto si possa decomporre in esse come si decomporrebbe un
tessuto nei suoi fili. Esse sono in realtà figure logiche o mentali costruite in astratto per
gruppi più o men vasti di casi ipotetici […]».
144 SATTA, S., Il processo nell’unità dell’ordinamento, in Soliloqui e colloqui di un giurista,

cit., p. 116 ss., ma cit., p. 118; ID., Commentario al codice di procedura civile, III, Processo di
esecuzione, Milano, 1965, p. 36. Sul punto v. anche ID., L’attualità di Ludovico Mortara, in So-
liloqui e colloqui di un giurista, cit., p. 459 ss., spec. p. 476 s.; e poi ID., Azione in generale: b)
L’azione nel diritto positivo, in Enc. dir., III, Milano, 1958, p. 822 ss.; ID., Commentario al co-
dice di procedura civile, I, Disposizioni generali, Milano, 1959, p. 16 ss., 43 ss.; ma spec. ID.,
Giurisdizione: II) Nozioni generali, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, p. 218 ss., di cui va se-
gnalato il richiamo del poc’anzi citato REDENTI, E., Intorno al concetto di giurisdizione, ri-
spetto alla cui posizione lo stesso Satta rileva (nella voce cit., alla nota 9) la particolare mo-
dernità che va ben oltre un superficiale apprezzamento della dottrina appena indicata che
faccia perno sul richiamo del concetto di sanzione. Cfr. anche SATTA, S. - PUNZI, C., Diritto
processuale civile, Padova, 2000, p. 10 ss.
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 371

concretamento del precetto, dunque, che garantisce l’essenza del diritto


che tutti noi percepiamo.
Per Jhering, si è già detto, il diritto soggettivo è l’«interesse giuridi-
camente protetto». Questa è la definizione che da parte a parte viene ri-
cordata. Ma la concezione pragmatica e concreta del diritto soggettivo
che Jhering coltiva e l’«essenza» che tanti giuristi del diritto soggettivo
hanno ricercato meglio appare nell’altra definizione ugualmente avanzata
dal geniale giurista tedesco – invero poco ed ingiustamente valorizzata
dalla dottrina successiva – secondo la quale «il diritto è la sicurezza giuri-
dica del soddisfacimento»145.
È qui che si tocca uno dei punti fondamentali del concetto di diritto
soggettivo, che pone il soggetto di fronte all’ordinamento e che non può
fare a meno del coessenziale concetto di azione, a cui, tra l’altro, lo stesso
Jhering assegna – come visto – il compito di assolvere interamente la fun-
zione protettiva che assieme all’interesse contribuisce all’esistenza del di-
ritto soggettivo.

2.5.2. Il diritto soggettivo dalla «protezione giuridica dell’interesse» a pura


tecnica di tutela giuridica
Torniamo comunque al pensiero di August Thon. Come fare a di-
stinguere il diritto soggettivo muovendo da tale concezione dell’ordina-
mento? Con estrema lucidità l’illustre giurista, al cui pensiero è rivolta la
nostra attenzione, osserva che non sussiste alcuna differenza tra le norme
che fondano un diritto pubblico e le norme che fondano un diritto pri-
vato. Tutte sono poste nell’interesse della comunità e degli individui che
a questa partecipano, senza possibilità di contrapporre gli interessi della
prima agli interessi dei secondi146 per poi rilevare, nella funzionalizza-
zione che una disposizione dimostra rispetto agli uni o agli altri, la di-
stinta natura di una norma rispetto ad un’altra. Né tale distinzione è pos-
sibile operarsi, muovendo dalla valutazione del vantaggio, più o meno di-
retto, che il soggetto riceve dall’osservanza della norma, cioè dalla
partecipazione immediata o più remota che spetta ad esso al godimento
di un certo bene protetto dalla legge147.

145 JHERING, R., L’esprit du droit romain dans le diverses phases de son développement,
cit., p. 326 e poi 337.
146 THON, A., Norma giuridica e diritto soggettivo, cit., p. 114 ss.
147 Ciò è stato già evidenziato nel capitolo IV, in cui abbiamo rilevato la fondamentale

distinzione tra interesse concreto ed interesse normativamente rilevante, rimarcando – ap-


punto – che per la norma questo è l’unico esistente nello schema tipico ed astratto che da essa
372 CAPITOLO QUINTO

Al contrario, è proprio nella necessaria attività che si richiede per


l’attuazione della norma, per il suo concretamento, che il diritto privato
e il diritto pubblico si separano: «diventa diritto privato la tutela accor-
data dalle norme agl’interessi d’un singolo contro singoli, per ciò che al
(soggetto) tutelato, nel caso di trasgressione della norma, viene dato dal-
l’ordinamento giuridico un mezzo per la rimozione della illiceità e (tale
mezzo viene) rimesso al suo uso discrezionale»148. Tale mezzo è per Thon
la pretesa, ovvero «la forza prestata dall’ordinamento giuridico di porre
la condizione preliminare per l’entrata (in vigore) degl’imperativi, i quali
impongono a determinati organi statuali […] di ordinare la prestazione
di un rimedio giudiziario – cioè un procedimento contro gli obbligati a
fine di produrre o ripristinare la situazione, a raggiungere od a mante-
nere la quale mirava il comando o divieto trasgredito»149. Ciò posto, al-
lora, «la pretesa privata è il contrassegno del diritto privato»150.
In altri termini, «un interesse privato, a favore del quale sia stabilita
la tutela, non fa ancora di quest’ultima un diritto privato: soltanto il
modo, come questa tutela è assicurata, è decisivo per la qualifica della
stessa»151. Come più tardi avrebbe confermato Kelsen, il problema del di-
ritto soggettivo si risolve insomma in una questione di «tecnica specifica
del diritto civile»152.
Si badi bene: nonostante talora sia stato ritenuto il contrario153, nella
concezione di August Thon, il diritto soggettivo non si risolve, quindi,

è dato trarre. La medesima constatazione ha orientato la nostra lettura critica delle posizioni
dottrinali che al contrario tendono a farsi guidare da una sensibilità direi empirica che può di
per sé apparire fuorviante riguardo a concetti che hanno origine puramente normativa (cfr.
retro, nota 122).
148 THON, A., Norma giuridica e diritto soggettivo, cit., p. 133.
149 THON, A., Norma giuridica e diritto soggettivo, cit., p. 224.
150 THON, A., Norma giuridica e diritto soggettivo, cit., p. 133 (c.vo.).
151 THON, A., Norma giuridica e diritto soggettivo, cit., p. 117 (c.vo.). Cfr. anche p. 205.
152 KELSEN, H., Teoria generale del diritto e dello Stato, cit., p. 82 (c.vo.).
153 In questi termini, già CHIOVENDA, G., L’azione nel sistema dei diritti (1903), in Saggi

di diritto processuale civile, I, Milano, 1993, p. 3 ss., ma spec. p. 72, nota 65. Successivamente,
v. BETTI, E., Il concetto dell’obbligazione costruito dal punto di vista dell’azione, cit., p. 15, nota
8; PUGLIESE, G., Actio e diritto subiettivo, cit., p. 60, nota 2, che aderisce alla lettura critica
che di Thon ha offerto KELSEN, H., Hauptprobleme der Staatsrechtslehre, Tübingen, 1911, p.
624 ss. (ora nella già citata trad. it., KELSEN, H., Problemi fondamentali della dottrina del di-
ritto pubblico, cit., p. 651), il quale, dopo aver mosso profonde critiche sulla concezione della
norma che è presente in Thon, liquida piuttosto rapidamente l’idea di diritto soggettivo da
questi avanzata, affermando appunto che essa si rivolva inevitabilmente nel concepire il di-
ritto soggettivo come diritto alla realizzazione della sanzione; ma, come si cerca di dimostrare
nel testo ed infra alla nota 160, questa lettura non convince e la concezione di Kelsen sembra
essere ben più vicina a quella già proposta da Thon. Per ulteriori critiche della posizione di
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 373

nel potere di attivare la tutela giurisdizionale, cioè nell’azione154; né tanto


meno al concetto di diritto privato può ricondursi solo il precetto secon-
dario la cui attuazione è riposta nelle mani del soggetto. In realtà tali let-
ture scontano l’errore in cui già Windscheid era incorso; e cioè nel voler
attribuire all’Autore, la cui dottrina qui abbiamo in esame, opinioni che
invece non sembrano appartenergli. La sua posizione è interpretata come
se la particolare tecnica di attivazione dell’apparato coercitivo di cui l’or-
dinamento si serve per garantire l’effettività dell’obbligo (attuazione del
precetto secondario rimessa alla libera volontà del soggetto privato) do-
vesse essere ritenuta non – come afferma Thon – il «contrassegno» del
diritto soggettivo, ma l’«essenza» dello stesso. E ciò secondo un modo di
vedere – ormai a noi ben noto – che conduce a concepire quel fenomeno
di appropriazione del precetto che giustifica la soggettivazione dello
stesso e che, se dal punto di vista figurativo offre una bella immagine, fa-
cilmente conduce alla metamorfosi del diritto oggettivo in un’entità di-
stinta: il diritto soggettivo. Afferma Windscheid: «la differenza fra il con-
cetto qui sostenuto e quello di Thon sta solo in ciò, che Thon rifugge dal
chiamare precetto del titolare il precetto giuridico emanato a favore di
lui, solo perché la sua volontà è decisiva per questo precetto. Per Thon,
al titolare non vien dato come proprio il precetto originario dell’ordine
giuridico, ma gli sono dati come proprii soltanto gli ulteriori precetti, che
l’ordine giuridico, per il caso di disobbedienza, emette contro il ricalci-
trante». E dunque si aggiunge: «per Thon il precetto originario resta un
puro e semplice precetto dell’ordine giuridico; il diritto soggettivo, se-
condo lui, è nulla di proprio, ma prospettiva a cosa propria»155.
Ma quanto appena riportato costituisce una lettura non fedele al si-
gnificato più autentico che si crede appartenere alla posizione in esame.
Per Thon il diritto soggettivo giammai costituisce qualcosa di diverso dal
diritto oggettivo156. Per Thon il diritto è tutela, protezione che le norme

Thon orientate nel senso qui indicato, v. anche FAZZALARI, E., Note in tema di diritto e pro-
cesso, cit., p. 61, nota 14, e, di recente, GRAZIADEI, M., Diritto soggettivo, potere, interesse, cit.,
p. 43.
154 Cfr. lo stesso THON, A., Norma giuridica e diritto soggettivo, cit., p. 206. Sul piano

definitorio potrebbe avvicinarsi a tale concezione FERRARA, F., Trattato di diritto civile italiano,
I, cit., p. 317, che del diritto soggettivo parla in termini di potere giuridico inteso come «po-
tere esclusivo di attuare a suo vantaggio la tutela giuridica», oppure come – riprendendo una
definizione di Jhering – «auto-protezione dell’interesse».
155 WINDSCHEID, B., Diritto delle pandette, cit., p. 171-172, in nota. Critica puntual-

mente fatta propria, tra gli altri, da CICALA, F.B., Il rapporto giuridico, cit., p. 72 ss.
156 Come poi Kelsen avrebbe rilevato (cfr. Problemi fondamentali della dottrina del di-

ritto pubblico, cit., p. 681).


374 CAPITOLO QUINTO

assicurano agli interessi e ciò invariabilmente vale tanto in relazione alle


norme private che a quelle pubbliche. La pretesa privata serve a Thon
come mero criterio di disceveramento157, ossia come criterio decisivo per
individuare, nel complesso di imperativi che costituiscono l’ordinamento
giuridico, quelle particolari norme, rispetto alle quali in posizione di di-
retto destinatario della tutela da queste apprestata non è posto lo Stato
(che in tal caso ha solo un «interesse mediato all’adempimento dei suoi
imperativi»158), ma un soggetto privato159,160.

157 «Dovunque si attribuisca ad una persona uno dei diritti dei quali si è parlato, tro-
viamo anzitutto un bene o un interesse della stessa, che l’ordinamento giuridico prende sotto
la propria tutela. In quanto quest’ultima viene assicurata per mezzo dell’esistenza degl’impe-
rativi statuali come anche per mezzo della minaccia di conseguenze giuridiche per il caso di
trasgressione (degl’imperativi stessi) o finalmente per mezzo dell’esecuzione d’ufficio delle
conseguenze giuridiche, l’interessato per quanto riguarda questa tutela è meramente passivo.
Suo è l’interesse tutelato, del pari del vantaggio della tutela – ma a quest’ultima in sé stessa
egli è completamente estraneo. Non c’è dunque ancora nessun motivo per designare la vo-
lontà statuale che lo tutela come un suo diritto. Ciò si può soltanto nel caso che l’interessato
stesso venga insieme chiamato all’attuazione della tutela» (p. 205).
158 THON, A., Norma giuridica e diritto soggettivo, cit., p. 133.
159 Tale criterio è lo stesso che trova impiego in Kelsen. Cfr. FERRARA, F., Trattato di di-

ritto civile italiano, I, cit., p. 313, che, sebbene suggestionato dall’idea del potere giuridico a
cui il diritto soggettivo è ricondotto, nella sostanza, al di là delle sintetiche formule definito-
rie, presenta questa stessa concezione esposta nel testo. Per Ferrara, infatti, centrale nei fe-
nomeni giuridici è la figura del dovere e il diritto soggettivo è degradato a «ripercussione fa-
vorevole nel beneficiario del dovere» (p. 303).
160 La serie concettuale in cui si articola la ricostruzione in esame è, in estrema sintesi

semplificativa, la seguente: il diritto oggettivo è un insieme di norme; la norma è un impera-


tivo; la conseguenza giuridica della trasgressione dell’imperativo è la sostituzione del co-
mando primario con un comando secondario-sanzionatorio; la rimozione dell’antigiuridicità
è operata mediante l’attuazione del comando secondario; l’attuazione del comando seconda-
rio si realizza imponendo ad organi statuali tale attuazione mediante l’attivazione di ulteriori
imperativi a questi rivolti; all’interno dell’insieme di norme che costituiscono l’ordinamento
oggettivo è possibile separare le norme pubbliche, poste a tutela diretta ed immediata degli
interessi della collettività, dalle norme private, poste a tutela diretta ed immediata degli inte-
ressi del singolo, e ciò facendo uso di un criterio discretivo che consiste nel rilevare quando
il potere di provocarne l’attuazione sia rimesso discrezionalmente ad un soggetto singolo e
non costituisca un dovere da parte di un organo dello Stato in rappresentanza della colletti-
vità (cfr. quanto affermato su questo specifico punto da THON, A., Norma giuridica e diritto
soggettivo, cit., p. 133-134). Si rifletta ora sulla seguente affermazione: «la caratteristica del di-
ritto soggettivo privato è da ricercarsi in ciò, che al (soggetto) tutelato dalle norme in caso di
trasgressione delle stesse viene promessa una pretesa privata allo scopo di realizzare il fine
dalle stesse perseguito. In forza delle pretese attuali o di quelle che ne possano risultare in av-
venire la tutela della norma diventa un diritto del (soggetto) tutelato» (p. 219). Chi riguardo
queste affermazioni volesse valorizzare il fatto che Thon usa il termine «promessa», o, il fatto
che – anche qui – sembrerebbe essere riproposta l’idea di appropriazione della norma che si
trova sovente nelle dottrine sul diritto soggettivo, commetterebbe un errore. Riguardo al
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 375

È interessante notare come questa esatta idea, calata poi nella di-
versa concezione della proposizione giuridica avanzata da Kelsen161, ac-

primo aspetto, infatti, si vuole solo sottolineare il fatto – da nessuno messo in dubbio – che
l’attività di attuazione coercitiva della legge opera solo – se per ragioni pratiche o ideologiche,
qui non interessa minimamente – a fronte di una trasgressione della stessa. Riguardo al se-
condo punto, invece, va evidenziato, che Thon non afferma semplicemente che il diritto sog-
gettivo è un diritto del soggetto, ma piuttosto che, la tutela offerta dalla norma diventa un di-
ritto del soggetto. Se si riflette sul fatto che l’A. in questione – sebbene escluda l’interesse dal
concetto di diritto e sebbene ritenga correttamente la sola analisi teleologico-funzionale delle
norme non risolutiva – percepisce chiarissimamente la fondamentale relazione che sussiste tra
interesse e protezione offerta dalla norma, tanto da affermare che ognuna delle teorie sul di-
ritto soggettivo racchiude un nocciolo di vero (p. 131) e che un interesse privato, a favore del
quale sia stabilita la tutela, «non fa ancora» di quest’ultima un diritto privato, ovvero non può
essere assunto come criterio «decisivo» (p. 131), se – dicevamo – si riflette su quanto appena
osservato, allora l’affermazione in questione [«la tutela della norma diventa un diritto del
(soggetto) tutelato»] sta a significare appunto che quando nel diritto oggettivo rinveniamo un
meccanismo, un’insieme coordinato di norme, che risponde a detti criteri, allora, la tutela di
queste norme, di tutte queste norme sostanziali (e non del precetto secondario, né tanto
meno degli imperativi ulteriori attivati con la pretesa esercitata) è una tutela offerta al sog-
getto, cioè rivolta immediatamente a soddisfacimento dell’interesse suo. Si pensi al punto in
cui si afferma che «la tutela della personalità diventa un diritto di questa, e precisamente un
suo diritto privato, solo allora quando dalla violazione delle norme protettrici sorge nell’offeso
una pretesa privata alla rimozione dell’illiceità» (p. 154, c.vo mio). Le «norme protettrici»
sono gli imperativi primari e non i secondari. Si prendano ancora ad esempio i punti in cui
Thon rimarca che la giuridicità del diritto non riposa sulla sanzione (p. 14 ss.) o in cui si
evidenzia che la tutela giuridica, ad es. riguardo la proprietà, non è appunto solo quella che
offre il precetto secondario, ma anche quello primario (p. 171). Ed ovviamente, al fine di
quanto osserviamo, poco o nulla importa che il valore di tali precetti primari, la loro giuri-
dicità, consista nel «peso della volontà generale […] che si indirizza alla volontà di chi la
deve osservare» (p. 17). La concezione imperativistica del diritto coltivata da Thon, non in-
fluisce, infatti, sulle considerazione che stiamo svolgendo. Insomma, anche quando Thon af-
ferma che «il diritto soggettivo viene fondato per mezzo della promessa di eventuali pretese»
e anche quando poi aggiunge che «esso consiste nella prospettiva delle stesse (es besteht in der
Aussicht auf solche)» (p. 205, c.vo mio), l’obiettivo che anima l’argomentazione dell’illustre
giurista è sempre lo stesso: l’ordinamento è un insieme di norme e ciò che chiamiamo diritto
privato non corrisponde a null’altro che a quelle norme in cui è possibile rinvenire quella par-
ticolare tecnica di applicazione coattiva delle stesse da cui è dato desumerne una particolare
natura. Si tenga presente ancora la seguente ed ulteriore definizione: «il diritto privato consi-
sterebbe, dunque, nella somma di quegli obblighi imposti ai singoli dall’ordinamento giuri-
dico, il cui coattivo adempimento, se non vengano spontaneamente prestati, è rimesso al sin-
golo interessato» (p. 137).
161 È ovviamente centrale, per comprendere la differente impostazione tra Thon e Kel-

sen comprendere la loro diversa concezione dell’ordinamento e soprattutto della norma, sem-
plificando, per entrambi l’ordinamento è un insieme di norme, ma mentre il primo ritiene che
vi siano norme rivolte ai cittadini ed altre rivolte agli organi dello Stato in ordine a garantire
l’attuazione degli imperativi che tra queste possono essere qualificati come secondari, per
Kelsen la norma è rivolta allo Stato stesso e la norma che per Thon corrisponde all’impera-
376 CAPITOLO QUINTO

quisti maggior risalto. Qui, infatti, l’efficacia condizionante che appar-


tiene alla volontà del titolare del diritto soggettivo non appare più svol-
gersi in ordine al concretamento dell’imperativo secondario rivolto ai
«sudditi», ma opera all’interno dell’unica norma che racchiude in sé l’il-
lecito e la sanzione conseguente e che trova nello stesso Stato il proprio
destinatario. Così, il diritto soggettivo si pone come «autorizzazione»,
come momento interno al funzionamento di una stessa unica norma,
come «partecipazione alla creazione del diritto», quindi162. Riemerge
così, nuovamente, l’idea della soggettivazione del diritto: «soltanto se un
individuo si trova in tale rapporto con la norma giuridica, soltanto se
l’applicazione della norma giuridica, l’esecuzione della sanzione, dipende
dall’espressione della volontà di un individuo diretta a questo scopo, sol-
tanto se la legge è a servizio di un individuo, questa può venir considerata
la “sua” legge, una legge soggettiva, e ciò significa “diritto soggettivo”»163.

tivo primario è riassorbita all’interno di questa andando a costituirne la fattispecie condizio-


nante. V., ampiamente, KELSEN, H., Problemi fondamentali della dottrina del diritto pubblico,
cit., p. 231 ss.; più sinteticamente, in ID., Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., p. 66 ss.;
cfr. anche ID., Teoria generale del diritto e dello Stato, cit., p. 61 ss., sebbene in veste più mo-
derata.
162 Spec. KELSEN, H., Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., p. 84-85.
163 Si riporta, per l’incisività del periodare, quanto affermato in KELSEN, H., Teoria ge-

nerale del diritto e dello Stato, cit., p. 83, ma la forma più pura di questo concetto la ritro-
viamo in Problemi fondamentali della dottrina del diritto pubblico, cit., p. 682, in cui il condi-
zionamento opera non sull’attuazione o l’esecuzione, ma direttamente su «la volontà dello
Stato». Nella nostra dottrina, un’immagine simile la si trova in PEKELIS, A., Azione, in Nuovo
Dig. it., II, Torino, 1937, p. 91 ss. (e poi, in Noviss. Dig. it., II, Torino, 1958, p. 29 ss.), in cui
si afferma, riguardo al diritto soggettivo (p. 96): «si potrebbe, forse, designare questa situa-
zione, che è indicata generalmente coll’espressione titolarità di un interesse giuridicamente
protetto, con quella di titolarità di un diritto soggettivo; senonché, un’altra ed assai notevole
situazione, cui dà luogo l’attività dello Stato, ha attirato l’attenzione degli studiosi e l’applica-
zione del termine diritto. Quest’altra e notevolissima situazione è quella in cui le leve di co-
mando dell’attività statale sono poste […] nelle mani dell’interessato, in cui, cioè, l’effettuarsi
o meno di una determinata azione statale, vantaggiosa per il singolo, dipende dalla volontà
del singolo stesso. Solo di lui e non di quello che è protetto dallo Stato indipendentemente
dalla sua volontà, si può dire, sia pur per traslato, che è lui che agisce, che l’azione dello Stato
è la sua azione, che il diritto obiettivo diventa per un istante suo diritto, diritto soggettivo». È
così, quindi, che il diritto soggettivo diviene «il diritto oggettivo, soggettivato nel momento
della dipendenza dal volere di un singolo consociato». Concezione, quest’ultima richiamata,
che, completata dall’opinione secondo cui l’«essenza» del diritto soggettivo dipende dall’esi-
stenza della coazione (p. 98), conduce a configurare l’azione come «diritto soggettivo in senso
proprio e primario», mentre il «rapporto giuridico sostanziale intercorrente direttamente, per
es., fra creditore e debitore, altro non è che l’ombra gettata dai due rapporti che il creditore
e il debitore hanno con lo Stato e consistenti, il primo, nel diritto d’azione dell’uno, nel di-
ritto cioè all’azione dello Stato, ed il secondo, nello stato di soggezione effettiva nella quale si
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 377

2.5.3. Quadro esemplificativo di sintesi di alcune possibili tecniche di tutela


giuridica degli interessi
Al termine di queste osservazioni, potremmo dire che l’attribuzione
del potere di azione al titolare del diritto soggettivo, cioè, più corretta-
mente, a colui che si presenta come destinatario dell’obbligo potrebbe
confermare la correttezza di questa impostazione e risolvere così l’e-
nigma prima evidenziato e consistente nel determinare quando all’ob-
bligo, tra gli infiniti obblighi che dall’ordinamento discendono, corri-
sponde un diritto soggettivo.
Peraltro, si crede doveroso svolgere un supplemento di riflessione,
riprendendo e sviluppando un ragionamento particolarmente chiarifica-
tore a cui lo stesso Jhering si affidò per distinguere la mera protezione
giuridica dal diritto soggettivo, rispetto al quale le stesse teorie di Thon e
in parte anche di Kelsen164 appaiono come successivi svolgimenti e puri-
ficazioni; e a cui tra l’altro, molto deve tutta la letteratura sull’interesse
occasionalmente protetto che sta alla base della nozione di interesse le-
gittimo.
trova, rispetto all’azione stessa, l’altro, il debitore». Per meglio apprezzare – peraltro – la con-
cezione dell’ordinamento seguita da Pekelis, v. anche ID., Il diritto come volontà costante, Pa-
dova, 1930, in cui è chiara l’idea di subiettivazione del diritto come partecipazione del sin-
golo ad esso, visto che, concepito il diritto come «volontà d’azione», il diritto soggettivo ap-
pare come «la possibilità, concessa dallo Stato, di causare un’azione mediante l’espressione di
volontà diretta a tale azione» (p. 167-168). Una visione che ci sembra più sofisticata è quella
che si riscontra in REDENTI, E., Diritto processuale civile, I, p. 15, che evidenzia che «le norme,
per non rimanere sterili, debbano sempre portare in sé e con sé dei criteri imprescindibili di
individuazione-soggettivazione, dai quali si ricavi quando (in quali circostanze, per quali fatti)
e per chi esse entrano concretamente in vigore ed in atto (principium individuationis). Sterile
sarebbe […] la norma “paga i tuoi debiti”, se non risultasse quando, per che cosa e per chi
possa sorgere concretamente un debito». Sulla scorta di tali osservazioni si sostiene, quindi,
che «nel sorgere del dovere o della soggezione individuale possiamo ravvisare una soggettiva-
zione passiva del precetto» e «a questa può far riscontro dall’altro lato una soggettivazione at-
tiva specifica. Infatti, ci sono delle norme a protezione della generalità o di intere categorie
generiche di soggetti. Ma nel maggior numero di casi le norme, imponendosi in certe circo-
stanze a certi soggetti, proteggono con ciò degli interessi di altri, singolarmente individuabili.
Allora dovere e soggezione da un lato e protezione di un interesse dall’altro, appariscono
come le due facce correlative e indissolubili di un unico fenomeno giuridico; alla soggettiva-
zione passiva da un lato corrisponde una soggettivazione attiva dall’altro».
164 Kelsen appare così teso a demolire le teorie avversarie, rilevando – anche corretta-

mente – gli aspetti critici delle stesse, che non si avvede della sostanziale unità di fondo del-
l’impostazione seguita rispetto a quella di Thon e Jhering. Rispetto al primo la sua critica si
lancia contro gli eccessi imperativistici della concezione della norma, mentre rispetto al se-
condo il concetto di interesse appare come il simbolo della inesatta prospettiva funzionale e
psicologica della norma e del fenomeno giuridico in sé. Ciò mi pare particolarmente evidente
nei Problemi fondamentali della dottrina del diritto pubblico, cit., p. 343 ss., 632 ss., 651.
378 CAPITOLO QUINTO

L’esempio che Jhering adotta è quello della legge amministrativa o


della legge penale165. Non c’è dubbio – si afferma – che tale legge pro-
tegga i nostri interessi, ma è altrettanto indubbio che queste non ci attri-
buiscano un diritto soggettivo. Ciò avviene solo quando il soggetto «non
ha bisogno dell’intervento di terzi, ma lui stesso può prendere l’iniziativa»,
cioè gli è attribuita «l’azione giudiziaria»166.
Per comprendere il profondo significato di questa affermazione ser-
viamoci di un ulteriore esemplificazione che però ponga al centro il raf-
fronto tra il titolare di un diritto soggettivo e il titolare di un interesse –
come si suol dire – di mero fatto.
Assumiamo come ipotesi il caso in cui Tizio abbia interesse ad una
certa situazione X che è tutelata dalla norma n mediante l’imposizione di
un obbligo in capo a Caio; ma il potere di provocare l’attuazione coattiva
di tale obbligo spetta a Sempronio.
Da tempo Tizio trascorre l’estate ospite a casa di Sempronio, suo
caro amico dagli anni dell’infanzia. Per Tizio è quasi un’abitudine la sera,
all’imbrunire, osservare, dal balcone della casa di Sempronio, la lumino-
sità del cielo che si spegne lentamente sopra al mare. Ahimè, Caio, pro-
prietario della casa frontistante decide di edificare sul solaio un’ampia
soffitta nonostante sia obbligato al rispetto della servitù altius non tol-
lendi ed ahimè Sempronio – forse di spirito più pragmatico rispetto al-
l’amico Tizio – di gran lunga preferisce rinunciare alla vista di una «stri-
scia» di mare piuttosto che compromettere i suoi rapporti di vicinato.
In questo esempio è evidente come la situazione X, corrispondente
al comportamento doveroso di Caio (non sopraelevare), possa essere og-
getto di interesse concreto da parte di innumerevoli soggetti (nel nostro
esempio Tizio), ma è altrettanto chiaro che la norma n, di tutti questi
eventuali interessi concreti «riconosce», ovvero mostra di attribuire un
particolare rilievo, solo all’interesse concreto che corrisponde con quello
astrattamente tutelato dalla norma, cioè l’interesse del proprietario (Sem-
pronio). Il meccanismo giuridico che corrisponde all’imposizione del-
l’obbligo offre tutela – rectius, costituisce un vantaggio – sicuramente per
tutti gli interessi concreti rivolti alla situazione favorevole che corri-
sponde al comportamento doveroso imposto dalla legge. Tale vantaggio è
evidente ed appare forse più chiaramente non tanto nell’eventuale attua-

165 V. JHERING, R., L’esprit du droit romain dans le diverses phases de son développement,

cit., p. 337-338.
166 JHERING, R., L’esprit du droit romain dans le diverses phases de son développement,

cit., p. 338.
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 379

zione coattiva condotta a suon di processo (che nell’obbligo trova sem-


pre il suo prius), ma in una ipotetica situazione di spontanea osservanza
della norma da parte dell’obbligato, pur in presenza di un sostanziale di-
sinteresse – magari ignorato da parte dell’obbligato stesso – del titolare
del diritto al comportamento doveroso in questione. Ma è altrettanto evi-
dente che la tutela è indirizzata a favore dell’interesse del proprietario; e
l’attribuzione del potere di azione questo sta a dimostrare sul piano delle
forme giuridiche manifeste. In altri termini potremmo dire che la modi-
ficazione del comportamento umano che la regola mira a realizzare è de-
stinata a vantaggio del proprietario.
Può ben accadere, peraltro, che nella posizione di destinatarietà del-
l’obbligo siano posti più soggetti anziché solo uno. In questo caso l’ordi-
namento pone un obbligo per tutelare direttamente gli interessi di più
soggetti e così garantisce a Tizio, garantisce a Caio, garantisce a Sempro-
nio, ecc., che la situazione X (comportamento doveroso di Mevio) si rea-
lizzi. Ma – si badi bene – se il soddisfacimento dell’interesse di Tizio (ad
esempio) è garantito, allora, è evidente la necessità che l’ordinamento at-
tribuisca l’azione direttamente e disgiuntamente a questi (cioè a Tizio, ol-
tre che a Caio, a Sempronio ecc.)167 e ciò perché, per dirla come Jhering,
Tizio «non ha bisogno dell’intervento di terzi» per vedere realizzato il suo
interesse: per Tizio c’è «la sicurezza giuridica del soddisfacimento»168!
Da ciò deriva che più aumenta il numero di legittimati, cioè il nu-
mero dei destinatari dell’obbligo, più aumenta la probabilità che, a
fronte dell’inosservanza dell’obbligo, sia attivata la tutela giurisdizionale.
Si noti: l’interesse tutelato va generalizzandosi, cioè – più correttamente
– gli interessi tutelati aumentano di numero e con essi aumenta la ten-
sione all’attuazione dell’obbligo e con essa diminuisce il grado di condi-
zionamento che al singolo appartiene sull’attuazione stessa.
Quando in posizione di destinatarietà dell’obbligo è posta tutta la
collettività – svolgendo questa progressione – la tensione all’attuazione è
massima e il potere di condizionamento del singolo minimo, poiché la
possibilità che l’inosservanza dell’obbligo non sia sanzionata sussiste solo

167 Ed infatti, rispetto al valore precettivo del primo comma dell’art. 24 della nostra

Costituzione autorevole dottrina (COMOGLIO, L.P., La garanzia costituzionale dell’azione ed il


processo civile, Padova, 1970, p. 114) afferma condivisibilmente quanto segue: «quel che la
Costituzione sembra voler garantire non è […] tanto il “monopolio” della tutela giurisdizio-
nale di un diritto o di un interesse, quanto la “possibilità” concreta ed effettiva di ottenere la
tutela stessa, qualunque sia il soggetto legittimato a domandarla».
168 JHERING, R., L’esprit du droit romain dans le diverses phases de son développement,

cit., p. 326 e poi 337.


380 CAPITOLO QUINTO

nella, statisticamente improbabile ma teoricamente possibile, ipotesi in


cui, pur a fronte di tale illecito, non sussista nessun soggetto interessato
al punto da esercitare l’azione.
C’è la possibilità di incrementare ulteriormente la tensione all’attua-
zione? Ovviamente sì. Tale ipotesi ricorre, come l’attento lettore avrà
forse intuito, nel caso in cui, a servizio dell’osservanza dell’obbligo, sia
posta l’azione pubblica, che è tale – come ben si evince da quanto sino
ad ora affermato – non per qualità soggettive a priori di colui che è tito-
lare del potere di azione, ma per la doverosità del suo esercizio. In tale
ipotesi, infatti, all’interno della collettività organizzata di riferimento sus-
sisterà almento un soggetto il cui comportamento è funzionalizzato alla
tutela di quell’interesse169 e che, a fronte dell’illecito, dovrà esercitare l’a-
zione170. Potremmo dire, facendo perno sul linguaggio matematico, che
qui la tensione all’attuazione non è massima ma addirittura infinita e il
potere di condizionamento individuale è pari a zero171.
Vorrei far notare al lettore che, volendo procedere con classifica-
zioni (tanto care a noi giuristi), nelle ipotesi appena indicate possiamo di-
stinguere tra soggetti che si trovano in una posizione di tutela giuridica e
soggetti che si trovano in una più modesta posizione di vantaggio che de-
riva dalla tutela, ed ancora, tra soggetti che si trovano in una posizione di
tutela giuridica diretta e soggetti che si trovano in una posizione di tutela
giuridica indiretta.
169 Un soggetto cioè investito – per usare l’efficace espressione di LIEBMAN, E.T., Ma-
nuale di diritto processuale civile, Principi, Milano, 2007, p. 127, in riferimento al pubblico mi-
nistero nel processo civile – di una «funzione specifica» di «promozione giurisdizionale».
170 È questo il fondamento logico essenziale ed imprescindibile che ha condotto la dot-

trina processualcivilistica a qualificare come obbligatorio l’esercizio dell’azione del pubblico


ministero all’interno del processo civile pur in assenza di un’espressa previsione legale che al
contrario ricorre in riferimento al processo penale sin dall’art. 112 della Costituzione. Il rite-
nere l’azione del pubblico ministero funzionale alla tutela di un interesse pubblico, infatti,
impone sul piano logico, ancor più in riferimento alle ipotesi in cui è legittimato esclusivo e
non concorrente rispetto ai privati, di ritenere doveroso l’esercizio dell’azione. Sul punto, an-
che per ulteriori riferimenti, v. VELLANI, M., Il pubblico ministero nel processo, II, Bologna,
1963, p. 147 ss.; ID., Art. 69, Azione del pubblico ministero, in Commentario del codice di pro-
cedura civile, diretto da E. Allorio, I, 2, Torino, 1973, p. 790 ss.; ID., Pubblico ministero in di-
ritto processuale civile, in Dig. disc. priv., sez. civ., XVI, Torino, 1997, p. 140 ss. Cfr. anche VI-
GORITI, V., Il pubblico ministero nel processo civile italiano, in Riv. dir. proc., 1974, p. 296 ss.,
spec. p. 307.
171 Sul punto cfr. le osservazioni di REDENTI, E., Profili pratici del diritto processuale ci-

vile, cit., p. 60, in cui si evidenzia come la condizionalità che in genere l’esercizio dell’azione
svolge sull’applicazione delle sanzioni ricorre solo in senso improprio in riferimento all’azione
«pubblica», poiché in tal caso tale esercizio non dipende dalle valutazioni soggettive dell’in-
teresse del soggetto legittimato.
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 381

Tra la posizione di tutela giuridica e quella di vantaggio, la diffe-


renza sta nella circostanza che solo alla classe di soggetti che si colloca
nella prima posizione spetta la già richiamata «sicurezza giuridica del
soddisfacimento», mentre gli altri si avvantaggiano solo a fronte dell’os-
servanza dell’obbligo.
Tra la posizione di tutela giuridica diretta e quella di tutela giuridica
indiretta, invece, la differenza – rispetto al titolare dell’interesse – è solo
racchiusa nella tecnica giuridica di realizzazione della tutela, ma non per
ciò che riguarda la «sicurezza giuridica del soddisfacimento», essa, in-
fatti, nel primo caso è ottenuta mediante l’attribuzione dell’azione pri-
vata, mentre nel secondo tale garanzia deriva dal potere di provocare l’e-
sercizio doveroso dell’azione pubblica. In entrambi casi – è questo l’a-
spetto che sia dal punto di vista puramente logico, sia dal punto di vista
assiologico va rimarcato – è comunque presente – seppur con diversa
tecnica giuridica – una ininterrotta continuità tra soggetto e tutela, cioè,
posto che l’ordinamento offre al soggetto titolare dell’interesse tutelato la
garanzia giuridica del soddisfacimento dell’obbligo, nulla sbarra la strada
a quel soggetto in ordine alla sua possibilità di provocare l’attivazione del
meccanismo attuativo dell’ordinamento.

2.5.4. Considerazioni conclusive


Alla luce dell’itinerario sin qui percorso spigolando tra le diverse
concezioni del diritto soggettivo, senza riepilogare le distinte imposta-
zioni e le connesse ragioni di critica di volta in volta emerse o procedere
a nuove classificazioni comunque possibili alla luce di nuovi criteri di or-
dinazione, possiamo invece rimarcare i due momenti chiave di detto iti-
nerario.
In primo luogo l’acquisità essenzialità dell’obbligo, che si apprende su
un piano di ricerca logico-empirica, per la ricostruzione dei fenomeni giu-
ridici. L’obbligo, infatti, viene a costituire l’«unità semplice, intorno alla
quale si vengono poi costruendo e articolando le figure più complesse»172;

172 IRTI, N., Sul concetto di titolarità (Persona fisica e obbligo giuridico), cit., p. 9-10. Se-
guendo l’orientamento appena citato, sembrerebbe più corretto ritenere che la stessa figura
del potere non debba essere intesa quale effetto giuridico autonomo (cfr. spec. ID., Introdu-
zione allo studio del diritto privato, cit., p. 37 ss.; cui adde, tra gli altri, GIULIANO, M., Norma
giuridica, diritto soggettivo ed obbligo giuridico, cit., p. 31 ss.). Il discorso meriterebbe uno
svolgimento che per evidenti necessità di economia espositiva non può essere svolto nel testo.
In estrema sintesi, comunque, le fondamentali questioni che gravitano attorno alla delicata
questione appena indicata sono tre: a) la riconducibilità del fenomeno in cui un soggetto, con
la propria manifestazione di volontà, può produrre un effetto giuridico alla figura del diritto
382 CAPITOLO QUINTO

e può essere concepito, in un’ottica psicologica-funzionale, come vincolo


soggettivo; riconducibilità che pone l’alternativa dogmatica tra diritto potestativo e potere
giuridico; b) qualora si penda per il secondo corno dell’alternativa ora indicata, la possibilità
di attribuire al potere giuridico la qualità di effetto giuridico alla stregua dell’obbligo; c) le ri-
cadute che tali soluzioni producono sul tormentato – non a caso – tema del giudizio costitu-
tivo. Riguardo alla prima questione, come noto, parte della dottrina ritiene di poter accogliere
la figura del diritto potestativo. Limitandosi ad indicazioni essenziali, v. ovviamente CHIO-
VENDA, G., L’azione nel sistema dei diritti, cit., p. 20-24, a cui – come noto – si deve l’intro-
duzione del concetto nel dibattito dottrinale italiano; ID., Principi di diritto processuale civile,
cit., p. 40; ID., Istituzioni di diritto processuale civile, cit., p. 12; PUGLIATTI, S., Esecuzione for-
zata e diritto sostanziale, cit., p. 25; NICOLÒ, R., La vocazione ereditaria diretta e indiretta, Mes-
sina, 1934, p. 79 ss.; FALZEA, A., La separazione personale, Milano, 1943, p. 127 ss.; NATOLI,
U., Il diritto soggettivo, cit., spec. p. 100; PUGLIATTI, S., Il trasferimento delle situazioni sog-
gettive, I, Milano, 1964, p. 76 ss.; PULEO, S., I diritti potestativi (individuazione delle fattispe-
cie), Milano, 1959; SANTORO PASSARELLI, F., Dottrine generali del diritto civile, cit., p. 72; COM-
PORTI, M., Formalismo e realismo in tema di diritto soggettivo, cit., p. 468; CARPINO, B., L’ac-
quisto coattivo dei diritti reali, Napoli, 1977, spec. p. 69 ss.; ID., Diritti potestativi, in Enc. giur.
Trec., XI, Roma, 1989; MENCHINI, S., I limiti oggettivi del giudicato civile, Milano, 1987, Mi-
lano, p. 139 ss.; ORIANI, R., Diritti potestativi, contestazione stragiudiziale e decadenza, in Qua-
derni della riv. dir. civ., Padova, 2003; in chiave problematica, già MESSINA, G., Sui così detti
diritti potestativi, in Studi giuridici in onore di C. Fadda, Napoli, 1906, VI, p. 281 ss.; ID., Di-
ritti potestativi, già in Nuovo Dig. it., e poi in Noviss. Dig. it., V., 1957, p. 737 ss. All’opposto,
vasta parte della dottrina nega la plausibilità teorica del concetto di diritto potestativo. La no-
zione è avversata in primo luogo dall’orientamento teorico-dogmatico volto all’elaborazione
dell’autonoma categoria del potere giuridico (su cui v. infra, gli AA. citati tra breve). Tra i
primi «oppositori» al concetto di diritto potestativo, si segnala peraltro, ROCCO, Alf., La sen-
tenza civile, cit., p. 98 ss.; ROCCO, U., L’autorità della cosa giudicata e i suoi limiti soggettivi,
cit., p. 304 ss.; CARNELUTTI, F., Lezioni di diritto processuale civile, I, cit., p. 90; II, cit., p. 17;
ID., Sistema di diritto processuale civile, I, cit., p. 54; ID., Teoria generale del diritto, cit., p. 156
s.; FERRARA, F., Trattato di diritto civile italiano, I, cit., p. 341 ss.; BARBERO, D., Sistema istitu-
zionale del diritto privato italiano, I, Torino, 1950, p. 133; INVREA, F., Diritti e potestà, cit., p.
156 ss.; ALLARA, M., Le nozioni fondamentali del diritto civile, cit., p. 236; di recente, v. le os-
servazioni di RUSSO, E., Diritti soggettivi (classificazione dei), in Enc. giur. Trec., Roma, XI,
2005, p. 3; di contro, prende atto della oramai acquisita sede classificatoria GUARNIERI, A., Di-
ritti soggettivi (catagorie di), in Dig. disc. priv., V, Torino, 1989, p. 437 ss., ma spec. 452. Que-
sto secondo orientamento dottrinale va senz’altro preferito. Non si può certamente articolare
una dimostrazione analitica ed esauriente della questione, ma procedendo per punti princi-
pali, va in primo luogo rimarcata la grave smagliatura sistematica arrecata col concepire una
classe di diritti soggettivi non suscettibili di esser violati. Il tratto strutturale tipico ora indi-
cato, ovvero la non violabilità, dà luogo a conseguenze ricostruttive particolarmente negative
allorché, proprio nell’esser attribuita al concetto di diritto soggettivo, richiede comunque di
trovare armonica collocazione nella nota serie logico-giuridica che segue: diritto soggettivo
sostanziale preesistente→violazione→bisogno di tutela→protezione giurisdizionale. È in tale
ambito operazionale, infatti, che le incongruenze che affliggono tale posizione dogmatica
danno piena manifestazione. È qui che si dovrebbe verificare la tutela di ciò che non può es-
ser tutelato. La contraddizione logica tanto evidente quanto insuperabile è la seguente: se il
fenomeno in esame vale come diritto soggettivo poiché mette in mano al soggetto la possibi-
lità di produrre gli effetti giuridici desiderati, come si può immaginare che tale strumento giu-
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 383

ai comportamenti umani o, in una diversa prospettiva formale-struttu-


ridico possa richiedere l’intervento giurisdizionale in ordine alla sua tutela? Il diritto potesta-
tivo, per definizione (!), è forma di tutela – se così la si vuole vedere – pienamente autosuffi-
ciente ed in quanto tale non è né violabile né, di conseguenza, giurisdizionalmente tutelabile.
Ciò appare questione fondamentale, specie se letta in ordine ai rapporti funzionali e struttu-
rali che intercorrono tra accertamento e tutela giurisdizionale complessivamente intesa (cfr.
retro, nota 44). In conclusione se, come esattamente osservato, determinate le differenze
strutturali tra diritti soggettivi e diritti facoltativi la classificazione in un unico genus dipende
dalla possibilità di procedere ad un utile «raggruppamento sistematico» (così, MESSINA, G.,
Diritti potestativi, cit., p. 739), allora è proprio nella non tutelabilità del diritto potestativo
che si ritiene doversi rinvenire la principale ragione ostativa di tale «raggruppamento». E di-
fatti, proprio il voler superare l’ostacolo ora indicato (senza con ciò contraddire il nucleo con-
cettuale essenziale della figura) ha dato luogo alle insolubili problematiche di inquadramento
logico-giuridico – ancor prima che sistematico – del giudizio costitutivo che negli anni hanno
afflitto la dottrina. In senso esattamente opposto a quanto ora sostenuto, v. d’altra parte l’au-
torevole opinione che proprio sulla tutelabilità giurisdizionale della situazione giuridica in pa-
rola fa perno in ordine alla classificazione della stessa all’interno del genus «diritto sogget-
tivo»: cfr. in particolare CARPINO, B., Diritti potestativi, cit., p. 2. E si tenga presente anche il
fatto che lo stesso ALLORIO, E., L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudi-
ziale, cit., p. 83 ss. e poi 103 ss., alla luce della sua nota concezione del diritto soggettivo (su
cui cfr. retro, nota 44), ancora dall’accertabilità giurisdizionale del potere giuridico ricavava il
concetto di diritto potestativo, che, appunto, dovrebbe essere inteso come un potere giuri-
dico qualificato dall’esser dedotto in giudizio quale unico effetto da accertare. Cfr. anche ID.,
Saggio polemico sulla «giurisdizione» volontaria, in Problemi di diritto, II, Milano, 1957, p. 3
ss., ma spec. p. 53. Da quanto sinora detto, dunque, sembra preferibile l’indirizzo di metodo
che evita di ricondurre il fenomeno in questione al diritto soggettivo ed al contrario richiama
l’attenzione sulla figura del potere giuridico. Per tutti, v. le limpide parole di PERASSI, T., In-
troduzione alle scienze giuridiche, cit., p. 51. Tra i più autorevoli sostenitori di questa linea
dogmatica, sebbene all’insegna di ineludibili note differenziali, v. poi PUGLIESE, G., Actio e di-
ritto subiettivo, cit., p. 20, in nota; AULETTA, G., Poteri formativi e diritti potestativi, in Riv. dir.
comm., 1939, I, p. 557 ss., spec. p. 565; ID., La risoluzione per inadempimento, Milano, 1942,
p. 199 ss.; GARBAGNATI, E., Diritto subiettivo e potere giuridico, III, cit., p. 226 ss.; MIELE, G.,
Potere giuridico, diritto soggettivo ed interesse, cit., p. 116; ALLORIO, E., L’ordinamento giuri-
dico nel prisma dell’accertamento giudiziale, cit., p. 23 ss., ma poi 103 ss.; FAZZALARI, E., La vo-
lontaria giurisdizione, cit., p. 88, nota 86; CORDERO, F., Le situazioni soggettive nel processo pe-
nale, cit., p. 191 ss.; FROSINI, V., Potere (Teoria generale), in Noviss. Dig. it., XIII, Torino,
1957, p. 440 ss.; CARIOTA FERRARA, L., Diritti potestativi, rappresentanza, contratto a favore di
terzi, in Riv. dir. civ., 1960, I, p. 351 ss.; LENER, A., Potere: b) Diritto privato, in Enc. dir.,
XXXIV, Milano, 1985, p. 610 ss., spec. p. 627. In posizione particolare, come è noto, v. RO-
MANO, Santi, Frammenti di un dizionario giuridico, cit., p. 172 ss., spec. p. 188; a cui adde
GUARINO, G., Potere giuridico e diritto soggettivo, cit., p. 21; CASSARINO, S., Le situazioni giu-
ridiche e l’oggetto della giurisdizione amministrativa, cit., p. 215 ss.; CERRI, A., Potere e facoltà,
in Enc. giur. Trecc., XXIII, Roma, 1990, p. 3 s., che non esclude la coesistenza del diritto po-
testativo con la figura del potere. Sul tema, di recente, v. il saggio di CARCATERRA, G., Del po-
tere giuridico, in Potere deontico e regole costitutive, Macerata, 2003, p. 55 ss. Quanto al fatto
se sia più corretto concepire il potere giuridico quale autonomo effetto giuridico, non par
dubbio che tale quesito in prima essenza si risolva in un problema di spessore teorico eleva-
tissimo, ovvero nel ritenere più opportuno concepire l’ordinamento giuridico, come formato
384 CAPITOLO QUINTO

rale173, null’altro che come la valutazione a priori di conformità tra il


comportamento descritto dalla norma quale effetto della fattispecie co-
stitutiva realizzatasi ed un futuro nonché eventuale comportamento del
soggetto174.

anche da norme «strumentali-dinamiche» (cioè sulla «produzione giuridica») o invece rite-


nere preferibile escluderle e concepire solo norme «statico-sostanziali» (cioè di «valutazione
giuridica») (cfr. ALLORIO, E., L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale,
cit., p. 26 ss.; CARNELUTTI, F., Lezioni di diritto processuale civile, I, cit., p. 90). Muovendo da
questa ultima soluzione – solo norme statico-sostanziali – il potere si «scioglie» all’interno
della fattispecie costitutiva del dovere. Brevemente. Se si ritiene che il potere non rappresenti
un effetto giuridico autonomo, allora l’effetto X (dovere) nasce dal realizzarsi della fattispe-
cie costitutiva per ipotesi data da A+B+C in cui C è l’atto di esercizio del potere: in sintesi,
A+B+C=X. Se invece il potere è un effetto autonomo, allora lo schema appena indicato si
sdoppia ed all’effetto X (dovere) si antepone l’effetto Y (potere). Allora, A+B rappresentano
la fattispecie costitutiva di Y, il cui atto di esercizio rappresenta la fattispecie costitutiva di X.
In sintesi avremo: A+B=Y e C=X. Per argomenti a favore del primo schema ricostruttivo v.,
in particolare, il già citato IRTI, N., Introduzione allo studio del diritto privato, cit., p. 37 ss.,
nonché CASSARINO, S., Le situazioni giuridiche e l’oggetto della giurisdizione amministrativa,
cit., p. 215 ss. Nel secondo senso, invece, v. le pagine di CORDERO, F., Le situazioni soggettive
nel processo penale, cit., p. 191 ss., spec. 215 ss., sviluppando concetti già elaborati da ALLO-
RIO, E., L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale, cit., p. 29; favorevole
alla riduzione delle situazioni giuridiche in senso proprio alle sole figure del potere e del do-
vere, v. anche TAVORMINA, V., Contributo alla teoria dei mezzi di impugnazione delle sentenze,
cit., p. 10 ss., 26. L’ultima questione è, infine, il problema dei rapporti tra tale fenomeno giu-
ridico-dinamico e il giudizio costitutivo. Non è ovviamente possibile in questa sede esaminare
l’annoso dibattito sulla natura, sull’oggetto e sugli effetti di tale giudizio, ma non par dubbio,
anche solamente in ragione della profonda e diffusa instabilità che in generale concerne il di-
battito scientifico in merito all’inquadramento dogmatico del giudizio in questione, che il
concetto di diritto potestativo abbia non poco complicato la risoluzione della problematica
indicata. Sul tema, sempre aperto all’interno della dottrina processualcivilistica, v. anche per
l’attento esame delle diverse concezioni avanzate, l’ampia indagine di FORNACIARI, M., Situa-
zioni potestative, tutela costitutiva, giudicato, Torino, 1999, spec. p. 254 ss.; cui adde, tra i con-
tributi più recenti, CORDOPATRI, F., Contributo alla tutela costitutiva, in Scritti in onore di Elio
Fazzalari, II, Diritto processuale generale, Milano, 1993; PAGNI, I., Le azioni di impugnativa ne-
goziale, Contributo allo studio della tutela costitutiva, Milano, 1998; MENCHINI, S., Il giudicato
civile, Torino, 2002, p. 133 ss.; ORIANI, R., Diritti potestativi, contestazione stragiudiziale e de-
cadenza, cit.
173 Strutturale nel senso più proprio del termine e che deriva dal latino structura, a sua

volta derivato dal verbo struere, costruire. Sul punto di fondamentale interesse è il volume
Usi e significati del termine struttura, Nelle scienze umane e sociali, Milano, 1966, trad. it. di
Sens et usages du terme structure, Dans le sciences humains et sociales, a cura di R. Bastide, ‘S.
Gravenhage, 1962, con contributi di illustri studiosi, tra cui, per ciò che attiene alla scienza
del diritto, v. CARBONNIER, J., Le strutture in diritto privato e MATHIOT, A., La parola «strut-
tura» in diritto pubblico.
174 Tra gli AA. che evidenziano con particolare chiarezza e profondità il carattere pura-

mente logico in cui si esprime la situazione soggettiva e nello specifico quella di dovere, quale
valutazione anticipata di un comportamento futuro, v., in particolare, CORDERO, F., Le situa-
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 385

In secondo luogo, il rapporto di corrispondenza imperfetta tra ob-


bligo e diritto soggettivo; rapporto che si risolve nella ricerca di un crite-
rio idoneo a riconoscere quando di diritto in senso soggettivo si possa
parlare e quando non.
Ma si noti come tale non necessaria corrispondenza stia lì a segnare
proprio l’acme della crisi del diritto soggettivo sul piano formale. Il «sog-
gettivo», già mera qualificazione di un’entità già definita – il «diritto» –
perde anche la possibilità di essere concepito come alternativa del diritto
«oggettivo». Questa armonica coesistenza di due distinte dimensioni del
diritto, quella oggettiva o quella soggettiva, sfuma – infatti – allorché
manchi la possibilità di guardare uno stesso fenomeno, colto nella sua

zioni soggettive nel processo penale, cit., p. 64 ss. Più di recente, IRTI, N., Introduzione allo stu-
dio del diritto privato, cit., p. 23. Peraltro, la definizione che noi riportiamo nel testo è più
aderente alla concezione della norma come giudizio ipotetico, piuttosto che alla concezione
della norma come giudizio valutativo. E ciò poiché, come già detto (cfr. retro, nota 99), a chi
scrive sembra che il momento della valutazione sfugga alla norma presa in sé per sé, diversa-
mente appartenendo, tale valutazione di doverosità dei comportamenti conformi a quelli pre-
visti dalla norma, alla comunità che pone e riceve la stessa e che riconosce in essa il requisito
della giuridicità. Comunque, seguendo la concezione della norma come giudizio valutativo,
alla quale si ispirano tra l’altro, gli ultimi due illustri AA. citati e che trova nella nostra tradi-
zione dottrinale illustri esponenti (cfr., in particolare, PERASSI, T., Introduzione alle scienze giu-
ridiche, cit., spec. p. 31 ss.; ricche riflessioni sul punto in ESPOSITO, C., Lineamenti di una dot-
trina del diritto, Fabbriano, 1930, p. 12 ss. e successivamente in GIULIANO, M., Norma giuri-
dica, diritto soggettivo ed obbligo giuridico, cit., p. 1 ss.; per altre indicazioni e per l’esame
delle diverse impostazioni in cui si può tradurre questo indirizzo di pensiero v. il già cit. IRTI,
N., Introduzione allo studio del diritto privato, cit., p. 8 ss.) il concetto può essere tradotto con
le parole di ALLORIO, E., L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale, cit.,
p. 16, che definisce il dovere «la condizione del destinatario della norma, di non potersi esi-
mere da un certo comportamento, previsto astrattamente o concretamente dalla norma, per
meritare alla sua azione una valutazione di conformità al diritto, e al tempo stesso per non in-
cappare, con l’attività opposta in una valutazione di difformità». Più in generale, per ap-
profondimenti sulla nozione, si tenga presente che praticamente tutti gli AA. citati in rela-
zione all’esame della nozione di diritto soggettivo affrontano più o meno direttamente la que-
stione, per approfondimenti, v. comunque CAMMARATA, A.E., Limiti tra formalismo e
dogmatica nelle figure di qualificazione giuridica, cit., p. 345 ss.; GIULIANO, M., Norma giuri-
dica, diritto soggettivo ed obbligo giuridico, cit., p. 21 ss.; ROMANO, Santi, Frammenti di un di-
zionario giuridico, cit., p. 91 ss.; CESARINI SFORZA, W., Sul concetto di obbligo, in Riv. int. fil.
dir., 1963, p. 435 ss.; BETTI, E., Dovere giuridico: a) Cenni storici e teoria generale, in Enc. dir.,
XIV, Milano, 1965, p. 53; FROSINI, V., Dovere, in Noviss. dig. it., VI, Torino, 1957, p. 302 ss.;
ID., Diritto soggettivo e dovere giuridico, cit., p. 207 ss.; CASSARINO, S., Le situazioni giuridiche
e l’oggetto della giurisdizione amministrativa, cit., p. 15 ss.; CORDERO, F., Le situazioni sogget-
tive nel processo penale, cit., p. 97 ss.; GUASTINI, R., Dovere giuridico, in Enc. giur. Trec., XII,
1989, Roma; IRTI, N., Sul concetto di titolarità (Persona fisica e obbligo giuridico), cit., p. 1 ss.;
ROMANO, F., Obbligo: I) Obbligo (nozione generale), in Enc. dir., XXIX, Milano, 1979, p. 500
ss.; IRTI, N., Introduzione allo studio del diritto privato, cit., p. 23.
386 CAPITOLO QUINTO

unitarietà, da due distinte prospettive, cioè quando non sia possibile con-
cepire l’intero ordinamento come un sistema di regole o come sistema di
diritti soggettivi175.
Di questa questione non pare che la dottrina sia sempre pienamente
consapevole; il diritto soggettivo non è più il diritto a parte subiecti, ma è
problema che si risolve nell’individuazione di un’area specifica del di-
ritto, di quella parte o settore di esso predicabile ancora in senso sog-
gettivo. È da questo punto che occorre procedere per chiudere il di-
scorso attorno alla figura in esame.

2.5.4.1. Critica al concetto di soggettivazione del diritto. – Abbiamo


visto che la strada percorsa dalle dottrine che correttamente procedono
dall’obbligo verso il diritto soggettivo sbocca nella teoria della destinata-
rietà o della pretesa, le quali a loro volta necessitano di essere integrate
con il processo di soggettivazione che si risolve nell’attribuzione della ti-
tolarità del diritto di azione.
In sintesi avremmo un quid, la posizione di destinatarietà, da deter-
minare grazie ad un aliquid, il potere di azione o magari anche di dispo-
sizione, che varrebbe come criterio di intellezione del fenomeno.
Iniziamo ad occuparci del concetto di soggettivazione del diritto.
Ragioni di perplessità sono già emerse durante la ricognizione
svolta, ma ora è il momento di riflettere a fondo su tale impostazione.
Innanzitutto va detto che, nonostante le osservazioni critiche che ta-
lora emergono in sede dottrinale riguardo a questo modo di vedere, in
realtà esso appartiene in qualche misura a tutte le teorie esaminate, che
appunto tentano per diverse vie di ricondurre il diritto oggettivo al sog-
getto. Più precisamente tentano di invertire la prospettiva oggettiva in
soggettiva e per far questo tutte guardano al fenomeno giuridico valoriz-
zando non la dimensione del «permanere» ma quella del «variare», cioè
la dimensione entro cui l’uomo non è oggetto dell’esperienza ma sog-

175 Efficacemente SPERDUTI, V., La struttura del diritto, cit., p. 3, afferma che tale di-

stinzione corrisponde «non già ad una differenza di carattere ontologico o reale, giacché il suo
oggetto, la sua res, è pur sempre l’azione [intesa qui come comportamento]; bensì ad una dif-
ferenza di ordine criteriologico, giacché, se si considera l’ordinamento giuridico astraendo
dalla persona singolare e ponendosi, per così dire, al centro di esso, allora l’esperienza giuri-
dica si presenta tutta di diritto obbiettivo; e se invece si prende in esame particolare lo stesso
ordinamento giuridico ponendosi alla sua periferia, dal punto di vista del soggetto esistente
hic et hunc, allora l’esperienza giuridica assume l’aspetto del diritto soggettivo» (c.vo mio).
Aggiungerei qui a chiarimento del concetto che se si segue questa dicotomia prospettica al-
lora tutto e ripeto tutto l’ordinamento – ogni sua norma – può essere inteso come diritto sog-
gettivo!
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 387

getto della medesima. In questo senso ogni teoria del diritto soggettivo si
appalesa come tentativo – necessario – di soggettivazione del diritto
obiettivo, anche – se non specialmente – in quelle in cui il diritto è libertà
di agire. Ciò che cambia è il piano su cui tale soggettivazione opera, ma
la direttrice dell’intelletto è la stessa.
Ora, comunque, il discorso va fondamentalmente rivolto alla possi-
bilità di far chiarezza, riguardo al fenomeno del diritto soggettivo, me-
diante la valorizzazione del contributo attivo del soggetto che si esprime
nel potere di azione – o magari anche in quello di disposizione della re-
gola – e più precisamente verificare se per tale strada si giunge ad esiti
formali appaganti.
Ed a questo interrogativo la risposta non può essere che la più riso-
luta: l’idea della soggettivazione del diritto, di per sé, non ha valore scien-
tifico176, poiché si risolve solo in uno strumento di presentazione fiabesca
della realtà. Sul piano del metodo non si può che richiamare l’efficace os-
servazione secondo cui «il discorso giuridico non può, senza smarrire la
sua tagliente esattezza, trasferirsi sul piano delle metafore immagi-
nose»177.
Quanto detto si apprezza plasticamente allorché si assuma come
banco di prova della concezione in esame quello dei risultati applicativi.
Ragionando in termini di soggettivazione, infatti, ovvero riguardo
alla determinazione degli indici normativi da cui è dato desumere la
stessa, non v’è dubbio che l’attribuzione dell’azione possa rappresen-
tarne uno ed il potere di disporre del diritto – volendo – possa costi-
tuirne certamente un altro.
Se si adotta il secondo – ovvero il requisito di disponibilità della
norma – staremo sicuri di esserci affidati ad un grado di soggettivazione
particolarmente elevato, perché qui, veramente, dell’obbligo il titolare
del diritto soggettivo può fare quello che vuole: non solo ne fa valere la
violazione in giudizio, ma ne può – questo sarebbe l’elemento specifico –
decretare la nascita o la morte. D’altra parte, però, seguendo questa via,
dovremmo negare – come visto – che siano diritti soggettivi tutte le ipo-
tesi in genere ricondotte ai diritti indisponibili. L’assolutizzazione di que-
sto criterio sarebbe, quindi, inopportuna; e ciò poiché il tracciare una li-
nea di demarcazione tra i diritti soggettivi disponibili e le situazioni che
invece non presentano tale carattere ben poca utilità produce sul piano
176 CESARINI SFORZA, W., Diritto, Teoria generale: IV), cit., p. 687, che parla in relazione

a questa rappresentazione del fenomeno al centro delle nostre attuali attenzioni di «immagini
incomprensibili nella loro rozzezza».
177 CORDERO, F., Le situazioni soggettive nel processo penale, Torino, 1956, p. 196.
388 CAPITOLO QUINTO

operativo, visto che, definitivamente acclarato che ciò che conta è la di-
sciplina normativa correttamente interpretata, un’operazione classificato-
ria a cui non corrisponda una ricaduta sistematica positiva rilevante rap-
presenta un inutile o dannoso esercizio di ars distinguendi.
Se, invece, ci si affida all’azione valorizzando il profilo del preten-
dere, del diritto al diritto, sicuramente potremo beneficiare di un criterio
in grado di tradurre in termini tecnici l’idea – fondamentale – della sicu-
rezza giuridica del soddisfacimento; cioè dell’ordinamento a servizio del
soggetto. Questo è un aspetto sicuramente molto rilevate e che anima
ben di più – per tradizione – il diritto soggettivo rispetto a quello della
sua disponibilità. Si è, infatti, autorevolmente osservato che «l’essenza
della giuridicità, il momento germinale di essa, consiste nella volontà
come virtuale potere sulle azioni, ossia come pretesa rivolta all’agire al-
trui»178.
Ciononostante anche questo criterio è necessariamente empirico.
Per dirla con le parole di Cammarata «apre la via ai “su per giù” e ai
“press’a poco”»179.
Se, infatti, l’attribuzione del potere di azione già rappresenta, ri-
spetto al criterio della disponibilità, l’esser scesi su un gradino più basso
nella scala della soggettivazione del diritto, tra i diversi regimi di legitti-
mazione contemplabili è ben avvertibile la possibilità di rilevare un’am-
pia gamma di diversi gradi di condizionamento dell’attuazione dell’ob-
bligo, che va dal massimo della legittimazione esclusiva al minimo della
legittimazione popolare o, più correttamente, diffusa. Si pensi anche al
semplice caso dell’azione conferita a due soggetti: non solo l’attivarsi del-
l’uno non condiziona più l’esecuzione del precetto, ma addirittura l’inte-
resse dell’uno rende irrilevante l’indifferenza o l’interesse contrario del-
l’altro. Seguendo questa opzione teorica, insomma, potremmo parlare di
un diritto mio ed un diritto quasi mio o quasi completamente mio, sino
ad arrivare a un diritto di tutti ma anche mio.
Ma comunque, se vi fossero ulteriori dubbi sull’affidabilità di tale
criterio, si pensi ancora ad un altro esempio che mi pare sollevi dai resi-
dui indugi: l’azione penale su querela di parte. Qui abbiamo un potere
che sul puro piano del condizionamento ha incidenza non minore a

178 CESARINI SFORZA, W., Diritto, Teoria generale: I) Diritto (principio e concetto), in Enc.
dir., XII, Milano, 1964, p. 630 ss., ma p. 644 ed anche, con incisive considerazioni, ID., Av-
venture del diritto soggettivo, in Arch. fil., 1941, p. 5 ss.
179 CAMMARATA, A.E., Limiti tra formalismo e dogmatica nelle figure di qualificazione giu-

ridica (1936), cit., p. 378.


LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 389

quella che riscontriamo nell’azione privata individuale, tanto che il que-


relante può addirittura revocare la querela estinguendo il reato (art. 52
c.p.). non pare peraltro che tale area del nostro ordinamento debba es-
sere ricostruita in termini di diritto soggettivo.
La soggettivazione del diritto, dunque, volendola assumere in qua-
lità di criterio individuatore non conduce a risultati scientificamente at-
tendibili.
Si ricordi infine che tale criterio servirebbe – volendolo comunque
ritenere efficace – a determinare un quid diverso tanto dal potere di
azione quanto da quello di disposizione.

2.5.4.2. Inscindibilità della dimensione strutturale e funzionale: il diritto


soggettivo come interesse giuridicamente protetto mediante l’imposizione
di obblighi sostanziali. – Vediamo, allora, più da vicino questo quid, che
per alcuni è pretesa per altri posizione di destinatarietà dell’obbligo.
Anzi, visto l’omogeneità di fondo delle due formule definitorie e vi-
sta la già acclarata maggior esattezza della seconda, ci si può tranquilla-
mente limitare alla essa.
Ora, che tale impostazione colga un aspetto particolarmente impor-
tante del fenomeno giuridico «diritto soggettivo», ovvero che questo ap-
paia destinato alla tutela di un soggetto ben determinato non v’è dubbio,
ma che da ciò si possa ricavare sul piano formale-strutturale una defini-
zione appagante pare difficile a dirsi.
Tornano in mente, ad esempio, le osservazioni di Pugliese, che già
da tempo aveva avuto modo di osservare – sebbene in chiave problema-
tica – che il «significato giuridico da attribuire all’indicazione di un sog-
getto come destinatario del comportamento prescritto da una norma» si
specifica nell’interrogativo «se […] tale indicazione abbia o meno una ri-
levanza che non sia solo quella del conferimento di una facoltà di godi-
mento o dei poteri di tutela e di disposizione, in altri termini se, consi-
derando la sola fase in cui si attende il comportamento altrui, la condi-
zione di chi ne sia specifico destinatario si differenzi da quella di chi, pur
avendo interesse all’adempimento, non venga particolarmente contem-
plato dalla norma»180.
In altri termini, la posizione di destinatarietà potrebbe costituire
un’entità formale autosufficiente solo se riuscisse ad esser definita senza
il ricorso ad un quid esterno ad essa, quale può essere il potere di azione

180 PUGLIESE, G., «Res corporales», «res incorporales» e il problema del diritto soggettivo,
cit., p. 273 (c.vo mio).
390 CAPITOLO QUINTO

o di disposizione181. Visto che ciò non è dato constatarsi, occorre dunque


affermare che in termini rigorosamente formali la posizione di destinata-
rietà non può essere intesa come una situazione giuridica a sé stante, alla
quale poi far corrispondere il diritto soggettivo. Piuttosto sembra cor-
retta la posizione della dottrina che ha evidenziato che di situazioni giu-
ridiche inattive non è dato darsi182. Nella norma, infatti, l’«attendere» del
titolare del diritto non ha alcuna autonoma rilevanza formale in termini
di situazione giuridica. Ha invece rilevanza solo il comportamento dove-
roso dell’obbligato.
A questo punto – però – sembrerebbe di aver fatto piazza pulita. Di
aver perso definitivamente la possibilità di concepire il diritto soggettivo.
Ed è così. O meglio: è così sul piano puramente formale-strutturale. Qui
non c’è alcun modo di trovare una giusta collocazione per il diritto sog-
gettivo. Muovendosi su questo piano, ovvero procedendo rigorosamente
nella ricerca degli elementi strutturali, degli strumenti protettivi che l’or-
dinamento appresta, del diritto soggettivo non può esserci traccia. Qui
incontriamo solo, sul piano sostanziale, l’obbligo e, sul piano proces-
suale, l’azione, quale potere giuridico il cui esercizio costituisce doveri
giudiziali183. Ma sbaglieremmo se ritenessimo questo risultato inappa-

181 Diversamente avremmo a che fare con un’operazione intellettiva che cerca di cono-

scere un quid esaminando un aliquid.


182 Questa considerazione trova adeguata conferma nelle osservazioni di CORDERO, F.,

Le situazioni soggettive nel processo penale, cit., p. 78 ss., ove si rileva, in relazione alla classi-
ficazione proposta da Guarino (su cui, cfr. retro, § 2.3.1.), che «non esistono situazioni sog-
gettive inattive, almeno se per tali si intende la condizione in cui “oggetto della fattispecie
normativa è esclusivamente il comportamento altrui”. Ci troviamo di fronte ad una involuta
e riflessa raffigurazione di autentiche situazioni considerate dal punto di vista di soggetti che
non sono i loro titolari; ora, una simile posizione di pensiero, oltre che logicamente scorretta
per il misconoscimento in essa implicato del carattere essenzialmente monosoggettivo ed
esclusivo di ogni situazione (che non può esprimersi in termini di linguaggio giuridico se non
col riferimento ad un determinato comportamento di un dato soggetto), conduce poi sul
piano delle applicazioni concrete e nello sforzo dialettico inteso a dare una consistenza a fe-
nomeni che non sono giuridicamente definibili, all’inevitabile intrusione di notazioni econo-
miche e psicologiche […]».
183 Per tutti, v. ALLORIO, E., Riflessioni sullo svolgimento della scienza processuale, in

Problemi di diritto, III, Milano, 1957, p. 183 ss., ma spec. p. 200 ss., in cui ben si evidenzia il
regime normativo secondo cui «senza domanda, il giudice non deve provvedere», mentre «in
presenza d’una domanda giudiziale, il giudice deve provvedere»; ID., L’ordinamento giuridico
nel prisma dell’accertamento giudiziale, cit., p. 30 ss., ove meglio si riferisce la figura del po-
tere alla condizione di compiere un «atto normativo», ovvero l’«atto che rende intellegibile,
nell’obiettivo suo tenore, il proprio contenuto giuridico, conforme agli effetti giuridici pro-
dotti» (p. 29, ma cfr. anche ID., Diritto processuale tributario, Torino, 1962, p. 434 ss.) e ciò in
precisazione della più lata definizione del potere giuridico avanzata da GARBAGNATI, E., La so-
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 391

gante. Le concezioni appena richiamate che parlano di destinatarietà, di


pretesa, di soggettivazione, arrivano tutte ad un punto in cui si accor-
stituzione processuale, Milano, 1942, p. 97 ss., a cui peraltro occorre attribuire il merito di
aver per primo ascritto il concetto di azione – in un’ampia cornice critica delle tesi avversarie
– all’interno della categoria classificatoria del potere giuridico; questione, quest’ultima,
tutt’altro che casuale, ma naturale epilogo dell’individuazione dei fondamentali tratti distin-
tivi che la fenomenologia giuridica riconducibile alla categoria «potere» presenta rispetto alla
categoria «diritto soggettivo». Di quest’ultimo A., v. anche Azione ed interesse, in Jus, 1955,
p. 316 ss., spec. p. 344. Oltre ad Allorio e Garbagnati, all’orientamento in questione – da ri-
tenersi sicuramente preferibile specie allorquando si ritenga il potere autonomo effetto giuri-
dico (cfr. retro, nota 172) – hanno aderito con pregevoli contributi diversi studiosi. V. in par-
ticolare le pagine di CORDERO, F., Le situazioni soggettive nel processo penale, cit., p. 191 ss.,
spec. 215 ss.; e successivamente lo studio di TAVORMINA, V., Contributo alla teoria dei mezzi di
impugnazione delle sentenze, cit., p. 3 ss., a cui si deve lo svolgimento più completo della tesi
in questione alla luce di un’impostazione tecnico-formale di particolare rigore. Cfr. anche
ZANZUCCHI, M.T., Diritto processuale civile, I, Milano, 1964, p. 55 ss., che parla di «potestà
[…] consistente nel porre in essere i “presupposti”, necessari per l’esercizio, nel caso con-
creto, della funzione giurisdizionale», evidenziando che il diritto soggettivo dell’attore alla tu-
tela e l’obbligo di fornirla nascono solo dopo la proposizione della domanda; ed ancor più
MICHELI, G.A., Giurisdizione e azione (Premesse critiche allo studio dell’azione nel processo ci-
vile), in Riv. dir. proc., 1956, I, p. 107 ss., ma spec. p. 118 (pubblicato anche in Scritti giuri-
dici in memoria di Piero Calamandrei, III, Padova, 1958, p. 491 ss.); ID., Corso di diritto pro-
cessuale civile, I, Parte generale, Milano, 1959, spec. p. 15 ss.; ATTARDI, A., Diritto processuale
civile, I, Parte generale, Padova, 1994, p. 58 s. Dalla prospettiva appena indicata, molte delle
questioni che hanno afflitto il percorso teorico attorno alla nozione, quali la sua natura
astratta o concreta, o la determinazione del soggetto nei confronti del quale l’azione dovrebbe
essere rivolta, risultano private – in parte – di rilevanza (cfr., infatti, le osservazioni di DENTI,
V., Azione: I) Diritto processuale civile, in Enc. giur. Trec., IV, Roma, 1988, p. 3) e le diverse
concezioni avanzate in proposito si presentano come il risultato – aggravato dalla perdurante
indistinzione tra diritto soggettivo e potere – della sovrapposizione realizzatasi tra un’inda-
gine rivolta alla rilevazione degli elementi puramente formali e la tendenza a voler dar rilievo,
su tale piano, a diverse propensioni lato sensu ideologiche o comunque aventi carattere fun-
zionale. Se, dunque, l’efficacia condizionante dell’esercizio dell’azione rispetto al sorgere del
dovere decisorio è questione assolutamente condivisa dalla dottrina classica, d’altra parte, sul
dibattito circa l’azione sono state proiettate – facendo chiaramente opera di semplificazione –
sia (come notoriamente segnalato da CALAMANDREI, P., Relatività del concetto di azione, cit., p.
430) la necessità di trovare in essa la spiegazione dei rapporti tra soggetto ed ordinamento,
tra Stato ed individuo (a) (questione filosoficamente ed ideologicamente connessa e – come
tutti comprendono – di importanza fondamentale, ma da tenersi rigorosamente distinta dal-
l’operazione di determinazione strutturale che avviene – per così dire – a problema già ri-
solto), sia la naturale tensione ad inquadrare il fenomeno nell’ampia cornice della garanzia
dell’attuazione e/o dell’effettività del diritto, considerato quest’ultimo, a seconda dei «gusti»,
in senso obiettivo o in senso soggettivo (b); prospettive – quest’ultime due sommariamente
enucleate – evidentemente connesse e talora anche facili a sovrapporsi (a seconda delle di-
verse concezioni circa la funzione del processo e dell’attività giurisdizionale), ma fondamen-
talmente proclivi a valorizzare l’idea – forte – del pretendere da parte del soggetto titolare del-
l’azione, cioè del diritto ad ottenere, vuoi dallo Stato (o chi per lui), vuoi dalla controparte. A
scopo meramente esemplificativo si tengano presenti, nella prima direzione (a), ovvero lungo
392 CAPITOLO QUINTO

gono che la figura del diritto soggettivo sta per scomparire ed all’ultimo

la direttrice «Stato-cittadino» – fatta eccezione per l’esemplare e particolare (sotto questo


specifico profilo) lettura propostaci da Alessandro Pekelis (su cui cfr. retro, nota 163, nonché
le preziose osservazioni di PANZAROLA, A., La cassazione civile giudice del merito, Torino,
2005, t. 2, p. 420, in nota) – le concezioni, assai numerose, che vedono nell’azione un diritto
soggettivo rivolto verso lo Stato o verso il giudice (nel primo senso, v. notoriamente ROCCO,
Alf., La sentenza civile, cit., p. 102 ss.; ROCCO, U., L’autorità della cosa giudicata e i suoi limiti
soggettivi, cit., p. 235 ss.; ID., Trattato di diritto processuale civile, cit., p. 239 ss.; FURNO, C.,
Disegno sistematico delle opposizioni nel processo esecutivo, Firenze, 1942, spec. p. 310 ss.; nel
secondo, con un’accentuazione ulteriormente pubblicistica, spec. CARNELUTTI, F., Sistema di
diritto processuale civile, I, cit., p. 888 ss.; ID, Teoria generale del diritto, cit., p. 154). Partico-
lare attenzione merita, in questa prospettiva, la riflessione svolta da LIEBMAN, E.T., L’azione
nella teoria del processo civile, in Scritti giuridici in onore di Francesco Carnelutti, II, Padova,
1950, p. 424 ss. (a cui ci riferiremo per le cit., che seguono, ma anche in Riv. trim. dir. proc.
civ., 1950, p. 47 ss.), il quale, ad es., limpidamente osserva che «l’essenza dell’azione si trova
proprio nel rapporto che corre nell’ordinamento giuridico tra iniziativa del singolo e l’esercizio,
in concreto, della giurisdizione, vale a dire della necessità e nell’efficacia dell’invocazione del
giudice perché “proceda”» (c.vo mio), ma che poi – verosimilmente attratto dalla disputa sul
grado di astrazione/concretezza dell’azione – ritiene opportuno far cadere l’accento sulla na-
tura di «diritto al mezzo» che all’azione dovrebbe appartenere; diritto che risulta «preesi-
stente al processo e spetta nei confronti dello Stato, nella sua qualità di tutore dell’ordine
pubblico […], non del singolo giudice come persona, per il quale si può parlare di obbligo
solo dopo che la domanda sarà stata proposta» (p. 444). Rispetto all’autorevole lettura ora
esaminata viene, peraltro, da rilevare l’alternativa che segue: o (a) si vuole formalizzare il fe-
nomeno che tutti vediamo nella possibilità dell’attore di attivare la tutela giurisdizionale vin-
colando il giudice al compimento di un’attività decisoria (limitandoci alla tutela dichiarativa,
ovviamente), ed allora c’è potere giuridico e non diritto attuale, oppure (b) si vuole dar risalto
alla tutela giurisdizionale che – ad es. nel nostro ordinamento costituzionale (art. 24) – deve
essere garantita al soggetto innanzi allo Stato, all’ordinamento, alla collettività (a seconda
della concezione o più semplicemente della formula verbale che si preferisca accogliere),
quando è attribuito sul piano sostanziale un diritto soggettivo, ovvero, per dirla con altre pa-
role, alla regola della necessaria corrispondenza tra titolarità del diritto soggettivo e titolarità
dell’azione ed allora può apparire giustificato parlare di «diritto» di azione, ma in senso ov-
viamente traslato e non in una prospettiva ancorata saldamente all’analisi formale del feno-
meno. Lungo, invece, la linea di pensiero rispondente in prevalenza all’idea dell’azione come
garanzia dell’attuazione, si incontrano concezioni pur molto diverse. Animata dalla nota im-
pronta pubblicistica è la dottrina di CHIOVENDA, G., L’azione nel sistema dei diritti, cit., che,
se, da un lato, definisce il concetto come il «potere giuridico di porre in essere la condizione
per l’attuazione della volontà della legge» (L’azione nel sistema dei diritti, cit., p. 6; Principi di
diritto processuale civile, cit., p. 45) ed afferma che «l’azione potrebbe anche concepirsi come
il diritto di costituire il dovere degli organi pubblici d’agire» (L’azione nel sistema dei diritti,
cit., p. 15), dall’altro, ritiene più corretto non risolvere il concetto semplicemente nel potere
di costituire il dovere giudiziale (elemento «inutile» e «da evitare») (L’azione nel sistema dei
diritti, cit., p. 15); e così, degradato il rapporto tra l’avente diritto e la legge o lo Stato a mero
«mezzo» nelle mani del titolare del diritto, viene ad evidenziarsi la «relazione di potere tra
cittadino e cittadino» e di conseguenza l’utilità della figura del diritto potestativo contrappo-
sta alla soggezione dell’obbligato (L’azione nel sistema dei diritti, cit., p. 14 ss.; Principi di di-
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 393

– invece di tirare dritto per la loro strada – gli tendono la mano per sal-

ritto processuale civile, cit., p. 42 ss.; Istituzioni di diritto processuale civile, I, p. 17 ss.). Ma in
questa concezione è agevole rilevare lo hyatus che viene a realizzarsi tra titolare del potere di
azione e Stato (cfr., puntualmente, CALAMANDREI, P., Relatività del concetto di azione, cit., p.
438; ID., Istituzioni di diritto processuale civile, I, Padova, 1941, p. 123, 130) e, indipendente-
mente da questo, la formulazione del concetto di diritto potestativo appare comunque criti-
cabile per le ragioni già esposte (v. retro, nota 172). In una proiezione privatistica (stando alla
qualificazione di uso corrente, ma che andrebbe sotto diversi profili meglio precisata), e senza
distinguere – come pur dovremmo – tra diverse fasi di evoluzione del pensiero, v., ovviamente
SATTA, S. ed in particolare gli scritti ora raccolti in Soliloqui e colloqui di un giurista, cit., p.
177 ss., cui adde gli scritti citati retro, nota 144. In posizione particolare REDENTI, E., Intorno
al concetto di giurisdizione, cit., p. 493 ss.; ID., Profili pratici del diritto processuale civile, cit.,
p. 92 ss., che parla di «diritto di una parte a provocare l’applicazione della sanzione»; ID., Di-
ritto processuale civile, cit., p. 45 ss.; cfr. più di recente REDENTI, E. - VELLANI, M., Lineamenti
di diritto processuale civile, Milano, 2005, p. 39 ss. Va peraltro detto che le due ultime conce-
zioni appaiono più specificatamente animate dall’intento di dare un’immagine dell’azione ca-
pace condurre a soluzione il problema dei rapporti tra diritto e processo. In questa prospet-
tiva il processo appare, come disse con particolare chiarezza Liebman, quale «macchina
chiusa» (L’azione nella teoria del processo civile, cit., p. 434) da cui vedere dal di fuori, diver-
samente da quel che accade in uno studio analitico e formale del fenomeno, che, su questo
piano, deve perdere necessariamente la sua unitarietà funzionale. Occorre, insomma, essere
molto rigorosi; se si vuole studiare l’azione come fenomeno giuridico in termini formali,
l’azione appare di certo come potere giuridico; se, diversamente, l’intenzione è quella di in-
vestigare i rapporti tra diritto e processo o il rapporto tra soggetto ed ordinamento, allora le
altre prospettive colgono ognuna un profilo di un fenomeno assai complesso, che peraltro
rinvia ad altre tematiche di primissimo rilievo, quali la tradizionale questione della corretta
funzione da assegnare al processo o alla connessa problematica del giusto processo civile.
Dalle considerazioni ora svolte, anche la posizione (in particolare v. FAZZALARI, E., Note in
tema di diritto e processo, cit., p. 266 e 313; ID., Azione civile - Teoria generale e diritto pro-
cessuale, in Dig. disc. priv., Sez. civ., II, Torino, 1988, p. 30 ss., ma spec. 39 s.; ID., Il processo
ordinario di cognizione, I, Primo grado, Torino, 1989, spec. p. 115 ss.; ID., «Processo» e giuri-
sdizione, in Riv. dir. proc., 1993, p. 1 ss., spec. p. 11 ss.; ID., La dottrina processualistica ita-
liana: dall’«azione» al «processo» (1864-1994), ivi, 1994, p. 911 ss., ma spec. p. 922 s.; ID., Isti-
tuzioni di diritto processuale, Padova, 1996, spec. p. 419 ss.; ma cfr. anche MANDRIOLI, C., La
rappresentanza nel processo, Torino, 1959, p. 66 ss. e ora in Diritto processuale civile, I, No-
zioni introduttive e disposizioni generali, Torino, 2006, p. 49 ss.; PROTO PISANI, A., La trascri-
zione delle domande giudiziali, Napoli, 1968, p. 50 ss.; ID., Dell’esercizio dell’azione, art. 99,
Principio della domanda, in Commentario del codice di procedura civile, diretto da E. Allorio,
Torino, 1973, I, 2, p. 1046 ss.) tesa a ricostruire l’azione quale «posizione soggettiva compo-
sita», costituita dalle facoltà, dai poteri e dai doveri che fanno capo alle parti (attore, conve-
nuto, interventori, ecc.), in contrapposto a quella che appartiene al giudice («funzione»), ri-
sulta non condivisibile, non solo per la nostra mancata adesione a questo modo di concepire
la norma giuridica, ovvero come criterio di valutazione dei comportamenti tanto nella dire-
zione del lecito che dell’illecito (cfr. retro, §§ 2.3.2.2. s. e spec. nota 99), ma più precisamente
per l’accorpamento di più effetti all’interno di uno stesso contenitore classificatorio con il
conseguente scoloramento del grado di specificità che ad ogni singolo effetto appartiene in
ragione della disciplina normativa. Sulla questione, v., infatti, DENTI, V., Azione: I) Diritto pro-
394 CAPITOLO QUINTO

varla, entrando così in contraddizione con le premesse da cui muo-


vono184. Non si avvedono, invece, di essere tutt’altro che lontane dal di-
ritto soggettivo; anzi, ci stanno vicinissime. Infatti, è solo il completa-
mento rigoroso della ricostruzione del fenomeno sul piano formale che
consente di procedere nella giusta direzione, che è quella di integrare la
prospettiva strutturale con quella funzionale: l’unica in grado di evitare
che le pure forme giuridiche siano per noi come corpi senza vita185. Ecco
che riappare la necessità di contemplare anche il quid che viene tutelato
ed il rapporto tra questo quid e l’uomo. Ecco che torna utile, nuova-
mente, la nozione di interesse ed ecco che la concezione jheringhiana del
diritto soggettivo si dimostra – adeguatamente precisata e privata della
sua genericità – in fondo quella più appagante; l’unica in grado di dar
conto del fenomeno senza lasciarne irrimediabilmente perduto un
aspetto; l’unica in grado, da un lato, di garantire la determinazione degli
elementi strutturali che il diritto impiega per operare e, dall’altro, di
porre in luce la relazione che intercorre tra questi elementi ed il soggetto.
Adeguatamente precisata, si diceva, perché, dopo tutte le riflessioni
svolte, vediamo nell’«interesse» e nella «protezione» due formule tutt’al-
tro che generiche ed equivoche.
Per ciò che attiene alla protezione, ovvero al lato formale, sappiamo
che essa si risolve null’altro che in una tipica modalità di tecnica giuridica
che si traduce, nello specifico, nell’obbligo sostanziale e nel potere di
azione il cui esercizio costituisce doveri giudiziali. Nulla dunque di onto-
logicamente necessitato, ma specifica e tipica tecnica giuridica.

cessuale civile, cit., p. 3 e, altrettanto incisivamente, TAVORMINA, V., Contributo alla teoria dei
mezzi di impugnazione delle sentenze, cit., p. 25; di recente TURRONI, D., La sentenza civile sul
processo, Profili sistematici, Torino, 2006, p. 39. In conclusione, il ricondurre l’azione alla fi-
gura del potere o a quella del diritto non sembra propriamente una «questione puramente
terminologica» (così, LIEBMAN, E.T., L’azione nella teoria del processo civile, cit., p. 450, a cui
di recente aderiscono FORNACIARI, M., Presupposti processuali e giudizio di merito, L’ordine di
esame delle questioni nel processo, Torino, 1996, p. 95; ROMANO, A.A., L’azione di accerta-
mento negativo, Napoli, 2006, p. 4, nota 6; TURRONI, La sentenza civile sul processo, cit., p. 32
ss., spec. nota 24) essendo fondamentale determinare l’obiettivo scientifico perseguito per
orientarsi nella prospettiva euristica corretta e non impiegare nozioni che nel campo prescelto
potrebbero condurre a risultati fuorvianti.
184 Ed infatti è agevole per ALLORIO, E., L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accerta-

mento giudiziale, cit., p. 70 ss. muovervi critica.


185 La distinzione appare fondamentale; difatti, se lo studio del diritto non può pre-

scindere da un’indagine analitica che vada a cogliere gli elementi strutturali formali, costanti,
del diritto, d’altra parte, necessita anche di una cornice funzionale idonea a ricondurli ad
unità dandone un’immagine organica, che ponga in evidenza i nessi relazionali che li legano
reciprocamente e danno loro un significato.
LA TUTELA GIURIDICA DELL’INTERESSE 395

Per ciò che attiene all’elemento funzionale, invece, nota la defini-


zione di interesse quale nesso relazionale tra soggetto e situazione favo-
revole e noto anche il «punto di incidenza» del diritto sul piano dei com-
portamenti, è agevole prendere atto che proprio il comportamento dove-
roso rappresenta la situazione favorevole che l’ordinamento – nei limiti
della giuridica possibilità – mira a far realizzare per il soddisfacimento di
un certo interesse. Come esattamente osservato, insomma, «il comporta-
mento dovuto dell’obbligato rappresenta l’oggetto del rapporto, ossia ciò
che per il soggetto attivo, titolare del diritto, è il suum»186.
Previsto, dunque, dalla norma un certo comportamento doveroso, è
sempre possibile, dall’interpretazione complessiva della stessa, determi-
nare chi si pone come destinatario dell’obbligo, cioè chi risulta essere il
titolare dell’interesse normativamente rilevante che l’imposizione dell’ob-
bligo mira a soddisfare.
Abbiamo due separati ma connessi piani di intellezione del feno-
meno normativo: sul primo si apprezza l’elemento strutturale, cioè l’ef-
fetto giuridico, ovvero la descrizione del comportamento che diviene do-
veroso al realizzarsi della fattispecie costitutiva; sul secondo si apprezza
l’elemento funzionale, cioè l’indicazione di quale sia l’interesse che l’or-
dinamento tutela con l’imposizione dell’obbligo, di chi sia il destinatario
dell’obbligo.
Questa posizione di destinatarietà – che possiamo anche descrivere
come il diritto di qualcuno ad un certo comportamento doveroso – non
assurge quindi al rango di effetto giuridico o di situazione soggettiva, ma,
descrivendo la dimensione funzionale-relazionale della tutela, dà ragione
unicamente dell’attribuzione al soggetto o ai soggetti che in tale posi-
zione si collocano di poteri giuridici idonei ad attivare gli strumenti di tu-
tela giurisdizionale che garantiscono l’effettività del vincolo giuridico im-
presso con l’obbligo e dunque lo stesso soddisfacimento dell’interesse187.

186 CESARINI SFORZA, W., Diritto, Teoria generale: IV), cit., p. 692.
187 Sul punto, cfr. ancora IRTI, N., Introduzione allo studio del diritto privato, cit., p. 34
ss. Cfr. anche CARCATERRA, G., Corso di filosofia del diritto, Roma, 1996, p. 126, secondo cui
«un diritto soggettivo è appunto un interesse protetto mediante la imposizione di un obbligo,
o più esattamente mediante l’imposizione di un duplice obbligo: l’obbligo, sostanziale, che
l’interesse sia soddisfatto e l’obbligo, sanzionatorio, che da parte della magistratura (ordina-
ria) sia applicata una sanzione nell’ipotesi di violazione del primo obbligo».
CAPITOLO SESTO

PROFILI GENERALI
DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE
DEGLI INTERESSI COLLETTIVI

SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. – 2. Gli interessi collettivi tutelabili innanzi la


magistratura ordinaria «sono» diritti soggettivi. – 3. Soluzione dei principali
ostacoli alla ricostruzione degli interessi collettivi in termini di diritti soggettivi. –
4. La posizione dell’ente esponenziale. – 5. I limiti soggettivi del giudicato. –
5.1. Considerazioni preliminari sui profili funzional-strutturali dei giudizi collettivi.
– 5.1.1. Giudizi collettivi a tutela di interessi individuali compatibili concorrenti:
giudizi collettivi in senso proprio. – 5.1.2. Giudizi collettivi a tutela di interessi in-
dividuali esclusivi: giudizi collettivi in senso improprio. – 5.1.3. Ipotesi intermedie
e tecniche di semplificazione. – 5.2. Il problema dell’oggetto dell’accertamento nei
giudizi collettivi inibitori previsti dal nostro ordinamento. – 5.2.1. Considerazioni
introduttive. – 5.2.2. L’oggetto dell’accertamento nei giudizi inibitori: l’obbligo di
astensione. – 5.2.3. L’oggetto dell’accertamento nei giudizi inibitori: l’antigiuridi-
cità della condotta. – 5.3. Le possibili soluzioni teoriche al problema dei limiti
soggettivi del giudicato in materia di giudizi collettivi nel nostro ordinamento. –
5.3.1. Concorso soggettivo di azioni. – 5.3.2. Giudicato secundum eventum litis. –
5.3.3. Estensione ultra partes e litisconsorzio necessario. – 5.4. Valutazione compa-
rativa dei risultati ottenuti e giudizio di sintesi. – 5.4.1. Considerazioni introduttive
e superamento del concorso soggettivo di azioni. – 5.4.2. Valutazione comparativa
del giudicato secundum eventum litis e del giudicato erga omnes: loro armonizza-
bilità con il sistema positivo. – 5.4.2.1. Il giudicato secundum eventum litis ed i tra-
dizionali ostacoli all’estensione ultra partes dell’efficacia diretta del giudicato. –
5.4.3. Valutazione comparativa del giudicato secundum eventum litis e del giudi-
cato erga omnes alla luce delle garanzie costituzionali. – 5.4. Conclusioni.

1. Considerazioni introduttive
Con le riflessioni svolte nei due capitoli che precedono abbiamo ac-
quisito un’utile nozione di interesse e di diritto soggettivo da poter ora
impiegare nel nostro principale ambito di studio, ovvero la tutela giuri-
sdizionale degli interessi sovraindividuali.
Visto comunque il non breve itinerario che abbiamo percorso, si ri-
tiene opportuno riepilogare i principi essenziali che abbiamo individuato
398 CAPITOLO SESTO

lungo il cammino: a) per interesse va semplicemente intesa la tensione


che si realizza tra un soggetto ed una situazione favorevole della realtà; b)
per interesse collettivo va intesa la specifica relazione che si realizza al-
lorché più interessi siano tra loro compatibili e concorrenti; c) il diritto
soddisfa gli interessi umani vincolando i comportamenti, ovvero esclu-
dendone alcuni dall’area del lecito; d) il piano di incidenza del diritto è
dunque il piano dei comportamenti e il punto di incidenza è l’obbligo; e)
ciò sta a significare che la norma va concepita come uno schema entro il
quale, al realizzarsi di certe circostanze, è previsto un certo comporta-
mento umano, il quale appare come doveroso ai consociati; f) l’obbligo,
ovvero il comportamento doveroso, è quindi l’unico effetto giuridico che
la norma prevede; g) nella norma è quindi possibile separare un piano
strutturale in cui apprezziamo l’obbligo ed un piano funzionale in cui
emerge l’interesse normativamente rilevante che viene ad essere soddi-
sfatto dall’osservanza dell’obbligo; h) l’ordinamento processuale assume
un comportamento normativamente tipizzato del titolare dell’interesse
come idoneo a costituire il dovere del giudice di decidere sul merito della
controversia.

2. Gli interessi collettivi tutelabili innanzi la magistratura ordinaria sono


diritti soggettivi
A questo punto del nostro lavoro appare quindi chiaramente che le
principali difficoltà teoriche in genere opposte avverso la riconduzione
degli interessi collettivi alla figura del diritto soggettivo sono prive di
reale sostanza e riposano al contrario sull’eccessivo – e per certi versi
sconcertante – affidamento fatto dal dibattito scientifico nel suo com-
plesso su nozioni giuridiche credute definitivamente acquisite al patri-
monio tecnico comune, ma in realtà caratterizzate da contorni sovente
incerti o mobili: la nozione di interesse e la stessa nozione di diritto sog-
gettivo. Del primo si è fatto un uso frequente e disinvolto, ma nella man-
canza di una precisa ed univoca definizione che fungesse da valido stru-
mento ricostruttivo (aspirazione, utilità, bisogno, ecc.). L’impiego del se-
condo, invece, quale tertium comparationis per vagliare entro quali limiti
i nostri interessi potessero ricevere tutela in via giurisdizionale, ha rap-
presentato nella sostanza un rinvio ad un dibattito teorico non concluso
ed al contrario oramai indirizzato ad esaurirsi forse più per stanchezza
che per generale o tendenziale condivisione dei risultati raggiunti; un di-
battito ancora in gran parte legato a concetti giuridici costruiti troppo
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 399

frequentemente con l’impiego di immagini figurative, eleganti e ad ef-


fetto (soggettivazione del diritto, potere della volontà, riconoscimento
della volontà, ecc.), ossia procedendo su quel piano in cui la pregnanza
del linguaggio prescelto si ritorce sovente contro la chiarezza delle idee e
il rigore della formalizzazione, viceversa doverosamente fedeli alla norma
quale unico ed esclusivo criterio di giuridicità oltre che di scientificità.
Liberato il campo dalla congerie dei luoghi comuni che hanno soffo-
cato una lucida riflessione sul tema oggetto della nostra indagine, è piut-
tosto agevole constatare che, contrariamente a quel che comunemente si
crede, la tutela degli interessi collettivi opera – di regola – secondo un
modello che sul piano sostanziale si presenta assai semplice. Stabiliti
quali siano gli interessi meritevoli di tutela l’ordinamento impone obbli-
ghi destinati a soddisfarli. Il comportamento doveroso previsto quale ef-
fetto dalla norma rappresenta una situazione favorevole per una serie più
o meno determinata di soggetti interessati, i quali si presentano come de-
stinatari dell’obbligo e che, in ragione di questa loro posizione, si pre-
sentano come titolari di un loro autonomo potere di azione. Abbiamo, in
altri termini quel fenomeno di concorrenza di interessi individuali com-
patibili a cui abbiamo già detto doversi ricondurre la figura dell’interesse
collettivo. Ed il c.d. bene collettivo, alla ricerca del quale sovente si af-
fanna la dottrina (specie in materia di ambiente, ma non solo)1, non è co-
stituito da entità – materiali o immateriali, unitarie o composite – di dif-
ficile apprezzamento, ma semplicemente dal comportamento doveroso
del soggetto di volta in volta obbligato; comportamento che rappresenta
la situazione favorevole il cui verificarsi è in grado di soddisfare l’intera
serie di interessi, e ciò senza che l’indeterminatezza dei soggetti a cui la
tutela giuridica si riferisce possa creare problemi logici o teorici di sorta.
Si badi bene, ne potrà creare di pratici, specie in ordine alla complessifi-
cazione del giudizio, ma non certamente del genere appena indicato.
Insomma, anche in materia di interessi collettivi accade quello che
da secoli accade in relazione alla nota fenomenologia giuridica del diritto
soggettivo, ovvero l’imposizione di un vincolo di comportamento deter-
minante il soddisfacimento dell’interesse di un altro soggetto, con l’unica
differenza che qui non abbiamo a che fare con un solo interesse soddi-
sfatto, ma con più interessi – spesso indeterminabili nella loro riferibilità
soggettiva – ma tutti orientati verso lo stesso oggetto, verso la stessa si-
tuazione favorevole, il comportamento doveroso.

1 Cfr., infra, cap. IX.


400 CAPITOLO SESTO

3. Soluzione dei principali ostacoli alla ricostruzione degli interessi col-


lettivi in termini di diritti soggettivi
Procedendo con questa chiave interpretativa ad un rapido esame
delle questioni che sovente hanno rappresentato veri ostacoli alla corretta
ricostruzione formale di queste posizioni di vantaggio o che comunque
hanno dato luogo a particolari difficoltà ricostruttive, si ottiene l’evidente
conferma di quanto il tema degli interessi collettivi abbia patito la man-
canza di una limpida riflessione sulle questioni teoriche testé indicate.
Su molti di questi aspetti avremo modo di intrattenerci ulterior-
mente nei prossimi capitoli, ma sin d’ora è utile svolgere talune conside-
razioni a carattere generale per apprezzare l’incidenza della nostra pro-
spettiva interpretativa, nonché per anticipare ed instradare la riflessione
attorno ad alcuni punti critici del dibattito sulla tutela giuridico-giurisdi-
zionale degli interessi collettivi.
Sull’irrilevanza in sede formale dell’eventuale «indeterminatezza» o
«indifferenziazione» degli interessi tutelati ci siamo già espressi, basti ora
ribadire che nessun problema ricostruttivo può sorgere da tale indetermi-
natezza, visto che il perno attorno cui ruota il meccanismo di tutela è il
vincolo giuridico impresso con l’obbligo, acclarato il quale non resta che
verificare chi, rientrando concretamente nella classe dei soggetti tutelati e
quindi legittimati, può esercitare l’azione per provocare l’accertamento
del dovere2. Così, anche il concetto di «indivisibilità» degli interessi col-
lettivi, che ad esempio nel diritto brasiliano costituisce il fondamento
delle categorie legali degli «interessi-diritti diffusi» e degli «interessi-diritti
2È naturale che l’indeterminatezza dei soggetti avvantaggiati o l’indifferenziazione de-
gli interessi tutelati possano costituire questioni difficilmente armonizzabili con un’incerta
nozione di diritto soggettivo o comunque con una concezione di detta situazione soggettiva
tesa a valorizzare sul piano formale il lato c.d. attivo di tale figura giuridica. Come poter par-
lare, infatti, di diritto soggettivo riguardo agli strumenti di tutela degli interessi collettivi muo-
vendo dalla concezione secondo cui il diritto soggettivo è l a situazione del soggetto la cui vo-
lontà è decisiva per l’esistenza dell’obbligo, o il potere di volere riconosciuto al soggetto per
la tutela dei suoi interessi, o l’appartenenza del bene della vita, o la possibilità di agire entro
i limiti segnati dal diritto oggettivo, ecc. Muovendosi lungo questa linea di pensiero in cui il
diritto soggettivo appare come un quid legato al soggetto che ne è titolare, è naturale avver-
tire una certa difficoltà di ricostruzione allorché il soggetto titolare dell’interesse tutelato non
sia più ben individuato o propriamente indeterminato. Se invece si parte dall’obbligo e ci si
avvede che sul piano sostanziale non c’è spazio per la rilevazione di ulteriori elementi strut-
turali di natura attiva attribuiti in titolarità ai soggetti destinatari della tutela offerta tramite
l’imposizione dell’obbligo, allora la prospettiva si inverte ed in posizione di centralità viene a
trovarsi l’effetto giuridico, cioè il comportamento doveroso, rispetto al quale, che vi siano
uno, due, tre o infiniti soggetti interessati all’osservanza del medesimo non crea alcun pro-
blema ricostruttivo sul piano formale sostanziale.
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 401

collettivi»3, se può essere accettato in suo impiego in senso traslato, ov-


vero per evidenziare che un’unica situazione favorevole soddisfa più inte-
ressi individuali, deve diversamente respingersi con decisione se su di esso
si fa surrettiziamente perno per argomentare la natura unitaria dell’inte-
resse tutelato, la quale – come già dimostrato nel quarto capitolo – è l’ef-
fetto di una distorta comprensione del fenomeno dell’interesse.
Nemmeno è opportuno al momento riprendere le considerazioni
critiche svolte addietro sulla pretesa eteronomia ontologica dell’interesse
collettivo – prevalentemente argomentata sulla base della necessaria sin-
tesi da operarsi tra i diversi interessi – rispetto all’interesse individuale.
Al contrario possiamo ora meditare su un’altra convinzione da cui
occorre assolutamente liberarsi, ovvero quella secondo cui, riguardo le
ipotesi di violazione delle norme poste a tutela degli interessi collettivi,
non potrebbe concepirsi una violazione in senso tecnico di infiniti diritti
soggettivi, ma piuttosto dell’unico interesse (collettivo) che tutte le pre-
tese racchiude (e rinchiude). Ciò è stato autorevolmente sostenuto con
particolare riguardo ai giudizi collettivi antidiscriminatori4, al giudizio di
repressione della condotta antisindacale5, nonché riguardo a quelli a tu-
3 Ci riferiamo alle prime due categorie che il Código de Defesa do Consumidor (CDC) –

Legge n. 8.078 dell’11 settembre 1990 – prevede all’art. 81, secondo cui: «A defesa dos inte-
resses e direitos dos consumidores e das vítimas poderá ser exercida em juízo individual-
mente ou a título coletivo. Parágrafo único. A defesa coletiva será exercida quando se tratar
de: I - interesses ou direitos difusos, assim entendidos, para efeitos deste Código, os transindi-
viduais, de natureza indivisível, de que sejam titulares pessoas indeterminadas e ligadas por
circunstâncias de fato; II - interesses ou direitos coletivos, assim entendidos, para efeitos deste
Código, os transindividuais, de natureza indivisível, de que seja titular grupo, categoria ou
classe de pessoas ligadas entre si ou com a parte contrária por uma relação jurídica base; III
- interesses ou direitos individuais homogêneos, assim entendidos os decorrentes de origem co-
mum». Sulla disposizione, oltre ai cenni che verrano più avanti nel testo, v., in lingua italiana,
PELLEGRINI GRINOVER, A., Il nuovo processo brasiliano del consumatore, in Riv. dir. proc., 1991,
p. 1057 ss.; ID., Significato sociale, politico e giuridico della tutela degli interessi diffusi, in Riv.
dir. proc., 1999, p. 17 ss., spec. p. 20; più di recente ID., La difesa degli interessi transindivi-
duali: Brasile e Iberoamerica, in La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, a
cura di Lanfranchi, Torino, 2003, p. 154 ss., spec. p. 157 ss. In lingua brasiliana, la letteratura
è vastissima, cfr., ad esempio, l’ampio e completo lavoro di DE BARROS LEONEL, R., Manual do
processo coletivo, San Paolo, 2002, p. 81 ss. Più in generale, sull’azione collettiva, v. MACIEL
JÙNIOR, V., Teoria das ações coletivas, as ações coletivas como ações temática, San Paolo, 2006.
In lingua inglese, all’interno di una dotta cornice comparatistica, v. GIDI, A., Class actions in
Brasil, A model for civil Law Countries, in 11 American Law Journal of Comp. Law 311, 349
(2001) (se il lettore desidera, v. la traduzione ID., Las acciones y la tutela de los derechos difu-
sos, colectivos e individuales en Brasil, Un modelo para paises de derecho civil, trad. L.C. Ace-
vedo, Mexico, 2004).
4 Cfr. infra, cap. VIII, spec. § 3.2.1.
5 Cfr., infra, cap. VII, spec. § 2.1.3.
402 CAPITOLO SESTO

tela dei consumatori6, in cui è sembrato che la lesione inferta al singolo


sia così tenue, così poco riferibile a lui in particolare, da doversi piutto-
sto riferire al gruppo se non addirittura ad un mero principio. Anche tale
lettura, peraltro, è il frutto di un evidente difetto di impostazione che,
alla luce delle considerazioni svolte, è agevole svelare.
La serie logica che occorre seguire, infatti, vede in primo luogo la de-
terminazione del comportamento doveroso e successivamente l’identifica-
zione, sulla base di una corretta interpretazione della norma, degli inte-
ressi che tale comportamento soddisfa. Il problema, dunque, si risolve –
per l’aspetto che ora preme evidenziare – in quello della determinazione
dell’interesse tutelato. Se, quindi, quell’obbligo è posto per soddisfare più
interessi di più individui, ogni sua violazione importa ex necesse violazione
di quegli interessi; e ciò senza possibilità alcuna di operare valutazioni
circa l’entità del pregiudizio che l’inosservanza del dovere produce in
capo ai soggetti tutelati. Qui non abbiamo a che fare con problemi di ap-
prezzamento dell’effetto pregiudizievole inferto al singolo, come viceversa
potrebbe accadere ponendosi nell’ottica risarcitoria; qui l’unica cosa che
preme è verificare quali siano gli interessi che l’ordinamento tutela impo-
nendo l’osservanza di un certo comportamento. Il punto è insomma sem-
pre lo stesso e la diversa presentazione non deve dar l’idea di un distinto
argomento: i vincoli imposti all’attività di certi soggetti sono funzionali al
soddisfacimento dell’interesse della collettività entificata o dei singoli con-
sumatori in carne ed ossa che sul mercato si servono? Del gruppo discri-
minato nel suo complesso o dei singoli che devono vivere in un ambiente
in cui serpeggiano pratiche discriminatorie generalizzate?
Non ci sono, quindi, violazioni in senso tecnico e violazioni in senso
lato, violazioni tipicamente riconducibili allo schema formale del diritto
soggettivo piuttosto che a qualsiasi altra ipotizzabile ed ipotizzata situa-
zione sostanziale; la violazione è sempre e solo inosservanza dell’obbligo.
Quali siano poi gli interessi che a quella certa situazione sono rivolti
è altra e distinta questione che non tocca il piano formale e di cui già ab-
biamo detto.
Rilevanza ai nostri fini non riveste nemmeno la pretesa natura «con-
servativa» e «non appropriativa» degli interessi collettivi. Quanto fre-
quentemente ricorra questo modo di contrapporre la diversa natura con-
tenutistica dei «vecchi» interessi rispetto a quella dei «nuovi» lo si è rile-
vato nel capitolo terzo7 e si avrà modo di rimarcarlo anche nei prossimi,
specie nel capitolo dedicato alla tutela dell’ambiente8; ma ora va detto
6 Cfr. infra, cap. X, spec. § 3.2.1.1.
7 Cfr. retro, cap. III, spec. § 3.1.
8 Cfr. infra, cap. IX, spec. § 2.
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 403

che anche questo modo di vedere è fonte di confusione e non è scientifi-


camente corretto. Esso, infatti, è basato su un equivoco, che trae origine
dalla consueta influenza che la situazione del proprietario esercita sulla
mente del giurista. Posto, infatti, che quando ci confrontiamo con la fe-
nomenologia che sorge per effetto della norma non bisogna farsi acce-
care dal risultato pratico che si produce in capo a colui che versa nella
posizione di vantaggio determinata dal diritto (godimento esclusivo, ap-
partenenza del bene, ecc.)9, ma occorre subito puntare l’attenzione sul
comportamento doveroso, allora la distinzione tra interessi appropriativi
ed interessi conservativi perde la sua ragion d’essere sul piano formale.
E, si badi, è proprio questo il piano su cui la distinzione in esame è stata
fatta valere riguardo la nostra tematica, evidenziando – a tal proposito –
la difficoltà di adeguare strutture come il diritto soggettivo, nate per in-
teressi appropriativi tipicamente proprietari, ad interessi di diversa na-
tura. Ma, sul piano formale, ovvero dal punto di vista degli elementi «co-
stanti», la diversa tipologia degli interessi da tutelare non produce conse-
guenza alcuna in termini di tecnica giuridica; semmai la può produrre
sulle note descrittive del comportamento di volta in volta previsto dalla
norma ed in particolare sul contenuto positivo o negativo del comporta-
mento. Ma tanto nella prima che nella seconda ipotesi il diritto si servirà
sempre di obblighi per perseguire i suoi scopi. In tal caso, dunque, una
distinzione più corretta potrebbe essere quella – meno fallace dell’altra –
tra situazioni conservative ed innovative10 o, per dirla secondo la classifi-
cazione sattiana, tra situazioni finali e strumentali, ma sempre che la ten-
denza classificatoria non debordi nella produzione di categorie dogmati-
che di dubbia utilità11.
Ostacolo solo apparentemente più impegnativo è quello che emerge
dalla disciplina legale delle azioni che il legislatore ha nel corso degli anni
introdotto nel nostro ordinamento ed in concreto corrispondente a pre-
visioni in cui la legittimazione ad agire si presenta solo in dimensione –
come si suol dire – collettiva, cioè riferita ad associazioni, oppure ad al-

9 Cfr. in particolare, retro, cap. V, nota 122.


10 Cfr. ad es. NICOLÒ, R., Istituzioni di diritto privato, I, Milano, 1962, p. 11.
11 La contrapposizione, infatti, tra interessi conservativi ed appropriativi troppo facil-

mente si converte in contrapposizione tra interessi collettivi ed interessi proprietari. Ma que-


sti ultimi possono essere definiti appropriativi solo a seconda del punto di vista da cui si
guarda al fenomeno, poiché anch’essi possono essere tranquillamente ritenuti conservativi
allorché si presti attenzione agli oblighi di astensione imposti ai consociati per garantire il
godimento del bene. Sicché il problema si sposta verso la determinazione del corretto punto
di vista da cui esaminare il fenomeno per rilevarne gli elementi costanti.
404 CAPITOLO SESTO

tri soggetti esterni alla collettività tutelata, che però si propongono come
portatori istituzionali degli interessi della collettività stessa.
Il discorso va ovviamente affrontato nel contesto specifico delle sin-
gole discipline e a questo non mancheremo nel prosieguo del lavoro, ma,
posta tale osservazione a mo’ di premessa, va anche detto che tali dispo-
sizioni sono tutt’altro che da intendersi come attribuzioni esclusive di
azioni giudiziali in capo a tali soggetti c.d. esponenziali.
Come vedremo analiticamente nei prossimi capitoli, riguardo questa
questione la dottrina ha sovente risolto i suoi doveri ermeneutici facendo
affidamento sulla formulazione letterale delle singole disposizioni legali.
Ora; che l’interprete non possa innalzare castelli di concetti giuridici che
non trovino fondamento nella legge non pare questione di cui dubitare,
ma desta al contrario serie perplessità il pieno ed incondizionato credito
da darsi alle opzioni verbali e linguistiche di cui il legislatore fa uso12, di-
menticando che, specie in relazione a concetti giuridici che non abbiano
raggiunto l’adeguata maturazione e interiorizzazione nemmeno all’interno
della comunità scientifica, l’interpretazione deve essere incardinata entro
una cornice teorica definita e solida, oltre che costituzionalmente orien-
tata. E ciò ovviamente al fine di capire quale sia l’esatto valore precettivo
da ricondursi al tenore di una certa proposizione legale o ad un suo silen-
zio riguardo a questioni che sembrerebbero diversamente rilevanti.
Venendo al punto, il discorso è molto più semplice di quanto po-
trebbe immaginarsi, visto che, nelle previsioni specificamente dettate per
apprestare tutela ai nostri interessi, noi abbiamo solamente un legislatore
che – per così dire – parla prevalentemente per legittimazioni collettive,
ovvero – più precisamente – per legittimazioni istituzionali, cioè me-
diante il conferimento della legittimazione ad agire a soggetti esponen-
ziali istituzionalmente protesi alla promozione e tutela degli interessi
della collettività di riferimeno.
Ci spieghiamo meglio. Le disposizioni in questione hanno spesso
una intonazione in linea di massima processuale in cui, da un lato, si enu-
clea la fattispecie lesiva e, dall’altro, si determinano i rimedi, sovente a
carattere inibitorio, nonché i soggetti legittimati istituzionalmente prepo-
sti a garantirne l’attivazione.
Tenendo separati per il momento i due profili, se esaminiamo le for-
mule impiegate per la descrizione della fattispecie lesiva appare chiara-
mente – si pensi a mero titolo di esempio alle norme ora inserite nel co-
dice del consumo – quali siano gli interessi che gli obblighi di volta in
12 Sivedano ad esempio talune impostazioni interpretative riguardanti la l. n. 281/98
(ora codice del consumo) riportate infra, cap. X, § 3.2.2.3.
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 405

volta previsti mirano a tutelare. Gli interessi tutelati da tali fattispecie


non sono di certo gli interessi dell’ente esponenziale, ma piuttosto gli in-
teressi della collettività di riferimento.
Per dirla in altri termini, e sempre tenendo presenti le precisazioni
avanzate al termine del capitolo precedente, i destinatari dell’obbligo
sono sempre i soggetti che appartengono alla categoria protetta.
Riguardo al profilo teleologico della tutela espressa dalla legge – pur
con accenti di particolarità propri di ogni singola e specifica disciplina –
non credo possano aversi fondati dubbi.
Di certo, per continuare nella nostra esemplificazione, il non inseri-
mento di clausole abusive nelle condizioni generali di contratto è situa-
zione normativamente favorevole – quantomeno entro gli ambiti inter-
pretativi che abbiamo prefissato (analisi della fattispecie lesiva) – per i
singoli soggetti che in qualità di consumatori operano nel mercato e non
certamente per le associazioni che si propongono di rappresentarli.
Stando così le cose, allora, il discorso è molto semplice; infatti, se lo
strumento tipico di cui il diritto si serve per il soddisfacimento degli in-
teressi è quello di incidere sul piano dei comportamenti umani decretan-
done opportunamente la doverosità e se l’interesse collettivo corrisponde
ad una serie di interessi individuali concorrenti, ne deriva che tali previ-
sioni sostanziali – ponendo un determinato obbligo di comportamento e
palesando che tale vincolo sussiste in ragione della tutela degli interessi
di una certa collettività – di per sé dicono tutto quello che occorre dire
per attribuire ai singoli membri della collettività di riferimento la legitti-
mazione ad agire innanzi al giudice ordinario per la repressione delle
condotte illecite di volta in volta avversate dalla legge; e ciò poiché, tale
sola previsione sostanziale, posta sotto la luce dell’indiscusso principio
costituzionale di atipicità del potere di azione, non richiede alcuna altra
specificazione o aggiunta13.
In altri termini, i singoli membri della categoria di volta in volta tu-
telata appaiono naturalmente legittimati ad agire per la tutela dei loro in-
teressi protetti.
13 Il principio di atipicità del potere di azione appartiene oramai al patrimonio comune
della riflessione post-costituzionale. Senza pretesa di completezza, per i primi contributi sul
punto, v. in particolare ANDRIOLI, V., La tutela giurisdizionale dei diritti nella Costituzione, in
Nuova riv. dir. comm., 1954, p. 314 ss., spec. p. 315; COMOGLIO, L.P., La garanzia costituzio-
nale dell’azione ed il processo civile, cit., spec. p. 105 ss. (e successivamente ID., Commento al-
l’art. 24 Cost., in Commentario della Costituzione, Rapporti civili, a cura di G. Branca, Bolo-
gna-Roma, 1981, p. 1 ss., ma spec. 12 ss.; ID., Etica e tecnica del «giusto processo», Torino,
2004, p. 11 ss.); CAPPELLETTI, M-VIGORITI, V., I diritti costituzionali delle parti nel processo ci-
vile italiano, in Riv. dir. proc., 1971, p. 604 ss., ma spec. p. 622 ss.; TROCKER, N., Processo ci-
vile e costituzione, Milano, 1974, p. 191 ss.
406 CAPITOLO SESTO

Se poi si volge l’attenzione alla parte di tenore rimediale che in tali


disposizioni si rinviene, notiamo come la legittimazione ad agire ricono-
sciuta all’ente rappresentativo si presenta perfettamente coerente (oltre
che necessaria), sotto il profilo sistematico, rispetto alle fattispecie lesive
interpretate come poc’anzi suggerito.
Infatti, muovendo dalla constatazione che l’azione dell’ente espo-
nenziale rappresenta il mezzo tipico che l’ordinamento appresta per in-
nalzare il tasso di effettività della tutela giurisdizionale degli interessi col-
lettivi, ci si avvede che solo qualificando la posizione dell’associazione sul
piano processuale il legislatore poteva riconoscere anche a questa l’azio-
nabilità in giudizio delle pretese sostanziali.
In altri termini, mentre l’attribuzione del potere di azione ai singoli
in carne ed ossa non è necessaria, essendo evidentemente loro i destinatari
degli obblighi sostanziali dalle norme previsti, diversamente tale attribu-
zione è necessaria per gli enti esponenziali di volta in volta legittimati, che
non solo hanno bisogno (pena il rimanerne esclusi) di un particolare rico-
noscimento da parte del legislatore per essere inseriti in veste di parti at-
tive nel meccanismo di tutela, ma che tale riconoscimento coerentemente
ricevono in sede di individuazione dei legittimati ad agire, ovvero me-
diante un ampliamento (e non restrizione, come generalmente si crede)
dell’ambito soggettivo della stessa. Così – riprendendo un’espressione di
cui addietro si è fatto impiego – si realizza quell’innalzamento della ten-
sione all’attuazione che è la naturale conseguenza del generalizzarsi del-
l’interesse tutelato e che si presenta come via privilegiata in questo ambito
di tutele per aumentarne il grado di effettività, visto talora l’esiguo pre-
giudizio singulatim patito con la realizzazione dell’illecito14.

14 L’altra via è quella dell’attribuzione dell’azione pubblica in capo ad un soggetto de-

terminato (cfr. retro, cap. V, § 2.5.3.); modello tecnico di tutela in cui la denucia del singolo
vincola il legittimato all’esercizio dell’azione. Si noti, quindi, come all’aumentare del numero
degli interessi tutelati dal diritto, ovvero della rilevanza sovraindividuale dell’interesse, non si
realizza, come talune posizioni vorrebbero, un incoerente riduzione dei soggetti legittimati ed
una conseguente diminuzione della tensione all’attuazione dell’obbligo. Per ciò che attiene al
profilo della legittimazione, invece, «effettività» significa pluralità di legittimati. Se si ritenesse,
invece, che gli enti rappresentativi siano legittimati esclusivi all’esercizio dell’azione si verifi-
cherebbe una paradossale inversione di quella curva ascendente che il regime di legittimazione
descrive all’aumentare degli interessi tutelati. Non si realizza, dunque, una singolare recisione
tra interesse del soggetto e tutela. Recisione che si verifica, invece, se, da un lato, si ipotizza che
gli interessi tutelati siano dei membri della classe di riferimento e, dall’altro, poi si assegna l’a-
zione in via esclusiva a soggetti esponenziali. Se si seguisse questo modello gli interessi effetti-
vamente protetti non sarebbero gli interessi riferibili ai soggetti che appartengono alla catego-
ria, ma gli interessi delle associazioni legittimate, pienamente libere di valutare a loro discre-
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 407

4. La posizione dell’ente esponenziale


Impostato il discorso nei termini appena indicati, è ora opportuno
esaminare la posizione sostanziale-processuale degli enti esponenziali che
abbiamo visto essere legittimati ad agire per la repressione dei comporta-
menti lesivi degli interessi della collettività tutelata.
Se ci rivolgiamo a tale problematica facendo tesoro delle riflessioni
svolte addietro sul concetto di diritto soggettivo, innanzitutto si chiari-
scono le ragioni che hanno generalmente causato l’oscillazione qualifica-
toria della questione in esame.
Riguardo all’azione dell’associazione – come visto e come ancor me-
glio vedremo nei prossimi capitoli – si è parlato di diritto soggettivo, di
mera azione (magari coordinandola con la natura oggettiva del giudizio),
di sostituzione processuale, di legittimazione straordinaria, di legittima-
zione sui generis, di diritto giudiziario, di interesse legittimo di diritto
privato, ecc.
Che questa carrellata di istituti spesso di «confine», ovvero a carat-
tere notoriamente eccezionale e quasi tutti controversi, rappresenti di per
sé stessa il sintomo evidente dell’incertezza qualificatoria in cui la dot-
trina versa riguardo all’inquadramento teorico dell’azione collettiva non
credo possa apparire dubbio a nessuno; ciò che al contrario preme rile-
vare sin d’ora è che, entro certi limiti, queste diverse formule si sono pre-
sentate con un buon grado di fungibilità reciproca.
Certamente la scelta del diverso «incasellamento» formale della fat-
tispecie in questione ha subito l’influenza delle particolari propensioni
teoriche proprie di ciascun autore, nonché di una sua maggior o minore
armonizzabilità con le soluzioni di volta in volta accolte riguardo all’og-
getto del giudizio ed ancor più – forse – riguardo alla strettamente con-
nessa questione dei limiti soggettivi del giudicato; ma non che il parlare
di diritto soggettivo, piuttosto che di legittimazione straordinaria o sui
generis abbia sempre corrisposto ad un reale stravolgimento nella rap-
presentazione del fenomeno.
Rinviando ai prossimi capitoli per l’analisi specifica delle diverse op-
zioni ricostruttive, nonché per un’adeguata comparazione delle mede-
sime, va sin d’ora detto che quanto riportato, appare – alla luce delle
considerazioni svolte sulla nozione di diritto soggettivo – decisamente
comprensibile e giustificabile.

zione l’opportunità o meno di esercitare l’azione; e ciò con patente contraddizione, ancor
prima che riguardo ai principi costituzionali, rispetto alla stessa funzione di tutela a cui sono
rivolti gli strumenti di protezione degli interessi collettivi apprestati dal nostro ordinamento.
408 CAPITOLO SESTO

Come visto addietro, infatti, ogni qual volta ci si confronti con que-
sti istituti è facile trovarsi ad operare all’interno di quel cono d’ombra
che la nozione di diritto soggettivo necessariamente proietta sull’ordina-
mento allorché lo si voglia concepire – detto concetto – essenzialmente
come entità pseudomaterica di appartenenza del soggetto titolare.
Per cercare di fare chiarezza sul punto, gli aspetti su cui occorre la-
sciar cadere l’attenzione sono sempre gli stessi: da un lato, l’esistenza sul
piano meramente formale-sostanziale del solo obbligo e non di una situa-
zione soggettiva attiva che possa essere predicata quale effetto della
norma ed imputata in capo al soggetto in termini di diritto soggettivo e,
dall’altro, la perdurante necessità – in ordine alla corretta interpretazione
della norma – di integrare la prospettiva meramente strutturale col chie-
dersi a favore di chi l’obbligo sia posto. Grazie all’interpretazione del si-
stema normativo, infatti, tra gli infiniti ed indeterminabili soggetti che di
fatto possono eventualmente porsi in quella specifica relazione con la si-
tuazione favorevole che noi chiamiamo interesse, è possibile individuare il
soggetto o i soggetti che, in ragione di valutazioni di volta in volta diffe-
renti, sono eletti a destinatari dell’obbligo, cioè, secondo la terminologia
corrente, sono titolari del diritto soggettivo a che quel certo comporta-
mento sia tenuto; posizione che frutta loro l’attribuzione sul piano pro-
cessuale del potere di azione, cioè la previsione di un loro comportamento
quale tipicamente idoneo a costituire il dovere del giudice di pronunciarsi
nel merito. Nel paragrafo precedente, ad esempio, abbiamo fatto applica-
zione di tale criterio ed abbiamo verificato quale significato giuridico at-
tribuire alle proposizioni precettive che si rinvengono in genere nella de-
finizione legale delle fattispecie lesive degli interessi collettivi.
Ciò detto, però, può accadere – come tipicamente accade nelle
azioni collettive riservate agli enti rappresentativi – che l’azione venga at-
tribuita anche a soggetti il cui interesse, stando al canone interpretativo
ora indicato, dovrebbe, in assenza di tale attribuzione, trovarsi in quella
zona di indifferenza normativa in cui versano i diversi ed eventuali inte-
ressi concretamente esistenti nella vita reale, ma a cui né sul piano for-
male, né sul piano funzionale la norma attribuisce rilievo alcuno. E pro-
prio per questa ragione, infatti, che poc’anzi abbiamo evidenziato come
l’espressa previsione della legittimazione all’ente esponenziale – diversa-
mente da quel che accade per i membri della collettività – sia assoluta-
mente necessaria, posto che la tutela apprestata è inequivocabilmente ri-
volta agli interessi della categoria e non a quelli delle associazioni in
quanto tali e degli altri soggetti terzi di volta in volta legittimati.
Quale significato deve essere attribuito, dunque, al riconoscimento
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 409

di tale legittimazione istituzionale nel complessivo sistema di tutela che


viene previsto dal legislatore?
Il discorso anche qui non appare particolarmente complesso.
Il riconoscimento del potere di azione, infatti, allarga la materia di in-
dagine oggetto dell’interprete con la conseguenza che il meccanismo di
tutela giuridica debba essere ora compreso anche alla luce di questa ulte-
riore disposizione di tenore processuale. Più precisamente, l’attribuzione
del potere di azione sta a sentenziare un inequivoco apprezzamento da
parte del legislatore dell’interesse sostanziale che può animare in concreto
il soggetto a cui la legittimazione ad agire è riconosciuta. In altri termini –
è questo il punto fondamentale – ciò dimostra che nello schema astratto
che la norma presenta il comportamento doveroso è situazione ritenuta
favorevole anche per il soggetto ulteriormente legittimato15.
Ad esempio, prendendo in esame le azioni riservate alle associazioni
rappresentative ed in particolare e di nuovo alle associazioni consumeri-
stiche, pur non ponendosi – queste – in diretto contatto con l’imprendi-
tore in qualità di consumatori è facilmente comprensibile come esse non
si possano collocare in una posizione di indifferenza rispetto all’osser-
vanza degli obblighi imposti all’imprenditore dalla legge16.
Può al contrario evidentemente apprezzarsi – per ipotesi – un loro
interesse alla repressione dei relativi illeciti; il quale di regola trova
espressione nello statuto, nonché conferma nell’attività di difesa degli in-
teressi dei consumatori praticamente svolta. Questo interesse, che peral-
tro si pone verosimilmente in rapporto di strumentalità rispetto ad altri
ed ulteriori interessi dell’associazione – quali l’incremento degli iscritti,
l’aumento di visibilità e notorietà, ecc. – può essere abbandonato all’irri-
levante giuridico o può essere preso in considerazione in sede normativa.
Sta al legislatore deciderlo. E la legittimazione ad agire attribuita agli enti
esponenziali è l’incontestabile segno di una scelta legislativa a favore
della seconda opzione or ora indicata.
Alla luce di queste considerazioni, quindi, dovrebbe apparire ormai
chiaro come alcune delle diverse opzioni classificatorie poc’anzi enume-
15 Non credo che ve ne sia oramai bisogno, ma ripetiamo nuovamente come l’interprete
non debba farsi influenzare dall’effetto pratico pur vistoso che l’osservanza di un certo do-
vere di comportamento produce in capo ad altri soggetti. Certamente il più delle volte il sog-
getto praticamente avvantaggiato ed il soggetto titolare dell’interesse tutelato andranno a
coincidere, ma ciò non significa che il criterio per determinare gli interessi normativamente
rilevanti tra gli infiniti interessi concretamente esistenti possa essere diverso da quello dettato
dalla norma; sul punto, v. retro, cap. V, spec. § 2.5.3.
16 Cfr. amplius, cap. X, spec. § 3.2.3.4., ma anche retro, cap. V, note 122 e 131, nonché in-
fra, nota 21.
410 CAPITOLO SESTO

rate debbono essere semplicemente escluse17, mentre altre in gran parte


relativizzate.
Si pensi, ad esempio, alla legittimazione straordinaria o alla sostitu-
zione processuale.
17 Come il lettore attento dovrebbe oramai aver inteso, le seguenti opzioni ricostruttive
si pongono – per così dire – in posizione «esterna» rispetto all’impostazione teorica che pro-
poniamo di seguire nel testo. Così, la «legittimazione sui generis», appare una categoria clas-
sificatoria priva di contenuto concettuale effettivamente autonomo, cioè sufficiente a porsi
come genus alternativo alla legittimazione ordinaria o straordinaria. È insomma, dal nostro
punto di vista, puro nomen, che in realtà è stato posto quale schermo delle difficoltà rico-
struttive in cui la dottrina veniva a trovarsi non riuscendo piana l’applicazione dei concetti
giuridici tradizionali, specie in ordine a due obiettivi: da un lato, quello di spiegare la legitti-
mazione esclusiva attribuita ad un soggetto per la tutela di un interesse proprio, ma anche al-
trui, dall’altro, quello di giustificare fenomeni di estensione ultra partes della sentenza senza
poter ricorrere, per la circostanza appena indicata, alla figura della sostituzione processuale
(cfr. anche retro, cap. III, nota 137). L’idea del «diritto giudiziario», rappresenta anch’essa il
tentativo di trovare una formula idonea a spiegare la legittimazione esclusiva ad agire di un
soggetto che d’altra parte non sembrerebbe apparire titolare di nessun interesse propria-
mente tutelato sul piano sostanziale. In questo senso è pienamente equivalente all’impiego del
concetto di «mera azione», con l’unica differenza che con essa – ovvero con la formula del di-
ritto giudiziario – si vuole forse concedere un poco sul piano della «sostanzializzazione» della
posizione dell’ente rappresentativo, attribuendogli una posizione che, nell’essere «diritto», da
un lato, e «giudiziario», dall’altro, sta quasi a cavallo tra norma sostanziale e processuale;
come a dire: l’interesse protetto ha natura sostanziale ma il mezzo di tutela ha carattere uni-
camente processuale. Anche il riferimento alla giurisdizione di diritto obiettivo – poi – è
ugualmente equivoca. Anzi, tale formula è di per sé equivoca (v. sul punto la chiara puntua-
lizzazione di SASSANI, B., Note sul concetto di interesse ad agire, Rimini, 1983, p. 138 ss.). Con
essa, infatti, si può voler rimarcare: a) la concezione pubblicistica della funzione processuale
anche in relazione a processi che hanno ad oggetto diritti soggettivi (cfr. ad es. la tipica con-
cezione chiovendiana a cui si fa cenno infra, nota 20); b) la desoggettivazione dell’interesse
tutelato nel processo (cfr. il dibattito sulle azioni popolari, tradizionalmente ascritto alla tu-
tela del diritto obiettivo, ovvero dell’interesse generale all’osservanza della legge, invece che
dell’interesse individuale dell’attore popolare; cfr. retro, cap. III, nota 96, nonché § 3.3.1.2.
nel testo e in nota, ed infra, nota 137); c) la specificità dell’oggetto dell’accertamento, il quale,
a seconda delle propensioni teoriche e classificatorie dei distinti AA., può investire, anziché
diritti soggettivi, meri fatti o atti (cfr. ad es. FRANCHI, G., La litispendenza, Padova, 1963, p.
31 ss., riguardo al giudizio penale o amministrativo), oppure doveri giudiziali (cfr. ALLORIO,
E., L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale, cit., p. 116 ss.; TOMMASEO,
F., I processi a contenuto oggettivo, in Studi in onore di Enrico Allorio, I, Milano, 1989, p. 81
ss.; ed in Riv. dir. civ., 1988, I, pt. I, p. 495 ss. e pt. II, 685 ss.); d) la natura non necessaria-
mente giurisdizionale della tutela apprestata dai rimedi tesi a gestire o proteggere interessi
non soggettivabili (MONTESANO, L., Sull’efficacia, sulla revoca, e sui sindacati contenziosi dei
provvedimenti non contenziosi dei giudici civili, in Riv. dir. civ., 1986, I, p. 596 ss.; ID., Giuri-
sdizione volontaria, in Enc. giur. Trec., XV, Roma, 1989, p. 3; ID., La tutela giurisdizionale dei
diritti, 1997, p. 25 ss.), ipotesi quest’ultima solo apparentemente simile alle precedenti, in
quanto la non «necessaria» giurisdizionalizzazione di tali fenomeni cela spesso la mancata
predeterminazione della regola di diritto che governa il sistema di interessi presi a tutela da
parte della procedura. Abbiamo, insomma, in tutti i casi richiamati in questa nota delle sem-
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 411

Il modo con cui consuetudinariamente vengono rappresentati


questi fenomeni è quello che muove dall’idea che il diritto soggettivo sia
un quid imputato ad un soggetto, un suo predicato, uno strumento giu-
ridico da esercitare, da brandire contro l’obbligato. Il concetto di legit-
timazione straordinaria18, di sostituzione processuale19 ed anche di mera
plici «scorciatoie verbali» con cui sottrarsi dalle categorie tradizionali. È il fenomeno che nel
testo si evidenzia parlando di cono d’ombra proiettato dal diritto soggettivo sull’ordinamento.
Verificate peraltro quali siano le inesattezze – dovute a distorsioni di prospettiva di diverso ge-
nere – che gravavano sul concetto di diritto soggettivo, la stessa esigenza di moltiplicare le fi-
gure dogmatiche alternative ad esso viene meno, palesando di conseguenza anche l’inutilità del
loro richiamo in relazione ai rimedi giurisdizionali volti a tutela degli interessi collettivi. Le
uniche ipotesi particolari che presentano specificità strutturali e funzionali rispetto allo schema
tecnico del diritto soggettivo, sono le azioni che conducono all’accertamento di mere questioni
o – ma qui il discorso dipende dall’opinione che si preferisca seguire in merito all’oggetto del
relativo giudizio – le azioni costitutive (su cui, v. retro, cap. V, nota 172).
18 Come è noto il termine «legittimazione straordinaria» è di conio redentiano e trova la
sua naturale origine all’interno della figura dogmatica del rapporto giuridico inteso in senso
tradizionale, savigniano, ovvero di una relazione intersoggettiva bipolare in cui, da un lato, tro-
viamo il diritto soggettivo e, dall’altro, troviamo l’obbligo. Secondo l’illustre processualista, in-
fatti, occorrerebbe distinguere tra «le regole generali normali» sulla legittimazione, secondo le
quali «il giudizio si costituisce tra chi, assumendo di essere titolare del diritto soggettivo,
chieda un provvedimento giurisdizionale per la sua tutela o la sua realizzazione […] e chiun-
que altro la cui posizione giuridica materiale possa essere fissata, accertata, modificata dal
provvedimento, perché titolare o degli obblighi specifici corrispondenti al diritto soggettivo
“fatto valere” o di altri diritti soggettivi limitati [di diritto] da esso», e «regole legali singolari
di legittimazione straordinaria», accomunante dal fatto che il legittimato straordinario non è ti-
tolare del rapporto, ma solo di un «interesse di fatto» (REDENTI, E., Il giudizio civile con plura-
lità di parti, cit., p. 298 ss. e 306 s.). Riguardo a questa distinzione, tanto tradizionale, quanto
generalmente accolta in dottrina (ogni citazione appare per ora superflua, rinvenendosi gene-
ralmente contrasti circa altri profili e non riguardo a questa essenziale distinzione), va peraltro
detto che, superato il concetto di rapporto giuridico e con esso la titolarità di un quid sostan-
ziale da contrapporre all’obbligo, questa stessa ferrea distinzione tra legittimazione ordinaria e
straordinaria perde in gran parte di spessore concettuale. Difatti, posto che il criterio generale
di determinazione dei legittimati ad agire riposa sulla titolarità dell’interesse tutelato mediante
l’imposizione del comportamento doveroso, una volta che si è in presenza di specifiche norme
che estendono la legittimazione ad agire anche ad altri soggetti che sul piano della previsione
sostanziale impositiva dell’obbligo non sembrerebbero i titolari dell’interesse protetto, non si è
più – per coerenza ricostruttiva – costretti a negare l’evidenza, ovvero la palese circostanza che
tale estensione comporta essa stessa un necessario riconoscimento giuridico della meritevo-
lezza dell’interesse del legittimato ex lege. Quest’interesse, se prima della specifica regola di le-
gittimazione, possedeva un rilievo meramente fattuale ed in quanto tale non era sufficiente a
giustificare l’attribuzione del potere di azione, non può evidentemente ricevere la stessa quali-
ficazione anche dopo che tale legittimazione viene ad essere riconosciuta. Insomma, ciò che
deve rimaner ferma è la regola generale (art. 81 c.p.c.) della necessaria corrispondenza tra le-
gittimato ad agire e titolare del diritto affermato in sede di proposizione della domanda; regola
che esclude dalla sfera dei legittimati i soggetti titolari di interessi di mero fatto. Sulla que-
stione, v. peraltro le ulteriori osservazioni avanzate nel testo.
19 V. infra, nota 23.
412 CAPITOLO SESTO

azione20 hanno ragion d’essere – e la dottrina in materia lo dimostra


chiarissimamente – solo se fondati su premesse sostanziali di tal fatta.

20 Il concetto di «mera azione» e la sua origine all’interno della sistematica chioven-


diana è la miglior rappresentazione di quanto si va affermando nel testo. Ci riferiamo ovvia-
mente al ruolo che il concetto svolge non solo in relazione all’azione di mero accertamento,
ma anche allo stesso inquadramento teorico della funzione del processo. È proprio l’azione di
mero accertamento, infatti, che si presenta come tipica fattispecie processuale in cui l’azione
si svincola completamente dal diritto soggettivo preesistente e sottostante, sino ad apparire
completamente libera da esso, appunto «mera», cioè puro fenomeno processuale: cfr. CHIO-
VENDA, G., L’azione nel sistema dei diritti (1903), in Saggi di diritto processuale civile, I, Mi-
lano, 1993, p. 3 ss., spec. p. 16 s.; ID., Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1928, p. 43
ss., 171 ss.; ID., Istituzioni di diritto processuale civile, I, Napoli, 1933, p. 21 ss., 32 ss., 191 ss.
Sono questi notoriamente i pilastri concettuali sui quali Chiovenda edifica la teoria dell’a-
zione come diritto autonomo, nonché la concezione pubblicistica del processo, il quale si pre-
senta come strumento votato all’attuazione del diritto oggettivo. Per una profonda disamina
sulle questioni da ultimo accennate, v., per tutti, LANFRANCHI, L., Contributo allo studio del-
l’azione di mero accertamento, Milano, 1969, spec. p. 45 ss., 53 ss. Riguardo al nostro argo-
mento, peraltro, è interessante notare come il concetto di mera azione abbia trovato fiorente
impiego in un tema da sempre gravato da particolari difficoltà di inquadramento proprio in
ragione della non piana riconducibilità della fattispecie entro i comuni schemi di qualifica-
zione formale appositamente forgiati attorno alla concezione tradizionale del diritto sogget-
tivo. Ci riferiamo all’azione del p.m., la cui innegabile affinità con l’azione dell’ente rappre-
sentativo già da tempo è stata acutamente rilevata in dottrina, evidenziando che «già nel 1942
il legislatore aveva […] avvertito l’esigenza che in alcuni casi il processo uscisse dal guscio di
un rapporto (bi- o pluri-laterale) tra soggetti determinati e si ponesse come strumento di
gruppi collettivi, i cui singoli componenti non erano individuati a priori. Ed aveva pensato
che il mezzo idoneo per provvedere a tale esigenza fosse quello di affidare a un organo pub-
blico la concorrente possibilità di assumere l’iniziativa processuale ovvero il potere di inter-
venire nel processo già da altri iniziato» (così, VERDE, G., Profili del processo civile, I, Parte ge-
nerale, Napoli, 2002, p. 209, ma ancor prima v. talune posizioni espresse dalla dottrina in ma-
teria di azione ex art. 28 S.L., su cui infra, cap. VII, § 2.1.1.). Ciò detto, tra gli AA. che hanno
ritenuto opportuno riconoscere un potere di mera azione in capo al p.m., senza pretesa di
competezza, v. in primo luogo VELLANI, M., Il pubblico ministero nel processo, II, Il diritto ita-
liano vigente, Bologna, 1963, p. 80 ss.; ma anche ID., Il pubblico ministero in diritto proces-
suale civile, in Dig. disc. priv., sez. civ., XVI, 1997, p. 142; ID., Del pubblico ministero, in Com-
mentario al codice di procedura civile, diretto da E., Allorio, I, 2, cit., p. 752; ANDRIOLI, V.,
Commentario al codice di procedura civile, I, Napoli, 1961, p. 196; MONTESANO, L. - ARIETA,
G., Trattato di diritto processuale civile, Padova, 2001, I, 1, p. 470; MONTELEONE, G.A., Diritto
processuale civile, Padova, 2002, p. 131. Questo orientamento dottrinale, pur ammettendo
tendenzialmente che l’oggetto del giudizio sia costituito da diritti soggettivi, preferisce esclu-
dere il ricorso alla figura della sostituzione processuale per due ragioni fondamentali; en-
trambe già ben evidenziate da CRISTOFOLINI, G., Sulla posizione e sui poteri del p.m. nel pro-
cesso civile, in Riv. dir. proc. civ., 1930, II, p. 23 ss., spec. p. 42, che in relazione all’accosta-
mento operato dal Carnelutti tra p.m. e sostituto processuale (Sistema di diritto processuale
civile, I, cit., p. 389), sottolineava la «profonda divergenza di funzione» tra i due istituti, in
quanto, per un verso, «nella sostituzione processuale la domanda proposta dal sostituto
avrebbe potuto esserlo dal sostituito, e questo nel caso del p.m. bene spesso non accade o
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 413

Così, emblematicamente, il sostituto processuale «prende» questa cosa


che suole chiamarsi diritto soggettivo – e che preesiste al processo – e la
«porta» in giudizio in cui la fa valere come se fosse sua.

perché colui che dovrebbe essere sostituito manca […] o perché esso non avrebbe neppure
la legittimazione ad agire» e, dall’altro, poiché il p.m. «non sta in giudizio per lo Stato come
subietto di diritti, ma, parte in senso puramente formale, e sciolto da ogni vincolo colle parti
del rapporto sostanziale». Queste considerazioni, ossia, per un verso, la presenza di ipotesi in
cui l’azione è riservata al p.m. in via esclusiva e, dall’altro, l’assenza di un rapporto sostanziale
che lega il p.m. al preteso sostituito, sono riprese ed ampliate da VELLANI, M., Il pubblico mi-
nistero nel processo, cit., rispettivamente a p. 83 e a p. 80, spec. nota 58. Va peraltro rilevato
che anche le opinione favorevoli – quanto meno in talune ipotesi – alla ricostruzione dell’a-
zione riservata al pubblico ministero in termini di sostituzione processuale sono sempre state
consapevoli delle particolarità proprie dell’istituto. Si veda ad esempio già BIONDI, P., Alcuni
rilievi sulla posizione dogmatica del pubblico ministero, in Riv. dir. proc. civ., 1930, I, p. 297 ss.,
ma spec. p. 317 ss., che, in posizione critica rispetto a Cristofolini, evidenziava che «l’esigenza
generale per cui tanto nei casi di sostituzione processuale in senso tecnico, quanto nei casi di
azione del p.m., al soggetto della lite è sostituito, per l’esercizio dell’azione (o dell’eccezione
in senso lato), un soggetto diverso, privato od organo dello Stato, è la medesima cosa: quella
di conferire l’esercizio dell’azione ad un soggetto che, per la sua particolare struttura, per la
sua posizione con le circostanze di fatto della lite, per il suo rapporto di dipendenza diretta o
di assoluta indipendenza rispetto agli interessi in lite, per la presunta (in quanto presumibile)
o eventuale inerzia di alcuni e l’efficacia di altri stimoli, sia maggiormente in grado di espli-
care l’azione o resistere a questa, con vantaggio dell’interesse pubblico supremo che l’azione
tende a soddisfare, e per cui è concessa dall’ordinamento giuridico». «La sola profonda dif-
ferenza – si osservava – sta nello stimolo, che per il p.m. è un interesse pubblico supremo, e nel
sostituto processuale (che può essere anche la pubblica amministrazione) un interesse privato
(o pubblico interno) sfruttato a servigio dell’interesse pubblico supremo». Ma si aggiungeva
anche, ad ulteriore precisazione, che «lo stimolo non ha niente a vedere con la funzione espli-
cata sotto la spinta dello stimolo». Si tengano presenti, poi, anche le osservazioni di CALA-
MANDREI, P., Istituzioni di diritto processuale civile secondo il nuovo codice, Padova, 1941, p. p.
148, peraltro orientato a distinguere tra due distinte tipologie di fattispecie: una prima, in cui
l’azione è esercitata in via non sostitutiva ma principale, cioè miri «a far valere, per motivi di
ordine pubblico, un interesse che non appartiene alle persone interessate al rapporto, ma che
è ad esse superiore ed aspira a soddisfarsi anche in contrasto colla loro volontà» ed in cui
«l’azione, del tutto indipendente da ogni scopo di tutela dell’interesse individuale, appare or-
mai come un potere pubblico, unicamente indirizzato a far osservare il diritto oggettivo»; ed
una seconda, in cui appunto il p.m. opera in qualità di sostituto processuale e richiede la tu-
tela di diritti soggettivi altrui «non in vista di una speciale posizione individuale in cui esso si
trovi nel rapporto sostanziale di cui si discute, ma […] impersonalmente come organo dello
Stato, qualificato dalla sua funzione e stimolato dal dovere d’ufficio». Cfr. anche la posizione
di LIEBMAN, E.T., Manuale di diritto processuale civile, I, Milano, 1973, p. 111, ove si parla di
«legittimazione ad agire, riconosciuta a quest’organo in via straordinaria, rispetto a un rap-
porto giuridico cui lo Stato è estraneo, per la tutela della legge per mezzo della proposizione
della domanda, in sostituzione di quella del titolare del rapporto, che non vuole o non può
agire (sostituzione ufficiosa)»; qualificazione rivolta proprio a condensare nell’aggettivazione
ora riportata i particolari caratteri strutturali e funzionali dell’azione del pubblico ministero;
similmente CONSOLO, C., Spiegazioni di diritto processuale civile, I, Profili generali, Padova,
414 CAPITOLO SESTO

L’immagine appena descritta rappresenta una evidente forzatura sul


piano lessicale, ma a ben vedere non è molto lontana dall’ordinaria de-
scrizione della fattispecie che ritroviamo all’art. 81 del codice civile di rito.
Nelle pagine che ci lasciamo alle spalle, d’altra parte, dure critiche
sono state avanzate avverso questo modo di concepire i rapporti tra di-
ritto e processo ed in particolare riguardo la tendenza a servirsi di entifi-
cazioni concettuali di derivazione giusnaturalistica quali strumenti di in-
tellezione dei fenomeni giuridici.
Se quindi si muove dalla constatazione che questo quid che appar-
tiene al soggetto in realtà manca e che la situazione favorevole a cui sono
rivolti gli interessi rilevanti è rappresentata dal comportamento doveroso
tanto per il soggetto appartenente alla collettività protetta quanto per
l’ente che questa deve rappresentare, allora ci si avvede che la tecnica di

2006, p. 282, che appunto parla di legittimazione straordinaria in via officiosa. È infine inte-
ressante rilevare come anche ALLORIO, E., Il pubblico ministero nel nuovo processo civile, in
Riv. dir. proc. civ., 1941, I, p. 212 ss., p. 237, critichi l’argomento per il quale non sia possi-
bile parlare di sostituzione processuale allorché l’azione sia riservata esclusivamente al sosti-
tuto, poiché «in verità, la sostituzione processuale null’altro presuppone che la separazione
del soggetto dell’azione dal soggetto del rapporto litigioso, o con altri termini la legittima-
zione conferita, in via eccezionale, a chi non è né s’afferma soggetto del rapporto contro-
verso». «Anche la formula legislativa – aggiunge l’illustre dottrina ora richiamata – si riferisce
al “far valere nel processo in nome proprio un diritto (recte: rapporto) altrui”: senza distin-
guere secondo che il soggetto del rapporto possieda o meno, dal canto proprio, la legittima-
zione a dedurlo in giudizio». Particolare menzione merita poi l’opinione di GRASSO, E., Pub-
blico ministero, in Enc. giur. Trec., XXV, Roma, 1990, p. 1 ss.; ID., Gli interessi della colletti-
vità e l’azione collettiva, cit., p. 24 ss., spec. p. 43 ss.; ID., Una tutela giurisdizionale per
l’ambiente, in Riv. dir. proc., 1987, p. 505 ss., spec. p. 515 ss., che oltre a ritenere che la legit-
timazione ad agire del pubblico ministero sia espressione di un potere di mera azione per la
tutela dell’interesse della collettività (interesse per Grasso non soggettivato né soggettivizza-
bile), esclude anche che l’oggetto del giudizio avviato dal p.m. possa essere predicato in ter-
mini di diritto soggettivo (magari anche di titolarità altrui). Si afferma, infatti, che nei proce-
dimenti che possono essere avviati, sia dal singolo interessato, che dal pubblico ministero,
quest’ultimo tutela l’interesse collettivo senza tutelare quello individuale che, simultanea-
mente protetto dall’ordinamento, può comunque trarre di riflesso un vantaggio dall’azione
pubblica (Pubblico ministero, cit., p. 2). La medesima impostazione viene poi seguita allorché
questa dottrina si sofferma nello studio dei limiti soggettivi del giudicato emesso al termine
dei procedimenti a tutela degli interessi collettivi e diffusi, esplicitamente accostati dall’A. alle
azioni esercitate dal pubblico ministero e dall’attore popolare. A tal riguardo, infatti, è pro-
prio il ritenere che l’oggetto del giudizio non possa essere predicato in termini di rapporto
giuridico intersoggettivo che esclude tanto l’applicazione del principio di relatività della cosa
giudicata quanto il regime di litisconsorzio necessario a vantaggio dell’efficacia erga omnes
della sentenza (Gli interessi della collettività, cit., p. 54 s.). Per ulteriori indicazioni sulle
difficoltà di inquadramento della posizione processuale del pubblico ministero v. infine VI-
GORITI, V., Il pubblico ministero nel processo civile italiano, in Riv. dir. proc., 1974, p. 296 ss.,
spec. p. 308 ss.
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 415

tutela apprestata dall’ordinamento per la tutela di questi interessi è la


medesima sia che si guardi al fenomeno dalla posizione del singolo sia
che lo si guardi dalla posizione dell’ente. In entrambi i casi, abbiamo un
dovere di comportamento volto a soddisfare due distinti interessi con-
correnti ed un potere di azione attribuito ai titolari degli interessi stessi.
In altre parole la tecnica adottata è quella tipica del diritto soggettivo –
nel senso poc’anzi accennato – ed ognuno dei legittimati potrà ottenere
autonomamente l’accertamento giudiziale del dovere posto a tutela dei
suoi interessi sostanziali21.
Alla luce di queste ulteriori precisazioni, dunque, possiamo avanzare
le seguenti osservazioni.
Innanzitutto, il riferimento alla legittimazione straordinaria va rite-
nuto corretto nella misura in cui con esso si rimarchi il fatto che il crite-
rio di determinazione della legittimazione ad agire non è quello ordina-
rio, ma trova fondamento in una espressa disposizione di legge.
Per ciò che invece riguarda la sostituzione processuale – premesso
che comunque le nostre argomentazioni contribuiscono a far materializ-
zare un interesse non solo processuale, ma in ogni caso anche sostanziale
in capo al sostituto (interesse in virtù del quale appunto tale legittima-
zione gli viene riconosciuta)22 e posta ovviamente da parte la regola ivi

21 Pensiamo all’esempio emblematico dell’azione di repressione della condotta antisin-

dacale a fronte di una condotta plurioffensiva tipica quale può essere il licenziamento anti-
sindacale. Qui il pregiudizio verificatosi in capo al lavoratore è evidente; direi palpabile visto
la materialità degli eventi che lo riguardano: mancato pagamento della somma di denaro;
mancata possibilità di recarsi sul posto di lavoro per svolgere la propria attività lavorativa,
ecc. Altrettanto evidente è che la repressione della condotta antisindacale in detta fattispecie
produce effetti e vantaggi pratici a favore del lavoratore che sarà reitegrato nel posto di la-
voro e tornerà a percepire il denaro che gli spetta in virtù della prestazione svolta. Eppure
ampia dottrina ed unanime giurisprudenza hanno ritenuto che l’azione ex art. 28 S.L. sia
espressione di un diritto soggettivo proprio dell’associazione sebbene la reintegrazione del la-
voratore illegittimamente licenziato nel posto di lavoro rappresenti certamente per questi un
evento favorevole, ancor prima che per il sindacato. In assenza dell’art. 28 S.L., l’interesse
dell’associazione sarebbe rimasto tra gli interessi magari pur presenti nella prassi, ma irrile-
vanti sul piano normativo, invece, la legittimazione ad agire attribuita al sindacato sta proprio
a dimostrare che la situazione che corrisponde agli obblighi imposti al datore è giuridica-
mente favorevole tanto per il sindacato che per il lavoratore.
22 In realtà il degradamento dell’interesse del sostituito al rango di interesse esclusiva-

mente processuale non è altro che il riflesso della carenza di titolarità di un diritto soggettivo
in capo al medesimo e questo modello rappresentativo trova a sua volta fondamento nella
tendenza a voler sostanziare un quid da dare in appartenenza al soggetto preteso titolare del
diritto soggettivo. Un esemplare dimostrazione di quanto si sta dicendo la si trova nella let-
tura della dottrina che più delle altre ha dedicato approfondimento alla figura della sostitu-
zione processuale. Ci riferiamo evidentemente al lavoro di GARBAGNATI, E., La sostituzione
416 CAPITOLO SESTO

statuita e appena richiamata della necessaria corrispondenza tra destina-


tario del dovere e titolare del potere di azione – se ci volgiamo all’art. 81

processuale, cit., spec. p. 97 ss., ma spec. p. 205 ss. In esso, infatti, proprio il rigore metodo-
logico che impronta l’indagine fa – per così dire – balsare agli occhi l’aspetto che si sta cer-
cando di evidenziare. Si tengano presenti i seguenti passaggi logici in cui si articola la linea in-
terpretativa dell’A. ora richiamato. Innanzitutto, punto fondamentale per l’inquadramento
della questione è quanto segue: «si è […] fedeli interpreti del pensiero espresso dal legisla-
tore nell’art. 81 c.p.c., ove si ammetta che le parole “in nome proprio”, ivi adoperate, equi-
valgono a: “nel proprio interesse”; e che pertanto, è sostituto processuale, in base a codesto
articolo, ogni subietto al quale sia riconosciuto, da una speciale disposizione di legge, il po-
tere di far valere processualmente, nel proprio interesse, un diritto altrui» (p. 211). Si aggiunge
allora condivisibilmente: «col verificarsi delle fattispecie contemplate dalle singole norme
speciali, il legislatore giudica probabile, in base alle regole fornite dalla comune esperienza,
l’esistenza di un interesse del sostituto all’esercizio della funzione giurisdizionale». Quando
poi si passa ad una più precisa qualificazione della natura di questo interesse, allora si afferma
che «l’unico interesse del sostituto giuridicamente tutelato sia l’interesse all’emanazione di un
provvedimento giurisdizionale, che accerti l’esistenza del diritto del sostituto» e ciò in con-
trapposizione alla concezione sattiana della sostituzione. A critica di questa lettura, infatti, da
un lato, si afferma che tale impostazione «urta nettamente contro il concetto legislativo della
sostituzione processuale, secondo cui il sostituto fa valere processualmente un diritto altrui»
e, dall’altro, ci si interroga retoricamente su quale possa essere la «posizione giuridica di van-
taggio» appartenente al sostituto sul piano sostanziale. Ora, ponendo da parte la prima que-
stione – rispetto alla quale basti dire che lo stesso rinvio ad un «concetto legislativo» (ovvero
il ritenere che riguardo l’elaborazione dei concetti fondamentali sia il linguaggio prescelto dal
legislatore ad essere risolutivo) appare una scelta di metodo non adeguatamente convincente
– l’attenzione va fatta tutta cadere sull’impossibilità di rinvenire sul piano sostanziale una
«posizione giuridica di vantaggio» in capo al sostituto. Si ricorda, infatti, che per Garbagnati
il diritto soggettivo è proprio «la posizione giuridica di vantaggio di un subietto relativamente
ad un dato bene». Ma si ricorda anche che tale definizione appare criticabile proprio nel vo-
ler elevare ad elemento formale e giuridico un dato non giuridico, ma pratico, come quello
del vantaggio che si produce in relazione all’osservanza dell’obbligo in capo ad un soggetto
(cfr. amplius quanto sostenuto retro, cap. V, alla nota 122). Se quindi si accetta il fatto che sul
piano formale questa «posizione di vantaggio» non ha cittadinanza, ci si avvede che l’attribu-
zione di un autonomo potere di azione porta con sé – come detto nel testo, nonché retro,
nota 21 – l’inequivocabile apprezzamento dell’interesse sostanziale del legittimato straordina-
rio. Già il dibattito sulla sostituzione processuale (cfr. infra, nota 23) aveva dato posizioni dot-
trinali maggiormente propense a valorizzare la dimensione sostanziale dell’interesse del c.d.
sostituto (cfr. ovviamente la nota posizione di SATTA, S., Azioni popolari e perpetuazione iuri-
sdictionis, in Teoria e pratica del processo, Roma, 1940, p. 361 ss.; ID., Interesse e legittima-
zione, in Foro it., 1954, V, p. 160 ss., ma spec. p. 177; ID., Diritto processuale civile, Padova,
1973, p. 85 ss.; ID., Commentario al codice di procedura civile, I, cit., p. 272 ss.; ID., Variazioni
sul tema della «legittimatio ad causam», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1967, p. 638 ss.; ma v. an-
che, MONACCIANI, L., Azione e legittimazione, Milano, 1951, p. 401 ss.; ANDRIOLI, V., Com-
mentario al codice di procedura civile, I, Napoli, 1962, p. 231; ID., Il principio del «ne bis in
idem» e la dottrina del processo, in Annali Triestini di diritto economia e politica, XII, 1941, p.
259-260 e 267, che, come noto, impiega il concetto di interesse legittimo per procedere alla
ricostruzione della posizione del sostituto; di recente, v. anche PUNZI, C., Il processo civile. Si-
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 417

c.p.c. l’inesistenza sul piano sostanziale di un quid da imputare in appar-


tenenza ad un soggetto in termini di diritto soggettivo conduce a valoriz-
zare il significato precettivo che appartiene alla nota contrapposizione tra
le formule «nome proprio» e «diritto altrui» precisamente nel senso già
da tempo indicato dalla dottrina e corrispondente all’ottenimento – da
parte del sostituto – di una sentenza di merito efficace anche nei con-
fronti del sostituito, ovvero, nel nostro caso, degli altri legittimati23.

stema e problematiche, I, I soggetti e gli atti, Torino, 2008, p. 313 s.), ma la stessa letteratura
in materia di interessi collettivi dà significativi esempi a tal proposito. Ciò è particolarmente
evidente – come si dice anche nel testo – allorché si noti che la qualificazione della legittima-
zione dell’ente rappresentativo ha talora oscillato tra la figura della sostituzione processuale o
del diritto soggettivo non tanto per una mancata condivisione della natura sostanziale dell’in-
teresse che muove l’ente, ma in ordine al connesso problema del coordinamento tra le azioni
individuali e quelle collettive. Sul punto, cfr. infra, nel testo e nota 24.
23 Cfr., per tutti, GARBAGNATI, E., La sostituzione processuale, cit., p. 283: «se si ha […]

riguardo alla ratio dell’art. 81, è d’uopo logicamente concludere che, nel pensiero del nostro
legislatore, la sostituzione processuale presuppone precisamente il potere di un subietto di far
valere processualmente, nel proprio interesse, un diritto altrui, in guisa tale, che la cosa giu-
dicata sostanziale scaturente dalla sentenza pronunciata nei suoi confronti venga a colpire di-
rettamente il titolare del diritto stesso». Posto che la figura della sostituzione processuale –
come già accennato nel testo – appare tratteggiata dalla dottrina con contorni tutt’altro che
stabili, definiti e pienamente condivisi (di «precarietà dogmatica» parlava opportunamente
NENCIONI, G., Sostituzione processuale e legittimazione, in Foro it., 1935, IV, p. 379 ss., ma p.
385; cfr. infatti, riguardo alla categoria, già le perplessità di REDENTI, E., Il giudizio civile con
pluralità di parti, cit., p. 111; ID., Profili pratici del diritto processuale civile, cit., p. 369; SEGNI,
A., L’intervento adesivo, I, Roma, 1919, p. 132 ss.; ROCCO, U., La legittimazione ad agire,
Roma, 1929, p. 60 ss.; direi superflua la citazione di Salvatore Satta le cui opere sul punto
sono già state citate alla nota che precede), nel senso appena palesato dall’affermazione or ora
riportata di Garbagnati, v. CHIOVENDA, G., Principi di diritto processuale civile, cit., p. 281,
597; ID., Istituzioni di diritto processuale civile, cit., I, p. 379-380, II, p. 230; BETTI, E., D.42,
I, 63, Trattato dei limiti soggettivi della cosa giudicata in diritto romano, Macerata, 1922, spec.
p. 221 ss.; ID., Diritto romano, I, cit., p. 638; ID., Diritto processuale civile italiano, cit., p. 611
ss.; CARNELUTTI, F., Lezioni di diritto processuale civile, Padova, 1930, II, p. 214 ss., spec. p.
218, IV, p. 436; ID., Sistema di diritto processuale civile, cit., p. 381 (ma v. poi la successiva di-
stinzione tra sostituzione assoluta e relativa a seconda che il vincolo del giudicato si estenda
o meno al sostituito rimasto terzo al giudizio: ID., Cosa giudicata e sostituzione processuale, in
Riv. dir. proc., 1942, II, p. 24 ss.); ALLORIO, E., La cosa giudicata rispetto ai terzi (1935), Mi-
lano, rist. 1992, p. 128 s., e poi p. 249 ss.; ANDRIOLI, V., La legittimazione ad agire, in Riv. it.
sc. giur., 1935, p. 273 ss., ma spec. p. 289 ss. (ma cfr. poi i lavori citati infra); LIEBMAN, E.T.,
Efficacia ed autorità della sentenza (ed altri scritti sulla cosa giudicata) [1935], Milano, 1962, p.
74; BARBERO, D., La legittimazione ad agire in confessoria e negatoria servitutis, Milano, 1950,
p. 41 ss.; CARPI, F., L’efficacia «ultra partes» della sentenza civile, Milano, 1974, p. 251 ss. e 305
s. La medesima radice funzionale appartiene ovviamente all’orientamento che fa del titolare
del diritto fatto valere dal legittimato straordinario parte necessaria del giudizio da questo av-
viato; orientamento le cui note di fondo già erano variamente emerse in letteratura (v. infatti
le pagine di SEGNI, A., Parti, in Enc. it., XXVI, p. 418 ss.; REDENTI, E., Il giudizio civile con
418 CAPITOLO SESTO

Per dirla in sintesi – acclarato che l’ente portatore è legittimato ad


agire e che anche in capo a questi è ben possibile rinvenire un interesse
normativamente rilevante diretto al comportamento doveroso, il quale
costituisce la sua situazione favorevole, come per i membri della colletti-

pluralità di parti, cit., p. 83 ss., 90 ss.; VOCINO, C., La testimonianza del debitore surrogando,
in Temi emil., 1950, p. 331 ss. e anche poi in ID., Su alcuni problemi del diritto processuale ci-
vile: II) Interesse e legittimazione ad agire, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1970, p. 1445 ss., ma
spec. p. 1465, nota 66 e poi 1468 ss.; MANDRIOLI, C., La rappresentanza nel processo civile, cit.,
p. 138 ss.), ma che ha acquisito successivo vigore e stabilizzazione dogmatica a seguito del ri-
lievo costituzionale del diritto di difesa del titolare del diritto fatto valere in via sostitutiva. In
particolare, v. PROTO PISANI, A., Opposizione di terzo ordinaria, Napoli, 1965, spec. p. 99 ss.,
p. 634 s., e poi ID., Appunti sui rapporti tra i limiti soggettivi di efficacia della sentenza civile e
la garanzia costituzionale del diritto di difesa, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1971, p. 1216 ss., spec.
p. 1221; ID., Dell’esercizio dell’azione, in Dell’esercizio dell’azione, Art. 102, Litisconsorzio ne-
cessario, in Commentario del codice di procedura civile, diretto da E. Allorio, I, 2, cit., p. 1111
s.; ID., Parte (dir. proc. civ.), in Enc. dir., XXXI, Milano, 1981, p. 917 ss., ma spec. p. 927; ID.,
Note in tema di limiti soggettivi della sentenza civile, in Foro it., 1985, I, p. 2387 ss., ma ora in
ID., Le tutele giurisdizionali dei diritti, Napoli, 2003, p. 321 ss. spec. p. 325; ID., Lezioni di di-
ritto processuale civile, Napoli, 2006, p. 295 e 300. Ma già CALAMANDREI, P., Istituzioni di di-
ritto processuale civile, II, Padova, 1943, p. 196 s.; ANDRIOLI, V., ID., Commentario al codice di
procedura civile, I, cit., p. 286; ID., Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 1973, p. 459;
ID., Diritto processuale civile, I, 1979, Napoli, p. 591; TOMMASEO, F., L’estromissione di una
parte del giudizio, Milano, 1975, p. 89 ss., ma spec. 110, nonché poi in ID., Parti: I) Diritto
processuale civile, in Enc. giur. Trec., XXII, Roma, 1990, p. 4; MONTELEONE, G.A., I limiti sog-
gettivi del giudicato civile, Padova, 1978, p. 117 ss.; COSTANTINO, G., Contributo allo studio del
litisconsorzio necessario, Napoli, 1979, p. 429 ss. e poi ID., Litisconsorzio: I) Diritto processuale
civile, in Enc. giur. Trec., XIX, Roma, 1990, p. 8; ID., Legittimazione ad agire, ivi, XVIII, 1990,
p. 8; TOMEI, G., Alcuni rilievi in tema di litisconsorzio necessario, in Riv. dir. proc., 1980, p.
669 ss., ma spec. p. 671; MONTESANO, L., La tutela giurisdizionale dei diritti, Torino, 1997, p.
111; FRASCA, R., Note sui presupposti del litisconsorzio necessario, II, in Riv. dir. proc., 1999, p.
745 ss., ma spec. p. 753 ss.; ZANUTTIGH, L., Litisconsorzio, in Dig. disc. priv., sez. civ., XI, To-
rino, 1994, p. 40 ss., ma p. 50; MENCHINI, S., Il giudicato civile, Torino, 2002, p. 190. Vi è an-
che un noto orientamento dottrinale, teso a qualificare come ipotesi di sostituzione proces-
suale in senso proprio solamente quelle in cui il giudizio avviato dal sostituto si svolga in as-
senza del sostituito, titolare del rapporto dedotto ad oggetto dal giudizio e comunque colpito
dall’efficacia di accertamento della sentenza: cfr. FAZZALARI, E., Sostituzione (dir. proc. civ.), in
Enc. dir., XLIII, Milano, 1990, p. 159 ss., ma spec. p. 160, ma v. anche ID., Il processo ordi-
nario di cognizione, I, Torino, 1989, p. 93 ss.; ID., Istituzioni di diritto processuale, Padova,
1986, p. 336 s.; ed anche CECCHELLA, C., Sostituzione processuale, in Dig. disc. priv., sez. civ.,
XVIII, 1998, Torino, p. 640 ss., che – per quel che più specificamente interessa – ritiene che
proprio la situazione giuridica dell’ente esponenziale di interessi diffusi debba ricevere tale
qualificazione in virtù del fatto che in detta ipotesi l’istituto in questione troverebbe un suo
tipico caso di applicazione dovuta alla pratica irrealizzabilità del contraddittorio. Riguardo
quest’ultima questione si aggiunge, infatti, che i più recenti interventi normativi – il riferi-
mento è indirizzato alla l. 349/86, all’art. 1469 sexies c.c., nonché anche al già esaminato art.
2601 c.c. – sembrerebbero fondare una «nuova e inaspettata stagione dell’istituto della sosti-
tuzione».
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 419

vità – l’approfondimento della posizione processuale dell’ente esponen-


ziale sposta l’asse di riflessione dalla disgiuntiva «diritto soggettivo pro-
prio/diritto soggettivo altrui» verso il problema dei limiti soggettivi del
giudicato ottenuto a seguito dell’esercizio dell’azione istituzionale e più
in generale verso la questione del coordinamento tra le diverse iniziative
giudiziali.
Non è casuale, infatti, che nella letteratura in materia di interessi
collettivi la scelta di qualificare l’azione dell’ente rappresentativo come
riflesso processuale di un suo proprio diritto soggettivo piuttosto che in
termini di attribuzione di un potere di sostituzione ex art. 81 c.p.c. abbia
rappresentato tutt’altro che un dilemma teorico da risolversi sub specie
aeternitatis. Tale alternativa ricostruttiva, infatti, è apparsa unicamente la
risultante di una soluzione previamente accolta in ordine al problema –
di rilievo prima di tutto pratico – corrispondente alla determinazione del
perimetro soggettivo da riconoscersi agli effetti della sentenza, nonché
alla questione relativa all’eventuale partecipazione necessaria della plura-
lità di interessati al giudizio collettivo24.
24 Si pensi ancora all’esperienza che ci offre il giudizio di repressione della condotta an-

tisindacale. Come è noto parte della dottrina processualistica ha visto nell’azione sindacale un
potere di sostituzione del sindacato nell’esercizio del diritto individuale (cfr., in particolare,
LANFRANCHI, L., Prospettive ricostruttive in tema di art. 28 dello Statuto dei lavoratori, in Riv.
trim. dir. proc. civ., 1971, p. 388 ss., spec. p. 427; PUNZI, C., Repressione della condotta anti-
sindacale: b) Profili di diritto processuale, in Commentario dello statuto dei lavoratori, diretto
da U. Prosperetti, II, Milano, 1975, p. 966 ss.; ma anche GARBAGNATI, E., Profili processuali
del licenziamento per motivi antisindacali, in Riv. dir. proc., 1973, p. 596 ss., spec. p. 636),
mentre altra parte della dottrina, specie giuslavorista, e con essa la giurisprudenza, ha indivi-
duato in tale azione un diritto soggettivo proprio del sindacato; e ciò fondamentalmente per
il fatto che il riconoscimento di un diritto soggettivo proprio garantiva al sindacato una posi-
zione processuale di autonomia rispetto ai singoli pregiudicati dalla medesima condotta ben
maggiore di quella che avrebbe garantito la figura della sostituzione processuale. Ma, d’altra
parte, la dottrina che nello specifico aveva optato per la sostituzione processuale si era in ta-
luni casi (cfr. Lanfranchi) orientata verso una concezione della stessa – quella sattiana – come
noto tendenzialmente propensa a smorzare la contrapposizione tra tecnica giuridica del di-
ritto soggettivo e tecnica della sostituzione e con essa lo stesso rapporto di alterità del sosti-
tuto rispetto all’interesse tutelato. In altri termini, sotto questo specifico profilo, le due posi-
zioni (su cui amplius, cap. VII), erano molto meno lontane nella sostanza di quanto potesse
sembrare a prima vista. Sotto questo specifico profilo, si è detto; perché ovviamente la tesi
della sostituzione processuale gettava ponti tra i due giudizi di ben diverso spessore rispetto
a quella completa autonomia ed indifferenza delle procedure che al contrario garantiva la tesi
del diritto soggettivo proprio del sindacato. E difatti, la sostituzione processuale o si tradu-
ceva in estensione ultra partes del giudicato (così, in Lanfranchi) o puntava direttamente al-
l’esito più funesto per l’autonomia sindacale: il litisconsorzio necessario del lavoratore nel
giudizio collettivo (così, ad es. in Punzi e Garbagnati). Come detto nel testo, insomma, l’al-
ternativa tra sostituzione e diritto soggettivo si risolveva nell’interrogativo essenzialmente
420 CAPITOLO SESTO

In conclusione, dunque, il problema dell’esatta qualificazione della


posizione sostanziale e processuale dell’ente rappresentativo di volta in
volta legittimato si traduce, posto che comunque si orbita nell’ampia
sfera segnata dalla generale tecnica di tutela del diritto soggettivo nel
senso chiarito addietro, nel problema del coordinamento delle diverse
iniziative giudiziali. In altre parole, se il comportamento imposto dalla
legge è idoneo a soddisfare una pluralità di interessati e se questi interes-
sati – siano essi i singoli appartenenti alla categoria, siano essi associa-
zioni o altri enti legittimati – possono agire per l’accertamento degli ille-
citi e per l’inibizione di ulteriori comportamenti lesivi degli interessi pro-
tetti, allora il crinale su cui la posizione del singolo potrebbe separarsi
dalla posizione degli enti esponenziali appare essere quello della natura
del giudizio da questi avviato, ovvero dell’efficacia della sentenza a cui
questo conduce.

5. I limiti soggettivi del giudicato


5.1. Considerazioni preliminari sui profili funzional-strutturali dei giudizi
collettivi
Per la via appena percorsa giungiamo, dunque, al tema dei limiti
soggettivi del giudicato, rispetto al quale, possediamo ora gran parte de-
gli elementi per impostare la riflessione sui binari più corretti. Il feno-
meno con cui occorre di regola confrontarsi è, infatti, il seguente: un
comportamento doveroso è posto a soddisfacimento di più interessi com-
patibili concorrenti e il riconoscimento della legittimazione ad agire an-
che a soggetti esterni al gruppo, manifesta la rilevanza normativa dell’in-
teresse dell’ente esponenziale all’osservanza dell’obbligo stesso, esten-
dendosi, così, la relazione di concorrenza appena richiamata, anche
all’interesse del legittimato «straordinario».
Queste questioni sono effettivamente fondamentali ed assoluta-
mente pregiudiziali al problema dei limiti soggettivi del giudicato. Nel
terzo capitolo del nostro lavoro, infatti, avevamo registrato due distinti
orientamenti tendenziali. Da un lato, era stata rimarcata la naturale inci-
denza che la configurazione dell’interesse tutelato ha in generale svolto
sul tema della perimetrazione soggettiva degli effetti della sentenza. Dal-
l’altro, avevamo criticato la propensione ricostruttiva tesa a ribaltare l’or-

concernente il diverso problema del coordinamento delle decisioni e di un eventuale interfe-


renza delle procedure.
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 421

dinario rapporto di strumentalità che lega il diritto processuale a quello


materiale sino a far ricadere le difficoltà di gestione di queste controver-
sie sulla stessa configurazione sostanziale delle pretese da tutelare25.
Ciò detto in chiave generale, prima di entrare in medias res, ovvero
prima di esaminare nello specifico le soluzioni che possono essere avan-
zate nei confronti del problema dei limiti soggettivi del giudicato in ma-
teria di azioni a tutela di interessi collettivi, occorre preliminarmente fare
chiarezza sui possibili e diversi fenomeni giuridici che di solito vanno a
nascondersi dietro a formule generiche, quali «giudizio collettivo», «le-
gittimazione collettiva», «azione collettiva», ecc.
Se, infatti, come ampliamente dimostrato, la nozione di interesse
collettivo è apparsa una dizione dai mille significati, tale aleatorietà defi-
nitoria non poteva far altro che riverberarsi – come logica vuole – sugli
stessi concetti «derivati» poc’anzi richiamati.
Ora, invece, chiarita la nozione di interesse collettivo in sé, oltre che
nei suoi rapporti con quella di diritto soggettivo, è assolutamente neces-
sario impostare il discorso relativo allo spinoso tema dei limiti soggettivi
del giudicato su solide basi ed a tal riguardo l’ultimo passo che ci resta
da compiere consiste nel cercare di determinare con precisione i diversi
fenomeni giuridici che generalmente sono veicolati dall’idea del giudizio
collettivo.
Solo apprezzandone l’esatta consistenza strutturale potremo poi con
maggior facilità destreggiarci nella fitta trama di soluzioni astrattamente
prospettabili riguardo al problema dell’efficacia da attribuire alla sen-
tenza collettiva.

5.1.1. Giudizi collettivi a tutela di interessi individuali compatibili concor-


renti: giudizi collettivi in senso proprio
Alla luce delle lunghe riflessioni svolte in merito al concetto di inte-
resse e agli elementi strutturali che il diritto pone in campo per garan-
tirne il soddisfacimento, l’obiettivo ora indicato, ovvero l’addivenire ad
utili e chiare definizioni che sappiano in via sintetica contrassegnare i di-
stinti fenomeni giuridico-processuali che in genere vengono ricondotti al-
l’idea del giudizio collettivo, dovrebbe essere raggiunto senza grande
sforzo.
Come prima categoria concettuale possiamo, quindi, riferirci al giu-
dizio collettivo in senso proprio, tipicamente rappresentato dalle azioni
collettive a carattere inibitorio. Questa tecnica di tutela, infatti, si pone
25 Cfr. retro, cap. III, nota 116.
422 CAPITOLO SESTO

come naturale strumento di difesa giurisdizionale di interessi collettivi


ogni qual volta l’obbligo, la cui osservanza è ingiunta col provvedimento
giudiziale, rappresenta una situazione favorevole per una certa colletti-
vità. In tali casi, il rimedio processuale si dimostra uno strumento fun-
zionalmente rivolto e strutturalmente concepito per la tutela degli inte-
ressi collettivi, difatti, il realizzarsi della situazione favorevole perseguita
in judicio soddisfa tutti gli interessi compatibili concorrenti che ad essa
sono rivolti26.
Nel nostro ordinamento è questa, come vedremo nei prossimi capi-
toli, l’area fenomenologica prevalentemente coperta dai rimedi collettivi
previsti positivamente dalla legge.
Gettando, invece, l’occhio a esperienze straniere, la tipica consi-
stenza strutturale di tale tipologia di controversie è confermata dal loro
26 Come visto nel terzo capitolo (cfr. in particolare nota 112), sull’azione collettiva in

senso proprio meritano particolare rilievo le osservazioni di DENTI, V., Interessi diffusi, cit., p.
312; ID., Profili civilistici della tutela degli interessi diffusi, cit., p. 48, secondo cui il concetto
in questione non dovrebbe dipendere da requisiti soggettivi del soggetto legittimato (ad es.
soggetto collettivo piuttosto che semplice cittadino), quanto da elementi funzionali e struttu-
rali connessi alla natura dell’interesse tutelato e alla capacità del giudizio di adeguarsi alla na-
tura sovraindividuale dello stesso. È per questa ragione che a parer nostro l’azione deve es-
sere definita collettiva quando è idonea a provocare l’accertamento di un effetto giuridico po-
sto a tutela di un interesse collettivo, ovvero di un insieme di interessi individuali concorrenti.
Questo approccio isola la definizione proposta da altre pur rilevanti questioni, ovvero dalla
natura del soggetto legittimato o dal regime di efficacia della sentenza. Sicché deve essere de-
finito propriamente collettivo anche il giudizio provocato dal singolo membro della colletti-
vità e magari anche privo di un provvedimento conclusivo dotato di efficacia vincolante erga
omnes; ma ciò purché conduca all’accertamento di un obbligo sostanziale imposto per la tu-
tela di un interesse collettivo. Per questa ragione non ci sentiamo di aderire all’impostazione
definitoria di recente avanzata da CHIARLONI, S., Per la chiarezza di idee in tema di tutele col-
lettive dei consumatori, in Riv. dir. proc., 2007, p. 567 ss., secondo cui bisognerebbe distin-
guere tra «azioni di classe», in cui il giudizio è instaurato da un soggetto singolo nell’interesse
di una pluralità di soggetti che si trovano in «una comune situazione giuridica bisognosa di
tutela giurisdizionale», con vaglio di ammissibilità giustificante il vincolo al giudicato per ogni
membro della classe, e «azioni collettive», esercitate da associazioni nate ed affermatesi come
«centri di imputazione» di interessi comuni che fanno capo ad una collettività di individui.
L’impostazione ora indicata, infatti, tende nella sostanza a coincidere con la distinzione-con-
trapposizione tra damages class action statunitense e azione collettiva inibitoria associativa, ov-
vero con due tipologie di giudizio puntualmente connotate sul piano positivo in riferimento
ad uno specifico regime di legittimazione ad agire e di efficacia della sentenza. A parer no-
stro, invece, occorre valorizzare gli elementi funzionali e strutturali essenziali, che indicano
chiaramente la differenza che intercorre tra giudizio collettivo proprio, nel quale la tutela è
volta al soddisfacimento di interessi individuali concorrenti mediante l’accertamento di un
unico effetto giuridico, e giudizio collettivo improprio, nel quale la tutela è volta al soddisfa-
cimento di interessi individuali esclusivi mediante l’accertamento di più e diversi effetti giuri-
dici sostanziali.
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 423

naturale accoglimento all’interno della specifica disciplina – a cui ap-


punto di regola queste sono ricondotte – prevista dalla rule 23 (b) (2)
delle Federal Rules of Civil Procedure statunitensi27, oppure – guardando
altrove – dall’ambito di applicazione delle representative suits anglosas-
soni, ora previste dalla Civil Procedure Rule 19.6 (1)28, la cui applicazione
gravita attorno alla stretta ricorrenza del «same interest» in capo a tutti i
soggetti rappresentati29.

27 V. le Notes of Advisory Committee on 1966 Amendments to Rules: «This subdivision

is intended to reach situations where a party has taken action or refused to take action with
respect to a class, and final relief of an injunctive nature or of a corresponding declaratory na-
ture, settling the legality of the behavior with respect to the class as a whole, is appropriate.
Declaratory relief “corresponds” to injunctive relief when as a practical matter it affords
injunctive relief or serves as a basis for later injunctive relief. The subdivision does not extend
to cases in which the appropriate final relief relates exclusively or predominantly to money
damages. Action or inaction is directed to a class within the meaning of this subdivision even
if it has taken effect or is threatened only as to one or a few members of the class, provided
it is based on grounds which have general application to the class».
28 Stando alla CPR 19.6, «where more than one person has the same interest in a claim:

a. the claim may be begun; or b. the court may order that the claim be continued, by or
against any one or more of the persons who have the same interest as representative of any
other persons who have that interest». Prima della riforma del 1999, le azioni rappresentative
trovavano disciplina nelle pressoché coincidenti regole previste dalle RSC Ord 15, r 12 e
CCR Ord 5, r 5. Sulle representative suits, v. ANDREWS, N., Multy-party proceedings in En-
gland: representative and group actions, 11 Duke J. of comp. & int’l L. 249 (2001); ID., English
Civil Procedure, Oxford, 2003, p. 987 ss.; Prima della Woolf’s reform, v. JOLOWICZ, J.A., On
Civil Procedure, Oxford, 2000, p. 97 ss.; ID., Protection of Diffuse, Fragmented and Collective
Interest in Civil Litigation: English Law, 42 Cambridge L.J. 222 (1983). Ampia è la letteratura
sulle connessioni sussistenti tra representative suits e class actions, specie lungo un itinerario
storico-evolutivo; sull’argomento v. GIUSSANI, A., Studi sulle «class actions», Padova, 1996, p.
4 ss.; in lingua inglese, v. lo studio di YEAZELL, S.C., From Medieval Group Litigation to the
Modern Class Action, New Haven, 1987. Per uno studio sull’influenza delle representative
suits inglesi sulla successiva legislazione in materia di class actions all’interno di un’ampia cor-
nice comparatistica, v., più di recente, MULHERON, R., The Class Action in Common Law Le-
gal System: A Comparative Perspective, Oxford, 2004, p. 83 ss.; ID., From representative rule
to class action: steps rather than leaps, 24 Civil Justice Q. 424 (2005).
29 ANDREWS, N., English Civil Procedure, cit., p. 988, evidenzia che la formula «same in-

terest» sta a significare che «the representative’s cause of action must be ‘the same’ as that of
the represented parties» e, – questo è il punto che va da noi rimarcato – citando una risalente
opinion espressa nel leading case Markt & Ltd v. Knight Steamship Co Ltd, puntualizza che
ciò si verifica quando il rimedio richiesto si dimostra «in its nature beneficial to all whom the
plaintiff proposed to represent» (c.vo mio). Da ciò la tendenziale esclusione dei rimedi risar-
citori (cfr. però le precisazioni avanzate ancora da ANDREWS, N., English Civil Procedure, cit.,
p. 991 ss.; HODGE, C., Multi-party Actions, Oxford, 2001, p. 123). Si è dunque rilevato come
l’interpretazione restrittiva del requisito del same interest abbia favorito, da un lato, la scarsa
applicazione delle representative suits e, dall’altro, l’introduzione della Group Litigation Order
Rule a seguito della riforma del 1998 (così, HODGE, C., Multi-party Actions, cit., p. 124). Per
424 CAPITOLO SESTO

Ulteriore esempio lo si trova nelle due categorie di controversie col-


lettive previste dal codice dei consumatori brasiliano all’art. 81, I-II, cioè
nelle controversie relative ai «diritti-interessi diffusi» o ai «diritti-inte-
ressi collettivi»30.
La formula per rappresentare schematicamente tale fenomeno è già
nota. Ora la ritocchiamo solo lievemente per aggiungervi la posizione
dell’ente esponenziale31:
(A) Tizio↔
Caio↔
Sempronio ↔
ente esponenziale ↔
} comportamento-XMevio

5.1.2. Giudizi collettivi a tutela di interessi individuali esclusivi: i giudizi


collettivi impropri
Fenomenologia assolutamente distinta, invece, appartiene alle ipo-
tesi che potremmo classificare come azioni collettive improprie32, le quali
– sebbene in risposta ad un’esigenza di tutela lato sensu superindividuale
– sono dirette al soddisfacimento di più interessi individuali esclusivi,
cioè non concorrenti33. L’esempio tipico è l’azione collettiva risarcitoria,
sulla cui introduzione – sebbene con modalità tutt’altro che omogenee –
nel nostro ordinamento di recente si discorre con riferimento alla tutela
dei consumatori34.
Diversamente da quanto poc’anzi chiarito, infatti, qui non abbiamo
a che fare con un unico comportamento doveroso, la cui attuazione de-
termina il simultaneo soddisfacimento dei più interessi che ad esso sono
diretti, ma abbiamo n comportamenti doverosi a contenuto risarcitorio,
il cui realizzarsi soddisfa n interessi individuali esclusivi.

interessanti approfondimenti circa il requisito del same interest, alla luce del caso poc’anzi ci-
tato (Markt & Co Ltd v. Knight Steamship Co Ltd), v. MULHERON, R., The Class Action in Com-
mon Law Legal System, cit., p. 78 ss.
30 Cfr. retro, nota 3.
31 Cfr. retro, cap. IV, § 6.
32 In dottrina si parla di contenzioso seriale, o di massa, di azioni di classe, ecc., per in-

dicare i giudizi che hanno ad oggetto una pluralità di diritti soggettivi omogenei.
33 Cfr. ancora retro, cap. IV, § 8.
34 Nel nostro ordinamento solo di recente, ovvero in seguito ai crack finanziari i cui ef-

fetti hanno investito il popolo dei consumatori, si pensa all’introduzione di azioni collettive
risarcitorie, sul punto, v. le riflessioni svolte infra, cap. X, § 3.3., relativamente all’introdu-
zione del nuovo art. 140 bis del c. consumo.
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 425

Lo schema di cui servirci può essere il seguente:


(B) Tizio↔ comportamento-KMevio
Caio↔ comportamento-YMevio
Sempronio ↔ comportamento-ZMevio
In cui ovviamente K, Y e Z stanno ad indicare – a titolo esemplifi-
cativo – le diverse connotazioni oggettive del comportamento doveroso
che, comunque, è proprio dello stesso soggetto (per ipotesi Mevio).
Si badi bene, può accadere che questi comportamenti doverosi,
aventi contenuto risarcitorio, traggano origine dallo stesso illecito o
evento (prendasi come tipico esempio un illecito ambientale), ovvero che
trovino la loro fonte in diversi illeciti, magari riconducibili ad una con-
dotta antigiuridica dai contorni unitari (si pensi a consimili ma separate
lesioni di diritti di singoli consumatori), ma, nonostante questo, il giudi-
zio volto a risolvere le pretese risarcitorie individuali si confronta neces-
sariamente con un oggetto strutturalmente assai differente rispetto a
quello che appartiene al processo collettivo poc’anzi indicato35. Se in
quest’ultimo – ecco l’aspetto discriminante – l’accertamento cade su un
unico effetto giuridico, qui l’accertamento coinvolge diversi effetti giuri-
dici, che peraltro possono essere particolarmente simili, o anche notevol-
35 Un’interessante analisi della progressiva complessificazione sostanziale-processuale
delle ipotesi astrattamente prospettabili la si trova in WEINSTEIN, J.A., Individual Justice in
Mass Tort Litigation, The Effect of Class Actions, Consolidations, and other Multiparty Devices,
Evaston, 1995, p. 16 ss., ove l’A. distingue tra quattro «types of disasters»: a) «clear cause –
single event – injuries proximate in time and space» (è il caso dell’incidente aereo, perdita di
sostanza velenose da impianti industriali, ecc.); b) «clear cause – multiple events injuries non-
proximate in place» (è l’ipotesi di un prodotto commerciale la cui dannosità è altamente pro-
babile ed i cui effetti si realizzano in uno spazio temporale verosimilmente ridotto); c) «un-
clear cause – multiple events – injuries nonproximate in time and space» (è la più complessa
ipotesi in cui la situazione pregiudizievole che investe i singoli può rilevarsi più o meno ge-
neralizzata all’interno della popolazione, attenuando così la riconducibilità del danno all’e-
vento dannoso; tipico caso è delle vittime da amianto o da fumo); d) «unclear cause – multi-
ple events – injuries nonproximate in time and space – identities of both producers and inju-
red unclear» (detta ipotesi si realizza allorché si verifichi l’aumento dell’incidenza di una
comune malattia, ma sia difficoltoso determinare quali persone ne soffrano come risultato
dell’esposizione a particolari sostanze tossiche, il cui impiego non esclusivo determina la dif-
ficile imputazione della responsabilità ad un soggetto piuttosto che ad un altro; ipotesi – que-
st’ultima – ulteriormente complicata dalla possibile latenza della malattia per lunghi periodi).
Rimanendo sul piano puramente connesso alla mera tecnica processuale, si pensi ad esempio,
in quest’ultimo caso, alle difficoltà di corretto funzionamento di taluni meccanismi di tutela
dei membri di una classe che tende ad una serialità impropria (ovvero non costituita da inte-
ressi propriamente collettivi, ma da un incerto numero di simili interessi singolari) che si
426 CAPITOLO SESTO

mente diversi a seconda dell’ammontare della somma da versare a titolo


di risarcimento.
Ragionando – per quanto possibile – in chiave generale, è piuttosto
agevole apprezzare, anche su questo piano di primissima approssima-
zione, le grandi differenze che dal fronte sostanziale si proiettano su
quello processuale.
Nell’azione collettiva a carattere inibitorio, ad esempio, il problema
dell’estensione degli effetti della sentenza oltre le parti del giudizio si
presenta – di regola36 – con accenti di impellenza meno pronunciati ri-
spetto a quanto avviene nel giudizio collettivo in senso improprio, in
quanto – come visto nel paragrafo che precede – l’osservanza dell’ordine
giudiziale opera sul piano della realtà materiale garantendo la realizza-
zione dell’interesse collettivo. In altri termini, l’osservanza dell’obbligo
realizza di per sé il soddisfacimento di tutti gli interessi individuali con-
correnti e, dunque, per questa via, chiunque eserciti l’azione è in grado
di far conseguire a tutti il risultato pratico a cui si aspira. Se, comunque,
per ipotesi, ci si confronta con un modello processuale che prevede fe-
nomeni di estensione ultra partes dell’efficacia della sentenza, i soggetti
che appartengono alla collettività investita dal giudicato, pur nella loro
probabile indeterminatezza specifica, sono comunque determinati in via
indiretta ovvero in relazione all’identità oggettiva dell’effetto giuridico
dedotto in giudizio37.
Tutto ciò non avviene in un giudizio collettivo risarcitorio in cui la
sentenza è volta all’accertamento di distinte pretese risarcitorie ovvero –
più correttamente38 – di distinti comportamenti doverosi, magari se-
proietta anche nel futuro. Come fare in tali casi a garantire nell’unità di tempo t, l’effettività
della tutela che il meccanismo di out-put garantisce agli assenti, se questi non sanno ancora di
poter avere interesse al giudizio? Questo a mero titolo di esempio, poiché procedendo a ri-
troso dalla procedura al diritto sostanziale, dagli effetti della sentenza si passa al problema
dell’esatta determinazione delle questioni comuni alle diverse controversie individuali, al pro-
blema della prova e della dimostrazione del nesso eziologico e così via discorrendo.
36 Diciamo «di regola» perché, come vedremo tra breve nel testo, anche le azioni inibi-

torie possono richiedere l’estensione degli effetti della sentenza oltre le parti del giudizio se si
ritiene che l’azione inibitoria sia in grado di condurre all’accertamento idoneo al giudicato
delle questioni pregiudiziali che sorreggono l’accertamento dell’obbligo di astensione. In que-
sta ipotesi, infatti, l’effettività del rimedio collettivo è in gran parte rimessa alla possibilità che
i singoli si giovino di tale accertamento all’interno dei giudizi individuali sugli effetti conse-
guenti.
37 Sul punto, v. le considerazioni svolte infra (nota 122), per ciò che concerne l’in-

fluenza di questa questione sulla possibilità di autorizzare, in tale tipologia di controversie, la


notificazione per pubblici proclami ai sensi dell’art. 150 c.p.c.
38 Si noti il seguente punto, il quale appare a chi scrive particolarmente importante per

una corretta e scientificamente appagante sistemazione del fenomeno con cui ci confron-
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 427

condo tecniche di determinazione del danno collettivo (aggregate asses-


sment of damages)39. Emerge quindi il problema di determinare quali
siano gli elementi che di volta in volta giustificano la cumulativa dedu-
zione delle diverse pretese in unico giudizio; elementi che devono essere
di volta in volta individuati in relazione alle diverse circostanze concrete
e, soprattutto, in ragione di criteri di orientamento essenzialmente legali.
Lo schema formale del fenomeno sostanziale con cui abbiamo a che fare
assume, insomma, contorni indeterminati innanzitutto sul piano ogget-
tivo; e ciò con effetti a cascata sul piano della complessificazione del giu-
dizio40.

tiamo. Sia nel giudizio collettivo proprio, sia nel giudizio collettivo improprio, abbiamo più
pretese individuali. Certo, in un caso l’oggetto delle pretese è lo stesso, mentre nell’altro è
molteplice ed eterogeneo (seppur talora assimilabile), ma comunque, se prendiamo come cri-
terio di classificazione e comprensione dei diversi giudizi collettivi la presenza-assenza di più
pretese individuali, tale requisito non ci conduce ad alcuna differenziazione significativa. Per
dirla con altre parole, tanto nel giudizio che nel testo abbiamo definito proprio, quanto nel
giudizio improprio, abbiamo a che fare con un fenomeno giuridico descrivibile in termini di
pluralità di diritti soggettivi. Se, peraltro, l’attenzione si pone sull’effetto giuridico, che per
noi – dovrebbe oramai esser chiaro – è solo l’obbligo, lo schema formale entro cui circoscri-
vere il fenomeno è individuabile con ben altra immediatezza e chiarezza e ciò perché riceve
valorizzazione il dato propriamente strutturale del fenomeno. In altri termini, la valorizza-
zione anche lessicale, oltre che di impostazione mentale e concettuale, del lato attivo del rap-
porto crea, o può creare, una fluidità concettuale dannosa, favorendo il realizzarsi dell’equa-
zione tra «più pretese» (del primo genere) e «più pretese» (del secondo), ovvero tra «più di-
ritti soggettivi» e «più diritti soggettivi». Ma così, ovvero facendo uso del concetto di diritto
soggettivo come strumento classificatorio in grado di dire tutto ciò che c’è da dire sul feno-
meno giuridico che si esamina, cioè come concetto-termine onnicomprensivo ed esaustivo
circa la giuridicità di un dato fenomeno, è facile trovarsi a camminare su terreni scivolosi. È
al contrario il comportamento doveroso e le note che lo descrivono che si pongono come
punto formale di riferimento, come elemento strutturale ineliminabile e centrale. E ciò per la
più volte ripetuta ragione che il diritto persegue i suoi obiettivi acquisendo come suo piano di
incidenza i comportamenti umani e come punto di incidenza l’obbligo, ovvero imponendo vin-
coli di comportamento che se disattesi necessitano di accertamento giurisdizionale e di con-
seguente attuazione coattiva. Sicché, così ragionando, è agevolmente rilevabile la differenza
tra il giudizio collettivo proprio, in cui l’oggetto del giudizio è rappresentato da un solo ef-
fetto giuridico, e il giudizio collettivo improprio, in cui – invece – l’oggetto del processo è co-
stituito da più effetti giuridici a contenuto e funzione risarcitori.
39 In generale, in chiave comparatistica, v. MULHERON, R., The Class Action in Common

Law Legal System, cit., p. 407 ss., e, con particolare riguardo all’esperienza canadese, v. JONES,
C., Theory of Class Actions, Toronto, 2003, p. 126.
40 Significativamente, nelle Notes of Advisory Committee on 1966 Amendments to

Rules, si legge – con riguardo alle controversie collettive previste dalla rule 23 (b) (3) e a
breve evocate nel testo – che «in the situations to which this subdivision relates, class-action
treatment is not as clearly called for as in those described above, but it may nevertheless be
convenient and desirable depending upon the particular facts. Subdivision (b) (3) encompas-
428 CAPITOLO SESTO

All’aumentare dell’indice di differenziazione degli interessi talune


questioni processuali divengono veramente critiche. Si pensi alla rappre-
sentatività di colui che potrebbe essere assunto come attore per tutti, alla
già detta determinazione della classe, ovvero alla determinazione delle
pretese che in base ai criteri adottati presentano indici di omogeneità suf-
ficienti per la decisione unitaria, ecc.
Comprensibilmente, se si guarda al panorama legislativo straniero,
questa tipologia di controversie collettive trova discipline processuali pur
assai diversificate, ma tutte astrette dalle medesime esigenze pratico-teo-
riche.
Un esempio è ancora offerto – ma solo in parte41 – dal già citato or-
dinamento brasiliano, con particolare riguardo ai giudizi collettivi concer-
nenti i «diritti individuali omogenei», i quali costituiscono quella catego-
ria prevista al paragrafo III dell’art. 81 del codice dei consumatori, in con-
trapposizione ai già detti «diritti-interessi diffusi» e ai «diritti-interessi
collettivi»; giudizi collettivi tipicamente risarcitori che la legge determina
mediante l’individuazione del requisito – peraltro decisamente generico –
della «origem comum» appartenente ai distinti diritti individuali.

ses those cases in which a class action would achieve economies of time, effort, and expense,
and promote uniformity of decision as to persons similarly situated, without sacrificing
procedural fairness or bringing about other undesirable results».
41 Cfr. PELLEGRINI GRINOVER, A., Il nuovo processo brasiliano del consumatore, cit., spec.

p. 1065 s.; GIDI, A., Class actions in Brasil, A model for civil Law Countries, cit., p. 359 e 388
ss., il quale chiarisce come, in realtà, la disciplina brasiliana in materia di diritti individuali
omogenei, ovvero in materia di azioni collettive risarcitorie, segua di regola il modello delle
azioni collettive dichiarative su questioni, ovvero non miri direttamente alla liquidazione dei
danni individualmente patiti dai membri della collettività. Come meglio chiariremo tra breve
nel testo, una tecnica di semplificazione estremamente frequente in materia di azioni collet-
tive risarcitorie è proprio quella di limitare l’accertamento alle questioni comuni alle diverse
pretese, per poi successivamente rimettere i singoli ai giudizi individuali per determinare l’e-
satta liquidazione della somma dovuta a titolo di risarcimento o per proseguire in una suc-
cessiva fase dello stesso giudizio in cui, terminata la conduzione collettiva del giudizio, i sin-
goli possono intervenire per la trattazione separata delle questioni differenziate individuali la
cui esistenza deve essere verificata per completare l’accertamento del diritto al risarcimento.
Nel sistema brasiliano – si diceva – è questo secondo modello che di regola viene seguito (cfr.
art. 95 e 97 CDC, in cui da un lato è prevista la condanna generica del danneggiante e dal-
l’altro è prevista l’azione individuale del danneggiato); peraltro, stando all’art. 98 CDC, gli
enti portatori legittimati ad agire possono richiedere la liquidazione del danno collettivo se,
decorso un anno dal passaggio in giudicato delle sentenza di condanna generica, solo un esi-
guo numero di danneggiati ha esercitato l’azione individuale. Sul punto, v. DE BARROS LEO-
NEL, R., Manual do processo coletivo, cit., spec. p. 385 ss.; e soprattutto MIRANDA PIZZOL, P.,
Liquidação nas ações coletivas, San Paolo, 1998, spec. p. 179 ss.
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 429

Ma, posta da parte l’esperienza brasiliana, ovviamente il punto di ri-


ferimento privilegiato è costituito dalla disciplina delle class actions fede-
rali statunitensi prevista alla rule 23 (b) (3); categoria nella quale si fanno
tipicamente rientrare le mass tort class actions o le azioni in forma collet-
tiva relative alle c.d. small claims42.
In ordine a questo tipo di azioni collettive, a conferma della loro
specificità strutturale, non solo acquista particolare rilievo la verifica di
requisiti pur generali e comuni anche alle altre due categorie previste –
rule 23 (b) (1) e (2) –, tra cui, in primis, la stessa rappresentatività della
parte che protegge gli interessi degli assenti, ma, stando appunto alla rule
23 (b) (3), la possibilità di agire in forma collettiva dipende innanzitutto
dalla predominanza delle questioni comuni in fatto e in diritto rispetto a
quelle più strettamente individuali, dalla sua idoneità a porsi come mi-
glior tecnica di tutela in ordine al garantire una composizione giusta ed
efficiente della controversia e ciò con particolare riferimento all’interesse
dei singoli membri a mantenere il controllo sulla loro azione individuale,
alla durata e alla natura dei giudizi individuali già avviati, all’opportunità
di concentrare in un unico processo le distinte liti, nonché infine anche
alla difficoltà di gestione della controversia collettiva43. Solo per le class
actions condotte ai sensi della disposizione citata, inoltre, si pone per il
giudice l’obbligo – e non la semplice facoltà – di notiziare i membri del
gruppo di riferimento dell’avvio del giudizio collettivo; e ciò secondo le
migliori modalità possibili in relazione alle circostanze, «including indivi-
dual notice to all members who can be identified through reasonable
effort»44. Ed ancora solo in dette fattispecie processuali – e non nelle
classi 23 (b) (1) e 23 (b) (2) – i singoli appartenenti al gruppo possono
esercitare il loro diritto di opting out sottraendosi agli effetti del giudizio
collettivo45.
42 Cfr. YEAZELL, S.C., Civil Procedure, New York, 2004, p. 794.
43 In generale, sul punto, v. KLONOFF, R.H. - BILICH, E.K.M. - MALVEAUX, S.M., Class
Actions and Other Multy-party Litigation, Cases and materials, St. Paul, 2006, p. 44 ss. Cfr. an-
che GIUSSANI, A., Le «mass tort class actions» negli Stati Uniti, in Riv. crit. dir. civ., 1988, p.
331 ss. ed in particolare ID., Studi sulle «class actions», cit., p. 243 ss.
44 FRPC 23 (c) (2) (B). Con tutto ciò che ne deriva sul piano dei costi, come insegna il

celebre caso Eisen v. Carlisle & Jacquelin, 417 US 157, 179 (1974). Sul punto, v. in generale
JASPER, M.C., Your Rights in a Class Action Suit, New York, 2005, p. 17 ss.
45 «The grant of out-put rights makes sense only if individuals removed from the class

can truly be insulated fron the effect of the class judgement. Thus, the distinction rule 23
draws between (b) (1) and (b) (2) classes, whose member have no right to exclude themsel-
ves, and (b) (3) classes, whose members may opt-out, has at least some practical justification.
Most (b) (1) and (b) (2) classes are suing for relief which cannot be readily limitated to only
some class members. […] Rule 23 (b) (3) class suits […] are generally brought to recover mo-
430 CAPITOLO SESTO

5.1.3. Ipotesi intermedie e tecniche di semplificazione


Detto questo in via esemplificativa, va ora aggiunto che la distin-
zione logico-formale in esame (accertamento di un unico effetto o accer-
tamento di più effetti tendenzialmente similari), va confrontata con una

ney damages, relief which may be awarded in a manner which distinguishes among indivi-
duals class members, and which therefore may be shaped to respect the rights of individuals
who have excluded themselves fron lawsuit»: così, Note, Developments in the Law – Class ac-
tions, 89 Harvard L.R. 1318, 1487 (1976). Va peraltro detto che l’istituto dell’out-put è tra i
più controversi nel dibattito sulle class actions statunitensi, specie in ordine agli effetti dan-
nosi che può produrre su un eventuale esito conciliativo della controversia. La mancata pos-
sibilità di chiuderla una volta per tutte riguardo a tutta la classe dei possibili danneggiati
opera sovente un’efficacia disincentivante alla conciliazione. La questione, pur estremamente
interessante, specie se posta sullo sfondo del possibile conflitto tra garantismo individuale e
garantismo collettivo, ha dato luogo ad un ampio dibattito: sul punto, v. ad es. FRIEDMAN,
M.W., Constrained Individualism in Group Litigation: Requiring Class Members to Make a
Good Cause Showing Before Opting Out of a Federal Class Action, 100 Yale L.J. 745 (1990);
BONE, R.G., Rethinking the «Day in Court» Ideal and Nonparty Preclusion, 67 N.Y.U.L. Rev.
193 (1992); MORABITO, V., Class Actions: The Right to Opt Out, 19 Melbourne U.L. Review
615, pt. IV (1994); ISSACHAROFF, S., Preclusion, Due Process, and the Right to Opt Out of Class
Action, 77 Notre Dame L.Rev. 1057 (2002); ROSEMBERG, D., Mandatory-litigation Class Ac-
tions: The Only Option for Mass Tort Cases, 115 Harvard L.R. 831 (2002); NAGAREDA, R.A.,
Autonomy, Peace, and Put Options in The Mass Tort Class Action, 115 Harv. L.Rev. 747
(2002); ID., The Preexistence Principle and Structure on the Class Action, 103 Colum L.Rew.,
149 (2003). Se peraltro si volge lo sguardo ad altri ordinamenti di common law che preve-
dono procedure di class actions, si può notare come il diritto di opting-out trovi frequente-
mente un suo riconoscimento generalizzato, ovvero non legato a talune tipologie di contro-
versie, sebbene sia talora riconosciuto al giudice il potere di esonerare la parte rappresenta-
tiva del dovere di informare gli altri membri della classe dell’inizio della controversia
collettiva e del loro diritto di opt-out. Nella Part IV-A (Representative Proceedings) del Fede-
ral Court of Australia Act (1976) [d’ora in poi FCA (Australia)], ad esempio, è previsto alla
section 33J (Right of group member to out put) che «the Court must fix a date before which a
group member may opt out of the representative proceeding», ma – ciò va rimarcato – stando
alla s. 33X (2), relativo alla procedura di notice, il giudice può impedire la notice, se il rime-
dio richiesto non ha natura risarcitoria. Similmente nel Supreme Court Act (1986) dello Stato
della Victoria. Nel Class Proceeding Act, S.O. 1992, Chapter 6, dell’Ontario [d’ora in poi CPA
(Ontario)], come risulta dalla s. 9, «any member of a class involved in a class proceeding may
opt out of the proceeding in the manner and within the time specified in the certification
order»; ma anche qui – v. s. 17 (2) e (3) – ampi poteri sono riconosciuti al giudice circa la pos-
sibilità di esonerare il rappresentate dalla notice tra l’altro in relazione alla natura del provve-
dimento richiesto. Nel Class Proceedings Act (1996) della British Columbia [d’ora in poi CPA
(British Columbia)], è ugualmente previsto rispettivamente alla s. 16 (1) e alla s. 19 (3) (f).
Nel Code de procedure civil, R.S.Q. 1977, del Quebec [d’ora in poi CPC (Quebec)], all’art.
1006, è previsto che «l’avis aux membres indique: […] (e) le droit d’un membre de s’exclure
de groupe, les formalités à suivre et le délai pour s’exclure» e non è prevista la possibilità per
il giudice di esonerare l’attore dalla notice. Sul punto, v. JONES, C., Theory of Class Actions,
cit., p. 126.
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 431

disciplina legale che, a seconda di come è concepita, può ben dar luogo
a diverse ipotesi di commistione o modificazione delle due generali cate-
gorie schematicamente indicate.
Se ne possono dare alcuni rapidi esempi.
Il più scontato è sicuramente riconducibile alle ipotesi in cui azione
collettiva propria e azione collettiva impropria (stando alla terminologia
di cui abbiamo fatto sino ad ora uso) siano esercitabili congiuntamente.
È il caso in cui si richieda tanto l’inibitoria di comportamenti futuri,
quanto il risarcimento dei danni causati dalla già avvenuta violazione de-
gli obblighi legali imposti.
In questo caso il fenomeno si presenta in questi termini. Un certo
dovere sostanziale X, posto a tutela dell’interesse collettivo, viene violato.
Tale violazione non estingue l’obbligo di tenere quello stesso comporta-
mento nel futuro, ma contribuisce a costituire una serie di doveri risarci-
tori K, Y, Z, ecc. in ragione dei pregiudizi arrecati. Così l’ordinamento, a
seguito della violazione del dovere X, continua a valutare come doveroso
quel medesimo comportamento X, ma, oltre a ciò, prevede che il sog-
getto gravato sia anche tenuto all’osservanza degli obblighi di risarci-
mento anzidetti.
Se concepiamo un giudizio in cui sia possibile non solo ottenere l’or-
dine inibitorio di astenersi dal comportamento X, ma anche l’accerta-
mento dei diversi obblighi risarcitori K, Y, Z, allora avremo un giudizio
che presenta tanto la struttura di quello che potremmo definire collettivo
proprio che di quello improprio, con la conseguente necessità di preve-
dere tutte le accortezze processuali che da ciò derivano.
Oltre a questa prima esemplificazione se ne può fornire un’altra
estremamente interessante.
È il caso dei giudizi che si concludano con sentenze dichiarative che
abbiano ad oggetto solo (mere) questioni comuni a pur differenziate pre-
tese e i cui effetti siano in grado di coinvolgere più soggetti interessati al
giudizio.
In tali casi, la particolarità dell’oggetto dell’accertamento, accompa-
gnata dal regime degli effetti della sentenza, dà luogo ad un giudizio pro-
priamente collettivo anche (ma non necessariamente) in riferimento a fe-
nomeni che sul piano sostanziale non sarebbero descrivibili in termini di
interesse collettivo.
Si pensi ad un giudizio il cui accertamento sia limitato all’antigiuri-
dicità di una certa condotta, alla pericolosità di un certo prodotto, all’il-
legittimità di un certo atto, ecc.; tutte questioni che possono rappresen-
tare fatti costitutivi di distinte pretese risarcitorie (più o meno differen-
432 CAPITOLO SESTO

ziate), il cui accertamento può essere invocato in futuri e separati giudizi


individuali46.
Assistiamo, in queste ipotesi, ad un tipico esempio di tecnica di sem-
plificazione del giudizio collettivo: se sul piano sostanziale abbiamo di-
stinti effetti giuridici, la tecnica processuale impiegata è volta a ridurre ad
unum l’oggetto del giudizio ritagliando la o le questioni comuni che ap-
partengono alle diverse pretese47.
46 In dottrina si è parlato efficacemente di «giudizi di completamento» (cfr. MENCHINI,
S., Azioni seriali e tutela giurisdizionale: aspetti critici e prospettive ricostruttive, in www.judi-
cium.it.).
47 La semplificazione è scontata, infatti, qui non otteniamo l’accertamento dei distinti
effetti giuridici, ma solo di frazioni di fattispecie. Di contro, seguendo questa strada, l’effica-
cia della tutela apprestata è evidentemente minore rispetto a quella garantita da un giudizio
sull’intero fascio delle pretese similari; e ciò: a) in termini di efficienza, cioè di economia pro-
cessuale, visto che non è eclusa ma postulata la futura pendenza di giudizi individuali; b) in
termini di effettività della tutela, visto che i singoli dovranno appunto farsi carico dei costi e
dei rischi connessi alla necessaria istaurazione della futura causa, nella quale l’accertamento
collettivo vincola solo in parte qua; c) ed infine anche sul piano dell’effetto deterrente che è
incomparabilmente superiore in un giudizio collettivo volto alla liquidazione di tutto il danno
patito dalla collettività. Detto questo comunque, la portata semplificativa della tecnica pro-
cessuale adottata è indubbia. Non a caso si è affermato – cfr. JOLOWICZ, J.A., Representative
Actions, Class Action and Damages, A Compromise, 39 Cambridge L.J. 237, 239 (1980) – che
l’idea di concepire un’azione rappresentiva per il mero accertamento della risarcibilità del
danno prodotto ai membri della classe non presenta i corollari che al contrario concernono
l’azione rappresentiva volta alla condanna al risarcimento ed al contrario risolve alcuni dei
problemi che sorgono riguardo alla moltitudine di similari small claims, con particolare rife-
rimento ai punitive damages statunitensi, aprendosi al contrario la possibilità di decidere sin-
gole questioni di responsabilità senza condannare al pagamento di risarcimenti che nessuno
richiede. È questa ad esempio la strada indicata nel noto caso Prudential Assurance Co Ltd v.
Newman Industries Ltd, [1981] Ch 229, nel quale si è sostenuta la possibilità di ammettere la
representative suit sulla base di «a common ingredient in the case of action of each member
of the class». Questa più lata interpretazione del same interest richiesto dalle rules, apriva in-
fatti la possibilità di procedere in two steps, ovvero, prima, accertare la questione comune con
estensione degli effetti della sentenza alle parti rappresentate e, poi, completare la materia di
accertamento logico nei successivi giudizi. Sul caso, v. ANDREWS, N., English Civil Procedure,
cit., p. 991 ss.; MULHERON, R., The Class Action in Common Law Legal System, cit., p. 83 ss.
L’ultima A. citata, peraltro, osserva (p. 87) che la linea concettuale seguita in tale decisione
era già stata indicata dalla dissenting opinion di Burckey nel già citato caso Markt (cfr. retro,
nota 29), stando alla quale, in realtà «it is not accurate to say that they have a similar interest.
They have exactly the same interest althought it will result in the case of which of them in dif-
ferent measure of relief». In altri termini, come andiamo affermando nel testo, con l’eviden-
ziare la possibilità di concepire giudizi collettivi di tenore propriamente processuale, ad inte-
ressi pur semplicemente simili (se visti in relazione al loro oggetto apprezzabile sul piano so-
stanziale), può contrapporsi una concorrenza di interessi compatibili sul piano processuale.
Ovviamente va di volta in volta verificato con quale tecnica processuale gestire questo feno-
meno e se tale unica questione favorevole di rango processuale giustifica la conduzione di un
processo collettivo sulla stessa anziché la sua decisione separata nei singoli giudizi individuali.
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 433

Anche tale opzione semplificatoria può ovviamente dar luogo a re-


gimi processuali non sempre omogenei, ma comunque contraddistinti
dall’impiego di tale tecnica di tutela.
La già citata rule 23, ad esempio, prevede alla subdivision (c) (4),
non tanto e non solo la possibilità di ridefinire la classe sottoarticolan-
dola in due o più distinte classi, ma soprattutto la possibilità di prose-
guire il giudizio in forma collettiva solo riguardo a particolari questioni; e
tale ultima previsione trova applicazione frequente proprio in materia di
azioni collettive risarcitorie, nei casi in cui le questioni «personali» diffe-
renziate ostano al ricorrere delle condizioni previste per la trattazione e
per la risoluzione della controversia in via collettiva48.
Uguale riscontro si ottiene in numerose altre legislazioni che se-
guono il modello della class action ed in particolare in Australia ed in
Ontario; legislazioni in cui sono previsti ampi poteri giudiziali di gestione
e programmazione, che possono essere esercitati per contemperare l’uti-
lità consistente nell’accertamento uniforme delle questioni comuni e la
necessaria decisione separata delle questioni propriamente individuali e
differenziate49.

48 Ampio riscontro si trova in sede giurisprudenziale: Olden v. LaFarge Corp., 383 F.3d
495, 509 (6th Cir. 2004), che si riferisce alla possibilità di «bifurcate the issue of liability from
issue of damages, and if liability is found, the issue of damages can be decided by a special
master or by another method»; Carnegie v. Household Int’l. Inc., 376 F.3d 656, 661 (7th Cir.
2004), per la quale, «rule 23 allows discrict courts to devise imaginative solutions to problems
created by the presence in a class action litigation of individual damages issues»; In re Visa
Check/Mastermoney Antitrust Litigation, 280 F.3d 124, 139-140 (2th Cir. 2001): «common is-
sues may predominate when liability can be determined on class-wide basis, even when there
are some individualized damage issues»; Valentino v. Carter-Wallace, Inc., 97 F3d 1227, 1234
(9th Circ. 1996): «even if common questions do not predominate over individual questions so
that class certification of entire action is warrented, Rule 23 authorizes the district court in
appropriate cases to isolate the common issues under Rule 23 (c) (4) (A) and proceed with
class treatment of the particular issues». Ovviamente la possibilità di isolare le questioni co-
muni rispetto a quelle individuali esclusive conduce ad un possibile conflitto con la regola
della «predominance», che è prevista dalla rule 23 (b) (3): su tali tensioni sistematiche, v.
MULHERON, R., The Class Action in Common Law Legal System, cit., p. 262-263.
49 V. ad es. le ss. 33Q, 33R e 33S del FCA (Australia), stando ai quali, se la decisione

delle questioni comuni non è idonea a definire tutte le controversie individuali, il giudice
può: a) stabilire delle sotto-classi; b) autorizzare che un membro della classe intervenga a ti-
tolo individuale per la decisione della singola questione che gli appartiene; c) dare direttive ri-
guardo l’inizio e lo svolgimento di separati giudizi individuali; d) se le questioni da accertare
apparengono ad un gruppo separato, dare direttive riguardo l’inizio e lo svolgimento di un
giudizio collettivo su dette questioni. Il CPA (Ontario) prevede alla s. 6 che l’azione collettiva
non trovi ostacolo nella presenza di questioni individuali accanto a quelle comuni, alla s. 8 (2)
prevede la sotto-articolazione delle classi. Nelle sections 11 e 12, poi, è previsto che il giudice
434 CAPITOLO SESTO

Nelle Civil Procedure Rules inglesi, a fronte della stessa esigenza «pra-
tica», la risposta del legislatore è stata la seguente: in coerenza con l’incre-
mento dei poteri di management giudiziale50, il giudice – su istanza di par-
te o anche d’ufficio51 – può emettere un group litigation order (GLO)52

articoli gli stages della procedura definendo le questioni comuni a tutta la classe, quelle pro-
prie delle sotto-classi ed infine le questioni individuali che richiedono una partecipazione dei
singoli al giudizio o, alternativamente, la separazione del giudizio collettivo da quelli indivi-
duali. Ulteriori disposizioni si ritrovano in materia di monetary relief e concernono, da un
lato, la ripartizione della somma liquidata in via collettiva tra i diversi membri della classe al-
lorché detta liquidazione possa avvenire in forma aggregata (v. la section 24) e, dall’altro, l’al-
ternativa necessità di determinare previamente singole questioni a carattere individuale con la
partecipazione dei membri della classe al giudizio (s. 25). Simile è la disciplina prevista dalla
legge della British Columbia, altra provincia canadese. Per approfondimenti, v. MULHERON,
R., The Class Action in Common Law Legal System, cit., in particolare p. 167 ss. sulla mancata
necessità che la decisione sulle questioni comuni sia idonea a determinare la responsabilità
del convenuto, p. 184 ss. sull’impiego delle sotto-classi, p. 196 ss. sui rapporti tra questioni
comuni e individuali, 407 ss. sui rapporti tra liquidazione collettiva dei danni e riparti-
zione/liquidazione individuale. Con particolare riferimento all’esperienza canadese, v. anche
JONES, C., Theory of Class Actions, cit. Anche nel recente Group Proceeding Act svedese [d’ora
in poi GPA (Svezia)], entrato in vigore il 1° gennaio del 2003, alla section 20 è prevista la pos-
sibilità di determinare sotto-classi riguardo a questioni particolari.
50 Nelle Group Litigations spetta al giudice amplia discrezionalità nelle determinazione

delle questioni comuni rispetto a quelle differenziate nonché, più in generale, su tutta la con-
troversia così avviata, che, non a caso, è trattata nelle forme del multi-track, ovvero con il per-
corso processuale più complesso e a minor tasso di predeterminazione legale della procedura.
Si è detto infatti: «The earlier the court exercises control in a potential multi-party action the
better chance of managing the case to a satisfactory resolution» (LORD WOOLF, Access to Ju-
stice, Final Repor to the Lord Chancellor on Civil Justice System in England and Wales, Lon-
don, 1995, cap. XVII, reperibile sul sito internet www.dca.gov.uk). Sui rapporti tra predeter-
minazione legale e discrezionalità giudiziale sia concesso il rinvio al nostro La fase preliminare
del nuovo processo civile inglese e l’attività di case management giudiziale, in Davanti al giu-
dice, Studi sul processo societario, a cura di L. Lanfranchi e A. Carratta, Torino, 2005, p. 515 ss.
51 PD 19b (4).
52 CPR 19.11 (Group Litigation Order). Sul punto, v. in particolare HODGE, C., Multi-

party Actions, cit., p. 29 ss. Cfr. anche MULHERON, R., The Class Action in Common Law Le-
gal System, cit., p. 97 ss.; ANDREWS, N., Multy-party proceedings in England: representative and
group actions, cit., p. 258 ss.; ID., English Civil Procedure, cit., p. 974 ss., che appunto rileva
come la tecnica processuale accolta dalle CPR in materia di Group Actions rappresenti il con-
cretamento – in materia di giudizio collettivo – delle direttive assiologiche indicate dall’Over-
riding Objective. Per un raffronto tra la soluzione inglese e quella similare del c.d. «processo
modello» fatta propria dal legislatore tedesco, v. CONSOLO, C. - RIZZARDO, D., Due modi di
mettere le azioni collettive alla prova: Inghilterra e Germania, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2006,
p. 891 ss.; IURILLI, C., Taluni aspetti della legge italiana sul risparmio: il conflitto di interesse.
La mancata attuazione della «class action» e la nuova legge tedesca sull’azione di classe in ma-
teria di risparmio: «Gesetz zur einführung von kapitalanlegermusterverfahren» del 16 agosto
2005 (seconda parte), in Studium iuris, 2006, p. 983 ss.; CAPONI, R., Modelli europei di tutela
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 435

grazie al quale è avviato un giudizio collettivo limitato a questioni di fatto


e di diritto comuni a più controversie (GLO issues)53.
Su un piano generale, anche qui, ciò che colpisce è l’elasticità della
procedura, che, coerentemente all’impianto del codice, viene realizzata,
da un lato, ampliando i poteri giudiziali di direzione del processo – i
quali, in queste specifiche controversie collettive, sono ulteriormente in-
crementati rispetto alle controversie individuali – e, dall’altro, con la cor-
relativa previsione di regole e principi che orientano il giudice nel mana-
gement della controversia54.
Su un piano più specifico, invece, è interessante notare l’espediente
tecnico di cui si è fatto impiego, specie in ordine alla perimetrazione de-
gli effetti della sentenza, ovvero il group register55. Qui, semplificando,
vengono iscritte: innanzitutto le domande di chi ha richiesto il GLO; in
secondo luogo – se il giudice si orienta in tal senso in sede di group liti-
gation order – anche le parti tra cui intercorrono controversie – già pen-
denti o che potranno sorgere – aventi ad oggetto le questioni comuni già
determinate; ed in terzo luogo le parti che ritengano comunque di «in-
tervenire» nel processo collettivo così avviato56.

collettiva nel processo civile: esperienze tedesca e italiana a confronto, in Riv. trim. dir. proc. civ.,
2007, p. 1229 ss.
53 La CPR 19.10 (Definition) prevede: «A Group Litigation Order (‘GLO’) means an

order under rule 19.11 to provide for the case management of claims which give rise to com-
mon or related issues of fact or law (the ‘GLO issues’)».
54 Peraltro, diversi argomenti critici sono stati rivolti alla disciplina, specie in ordine alla

sua lacunosità complessiva. Va segnalata in particolare la critica tesa ad evidenziare la man-


canza di regole precise sulla determinazione delle questioni comuni e soprattutto sulla neces-
saria predominanza di quelle comuni su quelle differenziate ai fini dello svolgimento del giu-
dizio in forma collettiva. Sul punto, v. MILDRED, M., Group Action, in The Law of Product Lia-
bility, London, 2001, p. 375 ss., spec. 463. Più in generale, v. MULHERON, R., The Class Action
in Common Law Legal System, cit., p. 94 ss., che, all’interno di un’ampia indicazione dei mo-
tivi di perplessità che la disciplina solleva, evidenzia proprio la genericità della formula «rela-
ted issues» riportata dalla rule 19.10.
55 CPR 19.11 (2) (a); PD 19b § 6. Osserva HODGE, C., Multi-party Actions, cit., p. 52,

che il group register rappresenta un efficiente strumento nella determinazione del gruppo, per
verificare chi fa parte o no di esso, chi è entrato o ha abbandonato la controversia collettiva
e in quale momento l’ha fatto. Ciò non solo in ordine agli effetti della sentenza, ma anche con
riferimento alla ripartizione delle spese processuali.
56 CPR 19.11 (3) stando al quale «A GLO may: (a) in relation to claims which raise one

or more of the GLO issue: (i) direct their transfer to the management court; (ii) order their
stay until further order; and (iii) direct their entry on the group register; (b) direct that from
a specified date claims which raise one or more of the GLO issuees should be started in the
management court and entered on the group register; and (c) give directions for publicising
the GLO». Cfr., più nello specifico, PD 19b §§ 9.1-9.2 e 10. In generale, su tali questioni, v.
436 CAPITOLO SESTO

Il risultato processuale finale è, quindi, la vincolatività della sentenza


emessa al termine del giudizio rispetto a tutte le controversie presenti nel
group register al momento della decisione, con la previsione, peraltro, che
le parti pregiudicate dalla sentenza possano richiedere al giudice l’auto-
rizzazione all’appello della sentenza57.
In conclusione – e semplificando – in giudizi di tal fatta viene a rea-
lizzarsi un processo collettivo su questioni e, se sul piano sostanziale il
fenomeno complessivamente considerato può essere quello poc’anzi
schematizzato sub (B) (rappresentato, cioè, da diversi comportamenti do-
verosi a contenuto risarcitorio), lo schema relazionale «soggetto↔situa-
zione favorevole», che si delinea sul piano processuale (ossia in ragione
dell’oggetto dell’accertamento nonché dell’efficacia della sentenza) ri-
calca quello riportato sub (A), ovvero, più precisamente:
(C) Tizio↔
Caio↔
Sempronio ↔
} accertamento questione comune

Abbiamo, insomma, anche in questo caso, un giudizio assimilabile a


quello tipicamente collettivo, poiché la sentenza con la quale si ottiene
l’accertamento della questione comune – in virtù del suo oggetto e della
sua efficacia – rappresenta una situazione potenzialmente favorevole per
tutti coloro che possano giovarsene nei giudizi individuali successivi.
La particolarità di questa ipotesi, quindi, sta nel fatto che, mentre il
giudizio collettivo inibitorio è tale – cioè collettivo – anche in assenza di
fenomeni di estensione ultra partes degli effetti della sentenza, in quanto
di per sé è idoneo – ovviamente in caso di accoglimento della domanda
– a soddisfare tutti gli interessati, nel giudizio ora indicato la situazione
favorevole a cui «puntano» i diversi interessi ha carattere tipicamente

HODGE, C., Multi-party Actions, cit., p. 41. È interessante notare che la disciplina processuale
in esame, alla luce delle diverse alternative procedurali a cui può dar luogo, da un lato, non
può essere assimilato ad un regime di estensione ultra partes degli effetti della sentenza, e ciò
perché questa vincola solo le cause iscritte nel register, ma, dall’altro, non va dimenticato che
il giudice può ordinare l’iscrizione delle cause già sorte o che eventualmente sorgeranno al-
lorché queste presentino le questioni comuni già determinate in sede di GLO. Nemmeno, du-
que, possiamo ragionare in termini di relatività del giudicato, perché in effetti l’iscrizione non
è detto sia rimessa alla libera scelta delle parti. Di contro, se il giudice non provvede in tal
senso, starà a coloro che sono coinvolti in liti contrassegnate dalla presenza della questione
comune decidere se iscrivere o no la controversia nel register e comunque, come clausola di
chiusura, è sempre ammessa la possibilità di chiedere la cancellazione dal register.
57 CPR 19.12 (Effect of the GLO).
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 437

processuale e la sua idoneità a porsi come situazione favorevole per i sog-


getti rimasti terzi al giudizio dipende esclusivamente dal loro potersene
avvantaggiare nei successivi giudizi individuali. Potremmo dire – per in-
tendersi – che l’interesse collettivo qui tutelato non ha natura sostanziale;
nel senso che la situazione favorevole non si realizza sul piano dei rap-
porti materiali dei soggetti coinvolti. Ha, al contrario, natura processuale,
ovvero si realizza – tale situazione – in ambito propriamente processuale,
ponendosi in termini strumentali rispetto agli interessi finali esclusivi –
questi sì sostanziali – di ciascun danneggiato.
In altri termini, per questa via, la limitazione dell’oggetto del giudi-
zio ad una mera questione comune, riesce a creare «artificialmente», cioè
con un espediente di tecnica processuale, un giudizio assimilabile a
quello propriamente collettivo58; e ciò in virtù del fatto che l’accerta-
mento dei singoli doveri risarcitori, che necessita a sua volta anche del
sindacato sull’esistenza delle altre questioni «differenziate» (nesso eziolo-
gico, entità del pregiudizio singolarmente patito, ecc.), è rinviato ad altri
futuri ed eventuali giudizi individuali. Va peraltro detto che questa tec-
nica processuale, se, da un lato, garantisce una maggior facilità di ge-
stione del processo collettivo ed un più accurato accertamento delle que-
stioni «differenziate», dall’altro, porta con sé tanto una minore efficacia
del rimedio collettivo (visto che la prova delle ulteriori questioni contro-
verse ricade sui singoli danneggiati), quanto una drastica diminuzione
della portata deterrente che generalmente viene riconosciuta all’azione
collettiva risarcitoria59.

5.2. Il problema dell’oggetto dell’accertamento nei giudizi collettivi inibi-


tori previsti dal nostro ordinamento
5.2.1. Considerazioni introduttive
Con le considerazioni svolte nel paragrafo appena concluso ab-
biamo ottenuto ulteriori elementi per poter affrontare la questione dei li-
miti soggettivi del giudicato su solide basi; senza le quali, d’altra parte,
sarebbe risultato improbabile, come dimostra l’univoco indirizzo di me-

58 Si ricorda che un giudizio di tal fatta era stato già adombrato nell’intervento di Mor-
tara seguito alla lettura della sua relazione Sui collegi dei probiviri per le industrie nella seduta
del 28 giugno 1902 della Commissione per la statistica giudiziaria e notarile (cfr. Annali di sta-
tistica, Atti della Commissione per la statistica giudiziaria e notarile, sessione del giugno 1902,
Roma, 1903, p. 26-27); sul punto, cfr. retro, cap. I, nota 83.
59 Cfr. retro, nota 47.
438 CAPITOLO SESTO

todo che ci perviene dal panorama comparatistico, svolgere considera-


zioni adeguate e puntuali60.
Da quanto osservato deriva, dunque, che gli schemi con il quale l’in-
terprete deve confrontarsi sono sostanzialmente tre:
a) un primo schema, quello già esposto sub (A), che corrisponde ti-
picamente all’azione collettiva inibitoria;
b) un secondo, quello già esposto sub (B), a cui possono essere ri-
condotti i giudizi collettivi volti all’accertamento di più pretese risarcito-
rie;
c) un terzo, quello esposto sub (C), che corrisponde all’azione col-
lettiva su questioni comuni.
Posta questa griglia concettuale di base, va subito detto che nel no-
stro ordinamento, in cui come visto il legislatore si è costantemente di-
sinteressato di disciplinare un processo strutturalmente adeguato per la
risoluzione di questa particolare tipologia di controversie, dei tre schemi
ora indicati solo quello indicato sub (A) ha trovato sicuro accoglimento.
Per ciò che riguarda invece lo schema sub (C) ed in particolare
quello sub (B), ragionando ovviamente in termini de iure condito, lo spa-
zio applicativo è estremamente ridotto. Un’eccezione è ora costituita dal
nuovo giudizio collettivo ex art. 140 bis c. cons., nonché dai giudizi anti-
discriminatori, nei quali ultimi, come vedremo, le più recenti riforme
sembrano attribuire all’ente esponenziale anche la possibilità di condan-
nare l’autore delle discriminazioni al risarcimento del danno inferto ai
soggetti discriminati. Peraltro – nemmeno a dirlo – questa previsione –
che di regola è fonte, come appena visto, della massima ed imprevedibile
complessificazione del giudizio in ragione della differenziazione degli ef-
fetti cumulativamente dedotti – nulla dice su come si debba comportare
il giudice che si vede avanzare tale richiesta61.
Su quest’ultimo punto, comunque, torneremo a tempo debito, ora
invece, occorre prestare attenzione ai profili strutturali dei giudizi collet-
tivi inibitori, e ciò poiché anch’essi, se inquadrati in una certa prospet-
tiva, possono assumere le forme di un giudizio riconducibile tanto allo
schema addietro indicato sub (A), quanto allo schema indicato sub (C).
60 Sebbene nella letteratura straniera il diverso rilievo che assume la problematica dei li-
miti soggettivi del giudicato a seconda del tipo di controversia collettiva appare una questione
stabilmente acquisita alla riflessione scientifica, nel nostro Paese, al contrario, per quanto
consta, la problematica relativa alla determinazione del regime dei limiti soggettivi del giudi-
cato in materia di azioni collettive opera sovente all’interno di un contesto generico. Certo è,
comunque, che la distinzione tra diversi giudizi collettivi non rappresenta un patrimonio co-
mune e condiviso su cui confrontarsi con chiarezza.
61 Su cui cfr. infra, cap. VIII, § 3.3.5.3.
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 439

5.2.2. L’oggetto dell’accertamento nei giudizi inibitori: l’obbligo di asten-


sione
A tal proposito, occorre in primo luogo far chiarezza sui tratti feno-
menologici essenziali che possiamo rilevare nel giudizio inibitorio, la cui
«natura»62 – peraltro – è notoriamente controversa63. Semplificando è
possibile individuare tre fondamentali orientamenti: una prima ricostru-
zione volta a ricondurlo al mero accertamento64, una seconda ricostru-
zione viceversa propensa a vedere in esso una tutela di condanna65 ed

62 Il termine «natura» è virgolettato proprio a rimarcare la nostra avversione metodolo-


gica per il linguaggio entificante che troppo spesso affligge la riflessione giuridica. Il suddetto
termine è assunto, quindi, per indicare i tratti normativi costanti di un instituto. Quanto
detto, da un lato, è estremamente scontato, ma, dall’altro, non lo è mai troppo, visto che il
farsi prendere la mano è veramente facile per chi si metta a speculare su un concetto e for-
giandolo lentamente lo veda materializzarsi innanzi nei suoi attributi e nei suoi caratteri. Par-
liamo insomma di «natura» per indicare il micro-sistema di regole, che costituisce un istituto
giuridico, caratterizzandolo in via normativamente tipica, e che consente di procedere al com-
pletamento delle disposizioni di legge che magari talora si ritrovano in una veste incompleta
o contraddittoria, la quale può essere rammendata alla luce di quel micro-sistema, proprio
come se si procedesse ad integrare le parti mancanti di detta veste alla luce della tipica e nota
trama che tale veste deve avere per essere ricondotta al genus.
63 Sul tema, oltre agli AA. citati nelle note che seguono, per un’ampia panoramica, v. di

recente CARNEVALE, V., Appunti sulla natura giuridica della tutela inibitoria, in Riv. dir. proc.,
2007, p. 63 ss.
64 Cfr. ad es. ATTARDI, A., L’interesse ad agire, Padova, 1958, p. 99 ss.; ID., Diritto pro-

cessuale civile, Padova, 1999, p. 107 s., che esclude risolutamente che il processo di condanna
possa aver ad oggetto obblighi sostanziali di natura infungibile, quali ad esempio gli obblighi
di mera astensione; e ciò affermando – di conseguenza – che anche le disposizioni di legge
nelle quali – anche implicitamente – si parla di condanna debbono essere ricondotte alla tu-
tela di mero accertamento. Nello stesso senso, v. SPOLIDORO, M.S., Le misure di prevenzione
nel diritto industriale, Milano, 1982, p. 48 ss. e spec. p. 80 ss. La tutela inibitoria è ricondotta
alla tutela di mero accertamento anche da RAPISARDA, C., Profili della tutela civile inibitoria,
Padova, 1987, p. 238 ss., ma in una cornice teorica ben diversa dall’ultima richiamata. Difatti,
se Attardi giunge a tale ricostruzione in virtù di una rigorosa applicazione del principio di
correlazione necessaria tra condanna ed eseguibilità forzata dell’obbligo, Rapisarda, che al
contrario si oppone alla vigenza di tale principio (p. 216 ss.), muove dalla premessa secondo
cui non è dato distinguere da un punto di vista interno al processo tra tutela di mero accer-
tamento e tutela di condanna, in quanto in entrambe la tutela giurisdizionale «si risolve nella
dichiarazione dell’effetto giuridico che la legge riconduce al verificarsi degli elementi produt-
tivi di una determinata fattispecie» (p. 226 ss.).
65 In questo senso, v. in particolare lo studio di PROTO PISANI, A., Appunti sulla tutela

di condanna, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1978, p. 1104 ss., ora in Le tutele giurisdizionali dei
diritti, Napoli, 2003, p. 75 ss. (raccolta nella quale si ritrovano i successivi scritti dell’A. sul
tema, ma cfr. anche ID., Sentenza di condanna, in Dig. disc. priv., sez. civ., 1998, XVIII, To-
rino, p. 295 ss., ID., Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2006, p. 145 ss.) nel quale
ampi argomenti sono avanzati a superamento del principio della correlazione necessaria tra
440 CAPITOLO SESTO

una terza opzione al contrario proclive ad evidenziarne il carattere lato


sensu costitutivo66; carattere, quest’ultimo, di recente accentuato sino al-
l’attribuzione alla sentenza inibitoria – proprio in materia di azioni a tu-
tela di interessi collettivi – di una particolare efficacia normativa67.
Ai fini della nostra indagine, peraltro, alla luce delle previsioni legali
specifiche che ritroviamo in materia di protezione giurisdizionale degli
interessi collettivi, il problema qualificatorio ora indicato risulta – di per

condanna ed esecuzione forzata, su cui v. invece MANDRIOLI, C., Sulla correlazione necessaria
tra condanna ed eseguibilità forzata, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1976, p. 1342 ss. e di recente
ID., Diritto processuale civile, I, Torino, 2006, p. 68, nota 37. Riconduce l’inibitoria alla tutela
di condanna anche CHIARLONI, S., Misure coercitive e tutela dei diritti, Milano, 1980, spec. p.
200 ss., ma solo nei casi in cui la legge sorregga l’ordine inibitorio con l’applicazione di mi-
sure coercitive in caso di sua inosservanza e ciò alla luce del principio secondo cui la sentenza
di condanna trova la sua collocazione sistemativa proprio in ragione dell’esistenza di un ap-
parato sanzionatorio idoneo a garantire l’osservanza del dovere accertato in sentenza. Per al-
tre ricostruzioni non favorevoli all’esistenza del principio di correlazione necessaria poc’anzi
menzionato, v. TARUFFO, M., Note sul diritto alla condanna e all’esecuzione, in Riv. crit. dir.
priv., 1986, p. 635 ss., spec. p. 640 e 646 s., che riguardo al principio della correlazione af-
ferma risolutamente che «la tesi in esame può essere formulata solo a condizione di ignorare
la dimensione costituzionale del problema della tutela dei diritti»; RAPISARDA, C. - TARUFFO,
M., Inibitoria (azione): I) Diritto processuale civile, in Enc. giur. Trec., XVII, 1989, Roma, p.
12; FRIGNANI, A., Azione in cessazione, in Noviss. Dig. it., Appendice, I, Torino, 1980, p. 639
ss., spec. p. 667; ID., L’injunction nella common law e l’inibitoria nel diritto italiano, Milano,
1974, p. 459, spec. p. 475; ID., Inibitoria (azione), in Enc. dir., XXI, Milano, 1971, p. 559 ss.;
A., quest’ultimo richiamato, il quale, peraltro, si muove in una cornice ricostruttiva che al-
l’interno della tutela inibitoria fa rientrare anche i provvedimenti di rimozione a contenuto
positivo che conseguono all’illecito, sicché la riconduzione del rimedio alla tutela di con-
danna assume una configurazione particolare rispetto alle tesi, che, al contrario, si riferiscono
all’inibitoria – a nostro giudizio correttamente – con esclusivo riguardo agli obblighi a conte-
nuto negativo.
66 Cfr. MONTESANO, L., Condanna civile e tutela esecutiva, Napoli, 1965, spec. p. 194;

ID., Condanna: I) Diritto processuale civile, in Enc. giur. Trec., VII, Roma, 1988, p. 13 s.; ID.,
Tutela giurisdizionale dei diritti dei consumatori e dei concessionari di servizi di pubblica utilità
nelle normative sulle clausole abusive e sulle autorità di regolazione, in Riv. dir. proc., 1997, p.
1 ss.; ma soprattutto ID., La tutela giurisdizionale dei diritti, Torino, 1997, p. 200 ss., 222 ss.;
ID., Problemi attuali su limiti e contenuti (anche non patrimoniali) delle inibitorie, normali e
urgenti, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1995, p. 775 ss.; ID., Attuazione delle sanzioni e delle cau-
tele contro gli obbligati a fare e non fare (diritto vigente e riforme opportune), in Tecniche di at-
tuazione dei provvedimenti del giudice, Milano, 2001, p. 9 ss.; LIBERTINI, M., La tutela civile
inibitoria, in Jus, 1988, p. 42 ss., nonché in Processo e tecniche di attuazione dei diritti, a cura
di S. Mazzamuto, I, Napoli, 1989, p. 314 ss., spec. p. 320 ss.; PIETROBON, V., Illecito e fatto il-
lecito, inibitoria e risarcimento, Padova, 1998, p. 144 ss.
67 È l’opinione di MARINUCCI, E., Gli effetti della sentenza inibitoria prevista dall’art.

1469 sexies c.c., in Riv. dir. proc., 2002, p. 216 ss.; ID., Azioni collettive e azioni inibitorie da
parte delle associazioni dei consumatori, in Riv. dir. proc., 2005, p. 125 ss., sulla quale avremo
occasione di intrattenerci infra, cap. X, § 3.2.3.6.
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 441

sé – privato in gran parte di rilievo, essendo quest’ultimo strettamente le-


gato al possibile riconoscimento della natura atipica del rimedio inibito-
rio; e stesso discorso vale per le misure coercitive che lo supportano, an-
ch’esse previste e disciplinate dal legislatore nei vari procedimenti speci-
ficamente apprestati.
Al contrario, ciò che sin d’ora impone una riflessione preliminare è
il delicato tema dell’oggetto del giudizio inibitorio; questione come ovvio
essenziale in relazione ai successivi svolgimenti concernenti la problema-
tica – strettamente dipendente – dei limiti soggettivi da attribuire all’effi-
cacia della sentenza che chiude il processo collettivo. Ed in questa pro-
spettiva occorre verificare in primo luogo se tale provvedimento debba in
effetti essere ricondotto al genus della tutela propriamente costitutiva68;

68 Come noto la contrapposizione qualificatoria accennata nel testo tra tesi favorevoli a
ricondurre il rimedio inibitorio alla tutela di condanna e tesi viceversa inclini a ricondurla alla
tutela di mero accertamento è andata radicalizzandosi a seguito degli anni Settanta come ma-
nifestazione tipica – sul piano dei rimedi – della progressiva depatrimonializzazione del di-
ritto privato a cui più volte abbiamo fatto cenno in ragione della profonda influenza che que-
sto generale fenomeno ha avuto anche sul nostro tema di studio. Ugualmente noto è – più in
particolare – il principale motivo di divisione attorno al quale si è coagulato il dibattito, ov-
vero la sussistenza o meno, all’interno del nostro ordinamento, di un principio di correlazione
necessaria tra sentenza di condanna ed esecuzione forzata. Ciò comunque – venendo alla que-
stione che più ci sta a cuore – non sembra aver toccato il contenuto dell’accertamento, che,
per ambo due gli orientamenti, viene comunque ad essere costitutito (quantomeno) dall’ef-
fetto giuridico dedotto in giudizio, ovvero, nel nostro caso, dall’obbligo di astensione dai
comportamenti dichiarati illegittimi. Per questa via, dunque, la corretta qualificazione della
sentenza inibitoria, secondo l’alternativa ora accennata, da un lato, appare irrilevante in or-
dine alla determinazione dell’oggetto del giudizio, dall’altro, rinvia alla determinazione del li-
mite superato il quale la tutela dichiarativa, da mero accertamento diviene di condanna. Sul
punto i diversi orientamenti dottrinali presenti a tal riguardo sono piuttosto noti. Posto da
parte l’orientamento di stampo imperativistico-volontaristico volto a rinvenire nel comando
del giudice impartito al soccombente o nell’ordine rivolto agli organi dell’esecuzione il fon-
damento della efficacia costitutiva propria della sentenza di condanna (cfr., nel primo senso,
ad es. DE PALO, M., Teoria del titolo esecutivo, I, Napoli, 1901, p. 115 ss.; ROCCO, Alf., La sen-
tenza civile, Torino, 1906, p. 156 ss.; nel secondo, v. FURNO, C., Condanna e titolo esecutivo,
in Riv. it. sc. giur., 1937, p. 97 ss.), un primo gruppo di posizioni rinviene il discrimen tra sen-
tenza di mero accertamento e sentenza di condanna facendo in sostanza perno sull’efficacia
costitutiva che quest’ultima possiede in ordine all’attribuzione all’attore vittorioso dell’azione
esecutiva (cfr. in particolare LIEBMAN, E.T., La sentenza come titolo esecutivo, in Riv. dir. proc.,
1929, I, p. 117 ss., spec. p. 128 s., ma soprattutto in ID., Le opposizioni di merito nel processo
esecutivo, Roma, 1931, p. 101 ss. e p. 116 ss., secondo cui nella sentenza di condanna si rea-
lizza l’«applicazione» della sanzione, intesa come concretamento e determinazione di una vo-
lontà di legge sanzionatoria prima prevista dalla legge solo in via astratta; CALAMANDREI, P., La
condanna, in Studi sul processo civile, III, Padova, 1934, p. 179 ss., ora in Opere giuridiche, V,
Napoli, 1972, p. 483 ss., per il quale tale forma di tutela produrrebbe la conversione dell’ob-
bligo in soggezione, ovvero assoggettamento all’esecuzione forzata; MONTESANO, L., Con-
442 CAPITOLO SESTO

se così fosse, infatti, il problema si instraderebbe di certo per un percorso


assai più tortuoso ed anche il discorso sui limiti soggettivi del giudicato
che qui primariamente interessa, verrebbe ad essere gravato dalle note
difficoltà ed incertezze di sistemazione dogmatica che da sempre hanno
afflitto il tema della tutela costitutiva69.
danna civile e tutela esecutiva, cit., spec. p. 19 s., 25 ss.; ID., Condanna: I) Diritto processuale
civile, cit.; ID., La tutela giurisdizionale dei diritti, cit., p. 169 ss., secondo cui nella sentenza di
condanna il giudice costituisce ed accerta il diritto a procedere ad esecuzione forzata). A que-
sto orientamento, generalmente – e a parer nostro giustamente – oggetto di critica per aver
dato eccessiva enfatizzazione agli effetti conseguenti il quid da definire piuttosto che la sua es-
senza (in ragione della quale, appunto detti effetti si producono), si contrappongono le posi-
zioni che al contrario tendono a rinvenire proprio nell’oggetto dell’accertamento la ragione di
diversificazione classificatoria. Così, la dottrina tradizionale ha visto quale contenuto tipico
della sentenza di condanna l’accertamento del diritto-pretesa alla prestazione (cfr. CHIO-
VENDA, G., spec. in Istituzioni di diritto processuale civile, cit., p. 177; in una prospettiva af-
fine, successivamente, PROTO PISANI, A., Appunti sulla tutela di condanna, cit., p. 1104 ss., ora
in Le tutele giurisdizionali dei diritti, cit., p. 75 ss.), dell’obbligo assieme alla sua violazione
(CARNELUTTI, F., Diritto e processo nella teoria delle obbligazioni, in Studi di diritto processuale
civile in onore di Giuseppe Chiovenda, Padova, 1927, p. 221 ss., poi in Studi di diritto proces-
suale, II, Padova, 1928, p. 190 ss., e recentemente ripubblicato nel volume Diritto sostanziale
e processo, Milano, 2006, p. 203 ss., spec. p. 262 ss.; ID., Lezioni di diritto processuale civile,
II, Padova, 1930, p. 28 ss.; ID., Sistema del diritto processuale civile, I, Padova, 1936, p. 138
ss.; similmente INVREA, F., La sentenza di condanna, in Riv. dir. proc. civ., 1935, p. 30 ss.), del
diritto soggettivo insoddisfatto (GARBAGNATI, E., Azione ed interesse, in Jus, 1955, p. 316 ss.;
FRANCHI, G., Le denunce di nuova opera e di danno temuto, Padova, 1968, p. 26, ove si af-
ferma risolutivamente: «l’accertamento di un diritto di credito già sorto equivale alla con-
danna»; in senso implicito, LANFRANCHI, L., Note sull’interesse ad agire, in Riv. trim. dir. proc.
civ., 1972, p. 1098 ss. spec. p. 1139), o del rapporto relativo ad una sanzione bisognoso di ul-
teriore attuazione giurisdizionale (MANDRIOLI, C., L’azione esecutiva, Contributo alla teoria
unitaria dell’azione e del processo, Milano, 1955, spec. p. 309 ss.; ID., Sulla correlazione neces-
saria tra condanna ed eseguibilità forzata, cit., p. 1344; ID., Diritto processuale civile, cit., p. 67
ss.); concezione, quest’ultima indicata, che implicitamente rinvia – proprio in ragione della
sanzionabilità in via giurisdizionale – al principio di correlazione necessaria poc’anzi richia-
mato. Per parte nostra, come già accennato, più ci persuade questo secondo gruppo di tesi,
volte a concentrare l’attenzione sui profili contenutistici della sentenza e dell’accertamento in
essa contenuto ed particolare la posizione di Edoardo Garbagnati, specie nella sua rielabora-
zione e sviluppo operati successivamente da TAVORMINA, V., In tema di condanna, accerta-
mento ed efficacia esecutiva, in Riv. dir. civ., 1989, II, p. 21 ss. Per ulteriori approfondimenti
sulle diverse posizioni della dottrina tradizionale, v. in particolare l’attento e chiaro esame cri-
tico svolto da MANDRIOLI, C., L’azione esecutiva, cit., p. 277 ss. Successivamente, v. CHIARLONI,
S., Misure coercitive e tutela dei diritti, cit., spec. 133 ss.; più di recente, specie in riferimento
al quesito relativo all’esistenza del principio di correlazione necessaria nel nostro ordina-
mento processuale, v. CARNEVALE, V., Appunti sulla natura giuridica della tutela inibitoria, cit.,
p. 65 ss., cui adde, anche per ulteriori riferimenti, VULLO, E., Obbligazioni infungibili, misure
coercitive e superamento del principio di necessaria correlazione tra condanna ed esecuzione for-
zata, in Studium iuris, 2003, p. 305 ss.
69 Per i riferimenti, v. retro, cap. V, nota 172.
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 443

Occorre in altri termini verificare se l’obbligo di astensione da un


certo comportamento, che unanimemente si ritiene conseguire alle sen-
tenze inibitorie, venga ad essere costituito dalla pronuncia giudiziale,
cioè nasca con essa70, o se al contrario, pur con tutte le particolarità del
caso, anche nell’ipotesi in questione la sentenza si «limiti» ad accertare
un effetto giuridico già destinato ad incidere sulla sfera di libertà del sog-
getto onerato.
Impostato il problema in questi termini il discorso viene in gran
parte privato di ambiguità allorché si esamini la lettera di talune delle più
significative disposizioni in materia.
L’art. 28 dello Statuto dei lavoratori, ad esempio, prevede che il giu-
dice, a fronte dei comportamenti datorili «diretti ad impedire o limitare
l’esercizio della libertà sindacale nonché del diritto di sciopero […] qua-
lora ritenga sussistente la violazione […] ordina la cessazione del com-
portamento illegittimo e la rimozione degli effetti». L’art. 140 del codice

70 In questi termini, v. esattamente MONTESANO, L., Condanna: I) Diritto processuale ci-


vile, cit., p. 13 s., che afferma: «quando gli artt. 949 e 1079 c.c. dicono che il proprietario può
chiedere la cessazione degli impedimenti e delle turbative […] significano che dalle situazioni
in esame non nasce senz’altro l’obbligo (e non potrebbe nascere, perché sarebbe ad oggetto
indeterminato) del soggetto passivo di astenersi dai futuri impedimenti e turbative, ma il di-
ritto potestativo dello stesso proprietario a che il giudice – muovendo dalla concreta situa-
zione lesiva o minacciosa a lui denunciata – specifichi il generale “dovere di astensione”, che
accompagna, dal lato passivo, il diritto reale, in concreti obblighi di determinati comporta-
menti in specie omissivi». Cfr. anche, similmente, ID., Condanna civile e tutela esecutiva, cit.,
spec. p. 194, in cui, peraltro, la natura costitutiva della sentenza viene a riferirsi anche, se non
soprattutto, agli obblighi secondari derivati dalla violazione dell’obbligo primario di non fare.
Profilo di particolare rilevanza – quest’ultimo indicato – su cui avremo occasione di ritornare
infra, cap. VIII, § 4., e X, § 3.2.4.1., e che sembra accentuarsi nei successivi interventi in ma-
teria dell’illustre dottrina ora citata. Cfr. ID., Tutela giurisdizionale dei diritti dei consumatori
e dei concessionari di servizi di pubblica utilità nelle normative sulle clausole abusive e sulle au-
torità di regolazione, cit., p. 1 ss.; ma soprattutto ID., Problemi attuali su limiti e contenuti (an-
che non patrimoniali) delle inibitorie, normali e urgenti, cit., p. 775 ss., in cui si afferma che le
tutele inibitorie «non si limitano ad accertare, o, se si preferisce, a rinnovare un precedente
dictum sostanziale violato, contestato o incerto, ma gli aggiungono la costituzione e insieme la
determinazione di un nuovo vincolo sostanziale» (c.vo mio). La natura propriamente costitu-
tiva dell’azione inibitoria è rimarcata con vigore anche da LIBERTINI, M., La tutela civile inibi-
toria, cit., spec. p. 320 ss., che appunto ritiene che con essa il giudice fissi egli stesso il «re-
golamento di confini» tra gli opposti interessi delle parti, non accertando dunque una regola
preesistente di legge atta a fissare imperativamente tale punto di equilibrio, e da PIETROBON,
V., Illecito e fatto illecito, inibitoria e risarcimento, cit., p. 144 ss., che valuta l’ordine giudiziale
come effettivamente creativo di «una regola di condotta nuova» ed impositivo di «un dovere
di comportamento» che diviene «esigibile» solo dopo la mediazione del giudice. In questi ter-
mini sembra doversi intendere anche la posizione di DI MAJO, A., La tutela civile dei diritti,
Milano, 2001, p. 144.
444 CAPITOLO SESTO

del consumo, invece, autorizza il giudice ad «inibire gli atti e i compor-


tamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti» adottando
anche «le misure idonee a correggere o a eliminare gli effetti dannosi
delle violazioni accertate».
Dalla lettura di questi passi estrapolati dalle disposizioni ora indi-
cate in via meramente esemplificativa non pare dubbio che gli inequivoci
riferimenti alle «violazioni» ed ai «comportamenti illegittimi» debbano
indurre l’interprete ad orientarsi verso la natura dichiarativa di volontà di
legge preesistenti alla pronuncia giudiziale, senza quindi ricorrere a con-
troversi diritti potestativi a necessario esercizio giurisdizionale o ad altre
eventuali opzioni ricostruttive comunque utilizzabili in ordine all’inqua-
dramento della tutela costitutiva71.
Nell’art. 28 ciò traspare ancor più nettamente in virtù del rinvio ai
diritti sindacali ivi richiamati e disciplinati da altre norme dello Statuto72,
ma anche nell’art. 140, sebbene la direzione teleologico-funzionale della
portata precettiva sia ancor più accentuata, la tecnica di determinazione
della sfera dei comportamenti esclusi dal lecito rimane la medesima.
Non assistiamo, quindi, ad attività giurisdizionali che trascendono i
limiti della tutela dichiarativa a vantaggio di poteri determinativi, costitu-
tivi o propriamente normativi. Anche qui il decisum è volto all’accerta-
mento della concreta regola di comportamento che i soggetti coinvolti
dovranno seguire sino alle sopravvenienze idonee a modificarla73.
Come puntualmente indicato in dottrina, l’apparente innovatività
dell’intervento giudiziale è dovuta semplicemente alla natura dell’obbligo

71 Puntuale l’osservazione di SASSANI, B., Impugnativa dell’atto e disciplina del rapporto,


Contributo allo studio della tutela dichiarativa nel processo civile e amministrativo, Padova,
1989, spec. p. 219, in cui si osserva che l’impiego in questo ambito di tutele di un «diritto po-
testativo alla determinazione giudiziale» comporta – specie per il rinvio ulteriore ai concetti
di sentenza costitutivo-determinativa – una evitabile moltiplicazione dei concetti.
72 Sui rapporti tra l’art. 28 S.L. e le altre norme che attribuiscono diritti sindacali tipici,

specie in ordine alla querelle relativa alla natura sostanziale o meramente processuale della
norma in questione, v. infra, cap. VII, § 5.2.3.
73 In dottrina il punto ha ricevuto esauriente e convincente sviluppo da parte di SAS-

SANI, B., Impugnativa dell’atto e disciplina del rapporto, cit., spec. p. 215 ss.; e poi da CAPONI,
R., L’efficacia del giudicato civile nel tempo, Milano, 1991, p. 71 ss.; recentemente ripreso da
CARNEVALE, V., Appunti sulla natura giuridica della tutela inibitoria, cit., spec. p. 75. Cfr. an-
che DENTI, V., «Flashes» su accertamento e condanna, in Riv. dir. proc., 1985, p. 255 ss., ma
spec. p. 261-262; RAPISARDA, C., Profili della tutela civile inibitoria, cit., p. 238 ss.; PROTO PI-
SANI, A., Appunti sulla tutela cd. costitutiva (e sulle tecniche di produzione degli effetti sostan-
ziali), in Riv. dir. proc., 1991, p. 60 ss., ora in Le tutele giurisdizionali dei diritti, cit., p. 195 ss.,
spec. p. 222 ss.
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 445

imposto, il quale, in ragione dell’ampiezza di contenuto che esso assume


in virtù dell’impronta teleologica che la legge gli assegna, viene ad essere
determinato mediante l’impiego di norme elastiche, le quali richiedono
alle parti – prima del sorgere della controversia – ed al giudice – sorta
oramai questa – un impegno interpretativo maggiore atto a disceverare i
comportamenti leciti dagli illeciti74.
I rapporti tra sentenza e regola di comportamento sono quindi piut-
tosto agevolmente determinabili inquadrando la problematica in que-
stione all’interno delle generali costanti normative che descrivono i rap-
porti che possono intercorrere tra, da un lato, obbligo originario e viola-
zione e, dall’altro, obbligo originario e adempimento.
Sotto il primo profilo, le vicende normative possibili sono le se-
guenti: può essere che la violazione costituisca fatto estintivo dell’obbligo
originario e fatto costitutivo dell’obbligo derivato; oppure può essere che
la violazione, pur ponendosi come fatto costitutivo dell’obbligo derivato,
non estingua l’obbligo originario.
Sotto il secondo profilo, invece, può accedere che l’adempimento
dell’obbligo ne produca l’estinzione o al contrario che il suo adempi-
mento non ne infirmi la perdurante esistenza.
La particolarità della pronucia inibitoria va tutta commisurata alla
natura dell’obbligo originario che la legge impone, il quale si caratterizza
per l’avere un contenuto negativo e continuativo75; tali caratteristiche, in-
fatti, hanno quale conseguenza che né l’osservanza dell’obbligo, né il suo

74 Cfr.
la dottrina citata alla nota che precede. Sulle norme elastiche, v., in generale, FA-
BIANI, E., Clausole generali e sindacato della cassazione, Torino, 2003, p. 17 ss.
75 In materia di tutela dei consumatori, talora la giurisprudenza, avallata da parte della

dottrina, tende a configurare in termini di provvedimento inibitorio anche quello che im-
ponga al professionista comportamenti positivi; questa impostazione, peraltro, non può es-
sere accettata, rimandando al contrario l’ambito di applicazione dell’inibitoria strettamente
legato ai comportamenti doverosi a contenuto negativo. Come avremo occasione di verificare,
infatti, gli ordini volti ad imporre al professionista comportamenti positivi vanno più corret-
tamente ricondotti alle midure idonee a cui il giudice ricorre allo scopo di rimuovere le con-
seguenze prodotte dall’illecito accertato. Va in definitiva rigettata l’opinione che l’inibitoria
possa avere contenuto positivo (cfr. ad es. l’opinione di Frignani citata retro, nota 65) e ciò
poiché l’inibitoria non è altro che una forma di tutela dichiarativa la cui particolarità si ap-
prezza sul piano positivo proprio in ragione delle conseguenze che sul piano della tecnica ri-
mediale (ineseguibilità diretta dell’obbligo, necessità dell’impiego di misure coercitive, accen-
tuazione della portata specificativa dell’accertamento, ecc.) porta con sé la natura negativa e
continuativa del comportamento doveroso. In relazione agli obblighi a contenuto positivo,
dunque, ragionare in termini di inibitoria, non solo appare poco corretto sul piano lessicale,
ma ha anche l’effetto di scardinare il perimetro concettuale entro cui circoscrivere il rimedio
per poterne apprezzare gli elementi tipici.
446 CAPITOLO SESTO

adempimento sono comportamenti che la norma assume come causa di


estinzione dell’obbligo stesso.
Generalmente il diritto civile opera mediante l’imposizione di obbli-
ghi a contenuto positivo76 e quand’anche ciò non accada, come esem-
plarmente avviene nel diritto di proprietà, la costante attenzione che la
dottrina ha da sempre prestato ai contenuti positivi del rapporto giuri-
dico (poteri e facoltà), ha comunque comportato una minore attenzione
per i rapporti tra accertamento e obblighi a contenuto negativo77; d’altra
parte, come in ogni pronuncia giudiziale che interviene a seguito della
violazione del diritto, anche nei fenomeni sostanziali che interessano
l’ambito di applicazione dell’inibitoria, l’accertamento investe un obbligo
inadempiuto e quindi preesistente, la cui portata cogente sul comporta-
mento del soggetto passivo si proietta nel futuro sino a quando non so-
pravvengano motivi di estinzione dello stesso78.
L’azione inibitoria, dunque, attiva un sindacato giurisdizionale sul
comportamento tenuto dal soggetto passivo teso a verificarne il rapporto

76 Ponendoci in una prospettiva funzionale, possiamo dire che di regola si è soliti ra-

gionare, anche per semplicità, in relazione a obblighi positivi a carattere «puntuale» come ad
esempio tipicamente avviene con riferimento agli obblighi di pagamento di somme di denaro,
o più in generale agli obblighi di consegna. In tali casi l’obbligo tutela un interesse a soddi-
sfacimento istantaneo, avente cioè ad oggetto, come situazione favorevole, un comporta-
mento positivo ad esecuzione istantanea. Può anche accadere che il comportamento positivo
debba essere ripetuto nel tempo (cfr. il contratto di mutuo), ma proprio la variabile tempo-
rale induce a raffigurare il comportamento doveroso non in una veste unitaria ma come se-
parato in tanti distinti obblighi. Talora, invece, negli obblighi di fare, ma ancor più, ontologi-
camente, in quelli di non fare, l’obbligo tutela un interesse a soddisfacimento prolungato o
durevole, poiché la situazione favorevole è determinata da un comportamento negativo ad
esecuzione prolungata o, più correttamente, temporalmente indeterminata (per approfondi-
menti, v. CAPONI, R., L’efficacia del giudicato civile nel tempo, cit., p. 76 ss.; cfr. anche ID., In
tema di accertamento sulla norma astratta, sui diritti futuri e sui rapporti di durata, in Riv. dir.
proc., 1991, p. 1155 ss.; ID., Efficacia dell’inibitoria nel tempo, in Foro it., 2002, I, p. 1487 ss.).
77 Si pensi alle concezioni che ritengono addirittura che taluni diritti soggettivi non

diano suolo a rapporti giuridici nei quali ricomprendere anche l’esistenza di obblighi di com-
portamento contrapposti alle situazioni giuridiche semplici attive (cfr. retro, cap. V, § 2.3.1.
nel testo e in nota).
78 Va pienamente condivisa, quindi, l’opinione della dottrina che tiene debitamente se-

parato il concetto di azione inibitoria con quello di azione di condanna in futuro, visto che la
prima contiene l’accertamento di un obbligo attuale e come tale, in assenza di sopravvenienze
ad efficacia estintiva, è destinato a priettarsi nel futuro, mentre la seconda è destinata a pre-
costituire un titolo esecutivo in ordine ad un obbligo non ancora attuale. Cfr. VACCARELLA, R.,
Il procedimento di repressione della condotta antisindacale, Milano, 1977, p. 171 ss.; PROTO
PISANI, A., Appunti sulla tutela di condanna, cit., p. 89 nota 26, 132 s.; ID., Sentenza di con-
danna, cit., p. 299, nota 8; SASSANI, B., Impugnativa dell’atto e disciplina del rapporto, cit.,
p. 204 ss.
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 447

di conformità-difformità rispetto all’obbligo legale imposto; sindacato


idoneo a sfociare nella reiterazione specificativa per via giudiziale del-
l’obbligo stesso. L’intervento del giudice, quindi, non tanto e non solo ri-
conferma il dover essere rispetto all’essere, ma indica precisamente – con
riferimento diretto al fatto dedotto in giudizio – la linea di demarcazione
superata la quale la condotta del soggetto passivo dalla sfera del lecito
entra in quella dell’illecito, ovvero in quella dei comportamenti «esclusi»
dalla norma79.
Alla luce di questa pur rapida riflessione otteniamo un primo risul-
tato utile: nel giudizio inibitorio l’accertamento copre di certo il dovere
di astensione che il soggetto obbligato avrebbe dovuto, deve e dovrà te-
nere nei confronti del titolare dell’interesse protetto80.

5.2.3. L’oggetto dell’accertamento nei giudizi inibitori: l’illecito


Chiarita questa prima questione, occorre ora tornare sugli obblighi
derivati, che sorgono a seguito della violazione; difatti, la condotta anti-
giuridica effettivamente tenuta dell’obbligato è sovente assunta nella fat-
tispecie costitutiva di ulteriori doveri – appunto derivati – di comporta-
mento, che nascono con la funzione di riparare il pregiudizio arrecato al-
l’interesse che l’osservanza dell’obbligo doveva al contrario soddisfare.
Ciò posto, sorge inevitabilmente l’interrogativo se anche tale que-
stione, ovvero l’antigiuridicità della condotta, possa essere essa stessa og-
getto di accertamento con efficacia di giudicato81, o se tale particolare

79 Cfr. retro, cap. V, nota 99. Il fenomeno della qualificazione giudiziaria dei comporta-

menti inibiti è spiegata con particolare chiarezza da SASSANI, B., Impugnativa dell’atto e disci-
plina del rapporto, cit., spec. p. 181 ss., in cui si osserva che, sebbene talora l’accertamento
giudiziale di un certo effetto giuridico tipico imponga alle parti di riferirsi alla disciplina le-
gale dell’effetto in questione in ordine a rinvenire i criteri di qualificazione della condotta, in
altri casi, l’accertamento giudiziale può contenere una portata specificativa tale da portare in
sé tali criteri ed imporre di riferirsi ad esso per rinvenirli.
80 Cfr. ancora CAPONI, R., L’efficacia del giudicato civile nel tempo, cit., p. 85 ss.
81 Anche in dottrina di frequente si parla di accertamento della condotta illecita: cfr.

CHIARLONI, S., Misure coercitive e tutela dei diritti, cit., p. 154, ove, in polemica con la rico-
struzione avanzata da Proto Pisani, orientata – come noto – a ricondurre l’inibitoria alla tu-
tela di condanna, si afferma che «la c.d. inibitoria non ha niente a che fare con la sentenza di
condanna, limitandosi in realtà il giudice, con il suo “ordine”, a dichiarare al soccombente
che un certo comportamento che ha costitutito oggetto del giudizio è illecito, significandogli
nel contempo che questo accertamento colpirà eventuali comportamenti successivi identici e
costituirà, pertanto, uno dei presupposti di una eventuale condanna futura»; similmente sem-
brerebbe porsi SPOLIDORO, M.S., Le misure di prevenzione nel diritto industriale, cit., p. 31,
per il quale «per necessità logica, l’accertamento dell’illiceità di un determinato comporta-
mento implica l’accertamento dell’obbligo di astenersene»; osservazione – quest’ultima – che,
448 CAPITOLO SESTO

questione lato sensu pregiudiziale appartenga unicamente al materiale di


accertamento meramente logico del giudice.
Come si intuirà, questo discorso va a parare sulla possibilità di
estendere ultra partes gli effetti dell’accertamento della questione even-
tualmente ottenuto in sede di giudizio inibitorio, ma questo punto – di-
pendente e successivo – sarà affrontato più avanti e per il momento può
essere messo da parte. Ciò che, invece, sin d’ora interessa è verificare se
il giudizio inibitorio porti con sé l’accertamento della questione indicata;
la quale peraltro, essendo essenziale in ordine alla determinazione speci-
ficativa dell’obbligo di astensione da osservarsi anche per il futuro, rap-
presenta effettivamente l’elemento centrale della cognizione del giudice
dell’inibitoria.
Se ciò fosse possibile, in un secondo momento il tema dell’esten-
sione dell’efficacia del giudicato ai soggetti rimasti terzi al giudizio po-
trebbe riguardare anche questo profilo, che, al contrario dovrebbe rima-
nere a priori escluso qualora si valutasse non percorribile la strada ora in-
dicata.

se dovesse essere accolta, in realtà priverebbe fors’anche di significato l’interrogarsi se, oltre
all’accertamento dell’obbligo, la sentenza contenga anche l’accertamento dell’illecito, impli-
cando il secondo anche il primo e viceversa. Peraltro la posizione da ultimo indicata si dimo-
stra inappagante sotto diversi profili. Difatti, inteso l’accertamento dell’illecito come la di-
chiarazione di antigiuridicità di un certo comportamento storicamente determinato, ovvero la
qualificazione giuridica di un fatto concreto avvenuto, non può ritenersi sussistere alcuna cor-
relazione necessaria tra detto accertamento e l’accertamento dell’obbligo quale effetto giuri-
dico attuale della fattispecie costitutiva realizzatasi. In altri termini non c’è alcuna coinci-
denza logica tra l’accertamento dell’obbligo e l’accertamento dell’antigiuridicità del compor-
tamento, tanto che può ben essere – come sovente accade – che, accertato l’illecito, l’obbligo,
alla luce del quale è stata valutata la condotta concretamente tenuta, si sia estinto proprio in
ragione del suo inadempimento essendo stato sostituito dall’obbligo secondario. Ciò ovvia-
mente – come detto – nell’inibitoria non accade, poiché l’oggetto del giudizio è un obbligo
negativo-continuativo, ma tale fenomeno, lungi dall’infirmare il ragionamento ora avanzato,
non fa che confermarlo, poiché il compito della sentenza è proprio quello di accertare che
quel certo dovere di comportamento tuttora sussiste ed il soggetto passivo è tenuto ad osser-
varlo. Tornando agli AA. che discorrono di accertamento dell’illecito, v. ancora MONTESANO,
L., Attuazione delle sanzioni e delle cautele contro gli obbligati a fare e non fare (diritto vigente
e riforme opportune), cit., p. 25; CARNEVALE, V., Appunti sulla natura giuridica della tutela ini-
bitoria, cit., p. 63, 74. Va, d’altra parte, evidenziato che quando la dottrina parla di accerta-
mento dell’illecito sembra riferirsi – sebbene con terminologia non appropriata – all’accerta-
mento dell’obbligo di astensione che grava sul soggetto passivo. In altri termini, essendo il
giudizio inibitorio incentrato sul comportamento illecito effettivamente tenuto, e ciò allo
scopo di acquisirne i tratti fenomenologici da impiegare per specificare l’obbligo di asten-
sione da reiterare con l’ordine giudiziale, il discorrere di accertamento dell’illecito costituisce
un’espressione traslata per riferirsi all’accertamento dell’obbligo negativo, ovvero dell’effetto
giuridico in senso proprio.
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 449

Esemplificando, se si ritenesse che l’antigiuridicità della condotta


dell’autore dell’illecito fosse oggetto di accertamento e se si ritenesse che
tale accertamento possa estendersi a coloro che non hanno preso parte al
giudizio, allora questi terzi, nei futuri giudizi avverso il medesimo obbli-
gato, potrebbero giovarsi tanto dell’accertamento riguardante l’effetto
giuridico accertato, ovvero del dovere di astensione da certi comporta-
menti futuri (richiedendo magari la condanna al risarcimento per una
successiva violazione di detto obbligo), quanto dell’accertamento riguar-
dante l’antigiuridicità della condotta già posta in essere (ad esempio nel
giudizio instaurato per la condanna dei danni arrecati dalla condotta an-
tigiuridica già realizzatasi).
In conclusione, nelle azioni inibitorie a tutela di interessi collettivi, si
pone la possibilità teorica – la cui effettiva sostenibilità sta per essere sot-
toposta a vaglio – che l’accertamento comprenda anche la specifica que-
stione pregiudiziale che detta inibitoria giustifica, con la conseguenza ul-
teriore – ed ulteriormente condizionata al superamento dei limiti sogget-
tivi del giudicato – di poter configurare uno schema di giudizio collettivo
a mezza strada tra lo schema dapprima indicato sub (A) e lo schema in-
dicato sub (C).
Questi, aspetti, è bene precisarlo, sarebbero potuti essere oggetto di
trattazione nelle specifiche sedi di approfondimento, ovvero nei capitoli
che seguono. D’altra parte, chiariti i possibili schemi «strutturali» at-
torno ai quali va a delinearsi tipicamente la controversia collettiva, può
apparire propizio affrontare ora – e non in sede analitica – il tema in que-
stione e ciò per meglio apprezzarne tanto la problematicità, quanto l’es-
senzialità in ordine all’apprestamento di adeguati ed effettivi strumenti di
tutela giurisdizionale dei nostri interessi. In secondo luogo, inoltre, con-
statando quanto sia necessario che in questa materia l’interprete si muova
all’interno di una rigorosa prospettiva sistematica, proprio l’affrontare il
tema in chiave generale consente di mettere a frutto il più possibile gli in-
dici di orientamento interpretativo che il sistema invia nel suo complesso.
Chiarito il punto, ecco quindi che ci si confronta con i principi; ed
il principio generale e tradizionale a cui in materia si ispira il nostro or-
dinamento è – come noto – quello secondo cui l’accertamento investe
solo l’effetto giuridico dedotto in giudizio82. Principio ricavabile sul
piano del diritto positivo in particolare dal coordinato disposto degli artt.

82 Secondo l’insegnamento di CHIOVENDA, G., Istituzioni di diritto processuale civile,

cit., p. 358 s.; ma già prima, con estrema chiarezza, MENESTRINA, F., La pregiudiciale nel pro-
cesso civile (1904), Milano, 1963, p. 108 s.
450 CAPITOLO SESTO

24 Cost., 99, 81, 112 c.p.c., 2907 e 2909 c.c.; in virtù dei quali l’attività
giurisdizionale di cognizione si attiva su domanda di parte per la tutela di
diritti soggettivi ed il dovere decisorio del giudice, che conduce all’accer-
tamento, prende a suo oggetto proprio l’effetto fatto valere con l’eserci-
zio dell’azione in sede di proposizione della domanda o in ragione delle
sue ammissibili modificazioni successive83.
Da ciò la conseguenza necessaria secondo cui le diverse questioni
lato sensu pregiudiziali che supportano l’accertamento dell’effetto de-
dotto – sotto il profilo della loro rilevanza meramente fattuale e/o anche
giuridica – costituiscono la materia logica delle decisione, rimanendo
esterne all’ambito dell’accertamento destinato ad imporsi ad ogni effetto
alle parti, i loro eredi e aventi causa con la stabilizzazione del provvedi-
mento che lo contiene84.
Se, dunque, da tale prospettiva, si guardasse alla problematica ap-
pena indicata, l’interprete dovrebbe prender atto dell’ennesimo caso in
cui le regole tradizionalmente forgiate con riferimento ai giudizi posti a
risoluzione di conflitti di interesse a dimensione meramente individuale-
esclusiva si parano ad ostacolo per un trattamento processuale adeguato
delle controversie collettive85.
83 Cfr., MENCHINI, S., I limiti oggettivi del giudicato civile, Milano, 1987, p. 45 ss.; ID., Il
giudicato civile, cit., p. 67 ss.
84 Cfr. la dottrina citata retro, nota 82. Noto è peraltro l’orientamento giurisprudenziale

che estende il giudicato anche all’antecedente logico-giuridico; orientamento non sempre di


immediata intellezione, in quanto sovente in bilico tra l’applicazione del comune principio di
preclusione delle questioni dedotte e deducibili o l’effettivo accertamento autoritativo di sin-
gole questione di fatto e/o di diritto, talora peraltro riconducibili al concetto di rapporto ob-
bligatorio fondamentale valorizzato anche in dottrina (cfr. infra, nota 99). Per approfondi-
menti sul punto, v. soprattutto POLI, R., In tema di giudicato e accertamento dei fatti, in Riv.
dir. proc., 1999, p. 581 ss.; e, più di recente, MENCHINI, S., Il giudicato civile, cit., p. 69 ss., 81
ss. Vanno peraltro ricordati anche gli orientamenti dottrinali in generale maggiormente pro-
clivi ad ammettere che il giudicato possa avere ad oggetto anche mere questioni, specie ad
esempio nell’ottica delle sentenze non definitive su questioni preliminari di merito sopravvis-
sute all’estinzione del giudizio: cfr. ATTARDI, A., Cosa giudicata, II, Concetto e natura, in Jus,
1961, p. 184 ss., spec. p. 190; ID., Preclusione (principio di), in Enc. dir., XXXIV, Milano,
1985, p. 893 ss., spec. p. 906; DENTI, V., Sentenze non definitive su questioni preliminari di me-
rito e cosa giudicata, in Riv. dir. proc., 1969, p. 213 ss.; ID., Ancora sull’efficacia delle sentenze
non definitive di merito, in Riv. dir. proc., 1970, p. 566 ss.; ID., Questioni pregiudiziali (diritto
processuale civile), in Noviss. Dig. it., XIV, Torino, 1976, p. 675 ss.; PUGLIESE, G., Giudicato ci-
vile (dir. vig.), in Enc. dir., XVIII, Milano, 1969, p. 785 ss., spec. 866 ss.; TARUFFO, M., «Col-
lateral estoppel» e giudicato sulle questioni, II, in Riv. dir. proc., 1972, p. 272 ss.; MONTANARI,
M., L’efficacia delle sentenze non definitive su questioni preliminari di merito, in Riv. dir. proc.,
1986, p. 392 ss., 834 ss. e ancora ivi, 1987, p. 324 ss.
85 In questo senso, ad esempio, si è espresso BALENA, G., Gli aspetti processuali della tu-

tela contro le discriminazioni di sesso, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1995, p. 425 ss., p. 433, che
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 451

Non occorre scoraggiarsi, d’altra parte, perché, proprio all’interno


del sistema è possibile rinvenire elementi di indirizzo interpretativo, tali
da giustificare una deroga rispetto al principio in esame e ciò in virtù dei
caratteri di indubbia specificità che appartengono agli strumenti che tu-
telano gli interessi a dimensione plurindividuale.
In altri termini, assumendo la regola generale ora ricordata come
strettamente correlata al fondamentale principio di strumentalità del pro-
cesso al diritto sostanziale – ovvero alle regole di condotta che governano
i rapporti tra le parti in ordine all’attribuzione alle stesse del bene della
vita richiesto – e nell’evidente assenza di ostacoli di ordine logico al ri-
guardo86, è ben possibile ritenere che con l’emersione di particolari ed
ulteriori esigenze di tutela possa giustificarsi una deroga al principio ge-
nerale87.
Eccezioni di tal fatta, ad esempio, ricorrono nei paradigmatici casi
dell’accertamento della nullità o della simulazione, nel giudizio di verifi-
cazione o nella querela di falso. Oppure si pensi a quanto ancor più lata-
mente dispongono gli artt. 651, 652 e 654 del c.p.p. riguardo ai rapporti
tra giudicato penale e giudicato civile.
Vi sono anche altre ipotesi meno appariscenti, ma ugualmente signi-
ficative: è il caso della sentenza dichiarativa di fallimento, o, più in gene-

in riferimento all’azione del consigliere di parità in materia di discriminazioni collettive per


ragioni di sesso, a fronte dell’orientamento dottrinale favorevole – forse effettivamente in via
non particolarmente problematica – a estendere ultra partes il risultato del giudizio collettivo
in punto di discriminazione, ha rilevato che «siffatta estensione dovrebbe riguardare non già
un rapporto giuridico (pregiudiziale rispetto a quello oggetto dell’azione individuale), bensì
meri fatti (ossia l’esistenza di un determinato comportamento discriminatorio in ragione del
sesso)». La stessa problematica interpretativa, risolta peraltro in senso perfettamente oppo-
sto, è stata evidenziata in materia di repressione della condotta antisindacale da ROMAGNOLI,
U., Aspetti processuali dell’art. 28 dello statuto dei lavoratori, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1971,
p. 1309 ss.; ID., Commento all’art. 28, in ROMAGNOLI, U. - MONTUSCHI, L. - GHEZZI, G. - MAN-
CINI, F., Statuto dei lavoratori, Bologna-Roma, 1972, p. 411 ss.; GHEZZI, G. - ROMAGNOLI, U.,
Il diritto sindacale, Bologna, 1984, p. 292 ss., che nell’azione ex art. 28 S.L. ha ritenuto ricor-
rere un’eccezionale ipotesi di giurisdizione sui fatti, con la conseguente estensione erga omnes
del giudicato sul punto di antisindacalità. Cfr. anche la tesi di PROTO PISANI, A., Il proce-
dimento di repressione dell’attività antisindacale, in Studi di diritto processuale del lavoro,
Milano, 1976, p. 13 ss., spec. p. 58 s. Per approfondimenti, v. comunque infra, cap. VII, §
2.1.3., nonché § 2.2., spec. nota 56.
86 Che non sia plausibile porre una linea di demarcazione ontologica a priori tra accer-

tamento logico e autoritativo è posto in chiara evidenza da TARUFFO, M., «Collateral estoppel»
e giudicato sulle questioni, cit., p. 285, nota 184, richiamato da POLI, R., I limiti oggettivi delle
impugnazioni ordinarie, Padova, 2001, p. 38, in particolare nella lunga nota n. 66.
87 Che ciò sia possibile è indubbio, ma a fronte di una «norma espressa di legge» che

ponga l’eccezione; cfr. già CHIOVENDA, G., Istituzioni di diritto processuale civile, cit., p. 353.
452 CAPITOLO SESTO

rale, della stessa ampia materia degli status, che, come sostenuto dalla
dottrina più attenta ad una ricostruzione tecnico-normativa del feno-
meno giuridico devono essere ritenuti elementi di fattispecie più com-
plesse88.
In questi casi, insomma, abbiamo accertamenti che non investono
l’effetto giuridico, che non accertano direttamente la regola di comporta-
mento che le parti devono tenere tra loro nei rapporti sostanziali, ma più
propriamente mere questioni pregiudiziali, ovvero «pezzi di fattispecie»
che, insieme ad altri, contribuiscono in vario modo a completare lo
schema legale che condiziona il venire in esistenza di un effetto.
Ciò detto, gli argomenti che potrebbero condurre a ritenere che le
questioni pregiudiziali poc’anzi indicate siano idonee a confluire nell’ac-
certamento con efficacia di giudicato sono le seguenti.
In primo luogo è constatazione unanime che l’effettività della tutela
giurisdizionale degli interessi sovraindividuali sia in gran parte rimessa
alla possibilità di estendere gli effetti della sentenza ultra partes; e pro-
prio in questa prospettiva – dunque – parte della dottrina ha ritenuto
possibile superare il principio di relatività della cosa giudicata in rela-
zione all’accertamento delle questioni pregiudiziali accennate89. Quanto
ora detto è in particolar modo accaduto in riferimento alle questioni di
«antisindacalità»90 o di «discriminatorietà»91 del comportamento posto in
essere dal datore di lavoro, ma, d’altra parte – come meglio vedremo –
non sono mancate opinioni che hanno esteso il discorso in questione an-
che alla stessa abusività della clausola generale di contratto92, la quale,
come per le questioni appena indicate, costituisce ugualmente il nucleo

88 Già ALLORIO, E., La cosa giudicata rispetto ai terzi, cit., p. 298 ss.; ID., Per una teoria

dell’oggetto dell’accertamento giudiziale, in Jus, 1955, p. 187 ss. e poi in Problemi di diritto, I,
L’ordinamento giuridico nel prima dell’accertamento giudiziale e altri studi, Milano, 1957, p. 67
ss.; ed ora, ampliamente, IRTI, N., Introduzione allo studio del diritto privato, cit., p. 29 ss.
È interessante notare anche la definizione di CHIOVENDA, G., Istituzioni di diritto processuale
civile, cit., p. 353, che parlava di «stato giuridico, inteso in senso largo» in riferimento ad
«ogni condizione giuridica, che, essendo il presupposto comune a svariatissimi rapporti giuri-
dici, sia dal diritto considerata come possibile oggetto principale d’un giudizio autonomo»
(c.vo mio).
89 Intendiamoci, il problema in questi casi non concerne in via diretta la problematica

relativa all’estensione automatica dell’accertamento a questioni pregiudiziali in deroga a


quanto disposto in via generale dall’art. 34 c.p.c., ma ancor prima la stessa accertabilità ex art.
2909 c.c. di dette questioni.
90 Cfr. infra, cap. VII, § 2.1.3.
91 Cfr. infra, cap. VIII, § 3.2.3.
92 Cfr. infra, cap. X, § 3.2.3.6.
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 453

centrale del giudizio e giustifica la pronuncia dell’ordine inibitorio, o in


relazione all’illecito posto in essere dalla parte professionale contro i con-
sumatori93, se non anche – di recente – in una prospettiva più generale
volta a rilevare l’oggetto del giudizio collettivo94.
Piuttosto evidente è stato dunque il paradosso che si è inscenato al-
l’interno della nostra materia, nella quale, in virtù dei profili strutturali
che caratterizzano il fenomeno giuridico materiale, proprio il principio di
strumentalità del processo poc’anzi richiamato ha acuito la necessità di
orientarsi in direzione contraria rispetto alla regola generale testé indi-
cata. Se, difatti, l’accertamento di mere questioni appare fenomeno ecce-
zionale in quanto – come detto – è inidoneo a garantire il conseguimento
delle utilità sostanziali che il diritto materiale riconosce, proprio tale ac-
certamento costituisce la strada indiretta – ma pur tuttavia efficace e per-
corribile – che conduce a tale conseguimento in materia di interessi col-
lettivi.
Il tasso di effettività della tutela giurisdizionale, – garantita, come
noto, dal coordinato disposto degli artt. 24, comma 1, e 3, comma 2,
Cost. – è insomma strettamente connesso, in materia di azione collettive,
proprio all’estensione del giudicato; e l’estensione del giudicato, quale
strumento di effettività della tutela apprestata, è a sua volta legato alla
possibilità che l’accertamento coinvolga le questioni predette, la cui af-
fermata esistenza da parte del giudice potrà agevolare i soggetti pregiu-
dicati dalla condotta antigiuridica nei giudizi successivi sugli effetti con-
seguenti che in via esclusiva li riguardano.
Di ciò – peraltro – dà pieno riscontro l’esperienza straniera per
cenni esemplificativi richiamata, dalla quale dovrebbe essere ben emersa
la forte relazione strumentale dell’interesse processuale all’accertamento
della questione comune rispetto al successivo soddisfacimento degli inte-
ressi sostanziali finali.
Un’ulteriore passo a favore della soluzione caldeggiata può essere
peraltro mosso cercando di meglio chiarire la natura delle questioni alle
quali ci riferiamo.
Cosa, infatti, si intende allorquando si parla di «antigiuridicità»
della condotta? Qual è il quid al quale dovrebbero essere vincolati i giu-
dici dei futuri giudizi allorché si ritenga che questo quid possa essere og-
getto di accertamento?

93 Cfr. infra, cap. X, § 3.2.3.6. e § 3.3.5.3.


94 Cfr. MENCHINI, S., Azioni seriali e tutela giurisdizionale: aspetti critici e prospettive ri-
costruttive, in www.judicium.it., § 5.
454 CAPITOLO SESTO

Questi interrogativi sono tutt’altro che peregrini se ci si confronta


con l’estrema latitudine concettuale che deve riferirsi in generale al ter-
mine questione95, nel quale – di per sé – possono rientrare tutti i punti di
fatto e/o di diritto che conducono al completamento della fattispecie del-
l’effetto; circostanza quest’ultima, che evidentemente costituisce l’innega-
bile ed ulteriore giustificazione della comprensibile cautela che da sem-
pre la dottrina ha dimostrato rispetto la possibilità di configurare mate-
rie di accertamento diverse dal diritto soggettivo fatto valere in via di
petitum, non fosse altro, in primo luogo, che per il rischio di perdere una
«sicura» linea di delimitazione concettuale dell’oggetto del giudizio, oltre
che, in secondo luogo, per il conseguente ed ineludibile aggravio dei do-
veri difensivi delle parti allorché l’ambito dell’accertamento vincolante si
estenda al punto da ricomprendere anche l’esistenza-inesistenza di meri
fatti storici96.
95 Ci riferiamo ovviamente alla definizione più lata offerta da CARNELUTTI, F., Lezioni di
diritto processuale civile, III, Padova, 1930, p. 368; ID., Lezioni di diritto processuale, IV, Pa-
dova, 1933, p. 2 s.; ID., Sistema del diritto processuale civile, cit., p. 353. Per le diverse quali-
ficazioni e delimitazioni che il concetto generale di questione ora indicato ha ricevuto in dot-
trina in ragione dei diversi indici criteriologici che derivano dalle problematiche attinenti allo
svolgimento del processo, v. in particolare CARBONARA, F., Questioni di merito e idoneità al
giudicato, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2003, p. 671 ss.
96 È l’argomento che tradizionalmente la dottrina ha impiegato per dimostrare l’inam-

missibilità anche sotto il profilo equitativo del giudicato in punto di fatto; argomento teso ad
evidenziare l’impossibilità delle parti pur presenti in giudizio ad articolare le loro difese sui
diversi fatti virtualmente compresi nel materiale logico (che peraltro include anche i fatti non
dedotti ma implicitamente accertati in senso negativo: fatto costitutivo alternativo non alle-
gato, fatto estintivo non allegato) della decisione non più in ordine al riconoscimento o alla
negazione dell’effetto specifico dedotto in giudizio (con la domanda dell’attore o con le mo-
dificazioni dell’oggetto naturalmente ammesse in corso di processo), ma in riferimento a tutti
i possibili effetti che nel fatto storico eventualmente accertato vedono un elemento rilevante
della loro fattispecie costitutiva. È insomma il problema della pluri-sussumibilità di un sin-
golo fatto materiale in più norme, rispetto alla quale ovviamente, di per sé non sembra possi-
bile garantire in via effettiva l’adeguato esercizio dei poteri di difesa delle parti, poiché que-
ste non possono a priori sapere in che misura siano interessate all’accertamento positivo e ne-
gativo di un certo fatto materiale e dunque valutare in base a questo l’apprestamento
concreto della loro strategia difensiva. L’argomento in questione è chiaramente esplicato in
CHIOVENDA, G., Istituzioni di diritto processuale civile, cit., p. 359; successivamente, con par-
ticolare vigore, vedi la riaffermazione del principio da parte di MONTESANO, L., Giudicato sui
fatti, efficacia riflessa della sentenza e tutela giurisdizionale dei diritti nella pronuncia costitu-
zionale sull’art. 28 c.p.p., in Foro it., 1971, I, p. 1798 ss.; ID., Sentenze endoprocessuali nei giu-
dizi civili di merito, in Riv. dir. proc., 1971, I, p. 17 ss., spec. p. 43; questione, quest’ultima,
evidenziata anche dalla dottrina tradizionalmente più aperta verso un’estensione virtualmente
più lata dei limiti oggettivi del giudicato: cfr., infatti, TARUFFO, M., «Collateral estoppel» e giu-
dicato sulle questioni, cit., p. 291. Va detto, peraltro, che, come osservato nel testo tra breve,
nelle ipotesi verso le quali è indirizzata la nostra attenzione, il problema in esame sembra non
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 455

La strada più agevole per chiarire questo delicato profilo del pro-
blema ora in esame prende l’avvio da quanto già affermato intorno al
concetto di obbligo97; rispetto al quale avevamo avuto modo di rilevare
come esso si risolvesse in quella valutazione a priori di conformità che il
titolare dell’obbligo compie tra il comportamento descritto dalla norma,
quale effetto della fattispecie costitutiva realizzatasi, ed un suo futuro
nonché eventuale comportamento.
Se ci avviamo in questa prospettiva, che è l’unica corretta allorché ci
si ponga sul piano tecnico-giuridico, ci accorgiamo che anche ciò che si
nasconde dietro la generale formula «antigiuridicità della condotta» può
e deve essere descritto in termini di pura relazione logica.
In tali casi l’oggetto che dovrebbe venire accertato dal giudice nul-
l’altro è che l’illecito, ovvero la relazione di difformità tra il comporta-
mento doveroso che la norma prescrive e il comportamento che il sog-
getto obbligato ha effettivamente tenuto98; non dunque l’accertamento di
un effetto giuridico né l’accertamento di un mero accadimento colto
nella sua dimensione storico-naturalistica eventualmente frammentabile
in più entità fenomeniche ed eventualmente sussumibile all’interno di in-
determinabili fattispecie legali con le anzidette conseguenze in termini di
lesione del diritto di difesa delle parti, ma l’accertamento della relazione
di conformità-difformità intercorrente tra il primo elemento e il secondo;
specifica questione, dunque, che sul piano sostanziale rappresenta la
fonte di distinti e separati effetti giuridici che di regola sono posti a ripa-
razione del pregiudizio arrecato con l’illecito stesso99.
porsi nei termini qui accennati, poiché l’accertamento vincolante non investe fatti materiali,
ma l’illecito, ovvero un fatto materiale qualificato alla luce della prescrizione normativa e che
peraltro costituisce il nucleo centrale attorno al quale viene a svolgersi la controversia.
97 Cfr. retro, cap. V., § 2.5.4.
98 Per tutti, v. CORDERO, F., Le situazioni soggettive nel processo penale, Torino, 1956, p.

120 ss. spec. p. 133, secondo cui «l’obbligo, inteso come la condizione del soggetto che non
può esimersi da un certo contegno se vuole evitare una sanzione, funziona come titolo in base
a cui si legittima la valutazione di illiceità, la quale si risolve essenzialmente nella constata-
zione che un certo fatto collima con quello previsto dalla norma come fattispecie del dovere
avente ad oggetto un comportamento sanzionatorio» (si noti che Cordero, come Allorio, se-
gue l’impostazione teorico-generale secondo cui la norma va ricostruita come un giudizio di
valutazione ma con destinatari gli organi statali). Non convince, dunque, la tesi secondo cui
l’illecito dovrebbe configurarsi come l’esercizio di una facoltà inesistente (cfr. ad es. CAPONI,
R., L’efficacia del giudicato civile nel tempo, Milano, 1991, p. 60); difatti, senza riprendere il
discorso su lecito ed illecito svolto retro (cap. V, nota 99), la facoltà inesistente è una non-fa-
coltà e la non-facoltà è il dovere o – se si preferisce – l’obbligo. E dunque, l’esercizio di una
facoltà inesistente e la violazione dell’obbligo non sono cose diverse, ma coincidono.
99 Per certi versi il fenomeno in questione non è poi così lontano dai fenomeni che
parte della dottrina suole ricondurre al nesso di pregiudizialità logica. Sulla scia di Salvatore
456 CAPITOLO SESTO

Situazione in parte simile è l’abusività della clausola generale o la di-


fettosità del prodotto il cui eventuale accertamento si risolve nella veri-

Satta (cfr. Commentario al codice di procedura civile, I, Disposizioni generali, Milano, 1959, p.
146; ID., Accertamento incidentale, in Enc. dir., I, Milano, 1958, p. 243 ss.), v. in particolare
MENCHINI, S., I limiti oggettivi del giudicato civile, cit., p. 82 ss.; ID., Accertamenti incidentali,
in Enc. giur. Trec., I, Roma, 1987, p. 8; ID., Regiudicata civile, in Dig. disc. priv., sez. civ., XVI,
Torino, 1997, p. 404 ss., spec. p. 435 ss.; ID., Il giudicato civile, cit., p. 81 ss.; cui adde, FAB-
BRINI, G., Connessione: I) Diritto processuale civile, in Enc. giur. Trec., VIII, Roma, 1988, p. 8;
PROTO PISANI, A., Appunti sul giudicato civile e sui suoi limiti oggettivi, in Riv. dir. proc., 1990,
p. 386 ss., spec. p. 395 ss.; ID., Lezioni di diritto processuale, Napoli, 2006, p. 68 ss.; LUISO,
F.P., Diritto processuale civile, I, Principi generali, Milano, 2006, p. 158 ss. Per argomenti con-
trari, v. ad es. CONSOLO, C., Oggetto del giudicato e principio dispositivo, I, Dei limiti oggettivi
e del giudicato costitutivo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1991, p. 215 ss.; RECCHIONI, S., Pregiudi-
zialità processuale e dipendenza sostanziale nella cognizione ordinaria, Padova, 1999, p. 163 ss.,
spec. p. 181 ss. Come nei fenomeni giuridici in genere ricondotti alla pregiudizialità logica an-
che nelle fattispecie esaminate nel testo si presenta il rischio di «disarticolazione tramite il
processo di una realtà sostanziale indissolubilmente unitaria» (PROTO PISANI, A., Appunti sul
giudicato civile e sui suoi limiti oggettivi, cit., p. 399), accompagnato dalla «struttura giuridica
irradiante» che in detti fenomeni ricorre (CONSOLO, C., Oggetto del giudicato e principio di-
spositivo, cit., p. 219). Come è noto, l’orientamento dottrinale qui richiamato ha posto in evi-
denza le ricadute tecnico-processuali che – in termini di limiti oggettivi di giudicato – derive-
rebbero dalla configurazione sul piano sostanziale di rapporti giuridici obbligatori complessi.
Le ipotesi classiche del contratto di compravendita o del mutuo, palesano l’immagine di un
unico fatto giuridico normativo – il contratto ad es. – da cui si irradiano più effetti giuridici
funzionalmente e strutturalmente inscindibili. Il vincolo strutturale che li tiene assieme è evi-
dentemente rappresentato dal loro unico fondamento comune, il contratto appunto, mentre
la loro connessione funzionale deriva dal contribuire tutti assieme – e non individualmente –
al conseguimento dell’utilità sostanziale complessiva che le parti si sono volontariamente pre-
fisse di conseguire con la pattuizione, tanto che, di per sé, il c.d. rapporto obbligatorio fon-
damentale, privato dei singoli effetti rimarrebbe – come puntualmente osservato (MENCHINI,
S., I limiti oggettivi del giudicato civile, cit., p. 89, richiamando Rubino) – «neutro», ovvero
non autonomamente attributivo di una posizione di prevalenza rispetto beni della vita so-
stanziali. Alla luce di queste premesse e stando all’orientamento dottrinale qui richiamato, al-
lorquando i singoli effetti vengano dedotti in giudizio singulatim ed il giudice per pronun-
ziare su di essi debba occuparsi dell’esistenza o della qualificazione del rapporto, l’accerta-
mento dovrebbe estendersi anche al rapporto stesso. Peraltro, ragionando – come si fa nel
testo – in termini di accertamento di mere questioni, pare interessante approfondire l’effet-
tiva consistenza strutturale del rapporto fondamentale menzionato ed a tal riguardo la nostra
dottrina, sulla scia della tedesca ne ha evidenziato i tratti essenziali con estremo rigore: a) è
una entità giuridica individua che è distinta dai singoli effetti, o, più precisamente, è l’entifi-
cazione dell’insieme dei rapporti semplici e la prima conseguenza della fattispecie; b) non at-
tribuisce di per sé alcun bene della vita; c) esaurisce la fattispecie stessa dei diversi effetti che
lo compongono; d) la relazione che lega il rapporto fondamentale ai singoli effetti è quella
della parte al tutto e non si ha, come nella pregiudizialità tecnica, una separazione tra effetti
giuridici diversi (così, ancora MENCHINI, S., I limiti oggettivi del giudicato civile, cit., p. 89 ss.).
Va detto peraltro che parte della dottrina che ha aderito a questo orientamento, pur ammet-
tendo la figura del rapporto complesso, ha offerto un’immagine meno «strutturata» dello
stesso e più in generale – sebbene in un contesto più sintetico – ha dato minor risalto al ten-
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 457

fica del rapporto di conformità-difformità tra la clausola concretamente


apprestata dall’imprenditore e lo schema positivo di questa che il legisla-
tativo di ricavare un concetto propriamente dogmatico di tale rapporto (PROTO PISANI, A.,
Appunti sul giudicato civile e sui suoi limiti oggettivi, cit., p. 395 ss.; ID., Lezioni di diritto pro-
cessuale, cit., p. 68 ss.). Più precisamente è interessante notare che, sebbene in via di accenno,
questa autorevole dottrina ha parlato – riguardo appunto al rapporto fondamentale – di «ri-
levanza giuridica del contratto». Proprio quest’ultima dizione sembra a chi scrive dover es-
sere valorizzata, in quanto da preferirsi rispetto all’idea di una materia di accertamento non
propriamente riconducibile al concetto tradizionale di rapporto giuridico, il quale, indipen-
dentemente da come lo si voglia configurare, viene comunque impiegato tradizionalmente –
specie in ordine alla sua assunzione quale oggetto di accertamento – come veicolo di situa-
zioni giuridiche soggettive (diritto-obbligo); e ciò al fondamentale fine di offrire regolamen-
tazione concreta alle relazioni tra le parti per l’attribuzione a queste – come si suol dire – di
beni della vita. Peraltro la particolare tipologia di nesso di pregiudizialità-dipendenza che in-
tercorre tra rapporto fondamentale e singolo effetto è riconosciuta anche da chi comunque
l’ha ricondotta alla pregiudizialità tecnica (cfr. ad es. CONSOLO, C., Oggetto del giudicato e
principio dispositivo, cit., p. 233, che pur non sottraendo la pregiudizialità logica alla disci-
plina dell’art. 34 c.p.c., rileva come solo quella propriamente giuridica sia riconducibile al
modulo della pregiudizialità-dipendenza tra «veri rapporti giuridici»; RECCHIONI, S., Pregiu-
dizialità processuale e dipendenza sostanziale nella cognizione ordinaria, cit., p. 187). E questa
particolarità sembra dovuta proprio all’inappagamento che si riscontra, da un lato, nel con-
statare l’immagine di parcellizzazione del rapporto contrattuale che si ottiene assumendo sin-
golarmente gli effetti «derivati» (si pensi in particolare al rapporto di mutuo) e, dall’altro, nel
dover di contro configurare un rapporto (quello fondamentale) che pur essendo «tutto» ri-
spetto alle sue «parti» (i singoli effetti) non comporta, una volta posto ad oggetto del giudi-
zio, l’accertamento stesso di quelle stesse «parti». Singolare anche quest’ultima conseguenza,
poiché se il rapporto giuridico fondamentale rappresentasse l’insieme degli effetti, ovvero la
loro dimensione unitaria (magari anche non meramente «aggregata» ma «sintetica»), allora
l’esistenza del «più» dovrebbe comportare anche l’esistenza del «meno». In ciò, appunto, la
dizione «rilevanza giuridica del contratto» potrebbe apparire più piana (esistenza, qualifica-
zione, validità dello stesso), in quanto mette al centro del fenomeno proprio l’indiscutibile
elemento strutturale che lega i diversi effetti ovvero la «struttura giuridica irradiante». Se
quindi si seguisse un approccio ricostruttivo come quello ora indicato, la lontananza tra detti
fenomeni ed il fenomeno riportato nel testo si assottiglierebbe ulteriormente. Ragionando per
mere ipotesi, potremmo, ad esempio, sostituire al contratto l’illecito (in altra prospettiva: al
rapporto obbligatorio complesso di origine contrattuale il rapporto giuridico complesso di
origine extracontrattuale). Potremmo in secondo luogo configurare la collettività in senso
unitario (e ciò di certo non creerebbe problemi), ovvero vedere nella collettività entificata co-
lei che ha subito nella sua interezza il pregiudizio arrecato, così concependo i distinti diritti
di risarcimento del danno come i distinti effetti strutturalmente e funzionalmente legati nei
termini accennati (in altra prospettiva: i distinti effetti costituenti il c.d. rapporto fondamen-
tale). La conclusione sarebbe quella di sostenere che, anche quando il giudice pronuncia su
uno dei singoli effetti, l’ambito oggettivo dell’accertamento include anche l’antecedente lo-
gico necessario, ovvero – ancora – l’esistenza dell’illecito, ovvero l’esistenza del rapporto fon-
damentale. Ciò, peraltro, si dice come mero esercizio intellettuale, o, più esattamente, da un
lato, per verificare l’indice di elasticità che dette opzioni ricostruttive potrebbero rivelare se
si volesse seguire una via ricostruttiva più spregiudicata e forzata e, dall’altro, per evidenziare
le fondamentali esigenze di coordinamento delle decisioni che evidentemente appartengono
ad ambo due i fenomeni esaminati.
458 CAPITOLO SESTO

tore ha tipizzato in via astratta indicandone le specifiche connotazioni di


antigiuridicità.
In conclusione quindi, le ragioni che depongono a favore dell’ido-
neità di queste questioni ad essere oggetto di accertamento ai sensi del-
l’art. 2909 c.c. sembrerebbero essere le seguenti: da un lato, l’innanza-
mento del tasso di effettività della tutela giurisdizionale degli interessi
collettivi in piena coerenza con il principio di strumentalità del processo
al diritto materiale e, dall’altro, l’assenza di ostacoli di ordine logico,
nonché la chiara determinabilità della questione con conseguente insus-
sitenza delle ragioni di aggravio delle possibilità difensive delle parti.
Va peraltro aggiunto che la maggiore o minore portata persuasiva
che tali argomenti posseggono deve essere vagliata anche alla luce di un
possibile appiglio testuale che le talora la disciplina legale offre all’inter-
prete per completare l’apparato argomentativo ora esposto.
In quest’ottica acquistano un rilievo straordinariamente importante
le disposizioni di legge che precipuamente pongono al centro del giudi-
zio come materia di accertamento proprio l’illecito nei termini poc’anzi
descritti.
Ci riferiamo innanzitutto all’art. 37, comma 3, del codice delle pari
opportunità tra uomo e donna, in cui sono previsti i diversi rimedi che
possono essere concessi dal giudice nella «sentenza che accerta le discri-
minazioni»100. Ma l’espresso riferimento alle «discriminazioni accertate»
ricorre in tutte le seguenti disposizioni: l’art. 3, comma 3, della recente
legge n. 67 del 2006; l’art. 4, comma 4, del d.legisl. n. 215 del 2003; l’art.
4, comma 5, del d.legisl. 216 del 2003; l’art. 44, comma 10, del d.legisl.
n. 286 del 1998. E nell’art. 140, comma 1, lett. b), del codice del con-
sumo le discriminazioni accertate diventano più genericamente le «viola-
zioni accertate».
La portata sistematica che può essere attribuita alle disposizioni ora
richiamate può quindi prestare un ulteriore argomento a sostegno della
tesi qui caldeggiata; d’altro canto, alla luce delle considerazioni di natura
assiologica che assumono rilievo nella materia in esame, si rivelerebbe ir-
ragionevole l’impostazione ricostruttiva non orientata nel senso della loro
più completa valorizzazione101.
Ancora all’interno di questa cornice va quindi inserita la disposi-
zione prevista dall’attuale art. 34 del codice del consumo, che, dopo la
previsione delle connotazioni legali che determinano la vessatorietà della
100 Amplius, v. infra, cap. VIII.
101 In questo senso, infatti, v. MENCHINI, S., Azioni seriali e tutela giurisdizionale: aspetti
critici e prospettive ricostruttive, cit., § 5.
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 459

clausola generale di contratto, prevede – come da rubrica – proprio un


giudizio sull’«accertamento della vessatorietà delle clausole»102; disposi-
zione che poi va ad integrarsi con quelle che seguono, che, da un lato, di-
sciplinano gli effetti di detta clausola all’interno del contratto individuale
e, dall’altro, prevedono l’azione volta ad inibirne l’uso.
Tutte queste considerazioni, dunque, palesano l’opportunità di una
lettura non solo sistematica, ossia volta alla valorizzazione degli elementi
logico-strutturali comuni a quest’ambito di tutele, ma anche più propria-
mente costituzionalizzatrice della disciplina attualmente vigente; una let-
tura cioè condotta alla luce del coordinato disposto degli artt. 3, comma
1-2, e 24, comma 1, Cost., al fine di conseguire la tutela e la promozione
dei valori sostanziali che in questi processi devono trovare pieno ricono-
scimento.
Il risultato è dunque quello di ritenere che – come più nel dettaglio
esamineremo nei prossimi capitoli – nei giudizi collettivi inibitori, allor-
ché il giudice debba procedere alla verifica dei comportamenti effettiva-
mente tenuti dal soggetto passivo per trarne la reiterazione specificativa
dell’obbligo sostanziale previsto dalla legge, o allorquando, come più ra-
ramente accade, l’ordine inibitorio trovi la sua premessa ed il suo fonda-
mento nel sindacato su questioni pregiudiziali quali come visto l’abusi-
vità di clausole generali di contratto, tali accertamenti siano suscettibili di
acquisire l’efficacia di giudicato prevista dall’art. 2909 c.c.
Un discorso a parte dovrà, peraltro essere svolto in materia di tutela
dei consumatori, visto che la nuova azione collettiva risarcitoria appena
introdotta con la legge finanziaria 2008 sembra incidere anche nelle que-
stioni interpretative qui affrontate in chiave generale.

5.3. Le possibili soluzioni teoriche al problema dei limiti soggettivi del giu-
dicato in materia di giudizi collettivi nel nostro ordinamento
Il risultato a cui siamo giunti sembra aver contribuito ulteriormente
alla delineazione di un possibile schema tipo di giudizio collettivo previ-
sto nel nostro ordinamento.
Certamente tale considerazione necessiterebbe di ulteriori distin-
zioni e specificazioni che trovino fondamento nelle singolari discipline
che rinveniamo in materia di azioni a tutela di interessi collettivi. Ma a
questo lavoro più propriamente applicativo sono destinati – come detto
– i prossimi capitoli, per cui ora la nostra strada prosegue con l’impo-
stare una riflessione a carattere generale sul problema dei limiti soggettivi
102 Amplius, v. infra, cap. X.
460 CAPITOLO SESTO

della cosa giudicata in giudizi di tal fatta; riflessione da cui appunto


trarre indicazioni di principio da applicare successivamente nei debiti
contesti a carattere più specifico.
Ciò premesso, i principali modelli di coordinamento delle legittima-
zioni – seppur all’interno di un quadro complessivo contrassegnato da
profonde incertezze e frequenti oscillazioni – appaiono essere, in linea
generale, i seguenti103.
Secondo un primo modello – che è quello che corrisponde alla fi-
gura del concorso soggettivo di azioni – la pluralità di legittimazioni si
traduce in distinti poteri di azione il cui esercizio è idoneo a provocare
l’accertamento del dovere senza che ne risultino vincolati gli altri legitti-
mati104.

103 Ciò deriva non solo, ovviamente dalla studio della dottrina – sino ad ora esaminata
– in merito alla riflessione generale sui rimedi di tutela processuale degli interessi collettivi,
ma anche – se non soprattutto – dall’esame della dottrina cimentatasi nello studio dei diversi
procedimenti di regola ricondotti alla nostra materia. Cfr. infra, i capitoli che seguono.
104 È la soluzione più strettamente aderente al principio di relatività della cosa giudi-

cata, che appunto dovrebbe coinvolgere solo coloro che hanno preso parte al giudizio. È il
modello tradizionalmente noto come concorso soggettivo di azioni, su cui v., ovviamente,
LIEBMAN, E.T., Azioni concorrenti, in Studi in memoria di Umberto Ratti, Milano, 1934, p. 665
ss.; ID., Pluralità di legittimati alla impugnazione di un unico atto, in Riv. dir. proc., 1937, II, p.
87 ss., pubblicati poi in Problemi del processo civile, Milano, 1962, p. 54 ss. e p. 64 ss.; ID., Ef-
ficacia ed autorità della sentenza, cit., p. 77; ID., La cosa giudicata nelle questioni di stato, in Ef-
ficacia ed autorità della sentenza, cit., p. 157 ss., ma spec. p. 168. È noto, d’altra parte, come
da sempre (cfr., per tutti, BETTI, E., Diritto processuale civile italiano, cit., p. 619, in nota) la
dottrina abbia sostenuto che detta concezione conduca ad un effetto pratico sostanzialmente
coincidente al giudicato secundum eventum litis. Ed è altrettanto noto come lo stesso Lieb-
man, (Azioni concorrenti, cit., p. 62 s; Efficacia ed autorità della sentenza, cit., p. 15, 57; Plu-
ralità di legittimati alla impugnazione di un unico atto, cit., p. 69; Giudicato: I), Diritto proces-
suale civile, in Enc. giur. Trec., 1989, XV, Roma, p. 15) si sia dichiarato contrario a tale regime
processuale. Potrebbe apparire per certi versi una disputa sterile, ma ovviamente non è così.
Come è noto, muovendosi nell’ottica liebmaniana, l’efficacia imperativa della sentenza opera
nei confronti di tutti i consociati (c.d. efficacia naturale della sentenza), ma la cosa giudicata
(ovvero l’immutabilità degli effetti), non opera nei confronti di coloro che non hanno parte-
cipato al giudizio. Cosicché, come afferma lo stesso A. (Giudicato, cit., p. 15), i terzi contra-
steranno l’accertamento ottenuto inter alios solo se questo li pregiudica. In altri termini, in
questa concezione, la separazione degli effetti dalla vincolatività degli stessi, da un lato, per-
mette l’estensione indiscriminata ai terzi e, dall’altro, consente – a chi vuole – di non avvan-
taggiarsene facendo valere la propria mancata soggezione al giudicato (cfr. LUISO, F.P., Princi-
pio del contraddittorio ed efficacia della sentenza verso i terzi, cit., p. 210). D’altra parte le con-
siderazioni appena avanzate non sono sufficienti per acquisire l’esatto inquadramento della
posizione teorica dell’A., e ciò specie riguardo ai fenomeni sostanziali che a noi qui interes-
sano; l’apparente paradosso è costituito dal fatto che, proprio laddove più frequentemente la
dottrina ha parlato di giudicato secundum eventum litis, ovvero in presenza di un regime di
collegittimazione, seguendo l’impostazione liebmaniana non si può pervenire a pari risultato,
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 461

Secondo un altro modello, invece, la pluralità di legittimazioni si tra-


duce sì in distinti ed autonomi poteri di azione, ma l’esercizio di uno di
questi provoca un accertamento idoneo a vincolare tutti gli altri legitti-
mati ad agire.

mentre tale risultato si ottiene, ad esempio, in presenza di rapporti legati da nessi di pregiu-
dizialità-dipendenza. Il punto è che Liebman, da un lato, non fa uso della distinzione tra ef-
fetti diretti e riflessi del giudicato, e, dall’altro, nella presentazione della sua teoria del con-
corso di azioni, si riferisce prevalentemente alle azioni costitutive; fattori, che rendono meno
immediata l’intellezione di tale autorevole dottrina. Ci spieghiamo meglio. Nonostante la sen-
tenza – stando alla posizione di Liebman – indirizzi la sua imperattività nei confronti di tutti
i consociati, per aversi un risultato analogo a quello che si ottiene con il regime di giudicato
secundum eventum litis, anche ragionando all’interno della sistematica liebmaniana occorre
che si realizzi quella relazione sostanziale tra distinti oggetti di accertamento che è l’unica che
consente alle parti di un giudizio di avvalersi dell’accertamento già ottenuto all’interno di un
processo al quale non hanno partecipato; solo al ricorrere di questa condizione, come è ov-
vio, per le parti di un secondo giudizio potrà praticamente rilevare nel loro processo l’accer-
tamento ottenuto inter alios. Così, come detto, se tale accertamento sarà sfavorevole potranno
svincolarsi dall’autorità del giudicato, mentre in caso contrario la sentenza svolgerà i suoi ef-
fetti di accertamento anche nel giudizio che interessa loro (cfr. retro). Ciò, come è ovvio, può
ben realizzarsi allorché la sentenza passata in giudicato contenga l’accertamento dell’effetto
pregiudiziale e il secondo giudizio verta sull’effetto dipendente. In altri termini, nelle ipotesi
che comunemente vengono descritte in termini di efficacia riflessa, abbiamo un regime com-
plessivo degli effetti della sentenza assimilabile – per i motivi già detti – al giudicato secun-
dum eventum litis. Occorre ora chiedersi se questa stessa lettura possa essere proposta in ma-
teria di concorso soggettivo di azioni. Alla questione risponde lo stesso Liebman sin dai suoi
primi scritti, nei quali nega la condizione imprescindibile poc’anzi indicata. Fondamentale è
il passo in cui (Azioni concorrenti, cit., p. 63) viene avversata la posizione di Giuseppe Chio-
venda, denunciando l’impossibilità logica di predicare l’estensione ultra partes in materia di
concorso di azioni di impugnativa avverso lo stesso atto. Sebbene la disputa vertesse in ma-
teria di azioni costitutive, il fondamento della critica è chiarissimamente indicato da Liebman:
«qui non si tratta di limiti soggettivi del giudicato, quanto dei limiti dell’oggetto stesso del
giudizio e della pronuncia: oggetto che è la sola azione del socio che ha proposto la do-
manda». In altri termini, in materia di concorso soggettivo di azioni (come più di recente ri-
marcato dalla dottrina: cfr. RICCI, E.F., Sugli effetti del rigetto dell’impugnazione di delibera as-
sembleare di S.P.A., in Riv. dir. proc., p. 49 ss., ma spec. p. 64 ss.), l’oggetto dei diversi giudizi
non è il medesimo, ovvero manca la condizione necessaria (relazione giuridica – in questo
caso ovviamente di identità – tra gli effetti giuridici da accertare) affinché le parti possano
giovarsi dell’accertamento che le favorisce. Se quanto detto è vero, due sono i risultati che
possono essere tratti da queste riflessioni: a) nell’impostazione liebmaniana i regimi di legitti-
mazione plurima non producono un risultato analogo al giudicato secundum eventum litis, in
quanto il concorso soggettivo di azioni sta proprio ad evidenziare il fatto che l’oggetto dei di-
versi giudizi è diverso; b) l’estensione della c.d. efficacia diretta della sentenza impone la de-
terminazione di un nesso di identità tra l’oggetto dell’accertamento di due o più giudizi. Ciò
è comunemente affermato dalla dottrina, ma, come vedremo più avanti, la consueta configu-
razione dell’oggetto del giudizio in termini di rapporto giuridico costituisce sovente un osta-
colo al verificarsi di detta relazione e della conseguente estensione ultra partes del giudicato.
Sul punto, v. infra, § 5.4.2.1. e nota 156.
462 CAPITOLO SESTO

Quest’ultima opzione, poi, si può sotto-articolare in almeno altre


due ipotesi.
Visto il prodursi degli effetti della sentenza nei confronti di tutti gli
interessati, si può ritenere che questi debbano prendere parte al giudizio,
oppure che l’efficacia della sentenza resa inter alios si estenda anche agli
altri legittimati, sebbene questi non prendano parte al processo105.
Se peraltro si contempla l’ammissibilità generale della figura del giu-
dicato secundum eventum litis, si apre anche una terza via, in un certo
senso intermedia, rappresentata dalla possibilità di concepire che l’accer-
tamento ottenuto in assenza degli altri legittimati si estenda loro solo se
di esito favorevole, ovvero – più precisamente – nei limiti in cui questi se
ne vogliano giovare nei futuri giudizi in cui si trovano coinvolti.
Le opzioni astrattamente prospettabili sarebbero dunque le se-
guenti:
a) concorso soggettivo di azioni;
b) estensione ultra partes degli effetti della sentenza (tanto in senso
favorevole che sfavorevole);
c) giudizio unico con pluralità di parti;
d) estensione ultra partes dei soli effetti favorevoli.
Posti a premessa questi quattro distinti regimi processuali, volendo
cercare di individuare delle direttive interpretative a carattere generale
che, anche riguardo a questo specifico aspetto, ci possano essere di sup-

105 Posta l’efficacia di un unico regolamento giudiziale per i diversi interessati, la ne-

cessaria partecipazione ad un unico processo degli stessi o l’estensione ultra partes degli ef-
fetti della sentenza emessa a conclusione di un giudizio avviato e condotto da solo alcuni dei
legittimati rappresentano soluzioni alternative comunemente prospettate dalla dottrina dedi-
catasi allo studio delle situazioni sostanziali plurisoggettive. Già – sebbene implicitamente –
CHIOVENDA, G., Sul litisconsorzio necessario (1904), in Saggi di diritto processuale civile, II, Mi-
lano, rist. 1993, p. 427 ss., spec. p. 449-453, in riferimento alle fattispecie in cui più soggetti
hanno diritto ad impugnare un unico atto giuridico (come ad es. accade riguardo l’impugna-
zione dei provvedimenti amministrativi o delle delibere assembleari). V. anche REDENTI, E., Il
giudizio civile con pluralità di parti, cit., p. 172 (su cui v. retro, cap. I, § 2.2.2.3), che però af-
ferma che «l’estensione del giudicato a terzi è un fenomeno del tutto sconosciuto al nostro di-
ritto; in ogni caso di fronte ai testi degli artt. 1351 c.c., 35 e 38 c.p.c. […] deve considerarsi
come eccezionale»; ALLORIO, E., La cosa giudicata rispetto ai terzi, cit., p. 131; BETTI, E., Di-
ritto processuale civile italiano, cit., p. 621; FAZZALARI, E., Litisconsorzio necessario ed azione di
filiazione legittima, in Giur. compl. cass. civ., 1946, II, 2, p. 338 ss., ma p. 341; PROTO PISANI,
A., Opposizione di terzo ordinaria, cit., p. 634; FABBRINI, G., Contributo alla dottrina dell’in-
tervento adesivo, Milano, 1964, spec. p. 168-170; ID., Litisconsorzio, in Enc. dir., XXVI, Mi-
lano, 1974, p. 811 ss., ma spec. p. 820 e 826; MONTELEONE, G.A., I limiti soggettivi del giudi-
cato civile, cit., p. 120 s.; MENCHINI, S., Il processo litisconsortile, I, Struttura e poteri delle
parti, Milano, 1993, spec. 463; ID., Il giudicato civile, cit., p. 197.
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 463

porto nei prossimi capitoli, occorre subito procedere ad un confronto tra


le opzioni teoriche ora elencate e le indicazioni che è dato trarre dalla let-
tura sistematica delle specifiche e principali disposizioni di legge in ma-
teria.
Ma appena ci si muova in tale direzione ecco giungere l’amara sor-
presa. Il dato di rilievo sistematico più vistoso è, infatti, rappresentato
proprio dall’assoluta indifferenza del legislatore per la questione in
esame106. In nessuno degli interventi legislativi, che negli anni si sono sus-
seguiti riguardo alla nostra materia, è stata mai introdotta anche una sola
disposizione che fosse espressamente diretta a disciplinare un processo
adeguato alla natura plurindividuale degli interessi tutelati; e ciò ovvia-
mente anche riguardo la possibilità di estendere l’efficacia della sentenza
oltre le parti del giudizio.
Quanto appena rilevato ha più di una spiegazione. Si pensi – ad
esempio – alla preferenza dimostrata in ambito legislativo a favore di in-
terventi settoriali e specifici piuttosto che verso l’ideazione di una disci-
plina processuale unica volta a dotare il nostro ordinamento di un pro-
cesso in grado di accogliere le diverse istanze collettive di tutela; prefe-
renza che, tra l’altro, non sembra perdere terreno nemmeno oggi nei
diversi e recenti disegni di riforma volti ad introdurre azioni collettive ri-
sarcitorie solo riguardo ad illeciti afferenti all’area della tutela dei consu-
matori e non ad esempio riguardo ad altri settori sensibili come quello
dei danni individuali subiti a seguito di illecito ambientale107.
Ma un’altra non secondaria ragione va forse rinvenuta nel generale
orientamento dottrinale teso a ridurre il giudizio collettivo ad una sorta
di giudizio individuale costruito attorno all’interesse delle sole associa-
zioni rappresentative e nella spiegazione dogmatica più coerente di tale
fenomeno, che è certamente da rinvenirsi nelle teorie volte a concepire
l’oggetto del giudizio in termini di diritto soggettivo – in senso tradizio-
nale ovviamente – dell’associazione.
Procedendo su questi binari, infatti, appare piuttosto scontata una
tendenziale sdrammatizzazione del problema di un processo su misura
per questa natura di interessi; difatti, procedendo in questo senso l’inte-
106 Di recente, cfr. CARRATTA, A., Profili processuali della tutela degli interessi collettivi e
diffusi, cit., p. 82-83, ma spec. p. 110 s.
107 Come vedremo nel capitolo IX, dedicato alla tutela dell’ambiente, da tempo è pre-

sente un rimedio risarcitorio – di recente profondamente rivisto – volto a sanzionare illeciti


ambientali che abbiano arrecato pregiudizio al bene ambiente, ma manca nel nostro ordina-
mento un’azione risarcitoria di classe che sia diretta ad istaurare un giudizio avente ad og-
getto la tutela delle diverse pretese risarcitorie che possano derivare da un illecito ambientale
e che risultino lesive direttamente del singolo.
464 CAPITOLO SESTO

resse tutelato viene ad essere proprio quello delle associazioni e non


quello dei singoli appartenenti al gruppo.
Detto questo, l’osservazione che immediatamente ne discende è
quella che segue: se sino ad ora abbiamo rilevato il mancato fondamento
degli orientamenti dottrinali volti a denunciare l’inservibilità delle cate-
gorie tradizionali per procedere alla giuridicizzazione dei nostri interessi,
parimenti non è dato fare riguardo alla questione propriamente proces-
suale che ora ci troviamo ad affrontare.
Nonostante la tendenza alla c.d. differenziazione delle tutele abbia
dato luogo ad una inarrestabile proliferazione dei riti, manca ancora la
disciplina di un processo che non sia cucito su misura per controversie ti-
picamente individuali; controversie, cioè, aventi ad oggetto un conflitto
di interessi individuali esclusivi. Il nostro ordinamento sfoggia, quindi,
mille giudizi individuali e nessun «giusto processo» collettivo108.
Il motivo ispiratore che sul piano della tecnica processuale ha infor-
mato il trend legislativo appena indicato è stato quello di rispondere alla
opportuna esigenza di adeguamento delle forme processuali alla natura
della controversia non apprestando una unica procedura capace di ri-
spondere elasticamente al mutare delle cause da risolvere, ma preve-
dendo diverse procedure a priori ritenute più adatte rispetto ad una spe-
cifica e tipica classe di diritti soggettivi.
Senza ripetere osservazioni che abbiamo avuto già modo di svolgere
in altra sede109, il punto è che, stando a tale quadro legislativo, ci tro-
viamo con riti processuali – tra cui in primis il processo ordinario di co-
gnizione – a struttura tendenzialmente rigida, ovvero privi delle adeguate
clausole di elasticità in grado di garantire l’aderenza delle forme proces-
suali alle specificità del caso concreto, ovvero alla complessità processuale
della controversia110.
108 Per tutti, v. LANFRANCHI, L., Costi sociali della giustizia civile e degiurisdizionalizza-
zione neoliberista, in Giur. it., 1996, IV, p. 158 ss., ora in ID., La roccia non incrinata, Garan-
zia costituzionale del processo civile e tutela dei diritti, Torino, 1999, p. 1 ss., ma spec. p. 16;
ID., Le animulae vagulae blandulae e l’altra faccia della luna, in La tutela giurisdizionale degli
interessi collettivi e diffusi, a cura di L. Lanfranchi, Torino, 2003, spec. p. XLIII ss.
109 Mi riferisco al nostro studio su La fase preliminare del nuovo processo civile inglese e

l’attività di case management giudiziale, cit., spec. p. 567 ss. L’elasticità delle forme processuali
come requisito strutturale essenziale per rispondere adeguatamente alle diverse esigenze che
ruotano attorno al processo civile è rimarcata con forza da TROCKER, N., Il processo civile in
prospettiva comparatistica: recenti tendenze evolutive, in Rass. forense, 2006, p. 1465 ss.
110 In quest’ottica, il fatto che le azioni collettive risarcitorie previste dal nuovo art. 140

bis c. cons. possano essere decise secondo le forme del rito societario previsto dal d.legisl. 5
del 2003, appare una scelta di politica del diritto così alienata dalle reali esigenze che ani-
mano i giudizi collettivi da lasciare senza parole.
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 465

Ed il giudizio collettivo, non fosse altro che per il numero dei possi-
bili soggetti interessati al giudizio, si presenta, come insegna la letteratura
nord-americana, quale tipica ipotesi di complex litigation, ovvero di con-
troversie ad elevata complessità processuale111.
Acquisita quale sia la giusta cornice entro cui inquadrare – all’interno
del nostro ordinamento – il problema dei limiti soggettivi del giudicato in
materia di azioni collettive, si palesa con chiarezza che l’unica scelta me-
todologicamente corretta non è rappresentata dal sottoporre a valutazione
comparativa diretta le quattro opzioni teoriche poc’anzi indicate, ma piut-
tosto dal valutare le stesse in relazione non solo alle diverse esigenze che
in generale caratterizzano tali controversie, ma anche al valore aggiunto
che riguardo ciascuna di esse può offrire l’applicazione degli strumenti di
elasticità che il nostro ordinamento mette a disposizione dell’interprete
specie sul piano delle tecniche di estensione del contraddittorio ai soggetti
che non hanno assunto la veste di parti originarie del giudizio112.
Questa è stata, difatti, come visto e come ancora vedremo, la strada
percorsa dalla dottrina, la quale, indipendentemente dai risultati di volta
in volta raggiunti, ha fatto perno, da un lato, sull’istituto dell’intervento
in causa (artt. 105, 106 e 107 c.p.c.) e, dall’altro, sulla disciplina della no-
tificazione prevista dall’art. 150 c.p.c.113

111 Per avere una lampante prova di ciò che si dice basti aprire il FEDERAL JUDICIAL CEN-

TER, Manual for Complex Litigation, Fourth, 2004, che tratta le class actions da p. 242 a 340 e
i mass tort litigations da p. 341 a 468. Sul tema, v. anche MARCUS, R.L. - SHERMAN, E.F., Com-
plex Litigation, Cases and Materials on Advanced Civil Procedure, St. Paul, 2004.
112 Sul piano del metodo questo è il percoso d’indagine, come detto nel testo, preva-

lentemente seguito per inquadrare il problema dei limiti soggettivi del giudicato in un ottica
non unicamente inchiodata al punto di vista degli effetti della sentenza: in generale, v. PROTO
PISANI, A., Appunti sui rapporti tra i limiti soggettivi di efficacia della sentenza civile e la ga-
ranzia costituzionale del diritto di difesa, cit., passim.
113 Ampia ed autorevole la dottrina ha rimarcato l’assoluta necessità di far impiego dei

correttivi processuali ora ora indicati nel testo. Senza ripetere le pur opportune distinzioni tra
le diverse prospettive seguite a seconda della configurazione dell’oggetto del giudizio e dei li-
miti soggettivi da attribuire alla sentenza collettiva (su cui v. retro, cap. III, § 4.) in una cor-
nice di riflessione generale sul tema degli interessi collettivi, v., in particolare, DENTI, V., Re-
lazione introduttiva, in Le azioni a tutela di interessi collettivi (Atti del convegno di Pavia, 11-
12 giugno, 1974), Padova, 1976, p. 21; e poi ID., Interessi diffusi, in Noviss. Dig. it.,
Appendice, IV, Torino, 1983, p. 305 ss., spec. p. 312; ID., Profili civilistici della tutela degli in-
teressi diffusi, Profili civilistici della tutela degli interessi diffusi, in Strumenti per la tutela degli
interessi diffusi della collettività (Atti del convegno nazionale promosso dalla sezione di Bolo-
gna di Italia Nostra, Bologna, 5 dicembre 1981), Rimini, 1982, p. 49; PROTO PISANI, A., Ap-
punti preliminari per uno studio sulla tutela giurisdizionale degli interessi collettivi, in Le azioni
a tutela di interessi collettivi, cit., p. 263 ss., spec. p. 279-280; ID., Nuovi diritti e tecniche di
tutela, in Dir. e giur., 1991, p. 227 ss., spec. p. 239-240; ANDRIOLI, V., Diritto processuale civile,
466 CAPITOLO SESTO

Rappresenterebbe, dunque, una falsante semplificazione spezzare sic


et sempliciter una lancia a favore dell’estensione ultra partes degli effetti
della sentenza, piuttosto che a favore del giudicato secundum eventum li-
tis o di altra possibile soluzione, senza contestualizzare nel dettaglio in
quale «ambiente» operativo ciascun regime può o deve essere calato.
Lavoriamo, insomma, in un sistema a più variabili, estremamente
complesso, che occorre percorrere nelle diverse direzioni per vagliare
quale sia la soluzione di compromesso più accettabile rispetto ai diversi
valori in gioco; il discorso sarà, quindi, un po’ articolato. Ce ne scusiamo
con il lettore, ma altra via – quanto meno a chi scrive – non sembra con-
cessa.
Ciò detto, in una prima fase, procederemo ad una separata analisi
«costi-benefici» di ciascuna delle quattro opzioni teoriche astrattamente
utilizzabili, il più possibile liberi da «aprioristiche preclusioni»114, proce-
dendo, poi, ad una successiva correzione dei risultati parziali ottenuti alla
luce degli strumenti di elasticità appena indicati.
Conclusa questa prima fase, passeremo alla seconda, nella quale ope-
reremo una sintesi di questo percorso valutando la soluzione relativa-
mente più plausibile tanto sotto il profilo più propriamente pratico-equi-
tativo quanto sotto il profilo della sua compatibilità con il diritto positivo.

5.3.1. Concorso soggettivo di azioni


Iniziamo, quindi, dall’ipotesi del concorso soggettivo di azioni; re-
gime di coordinamento delle iniziative giudiziali la cui ammissibilità lo-
gico-giuridica, in relazione al fenomeno con cui ci confrontiamo, appare
non dubbia anche solo ad un rapido contatto visivo con lo schema
poc’anzi riportato sub (A), oltre che in ragione del suo frequente impiego
in ambito sia dottrinale che giurisprudenziale in materia di rimedi pro-
cessuali a tutela degli interessi collettivi115.
cit., p. 528; ID., Giustizia civile e inquinamento atmosferico, in Ecologia e disciplina del territo-
rio (Atti del Convegno di Pontremoli, 29-31 maggio 1975), Milano, 1976, p. 33 ss., ma anche
in Il controllo sociale delle attività private, a cura di S. Rodotà, Bologna, 1977, p. 437 ss., ma
spec. p. 446-7; ID., Un po’ di «Materiellesjustizrecht», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1984, p. 949
ss., ma spec. p. 960 s.; TROCKER, N., Interessi collettivi e diffusi, in Enc. giur. Trec., XVII,
Roma, 1989, p. 7; ALPA, G., Interessi diffusi, in Dig. disc. priv., sez. civ., IX, Torino, 1993, p.
609 ss., spec. p. 616. Altra autorevole dottrina potrebbe essere citata in riferimento ai diversi
procedimenti generalmente ritenuti a tutela di interessi collettivi. Per indicazioni specifiche
rimandiamo ai capitoli che seguono.
114 DENTI, V., Profili civilistici della tutela degli interessi diffusi, cit., p. 51.
115 Questo modello è stato frequentemente richiamato per coordinare le diverse legitti-

mazioni che in genere ricorrono negli ambiti di disciplina dei rimedi posti a tutela di interessi
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 467

I vantaggi che comporta questo modello sono i seguenti: a) è il più


aderente al tradizionale principio di relatività degli effetti della sentenza
(art. 2909 c.c.); b) costituisce la soluzione teorica comparativamente più
semplice, poiché di per sé non pone problemi riguardo ai rapporti tra

sovraindividuali. Ad esempio, un ampio impiego si è avuto nel giudizio di repressione della


condotta antisindacale per ciò che attiene al rapporto tra azione speciale sindacale e azione
ordinaria individuale. È la tesi del c.d. parallelismo delle azioni, su cui v. FRENI, A. - GIUGNI,
G., Lo Statuto dei lavoratori, Milano, 1971, spec. p. 125; VACCARELLA, R., Il procedimento di
repressione della condotta antisindacale, Milano, 1977, p. 63 ss.; GAROFALO, G.M., Interessi
collettivi e comportamento antisindacale dell’imprenditore, Napoli, 1979, p. 221 ss.; ID., Re-
pressione della condotta antisindacale, in Lo Statuto dei lavoratori, Commentario, diretto da
Giugni, 1979, p. 455 ss.; CIPRESSI, P., I comportamenti antisindacali del datore di lavoro, Mi-
lano, 1983, spec. p. 163 ss.; DELL’OLIO, M., L’art. 28 della legge 20 maggio 1970, n. 300: pro-
fili processuali, in Il processo del lavoro nell’esperienza della riforma, Milano, 1985, p. 183 ss.;
CECCHELLA, C., Coordinamento tra azione individuale e azione sindacale nel procedimento ex
art. 28 dello Statuto dei lavoratori, in Riv. it. dir. lav., 1984, I, p. 408 ss., spec. 440 ss. In ma-
teria di giudizi antidiscriminatori, in riferimento al rapporto tra l’azione del consigliere di pa-
rità e le azioni dei singoli soggetti discriminati, v. BALENA, G., Gli aspetti processuali della tu-
tela contro le discriminazioni di sesso, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1995, p. 425 ss., spec. p. 433.
Anche in materia di strumenti di tutela degli interessi dei consumatori, come meglio vedremo
(cfr. infra, cap. X, § 3.2.3.5.), ha trovato frequente impiego la ricostruzione richiamata in que-
sta nota, ma con applicazioni assai diversificate e ciò come naturale conseguenza dell’intrigato
e complesso regime di concorso di legittimazioni. Stante la generale esclusione della legitti-
mazione del singolo consumatore ad esercitare il rimedio ex art. 1469 sexies, si è parlato di
concorso soggettivo di azioni in relazione al coordinamento tra le distinte azioni attribuite
agli enti rappresentativi. In questo senso, v. CONSOLO, C., in CONSOLO, C. - DE CRISTOFARO,
M., Clausole abusive e processo, in Corr. giur., 1997, p. 468 ss., spec. p. 481 ss.; FERRI, C., L’a-
zione inibitoria prevista dall’art. 1469-sexies c.c., in Riv. dir. proc., 1996, p. 936 ss., spec. p. 941
s.; FRIGNANI, A., L’azione inibitoria contro le clausole vessatorie (considerazioni «fuori dal coro»
di un civilista), in Riv. dir. proc., 1997, p. 999 ss., spec. p. 1011; GIUSSANI, A., Considerazioni
sull’art. 1469 sexies c.c., in Riv. dir. priv., 1997, p. 321 ss., spec. p. 335; LAPERTOSA, F., Profili
processuali della disciplina delle clausole vessatorie nei contratti con il consumatore, in Riv. dir.
proc., 1998, p. 700, spec. p. 725; CAPOBIANCO, E., Contrattazione bancaria e tutela dei consu-
matori, Napoli, 2000, p. 217; PETRILLO, C., L’azione inibitoria a tutela dei consumatori ed
utenti ex art. 1469 sexies c.c., in Giusto processo civile e procedimenti decisori sommari, a cura
di L. Lanfranchi, Torino, 2001, p. 143 ss., spec. p. 167; PUNZI, C., La tutela giurisdizionale de-
gli interessi diffusi e degli interessi collettivi, in La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi
e diffusi, cit., p. 32; MINERVINI, E., La tutela collettiva dei consumatori in materia contrattuale,
in I contratti dei consumatori, t. 1, a cura di E. Gabrielli e E. Minervini, in Trattato dei con-
tratti, diretto da P. Rescigno e E. Gabrielli, 2005, p. 427 ss., spec. p. 535. Ancora in materia
di consumatori, ma in diretto riferimento ai rapporti tra azioni degli enti esponenziali ex art.
3 l. 281/98 e azione dei singoli consumatori, v. ancora PUNZI, C., La tutela giurisdizionale de-
gli interessi diffusi e degli interessi collettivi, cit., 40 s.; e poi GIUSSANI, A., La tutela di interessi
collettivi nella nuova disciplina dei diritti dei consumatori, in Danno e responsabilità, 1998, p.
1061 ss., p. 1062 s. Cfr. anche CARRATTA, A., Brevi osservazioni sull’inibitoria a tutela di con-
sumatori e utenti, in Giusto processo civile e procedimenti decisori sommari, cit., p. 119 ss.,
spec. p. 137. Al concorso soggettivo di azioni non si può ricondurre l’orientamento dottrinale
468 CAPITOLO SESTO

estensione degli effetti della sentenza e garanzia del diritto di azione e di


difesa dei soggetti terzi al giudizio (artt. 24, comma 1 e 2, e 111, comma
2, Cost.).
Non pochi sono peraltro gli svantaggi.
Innanzitutto, in assenza di un termine breve per l’esercizio dell’a-
zione, tale regime processuale porta con sé il rischio della perenne insta-
bilità del regolamento sostanziale, con pregiudizio, non solo – sotto un
profilo generale – della certezza del diritto (soluzione economicamente
inefficiente per tutti i soggetti coinvolti), ma anche – più in particolare –
del diritto di difesa del soggetto convenuto in giudizio; e ciò, tanto sotto
un profilo più propriamente sostanziale, di effettività (che potremmo ri-
collegare all’art. 24, comma 2, in coordinato disposto con il secondo
comma dell’art. 3 Cost.), quanto sotto un profilo viceversa più formale di
pari trattamento (arg. ex art. 3, comma 1, Cost.).
In altri termini, da un lato, il diritto di difesa del convenuto po-
trebbe trasformarsi nel minaccioso diritto a continuare a difendersi e, dal-
l’altro, la sua posizione processuale sarebbe comparativamente più svan-
taggiosa di quella riservata ai legittimati attivi, in quanto il rigetto della
domanda, non rappresenterebbe la definitiva vittoria per il convenuto e
nemmeno rappresenterebbe la definitiva sconfitta per l’attore soccom-
bente, il quale, in caso di successivo accoglimento della domanda propo-
sta da parte di altro legittimato, potrebbe comunque avvantaggiarsi degli
effetti pratici derivanti dell’attuazione della sentenza116.

che ritiene che l’accertamento dell’abusività della clausola generale non abbia effetto nei giu-
dizi individuali, poiché qui, ovviamente, stante la mancata legittimazione dei singoli ad eser-
citare detto rimedio, il regime del concorso non è configurabile (cfr. amplius, infra, cap. X,
§ 3.2.3.5.).
116 Sono in genere le obiezioni che la dottrina muove, sullo specifico piano del rispetto

delle garanzie costituzionali, al giudicato secundum eventum litis. In questo senso, nella pro-
spettiva di una riflessione generale sui limiti soggettivi del giudicato, v. in particolare LUISO,
F.P., Principio del contraddittorio ed efficacia della sentenza verso i terzi, cit., p. 210. All’interno
di una riflessione precipuamente orientata allo studio degli strumenti di tutela degli interessi
collettivi, v. invece VIGORITI, V., Interessi collettivi e processo, I, La legittimazione ad agire, Mi-
lano, 1979, p. 112; VOCINO, C., Sui cosiddetti interessi diffusi, in Studi in memoria di Salvatore
Satta, II, Padova, 1982, p. 1879 ss., spec. p. 1907; e, più di recente, CARRATTA, A., Profili pro-
cessuali della tutela degli interessi collettivi e diffusi, in La tutela giurisdizionale degli interessi
collettivi e diffusi, cit., p. 79 ss., spec. p. 102 ss. Come già rilevato addietro (cfr. cap. III, nota
152), peraltro, sebbene queste osservazioni siano perfettamente condivisibili, oltre che condi-
vise, non sembrano assumere valore decisivo. Infatti, sin dalle prime riflessioni attorno al pro-
blema dei limiti soggettivi del giudicato in materia di azioni collettive, abbiamo cercato di ri-
marcare il fatto che – pur assumendo come criterio di riferimento solo quello dell’opportu-
nità e delle garanzie processuali – le quattro opzioni teoriche logicamente contemplabili
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 469

In secondo luogo – e questo è un aspetto a cui occorre prestare par-


ticolare attenzione – il concorso soggettivo di azioni escluderebbe qual-
siasi possibilità di giovarsi di un eventuale giudicato favorevole da parte
degli altri legittimati in eventuali giudizi che vedono loro coinvolti.
Ci si spiega meglio.
Dalle considerazioni già svolte addietro è emerso che è possibile ed
auspicabile ritenere che l’accertamento autoritativo ex art. 2909 c.c. inve-
sta non solo l’obbligo reiterato in via specificativa dall’ordine inibitorio,
ma anche le questioni lato sensu pregiudiziali che lo sorreggono117.
Se si accoglie questa lettura, allora è di palmare evidenza che l’in-
dice di effettività del giudizio collettivo inibitorio registri un’importante
innalzamento, allorquando si ritenga che la vincolatività dell’accerta-
mento possa estendersi nei confronti dei soggetti che non hanno preso
parte al giudizio118. Ciò proprio in virtù del fatto che questi – in caso ov-
viamente di accoglimento della domanda – potranno avvantaggiarsi di
tale accertamento negli eventuali giudizi aventi ad oggetto i c.d. effetti
conseguenti.
La questione era già stata anticipata poc’anzi per cui ora non vi ci si
attarda oltre modo119. Il punto è comunque che, se si ritiene che tali giu-
dizi inibitori seguano il regime del concorso soggettivo, tale possibilità
deve ritenersi ovviamente esclusa.
Esaminati in sintesi gli aspetti positivi e negativi del modello, eccoci
dunque ai principali correttivi.

riguardo al problema del coordinamento delle legittimazioni non possono essere valutate in
termini assoluti, ma devono essere valutate in una prospettiva di reciproca comparazione ed
ancor più alla luce dei possibili correttivi processuali di cui ciascuna di queste può benefi-
ciare. Come vedremo (infra, § 5.4.3.), il giudicato secundum eventum litis, per ciò che attiene
al problema delle garanzie processuali riservate ai soggetti coivolti nella controversia collet-
tiva, risulta, in assenza di una più articolata (ed auspicabile) disciplina del processo, il regime
maggiormente accettabile, specie se coordinato con quanto dispongono gli artt. 106 c.p.c. e
150 c.p.c.
117 Cfr. retro, § 5.2.3.
118 Che l’effettività della tutela giurisdizionale collettiva sia correlata anche alla possi-

bilità di prevedere forme di estensione del giudicato nei confronti dei membri del gruppo
costituisce una considerazione unanimemente condivisa. Citazioni sul punto appaiono su-
perflue.
119 Ci riferiamo al § 5.1.3. in cui abbiamo esaminato la funzione e la struttura dei giu-

dizi collettivi su questioni. Nell’ipotesi prospettata nel testo, ovviamente, non si ha a che fare
con un giudizio in cui l’oggetto dell’accertamento è dato da una singola questione. Al con-
trario, l’accertamento con efficacia di giudicato investe di certo il comportamento doveroso
che si ritiene debba tenere il convenuto, ma ciò non toglie che sia preferibile ritenere che tale
accertamento si estenda anche alla questione pregiudiziale che lo sorregge.
470 CAPITOLO SESTO

Questi ultimi – come osservato – sono senz’altro costituti dall’appli-


cazione congiunta degli artt. 106 e 150 c.p.c.120
Si potrebbe ritenere che il convenuto, per vincolare la collettività al
giudicato, possa estendere il contraddittorio nei confronti degli altri le-
gittimati servendosi della notificazione per pubblici proclami121.
Il discorso necessiterebbe di certo delle doverose specificazioni in
relazione alle diverse fattispecie, ma pur ragionando in chiave generale,
sembra ragionevole ritenere che il convenuto possa notificare l’atto di
chiamata in causa alla collettività – eventualmente indeterminabile nella
sua consistenza soggettiva122 – mediante le speciali forme previste dal-

120 Ovviamente non deve escludersi la chiamata in causa per ordine del giudice di altri
legittimati, ma non v’è dubbio che detto rimedio manifesti tutta la sua opportunità e decisi-
vità nell’ipotesi – che tra breve esamineremo – dell’estensione ultra partes degli effetti favore-
voli e sfavorevoli della sentenza nei confronti degli altri legittimati rimasti terzi al giudizio. Un
ulteriore correttivo del modello ora in esame potrebbe essere visto anche nell’intervento vo-
lontario degli altri legittimati nel giudizio già avviato. Ma tale correttivo – come è noto – si di-
mostra più virtuale che reale. Sicuramente l’intervento in causa consentirebbe all’interventore
di giovarsi di un eventuale giudicato favorevole, secondo una sorta di sistema di opt-in, ma
tanto – da un lato – la mancanza di un adeguato sistema di pubblicizzazione del giudizio,
quanto – dall’altro – il regime preclusivo che colpisce l’interventore volontario nel nostro or-
dinamento privano di qualsiasi rilievo concreto tale correttivo.
121 Sull’istituto, v., in generale, PUNZI, C., Delle comunicazioni e notificazioni, Art. 150,

Notificazione per pubblici proclami, in Commentario del codice di procedura civile, diretto da E.
Allorio, I, 2, cit., p. 1528 ss.; ID., Notificazione (dir. proc. civ.), in Enc. dir., XXVIII, Milano,
1978, p. 641 ss.; LA CHINA, S., Notificazione: II) Diritto processuale civile, in Enc. giur. Trecc.,
XXI, Roma, 1990, p. 7 s.; BALENA, G., Notificazione e comunicazione, in Dig. disc. priv., sez.
civ., XII, Torino, 1995, p. 259 ss., spec. p. 273 s.
122 Oltre agli AA. già cit. retro, alla nota 113, v. già REDENTI, E., Diritto processuale ci-

vile, I, Milano, 1958, p. 221, che osservava come con tale disposizione si aprisse «la possibi-
lità di promuovere dei giudizi ordinari di cognizione contro intere categorie o ceti di persone
non tutte identificate nominativamente ed anzi identificate solo in base a certe qualificazioni
od a certe situazione in cui si possono trovare (per esempio: tutti i portatori di certi determi-
nati titoli obbligazionari di prestiti pubblici o privati, gli utenti di certi usi civici, i comunisti
di una certa frazione comunale ecc.)»; successivamente tale lettura trovava conferma in AN-
DRIOLI, V., Diritto processuale civile, cit., p. 528 s., che la prospettava proprio in relazione alla
tutela degli interessi collettivi («di serie») in combinazione con l’art. 107 c.p.c. Il meccanismo
di funzionamento dell’istituto nell’ipotesi in cui non sia possibile la notificazione in forma or-
dinaria per il numero dei destinatari è peraltro descritto con particolare efficacia da SASSANI,
B., A proposito di notificazione per pubblici proclami, efficacia soggettiva della sentenza e «obi-
ter dicta» giudiziali, in Giur. it., 1991, I, 2, p. 99 ss. La dottrina or ora citata, infatti, non solo
rimarca – come fatto cenno nel testo – il diverso tenore letterale che l’attuale art. 150 presenta
rispetto al vecchio art. 146 del c.p.c. del 1865 (in cui tale forma di notificazione era ammessa
solo allorché quella ordinaria fosse «sommamente difficile per il numero delle persone da ci-
tarsi»), ma evidenzia anche come «la sentenza, resa in processi generati da notificazioni per
pubblici proclami si impone anche alle parti non nominativamente indicate nell’atto di cita-
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 471

l’art. 150 c.p.c. e alle associazioni rappresentative ulteriormente legitti-


mate secondo le regole ordinarie.
Come è noto, infatti, l’art. 150 c.p.c., contrariamente a quanto di-
sponeva il codice del 1865 all’art. 146, prevede due distinte ipotesi in cui
è dato autorizzare la notificazione per pubblici proclami e cioè quando
«la notificazione nei modi ordinari è sommamente difficile per il rile-
vante numero dei destinatari o per la difficoltà di identificarli tutti».
Sono, in altri termini, contemplate due separate fattispecie proces-
suali: una prima, in cui i soggetti destinatari sono identificati, ma il loro
rilevante numero comporta una somma difficoltà di notificazione se-
condo le regole comuni (numerosità); ed una seconda in cui invece è la
loro stessa identificabilità ad essere difficoltosa (indeterminabilità).
zione perché la sua efficacia opera non con il meccanismo (usuale) dell’imputazione sogget-
tivo-nominativa, bensì con il meccanismo (straordinario, ma qui legittimato proprio per la
specialità della situazione che ha giustificato l’autorizzazione ai pubblici proclami) dell’impu-
tazione cosiddetta “per fattispecie”. In questa forma di imputazione, i destinatari degli effetti
della sentenza vengono individuati attraverso una data relazione con una certa res […], o con
una certa situazione giuridica, o con un certo evento […]». A chi scrive non pare, peraltro,
che questa lettura sia in contraddizione insanabile con quella prospettata da autorevole dot-
trina (PUNZI, C., Delle comunicazioni e notificazioni, cit., p. 1529 s.), secondo cui «l’ambito
più logico di applicazione della norma» è rappresentato dalla prima fattispecie prevista dalla
disposizione (ampio numero dei destinatari). Si è osservato, infatti, che la problematicità del-
l’applicazione di quanto dispone l’art. 150 c.p.c. nell’ipotesi in cui i destinatari non siano
identificabili non sta tanto nel procedimento di notificazione in sé, quanto piuttosto nella
stessa idea di un processo di cognizione condotto avverso intere categorie e non verso sog-
getti determinabili. Secondo questa lettura, al contrario, i destinatari della notificazione, an-
che se numerosi, dovrebbero essere «in qualche modo individuati, se non nominativamente,
almeno con riferimento ad un identico rapporto che sia tutti comune e che sia sussistente e
determinato ab initio». Posta in questi termini la questione, dunque, sembrerebbe che il pro-
blema che può affiggere la notificazione per pubblici proclami in relazione alla seconda fatti-
specie prevista dal codice sia determinato dal rischio di ottenere una sentenza con oggetto so-
stanzialmente indeterminato, la cui successiva efficacia di giudicato negli eventuali giudizi
non sia ragionevolmente valutabile sulla base di indici relazionali attendibili. Peraltro, come
già chiarito addietro (cfr. retro § 5.1.2. e nota 37), nella nostra materia gli elementi oggettivi
del giudizio sono sempre determinati sin dall’inizio e giammai si istaura un processo votato a
conludersi con un provvedimento la cui efficacia soggettiva risulterà poi non verificabile.
Come già detto nel testo, i destinatari della notificazione sono i destinatari dell’obbligo e que-
st’ultimo vale come primo criterio di determinazione mediata di essi. A parte questo, comun-
que, il distinto ambito di applicazione dell’istituto (ampio numero dei destinatari o impossi-
bilità di determinazione degli stessi) trova riconoscimento anche in giurisprudenza. Partico-
larmente chiara sul punto è Cass., 3 luglio 1998, n. 6507, in Foro it., 1999, I, p. 2021. In
dottrina l’applicazione dell’art. 150 c.p.c. alla materia degli interessi sovraindividuali trova –
come visto retro (nota 113) – ampio riscontro; contra, v. RESCIGNO, P., Sulla compatibilità tra
il modello processuale della «class action» ed i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico
italiano, in Giur. it., 2000, p. 2224 ss., ma spec. p. 2227. Sul punto, v. anche v. retro, cap. III,
nota 149.
472 CAPITOLO SESTO

Ovviamente nei nostri giudizi la situazione concreta potrebbe – a se-


conda delle connotazioni fenomeniche della fattispecie – rientrare nella
prima ipotesi o nella seconda ipotesi, o addirittura porsi a cavallo tra le
due.
Sta di fatto, che lo stesso art. 150 c.p.c. non è sordo ad una verosi-
mile diversificazione delle circostanze, difatti prevede poi al suo secondo
comma che il decreto di autorizzazione possa distinguere tra coloro che
devono essere destinatari di una notificazione secondo le regole ordina-
rie e coloro che invece riceveranno la notificazione dell’atto secondo le
forme speciali della disposizione in questione.
La differente modalità di notificazione poc’anzi accennata sembra
quindi perfettamente compatibile con il sistema e pone il convenuto
nella concreta ed effettiva possibilità di sottrarsi alla reiterazione delle
domande123.

5.3.2. Giudicato secundum eventum litis


Il secondo modello che viene agevole ora esaminare è rappresentato
dall’estensione ultra partes del solo giudicato favorevole.
Tale modello è espressamente previsto in taluni ordinamenti stra-
nieri. Difatti ha ricevuto applicazione nell’ordinamento tedesco124, ma,
come è noto, rappresenta il perno attorno a cui ruota tutto il sistema
delle azioni collettive nell’ordinamento brasiliano. Qui, infatti, è previsto
un regime piuttosto articolato, in quanto l’azione collettiva promossa da-
gli enti rappresentivi legittimati – sempre che non si scontri con un ri-
getto della domanda per insufficienza di prove – conduce ad un accerta-
mento, che – sia esso favorevole o sfavorevole – vincola tutti gli altri enti
legittimati ad agire in via rappresentativa, sia in caso di diritti-interessi
collettivi, sia in caso di diritti-interessi diffusi, come anche in caso di
azioni a tutela di diritti individuali omogenei. Peraltro, se, in ragione
della regola ora indicata, il giudicato sfavorevole preclude la proposi-
zione di altre azioni collettive (rectius: è vincolante nei futuri giudizi col-
lettivi), ciò non si verifica rispetto ai giudizi individuali, nei quali l’accer-
123 Questa soluzione è quella peraltro presentata dalla prima formulazione del codice

del consumo, sebbene in coordinamento con un efficacia del giudicato secundum eventum li-
tis. Sul punto, v. qualche cenno, infra, nota 128.
124 Ci riferiamo al § 21 dell’AGBG tedesca, sul quale, con riferimento al testo origina-

rio della legge (riportato in Foro it., 1979, V, p. 46 ss.), v. innanzitutto RAPISARDA, C., Spunti
in tema di efficacia del giudicato secundum eventum litis con particolare riguardo all’esperienza
della legge tedesca sulle condizioni generali del contratto, in Studi in onore di E. Allorio, I, Mi-
lano, 1989, p. 757 ss.
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 473

tamento ottenuto in sede collettiva avrà effetto di giudicato solo se di


contenuto favorevole125.
Inoltre tale modello, frequentemente sostenuto anche dalla nostra
dottrina in materia di azioni collettive126, ha sino ad ora dimostrato di es-
125 Questa, in sintesi, la disciplina prevista dalle disposizioni che compongono l’art. 103

del CDC. In lingua italiana, v. PELLEGRINI GRINOVER, A., Il nuovo processo brasiliano del con-
sumatore, cit., p. 1068 ss.; ID., La difesa degli interessi transindividuali: Brasile e Iberoamerica,
cit., p. 163 ss. Per approfondimenti, v. GIDI, A., Class Actions in Brasil, A Model for Civil Law
Countries, cit., p. 388 ss.; ID., Coisa julgada e litispendência em ações coletivas, San Paolo,
1995; e, più di recente, MIRANDA PIZZOL, P., Coisa julgada nas ações coletivas, in
www.pucsp.com.br.
126 In particolare, v. COSTANTINO, G., Brevi note sulla tutela giurisdizionale degli interessi

collettivi davanti al giudice civile, in Le azioni a tutela di interessi collettivi, cit., p. 223 ss.,
spec. p. 234 ss.; PROTO PISANI, A., Appunti preliminari per uno studio sulla tutela giurisdizio-
nale degli interessi collettivi, cit., spec. p. 279-280 (ma anche in ID., Nuovi diritti e tecniche di
tutela, cit., spec. p. 240); TARUFFO, M., Intervento, in Le azioni a tutela di interessi collettivi,
cit., p. 330 ss., spec. p. 335; PELLEGRINI GRINOVER, A., Le garanzie costituzionali del processo
nelle azioni collettive, in Studi in onore di Enrico Allorio, Milano, 1989, I, p. 471 ss., spec. p.
482 ss.; ID., Il nuovo processo brasiliano del consumatore, cit., p. 1068 ss.; ID., Significato so-
ciale, politico e giuridico della tutela degli interessi diffusi, in Riv. dir. proc., 1999, p. 17 ss.; e,
più di recente, ID., La difesa degli interessi transindividuali: Brasile e Iberoamerica, cit., p. 163
ss. Particolare ed estremamente significativa è la posizione di DENTI, V., Relazione introdut-
tiva, in Le azioni a tutela di interessi collettivi, cit., p. 5 ss., spec. p. 21; ID., Interessi diffusi,
cit., p. 305 ss., spec. p. 313; ID., Profili civilistici della tutela degli interessi diffusi, cit., spec. p.
51, che, come esaminato retro, cap. III, nota 152, da una lettura più problematica si è pro-
gressivamente orientato in senso favorevole. Ancora in un cornice di riflessione generale sulla
tutela collettiva, v., di recente, LANFRANCHI, L., Le animulae vagulae blandulae e l’altra faccia
della luna, cit., p. XLVI; MENCHINI, S., Azioni seriali e tutela giurisdizionale: aspetti critici e
prospettive ricostruttive, cit., § 5. In materia di giudizio per la repressione della condotta an-
tisindacale, seppur all’interno di una ricostruzione sua propria, a tale risultato giunge MON-
TESANO, L., La tutela giurisdizionale dei diritti, cit., p. 202. In materia di giudizi antidiscrimi-
natori, v. CICCHITI, V.E., Profili processuali della tutela della parità tra uomini e donne in ma-
teria di lavoro, in Riv. dir. proc., 1996, p. 1187 ss., spec. p. 1200; ID., L’azione civile contro la
discriminazione ex art. 44 t.u. 286/98, in Lavoro giur., 2000, p. 729 ss., spec. p. 743; ID., La tu-
tela processuale della parità dopo il d.lgs. del 23 maggio 2000 n. 196, in Riv. dir. proc., 2003, p.
175, spec. p. 200; ed anche chi scrive in Considerazioni sulla natura dell’azione esercitata dal
consigliere di parità in materia di discriminazioni uomo-donna, in Riv. giur. lav., 2004, p. 611
ss., spec. p. 647 ss. In materia di azioni a tutela degli interessi dei consumatori, per ciò che ri-
guarda il concorso tra azioni riservate agli enti rappresentativi, senza distinguere ora tra
azione ex art. 1469 sexies e rimedio generale ex art. 3 l. 281/98, v. BELLELLI, A., Art. 1469-
sexies, Azione inibitoria, I, La tutela inibitoria, in Commentario al capo XVI bis del codice ci-
vile: dei contratti del consumatore, in Le nuove leggi civili comm., 1997, p. 1261 ss., spec. p.
1271, che peraltro si era già espressa in tal senso sin dal contributo su L’inibitoria come stru-
mento di controllo delle condizioni generali di contratto, in Le condizioni generali di contratto,
a cura di C.M. Bianca, II, Milano, 1981, p. 301 ss.; PAGNI, I., Tutela individuale e tutela col-
lettiva nella nuova disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti (Prime riflessioni sull’art.
3, l. 30.7.1998, n. 281), in La disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti: l. 30 luglio
474 CAPITOLO SESTO

sere quello più vicino – relativamente parlando ovviamente – ad un even-


tuale riconoscimento legislativo, come risulta dal Progetto Bianca del
1981127 e dal disegno di legge sul Codice di consumo128.
I principali vantaggi che questo regime di coordinamento delle ini-
ziative presenta sono i seguenti: a) pieno rispetto della garanzia del di-
ritto di azione e difesa dei diversi legittimati; b) innalzamento dell’indice
di effettività della tutela giurisdizionale collettiva in ragione dell’esten-
sione del giudicato favorevole con conseguente coordinamento ed
uniformità delle decisioni; c) maggiore aderenza al principio di economia
processuale, visto che, in caso di giudicato favorevole, la lite collettiva
viene a risolversi, evitando così il reiterarsi dell’esercizio delle azioni da
parte degli altri legittimati129.
Sostanzialmente immutato – rispetto al concorso soggettivo di
azioni – rimane il principale svantaggio che tale modello porta con sé, ov-
vero la gravosa posizione processuale del convenuto130. Ed ugualmente

1998, n. 281, a cura di A. Barba, Napoli, 2000, p. 127 ss., spec. p. 164 ss.; BENUCCI, S., La di-
sciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, in Squilibrio e usura nei contratti, Padova,
2002, p. 169 ss., ma spec. p. 185 s.; ODORISIO, E., La tutela giurisdizionale dei diritti dei con-
sumatori e degli utenti: concorso di azioni e «giusto processo» civile, in La tutela giurisdizionale
degli interessi collettivi e diffusi, cit., p. 491 ss.; CHIARLONI, S., Appunti sulle tecniche di tutela
collettiva dei consumatori, cit., p. 385 ss., spec. p. 393 ss.; ID., Per la chiarezza di idee in tema
di tutele collettive dei consumatori, cit., p. 575 ss. Ancora in questo ambito di tutela, a favore
del giudicato secundum eventum litis (o ad un regime di efficacia sostanzialmente analogo),
sebbene lungo percorsi argomentativi tutt’altro che uniformi (ampius, v. § 3.2.3.5. del cap. X),
si è espressa la maggior parte della dottrina con riferimento ai rapporti tra azione degli enti
rappresentativi e singoli. Ancora senza dilungarci nella distinzione tra rimedio ex art. 1469
sexies e rimedio ex art. 3 l. 281/98: oltre ai già citati Bellelli, Pagni, Benucci, Odorisio, Chiar-
loni, v. LAPERTOSA, F., Profili processuali della disciplina delle clausole vessatorie nei contratti
con il consumatore, cit., p. 724 ss.; MONTESANO, L., Tutela giurisdizionale dei diritti dei consu-
matori e dei concessionari di servizi di pubblica utilità nelle normative sulle clausole abusive e
sulle autorità di regolazione, in Riv. dir. proc., 1997, p. 1 ss., spec. p. 6; TOMMASEO, F., Art.
1469-sexies, in Le clausole vessatorie nei contratti con i consumatori, I, a cura di G. Alpa e S.
Patti, Milano, 1997, p. 755 ss., p. 785 ss.; MARINUCCI, E., Azioni collettive e azioni inibitorie
da parte delle associazioni dei consumatori, in Riv. dir. proc., 2005, p. 125 ss., spec. p. 158 ss.
127 Il testo del progetto è pubblicato in Foro it., 1981, IV, p. 293 s., con commento di

TONDO, S., Su un progetto di riforma della disciplina delle condizioni generali di contratto. Per
ulteriori indicazioni, v. infra, cap. X, nota 53.
128 Sul punto, v. ROSSI CARLEO, L., L’azione inibitoria: dalla norma sulle clausole abusive

al nuovo codice dei consumatori, in Europa e dir. priv., 2005, p. 847 ss., ma spec. 852.
129 Per tutti, v. MENCHINI, S., Il processo litisconsortile, cit., spec. 532 ss.; ID., Regiudicata

civile, cit., p. 404 ss.; ID., Il giudicato civile, cit., p. 195 ss. (su cui amplius, v. infra, nota 154).
130 Cfr. retro, la dottrina citata a nota 116. È stato osservato, inoltre, che l’estensione se-

cundum eventum litis leda il diritto di difesa del convenuto soccombente, in virtù del fatto
che costui, nei futuri giudizi, perderebbe la possibilità di esercitare i suoi poteri processuali
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 475

immutati rimangono i principali correttivi da applicare, ossia la chiamata


in causa degli altri legittimati ad agire con le modalità poc’anzi descritte.

5.3.3. Estensione ultra partes e litisconsorzio necessario


Il terzo modello da prendere in esame è quello consistente nell’e-
stensione indiscriminata degli effetti della sentenza ai soggetti rimasti
terzi al giudizio.
È questo il modello prevalentemente seguito dalle legislazioni più
avanzate sul fronte della tutela collettiva degli interessi e che già Redenti
– in materia di giudizio collettivo probivirale – indicava come soluzione
alle «proporzioni colossali» della controversia131.

nei confronti dei soggetti intenzionati a giovarsi del giudicato favorevole: così, CARRATTA, A.,
Brevi osservazioni sull’inibitoria a tutela di consumatori e utenti, cit., p. 132, in riferimento ai
rapporti tra azione degli enti rappresentativi ex art. 1469 sexies e giudizi individuali. Peraltro,
non sembra che il diritto di difesa del convenuto soccombente possa essere pregiudicato an-
che sotto questo profilo. Questi, infatti, non è assolutamente privato della possibilità di arti-
colare le proprie argomentazioni difensive in fatto ed in diritto riguardo la questione o le que-
stioni su cui poi risulterà soccombente e su cui cadrà l’accertamento che lo vincolerà nei fu-
turi giudizi. La possibilità di aggiudicarsi il giudizio gli è stata riconosciuta ed una volta
mancato il risultato favorevole non si vede per quale ragione occorra dargli ulteriori chances,
sulla stessa questione, rispetto agli altri interessati. In questo senso, v., infatti, CHIARLONI, S.,
Appunti sulle tecniche di tutela collettiva dei consumatori, cit., p. 397. L’opinione dell’autore-
vole dottrina citata, d’altro canto, nasce probabilmente in stretta relazione con i rapporti tra
il giudizio di abusività sulla clausola generale concepito in «astratto» ed il giudizio sulla stessa
oramai calata e contestualizzata alla luce delle specificità proprie di un successivo rapporto
contrattuale; ipotesi in cui ovviamente il discorso abbisogna di ulteriori distinguo e correttivi
(cfr., però, anche infra, nota 160).
131 REDENTI, E., La riforma dei probiviri, in Riv. dir. comm., 1910, I, p. 626 ss., ma spec.

p. 637; all’interno del più recente dibattito sugli interessi collettivi, v. CAPPELLETTI, M., Ap-
punti sulla tutela giurisdizionale di interessi collettivi o diffusi, in Le azioni a tutela degli inte-
ressi collettivi, cit., p. 191 ss., spec. p. 205; ID., Formazioni sociali e interessi di gruppo davanti
la giustizia civile, in Riv. dir. proc., 1975, p. 363, spec. p. 398 ss.; VIGORITI, V., Interessi collet-
tivi e processo, cit., spec. p. 150 ss.; ma v. anche TROCKER, N., Interessi collettivi e diffusi, cit.,
p. 7; ID., Gli interessi diffusi e la loro tutela, cit., p. 211; CARPI, F., Intervento, in Le azioni a
tutela di interessi collettivi, cit., p. 304 ss., ma spec. p. 309; ALPA, G., Interessi diffusi, cit., p.
616; LANFRANCHI, L., Le animulae vagulae blandulae e l’altra faccia della luna, cit., p. XLVI,
ma v. già quanto sostenuto in materia di giudizio ex art. 28 S.L. (ID., Prospettive ricostruttive
in tema di art. 28 dello Statuto dei lavoratori, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1971, p. 388 ss., p.
433 ss.). In questo stesso ambito, v. ROMAGNOLI, U., Aspetti processuali dell’art. 28 dello sta-
tuto dei lavoratori, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1971, p. 1309 ss., spec. 1323 (e poi ID., Com-
mento all’art. 28, in ROMAGNOLI, U. - MONTUSCHI, L. - GHEZZI, G. - MANCINI, F., Statuto dei
lavoratori, Bologna-Roma, 1972, p. 411 ss., spec. p. 445; GHEZZI, G. - ROMAGNOLI, U., Il di-
ritto sindacale, Bologna, 1984, p. 299 ss.); PROTO PISANI, A., Il procedimento di repressione del-
l’attività antisindacale, in Studi di diritto processuale del lavoro, Milano, 1976, p. 13 ss., spec.
p. 58 s. (prima pubblicato in Foro it., 1973, V, p. 57 ss.); TARUFFO, M., Efficacia della pronun-
476 CAPITOLO SESTO

Numerosi sono gli aspetti positivi che esso presenta. Questi sono
quantomeno i seguenti: a) massimo rispetto del principio di economia
processuale, visto che, con un unico giudizio, si ottiene la soluzione del-
l’intera controversia collettiva; b) massima certezza del diritto, visto che,
accertata la regola di comportamento, questa diviene un punto fermo nei
rapporti tra la collettività e soggetto terzo; c) elevata effettività dell’azione
collettiva, anche qui – in particolare – per gli effetti riflessi che si produ-
cono nei giudizi sugli effetti conseguenti132; d) pieno rispetto del diritto

cia sul licenziamento per motivi antisindacali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1971, p. 1503 ss.,
spec. p. 1520; SILVESTRI, E. - TARUFFO, M., Condotta antisindacale: II) Procedimento di repres-
sione della condotta antisindacale, in Enc. giur. Trec., VIII, Roma, 1997, p. 12. In questo stesso
senso, in materia di giudizi antidiscriminatori, v.: DE ANGELIS, L., Profili della tutela proces-
suale contro le discriminazioni tra lavoratori e lavoratrici, in Riv. it. dir. lav., 1992, p. 457 ss.,
ma spec. p. 479; ID., Considerazioni in tema di decisione della causa promossa contro le discri-
minazioni sessuali collettive, in Riv. crit. dir. lav., 1992, p. 798 ss., spec. p. 799; RAPISARDA, C.,
La tutela giudiziale dei diritti di parità tra azione individuale e azione pubblica, in Riv. crit. dir.
lav., 1992, p. 785 ss., spec. p. 789; ID., Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-
donna nel lavoro, IV, La tutela dei soggetti discriminati, Azione individuale, Azione pubblica e
tentativo di conciliazione, in Le nuove leggi civ. comm., 1994, p. 73 ss., spec. p. 82; IZZI, D., Di-
scriminazioni di sesso nel rapporto di lavoro: il nuovo regime processuale, in Riv. trim. dir. proc.
civ., 1994, p. 517 ss., ma spec. p. 576 s.; PULEO, A., Discriminazioni di sesso nel mercato del la-
voro. Novità ed aporie di un modello processuale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1996, p. 89 ss., ma
spec. p. 132; BASILICO, G., La tutela della parità uomo-donna nei rapporti di lavoro, in La tu-
tela giurisdizionale degli interessi collettivi e/o diffusi, cit., p. 513 ss., spec. 547. In materia di
tutela collettiva dei consumatori, per ciò che riguarda il concorso tra legittimazioni degli enti
rappresentativi (infra, cap. X, § 3.2.3.5.), v. LIBERTINI, M., Prime riflessioni sull’azione inibito-
ria dell’uso di clausole vessatorie (art. 1469-sexies c.c.), in Contratto e impresa, Europa, 1996, p.
555 ss., spec. p. 575; TARZIA, G., La tutela inibitoria contro le clausole vessatorie, in Riv. dir.
proc., 1997, p. 629 ss., spec. p. 637 ss.; DANOVI, F., L’azione inibitoria in materia di clausole
vessatorie, in Riv. dir. proc., 1996, p. 1046 ss., spec. p. 1073; GIUSSANI, A., La tutela di interessi
collettivi nella nuova disciplina dei diritti dei consumatori, cit., p. 1062 s.; SAPIO, G., L’inibito-
ria ex art. 1469-sexies c.c. tra problemi risolti e questioni ancora aperte, in Giust. civ., 2000, I,
p. 245 ss., spec. p. 248 s. È interessante notare, come già rilevato nel cap. III, § 4., che tale
opzione ricostruttiva, ovviamente diretta a dare massimo rilievo alla natura sovraindividuale
dell’interesse tutelato, ha trovato maggior sostegno nella dottrina tesa a concepire l’interesse
collettivo in senso unitario. Talora, sul piano dogmatico, si è vista favorita anche dalla confi-
gurazione dell’oggetto del giudizio in termini di giurisdizione sui fatti. Va peraltro detto che,
in una prospettiva generale, l’unicità dell’oggetto del giudizio (situazione giuridica soggettiva
comune o singola questione) è argomento tutt’altro che sufficiente per argomentare l’effica-
cia erga omnes dell’accertamento in quanto comunque occorre coordinare l’esigenza di coor-
dinamento uniforme con il diritto di difesa dei diversi legittimati. Sul punto ci pare significa-
tiva la posizione di Tommaseo, che in materia di giudizio sull’abusività di clausola generali,
pur richiamandosi alla giurisdizione sui fatti, non esita a dare diretta applicazione all’art. 24
Cost. Sul punto, cfr. infra, cap. X, § 3.2.3.5. Nella stessa cornice dogmatica, ma in senso oppo-
sto, cfr. invece, Romagnoli, in materia di giudizio ex art. 28 S.L., su cui v. infra, cap. VII, § 2.2.
132 Per questo aspetto, v. ampius, tra breve nel testo.
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 477

di difesa del convenuto, autore del preteso illecito, non esposto, come
nelle precedenti ipotesi, ad una possibile reiterazione del giudizio.
Per altro verso, particolarmente grave appare il lato negativo espo-
sto da tale regime processuale, ovvero, ovviamente, l’attentato alla garan-
zia del diritto di azione e di difesa degli altri legittimati.
Negli ordinamenti che prevedono l’estensione ultra partes degli ef-
fetti della sentenza collettiva, detta vincolatività è sempre espressamente
prevista dalla legge133 e, di regola, come contrappeso, è prevista la possi-
bilità di sottrarsi al giudicato oltre all’adeguata pubblicità circa l’introdu-
zione del giudizio in forma collettiva134.
Si potrebbe osservare – a replica di tale ultima osservazione – che
talora il diritto di out-put è previsto sono nei giudizi collettivi volti a tu-
telare interessi individuali esclusivi, come tipicamente accade nei giudizi
collettivi risarcitori. Ci riferiamo – come il lettore avrà inteso – alle rifles-
sioni poc’anzi svolte, alla luce delle quali era emerso come nei giudizi col-
lettivi inibitori taluni ordinamenti dimostrano una minor propensione

133 Che il problema dei limiti soggettivi del giudicato sia questione non di pura logica

giuridica o di rigore metodologico, ma sia strettamente legato alla regolamentazione legale


che è offerta dall’ordinamento è constatazione comune all’interno del dibattito dottrinale (cfr.
LIEBMAN, E.T., Efficacia ed autorità della sentenza, cit., p. 58; CARPI, F., L’efficacia «ultra par-
tes» della sentenza civile, cit., p. 268; ATTARDI, A., Diritto processuale civile, cit., p. 482). Ri-
guardo alla possibilità di trovare un’univoca e sicura soluzione al problema dei limiti sogget-
tivi del giudicato, si è anzi autorevolmente osservato (PROTO PISANI, A., Note in tema di limiti
soggettivi della sentenza civile, cit., p. 2392) che «stante l’equivocità (e talvolta contradditto-
rietà) del nostro diritto positivo si tratta di argomenti o serie argomentative che finiscono per
fondarsi su principi o esigenze generalissime le quali a loro volta si fondano su “modi di sen-
tire” o su scelte valutative del singolo interprete». Lo stesso REDENTI, E., La riforma dei pro-
biviri, cit., p. 637, come si ricorderà (cfr. retro, cap. I, § 2.2.2.3.), commentando il progetto di
riforma del giudizio provibirale del 1909, con riferimento alla soluzione da seguire riguardo
alla regola dei limiti soggettivi in materia di giudizio sulla clausola del contratto collettivo di
lavoro, affermava l’alternatività tra la soluzione dell’estensione ultra partes degli effetti della
sentenza o la partecipazione necessaria di tutti gli interessati, ma poi, propendendo favore-
volmente per la prima soluzione, si affrettava ad aggiungere che detta opzione richiedeva una
deroga legale espressa all’ordinario principio di relatività del giudicato. Detto questo a livello
introduttivo e ritornando alla ricognizione dei dati che ci giungono da parte di altri ordina-
menti. L’espressa vincolatività della sentenza collettiva la si trova espressa sin dall’enunciato
definitorio che appare nella subdivision (a) della nota rule 23. Per altri esempi v. l’art. 1027
del CPC (Quebec), la s. 33ZB del FCA (Australia), le ss. 1 e 29 del GPA (Svezia), la s. 25 del
CPA (British Columbia), la s. 27 (2) e (3) del CPA (Ontario). Il tema del giudicato in materia
di class actions, ha raccolto, a dispetto della sua importanza, non molti contributi ad esso spe-
cificamente dedicati. In particolare, v. HAZARD Jr. et al., An Historical Analysis of the Binding
Effects of Class Suits, 146 U. Pal. L.Rev. 1849 (1998); e, soprattutto, BARRINGTON WOLFF, T.,
Preclusion in Class Action Litigation, in 105 Colum. L.Rev. 717 (2005).
134 Cfr. retro, nota 45.
478 CAPITOLO SESTO

alla tutela del diritto di difesa dei terzi assenti135. Si è visto, infatti, a titolo
esemplificativo, che le Federal Rules of Civil Procedure statunitensi – ma
non gli altri ordinamenti ispirati a tale modello – prevedono l’outing put
solo riguardo le classi 23 (b) (3).
Volendo comunque cercare ulteriori argomenti a favore del modello
teorico qui in esame ed in ispecie per ciò che riguarda l’esigenza di rin-
venire un’espressa previsione legale sul punto, sembrerebbe schiudersi
un’ulteriore strada all’interprete attratto dalla prospettiva dell’estensione
indifferenziata degli effetti della sentenza nei confronto di tutti gli inte-
ressati.
Si potrebbe ragionare nei seguenti termini. Le norme che attribui-
scono la legittimazione ad agire anche a soggetti pur terzi rispetto alla
collettività di riferimento, ma comunque istituzionalmente orientati alla
tutela degli interessi in questione, riconoscono a detti soggetti una parti-
colare affidabilità. Ciò posto, tale riconoscimento potrebbe essere letto
dall’interprete come l’attribuzione di un’potere di azione idoneo a pro-
vocare un giudizio che conduca ad un’accertamento vincolante erga om-
nes. In altri termini, il valore precettivo di tali disposizioni si rileverebbe
idoneo, con un sol colpo, a risolvere tanto il problema della necessità di
deroga legale – qui appunto presente in via implicita – alla normale peri-
metrazione soggettiva degli effetti del giudicato, quanto il problema della
garanzia del diritto di difesa dei singoli legittimati.
Seguendo questa lettura, similmente a quello che avviene nella mag-
gior parte degli ordinamenti fedeli al modello delle class actions, avrem-
mo a che fare con due distinte classi di legittimati ad agire: una classe,
composta dai singoli membri della collettività, dotati di un potere di
azione idoneo ad attivare un giudizio nel pieno rispetto del principio di
relatività del giudicato ivi ottenuto, ed una seconda classe – qui ovvia-
mente predeterminata e costituita dagli enti esponenziali rappresentativi
– viceversa capace di provocare un giudizio vincolante rispetto a tutto il
fascio di interessi concorrenti136.
Questa scelta interpretativa potrà apparire ardita, ma per altro verso
non sembra esser priva di un certo rigore logico137.

135 Cfr.retro, § 5.1.2., spec. nota 45.


136 Sipotrebbe per ipotesi anche giustificare l’estensione ultra partes della sentenza ar-
gomentando semplicemente sulla base del carattere superindividuale dell’interesse tutelato,
ma questa linea di pensiero non sembra condivisibile. Cfr. infra, nota 149.
137 Secondo gli schemi classificatori dogmatici tradizionali, questo modello dovrebbe

essere spiegato nei seguenti termini: diritto autonomo dei singoli, potere di sostituzione pro-
cessuale dell’ente portatore ed estensione ultra partes degli effetti della sentenza. Si rica-
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 479

Ciò detto, comunque, nemmeno questa lettura sembra idonea a di-


radare le eventuali incertezze che gravitano attorno al regime processuale
che ora abbiamo in esame.

drebbe in pieno all’interno dell’orientamento dottrinale che disconosce la necessaria parteci-


pazione del sostituito al processo avviato dal sostituto. Sul punto v. la dottrina citata retro,
nota 23. Secondo la nostra impostazione teorica, invece, sia la posizione dei membri della col-
lettività di riferimento, sia la posizione dei soggetti terzi legittimati ad agire a tutela della col-
lettività, vanno spiegate facendo ricorso all’idea del diritto soggettivo inteso come soluzione
tecnico-giuridica di tutela degli interessi umani; dovendosi poi diversificare solamente ri-
guardo l’efficacia della sentenza in relazione a chi attiva il giudizio e a chi lo conduce pren-
dendovi parte. Comunque, indipendentemente dalla cornice teorica impiegata, è agevole evi-
denziare le esigenze di fondo a cui questo modello cerca di rispondere: dovendosi confron-
tare con un’ampia pluralità di legittimati emerge l’opportunità di determinare chi può
esercitare l’azione – o chi deve comunque prendere parte al giudizio – in guisa tale da garan-
tire – in virtù della sua particolare posizione – il «corretto» ed «adeguato» svolgimento del
processo; condizione sufficiente a consentire la vincolatività della sentenza per tutti i legitti-
mati pur rimasti terzi al giudizio. Questa tecnica, sebbene talora celata sotto formule concet-
tuali che la dissimulano, non è nuova nel nostro ordinamento. L’esempio più evidente può es-
sere rappresentato dall’azione popolare correttiva, in cui il privato cittadino – secondo la ri-
costruzione comune – eserciterebbe un diritto soggettivo appartenente alla pubblica
amministrazione. Se si guarda ad esempio alla disciplina dell’azione popolare prevista previ-
sta dall’art. 9 del t.u. sugli enti locali ci si rende conto che il fenomeno sostanziale risponde
allo schema tipo poc’anzi indicato. Infatti, da un lato, abbiamo una collettività, ovvero un
gruppo di soggetti, titolari di interessi individuali compatibili concorrenti (cittadini) ed un
soggetto artificiale funzionalmente volto alla tutela e alla rappresentanza di quegli interessi
(ente pubblico). Sul piano processuale il singolo può attivare il giudizio, il quale peraltro –
dovendo estendere i suoi effetti (questa è la ricostruzione dominante) nei confronti degli altri
legittimati – deve contare sulla partecipazione del soggetto che istituzionalmente è deputato
alla tutela degli interessi della collettività. In altri termini è proprio la necessaria partecipa-
zione dell’ente pubblico al giudizio che giustifica la vincolatività della sentenza anche nei con-
fronti degli altri cittadini. Si noti, in via incidentale, che se si utilizzano le tradizionali catego-
rie senza l’accortezza di de-concettualizzarle e de-ideologizzarle, i risultati a cui si perviene
sono tanto scontati quanto assurdi. Così, l’ente pubblico può essere presentato come il tito-
lare del diritto soggettivo e il cittadino è titolare di un potere di sostituzione che rappresenta
uno strumento di tutela di un suo interesse meramente processuale. Il risultato finale – sup-
portato sia in giurisprudenza (cfr. ad es. Tar Venezia, sez. III, 27 maggio 2004, n. 1728, in
Urb. e app., 2004, p. 1344 ss., con nota di ANDREIS, M., Azione popolare e atteggiamento del-
l’ente sostituito) che in dottrina (cfr. TACCOGNA, G., Azione popolare, in Dig. disc. pubbl., XI,
Torino, 1996, p. 662 ss., ma spec. p. 668, sulla base di presupposti dogmatici – mera legitti-
mazione dell’attore popolare – e interpretazioni del dettato costituzionale – art. 24 Cost. – la
cui lontananza è tale rispetto alla posizione complessivamente qui sostenuta che una critica
puntuale è qui sostanzialmente impossibile oltre che superflua) – è che l’intervento dell’ente
nel giudizio avviato dal singolo paralizza i suoi poteri processuali in quanto l’ente può assu-
mere la conduzione del processo e magari subito dopo rinunciare all’azione (!!!). Ecco un al-
tro effetto mostruosamente distorsivo che deriva da talune concettualizzazioni tradizionali: la
creazione di un processo perfettamente inutile accompagnato dalla ridicolizzazione dei diritti
del cittadino (cfr. infatti le condivisibili osservazioni di BORGHESI, D., Azione popolare, in Enc.
480 CAPITOLO SESTO

A questo avviso conduce la riflessione sul significato che nei pro-


cessi collettivi va attribuito – sub specie di limiti soggettivi del giudicato –
al rispetto del diritto di azione e difesa dei singoli legittimati; e ciò, in
particolar modo, ragionando con il conforto delle indicazioni sistemati-
che che ci giungono da un pur sommario esame della disciplina proces-
suale che in materia di giudizi collettivi è prevista dalle significative espe-
rienze straniere che già da qualche pagina ci servono come criterio di
orientamento, nonché come conferma dei risultati acquisiti.
Il punto è il seguente.
Nel quinto capitolo di questo studio138 abbiamo rilevato come la ge-
neralizzazione dell’interesse tutelato porti con sé, come logica conse-
guenza, la generalizzazione della legittimazione ad agire e con essa, da un
lato, il proporzionale innalzamento della tensione all’attuazione della re-
gola di diritto e, dall’altro, la proporzionale diminuzione del tasso di con-
dizionamento che l’attività volontaria del singolo produce sul giudizio.
Per dirla in altri termini, seguendo questa linea di sviluppo, la dispositi-
vità del giudizio tende asintoticamente ad annullarsi.
In ragione di tale circostanza, il diritto dei titolari dell’interesse col-
lettivo a non vedersi colpiti da una sentenza emessa in un processo al
quale questi non abbiano partecipato non tanto sta a vigilare il loro di-
ritto a poter disporre e gestire liberamente del processo, ma piuttosto
rappresenta il loro diritto a beneficiare di strumenti processuali idonei ad
incidere favorevolmente sull’esito della controversia. Ci si intenda, ciò
giur. Trec., IV, Roma, 1988, p. 15 sui rapporti tra ente e attore popolare). Un altro esempio –
volendo – si può anche ritrovare nella nota ricostruzione dottrinale (LIEBMAN, E.T., La cosa
giudicata nelle questioni di stato, cit., p. 157 ss.) che, in materia di cosa giudicata su questioni
di status, ha ritenuto opportuno distinguere tra due classi di legittimati: da un lato, i «legit-
timi contraddittori primari», corrispondenti ai «titolari» del rapporto di status (padre, madre,
figlio, ad es.), e, dall’altro, i «legittimi contraddittori secondari»; e ciò per rilevare come uni-
camente la sentenza pronunciata nei confronti dei legittimi contraddittori primari fosse in
grado di estendere i suoi effetti erga omnes. Anche qui, sebbene in maniera meno vistosa della
precedente, il modello ricostruttivo richiamato riposa su uno schema esplicativo del feno-
meno sostanziale particolarmente simile a quello poc’anzi indicato. I legittimi contraddittori
primari sono, infatti, quei soggetti, che, per la maggior «intensità» del loro interesse rispetto
alla situazione favorevole, possono essere ritenuti idonei a rappresentare gli altri interessati di
grado minore, cosicché il giudizio da questi avviato, o al quale questi hanno comunque par-
tecipato, si presenta idoneo a concludersi con un provvedimento che vincola tutti gli altri in-
teressati. Questo schema di coordinamento delle iniziative giudiziali ha trovato anche soste-
gno nelle posizioni che, in materia di repressione della condotta antisincale nelle fattispecie
c.d. plurioffensive hanno ritenuto che il singolo lavoratore fosse litisconsorte necessario nel
giudizio instaurato dal sindacato e non viceversa: sul punto, v. la dottrina citata infra, nota
149.
138 Cfr. retro, § 2.5.3.
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 481

ovviamente accade in ogni processo, ma in quelli collettivi questo feno-


meno è, per così dire, spogliato dalle interferenze che su tale questione
può operare la normale dispositività del giudizio civile.
In altri termini, se guardiamo alla struttura tipica dei processi volti a
tutela di interessi individuali esclusivi, in essi il diritto di azione e difesa
si manifesta in una duplice dimensione, ovvero, da un lato, quella del ri-
conoscimento alle parti degli strumenti giuridico-processuali adeguati
per poter influire – a proprio vantaggio – sulla decisione finale e, dall’al-
tro, quella dell’attribuzione alle stesse del monopolio sull’esercizio pro-
cessuale dei poteri stessi.
Nel giudizio collettivo, con il progressivo sterilizzarsi del secondo
profilo assume predominanza il primo.
Se ciò è vero, allora, e se – come è ovvio – il principio di relatività
degli effetti della sentenza appare la stretta derivazione logica della ga-
ranzia del diritto di difesa, con riferimento al processo collettivo anche la
non estensione degli effetti ultra partes della sentenza va letta nell’ottica
di questa spersonalizzazione del giudizio, nella quale acquista rilievo pri-
mario l’efficacia del giudizio stesso a porsi come strumento effettivo di
tutela dell’interesse normativamente rilevante139. Volendo, potremmo
parlare di tendenziale pubblicizzazione del processo, se non fosse che
questa formula porta con sé il peso di una tradizione ideologica secolare,
assai radicata, che nega l’esistenza dell’interesse individuale laddove è
presente l’interesse pubblico140. Qui, invece, come abbiamo cercato di di-
mostrare, l’interesse individuale è ben presente, solo che, con l’aumen-
tare degli altri interessi individuali concorrenti, si realizza una spersona-
lizzazione del diritto di difesa del singolo da intendersi nel preciso ed
unico senso che ciò che rileva in tale ipotesi non è tanto la partecipazione
attiva del singolo al processo, quanto piuttosto l’idoneità di questo a pre-
sentarsi come efficace strumento di tutela del suo interesse141.

139 È questo, si crede, il significato più profondo che ad esempio è dato trarre dalle os-

servazioni di COMOGLIO, L.P., Commento all’art. 24 Cost., in Commentario della Costituzione,


Rapporti civili, a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1981, p. 1 ss., ma spec. p. 25.
140 Va comunque tenuta ferma la differenza concettuale che intercorre tra interesse ge-

nerale e interesse pubblico. Nei nostri processi abbiamo una generalizzazione dell’interesse e
non una pubblicizzazione dello stesso.
141 Questo rilievo è importante perché sta a significare che la garanzia del diritto di di-

fesa non è solo e tanto un presidio all’individualismo tradizionale all’interno del processo, ma
si pone essenzialmente come risvolto della stessa effettività del precetto sostanziale. Se, in-
fatti, come vedremo, con l’estensione ultra partes non si è in grado di garantire un processo
idoneo a concludersi con una decisione effettivamente accettabile da tutta la collettività inte-
ressata, allora si realizza una distorsione del meccanismo di tutela giuridica che dal piano pro-
482 CAPITOLO SESTO

Ora, se, alla luce di queste considerazioni, osserviamo i dati sistema-


tici che provengono dagli ordinamenti stranieri già richiamati, da un lato,
si riceve esatta conferma di quanto appena affermato e, dall’altro, si ot-
tiene la ragionevole dimostrazione che l’attuale disciplina del processo
che governa nel nostro paese i giudizi collettivi – cioè tendenzialmente
quello ordinario – non permette in alcun modo di rinvenire gli adeguati
strumenti tecnico-processuali idonei a giustificare l’estensione ultra par-
tes dell’efficacia della sentenza142.
Il discorso dovrebbe essere analitico e articolarsi in mille distinguo,
ma ciò non pare ora strettamente necessario.
Come già detto, negli ordinamenti stranieri a cui abbiamo già fatto
cenno la vincolatività della sentenza è espressamente prevista dalla legge
e a detta vincolatività sono funzionalmente e strutturalmente correlati
una serie di tipici espedienti tecnico-processuali su cui in gran parte ab-
biamo riferito. Senza dilungarci in osservazioni piuttosto scontate, tra
quelli che più degli altri palesano il nesso funzionale appena indicato, si
pensi alla pubblicizzazione dell’inizio del giudizio (notice); alla possibilità
per i singoli di tirarsi fuori dal raggio di efficacia della sentenza (opting-
out); alla verifica in concreto dell’effettiva capacità rappresentativa del-
l’attore collettivo in limine litis (certification), nonché durante l’intero

cessuale presenta dirette ricadute sulla precettività stessa della disciplina sostanziale; e ciò per
il noto principio di strumentalità della tutela giurisdizionale. È, mutatis mutandis, lo stesso di-
scorso che si pone in generale rispetto alla problematica del «giusto processo». E difatti, in
questo capitolo, più volte abbiamo parlato di «giusto processo» collettivo. Come è noto la
tradizionale problematica del giusto processo gravita tutt’attorno al problema di conciliare un
processo improntato al principio dispositivo, ma che peraltro non presenti una disciplina
delle forme in grado di falsare l’equilibrato confronto delle parti sulle questioni di merito. Per
non allungare troppo la discussione si pensi a titolo d’esempio al processo societario di co-
gnizione, della cui disciplina si è proprio lamentata la pericolosità delle forme; irte di mecca-
nismi idonei a sviare con eccessiva facilità la controversia dal merito verso la procedura (sul
punto, v., anche per ulteriori riferimenti, CARRATTA, A., Premessa, in Il nuovo processo societa-
rio, commentario diretto da S. Chiarloni, Bologna, 2004, p. 17 ss.). Così, l’estensione dell’ef-
ficacia erga omnes, se non adeguatamente temperata, non inciderebbe tanto sul diritto di tutti
a partecipare alla ricognizione dei presupposti che garantiscono l’emissione della misura giu-
risdizionale, ma inciderebbe direttamente sull’effettività del rimedio processuale stesso e dun-
que sul vigore del precetto sostanziale.
142 Cfr., peraltro, l’autorevole dottrina (MENCHINI, S., Azioni seriali e tutela giurisdizio-

nale: aspetti critici e prospettive ricostruttive, in www.judicium.it., § 3.) che, sebbene in occa-
sione di uno studio propriamente rivolto ai giudizi collettivi risarcitori, ha di recente affer-
mato che le regole costituzionali che limitano l’estensione soggettiva del giudicato a soggetti
rimasti terzi al processo non sono derogabili nemmeno in ordine ad esigenze di tutela effet-
tiva delle pretese sostanziali e nemmeno sulla base del requisiti di rappresentatività apparte-
nenti ai legittimati collettivi o in virtù del diritto di opt out riconosciuto ai soggetti coinvolti.
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 483

arco del giudizio (de-certification); alla verifica della stessa opportunità


che il processo si svolga in forma rappresentativa e ciò – peraltro – non
solo a fronte di diversi criteri che rendono tale regime processuale com-
parativamente più vantaggioso rispetto alla frammentazione della contro-
versia in diversi ed autonomi giudizi individuali (superiority), ma anche
in relazione alla difficoltà di condurre il processo nel contraddittorio di
tutti gli interessati (numerosity); o ancora alla possibilità di non pronun-
ciarsi nel merito per insufficienza di prove.
Nel nostro ordinamento, per cercare di mimare i tratti di questa di-
sciplina o, più correttamente, per applicare anche in questo caso dei cor-
rettivi idonei a contemperare i diversi valori in gioco, potremmo seguire
due strade alternative, comunque complessivamente incapaci di garantire
un processo giusto ed efficiente per i nostri interessi che sia anche sola-
mente paragonabile a quello offerto da questi ordinamenti.
Così, sempre muovendoci nello schema processuale poc’anzi indi-
cato (azione rappresentativa del portatore vincolante erga omnes e azioni
individuale con effetti limitati inter partes), proposta l’azione da parte
dell’ente portatore, ci si potrebbe affidare all’impiego del potere di chia-
mata in causa iussu judicis, coordinato – anche in quest’ipotesi – con
quanto dispone l’art. 150 c.p.c.
In altri termini, il giudice, a fronte di condotte processuali anche
semplicemente omissive o incomplete, potrebbe esercitare il potere ora
indicato allo scopo di rendere nota la pendenza del giudizio non solo nei
confronti della collettività interessata ma soprattutto degli altri enti rap-
presentantivi143.
Alternativamente, specie in ordine alla sentita esigenza di garantire
un’adeguata pubblicizzazione del processo collettivo sin dal suo inizio144,
si potrebbe addirittura ritenere che la vincolatività della sentenza otte-
nuta a seguito dell’esercizio dell’azione da parte dell’ente rappresentativo
porti con sé – eccoci all’ultimo dei quattro modelli in origine prospettati

143 In questa cornice la chiamata ex art. 107 c.p.c. verrebbe ovviamente ad assumere

una funzione corrispondente a quella autorevolmente assegnata dalla dottrina orientata ad


applicare l’istituto in questione solo in ordine alla chiamata di soggetti già colpiti dall’effica-
cia della sentenza emananda. In questo senso, v. la posizione di Salvatore Satta, espressa sin
dallo studio su L’intervento ordinato dal Giudice, in Scritti di diritto e di economia in onore di
Flaminio Mancaleoni, Sassari, 1938, p. 573 ss.
144 Allo stato attuale del nostro ordinamento, infatti, il risultato di garantire ab initio la

pubblicizzazione del processo collettivo appare conseguibile solo per la via prospettata nel te-
sto, ovvero con l’applicazione del regime ex art. 102 c.p.c.; non invece con lo strumento della
chiamata ex art. 107 c.p.c.; sul punto, v. TROCKER, N., L’intervento per ordine del giudice, Mi-
lano, 1984, p. 439, nota 132.
484 CAPITOLO SESTO

– la necessaria partecipazione di tutti gli interessati al giudizio145, e ciò,


come ovvio, per rigoroso ossequio alla garanzia costituzionale del diritto
di difesa146. Così, di certo, l’attore collettivo dovrebbe gioco forza esten-
dere il contraddittorio – anche qui nuovamente, come già Chiovenda
suggeriva147, mediante la notificazione per pubblici proclami – a tutti i le-
gittimati ad agire, tanto a titolo individuale, quanto a titolo rappresenta-
tivo, senza esclusione alcuna.

145 In realtà questa prospettiva potrebbe sembrare in contraddizione con l’argomento


che ci ha condotti ad ipotizzare che l’azione degli enti esponenziali sia idonea ad attivare un
giudizio che si conclude con un giudicato vincolante erga omnes. In altri termini, se tale ri-
sultato interpretativo è raggiunto proprio argomentando sulla pretesa rappresentatività degli
stessi, allora la partecipazione necessaria al giudizio dei singoli soggetti appartenenti alla col-
lettività di riferimento dovrebbe a fortiori essere esclusa. D’altra parte, la contraddizione po-
trebbe ritenersi solo apparente; difatti, coordinando l’art. 102 c.p.c. con la notificazione ex
art. 150 c.p.c., il regime complessivo derivato da tale coordinamento (cfr. infra, § 5.4.3.) ha
come suo effettivo e reale scopo non tanto e non solo quello di rendere parti effettivamente
presenti ed attive nel giudizio gli altri legittimati, quando appunto quello di rendere nota la
pendenza del giudizio sin dalla sua introduzione.
146 Questo modello di coordinamento delle decisioni ha trovato sostegno fondamental-

mente in materia di giudizio per la repressione della condotta antisindacale in ragione della
sua forte somiglianza con la disciplina prevista dall’art. 2900 c.c. o comunque della strettis-
sima relazione tra interesse sindacale e interesse dei singoli pregiudicati dalla condotta dato-
rile: cfr., pur all’insegna di differenti ricostruzioni dogmatiche, GARBAGNATI, E., Profili proces-
suali del licenziamento per motivi antisindacali, in Riv. dir. proc., 1973, p. 596 ss., spec. p. 637
ss.; SANTORO PASSARELLI, F., Diritto soggettivo e interesse legittimo dei sindacati al rispetto della
libertà sindacale nei luoghi di lavoro, in Riv. dir. lav., 1973, I, p. 4 ss., spec. p. 5; PUNZI, C., Re-
pressione della condotta antisindacale: b) Profili di diritto processuale, in Commentario dello
statuto dei lavoratori, diretto da U. Prosperetti, II, Milano, 1975, p. 966 ss., spec. p. 984; e,
più di recente, ID., La tutela giurisdizionale degli interessi diffusi e degli interessi collettivi, in
La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, cit., p. 17 ss., ma spec. 24; GRANDI,
M., Attività sindacale e repressione della condotta antisindacale, in Riv. it. dir. lav., 1978, p. 13
ss., spec. p. 29 s. A questo modello conduce ovviamente il principio generale – ampliamente
sostenuto in dottrina (cfr. retro, nota 23) – per cui chi subisce in qualità di sostituito proces-
suale gli effetti del giudicato, è parte necessaria del giudizio. Come vedremo peraltro, questo
principio è, a par nostro, non generale in quanto va applicato solo allorché in via espressa o
in via sistematica si debba escludere l’operatività dell’art. 1306 c.c.
147 Ci riferiamo al passo in cui Giuseppe Chiovenda (Sul litisconsorzio necessario, cit.,

p. 449, in nota), in relazione alla corretta interpretazione dell’art. 163 del codice di commer-
cio, vertente – come è noto – in materia di opposizione dei soci alle delibere assembleari, pur
scartando – per altre ragioni che qui non interessano – la possibilità di ipotizzare un giudizio
in litisconsorzio necessario con tutti i legittimati all’impugnazione, affermava che «la diffi-
coltà processuale non basterebbe a escludere per sé questa necessità: tanto più per la nostra
legge che ammette la citazione per pubblici proclami propter multitudinem citandorum, la
quale può applicarsi in caso di persone indeterminate o sconosciute, secondo che ritiene la
dottrina […] e secondo la stessa essenza dell’istituto […]».
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 485

5.4. Valutazione comparativa dei risultati parziali sino ad ora ottenuti e


giudizio di sintesi
5.4.1. Considerazioni introduttive e superamento del concorso soggettivo di
azioni
Alla luce delle considerazioni svolte, possiamo finalmente guardare
ai diversi regimi di coordinamento delle legittimazioni in un’ottica mag-
giormente relativizzata; più nitidi, infatti, ci appaiono ora i pregi ed i di-
fetti che ognuno di questi possiede anche e soprattutto dopo l’applica-
zione dei possibili correttivi di cui l’interprete può fare impiego.
Per determinare quale sia la soluzione da ritenersi preferibile in via
generale alla luce dell’attuale stato del nostro diritto positivo in materia
non resta quindi che porre in raffronto comparativo tali possibili solu-
zioni alla luce dei seguenti criteri di valutazione: da un lato, nuovamente
ragionando in termini di garanzie processuali, nonché di opportunità
pratica, verificare quale regime, temperato dai correttivi individuati, ri-
sulti in fin dei conti il più appagante; dall’altro, valutare attentamente –
cosa sino ad ora lasciata per quanto possibile in ombra – l’armonizzabi-
lità di tale soluzione con i vincoli di natura positiva che il nostro ordina-
mento contempla.
Ponendosi su questa linea di progressione, un ulteriore passo in
avanti è presto fatto; difatti, se si confronta il regime del concorso di
azioni, tanto con il giudicato secundum eventum litis, quanto con il giu-
dicato erga omnes, è di immediata evidenza che tali ultime soluzioni in-
dicate superano la prima sia sul piano dell’effettività della tutela che in
termini di economia processuale; peraltro il concorso soggettivo di azioni
ha la sua solida base positiva in ciò che dispone l’art. 2909 c.c.
Questa ulteriore osservazione ci proietta subito al cuore del pro-
blema, infatti, alla luce di queste premesse, il completamento del nostro
itinerario si risolve nel porre a diretto confronto il giudicato secundum
eventum litis con la vincolatività indifferenziata della sentenza, verifi-
cando non solo quale sia il regime che offre un miglior punto di contem-
peramento tra opportunità pratica e garanzie, ma quale presenti una più
solida giustificazione sul piano del diritto positivo.
Il risultato, come vedremo, sarà il seguente: ragionando in termini di
efficienza ed economia processuale, l’efficacia erga omnes si presenta
come soluzione comparativamente più appagante, ma, con riguardo agli
altri profili, l’ago della bilancia pende di certo a favore del giudicato se-
cundum eventum litis.
486 CAPITOLO SESTO

5.4.2. Valutazione comparativa del giudicato secundum eventum litis e del


giudicato erga omnes: loro armonizzabilità con il sistema positivo
Iniziamo, dunque, a ragionare in termini di regole, ovvero verifi-
chiamo dapprima l’armonizzabilità dei due indicati regimi di efficacia
della sentenza con le disposizioni di legge che il nostro ordinamento con-
templa al riguardo.
Per quanto concerne l’efficacia erga omnes, tale disciplina del giudi-
cato si dimostra in contrasto sicuramente stridente con le norme chiave
che il nostro ordinamento presenta in materia di limiti soggettivi; e ciò
non tanto e non solo in riferimento all’art. 24, comma 1 e 2, Cost. o al-
l’art. 111, comma 2, Cost., che di certo risultano determinanti sul piano
delle garanzie, ma anche solamente riguardo a ciò che dispone l’art. 2909
c.c., dal quale piuttosto inequivocabilmente è dato trarre che coloro i
quali non hanno preso parte al giudizio non sono investiti da quel «far
stato» che in tale norma campeggia148.
Nemmeno la natura sovraindividuale dell’interesse tutelano sembre-
rebbe costituire un’argomento di per sé sufficiente a scalzare l’art. 2909
c.c., ovvero a giustificare una deroga al principio ivi statuito149; anzi, pro-

148 Per tutti, v. MONTELEONE, G.A., I limiti soggettivi del giudicato civile, cit., p. 146 ss.
149 Questa strada è stata peraltro indicata dall’autorevole dottrina (CARPI, F., L’efficacia
«ultra partes» della sentenza civile, cit., passim) ha cercato un fondamento sistematico all’e-
stensione ultra partes del giudicato proprio valorizzando la natura non esclusivamente indivi-
duale dell’interesse di volta in volta tutelato. Non è qui possibile esaminare articolatamente
tale percorso ricostruttivo, ma è d’altra parte opportuno prestare attenzione al dato sistema-
tico e teorico che viene posto in evidenza dall’orientamento ora richiamato, ovvero al fatto
che anche l’efficacia ultra partes della sentenza dovrebbe essere contestualizzata all’interno
della nota linea evolutiva diretta verso la tendenziale pubblicizzazione del diritto e contrasse-
gnata dalla crisi del diritto soggettivo con conseguente superamento del monopolio della
parte sul processo (spec. p. 49 ss.). Quanto ora riportato induce, peraltro, a riflettere su due
separate questioni. Una prima è di tenore più generale. Che nei fenomeni processuali carat-
terizzati dal generalizzarsi della legittimazione vada attenuandosi il condizionamento del sin-
golo sul processo, non è cosa da contestare, ma semmai – come già detto – da ribadire (cfr.
retro, cap. V, § 2.5.3.). Ma tale fenomeno di per sé, sul piano logico, non porta come conse-
guenza automatica l’estensione degli effetti della sentenza agli altri legittimati che non hanno
preso parte al giudizio. L’aspetto che deve essere privilegiato è il seguente: il fatto che più
soggetti possano agire per la tutela di un certo interesse potrà anche diminuire il loro condi-
zionamento sul processo, ma senza che ciò alteri la misura e il tasso di effettività che la tutela
giurisdizionale apprestata dimostra in riferimento a quel certo interesse. Questo profilo è
molto importante e – come visto nel cap. III – spesso viene sottovalutato all’interno del di-
battito sugli interessi superindividuali, nel quale – paradossalmente – la natura collettiva del-
l’interesse porta con sé una diluizione del suo carattere personale-esclusivo, che – ancora pa-
radossalmente – ha ricadute negative sul grado di meritevolezza dell’interesse stesso; e ciò av-
viene ad esempio conferendo la legittimazione ad agire solo a soggetti esponenziali che non
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 487

babilmente un’osservazione di tal fatta si dimostra non pienamente con-


vincente. Individuale-esclusivo o plurindividuale che sia l’interesse, ciò
non tocca il problema della regola da applicare alla questione in esame e
semmai induce a ragionare – come è giusto che sia peraltro – sotto il pro-
filo dell’opportunità; ma, ragionando in questi termini, il discorso si spo-
sta di piano e riemerge il trade off tra opportunità e garanzia; questione
che comunque, per il momento, non interessa e che affronteremo ex pro-
fesso tra breve.
L’unica strada per superare la portata precettiva di tali disposizioni
sarebbe, dunque, quella – già indicata – che punta sulla valorizzazione
interpretativa della valutazione di rappresentatività che la disciplina le-
gale in materia di interessi collettivi generalmente opera a vantaggio de-

garantiscano adeguatamente l’effettivo ed opportuno esercizio del loro diritto di azione e de-
gli ulteriori poteri processuali che da questo discendono, oppure facendo derivare l’efficacia
erga omnes della sentenza come conseguenza logica della natura sovraindividuale dell’inte-
resse senza che ciò comporti la previa verifica dell’idoneità del processo a porsi come stru-
mento di tutela effettiva degli interessi tutelati. In altri termini, la problematicità dell’esten-
sione ultra partes della sentenza non sta certamente – come diremo tra breve nel testo – nel
voler lasciare al singolo la posizione di «signore» del processo, ma piuttosto nella necessità
che l’estensione del giudicato avvenga solo a conclusione di un giudizio il cui svolgimento ap-
pare essere ragionevolmente idoneo a garantire la giustizia della sentenza. Sotto un profilo
più specifico, invece, va ribadito, che nella materia in esame non si verifica nessuna crisi del
diritto soggettivo, se per diritto soggettivo si intende uno strumento tecnico-giuridico di tu-
tela degli interessi individuali. In materia di interessi collettivi, come in materia di interessi ti-
picamente individuali-esclusivi, l’ordinamento tutela l’interesse nella stessa identica maniera:
imposizione dell’obbligo e azione. Ragionando in questa prospettiva, dunque, il richiamo,
operato frequentemente dalla dottrina in materia di interessi sovra-individuali, del concetto
di «interesse legittimo di diritto privato» o di «interesse occasionalmente protetto» (cfr. ad es.
la dottrina da ultimo cit., p. 49 ss.), non colpisce favorevolmente in quanto veicola implicita-
mente l’idea che la tutela offerta all’interesse individuale sia meno completa di quella che
avrebbe ricevuto con le forme del diritto soggettivo (una mezza-tutela insomma). Sul piano
teorico-dogmatico, poi, la scelta qualificatoria in questione non appare condivisibile per le ra-
gioni più volte rimarcate in varie parti del testo, cioè per il suo rappresentare il tentativo di
tenere ferme le concezioni tradizionali del diritto soggettivo creando nuove figure giuridiche
soggettive, anziché procedere ad una rilettura di dette concezioni in una prospettiva mag-
giormente svincolata dagli specifici contenuti di tutela a cui la figura del diritto soggettivo è
stata sinora asservita (cfr. retro, cap. V). Sull’interesse legittimo di diritto privato, v. comun-
que BIGLIAZZI GERI, L., Contributo ad una teoria dell’interesse legittimo nel diritto privato, cit.,
spec. p. 55 ss. e 79 ss.; ID., Interesse legittimo: diritto privato, in Dig. disc. priv., sez. civ., IX,
Torino, 1993, p. 527 ss., ma spec. 543 ss., cui adde RUBINO, D., Le fattispecie e gli effetti giu-
ridici preliminari, Milano, 1939, p. 261 ss.; ZANOBINI, G., Interessi occasionalmente protetti nel
diritto privato, in Studi in memoria di Francesco Ferrara, II, Milano, 1943, p. 705 ss. oltre che
in Studi di diritto pubblico, Milano, 1955, p. 345 ss., con il titolo Interessi legittimi nel diritto
privato; più di recente DELL’UTRI, M., Poteri privati e situazioni giuridiche soggettive (Rifles-
sioni sulla nozione di interesse legittimo nel diritto privato), in Riv. dir. civ., 1993, p. 303 ss.
488 CAPITOLO SESTO

gli enti portatori legittimati ad agire. Occorrerebbe cioè leggere in essa


l’attribuzione specifica di un potere di azione idoneo ad attivare un giu-
dizio vincolante per tutta la collettività interessata.
Diverso, invece, è il discorso se ci confrontiamo con il regime di giu-
dicato secundum eventum litis, che – come autorevolmente indicato in
dottrina – può trovare fondamento positivo o in una lettura estensiva
dell’art. 2909 c.c. (ossia ritenendo che tale disposizione si limiti ad esclu-
dere la vincolatività rispetto ai terzi dell’accertamento a contenuto sfavo-
revole)150, oppure facendo perno su quanto è disposto in particolar modo
dall’art. 1306 c.c.151

5.4.2.1. Il giudicato secundum eventum litis ed i tradizionali ostacoli


all’estensione ultra partes dell’efficacia diretta del giudicato. – I due argo-
menti appena richiamati non sono necessariamente alternativi e possono
ben operare congiuntamente, ma, d’altra parte, specie alla luce degli esiti
ricostruttivi che abbiamo raggiunto nel capitolo passato sul concetto di
diritto soggettivo, il secondo merita adeguata riflessione152; difatti, pro-
prio tali esiti ci consentono agevolmente di superare le difficoltà teorico-
dogmatiche che, pur affligendo il tema dell’estensione ultra partes del-
l’efficacia diretta della sentenza, hanno mediatamente influito anche sul
lineare inquadramento dall’art. 1306 del codice civile, decretandone se

150 Cfr. infra, nota 154, la posizione di Attardi e Taruffo.


151 All’interno del dibattito generale sui limiti soggettivi del giudicato, v. in particolare
la posizione di Menchini e Proto Pisani esaminata infra, nota 154; ma diverse voci si richia-
mano all’art. 1306 c.c. anche e soprattutto in materia di azioni a tutela degli interessi collet-
tivi, area di riflessione oramai da tempo privilegiata per lo studio dei limiti soggettivi del giu-
dicato.
152 Ovviamente, se si segue il primo indirizzo il giudicato secundum eventum litis risulta

essere la regola assolutamente generale, se invece si segue il secondo indirizzo ermeneutico,


allora tale regime dell’efficacia della sentenza, vale solo – salvo estensioni analogiche ritenute
eventualmente possibili – in relazione ai fenomeni giuridici che possono essere ricondotti al-
l’art. 1306 c.c. ed alle altre disposizioni che vi rimandano. Si noti che – come meglio vedremo
(cfr. infra, nota 154) – molta della dottrina contraria al giudicato secundum eventum litis si è
pronunciata in questo senso denunciando la mancanza di un’espressa disposizione di legge
che così disponga, riducendo – talora – l’art. 1306 c.c. a norma eccezionale. Peraltro, se –
come riteniamo doversi fare – si riconducono i fenomeni di concorrenza di diritti alla disci-
plina dell’art. 1306 c.c., questa opzione ricostruttiva non si pone a ben vedere nemmeno in
contrasto con l’orientamento dottrinale ora indicato, in quanto l’art. 1306 c.c. vale come l’e-
spressa previsione di legge volta a regolamentare una specifica classe di controversie giuridi-
che, all’interno della quale il giudicato secundum eventum litis è la regola e l’indifferenziata
estensione ultra partes del giudicato risulta essere una regolamentazione ulteriormente dero-
gatoria che abbisogna a sua volta di una specifica disposizione di legge che la giustifica.
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 489

non l’illogicità153, comunque l’eccezionalità154, o quantomeno la minore o


ridotta portata sistematica.

153 Così, in un primo momento, PROTO PISANI, A., Opposizione di terzo ordinaria, cit., p.
201, nota 39, secondo cui l’art. 1306 c.c. doveva essere valutato come una disposizione a ca-
rattere eccezionale, giustificabile per ragioni storiche e non espressione di un principio ricon-
ducibile a logica (ma per la più recente posizione, v. la nota che segue).
154 Come è noto la dottrina tradizionale si è dimostrata tendenzialmente contraria al
giudicato secundum eventum litis, sulla scorta dell’osservazione che il giudicato deve colpire
le parti in egual misura, abbia esso esito favorevole o sfavorevole. Sul punto, v. CHIOVENDA,
G., Sul litisconsorzio necessario, cit., p. 438, in nota; ID., Principi di diritto processuale civile,
cit., p. 924 e 1099; ID., Istituzioni di diritto processuale civile, cit., p. 349; REDENTI, E., Il giu-
dizio civile con pluralità di parti, cit., p. 173 ss.; BETTI, E., Diritto processuale civile italiano,
cit., p. 603 ss. e p. 619 nota 58; ALLORIO, E., La cosa giudicata rispetto ai terzi, cit., p. 242; FAB-
BRINI, G., Contributo alla dottrina dell’intervento adesivo, cit., spec. p. 190, nota 41; PROTO PI-
SANI, A., Opposizione di terzo ordinaria, cit., p. 201, nota 39, implicitamente anche a p. 634;
PUGLIESE, G., Giudicato civile (dir. vig.), cit., p. 889; VOCINO, C., Su alcuni concetti e problemi
del diritto processuale civile: IV) Cosa giudicata e suoi limiti, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1971,
p. 481 ss., ma spec. p. 570; CARPI, F., L’efficacia «ultra partes» della sentenza civile, cit., p. 92,
156, 187, 347; RAPISARDA, C., Spunti in tema di efficacia del giudicato secundum eventum litis
con particolare riguardo all’esperienza della legge tedesca sulle condizioni generali del contratto,
cit., spec. p. 768; BONSIGNORI, A., Della tutela giurisdizionale dei diritti, t. 1, Disposizioni ge-
nerali, art. 2907-2909, Bologna-Roma, 1999, p. 207, 209, 221 ss.; FERRI, C., in COMOGLIO, L.P.
- FERRI, C. - TARUFFO, M., Lezioni di diritto processuale civile, I, Bologna, 2006, p. 699; sem-
brerebbe di questo orientamento anche MANDRIOLI, C., Diritto processuale civile, I, cit., p.
153. Parimenti, LUISO, F.P., Principio del contraddittorio ed efficacia della sentenza verso i terzi,
Milano, 1981, che, peraltro, talora viene annoverato dalla dottrina tra gli AA. favorevoli. E
ciò perché, sebbene, da un lato (p. 101 s.), l’A. ora citato dimostri la coerenza logica dell’art.
1306 c.c., operando un parallelo tra efficacia della sentenza e gli effetti che gli atti di disposi-
zione sostanziale producono nei confronti dei soggetti coinvolti nei rapporti obbligatori soli-
dali, dall’altro (p. 210), si dimostra perplesso nei confronti di un’applicazione generalizzata
del principio. In questo orientamento va infine annoverata anche la posizione di Liebman, ma
in un senso ed entro limiti particolari, sui quali ci siamo abbondantemente intrattenuti retro,
nota 104. Se si rimanesse, peraltro, fermi a registrare questa attestazione di tendenziale con-
trarietà non si andrebbe molto lontano. Diversamente, va rimarcato che la stragrande mag-
gioranza della dottrina contraria (Redenti, Allorio, Pugliese, Vocino, Carpi, Luiso, Rapisarda,
Bonsignori) non si è opposta al giudicato secundum eventum litis in ragione di una sua pre-
tesa inammissibilità logica (così, invece, il già citato Proto Pisani, la cui più recente e distinta
posizione è peraltro esaminata tra breve), ma piuttosto argomentando sulla base di una ne-
cessaria previsione di legge che espressamente contempli tale regime. Sul punto, ad esempio,
v. ALLORIO, E., La cosa giudicata rispetto ai terzi, cit., p. 242, il quale evidenziava che tale av-
versione nei confronti dell’efficacia differenziata della sentenza non meritasse le critiche ri-
voltale, essendo in realtà semplicemente l’espressione dell’esigenza che l’accertamento non
pregiudicasse chi non ha preso parte al giudizio. E proprio per questo motivo, alla possibile
estensione del giudicato di rigetto ottenuto a seguito dell’esercizio di una azione costitutiva,
Allorio si chiedeva quale potesse essere la ragione contraria a tale estensione nei confronti de-
gli altri titolari di diritti potestativi «in assenza d’una norma che li tuteli». Alla luce di queste
osservazioni è interessante notare che, tra gli AA. poc’anzi citati, molti di questi hanno
espresso la propria opinione successivamente all’entrata in vigore del codice civile del 1942 e,
490 CAPITOLO SESTO

Il punto è quello che segue: fintanto che lo schema logico formale


impiegato per la spiegazione dei fenomeni giuridici sostanziali è rappre-

dunque, la loro posizione contraria al giudicato secundum eventum litis ha anche comportato
un giudizio di sostanziale eccezionalità – quasi sempre implicito – rispetto a quanto disposto
dall’art. 1306 c.c. in materia di obbligazioni solidali (oltre agli AA. già citati, v. anche ATTARDI,
A., Sui limiti di efficacia dell’art. 1306 c.c., in Riv. proc. civ., 1953, II, p. 56 ss.; ed inoltre BU-
SNELLI, F.D., La cosa giudicata nelle obbligazioni solidali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1974, p.
403 ss., che ha addirittura negato che l’art. 1306 c.c. prevedesse un’ipotesi di giudicato se-
cundum eventum litis). Comunque, all’orientamento appena indicato, se ne contrappone un
secondo, viceversa favorevole all’estensione ultra partes del giudicato in utilibus; orienta-
mento via via affermatosi con maggior vigore con il crescere di quel fenomeno di costituzio-
nalizzazione del diritto vigente (cfr. retro, cap. III, § 1.2.), rispetto al quale, per ciò che attiene
alla specifica questione dei limiti soggettivi del giudicato, un punto di svolta (come osservato
da MENCHINI, S., Il giudicato civile, cit., p. 187) può sicuramente rinvenirsi nel noto ripensa-
mento alloriano (ALLORIO, E., Trent’anni di applicazione del codice di procedura civile, in Com-
mentario del codice di procedura civile, diretto da E. Allorio, I, 1, cit., p. LXIV ss., su cui v.
TROCKER, N., Enrico Allorio e la dottrina della riflessione della cosa giudicata rispetto ai terzi,
in Riv. dir. proc., 2001, p. 339 ss.) e nella sentenza della Corte costituzionale n. 55 del 22
marzo 1971 (in Foro it., 1971, I, p. 824 ss.) dichiarante l’illegittimità dell’art. 28 c.p.p. del
1930. Questo orientamento si è generalmente sviluppato attorno a due distinti seppur asso-
lutamente compatibili filoni di riflessione. Una prima linea di sviluppo è quella avanzata da
ATTARDI, A., Diritto processuale civile, cit., p. 489 ss., secondo cui tanto l’art. 2909 c.c. quanto
l’art. 1306 c.c. non sarebbero risolutivi per escludere o confermare la vigenza nel nostro or-
dinamento del regime di giudicato secundum eventum litis, ma – se ben si intende – tale effi-
cacia troverebbe fondamento nella stessa pienezza del valore del giudicato; dal quale discen-
derebbe il seguente principio generale: «il vincolo delle parti al contenuto del giudicato opera
tra di loro e di fronte ai terzi» (c.vo mio). Più distesamente, il contenuto del giudicato vinco-
lerebbe coloro che hanno preso parte al giudizio (parti in senso processuale), ovvero sia la
parte vincitrice che la parte soccombente, nei futuri giudizi tra loro; ma tale contenuto li vin-
colerebbe anche nei futuri giudizi nei confronti di terzi, i quali peraltro sarebbero gli unici a
non esserne vincolati se il contenuto del giudicato – per loro pregiudizievole – si ponesse in
conflitto con diritto di difesa che la Costituzione garantisce. Ancor prima, peraltro, una let-
tura interpretativa di simile tenore era stata convincentemente avanzata da TARUFFO, M.,
«Collateral estoppel» e giudicato sulle questioni, cit., p. 294, il quale aveva osservato che «l’art.
2909 risolve la questione dei limiti soggettivi del giudicato esclusivamente sotto il profilo che
può chiamarsi “passivo”, mentre non contiene alcun riferimento esplicito alla determinazione
della sfera soggettiva “attiva”, ossia a quella dei soggetti che possono valersi degli effetti del
giudicato». Cosicché, «non esite – si concludeva – alcuna ragione per escludere a priori che
possano valersi degli effetti favorevoli del giudicato soggetti diversi da quelli che in base al-
l’art. 2909 ne subiscono gli effetti sfavorevoli». Oltre a questa posizione, va peraltro rilevata
– come accennato – una seconda linea di sviluppo, che sovente ha trovato svolgimento in ma-
teria di litisconsorzio necessario o, più correttamente, in materia di rapporti plurisoggettivi.
Area di riflessione all’interno della quale il regime di giudicato secundum eventum litis si è pa-
lesato come principio utile per limitare i casi di necessaria partecipazione di più soggetti al
giudizio ai sensi dell’art. 102 c.p.c. In quest’ottica, il perno sistematico su cui far leva per giu-
stificare detto regime degli effetti è apparso non tanto e non solo quanto dispone l’art. 2377
c.c. in materia di decisione comportante l’annullamento delle delibere assembleari, quanto
piuttosto la disciplina prevista dall’art. 1306 c.c.; disposizione deputata a garantire – in via di
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 491

sentato dal rapporto giuridico quale entità intersoggettiva bipolare, costi-


tuita dal un lato attivo (diritto soggettivo sub specie di potere, possibilità

applicazione analogica o per alcuni diretta – il coordinamento delle decisioni in materia di


rapporti giuridici plurisoggettivi. In questo senso, pur all’interno di prospettive ricostruttive
non sempre omogenee, v. COSTANTINO, G., Contributo allo studio del litisconsorzio necessario,
cit., p. 502 ss.; PROTO PISANI, A., Note in tema di limiti soggettivi della sentenza civile, cit., ma
spec. p. 2388; ID., Appunti sul litisconsorzio necessario e sugli interventi, in Riv. dir. proc.,
1994, p. 352 ss., spec. p. 357 ss.; ID., Processo di cognizione e terzi nel diritto italiano, in Riv.
dir. proc., 1992, p. 555 ss., spec. p. 557 s.; ID., Lezioni di diritto processuale civile, cit., p. 300
ss., 365-366, 375; posizione, dunque, distinta quella antecedentemente proposta nel lavoro
sull’Opposizione di terzo ordinaria, cit., p. 201, nota 39, e, implicitamente, a p. 634. Cfr. anche
gli scritti di Costantino e Proto Pisani dedicati al tema degli interessi collettivi, cit., retro, nota
126. Un’ampia e completa elaborazione del modello di coordinamento delle diverse iniziative
giudiziali basate sull’applicazione del principio della «portata soggettiva del giudicato diffe-
renziata in ragione del contenuto della sentenza» la si deve comunque a MENCHINI, S., Il pro-
cesso litisconsortile, cit., spec. 524 ss.; ID., Regiudicata civile, in Dig. disc. priv., sez. civ., XVI,
Torino, 1997, p. 404; ID., Il giudicato civile, cit., p. 195 ss. Secondo questa lettura – come
detto elaborata fondamentalmente in ordine all’obiettivo di limitare l’applicazione del regime
di litisconsorzio necessario iniziale in materia di rapporti unici con pluralità di parti – detto
modello si dovrebbe articolare nelle regole che seguono (tra gli scritti citati v. spec. Il processo
litisconsortile, cit., 532 ss.): a) la legittimazione disgiuntiva di ogni contitolare del rapporto co-
stituisce la regola generale, mentre l’applicazione del regime previsto dall’art. 102 c.p.c. resi-
dua solo nelle ipotesi in cui la sentenza di contenuto favorevole non sarebbe idonea ad attri-
buire all’attore il bene della vita richiesto; b) la sentenza di merito, se favorevole, produce ef-
fetto nei confronti di tutti i contitolari, mentre, se ha contenuto sfavorevole, vincola solo colui
che ha preso parte al giudizio; c) qualora il giudicato sia favorevole, l’estensione degli effetti
produce la regolamentazione uniforme del rapporto, arrestando l’eventuale reiterazione del
giudizio avverso il comune convenuto; d) la sentenza favorevole emessa successivamente ad
un’altra di esito negativo, estendendo la sua efficacia a tutti i legittimati, viene a porsi come
unica fonte di regolamentazione dell’intero rapporto, sostituendosi, così, alla sentenza già
emessa – ma di esito sfavorevole – anche nei rapporti tra le parti del primo giudizio; e) il ri-
schio di eccessiva esposizione dell’unico convenuto è risolto per mezzo della chiamata in giu-
dizio ex art. 106 o 107 c.p.c.; f) gli altri legittimati possono intervenire nel giudizio già avviato
ex art. 105 c.p.c., ovvero in via adesiva autonoma (o litisconsortile); g) riunione necessaria dei
giudizi simultaneamente pendenti (arg. ex art. 2378 c.c.). Va comunque detto che nel dibat-
tito post-costituzionale il campo primario di svolgimento della riflessione sul problema dei li-
miti soggettivi del giudicato è apparso essere proprio il tema della tutela degli interessi col-
lettivi. Ciò è comprensibile non solo alla luce del progressivo attestarsi del dibattito su posi-
zioni – come detto – costituzionalmente orientate, ma anche in relazione al fatto che la
riflessione generale in materia di limiti soggettivi del giudicato ha da sempre riservato mag-
gior attenzione al problema dell’estensione dell’efficacia riflessa e non dell’efficacia diretta.
Per ulteriori posizioni favorevoli nei confronti di tale regime degli effetti, non resta che rin-
viare, dunque, agli AA. cit., retro, nota 126, dalle cui posizioni ben emerge la maggior pro-
pensione che la comunità scientifica ha recentemente dimostrato nei confronti del regime de-
gli effetti del giudicato in questione; propensione ben sintetizzata dalle osservazioni di CHIAR-
LONI, S., Appunti sulle tecniche di tutela collettiva dei consumatori, cit., p. 397, secondo cui la
diffidenza nei confronti del giudicato secundum eventum litis «non è nient’altro che una ma-
nifestazione dell’essenzialismo dogmatico proprio delle metodologie concettualiste».
492 CAPITOLO SESTO

di agire, ecc.) e da un lato passivo (obbligo), l’ambito di operatività del


fenomeno dell’estensione ultra partes dell’efficacia diretta della sentenza
è piuttosto ristretto, in quanto, come anche di recente si afferma, è diffi-
cile «raffigurare casi in cui due processi, relativi allo stesso rapporto giu-
ridico, si svolgano tra persone diverse»155.
La questione va subito chiarita: se l’accertamento del rapporto A-B
è dato dall’accertamento dell’entità «diritto di A» più l’entità «obbligo di
B», allora in un successivo giudizio instaurato da C, sul rapporto C-B,
sebbene nel rapporto figuri (per ipotesi) il medesimo obbligo di B (come
ad esempio tipicamente accade nelle nostre fattispecie), giammai l’accer-
tamento di A-B potrà rilevare (indipendentemente dal suo contenuto po-
sitivo o negativo ovviamente) in un futuro giudizio in cui si controverta
su C-B. E ciò poiché, indipendentemente dal fatto che C abbia preso
parte al primo giudizio, A-B è, per definizione, diverso da C-B. I due
rapporti giuridici, presenteranno pure al loro interno il medesimo ob-
bligo (ovvero lo stesso comportamento doveroso di C), ma cionono-
stante, sono oggettivamente diversi. Difatti:
[(diritto soggettivo di A)+(obbligo di B)] ≠
[(diritto soggettivo di C)+(obbligo di B)].
In altre parole, se il fenomeno sostanziale viene inquadrato nei ter-
mini appena indicati, il problema dei limiti soggettivi del giudicato nem-
meno si pone, in quanto, a monte, sono gli stessi limiti oggettivi dell’ac-
certamento ad ostacolare qualsiasi possibilità di estensione ultra partes
dell’efficacia diretta del giudicato156.

155 Con la consueta chiarezza, MENCHINI, S., Il giudicato civile, cit., p. 189 s.
156 Non a caso – come ricordato (cfr. retro, nota 104) – in materia di azioni concorrenti,
ovvero tanto con riferimento alle obbligazioni solidali, quanto in riferimento ad azioni costi-
tutive, LIEBMAN, E.T., Azioni concorrenti, cit., p. 63, si trovava a ribadire che il modello del
concorso soggettivo di azioni proposto non poteva dar luogo a fenomeni di giudicato secun-
dum eventum litis proprio per l’ostacolo dei limiti oggettivi del giudicato. E ancora ALLORIO,
E., La cosa giudicata rispetto ai terzi, cit., p. 117 ss., per le medesime ragioni si trovava a do-
ver separare i casi di «normale» estensione del giudicato verso i terzi dall’«anormale» feno-
meno dell’«allargamento», il quale, ultimo, trovava come sua sede di applicazione proprio le
ipotesi di concorrenza tra rapporti giuridici. La lettura dell’illustre dottrina da ultimo richia-
mata è particolarmente significativa, a tal riguardo; in essa, infatti, l’impostazione di metodo
seguita per la sistemazione della problematica è di impronta rigorosamente strutturale. Tre
sono i principali elementi ricostruttivi impiegati: a) il rapporto giuridico sostanziale inteso nei
precisi termini indicati da noi nel testo e assunto quale entità elementare oggettiva dell’accer-
tamento (p. 50 ss.); b) il valore assoluto del giudicato inteso come forza precettiva e vinco-
lante (p. 87 ss.); c) il vincolo di subordinazione che lega i rapporti sin dalle loro radici so-
stanziali e che costituisce il nesso strutturale necessario e sufficiente a giustificare il fenomeno
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 493

Se, poste queste premesse, si vuole ugualmente consentire un l’e-


stensione del giudicato oltre le parti del giudizio, vi sono comunque

dell’espansione del giudicato stesso (p. 68 ss.). Proprio l’applicazione di questi tre strumenti,
se, da un lato, conduce con estremo rigore logico – poste ovviamente le premesse ed in par-
ticolare la «forza propulsiva» del modello, che ovviamente risiede nel valore assoluto della
sentenza – alla delineazione del fenomeno della riflessione della cosa giudicata, dall’altro, in-
nalza una barriera logica insuperabile all’estensione ultra partes dell’efficacia diretta della sen-
tenza. Nei rapporti concorrenti, infatti, viene a mancare proprio quella relazione strutturale
idonea a far scorrere da un rapporto all’altro la vincolatività del giudicato. E così, riguardo
questa tipologia di rapporti, non ricorre un effetto di estensione della cosa giudicata in senso
proprio ma un fenomeno similare meglio definibile come «allargamento»; corrispondente ad
«una sorta d’amplificazione della sfera di ripercussione consueta del giudicato, la quale si ri-
solve in un superamento non solo, e non tanto, dei limiti soggettivi […] quanto piuttosto dei
limiti oggettivi della cosa giudicata» (p. 123). Ai fini di quanto si afferma nel testo, uno degli
aspetti più interessanti di questa ricostruzione, è peraltro verificare quale sia lo strumento ri-
costruttivo in grado di giustificare tale «superamento» e di sostituirsi al dato ontologico del-
l’elemento strutturale-relazionale che appunto manca tra i diversi rapporti concorrenti. E
questo strumento non è null’altro che «la esigenza pratica che […] il rapporto del terzo ri-
ceva un regolamento giuridico correlativo». Non è, insomma, il vincolo logico di subordina-
zione tra rapporti che qui rileva, ma un «nesso di coordinamento necessario», che evidente-
mente, per superare l’insuperabile, ovvero – si badi bene – l’oggettiva difformità intercor-
rente tra i due rapporti, deve essere «reso giuridico dalle norme» (p. 121), le uniche
effettivamente in grado di far valere il regolamento del rapporto X come regolamento anche
per il rapporto Y. In altri termini qui assistiamo ad un vero e proprio salto logico il quale può
essere compiuto solo con l’avallo della legge. È interessante inoltre evidenziare un ulteriore
aspetto particolarmente delicato di tale ricostruzione. Difatti, diversamente da quanto soste-
nuto da Liebman, Enrico Allorio, se riconduceva di certo ai rapporti concorrenti, quei rap-
porti giuridici aventi a contenuto diritti potestativi dal lato attivo e soggezioni da quello pas-
sivo, d’altra parte, ne escludeva le ipotesi di solidarietà attiva. E questo risultato ricostruttivo
sembrerebbe essere determinato dal fatto che nella concorrenza di diritti potestativi ad eser-
cizio giurisdizionale, vista la logica scindibilità tra momento dell’accertamento del diritto po-
testativo e momento della produzione dell’efficacia costitutiva da parte della sentenza, poteva
forse risultare più plausibile affermare che «l’efficacia d’accertamento è limitata al rapporto
accertato», ma «l’efficacia disciplinatrice della sentenza riguarda, invece, un intero fascio di
rapporti» (p. 123). Nel caso della solidarietà passiva, invece, il superamento dei limiti ogget-
tivi del giudicato passava per un percorso ancor più periglioso e occorreva – poste le solite
premesse – accedere ad una soluzione ricostruttiva differente. Due erano quindi le possibilità
che Allorio presentava al lettore. La prima era appunto richiamare l’istituto della sostituzione
processuale: «la soluzione – si rimarcava a p. 265 – sarebbe più plausibile, dal momento che
il creditore solidale agisce evidentemente, e per l’intero credito, in nome proprio, quale parte.
Senonché, appar chiaro com’egli agisca anche per conto proprio, sebbene nel remoto interesse
altrui». Questa ambivalenza conduceva, quindi, l’illustre dottrina ora in esame, notoriamente
contraria alla configurazione di rapporti unici plurisoggettivi, ad accedere ad una seconda al-
ternativa ricostruttiva viceversa assai simile se non coincidente con il concetto dogmatico ap-
pena richiamato. Si sosteneva, infatti, che la posizione di titolarità del creditore solidale fosse
– a ben vedere – una sorta di «titolarità relativa» e che l’estensione del giudicato trovasse fon-
damento nella stessa legittimazione del concreditore a dedurre in giudizio «l’intero rap-
porto». Come affermato nel testo, insomma, anche Allorio, partendo dalle premesse di diritto
494 CAPITOLO SESTO

strade che conducono a tale risultato, ma di certo occorre far impiego di


modelli ricostruttivi complessi, nei quali trovino impiego gli strumenti ri-
costruttivi idonei a superare l’ostacolo ora indicato. E l’unico strumento
tecnicamente corretto per giustificare fenomeni di estensione diretta del
giudicato in ipotesi di tal fatta è la sostituzione processuale157.
Difatti, tornando all’esempio poc’anzi indicato, se assumiamo come
risultato che A possa convenire in giudizio B, potendo conseguire un giu-
dicato vincolante anche nei confronti di C, l’unica strada logicamente
corretta è quella di ritenere che A faccia valere in giudizio non solo il suo
diritto, ma anche il diritto soggettivo di C.
Se al contrario si volesse raggiungere lo stesso esito facendo impiego
della figura del rapporto plurisoggettivo158 (se non anche dell’azione

sostanziale indicate, si trovava costretto ad avanzare tesi ricostruttive particolarmente com-


plesse e queste non potevano che essere o la sostituzione processuale o una variante dogma-
tica del rapporto plurisoggettivo.
157 Tipica espressione di questa tecnica ricostruttiva la si ritrova con particolare net-

tezza in GARBAGNATI, E., Profili processuali del licenziamento per motivi antisindacali, in Riv.
dir. proc., 1973, p. 596 ss. in materia di giudizio di repressione della condotta antisindacale;
ma v. anche, nella stessa materia, PROTO PISANI, A., Appunti sui rapporti tra i limiti soggettivi
di efficacia della sentenza civile e la garanzia costituzionale del diritto di difesa, cit., p. 1228,
nota 29 e p. 1229. Sul punto, v. infra, cap. VII, § 2.1.2. Più in generale, v. quanto riportato
alla nota che precede in merito alla ricostruzione alloriana della solidarietà attiva. Un’ulte-
riore interessante applicazione la si ha avuta – mutatis mutandis – in materia di impugnazione
delle delibere assembleari. Cfr., in particolare, PROTO PISANI, A., Opposizione di terzo ordina-
ria, cit., p. 154 ss.; ID., Appunti sui rapporti tra i limiti soggettivi di efficacia della sentenza ci-
vile e la garanzia costituzionale del diritto di difesa, cit., p. 1245 ss. (seguito da TARUFFO, M., I
limiti soggettivi del giudicato e le «class actions», in Riv. dir. proc., 1969, p. 609 ss., spec. p. 612
ss.; e successivamente da CHIZZINI, A., L’intervento adesivo, II, Struttura e funzione, Padova,
1992, p. 538 ss.), per il quale i singoli soci legittimati agirebbero in via straordinaria eserci-
tando un’azione in grado di determinare l’«affievolimento» delle altre legittimazioni e di con-
seguenza l’estensione ultra partes degli effetti della sentenza (opzione peraltro successiva-
mente abbandonata in ID., Note in tema di limiti soggettivi della sentenza civile, in Foro it.,
1985, I, p. 2385 ss., ma spec. p. 2392 s., pubblicato anche in Studi in onore di Enrico Allorio,
I, Milano, 1989, p. 399 ss.).
158 Questa sembra la strada seguita dalla dottrina che ha valorizzato il disposto dell’art.

1306 c.c. in materia di rapporti plurisoggettivi: PROTO PISANI, A., Note in tema di limiti sog-
gettivi della sentenza civile, cit., ma spec. p. 2388; ID., Appunti sul litisconsorzio necessario e su-
gli interventi, cit., p. 357 ss.; ID., Processo di cognizione e terzi nel diritto italiano, cit., p. 557 s.;
ID., Lezioni di diritto processuale civile, cit., p. 300 ss., 365-366, 375; MENCHINI, S., Il processo
litisconsortile, cit., spec. 524 ss.; ID., Regiudicata civile, cit., p. 455 ss.; ID., Il giudicato civile, cit.,
p. 195 ss. Questo orientamento dottrinale, peraltro, pur ricostruendo i fenomeni in esame in
termini di situazione plurisoggettiva e prevedendo appunto l’estensione del giudicato secun-
dum eventum litis, facendo perno anche, ma non solo, sull’art. 1306 c.c. (amplius, cfr. retro,
nota 154), non fa cenno alcuno alla sostituzione processuale e ciò si giustifica di certo con il
fatto che in queste ipotesi il giudizio che si svolge in assenza dei contitolari non produce ef-
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 495

unica plurisoggettiva)159, in realtà non si farebbe altro che dire cose simili
con parole diverse. Anche leggendo il fenomeno in esame con queste

fetto sfavorevole nei loro confronti e dunque non si realizza la piena operatività di quanto di-
spone l’art. 81 c.p.c. Ma ribaltando perfettamente il discorso, non pare nemmeno dubbio che
in tali ipotesi si abbia comunque un giudizio idoneo a concludersi con un’accertamento che,
investendo tutta la situazione plurisoggettiva proietta sulla natura della legittimazione ad agire
del singolo contitolare una doppia valenza, appunto ordinaria e sostitutiva assieme.
159 È la nota e complessa ricostruzione avanzata da FABBRINI, G., Contributo alla dot-

trina dell’intervento adesivo, Milano, 1964, spec. p. 183 ss., per spiegare l’estensione ultra par-
tes dell’efficacia diretta della sentenza in riferimento alla collegittimazione ordinaria semplice,
nella quale si riscontra appunto un fenomeno di plurisoggettività, ovvero di contitolarità, di
una unica azione, oltre che una contitolarità dell’oggetto del giudizio e della situazione legit-
timante (diversamente dalla collegittimazione straordinaria in cui ricorre solo la plurisoggetti-
vità dell’azione e dalla collegittimazione ordinaria litisconsortile, nella quale, come nella ordi-
naria, si realizzano le medesime tre condizioni poc’anzi indicate, sebbene con un rapporto di
coincidenza tra situazione legittimante ed oggetto del giudizio). Anche per questa costruzione
valgono in gran parte le stesse considerazioni svolte alla nota che precede. Difatti, specie alla
luce del concetto di azione e di potere giuridico su cui ci siamo già intrattenuti (cfr. retro, cap.
V, spec. nota 172 e nota 183), la figura dell’«azione unica plurisoggettiva» non può essere ac-
colta (cfr., in questo senso, le osservazioni critiche di PROTO PISANI, A., Opposizione di terzo
ordinaria, cit., p. 163, nota 21; e successivamente CARPI, F., L’efficacia «ultra partes» della sen-
tenza civile, cit., p. 259). Se, infatti, il potere di azione è la possibilità che appartiene a colui
che si propone come titolare dell’interesse tutelato di porre in essere quel comportamento ti-
pico (proposizione della domanda secondo i canoni che la legge prescrive) idoneo a comple-
tare la realizzazione della fattispecie costitutiva del dovere decisorio giudiziale, due sono le
possibilità logiche entro cui rimane astretto l’interprete: quella in cui il comportamento or ora
descritto debba essere tenuto da due o più soggetti assieme e quella in cui, invece, il com-
portamento ha l’effetto indicato, anche se esso è tenuto solo da un unico soggetto. La prima
ipotesi è l’unica in cui noi potremmo parlare di contitolarità di un potere, facendo uso – come
sovente – di un linguaggio figurato ed entificante che può esser valido, tra l’altro, solo nella
consapevolezza del preciso valore rappresentativo, cioè di comodo, che ad esso si dà rispetto
all’essenza del fenomeno normativo. Visto che in tutte le ipotesi ricondotte alla figura dell’a-
zione unica plurisoggettiva una sola parte può porre in essere il comportamento idoneo a co-
stituire il dovere decisorio del giudice – ovvero il comportamento assunto della norma come
costitutivo di tale dovere è il suo e non di un altro – non è mai possibile parlare di contitola-
rità. Nessuno, infatti, ha strumenti per impedire che il soggetto, titolare dell’azione ed inten-
zionato a promuovere il giudizio, realizzi la fattispecie costitutiva secondo le note legali che il
diritto processuale prevede. Chi ora pensasse che quanto detto patisca eccezione o smentita
nelle ipotesi di litisconsorzio necessario cadrebbe in errore, poiché la necessità che più parti
partecipino al giudizio affinché il giudice possa pronunziarsi nel merito non centra nulla con
la questione in esame. Nelle ipotesi di litisconsorzio necessario, infatti, si assiste unicamente
ad un vincolo imposto al comportamento del soggetto che vuole ottenere la pronuncia sul
merito, come un vincolo è quello di proporre la domanda al giudice, che sia competente, con
l’esatta determinazione dell’oggetto, ecc. Dal punto di vista formale tutti questi vincoli, che si
presentano naturalmente nelle loro proprie dimensioni normative derivanti dalla specifica di-
sciplina di volta in volta ricorrente, non toccano in alcun modo l’essenza del fenomeno del
potere e rappresentano unicamente connotazioni del comportamento idoneo a costituire il
dovere giudiziale. E ciò è talmente evidente che forse non sarebbe nemmeno il caso di ri-
496 CAPITOLO SESTO

lenti, infatti, il contitolare che esercita l’azione, fa valere in giudizio un


diritto che è sì suo, ma non interamente. Avremmo, insomma, anche in
questo caso, una legittimazione che in parte è ordinaria in parte è straor-
dinaria e, con riferimento specifico a questa sua seconda parte, risponde
pienamente al regime processuale previsto dall’art. 81 c.p.c. Qui l’imma-
gine potrà apparire meno chiara, ma ciò è dovuto unicamente allo
schermo concettuale che si stende sui nessi logico-strutturali che comun-
que rimangono pienamente validi ed operativi sotto di esso.
Ciò detto, arriviamo finalmente al punto. Nella nostra concezione
del diritto soggettivo tutti questi problemi non hanno ragione di esistere.
Difatti, come più volte ripetuto in questo capitolo, oltre che ovviamente
in quello che ci lasciamo alle spalle, nella nostra concezione l’unico ef-
fetto giuridico che la norma contempla – al verificarsi dei fatti che ne
condizionano l’esistenza – è l’obbligo.
Il lato attivo del rapporto, ovvero il potere, la facoltà e quant’altro,
non sono predicabili in detti termini. Per cui, poste queste diverse pre-
messe, se andiamo a vedere cosa succede nel giudizio che coinvolge A, B
e C, ci rendiamo con immediatezza conto che, venuti meno le compo-
nenti «diritto soggettivo di A» e «diritto soggettivo di C», la materia di
accertamento è solo l’obbligo di B, ovvero l’accertamento positivo o ne-
marcarlo visto che tutte queste questioni sono effettivamente implicite nel concetto stesso di
potere giuridico. L’idea di concepire un’azione unica in titolarità di più soggetti ha peraltro ori-
gini lontane, ovvero la stessa dottrina dell’azione di Giuseppe Chiovenda. Muovendosi, infatti,
in una concezione dell’azione intesa in senso concreto, allorché la legittimazione è assunta
quale condizione dell’azione (CHIOVENDA, G., Principi di diritto processuale civile, cit., p. 151
ss.; ID., Istituzioni di diritto processuale civile, I, p. 59 s., 161 ss.) e la necessaria partecipazione
al processo di più soggetti viene essa stessa ricondotta alla legittimazione ad agire (CHIOVENDA,
G., Sul litisconsorzio necessario [1904], in Saggi di diritto processuale civile, II, Milano, rist.
1993, p. 427 ss., spec. p. 435 e 444 s.), la conseguente constatazione che il diritto alla pronun-
cia favorevole dipende anche dalla necessaria partecipazione anzidetta conduce immediata-
mente a configurare l’azione come unica e plurisoggettiva. Ma anche muovendo all’interno di
questa concezione sarebbe agevole rilevare che tale diritto alla pronuncia favorevole dipende
dalla necessaria partecipazione non nel senso che i litisconsorti necessari, se lo vogliono, pos-
sono sottrarsi al giudizio paralizzando la possibilità dell’attore di ottenere la sentenza di acco-
glimento della sua domanda, ma solo nel più limitato significato che, l’attore, se vuole ottenere
l’effetto auspicato, deve proporre nei loro confronti la domanda. Già con REDENTI, E., Il giu-
dizio civile con pluralità di parti, cit., p. 1 ss. e poi p. 292 ss., ad esempio, la prospettiva di stu-
dio subisce uno spostamento non irrilevante, poiché l’«unicità» è attributo del rapporto pro-
cessuale piuttosto che dell’azione. A parte queste divagazioni, comunque, il punto è che l’a-
zione unica plurisoggettiva corrisponde in realtà a distinti e separati poteri di azione e, se si
vuole mantenere l’unicità del rapporto sostanziale, ecco che ci ritroviamo perfettamente nell’i-
potesi che trattavamo alla nota che precede, in cui appunto si osservava che chi esercita l’a-
zione deduce un rapporto che è solo in parte suo con la necessaria conseguenza che la legitti-
mazione ad agire sarà anch’essa ambivalente: in parte ordinaria, in parte sostitutiva.
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 497

gativo del comportamento doveroso che la legge impone a tale ipotetico


soggetto.
In altre parole l’ostacolo dei limiti oggettivi del giudicato poc’anzi
indicato è svanito e ciò poiché tra i due eventuali giudizi si realizza un
rapporto di perfetta coincidenza tra gli effetti giuridici che vengono ad
essere posti ad oggetto dell’accertamento.
Rimane di certo la questione se l’effetto di giudicato investa o non
investa l’altro legittimato ed entro quali limiti.
Ma eccoci per questa via ricondotti nuovamente all’art. 1306 c.c., il
quale, alla luce del rinvio operato dagli artt. 1316 e 1317 c.c., si pone
come regola generale in materia di coordinamento delle decisioni con-
clusive di giudizi che hanno ad oggetto un unico effetto giuridico posto
a tutela di più interessi per ciò proprio compatibili e concorrenti.
In altri termini, il regime degli effetti della sentenza che tale disposi-
zione presenta, appare perfettamente coerente con la sostanza strutturale
del fenomeno con cui abbiamo a che fare160 e, alla luce degli esiti ottenuti
sul piano teorico-formale all’interno di questo lavoro, presenta una por-
tata sistematica non indifferente; quella portata che ha sempre stentato a
guadagnare proprio per le ragioni indicate in questo paragrafo.
In conclusione, quindi, il giudicato secundum eventum litis non ri-
sulta semplicemente – come sovente può essere sembrato guardando il
dibattito dottrinale in materia di interessi collettivi e diffusi – una solu-
zione opportuna, ma, più correttamente, rappresenta la soluzione positi-
vamente prevista.

160 La non riconducibilità degli strumenti di tutela degli interessi collettivi alla disci-
plina prevista dall’art. 1306 c.c. è stata in particolare sostenuta da VIGORITI, V., Interessi col-
lettivi e processo, cit., p. 111; ID., Impossibile la class action in Italia? Attualità del pensiero di
Mauro Cappelletti, in Resp. civ. e prev., 2006, p. 31 ss.; CARRATTA, A., Profili processuali della
tutela degli interessi collettivi e diffusi, cit., p. 102 ss. e 110 s.; ID., Effetti del giudicato e tutela
collettiva, in Le azioni collettive in Italia, a cura di C. Belli, Milano, 2007, p. 100 ss., ma spec.
p. 115 ss. Questo orientamento dottrinale, da un lato, ha rimarcato come la tutela degli inte-
ressi sovraindividuali costituisca effettivamente un fenomeno nuovo, caratterizzato da esi-
genze differenti da quelle a cui cerca di dare risposta l’art. 1306 c.c., e, dall’altro, ha opinato
la stessa riconducibilità formale della situazione sostanziale tutelata allo schema dei «diritti
plurisoggettivi». Se il secondo argomento non trova ovviamente la nostra adesione per le ra-
gioni di natura teorico-formale che sono state svolte non solo in questo capitolo, ma soprat-
tutto nei capp. IV e V, il primo può essere accolto sono in una prospettiva de iure condendo,
anzi potremmo dire sia cosa estremamente opportuna se non doverosa dotarsi finalmente di
un processo che sia in grado di seguire i riconoscimenti che sul piano sostanziale arrivano agli
interessi collettivi. Rebus sic stantibus, peraltro, ovvero nella prospettiva de iure condito, tale
argomento è privato della sua persuasività e conduce l’interprete ad orientarsi nella prospet-
tiva suggerita nel testo.
498 CAPITOLO SESTO

Se così stanno le cose, quand’anche si volesse sostenere che il signi-


ficato precettivo delle disposizioni che legittimano ad agire gli enti espo-
nenziali rappresentativi sia quello di attribuire loro un potere di azione
idoneo a dar vita ad un giudizio che si conclude con una sentenza vinco-
lante per tutti i soggetti interessati, detta opzione ricostruttiva non do-
vrebbe essere intesa come deroga al principio di stretta relatività del giu-
dicato, ma più correttamente come deroga al regime di giudicato secun-
dum eventum litis.

5.4.3. Valutazione comparativa del giudicato secundum eventum litis e del


giudicato erga omnes alla luce delle garanzie costituzionali
Per concludere il raffronto tra i due regimi di efficacia ora in esame,
non resta che verificare quale dei due, alla luce dei correttivi addietro in-
dicati ed applicati, sia comparativamente più rispettoso delle garanzie co-
stituzionali di azione e difesa che spettano a tutti i soggetti coinvolti nel
complesso fenomeno processuale che abbiamo in esame.
I risultati raggiunti addietro erano in sintesi i seguenti:
a) tanto il giudicato secundum eventum litis, quanto il giudicato erga
omnes, presentano sotto il profilo indicato diversi punti di debolezza, in
quanto il primo può comprime il diritto di difesa del convenuto secondo
le modalità già chiarite, mentre il secondo si può dimostrare lesivo del di-
ritto di azione e di difesa degli altri legittimati;
b) il correttivo di cui si può giovare il primo è primariamente la
chiamata in causa ex art. 106 c.p.c., operata, se necessario, con le forme
previste dall’art. 150 c.p.c.
c) i correttivi di cui si può giovare il secondo sono il ritenere che i
soggetti investiti dall’efficacia della sentenza che sarà emessa su domanda
dell’ente esponenziale debbano prendere parte al giudizio in qualità di li-
tisconsorti necessari (sebbene anche qui con una possibile notificazione
dell’atto introduttivo secondo le forme dei pubblici proclami), o, alter-
nativamente, ritenere che tale giudizio possa svolgersi anche in loro as-
senza, ma che il potere di chiamata ex art. 107 c.p.c. si dimostri stru-
mento comunque idoneo a evitare possibili condotte processuali inade-
guate o comunque pregiudizievoli per la collettività di riferimento.
Come già anticipato, anche sotto questo profilo, un attento esame
dei possibili scenari che possono venirsi a creare porta a preferire la so-
luzione del giudicato secundum eventum litis.
Per giungere a questo risultato basta soffermarsi pur brevemente nel
verificare l’adeguatezza dei correttivi che possono – de iure condito – es-
sere applicati al regime di efficacia erga omnes della sentenza.
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 499

In primo luogo possiamo procedere ad un esame più accurato del


modello derivante dall’applicazione congiunta dell’art. 102 c.p.c. con l’art.
150 c.p.c., rilevando subito la metamorfosi che l’istituto del litisconsorzio
necessario viene a subire nel momento in cui vada applicato congiunta-
mente alla notificazione per pubblici proclami in ipotesi di «indetermina-
bilità» dei destinatari. I tratti essenziali della disciplina ne escono, infatti,
praticamente trasfigurati e ciò in quanto la parte necessaria viene ad es-
sere individuata per relationem, ovvero non nominativamente.
Questo fenomeno è stato descritto e spiegato con particolare preci-
sione dalla dottrina processualcivilistica, che ha efficacemente parlato di
imputazione degli effetti della sentenza «per fattispecie», ovvero «attra-
verso una data relazione con una certa res […], o con una certa situa-
zione giuridica, o con un certo evento»161. Seguendo questa via si ottiene,
insomma, quell’effetto di spersonalizzazione della parte sostanziale del
processo, che da tempo autorevole dottrina aveva rilevato con riferi-
mento all’efficacia erga omnes della sentenza collettiva durante il periodo
corporativo; allorquando – come forse si ricorderà162 – si osservava che la
tutela giurisdizionale, di regola indirizzata a tutelare interessi individuali,
poteva riferirsi ad interessi individuali seriali di latidudine talmente am-
pia da approssimarsi ad un «interesse-tipo», ovvero all’«interesse-esem-
plare». La lite, da individuale, diveniva collettiva, e la parte, da singolar-
mente determinata, diveniva il «chiunque» si trovasse o si fosse trovato a
far parte della categoria163.
Stando così le cose, l’applicazione del regime di litisconsorzio ne-
cessario nei termini anzidetti avrebbe effettivamente il solo ruolo di esca-
motage tecnico per consentire l’adeguata pubblicizzazione dell’atto intro-
duttivo in presenza di un giudizio volto comunque a vincolare tutti gli in-
teressati.
D’altra parte, queste stesse osservazioni fanno riflettere sul peso di
cui verrebbe ad essere gravata – nel complessivo regime processuale così
forgiato – l’autorizzazione alla notificazione ex art. 150 c.p.c.
Esemplificando, gli scenari che è dato immaginare potrebbero es-
sere i seguenti: a) il giudice autorizza la notificazione ex art. 150 per in-
161 SASSANI, B., A proposito di notificazione per pubblici proclami, efficacia soggettiva

della sentenza e «obiter dicta» giudiziali, cit., p. 99 ss., su cui cfr. ampius, retro, nota 122.
162 Cfr. retro, cap. I, § 3.2.2..
163 Su queste questioni, v., soprattutto, CARNELUTTI, F., Funzione del processo del lavoro,

in Riv. dir. proc. civ., 1930, p. 109 ss.; ID., Teoria del regolamento collettivo dei rapporti di la-
voro, Padova, 1930, p. 152 ss.; ID., Sistema di diritto processuale civile, cit., p. 291. Ma cfr. JAE-
GER, N., Corso di diritto processuale del lavoro, cit., p. 154 s.; e D’AGOSTINO, G., Il processo col-
lettivo del lavoro, cit., p. 140 ss.
500 CAPITOLO SESTO

determinatezza; b) l’autorizza, ma per numerosità; c) nega che si possa


procedere in ambo due i sensi e lascia aperta solo la strada della notifi-
cazione nelle forme ordinarie.
Come l’attento lettore avrà già intuito i problemi si annidano non
nella prima ipotesi, ma nella seconda e nella terza.
In quest’ultima, in particolare, se la collettività di riferimento è
molto estesa l’ente esponenziale dovrebbe superare due difficoltà: la
prima è quella dell’effettiva identificazione dei soggetti interessati, cosa
che – in circostanze non inverosimili ed al contrario frequenti vista la ti-
pologia di controversie con cui abbiamo a che fare – potrebbe apparire
un ostacolo effettivamente insuperabile; la seconda, che entra in campo
solo dopo aver superato la prima, è quella relativa al costo che richiede
la notificazione a tutti i soggetti individuati.
Se, invece, il giudice ritenesse di poter autorizzare la notificazione
per pubblici proclami nella prima species che l’art. 150 c.p.c. prevede,
l’ente esponenziale sarebbe sollevato dall’onerosità della notificazione
nelle forme ordinarie, ma rimarrebbe invariato l’altro ostacolo indicato.
In ogni caso, comunque, a fronte di una mancata autorizzazione alla
notificazione per pubblici proclami per indeterminatezza dei destinatari,
per l’ente esponenziale l’impossibilità di vincere le difficoltà economiche
indicate o l’impossibilità di individuare i soggetti interessati, si tramute-
rebbe in un significativo ostacolo all’esercizio stesso del suo diritto di
azione, essendo comunque necessaria ai sensi dell’art. 102 c.p.c. l’inte-
grazione del contraddittorio,
Ma in realtà, i rischi maggiori vengono a realizzarsi proprio nei casi
in cui, negata la notificazione ex art. 150 per indeterminatezza dei desti-
natari, l’ente esponenziale ritenga di poter individuare nominativamente
i soggetti interessati, magari affrontando anche le spese di notificazione.
In tal caso, infatti, se l’ente esponenziale malauguratamente si «dimen-
tica» un soggetto interessato, tale sgradevole circostanza, estremamente
probabile vista la natura delle controversie con cui ci confrontiamo, por-
terebbe con sé le note conseguenze processuali che derivano dall’appli-
cazione del regime processuale dettato dall’art. 102 c.p.c.; regime ap-
punto capace di privare di ogni stabilità la decisione finale164.
In altri termini, il modello che deriva dal coordinamento dell’art.
102 c.p.c. con l’art. 150 c.p.c., non solo appare effettivamente poco so-
164 Non a caso la dottrina dedicatasi allo studio degli strumenti di tutela degli interessi

collettivi, specie nelle fattispecie che possono dar luogo ad ampie schiere di interessati, ha
sempre visto con estremo sospetto l’ipotesi di richiamare il regime previsto dall’art. 102 c.p.c.
per ottenere il coordinamento delle decisioni.
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 501

stenibile sul piano dell’interpretazione del diritto positivo165, ma appare


assolutamente irragionevole, poiché troppo facilmente può degenerare in
un ostacolo all’esercizio dell’azione dell’ente esponenziale o, ancor peg-
gio, può privare di qualsiasi efficacia la tutela collettiva apprestata166.
Il secondo modello da prendere in esame è quello in cui l’ente espo-
nenziale possa attivare un giudizio collettivo diretto ad ottenere una sen-
tenza vincolante per tutti i soggetti legittimati ad agire e ricada sul potere
giudiziale di chiamata ex art. 107 c.p.c. la funzione di porsi come stru-
mento di elasticità e di correzione in ordine ad un eventuale pregiudizio
del diritto di azione e di difesa degli altri legittimati.
Anche qui il discorso, nella sua immagine astratta, potrebbe forse ri-
sultare appagante, ma calandolo in un contesto concreto detta valuta-
zione va di certo rivista.
In questa ipotesi, infatti, – comunque nel complesso più lineare
della precedente – lo strumento di correzione dei possibili effetti distor-
sivi del modello riposa nelle mani di un soggetto, che non è dotato di
quei poteri penetranti tali da renderlo parte effettivamente presente e at-
tiva durante lo svolgersi della controversia. Cosicché il giudice, si do-
vrebbe attivare solo sotto questo profilo, ovvero in ordine alla chiamata
in causa degli altri legittimati, rimanendo – per il resto – la gestione pro-
cessuale pienamente in mano alle parti. In altri termini, al contrario di
quanto accade in molte delle esperienze straniere indicate poc’anzi nel

165 Ciò non solo in chiave generale, ma anche con diretto riferimento alle norme che in

materia di giudizio collettivo antidiscriminatorio espressamente escludono che l’ente espo-


nenziale debba determinare i soggetti pregiudicati dall’illecito: cfr. infra, cap. VIII, § 3.3.4.
166 Si noti, peraltro, che l’autorizzazione alla notificazione per pubblici proclami per

«indeterminatezza» o anche per «numerosità» dei destinatari, in diverse ipotesi non preven-
tivabili, potrebbe effettivamente risultare un metodo inappropriato. Il problema è sempre lo
stesso. All’interno della categoria «giudizio collettivo» c’entra di tutto, dai giudizi in cui la
collettività è formata da pochissimi interessati, ai giudizi in cui la collettività assume la forma
di un insieme aperto ed indeterminabile di soggetti; dai giudizi in cui gli interessi coinvolti
hanno contenuto patrimoniale (peraltro di entità variabile), a giudizi in cui gli interessi hanno
invece contenuto non patrimoniale afferendo direttamente al valore della persona. Possono
quindi ben verificarsi ipotesi in cui, pur a fronte di una collettività anche estesa, sia necessa-
rio provvedere ad una notificazione secondo le regole ordinarie. Si pensi al caso di un’azione
inibitoria volta a reprimere una pratica discriminatoria. Se si ritiene, come credo si debba ri-
tenere, che tale discriminatorietà sia comunque oggetto di accertamento e possa essere utiliz-
zata nei giudizi individuali, allora la vincolatività della sentenza nei confronti di tutti gli inte-
ressati potrebbe verosimilmente consigliare un utilizzo particolarmente cauto dell’autorizza-
zione ex art. 150 c.p.c. e gli effetti sarebbero quelli indicati nel testo: paralisi dell’azione per
impossibilità della determinazione puntuale di ogni soggetto eventualmente discriminato; pa-
ralisi dell’azione per il costo della notificazione; instabilità della sentenza.
502 CAPITOLO SESTO

testo167, in cui sono numerosi gli strumenti tecnici che pongono ex ne-
cesse a diretto contatto il giudice con il cuore della controversia in ordine
alla stessa opportunità di garantirne la trattabilità in forma collettiva
(cioè con effetti vincolanti per tutti), il nostro giudice arriva sostanzial-
mente sul «merito» delle diverse questioni solo al momento di decidere.
Ed è evidentemente per questa ragione che già da tempo autorevole dot-
trina ha evidenziato come il potere previsto dall’art. 107 c.p.c. si riveli
«uno strumento meramente astratto a tutela del diritto di difesa costitu-
zionalmente garantito dei terzi soggetti all’efficacia riflessa ultra partes
della sentenza»168.
Detto questo, peraltro, la soluzione appena indicata appare comun-
que meno efficiente se comparata con il modello del giudicato secundum
eventum litis, temperato dalla chiamata in causa ex art. 106 c.p.c.
Qui, infatti, lo strumento di correzione teso a neutralizzare gli effetti
negativi dell’indicato regime di efficacia della sentenza, spetta proprio al
soggetto colpito da tali effetti, ovvero al convenuto, che, proprio per es-
sere la parte direttamente interessata ad evitare la reiterazione delle do-
mande, è anche il soggetto più appropriato per attivare i poteri correttivi
che gli sono messi a disposizione; ed oltretutto – quantomeno di regola –
nei nostri giudizi è la parte economicamente più forte ed in grado, se lo
vuole, di sobbarcarsi costi di notificazione elevati allorché il giudice non
autorizzi la notificazione dell’atto di chiamata in causa secondo le forme
previste dall’art. 150 c.p.c. Cosa – peraltro – probabilmente non necessa-
ria, poiché questi potrà valutare le specificità della situazione e diversifi-
care la sua strategia processuale a seconda delle circostanze. E così potrà
estendere il contraddittorio nei confronti di tutti gli altri legittimati ad
agire, oppure, se ad esempio il giudice – pur a fronte di una fattispecie in
cui i soggetti appartenenti al gruppo siano sostanzialmente indetermina-
bili – non autorizzi la notificazione prevista dalla seconda parte del
primo comma dell’art. 150, potrà rivolgere la chiamata in causa solo nei
confronti dei soggetti esponenziali legittimati e non nei confronti dei sog-
getti appartenenti alla collettività di riferimento, conseguendo – se vi riu-
scirà – un giudicato che, per l’essere stato emesso in contraddittorio con
gli enti rappresentativi, varrà come un precedente di particolare cogenza
nei successivi giudizi individuali, che, tra l’altro, vista tale situazione,
forse nemmeno verranno mai avviati.

167 Ci riferiamo ai §§ 5.1.2. ss.


168 Così, PROTO PISANI, A., Appunti sui rapporti tra i limiti soggettivi di efficacia della
sentenza civile e la garanzia costituzionale del diritto di difesa, cit., p. 1258.
PROFILI GENERALI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE 503

5.4. Conclusioni
Dopo le osservazioni svolte è piuttosto agevole tirare le somme.
Il problema dei limiti soggettivi del giudicato si risolve solo alla luce
di una disciplina espressa degli effetti della sentenza; ed in tale contesto
la soluzione tesa ad estendere ultra partes il vincolo del giudicato – sia fa-
vorevole che sfavorevole – si presenta probabilmente come quella prefe-
ribile in quanto appare in grado di portare con sé il maggior numero di
vantaggi. Ciò vale, comunque, solo se tale regime viene adeguatamente
supportato da specifici correttivi che non lo rendano pregiudizievole
delle garanzie costituzionali in punto di azione e difesa ed al contrario ne
facciano un ragionevole strumento di equilibrio tra i diversi valori in
gioco.
In assenza di una disciplina espressa dei limiti soggettivi del giudi-
cato o anche in presenza di una disciplina legale sostanzialmente silente
riguardo i necessari ed adeguati correttivi richiesti, il regime di giudicato
secundum eventum litis sembra proporsi come la soluzione comparativa-
mente più soddisfacente, in quanto è quella che, a conti fatti, si dimostra
– relativamente parlando – più elastica.
Aspetto, quest’ultimo, fondamentale, visto l’esteso e a priori indeter-
minabile quadro fenomenologico delle controversie collettive concreta-
mente possibili, che possono coinvolgere collettività ristrette, costituite
da soggetti facilmente individuabili e magari con buona propensione al-
l’aggregazione organizzativa o collettività estremamente ampie, fluide e
sostanzialmente indeterminate nella loro consistenza soggettiva.
Indipendentemente da queste considerazioni di opportunità, poi, il
regime di giudicato secundum eventum litis risulta essere la disciplina
giuridica dell’efficacia della sentenza che il nostro ordinamento prevede
in via generale per ciò che attiene ai giudizi che abbiano ad oggetto ef-
fetti giuridici volti a tutelare più interessi individuali compatibili concor-
renti, risultando al contrario troppo tenui gli appigli esegetici idonei a
giustificare una deroga a tale regime nel senso dell’estensione della vin-
colatività dell’accertamento a contenuto sfavorevole ottenuto inter alios
nei confronti degli altri legittimati a provocarlo.
CAPITOLO SETTIMO

LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE

SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. – 2. La dottrina favorevole al coordinamento


delle azioni. – 2.1. Le diverse qualificazioni della posizione giuridica attribuita al
sindacato legittimato. – 2.1.1. Il potere di azione sindacale come attribuzione di un
mero diritto di azione. – 2.1.2. Il potere di azione sindacale come conseguenza
dell’attribuzione di un diritto soggettivo sostanziale. – 2.1.3. Giudizio propriamente
rivolto a tutela di interessi collettivi e giudizio a contenuto oggettivo. – 2.2. Gli stru-
menti di coordinamento tra i due giudizi: litisconsorzio necessario o estensione ul-
tra partes degli effetti del giudicato. – 3. La dottrina favorevole al parallelismo delle
azioni. – 3.1. Il «diritto collettivo» del sindacato. – 3.1.1. L’interesse collettivo quale
risultante organizzatoria del gruppo. – 3.1.2. La piena autonomia del giudizio spe-
ciale rispetto alle iniziative dei singoli lavoratori. – 3.2. Il diritto soggettivo (inteso
in senso tradizionale) del sindacato. – 4. Esame critico della giurisprudenza. – 4.1.
L’autonomia e l’indipendenza delle azioni nell’opinione giurisprudenziale. – 4.2.
Uno sguardo oltre i principi: l’individuazione dei limiti esatti in cui viene ad essere
intesa l’autonomia e l’indipendenza delle azioni. – 4.3. L’oggetto del giudizio per la
repressione della condotta antisindacale: interesse collettivo o diritto soggettivo? –
5. Considerazioni ricostruttive. – 5.1. La rilevanza paradigmatica del dibattito in
materia di azione ex art. 28 e gli influssi di ordine lato sensu politico che lo hanno
caratterizzato. – 5.2. Precisazioni sul concetto di illecito antisindacale plurioffen-
sivo. – 5.2.1. Considerazioni introduttive. – 5.2.2. Ambiente di lavoro e persona. –
5.2.3. L’unicità dell’illecito antisindacale. – 5.3. L’oggetto del giudizio collettivo e la
natura dell’azione sindacale. – 5.4. Gli effetti del giudicato emesso in sede collettiva.
– 5.5. La legittimazione ad agire in via sommaria-inibitoria del singolo e dei sinda-
cati che non rispondono ai requisiti di legittimazione previsti dall’art. 28 S.L. – 5.6.
Il diritto soggettivo del sindacato al pagamento da parte del datore delle retribu-
zioni o del risarcimento del danno subito dal lavoratore.

1. Considerazioni introduttive
Dei diversi strumenti che la dottrina suole ricondurre all’ampio no-
vero dei rimedi posti a tutela di interessi sovraindividuali, il primo a cui
occorre prestare attenzione è sicuramente costituito dal già più volte ri-
chiamato procedimento per la repressione della condotta antisindacale1.

1 La letteratura formatasi in materia di repressione della condotta antisindacale è estre-


506 CAPITOLO SETTIMO

Sin dal noto Convegno di Pavia, infatti, ci si riferiva all’art. 28 dello


Statuto2, rilevando in esso l’inverarsi normativo di un primo esempio di
azione a tutela di interessi collettivi, da cui trarre ispirazione per risolvere
le diverse problematiche concernenti l’apprestamento di strumenti giuri-
dici di tutela degli interessi a carattere sovraindividuale.
Agli inizi degli anni Settanta il procedimento per la repressione della
condotta antisindacale appariva, insomma, il primo rimedio di conio
post-costituzionale diretto alla tutela di «interessi non esclusivamente in-
dividuali, ma di serie, di gruppo, di una comunità», rivestendo sotto que-
sto profilo un rilievo sistematico in grado di proiettarsi ben oltre l’ambito
del diritto del lavoro3.

mamente ampia e gran parte dei contributi dottrinali, specie quelli in particolare orientati allo
studio delle delicate questioni relative ai rapporti tra diritto e processo, verranno esaminati
nelle pagine di questo capitolo. Per una panoramica generale delle diverse problematiche
sorte in sede di interpretazione del procedimento in questione, v. i diversi lavori monografici
in materia: TREU, T., Condotta antisindacale del datore di lavoro e atti discriminatori, Milano,
1974; VACCARELLA, R., Il procedimento di repressione della condotta antisindacale, Milano,
1977; GAROFALO, M.G., Interessi collettivi e comportamento antisindacale dell’imprenditore,
Napoli, 1979; CIPRESSI, P., I comportamenti antisindacali del datore di lavoro, Milano, 1983;
CHERICONI, E., La condotta antisindacale, Milano, 1989; COLLIA, F. - ROTONDI, F., Il comporta-
mento antisindacale (aspetti sostanziali e processuali), Padova, 2004. Tra le voci enciclopedie
ed i commentari, si tengano presente i seguenti contributi: SCOGNAMIGLIO, R., Condotta anti-
sindacale: I) Disciplina sostanziale, in Enc. giur. Trec., VIII, Roma, 1988; SILVESTRI, E. - TA-
RUFFO, M., Condotta antisindacale: II) Procedimento di repressione della condotta antisindacale,
in Enc. giur. Trec., VIII, Roma, 1997; PAPALEONI, M., Repressione della condotta antisindacale,
in Dig. disc. priv., sez. comm., XII, Torino, 1996, p. 345 ss.; LUNARDON, F., La condotta anti-
sindacale – Aspetti sostanziali, in Le fonti del diritto sindacale, a cura di C. Zoli, in Diritto del
lavoro, Commentario diretto da F. Carinci, Torino, 1999, p. 389 ss.; PERONE, G.C., La repres-
sione della condotta antisindacale, in Trattato di diritto privato, diretto da Pietro Rescigno, XV,
Impresa e lavoro, I, 2, Torino, 2001, p. 183 ss.; LUNARDON, F., in Il processo del Lavoro, a cura
di Borghesi, in Diritto del lavoro, Commentario diretto da F. Carinci, Torino, 2005, p. 458 ss.;
LEANZA, P., Il processo del lavoro, Il giudizio di primo grado, le impugnazioni, l’escuzione, i pro-
cedimenti speciali, Milano, 2005, p. 868 ss.; DI CERBO, V., in AMOROSO, G. - DI CERBO, V,-MA-
RESCA, A., Art. 28 (Repressione della condotta antisindacale), in Il diritto del lavoro, II, Statuto
dei lavoratori e disciplina dei licenziamenti, Milano, 2006, p. 923 ss.
2 Cfr. ad es. DENTI, V., Relazione introduttiva, in Le azioni a tutela di interessi collettivi

(Atti del convegno di Pavia, 11-12 giugno, 1974), Padova, 1976, p. 7 ss. (pubblicata anche in
Riv. dir. proc., 1974, p. 533 ss.).
3 Le considerazioni riportate sono di PROTO PISANI, A., Il procedimento di repressione

dell’attività antisindacale, in Studi di diritto processuale del lavoro, Milano, 1976, p. 13 ss.,
pubblicato anche in Foro it., 1973, V, p. 57 ss.; ma similmente TROCKER, N., Interessi collettivi
e diffusi, in Enc. giur. Trec., XVII, Roma, 1989, p. 3, per il quale il procedimento per la re-
pressione della condotta antisindacale costituisce «l’esempio più vistoso, e al tempo stesso più
ricco di implicazioni costruttive anche fuori dall’ambito precipuo della sua incidenza regola-
trice».
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 507

Anche all’interno della sua più specifica area di appartenenza, pe-


raltro, il rimedio giudico in questione possedeva ugualmente una portata
innovativa non secondaria, potendosi inquadrare – stando alle parole
pronunciate dalla Corte costituzionale in materia – «in un disegno assai
[…] vasto di interesse generale diretto ad evitare […] conflitti di lavoro,
lacerazioni, scontri fra lavoratori e datori di lavoro che possono dar
luogo ad agitazioni, […] le quali turbino l’attività aziendale»4.
L’art. 28 dello Statuto, quindi, anche sotto questo profilo appariva
effettivamente come norma di rottura, capace di ridisegnare i contorni
del conflitto di classe tra lavoratori e datore di lavoro, mediante la defi-
nitiva affermazione dei diritti riconosciuti dagli artt. 39 e 40 della nostra
Costituzione nei rapporti di lavoro e sindacali.
Il multiforme atteggiarsi delle pratiche antisindacali assieme all’am-
pia formulazione della condotta antigiuridica prevista dalla norma in
questione posero, peraltro, da subito come problema centrale per addi-
venire al corretto inquadramento del rimedio l’esatta determinazione dei
limiti oggettivi di applicazione dello stesso.
Più in particolare, se non si poteva dubitare della sua piana applica-
zione allorché la condotta lesiva fosse rivolta a colpire direttamente i di-
ritti dell’associazione sindacale intesa come soggetto di diritto a sé stante,
più delicata questione concerneva, invece, la possibile attrazione all’in-
terno della sfera di antigiuridicità tracciata dalla disposizione in esame
delle condotte in cui il datore di lavoro avesse rivolto il suo comporta-
mento pregiudizievole direttamente contro il singolo lavoratore sindacal-
mente impegnato.
In tal caso, infatti, diversamente che nella prima ipotesi ora indicata,
si verificava, quanto meno prima facie, uno scollamento tra riferibilità
della lesione e soggetto legittimato a provocarne la rimozione; ciò in ra-
gione – come è noto – della legittimazione ad agire riconosciuta dalla
norma ai soli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali.
L’ipotesi tipica era quella del licenziamento antisindacale, ovvero di
un comportamento tipicamente e direttamente lesivo degli interessi del
singolo dipendente, ma ben in grado di proiettare i suoi effetti su tutta la
comunità dei lavoratori interessata all’esercizio collettivo delle preroga-
tive sindacali.
L’ampia formulazione della norma, esplicitamente diretta a «preclu-
dere quelle pratiche limitative dell’azione sindacale tanto più insidiose in
4 Per un bell’affresco delle vicende che portarono al concepimento dello Statuto dei la-

voratori, v., per tutti, MANCINI, F., Costituzione e movimento operaio, Bologna, 1976, spec. il
cap. V, significativamente intitolato Lo Statuto dei lavoratori dopo le lotte operaie del 1969.
508 CAPITOLO SETTIMO

quanto difficilmente definibili»5, nonché l’interpretazione sistematica


dell’art. 28 dello Statuto dei lavoratori, in coordinato disposto con gli
artt. 15 e 18 dello Statuto, resero evidente la possibilità di aprire le porte
del procedimento anche ai comportamenti c.d. plurioffensivi, che, se
esclusi, avrebbero drasticamente ridotto non tanto l’ambito di applica-
zione del rimedio, quanto la stessa effettività di tutto l’apparato di tutele
che lo Statuto predisponeva.
Alla luce di questa interpretazione l’art. 28 diveniva la vera «chiave
di volta» di tutta la legge 300 del 19706 e, contestualmente, alla luce di
questa stessa lettura estensiva, la dimensione sovraindividuale del con-
flitto e degli interessi che si agitavano al suo interno, si imponeva agli stu-

5 Relazione al disegno di legge sull’art. 28 dello Statuto dei lavoratori del Ministro on.
Brodolini. In dottrina, per tutti, v. LANFRANCHI, L., Prospettive ricostruttive in tema di art. 28
dello Statuto dei lavoratori, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1971, p. 388 ss., ma p. 403, per il quale
risulta «plausibile una interpretazione funzionale della legge nel senso di un chiaro riferi-
mento a qualsiasi comportamento diretto ad impedire o limitare l’esercizio di tutti i diritti in-
dividuali del titolo I, di tutte le libertà ed attività sindacali previste dai titoli II e III […], di
tutte le manifestazioni (legittime) del diritto di sciopero»; con la conseguenza che, «a seconda
del tipo di violazione di cui sono oggetto, la tutela giurisdizionale dei diritti sostanziali dei la-
voratori è affare che può interessare direttamente anche l’organizzazione sindacale perché un
certo tipo di violazione degli stessi può al contempo essere violazione del suo interesse ad or-
ganizzarsi per esistere e per svolgere liberamente la sua attività istituzionale, e la tutela del-
l’uno essere al contempo la tutela dell’altro» (p. 419). Sviluppando questa linea di pensiero,
come meglio si vedrà infra, l’A. nega che il peso della legittimazione esclusiva prevista dalla
norma, debba incidere risolutivamente sulla determinazione delle situazioni giuridiche sog-
gettive tutelabili, potendosi diversamente ritenere pienamente ammissibile l’azione ex art. 28
anche al verificarsi di comportamenti plurioffensivi, quali ad esempio l’ipotesi in cui il datore
di lavoro intimi il licenziamento per motivi sindacali. Sul punto, cfr. anche PERSIANI, M., Con-
dotta antisindacale, interesse del sindacato, interesse collettivo e interesse individuale dei lavo-
ratori, in Pol. dir., 1971, p. 543 ss., ma spec. p. 556 s., per il quale «il sindacato, ancorché do-
tato di una soggettività che ne fa centro di imputazione di interessi e di posizioni giuridiche
autonomi e, sotto certi aspetti, diversi dagli interessi e dalle posizioni delle quali sono titolari
gli uomini che fanno parte e che agiscono per lui, esite ed opera soltanto attraverso questi uo-
mini. In altri termini: nonostante la legge ponga il sindacato a soggetto delle proposizioni
normative che si riferiscono al fenomeno sindacale, dobbiamo renderci conto che il sindacato
non ha un’esistenza reale: nella realtà delle cose e dei rapporti esistono solo i sindacalisti».
Contra, isolatamente, cfr. RIVA SANSEVERINO, L., Parere pro veritate sull’art. 28 dello Statuto dei
lavoratori, in Orient. giur. lav., 1970, p. 371 ss.; ARANGUREN, A., A proposito di una peculiare
interpretazione dell’art. 28 dello Statuto dei lavoratori, in Mass. giur. lav., 1970, p. 538 ss.
6 Così, GHEZZI, G., Statuto dei diritti dei lavoratori, in Noviss. dig. it., XVIII, Torino,

1971, p. 418, per il quale – appunto – la norma rappresenta «la chiave di volta che assicura,
nella sua attuazione pratica, la credibilità dei principi stessi e di gran parte delle statuizioni
contenute nello Statuto». Similmente, FRENI, A. - GIUGNI, G., Lo Statuto dei lavoratori, Mi-
lano, 1971, p. 121.
GHEZZI, G., Statuto dei diritti dei lavoratori, cit., p. 418.
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 509

diosi come l’elemento determinante e imprescindibile per «leggere» e


dunque interpretare la disciplina repressiva in questione.
In sintesi, la deducibilità della condotta plurioffensiva all’interno del
giudizio ex art. 28 dello Statuto consentiva l’emersione della natura su-
perindividuale degli interessi tutelati; ma tanto detta deducibilità, quanto
detta conseguente emersione conducevano a delicatissime operazioni ri-
costruttive della normativa nel suo complesso7.
Le questioni poste sul tavolo erano le seguenti8.
In primo luogo, era la stessa e fondamentale opera di determina-
zione dell’oggetto del giudizio che – specie nelle condotte plurilesive –
diveniva di particolare complessità. Tutt’altro che agevole, difatti, era
comprendere se tale oggetto fosse un diritto del lavoratore, un diritto del
sindacato, o direttamente il più lato interesse collettivo della categoria.
In secondo luogo, se l’interesse sostanziale tutelato era quello alla li-
bertà sindacale intesa nel suo significato più ampio, se questo stesso in-
teresse poteva essere assunto in una duplice prospettiva (quella indivi-
duale e quella collettiva appunto), se – ancora – l’effettività garantita dal-
l’azione speciale era giustificata proprio dalla natura costituzionale dei

7 Sul punto, vanno innanzitutto ricordate le efficaci osservazioni di ROMAGNOLI, U.,


Aspetti processuali dell’art. 28 dello statuto dei lavoratori, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1971, p.
1309 ss., ma spec. p. 1312: «senonché, a questo punto – quello segnato dalla deducibilità
delle condotte plurilesive all’interno del processo – il problema si complica. E si complica sia
perché l’interesse del gruppo a che il datore di lavoro non interferisca negativamente sull’e-
sercizio delle libertà sindacali dei singoli è riferito dall’art. 28 ai soli sindacati nazionali tra-
mite i propri organismi locali sia perché è escluso che i singoli possano attivare il procedi-
mento disciplinato nella stessa norma». Cfr. anche GRANDI, M., Attività sindacale e repressione
della condotta antisindacale, in Riv. it. dir. lav., 1978, p. 13 ss., che, dopo aver distinto (p. 19)
tra situazioni giuridiche soggettive a titolarità individuale (di cui talune ad esercizio esclusiva-
mente individuale – si pensi al diritto ai permessi ex art. 26 dello Statuto – ed altre ad eserci-
zio collettivo – si pensi al diritto di sciopero –) e situazioni giuridiche soggettive di titolarità
sindacale, (talora qualificate – come nel caso dei diritti riservati alle rappresentanze sindacali
aziendali – talora appartenente ad ogni associazione sindacale – come nel caso del diritto al-
l’attività di riscossione dei contributi ecc), ha puntualmente individuato la difficoltà interpre-
tativa che l’art. 28 presenta – «un’autentica quadratura del cerchio» visto il «carattere enig-
matico della norma» – nella distanza che sovente viene a realizzarsi tra l’«area di legittima-
zione attiva» e l’«area di pertinenza soggettiva degli interessi offesi»; distanza che diventa
massima, appunto, allorché il titolare del diritto leso (sia questo il lavoratore licenziato o la
rappresentanza sindacale aziendale) si trovi a scontrare con il dato della legittimazione ad
agire esclusiva riservata ad un soggetto distinto.
8 Per la puntualizzazione delle questioni di rilievo processuale fondamentali in ordine

al corretto inquadramento sistematico del rimedio, v., in particolare, LANFRANCHI, L., Il diritto
processuale e la repressione della condotta antisindacale, in Riv. giur. lav., 1972, I, p. 3 ss., spec.
p. 11.
510 CAPITOLO SETTIMO

beni oggetto di tutela, perché la classe dei legittimati ad agire era limitata
agli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali?
In terzo luogo, come risolvere, una volta ottenuta risposta ai primi
due quesiti e nel completo silenzio della norma, il problema dell’integrità
del contraddittorio e dei limiti soggettivi del giudicato ottenuto a termine
del giudizio sull’antisindacalità della condotta plurioffensiva?
Come è naturale tutte queste delicate questioni, animate dallo spi-
rito di novità che per un lungo periodo ha avvolto il procedimento9,
hanno nel tempo prodotto un’amplissima letteratura, che riflette quello
stesso valore paradigmatico che alla disposizione è da sempre ricono-
sciuto; con la conseguenza che tale percorso di riflessione, nel bene o nel
male, ha rappresentato un punto di costante riferimento per la dottrina
successiva dedicatasi allo studio di altre fattispecie similari e ciò proprio
per l’elevato grado di articolazione ed approfondimento delle diverse
questioni problematiche che in questo settore si è raggiunto.
L’art. 28, dunque, in virtù dei profili or ora accennati, costituisce il
ponte ideale da percorrere nel passaggio dalla parte del nostro studio a
carattere più propriamente generale alla parte al contrario dedicata all’a-
nalisi dei procedimenti speciali che il nostro ordinamento attualmente
pone a tutela degli interessi collettivi.
Le diverse posizioni avanzate in materia rappresentano, infatti,
un’occasione imperdibile per godere di una fotografia fedele delle pro-
blematiche processuali che la materia solleva e delle corrispondenti e
possibili risposte ricostruttive.
In chiave preliminare, comunque, prima di procedere all’esame del-
l’ampio dibattito in materia, occorre segnalare, a mo’ di avvertenza, il cri-
terio ordinatorio prescelto al fine di agevolare un’esposizione ordinata e
auspicabilmente chiara delle distinte opinioni.
Le numerose e spesso inconciliabili diversità che intercorrono tra le
differenti posizioni dottrinali, infatti, tanto in merito alla determinazione
dell’esatta natura del precetto contenuto nella norma (sostanziale per al-
cuni o meramente processuale per altri), quanto in merito all’oggetto del
giudizio (interesse collettivo sindacale o diritto soggettivo individuale del
lavoratore, diritto collettivo del sindacato o ancora più semplicemente di-

9 Si pensi appunto, che per ottenere dal legislatore italiano una nuova azione civile da
esercitarsi in settori sicuramente caratterizzati dalla presenza o quantomeno dall’interferenza
di interessi a dimensione anche superindividuali occorrerà aspettare il 1977 per ciò che ri-
guarda l’azione a difesa della parità di trattamento delle lavoratrici di sesso femminile, e, an-
cor più in là, la legge istitutiva del Ministero dell’ambiente del 1986. Sulle quali v. infra i pros-
simi capitoli.
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 511

ritto soggettivo del sindacato), nonché anche in relazione all’eventuale


necessità di coordinamento tra i diversi rimedi processuali invocabili in
materia (concorso o parallelismo delle stesse) hanno imposto la scelta di
un criterio ordinatore, da un lato, idoneo a consentire una rapida e sicura
classificazione delle diverse posizioni e, dall’altro, capace di facilitare l’in-
dividuazione dei principali punti di divergenza e/o di similitudine sussi-
stenti tra le varie opinioni.
Così si è scelto di operare una summa divisio tra, da un lato, le opi-
nioni che ravvedono fenomeni di possibile interferenza processuale tra
l’azione speciale ex art. 28 e le azioni ordinarie riservate ai singoli lavora-
tori e, dall’altro, le opinioni che diversamente raffigurano le due tipolo-
gie di azioni e i rispettivi ambiti di tutela quali due binari paralleli distinti
ed isolati tra di loro.

2. La dottrina favorevole al coordinamento delle azioni


2.1. Le diverse qualificazioni della posizione giuridica attribuita al sinda-
cato legittimato
2.1.1. Il potere di azione sindacale come attribuzione di un mero diritto di
azione
All’area del «necessario coordinamento» processuale afferiscono
come detto le opinioni che, al di là delle diverse prospettive scelte per
dare formalizzazione giuridica all’interferenza degli interessi individuali
con gli interessi collettivi, comunque convergono su un punto: le azioni a
difesa delle posizioni individuali del lavoratore necessitano di coordina-
mento processuale con l’azione speciale attribuita all’associazione sinda-
cale.
Si è seguita, quindi, una prospettiva ricostruttiva esattamente antite-
tica a quella indicata dalla dottrina del c.d. parallelismo delle azioni sulla
quale avremo occasione di intrattenerci più avanti10; e ciò in ragione della
10 Il riferimento è alle posizioni di FRENI, A. - GIUGNI, G., Lo Statuto dei lavoratori, cit.,
p. 115 ss. e TUCCI, G., L’art. 28 dello «Statuto dei lavoratori» e la tutela delle associazioni sin-
dacali, in Riv. giur. lav., 1970, I, p. 565 ss.; ma anche poi SCOGNAMIGLIO, R., Considerazioni
sull’art. 28 dello statuto dei lavoratori, in Riv. giur. lav., 1971, I, p. 165 ss.; posizioni che inau-
gurano quella teoria del parallelismo delle azioni, che sarà poi seguita in giurisprudenza e ul-
teriormente approfondita e concettualizzata in dottrina (v. infra, §§ 3 ss.). Nella impostazione
ricostruttiva esaminata nel testo sono presenti anche considerazioni in merito alle altre op-
zioni ricostruttive avanzate da parte di diversi orientamenti, discostandosi – peraltro – sia dal-
l’opinione sostenuta da Romagnoli (su cui v. infra), sia da quella di Proto Pisani, (su cui v. in-
fra): dal primo, per il richiamo della controversa nozione di giurisdizione sui fatti (v. LAN-
512 CAPITOLO SETTIMO

necessità teorica ed equitativa di far salva l’«indispensabile visione delle


interdipendenze tra diritto e processo» senza quindi svalutare «le
profonde implicazioni che lo stesso diritto processuale esercita sul diritto
sostanziale, – che le forme di tutela giurisdizionale e le azioni individuate
esercitano sulla stessa individuazione degli interessi protetti e dei diritti
soggettivi ‘preesistenti’, – che l’autorità e l’efficacia dei diversi provvedi-
menti giurisdizionali esercitano (attraverso […] l’individuazione dell’og-
getto dei vari procedimenti) in ordine all’individuazione delle stesse
azioni e degli stessi diritti soggettivi»11.
Secondo questo orientamento, dunque, l’argomento ricostruttivo
centrale impiegato dalla tesi del parallelismo, ovvero di certo l’eterono-
mia degli interessi tutelati nei diversi procedimenti, non dovrebbe «eso-
nerare […] né dal prendere una precisa posizione circa la natura del giu-
dizio e l’efficacia dei provvedimenti in cui può sfociare il provvedimento
in questione (anche in relazione ai diritti soggettivi difesi ‘di riflesso’), né
dal considerare questo problema anche alla luce dei rapporti dell’azione
ex art. 28 con le azioni individuali ordinarie […] ed, in particolare, dei
possibili giudicati contraddittori»12.
Secondo la linea di pensiero seguita dall’orientamento ora in esame,
si assisterebbe, invece, ad un quadro di tutele individuali e collettive con-
trassegnate da una profonda interferenza tra l’interesse individuale e l’in-
teresse collettivo alla repressione della condotta antisindacale13, con la
conseguenza – come efficacemente affermato – di doversi riferire all’a-

FRANCHI, L., Il diritto processuale e la repressione della condotta antisindacale, cit., p. 24 ss.) e,
dal secondo, per quel che riguarda l’esatta individuazione della situazione giuridica sostan-
ziale dedotta – per Proto Pisani corrispondente ad «una situazione sostanziale immediata-
mente riferibile non ai singoli lavoratori, ma ad una comunità» – ed in riferimento alla quali-
ficazione della natura della legittimazione riconosciuta al sindacato – «legittimazione ordina-
ria e straordinaria al contempo».
11 LANFRANCHI, L., Prospettive ricostruttive in tema di art. 28 dello Statuto dei lavoratori,

cit., p. 416 s.; ma, cfr. anche ID., Il diritto processuale e la repressione della condotta antisinda-
cale, cit., p. 5 s.
12 LANFRANCHI, L., Prospettive ricostruttive in tema di art. 28 dello Statuto dei lavoratori,

cit., p. 411. Il rischio di giudicati logicamente o anche praticamente contraddittori è indicato,


come si vedrà, anche altre autorevoli voci della dottrina processualcivilistica: cfr. ad es. PROTO
PISANI, A., Il procedimento di repressione della condotta antisindacale, cit., p. 58; SILVESTRI, E.
- TARUFFO, M., Condotta antisindacale: II) Procedimento di repressione della condotta antisin-
dacale, cit., p. 12.
13 «I quali – afferma ROMAGNOLI, U., Aspetti processuali dell’art. 28 dello statuto dei la-

voratori, cit., 1310 –, lungi dall’essere caratterizzati da un rapporto di autonomia reciproca, si


collocano in un rapporto di dipendenza: dell’interesse individuale da quello collettivo»; di «re-
latio» sussistente tra i due diversi profili parla PUNZI, C., Repressione della condotta antisinda-
cale: b) Profili di diritto processuale, in Commentario dello statuto dei lavoratori, diretto da U.
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 513

zione individuale ordinaria e all’azione speciale ex art. 28 come se fossero


due separati interruttori, capaci pur tuttavia di accendere la medesima
lampadina14.
Ciò premesso sotto un profilo generale, va d’altra parte subito ag-
giunto che, al di là della condivisa necessità di addivenire a forme di
coordinamento tra le iniziative giudiziali intraprese per fronteggiare il
medesimo illecito antisindacale, diverse sono state le opzioni interpreta-
tive in cui si è sfrangiato l’orientamento in questione. E ciò, più in parti-
colare, ha riguardato la scelta tecnico-giuridica impiegata per dare veste
formale e dogmatica alle posizioni attribuite al sindacato e ai lavoratori
colpiti dalla condotta del datore.
Un primo gruppo di studiosi, ad esempio, ha ritenuto opportuno
raffigurare l’interferenza tra gli interessi poc’anzi accennata qualificando
la legittimazione del sindacato a dedurre nel giudizio speciale anche le
condotte imprenditoriali plurioffensive come un’ipotesi tipicamente pre-
vista di legittimazione straordinaria15.
Più in particolare, secondo una prima posizione, l’oggetto del pro-
cedimento speciale, allorché la condotta lamentata sia di natura pluriof-
fensiva, sarebbe costituito dallo stesso diritto soggettivo alla reintegra-
zione nel posto di lavoro di titolarità del lavoratore pregiudicato, fatto
però valere in giudizio dal sindacato in qualità di sostituto processuale
del lavoratore stesso.

Prosperetti, II, Milano, 1975, p. 966 ss., ma p. 968; ID., La tutela giurisdizionale degli interessi
diffusi e degli interessi collettivi, in La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, a
cura di Lanfranchi, Torino, 2003, p. 17 ss., ma spec. 22 ss. (pubblicato anche in Riv. dir. proc.,
2002, p. 647 ss.), a seguito di una lettura sistematica del titolo Secondo dello Statuto, riguar-
dante la libertà sindacale, e del Terzo, avente ad oggetto la disciplina dell’attività sindacale.
14 L’immagine riportata nel testo è di ROMAGNOLI, U., Aspetti processuali dell’art. 28

dello statuto dei lavoratori, cit., p. 1327.


15 Appartengono a questa posizione, LANFRANCHI, L., Prospettive ricostruttive in tema di

art. 28 dello Statuto dei lavoratori, cit., p. 388 ss.; ID., Intervento, in Atti del IX Convegno na-
zionale dell’Associazione fra gli studiosi del processo civile (Sorrento, 30 ottobre – 1 novembre
1971), Milano, 1972, p. 277 ss.; ID., Il diritto processuale e la repressione della condotta antisin-
dacale, cit., p. 3 ss.; ID., Nuovo processo del lavoro, statuto, tutela dei lavoratori e del sindacato,
in Riv. giur. lav., 1973, I, p. 347 ss.; ID., Omessa reintegrazione quale autonomo comportamento
antisindacale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1973, p. 1652 ss.; ID., L’interesse del datore di lavoro
ad agire in mero accertamento, in Riv. giur. lav., 1975, II, p. 483 ss.; ID., Situazioni giuridiche in-
dividuali a rilevanza collettiva ed attuazione della condanna alla reintegrazione del lavoratore, in
Riv. giur. lav., 1977, I, p. 343 ss.; più di recente, ID., Le animulae vagulae blandulae e l’altra fac-
cia della luna, in La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, cit., p. XVII ss.; PERA,
G., Art. 28 (Repressione della condotta antisindacale), in Commento allo Statuto dei diritti dei
lavoratori, Padova, 1972, p. 297 ss.; PUNZI, C., Repressione della condotta antisindacale, cit., p.
966 ss.; ID., La tutela giurisdizionale degli interessi diffusi e degli interessi collettivi, cit., p. 22 ss.
514 CAPITOLO SETTIMO

Lo spessore di questa opzione interpretativa sta però non tanto nel


richiamo nominale dei tradizionali istituti, ma nella particolare veste in
cui questi sono stati proposti, ovvero nella prospettiva funzionale della
«convergenza dei diritti di libertà e d’attività sindacale (comprensiva del
diritto di sciopero) dei lavoratori individualmente considerati e dell’inte-
resse proprio del sindacato ad una loro tutela particolarmente efficace e
rapida»16.
Ciò che all’interno di questa lettura caratterizza il richiamo dell’isti-
tuto previsto dall’art. 81 c.p.c. è, infatti, il particolare atteggiarsi dell’in-
teresse collettivo del sindacato rispetto all’interesse individuale, la cui
menzionata convergenza ha condizionato, sul piano processuale, la pre-
cisa nozione di legittimazione straordinaria richiamata e, sul piano so-
stanziale, l’esatta configurazione delle situazioni giuridiche soggettive da
farsi valere nel giudizio speciale.
Nella dottrina ora in esame, infatti, la categoria dogmatica della so-
stituzione processuale ha trovato impiego nella sua formulazione meno
tradizionale, ovvero in quella sattiana, cioè come «azione concessa per
“far valere un diritto altrui” per la tutela – questo è il punto – di un in-
teresse proprio (del c.d. sostituto)»17; e così facendo, all’interno del pa-
norama offerto dalla dottrina processualistica, ha ricevuto adesione la
concezione più delle altre orientata a rimarcare la natura prettamente so-
stanziale dell’interesse fatto valere nel giudizio da parte del sostituto18.
Sotto il secondo profilo, invece, è stato elaborato il concetto di «si-
tuazioni giuridiche individuali a rilevanza collettiva», ovvero situazioni
giuridiche caratterizzate dalla «presentazione dell’interesse collettivo
come dimensione collettiva dell’interesse individuale»19. In altri termini,
secondo questa lettura, la rilevanza giuridica dell’interesse collettivo si
renderebbe palese proprio nell’attribuzione al sindacato del diritto di

16 LANFRANCHI, L., Prospettive ricostruttive in tema di art. 28 dello Statuto dei lavoratori,
cit., p. 407 (c.vo mio); ID., Il diritto processuale e la repressione della condotta antisindacale,
cit., p. 18 ss.
17 LANFRANCHI, L., Prospettive ricostruttive in tema di art. 28 dello Statuto dei lavoratori,

cit., p. 427, che richiama SATTA, S., Diritto processuale civile, Padova, 1967, p. 82 ss.; ID., Il di-
ritto processuale e la repressione della condotta antisindacale, cit., spec. p. 23.
18 Cfr. retro, cap. VI, spec. nota 22.
19 LANFRANCHI, L., Situazioni giuridiche individuali a rilevanza collettiva ed attuazione

della condanna alla reintegrazione del lavoratore, cit., p. 352. Più precisamente (p. 351 s.), in
questa ricostruzione «l’art. 28 non attiene direttamente agli interessi diffusi, ma riguarda – in
molti casi e neppure con certezza – l’interesse istituzionale del sindacato, e – nella maggior
parte dei casi comunque – per l’appunto l’interesse individuale, a rilevanza o dimensione col-
lettiva, dei lavoratori».
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 515

azione ex art. 28, ottenendosi il soddisfacimento di quello stesso interesse


mediante il soddisfacimento dell’interesse individuale20.
Se, quindi, nella prospettiva appena rappresentata il diritto sogget-
tivo del lavoratore viene a perdere quella configurazione strettamente in-
dividualistica che tradizionalmente gli appartiene ed il diritto processuale
di azione del sindacato acquista una colorazione di più accesa funzio-
nalizzazione sostanziale21, al contrario, una seconda articolazione dell’o-
rientamento ora in esame si è orientata verso una configurazione «pub-
blicistica» dell’azione attribuita al sindacato. Così, il potere di azione sin-
dacale è stato nuovamente accostato all’istituto della sostituzione
processuale, ma in funzione «suppletiva» più che propriamente sostitu-
tiva. Secondo questa lettura, infatti, la legittimazione sindacale non ha la
conseguenza di espropriare i diritti del lavoratore, né la creazione di un
monopolio riservato ai sindacati, ma al contrario «si aggiunge – e non si
sostituisce – alla tutela ordinaria che resta riservata ai singoli titolari dei
diritti»22.
20 Così, ad esempio, per LANFRANCHI, L., Prospettive ricostruttive in tema di art. 28 dello

Statuto dei lavoratori, cit., p. 422, la formula «su ricorso degli organismi locali delle associa-
zioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse» «ha essenzialmente il valore di operare un
collegamento tra fattispecie lesiva prodotta dalla “condotta antisindacale” […] e […] interesse
collettivo fatto valere dal sindacato». È comprensibile, dunque, che l’A. sostenga l’identità,
quanto meno parziale, dell’oggetto del giudizio, ovvero del diritto alla reintegrazione nel posto
di lavoro. Più precisamente, secondo questa impostazione, tra azione speciale ex art. 28 ed
azione ordinaria individuale sussisterebbe un rapporto caratterizzato, per un verso, dalla com-
pleta identità di causa petendi e, dall’altro, da un petitum, che, nell’azione promossa dal lavo-
ratore, si presenta più ampio in ragione dell’opportunità di limitare l’accertamento svolto nel
giudizio speciale alla sola sussistenza delle obbligazioni a carattere patrimoniale del datore, ri-
servando la liquidazione delle stesse al giudizio ordinario individuale. Su quest’ultimo punto,
infatti, ovvero in riferimento all’ampiezza del petitum, due sono le opposte esigenze interpre-
tative a cui la dottrina qui richiamata tenda di dare risposta: da una parte, la possibilità di in-
terpretare la lettera dell’art. 28 in senso ampio e cioè comprendente nella locuzione «rimo-
zione degli effetti» anche la condanna al pagamento delle somme dovute a vario titolo al lavo-
ratore a seguito della condotta antisindacale e, dall’altra, i vincoli strutturali del giudizio
speciale costituiti dalla prima fase sommaria, inidonea ad una condanna al pagamento delle
somme comprendente la liquidazione delle stesse. Conseguentemente si sostiene la possibilità
di limitare l’accertamento al diritto alla reintegrazione o anche di estenderlo al pagamento
delle somme, ma limitandolo all’an con una richiesta di condanna generica, per poi passare alla
liquidazione delle stesse su iniziativa del lavoratore nel giudizio individuale. Così in, Prospet-
tive ricostruttive in tema di art. 28 dello Statuto dei lavoratori, cit., p. 409, 432 nota 80 e 435.
21 Questione anche di recente ribadita da questa stessa dottrina in un recente inter-

vento sul tema, rilevando appunto «la plausibile individuabilità di un “diritto” dietro l’“in
nome proprio” di ogni sostituzione processuale»: così, LANFRANCHI, L., Le animulae vagulae
blandulae e l’altra faccia della luna, cit., p. XXXV.
22 PUNZI, C., Repressione della condotta antisindacale, cit., p. 972 s., che poi precisa: «se

l’art. 28 dello Statuto avesse effettivamente proclamato l’esclusione di altre forme di tutela dei
516 CAPITOLO SETTIMO

Il potere di azione attribuito al sindacato dall’art. 28, insomma, pre-


senterebbe marcate affinità funzionali e strutturali con il potere di azione
riconosciuto in genere al pubblico ministero, in quanto, anche nella fatti-
specie in esame, si assisterebbe all’attribuzione di «un vero e proprio mu-
nus» […] per il soddisfacimento di un interesse dell’intera collettività23.
Configurazione pubblicistica, quest’ultima, consimile a quella tesa a rileva-
re nel sindacato «una sorta di pubblico ministero a tutela della normalità
sindacale nell’accezione più vasta possibile» in virtù della titolarità esclu-
siva di un’«azione pura» a garanzia dell’«ordine pubblico sindacale»24.

2.1.2. Il potere di azione sindacale come conseguenza dell’attribuzione di


un diritto soggettivo sostanziale al sindacato
Nelle opzioni appena esaminate si può notare come l’interesse so-
stanziale di cui si fa interprete il sindacato in sede di giudizio speciale e
che giustifica l’attribuzione esclusiva del diritto di azione, se in taluni casi
è imputato in titolarità della associazione sindacale stessa, in altri si al-
lontana dal sindacato inteso come soggetto di diritto (o quale strumento
di espressione degli interessi di una certa cerchia di associati), allargan-
dosi all’intera categoria dei lavoratori sino a tutta la collettività organiz-
zata. Conformemente, tale dilatazione reagisce sulla configurazione del-
l’azione attribuita, descrivendo una parabola che va dalla sostituzione
processuale in senso sattiano, ovvero quasi alla configurazione di un di-

diritti sociali dei lavoratori, la denuncia di incostituzionalità sarebbe veramente fondata». De-
terminante è per l’A. ritenere che tutti i diritti soggettivi previsti e disciplinati all’interno dello
Statuto dei lavoratori siano attribuiti in titolarità ai singoli lavoratori. Non osterebbe a tale ri-
costruzione la diversa modalità di esercizio propria dei diritti di libertà sindacale – a titolarità
ed esercizio individuale – e dei diritti di attività sindacale – a titolarità individuale, ma ad
esercizio collettivo –, non potendosi ragionevolmente sostenere che detta circostanza sia ini-
donea ad alterare la natura degli stessi, che appunto «sono e restano diritti individuali dei la-
voratori» (p. 969). Diritti individuali, che però, nell’opinione della dottrina qui in esame sve-
lano, se sottoposti ad un’analisi più penetrante, la loro rilevanza generale e collettiva. Essi
sono, infatti, propriamente diritti sociali, «il cui riconoscimento positivo realizza quel princi-
pio costituzionale di uguaglianza sostanziale tra i cittadini (art. 3, comma 2, Cost.), per cui
tutti devono essere messi in condizione di fruire in pari grado – e nonostante le disparità di
partenza – delle libertà e di operare, anche nel campo dei rapporti economici e di lavoro,
senza discriminazioni e con la possibilità di partecipare con strumenti adeguati alla dialettica
aziendale ed ai conflitti di lavoro».
23 PUNZI, C., Repressione della condotta antisindacale, cit., p. 970. Più di recente, ID., La

tutela giurisdizionale degli interessi diffusi e degli interessi collettivi, cit., p. 22 ss.
24 Così, PERA, G., Art. 28 (Repressione della condotta antisindacale), cit., p. 322 s.: il

«sindacato agisce per un interesse superiore a quello meramente privatistico delle parti indi-
viduali, in quello che può ben dirsi, dopo lo “statuto”, l’ordine pubblico sindacale nelle unità
di lavoro» (c.vo mio).
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 517

ritto soggettivo del sindacato, ad un diritto di azione al contrario pratica-


mente depurato dall’interesse di colui che la esercita.
Accentuano sicuramente la prima direttrice di studio tutti coloro
che, pur predicando l’opportunità di coordinare le diverse iniziative pro-
cessuali, hanno comunque ritenuto che la posizione giuridica attribuita al
sindacato – anche al ricorrere di condotte plurioffensive – possa essere
effettivamente qualificata come diritto soggettivo sostanziale25.
Secondo questa impostanzione, infatti, il tentativo di «individuazione
delle posizioni formali di potere, nelle quali si concretizza la dinamica degli
interessi stessi, secondo le valutazioni proprie dell’ordinamento giuri-
dico»26, dovrebbe indurre l’interprete a valorizzare la coesistenza dell’in-
teresse sindacale alla repressione dell’illecito con la legittimazione esclu-
siva a questo attribuita; circostanza, quest’ultima, maggiormente favore-
vole all’idea di un diritto soggettivo sindacale distinto27 e preesistente
rispetto a quello individuale28, piuttosto che all’impiego dello schema so-
stitutivo o del concetto di mera azione29.
25 All’interno delle teorie che ammettono il necessario coordinamento delle azioni la ti-
tolarità di un diritto sostanziale alla repressione della condotta antisindacale plurioffensiva
dello stesso sindacato è sostenuta da TARUFFO, M., Efficacia della pronuncia sul licenziamento
per motivi antisindacali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1971, p. 1503 ss.; SANTORO PASSARELLI, F.,
Diritto soggettivo e interesse legittimo dei sindacati al rispetto della libertà sindacale nei luoghi
di lavoro, in Riv. dir. lav., 1973, I, p. 4 ss.; GRANDI, M., Attività sindacale e repressione della
condotta antisindacale, cit., p. 13 ss.; in senso particolare v. anche Garbagnati, alla cui posi-
zione è riservata autonoma trattazione tra breve.
26 GRANDI, M., Attività sindacale e repressione della condotta antisindacale, cit., p. 26.
27 Così, GRANDI, M., Attività sindacale e repressione della condotta antisindacale, cit.,
p. 28.
28 Un unico comportamento imprenditoriale sarebbe quindi contestualmente lesivo di
due distinti e preesistenti diritti soggettivi ad una condotta rispettosa delle libertà sindacali
dei singoli lavoratori. La precisazione sulla preesistenza del diritto sindacale è dovuta al fatto
che, come vedremo, in seno alla dottrina processualcivilistica (cfr. tra breve la tesi di Garba-
gnati) è stato anche sostenuto che con l’azione ex art. 28 il sindacato promuova l’accerta-
mento giudiziale di un suo diritto soggettivo, venutosi però a costituire solo in occasione della
condotta antigiuridica posta in essere dall’imprenditore. Sul punto, chiara e risolutiva è la cri-
tica di GRANDI, M., Attività sindacale e repressione della condotta antisindacale, cit., p. 31: «la
natura offensiva del comportamento, concretandosi nel licenziamento per rappresaglia, nei
confronti del sindacato, presuppone la preesistenza in capo al medesimo di una situazione di
diritto, lesa contemporaneamente alla lesione del diritto o dei diritti del singolo lavoratore. Se
il diritto soggettivo del sindacato venisse ad esistenza dopo la violazione del diritto o dei di-
ritti soggettivi del lavoratore singolo, non se ne potrebbe mai ammettere la lesione (non sus-
sistendo prima della medesima), per cui l’azione sommaria dovrebbe ritenersi fondata non su
una violazione di diritto proprio, ma di diritto altrui». L’obiezione non sembra ammettere re-
pliche e chiarisce come la tesi di Garbagnati rifluisca nella sostanza nelle tesi che individuano
la posizione legittimante nel diritto di mera azione in capo al sindacato.
29 La domanda che si pone GRANDI, M., Attività sindacale e repressione della condotta
518 CAPITOLO SETTIMO

Si assisterebbe, quindi, ad una «duplice rilevanza giuridica» del me-


desimo comportamento, ovvero a due distinte fattispecie, tanto sotto il
profilo della titolarità, quanto sotto il profilo contenutistico dell’interesse
tutelato. Le quali verrebbero a condividere unicamente uno dei fatti sto-
rici costitutivi del diritto fatto valere30.

antisindacale, cit., p. 23, è se sia utile e corretto «l’impiego dello schema sostitutivo o della
mera azione, se il soggetto, investito della legittimazione attiva speciale, fa valere in giudizio
una propria posizione d’interesse tutelata dall’ordinamento». «Il dubbio – prosegue la dot-
trina ora richiamata (p. 26) – è, se, con l’ammissione di un siffatto interesse, non si giunga, in
realtà a negare il carattere eccezionale della norma sul procedimento sommario rispetto alla
regola, per cui chi agisce in giudizio è ordinariamente titolare della situazione giuridica, della
quale invoca la tutela giurisdizionale».
30 TARUFFO, M., Efficacia della pronuncia sul licenziamento per motivi antisindacali, cit.,

p. 1520, che precisa: «tale unico fatto […] ha una diversa efficacia costitutiva nell’ambito
delle due fattispecie, poiché nella prima – quella disciplinata dall’art. 28 – opera come viola-
zione delle libertà sindacali, mentre nella seconda – ovvero quella del rapporto datore-dipen-
dente – costituisce una violazione dei diritti che spettano al lavoratore sulla base del rapporto
contrattuale che lo lega al datore di lavoro». Ed aggiunge: «è facile rilevare, infatti, che, men-
tre il lavoratore che agisce individualmente può solo chiedere che venga dichiarata l’illegitti-
mità del licenziamento (sia pure disposto per motivi sindacali), in quanto privo di giusta
causa o di giustificato motivo, l’organizzazione sindacale che agisce ex art. 28 può solo chie-
dere che si accerti la violazione delle libertà sindacali compiuta dal datore di lavoro» Secondo
questa lettura, dunque, l’antisindacalità del comportamento imprenditoriale non potrebbe es-
sere dedotta in sede di giudizio individuale, ove la garanzia del singolo verrebbe ad essere li-
mitata alla mancanza del giustificato motivo o della giusta causa. Si assite, quindi, a quella
propensione ricostruttiva sovente presente nelle posizioni dottrinali favorevoli al parallelismo
delle azioni (cfr. in particolare la posizione di Vaccarella e, più velatamente, quella di Garo-
falo, su cui infra, §§ 3.1. e 3.2.) indirizzata a determinare un autonomo ambito di applica-
zione dell’azione speciale rispetto a quella individuale. La tesi in esame si espone, dunque, ai
seri dubbi di legittimità costituzionale che più avanti vedremo doversi muovere avverso la tesi
del parallelismo, sebbene in essa sia ben percepibile la convinzione concernente l’impossibi-
lita logico-equitativa di ritenere che il licenziamento illegittimo – illegittimo ai sensi dell’art.
28, ovvero antisindacale – sia diversamente legittimo all’interno del giudizio ordinario. Con-
siderazione, quest’ultima, che – come vedremo infra – porta la dottrina qui in esame ad am-
mettere l’estensione del giudicato emesso in sede di art. 28 anche nei confronti del lavoratore
licenziato. Ma questa ulteriore svolta ricostruttiva introduce elementi di contradditorietà non
secondari nella lettura in questione. Se, difatti, il lavoratore non può dedurre in sede di giu-
dizio ordinario i profili di antigiuridicità che il sindacato può diversamente dedurre nel giu-
dizio speciale, perché ovviamente il profilo dell’antisindacalità non rileva, non appartenendo
quest’ultimo – così è nella ricostruzione proposta da Taruffo – alla fattispecie giuridica costi-
tutiva del suo diritto alla reintegra, appare poco plausibile il ritenere che il giudicato emesso
ex art. 28, contenente l’accertamento dell’antisindacalità del licenziamento, possa rilevare nel
giudizio individuale ordinario. La prospettiva ricostruttiva or ora indicata è stata peraltro og-
getto di rivisitazione da parte della dottrina qui in esame in due diverse occasioni. In un
primo momento, ad esempio, proprio la critica dell’orientamento giurisprudenziale domi-
nante, ha condotto l’A. in questione a dubitare seriamente della natura contrattuale dell’inte-
resse tutelato dal singolo in sede di giudizio ordinario; e ciò proprio per la scarsa plausibilità
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 519

Va peraltro detto che nell’ampio panorama delle soluzioni tecniche


impiegate per spiegare il rapporto tra azione individuale ed azione sinda-
cale non è mancato anche chi, in una sorta di lettura armonizzante delle
due posizioni appena esaminate, ha visto nella posizione sindacale tanto
un potere di azione di natura sostitutiva quanto un diritto soggettivo so-
stanziale alla repressione dell’illecito31.
La particolarità dell’inquadramento dogmatico ora riportato ha pe-
raltro trovato fondamento in un quadro ricostruttivo piuttosto com-
plesso di cui possono essere in estrema sintesi proposti i seguenti pas-
saggi salienti: a) posta la natura meramente processuale del primo
comma dell’art. 2832, una condotta plurioffensiva tipica quale il licenzia-
mento antisindacale produce una lesione della sola sfera giuridica del la-
voratore, ovvero, più precisamente, del suo diritto alla conservazione del
posto di lavoro33; b) per quel che attiene alla sfera giuridica dell’associa-

dell’argomento posto a base dell’orientamento giurisprudenziale dominante, ovverosia quello


secondo il quale l’antisindacalità sia fatto idoneo a paralizzare l’efficacia della giusta causa e
del giustificato motivo unicamente in sede di giudizio speciale e non anche in quello ordina-
rio individuale (cfr. la nota di commento a Cass. n. 1050/76, ID., Competenza e procedimento
per l’opposizione ex art. 28 dello Statuto dei lavoratori, in Giur. it., 1976, I, p. 477 ss., ma spec.
p. 481). La presa di posizione ora evidenziata si dimostra poi ancor più evidente in SILVESTRI,
E. - TARUFFO, M., Condotta antisindacale, cit., p. 12, in cui si è osservato – sempre in relazione
alla tesi del parallelismo – quanto segue: «parrebbe che il lavoratore uti singulus sia titolare
solo di situazioni giuridiche di origine contrattuale, il che risulta falso solo che si guardi an-
che superficialmente alle diverse norme dello Statuto che configurano posizioni giuridiche di
vantaggio riferibili al singolo lavoratore». «Vero è infatti – si è aggiunto – che il lavoratore
non può agire individualmente ex art. 28, ma non è vero che il lavoratore non possa dedurre,
nell’azione individuale ex art. 18, l’antisindacalità del licenziamento come causa di illegitti-
mità dello stesso, posto che la dizione testuale della norma (con il rinvio alla legge n.
604/1966) non esaurisce tutte le possibili ipotesi di licenziamento viziato». È su questo pre-
supposto, dunque, che la dottrina in esame si è orientata verso il necessario coordinamento
tra i due distinti giudizi alla luce del rapporto di pregiudizialità che la questione relativa al ca-
rattere antisindacale della condotta dimostra rispetto al diritto individuali fatti valere dal sin-
golo con l’azione ordinaria.
31 Ci riferiamo alla particolare posizione di GARBAGNATI, E., Profili processuali del licen-

ziamento per motivi antisindacali, in Riv. dir. proc., 1973, p. 596 ss.; cfr. anche ID., Procedi-
mento di repressione della condotta antisindacale e cosa giudicata, in Riv. dir. proc., 1981, p. 1
ss.; ID., Ancora sulla pretesa abrogazione tacita dell’art. 28, terzo comma, legge 20 maggio 1970,
n. 300, in Mass. giur. lav., 1976, p. 733 ss.
32 GARBAGNATI, E., Profili processuali del licenziamento per motivi antisindacali, cit.,

p. 619.
33 Ciò che peraltro contraddistingue l’impostazione in esame è il fatto che, al ricorrere

di questa ipotesi, l’oggetto della lesione non viene ad essere costituito dal o dai diritti di li-
bertà ed attività sindacale appartenenti al singolo lavoratore, bensì dal diritto – sempre ed
esclusivamente del lavoratore licenziato – alla conservazione del posto. Come, infatti, si af-
520 CAPITOLO SETTIMO

zione sindacale, invece, la condotta in questione non ha alcuna efficacia


lesiva né di un preesistente diritto sindacale alla conservazione del posto
di lavoro dei singoli lavoratori34, né dei diritti dell’associazione di libertà
ed attività sindacale, né tanto meno di un interesse collettivo apparte-
nente al sindacato o alla comunità dei lavoratori35; c) alla lesione del di-
ferma: «non è vero quindi che sia uno di questi diritti – di libertà ed attività sindacale – a for-
mare oggetto di protezione, quando l’associazione sindacale reagisce contro il licenziamento
del lavoratore, proponendo il ricorso ex art. 28; oggetto di accertamento in sede giurisdizio-
nale è, infatti, la lesione del c.d. diritto del lavoratore licenziato alla conservazione del posto,
non una autonoma lesione del suo diritto alla libertà ed attività sindacale» (GARBAGNATI, E.,
Profili processuali del licenziamento per motivi antisindacali, cit., p. 625). Questa conclusione
sarebbe confortata dall’esame comparato del decreto che accoglie il ricorso proposto dall’as-
sociazione con la sentenza emessa al termine del giudizio ordinario eventualmente promosso
dal lavoratore. In un caso come nell’altro, infatti, si assisterebbe al medesimo ordine di rein-
tegrazione; medesimo ordine discendente dalla medesima lesione: il diritto soggettivo del la-
voratore alla conservazione del posto. Singolare, peraltro, è il fatto che Garbagnati ritenga al
contrario che, qualora «il datore di lavoro, pur senza incidere sul rapporto contrattuale, privi
il lavoratore della possibilità di esercitare in concreto, nel luogo di lavoro, uno dei diritti che
gli sono riconosciuti dall’art. 14 dello statuto», ciò realizzi un comportamento appunto «im-
peditivo dell’esercizio della libertà e dell’attività sindacale da parte di uno o più lavoratori».
In altri termini l’impedimento dell’esercizio delle libertà e dei diritti a contenuto sindacale,
ovvero la lesione di tali posizioni giuridiche, si realizzerebbe al ricorrere delle diverse con-
dotte imprenditoriali possibili, salvo che in presenza di un atto – come il licenziamento – ido-
neo a porre fine al rapporto di lavoro. Le perplessità che discendono da questa impostazione
e sulle quali torneremo più avanti nel testo, non diminuiscono – poi – osservando il rilievo ri-
costruttivo che l’illustre dottrina qui in esame pur tuttavia assegna alla specificità della san-
zione che colpisce il licenziamento antisindacale, ovvero la nullità del medesimo. Si pensi, in
particolare, all’affermazione secondo cui «la reintegrazione non si risolve dunque […] in una
costituzione ex novo del rapporto di lavoro, incompatibile con la nullità dell’atto di licenzia-
mento inequivocabilmete sancita dall’art. 15 dello statuto, ma nella cessazione della estromis-
sione di fatto del lavoratore dalla impresa» (p. 597). Come fare, infatti, a rimarcare il parti-
colare regime normativo che colpisce tale atto, senza evidenziare lo stretto legame funzionale
che disciplina instaura tra detto regime e la natura particolarmente rilevante degli interessi
lesi dalla condotta? In conclusione, come nell’orientamento giurisprudenziale in materia, an-
che nella posizione espressa da Edoardo Garbagnati si deve rilevare una non precisa delinea-
zione dei rapporti tra i profili patrimonial-contrattualistici dell’illecito ed i profili al contrario
non patrimoniali dello stesso, cioè non viene pienamente apprezzata la rilevanza non patri-
moniale che taluni comportamenti pur appartenenti al rapporto di lavoro possono acquisire
in ragione del loro porsi come ostacolo alla libertà ed attività sindacale, ovvero non se colti in
sé per sé, ma in una prospettiva strumentale ai beni tutelati. Sul punto, v. infra, § 5.2.3. ed in
particolare il discorso svolto in conclusione al § 5.6.
34 GARBAGNATI, E., Profili processuali del licenziamento per motivi antisindacali, cit.,

p. 625.
35 «Neppure è possibile elevare a situazione giuridica soggettiva superindividuale il ge-

nerico interesse collettivo ad una stabilità del posto di lavoro, idonea a porre ciascun lavora-
tore in grado di esercitare i suoi diritti sindacali, senza il timore di rappresaglie da parte del
datore di lavoro»: così, GARBAGNATI, E., Profili processuali del licenziamento per motivi anti-
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 521

ritto individuale alla conservazione del posto consegue, peraltro, il costi-


tuirsi di due distinte posizioni di diritto, ovvero, da un lato, il diritto in-
dividuale alla reintegrazione e, dall’altro, un diritto sostanziale sindacale
concorrente ed accessorio rispetto a quello del lavoratore ed ovviamente
di pari contenuto; d) l’esercizio dell’azione speciale da parte dell’associa-
zione al ricorrere di condotte plurioffensive come quelle qui richiamate
avrebbe pertanto l’effetto di condurre l’accertamento sul diritto sogget-
tivo del lavoratore e sul diritto soggettivo del sindacato, il quale, per que-
sta ragione, dovrebbe essere qualificato come legittimato ordinario e
straordinario al contempo36.

2.1.3. Giudizio propriamente rivolto a tutela di interessi collettivi e giudi-


zio a contenuto oggettivo
Come si sarà notato, le opzioni ricostruttive sino ad ora esaminate
descrivono un quadro piuttosto completo di tutte (o quasi) le combina-
zioni logicamente prospettabili mediante l’impiego congiunto dei tradi-
zionali strumenti dogmatici del diritto soggettivo sostanziale e del diritto
processuale di azione.
D’altra parte, ancora all’interno del generale orientamento ora in
esame non sono mancate operazioni ricostruttive maggiormente pro-
pense al superamento degli schemi dogmatici tradizionali nel tentativo di
sindacali, cit., p. 625 s., che ancora chiarisce: «nel processo promosso dal sindacato ex art. 28
è fatto valere primariamente il diritto del lavoratore licenziato alla reintegrazione nel posto di
lavoro, e non il diritto (del sindacato, o del del lavoratore) al libero esercizio dell’attività sin-
dacale, od un qualsiasi altro diritto soggettivo del sindacato o della comunità dei lavoratori
dell’azienda».
36 «La legittimazione ad agire del sindacato ex art. 28 è una legittimazione in parte or-

dinaria ed in parte straordinaria poiché esso fa valere processualmente, con un’unica do-
manda giudiziale, un proprio diritto ed un diritto del lavoratore licenziato, dal quale inscin-
dibilmente dipende»: così GARBAGNATI, E., Profili processuali del licenziamento per motivi an-
tisindacali, cit., p. 636; sul punto cfr. anche la posizione di PROTO PISANI, A., Il procedimento
di repressione dell’attività antisindacale, cit., p. 62, su cui v. infra, nota 43. Più in generale, si
tengano presenti le considerazioni avanzate retro, cap. VI, § 5.4.2.1., in cui abbiamo appunto
osservato come la tecnica della sostituzione processuale sia l’unica dogmaticamente corretta
per far sì che, posta la tradizionale concezione intersoggettiva del rapporto giuridico, un mo-
dello di legittimazioni concorrenti possa pervenire a fenomeni di vincolatività erga omnes del-
l’efficacia diretta del giudicato. Nell’impostanzione di Garbagnati il risultato finale è quello
del litisconsorzio necessario, ma ciò non cambia in nulla la validità dell’osservazione appena
fatta. Difatti, nell’ipotesi di concorrenza di azioni volte all’accertamento di un unico effetto
giuridico, la regola del litisconsorzio necessario, non deriva da ragioni di diritto sostanziale
(come accade nelle ipotesi che la dottrina tradizionale riconduce al rapporto plurisoggettivo),
ma unicamente dalla questione – presupposta e fondamentale – che la sentenza debba avere
efficacia – positiva o negativa – nei confronti di tutti i legittimati.
522 CAPITOLO SETTIMO

tradurre in concettualizzazione giuridica l’innovatività del rimedio in


questione.
In questa prospettiva va innanzitutto ricordata la tesi diretta a qua-
lificare lo strumento previsto dall’art. 28 S.L. come il primo caso – nel
nostro ordinamento – di un rimedio processuale volto direttamente alla
tutela di interessi «non esclusivamente individuali ma di serie, di gruppo,
di una comunità»37.
Stando a questa posizione, quindi, l’oggetto del giudizio, non do-
vrebbe essere costituito dalle tradizionali figure soggettive sostanziali, ma
da particolari «situazioni che non riguardano solo il sindacato-istitu-

37 PROTO PISANI, A., Il procedimento di repressione dell’attività antisindacale, cit., p. 13

ss., ma spec. p. 16, e poi p. 22; ID., Appunti sui rapporti tra i limiti soggettivi di efficacia della
sentenza civile e la garanzia costituzionale del diritto di difesa, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1971,
p. 1252 ss.; ID., La partecipazione delle associazioni sindacali al processo, in ANDRIOLI, V. - BA-
RONE, C.M. - PEZZANO, G., - PROTO PISANI, A., Le controversie in materia di lavoro, Bologna,
1987, p. 551 ss. Occorre però segnalare come in quest’ultimo contributo l’A., a seguito del
consolidarsi della posizione giurisprudenziale – che, come vedremo, ritiene le azioni ordina-
rie e quella speciale autonome ed indipendenti – si discosti dalla sua originaria impostazione,
ritenendo – da un lato – le sue prime tesi ricostruttive in materia non più «del tutto appa-
ganti, perché fondate su di una esasperazione della contrapposizione tra situazione superin-
dividuale dedotta in giudizio dal sindacato e situazione individuale del singolo lavoratore» ed
aderendo – dall’altro lato – alle diverse opinioni a favore del perfetto parallelismo delle
azioni. All’interno delle diverse linee interpretative comunque riconducibili alla tesi del pa-
rallelismo, peraltro, l’adesione ora menzionata è precisamente rivolta alla posizione sostenuta
da Garofalo e da Dell’Olio, ritenendo più opportuno prendere le distanze da quella, pur
sotto diversi aspetti simile, avanzata da Vaccarella (su cui v. infra), nella quale si giunge sì al
parallelismo delle azioni, ma dando massima rilevanza al fatto che l’antisindacalità del licen-
ziamento possa rivestire un ruolo effettivo in termini di possibile declaratoria di illegittimità
del medesimo solo nel giudizio speciale. In relazione a questa particolare prospettazione del
parallelismo, Proto Pisani, valuta detta lettura «sostanzialmente inconciliabile con gli artt.
1343, 1345 c.c. e 4 legge 604-1966 che consentono al lavoratore di impugnare il licenzia-
mento individuale allegando la sua antisindacalità» (La partecipazione delle associazioni sin-
dacali al processo, cit., p. 591, ove, peraltro, non si rileva come nella sostanza anche le tesi di
Garofalo e di Dell’Olio pervengano al medesimo risultato interpretativo-riduttivo dell’azione
sindacale; cfr. infra, § 3.1.1. e nota 94). Comunque occorre ancora precisare che l’adesione
dell’A. – anche in riferimento alle versioni maggiormente apprezzate della teoria del paral-
lelismo – sia tutt’altro che completa, poiché lo stesso Proto Pisani, nell’atto di adesione, da
un lato, sostiene la «parziale identità di petitum e causa petendi» tra le due azioni (circo-
stanza che non sembra corrispondere né al pensiero di Garofalo né a quello di Dell’Olio) e,
dall’altro, evidenzia quanto segue: «è innegabile […] che ove siano proposte nello stesso arco
di tempo sia l’azione ex art. 28 sia l’azione ex art. 18, un problema di coordinamento si
impone, in quanto tutte le norme in tema di connessione sono dirette, sia pure tendenzial-
mente, ad evitare il formarsi di giudicati logicamente contraddittori (e nel caso di specie la
contraddittorietà non sarebbe pratica solo perché i processi si svolgono tra parti diverse)»
(p. 592).
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 523

zione, ma anche e soprattutto situazioni riferibili immediatamente a tutti


i lavoratori di un impresa, alla cosiddetta comunità dei lavoratori»38.
La prospettiva seguita è insomma quella che vedremo dominare nel-
l’orientamento favorevole al parallelismo delle azioni, ma con la rilevante
particolarità che segue: mentre nelle tesi del parallelismo, sebbene attra-
verso passaggi logico-ricostruttivi tali da infirmarne le premesse, l’inte-
resse collettivo viene ridotto entro la veste del diritto soggettivo di titola-
rità sindacale, nella posizione in esame l’interesse collettivo non appar-
tiene all’associazione, ma – come per certi versi potrebbe apparire più
plausibile – alla stessa «comunità dei lavoratori»; la quale, di conse-
guenza, si presenta in quella veste entificata su cui ci siamo più volte in-
trattenuti39 e che ritroveremo anche nei prossimi capitoli40.
Poste queste premesse, è piuttosto comprensibile che la posizione
ricostruttiva in esame abbia incontrato le stesse difficoltà classificatorie
già rilevate nella dottrina esaminata nel terzo capitolo di questo lavoro,
ovvero nella dottrina favorevole ad imputare l’interesse sovraindividuale
ad una certa collettività per poi conferire in via esclusiva la legittimazione
ad agire ai soggetti esponenziali della medesima41. Anche qui, infatti, è
apparso tutt’altro che agevole ricondurre la posizione dell’ente rappre-
sentativo alle categorie tradizionali42, sicché – premessa l’interdipendenza

38 PROTO PISANI, A., Il procedimento di repressione dell’attività antisindacale, cit., spec.

p. 58 (c.vo mio).
39 Cfr. retro, cap. IV, § 6., per approfondimenti e per i relativi rilievi critici.
40 Cfr. ad es., infra, cap. X, § 3.2.1.1.
41 Si può sin d’ora notare come le difficoltà rilevate nel testo siano conseguenza, non

tanto della particolarità dell’oggetto del giudizio, quanto della sua sostanziale indetermina-
tezza concettuale. Questo problema affligge tutte le posizioni che, per un verso, negano la
possibilità di risolvere le azioni civili a tutela di interessi non esclusivamente individuali me-
diante l’ausilio del tradizionale armamentario concettuale dei diritti soggettivi individuali e,
dall’altro, prefigurano azioni aventi ad oggetto interessi collettivi o superindividuali o pub-
blici o generali, senza affrontare il preliminare ed obbligatorio sforzo di comprendere l’esatta
natura di queste posizioni giuridiche. Questo fenomeno, come vedremo, raggiunge livelli api-
cali in materia antidiscriminatoria e precisamente in relazione alle azioni del consigliere di pa-
rità (su cui infra cap. VIII, spec. § 3.2.1.).
42 La dottrina ora in esame (Il procedimento di repressione dell’attività antisindacale,

cit., p. 28 ss.), infatti, in relazione alla qualificazione della natura della legittimazione ad agire
riconosciuta agli organismi sindacali, sostiene che «la questione è influenzata da un duplice
ordine di fattori: a) in primo luogo dalla problematicità della distinzione tra legittimazione
ordinaria e straordinaria (c.d. legittimazione processuale) nella dottrina processualistica, di-
stinzione che andrebbe riesaminata ab ovo, specie in relazione alla nuova realtà sociale in cui
è chiamata spesso ad operare; b) in secondo luogo dalla stretta, ma diversa a seconda delle
singole ipotesi, interdipendenza tra profili individuali e collettivi degli interessi implicati nel-
l’azione ex art. 28, quale che sia la ricostruzione che si ritenga accogliere con riferimento
524 CAPITOLO SETTIMO

degli interessi individuali con quelli collettivi – la legittimazione ad agire


del sindacato si è nuovamente colorata di un’ambivalenza tale da porla a
mezza strada tra la legittimazione ordinaria e quella straordinaria43.
La medesima propensione a tradurre in soluzioni tecniche la dimen-
sione superindividuale degli interessi tutelati va – infine – rilevata nella
tesi volta a qualificare il giudizio di repressione della condotta antisinda-
cale in termini di giurisdizione di diritto oggettivo44; opzione interpreta-
tiva già incontrata nei capitoli che precedono – tanto in materia di giudi-
zio amministrativo45, che con riguardo al processo civile46 – proprio
quale conseguenza dell’attenuazione dei profili di individualità apparte-
nenti alla lesione prodotta dall’illecito, oltre che dell’evidente difficoltà di
ricondurre alla figura del diritto soggettivo tradizionale interessi giuridici

all’individuazione dell’oggetto del processo, interdipendenza che fa sorgere molti dubbi circa
l’utilizzabilità in questo settore della contrapposizione: legittimazione ordinaria-sostituzione
processuale». Sul punto, v. anche la nota che segue.
43 PROTO PISANI, A., in Appunti sui rapporti tra i limiti soggettivi di efficacia della sen-

tenza civile e la garanzia costituzionale del diritto di difesa, cit., p. 1228 a nota 29 e p. 1229, in
cui, in chiave comunque problematica, l’A. accosta la fattispecie in esame a quelle previste
dagli artt. 184, comma 3, 220 c.c., ipotesi che sembrano «addirittura costituire esempio di più
complesse fattispecie caratterizzate da ciò: che un soggetto è legittimato ad agire contem-
poraneamente e cumulativamente in via straordinaria ed in via ordinaria: oggetto del pro-
cesso sarebbe cioè una situazione sostanziale complessa ed inscindibile immediatamente ri-
feribile – nelle ipotesi ex artt. 184 comma 3, e 220 c.c. – sia al marito che alla moglie».
Nel nostro caso, dunque, se si interpreta correttamente il pensiero dell’A., la situazione com-
plessa ed inscindibile sarebbe appunto di titolarità riferibile tanto al sindacato quanto ai la-
voratori. Al di là dei nominalismi, quindi, la tesi proposta è ben diversa da quella avanzata da
Garbagnati al ricorrere di condotte plurioffensive, che pure ha qualificato la legittimazione
ad agire del sindacato come in parte ordinaria ed in parte straordinaria, ma, diversamente da
Proto Pisani, ha anche individuato nell’oggetto del giudizio non una situazione complessa ed
inscindibile, ma una doppia situazione giuridica soggettiva, di cui una di titolarità dell’asso-
ciazione ed una di titolarità del lavoratore. Altri profili si similitudine intercorrono tra la tesi
di Proto Pisani e quella di VIGORITI, V., Interessi collettivi e processo, La legittimazione ad
agire, Milano, 1979, p. 157 ss.; quest’ultimo A. infatti, come si vedrà, qualifica la legittima-
zione ad agire dell’«ente portatore» dell’interesse collettivo, in termini di legittimazione ordi-
naria sui generis, volendo evidenziare con detta specificazione la non perfetta riconducibilità
della legittimazione ad agire delle associazioni, né alla legittimazione straordinaria, né a quella
ordinaria.
44 ROMAGNOLI, U., Aspetti processuali dell’art. 28 dello statuto dei lavoratori, cit., p. 1309

ss.; ID., Commento all’art. 28, in ROMAGNOLI, U. - MONTUSCHI, L. - GHEZZI, G. - MANCINI, F.,
Statuto dei lavoratori, Bologna-Roma, 1972, p. 411 ss.; GHEZZI, G. - ROMAGNOLI, U., Il diritto
sindacale, Bologna, 1988, p. 292 ss. (l’edizione più recente, quella del 1997, risulta più sinte-
tica e priva di svolgimento argomentativo); cfr. anche ID., Attuazione e attualità dello statuto
dei lavoratori, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1990, p. 387 ss.
45 Cfr. retro, cap. I, § 2.1. e cap. III, § 3.3.1.2.
46 Cfr. retro, cap. III, § 3.3.1.2.
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 525

sostanziali a carattere – come si suol dire – non proprietario, ovvero non


esclusivi. Tutte questioni che nelle posizioni dottrinali sino ad ora esami-
nate in riferimento all’art. 28 dello Statuto, avevano trovato la massima
rilevanza sul piano ricostruttivo nel rinvio all’«ordine pubblico sinda-
cale» o nell’impiego del concetto di «mera azione».
Nella tesi che ora si cerca di lumeggiare, invece, la generalizzazione
dell’interesse tutelato arriva sino ad incidere sulla sostanza stessa dell’ac-
certamento, sostenendosi, infatti, che l’«oggetto del processo […] non è
in primis un rapporto giuridico intersoggettivo, bensì un dato – il carat-
tere antisindacale del contegno tenuto dal datore di lavoro – rilevante,
nella sua obiettività, in un serie illimitata di rapporti»47. Il giudizio di re-
pressione della condotta antisindacale, quindi, si risolverebbe in un sin-
dacato giurisdizionale di valutazione critica di fatti ed atti commessi in
violazione di un dovere48. In conclusione, quindi, anche secondo questa
impostazione, con l’esercizio dell’azione speciale il sindacato non attive-
rebbe un giudizio concernente un diritto soggettivo violato, ma più sem-
plicemente provocherebbe la dichiarazione di antigiuridicità di una con-
dotta materiale ai fini dell’applicazione della mera sanzione conseguente
alla violazione di un dovere.

2.2. Gli strumenti di coordinamento tra i due giudizi: litisconsorzio neces-


sario o estensione «ultra partes» degli effetti del giudicato
Esaminate nel dettaglio le diverse concezioni dell’azione collettiva
sindacale confluenti nel più ampio orientamento ora in esame, possiamo
dunque procedere alla presentazione delle diverse soluzioni specifica-
mente proposte per coordinare i separati percorsi processuali a cui la re-
pressione dell’illecito antisindacale può dar adito.
Su questo piano, nell’assenza di indicazioni sul punto da parte del
legislatore, la dottrina in questione si è divisa tendenzialmente in due
orientamenti alternativi.
Stando ad una prima linea interpretativa, nel giudizio speciale in-
staurato dai soggetti collettivi legittimati in ordine alla declaratoria di an-
tisindacalità del licenziamento individuale o di altro comportamento plu-

47 ROMAGNOLI, U., Aspetti processuali dell’art. 28 dello statuto dei lavoratori, cit., p.
1317; GHEZZI, G. - ROMAGNOLI, U., Il diritto sindacale, cit., p. 299.
48 ROMAGNOLI, U., Aspetti processuali dell’art. 28 dello statuto dei lavoratori, cit., p.

1317, in cui, la nozione di giurisdizione sui fatti è ripresa da FRANCHI, G., La litispendenza,
Padova, 1963, p. 30 ss.
526 CAPITOLO SETTIMO

rioffensivo, il lavoratore illegittimamente pregiudicato dovrebbe necessa-


riamente acquisire la veste di parte del giudizio in applicazione di quanto
disposto dall’art. 102 del codice civile di rito49.
A questa soluzione si è giunti in primo luogo argomentando sulla
base della natura sostitutiva dell’azione sindacale50, ovvero facendo
perno – in via di interpretazione sistematica – sul «principio generale»
desumibile, fra l’altro, dall’art. 2900 cod. civ., stando al quale se l’azione
è esercitata da un soggetto, che non è titolare del diritto sostanziale di cui
è chiesta la tutela giurisdizionale, il titolare di tale diritto deve parteci-
pare al processo promosso dal soggetto legittimato ad agire in via straor-
dinaria; e ciò conformemente a quanto dispone l’art. 24, 2° comma, della
Costituzione, secondo cui tutti i soggetti di un rapporto sostanziale con-
troverso debbano essere chiamati a contraddire nel processo, in cui si
forma la cosa giudicata in merito al rapporto stesso51.
D’altra parte, al medesimo esito sono giunte anche le concezioni
orientate ad inquadrare la legittimazione esclusiva ex art. 28 come la na-
turale conseguenza dell’attribuzione in capo al sindacato di un diritto
soggettivo proprio. Sebbene al di fuori di una concezione sostitutiva del-
l’azione speciale, infatti, si è ugualmente rimarcata la necessità di appli-
care la disciplina processuale prevista dall’art. 102 del c.p.c., in ragione

49 Va peraltro detto che, messe da parte le premesse ricostruttive, le tesi favorevoli al-
l’applicazione dell’art. 102 c.p.c. comunque concorderebbero nel ritenere che il lavoratore sia
parte necessaria nel giudizio speciale avviato dal sindacato e non anche il sindacato nel giu-
dizio ordinario individuale (cfr. in particolare GARBAGNATI, E., Profili processuali del licenzia-
mento per motivi antisindacali, cit., p. 639, per il quale «il sindacato non è litisconsorte ne-
cessario nel processo promosso ex art. 18; ma ciò per l’unica ragione che con l’azione ex art.
18 è fatto valere soltanto il diritto del lavoratore e non anche l’eventuale concorrente diritto
del sindacato»), sebbene poi, per alcuni, il lavoratore dovrebbe essere chiamato a partecipare
sin anche dalla fase sommaria (cfr. ancora GARBAGNATI, E., Profili processuali del licenzia-
mento per motivi antisindacali, cit., p. 637 ss.), mentre per altri tale circostanza si verifiche-
rebbe solamente instauratosi il giudizio di opposizione (PUNZI, C., Repressione della condotta
antisindacale, cit., p. 984; ID., La tutela giurisdizionale degli interessi diffusi e degli interessi col-
lettivi, cit., p. 24).
50 Così è per PUNZI, C., Repressione della condotta antisindacale, cit., p. 984; ID., La tu-

tela giurisdizionale degli interessi diffusi e degli interessi collettivi, cit., p. 24, che, come visto,
ritiene che al ricorrere di condotte plurioffensive l’oggetto eventuale del giudizio ex art. 28 sia
costituito solo dal diritto alla reintegrazione del lavoratore. Ma a medesima conclusione
giunge GARBAGNATI, E., Profili processuali del licenziamento per motivi antisindacali, cit., p.
637 ss., pur sulla base del duplice oggetto del giudizio speciale.
51 In questi esatti termini, v. GARBAGNATI, E., Profili processuali del licenziamento per

motivi antisindacali, cit., p. 637 ss. Per la dottrina processualistica che aderisce in via generale
a questo orientamento interpretativo, v. retro, cap. VI, nota 23.
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 527

della stretta compenetrazione che tra le procedure si verrebbe a realiz-


zare nella fase attuativa delle pur distinte pretese52.
Ciò risulterebbe in maniera piuttosto evidente dall’osservazione del
fenomeno processuale attivato dal sindacato al ricorrere di un licenzia-
mento effettuato per motivi di rappresaglia, nel quale – evidentemente –
la realizzazione del diritto del sindacato al rispetto della libertà e dell’at-
tività sindacale porta con sé necessariamente la realizzazione del diritto
del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro53. Sarebbe, in so-
stanza, l’identità del «regolamento sanzionatorio» a giustificare la parte-
cipazione necessaria del lavoratore al giudizio speciale instaurato dal sin-
dacato54.
Sul fronte opposto, si trovano – invece – le tesi secondo cui la ne-
cessaria uniformità di accertamento potrebbe realizzarsi in via di esten-
sione ultra partes del giudicato ottenuto in sede di giudizio di repressione
della condotta antisindacale.
Le modalità di detta estensione sono peraltro dipese dalle premesse
ricostruttive concernenti la determinazione dell’oggetto del giudizio.
52 Ben chiarisce GRANDI, M., Attività sindacale e repressione della condotta antisindacale,
cit., p. 29, la difficile sostenibilità del parallelismo quando afferma che «in effetti, a parte le
difficoltà sollevate sul piano del coordinamento dei procedimenti e dei giudicati, una siffatta
tesi vive sul presupposto che diverso possa essere il risultato conseguibile attraverso l’eserci-
zio dell’azione speciale ex art. 28 rispetto a quello che il lavoratore può ottenere agendo in via
ordinaria». Non è un caso, infatti, che i due studiosi che maggiormente hanno approfondito
e sostenuto la tesi del parallelismo delle azioni – Vaccarella e Garofalo – tendano entrambi
verso una differenziazione della tutela ordinaria individuale rispetto a quella speciale, o di-
stinguendo in merito all’ambito di tutela offerta da ciascuna procedura o, addirittura (per
Garofalo), sostenendo la diversità delle azioni per quel che attiene anche al profilo del peti-
tum. In una prospettiva simile a quella indicata da Grandi, sebbene in un contesto argomen-
tativo ben più sintetico v., SANTORO PASSARELLI, F., Diritto soggettivo e interesse legittimo dei
sindacati al rispetto della libertà sindacale nei luoghi di lavoro, cit., p. 5.
53 Così, GRANDI, M., Attività sindacale e repressione della condotta antisindacale, cit.,
p. 30.
54 Le ragioni di applicazione del regime di litisconsorzio necessario esposte dalla tesi in
esame non risultano peraltro adeguatamente chiarite; e ciò in ragione del fatto che ci risulta
difficile sfuggire all’alternativa che segue: o il diritto del lavoratore è dedotto dal sindacato
nel giudizio speciale ed allora il lavoratore deve essere chiamato ad esercitare in contraddit-
torio il suo diritto di difesa, in quanto l’accertamento della sua situazione giuridica lo investe,
o il diritto oggetto di accertamento è solo quello del sindacato, sicché il lavoratore non ha di
che temere e non deve partecipare ex art. 102 c.p.c. al giudizio. Né i motivi di perplessità
vanno attenuandosi alla luce della constatazione secondo cui «la connessione del diritto sog-
gettivo dell’associazione sindacale con quello proprio del singolo lavoratore, in quanto l’uno
è soggetto, in fase di realizzazione giurisdizionale, al medesimo regolamento dell’altro, com-
porta necessariamente la loro cumulativa deduzione in giudizio, dovendosi considerare lo stru-
mento del litisconsorzio necessario (art. 102 c.p.c.) il rimedio per lo svolgimento del processo
nei confronti delle parti interessate, anche ai fini dell’estensione del giudicato».
528 CAPITOLO SETTIMO

Più precisamente per le posizioni orientate a vedere nell’oggetto del


giudizio speciale il diritto del singolo lavoratore conseguente la viola-
zione della sua posizione giuridica (ad esempio il diritto alla reintegra-
zione nel posto di lavoro) l’estensione ultra partes riguarderebbe, come è
comprensibile, gli effetti diretti della sentenza55, mentre per le tesi orien-
tate a rilevare nell’azione sindacale uno strumento inedito di tutela degli
interessi della collettività dei lavoratori o un giudizio a contenuto ogget-
tivo, l’estensione dell’accertamento autoritativo ivi ottenuto, investendo
questioni pregiudiziali alle posizioni giuridiche spettanti al singolo lavo-
ratore, si produrrebbe in via riflessa56.

55 LANFRANCHI, L., Prospettive ricostruttive in tema di art. 28 dello Statuto dei lavoratori,

cit., p. 433 ss., che esclude la possibilità di richiamare la complessa disciplina prevista dall’art.
102 c.p.c. alla luce delle drastiche conseguenze processuali derivanti dalla mancata integra-
zione del contraddittorio. D’altra parte, però, nel tentativo di raggiungere un giusto punto di
equilibrio tra interessi del sindacato e diritti del lavoratore, la dottrina in esame ravvede altre
alternative possibili da avanzare quali risposte all’indubitabile esigenza di realizzazione del si-
multaneus processus. Si ritiene ad esempio auspicabile l’intervento del singolo in veste di in-
terventore volontario litisconsortile ex art. 105, comma 1, c.p.c. Il coordinamento delle ini-
ziative, però, dovrebbe avvenire solo a seguito della comunicazione del decreto emesso al ter-
mine della fase sommaria e al successivo avvio della fase di opposizione (p. 438). In tal caso
occorrerà distinguere a seconda che dopo la comunicazione del decreto sia promossa l’azione
individuale o, al contrario, che il giudizio ordinario sia pendente e magari sia già giunto ad
una pronuncia conclusiva. Nel primo caso, pendente il giudizio speciale nella fase d’opposi-
zione e promossa l’azione ordinaria, l’A. ritiene si debba procedere alla pronuncia di liti-
spendenza, allorché il lavoratore sia anche intervenuto nella fase di opposizione, allargando
l’oggetto del giudizio mediante la domanda di liquidazione delle obbligazioni a carattere pa-
trimoniale nei confronti del datore di lavoro, mentre, in mancanza di intervento, ritiene ri-
corra più semplicemente un’ipotesi di continenza. Qualora poi sia il giudizio individuale ad
essere avviato per primo e si sia giunti ad una pronuncia conclusiva, escluso ovviamente il
caso in cui questa sia già passata in giudicato, la dottrina in esame sostiene che, in presenza
di una pronuncia favorevole nei confronti del lavoratore, il sindacato rimanga privo di inte-
resse ad agire, mentre, nel caso contrario, si debba ricorrere nuovamente alle ipotesi di con-
nessione esaminate antecedentemente.
56 Cfr. in particolare PROTO PISANI, A., Il procedimento di repressione dell’attività anti-

sindacale, cit., p. 58 s., che ritiene che «il decreto non opposto […] o la sentenza emanata a
seguito del giudizio di opposizione facciano stato sull’esistenza o meno della condotta anti-
sindacale, cioè sulla situazione sostanziale immediatamente riferibile alla comunità dei lavo-
ratori, ed esplichino efficacia riflessa nei confronti del (o dei) singoli lavoratori che siano stati
lesi anch’essi dalla condotta antisindacale». «La pronuncia emanata ex art. 28 accerta, cioè, –
chiarisce la dottrina ora richiamata – l’esistenza o meno di una situazione […] pregiudiziale
rispetto ai diritti individuali riferibili ai singoli e deducibili in giudizio ad es. ex art. 18 in ipo-
tesi di licenziamento»; con la conseguenza che, «in caso di accoglimento del ricorso ex art. 28
il giudizio individuale potrà servire solo alla determinazione delle conseguenze patrimoniali
[…] del licenziamento». Mentre, in caso di rigetto, il lavoratore non potrà «vantare diritti che
trovino un elemento della loro fattispecie costitutiva (causa petendi) nella condotta antisinda-
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 529

Va peraltro rimarcato, che, specie nelle ultime concezioni ora richia-


mate l’estensione ultra partes degli effetti della sentenza ha trovato giusti-
ficazione proprio nella specifica natura del giudizio e nell’ampia latitu-
dine degli interessi tutelati. Così, ad esempio, il negare che l’oggetto del
giudizio fosse costituito da rapporti giuridici intersoggettivi ha ovvia-
mente favorito l’idea di una «sentenza con efficacia collettiva»57; ovvero
dotata di efficacia erga omnes, effettivamente «coessenziale alle caratteri-
stiche della res litigiosa»58; e ciò poiché «il vizio del comportamento sot-
toposto alla cognizione del giudice è indivisibilmente comune a quanti,
benché estranei al processo, si trovano in un’identica situazione perché
subiscono in misura indistintamente uguale gli effetti della turbativa eser-
citata dal datore di lavoro»59.

3. La dottrina favorevole al parallelismo delle azioni


La necessità di addivenire a forme di coordinamento tra le iniziative
giurisdizionali concernenti la repressione dell’illecito antisindacale è stata

cale accertata come inesistente». Ma cfr. anche ID., Appunti sui rapporti tra i limiti soggettivi,
cit., p. 1253 s. La tesi in questione presenta, dunque, marcate affinità con la posizione
espressa da Romagnoli in quanto l’accertamento della situazione riferibile alla comunità dei
lavoratori nella prospettiva qui seguita non sembra essere null’altro che l’antisindacalità della
condotta, sicché l’accertamento di tale questione potrà estendersi ultra partes e vincolare il
giudice chiamato a decidere sulla domanda avanzata dal singolo lavoratore volta a far valere
gli effetti giuridici derivanti dall’illecito antisindacale. A questa posizione aderiscono, come
accennato retro, nota 30, anche SILVESTRI, E. - TARUFFO, M., Condotta antisindacale, cit., p. 12,
per i quali: «vero è […] che il lavoratore non può agire individualmente ex art. 28, ma non è
vero che il lavoratore non possa dedurre, nell’azione individuale ex art. 18, l’antisindacalità
del licenziamento come causa di illegittimità dello stesso, posto che la dizione testuale della
norma (con il rinvio alla legge n. 604/1966) non esaurisce tutte le possibili ipotesi di licenzia-
mento viziato». È su questo presupposto, dunque, che la dottrina in esame – in richiamo
della tesi sostenuta da Proto Pisani – tende ad ammettere un coordinamento tra i giudizi alla
luce del rapporto di pregiudizialità che la questione di antisindacalità avrebbe rispetto l’og-
getto del giudizio ordinario, con la sua possibile sospensione ex art. 295 c.p.c. in attesa della
pronuncia emessa ex art. 28; pronuncia che comunque verrebbe a far stato anche nei con-
fronti del lavoratore singolo nell’eventuale e successivo giudizio ordinario per quel che at-
tiene alla illegittimità del licenziamento. Cfr. peraltro anche TARUFFO, M., Efficacia della pro-
nuncia sul licenziamento per motivi antisindacali, cit., p. 1520.
57 Specialmente in GHEZZI, G. - ROMAGNOLI, U., Il diritto sindacale, cit., p. 299 ss.
58 Così, ROMAGNOLI, Aspetti processuali dell’art. 28 dello statuto dei lavoratori, cit., p.

1324; ID., Commento all’art. 28, cit., p. 445; ma v. anche similmente GHEZZI, G. - ROMAGNOLI,
U., Il diritto sindacale, cit., p. 299.
59 ROMAGNOLI, U., Aspetti processuali dell’art. 28 dello statuto dei lavoratori, cit., p.

1323.; v. in termini simili, ID., Commento all’art. 28, cit., p. 445.


530 CAPITOLO SETTIMO

peraltro negata con risolutezza – come addietro accennato – da una se-


condo gruppo di posizioni dottrinali, al contrario sostenenti la perfetta
autonomia ed indipendenza dell’azione sindacale rispetto al giudizio in-
dividuale.
È questo di certo l’elemento che accomuna e caratterizza un ampio
gruppo di ricostruzioni pur anch’esse divergenti riguardo altri profili
problematici più o meno di dettaglio.
Va sin d’ora evidenziato, tuttavia, che oltre al tratto comune ora in-
dicato ve ne è un altro che, ponendosi a monte nella catena logico-argo-
mentativa che conduce all’esito del parallelismo delle azioni, riveste
un’importanza fondamentale in ordine alla comprensione di questo
orientamento e più in generale in ordine alla corretta sistemazione di
ogni concorso di azioni tra ente rappresentativo e singoli interessati.
Il punto su cui si intende richiamare l’attenzione è il seguente.
Nelle posizioni appena presentate e favorevoli al necessario coordi-
namento dei giudizi, pressoché tutte60, indipendentemente dalla specifica
opzione ricostruttiva accolta, hanno ricostruito i presupposti sostanziali
legittimanti l’applicazione del rimedio processuale in questione in ter-
mini piuttosto omogenei rispetto a quelli relativi ai giudizi individuali.
Ciò sta a significare, che, al di là della scelta tecnica di formalizza-
zione dell’interesse tutelato impiegata (mera azione, diritto soggettivo, in-
teresse della collettività dei lavoratori, ecc.), la dottrina ha ritenuto co-
munque coincidenti i criteri di sindacabilità della condotta del datore di
lavoro senza attribuire rilievo alla sede in cui tale sindacato dovesse es-
sere espletato, ovvero in sede di giudizio individuale piuttosto che di giu-
dizio collettivo.
Se si esaminano, invece, le posizioni favorevoli al c.d. parallelismo
delle azioni, un esame approfondito della stesse svela come dato inter-
pretativo essenziale proprio la differenziazione, più o meno accentuata,
delle fattispecie costitutive delle due azioni, ovvero dei criteri di sindaca-
bilità della condotta imprenditoriale.
Chiaramente il dato ora rilevato si manifesta in termini tendenziali e
peraltro non tutte le tesi che si sono orientate in tal senso attribuiscono
alla questione la medesima rilevanza in sede di apparato argomentativo;
ciononostante – come si vedrà – il punto ora evidenziato costituisce un
passaggio effettivamente fondamentale per approdare ad una interpreta-
zione corretta del rimedio in questione e come tale andava chiarito sin

60 L’eccezione è come visto rappresentata dalla prima posizione di Taruffo, su cui am-
plius, v. retro, nota 30.
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 531

d’ora per orientare l’analisi della dottrina favorevole al parallelismo delle


procedure nella direzione più opportuna.

3.1. Il diritto «collettivo» del sindacato


3.1.1. L’interesse collettivo quale risultante organizzatoria del gruppo
Richiamata l’attenzione del lettore sul punto fondamentale ora indi-
cato, va subito detto che tra le posizioni favorevoli alla perfetta autono-
mia delle azioni particolare attenzione va data all’ampia e complessa
opera di rivalutazione ed approfondimento teorico61 di una delle primis-
sime ed autorevoli opzioni ricostruttive proposte in merito al procedi-
mento per la repressione della condotta antisindacale62; nella quale, ap-
punto, seppur in estrema sintesi dimostrativa, la tesi del parallelismo
aveva già trovato fondamento in tutti i suoi aspetti essenziali, ovvero il ri-
conoscimento di una posizione sostanziale autonoma in capo all’associa-
zione sindacale, la funzione di tutela dell’interesse collettivo attribuita al
procedimento speciale ed, appunto, il parallelismo delle procedure, giu-
stificato dalle «finalità diverse» – interesse individuale, da un lato, inte-
resse collettivo, dall’altro – perseguite dalle azioni individuali rispetto a
quella special-sommaria sindacale63.
Proprio l’accentuazione del profilo or ora indicato, ovvero la divari-
cazione funzionale delle procedure, ha quindi rappresentato il nucleo
centrale dell’opera di rivalutazione ed approfondimento appena indicata,
la quale ha perseguito tale obiettivo interpretativo mediante una rifles-
sione teorica sul concetto di interesse collettivo, condotta – sotto il pro-
filo metodologico – attraverso una «ricostruzione tipologica della realtà
in senso normativo», ossia nel solco dell’insegnamento ascarelliano64 e
supportata – in conformità agli insegnamenti della teoria dell’ordina-

61 Ci riferiamo a GAROFALO, M.G. Repressione della condotta antisindacale, in Lo Sta-

tuto dei lavoratori, Commentario, diretto da G. Giugni, 1979, p. 455 ss.; ma ben più ap-
profonditamente in ID., Interessi collettivi e comportamento antisindacale dell’imprenditore,
cit.
62 V. innanzitutto FRENI, A. - GIUGNI, G., Lo Statuto dei lavoratori, cit., p. 115 ss. in cui,

a p. 125, si legge per la prima volta, in materia di repressione della condotta antisindacale,
quanto segue: «risulta […] evidente come le due procedure rispondano a finalità diverse, sic-
ché per ottenere la piena soddisfazione dei due interessi, individuale e collettivo, potrà essere
necessario l’esperimento parallelo di entrambe» (c.vo mio).
63 FRENI, A. - GIUGNI, G., Lo Statuto dei lavoratori, cit., spec. p. 124 s.
64 ASCARELLI, T., Norma giuridica e realtà sociale [1955] ora in Problemi giuridici, Mi-

lano, 1859, I, p. 69 ss.


532 CAPITOLO SETTIMO

mento intersindacale65 – dall’utilizzo delle altre scienze sociali66, funzio-


nali alla «rilevazione delle regolarità sociologiche»67.
Il percorso ricostruttivo è piuttosto complesso, ma, vista la familia-
rità con il concetto di interesse è relativamente agevole individuare i
punti fondamentali in cui si articola la riflessione qui in esame.
Il punto di partenza – conformemente alla direttrice metodologica
appena ricordata – è costituito dal constatare che nella prassi del con-
flitto industriale – e dunque sotto il profilo empirico – non esistono inte-
ressi individuali bensì «esistono solo […] interessi di gruppo o di classe,
determinati dalla struttura del processo produttivo stesso e dalle rela-
zioni di potere che ne scaturiscono»68. Difatti, «il proletariato, per poter
realizzare il suo interesse di classe e tendere a diventare dominante deve
assumere coscienza della propria situazione di classe, riaggregando nella
consapevolezza teorica ciò che l’ideologia e la prassi politica borghese se-
para»; riaggregazione, che peraltro, «per potersi trasfondere in prassi po-
litica, abbisogna della mediazione dell’organizzazione»69.
Questa premesse illuminano tutta la successiva ricostruzione ed in
particolare la stessa nozione di interesse, il quale viene inteso in senso ri-
gorosamente soggettivo, ovvero come «connessione che lega lo scopo al
soggetto agente»70, cioè una «realtà soggettiva psicologica»71.
Tale concezione soggettiva è fondamentale nell’economia ricostrut-
tiva della dottrina in questione, poiché appunto consente di porre al cen-
tro del concetto di interesse collettivo il momento organizzatorio.

65 GIUGNI, G., Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, Milano, 1960.


66 La dottrina alla quale spesso Garofalo si ispira per la ricostruzione in termini socio-
logici dei rapporti di potere nel sistema industriale-produttivo è rappresentata dal noto stu-
dio di DAHRENDORF, R., Classi e conflitto di classe (1959), trad. it., Bari, 1970.
67 GIUGNI, G., Il diritto sindacale e i suoi interlocutori, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1970,

p. 391 ss., in cui si legge che «la teoria dell’ordinamento intersindacale è stata elaborata con
l’intento specifico di allargare ed articolare il campo di indagine, al di là dei limiti della me-
todologia civilistica. Laddove questa rinvia tendenzialmente a categorie concettuali precosti-
tuite […]» (p. 391).
68 GAROFALO, M.G., Interessi collettivi e comportamento antisindacale dell’imprenditore,

cit., p. 128.
69 GAROFALO, M.G., Interessi collettivi e comportamento antisindacale dell’imprenditore,

cit., p. 131.
70 L’A. (Interessi collettivi e comportamento antisindacale dell’imprenditore, cit., p. 129)

richiama JHERING, R., Lo scopo nel diritto (1877-1883), trad. it., Torino, 1972, p. 52 e WEBER,
M., Economia e società (1922), trad. it., V, 1, Milano, 1974, p. 21 ss.
71 DAHRENDORF, R., Classi e conflitto di classe, cit., p. 277 ss.
72 GAROFALO, M.G., Interessi collettivi e comportamento antisindacale dell’imprenditore,

cit., p. 172.
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 533

Il punto è rimarcato a più riprese e con diverse formule; tutte co-


munque tese a rivendicare il ruolo creativo, o più correttamente genetico
che l’organizzazione possiede rispetto all’interesse collettivo.
E così: l’organizzazione consente «la trasformazione dell’interesse
collettivo da interesse latente, da momento meramente teorico, in inte-
resse soggettivamente percepito dalla massa dei partecipanti e, quindi,
idoneo a promuovere l’azione di autotutela»72; l’organizzazione segna «il
trapasso dell’interesse collettivo da interesse di ruolo in interesse dina-
mico»73; l’organizzazione rappresenta il «momento di formalizzazione
dell’autocoscienza dell’interesse del gruppo»74; l’organizzazione «non è
un elemento meramente strumentale al perseguimento di interessi collet-
tivi, ma è condizione stessa per parlare di interessi collettivi»75.
Insomma, l’interesse collettivo, rispetto ad essa, «non è un prius, ma
solo un posterius»76.
Il passaggio successivo è poi rappresentato da una provvisoria im-
putazione dell’interesse collettivo al gruppo organizzato; se, difatti, l’in-
teresse collettivo è la risultante del procedimento organizzativo, all’in-
terno del quale si opera la sintesi degli interessi del gruppo e attraverso il
quale si realizza l’autotutela, la titolarità dell’interesse collettivo non può
che spettare al gruppo stesso e non genericamente alla «comunità dei la-
voratori dell’impresa» o addirittura al gruppo professionale di cui il sin-
dacato è «l’interprete qualificato»77.
Nell’orientamento in questione, d’altra parte, l’imputazione dell’inte-
resse al gruppo organizzato rappresenta unicamente un momento di
passaggio all’interno dell’itinerario argomentativo, in quanto il passo ulte-
riore è costituito dall’attribuire la titolarità dell’interesse sostanziale diret-
73 GAROFALO, M.G., Interessi collettivi e comportamento antisindacale dell’imprenditore,

cit., p. 156.
74 GAROFALO, M.G., Interessi collettivi e comportamento antisindacale dell’imprenditore,

cit., p. 149.
75 GAROFALO, M.G., Interessi collettivi e comportamento antisindacale dell’imprenditore,

cit., p. 165. Come chiaramente spiega GIUGNI, G., Diritto sindacale, 1997, p. 73, è con l’atto
di organizzazione del gruppo che «ha luogo la selezione, tra i vari criteri classificatori dei
ruoli produttivi, di quelli intorno ai quali si costituisce il gruppo stesso. Ogni determinazione
aprioristica dell’area sociale di riferimento dell’azione sindacale appare ingannevole, perché,
nella sua sequenza logica, salta il momento fondamentale, e cioè la selezione del criterio di or-
ganizzazione, che, alla luce della stessa esperienza, appare fondato sulla volontà, non sulla ne-
cessità».
76 GAROFALO, M.G., Interessi collettivi e comportamento antisindacale dell’imprenditore,

cit., p. 141.
77 Così, GAROFALO, M.G., Interessi collettivi e comportamento antisindacale dell’impren-

ditore, cit., p. 122, in critica alla posizione espressa da Proto Pisani e da Persiani.
534 CAPITOLO SETTIMO

tamente al sindacato e ciò per il fatto che questo si presenta tipicamente


come «forma organizzatoria degli interessi collettivi» e l’indicazione nor-
mativa proveniente dalla legge opera perfettamente in tal senso78.
Secondo questa tesi, infatti, «in un discorso normativo, ha senso
attribuire quegli interessi all’organizzazione (rectius ai lavoratori uti uni-
versi, presupponendo l’esistenza di un’autonoma rete di poteri e sogge-
zioni) in quanto quegli interessi possono trasformarsi da momento mera-
mente teorico in prassi […] solo attraverso la mediazione dell’organizza-
zione in quanto trattasi di garantire (o in altri momenti di reprimere)
l’orientamento di comportamento dell’intero gruppo»79.
In definitiva, se si frammenta il percorso logico seguito, cercando di
isolarne i singoli nessi, risulta che per la teoria in esame: a) l’interesse è
concetto dinamico a carattere soggettivo; b) l’interesse collettivo trova
origine e rilevanza giuridica nella e con l’organizzazione; c) l’interesse
collettivo, appartiene al gruppo organizzato stesso; d) gruppo organiz-
zato, organizzazione e sindacato, sono sinonimi indicanti la stessa realtà
pratica e concettuale, in quanto il sindacato non è una realtà organizza-
toria diversa dal gruppo, ma anzi con esso coincide.
Ciò premesso, i passaggi successivi della ricostruzione risultano per
la dottrina in esame piuttosto agevoli, come dimostra la stretta concate-
nazione tra le considerazioni che seguono: «se ciò è vero – si osserva –
deve anche affermarsi che i gruppi professionali (e/o la classe) in quanto
organizzati hanno un proprio interesse al bene tutelato dall’art. 28 S.L.»,
e pertanto «esce rivalutata l’argomentazione di quella parte della dottrina
che ha preso le mosse dalla legittimazione attiva all’azione ex art. 28
S.L.», poiché, «se questa è affidata ad un soggetto collettivo, anche il di-
ritto tutelato dalla norma deve essere attribuito allo stesso soggetto col-
lettivo»; circostanza, quest’ultima, ovvero quella della titolarità del diritto
soggettivo da parte del gruppo, che conduce ad una formula di sintesi già
nota, ovvero il c.d. «diritto collettivo»80.

78 GAROFALO, M.G., Interessi collettivi e comportamento antisindacale dell’imprenditore,

cit., p. 141, 178.


79 GAROFALO, M.G., Interessi collettivi e comportamento antisindacale dell’imprenditore,

cit., p. 177.
80 GAROFALO, M.G., Interessi collettivi e comportamento antisindacale dell’imprenditore,

cit., p. 177-178 e poi p. 185. Sulla nozione o, più correttamente, sulle diverse nozioni di di-
ritto collettivo avanzate dalla dottrina, v., all’interno di una riflessione generale sugli strumenti
di tutela giuridica degli interessi collettivi, in particolare le osservazioni di Vigoriti (retro, cap.
III, § 3.4.1.4.); in materia di tutela ambientale, invece, v. le osservazioni di Maddalena (infra,
cap. IX, § 3.4.3.) proposte, invece in materia di tutela ambientale. La nozione si è presentata
d’altronde anche in materia di tutela dei consumatori, cfr. infatti cap. X, § 3.2.1.2.
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 535

La complessa opera di determinazione dei nessi e dei rapporti tra i


vari interessi coinvolti nel fenomeno, si conclude, infine, con il naturale
assorbimento dell’interesse istituzionale del sindacato e dell’interesse in-
dividuale del singolo lavoratore all’interno dell’interesse-diritto collettivo
del sindacato, che – per questa via – acquista la sua assoluta centralità.
Per ciò che riguarda il primo, infatti, ovvero l’interesse istituzionale
del sindacato, non occorre che precisare quanto segue: «se […] il sinda-
cato è una delle forme storiche […] di organizzazione degli interessi di
classe e/o di gruppo professionale […] sarà lecito distinguere questi dal-
l’interesse “istituzionale” del sindacato solo in quanto, rispettivamente,
genere e specie, non in quanto entità eterogenee, cioè non perché il sin-
dacato sia una realtà organizzatoria (socialmente tipica) differente dal
gruppo», rivelandosi «dunque obbligata la risoluzione dell’interesse isti-
tuzionale o organizzativo del sindacato nell’interesse collettivo»81.
Per ciò che, invece, riguarda l’interesse individuale al libero eserci-
zio dei diritti di libertà sindacale, viene rilevato tra quest’ultimo e l’inte-
resse collettivo un nesso di strumentalità in ragione del quale «il secondo
esiste come interesse dinamico dopo che la mera connessione sociale si è
trasformata in connessione organizzativa», mentre il primo, l’interesse in-
dividuale, «esiste proprio per contribuire a questa trasformazione e il re-
lativo interesse (individuale) ha come bene o scopo a cui tendere, la fon-
dazione dell’organizzazione e la partecipazione alla sua vita»82 e si colloca
in una posizione «meramente preparatoria di quella effettivamente idonea
a tutelare l’interesse collettivo»83.

3.1.2. La piena autonomia del giudizio speciale rispetto alle iniziative dei
singoli lavoratori
Da quanto sinora osservato risulta quindi piuttosto agevole rilevare
come nello studio in questione si assista ad uno dei più intensi tentativi
di differenziazione ontologica tra l’interesse collettivo e l’interesse indivi-
duale.
Come già visto – infatti – nei capitoli precedenti e come avremo oc-
casione di evidenziare anche in quelli che seguono, l’antinomia tra i due
concetti ha rappresentanto sovente uno strumento impiegato dalla scienza
81 GAROFALO, M.G., Interessi collettivi e comportamento antisindacale dell’imprenditore,
cit., p. 140.
82 GAROFALO, M.G., Interessi collettivi e comportamento antisindacale dell’imprenditore,

cit., p. 169.
83 GAROFALO, M.G., Interessi collettivi e comportamento antisindacale dell’imprenditore,

cit., p. 172 (c.vo mio).


536 CAPITOLO SETTIMO

giuridica per mettere chiarezza e semplificare l’interferenza tra gli inte-


ressi che si viene a determinare allorquando questi superino la dimensione
puramente individuale-esclusiva, ma mai come nel lavoro qui in esame
questo tentativo si è concretato in una recisione il più possibile netta ed
argomentata dell’interesse collettivo rispetto a quello individuale.
Ciò premesso, detta antinomia si è tradotta sul piano processuale
nella perfetta indifferenza delle azioni. Al ricorrere di condotte pluriof-
fensive, difatti, secondo questa lettura si aprirebbe la strada di una dop-
pia tutela giurisdizionale, ovvero «la prima – quella corrispondente all’a-
zione ordinaria esercitabile dal singolo direttamente leso – volta nell’ot-
tica tradizionale del rapporto di lavoro, la seconda – quella dell’azione
speciale ex art. 28 – volta nell’ottica del conflitto industriale e/o di
classe»84.
Ciò risulta con particolare chiarezza anche dalle differenze che ven-
gono ad essere individuate dall’orientamento in esame negli elementi co-
stitutivi-identificativi dell’azione, ovvero nella causa petendi e nel petitum.
Per quel che riguarda la prima, «se è vero – sostiene questa dottrina
– che lo stato di fatto contrario al diritto soggettivo è comune ad ambe-
due le azioni, altro è il diritto soggettivo dell’intero gruppo a svolgere li-
beramente l’attività organizzata di autotutela dell’interesse collettivo, al-
tro è il diritto soggettivo del singolo lavoratore a non vedere lesi i diritti
scaturenti dal rapporto individuale di lavoro a causa del contributo che
egli individualmente dà alla formazione e alla vita del gruppo».
Per ciò che riguarda, invece, il petitum, si afferma che «se il bene
che il sindacato mira a proteggere ricomprende in sé, sotto il profilo
reale, il bene cui può tendere il lavoratore singolo, in quanto la repres-
sione del conflitto realizzata attraverso gli strumenti del rapporto indivi-
duale di lavoro non esaurisce in questo il suo significato, ma è strumen-
tale alla repressione del conflitto sul piano dei rapporti tra le forze sin-
dacali organizzate, la diversa titolarità e la conseguente diversità
dell’interesse protetto non possono non riflettersi sulla diversa determi-
nazione degli elementi giuridicamente rilevanti del bene protetto»85.

84 GAROFALO, M.G., Interessi collettivi e comportamento antisindacale dell’imprenditore,

cit., p. 179. «Per il lavoratore singolo, infatti, si tratta di difendere la propria posizione giuri-
dica di parte di un rapporto individuale di lavoro dalle reazioni imprenditoriali alla sua atti-
vità strumentale alla realizzazione alla realizzazione del conflitto industriale; per l’organizza-
zione sindacale, invece, si tratta di proteggere la sua capacità di essere la momento il mo-
mento di aggregazione dell’interesse collettivo prescelto» (p. 229).
85 Entrambe le citazioni in GAROFALO, M.G., Interessi collettivi e comportamento anti-

sindacale dell’imprenditore, cit., p. 229, che, peraltro, come chiaramente risulta dall’afferma-
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 537

Anticipando orientamenti che successivamente si moltiplicheranno


numerosi in altri ambiti di studio, nella posizione ora in esame si giunge,
quindi, a negare i principali fenomeni di interferenza processuale tra il
giudizio speciale ed i giudizi ordinari individuali; siano questi la litispen-
denza86, la continenza di cause, la pregiudizialità-dipendenza87, il regime
di litisconsorzio necessario88 o addirittura il concorso di azioni89, con
unica eccezione – d’altra parte – per i vincoli di connessione oggettiva
impropria che potrebbero verificarsi per la comunanza del fatto mate-
riale lesivo90.

zione riportata, per quel che riguarda la determinazione del petitum di certo incorre in un ra-
gionamento tautologico, dovuto al fatto che, anche a tal fine, la strada che conduce alla dif-
ferenziazione dei petita è nuovamente rappresentata dalla diversificazione degli interessi tute-
lati e dei beni giuridici protetti, ma risulta piuttosto evidente come tale osservazione sia in-
congrua rispetto all’obiettivo di sistemazione teorica perseguito, poiché tra – ad esempio – la
domanda di reintegrazione rivolta al giudice dal sindacato e la domanda di pari contenuto ri-
volta dal lavoratore al giudice in sede di giudizio ordinario non corre differenza alcuna ed il
fatto che l’obbligo di reintegrazione in un caso trovi fondamento sulla lesione degli interessi
collettivi e nell’altro caso sulla lesione dell’interesse individuale se forse può valere – ma non
vale! – come argomento su cui diversificare le causae petendi di certo non può essere nuova-
mente speso sul piano della determinazione del petitum. Per una panoramica sulle diverse
concezioni in materia di determinazione del petitum, v. di recente CARBONARA, F., Questioni di
merito e idoneità al giudicato, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2003, p. 671 ss., spec. p. 673 nota 3.
86 GAROFALO, M.G., Interessi collettivi e comportamento antisindacale dell’imprenditore,

cit., p. 232.
87 GAROFALO, M.G., Interessi collettivi e comportamento antisindacale dell’imprenditore,

cit., p. 232 s. Si ritiene, infatti, che non si possa parlare di nesso di pregiudizialità-dipendenza
«in primo luogo perché non si comprende quale processo debba prevalere sull’altro tramite
il vincolo di pregiudizialità, ma soprattutto perché questa relazione si realizza quando la si-
tuazione pregiudiziale è un elemento della fattispecie costitutiva della situazione dipendente.
Nella nostra ipotesi, invece, né la libertà sindacale del singolo deriva da quella del gruppo
[…], né quella del gruppo da quella del singolo lavoratore».
88 GAROFALO, M.G., Interessi collettivi e comportamento antisindacale dell’imprenditore,

cit., p. 236.
89 GAROFALO, M.G., Interessi collettivi e comportamento antisindacale dell’imprenditore,

cit., p. 234, che appunto esclude apoditticamente la ricorrenza nella fattispecie in questione
di quell’atto unico ed indivisibile che avrebbe potuto giustificare il regime indicato e che,
d’altra parte, ben poteva essere rinvenuto nel licenziamento antisindacale. Sul concorso sog-
gettivo di azioni, v. retro, cap. VI, nota 104.
90 Proprio la risoluzione di delle «identiche questioni» richiamate dal disposto dell’art.

103 c.p.c., induce la dottrina in esame ad ammettere l’utilizzazione degli strumenti proces-
suali idonei a consentire lo svolgimento del simultaneus processus al fine di rendere armoni-
che le due decisioni, ma compatibilmente con i vincoli strutturali imposti dal procedimento;
sicché, pendente il giudizio speciale, nella fase sommaria sarà possibile unicamente un inter-
vento adesivo dipendente del lavoratore direttamente inciso dalla condotta, mentre nella fase
di opposizione le possibili alternative si apriranno anche all’intervento volontario di tipo liti-
sconsortile, nonché a quello su chiamata di parte o iussu iudicis.
538 CAPITOLO SETTIMO

Per quanto attiene poi ai limiti soggettivi del giudicato emesso nei
rispettivi giudizi, l’accertamento del diritto del sindacato alla repressione
della condotta antisindacale ottenuto in sede di giudizio speciale avrebbe
efficacia vincolante solo riguardo alle parti, ovvero il sindacato e il datore
di lavoro, senza possibilità alcuna che il medesimo abbia effetto – nem-
meno riflesso – nei confronti del lavoratore rimasto terzo, il quale potrà
unicamente avvantaggiarsi in via di fatto della materiale reintegrazione
nel posto di lavoro.
Sempre secondo questo orientamento, poi, lo stesso discorso do-
vrebbe valere per il giudizio ordinario individuale, ove il giudicato, anche
se di esito sfavorevole per il lavoratore attore, non costituirà alcun vin-
colo per la proposizione della domanda su iniziativa del sindacato nel
giudizio di repressione della condotta antisindacale potendosi, dunque,
pervenire a pronunzie di segno opposto; si potrebbe, ad esempio, otte-
nere la dichiarazione d’illegittimità del comportamento con il conse-
guente ordine di reintegrazione del lavoratore licenziato nel giudizio spe-
ciale e poi, magari in seguito, veder rigettata la domanda di pagamento
del risarcimento del danno proposta dal lavoratore nel giudizio ordina-
rio, alla luce della perfetta legittimità del recesso da parte dell’imprendi-
tore, senza potersi d’altra parte parlare di contraddittorietà di giudicati,
visto che i due accertamenti avrebbero ad oggetto diritti distinti, unica-
mente accomunati dalla eventuale identità del facere che ne costituisce il
contenuto.

3.2. Il diritto soggettivo (inteso in senso tradizionale) del sindacato


Nella posizione appena esaminata – come abbiamo avuto modo di
evidenziare – lo strumento ricostruttivo essenziale per il corretto inqua-
dramento del rimedio processuale in questione è rappresentato dalla dif-
ferenziazione ontologica dell’interesse collettivo rispetto all’interesse in-
dividuale.
Questa opzione ricostruttiva ha trovato largo seguito nella dottrina
giuslavorista ed anche nella giurisprudenza.
D’altro canto, parte della dottrina ugualmente favorevole al paralle-
lismo delle azioni91 – come peraltro quella orientatasi nel senso del ne-
cessario coordinamento delle iniziative giurisdizionali – ha gravemente
dubitato della possibilità di risolvere i rapporti tra l’azione sindacale e
91 VACCARELLA, R., Il procedimento di repressione della condotta antisindacale, cit.; ma v.

anche, per ulteriori spunti, ID., Profili processuali della legge sull’esercizio del diritto di sciopero
nei servizi pubblici essenziali, in Riv. dir. proc., 1991, p. 466 ss.
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 539

l’azione del singolo lavoratore sulla scorta della contrapposizione tra l’in-
teresse collettivo e l’interesse individuale92, evidenziando il rischio di raf-
figurare – al di là dei nominalismi – due procedure comunque accomu-
nate dall’«accertamento dei medesimi fatti costitutivi» e confluenti in
«provvedimenti del tutto fungibili»93.
Per questa via si è dunque messa a nudo la necessità di giustificare
la diversificazione dei percorsi processuali e l’autonomia degli stessi alla
luce della previa differenziazione dei criteri di sindacabilità della con-
dotta imprenditoriale: «il vero problema – si è acutamente osservato –
consiste nello stabilire se l’art. 28 abbia creato una tutela non concessa da
altre norme dello Statuto e, quindi, reso ‘giustiziabili’ situazioni di van-
taggio altrimenti non deducibili in giudizio»94.

92 VACCARELLA, R., Il procedimento di repressione della condotta antisindacale, cit., p.


118, nota 11.
93 VACCARELLA, R., Il procedimento di repressione della condotta antisindacale, cit., p.

118, nota 11. Rileva infatti l’A. (p. 69), richiamando l’opinione di Lanfranchi, che «la tesi
della sostituzione processuale […] ha avuto buon gioco nel mostrare, in modo definitivo, l’in-
sostenibilità del presupposto sostanziale su cui si fonda la teoria del c.d. parallelismo delle
azioni e, inoltre, nell’indicare un modo di risolvere il problema del possibile conflitto di giu-
dicati più soddisfacente che non il ricorso al litisconsorzio necessario o alla dubbia categoria
della giurisdizione sui fatti – e proseguendo in chiave critica rispetto alla stessa tesi delle so-
stituzione –, ma essa ha utilizzato solo parzialmente il momento processuale nella (necessa-
riamente contestuale) verifica e costruzione del momento sostanziale, avendo trascurato di
analizzare l’oggetto del giudizio individuale correlato a quello ex art. 28 e di dare adeguato ri-
lievo alla struttura del procedimento ex art. 28».
94 VACCARELLA, R., Il procedimento di repressione della condotta antisindacale, cit., p. 65.

All’interno dell’orientamento dottrinale favorevole al parallelismo, un’impostazione maggior-


mente rivolta a rimarcare i profili contenutistici della tutela, ossia il modo di essere delle po-
sizioni tutelate, è accolta anche da altre tesi. Secondo alcuni, ad esempio, l’azione speciale ex
art. 28, rispetto alla corrispondente azione esercitabile dal singolo lavoratore leso da eventuali
condotte plurioffensive, pur nell’identità del petitum, presenterebbe una netta diversità di
causa petendi, infatti, l’«esercizio della libertà o attività sindacale e del diritto di sciopero, al-
meno quello positivo, benché individuale è realizzabile solo da più persone insieme, e quindi
è insuscettibile di costituire oggetto di giudizi individuali». Così «i licenziamenti […] solita-
mente detti antisindacali […] possono bensì essere nulli, ma non sono, per ciò solo, compor-
tamenti antisindacali». «Lo sono, invece, – chiarisce questa dottrina, ponendo in risalto la di-
versa rilevanza giuridica del comportamento a seconda della fattispecie astratta di riferimento
– se diretti, e idonei, ad impedire o limitare, anche con il c.d. effetto intimidatorio deterrente,
purché riscontrabile o ragionevolmente presumibile in concreto, la libertà e più sensibilmente
l’attività sindacale, guardate nella loro dimensione collettiva e non dal punto di vista del sog-
getto, bensì se mai del ruolo in esse svolto da quest’ultimo» (in questo senso, v. DELL’OLIO,
M., L’art. 28 della legge 20 maggio 1970, n. 300: profili processuali, in Il processo del lavoro nel-
l’esperienza della riforma, Milano, 1985, p. 159 ss. p. 184). Ugualmente accade per coloro che,
non solo ritengono che l’azione sindacale abbia elementi identificativi oggettivi differenti ri-
spetto quella a individuale e che le due azioni siano volte a ristorare interessi ontologicamente
540 CAPITOLO SETTIMO

Lo studio ora richiamato ha quindi trovato come suo centro di gra-


vitazione l’approfondimento dell’esatto ambito di tutela offerto al lavora-
tore singolo dall’azione ordinaria individuale; percorso interpretativo,

distinti, ma inoltre ravvedono nel procedimento per la repressione della condotta antisinda-
cale l’esistenza di indici positivi a carattere squisitamente processuale, tali da dare definitiva
conferma circa la natura collettiva degli interessi in questo tutelati: la legittimazione esclusiva
attribuita all’associazione sindacale; «la forma urgente [del provvedimento conclusivo] come
forma di tutela giurisdizionale ordinaria»; «la maggiore accentuazione dei poteri istruttori del
giudice»; «il contenuto del provvedimento conclusivo della fase sommaria» (così, CECCHELLA,
C., Coordinamento tra azione individuale e azione sindacale nel procedimento ex art. 28 dello
Statuto dei lavoratori, in Riv. it. dir. lav., 1984, I, p. 408 ss., spec. 441; di cui v. anche ID., Di-
versità tra giudizio individuale ex art. 18 st. lav. e giudizio sindacale ex art. 28 stesso statuto:
questioni di competenza territoriale, in Giust. civ., 1984, I, p. 1865 ss.; ID., Repressione della
condotta antisindacale e terzi (a seguito della l. 12 giugno 1990, n. 146), in Riv. it. dir. lav.,
1992, I, p. 494, spec. 515; ID., La tutela giurisdizionale nella riforma del pubblico impiego, in
Riv. trim. dir. proc., 1995, p. 1339, spec. 1371 ss.). Va peraltro evidenziato che, come in pre-
cedenza indicato, esistono anche posizioni dottrinali che, pur non diversificando le fattispe-
cie costitutive poste a fondamento delle rispettive domande, ossia ritenendo che l’antisinda-
calità del licenziamento sia deducibile tanto all’interno del procedimento speciale quanto in
quello ordinario ed instaurato dal singolo lavoratore, ciononostante propendono per il paral-
lelismo delle azioni. Per una prima tesi, ad esempio, «la situazione di interesse del sindacato
che agisce in base all’art. 28, consiste in un diritto soggettivo proprio del sindacato, che ha ad
oggetto la conservazione e il rispetto dell’esercizio della libertà e dell’attività sindacale e del
diritto di sciopero nei luoghi di lavoro, contro le condotte impeditive o di ostacolo poste in
essere dal datore di lavoro» (CIPRESSI, P., I comportamenti antisindacali del datore di lavoro,
cit., p. 169). Se sotto questo profilo, quindi, la posizione ora richiamata è assai simile alle pre-
cedenti, d’altro canto ciò che la distingue dalle altre teorie favorevoli al parallelismo è la let-
tura unificante del coordinato disposto degli artt. 15, lett. b), e 18 dello Statuto, da un lato, e
28, dall’altro. Infatti, per questa dottrina, «la fattispecie di discriminazione sindacale di cui al-
l’art. 15 “coincide puntualmente” con quella prevista nell’art. 28» e «tale coincidenza, poi,
non riguarda soltanto i mezzi ed i modi delle violazioni dei divieti di discriminazione sinda-
cale e di comportamento antisindacale, ma anche l’accertamento delle violazioni stesse» (p.
98 e poi p. 112 ss., in cui si parla appunto di «coincidenza della fattispecie di discriminazione
sindacale di cui all’art. 15 con quella prevista nell’art. 28»). Cosicché, anziché mirare all’indi-
viduazione di un surplus di tutela offerto dall’art. 28 – come abbiamo visto fare nelle tesi
poc’anzi esposte – si assegna proprio alla nozione di discriminazione il ruolo di strumento
esegetico in grado di armonizzare il quadro delle tutele individuali e collettive. Ugualmente
rivolta a sostegno del parallelismo delle azioni è poi la posizione della dottrina processualci-
vilistica a cui già abbiamo dedicato ampio spazio in sede di esame dei diversi contributi de-
dicati allo studio delle tecniche di tutela degli interessi sovraindividuali (cfr. retro, cap. III, §
3.4.1.4.). Il riferimento è rivolto a quella teoria, che, alla luce – lo si ricorderà – di una rico-
struzione volta a dare particolare rilevanza al momento organizzatorio dei diversi interessi ap-
partenenti al collettivo, ha ritenuto che il sindacato sia legittimato all’esercizio dell’azione per
la tutela degli interessi collettivi dei lavoratori, in qualità di legittimato ordinario sui generis
(così, VIGORITI, V., Interessi collettivi e processo, cit., p. 149 ss.). Più precisamente l’azione spe-
ciale di repressione della condotta antisindacale mirerebbe alla tutela «dei diritti soggettivi di
cui sono titolari individualmente i singoli lavoratori, e a cui si aggiunge un diritto soggettivo
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 541

quest’ultimo indicato, che, condotto in un raffronto tra l’impugnazione


del licenziamento per carenza di giustificazione (giusta causa o giustifi-
cato motivo) e l’impugnazione dello stesso per motivi antisindacali, è
giunto all’esito della sostanziale coincidenza delle due fattispecie prese in
esame.
In altri termini, stando alla lettura proposta, in sede di giudizio in-
dividuale, anche a fronte di una domanda volta ad infirmare la stabilità
del licenziamento in ragione del carattere ideologico-antisindacale dello
stesso, il controllo giudiziale rimarrebbe limitato alla sussistenza o meno
delle cause di giustificazione senza alcuna rilevanza – in ordine all’acco-
glimento della domanda – del motivo discriminatorio95.
Il potere di licenziamento del datore viene, infatti, raffigurato se-
condo questa lettura come un potere di recesso condizionato alla ricor-
renza dei presupposti legali previsti, sicché «l’azione del lavoratore si ri-
solve sempre nel provocare, per il datore, la necessità di sottoporre a ve-
rifica giudiziale la sussistenza (degli elementi costitutivi) del potere di
recesso», con la conseguenza che «l’espressa deduzione dell’antisindaca-
lità non vale a differenziare l’azione così esercitata da quella fondata sulla
pura e semplice ingiustificatezza del licenziamento»96.
del sindacato ugualmente orientato, e cioè un diritto soggettivo a che i singoli lavoratori eser-
citino nell’impresa i diritti di libertà sindacale garantiti dalla legge». «Sul piano sostanziale –
si precisa – si trovano dunque più situazioni di vantaggio autonome, ma di uguale contenuto
e dirette verso il medesimo bene giuridico – l’esercizio delle libertà sindacali –, il consegui-
mento del quale soddisfa insieme tutti i titolari delle singole posizioni che confluiscono nel
collettivo». L’oggetto – duplice – del giudizio ex art. 28 sarebbe quindi costituito, anche se-
condo questa tesi (cfr. retro, la posizione di Garbagnati), da una situazione giuridica sogget-
tiva spettante al lavoratore ed una distinta, sebbene contenutisticamente omogenea, di titola-
rità dell’associazione sindacale ritenuta adeguata portatrice degli interessi/diritti collettivi da
parte della legge. Da ciò dunque la possibilità di raffigurare l’esistenza di due distinte azioni
(individuale e collettiva); con diverso petitum e con diversa causa petendi; ma in cui la diver-
sità delle ragioni poste a fondamento delle due domande sarebbe da ricondurre unicamente
alla ontologica eterogeneità degli interessi tutelati (spec. p. 165).
95 «È facile mostrare – afferma VACCARELLA, R., Il procedimento di repressione della con-

dotta antisindacale, cit., p. 42 s. – come […] la causa petendi della domanda proposta dal la-
voratore sia sempre la stessa, sia quando s’impugni il licenziamento per mancanza di giusta
causa o di giustificato motivo, sia quando se ne deduca l’inefficacia per difetto delle forme
prescritte dall’art. 2, sia quando, infine, se ne assuma la nullità perché disposto per motivi po-
litici, religiosi o sindacali: il fatto costitutivo della domanda, cioè, è sempre dato dall’esistenza
del rapporto di lavoro e dal successivo licenziamento (impugnato ex art. 6 legge n. 604)».
96 VACCARELLA, R., Il procedimento di repressione della condotta antisindacale, cit., ri-

spettivamente a p. 46 e 49. «Ancora deve notarsi – sostiene l’A. – che l’espressa qualificazione
di nullità attribuita al licenziamento antisindacale […] significa che è attribuito al giudice il
potere di rilevare ex officio che quel licenziamento, privo di giusta causa o giustificato motivo,
è stato in realtà determinato da motivi antisindacali, per cui sembra non solo di poter esclu-
542 CAPITOLO SETTIMO

È dunque il raggiungimento di questo primo risultato interpretativo,


che ha indotto la dottrina in questione a procedere nell’esame del pro-
cedimento speciale, verificando – comparativamente – la possibilità di ri-
levare in esso quel surplus di tutela, che, come visto, rappresenterebbe
l’unica strada plausibile per poter predicare la natura sostanziale dell’art.
28 e con essa il parallelismo delle azioni.
Ed in quest’ordine di idee, è stata proposta un interpretazione del
coordinato disposto degli artt. 28 e 15 dello Statuto nei termini che se-
guono: «la funzione dell’art. 15 lett. b) non è quella di allargare l’ambito
delle azioni individuali espressamente previste, perché, essendo il singolo
lavoratore tutelato nel rapporto di lavoro dal principio di legalità (in
senso lato) dei provvedimenti del datore, l’antisindacalità del provvedi-
mento rileva e può essere dedotta esclusivamente come motivo d’illegit-
timità discendente dalla carenza dei presupposti per l’esercizio del po-
tere», cosicché, diversamente, «la funzione (obiettiva) della norma […] è
di gettare un ponte tra le vicende del rapporto individuale di lavoro e
l’art. 28»97.

dere la sussistenza di un onere dell’allegazione in capo al lavoratore, ma anche di poter affer-


mare che la pur espressa deduzione di antisindacalità non vale a differenziare l’azione così
esercitata da quella fondata sulla pura e semplice ingiustificatezza del licenziamento». Oc-
corre però a tal proposito osservare – già in un ottica di prima approssimazione – quanto in
effetti risulti singolare il regime di rilevabilità ufficiosa determinato da una qualificazione
della fattispecie (l’antisindacalità del licenziamento) che in sostanza rimane irrilevante ai fini
della tutela. Generalmente, la rilevabilità d’ufficio dell’efficacia di un fatto appartenente alla
fattispecie costitutiva o lato sensu estintiva è l’espressione della presenza di un interesse ge-
nerale a che detta efficacia (costitutiva, estintiva, impeditiva ecc.) sia presa in considerazione
ai fini della decisione. Se così è, quindi, non si comprende come sia logicamente accettabile
il fatto che il giudice possa rilevare d’ufficio solo l’antisindacalità del licenziamento e non la
mancanza di giusta causa, se poi – stando a questa ricostruzione – l’antisindacalità si risolve
in definitiva nella mancanza della giustificazione del licenziamento. Strano fenomeno, dun-
que, quello in cui il legislatore richiede che sia rimesso anche al giudice, oltre che alle parti,
il potere di rilevare l’efficacia di un fatto che in definitiva non appartiene, vista la sua irrile-
vanza, alla fattispecie astratta prevista. Forse si potrebbe replicare al rilievo ora avanzato
sostenendo che «il motivo di rappresaglia del licenziamento […] come anche il difetto di
forma, si rivelano collegati esclusivamente alla condanna del datore di lavoro a prestazioni
pecuniarie ulteriori rispetto a quelle contemplate dall’art. 8 legge n. 604» (p. 47), ma si po-
trebbe agevolmente controreplicare che la condanna del datore di lavoro a prestazioni pecu-
niarie ulteriori è l’ulteriore segnale del tutt’altro che irrilevante ruolo della motivazione anti-
sindacale all’interno della fattispecie, risultando palesemente assurdo che l’ulteriore profilo
«sanzionatorio» sia conseguenza di un elemento che rileva poco o che non rileva nulla all’in-
terno della fattispecie astratta ed in relazione alla determinazione della natura degli interessi
rilevanti (sul punto cfr. infra, § 5.2.3.).
97 VACCARELLA, R., Il procedimento di repressione della condotta antisindacale, cit.,

p. 78 ss.
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 543

Ed ancora: «il divieto di atti discriminatori costituisce la “testa di


ponte” dell’art. 28 nel campo del rapporto di lavoro individuale, a presi-
dio non della legittimità (in senso stretto) dei provvedimenti incidenti su
quel rapporto ma (ed è questa la sfera “autonoma” del procedimento di
repressione della condotta antisindacale) della loro correttezza nel più
vasto quadro della “politica aziendale e personale”: si può perciò dire
– adattando alla tesi qui sviluppata principi della giustizia amministrativa
– che l’azione del sindacato consente di valutare sotto il profilo dell’ec-
cesso di potere quei provvedimenti che il lavoratore può impugnare solo
deducendo la violazione di legge»98.
Così ragionando, insomma, secondo la dottrina ora in esame, all’in-
terno del giudizio individuale, la disparità di trattamento potrebbe aver
rilievo soltanto come «sintomo» dell’illegittimità del provvedimento e/o
come «sintomo» della motivazione antisindacale del provvedimento,
senza, peraltro, rendere illegittimo ciò che è legittimo sotto il profilo dei
presupposti per l’esercizio del potere; al contrario, laddove non è in
gioco il profilo contrattuale del rapporto di lavoro, ma la destinazione lo
scopo per cui quei poteri sono in concreto esercitati, la funzione del
principio d’eguaglianza acquisterebbe ben altro rilievo, in quanto «stru-
mento di un sindacato nel merito della “politica” aziendale»99.
È quindi alla luce di queste premesse, che viene a realizzarsi, a
fronte del medesimo comportamento imprenditoriale, uno sfasamento
tra i limiti della tutela giurisdizionale conseguibile in sede di giudizio or-
dinario e i limiti della tutela giurisdizionale ottenibile in sede di giudizio
speciale, cioè, cambiando prospettiva, quel diverso profilo di antigiuridi-
cità capace di giustificare un ambito di autonomia applicativa all’azione
di repressione della condotta antisindacale100.
98 VACCARELLA, R., Il procedimento di repressione della condotta antisindacale, cit., p. 78.
99 VACCARELLA, R., Il procedimento di repressione della condotta antisindacale, cit., p. 85
s., e così dunque «sembra indubbio che questa seconda funzione – ossia “la progressiva
obiettivizzazione della politica aziendale e del personale” – possa realizzarsi soltanto per l’o-
perare del combinato disposto degli artt. 15 e 28».
100 Quanto il surplus di protezione offerto in sede sommaria speciale sia determinante
ai fini della soluzione processuale accolta è, infine, fatto palese laddove la dottrina passa al-
l’esame di fattispecie concrete di altra natura, ossia verso le ipotesi in cui la condotta im-
prenditoriale viene a porsi come lesione (non indiretta delle prerogative sindacali come nelle
più volte richiamate condotte plurioffensive, ma) diretta dei diritti sindacali riconosciuti dallo
Statuto, quali a esempio – stando a questa tesi – i trattamenti economici discriminatori previ-
sti dall’art. 16, la costituzione di sindacati di comodo, la violazione del diritto di assemblea o
referendum, il trasferimento di dirigenti delle r.s.a, la violazione di obblighi inerenti all’eser-
cizio del diritto di affissione o alla raccolta contributi. È al ricorrere di questi comportamenti,
infatti, che emerge la necessità di procedere ad una duplex interpretatio dell’art. 28. E cioè, al
544 CAPITOLO SETTIMO

In termini tecnico-processuali, dunque, ben si paleserebbe, pur nel-


l’identità del petitum, quella netta distinzione delle causa petendi appar-
tenente alle rispettive azioni idonea a giustificare il perfetto parallelismo
delle azioni senza alcuna possibilità di interferenza né durante lo svolgi-
mento del giudizio, né sul piano della possibile comunicabilità degli ac-
certamenti ivi ottenuti101.

4. Esame critico della giurisprudenza


4.1. L’autonomia e l’indipendenza delle azioni nell’opinione giurispruden-
ziale
Le finalità di approfondimento teorico che sin dall’inizio dell’inda-
gine ci siamo proposti, ci hanno indirizzato (e ci indirizzeranno nel pro-
sieguo) verso una trattazione tendenzialmente congiunta delle posizioni
dottrinali e giurisprudenziali di volta in volta emergenti in relazione alle
diverse questioni rilevanti; e ciò allo scopo di soffermarci non tanto sulla
fonte, quanto sulle soluzioni interpretative concretamente adottate e
sulle ragioni teorico-sistematiche che queste sorreggono.
In materia di azione speciale per la repressione della condotta anti-
sindacale, d’altra parte, la scelta di metodo or ora indicata dovrà essere
oggetto di deroga. Ciò non tanto per l’ampiezza dell’apporto giurispru-
denziale, quanto per la risolutezza con la quale i giudici del lavoro sin
dall’immediata introduzione del procedimento ex art. 28 S.L. hanno so-
ricorrere di dette fattispecie, «la norma viene in considerazione soltanto come istitutiva di
uno speciale procedimento, come norma meramente processuale», con la conseguenza che la
posizione degli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali vengono a rivestire il
ruolo di sostituti processuali del soggetto sindacale di volta in volta leso (VACCARELLA, R., Il
procedimento di repressione della condotta antisindacale, p. 125 ss.). In altri termini, allorché il
comportamento sia direttamente lesivo di diritti sindacali e integri «per definizione, gli
estremi della condotta antisindacale nella sua manifestazione […] più diretta ed evidente» (p.
127), viene meno la possibilità di configurare quel surplus di tutela diversamente configura-
bile allorquando si operi il confronto con le azioni ordinarie individuali e viene di conse-
guenza meno, con questa possibilità, la stessa natura sostanziale della norma, riemergendo sul
fronte opposto la necessità di metter mano al «momento processuale» per «soddisfare la pri-
maria esigenza di impedire che due provvedimenti giurisdizionali possano disciplinare (spe-
cie, poi, in modo differente) la medesima situazione sostanziale» (così, VACCARELLA, R., Il pro-
cedimento di repressione della condotta antisindacale, p. 130, in esplicito riferimento all’ap-
proccio metodologico seguito da Lanfranchi e riportato retro).
101 VACCARELLA, R., Il procedimento di repressione della condotta antisindacale, cit., p.
115. «È ben possibile – aggiunge l’A. – che un provvedimento, legittimo nell’ambito del rap-
porto di lavoro, sia tuttavia antisindacale, come è possibile che un provvedimento, illegittimo
sotto quel medesimo profilo, non sia viziato da antisindacalità».
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 545

stenuto la natura collettiva degli interessi tutelati dal giudizio; risolutezza,


peraltro, a cui non sempre ha corrisposto l’articolazione dimostrativa che
detta soluzione avrebbe richiesto a fronte di un ordinamento sostanziale
e processuale, se non effettivamente alieno rispetto a tutele di tal genere,
quantomeno ritenuto tale da pressoché tutto il dibattito scientifico nelle
sue diverse articolazioni.
Di qui l’opportunità di procedere all’esame della posizione giuri-
sprudenziale su due distinti e successivi livelli di approfondimento: un
primo, di sintesi, rivolto all’individuazione dei fondamentali punti in cui
si articola detta posizione ed un secondo, di analisi, attento, da un lato, a
superare l’apparente univocità e monoliticità dell’orientamento e, dall’al-
tro, a porre in risalto le antinomie, le incertezze che in questo stesso
orientamento si celano dissimulandone l’autentico contenuto.
Procedendo nell’esame secondo il primo profilo indicato, non v’è
dubbio che nel suo complesso la posizione giurisprudenziale in materia
configuri la procedura speciale ex art. 28 e quelle ordinarie avviate dai
singoli lavoratori in termini di autonomia ed indipendenza, cosicché ri-
sulta piuttosto scontato, in sede di prima approssimazione, ritenere che
essa, nella sostanza, costituisca una variante della teoria del parallelismo
delle azioni.
Anche in ambito giurisprudenziale, d’altronde, l’esito interpretativo
ora indicato ha trovato fondamento nel rimarcare la differente prospet-
tiva funzionale da assegnare al giudizio collettivo rispetto ai processi in-
dividuali; e ciò nella duplice direzione già rilevata durante lo studio delle
teorie del parallelismo, ovvero rimarcando la natura collettiva degli inte-
ressi tutelati dall’azione sindacale, nonché anche il loro diverso profilo
contenutistico.
Tale esito interpretativo è andato progressivamente delineandosi in
una sorta di dialogo realizzatosi nei primi anni Settanta tra Corte di cas-
sazione e Corte costituzionale.
Nella prima pronuncia della Cassazione a sezioni unite102, ad esem-
pio, l’adesione alla teoria del parallelismo delle azioni già appariva piut-
tosto nitidamente.
In relazione alla posizione giuridica sostanziale e processuale delle
associazioni sindacali, si rilevava nel primo comma dell’art. 28 l’attribu-
102 Cass.,S.U., 6 maggio 1972 n. 1380, in Riv. giur. lav., II, p. 945. Senza riportare qui
una lunga serie di pronuncie, basti dire che per quanto consta tutte le successive pronunce
aderiscono alla tesi qui proposta nel senso di ritenere che tra le due azioni sussista una dif-
ferenza «ontologica» degli interessi tutelati: collettivo in sede speciale, individuale in sede
ordinaria.
546 CAPITOLO SETTIMO

zione alle associazioni sindacali di «una capacità giuridica propria, espli-


cantesi, sul piano processuale, nella facoltà di agire direttamente, e cioè
indipendentemente dalle iniziative dei propri aderenti, a tutela della li-
bertà e delle attività sindacali, nonché del diritto di sciopero»103 ed in ri-
ferimento a tali beni giuridici si osservava che «lo Statuto dei lavoratori,
rendendo giudizialmente tutelabili questi interessi» e «attuando così i
precetti costituzionali» aveva conferito a questi stessi interessi «la consi-
stenza di diritti soggettivi».
Confermata poi la deducibilità in sede collettiva dei comportamenti
imprenditoriali plurioffensivi, la possibile interferenza tra le azioni veniva
rapidamente negata in ragione della nota «eteronomia degli interessi tu-
telati». L’azione collettiva e l’azione individuale si ponevano, quindi, in
un rapporto reciproco di perfetta autonomia ed indipendenza.
Ma il completamento del percorso interpretativo così avviato spet-
tava alla successiva decisione della Consulta chiamata a pronunciarsi
sulla legittimità costituzionale dell’art. 28104, nella quale si sosteneva che
la condotta del datore di lavoro prevista da questa norma non doveva es-
sere identificata con quella «violatrice di meri interessi patrimoniali o
morali di singoli individui», ma, al contrario, con quella estrinsecantesi
«in atti diretti ed idonei a colpire o ad impedire o a limitare l’esercizio
della libertà o lo svolgimento dell’attività sindacale e pertanto colpire gli
interessi collettivi di una larga sfera di lavoratori».
Andava, insomma, delineandosi quella diversificazione contenuti-
stica degli interessi tutelati che – già rilevata addietro in dottrina – la giu-
risprudenza successiva avrebbe preso ad ulteriore sostegno del paralleli-
smo delle azioni105.
103 Ciò in contrasto con l’orientamento giurisprudenziale post-corporativo che aveva

negato la legittimazione ad agire delle associazioni sindacali non riconosciute per la tutela del-
l’interesse collettivo (cfr. Cass., S.U., 27 maggio 1955, n. 1612, in Giur. it., 1956, I, 1, p. 427
ss. Sul tema, v. ROMAGNOLI, U., Le associazioni sindacali nel processo, Milano, 1969, p. 70 ss.).
La Corte esclude espressamente che «l’organismo sindacale possa agire unicamente in surro-
gazione in sostituzione o in ausilio del singolo e non come titolare di un interesse autonomo
e indipendente da quello del lavoratore»; l’ipotesi della sostituzione processuale è scartata im-
plicitamente da tutte le decisioni nel loro riferirsi all’esercizio, da parte del sindacato, di un
suo interesse collettivo, ma per una presa di posizione espressa, v. Cass., 26 gennaio 1979, n.
602, in Foro it., 1979, I, p. 945; in Giust. civ., 1979, I, p. 824; Cass., 10 dicembre 1983, n.
7313, in Mass. giur. lav., 1984, p. 91 ss.
104 Ci riferiamo a C. cost. 6 marzo 1974, n. 54 in Foro it., 1974, I, p. 963, con nota di

G. Pera; in Giust. civ., 1974, III, p. 180; in Giust. cost., 1974, p. 199; in Riv. giur. lav., 1974,
II, p. 338; in Mass. giur. lav., 1974, p. 3.
105 Si noti, ad esempio, che in una successiva sentenza (C. cost., 21 luglio 1988, n. 860,

in Foro it., 1989, I, p. 623 ss) avente ad oggetto l’illegittimità costituzionale dell’art. 28 in re-
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 547

Ciò è ben apprezzabile in una successiva pronuncia della Corte di


cassazione106, nella quale le argomentazioni avanzate dalla Corte costitu-
zionale si ritrovano pienamente accolte e sviluppate; e difatti nella pro-
nuncia in questione è effettivamente il tenore costituzionale e non patri-
moniale degli interessi tutelati nel giudizio speciale ad assumere il ruolo
di argomento determinante ai fini del corretto inquadramento dell’azione
speciale.
«Nel caso della repressione della condotta antisindacale – si osser-
vava – il fondamento dell’azione riposa sulla violazione di norme costitu-
zionali, o quanto meno, generali dell’ordinamento, non di diritti o, co-
munque, di posizioni giuridiche di origine contrattuale, laddove la nor-
male tutela individuale del lavoratore si riferisce esclusivamente a
quest’ultimi». E ciò con la rilevante consenguenza che «mediante l’a-
zione consentita dall’art. 28 dello statuto dei lavoratori non è possibile
conseguire pretese derivanti dal rapporto contrattuale […], ma è dato
solamente ottenere la rimozione, nell’interesse del sindacato attore, della
condotta lesiva delle prerogative giuridiche di quest’ultimo».

lazione alla possibilità che la pronuncia ivi emessa si ponga in contrasto di giudicato rispetto
alle decisioni emesse in sede individuale, la Consulta ha respinto la questione tra l’altro so-
stenendo in riferimento all’azione individuale e a quella sindacale che «nei due giudizi la con-
dotta del datore di lavoro è esaminata, ricostruita, valutata da angolazioni e con finalità
profondamente differenti, dal momento che il giudice del procedimento repressivo speciale è
chiamato a verificare se l’atto o il comportamento del datore di lavoro abbia leso gli interessi
collettivi di cui sono titolari esclusivi le associazioni sindacali, mentre il giudice dell’azione in-
dividuale ha il compito di controllare la legittimità del medesimo atto o comportamento sul
terreno della disciplina del rapporto di lavoro».
106 Cass., 24 maggio 1976, n. 1050, in Mass. giur. lav., 1976, p. 220, con nota di GARBA-

GNATI, E., Ancora sulla pretesa abrogazione tacita dell’art. 28, terzo comma, legge 20 maggio
1970, n. 300, cit., p. 733 ss.; in Giur. it., 1976, p. 477, con nota di TARUFFO, M., Competenza e
procedimento per l’opposizione ex art. 28 dello Statuto dei lavoratori; la distinzione tra gli ele-
menti soggettivi e oggettivi delle azioni è spesso sinteticamente richiamata dalle decisioni, ma
per una presa di posizione più netta, in una prospettiva assai simile a Cass. n. 1050/76, v. Cass.,
23 giugno 1976, n. 2343 e Cass., 3 giugno 1976, n. 1986, entrambe in Giur. it., 1976, p. 451,
con nota di PERA, G., Il procedimento di repressione della condotta antisindacale ed il rito del la-
voro; Cass., 16 dicembre 1986, n. 7561, in Mass. giur. lav., 1987, p. 41, che però, in termini si-
curamente più equivoci rispetto all’orientamento appena richiamato sostiene che nelle due
azioni «variano […] i soggetti attivi, che sono i sindacati e i lavoratori; le causae petendi, che
sono rispettivamente la lesione del diritto al legittimo esercizio delle attività sindacali e le le-
sioni di diritti del singolo; e gli stessi petita, che, anche quando (in tutto o in parte) coincidano
nell’oggetto materiale, ontologicamente si distinguono tra loro in quanto intesi, rispettiva-
mente, ad ottenere la rimozione di condizionamenti anti-sindacali, o la riconduzione […] delle
posizioni delle parti alla funzionalità del sinallagma contrattuale». Si ripropone in altri termini,
la commistione concettuale tra profili attinenti alla causa petendi e profili invece appartenenti
al petitum, che abbiamo avuto già modo di rilevare nella tesi di Garofalo (v. retro, nota 85).
548 CAPITOLO SETTIMO

Così argomentando, dunque, il cerchio veniva a chiudersi; gli inte-


ressi tutelati, infatti, non solo divergevano – per così dire – sotto il pro-
filo della latitudine, ma anche per ciò che riguardava il loro specifico
contenuto di tutela ed infine anche i risultati conseguibili nei diversi con-
tenitori processuali dovevano tenersi rigorosamente distinti.

4.2. Uno sguardo oltre i principi: l’individuazione dei limiti esatti in cui
viene ad essere intesa l’autonomia e l’indipendenza delle azioni
Come detto poc’anzi, i principi enucleati da questo primo gruppo di
decisioni costituiscono le coordinate di costante riferimento della giuri-
sprudenza successiva pronunciatasi in materia di oggetto ed effetti del
giudizio di repressione della condotta antisindacale.
Se, d’altro canto, si procede ad un esame più attento della giuri-
sprudenza, emergono piuttosto chiaramente gli elementi di dettaglio che
meglio chiariscono non solo i limiti in cui la tesi del parallelismo delle
azioni è stata nel tempo accolta, ma anche in che misura il frequente rin-
vio alla figura dell’interesse collettivo debba essere intesa.
Iniziando l’analisi dal profilo riguardante l’effettivo grado di auto-
nomia e separatezza attribuito dalla giurisprudenza al giudizio antisinda-
cale rispetto alle azioni ordinarie, va in primo luogo rilevata la frattura tra
le decisioni, che hanno raffigurato le diverse procedure in un rapporto di
piena ed assoluta autonomia e le decisioni che al contrario hanno preso
atto di significativi punti di interferenza tra i due itinera processuali.
Così, per un primo e numeroso gruppo di pronunzie, il procedi-
mento ex art. 28, prima nella fase sommaria e poi nella eventuale fase di
cognizione piena, si instaura, si svolge e si conclude in maniera perfetta-
mente indipendente rispetto le sorti del giudizio ordinario avviato dal la-
voratore107, potendo questi unicamente intervenire nel giudizio speciale

107 Per una prospettazione particolarmente incisiva del parallelismo, v. Cass., 1 giugno

1987, n. 4824, in Lav. prev. oggi, 1987, p. 1871, in cui la «distinzione ontologica delle azioni»
conduce ad una «reciproca indifferenza» delle procedure, sicché «l’esperimento di una di
esse non può incidere sulle vicende e sulla sorte dell’altra». Cfr. anche Cass., 10 dicembre
1983, n. 7313, cit., in cui si sostiene che le due azioni, «si pongono tra loro in rapporto di pa-
rallelismo e non già di pregiudizialità o di continenza o di specialità»; Cass., 22 ottobre 1983,
n. 6216, in Giust. civ., 1984, I, p. 1864, che però, pur rilevando la diversità degli elementi sia
oggettivi che soggettivi delle azioni, ritiene che anche nell’azione individuale il lavoratore
chieda la tutela di un «proprio diritto alla libertà sindacale»; Cass., 26 gennaio 1982, n. 515,
in Foro it., 1982, I, 1043; in Lav. 80, 1982, p. 317; Cass., 16 dicembre 1986, n. 7561, cit., in
cui si sostiene che le rispettive azioni «si svolgano autonomamente anche se esercitate in liti-
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 549

in via adesiva autonoma, o, secondo alcune decisioni, in via dipen-


dente108. Mentre, per quel che riguarda l’efficacia dei provvedimenti con-
clusivi, si è ritenuto che il medesimo atto plurioffensivo possa ben risul-
tare legittimo in un giudizio ed illegittimo nell’altro, senza che ciò dia
luogo a possibili interferenze di sorta tra i due accertamenti. Cosicché, ad
esempio, il decreto o la sentenza emessa nel procedimento speciale, di-
chiarante l’antisindacalità della condotta, non farà stato nei confronti del
lavoratore individualmente leso, rimasto estraneo al processo; il quale, se
interessato ad ottenere l’adempimento degli effetti patrimoniali conse-
guenti l’illecito, dovrà dimostrare nuovamente l’illegittimità dell’atto plu-
rioffensivo nel giudizio ordinario109.
D’altra parte, nonostante il rituale «omaggio verbale» all’autonomia
e all’indipendenza dei giudizi110, in diverse decisioni sono emersi pur tut-
tavia significativi fenomeni di interferenza tra i due percorsi processuali.
Si pensi, ad esempio, a talune osservazioni presenti sin nelle prime
pronunce in materia; e ciò in riferimento sia all’individuazione dei ri-
spettivi petita, sia, sotto diverso profilo, al rapporto sussistente tra i di-
versi accertamenti svolti in sede di giudizio speciale ed ordinario.
Per quel che attiene al primo aspetto, infatti, nel rilevare l’impossi-
bilità di «conseguire pretese derivanti dal rapporto contrattuale» in sede
di giudizio speciale, non si è comunque esclusa una parziale coincidenza
del petitum per quel che riguarda – sempre tenendo a mente il caso del
licenziamento antisindacale – il profilo della reintegrazione nel posto di
lavoro. In relazione poi al secondo aspetto – quello del rapporto tra i ri-

sconsorzio in uno stesso processo, senza reciproche interferenze […] e con la possibilità di
esiti diversi, ma non perciò – stante la rilevata distinzione ontologica – contraddittori»; Cass.,
21 ottobre 1997, n. 10339, in Riv. giur. lav., 1998, II, p. 331, con nota di BELLINI, M.L., Re-
pressione della condotta antisindacale: verifica dei requisiti per la concessione del provvedimento
repressivo; Cass., 9 ottobre 2000, n. 13456, in Dir. prat. lav., 2001, fasc. 14, p. 940; di recente,
v. Cass., 6 giugno 2005, n. 11741, in Riv. giur. lav., 2006, II, p. 323 ss., con nota di GAROFALO,
M.G., Attualità della condotta antisindacale e tempestività della proposizione dell’azione, in cui
viene ad essere ribadita la piena autonomia delle azioni, la specificità degli elementi identifi-
cativi dell’azione del sindacato, l’ontologica differenza tra interessi collettivi ed interessi indi-
viduali.
108 A favore dell’intervento adesivo dipendente: Cass., S.U., 6 maggio 1972 n. 1380,

cit.; Cass., 28 gennaio 1982, n. 515, cit.; Cass., 12 maggio 2005, n. 9950, in Guida lav., 2006,
fasc. 31, p. 29; in Not. giur. lav., 2005, p. 761 ss.; Cass., 6 giugno 2005, n. 11741, cit.; per
quello autonomo: Cass., 29 marzo 1979, n. 1826, cit.; Cass., 10 dicembre 1983, n. 7313, cit.;
Cass., 16 dicembre 1986, n. 7561, cit.
109 Cass. 24 maggio 1976, n. 1050, cit.
110 Per riprendere un’efficace espressione di MAZZOTTA, O., nella nota di commento a

Cass., 27 febbraio 1979, n. 1313, in Foro it., 1979, I, p. 944 ss.


550 CAPITOLO SETTIMO

spettivi giudicati –, si è ritenuto possibile «ammettere […], per il lavora-


tori cui si riferiscono i fatti denunciati, una efficacia riflessa del provve-
dimento terminativo della procedura».
Si pensi ancora alle sentenze in cui, stante il riconoscimento del ca-
rattere «privilegiato e sovraordinato» dell’azione speciale rispetto quelle
ordinarie individuali, l’interesse ad agire ex art. 28 da parte delle associa-
zioni sindacali nazionali è stato inequivocabilmente condizionato dalla
operatività dei requisiti idonei ad applicare la tutela reale in sede di giu-
dizio individuale111.
Ciò è emerso con chiarezza nella sentenza n. 1313 del 1979112, nella
quale la Cassazione ha sostenuto che «il giudicato circa la sussistenza di
una causa di giustificazione del licenziamento non può non spiegare sulla
posizione giuridica del sindacato il medesimo effetto ritenuto per le ipo-
tesi di accettazione del licenziamento, transazione, assunzione in un altro
lavoro e simili». Decisione, questa ultima richiamata, in cui è stato anche
chiarito – in relazione alla tesi giurisprudenziale sostenente l’ammissibi-
lità di un’azione di accertamento mero dell’antisindacalità del comporta-
mento imprenditoriale anche al ricorrere delle suddette ipotesi di divari-
cazione tra condotta del singolo e condotta sindacale nei confronti del
medesimo provvedimento imprenditoriale – che detta ammissibilità «do-
vrebbe essere desunta da un’oggettiva differenziazione di consistenza –
appunto ritenuta non condivisibile dalla sentenza in esame – delle posi-
zioni soggettive attive delle quali sono rispettivamente portatori il lavora-
tore ed il sindacato».
«Se il dato normativo di una legittimazione propria dei sindacati che
vi abbiano interesse – ha precisato la Corte – è sufficiente ad attribuire
autonoma rilevanza […] alla valenza collettiva dei diritti sociali del lavo-
ratore nell’unità produttiva […] non altrettanto può dirsi per i criteri che
debbono sovraintendere alla sorte delle correlative azioni, la quale è di-
rettamente influenzata dall’effettiva coesistenza delle posizioni sostanziali
e dalla relazione tra le medesime»113.

111 Cass., 27 febbraio 1979, n. 1313, cit.; Cass., 13 giugno 1977, n. 2443, in Rep. Foro
it., 1977, voce Sindacati, nn. 174 e 205; Cass., 15 aprile 1976, n. 1366, in Foro it., 1976, I,
1132.
112 Cass., 27 febbraio 1979, n. 1313, cit.
113 In questa decisione la Corte richiama l’attenzione su tre aspetti: a) l’autonomia ed il

carattere sovraordinato dell’azione speciale sindacale rispetto l’azione ordinaria individuale;


b) l’impossibilità di differenziare la «consistenza delle posizioni soggettive attive delle quali
sono rispettivamente portatori il lavoratore ed il sindacato»; c) l’interferenza che viene a rea-
lizzarsi tra i distinti accertamenti. Da ciò sembra possibile, per un verso, leggere nella sen-
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 551

Rilievi analoghi possono poi essere proposti nei confronti dell’orien-


tamento contrario alla possibilità di procedere alla reintegrazione del la-
voratore licenziato nel posto di lavoro mediante la «rimozione degli ef-
fetti» prevista in sede di procedimento speciale, allorché il rapporto di la-
voro intercorrente tra datore e dipendente licenziato fosse garantito
solamente dalla tutela obbligatoria e non dalla tutela reale114.
Al di là delle pronunce ora riportate, peraltro, la tesi del perfetto pa-
rallelismo delle azioni ha ricevuto una sostanziale smentita da parte di un
gruppo di decisioni volte a gettare un ponte tra azione ordinaria e azione
speciale mediante il richiamo unificante della sanzione di nullità appre-
stata dall’ordinamento per avversare tutti gli atti e comportamenti discri-
minatori per ragioni sindacali115.
Tra le decisioni appena menzionate, particolarmente significativa si
dimostra la sentenza delle Sezioni unite n. 1916 del 1992, diretta a risol-
vere il quesito concernente la possibilità di disporre la reintegrazione nel
posto di lavoro del dipendente licenziato ai sensi dell’art. 28 dello Sta-
tuto, anche in assenza del regime di tutela reale previsto dall’art. 18.

tenza il rigetto delle tesi che distinguono esasperatamente, specie sotto il profilo delle causae
petendi, le due azioni, dall’altro, avvicinare questa prospettiva a quella avanzata, in termini e
con sfumature anche distinte, dalle opinioni della dottrina che, all’interno della tesi c.d. del
concorso, ha posto l’accento, da un lato, sull’autonomia dell’azione sindacale – in particolar
modo sub specie di negazione del richiamo della disciplina del litisconsorzio necessario – dal-
l’altro sulla necessità di ammettere forme di interferenza tra le due procedure, quanto meno
in termini di efficacia ultra partes dell’accertamento del carattere antisindacale del comporta-
mento. Così, infatti, accade nelle letture del rimedio proposte da Taruffo, Proto Pisani, e Ro-
magnoli; dovendosi al contrario escludere la tesi avanzata da Lanfranchi, per stessa ammis-
sione della Corte, che nella decisione qui richiamata ha affermato che, al ricorrere di condotte
plurioffensive, sebbene «la locuzione testuale dell’art. 28 autorizzi a ritenere leso un solo di-
ritto (quello pertinente al rapporto individuale di lavoro) e legittimate due azioni (delle quali
quella del sindacato dovrebbe configurarsi come mera azione conferita nel pubblico interesse
ed a tutela dell’ordine pubblico)», ciononostante il fenomeno giuridico in questione è costi-
tuito dalla «scissione di un’unica situazione di vantaggio preesistente (libertà ed attività sin-
dacale e diritto di sciopero) – caratterizzata dall’essenza individuale della titolarità e della ri-
levanza collettiva dell’esercizio – nei due momenti di proiezione e l’attrazione di ciascuno di
essi nell’orbita di distinti mezzi di tutela con distinte ed autonome legittimazioni».
114 Cass. 21 aprile 1983, n. 2753, in Giust. civ., 1984, p. 243; ma contra, Cass. 16 di-

cembre 1986, n. 7561, cit.


115 V. innanzitutto, Cass., S.U., 17 febbraio 1992, n. 1916, in Foro it., 1992, I, p. 3020;

in Dir. lav., 1983, II, p. 50; decisione, quest’ultima indicata, di recente ripresa e confermata
da Cass., 12 maggio 2005, n. 9950, cit., a cui adde, Cass. 25 luglio 1984, n. 4374, in Giust. civ.,
1984, I, p. 3005; in Not. giur. lav., 1984, p. 548; Cass. 27 maggio 1982, n. 3250, in Rep. Foro
it., 1982, Sindacati, n. 117; evidenzia, pur nella diversità oggettiva e soggettiva delle azioni, la
funzione di tutela di un diritto di libertà sindacale dell’azione individuale anche Cass., 22 ot-
tobre 1983, n. 6216, cit.
552 CAPITOLO SETTIMO

Posta, infatti, a cornice di principio l’eteronomia degli interessi tute-


lati nonché l’autonomia dei giudizi, il sentiero interpretativo prescelto
per risolvere la questione si è rivelato decisamente lontano da quello di
regola seguito dalla giurisprudenza in materia.
Sin dal piano destinato alla determinazione dei valori promossi in
sede di procedimento speciale, difatti, la Corte, anziché riferirsi in via
esclusiva all’art. 28, ha ribadito il tenore costituzionale degli interessi ivi
tutelati rinviando – quale normativa attuativa degli stessi – all’art. 4 della
legge n. 604 del 1966; disposizione appunto sanzionante con nullità il li-
cenziamento determinato dall’appartenenza ad un sindacato o dalla par-
tecipazione ad attività sindacali. Ed a tal proposito si è affermato che «un
licenziamento determinato da motivi antisindacali, oltre che rilevante ai
sensi dell’art. 4 di tale ultima legge, che ne sancisce la nullità, ben può
costituire mezzo di attuazione di un comportamento antisindacale che,
per le svariate modalità con le quali esso può estrinsecarsi, data la sua
non tipizzazione, è in ogni caso idoneo a vulnerare, al di là dell’interesse
del singolo ed anche nell’inerzia delle stesso, l’interesse collettivo del sin-
dacato».
Muovendo da tali premesse, il regime di nullità ha rappresentato la
disciplina tipica degli effetti dell’atto antisindacale, nonché il dato nor-
mativo rilevante per risolvere il coordinamento tra le procedure. Così, ra-
gionando, si è in primo luogo evidenziata la possibilità di procedere in
sede di giudizio individuale alla reintegrazione del lavoratore licenziato
per motivazioni sindacali in ragione della mera improduttività degli ef-
fetti del licenziamento nullo e successivamente, il medesimo esito inter-
pretativo ha ricevuto estensione proprio in riferimento al giudizio collet-
tivo. Si è affermato, infatti, che «l’interesse collettivo di cui è titolare l’or-
ganizzazione sindacale può essere fatto valere, ex art. 28 S.L., per
ottenere, in relazione ai principi di diritto comune in tema di nullità del-
l’atto negoziale, l’accertamento della validità ed efficacia del rapporto di
lavoro, “con applicabilità dei principi sulla mora credendi in danno del
datore”».

4.3. L’oggetto del giudizio per la repressione della condotta antisindacale:


interesse collettivo o diritto soggettivo?
Dalle considerazioni svolte precedentemente emerge con chiarezza,
come, nonostante l’opinione giurisprudenziale in materia di repressione
della condotta antisindacale sia piuttosto univocamente attestata a favore
della teoria del parallelismo delle azioni, allorché si avvii un esame mag-
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 553

giormente analitico delle decisioni, è piuttosto agevole rilevare come


detto parallelismo sia in fin dei conti relativo.
Si è notato, infatti, che, al di là dei frequenti tributi alla pregiudiziale
dell’autonomia ed indipendenza, quest’ultima, ben lungi dall’essere tale,
nella sostanza viene ad essere contraddetta dall’individuazione di fre-
quenti punti di collegamento e di interferenza tra tutela individuale e tu-
tela collettiva.
Esemplare a tal proposito è la sentenza appena esaminata, nella
quale, nell’insufficienza argomentativa della logora e sterile contrapposi-
zione tra interessi individuali ed interessi collettivi, la tutela degli inte-
ressi sindacali ha trovato adeguati spazi di riconoscimento proprio nelle
norme disciplinanti il rapporto di lavoro (ovvero in quell’ambito in cui le
prime decisioni giurisprudenziali avevano rilevato la sola esistenza di in-
teressi di tenore contrattuale e patrimoniale); e ciò con l’inevitabilmente
conseguenza di porre al centro del giudizio speciale quella stessa dichia-
razione di nullità-antisindacalità dell’atto imprenditoriale plurioffensivo
conseguibile all’interno del giudizio individuale ordinario.
Chiariti comunque questi aspetti maggiormente attinenti all’inter-
pretazione specifica del procedimento per la repressione della condotta
antisindacale al ricorrere di condotte plurioffensive, è ora il momento di
toccare argomenti di rilievo teorico e sistematico più generale ed in par-
ticolare verificare come sia configurato l’oggetto del procedimento all’in-
terno della giurisprudenza in materia, e, più nello specifico, quale va-
lenza teorica possieda il frequente rinvio operato da questa stessa giuri-
sprudenza alla figura dell’interesse collettivo.
Sotto questo diverso ed ulteriore profilo, peraltro, la vicenda si pre-
senta in termini analoghi alla precedente; si assiste – cioè – ad una frat-
tura netta tra enunciazioni di principio e loro reale incidenza teorico-ap-
plicativa.
Dalla lettura delle massime giurisprudenziali, infatti, la funzione del
giudizio speciale appare di certo la tutela di un interesse collettivo. Su
questo le diverse pronunce presentano poche esitazioni.
Lo dice chiaramente la prima sentenza della Cassazione in materia
che abbiamo avuto modo di esaminare addietro: «l’interesse sostanziale
di cui si è chiesto la tutela giurisdizionale è quello collettivo del sinda-
cato»116.
Ma quale sia l’esatta cornice teorico-dogmatica entro cui inserire
tale osservazioni non è propriamente agevole constatarlo e ciò in primo

116 Cass., S.U., 6 maggio 1972, n. 1380, cit.


554 CAPITOLO SETTIMO

luogo perché occorrerebbe comprendere con esattezza se affermazioni di


tal fatta stanno a voler indicare nell’interesse collettivo una situazione
giuridica sostanziale inedita da porre propriamente ad oggetto dell’ac-
certamento o se tali affermazioni abbiano un mero rilievo funzionale che
per l’assenza di ricadute strutturali devono ricevere modesto rilievo.
Alla luce di queste pur sommarie considerazioni, si comprendono e
si giustificano le osservazioni critiche e colme di perplessità che, sin dalle
prime sentenze in materia, la dottrina processualista ha mosso all’impo-
stazione interpretativa proposta dalla Cassazione, rilevando come questa
avesse dato come questione acquisita e non bisognosa di dimostrazione
ciò che in realtà andava ben dimostrato ed argomentato, ovvero l’esi-
stenza nel nostro ordinamento di controversie propriamente collettive,
cioè caratterizzate tanto dalla particolarità dell’oggetto, quanto dalla con-
seguente particolarità di disciplina117.
Occorre dunque domandarsi, anche riguardo a questa specifica que-
stione, se sia possibile comprendere, attraverso l’attento esame delle de-
cisioni, a quale delle due letture appena indicate – procedimento avente
ad oggetto situazioni giuridiche propriamente collettive o semplicemente
diritti soggettivi tradizionali con rilevanza latamente collettiva – la Corte
si riferisca allorquando il procedimento per la repressione della condotta
antisindacale viene ad essere definito come un giudizio rivolto alla tutela
di interessi collettivi; e si anticipa sin d’ora che l’impressione che si trae
dalla lettura attenta delle decisioni è che la Corte sia orientata nettamente
nel senso indicato dalla seconda opzione ricostruttiva118.
A ciò induce il carattere evanescente e mutevole che l’interesse col-
lettivo assume all’interno delle decisioni giurisprudenziali.
117 TARUFFO, M., Competenza e procedimento, cit., a commento di Cass., 24 maggio

1976, n. 1050, cit.; LANFRANCHI, L., Situazioni giuridiche individuali a rilevanza collettiva ed at-
tuazione della condanna alla reintegrazione del lavoratore, cit., p. 371; ma v. anche le osserva-
zioni di SANTORO-PASSARELLI, F., Diritto soggettivo e interesse legittimo dei sindacati al rispetto
della libertà sindacale nei luoghi di lavoro, cit., p. 5.
118 La decisione in cui è dato rinvenire la presentazione più estesa ed argomentata del-

l’azione speciale ex art. 28 come strumento tipicamente volto a tutela degli interessi collettivi
è forse Cass., 3 giugno 1976, n. 1986, cit. In tal caso, infatti, si è sostenuto in termini espressi
– seppur sempre all’insegna di una modalità espositiva a carattere descrittivo e non dimo-
strativo – che «la particolare rilevanza dell’istituto della repressione della condotta antisinda-
cale introdotto con l’art. 28 dello Statuto dei lavoratori va ricercata […] in ciò, che con esso
il legislatore ordinario sancisce per la prima volta (predisponendone concretamente e specifi-
camente la realizzazione con disposizioni sulla legittimazione, sulla competenza, sul rito) la
tutela giurisdizionale di una classe di quegli interessi collettivi (in ordine di latitudine cre-
scente: di gruppo, di collettività, di categoria), della cui azionabilità davanti al giudice si av-
verte sempre più intensamente e diffusamente la esigenza».
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 555

Se difatti l’interesse non è individuale, ovvero non è imputabile ad


un soggetto singolo, come accade allorché la tutela giurisdizionale abbia
ad oggetto diritti soggettivi tradizionali, ma al contrario è appunto col-
lettivo, sembra piuttosto comprensibile chiedersi quale sia la collettività a
cui effettivamente esso possa essere riferito.
Ma se, animati da questo interrogativo, si leggono le osservazioni in
merito della giurisprudenza, detto quesito rimane sostanzialmente privo
di risposte, in quanto il richiamo dell’interesse collettivo – sicuramente
molto frequente – si atteggia a strumento esegetico capace all’occasione
di adattarsi alle più diverse esigenze pur di risultare utile ai fini interpre-
tativi di volta in volta ritenuti rilevanti e ciò senza che il concetto riceva
una stabile e definitiva delineazione.
Così, se la Corte doveva – correttamente – dichiarare ammissibile il
ricorso dell’associazione a tutela di un lavoratore leso nell’esercizio dei
suoi diritti di libertà o attività sindacale, anche quando detto lavoratore
non sia iscritto al sindacato ricorrente o quest’ultimo non sia presente
nell’azienda in cui quello è impiegato, allora gli interessi collettivi tutelati
dalla norma divenivano quelli «alla libertà di tutti i lavoratori e di tutti i
sindacati»119 oppure quelli che «attengono alla vita nazionale»120.
Se diversamente il problema postosi era costituito da dover pro-
porre l’esatta interpretazione della formula «organismi locali», utilizzata
dalla norma per l’individuazione dei soggetti legittimati, allora l’interesse
tutelato, a mo’ di una fisarmonica, andava assumendo tutt’altra esten-
sione soggettiva. I giudici, infatti, nel motivare l’attribuzione della legitti-

119 Cass., 17 ottobre 1998, n. 10324, in Rep. Foro it., 1998, voce Sindacati, n. 88, per la
quale, «l’interesse a cui l’art. 28 […] collega la legittimazione attiva […] non è solo quello alla
libertà sindacale propria del sindacato ricorrente, poiché l’interesse tutelato è, in termini più
ampi, quello alla libertà di tutti i lavoratori e di tutti i sindacati».
120 Cass., 23 giugno 1976, n. 2343, cit., per la quale «lo scopo del legislatore, quindi,

non è stato quello di tutelare le ragioni del singolo lavoratore, bensì l’altro – diverso – di ga-
rantire gli interessi del mondo del lavoro che trascendono l’individuo ed attengono alla vita
nazionale»; diversamente, Cass., 26 gennaio 1979, n. 602, cit., ripresa poi nei medesimi ter-
mini da Cass., 22 aprile 1992, n. 4839, cit., e da P. Firenze, 2 dicembre 1997 cit. In queste ul-
time decisioni, relativamente alla medesima problematica, si legge che, «poiché il sindacato
ha in ogni caso un interesse autonomo e indipendente da quello del lavoratore, deve esclu-
dersi la necessità di un collegamento “personale” con quest’ultimo, collegamento che do-
vrebbe concretarsi nell’appartenenza del lavoratore al sindacato. In altri termini, poiché agi-
sce non come rappresentante dei suoi associati, bensì come titolare e gestore autonomo del-
l’interesse collettivo alla realizzazione dei diritti sociali dei singoli lavoratori, è da ritenere che
tale interesse sussista anche se il singolo lavoratore non è iscritto al sindacato agente o non è
inquadrato in alcuna organizzazione sindacale e che esso non venga meno per il fatto che lo
stesso sindacato non sia ‘presente’ nell’azienda».
556 CAPITOLO SETTIMO

mazione ad agire agli organismi che nella struttura organizzativa dell’as-


sociazione sindacale occupano la posizione maggiormente periferica,
hanno posto in evidenza, per un verso, la loro soggettività distinta, in
quanto «autonomi titolari di interessi collettivi» e, dall’altro, hanno rile-
vato come l’aver attribuito loro l’esercizio dell’azione da parte del legi-
slatore sia frutto dell’esigenza di mantenere «l’azione dei maggiori sinda-
cati aderente alle concrete esigenze delle situazioni locali»121; volendosi in
altri termini riferire, mediante il richiamo dell’autonomia degli interessi
di cui sono titolari gli organismi locali ed ancor più mediante la ravvisata
necessità di mantenere l’azione sindacale aderente alle esigenze locali, ad
un interesse di dimensione notevolmente più limitata rispetto a quello
appartenente alla generalità dei lavoratori visto poc’anzi.
Se poi, infine, l’interpretazione ha riguardato il requisito della na-
zionalità dell’associazione sindacale di riferimento, allora si è sostenuto
che «per la legittimazione attiva è richiesta l’esistenza di un gruppo di la-
voratori, portatore di un interesse collettivo di portata nazionale»122.
Così, insomma, tirando le somme:
a) il sindacato può esercitare l’azione speciale nei confronti di una
condotta imprenditoriale lesiva di un lavoratore non iscritto, poiché l’in-
teresse collettivo tutelato dalla norma è quello a che tutti i lavoratori pos-
sano esercitare liberamente i propri diritti sindacali;
b) legittimata ad agire è l’articolazione maggiormente periferica del-
l’associazione sindacale e non quella centrale o regionale, poiché l’inte-
resse collettivo tutelato dalla norma è quello relativo ed aderente alle
concrete esigenze locali;

121 Per una sintesi delle sentenze della Cassazione sul punto, cfr. Cass., 17 marzo 1995,

n. 3105, pronunzia in cui vengono richiamate le antecedenti decisioni della Corte a cui si fa
riferimento nel testo (Cass., 29 marzo 1979, n. 1826, in Foro it., 1979, I, 1443, con nota di O.
Mazzotta; in Mass. giur. lav., 1979, p. 756; in Not. giur. lav., 1979, p. 560 e Cass. 6 marzo
1987, n. 2392, in Giust. civ., 1987, I, 2595; in Not. giur. lav., 1987, p. 270; in Giur. it., 1988,
I, 1, p. 98). Sulla stessa linea si pongono alcune decisioni anche di merito, nelle quali si sot-
tolinea che gli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali non sono legittimati ad
agire ex art. 28 per la tutela degli interessi collettivi nazionali (P. Roma, 21 novembre 1994, in
Not. giur. lav., 1994, p. 721), oppure ove si afferma che il solo conflitto preso in considera-
zione dall’art. 28 è quello tra datore e sindacato all’interno di una determinata azienda, do-
vendosi escludere che l’associazione sindacale possa agire sul mero presupposto delle proprie
funzioni istituzionali di rappresentanza degli interessi collettivi dei lavoratori (T. Roma, 1°
giugno 1998, in Not. giur. lav., 1998, p. 263), oppure ancora dove si sostiene che l’art. 28 tu-
teli unicamente i diritti sindacali lesi nei luoghi di lavoro e non l’interesse collettivo generale
(P. Roma, 21 febbraio 1996, in Not. giur. lav., 1996, p. 14; in Mass. giur. lav., 1996, p. 159).
122 Cass., 8 agosto 1997, n. 7368, cit.
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 557

c) legittimati ad agire sono solo le associazioni sindacali aventi diffu-


sione su tutto il territorio nazionale, poiché, chiaramente, l’interesse col-
lettivo tutelato dalla norma è quello, anch’esso, di portata nazionale.
A questo punto, se ci si chiede quale sia in fin dei conti l’interesse
collettivo tutelato dalla norma o più precisamente quale sia l’interesse
collettivo che dovrebbe divenire oggetto di accertamento, ci si rende de-
finitivamente conto come sia assolutamente impossibile fornire una ri-
sposta attendibile in merito a detti quesiti, quantomeno prendendo
spunto da quanto sostenuto nelle decisioni giurisprudenziali ora richia-
mate in via esemplificativa.
Le incertezze ora palesate possono, d’altra parte, superarsi diri-
gendo l’attenzione verso un gruppo di decisioni dalle quali con partico-
lare chiarezza emerge l’effettiva opinione giurisprudenziale riguardo alla
reale sostanza delle situazioni giuridiche soggettive tutelate in sede di
giudizio di repressione della condotta antisindacale.
Ci riferiamo alle decisioni in cui la Corte di cassazione, in sede di re-
golamento di giurisdizione123, ha evitato la tralaticia riproposizione di
equivoche formule e, sottolineando la necessità di individuare «non tanto
la natura di posizioni soggettive, che trovano nelle associazioni sindacali
il loro centro di imputazione […] quanto e soprattutto il concreto modo
di essere e di atteggiarsi di tali posizioni soggettive», ha posto una summa
divisio tra «diritti sindacali in senso stretto» e «diritti sindacali correlati».
Così, in relazione ai primi si è sostenuto che «esistono, anzitutto, po-
sizioni giuridiche soggettive, che trovano il loro substrato in interessi col-
lettivi, che fanno capo – in quanto tali – ad associazioni sindacali; po-
sizioni giuridiche che tendono alla soddisfazione di bisogni collettivi,
economici e non economici». «Trattasi – si è aggiunto – di posizioni giu-
ridiche soggettive che sono volte alla protezione di interessi, propri ed
esclusivi del sindacato». «Tali diritti, in quanto propri ed esclusivi di
associazioni sindacali, possono definirsi “diritti sindacali in senso
stretto”»124.
Per quel che riguarda i secondi, invece, la Corte ha affermato che
«accanto a questi diritti – ovvero quelli definiti sindacali in senso stretto
–, che fanno capo esclusivamente al sindacato e dal quale sono autono-
mamente azionati, se ne pongono altri che attengono anche a posizioni

123 Cass., S.U., 26 luglio 1984, n. 4411; Cass., S.U., 26 luglio 1984, n. 4399; Cass., S.U.,

26 luglio 1984, n. 4397; Cass., S.U., 26 luglio, 4390; Cass. 26 luglio 1984, n. 4389; Cass., S.U.,
26 luglio 1984, n. 4386, tutte in Foro it., 1984, I, p. 2105 ss., con nota di A. PROTO PISANI.
124 Le parti riportate sono tratte da Cass., S.U., 26 luglio 1984, n. 4390, cit.
558 CAPITOLO SETTIMO

soggettive individuali di singoli dipendenti e che possono definirsi “di-


ritti sindacali correlati”». «La tutela di tali situazioni giuridiche sogget-
tive […] è, anche quella del sindacato» ovvero un’«azione iure proprio, in
quanto all’associazione sindacale spetta tutelare non solo i lavoratori, ma
anche se stessa dal comportamento, che è sempre antisindacale del da-
tore di lavoro».
Nelle pronunce ora indicate, dunque, l’interesse collettivo perde il
ruolo di argomentazione logico-giuridica assorbente e risolutiva di qual-
siasi problematica interpretativa e al contrario il reale oggetto del proce-
dimento de quo emerge chiaro ed distinto, difatti l’oggetto del procedi-
mento, al di là della distinzione operata tra «diritti sindacali in senso
stretto» e «diritti sindacali correlati», è sempre costituito (non da inte-
ressi collettivi, bensì unicamente) da diritti soggettivi individuali tradizio-
nali; ovvero da situazioni giuridiche individuali di titolarità propria ed
esclusiva del sindacato, rispetto alle quali gli interessi collettivi costitui-
scono – come tra l’altro chiaramente afferma la Corte – il substrato della
posizione giuridica tutelata e non l’oggetto del procedimento.
Con ciò ricevono spiegazione, innanzitutto, le ricorrenti afferma-
zioni in cui, nonostante la contraddizione logica in esse insita, si sostiene
che il sindacato sia il «titolare e gestore autonomo dell’interesse collet-
tivo»125 e, in secondo luogo, la stessa tesi giurisprudenziale dominante in
merito sia agli effetti della sentenza emessa in sede di giudizio ex art. 28,
sia alla soluzione proposta per l’inquadramento della legittimazione ad
agire del sindacato (ordinaria appunto), essendo entrambi i profili piena-
mente riconducibili alla configurazione del rapporto giuridico accertato
in termini di rapporto perfettamente bilaterale.
Ricevono infine (parziale) giustificazione anche le stesse ragioni che
permettono l’ampia volatilità dell’estensione soggettiva dell’interesse col-
lettivo, il quale, a fronte della natura di diritto soggettivo attribuita alla

125 V., tra le altre, Cass., 22 aprile 1992, n. 4839, cit.; Cass., 10 dicembre 1983, n. 7313,

cit.; Cass., 26 gennaio 1979, n. 602, cit. L’insanabile contraddizione presente in tale afferma-
zione è spiegata agevolmente dalla considerazione, che, come rapidamente accennato nel te-
sto, o l’interesse è riferibile ad un gruppo di soggetti intesi nel loro insieme ed allora avrà
senso parlare di interesse collettivo, oppure l’interesse sarà riferibile ad un soggetto singolo
ed allora sarà semplicemente e sempre individuale. Ora, visto che, sino a prova contraria, l’as-
sociazione sindacale, in quanto associazione non riconosciuta, comunque dotata di soggetti-
vità giuridica, è per diritto positivo trattata alla stregua di un soggetto individuale, sia in am-
bito sostanziale, che processuale, allora il riferimento alla titolarità dell’interesse collettivo da
parte del sindacato porta alla necessaria alternativa secondo la quale o l’errore è insito nel vo-
ler riferire la titolarità all’associazione o l’errore è diversamente legato alla qualificazione col-
lettiva della natura dell’interesse.
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 559

situazione giuridica sostanziale fatta valere in giudizio, non viene mai a


costituire l’oggetto del procedimento, ma al contrario si colloca in una
posizione estrinseca rispetto agli elementi puramente formali-strutturali.

5. Considerazioni ricostruttive
5.1. La rilevanza paradigmatica del dibattito in materia di azione «ex» art.
28 e gli influssi di ordine «lato sensu» politico che lo hanno caratte-
rizzato
Concluso lo studio critico della significativa giurisprudenza svilup-
patasi attorno all’interpretazione della controversa norma in esame, ci
troviamo ad un punto del nostro itinerario di riflessione in cui sono ora-
mai acquisiti tutti gli elementi di specificità che appartengono al dibattito
in materia.
Elementi, che si presentano non solo riferiti alla corretta ricostru-
zione del rimedio processuale in questione, ma che più latamente chiari-
scono l’ambiente operativo entro cui il dibattito di studio si è sviluppato
specie nel corso dei primi anni di applicazione della norma.
Già nelle prime pagine di questo capitolo avevamo evidenziato
– quale chiave di lettura privilegiata – il contenuto lato sensu politico, che
lo strumento in questione veniva ad assumere all’interno del conflitto tra
datore e lavoratori, ovvero il ruolo effettivamente promozionale che lo
stesso art. 28 dello Statuto mutuava dal quadro generale della normativa
di sostegno.
Questo aspetto è effettivamente fondamentale per inserirsi con pro-
fitto nel dibattito in materia e ciò sotto due separati seppur connessi
profili.
In primo luogo, questa opera di contestualizzazione storica è utile
per procedere ad una lettura più serena ed attuale della norma, specie
alla luce delle indicazioni sistematiche che ora giungono dall’odierno
quadro positivo che il nostro ordinamento prevede nel campo della tu-
tela degli interessi collettivi; e ciò con possibili ed interessanti ricadute
interpretative che possano ampliare il grado di effettività che il rimedio
ha da sempre posseduto.
In secondo luogo, l’acquisita consapevolezza circa la doverosa opera
di contestualizzazione or ora menzionata illumina più chiaramente le ra-
gioni di fondo che hanno contrapposto la dottrina sul piano delle scelte
tecniche.
560 CAPITOLO SETTIMO

Difatti, se ripensiamo alla numerosa serie di opzioni ricostruttive


proposte, notiamo distintamente, da un lato, gli infiniti punti di diverso
contemperamento ed armonizzazione tra la scelte tecnico-giuridiche e la
rilevanza assegnata in sede formale all’interesse collettivo e, dall’altro,
l’influenza che tali scelte di bilanciamento hanno operato – aumentan-
dola o riducendola – sull’autonomia del potere sindacale nei confronti
del datore di lavoro.
In altri termini, al maggior grado di incidenza che la dimensione col-
lettiva degli interessi tutelati ha spiegato sulle scelte di formalizzazione
tecnico-giuridica del rimedio, ha corrisposto in linea tendenziale la mag-
giore valorizzazione dell’indipendenza della posizione sindacale rispetto
a quella individuale.
Tale funzione ad andamento crescente è presto tracciata se si pren-
dono come estremi, da un lato, la tesi della «mera azione» a tutela
dell’«ordine pubblico sindacale» (in cui la latitudine dell’interesse tute-
lato è così ampia da svanire) e, dall’altro, il «diritto collettivo» del sinda-
cato (inteso come unico strumento di tutela in senso proprio delle libertà
sindacali nei luoghi di lavoro) e poi si completa questa direttrice ascen-
dente con le posizioni intermedie, rappresentate – in ordine di progres-
sione – dalla sostituzione processuale in senso tradizionale, dalla sostitu-
zione processuale in senso sattiano e dal diritto soggettivo del sindacato
inteso quale strumento perfettamente alternativo di repressione dello
stesso illecito sanzionabile in sede di giudizio individuale.
Per capirsi, basti rilevare come tutte le concezioni favorevoli ad una
lettura «processuale» del potere di azione del sindacato implicavano
come risultato tendenziale quello di coinvolgere il lavoratore pregiudi-
cato nell’accertamento dell’illecito o in via di estensione ultra partes degli
effetti della sentenza o addirittura in via di litisconsorzio necessario,
mentre le tesi volte a valorizzare la distinta dimensione e natura degli in-
teressi tutelati in sede di giudizio speciale presentavano come loro effetto
tipico quello di attribuire al sindacato un potere di reazione alle vessa-
zioni datoriali effettivamente svincolato da possibili interferenze deri-
vanti dai rapporti lavoratore-datore.
Detto questo in chiave di premessa, nei prossimi paragrafi la nostra
riflessione ricostruttiva percorrerà il seguente itinerario: a) in primo
luogo, determineremo i caratteri dell’illecito antisindacale verificandone i
rapporti con gli interessi dei singoli lavoratori e con i legittimati ex art. 28
S.L.; b) in secondo luogo, procederemo alla presentazione dell’inquadra-
mento teorico dell’azione collettiva che si ritiene preferibile, evidenzian-
done gli effetti di giudicato rispetto ai singoli lavoratori eventualmente
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 561

coinvolti nell’illecito; c) in terzo ed ultimo luogo, completeremo il quadro


interpretativo così ottenuto alla luce delle indicazioni sistematiche che
l’attuale stato del nostro ordinamento in materia di interessi collettivi in-
via all’interprete con riguardo all’interpretazione del rimedio in que-
stione.

5.2. Precisazioni sul concetto di illecito antisindacale plurioffensivo


5.2.1. Considerazioni introduttive.
Dopo il lungo esame della dottrina e della giurisprudenza appare
piuttosto chiaramente, come la questione di certo determinante per la
corretta ricostruzione dei rimedi individuali e collettivi da opporre alle
condotte antisindacali, sia la precisa determinazione dei limiti entro cui i
comportamenti del datore di lavoro possano essere oggetto di sindacato
giurisdizionale nei rispettivi giudizi.
Si è visto, difatti, che la natura individuale o collettiva degli interessi
tutelati in fin dei conti non appare veramente risolutiva a tal riguardo.
Quanto detto è stato in primo luogo evidenziato sotto un profilo gene-
rale da parte della dottrina, laddove – come visto – si è rimarcata la
scarsa persuasività della valorizzazione delle differenze ontologiche inter-
correnti tra interesse collettivo ed individuale; e ciò a fronte della neces-
sità di rinvenire un ambito di tutela più ampio o diverso in sede di giu-
dizio antisindacale rispetto a quello individuale126. Ulteriori conferme,
poi, sono giunte sia dalla lettura della giurisprudenza, ove appunto la di-
mensione collettiva dell’interesse si è tradotta sul piano formale nell’at-
tribuzione al sindacato di un diritto soggettivo tradizionale, sia dalle po-
sizioni dottrinali, che, pur sostenendo la natura collettiva degli interessi
tutelati dall’azione speciale, non hanno comunque esitato a rilevare si-
gnificativi fenomeni di interferenza tra il giudizio di repressione della
condotta antisindacale e i giudizi individuali127.
Se, quindi, il problema dei rapporti tra i due percorsi processuali
non si risolve solamente affermando la natura collettiva o individuale del-
l’interesse tutelato e se il bandolo della matassa va cercato nei limiti en-
tro cui è dato sindacare la legittimità degli atti e la giuridicità dei com-
126 V., per tutti, le puntuali osservazioni di LANFRANCHI, L., Situazioni giuridiche indivi-
duali a rilevanza collettiva ed attuazione della condanna alla reintegrazione del lavoratore, cit.,
p. 351 s. (per quanto attiene all’area delle tesi favorevoli al concorso delle azioni) e VACCA-
RELLA, R., Il procedimento di repressione della condotta antisindacale, cit., p. 118, nota 11 (per
ciò che invece attiene all’area del parallelismo).
127 Cfr. retro, § 2.1.3., la posizione di Proto Pisani e Romagnoli.
562 CAPITOLO SETTIMO

portamenti del datore nei rispettivi giudizi, allora la questione effettiva-


mente determinante per far chiarezza sui rapporti tra le due azioni è rap-
presentata in primo luogo dalla verifica dell’effettivo significato giuridico
che si suole attribuire al concetto di comportamento plurioffensivo.
Il punto appena indicato è estremamente importante e lo è non solo
in questo specifico ambito di studio. Ciò perché di plurioffensività dei
comportamenti antigiuridici si discorre frequentemente in materia di tu-
tela giurisdizionale degli interessi collettivi, ma non sempre dietro a que-
sta dizione – forse per la radice ontologicamente funzionale che la ca-
ratterizza – si nasconde adeguata chiarezza sul concetto che si vuole im-
piegare.
Occorre, quindi, precisare che il termine anzidetto può essere im-
piegato almeno in due diverse accezioni: talora si parla di comporta-
mento plurioffensivo allorché questo colpisce due distinti interessi nel
senso che – più precisamente – lede due valori giuridici diversi. Si pensi
al caso in cui un unico comportamento di un certo soggetto leda interessi
tanto patrimoniali quanto non patrimoniali di un’altra persona, in virtù
della possibile e duplice sussunzione di quello stesso comportamento in
due diverse fattispecie normative.
Diversamente possiamo parlare di comportamento plurioffensivo
quando uno stesso comportamento, alla luce di una sola fattispecie im-
positiva, si palesa lesivo degli interessi di due distinti soggetti. È il caso in
cui uno stesso illecito, ovvero un comportamento valutato come antigiu-
ridico da una certa norma, leda l’interesse di Caio oltre che di Sempro-
nio. In tal caso, un unico effetto giuridico, il dovere di comportamento X
è stato disatteso, così violando gli interessi che venivano soddisfatti dal-
l’osservanza di quello stesso comportamento. Si verifica, insomma, il
noto fenomeno di concorrenza di interessi compatibili rispetto ad unica
situazione favorevole128.
Ciò posto, se riteniamo che le note di antigiuridicità che colpiscono
il comportamento datorile in sede di giudizio individuale siano le mede-
sime di quelle rilevanti in sede di giudizio collettivo, abbiamo un com-
portamento plurioffensivo nella seconda accezione, che poi è quella con
cui è stata argomentata la lettura estensiva dell’art. 28 dello Statuto da
parte della prima dottrina processualistica intervenuta in materia129. Se,
invece, riteniamo che ciò che può essere oggetto di sindacato giurisdizio-
nale in sede di giudizio collettivo non lo può essere in sede di giudizio in-
128 Cfr. retro, cap. IV, §§ 5. e 6.
129 Per tutti, v. LANFRANCHI, L., Prospettive ricostruttive in tema di art. 28 dello Statuto
dei lavoratori, cit., p. 403 ss.
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 563

dividuale e viceversa, stiamo dicendo, che, a fronte di una coincidenza


meramente eventuale del comportamento materiale, abbiamo a che fare
con due distinti illeciti, ovvero con due diversi schemi legali di valuta-
zione della condotta. Ragionando in questo senso, opereremmo all’in-
terno della prima accezione indicata, che poi è quella che parte della dot-
trina ha sostenuto con riguardo al concorso tra azione collettiva e azione
individuale in ordine al tentativo di differenziare le fattispecie costitutive
dei due rimedi.
Ciò posto, occorre appunto verificare quale sia la scelta interpreta-
tiva corretta. Ma a tal proposito occorre avanzare una ulteriore osserva-
zione; anch’essa estremamente rilevante.
Come abbiamo visto, il dibattito dottrinale in materia ha in genere
privilegiato come banco di prova del coordinamento delle azioni com-
portamenti potenzialmente plurioffensivi corrispondenti – più precisa-
mente – ad atti giuridici, ovvero non a meri comportamenti a contenuto
materiale. Tipico – come visto – il caso del licenziamento antisindacale.
Ciò, da un lato, ha rappresentato una circostanza favorevole, perché
l’attenzione è stata subito focalizzata sulla fattispecie più complessa e fre-
quente, ma, dall’altro, ha anche compromesso la linearità del dibattito; e
ciò perché le difficoltà di inquadrare i limiti entro cui condurre il sinda-
cato giudiziale sull’esercizio del potere giuridico privato in questione
hanno oscurato la chiarezza dell’idee in materia130.
Al contrario, verosimilmente, se il dibattito dottrinale, anziché ver-
tere pressoché esclusivamente su fattispecie di questo genere, perdendosi
nei meandri dei rapporti tra cause di giustificazione del licenziamento e
motivazione antisindacale dello stesso, si fosse posto l’interrogativo di ve-
rificare se una certa condotta materiale intimidatoria, deterrente, più o
meno comparativamente svantaggiosa, posta in essere dal datore nei con-
fronti del lavoratore sia parimenti reprimibile tanto in sede di giudizio
collettivo quanto in sede di giudizio individuale, i punti di convergenza
tra le diverse letture sarebbero potuti essere più numerosi.
In altri termini, il concentrare l’attenzione sui comportamenti non
solo idonei a ledere la libertà e l’attività sindacale, ma addirittura idonei
ad incidere risolutivamente sul rapporto di lavoro ha reso ben più arduo
il corretto inquadramento del rimedio in questione, nonché correlativa-
mente l’esatto apprezzamento della duplicità di piani di interesse (patri-
moniale e non patrimoniale) su cui vanno a collocarsi le vicende inerenti
al rapporto di lavoro.
130 Quanto affermato nel testo rappresenta un dato facilmente rilevabile anche da una
pur superficiale lettura delle diverse tesi: cfr. retro, ad es., note 30, 33, 37, 96.
564 CAPITOLO SETTIMO

5.2.2. Ambiente di lavoro e persona


Se al contrario, in prima battuta, si sterilizza il più possibile il qua-
dro di riflessione dai profili contrattualistici e patrimonialistici, ecco che
il rapporto di lavoro si presenta anche come «ambiente esistenziale», in
cui il singolo – parafrasando gli artt. 1, 2, 3 e 4, della nostra Carta costi-
tuzionale – svolge e sviluppa la sua personalità nella partecipazione –
come lavoratore – all’organizzazione economica e sociale del Paese con-
correndo al progresso materiale e spirituale della società.
In questo «ambiente esistenziale» vengono appunto riconosciuti e
garantiti i diritti inviolabili dell’uomo (art. 2 Cost.) sotto ogni profilo. E
ciò trova conferma – se ce ne fosse bisogno – anche solo ad un rapido
sguardo alla più recente normativa antidiscriminatoria fortissimamente
orientata nel senso della promozione del principio personalistico che
informa il nostro ordinamento.
Per ciò che attiene al tema che ora interessa, di certo tale riconosci-
mento e garanzia riguarda, in generale, il diritto di manifestazione del
pensiero (art. 21 Cost.) e di associazione (art. 18 Cost.)131 e, più in parti-
colare, la libertà di associazione sindacale (art. 39 Cost.) e il diritto di
sciopero (art. 40 Cost.). Che questi diritti e libertà, poi, siano ad eserci-
zio collettivo e per questa ragione assumano una loro tipica rilevanza col-
lettiva132 – e ciò per la nota necessità di superare il conflitto intersogget-

131 Per la distinzione tra libertà di associazione e libertà sindacale, oltre ai riferimenti

presenti alla note che segue, v. in particolare PERSIANI, M., Saggio sull’autonomia privata col-
lettiva, Padova, 1972, p. 43 ss.; RUSCIANO, M., Libertà di associazione e libertà sindacale, in
Riv. it. dir. lav., 1985, I, p. 585 ss.
132 Sulla dimensione collettiva della libertà sindacale, v., in particolare, GIUGNI, G., Sub

art. 39, in Commentario alla Costituzione, Rapporti economici, I, a cura di G. Branca, Bo-
logna-Roma, 1979, p. 257 ss., che, peraltro, valorizzando il termine «organizzazione» presente
al primo comma dell’art. 39 Cost., giunge all’esito interpretativo secondo cui la titolarità di
tale posizione costituzionale spetterebbe al singolo nella fase preliminare e formativa del
corpo intermedio, ovvero nella fase costitutiva, di proselitismo, divenendo poi collettiva nel
momento successivo dell’attività sindacale. Più in generale, sull’argomento, v. PROSPERETTI,
U., Libertà sindacale (Premesse generali), in Enc. dir., XXIV, Milano, 1974, p. 494 ss.; ID., La
libertà sindacale, in Nuovo trattato di diritto del lavoro, diretto da L. Riva Sanseverino e
G. Mazzoni, I, Padova, 1971, p. 5 ss.; GIUGNI, G., Libertà sindacale, in Dig. disc. priv.,
sez. comm., IX, Torino, 1993, p. 17 ss.; BALDUCCI, C., Libertà: X) Libertà sindacale, in
Enc. giur. Trec., XIX, Roma, 1990. Sulla libertà sindacale, nella manualistica più recente,
v. CARINCI, F. - DE LUCA TAMAJO, R. - TOSI, P. - TREU, T., Diritto del lavoro, I, Il diritto sinda-
cale, Torino, 2006, p. 53 ss.; GALATINO, L., Diritto sindacale, Torino, 2006, p. 1 ss.; GIUGNI,
G., Diritto sindacale, Bari, 2006, p. 23 ss.; PERSIANI, M., Diritto sindacale, Padova, 2005, p.
19 ss.
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 565

tivo in ordine al raggiungimento degli scopi comuni133 – è questione


tanto indubbia quanto non decisiva ai fini che qui interessano.
Difatti, ciò sta unicamente a rimarcare il rapporto di interferenza e
interdipendenza reciproca, che, in questo settore dell’esperienza sociale,
in moto di perfetta e costante circolarità, si realizza tra interessi del sin-
golo ed interessi del gruppo; rapporto in cui il primo ha bisogno del se-
condo ed il secondo del primo134. Non esistono formule logiche convin-
centemente in grado di spezzare questa relazione inscindibile, fatta ecce-
zione per quella determinata a negarne uno; ma tanto annullando il
primo, quanto annullando il secondo, si approderebbe ad un risultato
contrario all’essenza pratica e giuridica del fenomeno.
Tutte queste osservazioni d’altronde – che a chi scrive sembrano ba-
nali per la loro ovvietà – assumono altro rilievo se impiegate in ordine al-
l’obiettivo di svelare e scardinare un’impostazione mentale che sovente in
questa materia ha contribuito a rendere poco chiari i rapporti tra l’inte-
resse del singolo e l’interesse sindacale alla repressione dell’illecito.
Ci riferiamo alla tendenza a vedere nell’azione ex art. 28 dello Sta-
tuto uno strumento di perseguimento degli interessi collettivi piuttosto
che uno strumento di tutela giurisdizionale degli stessi. Questa distin-
zione evoca un discorso già fatto e che ora non riprendiamo in chiave ge-
nerale135, ma solo al fine di rimarcare la dannosa confusione che ingenera
lo slittamento delle prospettive.
Semplificando, nell’ambito del conflitto tra lavoratori e datore è
dato distinguere due distinti ordini di interessi: quelli finali e quelli stru-
mentali.
133 Sulla complessa relazione di interessi che si viene ad instaurare tra interessi finali e
strumentali, v. retro, cap. IV, § 5.
134 Cfr. GHEZZI, G. - ROMAGNOLI, U., Il diritto sindacale, Bologna, 1997, p. 267; in giu-
risprudenza, v. Cass., 19 gennaio 2006, n. 945, in Guida dir., 2006, fasc. 18, p. 78.
135 Cfr. retro, cap. IV, § 6.3. e §. 7. All’interno della dottrina giuslavorista, v. in partico-
lare GHERA, E., Sub. art. 15, in Commentario dello statuto dei lavoratori, diretto da U. Pro-
speretti, II, Milano, 1975, p. 418, che distingue l’interesse dell’organizzazione dall’interesse
all’organizzazione sindacale, il quale «identifica il suo contenuto con la stessa libertà di agire
ai fini sindacali e, pertanto, equivale all’interesse strumentale all’azione, nel quale va ravvisato
il contenuto sostanziale delle posizioni soggettive, tanto individuali dei lavoratori che dei loro
sindacati, tutelate così dalle norme relative alla protezione della libertà sindacale, come delle
altre posizioni soggettive riconosciute dalle norme promozionali dell’attività sindacale». In
dottrina, si distingue anche tra interesse al conflitto e interesse nel conflitto, il primo, giuridi-
camente protetto e non avversabile se non illegittimamente dal datore, il secondo, invece, og-
getto stesso della contrapposizione tra parte imprenditoriale e sindacale, così, GAROFALO,
M.G., Repressione della condotta antisindacale, cit., p. 472; più di recente, GIUGNI, G., Diritto
sindacale, cit., p. 119. In giurisprudenza, v. in particolare Cass., 17 gennaio 1990, n. 207, in
Foro it., 1990, p. 2591.
566 CAPITOLO SETTIMO

Alla prima categoria – quella degli interessi finali – vanno ascritti


tutti quegli interessi lato sensu politici che hanno come situazione favo-
revole l’obiettivo che un gruppo di lavoratori si prefigge di raggiungere
nei confronti del datore di lavoro: aumento del salario, diminuzione del-
l’orario di lavoro, miglioramento generale delle condizioni lavorative,
ecc.
Alla seconda categoria appartengono, invece, gli interessi giuridici
che come situazione favorevole vedono tutti gli strumenti di cui i lavora-
tori si servono per avanzare le rivendicazioni sindacali.
Il soddisfacimento dei primi necessita – come è ovvio – dell’aggre-
gazione e dell’organizzazione delle diverse iniziative; come si suol dire,
della determinazione della volontà collettiva136. Il che, comporta, come in
ogni organizzazione, il coordinamento delle decisioni, per contrapporre
al datore non il singolo, ma l’organizzazione, il gruppo, ovvero un fronte
unitario e comune.
Il soddisfacimento dei secondi, invece, non necessita di quanto ora
affermato; e ciò poiché l’interesse è un interesse giuridico ed il soddi-
sfacimento degli interessi giuridici è l’ordinamento a garantirlo – in via
primaria – con l’imposizione di obblighi137. Su questo piano, il pro-
blema della rappresentatività, il problema del coordinamento delle ini-
ziative, o la subordinazione del singolo al gruppo per garantirne la soli-
dità e l’incidenza dell’azione, c’entrano poco o nulla138. L’unica cosa è ve-
rificare chi è il titolare dell’interesse tutelato, fatto questo, spetterà a tale
titolare o ai più titolari di esercitare l’azione allorquando, malaugurata-
mente, l’obbligato non abbia tenuto il comportamento che la legge gli
imponeva.
Purtroppo, la confusione tra le due prospettive ha afflitto terribil-
mente tutte le opinioni che non si sono orientate nell’ottica giurisdizio-
nale – che invece è dettata dalla natura strumentale degli interessi tutelati
– e che al contrario hanno impostato il problema nell’ottica lato sensu
politica degli interessi finali.
Così, appunto, la dottrina che ha maggiormente valorizzato la na-
tura collettiva dell’interesse tutelato dall’art. 28 si è mossa prevalente-
mente in questa prospettiva, rimarcando l’operazione di sintesi che si

136 Cfr. retro, cap. IV, § 6.2. s.


137 Cfr. retro, cap. IV, § 7.
138 Cfr. puntualmente TREU, T., Attività sindacale e interessi collettivi, cit., p. 574; ID.,

Condotta antisindacale del datore di lavoro e atti discriminatori, cit., p. 29-30, in riferimento
alla costituzionalità della legittimazione ad agire esclusiva.
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 567

realizza mediante il veicolo organizzatorio139, e la stessa Corte costituzio-


nale, che in più occasioni ha respinto la questione di incostituzionalità
della norma140, è giunta a questa soluzione proprio rilevando la «raziona-
lità» della scelta legislativa consistente nell’attribuzione del rimedio ivi
previsto «a soggetti collettivi particolarmente qualificati, individuati at-
traverso non un modello, ma una dimensione organizzativa (quella na-
zionale) assunta come indice e garanzia di un adeguato livello di rap-
presentatività: idonea, cioè a consentire la selezione, tra i tanti possi-
bili, dell’interesse collettivo rilevante da porre a base del conflitto con la
parte imprenditoriale […] con l’incisivo strumento processuale in que-
stione»141.
Ma, lo si ripete: qui non è un problema di selezione, perché questa è
già stata compiuta dal legislatore attribuendo a questi interessi il grado di
meritevolezza – particolarmente elevato – che spetta loro. Che poi il sin-

139 Che è appunto l’ottica del perseguimento (cfr. retro, cap. IV, §§ 6.3. e 7.), sulla quale
si apprezzano le dinamiche di uniformazione degli interessi all’interno del gruppo e non la
struttura dell’interesse collettivo. Questa prospettiva, peraltro, è stata seguita in dottrina fon-
damentalmente nello studio addietro esaminato di Garofalo, in cui l’ontologica differenzia-
zione dell’interesse collettivo rispetto all’interesse individuale è stata conseguita proprio ar-
gomentando sulla base del momento organizzatorio come veicolo di sintesi e luogo di supe-
ramento delle contrapposizioni tra diversi interessi individuali. D’altro canto, come già visto
nel capitolo IV di questo lavoro, in cui ci siamo soffermati sugli elementi lato sensu struttu-
rali dell’interesse, il concetto di interesse collettivo inteso come sintesi degli interessi indivi-
duali rappresenta l’esito di un’indagine fenomenologica che non attiene alla struttura dell’in-
teresse, ma alla determinazione delle condizioni che garantiscono il soddisfacimento dello
stesso; e ciò in ragione del fatto che sovente il realizzarsi della situazione favorevole dipende
da un comportamento umano coordinato e uniforme. Precisato, dunque, che il concetto di
sintesi degli interessi individuali non serve a determinare la struttura dell’interesse collettivo,
va poi aggiunto che, comunque, allorquando l’interesse in questione è costituito da un inte-
resse giuridicamente rilevante, la stessa opportunità di riflettere sui meccanismi di uniforma-
zione e coordinamento delle volontà non ha alcun senso per il fatto che gli interessi giuridici
sono soddisfatti dall’imposizione di un obbligo in capo ad un soggetto, sicché la prospettiva
del perseguimento dell’interesse non ha alcuno spazio di applicazione, in quanto nella situa-
zione favorevole non è incluso il comportamento del titolare dell’interesse giuridicamente ri-
levante. Per chiarimenti sui concetti ora esposti è d’obbligo – peraltro – il rinvio al cap. IV.
140 C. cost. 6 marzo 1974, n. 54, cit. Successivamente, v. C. cost. 24 maggio 1988, n.

334, in Foro it., 1988, I, p. 1774, con nota di R. Greco; in Giust. cost., 1988, I, p. 1414, con
nota di M. Dell’Olio; in Mass. giur. lav., 1988, p. 189, con nota di R. Pessi; in Giur. it., 1989,
I, 1, p. 1665, con nota di A. Giuliani; C. cost., 21 luglio 1988, n. 860, cit. Indirizzo nella so-
stanza confermato in C. cost., 17 marzo 1995, n. 89, in Foro it., 1995, I, p. 1735, con nota di
A. Cerri; in Mass. giur. lav., 1995, p. 143; in Dir. lav., 1995, II, p. 55; in Dir. e pratica lav.,
1995, p. 2483; in Not. giur. lav., 1995, p. 514; in Giur. cost., 1995, p. 775; in Orient. giur. lav.,
1995, p. 556; in Leg. pen., 1995, p. 429.
141 C. cost. 24 maggio 1988, n. 334, cit., (c.vo mio).
568 CAPITOLO SETTIMO

dacato, in ordine ai suoi obiettivi di tutela e agli equilibri aziendali operi


la sua valutazione di opportunità circa il servirsi o meno dell’azione che
gli è concessa, è cosa assolutamente normale ed appartiene alla libertà di
agire che a tutti spetta – in ogni caso e non solo in questa fattispecie – ai
sensi dell’art. 24 Cost., salvo le ipotesi eccezionali di azione propriamente
pubblica, ovvero ad esercizio doveroso.
Con ciò si vuole, insomma, negare una delle idee sempre vive e pre-
senti all’interno del dibattito in materia e che sovente ha contribuito ad
alimentare l’immagine di un interesse collettivo distinto e sovraordinato
rispetto agli interessi individuali, ovvero quella secondo cui il sindacato
debba porsi come necessario filtro tra il singolo e la tutela degli interessi
a contenuto sindacale. Su questo piano, invece, non si verifica quel feno-
meno di necessaria intermediazione che costituisce il risultato della sin-
tesi organizzativa e che è espressione delle dinamiche del conflitto indu-
striale, sicché l’interesse del singolo appare tutt’altro che necessariamente
assorbito nell’interesse collettivo da imputarsi al sindacato. Al contrario,
la rilevanza dell’interesse del singolo lavoratore alla repressione dell’ille-
cito antisindacale e la rilevanza dell’interesse dell’organizzazione sinda-
cale dipendono essenzialmente dall’apprezzamento operatone dal legisla-
tore alla luce dei principi costituzionali in materia. E sul piano ora trac-
ciato gli interessi strumentali poc’anzi menzionati, ovvero gli interessi
relativi ai beni giuridici richiamati dal primo comma dell’art. 28 sono
senz’altro riconosciuti con pari dignità tanto in capo ai singoli quanto in
capo all’associazione sindacale, in piena coerenza con il principio
dell’«interdipendenza strutturale» degli stessi.

5.2.3. L’unicità dell’illecito antisindacale


Ciò detto, ovvero ribadita la distinzione tra interessi sindacali finali
e strumentali e precisato il diverso rapporto intercorrente tra questi ed i
singoli lavoratori sotto il profilo della rilevanza dell’elemento organizza-
torio, è possibile tornare all’esame dell’illecito con particolare riferi-
mento ai comportamenti antisindacali a contenuto meramente materiale
che in maniera più o meno diretta rappresentino un ostacolo all’esercizio
della libertà sindacale del lavoratore.
Su questo piano, non distolti dalle intricate problematiche del sin-
dacato giudiziale sul potere di licenziamento, non pare dubbio che tali
comportamenti costituiscano lesione non solo del diritto di libertà sinda-
cale dell’organizzazione, ma anche del singolo lavoratore; e ciò alla luce
dei principi costituzionali poc’anzi citati, oltre che dell’art. 1 dello Sta-
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 569

tuto, secondo cui tutti i lavoratori hanno diritto, nei luoghi dove pre-
stano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero senza
distinzione di opinioni sindacali, e dell’art. 14, secondo cui tutti i lavora-
tori hanno il diritto di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e so-
prattutto di svolgere attività sindacale all’interno dei luoghi di lavoro. Ma
il valore precettivo di queste disposizioni è completato, da un lato, dal-
l’art. 15, il quale, peraltro è orientato più verso la disciplina degli effetti
degli atti giuridici discriminatori piuttosto che verso meri comporta-
menti, e, dall’altro, dallo stesso art. 28, il quale, se, per un verso, prende
contenuto dalle altre disposizioni che disciplinano la libertà e l’attività
sindacale che esso stesso inequivocabilmente richiama, per altro verso,
contribuisce in via mediata alla loro specificazione precettiva.
In dottrina si è spesso discusso sulla natura sostanziale o processuale
di questa disposizione e la disputa è apparsa solo un modo di vedere il di-
battito attorno alla posizione meramente processuale o anche sostanziale
da attribuire al sindacato. In realtà, però, il problema è stato in parte mal
posto, in quanto – messo da un lato il discorso sulla legittimazione ad
agire conferita agli organismi sindacali142 – tale divaricante lettura ha in
qualche modo presupposto un rapporto di coincidenza quantomeno ten-
denziale tra norma, intesa in senso stretto, e disposizione di legge143.

142 Va rigorosamente distinto – cosa che la dottrina ha in genere evitato di fare – il di-
scorso sulla natura sostanziale dell’art. 28 S.L. in ordine al farne derivare un diritto soggettivo
del sindacato e non un mero potere di azione dello stesso ed il discorso sul valore precettivo
della disposizione in riferimento alla sua portata specificativa – in senso teleologico – delle ge-
nerali previsioni di diritti di libertà o attività sindacale che ricorrono nello Statuto come al-
trove. Come detto anche in sede generale nel cap. V, § 2.3.2.3., infatti, il concetto di diritto di
libertà è fondamentale sul piano dei valori, ma terribilmente ostico sul piano tecnico-applica-
tivo, perché – appunto – la dimensione logica del concetto di libertà vale unicamente come
non-obbligo. Cosicché la domanda che occorre porsi a fronte di previsioni di tal fatta è cer-
care di comprendere quali siano i comportamenti esclusi dalla sfera del lecito in capo a sog-
getti terzi. In altri termini il discorso cade nuovamente sull’obbligo, ovvero specificamente sui
criteri di determinazione dello stesso. E su questo piano l’art. 28 è norma fondamentale non
solo dal punto di vista processuale riguardo alla determinazione dei legittimati, ma in riferi-
mento a tutti i diritti di libertà ed attività sindacale a qualunque soggetto appartenenti. Sia
questi individuale o collettivo. E ciò perché, come si dice nel testo, la disposizione in esame,
per la sua formulazione teleologica esclude dal lecito tutti i comportamenti del datore che si
oppongano all’esercizio di quelle attività strumentali al miglioramento delle condizioni di la-
voro.
143 La distinzione è come noto un punto fermo in sede di teoria generale, sebbene

troppo frequentemente non venga in maniera adeguata posta in risalto in sede applicativa e
interpretativa, ove la tendenza comune è quella di sovrapporre i concetti con conseguenze
dannose sul piano della corretta ricostruzione del diritto positivo. Per un’ampia e completa
570 CAPITOLO SETTIMO

In realtà, come è noto, i due concetti debbono essere rigorosamente


separati, in quanto la norma che l’ordinamento prevede, ovvero le con-
notazioni legali del comportamento doveroso, è frutto dell’interpreta-
zione, la quale – sovente – è costretta a riallacciarsi a due o più disposi-
zioni.
Nel caso in questione, il discorso è piuttosto evidente, in quanto la
tecnica di determinazione dei crismi di antigiuridicità del comporta-
mento datorile, ovvero di determinazione dei comportamenti esclusi
dalla sfera del lecito144, opera, da un lato, con il riconoscimento di diritti
di libertà ed attività sindacale a tutti i lavoratori e, dall’altro, proprio con
la specificazione teleologica della lesività dei «comportamenti diretti ad
impedire o a limitare l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale non-
ché del diritto di sciopero». In altri termini, l’art. 28 è di certo una norma
anche a carattere sostanziale, ovvero primaria145, nel senso che si coor-
dina – completandole – con le altre disposizioni di legge menzionate in
ordine alla determinazione della regola di comportamento imposta al da-
tore, in piena conformità al suo originario scopo di «precludere quelle
pratiche limitative dell’azione sindacale tanto più insidiose in quanto dif-
ficilmente definibili»146 ed abbracciando «tutte quelle ipotesi in cui –
come ha precisato la Corte costituzionale – la condotta del datore di la-
voro si estrinseca in una serie di atti e di comportamenti, anche oggetti-
vamente leciti, i quali, in relazione al fine, si profilano come diretti a li-
mitare, contrastare, impedire o perseguire, con i mezzi più disparati, l’e-
sercizio dei diritti sindacali del lavoratore»147.
Dalle considerazioni ora svolte deriva che la valutazione di antigiu-
ridicità del comportamento che la legge prevede deve essere condotta
alla luce dei medesimi criteri, tanto che l’illecito venga ad essere sottopo-
sto al sindacato giudiziale su domanda del singolo quanto su domanda
dell’organizzazione.

analisi dei diversi significati attribuiti al termine «norma», v. GUASTINI, R., Teoria e dogmatica
delle fonti, Milano, 1998, p. 21 ss.
144 Per chiarimenti sulla terminologia impiegata nel testo, v. retro, cap. V, spec. nota 99.
145 Di recente, correttamente, v. NAPPI, S., Il procedimento di repressione della condotta

antisindacale tra valori costituzionali e questioni processuali, in Dir. lav., 2004, p. 233 ss., spec.
p. 236 s.
146 Relazione al disegno di legge sull’art. 28 dello Statuto dei lavoratori del Ministro on.

Brodolini. Sull’indeterminatezza strutturale della regola di condotta prevista dall’art. 28, sia
in dottrina che in giurisprudenza vi è concordia assoluta; particolarmente incisiva sul punto è
comunque, Cass., S.U., 12 giugno 1997, n. 5295, in Foro it., 1997, I, p. 2416 ss.
147 C. cost., 13 febbraio 1974, n. 28, in Foro it., 1974, I, p. 997 ss., con nota di G. Pera.
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 571

E questa perfetta corrispondenza trova conferma, da un lato, nelle


più recenti disposizioni in materia antidiscriminatoria (sulle quali peral-
tro torneremo tra breve, oltre che – fondamentalmente – nel prossimo
capitolo) e, dall’altro, in quanto affermato nella prima sentenza della
Corte costituzionale, nella quale si puntualizzava che di per sé l’art. 28
dello Statuto «non modifica né restringe o limita in alcun modo le tutele
già assicurate dalle leggi e dallo Statuto dei lavoratori ai diritti dei lavo-
ratori, dei datori di lavoro e delle associazioni sindacali»148.
Se, poi, si prendono ad esame i comportamenti che assumono i ca-
ratteri dell’atto giuridico, il discorso non cambia, ma semmai trova ulte-
riori conferme.
In questo ambito, infatti, l’ordinamento offre una regolamentazione
dalla quale inequivocabilmente emerge la stretta connessione tra valori
giuridici eventualmente colpiti dall’atto giuridico discriminatorio e qua-
dro delle sanzioni apprestato. Infatti, l’art. 15 dello Statuto prevede la
nullità di qualunque atto o patto discriminatorio, l’art. 4 della legge 15
luglio 1966, n. 604, prevede la nullità del licenziamento determinato dal-
l’appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali
ed ancora l’art. 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, ribadisce tale san-
zione decretando l’irrilevanza, in ordine alla sua applicazione, dei requi-
siti dimensionali richiesti per la tutela reale.
Se ciò è vero, davanti all’interprete si aprono tre alternative: a) so-
stenere che questi articoli non abbiano alcuna incidenza effettivamente
normativa per ciò che attiene a rapporti tra singolo e datore; b) sostenere
che pur tutelando la libertà sindacale del singolo soggetto eventualmente
discriminato disciplinano comunque un illecito diverso da quello che è
previsto dall’art. 28; c) sostenere che l’ambito di precettività di tale qua-
dro normativo si armonizzi con ciò che dispone l’art. 28 in termini di
specificazione del trattamento della condotta antisindacale allorché que-
sta assuma le vesti dell’atto giuridico.
La prima lettura, sebbene autorevolmente sostenuta, priva di valore
precettivo tali previsioni per ricondurre lo stesso a vantaggio esclusivo
del sindacato149. Ma questa opzione interpretativa: si pone in contrasto
con i principi costituzionali e con il tenore letterale e assiologico che

148 C. cost., 6 marzo 1974, n. 54, cit., la cui affermazione, riportata nel testo, sarebbe
priva di significato concreto, se si ritenesse, come parte della dottrina ha ritenuto fosse cor-
retto fare, che il controllo di antisindacalità del comportamento datorile potesse essere svolto
solo su domanda del sindacato e non del lavoratore colpito dalla condotta.
149 Cfr. l’articolata ricostruzione di Vaccarella, riportata retro, § 3.2.
572 CAPITOLO SETTIMO

emerge chiaramente dal sistema di tutele ora visto150; non presenta un


appiglio esegetico sufficiente a giustificarla151; ed in ultimo avrebbe l’ef-
fetto di imporre all’interprete la medesima operazione riduttiva anche
con riguardo agli altri strumenti di tutela antidiscriminatoria all’interno
dei quali la discriminazione per ragioni sindacali va comunque ricon-
dotta152.

150 In questo senso, v. PROTO PISANI, A., La partecipazione delle associazioni sindacali al

processo, cit., p. 563; VIGORITI, V., Interessi collettivi e processo, cit., p. 160, n. 18; SILVESTRI, E.
- TARUFFO, M., Condotta antisindacale, cit., p. 12.
151 L’art. 28 S.L. di per sé è muto sul punto e semmai rinvia alle norme che lo prece-

dono, tra cui figurano appunto le disposizioni esaminate nel testo. In realtà, VACCARELLA, R.,
Il procedimento di repressione della condotta antisindacale, p. 77 ss., individua nell’art. 38
dello Statuto un chiaro segnale di conferma di quanto sostenuto, visto che questa norma pre-
vede una sanzione penale in caso di violazione del disposto dell’art. 15 unicamente per quel
che riguarda la lettera a), lasciando alla tutela garantita dal diritto comune la violazione della
lettera b). In altri termini questa diversità di trattamento confermerebbe la volontà del legi-
slatore di ricondurre alla tutela offerta dalle norme di diritto comune che regolano i poteri
imprenditoriali all’interno del rapporto di lavoro la violazione dell’art. 15, comma 1, lett. b),
senza offrire alcun surplus di tutela al lavoratore discriminato. Un’analisi attenta della natura
degli atti previsti alla lettera a), d’altronde, indica una via interpretativa preferibile; difatti, la
disposizione in esame alla lettera a) dichiara la nullità dei patti o degli atti diretti a subordi-
nare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad un’asso-
ciazione sindacale ovvero cessi di farne parte, mentre alla lettera b) si riferisce agli atti diretti
a licenziarlo, a discriminarlo nelle qualifiche o mansioni, nei trasferimenti ecc. L’art. 38 dello
Statuto appresta una sanzione penale unicamente per la lettera a), poiché, mentre gli atti alla
lettera b), in quanto atti inerenti al rapporto, ricevono una congrua sanzione, unicamente con
la dichiarazione di nullità, vale a dire con il determinare la loro inefficacia giuridica; gli atti
previsti alla lettera a), al contrario, operando spesso ancor prima che il rapporto si costituisca
o inibendo la costituzione stessa del rapporto, potrebbero risultare del tutto esenti da san-
zione qualora il legislatore non avesse previsto una misura idonea ad operare in via preven-
tiva e deterrente e non meramente caducatoria rispetto a quei comportamenti del datore pro-
dromici alla costituzione del rapporto. In altri termini la differente sanzione non trova fon-
damento sulla diversa rilevanza degli interessi tutelati o nella volontà di offrire una tutela
differenziata, ma è giustificata da una scelta di natura efficientistica, nel senso di una scelta
condizionata dall’idoneità del mezzo (sanzione) al raggiungimento del fine in ordine alle cir-
costanze del caso.
152 Difatti, come vedremo nel prossimo capitolo, il fronte individuale di tutela antidi-

scriminatoria, se, da un lato, prevede per i diversi fattori di rischio separate definizioni di di-
scriminazione diretta ed indiretta, dall’altro, per ciò che riguarda la discriminazione che si
estrinseca in atti giuridici come i licenziamenti, trasferimenti, ecc., confluisce tutto in ciò che
dispone l’art. 15 dello Statuto, predisponendo la nullità degli atti e dei patti discriminatori. Se
quindi tale previsione non avesse alcun valore nel giudizio individuale in ordine ad estendere
il sindacato del giudice sul corretto esercizio dei poteri dell’imprenditore, ciò non solo prive-
rebbe di senso l’azione individuale in materia di discriminazione per ragioni sindacali, ma an-
che i rimedi specificamente apprestati per qualsiasi altra discriminazione subita all’interno del
rapporto di lavoro. Il che, allo stato attuale della legislazione in materia, è di certo escluso.
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 573

La seconda lettura, in realtà, non è molto diversa dalla prima, poi-


ché, da un lato, non trova – come l’altra – un adeguato appiglio esegetico
e, dall’altro, paventa un ambito di applicazione del procedimento per la
repressione della condotta antisindacale, che, nell’esser diverso da quello
proprio del giudizio individuale, o offre una tutela più ampia e pene-
trante o richiede requisiti specifici che ne ristringono l’ambito di operati-
vità. Nel primo caso, ci troveremmo di nuovo nella stessa situazione pre-
vista dalla opzione ricostruttiva poc’anzi scartata, mentre, nel secondo
caso, l’effettività del rimedio collettivo verrebbe sicuramente pregiu-
dicata153.
Va quindi ritenuto che «la fattispecie di discriminazione sindacale di
cui all’art. 15 “coincide puntualmente”154 con quella prevista nell’art. 28»
e «tale coincidenza, poi, non riguarda soltanto i mezzi ed i modi delle
153 In questa linea potrebbe essere ricondotta la lettura avanzata da DELL’OLIO, M.,

L’art. 28 della legge 20 maggio 1970, n. 300: profili processuali, cit., p. 184, secondo cui «i li-
cenziamenti […] solitamente detti antisindacali […] possono bensì essere nulli, ma non sono,
per ciò solo, comportamenti antisindacali». Lo sarebbero, invece, «se diretti, e idonei, ad im-
pedire o limitare, anche con il c.d. effetto intimidatorio deterrente, purché riscontrabile o ra-
gionevolmente presumibile in concreto, la libertà e più sensibilmente l’attività sindacale,
guardate nella loro dimensione collettiva e non dal punto di vista del soggetto, bensì se mai
del ruolo in esse svolto da quest’ultimo». Ma anche riguardo questo argomento, è dato avan-
zare due osservazioni. In primo luogo questa autorevole opinione assume il tenore letterale
della prima parte del primo comma dell’art. 28 in senso restrittivo. L’antisindacalità sarebbe
una nota di antigiuridicità ulteriore e superiore rispetto alla nullità. Così operando, peraltro,
si altererebbe profondamente il profilo teleologico della norma, che appunto è tesa – come
già detto e come unanimemente riconosciuto – a richiamare a sé il maggior numero di fatti-
specie lesive e non a ridurle. L’art. 28 diverrebbe non più una norma generale entro cui ri-
condurre tutte le fattispecie lesive – in diversa maniera e per diverse vie – dei beni giudici ivi
tutelati, ma diverrebbe norma speciale rispetto alle altre, da leggersi appunto alla luce del-
l’effetto pregiudizievole a portata diffusa ora indicato. In realtà, peraltro, è evidentemente
l’art. 15 ad essere la norma speciale, visto che detta disposizione è appunto volta a discipli-
nare essenzialmente il regime di inefficacia giuridica degli atti (giuridici) discriminatori. In se-
condo luogo, se va ritenuta sussistente – riguardo ai diritti di libertà sindacale – l’interdipen-
denza reciproca tra profili individuali e profili collettivi, allora pare di tutta evidenza che un
licenziamento nullo per ragioni sindacali abbia anche quell’effetto deterrente e plurioffensivo
«riscontrabile o ragionevolmente presumibile in concreto» che questa dottrina richiede. Que-
stione, l’ultima indicata, che peraltro sembra emergere dalla stessa opinione della autorevole
dottrina qui richiamata (p. 190 s.), allorché si osserva che il licenziamento «anche quando
[…] è, in senso lato, antisindacale, e perfino se consiste nella rappresaglia o nell’intento di
impedire l’attività sindacale del soggetto colpito e di dissuadere gli altri, o di “disarticolare”
l’organizzazione sindacale in azienda, non è esso come tale ma l’effetto, attuale o addirittura
potenziale, del comportamento sull’esercizio della libertà o attività sindacale o del diritto di
sciopero, di per sé, a fondare l’azione ex art. 28». In altri termini, non è la discriminazione del
singolo in sé, quanto gli effetti che essa comporta su un piano più generale.
154 Il riferimento è a TREU, T., Attività sindacale e interessi collettivi, cit., p. 574.
574 CAPITOLO SETTIMO

violazioni dei divieti di discriminazione sindacale e di comportamento


antisindacale, ma anche l’accertamento delle violazioni stesse»155.
Quanto detto sta a significare, con riguardo – ad esempio – al licen-
ziamento antisindacale, che, indipendentemente dall’esatta configurazione
tecnica del rapporto che si voglia instaurare tra il motivo antisindacale e le
cause che legittimano il licenziamento, tale rapporto, ovvero il limite di
sindacabilità dell’atto di esercizio del potere, non può subire variazioni a
seconda che tale atto sia impugnato in sede individuale piuttosto che col-
lettiva. E ciò con due rilevanti conseguenze: la prima è che l’illegittimità
di tali atti, anche all’interno del giudizio ex art. 28, come appunto esatta-
mente affermato da parte della giurisprudenza156, si pone in termini di
nullità del provvedimento; la seconda, invece, è che, sia in sede indivi-
duale, sia in sede collettiva, come autorevolmente indicato, «il controllo
sul potere dell’imprenditore può estendersi al suo esercizio discrezionale
fino al punto di inibirgli un uso differenziato di provvedimenti astratta-
mente legittimi; laddove la disparità di trattamento non assume rilievo in
sé, ma può diventare, a seconda delle circostanze del caso, la prova più
chiara del carattere antisindacale del provvedimento»157.

155 CIPRESSI, P., I comportamenti antisindacali del datore di lavoro, cit., p. 98 e poi p. 112
ss., in cui si parla appunto di «coincidenza della fattispecie di discriminazione sindacale di cui
all’art. 15 con quella prevista nell’art. 28», precisando opportunamente che «nelle violazioni
delle disposizioni contenute nell’art. 15 l’antisindacalità del comportamento del datore di la-
voro sia in re ipsa e, pertanto, che l’applicabilità della procedura dell’art. 28 ne costituisca una
necessaria conseguenza».
156 Ci riferiamo specialmente a Cass., S.U., 17 febbraio 1992, n. 1916, ed alle altre pro-

nunce richiamate retro, nota 115. Piuttosto paradossali sono gli esiti a cui si giunge allor-
quando si neghino le evidenti interrelazioni sistematiche presenti nel generale quadro delle
tutele in materia. Ci riferiamo a T. Busto Arsizio, 12 aprile 2006, in Riv. crit. dir. lav., 2006, p.
766, decisione nella quale, a fronte di un licenziamento collettivo, viene ad essere dichiarata
l’antisindacalità del comportamento, interrogandosi successivamente sull’eventualità – negata
– di ordinare «la revoca dei licenziamenti e la riammissione dei dipendenti nel posto di la-
voro». La miopia sistematica di detta interpretazione fa sì che della qualificazione normativa
dell’antisindacalità si faccia un’aggettivazione generica con cui colorare l’atto illegittimo,
senza rendersi conto che la disciplina specifica del comportamento antisindacale allorquando
questo prende le forme dell’atto giuridico è appositamente disciplinata dal legislatore proprio
in ordine alla tutela dei valori costituzionali rilevanti in sede di giudizio ex art. 28.
157 Così, TREU, T., Condotta antisindacale del datore di lavoro e atti discriminatori, cit.,

p. 41; ID., Atti e trattamenti discriminatori, in Enc. giur. Trec., III, Roma, 1988, p. 6, secondo
cui occorrerà, dunque, ampliare l’ambito di indagine dal riferimento al caso di specie «che
preclude spesso l’accertamento del fenomeno, non permettendo di cogliere il parametro di ri-
ferimento normale di comportamento rispetto al quale verificare gli eventuali trattamenti di-
scriminatori». Nello stesso senso VALLEBONA, A., L’onere della prova nel diritto del lavoro, Pa-
dova, 1988, p. 137 ss., che precisa ulteriormente che la dimostrazione del motivo antisinda-
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 575

In conclusione il quadro delle tutele individuali e collettive in mate-


ria di libertà, attività sindacale e diritto di sciopero, delinea un generale
ed unico illecito (di antisindacalità appunto) idoneo a ledere due inte-
ressi perfettamente autonomi: ovvero, da un lato, il singolo lavoratore e,
dall’altro, l’organizzazione sindacale158.

5.3. L’oggetto del giudizio collettivo e la natura dell’azione sindacale


Alla luce di quanto osservato sino ad ora e delle considerazioni
svolte nei capitoli dedicati alla trattazione dei profili generali della mate-
ria, il discorso sull’oggetto del giudizio di repressione della condotta an-
tisindacale appare piuttosto agevole.
Difatti, si è già visto che il giudizio collettivo può avere ad oggetto,
a seconda dei casi, il sindacato sull’esercizio dei poteri del datore o sul
comportamento che questi ha assunto.
Nel primo caso il giudicato scenderà sull’antisindacalità-illegittimità
dell’atto, ovvero, più precisamente, sulla nullità dello stesso159, nonché
sugli obblighi reintegratori che da questo eventualmente discendono.
Nel caso del licenziamento – per esemplificare – l’accertamento autorita-
tivo investirà tanto la nullità dell’atto, quanto l’obbligo di reintegrazione
del lavoratore nel posto di lavoro.

cale «è immediatamente rilevante quando si tratta di un atto datoriale per il quale non sia im-
posta una giustificazione, come ad esempio nel caso del licenziamento nella residua area di
applicabilità dell’art. 2118 cod. civ. […] altrimenti diviene rilevante solo dopo che il datore
abbia dimostrato la sussistenza formale della necessaria giustificazione, come ad esempio nel
caso di una serie fraudolenta di assunzioni a termine ciascuna in sé legittima».
158 Dalle considerazioni svolte nel testo deriva la fondamentale importanza di tenere di-

stinte le condotte meramente materiali da quelle corrispondenti nell’esercizio di poteri giuri-


dici dell’imprenditore.
159 Sull’accertabilità ex art. 2909 c.c. della questione, v. RICCI, E.F., Sull’accertamento

delle nullità e della simulazione dei contratti come situazioni preliminari, in Riv. dir. proc.,
1994, p. 652 ss. Per quanto riguarda questa ipotesi, ovvero quella del comportamento anti-
sindacale corrispondente ad un atto giuridico idoneo ad incidere sul rapporto di lavoro può
ben accadere, sebbene la dottrina vi abbia dato poca attenzione in questa sede, che la cadu-
cazione dello stesso in sede di giudizio collettivo o individuale rimettano in discussione anche
la posizione di altri lavoratori. È ad esempio il caso dell’atto discriminatorio con il quale il da-
tore opera una diversificazione di trattamento tra due o più lavoratori. In tale ipotesi – ap-
punto – l’azione di nullità e la domanda di reintegrazione possono condurre a fenomeni di li-
tisconsorzio necessario. Le conseguenze di fattispecie verranno esaminate nel prossimo capi-
tolo, in particolare al § 3.3.5.2. Si pensi comunque, all’ipotesi dei trattamenti economici
collettivi che prevede l’art. 16 dello Statuto: cfr. Cass., 11 marzo 2005, n. 5343, in Guida lav.,
2005, fasc. 23, p. 32; App. Milano, 25 gennaio 2002, in Riv. crit. dir. lav., 2002, p. 337; T. Mi-
lano, 10 luglio 2000, in Riv. crit. dir. lav., 2000, p. 928.
576 CAPITOLO SETTIMO

Nel secondo caso, l’accertamento idoneo al giudicato – stando a


quanto già detto nel capitolo che precede – avrà ad oggetto l’illecito, ov-
vero l’antisindacalità della condotta (cioè l’antigiuridicità del comporta-
mento che disattendendo quanto imposto dalla norma si sarà dimostrato
lesivo e ostativo della libertà e dell’attività sindacale) e, oltre a questo, l’ob-
bligo di astenersi dal comportamento antisindacale già posto in essere160,

160 La persistente instabilità dogmatica riguardo al rimedio inibitorio (cfr. retro, cap.

VI, § 5.2.2.) ha determinato in giurisprudenza il sorgere di diverse problematiche ricostrut-


tive in riferimento alla natura delle tutele concedibili nel giudizio di repressione della con-
dotta antisindacale. In primo luogo si è discusso sulla possibilità di procedere al mero accer-
tamento della condotta antisindacale, specie allorquando siano cessati gli effetti della con-
dotta antigiuridica. Per la soluzione positiva, v. di recente, v. T. Milano, 16 maggio 2005, in
Riv. crit. dir. lav., 2005, p. 395; Cass., 3 aprile 2003, n. 6723, in Riv. crit. dir. lav., 2003, p. 622;
T. Roma, 18 luglio 2002, in Riv. giur. lav., 2003, p. 151 ss., con ampia nota di FEDERICI, A.,
L’interesse ad agire del sindacato e l’ammissibilità delle sentenze dichiarative nell’art. 28 Statuto
dei lavoratori. Cfr. anche Cass., 6 giugno 2005, n. 11741, cit. Per la soluzione negativa, v., in-
vece, Cass., 29 novembre 1983, n. 7181, in Giust. civ., 1984, I, 1138; in Giur. it., 1985, I, 1, p.
87 ss.; in Riv. it. dir. lav., 1984, II, p. 646 ss.; Cass., 19 agosto 1987, n. 6946, in Rep. Foro it.,
1987, voce Sindacati, n. 95; Cass., 2 giugno 1998, n. 5422, in Giust. civ., 1999, I, p. 512. Inol-
tre, nonostante la dottrina abbia da tempo evidenziato la differenza strutturale e funzionale
tra ordine inibitorio e condanna in futuro, la giurisprudenza anche recente ha negato la pos-
sibilità di emanare l’ordine di astenersi in futuro dai comportamenti antigiuridici accertati.
Cfr., in questo senso, T. Milano, 9 marzo 2006, in Riv. crit. dir. lav., 2006, p. 420 ss., con nota
critica di CORDEDDA, G., La repressione della condotta antisindacale al bivio fra dichiarazione
formale e tutela effettiva, decisione nella quale appunto, il giudice, a fronte dell’inadempi-
mento degli obblighi informativi da parte del datore, non ha accolto la domanda sindacale,
né sotto il profilo della condanna al risarcimento del danno per la lesione dell’immagine del
sindacato, né in riferimento alla condanna del datore all’osservanza per il futuro del dovere
di informazione. Tra le altre, v. Cass., 9 febbraio 1991, n. 1364, in Mass. giur. lav., 1991, p.
207; Cass., 18 gennaio 1984, n. 441, in Giust. civ., 1984, I, p. 2721; T. Genova, 19 ottobre
1983, in Riv. giur. lav., 1984, II, p. 161. Cfr. anche Cass., 2 settembre 1996, n. 8032, in Mass.
giur. lav., 1996, p. 521. Sebbene le due questioni or ora indicate meritino riflessioni di una
certa ampiezza, alla luce delle considerazioni già svolte (cfr. ancora retro, cap. VI, § 5.2.2.) è
comunque possibile indicare la linea interpretativa che si ritiene più corretta. In primo luogo
va detto che le due questioni ora indicate, non sono null’altro che le due faccie della stessa
medaglia e questa è rappresentata dalla difficoltà di inquadramento del rimedio inibitorio al-
l’interno delle categorie tradizionali della tutela giurisdizionale di cognizione. In breve i punti
che devono essere tenuti fermi sono i seguenti: a) la qualificazione di un certo rimedio giuri-
sdizionale deve essere operata alla luce di criteri funzionali, ma soprattutto strutturali; b) nel
rimedio inibitorio gli elementi strutturali sono costituiti essenzialmente dalla natura negativa
e continuativa dell’obbligo accertato e dal rafforzamento del vincolo che si realizza con l’im-
posizione di misure sanzionatorie delle sue ulteriori e future violazioni. Alla luce di tali pre-
messe, l’ineseguibilità dell’ordine inibitorio dovrebbe privare di significato l’interrogativo
circa l’ammissibilità della tutela di mero accertamento o della tutela di condanna in futuro nel
procedimento in esame; e ciò poiché le problematiche che solleva tale duplice possibilità non
dovrebbero aver ragion di esistere in riferimento all’inibitoria. L’unica cosa che veramente
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 577

nonché gli eventuali obblighi a carattere reintegratorio che il giudice ri-


terrà opportuno imporre al datore161.

conta dovrebbe, infatti, essere la determinazione delle condizioni di ammissibilità del rime-
dio. Ragionando in questi termini, l’attenzione cade – quindi – sul primo comma dell’art. 28
laddove è espressamente menzionato l’ordine di «cessazione» della condotta antisindacale
posta in essere; previsione, quest’ultima che solleva l’interrogativo se la domanda inibitoria
possa essere proposta anche al ricorrere di un comportamento antigiuridico oramai cessato.
È questa insomma la tipologia di fattispecie sostanziali concrete che hanno dato luogo alla di-
sputa in questione, facendo ritenere che si possa accertare l’obbligo violato, ma senza ordine
di astenersene per il futuro, o al contrario che ciò sia possibile anche dopo la cessazione della
condotta. Questo modo di ragionare non sembra però corretto, poiché in realtà, posto che
l’efficacia del provvedimento non dipende di certo dall’esistenza o meno di formule impera-
tive condannatorie nel dispositivo giudiziale (cfr. retro, cap. VI, nota 68), il quesito unico e
fondamentale consiste – lo si ripete – nel determinare se in tali ipotesi sia ammissibile la tu-
tela inibitoria. E la risposta più plausibile a detto interrogativo sembra dover essere quella po-
sitiva. Difatti, il tenore costituzionale e non patrimoniale degli interessi tutelati, nonché la na-
tura negativa degli obblighi sostanziali in questione, che non sono suscettibili di esecuzione in
via diretta, impongono una tutela preventiva, che, al ricorrere di una violazione già concreta-
tasi, impedisca in futuro il ripetersi dell’illecito. Sicché, in conclusione, anche a fronte di con-
dotte antisindacali non più attualmente sussistenti, sarà ben ammissibile il ricorso alla tutela
speciale inibitoria, la quale condurrà all’accertamento dell’attuale esistenza dell’obbligo so-
stanziale violato e con conseguente applicazione delle misure sanzionatorie previste allorché
l’imprenditore incorra in un altro comportamento contrario alla prescrizione normativa
(senza che ciò – peraltro – dia la possibilità, come già visto, di parlare di condanna in futuro).
Sul punto, per tutti, v. VACCARELLA, R., Il procedimento di repressione della condotta antisin-
dacale, cit., p. 169 ss. Ugualmente favorevoli sono ROMAGNOLI, U., Aspetti processuali dell’art.
28 dello statuto dei lavoratori, cit., p. 1319 s.; SCOGNAMIGLIO, R., Considerazioni sull’art. 28
dello statuto dei lavoratori, cit., p. 178. Per la tesi contraria, v. GARBAGNATI, E., Profili proces-
suali del licenziamento per motivi antisindacali, cit., p. 628 s.; PERA, G., Art. 28 (Repressione
della condotta antisindacale), cit., p. 348 s.; PUNZI, C., Repressione della condotta antisindacale,
cit., p. 994. Cfr. anche PROTO PISANI, A., Il procedimento di repressione della attività antisin-
dacale, cit., p. 51 ss., per il quale l’applicabilità della sanzione penale in ordine ai comporta-
menti futuri del datore sarebbe possibile solo allorché il dispositivo tenga in sé la precisa de-
scrizione del comportamento doveroso. Ma dello stesso A. v. anche il successivo lavoro ID.,
Appunti sulla tutela di condanna, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1978, p. 1104 ss., ora in Le tutele
giurisdizionali dei diritti, Napoli, 2003, p. 75 ss., in cui detta opzione ricostruttiva sembre-
rebbe essere superata; indipendentemente da ciò, comunque, decisive appaiono le repliche di
SASSANI, B., Impugnativa dell’atto e disciplina del rapporto, cit., p. 204 ss., spec. nota 53 e 58,
che appunto evidenzia la necessaria integrazione – specie in queste ipotesi – del dispositivo
alla luce della motivazione. Dubitativamente, CHIARLONI, S., Misure coercitive e tutela dei di-
ritti, Milano, 1980, p. 207. Più in generale, in polemica con gli orientamenti che ritengono
ammissibile solo il mero accertamento piuttosto che l’inibitoria allorché il comportamento
antigiuridico sia cessato e la sua ripetizione appaia solo probabile, v. anche le osservazioni di
SPOLIDORO, M.S., Le misure di prevenzione nel diritto industriale, Milano, 1982, p. 46 ss.
161 Sulla possibilità di condannare il datore all’adempimento di obblighi a contenuto

patrominiale, quali ad es. il pagamento delle retribuzioni illegittimamente trattenute o il ri-


sarcimento del danno arrecato, v. infra, § 5.6.
578 CAPITOLO SETTIMO

Non va ovviamente dato credito all’affermazione (che spesso ri-


corre, sebbene fondamentalmente in senso atecnico), volta a configurare
quale oggetto del giudizio l’interesse collettivo del sindacato. E ciò non
tanto per la natura dell’interesse – individuale o collettiva che sia – ma
perché l’interesse non è mai oggetto di accertamento nel senso previsto
dall’art. 2909 c.c., in quanto è concetto privo di rilevanza propriamente
strutturale.
Nemmeno occorre ricondurre il procedimento alla giurisdizione sui
fatti; e ciò poiché, sebbene, come appena detto, l’accertamento abbia ad
oggetto anche l’illecito, il giudizio è comunque volto in via primaria alla
tutela di diritti soggettivi e all’accertamento di effetti giuridici.
Venendo, quindi, alla posizione del sindacato, o, più precisamente,
degli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali, la loro posi-
zione è di certo una posizione di diritto soggettivo. Intesa, peraltro, nel
senso chiarito addietro. Ovvero come interesse protetto mediante l’im-
posizione di un obbligo e con la contestuale attribuzione di un potere di
azione al titolare dell’interesse stesso.
Posta la questione in tali termini, il discorso sull’autonomia mag-
giore o minore della posizione del sindacato rispetto al singolo, o sulla
natura sostanziale o processuale della norma, perde in gran parte di ri-
lievo.
Dal nostro punto di vista, infatti, non c’è ragione di distinguere tra
diritto soggettivo, sostituzione processuale, mera azione, legittimazione
sui generis e quant’altro162. E comunque, al di là delle specifiche formule
definitorie adottate, probabilmente la nostra lettura parrebbe nella so-
stanza vicina alla nota posizione dottrinale – addietro esaminata – che in
questo campo di studio ha richiamato la figura della sostituzione proces-
suale in senso sattiano; e ciò perché, nonostante le apparenze, la nostra
concezione del diritto soggettivo presenta sensibili affinità con la pro-
spettiva sattiana del diritto soggettivo e quindi anche con la connessa no-
zione di sostituzione processuale163.

162 Cfr. retro, cap. VI, § 4., nota 17.


163 La ragione di quanto si afferma nel testo è determinata dal fatto che, senza ripetere
cose già dette, a nostro parere il concetto di diritto soggettivo si apprezza solo guardando al
fenomeno dinamico che viene a realizzarsi tra momento sostanziale e momento processuale
del diritto, sicché, fintanto che l’oggetto del giudizio è dato da effetti giuridici che conten-
gono una regola di condotta sul piano materiale dei comportamenti umani, qualsiasi legitti-
mazione a dedurre in giudizio tale effetto è prevista per la tutela dell’interesse sostanziale pro-
tetto con l’imposizione dell’obbligo e giammai per la tutela di un interesse che si consuma sul
piano meramente processuale.
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 579

Assistiamo, quindi, anche in questo ambito, al noto fenomeno in cui


l’imposizione di un unico obbligo è volta a tutela di più interessi compa-
tibili concorrenti164, che in questo caso, ovvero più precisamente al ricor-
rere di condotte plurioffensive, sono rappresentati dall’interesse del lavo-
ratore, da un lato, e dall’interesse dell’organizzazione sindacale dall’altro.
Seguendo questa strada, poi, si avvia a soluzione anche il problema
– non propriamente tecnico-giuridico – del riconoscimento al sindacato
di una posizione giuridica di piena autonomia rispetto a quella del lavo-
ratore. Il concetto tecnico-giuridico di diritto soggettivo impiegato in
questo lavoro, infatti, da un lato, priva di fondamento un eventuale rico-
struzione ispirata alla «processualizzazione» dell’interesse sindacale e,
dall’altro, conferisce autonomia a detto interesse senza dover operare
quella diversificazione della fattispecie costitutiva dell’azione sindacale
rispetto a quella individuale, che talora ha costituito lo strumento per
dare sostanza giuridica autonoma ad un diritto soggettivo proprio del
sindacato.

5.4. Gli effetti del giudicato emesso in sede collettiva


Alla luce di quanto sino ad ora osservato, anche il concorso tra
azione speciale ex art. 28 S.L. ed azioni individuali dei singoli lavoratori,
va risolta con il regime di giudicato secundum eventum litis, che risulta
essere la soluzione che il nostro ordinamento prevede in via generale
ogni qual volta un unico effetto sia posto a tutela di distinti interessi nor-
mativamente rilevanti: non, quindi, l’estensione ultra partes o il concorso
soggettivo di azioni e nemmeno il regime di litisconsorzio necessario, il
quale – come detto – in presenza di più legittimazioni a dedurre in giu-
dizio un singolo effetto giuridico, è regime speciale che si giustifica con
la necessità – imposta per legge o in virtù di eventuali esigenze sistemati-

164 Il fatto che il sindacato ed il lavoratore possano essere talora in disaccordo e pale-

sare – come può accadere – interessi incompatibili, non costituisce una contraddizione ri-
spetto a quello che si dice nel testo, poiché occorre tenere separati gli interessi astratti da
quelli concreti (cfr. retro, cap. IV, § 3.). Nel testo, come è ovvio, ci riferiamo, agli interessi
astratti, ovvero allo schema relazionale che la norma presenta tra situazione favorevole e sog-
getti interessati. In questo schema ideal-normativo, appunto, lo stesso obbligo è posto a tu-
tela di due interessi, che per questa ragione sono concorrenti e compatibili. È assolutamente
possibile che poi – in concreto – nessuno sia interessato effettivamente all’osservanza da parte
del datore dell’obbligo, o che l’interesse sia solo del sindacato o tanto di questo che del lavo-
ratore. Ciò non è un’anomalia, ma appartiene alla normale dinamica degli interessi e sul piano
processuale rimarca l’autonomia e la pari dignità dei due interessi concorrenti.
580 CAPITOLO SETTIMO

che – di ottenere una sentenza opponibile nei confronti di tutti i legit-


timati attivi165.
È interessante notare, d’altra parte, come la soluzione qui caldeg-
giata non sia stata sostenuta da nessuna delle molte ed autorevoli voci
che si sono alternate nel tentativo di offrire la corretta ricostruzione del
rimedio in esame. Ma questa circostanza può essere agevolmente spie-
gata considerando che il regime di giudicato secundum eventum litis, nel
momento in cui il dibattito sull’azione di repressione della condotta anti-
sindacale andava verso la completa maturazione, era ancora guardato con
diffidenza e di certo non era stabilmente annoverato tra le opzioni di cui
poter tenere conto166.
Tale soluzione, inoltre, avrebbe richiesto un rapporto di effettiva
concorrenza tra pretese, che raramente è stato configurato in dottrina;
nelle posizioni favorevoli al coordinamento delle iniziative giudiziali, in-
fatti, la posizione del sindacato veniva nella sostanza a dipendere da
quella del singolo, il cui diritto soggettivo appariva in genere l’unica e
vera situazione giuridica soggettiva tutelata, mentre nelle posizioni favo-
revoli al parallelismo si eccedeva nel senso opposto rinnegando l’idea
della concorrenza di pretese in ragione del diverso ambito di applica-
zione della tutela collettiva rispetto a quella individuale. E ciò, non tanto
e non solo – come visto – in termini di causa petendi, ma anche con ri-
guardo – nonostante fosse ben più difficile a sostenersi167 – al profilo del
petitum168.
Dalle considerazioni svolte, invece, appare chiaramente che le cau-
sae petendi delle azioni sono le medesime. Ed infatti – come detto – me-
desimo è l’illecito che si realizza al ricorrere di condotte plurioffensive.
Il fatto che ad un’azione sia sotteso l’interesse del sindacato e all’al-
tra, invece, corrisponda l’interesse del singolo è cosa estremamente im-

165 Cfr. retro, cap. VI, § 4.


166 Cfr. retro, cap. VI, nota 154.
167 Si pensi, in particolare, alla posizione della giurisprudenza, in cui appunto il petitum

veniva diversamente configurato in ragione del fatto che l’azione sindacale non potesse con-
durre alla condanna degli effetti patrimoniali conseguenti all’illecito (retro, § 4.1., in fine, nota
106), o alla linea dimostrativa di Garofalo (cfr. retro, nota 85), in cui il petitum veniva sostan-
zialmente a diversificarsi in ragione dei diversi interessi – individuale o collettivo – tutelati.
168 L’identità del petitum è evidentemente implicita nelle ricostruzioni che – pur per di-

verse strade – hanno sostenuto il concorso delle azioni nei termini indicati analiticamente nel
testo. Anche tra la dottrina viceversa favorevole all’autonomia delle azioni, peraltro, parte de-
gli Autori ha sostenuto tale coincidenza ed in particolare – come visto – Vaccarella (cfr. retro,
§ 3.2.) e Dell’Olio (nota 94). In senso contrario Garofalo (retro, § 3.1.2. e nota 85) e, seppur
più cautamente, Vigoriti (retro, nota 94).
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 581

portante, poiché appunto ciò sta a significare che la tutela giurisdizionale


e l’effetto giuridico sostanziale sono rivolti al soddisfacimento di due in-
teressi distinti e ugualmente meritevoli (i quali appunto giustificano l’au-
tonoma legittimazione ad agire), ma ciò non rileva ai fini della determi-
nazione della causa petendi che è operazione che involge il fatto e la
norma e non la latitudine – per così dire – dell’interesse169.
Riguardo al petitum, invece, questo è di certo coincidente, o meglio,
come sempre accade nel concorso tra azioni di questo genere, può es-
serlo; in quanto tale coincidenza dipende in concreto dalla domanda ef-
fettivamente avanzata in giudizio dai titolari delle azioni. Su di un piano
astratto, comunque, tale rapporto di coincidenza è certo, non solo con ri-
guardo all’accertamento dell’illecito, ma anche in riferimento a taluni ef-
fetti reintegratori: si pensi, ad esempio, all’obbligo di reintegrazione del
lavoratore licenziato nel posto di lavoro, il quale – appunto – può esser
fatto valere tanto dal sindacato che dal singolo.
Che poi il sindacato non possa richiedere la condanna al pagamento
delle retribuzioni non versate o del risarcimento del danno subito dal la-
voratore, questo è un discorso che non c’entra affatto con quanto sino ad
ora detto, poiché evidentemente, questi effetti giuridici sono diversi dal-
l’obbligo di reintegrazione e quindi non appare propriamente corretto
nemmeno sostenere che si realizzi una coincidenza solamente parziale del
petitum. Difatti, posto che il petitum è un elemento identificativo della
domanda, nella fattispecie ora avanzata in via esemplificativa noi ab-
biamo, da un lato, il lavoratore che, oltre alla domanda di risarcimento e
pagamento delle somme, presenta anche la domanda di reintegrazione e,

169 La natura dell’interesse tutelato, ovvero, più precisamente la latitudine dell’interesse


stesso (meramente individuale o sovraindividuale) non può aver rilievo sul piano della deter-
minazione della causa petendi, rispetto alla quale, la dottrina ha comunque pur sempre rivolto
l’attenzione ai rapporti tra fatto e norma, ritenendo – poi – che per la determinazione della
stessa bastasse l’allegazione dei fatti storici (teoria della sostanziazione), oppure l’indicazione
del rapporto giuridico (teoria della individuazione), o comunque il complesso degli elementi
di fatto che alla luce della normativa invocata fossero idonei a giustificare l’effetto giuridico
richiesto (per approfondimenti, v. MENCHINI, S., Il giudicato civile, Torino, 2002, p. 125 ss.).
Sicché, in effetti, l’introduzione della natura individuale o collettiva dell’interesse tutelato tra
i requisiti di cui tener conto per la determinazione della causa petendi risulta essere unica-
mente l’erronea trasposizione di questioni attinenti agli elementi soggettivi dell’azione sul
piano dei suoi elementi oggettivi. In parole povere, se l’interrogativo è quello di determinare
quali siano gli elementi di fatto e di diritto che sorreggono l’effetto giuridico fatto valere, la
riferibilità dell’interesse tutelato con tale effetto è questione irrilevante, che al contrario con-
cerne i profili soggettivi del fenomeno, tra cui – in primis – la determinazione dei soggetti che
possono provocare la pronuncia del giudice in merito all’accertamento dell’effetto giuridico
in questione.
582 CAPITOLO SETTIMO

dall’altro, il sindacato, che – per ipotesi – avanza solo la domanda di con-


danna del datore alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.
La coincidenza parziale è quindi relazione logica che non coinvolge il pe-
titum (elemento identificativo della singola domanda), ma più in generale
l’insieme delle domande che possono rispettivamente essere proposte nei
due giudizi in conseguenza dell’illecito, sicché tra azione(-domanda) del
sindacato e azione(-domanda) del lavoratore c’è quella perfetta coinci-
denza che appunto corrisponde all’unicità dell’effetto giudico, ovvero al-
l’obbligo di reintegrazione che grava in capo all’imprenditore. Che poi il
lavoratore possa dedurre in giudizio anche altri effetti, questo non rileva
ai fini specifici che qui interessano.
Ciò detto, quindi, se nel giudizio speciale il lavoratore non sia inter-
venuto volontariamente o su chiamata di parte o – come talora accade in
questi procedimenti – per ordine del giudice, l’accertamento dell’antisin-
dacalità della condotta e dell’obbligo di reintegrazione avrà nei suoi con-
fronti efficacia di giudicato secundum eventum litis, ovvero, più corretta-
mente, il lavoratore se ne potrà giovare anche in sede di giudizio indivi-
duale.
Nuovamente esemplificando, dichiarata l’illegittimità del licenzia-
mento del lavoratore in sede di giudizio ex art. 28 S.L., nel giudizio ordi-
nario instaurato per ottenere la condanna del datore al pagamento delle
retribuzioni maturate e del risarcimento del danno, tale illegittimità farà
stato nei confronti del datore, il quale appunto non potrà contestare l’ac-
certamento ottenuto su domanda del sindacato.

5.5. La legittimazione ad agire in via sommaria-inibitoria del singolo e dei


sindacati che non rispondono ai requisiti di legittimazione previsti dal-
l’art. 28 S.L.
Alla luce delle considerazioni ove proposte, peraltro, avvantaggian-
dosi anche delle riflessioni svolte nei capitoli che precedono, abbiamo
tutti gli strumenti interpretativi necessari per compiere un ulteriore passo
in avanti nel corretto inquadramento del mezzo di tutela in questione; e
questo passo concerne in primo luogo il quesito relativo alla possibile at-
tribuzione dell’azione speciale ex art. 28 (per ciò che riguarda le forme
sommarie, il contenuto del provvedimento conclusivo e le misure coerci-
tive che a questo sono correlate) anche al singolo lavoratore pregiudicato
(come recita l’art. 15 dello Statuto) dalla condotta antisindacale.
Come accennato addietro, infatti, sulla coerenza costituzionale della
legittimazione ad agire esclusiva prevista dalla lettera del primo comma
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 583

dell’art. 28, la Consulta è intervenuta in più occasioni e, pur a fronte


delle perplessità palesate da parte della dottrina in riferimento a tale re-
gime di legittimazione170, ha comunque ritenuto razionale la scelta ope-
rata dal legislatore fondamentalmente per i seguenti motivi: a) per il ca-
rattere provvisorio-interinale del provvedimento; b) per la portata sup-
pletiva e non sostitutiva del rimedio rispetto ai rimedi riservati ai singoli
e alle associazioni sindacali non adeguatamente rappresentative ai sensi
del 28; c) per il rilievo costituzionale dei valori tutelati e promossi; d) per
il rischio che l’apertura del processo speciale a tutti i lavoratori e a tutti i
sindacati possa portare alla paralisi dell’impresa171.
Ora, sulla natura provvisorio-interinale del procedimento – soste-
nuta peraltro solo nella prima decisione della Consulta in materia – non
occorre soffermarsi, essendo pacifico il carattere viceversa propriamente
decisorio del giudizio172; e nemmeno va rimarcato il ruolo non sostitu-
tivo-espropriativo del rimedio, il quale peraltro si riaggancia necessaria-
mente al punto successivo, ovvero alla pari sindacabilità dell’illecito sia in
sede individuale che collettiva e alla pari rilevanza costituzionale degli
interessi tutelati. Per ciò che, invece, attiene all’ultimo punto, invece, il
discorso va meglio approfondito, perché in esso – forse – è nascosto un

170 Tra gli altri, PERA, G., La legittimazione al procedimento sommario di repressione del-

l’attività sindacale, in Riv. dir. proc., 1971, p. 324 ss.; PROTO PISANI, A., Il procedimento di re-
pressione della attività antisindacale, cit., p. 23 ss.; TREU, T., Attività sindacale e interessi col-
lettivi, cit., p. 574 ss.; ID., Condotta antisindacale del datore di lavoro e atti discriminatori, cit.,
p. 29-30; ROMAGNOLI, U., Aspetti processuali dell’art. 28 dello statuto dei lavoratori, cit., p.
1314; ID., Commento all’art. 28, cit., p. 434 ss.; ID., Attuazione e attualità dello statuto dei la-
voratori, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1990, p. 387 ss., spec. p. 400; LANFRANCHI, L., Il diritto
processuale e la repressione della condotta antisindacale, cit., p. 43; CERRI, A., Una risposta di-
sattenta della Corte sul requisito del carattere nazionale del sindacato per la legittimazione al ri-
corso ai sensi dell’art. 28 del c.d. «statuto dei lavoratori», in Foro it., 1995, I, p. 1735; DE AN-
GELIS, L., L’art. 28 dello statuto dei lavoratori dopo l’esito referendario, in Foro it., 1996, I, p.
477.
171 C. cost. 6 marzo 1974, n. 54, cit.; C. cost. 24 maggio 1988, n. 334, cit.; C. cost., 17

marzo 1995, n. 89, cit.


172 Cfr. LANFRANCHI, L., Prospettive ricostruttive in tema di art. 28 dello Statuto dei la-

voratori, cit., p. 411 nota 45, p. 425 nota 69, p. 437 ss.; TARUFFO, M., Efficacia della pronuncia
sul licenziamento per motivi antisindacali, cit., p. 1509 ss.; PROTO PISANI, A., Il procedimento
di repressione dell’attività antisindacale, cit., p. 58 s.; GARBAGNATI, E., Procedimento di repres-
sione della condotta antisindacale e cosa giudicata, cit., p. 1 ss. Sulla nozione di procedimento
decisorio-sommario, v., per tutti, ancora LANFRANCHI, L., Profili sistematici dei procedimenti
decisori sommari, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1987, p. 88 ss., ora in ID., La roccia non incrinata,
Garanzia costituzionale del processo civile e tutela dei diritti, Torino, 2004, p. 1 ss.; ID., Proce-
dimenti decisori sommari, in Enc. giur. Trec., XXIV, Roma, 1991, ora anche in ID., La roccia
non incrinata, cit., p. 213 ss.
584 CAPITOLO SETTIMO

equivoco che presto si supera con una corretta interpretazione della


norma.
E questa interpretazione – come anticipato – porta dritta a ritenere
che anche il singolo lavoratore pregiudicato da comportamenti antisinda-
cali del datore di lavoro possa esercitare la sua azione nelle forme special-
sommarie che l’art. 28 disciplina.
Gli argomenti che si ritiene conducano a questo risultato sono i se-
guenti.
Il primo argomento è quello che deriva dalla lettura sistematica del-
l’attuale quadro in materia di tutela antidiscriminatoria173; difatti, non
può apparire dubbio che, se per lungo tempo l’art. 28 ha svolto un ruolo
di «trascinamento»174 rispetto alle successive riforme in materia, ora, tale
rapporto si è invertito e sono le nuove norme introdotte a «trascinare»
l’art. 28.
Come meglio vedremo nel prossimo capitolo, attualmente la tutela
antidiscriminatoria è articolata su due fronti, il fronte individuale e
quello collettivo.
Sul piano sostanziale, le norme «incriminatrici» sono, da un lato,
quelle che in via generale prevedono l’antigiuridicità di talune tipologie
di comportamenti e, dall’altro, l’art. 15 dello Statuto che prevede il re-
gime giuridico tipico degli atti discriminatori posti in essere all’interno o
in funzione del rapporto di lavoro in ragione dei diversi fattori di discri-
minazione.
Sul piano processuale, è previsto un giudizio inibitorio sommario-
decisorio, tanto per l’azione individuale, quanto per l’azione riservata ai
soggetti esponenziali di volta in volta legittimati.
Posto, quindi, che l’art. 28 va letto congiuntamente alle norme spe-
cifiche che disciplinano all’interno dello Statuto – come altrove – i diritti
di libertà sindacale perimetrando l’area dell’antigiuridicità dei comporta-
menti del datore175 e posto che l’art. 15 ha – anche riguardo agli atti di-
scriminatori per ragioni antisindacali – il medesimo ruolo appena rilevato
in riferimento agli altri fattori di rischio, si apre per l’interprete la possi-
bilità di costruire in via sistematica un modello di tutela antidiscrimina-
toria generale, che, quantomeno dei suoi aspetti essenziali, risulta – e

173 Tra i primi a indicare l’assoluta esigenza di procedere ad un’interpretazione siste-


matica della norma per superare le delicate problematiche che essa presenta, v. LANFRANCHI,
L., Prospettive ricostruttive in tema di art. 28 dello Statuto dei lavoratori, cit., p. 425.
174 Sul punto v. PAPALEONI, M., Repressione della condotta antisindacale, cit., p. 370.
175 Cfr. retro, § 5.2.3.
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 585

deve risultare – omogeneo e simmetrico anche in riferimento al coordi-


nato disposto degli artt. 3, comma 1, e 24 Cost.
Così, se i soggetti discriminati per i diversi fattori di rischio previsti
dalla legge (sesso, razza, religione, ecc.) possono esercitare l’azione tanto
nelle forme sommarie, quanto – ovviamente – in quelle ordinarie, allora
il medesimo duplice schema va riconosciuto anche in riferimento alla di-
scriminazione per ragioni sindacali.
Se si ritenesse corretto – come chi scrive ritiene – procedere nel
senso ora indicato, anche per il singolo sarebbe possibile esercitare il suo
diritto alla repressione della condotta antisindacale che lo pregiudica
nelle forme speciali previste dall’art. 28 S.L.
Questo primo argomento va inoltre ad integrarsi con quello che
pone l’accento direttamente sulla natura dei beni tutelati in materia (artt.
2, 39, 40 Cost.) e sulla natura del processo che si dimostra adeguato ad
offrir loro effettiva protezione (artt. 3, comma 2, e 24, comma 1, Cost.).
È – come si sarà intuito – l’annoso tema dell’atipicità dell’azione inibito-
ria rispetto a pretese sostanziali inerenti alla sfera della persona. Valori
sostanziali la cui particolare natura notoriamente postula una tutela pro-
cessuale preventiva ed urgente176.

176 Ampia è la letteratura riguardante l’esigenza riportata nel testo. Sul punto, v. gli

scritti in materia di PROTO PISANI, A., Appunti sulla tutela di condanna, in Riv. trim. dir. proc.
civ., 1978, p. 1104 ss.; ID., Brevi note in tema di tutela specifica e tutela risarcitoria, in Foro it.,
1983, V, p. 127 ss.; ID., L’attuazione dei provvedimenti di condanna, in Foro it., 1988, V, p. 177
ss.; ID., Note sulla tutela civile dei diritti, in Foro it., 2002, V, 165 ss. Scritti di recenti raccolti
nel volume Le tutele giurisdizionali dei diritti, Napoli, 2003, p. 75 ss., cui adde, ID., Sentenza
di condanna, in Dig. disc. priv., sez. civ., XVIII, Torino, 1998, p. 295 ss.; ID., La tutela giuri-
sdizionale dei diritti della personalità: strumenti e tecniche di tutela, in Foro it., 1990, V, p. 1
ss., nei quali – come noto – la tutela inibitoria viene ad essere ricondotta al genus della tutela
di condanna per decretarne la natura atipica e generale. In prospettiva simile, v. TARUFFO, M.,
Note sul diritto alla condanna e all’esecuzione, in Riv. crit. dir. priv., 1986, p. 635 ss., spec. p.
646 s., anch’esso favorevole all’introduzione dell’inibitoria atipica idonea a prevenire o far
cessare la violazione del diritto alla luce del principio costituzione di effettività della tutela
giurisdizionale, ovvero – nello specifico – ogniqualvolta la situazione concreta lo renda ne-
cessario in ragione del contenuto non patrimoniale dell’interesse tutelato. A favore dell’inibi-
toria generale sembra oramai poter dire si orienti la dottrina maggioritaria, sebbene alla luce
di argomentazioni dimostrative sovente eterogenee. Per FRIGNANI, A., L’injunction nella com-
mon law e l’inibitoria nel diritto italiano, Milano, 1974, p. 371 ss.; ID., Azione in cessazione, in
Noviss. Dig. it., Appendice, I, Torino, 1980, p. 639 ss.; ID., Inibitoria, in Enc. dir., XXI, 1971,
Milano, p. 559 ss., l’atipicità della tutela inibitoria andrebbe argomentata sulla base dell’art.
700 c.p.c., ovvero deducendo l’inibitoria definitiva da quella cautelare. Per RAPISARDA, C.,
Profili della tutela civile inibitoria, Padova, 1987, p. 77 ss. e 209 ss., la soluzione alla proble-
matica in questione si troverebbe nel qualificare il rimedio come forma di tutela reintegrato-
ria dichiarativa; ID., Inibitoria, in Dig. disc. priv., sez. civ., IX, Torino, 1993, p. 474 ss.; RAPI-
586 CAPITOLO SETTIMO

Su questo piano, la strada che la nostra Carta costituzionale indica è


piuttosto inequivoca, in quanto, per lo meno per i diritti soggettivi che
trovano in essa diretto riconoscimento, l’atipicità del diritto di azione
non può voler significare solo il riconoscimento di una via di mero ac-
cesso ad un giudizio inappagante proprio nel suo epilogo rimediale, ma
di certo significa anche tutela inibitoria ogni qual volta tali diritti costitu-
zionalmente garantiti presentino quelle caratteristiche strutturali tipiche
SARDA, C. - TARUFFO, M., Inibitoria (azione), in Enc. giur. Trec., XVII, Roma, 1989, p. 15. Se-
condo, invece, LIBERTINI, M., La tutela civile inibitoria, in Jus, 1988, p. 42 ss., nonché in Pro-
cesso e tecniche di attuazione dei diritti, a cura di S. Mazzamuto, I, Napoli, 1989, p. 314 ss.,
spec. p. 320 ss.; ID., Nuove riflessioni in tema di tutela civile inibitoria e di risarcimento del
danno, in Riv. crit. dir. priv., 1995, p. 385 ss., la natura atipica della tutela deriverebbe dal ri-
condurre la stessa ad una figura di risarcimento in forma specifica volto a reintegrare il danno
continuato. Altra parte della dottrina ha fatto perno sulla figura dell’illecito di pericolo: cfr.
PETROLATI, F., Inibitoria ed illecito di pericolo, in Arch. civ., 1996, p. 435 ss.; BASILICO, G., La
denuncia di danno temuto: contributo allo studio della tutela preventiva, in Riv. dir. civ., 2005,
p. 39 ss. Conformemente alla strada seguita in genere dalla giurisprudenza, ad una lettura in
chiave analogica delle ipotesi tipiche si affida la linea ricostruttiva proposta da DI MAJO, A.,
La tutela civile dei diritti, Milano, 2001, p. 144 ss. Nella posizione espressa, invece, da BEL-
LELLI, A., L’inibitoria come strumento generale contro l’illecito, in Riv. dir. civ., 2004, p. 607 ss.,
il rimedio inibitorio è «intrinseco al sistema» in quanto presupposto dell’inibitoria è l’illecito,
sicché l’ordine inibitorio «si limita ad applicare e rendere operative valutazioni negative, in
termini di antigiuridicità, espresse dall’ordinamento»; l’aspetto delicato di questa concezione
è peraltro costituito dalla stessa tecnica di determinazione dell’illecito, ovvero della qualifica-
zione di antigiuridicità di una condotta da parte dell’ordinamento, ovvero ancora – diremmo
noi – della determinazione dell’obbligo, il quale dovrebbe essere ricavato in via interpretativa
alla luce degli interessi tutelati all’interno del sistema. Una prospettiva simile la si trova poi in
PERLINGIERI, P., Azione inibitoria e interessi tutelati, in Giust. proc. civ., 2006, p. 7 s., secondo
cui occorre affidarsi al principio di adeguatezza del rimedio rispetto all’interesse sostanziale,
intendendo con ciò sostenere l’applicazione diretta del rimedio inibitorio anche al solo ricor-
rere di un pericolo di danno allorché sia esposto a pregiudizio un interesse sostanziale percu-
liarmente tutelato dall’ordinamento (c.d. illecito prospettico). Sui rapporti tra tutela preven-
tiva e repressiva alla luce dei principi costituzionali, ripone affidamento PAGNI, I., Tutela spe-
cifica e tutela per equivalente, Situazioni soggettive e rimedi nelle dinamiche dell’impresa, del
mercato, del rapporto di lavoro e dell’attività amministrativa, Milano, 2005, p. 39 ss. che per
l’appunto ritiene che i principi costituzionali in materia di effettività della tutela giurisdizio-
nale impongano al giudice di ritenere ammissibile l’ordine inibitorio allorché «i rimedi a ca-
rattere repressivo non siano sufficienti a “compensare” il danno arrecato al titolare di un di-
ritto, e ciò a prescindere dalla natura assoluta di quest’ultimo», ma al contrario facendo im-
piego dei criteri ermenenutici di valutazione dell’irreparabilità del pregiudizio già eleborati in
materia di provvedimento di urgenza. Ancora a favore dell’inibitoria atipica sembrerebbe
porsi anche PIETROBON, V., Illecito e fatto illecito, inibitoria e risarcimento, cit., p. 115 ss., che
se, da un lato, afferma la necessità di rinvenire un fondamento positivo per decretare l’am-
missibilità della tutela inibitoria, dall’altro, ritiene un valido appiglio legale anche il semplice
dovere di buona fede, che peraltro viene ad essere impiegato come integrativo di regole di
contegno già esistenti, seppur generiche, che spetterebbe al giudice di specificare (cfr. spec. p.
125 ss., 144 ss.).
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 587

(natura negativa e continuativa dell’obbligo imposto) che rendano tale


forma di tutela necessaria per garantire l’effettiva protezione degli inte-
ressi sostanziali rilevanti.
L’ultimo e risolutivo argomento che avalla la tesi proposta è quello
che abbiamo già indicato nel capitolo che precede (e che avremo occa-
sione di impiegare anche nei prossimi), consistente nell’applicazione in
chiave ermeneutica dei criteri interpretativi che abbiamo ritenuto cor-
retto far derivare dalle riflessioni sul concetto di diritto soggettivo.
Difatti, se la tecnica di tutela degli interessi che si suole chiamare di-
ritto soggettivo consiste nell’imposizione di un obbligo direttamente po-
sto a tutela di uno o più interessi a cui consegue l’attribuzione esclusiva
del potere di azione ai titolari di detti interessi normativamente rilevanti,
ogni qual volta ricorrono previsioni di legge che riconoscono la legitti-
mazione a soggetti rappresentativi idonei a farsi portatori di esigenze di
tutela più ampie, l’interprete deve distinguere tra coloro che dalla lettura
delle norme si presentano come i titolari degli interessi normativamente
rilevanti, ovvero i destinatari dell’obbligo e della tutela, e coloro il cui in-
teresse assume rilevanza proprio e solo in ragione della legittimazione
espressamente conferita dalla legge177.
In virtù dei criteri ordinari di legittimazione, i destinatari della tu-
tela, ovvero i titolari degli interessi normativamente rilevanti sono – in
applicazione del principio di atipicità dell’azione – sempre legittimati ad
agire, senza – come è naturale – che vi sia la necessità di un riconosci-
mento espresso di tale loro potere; al contrario, la legittimazione confe-
rita all’ente esponenziale si palesa come una necessaria previsione legale
di legittimazione ad agire che appunto ha lo scopo di estendere – in via
straordinaria ovvero eccezionale – la titolarità dell’azione anche a sog-
getti diversi rispetto ai titolari degli interessi normativamente rilevanti.
Ciò posto, peraltro, l’applicazione di questo criterio interpretativo
alla materia in esame risulta più complessa e bisognosa di distinzioni; e
ciò proprio per l’interdipendenza della dimensione individuale e collet-
tiva dell’interesse tutelato.
Cercheremo di esser chiari, sebbene effettivamente, l’art. 28, sotto
questo profilo, necessiti un impegno interpretativo in più rispetto alle al-
tre norme poste a tutela degli interessi collettivi che andremo ad esami-
nare nei prossimi capitoli.
Il punto su cui occorre porre l’attenzione è il seguente: di regola, la
legittimazione che viene conferita ai soggetti esponenziali in materia di

177 Cfr. retro, cap. VI, § 4.


588 CAPITOLO SETTIMO

interessi collettivi deriva dal fatto che questi si fanno – come si suol dire
– «portatori» di interessi altrui, nel senso che, come generalmente risulta
dal loro scopo statutario, la loro attività è volta a proteggere l’interesse di
certi soggetti deboli.
Quando diciamo, quindi, che questi enti collettivi sono «portatori»
di interessi altrui non vogliamo dire che l’interesse che li determina e in
virtù del quale è data l’azione non sia il loro, tutt’altro; vogliamo unica-
mente evidenziare il fatto che, non appartenendo loro stessi alla categoria
di soggetti che la legge individua come diretti destinatari della tutela, il
loro interesse tende a conformarsi all’interesse dei soggetti pregiudicati
proprio in ragione della volontaria funzionalizzazione della loro attività.
Si pensi – per esemplificare – alle associazioni dei consumatori.
Queste non sono «consumatori», il loro interesse alla tutela non deriva
dal fatto di operare sul mercato come tali, ma dal fatto di porsi come
obiettivo quello di proteggere quella data categoria. Si instaura, così, un
nesso di strumentalità tra interessi178 in virtù del quale l’interesse dell’as-
sociazione tende ad essere quello del singolo consumatore e per questa
ragione la legge apprezza tale interesse «istituzionale» e, ritenendolo me-
ritevole di tutela (proprio in funzione all’innalzamento del grado di ef-
fettività della protezione giurisdizionale complessivamente apprestata),
estende l’area della legittimazione anche a tali enti, che, non a caso, nel
capitolo che precede, abbiamo definito legittimati «istituzionali».
In materia di repressione della condotta antisindacale, peraltro, que-
sto discorso va rivisto; e va rivisto in ragione del fatto che esso appare al-
terato dal seguente ed ormai noto fenomeno.
Se, infatti, come tutta la dottrina riconosce, la libertà sindacale è a
necessario esercizio collettivo (ovvero implica l’aggregazione e l’organiz-
zazione) e la plurioffensività dell’illecito sta ad indicare proprio che lo
stesso comportamento è idoneo a colpire non solo il singolo, ma anche il
gruppo organizzato all’interno del quale questi opera, ciò sta a significare
che – se accettiamo questo risultato – i destinatari della tutela sono sem-
pre e direttamente, da un lato, il singolo e, dall’altro, il gruppo organiz-
zato a cui questi afferisce, il quale ultimo, è interessato alla repressione
dell’illecito, non perché (o non tanto solo perché) assume come propri
gli interessi del singolo, ma perché l’interesse alla tutela è suo «in via di-
retta». È infatti l’interesse alla sua libertà sindacale come gruppo che ri-
mane insoddisfatto con l’inosservanza dell’obbligo179.
178 Cfr.
retro, cap. IV, § 5.
179 La
questione indicata nel testo è stata rilevata in dottrina con particolare esattezza
da MONTESANO, L., Tutela giurisdizionale dei diritti dei consumatori e dei concessionari di ser-
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 589

Non si verifica quindi quel fenomeno poc’anzi indicato di relazione


strumentale tra interessi del singolo consumatore ed interesse dell’asso-
ciazione; nel caso in esame l’interesse strumentale al conflitto – come si
suol dire – appartiene, oltre che al singolo, direttamente all’organizza-
zione sindacale come soggetto a sé.
Ciò posto, se torniamo all’art. 28, occorre chiedersi se, stando a
quanto previsto dal primo comma, gli organismi locali delle associazioni
nazionali ivi richiamati coincidono con il gruppo organizzato a cui prima
ci riferivamo o, al contrario, deve essere a questi riservato un ruolo di-
verso.
La domanda è tutt’altro che oziosa, poiché, se si ritiene che tali or-
ganismi coincidano con il gruppo organizzato a cui «partecipa» il singolo
lavoratore, ciò vuol dire che essi non sono propriamente enti esponen-
ziali, perché l’interesse posto a fondamento dell’azione appartiene loro
direttamente come gruppo pregiudicato dall’esser stato colpito in una
sua «parte», se invece riteniamo che non si verifichi o che si possa non
verificare questo rapporto di coincidenza, vuol dire – allora – che tali or-
ganismi agiscono per la tutela di un interesse più lato e diverso rispetto a
quello a non essere ostacolati nella loro attività sindacale dal datore.
Ancora: se si segue la prima lettura, la legittimazione ad agire degli
organismi locali dovrebbe logicamente restringersi alle ipotesi in cui il la-
voratore colpito presenti una relazione più o meno stretta (ma comunque
sussistente) con il sindacato; se si segue, invece, la seconda via, la possi-
bilità di agire da parte dei sindacati rappresentativi si estende anche per
avversare le condotte antisindacali che non li vedono direttamente pre-
giudicati nelle proprie prerogative nei termini anzidetti, ma che comun-
que li pregiudicano per il fatto di porsi come portatori dell’interesse alla
libertà sindacale nei luoghi di lavoro. Ma – ancora – se si segue quest’ul-
tima impostazione, si verifica una situazione particolarmente interes-
sante, poiché nella posizione di destinatarietà della tutela, ovvero in
quella di titolarità degli interessi normativamente rilevanti, si presenta
non solo il singolo lavoratore, ma anche l’organizzazione sindacale a cui
questi afferisce.
vizi di pubblica utilità nelle normative sulle clausole abusive e sulle autorità di regolazione, in
Riv. dir. proc., 1997, p. 1 ss., p. 10, operando un raffronto tra l’art. 28 S.L. e l’art. 1469 sexies
c.c. Si è affermato, infatti che «il sindacato persegue – pur se più volte insieme con interessi
di collettività dei lavoratori – interessi propri della sfera giuridica che la legge gli attribuisce»;
sicché, «pur se persegue anche la tutela dei lavoratori, tutela primariamente la propria e spe-
cifica sfera giuridica e di attività sindacale, mentre i soggetti delle azioni previste nell’art. 1469
sexies tutelano, con tali azioni, solo gli interessi collettivi dei consumatori e non reagiscono a
lesioni o a minacce contro le proprie attività associative».
590 CAPITOLO SETTIMO

Semplificando, l’inosservanza dell’obbligo da parte del datore com-


porterebbe la lesione dell’interesse del singolo lavoratore al libero eserci-
zio delle sue prerogative sindacali, la lesione dell’interesse del gruppo a
cui questo appartiene (destinatari – sia il primo che il secondo – dell’ob-
bligo del datore sulla base della corretta interpretazione dei profili fun-
zionali che la fattispecie lesiva palesa) ed anche la lesione dell’interesse
dell’ente esponenziale (sindacato nazionale) reso rilevante in virtù della le-
gittimazione ad agire conferitagli espressamente dalla norma.
Cosicché, se si applica il criterio interpretativo elaborato e poc’anzi
brevemente ricordato, la legittimazione ad agire prevista dall’art. 28 per i
sindacati maggiormente rappresentativi dovrebbe essere qualificata come
straordinaria e la legittimazione ordinaria spetterebbe al lavoratore oltre
che al sindacato a cui questo afferisce; e ciò – di conseguenza – indipen-
dentemente dal suo indice di rappresentatività.
Ricapitolando:
a) se l’interdipendenza dell’interesse del singolo lavoratore con
quello del gruppo con cui si pone assieme per avversare il datore è un
criterio di lettura del fenomeno che si ritiene corretto;
b) se gli organismi locali legittimati ex art. 28 possono agire anche in
relazione a condotte che non siano direttamente lesive della loro attività
concreta, ma più in generale della libertà sindacale sui luoghi di lavoro;
c) se, stando al criterio interpretativo elaborato, la legittimazione ad
agire esclusiva attribuita a soggetti terzi rispetto alla classe di soggetti de-
terminati dalla legge come i titolari degli interessi direttamente tutelati,
vale come necessaria previsione di legittimazione ad agire che si aggiunge
– in posizione alternativa e concorrente – all’ordinaria legittimazione dei
titolari degli interessi normativamente rilevanti;
allora la condotta antisindacale che si concreti in una lesione della
posizione del singolo lavoratore, colpisce, l’interesse del singolo, l’inte-
resse del gruppo di cui questi è parte, l’interesse istituzionale dell’ente
portatore. E a ciò consegue che la legittimazione ad agire spetta a tutti e
tre i soggetti appena indicati; ed ovviamente con le forme e con i conte-
nuti di tutela che la legge prevede, ovvero, nel caso di specie, con una
azione sommaria a contenuto inibitorio.
Ciò, come detto, dipende dalla posizione che si assegna al sindacato
maggiormente rappresentativo alla luce della corretta interpretazione
delle norma, cioè, più precisamente, se si legge in esso il gruppo pregiu-
dicato nella sua attività sindacale dalla lesione inferta al singolo suo com-
ponente o il soggetto esponenziale particolarmente affidabile a cui attri-
buire un’azione suppletiva al ricorrere di illeciti antisindacali.
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 591

Solidi argomenti militano a favore della seconda soluzione prospet-


tata.
In primo luogo, inducono in questo senso tanto la formulazione
stessa della norma, quanto la sua attuale collocazione nel sistema gene-
rale di tutela collettiva che il nostro ordinamento prevede.
Difatti, la particolare rappresentatività che è richiesta ai soggetti
espressamente richiamati dalla disposizione in esame può essere spiegata
solo in funzione di una loro posizione di enti portatori nei termini anzi-
detti. Solo in questa prospettiva l’art. 28 è pienamente costituzionale ol-
tre che – novità interessante viste le note tradizionali del dibattito sul
punto specifico – eccezionalmente coerente.
Posto, infatti, che, come già rimarcato addietro, l’interesse tutelato è
l’interesse strumentale alla libertà e all’attività sindacale, la rappresentati-
vità richiesta dalla norma, se, da un lato, non può essere spiegata sulla
base di un’inconferente necessità di selezionare gli interessi del gruppo in
ordine alla definizione dell’interesse collettivo finale, dall’altro, è piena-
mente comprensibile alla luce dell’attribuzione della legittimazione ad
agire anche a soggetti particolarmente affidabili che si facciano garanti
del rispetto dei noti valori protetti e promossi; e ciò – appunto – come
accade, mutatis mutandis, anche negli altri procedimenti giurisdizionali
di regola ricondotti al tema della tutela degli interessi collettivi.
In secondo luogo, proprio gli argomenti che la dottrina ha avanzato
per dare consistenza ad un interesse collettivo di titolarità esclusiva del
sindacato, conducono a riconoscere l’azione ad ogni organizzazione sin-
dacale e non solo a quelle più rappresentative. Questa dottrina, in effetti,
non pare abbia dato l’adeguato rilievo a questa non secondaria que-
stione180, ma in realtà il suo logico svolgimento conduce o all’irragione-
180 Ci riferiamo in particolare allo studio di GAROFALO, M.G., Interessi collettivi e com-
portamento antisindacale dell’imprenditore, cit., p. 141 e soprattutto p. 170 ss., in cui appunto
la legittimazione ad agire del sindacato prevista dall’art. 28 è stata letta come la conferma sul
piano del diritto positivo della titolarità dell’interesse collettivo da parte dell’associazione
come forma organizzatoria tipica del gruppo di lavoratori. Muovendosi, peraltro, lungo que-
sta linea di pensiero è piuttosto scontata la sfasatura che si viene a realizzarsi tra legittima-
zione riservata solo ai sindacati organizzati su base nazionale e titolarità dell’interesse collet-
tivo in capo ad organizzazioni sindacali di minore consistenza e rappresentatività. Il profilo
problematico ora indicato è puntualmente colto dalla dottrina ora richiamata allorché questa
affronta il tema della legittimità costituzionale della norma, rilevando appunto la mancata at-
tribuzione dell’azione a forme organizzatorie di dimensioni minori (p. 196 ss.), ma viene an-
che rapidamente superato con il ritenere comunque plausibile la scelta legislativa in ragione
del fine promozionale dello Statuto. Ma quanto poco convincente sia l’argomentazione giu-
stificativa ora riportata è piuttosto evidente. Difatti, se si sostiene che gli interessi individuali
alla libertà sindacale sono strumentali all’organizzazione e vengano poi assorbiti nell’interesse
592 CAPITOLO SETTIMO

volezza della limitazione prevista dall’art. 28 o ad estendere la legittima-


zione ad agire – ivi riduttivamente disciplinata – anche ai sindacati meno
rappresentativi.
In terzo luogo, nell’esame della giurisprudenza abbiamo già menzio-
nato talune decisioni dalle quali emergono indici di orientamento inequi-
vocabilmente diretti nel senso ora indicato.
Ci riferiamo alle decisioni in cui l’azione degli organismi locali delle
associazioni sindacali nazionali è ammessa anche se il lavoratore non è
iscritto al sindacato ricorrente ed anche se il sindacato non è presente
nell’azienda in cui è stata posta in essere la condotta antisindacale181. Ri-
sultato fondato sull’osservazione che «l’interesse a cui l’art. 28 […] col-
lega la legittimazione attiva non è solo quello alla libertà sindacale pro-
pria del sindacato ricorrente, poiché l’interesse tutelato è, in termini più
ampi, quello alla libertà di tutti i lavoratori e di tutti i sindacati»182; o sul
rilievo secondo cui «lo scopo del legislatore […] non è stato quello di tu-
telare le ragioni del singolo lavoratore, bensì l’altro – diverso – di garan-
tire gli interessi del mondo del lavoro che trascendono l’individuo ed at-
tengono alla vita nazionale»183; o ancora ritenendo che «il sindacato ha in
ogni caso un interesse autonomo e indipendente da quello del lavora-
tore» e quindi «deve escludersi la necessità di un collegamento “perso-
nale” con quest’ultimo, collegamento che dovrebbe concretarsi nell’ap-
partenenza del lavoratore al sindacato»; e ciò «poiché agisce non come

collettivo che si determina con la nascita di questa e se l’interesse collettivo va imputato al


gruppo organizzato che poi non è altro che il sindacato, è evidente che, allorquando – poi –
si guardi a ciò che dispone l’art. 28 sul piano della legittimazione, si debba rilevare un’incon-
gruenza tale da escludere che in esso vi sia la conferma che il legislatore abbia fatto propria
una ricostruzione di tal fatta del fenomeno sociale da regolamentare. Ciò accadrebbe se la di-
sposizione in questione attribuisse l’azione ad organizzazioni sindacali senza porre criteri se-
lettivi basati più o meno direttamente sulla rappresentatività. Al contrario la previsione in
punto di legittimazione ad agire ivi prevista non può che condurre a due alternativi esiti a se-
conda della prospettiva ricostruttiva prescelta: o assegnare al legittimato ad agire una fun-
zione di tutela diversa da quella concernente la difesa diretta della sua propria attività sinda-
cale come soggetto di diritto a sé stante, o il giudizio di incostituzionalità della disposizione.
Sul punto, v. tra breve quanto affermato nel testo.
181 Soluzione già da tempo autorevolmente sostenuta dalla dottrina processualista e
giuslavorista: cfr., tra gli altri, BONSIGNORI, A., Il procedimento dell’art. 28 dello «statuto» dei
lavoratori, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1971, p. 595 ss.; PERA, G., Art. 28 (Repressione della
condotta antisindacale), cit., p. 335; PUNZI, C., Repressione della condotta antisindacale, cit.,
p. 974; PROTO PISANI, A., Il procedimento di repressione dell’attività antisindacale, cit.
182 Cass., 17 ottobre 1998, n. 10324, cit. In dottrina, cfr. specialmente PERA, G., Art. 28
(Repressione della condotta antisindacale), cit., p. 322 s.; e PUNZI, C., Repressione della con-
dotta antisindacale, cit., p. 973.
183 Cass., 23 giugno 1976, n. 2343, cit.
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 593

rappresentante dei suoi associati, bensì come titolare e gestore autonomo


dell’interesse collettivo alla realizzazione dei diritti sociali dei singoli la-
voratori», sicché «è da ritenere che tale interesse sussista anche se il sin-
golo lavoratore non è iscritto al sindacato agente o non è inquadrato in
alcuna organizzazione sindacale e che esso non venga meno per il fatto
che lo stesso sindacato non sia “presente” nell’azienda»184.
Con ciò, dunque, la lettura dell’art. 28 alla luce dei criteri interpre-
tativi sviluppati in questo lavoro, da un lato, riconduce a piena coerenza
il regime di legittimazione esclusiva ivi previsto, dall’altro, giustifica l’a-
zionabilità dei propri diritti in via sommaria e con contenuto inibitorio
non solo da parte dei singoli lavoratori, ma anche da parte dei sindacati
che non presentino una dimensione organizzativa su base nazionale.
I tre argomenti indicati, quindi, ovvero l’interpretazione sistematica
dell’art. 28 nel quadro della tutela antidiscriminatoria, la lettura costitu-
zionalmente orientata del quadro rimediale da riconoscere alle posizioni
sostanziali tutelate e l’applicazione diretta dei criteri interpretativi elabo-
rati su un piano di riflessione generale in merito alle tecniche di tutela
degli interessi, conducono tutti univocamente e convincentemente nel
senso di riconoscere che i diritti dei singoli o delle organizzazioni sinda-
cali anche non maggiormente rappresentative possano esser fatti valere in
giudizio secondo le forme sommarie e con il contenuto di tutela descritto
in sede di art. 28 dello Statuto.
La conclusione interpretativa ora indicata, d’altra parte, non contra-
sta con il riconoscimento in via esclusiva dell’azione istituzionale in capo
agli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali. Solo queste, in-
fatti, sono titolari dell’interesse alla repressione della condotta antisinda-
cale anche quando tale condotta non sia direttamente lesiva o ostativa
della loro attività sindacale. Esemplificando, a fronte del licenziamento di
un lavoratore sindacalmente attivo, l’atto ora menzionato non potrà es-
sere di certo impugnato da un altro lavoratore, o da un sindacato non
presente nell’azienda o al quale detto lavoratore non ha aderito e al quale
comunque non è diversamente legato nel perseguimento degli obiettivi
comuni. Il controllo giudiziale sulla legittimità di tale atto potrà essere in-
vocato solo dal lavoratore licenziato, dagli organismi locali delle associa-
zioni sindacali nazionali e dall’associazione sindacale al quale il lavora-
tore appartiene, sempre – ovviamente – nel caso in cui tale associazione
non sia comunque rappresentativa ai sensi dell’art. 28.

184 Cass. 26 gennaio 1979, n. 602, cit.; similmente Cass. 22 aprile 1992, n. 4839, cit., e
P. Firenze, 2 dicembre 1997, cit.
594 CAPITOLO SETTIMO

In questa prospettiva, può ritenersi financo coerente e condivisibile


l’affermazione della Corte costituzionale addietro riportata, in cui si pa-
ventava il rischio che una diverso regime di legittimazione ad agire
avrebbe potuto condurre alla paralisi dell’impresa; e ciò poiché l’azione
di repressione della condotta antisindacale, sganciata da pregiudizi im-
mediati alla propria attività sindacale, non spetta a tutti i sindacati e a
tutti i lavoratori, ma solo ai maggiormente rappresentativi.
Quest’ultima osservazione conduce quindi a concludere la rifles-
sione sul procedimento per la repressione della condotta antisindacale
evidenziando come questa prima applicazione concreta dei criteri inter-
pretativi elaborati nel capitolo precedente sia particolarmente confor-
tante, poiché tale applicazione porta ad interpretare quanto dispone l’art.
28 in senso pienamente conforme ai valori costituzionali, senza dover ap-
portare nessuna forzatura in chiave di interpretazione costituzionaliz-
zante adeguatrice. Difatti, la chiave di lettura elaborata riesce con coe-
renza a rinvenire nell’esatta lettera della legge indicazioni precettive
nuove pienamente in grado di garantire la massima valorizzazione delle
esigenze di tutela giurisdizionale effettiva degli interessi protetti.

5.6. Il diritto soggettivo del sindacato al pagamento da parte del datore


delle rettribuzioni o del risarcimento del danno subito dal lavoratore
Prima di chiudere il discorso sul procedimento per la repressione
della condotta antisindacale si vuole comunque avanzare qualche ultima
considerazione sulla possibilità che le associazioni sindacali facciano ri-
chiesta di condanna del datore di lavoro all’adempimento degli obblighi
retributivi o risarcitori che possono derivare da comportamenti pluriof-
fensivi, come appunto il licenziamento antisindacale a cui più volte ci
siamo riferiti in questo capitolo.
Come visto, infatti, tale opzione è stata risolutamente negata dalla
giurisprudenza della Corte di cassazione sin dalle prime pronunce in ma-
teria; e ciò in ragione della natura non patrimoniale degli interessi tutelati
in sede di procedimento per la repressione della condotta antisindacale185.
In termini più distesi la questione potrebbe essere spiegata nei se-
guenti termini: fintanto che si ritenga – come visto esser accaduto in dot-
trina – che l’oggetto del giudizio speciale sia rappresentato dall’accerta-
mento dei diritti soggettivi del lavoratore colpito dalla condotta lesiva, la
condanna al pagamento delle retribuzioni non corrisposte e all’adempi-
mento delle altre obbligazioni a contenuto monetario eventualmente sorte
185 Cfr. retro, § 4.1.
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 595

a seguito del comportamento antisindacale può dimostrarsi una conse-


guenza necessaria o comunque coerente alla luce delle premesse accolte.
Allorché, invece, l’oggetto del giudizio venga ad essere rappresentato dal
diritto soggettivo del sindacato, gli interessi tutelati siano costituiti dagli
interessi collettivi dei lavoratori e la natura di detti interessi debba essere
tenuta distinta da quella al contrario appartenente agli interessi propria-
mente patrimoniali connessi al rapporto giuridico di lavoro, l’opzione in-
terpretativa poc’anzi caldeggiata deve essere di contro esclusa.
Al punto in cui si trova il nostro itinerario di studio, peraltro, la per-
suasività del ragionamento ora esposto, pur nell’apparenza tanto ragio-
nevole e coerente, si svela in tutta la sua inconsistenza; e ciò che colpisce
maggiormente a tal riguardo è il fatto che per dimostrare l’erroneità del-
l’impostazione ora rappresentata non occorre nemmeno contestare le
premesse accolte dalla giurisprudenza della Corte di cassazione sul punto
specifico.
In altri termini, il ritenere perfettamente coerente con il rimedio in
questione la condanna del datore al pagamento di quanto dovuto al la-
voratore a seguito della dichiarazione di antisindacalità del licenziamento
non necessita in alcun modo né di contraddire la natura effettivamente
non patrimoniale degli interessi tutelati nel procedimento né la configu-
rabilità della posizione giuridica dell’associazione sindacale legittimata in
termini di diritto soggettivo proprio ed autonomo alla repressione della
condotta.
Piuttosto, proprio la natura non patrimoniale degli interessi tutelati,
o più correttamente, la tecnica prescelta dal legislatore per provvedere
alla loro tutela rappresenta lo strumento interpretativo essenziale per ad-
divenire agevolmente all’esito ora indicato.
Diverse pagine addietro, infatti, si è rimarcata l’importanza dell’im-
pronta teleologica assegnata alla norma dal legislatore al fine di impedire
l’attuazione delle diverse e a priori indeterminabili tipologie di compor-
tamento volte ad ostacolare l’esercizio delle libertà e delle attività sinda-
cali protette. E su questi presupposti si è giustificata la deducibilità in
sede di giudizio collettivo come comportamento antisindacale di quegli
atti e di quei comportamenti che pur essendo espressione dell’esercizio
di poteri appartenenti all’imprenditore all’interno del rapporto di lavoro,
potessero comunque apparire – sotto diverso profilo – strumenti diretti o
comunque idonei ad ostacolare il libero esercizio delle posizioni giuridi-
che riconosciute dall’art. 28186.

186 Cfr. le riflessioni di Lanfranchi e Persiani riportate retro, nota 5.


596 CAPITOLO SETTIMO

Ciò posto, peraltro, ci si chiede come sia plausibile sostenere che il


licenziamento antisindacale concreti una condotta effettivamente lesiva
dei beni giuridici tutelati e d’altro canto escludere che la rimozione degli
effetti di tale condotta non debba comprendere anche il pagamento delle
retribuzioni non versate ed il risarcimento del danno arrecato al lavo-
ratore.
Ritenuta, infatti, plurioffensiva una condotta di tal fatta alla luce
della corretta interpretazione estensiva della norma, non residua spazio
argomentativo alcuno per limitare l’eventuale condanna del datore alla
mera reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro. E ciò poiché –
come appare evidente – il comportamento antisindacale lesivo dell’inte-
resse fatto proprio dall’associazione sindacale include tutto ciò che di
pregiudizievole è stato illegittimamente inferto al lavoratore in ragione
dell’attività sindacale svolta, compresa la mancata retribuzione.
In sintesi: se la mancata retribuzione dipende dal licenziamento e se
il licenziamento deve essere valutato come antisindacale, detta mancata
retribuzione fa senz’altro parte della condotta antigiuridica; sul piano lo-
gico non sono date ulteriori alternative plausibili.
Ritenere, ad esempio, che la lesività del comportamento in que-
stione sia da tener limitata alla mera estromissione del lavoratore dall’a-
zienda per la conseguente impossibilità di fatto di esercitare i propri di-
ritti sindacali e che, di conseguenza, la reintegrazione sia sufficiente a re-
staurare la situazione di diritto, ovvero ritenere che l’interesse del
sindacato corrisponda al mero accesso del lavoratore ai luoghi di lavoro,
costituisce una lettura della disposizione in esame che vanifica grave-
mente la ratio effettiva della norma.
Si immagini, appunto, che il comportamento antisindacale sia rap-
presentato solo dal mancato versamento della retribuzione al lavoratore
attivo sul fronte del perseguimento degli interessi comuni dei lavoratori,
oppure dal mancato riconoscimento di un premio di produzione, oppure
ancora di un aumento viceversa attribuito ad altri colleghi. In queste o
consimili ipotesi si può forse sostenere che il sindacato non sia autono-
mamente legittimato ad agire per la condanna del datore all’adempi-
mento di tali obblighi per il sol fatto che le prestazioni corrispondono al
pagamento di somme di denaro?
La risposta deve ovviamente essere negativa, perché ciò che rileva in
ordine al sindacato di antigiuridicità condotto ai sensi dell’art. 28 non è
assolutamente la natura del comportamento in sé per sé considerato, ma
la sua idoneità a porsi come un ostacolo al legittimo esercizio delle li-
bertà e dei diritti riconosciuti dalla norma; sicché la mancata retribuzione
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 597

conseguente al licenziamento antisindacale costituisce un aspetto di una


più ampia condotta che vede come obblighi derivati non solo la reinte-
grazione nel posto di lavoro, ma anche l’obbligo di pagamento delle
somme dovute ed eventualmente anche la condanna al risarcimento del
danno subito dal lavoratore.
Le ragioni reali che hanno indotto la giurisprudenza a pervenire alla
nota posizione di chiusura in riferimento alla problematica in questione
sono peraltro facilmente intuibili.
In primo luogo il tentativo di diversificazione delle procedure ope-
rato dalla giurisprudenza non poteva che giovarsi di una pari e massima
diversificazione delle materie di accertamento appartenenti ai due giu-
dizi; e, seguendo questa linea interpretativa, abbandonare l’accertamento
degli effetti conseguenti l’illecito che avessero contenuto patrimoniale al-
l’iniziativa del singolo lavoratore in separata sede corroborava l’idea che
il giudizio individuale fosse finalizzato alla tutela di interessi patrimonial-
contrattualistici in contrapposizione a quello speciale a questi viceversa
indifferente.
In secondo luogo, poi, il sostenere che in sede di giudizio ex art. 28
si potesse addivenire alla condanna del datore di lavoro al pagamento
della retribuzione o ancor più al risarcimento del danno a vantaggio del
lavoratore sollevava problemi di natura teorico-dogmatica non secondari.
In effetti la giurisprudenza si era spinta piuttosto in avanti già nell’affer-
mare che il sindacato avesse un diritto autonomo alla reintegrazione del
lavoratore, ma impiegare tale tecnica di formalizzazione giuridica anche
in ordine agli obblighi ora indicati poteva apparire una forzatura mag-
giore sul piano dei principi.
Ragionando, infatti, secondo le logiche tradizionali in materia di
rapporti tra diritto e processo, nonché in punto di nozione di diritto sog-
gettivo, e ritenendo ammissibili ordini di rimozione del tipo menzionato,
acquisiva evidentemente credito l’idea – appunto sostenuta in dottrina –
di un rapporto di sostituzione processuale del sindacato nei confronti del
singolo lavoratore, in affinità con quanto previsto dall’azione surrogato-
ria e con buona pace dell’autonomia dei giudizi, dell’eteronomia degli in-
teressi tutelati, ecc.
Alla luce delle considerazioni svolte nei capitoli precedenti in merito
al concetto di diritto soggettivo, d’altra parte, le difficoltà da ultimo evi-
denziate appaiono di agevole superamento.
Se, infatti, il concetto di diritto soggettivo va ricondotto ad una tec-
nica di tutela degli interessi sostanziali nella quale l’interesse materiale
viene ad essere protetto mediante l’imposizione di un obbligo di com-
598 CAPITOLO SETTIMO

portamento a cui corrisponde sul piano processuale un potere di azione


attribuito al titolare stesso dell’interesse protetto e se, come evidenziato
autorevolmente, va tenuto rigorosamente separato il destinatario dell’ob-
bligo, ovvero il titolare dell’interesse normativamente rilevante, dal desti-
natario del comportamento doveroso187, non vi sono ostacoli nel configu-
rare in capo al sindacato un diritto soggettivo proprio alla repressione
della condotta antisindacale che al ricorrere di condotte plurioffensive si
specifichi nel diritto al pagamento a favore del lavoratore delle retribu-
zioni illegittimamente non versate, del risarcimento del danno e di tutte
le altre somme parimenti dovute in relazione alla specifica condotta anti-
sindacale posta in essere.
Potrà, forse, apparire singolare la configurazione di un diritto sinda-
cale al pagamento di somme a vantaggio del lavoratore a titolo di risarci-
mento del danno da questi patito, ma in realtà ciò è pienamente coerente
con lo scopo perseguito dalla norma, ovvero col garantire il soddisfaci-
mento dell’interesse del sindacato a non subire l’attuazione di condotte
impeditive dell’attività di promozione e tutela degli interessi dei lavora-
tori che colpiscano il singolo aderente, nonché anche il correlativo inte-
resse – parimenti del sindacato – a veder neutralizzare gli effetti di tale
condotta.
Poco comune potrà anche risultare l’idea di un diritto il cui vantag-
gio pratico più evidente si indirizza nei confronti di un soggetto diverso
dal titolare del diritto e il cui contenuto si determina in riferimento al
pregiudizio da questi subito; ma anche in relazione a considerazioni di tal
fatta è agevole rimarcare che l’unico vantaggio che l’interprete deve ap-
prezzare è quello che palesano le norme attraverso le quali si è tenuti a
guardare e filtrare i fenomeni materiali; sicché, se alla luce dell’art. 28
l’interesse del sindacato all’osservanza di obblighi di tal fatta risulta rile-
vante, ciò basta in ordine al riconoscimento di una posizione di diritto
soggettivo a tal riguardo. Ed anche il fatto che il contenuto dell’obbligo,
ovvero la connotazione del comportamento doveroso, dipenda da una si-
tuazione strettamente riferibile ad un soggetto diverso dal titolare del di-
ritto non presenta alcuna eccezionalità in un approccio normativistico al
diritto, in quanto ciò dipende solo dalla particolarità dell’obbligo in que-
stione e dalla funzione compensativa che gli appartiene, cioè dalla tec-

187 Per tutti, IRTI, N., Introduzione allo studio del diritto privato, cit., p. 34 ss., che ap-

punto opera la distinzione in parola, precisando che «la destinazione dell’obbligo identifica il
titolare del diritto soggettivo», mentre «la destinazione del comportamento dovuto identifica
il soggetto a cui l’obbligato indirizza la propria condotta».
LA TUTELA COLLETTIVA SINDACALE 599

nica di determinazione delle note del comportamento doveroso che a


questa rispondono.
Per ciò che, invece, attiene al possibile coordinamento dell’azione
sindacale in questione con quella del singolo lavoratore in riferimento
agli obblighi specifici qui presi in esame, l’esito conclusivo attualmente
conseguibile sulla base del nostro lacunoso ordinamento processuale è
assai simile a quello poc’anzi proposto allorché abbiamo trattato il pro-
blema degli effetti del giudicato emesso in sede di giudizio speciale; d’al-
tra parte il discorso merita uno svolgimento ed ulteriori precisazioni ar-
gomentative che in questa sede non è possibile avanzare e per le quali si
rinvia al prossimo capitolo nel quale la questione sarà trattata ex professo
in riferimento ai giudizi collettivi discriminatori187.

188 Cfr. infra, cap. VIII, § 3.3.5.3.


CAPITOLO OTTAVO

LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA

SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. – 2. Ricognizione dei tratti sistematici essen-


ziali della tutela collettiva antidiscriminatoria. – 2.1. La tutela antidiscriminatoria
per ragioni di sesso. – 2.1.1. Dalla l. n. 300/70 alla l. n. 125/91. – 2.1.2. Dalla l. n.
125/91 alla d.legisl. n. 198/2006. – 2.1.3. Sintesi del quadro delle tutele. – 2.2. Gli
altri strumenti di tutela collettiva antidiscriminatoria: dal d.legisl. n. 286/98 alla
l. n. 67/2006. – 2.3. Conclusioni. – 3. La dottrina in materia di oggetto ed effetti
dell’azione collettiva antidiscriminatoria. – 3.1. Considerazioni introduttive. – 3.2.
La tesi del doppio binario. – 3.2.1. L’interesse tutelato nel giudizio collettivo. –
3.2.2. La posizione sostanziale e processuale riconosciuta all’ente esponenziale. –
3.2.3. Gli effetti del provvedimento conclusivo. – 3.3. Considerazioni ricostruttive.
– 3.3.1. L’identità delle fattispecie sostanziali legittimanti l’azione dei soggetti di-
scriminati e l’azione dell’ente esponenziale. – 3.3.2. La funzione direttamente ripa-
ratoria del rimedio processuale collettivo: ulteriori precisazioni. – 3.3.3. Precisa-
zioni sul carattere collettivo della discriminazione. – 3.3.4. Precisazioni sull’azione
collettiva riferita alle sole discriminazioni di soggetti non individuabili in via di-
retta e immediata. – 3.3.5. Gli effetti del provvedimento conclusivo. – 3.3.5.1. L’ac-
certamento della discriminatorietà del comportamento tenuto dall’autore dell’ille-
cito e degli obblighi di astensione e rimozione degli effetti. – 3.3.5.2. Gli atti di-
scriminatori complessi e i loro effetti sulle vicende del processo. – 3.3.5.3. La
richiesta di risarcimento del danno da parte dell’ente esponenziale. – 4. Brevi os-
servazioni conclusive sulla natura dell’ordine di definizione del piano di rimozione
delle discriminazioni accertate.

1. Considerazioni introduttive
Sin dalle prime riflessioni di questo percorso di ricerca è emerso
chiaramente il ruolo trainante che le dinamiche oggetto di studio e disci-
plina da parte del diritto del lavoro hanno saputo svolgere nel favorire la
penetrazione degli interessi collettivi all’interno del nostro ordinamento e
ciò tanto sotto il profilo – propriamente originario – della tutela contrat-
tuale degli stessi quanto – poco dopo – sotto quello della loro tutela giu-
risdizionale.
Proprio il procedimento per la repressione della condotta antisinda-
cale è stato da noi più volte descritto come il primo significativo frutto
602 CAPITOLO OTTAVO

del processo di maturazione che, nel periodo post-costituzionale, ha in-


vestito la sensibilità sociale, istituzionale e giuridica riguardo a questa di-
mensione non puramente individuale-esclusiva degli interessi umani1.
Le altre aree di emersione maggiormente significative della nostra
problematica, come vedremo e come già sappiamo, sono la tutela del-
l’ambiente e dei consumatori, ma prima di dirigersi in questa direzione
occorre nuovamente rimanere in ambito giuslavoristico – o, rectius, pre-
valentemente giuslavoristico – per dedicare la dovuta attenzione ad un
gruppo di procedimenti giurisdizionali che, sviluppando un filone di
riforme iniziato a partire dagli anni Settanta, rappresentano ora un si-
stema di tutele particolarmente attraente per il nostro studio.
Il riferimento è ovviamente rivolto al c.d. diritto antidiscriminatorio,
ossia a quell’ampio novero di disposizioni, che costituiscono un nucleo
normativo più o meno omogeneamente rivolto a combattere varie tipolo-
gie di comportamenti discriminatori in prevalenza all’interno o in fun-
zione del rapporto di lavoro2.
Come vedremo in questo capitolo, peraltro, lo studio di questi stru-
menti di tutela presenta per l’interprete numerose difficoltà specifiche,
che sono in estrema sintesi le seguenti.
In primo luogo il dato legislativo è caratterizzato da una tecnica re-
dazionale che senza remore va definita pessima. Ciò non solo in riferi-
mento all’immagine complessiva che questo sistema di tutele presenta,
ma anche in riferimento – talora – alle singole disposizioni che lo com-
pongono.
Focalizzando l’attenzione, da un lato, sulle fattispecie lesive e, dal-
l’altro, sulle misure rimediali che in queste trovano origine e fondamento,
la dottrina ha giustamente osservato come l’elevato tasso di disarticola-
zione della disciplina suggerisca di «costruire una vera e propria tavola
sinottica di comparazione» per registrare e chiarire somiglianze e diffe-
renze che, in ordine ai diversi profili possibili, caratterizzano i distinti
ambiti di tutela3 e che, anche i recenti tentativi di pretesa «razionalizza-
zione» della materia, hanno lasciato pressoché inalterate.
Ironica è la circostanza che una disciplina legale dettata a promo-
zione e tutela del principio di uguaglianza si presenti essa stessa come la

1 Cfr. retro, capp. I, § 1., e VII, § 1.


2 In effetti le nuove norme in materia di discriminazione estendono i divieti anche oltre
questo ambito più tradizionale: cfr. art. 43 del d.legisl. 25 luglio 1998, n. 286; artt. 3 del d.le-
gisl. 9 luglio, n. 216 e 9 luglio 2003, n. 215.
3 GOTTARDI, D., Dalle discriminazioni di genere alle discriminazioni doppie o sovrapposte:

le transizioni, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2003, p. 447 ss., ma spec. p. 451.
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 603

sede del trionfo delle irragionevoli differenziazioni di trattamento nor-


mativo di fenomeni sostanzialmente identici specie se letti alla luce dei
valori costituzionali4.
In secondo luogo, il dibattito dottrinale in materia si è rivelato piut-
tosto circoscritto e ben lontano da risolvere i diversi e complessi nodi
problematici che la disciplina pone a vario livello, specie alla luce dei più
recenti interventi di riforma del settore.
In terzo ed ultimo luogo, anche la stessa applicazione concreta di
questi strumenti giuridici è apparsa estremamente modesta nonostante
l’elevato tasso di effettività che in generale contraddistingue tali rimedi;
cosicché l’apporto concretante che di regola appartiene alla dimensione
giurisprudenziale è stato pressoché nullo.
Ciò detto, rispetto agli altri capitoli di questo lavoro, nei quali, da
un lato, ci siamo rivolti alla valorizzazione delle questioni teorico-generali
di maggior rilievo, per poi, dall’altro, procedere all’applicazione dei cri-
teri interpretativi elaborati in ordine alla sistemazione dei rimedi specifici
di volta in volta in esame, in questa parte del nostro studio, dovremo
cedere maggior spazio ad una trattazione più «descrittiva» degli stru-
menti di tutela previsti dal legislatore. Solo procedendo in tal senso, in-
fatti, saremo successivamente in grado di fornire un quadro per quanto
possibile chiaro e auspicabilmente armonico della complessiva disciplina
sulla quale poi riflettere in riferimento alle questioni che maggiormente
interessano.
Orientandoci, dunque, nella direzione ora indicata, bisogna in
primo luogo prendere atto della seguente circostanza: i rimedi di tutela
collettiva antidiscriminatoria, successivamente al procedimento per la re-
pressione della condotta antisindacale, anch’esso – come visto – sicura-
mente riconducibile al genus qui in esame, si sviluppano nel nostro paese
sotto la costante influenza del diritto comunitario e in una prima lunga
fase della loro complessiva evoluzione gravitano prevalentemente attorno
ai rimedi antidiscriminatori volti a tutela della parità uomo-donna. È in
questo ambito specifico che si registrano i primi interventi legislativi, la
loro stessa necessità di implementazione ed il raggiungimento di un si-
stema binario di rimedi individuali e collettivi che poi verrà a costituire il
modello di riferimento in ordine ai rimedi relativi ad altri fattori di ri-
schio.

4 Di «carattere discriminatorio delle stesse politiche antidiscriminatorie» ha giusta-

mente parlato MORROZZO DELLA ROCCA, P., Gli atti discriminatori nel diritto civile alla luce
degli artt. 43 e 44 del T.U. sull’immigrazione, in Dir. fam. e pers., 2002, p. 111 ss., p. 122.
604 CAPITOLO OTTAVO

Il dibattito dottrinale segue chiaramente questa evoluzione, sicché la


complessiva opera di sistemazione delle diverse questioni interpretative
che gravano sulla materia trova in questa sede un luogo di svolgimento
pressoché esclusivo.
Alla luce, quindi, di questa ulteriore considerazione, riteniamo op-
portuno procedere in due tappe.
In primo luogo esamineremo i tratti fondamentali della disciplina
positiva, così come questa si presenta attualmente in ragione dei recenti
e ripetuti interventi di riforma. Questo primo passo costituirà una preli-
minare opera di sgrossatura della complessiva trama legislativa, la quale
– come detto – si presenta poco chiara e tutt’altro che lineare nella defi-
nizione dei rimedi antidiscriminatori apprestati.
In un secondo momento, procederemo all’esame delle diverse pro-
spettive ricostruttive avanzate, in particolar modo – per le ragioni
poc’anzi indicate – con riferimento ai rimedi in materia di parità uomo-
donna; concluso il quale tracceremo la via ricostruttiva che riteniamo
preferibile alla luce delle nostre premesse teoriche ed in conformità alle
indicazioni esegetiche che il quadro generale delle tutele invia all’inter-
prete.

2. Ricognizione dei tratti sistematici essenziali della tutela collettiva an-


tidiscriminatoria
2.1. La tutela antidiscriminatoria per ragioni di sesso
2.1.1. Dalla l. n. 300/70 alla l. n. 125/91
Come indicato nelle riflessioni introduttive appena esposte il primo
passo da compiere è verificare l’itinerario legislativo che ha interessato la
tutela antidiscriminatoria per ragioni di sesso evidenziandone i momenti
di sviluppo più significativi.
Il punto di inizio di questo itinerario va certamente individuato,
come detto, nell’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori, il quale, ol-
tre al poc’anzi citato art. 28 prevedeva una norma – già incontrata nello
scorso capitolo – dedicata interamente al tema ora in esame.
Ci riferiamo all’art. 15 nel quale si prevedeva la nullità dei patti o
atti diretti a «subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione
che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di
farne parte»; nonché a «licenziare un lavoratore, discriminarlo nella asse-
gnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 605

disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione


o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero»5.
Inoltre, lo stesso art. 15, all’ultimo comma, estendeva detta disci-
plina anche ai patti o atti che fossero motivati da fini di discriminazione
politica e religiosa, mentre il successivo art. 16 prevedeva la possibilità di
sanzionare i trattamenti discriminatori economici collettivi con la con-
danna – su domanda dei lavoratori nei cui confronti fosse stata attuata la
discriminazione o delle associazioni sindacali alle quali questi avessero
dato mandato – del datore di lavoro al pagamento, a favore del fondo
adeguamento pensioni, di una somma pari all’importo dei trattamenti
economici di maggior favore illegittimamente corrisposti nel periodo
massimo di un anno.
Successivamente, a metà degli anni Settanta, a fronte delle direttive
75/117/CEE e 76/207/CEE, l’ordinamento italiano ha accolto al suo in-
terno la legge 9 dicembre 1977, n. 903 sulla parità di trattamento tra uo-
mini e donne in materia di lavoro, nella quale, da una parte, veniva vie-
tata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per ciò che avesse riguar-
dato l’accesso al lavoro, la retribuzione, l’attribuzione delle qualifiche e
delle mansioni, nonché la progressione nella carriera, e, dall’altra, si
provvedeva alla sostituzione dell’ultimo comma dell’art. 15 dello Statuto
dei lavoratori, prevedendo che la sanzione di nullità ivi prevista, fosse
estesa, non solo ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica e
religiosa, ma anche a quelli che fossero determinati da intenzioni di di-
scriminazione razziale, di lingua o di sesso.
Sul piano più propriamente processuale, poi, con l’art. 15 della
legge n. 903/77, veniva introdotto un procedimento sommario-deciso-
rio6, dalla struttura evidentemente mutuata dall’art. 28 dello Statuto dei
lavoratori, in cui appunto, i comportamenti discriminatori previsti dalla
legge – su ricorso del lavoratore o, per sua delega, delle organizzazioni
sindacali – potevano essere oggetto di sanzione mediante l’ordine giudi-

5 Sull’art. 15 dello Statuto dei lavoratori, v. TREU, T., Condotta antisindacale e atti di-

scriminatori, Milano, 1974, p. 120; GHERA, E., Commento agli artt. 15 e 16, Commentario allo
Statuto dei lavoratori, diretto da U. Prosperetti, Milano, 1975, p. 426; TRIGGIANI, E., Art. 15
(Atti discriminatori), in Lo Statuto dei lavoratori, diretto da G. Giugni, Milano, 1979, p. 209
ss.; MONTUSCHI, L., Art. 15-16, in GHEZZI, G. - MANCINI, F. - MONTUSCHI, L. - ROMAGNOLI, U.,
Statuto dei diritti dei lavoratori, Bologna-Roma, 1981, p. 43 ss.
6 Per chiarimenti sulla nozione richiamata nel testo, v., per tutti, LANFRANCHI, L., Profili

sistematici dei procedimenti decisori sommari, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1987, p. 88 ss., ora in
ID., La roccia non incrinata, Garanzia costituzionale del processo civile e tutela dei diritti, To-
rino, 2004, p. 1 ss.; ID., Procedimenti decisori sommari, in Enc. giur. Trec., XXIV, Roma, 1991,
ora in ID., La roccia non incrinata, cit., p. 213 ss.
606 CAPITOLO OTTAVO

ziale di cessazione del comportamento e di rimozione degli effetti pro-


dotti dal medesimo7.
Nei primi anni Novanta, a fronte del sostanziale insuccesso della
legge n. 903/77 e delle critiche a quest’ultima mosse anche in ambito
dottrinale8, si giunse ad un nuovo e profondo intervento di riforma con
la legge 10 aprile 1991, n. 125 sulle azioni positive per la realizzazione
della parità uomo-donna nel mondo del lavoro.
In questa sede veniva ridisegnata gran parte della disciplina sia di
diritto sostanziale che processuale.
Si prevedeva innanzitutto una generale nozione di discriminazione
diretta e indiretta. L’art. 4, infatti, rubricato «azioni in giudizio», dispo-
neva: a) «costituisce discriminazione, ai sensi della legge 9 dicembre 1977,
n. 903, qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudi-
zievole discriminando anche in via indiretta i lavoratori in ragione del
sesso»; b) «costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiu-
dizievole conseguente alla adozione di criteri che svantaggino in modo
proporzionalmente maggiore i lavoratori dell’uno o dell’altro sesso e ri-
guardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa»9.

7 Sulla legge 9 dicembre 1977, n. 903, v. i contributi raccolti in Legge 9 dicembre 1977
n. 903. Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, Commentario a cura di
T. Treu, in Le nuove leggi civ. comm., 1978, 786 ss.; nonché in Il procedimento sommario a tu-
tela della parità della lavoratrice, in Foro it., 1977, V, p. 326 ss.; v. anche BALLESTRERO, M.V.,
Dalla Tutela alla parità. La legislazione italiana sul lavoro delle donne, Bologna, 1979, p. 223
ss. Sul procedimento sommario previsto dall’art. 15, v., in particolare, FABBRINI, G., Il proce-
dimento avanti il pretore, in Il procedimento sommario a tutela della parità della lavoratrice,
cit., p. 328 ss.; RAPISARDA, C., Sub art. 15, in Legge 9 dicembre 1977 n. 903. Parità di tratta-
mento tra uomini e donne in materia di lavoro, cit., p. 828 ss.; PAOLINI, R., Considerazioni ge-
nerali sulla legge 9 dicembre 1977 n. 903: in particolare il procedimento speciale ex art. 15, in
Dir. lav., 1981, I, la prima parte alle p. 365-393, mentre la seconda parte alle p. 464-483; AN-
DRIOLI, V., Il procedimento di repressione delle discriminazioni tra uomo e donna, in ANDRIOLI,
V. - BARONE, C.M. - PEZZANO, G. - PROTO PISANI, A., Le controversie in materia di lavoro, Bo-
logna, 1987, p. 1082 ss.
8 Su questi aspetti, v., in particolare, RAPISARDA, C., Osservazioni in tema di attuazione

della legge di parità uomo-donna in materia di lavoro, in Riv. dir. proc., 1985, p. 386 ss.; BAL-
LESTRERO, M.V., I giudici e la parità, Osservazioni sull’applicazione giudiziaria della legge
903/1977, in Pol. dir., 1982, p. 463 ss.; DE ANGELIS, L., La legge di parità uomo-donna nella
prassi giurisprudenziale, in Il lavoro delle donne e la legge di parità, Roma, 1982, p. 39 ss.;
TREU, T., Tutela e parità, ivi, p. 65 ss.; GOTTARDI, D., Lavoro delle donne, in Noviss. Dig. it.,
Appendice, IV, Torino, 1983, p. 727 ss., spec. p. 733; MARTONE, C., Quale parità tra uomo e
donna? Prima verifica dello stato di applicazione della legge n. 903 del 1977, in Giur. it., 1980,
IV, p. 275 ss.
9 Sulla nozione di discriminazione diretta e indiretta contenuta nella legge n. 125/1991,

sostanzialmente rimasta invariata anche a seguito del d.legisl. n. 196/2000 e delle successive
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 607

Sul piano, invece, dei rimedi processuali, all’azione individuale pre-


vista dall’art. 15 della legge n. 903 del 1977, si affiancava l’azione pro-
mossa dal consigliere di parità avverso i comportamenti discriminatori
aventi «carattere collettivo», esperibile anche allorché non fossero «indi-
viduabili in modo immediato e diretto i lavoratori lesi dalle discrimina-
zioni» e finalizzata all’ottenimento di una sentenza contenente l’ordine
rivolto al datore di lavoro di definire, entro un termine fissato dal giudice
(sentite le rappresentanze sindacali aziendali ovvero, in loro mancanza, le
organizzazioni sindacali locali aderenti alle organizzazioni sindacali mag-
giormente rappresentative sul piano nazionale, nonché il consigliere re-
gionale per la parità competente per territorio) un piano di rimozione
delle discriminazioni accertate.

2.1.2. Dalla l. n. 125/91 alla d.legisl. n. 198/2006


Se, come appena visto, il sistema di tutele veniva finalmente – come
auspicato10 – a caratterizzarsi per la coesistenza di strumenti processuali
ad esercizio individuale con strumenti processuali di tipo collettivo, d’al-
tra parte, detta coesistenza non era delle più agevoli; difatti l’intervento
legislativo operato, per un verso, non poneva assolutamente fine alle pro-
blematiche processuali che affliggevano l’ambito di tutela individuale e,
dall’altro, presentava esso stesso non trascurabili lacune proprio in riferi-
mento alla disciplina dell’azione collettiva appena introdotta.

modifiche di cui si darà conto nel testo, v. BALLESTRERO, M.V., La nozione di discriminazione
nella legge 125/91, in Riv. crit. dir. lav., 1992, p. 773 ss.; BARBERA, M., Discriminazioni ed
uguaglianza nel rapporto di lavoro, Milano, 1991, p. 189 ss.; ID., La nozione di discriminazione,
in Commentario alla legge 10 aprile 1991, n. 125, azioni positive per la realizzazione della pa-
rità uomo-donna nel lavoro, in Le nuove leggi civ. comm., 1994, p. 46 ss.; FASANO, A. - MAN-
CARELLI, P., Parità e pari opportunità uomo-donna, Profili di diritto comunitario e nazionale,
Torino, 2001, p. 82 ss.; LUNARDON, F., Principio di uguaglianza, discriminazioni indirette ed
azioni positive nella l. n. 125/1991, in Giur. it., 1992, IV, p. 203 ss.; SCARPONI, S., La nozione
di discriminazione, in GAETA, L. - ZOPPOLI, L., Il diritto diseguale, Torino, 1992, p. 43 ss.; ID.,
Il divieto di discriminazione, in Nuova giur. lav., 1991, p. 9 ss.; VIDIRI, G., La parità di tratta-
mento. Il lavoro femminile, Padova, 1997, p. 174 ss.; da ultimo, DE SIMONE, G., Le modifiche
all’art. 4 della l. n. 125/1991: a) La nozione di discriminazione diretta e indiretta, in La riforma
delle istituzioni e degli strumenti delle politiche di pari opportunità, Commentario sistematico,
a cura di M. Barbera, in Le nuove leggi civ. comm., 2003, p. 711 ss. In giurisprudenza, v. Pret.
Lecce, 13 dicembre 1997, in Giur. mer., 1999, p. 531 ss., con nota di Fontana, e in Riv. crit.
dir. lav., 1999, p. 129; T. Voghera, 21 settembre 2005, in Riv. crit. dir. lav., 2005, p. 768. Di
recente, per un attento studio teso ad armonizzare le diverse nozioni di discriminazione di-
retta ed indiretta presenti nel nostro ordinamento, v. in particolare CHIECO, P., Frantumazione
e ricomposizione delle nozioni di discriminazione, in Riv. giur. lav., 2006, I, p. 559 ss.
10 Cfr. retro la dottrina cit. in nota 8.
608 CAPITOLO OTTAVO

Sul primo fronte, rimanevano ferme le difficoltà derivanti, tanto in


sede di applicazione della generale azione di nullità prevista dall’art. 15
dello Statuto dei lavoratori, quanto in sede di applicazione dell’azione
speciale diversamente prevista dall’art. 15 della l. n. 903/77. La prima,
arma di frequente spuntata a causa delle difficoltà di spingere il fronte
della tutela oltre risultati meramente dichiarativi11, la seconda, effettiva-
mente più efficace in ragione del rimedio inibitorio e reintegratorio ivi
previsto, ma dall’ambito oggettivo di applicazione eccessivamente ri-
stretto, ovvero non comprendente le lesioni inferte nel corso del rap-
porto di lavoro12.
Sul secondo fronte, invece, ovvero quello attinente all’azione collet-
tiva, lo scoglio interpretativo principale era costituito dal particolare con-
tenuto dell’ordine giudiziale. Una volta accertata la discriminazione, in-
fatti, il giudice poteva solo ordinare al datore di apprestare entro un ter-
mine un piano di rimozione delle discriminazioni accertate13. Sicché,
secondo l’interpretazione dominante, l’azione collettiva non poteva in al-

11 Sul punto, per tutti, v. BALLESTRERO, M.V., Dalla Tutela alla parità. La legislazione ita-

liana sul lavoro delle donne, Bologna, 1979, p. 268 ss.; ID., I giudici e la parità, cit., spec. p.
472 ss. Ed ancor prima TREU, T., Condotta antisindacale del datore di lavoro e atti discrimina-
tori, Milano, 1974, p. 51 ss.
12 La dottrina formatasi prima del d.legisl. n. 196/2000 ha frequentemente rilevato

come la legge n. 125, nella sua formulazione originaria, abbia lasciato inalterata la stridente
disparità di tutela giurisdizionale esistente tra le lavoratrici che vengono ad essere discrimi-
nate durante lo svolgimento del rapporto di lavoro, e che di conseguenza si trovano a dover
far ricorso all’ordinaria azione di nullità, e le lavoratrici che diversamente, subendo il pregiu-
dizio al momento dell’assunzione, possono ricorrere all’azione speciale; sul punto v., tra gli al-
tri, CATALINI TONELLI, P., Primi interrogativi sui principali nuclei normativi della nuova legge n.
125/1991 in tema di azioni positive e pari opportunità tra uomo e donna, in Riv. giur. lav.,
1991, I, p. 52 s.; GUARRIELLO, F., Le azioni in giudizio, in GAETA, L. - ZOPPOLI, L., Il diritto di-
seguale. La legge sulle azioni positive, cit., p. 186 ss., ma spec. p. 205 s.; MINERVINI, A., Dalla
parità di trattamento alle azioni positive per le pari opportunità nelle prime esperienze, in Dir.
lav., 1993, p. 331 ss., spec. p. 342; PESSI, R., Lavoro e discriminazione femminile, in Giorn. dir.
lav. rel. ind., 1994, p. 413 ss., ma spec. p. 471; RAPISARDA, C., La tutela giudiziale dei diritti di
parità tra azione individuale e azione pubblica, in Riv. crit. dir. lav., 1992, p. 785 ss., ma spec.
p. 788; IZZI, D., Discriminazioni di sesso nel rapporto di lavoro: il nuovo regime processuale, in
Riv. trim. dir. proc. civ., 1994, p. 517 ss., ma spec. p. 574.
13 La dottrina anteriore al d.legisl. n. 196/2000 riconosceva piuttosto unanimemente,

da un lato, l’impossibilità che il giudice stesso procedesse da sé alla definizione del piano di
rimozione e, dall’altro, il datore dovesse essere ritenuto compulso all’attuazione del piano in
ragione della sanzione penale prevista dal comma 8 dell’art. 4 l. 125/91. D’altra parte il testo
della legge deponeva a favore della tesi secondo cui fosse oggetto di sanzione solo la mancata
predisposizione del piano senza connessione alcuna con i contenuti dello stesso. Sul punto, v.
SILVESTRI, E., Rilievi sul piano di rimozione delle discriminazioni collettive, in Riv. crit. dir. lav.,
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 609

cun modo mirare alla realizzazione diretta delle pretese dei soggetti di-
scriminati, cioè non aveva alcuna efficacia propriamente sanzionatoria,
rimettendosi in definitiva alla piena libertà dell’imprenditore, tanto la de-
terminazione del contenuto del piano di rimozione, quanto la sua suc-
cessiva messa in opera14.
Stante questo quadro bilateralmente claudicante, nel tentativo di
perfezionare il sistema delle tutele, il legislatore è intervenuto nuova-
mente con il d.legisl. n. 196 del 2000.

1992, p. 804 ss., cui adde, BALENA, G., Gli aspetti processuali della tutela contro le discrimina-
zioni di sesso, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1995, p. 425 ss., ma spec. p. 431; DE ANGELIS, L., Pro-
fili della tutela processuale contro le discriminazioni tra lavoratori e lavoratrici, in Riv. it. dir.
lav., 1992, p. 457 ss., ma spec. p. 486 ss.; ID., Considerazioni in tema di decisione della causa
promossa contro le discriminazioni sessuali collettive, in Riv. crit. dir. lav., 1992, p. 798 ss.,
spec. p. 800; PESSI, R., Lavoro e discriminazione, cit., p. 473; PULEO, A., Discriminazioni di
sesso nel mercato del lavoro. Novità ed aporie di un modello processuale, in Riv. trim. dir. proc.
civ., 1996, p. 89 ss., ma spec. p. 123 s.; RAPISARDA, C., Azioni positive per la realizzazione della
parità uomo-donna nel lavoro, IV, La tutela dei soggetti discriminati, Azione individuale,
Azione pubblica e tentativo di conciliazione, in Le nuove leggi civ. comm., 1994, p. 73 ss., spec.
p. 88; SASSANI, B., Aspetti processuali della l. n. 125/91 («Azioni positive per la realizzazione
della parità uomo-donna nel lavoro), in Riv. dir. proc., 1992, p. 860 ss., ma spec. p. 875 s.; VAL-
LEBONA, A., in SASSANI, B. - VALLEBONA, A., Le pari opportunità: onere della prova e sanzioni,
in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1992, p. 130 ss., ma spec. p. 141 s.; parzialmente difforme l’opi-
nione di CICCHITI, V.E., Profili processuali della tutela della parità tra uomini e donne in mate-
ria di lavoro, in Riv. dir. proc., 1996, p. 1187 ss., ma spec. p. 1196 ss., che in relazione al con-
tenuto della sentenza, pur ammettendo che il datore non fosse tenuto ad attuare il piano, ha
comunque parlato di un provvedimento dal contenuto «dichiarativo ed inibitorio»; provve-
dimento che tende «a bloccare l’illecito o meglio a non permetterne la ripetizione o la conti-
nuazione». Sul tema, v. ancora, più di recente, CURCIO, L., Le modifiche all’art. 4 della l. n.
125/1991: e) Il piano di azioni positive giudiziale, le procedure d’urgenza, l’inottemperanza alla
sentenza, il raccordo con l’art. 15, l. n. 903/77 e con l’art. 410 c.p.c., in La riforma delle istitu-
zioni e degli strumenti delle politiche di pari opportunità, Commentario sistematico, a cura di
M. Barbera, in Le nuove leggi civ. comm., 2003, p. 773 ss.
14 Così, ad es., SILVESTRI, E., Rilievi sul piano di rimozione delle discriminazioni collet-

tive, in Riv. crit. dir. lav., 1992, p. 804 ss., spec. p. 805. Parte della dottrina riteneva che il giu-
dice potesse indirizzare all’imprenditore delle indicazioni per procedere alla rimozione delle
discriminazioni; indicazioni valide come punto di riferimento per il giudice penale ai fini
della valutazione del reato d’inottemperanza; secondo questa tesi, dunque, la sanzione penale
rilevava, sia in ordine al rispetto del termine per la predisposizione del piano, sia per ciò che
riguardava il rispetto dei criteri da seguire per la definizione dello stesso; così, RAPISARDA, C.,
La tutela dei soggetti discriminati, cit., p. 88; BALENA, G., Gli aspetti processuali della tutela
contro le discriminazioni di sesso, cit., p. 431; VALLEBONA, A., in SASSANI, B. - VALLEBONA, A.,
Le pari opportunità: onere della prova e sanzioni, cit., p. 142; SASSANI, B., Aspetti processuali
della l. n. 125/91 («Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro), cit.,
p. 876, che però evidenzia la difficoltà di individuare i limiti di questo controllo di merito
sulle scelte dell’imprenditore.
610 CAPITOLO OTTAVO

In primo luogo la novella ha riportato a simmetria il fronte della tu-


tela individuale15, disponendo all’art. 4, comma 13, del decreto, che
«ferma restando l’azione ordinaria, le disposizioni dell’art. 15 della legge
9 dicembre 1977, n. 903, si applicano in tutti i casi di azione individuale
promossa dalla persona che vi abbia interesse o su sua delega da un’or-
ganizzazione sindacale o dalla consigliera o dal consigliere provinciale o
regionale di parità». Sicuramente la formulazione della norma appena ri-
chiamata non è delle migliori, ma non pare dubbio che il significato pre-
cettivo più corretto da attribuirvi sia il ritenere che ora tutte le azioni in-
dividuali dirette a lamentare comportamenti discriminatori datorili, an-
che – ad esempio – se incorsi durante lo svolgimento del rapporto di
lavoro, siano proponibili nelle speciali forme del rito sommario-decisorio
già previsto dall’art. 15 della l. n. 903/77 e comunque, indipendente-
mente dal rito prescelto, portino con loro la possibilità di richiedere al
giudice gli adeguati provvedimenti inibitori e ripristinatori, giovandosi –
tra l’altro – delle misure coercitive che li sorreggono16.
Per quel che invece riguarda il fronte della tutela collettiva, con il
d.legisl. 23 maggio 2000, n. 196, gli strumenti processuali attribuiti al con-
sigliere di parità avverso i comportamenti discriminatori «collettivi»
hanno innanzitutto acquisito una duplice veste, in quanto, all’azione ordi-
naria già precedentemente disciplinata dal vecchio testo normativo, il le-
gislatore ha aggiunto una procedura sommaria, che, disegnata anch’essa
sulla falsariga del procedimento già previsto dall’art. 28 dello Statuto e
dall’art. 15 della legge n. 903/77, si conclude con un decreto immediata-
mente esecutivo – e successivamente opponibile – con il quale il giudice
«ordina all’autore della discriminazione la cessazione del comportamento
pregiudizievole e adotta ogni altro provvedimento idoneo a rimuovere gli
effetti delle discriminazioni accertate, ivi compreso l’ordine di definizione
ed attuazione […] di un piano di rimozione delle medesime».
Secondariamente, il decreto legislativo è intervenuto anche in me-
rito alla disciplina del contenuto del provvedimento conclusivo del giu-

15 Proprio di asimmetria, infatti, parlava la dottrina riguardo alla disciplina previgente:


cf. ad es. CATALINI TONELLI, P., Primi interrogativi sui principali nuclei normativi della nuova
legge n. 125/1991 in tema di azioni positive e pari opportunità tra uomo e donna, cit., p. 54.
16 CICCHITI, V.E., La tutela processuale della parità dopo il d.lgs. del 23 maggio 2000 n.

196, in Riv. dir. proc., 2003, p. 171 ss., spec. 175; FERRANTE, V., Mobbing, discriminazioni in
ragione di sesso e tutela inibitoria, in Lav. giur., 2001, p. 978; AMATO, F., Le modifiche all’art.
4 della l. n. 125/1991: d) L’azione individuale e l’azione collettiva, in La riforma delle istitu-
zioni, cit., p. 760; CURCIO, L., Le modifiche all’art. 4 della l. n. 125/1991, cit., p. 775 s.; BOR-
GHESI, D., in Il processo del lavoro, Torino, 2005, p. 488.
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 611

dizio ordinario. Se, infatti, come appena visto, l’art. 4, comma 7, della
legge 125/1991, prevedeva che l’oggetto dell’ordine del giudiziale fosse
unicamente la definizione del piano di rimozione, a seguito della richia-
mata novella, il nuovo comma 9 del medesimo articolo prescrive che il
giudice non solo ordini la definizione del piano, ma parimenti proceda
alla fissazione dei «criteri», anche temporali, da osservarsi ai fini della de-
finizione ed attuazione del piano stesso. Con ciò, dunque, le sanzioni che
la legge dispone in caso di inottemperanza della sentenza non vanno ri-
ferite solo alla mancata predisposizione del piano di rimozione entro la
data fissata, ma anche, inequivocabilmente, alla mancata osservanza dei
«criteri» di merito che il giudice detta al datore in sede di provvedimento
conclusivo in ordine all’apprestamento del piano17.
Più di recente, infine, il legislatore è di nuovo intervenuto in mate-
ria, prima con il d.legisl. 30 maggio 2005, n. 145 (e ciò in attuazione alla
direttiva 2002/73/CE18) e poi con il d.legisl. 11 aprile 2006, n. 198, il
quale ha costituito un codice delle pari opportunità tra uomo e donna in
cui sono state trasfuse – o ancor più semplicemente trasmigrate – anche
le disposizioni su cui ci siamo sino ad ora intrattenuti, senza peraltro al-
terazioni di rilievo per ciò che riguarda i principali profili processuali che
qui interessano19.

17 Così sembra incontestabilmente già da un piano di interpretazione strettamente let-

terale: cfr. LANFRANCHI, L., Le animulae vagulae blandulae e l’altra faccia della luna, in La tu-
tela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, a cura di Lanfranchi, Torino, 2003, p.
XXXV ss.; DONZELLI, R., Considerazioni sul procedimento per la repressione della condotta an-
tisindacale alla luce delle tecniche di tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e/o diffusi,
ivi, p. 227, nota 135; ID., Considerazioni sulla natura dell’azione esercitata dal consigliere di pa-
rità, cit., p. 619 ss. e nota 21; CURCIO, L., Le modifiche all’art. 4 della l. n. 125/1991, cit., p.
774; BORGHESI, D., in Il processo del lavoro, cit., 2005, p. 489-490. Implicitamente, v. anche
MORROZZO DELLA ROCCA, P., Gli atti discriminatori nel diritto civile alla luce degli artt. 43 e 44
del T.U. sull’immigrazione, cit., p. 135. Desta perplessità, dunque, l’opinione contraria: cfr.
CICCHITI, V.E., La tutela processuale della parità dopo il d.lgs. del 23 maggio 2000 n. 196, cit.,
p. 187 ss.; BASILICO, G., La tutela della parità uomo-donna nei rapporti di lavoro, in La tutela
giurisdizionale degli interessi collettivi e/o diffusi, cit., p. 547; AMATO, F., Le modifiche all’art.
4 della l. n. 125/1991: d) L’azione individuale e l’azione collettiva, cit., p. 769.
18 Sulla direttiva 2002/73/CE, modificatrice della precedente direttiva 76/207/CEE in

materia di parità di trattamento uomo-donna, oltre ai riferimenti presenti alla nota che pre-
cede, più specificamente, cfr. DENTAMARO, B., Parità di trattamento uomo-donna e tutela so-
stanziale contro le discriminazioni nella direttiva 2002/73/CE, in Lavoro giur., 2004, p. 329 ss.;
sulla legge 31 ottobre 2003, n. 306, contenente all’art. 17 la delega al Governo per l’adozione
dei decreti legislativi attuativi della direttiva 2002/73/CE, cfr. NUNIN, R., La legge comunita-
ria 2003: norme di interesse giuslavoristico, in Lavoro giur., 2004, p. 5 ss.
19 Numerose le critiche che la dottrina ha rivolto al codice: cfr. BARBERA, M. - CAFALÀ,

L. - AMATO, F., Note sul progetto di Codice sulle pari opportunità tra uomo e donna, agevol-
612 CAPITOLO OTTAVO

Sorprendente è, invece, quanto dispone il d.legisl. 145 del 2005, il


quale, a parte l’estensione della nozione di discriminazione ad altri com-
portamenti discriminatori tra cui le molestie e altre pratiche ritorsive,
prevede che – si badi bene – in sede di giudizio collettivo il giudice possa
provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimo-
niale20.

2.1.3. Sintesi del quadro delle tutele


Tirando, quindi, le somme dell’itinerario legislativo qui brevemente
riepilogato e riferendoci ormai alla nuova collocazione che le diverse di-
sposizioni hanno trovato nel Titolo I (Pari opportunità nel lavoro) del co-
dice delle pari opportunità, il sistema di tutele in materia di discrimina-
zione uomo-donna sembra apparire – in semplificazione estrema – nei
termini che seguono.
Per quanto riguarda le fattispecie lesive, da un lato, l’art. 25 prevede
una disposizione a carattere generale delineante la nozione di discrimina-
zione diretta ed indiretta, e, dall’altro, seguono gli articoli che vanno dal
26 al 35, i quali rappresentano la riproposizione pedissequa di norme già
esistenti e disciplinanti particolari fattispecie di discriminazione.
Sulla legittimazione ad agire a titolo individuale dispone l’art. 36
che, da un lato, contempla implicitamente l’azione dei soggetti discrimi-
nati e, dall’altro, facultizza gli stessi a delegare l’esercizio dell’azione al
consigliere di parità; va peraltro tenuta presente la possibilità, prevista
dall’art. 38, comma 1, di delegare l’esercizio dell’azione anche alle orga-
nizzazioni sindacali, se la discriminazione concerne l’accesso al lavoro.
Riguardo alla legittimazione ad agire a titolo collettivo dispone l’art.
37, rubricato Legittimazione processuale a tutela di più soggetti, che attri-
buisce l’azione al consigliere di parità; e ciò, come già accennato, in pre-
senza di comportamenti discriminatori diretti o indiretti di carattere col-
lettivo, anche se non siano individuabili in modo immediato e diretto le
lavoratrici o i lavoratori lesi dalle discriminazioni21.

mente reperibile via internet; GOTTARDI, D., Il nuovo Codice delle pari opportunità tra uomo e
donna, in Guida lav., 2006, fasc. 25, p. 20 ss.; MONDA, G.M., La tutela del lavoratore contro le
discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale, in Dir. lav., 2006, I, p. 119 ss., spec. p. 129;
SCIOTTI, R., Novità legislative in tema di pari opportunità tra uomo e donna, in Dir. lav., 2006,
I, p. 337 ss. Più in generale, v. Il codice delle pari opportunità, a cura di G. De Marzo, Milano,
2007.
20 Ci riferiamo all’art. 2, comma 1, lett. d), del d.legisl. n. 145/2005.
21 Il comma 2 dell’art. 36 del codice prevede anche, alternativamente alla delega, che il

consigliere possa intervenire nelle cause promosse dalla persona discriminata. In dottrina, seb-
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 613

Per quanto riguarda le forme del giudizio individuale, alle forme co-
gnitive ordinarie del rito del lavoro, stando a quanto dispone l’art. 38, ul-
timo comma, va aggiunta la possibilità di esercitare l’azione individuale
(anche delegata) nelle forme speciali (prima previste dall’art. 15 della l. n.
903/77 ed ora) contemplate dal medesimo articolo 38 nei suoi primi cin-
que commi.
Con riferimento alle forme del giudizio collettivo, l’art. 37 prevede
accanto alle forme ordinarie del rito del lavoro anche la procedura spe-
ciale sommaria già indicata.
Per ciò che, infine, riguarda i rimedi individuali e collettivi, ovvero
più specificamente il contenuto dei provvedimenti che possono essere ri-
chiesti al giudice, con riferimento all’azione individuale ed argomen-
tando sulla base del primo ed ultimo comma dell’art. 38, il soggetto di-
scriminato può chiedere ed ottenere un provvedimento a contenuto ini-
bitorio, ripristinatorio ed anche, ovviamente, risarcitorio; con riferimento
all’azione collettiva, invece, il consigliere di parità, in sede di giudizio col-
lettivo può ottenere tanto l’ordine di cessazione del comportamento pre-
giudizievole, quanto ogni altro provvedimento idoneo a rimuovere gli ef-
fetti della discriminazione, ivi compreso, da un lato, l’ordine di defini-
zione del piano di rimozione, e dall’altro, il risarcimento del danno patito
dai soggetti discriminati. In altri termini, i risultati che l’azione collettiva
può conseguire nelle forme ordinarie piuttosto che nelle forme speciali
devono essere ritenuti i medesimi22.

bene in relazione alla l. n. 125/91, l’inquadramento di tale potere processuale aveva dato luogo
ad ogni possibile ricostruzione: talune opinioni hanno qualificato questo intervento come liti-
sconsortile (RAPISARDA, C., La tutela dei soggetti discriminati, cit., p. 83; DE ANGELIS, L., Arti-
colo 4, Azioni in giudizio, in La legge italiana per la parità di opportunità delle lavoratrici: com-
mento alla l. 10 aprile 1991, n. 125, Napoli, 1993, p. 90; PULEO, A., Discriminazioni di sesso nel
mercato del lavoro, cit., p. 100, nota 34) altre come adesivo dipendente, instaurando un paral-
lelo tra tale tipologia di intervento e quello previsto dall’art. 70, comma 2, c.p.c. (BALENA, G.,
Gli aspetti processuali della tutela contro le discriminazioni di sesso, cit., p. 434; AMATO, F., Le
modifiche all’art. 4 della l. n. 125/1991: d - L’azione individuale e l’azione collettiva, cit., p. 768;
BORGHESI, D., in Il processo del lavoro, cit., p. 489), altre ancora hanno ritenuto superfluo un
suo preciso inquadramento (IZZI, D., Discriminazioni di sesso nel rapporto di lavoro: il nuovo re-
gime processuale, cit., p. 575 s.). D’altro canto, l’esatta qualificazione dell’intervento porta con
sé la determinazione dei poteri processuali che spettano all’interventore e vede a monte la
chiarificazione circa la natura e l’oggetto dell’azione che il consigliere può autonomamente
esercitare. Muovendo da queste premesse, quindi, vista la configurazione in termini di con-
correnza del diritto alla repressione dell’illecito che spetta al singolo rispetto al consigliere,
sembrerebbe corretto propendere per un intervento di natura litisconsortile.
22 Visto che la dottrina ha talora dimostrato una ritrosia difficilmente comprensibile

nell’interpretare anche solamente in senso letterale le disposizioni che la legge presenta, non
614 CAPITOLO OTTAVO

2.2. Gli altri strumenti di tutela collettiva antidiscriminatoria: dal d.legisl.


n. 286/98 alla l. n. 67/2006
Oltre alla disciplina appena esposta, il nostro ordinamento si è do-
tato anche di altre significative misure giurisdizionali antidiscriminatorie23.
Qualche anno fa, infatti, in applicazione delle direttive 2000/43/CE e
2000/78/ CE24, sono stati introdotti i decreti legislativi 9 luglio 2003, nn.
vorremmo che passasse per ardita una lettura che al contrario è estremamente piana. Gli ar-
gomenti che la supportano, infatti, sono diversi e numerosi. In primo luogo, la natura del-
l’interesse tutelato, afferente alla sfera della persona e di tenore inequivocabilmente costitu-
zionale, non consente di ritenere che il rimedio inibitorio e ripristinatorio, a parità di fatti-
specie lesiva, operi solo nei giudizi collettivi introdotti nelle forme sommarie. In secondo
luogo l’ordine di definizione del piano di rimozione appare rimedio a carattere specifico in
termini di tutela ripristinatoria; specificità che appare sin dalla lettera dell’attuale comma 4
dell’art. 37, in cui è previsto che il giudice adotti ogni provvedimento idoneo a rimuovere gli
effetti delle discriminazioni «ivi compreso» il piano di rimozione. Ciò induce l’interprete a ri-
tenere che la possibilità di richiedere il piano includa a fortiori la possibilità di ottenere l’or-
dine inibitorio e ripristinatorio. In terzo luogo, è lo stesso comma 3 dell’art. 4 che, accanto al-
l’ordine di predisporre un piano di rimozione delle discriminazioni accertate, pone la richie-
sta di risarcimento del danno non patrimoniale, misura riparatoria che costituisce la
dimostrazione indiscutibile del massimo grado di effettività che vuole essere assegnato al giu-
dizio collettivo antidiscriminatorio. La questione, sebbene prima della novella del 2005, è già
stata oggetto di adeguata puntualizzazione da parte di BORGHESI, D., in Il processo del lavoro,
cit., p. 488, che ha evidenziato come, evidentemente, non sia pensabile che il petitum fatto va-
lere in sede ordinaria possa essere diverso, a parità di situazione giuridica tutelata, rispetto a
quello fatto valere in sede sommaria.
23 Per un quadro generale, v. MARIANI, M., Atti e trattamenti discriminatori, Postilla di

aggiornamento, in Enc. giur. Trec., III, Roma, 2006.


24 Sulle direttive 2000/43/CE e 2000/78/CE, cfr. CHIECO, P., Le nuove direttive comu-

nitarie sul divieto di discriminazione, in Riv. it. dir. lav., 2002, p. 75 ss.; AMATO, F., Le nuove
direttive comunitarie sul divieto di discriminazione. Riflessioni critiche e prospettive per la rea-
lizzazione di una società multietnica, in Lav. e dir., 2003, p. 127 ss.; SAPORITO, L., La condizione
giuridica dell’extracomunitario: divieto di discriminazione e parità di trattamento, in Europa e
dir. priv., 2004, p. 1245 ss., ma spec. p. 1254 ss. V. anche i contributi raccolti nel fasc. 3-4 del
2003 del Giorn. dir. lav. rel ind., tra cui in particolare, GUARRIELLO, F., Il nuovo diritto antidi-
scriminatorio, p. 341 ss.; BARBERA, M., Eguaglianza e differenza nella nuova stagione del diritto
antidiscriminatorio comunitario, p. 399 ss.; GOTTARDI, D., Dalle discriminazioni di genere alle
discriminazioni doppie o sovrapposte: le transizioni, p. 447 ss.
25 Sui decreti legislativi 9 luglio 2003, n. 215 e 9 luglio 2003, n. 216, cfr. NUNIN, R., Re-

cepite le direttive comunitarie in materia di lotta contro le discriminazioni, in Lavoro giur.,


2003, p. 905 ss.; PALLADINI, L’attuazione delle direttive comunitarie contro le discriminazioni di
razza etnia, religione o convinzione personale, handicap, età e orientamento sessuale, in Mass.
giu. lav., 2004, p. 39 ss.; DE SIMONE, G., Eguaglianza e nuove differenze nei lavori flessibili, fra
diritto comunitario e diritto interno, in Lav. e dir., 2004, p. 527 ss., ma spec. p. 531 ss.; CA-
FALÀ, L., Le direttive antidiscriminatorie di «nuova generazione»: il recepimento italiano, in
Studium iuris, 2004, p. 873 ss.; BONINI BARALDI, M., La discriminazione sulla base dell’orienta-
mento sessuale nell’impiego e nell’occupazione: esempi concreti ed aspetti problematici alla luce
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 615

215 e 21625 e, ancor più di recente, è entrata in vigore la legge 1° marzo


2006, n. 6726.
Tutti i provvedimenti appena indicati, peraltro, si sono andati ad in-
cardinare sulla disciplina che già era prevista dagli artt. 43 e 44 del d.le-
gisl. 25 luglio 1998, n. 286, costituente il testo unico in materia di immi-
grazione e condizione giuridica dello straniero27.
Quest’ultimo, infatti, già contemplava due binari di tutela rivolti alla
repressione dei comportamenti discriminatori in via diretta e indiretta,
per ragione di razza, colore, ascendenza, origine nazionale o etnica, con-
vinzioni o pratiche religiose. Anche, qui, insomma, come in materia di di-
scriminazione per ragioni di sesso, si assisteva alla coesistenza di rimedi
ad iniziativa individuale con rimedi processuali ad iniziativa riservata agli
enti esponenziali degli interessi coinvolti.
Su tale trama normativa si sono inseriti i decreti legislativi nn. 215 e
216, nonché la l. n. 67/2006.
Come fatto, peraltro, poc’anzi riguardo alla disciplina ora dettata dal
d.legisl. n. 198/2006, prima di confrontarci con i temi che propriamente
appartengono al nostro tema di indagine, è opportuno anche qui deli-
neare uno schema di sintesi del complessivo sistema di tutele previsto.

delle nuove norme comunitarie, in Dir. rel. ind., 2004, p. 775 ss. Si vedano anche i contributi
raccolti nel volume collettaneo La discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, L’attua-
zione della direttiva 2000/78/CE e la nuova disciplina per la protezione dei diritti delle persone
omosessuali sul posto di lavoro, a cura di S. Fabeni e M.G. Toniollo, Roma, 2005, ed in parti-
colare: FABENI, S., Norme antidiscriminatorie e il decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216: le op-
portunità mancate e le prospettive per una riforma, ivi, p. 91 ss.; GOTTARDI, D., Il diritto anti-
discriminatorio e la nozione di discriminazione diretta e indiretta, ivi, p. 117 ss.; MANTELLO, M.,
La tutela della privacy del lavoratore omosessuale. Le prospettive alla luce del decreto 9 luglio
2003, n. 216 e della nuova disciplina sul mercato del lavoro, ivi, p. 187 ss.; SCARPONI, S., La no-
zione di molestia secondo il decreto di trasposizione delle direttive antidiscriminatorie. Affinità
e differenze rispetto all’elaborazione in materia di «mobbing», ivi, p. 233 ss.; TORRICE, A., L’a-
zione civile contro le discriminazioni, ivi, p. 202 ss.; GAROFALO, M.G. - RECCHIA, G.A., Le san-
zioni e la loro efficacia, ivi, p. 315 ss. (ma pubblicato anche in Riv. giur. lav., 2005, I, p. 615
ss. con il titolo Le sanzioni contro le discriminazioni per orientamento sessuale); CURCIO, L., Le-
gittimazione ad agire nel nostro ordinamento e in particolare nel diritto del lavoro, ivi, p. 353
ss. Cfr. anche BORGHESI, D., in Il processo del lavoro, cit., p. 494 ss. Di recente, v. MONDA,
G.M., Tutela del lavoratore contro le discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale, in Dir.
lav., 2006, I, p. 119 ss.
26 Su cui cfr. SACCHETTINI, E., Dubbie le richieste di ristoro avanzate dagli enti esponen-

ziali, in Guida dir., 2006, fasc. 14, p. 35 ss.; TURCO, V., Lotta alla discriminazione dei disabili.
Doppia tutela: inibitoria e risarcitoria, in Dir. giust., 2006, fasc. 16, p. 103 ss.; GRECO, A., L.
67/2006: tutela inibitoria e risarcitoria per i soggetti disabili vittime di discriminazioni, in Resp.
civ. prev., 2007, p. 243 ss.; MARUFFI, R., Le nuove norme sulla tutela giudiziaria delle persone
con disabilità vittime di discriminazioni, in Riv. dir. proc., 2007, p. 123 ss.
616 CAPITOLO OTTAVO

In primo luogo, mettendo da parte i distinti ambiti di applicazione,


che in questo caso tendono comunque ad estendersi oltre la tradizionale
area del rapporto di lavoro, il fronte di tutela antidiscriminatoria sul
piano sostanziale, ovvero per ciò che riguarda le fattispecie lesive, è in ge-
nerale costituito da una serie di divieti di discriminazione diretta e indi-
retta per ragioni di razza e origine etnica (art. 2 d.legisl. n. 215/03), di re-
ligione, convinzioni personali, handicap, età e orientamento sessuale (art.
2 d.legisl. n. 216/ 03) ed infine di disabilità (art. 2 l. 67/2006), e ciò in ag-
giunta a quanto disposto dall’art. 43, comma 1 e 2, del t.u. con riferi-
mento ai fattori di rischio già indicati28.
Per quel che attiene alla legittimazione ad agire a titolo individuale,
questa spetta ovviamente ai soggetti discriminati, i quali possono dele-
gare l’esercizio dell’azione agli enti esponenziali che sono anche legitti-
mati ad avviare il giudizio teso alla repressione delle discriminazioni col-
lettive.
Questi ultimi, ovvero i soggetti legittimati ad agire a titolo collettivo,
sono costituiti dalle rappresentanze locali delle organizzazioni sindacali
maggiormente rappresentative a livello nazionale (art. 44, comma 10, t.u.;
art. 5, comma 1 e 2, d.legisl. n. 216) o dalle associazioni e dagli enti inse-
riti in un apposito elenco approvato con decreto del Ministro del lavoro e
delle politiche sociali e del Ministero per le pari opportunità ed indivi-
duati sulla base delle finalità programmatiche nonché della continuità del-
l’azione (art. 5, comma 1-3, d.legisl. n. 215; art. 4, comma 1 e 3, l. 67/
2000). Tale legittimazione ad agire è – come già previsto nella l. 125/91 –
condizionata al carattere collettivo della discriminazione, ma il punto, sul
quale peraltro torneremo più avanti, è disomogeneamente regolamentato.

27 Per un esame più articolato della disciplina sommariamente richiamata nel testo ri-

guardo gli artt. 43 e 44 del d.legisl. 25 luglio, n. 286, cfr.: VISCOMI, A., La legge italiana del
1998 sul lavoro immigrato extracomunitario, in Diritto lavoro alterità, a cura di M. Cappelletti
e L. Gaeta, Napoli, 1998, p. 283 ss.; TARZIA, G., Manuale del processo del lavoro, Milano,
1999, p. 369 ss.; CASTELVETRI, L., Le garanzie contro le discriminazioni sul lavoro per motivi
razziali, etnici, nazionali o religiosi, in Dir. rel. ind., 1999, p. 321 ss.; CICCHITI, V.E., L’azione ci-
vile contro la discriminazione ex art. 44 t.u. 286/98, in Lavoro giur., 2000, p. 729 ss.; DONDI,
G., Immigrazione e lavoro: riflessioni e spunti critici, Padova, 2001; SCARSELLI, G., Appunti
sulla discriminazione razziale e la sua tutela giurisdizionale, in Riv. dir. civ., 2001, p. 805 ss.;
MORROZZO DELLA ROCCA, P., Gli atti discriminatori nel diritto civile alla luce degli artt. 43 e 44
del T.U. sull’immigrazione, cit., spec. p. 131 ss.; MANTELLO, M., La tutela civile contro le di-
scriminazioni, in Riv. dir. civ., 2004, p. 439 ss.
28 In particolare tanto il d.legisl. n. 215 quanto il d.legisl. n. 216 prevedono ai rispettivi

artt. 2, comma 2, che è fatto salvo quanto disposto dall’art. 43, commi 1 e 2, del testo unico
sull’immigrazione.
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 617

Nel t.u., come nella l. n. 125 del 1991, l’azione collettiva è esperibile
in presenza di «un comportamento discriminatorio collettivo anche – è
questo il punto rilevante – in casi in cui non siano individuabili in modo
immediato e diretto i lavoratori lesi dalle discriminazioni».
Similmente, stando a quanto dispone il comma 3 dell’art. 4 della
legge n. 67 del 2000, nei giudizi volti alla repressione dei comportamenti
discriminatori contro i disabili è sufficiente che tali comportamenti assu-
mano «carattere collettivo».
Il comma 3 dell’art. 5 del d.legisl. n. 215 ed il comma 2 dell’art. 5
del decreto «gemello», invece, prevedono che l’azione dell’ente esponen-
ziale sia esperibile nei «casi di discriminazione collettiva», non anche, ma
«qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone
lese dalla discriminazione».
Per ciò che attiene alle forme del processo, queste – sia esso un giu-
dizio individuale o un giudizio collettivo – sono quelle previste dall’art.
44 del t.u.
I commi 1-6, 8 e 11 di detta disposizione sono, infatti, richiamati dai
d.legisl. nn. 215 e 216 ed anche dalla legge n. 67 del 2006, la quale ultima
fa eccezione solo riguardo al rinvio – che qui manca – al comma 11 del-
l’art. 44 del t.u., che concerne la disciplina sanzionatoria in materia di re-
voca di benefici; cosicché – stando all’interpretazione costituzionaliz-
zatrice offerta da autorevole dottrina – il giudizio si avvia nelle forme
previste dal comma 3 dell’art. 44 t.u. dando luogo ad una prima fase
sommaria che si conclude con ordinanza reclamabile per poi proseguire
nelle forme ordinarie sino a concludersi con sentenza appellabile29.
L’aspetto in cui peraltro la disciplina legislativa raggiunge un livello
di vera e propria schizzofrenia è quello che concerne il contenuto dei
provvedimenti conclusivi ovvero i rimedi lato sensu sanzionatori che la
legge prevede.

29 Nel disegnare le linee del procedimento previsto dall’art. 44 del t.u. il legislatore ha

ritenuto opportuno non seguire, come già fatto in materia di parità di trattamento uomo-
donna, l’esempio del procedimento sommario-decisorio previsto in sede di art. 28 dello Sta-
tuto dei lavoratori, ma piuttosto definirne uno inedito. Sull’esame della disciplina e sulle so-
luzioni interpretative da adottarsi per rigorizzare la disciplina legislativa, v. TARZIA, G., Ma-
nuale del processo del lavoro, cit., p. 369 ss.; cui adde, CICCHITI, V.E., L’azione civile contro la
discriminazione ex art. 44 t.u. 286/98, cit., p. 729 ss.; SANTAGADA, F., La tutela giurisdizionale
dei diritti dello straniero nel testo unico sull’immigrazione, in Giusto processo civile e procedi-
menti decisori sommari, a cura di L. Lanfranchi, Torino, 2001, p. 341 ss., ma spec. p. 361 ss.;
BORGHESI, D., in Il processo del lavoro, p. 494 s. Nel senso di una dovuta ricostruzione costi-
tuzionalizzatrice, v. anche SCARSELLI, G., Appunti sulla discriminazione razziale e la sua tutela
giurisdizionale, cit., p. 828, nota 34 in fine.
618 CAPITOLO OTTAVO

In questo ambito si tocca con mano la fiera assenza dei pur minimi
elementi di cognizione che il legislatore avrebbe dovuto possedere per
disciplinare in maniera coerente la questione.
Se si guarda al t.u., il contenuto dei provvedimenti, che possono es-
sere emanati in sede di giudizio individuale, dovrebbe essere il seguente:
con l’ordinanza anticipatoria di cui si è detto o con la sentenza che defi-
nisce il giudizio il giudice può ordinare la cessazione del comportamento
pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo a rimuovere
gli effetti; mentre, dalla lettura del comma 7 dell’art. 44, sembrerebbe
che solo con la sentenza si possa anche condannare il convenuto al risar-
cimento del danno non patrimoniale.
Per ciò che attiene al giudizio collettivo, il comma 10 dell’art. 44 pre-
vede che con la «sentenza che accerta le discriminazioni» il giudice or-
dini al datore di definire un piano di rimozione delle stesse. Peraltro, vi-
sto che il giudizio collettivo segue le forme del giudizio individuale, il ri-
ferimento specifico che la disposizione appena citata opera nei confronti
della «sentenza che accerta le discriminazioni» accompagnato da una let-
tura sistematica di questa disposizione alla luce della disciplina poc’anzi
indicata in materia di azione del consigliere di parità, dovrebbe indurre a
ritenere che il contenuto del provvedimento conclusivo non sia costituito
solo dall’ordine di definizione del piano ma anche dagli ordini inibitori,
ripristinatori e risarcitori. In altri termini, stando a quando previsto dal
t.u. sembrerebbe che in sede di giudizio collettivo l’ordinanza anticipato-
ria sia limitata, come in sede individuale, all’ordine inibitorio e ai prov-
vedimenti ripristinatori, mentre la sentenza possa comprendere anche la
condanna al risarcimento e alla definizione del piano.
Se, poi, si passa all’esame dei decreti legislativi a cui più volte ab-
biamo fatto riferimento e alla legge n. 67 del 2006, il discorso si complica
ulteriormente.
In primo luogo, il generale rinvio che, riguardo alle forme dei giu-
dizi, questi provvedimenti operano alla disciplina dell’art. 44 del t.u. nei
commi già indicati appare particolarmente equivoco e fonte di incer-
tezze, poiché, da un lato, tali disposizioni sono talora indirizzate proprio
a definire il contenuto del provvedimento giudiziale (ad esempio il
comma 1 dell’art. 44 t.u.) e, dall’altro, gli stessi d.legisl. 215 e 216, non-
ché la l. n. 67, dispongono autonomamente in merito alla questione ora
in esame, senza distinguere, peraltro, tra ordinanza e sentenza. Stando
così le cose forse la strada più piana è seguire quanto specificamente è
previsto nei provvedimenti legislativi indicati ovvero ritenere che il giu-
dice «con il provvedimento con il quale è accolto il ricorso» (art. 4,
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 619

comma 5, dei d.legisl. nn. 215 e 216; art. 3, comma 3, della l. 67), cioè,
tanto con l’ordinanza quanto con la sentenza, possa condannare al risar-
cimento anche non patrimoniale, alla cessazione del comportamento ed
alla rimozione degli effetti compresa anche l’adozione del piano di rimo-
zione. Tali misure, infine, sembrerebbero potersi richiedere tanto in sede
di giudizio collettivo che in sede di giudizio individuale.

2.3. Conclusioni
Terminato questo primo tentativo di sistemazione in cui abbiamo
cercato di limitarci – per quanto possibile – ad interventi interpretativi di
ridotta incidenza e che in fondo cercassero di premiare una certa ratio ge-
neralis pur comune ai diversi ambiti di tutela, va subito detto che il ri-
sultato finale raggiunto non soddisfa comunque appieno.
Non vogliamo nuovamente passare in rassegna le disposizioni ap-
pena esaminate per rilevare le numerose antinomie e le inspiegabili in-
congruenze che emergono dalla lettura complessiva del sistema allorché
si proceda ad un esame anche solo poco più approfondito di quello ap-
pena svolto; il discorso uscirebbe di certo dai limiti di indagine che ap-
partengono a questo studio e comunque ci pare che, in assenza di un in-
tervento legislativo che sappia rivedere ex novo ed organicamente tutta la
disciplina, solo un’applicazione giurisprudenziale significativa può dare
stabilizzazione ad un quadro positivo così disarticolato. Va detto, peral-
tro, che di fronte all’interprete si apre una secca alternativa: o arrestarsi
al dato letterale e prendere atto delle incomprensibili differenze di disci-
plina che si presentano pur a parità di esigenze di tutela, o abbandonare
gli indugi ed affrontare una interpretazione costituzionalizzatrice, anche
talora in contrasto con il dato letterale, che sappia ricondurre a logica e
coerenza sistematica il quadro complessivo dei rimedi processuali.
Chi scrive pende di certo a favore della seconda opzione e, pur al-
l’interno di un contesto giurisprudenziale estremamente ridotto, sembra
non manchino significati esempi di tentativi ricostruttivi orientati in tale
senso30. Peraltro, come detto, giunti a questo punto della riflessione non

30 Ci riferiamo a P. Bologna, 27 giugno 1998, in Foro it., 1999, I, p. 3424 ss.; in Riv.

giur. lav., 1999, II, p. 325 ss. con nota di CAFALÀ, L., Le aporie processuali e l’assestamento so-
stanziale delle leggi sulla parità in una recente controversia in tema di discriminazione collettiva
indiretta. Il caso Gloria Bassi; in Riv. it. dir. lav., 1999, II, 284 ss., con nota di CATTANI, M., Un
decreto del pretore bolognese in tema di discriminazione indiretta. Non interessa in questa sede
l’esame della decisione nel merito delle scelte ricostruttive impiegate, essendo queste oramai
superate dalla novellazione del 2000 (il problema interpretativo era riferito alla possibilità di
esercitare l’azione collettiva ex art. 4 l. 125/91, nelle forme dell’art. 15 l. 903/77), ma preme
620 CAPITOLO OTTAVO

è possibile procedere nello sviluppo e nella determinazione delle infinite


soluzioni interpretative che un po’ a tutti i livelli potrebbero emergere
dall’esame più penetrante dei testi di legge poc’anzi indicati.
Chiariti i tratti essenziali della complessa disciplina, è ora invece
giunto il momento di concentrare l’attenzione sulla natura del giudizio
collettivo antidiscriminatorio, ovvero sul suo oggetto e sui suoi effetti.
Certamente alcune di queste questioni interpretative a cui abbiamo fatto
ora cenno emergeranno nel corso dell’indagine e non mancherà l’occa-
sione per cercare di risolverle, ma ciò oramai a fronte di un percorso ar-
gomentativo precipuamente orientato nella direzione da ultimo ribadita.

3. La dottrina in materia di oggetto ed effetti dell’azione collettiva anti-


discriminatoria
3.1. Considerazioni introduttive
Dalle considerazioni sino ad ora svolte – indipendentemente dalle
questioni a carattere più specifico che già si sono palesate – non pare
dubbio che il sistema di tutele previsto in generale in materia antidiscri-
minatoria si divida su due fronti: da un lato le azioni individuali, ovvero
le azioni riconosciute ai soggetti discriminati secondo le fattispecie so-
stanziali previste dalle diverse disposizioni in materia; dall’altro le azioni
collettive, ovvero le azioni attribuite a soggetti istituzionali o associazioni
rappresentative al ricorrere di discriminazioni a carattere collettivo.
Come è naturale, nelle prossime pagine di questo capitolo, la nostra
riflessione sarà in particolar modo rivolta all’esame dell’oggetto e degli
effetti di questo secondo gruppo di rimedi.
D’altra parte, preliminarmente, occorre ricordare quanto osservato
in avvio, in cui, seppur brevemente, abbiamo rilevato che il dibattito su
tali questioni è apparso in generale piuttosto modesto, non molto fre-
quentato dalla dottrina processualcivilistica e comunque essenzialmente
limitato all’azione collettiva attribuita al consigliere di parità in materia di
discriminazione uomo-donna.
rilevare la correttezza di metodo che questa pronuncia palesa. In essa, infatti, in primo luogo
vengono evidenziati i principi costituzionali che permeano la materia in questione (nel caso
di specie, concernente un’ipotesi di discriminazione collettiva per ragioni di sesso, gli artt. 3,
comma 2, e 37 Cost.) e ciò in contrasto alle «volute e inconsapevoli dimenticanze o alle in-
terpretazioni che tendono a negare il valore normativo di questi principi». Ed in secondo
luogo, si procede al superamento delle «aporie» e delle irragionevoli differenze di regola-
mentazione che il quadro positivo presenta proprio procedendo ad una opportuna e condivi-
sibile lettura interpretativa secundum Costituzionem.
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 621

Nella riflessione sulle diverse opzioni ricostruttive prospettabili in


relazione alla tutela collettiva antidiscriminatoria, saremo pertanto co-
stretti a riferirci ad un dibattito scientifico in gran parte sviluppatosi con
riferimento pressoché esclusivo a tale rimedio; dibattito per giunta con-
cernente il vecchio testo della l. n. 125 del 1991, ovvero quello anteriore
alla già esaminata novellazione operata dai decreti legislativi del 2000 e
del 2005.
Da quest’ultima circostanza, quindi, deriva anche il criterio ordina-
tore da noi prescelto per procedere all’esame delle diverse opzioni rico-
struttive avanzate in materia; difatti, il quadro complessivo, si presenta
formato, da un lato, da un ampio gruppo di opinioni (piuttosto omoge-
nee nelle premesse ricostruttive, oltre che negli esiti interpretativi) for-
matesi prevalentemente in riferimento alla prima formulazione della
legge sulle azioni positive, e, dall’altro, un orientamento più recente (seb-
bene più limitato), a cui, oltre ad autorevole dottrina, ha avuto modo di
aderire anche chi scrive. Ciò detto, in una prima fase, esaminaremo l’o-
rientamento maggioritario in merito alla natura, all’oggetto e agli effetti
del giudizio collettivo antidiscriminatorio e, in un secondo momento,
procederemo direttamente in senso critico-ricostruttivo, riprendendo ed
ampliando gli argomenti interpretativi già individuati dal più recente
orientamento or ora indicato, per poi affrontare gli ulteriori profili pro-
blematici che questi procedimenti sollevano e che sembrano comunque
potersi risolvere applicando i criteri interpretativi elaborati nei capitoli
che precedono.

3.2. La tesi del doppio binario


3.2.1. L’interesse tutelato nel giudizio collettivo
Come appena detto, il primo orientamento dottrinale da sottoporre
ad esame è quello che ha risolutamente negato che l’oggetto del giudizio
discriminatorio sia costituito dai diritti soggettivi di coloro che hanno su-
bito la discriminazione.
La linea interpretativa appena accennata rappresenta – come poc’an-
zi anticipato – l’orientamento forse tuttora dominante e si è sviluppata in
particolare riferimento al giudizio collettivo previsto dalla legge sulle
azioni positive del 1991, così come disciplinato nell’originaria formula-
zione positiva del rimedio; d’altro canto, anche di recente, ha rappresen-
tato un modello ricostruttivo da esportare in relazione agli altri procedi-
menti discriminatori che abbiamo richiamato.
622 CAPITOLO OTTAVO

In sintesi semplificativa, stando a questa posizione, gli interessi tute-


lati in sede di giudizio collettivo antidiscriminatorio avrebbero natura
pubblica, generale, o comunque sovraindividuale.
Più in particolare, a questo risultato interpretativo, si è giunti se-
guendo prevalentemente due strade.
Secondo una prima impostazione, ovviamente di stretta inerenza al-
l’azione del consigliere di parità, la menzionata natura degli interessi ivi
tutelati discenderebbe per lo più dalla veste pubblica del soggetto legitti-
mato. La natura pubblica e generale dell’interesse perseguito troverebbe
riscontro, difatti, nella incontestabile somiglianza funzionale del ruolo ri-
vestito dal consigliere di parità rispetto ad altre figure istituzionalmente
preposte alla tutela di interessi pubblici31, quali le autorità indipen-
denti32, il difensore civico33 o comunque – per ciò che riguarda più pre-
cisamente la sua funzione giurisdizionale – il pubblico ministero34.
Altra parte della dottrina, invece, pur non contrapponendosi a que-
st’impostazione di rilievo prevalentemente funzionale35, ha integrato
31 BORGOGELLI, F., I consiglieri di parità, cit., p. 160 ss., per la quale risulta determinante
individuare «l’elemento finale delle funzioni» e, nel chiedersi se «si debbano considerare i
consiglieri come “enti esponenziali”, portatori per legge di un interesse particolare […] o
come soggetti svolgenti una funzione pubblica neutrale, per certi aspetti accostabile a quella
del giudice», ritiene che non debba, sul piano metodologico-analitico, confondersi «la valu-
tazione dell’interesse finale al cui perseguimento è volta l’attività dei consiglieri con quella
strumentale, perseguito come mezzo per realizzare tale interesse finale» e pertanto sostiene
che detto interesse finale sia appunto «l’interesse generale, costituzionalmente rilevante, alla
parità tra uomini e donne nel lavoro». Similmente CICCHITI, V.E., Profili processuali della tu-
tela della parità tra uomini e donne in materia di lavoro, cit., p. 1194, che, facendo perno sulla
dottrina richiamata infra, ritiene che il soggetto legittimato non operi come ente esponenziale,
ma come pubblico ministero specializzato, «perché agisce per la tutela dell’interesse generale
alla parità tra uomini e donne nel lavoro e non ha alcun mandato dai soggetti discriminati che
possa configurare un rapporto di rappresentanza»; ID., La tutela processuale, cit., p. 180 s.;
AMATO, F., Le modifiche all’art. 4 della l. n. 125/1991: d) L’azione individuale e l’azione collet-
tiva, cit., p. 763 ss., il quale, pur condividendo gran parte del ragionamento svolto dalle pre-
cedenti AA., specie per quel che riguarda la natura dell’interesse tutelato, approda però alla
configurazione di un rapporto di «rappresentanza istituzionale», comunque funzionale alla
tutela di «interessi generali di carattere pubblicistico»; cfr. anche GOTTARDI, D., Il consigliere
di parità, in GAETA, L. - ZOPPOLI, L., Il diritto diseguale, cit., p. 162.
32 Accosta il consigliere all’autorità indipendente: BORGOGELLI, F., I consiglieri di parità,
in Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna, Commentario sistematico, a
cura di T. Treu e M.V. Ballestrero, in Le nuove leggi civ. comm., 1994, p. 160.
33 V., sul punto, i rilievi di BORGOGELLI, F., I consiglieri di parità, cit., p. 160; GUAR-
RIELLO, F., Le azioni in giudizio, cit., p. 200.
34 GAROFALO, M.G., Strumenti di effettività e legislazione sulla parità uomo-donna, in La-
voro femminile e pari opportunità, a cura di M.L. De Cristofaro, Bari, 1989, p. 101.
35 In realtà il parallelo tra azione del p.m., ad esempio, ed azione collettiva del consi-
gliere di parità rappresenta un argomento di carattere propriamente funzionale solo se con-
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 623

detta prospettiva esegetica alla luce delle considerazioni derivanti dal-


l’analisi della fattispecie sostanziale oltre che dal particolare regime san-
zionatorio previsto in sede di giudizio collettivo.
Iniziamo dal primo profilo.
Secondo l’opinione a cui ci riferiamo – anche questa sviluppata in
relazione al sistema di tutele antidiscriminatorie apprestato dalla legge n.
125 del 1991 – l’attenzione andrebbe focalizzata sul ruolo che la nozione
di discriminazione oggettiva e indiretta riveste, tanto in una prospettiva
generale – ossia relativa al nuovo apparato di tutele (promozionali e non)
disegnato dalla legge – quanto – più specificatamente – sul terreno della
tutela giurisdizionale36.
L’aspetto su cui questo orientamento ha fatto cadere vigorosamente
l’accento è il raffronto tra la disciplina prevista dalla prima legge di pa-
rità e quella contemplata dalla legge sulle azioni positive: nella prima, alla
posizione di supremazia attribuita alla nozione di discriminazione diretta,
corrispondeva l’esistenza esclusiva di un fronte di tutela processuale a ca-
rattere individuale costituito dal procedimento speciale previsto all’art.
15 della l. n. 903 del 1977, nella l. n. 125 del 1991, invece, all’introdu-
zione dell’innovativa nozione di discriminazione indiretta verrebbe a cor-
rispondere una nuova ed accentuata propensione per la dimensione su-
perindividuale della tutela giudiziale.
Nella dottrina, ora in esame, d’altra parte, la circostanza appena ri-
levata non ha costituito un semplice prender atto di una linea evolutiva
tendenziale di certo incontestabile, ma ha assunto il valore di dato inter-
pretativo centrale ed assorbente in ordine alla ricostruzione complessiva
del sistema di tutele.
In altri termini, il fatto che l’azione attribuita al consigliere venisse
riconosciuta anche quando non fossero individuabili in modo immediato
e diretto i soggetti lesi dalla discriminazione, doveva inequivocabilmente
indicare che alla nozione di discriminazione collettiva accolta dalla legge

dotto secondo una certa impostazione che privilegi o si limiti alla prospettiva finalistica; cosa
che appunto si è verificata nella dottrina richiamata. Diverso è il discorso se si esaminasse con
attenzione l’oggetto del giudizio che di volta in volta il p.m. è legittimato a promuovere
allorché sia dotato di legittimazione propria. Secondo questa impostazione, ovvero tenendo
rigorosamente separati gli elementi strutturali da quelli funzionali, per poterne apprezzare
l’autonoma dimensione pur nelle inevitabili correlazioni, allora lo scenario di riflessione
potrebbe cambiare completamente, così come gli esiti della stessa. Per verificare quanto si va
affermando in questa nota, si veda ad esempio la sintesi del dibattito sulla natura dell’azione
del pubblico ministero che riportiamo nel cap. VI, alla nota 20.
36 RAPISARDA, C., La tutela dei soggetti discriminati, cit., p. 73 ss.; ID., La tutela giudi-

ziale, cit., p. 787.


624 CAPITOLO OTTAVO

non potessero essere ricondotte tutte le condotte discriminatorie pluriof-


fensive, ovvero quelle condotte lesive non solo dell’interesse collettivo
generale alla parità, ma anche di interessi individuali di singoli lavoratori
e lavoratrici.
Più precisamente, secondo questo orientamento, con la legge sulle
azioni positive «il baricentro della tutela superindividuale» si sarebbe
spostato dall’illecito plurioffensivo all’illecito «indipendente da possibili
lesioni» e ciò proprio in ragione della centralità assegnata alla discrimi-
nazione indiretta all’interno del sistema di tutele; fattispecie, quest’ultima
richiamata, in cui appunto non sarebbe dato riscontrare lesione alcuna in
capo a soggetti individuali37.
37 RAPISARDA, C., La tutela dei soggetti discriminati, cit., p. p. 75, ma ugualmente in La
tutela giudiziale, cit., p. 787. Il mancato carattere lesivo del comportamento discriminatorio
collettivo sembra essere uno degli aspetti fondamentali per il corretto intendimento del filone
dottrinale in esame. Sul punto v. DE ANGELIS, L., Profili della tutela processuale contro le di-
scriminazioni tra lavoratori e lavoratrici, cit., p. 476, per il quale «l’azione postula quindi
un’avvenuta lesione, pur se intesa come pregiudizio generico piuttosto che come attentato ad
un diritto soggettivo»; TARZIA, G., Manuale del processo del lavoro, cit., p. 368, che sostiene
che «la domanda è proponibile anche in assenza di concrete lesioni»; CHIAVASSA, A. - HOESCH,
L., Le azioni in giudizio, in Riv. crit. dir. lav., 1992, p. 333 ss., ma p. 337, sostengono «che l’a-
zione prescinde da vittime attuali, essendo esperibile, dice la legge, anche laddove non siano
individuabili in modo immediato e diretto “i lavoratori” lesi dalla discriminazione»; GUAR-
RIELLO, F., Azioni in giudizio, cit., p. 199, ritiene l’azione pubblica promuovibile anche
quando “la lesione non sia attuale, ma potenziale e generica”»; AMATO, F., Le modifiche al-
l’art. 4 della l. n. 125/1991: d) L’azione individuale e l’azione collettiva, cit., p. 761, nota 24,
sostiene che «la questione rischia di divenire un falso problema: infatti la soluzione va trovata
attraverso l’individuazione di quale sia la lesione, ovvero il bene giuridico che sia stato colpito
dalla discriminazione, cosicché nel caso di discriminazioni di tipo indiretto è ovvio che non
debba farsi riferimento necessario al vulnus subito da questo o quel lavoratore, essendo pre-
vista l’azione anche quando i singoli soggetti discriminati non siano ancora individuabili». A
diversa conclusione, sembrerebbe giungere IZZI, D., Discriminazioni di sesso nel rapporto di
lavoro: il nuovo regime processuale, cit., p. 571 (c.vo mio), per la quale «collettiva è […] la di-
scriminazione che, rivolgendosi contro un gruppo, ne colpisce i singoli componenti in modo
mediato». «Essa – prosegue l’Autrice – può considerarsi, ontologicamente, plurioffensiva, dal
momento che pregiudica una categoria di individui accomunati dal possesso di una determi-
nata caratteristica e quindi, potenzialmente, tutti gli individui appartenenti a quella catego-
ria», con la conseguenza che, «ciò che può ritenersi irrilevante è soltanto l’individuazione dei
soggetti che subiscono la lesione, ma non certamente la sussistenza della lesione stessa»; «la
lesione c’è comunque, ed è proprio sul postulato della sua presenza che il Consigliere di pa-
rità esercita l’azione di cui è titolare». D’altra parte la dottrina ora richiamata accoglie una no-
zione di plurioffensività disomogenea rispetto a quella utilizzata dalla Rapisarda. Occorre
chiedersi, infatti, se si parli di lesione intendendo con essa la violazione di un diritto sogget-
tivo o più semplicemente ci si riferisca ad una generica (sebbene magari giuridicamente rile-
vante ai fini dell’esercizio dell’azione collettiva) lesione di interessi superindividuali. La ri-
sposta emerge essa stessa dall’attenta lettura dell’opinione ricostruttiva appena richiamata. In
essa, infatti, si parla di condotta ontologicamente plurioffensiva e si chiarisce il concetto so-
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 625

Prima di chiudere peraltro il discorso su questo primo argomento


avanzato a sostegno dell’eteronomia ontologica dell’interesse tutelato in
sede di giudizio antidiscriminatorio collettivo rispetto ai giudizi indivi-
duali, va inoltre detto che, di recente, questa linea interpretativa ha tro-
vato adesione anche in riferimento ai d.legisl. nn. 215 e 216 del 200338 e

stenendo che «la peculiare natura [della condotta] non muterebbe quand’anche accadesse
che, nella specifica situazione concreta, il soggetto leso nel suo diritto all’eguale trattamento
fosse uno solo: la discriminazione resterebbe comunque collettiva e plurioffensiva». Questa
opinione, dunque, si riferisce al concetto di lesione intendendo con esso il pregiudizio che
mediatamente può venire a realizzarsi in capo a più soggetti a seguito della violazione (in
senso tecnico) anche di un solo diritto soggettivo appartenente ad un membro del gruppo,
con la conseguenza che secondo questa ricostruzione la lesione sussiste sempre (ontologica-
mente appunto), ma nella misura e secondo la natura individuata dalla maggioranza della
dottrina che, proprio alla luce della formula «anche quando non siano individuabili in modo
immediato e diretto le lavoratrici o i lavoratori lesi dalle discriminazioni», parla frequente-
mente non di vera e propria violazione di diritti soggettivi, ma di lesione intesa come pregiu-
dizio generico, potenziale, non attuale e quant’altro. Ritornando comunque all’esame della
posizione di Izzi, ciò che comunque colpisce del pensiero dell’A. è che, nel sottoporre a cri-
tica l’opinione di Rapisarda, non si avvede di utilizzare un concetto di lesione diverso da
quello adottato da quest’ultima, la quale, infatti, si riferisce inequivocabilmente alla lesione
intesa come violazione di diritto soggettivo e coerentemente, nel momento in cui afferma il
carattere non plurioffensivo della condotta repressa, sostiene, per un verso, la natura generale
dell’interesse tutelato nel giudizio e, per l’altro, che il consigliere non agisca, come in altri or-
dinamenti, in sostituzione dei soggetti individuali singolarmente lesi. Nell’impostazione cri-
tica proposta da Izzi non si coglie il significato tecnico che la nozione di lesione assume nel-
l’impostazione da Rapisarda o, più precisamente, il significato sistematico sotteso all’accogli-
mento di questa nozione. La domanda che anima lo studio di Rapisarda è quella di verificare
se sussista o no lesione simultanea di più diritti soggettivi, ciò ai fini della ricostruzione del-
l’oggetto del giudizio e dell’azione esercitata dal consigliere. Così non è nell’opinione di Izzi
e ciò è confermato dal fatto che quest’ultima, sebbene neghi il presupposto d’indagine adot-
tato da Rapisarda e sostenga quindi l’ontologica plurioffensività del comportamento, non ac-
coglie (come logica vorrebbe) l’ottica al contrario esclusa, ovvero la ricostruzione del proce-
dimento come rivolto alla repressione di comportamenti contestualmente lesivi di diritti sog-
gettivi, e continua a parlare di lesione di interessi, vuoi collettivi, vuoi generali e non di diritti.
Ciò è il segno inequivocabile dell’utilizzo da parte delle due studiose di strumenti interpreta-
tivi tra loro eterogenei, capaci pertanto di falsare il raffronto tra le due ricostruzioni e rendere
logicamente comprensibile che a presupposti (solo apparentemente) diversi, corrispondano
conclusioni simili. Peraltro ciò dovrebbe far riflettere ancora una volta quanto possa essere
equivoco il concetto di plurioffensività, sul punto v. ad esempio il discorso fatto retro, capp.
VII, § 5.2. e X, § 3.1.4.1.
38 Così, BORGHESI, D., in Il processo del lavoro, p. 495 s., il quale, se in relazione al qua-

dro di tutele processuali previste dall’art. 4 della legge 125 del 1991 – come meglio vedremo
tra breve – ritiene sussita necessità di coordinamento tra azioni individuali ed azioni collet-
tive, non potendosi escludere la plurioffensività del comportamento discriminatorio collet-
tivo, diversamente, in materia di azioni previste dagli artt. 5 dei d.legisl. nn. 215 e 216 del
2003, richiama l’attenzione sul fatto che le «entità o associazioni sono legittimate ad agire in
via autonoma solo quando non sono individuabili soggetti concretamente lesi dalla discrimi-
626 CAPITOLO OTTAVO

ciò proprio per il fatto che in essi – come anticipato – gli enti rappresen-
tativi sono legittimati all’azione collettiva solo «qualora non siano indivi-
duabili in modo diretto e immediato le lavoratrici o i lavoratori lesi dalle
discriminazioni» e non, come previsto dalla legge n. 125, «anche quando
non siano individuabili in modo immediato e diretto i lavoratori lesi dalla
discriminazione».
L’argomento qui esposto, dunque, sembrerebbe uscire in un certo
senso rafforzato da questo più recente intervento legislativo, dal quale
dovrebbe derivare la conferma che l’obiettivo specifico dell’azione col-
lettiva è costituito dalla repressione dei comportamenti discriminatori
non concretamente produttivi di violazioni di diritti soggettivi individuali
o comunque non produttivi di vere e proprie lesioni di situazioni sogget-
tive sostanziali perfette39.
Come già anticipato, peraltro, questo primo risultato interpretativo,
ottenuto sulla base della lettura delle disposizioni sostanziali dettate dalla
normativa antidiscriminatoria, è stato poi corroborato con l’impiego di
un secondo argomento, concernente il particolare contenuto dell’ordine
giudiziale conclusivo del procedimento disciplinato dall’art. 4 della l. n.
125/91, il quale, come visto, nella formulazione anteriore alla novella –
ossia nel momento in cui l’orientamento in esame andava affermandosi –
prevedeva che oggetto dell’ordine giudiziale fosse unicamente la defini-
zione del piano di rimozione delle discriminazioni accertate entro il ter-
mine fissato dal giudice, non disponendosi nulla – come diversamente sa-
rebbe accaduto a seguito del d.legisl. n. 196 del 2000 – riguardo alla fis-
sazione dei criteri, anche temporali, da doversi osservare ai fini della
definizione ed attuazione del piano stesso.
Su questa base positiva, quindi, si è rimarcata l’impossibilità di otte-
nere – in sede di giudizio collettivo – effetti direttamente reintegratori
dei diritti di parità lesi dalla condotta illecita e da qui si è ricavata un’ul-

nazione. La qual cosa significa che, a differenza di quanto previsto dall’art. 4, l. 125/1991, se-
condo il quale l’azione collettiva può essere proposta “anche quando non siano individuabili
in modo immediato e diretto le lavoratrici e il lavoratori lesi dalle discriminazioni”, gli enti
esponenziali sembrano possano agire solo quando la discriminazione incide su di un interesse
collettivo che non ha ricadute su singoli lavoratori». Che le azioni collettive previste dai d.le-
gisl. nn. 215 e 216 possano essere esercitate solo allorché non siano individuabili in modo di-
retto e immediato i soggetti discriminati è opinione diffusa in dottrina: FABENI, S., Norme an-
tidiscriminatorie e il decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216: le opportunità mancate e le pro-
spettive per una riforma, cit., p. 110, nota 53; GAROFALO, M.G. - RECCHIA, G.A., Le sanzioni e
la loro efficacia, cit., p. 327. Per un critica a questa impostazione, tanto sotto il profilo della
mancata plurioffensività, quanto riguardo all’interpretazione da dare alla difformità di impo-
stazione letterale che ricorre tra i diversi testi legislativi, v. infra, § 3.3.4.
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 627

teriore conferma sistematica delle due distinte e separate sfere funzionali


di tutela appartenenti ai rimedi individuali ed al rimedio collettivo40.
In conclusione, dunque, tanto la nozione di discriminazione indi-
retta, quanto la natura – non reintegratoria – del provvedimento conclu-
sivo, hanno indotto la dottrina in esame a individuare l’interesse tutelato
nell’interesse generale alla parità di trattamento di tutti i lavoratori ap-
partenenti ad un determinato sesso41.
39 Si ricordi che la difficoltà di ravvisare posizioni di diritto soggettivo perfette in capo
ai soggetti discriminati, specie in riferimento a comportamenti indirettamente discriminatori,
si rilevava già nel contributo di FABBRINI, G., Il procedimento avanti il pretore, cit., p. 330,
avanzato in materia di art. 15 della legge 903 del 1977. Riguardo, infatti, alle posizioni so-
stanziali tutelate dall’art. 1, comma 1, della legge in questione, si osservava: «non potrebbe es-
sere improprio il nome di interesse legittimo di diritto privato, quanto meno nel senso che non
si tutela a favore della donna lavoratrice un risultato (l’assunzione al lavoro), ma le si vuol
solo garantire la correttezza – sotto il profilo di esclusione di pratiche discriminatorie – dei
criteri di assunzione concretamente seguiti da un determinato datore di lavoro».
40 È interessante notare – sul piano del metodo – come la dottrina esposta nel testo per-
venga, per la via indicata, ad un perfetto ribaltamento della prospettiva ricostruttiva più cor-
retta, la quale – specie in questa materia, ma in fin dei conti ovunque – dovrebbe essere
quella della massima valorizzazione delle finalità di tutela che il legislatore dà conto di aver
assunto come ragione dell’apprestamento dei rimedi processuali disciplinati. Nell’orienta-
mento qui in esame, invece, la discriminazione indiretta diventa il punto di partenza di una
serie logico argomentativa, che prosegue con la qualificazione di detta fattispecie in termini
di condotta antigiurica non lesiva di diritti soggetti, con la marginalizzazione delle ipotesi in
cui l’azione collettiva può essere esercitata per la repressione delle condotte discriminatorie
dirette ed infine con la remissiva accettazione del dato letterale riguardo la portata non reite-
gratoria del piano di rimozione. In questo contesto è significativo quanto affermato da RAPI-
SARDA, C., La tutela dei soggetti discriminati, cit., p. 75, per la quale, «anche in caso di con-
dotta plurioffensiva» – ovvero quando i lavoratori discriminati siano individuabili – «la tutela
giudiziale esperibile dal Consigliere di parità non potrà avere efficacia riparatoria del torto
subito dai soggetti discriminati, ma tenderà più semplicemente a ristabilire condizioni di
uguali opportunità, dando così soddisfazione all’interesse generale alla parità di trattamento
tra uomini e donne nei rapporti di lavoro».
41 Così, RAPISARDA, C., La tutela dei soggetti discriminati, cit., p. 75 e poi 82; a cui ade-
risce PULEO, A., Discriminazioni di sesso nel mercato del lavoro, cit., p. 99; ugualmente DE AN-
GELIS, L., Considerazioni in materia di decisione della causa promossa contro le discriminazioni
sessuali collettive, cit., p. 799; ID., Profili della tutela processuale contro le discriminazioni tra
lavoratori e lavoratrici, cit., p. 477, per il quale l’interesse tutelato è quello «generale», rile-
vandosi che «il carattere collettivo della discriminazione non sembra quindi significare il col-
legamento ad interessi di categoria imputabili a collettività organizzate per il loro persegui-
mento (c.d. interessi collettivi), né tanto meno ad “interessi non corporativi” di soggetti non
identificati o identificabili in base alla preesistenza di rapporti giuridici rispetto al bene (c.d.
interessi diffusi)»; bisogna d’altra parte rilevare che quest’ultimo A. ritiene, diversamente
dalla Rapisarda, che nella discriminazione collettiva sussista comunque e sempre un’ipotesi di
lesione (p. 476), il che significa individuare tra le due opinioni or ora prospettate un elemento
di eterogeneità di non poco conto, visto che per Rapisarda il carattere non plurioffensivo del
comportamento represso riveste un ruolo chiave nell’economia argomentativa.
628 CAPITOLO OTTAVO

Se, peraltro, quelle appena indicate hanno rappresentato le ragioni


principali con cui dare sostegno alla opzione ricostruttiva qui in esame,
va rilevata anche l’esistenza di ulteriori letture interpretative, che – pur
accomunate con la dottrina or ora esaminata dal negare che l’oggetto del
giudizio collettivo sia costituito dai diritti soggettivi delle persone discri-
minate – si sono rivolte verso altre e diverse configurazioni – forse in
parte solo nominalistiche – dell’interesse tutelato.
Secondo una prima lettura, infatti, andrebbe evidenziata l’irrilevanza
– ai fini della qualificazione dell’interesse tutelato – della natura pubblica
delle funzioni esercitate dal consigliere di parità, a fronte del fatto che «il
soggetto istituzionale […] a cui è riconosciuta la legittimazione resta pur
sempre espressione esponenziale del gruppo discriminato (seppur non
democraticamente eletto) e come tale portatore di un interesse privato
collettivo, seppur di rango costituzionale, tanto più che la sua realizza-
zione si colloca nell’ambito dei rapporti interprivati, quali appunto i rap-
porti di lavoro»42. In altri termini, la natura pubblica o privata dell’azione
dovrebbe farsi derivare direttamente dalla natura dell’interesse tutelato,
la quale a sua volta dovrebbe desumersi aliunde e non come mera rica-
duta delle qualità soggettive del legittimato ad agire.
Altri, invece, seppur problematicamente, si sono dimostrati inclini a
configurare l’interesse tutelato, non come «interesse plurimo» riferibile a
più soggetti, ma come «interesse diffuso alla parità che, in quanto tale,
può anche coincidere con quello di un soggetto individualmente consi-
derato, ma non necessariamente»43.
Secondo un altro orientamento, infine, maggiormente teso a valoriz-
zare gli elementi testuali che la legge offre all’interprete, per determinare
la natura degli interessi tutelati nel giudizio collettivo occorrerebbe far
perno sulla diversa nozione di discriminazione prevista dal legislatore.

42 PESSI, R., Lavoro e discriminazione, cit., p. 462 s.; GUARRIELLO, F., Azioni in giudizio,

cit., p. 199 s.; CURCIO, L., Legittimazione ad agire nel nostro ordinamento e in particolare nel
diritto del lavoro, ivi, p. 355 e, negli stessi termini, in relazione alle azioni collettive previste in
sede di d.legisl. 215 e 216 del 2003, p. 358.
43 CHIAVASSA, A. - HOESCH, L., Le azioni positive in giudizio, cit., p. 340. Come il lettore

attento capirà, la tesi sostenuta nel testo vede come suo necessario presupposto dogmatico
una ben definita configurazione dell’interesse diffuso. Contrapponendosi, infatti, in dottrina,
due concezioni del medesimo, talora inteso come interesse seriale, talaltra inteso in una di-
mensione globale ed unitaria (cfr. retro, cap. III, §§ 3.3.1.1. e 3.4.1., nonché, in chiave rico-
struttiva cap. IV, §§ 6 ss.); le osservazioni appena riportate nel testo sono evidentemente com-
patibili solo con la seconda opzione teorica or ora indicata, cioè con la configurazione unita-
ria dell’interesse diffuso.
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 629

Così, nel caso in cui il consigliere di parità agisca per la tutela di sog-
getti discriminati identificati, l’interesse tutelato dovrebbe essere confi-
gurato come collettivo o di categoria ed il consigliere verrebbe ad assu-
mere la veste di ente esponenziale del gruppo, mentre, al contrario, qua-
lora i soggetti discriminati non fossero identificati o ancor più
identificabili, l’interesse tutelato avrebbe natura pubblica e il consigliere
agirebbe come tutore del rispetto del principio costituzionale della pa-
rità44.

3.2.2. La posizione sostanziale e processuale riconosciuta all’ente esponen-


ziale
Il passaggio dall’esame dell’opzione interpretativa che questo orien-
tamento dottrinale ha offerto in ordine alla determinazione dell’oggetto
del giudizio collettivo all’esame dei tentativi di inquadramento dogma-
tico della posizione dell’ente esponenziale legittimato non può che essere
contrassegnato da un’intonazione critica, la quale – peraltro – anticipa le
riflessioni che più avanti seguiranno circa l’impostazione ricostruttiva che
noi riteniamo corretta.
Il punto su cui si vuole richiamare l’attenzione è quello che ora
segue.
Troppo frequentemente in materia di strumenti processuali posti a
tutela di interessi collettivi, l’argomentazione giuridica tende a voler de-
terminare l’oggetto e gli effetti di un procedimento giurisdizionale di-
chiarativo, assumendo direttamente come oggetto del giudizio l’interesse
stesso.
Tipica è l’affermazione che segue: «il giudizio X è diverso ed auto-
nomo dal giudizio Y perché il primo ha ad oggetto l’interesse collettivo
ed il secondo ha ad oggetto l’interesse individuale».
Ciò accade, come visto, in materia di procedimento per la repres-
sione della condotta antisindacale, ma la medesima circostanza può es-
sere agevolmente rilevata in materia ambientale e soprattutto in materia
di tutela dei consumatori.
D’altra parte, senza andare per il momento a riprendere la distin-
zione tra interesse collettivo e interesse individuale, l’affermazione ap-
pena riportata – sebbene sia avanzata proprio a tale scopo – non ha al-
cun significato tecnico.
Che significa, infatti, dire che l’oggetto del processo è l’interesse?
44 BASILICO, G., La tutela della parità uomo-donna nei rapporti di lavoro, cit., p. 544 s.;
IZZI, D., Discriminazioni di sesso nel rapporto di lavoro: il nuovo regime processuale, cit., p. 572 s.
630 CAPITOLO OTTAVO

Ovviamente questa affermazione vuole dire che la tutela giurisdizio-


nale di volta in volta apprestata è tesa a tutelare un certo interesse piut-
tosto che un altro; ed in ciò non vi è nulla da obiettare.
Ma il punto non è questo. Difatti, dire che un interesse è tutelato
dall’ordinamento non ha alcun significato in termini tecnico-giuridici, in
quanto ciò che importa è vedere come questo interesse viene tutelato. Il
discorso è quello che abbiamo già svolto nel capitolo quinto e sesto di
questo lavoro e non è certo necessario ripeterlo ora, ma va qui ribadito
che al di fuori dell’ottica strutturale, ovvero senza l’attenta rilevazione
degli strumenti che il diritto appresta per la tutela degli interessi umani,
l’argomentazione giuridica troppo agevolmente esorbita il limite della ve-
rificabilità scientifica.
L’orientamento che ora abbiamo esaminato in materia di giudizio di-
scriminatorio si espone in primo luogo a questa decisiva critica. Sebbene
la tendenza appena accennata sia presente anche in altri settori della no-
stra materia e sia determinata tanto da un disinvolto impiego del con-
cetto di interesse, quanto dalla volontà di abbandonare il concetto di di-
ritto soggettivo senza in alternativa fornirne un altro euristicamente ade-
guato, va comunque detto che in questo ambito di studio è piuttosto
agevole riscontrare la presenza di un generale indirizzo di metodo a ca-
rattere tendenzialmente empirico ed antiformalistico.
Ciò è ben apprezzabile non solo in merito alle diverse ed incerte
qualificazioni dell’interesse tutelato (che talora è pubblico, talaltra è pri-
vato, oppure – come se cambiasse qualcosa – in alcuni casi è generale, in
altri collettivo, se non anche diffuso), ma anche in merito alla qualifica-
zione giuridica della relazione che lega l’interesse così individuato al-
l’ente esponenziale legittimato.
Riguardo alla posizione da riconoscere al consigliere di parità, ad
esempio, alcuni parlano di rappresentanza istituzionale degli interessi45,
altri di semplice discrasia tra titolarità dell’interesse sostanziale e legitti-
mazione in giudizio46. Alcuni vedono in esso un ente esponenziale degli
interessi tutelati47, altri ancora rilevano a sostegno del potere di azione

45 AMATO, F., Le modifiche all’art. 4 della l. n. 125/1991: d) L’azione individuale e l’a-

zione collettiva, cit., p. 768; PESSI, R., Lavoro e discriminazione, cit., p. 462; BASILICO, G., La
tutela della parità uomo-donna nei rapporti di lavoro, cit., p. 544, ma solo nel caso di soggetti
individuati.
46 GUARRIELLO, F., Azioni in giudizio, cit., p. 200.
47 Così, BASILICO, G., La tutela della parità uomo-donna nei rapporti di lavoro, cit., p.

544, ma solo nel caso in cui l’azione sia esercitata a tutela di soggetti direttamente individuati;
PESSI, R., Lavoro e discriminazione, cit., p. 462 s.
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 631

del consigliere l’esistenza di un diritto soggettivo appartenente al mede-


simo48, altri ancora parlano di sostituzione processuale49. Gran parte
delle opinioni peraltro nemmeno affrontano il problema qualificatorio
ora indicato, con la conseguenza che detta questione, al contrario deter-
minante per l’esatta ricostruzione dell’oggetto e degli effetti del decisum,
risulta talora tranquillamente glissata.

3.2.3. Gli effetti del provvedimento conclusivo


Venendo, infine, al problema degli effetti del provvedimento che
chiude il giudizio collettivo, per ciò che riguarda i suoi rapporti col giu-
dizio individuale, la dottrina che appartiene all’orientamento qui in
esame sembra presentare una posizione interpretativa piuttosto compatta
quanto meno per ciò che attiene agli aspetti principali della questione.
In tale prospettiva, infatti, la tesi del c.d. doppio binario risulta as-
solutamente dominante e diffusamente condivisa50.
48 CICCHITI, V.E., La tutela processuale della parità dopo il d.lgs. del 23 maggio 2000 n.
196, cit., p. 181; PULEO, A., Discriminazioni di sesso nel mercato del lavoro, cit., p. 100. In re-
lazione alle azioni già previste dall’art. 44 del t.u. sull’immigrazione, v. ancora CICCHITI, V.E.,
L’azione civile contro la discriminazione ex art. 44 t.u. 286/98, cit., p. 743, secondo la quale
«l’azione contro le discriminazioni collettive è volta a tutelare un interesse proprio del sinda-
cato, ossia il principio di parità garantito dall’art. 3 Cost.: infatti tale interesse non deriva
dalla somma degli interessi individuali dei lavoratori a non essere discriminati sul luogo di la-
voro, ma surge ad interesse autonomo a carattere collettivo di cui è titolare un soggetto, il sin-
dacato, che si pone come ente esponenziale di un gruppo nel suo complesso, ossia i lavora-
tori». Emerge nettamente da questa impostazione una concezione nuovamente unitaria del-
l’interesse superindividuale soggettivato e individualizzato in capo all’ente esponenziale;
concezione che conduce al riconoscimento di un diritto soggettivo di spettanza sindacale.
49 Così, CURCIO, L., Legittimazione ad agire nel nostro ordinamento e in particolare nel

diritto del lavoro, ivi, p. 355, che rinvia al concetto di sostituzione processuale sebbene l’og-
getto della tutela sia costituito da interessi collettivi e non da diritti soggettivi individuali. La
medesima qualificazione è poi riservata anche alla posizione dei soggetti collettivi legittimati
ai sensi degli artt. 5 dei d.legisl. 215 e 216 del 2003.
50 Sul tema, v. innanzitutto, RAPISARDA, C., La tutela dei soggetti discriminati, cit., p. 75

ss.; ID., La tutela giudiziale, cit., p. 788; cui adde PULEO, A., Discriminazioni di sesso nel mer-
cato del lavoro, cit., p. 100; BALENA, G., Gli aspetti processuali della tutela contro le discrimi-
nazioni di sesso, cit., p. 433; CICCHITI, V.E., Profili processuali della tutela della parità tra uo-
mini e donne in materia di lavoro, cit., p. 1194 ss., che distingue tra le diverse causae petendi
ed i diversi petita relativi alle distinte tipologie di azioni. Dopo l’entrata in vigore del d.legisl.
196/2000, v. ancora CICCHITI, V.E., La tutela processuale della parità dopo il d.lgs. del 23
maggio 2000 n. 196, cit., p. 198; CURCIO, L., Le modifiche all’art. 4 della l. n. 125/1991, cit.,
p. 776; AMATO, F., Le modifiche all’art. 4 della l. n. 125/1991: d) L’azione individuale e l’azione
collettiva, cit., p. 768. In relazione alle azioni già previste dall’art. 44 del t.u. sull’immigra-
zione, v. CICCHITI, V.E., L’azione civile contro la discriminazione ex art. 44 t.u. 286/98, cit.,
p. 743.
632 CAPITOLO OTTAVO

Secondo questa impostazione, l’assoluta ed ontologica eterogeneità


degli interessi tutelati in sede di giudizio collettivo rispetto a quelli pro-
tetti nei processi ad iniziativa individuale, ossia la diversità funzionale in-
tercorrente tra le due diverse procedure, determinerebbe l’indifferenza
reciproca delle stesse, eventualmente legate – ma solo per alcuni – da un
tenue vincolo di connessione impropria51.
In altri termini, secondo questa linea ricostruttiva, all’azione indivi-
duale e all’azione collettiva appartengono elementi identificativi distinti:
diverse cause petendi, in ragione dei diversi interessi tutelati; diversi pe-
tita, in virtù dei distinti provvedimenti conseguibili nei due giudizi; e di-
versi soggetti legittimati all’esercizio dell’azione, ovvero, da un lato, il
soggetto vittima delle discriminazioni e, dall’altro, l’ente esponenziale.
Va peraltro evidenziato che, riguardo agli effetti dell’accertamento
ottenuto in sede di giudizio collettivo e nonostante le premesse appena
indicate, la maggior parte degli studiosi favorevoli alla teoria del c.d.
doppio binario non hanno esitato ad aderire all’opinione secondo cui «il
decisum del giudice in punto [di] discriminazione debba comunque
avere forza di giudicato sui punti di diritto e di fatto da esso considerati
[…] nei confronti di tutti i soggetti toccati dall’operazione»52. Risultato
interpretativo a cui questo orientamento è giunto sostenendo che «tale
assunto si giustifica alla luce dell’incompatibilità logica e sistematica della
previsione di un’azione pubblica, il cui contenuto comprenda la singola
vicenda discriminatoria su cui viene a calarsi il tipico atto giurisdizionale,
con un accertamento sulla vicenda stessa che possa essere rimesso in di-
scussione».

51 Sul punto v. le considerazioni di CICCHITI, V.E., Profili processuali della tutela della

parità tra uomini e donne in materia di lavoro, cit., p. 1199; TARZIA, G., Manuale del processo
del lavoro, cit., p. 369; BALENA, G., Gli aspetti processuali della tutela contro le discriminazioni
di sesso, cit., p. 433.
52 Così, DE ANGELIS, L., Profili della tutela processuale contro le discriminazioni tra lavo-

ratori e lavoratrici, cit., p. 479; ID., Considerazioni in tema di decisione della causa promossa
contro le discriminazioni sessuali collettive, cit., p. 799. A questo orientamento aderisce, salvo
le ragioni di differenziazione di cui diamo conto nel testo, RAPISARDA, C., La tutela dei soggetti
discriminati, cit., p. 82; ID., La tutela giudiziale, cit., p. 789; CICCHITI, V.E., Profili processuali
della tutela della parità tra uomini e donne in materia di lavoro, cit., p. 1200; ID., La tutela pro-
cessuale della parità dopo il d.lgs. del 23 maggio 2000 n. 196, cit., p. 200; IZZI, D., Discrimina-
zioni di sesso nel rapporto di lavoro: il nuovo regime processuale, cit., p. 576 s.; BASILICO, G.,
La tutela della parità uomo-donna nei rapporti di lavoro, cit., p. 547; PULEO, A., Discrimina-
zioni di sesso nel mercato del lavoro, cit., p. 132 s. In relazione alle azioni già previste dall’art.
44 del t.u. sull’immigrazione, nei medesimi termini, v. ancora, CICCHITI, V.E., L’azione civile
contro la discriminazione ex art. 44 t.u. 286/98, cit., p. 743.
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 633

Minoritaria, invece, è rimasta la dottrina che – in chiave problema-


tica – ha rilevato le difficoltà teoriche sottese all’appena indicata esten-
sione dell’effetto di accertamento; soluzione, quest’ultima, praticamente
sostenibile solo accogliendo diverse e non condivisibili premesse rico-
struttive.
Si è a tal proposito precisato, infatti, che, per conseguire detto risul-
tato, «sarebbe necessario prospettarsi l’azione pubblica come tendenzial-
mente sostitutiva di quelle individuali, sì che il consigliere di parità figu-
rerebbe investito della legittimazione straordinaria a dedurre in giudizio
situazioni soggettive facenti capo ad un gruppo più o meno circoscritto e
determinabile di lavoratori»53 o che – procedendo lungo una linea rite-
nuta ugualmente poco praticabile – «siffatta estensione dovrebbe riguar-
dare non già un rapporto giuridico (pregiudiziale rispetto a quello og-
getto dell’azione individuale), bensì meri fatti (ossia l’esistenza di un de-
terminato comportamento discriminatorio in ragione del sesso)»54.
Altra questione, evidentemente connessa con la prima, è stata poi
quella concernente i limiti entro cui ritenere operativa l’estensione ultra
partes dell’efficacia della sentenza, ovvero individuare in quali casi sia
possibile rilevare la relatio intercorrente tra i distinti oggetti di accerta-
mento che giustifica un effetto di ripercussione del giudicato collettivo
sull’accertamento dell’effetto dedotto in sede di giudizio individuale.
Alcune voci hanno a tal riguardo sostenuto la possibile estensione
degli effetti solo in riferimento al provvedimento accertante l’esistenza di

53 BALENA, G., Gli aspetti processuali della tutela contro le discriminazioni di sesso, cit.,
p. 432.
54 BALENA, G., Gli aspetti processuali della tutela contro le discriminazioni di sesso, cit.,
p. 433. Come sembra piuttosto evidente le osservazioni di Balena sono tutt’altro che facil-
mente eludibili alla luce dei presupposti ricostruttivi da cui muove l’orientamento in esame
nel testo. A ciò si aggiunge, tra l’altro, un ulteriore incongruenza, costituita dal fatto che, al-
l’interno delle opinioni orientate a favore della tesi del doppio binario, talune voci ritengono
che, qualora il giudizio pubblico penda simultaneamente al giudizio individuale (salvo l’ipo-
tesi in cui si seguano le forme previste dall’art. 15 l. 903/77), quest’ultimo debba essere so-
speso ai sensi dell’art. 295 c.p.c. sino alla definizione del primo (così, DE ANGELIS, L., Profili
della tutela processuale contro le discriminazioni tra lavoratori e lavoratrici, cit., p. 479; ID.,
Considerazioni in tema di decisione della causa promossa contro le discriminazioni sessuali col-
lettive, cit., p. 799; IZZI, D., Discriminazioni di sesso nel rapporto di lavoro: il nuovo regime
processuale, cit., p. 576 s.; ma, contra, CICCHITI, V.E., Profili processuali della tutela della parità
tra uomini e donne in materia di lavoro, cit., p. 1200; ID., La tutela processuale della parità
dopo il d.lgs. del 23 maggio 2000 n. 196, cit., p. 200). Conseguenza, quest’ultima, davvero sin-
golare se si pensa al fatto che secondo l’impostazione prevalentemente seguita da questo
orientamento non sussiste tra l’oggetto degli eventuali giudizi individuali e l’oggetto del giu-
dizio collettivo alcun nesso di connessione per pregiudizialità-dipendenza.
634 CAPITOLO OTTAVO

condotte discriminatorie a carattere plurioffensivo, ovvero nelle ipotesi in


cui il giudizio collettivo sia attivato a tutela di soggetti discriminati in via
diretta, mentre secondo diversa opinione l’ampliamento della cosa giudi-
cata dovrebbe riguardare qualsiasivoglia tipologia di discriminazione de-
dotta nel giudizio collettivo, cioè tanto le discriminazioni collettive di-
rette quanto quelle indirette55. Lungo questa linea ricostruttiva parte
della dottrina ha appunto operato una distinzione tra azioni esercitate a
tutela dell’interesse collettivo del gruppo discriminato e azioni esercitate
per la salvaguardia del principio costituzionale alla parità di trattamento,
sostenendo che, nel primo caso, l’estensione abbia ad oggetto gli effetti
diretti dell’accertamento, mentre, nell’altro, gli effetti riflessi56
Sotto diverso profilo, invece, parte della dottrina ha preferito soste-
nere l’estensione ultra partes del giudicato senza distinguere tra effetti fa-
vorevoli o sfavorevoli dell’accertamento, prospettando, dunque, un’effi-
cacia della sentenza incondizionatamente erga omnes; mentre, per altri,
l’estensione degli effetti della sentenza dovrebbe operare «in bonam par-
tem»57, ovvero secondo un regime di vincolatività secundum eventum
litis.

3.3. Considerazioni ricostruttive


3.3.1. L’identità delle fattispecie sostanziali legittimanti l’azione dei sog-
getti discriminati e l’azione dell’ente esponenziale
Come già premesso all’analisi della dottrina dedicatasi allo studio
del giudizio collettivo antidiscriminatorio, in senso opposto all’orienta-
mento appena esaminato si sono poste diverse letture ricostruttive vice-
versa tese a dimostrare che anche in sede collettiva gli interessi tutelati
corrispondano a quelli individuali dei soggetti discriminati.
55 Il superamento dei limiti soggettivi del giudicato al ricorrere delle sole condotte plu-

rioffensive è sostenuto da RAPISARDA, C., La tutela dei soggetti discriminati, cit., p. 82; ID., La
tutela giudiziale, cit., p. 789. Per la dottrina ora indicata, infatti, nell’ipotesi di condotta di-
scriminatoria indiretta non c’è modo per poter parlare di lesione di situazioni giuridiche col-
lettive, come è testimoniato dalla possibilità di esercitare l’azione anche allorché non siano in-
dividuati o individuabili i soggetti discriminati. Questo è chiaramente un punto che come vi-
sto risulta essere determinante per la ricostruzione dell’intero sistema di tutela processuale e
che condiziona ab imis la teoria del doppio binario. Così, dunque, per Rapisarda l’estensione
ultra partes potrà avere luogo solo allorché il comportamento sia a carattere plurioffensivo.
56 Sul punto, v. BASILICO, G., La tutela della parità uomo-donna nei rapporti di lavoro,

cit., p. 547.
57 Così, precisamente, CICCHITI, V.E., Profili processuali della tutela della parità tra uo-

mini e donne in materia di lavoro, cit., p. 1200; ID., La tutela processuale della parità dopo il
d.lgs. del 23 maggio 2000 n. 196, cit., p. 200.
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 635

Questo orientamento, di origine più recente rispetto alla tesi del


doppio binario ed autorevolmente sostenuta da parte della dottrina pro-
cessualcivilistica58, è stata sviluppata da chi scrive già in un precedente la-
voro59 e – come vedremo – le conclusioni ricostruttive ivi raggiunte sem-
brano – quantomeno nella sostanza – dover essere confermate anche alla
luce dei risultati a cui siamo pervenuti in sede di inquadramento teorico-
generale della problematica.
L’esame dell’orientamento ora indicato supera, dunque, la dimen-
sione più propriamente espositiva ed inevitabilmente si proietta in buona
misura in direzione critico-ricostruttiva.
Lungo questa linea, la prima e fondamentale questione che occorre
affrontare per verificare se effettivamente il giudizio collettivo sia volto a
tutela degli interessi individuali dei soggetti discriminati, è l’effettiva fon-
datezza del principale argomento che è stato posto a sostegno della tesi
del doppio binario, ovvero il mancato carattere plurioffensivo del giudi-
zio di repressione dei comportamenti discriminatori collettivi; detti com-
portamenti, stando a questa impostazione, sarebbero infatti lesivi dell’in-
teresse generale alla parità di trattamento e non dei soggetti pregiudicati
dalla condotta lesiva.
A tale osservazione ricostruttiva si contrappongono peraltro più ar-
gomenti difficilmente superabili.
Innanzitutto questa lettura riposa sulla concezione unitaria dell’inte-
resse sovraindividuale60, che in questo orientamento viene definito –
come visto – talvolta generale, talaltra collettivo e da alcuni diffuso. Il
profilo terminologico, peraltro, al momento è assolutamente secondario,
ciò che importa, invece, è che – pur in assenza di qualsiasi tentativo di di-
mostrazione – tale interesse viene assunto come ontologicamente distinto
dall’interesse individuale.
Questa conclusione, d’altro canto, è stata già criticata in sede di stu-
dio generale del fenomeno dell’interesse, ove si è notato che gli interessi
che si suole chiare collettivi o diffusi o anche generali, rappresentano
tutt’altro che un monolite distinto dagli interessi dei singoli ed al contra-

58 LANFRANCHI, L., Le animulae vagulae blandulae e l’altra faccia della luna, cit., spec. p.

XXXV s.; e, salvo i distinguo operati alle note 38, 63 e 80, BORGHESI, D., in Il processo del la-
voro, cit., p. 485 ss.
59 Ci riferiamo al nostro Considerazioni sulla natura dell’azione esercitata dal consigliere

di parità in materia di discriminazioni uomo-donna, cit., p. 611 ss., nel quale appunto avevamo
già sostenuto il concorso tra azione lato sensu collettiva del consigliere di parità e le azioni in-
dividuali dei soggetti pregiudicati.
60 Su cui, cfr. retro, cap. III, 3.4.1.
636 CAPITOLO OTTAVO

rio devono essere definiti come un insieme più o meno ampio di interessi
individuali caratterizzati da una tipica relazione di compatibilità e con-
correnza61.
Abbiamo anche avuto modo di osservare che la mancata lesività
della violazione degli obblighi imposti a tutela degli interessi collettivi
appare a ben vedere un equivoco indotto dalla stessa concezione unitaria
dell’interesse tutelato.
Il punto fondamentale, infatti, è verificare la relazione che intercorre
tra l’interesse ed il suo strumento di tutela. Così, se un certo comporta-
mento è posto a tutela di un certo interesse, la violazione dell’obbligo im-
porta ex necesse la lesione di quell’interesse che dall’osservanza dello
stesso doveva essere soddisfatto. Per cui tale argomento, ovvero la mi-
nore o maggiore lesività del comportamento antigiuridico si risolve in so-
stanza in quello della determinazione dell’interesse tutelato e della strut-
tura formale da attribuire al medesimo. Se questo è un insieme di inte-
ressi individuali, allora la lesione colpisce di certo questi ultimi, se invece
l’interesse collettivo è qualcosa di diverso, è questo qualcosa e non gli in-
teressi individuali a ricevere lesione. Sul punto – peraltro – ci siamo ap-
pena pronunciati, sicché questa seconda opzione deve ritenersi esclusa
ed al contrario occorre ritenere che la violazione dell’obbligo porta con
sé la lesione del fascio di interessi individuali compatibili e concorrenti
che l’osservanza dello stesso avrebbe dovuto soddisfare.
Il tentativo, dunque, di svincolarsi dal concetto tecnico di lesione ri-
ferendosi ad un «pregiudizio generico», rimarcando l’assenza di «con-
crete lesioni» oppure di «vittime attuali», oppure ventilando l’ipotesi di
«lesioni potenziali e generiche», sono tutte operazioni concettuali che ri-
velano fondamentalmente due cose: a) la predetta concezione unitaria
dell’interesse collettivo; b) la mancata percezione dell’essenza propria del
concetto di diritto soggettivo e dei rapporti tra questo e, da un lato, l’in-
teresse e, dall’altro, l’obbligo.
Nella sede interpretativa a cui ora la nostra indagine è rivolta, peral-
tro, tutte queste osservazioni di natura teorico-generale sono pienamente
confermate da un’attenta analisi del dato legislativo.
Per dimostrare, infatti, che gli illeciti repressi in sede di giudizio col-
lettivo non siano plurioffensivi, ovvero ledano interessi diversi da quelli
dei singoli, occorrerebbe ancor prima dimostrare che quegli stessi illeciti
non possano essere oggetto di repressione anche nei giudizi individuali.

61 Cfr. retro, cap. V, §§ 6 ss.


LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 637

Questo è lo snodo fondamentale dal quale tutte le opzioni ricostruttive


devono prendere le mosse o in un senso o nell’altro.
La domanda da porsi è la seguente: i comportamenti che possono
essere oggetto di repressione in sede collettiva possono esserlo anche in
sede di giudizio individuale?
Non è un caso – ad esempio – che la dottrina che ha negato il con-
corso dell’azione sindacale con quella individuale in materia di giudizio ex
art. 28 dello Statuto, ha sì, da un lato, sostenuto l’eterogeneità degli inte-
ressi tutelati, ma, dall’altro, ha anche cercato – sebbene non sempre in ter-
mini espressi – di operare una ingiustificata divaricazione tra le fattispecie
costitutive dei due giudizi, sostenendo che solo nel giudizio speciale fosse
possibile tutelare l’interesse alla libertà ed all’attività sindacale62.
Orientandosi, quindi, in questa direzione ci si avvede immediata-
mente che la plurioffensività delle condotte antigiuridiche deducibili in
sede collettiva emerge nitida ed incontestabile dalla lettura dei testi nor-
mativi a cui qualche pagina addietro ci siamo riferiti63.
L’itinerario da seguire è uno dei pochi che incontra questioni su cui
la legge è inequivocabilmente chiara e si articola in tre semplici passaggi:
a) verifica delle fattispecie sostanziali che legittimano le azioni indivi-
duali; b) verifica delle fattispecie sostanziali che legittimano l’azione col-
lettiva; c) confronto dei risultati ottenuti.
Iniziando dal primo punto, è agevole rilevare che, poste da parte
specifiche fattispecie discriminatorie talora previste dalla legge, il sistema
delle tutele ruota tutt’attorno a previsioni a carattere generale che deter-
minano l’antigiuridicità di tutti i comportamenti discriminatori diretti o
indiretti.
Si veda a tal proposito l’art. 25 del codice delle pari opportunità,
l’art. 43 del d.legisl. n. 286/98, l’art. 2 del d.legisl. n. 215/03 e del d.legisl.
n. 216/03 e, da ultimo, l’art. 2 della l. n. 67/06.
62 Cfr. retro, cap. VII, spec. 3.2. in cui abbiamo osservato, come la dottrina sostenente
la tesi della ontologica contrapposizione tra interesse collettivo ed interesse individuale ha
cercato di «puntellare» detta impostazione ricostruttiva affermando che solo in sede di giudi-
zio speciale ex art. 28 S.L. sia possibile tutelare i diritti di libertà sindacale del singolo lavo-
ratore.
63 A favore della plurioffensività della condotta, v. BORGHESI, D., in Il processo del la-
voro, p. 489, con riferimento all’azione del consigliere di parità e proprio in ragione della so-
stanziale coincidenza dei presupposti di merito dell’azione individuale rispetto a quella col-
lettiva. Va peraltro evidenziata la rilevante circostanza che l’autorevole dottrina ora citata, si
orienta diversamente con riguardo ai d.legisl. nn. 215 e 216 del 2003 (cfr. retro, nota 38), nei
quali – appunto – la plurioffensività della condotta viene ad essere negata argomentando sulla
base di quanto dispone la legge in merito ai requisiti di ammissibilità della domanda avanzata
dall’ente esponenziale legittimato. Sul punto, v. infra, § 3.3.4. e nota 80.
638 CAPITOLO OTTAVO

Senza riportare il testo di tutte le disposizioni or ora citate, è peraltro


incontestabile che, tanto in presenza di discriminazione diretta, quanto in
presenza di discriminazione indiretta, siano proprio le persone che in
carne ed ossa subiscono l’effetto pregiudizievole prodotto da tali compor-
tamenti ad essere le titolari dell’interesse che la legge vuole proteggere.
Che poi, specie in materia di discriminazione indiretta, tale lesione si in-
dirizzi verso più soggetti – magari peraltro non facilmente individuabili in
relazione ad alcune (e non tutte) le fattispecie concrete – ciò non cambia
in nulla la sostanza nucleare del fenomeno che osserviamo.
Di certo la capacità rappresentativa del giurista non può essere
messa in crisi dal solo fatto di rinvenire una legge impositiva di divieti la
cui trasgressione per le più varie circostanze del caso può rivelarsi lesiva
non di uno ma di più soggetti.
Né in alcun modo è dato pensare che tali comportamenti doverosi
di astensione siano posti a salvaguardia di meri principi e non di coloro
che in caso di inosservanza ne ricevono pregiudizio.
Se, ad esempio, si prende in esame la disposizione di fattura più re-
cente, ovvero l’art. 2 della l. 67/06, la relazione tra situazione normativa-
mente sfavorevole e soggetto è lampante; si trova scritto, infatti, che «si
ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una
prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri
mettono una persona con disabilità in una posizione di svantaggio ri-
spetto alle altre».
Nell’art. 43 del t.u. i divieti di discriminazione diretta e indiretta
sono espressamente finalizzati al «riconoscimento, il godimento o l’eser-
cizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamen-
tali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro set-
tore della vita pubblica».
Senza continuare in questa elencazione esemplificativa, è un punto
certo che tutte queste norme mirino alla tutela degli interessi del soggetto
direttamente riconducibili a quella sfera della personalità che il nostro
dettato costituzionale pone al centro delle regole giuridiche oltre che di
convivenza civile del nostro paese.
Il valore incontestabilmente individuale, o direi più propriamente
personale, degli interessi tutelati dai divieti di discriminazione tanto di-
retta che indiretta è peraltro confermato dalle disposizioni che nei prov-
vedimenti legislativi qui in esame si riferiscono più o meno espressa-
mente alla legittimazione ad agire individuale.
Si noti bene, tali disposizioni non sono di certo previste per disci-
plinare ciò che è ovvio, ovvero per dire che l’azione spetta ai soggetti di-
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 639

scriminati, ma allo scopo di disporre in ordine ad altre questioni, quali la


possibilità di promuovere le procedure conciliative previste dalla legge o
la possibilità di delegare agli enti rappresentativi l’esercizio del loro po-
tere di condurre il processo.
Ciò è un aspetto importante, che conferma quanto già detto in rife-
rimento all’ordinarietà della legittimazione ad agire dei singoli accanto
alla straordinarietà della legittimazione ad agire degli enti esponenziali in
materia di tutela degli interessi collettivi64.
Comunque, quando queste disposizioni si riferiscono al «chi intende
agire in giudizio» per riconoscere la facoltà di attivare le procedure con-
ciliative piuttosto in riferimento all’azione delegata, esse rinviano sempre
alle previsioni di legge che disciplinano i comportamenti discriminatori
diretti e indiretti65.
In conclusione, i testi di legge incontestabilmente prevedono azioni
individuali tanto in riferimento ai casi di discriminazione diretta che in
relazione alle fattispecie di discriminazione indiretta.
Passiamo ora al secondo punto poc’anzi indicato sub b), ovvero al-
l’esame delle fattispecie che legittimano gli enti esponenziali ad attivare il
giudizio collettivo.
In primo luogo, che tali enti siano legittimati in via suppletiva – fa-
cendo uso dell’efficace definizione impiegata in materia di art. 28 S.L.66
– sembrerebbe emergere sin dalla lettera della legge: «sono altresì legitti-
mati ad agire […]», recitano quasi tutte le disposizione a tal riguardo67.
Avremmo insomma un potere di attivazione del processo che si ag-
giunge ad altri. Ma si aggiunge non nel senso che la legge, oltre alle fatti-
specie lesive degli interessi individuali, ne prevede un’altra o delle altre;
se così fosse, infatti, non avremmo una legittimazione suppletiva, ovvero
straordinaria, ma, propriamente ordinaria, cioè da commisurare ad altra
e diversa fattispecie lesiva.
Una conferma inequivoca giunge dall’esame delle norme che deter-
minano l’oggetto del giudizio collettivo.

64 Cfr. retro, cap. VI, § 4.


65 Cfr. art. 36, comma 1, d.legisl. n. 198/06, che rinvia all’art. 25; art. 4, comma 2, d.le-
gisl. n. 215/03, che rinvia all’art. 2; art. 4, comma 3, d.legisl. n. 216/03, che rinvia all’art. 2.
Diverse parole, ma stesso significato, nell’art. 4, comma 1, della l. n. 67/06.
66 PUNZI, C., Repressione della condotta antisindacale: b) Profili di diritto processuale, in

Commentario dello statuto dei lavoratori, diretto da U. Prosperetti, II, Milano, 1975, p. 966
ss., spec. p. 973.
67 Art. 4, comma 3, della l. n. 67/06; art. 5, comma 2, del d.legisl. n. 216/03; art. 5,

comma 3, del d.legisl. n. 215/03.


640 CAPITOLO OTTAVO

Nel recente codice delle pari opportunità, l’art. 37, comma 1, pre-
vede che l’azione del consigliere sia esperibile avverso «comportamenti
discriminatori diretti o indiretti di carattere collettivo», nel t.u. in mate-
ria di immigrazione e condizione giuridica dello straniero, l’art. 44,
comma 10, si riferisce al «comportamento discriminatorio di carattere
collettivo», nella l. n. 67 del 2006 l’art. 4, si riferisce ai comportamenti di-
scriminatori diretti e indiretti «quando questi assumano carattere collet-
tivo», nei d.legisl. nn. 215 e 216, infine, l’art. 2 parla di «discriminazione
collettiva» e solo in questo caso l’azione degli enti rappresentativi sembra
essere limitata all’ipotesi in cui «non siano individuabili in modo diretto
e immediato le persone lese dalla discriminazione», mentre in tutte le al-
tre ipotesi la linea è – come visto addietro – quella dettata in origine dalla
l. n. 125 del 1991 – ora accolta dal già menzionato art. 37 del codice di
pari opportunità – in cui appunto il consigliere esercita l’azione «anche
quando non siano individuabili in modo immediato e diretto le lavora-
trici o i lavoratori lesi dalle discriminazioni».
Ora, messo per il momento da parte il problema di comprendere
quando per il legislatore i comportamenti discriminatori diretti o indi-
retti diventino collettivi e fatte salve anche le ragioni che nei d.legisl. nn.
215 e 216 hanno condotto alla limitazione poc’anzi accennata, non è
dubbio che i comportamenti discriminatori diretti e indiretti richiamati
dalle disposizioni indicate siano quelli previsti da quelle stesse norme,
che appunto li regolamentano, a cui rinviano le disposizioni in materia di
legittimazione individuale.
Non solo; è anche opportuno far cadere l’accento sulla formula ver-
bale che ricorre in queste previsioni di legge, ovvero sulla locuzione
«persone lese dalla discriminazione», oppure sull’omologa «lavoratrici o
[…] lavoratori lesi dalle discriminazioni»; va, a tal proposito rimarcato,
infatti, che anche i soggetti non direttamente o immediatamente indivi-
duabili, sono comunque definiti «lesi» dalla condotta discriminatoria.
Da qui una duplice conferma. La prima è la più scontata e concerne
il fatto che il definire i comportamenti discriminatori deducibili in sede
collettiva come lesivi dei singoli ovviamente conferma la pari deducibilità
degli stessi sul fronte individuale. La seconda, invece, riguarda proprio la
pari lesività – in senso normativo, ovviamente – di ogni condotta discri-
minatoria68, anche di quelle che abbiano l’effetto di ripercuotersi in ma-
niera diffusa – il termine non è impiegato a caso – nei confronti di sog-

68 Sul punto, incisivamente, LANFRANCHI, L., Le animulae vagulae blandulae e l’altra fac-
cia della luna, cit., p. XXXV.
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 641

getti non individuabili in via diretta e immediata; questi, infatti, indipen-


dentemente dalle circostanze che possono lasciarli nell’ombra sono co-
munque «lesi» dalle discriminazioni.
Quanto ora evidenziato, peraltro, è quello che poc’anzi si osservava
riguardo al concetto di lesione (da impiegarsi qui come altrove): se il do-
vere di astensione posto a carico di un soggetto è volto a tutelare un
certo interesse normativamente rilevante, allora un comportamento
difforme da quello doveroso implica necessariamente – stando allo
schema che la norma prefigura – una lesione di detto interesse, il quale,
a seconda dei casi potrà essere un interesse individuale esclusivo o più in-
teressi compatibili concorrenti69.
Con queste considerazioni, dunque, si supera anche quanto indicato
al punto sub c); passa ciò in secondo piano l’opera di determinazione dei
rapporti tra le fattispecie lesive che legittimano l’azione dei singoli sog-
getti discriminati e le fattispecie che invece consentono l’attivazione del
giudizio da parte degli enti esponenziali. Se, infatti, il carattere collettivo
delle discriminazioni (richiesto in ogni caso) e la non individuabilità dei
soggetti discriminati (richiesta solo dai d.legisl. nn. 215 e 216) possono
rendere l’ambito di applicazione del giudizio collettivo più ristretto ri-
spetto a quello del giudizio individuale70, comunque, per il resto, vi è
piena coincidenza delle fattispecie lesive. Le altre due ulteriori condi-
zioni, infatti, non incidono sulla natura e sui caratteri dell’illecito, che co-
munque deve essere tale alla stregua di quelle norme che ne garantiscono
la reprimibilità in sede di giudizio individuale, e sembrerebbero operare
piuttosto come condizioni legittimanti ulteriori; la cui portata, peraltro,
alla luce di una interpretazione sistematica, tende – come vedremo tra
breve – a svaporare. Comunque, ponendo per il momento da parte que-
sta ultima considerazione, il quadro che ci appare davanti potrebbe es-
sere descritto con l’immagine di due sfere di applicazione concentriche,
di cui una più ampia, corrispondente ai rimedi individuali, ed una se-
conda lievemente più ristretta, occupata dai rimedi collettivi.
Alla luce di queste considerazioni, dunque, risulta dimostrata
l’infondatezza della tesi volta a negare il carattere plurioffensivo dell’ille-
cito deducibile in sede collettiva. Al contrario, se il rimedio collettivo
può essere esercitato solo allorché il comportamento preteso discrimina-
torio è idoneo a legittimare anche l’azione individuale, allora il compor-
tamento che dovrà essere oggetto di sindacato giudiziale su domanda

69 Sulla distinzione richiamata nel testo, v. retro, cap. IV, § 8.


70 V. peraltro le osservazioni svolte infra, al § 3.3.4.
642 CAPITOLO OTTAVO

dell’ente esponenziale sarà sempre plurioffensivo, cioè, più corretta-


mente, rappresenterà un comportamento – difforme da quello doveroso
imposto dalla legge – che produce la lesione degli interessi individuali dei
soggetti discriminati.

3.3.2. La funzione direttamente riparatoria del rimedio processuale collet-


tivo: ulteriori precisazioni
Discorso meno esteso merita l’altra questione posta a fondamento
della tesi del doppio binario, ovvero il preteso valore non direttamente
riparatorio del provvedimento emanabile in sede di giudizio collettivo.
Come già visto addietro71, infatti, la novellazione della legge sulle
azioni positive, nonché anche il testo dei successivi interventi tesi ad am-
pliare il fronte della tutela antidiscriminatoria, non solo chiaramente si
oppongono ad un’interpretazione siffatta, ma si spingono anche laddove
nessuno – forse – avrebbe pensato72. Ci riferiamo, ovviamente alla possi-
bilità di richiedere al giudice anche la condanna al risarcimento del
danno nei confronti dell’autore delle discriminazioni. Previsione, que-
st’ultima, che, se ce ne fosse bisogno, dovrebbe togliere definitivamente
qualunque spazio argomentativo alla tesi dell’ontologica contrapposi-
zione degli interessi tutelati dall’azione collettiva rispetto a quelli dell’a-
zione individuale.
Da ciò, dunque, deriva che l’azione collettiva attribuita ai soggetti
esponenziali di volta in volta legittimati e l’azione individuale esercitabile
da parte delle vittime della discriminazione sono in rapporto di evidente
concorso.
Più correttamente dovremmo dire che possono essere in concorso.
Affermazione, quest’ultima, in cui il «possono» sta ad evidenziare non

71 Cfr. retro, §§ 2.1.2. e 2.2.3.


72 Su questo elemento esegetico, ovvero sull’indiscutibile valore reintegratorio che ora
appartiene all’azione del consigliere di parità, fa perno, in ordine alla confutazione della tesi
del doppio binario, anche BORGHESI, D., in Il processo del lavoro, p. 489, che rileva: «conse-
guentemente sotto il profilo del petitum, è possibile che tra l’azione individuale e quella col-
lettiva vi sia perfetta coincidenza, dato che gli effetti pregiudizievoli cui allude la legge non
possono che essere quelli prodottisi sulla sfera giuridica di un singolo lavoratore». Cfr. anche
LANFRANCHI, L., Le animulae vagulae blandulae e l’altra faccia della luna, cit., p. XXXV. Non
sembrano avvedersi di questa rilevante circostanza le tesi che – pur constatata l’efficacia di-
rettamente riparatoria dell’azione collettiva – pendono ancora a favore della tesi del doppio
binario: cfr. ad es. CURCIO, L., Le modifiche all’art. 4 della l. n. 125/1991, cit., p. 776, che ri-
badisce una «diversità funzionale» che a ben vedere non trova alcun appiglio su elementi
strutturali idonei a supportarla.
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 643

solo il fatto che tale concorso dipende dalle domande che concretamente
vengono avanzate al giudice, ma anche dalla specifico regime rimediale
che nei distinti provvedimenti indicati viene ad essere previsto.
In questi, infatti, a fronte di una sicura coincidenza parziale dei ri-
medi ottenibili talora è possibile riscontrare un certo scostamento tra ri-
medi individuali e collettivi.
Senza ripeterci nell’elencazione già fatta, nei d.legisl. nn. 215 e 216,
nonché nella l. n. 67 del 2006, ad esempio, il fronte rimediale collettivo
coincide in pieno con quello individuale. Più in particolare, sia l’azione
collettiva che quella riservata al singolo potranno approdare alla con-
danna al risarcimento del danno, all’ordine inibitorio, al provvedimento
ripristinatorio ed anche all’ordine di apprestamento del piano di rimo-
zione. Nel t.u. in materia di immigrazione e nel codice delle pari oppor-
tunità, sembrerebbe, invece, che in sede di giudizio individuale non sia
possibile ottenere quest’ultimo provvedimento concernente il piano di ri-
mozione, d’altra parte, una lettura sistematica di queste norme alla luce
dei principi costituzionali già indicati potrebbe o forse dovrebbe con-
durre ad uniformare la disciplina anche sotto questo profilo.

3.3.3. Precisazioni sul carattere collettivo della discriminazione


Prima di chiudere questo capitolo affrontando il tema degli effetti
del provvedimento giudiziale che conclude il processo instaurato dagli
enti rappresentativi legittimati, occorre ritornare su due questioni che
sono già emerse nel corso di questo capitolo e che sino ad ora erano state
messe da parte per non alterare la linearità dell’itinerario argomentativo.
La prima concerne il chiarimento delle formule che ricorrono nei te-
sti di legge in esame riguardanti la determinazione delle condotte discri-
minatorie portate innanzi al giudice in sede di giudizio collettivo. Si
parla, infatti, di comportamenti discriminatori diretti e indiretti «di ca-
rattere collettivo» o più semplicemente di «discriminazione collettiva».
Qual è dunque il significato che vi deve essere attribuito?
Di certo la formulazione legale non è limpida e di immediata intel-
lezione; d’altra parte, molte delle considerazioni già svolte contribui-
scono a ridurre efficacemente l’aleatorietà del significato che appartiene
a queste formule.
Determinante a tal proposito appare la già sviluppata considera-
zione secondo cui i caratteri dell’illecito discriminatorio sono comunque
quelli che derivano dalle norme che direttamente lo disciplinano e che,
come visto, sono assunte a fondamento delle azioni individuali.
644 CAPITOLO OTTAVO

Questa circostanza, infatti, chiarisce che gli obblighi su cui viene


portato il sindacato giudiziale in sede di giudizio collettivo sono gli stessi
che potrebbero dar luogo ai giudizi individuali e pari sono i criteri che
devono condurre il sindacato giurisdizionale sulla condotta concretatasi.
In altri termini, posto che il soggetto X è tenuto a non porre in es-
sere un certo comportamento poiché ritenuto dalla legge idoneo a discri-
minare uno o più soggetti, coloro che possono attivare il giudizio volto
ad accertarne la violazione e ad imporre gli obblighi riparatori derivati
sono, da un lato, i destinatari dell’obbligo primario, ovvero i soggetti di-
scriminati, titolari degli interessi lesi, e, dall’altro, i soggetti ritenuti dalla
legge esponenziali di tali interessi; ma ciò – stando appunto a tali dispo-
sizioni – solo allorché i comportamenti discriminatori «assumano – come
ad esempio proclama il comma 3 dell’art. 4 della l. n. 67/06 – carattere
collettivo».
Alla luce di queste considerazioni, le formule a cui ora ci riferiamo
perdono gran parte del rilievo ontologico che al contrario si potrebbe at-
tribuire loro senza procedere ad una lettura sistematica dei testi di legge
in questione. Siamo, infatti, nuovamente di fronte ad un caso in cui l’ag-
gettivazione «collettivo» potrebbe essere ritenuta capace di contrasse-
gnare realtà specifiche ed autonome.
Ciò premesso e acclarato, tali formule possono di conseguenza es-
sere lette attribuendovi due alternativi significati: da un lato, si può rite-
nere che il comportamento discriminatorio sia collettivo allorché questo
sia idoneo a riverberarsi su di un numero di soggetti estremamente am-
pio e magari indeterminato nella sua consistenza soggettiva, dall’altro, si
può ritenere che il carattere collettivo debba essere inteso alla luce della
rilevanza collettiva che anche un comportamento diretto a discriminare
un solo soggetto possiede comunque in ragione delle ripercussioni me-
diate che produce – o comunque può produrre – all’interno del gruppo
a cui appartiene il soggetto discriminato.
A sostegno della prima impostazione potrebbero addursi due argo-
menti. In primo luogo l’art. 37 del codice delle pari opportunità è rubri-
cato, come già accennato, Legittimazione a tutela di più soggetti. Sembre-
rebbe, quindi, che il legislatore si sia posto dei problemi di quantità – po-
tremmo dire – piuttosto che di qualità. In secondo luogo, si potrebbe
rilevare la circostanza che l’azione collettiva è talora permessa solamente
nell’ipotesi in cui i soggetti discriminati non siano determinabili diretta-
mente e immediatamente.
In realtà, però, questo secondo argomento, se lo si ritenesse convin-
cente, si ritorcerebbe contro questa stessa prima lettura interpretativa,
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 645

poiché i d.legisl. nn. 215 e 216, che tale limitazione prevedono, rappre-
sentano l’eccezione all’interno del più ampio sistema di tutela collettiva
antidiscriminatoria che il nostro ordinamento contempla. Infatti, in tutte
le altre fattispecie disciplinate, l’azione collettiva è ammissibile anche se i
soggetti discriminati siano individuati o individuabili.
Un terzo ed ultimo argomento a favore di questa lettura potrebbe,
infine, essere rappresentato dalle disposizioni che prevedono la possibi-
lità di delegare l’azione individuale all’ente rappresentativo secondo le
forme che queste stesse disposizioni prevedono. Si potrebbe, in altri ter-
mini ragionare, evidenziando che, se l’ente rappresentativo ha bisogno
della delega per esercitare l’azione del singolo, allora, ovviamente, non
può farlo in assenza della stessa.
A sostegno della seconda impostazione indicata, ovvero a favore
della valenza lato sensu collettiva appartenente anche al comportamento
«monolesivo», militerebbero invece le seguenti osservazioni interpre-
tative.
In primo luogo svetta l’irragionevolezza di una disposizione di legge
che discrimini essa stessa in ragione di criteri di orientamento meramente
quantitativi e assolutamente imponderabili73. Come è possibile ritenere
che l’attivazione di uno strumento di effettività e di tutela processuale in
fin dei conti rivolto a sostegno del valore supremo dell’uguaglianza tra
persone sia rimessa alla circostanza mera e occasionale che i soggetti lesi
siano tanti e non magari pochi, se non anche uno solo?
Chi dovrebbe decidere, peraltro, quando viene raggiunta la soglia
della dimensione collettiva?
Quanti dovrebbero essere i soggetti discriminati?
Due soggetti? Tre soggetti? Dieci? Cento?
In secondo luogo è la stessa legge a non distinguere tra fattispecie
nelle quali è statisticamente più probabile che la discriminazione abbia
un raggio di incidenza più esteso (discriminazione indiretta), e fattispecie
in cui al contrario la lesione può colpire anche un solo soggetto o anche

73 Diverso discorso, come si vedrà (cfr. cap. X, § 3.3.), va fatto in riferimento all’azione
collettiva risarcitoria appena introdotta con la legge finanziaria 2008. Il meccanismo proces-
suale previsto dall’art. 140 bis, infatti, che appunto prevede anch’esso il riferimento alla «plu-
ralità» di consumatori lesi dall’illecito, presenta profili funzionali e strutturali assai eterogenei
rispetto ai giudizi antidiscriminatori in esame in questo capitolo. In tale sede manca il prima-
rio rilievo costituzionale dell’interesse sostanziale tutelato e di contro acquistano importanza
le esigenze di economia processuale che il contenzioso seriale in questione solleva e che ben
risuonano nel meccanismo dell’adesione all’azione collettiva previsto dal comma 2 dell’arti-
colo ed al quale sono affidate le sorti del buon finanziamento del processo.
646 CAPITOLO OTTAVO

un gruppo piuttosto ristretto di persone che versino nella medesima con-


dizione (discriminazione diretta). Peraltro, come visto, il fatto che vi
siano soggetti lesi direttamente identificabili non esclude, di regola, l’a-
zione collettiva e la legge lo ricorda espressamente.
In terzo luogo, nel nostro ordinamento, sussistono già altri esempi
in cui l’azione dell’ente rappresentativo può affiancarsi a quella del sog-
getto pregiudicato per innalzare la tensione all’attuazione dell’obbligo
imposto al soggetto onerato, ovvero per incrementare l’effettività della
tutela giuridica e giurisdizionale che l’ordinamento prevede a vantaggio
degli interessi normativamente rilevanti. L’azione per la repressione della
condotta antisindacale rappresenta – appunto – l’ipotesi maggiormente
significativa, in relazione alla quale è stata elaborata la nozione di situa-
zione giuridica a rilevanza sovraindividuale che ha dato fondamento dog-
matico alla deducibilità in sede di giudizio collettivo del comportamento
datoriale incidente sulla posizione del singolo lavoratore74.
Il peso di questo secondo gruppo di argomenti sembra, dunque,
sufficiente a orientarsi a favore di questa seconda opzione interpretativa.
È, quindi, più corretto ritenere che gli enti rappresentativi possano agire
con l’azione collettiva che gli è attribuita anche in presenza di un com-
portamento diretto a discriminare un solo soggetto pregiudicato, in
quanto anche questa lesione apparentemente unidirezionale si riverbera
in un contesto più ampio75.

74 Cfr. retro, cap. VII, § 2.1.1., nonché la nota che segue.


75 Il fenomeno sostanziale sarebbe il seguente. Su un piano di priorità – in senso nor-
mativo ovviamente – appare l’interesse del soggetto discriminato; interesse che vede come si-
tuazione favorevole l’osservanza dell’obbligo di astensione. Peraltro, i noti ed imponderabili
nessi di strumentalità che legano più interessi (cfr. retro, cap. IV, § 5.), fanno sì che sia possi-
bile apprezzare, accanto all’interesse del soggetto discriminato, anche altri interessi di sog-
getti, che, pur non discriminati nella fattispecie concreta in questione, abbiano comunque in-
teresse all’osservanza dell’obbligo. Detto interesse, è ovviamente mediato, ma, ciononostante,
esistente. Potrebbe essere anche l’interesse che si ritiene la collettività intera abbia a non per-
mettere che tali pratiche discriminatorie si realizzano, o l’interesse degli altri dipendenti del-
l’imprenditore a non vedersi discriminati in futuro per consimili ragioni di discriminazione,
non è questo l’aspetto su cui occorre ora concentrare l’attenzione; ovvero, per dirla in altri
termini, è irrilevante la latitudine e l’esatta determinazione di questo interesse collettivo che
sta alle spalle dell’interesse individuale esclusivo direttamente tutelato; e ciò poiché questo –
sempre in termini normativi – rimane sullo sfondo, si potrebbe dire in seconda linea, rispetto
a quello del soggetto discriminato. Peraltro, si disegna così la rilevanza superindividuale di
quest’ultimo, che conduce – anche in ragione della rilevanza costituzionale dei valori giuridici
promossi – proprio all’apprezzamento – ancora in termini normativi – dell’interesse di quei
soggetti che istituzionalmente si fanno carico di promuovere la tutela dell’interesse alla parità
con conseguente riconoscimento dell’azione in capo ad essi in posizione concorrente rispetto
all’azione del soggetto discriminato ed in funzione suppletiva rispetto a questa. Assistiamo,
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 647

L’argomento contrario che più degli altri si oppone a questo modo


di ragionare, ovvero la necessità di delegare in forma scritta l’esercizio
dell’azione del singolo al soggetto rappresentativo, in realtà è molto
meno rilevante di quel che possa apparire in prima approssimazione76.
Questo argomento, infatti, se dovesse valere, dovrebbe allora valere in ri-
ferimento ad ogni illecito reprimibile in via collettiva, a cominciare dalle
ipotesi – sicuramente ammissibili alla luce del tenore letterale delle di-
sposizioni – in cui la discriminazione sia rivolta, se non contro una sola
persona, comunque in pregiudizio di un gruppo di soggetti numerica-
mente non esteso e ben determinabile nei suoi elementi.
Il significato precettivo di queste disposizioni, invece, deve essere
inteso come deroga a quanto dispone in generale l’art. 77 del codice di
civile di rito in materia di rappresentanza processuale volontaria77. Que-

dunque, ad una tipica tecnica di innalzamento della tensione all’attuazione dell’obbligo su cui
ci siamo già ampliamente soffermati (cfr. retro, cap. V, § 2.5.3. e cap. VI, § 4.) e che consiste
nell’attribuzione dell’azione non solo al soggetto o ai soggetti il cui interesse viene ad essere
direttamente protetto dall’osservanza del dovere, ma anche a soggetti differenti che però per
fini istituzionali si prefiggono la difesa di quello stesso interesse ovvero, in altri e più precisi
termini, che tendono ad uniformare il loro interesse concreto a quello che nelle circostanze
del caso appare essere l’interesse del soggetto destinatario dell’obbligo. Alla luce di queste
considerazioni, dobbiamo quindi rivedere ciò che avevamo sostenuto in Considerazioni sulla
natura dell’azione esercitata dal consigliere di parità in materia di discriminazioni uomo-donna,
cit., p. 637, nota 62, ove avevamo valutato opportuno ritenere che la natura collettiva della di-
scriminazione fosse determinata dalla plurilesività della stessa rispetto a più posizioni indivi-
duali. In realtà, alla luce delle considerazioni qui svolte, ma ancor più in relazione a quanto
visto in merito al concetto di interesse e le sue relazioni tanto con la norma quanto con l’ef-
fetto giudico che questa prevede quale suo strumento di tutela, il discorso va reimpostato nei
termini appena accennati, che non distano molto, nella sostanza, dal concetto di situazione
giuridica soggettiva individuale a rilevanza collettiva, elaborato da LANFRANCHI, L., Situazioni
giuridiche individuali a rilevanza collettiva ed attuazione della condanna alla reintegrazione del
lavoratore, in Riv. giur. lav., 1977, I, p. 343 ss., in materia di giudizio per la repressione della
condotta antisindacale ed efficacemente applicato in materia di giudizio ex art. 15 l.903/77 da
PAOLINI, R., Considerazioni generali sulla legge 9 dicembre 1977 n. 903: in particolare il proce-
dimento speciale ex art. 15, cit., p. 464 ss.
76 Cfr., infatti, LANFRANCHI, L., Le animulae vagulae blandulae e l’altra faccia della luna,

cit., p. XXXV, che afferma condivisibilmente: «la residua ambiguità, dovuta al manteni-
mento, da parte della novellazione operata dal d.legisl. del 2000, della coesistenza tra azione
ordinaria e sommaria non delegata del consigliere di parità ex art. 4, comma 9 e 10, e “azione
individuale”, viceversa delegabile – “ferma restando l’azione ordinaria” – allo stesso consi-
gliere di parità, oltre che al sindacato ex art. 4, comma 13, non essendo in grado – riterrei –
di annullare la ben più esegeticamente e sistematicamente rilevante equiparazione avvenuta
tra tutte le azioni del lavoratore, del sindacato, del consigliere di parità, per quel che attiene
alla oramai comune funzione di tutela giurisdizionale dei singoli soggetti colpiti da compor-
tamenti discriminatori plurioffensivi».
77 Cfr. BORGHESI, D., in Il processo del lavoro, cit., p. 488.
648 CAPITOLO OTTAVO

ste disposizioni permettono, infatti, al lavoratore – o più in generale ai


soggetti discriminati – di rivolgersi agli enti esponenziali – privi ovvia-
mente di poteri rappresentativi sul piano sostanziale – attribuendo a que-
sti il potere di condurre in loro nome il giudizio78.
Chiari, quindi, il fondamento e gli effetti di tale deroga. Sotto il
primo profilo, la delega consente alla persona lesa di evitare la contrap-
posizione frontale con il soggetto che li ha discriminati, che verosimil-
mente gode di una posizione di vantaggio o privilegio (potere economico,
potere contrattuale, conoscenza della lingua, miglior rapporto e familia-
rità con i meccanismi istituzionali concernenti l’amministrazione della giu-
stizia, ecc.). Sotto il secondo profilo, invece, la delega all’ente esponen-
ziale conduce ad un giudizio che si conclude con un provvedimento giu-
risdizionale idoneo ad investire il soggetto discriminato – cosa che come
vedremo non accade in assenza di delega – tanto con gli effetti favorevoli
che con gli effetti sfavorevoli dell’accertamento ed ovviamente implica an-
che una serie di semplificazioni processuali dovute al fatto che l’azione
esercitata è quella del soggetto discriminato e non dell’ente esponenziale.

3.3.4. Precisazioni sull’azione collettiva riferita alle sole discriminazioni di


soggetti non individuabili in via diretta e immediata
Un secondo aspetto che merita approfondimento è rappresentato
dalla disposizione – più volte richiamata – che ritroviamo all’art. 5,
comma 3, del d.legisl. n. 215/03 e all’art. 5, comma 2, del d.legisl. n.
216/03, in cui appunto è previsto che l’azione dell’ente esponenziale
possa essere esercitata «qualora non siano individuabili in modo diretto
e immediato le persone lese dalla discriminazione».
Anche quest’ultima locuzione desta, infatti, particolare perplessità
allorché la si legga nello specifico contesto in cui è calata dal legislatore.
Come si fa, infatti, a condizionare l’esercizio dell’azione collettiva al veri-
ficarsi di una circostanza che appartiene di certo alla sfera dell’occasio-
nalità?
Ci spieghiamo meglio. Nelle norme qui in esame, come visto, l’ente
collettivo può esercitare l’azione tanto avverso i comportamenti discrimi-
natori diretti quanto avverso le pratiche discriminatorie indirette.
La prima tipologia di comportamenti viene ad essere descritta nei
termini che seguono: si ha «discriminazione diretta» quando, per reli-

78 Poco comprensibile appare la tesi che in questa ipotesi vede un caso di sostituzione

processuale ex art. 81 c.p.c. (così, TESORIERE, G., Diritto processuale del lavoro, Padova, 2004,
p. 338).
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 649

gione, convinzioni personali, handicap, ecc., «una persona è trattata


meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in
una situazione analoga».
La seconda tipologia di comportamenti è invece definita secondo
queste modalità: si ha «discriminazione indiretta» quando «una disposi-
zione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento ap-
parentemente neutri possono mettere le persone» che posseggono le
qualità soggettive individuate dalla norma (ovvero il credo religioso, le
convinzioni personali, ecc.) «in una situazione di particolare svantaggio».
Ora, se si tiene a mente quanto ora riportato, appare piuttosto age-
vole rilevare che l’individuabilità diretta e immediata dei soggetti discri-
minati, a parità di altre condizioni, tra cui la stessa esigenza di repres-
sione collettiva dell’illecito, dipende esclusivamente da come in concreto
di atteggia la fattispecie lesiva. Così, se può rivelarsi sensato che la legge
prenda in considerazione detta questione quale circostanza meramente
accidentale inidonea ad impedire l’esercizio dell’azione collettiva, al con-
trario perde assolutamente di significato ed anzi degenera in incontesta-
bile irragionevolezza, l’ipotesi in cui tale circostanza si atteggi a condi-
zione ostativa.
In altri termini, può essere opportuno disporre in via espressa che
l’ente esponenziale, per vedersi riconosciuto il suo diritto di azione, non
debba necessariamente andare a scovare i soggetti che risultano pregiu-
dicati dal comportamento discriminatorio; si pensi al bando di concorso
appena pubblicato in cui sia inserito un criterio idoneo a produrre quella
situazione di particolare svantaggio che verosimilmente condurrà ad un
minor numero di assunzioni delle persone che posseggono i requisiti che
la legge identifica come fattori di rischio di discriminazione. In tale ipo-
tesi, potrà forse apparire ultroneo, ma è comunque ragionevole – e così,
per l’appunto, sono orientate le altre disposizioni di legge – rendere pa-
lese il fatto che la strada dell’azione collettiva non viene ad essere sbar-
rata in ragione dell’estrema difficoltà di determinare con esattezza i sog-
getti pregiudicati.
Se si guardano le cose nella prospettiva esattamente opposta, invece,
ciò che è ragionevole diviene effettivamente irragionevole; l’ente espo-
nenziale, infatti, per ragioni che attengono alle imprevedibili e non prefi-
gurabili connotazioni fenomenologiche del comportamento discriminato-
rio79, potrebbe vedersi preclusa l’azione collettiva allorché, alla stregua di

79 La dottrina dedicatasi allo studio del comportamento discriminatorio ha da tempo


evidenziato l’«atipicità strutturale» di detti comportamenti (cfr. TREU, T., Atti discriminatori e
650 CAPITOLO OTTAVO

dette connotazioni, fosse possibile individuare in modo diretto e imme-


diato anche una sola persona discriminata. Il che ad esempio, in riferi-
mento alla descrizione normativa dei comportamenti discriminatori di-
retti, è circostanza pressoché ordinaria.
Seguendo tale lettura interpretativa, il risultato pratico verso cui si
andrebbe incontro potrebbe essere il seguente. A fronte di quel che ac-
cade negli altri testi di legge a cui in questa sede ci riferiamo, nei quali
l’azione collettiva è tenuta comunque debitamente separata ed in posi-
zione indipendente rispetto all’azione individuale delegata (si pensi ad
esempio al tenore dell’art. 37 del codice delle pari opportunità in cui l’a-
zione delegata è prevista comunque «ferme restando le azioni in giudizio
di cui all’art. 37, commi 2 e 4» ovvero le azioni esercitabili iure proprio
del consigliere di parità), se si seguisse tale lettura interpretativa, negli
ambiti di applicazione disegnati dai d.legisl. nn. 215 e 216, si dovrebbe
ritenere che l’ente rappresentativo, ricorrendo la mera possibilità di indi-
viduare i soggetti discriminati, sia comunque costretto a procedere alla
loro identificazione per ottenere la delega all’esercizio della loro azione
individuale, oppure, alternativamente, desistere dalla richiesta di repres-
sione giurisdizionale del comportamento ritenuto illegittimo.
Peraltro, diversamente dalle più numerose fattispecie in cui l’indivi-
duabilità diretta ed immediata dei soggetti lesi non esclude l’azione col-
lettiva, nell’antitetica ipotesi ora in esame, l’ammissibilità stessa della tu-
tela si troverebbe condizionata ad un accertamento dal carattere estre-
mamente complesso oltre che aleatorio.
In altri termini – anche sul piano pratico-applicativo – una cosa è
escludere la rilevanza e dunque con essa l’accertamento dell’individuabi-
lità o meno dei soggetti discriminati, altra cosa è porre la verifica di detta
questione come decisiva in ordine all’ammissibilità della tutela.
La palese violazione dei principi consacrati dagli artt. 2, 3, comma 1
e 2, nonché 24, comma 1, Cost., in cui incorrerebbe questo diverso ed ir-
ragionevole trattamento che il legislatore riserva al medesimo fenomeno
sostanziale e processuale, fa quindi ritenere che le disposizioni ora in
esame debbano essere sottoposte ad una necessaria interpretazione cor-
rettiva, in virtù della quale, l’art. 5, comma 3, del d.legisl. 215/03, lad-
dove dispone che gli enti rappresentativi «sono, altresì, legittimati ad
agire ai sensi dell’articolo 4 nei casi di discriminazione collettiva qualora
non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla

condotta antisindacale, cit., p. 41 ss.). Pertanto, porre a perno del meccanismo di tutela le
connotazioni fenomenologiche del comportamento appare di certo una scelta avventata se
non propriamente inconsapevole.
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 651

discriminazione», e l’art. 5, comma 2, del d.legisl. 216/03, laddove pre-


vede formula analoga a quella ora riportata, debbano essere letti come se
dicessero che anche nei casi di discriminazione collettiva in cui non sono
individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discrimi-
nazione è possibile l’esercizio dell’azione collettiva80.
Una lettura sistematica del complessivo quadro delle tutele antidi-
scriminatorie alla luce dei principi costituzionali testé indicati, sembra
autorizzi l’interpolazione ora indicata, la quale riconduce le disposizioni
in esame alla logica interna che appartiene a ciascun testo di legge esa-
minato in questo capitolo preso in sé per sé ed al contempo riconduce a
simmetria il disegno che più in generale viene tratteggiato dall’insieme di
disposizioni che vanno a strutturare il complessivo sistema di tutele anti-
discriminatorie di cui il nostro ordinamento si è dotato negli ultimi anni.

3.3.5. Gli effetti del provvedimento conclusivo


Il delicato sforzo interpretativo di cui occorre farsi carico per risol-
vere le diverse incongruenze che affliggono i rimedi processuali collettivi
che in questo capitolo abbiamo in esame non termina di certo allorché si
giunga al tema degli effetti dei provvedimenti che concludono il giudizio
collettivo.
D’altra parte non poteva attendersi sorte diversa, visto che riguardo
a questa questione occorre confrontarsi con la completa e consueta as-
senza di norme che si facciano carico di regolare un processo anche lon-
tanamente adeguato nel dar seguito alle disposizioni a carattere rimediale
volte alla protezione degli interessi di dimensione collettiva sul piano ma-
teriale.

80 Ci poniamo, quindi, in senso contrario alla lettura strettamente esegetica della di-

sposizione in esame già avanzata dalla dottrina (cfr. retro, nota 38, la posizione di Borghesi,
Fabeni, Garofalo e Recchia). Va comunque precisato che quand’anche si preferisse accogliere
il principio – per noi assolutamente irragionevole – secondo cui l’azione può essere esercitata
solo quando non siano determinabili i soggetti lesi, tale conclusione comunque non avrebbe
incidenza sulla persistente natura plurioffensiva dell’illecito (come appunto ritengono tali
opinioni ed in particolare Borghesi). Difatti, per sostenere questo, occorrerebbe dimostrare
che al ricorrere di tale circostanza siano esclude le azioni individuali avversative dell’illecito,
ma questa interpretazione non è sostenibile sulla base di nessuno dei testi normativi qui in
esame. L’errore in cui incorre la dottrina – evidentemente suggestionata dall’idea della distin-
zione ontologica tra interesse collettivo e interesse individuale – è il partire da una disposi-
zione di tal fatta per ricostruire a ritroso il generale sistema di tutele. Al contrario la strada
corretta, come visto, è in primo luogo determinare i caratteri dell’illecito ed in secondo luogo
verificare chi sia legittimato all’azione in ordine alla sua repressione. Se, quindi, si ritenesse
opportuno accogliere l’opinione secondo cui l’individuabilità diretta ed immediata dei sog-
652 CAPITOLO OTTAVO

A ben vedere, anzi, proprio in questa area di studio, gli strumenti


giuridici posti a tutela degli interessi collettivi dimostrano il massimo
grado di divaricazione tra disposizioni di tenore sostanziale e disposizioni
di tenore più propriamente processuale. Emblematico è il riconosci-
mento del potere attribuito agli enti esponenziali di richiedere al giudice
la condanna dell’autore delle discriminazioni al risarcimento del danno a
favore dei soggetti pregiudicati; riconoscimento a cui non corrisponde
nemmeno un cenno a quali siano le conseguenze processuali di tale pos-
sibilità.
Detto questo come sintetica premessa, cercando di cogliere la linea
di riflessione che meglio delle altre possa condurci a risultati appaganti,
va in primo luogo ribadito ciò che a suo tempo abbiamo già avuto modo
di evidenziare, ovvero la circostanza che il discorso sugli effetti del giu-
dizio collettivo e sui suoi rapporti con quelli individuali, necessita a
monte – come è ovvio – della previa determinazione dell’oggetto del pro-
cesso. Questo peraltro, come appunto già osservato, è strettamente coor-
dinato alla natura dei provvedimenti che i soggetti legittimati ad agire in
via collettiva possono richiedere al giudice.
Se questa è l’impostazione di metodo che si dimostra più corretta in
una prospettiva generale, lo è ovviamente a fortiori in questo particolare
ambito di riflessione, in cui la legge dispone a vantaggio degli enti rap-
presentativi una serie di rimedi lato sensu sanzionatori talmente ampia da
riuscire con difficoltà – come efficacemente osservato in dottrina – ad
immaginarsene una ancora più effettiva81.
Il discorso sugli effetti del giudizio collettivo deve, in altri termini,
tener conto necessariamente del provvedimento che viene ad essere ri-
chiesto al giudice e in ragione del quale l’oggetto del giudizio viene a mo-
dularsi.
Detto questo, va subito aggiunto che il delinare un quadro comples-
sivo del fenomeno diviene estremamente complesso, poiché ai diversi ri-
medi che gli enti esponenziali legittimati possono esercitare in giudizio
per la repressione delle discriminazioni collettive si contrappongono gli
altrettanti distinti rimedi che spettano ai singoli soggetti discriminati. Il
quadro che ne esce è – come sovente accade in questi casi – determinato
da più variabili e la disarticolazione dello stesso in tutte le possibili ipo-

getti lesi impedisce l’esercizio dell’azione collettiva, ciò starebbe a significare – come già detto
(cfr. retro, § 3.3.1.) che la sfera di tutela collettiva si presenterebbe più piccola ed interna alla
sfera di tutela individuale e non – si badi bene – esterna e separata da essa.
81 Così, SCARSELLI, G., Appunti sulla discriminazione razziale e la sua tutela giurisdizio-

nale, cit., p. 828.


LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 653

tesi e sotto-ipotesi ci porterebbe in un percorso frastagliato fatto di mille


distinguo.
Prendendo, dunque, a premessa il fatto che l’azione dell’ente espo-
nenziale – ragionando su un piano generale – si pone in termini di con-
correnza rispetto alle azioni che spettano ai soggetti discriminati, per
tratteggiare un completo quadro di sintesi delle possibili problematiche a
cui dà luogo detto concorso e per enucleare i principi interpretativi di
base di cui servirsi per coordinare le diverse azioni, è opportuno acqui-
sire un punto di vista che imponga una cifra di lettura del fenomeno il
più possibile semplificativa.
Questa appare essere quella che appunto si sofferma sui rimedi che
possono essere richiesti in sede di giudizio collettivo per verificare gli ef-
fetti che da questo si ripercuotono sui giudizi individuali.
Ciò detto, nelle pagine che seguono ci soffermeremo in primo luogo
sull’ipotesi in cui il comportamento discriminatorio abbia natura pura-
mente materiale ed il giudizio collettivo sia rivolto all’accertamento del-
l’illecito e dell’obbligo di astensione dal comportamento antigiuridico ac-
certato. Successivamente, esamineremo l’ipotesi in cui il comportamento
discriminatorio prenda le forme dell’atto giuridico. Quest’ultima ipotesi
dà luogo a fenomeni molto simili a quelli già esaminati in sede di giudi-
zio ex art. 28 dello Statuto, con particolare riferimento al licenziamento
antisindacale. Difatti, è frequente che la discriminazione si palesi in que-
sti termini proprio all’interno del rapporto di lavoro; sicché, posta l’ope-
ratività, anche in questo caso, dell’art. 15 dello Statuto, l’atto datorile di-
scriminatorio (licenziamento, promozione, trasferimento, ecc.) è colpito
dalla sanzione di nullità. In ciò i rapporti tra l’azione istituzionale del-
l’ente rappresentativo e l’azione individuale sono gli stessi che abbiamo
esaminato nel capitolo che ci lasciamo alle spalle. D’altra parte, può ac-
cadere che le particolarità della fattispecie diano luogo a fenomeni speci-
fici che vanno approfonditi, ragion per cui a queste ipotesi sarà dedicata
la debita attenzione.
In terzo luogo, occorrerà verificare cosa succeda se l’ente esponen-
ziale, facendo leva sulle disposizioni che talora lo autorizzano in tal
senso, faccia richiesta al giudice di condannare al risarcimento del danno
l’autore della discriminazione. Questa particolare ipotesi necessita, in-
fatti, di un attento vaglio delle conseguenze processuali che essa com-
porta. In ultimo, a chiusura del discorso, cercheremo di offrire qualche
spunto di riflessione sulla collocazione sistematica che occorre attribuire
a quel particolare dispositivo rimediale che è rappresentato dal piano di
rimozione delle discriminazioni accertate.
654 CAPITOLO OTTAVO

3.3.5.1. L’accertamento della discriminatorietà del comportamento te-


nuto dall’autore dell’illecito e degli obblighi di astensione e rimozione de-
gli effetti. – Come appena indicato, l’ipotesi più comune è quella in cui il
comportamento discriminatorio abbia carattere materiale, ovvero, più
precisamente, possa essere predicato come violazione dell’obbligo di non
discriminazione.
Stando alle osservazioni svolte nel capitolo sesto, sappiamo che l’ac-
certamento idoneo al giudicato ex art. 2909 c.c. comprende, da un lato,
l’obbligo di astenersi per il futuro dai comportamenti discriminatori at-
tuati, oltre che – eventualmente – di rimozione degli effetti dell’illecito, e,
dall’altro, l’antigiuridicità della condotta posta in essere.
D’altra parte, come visto addietro in questo stesso capitolo, parte
della dottrina ha sottoposto ad attenta critica l’orientamento dominante
favorevole all’estensione ultra partes dell’accertamento del carattere di-
scriminatorio della condotta, rilevando appunto come la plausibilità di
tale opzione ricostruttiva necessiti a monte della dimostrazione che nella
materia in questione si sia in presenza di un giudicato sui fatti viceversa
eccezionale nel nostro ordinamento.
In altri termini si è osservato che l’estensione ultra partes presup-
pone l’accertamento e l’accertamento presuppone che l’oggetto del giu-
dizio sia una situazione giuridica soggettiva ed evidentemente l’antigiuri-
dicità della condotta non è riconducibile a tale nozione82.
Peraltro, il punto ora indicato è già stato oggetto di dovuto ap-
profondimento nel sesto capitolo di questo lavoro ed in tale sede l’esito
interpretativo più corretto è stato quello di ritenere che nei giudizi anti-
discriminatori l’accertamento abbia ad oggetto anche l’esistenza-inesi-
stenza dell’illecito prospettato nella domanda83.
Anzi, una conferma di diritto positivo a questa ultima considerazione
interpretativa è giunta proprio da questo particolare settore di tutela.
Ci riferiamo, in primo luogo, all’art. 37, comma 3, del codice delle
pari opportunità tra uomo e donna, in cui sono previsti i diversi rimedi
che possono essere concessi dal giudice nella «sentenza che accerta le di-
scriminazioni» ed, in secondo luogo, all’espresso riferimento alle «discri-
minazioni accertate» che ricorre in tutte le seguenti disposizioni: l’art. 44,
comma 10, del d.legisl. n. 286 del 1998; l’art. 4, comma 4, del d.legisl. n.
215 del 2003; l’art. 4, comma 5, del d.legisl. n. 216 del 2003; ed infine
l’art. 3, comma 3, della recente legge n. 67 del 2006.
82 Ciriferiamo all’opinione di Balena, riporta retro, note 53 e 54.
83 Cfr.retro, cap. VI, § 5.2.3., per la questione indicata nel testo e per le altre trattate in
questo paragrafo.
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 655

A ciò si aggiungono, inoltre, tutte le ragioni di ordine costituzionale


o più latamente assiologico che di certo spingono in questa direzione, da
intraprendersi necessariamente se si voglia poi ritenere che di tale giudi-
cato se ne possano avvantaggiare i soggetti discriminati rimasti terzi al
giudizio.
Sul piano giuridico-formale non sorgono, inoltre, problemi di sorta,
poiché si è osservato che in termini tecnici l’accertamento della discrimi-
natorietà della condotta corrisponde all’accertamento dell’illecito, ov-
vero, più precisamente, della relazione di difformità tra il comportamento
doveroso che la norma prescrive e il comportamento che diversamente il
soggetto obbligato ha effettivamente tenuto.
Alla luce di queste considerazioni, quindi, va ribadito che anche – se
non soprattutto – in materia di tutela antidiscriminatoria l’accertamento
investe non solo gli effetti giuridici già indicati, ma anche l’illecito già ve-
rificatosi.
Da ciò ovviamente deriva la possibilità che tali materie di accerta-
mento autoritativo possano rilevare all’interno degli eventuali giudizi in-
dividuali che si svolgono sui c.d. effetti conseguenti.
Si pensi, da un lato, al giudizio individuale in cui il singolo faccia ri-
chiesta al giudice di condannare l’autore dell’illecito al risarcimento dei
danni che pretende di aver subito in ragione di detto illecito o, dall’altro,
al giudizio in cui il singolo richieda il risarcimento del danno che conse-
gue alla violazione del comportamento la cui doverosità è stata reiterata
dall’ordine inibitorio.
Qui ovviamente si pone il problema di ritenere possibile l’estensione
ultra partes del giudicato.
Al riguardo si è visto che la maggior parte della dottrina intervenuta
in materia si è orientata in tal senso, sebbene detta conclusione non sia
stata sempre adeguatamente supportata, né sul piano della determina-
zione dell’esatta relatio che intercorre tra giudizio collettivo e giudizio in-
dividuale, né sul piano relativo alla compatibilità di detta soluzione con i
principi ricavabili sulla base di un esame della legislazione ordinaria,
nonché dell’ordinamento costituzionale.
Sulla prima questione, come visto, non sorgono dubbi, mentre per
ciò che riguarda l’ammissimibilità de iure condito di fenomeni di esten-
sione ultra partes del giudicato, constatata l’assenza di disposizioni speci-
fiche, riteniamo opportuno applicare anche in questo caso la regola ge-
nerale del giudicato secundum eventum litis.
Eccessiva disinvoltura ha, al contrario, dimostrato la dottrina inter-
venuta in materia, che si è in genere dimostrata favorevole all’estensione
656 CAPITOLO OTTAVO

del giudicato tanto favorevole che sfavorevole nei confronti dei soggetti
discriminati rimasti terzi al giudizio. Di certo, a tal proposito, non appare
argomento decisivo il rilevare che i valori sostanziali difesi in questa ti-
pologia di giudizi siano di primissimo rilievo costituzionale, poiché il
punto qui in questione attiene alle garanzie di valori processuali stru-
mentali a quelli, ovvero il diritto di azione e di difesa. Ma, di contro, non
pare dubbio che per questo stesso nesso di strumentalità che lega i se-
condi ai primi, l’estensione del giudicato sfavorevole nei confronti di co-
loro che sono rimasti terzi al giudizio possa apparire soluzione ancor
meno plausibile di quanto lo sia comunque in altri ambiti di tutela in cui
gli interessi in gioco hanno carattere più marcatamente patrimoniale.
Anche in materia di giudizio antidiscriminatorio, dunque, va soste-
nuta la possibile «comunicabilità» tra i giudizi degli accertamenti già ot-
tenuti, allorquando, da un lato, sussistano relationes del tipo già indicato
e, dall’altro, la parte rimasta terza al giudizio che ha dato luogo all’accer-
tamento se ne voglia avvantaggiare nei confronti del soggetto che invece
a tale accertamento è vincolato proprio in ragione della sua partecipa-
zione al giudizio stesso.

3.3.5.2. Gli atti discriminatori complessi e i loro effetti sulle vicende


del processo. – Quanto detto nel paragrafo appena concluso, merita pe-
raltro ulteriore riflessione in riferimento ai casi in cui – specie nei rap-
porti di lavoro costituiti o in via di possibile costituzione – il comporta-
mento discriminatorio assuma la veste dell’atto giuridico. Difatti, l’art. 15
dello Statuto dei lavoratori, così come modificato, prima, dall’art. 13
della l. n. 903/77 e, poi, dall’art. 4 del d.legisl. n. 216 del 2003, ha una la-
titudine di applicazione ora particolarmente ampia, in quanto, senza ri-
produrre interamente quanto ivi disposto, si prevede la nullità degli atti
e patti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lin-
gua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o
sulle convinzioni personali.
Pertanto, in tutte queste ipotesi, l’antigiuridicità del comportamento
si pone – vista dal punto di vista del singolo rapporto di lavoro – in ter-
mini di nullità dell’atto che incide su di esso. Il discorso, dunque, assume
connotazioni particolarmente simili a quelle svolte nel capitolo passato in
materia di giudizio di repressione dei comportamenti antisindacali e dun-
que ci evitiamo di ripeterlo.
Va, d’altra parte, rilevato, che, alla luce delle connotazioni fenome-
nologiche che possono essere assunte dalla prassi discriminatoria, la si-
tuazione appena indicata può farsi qui più complessa. E ciò accade allor-
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 657

quando uno stesso unico atto, si riveli dall’effetto sfavorevole per taluni
soggetti, che appunto pretendono essere da questo discriminati, ma, per
altro verso, sia favorevole riguardo ad altri. Ipotesi tipiche sono, ad esem-
pio, il licenziamento del soggetto X (atto positivo sfavorevole), la cui im-
pugnazione, può ben rimettere in gioco – per ipotesi – la posizione del
soggetto Y, che il datore ha ritenuto opportuno mantenere alle sue di-
pendenze (atto omissivo favorevole). Oppure, in alternativa, si pensi al
caso – similare all’ultimo indicato – della promozione del soggetto K
(atto positivo favorevole) che comporti il mancato avanzamento del sog-
getto Z (atto omissivo sfavorevole)84.
In questa situazione si viene a realizzare un conflitto di interessi che
non coinvolge solo i soggetti presunti discriminati e il datore di lavoro,
ma anche altri soggetti «preferiti», i quali, in un eventuale giudizio anti-
discriminatorio possono – come efficacemente indicato – acquisire la ve-
ste di «contro-interessati»85.
In tutti questi casi, la dottrina ha ben evidenziato come la mera ca-
ducazione dell’atto lesivo (dichiarazione di nullità) di per sé non abbia
quell’efficacia propriamente riparatoria che solo la rivisitazione dei pre-
supposti di esercizio del potere con la successiva rinnovazione dell’atto
viziato può realizzare. Da ciò due necessarie conseguenze: a) consentire
al giudice di procedere, se del caso, in via direttamente costitutiva; b)
rendere parti necessarie del giudizio i soggetti avvantaggiati dall’atto di-
scriminatorio, la cui posizione può o anzi deve essere rimessa in gioco
dagli effetti del provvedimento86.

84 Nelle fattispecie esemplificate nel testo emerge chiaramente la stretta interdipen-


denza che viene a configurarsi tra il lato positivo del comportamento e quello omissivo dello
stesso. Sul punto, v., in particolare, TREU, T., Atti discriminatori e condotta antisindacale, cit.,
p. 51 ss.; ID., Sub art. 13, cit., p. 824; ID., Atti e trattamenti discriminatori, in Enc. giur. Trec.,
III, Roma, 1988, p. 8, a cui va aggiunta la dottrina citata infra, nota 86.
85 Così, LUISO, F.P., Controllo giurisdizionale dei poteri dell’imprenditore e litisconsorzio

necessario, in Giust. civ., 1984, I, p. 3413 ss., spec. p. 3414, che peraltro osserva come tale si-
tuazione, con le dovute conseguenze processuali che essa comporta, si verifica tanto riguardo
gli atti discriminatori c.d. omissivi, quanto riguardo gli atti discriminatori c.d. positivi; e ciò
in contrasto con l’orientamento comune che porta di regola l’accento solamente sulla prima
ipotesi, ovvero sugli atti discriminatori omissivi.
86 Sull’instaurazione di un giudizio che veda come parti necessarie il datore e il soggetti

interessati, ovvero il soggetto preferito ed il soggetto svantaggiato, la dottrina è piuttosto con-


corde. Per una convincente dimostrazione, v. LUISO, F.P., Controllo giurisdizionale dei poteri
dell’imprenditore e litisconsorzio necessario, cit., p. 3414 ss.; ID., Concorsi privati e tecniche di
tutela. Profili di diritto sostanziale e processuale, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1991, p. 746 ss.;
cui adde, FABBRINI, G., Il procedimento sommario a tutela della parità della lavoratrice, cit., p.
332; RAPISARDA, C., Sub art. 15, cit., p. 840; TARZIA, G., Manuale del processo del lavoro, cit.,
658 CAPITOLO OTTAVO

D’altra parte, con riguardo alla prima conseguenza ora indicata, si è


evidenziato che la formula letterale con cui la legge, in talune specifiche
ipotesi, dispone in ordine ai provvedimenti a carattere ripristinatorio che
il giudice può assumere, potrebbe rendere dubbia l’ammissibilità di una
pronuncia giudiziale costitutiva a fronte del principio di tipicità che l’art.
2908 c.c. sancisce in riferimento a tale forma di tutela87
Ciò è stato ad esempio osservato riguardo a quanto disponeva l’art.
15 della l. n. 903/77, in cui appunto si leggeva che il giudice «ordina al-
l’autore del comportamento denunziato […] la cessazione del comporta-
mento illegittimo e la rimozione degli effetti»88.

p. 365; DE ANGELIS, L., La legge di parità uomo-donna nella prassi giurisprudenziale, cit., p.
337; PAOLINI, R., Considerazioni generali sulla legge 9 dicembre 1977 n. 903: in particolare il
procedimento speciale ex art. 15, cit., p. 482 ss.; SASSANI, B., in SASSANI, B. - VALLEBONA, A., Le
pari opportunità: onere della prova e sanzioni, cit., p. 135; CICCHITI, V.E., Profili processuali
della tutela della parità tra uomini e donne in materia di lavoro, cit., p. 1190 s.; FRASCA, R.,
Note sui presupposti del litisconsorzio necessario (pt. II), in Riv. dir. proc., 1999, p. 745 ss., ma
spec. p. 757.
87 Si noti che le considerazioni svolte nel testo sono avanzate unicamente al fine di me-

glio precisare in quali limiti l’effetto costitutivo, necessario a rimuovere le discriminazioni,


possa essere disposto ope judicis; non, dunque, in ordine alla delimitazione più esatta delle
ipotesi in cui ricorra il regime di litisconsorzio necessario tra lavoratore avvantaggiato e lavo-
ratore svantaggiato. Difatti, l’applicazione di tale regime processuale non viene elusa rite-
nendo che la tutela perseguibile sia solo quella di condanna, in quanto, anche in tal caso, l’a-
zione proposta condurrà alla previa dichiarazione di nullità dell’atto illegittimo e l’effetto ri-
pristinatorio verrà solamente rinviato all’attuazione dell’obbligo imposto con la condanna.
Sul punto, per tutti, v. le osservazioni di TARZIA, G., Manuale del processo del lavoro, cit., p.
364, confermate peraltro dal fatto che molte delle opinione favorevoli al litisconsorzio neces-
sario non abbiano preso nemmeno in esame l’ipotesi di una pronuncia costitutiva; contra, di
recente, BORGHESI, D., in Il processo del lavoro, p. 492, che appunto ritiene che non debba ap-
plicarsi quanto dispone l’art. 102 c.p.c. nei casi in cui non sia dato procedere costitutivamente
ope judicis.
88 Cfr. ad es. TARZIA, G., Manuale del processo del lavoro, cit., p. 363, che appunto ri-

leva come «la formula legislativa sembra escludere che il provvedimento del giudice possa
avere l’effetto costitutivo del rapporto di lavoro, ed assegnargli invece anche qui un conte-
nuto di condanna»; ugualmente BORGHESI, D., in Il processo del lavoro, p. 489. In questo
senso sembra porsi implicitamente gran parte della dottrina: cfr., tra gli altri, RAPISARDA, C.,
Sub art. 15, cit., p. 338, e, più di recente, anche a seguito delle successive innovazioni legisla-
tive di cui abbiamo dato esposizione nel testo, TESORIERE, G., Diritto processuale del lavoro,
cit., p. 340. Per completezza, va anche rilevato che, qualora si ritenga che la lettera di talune
disposizioni non sia idonea a scalsare il principio di tipicità della tutela costitutiva, in dottrina
sono state avanzate diverse opzioni ricostruttive per conseguire tale risultato. Lo stesso TAR-
ZIA, G., Manuale del processo del lavoro, cit., p. 365, nota 83, ha ritenuto possibile ammettere
che il provvedimento giurisdizionale impositivo dell’obbligo datorile di costituzione del rap-
porto possa valere – in caso di inottemperanza dell’ordine giudiziale – come titolo da eserci-
tare ai fini della pronuncia prevista dall’art. 2932 c.c. Immediatamente satisfattiva sarebbe in-
vece la strada indicata da SASSANI, B., Aspetti processuali della l. n. 125/91, cit., p. 869 ss.; ID.,
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 659

Ora la medesima formula la ritroviamo invariata all’art. 38 del co-


dice delle pari opportunità, ma è pur vero che a fronte delle stesse iden-
tiche esigenze di tutela, si trova anche – all’art. 37 dello stesso codice – la
più corretta locuzione secondo cui il giudice «adotta ogni altro provve-
dimento idoneo a rimuovere gli effetti delle discriminazioni accertate»89.
Qui evidentemente, non è il legislatore – concetto ideale ed antro-
pomorfo – che ha voluto dire cose diverse, ovvero dare diverse direttive
precettive, ma, probabilmente, per coloro che in quel momento si trova-
vano a vestire tali panni, le due formule suonavano pressoché similari e
comunque perfettamente fungibili. In altri termini l’«intenzione del legi-
slatore» di cui parla l’art. 12 delle preleggi non va tratta dal senso fatto
palese dal significato proprio che appartiene alla singola locuzione im-
piegata, ma dall’insieme delle diverse formule verbali che in materia di-
spongono sul punto e nel contesto funzionale specifico in cui esse vanno
a collocarsi.
Con ciò, dunque, va ritenuto che ogni qual volta la legge preveda
che il giudice – su domanda dei soggetti discriminati o dell’ente espo-
nenziale legittimato – possa ordinare la rimozione degli effetti intenda
con ciò attribuire anche il potere di costituire ope iudicis l’effetto giuri-
dico idoneo a reintegrare la sfera giuridica del soggetto leso.
Giungendo, infine, alla seconda conseguenza, ovvero alla necessaria
partecipazione del soggetto avvantaggiato, non sembra dubbio che ciò

in SASSANI-VALLEBONA, Le pari opportunità: onere della prova e sanzioni, cit., p. 133 ss., per il
quale, posta la centralità dell’art. 1453 c.c., per determinare l’esatto rapporto tra sussistenza
del diritto all’adempimento e sua conversione in diritto al risarcimento a seguito della viola-
zione, la diretta produzione dell’effetto costitutivo rappresenterebbe lo strumento di esecu-
zione in forma specifica dell’obbligo di produzione dell’effetto giuridico desiderato che grava
sul datore di lavoro. In altri termini dalla lettura sistematica dell’art. 2932 c.c. sarebbe possi-
bile trarre il «principio generale […] secondo cui l’ordinamento consente di surrogare ope iu-
dicis e ope iudicii il compimento di atti, normativi o direttamente causativi di esiti giuridici fi-
nali, a condizione che essi siano dovuti (sentenza riguardo per la fonte, convenzionale o le-
gale) e (non solo compiutamente) determinati, (ma anche giudizialmente) determinabili nel
loro contenuto».
89 Cfr. art. 37, comma 4, codice delle pari opportunità tra uomo e donna; art. 44,

comma 1, d.legisl. n. 286/98; art. 3, comma 3, l. n. 67/2006. Che questa formula sia suffi-
ciente a ritenere superato il limite imposto dall’art. 2908 c.c. nelle ipotesi ora in esame è co-
munemente rilevato dalla dottrina: cfr. ad es. SCARSELLI, G., Appunti sulla discriminazione raz-
ziale e la sua tutela giurisdizionale, cit., p. 827 e 832; MORROZZO DELLA ROCCA, P., Gli atti di-
scriminatori nel diritto civile alla luce degli artt. 43 e 44 del T.U. sull’immigrazione, cit., p. 131.
Singolare che tale opzione ermeneutica piuttosto piana non sia condivisa da BORGHESI, D., in
Il processo del lavoro, p. 489, che peraltro si richiama all’opinione in tal senso di Tarzia,
espressa peraltro (cfr. retro, nota 88) in riferimento ad una formula legale differente, ovvero
quella riportata dall’art. 15 della l. n. 903/77.
660 CAPITOLO OTTAVO

debba verificarsi non solo quando l’azione è promossa dal soggetto o dai
soggetti discriminati, ma anche quando l’azione è promossa dall’ente
esponenziale di volta in volta legittimato.
Posto, inoltre, che il soggetto avvantaggiato comunque deve pren-
dere parte al giudizio, vista la sostanziale inscindibilità giuridica della sua
posizione rispetto a quella del soggetto per ipotesi leso dal provvedi-
mento impugnato, non par dubbio che il giudizio antidiscriminatorio si
presenti come il luogo per operare una volta per tutte il sindacato giudi-
ziale sul potere privato esercitato, cosicché parte necessaria del giudizio
sembra essere anche il soggetto svantaggiato ovvero presumibilmente di-
scriminato.
In questo caso ricorrono evidentemente quelle esigenze sistematiche
imprescindibili tali da rendere inapplicabile la regola del giudicato se-
cundum eventum litis90.

3.3.5.3. La richiesta di risarcimento del danno da parte dell’ente espo-


nenziale. – In assenza di una specifica regolamentazione delle forme del
giudizio collettivo, le medesime esigenze sistematiche potrebbero ricor-
rere anche nell’ipotesi in cui l’ente esponenziale presenti domanda di
condanna al pagamento del risarcimento del danno a vantaggio della per-
sona discriminata91.
Ciò che è certo che questa fattispecie dà luogo alle maggiori diffi-
coltà interpretative; non a caso, infatti, in materia di consumatori la dot-

90 Esigenze sistematiche che sin dal sesto capitolo di questo lavoro avevamo rilevato es-
senziali per scalsare la generale applicabilità del regime di giudicato secundum eventum litis
nella materia in questione.
91 Si pensi, ad esempio, all’art. 37, comma 3 e 4, del codice delle pari opportunità in cui
appunto la possibilità di condannare al risarcimento del danno anche non patrimoniale sem-
bra inequivocabilmente riferita all’azione del consigliere di parità avverso le discriminazioni
collettive. In riferimento al comma 4 dell’articolo citato, occorre peraltro notare che il giudice
adito in via sommaria secondo la disciplina ivi prevista può pronunciare una condanna prov-
visionale nei limiti in cui ritenga provata la sussistenza del danno. In questo senso, ad esem-
pio, si orientava la dottrina (RAPISARDA, C., Sub art. 15, cit., p. 837; ma, contra TARZIA, G., Ma-
nuale del processo del lavoro, cit., p. 365) già in riferimento alla pretesa risarcitoria avanzata
dalla lavoratrice in sede di giudizio sommario ex art. 15 l. 903/77, precedente legislativo a cui
di certo il legislatore ha guardato per disegnare le forme del giudizio sommario collettivo a
cui ora ci riferiamo. Ed ancor prima, una simile opzione interpretativa, era stata autorevol-
mente sostenuta in sede di giudizio ex art. 28 con riferimento alla possibilità di provvedere ad
una condanna generica del datore di lavoro al pagamento delle somme dovute già all’interno
del decreto emesso a conclusione della fase sommaria (così, LANFRANCHI, L., Prospettive rico-
struttive in tema di art. 28 dello Statuto dei lavoratori, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1971, p. 388
ss., spec. p. 409, 432, nota 80, e 435; PUNZI, C., Repressione della condotta antisindacale: b)
Profili di diritto processuale, cit., p. 979).
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 661

trina ha vagliato con estrema cautela la possibilità di ammettere domande


di risarcimento collettivo e solo di recente il legislatore ha provveduto in-
troducendo la disciplina di una specifica azione collettiva risarcitoria92.
Già nel capitolo sesto, infatti, è emerso piuttosto chiaramente il
grado di complessità che raggiunge il giudizio collettivo allorché l’og-
getto del medesimo venga ad essere costituito dall’accertamento di n pre-
tese risarcitorie più o meno differenziate; complessità che deriva dal fatto
che il comportamento doveroso assume connotazioni oggettive altamente
variabili e dipendenti da circostanze di fatto prettamente personali.
Già allora abbiamo evidenziato che nel processo collettivo propria-
mente inteso, la tutela è indirizzata verso interessi individuali compatibili
e concorrenti, ovvero verso interessi che risultano soddisfatti dal realiz-
zarsi di un’unica situazione favorevole, che nello specifico è costituita
dall’osservanza di un dovere di comportamento generalmente a conte-
nuto negativo. Nel giudizio collettivo risarcitorio, invece, l’accertamento
coinvolge diversi effetti giuridici, ovvero diversi obblighi di comporta-
mento che corrispondono ciascuno ad un interesse individuale non con-
corrente ma esclusivo, ovvero differenziato rispetto agli altri93.
A ciò consegue che il potere attribuito dalla legge all’ente esponen-
ziale di far domanda di condanna al risarcimento del danno nei confronti
del presunto autore dell’illecito, a fronte del perfetto silenzio sulle conse-
guenze processuali di tale richiesta, pone l’interprete in un dramma quasi
esistenziale.
Nell’evidente impossibilità di costruire in via interpretativa un giu-
dizio collettivo risarcitorio, dunque, non resta che meditare cautamente
su quali possano essere gli scenari prefigurabili e sulle soluzioni relativa-
mente – si sottolinea il «relativamente» – più soddisfacenti.
Il primo interrogativo da porsi è rappresentato dal chiedersi se in un
giudizio di tal fatta, ovvero in un giudizio avente ad oggetto un obbligo
di tale natura, il regime di giudicato secundum eventum litis possa appa-
rire la soluzione adeguata per garantire il giusto coordinamento delle ini-
ziative processuali.
Di certo gli eventuali profili di problematicità riguardanti l’applica-
zione di tale regime degli effetti della sentenza non stanno né nelle mo-
dalità di funzionamento del meccanismo in sé, né nei limiti in cui questo
opera; sotto entrambi gli aspetti indicati, anche nella fattispecie ora in
esame, non si verificano particolari anomalie. Da una parte abbiamo un

92 Cfr., infra, cap. X, spec. § 3.3.


93 Cfr. retro, cap. VI, § 5.1.2.
662 CAPITOLO OTTAVO

soggetto che fa richiesta di accertamento di un certo effetto sostanziale


(l’obbligo risarcitorio)94 e dall’altra abbiamo un soggetto rimasto terzo al
giudizio che, se vorrà, potrà avvantaggiarsi o non avvantaggiarsi dell’ac-
certamento già ottenuto.
D’altro canto, ciò che garantisce l’efficiente funzionamento dell’isti-
tuto è anche l’idoneità di siffatto giudizio a porsi come strumento in
grado di pervenire – non solo astrattamente, ma anche in termini effettivi
– a quel risultato c.d. favorevole di cui i diversi legittimati verosimilmente
si avvantaggieranno nei futuri ed eventuali giudizi che li riguardano. Per
questa via, ovvero raggiunta la meta comune (l’accertamento positivo
dell’effetto), il giudicato non troverà ostacoli per irradiarsi verso gli altri
legittimati.
Ciò ovviamente non solo risponde ad un esigenza di tutela delle di-
verse posizioni concorrenti (in quanto la vittoria di uno diventa – per
così dire – una vittoria collettiva), ma risponde anche ad un’esigenza di
stabilizzazione della regolamentazione sostanziale ottenuta; e ciò ap-
punto perché la vittoria, non essendo del singolo, ma di tutti, priva i tutti
dell’interesse ad ingaggiare nuovamente il conflitto nei confronti del co-
mune avversario.
Fuor da scenari affetti dalla genericità delle descrizioni, pensiamo
proprio alla fattispecie che si presenta ora in esame. Da un lato abbiamo

94 Dal punto di vista puramente formale l’obbligo di pagamento della somma a titolo di
risarcimento del danno in nulla diverge da qualsiasi altro obbligo giuridico e ben si può dire,
sebbene questo possa apparire poco consueto, che l’ente esponenziale ha diritto al risarci-
mento del danno subito dal soggetto discriminato, intendendo con ciò dire che il pagamento
della somma a titolo di risarcimento da parte dell’autore dell’illecito a favore della persona di-
scriminata soddisfa un interesse normativamente rilevante il cui titolare è determinato dalla
legge anche nell’ente esponenziale. Questo fenomeno è già stato esaminato addietro (cfr. re-
tro, spec. cap. VII, § 5.6.) laddove si è visto come autorevole dottrina civilistica abbia pun-
tualmente distinto tra colui che appare essere destinatario dell’obbligo e colui che risulta de-
stinatario del comportamento doveroso. Uscendo, peraltro da questa prospettiva, ci si avvede
subito della particolarità di tale effetto giuridico, ovvero dell’obbligo di risarcimento, il quale,
in ragione della sua precisa funzione compensativa, «prende contenuto» dalla situazione con-
creta del soggetto che ha patito il pregiudizio, rimanendo sostanzialmente indeterminato sino
a quando la sua consistenza verrà a cristallizzarsi nella sentenza che ne accerta autoritativa-
mente l’esistenza o nell’atto stragiudiziale in cui ad esempio una parte accetti a titolo di ri-
sarcimento una certa somma pattuita rinunciando ad ulteriori pretese nei confronti del dan-
neggiante. È per questa ragione che si verificano indubbie complessificazioni del giudizio che
difficilmente possono essere risolte sulla base dell’applicazione di discipline processuali rigide
e divaricanti e che al contrario necessitano che le forme del processo si adeguino alle circo-
stanze specifiche dell’illecito, magari appunto ritagliando la controversia attorno a quelle que-
stioni comuni da cui dipendono più controversie individuali a contenuto risarcitorio.
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 663

il potere dell’ente rappresentativo di dedurre in giudizio l’obbligo di ri-


sarcimento dei danni che grava sull’autore dell’illecito nei confronti delle
singole persone discriminate e dall’altro abbiamo – naturalmente – il po-
tere di azione di queste stesse persone. Abbiamo, in altri termini, un rap-
porto di concorrenza tra due interessi di cui uno è sempre imputabile al-
l’ente rappresentativo e l’altro è invece riferibile singolarmente e separa-
tamente a ciascuno dei soggetti pregiudicati dal comportamento illecito.
Cambiando prospettiva potremmo dire che ogni obbligo a contenuto ri-
sarcitorio adempiuto soddisfa due interessi normativamente rilevanti,
quello dell’ente e quello del soggetto pregiudicato.
La plausibilità (pratica ancor prima che logico-teorica), peraltro, di
un giudizio condotto su tale effetto giuridico da parte del solo ente espo-
nenziale nei confronti del responsabile della discriminazione ed in as-
senza del soggetto pregiudicato dall’illecito dipende – come detto – dal-
l’effettiva possibilità che tale giudizio sia idoneo a pervenire a quel risul-
tato «favorevole» che costituisce il perno attorno al quale gira questo
meccanismo di coordinamento giustificandone l’applicazione. Detta con-
dizione, infatti, autorizza a ritenere che, raggiunto tale esito «favorevole»,
la controversia comune abbia ricevuto quel regolamento presumibil-
mente stabile in quanto appunto idoneo a soddisfare l’interesse sostan-
ziale del soggetto discriminato.
D’altra parte, in un giudizio sul diritto al risarcimento del danno
– quantomeno anche – alla persona, come è quello che si verifica in ma-
teria antidiscriminatoria, la particolare natura dell’effetto dedotto porta
con sé due circostanze che devono essere prese in attenta considerazione.
In primo luogo, la linea di demarcazione che separa il giudicato fa-
vorevole dal giudicato sfavorevole appare tutt’altro che nitida; noti, in-
fatti, gli infiniti titoli di risarcimento del danno, nonché i diversi criteri di
valutazione e liquidazione dello stesso in ragione di tali diversi titoli, può
ben essere che il danneggiato, anche a fronte del pieno accoglimento
della domanda avanzata dall’ente esponenziale ritenga comunque sfavo-
revole l’esito del processo; questi, infatti, potrebbe ritenere – per le più
disparate ragioni – insufficiente l’ammontare della somma liquidata, op-
pure potrebbe ritenere suo diritto anche il risarcimento di altre e diverse
voci di danno.
Tutte queste osservazioni acquistano maggior risalto se si pensa che
sia sulle questioni concernenti l’an sia su quelle al contrario attinenti al
quantum e non solo sotto il profilo del fatto, ma anche – di conseguenza
– in punto di diritto, incidono enormemente le circostanze concrete la
cui conoscenza specifica di certo possiede solo il soggetto discrimi-
664 CAPITOLO OTTAVO

nato95. Ci si intenda, questo accade sempre. In ogni giudizio che possa


essere alternativamente attivato da più soggetti, ve ne sarà sempre uno
più informato sui fatti, sulle diverse circostante, meglio attrezzato al pro-
cesso, ecc. Ma non è questo il punto. Il punto è che invece, in questo
caso, le c.d. «difese personali» superano di gran lunga le «difese co-
muni». Come è pensabile che il consigliere di parità – per fare un esem-
pio – agisca per richiedere il risarcimento del danno nei confronti di n
soggetti discriminati (che possono essere di numero esiguo o assai ampio
a seconda dei casi) ed articoli le difese processuali in ragione delle situa-
zioni specifiche in cui versano tali soggetti?
Negli ordinamenti che si ispirano al modello delle class actions, nu-
merosi sono gli strumenti che possono condurre il giudizio ad adeguarsi
alla diversificazione degli interessi sostanziali bisognosi di tutela. È inu-
tile ripetere ora ciò che è già stato detto, ma in sintesi va ricordato che in
quel modello di tutela giurisdizionale degli interessi collettivi abbiamo un
processo appositamente calibrato su questa tipologia di controversie e
tale processo non presenta forme fisse e determinate a priori che forzano
sulla natura della controversia affinché questa entri ad ogni costo nelle
«scatole» processuali prestabilite, ma si adatta di volta in volta ai carat-
teri del conflitto collettivo; e ciò accade, in particolare, riguardo alle con-
troversie collettive risarcitorie in cui la gestione cumulativa delle pretese
impone numerosi adattamenti al caso concreto96.
Si badi bene, riguardo questo specifico piano di riflessione, il fatto
che il giudicato sfavorevole non colpisca i soggetti rimasti assenti rileva
poco, perché nella fattispecie in esame il rischio sembra essere al contra-
rio quello che si venga ad inscenare un giudizio sostanzialmente inutile e
destinato a ripetersi97.

95 Autorevole dottrina, difatti, già in relazione al giudizio di repressione della condotta

antisindacale, rilevava la difficoltà di procedere alla liquidazione del quantum delle somme
dovute da parte del datore nei confronti del lavoratore in un giudizio svolto in sua assenza
(cfr. PUNZI, C., Repressione della condotta antisindacale: b) Profili di diritto processuale, cit.,
p. 979).
96 Per indicazioni, cfr. retro, cap. VI, § 5.1.2.
97 A ben vedere il ragionamento che cerchiamo di sviluppare nel testo ricalca quanto

sostenuto dalla dottrina riguardo all’applicazione del giudicato secundum eventum litis in ri-
ferimento alla tutela della situazione giuridica plurisoggettiva. Cfr. MENCHINI, S., Il processo li-
tisconsortile, cit., p. 532 ss., sulla scia degli studi di COSTANTINO, G., Contributo allo studio del
litisconsorzio necessario, Napoli, 1979, p. 242 ss., 251 ss., 467 ss., 489 ss., 504 ss.; ID., Liti-
sconsorzio: I) Diritto processuale civile, in Enc. giur. Trec., XIX, Roma, 1990, p. 3. In detta ipo-
tesi, a fronte del necessario regolamento uniforme del rapporto controverso, il punto di equi-
librio tra principio della domanda e diritto di difesa dei diversi legittimati, indurrebbe ad am-
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 665

Ciò è ancor più vero se si riflette sulla circostanza che, anche in as-
senza della richiesta di condanna al risarcimento del danno, il giudicato
investirà comunque l’esistenza dell’illecito, cosicché la previsione legale
mettere l’estensione ultra partes dei soli effetti favorevoli ogni qual volta la domanda propo-
sta sia rivolta a conseguire un’«utilità» corrispondente ad un effetto «favorevole» per gli altri
soggetti rimasti terzi al giudizio. E ciò proprio per l’astratta idoneità del giudizio così avviato
e impostato a giungere all’auspicato regolamento uniforme in caso di accoglimento della do-
manda. Diversamente, allorquando la domanda proposta sia indirizzata a conseguire un ri-
sultato «sfavorevole» per gli altri titolari del rapporto, il regime di litisconsorzio necessario
diverrebbe percorso ineludibile, in quanto, muovendo dall’impossibilità di imporre ai terzi il
giudicato sfavorevole, un regolamento uniforme del rapporto non potrebbe conseguirsi che
per questa via, salvo, ovviamente dar vita ad un processo destinato ab initio al suo fallimento
in termini di tutela. Per esemplificare, alla prima ipotesi indicata potrebbe corrispondere il
caso dell’actio negatoria proposta da uno dei titolari del bene in comproprietà nei confronti
del proprietario del fondo vicino; in questa fattispecie, infatti, l’accoglimento della domanda
proposta dall’attore costituisce un effetto «favorevole» (la dichiarazione di inesistenza di di-
ritti affermati sulla cosa ai sensi dell’art. 949 c.c.) per gli altri comproprietari rimasti terzi al
giudizio e ciò giustifica l’estensione del giudicato senza violazione del diritto di difesa altrui.
L’esemplificazione dell’ipotesi opposta, invece, potrebbe essere vista nell’actio confessoria
proposta dal proprietario del fondo vicino nei confronti di uno solo dei comproprietari. In
tale ipotesi, perseguendo l’attore un’utilità corrispondente ad un risultato sfavorevole per gli
altri comproprietari non citati, l’unica possibilità di consentire il conseguimento dell’utilità ri-
cercata in giudizio a fronte del necessario regolamento uniforme del rapporto, sarebbe ap-
punto quella di rendere parti necessarie del giudizio gli altri contitolari del diritto reale sul
bene. Il principio da porre come limite all’applicazione del regime degli effetti secundum
eventum litis sarebbe, dunque, quello secondo cui «l’ordinamento non consente lo svolgi-
mento di liti, che, secondo la stessa prospettazione dell’attore, metterebbero capo a provvedi-
menti giurisdizionali inutili, in quanto la decisione, sebbene favorevole a costui, non vinco-
lando gli altri contitolari non citati, non sarebbe in grado di accordare al vincitore il bene
della vita preteso». Al ricorrere di tale circostanza, appunto, «inevitabile diventa il ricorso al-
l’istituto del litisconsorzio necessario, la cui funzione sembra essere proprio quella di rendere
possibile l’emanazione di una pronuncia di merito, idonea ad attribuire a colui che agisce ciò che
egli ha richiesto con la domanda giudiziale» (così, MENCHINI, S., Il processo litisconsortile, cit.,
p. 540). Se, alla luce di queste osservazioni torniamo alla fattispecie esaminata nel testo, ci
rendiamo subito conto dei profili problematici specifici che a questa appartengono. In primo
luogo nella fattispecie in esame l’esigenza di regolamentazione uniforme non discende da im-
prescindibili ragioni di diritto sostanziale (cfr. il concetto di rapporto unico plurisoggettivo),
ma dalle note ragioni di opportunità e soprattutto di effettività di tutela che si sono rimarcate
nel sesto capitolo. A parte questo comunque, il profilo che va qui evidenziato è rappresentato
dal fatto che se si sottopone a vaglio la posizione dell’ente esponenziale rispetto al conflitto
materiale di interessi che il diritto mira qui a regolamentare è agevole verificare come la do-
manda di tutela che esso mira a far prevalere nel processo si presenta di certo come astratta-
mente idonea a conseguire un effetto favorevole per i soggetti discriminati. D’altra parte, seb-
bene in via astratta nulla impedisca che l’ente esponenziale avanzi una domanda di contenuto
pressoché corrispondente a quella che avrebbe potuto avanzare il soggetto pregiudicato e
sebbene nulla impedisca che, proposta questa domanda, l’ente esponenziale conduca il giu-
dizio sino all’accoglimento della stessa con pieno conseguimento del risultato «favorevole»
auspicato dal soggetto discriminato, le caratteristiche sostanziali tipiche dell’effetto giuridico
666 CAPITOLO OTTAVO

di tale specifico potere di azione riconosciuto all’ente esponenziale non


deve essere intesa come una mera occasione per portare ciò che comun-
que può venir di buono a vantaggio dei soggetti discriminati, ma come
uno strumento per attuare effettivamente il loro diritto al risarcimento
del danno.
Seguendo questa linea di pensiero, insomma, si potrebbe giungere a
ritenere che, al ricorrere di questa particolare ipotesi, ovvero allorquando
l’ente esponenziale avanzi la richiesta di risarcimento del danno, i sog-
getti discriminati a vantaggio dei quali tale richiesta è avanzata, sempre
che già non lo siano per le ragioni poc’anzi indicate (atto discriminatorio
complesso), debbano essere chiamati in giudizio come parti necessarie
del processo antidiscriminatorio; ciò ovviamente non in relazione alle esi-
genze di regolamento uniforme riconducibili al noto schema del rap-
porto unico con pluralità di parti, ma per un’esigenza di natura per così
dire sistematica, in ragione della quale il giudizio sull’effetto giuridico de-
dotto deve svolgersi nei confronti di tutti gli interessati e deve pervenire
ad una decisione vincolante (in senso favorevole o non) per tutti i sog-
getti coinvolti (arg. ex art. 2900, comma 2, c.c.).
D’altra parte, una diversa linea di riflessione può condurre a confer-
mare, anche in questo caso, l’applicazione della regola del giudicato se-
cundum eventum litis.
La linea di riflessione che forse può trarre di impaccio è quella che
passa per l’analisi comparativa delle posizioni dei tre soggetti virtual-
mente interessati all’esito del giudizio (ovvero l’ente esponenziale, il sog-
getto discriminato e l’autore dell’illecito), allorché si applichi agli effetti
della sentenza il regime del giudicato secundum eventum litis.
Per ciò che riguarda il soggetto discriminato, molto si è già detto.

dedotto possono rendere questa ipotesi più virtuale che reale. Si noti che la nozione di «fa-
vorevole» da impiegarsi nel meccanismo del giudicato secundum eventum litis non corri-
sponde semplicemente a «risultato positivo», ma in realtà trova la sua spiegazione nella so-
stanziale corrispondenza che essa rivela rispetto a ciò che il soggetto discriminato – facendo
uso della immancabilmente chiara formula chiovendiana – per diritto sostanziale avrebbe di-
ritto di conseguire o, quantomeno, mira a conseguire. Tutte queste considerazioni, peraltro,
operano su un piano di opportunità che non conduce alla necessaria applicazione del regime
processuale previsto dall’art. 102 c.p.c. E ciò in quanto, anche nella particolare fattispecie in
questione, come indicato dall’autorevole dottrina poc’anzi richiamata, il processo si presenta
comunque idoneo ad addivenire ad una pronuncia utile rispetto ai contenuti di tutela appre-
stati sul piano sostanziale a vantaggio dei soggetti terzi; sicché, appunto, così impostata la
questione ed in assenza di una disciplina appositamente predisposta dal legislatore, i princi-
pali strumenti di correzione delle deviazioni che il giudizio potrebbe assumere nel suo svol-
gimento concreto restano anche in tal caso quelli indicati nel testo.
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 667

A fronte del rigetto della domanda dell’ente esponenziale sarà co-


munque libero di convenire in giudizio l’autore dell’illecito.
Stessa situazione si verificherà allorquando, pur a fronte dell’acco-
glimento della domanda avanzata dall’ente esponenziale, il soggetto di-
scriminato comunque ritenga non pienamente soddisfacente (rectius: sfa-
vorevole) l’esito del processo; questi, infatti, potrà valutare insufficiente
l’ammontare della somma liquidata, oppure ritenere suo diritto anche il
risarcimento di altre diverse voci di danno. In tali casi, posto che pacifi-
camente il giudicato sul diritto al risarcimento compre tutte le possibili
voci di danno98, non sembra concepibile sostenere che il giovarsi del giu-
dicato favorevole stia qui a significare che il danneggiato possa convenire
in giudizio l’autore dell’illecito solo per vedersi riconosciuta una somma
maggiore di quella già liquidata o il risarcimento di un’ulteriore voce di
danno. Al contrario, posta l’unicità dell’effetto, va ritenuto che il sog-
getto discriminato si trovi di fronte alla seguente alternativa: accogliere in
toto l’esito del giudizio condotto dall’ente esponenziale accontentandosi
di quanto ivi ottenuto, o diversamente sobbarcarsi l’onere di provare ex
novo il suo diritto al risarcimento del danno senza invocare l’accerta-
mento già conseguito.
Ovviamente tale possibilità comporta l’aggravio del diritto di difesa
del convenuto. Questi, infatti, paradossalmente, anche a fronte di una
sua eventuale sconfitta patita nei confronti dell’ente esponenziale, non
sarebbe comunque al riparo dalla successiva pretesa avanzata da parte
del soggetto danneggiato. Peraltro, l’applicazione della regola prevista
dall’art. 102 c.p.c. non trova di certo la sua giustificazione in queste con-
siderazioni. L’applicazione del regime processuale ivi previsto, non costi-
tuisce, infatti, uno strumento di difesa della posizione del presunto au-
tore dell’illecito. Riguardo a questo aspetto, le alternative sono due e
sono già state esaminate e risolte99. Se si ritiene – come appunto occorre
fare – che il potere di chiamata ex art. 106 c.p.c. possa costituire uno
strumento di effettivo riequilibrio delle posizioni processuali, allora evi-
dentemente detto potere risolve la situazione di svantaggio ora indicata

98 Ex multis, v. Cass., 30 ottobre 2006, n. 23342, in Foro it. Rep., 2006, Danni civili, n.

386; Cass., 6 luglio 2006, n. 15366, in Foro it. Rep., 2006, Assicurazione (contratto), n. 225;
Cass., 6 dicembre 2005, n. 26687, in Foro it. Rep., 2006, Cosa giuridica civile, n. 25; Cass., 14
ottobre 2005, n. 19976, in ivi, n. 20. Per approfondimenti, v. MENCHINI, S., Il giudicato civile,
Torino, 2002, p. 120 ss., ma cfr. anche POLI, R., I limiti oggettivi delle impugnazioni ordinarie,
Padova, 2001, p. 133 ss., specie in riferimento alla complessificazione che tale effetto giuri-
dico comporta in termini di giudizio di impugnazione.
99 Cfr. retro, cap. VI.
668 CAPITOLO OTTAVO

anche al ricorrere di ipotesi di tal fatta. Anzi, nella fattispecie in esame la


sua applicazione è ancor più semplice che nell’ipotesi in cui i terzi ulte-
riormente legittimati siano non determinati o indeterminabili; e ciò in ra-
gione del fatto che la richiesta di condanna al risarcimento del danno im-
plica di certo la previa individuazione da parte dell’ente esponenziale dei
soggetti discriminati. Cosicché, a fronte della richiesta di risarcimento del
danno, il preteso responsabile potrà estendere il contraddittorio senza
doversi far carico, né di individuare dà sé i soggetti che in futuro potreb-
bero nuovamente convenirlo in giudizio, né di ottenere l’autorizzazione
giudiziale alla notificazione dell’atto di chiamata in giudizio secondo le
regole previste dall’art. 150 c.p.c.
Quest’ultimo ordine di considerazioni sembra illuminare meglio
non solo sui profili statici, ma anche su quelli dinamici del giudizio.
Il punto è il seguente.
L’ente esponenziale, come più volte rimarcato, può chiedere la re-
pressione del comportamento discriminatorio tanto nelle ipotesi in cui
siano individuabili i soggetti discriminati quanto nelle ipotesi in cui detta
circostanza non si verifichi. D’altra parte, non pare discutibile che, qua-
lora voglia fare richiesta al giudice non solo dell’ordine inibitorio, non
solo dell’ordine riparatorio, ma anche della condanna al risarcimento del
danno, non possa sottrarsi all’esatta determinazione dei soggetti pregiu-
dicati, rispetto ai quali dovrà essere vagliata l’esistenza di tutte le condi-
zioni che giustificano l’accoglimento della domanda. In tal caso, infatti, la
fattispecie costitutiva dell’effetto giuridico trova la sua fonte proprio in
circostanze di fatto che afferiscono alla sfera personale del soggetto di-
scriminato (pregiudizio subito, nesso di causalità, ecc.).
Nel nostro ordinamento sono ignote forme di liquidazione aggre-
gata dei danni complessivi prodotti, cosicché la domanda di condanna al
risarcimento del danno porta con sé naturaliter l’esatta individuazione
dei soggetti pregiudicati ed esclude la sua proponibilità allorché questa
circostanza non si verifichi, ovvero quando l’ente esponenziale eserciti
l’azione anche in assenza dell’esatta individuazione dei soggetti lesi.
Questo è di certo un limite intrinseco ed insuperabile – quantomeno
de iure condito – a questo rimedio di tutela.
Se ciò è vero, allora, sembra francamente surreale il giudizio in cui
l’ente esponenziale faccia (anche) richiesta di condanna del presunto au-
tore dell’illecito al risarcimento del danno da liquidarsi a favore dei sog-
getti discriminati X e Y e nessuno – non il giudice (in primo luogo come
strumento per un più corretto accertamento dell’effetto sostanziale), e
nemmeno il convenuto (per ottenere un giudicato in ogni caso vincolante
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 669

nei confronti dei soggetti che si pretende abbiano subito il pregiudizio) –


chiami in causa rispettivamente ex art. 107 e 106 c.p.c. i menzionati sog-
getti discriminati; i quali, peraltro, se qualcuno agisce per la richiesta di
risarcimento del danno che essi dovrebbero aver subito, verosimilmente
saranno anche stati informati della pendenza futura o attuale del giudi-
zio, cosicché anche il loro intervento ex art. 105, comma 1, c.p.c. appare
meno improbabile che in altre ipotesi.
Queste ultime considerazioni sembrano, dunque, sufficienti a scal-
zare le ragioni di opportunità sistematica che avrebbero potuto condurre
all’applicazione della disciplina processuale del litisconsorzio necessario
nell’ipotesi di domanda dell’ente esponenziale a vantaggio del soggetto
discriminato, la quale invece – nella materia attualmente oggetto di stu-
dio – rimane ferma allorché il giudizio antidiscriminatorio si esprima
come sindacato su un atto discriminatorio complesso.

4. Brevi osservazioni conclusive sulla natura dell’ordine di definizione


del piano di rimozione delle discriminazioni accertate
L’infinita serie delle questioni terribilmente problematiche che sor-
gono in materia di giudizio antidiscriminatorio non è peraltro esaurita;
difatti, attualmente incerta è anche la natura, o più precisamente la col-
locazione sistematica, da attribuire all’ordine di definizione di un piano
di rimozione delle discriminazioni accertate, che – come visto – viene ad
essere uno dei contenuti dispositivi che appartengono ai provvedimenti
che il giudice può assumere in materia.
In effetti, se la dottrina processualistica ha in generare dimostrato
poca passione per i procedimenti in esame, ciò è ancor più vero – salvo
eccezioni100 – in riferimento a questo particolarissimo strumento di tutela
degli interessi protetti.
Tale mancanza, peraltro, non può di certo essere qui emendata con
l’esaustività di argomenti e con il doveroso approfondimento che pure
merita.
Il tema, infatti, pur afferente ai rapporti tra diritto e processo, ri-
chiederebbe uno studio di impronta dogmatica volto alla ricognizione

100 Cfr. SILVESTRI, E., Rilievi sul piano di rimozione delle discriminazioni collettive, cit.,
p. 804 ss.; RAPISARDA, C., Tecniche individuali e collettive a confronto nella tutela giudiziale dei
diritti di parità, cit., p. 97 ss., spec. p. 103 ss. Di recente, v. LA CHINA, S., Dal giudice giudi-
cante al giudice pianificante (variazioni minime su un tema scabroso), in Riv. dir. proc., 2007,
p. 847 ss.
670 CAPITOLO OTTAVO

dei tratti sistematici essenziali in base ai quali pervenire all’esatto inqua-


dramento del rimedio in questione101.
D’altra parte, le riflessioni svolte in questo capitolo sembrano lu-
meggiare un percorso più breve e pur tuttavia fruttuoso, quantomeno
per instradare la riflessione su questo particolare strumento di tutela
nella direzione più corretta; difatti, la collocazione che deve essere attri-
buita all’ordine giudiziale che impone l’apprestamento del piano da parte
dell’autore dell’illecito deriva – per così dire – in via residuale dal cor-
retto inquadramento degli altri rimedi.
Ecco, quindi, i punti fermi che sembrano delinearsi dalla lettura si-
stematica del complessivo sistema di tutele.
In primo luogo, ed in posizione preliminare, va nuovamente riba-
dito – se fosse necessario – che l’ordine che il giudice indirizza all’autore
dell’illecito non rappresenta un mero suggerimento o un invito (cosa che
– forse – poteva apparire nella prima e lacunosa formulazione dell’art. 4
della l. n. 125 del 1991102). Al contrario, nel determinare i criteri tempo-
rali e di merito che il soccombente deve seguire nella definizione del
piano, il giudice impone veri e propri vincoli – cioè obblighi – ai quali si
coordinano le misure coercitive che la legge a tal scopo prevede. Questa
considerazione, se appare di certo fondata su quanto è disposto dall’art.
37, comma 3, del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, ha
uguale valore anche in riferimento agli altri provvedimenti legislativi che
in questo capitolo abbiamo preso in esame, nei quali, a fronte di formule
espressive più sintetiche, la comune sostanza del rimedio e la sostanziale
inutilità che questo avrebbe in assenza della lettura correttiva ora propo-
sta, impongono di integrare le altre disposizioni alla luce della norma ora
citata.
In altri termini, ogni qual volta la legge contempla il potere di ordi-
nare la definizione di tale piano, di certo il giudice potrà fissare i criteri,
anche temporali, da osservarsi ai fini della definizione ed attuazione del
piano stesso: in ciò quanto dispone l’art. 37 poc’anzi citato assume il
ruolo di schema-tipo della misura rimediale in questione.
In secondo luogo, come si diceva, questo particolare provvedimento
va a collocarsi nella zona lasciata libera dagli strumenti propriamente ri-
paratori-sanzionatori che la legge prevede. Per dirla più distesamente,

101 Su questo piano ed in particolare sulle tensioni sistematiche concernenti i rimedi in

questione, v. il già citato saggio di LA CHINA, S., Dal giudice giudicante al giudice pianificante,
cit.
102 Cfr. retro, nota 13.
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 671

non pare dubbio che il sistema di tutele che la legge appresta a favore
delle vittime della discriminazione abbia natura contenziosa, cioè sia
volta alla tutela degli interessi umani mediante l’applicazione giudiziale
di regole (più o meno) predeterminate dal legislatore e poste a prote-
zione diretta o indiretta (obblighi originari, derivati e sanzioni invali-
danti) degli interessi protetti: come si suol dire, siamo in materia di giu-
risdizione contenziosa su diritti soggettivi.
A ciò consegue che questo strumento giuridico debba essere inteso
alla luce della direttiva promozionale che in particolare informa il com-
plessivo sistema di tutele apprestato in stretta attuazione del principio
costituzionale di uguaglianza sostanziale previsto all’art. 3, comma 2,
Cost.
Svolgendo questa linea di pensiero, peraltro, non si deve ritenere
che il giudice sia libero di imporre all’autore dell’illecito criteri di defini-
zione del piano attraverso cui sostituirsi surrettiziamente nell’esercizio
dei poteri privati di cui questo è titolare. Dalla definizione dell’area di
operatività degli altri strumenti di tutela che la legge prevede, infatti,
nonché dalle pur laconiche indicazioni che questa stessa offre, sembra
possibile determinare con un buon grado di certezza la direttrice funzio-
nale essenziale che appartiene all’ordine di definizione del piano103.
Più precisamente, come ricorre nei testi di legge, il piano di rimo-
zione sembra essere previsto essenzialmente «al fine di impedire la ripe-
tizione» dell’illecito104.
Sarà, insomma, pur detto «di rimozione» questo piano, ma, posto in
raffronto con gli altri rimedi apprestati a tutela degli interessi lesi, la sua
funzione primaria pare proprio essere quella lato sensu preventiva.
103 Per queste ragioni, forse troppo ampia appare la prospettiva suggerita da CURCIO,

L., Le modifiche all’art. 4 della l. n. 125/1991, cit., spec. p. 774, in cui appunto il piano di ri-
mozione è inteso come azione positiva di natura giudiziale. Se così fosse, infatti, il giudice po-
trebbe far uso del piano non solo in via propriamente preventiva o, se del caso, anche ripa-
ratoria, ma effettivamente promozionale, ovvero diretta nella direzione del futuro eguaglia-
mento. Al contrario, l’azione collettiva ha comunque natura essenzialmente giurisdizionale
nella misura in cui trova il suo fondamento nell’illecito ed a questo costantemente guarda. Il
fatto che poi l’effettività della tutela giurisdizionale impiegata richieda – per la particolare na-
tura tendenzialmente omissiva degli obblighi imposti dalla legge e per la natura degli effetti
pregiudizievoli della condotta antigiuridica, nonché della loro modalità di esplicarsi – non
solo la reiterazione specificativa dell’obbligo legale imposto, ma anche l’imposizione di altri
nuovi obblighi, ciò non altera la cornice che più in generale appartiene al sistema della tutela.
Diversamente opinando, l’illecito diverrebbe quasi una semplice occasione attraverso cui in-
serirsi nell’esercizio dei poteri di gestione dell’impresa funzionalizzandoli in ordine ad obiet-
tivi di eguagliamento.
104 Cfr. art. 4, comma 4, d. legisl., n. 215/03 e art. 4, comma 5, d.legisl. n. 215/03.
672 CAPITOLO OTTAVO

Ciò non sta ovviamente a significare che il piano, nel suo contenuto
naturalmente complesso, non possa accogliere al suo interno previsioni a
carattere ripristinatorio, ed in questo senso vanno forse lette le disposi-
zioni in cui è previsto che il giudice adotti «ogni provvedimento idoneo
a rimuovere gli effetti delle discriminazioni accertate, ivi compreso l’or-
dine di definizione ed attuazione […] di un piano di rimozione»105; ipo-
tesi – quest’ultima – che può ben realizzarsi al ricorrere di prassi discri-
minatorie particolarmente complesse nelle quali è opportuno intervenire
con un complesso mix di misure. Nonostante questo, comunque, l’in-
dirizzo teleologico primario sembra gravitare attorno alla funzione pre-
ventiva.
Se ciò è vero, allora, l’ordine di definizione del piano potrebbe ap-
parire come la specificazione – nella materia de qua – dei poteri giudiziali
lato sensu costitutivi che già da tempo la dottrina ha riconosciuto in ma-
teria di giudizio inibitorio in deroga a quanto dispone l’art. 2908 c.c.
Ci riferiamo, in particolare, all’autorevole opinione che, muovendo
dalla natura negativa degli obblighi violati e dedotti in sede di giudizio
inibitorio, ha evidenziato che il proprium di tale forma di tutela – ovvero
della tutela inibitoria – consista «nel provvedere […] a che violazioni
compiute o minacciate non si ripetano o non si verifichino»106.
«Sarebbe inutile – si è giustamente osservato – che il giudice si limi-
tasse a vietare, per il futuro, comportamenti identici a quelli già sanzio-
nati come illegittimi, giacché l’astensione, cui il soccombente è vincolato,
deve essere idonea a conservare la situazione conseguente alla repres-
sione giudiziaria della lesione del diritto tutelato, e perciò, quando si
tratta di violazioni materiali il non fare da imporre al soggetto passivo
dovrà essere diverso dal precedente, ormai irripetibile dopo la sua con-
creta repressione».
L’approdo interpretativo di questa impostazione sarebbe quello di
attribuire al giudice dell’inibitoria «anche il potere di imporre vincoli
nuovi di astensione al soggetto passivo e di determinarne, caso per caso,
il contenuto in relazione alle situazioni concrete, con ampia discrezio-
nalità»107.

105 Cfr., ad es., l’art. 37 codice pari opportunità.


106 MONTESANO, L., Problemi attuali su limiti e contenuti (anche non patrimoniali) delle
inibitorie, normali e urgenti, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1995, p. 775 ss., spec. p. 776-777. Più
in generale, sulla natura della tutela inibitoria, v. retro, cap. VI, § 5.2.
107 Così, ancora MONTESANO, L., Problemi attuali su limiti e contenuti (anche non patri-

moniali) delle inibitorie, normali e urgenti, cit., p. 777. Sulla discrezionalità attribuita al giu-
dice nell’apprestamento dei criteri dettati al datore per la predisposizione del piano, v. i mo-
LA TUTELA COLLETTIVA ANTIDISCRIMINATORIA 673

Queste considerazioni sembrano particolarmente preziose per chia-


rire per quale ragione possa ricorrere il bisogno di un rimedio proces-
suale siffatto; un rimedio in cui il potere autoritativo del giudice viene a
fondersi con l’autonomia del privato instradandola nella direzione voluta.
In altri termini, l’ordine di definizione del piano di rimozione delle
discriminazioni accertate appare uno strumento residuale, posto dal legi-
slatore a completare il fronte lato sensu sanzionatorio della tutela, il cui
ambito di incidenza consiste nel determinare obiettivi ed introdurre vin-
coli – positivi o negativi – rispetto all’esercizio dei poteri privati dell’au-
tore della discriminazione nell’apprestamento di un programma di rimo-
zione la cui effettiva opportunità dovrà essere valutata alla luce delle spe-
cifiche circostanze che caratterizzano la fattispecie concreta dedotta in
giudizio e, più in generale, in relazione allo stesso «ambiente» in cui que-
sta si è verificata; e ciò – come è naturale – in evidente riferimento alle
prassi discriminatorie più complesse, articolate, diffuse, latenti, ovvero
alle situazioni di fatto che – verosimilmente – potranno dar luogo in fu-
turo a nuove discriminazioni se non venissero modificate108.

tivi di perplessità sollevati da LA CHINA, S., Dal giudice giudicante al giudice pianificante, cit.,
p. 857.
108 La dottrina (RAPISARDA, C., Tecniche individuali e collettive a confronto nella tutela

giudiziale dei diritti di parità, cit., p. 104), specie alla luce dello sguardo gettato alle esperienze
comparatistiche, ha osservato come detto piano di rimozione trovi il suo privilegiato ambito
di applicazione proprio quando «si rendano necessarie delle vere e proprie modifiche strut-
turali dell’impresa o dell’ente interessato». È evidente, infatti, come in tale ipotesi i poteri
giudiziali di determinazione degli obblighi di facere dell’autore dell’illecito si possano sovrap-
porre ai poteri di autonoma gestione dell’impresa che spettano a questi, cosicché il piano di
rimozione diviene il luogo di incontro tra direttive giudiziali e autonomia privata, ovvero tra
due separate ed opposte sfere decisionali.
CAPITOLO NONO

LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE

SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. – 2. I primi tentativi di tutela giuridica del-


l’ambiente. – 2.1. Considerazioni preliminari. – 2.2. Le posizioni orientate verso la
valorizzazione dei profili individuali e soggettivi della tutela. – 2.3. Le posizioni
orientate verso la valorizzazione dei profili collettivi e oggettivi della tutela. – 3. La
riflessione dottrinale in materia di danno ambientale nella legge istitutiva del Mi-
nistero dell’ambiente. – 3.1. Cenni sulla fattispecie. – 3.2. Le difficoltà interpreta-
tive presentate dalla norma. – 3.3. Il mancato riconoscimento della legittimazione
ad agire al singolo e alle formazioni sociali: la critica della dottrina. – 3.4. L’inte-
resse tutelato: natura e titolarità. – 3.4.1. Le concezioni soggettive della tutela: tesi
propriamente pubblicistiche e privatistiche-collettivistiche. – 3.4.2. Le concezioni
oggettive della tutela. – 3.4.3. Una tesi a parte: la proprietà collettiva dell’ambiente.
– 3.5. La posizione processuale degli enti pubblici territoriali legittimati all’azione
e delle associazioni ambientaliste legittimate all’intervento nel giudizio di danno
ambientale. – 4. Gli interventi legislativi successivi alla l. n. 349 del 1986. – 4.1. La
l. 3 agosto 1999, n. 265 e il successivo d.legisl. 18 agosto 2000, n. 267: il riconosci-
mento della legittimazione ad agire ai singoli e alle associazioni ambientaliste. –
4.2. Il d.legisl. 3 aprile 2006, n. 152. – 4.2.1. Considerazioni introduttive. – 4.2.2. I
Titoli I e II della Parte VI del d.legisl. n. 152/ 2006. – 4.2.3. Il Titolo III della Parte
VI del d.legisl. n. 152/2006. – 4.2.4. L’azione pubblica del Ministero dell’ambiente
e del territorio in rapporto con l’interesse collettivo all’ambiente. – 4.2.5. L’inevi-
tabile supervalutazione delle tutele alternative.

1. Considerazioni introduttive
Oltre al diritto del lavoro, l’altra area del nostro ordinamento in cui
l’esigenza di tutela di interessi a carattere sovraindividuale si è manife-
stata con grande intensità è di certo quella concernente la protezione del-
l’ambiente, al cui studio si è rivolta gran parte della dottrina dedicatasi al
tema della tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi dagli
anni Settanta in poi.
L’osservazione del dibattito scientifico in materia dimostra, infatti,
come il tema in questione abbia costituito non solo un’area di significa-
tiva apertura e adeguamento del sistema giuridico ai nuovi valori emer-
genti, ossia un’area caratterizzata da quel progressivo fenomeno di costi-
676 CAPITOLO NONO

tuzionalizzazione dell’ordinamento già indicato come chiave di lettura


generale della nostra problematica, ma anche il settore tipico ed emble-
matico di attivazione di aspirazioni ed interessi non tradizionalmente ri-
conducibili alla logica egoistico-individualistica.
Se, difatti, da un lato, il riconoscimento dell’«ambiente» come va-
lore giuridico si è presentato inscindibilmente connesso ad nuova confi-
gurazione della persona, costituendo il necessario presupposto per il
pieno sviluppo della stessa e per l’esercizio dei suoi diritti fondamentali1,
dall’altro, ancora l’ambiente ha costituito l’esempio tipico di bene «col-
lettivo»2; ovvero di un bene ontologicamente non appropriabile dal sog-
getto singolo e simultaneamente idoneo a soddisfare più pretese recipro-
camente compatibili, oltre che – di contro – a proiettare la sua eventuale
lesione in capo a cerchie indeterminate ed indeterminabili di soggetti in-
teressati.
È il campo, insomma, di massima e più autentica espressione –
come la stessa dottrina e specie la giurisprudenza amministrativa hanno
da sempre evidenziato – degli interessi solitamente chiamati «diffusi».
D’altra parte, nonostante l’attenzione in genere dimostrata nei con-
fronti della problematica in questione, solo a metà degli anni Ottanta,
con la legge istitutiva del Ministero dell’ambiente, si è sottratta la tu-
tela degli interessi ambientali ad una travagliata opera di adattamento
degli strumenti e dei rimedi giuridici tradizionali che era stata avviata
da tempo sia in sede dottrinale che giurisprudenziale con relativo suc-
cesso.

1 Tra la dottrina che per prima ha fatto cadere l’accento sul collegamento sussistente tra
sviluppo della persona e tutela dell’ambiente, v., PATTI, S., La tutela civile dell’ambiente, Pa-
dova, 1979, p. 16 ss.; DI GIOVANNI, F., Strumenti privatistici e tutela dell’«ambiente», Padova,
1982, p. 1.
2 Sulla nozione di ambiente la letteratura è straripante. In sintesi si contrappongono in

dottrina due fondamentali orientamenti. Un primo orientamento fa capo alla nota posizione
ricostruttiva di GIANNINI, M.S., Ambiente, Saggio sui diversi suoi aspetti giuridici, in Riv. trim.
dir. pubbl., 1973, p. 15 ss., secondo cui, nell’impossibilità di concepire una nozione unitaria,
occorrerebbe riferirsi a tre distinte aree normative, ovvero quella sulle bellezze naturali e pae-
sistiche, le norme contro l’inquinamento ed infine le norme urbanistiche. Ancora lungo una
linea tesa a disaggregare le distinte componenti si muove l’opinione di PREDIERI, A., Paesag-
gio, in Enc. dir., XXXI, Milano, 1981, p. 503 ss., secondo cui sarebbe opportuno tenere se-
parata una nozione di ambiente costruita in riferimento alla disciplina protettiva del paesag-
gio ed una relativa alla disciplina in materia di difesa dell’aria, acqua e suolo. In senso oppo-
sto si muovono le concezioni unitarie, che fanno capo al lavoro di POSTIGLIONE, A., Ambiente:
suo significato giuridico unitario, in Riv. trim. dir. pubbl., 1985, p. 32 ss. Sul tema, di recente,
v. la sintesi di CAFAGNO, M., Principi e strumenti di tutela dell’ambiente come sistema com-
plesso, adattativo, comune, Torino, 2007, p. 15 ss.
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 677

Seguendo, dunque, un’impostazione metodologica similare a quella


seguita negli altri capitoli di questo lavoro, nelle pagine che seguono trac-
ceremo la parabola evolutiva che la riflessione giuridica ha disegnato nel
nostro ordinamento dalle prime esperienze ora richiamate sino alla legge
n. 349/86, traendone indicazioni sulle diverse variabili tecniche e di va-
lore da impiegare poi nella lettura dei recenti interventi di riforma di
questa delicata materia.

2. I primi tentativi di tutela giuridica dell’ambiente


2.1. Considerazioni preliminari
Se, quindi, si osservano gli inizi della riflessione avviatasi attorno al
tema della tutela dell’ambiente dagli anni Settanta in poi, si rileva age-
volmente sia lo stretto legame che ha tenuto assieme lo studio di questa
problematica con quella relativa alla tutela giurisdizionale degli interessi
sovraindividuali3, sia il tentativo di progressivo adattamento che ha inve-
stito il processo civile ed il processo amministrativo per rispondere alle
nuove istanze emergenti.
Nel processo amministrativo, peraltro, questa spinta evolutiva è an-
data in via tendenziale ad incasellarsi entro contorni dogmatici relativa-
mente più definiti, in quanto la domanda di giustiziabilità dei nuovi inte-
ressi, al di là della concreta risposta di tutela che è riuscita a suscitare, ha
in prevalenza attivato nuovi tentativi di interpretazione della formula «in-
teresse d’individui», dettata dall’art. 26 del T.U. sul Consiglio di Stato,
ovvero, per dirla con altre parole, un rinnovato confronto tra la comune
nozione di interesse legittimo e le nuove esigenze collettive4.
Per avere una nitida rappresentazione del fenomeno ora indicato, si
prenda come esempio la nota decisione del Consiglio di Stato del 1972,

3 «Non è possibile segnare una netta distinzione tra tutela degli interessi individuali e

di quelli collettivi e diffusi in materia di ambiente, giacché la stessa nozione di “ambiente” ri-
chiama ad un tempo sia il concetto di “luogo” della vita degli individui, sia il concetto, emi-
nentemente collettivo, di realtà in cui si svolgono le attività di una comunità, e che viene, per-
ciò, fruita collettivamente», così, DI GIOVANNI, F., Strumenti privatistici e tutela dell’«am-
biente», cit., p. 4-5. Per ALPA, G., Pubblico e privato nel danno ambientale, in Contr. e impr.,
1987, p. 685 ss., ma cit., p. 687, «la protezione dell’ambiente e la reazione al danno ambien-
tale nascono […], in modo coevo e intrecciato, con la nozione di interesse diffuso». Di «pro-
totipo di interessi superindividuali», parla invece BIGLIAZZI GERI, L., Divagazioni su tutela del-
l’ambiente ed uso della proprietà, in Proprietà, danno ambientale e tutela dell’ambiente, a cura
di L. Barbiera, Napoli, 1989, p. 61 ss.
4 Cfr. retro, cap. III, spec. § 3.2.
678 CAPITOLO NONO

relativa alla realizzazione di installazioni industriali nel Golfo di Gaeta, in


cui «l’interesse comune ad una “categoria” di soggetti, in quanto tale, e
cioè in quanto imputabile ad una pluralità di soggetti caratterizzati da un
comune denominatore, […] pur essendo un interesse più specifico di
quello della generalità» non veniva ritenuto configurabile in termini di
interesse legittimo, mancando al contrario «quel profilo di “personalità”
dell’interesse azionato, pregiudiziale per diversificarlo, qualificandolo,
non solo dall’interesse comune all’intera categoria degli operatori econo-
mici alberghieri, ma anche […] da quello proprio di tutte le altre cate-
gorie di operatori economici della stessa zona»5.
Ugualmente significativa si dimostra la lettura della celebre ed in-
sperata decisione del Consiglio di Stato sul ricorso presentato dall’asso-
ciazione «Italia nostra» al fine di preservare le bellezze naturali e paesag-
gistiche del lago di Tovel6, nella quale il fatto di aver «assunto a ragione
della propria esistenza la tutela del patrimonio storico, artistico e natu-
rale della nazione», nonché l’aver «ricevuto il crisma del riconoscimento
governativo» venivano ritenute circostanze capaci di porre l’associazione
«in posizione differenziata rispetto al comune cittadino, il quale non può
vantare alcun titolo, al di fuori dell’appartenenza alla comunità nazio-
nale, ad agire per la tutela di un interesse pubblico diffuso».
Pari importanza, poi, può essere attribuita alla sentenza delle Se-
zioni unite della Corte di Cassazione del 19787, risoluta nello stroncare
quest’ultimo orientamento rimarcando l’impossibilità di offrire prote-
zione giurisdizionale a interessi di tal fatta, tanto mediante una rivisita-

5 Cons. St., sez. VI, 14 luglio 1972, n. 475, in Foro it., 1972, III, p. 269 ss., con nota di
ROMANO, A., Interessi «individuali» e tutela giurisdizionale. Nella decisione richiamata, il Con-
siglio di Stato rilevava in effetti come fosse essenziale per l’individuazione dell’interesse legit-
timo la «qualificazione» normativa dell’interesse; qualificazione idonea a diversificare l’inte-
resse del singolo da quello dei cittadini. Ma rilevava al contempo come tale operazione, talora
di immediata realizzazione – come nell’ipotesi tipica dell’affievolimento del diritto soggettivo
preesistente o del ricorso dei partecipanti a concorso pubblico, le cui posizioni sarebbero
chiaramente qualificate dalle norme sullo svolgimento delle operazioni concorsuali – incon-
trasse maggiori difficoltà allorché l’interesse legittimo dovesse riconoscersi in capo a soggetti
«terzi» rispetto al rapporto diretto ed immediato con la p.a. Si evidenziava a tal proposito,
quanto segue: «tale qualificazione non è mera “diversificazione” dell’interesse legittimo dal-
l’interesse semplice. Essa, invero, presuppone un salto, che è rappresentato dalla “persona-
lità” dell’interesse».
6 Cons. St., sez. V, 9 marzo 1973, n. 253, in Foro it., 1974, III, p. 33 ss., con nota di A.

ROMANO e con nota di ZANUTTIGH, L., «Italia nostra» di fronte al Consiglio di Stato; in Riv.
giur. edil., 1974, II, p. 112 ss., con nota di BELLOMIA, S., Italia nostra e la sua legittimazione
alla tutela urbanistica.
7 Cass., S.U., 8 maggio 1978, n. 2207, in Foro it., I, 1978, p. 1090 ss.
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 679

zione estensiva della nozione di interesse legittimo, quanto operando


sulla nozione di interesse diffuso sino ad adattarla a quella tradizionale di
interesse legittimo, o – ancora – alla nota pronuncia dell’Adunanza ple-
naria del Consiglio di Stato del 1979, in cui si perveniva ad esito opposto
sostenendo che il carattere di diffusione dell’interesse e quello di perso-
nalità dello stesso non apparivano inconciliabili ed ostativi nei confronti
del riconoscimento in capo ai singoli di situazioni di interesse legittimo.
In tutte queste esperienze giurisprudenziali, insomma, il quesito
fondamentale proposto era verificare chi, oltre ai soggetti tradizional-
mente ritenuti legittimati all’azione in quanto titolari di un interesse le-
gittimo all’annullamento del provvedimento amministrativo, potesse es-
sere ritenuto ugualmente legittimato a provocarne la rimozione; e a detto
quesito si tentava di rispondere lavorando appunto sui concetti tradizio-
nalmente regolatori dell’accesso al sindacato giurisdizionale di provvedi-
menti della pubblica amministrazione.
Nel processo civile, invece, la questione si è presentata in veste dif-
ferente e, di certo, più complessa. Qui – semplificando – il punto fonda-
mentale non era tanto operare un ampliamento del numero dei soggetti
legittimati a provocare l’accertamento dell’antigiuridicità di un certo
comportamento o di una certa condotta, questione pur importante, ma
nella prospettiva ora indicata secondaria; qui la questione di fondo era, al
contrario, l’attrarre interessi aventi un certo contenuto ed una certa strut-
tura nell’area del rilevante giuridico, ossia apprestare nuove regole di
composizione del conflitto palesatosi tra interessi privati confliggenti.
Il raggiungimento dell’obiettivo prefissato presentava quindi un ele-
vato grado di difficoltà, trovandosi, l’interprete, di fronte ad un ordina-
mento non solo strutturato in ordine alla tutela, come già ampliamente
accennato, di interessi esclusivamente individuali, ma anche sostanzial-
mente privo di regole di condotta sotto il profilo contenutistico protese a
intervenire nella disciplina di potenziali conflitti di interesse interprivati
in relazione ai beni ambientali.
Non è un caso – per soffermarci in particolare e sin d’ora su questo
profilo – che gran parte della dottrina intervenuta sul tema della tutela
giurisdizionale dell’ambiente abbia rilevato quale questione particolar-
mente significativa del dibattito proprio il graduale superamento di una
concezione economica, sociale, culturale e dunque anche giuridica pres-
soché indifferente riguardo a risorse, quelle ambientali, ritenute essere
sostanzialmente inesauribili e inappropriabili.
Ciò premesso, sin dagli anni Settanta la dottrina ha risposto alle
nuove esigenze evocando soluzioni assai diversificate non solo sul piano
680 CAPITOLO NONO

più propriamente tecnico, ma anche sul piano lato sensu ideologico della
concezione proposta.
Così, chiarendo meglio il secondo aspetto or ora indicato, a fronte
di visioni della problematica rivolte a privilegiare una prospettiva indivi-
duale (o anche individuale di tutela), si sono poste concezioni viceversa
rivolte a privilegiare la dimensione collettiva se non più propriamente
pubblica della stessa.
È evidentemente questo secondo aspetto del dibattito che per le fi-
nalità del nostro studio si presenta di particolare attrattiva; e ciò non
tanto per la minore importanza delle soluzioni tecniche e degli istituti
giuridici di volta involta evocati, ma fondamentalmente per l’opportunità
di porre in evidenza la differente sensibilità dimostrata da ciascuna op-
zione ricostruttiva riguardo alla struttura e alla natura degli interessi so-
vraindividuali all’ambiente ed in particolare – quindi – per ritornare a
porre la nostra attenzione sulla divaricante alternativa di configurare e
giuridicizzare questi interessi privilegiando l’aspetto soggettivo piuttosto
che oggettivo degli stessi8.

2.2. Le posizioni orientate verso la valorizzazione dei profili individuali e


soggettivi della tutela
Determinato quale sia il criterio assunto a lume della nostra attuale
analisi, è subito possibile individuare all’interno delle posizioni che
hanno contribuito ad animare il dibattito scientifico sin dai suoi inizi un
primo orientamento, che, sebbene seguendo strade anche notevolmente
diverse per ciò che attiene alla soluzione tecnica privilegiata, ha nella so-
stanza valorizzato – se non espressamente, quanto meno de facto – i pro-
fili individuali e personali degli interessi ambientali.
A questo indirizzo, ad esempio, possono essere ricondotte le opzioni
ricostruttive che hanno avanzato, pur all’interno di differenti scelte er-
meneutiche, letture costituzionalizzatrici del divieto di immissioni, volte
a ritagliare aree di protezione degli emergenti interessi riferibili al bene

8 Per una prospettiva di studio maggiormente indirizzata all’esame specifico dei tenta-

tivi intrapresi dalla dottrina al fine di adattare gli strumenti di tutela civilistica agli interessi
ambientali prima dell’entrata in vigore della legge istitutiva del Ministero dell’ambiente, v.
PATTI, S., Ambiente (tutela del) nel diritto civile, in Dig. disc. priv., sez. civ., I, Torino, 1987, p.
284 ss.; ALPA, G. - BESSONE, M. - CARBONE, V., Atipicità dell’illecito, III, Diritti reali, Tutela
dell’ambiente, Milano, 1994, p. 113 ss. Più di recente, DI COLA, L., La tutela dell’ambiente, in
La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, a cura di L. Lanfranchi, Torino,
2003, p. 253 ss.
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 681

salute e/o al bene ambiente9. Tentativo, peraltro, reso difficoltoso, come


evidenziato da diverse voci in dottrina, dai limiti intrinsechi e propri di
una disciplina concepita come strumento conformativo del diritto di pro-
prietà, ossia di un diritto – sotto il profilo strutturale e contenutistico –
ben lontano dai nuovi interessi tutelandi. In sintesi, le questioni che osta-
vano a questa linea ricostruttiva erano le seguenti: a) l’ambito stesso della
tutela, rappresentato dai criteri legali di prevalenza dell’interesse del pro-
prietario sul bene reale rispetto agli altri interessi confliggenti e raffigu-
rante un rapporto di subordinazione del primo agli interessi della produ-
zione; b) l’area dei legittimati ad agire, circoscritta ai soggetti titolari di
diritti reali o personali di godimento sul fondo; c) la disponibilità del rap-
porto giuridico da parte dei soggetti interessati; d) la prevalenza del ri-
medio indennitario su quello inibitorio10.
Ancora in questa direzione può poi contemplarsi il ricorso operato
da parte della dottrina alla figura dell’abuso del diritto11, o anche alle
9 In questo senso, sebbene all’interno di ricostruzioni complessivamente anche molto
lontane tra loro, v. ad es. VISINTINI, G., Le immissioni nel quadro dei conflitti di vicinato (Stu-
dio comparativo del diritto francese e italiano), I, L’esperienza francese, in Riv. dir. civ., 1974, I,
p. 681 ss.; ID., Immisioni e tutela dell’ambiente, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1976, p. 689 ss.;
ID., Il divieto di immissioni e il diritto alla salute nella giurisprudenza odierna e nei rapporti con
le recenti leggi ecologiche, in Riv. dir. civ., 1980, II, p. 249 ss.; ID., Immissioni (diritto civile),
in Noviss. Dig. it., Appendice, III, Torino, 1982 ss.; FORTE, F., Per una lettura alternativa del-
l’art. 844 c.c., in Dir. giur., 1976, p. 641 ss.; PARADISO, M., Inquinamento delle acque interne e
strumenti privatistici di tutela, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1977, p. 1390 ss.; D’ANGELO, G.,
L’art. 844 c.c. e il diritto alla salute, in Tutela della salute e diritto privato, a cura di F.D. Bu-
snelli e U. Breccia, Milano, 1978, p. 401 ss.; TORREGROSSA, G., Profili della tutela dell’am-
biente, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1980, p. 1384 ss.; SCALISI, V., Immissioni di rumore e tutela
della salute, in Riv. dir. civ., 1982, p. 127 ss. La posizione interpretativa ora indicata non ha
peraltro incontrato l’avallo del giudice delle leggi: cfr. C. cost., 23 luglio 1974, n. 247, in Foro
it., 1975, I, p. 18; in Giur. it., 1975, I, 1, p. 3 ss., con nota di SALVI, C., Legittimità e raziona-
lità dell’art. 844 c.c., a p. 585 ss.
10 Per queste considerazioni v., in particolare, PATTI, S., La tutela civile dell’ambiente,

cit., spec. p. 53 ss.; SALVI, C., Le immissioni industriali, Rapporti di vicinato e tutela dell’am-
biente, Milano, 1979, p. 199 ss.; ma anche e prima ID., Immissioni, ecologia e norme costitu-
zionali, in Giur. it., 1973, I, 1, p. 798 ss.; ID., Legittimità e razionalità dell’art. 844 c.c., cit.; DI
GIOVANNI, F., Strumenti privatistici e tutela dell’«ambiente», cit., p. 17 ss.
11 LENER, A., Violazioni di norme di condotta e tutela civile dell’interesse all’ambiente,

Premessa, in Foro it., 1980, V, p. 105 ss.; secondo una prospettiva già esposta in ID., Ecologia,
persona, solidarietà: un nuovo ruolo del diritto civile, in Tecniche giuridiche e sviluppo della per-
sona, a cura di N. Lipari, Roma-Bari, 1974, p. 333 ss., ma spec. 344 ss.: «lo strumento dell’a-
buso del diritto sembra davvero, nel campo dell’agire dei privati, lo strumento idoneo a dare
voce agli interessi incisi. La sua sfera di azione è assai più ampia di quella della disciplina dei
torts, perché non presuppone il verificarsi di un danno, ma investe direttamente l’agire in
contrasto con quegli interessi fondamentali della persona, al cui rispetto è ordinato il dovere
di solidarietà […]. La legittimazione a promuovere la repressione giudiziaria dell’abuso
682 CAPITOLO NONO

norme sulla responsabilità civile; argomentando – in quest’ultimo caso –


dalla indiscutibile rilevanza giuridica dei beni ambientali ai fini della ne-
cessaria configurabilità dei profili di ingiustizia del danno arrecato12.
Certamente, però, la massima valorizzazione dei profili individuali e
personali dei valori tutelati è stata offerta dalle opinioni ricostruttive ine-
quivocabilmente orientatesi a favore della configurazione di veri e propri
diritti soggettivi concernenti i beni in questione e caratterizzati dalla na-
tura non egoistico-proprietaria (o appropriativa), bensì conservativa de-
gli stessi13.
Anche qui le diverse letture avanzate hanno talora dimostrato impo-
stazioni non propriamente collimanti, ma – in estrema sintesi – svilup-
spetta a tutti coloro che, come singoli o come appartenenti a un gruppo o a una comunità, si
trovino a subire l’incidenza pregiudizievole sugli anzidetti interessi della decisione del titolare
del diritto o dell’autore dell’iniziativa economica (ampiezza di legittimazione che trova an-
ch’essa riscontro nell’art. 833, che abilita a reagire tutti ai quali l’atto è inteso a nuocere o a
recare molestia: possono perciò immaginarsi casi di diffusione estesa della legittimazione).
Non è un modello di “azione popolare”, questo, poiché la legittimazione è data a presidio
dell’interesse proprio, addirittura dell’interesse personale di ciascun legittimato».
12 In particolare, DI GIOVANNI, F., Strumenti privatistici e tutela dell’«ambiente», cit., p.

91 ss. Problematicamente, v. SALVI, C., Immissioni, ecologia, norme costituzionali, cit., p. 798
ss., che evidenzia come in realtà la riparazione dell’interesse leso non richieda il risarcimento
del danno, ma la cessazione dell’attività. Sull’opinione dell’A., v. comunque infra, § 2.3.
13 CORASANITI, A., Profili generali di tutela giurisdizionale contro il danno ecologico, in

La responsabilità dell’impresa per i danni all’ambiente e ai consumatori, Milano, 1978, p. 41


ss., ma spec. p. 46 ss. in cui si evidenzia la possibilità di concepire un diritto all’ambiente a
«contenuto negativo», come «limite posto all’ingerenza altrui», negandosi, tra l’altro, la com-
patibilità concettuale tra una prospettiva individualistica di tal fatta con una concezione non
proprietaria dei rapporti tra soggetto titolare del diritto e bene, ben potendosi parlare di «di-
ritto alla sicurezza in ordine al bene» piuttosto che di «diritto ad un bene» (per la posizione
di questo studioso riguardo al tema generale degli interessi collettivi e diffusi, v. retro, cap.
III, in particolare note 43, 47 e 49). Cfr. anche PATTI, S., La tutela civile dell’ambiente, cit., p.
30 (sulla natura non proprietaria dell’interesse all’ambiente) e p. 142 (sulla natura non ap-
propriativa, ma conservativa del diritto in questione); POSTIGLIONE, A., Ambiente: suo signifi-
cato giuridico unitario, cit., 1985, p. 32 ss., spec. p. 45, per il quale «l’esistenza di un diritto
all’ambiente importa che ogni comportamento che venga a porsi in contrasto con tale diritto,
può essere qualificato come “atto di violazione del diritto” e giustificare nel titolare l’azione
per far cessare lo stato antigiuridico»; MADDALENA, P., Il diritto all’ambiente come fondamen-
tale diritto dell’individuo ed interesse generale della collettività, in Cons. St., 1983, II, p. 427
ss., ma spec. p. 430, in cui la natura conservativa del diritto all’ambiente si formalizza in un
diritto di mera azione o più precisamente in un diritto al rispetto del diritto oggettivo; posi-
zione successivamente meglio specificata nel senso dell’attribuzione ai singoli di un «diritto
individuale» a contenuto di fruizione; cfr. MADDALENA, P., Il diritto all’ambiente come diritto
inviolabile dell’uomo, in Cons. St., 1995, II, p. 1897 ss., ma spec. 1898, opinione meglio ap-
profondita infra, § 3.4.3., in relazione al più ampio studio monografico, avanzato dalla dot-
trina or ora richiamata dal titolo Responsabilità amministrativa danno pubblico e tutela del-
l’ambiente, Rimini, 1985, nonché al successivo Danno pubblico ambientale, Bologna, 1990.
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 683

pate seguendo due principali direzioni ricostruttive, differenziatesi tra


loro in relazione ai valori giuridici posti a fondamento della tutela.
Più chiaramente, parte della dottrina ha affermato l’esistenza di un
diritto soggettivo individuale all’ambiente di derivazione costituzionale14;
vero e proprio «diritto fondamentale dell’uomo»15, da ricondursi al genus
dei diritti della personalità16 ed avente ad oggetto il bene ambiente inteso
in senso unitario e immateriale17.
Accanto a questa concezione, caratterizzata in particolare dalla pre-
sentazione dell’ambiente come valore costituzionale, nonché come bene
in senso giuridico, si sono poste altre letture talora più inclini ad inqua-
drare la tutela dei beni ambientali nella più specifica prospettiva della
protezione della salute dell’individuo; concepita – quest’ultima – in senso
non restrittivo e dunque non limitato all’integrità psico-fisica, ma com-
prendente «l’equilibrio ecologico propizio o indispensabile alla […] sa-
lute e al […] benessere fisico»18.

14 In questo senso, v., in particolare, PATTI, S., La tutela civile dell’ambiente, cit., p. 16
ss. e POSTIGLIONE, A., Ambiente: suo significato giuridico unitario, cit., p. 32 ss.; ma v. anche
MADDALENA, P., Il diritto all’ambiente come fondamentale diritto dell’individuo ed interesse ge-
nerale della collettività, cit., la cui posizione, sebbene distinta sotto più profili rispetto a quella
degli A. appena citati, presenta comunque il riconoscimento di un «fondamentale diritto del-
l’individuo all’ambiente».
15 POSTIGLIONE, A., Ambiente: suo significato giuridico unitario, cit., p. 44.
16 PATTI, S., La tutela civile dell’ambiente, cit., p. 29 ss., 137 ss.; POSTIGLIONE, A., Am-

biente: suo significato giuridico unitario, cit., p. 44, per il quale «l’oggetto giuridico di un di-
ritto può anche consistere in “un bene immateriale” interno al soggetto, se come tale è confi-
gurato dal legislatore: è vero che la tradizione giuridica e l’ampia gamma dei diritti patrimo-
niali ci hanno abituato a considerare come oggetto di diritto delle realtà materiali separate dal
titolare, ma questa caratteristica di alcune categorie di diritti non può essere generalizzata,
senza negare protezione a istanze sociali nuove, che non sono riconducibili ad una relazione
singolare fra uomo e cosa a lui esterna».
17 Su questo profilo, v., in particolare, POSTIGLIONE, A., Ambiente: suo significato giuri-

dico unitario, cit., passim. V. anche PATTI, S., La tutela civile dell’ambiente, cit., p. 137 ss.
18 Così, CORASANITI, A., Profili generali di tutela giurisdizionale contro il danno ecolo-

gico, cit., p. 45; ID., La tutela degli interessi diffusi davanti al giudice ordinario, cit., p. 180 ss.
Ma si tengano presenti anche LUCIANI, M., A proposito del «diritto alla salute», in Dir. e soc.,
1979, p. 407 ss.; ID., Il diritto costituzionale alla salute, in Dir. e soc., 1980, p. 769 ss.; ID., Sa-
lute: I) Diritto alla salute - Dir. cost., in Enc. giur. Trec., XXVII, Roma, 1991, p. 6; SALVI, C.,
Note sulla tutela civile della salute come interesse collettivo, in Tutela della salute e diritto pri-
vato, a cura di F.D. Busnelli e U. Breccia, Milano, 1978, p. 445 ss. spec. p. 451; ID., La tutela
civile dell’ambiente: diritto individuale o interesse collettivo?, cit., p. 870; ID., Immissioni, in
Enc. giur. Trec., XV, Roma, 1989, p. 8. Che il profilo della salubrità delle condizioni ambien-
tali rappresenti l’aspetto maggiormente avvertito da parte della dottrina (e, come stiamo per
vedere nel testo, anche della giurisprudenza di legittimità) risulta in termini evidenti da tutta
la letteratura in materia. In questo senso, si leggano anche gli A. citati retro alla nota 9, in ma-
684 CAPITOLO NONO

Proprio la prospettiva ora indicata, come è noto, è stata quella ac-


colta dalla giurisprudenza.
Anche in questa sede, infatti, la tutela dell’ambiente – già preceden-
temente ancoratasi alla tutela della proprietà19 – veniva ad avvantaggiarsi
dell’ampliamento dei confini di tutela del diritto alla salute, oltre il limite
dell’incolumità fisica e verso la protezione dei luoghi sede di sviluppo
della personalità umana nonché di partecipazione alle comunità fami-
liare, abitativa, di lavoro, di studio, ecc20.
Veniva in sintesi a realizzarsi – come efficacemente indicato – una
sorta di «crasi»21 tra diritto alla salute e diritto all’ambiente – il c.d. «di-
ritto all’ambiente salubre» – in cui gli interessi ambientali beneficiavano
della progressiva affermazione nel nostro ordinamento del diritto alla sa-
lute, in quello stesso arco di tempo riconosciuto dalla Corte costituzio-

teria di immissioni, area di approfondimento scientifico in cui la compenetrazione tra am-


biente e salute sembra presentarsi come tratto caratteristico. Il quadro complessivo – comun-
que – era, in questa fase di sviluppo, caratterizzato da profonde incertezze, peraltro inevita-
bili in un generale contesto privo di norme (anche a livello costituzionale) espressamente di-
rette alla tutela dell’ambiente come bene giuridicamente rilevante: sul punto, anche per i
necessari riferimenti, v. le puntuali osservazioni di PATTI, S., Valori costituzionali e tutela del-
l’ambiente, in Diritto e ambiente, Materiali di dottrina e giurisprudenza, commentati da M. Al-
merighi e G. Alpa, I, Diritto civile, Padova, 1984, p. 107 ss., ma spec. 117.
19 Cass., S.U., 9 marzo 1979, n. 1463, in Giust. civ., 1979, I, p. 764 ss., con nota di PO-

STIGLIONE, A., Localizzazione di centrali nucleari e tutela della salute e dell’ambiente e di PIGA,
F., Diritti soggettivi, interessi legittimi, interessi diffusi e tutela giurisdizionale, p. 703 ss.; in
Giur. it., 1979, I, 1, p. 1493, con nota di MONTESANO, L., Sulla tutela giurisdizionale degli «in-
teressi diffusi» e sul difetto di giurisdizione per «improponibilità della domanda»; in Riv. dir.
proc., 1979, p. 720 ss., con nota di ZANUTTIGH, L., Diritto all’ambiente e tutela giurisdizionale.
Sulla sentenza richiamata, v. anche GIAMPIETRO, F., Diritto alla salubrità dell’ambiente, Inqui-
namenti e riforma sanitaria, Milano, 1980, spec. p. 101 ss.
20 Cass., S.U., 6 ottobre 1979, n. 5172, in Giur. it., 1980, I, 1, p. 464 ss., con note a p.

859 ss. di PATTI, S., Diritto all’ambiente e tutela della persona e SALVI, C., La tutela civile del-
l’ambiente: diritto individuale o interesse collettivo?; in Dem. e dir., 1980, p. 140 ss., con nota
di SALVI, C., La cassazione, il diritto all’ambiente e la supplenza dei giudici; in Riv. dir. proc.,
1980, p. 342 ss., con nota di ZANUTTIGH, L., Giudice ordinario e diritto all’ambiente: un passo
avanti della Cassazione.
21 ALPA, G., Pubblico e privato nel danno ambientale, cit., p. 689. Cfr. anche ID., Il di-

ritto all’ambiente salubre: «nuovo diritto» o espediente tecnico?, in Resp. civ. prev., 1998, p. 4
ss., poi in La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, cit., p. 3 ss., in cui si di-
stingue con precisione la figura del «diritto all’ambiente» inteso come «diritto all’integrità
dell’ambiente» e l’attigua figura del «diritto all’ambiente salubre» riferibile al danno alla sa-
lute arrecato come effetto della violazione dell’integrità dell’ambiente; evidenziando, in altri
termini, il differente contenuto degli interessi lesi in ciascuna delle due ipotesi e individuando
quindi nel diritto alla salute la posizione giuridica soggettiva effettivamente pregiudicata nel
secondo caso.
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 685

nale quale «diritto primario e assoluto, pienamente operante anche nei


rapporti tra privati»22.
Il diritto all’ambiente, dunque, manifestandosi sub specie di diritto al-
l’ambiente salubre, si presentava in una specifica configurazione concet-
tuale, per certi versi, criticata e criticabile, ma, sotto diverso profilo, effi-
cacemente rivolta a dare rilievo ad una dimensione non patrimoniale se
non anche superindividuale dell’interesse tutelato, in quanto propensa ad
accogliere – come efficacemente evidenziato – una concezione del diritto
soggettivo pienamente compatibile con i caratteri di diffusività propri de-
gli interessi ambientali23.
Anche questo passo in avanti, peraltro, ha dato adito – a seconda
delle impostazioni teoriche e lato sensu ideologiche privilegiate – a di-
verse ragioni di perplessità.
In primo luogo, si è criticato il carattere assoluto, ovvero più pro-
priamente incondizionato, di tale tecnica di tutela, impiegata, in questo
specifico ambito, per la protezione di interessi – quelli ambientali – vice-
versa bisognosi di contemperamento con quelli confliggenti24.
In secondo luogo, lo stesso tentativo di ricondurre la tutela dell’am-
biente interamente nell’alveo segnato dalla tutela del diritto alla salute,
ossia come un aspetto particolare di questa stessa nozione debitamente
aggiornata, è apparso ad alcuni poco appagante25.
Nello stesso arco di tempo – come detto poc’anzi – la Cassazione
aveva ancorato la protezione giurisdizionale dell’ambiente alla titolarità
del diritto di proprietà e nel far ciò aveva limitato l’ambito di tutela non
solo sotto il profilo soggettivo, negando cioè ai pregiudicati non proprie-

22 C. cost., 26 luglio 1979, n. 88, in Foro it., 1979, I, p. 2542 ss.


23 Così l’estensore della decisione esaminata nel testo, ovvero CORASANITI, A., Profili ge-
nerali di tutela giurisdizionale contro il danno ecologico, cit., p. 44 ss.
24 SALVI, C., La tutela civile dell’ambiente: diritto individuale o interesse collettivo?, cit.,

p. 875; DENTI, V., Interessi diffusi, in Noviss. dig. it., Appendice, IV, Torino, 1983, p. 305 ss.,
ma spec. p. 310; TORREGROSSA, G., Profili della tutela dell’ambiente, cit., p. 1396; DI GIO-
VANNI, F., Strumenti privatistici e tutela dell’«ambiente», cit., p. 83 ss.; SCOCA, F.G., Interessi
protetti (dir. amm.), in Enc. giur. Trec., XVII, Roma, 1989, p. 14, che, accogliendo la possibile
configurazione di questi interessi come diritti soggettivi, peraltro critica la scelta interpreta-
tiva di ritenere detti diritti incomprimibili in ordine all’esercizio del potere amministrativo;
SANDULLI, A.M., Considerazioni di sintesi e conclusive (in tema di partecipazione e giustiziabi-
lità), in Giustizia amministrativa e attuazione costituzionale, I, Controlli, Istruzione, Partecipa-
zione, Padova, 1985, p. 86 ss., ma spec. p. 93. Sul problema dei c.d. diritti «resistenti» non
degradabili, v. di recente, anche per i dovuti riferimenti dottrinali, CARINGELLA, F., Corso di di-
ritto processuale amministrativo, Milano, 2005, p. 188 ss.
25 PATTI, S., Diritto all’ambiente e tutela della persona, cit., p. 864; ID., Valori costituzio-

nali e tutela dell’ambiente, cit., p. 119.


686 CAPITOLO NONO

tari l’azione, ma anche sotto il profilo oggettivo, ossia riducendo l’inte-


resse tutelato ad un rilievo unicamente patrimoniale. Seppur all’insegna
di un apprezzabile rinvio ai «diritti fondamentali» previsti in sede di art.
2 Cost., nonché alla luce della piena e diretta applicazione dei principi
costituzionali all’interno dei rapporti interprivati, anche la sovrapposi-
zione tra salute ed ambiente non risultava appieno rispondente all’esi-
genza di tutelare il bene in questione come valore a sé stante, ovvero at-
traverso il riconoscimento di un diritto soggettivo autonomo e distinto26.
In terzo luogo, infine, veniva posta in dubbio la stessa «compatibi-
lità» tra lo «strumento del diritto soggettivo (con tutti i retaggi concet-
tuali che esso porta con sé: idea di statica attribuzione – se non di ap-
propriazione – in via esclusiva, in una utilità determinata)» e la «necessità
di considerare un bene unitariamente comune a più soggetti»27.
Sempre all’interno di una logica equazionale tra ambiente e salute,
ma sollevando perplessità ricostruttive teoricamente valide anche in rela-
zione a differenti configurazioni del bene-ambiente, si osservava, infatti,
che «come spesso avviene, gli effetti nocivi delle modificazioni ambien-
tali sono così diffusi da coinvolgere non l’interesse alla propria salute, ma
quello alla conservazione delle comuni condizioni di salute della per-
sona», ossia appunto alla «salubrità ambientale», con la conseguenza che
«lo strumento del diritto soggettivo appare inutilizzabile, a cagione del-
l’impossibilità di individuare l’utilità resa da una realtà fruita collettiva-
mente»28.

26 V., in particolare, v. PATTI, S., Diritto all’ambiente e tutela della persona, cit., p. 864;
DENTI, V., Interessi diffusi, cit., p. 310; per una critica alla sovrapposizione delle due distinte
prospettive, v. anche RODOTÀ, S., Introduzione, in Responsabilità dell’impresa per danni al-
l’ambiente e ai consumatori, Milano, 1978, p. 19-20.
27 DI GIOVANNI, F., Strumenti privatistici e tutela dell’«ambiente», cit., p. 87.
28 DI GIOVANNI, F., Strumenti privatistici e tutela dell’«ambiente», cit., p. 89, che osserva

(nota n. 40): «condividiamo il rilievo […] per cui vi può essere diritto soggettivo anche se il
bene “non è attribuito né attribuibile […] in modo esclusivo” al soggetto, dovendosi consi-
derare le opposte opinioni viziate da un pregiudizio patrimonialistico che fa coincidere l’idea
di diritto soggettivo con quella di appropriazione esclusiva della “cosa”. Tuttavia nel nostro
caso la relazione tra il titolare e il bene è caratterizzata ulteriormente dal rilievo unitario di
quest’ultimo: le condizioni ambientali rappresentano una realtà non solo non appropriabile
in via esclusiva, ma soprattutto solo unitariamente fruibile da parte di una comunità, sicché
la posizione del singolo appare come il riflesso individuale del rapporto tra una collettività e
l’ambiente. Perché sia possibile il ricorso allo strumento del diritto soggettivo ci pare neces-
saria, se non l’attribuzione in via esclusiva, quanto meno la possibilità di individuare e distin-
guere l’utilità particolare resa al soggetto da un certo bene della vita, rispetto l’utilità com-
plessiva resa da quel bene. Insomma la possibilità di isolare diversi diritti soggettivi sullo
stesso bene, aventi uguali contenuto e struttura, cessa allorché l’utilità resa dal bene al singolo
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 687

In altri termini, come già visto in sede di studio dei procedimenti


antidiscriminatori e ad ulteriore testimonianza delle solide radici ideolo-
giche poste alla base delle teorie dominanti in materia di determinazione
delle condizioni sostanziali di accesso al giudizio tanto civile che ammi-
nistrativo, veniva negata la plausibilità di ricorrere alla figura del diritto
soggettivo, non semplicemente – come fatto da altri – alla luce della più
corretta qualificabilità della posizione del singolo in termini di interesse
legittimo alla conservazione dell’ambiente29, ma piuttosto contestando la
stessa possibilità di soggettivare in capo al singolo detto interesse in virtù

è indistinguibile da quella resa a tutti i componenti la collettività. L’unità del bene – osserva
Di Giovanni con parole che il lettore ben comprenderà essere di primo rilievo rispetto ai no-
stri fini di approfondimento – unifica in questo caso anche i titolari dell’interesse, che si pre-
sentano come collettività e non come serie di individui». In dottrina, ancora in posizione cri-
tica rispetto alla configurabilità di detti interessi in termini di diritto soggettivo, ma con pro-
spettive ricostruttive assai differenti, v. LENER, A., Violazioni di norme di condotta e tutela
civile dell’interesse all’ambiente, cit., p. 105 ss.; CARAVITA, B., Interessi diffusi e collettivi (Pro-
blemi di tutela), in Dir. soc., 1982, p. 167 ss., ma spec., p. p. 250 ss., secondo cui, anziché sem-
plicemente di diritto soggettivo, occorrerebbe parlare di diritto di libertà o diritto della per-
sonalità.
29 COMPORTI, M., Responsabilità civile per danni da inquinamenti, in Tecniche giuridiche

e sviluppo della persona, cit., p. 349 ss., ma spec. p. 356, in cui si evidenzia la necessità di
estendere la tutela dell’interesse individuale all’ambiente oltre i limiti imposti dal diritto alla
salute e, scartata la possibilità di concepire una «posizione attiva di vantaggio del tipo del di-
ritto soggettivo», si rinvia al concetto di «interesse legittimo». Afferma, infatti, Comporti (ri-
chiamandosi a NICOLÒ, R., Istituzioni di diritto privato, I, Milano, 1962, p. 55): «la figura del-
l’interesse legittimo privato è stata ravvisata in una situazione di vantaggio, ma inattiva, in
quanto l’ordinamento giuridico non attribuisce al titolare il potere di realizzare direttamente
il proprio interesse, ma ne assicurerebbe la realizzazione solo indirettamente, attraverso il
comportamento di un soggetto diverso (che non si troverebbe dinanzi al titolare dell’inte-
resse, in una posizione di dovere, bensì di potere). In base a tale opinione sembra ammissi-
bile configurare, anche nella materia in esame, una posizione d’interesse legittimo all’am-
biente di cui è titolare ciascun soggetto privato, e la cui soddisfazione non è protetta diretta-
mente, ma è rimessa al comportamento degli altri soggetti, nel momento in cui operano
nell’ambiente. È possibile, allora, distinguere il diritto soggettivo alla salute, la cui lesione può
comportare il danno alla persona nelle sue componenti […], dall’interesse legittimo all’am-
biente, la cui lesione può comportare essenzialmente danni non patrimoniali, ma comunque
giuridicamente rilevanti e risarcibili, posto che, com’è noto, il danno ingiusto si concretizza
nel nocumento di qualsiasi situazione (di diritto o di interesse) giuridicamente tutelata».
Ancora per l’applicazione della figura dell’interesse legittimo di diritto privato in ordine alla
sistemazione dogmatica dell’interesse del singolo all’integrità ambientale, v. RAPISARDA, C.,
Profili della tutela civile inibitoria, Padova, 1987, p. 182 ss., nel testo e in nota. La soluzione
ricostruttiva ora richiamata, dunque, mira, come le altre tesi favorevoli al «diritto all’am-
biente», a tutelare l’interesse della persona all’ambiente e dunque al rispetto dei limiti impo-
sti alle attività private in ordine alla salvaguardia del bene ambiente ma nel far questo, vista
la natura non appropriativa della posizione di vantaggio tutelata, evita il ricorso alla nozione
di diritto soggettivo a favore della nozione di origine pubblicistica dell’interesse legittimo di
688 CAPITOLO NONO

della mancata differenziazione della posizione individuale rispetto al


bene tutelato.
Infine, la plausibilità di apprestare una tutela mediante lo strumento
del diritto soggettivo assoluto, veniva posta in dubbio anche in relazione
all’avvertita necessità di dare l’adeguato rilievo alla dimensione collettiva
degli interessi ambientali, più correttamente configurabili in termini di
interessi collettivi, vista la loro riconducibilità «non ad una “serie” inde-
terminabile di soggetti, ma ad un “gruppo” di individui, oggettivamente
unificato, nei rapporti sociali, dalla fruizione comune del medesimo
bene»30.
Si avanzavano, infatti, in relazione a questa seconda preferibile op-
zione ricostruttiva, le seguenti osservazioni: «essa consente […] di de-
durre nel giudizio con maggiore completezza il conflitto tra l’attività in-
quinante e l’ambiente leso; introduce un criterio di legittimazione attiva
necessariamente svincolato da interessi patrimoniali; riduce i rischi di
“monetizzazione” dei danni ambientali; configura la tutela dell’ambiente
non come area di garanzia del singolo, ma come potere di controllo col-
lettivo sulle attività economiche; concentra, anziché disperdere atonomi-
sticamente, i momenti di intervento – anche giurisdizionale – dei singoli
sui processi sociali ed economici»31.

diritto privato. Siamo così in presenza di un’altra occasione in cui la difficile predicabilità, in
fattispecie di tal fatta, dell’esistenza e della lesione di diritti soggettivi in senso tradizionale,
conduce la dottrina ad aggirare il problema ricorrendo a figure alternative. Come si ricorderà,
opzioni teoriche similari sono già emerse più volte (cfr. retro, cap. VIII, nota 39) ed emerge-
ranno nuovamente in sede di strumenti di tutela degli interessi collettivi dei consumatori (v.
infra, cap. X, §§ 3.2.1.2. e 3.2.2.3.). Va ricordato anche – d’altro canto – che l’orientamento
in questione, pur lodevole nel suo tentativo di dare accoglimento dogmatico ai nuovi interessi
bisognosi di tutela, non accoglie il nostro favore proprio in ragione della scarsa persuasività
che riteniamo appartenere alla figura dell’interesse legittimo di diritto privato (cfr. retro, cap.
VI, nota 149).
30 SALVI, C., Ambiente, giustizia civile e partecipazione, in Dem. e dir., 1982, p. 5 ss., ma

cit., p. 8; l’inadeguatezza della nozione di diritto soggettivo a porsi come strumento di com-
prensione del fenomeno degli interessi collettivi è ribadita anche in ID., Il danno extracon-
trattuale, Modelli e funzioni, Napoli, 1985, p. 274.
31 Così, espressamente, SALVI, C., Ambiente, giustizia civile e partecipazione, cit., p. 8

(ma la stessa linea di pensiero emerge anche in ID., Note sulla tutela civile della salute come
interesse collettivo, cit., p. 445 ss.; ID., La tutela civile dell’ambiente: diritto individuale o inte-
resse collettivo?, cit., p. 877 ss.). Nello stesso senso, v. ZANUTTIGH, L., Giudice ordinario e di-
ritto all’ambiente: un passo avanti della Cassazione, cit., p. 360 s. nel testo e in nota, ove si evi-
denzia che «l’ambiente – inteso come bene collettivo oggetto di diritti superindividuali che
non possono giovarsi delle tecniche di tutela dei diritti assoluti ed esclusivi, legati alla dispo-
nibilità di beni materiali – sollecita inevitabilmente la adozione di una prospettiva solidari-
stica e la rivalutazione delle società intermedie, in quanto momenti non prescindibili di orga-
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 689

2.3. Le posizioni orientate verso la valorizzazione dei profili collettivi e


oggettivi della tutela
Le osservazioni appena riportate rappresentano un valido ponte da
poter percorrere per compiere il passaggio dalle concezioni appena esa-
minate a quelle al contrario propense a dar maggior rilievo alla dimen-
sione collettiva se non alla natura pubblica degli interessi tutelati.
Prima di esaminare però queste altre opzioni ricostruttive, va prima
chiarito un aspetto che si ritiene determinante nella materia de qua, ov-
vero l’esatto rapporto tra le diverse dimensioni (collettiva e individuale)
degli interessi ambientali che emerge dalla lettura delle posizioni appena
esaminate.
In queste, come visto, prevale, seppur con diverse sfumature, una
impostazione personale dell’interesse all’ambiente, ma va ora aggiunto
che tale prospettiva ricostruttiva, pur contribuendo in maniera determi-
nante a caratterizzare le letture riportate, non riveste un ruolo assorbente
e totalizzante.
Ciò che si intende dire è che, sovente, la concezione soggettivistica
pur muovendo dalla premessa dell’inerenza di questi interessi all’indivi-
duo, non esclude la dimensione anche superindividuale del fenomeno
stesso.
Quanto affermato trova piena dimostrazione all’interno delle tesi
più decisamente propense ad ammettere l’esistenza di un diritto sogget-
tivo all’ambiente fortemente radicato nelle esigenze di sviluppo della per-
sonalità umana.
In una di queste posizioni, ad esempio, appare evidente il momento
di stretta compenetrazione delle due distinte dimensioni32.
Accanto, infatti, all’accentuazione dei profili individuali degli inte-
ressi tutelati, implicante l’informazione, la partecipazione e l’azione del
soggetto interessato33, emergono altrettanto chiaramente i profili collet-

nizzazione-aggregazione di diritti soggettivi diffusi»; come si chiarisce ulteriormente, dunque,


«la tecnica di qualificazione di posizioni soggettive non meramente individuali fornite di tu-
tela sembra essere quella della personificazione-privatizzazione degli interessi diffusi o collet-
tivo-sociali, attuata mediante imputazione dei medesimi, ai fini dell’azionabilità, ad una “for-
mazione sociale effettivamente configurabile”».
32 Ci riferiamo, in particolare, alla posizione di POSTIGLIONE, A., Ambiente: suo signifi-

cato giuridico unitario, cit., p. 32 ss. Ma v. comunque anche PATTI, S., La tutela civile dell’am-
biente, cit., p. 92 ss.; ed in senso ancora più accentuato, MADDALENA, P., Il diritto all’ambiente
come fondamentale diritto dell’individuo ed interesse generale della collettività, cit., passim,
33 POSTIGLIONE, A., Ambiente: suo significato giuridico unitario, cit., p. 40; sulla compe-

netrazione delle due prospettive v. anche p. 50 ss.; cfr. anche ID., Il danno alla salute e al-
690 CAPITOLO NONO

tivi della tematica ed in questa linea di pensiero la natura superindivi-


duale della tutela si apprezza sotto diversi profili: quello della particolare
dimensione spaziale e temporale dell’interesse materiale34, proiettato
verso l’intero pianeta e le generazioni future; quello della natura pub-
blica, collettiva o comune del bene35; ma anche quello della caratterizza-
zione del diritto all’ambiente come «diritto-dovere di positivo intervento
per la salvaguardia dei beni essenziali alla comunità, nello spirito del so-
lidarismo sociale imposto dalla nostra Costituzione»36; nonché, infine,
nella necessaria e conseguente concorrenza di strumenti di tutela giurisdi-
zionale ad esercizio individuale e collettivo37. Come è stato chiaramente
posto in risalto, infatti, «il riconoscimento di un diritto all’ambiente
come diritto della personalità […] non esclude, [ma] anzi postula il con-
temporaneo concorrere di azioni di soggetti collettivi o pubblici»38.
Questa linea interpretativa, poi, è apparsa ancora più accentuata
nella tesi che – partendo dalla prospettazione di un rapporto tra Stato-
comunità e Stato-persona, stando al quale il secondo è «organo» di cura
degli interessi della comunità generale – ha preferito rilevare due distinte
«anime» all’interno del diritto all’ambiente, ossia quella individuale e
quella sociale, coincidenti, rispettivamente, con il profilo della fruizione
e con quello dell’appartenenza; ponendosi, appunto, l’ambiente come
oggetto di fruizione da parte di «ciascuno» e oggetto di appartenenza da
parte di «tutti»39.

l’ambiente nella giurisprudenza e nella dottrina giuridica, in Dir. giur. agraria e dell’ambiente,
1996, p. 582 ss., ma spec. p. 583, in cui si specifica che «il danno ambientale va considerato
[…] come danno alla collettività e come danno alla persona» ovvero come «lesione di inte-
resse generale e lesione di un diritto soggettivo (diritto all’ambiente), due facce della stessa
medaglia». Si aggiunge, poi, che «nel diritto all’ambiente di ogni uomo, come diritto della
personalità, bisogna considerare due aspetti: uno “strumentale”, consistente nel diritto al-
l’informazione, alla partecipazione e all’azione: uno “sostanziale”, consistente nel diritto alla
libera utilizzazione dei beni della natura, secondo standards fissati dal diritto positivo, purché
adeguati al valore costituzionale della persona, nella dimensione individuale e sociale».
34 POSTIGLIONE, A., Ambiente: suo significato giuridico unitario, cit., p. 42.
35 POSTIGLIONE, A., Ambiente: suo significato giuridico unitario, cit., p. 50.
36 POSTIGLIONE, A., Ambiente: suo significato giuridico unitario, cit., p. 43.
37 POSTIGLIONE, A., Ambiente: suo significato giuridico unitario, cit., p. 45. Precisa inol-

tre l’A., che «se si concepisce il diritto all’ambiente come valore personale e l’azione come po-
tere di domandare una inibitoria (escludendo poteri dispositivi nel corso del processo civile)
il rischio di una privatizzazione o di una monetizzazione dei danni ambientali può essere su-
perato» (p. 46).
38 POSTIGLIONE, A., Ambiente: suo significato giuridico unitario, cit., p. 47.
39 MADDALENA, P., Il diritto all’ambiente come fondamentale diritto dell’individuo ed inte-
resse generale della collettività, cit., passim; e poi ID., Il diritto all’ambiente come diritto inviola-
bile dell’uomo, cit., spec. p. 1898 s. Sulla posizione ricostruttiva ora richiamata, peraltro, oc-
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 691

In questo senso, quindi, il diritto all’ambiente è stato configu-


corre soffermarsi con maggior grado di approfondimento; e ciò non solo in ragione del rap-
porto di paternità che lega l’A. alla giurisprudenza della Corte dei conti a cui abbiamo già fatto
riferimento nel capitolo III (cfr. in particolare nota 123) e a cui nuovamente ci riferiremo tra
breve nel testo, ma per il tentativo, che qui ben si apprezza, di conseguire un punto di equili-
brato contemperamento tra dimensione oggettiva e dimensione soggettiva dell’interesse al-
l’ambiente. Per avere un’immagine più completa della posizione in questione, d’altra parte, oc-
corre riferirsi ai due lavori monografici già citati: Responsabilità amministrativa danno pubblico
e tutela dell’ambiente e Danno pubblico ambientale. Su quest’ultimo, maggiormente orientato
all’interpretazione dell’azione risarcitoria ex art. 18 della l. n. 349/86, avremo occasione di sof-
fermarci più avanti, allorché esamineremo le opzioni ricostruttive avanzate per l’inquadra-
mento di tale rimedio. In questa sede, invece, riteniamo opportuno concentrare l’attenzione
sul primo lavoro richiamato, nel quale si delinea il quadro teorico generale entro cui successi-
vamente andrà ad inserirsi la seconda monografia. In sintesi i passaggi essenziali del complesso
ed articolato itinerario ricostruttivo sono i seguenti. Come in molti scritti dedicati al tema de-
gli interessi collettivi e diffusi, l’argomentazione pone in primo piano l’influenza della Costitu-
zione nell’operazione interpretativa volta ad adeguare l’ordinamento e gli istituti tradizionali ai
nuovi valori fondativi (cfr. in particolare p. 25 ss.) e seguendo questa linea viene a determinarsi
il superamento della configurazione dell’interesse pubblico come interesse individuale ed
esclusivo dello Stato (cfr. p. 39, in cui si evidenzia come la tradizionale «“linea” della soggetti-
vità giuridica presenta il pericolo immanente di restringere l’interesse generale in un ottica in-
dividualistica, di considerare il bene pubblico come proprietà privata, e, in ultima analisi di la-
sciar privi di tutela […] proprio gli interessi più meritevoli di protezione: gli interessi generali
e pubblici della Collettività»); i principi democratico, pluralistico e solidaristico, infatti, po-
nendo il Popolo al centro del processo democratico, evidenzierebbero la coesistenza, accanto
allo Stato-persona, dello Stato-comunità, ossia dell’insieme dei cittadini rappresentati dal
primo in veste di Ente esponenziale generale; seguendo questa impostazione lo Stato non do-
vrebbe essere concepito come entità astratta e distinta dalla collettività, ma come rappresen-
tante della stessa secondo una linea di sostanziale coincidenza del primo con la seconda. Da
ciò deriva la possibilità di sovrapporre concettualmente l’interesse pubblico e quello generale
e di ritenere entrambi sostanzialmente propri della «Collettività considerata nel suo com-
plesso» ed in particolar modo di concepire detti interessi non più in una loro dimensione
astratta e formale, ma materiale e concreta, ossia pertinente non solo alla Pubblica ammini-
strazione, ma a tutti i cittadini (cfr. p. 28-30); interessi quindi concepibili tanto in una «confi-
gurazione unitaria», quanto capaci di rifrangersi «nella molteplicità degli interessi dei singoli
facenti parte della Collettività (i cosiddetti interessi diffusi […])» (p. 31 e poi ancora espressa-
mente p. 45). Detta nuova ricostruzione dell’interesse pubblico(-generale-collettivo) costitui-
sce, quindi, la base concettuale di partenza per adattare la nozione di danno cagionato allo
Stato in sede di giudizio innanzi alla Corte dei conti e correlativamente anche l’oggetto del me-
desimo giudizio, configurando il giudizio contabile come strumento di tutela generale degli in-
teressi pubblici-generali-collettivi-diffusi in questione. Alla luce di queste premesse, infatti, si
apre per la dottrina ora in esame la possibilità di operare una sorta di compromissione tra teo-
ria dell’oggettività giuridica e teoria della soggettività giuridica meglio specificata in termini di
«soggettività unitaria non individualistica» (così nel titolo del § 1, a p. 38); secondo quest’im-
postazione «i contenuti solidaristici e sociologici della Costituzione impongono […] di mante-
nere sempre uno stretto contatto tra singolo e comunità, per cui si può, e si deve, parlare […]
di una “subiettivazione” della Collettività, e, quindi, di una forma di soggettività giuridica che
ha caratteri estremamente complessi e che in ogni caso non rinchiude il “collettivo” in forma
“individualistiche”, ma riesce, superando ostacoli dogmatici e tradizionalistici tutt’altro che in-
692 CAPITOLO NONO

rato come un diritto di «proprietà collettiva»; istituto, quest’ultimo, ri-


differenti, a configurare una sorta di “soggetto” che mantiene in sé il carattere collettivo», riu-
scendo in altri termini «a sganciare il concetto stesso della “soggettività” dal concetto ad esso
tradizionalmente ancorato della “individualità”» (p. 39). Il punto successivo dello studio è co-
stituito, quindi, dal superamento di una concezione della «proprietà pubblica» come «pro-
prietà individuale» (dello Stato) a favore di una nozione di «proprietà pubblica» intesa come
«proprietà collettiva» in cui, a fronte dei profili di appartenenza, acquistano maggior rilievo i
profili di uso o fruizione collettiva; è svolgendo questa linea di pensiero, quindi, che viene de-
finita la correlata nozione di «bene pubblico», che rappresentando qualsiasi entità materiale o
immateriale (come appunto l’ambiente) idonea a soddisfare bisogni pubblici in appartenenza
e soprattutto in fruizione della Collettività, si pone in una posizione intermedia tra il bene in
senso giuridico elaborato dalla dottrina civilistica e quello elaborato dalla dottrina penalistica
(p. 80-81). È a seguito della definizione di questi concetti che è quindi possibile addivenire alla
determinazione dell’oggetto del giudizio contabile, volto alla tutela dei beni pubblici appena
esaminati ed avente natura di giurisdizione di diritto oggettivo. Il risarcimento del danno, pe-
raltro, non avrebbe propriamente funzione sanzionatoria, ma mirerebbe a reprimere il danno
in funzione comunque compensativa, ossia in un ottica tradizionalmente privatistica. Non po-
tendosi, d’altra parte, identificare il danno pubblico in termini di «lesione di un interesse
umano» (si rinvia a CUPIS, A., Danno, in Enc. dir., XI, Milano, 1962, p. 625), pena cadere in
contraddizione con la predicata natura oggettiva del giudizio, si sostiene che sia direttamente
lo stesso bene pubblico ad essere reintegrato (così a p. 103). Si assiste, insomma, anche sotto
questo profilo, al tentativo di superare i limiti rispettivamente appartenenti ad una prospettiva
oggettiva o soggettiva della tutela mediante una commistione reciproca di elementi a queste
appartenenti. D’altro canto, è proprio la scelta di metodo operata dalla dottrina in questione
che a parer nostro conduce all’irrisolta conciliazione degli opposti. Visto che, infatti, le due
prospettive di apprezzamento del fenomeno seguono indirizzi logici incompatibili, la ricostru-
zione in questione si presenta affetta da numerose incongruenze. Di certo va pienamente con-
divisa la cornice di principio tratteggiata dalla dottrina in questione ed in particolare il supe-
ramento di una concezione statocentrica e individualistica dell’interesse pubblico (cfr. retro,
cap. III, § 1.4.) a vantaggio di una maggiore valorizzazione degli interessi generali che si na-
scondono dietro l’interesse individuale della p.a. e degli interessi dei singoli cittadini che con-
tribuiscono a dar corpo all’interesse generale stesso. Ma la volontà di contemperare i diversi
profili del fenomeno non può sboccare nell’accostamento o nella commistione di concetti tra
loro incompatibili. Un esempio è la stessa ambigua nozione di «soggettività unitaria non indi-
vidualistica», ma lo stesso discorso vale per la nozione di interesse collettivo, che risulta accolto
tanto in una veste unitaria che aggregata, oppure per il diritto al risarcimento che, se, da un
lato, mantiene la funzione compensativa, dall’altro, non si riferisce ad un interesse meritevole
ingiustamente leso, ma al bene in sé. Gli elementi di contraddizione che appartengono alla
dottrina in esame si riflettono poi sul piano più propriamente ricostruttivo, ovvero sul piano
della determinazione dei legittimati ad agire. Questi ultimi, infatti, oltre al P.M. presso la Corte
dei conti, quantomeno in linea di principio o de iure condendo, dovrebbero essere rappresen-
tati anche dalle associazioni private e dai singoli cittadini (p. 107 s.). Ma per arrivare a tale ul-
tima conclusione, la strada seguita dall’A. è proprio quella segnata dall’apprezzamento degli
interessi sostanziali tutelati e su questa strada, alla luce della particolare concezione dell’inte-
resse pubblico che viene ad essere accolta, l’azione viene ad essere attribuita anche ai singoli
cittadini (p. 107) in ragione dell’azionabilità degli interessi materiali giuridicamente rilevanti ex
art. 24 Cost. (cfr. anche p. 27). Ma l’esito ricostruttivo ora riportato urta ineludibilmente con
la concezione oggettiva della tutela apprestata. In realtà la concezione da ultimo indicata, come
diremo anche più in là nel testo (cfr. infra, § 3.4.3.), rappresenta a nostro giudizio un mero ar-
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 693

tenuto appunto capace di «soggettivizzare la tutela di diritto ogget-


tivo»40.
Dalla lettura della dottrina ora riportata, risulta insomma chiaro
come la valorizzazione della dimensione individuale della tutela non rap-
presenti propriamente un momento di necessaria divaricazione tra due
opposte soluzioni ricostruttive, quella individuale piuttosto che quella col-
lettiva-oggettiva, ma piuttosto la scelta del corretto angolo visuale secondo
cui guardare il fenomeno; angolo visuale che conduce e permette allo
sguardo di procedere muovendo dalla persona e dal momento soggettivo
sino ad allargarsi e giungere al completamento dell’immagine nella con-
templazione della dimensione collettiva.
In altri termini: dallo studio di queste tesi emerge con evidenza
come la giusta valorizzazione del rapporto di inerenza di questi interessi
alla persona, permetta di accogliere una opzione ricostruttiva idonea ad
abbracciare tanto la dimensione collettiva che individuale degli interessi
tutelandi.
Quanto ora evidenziato, non si verifica – invece – nelle opposte con-
cezioni, nelle quali la dimensione oggettiva dell’interesse tende sovente al
sacrificio della seconda.
All’interno di questo filone interpretativo, va in primo luogo richia-
mata la tesi volta a configurare il pregiudizio all’ambiente in termini di
«danno collettivo», intendendo specificamente con questa formula «la ri-
levanza aquiliana di un bene […] collettivo, nel senso forte che assume
tale espressione quando viene riferita a un bene (e a un interesse) ‘indi-
visibile’, e comunque non suscettibile di appropriazione esclusiva».
tificio logico-formale per eludere anziché risolvere il problema della determinazione dei sog-
getti legittimati all’esercizio dei poteri di tutela dei beni in questione ed inoltre non convince
su un piano generale in quanto contraria ai principi ispiratori del nostro ordinamento che pon-
gono al centro dello stesso la persona. Nella lettura in esame, peraltro, il paradossale esito a cui
si perviene in ragione delle infinite commistioni tra elementi logicamente inconciliabili è costi-
tuito proprio dall’intraprendere un’operazione di de-soggettivazione della tutela riguardo alla
determinazione della natura (propriamente oggettiva) del giudizio e del suo oggetto (diretta-
mente il bene ambiente in sé) per poi dirigersi in senso esattamente opposto, ovvero conclu-
dendo con l’inspiegabile riconoscimento della legittimazione ad agire anche ai singoli cittadini
sulla base della natura dell’interesse materiale tutelato. Ciò che colpisce, naturalmente, non è
l’esito a cui si perviene, ma la strada a tal fine seguita. O, difatti, il concetto di interesse tute-
lato ha ragion d’essere nella materia in questione, ma così ragionando la natura del giudizio
non può essere di certo oggettiva, o si esclude che la tutela apprestata di riferisca o meglio si
rivolga a soggetti, individui, persone, ma ciò con la conseguenza che l’attribuzione dell’azione
ad un soggetto piuttosto che ad un altro risulta essere un incognita irrisolvibile oltre che in-
spiegabile.
40 MADDALENA, P., Il diritto all’ambiente come diritto inviolabile dell’uomo, cit., spec.

p. 1899.
694 CAPITOLO NONO

La necessaria prospettiva «individuale» richiesta dalla normativa


sulla responsabilità civile, secondo la quale «il danno riguarda “la situa-
zione della persona rispetto al bene, e non il bene in sé”»41, ha peraltro
condotto questa tesi a rinvenire il «canale di soggettivazione» dell’inte-
resse collettivo nell’ente pubblico che, pur in assenza di diritti soggettivi
sui beni ambientali, ha assunto il ruolo di ente esponenziale degli in-
teressi della collettività dislocata sul territorio, con piena irrilevanza, per
altro verso, degli interessi dei singoli o di gruppi relativamente parti-
colari42.
D’altro canto, la concezione dell’interesse all’ambiente maggior-
mente propensa a valorizzare il momento collettivo-oggettivo della tutela
ha trovato la sede di massima espressione, come è noto, nella giurispru-
denza della Corte dei conti, che a partire dagli anni Settanta ha antici-
pato, tanto in senso cronologico, che ideologico, la legge istitutiva del
Ministero dell’ambiente ed i suoi svolgimenti ulteriori, i quali, come ve-
dremo, tuttora assegnano allo Stato una posizione di monopolio degli
strumenti di tutela giuridica dell’ambiente43.
41 SALVI, C., Il danno extracontrattuale, cit., p. 261.
42 SALVI, C., Il danno extracontrattuale, cit., in particolare p. 264 e 268. Ciò che vor-
remmo sin d’ora evidenziare è che, sebbene la dottrina ora richiamata parli di un «diritto so-
ciale» – poiché spettante alla collettività – al godimento di beni giuridicamente o socialmente
collettivi (v. in particolare, SALVI, C., Immissioni, ecologia, norme costituzionali, cit., p. 811) e
chiarisca «il rilievo erga omnes dell’interesse della collettività a una fruizione dei beni liberi,
conforme alla normativa che li regola» (SALVI, C., Il danno extracontrattuale, cit., p. 267), non
venga attribuito rilievo – posta la distinguibilità tra, da un lato, il diritto alla gestione dei beni
liberi che contribuiscono alla formazione del bene ambiente e, dall’altro, l’interesse alla con-
servazione delle condizioni di fruibilità di quei beni entro i limiti che la legge prescrive – alla
possibile azionabilità e riconoscimento giuridico di quest’ultimo interesse; riconoscimento
che di per sé può operare su di un piano autonomo e distinto da quello relativo all’attribu-
zione e alla gestione delle somme da versare a titolo di risarcimento a violazione già verifica-
tasi. Una simile distinzione è presente, ad esempio, con chiarezza in MADDALENA, P., Il diritto
all’ambiente come fondamentale diritto dell’individuo ed interesse generale della collettività,
cit., p. 433, in cui si afferma: «l’ambiente appartiene alla collettività, ed i singoli cittadini, pos-
sono certamente tutelare il loro uso ricorrendo al giudice ordinario ad esempio, con l’actio
inibitoria, e possono altresì partecipare ad una azione diretta ad ottenere il ristoro per i danni
ambientali, ma certamente non possono ritenersi destinatari del risarcimento. Questa azione,
in quanto pubblica e doverosa […], può essere sollecitata e sostenuta, ed entro certi limiti,
anche promossa, ma deve comunque necessariamente far capo all’organo pubblico». Il pro-
filo ora indicato è apparso di particolare rilievo anche alla dottrina intervenuta successiva-
mente in relazione all’art. 18 della l. n. 349/86 (cfr. infra, nota 61, la posizione di Michele Ta-
ruffo) e, come vedremo, può essere tuttora valorizzato specie a fronte del ruolo marginale at-
tribuito ai soggetti singoli privati nell’attivazione dei meccanismi di tutela apprestati dai
recenti interventi di riforma (cfr. infra, § 4.2.).
43 Lo stretto legame di parentela sussistente tra questa giurisprudenza e la legge n. 349
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 695

La strada prescelta da questa giurisprudenza al fine di ricercare


spazi di tutela giurisdizionale dei valori ambientali è stata, infatti, quella
di concepire la lesione di detti beni in termini di danno pubblico risarci-
bile in sede di giudizio contabile; operazione interpretativa più precisa-
mente articolata nei seguenti passaggi ricostruttivi: a) superamento della
nozione meramente patrimoniale e ragionieristica del danno pubblico ri-
sarcibile in sede di giurisdizione della Corte dei conti; b) qualificazione
dei beni ambientali come beni in senso giuridico; c) appartenenza dei
beni ambientali in capo alla collettività organizzata nello Stato; d) riferi-
bilità degli interessi generali della collettività in capo allo Stato; e) conse-
guente riconoscimento della Corte dei conti, «come giudice naturale or-
dinario ed esclusivo per la tutela della collettività, ai sensi degli artt. 25 e
103 della Costituzione»44.
Il giudice «ordinariamente» competente, l’imputazione degli inte-
ressi diffusi in capo allo Stato e l’esercizio obbligatorio dell’azione da
parte del Procuratore generale presso la Corte dei conti rappresentavano,
dunque, le forme giuridiche della perfetta pubblicizzazione degli inte-
ressi ambientali.

del 1986 è unanimemente riconosciuto ed ogni richiamo dottrinale risulterebbe superfluo,


per approfondimenti comunque v. la dottrina richiamata infra, nota 45.
44 L’orientamento giurisprudenziale richiamato solo in sintesi nel testo si è articolato in

una serie di fondamentali pronunce: C. conti, sez. I, 15 maggio 1973, n. 39, in Foro amm.,
1973, I, p. 247 ss.; C. conti, sez. I, 20 settembre 1975, n. 108, in Foro it., 1977, III, p. 349 ss.;
C. conti, sez. I, 8 ottobre 1979, n. 61, in Foro it., III, p. 593 ss.; C. conti, sez. I, 18 settembre
1980, n. 86, in Foro it., 1981, III, p. 167 ss.; C. conti, sez. I, 22 maggio 1982, n. 10, in Riv.
Corte dei conti, 1982, I, p. 89 ss. Ampia è la dottrina che si è occupata dell’argomento: SCOCA,
Giurisprudenza amministrativa e tutela dell’ambiente nella prospettiva di un orientamento
omogeneo delle giurisdizioni, in Unità delle giurisdizioni e tutela dell’ambiente, Milano, 1986,
p. 263 ss., ma spec. p. 277 ss.; CARAVITA, B., Corte dei conti e interessi diffusi. Un caso di in-
terpretazione estensiva, in Dem. dir., 1982, fasc. 3, p. 41 ss.; D’ORTA, C., Ambiente e danno
ambientale: dalla giurisprudenza della Corte dei Conti alla legge sul Ministero dell’ambiente, in
Riv. trim. dir. pubbl., 1987, p. 60 ss.; ANGIOLINI, V., Il danno ambientale: dalla giurisprudenza
della Corte dei conti alla legge 349/1986, in Amministrare, 1987, p. 215 ss.; COLOMBINI, G.,
Profili della responsabilità amministrativa nel governo del territorio e dell’ambiente, in Riv.
trim. dir. pubbl., 1987, p. 3 ss., ma spec. p. 57. Fondamentali a tal riguardo sono i contributi
di Maddalena, nei quali viene esposto il quadro teorico-dogmatico posto a fondamento delle
decisioni poc’anzi richiamate; sul punto cfr. Responsabilità amministrativa, danno pubblico e
tutela dell’ambiente, cit., su cui v. le nostre osservazioni critiche esposte retro nota 39. V. an-
che ID., Giurisdizione contabile e tutela degli interessi diffusi, in Cons. St., 1982, II, p. 291 ss.
Successivamente all’approvazione della legge sul Ministero dell’Ambiente, v. ancora MADDA-
LENA, Il danno all’ambiente tra giudice civile e giudice contabile, in Riv. crit. dir. priv., 1987, p.
445 ss.; e successivamente ID., Danno pubblico ambientale, cit.; contributi che saranno presi
in diretto esame infra, § 3.4.3.
696 CAPITOLO NONO

3. La riflessione dottrinale in materia di danno ambientale nella legge


istitutiva del Ministero dell’ambiente
3.1. Cenni sulla fattispecie
Come già detto la concezione «pubblicistica» degli interessi am-
bientali appena esaminata all’interno della giurisprudenza della Corte dei
conti ha costituito l’indiscusso punto di riferimento45 che il legislatore
italiano ha assunto per predisporre la disciplina del primo generale stru-
mento di tutela giurisdizionale dell’ambiente.
Con la legge n. 349 dell’8 luglio 1986, infatti, è stata prevista, all’art.
18, un’azione civile di risarcimento per danno ambientale «promuovi-
bile» da parte dallo Stato, «nonché» dagli enti territoriali sui quali «inci-
dono» i beni ambientali pregiudicati.
Più precisamente il legislatore ha disciplinato un’articolata fattispe-
cie lesiva, contestualmente costitutiva di un duplice obbligo in capo al-
l’autore dell’evento dannoso.
Sul piano sostanziale, detta fattispecie è stata individuata mediante il

45 Come si afferma nel testo la giurisprudenza della Corte dei conti e la dottrina di ori-
gine giudiziale che abbiamo esaminato retro (ci riferiamo in particolare alla posizione di Mad-
dalena) rappresentano l’indiscusso punto di riferimento assunto dal legislatore nella predi-
sposizione della norma. Ciò emerge inequivocabilmente dall’iter formativo della legge che nel
testo presentato alla Camera e derivante dalla fusione del disegno di legge governativo elabo-
rato dall’on Biondi con la proposta di legge dell’on. Vernola, recitava all’art. 16 (successiva-
mente divenuto 18 nella formulazione definitiva del testo di legge): «1. Qualunque fatto do-
loso o colposo che cagioni la lesione dell’interesse della collettività alla tutela e alla salva-
guardia dell’ambiente o dei singoli beni ambientali, deteriorandoli o distruggendoli in tutto o
in parte, obbliga l’autore del fatto al risarcimento del danno pubblico prodotto dalla sua
azione od omissione. 2. La giurisdizione in materia di risarcimento del danno pubblico am-
bientale appartiene alla Corte dei conti, fatta salva ogni altra possibile azione presso i com-
petenti organi giurisdizionali secondo le leggi vigenti. 3. Tra giudizio di responsabilità per
danno pubblico ambientale e gli altri giudizi non sussiste pregiudizialità. 4. Qualsiasi citta-
dino, in modo singolo e associato, può denunciare al Pubblico Ministero presso la Corte dei
conti qualsiasi fatto lesivo dell’interesse di cui al primo comma. Il Pubblico Ministero, qua-
lora ritenga di non promuovere l’azione, archivia la denucia con provvedimento motivato
dandone comunicazione senza ritardo al denunciante. 5. Per la tutela dell’interesse della col-
lettività di cui al primo comma le associazioni e gli altri soggetti collettivi portatori di interessi
alla tutela ambientale sono legittimati a costituirsi parte civile nei procedimenti penali ed a ri-
correre in sede di giurisdizione amministrativa». Per un esame approfondito di questi aspetti,
sebbene siano presi in esame da numerosi dei contributi intervenuti in materia, v. in partico-
lare il cap. I, di GIAMPIETRO, F., La responsabilità per danno all’ambiente, Profili amministra-
tivi, civili e penali, Milano, 1988. Per i testi dei lavori preparatori, v. ancora l’Appendice della
monografia appena citata oppure l’Appendice del volume Danno ambientale e tutela giuridica
(legge 8 luglio 1986 n. 349), a cura di Cesarò, Padova, 1987, nonché del volume di MADDA-
LENA, P., Danno pubblico ambientale, cit., p. 257 ss.
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 697

rinvio a «qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni


di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta
l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o di-
struggendolo in tutto o in parte».
Sul conseguente piano rimediale, invece, è stato previsto tanto il già
rammentato obbligo di risarcimento «nei confronti dello Stato», quanto
l’obbligo di ripristino dello stato dei luoghi.
Per ciò che attiene al risarcimento, nella chiara volontà di attribuire
allo stesso una spiccata funzione propriamente sanzionatoria, è stato di-
sposto, per un verso, che il giudice, allorché non sia possibile una precisa
quantificazione del danno, ne determini l’ammontare in via equitativa,
tenendo conto della «gravità della colpa individuale, del costo necessario
del ripristino, e del profitto conseguito dal trasgressore, in conseguenza
del suo comportamento lesivo dei beni ambientali» e, dall’altro, in de-
roga al regime di solidarietà passiva previsto dall’art. 2055 c.c., che, nel
caso di concorso soggettivo nella produzione dello stesso evento, ciascun
autore risponda nei limiti della responsabilità individuale.
Nella seconda direttrice sanzionatoria, invece, è stato opportuna-
mente disposto che il ripristino dello stato dei luoghi a spese del respon-
sabile sia oggetto della condanna giudiziale non nei limiti della eccessiva
onerosità ordinariamente prevista dalla normativa comune dettata dal se-
condo comma dell’art. 2058 c.c. in materia di risarcimento in forma spe-
cifica, ma semplicemente – come recita la norma – ove ciò sia possibile.

3.2. Le difficoltà interpretative presentate dalla norma


La riflessione scientifica rivoltasi alla ricostruzione del rimedio ap-
pena descritto è stata amplissima, specie in seno alla dottrina civilistica,
estendendosi peraltro anche alla dottrina pubblicistica e processualcivili-
stica, ed interessando diversi aspetti della nuova normativa, quali: a) la
corretta qualificazione della fattispecie in ordine ai rapporti tra danno
ambientale e danno risarcibile ex art. 2043 c.c.; b) l’interpretazione della
stessa in relazione alla disciplina ambientale previgente, specie per il ri-
chiamo della necessaria «violazione di disposizioni di legge o di provve-
dimenti adottati in base a legge»; c) la natura compensativa o sanziona-
toria del risarcimento; d) l’esatto inquadramento dei rapporti tra tutela
risarcitoria e ripristinatoria, specie in relazione al possibile concorso tra
le due misure nonché con riguardo alla determinazione di una rispettiva
autonomia funzionale all’interno della previsione normativa46.
46 Inmateria di danno ambientale la letteratura è vastissima. In una prospettiva generale,
senza pretesa di completezza, si tengano presenti: COCCO, G., Tutela dell’ambiente e danno am-
698 CAPITOLO NONO

Oltre a queste, peraltro, anche altre questioni hanno rivestito pari ri-
lievo in sede ricostruttiva, essendo anch’esse direttamente funzionali al
corretto inquadramento della norma; questioni sino ad ora non esplici-
bientale. Riflessioni sull’art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349, in Riv. giur. amb., 1986, p. 485
ss.; ALPA, G., Pubblico e privato nel danno ambientale, cit., p. 685 ss.; ANGIOLINI, V., Il danno
ambientale: dalla giurisprudenza della Corte dei conti alla legge 349/1986, cit., p. 215 ss.; BERTI,
G., Il rapporto ambientale, in Amministrare, 1987, p. 175 ss.; BIGLIAZZI GERI, L., Quale futuro
dell’art. 18 legge 8 luglio 1986, n. 349?, in Riv. crit. dir. priv., 1987, p. 685 ss.; BRIGANTI, E.,
Considerazioni in tema di danno ambientale e responsabilità oggettiva, in Rass. dir. civ., 1987, p.
289 ss.; CASTRONOVO, C., Il danno all’ambiente nel sistema di responsabilità civile, ivi, p. 511 ss.;
CENDON, P. - ZIVIZ, P., L’art. 18 della legge 349/86 nel sistema della responsabilità civile, ivi, p.
521 ss.; COMPORTI, M., La responsabilità per danno ambientale, in Foro it., 1987, III, p. 266 ss.;
FRANCARIO, L., Il risarcimento del danno all’ambiente dopo la legge 349 del 1986, in Riv. crit. dir.
priv., 1987, p. 479 ss.; GIAMPIETRO, F., Danno all’ambiente e legittimazione al giudizio dello
Stato, degli enti territoriali e delle associazioni protezionistiche (art. 18 della legge n. 349/1986),
in Riv. giur. amb., 1987, p. 541 ss.; GRASSO, E., Una tutela giurisdizionale per l’ambiente, in Riv.
dir. proc., 1987, p. 505 ss.; GRECO, G., Danno ambientale e tutela giurisdizionale, in Riv. giur.
amb., 1987, p. 525 ss.; LIBERTINI, M., La nuova disciplina del danno ambientale e i problemi ge-
nerali del diritto dell’ambiente, in Riv. crit. dir. priv., 1987, p. 547 ss., (ma anche in AA.VV., Il
danno ambientale con riferimento alla responsabilità civile, a cura di P. Perlingieri, Napoli,
1991, p. 21 ss.); MADDALENA, P., Il danno all’ambiente tra giudice civile e giudice contabile, ivi,
p. 445 ss.; MAZZAMUTO, S., Osservazioni sulla tutela reintegratoria di cui all’art. 18 legge 349/86,
ivi, p. 699 ss.; MORBIDELLI, G., Il danno ambientale nell’art. 18 l. 349/1986, Considerazioni in-
troduttive, ivi, p. 599 ss.; ORTA, C., Ambiente e danno ambientale: dalla giurisprudenza della
Corte dei conti alla legge sul Ministero dell’ambiente, cit., p. 60 ss.; POSTIGLIONE, A., L’azione ci-
vile in difesa dell’ambiente, in Riv. trim. dir. pubbl., 1987, p. 303 ss.; TARUFFO, M., La legitti-
mazione ad agire e le tecniche di tutela nella nuova disciplina del danno ambientale, in Riv. crit.
dir. priv., 1987, p. 429 ss.; TRIMARCHI, P., La responsabilità civile per danni all’ambiente: prime
riflessioni, in Amministrare, 1987, p. 189 ss.; TRIMARCHI BANFI, F., Danno privato e interesse
pubblico nella disciplina del danno ambientale, ivi, p. 201 ss.; COSTANZO, A. - VERARDI, C.M., La
responsabilità per danno ambientale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1988, p. 691 ss.; GIAMPIETRO, F.,
La responsabilità per danno all’ambiente, Profili amministrativi, civili e penali, Milano, 1988;
NOVARESE, F., La responsabilità civile per danno ambientale: differenti tesi per diverse ideologie,
in Riv. giur. amb., 1988, p. 13 ss.; MINERVINI, E., Danno ambientale e responsabilità «indivi-
duale», in Giur. it., 1988, IV, p. 29 ss.; TORREGROSSA, G., La tutela dell’ambiente: dagli interessi
diffusi al danno ambientale, in Cons. St., 1988, II, p. 1729 ss.; ALBAMONTE, A., Danni all’am-
biente e responsabilità civile, Padova, 1989; BIGLIAZZI GERI, L., Divagazioni sull’ambiente ed uso
della proprietà, in Proprietà, danno ambientale e tutela dell’ambiente, a cura di Barbiera, Na-
poli, 1989, p. 61 ss.; COMPORTI, M., Il danno ambientale, ivi, p. 169 ss.; POSTIGLIONE, A., Il
danno ambientale, ivi, p. 177 ss.; MADDALENA, P., Il danno ambientale, ivi, p. 183 ss.; LUMINOSO,
A., Sulla natura della responsabilità per danno ambientale, in Contr. impr., 1989, p. 894 ss.;
MOLLE, A., Il danno ambientale nella legge 349 del 1986, in Riv. dir. comm., 1989, p. 191 ss.;
OLIVIERI, G., Danno ambientale e tutela, in Dizionario di contabilità pubblica, a cura di Baret-
toni Arleri, Milano, 1989, p. 249 ss.; CARAVITA, B., Diritto pubblico dell’ambiente, Bologna,
1990, p. 359 ss.; FRANCARIO, L., Danni ambientali e tutela civile, Napoli, 1990; MOSCARINI, L.V.,
Responsabilità aquiliana e tutela ambientale, in Riv. dir. civ., 1990, p. 489 ss.; BARBIERA, L., Qua-
lificazione del danno ambientale nella sistematica generale del danno, in AA.VV., Il danno am-
bientale con riferimento alla responsabilità civile, cit., p. 111 ss.; BIGLIAZZI GERI, L., L’art. 18
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 699

tate unicamente allo scopo di poterne evidenziare adeguatamente la por-


tata sistematica che ai nostri fini di ricerca primariamente interessa.
Così – venendo al punto – la natura degli interessi tutelati mediante
l’azione di danno ambientale ha rappresentato uno dei passaggi obbligati
per la corretta ricostruzione della fattispecie e con essa il tema del ruolo
e della posizione giuridica da attribuire dallo Stato all’interno del mecca-
nismo di tutela nonché agli enti territoriali parimenti legittimati, nonché
ancora ai soggetti viceversa estromessi – se non integralmente, di certo in
maniera assai significativa – dall’area della legittimazione ad agire.
Per ciò che riguarda quest’ultimo profilo, infatti, la legge n. 349 del
1986 ha operato una scelta radicale, di recente confermata dal d.legisl.
n. 152 del 2006.
Stando al tenore letterale della norma, infatti, il singolo è rimasto
isolato e privo di potere di attivazione e tutela giurisdizionale, mentre per

della legge n. 349 del 1986 in relazione all’art. 2043 c.c., ivi, cit., p. 75 ss.; GIAMPIETRO, F.,
Azione di danno dello Stato e degli enti territoriali. Poteri di intervento in giudizio delle associa-
zioni ambientali, ivi, p. 171 ss.; LANDI, P., La tutela processuale dell’ambiente (art. 18 della legge
8 luglio 1986, n. 349), Padova, 1991; POSTIGLIONE, A., La responsabilità civile per danno am-
bientale nel quadro dell’unità della giurisdizione, in AA.VV., Il danno ambientale con riferi-
mento alla responsabilità civile, cit., p. 117 ss.; SPAGNA MUSSO, B., Riflessioni critiche in tema di
tutela civilistica dell’ambiente, in Rass. dir. civ., 1991, p. 837 ss.; TOMASSINI, R., Danno ambien-
tale e danno alla salute: imputazione ed entità del risarcimento, in AA.VV., Il danno ambientale
con riferimento alla responsabilità civile, cit., p. 139 ss.; BORGONOVO RE, D., Contributo allo stu-
dio del danno ambientale, in Riv. giur. amb., 1992, p. 257 ss.; FEOLA, D., L’art. 18 l. 349/1986
sulla responsabilità civile per il danno all’ambiente: dalle ricostruzioni della dottrina alle applica-
zioni giurisprudenziali, in Quadrimestre, 1992, p. 541 ss.; FRANZONI, M., Il danno all’ambiente,
in Contr. impr., 1992, p. 1015 ss.; POSTIGLIONE, A., Il danno alla salute e all’ambiente nella giu-
risprudenza e nella dottrina giuridica, cit., p. 582 ss.; CHINDEMI, D., Il danno ambientale, in
Nuova giur. civ. comm., 1993, II, p. 431; ALPA, G. - BESSONE, M. - CARBONE, V., Atipicità del-
l’illecito, III, Diritti reali, Tutela dell’ambiente, Milano, 1994, p. 149 ss.; SELVAGGI, S., Il danno
ambientale (nelle ricostruzioni della dottrina e nelle applicazioni della giurisprudenza, in Dir. e
giur., 1994, p. 88 ss.; SOMMA, A., La valutazione del danno ambientale: rilevanza pubblica della
lesione e categorie civilistiche, in Contr. impr., 1995, p. 524 ss.; in un ampia cornice comparati-
stica POZZO, B., Danno ambientale ed imputazione della responsabilità, Esperienze giuridiche a
confronto, Milano, 1996; ID., Danno ambientale, in Riv. dir. civ., 1997, p. 775 ss.; ID., Il danno
ambientale, Milano, 1998; TENELLA SILLANI, C., Responsabilità per danno ambientale, in Dig.
disc. priv., sez. civ., XVII, Torino, 1998, p. 359 ss.; DELL’ANNO, P., Manuale di diritto ambien-
tale, Padova, 2000, p. 166 ss.; PATTI, S., Danno ambientale (valutazione del), in Dig. disc. priv.,
sez. civ., Aggiornamento, Torino, 2000, p. 286 ss.; VIVANI, C., Il danno ambientale, Profili di di-
ritto pubblico, Padova, 2000; PANETTA, R., Il danno ambientale, Torino, 2003; POZZO, B., Am-
biente (Strumenti privatistici di tutela dell’), in Dig. disc. priv., sez. civ., Aggiornamento, Torino,
2003, p. 93 ss.; CARAVITA, B., Diritto dell’ambiente, Bologna, 2005, p. 305 ss.; FEOLA, D., La ti-
picità della responsabilità civile del danno ambientale ex art. 18 l. 349/1986, in Resp. civ. prev.,
2005, p. 238 ss.; SALANITRO, U., Il danno all’ambiente nel sistema della responsabilità civile, Ca-
tania, 2005.
700 CAPITOLO NONO

ciò che riguarda il momento organizzativo intermedio, la legge ha previ-


sto che le associazioni la cui rappresentatività è riconosciuta con decreto
ministeriale possano, in sede di giudizio amministrativo, agire per l’an-
nullamento del provvedimento, e, in relazione all’azione civile di risarci-
mento poc’anzi descritta, possano solo «sollecitare l’esercizio dell’azione
da parte dei soggetti legittimati» denunziando i fatti lesivi di beni am-
bientali di cui sono a conoscenza, nonché intervenire nel giudizio di
danno ambientale.
Il primo strumento di tutela giurisdizionale dell’ambiente presen-
tava, quindi, una disciplina particolarmente restrittiva sul piano della le-
gittimazione ad agire; e non a caso parte della dottrina subito osservava
come solo tre parole del legislatore fossero state sufficienti a destinare al
macero intere biblioteche47, intendendo con ciò rilevare e rimarcare una
«linea di tendenza […] univocamente diretta verso l’assorbimento del-
l’interesse diffuso nell’interesse pubblico, così come apprezzato e deter-
minato dall’ente pubblico che lo espone»; linea di tendenza, quindi, ido-
nea a destinare l’intero dibattito sugli interessi collettivi e diffusi «ad una
fase superata» della scienza civilistica, ed insieme con essa anche il tenta-
tivo di rivisitazione di «strumenti antichi», nonché di configurazione di
«strumenti nuovi» in ordine alla tutela di beni collettivi come l’am-
biente48.

3.3. Il mancato riconoscimento della legittimazione ad agire al singolo e


alle formazioni sociali: la critica della dottrina
Indipendentemente dalla minore o maggiore plausibilità di queste
conclusioni, va detto comunque che molte ed autorevoli voci della dot-
trina tanto pubblicistica che civilistica o processualcivilistica, oltre ad
avanzare critiche dirette a contestare altri profili della disciplina, hanno
colto proprio nella negata legittimazione ad agire individuale e/o collet-
tiva uno degli aspetti più deteriori della stessa se non quello maggior-
mente lontano dal garantire adeguate risposte alle reali esigenze sociali.
Più in particolare, le ragioni dell’ampio dissenso dottrinale circa la
sostanziale posizione di chiusura in punto di legitimatio ad causam pale-
sata dall’art. 18 hanno trovato fondamento in diversi ordini di considera-
zioni. Alcuni hanno denunciato tale disciplina come un «vero e proprio

47 VITUCCI, P., Protezione dell’ambiente e diritto privato, in Dir. e giur. agr. amb., 1993, I,
p. 11 ss.
48 VITUCCI, P., Protezione dell’ambiente e diritto privato, cit., p. 13
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 701

passo indietro»49 rispetto alle soluzioni giurisprudenziali in materia di


giustiziabilità ed accesso al giudizio dei nuovi interessi collettivi e diffusi;
altri hanno evidenziato – ritenendo chiaramente preferibile una conce-
zione tendente a configurare i singoli e la collettività come i veri soggetti
pregiudicati dall’illecito – la latente contraddizione insita nell’aver «con-
sacrato per la prima volta a livello istituzionale, […] uno specifico inte-
resse al mantenimento dell’integrità dell’ambiente in capo ad ognuno dei
consociati» a fronte della «contestuale limitazione […] prevista in ordine
alla legittimazione ad agire»50. In una prospettiva simile si è posto chi ha
duramente criticato la scelta di aver ricondotto l’attivazione del giudizio
e la conseguente tutela degli interessi pregiudicati all’interno delle maglie
tessute dalle scelte discrezionali politico-amministrative dello Stato51, evi-
denziando, per un verso, la volontà di «controllo» sull’iniziativa giudi-
ziale – nitidamente confermata non solo dalla legittimazione riservata allo
49 CENDON, P. - ZIVIZ, P., L’art. 18 della legge 349/86 nel sistema della responsabilità ci-

vile, cit., p. 521.


50 Così, ancora CENDON, P. - ZIVIZ, P., L’art. 18 della legge 349/86 nel sistema della re-

sponsabilità civile, cit., p. 521.


51 Sul punto, v., in particolare, POSTIGLIONE, A., L’azione civile in difesa dell’ambiente,

cit., p. 306, ma che ID., Il danno ambientale, cit., p. 179; MADDALENA, P., Il danno all’ambiente
tra giudice civile e giudice contabile, cit., p. 476; CARAVITA, B., Diritto pubblico dell’ambiente,
Bologna, 1990, p. 370 ss., che evidenzia come a fronte di una disciplina che assoggetta l’a-
zione ad un’«opzione politica», la scelta corretta sarebbe stata o l’iniziativa diffusa o l’accen-
tramento dell’iniziativa in capo ad un organo imparziale (difensore civico dell’ambiente). Per-
plesso circa l’eccessiva pubblicizzazione dell’azione anche RODOTÀ, S., Relazione introduttiva,
in AAVV., Il danno ambientale con riferimento alla responsabilità civile, cit., p. 11 ss., ma spec.
p. 15, in cui si evidenzia il carattere di «bene complesso» proprio dell’ambiente ed in parti-
colare la natura tendendenzialmente indifferente al carattere pubblico o privato dei singoli
oggetti che lo compongono; sulla stessa linea sembra porsi VISINTINI, G., Convegno su «il
danno ambientale con riferimento alla responsabilità civile», ivi, p. 235 ss., ma spec. p. 237 ss.;
NATOLI, U., Intervento, in Proprietà, danno ambientale e tutela dell’ambiente, cit., p. 158 s.;
VITUCCI, P., Protezione dell’ambiente e diritto privato, in Scritti in onore di Luigi Mengoni, t. 1,
Diritto civile, Milano, 1995, p. 933 ss., ma spec. p. 940 s. V. anche CARAVITA, B., Diritto del-
l’ambiente, Bologna, 2005, p. 310 ss., il quale afferma (p. 311) che «teoricamente non corretto
(lo Stato non è infatti titolare di alcun diritto sull’ambiente bensì solo di potestà) e fonte
quantomeno di gravi contraddizioni è l’accentramento in capo allo Stato della titolarità del ri-
sarcimento», rilevando tra l’altro, che, se si volesse accettare la prospettiva della diretta im-
putazione del bene in capo ad un soggetto di rilievo nazionale, detto soggetto «non è – per
quanto ancora valgono queste definizioni ottocentesche – lo stato-persona, bensì lo stato-col-
lettività, con la seguente riconduzione a esso non solo dello stato persona, ma anche di tutti
gli enti, gruppi, associazioni e singoli individui che alla collettività fanno riferimento». Sul
«controllo sociale» si ricordino le fondamentali osservazioni di NIGRO, M., Le due facce del-
l’interesse diffuso: ambiguità della formula e mediazioni della giurisprudenza, in Foro it., 1987,
V, p. 7 ss., spec. p. 12, sollecitate proprio dalla disciplina introdotta a tutela dell’ambiente con
la l’art. 18 della l. n. 349 del 1986; sul punto, v. retro, cap. III, nota 93.
702 CAPITOLO NONO

Stato o agli enti pubblici territoriali, ma anche dal previsto procedimento


di riconoscimento ministeriale delle associazioni ambientaliste legittimate
alla denuncia e all’intervento52 – e rilevando, dall’altro, nella disciplina
dell’art. 18, la rappresentazione legale del forte pregiudizio dimostrato
nei confronti della partecipazione dei singoli cittadini alla tutela dei beni
ambientali53.

52 POSTIGLIONE, A., L’azione civile in difesa dell’ambiente, cit., p. 317, per il quale «la in-

dividuazione (rectius “riconoscimento”) delle associazioni con decreto del Ministero dell’am-
biente è un errore giuridico e politico: giuridico, perché la legittimazione va controllata caso
per caso sul territorio della Magistratura, organo non politico; errore politico, perché il Mi-
nistero dell’ambiente sarà costretto a forme di mediazione improprie, sotto la spinta di forze
politiche diverse e perfino delle associazioni già consolidate, gelose di cedere spazio a nuovi
fenomeni associativi»; è in tale prospettiva che deve essere letto il suggerimento a che la ma-
gistratura ritenga non «costitutivi», ma meramente «dichiarativi» i decreti di riconoscimento
non esentando il giudice di operare una verifica del presupposto processuale in concreto;
così, infatti, si è orientata, come ricorderà l’attento lettore, la prevalente giurisprudenza del
Tar e del Consiglio di Stato (cfr. retro, cap. III, nota 95). Rilievi analoghi in TARUFFO, M., La
legittimazione ad agire e le tecniche di tutela nella nuova disciplina del danno ambientale, cit.,
p. 437. Sottolinea il pericolo insito in queste tendenze al controllo del pluralismo in punto di
legittimazione anche RESCIGNO, P., Conclusioni, in Proprietà, danno ambientale e tutela del-
l’ambiente, cit., p. 202.
53 Sul punto v., ancora, le fondamentali osservazioni di POSTIGLIONE, A., L’azione civile in

difesa dell’ambiente, cit., p. 315, ove si afferma: «lo sfavore con il quale si è guardato finora e
si continua a guardare all’azione del singolo cittadino a favore dell’ambiente si fonda su pre-
giudizi o formule di rito, mai sottoposti a critica obiettiva e realistica. La “stortura” istituzio-
nale di un ambiente affidato soltanto all’azione della P.A., dovrebbe ben più fondatamente
scandalizzare! Uno dei pregiudizi è che azione del singolo equivalga ad “azione popolare”,
avente carattere procuratorio, sostitutivo dell’azione degli organi pubblici. In verità il singolo
cittadino non esercita l’azione per altri, ma per sé; non fa valere in via eccezionale, un diritto
altrui, ma un diritto proprio (il diritto personale all’ambiente)»; ID., Il danno alla salute e al-
l’ambiente nella giurisprudenza e nella dottrina giuridica, cit., p. 583. Più di recente, v. ID., L’ac-
cesso alla giustizia per il diritto umano all’ambiente, in Seconda giornata per l’ambiente della
Corte Suprema di Cassazione (Roma, 6 ottobre 1999), a cura di A. Postiglione, Napoli, 2000, p.
24 ss., anche in Dir. giur. agr. amb., 2000, p. 77 ss. Per ulteriori osservazioni, da noi condivise,
in linea con quelle appena riportate, v. retro, cap. III, nota 102, cap. VI, nota 137, nonché an-
che retro, nota 39, la posizione di Maddalena, tendente a ricostruire gli interessi diffusi all’am-
biente come diritti diffusi, secondo una linea ricostruttiva propensa a far coincidere il diritto
soggettivo al bene collettivo con il diritto oggettivo; opzione interpretativa superata dall’A. nel
successivo lavoro Danno pubblico ambientale, cit., nel quale comunque, in una cornice rico-
struttiva assai complessa (su cui v. infra in nota e nel testo) viene ad essere criticata l’opzione
legislativa espressa dall’art. 18 della legge 349/86, tendente ad escludere l’azione del singolo e
delle associazioni rappresentative. Sul punto cfr. anche ID., Il danno ambientale, cit., p. 184-
185. Si tenga presente, inoltre, la posizione di DELL’ACQUA, C., Lo Stato, gli enti territoriali, e
le associazioni, in Danno ambientale e tutela giuridica (legge 8 luglio 1986 n. 349), cit., p. 15 ss.,
ma spec. 16, ove si censura la soluzione positiva prescelta in tema di legittimazione in ragione
della contrapposizione ideologica tra i risultati ottenuti in sede di giurisprudenza amministra-
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 703

Altri ancora, infine, in riferimento alla posizione delle associazioni


ambientaliste, dopo aver richiamato l’attenzione sull’«alquanto miste-
riosa» categoria giuridica della «sollecitazione», prevista appunto dalla
norma in ordine al potere di denuncia a queste attribuito, hanno nella
stessa rilevato la forte incidenza del «pregiudizio dogmatico» derivante
dall’estensione delle categorie costruite sulle situazioni soggettive indivi-
duali alle situazioni a titolarità diffusa e consistente «nel ritenere che la
legittimazione ad agire debba spettare esclusivamente al soggetto che si
configura come titolare della situazione giuridica bisognosa di tutela, e
che come tale è il destinatario diretto degli effetti della sentenza»54.
Dalle riflessioni dottrinali ora richiamate, emergeva insomma una
frattura tra la scelta concretamente operata dal legislatore italiano per ap-
prestare una tutela anche civilistica del bene ambiente e il precedente di-
battito dottrinale e giurisprudenziale in materia di tutela dei beni am-
bientali e, più in generale, degli interessi collettivi e diffusi; dibattito che,
seppur non sempre omogeneo nelle soluzioni tecniche auspicate o nelle
propensioni lato sensu ideologiche palesate, comunque trovava il suo nu-
cleo vitale nell’imperativo della maggiore partecipazione della persona –
vuoi, per alcuni, singola e associata, vuoi, per altri, prevalentemente o
solo associata – agli strumenti di tutela giurisdizionale degli emergenti
valori e beni collettivi.

tiva, rivolta ad «individuare l’adeguato portatore processuale di interessi ambientali a dimen-


sione collettiva e diffusa – anche attraverso una rilettura in chiave esclusivamente individuali-
stica degli artt. 24 e 113 Cost.» e la scelta legislativa che «sembra seguire la via opposta dell’e-
sclusiva imputazione allo Stato del bene-ambiente»; in particolare si rileva il conflitto tra due
opposte concezioni del bene ambiente: da un lato quella pluralistica prevista all’art. 1 della
legge, inteso come «interesse a dimensione superindividuale», come «luogo privilegiato di in-
contro-scontro di svariati interessi, sia pubblici che privati», dall’altro quella statocentrica
emergente dalla legittimazione riconosciuta all’art. 18, in cui «l’individuazione dello Stato
come principale se non esclusivo soggetto leso è rivelatrice di una particolare concezione del
bene ambiente, inteso come bene pubblico imputabile in via diretta allo Stato-persona»; l’ille-
cito ambientale, difatti, «pare tradursi non tanto nella violazione di un interesse pubblico – ca-
tegoria la cui omogeneità tecnico-giuridica è da tempo contestata in dottrina – quanto nella le-
sione di un vero e proprio diritto subbiettivo pubblico». Da ciò deriva la forte critica della dot-
trina da ultimo richiamata, secondo cui detta soluzione appare «una evidente forzatura, perché
potrebbe escludere in molti casi da ogni tutela giudiziaria proprio i soggetti – spesso privati –
più direttamente colpiti dal comportamento lesivo». Ancora critici sulla mancata previsione di
una legittimazione ad agire diffusa, cfr. anche DEL REGNO MONTAGNA, M.R., La partecipazione
del cittadino, in Danno ambientale e tutela giuridica (legge 8 luglio 1986 n. 349), cit., p. 81 ss.;
DE TILLA, M., Lo Stato e il cittadino, ivi, p. 85 ss.; LUBRANO DI RICCIO, G., Danno pubblico am-
bientale, ivi, p. 89 ss.
54 TARUFFO, M., La legittimazione ad agire e le tecniche di tutela nella nuova disciplina

del danno ambientale, cit., p. 432 e 433, ma sulla posizione dell’A. v. anche infra, nota 57.
704 CAPITOLO NONO

Ciò premesso, peraltro, tra tutte le posizioni critiche appena richia-


mate, poche si sono rivolte alla ricerca di soluzioni in grado di ricomporre
tale vistosa frattura; di queste, talune si sono orientate a favore dell’illegit-
timità costituzionale della norma55 e pochissime hanno tentato di superare
in via interpretativa la stretta perimetrazione dell’area dei legittimati56.
In quest’ultimo senso va sicuramente segnalata la posizione di quella
parte della dottrina processualcivilistica che sin dall’introduzione della
norma ha dato pieno rilievo ricostruttivo alla titolarità diffusa dell’inte-
resse tutelato; questione da più voci rimarcata, ma fondamentalmente al
solo scopo di meglio precisare la posizione giuridica attribuita allo Stato
in sede di giudizio di danno ambientale e non anche in ordine all’am-
pliamento della cerchia dei legittimati ad agire.

55 Con particolare riferimento alla posizione della associazioni, v. FRANCARIO, L., Il ri-
sarcimento del danno all’ambiente dopo la legge 349 del 1986, cit., p. 490, per il quale «desta
notevoli perplessità» la scelta del riconoscimento governativo delle associazioni dotate di po-
teri di intervento e di impugnazione in sede di giudizio amministrativo, risultando così, «sfor-
niti di tutela in sede civile gli interessi diffusi che si addensino sul bene ambiente danneg-
giato», nonché anche «privi di qualsiasivoglia ruolo attivo quegli interessi collettivi facenti
capo ad associazioni a carattere locale, zonale o regionale che il più delle volte hanno mag-
giormente a cuore le sorti del territorio, delle acque e degli altri beni ambientali esistenti nella
zona in cui sono presenti»; ID., Danni ambientali e tutela civile, cit., p. 269, dove si profila l’il-
legittimità di detta limitazione; LIBERTINI, M., La nuova disciplina del danno ambientale e i pro-
blemi generali del diritto dell’ambiente, cit., p. 577, e poi (p. 584), con particolare riguardo
alla limitazione in sede di legittimazione ad agire delle associazioni; MADDALENA, P., Il danno
all’ambiente tra giudice civile e giudice contabile, cit., p. 476-477; ID., Danno pubblico ambien-
tale, cit., p. 221-222; si vedano anche le acute osservazioni di BERTI, G., Il rapporto «ambien-
tale», p. 178 ss., in cui si osserva come il configurare un diritto soggettivo di titolarità statale
nei confronti dei consociati costituirebbe «una patente deviazione dalla prospettiva disegnata
dall’art. 9 Cost.», nonché «la riapparizione dello Stato persona nella veste di depositario e tu-
tore di ogni valore o bene costituzionale»; al contrario, per l’autorevole studioso, «l’art. 18
può venir assolto come tentativo di semplificare un problema molto complesso», dovendosi,
per un verso, ritenere l’interesse collettivo da risarcire più propriamente come «addizione di
[…] pressoché infinite posizioni individuali» e, per l’altro, ritenere che «l’interesse pubblico
in quanto tale si soddisfa […] con mezzi pubblici, e cioè con provvedimenti e con sanzioni
penali e amministrative»; più di recente, v. CARRATTA, A., Profili processuali della tutela degli
interessi collettivi e diffusi, in La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, cit.,
118, critico in riferimento all’esclusione dall’area della legittimazione ad agire tanto dei sin-
goli cittadini, che delle associazioni ambientaliste riconosciute.
56 Alle posizioni che richiamiamo nel testo vanno aggiunte le tesi di coloro che, anziché

operare letture costituzionalizzatrici dell’art. 18, hanno preferito ritenere che, anche in pre-
senza di detta disposizione, potessero ricevere tutela in via autonoma interessi e beni distinti
rispetto a quelli direttamente tutelati dall’azione pubblica di danno ambientale. Il riferimento
è in particolar modo rivolto alle tesi sostenenti la legittimazione delle associazioni ambienta-
liste a far valere in giudizio l’interesse collettivo differenziato delle collettività circoscritte; tesi
di cui si dà conto infra, § 4.2.5.
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 705

Ci riferiamo alla dottrina che ha acutamente evidenziato, per un


verso, la necessaria corrispondenza – costituzionalmente garantita – tra la
titolarità dell’interesse tutelato e i soggetti legittimati all’esercizio del-
l’azione57 e, dall’altro, l’errore insito nella «sopravvalutazione concet-
tuale» dell’impiego della tecnica risarcitoria58.
Più precisamente di questa opzione ricostruttiva vanno esaminati i
seguenti punti.
Innanzitutto sono stati messi in luce, tanto l’opportunità di superare
possibili concezioni «dominicali» e «proprietarie» riguardo al bene tute-
lato, quanto il preferibile confronto con la tecnica risarcitoria adottata
dal legislatore al riparo da letture rivolte ad esagerarne la valenza siste-
matica, rivelandosi – la stessa – semplicemente un espediente tecnico di
tutela del bene a fruizione collettiva.
In secondo luogo si è evidenziato il diverso rapporto intercorrente
tra, da un lato, le due distinte tecniche di tutela previste dalla norma,
quella risarcitoria e quella ripristinatoria, e, dall’altro, gli interessi tute-
lati; precisando – così – la funzione prevalentemente sanzionatoria e (in
quanto tale) preventiva del risarcimento del danno59 e, di contro, la fun-
zione più direttamente riparatoria dell’obbligo di ripristino.
Seguendo questa via, dunque, la dottrina qui richiamata ha soste-
nuto la legittimazione a far valere in giudizio il diritto al risarcimento
anche da parte dei privati (in forma singola o associata)60, e al contempo

57 TARUFFO, M., La legittimazione ad agire e le tecniche di tutela nella nuova disciplina

del danno ambientale, cit., p. 434, sulla corrispondenza tra titolare dell’interesse sostanziale e
legittimato ad agire, ma poi, ancor più incisivamente (cfr. p. 438), sulla titolarità individuale
dell’interesse tutelato e sulla garanzia giurisdizionale dell’azione ex art. 24 Cost. a favore del
titolare dell’interesse materiale leso.
58 TARUFFO, M., La legittimazione ad agire e le tecniche di tutela nella nuova disciplina

del danno ambientale, cit., p. 434; nello stesso senso si è orientato POSTIGLIONE, A., Il danno
alla salute e all’ambiente nella giurisprudenza e nella dottrina giuridica, cit., p. 586-587, alla cui
posizione ci riferiremo tra breve, ma che riguardo questo punto specifico, in diretto rife-
rimento all’intervento della Corte costituzionale nella sentenza n. 210/87, osserva che «la
prevista destinazione del risarcimento “a favore dello Stato” non va confusa con il tema ge-
nerale della legittimazione processuale, nel senso di una pretesa legittimazione esclusiva della
P.A.»; ugualmente orientati, OLIVIERI, G., Danno ambientale e tutela, cit., p. 263; DI COLA, L.,
La tutela dell’ambiente, in La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, cit., 277-
278.
59 TARUFFO, M., La legittimazione ad agire e le tecniche di tutela nella nuova disciplina

del danno ambientale, cit., p. 435.


60 Così, TARUFFO, M., La legittimazione ad agire e le tecniche di tutela nella nuova disci-

plina del danno ambientale, cit., p. 434 s. e 439.


706 CAPITOLO NONO

l’azionabilità della pretesa ripristinatoria, idonea – quest’ultima – a gio-


vare direttamente ai veri soggetti pregiudicati dall’illecito61.
Nello stesso senso si è poi orientata una delle voci che all’interno del
dibattito in materia di interessi ambientali ha da sempre dimostrato
profonda sensibilità nei riguardi della dimensione personale dell’inte-
resse tutelato.
Più in particolare, questa tesi ha ritenuto pienamente, e soprattutto
costituzionalmente, compatibile con l’art. 18 della legge 349 del 1986 an-
che la legittimazione ad agire della singola persona e delle associazioni che
ne rappresentano la dimensione sociale; e ciò sulla base delle seguenti ar-
gomentazioni: a) la rilevanza costituzionale dell’interesse – primario e as-
soluto – alla salvaguardia all’ambiente configurabile nella doppia dimen-
sione e prospettiva del «diritto fondamentale della persona» e dell’«inte-
resse fondamentale della collettività»62; b) la mancanza di un titolo di
appartenenza del bene tutelato in capo allo Stato63; c) la competenza del
giudice civile ordinario, giudice dei diritti soggettivi e non dei semplici in-
teressi; d) il mancato inserimento della qualificazione originariamente pre-
sente nel testo del disegno di legge sull’istituzione del Ministero dell’am-
biente, in cui il danno ambientale era espressamente definito «pubblico»;
circostanza quest’ultima idonea a confermare la coesistenza di una du-
plice rilevanza – pubblica ma anche privata – dell’ambiente64.
Tutti argomenti, dunque, in grado di presentare il danno ambientale
«come danno alla collettività e come danno alla persona; lesione di un in-
teresse generale e lesione di un diritto soggettivo (diritto all’ambiente)»,
ovvero «due facce – come efficacemente evidenziato – della stessa me-
daglia»65.

61 TARUFFO, M., La legittimazione ad agire e le tecniche di tutela nella nuova disciplina


del danno ambientale, cit., p. 440. Sembrerebbe che l’autorevole dottrina ora richiamata con-
figuri l’azione diffusa o collettiva rivolta alla condanna al risarcimento del danno come un’i-
potesi di sostituzione processuale; ciò emerge laddove l’A. (p. 434 e 439) precisa che detti le-
gittimati non sono i diretti destinatari della sentenza, ma anche allorché (p. 436 e 440) viene
precisata la possibilità di configurare l’azione di ripristino come perfettamente autonoma ri-
spetto quella di danno.
62 POSTIGLIONE, A., Il danno alla salute e all’ambiente nella giurisprudenza e nella dot-
trina giuridica, cit., p. 586, in stretto riferimento alla posizione della Corte costituzionale
espressa nelle due sentenze n. 210 e 641 del 1987 (su cui cfr. infra, nota 82).
63 POSTIGLIONE, A., Il danno alla salute e all’ambiente nella giurisprudenza e nella dot-
trina giuridica, cit., p. 584 e 587.
64 POSTIGLIONE, A., Il danno alla salute e all’ambiente nella giurisprudenza e nella dot-
trina giuridica, cit., p. 589.
65 Così, condivisibilmente, POSTIGLIONE, A., Il danno alla salute e all’ambiente nella giu-
risprudenza e nella dottrina giuridica, cit., p. 583.
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 707

3.4. L’interesse tutelato: natura e titolarità


3.4.1. Le concezioni soggettive della tutela: tesi propriamente pubblicistiche
e privatistiche-collettivistiche
Chiarite le critiche, le denunce di incostituzionalità, nonché i tenta-
tivi di correzione interpretativa, è ora possibile avvicinarsi a quell’ampio
ed interessantissimo dibattito scientifico che ha cercato di dare più ap-
propriata veste giuridica alla posizione processuale e sostanziale riservata
dalla norma in esame allo Stato.
Anche qui, infatti, un po’ come è stato per la riflessione dottrinale
emersa in sede di interpretazione dell’azione di repressione della con-
dotta antisindacale, i numerosi contributi interpretativi hanno disegnato
un quadro estremamente vario di opzioni ricostruttive, il cui rilievo teo-
rico può emergere, con tutta la sua evidenza, proprio ora che la confi-
denza con il tema degli interessi sovraindividuali oltre che con il tema
della tutela dell’ambiente dovrebbe aver raggiunto un buon grado di ma-
turazione. E ciò fondamentalmente per il fatto che, se, per un verso, pre-
senta notevole difficoltà e necessita di particolare attenzione il procedere
ad una classificazione delle diverse tesi proposte, specie in relazione alla
loro talora apparente omogeneità concettuale, dall’altro, si rivela somma-
mente importante approfondire questo particolare aspetto del più gene-
rale itinerario di riflessione scientifica sugli interessi sovraindividuali, non
solo per cogliere le differenze più vistose, ma anche per porre in risalto
quelle difformità di impostazione teorica che, seppur più modeste,
spesso portano con loro ricadute teoriche e pratiche di primo rilievo in
ordine alla determinazione dell’oggetto del giudizio, della titolarità degli
interessi sostanziali tutelati e della conseguente legittimazione ad agire.
Detto questo, è fuor di dubbio che la via più piana per avviare l’in-
dagine è costituita dal presentare quale prima opzione ricostruttiva
quella sicuramente più rispondente ad una chiave di lettura tradizionale,
o, più correttamente, ispirata alla chiave di lettura tradizionale par excel-
lence: l’ottica proprietaria.
Questa linea interpretativa ha rilevato nella legittimazione dello Stato
e nel suo essere l’espresso destinatario della somma liquidata a ristoro del
danno ambientale il riconoscimento normativo di un diritto sul bene, di-
ritto appunto leso dal comportamento antigiuridico e dunque giustifi-
cante il risarcimento del danno subito. Sebbene, poi, tale rappresenta-
zione abbia costituito lo sfondo lato sensu culturale di molte delle opzioni
che hanno sic et sempliciter riconosciuto in capo allo Stato il diritto al ri-
sarcimento del danno in virtù della natura pubblica dell’interesse tutelato,
708 CAPITOLO NONO

d’altro canto, la sua espressione più «pura» si rinviene di certo nella dot-
trina che ha ritenuto opportuno individuare tra lo Stato e il territorio «un
rapporto giuridico di natura reale» in cui il potere dello Stato nei riguardi
dello stesso possa essere considerato «analogo alla facoltà di un soggetto
privato di godere del bene secondo i propri bisogni»66.
Il fine primo della tutela apprestata dalla norma sarebbe stato,
quindi, «più l’interesse patrimoniale proprio dello Stato (interesse pub-
blico) che quello formale della vivibilità e dell’integrità fisica del citta-
dino», ricevendo, di contro, «l’interesse della collettività al risarcimento
del danno […] una tutela traslata e riflessa rispetto ad esso»67.
Accogliendo – dunque – la posizione or ora riportata come punto di
partenza, già si avverte uno scostamento da essa nel passare all’esame
delle tesi che, evidenziando una nozione di ambiente come bene giuridico
autonomo, sintesi di diversi elementi naturali68, hanno configurato que-
st’ultimo come bene pubblico, ravvisando in capo allo Stato, quale rap-
presentante della collettività intera, un diritto soggettivo proprio, avente
come contenuto la conservazione e la salvaguardia dell’ambiente69.
66 Così TISCI, G., Azione di risarcimento ed intervento delle associazioni nel giudizio ci-
vile, in Danno ambientale e tutela giuridica (legge 8 luglio 1986 n. 349), cit., p. 7 ss., ma cit., a
p. 8 ss.; in termini simili per ciò che riguarda il riconoscimento di un diritto reale in capo allo
Stato avente ad oggetto il suo territorio e non «un diritto esercitato quale soggetto esponen-
ziale della collettività», cfr. CUTRERA, Relazione conclusiva, ivi, p. 111 ss., ma spec. p. 115;
MORBIDELLI, G., Il danno ambientale nell’art. 18, l. 349/1986, cit., p. 611, in cui si afferma:
«titolare del diritto sul bene ambientale, è lo Stato»; in una prospettiva assai simile si colloca
TRIMARCHI, P., La responsabilità civile per danni all’ambiente: prime riflessioni, cit., p. 190, in
cui si osserva come «la norma in esame tende a realizzare, in qualche misura, un assoggetta-
mento delle risorse naturali ad un regime simile a quello dei beni in proprietà, poiché attri-
buisce allo Stato una prerogativa del proprietario: quella di pretendere il risarcimento dei
danni arrecati all’ambiente».
67 Ancora TISCI, G., Azione di risarcimento ed intervento delle associazioni nel giudizio
civile, in Danno ambientale e tutela giuridica (legge 8 luglio 1986 n. 349), cit., p. 8 ss. Come
giustamente osserva GRASSO, E., La tutela giurisdizionale dell’ambiente, cit., p. 509, stando a
questa tesi, «la fruizione del bene da parte della collettività […] rappresenterebbe solo un
dato di fatto, restando ferma la titolarità (“appartenenza”) dell’ente pubblico».
68 GIAMPIETRO, F., La responsabilità per danno all’ambiente, cit., p. 334, che parla del
danno all’ambiente come «danno pubblico» determinato dall’«aggressione ad un bene pub-
blico immateriale, insuscettibile di appropriazione e pertinente allo Stato-persona come ente
rappresentativo della collettività nazionale»; ID., Danno all’ambiente e legittimazione al giudi-
zio dello Stato, degli enti territoriali e delle associazioni protezionistiche, cit., p. 542; ID., Azione
dello Stato e degli enti territoriali. Poteri di intervento in giudizio delle associazioni ambientali,
in Il danno ambientale con riferimento alla responsabilità civile, cit., p. 171; SPAGNA MUSSO, B.,
Riflessioni critiche in tema di tutela civilistica dell’ambiente, cit., p. 839; ALBAMONTE, A., Danni
all’ambiente e responsabilità civile, cit., p. 14 ss.
69 SPAGNA MUSSO, B., Riflessioni critiche in tema di tutela civilistica dell’ambiente, cit.,

spec. p. 840 ss.; similmente, ALBAMONTE, A., Danni all’ambiente e responsabilità civile, cit., p. 15.
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 709

In queste tesi, infatti, oltre ad emergere la diversa natura conserva-


tiva e non appropriativa dell’interesse tutelato, è emerso anche uno degli
elementi più significativi in ordine all’opera di classificazione delle di-
stinte posizioni, ossia la funzione di rappresentanza della collettività da
parte dello Stato.
Questo aspetto funzionale è stato posto in risalto da molte voci dot-
trinali; e ciò tendenzialmente allo scopo di evitare una configurazione
puramente, oltre che tradizionalmente, individualistica dello Stato e de-
gli interessi che esso persegue. Ciononostante, il «peso specifico» che
detta questione ha rivestito all’interno delle tesi dottrinali orientate ad
accoglierla, specie per quel che attiene all’operazione di ricostruzione
formale più propriamente giuridica, non è stato sempre il medesimo.
Così, nelle tesi appena riportate la collettività è rimasta abbandonata
sullo sfondo70, rimanendo il bene tutelato e l’interesse ad esso rivolto sem-
plicemente «pubblico», ovvero rimesso interamente nelle mani dello Stato.
Peraltro, ciò è valso anche per altre posizioni ugualmente propense
a distinguere tra collettività e Stato ed in particolare per quegli Autori,
che, pur negando, da un lato, la possibilità di ipotizzare l’esistenza di un
diritto soggettivo pubblico riguardo all’ambiente71, dall’altro, hanno as-
sunto quale fulcro della ricostruzione le potestà attribuite allo Stato e agli
altri Enti pubblici in materia ambientale.
70 Non è un caso, ad esempio, che SPAGNA MUSSO, B., Riflessioni critiche in tema di tu-
tela civilistica dell’ambiente, cit., p. 840, spec. nota 17, in contrapposizione con le tesi che su
analoghe basi argomentative pongono la distinzione tra Stato-persona e Stato-collettività allo
scopo di sostenere la proprietà collettiva del bene ambiente (il riferimento è chiaramente a
Maddalena, sulla cui posizione avremo occasione di ritornare tra breve), sostenga che «in re-
lazione all’ambiente, come bene di spettanza di una collettività c.d. primaria o meglio ancora
dell’intera collettività, non sia identificabile in modo autonomo una figura di proprietà col-
lettiva […] e che debba discorrersi di bene necessariamente pubblico ove cioè vi è una piena
corrispondenza tra lo Stato quale organizzazione politica ed ente esponenziale della (intera)
collettività e la collettività stessa». In altri termini l’A. concorda con l’opinione che vede nello
Stato l’ente esponenziale della collettività, condivide il fatto che l’interesse tutelato non abbia
la stessa natura dell’interesse individuale dello stesso Stato al suo patrimonio, ma, di contro,
non ritiene plausibile individuare un regime del bene ambiente diverso da quello tipico dei
beni pubblici e non attribuisce alcun rilievo ricostruttivo alla posizione della collettività ri-
guardo la tutela di tale interesse.
71 In particolare, v. GRECO, G., Danno ambientale e tutela giurisdizionale, cit., p. 530-
531, ma v. anche p. 532, ove si osserva che riguardo alla configurazione di tale diritto sogget-
tivo dello Stato all’ambiente, il «fondamento normativo non può essere rinvenuto […] nel-
l’art. 18 […]. E ciò per la saliente ragione che la sussistenza del diritto soggettivo deve desu-
mersi dalle norme che disciplinano il lecito e non l’illecito»; osservazioni, queste ultime
riportate, che rivelano la già nota propensione a configurare il concetto di diritto soggettivo
in senso attivo e appropriativo e non in senso meramente negativo e più propriamente con-
servativo (cfr. retro, cap. V). Sul punto, cfr. anche LIBERTINI, M., La nuova disciplina del danno
ambientale e i problemi generali del diritto dell’ambiente, cit., spec. p. 571.
710 CAPITOLO NONO

Si è osservato a tal proposito, che «nel diritto soggettivo l’interesse fa


capo proprio al soggetto, che ne è titolare, mentre nelle potestà l’interesse
non fa capo al soggetto agente, sibbene […] alla generalità dei consociati»,
rispetto al cui interesse detta potestà si colloca in «posizione servente»72.
Secondo questa impostazione sarebbe proprio la potestà ammini-
strativa a costituire il fondamento giuridico del risarcimento del danno,
costituendo questa la «cinghia di trasmissione» tra illecito ambientale e
pregiudizio economico73; si verificherebbe, in altri termini, a fronte di un
pregiudizio arrecato al bene ambiente, un’ipotesi di «danno indiretto»
allo Stato derivante dalla compromissione di un bene non proprio (e più
precisamente «adespota»), ma rispetto al quale è prevista la doverosa at-
tività di tutela da parte dello stesso Stato74.
Così ragionando, quindi, l’interesse della collettività, pur rilevante sul
piano giuridico ai fini dell’attribuzione della potestà amministrativa all’ente
pubblico, perderebbe per altro verso rilievo in ordine all’interpretazione
della norma sul danno ambientale, il cui contenuto di tutela sarebbe ri-
volto non verso l’interesse – vuoi adesposta o collettivo – all’ambiente (ma-
gari anche soggettivizzato nello Stato in ordine all’attribuzione allo stesso
di un diritto soggettivo), ma verso l’interesse individuale dell’ente pubblico
a non vedersi danneggiato patrimonialmente dall’aggravarsi della sua con-
dizione finanziaria in virtù dell’obbligo di attivarsi in ordine al ripristino
o al mantenimento della condizioni ambientali pregresse all’illecito.
Lo schermo innalzato tra ambiente e collettività passerebbe, quindi,
non solo e non tanto – come in altre tesi – attraverso la soggettivazione
dell’interesse alla conservazione e alla salvaguardia dell’ambiente in capo
allo Stato, ma piuttosto attraverso la creazione di una posizione giuridica
strumentale (la potestà) e di un interesse giuridico strumentale (quello
patrimoniale-finanziario) rispetto a detto interesse.
Il ruolo di ente esponenziale attribuito allo Stato riguardo all’inte-
resse collettivo all’ambiente ha assunto, invece, tutt’altro significato al-
l’interno delle tesi che, alla luce di questa osservazione interpretativa,
72 GRECO, G., Danno ambientale e tutela giurisdizionale, cit., p. 531, riprendendo tesi
già avanzate in L’illecito degrado dell’ambiente ed il problema del risarcimento dei danni subiti
dagli enti pubblici (titolari di potestà e non di diritti su quel bene), in Impr. amb. pubbl. amm.,
1981, p. 453 ss.
73 GRECO, G., Danno ambientale e tutela giurisdizionale, cit., p. 533.
74 GRECO, G., Danno ambientale e tutela giurisdizionale, cit., p. 534 s.; sembrano nella
sostanza aderire a questa tesi, sebbene all’interno di un apparato argomentativo complesso
che non può in questa sede essere riproposto, LIBERTINI, M., La nuova disciplina del danno
ambientale e i problemi generali del diritto dell’ambiente, cit., spec. p. 571; TRIMARCHI BANFI,
F., Danno privato e interesse pubblico nella disciplina del danno ambientale, cit., p. 206 ss.; ed
anche BORGONOVO RE, D., Contributo allo studio del danno ambientale, cit., spec. p. 284.
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 711

hanno ritenuto che la collettività stessa e non lo Stato sia il vero «sog-
getto» danneggiato dal comportamento lesivo75.
In questa prospettiva, la qualificazione del danno – e con essa la na-
tura dell’azione – da «pubblica» si è progressivamente orientata verso
«collettiva»76, «sociale»77, o addirittura «privata»78 e la legittimazione at-
75 Cfr. in particolare gli AA. citati nelle note che seguono.
76 MOSCARINI, L.V., Responsabilità aquiliana e tutela ambientale, p. 500; LUMINOSO, A.,
Sulla natura della responsabilità per danno ambientale, cit., p. 901, che preferisce tale qualifica-
zione a quella pubblica, «essendo arbitraria una aprioristica assimilazione o peggio una identi-
ficazione tra (bene o interesse) “collettivo” e (bene o interesse) “pubblico”, ed essendo ancora
tutta da chiarire la collocazione sistematica delle situazioni (giuridiche) soggettive collettive in
genere e quella dell’interesse collettivo all’ambiente in particolare»; FRANZONI, M., Il danno al-
l’ambiente, cit., p. 1016, che tende ad utilizzare il termine «pubblico» e «collettivo» con una
certa fungibilità, ma che al di là delle formule verbali rende chiara l’impostazione seguita lad-
dove si riferisce espressamente al «danno collettivo» come ad una «forma di lesione della quale
si può fare portatore un soggetto che solo per le sue funzioni esponenziali può assumere la le-
gittimazione attiva nel processo» intendendo con ciò «non […] la tutela risarcitoria di una vio-
lazione riferibile ad uno schema proprietario, bensì la tutela risarcitoria contro la lesione di un
bene o di un interesse di natura collettiva». Si tengano presenti, tra l’altro, le osservazioni di
TARUFFO, M., La legittimazione ad agire e le tecniche di tutela nella nuova disciplina del danno
ambientale, cit., p. 433, che in chiave critica rispetto alla possibilità di ritenere il bene ambiente
di appartenenza dello Stato osserva, che così argomentando, «viene dimenticata la distinzione
tra interessi pubblici ed interessi diffusi, che come è noto non verte sull’oggetto dell’interesse,
pur sempre costituito da beni di rilevanza generale, ma dalla diversità dei soggetti cui sono im-
putabili le situazioni giuridiche che li riguardano». Per AMATO, A., Le azioni delle associazioni
nei giudizi di danno ambientale, in Dir. giur. agr. e amb., 1995, p. 337, gli interessi tutelati non
sono «stricto sensu pubblici, nel senso di interessi riferibili alla collettività in generale (ovvero
comuni a una generalità di persone), né tanto meno privati, pertinenti cioè a particolari cate-
gorie di individui, bensì interessi riferibili contemporaneamente vuoi alla collettività, vuoi ai
singoli componenti». «Trattasi di interessi – si prosegue – non interpretabili nel senso di “ap-
partenenza” ad un soggetto, ma riferibili e imputabili “indifferenziatamente” a tutti i compo-
nenti della collettività, intesa quest’ultima in senso non unitario ma come insieme di tutte le
posizioni soggettive e individuali che la compongono». Cfr., anche CARAVITA, B., Diritto pub-
blico dell’ambiente, cit., p. 374; ID., Diritto dell’ambiente, cit., p. 311.
77 Così, POSTIGLIONE, A., L’azione civile in difesa dell’ambiente, cit., p. 311, che osserva:

«l’azione civile per il risarcimento e il ripristino del danno ambientale può essere definita
“azione civile pubblica” se si tiene conto della natura pubblica dei soggetti legittimati ad eser-
citarla davanti ai giudici ordinari (Stato ed enti territoriali) e della destinazione del risarci-
mento (a favore dello Stato in quanto entrata patrimoniale del medesimo). Ma, a ben vedere,
la natura pubblica dell’azione deriva non tanto dai soggetti che la esercitano quanto dalla ma-
teria alla quale si riferisce. Se si ammette che la singola persona o una associazione possa agire
davanti al giudice civile per il ristoro della danno all’ambiente, deve riconoscersi che la loro
“azione” non diventa per ciò stesso “privata”: l’ambiente è un bene collettivo, come tale in-
divisibile nella sua fruizione sociale, sicché la sua tutela giova alla generalità dei soggetti inte-
ressati. La natura “pubblica” (o meglio “sociale”) dell’azione sarebbe ulteriormente eviden-
ziata, se si riconoscesse che un organo indipendente della Magistratura potesse esercitarla».
78 MOSCARINI, L.V., Responsabilità aquiliana e tutela ambientale, p. 500.
712 CAPITOLO NONO

tribuita al massimo ente rappresentativo della collettività nazionale ha as-


sunto tutt’altra dimensione. Una dimensione, peraltro, non più piana-
mente compatibile con l’attribuzione esclusiva (o quasi) dell’esercizio
dell’azione prevista dall’art. 18 della legge n. 349/86.
Non è casuale, infatti, che molte delle tesi propense a seguire questa
distinta prospettiva siano state le stesse – prima esaminate – rivolte a so-
stenere o l’incostituzionalità della norma o la necessità di procedere ad
una lettura costituzionalizzatrice della stessa nel senso del riconosci-
mento del diritto di azione anche in capo alle associazioni ambientaliste
oltre che ai singoli privati79.

79 Se, difatti, come detto nel testo, si getta uno sguardo a quali siano gli AA. che aderi-

scono all’impostazione ricostruttiva in esame (cfr. le note che precedono), si nota come molti
di questi appartengano all’orientamento schieratosi a favore dell’incostituzionalità della
norma o a favore di una lettura costituzionalmente orientata della stessa. In tutte queste po-
sizioni, infatti, è dato rilevare una tendenziale distinzione tra il momento della configurazione
o meglio dell’apprezzamento di questi interessi sul piano pregiuridico ed il successivo mo-
mento della giuridicizzazione degli stessi. E procedendo, in questo senso, le tesi in esame,
dopo aver riferito – sul primo piano indicato – gli interessi ai singoli membri della collettività,
ravvisano nell’attribuzione in via esclusiva della legittimazione ad agire allo Stato – e dunque
sul susseguente piano della giuridicizzazione – un elemento di incongruità tale da porsi in
contrasto con i precetti costituzionali. Contra, OLIVIERI, G., Danno ambientale e tutela, cit.,
spec. p. 254 ss. (a cui aderisce LANDI, P., La tutela processuale dell’ambiente, cit., p. 38 ss.),
che, dopo aver accolto la posizione espressa da Fazzalari in materia in necessaria soggettiva-
zione degli interessi diffusi (questione da noi già esaminata retro, al cap. III, § 3.4.1.3.1.) e
dopo aver rilevato che «l’esigenza di tutela dell’ecosistema è un esigenza meritevole di prote-
zione anche (e soprattutto) da parte dell’ordinamento giuridico e che i portatori di tale esi-
genza vanno individuati nei singoli cittadini e nella collettività nel suo insieme» ha ritenuto la
soluzione tecnica adottata in punto di legittimazione dall’art. 18 non solo conforme, ma ad-
dirittura pienamente attuativa del precetto espresso dal primo comma dell’art. 24 Cost. (!),
laddove si prevede che «tutti possano agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e inte-
ressi legittimi». Si è sostenuto, infatti, che «l’attribuzione della legittimazione ad agire a ogni
interessato avrebbe comportato, per la “diffusione” della situazione soggettiva, […] problemi
relativi all’individuazione dei presupposti e di efficacia della sentenza», rivelandosi quindi, la
soluzione legislativa, «sicuramente ispirata alla esigenza di rendere praticabile la via giurisdi-
zionale» (p. 258). Così, sul piano più propriamente formale, il legislatore – stando a questa
tesi – avrebbe creato «una situazione assimilabile a un vero e proprio diritto (soggettivo) al ri-
sarcimento, attribuendone non la titolarità, ma il potere di farlo valere in giudizio, allo Stato
e agli altri enti territoriali» (p. 258, c.vo mio); si tratterebbe, quindi di una non meglio speci-
ficata posizione sostanziale, nella quale, a fronte di una titolarità sostanziale non spettante allo
Stato, ma a ciascun cittadino e alla collettività nel suo complesso, sarebbe invece riservata in
via esclusiva all’ente pubblico una legittimazione ad agire non configurabile – per Olivieri –
né, ovviamente, come legittimazione ordinaria (mancando la corrispondenza tra titolarità del
diritto e titolarità dell’azione), ma nemmeno come sostituzione processuale o legittimazione
straordinaria, presupponendo tale ultima categoria concettuale «in capo al soggetto sostituito
(ben individuato) un vero e proprio diritto soggettivo».
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 713

Si noti, infatti, come la diversa qualificazione del danno – se non


privato comunque non pubblico – abbia alterato completamente le coor-
dinate di inquadramento della norma80: in questa prospettiva anche lo
Stato è andato progressivamente perdendo i caratteri tradizional-pubbli-
cistici che gli sono propri e si è presentato al cospetto dell’interesse col-
lettivo in posizione assimilabile ad una qualsiasi associazione privata rap-
presentativa, ovvero come mero «termine soggettivo di riferimento»81,
con ciò rendendo più libera la scelta teorica di giuridicizzare l’interesse
collettivo o mediante una soggettivazione in capo all’ente rappresentativo
o in capo ai singoli privati.
È questa, d’altra parte, la prospettiva fatta propria anche dalla Corte
costituzionale sin dalle prime decisioni in materia82; decisioni di fonda-
80 Ciò evidentemente non vale per le teorie, come quella di Maddalena (cfr. retro, nota
39 e infra, § 3.4.1.) in cui, operando una rilettura dell’interesse pubblico in chiave non indi-
vidualistica, il collettivo rifluisce nel pubblico e viceversa.
81 LUMINOSO, A., Sulla natura della responsabilità per danno ambientale, cit., p. 900; per
CARRATTA, A., Profili processuali della tutela degli interessi collettivi e diffusi, cit., p. 116, «è
difficile negare che lo Stato o gli enti territoriali agiscono non in quanti titolari dell’interesse
diffuso da tutelare, ma come una sorta di enti esponenziali del bene oltraggiato».
82 C. cost., 28 maggio 1987, n. 210, in Giur. cost., 1987, I, 1577 ss.; in Corr. Giur., 1987,
p. 1044 ss., con nota di PICOZZA, E., L’ambiente … allo Stato; in Riv. giur. amb., 1987, p. 334
ss., con nota di BORGONOVO RE, D., L’ambiente tra Stato e collettività locali: una questione spi-
nosa tutta da risolvere; in Foro it., 1988, I, p. 329 ss., con nota di GIAMPIETRO, F., Riserve e par-
chi statali nuovi: la protezione della natura tra «inerzia» del parlamento e «supplenza» del mi-
nistro dell’ambiente; C. cost., 30 dicembre 1987, n. 617, in Giur. cost., 1987, I, p. 3688; in
Cons. St., 1987, II, p. 11905 ss.; in Riv. giur. urbanistica., 1987, p. 391 ss., con nota di MI-
GLIARESE, F., Valori costituzionali e interventi realizzatori dello Stato; in Le regioni, 1988, p. 507
ss., con nota di BIN, R., Sulla funzione di indirizzo e coordinamento e sul «valore assoluto» del-
l’ambiente; in Foro it., 1988, I, 3538, con nota di CAVALLO PERIN, R., La tutela dell’ambiente:
nuove norme attributive del potere di ordinanza; ed in particolare C. cost., 30 dicembre 1987,
n. 641, in Giur. cost., 1987, I, p. 3788 ss., con nota di MILETO, S., Giurisprudenza della Corte
dei conti nelle materie di contabilità pubblica e «interpositio» del legislatore; in Foro it., 1988,
I, p. 694 ss., con nota di GIAMPIETRO, F., Il danno all’ambiente innanzi alla Corte costituzio-
nale; in Foro it., 1988, I, p. 1057, con nota di PONZANELLI, G., Corte costituzionale e respon-
sabilità civile: rilievi di un privatista; in Le regioni, 1988, p. 525 ss., con nota di FERRARI, E., Il
danno ambientale in cerca di giudice … e di interpretazione: l’ipotesi dell’ambiente-valore; in
Riv. giur. amb., 1988, p. 93 ss., con nota di CARAVITA, B., Il danno ambientale tra Corte dei
conti, legislatore e Corte costituzionale e di POSTIGLIONE, A., Il recente orientamento della
Corte costituzionale in materia di ambiente; in Corr. giur., 1988, p. 234 ss., con nota di GIAM-
PIETRO, F., Responsabilità per danno ambientale: luci ed ombre di una rilevante decisione; in
Riv. amm., 1988, p. 220, con nota di ARRIGONI, R., Danno all’ambiente e giurisdizione della
corte dei conti: un binomio impossibile?. Per l’esame completo della giurisprudenza della
Corte costituzionale in materia di ambiente, v. CECCHETTI, M., Principi costituzionali per la tu-
tela dell’ambiente, Milano, 2000; MEZZETTI, L., La «costituzione dell’ambiente», in Manuale di
diritto ambientale, a cura di L. Mezzetti, Padova, 2001, p. 85 ss.; MANTINI, P., Per una nozione
costituzionalmente rilevante di ambiente, in Riv. giur. amb., 2006, p. 207 ss.
714 CAPITOLO NONO

mentale importanza, in cui la Consulta, accolta la nozione unitaria del


bene ambientale83 e facendo perno in particolare sugli artt. 9 e 32 della
nostra Carta costituzionale, ha qualificato l’ambiente come «diritto fon-
damentale della persona» nonché «bene primario e valore assoluto costi-
tuzionalmente garantito alla collettività».

3.4.2. Le concezioni oggettive della tutela


Esaminando più da lontano le posizioni sino ad ora esposte pos-
siamo cogliere due importanti dati di sintesi.
Il primo è appunto la contrapposizione tra una visione più propria-
mente pubblicistica della norma e della posizione giuridica attribuita allo
Stato ed una visione diversa, lato sensu privatistica delle stesse, in cui la
distinzione tra l’interesse dell’ente pubblico in quanto tale e l’interesse
della collettività rappresentata è apparsa più nitida e nella sostanza fun-
zionale ad attribuire all’interesse collettivo un ruolo centrale ai fini rico-
struttivi.
Il secondo, sul quale richiamiamo l’attenzione ora per la prima
volta, è invece costituito dal fatto che tanto la prima quanto la seconda
prospettiva rappresentano, seppur diversamente, un approccio interpre-
tativo avente carattere in un certo senso «soggettivo».
Cerchiamo di spiegarci meglio. Nelle tesi esaminate, per alcuni l’in-
teresse sostanziale è l’interesse proprio e individuale dello Stato (rispetto
al quale l’interesse della collettività può al massimo ricevere benefico ri-
flesso dall’attuazione della pretesa), per altri l’interesse sostanziale tute-
lato è quello della collettività ed in particolare, all’interno di questo fi-
lone di riflessione, secondo una prima linea interpretativa, detto interesse
è comunque imputato allo Stato in ordine all’attivazione dello strumento
di tutela, mentre, secondo un’ulteriore opzione ricostruttiva, apparte-
nendo l’interesse ambientale ai singoli cittadini che tale collettività com-
pongono, la legittimazione ad agire deve spettare non solo allo Stato, ma
anche al singolo e ai soggetti collettivi che istituzionalmente si pongono
come forme associative di quegli interessi.
In ognuna di queste ipotesi, quindi, c’è comunque un soggetto di di-
ritto al cui interesse materiale la tutela risarcitoria è rivolta: sia questo
soggetto lo Stato, la collettività o i singoli cittadini.
In posizione opposta si pongono, invece, le tesi che – come negli al-
tri settori di studio già esaminati84 – propendono per una qualificazione
83 Per la posizione dottrinale sul punto v. retro, nota 2.
84 Il lettore attento e paziente ricorderà come questa particolare impostazione dogma-
tica sia stata proposta non solo in sede di inquadramento teorico generale degli strumenti di
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 715

della tutela giurisdizionale apprestata dall’art. 18 della legge n. 349 del


1986 in termini prettamente «oggettivi».
Questa linea interpretativa è stata sostenuta dalla dottrina proces-
sualistica, già incontrata in sede di studio delle posizioni dottrinali in ma-
teria di inquadramento generale degli strumenti di tutela degli interessi
sovraindividuali, che, in espressa contrapposizione alle tesi poc’anzi pro-
poste, ha rilevato che «la collettività, quale che sia la sua dimensione, non
può essere intesa che come ente indeterminato e indeterminabile sul
piano soggettivo» con la conseguenza che «l’interesse che la legge tutela
ha necessariamente carattere obiettivo» o, più precisamente, che la tutela
«è rivolta non ad un soggetto ma al bene»85.
Detta prospettiva è stata poi ulteriormente sviluppata in seno alla
dottrina civilistica all’interno di un articolato ed ampio studio orientato a
dimostrare, per un verso, la diversità strutturale e funzionale intercor-
rente tra azione di danno ambientale e regime comune della responsabi-
lità civile ex art. 2043 c.c. e, dall’altro, la diversa natura del bene am-
biente rispetto al bene in senso giuridico prefigurato dall’art. 810 c.c.86.
La disciplina sanzionatoria prevista dall’art. 18 è stata in questo
senso intesa come rivolta a tutelare e risarcire direttamente il bene am-
biente nella sua materialità e non interessi, individuali o collettivi, giuri-
dicamente rilevanti e orientati verso quello stesso bene87. Mancherebbe,
in altri termini, con riferimento alla disciplina comune della responsabi-
lità civile, la funzione propriamente compensativa della stessa88 e la con-

tutela degli interessi superindividuali (cfr. retro, cap. III, § 3.4.1.2., la posizione di Grasso, a
cui ci riferiremo tra breve anche in specifico riferimento alla tutela dell’ambiente), ma anche
in sede di interpretazione del procedimento per la repressione della condotta antisindacale
(cfr. retro, cap. VII, § 2.1.3., la posizione di Romagnoli). Sull’assoluta ambiguità ed incertezza
che appartiene al concetto di giurisdizione oggettiva, o a contenuto oggettivo, ci siamo già
espressi retro, cap. VI, nota 17.
85 GRASSO, E., La tutela giurisdizionale dell’ambiente, cit., rispettivamente p. 515 e 517,

ove si osserva, d’altro canto, che la configurazione in termini oggettivi della tutela apprestata
non risolve il diverso problema della «necessaria soggettivizzazione dell’azione», rispetto al
quale «la soluzione che tiene con maggior rigore logico-giuridico è l’affidamento della legitti-
mazione ad agire a “chiunque” o al pubblico ministero: due strumenti la cui omogeneità è
fondata sulla rilevanza puramente obiettiva dell’interesse tutelato», sebbene, per altro verso,
non possa «negarsi alla legge l’arbitrio di creare dei (puri) legittimati». In questa direzione
sembrano orientarsi anche, DE PAULI, A., Sub. Art. 2907, in Codice civile commentato, Libro
VI, coordinato da V. Cesaro e L.P. Comoglio, Milano, 2005, p. 522 s.
86 FRANCARIO, L., Danni ambientali e tutela civile, cit.; ID., Il risarcimento dell’ambiente

dopo la legge 349 del 1986, cit.


87 FRANCARIO, L., Danni ambientali e tutela civile, cit., p. 122.
88 FRANCARIO, L., Danni ambientali e tutela civile, cit., p. 173.
716 CAPITOLO NONO

seguente necessità di valutazione dei profili di ingiustizia del danno co-


munemente correlati alla lesione di posizioni giuridiche soggettive89;
mentre, in riferimento alla nozione codicistica di bene in senso giuridico,
il bene ambiente sarebbe da accogliersi nella sua oggettività giuridica di-
rettamente discendente dalla legge e non quale oggetto di diritti sog-
gettivi90.
Da ciò la necessità di rinnegare la logica interpretativa proprietaria,
sia nella sua variante «panstatualistica», ossia tendente a far coincidere
danno pubblico e danno collettivo sostenendo un rapporto simbiotico
tra Stato-persona e Stato-comunità91, sia nella sua variante tradizional-
pubblicistica tendente a confondere sovranità territoriale e diritti di na-
tura dominicale sul bene92, sia, ancora, nella sua variante individual-per-
sonalistica rappresentata dal diritto di ogni cittadino all’ambiente; «for-
mula enfatica» quest’ultima del «diritto all’ambiente», idonea secondo
questa dottrina «ad evidenziare l’interesse dell’uomo alla protezione am-
bientale» e unicamente traducibile sul piano giuridico in «diritti stru-
mentali» di partecipazione e informazione, ma non in «veri e propri stru-
menti di tutela diretta del bene»93.

3.4.3. Una tesi a parte: la proprietà collettiva dell’ambiente


Non facilmente riconducibile a nessuno dei due generali orienta-
menti appena esposti è la tesi rivolta a configurare un diritto di proprietà
collettiva in merito al bene ambiente; tesi di ampio approfondimento ed
articolazione, i cui tratti distintivi necessariamente impongono una trat-
tazione separata ed analitica della stessa94.
89 FRANCARIO, L., Danni ambientali e tutela civile, cit., p. 120, ma sull’argomento v. tutto
il cap. III, intitolato I danni ambientali e il sistema dei danni ingiusti; sul danno all’ambiente
come danno «materiale» e non come danno «ingiusto», in particolare p. 147; nello stesso
senso, v. CASTRONOVO, C., Il danno all’ambiente nel sistema della responsabilità civile, cit., p.
513, e, sebbene all’interno di una cornice ricostruttiva ben diversa, MADDALENA, P., Danno
pubblico ambientale, cit., p. 177 ss.; ID., Il danno all’ambiente tra giudice civile e giudice con-
tabile, cit., p. 456 s.).
90 FRANCARIO, L., Danni ambientali e tutela civile, cit., p. 135.
91 Il riferimento di FRANCARIO, L., Danni ambientali e tutela civile, cit., p. 97 ss., è ov-

viamente alla posizione di Maddalena e alla giurisprudenza della Corte dei conti.
92 FRANCARIO, L., Danni ambientali e tutela civile, cit., p. 100 s.
93 FRANCARIO, L., Danni ambientali e tutela civile, cit., p. 122. Sebbene all’interno di un

contesto maggiormente sintetico, per ulteriori riflessioni concernenti l’«irriducibilità» del


bene ambiente ad oggetto di diritti soggettivi, v. anche ID., Il risarcimento dell’ambiente dopo
la legge 349 del 1986, cit., p. 481 ss.
94 Come il lettore avrà modo di osservare nelle righe che seguono nel testo, si è deciso

di dedicare particolare attenzione alla proposta ricostruttiva avanzata da MADDALENA, P. nel


LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 717

Su un piano generale la dottrina in esame prende le mosse, in


conformità con gli interventi già avanzati anteriormente alla riforma del
1986 in questa stessa materia95, dal realizzarsi, nel rinnovato contesto co-
stituzionale, di una sostanziale coincidenza tra, da un lato, Stato, popolo
e collettività – causata dal porsi il popolo come soggetto sovrano e come
complesso di persone da assumersi come distinte nella loro individualità
(c.d. soggettività plurima)96 – e, dall’altro, interesse generale, interesse
pubblico e interesse collettivo.
Se, però, negli interventi anteriori all’introduzione dell’azione di
danno ambientale, tale rapporto equazionale tra i diversi termini or ora
richiamati aveva un ruolo in gran parte determinante all’interno dell’eco-
nomia argomentativa, in questa seconda fase del pensiero della dottrina
che qui abbiamo in esame, detto rapporto assume – al contrario – quella
che a noi sembra più limitatamente una cornice di principio. In un pas-
saggio successivo e ancora preliminare dell’indagine, è infatti avanzata
una precisazione di particolare rilievo, rivolta ad evidenziare che, se, da
un lato, gli interessi della collettività per acquisire rilievo giuridico de-
vono essere affidati alla cura pubblica, dall’altro, detti interessi, pur giu-
ridicamente rilevanti per la ragione or ora indicata, possono ben porsi
«sul versante dei cittadini» come interessi semplici97. Su questo versante,
appunto, l’elevazione degli stessi al crisma della giuridicità avverrebbe
solo in presenza di una diretta tutela costituzionale, idonea – appunto –
a rendere questa particolare tipologia di interessi veri e propri «diritti o
interessi legittimi, collettivi», ossia posizioni giuridiche proprie della col-
lettività come complesso organico di persone98.

lavoro monografico già citato ed intitolato Danno pubblico ambientale relativo allo studio del-
l’azione di danno ambientale ex art. 18 l. 349/86; sul tema v. peraltro ID., Il danno all’am-
biente tra giudice civile e giudice contabile, cit., p. 445 ss.; ID., Il danno ambientale, in Trib.
amm. reg., 1988, p. 433 ss.; ID., Il diritto all’ambiente ed i diritti dell’ambiente nella costru-
zione della teoria del risarcimento pubblico ambientale, in Riv. giur. amb., 1990, 469 ss.; ID.,
Ambiente: un bene da costituzionalizzare, in Dem e dir., 1995, p. 339 ss.; ID., Il diritto all’am-
biente come diritto inviolabile dell’uomo, cit., p. 1897 ss. La posizione di Maddalena si pone,
quindi, come necessario argomento di riflessione, per i caratteri di originalità che presenta e
per l’articolazione e l’ampiezza dedicata all’esame della natura degli interessi collettivi nei
loro rapporti con la collettività di riferimento e con il bene a cui aspirano. Singolare è peral-
tro che la dottrina occupatasi della tutela dell’ambiente abbia in genere dimostrato scarsa at-
tenzione per lo studio monografico ora in esame.
95 Cfr. retro, spec. nota 39.
96 MADDALENA, P., Danno pubblico ambientale, cit., p. 30 ss., ma spec. p. 62.
97 MADDALENA, P., Danno pubblico ambientale, cit., p. 69.
98 MADDALENA, P., Danno pubblico ambientale, cit., p. 69 ss., le ipotesi riferite sono ap-

punto quelle del diritto all’ambiente e del diritto alla salute, ma come diritti imputati alla col-
718 CAPITOLO NONO

È dunque nel tentativo di precisare la qualificazione giuridica di


queste posizioni sostanziali che questa tesi approda alla nozione di pro-
prietà collettiva.
Nel tentativo di individuare i passaggi salienti di un iter ricostruttivo
articolato e complesso possiamo isolare i punti che seguono.
In primo luogo, riguardo al bene ambiente, si ritiene si possano indi-
viduare «due distinte situazioni giuridiche», l’una concernente la «frui-
zione individuale del bene» e l’altra riguardante invece «l’aspetto collet-
tivo della conservazione e gestione del bene stesso» ed implicante una tu-
tela giuridica collettiva, senza peraltro escludere l’azione del singolo per la
salvaguardia dell’interesse collettivo che è al contempo proprio e altrui99.
La qualificazione giuridica di questa regola di conflitto di interessi
riguardo al bene ambiente (ossia più brevemente il «diritto all’am-
biente»), mal si presterebbe quindi ad essere ricondotta – come soste-
nuto da altre voci – alla categoria dei diritti della personalità (diritti ap-
punto «sulla persona» a titolarità meramente individuale), ma piuttosto,
specie a causa della presenza del profilo conservativo, a categorie giuri-
diche capaci di dare valenza formale alla natura collettiva del diritto; il
diritto all’ambiente, pertanto, andrebbe ricondotto alla figura del diritto
di proprietà collettiva, concetto giuridico idoneo ad accogliere entrambe
le proiezioni dell’interesse giuridicamente rilevante, ovvero tanto gli inte-
ressi alla fruizione quanto gli interessi alla conservazione e gestione del
bene.
Coesisterebbero, dunque, due distinti profili giuridici.
Un primo profilo riguarderebbe gli interessi alla fruizione e al godi-
mento del bene, da doversi ritenere schematicamente «interessi-somma»

lettività nel suo complesso. Osserva infatti l’A. (p. 70, c.vo mio): «nel caso di specie […] si
tratta di posizioni giuridiche pienamente tutelate e, per di più, di posizioni giuridiche riferi-
bili a tutti, e cioè della collettività, la quale come si è detto, ha una sua soggettività giuridica
e si avvale, per il raggiungimento dei suoi fini, dell’organizzazione propria dello Stato. In que-
sto caso, dunque, il termine appropriato è quello di interesse, o meglio di diritto collettivo. E
non va trascurato che il riferimento alla nozione di interesse collettivo serve solo anche a se-
gnalare che nel caso in questione si è in presenza, non di una “somma” indifferenziata di in-
teressi, ma di una “sintesi” di interessi, quali sono da considerare quelli propri di una collet-
tività, cioè di un complesso organico di persone. L’interesse collettivo, in ultima analisi, è l’in-
teresse al bene comune, ed il bene comune è concetto che trascende i singoli interessi
particolari (che possono essere anche in contrasto con l’interesse generale), ed è, obiettiva-
mente, l’interesse di tutti».
99 MADDALENA, P., Danno pubblico ambientale, cit., p. 72 (c.vi miei); si noti bene: il pro-
filo della «conservazione» investe anche se non fondamentalmente la questione della giusti-
ziabilità degli interessi ambientali, sede in cui per l’A. il singolo potrebbe in via di principio
agire come rappresentante della collettività intera.
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 719

in virtù del loro carattere esclusivamente individuale, giustificato que-


st’ultimo dall’esercizio disgiunto dei poteri sostanziali che a questi corri-
spondono (i poteri di fruizione appunto). Ed un secondo profilo, riguar-
derebbe, invece, quello concernente gli interessi alla gestione-conserva-
zione del bene, al contrario configurabili come «interessi-sintesi», in
ragione dell’esercizio necessariamente congiunto dei correlati poteri100.
Due diversi profili, dunque, da potersi accostare alla distinzione
operata da Pugliatti in materia di proprietà collettiva tra proprietà so-
stanziale e proprietà formale. Si potrebbe, in altri termini, parlare di pro-
prietà sostanziale del bene in relazione agli interessi di fruizione (primo
profilo) e di proprietà formale del bene riguardo i poteri di gestione e
conservazione (secondo profilo)101.
È a questo punto dell’indagine che la dottrina in esame affronta il
tema della natura del bene ambiente ed i principali quesiti che animano
la riflessione sono quelli che seguono. L’ambiente può essere concepito
come bene in senso giuridico? Si può parlare di «appartenenza» o di
«appropriazione» riguardo al bene ambiente? Ed infine detto bene che
natura ha: materiale o immateriale?102
Il punto di partenza prescelto per dare risposta a questi interroga-
tivi è la constatazione dell’inesistenza di forme di appropriazione indi-
viduale del bene; constatazione idonea a giustificare, per un verso, sia la
non plausibilità di concepire l’ambiente come bene giuridico in senso
stretto103, sia la preferibile scelta di ricondurre l’ambiente alla categoria
dei beni giuridici in senso lato e, dall’altro, l’inalterata opportunità di in-
dividuare nella collettività il soggetto a cui spetta, o meglio appartiene, il

100 Così, MADDALENA, P., Danno pubblico ambientale, cit., p. 82. Sulla contrapposizione
concettuale tra interesse collettivo-somma di interessi individuali e interesse collettivo-sintesi
di interessi individuali, v. cap. IV, spec. § 6.1., ove si è dimostrata non solo l’inesattezza di en-
trambe le formule ai fini di una corretta definizione del concetto di interesse collettivo, ma
anche la loro inservibilità nello studio della tutela giurisdizionale degli interessi sostanziali
giuridicamente rilevanti.
101 MADDALENA, P., Danno pubblico ambientale, cit., p. 140, che precisa, aderendo a Pu-

gliatti, che «la proprietà dello Stato e degli enti pubblici è una proprietà-legittimazione, serve
per individuare l’ente che in concreto deve difendere gli interessi in questione, i quali ovvia-
mente vanno difesi e gestiti, non nell’interesse proprio dell’ente, ma nell’interesse proprio
della collettività. La proprietà formale serve in altri termini per individuare l’ente esponen-
ziale della collettività, il quale agisce in rappresentanza, cioè per conto della collettività».
102 Tutte queste questioni sono risolte nel cap. III del lavoro di Maddalena, intitolato Il

bene giuridico ambiente e la proprietà collettiva dell’ambiente, ma per la sintesi v. appunto le


osservazioni riportate nel testo.
103 MADDALENA, P., Danno pubblico ambientale, cit., p. 88, 93, in richiamo alla nota di-

stinzione operata da PUGLIATTI, in Beni e cose in senso giuridico, Milano, 1964, 61 ss.
720 CAPITOLO NONO

bene ambiente e a cui, per questo, è riconosciuta la fruizione e il godi-


mento delle utilità dallo stesso bene garantite104.
Per ciò che invece riguarda la natura materiale o immateriale del
bene, la dottrina in questione, in contrasto con la posizione della Corte
costituzionale e seguendo un complesso itinerario dimostrativo del quale
– per ragioni di sintesi – non si dà qui interamente conto, propende per
la natura materiale del bene.
È vero infatti – sostiene l’A. – che si debba distinguere tra «cosa» e
«bene» e che la seconda nozione rappresenti l’utilità fornita dalla prima
in quanto ritenuta giuridicamente rilevante dall’ordinamento, ma è al-
trettanto vero che, nel caso dei beni ambientali, il valore ambientale del
bene non è scindibile dalla cosa materiale e che, di conseguenza, si debba
parlare di bene materiale piuttosto che immateriale105.
Il bene ambiente, quindi, dovrebbe essere inteso, stando a questa
dottrina, come bene materiale risultante dal complesso dei beni materiali
culturali e naturali, rispetto ai quali – è qui dunque che si coordinano le
riflessioni avanzate in merito alla nozione di proprietà collettiva e le os-
servazioni proposte circa l’esatta natura del bene ambiente – ben po-
trebbe configurarsi una posizione di «appartenenza» della collettività106.
La distinzione tra bene e cosa accolta dalla dottrina in esame porta
peraltro la stessa ad ammettere la possibilità logico-giuridica di configu-
rare più beni e dunque anche più posizioni di diritto riguardo alla mede-
sima cosa materiale107; tale premessa teorica conduce, in altri termini, a

104 MADDALENA, P., Danno pubblico ambientale, cit., p. 90.


105 La dottrina in esame giunge all’esito esposto nel testo muovendo dalla natura mate-
riale dei beni culturali, che, assieme ai beni naturali («della cui materialità […] non è possi-
bile dubitare», cfr. p. 120-121) andrebbero a comporre il bene ambiente. Riguardo detti beni
appunto, in contrapposizione critica rispetto alla posizione di Giannini si nega la possibilità
di parlare di beni immateriali distinguendo il bene culturale dalla «cosa» intesa come sup-
porto fisico e non come bene giuridico (p. 115).
106 MADDALENA, P., Danno pubblico ambientale, cit., p. 92 ss., 147.
107 MADDALENA, P., Danno pubblico ambientale, cit., p. 118. In ordine alla possibilità di

configurare più posizioni di «appartenenza» riguardo alla cosa in ragione delle diverse utilità
ricavabili dalla stessa, Maddalena cita BARBERO, D., Sistema del diritto privato italiano, Torino,
1965, I, p. 711, per il quale «l’appartenenza del bene è fenomeno generale riscontrabile in
tutto l’ambito dei diritti reali; dove c’è un diritto reale, dalla proprietà alla più esigua delle
servitù, c’è un fenomeno di appartenenza del bene (cioè della cosa) al titolare del diritto. Il
fondo non appartiene soltanto al proprietario; appartiene anche all’enfiteuta, all’usufruttua-
rio, al titolare della servitù». La citazione appena riportata, fa meglio comprendere come
Maddalena assimili la posizione di diritto che la collettività può far valere riguardo all’am-
biente ad una situazione giuridica di natura reale. Ciò chiaramente poteva già arguirsi dal ri-
chiamo della nozione di proprietà collettiva da parte dell’A., nonché dal tentativo di qualifi-
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 721

rilevare la possibilità che si verifichino fenomeni di «bi-» o «pluri-» «ap-


partenenza» delle singole cose materiali poste a fondamento dei distinti
beni giuridici tutelati108.
care l’ambiente come bene materiale. La concezione proprietaria del diritto soggettivo utiliz-
zata da Maddalena sulla scorta delle osservazioni di Barbero va peraltro rimarcata; in essa, in-
fatti, l’«appartenenza» della «cosa» si pone come strumento di analisi giuridica caricato da
compiti ricostruttivi determinanti. Afferma, infatti, Maddalena (p. 122): «non si può dire che
l’appartenenza del bene è un falso problema, poiché esso si risolve in quello più ampio di ap-
partenenza del diritto, cioè della sua titolarità. Il problema dell’appartenenza del bene si ri-
solve in quello della titolarità del diritto quando si tratta di beni personalissimi, ovvero di ta-
luni diritti personali come il diritto di credito, non quando è in discussione l’utilizzazione di
una cosa materiale. In quest’ultimo caso […] non si tratta solo di definire i poteri e le facoltà
del soggetto, ma anche la responsabilità in ordine alla gestione ed amministrazione del bene,
in una parola, si tratta di stabilire a chi, ed in quale misura, la cosa appartiene, poiché […] il
diverso contenuto del diritto regola la diversa appartenenza del bene». La concezione in
esame deve quindi essere ricondotta alle teorie che configurano il diritto soggettivo non tanto
come situazione attiva, quanto più propriamente come situazione di vantaggio attribuita al
soggetto titolare. Tipica è appunto la definizione di DABIN, J., Le droit subiectif, Paris, 1952,
p. 80, secondo cui il diritto soggettivo dovrebbe corrispondere proprio alla «relation d’ap-
partenance entre le sujet et une cose». Su questo orientamento di pensiero abbiamo già avuto
modo di riflettere, criticando la valorizzazione in sede ricostruttiva del risultato pratico con-
seguito dal soggetto titolare del diritto, anziché degli strumenti tecnici che l’ordinamento im-
piega per la realizzazione degli interessi dello stesso (cfr. retro, cap. V, nota 122). Di certo, co-
munque, impiegare un concetto di tal fatta per la sistemazione delle problematiche che affe-
riscono alla tematica della tutela dell’ambiente risulta non solo artificioso, ma anche poco
aderente alla esigenze specifiche che in questa sede si palesano. Se si volesse attribuire al ter-
mine «bi-appartenenza» un significato giuridico ulteriore rispetto a quello che lo assume
come rivolto ad indicare seppur impropriamente la sola idea della titolarità del diritto, l’im-
magine che pianamente ed istintivamente potrebbe essere evocata dalla mente del giurista sa-
rebbe quella della comproprietà. L’idea di «appartenenza» indurrebbe, infatti, l’interprete a
rivolgersi verso un contenuto tipicamente appropriativo del diritto e l’idea di «appartenenza»
da parte di più soggetti, indirizzerebbe necessariamente verso l’unica soluzione logicamente
capace di coordinare il contenuto appropriativo con l’idea della pluralità, ossia una posizione
di parità e contitolarità come quella che appunto è propria dei comproprietari. Il ragionare in
termini di «appartenenza» appare così come il precipitato storico-culturale di una concezione
strutturale del diritto soggettivo costruita sulla base di contenuti di tutela tipicamente pro-
prietari, ossia diretti a tutelare interessi sostanziali a carattere appropriativo; carattere appro-
priativo perfettamente descritto da una concezione tradizionale del diritto di proprietà in cui
la tutela giuridica assicurata garantisce tutto l’insieme delle possibili e diverse utilità fornite
dalla res al titolare del diritto e nulla a chi non è titolare. Ma l’immagine ora evocata è evi-
dentemente inconciliabile con la tutela dell’ambiente, che è formula di sintesi per indicare
un’insieme spesso eterogeneo di regole di condotta che si articola in infiniti e diversi punti di
contemperamento tra interessi confliggenti, rispetto ai quali parlare di «appartenenza» non
solo è inutile, ma propriamente inesatto e fuorviante. Sulla possibilità di studiare la tutela del-
l’ambiente impeigando il concetto di proprietà, v. peraltro le osservazioni critiche di BIGLIAZZI
GERI, L., Divagazioni su tutela dell’ambiente ed uso della proprietà, in Proprietà, danno am-
bientale e tutela dell’ambiente, cit., p. 64 ss.
108 MADDALENA, P., Danno pubblico ambientale, cit., p. 117 ss.
722 CAPITOLO NONO

Ed è proprio facendo perno su quest’ultimo punto che questa dot-


trina completa il quadro ricostruttivo proposto, sostenendo che ad ogni
bene ambientale (culturale o naturale) in proprietà collettiva corrisponda
una cosa materiale in possibile «appartenenza» ad altri soggetti giuridici,
ossia una cosa materiale rispetto alla quale possono apprezzarsi altri e di-
stinti beni, coesistenti con quelli ambientali ed oggetto di distinta posi-
zione giuridica. Si pensi – per portare come esempio il caso che questa
opinione ritiene tra i più delicati – al bene naturale o culturale a cui cor-
risponde una cosa materiale in «appartenenza» anche ad un soggetto pri-
vato. In tale ipotesi si realizzerebbe una posizione tipica di «bi-apparte-
nenza» della stessa cosa materiale e dunque di conflitto tra una posizione
di proprietà collettiva ed un’altra di proprietà privata109. In tale prospet-
tiva, quindi, l’istituto della proprietà collettiva sarebbe in grado di risol-
vere detto conflitto, garantendo, dal lato interno, ossia sul fronte dei rap-
porti tra diversi comproprietari, la pari fruizione delle utilità garantite dal
bene giuridico e, sul lato esterno, cioè relativo ai rapporti con gli altri ti-
tolari di diritti sulla cosa, che la stessa sia sottratta ad utilizzazioni in con-
trasto con l’utilizzo del bene ambiente da parte di tutti110.
È al termine di questo ampio itinerario ricostruttivo percorso sul
piano sostanziale che la dottrina in esame applica i risultati interpretativi
raggiunti all’esegesi dell’art. 18 della l. n. 349 del 1986.
Recuperando, infatti, la distinzione tra i due distinti nuclei di inte-
resse tutelati dalla proprietà collettiva, ossia l’«interesse-somma» al go-
dimento e alla fruizione, concernente soprattutto i singoli e l’«interesse-
sintesi» alla conservazione e gestione del bene, viceversa proprio della

109 Questa è in estrema sintesi il risultato a cui perviene Maddalena procedendo in una
ricostruzione tessera per tessera – come lo stesso A. afferma (p. 172) – di un mosaico costi-
tuito dall’esame delle diverse situazioni che possono venirsi a creare sul piano giuridico ri-
guardo ai beni (ambientali) culturali e naturali; esame in cui si passa attraverso ipotesi più
semplici, in cui una cosa materiale è di appartenenza solo della collettività [come ad esempio
– riguardo ai beni naturali – le res communes omnium (v. p. 142 ss. e poi p. 153), rispetto alle
quali non si verificano situazioni di «bi-appartenenza»], attraverso ipotesi come i beni dema-
niali [rispetto ai quali, non volendo accedere alla ricostruzione degli stessi come proprietà
collettiva (come invece sostiene Maddalena, p. 134 ss.)], occorre allora distinguere riguardo
la medesima cosa materiale tra il bene ambientale in proprietà collettiva ed un diverso bene
in proprietà pubblica] o ancora, come accennato nel testo, attraverso ipotesi più complesse in
cui occorrerà confrontarsi con un bene in proprietà privata; in tal caso, sia in materia di beni
culturali (p. 150), sia in materia di beni naturali (p. 154), «la chiave di volta per risolvere il
problema sta nella concezione del bene in senso giuridico, concezione in base alla quale è
possibile individuare più beni che insistono sulla stessa cosa, ed in relazione a ciascun bene,
una diversa situazione soggettiva».
110 MADDALENA, P., Danno pubblico ambientale, cit., p. 123-125.
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 723

collettività nel suo complesso, questa dottrina ricollega la funzione del-


l’azione di danno ambientale solo alla seconda area di interesse, essendo
detta misura giurisdizionale evidentemente rivolta alla conservazione del
bene ambiente.
Se, quindi, da una parte, si sostiene che riguardo all’«interesse-sin-
tesi» alla conservazione, è teoricamente ammissibile la legittimazione ad
agire del singolo, il quale in tal caso eserciterebbe l’azione uti cives, ossia
«nell’interesse […] del singolo e della collettività»111, dall’altra, si so-
stiene che la legittimazione ad agire dello Stato sia perfettamente coe-
rente con i caratteri strutturali del diritto di proprietà collettiva112.
L’azione pubblica, infatti, avrebbe come obiettivo la tutela tanto del-
l’interesse collettivo e sostanziale di tutti i cittadini, quanto l’interesse
pubblico e formale dello Stato, che pertanto agirebbe in giudizio come
rappresentante della collettività in virtù di un potere di sostituzione pro-
cessuale previsto, come vuole l’art. 81 c.p.c., direttamente dalla legge.

3.5. La posizione processuale degli enti pubblici territoriali legittimati al-


l’azione e delle associazioni ambientaliste legittimate all’intervento
nel giudizio di danno ambientale
Un esame assai più sintetico rispetto a quello riservato alle riflessioni
dottrinali riguardanti la natura dell’interesse tutelato nel giudizio di
danno ambientale può essere svolto in relazione alle diverse opzioni ri-
costruttive avanzate in merito alla qualificazione giuridica della posizione
processuale e sostanziale degli enti pubblici territoriali e delle associa-
zioni ambientaliste.
Chiarita, infatti, la natura del giudizio, specie in relazione alla legit-
timazione ad agire riservata allo Stato, la soluzione delle due questioni su
cui ora richiamiamo l’attenzione si presenta come piuttosto agevole, po-
nendosi – questa – come conseguenza delle opzioni ricostruttive previa-
mente assunte in riferimento al primo e principale tema di indagine113.

111 Cfr. anche retro, nota 39.


112 MADDALENA, P., Danno pubblico ambientale, cit., p. 212.
113 In realtà, quanto affermato nel testo rappresenta una semplificazione di un pro-
blema che, se impostato in diversa maniera, può complicarsi notevolmente. Se, infatti, si im-
posta lo studio limitando l’indagine alla qualificazione delle diverse posizioni processuali che
rilevano in relazione all’oggetto del giudizio di danno ambientale ossia in diretto ed esclusivo
riferimento all’azione ex art. 18, tanto il tema della legittimazione degli enti pubblici territo-
riali minori, quanto quello delle associazioni ambientaliste, se non anche dei singoli soggetti
privati, si presenta per lo più nei termini in cui è proposto nel testo. Diversamente, se il tema
724 CAPITOLO NONO

Così, riguardo alla legittimazione ad agire attribuita agli «enti terri-


toriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo» la dottrina si è di-
visa tra coloro che hanno individuato in detto potere di azione una ipo-
tesi di sostituzione processuale e coloro che viceversa hanno ritenuto tali
enti legittimati iure proprio114.
La prima opzione ha trovato fondamento su di una interpretazione
letterale e rigorosa del primo comma dell’art. 18, laddove, prescrivendo
che l’obbligo di risarcimento grava «nei confronti dello Stato», si è rite-
nuto potersi individuare il riconoscimento espresso di un diritto al risar-
cimento in capo al massimo ente pubblico rappresentativo della colletti-
vità nazionale ed unicamente un potere di mera azione in capo agli enti
territoriali minori115.
La seconda opzione interpretativa, invece, ha privilegiato l’argo-
mento teleologico, rilevando come il grado di effettività della tutela ap-

della legittimazione ad agire si estende alla ricerca di tutti i possibili ed alternativi titoli che
possono giustificare misure giurisdizionali di tutela – diretta o indiretta – di interessi lato
sensu ambientali, il quadro complessivo diviene molto più articolato e complesso: sul punto,
cfr. infra, § 4.2.5.
114 Sul punto, v. la dottrina cit. alle note che seguono. L’alternativa ricostruttiva è co-
munque segnalata anche da COSTANZO, A. - VERARDI, C.M., La responsabilità per danno am-
bientale, cit., p. 750; LUMINOSO, A., Sulla natura della responsabilità per danno ambientale, cit.,
p. 904; TRIMARCHI, P., La responsabilità civile per danni all’ambiente: prime riflessioni, cit., p.
192.
115 Così, MORBIDELLI, G., Il danno ambientale nell’art. 18, l. 349/1986, cit., p. 612;
COMPORTI, M., La responsabilità per danno ambientale, cit., p. 272; GIAMPIETRO, F., Danno al-
l’ambiente e legittimazione al giudizio dello Stato, degli enti territoriali e delle associazioni pro-
tezionistiche, cit., p. 547; ID., La responsabilità per danno all’ambiente, cit., p. 341; ID., Azione
dello Stato e degli enti territoriali. Poteri di intervento in giudizio delle associazioni ambientali,
in Il danno ambientale con riferimento alla responsabilità civile, cit., p. 171; GRECO, G., Danno
ambientale e tutela giurisdizionale, cit., p. 527, ma che, a p. 535, ritiene tale disposizione di
dubbia costituzionalità; GRASSO, E., La tutela giurisdizionale dell’ambiente, cit., p. 519; SPA-
GNA MUSSO, B., Riflessioni critiche in tema di tutela civilistica dell’ambiente, cit., p. 847; così
sembrerebbe porsi anche MADDALENA, P., Danno pubblico ambientale, cit., p. 219; cfr., anche
ALBAMONTE, A., Danni all’ambiente e responsabilità civile, cit., p. 75, che peraltro ammette –
oltre all’azione in via sostitutiva – che gli enti pubblici territoriali e le associazioni rappresen-
tative private possano far valere in giudizio l’interesse collettivo alla salubrità ambientale delle
collettività circoscritte ed insediate in luoghi specificamente colpiti dalla condotta dannosa
(p. 77 ss.); DELL’ANNO, P., Manuale di diritto ambientale, Padova, 2001, p. 169; PUNZI, C., La
tutela giudiziale degli interessi diffusi e degli interessi collettivi, in La tutela giurisdizionale de-
gli interessi collettivi e diffusi, cit., p. 27. La tesi ha trovato accoglimento anche in giurispru-
denza: cfr., in particolare, Cass., S.U., 25 gennaio 1989, n. 440, in Giust. civ., 1989, I, p. 560
ss., con nota di Postiglione, A., L’azione civile di danno ambientale; in Riv. giur. amb., 1989,
p. 97 ss.; in Corr. giur., 1989, p. 505 ss.; sulla questione v. anche C. cost., 29 dicembre 1988,
n. 1162, in Giur. cost., 1988, I, p. 5627; in Riv. giur. amb., 1989, p. 267; C. cost., 12 aprile
1990, n. 195, in Giur. cost., 1990, I, p. 1165; in Riv. giur. edil., 1990, I, p. 483.
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 725

prestata risulterebbe di certo minore individuando nel solo Stato il legit-


timo destinatario delle somme da versarsi a titolo di risarcimento. Ciò,
fondamentalmente, in ragione della mancanza di un obbligo dello Stato
ad impiegare le somme così ottenute ai fini del ripristino116, nonché in ra-
gione della circostanza che agli interventi di ripristino provvedono so-
vente proprio gli enti territoriali minori. Si è così sostenuta la possibilità
di riconoscere la titolarità del diritto soggettivo sostanziale all’ambiente
anche in capo agli enti territoriali minori, operando tra l’altro una lettura
funzionale dello stesso primo comma dell’art. 18 e sostenendo che il ter-
mine «Stato» ivi previsto sia da intendersi in senso ampio, ossia nel si-
gnificato più lato di «Stato-amministrazione» cioè comprendente anche
le altre amministrazioni pubbliche117.
Va peraltro ricordata l’opinione della dottrina che riguardo la que-
stione in esame ha ritenuto doversi distinguere in ragione del necessario

116 Cfr. FRANCARIO, L., Danni ambientali e tutela civile, cit., p. 212.
117 LIBERTINI, M., La nuova disciplina del danno ambientale e i problemi generali del di-
ritto dell’ambiente, cit., p. 586, che, promuovendo una lettura filo-costituzionale della norma,
ha ritenuto titolari del diritto al risarcimento anche gli enti territoriali minori, con la conse-
guenza di attribuire allo Stato una legittimazione concorrente talora da leggersi come legitti-
mazione straordinaria, ovvero come potere di sostituzione rispetto l’azione degli enti territo-
riali minori, con il conseguente obbligo dello stesso Stato a trasferire le somme al soggetto
concretamente danneggiato e onerato del ripristino; OLIVIERI, G., Danno ambientale e tutela,
cit., p. 260 ss., ma spec. p. 263, in cui si chiarisce come l’interrogativo circa la titolarità della
situazione giuridica dedotta in giudizio sia questione distinta rispetto all’individuazione dello
Stato quale destinaratio – aggiungiamo noi – mero della somma da versarsi a titolo di risarci-
mento; LANDI, P., La tutela processuale dell’ambiente, cit., p. 72; così anche per POSTIGLIONE,
A., L’azione civile in difesa dell’ambiente, cit., p. 320; in questo senso sembra anche MOSCA-
RINI, L.V., Responsabilità aquiliana e tutela ambientale, cit., p. 501; nega stranamente che la le-
gittimazione degli enti territoriali minori sia espressione di un potere di mera azione FRANCA-
RIO, L., Danni ambientali e tutela civile, cit., p. 222 ss., che ritiene, peraltro, che la legittima-
zione concorrente di tali enti costituisca «il segno più evidente di una più matura collocazione
degli interessi collettivi anche sul piano istituzionale»; interessi collettivi che si presentereb-
bero come interessi differenziati e parziali rispetto a quelli generali rappresentanti dallo Stato;
considerazione, quest’ultima, che sembra poco armonizzarsi con la prospettiva ricostruttiva
avanzata dall’A., tendente a tradurre il giudizio di danno ambientale in termini di giurisdi-
zione obiettiva. L’alternativa possibile dovrebbe, infatti, essere quella che segue: o l’azione dei
comuni ha stessa natura di quella statale ed in tal caso l’interesse sostanziale leso, collettivo o
differenziato che sia, non rileva in termini giuridici, ponendosi questo come mero substrato
metagiuridico e rilevando unicamente la lesione e la successiva reitegrazione oggettiva del
bene, o la natura dell’azione ex art. 18 non ha tale natura oggettiva, potendosi e dovendosi di
conseguenza apprezzare anche sul piano giuridico l’esistenza di un interesse sostanziale rile-
vante e magari eventuali e diverse «sfere» di interessi ingiustamente pregiudicati. Più di re-
cente, per una legittimazione autonoma degli enti pubblici territoriali, v. anche CARRATTA, A.,
Profili processuali della tutela degli interessi collettivi e diffusi, cit., p. 116-117, spec. nota 78.
726 CAPITOLO NONO

rapporto funzionale tra il risarcimento del danno e i costi degli interventi


di riparazione118. Stando a questa opinione, infatti, posto che la somma di
denaro concessa a titolo di risarcimento «può fungere da equivalente del
bene ambiente a condizione di essere considerato non quale mezzo per
qualunque fine (com’è la regola nel risarcimento del danno privato),
bensì come mezzo per soddisfare l’interesse ambientale stesso»119, la let-
tura sistematica della norma indicherebbe come titolari del risarcimento
«i soggetti investiti di funzioni di tutela del bene colpito, nei limiti degli
oneri derivanti da interventi sul bene»120.
L’individuazione del titolare del diritto al risarcimento costituirebbe
un’operazione da compiere non una sola volta in astratto, ma in relazione
alle diverse fattispecie di volta in volta dedotte in giudizio.
Per ciò che invece riguarda il potere di intervento riconosciuto alle
associazioni ambientaliste, la dottrina si è per lo più orientata nel senso
di ricondurre tale potere processuale alla categoria dell’intervento ade-
sivo dipendente121; conclusione raggiunta ponendo al centro dell’argo-
mentazione l’assenza di un titolo di autonoma legittimazione ad agire in

118 In questo senso, con ampiezza di argomenti, TRIMARCHI BANFI, F., Danno privato e
interesse pubblico nella disciplina del danno ambientale, cit., p. 206 ss.; cfr. anche TORRE-
GROSSA, G., La tutela dell’ambiente: dagli interessi diffusi al danno ambientale, cit., p. 1735.
Alla stessa esigenza pratica risponde la proposta di GIAMPIETRO, F., La responsabilità per
danno all’ambiente, cit., p. 343, volta ad ammettere che gli enti locali possano agire in rivalsa
nei confronti dello Stato per il rimborso delle spese sostenute.
119 TRIMARCHI BANFI, F., Danno privato e interesse pubblico nella disciplina del danno

ambientale, cit., p. 207, che condivisibilmente afferma: «se il profilo proprietario è irrilevante
per stabilire il collegamento tra l’interesse ambientale ed il soggetto che ne è portatore, sem-
bra necessario ravvisare tale collegamento nell’attribuzione di potestà finalizzate alla conser-
vazione e tutela dei beni ambientali, cioè nella titolarità della funzione secondo le leggi vi-
genti»; così, «la lesione dell’interesse ambientale può tradursi in danno patrimoniale solo in
relazione agli interventi riparatori attuati o da attuarsi da parte del soggetto titolare della fun-
zione di tutela».
120 TRIMARCHI BANFI, F., Danno privato e interesse pubblico nella disciplina del danno

ambientale, cit., p. 209-210.


121 Sull’argomento, v. in particolare, SCHETTINI, C., L’intervento delle associazioni nel giu-

dizio di danno ambientale, in Riv. crit. dir. priv., 1987, p. 619 ss.; RECCHIONI, S., Sulla «legiti-
matio ad interveniendum» nei giudizi di danno ambientale da parte delle associazioni di prote-
zione ambientale, in Giur. mer., 1990, p. 886 ss. Cfr. anche GIAMPIETRO, F., Danno all’ambiente
e legittimazione al giudizio dello Stato, degli enti territoriali e delle associazioni protezionistiche,
cit., p. 561; GRASSO, E., La tutela giurisdizionale dell’ambiente, cit., p. 529; FRANZONI, M., Il
danno all’ambiente, cit., p. 1020; MOSCARINI, L.V., Responsabilità aquiliana e tutela dell’am-
biente, cit., p. 504; VISINTINI, G., Convegno su «il danno ambientale con riferimento alla re-
sponsabilità civile», cit., p. 238. Implicitamente, POSTIGLIONE, A., L’azione civile in difesa del-
l’ambiente, cit., p. 317; COCCO, G., Tutela dell’ambiente e danno ambientale, cit., p. 495.
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 727

ordine alla tutela del bene ambiente122 e pur nella presente consapevo-
lezza della non perfetta riconducibilità della fattispecie – specie per ciò
che attiene al rilievo necessariamente giuridico dell’interesse legittimante
l’intervento – ai tratti definitori dogmatici dell’istituto in questione123.
Considerazione, quest’ultima, che ha condotto parte della dottrina
ad avvicinare la posizione dell’associazione legittimata all’intervento ad
«una sorta di interesse legittimo e cioè una posizione sostanziale più at-
tenuata del diritto soggettivo perfetto nel senso che la protezione, non è
ad esso data dalla norma in modo diretto ma indirettamente e se ed in
quanto sia tutelata una posizione preminente»124; interesse legittimo da
doversi intendere, nel caso di specie, più precisamente come «interesse
legittimo diffuso» ossia come un interesse avente carattere propriamente
partecipativo ed in quanto tale di difficile soggettivazione e predetermi-
nazione di oggetto e contenuto125.

4. Gli interventi legislativi successivi alla l. n. 349 del 1986


4.1. La l. 3 agosto 1999, n. 265 e il successivo d.legisl. 18 agosto 2000,
n. 267: il riconoscimento della legittimazione ad agire ai singoli e alle
associazioni ambientaliste
Il regime fortemente restrittivo in punto di legittimazione ad agire
avverso gli illeciti di danno ambientale ha trovato positiva revisione e am-
pliamento ad opera della l. 3 agosto 1999, n. 265 e del successivo d.legisl.
18 agosto 2000, n. 267126.
122 Di conseguenza si scosta dal filone maggioritario la dottrina che ha ritenuto che alle
associazioni ambientaliste debba riconoscersi un autonomo potere di azione: per tutti, v. TA-
RUFFO, M., La legittimazione ad agire e le tecniche di tutela nella nuova disciplina del danno
ambientale, cit., p. 436, 439-440; in tal caso l’intervento dovrebbe dunque qualificarsi come
intervento litisconsortile, essendo l’associazione legittimata a richiedere in via autonoma il ri-
pristino dello status quo ante.
123 Sul punto, in particolare, v. RECCHIONI, S., Sulla «legitimatio ad interveniendum» nei
giudizi di danno ambientale da parte delle associazioni di protezione ambientale, cit., p. 888 ss.
124 SCHETTINI, C., L’intervento delle associazioni nel giudizio di danno ambientale, cit., p.
646, in diretto richiamo della definizione di interesse legittimo offerta da ANDRIOLI, Com-
mento al codice di procedura civile, I, Napoli, 1957, p. 297.
125 SCHETTINI, C., L’intervento delle associazioni nel giudizio di danno ambientale, cit.,
p. 648.
126 Sul tema del danno ambientale a seguito delle riforme richiamate nel testo, v. MAD-
DALENA, P., L’evoluzione della tutela ambientale e l’azione popolare prevista dall’art. 4 della legge
3 agosto 1999, n. 265, cit., p. 128 ss.; BELTRAME, S., L’intervento sostitutivo delle associazioni am-
bientaliste nell’azione di risarcimento del danno ambientale spettante agli enti locali (l. n. 265
del 1999), in Riv. giur. amb., 2001, p. 131 ss.; GIRACCA, M.P., Riflessioni in tema di danno am-
bientale e tutela degli interessi diffusi, in Contr. impr., 2001, p. 394 ss.; MASTRODONATO, G., Le
728 CAPITOLO NONO

L’art. 9 (Azione popolare e delle associazioni di protezione ambien-


tale) del decreto appena citato, infatti, innovando la disciplina prevista
dall’art. 7 della l. 8 giugno 1990, 142, ha innanzitutto previsto che «cia-
scun elettore può far valere in giudizio le azioni e i ricorsi che spettano al
comune e alla provincia», disponendo tra l’altro che il giudice debba or-
dinare «l’integrazione del contraddittorio nei confronti del comune ov-
vero della provincia», nonché anche che «le spese sono a carico di chi ha
promosso l’azione o il ricorso, salvo che l’ente costituendosi abbia ade-
rito alle azioni e ai ricorsi promossi dall’elettore».
Ma ancora l’art. 9 ha previsto che «le associazioni di protezione am-
bientale di cui all’art. 13 della legge 8 luglio 1986, n. 349, possono pro-
porre le azioni risarcitorie di competenza del giudice ordinario che spet-
tino al comune e alla provincia, conseguenti a danno ambientale» e che
«l’eventuale risarcimento è liquidato in favore dell’ente sostituito e le
spese processuali sono liquidate in favore o a carico dell’associazione».
Per questa via, dunque, il diritto di azione attribuito dal comma 3
dell’art. 18 della l. n. 349/86 ai comuni ed alle province «sui quali inci-
dono i beni oggetto del fatto lesivo» è stato riconosciuto, anche ai singoli
elettori, nonché alle associazioni ambientaliste prima unicamente legitti-
mate all’intervento in giudizio ai sensi del comma 5 della l. n. 349/86.
Posta questa disciplina legale, la dottrina, piuttosto unanime nell’in-
travedere nell’innovazione legislativa in questione un segno di maggior
tutela e riconoscimento degli interessi della collettività all’integrità am-
bientale, si è divisa sulla corretta qualificazione formale da attribuire al
potere di azione riconosciuto ai soggetti privati indicati.
Anche riguardo questa questione, comunque, l’esatta qualificazione
formale da attribuire alla legittimazione ad agire riconosciuta dal d.legisl.
n. 267 si è presentata essenzialmente ed inesorabilmente quale conse-
guenza delle soluzioni adottate circa la determinazione della natura degli
interessi tutelati nel procedimento.

posizioni giuridiche soggettive nella materia ambientale: dagli interessi diffusi al nuovo ruolo del
cittadino, in Dir. econ., 2001, p. 381 ss.; LUCI, F., Azione per danno ambientale: il nuovo ruolo
delle associazioni ambientaliste, in Resp. civ. prev., 2002, p. 877, anche in I diritti dei consuma-
tori e degli utenti, a cura di Alpa e Levi, Milano, 2001, p. 253 ss.; BONATO, G., La tutela del-
l’ambiente secondo la l. n. 349 del 1986, con le successive modificazioni del d.lgs. n. 267 del
2000, in La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, cit., p. 299 ss.; BONA, C., L’a-
zione popolare locale nel processo penale, in Giur. mer., 2003, p. 1896 ss.; CARRATTA, A., Profili
processuali della tutela degli interessi collettivi e diffusi, cit., p. 116 ss.; DI COLA, L., La tutela
dell’ambiente, cit., p. 277 ss.; ANDREIS, M., Azione popolare e atteggiamento dell’ente sostituito,
in Urb. e app., 2004, p. 1344 ss.; MALAGNINO, D., Danno ambientale e tutela risarcitoria. La le-
gittimazione processuale delle associazioni ambientaliste, in Contr. imp., 2004, p. 1201 ss.
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 729

È evidente, infatti, che l’aver ricondotto l’azione degli enti territo-


riali ad un’ipotesi di sostituzione processuale di tali enti nell’esercizio del
diritto al risarcimento del danno patito dallo Stato ha rappresentato la
premessa ricostruttiva che più agevolmente ha spinto gli studiosi a quali-
ficare anche l’azione dei singoli o delle associazioni alla luce della fatti-
specie prevista dall’art. 81 c.p.c.127; soluzione interpretativa, quest’ultima,
avvalorata sul piano letterale dall’ultima parte del comma 3 dell’art. 9 del
d.legisl. n. 267, laddove, come visto, è prescritto che «l’eventuale risarci-
mento è liquidato a favore dell’ente sostituito»128.
Così, chi al contrario ha cercato di valorizzare la dimensione sogget-
tiva della tutela, ha ritenuto riduttivo concepire la legittimazione ad
agire, specie quella riservata ai singoli, come attribuzione di un mero di-
ritto di azione; soluzione evidentemente implicante una sterilizzazione
dell’interesse del legittimato sul piano sostanziale.
La premessa maggiore dell’impostazione ricostruttiva seguita da
questo orientamento è stata evidentemente quella rappresentata dal rife-
rire l’interesse tutelato alla collettività e non allo Stato129. Parte della dot-
trina ha, quindi, rilevato come la legittimazione ad agire del singolo co-
stituisca semplicemente «un allargamento della stessa identica legittima-
zione processuale già riconosciuta dalla legge del 1986 in capo agli enti
territoriali e allo Stato»130.
Altri, ripercorrendo in chiave critica le diverse concezioni dell’azione
127 In riferimento alle associazioni ambientaliste, v. BELTRAME, S., L’intervento sostitu-
tivo delle associazioni ambientaliste nell’azione di risarcimento del danno ambientale spettante
agli enti locali (l. n. 265 del 1999), cit., p. 131 ss.; GIRACCA, M.P., Riflessioni in tema di danno
ambientale e tutela degli interessi diffusi, cit., p. 414; PUNZI, C., La tutela giudiziale degli inte-
ressi diffusi e degli interessi collettivi, in La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e dif-
fusi, cit., p. 27; BONATO, G., La tutela dell’ambiente secondo la l. n. 349 del 1986, con le suc-
cessive modificazioni del d.lgs. n. 267 del 2000, cit., p. 338; DI COLA, L., La tutela dell’am-
biente, cit., p. 291; PANETTA, R., Il danno ambientale, p. 100 ss.; MALAGNINO, D., Danno
ambientale e tutela risarcitoria. La legittimazione processuale delle associazioni ambientaliste,
cit., p. 1222. Riguardo all’attore popolare, v. ANDREIS, M., Azione popolare e atteggiamento
dell’ente sostituito, cit., p. 1344 ss. In giurisprudenza, in riferimento alle associazioni, v. T.
Reggio Emilia, sez. pen., 8 giugno 2000, n. 474, in Riv. giur. amb., 2001, p. 120 ss., con citata
nota di Beltrame; in riferimento ai singoli, v. Cass., 15 dicembre 2000, n. 15830, in Giur. it.,
2001, p. 1421 ss.; Tar Piemonte, 23 giugno 2001, n. 1355, in TAR, 2001, I, p. 2758 ss.
128 In particolare, v. PUNZI, C., La tutela giudiziale degli interessi diffusi e degli interessi

collettivi, in La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, cit., p. 27.


129 Per tutti, v. MADDALENA, P., L’evoluzione della tutela ambientale e l’azione popolare

prevista dall’art. 4 della legge 3 agosto 1999, n. 265, cit., p. 884: il danno ambientale è «il
danno alla collettività organizzata nell’ente locale».
130 CARRATTA, A., Profili processuali della tutela degli interessi collettivi e diffusi, cit.,

p. 120.
730 CAPITOLO NONO

popolare suppletiva a cui l’azione del singolo dovrebbe essere evidente-


mente riferita hanno ribadito «la titolarità di una situazione sostanziale»
in capo all’elettore «e non di un semplice interesse riflesso», eviden-
ziando, per altro verso, l’impossibilità di dubitare che seppur «in senso
lato e atecnico» l’attore popolare sia sostituto processuale dello Stato a cui
comunque devono giungere le somme pagate a titolo di risarcimento.
Altri ancora hanno ravvisato nell’innovazione legislativa «un pro-
cesso di chiarimento ordinamentale ed istituzionale», grazie al quale ver-
rebbe ad emergere dalla lettera della legge l’attribuzione del bene am-
biente alla collettività, al popolo131.
Indipendentemente dalle sottili distinzioni formali va comunque
evidenziato come la disputa qualificatoria sia tutt’altro che oziosa; di-
scendendone conseguenze rilevantissime sulla disciplina del processo.
L’accennata sterilizzazione dei rilievi sostanziali dell’interesse fatto valere
dal legittimato privato conduce, infatti, ad un’inaccettabile compressione
se non annullamento del ruolo che questi svolge in sede di giudizio col-
lettivo. Ciò è stato esattamente indicato dalla dottrina che appunto è in-
tervenuta sul tema, rilevando appunto, in riferimento all’azione popolare
del singolo elettore, come il giusto riconoscimento di una dimensione so-
stanziale e non unicamente processuale dell’interesse dell’attore popolare
abbia l’importante conseguenza di attribuire a tale azione «un carattere
autonomo» anche nell’ipotesi in cui l’ente pubblico prenda parte attiva al
procedimento132.

4.2. Il decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152


4.2.1. Considerazioni introduttive
L’assetto normativo appena indicato è stato profondamente modifi-
cato dal decreto legislativo n. 152/2006133, nel quale il legislatore italiano,

131 MADDALENA, P., L’evoluzione della tutela ambientale e l’azione popolare prevista dal-
l’art. 4 della legge 3 agosto 1999, n. 265, cit., p. 885.
132 Così, condivisibilmente, BONATO, G., La tutela dell’ambiente secondo la l. n. 349 del
1986, con le successive modificazioni del d.lgs. n. 267 del 2000, cit., p. 342, in richiamo delle
osservazioni di BORGHESI, D., Azione popolare, in Enc. giur. Trec., IV, Roma, 1988, p. 15. Con-
tra, v. ANDREIS, M., Azione popolare e atteggiamento dell’ente sostituito, cit., p. 1344 ss., che
invece aderisce alla posizione espressa, riguardo alla disciplina dell’azione popolare prevista
dal comma 1 dell’art. 7 della l. 142/90, da MIGNONE, C., L’azione popolare prevista dalla legge
di riforma delle autonomie locali, in Dir. proc. amm., 1993, p. 282 ss., ma spec. p. 288, in nota
alla conforme decisione del Tar Veneto, sez. III, 27 maggio, n. 1728. Sul punto, v. le nostre
osservazioni espresse retro, cap. VI, nota 137.
133 Per un primo intervento sulla Parte sesta del d.legisl. esaminato nel testo, v. FIMIANI,
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 731

in recepimento della direttiva 2004/35/CE134 ed in attuazione della legge


delega 15 dicembre 2004, n. 308, ha completamente innovato i criteri che
informavano la disciplina del danno ambientale sia sotto il profilo so-
stanziale sia sotto il profilo processuale.
L’attenzione è richiamata dalla Parte VI del decreto in questione
(Norme in materia di tutela risarcitoria contro i danni all’ambiente), nella
quale, da un lato (Titoli I-II), hanno ricevuto disciplina le azioni di «pre-
venzione» e di «riparazione», previste dalla direttiva 2004/35/CE, e, dal-
l’altro (Titolo III), è stata introdotta una «nuova» azione risarcitoria di
spettanza statale pienamente sostitutiva di quella prevista dall’art. 18 della
l. n. 349/86, ora espressamente abrogato dall’art. 318 del d.legisl in esame
assieme al poc’anzi esaminato art. 9, comma 3, del d.legisl. n. 267/2000135.

P., Le nuove norme sul danno ambientale, Milano, 2006, p. 116 s.; ID., Disciplina del danno
ambientale: cosa cambia con il d.lgs. n. 152/2006, in Ambiente e sicurezza, 2006, fasc. 9, p. 129
ss.; PRATI, L., Le criticità del nuovo danno ambientale: il confuso approccio del «Codice del-
l’Ambiente», in Danno e resp., 2006, p. 1049 ss.; STIFANO, M., La tutela risarcitoria dei danni
all’ambiente nel decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152, in Giust. amm., 2006, p. 248 ss. Sulle
questioni a carattere processuale, v. DALFINO, D., Tutela dell’«ambiente» e soluzioni (proces-
suali) di compromesso nel d.leg. n. 152 del 2006, in Foro it., 2006, III, p. 508 ss. Cfr. anche DE
CESARIS, A.L., Una nuova disciplina per l’ambiente?, in Giorn. dir. amm., 2007, p. 123 ss.; PO-
STIGLIONE, A., Prevenzione e riparazione del danno ambientale: problemi applicativi, in Dir.
giur. agr. alim. e dell’amb., 2007, p. 10 ss.; SALVI, G., La tutela civile dell’ambiente alla luce del
testo unico ambientale, in Resp. civ. e prev., 2007, p. 656 ss.
134 Sulla direttiva 2004/35/CE, v. GIAMPIETRO, F., La direttiva 2004/35/CE sul danno
ambientale e l’esperienza italiana, in Ambiente, 2004, p. 805 ss.; ID., Prevenzione e riparazione
del danno ambientale: la nuova direttiva n. 2004/35/CE, ivi, 2004, p. 905 ss.; AA.VV., La re-
sponsabilità ambientale, a cura di B. Pozzo, Milano, 2005; GIOVA, S., Ambiente e responsabi-
lità civile: la direttiva 2004/35/CE nell’ordinamento italiano, in Responsabilità da danno am-
bientale, Profili di diritto civile, amministrativo e penale, a cura di S. Giova, Napoli, 2005, p.
7 ss.; LIGUORI, A., Il risarcimento del danno ambientale tra indicazioni comunitarie e prospet-
tive di recepimento, in Danno e resp., 2005, p. 1165 ss.; GIAMPIETRO, F., La responsabilità per
danno all’ambiente in Italia: sintesi di leggi e di giurisprudenza messe a confronto con la diret-
tiva 2004/35/CE e con il T.U. ambientale, in Riv. giur. amb., 2006, p. 19 ss.; POSTIGLIONE, A.,
Prevenzione e riparazione del danno ambientale: problemi applicativi, cit., p. 10 ss.; MONTA-
NARO, R., La direttiva sulla responsabilità ambientale nel quadro della disciplina europea in ma-
teria di ambiente, in La responsabilità per danno all’ambiente, L’attuazione della direttiva
2004/35/CE, a cura di F. Giampietro, Milano, 2006, p. 39 ss.
135 Va a tal proposito accolto il rilievo che LIGUORI, A., Il risarcimento del danno am-
bientale tra indicazioni comunitarie e prospettive di recepimento, cit., p. 1168, correttamente
sollevava già in relazione allo schema di d.legisl., ovvero l’evidente superamento dei limiti di
delega operato nell’apprestamento del d.legisl. 152/2006 da parte del governo. Infatti, se la
direttiva 2004/35/CE non concerneva direttamente l’azione di danno ambientale, nemmeno
la l. n. 308/2004 consentiva un intervento di tale incidenza sulla disciplina preesistente. La
legge menzionata, infatti, all’art. 1 delegava il governo ad adottare uno o più decreti legisla-
tivi di «riordino, coordinamento e integrazione» delle disposizioni legislative di diversi settori
e materie tra cui la «tutela risarcitoria contro i danni all’ambiente» e poi all’art. 9, lett. e), con
732 CAPITOLO NONO

Peraltro, il distinto background dei due nuclei normativi poc’anzi indicati


ha dato luogo ad un insieme di norme la cui lettura unitaria appare
quanto meno non agevole, risultando piuttosto evidente la cesura – ag-
gravata dalla pessima tecnica redazionale del testo legislativo – che si ma-
nifesta nel passaggio dal primo gruppo di disposizioni, attuative della di-
rettiva comunitaria, al secondo gruppo di disposizioni di derivazione na-
zionale136.
Volendo rimanere fedeli alle finalità di ricerca promosse sin dall’av-
vio di questo studio, anche nell’esame della disciplina appena richiamata,
il nostro sguardo dovrebbe essere primariamente attratto dai profili della
stessa che attengono al rapporto tra diritto e processo, ovvero, più nel
dettaglio, alle modalità con cui l’interesse sovraindividuale all’ambiente
ha ricevuto riconoscimento, ovviamente con particolare riguardo al tema
della legittimazione ad agire riservata ai diversi soggetti interessati. Il
complesso quadro di disposizioni che ora investe la materia impone pe-
raltro di allargare l’ambito della ricognizione, esaminando, seppur som-
mariamente, i tratti salienti della citata Parte VI del decreto.

4.2.2. I Titoli I e II della Parte VI del d.legisl. n. 152/2006


Per ciò che riguarda il primo nucleo di disposizioni, ovvero quelle
che costitutiscono attuazione della direttiva comunitaria poc’anzi indi-
cata, queste innanzitutto introducono una prima definizione di «danno
ambientale», che, da un lato, viene descritto dal primo comma dell’art.
300 come «qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o
indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima»
e, dall’altro, viene ulteriormente specificato mediante il rinvio operato
dal comma secondo del medesimo articolo a quanto già analiticamente
previsto dalla direttiva 2004/35/CE137.

maggior precisione, determinava l’oggetto dell’intervento nel «definire le modalità di quanti-


ficazione del danno». Sarebbero, dunque, dovuti rimanere inalterati sia i titolari dell’azione,
per ciò che attiene al profilo processuale che più interessa, sia la fattispecie costitutiva del ri-
medio, nonché, anche, i caratteri della misura sanzionatoria per ciò che non attiene alle diffi-
coltà di quantificazione del danno prodotto.
136 Condivisibilmente LIGUORI, A., Il risarcimento del danno ambientale tra indicazioni
comunitarie e prospettive di recepimento, cit., p. 1167, in relazione allo schema di decreto par-
lava di «accostamento meccanico, destinato a creare non minimi problemi di coordina-
mento». Ancor più duro il giudizio di PRATI, L., Le criticità del nuovo danno ambientale: il
confuso approccio del «Codice dell’Ambiente», cit., p. 1049 ss., che giustamente parla di «au-
tentico guazzabuglio di definizioni, concetti e principi spesso tra loro del tutto antitetici».
137 Il carattere non tassativo del rinvio è evidenziato da DI MARTINO, A., Il «nuovo»
danno ambientale. Note minime, in www.ambientediritto.it.
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 733

Gli articoli che seguono, nell’intento di attuare il principio di pre-


cauzione previsto dall’art. 174 del Trattato CE e prendendo a presuppo-
sto diretto o indiretto la nozione di danno indicata, prevedono in capo ai
soggetti, che esercitano e controllano attività professionali138 «a rilevanza
ambientale» o che comunque esercitano potere decisionale sugli aspetti
tecnici o finanziari di detta attività (art. 302, commi 4 e 5) una serie arti-
colata di obblighi aventi natura informativa, preventiva, conservativa e ri-
pristinatoria.
Senza entrare nell’esame dettagliato della complessa disciplina, in
massima sintesi e semplificazione, tali soggetti (c.d. «operatori»):
a) allorché ricorrano «pericoli, anche solo potenziali, per la salute
umana e per l’ambiente», devono informare senza indugio gli enti pub-
blici territoriali interessati, nonché il Ministro dell’ambiente e della tutela
del territorio, il quale ha facoltà di adottare in qualsiasi momento «mi-
sure di prevenzione», nonché promuovere «l’informazione del pubblico»
(art. 301);
b) se, come nell’ipotesi che precede, un danno non si è ancora veri-
ficato, ma «esiste una minaccia imminente che si verifichi», devono adot-
tare «le necessarie misure di prevenzione e di messa in sicurezza», previa
comunicazione ai suddetti enti ed al Ministro, il quale ha facoltà di ri-
chiedere informazioni all’operatore, ordinare specifiche misure o adot-
tarle lui stesso (art. 304);
c) se, invece, «si è verificato un danno ambientale», devono adottare
«tutte le iniziative praticabili per controllare, circoscrivere, eliminare o
gestire in altro modo, con effetto immediato, qualsiasi fattore di danno,
allo scopo di prevenire o limitare ulteriori pregiudizi ambientali ed effetti
nocivi per la salute umana o ulteriori deterioramenti ai servizi» e ciò sem-
pre previa comunicazione alle autorità già indicate tra cui il Ministro,
che, anche in questo caso, può chiedere informazioni e ordinare speci-
fiche misure conservative o di ripristino urgenti o adottarle lui stesso
(art. 305);
d) sempre nel caso in cui il danno si sia verificato, oltre alle misure
conservative appena indicate, devono, a seguito dell’approvazione del
Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, adottare le necessarie

138 Stando all’imprecisa definizione avanzata dal comma 5 dell’art. 302, per «attività

professionale» la legge intende «qualsiasi azione, mediante la quale si perseguano o meno fini
di lucro, svolta nel corso di un’attività economica, industriale, commerciale, artigianale, agri-
cola e di prestazione di servizi, pubblica o privata».
734 CAPITOLO NONO

«misure di ripristino ambientale» meglio specificate dall’allegato III al


d.legisl. (artt. 305-306).
Gravano, insomma, in capo agli «operatori» indicati una serie di ob-
blighi – in un certo senso collaborativi – tesi a rendere tali soggetti parti
attive in tutte le necessarie operazioni volte a ridurre gli effetti pregiudi-
zievoli che possano colpire l’ambiente o la salute umana derivanti da
eventi connessi alla loro attività professionale. Si dice obblighi collabora-
tivi, poiché l’attivazione dell’operatore sembra prescindere dalla respon-
sabilità conseguente ad un eventuale illecito, come sembrerebbe doversi
evincere dal fatto che i costi delle misure di precauzione, prevenzione e
ripristino non ricadono sull’operatore nelle circostanze specificamente
indicate dalla legge139.
Ciò sembrerebbe ricevere conferma da quanto previsto, infine, dal-
l’ultimo comma dell’art. 308 del d.legisl., secondo cui «le misure adottate
dal Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio in attuazione delle
disposizioni di cui alla parte sesta del presente decreto lasciano impre-
giudicata la responsabilità e l’obbligo risarcitorio del trasgressore interes-
sato»; disposizione, quest’ultima, che appare la trasposizione del comma
5 dell’art. 8 della direttiva, stando al quale le misure adottate dall’autorità
competente conformemente all’art. 5, paragrafi 3 e 4 e all’art. 6, paragrafi
2 e 3 della direttiva, ovvero la richiesta di informazioni o la richiesta di
adozione di misure di prevenzione o riparazione volte all’operatore inte-
ressato, lasciano impregiudicata la responsabilità dello stesso, non impli-
cando, quindi, l’obbligo dell’operatore di sopportare i costi di dette ope-
razioni.

139 Dette circostanze sono previste dall’art. 308 al comma 4 e 5, ovvero qualora il
danno o la minaccia di danno: a) sono state causate da un terzo e si sono verificate nono-
stante l’adozione di misure di sicurezza astrattamente idonee; b) sono conseguenza di un or-
dine o istruzione obbligatori impartiti da una pubblica autorità, diversi da quelli impartiti a
seguito dell’emissione o di un incidente imputabile all’operatore (art. 308, comma 4). In tali
ipotesi, anzi, il Ministro adotta le misure necessarie per consentire all’operatore il recupero
dei costi. Visto, inoltre, quanto previsto dalla direttiva all’art. 9, comma 4, ovvero la facoltà
agli Stati membri di consentire che l’operatore sia sollevato dalla responsabilità dei costi delle
(sole) azioni di riparazione (ovvero di ripristino) qualora non gli sia attribuibile un compor-
tamento doloso o colposo e il danno sia stato causato da un’emissione o un evento espressa-
mente consentiti da un’autorizzazione delle autorità preposte o da un’emissione o un’attività
o qualsiasi altro modo di utilizzazione di un prodotto nel corso di un’attività che l’operatore
dimostri di non essere stati considerati probabile causa di danno ambientale secondo lo stato
delle conoscenze scientifiche e tecniche al momento del rilascio dell’emissione o dell’esecu-
zione dell’attività, visto questa previsione – si diceva – sembrerebbe necessario riferirsi a tale
menzionato articolo della direttiva per attribuire un significato al diversamente poco com-
prensibile comma 5 dell’art. 308.
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 735

4.2.3. Il Titolo III della Parte VI del d.legisl. n. 152/2006


Successivamente a questa articolata disciplina di obblighi gravanti
sui soggetti poc’anzi indicati, il decreto legislativo n. 152/2006 riprende
la strada più marcatamente sanzionatoria-repressiva a cui era ispirata la
legge n. 349/86 e detta – quasi indifferente a quanto sino ad ora disposto
– una ulteriore disciplina del danno ambientale articolata nei seguenti
aspetti fondamentali: a) ridefinizione della fattispecie costitutiva del di-
ritto al risarcimento; b) determinazione del rapporto tra la tutela ripristi-
natoria e la tutela risarcitoria; c) fissazione dei criteri di quantificazione
della somma dovuta a titolo di risarcimento; d) attribuzione al Ministro
del potere di esercitare l’azione risarcitoria in sede giurisdizionale o di se-
guire la più rapida via dell’autotutela amministrativa mediante l’ingiun-
zione al responsabile di tenere il comportamento prescritto.
È disposto, infatti, che «chiunque realizzando un fatto illecito, o
omettendo attività o comportamenti doverosi, con violazione di legge, di
regolamento, o di provvedimento legislativo, con negligenza, imperizia,
imprudenza o violazione di norme tecniche, arrechi danno all’ambiente,
alterandolo, deteriorando o distruggendolo in tutto o in parte, è obbli-
gato al ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al risarci-
mento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato» (art. 311,
comma 2).
Sembra emergere, dunque, già sulla base della norma or ora ripor-
tata, la perfetta alternatività del rimedio risarcitorio rispetto a quello ri-
pristinatorio, con la conseguente perdita degli indubbi caratteri propria-
mente sanzionatori-punitivi che tale misura invece possedeva nella previ-
gente disciplina140.
Ma prima di chiarire definitivamente questo aspetto occorre esami-
nare preliminarmente una delle novità più rilevanti introdotte con il de-
creto e che evidentemente tocca il cuore della questione al centro dei no-
stri interessi, ovvero il meccanismo di attivazione della tutela apprestata.
È previsto, difatti, che il Ministro dell’ambiente e della tutela del
territorio abbia la facoltà di scegliere tra due distinte forme di tutela:
quella tradizionale, che lo vede titolare di un’«azione civile […] per il ri-
sarcimento in forma specifica e, se necessario, per equivalente patrimo-
niale», o quella, già introdotta dall’abrogato art. 1, commi 439 ss., della
legge finanziaria 2006141, secondo cui, il Ministro, al termine di una arti-
140 Cfr. retro, § 3.1.
141 Così, infatti, dispone l’art. 318 del d.legisl. riguardo agli articoli della legge finan-
ziaria citati nel testo, sui quali, v. DE MARZO, G., Il risarcimento del danno ambientale nella
legge finanziaria per il 2006, in Danno e resp., 2006, p. 121 ss.
736 CAPITOLO NONO

colata procedura istruttoria, può ingiungere il ripristino ambientale con


ordinanza immediatamente esecutiva (artt. 311 ss.), avverso la quale il re-
sponsabile – oltre alla previa e facoltativa opposizione prevista dal coor-
dinato disposto degli artt. 316, comma 2, e 310, commi 2 e 3 – può ri-
correre innanzi al Tar in sede di giurisdizione esclusiva (art. 316)142.
Il coordinamento tra le due misure dovrebbe essere assicurato dal-
l’art. 315 del d.legisl. in cui si dispone che, se il Ministro opta per la via
dell’autotutela, «non può né proporre né procedere ulteriormente nel
giudizio per il risarcimento del danno ambientale, salva la possibilità del-
l’intervento in qualità di persona offesa dal reato nel giudizio penale».
Se, dunque, torniamo al tema dei rapporti tra ripristino e risarci-
mento, possiamo ora rilevare come ulteriori elementi di riflessione emer-
gano chiaramente dall’esame della disciplina del contenuto della menzio-
nata ordinanza con la quale lo Stato ingiunge il ripristino ambientale a ti-
tolo di risarcimento in forma specifica (art. 313, comma 1). È disposto,
infatti, che, se, a fronte dell’ingiunzione, il responsabile «non provveda in
tutto o in parte al ripristino nel termine ingiunto, o il ripristino risulti in
tutto o in parte impossibile, oppure eccessivamente oneroso ai sensi del-
l’art. 2058 c.c.»143 il Ministro «con ordinanza successiva ingiunge il paga-
mento […] di una somma pari al valore economico del danno accertato
o residuato, a titolo di risarcimento per equivalente pecuniario» (art. 313,
comma 2). Si specifica, inoltre, che «la quantificazione del danno deve
comprendere il pregiudizio arrecato alla situazione ambientale con parti-
colare riferimento al costo necessario per il suo ripristino», aggiungendo
poi che, «ove non sia motivatamente possibile l’esatta quantificazione del
danno non risarcibile in forma specifica, o di parte di esso, il danno per
equivalente patrimoniale si presume, fino a prova contraria, di ammon-
tare non inferiore al triplo della somma corrispondente alla sanzione pe-
cuniaria amministrativa, oppure alla sanzione penale, in concreto appli-
cata» (art. 314, comma 3). Se poi è applicata una pena detentiva la quan-
tificazione della somma sarà ottenuta addebitando al responsabile
quattrocento euro per giorno di pena detentiva144.

142 Nel dettaglio, v. l’art. 316.


143 Sul limite dell’eccessiva onerosità, v. le critiche di DE MARZO, G., Il risarcimento del
danno ambientale nella legge finanziaria per il 2006, cit., p. 122.
144 La disciplina esposta nel testo ha ricevuta la secca e condivisibile critica di GIAM-

PIETRO, F., Prevenzione, ripristino, risarcimento dei danno all’ambiente nel d.lgs. n. 152/2006.
Esame delle disposizioni di rinvio alla bonifica, in La responsabilità per danno all’ambiente,
L’attuazione della direttiva 2004/35/CE, cit., p. 289 ss., ma spec. p. 293 ss., che in chiave di
sintesi conclusiva ha osservato che il regime complessivo di liquidazione del danno «potrebbe
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 737

Evidenti ragioni logico-sistematiche, dunque, impongono di ritenere


che tali ultime disposizioni indicate, sebbene appartenenti alla disciplina
del contenuto dell’ordinanza, in realtà contribuiscano a definire la fatti-
specie risarcitoria in tutti i suoi elementi, ovvero contribuiscano a defi-
nire il c.d. precetto secondario, ossia il contenuto dell’obbligo che grava
sull’autore dell’illecito ambientale. È chiaro, infatti, che le conseguenze
derivanti dalla violazione della norma non possono essere diverse a se-
conda del rimedio giuridico concretamente scelto ed esercitato dallo
Stato conseguendone, pertanto, che il medesimo contenuto – determi-
nato con i medesimi criteri – deve assumere il provvedimento giudiziale
di condanna a cui si addivenga allorché la strada seguita dal Ministro sia
quella giurisdizionale e non quella dell’autotutela145.
Ne deriva, quindi, che – come già detto – l’obbligo di risarcimento
per equivalente non concorre con l’obbligo di ripristino, ma si pone in
termini alternativi rispetto ad esso146. In secondo luogo, il risarcimento
del danno per equivalente andrà a sostituirsi all’obbligo di ripristino,
quando tale obbligo non sia di possibile attuazione (in tutto o in parte) o
quando quest’ultima costituisca comunque un onere eccessivo per il re-
sponsabile ai sensi dell’art. 2058 c.c.; ma ciò avverrà anche allorquando il
responsabile non abbia adempiuto l’obbligo di ripristino147.

4.2.4. L’azione pubblica del Ministero dell’ambiente e del territorio in rap-


porto con l’interesse collettivo all’ambiente
Le questioni problematiche e le ragioni di cocente perplessità che la
lettura del decreto in questione solleva sono talmente numerose che an-
che una stabilizzazione della disciplina in via di applicazione giurispru-
denziale – pur auspicabile – sembra rappresentare un risultato non im-
mediatamente a portata di mano.

funzionare come comoda “scappatoia” nei casi di grave danno ambientale» o «potrebbe,
nello stesso tempo offrire la possibilità di una liquidazione monetaria del danno da illecito
amministrativo o penale, anche quando manchi la prova di un effettivo pregiudizio all’am-
biente».
145 Così, condivisibilmente, la dottrina pronunciatasi sul punto. Cfr. ad es. FIMIANI, P.,

Le nuove norme sul danno ambientale, cit., p. 156; GIAMPIETRO, F., Danno all’ambiente e bo-
nifica dei siti contaminati. La linea evolutiva del testo approvato con il d.lgs. n. 152/2006 alla
luce della direttiva n. 2004/35/CE, in La responsabilità per danno all’ambiente, L’attuazione
della direttiva 2004/35/CE, cit., p. 243 ss., spec. p. 266.
146 Così, anche FIMIANI, P., Le nuove norme sul danno ambientale, cit., p. 116 s.
147 Per approfondimenti, v. GIAMPIETRO, F., Prevenzione, ripristino, risarcimento dei

danno all’ambiente nel d.lgs. n. 152/2006, cit., p. 293 ss.


738 CAPITOLO NONO

Una delle questioni tanto delicate quanto centrali è costituita, ad


esempio, dal coordinamento tra la fattispecie di danno prevista all’art.
300 e quella disciplinata dall’art. 311 del decreto148; rispetto alle quali la
dottrina – pur nelle indubbie difficoltà logico-esegetiche che la disciplina
nel suo complesso presenta149 – ha auspicato una lettura armonizzante ai
fini di una unitaria delineazione dei caratteri dell’illecito e della disciplina
positiva nel suo complesso150.
Ma ugualmente delicata è l’ulteriore questione – effettivamente al
centro delle nostre attenzioni – relativa al corretto inquadramento siste-
matico del rimedio all’interno delle possibili tecniche di tutela giurisdi-
zionale degli interessi sovraindividuali e ciò con particolare riferimento
agli strumenti di tutela che attualmente spettano a soggetti privati o an-
che pubblici, i quali – in conformità all’originaria impostazione seguita
dall’art. 18 della l. n. 349/86 – sembrano ora nuovamente privati di ri-
medi direttamente volti alla protezione del loro interesse all’ambiente.
La filosofia di fondo che, difatti, informa l’attuale disciplina è quella
del più completo accentramento dei poteri di attivazione delle diverse
forme di tutela in capo allo Stato151; opzione di certo seguita anche dalla
148 Sul difficile coordinamento ed interpretazione degli artt. 300 e 311, v. GIAMPIETRO,
F., La nozione di ambiente e di illecito ambientale, in Ambiente e sviluppo, 2006, p. 464; PRATI,
L., Le criticità del nuovo danno ambientale: il confuso approccio del «Codice dell’Ambiente»,
cit., p. 1050.
149 Le difficoltà in questione sono date dal fatto che l’art. 300, da inserirsi – come detto

– nel contesto attuativo della direttiva comunitaria, sembra fondamentalmente orientato a


coordinarsi con le disposizioni che seguono in materia di obblighi informativi, preventivi,
conservativi e ripristinatori che gravano sui c.d. operatori, a prescindere – peraltro – dalla
loro responsabilità, mentre l’art. 311, è perfettamente isolato dal contesto ora indicato e si in-
dirizza direttamente a «chiunque» – e quindi verso soggetti che non posseggano la qualità di
operatori – realizzi danno all’ambiente secondo le modalità ivi disciplinate. La difficoltà di
addivenire ad una soddisfacente armonizzazione dei due nuclei della disciplina è peraltro te-
stimoniata dall’orientamento che – al contrario – ritiene addirittura che l’attuale responsabi-
lità per danno all’ambiente si indirizzi solo agli operatori definiti al comma 4 dell’art. 302
(così, SALVI, G., La tutela civile dell’ambiente alla luce del testo unico ambientale, cit., p. 676
s.); opzione, quest’ultima, che peraltro non sembra potersi condividere sulla base dell’inequi-
voca latitudine precettiva che appartiene al «chiunque» previsto dal menzionato art. 311. Vi
è peraltro chi (cfr. ad es. STIFANO, M., La tutela risarcitoria dei danni all’ambiente nel decreto
legislativo 3 aprile 2006 n. 152, cit., p. 254 s.) nel delineare la fattispecie si riferisce in via
esclusiva all’art. 311. Di recente, la diversa funzione e collocazione che la legge riserva
all’«operatore» rispetto al generico «chiunque» è stata opportunamente rimarcata da AN-
GIULI, A., Sub. art. 302, in Commentario breve al codice dell’ambiente, cit., p. 822.
150 Sul punto, cfr. GIAMPIETRO, F., Prevenzione, ripristino, risarcimento dei danno al-

l’ambiente nel d.lgs. n. 152/2006, cit., p. 296 ss.


151 Tale centralità è ben puntualizzata, tra gli altri, da POSTIGLIONE, A., Prevenzione e ri-

parazione del danno ambientale: problemi applicativi, cit., p. 13 ss.


LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 739

previgente disciplina prevista dalla l. n. 349/86, ma ora ulteriormente ac-


centuatasi in ragione dell’incisiva amministrativizzazione dei rimedi, non-
ché dal loro articolarsi in diversi strumenti e modalità di intervento.
La tecnica seguita dal decreto, infatti, è stata quella di attribuire ai
soggetti potenzialmente interessati alla repressione dell’illecito – o all’at-
tivazione delle diverse attività lato sensu preventive ora previste in mate-
ria – un ruolo propulsivo dell’iniziativa statuale. L’art. 309 prevede,
quindi, che le regioni, le province autonome e gli enti locali, anche asso-
ciati, nonché le persone fisiche e giuridiche che sono o che potrebbero
essere colpite dal danno ambientale o che vantino un interesse legitti-
mante la partecipazione al procedimento relativo all’adozione delle mi-
sure di prevenzione, di precauzione o di ripristino disciplinate dalla parte
sesta del decreto ed, infine, le associazioni inserite negli elenchi previsti
dall’art. 13 della l. n. 349/86 possano presentare «denunce e osserva-
zioni, corredate da documenti ed informazioni, concernenti qualsiasi
caso di danno ambientale o di minaccia imminente di danno ambien-
tale», richiedendo – così – l’intervento statale a tutela dell’ambiente se-
condo le regole della parte sesta del decreto.
L’art. 310152 prevede, poi, in capo ai soggetti ora indicati, la legitti-
mazione ad agire innanzi al giudice amministrativo in sede di giurisdi-
zione esclusiva153: a) per l’annullamento degli atti e dei provvedimenti
adottati in violazione delle disposizioni di cui alla parte VI del d.legisl.;
b) avverso il silenzio inadempimento del Ministro; c) nonché anche per la
richiesta di risarcimento del danno subito a causa del ritardo nell’attiva-
zione pubblica delle misure necessarie (art. 310)154.
Ciò posto, gli interrogativi che le disposizioni riportate sollevano
sono fondamentalmente due. Un primo quesito concerne la loro con-
gruità con i principi generali in materia di tutela degli interessi sovrain-
dividuali ricavati nel corso del nostro studio, nonché – ancor più – la
compatibilità di detta disciplina con i principi costituzionali problemati-
camente evocati dall’assoluta chiusura dell’area della legittimazione ad

152 Da leggersi in coordinato disposto con quanto ancora dispone l’art. 18, comma 5,
della l. n. 349/86.
153 Ma, nel dettaglio, v. l’art. 310 del d.legisl. in ordine al potere di opposizione in via

amministrativa previsto al comma 2 e alla possibilità di ricorrere in via straordinaria al Presi-


dente della Repubblica confermata al comma 4. Per approfondimenti, v. MASINI, S., Sub art.
310, in Commentario breve al codice dell’ambiente, cit., p. 848 ss.
154 PRATI, L., Le criticità del nuovo danno ambientale: il confuso approccio del «Codice

dell’Ambiente», cit., p. 1051, a tal riguardo osserva che «per questa via si trasporterebbe il
danno ambientale sul piano dei diritti soggettivi astrattamente tutelabili individualmente, in
contrapposizione alla concezione dell’ambiente quale bene collettivo e superindividuale».
740 CAPITOLO NONO

agire nei confronti dei soggetti interessati alla preservazione dell’am-


biente. Il secondo, invece, in gran parte dipendente dalle soluzioni otte-
nute in riferimento al primo, è fondamentalmente diretto a individuare
gli strumenti alternativi di reazione di cui i soggetti interessati possano
servirsi per ottenere favorevoli risultati di tutela del bene in questione.
La strada da intraprendere per iniziare a offrire risposte agli interro-
gativi ora presentati è di certo indicata dal comma 7 dell’art. 313, in cui
è previsto che «resta in ogni caso fermo il diritto dei soggetti danneggiati
dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salute o nei beni di
loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela
dei diritti e degli interessi lesi»155; previsione, quest’ultima, che, assieme
all’abrogazione dell’art. 18 della l. n. 349/86 e dell’art. 9, comma 3, del
d.legisl. n. 267/2000156, se ve ne fosse bisogno, offre la definitiva con-
ferma in merito alla volontà del legislatore di escludere i soggetti diversi
dal Ministro dell’ambiente e del territorio dall’esercizio dei rimedi giuri-
dici direttamente volti alla tutela del bene ambiente e disciplinati nella
parte sesta del decreto.
Si assiste, quindi, ad un fenomeno di concentrazione e pubblicizza-
zione assoluta dei poteri di tutela, che, come ben emerso dalle pagine
precedenti, può vistosamente entrare in conflitto con le configurazioni
155 Disposizione forse superflua e comunque in linea con quanto affermato da C. cost.,
30 dicembre 1987, n. 641, cit.; Cass., S.U., 25 gennaio 1989, n. 440, cit.; Cass., 1° settembre
1995, n. 9211, in Corr. giur., 1995, p. 1146 ss., con nota di BATÀ, A., Le nuove frontiere del
danno ambientale; Cass., 3 febbraio 1998, n. 1087, in Urb. e app., 1998, p. 721 ss.
156 La legittimità costituzionale della previsione è stata posta in dubbio, sebbene in ri-
ferimento specifico all’azionabilità della tutela da parte dei comuni e delle province, da LI-
GUORI, A., Il risarcimento del danno ambientale tra indicazioni comunitarie e prospettive di re-
cepimento, cit., p. 1169, già in riferimento alla disciplina dello schema di d.legisl.; successiva-
mente, v. DI MARTINO, A., Il «nuovo» danno ambientale, cit., che paventa la possibile lesione
dell’art. 24 Cost., in ragione della mancanza di un’esplicita dichiarazione di obbligatorietà
dell’azione amministrativa che ritiene, configuri, invece, una mera facoltà dello Stato; e ciò
sulla base della lettera degli artt. 304, comma 4, e 305, comma 3, del decreto; ancora per l’il-
legittimità della chiusura operata in sede di legittimazione esclusiva, v. STIFANO, M., La tutela
risarcitoria dei danni all’ambiente nel decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152, cit., p. 252 s. In
generale comunque, sebbene al momento gli interventi dottrinali sul punto siano esigui e –
come si suol dire – di prima lettura, la pubblicizzazione degli strumenti di tutela giurisdizio-
nale, con la conseguente estromissione dei soggetti privati singoli e collettivi dall’area dei le-
gittimati ad agire, ha raccolto diverse critiche. Oltre agli AA. ora citati, cfr. anche POSTI-
GLIONE, A., Prevenzione e riparazione del danno ambientale: problemi applicativi, cit., p. 14,
che critica la mancata traduzione normativa sul piano della legittimazione concorrente della
distinzione tra dimensione personale, sociale e pubblica del danno ambientale; SALVI, G., La
tutela civile dell’ambiente alla luce del testo unico ambientale, cit., p. 683 ss., particolarmente
critico nei confronti della marginalizzazione del singolo cittadino dagli strumenti di tutela
dell’ambiente; MASINI, S., Sub art. 310, cit., p. 851 ss.
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 741

dell’interesse all’ambiente maggiormente orientate verso la valorizzazione


dei profili personalistici dello stesso.
Se, infatti, esaminiamo la disciplina in questione cercando di co-
gliere quel profilo funzionale normativo da cui dovrebbero emergere gli
interessi giuridicamente protetti dagli obblighi legali imposti157, si rileva
agevolmente che la moltitudine di interessi pulsanti che vivono dietro lo
schermo di sintesi incarnato dal Ministro dell’ambiente e del territorio si
palesa solo nelle norme poc’anzi riportate concernenti il mero conferi-
mento di poteri di impulso dell’iniziativa statale.
Quest’ultima previsione, peraltro, se, per un verso, può offrire
un’immagine riduttiva del ruolo riservato ai soggetti ivi indicati, dall’al-
tro, illumina chiaramente la posizione di strumentalità attribuita ai poteri
di tutela statali rispetto alla protezione degli interessi sostanziali che si
orientano verso il bene ambiente.
Riprendendo, quindi, le riflessioni critiche poc’anzi svolte in riferi-
mento al dibattito concernente il giudizio di danno ambientale ex art. 18
della l. n. 349/86, dovrebbe apparire piuttosto scontato che la posizione
di strumentalità impressa dalla normativa alla posizione giuridica dello
Stato esclude che il disegno tracciato dal decreto sia compatibile con le
concezioni propriamente dominicali e proprietarie che già abbiamo visto
essere state avanzate in riferimento alla previgente disciplina, poiché in
esse l’unico interesse giuridicamente rilevante è quello individuale-sta-
tale, con piena sterilizzazione dei profili di rilevanza degli interessi ap-
partenenti alla collettività, ai cittadini singoli o associati o ad altri enti
pubblici minori158.
La medesima conclusione dovrebbe anche valere in riferimento alle
tesi c.d. oggettive, secondo le quali – come visto – la tutela apprestata sa-
rebbe volta alla protezione del bene in sé per sé considerato e non a fa-
vore di interessi sostanziali imputabili allo Stato o ad altri soggetti di di-
ritto159.
La concezione ora richiamata, peraltro, si dimostra poco convin-
cente sin da una sua valutazione su un piano di apprezzamento generale.
Come già rilevato in altra sede, infatti, lo stesso concetto di giurisdi-
zione oggettiva risulta altamente equivoco ed incerto nei suoi caratteri

157 Cfr. retro, spec. cap. VI, § 3.


158 Cfr. retro, § 3.4.1. In questo senso sembrerebbe comunque orientarsi SALVI, G., La
tutela civile dell’ambiente alla luce del testo unico ambientale, cit., p. 682 s.
159 Cfr. retro, § 3.4.2. In relazione all’attuale disciplina, si pone nuovamente a favore

della natura oggettiva della tutela GIAMPIETRO, F., Prevenzione, ripristino, risarcimento dei
danno all’ambiente nel d.lgs. n. 152/2006, cit., p. 302.
742 CAPITOLO NONO

strutturali e funzionali, essendo stato impiegato in ambiti variabilissimi,


accomunati tutti dalla sola difficoltà di tradurre il fenomeno giuridico in
questione nelle forme della tutela giurisdizionale dei diritti soggettivi160.
Inoltre, la spersonalizzazione della tutela apprestata che si consegue
mediante il rinvio al concetto in questione pone anche dubbi non secon-
dari in relazione alla sua compatibilità con il sistema costituzionale, il
quale illumina l’ordinamento ponendovi al centro la persona.
Ragionando, invece, in un’ottica propriamente oggettiva viene a rea-
lizzarsi la completa recisione dei legami che debbono intercorrere tra tu-
tela e soggetto, sicché, per questa via, cade nell’assoluta irrilevanza – ad
esempio – la questione relativa all’attribuzione dei poteri di attivazione
della tutela giurisdizionale.
In altri termini, aderendo ad una configurazione oggettiva del giudi-
zio – come esattamente rilevato in dottrina161 – la legittimazione ad agire
attribuita allo Stato non solo può apparire ragionevole, ma diviene anche
sostanzialmente insindacabile come scelta di merito compiuta dal legi-
slatore.
Questa prospettiva, dunque, risulta difficilmente armonizzabile non
solo con la giurisprudenza della Corte costituzionale in riferimento al va-
lore ambiente, ma anche con le disposizioni poc’anzi indicate.
I punti fermi a cui riferirsi per procedere al corretto inquadramento
degli strumenti di tutela qui in esame sono dunque, da un lato, il pieno
accentramento dei poteri di tutela in mano ad un unico soggetto pub-
blico e, dall’altro, la pur sussistente rilevanza giuridica degli interessi
della collettività tutelati in via mediata dall’iniziativa statale.
La ricerca dell’opzione ricostruttiva effettivamente in grado di armo-
nizzare i due profili apparentemente contraddittori ora indicati conduce,
dunque, anche riguardo alla disciplina qui in esame, alle riflessioni svolte
in chiave generale in riferimento alle tecniche di tutela dell’interesse.
In quella sede abbiamo osservato che di regola il progressivo gene-
ralizzarsi dell’interesse tutelato conduce ad un incremento della tensione
all’attuazione dell’obbligo che si ottiene aumentando il numero dei legit-
timati ad agire con progressiva riduzione dell’incidenza che il singolo in-
teressato possiede in merito all’attivazione degli strumenti giurisdizionali
volti all’attuazione dell’obbligo; la quale incidenza, da una posizione di

160 In generale, v. il cap. V e poi il cap. VI, di cui in particolare la nota 17.
161 Cfr. infatti, le osservazioni di Grasso riportate retro, nota 85. Più in generale sull’ar-
tificialità del legame che lega legittimato ad agire ex lege e strumento di tutela all’interno di
concezioni di tal fatta, v. retro, cap. III, § 3.4.1.2.
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 743

monopolio al contrario riconosciuta per la tutela degli interessi indivi-


duali esclusivi, tende asintoticamente ad annullarsi.
Se, peraltro, si leggesse la disciplina qui in esame alla luce dei criteri
fenomenologici ora indicati si dovrebbe inevitabilmente rilevare l’insupe-
rabile illogicità della stessa rispetto alla concezione dell’ambiente negli
anni promossa dalla nostra Corte costituzionale, ovvero come «diritto
fondamentale della persona ed interesse fondamentale della collettività»,
ovvero come «valore primario ed assoluto» garantito dalla Costituzione a
vantaggio della collettività e dei cittadini162; difatti, a fronte del rilievo
giuridico ora indicato, invece che dirigersi verso un regime di legittima-
zione diffusa e concorrente, la legge sembra aver privilegiato l’opposta
soluzione, rappresentata da un regime di legittimazione ad agire assolu-
tamente concentrata ed esclusiva.
Ma ancora in quella sede si è osservato che la garanzia giuridica del
soddisfacimento dell’interesse, al massimo generalizzarsi del medesimo,
contempla tra le possibili tecniche di tutela anche la figura dell’azione
pubblica, stando alla quale detta garanzia si ottiene, anziché tramite l’e-
stensione dell’area dei legittimati ad agire, procedendo in senso opposto,
ovvero concentrando il potere di attivazione delle misure giurisdizionali
in capo ad un soggetto, ma rendendo d’altro canto doveroso l’esercizio
di tale potere al ricorrere della lesione degli interessi tutelati163.
Questa soluzione interpretativa era già stata avanzata in riferimento
al potere di azione riconosciuto allo Stato dal previgente art. 18, rispetto
al quale parte della dottrina si era giustamente orientata nel senso del-
l’obbligatorietà sulla base di diversi indici interpretativi, quali ad esem-
pio la valorizzazione del potere di denuncia ivi attribuito alle associazioni
e ai cittadini, l’analogia logico-sistematica con la posizione del pubblico
ministero nel processo civile, la natura pubblica del danno all’ambiente,
la funzione di rappresentanza della collettività attribuita allo Stato164.
162 Cfr. in particolare C. cost., 28 maggio 1987, n. 210, cit.; C. cost., 30 dicembre 1987,
n. 641, cit.
163 Tornano a tal proposito utili le osservazioni della dottrina processualcivilistica che
in riferimento al potere di azione del pubblico ministero ha giustamente osservato «se dav-
vero esiste un interesse pubblico a che il giudice conosca di certe materie e se, a tutela di sif-
fatto interesse, il p.m. viene addirittura legittimato in via esclusiva, non […] pare dubbio che
egli sia tenuto ad agire non appena si verifichino i presupposti di fatto e di diritto che legitti-
mano l’azione»: così, VIGORITI, V., Il pubblico ministero nel processo civile italiano, in Riv. dir.
proc., 1974, p. 296 ss., spec. p. 307.
164 A favore dell’azione pubblica obbligatoria, v. in particolare LANDI, P., La tutela pro-
cessuale dell’ambiente, cit., p. 73 ss., giustamente orientato a valorizzare il collegamento siste-
matico sussistente tra azione del pubblico ministero nel processo civile ed azione di risarci-
mento del danno ambientale. Cfr. anche GIAMPIETRO, F., La responsabilità per danno all’am-
744 CAPITOLO NONO

Altra parte della dottrina, peraltro, sebbene problematicamente e


con accenti critici, si era orientata in senso opposto, fondamentalmente
per la mancanza di un espressa previsione di legge in proposito165.
Quest’ultima osservazione, peraltro, è assolutamente inidonea a scal-
sare, da un lato, gli elementi funzionali e strutturali che emergono dalla
lettura dell’odierna disciplina e, dall’altro, l’argomento logico-sistematico
che abbiamo sviluppato addietro e che ora abbiamo qui richiamato.
Non sembra, quindi, condivisibile l’opinione secondo cui la scelta di
esercitare l’azione di risarcimento del danno ambientale sia rimessa alla

biente, cit., p. 129, 334 ss., 434 s.; ID., Danno all’ambiente e legittimazione al giudizio dello
Stato, degli enti territoriali e delle associazioni protezionistiche, cit., p. 543; DEL REGNO MON-
TAGNA, M.R., La partecipazione del cittadino, cit., p. 81 ss.; TARZIA, G., Le associazioni di cate-
goria nei processi civili con rilevanza collettiva, in Riv. dir. proc., 1987, p. 774 ss., ma spec. p.
802; ALBAMONTE, A., Danni all’ambiente e responsabilità civile, cit., p. 44 ss.; MADDALENA, P.,
Danno pubblico ambientale, cit., p. 225 ss.; MORBIDELLI, G., Il danno ambientale nell’art. 18 l.
349/1986, cit., p. 614; VIVANI, C., Il danno ambientale, cit., p. 43; dubitativo MINERVINI, E.,
Danno ambientale e responsabilità «individuale», cit., p. 31; MALAGNINO, D., Danno ambien-
tale e tutela risarcitoria. La legittimazione processuale delle associazioni ambientaliste, cit., p.
1219; ARCUDI, L., Danno ambientale e legittimazione ad agire, in Responsabilità da danno am-
bientale, cit., p. 155 ss., spec. 157 s.
165 Cfr. COSTANZO, A. - VERARDI, C.M., La responsabilità per danno ambientale, cit., 748
s.; GRASSO, E., La tutela giurisdizionale dell’ambiente, cit., p. 520, in ragione della mancata at-
tribuzione dell’azione al pubblico ministero; dubitativamente, TARUFFO, M., La legittimazione
ad agire e le tecniche di tutela nella nuova disciplina del danno ambientale, cit., p. 432; FRAN-
CARIO, L., Danni ambientali e tutela civile, cit., p. 218, il quale, peraltro precisa che se si qua-
lificasse – soluzione dall’A. negata – come «pubblico» il danno prodotto anziché «collettivo»,
occorrerebbe di conseguenza propendere per la natura obbligatoria dell’azione; POZZO, B.,
Danno ambientale, cit., p. 796; ID., Il danno ambientale, cit., p. 112, sebbene in senso critico
riguardo alla norma; CARAVITA, B., Diritto dell’ambiente, cit., p. 310, in ragione del fatto che
l’attribuzione del potere di azione a soggetti rappresentativi escluderebbe il carattere obbli-
gatorio dell’azione. In quest’ultima direzione, v. anche POSTIGLIONE, A., L’azione civile in di-
fesa dell’ambiente, cit., p. 315, per il quale si verifica una contraddizione tra la natura dell’a-
zione (dall’A. ritenuta «pubblica») e il regime di azionabilità della pretesa sostanziale; da qui
la critica alla soluzione legislativa accolta e l’auspicabile prospettiva di attribuire anche al
pubblico ministero l’azione di difesa ambientale. A ben vedere, peraltro, nessuno di questi ar-
gomenti risulta convincente. Il fatto che, ad esempio, l’azione sia attribuita a soggetti rappre-
sentativi e non al pubblico ministero deve ritenersi argomento tutt’altro che decisivo ai fini
della qualificazione dell’azione, la quale appunto va desunta non tanto da criteri soggettivi,
quanto soprattutto da indici funzionali e strutturali, i quali non solo si rivelano essenziali per
comprendere se la natura degli interessi tutelati sia «pubblica» o «collettiva», ma anche per
raffrontarsi al tenore letterale delle disposizioni, che, non sempre inequivoche, necessitano di
essere incasellate all’interno di un’interpretazione logico-sistematica che valorizzi tutto il loro
significato precettivo; scelta di metodo, quest’ultima indicata, seguita – ad esempio – anche
in ambito processualcivilistico per sciogliere – favorevolmente – il quesito relativo all’obbli-
gatorietà dell’azione del p.m. nel processo civile: in argomento, v. le puntuali osservazioni di
VELLANI, M., Il pubblico ministero nel processo, II, Bologna, 1963, p. 149-150.
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 745

piena discrezionalità dell’amministrazione166. Al contrario, la lettura più


corretta della disciplina alla luce dei criteri sinora esposti induce a rite-
nere che l’amministrazione sia tenuta ad esaminare la richiesta di inter-
vento e che, nel caso in cui tale richiesta non si rivelasse manifestamente
infondata sulla base della documentazione allegata167, sorga in capo al le-
gittimato pubblico l’obbligo di esercitare l’azione di risarcimento, ri-
spetto al quale rimarrà libera solo la scelta delle concrete modalità di
esercizio del potere-dovere, ovvero la scelta tra la via dell’autotutela am-
ministrativa nelle forme dell’istruttoria prevista dall’art. 312 per l’accer-
tamento dei fatti e dei responsabili del danno ambientale o quella del ri-
corso all’autorità giurisdizionale. In questo senso sembra deporre anche
la formula dell’art. 311, laddove è previsto che «il ministro dell’ambiente
e della tutela del territorio agisce, anche esercitando l’azione civile in sede
penale, per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e, se
necessario, per equivalente patrimoniale, oppure procede ai sensi delle di-
sposizioni di cui alla parte sesta del presente decreto»168.
Ulteriori connotazioni di doverosità potrebbero poi essere rilevate
in ciò che dispone il già menzionato art. 310, con particolare riferimento
alla parte in cui si riconosce ai soggetti interessati (regioni, province au-
tonome, enti locali, persone fisiche, ecc.) il potere di ricorrere al giudice
amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva anche per la condanna
al risarcimento del danno eventualmente subito a causa del ritardo nel-
l’attivazione da parte del Ministro delle misure di precauzione, preven-
zione o contenimento del danno ambientale. Anche ritenendo, infatti,
che il danno qui richiamato sia quello subito da beni giuridici distinti ed
autonomi rispetto al bene ambiente169, rimane comunque confermata la
posizione di garanzia che l’amministrazione riveste nei confronti della

166 CALABRÒ, M., Il ruolo delle associazioni ambientaliste in tema di prevenzione e ripa-
razione del danno ambientale in La responsabilità per danno all’ambiente, L’attuazione della di-
rettiva 2004/35/CE, cit., p. 193 ss., ma spec. p. 214; GIAMPIETRO, F., Prevenzione, ripristino,
risarcimento dei danno all’ambiente nel d.lgs. n. 152/2006, cit., p. 327; SALVI, G., La tutela ci-
vile dell’ambiente alla luce del testo unico ambientale, cit., p. 683. Cfr. anche FIMIANI, P., Le
nuove norme sul danno ambientale, cit., p. 102; MASINI, S., Sub art. 309, in Commentario breve
al codice dell’ambiente, cit., p. 848.
167 In questo senso, v. in particolare LANDI, P., La tutela processuale dell’ambiente, cit.,
p. 78, sulla scia di VELLANI, M., Art. 69, Azione del pubblico ministero, in Commentario del co-
dice di procedura civile, diretto da E. Allorio, I, 2, Torino, 1973, p. 792 ss.
168 Similmente si argomentava in relazione alla formula «è promossa» riferita dall’art.
18 della l. n. 349/86 all’azione statale: cfr. LANDI, P., La tutela processuale dell’ambiente, cit.,
p. 80; MADDALENA, P., Danno pubblico ambientale, cit., p. 225.
169 Così, GIAMPIETRO, F., Prevenzione, ripristino, risarcimento dei danno all’ambiente nel
d.lgs. n. 152/2006, cit., p. 320-321.
746 CAPITOLO NONO

collettività in ordine al contenimento e alla rimozione degli effetti dell’il-


lecito. E ciò rappresenta il risultato più logico e coerente alla luce dei
principi costituzionali in materia, in quanto volto a compensare la neces-
saria concentrazione in mano allo Stato dei poteri di tutela quale risposta
alla già vista diversificazione e complessificazione degli stessi170.
D’altra parte – come esattamente rilevato in dottrina171 – la linea in-
terpretativa qui tratteggiata sembra ben coordinarsi con le considerazioni
svolte in riferimento alla questione di legittimità dell’art. 18 della l. n.
349/86 da parte della stessa Corte costituzionale, la quale, proprio in re-
lazione all’esigenza di tutela effettiva dell’ambiente come interesse riferi-
bile non allo Stato, ma ai singoli e alla collettività, rilevava – a compen-
sazione del regime di legittimazione esclusiva ivi previsto – l’esistenza di
correttivi già apprestati dall’ordinamento, tra cui, in primo luogo, la de-
nuncia per omissione di atti di ufficio degli amministratori inerti; osser-
vazione, quest’ultima, appunto coerente con la natura obbligatoria del-
l’azione di risarcimento del danno ambientale172.

4.2.5. L’inevitabile supervalutazione delle tutele alternative


Alla luce delle considerazioni ora svolte sembra piuttosto plausibile
che l’effetto di questa concentrazione dei poteri in mano al Ministro del-
l’ambiente e del territorio sarà l’avvio di una nuova era per tutte le forme
di tutela alternativa già operative prima ed in costanza del regime previ-
sto dall’art. 18 ora abrogato173.
D’altra parte, tanto la dottrina che la giurisprudenza, anche all’in-
terno del quadro normativo previgente, avevano sostenuto la piena espe-
170 Se le osservazioni avanzate nel testo non convincessero e si ritenesse più opportuno
propendere per la discrezionalità dell’esercizio dell’azione di risarcimento di danno ambien-
tale, allora le obiezioni di incostituzionalità che già l’art. 18 aveva sollevato e che anche di re-
cente sono riaffiorate in dottrina in riferimento all’attuale disciplina non potrebbero essere al-
trimenti eluse (cfr. retro, note 55 e 156). Così ragionando, infatti, ovvero negando la dovero-
sità dell’esercizio dell’azione statale verrebbe a privarsi la tutela apprestata del meccanismo
tecnico in grado di assicurare il soddisfacimento dell’interesse collettivo all’ambiente, ovvero
di quel meccanismo idoneo a garantire la rispondenza dell’interesse dell’amministrazione agli
interessi della collettività.
171 GIAMPIETRO, F., La responsabilità per danno all’ambiente, cit., p. 456 s.; MADDALENA,
P., Danno pubblico ambientale, cit., p. 225 ss.
172 Così, C. cost., 30 dicembre 1987, n. 641, cit. Sul punto, v. GIAMPIETRO, F., La re-
sponsabilità per danno all’ambiente, cit., p. 456 s.
173 Tale previsione è condivisa pressoché unanimemente dalla dottrina intervenuta in
materia: cfr. ad es. SALVI, G., La tutela civile dell’ambiente alla luce del testo unico ambientale,
cit., p. 683 ss.; STIFANO, M., La tutela risarcitoria dei danni all’ambiente nel decreto legislativo
3 aprile 2006 n. 152, cit., p. 253.
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 747

ribilità di tutti i rimedi giurisdizionali volti a tutelare interessi effettiva-


mente diversi dall’interesse indifferenziato all’ambiente ma cionono-
stante in grado di conseguire risultati pratici a contenuto riparatorio o
inibitorio idonei a produrre effetti favorevoli sul piano ambientale174.
Il perno concettuale attorno a cui si è sviluppato l’orientamento in
questione è stato, come è naturale, il ritenere che la medesima condotta
materiale potesse rivelarsi plurioffensiva, cioè contestualmente lesiva di
distinti beni giuridici, ovvero, più precisamente, lesiva non solo del bene
ambiente, ma anche di specifici diritti soggettivi appartenenti agli enti
pubblici territoriali, ad enti collettivi privati o ai singoli cittadini175.
Per questa via, insomma, riacquistano particolare rilievo anche le di-
verse opzioni ricostruttive che abbiamo esaminato addietro e che ave-
vano trovato la loro ragion d’essere nella mancanza di strumenti di tutela
del bene in questione prima dell’entrata in vigore della legge istitutiva del
Ministero dell’ambiente.
Per ciò che riguarda il singolo, dunque, la tutela dell’ambiente viene
nuovamente a porsi nell’ottica del diritto all’ambiente salubre, ovvero in

174 Cfr. retro, nota 155, ed in particolare Cass., 3 febbraio 1998, n. 1087, cit., secondo
cui «lo stesso fatto può comportare, oltre al danno all’ambiente, da risarcire in considera-
zione del suo valore di assieme, che ovviamente prescinde dal valore patrimoniale delle sin-
gole componenti, anche un danno a una o più di queste ultime, risarcibile invece in termini
di stretta equivalenza pecuniaria. Emerge, così, per diversità di oggetto e di criteri di quanti-
ficazione del danno […] la profonda differenza strutturale tra il danno all’ambiente, sempre
di natura pubblicistica, e il danno da lesione di determinati beni, privati o pubblici, ancorché
entrambi ricadano nell’ambito della tutela aquiliana apprestata dall’art. 2043 c.c.»
175 Cfr. ALPA, G., Pubblico e privato nel danno ambientale, cit., p. 699; CASTRONOVO, C.,
Il danno all’ambiente nel sistema di responsabilità civile, cit., p. 518 ss., sull’applicabilità ge-
nerale dell’art. 2043 c.c.; ZIVIZ, P., in CENDON, P. - ZIVIZ, P., L’art. 18 della legge 349/86 nel si-
stema di responsabilità civile, cit., p. 534 s., per la quale «le regole comuni sui fatti illeciti […]
rimarranno […] attivabili in via ordinaria ogniqualvolta il torto ecologico […] abbia ulte-
riormente colpito in maniera “specifica” (vale a dire attraverso l’integrità fisica, alla salute,
alla proprietà o altre situazioni meritevoli) la sfera di un determinato soggetto, non importa
se pubblico o privato»; ugualmente MOSCARINI, L.V., Responsabilità aquiliana e tutela am-
bientale, cit., p. 501; FRANZONI, M., Il danno all’ambiente, cit., p. 1019; COMPORTI, M., La re-
sponsabilità per danno ambientale, cit., p. 273; D’ORTA, C., Ambiente e danno ambientale, cit.,
p. 110; COSTANZO, A. - VERARDI, C.M., La responsabilità per danno ambientale, cit., p. 721; LU-
MINOSO, A., Sulla natura della responsabilità per danno ambientale, cit., p. 899, riguardo ai di-
ritti di proprietà e salute privati e pubblici; BERTI, G., Il rapporto «ambientale», cit., p. 185, ri-
guardo alle lesioni al patrimonio e alla salute dei privati; ALPA-BESSONE, Il danno ambientale,
cit., p. 194; GRASSO, E., La tutela giurisdizionale per l’ambiente, cit., p. 524; MALINCONICO,
Beni ambientali, Padova, 1991, p. 275 ss.; SPAGNA MUSSO, B., Riflessioni critiche in tema di tu-
tela civilistica dell’ambiente, cit., p. 846; TORREGROSSA, G., La tutela dell’ambiente: dagli inte-
ressi diffusi al danno ambientale, cit., p. 1734; BORGONOVO RE, D., Contributo allo studio del
danno ambientale, cit., p. 281.
748 CAPITOLO NONO

stretta connessione e commistione al diritto alla salute176, da tutelarsi di


certo sotto il profilo repressivo del danno alla persona177 e ma anche
sotto il profilo preventivo dell’azione inibitoria178.
176 Ci riferiamo, ovviamente, all’orientamento inaugurato da Cass., S.U., 6 ottobre
1979, n. 5172, cit., e richiamato retro, § 2.2.
177 Rileva correttamente i limiti della tecnica risarcitoria in ordine alla tutela del diritto
all’ambiente del singolo cittadino SALVI, G., La tutela civile dell’ambiente alla luce del testo
unico ambientale, cit., p. 684 ss. Sul tema cfr., in particolare, PARDOLESI, R. - GRANIERI, M., Ol-
tre la funzione riparatoria della responsabilità civile nella tutela ambientale, in Ambiente e di-
ritto, II, a cura di S. Grassi, M. Cecchetti e A. Andronio, Firenze, 1999, p. 527 ss. A titolo
esemplificativo, v. di recente App. Milano, 10 dicembre 2005, in Foro it., 2006, I, p. 1924, in
riferimento al noto caso Seveso; ed ancor prima Cass., S.U., 22 febbraio 2002, n. 2515, in Giur.
it., 2003, p. 691 ss., con nota di BONA, M. - MIGLIORATI, G., Il danno non patrimoniale da disa-
stro ambientale: la svolta delle Sezioni unite. Come è naturale anche l’ambito di tutelabilità del
diritto all’ambiente salubre non potrà che giovarsi dei nuovi orientamenti giurisprudenziali in
materia di risarcimento del danno alla persona con particolare riferimento alla nuova lettura
costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. Sul punto, ogni citazione sembra superflua ol-
tre che insufficiente, basti il rinvio alle significative pronunce che hanno avviato il mutamento
di indirizzo: cfr. Cass., 12 maggio 2003, n. 7281, Cass., 12 maggio 2003, n. 7282, Cass., 12
maggio 2003, n. 7283, Cass., 31 maggio 2003, n. 8827, Cass., 31 maggio 2003, n. 8828, sulle
quali v. CENDON, P., Anche se gli amanti si perdono l’amore non si perderà. Impressioni di lettura
su Cass. 8828/2003; BARGELLI, E., Danno non patrimoniale ed interpretazione costituzional-
mente orientata dell’art. 2059; ZIVIZ, P., E poi non rimase nessuno, tutti in Resp. civ. prev., 2003,
p. 688 ss.; FRANZONI, M., Il danno non patrimoniale ed il danno morale: una svolta per il danno
alla persona, in Corr. giur., 2003, p. 1031 ss.; ID., Il nuovo corso del danno non patrimoniale, in
Contr. impr., 2003, p. 1193 ss.; NAVARRETTA, E., Danni non patrimoniali: il dogma infranto e il
nuovo diritto vivente, in Foro it., 2003, I, p. 2277 ss. Come è noto, poi, l’orientamento giuri-
sprudenziale ora indicato ha ricevuto l’avallo della Consulta: cfr. C. cost., 11 luglio 2003, n.
233, in Foro it., 2003, I, p. 2201, con nota di NAVARRETTA, E., La Corte costituzionale e il danno
alla persona «in fieri»; in Rass. dir. civ., 2003, p. 775 ss., con nota di PERLINGIERI, P., L’art. 2059
c.c. uno e bino: un’interpretazione che non convince; in Corr. giur., 2003, I, p. 1028, con nota di
FRANZONI, M., Il danno non patrimoniale, il danno morale: una svolta per il danno alla persona,
in Lavoro prev. oggi, 2003, p. 1251; in Danno e resp., 2003, p. 9139, con diverse note di com-
mento; in Giur. it., 2003, p. 1777, con nota di CENDON, P. - ZIVIZ, P., Vincitori e vinti (… dopo
la sentenza n. 233/2003 della Corte costituzionale), in Giust. civ., 2003, I, p. 2019.
178 Sul tema, v. MAUGERI, M.R., Violazione delle norme contro l’inquinamento ambientale
e tutela inibitoria, Milano, 1997, p. 298 ss. e soprattutto MILETTI, A., Tutela inibitoria indivi-
duale e danno ambientale, Napoli, 2005, p. 201; nonché DE GIORGI, M.V., Salute, ambiente e
tutela inibitoria, in Nuova giur. civ. comm., 2006, I, p. 181 ss. In giurisprudenza, v., in primo
luogo, la più volte citata Cass., S.U., 6 ottobre 1979, n. 5172, già orientata a configurare la pro-
tezione giuridica dell’interesse all’ambiente salubre nella duplice direzione repressiva e pre-
ventiva. Successivamente, ancora in materia ambientale, v. la significativa Cass., 27 marzo
2000, n. 9893, in Foro it., 2001, I, 141 ss.,; in Corr. giur., 2001, p. 200 ss., con nota di MATA-
RESE, L., Il danno da onde elettromagnetiche: la svolta della Cassazione; in Danno e resp., 2001,
p. 37 ss., con nota di DE MARZO, G., Inquinamento elettromagnetico e tutela inibitoria; deci-
sione a cui ci riferiamo tra breve nel testo; cfr. anche Cass., S.U., 20 novembre 1992, n. 12386,
in Dir. giur. agr. amb., 1993, p. 20 ss. Più in generale, v. D’ADDA, A., Orientamenti giurispru-
denziali in tema di tutela civile inibitoria definitiva, in Nuova giur. civ. comm., 1999, II, p. 59 ss.
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 749

In questo senso, ad esempio, particolare interesse riveste il princi-


pio, affermato proprio in materia di inquinamento elettromagnetico da
parte della Corte di cassazione179, secondo cui non sarebbe necessario
l’effettivo verificarsi del danno affinché il titolare del diritto possa reagire
contro la condotta altrui, allorché questa si manifesti in atti suscettibili di
provocarlo180. Come precisamente affermato, infatti, «la protezione ap-
prestata dall’ordinamento al titolare di un diritto si estrinseca prima nel
vietare agli altri consociati di tenere comportamenti che contraddicano il
diritto e poi nel sanzionare gli effetti lesivi della condotta illecita, obbli-
gando il responsabile al risarcimento del danno», sicché, «con specifico
riferimento al diritto alla salute, sarebbe contraddittorio affermare che
esso non tollera interferenze esterne che ne mettano in discussione l’inte-
grità e ammettere che alla persona sia data la sola tutela del risarcimento
del danno e non anche quella preventiva»181. Orientamento giurispru-
denziale, quello ora riportato, giunto sin anche a sostenere che l’inibito-
ria possa «tradurre in comando un accertamento dal quale risulti in quali

179 Cass., 27 marzo 2000, n. 9893, cit.


180 La linea interpretativa seguita dalla Corte dovrebbe, dunque, assimilarsi con la dot-
trina orientata ad ammettere l’inibitoria in via generale al ricorrere dell’illecito di pericolo:
cfr. PETROLATI, F., Inibitoria ed illecito di pericolo, in Arch. civ., 1996, p. 435 ss.; BASILICO, G.,
La denuncia di danno temuto: contributo allo studio della tutela preventiva, in Riv. dir. civ.,
2005, p. 39 ss. Un’interessante variante della linea interpretativa ora indicata è costituita dal-
l’opzione ricostruttiva avanzata da parte di CONSOLO, C., Il rischio da «ignoto tecnologico»: un
campo arduo – fra lecito e illecito – per la tutela cautelare e inibitoria, in Resp. civ. prev., 2003,
p. 599 ss. Anche nel saggio ora citato, infatti, si è ribadita l’opportunità di allontanarsi dalla
rigida dicotomia lecito-illecito, orientandosi verso quella terra di mezzo in cui non trova po-
sto l’azione risarcitoria (fondamentalmente per la difficoltà di dar prova dell’illecito) e l’a-
zione inibitoria si presenta nella sua veste preventiva pura in una «variante alquanto più mo-
derna e vitale del modello dell’azione nunciatoria di danno (solo) temuto e (non del tutto ir-
ragionevolmente) temibile». Per gli altri principali orientamenti favorevoli all’ammissibilità
generale dell’azione inibitoria in via interpretativa, v. retro, cap. VII, nota 176; orientamenti
che, peraltro, in conformità alle ipotesi di inibitoria tipicamente previste (diritto d’autore a
parte), ritengono in genere che l’esercizio dell’azione debba essere condizionato alla previa
violazione dell’obbligo sostanziale, ovvero successivamente alla commissione dell’illecito.
181 La corretta impostazione dei rapporti tra tutela preventiva e repressiva alla luce del
principio di effettività della tutela giurisdizionale garantito dalla Costituzione all’art. 24 rap-
presenta l’argomento interpretativo recentemente valorizzato da PAGNI, I., Tutela specifica e
tutela per equivalente, Situazioni soggettive e rimedi nelle dinamiche dell’impresa, del mercato,
del rapporto di lavoro e dell’attività amministrativa, Milano, 2005, p. 39 ss. secondo cui – ap-
punto – occorrerebbe ritenere ammissibile l’ordine inibitorio allorché «i rimedi a carattere re-
pressivo non siano sufficienti a “compensare” il danno arrecato al titolare di un diritto, e ciò
a prescindere dalla natura assoluta di quest’ultimo»; valutazione – quest’ultima indicata – da
condurre con l’impiego dei criteri ermenenutici di valutazione dell’irreparabilità del pregiu-
dizio già eleborati in materia di provvedimento di urgenza.
750 CAPITOLO NONO

condizioni e con quali accorgimenti l’opera può essere posta in esercizio


ed il pericolo per la salute può essere evitato»182.
Per ciò che, invece, riguarda gli enti esponenziali prima legittimati
all’azione risarcitoria di danno ambientale, anche qui la tutela verrà ad
incanalarsi entro percorsi giuridici similari, talora destinati effettivamente
a risolversi in una duplicazione delle tutele; e ciò specie – ovviamente –
sotto il profilo risarcitorio.
Proprio in riferimento al diritto all’ambiente salubre, infatti, in dot-
trina si era già sostenuta la possibilità da parte di soggetti esponenziali
rappresentativi di far valere il diritto al risarcimento dell’interesse alla sa-
lubrità ambientale che è proprio di collettività circoscritte e differenziate
all’interno della più ampia comunità statale; e ciò tanto in riferimento
alle associazioni private, quanto in riferimento agli enti pubblici territo-
riali ed in particolare ai comuni183.
182 In questo senso, v. MILETTI, A., Tutela inibitoria individuale e danno ambientale, Na-
poli, 2005, p. 201, la quale ammette pianamente il ricorso all’inibitoria a fronte di violazioni
del diritto all’ambiente salubre tanto come ordine di cessazione del comportamento antigiu-
ridico, quanto come condanna al rispetto di forme prescrittive di comportamento da tenere
nell’eventuale prosieguo dell’attività.
183 ALBAMONTE, A., Danni all’ambiente e responsabilità civile, cit., rispettivamente a p.
55, 67 ss. e 77 ss. Cfr., di recente, la significativa Cass. pen., 7 aprile 2006, n. 33887, inedita,
nella quale l’esito interpretativo in questione è raggiunto proprio svincolandosi da quanto di-
sponeva l’art. 18 della l. n. 349/86 (anche alla luce della sua successiva integrazione ad opera
dell’art. 9, comma 3, del d.legisl. 267/2000) e rinviando alla disciplina comune prevista dall’art.
2043 c.c. Il complessivo itinerario argomentativo è, peraltro, decisivamente interessante per
comprendere l’orientamento giurisprudenziale qui esposto, in quanto nella pronuncia in
esame è presente un notevole sforzo interpretativo volto a dimostrare l’autonomia dell’inte-
resse leso in capo alle associazioni. La Corte, infatti, – in espresso richiamo della giurispru-
denza amministrativa – ha ritenuto giuridicamente rilevanti, nella forma dell’interesse legittimo
collettivo (cfr. retro, cap. III, § 3.4.1.3.2.), gli interessi «territorialmente determinati», sottrat-
tisi allo stato di adespotia in ragione del noto processo organizzativo concernente una certa co-
munità; e sulla base di questa argomentazione, richiamando i principi espressi dalla nota sen-
tenza delle Sezioni unite n. 500/99 in materia di risarcibilità degli interessi legittimi, è giunta a
ritenere le associazioni ambientaliste «legittimate in via autonoma e principale all’azione di ri-
sarcimento per danno ambientale, quando siano statutoriamente portatrici di interessi territo-
rialmente determinati, concretamente lesi da un’attività illecita». Inoltre, particolare attenzione
è stata dedicata al profilo problematico concernente l’eventuale duplicazione delle pretese ri-
sarcitorie. Con riferimento alla problematica ora indicata, infatti, la Corte ha fatto perno sul
carattere «complesso» del bene ambiente, in relazione al quale sarebbe possibile configurare la
coesistenza di interessi individuali, interessi collettivi ed interessi pubblici, con la conseguente
rilevabilità di distinti profili di danno pertinenti a ciascun danneggiato. Diverse ragioni di per-
plessità sollevano peraltro le osservazioni ora riportate, le quali non convincono in relazione a
nessuna delle diverse questioni affrontate. In primo luogo sembra fuori luogo il richiamo della
giurisprudenza amministrativa, nata e sviluppatasi in risposta alle esigenze specifiche di adat-
tamento del concetto di interesse legittimo alla materia degli interessi sovraindividuali e qui
evocata col chiaro intento di giustificare l’autonoma rilevanza degli interessi fatti valere dalle
LA TUTELA COLLETTIVA DELL’AMBIENTE 751

Secondo una modalità argomentativa più che nota, si è, infatti, af-


fermato che «l’associazione non sostiene un diritto altrui […], ma fa va-
lere un diritto proprio di cui è portatrice, di natura collettiva» in virtù del
fatto che «la parte danneggiata è la collettività considerata nella sua glo-
balità, e l’interesse danneggiato non è la risultante di una somma di inte-
ressi individuali, ma un entità superindividuale che abbraccia l’intera col-
lettività senza specificarsi ovvero frazionarsi nei singoli suoi compo-
nenti»184; impostazione interpretativa, quest’ultima indicata, seguita
anche in giurisprudenza e tesa a valorizzare una triplice dimensione del
danno all’ambiente: quella personale, quella sociale e quella pubblica185.
Si riapre, quindi, la ricerca ai «danni individualizzati» eventual-
mente subiti da enti pubblici territoriali o da associazioni ambientaliste

associazioni. In secondo luogo, palese è l’ingiustificata commistione tra risarcimento del danno
ambientale e risarcimento di distinti ed autonomi beni giuridici. In terzo ed ultimo luogo,
tutt’altro che fugati sono i dubbi che una tutela risarcitoria così concepita non si traduca in
un’effettiva duplicazione dei risarcimenti. A chi scrive, ad esempio, risulta piuttosto difficile
comprendere come sia possibile qualificare il risarcimento del danno alla salute come una
«voce» del danno ambientale ed inoltre come sia possibile far coesistere sul piano logico il
danno inferto all’integrità fisica e psichica dei singoli cittadini con un diverso e distinto danno
alla salute lesivo degli interessi collettivi e che proprio le associazioni ambientaliste dovrebbero
far valere in giudizio. Qui sembra che gli esiti giurisprudenziali in questione giungano ad un
risultato assimilabile alle note e miracolose moltiplicazioni del lago di Tiberiade. La legittima-
zione ad agire delle associazioni ambientaliste per la tutela del loro diritto al risarcimento con-
seguente (anche) alla lesione degli interessi collettivi alla salubrità ambientale è sostenuta da
Cass. pen., 5 aprile 2002, n. 22539, Kiss Gmunter, in Giur. it., 2003, p. 694, con nota di BAR-
BIERA, L., Il danno ambientale come danno presunto risarcibile allo Stato, agli enti territoriali,
alle persone fisiche e alle associazioni ecologiste; in Riv. giur. amb., 2003, con nota di COPPINI,
C.L., L’illecito ambientale ed il risarcimento del danno disposto nel processo penale; in Dir. giur.
agr. amb., 2003, p. 636 ss., con nota di AMATO, A., Impianti per la produzione di energia deri-
vante dalla trasformazione dei rifiuti: inquinamento atmosferico, natura del CDR, procedure sem-
plificate e ruolo degli enti locali e delle associazioni.
184 ALBAMONTE, A., Danni all’ambiente e responsabilità civile, cit., p. 67, che peraltro
precisa che tale profilo di «danno collettivo» non sostituisce ma si aggiunge ai danni ulte-
riormente differenziati che ricadono sui singoli (cfr. p. 83 ss.). Cfr., anche FRANCARIO, L., Il ri-
sarcimento del danno all’ambiente dopo la legge 349 del 1986, cit., p. 240, che però avanza la
possibilità, riguardo gli enti esponenziali privati di esercitare un’azione inibitoria (e non dun-
que risarcitoria) a tutela dell’interesse collettivo alla salubrità ambientale, meglio specificando
la sua posizione a tal riguardo, già espressa in ID., Il risarcimento del danno all’ambiente dopo
la legge 349 del 1986, cit., p. 485 s.
185 L’impostazione interpretativa indicata nel testo trova origine nelle sentenze della
Corte costituzionale in materia di ambiente (spec. 641/87) ed è chiaramente esposta da Cass.
pen., 5 aprile 2002, n. 22539, cit. Il medesimo principio, ovvero la tridimensionalità del bene
ambiente (pubblica, sociale e personale), è stato ribadito di recente da Cass. pen., 7 aprile
2006, n. 33887, in Guida dir., 2006, fasc. 43, p. 82 (in cui cfr. retro, nota 183); Cass. pen., 9
ottobre 2006, in Urb. e app., 2006, p. 259; Cass. pen., 3 novembre 2006, n. 36514, inedita;
Cass. pen., 2 maggio 2007, n. 16575, in www.ambientediritto.it.
752 CAPITOLO NONO

rappresentative, non solo sotto il profilo ora accennato, che si pone a ca-
vallo tra bene ambiente e bene salute, ma anche nella più ampia cornice
del danno alla persona.
Così, ad esempio, parte della dottrina, avallata dalla giurisprudenza,
ha sostenuto, riguardo agli strumenti di tutela riservati agli enti pubblici
territoriali, anche il possibile ristoro dei «danni (patrimoniali e non) che
importano una lesione di un interesse proprio del soggetto collettivo, in-
teso quale soggetto a sé stante»186, tra cui, eventualmente anche i danni de-
rivanti dalla lesione del nome, dell’immagine, della reputazione187; solu-
zione – quest’ultima – ritenuta ammissibile anche a favore delle associa-
zioni rappresentative private in relazione al danno non patrimoniale
derivante dalla lesione dei diritti della personalità delle associazioni am-
bientaliste anche non riconosciute e concernente «l’interesse alla conserva-
zione di un contesto ambientale circostanziato e storicamente definito as-
sunto e preso a cuore dagli associati per farne ragione stessa dell’esistenza
del sodalizio e così divenuto elemento costitutivo dell’organismo»188.
186 FRANCARIO, L., Il risarcimento del danno all’ambiente dopo la legge 349 del 1986, cit.,
p. 217, 219 ss. Sul tema, v. COSTANTINO, M., Illecito civile e danno ad enti pubblici territoriali,
in Danno e resp., 1999, p. 261 ss.; AMATO, A., I diversi regimi di responsabilità civile per danno
all’ambiente, Bari, 2003, p. 81 ss.
187 FRANCARIO, L., Il risarcimento del danno all’ambiente dopo la legge 349 del 1986, cit.,
p. 233. Ampia è la giurisprudenza sulla lesione dell’immagine dell’ente pubblico o del suo di-
ritto della personalità di cui il territorio è parte integrante: cfr. Cass. pen., 19 marzo 1992, n.
6297, in Imprese, 1992, p. 2568; Cass., 19 maggio 1996, n. 5650, cit.; Cass., 15 aprile 1998, n.
3807, in Resp. civ. prev., 1998, p. 992; Cass. pen., 11 gennaio 1998, n. 8318; Cass. pen., 30 ot-
tobre 2001, n. 1145, in Cass. pen., 2002, p. 3859; Cass. pen., 5 aprile 2002, n. 22539, cit.; T.
Trento, 10 giugno 2002, in Riv. giur. amb., 2004, p. 510 ss., con nota di PRATI, L., La compro-
missione della reputazione turistica come danno morale risarcibile in capo all’ente territoriale;
Cass. pen., 11 novembre 2004, n. 48402, in Guida dir., 2005, fasc. 4, p. 91 ss.
188 Così, T. Venezia, 23 luglio 1997, in Riv. giur. amb., 1998, p. 326 ss. Cfr. anche Cass.
pen., 29 settembre 1992, in Foro it., 1993, II, p. 475 ss.; Cass. pen., 10 marzo 1993, in Dir. proc.
amm., 1994, p. 517 ss., con nota di PUGLIESE, F., La legittimazione ad agire delle associazioni
ambientaliste: il limite è nella legge; Cass. pen., 26 settembre 1996, in Arch. nuova proc. pen.,
1996, p. 871; T. Venezia, 21 giugno 2001, in Riv. giur. amb., 2002, p. 124 ss., con nota di BEL-
TRAME, S., Danno ambientale: l’intervento in giudizio degli enti territoriali e delle associazioni
ambientalistiche; Cass. pen., 5 aprile 2002, n. 22539, cit.; Cass. pen., 2 dicembre 2004, n.
46746, in Arch. nuova proc. pen., 2005, p. 181. In dottrina, v. FRANCARIO, L., Il risarcimento del
danno all’ambiente dopo la legge 349 del 1986, cit., p. 243; ALBAMONTE, A., Danni all’ambiente
e responsabilità civile, cit., p. 47 ss., ma spec. 53-54, 57, 62. In generale, sul riconoscimento an-
che ai soggetti collettivi della titolarità di diritti della personalità: cfr. ad es. DE CUPIS, A., I di-
ritti della personalità, Milano, 1961, p. 44 ss.; RESCIGNO, P., Personalità (diritti della), in Enc.
giur. Trec., XXIII, Roma, 1990, p. 7 ss.; ZENO ZENCOVICH, V., Personalità (diritti della), in Dig.
disc. priv., sez. civ., XIII, Torino, 1995, p. 430 ss., spec. 440. Più di recente, v. ZOPPINI, A., I di-
ritti della personalità delle persone giuridiche (e dei gruppi organizzati), in Riv. dir. civ., 2002, I,
851 ss.; VITTORIA, D., Il danno patrimoniale agli enti collettivi, in Riv. dir. civ., 2007, I, p. 539 ss.
CAPITOLO DECIMO

LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI

SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. – 2. Le tappe del progressivo itinerario di ri-


conoscimento di azioni collettive a tutela degli interessi dei consumatori. – 2.1. L’i-
niziale vuoto normativo e l’apporto della dottrina. – 2.1.1. I tentativi di tutelare gli
interessi dei consumatori all’interno del giudizio di repressione della concorrenza
sleale. – 2.1.2. L’edificazione in via sistematica dell’azione collettiva a tutela dei
consumatori. – 2.2. I principali strumenti di tutela giurisdizionale degli interessi
collettivi dei consumatori attualmente previsti dal nostro ordinamento. – 3. La na-
tura delle azioni collettive a tutela dei consumatori. – 3.1. Considerazioni intro-
duttive. – 3.2. Le azioni collettive inibitorie. – 3.2.1. Esame del dibattito sulla na-
tura dell’azione collettiva inibitoria in materia di clausole abusive. – 3.2.1.1. La de-
duzione della natura dell’azione dalla natura degli interessi tutelati. – 3.2.1.2.
L’incerto inquadramento dogmatico dell’azione inibitoria collettiva in materia di
clausole abusive. – 3.2.2. Esame del dibattito sulla natura dell’azione collettiva ini-
bitoria generale a tutela dei consumatori. – 3.2.2.1. La possibile natura plurioffen-
siva della condotta antigiuridica: considerazioni introduttive e di metodo. –
3.2.2.2. Sistemazione ragionata delle diverse posizioni sostenute in dottrina. –
3.2.2.3. Le ricadute dogmatiche del nuovo quadro normativo in materia di azione
inibitoria generale. – 3.2.2.4. La difficile coesistenza tra la dominante concezione
dell’azione collettiva riservata agli enti rappresentativi e le «misure idonee a cor-
reggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate». – 3.2.3. Conside-
razioni ricostruttive. – 3.2.3.1. La ridefinizione dei requisiti funzionali e strutturali
delle azioni collettive inibitorie conseguente all’introduzione del nuovo art. 140
bis. – 3.2.3.2. La natura delle azioni collettive inibitorie a tutela dei consumatori. –
3.2.3.3. La legittimazione ad agire del singolo consumatore a tutela dell’interesse
collettivo. – 3.2.3.4. La natura della posizione giuridica attribuita all’ente esponen-
ziale. – 3.2.3.5. I limiti soggettivi del giudicato inibitorio collettivo. – 3.2.3.6. Il
problema dei rapporti tra giudicato collettivo e giudizi individuali sugli effetti con-
seguenti. – 3.3. L’azione collettiva risarcitoria. – 3.3.1. Il nuovo art. 140 bis del co-
dice del consumo. – 3.3.2. L’ambito di applicazione. – 3.3.3. La legittimazione ad
agire. – 3.3.4. L’oggetto del giudizio. – 3.3.4.1. Considerazioni introduttive. –
3.3.4.2. Giudizio su diritti o giudizio sull’illecito. – 3.3.4.3. Le indicazioni rico-
struttive offerte dalla disciplina dell’adesione. – 3.3.4.4. Le indicazioni ricostruttive
offerte dalla disciplina dell’intervento. – 3.3.4.5. Conclusioni ricostruttive: il giudi-
zio collettivo come giudizio ad oggetto variabile. – 3.3.5. Gli effetti del giudizio
collettivo risarcitorio ed il suo coordinamento con le azioni collettive inibitorie. –
3.3.5.1. I rapporti tra il giudizio collettivo risarcitorio e i giudizi individuali di
completamento. – 3.3.5.2. Gli effetti del giudizio collettivo risarcitorio nei con-
754 CAPITOLO DECIMO

fronti degli altri legittimati ad agire in via collettiva. – 3.3.5.3. Gli effetti del giudi-
zio collettivo risarcitorio e le sue ricadute sulla configurazione del giudizio collet-
tivo inibitorio.

1. Considerazioni introduttive
Il 20 maggio del 1970 entrava a far parte del nostro ordinamento lo
Statuto dei lavoratori con il primo procedimento civile volto a tutelare
interessi collettivi di immediata derivazione costituzionale; con la legge n.
903 del 9 dicembre del 1977 tale direttrice di riforma si estendeva – sep-
pur timidamente ed ancora in ambito giuslavoristico – al tema della tu-
tela antidiscriminatoria; anni dopo, con la legge n. 349 dell’8 luglio 1986,
anche l’interesse ambientale riceveva un significativo riconoscimento
nella tanto discussa azione pubblica esaminata nel capitolo precedente.
Solo gli interessi collettivi dei consumatori all’inizio degli anni NOvanta,
e dunque a oramai lungo tempo dall’accendersi del dibattito sul tema
della tutela giurisdizionale degli interessi sovraindividuali, rimanevano
ancora privi di specifici strumenti di tutela processuale collettiva.
D’altra parte, se la dimensione collettiva del conflitto tra potere im-
prenditoriale e lavoratori era oramai questione profondamente penetrata
tanto nella coscienza sociale che nella conoscenza giuridica e se il pro-
blema ambientale poteva contare non solo sull’improcrastinabilità di in-
terventi a suo favore, ma anche sull’attività di sensibilizzazione promossa
da parte dell’associazionismo privato, pari condizioni non appartenevano
ancora al tema relativo alla tutela del consumatore, sebbene questo, già
dai primi anni Settanta (e dunque in perfetta sintonia cronologica con
l’avviarsi della riflessione scientifica sugli interessi collettivi e diffusi) – si
fosse rivelato oggetto di significative attenzioni in seno alla dottrina civi-
listica più avvertita1.

1 Di vera e propria «svolta dottrinale» (1970-1980), parla, in riferimento all’emersione


della problematica della tutela del consumatore all’interno della progressiva opera di rilettura
costituzionale del diritto privato (cfr. retro, cap. II e cap. III), la dottrina tra le più impegnate
sul tema in questione; ci si riferisce ad ALPA, G., I contratti con i consumatori, L’iter normativo
degli art. 1469 bis-sexies del codice civile, Roma, 1997, p. 11 ss., che come momento significa-
tivo individua il Convegno di Catania del 17-18 maggio 1969, i cui Atti sono raccolti nel vo-
lume AA.VV., Condizioni generali di contratto e tutela del contraente debole, Milano, 1970. In
riferimento al dibattito dottrinale si parla di «un dibattito a “circuito chiuso”: esso alimenta
e circola solo nelle aule universitarie, negli istituti e negli incontri accademici, posto che nella
società civile le associazioni dei consumatori sono appena agli albori, non godono di credito,
di audience, e tanto meno di potere negoziale». Per una ampia panoramica generale sull’evo-
luzione del diritto dei consumatori, v., per tutti, ALPA, G., Diritto privato dei consumi, Bolo-
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 755

Non solo; proprio durante uno dei primi incontri congressuali dedi-
cati espressamente ai rimedi a difesa del consumatore – ed in particolare
alla tutela del contraente debole avverso l’impiego da parte dell’impresa
di condizioni generali di contratto – detto tema di riflessione scientifica
iniziava – seppur non prevalentemente2 – a presentarsi in una duplice
prospettiva: quella individuale, da un lato, e quella collettiva, dall’altro3.
Con ampio anticipo rispetto al successivo dibattito, autorevole dot-
trina rilevava l’esistenza di «effetti distorsivi» e «costi sociali» gravanti
«su coloro che godono dei beni e dei servizi» a seguito dell’esercizio da
parte dell’impresa di un vero e proprio «potere normativo»4, esplicantesi
gna, 1986; ID., Il diritto dei consumatori, Roma-Bari, 2003; ID., Art. 1, Finalità ed oggetto,
nonché Art. 2, Diritti dei consumatori, in Codice del consumo, Commentario, a cura di G. Alpa
e L. Rossi Carleo, Napoli, 2005, rispettivamente p. 17 ss. e 31 ss.
2 In questa fase di studio, l’interesse della dottrina civilistica sembra orientato con pre-
valenza sulle opportunità ed i limiti di sindacato giudiziale circa il merito delle clausole gene-
rali inserite all’interno della specifica pattuizione contrattuale: cfr. ad es. i contributi conte-
nuti in AA.VV., Condizioni generali di contratto e tutela del contraente debole, cit., passim, e
la nota che segue. Per l’approfondimento del tema relativo alle condizioni generali del con-
tratto ed in particolare per le indicazioni bibliografiche concernenti il dibattito relativo al pe-
riodo in esame nel testo, ossia anteriore alla riforma attuata con l’art. 25 del 6 febbraio 1996,
n. 52, v., DOSSETTI, M., Condizioni generali di contratto, in Nss. D.I., III, Torino, 1959, p. 1109
ss.; GENOVESE, A., Le condizioni generali di contratto, in Enc. dir., VII, Milano, 1961, p. 802
ss.; FRANCARIO, L., Clausole vessatorie, in Enc. giur. Treccani, VI, Roma; MAIORCA, S., Contratti
standard, in Nss. D.I., Appendice, II, Torino, 1981, p. 636 ss.; BIANCA, C.M., Condizioni gene-
rali di contratto: I) Diritto civile, in Enc. giur. Treccani, VII, Roma; ROPPO, E. - NAPOLITANO,
G., Clausole abusive, in Enc. giur. Treccani, VI, Roma, 1994.
3 Cfr., in particolare, l’efficace sintesi proposta da PAVONE LA ROSA, A., Introduzione, in
AA.VV., Condizioni generali di contratto e tutela del contraente debole, cit., p. 3 ss., che chia-
risce la duplice prospettiva emersa dal dibattito congressuale: quella del sindacato di merito
operato sul regolamento contrattuale pattuito (alla luce della violazione dei principi di ordine
pubblico per alcuni, della buona fede e correttezza contrattuale, per altri) e quella più diretta
sul controllo del rispetto dei limiti imposti al potere normativo dell’imprenditore ovvero «sul
piano dei rapporti tra […] la categoria degli operatori economici che hanno predisposto le
condizioni generali da una parte, ed i consumatori e gli utenti dall’altra». La dimensione col-
lettiva del conflitto è percepita con particolare acume da BIANCA, C.M., Intervento, in
AA.VV., Condizioni generali di contratto e tutela del contraente debole, cit., p. 227 ss., in cui
si osserva: «se si prende atto di una dimensione delle c.g.c. che supera la pattuizione dei sin-
goli rapporti, allora si tratterà di trovare su un altro piano rimedi più efficaci: cioè non al li-
vello sporadico delle decisioni che può prendere il giudice nel caso concreto ma su un piano
che si misuri direttamente con potere regolamentare dell’imprenditore. […] I tentativi di più
soddisfacenti soluzioni potrebbero allora orientarsi, ad es., verso la possibile unificazione de-
gli interessi negoziali tipici sul piano collettivo. In questo senso si potrebbe auspicare un al-
largamento della sfera della contrattazione collettiva attraverso la sollecitazione di quegli in-
teressi comuni dei consumatori che in questo momento sembrano talmente diffusi da non
riuscire a coagularsi attorno a istituzioni ben determinate».
4 DI MAJO, A., Il controllo giudiziale delle condizioni generali di contratto, in Riv. dir.
comm., 1970, p. 192 ss., ma cit., p. 196.
756 CAPITOLO DECIMO

con la predisposizione di clausole generali di contratto in ordine alla «ti-


pizzazione e razionalizzazione» dei modi di svolgimento dell’attività eco-
nomica nei rapporti con i terzi5.
Si indicava, a tal proposito, ovvero in relazione alle suddette nuove
prassi commerciali, l’inadeguatezza dei tradizionali strumenti dogmatici,
incentrati su concezioni individualistiche, consensualistiche e formali del
rapporto contrattuale6, e – di contro – veniva posta in rilievo la necessità
di apprestare forme di controllo dirette a sindacare il merito – ossia il
contenuto – delle pattuizioni, se non addirittura l’opportunità di interro-
garsi su forme di controllo preventivo, magari affidato all’iniziativa di
«organi pubblici» o direttamente alle «categorie di utenti che si assu-
mono essere danneggiati dal regolamento predisposto»7.
5 DI MAJO, A., Il controllo giudiziale delle condizioni generali di contratto, cit., p. 194.
6 DI MAJO, A., Il controllo giudiziale delle condizioni generali di contratto, cit., p. 197.
7 Afferma di DI MAJO, A., Il controllo giudiziale delle condizioni generali di contratto, p.

198, «si potrebbe (essere portati ad) osservare in primo luogo che il fenomeno della predi-
sposizione di c.g.c., destinate a valere per una serie di fattispecie omogenee, presenta motivi
di assonanza assai forti con l’attività di produzione di norme giuridiche, onde la necessità di
un controllo che si esprima in forme diverse da quelle con cui si esercita il controllo sul con-
tratto individuale. Ma, a prescindere dal fatto che una tesi siffatta appare in declino in tutti i
moderni sistemi giuridici – è infatti difficile giustificare dal punto di vista dogmatico la com-
petenza dell’impresa alla produzione di norme – non ne deriverebbe comunque la compe-
tenza al giudice a esercitare il controllo. Al giudice è istituzionalmente demandata in effetti la
soluzione di vertenze concrete e specifiche, non già il sindacato su attività che travalicano un
rapporto specifico. A volere essere coerenti del resto bisognerebbe affermare che il controllo
potrebbe aver luogo in un momento anteriore a quello che segna l’inserimento delle c.g.c. in
un rapporto individuale, il che renderebbe ancora più incerta l’ammissibilità del controllo del
giudice». Ma v. anche successivamente, p. 224 ss., ma spec. p. 226 s. In realtà il controllo pre-
ventivo e collettivo delle clausole generali si pone in questo scritto come ipotesi di difficile at-
tuazione. Come vedremo, peraltro, tanto la necessaria funzione preventiva della tutela,
quanto la dimensione collettiva della stessa, costituiscono aspetti – tra loro evidentemente
connessi – che andranno affermandosi solamente col maturare del dibattito. Sul punto non si
intende offrire un quadro completo, ma ad es. è interessante notare come la funzione pre-
ventiva della tutela degli interessi dei consumatori, sebbene in riferimento più diretto alla re-
sponsabilità per prodotti dannosi, viene a porsi come oggetto di riflessione anche all’interno
del dibattito sviluppatosi durante il Convegno di Milano del 17 dicembre 1977. Qui (cfr., in
particolare, GHIDINI, G., Il problema della prevenzione, in AA.VV., La responsabilità dell’im-
presa per i danni all’ambiente e ai consumatori, Atti del Convegno di Milano del 17 dicembre
1977, Milano, 1978, p. 159 ss.; ma sull’insufficienza della tutela repressiva-risarcitoria v. an-
che FERRI, G.B., In tema di tutela del consumatore, in Tecniche giuridiche e sviluppo della per-
sona, a cura di N. Lipari, Roma-Bari, 1974, p. 265 ss., ma spec. 288) è evidenziata l’impor-
tanza di integrare la funzione tipicamente repressivo-sanzionatoria della responsabilità civile
con la funzione preventiva tipica dell’azione inibitoria in ordine all’incentivazione al perse-
guimento dal parte dell’impresa di una «politica della sicurezza» (cfr. anche le precisazioni di
FRIGNANI, A., Intervento, ivi, p. 221 ss.), ma detta prospettiva non sembra essere assunta da-
gli studiosi nella sua compenetrazione con la dimensione collettiva del conflitto di interessi
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 757

Emergeva con evidenza – come detto – la duplice dimensione della


problematica in esame e quindi, in altri termini, la coesistenza tra, da un
lato, le finalità di tutela meramente individuali, indirizzate a garantire il
contraente debole all’interno del singolo rapporto negoziale, e, dall’altro,
le finalità di tutela collettiva, ovvero relative ad «una più vasta categoria di
interessi», emergenti in ragione dell’essere destinato – il regolamento pre-
disposto – a valere non soltanto in un «rapporto individuale con il singolo
consumatore (od utente)», ma per una «serie di rapporti omogenei»8.
Il tema della tutela degli interessi collettivi dei consumatori, specie
nella fattispecie concernente la vessatorietà delle clausole generali, che
plasticamente descriveva la contrapposizione tra imprenditore e colletti-
vità dei consumatori, si presentava nelle sue linee essenziali già in gran
parte impostato, ossia articolantesi in rimedi individuali-repressivi e ri-
medi collettivi-preventivi; e – lo si sarà notato – si presentava con accenti
incredibilmente simili a quelli emersi durante il progressivo affermarsi
della dimensione collettiva del conflitto di interessi intercorrente tra lavo-

(cfr. anche, ad es. le osservazioni, qui nuovamente in relazione ai contratti di «massa», di


ALPA, G. - BESSONE, M. - CARNEVALI, U. - GHIDINI, G., Tutela giuridica di interessi diffusi, con
particolare riguardo alla protezione dei consumatori. Aspetti privatistici, in AA.VV., La tutela
degli interessi diffusi nel diritto comparato con particolare riguardo alla protezione dell’ambiente
e dei consumatori, Atti del convegno di Salerno, 22-25 maggio 1975, a cura di A. Gambaro,
Milano, 1976, p. 173 ss., ma spec. p. 247, anche se poi a p. 276 ss. il titolo del § 9 della parte
V, presenta l’efficace formula – in relazione al rischio conseguente la commercializzazione di
prodotti dannosi – di «interessi diffusi alla “sicurezza”»). Per una definitiva e chiara acquisi-
zione dell’inibitoria collettiva quale fondamentale strumento di tutela preventiva degli inte-
ressi collettivi dei consumatori, v. comunque BELLELLI, A., L’inibitoria come strumento di con-
trollo delle condizioni generali di contratto, in Le condizioni generali di contratto, a cura di
C.M. Bianca, II, Milano, 1981, p. 301 ss., di recente, ancora sul tema v. ID., L’inibitoria come
strumento generale di tutela contro l’illecito, in Riv. dir. civ., 2004, p. 607 ss.
8 DI MAJO, A., Il controllo giudiziale delle condizioni generali di contratto, cit., p. 239;

che in relazione all’«interesse della categorie di coloro che acquistano quel determinato pro-
dotto o fruiscono di quel certo servizio o prestazione» parla di interesse «di natura “privata”,
sia pure a struttura “diffusa”, in quanto “generalizzato”, ad una più ampia categoria di per-
sone o di utenti»; interesse in prima approssimazione di possibile accostamento con «il con-
cetto di “interesse collettivo”, che rappresenta la risultante degli interessi degli appartenenti
ad una categoria o a un gruppo sociale» (si richiama in nota alla nozione di interesse collet-
tivo avanzata da GIUGNI, G., Introduzione allo studio della autonomia collettiva, Milano, 1960,
p. 103), ma più correttamente da tenersi distinto da tale nozione per il fatto che, «in tal caso,
il criterio unificatore dei diversi interessi non sarebbe rappresentato dalla particolare condi-
zione o classe sociale che esprime siffatti interessi (donde la formazione di un interesse unita-
rio di classe) sibbene dal fatto, nel fondo formale ed estrinseco, che i diversi soggetti sono de-
stinatari dello stesso servizio o consumatori dello stesso prodotto. In tal caso – si osserva –
non credo che questo elemento possa essere sufficiente per delineare un ordine di interessi
qualitativamente diverso da una mera sommatoria di interessi individuali» (p. 243 e 244).
758 CAPITOLO DECIMO

ratori subordinati e datore di lavoro sul finire dell’Ottocento9: allora come


ora, il nucleo della riflessione verteva su quanto fosse inappagante una
configurazione giuridica dei rapporti tra i contraenti fondata sulla serena
fiducia nell’uguaglianza formale delle parti e nell’efficacia legittimante –
ex post – del libero consenso rispetto al contenuto dell’accordo negoziale.
È ben comprensibile, quindi, che durante il successivo Convegno di
Pavia, a cui tante volte abbiamo fatto riferimento nel nostro itinerario di
studio, gli interessi dei consumatori venissero a presentarsi, specie nel-
l’opinione di alcuni studiosi, come tipico esempio – accanto agli interessi
ambientali – di interessi sostanziali a dimensione superindividuale10, e
che, di lì a breve, due altri incontri congressuali in materia di strumenti
di tutela degli interessi collettivi dedicassero apposito spazio proprio alla
questione relativa alla tutela giurisdizionale degli interessi dei consu-
matori11.

2. Le tappe del progressivo itinerario di riconoscimento di azioni collet-


tive a tutela degli interessi dei consumatori
2.1. L’iniziale vuoto normativo e l’apporto della dottrina
D’altra parte, come accennato in avvio, nonostante il tema della tu-
tela degli interessi dei consumatori sia entrato a far parte del dibattito
9 Cfr. retro, cap. I. Ricorda ancora ALPA, G., I contratti con i consumatori, L’iter norma-
tivo degli art. 1469 bis-sexies del codice civile, cit., p. 13, in riferimento implicito alle teorie del
Tonner, che in quell’arco di tempo «dal punto di vista ideologico, si discute, negli ambienti di
ispirazione marxiana, se sia possibile configurare una categoria uniforme di portatori di inte-
ressi denominati “consumatori”, che finirebbe per sostituirsi alla categoria dei lavoratori, ma
appunto per questo priva di forza e di coscienza di classe». Sul tema, in generale, v. le rifles-
sioni di GALGANO, F., La democrazia dei consumatori, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1981, p. 38
ss. Sui rapporti tra «classe dei lavoratori» e «classe dei consumatori», v., per tutti, GHIDINI,
G., Per i consumatori, Bologna, 1977, cui adde, ROPPO, E., Protezione del consumatore e teoria
delle classi, in Pol. dir., 1975, p. 701 ss.; MAZZONI, C.M., Contro una falsa categoria: i consu-
matori, in Giur. comm., 1976, I, p. 622 ss.
10 Per tutti, v. CAPPELLETTI, M., Appunti sulla tutela giurisdizionale di interessi collettivi

o diffusi, in Le azioni a tutela di interessi collettivi (Atti del convegno di Pavia, 11-12 giugno,
1974), Padova, 1976, p. 191 ss.; e poi ID., Accesso alla giustizia, in Enc. giur. Trec., I, Roma,
1988, p. 4; ID., Accesso alla giustizia dei consumatori, in Studi in onore di Gustavo Vignocchi,
I, 1994, p. 293 ss. e in Dimensioni della giustizia nelle società contemporanee, Studi di diritto
giudiziario comparato, Bologna, 1994, p. 103 ss.
11 Cfr. AA.VV., La tutela degli interessi diffusi nel diritto comparato con particolare ri-

guardo alla protezione dell’ambiente e dei consumatori, cit., passim; AA.VV., La responsabilità
dell’impresa per i danni all’ambiente e ai consumatori (Atti del convegno di Milano, 17 di-
cembre 1977), Milano, 1978.
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 759

scientifico contestualmente al tema relativo alle azioni a tutela degli inte-


ressi collettivi o diffusi, o, più precisamente, nonostante il primo si sia
presentato sin dalle origini anche come species del secondo, il riconosci-
mento di questi interessi sostanziali sul piano del diritto positivo si è ri-
velato più travagliato degli altri, rivelandosi determinanti a tal fine le
«pressioni» del diritto comunitario12.
È in questo settore, infatti, ovvero quello della tutela degli interessi
dei consumatori, che si è manifestato nei termini più evidenti un aspetto
già da tempo rilevato, dovuto alla priorità logico-giuridica della regola ri-
spetto all’esistenza e la natura delle situazioni giuridiche soggettive tute-
late nel processo civile, ovvero l’impossibilità di impostare la discussione
sulla natura e sulla titolarità degli interessi a dimensione sovraindividuale
in assenza di obblighi legali espressi e capaci di imporre il rispetto di re-
gole di conflitto riguardo condotte private potenzialmente lesive degli in-
teressi sostanziali in questione.

2.1.1. I tentativi di tutelare gli interessi dei consumatori all’interno del giu-
dizio di repressione della concorrenza sleale

A fronte dell’accennato «deserto legislativo»13 è ben comprensibile,


dunque, che gli emergenti interessi dei consumatori, descrivendo linee
evolutive simili a quelle esaminate in materia ambientale, tentassero di
trovare adeguati strumenti di protezione, facendo perno su previsioni le-
gali già esistenti.
Nell’ambito di studio ora in esame, questo fenomeno di rivisitazione
degli strumenti tradizionali si è realizzato, specie in riferimento al più

12 La questione è unanimemente rilevata in dottrina, in particolare, cfr. ALPA, G., I con-

tratti con i consumatori, L’iter normativo degli art. 1469 bis-sexies del codice civile, cit., p. 21,
che, in relazione alla direttiva comunitaria n. 93/13/CEE, parla di «autentica svolta nell’espe-
rienza italiana in materia di contratti per adesione e di contratti dei consumatori»; ID., La
nuova disciplina dei diritti dei consumatori, in Studium iuris, 1998, p. 1310 ss., ma in relazione
alla successiva ratifica del Trattato di Amsterdam. Per una panoramica evolutiva degli inter-
venti del legislatore comunitario in materia sino all’inizio degli anni ’90, tra gli altri, v. gli
scritti contenuti in CAPPONI, B-GASPARINETTI, M. - VERARDI, C.M., La tutela collettiva dei
consumatori, Profili di diritto sostanziale e processuale, Napoli, 1995. Successivamente, per
una panoramica generale, CAMERO-DELLA VALLE, La nuova disciplina dei diritti del consu-
matore, Milano, 1999, p. 1 ss.; VERARDI, C., L’accesso alla giustizia e la tutela collettiva dei con-
sumatori, in Il diritto privato dell’Unione europea, t. 2, a cura di A. Tizzano, Torino, 2000,
p. 1331 ss.
13 VERARDI, C.M., I cinquant’anni del codice e la tutela del consumatore, in Rass. dir. civ.,

1993, p. 837 ss., ma cit., p. 842.


760 CAPITOLO DECIMO

specifico tema della pubblicità ingannevole, in materia di concorrenza


sleale14.
In detto ambito, in effetti, già la dottrina tradizionale aveva indicato
i nessi intercorrenti tra interessi imprenditoriali ed interessi dei consu-
matori15; ma secondo questa lettura – come efficacemente rilevato – gli
interessi dei consumatori non rappresentavano mai «il fondamento della
repressione», bensì «il mero punto di riferimento» da adottarsi per veri-
ficare il corretto ed efficiente funzionamento del meccanismo concorren-
ziale16; questione, quest’ultima, che ben corrispondeva all’ideologia libe-
rale – o, come precisato da alcuni, «(paleo-)liberista»17 – secondo la
quale l’attività dell’imprenditore, leale in quanto ossequiosa delle regole
della libera della concorrenza, garantiva al contempo l’interesse indivi-
duale dello stesso e l’interesse generale della collettività18.

14 Su questi profili evolutivi, v., l’attento saggio di CACCIATORE, A., Concorrenza sleale e

tutela del consumatore, in Riv. dir. imp., 2005, p. 283 ss., al quale rimandiamo per l’esame de-
gli aspetti più specifici. Si veda anche VERARDI, C.M. - FERRO, M., Distorsioni di mercato, pub-
blicità ingannevole, concorrenza sleale: tecniche di tutela dell’interesse collettivo del consuma-
tore all’informazione non decettiva, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1986, p. 256 ss.; VERARDI, C.M.,
I cinquant’anni del codice civile e la tutela del cittadino consumatore, in Rass. dir. civ., 1993, p.
837 ss.; ID., La tutela dell’interesse collettivo dei consumatori alla lealtà e veridicità del mes-
saggio pubblicitario davanti al giudice, alle authorities ed all’autodisciplina pubblicitaria, in
CAPPONI, B. - GASPARINETTI, M. - VERARDI, C.M., La tutela collettiva dei consumatori, Profili di
diritto sostanziale e processuale, Napoli, 1995, p. 45 ss.
15 V. innanzitutto ASCARELLI, T., Teoria della concorrenza e interesse del consumatore, in

Riv. trim. dir proc. civ., 1954, p. 873 ss., ma spec. p. 900, 928 e 935 s.; v. anche, successiva-
mente, VANZETTI, A., La repressione della pubblicità menzognera, in Riv. dir. civ., 1964, I, p.
584 ss., ma spec. 593-594 e nota 20.
16 Così, SANTAGATA, C., Le nuove prospettive della concorrenza sleale, in Riv. dir. comm.,

1971, I, p. 141 ss., ma p. 151 ss., per la frase citata nel testo. Cfr. la Relazione ministeriale al
Senato di Mussolini dell’11 marzo 1926 alla legge 29 dicembre 1927, n. 2701, in sede di con-
versione in legge con modifiche dell’art. 3 del r.d. 10 gennaio 1926 che dava esecuzione alla
Convenzione dell’Aja del 6 novembre 1925 (in Le leggi, 1928, p. 143; relazione richiamata da
SANTAGATA, C., Concorrenza sleale e trasparenza del mercato, Padova, 1979, p. 131, nota 130),
in cui si affermava, per giustificare la mancata adesione alla repressione della reclame fausse,
che essa «appare in concreto lesiva direttamente degli interessi del consumatore che rimane
indotto in errore, e non di quelli del concorrente che può essere danneggiato solo in via in-
diretta».
17 GHIDINI, G., La concorrenza sleale: i principi, in Trattato di diritto commerciale e di di-

ritto pubblico dell’economia, diretto da F. Galgano, IV, Padova, 1981, p. 147.


18 La tradizionale concezione delle relazioni intercorrenti tra interessi degli imprendi-

tori e interessi dei consumatori è ben descritta da SANTAGATA, C., Le nuove prospettive della
concorrenza sleale, in Riv. dir. comm., 1971, I, p. 141 ss., ma spec. p. 151 ss.,; ID., Concorrenza
sleale e interessi protetti, Napoli, 1975, p. 36 ss.; ID., Concorrenza sleale e trasparenza del mer-
cato, Padova, 1979, p. 9. Detta concezione è comunque posta a presupposto da parte di tutta
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 761

A partire, però, dagli anni Sessanta, ed ancor più dagli anni Settanta
in poi, la già più volte richiamata emersione degli interessi a dimensione
sovraindividuale ha condotto, anche in questo campo, alla crisi della con-
cezione ora indicata, favorendo – così – i tentativi – comunque minoritari
– di incrementare il rilievo assegnato in sede ricostruttiva agli interessi
collettivi coinvolti nelle dinamiche appartenenti all’ambito di operatività
delle disposizioni in materia di concorrenza sleale; e ciò sino a fare degli
interessi generali della collettività l’oggetto primario e diretto della tutela
offerta dagli artt. 2598 ss. c.c.19.
Stando ad una delle letture più articolate e maggiormente impegnate
a favore degli interessi collettivi dei consumatori20, la via per favorire l’a-

dottrina protesa verso una lettura evolutiva della disciplina: cfr. JAEGER, P.G., Valutazione
comparativa di interessi e concorrenza sleale, in Riv. dir. ind., 1970, I, p. 5 ss., ma spec. p. 48.
19 Come sovente ricorda la dottrina interessatasi al tema in questione, tra i primi ad evi-

denziare il momento evolutivo richiamato nel testo, v. SCHLESINGER, P. - VANZETTI, A., Aspetti
privatistici delle cosiddette «vendite a premio», in Riv. dir. ind., 1966, I, p. 166 ss., ma spec. p.
175. In dottrina si rimarca, peraltro, come i risvolti sovraindividuali della normativa in que-
stione, pur già da tempo oggetto di riflessione da parte della dottrina, fossero rimasti privi di
ricadute interpretative pratiche: così, JAEGER, P.G., Valutazione comparativa di interessi e con-
correnza sleale, in Riv. dir. ind., 1970, I, p. 5 ss., ma spec. p. 48; sul punto v. anche le recenti
osservazioni di CACCIATORE, A., Concorrenza sleale e tutela del consumatore, cit., p. 287.
20 V. le posizioni di SANTAGATA, C., Condizioni generali del contratto e clausole limitative

della concorrenza nei rapporti tra imprenditori e distributori, in AA.VV., Condizioni generali di
contratto e tutela del contraente debole, cit., p. 129 ss.; ID., Le nuove prospettive della concor-
renza sleale, in Riv. dir. comm., 1971, I, p. 141 ss., ID., Concorrenza sleale e interessi protetti,
Napoli, 1975; ID., Concorrenza sleale e trasparenza del mercato, Padova, 1979. V. anche LIBER-
TINI, M., Lezioni di diritto industriale, II, Concorrenza sleale, Catania, 1979, p. 59 ss. Cfr., per
un riconoscimento della legittimazione ex art. 2601 c.c. anche alle associazioni dei consuma-
tori, la nota pronuncia del Trib. Ravenna, 18 settembre 1984, in Giur. ann. dir. ind., 1985, p.
228; in Corr. giur., 1985, p. 621 ss. Per ciò che riguarda Santagata, l’A., già in Condizioni ge-
nerali del contratto e clausole limitative della concorrenza nei rapporti tra imprenditori e distri-
butori, cit., p. 141 ss., indicava la necessità di una «verifica degli interessi tutelati dalla disci-
plina repressiva della concorrenza sleale», evidenziando che «taluni interessi che il legislatore
del tempo ritenne opportuno tutelare soltanto di riflesso ed occasionalmente, esigono, invece,
una considerazione immediata nell’attuale disciplina dei rapporti economici. Ciò comporta
un adeguamento della legittimazione e la sua estensione in relazione al diffuso pregiudizio
che, tra gli operatori a diverso livello, comporta l’alterazione della libertà del mercato. Tra i
vari mezzi di tutela, soprattutto l’inibitoria appare suscettibile di una estensione della sfera di
legittimazione. Il principio di rigida preclusione ai soli imprenditori concorrenti ha già subito
significativi sfaldamenti allorché si ritiene sufficiente che l’illecito incida sul mercato per giu-
stificarsi la legittimazione per l’inibitoria a vantaggio, di chi opera ad un diverso livello. Il
processo deve completarsi anche per quanto concerne l’estensione della legittimazione a van-
taggio di chi non sia imprenditore in riferimento all’ipotesi in cui l’illecito ha l’effetto di pre-
cludere l’entrata di nuovi operatori. Per vero, il requisito della idoneità a danneggiare l’altrui
azienda […] costituisce un elemento surrettizio il cui inserimento si spiega, tra l’altro, dalla
762 CAPITOLO DECIMO

pertura del giudizio di repressione della concorrenza sleale ai nuovi inte-


ressi doveva trovare origine nella natura oggettiva della disciplina repres-
siva della concorrenza sleale, ovvero nell’essere, gli artt. 2598 ss. c.c., ri-
volti direttamente a tutela dell’interesse pubblico e non di posizioni di
diritto soggettivo21. Premessa, difatti, tale concezione dogmatica22 si po-
teva poi sostenere più agevolmente che «nell’interesse pubblico […]
confluiscono, […] tanto le istanze di tutela di imprenditori le cui aspet-
tative al profitto siano ingiustamente pregiudicate; tanto le istanze di tu-
tela di altri soggetti con i quali l’imprenditore scorretto sia, comunque,
entrato in contatto a causa dell’incidenza dell’atto concorrenziale nella
loro sfera d’interessi»23.
Stanto a questa lettura, dunque, occorrerebbe distinguere tra le fat-
tispecie di concorrenza sleale fondate sul pregiudizio all’azienda altrui e
le fattispecie al contrario slegate dal ricorrere di tale requisito. Più preci-
samente, premesso il principio secondo cui, quando «non risulta un’ap-
posita valutazione del legislatore – positivamente esplicitata – la legitti-
mazione è solo deducibile dall’analisi degli interessi protetti, quali emer-
gono dall’esegesi della formulazione normativa della fattispecie»24, i
legittimati ad agire per la repressione della concorrenza sleale dovreb-
bero dedursi dalla «tipologia dell’atto» e dalle «sue caratteristiche effet-

derivazione della disciplina in esame dal tronco della responsabilità civile; requisito che ha ri-
tardato l’affrancamento e l’autonomia della concorrenza sleale, autonomia che invece ha in-
negabili motivi di giustificazione nella previsione di mezzi tecnici di tutela, quali l’inibitoria,
che sono del tutto specifici; infine, l’individuazione, operata dall’ultima redazione della con-
venzione, di nuove figure di illecito concorrenziale (di cui al n. 3 dell’art. 10 bis del testo di
Lisbona) la cui repressione si giustifica solo con la diretta tutela dei consumatori, impone
l’ampliamento della tradizionale sfera della legittimazione in coerenza alla attuale funzione
della disciplina della concorrenza sleale, quale mezzo correttivo delle alterazioni della libertà
del mercato».
21 Per lo studio delle diverse opinioni sulla natura del giudizio di repressione della con-

correnza sleale, v. retro, cap. II, § 6. Ciò detto, va evidenziato che, mentre per le tesi che se-
guono nel testo (v. Ghedini e Floridia) la lettura evolutiva della disciplina della concorrenza
sleale trova fondamento sull’applicazione diretta dell’art. 41 Cost., per Santagata determi-
nante si rivela l’applicazione in chiave sistematica del criterio di «idoneità ad indurre il pub-
blico in errore» previsto dall’art. 10 bis, n. 3 della Convenzione d’Unione di Parigi per la pro-
tezione della proprietà industriale; v. ad esempio le critiche di Santagata alle posizioni della
restante dottrina, in ID., Concorrenza sleale e trasparenza del mercato, cit., p. 70 ss., 110 ss.
22 Il legame sussistente tra teoria oggettiva della disciplina ex art. 2598 ss. e la possibi-

lità di estendere la legittimazione anche a favore dei consumatori è ben comprensibile sul
piano teorico ed emerge chiaramente in SANTAGATA, C., Concorrenza sleale e interessi protetti,
cit., p. 47.
23 SANTAGATA, C., Concorrenza sleale e interessi protetti, cit., p. 47.
24 SANTAGATA, C., Concorrenza sleale e trasparenza del mercato, cit., p. 127-128.
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 763

tuali», facendo perno direttamente sull’art. 100 c.p.c., ovvero sulla norma
attributiva del potere di azione a chiunque ne abbia interesse25.
In posizione lato sensu più «moderata» si sono poste, invece, le opi-
nioni26, che, negando la possibilità di estendere in via meramente inter-
pretativa (come indicato nella tesi appena esaminata) la legittimazione ad
agire ai consumatori, hanno sostenuto l’illegittimità costituzionale del-
l’art. 2601 c.c. proprio nella parte in cui viene esclusa la legittimazione ad
agire di associazioni rappresentative di interessi collettivi «extraimpren-
ditoriali»27.
25 SANTAGATA, C., Concorrenza sleale e interessi protetti, cit., p. 49 ss.; cfr. ad es. l’appli-
cazione di detti criteri alla denigrazione ed alla pubblicità menzognera in ID., Concorrenza
sleale e trasparenza del mercato, cit. Fondamentale a tal riguardo la critica mossa da JAEGER,
P.G., I soggetti della concorrenza sleale, in Riv. dir. ind., I, 1971, p. 169 ss., ma spec. p. 172-
173: «per quanto suggestiva, la tesi (fortemente eterodossa, e, invero, mai sostenuta prima
d’ora nel nostro ordinamento) manca però in pratica di ogni dimostrazione, giacché il Santa-
gata non può attribuire ad essa altra base normativa che quella rappresentata dall’art. 100
c.p.c. […]. Ma questo richiamo appare non conclusivo, e neppure pertinente. Malgrado non
siano pacifici, nella dottrina processualistica, i caratteri distintivi tra interesse e legittimazione
ad agire, è peraltro certo che tale distinzione deve essere tenuta ben ferma, soprattutto ai fini
pratici. In altre parole, il criterio dell’art. 100 può incidere su una situazione giuridica in cui
un soggetto appaia astrattamente legittimato a proporre una determinata azione, che tuttavia
gli viene negata perché si rileva la mancanza, in esso, del necessario interesse “concreto”, in
relazione al provvedimento domandato al giudice; ma non può servire ad attribuire tale le-
gittimazione a chi non la possieda». Critica quest’ultima che ben potrebbe essere rivolta alla
tesi di Ruffolo, che, come vedremo muoverà anch’essa da una particolare lettura del disposto
dell’art. 100 c.p.c.
26 Si vedano in particolare i numerosi studi di GHIDINI, G., Introduzione allo studio
della pubblicità commerciale, Milano, 1968, p. 141 ss.; ID., La repressione della concorrenza
sleale nel sistema degli artt. 2598 ss. cod. civ., 4, Altri atti non conformi ai principi della corret-
tezza professionale e idonei a danneggiare l’altrui azienda, in Riv. dir. civ., 1969, II, p. 395 ss.,
ma spec. p. 409; ID., Lealtà della concorrenza e costituzione economica, Padova, 1974; ID., Mo-
nopolio: I) Monopolio e concorrenza, in Enc. dir., XXVI, Milano, 1976, p. 787 ss., ma spec.
819 s.; ID., La concorrenza sleale: i principi, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pub-
blico dell’economia, diretto da F. Galgano, IV, Padova, 1981, p. 69 ss., ma spec. p. 90 ss. e poi
p. 126 ss.; ID., Della concorrenza sleale, Artt. 2598-2601, in Il Codice Civile, Commentario, di-
retto da P. Schlesinger, Milano, 1991, p. 193 ss.; ID., La concorrenza sleale, in Giurisprudenza
sistematica di diritto civile e commerciale, fondata da W. Bigiavi, Torino, 2001, p. 263 ss. E gli
studi di FLORIDIA, G., Correttezza e responsabilità dell’impresa, Milano, 1982; ID., Concorrenza
sleale e camere di commercio: un ritorno al futuro, in Dir. ind., 1994, p. 851 ss.; ID., Dall’ille-
cito concorrenziale al diritto soggettivo e Le valutazioni in termini di correttezza professionale,
in AUTERI, P. - FLORIDIA, G. - MANGINI, V. - OLIVIERI, G. - RICOLFI, M. - SPADA, P., Diritto in-
dustriale, Proprietà intellettuale e concorrenza, Torino, 2005, rispettivamente p. 289 ss. e 308
ss. Autore che, tra l’altro, è anche l’estensore dell’ordinanza del Tribunale di Milano che ha
rimesso alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2601 c.c.,
su cui v. infra, nota 42.
27 Sull’illegittimità costituzionale dell’art. 2601 c.c.v.: GHIDINI, G., La concorrenza sleale:
i principi, cit., p. 148 s.; ID., Prevenzione e risarcimento nella responsabilità del produttore, in
764 CAPITOLO DECIMO

Peraltro, anche in tal caso, la valutazione di illegittimità della norma


nei termini ora indicati, vedeva a monte quale questione necessariamente
preliminare la natura ed il contenuto degli interessi tutelati, dai quali ap-
punto argomentare l’ingiusta esclusione dall’ambito dei legittimati ad
agire dei consumatori28. E su questo piano, il collegamento tra la clausola
generale prevista all’art. 2598, n. 3, c.c. (ovvero i «principi di correttezza
professionale») ed il limite imposto all’iniziativa economica dall’art. 41,
comma 2, Cost. (ovvero l’«utilità sociale») si è imposto agli interpreti
come strumento interpretativo privilegiato da utilizzare in sede di deter-
minazione degli indici di slealtà delle condotte imprenditoriali sanziona-
bili29, sostenendosi per questa via la liceità delle condotte che, pur lesive
degli interessi imprenditoriali, siano comunque di beneficio per gli inte-
ressi della collettività e, di contro, l’illiceità delle condotte che, pur non
lesive degli interessi imprenditoriali si ponessero come lesive degli inte-
ressi sociali30. E ciò – quindi – applicando in via immediata il limite

Riv. soc., 1975, p. 530 ss., ma spec. p. 541 ss.; ID., Della concorrenza sleale, Artt. 2598-2601,
cit., p. 464; ID., La concorrenza sleale, cit., p. 66; FLORIDIA, G., Correttezza e responsabilità del-
l’impresa, cit., p. 298 ss.; ID., Concorrenza sleale e camere di commercio: un ritorno al futuro,
cit., p. 855; ID., Dall’illecito concorrenziale al diritto soggettivo, in AUTERI, P. - FLORIDIA, G. -
MANGINI, V. - OLIVIERI, G. - RICOLFI, M. - SPADA, P., Diritto industriale, Proprietà intellettuale
e concorrenza, cit., p. 302 s. V. anche TROCKER, N., La tutela giurisdizionale degli interessi
diffusi con particolare riguardo alla protezione dei consumatori contro atti di concorrenza
sleale: analisi comparativa dell’esperienza tedesca, in La tutela degli interessi diffusi nel diritto
comparato con particolare riguardo alla protezione dell’ambiente e dei consumatori, cit., p. 447
ss., ma spec. p. 477 ss.; UBERTAZZI, L.C., Legittimazione ad agire delle associazioni di consu-
matori e procedimenti comunitari antitrust, in Monitore trib., 1977, p. 186 ss., ma spec. p. 201;
RUFFOLO, U., Interessi collettivi o diffusi e tutela del consumatore, I, Il problema e il metodo -
Legittimazione, azione e ruolo degli enti associativi esponenziali, Milano, 1985, p. 96, nota 41.
28 Ciò è espressamente evidenziato da GHIDINI, G., La concorrenza sleale: i principi, cit.,

p. 148, ove si afferma: «il danno o la minaccia di interessi extraimprenditoriali, tipicamente


dei consumatori, rappresenta il presupposto necessario del pregiudizio dei concorrenti rile-
vante (anche) ai fini della legittimazione ad agire». Peraltro lo stesso Ghidini, aveva già evi-
denziato in Introduzione allo studio della pubblicità commerciale, cit., p. 145, i «platonici van-
taggi» conseguenti l’applicazione diretta del limite imposto dall’art. 41 Cost, a fronte dell’esi-
stente regime legale della legittimazione ad agire, capace di rendere operativo detto
meccanismo solo al ricorrere di un’«occasionale convergenza» tra interessi dei consumatori e
interessi degli imprenditori. Il medesimo aspetto problematico è indicato da FLORIDIA, G.,
Correttezza e responsabilità dell’impresa, cit., spec. p. 295.
29 Sul tema v. la sintesi di ALVISI, C., Concorrenza sleale, violazioni di norme pubblicisti-

che e responsabilità, Milano, 1997.


30 V. peraltro GHIDINI, G., Introduzione allo studio della pubblicità commerciale, cit., p.

141 ss., dove emerge il fatto che in un primo momento l’A. sembri escludere la possibilità di
dichiarare illecite le condotte pur non lesive degli interessi degli imprenditori, ma al contra-
rio pregiudizievoli per gli interessi dei consumatori e ciò in ragione dell’impossibilità di «im-
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 765

espresso dall’art. 41 Cost. in sede di interpretazione dei criteri di corret-


tezza professionale indicati dall’art. 2598 c.c.31, o, in un approccio più
marcatamente dogmatico, giungendo a concepire un inedito «diritto sog-
gettivo d’impresa-funzione dell’utilità sociale»32.
Così facendo, dunque, gli interessi della collettività espressivi
dell’«utilità sociale» prevista dall’art. 41 Cost. venivano ad assumere,
quantomeno in talune ipotesi, il ruolo di interessi direttamente tutelati
dalla disciplina, aprendo, di conseguenza, il problema dell’estensione
della legittimazione ad agire (non solo alle associazioni professionali pre-
viste ai sensi dell’art. 2601 c.c., ma anche) alle associazioni rappresenta-
tive degli interessi extraimprenditoriali; interessi collettivi, questi ultimi,
non più terzi – visto il percorso interpretativo intrapreso da detta dot-
trina – rispetto all’ambito di tutela previsto dall’illecito concorrenziale33.

porre limiti» all’attività economica dei privati in assenza di interventi del legislatore (cfr. ID.,
La repressione della concorrenza sleale nel sistema degli artt. 2598 ss. cod. civ., cit., p. 409-410);
ma v. il mutamento di opinione operato sulla scorta dell’immediata efficacia sul piano del-
l’interpretazione, in chiave sistematica, del precetto costituzionale dell’art. 41, comma 2,
Cost. in ID., La concorrenza sleale: i principi, cit., p. 102, p. 127 ss. V. in questo senso FLORI-
DIA, G., Correttezza e responsabilità dell’impresa, cit., spec. p. 295.
31 Precisa molto opportunamente GHIDINI, G., La concorrenza sleale: i principi, cit., p.

94 s. e poi in via applicativa p. 129 ss., che si tratta di «criteri-limite» e non di «criteri-indi-
rizzo»; non si è in presenza, per dirla in altre parole, di ruolo «funzionalizzatore» dei limiti
costituzionali.
32 FLORIDIA, G., Correttezza e responsabilità dell’impresa, cit., spec. p. 243 ss.; ID., Dal-

l’illecito concorrenziale al diritto soggettivo e Le valutazioni in termini di correttezza professio-


nale, in AUTERI, P. - FLORIDIA, G. - MANGINI, V. - OLIVIERI, G. - RICOLFI, M. - SPADA, P., Diritto
industriale, Proprietà intellettuale e concorrenza, cit., p. 289 ss.; che comunque, pur parlando
di diritto funzione dà atto di intendere il principio di utilità sociale non come principio
conformativo del potere ma come limite allo stesso (cfr. l’esemplificazione in Correttezza e re-
sponsabilità dell’impresa, cit., spec. p. p. 246).
33 Per una miglior comprensione di queste tesi va peraltro notato che, se in esse il

primo passaggio interpretativo è costituito dall’introdurre sul piano della tutela diretta offerta
dalla norma gli interessi dei consumatori, allora il problema della legittimazione dovrebbe es-
sere in esso già risolto, senza dover ricorrere al sindacato di legittimità costituzionale. E ciò
vista la possibilità di rifarsi all’art. 24 Cost. ed in particolare al principio di atipicità del diritto
di azione in ordine all’obiettivo di ottenere le naturali conseguenze che derivano dalla cor-
retta lettura della disciplina sostanziale sul piano della legittimazione ad agire. In altri termini,
il punto è e rimane la determinazione dell’interesse tutelato dalla norma sostanziale; que-
stione, quest’ultima, risolta la quale «automaticamente» ne discende il diritto di azione in
capo al titolare dell’interesse protetto. Il problema si complica però, nella fattispecie in
esame, per la presenza, accanto all’art. 2598 c.c., dell’art. 2601 c.c., che appunto prevede l’a-
zione collettiva delle associazioni professionali, in aggiunta all’azione dei singoli imprenditori
implicitamente deducibile sulla base degli art. 2598 ss. c.c. E si complica perché determinata
la natura collettiva dell’interesse tutelato, nel passaggio al piano della legittimazione ad agire
766 CAPITOLO DECIMO

Oltre alle due opzioni ricostruttive appena esaminate, una terza so-
luzione interpretativa è stata rappresentata dal tentativo di individuare
negli interessi collettivi e generali dei consumatori il ruolo di «parametri
di valutazione degli interessi degli imprenditori in conflitto», con la con-
seguente possibilità di determinare un rapporto di prevalenza a favore
dell’interesse imprenditoriale maggiormente «conforme» a detti interessi,
nonché a questi legato da un vincolo di strumentalità34. In questa impo-
stazione, dunque, gli artt. 2598 ss. non perderebbero la loro funzione ri-
solutrice di conflitti intersoggettivi tra interessi individuali imprendito-
riali, i quali, come nella lettura tradizionale della norma, continuerebbero
– proprio in ragione delle indicazioni derivanti dalla soluzione tecnica
adottata dal legislatore riguardo al tema della legittimazione ad agire – ad
essere gli unici a ricevere tutela in via diretta35. Di contro gli interessi col-
lettivi, pur assunti come strumento di determinazione del rapporto di
prevalenza degli interessi imprenditoriali in conflitto e non come meri
destinatari di eventuali ed occasionali benefici derivanti dagli esiti di que-
sta composizione, rimarrebbero su un piano di apprezzamento norma-
tivo distinto rispetto a quello individuato dalla legge come sede di com-

torna ad influire la concezione dell’interesse collettivo che si voglia assumere. Secondo una
prima linea interpretativa, infatti, favorevole alla natura seriale dell’interesse collettivo, col ri-
tenere che l’art. 2598 tuteli anche gli interessi dei consumatori, si dovrebbe ammettere in-
nanzitutto la legittimazione ad agire spetti ex art. 24 Cost. (anche) dei consumatori singoli, ri-
manendo peraltro ferma la diversa questione della legittimità costituzionale dell’art. 2601 c.c.
nella parte in cui irragionevolmente prevede che lo strumento di difesa «rafforzativo» degli
interessi collettivi spetti solo alle associazioni professionali e non anche alle associazioni dei
consumatori. Se però ci si muove – come fa Floridia – all’interno di una concezione che ac-
coglie l’interesse collettivo come qualcosa di diverso ed autonomo dall’interesse individuale,
ovvero all’interno di un orientamento di spiccato sfavore verso le azioni del singolo, allora la
legittimazione individuale del singolo consumatore che naturaliter discende ex art. 24 Cost.
dalla determinazione dell’interesse tutelato dalla normativa sostanziale è privata di rilievo e ri-
mane sul campo solo la questione della legittimità costituzionale dell’art. 2601 c.c. Va detto
però che, proprio in relazione alla particolare fattispecie in esame, se si riconoscesse la legit-
timazione anche alle associazioni dei consumatori ad esercitare l’azione collettiva, sorgerebbe
un ulteriore problema, ben evidenziato da Ghidini; ovvero quello di giustificare – sotto il
profilo della legittimità costituzionale – per quale ragione la norma che sanziona un illecito
idoneo a pregiudicare interessi collettivi prevede, a favore degli imprenditori, una legittima-
zione tanto individuale che collettiva, mentre, a favore dei consumatori, è riservata solo l’a-
zione collettiva. Il problema, dunque, è sempre lo stesso, ovvero fare chiarezza sulla natura
dell’interesse collettivo e sulle diverse vie di giuridicizzazione dello stesso, che possono va-
riare da norma a norma (come vedremo) pur nel rispetto dei principi costituzionali.
34 JAEGER, P.G., Valutazione comparativa di interessi e concorrenza sleale, cit., p. 101.
35 JAEGER, P.G., Valutazione comparativa di interessi e concorrenza sleale, cit., p. 51 e poi

101 s.
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 767

posizione primaria del conflitto di interessi36, con la fondamentale conse-


guenza di non poter mai – per definizione – prevalere nei confronti degli
interessi imprenditoriali37.
In altri termini, mentre nei due pur diversi orientamenti prima esa-
minati l’interesse collettivo, assunto ad interesse direttamente protetto,
sarebbe potenzialmente idoneo a determinare il carattere sleale della
condotta imprenditoriale, tanto allorché esso si trovi ugualmente orien-
tato rispetto ad uno dei due interessi imprenditoriali confliggenti (si
pensi al caso della pubblicità comparativa), quanto allorché, invece,
detto interesse si contrapponga agli stessi interessi imprenditoriali non
confliggenti tra loro (si pensi al caso della pubblicità persuasiva o men-
zognera), diversamente, nella tesi or ora in questione l’incidenza dell’in-
teresse collettivo sul giudizio di slealtà ricorrerebbe solo nel primo caso,
ovverosia a fronte di un conflitto tra interessi imprenditoriali ed al ricor-
rere di un uniforme orientamento di uno dei due interessi confliggenti
con quello dei consumatori; non potendo comunque – l’interesse collet-
tivo appunto – possedere alcuna incidenza sul fronte della l’illegittimità
della condotta in assenza del ricorrere di detti presupposti38.
Seguendo quest’impostazione, dunque, l’art. 2601 c.c. si sottrar-
rebbe tanto al vizio di illegittimità costituzionale quanto a necessarie let-
ture interpretative adeguatrici, visto che l’interesse collettivo giammai
potrebbe assurgere ad oggetto diretto (e dunque prevalente rispetto agli
opposti ed uniformemente orientati interessi imprenditoriali) della tu-
tela39, residuando tutt’al più la possibilità – tale però a nostro giudizio da

36 JAEGER, P.G., Valutazione comparativa di interessi e concorrenza sleale, cit., p. 133.


37 JAEGER, P.G., Valutazione comparativa di interessi e concorrenza sleale, cit., p. 101 s.;
ID., Pubblicità e «principio di verità», in Riv. dir. ind., 1971, I, p. 331 ss., ma spec. 352 ss. per
ciò che riguarda l’impossibilità che l’interesse collettivo dei consumatori risulti esso stesso
prevalente rispetto agli interessi imprenditoriali; dacché si evince che la soluzione prospettata
da Jaeger opererebbe solo fintanto che il richiamato rapporto di strumentalità sussiste, ov-
vero fintanto che almeno uno degli interessi imprenditoriali confliggenti ha lo stesso orienta-
mento di quelli dei consumatori, ovvero fintato che sussiste un conflitto tra interessi impren-
ditoriali e si realizzi il rapporto di strumentalità a cui Jaeger assegna un ruolo determinate; se
al contrario si realizza un conflitto tra interessi dei consumatori ed interessi imprenditoriali
l’operatività dell’interesse dei consumatori in sede di giudizio viene paralizzata; cosa che al
contrario non accade nelle altre tesi sopra esposte; ma v., per ulteriori considerazioni sulla
ricostruzione dell’A., retro, cap. II, nota 78.
38 Di ciò dà conferma espressamente JAEGER, P.G., Pubblicità e «principio di verità»,

p. 352 in fine.
39 Cfr. JAEGER, P.G., Valutazione comparativa di interessi e concorrenza sleale, cit., p. 101

s.; ID., Pubblicità e «principio di verità», p. 352 ss.; ID., I soggetti della concorrenza sleale, cit.,
p. 171 ss.
768 CAPITOLO DECIMO

alterare irreversibilmente le premesse accolte dalla lettura in esame40 – di


estendere l’area dei legittimati mediante un intervento ex lege41.

40 Difatti, mentre le altre tesi nell’estendere la legittimazione ad agire prevedono anche


il caso di conflitto tra interesse collettivo extraimprenditoriale e interesse individuale o col-
lettivo imprenditoriale, in questa lettura ciò non avviene, ma così non potrebbe essere rite-
nendo possibile anche la legittimazione di soggetti collettivi extraimprenditoriali. È coerente
sotto questo profilo JAEGER, P.G., Pubblicità e «principio di verità», p. 359, che, infatti, in re-
lazione alla possibile legittimazione collettiva appena accennata, osserva che, in tal caso, po-
trebbe essere opportuno eliminare l’inciso previsto al n. 3 dell’art. 2598 c.c. relativo all’ido-
neità dell’atto a danneggiare l’altrui azienda; questione che evidentemente evidenzia l’assur-
gere dell’interesse collettivo ad oggetto diretto e non più indiretto di tutela e che
diversamente impedisce sul piano letterale le interpretazioni rivolte a dar rilievo primario agli
interessi collettivi dei consumatori. In questo senso sembra porsi anche GAMBINO, A., La tu-
tela del consumatore nel diritto della concorrenza: evoluzioni ed involuzioni legislative, anche
alla luce del d.lgs. 25 gennaio 1992 in materia di pubblicità ingannevole, in Contratto e impresa,
1992, p. 411 ss., ma spec. p. 425: «il requisito dell’“idoneità a danneggiare l’altrui azienda”
[…] esclude qualsiasi tendenza ad aprire alla tutela di sfere di interessi più comprensive e dif-
fuse; solo con la sua eliminazione l’area applicativa della concorrenza sleale potrà essere
estesa anche ai consumatori».
41 V., in particolare, JAEGER, P.G., Pubblicità e «principio di verità», cit., p. 358 s.; ID.,

Sulla legittimazione delle «associazioni professionali» ad agire per la concorrenza sleale (art.
2601 c.c.), in Problemi attuali del diritto industriale, Milano, 1977, p. 639 ss., ma spec. p. 646-
647. Altra dottrina aveva già preferito seguire la strada dell’intervento legislativo, ma confi-
gurando rimedi autonomi dal giudizio di repressione ex art. 2598 ss. c.c.: cfr. ad es. VANZETTI,
A., La repressione della pubblicità menzognera, cit., p. spec. 590 e 615; seguito da SENA, G., La
repressione penale della concorrenza sleale: premesse di diritto industriale, in Riv. dir. ind.,
1965, I, p. 173 ss., ma spec. p. 183; successivamente, AUTERI, P., La concorrenza sleale, in Trat-
tato di diritto privato, XVIII, t. 4, Impresa e lavoro, a cura di P. Rescigno, Torino, 1983, p.
348-349; FRANCESCHELLI, R., Sulla legittimazione ad agire in concorrenza sleale delle associa-
zioni professionali e dei consorzi e sulla pretesa giustificazione dei principi della correttezza pro-
fessionale con l’art. 41 della Costituzione e la protezione dei consumatori, in Riv. dir. ind., 1983,
II, p. 29 ss., ma spec. p. 40-41. Per ciò che infine riguarda l’esatto ambito soggettivo dei le-
gittimati ad agire individuato dalle tre letture evolutive esaminate nel testo, la questione prin-
cipale da affrontare è rappresentata, come visto nei vari capitoli che ci lasciamo alle spalle,
dalla scelta tra una soluzione di legittimazione diffusa ed una diversa opzione di legittima-
zione concentrata. Il punto è il seguente: nelle prime due tesi esposte (ed anche nella terza al-
lorché ci si muova all’interno della prospettiva de iure condendo da questa indicata) l’interesse
collettivo, quanto meno in alcune ipotesi, ovvero in quelle di possibile conflitto tra interessi
imprenditoriali, da un lato, e interessi extraimprenditoriali, dall’altro, assume il ruolo di og-
getto diretto della tutela ed è proprio per questo, infatti, che la questione dell’ampliamento
della cerchia dei legittimati a soggetti terzi si impone o in via interpretativa o in via di sinda-
cato di legittimità costituzionale. Detto questo, però, rimane aperto il problema di configu-
rare detto interesse dal punto di vista formale e farne discendere le dovute conseguenze sul
piano della legittimazione. Si assiste così, anche in questo settore del dibattito, al confronto
tra due opposte concezioni. Per alcuni, infatti, la legittimazione ad agire dovrebbe essere ri-
conosciuta ai singoli consumatori e non potrebbe essere limitata alle associazioni, pena – an-
che in tal caso – la violazione di principi costituzionali. E ciò in ragione del fatto che «gli in-
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 769

teressi extraimprenditoriali pregiudicati dagli atti di concorrenza sleale sono […] rappresen-
tabili anche, ed anzi essenzialmente, come riferibili ad individui», visto che «il loro carattere
collettivo, o sociale, deriva dalla loro ripetizione generalizzata, vale a dire con caratteri iden-
tici su scala di massa» (GHIDINI, G., La concorrenza sleale: i principi, cit., p. 149). All’opposto,
per altri, la legittimazione ad agire dovrebbe essere limitata a soggetti collettivi adeguata-
mente rappresentativi (oltre agli AA. che tra breve citeremo analiticamente, sembra doversi
aggiungere AUTERI, P., La concorrenza sleale, cit., p. 348; nonché SANTAGATA, C., Concorrenza
sleale e trasparenza del mercato, cit., spec. p. 132, che, sebbene sostenga che la legittimazione
debba essere riconosciuta a «chiunque abbia interesse», poi meglio «precisa» la propria opi-
nione affermando che l’«apertura in tema di “interessi protetti” non può vuole certo soddi-
sfare l’auspicio di una improbabile, quanto sospetta iniziativa giudiziale del consumatore iso-
lato», quanto piuttosto riconoscere quella del p.m. e delle associazioni dei consumatori; come
questa chiusura, poi, debbe trovare giustificazione all’interno della logica propria della rico-
struzione in esame non si comprende; e basta a tal proposito pensare ai presupposti da cui
muove l’A. in questione e precisamente, da un lato, la natura oggettiva della normativa in ma-
teria di concorrenza sleale e la sua funzione di tutela dell’interesse pubblico e, dall’altro, il
rinvio ad una formula dalla assai lata previsione come quella prevista dall’art. 100 c.p.c.).
Argomenti a sostegno di questa impostazione sarebbero quindi: a) la carenza dell’interesse
concreto del singolo a fronte dei costi e dell’alea del giudizio, o b) il rischio di azioni specu-
lative o ricattatorie (JAEGER, P.G., Pubblicità e «principio di verità», cit., p. 359; ID., I soggetti
della concorrenza sleale, cit., p. 174-175), c) l’incapacità del singolo di farsi interprete della
collettività (così, FLORIDIA, G., Correttezza e responsabilità dell’impresa, cit., p. 54, che, dopo
aver negato la possibilità di soluzioni de iure condito afferma: «né, d’altra parte – sia detto qui
per inciso – anche de iure condendo, l’attribuzione della legittimazione ad agire ex art. 2598
al comune cittadino singolarmente considerato appare valida ed auspicabile. Infatti l’efficacia
dannosa dell’atto ingannevole compiuto dall’imprenditore si fraziona nella lesione degli in-
numerevoli interessi individuali dei consumatori, ognuno dei quali, agendo individualmente,
difficilmente può farsi interprete dell’esigenza di tutela della collettività»; cfr. anche ID., La
tutela degli interessi dei consumatori di prodotti alimentari, in Riv. dir. ind., 1986, I, p. 45 ss.,
spec. 59-60, ove, aderendo alla tesi di E. Grasso – su cui, in generale, v. retro, cap. III, §
3.4.1.2., e, riguardo all’azione di danno ambientale, v. cap. IX, § 3.4.2. – viene argomentata
sulla base dell’art. 32 Cost. la contrapposizione ontologica tra, da un lato, interesse indivi-
duale-diritto soggettivo e, dall’altro, l’interesse collettivo) o – come più volte sostenuto in ma-
teria – d) la mancata lesività del comportamento antigiuridico rispetto agli interessi indivi-
duali indifferenziati (FLORIDIA, G., Correttezza e responsabilità dell’impresa, cit., p. 302, in
nota). Motivazioni quest’ultime, che francamente lasciano perplessi, ancor prima che su un
piano generale (cfr. retro, cap. VI), in diretto riferimento agli Autori da cui esse provengono.
Singolare appare, infatti, la circostanza che studiosi del diritto della concorrenza sleale – set-
tore in cui la disciplina legale tradizionalmente interpretata ammette pianamente che un atto
lesivo possa riverberarsi indistintamente su una serie indeterminata di interessi individuali
tutti ugualmente legittimanti l’esercizio dell’azione individuale quanto meno ai fini inibitori
(cfr. retro, cap. II, § 6) – eccepiscano la mancata differenziazione dell’interesse individuale
colpito al fine di sostenere opzioni marcatamente restrittive in tema di legittimazione. Ed an-
cor più singolare è il fatto che a queste voci appartenga la dottrina che, tra le più impegnate
sul piano definitorio dogmatico, abbia, da un lato, predicato la natura seriale dell’interesse
collettivo e dall’altro, negato – in stridente contraddizione logica con le proprie premesse teo-
770 CAPITOLO DECIMO

2.1.2. L’edificazione in via sistematica dell’azione collettiva a tutela dei


consumatori
Al di fuori dell’esperienza specifica or ora indicata42, va poi ricor-
dato il tentativo – illuminato anch’esso, come i precedenti, dalla mede-
sima necessità di supplire alla latitanza del legislatore – di rinvenire sfere

riche – la legittimazione diffusa ad agire per la repressione della concorrenza sleale in capo ai
titolari degli interessi extraimprenditoriali; e ciò proprio sulla base dell’argomentazione che
in detta sede gli interessi dei consumatori «vengono in gioco sempre […] come interessi col-
lettivi» (così, JAEGER, P.G., I soggetti della concorrenza sleale, cit., p. 175); affermazione, que-
st’ultima, che, se la si volesse intendere alla luce delle chiavi di lettura che la stessa dottrina
in esame ha offerto, starebbe a significare che gli interessi dei consumatori in detta sede ven-
gono in gioco sempre e proprio – guarda un po’ – come interessi individuali (cfr. retro, cap.
II, § 5.).
42 Nonostante il preciso rapporto da assegnare nel nostro ordinamento tra norme

repressive dei comportamenti anticoncorrenziali e interessi dei consumatori sia ancora lon-
tano da trovare una sistemazione definitiva, i tentativi di ampliamento della tutela collettiva
degli interessi dei consumatori esaminati nel testo non hanno avuto il successo auspicato dai
loro sostenitori. Per quel che riguarda, ad es. l’illegittimità dell’art. 2601 c.c., questa è stata
esclusa da C. cost., 21 gennaio 1988, n. 59, in Foro it., 1988, I, p. 2158 ss., con nota di CO-
SENTINO, F., L’art. 2601 c.c. e la tutela dei consumatori al vaglio della Corte costituzionale.
La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata dal Tribunale di Milano (esten-
sore Floridia) (Trib. Milano, 7 febbraio 1980, in Giur. comm., 1982, II, p. 74 ss., con nota di
SPOLIDORO, M.S., Costituzione e limitazioni soggettive della legittimazione ad agire per con-
correnza sleale; nota di D’ALONZO, R., Sulla legittimazione ad agire delle associazioni dei con-
sumatori per la repressione della concorrenza sleale, in Dir. radiodiffusioni, 1981, p. 95 ss.;
FRANCESCHELLI, R., Sulla legittimazione ad agire in concorrenza sleale delle associazioni pro-
fessionali e dei consorzi e sulla pretesa giustificazione dei principi della correttezza professio-
nale con l’art. 41 della Costituzione e la protezione dei consumatori, in Riv. dir. ind., 1983, II,
p. 29 ss.), che, accogliendo la tesi della natura sostanziale dell’art. 2601 c.c., legittimante
l’azione dell’associazione professionale per la tutela dell’interesse collettivo pregiudicato
dall’atto di concorrenza, ha configurato la violazione dell’art. 3 Cost. da parte del disposto
dell’art. 2601 c.c. nella parte in cui «a) circoscrive la tutela giurisdizionale ordinaria ai soli atti
di concorrenza sleale che pregiudicano gli interessi di una categoria professionale anziché di
una categoria tout court; b) parallelamente conferisce la legittimazione ad agire alle sole as-
sociazioni professionali anziché alle associazioni tout court». La Consulta, peraltro, ha dichia-
rato manifestamente inammissibile la questione in ragione del fatto che «compete al legi-
slatore e non già al giudice delle leggi apprestare, per il consumatore, adeguati strumenti di
salvaguardia», negando, dunque, il presupposto implicito della richiesta avanzata dal Trib. di
Milano, ovvero la dimostrazione che gli interessi tutelati dalla norma siano – quantomeno
anche – gli interessi dei consumatori. In ciò coglieva il punto, SPOLIDORO, M.S., Costituzione
e limitazioni soggettive della legittimazione ad agire per concorrenza sleale, cit., p. 80 ss., che
in riferimento all’ordinanza di rimessione osservava come questa mirasse a censurare la le-
gittimità dell’art. 2601 c.c. più sotto il profilo sostanziale che processuale, ovvero più am-
pliando (o più che altro modificando) l’area dell’illecito, piuttosto che quella dei legittimati
ad agire.
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 771

di tutela a favore della collettività dei consumatori perseguendo unica-


mente la via dell’«interpretazione sistematica evolutiva»43.
Il riferimento è alla dottrina civilistica che a metà degli anni Ottanta
ha elaborato un modello di tutela giurisdizionale degli interessi collettivi
dei consumatori cercando il fondamento legale degli opportuni obblighi
e vincoli da imporre all’esercizio dell’attività di impresa e più in generale
all’iniziativa privata a protezione dei consumatori direttamente nella nor-
mativa costituzionale44.
In quest’ottica i riferimenti privilegiati sono apparsi, da un lato,
l’art. 42 e l’art. 41 Cost. (in relazione alla «funzione sociale» assegnata dal
primo al diritto di proprietà e in relazione al limite imposto dal secondo
all’iniziativa economica privata in riferimento all’«utilità sociale» oltre
che alla «sicurezza, alla libertà, alla dignità umana») e, dall’altro, l’art. 2
Cost. (in ordine ai doveri, ivi previsti, di solidarietà politica, economica e
sociale), nonché, in particolare, l’art. 32 Cost. (in ragione dell’espresso
richiamo alla salute intesa anche come interesse proprio della colletti-
vità).
Al di là, comunque, dei principi costituzionali richiamati per deter-
minare le regole di conformazione dei poteri privati in esame, gli aspetti
di questa opzione ricostruttiva che in particolare meritano segnalazione –
specie alla luce dei principali obiettivi di ricerca che ci siamo posti sin
dall’avvio di questo lavoro – sono costituiti proprio dalla qualificazione
dogmatica proposta per dare adeguata sistemazione a tali strumenti di
tutela. E ciò, ovviamente, con specifica attenzione ai due principali pro-
fili che qui interessano, ovvero la categoria dogmatica impiegata, nonché

43 È la strada seguita nello studio monografico di RUFFOLO, U., Interessi collettivi o dif-

fusi e tutela del consumatore, I, Il problema e il metodo - Legittimazione, azione e ruolo degli
enti associativi esponenziali, Milano, 1985, p. 36 s. e poi 58; studio monografico che segue il
precedente lavoro ID., La tutela individuale e collettiva del consumatore, I, Profili di tutela in-
dividuale, Milano, 1979, nel quale già veniva presentata la necessità di articolare la ricerca sul
tema relativo alla protezione del consumatore in un duplice piano di indagine, ovvero quello
dei rimendi individuali (oggetto di indagine nel lavoro appena citato) e quello dei rimedi col-
lettivi; prospettive, queste ultime due, valutate dall’A. (ID., La tutela individuale e collettiva
del consumatore, cit., spec. p. 5, ma incidentalmente ricordato al lettore in vari passi dello stu-
dio) come «mutuamente interdipendenti» sebbene non reciprocamente vicarie. Dello stesso
A., v. anche Tutela collettiva del consumatore e legittimazione e ruolo degli enti esponenziali, in
Studi in onore di Tito Carnacini, III, Milano, 1984, p. 833 ss., scritto confluito nella mono-
grafia poc’anzi citata (Interessi collettivi o diffusi ecc.).
44 RUFFOLO, U., Interessi collettivi o diffusi e tutela del consumatore, cit., p. 64, in ter-

mini più sintetici, e, poi, in termini più analitici, p. 76 ss., 81 ss. e 84 s.; ma v. anche le anti-
cipazioni presenti in ID., La tutela individuale e collettiva del consumatore, cit., p. 15-16.
772 CAPITOLO DECIMO

la determinazione dei soggetti legittimati a far valere in giudizio il supe-


ramento dei limiti imposti all’esercizio del potere.
L’attrattiva che, infatti, riveste tuttora la tesi oggetto del nostro ri-
chiamo è determinata proprio dal suo essere, fondata, da un lato, sull’ac-
cettazione di una nozione di diritto soggettivo costruita su contenuti di
tutela storicamente determinati45 e, dall’altro, sulla irriconducibilità degli
interessi collettivi a detti contenuti, con la conseguente necessità di
creare figure dogmatiche nuove idonee ad accoglierli46.

45 È interessante rilevare le osservazioni che RUFFOLO, U., Interessi collettivi o diffusi e


tutela del consumatore, cit., p. 130 s., svolge in relazione alla necessità di liberare la struttura
normativa dal «soffocante abbraccio di categorie concettuali che hanno base (non normativa,
ma) interpretativa (e cioè matrice culturalmente datata)». Coglie, infatti, il punto l’A. in que-
stione allorché richiama in via esemplificativa proprio «il caso di pretese incostruibilità di tu-
tela, quando non irrilevanza per il diritto, o comunque insuscettibilità di controllo giudiziale,
in relazione a taluni interessi collettivi o diffusi (magari costituzionalmente protetti, ma) non
censibili in chiave di “diritti soggettivi” d’un “soggetto di diritto”». Spunti interessanti sono
anche a p. 149 ss., ove si sostiene che «l’eclissi della proprietà e la nuova conformazione,
struttura e ruolo delle obbligazioni significano corrispondente eclisse del diritto soggettivo
come categoria ordinante, ed emergere proporzionale di quella dell’interesse», ed ancor più
a p. 154-155, in cui si afferma che «deve, in verità, riflettersi che è non risultato interpreta-
tivo, bensì retaggio di categorie logiche proprie d’una certa cultura, ed elaborate a ben vedere
fuori dal diritto positivo, l’immagine del diritto soggettivo come entità che viene ad esistenza,
e successivamente è suscettibile di trasmissione (quasi materialisticamente intesa) da un tito-
lare all’altro, quasi essenza dotata di vita propria. La titolarità, da parte del soggetto, del di-
ritto soggettivo, assume perciò (figurativamente, ma non senza una profonda influenza sul
modo di concepire tali fenomeni giuridici, o forse proprio a causa dell’influenza di una logica
sostanzialistica) i contorni di una qualsiasi materiale apprensione di una res (sia pure appar-
tenente al mondo delle realtà concettuali o ideali). Tale impostazione – commenta Ruffolo co-
gliendo il punto (cfr. infatti retro, cap. V) – è il risultato della progressiva sostituzione dell’i-
dea di acquisto del diritto all’idea dell’acquisto della cosa. Il diritto soggettivo, nato per espri-
mere la relazione tra soggetto e bene, prende esso stesso il posto prima occupato dalla cosa
oggetto dei poteri e delle facoltà riconosciuti al soggetto. Così il diritto soggettivo diviene og-
getto dell’apprensione del soggetto, e quindi delle vicende acquisitive. L’operazione avviene
sul presupposto della concepibilità del diritto soggettivo non solo (o non più) come concetto
costruttivo esprimente la relazione tra soggetto e bene (interesse giuridicamente protetto) ma
anche come “entità” logica o “realtà giuridica”». Osservazioni assolutamente condivise da chi
scrive (cfr., infatti, retro, cap. V, § 2.1.), ma che conducono l’A., piuttosto che ad interrogarsi
sui caratteri strutturali costanti che appartengono al fenomeno del diritto soggettivo (per ve-
rificarne il ricorrere o meno negli strumenti di tutela degli interessi collettivi), ad una valoriz-
zazione di istituti sostanzialmente marginali e nati proprio dalla sentita necessità della dot-
trina di mantenere fermi alcuni dogmi pur a costo di costruzioni capaci di scardinare l’unità
logico-concettuale che all’ordinamento appartiene.
46 Nella dottrina ora in esame, infatti, tutta la complessiva architettura di concetti pro-

posti riposa sull’accettazione di due principi che si presentano nella forma che segue: a) «al-
tro è […] esorbitare dal limiti del proprio diritto soggettivo, altro è ledere l’altrui diritto sog-
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 773

Più precisamente, secondo questa dottrina, il fenomeno della le-


sione degli interessi collettivi, verificandosi in riferimento ad attività non
iure, ma non anche contra ius, darebbe luogo ad una «situazione parallela
a quella del diritto amministrativo»47, nella quale – appunto – in posi-
zione contrapposta al potere non dovrebbe ravvisarsi una situazione giu-
ridica sostanziale di «diritto soggettivo», ma più riduttivamente un «inte-
resse protetto» secondo le modalità dell’«abuso del diritto» oppure se-
condo le modalità richiamate dalla dottrina in relazione alla figura
dell’«interesse legittimo di diritto privato»48.
Se ben si è intesa la ricostruzione ora in esame, dunque, l’ordina-
mento attribuirebbe privati poteri, qualificabili come diritti soggettivi
contrapposti, sottoposti peraltro alle limitazioni discendenti dalla norma-
tiva costituzionale poc’anzi indicata; e ciò con la conseguente possibilità
di configurare un sindacato giurisdizionale sul superamento di detti li-
miti.
Non realizzando, peraltro, detto superamento una violazione di di-
ritti soggettivi, al controllo sul corretto esercizio del potere si dovrebbe
giungere facendo valere degli interessi, pur sostanziali, ma non protetti
come tali, sebbene comunque qualificati e perciò idonei ad aprire le
porte del processo facendo leva sull’ampia formula prevista dall’art. 100
c.p.c.
Questi interessi sarebbero appunto gli interessi collettivi, i quali,
fatti valere in giudizio dagli enti rappresentativi ed intesi in una conce-
zione rigorosamente unitaria ed inscindibile49, riuscirebbero così a con-
seguire quel grado di incidenza sul piano della qualificazione normativa

gettivo»; b) «solo quando il primo fenomeno si traduce anche nel secondo, le “tradizionali”
azioni civilistiche appaiono proponibili» (così, RUFFOLO, U., Interessi collettivi o diffusi e tu-
tela del consumatore, cit., p. 92). Principi a cui corrisponde l’elaborazione di due grandi cate-
gorie di azioni giudiziali: una prima categoria in cui l’azione è riconosciuta in ordine alla tu-
tela dello stesso interesse di cui il legittimato si fa portatore (ad esempio il diritto di pro-
prietà) ed una seconda categoria nella quale, al contrario, il controllo giudiziale opererebbe
non in ordine alla tutela dell’interesse sostanziale del legittimato ad agire, ma in ordine al
mero sindacato circa il corretto esercizio dell’altrui potere o facoltà (interesse legittimo, abuso
del diritto, azioni aquiliane, tutela contro gli atti di emulazione, azione surrogatoria, ecc.)
(questa è – se la si è bene intesa – la posizione espressa in sintesi da RUFFOLO, U., Interessi col-
lettivi o diffusi e tutela del consumatore, cit., p. 169 s.).
47 RUFFOLO, U., Interessi collettivi o diffusi e tutela del consumatore, cit., p. 92.
48 RUFFOLO, U., Interessi collettivi o diffusi e tutela del consumatore, cit., p. 86, 92, ma

poi amplius p. 142 ss.


49 Sul punto v., espressamente, RUFFOLO, U., Interessi collettivi o diffusi e tutela del con-

sumatore, cit., p. 67.; v. anche ID., La tutela individuale e collettiva del consumatore, cit., p. 26.
774 CAPITOLO DECIMO

che mancherebbe agli interessi diffusi, al contrario generici e dunque


non protetti50,51.

50 Così, RUFFOLO, U., Interessi collettivi o diffusi e tutela del consumatore, cit., p. 60, che
dunque nega riguardo questi interessi la possibilità di concedere l’azione individuale sulla
base, per un verso, del orientamento dottrinale ritenuto dall’A. prevalente (cfr. la lunga nota
n. 16, spec. nella parte che figura a p. 46) e dall’altro, come detto nel testo, dell’inidoneità
– apoditticamente sostenuta – del comportamento antigiuridico a ledere con un sufficiente
grado di meritevolezza l’interesse individuale; sulla questione v. le osservazioni presenti a
p. 46, 60, 67, 91, 95; ulteriori osservazioni, sul punto, possono essere tratte dalla lettura di ID.,
La tutela individuale e collettiva del consumatore, cit., p. 20, in cui ci si riferisce a «interessi
collettivi, o diffusi, o di categoria, o di gruppo, concernenti la generalità dei consumatori ma
costituenti mero “interesse semplice” di ciascuno, e cioè non coincidenti con un interesse in-
dividuale protetto, o comunque individualmente non azionabili da alcuno». Osserva, difatti,
l’A.: «si pensi anche solo a prodotti difettosi o dannosi “presentati” al pubblico ma non an-
cora immessi nei canali di distribuzione; od a prodotti – ad es, cosmetici – i cui modesti ef-
fetti collaterali negativi non tocchino la soglia del “danni” ex art. 2043 ss. c.c.; od a prodotti
latamente pericolosi per la salute – coloranti alimentari, televisori fonti di radiazioni … – ma
non in concreto dannosi all’integrità fisica del singolo utente». Queste ultime osservazioni di-
mostrano chiaramente la sovrapposizione tra due distinte problematiche: da un lato, il profilo
della risarcibilità dell’eventuale pregiudizio arrecato da un certo comportamento antigiuri-
dico e, dall’altro, la determinazione dell’interesse per la cui tutela viene imposto un obbligo
sul piano sostanziale. I due profili, come già detto (cfr. retro, cap. VI, § 3.), sono e devono es-
sere tenuti distinti, sebbene la dottrina non faccia altro che confonderli per argomentare la
mancata rilevanza dell’interesse del singolo membro della collettività alla repressione degli il-
leciti a lesività indifferenziata. Ma questo difetto di prospettiva è dovuto allo scarso ap-
profondimento che sul piano teorico-generale è stato sovente dedicato alla relazione inter-
corrente tra l’interesse e gli strumenti giuridici direttamente apprestati per il suo soddisfaci-
mento.
51 La ricostruzione presentata nel testo è stata poi ripresa dallo stesso A. in merito alla

natura dell’azione collettiva ex art. 1469 sexies c.c. (cfr. infra, § 3.2.1.2.); ed inoltre ha trovato
applicazione anche in ALVISI, C., Concorrenza sleale, violazioni di norme pubblicistiche e re-
sponsabilità, cit., p. 188 ss., che proprio recuperando la tesi di Ruffolo ha sostenuto la possi-
bilità di esercitare l’azione di repressione della concorrenza sleale da parte delle associazioni
dei consumatori sul fondamento di un «interesse processuale qualificato dalla ratio juris dei
limiti posti (ex lege) all’esercizio» dei poteri imprenditoriali; interesse processuale la cui qua-
lificazione deriverebbe in particolare dalle norme che più di recente attribuiscono la legitti-
mazione alle associazioni dei consumatori, come l’art. 1469 sexies c.c. o l’art. 7, comma 2, del
d.legisl. n. 74/92 in materia di pubblicità ingannevole. Il passaggio chiave sarebbe quello se-
condo il quale l’ordinamento può «attribuire a soggetto diverso dal beneficiario diretto (nella
ratio legis) d’un divieto normativo, la legittimazione a chiedere al giudice il controllo circa la
altrui violazione di quel divieto o, comunque, la censura circa l’altrui comportamento non
jure […] pur non essendo il soggetto agente portatore dell’interesse protetto dalla norma vio-
lata» (così, RUFFOLO, U., Interessi collettivi o diffusi e tutela del consumatore, cit., p. 171, ri-
chiamato da ALVISI, C., Concorrenza sleale, violazioni di norme pubblicistiche e responsabilità,
cit., p. 191). Costruzione quest’ultima, che attira a sé tutte le critiche che possono essere
mosse nei confronti della concezione di Ruffolo (cfr. la nota che segue) e che inoltre si sottrae
all’unica questione che in materia di concorrenza sleale deve essere dimostrata per raggiun-
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 775

2.2. I principali strumenti di tutela giurisdizionale degli interessi collettivi


dei consumatori attualmente previsti dal nostro ordinamento
Senza entrare in un esame critico della ricostruzione in esame52 va
comunque detto che neanche questa ulteriore esperienza dottrinale è riu-

gere gli esiti interpretativi qui descritti, ancor prima di avventurarsi per ricostruzioni sistema-
tiche di dubbia plausibilità, ovvero il fatto che gli interessi sostanziali tutelati dagli artt. 2598
ss. c.c. siano anche quelli dei consumatori quali soggetti interessati al rispetto delle norme
sulla concorrenza, magari intesa, in un senso più ampio, come interesse generale al «buon
funzionamento del mercato». È questo dunque il vero quod demonstrandum ed altri escamo-
tage argomentativi sono destinati all’insuccesso, specie se fondati sulla ipervalutazione della
vaga formula dell’art. 100 c.p.c.
52 Limitandoci a poche battute, la costruzione di Ruffolo non convince sul piano delle

scelte ricostruttive generali per le seguenti ragioni. A) In primo luogo non convince il paral-
lelo con il processo amministrativo. Fare affidamento, infatti, sul concetto di interesse legit-
timo come figura in grado di spiegare i fenomeni giuridici che regolano il conflitto di interessi
tra soggetti privati ci sembra un’operazione particolarmente azzardata, non fosse altro per la
perenne instabilità concettuale che appartiene alla nozione, una delle più travagliate della
scienza giuridica; inoltre, posto che il diritto regola le attività umane imponendo «limiti» e
che detti «limiti» variano la loro natura a seconda della tipologia dell’attività stessa, non è
dato richiamare il concetto di interesse legittimo se prima non si distingue tra attività che si
estrinsecano in atti giuridici e quelle che al contrario sono rappresentate da comportamenti
meri. Nel primo caso, infatti, il legislatore persegue le sue finalità e garantisce la realizzazione
degli interessi, operando sul regime di efficacia dell’atto ed assegnando alla parte opposta
contro-poteri giuridici – spesso ad esercizio giudiziale – idonei ad infirmarne la stabilità. Nel
secondo caso, invece, il limite ai comportamenti non è null’altro che l’obbligo. Sicché, se
nella prima ipotesi l’apparente somiglianza con ciò che avviene nei rapporti tra p.a. e citta-
dino può indurre in tentazione l’interprete a servirsi del concetto di interesse legittimo, nella
seconda esso non ha veramente alcun senso, favorendo al contrario solo l’insorgere di dan-
nosa confusione tra fenomeni giuridici altamente eterogenei. Va inoltre detto, comunque, che
anche con riguardo agli atti giuridici, il parallelo con ciò che avviene nel processo ammini-
strativo ed in particolare il riferirsi alla figura dell’«eccesso di potere» o all’«uso censurabile
della discrezionalità» (p. 175), non convince poiché questi concetti nascono e si sviluppano in
riferimento a situazioni giuriche funzionalizzate, come appunto è il potere pubblico, ovvero a
poteri limitati ab interno, cioè riconosciuti in ordine al raggiungimento di un fine e suppor-
tati da strutture giuridiche capaci di garantire detta funzionalizzazione (nella specie, il proce-
dimento amministrativo); situazione, quest’ultima, che non ricorre in alcun modo in materia
di tutela civile degli interessi colletivi, ove i soggetti attivi (imprenditori, ecc.) possono porre
in essere tutti i comportamenti idonei al raggiungimento dei loro obiettivi liberamente deter-
minati salvo il rispetto dei limiti esterni (comportamenti doverosi di astensione o requisiti di
legalità degli atti) che la legge impone loro. B) Queste stesse considerazioni ci consentono di
sollevare dubbi anche nei confronti dell’impiego, non solo dell’incerta figura dell’interesse le-
gittimo di diritto privato, che in realtà, se impiegata nei corretti ambiti, null’altro appare che
l’ombra di un’azione costitutiva (cfr. retro, cap. V, nota 131, nonché cap. VI, nota 149), ossia
l’interesse strumentale da questa tutelato, ma anche del concetto di abuso del diritto, che na-
sce dalla necessità di adattare le concezioni del diritto soggettivo inteso come posizione di li-
bertà (criticata retro, cap. V, § 2.3.2.) nei casi in cui in capo al soggetto titolare siano imposti
776 CAPITOLO DECIMO

scita a colmare la lacuna di regolamentazione giuridica in cui gravavano


gli interessi collettivi dei consumatori, dovendosi al contrario attendere
l’intervento del legislatore per addivenire ai primi rimedi di tutela collet-
tiva.
Più precisamente, l’itinerario descritto dagli interessi dei consuma-
tori nel loro progressivo imporsi all’interno del nostro ordinamento posi-
tivo ha avuto inizio a partire dai primi anni Novanta e si è articolato in
interventi legislativi di diversa natura, nonché di diversa incidenza, spe-
cie se colti in riferimento all’assunzione di detti interessi nella loro di-

obblighi di comportamento che limitano detta libertà; in dette ipotesi, infatti, non pochi pro-
blemi sorgono nel far coesistere la posizione di libertà assegnata al titolare del diritto con i
vincoli al medesimo imposti, sicché l’ossimoro concettuale dà vita al concetto di abuso di di-
ritto. C) In ultimo, poco convincente si dimostra anche l’aggancio a quanto dispone l’art. 100
c.p.c. per giustificare la tutela degli interessi collettivi. Questi ultimi, infatti, nella ricostru-
zione qui in esame appaiono come interessi pur rilevanti, ma non tutelati direttamente sul
piano sostanziale. L’A. in questione, difatti, con riferimento all’interesse che legittimerebbe
l’azione parla di sostanziale convergenza ed indistinguibilità tra interesse materiale ed inte-
resse processuale (p. 173 ss.). Ma detta affermazione, lascia particolarmente perplessi. Difatti
sembra difficile sfuggire alla seguente alternativa: o un interesse riguardante comportamenti
inerenti a soggetti di diritto nei loro rapporti materiali è tutelato dalla legge, o non è tutelato.
Il paradosso peraltro deriva semplicemente dal fatto che in questa ricostruzione i limiti im-
posti ai poteri privati non sono intesi come strumenti di tutela degli interessi collettivi con-
trapposti agli interessi imprenditoriali, ma al contrario starebbero lì come servi dell’interesse
generale, ovvero – stando alle tradizionali letture – dell’interesse di nessuno, dell’interesse og-
gettivo al rispetto della legge. È solo per questa ragione che nasce l’esigenza di rifarsi a ciò
che dispone l’art. 100 c.p.c., che appunto diviene propriamente norma di legittimazione, ov-
vero l’appiglio positivo per determinare a chi – all’interno di tutti i soggetti dell’ordinamento
– spetti la titolarità del diritto di azione. Al di là delle figure dogmatiche impiegate è proprio
questo il punto veramente critico di tale ricostruzione, cioè il ritenere che i vincoli imposti al-
l’imprenditore nelle sue attività (quali ad esempio potrebbero essere il divieto di commercia-
lizzare prodotti difettosi o dannosi per la salute della persona, oppure l’impiego di clausole
abusive e così via), non siano posti a tutela degli interessi collettivi dei consumatori, ma del-
l’interesse generale, valendo poi detti interessi collettivi dei consumatori quali interessi so-
stanziali a rilevanza processuale, ovvero idonei ad attribuire l’azione volta a far valere il man-
cato rispetto della legge. Sarebbe come dire che le azioni a tutela della proprietà sono poste
a tutela dell’interesse generale, ma l’azione la si attribuisce comunque al proprietario poiché
il suo essere proprietario gli garantisce la titolarità di un interesse sostanziale da poter spen-
dere proficuamente in ordine all’intergrazione del requisito previsto dall’art. 100 c.p.c. In
quest’ultimo esempio è lampante l’inutile duplicazione dei passaggi ricostruttivi, ovvero il so-
stenere che una certa normativa imponga il rispetto di certi «limiti» ai comportamenti umani,
non per tutelare l’interesse di Tizio, ma l’interesse generale, recuperando poi la rilevanza so-
stanziale dell’interesse di Tizio sulla base dell’art. 100 c.p.c. per riconoscere comuque a que-
sti la legittimazione ad agire. Il punto è che l’interesse sostanziale tutelato è quello di Tizio (e
non quello generale) e su questa base per il principio di atipicità del potere di azione Tizio è
legittimato ad agire per la repressione dell’illecito.
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 777

mensione collettiva e nell’ottica giurisdizionale che qui richiama la nostra


attenzione53.
All’interno delle diverse innovazioni normative è, infatti, agevole in-
dividuare, da un lato, interventi legislativi in generale concernenti il tema
della tutela degli interessi dei consumatori e, dall’altro, interventi legisla-
tivi precipuamente rivolti ad introdurre azioni civili volte a tutelare tali
interessi nella loro dimensione sovraindividuale.
Concentrando l’attenzione su questo secondo piano, spiccano in
primo luogo la l. 6 febbraio 1996, n. 52 e la l. 30 luglio 1998, n. 281, la
cui disciplina54 è successivamente confluita nel d.legisl. 6 settembre 2005,
n. 206, meglio noto come codice del consumo, sul quale, peraltro, è in-
tervenuta di recente la legge finanziaria 2008, introducendo al suo in-
terno un nuovo strumento di tutela collettiva dei consumatori.
Più nel dettaglio, l’art. 25 della l. n. 52/96, in linea con quanto già
auspicato dal Progetto Bianca, nonché in attuazione della direttiva

53 Va comunque ricordata l’importanza che nell’itinerario descritto nel testo ha assunto

il c.d. Progetto Bianca, presentato al Convegno di Fiuggi sulle condizioni generali di con-
tratto (5-6 giugno 1981) e frutto di un approfondito impegno di studio testimoniato dal-
l’opera collettanea in due volumi, Le condizioni generali di contratto, a cura di C.M. Bianca,
I-II, Milano, 1979-1981. Detto progetto, infatti, prevedeva l’introduzione di un’azione collet-
tiva inibitoria secondo la quale, in estrema sintesi, il giudice inibiva l’inclusione nelle con-
dizioni generali di contratto delle clausole di cui fosse accertata la nullità e, allorché l’im-
prenditore non avesse ottemperato all’ordine giudiziale, la clausola inserita era da consi-
derarsi «non apposta». Di particolare interesse, peraltro era la disciplina dei limiti soggettivi
del giudicato collettivo, tanto nei rapporti tra diversi colegittimati collettivi, quanto per ciò
che riguarda gli effetti della sentenza inibitoria nei confronti dei giudizi avviati dai singoli
consumatori. Si prevedeva, infatti: a) «la domanda di inibitoria accolta con sentenza passata
in giudicato non può essere riproposta da altri legittimati dinanzi allo stesso o ad altri tribu-
nali»; b) «Il rigetto della domanda non ne preclude la proponibilità da parte di altri legitti-
mati né preclude l’accertamento della nullità della clausola da parte del giudice adito dal sin-
golo aderente». Il testo del progetto vedilo in Foro it., 1981, IV, p. 293 s. con commento di
TONDO, S., Su un progetto di riforma della disciplina delle condizioni generali di contratto, ivi,
p. 282 ss.; cui adde, BONELL, M.J., A proposito di una recente proposta di riforma del diritto
delle condizioni generali di contratto, in Riv. dir. civ., 1981, II, p. 461 ss.; COSTANZA, M.,
Riforma della disciplina legislativa legislativa delle condizioni generali di contratto, in Giust.
civ., 1981, II, p. 538 ss.; STANZIONE, P., Convegno per una riforma legislativa, in Rass. dir. civ.,
1981, p. 1255.
54 Per i diversi interventi che, prima dell’approvazione del codice del consumo, hanno

interessato, soprattutto sull’onda delle diverse sollecitazioni provenienti dal diritto comunita-
rio, le disposizioni indicate nel testo, v., per tutti, l’attento studio di MINERVINI, E., La tutela
collettiva dei consumatori in materia contrattuale, in I contratti dei consumatori, t. 1, a cura di
E. Gabrielli e E. Minervini, in Trattato dei contratti, diretto da P. Rescigno e E. Gabrielli,
2005, p. 427 ss.
778 CAPITOLO DECIMO

93/13/CEE55, ha innovato – come è noto – la disciplina dei contratti in


generale prevista dal codice civile, introducendo un nucleo di norme ap-
positamente intitolate Dei contratti del consumatore e dirette: da un lato,
a consentire un sindacato di merito sul contenuto del contratto idoneo a
dar luogo all’inefficacia delle clausole «vessatorie», ovvero – stando alla
formula generale prevista dall’art. 1469 bis – determinanti a carico del
consumatore «un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi deri-
vanti dal contratto»; e, dall’altro, a prevedere – a favore delle associazioni
rappresentative dei consumatori e dei professionisti, nonché delle camere
di commercio, industria, artigianato e agricoltura e contro i professioni-
sti o le loro associazioni – un’azione collettiva (tanto cautelare che defi-
nitiva) diretta ad inibire l’«utilizzo»56 di condizioni generali di contratto
di cui sia accertata l’«abusività» ai sensi delle disposizioni previste dal
nuovo Capo XVI bis del codice civile57.

55 La direttiva richiama nel testo ha suscitato l’attivarsi di un dibattito particolarmente


esteso ed approfondito; giustificato, tra l’altro, proprio dalla lunga attesa riservata al ricono-
scimento della dimensione collettiva degli gli interessi dei consumatori. Sul tema, v. gli scritti
contenuti in AA.VV., Condizioni generali di contratto e direttiva C.E.E. n. 93/13 del 5 aprile
1993, (Atti del Convegno di Napoli, 28 maggio 1993), a cura di E. Cesarò, Padova, 1994, tra
cui in particolare, per l’analisi dettagliata della direttiva, ROPPO, V., La nuova disciplina delle
clausole abusive nei contratti fra imprese e consumatori, p. 83 ss., pubblicato anche in Scritti in
onore di Luigi Mengoni, t. 1, Diritto civile, Milano, 1995, p. 689 ss. In generale, sull’itinerario
normativo che ha condotto all’introduzione nel nostro ordinamento dell’art. 1469 sexies, v.,
per tutti, ALPA, G., I contratti con i consumatori, L’iter normativo degli art. 1469 bis-sexies del
codice civile, cit., passim.; PODDIGHE, E., I contratti con i consumatori, I, La disciplina delle
clausole vessatorie, Milano, 2000, p. 5 ss.
56 A seguito della sentenza C. giust. CE, 24 gennaio 2002, C-372/99, in Foro it., 2002,

IV, p. 234 ss., con nota di PALMIERI, A., Trasposizione della direttiva sulle clausole abusive e
«statutory format»: una strada obbligata per la tutela del consumatore europeo?, con la legge
comunitaria 2002, il legislatore italiano ha dovuto inserire dopo le parole «che utilizzano» an-
che la locuzione «che raccomandano l’utilizzo di condizioni generali di contratto». Sulla vi-
cenda v. MINERVINI, E., La tutela collettiva dei consumatori in materia contrattuale, cit., p. 433.
57 Sul punto, ora dispone l’art. 37 del c. cons. Sulla disciplina dell’azione inibitoria ex

art. 1469 sexies c.c., la letteratura, come peraltro in materia di art. 3 l. 281/98, è straripante,
limitandoci a segnalare i contributi che affrontano l’argomento in una prospettiva particolar-
mente sensibile anche ai profili processualcivilistici che a noi interessano, v. ARMONE, G.M.,
Art. 1469-sexies (Azione inibitoria), in La nuova disciplina delle clausole vessatorie nel codice
civile, a cura di A. Barenghi, Napoli, 1996, p. 221 ss.; DANOVI, F., L’azione inibitoria in mate-
ria di clausole vessatorie, in Riv. dir. proc., 1996, p. 1046 ss.; FERRI, C., L’azione inibitoria pre-
vista dall’art. 1469-sexies c.c., in Riv. dir. proc., 1996, p. 936 ss.; LIBERTINI, M., Prime riflessioni
sull’azione inibitoria dell’uso di clausole vessatorie (art. 1469-sexies c.c.), in Contratto e im-
presa, Europa, 1996, p. 555 ss.; ID., L’azione inibitoria collettiva in materia di clausole vessato-
rie (art. 1469-sexies c.c.), in Diritto privato, 1996, p. 197 ss.; BELLELLI, A., Art. 1469-sexies,
Azione inibitoria, I, La tutela inibitoria, in Commentario al capo XVI bis del codice civile: dei
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 779

All’interno di una linea di orizzonte ben più ampia, invece, va collo-


cata la disciplina prevista dalla successiva l. n. 281/98, significativamente
intitolata Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti.
Ciò si apprezza sin dal forte tenore programmatico dell’art. 158, nel
quale «sono riconosciuti e garantiti i diritti e gli interessi individuali e
contratti del consumatore, in Le nuove leggi civili comm., 1997, p. 1261 ss.; CONSOLO, C. - DE
CRISTOFARO, M., Clausole abusive e processo, in Corr. giur., 1997, p. 468 ss.; FRIGNANI, A., L’a-
zione inibitoria contro le clausole vessatorie (considerazioni «fuori dal coro» di un civilista), in
Riv. dir. proc., 1997, p. 999 ss.; GIUSSANI, A., Considerazioni sull’art. 1469 sexies c.c., in Riv.
dir. priv., 1997, p. 321 ss.; MONTESANO, L., Tutela giurisdizionale dei diritti dei consumatori e
dei concessionari di servizi di pubblica utilità nelle normative sulle clausole abusive e sulle au-
torità di regolazione, in Riv. dir. proc., 1997, p. 1 ss.; MORETTI, C., Note in tema di efficacia sog-
gettiva dell’azione inibitoria prevista dall’art. 1469 sexies c.c., in Riv. dir. proc., 1997, p. 883 ss.;
NAPOLI, E.V., Art. 1469-sexies, Azione inibitoria, II, Legittimazione delle Camere di commercio
all’azione inibitoria dell’uso delle condizioni generali di contratto, in Commentario al capo XVI
bis del codice civile: dei contratti del consumatore, cit., p. 1277 ss.; ROMAGNOLI, G., Clausole
vessatorie e contratti d’impresa, Padova, 1997, p. 101 ss.; RUFFOLO, U., Le «clausole vessato-
rie», «abusive», «inique» e la ricodificazione negli artt. 1469-bis - 1469-sexies c.c., in Clausole
«vessatorie» e «abusive», Gli artt. 1469-bis ss. c.c. e i contratti col consumatore, a cura di U.
Ruffolo, Milano, 1997, p. 1 ss.; TARZIA, G., La tutela inibitoria contro le clausole vessatorie, in
Riv. dir. proc., 1997, p. 629 ss.; TOMMASEO, F., Art. 1469-sexies, in Le clausole vessatorie nei
contratti con i consumatori, I, a cura di G. Alpa e S. Patti, Milano, 1997, p. 755 ss.; CALVI,
G.L., Art. 1469-sexies (Azione inibitoria), in Clausole vessatorie e contratto del consumatore
(artt. 1469 bis e ss.), a cura di E. Cesarò, I, Padova, 1998, p. 679 ss.; LAPERTOSA, F., Profili pro-
cessuali della disciplina delle clausole vessatorie nei contratti con il consumatore, in Riv. dir.
proc., 1998, p. 700 ss.; LIBERTINI, M., L’inibitoria ex art. 1469-sexies, in Giurisprudenza siste-
matica di diritto civile e commerciale, I contratti in generale, Aggiornamento 1991-1998, di-
retta da G. Alpa e M. Bessone, I, Torino, 1999, p. 663 ss.; MINERVINI, E., I contratti dei con-
sumatori e la l. 30 luglio 1998 n. 281, in Contratti, 1999, p. 938 ss.; NICOTINA, G., Questioni
processuali controverse in materia di clausole abusive nei contratti con i consumatori, in Giur.
it., 1999, p. 2219 ss.; SCARPELLO, A. - PUTTI, P.M., Le clausole vessatorie nei contratti dei con-
sumatori, in Codice del consumo e del risparmio, a cura di G. Alpa, Milano, 1999, p. 393 ss.;
CAPOBIANCO, E., Contrattazione bancaria e tutela dei consumatori, Napoli, 2000, p. 173 ss.;
CHINÈ, G., Consumatore (contratti del), in Enc. dir., Aggiornamento, 2000, Milano, p. 401 ss.,
ma spec. p. 426 ss.; DE NEGRI, R., La tutela di matrice comuntaria nei confronti delle clausole
abusive nei contratti con i consumatori, in Consumatori, contratti, conflittualità, Diritti indivi-
duali, interessi diffusi, mezzi di tutela, a cura di C. Vaccà, Milano, 2000, p. 167 ss.; GABRIELLI,
E. - ORESTANO, A., Contratti del consumatore, in Dig. disc. priv., sez. civ., Aggiornamento, To-
rino, 2000, p. 225 ss., ma spec. p. 261 ss.; GASPANI, V., Sviluppi giurisprudenziali sull’integra-
zione dei contratti di viaggio e turismo: l’azione inibitoria delle associazioni dei consumatori, in
Consumatori, contratti, conflittualità, Diritti individuali, interessi diffusi, mezzi di tutela, cit., p.
499 ss.; MARTINELLO, P., Le associazioni dei consumatori e l’azione inibitoria promossa dalle as-
sociazioni dei consumatori ex art. 1469 sexies cod. civ., in Consumatori, contratti, conflittualità,
Diritti individuali, interessi diffusi, mezzi di tutela, cit., p. 289 ss.; SAPIO, G., L’inibitoria ex art.
1469-sexies c.c. tra problemi risolti e questioni ancora aperte, in Giust. civ., 2000, I, p. 245 ss.;
PODDIGHE, E., I contratti con i consumatori, cit., p. 369 ss.; CARRATTA, A., Brevi osservazioni
sull’inibitoria a tutela di consumatori e utenti, in Giusto processo civile e procedimenti decisori
780 CAPITOLO DECIMO

collettivi dei consumatori e degli utenti»; situazioni giuridiche soggettive


«fondamentali» meglio specificate dalla stessa legge come «diritti» alla
tutela della salute, alla sicurezza e alla qualità dei prodotti e dei servizi,
ad una adeguata informazione ed ad una corretta pubblicità, all’educa-
zione al consumo, alla correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti
contrattuali concernenti beni e servizi, alla promozione e allo sviluppo
dell’associazionismo libero, volontario e democratico tra i consumatori e
gli utenti, all’erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità e
di efficienza.
In relazione a questi diritti ed in attuazione della finalità di garantire
gli stessi «anche in forma collettiva e associativa»59, è previsto, poi, che le
associazioni dei consumatori e degli utenti, la cui rappresentatività sia

sommari, a cura di L. Lanfranchi, Torino, 2001, p. 119 ss.; PETRILLO, C., L’azione inibitoria a
tutela dei consumatori ed utenti ex art. 1469 sexies c.c., in Giusto processo civile e procedimenti
decisori sommari, cit., p. 143 ss.; GRAZIUSO, E., La tutela del consumatore contro le clausole
abusive, Mezzi rituali e irrituali, Milano, 2002, p. 185 ss.; MARINUCCI, E., Gli effetti della sen-
tenza inibitoria prevista dall’art. 1469 sexies c.c., in Riv. dir. proc., 2002, p. 216 ss.; CARBONARA,
F., Gli interessi collettivi e diffusi e l’azione inibitoria dell’art. 1469 sexies c.c., in La tutela giu-
risdizionale degli interessi collettivi e diffusi, a cura di L. Lanfranchi, Torino, 2003, p. 457 ss.;
PETRELLI, P., Interessi collettivi e responsabilità civile, Padova, 2003, p. 125 ss.; PUNZI, C., La
tutela giurisdizionale degli interessi diffusi e degli interessi collettivi, in La tutela giurisdizionale
degli interessi collettivi e diffusi, cit., p. 17 ss., ma spec. p. 29 ss.; CHIARLONI, S., Appunti sulle
tecniche di tutela collettiva dei consumatori, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2005, p. 385 ss.; MARI-
NUCCI, E., Azioni collettive e azioni inibitorie da parte delle associazioni dei consumatori, in Riv.
dir. proc., 2005, p. 125 ss.; MINERVINI, E., La tutela collettiva dei consumatori in materia con-
trattuale, cit., p. 427 ss.; CHIARLONI, S., Per la chiarezza di idee in tema di tutele collettive dei
consumatori, in Riv. dir. proc., 2007, p. 567 ss.; MARENGO, R., Garanzie processuali e tutela dei
consumatori, Torino, 2007, p. 140 ss.
58 Le previsioni dei commi 1 e 2 dell’art. 1 l. 281/98, integrate dal comma 2 bis intro-

dotto con la legge comunitaria 2001 (l. 1 marzo 2002, n. 39), sono ora riprodotte dagli art. 1
e 2, comma 1 e 2, del c. cons.
59 Art. 1, comma 2, l. 281/98, ora art. 2, comma 1, c. cons. È interessante evidenziare

sin d’ora la precisa lettera della legge che con l’inserimento dell’«anche» (corsivato nel testo)
sembra inserirsi correttamente nella prospettiva indicata dalla lettura dell’art. 2 della Costitu-
zione, secondo il quale i «diritti inviolabili dell’uomo» sono riconosciuti e garantiti «sia come
singolo sia nelle formazioni sociali». Aspetto quest’ultimo, come vedremo fondamentale, irri-
nunciabile e non pretermettibile all’interno di qualsiasi ricostruzione di un modello di tutela
giurisdizionale degli interessi collettivi che, rispettosa dei principi costituzionali, tenga pre-
sente, senza sopprimerne uno a vantaggio dell’altro, entrambi i termini della dinamica di que-
sti particolari interessi, ovvero la dimensione individuale e la dimensione sovra-individuale,
cioè collettiva, degli stessi. Sull’importanza della specificazione in questione per l’esatto in-
quadramento del complessivo sistema di tutele individuali e collettive previsto dalla l. 281/98,
v. le attente osservazioni di PUNZI, C., La tutela giurisdizionale degli interessi diffusi e degli in-
teressi collettivi, cit., p. 37.
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 781

previamente dichiarata mediante decreto ministeriale60, siano legittimate


ad agire a tutela degli interessi collettivi, richiedendo: di inibire gli atti e
i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti; di
adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi
delle violazioni accertate; di ordinare la pubblicazione del provvedi-
mento su uno o più quotidiani a diffusione nazionale oppure locale nei
casi in cui la pubblicità del provvedimento può contribuire a correggere
o eliminare gli effetti delle violazioni accertate61.

60 Secondo un modello già trovato in sede di azione di danno ambientale, i soggetti col-
lettivi legittimati devono previamente essere inseriti all’interno degli elenchi delle associazioni
rappresentative a livello nazionale (cfr. art. 5 l. 281/98, ora art. 137 c. cons.). Detta soluzione
è attualmente stata estesa dall’art. 37 del c. cons. anche all’azione collettiva avverso l’utilizzo
di clausole abusive risolvendo la controversa questione dei rapporti tra l’art. 1469 sexies c.c.
e l’art. 3 della l. n. 281/98 (per un’attenta analisi del dibattito, così come si è sviluppato an-
teriormente alla novella, v. FABBIO, P., Questioni in materia d’inibitoria collettiva ex art. 1469
sexies c.c. alla luce della l. 30 luglio 1998, n. 281 sui diritti dei consumatori e degli utenti, in
Giur. comm., 2003, II, p. 722 ss.). Per ciò che riguarda il fatto se tale rappresentatività sia una
condizione di merito e o di rito, va presto detto che la questione sembra doversi risolvere se-
condo le regole ordinarie, ovvero nei termini che seguono. Detta condizione è questione di
rito da valutare in primo luogo sulla base dell’affermazione contenuta nell’atto introduttivo
proposto dall’associazione. Ad esempio, l’associazione che propone la domanda deve specifi-
care sin dall’atto introduttivo che essa appartiene a quelle riconosciute e legittimate ai sensi
della legge. Se ciò non accade, c’è un difetto di legittimazione ad agire rilevabile d’ufficio e
che segue le regole ordinarie. Ciò posto, l’effettivo inserimento dell’associazione nell’elenco
delle associazioni riconosciute determina la titolarità del diritto soggettivo dell’ente esponen-
ziale, ovvero la rilevanza in termini normativi del suo interesse concreto, cioè, quindi, è que-
stione di merito, come si suol dire di legittimazione sostanziale.
61 Così l’art. 3 della l. 281/98, ora art. 140 c. cons. V’è da dire che nell’architettura della

legge 281/98, l’art. 3 (Legittimazione ad agire) rinviava implicitamente all’art. 1, comma 2, per
ciò che riguardava i diritti dei consumatori legittimanti l’azione collettiva e proseguiva disci-
plinando i provvedimenti giudiziali ed il loro contenuto sanzionatorio. Ora, spetta all’art. 140
(Procedura) del Codice disciplinare il contenuto dei provvedimenti, all’art. 139 (Legittima-
zione ad agire) determinare i soggetti legittimati e, da un lato, rinviare – ora espressamente –
all’art. 2 (Diritti dei consumatori) del Codice per ciò che riguarda i diritti legittimanti l’azione
collettiva e, dall’altro, prevedere che, oltre a detti casi, «le dette associazioni sono legittimate
ad agire nelle ipotesi di violazione degli interessi collettivi dei consumatori contemplati nelle
materie disciplinate dal presente codice, nonché dalle seguenti disposizioni legislative: a)
legge 6 agosto 1990, n. 223, e legge 30 aprile 1998, n. 122, concernenti l’esercizio delle atti-
vità televisive; b) decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 541, come modificato dal decreto
legislativo 18 febbraio 1997, n. 44, e legge 14 ottobre 1999, n. 362, concernente la pubblicità
dei medicinali per uso umano». In generale, sull’azione collettiva prima disciplinata dall’art.
3 della l. 281/98 ed ora confluita nel c. cons., v. ALPA, G., La legge sui diritti dei consumatori,
cit., p. 997 ss.; ID., La nuova disciplina dei diritti dei consumatori, cit., p. 1310 ss.; COLA-
GRANDE, R., Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, in Le nuove leggi civili comm.,
1998, p. 700 ss.; GIUSSANI, A., La tutela di interessi collettivi nella nuova disciplina dei diritti
dei consumatori, in Danno e responsabilità, 1998, p. 1061 ss.; BASTIANON, S., Brevi osservazioni
782 CAPITOLO DECIMO

Dando attuazione a quanto disposto dall’art. 7 della l. 29 luglio


2003, n. 229, il legislatore ha poi provveduto al riassetto della normativa
in materia dei consumatori, facendo confluire le previsioni legali ora
esposte all’interno del già richiamato codice del consumo e senza modi-
ficare in termini sostanziali la disciplina preesistente (inserendo tra l’altro
– come proposto in sede di Commissione62 e come già auspicato in sede
sulla legge n. 281/1998 in materia di tutela dei consumatori, in Resp. civ. prev., 1999, p. 527
ss.; BRIGANTI, E., Tutela inibitoria e legittimazione attiva delle associazioni rappresentative dei
consumatori, in Notariato, 1999, p. 271 ss.; CAMERO, R. - DELLA VALLE, S., La nuova disciplina
dei diritti del consumatore, Milano, 1999, p. 131 ss.; CENA, D., La nuova legge quadro dei di-
ritti dei consumatori, in Contratto imp. Europa, 1999, 977 ss.; MAZZAMUTO, S. - PLAIA, A.,
Provvedimenti inibitori a tutela del consumatore: la legge italiana 30 luglio 1998, n. 281 e la di-
rettiva 98/28/CE, in Europa e dir. priv., 1999, p. 669 ss.; MINERVINI, E., I contratti dei consu-
matori e la l. 30 luglio 1998 n. 281, cit., p. 938 ss.; SCIANDONE, I diritti dei consumatori e degli
utenti nella legge 30 luglio 1998, n. 281, in Arch. civ., 1999, p. 11 ss.; SCUFFI, M., Azione col-
lettiva in difesa dei consumatori: legittimazione e tecniche processuali, in Dir. ind., 1999, p. 151
ss.; CARRATTA, A., Brevi osservazioni sull’inibitoria a tutela di consumatori e utenti, cit., p. 119
ss.; PAGNI, I., Tutela individuale e tutela collettiva nella nuova disciplina dei diritti dei consu-
matori e degli utenti (Prime riflessioni sull’art. 3, l. 30.7.1998, n. 281), in La disciplina dei di-
ritti dei consumatori e degli utenti: l. 30 luglio 1998, n. 281, a cura di A. Barba, Napoli, 2000,
p. 127 ss.; CHINÈ, G., Legittimazione ad agire (art. 3), in I diritti dei consumatori e degli utenti,
Un commento alle leggi 30.7.1998, n. 281 e 24.11.2000, n. 340 e al decreto legislativo
23.4.2001, n. 224, a cura di G. Alpa e V. Levi, Milano, 2001, p. 33 ss.; GHIDINI, G. - CERA-
SANI, C., Consumatore (tutela del) (diritti civili), in Enc. dir., Aggiornamento, V, Milano, 2001,
p. 264 ss., ma spec. p. 274 ss.; PONCIBÒ, C., Le azioni di interesse collettivo per la tutela dei
consumatori, in Riv. crit. dir. priv., 2002, p. 659 ss.; ARMONE, G.M., La tutela inibitoria, in Trat-
tato di diritto privato europeo, IV, Singoli contratti, La responsabilità civile, Le forme di tutela,
Padova, 2003, p. 718 ss.; ODORISIO, E., La tutela giurisdizionale dei diritti dei consumatori e
degli utenti: concorso di azioni e «giusto processo» civile, in La tutela giurisdizionale degli inte-
ressi collettivi e diffusi, a cura di L. Lanfranchi, Torino, 2003, p. 487 ss.; PETRELLI, P., Interessi
collettivi e responsabilità civile, cit., p. 146 ss.; PUNZI, C., La tutela giurisdizionale degli inte-
ressi diffusi e degli interessi collettivi, cit., p. 17 ss., ma spec. p. 36 ss.; MARINUCCI, E., Azioni
collettive e azioni inibitorie da parte delle associazioni dei consumatori, cit., p. 125 ss.; MINER-
VINI, E., La tutela collettiva dei consumatori in materia contrattuale, cit., p. 427 ss.; PALMI-
GIANO, A. - VECCHIO VERDERAME, S., La legge n. 281 del 1998, La cd. «carta dei diritti del con-
sumatore» e la nuova tutela inibitoria, in Manuale di diritto dei consumatori, a cura di C. Iu-
rilli, Torino, 2005, p. 66 ss.; ARMONE, G., Le azioni inibitorie e l’accesso alla giustizia, in Codice
del consumo, a cura di V. Cuffaro, Milano, 2006, p. 139 ss.; DE CRISTOFARO, G., Il «Codice del
consumo», in Nuove leggi civ. comm., 2006, p. 747 ss., ma spec. p. 800 ss.; PETRILLO, C. - BAR-
TOLOMUCCI, P., Artt. 139-141, in Codice del consumo, Commentario, a cura di G. Alpa e L.
Rossi Carleo, cit., p. 817 ss.; BELLI, C., Artt. 139-140, in Codice del consumo, Commentario del
d.legs. 6 settembre 2005, n. 206, a cura di E.M. Tripodi e C. Belli, Rimini, 2006, p. 532 ss.; BE-
NUCCI, S., Artt. 139-141, in Codice del consumo, a cura di G. Vettori, Padova, 2007, p. 1076
ss.; COMOGLIO, L.P., Aspetti processuali della tutela del consumatore, in Riv. dir. proc., 2007, p.
307 ss.; MARENGO, R., Garanzie processuali e tutela dei consumatori, cit., p. 135 ss.
62 Nella Relazione che accompagna la prima stesura del Codice, infatti, come ricorda

ROSSI CARLEO, L., L’azione inibitoria: dalla norma sulle clausole abusive al nuovo codice dei
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 783

di Progetto Bianca63 – una specifica regolamentazione degli effetti del


giudicato)64: l’azione inibitoria prima prevista dall’art. 1469 sexies c.c.
trova ora posto all’art. 37 del codice, mentre l’azione inibitoria generale
è attualmente disciplinata dall’art. 140 del codice.
Da ultimo, come detto, la legge finanziaria 2008 ha introdotto nel
codice del consumo l’art. 140 bis (rubricato Azione collettiva risarcitoria),
stando al quale i soggetti collettivi legittimati ad agire in via collettiva
possono richiedere al giudice «l’accertamento del diritto al risarcimento
del danno e alla restituzione delle somme spettanti ai singoli consumatori
e utenti nell’ambito dei rapporti giuridici relativi a contratti stipulati ai
sensi dell’art. 1342 c.c., ovvero in conseguenza di atti illeciti extracon-
trattuali, di pratiche commerciali scorrette o di comportamenti anticon-
correnziali, quando siano lesi i diritti di una pluralità di consumatori o di
utenti»65.
consumatori, in Europa e dir. priv.., 2005, p. 847 ss., ma spec. 852, si legge: «Il Codice dispiega
un ruolo riequilibriatore della prevista efficacia della sentenza di accoglimento ultra partes,
prevedendo espressamente che il professionista possa, chiamando in giudizio gli altri enti le-
gittimati ovvero i singoli consumatori ed utenti, vincolare anche tali soggetti all’efficacia del
giudicato eventualmente negativo. La norma, evidentemente, non è innovativa sul punto giac-
ché costituisce solo esplicito richiamo dei principi generali sanciti rispettivamente dagli artt.
106 e 150 c.p.c. Il Codice sancisce espressamente che la sentenza spiega i suoi propri effetti
secundum eventum litis. Ciò in conformità non solo con quanto previsto dalla legislazione di
altri Stati membri (es. ordinamento tedesco), ma anche di quanto auspicato dalla dottrina di
gran lunga prevalente. Indubbia ne appare l’utilità soprattutto al fine di soddisfare, nel pieno
rispetto del diritto di difesa sancito dall’art. 24, comma 2, Cost. il principio dell’economia
giudiziale, nonché in aperta aderenza con gli eventuali intenti della legislazione comunitaria».
Cfr. appunto il comma 3 dell’art. 140 del Codice nella versione del 12 novembre 2003 ripor-
tata al termine del saggio ora richiamato, stando alla lettera del quale: «Il professionista con-
venuto può chiamare in giudizio le altre associazioni legittimate ad agire, nonché i titolari dei
diritti di cui all’art. 1 anche attraverso la notificazione di cui all’art. 150 del codice di proce-
dura civile». Al comma 4, si disponeva, invece, che «La sentenza che accoglie la domanda
proposta da un’associazione spiega i propri effetti nei confronti delle associazioni di cui al-
l’art. 138 e dei consumatori lesi dai medesimi atti o comportamenti inibiti. La sentenza di ri-
getto spiega efficacia unicamente nei confronti delle parti in giudizio». L’occasione perduta è
rilevata anche da PETRILLO, C., Art. 140, Procedura (Profili processuali), in Codice del consumo,
cit., p. 838 ss., ma spec. p. 839 s.; e da BELLELLI, A., La vendita dei beni di consumo, La tutela
collettiva, in Le nuove leggi civ. comm., 2006, p. 471 ss., ma spec. p. 480.
63 Cfr. retro, nota 53.
64 La sostanziale coincidenza dei rimedi emerge nitidamente dai primi contributi inter-

venuti sul punto: cfr.., ad es., BARTOLOMUCCI, P., Art. 140, Procedura, in Codice del consumo,
cit., p. 821 ss.; PETRILLO, C., Art. 140, Procedura (Profili processuali), ivi, cit., p. 838 ss.; BELLI,
C., Articoli 139-140, cit., p. 536 ss.
65 L’introduzione del nuovo art. 140 bis c. cons. è avvenuta quando il volume era già in

bozze. Ciononostante abbiamo cercato – per quanto possibile – di intervenire sul testo già li-
cenziato per aggiornarlo alla novità legislativa. Più in particolare alla fine di questo capitolo
784 CAPITOLO DECIMO

3. La natura delle azioni collettive a tutela dei consumatori


3.1. Considerazioni introduttive
Dall’itinerario legislativo tratteggiato nelle pagine che precedono
emerge, quindi, la necessità che la sistemazione degli strumenti di tutela
collettiva degli interessi dei consumatori tenga conto, da un lato, delle
due azioni collettive inibitorie e, dall’altro, dell’azione collettiva risarcito-
ria appena introdotta.
Come detto poc’anzi la disciplina delle azioni collettive inibitorie è
rimasta nel tempo pressoché invariata, sicché il dibattito dottrinale e giu-
risprudenziale ad esse relativo si dimostra in gran parte ancor valido e
ricco di indicazioni ricostruttive; d’altro canto, il rimedio collettivo risar-
citorio, pur presentandosi come uno strumento di tutela in linea generale
autonomo e distinto rispetto a quelli già esistenti, sembra comunque
avere inciso sugli equilibri complessivi del sistema di tutela collettiva,
specie in relazione a talune problematiche interpretative già tempo
emerse con riguardo alle azioni collettive inibitorie poc’anzi menzionate.
Ci riferiamo in primo luogo al tema dell’esatta determinazione del-
l’ambito oggettivo di accertamento dei diversi giudizi collettivi, nonché
anche al tema dell’efficacia soggettiva del giudicato, tanto in riferimento
ai singoli consumatori pregiudicati, quanto in riferimento ai soggetti le-
gittimati in via rappresentativa.
Alla luce di queste premesse risulta opportuno orientarci nei termini
che seguono.
In un primo momento approfondiremo il tema concernente la na-
tura delle azioni collettive inibitorie, esaminando l’ampio dibattito svi-
luppatosi in materia e procedendo in chiave ricostruttiva cercando di
mettere da parte le questioni su cui verosimilmente la disciplina del
nuovo rimedio collettivo risarcitorio ha inciso.
Subito dopo affronteremo il tema dell’inquadramento dell’azione
collettiva risarcitoria prospettando le diverse opzioni ricostruttive possi-
bili, nonché quella che a nostro parere risulta preferibile sulla base del-
l’attuale quadro positivo.
In ultimo tratteremo le questioni rispetto alle quali sembra palesarsi
un’interferenza tra i rimedi collettivi esaminati.

abbiamo dedicato una parte specificamente indirizzata allo studio della natura del rimedio ed
inoltre abbiamo cercato di individuare, sebbene in prima approssimazione, le questioni rela-
tive all’interpretazione dei rimedi collettivi inibitori sulle quali sembra poter incidere la disci-
plina dell’art. 140 bis.
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 785

3.2. Le azioni collettive inibitorie


3.2.1. Esame del dibattito sulla natura dell’azione collettiva inibitoria in
materia di clausole abusive
3.2.1.1. La deduzione della natura dell’azione dalla natura degli inte-
ressi tutelati. – Uno dei fattori a cui dare particolare rilievo nello studio
dei rimedi collettivi a cui ci stiamo riferendo è la presenza di un netto ef-
fetto di condizionamento della riflessione dottrinale attorno alla natura
dell’azione inibitoria ex art. 1469 sexies su tutto il dibattito successivo;
condizionamento dovuto non solo alla naturale inerzia che appartiene
alla progressione scientifica, in cui sovente soluzioni già testate vengono
riproposte in relazione a problematiche nuove, ma anche alla non uni-
voca formulazione di talune disposizioni chiave presenti nei successivi in-
terventi di riforma, che di certo ha favorito l’instradarsi della riflessione
lungo percorsi già noti, esplorati ed in quanto tali in prima approssima-
zione affidabili.
Ciò sta a significare, peraltro, che il dibattito relativo all’azione col-
lettiva ora accolta nel disposto dell’art. 37 del codice del consumo rileva
non solo in ordine alla corretta interpretazione del rimedio in sé, ma an-
che in ordine alla sistemazione dell’inibitoria generale successivamente
introdotta.
In altri termini l’intenso dibattito attorno alla natura dell’azione ex
art. 1469 sexies c.c. ha rappresentato un itinerario ricostruttivo da cui la
dottrina successiva non sempre è riuscita a prescindere; e ciò non solo
per discostarsene nello studio dei nuovi strumenti, ma ancor più per pro-
cedere dall’esame dei «nuovi» verso la revisione critica delle tesi sorte in
merito ai «vecchi»66.
Chiarito, dunque, tale importante profilo evolutivo del dibattito
scientifico sui rimedi di tutela collettiva inibitoria degli interessi dei con-
sumatori, possiamo tosto procede all’esame degli orientamenti ricostrut-
tivi rilevando tra le questioni di certo decisive in ordine all’inquadra-
mento dell’azione prevista dall’art. 1469 sexies c.c., la prevalentemente
convinzione circa l’assoluta autonomia di tale rimedio rispetto alle azioni
individuali riservate ai singoli consumatori, tanto per ciò che attiene ai
percorsi processuali, quanto per ciò che attiene agli interessi rispettiva-
mente tutelati.

66 Un eccezione a quanto si afferma può essere individuata nella posizione espressa da

LANFRANCHI, L., Le animulae vagulae blandulae e l’altra faccia della luna, in La tutela giurisdi-
zionale degli interessi collettivi e diffusi, cit., p. XLI s., riportata infra, alla nota 78.
786 CAPITOLO DECIMO

Fatta eccezione, per taluni indirizzi interpretativi pur autorevoli ma


di certo minoritari, infatti, l’azione collettiva in questione è stata costan-
temente descritta come perfettamente estranea agli interessi individuali
dei consumatori ed al contrario volta alla tutela di interessi di dimensione
ultraindividuale.
Dimensione, peraltro, non sempre adeguatamente chiarita dalla dot-
trina sin da un piano puramente lessicale, nella frequente ed implicita
convinzione circa la piena fungibilità dei concetti racchiusi nelle diverse
formule verbali impiegate; si è, infatti, parlato di interessi collettivi come
di interessi diffusi, piuttosto che di interessi sovraindividuali o interessi
generali.
D’altro canto, anche la riflessione scientifica avente ad oggetto gli
specifici strumenti apprestati dal nostro ordinamento a tutela degli inte-
ressi collettivi dei consumatori, si è svolta frequentemente all’insegna di
una linea metodologica già più volte rilevata nel corso del nostro studio,
ovvero quella del sostanziale isolamento rispetto al più ampio dibattito
concernente lo studio teorico-generale di questa tipologia di interessi e
delle diverse vie di giuridicizzazione degli stessi.
Così, per la tesi maggioritaria, gli interessi protetti dal rimedio in
esame – diffusi, collettivi, generali o semplicemente sovraindividuali che
siano – sarebbero genericamente riferibili alla comunità dei consumatori,
mentre, per un’opinione minoritaria, argomentata sulla base della legitti-
mazione ad agire attribuita anche alle associazioni degli imprenditori e
alle camere di commercio, andrebbe colta la più ampia latitudine degli
interessi tutelati, essendo questi ultimi relativi – più in generale – alla
correttezza ed alla trasparenza del mercato ed investendo quindi – come
appunto indica la previsione legale in punto di legittimazione – anche gli
altri operatori del mercato stesso67. Posizione interpretativa, quest’ul-
tima, solo apparentemente simile a quella sostenente – secondo una linea
ricostruttiva assai opinabile e sempre riferita all’azione ex art. 1469 sexies
c.c. – che l’interesse ivi tutelato sia suscettibile di mutare ampiezza – se
non natura – a seconda del soggetto che concretamente eserciti l’azione.
Così, gli interessi tutelati sarebbero: quelli collettivi dei consumatori, al-
lorché ad agire sia l’associazione dei consumatori; gli interessi della classe
imprenditoriale, allorché ad agire sia l’associazione rappresentativa degli
imprenditori; o, infine, l’interesse pubblico, allorché ad agire siano le ca-
mere di commercio68.
67 CAMERO, R. - DELLA VALLE, S., La nuova disciplina dei diritti del consumatore, cit., p.
30 e 33; BELLELLI, A., Art. 1469-sexies, Azione inibitoria, I, La tutela inibitoria, cit., p. 1270.
68 Così sembrerebbe porsi, se ben si intende, CHINÈ, G., Consumatore (contratti del),
cit., 429; GRAZIUSO, E., La tutela del consumatore contro le clausole abusive, Mezzi rituali e ir-
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 787

Va comunque detto che, né l’opzione terminologica ritenuta più ap-


propriata (interessi collettivi, diffusi, generali, sovraindividuali ecc.), né
la latitudine più o meno ampia attribuita agli interessi tutelati nei due
giudizi (interessi della classe dei consumatori o interessi appartenenti a
tutti gli operatori del mercato), hanno rappresentato gli strumenti rico-
struttivi determinanti per apprezzare l’effettiva natura dell’azione collet-
tiva, risiedendo al contrario, la vera chiave di lettura del fenomeno, più
che altro nell’esame e nella determinazione dei rapporti ontologici inter-
correnti tra gli interessi sovraindividuali ivi tutelati – comunque denomi-
nati – e gli interessi individuali dei singoli consumatori.
Così, se rare e criticate opinioni hanno dato l’idea di presentare gli
interessi collettivi in un rapporto di sostanziale omogeneità rispetto agli

rituali, cit., p. 218. Analoga prospettiva, ma in un contesto argomentativo meno sintetico che
negli scritti degli AA. ora citati, è seguita da PETRILLO, C., La tutela giurisdizionale degli inte-
ressi collettivi nella concorrenza sleale, in La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e dif-
fusi, Torino, 2003, p. 419 ss., ma spec. p. 435, che, in riferimento alla legittimazione ad agire
ex art. 2601 c.c. in capo alle camere di commercio, afferma: «da qui l’opportunità di ravvisare
nell’azione contro la concorrenza sleale la tutela di una moltitudine di diverse situazioni giu-
ridiche: quando l’azione sia promossa dai singoli imprenditori essi tutelano in via immediata
i propri diritti individuali e/o collettivi ed in via mediata, eventualmente, i diritti delle asso-
ciazioni, degli altri imprenditori e l’interesse pubblico; quando, invece, agiscono in giudizio le
associazioni previste dall’art. 2601 c.c. esse tutelano in via immediata i propri diritti ed in via
mediata gli interessi/diritti collettivi degli imprenditori ed eventualmente un interesse pub-
blico alla cui tutela sono preposte le camere di commercio; qualora, infine, siano queste ul-
time ad agire, esse tuteleranno in via immediata il c.d. interesse pubblico, e solo in via me-
diata i diritti soggettivi degli imprenditori e delle associazioni […]». In realtà, a nostro modo
di vedere, tutte queste posizioni, cadono in errore su un piano di teoria generale, poiché
confondono l’interesse tutelato astrattamente dalla norma con l’interesse che concretamente
anima il soggetto che esercita l’azione. In breve (cfr. retro, capp. IV-VI) l’interesse tutelato
dalla norma in via astratta e generale o è l’interesse collettivo (ma particolare) dei consuma-
tori o è l’interesse collettivo (ma particolare) degli imprenditori o è l’interesse generale (e as-
solutamente non pubblico; cfr. retro, cap. IV, § 8.) alla correttezza e trasparenza del mercato
che appartiene a tutti gli operatori dello stesso. Detto interesse inteso nella sua dimensione
astratta verrà appunto ad essere assunto dal legislatore: a) come prevalente a certe condizioni
rispetto all’opposto interesse confliggente; b) come appartenente a determinate categorie di
soggetti. Per cui, se si assume che l’interesse tutelato dalla norma è l’interesse dei consuma-
tori, allora anche l’azione delle associazioni imprenditoriali sarà rivolta alla tutela di quel me-
desimo interesse, indipendentemente dall’interesse che concretamente avrà portato dette as-
sociazioni alla richiesta di tutela giurisdizionale. Si deduce da ciò che, nelle ipotesi in esame,
i soggetti ritenuti legittimati all’azione indicano verosimilmente che l’opzione ermeneutica più
appagante sia ritenere quale interesse tutelato in via astratta dalla normativa in questione un
interesse generale che il legislatore valuta appartenente a tutti i soggetti che operano nel mer-
cato e che, volendo fare un’opera di sintesi, è rappresentato sotto un profilo generale dalla si-
curezza del mercato intesa nel senso più ampio.
788 CAPITOLO DECIMO

interessi individuali69, la stragrande maggioranza degli studiosi ha soste-


nuto ed avvalorato la tesi dell’ontologica contrapposizione tra le due –

69 Premettendo il fatto che detta configurazione dell’interesse collettivo non ha rappre-


sentato l’esito di un percorso ricostruttivo incentrato in chiave teorico-dogmatica sulla deter-
minazione della struttura formale di questi interessi – cosa peraltro comune anche all’oppo-
sto filone interpretativo – la possibile riconduzione dell’interesse collettivo ai singoli consu-
matori che operano nel mercato ha trovato un campo di applicazione nella tesi ricostruttiva
avanzata da ARMONE, G.M., Art. 1469-sexies (Azione inibitoria), cit., p. 221 ss.; ID., La tutela
inibitoria, cit., p. 737 s. E ciò è avvenuto prima in relazione all’art. 1469 sexies c.c. (ovvero in
riferimento ad una fattispecie legale certamente meno favorevole alla ricostruzione indicata)
e successivamente in riferimento al sistema di tutele previsto dalla l. n. 281/98 (quadro nor-
mativo al contrario meno ostico rispetto a detta configurazione degli interessi collettivi; cfr.
infra, § 3.2.2.1.). L’A. indicato ha, dunque, in diversi passaggi della trama argomentativa pro-
posta, offerto l’immagine di un potere imprenditoriale incidente su un numero indefinito di
potenziali consumatori ed utenti, affermando (Art. 1469-sexies (Azione inibitoria), cit., p.
248) che «la tutela dell’interesse collettivo è sempre affidata a soggetti che non fanno valere
il proprio interesse personale, bensì un interesse dell’intera collettività, presentandosi dunque
come autentici sostituti processuali». L’interesse leso dalla condotta e oggetto di repressione
in sede di azione collettiva è apparso in definitiva essere un interesse non diverso da quello
appartenente ai singoli consumatori. Da qui appunto la natura sostitutiva dell’azione collet-
tiva (p. 241), il rimpianto per la mancata natura popolare della stessa (p. 239), la produzione
in capo ai consumatori degli effetti della sentenza collettiva come parti sostanziali del pro-
cesso e non in via di estensione ultra partes (p. 249), nonché la possibile illegittimità costitu-
zionale della previsione in esame (p. 249, nota 83). Elementi di somiglianza con questa con-
cezione si possono riscontrare anche in BELLELLI, A., Art. 1469-sexies, cit., p. 1271, allorché
in riferimento al medesimo rimedio collettivo vede nei consumatori «i diretti interessati tito-
lari della stessa situazione giuridica sostanziale» e in LAPERTOSA, F., Profili processuali della di-
sciplina delle clausole vessatorie nei contratti con il consumatore, cit., p. 725, che come Armone
si riferisce ad «una diretta produzione degli effetti del giudicato a favore di una intera cate-
goria di soggetti rimasti individualmente estranei al processo e tutelati dall’ente esponenziale
che ha agito a difesa dei loro interessi e per il loro immediato vantaggio». In entrambe le tesi
da ultimo richiamate non derivano però conseguenze significative sul piano ricostruttivo; cir-
costanza, quest’ultima, peraltro, piuttosto comune al dibattito in materia, come ad esempio
dimostra GIUSSANI, A., La tutela di interessi collettivi nella nuova disciplina dei diritti dei con-
sumatori, cit., p. 1062, che, pur ammettendo che i maggiori beneficiari dei risultati giurisdi-
zionali dell’azione collettiva siano i singoli consumatori e non le associazioni legittimate, non
esita – come vedremo – a costruire l’interesse collettivo come situazione giuridica soggettiva
distinta dall’interesse legittimo e dal diritto soggettivo e sostanzialmente priva di titolare. Si-
curamente, poi, la distanza tra l’interesse collettivo e l’interesse individuale è andata assotti-
gliandosi con la possibilità di riconoscere un regime di plurioffensività alla condotta antigiu-
ridica dell’imprenditore; cosa che, come meglio vedremo, è stata talora sostenuta in riferi-
mento al regime di tutele apprestato dalla l. n. 281/98 (cfr. infra, § 3.2.2.) e in rari casi anche
in riferimento all’azione ex art. 1469 sexies c.c. (v. la tesi di LANFRANCHI, L., Le animulae va-
gulae blandulae e l’altra faccia della luna, in La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e
diffusi, cit., p. XLI s.). Ma anche la plurioffensività della condotta della parte imprenditoriale
non ha garantito il risolversi dell’interesse collettivo nell’interesse individuale. La plurioffen-
sività della condotta è difatti sostenuta, come rimarcheremo più in là nel testo, dalla dottrina
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 789

appunto diverse – entità; assumendo, dunque, tale contrapposizione


quale efficace e risolutivo strumento concettuale ai fini della determina-
zione della natura dell’azione collettiva e dei suoi effetti.
Le ragioni che hanno favorito il fondamentale risultato ora indicato
sono state diverse e tali da non emergere sempre nitidamente – o più che
altro consapevolmente – dal dibattito; anche in questo ambito di studio
gravato dalle numerose e soverchie incertezze fondamentalmente teori-
che che affliggono il tema della tutela degli interessi sovraindividuali nel
nostro ordinamento.
È comunque possibile individuare un iter logico-argomentativo pre-
valente, che – cercando di rigorizzare e sintetizzare le principali direttrici
interpretative proposte da questo ampio filone dottrinale – si palesa nei
termini che seguono.
In primo luogo non v’è dubbio che una delle questioni che più delle
altre ha favorito in questo settore di studio l’emersione e l’affermazione
della contrapposizione ontologica anzidetta va vista nell’accentuata va-
lorizzazione degli indubbi profili funzional-strutturali appartenenti al-
l’azione prevista dall’art. 1469 sexies c.c.
Questa, infatti, quale strumento rivolto a provocare il sindacato
circa la vessatorietà delle clausole predisposte dall’imprenditore, si è pre-
sentata naturalmente tesa a tutelare gli interessi di tutta la collettività dei
consumatori e ciò, chiaramente, per il suo operare su un piano astratto,
generale e preventivo: astratto, poiché svincolato dalle vicende di una
concreta pattuizione; generale, poiché operante a vantaggio dell’indeter-
minata categoria dei consumatori; e preventivo, in quanto rivolto ad evi-
tare l’inserimento, nei futuri regolamenti contrattuali, della clausola di-
chiarata abusiva70.
Posta, dunque, detta funzione, l’apprezzamento della natura del ri-
medio collettivo è dipeso necessariamente e nuovamente dal penetrare la
natura degli interessi della collettività dei consumatori alla cui tutela esso

più sensibile all’ottica soggettiva ed individualistica dell’illecito represso, e ciò – appunto –


più al fine di garantire al singolo l’accesso alla sanzione dell’illecito, che al fine teorico-dog-
matico di ricostruzione dell’interesse collettivo secondo un rapporto di sostanziale omoge-
neità strutturale con l’interesse individuale (intendendolo ad es. come interesse-somma o
interesse-serie ecc.). In altre parole la plurioffensività del comportamento antigiuridico ha in-
dotto gli studiosi a sostenere la coesistenza di due distinti interessi lesi, ovvero l’interesse col-
lettivo, da un lato, e l’interesse individuale, dall’altro, piuttosto che la coincidenza concettuale
tra i due termini.
70 I tre caratteri riportati nel testo sono unanimemente accolti dalla dottrina ed ogni

citazione sarebbe priva di significato.


790 CAPITOLO DECIMO

è apparso rivolto e, nel far ciò, è risultato ragionevole far corrispondere


al diverso piano di operatività appartenente al rimedio collettivo rispetto
a quello individuale la diversa natura degli interessi tutelati: interessi col-
lettivi (o diffusi, ecc.), da un lato, ed interessi individuali, dall’altro.
Il risultato interpretativo ora indicato è stato comunque sostenuto e
corroborato con diverse argomentazioni di carattere teorico e ciò – pe-
raltro – non solo in relazione all’inibitoria ex art. 1469 sexies c.c., ma poi
anche in riferimento all’inibitoria generale prevista dalla legge n. 281 del
1998.
Una di queste è stata appunto quella relativa alla diversa riferibità
soggettiva dell’interesse, ovvero il doversi imputare – l’interesse collettivo
tutelato – non in capo al singolo consumatore, ma piuttosto – diretta-
mente alla collettività nel suo complesso71.

71 Così, ad es. CARRATTA, A., Brevi osservazioni sull’inibitoria a tutela di consumatori e

utenti, cit., spec. p. 135; ID., Profili processuali della tutela degli interessi collettivi e diffusi, in
La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, cit., p. 79 ss., ma spec. p. 102 ss. e
poi, in riferimento alle azioni collettive in questione, p. 126; PETRELLI, P., Interessi collettivi e
responsabilità civile, cit., p. 140 ss. In questa direzione sembrerebbe porsi anche DANOVI, F.,
L’azione inibitoria in materia di clausole vessatorie, cit., p. 1064 ss., nonché, anche CHIARLONI,
S., Appunti sulle tecniche di tutela collettiva dei consumatori, cit., p. 385 e 398, che per un
verso rimarca la distinzione tra azioni di classe ed azioni collettive e, dall’altro, sostiene che
l’oggetto del giudizio ex art. 1469 sexies c.c. sia l’«interesse collettivo (così denominato per
abitudine semantica e non perché manchi delle caratteristiche del diritto soggettivo), di cui è
titolare l’universo dei consumatori e che viene portato in giudizio dall’ente esponenziale».
72 Più voci in dottrina avversano la tesi che l’interesse collettivo dei consumatori possa

essere concepito in termini di mera «sommatoria» di interessi individuali: v, in termini


espressi, CAMERO, R. - DELLA VALLE, S., La nuova disciplina dei diritti del consumatore, cit., p.
138; PAGNI, I., Tutela individuale e tutela collettiva nella nuova disciplina dei diritti dei consu-
matori e degli utenti (Prime riflessioni sull’art. 3, l. 30.7.1998, n. 281), cit., p. 145, nota 16; RE-
SCIGNO, P., Sulla compatibilità tra il modello processuale della «class action» ed i principi fon-
damentali dell’ordinamento giuridico italiano, in Giur. it, 2000, p. 2224 ss., ma spec. p. 2226;
PETRELLI, P., Interessi collettivi e responsabilità civile, cit., p. 1 ss., 141, 152 s.; CHINÈ, G., Le-
gittimazione ad agire (art. 3), cit., p. 35; PONCIBÒ, C., Le azioni di interesse collettivo per la tu-
tela dei consumatori, cit., p. 661; CARBONARA, F., Gli interessi collettivi e diffusi e l’azione ini-
bitoria dell’art. 1469 sexies c.c., cit., p. 478; CARRATTA, A., Profili processuali della tutela degli
interessi collettivi e diffusi, in La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, cit., p.
79 ss., ma spec. p. 105; FAZZIO, G., Tutela dell’interesse collettivo dei consumatori, in Contratti,
2003, p. 1007 ss.; MINERVINI, E., La tutela collettiva dei consumatori in materia contrattuale,
cit., p. 468, che parla in relazione alla possibilità di concepire l’interesse collettivo in termini
di somma di un «assunto palesemente insostenibile»; MARINUCCI, E., Azioni collettive e azioni
inibitorie da parte delle associazioni dei consumatori, cit., p. 143. V. anche i vari commenti cri-
tici a T. Palermo, 10 gennaio 2000, in cui appunto era stato sostenuto che «l’interesse collet-
tivo tutelato […] costituisce […] una mera sommatoria di interessi individuali degli utenti».
Cfr., dunque, CONTI, R., Inibitoria cautelare e controllo di vessatorietà nei pubblici servizi, in
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 791

Altra parte della dottrina, poi, ha ritenuto poter rinvenire la con-


ferma dell’ontologica contrapposizione tra gli interessi individuali e
quello collettivo, rilevando in quest’ultimo non la «mera sommatoria»72
dei primi, ma un’entità distinta73, se non addirittura «qualitativamente
superiore»74, rispetto agli stessi.
Ancora su questo piano e con pari effetto, altra parte della dottrina
– ed in particolare quella parte della dottrina che ha preferito qualificare
l’interesse tutelato come diffuso piuttosto che come collettivo – ha poi
fatto perno sulla natura indifferenziata e dunque individualmente non

Corr. giur., 2000, p. 778, ma spec. p. 785; PALMIERI, A. - LUNGHEZZA, P., Consumatori e clau-
sole abusive: l’aggregazione fa la forza, in Foro it., 2000, I, p. 2046 ss., ma spec. p. 2065, nota
59, che in riferimento a detta concezione parla di «angusta visione»; PLAIA, A., Clausole abu-
sive e contratti di fornitura idrica, in Europa e dir. priv., 2000, p. 681 ss., ma spec. p. 684, che,
avversando la tesi del Tribunale, aggiunge, non senza qualche contraddizione dogmatica che
«la posizione soggettiva tutelata ha invece i caratteri del diritto soggettivo individuale, diritto
che sottintende un interesse sostanziale superindividuale e che per questa ragione viene eser-
citato da un ente esponenziale con legittimazione “straordinaria”»; contra, ALAIMO, A.,
Azione inibitoria e condizioni contrattuali relative ad un servizio pubblico, in Resp. com. impr.,
1999, p. 670 ss., ma spec. 672, che accoglie la tesi esposta dal Tribunale e qualifica l’azione
collettiva come ipotesi di sostituzione processuale dei singoli consumatori. V. poi, ancora
CONTI, R., Ai nastri di partenza l’inibitoria a tutela degli interessi collettivi ex art. 3 l. n.
218/1998, in Corr. giur., 2001, p. 392 ss., ma spec. 393, che, in nota a T. Torino, 3 ottobre
2000, evidenzia come la direttiva 98/27/CE nel considerando II, chiarisca definitivamente che
«per interessi collettivi si intendono interessi che non comprendono la somma degli interessi
di individui lesi da una violazione» ed auspica l’abbandono della «concezione che collega l’in-
teresse collettivo ad una mera sommatoria degli interessi individuali dei consumatori», la
quale implicherebbe una legittimazione ad agire collettiva avente natura sostitutiva. Per l’A.
citato, infatti, «negare […] autonomia concettuale e qualitativa agli interessi collettivi, rele-
gandoli a mero “contenitore” dei singoli interessi dei consumatori, vuol dire perdere di vista
il significato intrinseco della dimensione superindividuale che è l’in sé dell’interesse perse-
guito dall’associazione consumeristica, condizionando ingiustificatamente l’azione di contra-
sto all’azione quantitativa dei comportamenti lesivi dei diritti dei singoli consumatori».
73 La distinzione ontologica dell’interesse individuale rispetto a quello collettivo è an-

che in PONCIBÒ, C., Le azioni di interesse collettivo per la tutela dei consumatori, in Riv. crit.
dir. priv., 2002, p. 659 ss., ma spec. 667; e prima in CAPPONI, B., Diritto comunitario e azioni
di ineresse collettivo dei consumatori, in Foro it., 1994, IV, p. 439 ss., spec. p. 449; VERARDI,
C.M., Riflessioni introduttive, La protezione del consumatore tra strumenti di tutela individuale
ed azioni collettive, in CAPPONI, B. - GASPARINETTI, M. - VERARDI, C.M., La tutela collettiva dei
consumatori, Profili di diritto sostanziale e processuale, cit., p. 5 ss., ma spec. p. 39.
74 CAMERO, R. - DELLA VALLE, S., La nuova disciplina dei diritti del consumatore, cit., p.

144-145; CONTI, R., Ai nastri di partenza l’inibitoria a tutela degli interessi collettivi ex art. 3 l.
n. 218/1998, cit., p. 392 ss., ma spec. 393; ID., Inibitoria cautelare e controllo di vessatorietà
nei pubblici servizi, cit., p. 778, ma spec. p. 785; PALMIGIANO, A. - VECCHIO VERDERAME, S., La
legge n. 281 del 1998, La cd. «carta dei diritti del consumatore» e la nuova tutela inibitoria, cit.,
p. 76.
792 CAPITOLO DECIMO

appropriabile dello stesso75, rinviando talora, in perfetta coerenza con le


origini processual-amministrativistiche della nozione di interesse diffuso,
alla necessaria operazione di differenziazione dell’interesse mediante
l’imputazione dello stesso in capo ad un ente rappresentativo76.
Tornando sul piano dell’analisi delle norme, buon gioco a questa
tesi ha svolto anche la convinzione – espressa riguardo l’azione ex art.
1469 sexies c.c. e poi estesa da parte della dottrina anche in riferimento
al rimedio previsto dall’art. 3 della l. 281/9877 – che l’utilizzo da parte
dell’imprenditore di clausole vessatorie non ancora inserite all’interno di
una concreta vicenda contrattuale sia indifferente al singolo consumatore
in ragione dell’impossibilità di concepire a tal riguardo un’apprezzabile
lesione di interessi appartenenti al medesimo78; convinzione, quest’ul-

75 GIUSSANI, A., Considerazioni sull’art. 1469 sexies c.c., cit., p. 327 s.; TOMMASEO, F.,
Art. 1469-sexies, cit., p. 764; CAPOBIANCO, E., Contrattazione bancaria e tutela dei consumatori,
cit., p. 185 s.; CHINÈ, G., Consumatore (contratti del), cit., p. 428; PODDIGHE, E., I contratti con
i consumatori, cit., p. 378.
76 GIUSSANI, A., Considerazioni sull’art. 1469 sexies c.c., cit., p. 327 s.; CAPOBIANCO, E.,

Contrattazione bancaria e tutela dei consumatori, cit., p. 187; CHINÈ, G., Consumatore (con-
tratti del), cit., p. 428.
77 Cfr. ad es. l’opinione di Carratta, riportata infra in nota. Ma v. anche retro, cap. VIII,

in materia di giudizio collettivo antidiscriminatorio, § 3.2.1. spec. nota 37.


78 La convinzione è chiaramente implicita nelle tesi favorevoli in questo ambito all’ado-

zione della nozione di interesse diffuso, ma è spesso implicitamente sottesa a tutte le tesi che
accolgono l’ontologica contrapposizione dell’interesse collettivo a quello individuale. Per una
espressa presa di posizione v. comunque CARRATTA, A., Brevi osservazioni sull’inibitoria a tu-
tela di consumatori e utenti, cit., spec. p. 135, per il quale «l’interesse del singolo consumatore
o del singolo professionista acquista rilevanza, dal punto di vista processuale, soltanto in re-
lazione ad uno specifico contratto che contenga clausole di questa natura o in relazione ad
uno specifico atto o comportamento che abbia leso i diritti del singolo consumatore o
utente»; opinione ribadita successivamente in Profili processuali della tutela degli interessi col-
lettivi e diffusi, in La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, cit., spec. p. 132,
ove si sostiene «difficile ipotizzare, in concreto, l’interesse del singolo consumatore ad agire
in inibitoria contro l’associazione che raccomandi l’utilizzo di clausole di tale natura, prima
che la stessa “raccomandazione” si sia concretizzata in specifiche clausole contrattuali sotto-
scritte dal consumatore». Cfr. anche GABRIELLI, E. - ORESTANO, A., Contratti del consumatore,
in Dig. disc. priv., Aggiornamento, I, Torino, 2000, p. 225 ss., ma spec. p. 261. Un’imposta-
zione opposta a quella ora indicata è seguita da LANFRANCHI, L., Le animulae vagulae blandu-
lae e l’altra faccia della luna, in La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, cit.,
p. XLI s., il quale, in riferimento alla pretesa difficoltà di individuare nelle fattispecie appena
accennate la lesione di un interesse individuale, giustamente osserva che «non si comprende,
infatti, perché quel che non è compatibile con la tutela contenziosa dei diritti, lo diventi in ri-
ferimento all’ “interesse collettivo”, l’interesse ad agire potendo per quest’ultimo sussistere
nella specie dell’ “utilizzazione” ancora in potenza delle “condizioni generali di contratto.
Nessuna necessità logico-giuridica, e tanto meno equitativa, impone, invero, che ciò che non
è rilevante per la tutela ‘preventiva’ del singolo, lo diventi per quella quota collettiva, di cui
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 793

tima, ovviamente anch’essa corroborante la tesi dell’eteronomia ontolo-


gica degli interessi tutelati e a sua volta confermata – secondo questo fi-
lone interpretativo – dall’esclusiva attribuzione dell’azione inibitoria dei
comportamenti lesivi degli interessi collettivi dei consumatori ai soli enti
rappresentativi dei medesimi o, per dirla con parole più precise, dall’e-
sclusione del singolo consumatore dall’area dei legittimati ad agire av-
verso gli illeciti collettivi79.

sarebbero ‘portatori’ le Associazioni e le Camere di commercio». Riferendosi – poi – al di-


sposto dell’art. 1, comma 2, lett. e), della l. 281/98, si è aggiunto che per dar concretezza al-
l’interesse del singolo consumatore ad agire anche in via preventiva è possibile rinviare anche
allo stesso testo della legge, in cui è previsto il «dovere di correttezza, trasparenza ed equità
dei rapporti contrattuali concernenti beni e servizi»; dovere «sicuramente riguardante l’‘uti-
lizzazione’ in senso lato delle condizioni generali del contratto, per evocare un “fondamentale
diritto” individuale a concludere contratti non viziati da condizioni generali illecite, che è vio-
lato anche dalla predisposizione delle clausole in questione e non solo dalla stipula del con-
tratto viziato». Diversa prospettiva è seguita da COLAGRANDE, R., Disciplina dei diritti dei con-
sumatori e degli utenti, cit., p. 729, che in relazione alla ritenuta chiusura delle azioni a carat-
tere general-preventivo a favore dei singoli consumatori, osserva come ciò sia l’effetto di un
poco convincente «argomento metagiuridico secondo cui la tutela collettiva rafforzerebbe
l’effettivo ricorso pratico alle azioni individuali, in concreto poco utilizzate dal singolo con-
sumatore a causa della sua debolezza economica e psicologica rispetto agli interessi organiz-
zati dei gruppi imprenditoriali».
79 Espressamente, in riferimento all’art. 1469 sexies c.c., v. DANOVI, F., L’azione inibito-

ria in materia di clausole vessatorie, cit., p. 1068; LIBERTINI, M., Prime riflessioni sull’azione ini-
bitoria dell’uso di clausole vessatorie (art. 1469-sexies c.c.), cit., p. 560; NICOTINA, G., Questioni
processuali controverse in materia di clausole abusive nei contratti con i consumatori, cit., p.
2220, nota 6; TOMMASEO, F., Art. 1469-sexies, cit., p. 764; CAMERO, R. - DELLA VALLE, S., La
nuova disciplina dei diritti del consumatore, cit., p. 31; CAPOBIANCO, E., Contrattazione banca-
ria e tutela dei consumatori, cit., p. 186. Tanto in riferimento all’art. 1469 sexies c.c., quanto
in riferimento all’art. 3 della l. 281/98, v. CARRATTA, A., Brevi osservazioni sull’inibitoria a tu-
tela di consumatori e utenti, cit., p. 127 ss. (ma v. infra); MINERVINI, E., La tutela collettiva dei
consumatori in materia contrattuale, cit., p. 478. Vanno annoverate, peraltro, anche le voci
che, seppur criticamente, hanno ritenuto non potersi superare in via interpretativa il regime
di legittimazione esclusiva prevista dalla legge: cfr., ad es. COLAGRANDE, R., Disciplina dei di-
ritti dei consumatori e degli utenti, cit., p. 728 s, 741; ARMONE, G.M., Art. 1469-sexies (Azione
inibitoria), cit., p. 250, in nota. Proprio in quest’ultima prospettiva va peraltro ricordata la
posizione espressa da CARRATTA, A., in Profili processuali della tutela degli interessi collettivi e
diffusi, in La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, cit., p. 133. Se l’A., infatti,
come già visto, sulla base dell’ontologica distinzione tra interessi individuali ed interessi col-
lettivi aveva dapprima sostenuto l’esclusione del singolo consumatore dall’area dei legittimati
ad agire a tutela degli interessi collettivi (cfr. retro), nel successivo saggio appena citato, pur
immutata la nozione di interesse collettivo valutata come preferibile (v. p. 102 ss.), ha co-
munque ritenuto doversi ammettere che, in caso di inerzia da parte delle associazioni rappre-
sentative, «non vi siano plausibili ragioni – una volta che si riconosca la configurabilità degli
interessi collettivi e diffusi come situazioni giuridiche superindividuali rilevanti per l’ordina-
mento concorrenti con i diritti soggettivi e gli interessi legittimi dei singoli – per negare il di-
794 CAPITOLO DECIMO

3.2.1.2. L’incerto inquadramento dogmatico dell’azione inibitoria col-


lettiva in materia di clausole abusive. – Come chiarito nelle osservazioni
che precedono, per la dottrina maggioritaria l’opera di determinazione
della natura degli interessi tutelati – questione naturalmente centrale per
l’inquadramento dell’azione collettiva – ha condotto alla netta contrap-
posizione tra interessi individuali e interessi collettivi dei consumatori; ri-
sultato, quest’ultimo, a cui appunto sono seguite la negazione del diritto
di azione in capo al singolo consumatore, l’inaccettabilità di un eventuale
concezione sostitutiva dell’azione collettiva rispetto a quella indivi-
duale80, nonché – seppur in diversa misura – anche l’autonomia del giu-
dizio collettivo rispetto ai giudizi individuali.

ritto ad agire in giudizio (costituzionalmente garantito) all’appartenente alla categoria alla


quale pertiene il tutelando interesse collettivo e diffuso. Ed anzi, non possono non far sorgere
legittimi dubbi di conformità proprio con la garanzia costituzionale del diritto di azione pre-
visioni legislative che espressamente privino i singoli […] del potere di agire in giudizio […]
anche per la tutela […] dell’interesse collettivo e diffuso configurabile in capo alla categoria
alla quale essi appartengono». Opinione ribadita in ID., Dall’azione collettiva inibitoria a tu-
tela di consumatori e utenti all’azione collettiva risarcitoria: i nodi irrisolti delle proposte di
legge in discussione, in Giur. it., 2005, p. 662 ss., ma spec. p. 665, sebbene in riferimento alla
possibilità di attribuire al singolo il potere di azione per l’instaurazione di un giudizio collet-
tivo risarcitorio.
80 Per la natura sostitutiva dell’azione attribuita alle associazioni rappresentative dei

consumatori, v. in particolare ARMONE, G.M., Art. 1469-sexies (Azione inibitoria), cit., p. 241
e 249; ID., La tutela inibitoria, cit., p. 737 s. Naturalmente, il favor per questa opzione rico-
struttiva è stato dimostrato anche da parte della dottrina che per prima ne ha fatto impiego
in materia di azione collettiva ex art. 28 (cfr. retro, cap. VII, § 2.1.1.1.) e che di recente ha in-
vitato – in una prospettiva di tutela generale degli interessi individuali e dunque anche ri-
guardo le azioni collettive a tutela dei consumatori – a scrutinare «con attenzione innanzi-
tutto le duttili possibilità offerte dalla categoria della sostituzione processuale» (così, ap-
punto, LANFRANCHI, L., Le animulae vagulae blandulae e l’altra faccia della luna, in La tutela
giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, cit., p. XLVI). Va comunque evidenziato che
il rigetto da parte della dottrina pressoché unanime dell’istituto della sostituzione processuale
è stato formalmente determinato dalla natura ontologicamente distinta dell’interesse collet-
tivo rispetto a quello individuale e nella sostanza dalla volontà di evitare la complessificazione
del giudizio collettivo, garantendo quindi alle associazioni il pieno dominio del potere di at-
tivazione della tutela (regime di legittimazione esclusiva) e l’altrettanto pieno dominio sullo
svolgimento del processo (esclusione del regime partecipazione necessaria ex art 102 c.p.c.).
Di recente si è infatti opportunamente sottolineato (ARMONE, G.M., La tutela inibitoria, cit.,
p. 737), che il mancato impiego della nozione ha trovato origine proprio nella convinzione
circa la necessaria partecipazione del sostituito al processo attivato dal sostituto, peraltro ri-
levandosi – di contro – la possibilità di accedere ad una nozione di «legittimazione straordi-
naria di specie selettiva nel senso che solo alcuni degli ‘interessati’ possano agire in giudizio
con efficacia nei confronti di tutti gli altri ‘interessati’». A quest’ultima linea interpretativa ha
di recente aderito BELLI, C., Articoli 139-140, cit., p. 549 nota 30, che appunto ha affermato
la praticabilità – per questa via – dell’impiego della nozione in esame; derivandone peraltro
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 795

Su quest’ultima questione torneremo, come detto, più avanti, ora in-


vece occorre dedicare attenzione alle opzioni qualificatorie prevalente-
mente adottate per dare sistemazione dogmatica alla posizione giuridica
riconosciuta agli enti rappresentativi legittimati ad agire in via esclusiva
per la tutela degli interessi collettivi. È questo, infatti, un profilo partico-
larmente rilevante, specie per spianare la strada all’opera di determina-
zione dell’oggetto dell’accertamento giudiziale e alla conseguente proble-
matica dei limiti soggettivi del giudicato.
Su questo piano, come già più volte riscontrato nel corso del nostro
lavoro81, una delle scelte interpretative più agevoli in ordine all’obiettivo
appena indicato è risultata quella costituita dal semplice riconoscere,
come «riflesso» della legittimazione ad agire attribuita agli enti esponen-
ziali, la titolarità di un diritto soggettivo loro proprio82.

un duplice vantaggio: «in primo luogo non crea equivoci sul ruolo delle associazioni, chia-
rendo che esse non fanno valere interessi propri, ma si fanno portavoce dell’interesse supe-
rindividuale e adespota della collettività; la loro legittimazione trova origine in una ragione
pratica, politica se si vuole, per cui gli enti collettivi paiono i più idonei a sostenere giudizi
astratti e preventivi come quelli aventi ad oggetto un’inibitoria collettiva. E il meccanismo
dell’art. 81 c.p.c. […] risulta il più idoneo a giustificare simili stratagemmi. In secondo luogo,
permette l’estensione del giudicato anche ai rapporti individuali sulla base di un collega-
mento tecnico dei più agevoli». Soluzione tecnica, quest’ultima, sperimentata da tempo in
materia di art. 28 S.L. proprio sul presupposto della possibile estensione ultra partes degli ef-
fetti della sentenza collettiva (cfr. retro, cap. VII, § 2.1.2, ancora la posizione di Lanfranchi;
ma, diversamente, Garbagnati e Punzi) e di recente ribadita anche in questo ambito di studio
(LANFRANCHI, L., Le animulae vagulae blandulae e l’altra faccia della luna, in La tutela giuri-
sdizionale degli interessi collettivi e diffusi, cit., p. XLVI), anche in relazione a quanto positi-
vamente previsto in sede di art. 111 c.p.c.
81 V. in generale il cap. III, § 3.4.1.3.; o, in materia di repressione della condotta anti-

sindacale, il cap. VII, §§ 2.1.2., 3.1. e 3.2.; o ancora, in materia di tutela ambientale, il cap.
IX, §§ 3.4.1. e 3.4.3.
82 La dottrina ha ben evidenziato i benefici insiti «nell’individuazione, in capo agli enti

esponenziali, di un diritto soggettivo proprio e autonomo ad operare in un ambiente libero


da condotte illecite che ledano i loro fini statutari. Tale impostazione risolve i problemi di
coordinamento fra i vari giudizi concernenti la stessa condotta plurioffensiva esperibili dai di-
versi enti esponenziali, ovvero dalle vittime individuali: a) escludendo che si possano pro-
durre effetti ultra partes del giudicato; b) ammettendo però che le azioni concorrenti si estin-
guano per consumazione quando uno dei colegittimati ottenga per via giudiziaria la soddisfa-
zione della pretesa; c) esponendo la parte abituale a un rischio, di essere chiamata
ripetutamente in giudizio per difendere la stessa condotta, che è reso assai remoto dalla esi-
guità dei benefici che la controparte può attendersi rispetto ai costi attesi di un contenzioso
caratterizzato da un precedente sfavorevole. L’impostazione in discorso – si aggiunge –, però,
è poco convenzionale, non solo perché caratterizza come diritto soggettivo una situazione di
vantaggio che si presenta come insuscettibile di appropriazione esclusiva, ma anche perché la
titolarità di tale diritto finisce per dipendere essenzialmente da un’unilaterale autoattribu-
zione di finalità statutarie di repressione di condotte illecite»: così, GIUSSANI, A., La tutela di
796 CAPITOLO DECIMO

Così, specie per gli Autori che hanno sostenuto doversi imputare –
magari per le note finalità di soggettivazione o differenziazione – l’inte-
resse della collettività dei consumatori in capo alle associazioni83 o per
coloro che addirittura hanno ritenuto che l’interesse tutelato appartenga
alle associazioni stesse84, questa opzione ricostruttiva è evidentemente ri-
sultata la più conforme alle premesse accolte. Anzi, operata detta distor-
zione sul piano dell’apprezzamento degli interessi sostanziale in ambito
metagiuridico, perfettamente coerente e conseguente è apparso ed ap-
pare il successivo segmento – quello della giuridicizzazione – dell’iter ri-
costruttivo.
Diversamente, il tentativo di formalizzare questi interessi è stato ben
più arduo – e talora fonte di inedite figure e ricostruzioni dogmatiche –
per coloro che hanno giuridicizzato l’interesse sostanziale senza prima
imputarlo all’ente esponenziale.
interessi collettivi nella nuova disciplina dei diritti dei consumatori, cit., p. 1062. Ancora al di-
ritto soggettivo, sebbene concepito in posizione di contitolarità da parte delle associaizoni e
dei singoli consumatori, ha rinviato PAGNI, I., Tutela individuale e tutela collettiva nella nuova
disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti (Prime riflessioni sull’art. 3, l. 30.7.1998, n.
281), cit., p. 136.
83 GIUSSANI, A., Considerazioni sull’art. 1469 sexies c.c., cit., p. 328; BELLELLI, A., Art.

1469-sexies, Azione inibitoria, I, La tutela inibitoria, cit., p. 1269.


84 Questa sembra essere la prospettiva seguita da CAMERO, R. - DELLA VALLE, S., La

nuova disciplina dei diritti del consumatore, cit., spec. p. 33, che, in riferimento al potere di
azione attribuito alle associazioni dei consumatori dall’art. 1469 sexies c.c. hanno sostenuto
che «le associazioni fanno valere un diritto proprio, id est l’interesse associativo alla corret-
tezza comportamentale dei professionisti nella fase della predisposizione delle clausole. La
circostanza che poi, in concreto, l’effetto favorevole di tali iniziative vada a ricadere, sortendo
effetti di potenziata protezione, nella sfera dei consumatori, non toglie il carattere autonomo
del bene della vita alla cui tutela l’organismo associativo tende». Si è aggiunto inoltre che
«l’associazione agisce nell’interesse suo proprio, interesse appunto collettivo, che trova radi-
camento in capo all’organo esponenziale mercè i canoni generali in punto di rappresentatività
ed esponenzialità»; affermazione quest’ultima evidentemente in contraddizione con la prima,
salvo il ritenere – ma poco condivisibilmente – che l’interesse dell’associazione coincida con
quello della collettività dei consumatori. Più di recente, in questo senso, tra l’altro in riferi-
mento non solo alle azioni collettive a tutela dei consumatori, ma anche in relazione all’azione
di repressione della condotta antisindacale, della concorrenza sleale e dell’azione di danno
ambientale, v. COSTANTINO, G., Note sulle tecniche di tutela collettiva (disegni di legge sulla tu-
tela del risparmio e dei consumatori), in Riv. dir. proc., 2004, p. 1009 ss., ma spec. p. 1029 s.;
ID., La tutela dei risparmiatori: i nuovi orizzonti della tutela collettiva, in Società, 2005, p. 325
ss., ma spec. p. 327. Cfr. anche SCUFFI, M., Azione collettiva in difesa dei consumatori: legitti-
mazione e tecniche processuali, cit., p. 154; seppur problematicamente, PETRILLO, C., L’azione
inibitoria a tutela dei consumatori ed utenti ex art. 1469 sexies c.c., cit., p. 159. V., infine, an-
cora per un diritto soggettivo proprio delle associazioni, ROMAGNOLI, G., Clausole vessatorie
e contratti d’impresa, cit., p. 103, in nota; BASTIANON, S., Brevi osservazioni sulla legge n.
281/1998 in materia di tutela dei consumatori, cit., p. 528.
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 797

Ciò è facilmente comprensibile: l’imputare, infatti, l’interesse in


capo all’ente porta il risultato di privare l’interesse sostanziale della sua
dimensione sovraindividuale85, ma sotto altro profilo rende più agevoli le
successive operazioni classificatorie di impronta più propriamente giuri-
dica. Così, prima avviene la trasformazione dell’interesse collettivo o dif-
fuso in mero interesse individuale e poi – questo è il punto – pianamente
ne deriva la successiva qualificazione in termini di tradizionale diritto
soggettivo esclusivo o semi-esclusivo.
Le tesi che, al contrario, preferiscono mantenere la dimensione so-
vraindividuale dell’interesse, o incappano nell’insuperabile difficoltà di
concepire un diritto soggettivo che ha come nucleo interessi non indivi-
duali, o comunque si misurano con la difficoltà di superare l’incon-
gruenza insita nell’attribuzione esclusiva di un diritto di azione in capo
ad un soggetto che non è il titolare dell’interesse protetto.
Nel primo senso si sono orientati coloro che, come già visto esser
stato sostenuto in altri ambiti di studio86, hanno ritenuto possibile supe-
rare l’evidente antinomia concettuale mediante la formula del «diritto
collettivo», ovvero «una posizione soggettiva che ha i caratteri del diritto
soggettivo individuale ma che sottintende un interesse sostanziale supe-
rindividuale»87.

85 Cfr. per tutti, la tesi di Garofalo, riportata retro, cap. VIII, spec. § 2.2.1.
86 V. la nota che precede.
87 Così, MAZZAMUTO, S. - PLAIA, A., Provvedimenti inibitori a tutela del consumatore: la

legge italiana 30 luglio 1998, n. 281 e la direttiva 98/28/CE, cit., p. 673, che oltre a quanto è
riportato nel testo poi aggiungono, in relazione al «diritto soggettivo» e destando ulteriori e
profonde perplessità sul piano dogmatico, «che per questa ragione viene esercitato da un ente
esponenziale con legittimazione “straordinaria”». Nello stesso senso sembrerebbe porsi an-
che CHIARLONI, S., Appunti sulle tecniche di tutela collettiva dei consumatori, cit., p. 398,
quando, come già visto, parla di un «interesse collettivo (così denominato per abitudine se-
mantica e non perché manchi delle caratteristiche del diritto soggettivo), di cui è titolare l’u-
niverso dei consumatori e che viene portato in giudizio dall’ente esponenziale». Di recente la
formula del diritto soggettivo-collettivo, ha trovato anche la sponda delle Sezioni unite della
Cassazione, che nella nota pronuncia del 28 marzo 2006, n. 7036 (in Corr. giur., 2006, con
nota di DI MAJO, A., I diritti soggettivi (collettivi) della associazioni dei consumatori; in Danno
e resp., 2006, p. 737 ss., con nota di CONTI, R., Pubblicità ingannevole, inibitoria collettiva e
G.O.; in Giur. it., 2007, p. 1384, con nota di BATTELLI, E., Pubblicità ingannevole, giurisdi-
zione del G.O. e natura degli interessi fatti valere dall’associazione dei consumatori), nell’affer-
mare la giurisdizione del giudice ordinario in materia di inibitorie proposte dalle associazioni
dei consumatori ai sensi dell’art. 3 della l. 281/98 in materia di pubblicità ingannevole ha ri-
tenuto che la «natura» dell’interesse tutelato fosse appunto quella del «diritto soggettivo (sia
pure collettivo)», secondo una linea interpretativa già emersa in diversi ambiti ed in partico-
lare in materia di repressione della condotta antisindacale (cfr. retro, cap. VII, § 3.1.)
798 CAPITOLO DECIMO

Il secondo ostacolo ricostruttivo, invece, ha dato luogo a opzioni in-


terpretative assai diversificate, seppur tutte accomunate e contrassegnate
dalla stessa finalità ricostruttiva: spiegare un’azione priva di interesse so-
stanziale in capo a chi la esercita.
Così, gran parte di questa dottrina ha visto nell’azione dell’ente
esponenziale un’ipotesi di legittimazione straordinaria88, altri un caso di
mera azione89, altri ancora hanno rinviato alla già nota – nonché enigma-
tica – figura della legittimazione sui generis90. Ed inoltre solo alcune voci
di questo orientamento hanno ritenuto opportuno specificare in termini
di giurisdizione oggettiva l’attività giudiziale svolta91, mentre negli altri
contributi, le qualificazioni dogmatiche appena indicate sono rimaste
contornate dall’alone di assoluta vaghezza strutturale che le contraddi-
stingue. Ancora la necessità di «de-sostanzializzare» la posizione dell’as-
sociazione in ragione dell’accennata carenza di un interesse proprio al
comportamento imposto all’imprenditore dalla legge a tutela degli inte-
ressi dei consumatori, ha condotto altri Autori a parlare di «diritto giuri-
diziario di azione»92 o altri ancora – similmente – di «diritti proces-
suali»93.
Infine, anche in relazione al giudizio ex art. 1469 sexies, è stata ri-
proposta l’articolata posizione ricostruttiva – già da noi esaminata addie-
tro94 – tesa a concepire l’azione collettiva come un’azione fondata non su
un interesse sostanziale, ma su un interesse processuale qualificato e suf-
88 Così, sebbene dubitativamente, CARRATTA, A., Brevi osservazioni sull’inibitoria a tu-
tela di consumatori e utenti, cit., spec. p. 135; di recente, MARENGO, R., Garanzie processuali e
tutela dei consumatori, cit., p. 149 s., che (nota 64) pur con le dovute differenze getta un pa-
rallelo tra il rimedio in questione e il giudizio di costituzionalità delle leggi.
89 GIUSSANI, A., Considerazioni sull’art. 1469 sexies c.c., cit., p. 328. Cfr. anche NICO-

TINA, G., Questioni processuali controverse in materia di clausole abusive nei contratti con i con-
sumatori, cit., p. 2220, nota 6.
90 CAPOBIANCO, E., Contrattazione bancaria e tutela dei consumatori, cit., p. 187; PODDI-

GHE, E., I contratti con i consumatori, cit., p. 378.


91 TOMMASEO, F., Art. 1469-sexies, cit., p. 764 e poi 785; ma v. anche LIBERTINI, M.,

Prime riflessioni sull’azione inibitoria dell’uso di clausole vessatorie (art. 1469-sexies c.c.), cit.,
p. 556 ss.; LIBERTINI, M., L’inibitoria ex art. 1469-sexies, cit., 666; VERARDI, C., L’accesso alla
giustizia e la tutela collettiva dei consumatori, cit., p. 1367; MARINUCCI, E., Azioni collettive e
azioni inibitorie da parte delle associazioni dei consumatori, cit., p. 150.
92 CONSOLO, C., in CONSOLO, C. - DE CRISTOFARO, M., Clausole abusive e processo, cit.,

p. 479; al «diritto giudiziario» si riferisce di recente anche BELLI, C., Articoli 139-140, in Co-
dice del consumo, Commentario del d.legs. 6 settembre 2005, n. 206, cit., p. 549, ma in un con-
testo ricostruttivo sostanzialmente diverso (cfr., infatti, retro, nota 80).
93 ALPA, G., La legge sui diritti dei consumatori, cit., p. 1000.
94 Ci riferiamo, come è ovvio, alla tesi di Ugo Ruffolo, esaminata criticamente retro, nel

testo (§ 2.1.2) e in nota.


LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 799

ficientemente intenso da legittimare la richiesta di un sindacato – pur in


assenza di violazione di diritti soggettivi e dunque in stretta somiglianza
con quanto accade in riferimento alla figura dell’abuso del diritto o agli
interessi legittimi di diritto privato – circa la liceità, la legittimità e la cor-
rettezza dei comportamenti imprenditoriali95.

3.2.2. Esame del dibattito sulla natura dell’azione collettiva inibitoria ge-
nerale a tutela dei consumatori
3.2.2.1. La possibile natura plurioffensiva della condotta antigiuridica:
considerazioni introduttive e di metodo. – Dalle considerazioni ricognitive
sino ad ora svolte in riferimento al dibattito attorno alla natura dell’a-
zione ex art. 1469 sexies c.c. è piuttosto agevole rilevare l’assoluta priorità
dell’argomento relativo alla contrapposizione ontologica tra interesse col-
lettivo ed interesse individuale in ordine alla sistemazione dell’azione ini-
bitoria indicata. È insomma l’argomento a cui in più occasioni ed in di-
versi ambiti è stato affidato il compito di tracciare una netta linea di de-
marcazione tra azioni individuali ed azioni collettive ogni qual volta vi
fosse la possibilità di intravedere all’orizzonte eventuali interferenze e/o
sovrapposizioni tra i due percorsi processuali.
Questa prospettiva ricostruttiva nell’ambito di studio ora in esame si
è inoltre potuta giovare della poc’anzi indicata natura astratta, generale e
preventiva del sindacato operato ai sensi dell’art. 1469 sexies c.c. rispetto
al giudizio individuale concernente le clausole inserite all’interno del
contratto oramai concluso. Infatti, specie la diversa fattispecie costitutiva
appartenente alle due azioni (ovvero i differenti parametri di valutazione
critica della regolamentazione contrattuale) ha reso piuttosto agevole cir-
coscrivere l’azione collettiva in una sfera di tutela completamente sepa-
rata rispetto a quella in cui inserire l’azione individuale, corroborando
con ciò la tesi dell’ontologica distinzione tra interesse individuale ed in-
teresse collettivo e semplificando enormemente il problema del concorso
tra azioni individuali e azioni collettive, nonché anche quello della deter-
minazione esatta del loro rispettivo oggetto.

95 RUFFOLO, U., Le «clausole vessatorie», «abusive», «inique» e la ricodificazione negli

artt. 1469-bis - 1469-sexies c.c., cit., p. 115 ss. Vicina – forse – a questa posizione è quella di
DANOVI, F., L’azione inibitoria in materia di clausole vessatorie, cit., p. 1065-1066, visto che si
sostiene stringatamente che «il legislatore può intervenire anche senza operare una vera e
propria qualificazione della situazione soggettiva tutelata (vero diritto soggettivo o semplice
interesse?), attribuendo in capo ai soggetti portatori dei valori lesi dall’atto illecito un vero e
proprio interesse ad agire».
800 CAPITOLO DECIMO

Questa situazione è andata peraltro modificandosi con l’introdu-


zione dell’azione inibitoria generale prevista dall’art. 3 della l. n. 281/98
e dei principi – poc’anzi sommariamente indicati – enunciati dal legisla-
tore in apertura del medesimo testo normativo ed ora accolti nei primi
articoli del codice del consumo.
Nel nuovo contesto, infatti, è andata seriamente incrinandosi quel-
l’idea di netta differenziazione degli ambiti di tutela ed operatività che
prima campeggiava nella dominante lettura dei rapporti tra il rimedio
previsto dall’art. 1469 sexies c.c. e i rimedi individuali, tanto che, in rife-
rimento agli illeciti deducibili in sede di giudizio collettivo, si è sovente
parlato di natura plurioffensiva della condotta o comunque si è descritto
un quadro complessivo delle tutele praticamente orientato in questo
senso.
Va subito detto, d’altra parte, che, sebbene la dottrina con diversi
argomenti abbia richiamato l’attenzione sul punto ora indicato, non sem-
pre la natura plurioffensiva della condotta imprenditoriale si è tradotta in
una chiara delineazione dei rapporti tra l’azione collettiva e le azioni in-
dividuali, essendo – come già visto – il concetto di plurioffensività, ine-
vitabilmente corrotto dalla radice squisitamente funzionale che gli ap-
partiene96.
È insomma il discorso che abbiamo già avuto modo di svolgere in
materia di repressione della condotta antisindacale, in cui appunto si era
osservato come il carattere plurioffensivo della condotta del datore di la-
voro potesse essere inteso in due prospettive decisamente differenti sul
piano dei risultati interpretativi, essendo appunto possibile parlare di
«plurioffensività» per intendere l’idoneità di un medesimo illecito a le-
dere più soggetti parimenti interessati all’osservanza di un medesimo
comportamento doveroso o l’idoneità di una certa condotta materiale ad

96 Si pensi – a mero titolo di esempio – all’opinione secondo cui la natura plurioffen-


siva del comportamento dei professionisti dovrebbe essere intesa come la possibile lesione
dell’interesse collettivo e dei diritti soggettivi individuali «sebbene con modalità diverse»
(così, CAMERO, R. - DELLA VALLE, S., La nuova disciplina dei diritti del consumatore, cit., p.
185). Sembra qui di trovarsi innanzi ad un argomentare caro a parte della dottrina pronun-
ciatasi in materia di giudizio di repressione della condotta antisindacale, ove, come già visto,
si è cercato di supportare l’autonomia del giudizio speciale rispetto a quello individuale so-
stanzialmente mediante una malcelata riproposizione dell’eteronomia degli interessi tutelati;
linea interpretativa, quest’ultima, che al contrario doveva necessariamente approdare, per es-
sere logicamente accettabile, al una differenziazione del sindacato condotto sulla condotta
datoriale in sede collettiva, ovvero individuando profili di antigiuridicità non deducibili in
sede individuali, cioè – in sostanza – diversificando gli illeciti; cfr., in particolare, le puntuali
osservazioni di Vaccarella riporate retro, cap. VII, § 2.2.2.
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 801

essere valutata come antigiuridica alla luce di due diverse prescrizioni


normative, cioè alla luce di distinti criteri di valutazione del medesimo
fatto.
La visione di insieme del dibattito in materia di tutela collettiva dei
consumatori presenta questo stesso tratto caratterizzante, che grava su di
esso compromettendone la chiarezza delle premesse e dei risultati e che
deriva da un’impostazione di metodo tesa costantemente alla ipervaluta-
zione dei profili soggettivi rispetto a quelli oggettivi nello studio del di-
ritto.
Per cercare d’intendersi, dunque, occorre cambiare prospettiva e
porre al centro delle nostre attenzioni l’elemento strutturale dell’obbligo
verificandone le relazioni con l’interesse o gli interessi che tale obbligo è
appunto destinato a tutelare.
Posta la questione in questi termini il discorso viene ad essere ri-
condotto entro binari logico-giuridici più rigorosi alla luce dei quali è fi-
nalmente possibile tracciare quelle necessarie distinzioni che aiutano l’in-
terprete a mettere chiarezza in una materia tanto complessa.
Occorre, così, in primo luogo tenere separate le ipotesi in cui gli ob-
blighi sostanziali siano posti a tutela di un interesse differenziato (se-
condo la terminologia impiegata in questo lavoro, di un interesse indivi-
duale esclusivo)97 dalle ipotesi in cui, invece, gli obblighi sostanziali gra-
vino in capo al professionista per la tutela degli interessi indifferenziati
dei consumatori, ovvero degli interessi collettivi degli stessi (e ciò – al
momento – indipendentemente da come si vogliano intendere detti inte-
ressi collettivi)98. In relazione al primo caso si pensi all’inadempimento di
un obbligo contrattuale assunto dal professionista nei confronti di un
singolo consumatore, mentre nel secondo caso si può ipotizzare anche la
semplice messa in commercio di un prodotto difettoso, ecc.
In ordine a queste due grandi aree ora indicate, si può poi ritenere
che: a) il singolo consumatore sia legittimato ad agire esclusivamente in
relazione alla prima categoria di situazioni e che l’ente rappresentativo
sia invece legittimato ad agire esclusivamente in relazione agli illeciti a le-
sione indifferenziata; b) che il singolo consumatore possa agire anche in
ordine agli illeciti del secondo tipo, ovvero indifferenziatamente lesivi de-
gli interessi dei consumatori; c) si può ritenere che gli enti rappresentativi
possano agire anche in ordine alla repressione degli illeciti che coinvol-

97 Cfr.retro, cap. IV, § 8.


98 Siricorda che l’impostazione seguita nel testo già da tempo ha trovato applicazione
in materia di azione ex art. 2601 c.c.: cfr. retro, cap. II, § 6.
802 CAPITOLO DECIMO

gono differenziatamente singoli consumatori; d) si può infine ritenere che


tanto il singolo quanto l’ente rappresentativo possano agire, il primo, an-
che in ordine agli illeciti a lesione indifferenziata ed, il secondo, anche in
ordine agli illeciti a lesione differenziata.
Abbiamo insomma soluzioni ricostruttive nelle quali l’area della le-
gittimazione individuale e quella della legittimazione ad agire in via rap-
presentativa possono rimanere perfettamente separate (così come soste-
nuto in prevalenza in riferimento al rimedio originariamente previsto dal-
l’art. 1469 sexies c.c.), oppure soluzioni in cui tali aree tendono a
sovrapporsi – dando ovviamente luogo a fenomeni di concorso di azioni
– sino a coincidere perfettamente come nell’ultima ipotesi indicata.

3.2.2.2. Sistemazione ragionata delle diverse posizioni sostenute in


dottrina. – Posto che la griglia concettuale ora descritta segna le caselle
logiche con cui far necessariamente i conti nella materia in questione,
non è, d’altra parte, sempre agevole – come anticipato – comprendere a
quali di queste debbano essere ricondotte le diverse opzioni ricostruttive.
Ciò detto, comunque, piuttosto agevolmente si possono isolare le
opinioni che propongono un’immagine dell’inibitoria generale, discipli-
nata ora dall’art. 140 del codice del consumo, sostanzialmente affine a
quella già vista in relazione al rimedio inibitorio esperibile avverso l’im-
piego delle clausole vessatorie.
Secondo questa lettura, quindi, l’azione collettiva e l’azione indivi-
duale costituirebbero sfere di tutela giuridica giammai sovrapponibili,
con esclusione di ogni profilo di plurioffensività; e ciò, fondamental-
mente, in ragione della ontologica contrapposizione tra interessi collettivi
ed interessi individuali (cfr. retro, ipotesi sub a)99.
99 È la ricostruzione che, come anche vedremo tra breve, sembra rappresentate lo

sfondo sistematico su cui proiettare gran parte delle decisioni giurisprudenziali in materia
(cfr. infra, nota 121) e che inoltre, posta la consueta contrapposizione tra interessi individuali
e collettivi va forse attribuita alle opinioni dottrinali in cui non figurano espresse affermazioni
di segno contrario. A parte, comunque, la sempre sgradevole interpretazione degli interpreti,
di certo questa lettura è sostenuta da MARINUCCI, E., Azioni collettive e azioni inibitorie da
parte delle associazioni dei consumatori, cit., p. 143, che, negando la possibilità di far rientrare
all’interno delle «misure idonee» previste dall’art. 3, comma 1, lett. b), anche la condanna al
risarcimento del danno, sostiene – così eliminando la diversità strutturale intercorrente tra
azione ex art. 1469 sexies c.c. e azione ex art. 3 l. 281/98, rimarcata nel testo e sostenuta dalla
dottrina maggioritaria – che «la tutela collettiva dei consumatori può coinvolgere solo diritti,
interessi, situazioni giuridiche e fatti che si presentino in modo indifferenziato per tutti: di in-
teressi collettivi appunto». Nello stesso senso, TRISORIO LIUZZI, G., I meccanismi processuali di
tutela del consumatore, in www.judicium.it, § 4.3. Ugualmente sembra doversi leggere la rico-
struzione sostenuta da CARRATTA, A., Brevi osservazioni sull’inibitoria a tutela di consumatori e
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 803

Sul fronte opposto, si trovano, invece, le posizioni tendenti a valo-


rizzare i profili di novità presenti nel quadro normativo venutosi a costi-

utenti, cit., p. 136-137, per il quale «mettendo a confronto l’azione inibitoria ex art. 1469
sexies c.c. e l’azione individuale del singolo consumatore diretta a far dichiarare la nullità
della clausola vessatoria inserita nel contratto da lui sottoscritto ed eventualmente ad ottenere
il risarcimento dei danni subiti o, sull’altro versante, l’azione inibitoria dell’art. 3 l. n. 281 con
l’azione individuale diretta ad ottenere l’accertamento dell’illiceità dell’atto o del comporta-
mento dell’azienda […] non si può non rilevare che, sebbene fra le due azioni vi siano in-
dubbi elementi di connessione, in quanto entrambe presuppongono l’accertamento del carat-
tere vessatorio di una determinata clausola contrattuale o dell’illiceità dell’atto o del compor-
tamento dell’azienda, esse sono notevolmente diverse, sia dal punto di vista soggettivo, sia dal
punto di vista oggettivo. Anzitutto, se si condivide quanto finora detto a proposito della tito-
larità dell’interesse tutelato con l’azione inibitoria, si deve ammettere che, con quest’ultima
azione, viene tutelato – direttamente – soltanto l’interesse del consumatore […], non uti sin-
gulus, ma in quanto appartenente all’insieme o al gruppo […]. In secondo luogo, occorre an-
che sottolineare che, se con l’azione individuale il singolo consumatore o utente vuole otte-
nere solo la tutela della sua posizione giuridica o all’interno di un singolare rapporto che è
sorto per effetto della sottoscrizione di un determinato contratto o in conseguenza di atti o
comportamenti dell’azienda lesivi dei suoi diritti, tra le due azioni (quella inibitoria e quella
individuale) vi è diversità, non solo di soggetti, ma evidentemente anche di causa petendi e pe-
titum». Va, d’altra parte, osservato che in un secondo lavoro, l’autorevole dottrina qui richia-
mata (ID., Profili processuali della tutela degli interessi collettivi e diffusi, cit., p. 130 ss.) non
ha escluso che la legittimazione ad agire avverso illeciti a lesione indifferenziata debba essere
estesa anche ai singoli consumatori (cfr. infra). All’orientamento qui in esame, va poi ricon-
dotta l’opinione di COLAGRANDE, R., Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, cit., p.
725 ss., che, da un lato, non fa cenno alla possibilità che si realizzi un concorso di legittima-
zioni nell’ipotesi di illeciti a lesione differenziata e, dall’altro, seppur con rammarico (cfr. re-
tro, nota 79), esclude che il singolo si veda riconosciuta l’azione per la tutela degli interessi
collettivi. È così che si distingue tra la tutela generale-preventiva, che concerne i requisiti, i di-
vieti e gli obblighi incidenti sulla fase precedente il trasferimento del bene o l’erogazione del
servizio (procedimenti di fabbricazione concernenti la qualità e sicurezza del prodotto, pre-
sentazione al pubblico, etichettatura ed informativa sui prodotti, diffusione di messaggi pub-
blicitari), e la tutela particolare-repressiva, relativa, invece, agli obblighi riferiti allo stesso tra-
sferimento del bene o dell’erogazione del servizio, sino all’eventuale evento lesivo dei diritti
del consumatore e dell’utente. Cfr. anche BELLI, C., Articoli 139-140, in Codice del consumo,
Commentario del d.legs. 6 settembre 2005, n. 206, cit., p. 548 e 550 s.; CENA, D., La nuova
legge quadro dei diritti dei consumatori, cit., p. 942; MARENGO, R., Garanzie processuali e tu-
tela dei consumatori, cit., p. 138, che appunto esclude che l’inibitoria generale possa essere
impiegata per la tutela dei diritti individuali omogenei (sulla categoria in questione, mutuata
dal processo brasiliano, v. retro, cap. VI, § 5.1.2.). Alla concezione in esame va probabilmente
ricondotta anche la posizione di ALPA, G., La legge sui diritti dei consumatori, cit., p. 999 s.,
ID., La nuova disciplina dei diritti dei consumatori, cit., p. 1314 ss., ID., Art. 1( Finalità ed og-
getto), in I diritti dei consumatori e degli utenti, cit., p. 3 ss., spec. p. 17 ss., che ritiene che la
tutela collettiva «si aggiunge» a quella individuale, nel senso che è dato rinvenire nella legge
diritti soggettivi individuali e «diritti collettivi» appunto «da esercitarsi in forma collettiva» e
che «corrispondono agli interessi collettivi o agli interessi diffusi»; d’altro canto, posto che in
questa lettura vengono a configurarsi due fronti di tutela, non sembra emergere una espressa
804 CAPITOLO DECIMO

tuire con l’introduzione dell’inibitoria generale; posizioni secondo cui


l’attuale sistema delle tutele sarebbe caratterizzato da un perfetto rap-
porto di concorrenza tra le azioni individuali e quelle riservate agli enti
esponenziali riconosciuti (cfr. retro, ipotesi sub d).
In altri termini, come poc’anzi indicato, il singolo, oltre a poter eser-
citare l’azione in riferimento agli illeciti che lo colpiscono in via differen-
ziata, potrebbe ricorrere al giudice per attivare il sindacato giurisdizio-
nale anche sui comportamenti indifferenziatamente lesivi della colletti-
vità dei consumatori a cui appunto appartiene e, parimenti, l’ente
esponenziale, oltre ad essere legittimato ad agire nell’ultima ipotesi ora
indicata, potrebbe anche andare – per così dire – in soccorso del consu-
matore in riferimento agli illeciti che lo riguardano a titolo personale100.

opinione concernente il fatto se tale tutela collettiva «si aggiunge» nel senso che si affianca a
quella individuale o «si aggiunge» nel senso che può anche (comportamenti appunto pluriof-
fensivi) sovrapporsi in talune ipotesi con essa.
100 Tra le prime voci a sostegno di questa lettura, v. PAGNI, I., Tutela individuale e tutela

collettiva nella nuova disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, cit., che appunto, a p.
144, parla di plurioffensività della condotta antigiuridica, la quale, come chiarito poi anche a
p. 173, si specifica in una posizione di contitolarità di posizioni giuridiche riconosciute in
capo ai consumatori ed alle loro associazioni rappresentative con il risultato che «entrambi
[…] potranno agire sia quando il comportamento lesivo si realizzi attraverso la violazione di
diritti inerenti al rapporto individuale tra imprenditore e consumatore (analogamente a
quanto accade, per esempio, nell’art. 28 S.L.), sia quando invece ne prescinda». Similmente,
v. BENUCCI, S., La disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, cit., p. 134, 174 ss., re-
centemente tornata sul punto nel più recente commento agli Artt. 139-141, cit., spec. p. 1081
ss., in cui peraltro si ribadisce il rapporto tra rimedi individuali e collettivi con l’immagine del
«doppio binario di tutela», preferibile a quella del «doppio livello di tutela» in cui, invece, i
singoli sono relegati ad un piano sottostante essendo legittimati solo in via repressivo-risarci-
toria. Autorevole sostegno a questa ricostruzione è inoltre giunta da quella parte della dot-
trina processualistica che già da tempo abbiamo avuto modo di annoverare tra i primi inter-
venti sul tema degli strumenti di tutela degli interessi collettivi nel nostro ordinamento (cfr.,
in particolare, retro, cap. VII, § 2.1.1.). Ci riferiamo a LANFRANCHI, L., Le animulae vagulae
blandulae e l’altra faccia della luna, cit., XXXVIII ss.; cui adde, ODORISIO, E., La tutela giuri-
sdizionale dei diritti dei consumatori e degli utenti: concorso di azioni e «giusto processo» civile,
cit., p. 491 ss. In questo senso sembrerebbe anche la lettura proposta da GIUSSANI, A., La tu-
tela di interessi collettivi nella nuova disciplina dei diritti dei consumatori, cit., p. 1062. Questa
ricostruzione, infatti, premessa la coesistenza di due differenti tipologie di situazioni giuridi-
che sostanziali, ovvero gli interessi collettivi assegnati in titolarità alle associazioni e i diritti
«fondamentali» spettanti ai singoli, nel ricercare un criterio idoneo a chiarire il collegamento
sussistente tra le due entità, ritiene che questo debba essere rilevato nella circostanza che «le
condotte lesive di tali diritti fondamentali assumono una dimensione plurioffensiva che rende
possibile sia una tutela in via individuale da parte dei singoli consumatori, sia la tutela del-
l’interesse collettivo da parte delle loro associazioni». Stando a queste osservazioni potrebbe
sembrare che l’A. ora richiamato estenda la legittimazione ad agire in via rappresentativa agli
illeciti inerenti anche le vicende del singolo rapporto e non la legittimazione del singolo agli
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 805

Il fondamento della ricostruzione ora in esame sarebbe, dunque, da


rilevare nel nuovo contesto normativo, poc’anzi menzionato, introdotto
dalla l. n. 281/98 ed ora recepito dal codice del consumo ed in particolar
modo nel profilo funzionale impresso dal riconoscimento dei diritti ed
interessi individuali e collettivi dei consumatori «anche in forma collet-
tiva e associativa»101.
Proprio partendo da questa premessa, d’altronde, la dottrina ha an-
che riaffermato una configurazione dell’azione collettiva attribuita all’as-
sociazione rappresentativa già riscontrata in materia di procedimento per
la repressione della condotta antisindacale102, ovvero quella tesa a evi-
denziare la natura «suppletiva» e «non sostitutiva» dell’azione riservata
all’ente esponenziale; configurazione che peraltro è apparsa essere ulte-
riormente avvalorata in questo ambito di tutela dalla previsione secondo
cui le disposizioni in materia di inibitoria generale «non precludono il di-
ritto ad azioni individuali dei consumatori, che siano danneggiati dalle
medesime violazioni»103. Ed ancora in questo senso sembrerebbe orien-
tarsi l’opinione volta a rilevare l’estendersi della tutela collettiva anche al
fronte repressivo e non solo propriamente preventivo dell’illecito104.
Secondo questa impostazione, infatti, il fronte della tutela apprestata
con lo strumento giurisdizionale previsto dall’art. 140 del codice potrebbe
estendersi anche al sindacato giudiziale degli illeciti lesivi degli interessi
individuali esclusivi (ovvero differenziati) dei singoli consumatori.
Si avrebbe, insomma, un’area di legittimazione esclusiva apparte-
nente agli enti esponenziali a tutela degli interessi collettivi, ovvero in
presenza di illeciti a lesione indifferenziata, ed un’area di possibile con-
corso tra azione individuale e azione collettiva al solo ricorrere di quei

illeciti a lesione indifferenziata. L’esemplificazione proposta induce peraltro a ritenere il con-


trario, parlandosi appunto (in generale) di vendita di prodotti nocivi e dannosi oltre che di
pubblicità ingannevole. Sembrerebbe insomma che la posizione dell’A. debba essere an-
ch’essa ricondotta all’orientamento riportato in questa nota; cfr. anche ID., I torti della Fiat
verso i consumatori: la giustizia civile richiama le Dedra difettose, in Danno e responsabilità,
2003, p. 81 ss.
101 Cfr. gli AA. cit. alla nota che precede.
102 Cfr. retro, cap. VII, § 2.1.1.1.
103 Così, PUNZI, C., La tutela giurisdizionale degli interessi diffusi e degli interessi collet-

tivi, cit., p. 37 s.
104 Cfr. ad esempio DE NOVA, G., I contratti dei consumatori tra novella al codice civile,

legge sulle associazioni dei consumatori e Trattato di Amsterdam, in Consumatori, contratti,


conflittualità, Diritti individuali, interessi diffusi, mezzi di tutela, a cura di C. Vaccà, Milano,
2000, p. 15 ss., spec. 17, per il quale, combinando l’art. 3, comma 1, lett. a), ma specialmente
b) della l. 281, con il diritto alla correttezza, trasparenza ed equità dei rapporti contrattuali,
l’azione delle associazioni non appare essere soltanto preventiva, ma anche repressiva.
806 CAPITOLO DECIMO

comportamenti che pur incidendo su posizioni individuali differenziate


costituiscano anche lesione dell’interesse collettivo dell’ente esponenziale
(cfr. retro, ipotesi sub c).
Particolarmente affine all’impostazione da ultimo richiamata sembre-
rebbe quella di coloro che, dopo aver rilevato l’introduzione – con la l. n.
281/98 – di «una tutela sostanziale e qualitativa volta alla correttezza, tra-
sparenza ed equità nei rapporti contrattuali», hanno sostenuto l’esten-
sione del sindacato giudiziale anche agli «atti successivi alla conclusione
dei rapporti negoziali, afferenti alle modalità concrete di erogazione della
prestazione ed anche al prezzo fissato dall’imprenditore» e non solamente
alle «condotte prodromiche alla conclusione del contratto»105.
D’altra parte, nella posizione appena ricordata, viene anche ribadito
che l’azione dell’ente esponenziale è volta a tutela degli interessi collet-
tivi, rimanendo distinta ed autonoma rispetto ai rimedi individuali106;
precisazione, quest’ultima, che offre un’immagine del rapporto tra azione
individuale ed azione dell’ente esponenziale particolarmente simile a
quella già trovata in materia di giudizio per la repressione della condotta
antisindacale, secondo il noto schema in virtù del quale l’illecito pluriof-
fensivo arreca lesione tanto al diritto soggettivo del singolo consumatore
quanto all’interesse(-diritto) collettivo dell’associazione107.
Infine, autorevole dottrina, pur procedendo da una concezione uni-
taria dell’interesse collettivo, appunto appartenente alla collettività dei
consumatori, ha riconosciuto la legittimazione ad agire ai singoli membri
del gruppo anche in ordine alla repressione degli illeciti indifferenziata-
mente lesivi degli stessi, ovvero lesivi dell’interesse collettivo (cfr. retro,
ipotesi sub b)108; e ciò facendo perno non solo sulla garanzia dell’azione
105 Così, CONTI, R., Ai nastri di partenza l’inibitoria a tutela degli interessi collettivi ex

art. 3 l. n. 218/1998, cit., p. 397, seguito da MINERVINI, E., La tutela collettiva dei consumatori
in materia contrattuale, cit., p. 486, che rileva come la formula «atti e comportamenti lesivi
degli interessi dei consumatori e degli utenti» prevista dall’art. 3, comma 1, lett. a), l. 281/98,
abbia carattere «omnicomprensivo»; ID., I contratti dei consumatori e la l. 30 luglio 1998 n.
281, cit., p. 940.
106 CONTI, R., Ai nastri di partenza l’inibitoria a tutela degli interessi collettivi ex art. 3 l.

n. 218/1998, cit., p. 394; MINERVINI, E., La tutela collettiva dei consumatori in materia con-
trattuale, cit., p. 481.
107 Sede in cui appunto è sorta per la prima volta la tesi del parallelismo delle azioni,

cfr. retro, cap. VII, § 2.2.


108 Cfr. CARRATTA, A., Profili processuali della tutela degli interessi collettivi e diffusi, cit.,

p. 122 ss., spec. p. 133 ss. Nello stesso senso si orienta ARMONE, G.M., La tutela inibitoria,
cit., p. 738. Cfr. anche CHINÈ, G., Legittimazione ad agire (art. 3), cit., il quale, da un lato (p.
36 s.), evidenza la plurioffensività del comportamento antigiuridico, pur nella non interscam-
biabilità dell’azione individuale con l’azione collettiva in ragione dei diversi petita e causae pe-
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 807

che al consumatore deve essere riconosciuta come titolare, o – meglio –


contitolare, dell’interesse sostanziale tutelato, ma anche su argomenti di
tenore esegetico ed in particolare sulla già indicata disposizione che non
esclude la legittimazione del singolo in ordine alla tutela dalle medesime
violazioni avverso le quali è data l’azione alle associazioni rappresenta-
tive, nonché, anche, sull’ultimo comma dell’art. 3 della l. 281/98, che fa
salva l’applicazione delle norme sulla litispendenza, la continenza, la con-
nessione e la riunione dei procedimenti.

3.2.2.3. Le ricadute dogmatiche del nuovo quadro normativo in mate-


ria di azione inibitoria generale. – Alla luce della classificazione ora ope-
rata delle diverse letture avanzate a sistemazione del quadro delle tutele
ora apprestato dal codice del consumo, ben si nota il grado di instabilità
ed incertezza che tuttora è presente in questo come in altri settori di stu-
dio concernenti il tema della tutela giuridica e giurisdizionale degli inte-
ressi a rilevanza sovraindividuale. Condurre, infatti, un esame delle di-
verse opinioni in merito alla corretta ricostruzione dell’inibitoria generale
a tutela degli interessi dei consumatori che non si fermi ad una lettura su-
perficiale delle stesse dà l’immagine di un quadro estremamente artico-
lato ed in grado di coprire tutte le opzioni logicamente possibili circa i
rapporti tra azioni riservate alle associazioni rappresentative e azioni ri-
servate ai singoli consumatori in relazione alla diversa tipologia di illeciti
posti in essere dalla parte professionale.
Detto questo, comunque, prima di chiudere il discorso sullo stato
della riflessione concernente l’inquadramento dogmatico dell’inibitoria
generale e passare alle considerazioni ricostruttive a cui è dato giungere
sulla base dei risultati ottenuti all’interno di questo lavoro, occorre esa-
minare due ulteriori questioni.
La prima consiste nel verificare entro quali limiti il nuovo contesto
normativo delineato dal legislatore del 1998 ed ora recepito dal codice del
consumo abbia avuto effetti sul piano dogmatico e più precisamente in
ordine alla qualificazione da riservare alla posizione giuridica attribuita
alle associazioni rappresentative, nonché anche alla natura dell’interesse
collettivo tutelato, specie nei suoi rapporti con l’interesse individuale.
Il punto è il seguente.
Nell’esame delle posizioni dottrinali poc’anzi indicate si è osservato
come in molte di queste venga meno quell’assoluta separatezza di piani
tendi, dall’altro (p. 56 ss.), ritiene in contrasto con la ratio della normativa in questione il ri-
tenere che ai consumatori sia preclusa l’azione individuale (evidentemente fondata su un di-
ritto soggettivo autonomo) contro gli illeciti di pericolo.
808 CAPITOLO DECIMO

operativi che al contrario contraddistingueva piuttosto unanimemente


l’azione ex art. 1469 sexies c.c. nel suo rapporto con i possibili rimedi di
tutela processuale riservati alla protezione dei singoli consumatori.
Ciò avrebbe potuto favorire una diversa concezione dell’azione ini-
bitoria collettiva ora prevista dall’art. 140 del codice del consumo pro-
prio con riferimento alla natura degli interessi tutelati e alla posizione
giuridica riconosciuta alle associazioni dei consumatori; e ciò specie al-
l’interno delle teorie favorevoli a ritenere l’ente rappresentativo legitti-
mato ad agire anche sul piano non unicamente preventivo-generale-
astratto dell’illecito ed ancor più nelle teorie favorevoli ad ammettere la
legittimazione del singolo per ottenere la repressione degli illeciti a le-
sione indifferenziata.
In altri termini la distanza che sul piano ontologico è stata frequen-
temente ribadita dalla riflessione giuridica tra interesse collettivo ed inte-
resse individuale si sarebbe potuta assottigliare (o comunque sarebbe po-
tuta entrare in crisi), posta la sua minore sostenibilità per le inevitabili in-
terferenze tra rimedi collettivi e rimedi individuali109.
D’altra parte, all’interno del dibattito è avvenuto tutt’altro e, pro-
prio nelle tesi orientate ad evidenziare la natura plurioffensiva della con-
dotta antigiuridica, hanno trovato spazio considerazioni ricostruttive di
tenore dogmatico capaci di imprimere un’ulteriore accentuazione alla
contrapposizione ontologica ricorrentemente sostenuta tra interessi indi-
viduali ed interessi collettivi.

109 Che questa fosse una prospettiva suggestivamente apertasi agli occhi degli studiosi

non pare dubbio se si pensa che – come si ricorderà – la tesi del c.d. «doppio binario», so-
stenuta in materia di rapporti tra azione collettiva del consigliere di parità ed azioni indivi-
duali delle lavoratrici discriminate, aveva individuato proprio nella (presunta) mancata plu-
rioffensività della condotta imprenditoriale l’argomento effettivamente centrale per sostenere
l’eteronomia degli interessi tutelati superando la concezione sostitutiva dell’azione collettiva
(cfr. retro, cap. VIII, in particolare la tesi di Rapisarda). Ma, per altro verso, che questa stessa
prospettiva potesse essere al contrario evitata (anche a fronte del diverso sistema di tutele
processuali introdotte con la l. 281 rispetto agli artt. 1469 bis ss. c.c.), è comunque piena-
mente comprensibile alla luce del dibattito dottrinale in materia di azione di repressione della
condotta antisindacale. Qui, come visto, sebbene un primo orientamento (ancora di origine
processualcivilistica) avesse dato ampio sviluppo al tema della natura plurioffensiva della con-
dotta antigiuridica (cfr., retro, cap. VII, in particolare, la tesi di Lanfranchi), gran parte degli
studiosi non esitarono – per la verità attraverso strumenti argomentativi nemmeno esaminati
e giammai riproposti dalla omologa dottrina in materia di azioni collettive a tutela dei consu-
matori (dottrina al contrario prevalentemente disinteressata al dibattito relativo all’azione ex
art. 28 S.L.) – a concepire l’azione sindacale come fondamentalmente autonoma e indipen-
dente rispetto a quella individuale proprio in virtù di un interesse collettivo perseguito di-
stinto dal parallelo interesse individuale.
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 809

Si è infatti ritenuto possibile superare la comune fictio iuris costi-


tuita dall’imputazione di un diritto soggettivo in capo alle associazioni
rappresentative per la tutela di interessi collettivi a vantaggio del ricono-
scimento di «situazioni soggettive di portata superindividuale»; situa-
zioni appunto da tenere rigorosamente separate dai tradizionali diritti
soggettivi «per un verso perché le utilità pratiche derivanti dalla loro tu-
tela in giudizio ricadono prevalentemente su soggetti diversi da quelli ai
quali spetta l’azione […] e, per altro verso, perché esse non coincidono
con i diritti soggettivi dei maggiori – benché indiretti – beneficiari di tale
tutela»110. Stando a questa lettura, insomma, con la l. n. 281/98 si sarebbe
ottenuto il riconoscimento normativo di una nuova situazione sostanziale
a carattere sovraindividuale posta all’interno dell’ordinamento come ter-
tium genus accanto al diritto soggettivo e all’interesse legittimo ed in
quanto tale – vedremo meglio più avanti – addirittura esterna alla previ-
sione – specie per ciò che attiene ai limiti soggettivi del giudicato – del-
l’art. 24 della Costituzione111.
A parte quest’ultima lettura indicata, comunque, anche nelle posi-
zioni come visto più aperte ad una valorizzazione della dimensione per-
sonale e soggettiva degli interessi dei consumatori, la questione teorica
concernente i rapporti tra interesse collettivo ed interesse individuale è
rimasta piuttosto nell’ombra e giammai tale questione si è imposta come
uno degli snodi teorici indispensabili per procedere alla corretta rico-
struzione degli strumenti di tutela dei consumatori112.
110 GIUSSANI, A., La tutela di interessi collettivi nella nuova disciplina dei diritti dei con-
sumatori, cit., p. 1062; ma cfr. anche, sebbene più sinteticamente, ID., Prospettive di riforma
per le azioni collettive, in Quest. giust., 2005, p. 366 ss., ma spec. p. 368, in cui tra l’altro nel
contenitore classificatorio «azioni collettive» vengono a confluire anche le azioni in cui il le-
gittimato ad agire faccia valere in giudizio «pretese isomorfe» individuali, cioè «controversie
“seriali”». L’azione collettiva, in altri termini, è l’azione in cui, stando alla distinzione che la
dottrina in esame propone, sarebbe tanto quella in cui la situazione giuridica tutelata sia co-
stituita dall’interesse collettivo, quanto l’azione volta a far valere diritti soggettivi altrui. A
parte questo, comunque, la prospettiva indicata nel testo, ovvero la propensione a conside-
rare gli interessi collettivi come situazioni giuridiche sostanziali alternative ai tradizionali di-
ritti soggettivi, si ritrova anche in CARRATTA, A., Profili processuali della tutela degli interessi
collettivi e diffusi, cit., spec. p. 133 ss.
111 GIUSSANI, A., La tutela di interessi collettivi nella nuova disciplina dei diritti dei con-

sumatori, cit., p. 1063.


112 All’interno di questo orientamento dottrinale, un posto a parte va peraltro riservato

alla posizione espressa da LANFRANCHI, L., Le animulae vagulae blandulae e l’altra faccia della
luna, in La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, cit., e ciò in particolare per
le riflessioni avanzate con risolutezza dall’A. avverso la concezione «oggettiva» dell’interesse
collettivo ed anche per l’essere protesa, detta posizione ricostruttiva, più in una prospettiva
sistematico-generale di tutela giurisdizionale degli interessi sovraindividuali, che in una pro-
810 CAPITOLO DECIMO

Ciò è evidente, ad esempio, se si esamina con attenzione uno degli


itinerari dimostrativi più articolati ed attenti113, nel quale appunto – con-
trariamente alla direttiva di metodo che il nostro studio ha già da tempo
fatto emergere – l’indagine fenomenologica degli interessi da tutelare sul
piano pregiuridico non è apparsa debitamente distinta dalla successiva
opera di ricostruzione dogmatica, ovvero di strutturazione tecnico-giuri-
dica degli stessi, rimanendo al contrario, il centro di gravitazione dello
studio, saldamente ancorato all’interno della sola riflessione circa le di-
verse possibilità di ricostruzione formale delle situazioni giuridiche so-
stanziali coinvolte. In altri termini, pur a fronte delle interessanti osser-
vazioni ricostruttive che tra breve avremo modo di esaminare specie
sotto il profilo degli effetti dell’azione collettiva, alle riflessioni dedicate
alla natura degli interessi tutelati è stato di certo assegnato un ruolo in fin
dei conti secondario, sovente contraddistinto da definizioni non chiare –
come quella rappresentata dalla formula degli interessi «comuni»114– o
da definizioni – come visto e come meglio vedremo – in genere ritenute
non compatibili. Si pensi, ad esempio, alla coesistenza della nozione di
«interesse di serie»115 con la nozione di «interesse collettivo», concepito
non – si badi bene – come «somma degli interessi individuali», ma come
«loro combinazione» e dunque «qualitativamente diverso rispetto a que-
sti ultimi»116.

3.2.2.4. La difficile coesistenza tra la dominante concezione dell’a-


zione collettiva riservata agli enti rappresentativi e le «misure idonee a cor-
reggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate». – Dalla
ricognizione critica sino ad ora svolta delle opinioni ricostruttive concer-
nenti la natura dell’azione inibitoria generale si riceve, quindi, la con-
ferma che anche in materia di consumatori il dibattito sui rimedi posti a
tutela degli interessi collettivi non vada esente dalle incertezze che tut-
tora affliggono la nostra tematica.

spettiva limitata all’esame dei rimedi collettivi esaminati in questo capitolo. Cfr. infatti, i ri-
chiami di questa dottrina operati specie in sede di cap. III.
113 Ci riferiamo al saggio di PAGNI, I., Tutela individuale e tutela collettiva nella nuova

disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti (Prime riflessioni sull’art. 3, l. 30.7.1998, n.
281), cit.
114 PAGNI, I., Tutela individuale e tutela collettiva nella nuova disciplina dei diritti dei

consumatori e degli utenti (Prime riflessioni sull’art. 3, l. 30.7.1998, n. 281), cit., p. 175.
115 PAGNI, I., Tutela individuale e tutela collettiva nella nuova disciplina dei diritti dei

consumatori e degli utenti (Prime riflessioni sull’art. 3, l. 30.7.1998, n. 281), cit., p. 183.
116 PAGNI, I., Tutela individuale e tutela collettiva nella nuova disciplina dei diritti dei con-

sumatori e degli utenti (Prime riflessioni sull’art. 3, l. 30.7.1998, n. 281), cit., p. 135, nota 16.
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 811

Ciò è dimostrato non solo dalla tendenza – anche in questo ambito


– a far uso dell’ontologica contrapposizione tra interessi collettivi e inte-
ressi individuali quale strumento sempre pronto per risolvere le delicate
questioni interpretative che inevitabilmente la tutela degli interessi so-
vraindividuali pone un po’ a tutti i livelli, ma anche dal moltiplicarsi delle
soluzioni ricostruttive, avvenuto – come visto – nel passaggio da un ri-
medio dai contorni applicativi più limitati e stabili (l’inibitoria in materia
di clausole abusive) ad un rimedio invece di per sé privo di certi confini
(l’inibitoria generale), essendo appunto il suo ambito applicativo deter-
minato in via solamente teleologica, ovvero in ordine – come recita l’at-
tuale art. 140 del codice del consumo – all’inibizione degli atti e dei com-
portamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti.
L’espressione più evidente delle menzionate incertezze si riscontra,
peraltro, nella seconda questione che da prima ci proponevamo di esa-
minare per completare il quadro del dibattito sulla natura dell’azione ini-
bitoria generale.
Ci riferiamo all’interpretazione da riservare all’art. 140 del codice
del consumo, laddove, alla lettera b) del suo primo comma, è prevista la
possibilità di «adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli ef-
fetti dannosi delle violazioni accertate». Quale estensione attribuire, in-
fatti, alle «misure idonee» in questione? Come intendere il riferimento
agli «effetti dannosi» ivi menzionati?
L’impronta teleologica assegnata alla disposizione ha naturalmente
indotto a ritenere che «il tipo di provvedimenti che rispondono a tale
funzione non sia individuabile a priori ma vari in relazione alla peculia-
rità di ogni singola fattispecie»117; così si è parlato di misure «ripristina-
torie» o «riparatorie», «reintegratorie» o «restitutorie»118.

117 Così, DI FAZZIO, G., Tutela dell’interesse collettivo dei consumatori, cit., p. 1012. Al-
l’atipicità del contenuto rinvia in genere la dottrina: cfr. ad es. DE NOVA, G., I contratti dei
consumatori tra novella al codice civile, legge sulle associazioni dei consumatori e Trattato di
Amsterdam, cit., p. 17; CONTI, R., Ai nastri di partenza l’inibitoria a tutela degli interessi col-
lettivi ex art. 3 l. n. 218/1998, cit., p. 393, che evidenzia il superamento di una visione dina-
mica ancorata al mero accertamento dell’illiceità della condotta a favore di una funzione di-
namica in cui al giudice è affidata la determinazione delle «modalità […] che eliminino per il
futuro gli effetti dannosi cagionati al consumatore»; BENUCCI, S., La disciplina dei diritti dei
consumatori e degli utenti, cit., p. 181; CHINÈ, G., Legittimazione ad agire (art. 3), cit., p. 51 s.;
PALMIGIANO, A. - VECCHIO VERDERAME, S., La legge n. 281 del 1998, La cd. «carta dei diritti del
consumatore» e la nuova tutela inibitoria, cit., p. 83 s.
118 Questo rincorrersi di varie qualificazioni volte ad evidenziare in generale la funzione

di ripristino dello status quo ante, è ben evidenziato da MINERVINI, E., La tutela collettiva dei
consumatori in materia contrattuale, cit., p. 505.
812 CAPITOLO DECIMO

Superare la genericità insita in tali qualificazioni è apparsa però cosa


tutt’altro che piana.
Più in particolare, il profilo maggiormente controverso del dibattito
è stato rappresentato dalla possibilità di ricondurre alle «misure idonee»
menzionate anche provvedimenti di condanna alla restituzione di somme
di denaro o al risarcimento derivante dal pregiudizio subito dai consu-
matori lesi a seguito della condotta imprenditoriale; questione, che, come
tra breve meglio vedremo, ha rappresentato uno dei punti più delicati sia
sotto il profilo della tenuta teorica delle diverse ricostruzioni, sia sotto il
profilo pratico concernente il reale tasso di effettività garantito dal giudi-
zio collettivo.
Essendo, peraltro, la struttura delle «misure» in questione pura-
mente determinata dalla loro idoneità a correggere o eliminare gli effetti
della violazione, le incertezze addietro indicate in merito alla natura del-
l’illecito reprimibile in sede di giudizio inibitorio sono tutte ricadute sul
piano degli obblighi derivati da accertare in sede di giudizio collettivo.
In altri termini, il contenuto da attribuire alle misure idonee è ap-
parso strettamente dipendente dalla possibilità di estendere la tutela giu-
risdizionale concessa agli enti rappresentativi oltre il fronte propriamente
e puramente collettivo ed indifferenziato.
Una parte delle opinioni tese a negare questa possibilità ha sì ammes-
so in sede collettiva la condanna al risarcimento del danno della parte pro-
fessionale incorsa nella condotta antigiuridica, ma ciò è stato fatto riferen-
dosi al «danno collettivo», ossia ad un risarcimento volto a ristorare il pre-
giudizio subito da tutta la collettività in via indifferenziata, un rimedio –
cioè – in realtà volto a risarcire profili di danno più che altro imputabili
all’ente rappresentativo119, magari anche con finalità latamente punitive120.
119 Ad esempio CAPOBIANCO, E., Contrattazione bancaria e tutela dei consumatori, cit., p.

205-206, sembra contemplare la possibilità di ordinare misure risarcitorie da disporsi a van-


taggio dell’ente rappresentativo, magari sulla scorta di ciò che dispone l’art. 2599 c.c. In CA-
MERO, R. - DELLA VALLE, S., La nuova disciplina dei diritti del consumatore, cit., p. 155 ss., ma
spec. 157, premessa la funzione collettiva e preventiva dell’azione inibitoria rispetto a quella
individuale, premessa la distinzione ontologica e addirittura qualitativa dell’interesse collet-
tivo tutelato con la prima, si ritiene possibile l’esercizio dell’azione collettiva anche in fun-
zione non meramente preventiva, ovvero successiva al verificarsi del danno, ma appunto in ri-
ferimento al «danno collettivo» patito cioè dall’organismo collettivo per effetto della lesione
dell’interesse collettivo tutelato. Quali siano poi i rapporti tra danno c.d. collettivo e danno
differenziato e individuale non è cosa chiarita dall’A. citato. Come l’attento lettore ricorderà,
il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno collettivo a favore dell’ente esponen-
ziale rappresenta una opzione interpretativa – difficilmente condivisibile – che ha trovato pe-
raltro discreto impiego in campo ambientale: cfr. retro, cap. IX, § 4.2.5.
120 PETRELLI, P., Interessi collettivi e responsabilità civile, cit., p. 154 ss.
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 813

Al di là di questa prospettiva, di certo un po’ falsante se non ade-


guatamente esplicitata nelle sue finalità e nella sua precisa collocazione
sistematica, l’orientamento in questione, ovvero le opinioni favorevoli a
ritenere che l’azione dell’ente rappresentativo sia in via esclusiva rivolta
alla tutela dell’interesse collettivo in senso proprio, ha prevalentemente
negato la possibilità di pervenire alla condanna dell’autore dell’illecito
alla restituzione di somme di denaro o al risarcimento del danno, es-
sendo tali richieste volte al ristoro degli interessi individuali pregiudicati
e in quanto tali riservate ai singoli colpiti dall’illecito121.
121 In particolare, v. MINERVINI, E., La tutela collettiva dei consumatori in materia con-
trattuale, cit., p. 505 ss., ma spec. 507, che appunto rileva la distinzione ontologica tra inte-
ressi collettivi ed interessi individuali, ponendo proprio l’oggetto del giudizio collettivo (e
dunque la tutela di interessi collettivi piuttosto che quelli individuali) come limite «interno»
all’estensione delle «misure idonee» sino ai rimedi risarcitori, intendendo pertanto le «misure
idonee» come strumento di attuazione del provvedimento inibitorio; ID., I contratti dei con-
sumatori e la l. 30 luglio 1998 n. 281, cit., p. 943. V. anche RESCIGNO, P., Sulla compatibilità
tra il modello processuale della «class action» ed i principi fondamentali dell’ordinamento giuri-
dico italiano, cit., p. 2227; SCUFFI, M., Azione collettiva in difesa dei consumatori: legittima-
zione e tecniche processuali, cit., p. 154; PONCIBÒ, C., Le azioni di interesse collettivo per la tu-
tela dei consumatori, cit., p. 659 ss., ma spec. 667 ss.; più di recente, v. MARINUCCI, E., Azioni
collettive e azioni inibitorie da parte delle associazioni dei consumatori, cit., p. 140 ss., con am-
pie argomentazioni tra cui, in sintesi, la natura collettiva ed indifferenziata dell’interesse tute-
lato e le indicazioni sistematiche che ci giungono dagli artt. 2599 c.c. e 165 c.p., dai quali si
evincerebbe che per il legislatore le «misure idonee» sono contrapposte a quelle risarcitorie e
restitutorie. Cfr. anche MARENGO, R., Garanzie processuali e tutela dei consumatori, cit., p. 138
e, in una cornice generale, MENCHINI, S., Azioni seriali e tutela giurisdizionale: aspetti critici e
prospettive ricostruttive, in www.judicium.it., § 5. Anche la giurisprudenza nega che le asso-
ciazioni dei consumatori possano avanzare pretese di natura risarcitoria o patrimoniale indi-
rizzate a vantaggio dei singoli consumatori; v. in particolare T. Genova, 2 agosto 2005, in
Danno e resp., 2005, 1225 ss., decisione in cui si osserva che le associazioni sono legittimate
ad agire per la tutela dell’interesse diffuso e non per la tutela degli interessi individuati facenti
capo a specifiche persone. Cfr. anche T. Torino, 3 ottobre 2000, in Corr. giur., 2001, p. 389
ss., con nota di CONTI, R., Ai nastri di partenza l’inibitoria a tutela degli interessi collettivi ex
art. 3 l. n. 218/1998; in Foro it., 2000, I, p. 3622 ss., con nota di A. Palmieri; in Giust. civ.,
2001, p. 813 ss., con nota di PLAIA, A., Organizzazioni «piramidali» e interessi del consuma-
tore: il giudice ordinario e la l. 281 del 1998; T. Roma, 5 febbraio 2001, in Giur. romana, 2002,
p. 35; T. Milano, 15 settembre 2004, in Foro it., 2004, I, p. 3481, con nota di PALMIERI, A., Il
retaggio dell’anatocismo «vecchia maniera» e la dimensione collettiva del riscatto per i clienti
(consumatori) delle banche; T. Palermo, 29 maggio 2006, in Foro it., 2006, I, p. 2542, con nota
di A. Palmieri. Significativa è anche Cass., 24 gennaio 2003, n. 1111, in Rep. Foro it., 2003, in
Intervento in causa e litisconsorzio, n. 15, che, sebbene con riferimento ad un caso sorto prima
dell’entrata in vigore della l. 281/98, ha addirittura negato l’intervento adesivo dipendente
del Codacons in un giudizio promosso nei confronti della Telecom da un utente che conte-
stava l’esattezza del computo del traffico telefonico addebbitatogli, argomentando dalla ne-
cessità di un interesse non di mero fatto bensì giuridico concretantesi nella titolarità di un
rapporto sostanziale eventualmente pregiudicato in via riflessa dal giudicato.
814 CAPITOLO DECIMO

Al contrario, terreno più fertile per la soluzione interpretativa oppo-


sta è stato trovato – come è comprensibile – all’interno della cornice di
inquadramento avanzata dalle posizioni volte a rimarcare la potenziale
plurioffensività della condotta antigiuridica ed in particolare nelle opi-
nioni favorevoli a vedere nell’azione dell’ente esponenziale uno stru-
mento posto anche al servizio degli interessi dei consumatori individual-
mente pregiudicati122. In questa cornice, infatti, premessa la distinzione
teorico-dogmatica tra illecito civile e responsabilità ex art. 2043 c.c e tra
rimedio risarcitorio e rimedio propriamente restitutorio, nonché pre-
messa anche la possibile coincidenza – in materia di tutela degli interessi
dei consumatori – della fattispecie costitutiva dei due rimedi poc’anzi ac-
cennati, si è sostenuta l’ineliminabile interferenza tra le due forme di tu-
tela, in particolare ritenendo che «è certamente misura volta all’elimina-
zione dell’effetto dannoso, oltre al ritiro dalla distribuzione del prodotto
pericoloso, anche la sostituzione dei beni già venduti con altri che garan-
tiscano maggior sicurezza, fino ad arrivare, addirittura, all’ordine al re-
sponsabile del comportamento lesivo di pagare una somma di denaro a
titolo di risarcimento a tutti coloro che possano essere stati danneggiati
dall’acquisto»123.
La questione intepretativa ora rappresentata è stata, peraltro, supe-
rata dall’introduzione del nuovo art. 140 bis, il quale, disciplinando un
apposito rimedio collettivo risarcitorio, impone ora all’interprete di rite-
nere che le «misure idonee» previste dall’art. 140 alla lett. b) non inclu-

122 Ci riferiamo al già citato saggio di PAGNI, I., Tutela individuale e tutela collettiva

nella nuova disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti (Prime riflessioni sull’art. 3, l.
30.7.1998, n. 281), cit., in particolare p. 144 ss.
123 Così, PAGNI, I., Tutela individuale e tutela collettiva nella nuova disciplina dei diritti

dei consumatori e degli utenti (Prime riflessioni sull’art. 3, l. 30.7.1998, n. 281), cit., p. 153. Ol-
tre all’opinione ora richiamata, altre posizioni sono forse orientate nel medesimo senso. Pre-
mettendo che, sovente, la stessa classificazione e collocazione delle diverse opinioni sulla que-
stione specifica in esame non è ciò che propriamente si potrebbe definire agevole, se la ra-
gione ancora ci sorregge, la posizione appena accennata – ovvero l’orientamento favorevole
ad ammettere anche la condanna al risarcimento del danno in sede di giudizio collettivo –
sembra essere seguita da BENUCCI, S., La disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti,
cit., p. 181-182. A favore del rimedio risarcitorio, pur nella perplessità circa la formulazione
del testo di legge, v. anche GRANIERI, M., Contratti dei consumatori: verso una stabilizzazione
degli strumenti di tutela?, in Danno e resp., 1998, p. 920; BELLI, C., Articoli 139-140, in Codice
del consumo, Commentario del d.legs. 6 settembre 2005, n. 206, cit., p. 542 s. Menzione a
parte merita la proposta di ACCIARI, M., Azione collettiva e art. 278, I, c.p.c.: spunti per una tu-
tela risarcitoria in sede collettiva, in www.diritto.it, per il quale sarebbe possibile in via inter-
pretativa ammettere la condanna generica al risarcimento del danno ex art. 278, comma 1,
c.p.c.
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 815

dano provvedimenti contenenti l’accertamento dei diritti al risarcimento


del danno o alla restituzione delle somme spettanti ai singoli consumatori
in ragione dell’illecito che ha dato luogo alla richiesta inibitoria collettiva.

3.2.3. Considerazioni ricostruttive.


3.2.3.1. La ridefinizione dei requisiti funzionali e strutturali delle
azioni collettive inibitorie conseguente all’introduzione del nuovo art.
140 bis. – L’esame del dibattito relativo alla natura dei rimedi collettivi
inibitori a tutela dei consumatori palesa quanto sia delicato e complesso
il loro esatto inquadramento giuridico, tanto sotto il profilo propria-
mente teorico, quanto sotto il profilo – più pratico – dell’incidenza di tali
rimedi in termini di protezione effettiva degli interessi dei consumatori.
Vista l’articolazione delle diverse problematiche è quindi opportuno
ripercorrere gli snodi interpretativi primari già oggetto di attenzione:
a) la collocazione dogmatica corrente dell’azione inibitoria in mate-
ria di clausole vessatorie vede nel rimedio in questione uno strumento
volto alla tutela di interessi sovraindividuali e posto su un piano astratto
e generale che rimane separato dalle vicende inerenti ai singoli rapporti
contrattuali effettivamente instaurati;
b) tale immagine ha favorito la contrapposizione ontologica tra inte-
resse collettivo (aut similia) ed interesse individuale con la conferma del-
l’esclusione dei singoli consumatori dalla sfera dei legittimati ad agire;
c) la classificazione dogmatica della posizione giuridica dell’ente
esponenziale legittimato in via esclusiva ha peraltro richiamato le con-
suete difficoltà qualificatorie presenti in materia;
d) l’inquadramento dell’azione inibitoria generale a tutela degli inte-
ressi dei consumatori è risultata meno piana proprio in ragione della dif-
ficoltà di determinare con esattezza i caratteri dell’illecito reprimibile in
sede collettiva;
e) le ricadute di tale instabile qualificazione hanno determinato il
moltiplicarsi delle opzioni ricostruttive con riguardo al possibile con-
corso tra rimedi riservati agli enti esponenziali e rimedi spettanti ai sin-
goli consumatori, nonché con riguardo al corretto significato da asse-
gnare alla «misure idonee» introdotte dal legislatore come strumento di
rimozione degli effetti prodotti dall’illecito.
D’altro canto, come poc’anzi affermato, il nuovo art. 140 bis sembra
aver risolto l’ultima questione interpretativa or ora indicata nel senso che
alle «misure idonee» previste dalla lett. b) dell’art. 140 vanno escluse le
816 CAPITOLO DECIMO

condanne al risarcimento o alla restituzione di somme a vantaggio dei


singoli consumatori.
Se si accoglie questa conclusione, peraltro, anche i profili funzionali
e strutturali del rimedio collettivo inibitorio previsto dall’art. 140 sem-
brano meglio delinearsi in quanto tale rimedio appare ora più propria-
mente indirizzato alla tutela degli interessi collettivi in senso proprio.
Come visto poc’anzi, prima del nuovo art. 140 bis la dottrina si in-
terrogava sulla possibilità che con tale strumento i soggetti rappresenta-
tivi potessero richiedere provvedimenti di tutela diretta degli interessi
esclusivi dei singoli consumatori e proprio questo orientamento era
quello naturalmente più incline ad ammettere una lettura estensiva delle
«misure idonee».
Con il nuovo rimedio collettivo risarcitorio il quadro generale di tu-
tela collettiva assume contorni più definiti, in quanto i rimedi collettivi
inibitori assumono senz’altro la veste di giudizi collettivi in senso pro-
prio124, sono cioè volti alla tutela degli interessi collettivi dei consumatori
mediante l’accertamento degli obblighi negativi e continuativi che gra-
vano sulla parte imprenditoriale.
Ragionando in questi termini le questioni interpretative sollevate
dall’azione inibitoria ora prevista dall’art. 37 del codice del consumo
sono omogenee a quelle sollevate dall’azione inibitoria generale prevista
dall’art. 140, poiché entrambe sono volte alla tutela indifferenziata degli
interessi collettivi dei consumatori.

3.2.3.2. La natura delle azioni collettive inibitorie a tutela dei consu-


matori. – Se si segue tale impostazione e si recuperano i risultati delle ri-
flessioni avanzate in chiave generale nei capitoli centrali di questo lavoro,
il discorso relativo all’inquadramento delle azioni collettive inibitorie è di
certo ben impostato.
La natura delle azioni in questione deve, infatti, essere determinata
apprezzando gli elementi strutturali e gli elementi funzionali che concor-
rono alla costruzione del giudizio.
L’elemento strutturale è rappresentato – come detto – dall’obbligo
sostanziale a carattere negativo e continuativo che grava sull’imprendi-
tore; obbligo che determina – con l’adempimento – il realizzarsi dell’in-
teresse collettivo dei consumatori e che viene ad essere posto ad oggetto
dell’accertamento.

124 Cfr. retro, cap. VI, § 5.1.1.


LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 817

L’elemento funzionale è invece costituito dall’interesse collettivo dei


consumatori.
La questione che va meglio chiarita è quindi – come sempre – quale
sia la nozione corretta di interesse collettivo, ovvero come debba essere
apprezzato l’interesse normativamente rilevante; questione da cui poi,
applicando il criterio interpretativo addietro elaborato125, discende anche
la determinazione dei destinatari della tutela titolari del diritto di azione.
Ma anche la questione teorica ora indicata è già stata abbondante-
mente esaminata in questo lavoro, sicché ora non resta che richiamare i
punti essenziali della riflessione svolta, confrontandoli con gli argomenti
avanzati in questa specifica materia.
Chiaramente una prima osservazione da farsi concerne il fatto che,
anche in questo settore di studio, la nozione di interesse collettivo (o dif-
fuso, ecc.) è stata data – come di consueto – per presupposta. Ciò con-
ferma una circostanza più volte rimarcata, ovvero il fatto che, nonostante
il dibattito sugli interessi collettivi abbia dato luogo a vere e proprie bi-
blioteche di letteratura sull’argomento, il concetto di interesse collettivo,
che è appunto il perno attorno a cui tutto ruota, viene regolarmente li-
quidato con apodittiche affermazioni definitorie.
Ciò detto, comunque, ricapitoliamo le argomentazioni in questa
sede avanzate a sostegno dell’eteronomia ontologica dell’interesse collet-
tivo rispetto a quello individuale:
a) la diversa natura dell’interesse tutelato dovrebbe essere apprez-
zata nel confronto dei rimedi a carattere preventivo (l’ordine inibitorio
dell’utilizzo delle clausole abusive è l’esempio tipico) con gli altri stru-
menti viceversa effettivamente repressivi e concernenti vicende proprie
di un rapporto contrattuale concreto;
b) la diversa natura dell’interesse collettivo dovrebbe essere deter-
minata dal fatto che esso viene ad essere imputato alla collettività nel suo
complesso e non ai singoli che appartengono ad essa;
c) l’interesse collettivo non è la somma degli interessi individuali ma
è la loro sintesi, per cui è cosa diversa da essi;
d) l’interesse collettivo è qualitativamente superiore rispetto agli in-
teressi individuali;
e) l’interesse collettivo, o meglio diffuso, estendendosi ad ampie cer-
chie di soggetti diviene inappropriabile e pertanto non appartiene al sin-
golo.

125 Cfr. retro, cap. V, § 2.5.4.2. e soprattutto cap. VI, § 2. e 3.


818 CAPITOLO DECIMO

Tutte le argomentazioni ora riportate sono inesatte e rappresentano,


talora, difettose percezioni del fenomeno, talaltra, semplicemente luoghi
comuni non supportati da alcun tentativo di dimostrazione.
Iniziamo da questi ultimi ed in particolare da quello secondo cui
l’interesse collettivo è la sintesi degli interessi individuali ed è qualitativa-
mente superiore rispetto ad essi.
A tal riguardo abbiamo già visto come i concetti di interesse collet-
tivo-somma e di interesse collettivo-sintesi rappresentino in realtà for-
mule inidonee a delineare la consistenza formale del fenomeno in que-
stione, ma, al contrario, la presuppongono.
Il discorso non può essere qui ripreso in chiave dimostrativa e si ri-
manda quindi il lettore ai luoghi opportuni126, va comunque ricordato
che il concetto di interesse collettivo indica semplicemente una relazione
logica tra più interessi individuali e si realizza quando due o più interessi
sono compatibili (cioè il soddisfacimento dell’uno non esclude il soddi-
sfacimento dell’altro) e concorrenti (cioè il soddisfacimento dell’uno
comporta sempre il soddisfacimento dell’altro), ovvero (posto che l’inte-
resse è la relazione che lega il soggetto con una situazione della realtà ri-
tenuta favorevole) un’unica situazione della realtà è favorevole per due o
più soggetti.
Per quanto riguarda – poi – la questione della superiorità qualitativa
dell’interesse collettivo rispetto a quello individuale, questa non solo pre-
suppone la mancata coincidenza delle due entità, ed in quanto tale non è
corretta sul piano teorico-generale, ma potrebbe semmai essere sostenuta
solo in un ordinamento – come ad esempio quello corporativo – in cui la
dimensione collettiva degli interessi è sovraordinata a quella individuale
e non in un ordinamento – come il nostro costituzionale – in cui la di-
mensione collettiva è posta in posizione servente rispetto alla dimensione
personale degli interessi. E comunque, in riferimento agli interessi giuri-
dicamente rilevanti non ha alcun significato, poiché o l’interesse è tute-
lato (ed è in quanto tale si pone – a certe condizioni – in posizione di
prevalenza rispetto ad eventuali interessi confliggenti) o non so è; sicché
il discorrere della sua superiorità rispetto all’interesse individuale, non
solo desta forti perplessità sul piano dei principi, oltre che su quello teo-
rico, ma è effettivamente fuori luogo con riferimento alla questione che
qui preme risolvere.
La stessa imputazione dell’interesse collettivo alla collettività piutto-
sto che al singolo appare una scelta non corretta, in quanto, da un lato,

126 V. retro, cap. IV, §§ 6.1. ss


LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 819

anch’essa presuppone un interesse collettivo ontologicamente distinto


dall’individuale e, dall’altro, nell’imputare l’interesse ad un corpo collet-
tivo concepito come entità unitaria e antropomorfa, trasforma l’interesse
di più soggetti nell’interesse di un soggetto, ovvero della collettività
stessa. In altri termini, con riguardo ad un certo fenomeno, se si vuole
concepire la collettivitità come un soggetto a sé stante, ciò vale anche per
l’interesse che poi le viene imputato, sicché il suo interesse perde il ri-
lievo superindividuale e torna ad essere mero interesse individuale esclu-
sivo. Chiamarlo collettivo, insomma, non ha più alcun senso.
Anche la pretesa natura «non proprietaria», ossia non appropriativa
dell’interesse127, nulla dice riguardo la struttura dell’interesse in sé, che
comunque rimane la relazione tra soggetto e situazione favorevole. Ciò
che cambia è che la situazione favorevole si dimostra tale per più soggetti
e non solo per uno, con la conseguenza che non avremo a che fare con
un interesse individuale-esclusivo, ma con più interessi per l’appunto
compatibili e concorrenti: interessi collettivi.
Altro argomento è, infine, quello che – facendo perno sul carattere
preventivo del rimedio inibitorio esperibile avverso l’utilizzo (o la racco-
mandazione ecc.) delle clausole abusive – rimarca l’assenza di una vera e
propria lesione da imputarsi ad un soggetto particolare; assenza che do-
vrebbe appunto giustificare la natura collettiva dell’interesse leso. Ma an-
che questa riflessione, come già visto tanto in sede di riflessione generale,
quanto nei più specifici ambiti – come in materia di giudizio antidiscrimi-
natorio – in cui è stata parimenti proposta128, è fondata su un equivoco,
ovvero sulla duplicazione più o meno consapevole dello stesso argomento,
che corrisponde ancora alla natura collettiva in senso unitario dell’inte-
resse tutelato, affrontata – questa volta – dal punto di vista della lesione.
In realtà – impiegando la chiave di lettura già indicata addietro – la
linea logica che occorre seguire per fare chiarezza sul punto consiste,
come sempre, nel determinare quale sia la situazione favorevole e quali
siano gli interessi che vengono soddisfatti dal suo realizzarsi.
Nel caso di specie, noi abbiamo un obbligo imposto al professioni-
sta o alle associazioni di professionisti e questo obbligo legale può ad
esempio avere ad oggetto il comportamento di astensione dal far impiego
(o dal raccomandare l’impiego) di clausole generali vessatorie.
La domanda che occorre porsi è quindi la seguente: l’osservanza
dell’obbligo in questione, ovvero il comportamento conforme alle note

127 Cfr. retro, cap. VI, § 3.


128 Cfr. retro, cap. VI, § 3, e cap. VIII, § 3.3.1.
820 CAPITOLO DECIMO

legali che la norma prevede, per chi costituisce una situazione favo-
revole?
Per le associazioni o per la collettività dei consumatori o più preci-
samente per tutti coloro che operano sul mercato in tale veste?
Posto, quindi, che evidentemente, i destinatari della tutela sono i
consumatori e non le associazioni, che appunto – come si suol dire in
senso giustamente atecnico – li rappresentano, il problema torna ad es-
sere la natura dell’interesse collettivo; e più precisamente e di nuovo, o
tale interesse è inteso in senso unitario o come insieme di interessi indi-
viduali concorrenti.
Visto che peraltro, come detto in questa sede e altrove, deve rite-
nersi corretta solo la seconda opzione, allora l’osservanza dell’obbligo tu-
tela gli interessi individuali compatibili e concorrenti dei consumatori e,
guardando al fenomeno – per così dire – alla rovescia, l’inosservanza del-
l’obbligo lede parimenti gli interessi appena menzionati.
Le osservazioni tese a rimarcare la natura preventiva del rimedio o
la mancata lesività in senso tecnico della condotta antigiuridica sono
dunque semplicemente inconferenti (la prima) o propriamente non cor-
rette (la seconda).
Per ciò che riguarda la lesività del comportamento occorre non
confondere illecito e responsabilità civile. Nel nostro caso ciò che inte-
ressa è solo la prima ipotesi, ovvero verificare chi sia leso dall’inosser-
vanza dell’obbligo. E questo discorso, a contrario, rimanda alla determi-
nazione di quale sia l’interesse tutelato dall’osservanza dello stesso e alle
conseguenze – poc’anzi indicate – che a tale operazione conseguono.
Per ciò che, invece, riguarda la natura preventiva della tutela appre-
stata, questa può essere intesa solo in senso atecnico, ovvero per riferirci
ad un fenomeno che pre-viene un altro. Più distesamente: potremmo
parlare di natura preventiva della tutela solo se essa potesse essere atti-
vata prima dell’illecito, ovvero anche in assenza della violazione di un ob-
bligo. Ma è di tutta evidenza che questa situazione non è quella con cui
abbiamo a che fare. Difatti, sui soggetti prima richiamati gravano doveri
di comportamento in senso tecnico e non suggerimenti che il legislatore
invia loro.
Ci troviamo, anche qui, di fronte ad una delle mille distorsioni che
derivano da un’impostanzione di studio del diritto condotta guardando
dal punto di vista del diritto soggettivo come entità pseudo-corporea che
è predicato di un soggetto piuttosto che dal punto di vista dell’obbligo129.

129 Cfr. retro, cap. V.


LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 821

Di certo, dunque, la violazione da parte del professionista dell’ob-


bligo di non impiegare clausole generali abusive può essere apprezzata su
un piano distinto ed in qualche modo antecedente ed indipendente dal
concreto inserimento delle clausole in specifiche pattuizioni contrattuali
concluse con singoli consumatori; e senz’altro il primo illecito – richia-
mando la terminologia poc’anzi impiegata – produce una lesione indiffe-
renziata, mentre la seconda vicenda opera in via differenziata con ri-
guardo al singolo consumatore che ha sottoscritto il contratto; e ancora –
di certo – nel primo caso abbiamo la lesione di un interesse collettivo e
nel secondo di un interesse individuale. Ma quell’interesse collettivo è
detto tale solo poiché coinvolge la collettività intera ovvero l’insieme di
interessi individuali concorrenti compatibili che spettano ai membri che
la compongono e nel secondo caso l’interesse individuale andrebbe più
propriamente definito un interesse individuale esclusivo130, un interesse,
cioè, che è parimenti individuale, ma non astretto dalla relazione di con-
correnza appena richiamata.
In altri termini, nel primo caso la tutela è indirizzata a più interessi
individuali ugualmente orientati (non uguali, come al contrario talvolta si
dice)131, mentre nel secondo caso la tutela è indirizzata verso un solo in-
teresse individuale.

3.2.3.3. La legittimazione ad agire del singolo consumatore a tutela


dell’interesse collettivo. – Al punto in cui ci troviamo, applicando il cri-
terio interpretativo elaborato nel sesto capitolo di questo lavoro sulla
scorta degli esiti ricostruttivi ancor prima ottenuti attorno al concetto di
diritto soggettivo, è piuttosto agevole completare il discorso svolto nel
paragrafo che precede, rimarcando – anche in questo ambito di studio ed
a conferma delle opinioni dottrinali orientate in tal senso132 – la piena e
coerente ammissibilità della legittimazione ad agire del singolo consuma-
tore per la repressione in via inibitoria degli illeciti a lesione indifferen-
ziata.

130 Cfr. retro, cap. IV, § 8.


131 È l’oggetto dell’interesse che è uguale e non interesse in sé che, essendo una rela-
zione tra soggetto e situazione, può essere uguale solo se il rapporto di identità coinvolge an-
che il soggetto. Cfr. retro, cap. IV, spec. nota 32.
132 Sul punto, v. retro, le posizioni di Armone, Benucci, Chinè, Carratta, Giussani,

Odorisio, Pagni, avanzate in riferimento all’inibitoria generale sulla base degli indici testuali
addietro richiamati. Ma la nostra posizione estende questa conclusione anche in riferimento
all’azione inibitoria in materia di clausole generali vessatorie. In questo senso, v. già la lettura
ricostruttiva proposta da Lanfranchi (cfr. retro, spec. nota 78).
822 CAPITOLO DECIMO

Come già osservato, infatti, l’interprete che si trovi innanzi a dispo-


sizioni che, come tipicamente accade all’attuale art. 37 del codice del
consumo, prevedono azioni inibitorie attribuite ad enti esponenziali per
avversare illeciti a lesione indifferenziata, deve distinguere il duplice pro-
filo funzionale (in senso normativo)133 che questo particolare tipo di di-
sposizioni manifestano, da un lato, sul piano della legittimazione ad agire
e, dall’altro, su quello tracciato dalla fattispecie lesiva. Questa operazione
è di regola svolta automaticamente senza grossi problemi per la semplice
circostanza che nel nostro ordinamento sono piuttosto rari i fenomeni di
legittimazione suppletiva rispetto ai destinatari della tutela offerta dal-
l’obbligo, tanto rari appunto, che vengono detti straordinari.
In materia di interessi collettivi, sul piano tecnico-interpretativo,
questo discorso non cambia in nulla, richiede solo uno sforzo di intelle-
zione del contenuto precettivo delle disposizioni un po’ più intenso in ra-
gione della complessità delle situazioni sostanziali con cui si ha a che
fare.
In altri termini, posto che il diritto soggettivo è un fenomeno giu-
dico complesso che consta dell’imposizione, sul piano materiale, di un
obbligo volto a tutela di un certo interesse e dell’attribuzione, sul piano
processuale, di un potere di azione in capo al titolare di quello stesso in-
teresse, per il principio di atipicità del diritto di azione, questa spetta a
colui o a coloro che sono destinatari della tutela ovvero a colui o coloro
che sono titolari di quell’interesse normativamente rilevante in funzione
del quale l’obbligo è posto.
Il valore precettivo che è dato ricavare dalle disposizioni a tutela de-
gli interessi collettivi va ricavato, dunque, coordinando la proiezione fun-
zionale che dalla regola di condotta emerge, con il principio generale nel
nostro ordinamento secondo cui – appunto – l’azione è data solo a colui
o coloro che sono i titolari dell’interesse normativamente rilevante.
Ponendosi in questa prospettiva interpretativa, piena coerenza al
principio appena richiamato dimostrano possedere le previsioni in mate-
ria di legittimazione ad agire; e ciò poiché l’attribuzione del potere di
azione a soggetti diversi dai titolari degli interessi protetti dagli obblighi
imposti sul piano sostanziale richiede – stando a ciò che dispone l’art. 81
c.p.c. – l’espressa previsione legale.
E così, infatti, accade; e le disposizioni in esame «espressamente» ri-
conoscono l’azione anche agli enti esponenziali degli interessi della col-

133 Cioè non in senso propriamente assiologico, ma come riferibilità soggettiva dell’ob-
bligo al soggetto tutelato. Cfr. retro, cap. V, § 2.5.4.3.
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 823

lettività dei consumatori; e tale legittimazione è straordinaria, nel senso


che deriva non dall’applicazione del criterio ordinario di determinazione
dei legittimati, ma dalla espressa lettera della legge134.
Peraltro, tale straordinarietà, va ben intesa. Poiché, l’azione ricono-
sciuta anche agli enti esponenziali, dimostra inequivocabilmente che, tra
tutti i possibili interessi che concretamente potrebbero attivarsi in ordine
alla repressione di detto illecito, solo quello di tali enti esponenziali è ap-
prezzato sul piano normativo ed oggettivizzato nel modello relazionale
astrattamente previsto dalla norma tra la situazione favorevole, ovvero
l’obbligo imposto, e i soggetti interessati.
Il fenomeno va rappresentato nei seguenti termini.
I soggetti esponenziali che presentano come finalità esclusiva la tu-
tela dei consumatori ed inverano la stessa nella prassi, dimostrano che il
loro interesse – che è e resta loro e che è e resta individuale135 – tende re-
golarmente a conformarsi a quello dei consumatori, ovvero tende ad
orientarsi nella loro stessa direzione; tale regolare tendenza fa di tali enti
dei soggetti appunto «esponenziali», nel senso che – per così dire –
espongono, cioè presentano come proprio, un interesse «altrui»; inte-
resse, che per il nesso funzionale che è impresso alla loro attività a priori
in sede di fine statutario e che viene ad essere confermato dai loro effet-
tivi comportamenti, abbiamo già definito propriamente istituzionale136. E
proprio di questa volontaria funzionalizzazione della loro attività il legi-
slatore si serve per attribuire una legittimazione come detto «supplet-
tiva» (ovvero aggiuntiva e concorrente rispetto a quella riconosciuta a
ciascun consumatore) per conseguire l’incremento della tensione all’at-
tuazione dell’obbligo e al rispetto dei valori giuridici promossi.

3.2.3.4. La natura della posizione giuridica attribuita all’ente esponen-


ziale. – La legittimazione straordinaria esclusiva prevista dalle disposi-
zioni in questione, dunque, dimostra che tale interesse istituzionale è ap-
prezzato sul piano normativo e che è assunto come concorrente an-
134 Cfr. REDENTI, E., Il giudizio civile con pluralità di parti, Milano, 1911, p. 298 ss. e
306 s.
135 Si può anche dire che le associazioni agiscano per la tutela dell’interesse collettivo,

ma questa affermazione va intesa in senso traslato. Poiché l’interesse tutelato è comunque il


loro, ovvero quello proprio dell’associazione, liberamente determinatosi.
136 In ciò appunto, come più volte detto, l’azione dell’ente esponenziale può esser defi-

nita «suppletiva»: cfr. PUNZI, C., Repressione della condotta antisindacale: b) Profili di diritto
processuale, in Commentario dello statuto dei lavoratori, diretto da U. Prosperetti, II, Milano,
1975, p. 966 ss., spec. 972 s.; ID., La tutela giurisdizionale degli interessi diffusi e degli interessi
collettivi, cit., p. 37 s.
824 CAPITOLO DECIMO

ch’esso con quello dei consumatori rispetto alla unica situazione favore-
vole rappresentata dall’osservanza dell’obbligo.
Da ciò deriva la conseguenza che sia la posizione del singolo consu-
matore, sia la posizione dell’ente esponenziale rispondono pienamente
alla tecnica giuridica del diritto soggettivo137; tecnica, appunto, in cui un
certo interesse sostanziale viene ad essere soddisfatto vincolando i com-
portamenti umani con l’imposizione di obblighi ed attribuendo l’azione
al titolare di tale interesse. Per dirla con altre parole, tanto i singoli con-
sumatori, quanto gli enti esponenziali sono legittimati ad agire, ovvero le-
gittimati a porre in essere quel comportamento normativamente tipizzato
(proposizione della domanda ecc.) che costituisce in capo al giudice il
dovere di accertare l’obbligo imposto a tutela del loro interesse.
Come in altri ambiti di tutela, dunque, il richiamo di figure qualifi-
catorie particolari ed inconsuete – che trovano la loro origine non in con-
notazioni strutturali tipiche, ma nella necessità di dare giustificazione
dogmatica a situazioni che sovente appaiono eccezionali o che comunque
non sembrerebbero agevolmente riconducibili nei contenitori classifica-
tori di sintesi elaborati sulla base dell’osservazione dei fenomeni tradizio-
nalmente più noti all’esperienza giuridica – è privato sostanzialmente di
significato138.
Non c’è bisogno quindi di ricorrere al concetto di mera azione, di
azione giudiziaria, di legittimazione sui generis. Ed anche il concetto di le-
gittimazione straordinaria, va inteso correttamente, ovvero come mero cri-
terio di determinazione del legittimato ad agire e non come fenomeno giu-
ridico dotato di una propria essenza e autonomia sul piano formale; l’ente
esponenziale, infatti, è titolare di un suo proprio diritto soggettivo139.

137 Cfr. retro, cap. V.


138 Cfr. retro, cap. VI, con riguardo alla mera azione, alla legittimazione sui generis, alla
giurisdizione a contenuto obiettivo (cap. V, § nota 17), all’interesse legittimo di diritto privato
(cfr. retro, cap. V, nota 131, nonché cap. VI, nota 149).
139 Questa osservazione è assolutamente indipendente da ciò che si è detto in riferi-

mento alla posizione dei singoli consumatori o con riguardo alla nozione di interesse collet-
tivo. Anche se si preferisse non aderire alle considerazioni ricostruttive svolte in merito alle
questioni ora indicate non par dubbio che la posizione giuridica dell’associazione è e rimane
quella del diritto soggettivo proprio. Sul piano sostanziale abbiamo doveri di comportamento
tesi al soddisfacimento di interessi e sul piano processuale abbiamo poteri di attivazione del-
l’intervento giurisdizionale rimessi alla piena libertà ed autonomia di un soggetto (in questo
caso collettivo). Ed anche l’ulteriore qualificazione del diritto attribuito all’organismo sociale
come «collettivo» non cambia nulla sul piano strettamente giuridico, in quanto comunque, se
si mettono nell’ombra – come fa la dottrina e la giurisprudenza dominante – gli interessi dei
singoli consumatori, l’unico interesse giuridicamente rilevante è quello dell’associazione. Se
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 825

Con ciò si esclude anche la possibilità di accogliere la tesi secondo


cui con l’art. 1 della l. n. 281/98 – e poi con l’art. 2 del codice del con-
sumo – si sarebbe introdotta una nuova categoria di situazioni sostanziali
non riconducibili alla figura del diritto soggettivo: l’interesse collettivo
appunto. Questa impostazione addietro esaminata, infatti, non convince
per diverse ragioni.
In primo luogo la stessa lettera della legge appare tuttaltro che ine-
quivoca; nel riconoscere e garantire «i diritti e gli interessi individuali e
collettivi dei consumatori», infatti, più che operare una contrapposizione
tra diritti soggettivi, da un lato, ed interessi collettivi, dall’altro, si viene a
distinguere tra diritti ed interessi; ossia si orienta la tutela tanto – sul
piano propriamente giurisdizionale – degli interessi individuali e collet-
tivi che sono «diritti» nel senso di essere meritevoli di tutela giuridica,
quanto – sul piano più latamente promozionale (ad es. interesse all’edu-
cazione al consumo, ecc.) – degli interessi individuali e collettivi che «di-
ritti» non sono poiché, pur rilevanti in termini sociali, non si pongono
come oggetto di protezione giuridica in quanto non vi corrisponde l’im-
posizione di correlativi obblighi di condotta accertabili in giudizio140.

non fosse che la formula dell’interesse occasionalmente protetto proprio non ci piace, di-
remmo che seguendo questa via gli interessi dei consumatori sono in realtà occasionalmente
protetti, intendendo dire con ciò che, in caso di violazione degli obblighi sostanziali imposti
alle parti professionali, l’ordinamento giuridico si muove a protezione degli stessi solo se così
desiderano le associazioni professionali. Ciò, per dirla più correttamente, non sono protetti.
Viene in altri termini a rompersi quel rapporto di corrispondenza tra interesse e soddisfaci-
mento la cui sussistenza il diritto garantisce allorché assuma un interesse tra quelli meritevoli
di tutela. In conclusione – come visto al cap. V, § 2.5.3. – non vi sono alternative: o l’interesse
di un certo soggetto è tutelato ed allora (quantomeno anche) a questi spetta il potere di pro-
vocare l’attivazione degli strumenti che riparano l’inosservanza degli obblighi posti a tutela di
detto interesse, o quell’interesse non riceve tutela giuridica poiché l’ordinamento «non ri-
sponde» alla sua eventuale violazione fatta valere in via giudiziale da colui che si propone
come titolare di detto interesse. Se si ritiene che solo le associazioni siano legittimate ad agire
– in assenza di meccanismi che garantiscano l’esercizio dell’azione in presenza di illeciti
(azione pubblica) – l’interesse tutelato non può che essere esclusivamente il loro e non quello
dei consumatori.
140 Sulle disposizioni in questione ed in particolare sulla corretta interpretazione da at-

tribuire alle previsioni ora presenti all’art. 2 del c. cons. v., tra gli altri, ALPA, G., La legge sui
diritti dei consumatori, cit., p. 999 s., ID., La nuova disciplina dei diritti dei consumatori, cit.,
p. 1314 ss., ID., Art. 1 (Finalità ed oggetto), in I diritti dei consumatori e degli utenti, cit., p. 3
ss., spec. p. 17 ss.; CAMERO, R. - DELLA VALLE, S., La nuova disciplina dei diritti del consuma-
tore, cit., p. 68 ss.; MAZZAMUTO, S. - PLAIA, A., Provvedimenti inibitori a tutela del consuma-
tore: la legge italiana 30 luglio 1998, n. 281 e la direttiva 98/28/CE, cit., p. 669 ss.; COLA-
GRANDE, R., Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, cit., p. 705 ss.; BENUCCI, S., La
disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, cit., p. 134, 174 ss.; ID., Art. 2, in Codice del
consumo, a cura di G. Vettori, cit., p. 23 ss.; VETTORI, G., Art. 1, ivi, p. 3 ss., ma spec. p. 18 ss.
826 CAPITOLO DECIMO

In secondo luogo, poi, è la stessa estrapolazione di un concetto dog-


matico dalla lettera della legge a lasciar perplessi. Come si suol dire, in-
fatti, la legge sta lì per disporre e non per definire. E questa operazione
gli è estranea, spettando al contrario alla scienza giuridica l’elaborazione
dei concetti sistematici apicali e ordinanti141.
Che questa osservazione a carattere generale debba ricevere ade-
sione, poi, sembra poter essere confermato non solo dal fatto che ci si ri-
ferisce ad un concetto relativamente «giovane» come quello di interesse
collettivo, che di certo merita ancora profonda meditazione sul piano
scientifico, ma anche dal disinvolto impiego che nel codice del consumo
hanno ricevuto tanto il termine «diritto» quanto il termine «interesse col-
lettivo» nelle norme a contenuto programmatico che aprono il corpus le-
gislativo in questione142. Impiego che di certo impone all’interprete di
procedere su solide basi teoriche e in chiave rigorosamente sistematica.

3.2.3.5. I limiti soggettivi del giudicato inibitorio collettivo. – Chiarita


quale sia a nostro giudizio la corretta ricostruzione dei giudizi collettivi
in materia di tutela dei consumatori sul piano della legittimazione ad
agire e su quello della natura degli interessi protetti, è ora opportuno
completare la trattazione dell’argomento riflettendo sugli effetti che con-
seguono all’esercizio dell’azione collettiva, ovvero, più precisamente sui
limiti soggettivi del giudicato che conclude tali giudizi.
La questione ha sollevato un intenso dibattito dottrinale, che, in ra-
gione delle numerose variabili che sino ad ora abbiamo visto caratteriz-
zare la materia, si presenta complesso ed articolato.
Semplificando, la riflessione scientifica ha seguito l’itinerario che an-
diamo ora ad indicare.
Nella prima fase del dibattito, quando l’oggetto di studio era costi-
tuito unicamente dall’inibitoria in materia di clausole abusive, le que-
stioni che hanno maggiormente impegnato gli interpreti sono state, da un
lato, il tema del coordinamento tra le diverse legittimazioni riservate agli

141 Se si seguisse questa strada – ad esempio – per ricavare il concetto di diritto sog-
gettivo dalle occasioni in cui questo termine ricorre nei testi di legge, l’amplissima pluralità di
significati con cui esso è impiegato paralizzerebbe l’interprete impedendo qualsiasi opera di
razionalizzazione sistematica e di intellezione concettuale dei simboli linguistici impiegati. Per
avere una esemplificazione di ciò che si intende si prenda l’analitica indicazione dei diversi si-
gnificati di diritto soggettivo ricorrono nel codice civile presente in CASSARINO, S., Le situa-
zioni giuridiche e l’oggetto della giurisdizione amministrativa, Milano, 1956, p. 122 ss.
142 Cfr. ad es. LANFRANCHI, L., Le animulae vagulae blandulae e l’altra faccia della luna,

cit., p. XL, che a tal riguardo parla di «affastellamento di situazioni giuridiche soggettive».
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 827

enti rappresentativi e, dall’altro, il problema degli effetti da riconoscersi


alla declaratoria di abusività ottenuta in sede general-collettiva negli spe-
cifici giudizi individuali. Con l’ingresso nel nostro ordinamento dell’ini-
bitoria generale, invece, se in taluni casi la riflessione ha seguito le orme
tracciate da quella sviluppatasi in precedenza, in altri casi ha invece di-
mostrato elementi di originalità dovuta fondamentalmente ai diversi pro-
fili funzionali e strutturali che – specie in talune ricostruzioni – tale ri-
medio ha dimostrato di possedere e sui quali ci siamo debitamente sof-
fermati poc’anzi.
Fuori da queste linee evolutive sinteticamente tratteggiate, occorre
peraltro confrontarsi con letture spesso complesse e sovente disomoge-
nee non solo nelle premesse di diritto sostaziale ma anche, se non so-
prattutto, negli strumenti dogmatici impiegati per risolvere il problema
degli effetti del provvedimento conclusivo.
Per cercare di affrontare con profitto e linearità il tema occorre
quindi far uso del materiale prodotto dalla dottrina in questi ultimi anni
riorganizzandolo in maniera più confacente alla sistemazione proposta
dei rimedi in esame; e seguendo questo indirizzo, le principali questioni
da sciogliere sono le seguenti: a) interrogarsi sull’opportunità di proce-
dere allo studio degli effetti dei provvedimenti inibitori tenendo separato
il profilo del coordinamento delle legittimazioni istituzionali da quelle in-
dividuali; b) determinare il regime di effetti del provvedimento inibitorio
che sia più confacente con i valori in gioco e meglio armonizzabile con il
diritto positivo; c) precisare le soluzioni tecnico-dogmatiche ritenute pre-
feribili.
Per ciò che attiene al primo punto indicato, la ragione di tale que-
sito trova origine nella comune configurazione del rimedio inibitorio in
materia di clausole abusive, alla luce della quale, come visto, primaria e
soprattutto autonoma importanza doveva riconoscersi al coordinamento
delle legittimazioni istituzionali, essendo i singoli consumatori esclusi
dalla cerchia dei legittimati.
Nella nostra impostazione, invece, ovvero in un modello di tutela
giurisdizionale degli interessi sovraindividuali ispirato ad un regime di le-
gittimazione ad agire diffusa piuttosto che concentrata, tale questione
perde in gran parte di rilievo o semmai può essere impostata in maniera
diversa, ritenendo – ad esempio – che il riconoscimento della legittima-
zione ad agire alle associazioni dei consumatori in ragione di adeguati re-
quisiti che ne attestano la rappresentatività costituisca il segnale – sul
piano del diritto positivo – dell’attribuzione di un potere di azione in
grado di attivare un giudizio idoneo ad addivenire all’accertamento con
828 CAPITOLO DECIMO

efficacia erga omnes dell’effetto giuridico dedotto in giudizio; l’azione ri-


conosciuta all’ente esponenziale avrebbe – insomma – effetti diversi e più
estesi sul piano soggettivo rispetto a quella attribuita al singolo consuma-
tore, potendo, al contrario di quest’ultima, addivenire ad un’accerta-
mento vincolante non solo per gli altri enti esponenziali, ma anche per i
singoli consumatori legittimati143. Questa conclusione, peraltro, è stata
già oggetto di esame nella parte centrale del nostro studio, laddove si è
rilevato che lo stato attuale del nostro ordinamento rende questa possi-
bile lettura non soddisfacente né sul piano del contemperamento dei di-
versi valori in gioco, né sul piano della sua armonizzabilità con la disci-
plina positiva144. Nello specifico ambito di studio ora in esame, assume –
poi – particolare rilievo ciò che prevede il comma 9 dell’art. 140 del co-
dice del consumo, laddove è previsto che le azioni attribuite alle associa-
zioni non precludono l’esercizio delle azioni riservate ai singoli. E questa
stessa linea di politica del diritto sembra trovare conferma da quanto di-
sposto dal comma 5 dell’art. 140 bis, secondo cui il giudicato collettivo
risarcitorio vincola solo i consumatori che hanno aderito all’azione col-
lettiva o che sono intervenuti in giudizio,
Occorre, quindi, ragionare confrontandosi con un regime di legitti-
mazione ad agire diffusa in cui alla legittimazione ad agire spettante ai
singoli consumatori si affianca la legittimazione ad agire attribuita agli
enti esponenziali riconosciuti.
Liberato, dunque, il campo dalla questione ora indicata, il succes-
sivo passo da compiere per procedere verso l’obiettivo proposto è sugge-
rito da una visione di insieme del dibattito in materia.
Questo, infatti, offre con chiarezza all’osservatore due tratti caratte-
ristici essenziali. Da un lato è piuttosto agevole apprezzare un elevato
grado di complessità ed articolazione in merito alle scelte tecniche ope-
rate in riferimento alle diverse questioni interpretative poste sul campo,
dall’altro, è altrettanto chiaro come, al di là delle specifiche soluzioni
proposte, tutta la riflessione si sia sviluppata nel condizionamento im-
presso dall’assenza di una regolamentazione legale adeguata delle forme
e degli effetti del giudizio collettivo; con la conseguenza che, sebbene in
riferimento a questioni non sempre omogenee, le linee interpretative si
sono aperte a ventaglio in tutte le direzioni ricostruttive possibili a se-

143 Come visto, un’impostazione in parte simile a quella avanzata nel testo è stata pro-

posta da Giussani ma con esclusivo riferimento agli effetti delle azioni esercitate dagli enti
esponenziali nei confronti delle altre associazioni legittimate (cfr. retro, § 3.2.2.3.).
144 Cfr. retro, cap. VI, §§ 5.4.2. e 5.4.3.
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 829

conda del valore in gioco che i singoli studiosi hanno ritenuto opportuno
privilegiare.
Per dirla con altre parole, ciò che si intende porre in evidenza è il
fatto che – sebbene talora in relazione al coordinamento delle legittima-
zioni rappresentative, o in riferimento alla possibile estensione dell’effi-
cacia della declaratoria di abusività di una clausola generale nei confronti
dei singoli consumatori, o ancora in relazione al coordinamento tra
azione spettante all’ente rappresentativo ed azione eventualmente rico-
nosciuta ai singoli – in fin dei conti ciò che ha veramente contato, più che
le scelte tecniche specifiche, se non anche le specifiche problematiche da
risolvere, è stato il voler assegnare prevalenza o al diritto di difesa del
professionista, evitando che possa essere vessato dal ripetuto esercizio
dell’azione da parte dei diversi legittimati, o al massimo spiegamento
della libertà di azione spettante agli stessi.
Guardando, insomma, il dibattito in questa prospettiva, le questioni
particolari sfumano innanzi alle scelte di valore operate a monte.
Semplificando, dunque, un primo ampio orientamento è costituito
dalle tesi dimostratesi propense a scongiurare aggravamenti della posi-
zione processuale della parte imprenditoriale; e tale obiettivo – esclu-
dendo a priori l’impiego del regime processuale previsto dall’art. 102
c.p.c.145 – è apparso ovviamente raggiungibile mediante l’estensione erga
omnes degli effetti della sentenza.
Questo percorso interpretativo ha riscontrato buon successo in ma-
teria di azione inibitoria ex art. 1469 sexies c.c., sia in riferimento agli ef-
fetti del giudicato sul potere di azione spettante agli altri enti esponen-
ziali legittimati146, sia in riferimento – come meglio vedremo – alla possi-

145 La cornice generale entro cui inserire il dibattito in materia è segnata dall’impossi-

bilità di garantire una dimensione del contraddittorio aderente alle dimensioni del conflitto
di interessi; impossibilità vividamente rappresentata dalla costante attenzione degli studiosi
nel girare – per così dire – a largo da istituti quali il litisconsorzio necessario, talora effettiva-
mente nemmeno nominato e quasi cancellato dal codice di rito (tra i pochi che si interrogano
sull’utilizzabilità del regime processuale richiesto dall’art. 102 c.p.c. nella materia in que-
stione, v. GIUSSANI, A., Considerazioni sull’art. 1469 sexies c.c., cit., p. 333) o dagli istituti che
ne avrebbero potuto evocare l’applicazione: in primo luogo la sostituzione processuale. Lo
evidenzia correttamente ARMONE, G.M., La tutela inibitoria, cit., p. 737; sul punto v. le osser-
vazioni svolte retro, alla nota 80.
146 LIBERTINI, M., Prime riflessioni sull’azione inibitoria dell’uso di clausole vessatorie

(art. 1469-sexies c.c.), cit., p. 567; TARZIA, G., La tutela inibitoria contro le clausole vessatorie,
cit., p. 639 ss.; cui adde, DANOVI, F., L’azione inibitoria in materia di clausole vessatorie, cit., p.
1073 s.; SAPIO, G., L’inibitoria ex art. 1469-sexies c.c. tra problemi risolti e questioni ancora
aperte, cit., p. 248-249.
830 CAPITOLO DECIMO

bile vincolatività da assegnare alla dichiarazione di abusività delle clau-


sole generali all’interno dei giudizi individuali147, ma anche con riguardo
al concorso delle legittimazioni rappresentative all’esercizio dell’inibito-
ria generale in origine introdotta dalla l. n. 281/98148. Sovente, l’obiettivo
di garantire l’effettività del diritto di difesa del professionista ha rappre-
sentato l’argomento decisivo per addivenire a tale conclusione149, ma il
profilo assiologico ora indicato ha ricevuto ovviamente adeguato sup-
porto anche sul piano delle scelte dogmatiche. Così la nozione di giuri-
sdizione a contenuto oggettivo è apparsa di certo una cornice teorica a
tal proposito favorevole150, come ugualmente lo è stata la nota figura
dell’«azione unica plurisoggettiva»151, specie se corroborata dalla stessa

147 LIBERTINI, M., Prime riflessioni sull’azione inibitoria dell’uso di clausole vessatorie
(art. 1469-sexies c.c.), cit., p. 567; ARMONE, G.M., Art. 1469-sexies (Azione inibitoria), cit., p.
247 ss., che, come già detto, nel ritenere che l’associazione eserciti l’azione in via sostitutiva,
afferma che tutti i consumatori subiscano gli effetti dell’accertamento, ma non come esten-
sione ultra partes degli effetti del giudicato, ma come parti in senso sostanziale del giudizio;
tesi peraltro ribadita dallo stesso ID., La tutela inibitoria, cit., p. 737; e successivamente se-
guita, sebbene in riferimento all’inibitoria generale, da BELLI, C., Articoli 139-140, in Codice
del consumo, Commentario del d.legs. 6 settembre 2005, n. 206, cit., p. 550 in nota.
148 GIUSSANI, A., La tutela di interessi collettivi nella nuova disciplina dei diritti dei con-

sumatori, cit., p. 1062-1063.


149 In particolare, v. TARZIA, G., La tutela inibitoria contro le clausole vessatorie, cit., p.

639 ss., che, richiamando Liebman e avanzando un argomento in effetti frequentemente uti-
lizzato in questo ambito di studio, paventa il rischio di un’eccessiva esposizione del profes-
sionista, accentuato dall’assenza di un termine di decadenza per l’esercizio dell’azione sulla
falsa riga di quello previsto in materia di impugnazione assembleari. Sul punto, v. peraltro le
osservazioni contrarie di CHIARLONI, S., Appunti sulle tecniche di tutela collettiva dei consu-
matori, cit., p. 394; ID., Per la chiarezza di idee in tema di tutele collettive dei consumatori, cit.,
p. 575, che reputa ben difficile la riproposizione dell’azione da parte di altri legittimati a se-
guito di un precedente giudiziario di esito negativo, se non in presenza di effettive lacune
nella conduzione del processo originario. Valutazione, quest’ultima, che sul piano dell’op-
portunità convince anche in riferimento ad un modello – come il nostro – privo di congrui
incentivi posti a vantaggio delle associazioni dei consumatori e che vale ancor più in riferi-
mento alle preoccupazioni relative ad una possibile legittimazione ad agire appartenente an-
che ai singoli consumatori, i quali, se faranno esercizio del loro potere di azione a tutela del-
l’interesse collettivo, ben se ne guarderanno a fronte di tentativi già esperiti infruttuosamente.
150 Così, ad esempio, per LIBERTINI, M., Prime riflessioni sull’azione inibitoria dell’uso di

clausole vessatorie (art. 1469-sexies c.c.), cit., p. 567. Negando, infatti, la configurazione del-
l’oggetto dell’accertamento in termini di rapporti bi- o pluri-soggettivi intercorrenti tra i sog-
getti divenuti parte del processo, la natura dell’attività giurisdizionale svolta ha evidente-
mente implicato – quantomeno parzialmente – il superamento della problematica relativa alla
perimetrazione soggettiva degli effetti della sentenza.
151 È evidentemente la teoria avanzata da FABBRINI, G., Contributo alla dottrina dell’in-

tervento adesivo, 1964, p. 183 ss., su cui v. le riflessioni svolte retro, nel capitolo VI, spec. nota
159, richiamata in particolare da Tarzia e Giussani, nei lavori poc’anzi citati.
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 831

valorizzazione dei tratti ontologici generalmente attribuiti all’interesse


collettivo. Argomentando, infatti, tanto dall’inappropriabilità degli inte-
ressi collettivi tutelati, ovvero dal loro non essere «propri» nemmeno dei
soggetti legittimati ad agire, si è sostenuta – come già visto – la non ri-
conducibilità di detti interessi alle nozioni di diritto soggettivo e per que-
sta via si è giunti ad escludere le azioni collettive dalle garanzie costitu-
zionali previste dall’art. 24 della Costituzione, con particolare riferimento
al diritto di azione/difesa sub specie di limitazione degli effetti della sen-
tenza ai soggetti divenuti parte del processo152.
Sul fronte opposto alle posizioni sinora esaminate si sono invece col-
locate le diverse voci che hanno preferito adottare soluzioni tecniche ca-
paci di garantire la massima libertà di agire con pieno rispetto del prin-
cipio di relatività del giudicato; e ciò tanto in riferimento al concorso tra
legittimazioni rappresentative153, quanto in riferimento al concorso tra
l’azione degli enti esponenziali e le azioni riconosciute ai singoli consu-
matori154; mentre lo schema teorico-dogmatico privilegiato entro cui in-

152 Così, GIUSSANI, A., La tutela di interessi collettivi nella nuova disciplina dei diritti dei

consumatori, cit., p. 1062-1063, in relazione all’art. 3 della l. 281/98 e prendendo spunto dalla
posizione espressa da MONTESANO, L., Tutela giurisdizionale dei diritti dei consumatori e dei
concessionari di servizi di pubblica utilità nelle normative sulle clausole abusive e sulle autorità
di regolazione, cit., spec. p. 10-11, in riferimento all’azione ex art. 1469 sexies c.c.
153 In relazione all’inibitoria in materia di clausole abusive: v. CONSOLO, C., in CONSOLO,

C. - DE CRISTOFARO, M., Clausole abusive e processo, p. 481 ss.; FERRI, C., L’azione inibitoria
prevista dall’art. 1469-sexies c.c., cit., p. 941 s.; FRIGNANI, A., L’azione inibitoria contro le clau-
sole vessatorie (considerazioni «fuori dal coro» di un civilista), cit., p. 1011; GIUSSANI, A., Con-
siderazioni sull’art. 1469 sexies c.c., cit., spec. p. 335, ma v. anche le precisazioni alla nota 42;
LAPERTOSA, F., Profili processuali della disciplina delle clausole vessatorie nei contratti con il
consumatore, cit., p. 725; CAPOBIANCO, E., Contrattazione bancaria e tutela dei consumatori,
cit., p. 217; PETRILLO, C., L’azione inibitoria a tutela dei consumatori ed utenti ex art. 1469
sexies c.c., cit., p. 167; PUNZI, C., La tutela giurisdizionale degli interessi diffusi e degli interessi
collettivi, cit., p. 31 e 40; CHIARLONI, S., Appunti sulle tecniche di tutela collettiva dei consu-
matori, cit., p. 393; MINERVINI, E., La tutela collettiva dei consumatori in materia contrattuale,
cit., p. 535.
154 Come si è dice nel testo il pieno rispetto del principio di relatività del giudicato ha

trovato riconoscimento anche in materia di inibitoria generale nei rapporti tra l’azione del-
l’ente esponenziale e l’azione del singolo consumatore, ma non sempre questa ricostruzione si
è collocata in un modello costruito attorno all’effettivo concorso di legittimazioni, quanto,
piuttosto, in un modello fondato sulla piena autonomia dei rimedi collettivi rispetto a quelli
individuali, astretti eventualmente da tenuti vincoli di connessione impropria. Acquisendo
come criterio di classificazione la mera negazione di possibili fenomeni di estensione del giu-
dicato emesso in sede collettiva nei confronti dei singoli consumatori, si tengano presenti i
contributi che seguono: GIUSSANI, A., La tutela di interessi collettivi nella nuova disciplina dei
diritti dei consumatori, cit., p. 1062; CARRATTA, A., Brevi osservazioni sull’inibitoria a tutela di
832 CAPITOLO DECIMO

corniciare il regime ora indicato è risultato – come è naturale – il con-


corso soggettivo di azioni di conio liebmaniano155.
La divaricazione impressa al dibattito da questi due opposti orienta-
menti ha peraltro trovato un condivisibile punto di compromesso nel re-
gime di giudicato secundum eventum litis; il quale è stato oggetto di ri-
chiamo sia in riferimento ai possibili vincoli proiettati nei giudizi indivi-
duali dal giudicato vertente sulla dichiarazione di abusività della clausola
generale156, sia in riferimento all’inibitoria in materia di interessi collettivi

consumatori e utenti, cit., spec. p. 137, nonché quanto riportato retro, alla nota 99); PUNZI, C.,
La tutela giurisdizionale degli interessi diffusi e degli interessi collettivi, cit., p. 40; GIUSSANI,
A., I torti della Fiat verso i consumatori: la giustizia civile richiama le Dedra difettose, cit., p.
82; MINERVINI, E., La tutela collettiva dei consumatori in materia contrattuale, cit., p. 533. Cfr.
anche EVANGELISTA, S., Le nuove frontiere della tutela dei consumatori e degli utenti: qualche
considerazione a margine di un recente provvedimento, in Gazzetta giuridica, 1998, p. 34 ss.,
ma spec., p. 37; MINERVINI, E., La tutela collettiva dei consumatori in materia contrattuale, cit.,
p. 505 ss.; ID., I contratti dei consumatori e la l. 30 luglio 1998 n. 281, cit., p. 944; CAMERO, R.
- DELLA VALLE, S., La nuova disciplina dei diritti del consumatore, cit., p. 184 ss., ma spec. p.
186; CHINÈ, G., Legittimazione ad agire (art. 3), cit., p. 57; CARRATTA, A., Brevi osservazioni
sull’inibitoria a tutela di consumatori e utenti, cit., p. 137 PETRILLO, C., L’azione inibitoria a tu-
tela dei consumatori ed utenti ex art. 1469 sexies c.c., cit., p. 171.
155 Sul concorso soggettivo di azioni, v. le note pagine di LIEBMAN, E.T., Azioni concor-

renti (1935) e Pluralità di legittimati all’impugnazione di un unico atto (1937), saggi ripubbli-
cati in Problemi del processo civile, Napoli, 1962, p. 54 ss e 64 ss.; su cui, peraltro, v. le rifles-
sioni svolte retro, cap. VI, nota 104.
156 TOMMASEO, F., Art. 1469-sexies, cit., p. 785 ss., ma spec. p. 788 ss. V. anche BELLELLI,

A., Art. 1469-sexies, Azione inibitoria, I, La tutela inibitoria, cit., p. 1272; cui adde, più di re-
cente, CHIARLONI, S., Appunti sulle tecniche di tutela collettiva dei consumatori, cit., p. 397; ID.,
Per la chiarezza di idee in tema di tutele collettive dei consumatori, cit., p. 575; MARINUCCI, E.,
Azioni collettive e azioni inibitorie da parte delle associazioni dei consumatori, cit., p. 158 ss.;
MARENGO, R., Garanzie processuali e tutela dei consumatori, cit., p. 152 s. Al risultato pratico di
vincolare il singolo unicamente al giudicato collettivo favorevole, giunge anche LAPERTOSA, F.,
Profili processuali della disciplina delle clausole vessatorie nei contratti con il consumatore, cit.,
p. 724 ss., ma percorrendo un itinerario dimostrativo assai opinabile: si sostiene, infatti, che
l’associazione nella sostanza rappresenti l’intera categoria e che dunque i consumatori siano
terzi solo in senso formale, ma parti in senso sostanziale (cfr. similmente Armone). Da ciò la
sentenza contenente l’ordine di non usare le clausole di riconosciuta abusività investirebbe i
consumatori nella loro veste di parti e non per estensione. Peraltro, avendo la sentenza ad og-
getto l’ordine di inibizione, in caso di rigetto, proprio il non aver ottenuto la pronuncia del-
l’ordine di inibizione, impedirebbe che la sentenza produca effetto nei confronti dei consu-
matori. In realtà la prospettiva in cui si muove l’A. è fuorviante. Il punto è verificare se il con-
sumatore possa giovarsi in sede di giudizio individuale, non dell’ordine inibitorio, ma
della dichiarazione di abusività e ciò appunto al fine di far dichiarare inefficace la clausola in-
serita nel contratto. Che il consumatore possa giovarsi del giudicato sull’obbligo di astenersi
dall’impiego della clausola poco importa se ciò non si traduce in termini di inefficacia della
clausola all’interno del regolamento contrattuale oggetto del giudizio individuale. Ancora a fa-
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 833

dei consumatori ora disciplinata dall’art. 140 del codice del consumo157.
Dal nostro punto di vista, dunque, come già visto su un piano di rifles-
sione generale, è questa l’opzione relativamente preferibile in termini di
scelte di valore. Tale regime degli effetti innalza il tasso di effettività del
rimedio processuale esercitato, favorisce l’economia dei giudizi, evita in-
giustificate compressioni del diritto di azione dei diversi legittimati e,
adiuvato dall’opportuno impiego di strumenti processuali, quali la chia-
mata in causa del terzo su domanda di parte o iussu iudicis, può impedire
un eccessivo inasprirsi della posizione processuale del preteso autore del-
l’illecito158.

vore del giudicato secundum eventum litis, v. TULLIO, A., Il contratto per adesione, Milano,
1997, p. 197 s.
157 PAGNI, I., Tutela individuale e tutela collettiva nella nuova disciplina dei diritti dei

consumatori e degli utenti (Prime riflessioni sull’art. 3, l. 30.7.1998, n. 281), cit., p. 164 ss.; BE-
NUCCI, S., La disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, cit., p. 185 s.; ODORISIO, E., La
tutela giurisdizionale dei diritti dei consumatori e degli utenti: concorso di azioni e «giusto pro-
cesso» civile, cit., p. 491 ss. Similmente BELLELLI, A., Art. 1469-sexies, Azione inibitoria, I, La
tutela inibitoria, cit., p. 1271.
158 La questione è stata trattata retro, al cap. VI, allorché abbiamo esaminato il pro-

blema dei limiti soggettivi del giudicato in una prospettiva generale. Per quel che riguarda il
tema tutela dei consumatori, se, da un lato, ovvero in riferimento alla specifico punto dell’e-
stensione o meno degli effetti del giudicato, il dibattito scientifico si è sovente diviso tra effi-
cacia erga omnes del giudicato e principio di relatività dello stesso, dall’altro, la dottrina ha
invitato all’impiego di tutti gli strumenti processuali che fossero in grado di rendere più ela-
stica la disciplina processuale e di contemperare al meglio i diversi valori in gioco. Gli stru-
menti tecnici impiegati sono stati appunto: a) la chiamata in causa su istanza di parte o per
ordine del giudice (all’interno di cornici ricostruttive pur diverse, in relazione ai collegittimati
collettivi ex art. 1469 sexies c.c., cfr. ad es. TARZIA, G., La tutela inibitoria contro le clausole
vessatorie, cit., p. 638; contra, MONTESANO, L., Tutela giurisdizionale dei diritti dei consumatori
e dei concessionari di servizi di pubblica utilità nelle normative sulle clausole abusive e sulle au-
torità di regolazione, cit., spec. p. 8-9; in riferimento, invece, ai colegittimati ex art. 3 l. 281/98
e ai singoli consumatori ed utenti, PAGNI, I., Tutela individuale e tutela collettiva nella nuova
disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti (Prime riflessioni sull’art. 3, l. 30.7.1998, n.
281), cit., p. 169 e 181; BENUCCI, S., La disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, cit.,
p. 186 s.; ODORISIO, E., La tutela giurisdizionale dei diritti dei consumatori e degli utenti: con-
corso di azioni e «giusto processo» civile, cit., 504; così, anche CARRATTA, A., Brevi osservazioni
sull’inibitoria a tutela di consumatori e utenti, cit., p. 131, allorché si ritenesse estendere il giu-
dicato alle altre associazioni legittimate); b) la notificazione per pubblici proclami (MONTE-
SANO, L., Tutela giurisdizionale dei diritti dei consumatori e dei concessionari di servizi di pub-
blica utilità nelle normative sulle clausole abusive e sulle autorità di regolazione, cit., p. 11, per
ciò che riguarda la chiamata in causa dei soggetti legittimati non facilmente identificabili;
CARRATTA, A., Brevi osservazioni sull’inibitoria a tutela di consumatori e utenti, cit., p. 131; in
relazione alla chiamata in causa dei singoli consumatori ed utenti, v. PAGNI, I., Tutela indivi-
duale e tutela collettiva nella nuova disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti (Prime
riflessioni sull’art. 3, l. 30.7.1998, n. 281), cit., p. 181; ODORISIO, E., La tutela giurisdizionale
dei diritti dei consumatori e degli utenti: concorso di azioni e «giusto processo» civile, cit., 504)
834 CAPITOLO DECIMO

Sul piano della sua armonizzabilità col sistema positivo, invece, è


stato sostenuto che tale regime possa trovare fondamento nel richiamo
della disciplina prevista in materia di obbligazioni indivisibili, o anche
che derivi dal semplice rispetto del principio costituzionale d’inviolabi-
lità del diritto di difesa; l’art. 24 Cost., in altri termini, acquisterebbe il
ruolo di filtro protettivo a vantaggio dei terzi coinvolti dall’efficacia della
sentenza159.

o secondo le forme ordinate dal giudice (in questo senso, v. TARZIA, G., La tutela inibitoria
contro le clausole vessatorie, cit., p. 638, che in relazione all’art. 1469 sexies c.c., ha ritenuto
applicabile l’art. 151 c.p.c. anziché l’art. 150 c.p.c. per la mancanza di una espressa disposi-
zione di legge che per il rimedio in esame preveda il ricorso alla notificazione per pubblici
proclami); forme di notificazione, peraltro, riferite – a seconda delle diverse prospettive – al-
l’atto introduttivo o all’atto di chiamata in causa (cfr. ancora TARZIA, G., La tutela inibitoria
contro le clausole vessatorie, cit., p. 638, che proprio per il riferirsi non alla chiamata in causa
del terzo, ma alla pubblicità dell’atto introduttivo, evidenzia la problematicità dell’impiego
dello strumento per l’esser rivolta la notificazione ex art. 151 c.p.c., non a rendere nota la ci-
tazione ai destinatari della domanda, ma unicamente a rendere nota la pendenza del processo
a coloro che desiderino intervenire nello stesso); c) l’applicazione delle regole proprie del li-
tisconsorzio unitario (in relazione all’intervento volontario del colegittimato ex art. 1469
sexies c.c., v. ancora, TARZIA, G., La tutela inibitoria contro le clausole vessatorie, cit., p. 638,
che appunto richiama la nozione, come visto, di azione unica plurisoggettiva; contra, le tesi
favorevoli al concorso soggettivo di azioni: cfr., ad es. GIUSSANI, A., Considerazioni sull’art.
1469 sexies c.c., cit., p. 337; in materia di concorso tra azione collettiva e azione individuale,
la tesi in esame è stata proposta, come agevolmente si comprenderà, dalle posizioni favorevoli
ad ammettere una contitolarità della situazione soggettiva tutelata in capo alle associazioni e
ai consumatori, v., infatti, in relazione al giudizio collettivo ora previsto dall’art. 140 c. cons.,
PAGNI, I., Tutela individuale e tutela collettiva nella nuova disciplina dei diritti dei consumatori
e degli utenti (Prime riflessioni sull’art. 3, l. 30.7.1998, n. 281), cit., p. 169 e 181; sempre in re-
lazione al rapporto tra azione collettiva ed azione individuale, invece, detta soluzione è stata
evidentemente esclusa da coloro che riducono al minimo gli elementi di oggettiva interfe-
renza tra i giudizi e che, negando la possibile identità tra le due azioni di causa petendi e pe-
titum, ravvedono tra i giudizi unicamente la sussistenza di un tenue vincolo di connessione
oggettiva impropria: cfr. GIUSSANI, A., Considerazioni sull’art. 1469 sexies c.c., cit., p. 337,
mentre, in riferimento all’azione ex art. 140 c. cons., basti vedere le opinioni riportate retro,
nota 154); d) il ricorso al rimedio a carattere successivo previsto dall’art. 404 c.p.c. (in rela-
zione ai colegittimati collettivi ex art. 1469 sexies c.c., v. MONTESANO, L., Tutela giurisdizionale
dei diritti dei consumatori e dei concessionari di servizi di pubblica utilità nelle normative sulle
clausole abusive e sulle autorità di regolazione, cit., p. 8, che ammette l’esercizio dell’opposi-
zione ordinaria; cfr. anche CARRATTA, A., Brevi osservazioni sull’inibitoria a tutela di consuma-
tori e utenti, cit., p. 131, in riferimento all’opposizione ex art. 404, comma 2, c.p.c.; MARI-
NUCCI, E., Azioni collettive e azioni inibitorie da parte delle associazioni dei consumatori, cit.,
p. 152).
159 In questo senso, v. in particolare TOMMASEO, F., Art. 1469-sexies, cit., p. 785 ss., ma

spec. p. 788 ss., in cui con estrema chiarezza è evidenziata la priorità del valore relativo al ri-
spetto del diritto di difesa rispetto al valore costituito dal garantire, con l’estensione ultra par-
tes degli effetti, il risultato del processo e l’autorità della sentenza. Cfr. anche ODORISIO, E.,
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 835

Il discorso, però, impone precisazioni ulteriori che tengano conto


delle specificità che appartengono ai diversi rimedi. La complessità degli
strumenti giuridici ora in esame impone, infatti, di tenere separata la ri-
flessione sugli effetti di accertamento relativi all’ordine inibitorio in sé
per sé considerato, dal possibile accertamento che, ovviamente a seconda
delle concezioni, potrebbe coinvolgere l’abusività della clausola generale,
se non anche l’illecito da porre a premessa dell’ordine inibitorio stesso.
Iniziando dalle questioni relativamente più piane e riprendendo
quanto già detto in sede di riflessione generale, a nostro giudizio meri-
tano adesione le tesi che nel provvedimento inibitorio rinvengono quale
suo contenuto l’accertamento di obblighi negativi e continuativi reiteran-
doli in forma specificativa; non condividiamo, al contrario, le posizioni
che, accentuando quest’ultimo profilo, riconducono il rimedio alla tutela
costitutiva; orientamento – quest’ultimo – che peraltro ha avuto buon
successo proprio in materia di tutela dei consumatori e sul quale ci tro-
veremo a riflettere tra breve.
Se quindi si accoglie quale preferibile premessa del discorso l’inqua-
dramento ora richiamato, allora l’applicabilità del regime del giudicato
secundum eventum litis discende pianamente dal coordinato disposto de-
gli artt. 1306, 1316 e 1307 c.c., senza dover ricorrere all’applicazione di-
retta di filtri di derivazione costituzionale che depurino l’estendersi del-
l’accertamento ultra partes degli effetti sfavorevoli160.
Come già visto, infatti, a nostro giudizio dalle disposizioni del co-
dice civile ora richiamate è dato trarre il principio generale secondo cui
l’accertamento di un unico effetto giuridico posto sul piano sostanziale a
tutela di più interessi, può esser fatto valere dai titolari degli stessi nei

La tutela giurisdizionale dei diritti dei consumatori e degli utenti: concorso di azioni e «giusto
processo» civile, cit., p. 506, che rinvia alle posizione di Attardi e Menchini, su cui, v. retro,
cap. VI, nota 154.
160 Sul punto, la dottrina (MARINUCCI, E., Azioni collettive e azioni inibitorie da parte

delle associazioni dei consumatori, cit., p. 158 ss.) ha rimarcato come il richiamo del principio
del giudicato secundum eventum litis in relazione alla tutela degli interessi collettivi dei con-
sumatori ed in particolare in relazione all’art. 1469 sexies c.c. e all’art. 3 della l. 281/98, debba
essere operato procedendo dall’art. 1306 c.c. in via analogica piuttosto che diretta e ciò pro-
prio in relazione alla difficoltà di concepire – diversamente ad es. da quanto sostenuto da Pa-
gni – una posizione di contitolarità della situazione giuridica soggettiva. A nostro modo di ve-
dere, peraltro, per ciò che attiene agli effetti di accertamento relativi all’obbligo di astensione
reiterato in via di inibitoria, senza dover concepire posizioni di contitolarità di situazioni giu-
ridiche soggettive a noi non gradite dal punto di vista teorico, la disciplina prevista dal c.c.
per le obbligazioni solidali riceve di certo applicazione diretta, mentre ciò non accade – come
vedremo tra breve – in riferimento all’accertamento dell’abusività della clausola generale;
problematica sulla quale ora incide la disciplina del nuovo art. 140 bis c. cons.
836 CAPITOLO DECIMO

giudizi che li coinvolgono senza peraltro che questi siano vincolati al-
l’esito negativo del giudizio originario se non vi hanno preso parte161.
Ciò vale, quindi, tanto per l’accertamento dell’obbligo dell’impren-
ditore di astenersi dall’impiego di una certa clausola generale, quanto per
l’accertamento di altri e diversi obblighi negativi che siano fatti valere in
via inibitoria a fronte di condotte lesive degli interessi collettivi dei con-
sumatori ai sensi dell’art. 140 del codice del consumo.

3.2.3.6. Il problema dei rapporti tra giudicato collettivo e giudizi indi-


viduali sugli effetti conseguenti. – Discorso più articolato, invece, occorre
svolgere in riferimento agli effetti che il giudizio inibitorio può proiettare
verso i giudizi individuali che abbiano ad oggetto effetti giuridici nati in
conseguenza dell’illecito o in cui possa rilevare la clausola abusiva che ha
giustificato l’ordine giudiziale di astensione.
Le due questioni ora richiamate sollevano in parte problematiche si-
milari, ma la riflessione scientifica è stata attratta ben più dalla seconda
che dalla prima.
L’estensione degli effetti della dichiarazione di vessatorietà della
clausola generale sino all’interno dei giudizi concernenti i rapporti con-
trattuali conclusi tra imprenditore e singolo consumatore è apparsa a
molti – per diverse ragioni – non plausibile162.

161 Cfr. retro, cap. VI, § 5.4.2. ss. Ciò però non sta a significare la nostra adesione alla
lettura avanzata in dottrina tendente a rinvenire in capo alle associazioni rappresentative e ai
singoli consumatori una situazione giuridica sostanziale unica che abbia come oggetto un
bene di natura immateriale (cfr. ad es. PAGNI, I., Tutela individuale e tutela collettiva nella
nuova disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, cit., p. 164 ss.; BELLELLI, A., Art.
1469-sexies, Azione inibitoria, I, La tutela inibitoria, cit., p. 1271). Una tesi simile l’abbiamo
ritrovata, mutatis mutandis in materia di tutela ambientale (cfr. retro, al cap. IX, § 3.4.3., la
posizione di Maddalena), ma, se in tale sede non ci ha persuaso, lo stesso vale con riferimento
alla tutela dei consumatori. Le ragioni che ci inducono a criticare tale impostazione sono, pe-
raltro, di impronta teorico-generale, ovvero la convinzione che non sia plausibile concepire
situazioni giuridiche soggettive attive da attribuire in contitolarità a più soggetti (cfr. retro,
cap. VI, spec. nota 159), e ciò poiché sul piano strutturale l’essenzialità della figura dell’ob-
bligo esclude il ricorso ad entificazioni di vario genere (diritto soggettivo o affini situazioni
giuridiche soggettive attive) da attribuire in titolarità a soggetti di diritto.
162 Cfr. DANOVI, F., L’azione inibitoria in materia di clausole vessatorie, cit., p. 1071 ss.;

FERRI, C., L’azione inibitoria prevista dall’art. 1469-sexies c.c., cit., p. 939 ss.; CONSOLO, C., in
CONSOLO, C. - DE CRISTOFARO, M., Clausole abusive e processo, p. 482-483; FRIGNANI, A., L’a-
zione inibitoria contro le clausole vessatorie (considerazioni «fuori dal coro» di un civilista), cit.,
p. 1014; GIUSSANI, A., Considerazioni sull’art. 1469 sexies c.c., cit., p. 337 ss.; MORETTI, C.,
Note in tema di efficacia soggettiva dell’azione inibitoria prevista dall’art. 1469 sexies c.c., cit.,
p. 891; ROMAGNOLI, G., Clausole vessatorie e contratti d’impresa, cit., p. 106; TARZIA, G., La tu-
tela inibitoria contro le clausole vessatorie, cit., p. 642 ss.; CAPOBIANCO, E., Contrattazione ban-
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 837

Un certo peso – anche qui – l’ha svolto il principio di relatività della


cosa giudicata, ma maggior incidenza hanno avuto altre considerazioni
interpretative: da un lato, l’inidoneità della questione indicata a ricevere
un’accertamento idoneo al passaggio in giudicato e, dall’altro, la man-
canza della necessaria relatio intercorrente tra giudizio collettivo e giudi-
zio individuale. Non solo, infatti, sono apparsi diversi i criteri di valuta-
zione alla luce dei quali condurre il sindacato sulla clausola nei due di-
stinti giudizi (all’interno di una prospettiva generale ed oggettiva, nel
primo, o concretamente calato all’interno di una specifica vicenda con-
trattuale, nel secondo) ma anche gli stessi elementi oggettivi del thema
decidendum (l’obbligo di astensione dall’impiego della clausola generale
a fronte dell’inefficacia – ora nullità – della stessa)163.
Seguendo questa strada, peraltro, il tasso di effettività del rimedio –
in origine privo di misure coercitive poste a supporto dell’ordine inibito-
rio – era palesemente modesto, sicché parte della dottrina ha perseguito
l’auspicato obiettivo di consentire che i singoli potessero in qualche
modo giovarsi degli effetti della sentenza collettiva, non tanto con il ri-
corso all’estensione ultra partes dell’accertamento compiuto nel giudizio
collettivo, quanto – piuttosto – facendo perno sulla natura costitutiva at-
tribuita alla sentenza inibitoria.
L’orientamento appena indicato ha dato origine a diverse varianti,
ma in primo luogo va ricordata la lettura avanzata dalla dottrina tradizio-
nalmente favorevole all’opzione teorico-dogmatica or ora indicata164, se-

caria e tutela dei consumatori, cit., p. 212 s.; SAPIO, G., L’inibitoria ex art. 1469-sexies c.c. tra
problemi risolti e questioni ancora aperte, in Giust. civ., 2000, I, p. 254 ss.; CARRATTA, A., Brevi
osservazioni sull’inibitoria a tutela di consumatori e utenti, cit., p. 137; PETRILLO, C., L’azione
inibitoria a tutela dei consumatori ed utenti ex art. 1469 sexies c.c., cit., p. 170; PUNZI, C., La
tutela giurisdizionale degli interessi diffusi e degli interessi collettivi, cit., p. 31; MINERVINI, E.,
La tutela collettiva dei consumatori in materia contrattuale, cit., p. 532 ss. Così, anche
RUFFOLO, U., Le «clausole vessatorie», «abusive», «inique» e la ricodificazione negli artt. 1469-
bis-1469-sexies c.c., cit., p. 124 ss., che però ritiene possibile da parte del consumatore far va-
lere in giudizio l’inadempimento dell’obbligo di non fare imposto all’imprenditore a vantag-
gio dei singoli consumatori. Qui in sostanza la sentenza verrebbe ad assumere la veste di una
sorta di contratto a favore di terzo.
163 V. gli Autori citati alla nota che precede, ma, in particolare, v. le osservazioni di CAR-

BONARA, F., Gli interessi collettivi e diffusi e l’azione inibitoria dell’art. 1469 sexies c.c., cit.,
p. 475-476.
164 Ci riferiamo ovviamente alla tesi di Luigi Montesano sulla natura costitutiva del-

l’azione inibitoria, su cui, in particolare il saggio Problemi attuali su limiti e contenuti (anche
non patrimoniali) delle inibitorie, normali e urgenti, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1995, p. 775 ss.
Per ulteriori riferimenti e considerazioni su questa impostazione ricostruttiva, v. retro, cap.
VI, § 5.2.2.
838 CAPITOLO DECIMO

condo cui – appunto – la sentenza inibitoria-costitutiva165, non conte-


nendo l’accertamento dell’inefficacia della clausola generale, avrebbe co-
munque l’effetto di proiettare nel giudizio individuale ed in capo all’im-
prenditore i «vincoli inerenti all’inibitoria», rappresentati dall’«impropo-
nibilità di ogni […] eccezione con la quale il professionista pretenda far

165 La natura costitutiva dell’azione inibitoria e le opinioni che Montesano ha espresso


riguardo l’oggetto dell’accertamento dei processi costitutivi sembrerebbe imporre un distin-
guo tra la posizione in esame e le tesi che riguardo al rimedio collettivo sostengono l’efficacia
secundum eventum litis del giudicato. In queste, infatti, come chiaramente espresso da Tom-
maseo o da Chiarloni (cfr. infra, nota 173), l’accertamento dell’abusività della clausola gene-
rale in sede collettiva, è il presupposto fondamentale per poi poter ritenere che detto accer-
tamento possa estendersi, condizionandolo in parte qua, al giudizio individuale. L’abusività,
difatti, questione accertata in sede collettiva, rappresenterebbe parimenti, in sede individuale,
questione appartenente alla fattispecie costitutiva dell’effetto dedotto, ovvero dell’inefficacia
della clausola. Montesano, in effetti, nega che all’inibitoria collettiva consegua la dichiara-
zione di inefficacia della clausola generale, ma nulla dice circa la possibilità che l’accerta-
mento investa invece l’abusività della clausola; sicché un più preciso apprezzamento dei con-
torni dogmatici della posizione in esame può forse ottenersi coordinando le opinioni espresse
dall’A. in questione riguardo l’azione collettiva ex art. 1469 sexies c.c. con le premesse teo-
rico-dogmatiche accolte con riguardo alla natura costitutiva della sentenza inibitoria e, di
conseguenza, in riferimento alla natura e all’oggetto delle azioni e dei giudizi costitutivi. Il
tema è ovviamente di particolare complessità e in questa sede va affrontato, per così dire, solo
incidenter tantum, ma vale forse, pur in questi limiti, a chiarire l’esatto inquadramento di que-
sta autorevole dottrina. Se infatti, come osserva Montesano (in Limiti oggettivi di giudicati su
negozi invalidi, in Riv. dir. proc., 1991, p. 15 ss., ma spec. p. 19 ss.) l’oggetto dell’accertamento
non compre «il comando di attenersi ad un nuovo assetto sostanziale dei rapporti in contesa»
e nemmeno l’«effetto sostanziale modificativo» ma si riferisce all’«inadempimento o compor-
tamento antigiuridico col corrispondente diritto soggettivo», rappresentante «il presupposto
della sollecitata sanzione di modificazione sostanziale» e se dunque detto giudicato, per il
principio generale del dedotto e del deducibile, «impedisce al convenuto soccombente di
esercitare poteri […] che paralizzino o riducano l’efficienza della sanzione inflitta», allora
sembrerebbe che, nel caso in esame, oggetto di accertamento sia il diritto a che l’imprendi-
tore non predisponga la clausola abusiva, ma non l’abusività, né l’obbligo di astenersene in
futuro dall’impiego. Si ricorda, infatti, che per Montesano a monte di ogni azione costitutiva
non dovrebbe intravedersi un diritto potestativo preesistente, ma un diritto soggettivo a pre-
tendere comportamenti, la cui omissione determina la sanzione invalidante. Questo diritto
appunto dovrebbe essere oggetto di giudicato e non l’effetto costitutivo, modificativo o im-
peditivo. Se così è, dunque, i «vincoli» che secondo Montesano dovrebbero ritenersi strin-
gere il professionista nei successivi giudizi, consistenti nella paralisi delle azioni e delle ecce-
zioni tali da «far valere in giudizio contenuti contrattuali “inibiti” per abusività», derivereb-
bero non dall’accertamento in sé dell’abusività, ma dalla portata preclusiva (che colpisce
appunto il dedotto ed il deducibile) dell’accertamento. Anche in questa tesi, peraltro, l’osser-
vanza della direttiva costituzionale secondo cui nessuno può veder negati i suoi diritti da sen-
tenze emesse in giudizi in cui non si ha avuto possibilità di difendersi, ha condotto al risul-
tato di ritenere operativi nei confronti dei consumatori solo i «vincoli» derivanti dall’inibito-
ria di accoglimento e non da quella di rigetto.
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 839

valere […] contenuti contrattuali “inibiti” per abusività»166, lasciandogli


d’altra parte aperta la possibilità di ottenere la dichiarazione di efficacia
della clausola inibita – e pur inserita nel contratto – unicamente mediante
il ricorso a difese fondate su vicende e circostanze tipiche di questo167.
Altri, invece, hanno ritenuto che l’inefficacia della clausola inibita
derivi direttamente dalla pronuncia collettiva quale effetto di modifica-
zione; e ciò con il risultato di escludere che il professionista possa pro-
vare la validità della clausola sulla base delle circostanze specifiche del
singolo contratto168.
Va pur detto, peraltro, che l’impostazione dogmatica seguita dall’o-
rientamento in esame ha trovato la sua massima valorizzazione nella tesi
volta ad attribuire al provvedimento inibitorio un’efficacia propriamente
normativa, ovvero impositiva di una nuova regolamentazione di diritto
sostanziale del rapporto giuridico dedotto169. Premessa, infatti, l’inido-
neità del carattere abusivo della clausola generale a costituire questione
giuridica preliminare idonea al giudicato170, la natura normativa della
sentenza consentirebbe di coordinare il decisum pronunziato in sede ini-
bitoria con il disposto dell’art. 1418, comma 1, c.c., facendone di conse-
guenza derivare la nullità della clausola generale inserita all’interno di
specifiche pattuizioni contrattuali; e ciò in ragione dell’avvenuta viola-
zione di norma imperativa, ossia per la violazione della regola sentenziata
in sede collettiva e diretta ad imporre all’imprenditore l’obbligo di aste-
nersi dall’impiego della clausola abusiva in questione171.
166 MONTESANO, L., Tutela giurisdizionale dei diritti dei consumatori e dei concessionari

di servizi di pubblica utilità nelle normative sulle clausole abusive e sulle autorità di regolazione,
cit., spec. p. 2-3 e 5.
167 MONTESANO, L., Tutela giurisdizionale dei diritti dei consumatori e dei concessionari

di servizi di pubblica utilità nelle normative sulle clausole abusive e sulle autorità di regolazione,
cit., p. 5.
168 La tesi in esame è stata sostenuta da NICOTINA, G., Questioni processuali controverse

in materia di clausole abusive nei contratti con i consumatori, cit., p. 2223, e successivamente
sviluppata da CARBONARA, F., Gli interessi collettivi e diffusi e l’azione inibitoria dell’art. 1469
sexies c.c., cit., p. 480 ss.
169 MARINUCCI, E., Gli effetti della sentenza inibitoria prevista dall’art. 1469 sexies c.c.,

cit., p. 241 ss.; ID., Azioni collettive e azioni inibitorie da parte delle associazioni dei consuma-
tori, cit., p. 132 ss.
170 MARINUCCI, E., Gli effetti della sentenza inibitoria prevista dall’art. 1469 sexies c.c.,

cit., p. 228 ss., ritenuta mancante la natura di «minima unità strutturale», ritiene che la que-
stione dell’abusività venga ad essere oggetto, all’interno del giudizio collettivo, di mera co-
gnizione incidentale in ordine alla pronuncia dell’ordine giudiziale. Ma v. infra, nota 176, il
successivo mutamento di opinione dell’A. in discorso.
171 Posta da un lato la prospettiva teorico-dogmatica proposta, la soluzione in esame

condurrebbe, quindi, come nelle tesi favorevoli ad estendere ultra partes l’efficacia di accer-
840 CAPITOLO DECIMO

L’orientamento che, d’altra parte, sembra aver meglio inquadrato i


rapporti tra giudizio collettivo sulla clausola generale e concreti giudizi
individuali è quello che più pianamente ha riconosciuto che l’accerta-
mento dell’abusività ottenuto nel giudizio collettivo, pur non determi-
nando l’inefficacia della clausola divenuta parte di specifico contratto, ne
condizionerebbe in parte qua l’accertamento172. Si è sostenuto, infatti,
che «l’accertamento della nullità della clausola nell’ambito del giudizio
individuale dipende dall’accertamento della liceità della clausola generale
e quindi dall’accertamento contenuto nella sentenza che ha deciso il giu-
dizio collettivo»173.
Questa soluzione appare in linea di principio quella maggiormente
plausibile, specie in riferimento alla determinazione del rapporto sussi-
stente tra la materia di accertamento propria del giudizio collettivo e la
materia di accertamento che appartiene ai giudizi individuali.

tamento della sentenza collettiva, all’esito pratico di imporre un vincolo nei confronti del-
l’imprenditore e dei consumatori nei successivi giudizi individuali. Ma l’effetto della sentenza
collettiva sul giudizio individuale in questa concezione assumerebbe un regime affatto parti-
colare. Infatti, l’efficacia normativa della sentenza condurrebbe alla nullità dei singoli con-
tratti, indipendentemente dalle eventuali vicende contrattuali concrete. Non si precisa peral-
tro se tale regola si imponga come nuova norma giuridica sia in caso di esito favorevole sia in
caso di esito sfavorevole nei confronti dei consumatori. Valendo, infatti, il decisum come
nuova norma di legge e sostituendosi con la sua efficacia precettiva all’efficacia propria degli
artt. 1469 bis ss. c.c., questa si dovrebbe imporre alle parti nei loro futuri rapporti impedendo
un nuovo giudizio (concreto) sul carattere vessatorio della clausola (così, MARINUCCI, E., Gli
effetti della sentenza inibitoria prevista dall’art. 1469 sexies c.c., cit., p. 243.) non fosse altro
che per il noto principio secondo cui la legge è uguale per tutti.
172 Diverse ed autorevoli voci si sono orientate favorevolmente in questo senso. Per le

tesi proclivi a ricondurre la fattispecie in questione alla giurisdizione oggettiva, v. in partico-


lare TOMMASEO, F., Art. 1469-sexies, cit., p. 785 ss.; cui adde LIBERTINI, M., Prime riflessioni
sull’azione inibitoria dell’uso di clausole vessatorie (art. 1469-sexies c.c.), cit., p. 567. Diversa-
mente per ARMONE, G.M., Art. 1469-sexies (Azione inibitoria), cit., p. 247 ss., che, ritenendo
che l’associazione eserciti l’azione in via sostitutiva, ha sostenuto che tutti i consumatori su-
biscano gli effetti dell’accertamento come parti in senso sostanziale del giudizio. Di recente,
v. CHIARLONI, S., Appunti sulle tecniche di tutela collettiva dei consumatori, cit., p. 396; MA-
RENGO, R., Garanzie processuali e tutela dei consumatori, cit., p. 150 ss.
173 Così, TOMMASEO, F., Art. 1469-sexies, cit., p. 785; parimenti CHIARLONI, S., Appunti

sulle tecniche di tutela collettiva dei consumatori, cit., p. 396, il quale afferma che nel giudizio
sull’inefficacia della clausola rispetto alla concreta regolamentazione contrattuale, «il punto
pregiudiziale che il giudice è chiamato ad esaminare nei confronti dello stesso professionista
già convenuto e condannato nel processo collettivo è appunto l’abusività “in astratto”». Si-
milmente MARENGO, R., Garanzie processuali e tutela dei consumatori, cit., p. 152 e poi 160 s.,
che, sebbene in un primo momento parli di declaratoria di inefficacia, adombrando così
l’idea che l’accertamento dell’abusività comporti ex se la nullità della clausola in sede indivi-
duale, successivamente conferma la distinzione tra vessatorietà astratta e successivo giudizio
sulla clausola concretato dalle circostanze dello specifico rapporto contrattuale.
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 841

Meno persuasiva si dimostra, invece, la ricostruzione che si affida al


riconoscimento della natura costitutiva del provvedimento inibitorio. Tale
impostazione, infatti, ancor più nella sua estremizzazione dogmatica che
attribuisce alla regolamentazione giudiziale un’efficacia propriamente
normativa, dovrebbe in primo luogo riposare sulla dimostrazione dell’ef-
fettiva costitutività del provvedimento, ovvero sulla sua innovatività ri-
spetto alla situazione di diritto anteriore alla pronuncia. Ma questa solu-
zione non trova alcuna conferma nella legge, la quale – in materia di con-
sumatori, come altrove – vede al contrario nell’ordine inibitorio un
rimedio ordinariamente teso ad evitare che comportamenti antigiuridici si
ripetano. In altre parole l’ordine inibitorio trae il suo contenuto proprio
dall’illecito, dalla lesione, ovvero dal comportamento che era già contrario
alla regola di condotta disciplinatrice il rapporto giuridico tra le parti, sic-
ché la normatività del provvedimento è quella stessa che appartiene ad
ogni accertamento giurisdizionale ex art. 2909 c.c.; con l’unica particola-
rità che il grado di concretamento che separa la lex generalis dalla lex spe-
cialis può apparire maggiore in virtù della natura negativa e teleologica-
mente determinata degli obblighi gravanti sul soggetto passivo174.
Conformemente a quanto sostenuto nella parte centrale del nostro
lavoro175, potremmo, quindi, dire che l’ambito oggettivo che appartiene
al giudicato inibitorio si estende all’abusività della clausola, sicché l’effi-
cacia vincolante di accertamento può estendersi ultra partes consentendo
ai consumatori di avvantaggiarsene nei giudizi individuali sugli effetti
giuridici conseguenti.
Parimenti, la medesima impostazione potrebbe essere seguita anche
in riferimento all’azione collettiva inibitoria generale, ovvero – più di pre-
ciso – in riferimento all’illecito da cui trae origine l’ordine inibitorio176.

174 Cfr. ancora CHIARLONI, S., Appunti sulle tecniche di tutela collettiva dei consumatori,
cit., p. 392; e amplius retro, cap. VI, § 5.2.2.
175 Cfr. le osservazioni svolte retro, cap. VI, § 5.2.3.
176 Cfr. ancora retro, cap. VI, § 5.2.3. Se l’accertabilità autoritativa dell’abusività della

clausola generale ha attratto l’attenzione della dottrina, pochi AA. hanno approfondito il pro-
blema dell’estensione del giudicato collettivo ottenuto in sede di inibitoria generale all’illecito
posto in essere dall’imprenditore. Sul tema, v. le osservazioni di MARINUCCI, E., Azioni collet-
tive e azioni inibitorie da parte delle associazioni dei consumatori, cit., p. 149 s.: «Sappiamo
che, nell’ambito della tutela individuale, l’accertamento, per regola generale ricavabile dal-
l’art. 24 della Costituzione, può avere come oggetto diritti soggettivi, mentre solo in caso di
espressa previsione di legge, può avere come oggetto semplici situazioni giuridiche di carat-
tere prodromico, i semplici fatti (ancorché giuridicamente rilevanti) o la loro qualificazione
giuridica. Si tratta di un limite dettato probabilmente dal principio di economia dei giudizi
[…]. Orbene a me sembra che questo limite possa venire a cadere allorché una semplice si-
842 CAPITOLO DECIMO

Anche su questa questione, però, si crede che la disciplina del nuovo


art. 140 bis abbia un incidenza tale da imporre un coordinamento tra il
rimedio collettivo inibitorio ed il rimedio collettivo risarcitorio, in quanto
i due giudizi potrebbero trovare la loro origine nello stesso illecito.
È, quindi, opportuno accantonare il problema ora indicato, riservan-
done la trattazione allorquando avremo affrontato il tema della natura del
giudizio collettivo risarcitorio. Solo in quel momento, infatti, saremo in
possesso di tutti gli strumenti per affrontare con profitto la questione.

3.3. L’azione collettiva risarcitoria


3.3.1. Il nuovo art. 140 bis del codice del consumo
Come già visto addietro177, una delle questioni maggiormente com-
plesse e delicate che in questi ultimi anni la dottrina e la giurisprudenza
hanno dovuto affrontare in materia di tutela collettiva dei consumatori è
rappresentata dalla possibilità di impiegare il rimedio inibitorio previsto
dall’art. 140 del codice del consumo anche per avversare e reprimere gli
illeciti lesivi in via più o meno differenziata (o comunque individualiz-
zata) della posizione giuridica appartenente ai singoli consumatori. In al-
tri termini, ci si è più volte chiesti se il giudizio collettivo inibitorio possa
assumere i caratteri strutturali che abbiamo visto appartenere al giudizio

tuazione giuridica coinvolga interessi collettivi. La macchina giudiziaria non può sempre met-
tersi in moto per accertare un singolo fatto o una singola situazione giuridica, ma può atti-
varsi allorché quel fatto o una singola situazione giuridica coinvolgano una collettività. È ciò
mi sembra tanto più vero se si considera che, in una controversia collettiva, non è possibile
l’accertamento di un diritto soggettivo. L’accertamento di un diritto soggettivo è possibile
solo se ne è individuato il titolare: non è consentito nel nostro sistema l’accertamento di un
diritto soggettivo in capo ad un numero imprecisato di persone. […] Si può a giusto titolo so-
stenere in questo caso che l’accertamento di mere situazioni giuridiche va ammesso perché è
una forma di tutela “insostituibile”. Insomma a mio avviso la rilevanza collettiva di una si-
tuazione giuridica può far assurgere quest’ultima ad un “rango” superiore, rispetto a quello
da essa rivestito in una controversia individuale. E per tale ragione essa dovrebbe poter dive-
nire oggetto di possibile accertamento». Di pari avviso sembrerebbero MARENGO, R., Garan-
zie processuali e tutela dei consumatori, cit., p. 139; CHIARLONI, S., Per la chiarezza di idee in
tema di tutele collettive dei consumatori, cit., p. 574, secondo cui, con la concessione dell’ini-
bitoria, «l’accertamento che la sorregge viene senz’altro a costituire la “minima unità struttu-
rale” capace di costituire l’oggetto di una sentenza civile»; MENCHINI, S., Azioni seriali e tu-
tela giurisdizionale: aspetti critici e prospettive ricostruttive, in www.judicium.it; contra, CAR-
RATTA, A., Effetti del giudicato e tutela collettiva, in Le azioni collettive in Italia, a cura di C.
Belli, Milano, 2007, p. 100 ss., ma spec. p. 114, che ritiene che il vincolo imposto al giudice
del giudizio individuale relativamente all’accertamento collettivo della responsabilità dell’im-
prenditore possa urtare con il principio costituzionale previsto dall’art. 101, comma 2, Cost.
177 Cfr. retro, § 3.2.2.4.
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 843

collettivo improprio, nel quale la tutela non è volta a vantaggio di inte-


ressi collettivi in senso proprio, ma a favore di interessi individuali esclu-
sivi tutelati nella forma di diritti soggettivi al risarcimento o alla restitu-
zione di somme di denaro.
Il dibattito, non sempre condotto con la necessaria chiarezza e coe-
renza sistematica, si è manifestato in termini non solo estremamente con-
troversi, ma anche terribilmente problematici, poiché il negare che il
giudizio collettivo ex art. 140 possa dar luogo a pronunce di condanna al
pagamento di somme di denaro a favore dei singoli consumatori ha in-
flitto al fronte della tutela un duro colpo sul piano dell’effettività178. Lo
dimostra l’esperienza giurisprudenziale in materia179, che ha ben palesato

178 Sul piano più propriamente esegetico diversi elementi hanno indotto parte della
dottrina ad accogliere favorevolmente una prospettiva di tal fatta: non solo la disposizione se-
condo cui l’azione dell’ente esponenziale non pregiudica le azioni individuali dei consumatori
che siano danneggiati dalle medesime violazioni, ma soprattutto le direttive funzionali-assio-
logiche emergenti da più passi della normativa; direttive indiscutibilmente ispirate al princi-
pio di effettività della tutela giurisdizionale previsto dal coordinato disposto degli artt. 24,
commi 1 e 2, e 3, comma 2, Cost. Determinante è apparso anche l’obiettivo enunciato dal-
l’art. 1 del codice di «assicurare un elevato livello di tutela dei consumatori e degli utenti»; li-
vello che – forse è oramai ultroneo ricordarlo ancora – nella nostra materia impone (a causa
del disequilibrio che governa i rapporti tra professionista e consumatore) proprio l’amplia-
mento della sfera dei legittimati ad agire in ordine al rispetto degli obblighi legali imposti al-
l’imprenditore. Ma pari discorso è stato svolto anche in riferimento alla duplice dimensione
che viene ad essere assegnata ai diritti fondamentali dei consumatori, appunto tutelati «anche
in forma collettiva e associativa», o in riferimento all’ampia formula prevista dalla lett. a), del
primo comma dell’art. 140 del codice, laddove è previsto che l’ordine inibitorio sia diretto av-
verso tutti «gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti». Di
contro, altri argomenti hanno avvalorato la tesi contraria. Si pensi agli artt. 139, comma 1, e
140, comma 1, del codice del consumo, laddove l’inibitoria è riconosciuta agli enti esponen-
ziali espressamente a «tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli utenti». Se-
guendo un’impostazione interpretativa di tenore letterale si è potuto, infatti, ritenere che il
rinvio operato dallo stesso primo comma dell’art. 139 a «quanto disposto dall’art. 2», stia lì a
significare che l’azione collettiva possa essere esercitata a tutela e promozione dei valori in
tale sede proclamati solo per la tutela degli interessi collettivi in senso proprio e non per il ri-
storo degli interessi individuali pregiudicati dalla condotta antigiuridica. Nello stesso senso è
andata orientandosi la dottrina che ha ritenuto opportuno rinvenire la ratio generale dell’ini-
bitoria prevista dall’attuale art. 140 c. cons. nel secondo considerando della direttiva
98/27/CE; laddove appunto è detto che «per interessi collettivi si intendono interessi che non
comprendono la somma degli interessi di individui lesi da una violazione». Se, infatti, sulla
base di tale definizione non è dato ricavare alcun argomento a conferma dell’ontologica dif-
ferenza tra interesse collettivo ed interesse individuale, al contrario è possibile e plausibile at-
tribuire a tale formula il compito di tracciare una linea di demarcazione tra azioni propria-
mente a tutela di interessi collettivi ed azioni collettive in senso improprio, nelle quali – come
già visto – l’accertamento giudiziale provocato non investe un unico effetto, ma diversi effetti
giuridici (a seconda delle circostanze) più o meno differenziati. Dal fronte dell’analisi siste-
844 CAPITOLO DECIMO

che la tutela dell’interesse collettivo ed il ristoro degli interessi indivi-


duali esclusivi non costituiscono realtà in grado di stare ognuna per
conto proprio; e ciò per la semplice circostanza che la violazione o le vio-
lazioni dell’obbligo posto a tutela dell’interesse collettivo vanno sovente
a realizzare proprio quell’occasione di «contatto» tra l’attività imprendi-
toriale ed il singolo consumatore a cui consegue l’inevitabile differenzia-
zione delle posizioni individuali e degli obblighi derivati che vengono a
sorgere in capo alla parte professionale180.

matica gli indici di orientamento sono stati i seguenti. Se, di recente, in materia di tutela an-
tidiscriminatoria il legislatore ha concesso all’ente esponenziale legittimato ad agire per la re-
pressione degli illeciti a rilevanza collettiva anche il potere di domandare la condanna al ri-
sarcimento del danno a favore dei soggetti lesi, d’altro canto, anni di costante giurisprudenza
in materia di repressione della condotta antisindacale hanno indotto la dottrina ad accogliere
una posizione di netta chiusura al riguardo. Come visto addietro, infatti, se il concetto di si-
tuazione giuridica a rilevanza superindividuale ha consentito che in materia di giudizio ex art.
28 dello Statuto dei lavoratori si trovasse la via per tutelare il singolo lavoratore direttamente
colpito dalla condotta del datore, di contro il dibattito successivo ha in gran parte sterilizzato
le conseguenze interpretative che potevano derivare dal pieno svolgimento di tale concetto ed
infatti la ricerca della massima autonomia dell’azione sindacale rispetto al giudizio individuale
ordinario ha condotto – come visto, erroneamente – a ritenere meglio perseguibile tale obiet-
tivo praticando una radicale divaricazione degli interessi tutelati nei rispettivi giudizi, con la
conseguenza che, sebbene parte della dottrina avesse giustamente ricondotto la domanda di
condanna al pagamento delle retribuzioni dovute alla «rimozione degli effetti» prevista dalla
norma, l’orientamento giurisprudenziale andato successivamente consolidandosi ha escluso la
possibilità di addivenire a provvedimenti di questo genere, giustificando tale esito sulla base
della natura non patrimoniale degli interessi tutelati in sede di giudizio collettivo. Proprio l’e-
sperienza maturata in quest’ambito di tutela ha con buona probabilità impedito che nel
tempo si affermassero letture più convincenti sul piano teorico ed equitativo anche in altri
settori di studio e, soprattutto, che l’attenzione della dottrina fosse sviata dall’unico vero pro-
blema rimasto irrisolto sul campo. Problema che non apparteneva in realtà ai rapporti tra di-
ritto e processo, ma che al contrario concerneva la mancanza – questa sì insuperabile – di un
processo adeguato, non tanto e non solo in riferimento ai giudizi propriamente collettivi, ma
soprattutto in riferimento ai giudizi collettivi impropri, ovvero, tipicamente, alle azioni col-
lettive risarcitorie, le quali, per la particolare natura del loro oggetto, richiedono un processo
appositamente strutturato.
179 Cfr. retro, nota 121.
180 Cfr. ad es. FAZZIO, G., Tutela dell’interesse collettivo dei consumatori, cit., p. 1013,

che, in critica a T. Torino, 17 dicembre 2002, osserva: «La sentenza del Tribunale di Torino,
nel frustare l’esigenza di tutela dell’interesse collettivo, muove probabilmente dal presuppo-
sto concettuale di tenere completamente distinto l’interesse collettivo dell’associazione da
quello dei singoli consumatori clienti. Ed in realtà, se è pur vero che la configurazione dell’a-
zione collettiva in Italia non consente di qualificare l’interesse collettivo come sommatoria de-
gli interessi dei singoli, è anche vero che questa circostanza non può impedire che l’azione
collettiva incida di fatto sulle posizioni dei singoli consumatori, né può far trascurare il pro-
filo teleologico della legge che in definitiva consiste sempre e comunque nella tutela del sin-
golo consumatore quale “soggetto debole”. D’altra parte, non si vede come possa perseguirsi
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 845

Proprio in funzione dell’esigenza ora rappresentata, nonché sotto la


pressione delle note vicende finanziarie che hanno più o meno di recente
investito il popolo dei consumatori, è andata negli anni maturando la
convinzione circa la necessità di introdurre anche nel nostro ordina-
mento un rimedio risarcitorio collettivo.
Si è avviato, così, un itinerario di riforma fatto di numerose propo-
ste di legge da più parti avanzate in parlamento; itinerario che nel corso
degli anni ha sollevato in seno alla società civile un dibattito estrema-
mente intenso, animato da reazioni di ogni genere (entusiastiche, criti-
che, moderatamente favorevoli, perplesse), sovente disancorate dalla
reale dimensione tecnico-giuridica degli strumenti di tutela proposti.
L’interesse suscitato dall’argomento ha poi – come noto – investito
anche la dottrina, che, nel confrontarsi nuovamente con il tema della tu-
tela degli interessi sovraindividuali, si è profusa nel tentativo di offrire un
primo inquadramento di rimedi spesso assai differenti tra loro per ispira-
zione, soluzioni tecniche adottate e presumibile incidenza applicativa181.

l’obiettivo di tutela di un gruppo senza ammettere la produzione di fatto di risultati protettivi


nei confronti dei singoli che tale gruppo costituiscono».
181 Diversi progetti di legge sono stati avanzati sin dalla XIV legislatura: ci riferiamo al

d.d.l. S/2710, al d.d.l. S/2792, al d.d.l. C/4639, al d.d.l.d. C/4747, nonché ai d.d.l. C/3838 e
C/3839, confluiti in un testo unificato (S/3058), approvato – poi – alla Camera, che ha ispi-
rato il successivo d.d.l. C/1495 del 27 luglio 2006, presentato dal ministro Bersani di concerto
col ministro Mastella e Padoa Schioppa, intitolato Introduzione dell’azione collettiva risarcito-
ria a tutela dei consumatori. A questo si aggiungono i consimili disegni di legge C/1289,
C/1662, C/1883, S/679 nonché i più articolati e complessi C/1330, C/1443, C/1834. Per l’e-
same dei progetti ora indicati, v. CONSOLO, C., Fra nuovi riti civili e riscoperta delle «class ac-
tion», alla ricerca di una «giusta» efficienza, in Corr. giur., 2004, p. 565 ss.; ID., Una strategia
per l’efficienza giurisdizionale come base del «giusto» processo civile anche «collettivo», in Resp.
civ. prev., 2004, p. 655 ss.; COSTANTINO, G., Note sulle tecniche di tutela collettiva (disegni di
legge sulla tutela del risparmio e dei risparmiatori), in Riv. dir. proc., 2004, p. 1009 ss. (ma an-
che ID., La tutela dei risparmiatori: i nuovi orizzonti della tutela collettiva, in Società, 2005, p.
325 ss.); FAVA, P., «Class action»: «Paese che vai, usanza che trovi» (l’esperienza dei principali
ordinamenti giuridici stranieri e le proposte di legge n. 3838 e n. 3839), in Corr. giur., 2004, p.
397 ss.; CARRATTA, A., Dall’azione collettiva inibitoria a tutela di consumatori e utenti all’azione
collettiva risarcitoria: i nodi irrisolti delle proposte di legge in discussione, in Giur. it., 2005, p.
662 ss.; CHIARLONI, S., Appunti sulle tecniche di tutela collettiva dei consumatori, cit., p. 404
ss.; GIUSSANI, A., Il consumatore come parte debole nel processo civile tra esigenze di tutela e
prospettive di riforma, in Riv. trim. dir. proc., 2005, p. 525 ss.; ID., Prospettive di riforma per le
azioni collettive, in Quest. giust., 2005, p. 366 ss.; MARINUCCI, E., Azioni collettive e azioni ini-
bitorie da parte delle associazioni dei consumatori, cit., p. 159 ss.; MEZZASOMA, L., Tutela del
consumatore ed accesso alla giustizia: introduzione della «class action», in Rass. dir. civ., 2005,
p. 776 ss.; RESCIGNO, M., L’introduzione della «class action» nell’ordinamento italiano. Profili
generali, in Giur. comm., 2005, I, p. 407 ss.; CHIARLONI, S., Per la chiarezza di idee in tema di
tutele collettive dei consumatori, cit., p. 580 ss.; DE SANTIS, A.D., I disegni di legge italiani sulla
846 CAPITOLO DECIMO

Proprio il percorso di riforma ora ricordato ha – come già detto –


trovato un punto di arrivo nella legge finanziaria 2008, che ha introdotto
all’interno del codice del consumo l’art. 140 bis, rubricato Azione collet-
tiva risarcitoria182.
D’altro canto, che questo punto di arrivo possa ritenersi definitivo è
lecito dubitarlo, in quanto a fronte delle ineludibili complessità struttu-
rali del giudizio collettivo risarcitorio la disciplina proposta appare anche
ad una prima e sommaria lettura sostanzialmente inidonea a garantire un
processo adeguato per la species di tutela collettiva in questione. Gli
aspetti della nuova previsione che necessitano di chiarificazione sono, in-
fatti, estremamente numerosi e daranno luogo in breve tempo ad un’am-
pia letteratura, nonché anche – auspicabilmente – ad interventi correttivi
da parte del legislatore.
Nelle pagine che seguono soffermeremo la nostra attenzione sui
profili problematici che hanno già interessato il nostro percorso di ri-
cerca nei suoi diversi ambiti di studio, ovvero – in particolare – il regime
di legittimazione ad agire, l’oggetto del giudizio e gli effetti che a questo
conseguono.

3.3.2. L’ambito di applicazione


In posizione preliminare rispetto ad ogni altro profilo occorre in
primo luogo soffermarsi sull’ambito di applicazione del rimedio che
viene ad essere disciplinato dal primo comma dell’art. 140 bis.
Stando alla disposizione ora indicata, la controversia collettiva deve
– in primo luogo – essere riferita ai diritti al risarcimento o ai diritti alla
tutela degli interessi collettivi e il «class action fair act of 2005», in Riv. trim. dir. proc. civ.,
2006, p. 601 ss.; GIUGGIOLI, P.F., Class action e azione di gruppo, Padova, 2006; MARENGO, R.,
Garanzie processuali e tutela dei consumatori, cit., p. 168 ss.; PONCIBÒ, C., La controriforma
delle «class action», in Danno e resp., 2006, p. 124 ss.; AA.VV., Le azioni collettive in Italia,
Profili teorici ed aspetti applicativi, a cura di C. Belli, Milano, 2007; COMOGLIO, L.P., Aspetti
processuali della tutela del consumatore, cit., p. 321 ss.; GIUSSANI, A., Azioni collettive risarci-
torie nel processo civile, Bologna, 2008, p. 213 ss.
182 Tra i primi commenti sulla nuova azione collettiva risarcitoria, v. CONSOLO, C., È

legge una disposizione sull’azione collettiva risarcitoria: si è scelta la via svedese dell’«opt-in»
anziché quella danese dell’«opt-out» e il filtro («L’inutil precauzione»), in Corr. giur., 2008, p.
5 ss.; COSTANTINO, G., La tutela collettiva risarcitoria: note a prima lettura dell’art. 140 «bis»
cod. consumo, in Foro it., 2008, V, p. 17 ss.; BOVE, M., Azione collettiva: una soluzione all’ita-
liana lontana dall’esperienze più mature, in Guida dir., 2008, fasc. 4, p. 11 ss.; GIUSSANI, A.,
Azioni collettive risarcitorie nel processo civile, cit., p. 224 ss.; nonché i contributi di AMADEI,
D., L’azione di classe italiana per la tutela dei diritti individuali omogenei; BRIGUGLIO, A., Venti
domande e venti risposte sulla nuova azione collettiva risarcitoria; MENCHINI, S., La nuova
azione collettiva risarcitoria e restitutoria, tutti pubblicati su www.judicium.it.
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 847

restituzione di somme spettanti ai consumatori in ragione dei rapporti


giuridici relativi a contratti stipulati ai sensi dell’art. 1342 del codice ci-
vile, ovvero in conseguenza di atti illeciti extracontrattuali, di pratiche
commerciali scorrette o di comportamenti anticoncorrenziali.
Il rinvio agli atti illeciti extracontrattuali non sembra presentare di
per sé profili particolarmente problematici, mentre il richiamo delle pra-
tiche commerciali scorrette e dei comportamenti anticoncorrenziali deve
essere rispettivamente riferito alle previsioni contenute nel Capo III del
codice del consumo ed alla normativa antitrust nazionale e comunitaria.
La lettera della legge sembra, invece, ostacolare una tutela effettiva
degli interessi dei consumatori in ordine a quanto disposto in riferimento
alla responsabilità contrattuale, appunto invocata in relazione alle sole
pattuizioni soggette alla disciplina prevista dal codice civile ai sensi del-
l’art. 1342 c.c., ovvero ai contratti predisposti e conclusi mediante la sot-
toscrizione di moduli o formulari. Si pone, infatti, l’interrogativo se l’a-
zione collettiva risarcitoria possa essere esercitata anche a fronte alle ina-
dempienze contrattuali non riconducibili a tale disciplina. Il danno da
prodotto difettoso può a tal proposito rappresentare una significativa
ipotesi, ma si pensi anche a tutti i settori in cui l’accordo contrattuale,
pur disciplinato dalla parte forte con l’impiego di condizioni generali di
contratto, non trova la sua formalizzazione nelle modalità previste dal-
l’art. 1342 c.c.183.
Né tale previsione può essere intesa alla luce di una presunta volun-
tas legis tesa a limitare le controversie collettive oggetto del procedimento
al contenzioso meramente e puramente seriale184; le disposizioni che se-
guono, infatti, ed in particolare il riferimento agli atti illeciti extracontrat-
tuali, escludono letture di questo genere ed inducono ad interrogarsi se

183 Cfr., infatti, le osservazioni critiche mosse da MARENGO, R., Garanzie processuali e
tutela dei consumatori, cit., p. 173, in riferimento alle proposte di legge nn. 1330, 1443, 1834
e 1882, che appunto presentavano il riferimento ai rapporti sorti secondo le modalità pre-
scritte dall’art. 1342 c.c.; parimenti critiche sono le posizioni della dottrina intervenuta sul te-
sto di legge appena approvato: cfr. ad esempio GIUSSANI, A., Azioni collettive risarcitorie nel
processo civile, cit., p. 224 s.
184 In questo senso, v. però BRIGUGLIO, A., Venti domande e venti risposte sulla nuova

azione collettiva risarcitoria, cit., § 2. A parer nostro, di contro, all’interno della disciplina pre-
vista dal nuovo art. 140 bis la disposizione a cui può essere attribuito il compito di escludere
che ricevano trattazione e decisione collettiva controversie che presentano questioni differen-
ziate e personali che rendono inagevole questa forma di tutela è di certo quella prevista dal
comma 3 dello stesso articolo. Ci riferiamo al vaglio preliminare di ammissibilità dell’azione
da doversi condurre anche alla luce della sussistenza di un interesse collettivo suscettibile di
ricevere adeguata tutela con l’azione collettiva risarcitoria. Sul punto, v. infra, § 3.3.4.5.
848 CAPITOLO DECIMO

l’elencazione delle fattispecie previste dal primo comma dell’art. 140 bis
debbano essere interpretate in senso restrittivo o viceversa estensivo.
Proprio questa seconda opzione sembra dover essere privilegiata
non solo alla luce di un’opportuna interpretazione secundum costitutio-
nem, ma anche muovendosi all’interno dei principi che informano il co-
dice del consumo, il quale – lo si ricorda – sin dall’art. 1 si proclama
volto ad «assicurare un elevato livello di tutela dei consumatori e degli
utenti» (tra l’altro, «nel rispetto della Costituzione»). Decisivo è poi
quanto disposto dall’art. 2, laddove sono garantiti in forma individuale e
collettiva i diritti fondamentali dei consumatori con i contenuti addietro
già indicati (tutela della salute, sicurezza e qualità dei prodotti, ecc.).
La soluzione contraria a quella qui prospettata, insomma, porrebbe
in stridente contraddizione il rimedio collettivo risarcitorio rispetto al
quadro normativo apprestato dal codice del consumo nel suo complesso.
Deve a nostro parere escludersi, di contro, che il rimedio risarcito-
rio collettivo possa essere impiegato per la repressione degli illeciti plu-
rioffensivi a carattere ambientale.
Come visto nel capitolo che precede, l’attuale disciplina prevista dal
c.d. codice dell’ambiente ed in particolare la coesistenza-contrapposi-
zione – ivi delineata – tra azione risarcitoria pubblica e rimedi a base in-
dividuale, induce l’interprete a rivalutare sul piano teorico e pratico
forme individuali di tutela quali il diritto all’ambiente salubre, nonché i
rimedi inibitori e risarcitori che da questo discendono.
Sarebbe stato, quindi, decisamente opportuno che l’azione risarcito-
ria collettiva appena introdotta fosse stata diretta anche alla tutela delle
posizioni individuali lese dall’illecito ambientale185. D’altronde, non sem-
brano sussistere adeguati spazi di manovra per poter raggiungere siffatto
risultato in via interpretativa. E ciò in ragione di valutazioni esegetiche e
sistematiche insuperabili. La collocazione del rimedio all’interno del co-
dice del consumo non autorizza, infatti, letture estensive della lettera
della legge, che, per l’appunto, nel riferirsi al «consumatore» come parte
lesa della fattispecie, rinvia inequivocabilmente a quanto previsto in
chiave generale dall’art. 3, comma 1, lett. a), del codice e più in generale
al rapporto di consumo disciplinato analiticamente dal complesso della
disciplina186.
185 L’esigenza rappresentata nel testo era stata puntualmente rilevata in dottrina: cfr.
TARUFFO, M., La tutela collettiva: interessi in gioco ed esperienze a confronto, in Le azioni
collettive in Italia, cit., p. 13 ss.
186 Così, puntualmente, BRIGUGLIO, A., Venti domande e venti risposte sulla nuova

azione collettiva risarcitoria, cit., § 2; nello stesso senso MENCHINI, S., La nuova azione collet-
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 849

Oltre a quanto detto, la norma richiede anche che l’azione venga


esercitata quando siano lesi i diritti di una «pluralità» di consumatori ed
utenti.
Sul punto c’è da dire che negli ordinamenti che contemplano rimedi
collettivi risarcitori ispirati al modello delle class actions, talora il legisla-
tore ha previsto un numero minimo di soggetti appartenenti alla classe,
talaltra ha escluso che la tutela collettiva sia condizionata a predetermi-
nati requisiti numerici187.
D’altro canto non è propriamente agevole comprendere quale sia la
strada seguita dall’art. 140 bis. L’interpretazione di tale formula, infatti,
sembra non doversi impostare su un piano meramente quantitativo, in
quanto così ragionando piuttosto arduo risulterebbe comprendere quale
precisa ampiezza debba assumere detta pluralità. Il criterio lessicale, ad
esempio, impiegato secondo l’accezione comune, indurrebbe ad immagi-
nare collettività piuttosto ampie, mentre il criterio logico, come noto,
vede nella nozione di pluralità un insieme di anche solo due (o più) con-
sumatori.
Per far chiarezza sul punto, acquista allora rilievo ciò che dispone lo
stesso comma 1° dell’art. 140 bis, ricordando che i soggetti legittimati
agiscono «a tutela degli interessi collettivi dei consumatori»; rilievo che
viene ad essere confermato dal successivo comma 3, laddove è previsto
che l’ammissibilità della domanda debba essere vagliata dal giudice an-
che in relazione all’«esistenza di un interesse collettivo suscettibile di
adeguata tutela ai sensi del presente articolo».
In che termini, infatti, deve essere inteso in questo ambito il riferi-
mento all’interesse collettivo?
Come abbiamo più volte rimarcato, il giudizio collettivo risarcitorio
è «collettivo» in senso affatto particolare, poiché esso, al contrario di
quanto tipicamente accade nei giudizi collettivi inibitori, non è volto al-
l’accertamento di effetti giuridici diretti alla tutela di interessi collettivi.
Diversamente dal giudizio collettivo in senso proprio, il giudizio collet-
tivo risarcitorio accoglie al suo interno come oggetto di accertamento
non un unico obbligo sostanziale, ma distinti obblighi a contenuto risar-
citorio generalmente accomunati dal fatto genetico da cui traggono ori-

tiva risarcitoria e restitutoria, cit., § 2, sub C; contra, AMADEI, D., L’azione di classe italiana per
la tutela dei diritti individuali omogenei, cit., § 2, secondo cui il riferimento agli «atti illeciti
extracontrattuali» previsto dal primo comma dell’art. 140 bis sarebbe idoneo a svincolare la
fattispecie deducibile in giudizio dal rapporto di consumo.
187 Per un’ampia panoramica, v. MULHERON, R., The Class Action in Common Law

Legal System, Oxford, 2004, p. 117 ss.


850 CAPITOLO DECIMO

gine. In questo contesto, dunque, il riferimento all’«esistenza di un inte-


resse collettivo suscettibile di adeguata tutela» potrebbe veramente ap-
parire privo di significato. Ciò non accade, peraltro, se si impiega tale
previsione per colorare di rilevanza sovraindividuale la dimensione del-
l’illecito.
Intendiamo dire che il riferimento congiunto alla «pluralità di con-
sumatori» e all’«esistenza di un interesse collettivo» può essere letta
come l’avvertita necessità da parte del legislatore che l’illecito possegga
un’incidenza significativa sulla specifica categoria dei consumatori deter-
minata dalla tipologia di prodotto, servizio, ecc., in relazione al quale si è
verificata la condotta antigiuridica.
Come vedremo tra breve la determinazione dell’oggetto del giudizio
collettivo rappresenta la questione più importante e controversa che la
disciplina solleva, ma la problematica ora in esame appare piuttosto iso-
lata da questa. Il legittimato collettivo, infatti, di certo non deduce in giu-
dizio tutti i diritti soggettivi appartenenti alla «classe» di consumatori
pregiudicati188, sicché in ordine al requisito richiesto dal primo comma
dell’art. 140 bis ciò che rileva è la portata lesiva diffusa che appartiene al-
l’illecito in ragione del quale si svolge il giudizio.
Ritenendo, peraltro, che il legittimato collettivo possa (e non – come
meglio vedremo – debba) promuovere il giudizio già forte di numerose
adesioni raccolte presso la classe di consumatori pregiudicati, la verifica
del requisito in questione sarà verosimilmente molto più agevole di quel
che potrebbe apparire ragionando in astratto.
Il problema potrebbe porsi in termini più delicati in relazione alla le-
gittimazione ad agire riservata – come tra breve si vedrà – anche a forma-
zioni sociali sorte ad hoc, ovvero in relazione all’illecito realizzatosi. Tipico

188 La disciplina prevista dal nuovo art. 140 bis non sembra in alcun modo prestarsi ad
una ricostruzione di tal fatta, sebbene parte della dottrina pare essersi orientata in tal senso
(cfr. infra, nota 226 la posizione di Amadei). Come vedremo nel prosieguo le due opzioni ri-
costruttive maggiormente plausibili relativamente all’oggetto del giudizio collettivo or ora in-
trodotto sono, da un lato, il ritenere che l’accertamento investa solo le questioni comuni alle
diverse pretese oppure, dall’altro, il ritenere che il legittimato attivo deduca in giudizio i di-
ritti soggettivi dei consumatori aderenti o intervenuti (salvo il profilo liquidatorio rimandato
ad una successiva fase di completamento). Non sembra – insomma – possibile sostenere che
l’azione collettiva attivi un giudizio su tutta la classe di diritti al risarcimento-restituzione.
Sono, quindi, assai lontane dall’attuale disciplina – comunque la si voglia inquadrare – forme
di tutela collettiva volte all’accertamento del danno collettivo effettivamente e complessiva-
mente prodotto (aggregate assessment). Sull’opportunità di introdurre azioni collettive ispi-
rate al modello ora indicato in ragione della loro indubbia portata deterrente, v. TARUFFO, M.,
La tutela collettiva: interessi in gioco ed esperienze a confronto, cit., p. 16-17.
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 851

è il caso dell’azione collettiva esercitata dai comitati. In tale ipotesi, il va-


glio di adeguata rappresentatività potrebbe appunto concretarsi, da un
lato, nel verificare il numero di adesioni già ottenute (questione
verosimilmente rilevante – in questa specifica ipotesi – anche sotto il pro-
filo della rappresentatività), dall’altro, come suggerito dai primi commen-
tatori, nell’adottare un criterio di valutazione simile a quello impiegato
oltreoceano ai fini dell’ammissibilità dell’azione in forma rappresentativa,
ovvero l’impossibilità di estendere il contraddittorio a tutti i soggetti coin-
volti in ragione dell’ampio numero degli stessi (numerosity)189.
Posto, infatti, che il processo litisconsortile facoltativo ex art. 103
c.p.c. rappresenta la via processuale alternativa al giudizio collettivo ri-
sarcitorio190 e premesso ancora che il meccanismo bifasico introdotto con
il nuovo art. 140 bis ha ragion d’essere – specie se ricostruito nel senso
che noi riteniamo preferibile191 – allorquando la classe di soggetti inte-
ressati raggiunga effettivamente un’ampiezza tale da massimizzare le eco-
nomie processuali complessive del rimedio, si potrebbe ritenere che il
giudice valuti come non rispondente al requisito richiesto dal primo
comma dell’art. 140 bis l’azione collettiva promossa in relazione ad una
controversia di estensione soggettiva modesta e gestibile in termini com-
parativamente più efficienti con altre forme processuali192.

3.3.3. La legittimazione ad agire


Per quel che riguarda la legittimazione ad agire in via collettiva l’art.
140 bis ha previsto un doppio regime di accesso al giudizio.

189 Cfr. AMADEI, D., L’azione di classe italiana per la tutela dei diritti individuali omoge-
nei, cit., § 2.
190 Sul punto, cfr. CARRATTA, A., Effetti del giudicato e tutela collettiva, in Le azioni col-

lettive in Italia, cit., p. 100 ss., ma spec. p. 106 ss.


191 Cfr. infra, § 3.3.4.5.
192 Si potrebbe, ad esempio, valutare se, in relazione all’ampiezza del gruppo leso dal-

l’illecito, sia comparativamente più efficiente un giudizio svolto in regime di litisconsorzio fa-
coltativo, in cui tutti i diritti al risarcimento giungono al loro definitivo e completo accerta-
mento, rispetto alla struttura bifasica del processo collettivo disciplinato dall’art. 140 bis, i cui
effetti positivi sul piano dell’economia processuale, nonché anche sul piano dell’effettività del
rimedio, si realizzano solo allorquando la collettività pregiudicata dall’illecito sia particolar-
mente ampia e magari riguardi la liquidazione di somme non particolarmente elevate. In tal
caso, infatti, il consumatore potrà vedere incrementata la sua propensione marginale all’eser-
cizio dell’azione individuale proprio in presenza di un accertamento collettivo dell’illecito e
delle questioni comuni capace di ridurre il rischio di soccombenza nel giudizio individuale,
nonché idoneo a porre il consumatore nella possibilità di avvantaggiarsi della procedura con-
ciliativa che segue il giudizio collettivo.
852 CAPITOLO DECIMO

Da una parte il legislatore ha seguito la nota via del conferimento


del potere di azione a soggetti collettivi predeterminati, cioè, nel caso di
specie, le associazioni riconosciute ai sensi dell’art. 137 del codice e già
legittimate all’esercizio dell’azione inibitoria collettiva ai sensi dell’art.
139.
Dall’altra, però, il secondo comma dell’art. 140 bis ha esteso la le-
gittimazione ad agire anche a favore di associazioni e comitati che siano
«adeguatamente rappresentativi degli interessi collettivi fatti valere».
In questo ambito di tutela sono quindi stati accolti i suggerimenti
della dottrina, la quale da tempo, traendo indicazione dalla disciplina
delle class actions statunitensi193, nonché facendo perno sui principi co-
stituzionali che riconoscono la duplice proiezione (individuale e collet-
tiva) dei diritti inviolabili dell’uomo (artt. 2, 3, secondo comma, 24,
primo comma, Cost.)194, aveva rimarcato l’opportunità di attribuire il po-
tere di azione sulla base di un sindacato giudiziale di rappresentatività
volto a verificare di volta in volta ed in concreto l’adeguatezza dell’attore
collettivo a condurre il processo.
Ciò detto in chiave assolutamente generale, i profili di approfondi-
mento rintracciabili nella disposizione in esame sono essenzialmente due.
In primo luogo va verificata la coerenza della previsione in esame con il
dettato costituzionale in punto di garanzia d’accesso alla giustizia; specie
in riferimento all’esclusione dei singoli consumatori dal novero dei legit-
timati ad agire195. In secondo luogo va ben precisata quale sia la corretta
interpretazione da attribuire al requisito dell’adeguata rappresentatività
richiesto dal comma 2 dell’art. 140 bis ai fini del riconoscimento dell’a-
zione ai soggetti ivi previsti.
Iniziando dal primo profilo, va subito detto che il dubbio prospet-
tato si scioglie piuttosto rapidamente se la questione viene ad essere im-
postata riflettendo con attenzione sui differenti profili funzional-struttu-
rali che appartengono ai giudizi collettivi inibitori rispetto a quelli risar-
citori.
193 Per approfondimenti, cfr. cap. III, spec. § 3.4.1.1. e nota 115 per i relativi riferi-
menti di dottrina. Di recente, v. anche CHIARLONI, S., Per la chiarezza di idee in tema di tutele
collettive dei consumatori, cit., p. 575, nota 9.
194 Cfr., in particolare, CARRATTA, A., Profili processuali della tutela degli interessi collet-

tivi e diffusi, in La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, a cura di L. Lanfran-
chi, Torino, 2003, p. 79 ss., ma spec. p. 126 s.
195 L’esclusione della legittimazione ad agire dei singoli consumatori operata dai pro-

getti di legge che hanno anticipato l’attuale disciplina è stata oggetto di critica da parte della
dottrina: cfr. ad es. MARENGO, R., Garanzie processuali e tutela dei consumatori, cit., p. 170 s.
ma v. anche l’opinione di Carratta, esaminata infra, nota 198.
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 853

Non vogliamo ripeterci, ma nei primi l’effetto giuridico accertato è


un unico obbligo sostanziale la cui osservanza soddisfa contestualmente
l’interesse collettivo in senso proprio, locutio brevis per indicare l’insieme
di interessi individuali compatibili concorrenti dei membri della colletti-
vità, nei secondi, invece, l’accertamento cade su più obblighi sostanziali,
distinti nel loro contenuto e indirizzati – ciascuno – a tutelare un auto-
nomo interesse individuale esclusivo. Per capirci si potrebbe dire che nel
primo caso abbiamo a che fare con un diritto che è di tutti, mentre nel
secondo abbiamo tanti diritti spettanti separatamente ed autonomamente
a ciascun consumatore196.
Se questa impostazione è corretta, costituisce una conseguenza lo-
gica e coerente che il regime di legittimazione ad agire venga trattato e ri-
solto sul piano normativo in maniera differente.
Nei giudizi collettivi inibitori, infatti, i caratteri strutturali e funzio-
nali del procedimento, al di là dell’efficacia che si voglia attribuire alla
sentenza, richiedono sul piano logico-ricostruttivo ed in ordine al ri-
spetto dei principi costituzionali in punto di libertà e diritto di agire in
giudizio una legittimazione riservata in via ordinaria ai singoli consuma-
tori e in via straordinaria a soggetti collettivi che perseguono in via isti-
tuzionale la tutela degli interessi lesi.
Nei giudizi collettivi risarcitori, invece, la legittimazione ad agire del
singolo ha tutt’altro significato. Riguardo, infatti, al diritto al risarcimento
subito, il singolo consumatore è senz’altro legittimato ad agire ed il pro-
blema si pone in riferimento alla possibilità di consentirgli di esercitare in
giudizio anche i diritti al risarcimento spettanti agli altri consumatori pre-
giudicati. Il negare questa opzione, quindi, non ha il rilievo che al contra-
rio avrebbe il negare al singolo la possibilità di chiedere l’inibitoria di
comportamenti lesivi dell’interesse collettivo, in quanto in questa seconda
ipotesi non tanto si esclude la legittimazione ad agire in via collettiva,
quanto la stessa elementare possibilità di attivare la tutela giurisdizionale
di un interesse che è (anche) suo. In termini più stringati: se si nega al sin-
golo consumatore la possibilità di richiedere l’inibitoria dei comporta-
menti lesivi degli interessi collettivi si pone il singolo nella condizione di
attendere che un terzo (l’associazione) si muova per difendere un inte-
resse che gli appartiene. Se il terzo non si attiva non c’è tutela197. Questo
problema non si pone in alcun modo in riferimento alla tutela collettiva
risarcitoria, in cui al singolo consumatore spetta sempre l’azione ordinaria
di cognizione per la tutela del proprio diritto al risarcimento.
196 Cfr. retro, le riflessioni e gli schemi esplicativi presentati nel cap. VI, § 5.1.
197 Per approfondimenti, v. retro, cap. V, § 2.5.3. e cap. VI, § 2.
854 CAPITOLO DECIMO

Premessa questa essenziale distinzione, va d’altro canto rimarcato


che inserire nella prospettiva delle garanzie costituzionali il problema
della tutelabilità in via collettiva-cumulativa dei diritti individuali al ri-
sarcimento espone come profilo rilevante della problematica non solo
quello più propriamente legato all’accesso al giudizio, ma anche quello
relativo all’effettività complessiva della tutela giurisdizionale apprestata.
E su questo piano assume nuovamente rilievo anche l’attribuzione dell’a-
zione ai soggetti direttamente danneggiati (e non solo a soggetti sostan-
zialmente terzi come le associazioni di riconosciuta rappresentatività) in
virtù della stretta relazione che sussiste tra estensione del novero dei sog-
getti legittimati e – appunto – effettività della tutela giurisdizionale198.
Ciò detto, comunque, il riconoscimento dell’azione ad associazioni
diverse da quelle già riconosciute, nonché a comitati sorti magari ad hoc,
ovvero in conseguenza di un certo illecito, si dimostra una soluzione tec-
nica di compromesso tra un regime di legittimazione riservato in via
esclusiva alle associazioni previamente riconosciute ed un regime di le-
gittimazione diffusa aperta ai singoli consumatori; soluzione di compro-
messo in fin dei conti soddisfacente sul piano dell’opportunità, nonché
conforme al dettato costituzionale. L’attribuzione dell’azione collettiva ri-
sarcitoria al singolo consumatore non escluderebbe comunque un pene-
trante sindacato sull’idoneità del soggetto in questione a condurre il giu-
dizio collettivo. Il consumatore in questione dovrebbe rivelarsi partico-
larmente attrezzato e motivato ad affrontare tale giudizio.
Se così è, quindi, il consumatore ideale a cui ci stiamo riferendo in
via di ipotesi ben potrà attivarsi per la costituzione di un comitato aggre-
gandosi con altri consumatori particolarmente interessati alla repressione
dell’illecito e tale «ostacolo» che la legge impone al soggetto singolo, non
pare costituire un irragionevole bilanciamento degli interessi in gioco
nella specifica materia in esame e nella specifica prospettiva (quella del
grado di effettività della tutela) in cui ora siamo orientati199.
Meno agevole è comprendere quali criteri e quali strumenti debba
utilizzare il giudice per verificare che i soggetti appena citati siano «ade-
guatamente rappresentativi degli interessi collettivi fatti valere».

198 La questione indicata nel testo è puntualmente rilevata da CARRATTA, A., Effetti del

giudicato e tutela collettiva, cit. p. 108 ss., in riferimento ai progetti di legge che hanno anti-
cipato il nuovo art. 140 bis; progetti di legge in relazione ai quali veniva criticato il regime di
legittimazione ad agire riservato in via esclusiva alle associazioni rappresentative ex art. 137
c. cons.
199 Cfr., a tal proposito, le osservazioni di COSTANTINO, G., La tutela collettiva risarcito-

ria: note a prima lettura dell’art. 140 «bis» cod. consumo, cit., p. 20.
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 855

A tal proposito, parlandosi di adeguata rappresentantatività di inte-


ressi collettivi, sembrerebbe che il sindacato giudiziale debba concretarsi
– mutatis mutandis – in una valutazione similare a quella prevista dall’art.
137 c. cons. per le associazioni rappresentative a livello nazionale, lad-
dove appunto la verifica di tale requisito costituisce lo strumento volto a
determinare strutture – come detto – istituzionalmente protese alla tutela
degli interessi collettivi dei consumatori, cioè strutture che per traspa-
renza, democraticità, diffusione, competenza e stabilità dell’organizza-
zione garantiscano un esercizio responsabile dei poteri di tutela degli in-
teressi dei consumatori che la legge conferisce loro.
D’altro canto, la ratio esposta dal secondo comma dell’art. 140 bis
sembrerebbe parzialmente differente. Anche in questo contesto, come è
ovvio, l’obiettivo che la norma si pone è quello di selezionare soggetti af-
fidabili, nonché idonei a proteggere gli interessi dei consumatori, ma tale
verifica avviene in relazione ad uno specifico evento lesivo ed in funzione
di una specifica domanda di tutela giurisdizionale200.
L’alternatività del percorso di accesso alla tutela collettiva risarcito-
ria, nonché il semplice riferimento normativo ad «associazioni» o a «co-
mitati» induce – insomma – a rilevare la volontà di aprire il processo an-
che soggetti collettivi che, sebbene non rispondano a quella funzionaliz-
zazione istituzionale richiesta ai fini del riconoscimento, siano pur
tuttavia idonei a rappresentare in giudizio gli interessi pregiudicati.
Se questo appare l’inquadramento maggiormente plausibile della di-
sposizione in esame (specie se proiettata sullo sfondo della riflessione
dottrinale poc’anzi accennata, che di certo ne costituisce la premessa lato
sensu ideologica), d’altro canto i dubbi interpretativi che comunque sol-
leva tale lacunosa disciplina sono tutt’altro che secondari. In particolare
ci riferiamo a quali siano i criteri da impiegare e quali siano le questioni
di cui tener conto da parte del giudice nell’espletamento concreto di tale
verifica.

200 Parte della dottrina (v. BRIGUGLIO, A., Venti domande e venti risposte sulla nuova
azione collettiva risarcitoria, cit., § 11.) ha anche ritenuto possibile che l’accertamento con-
creto della rappresentatività degli interessi colletti costituisca una verifica da svolgere anche
in riferimento alle associazioni riconosciute ai sensi dell’art. 137 del codice. Secondo questa
impostazione, d’altro canto, tale verifica potrebbe svolgersi nelle forme del giudizio di am-
missibilità dell’azione collettiva in riferimento al sindacato relativo alla sussistenza di un inte-
resse collettivo suscettibile di adeguata tutela in via collettiva risarcitoria. Osservazioni criti-
che riguardo alla mancata previsione di un vaglio di rappresentatività concreta rispetto alle
associazioni legittimate ai sensi dell’art. 137 c. cons. si ritrovano anche in BOVE, M., Azione
collettiva: una soluzione all’italiana lontana dall’esperienze più mature, cit., p. 11.
856 CAPITOLO DECIMO

A tal proposito un primo esame della disciplina induce anche ad os-


servare che nell’architettura complessiva del rimedio collettivo risarcito-
rio, il controllo volto ad attribuire la legittimazione ad agire a soggetti
diversi dalle associazioni rappresentative ai sensi dell’art. 139 c. cons. co-
stituisce un’operazione distinta rispetto al sindacato di ammissibilità pre-
visto, invece, dal comma 3 dello stesso art. 140 bis; sicché il vaglio con-
cernente l’adeguata rappresentatività degli interessi collettivi fatti valere
non dovrebbe inerire né alla verifica di un possibile conflitto di interessi
tra legittimato e altri membri della classe, né all’esistenza di un interesse
collettivo suscettibile di adeguata tutela giurisdizionale201.
Se si cercano possibili indicazioni ermeneutiche dallo studio degli
ordinamenti stranieri, particolare attenzione – ad esempio – merita la di-
sciplina delle class actions federali, in cui la verifica dell’adequacy of re-
presentation (che in tale ordinamento rappresenta peraltro una delle con-
dizioni di ammissibilità dell’azione in forma collettiva) dipende essenzial-
mente dalla capacità dell’attore collettivo di condurre il giudizio
garantendo una difesa corretta ed adeguata degli interessi comuni, non-
ché dall’assistenza di un legale particolarmente qualificato e dotato di ap-
propriata esperienza nella conduzione di controversie collettive202.
È difficile valutare in che misura criteri di tal fatta possano essere ac-
colti anche da parte della giurisprudenza nostrana; d’altro canto il rigore
con il quale deve essere condotta la verifica in questione non sembra nem-
meno poter ricevere attenuazione in virtù di quanto disposto dal comma
5 dell’art. 140 bis, che appunto prevede che il giudicato collettivo non
coinvolga i consumatori che non hanno aderito all’azione. Non sembra,
insomma, che tale regime limitato di efficacia possa in un certo senso svi-
lire il sindacato sulla rappresentatività concreta dell’attore collettivo.
Non par dubbio, anzi, che proprio tale controllo, nonché anche il
giudizio di ammissibilità previsto dal comma 3 del medesimo articolo,
ancor più se letti alla luce di siffatto regime di efficacia della sentenza,
palesino l’esistenza di un interesse lato sensu pubblicistico al corretto ed
efficiente esercizio dell’azione collettiva; interesse che può essere spie-
gato sulla base di due distinte motivazioni: in primo luogo con la posi-
zione sostanziale di svantaggio in cui versano i singoli consumatori pre-
giudicati, che proprio con l’aderire all’azione collettiva tenderanno ad af-

201 Sul punto, v. le osservazioni avanzate da BRIGUGLIO, A., Venti domande e venti ri-

sposte sulla nuova azione collettiva risarcitoria, cit., § 1.,


202 Per approfondimenti, v. FEDERAL JUDICIAL CENTER, Manual for Complex Litigation,

Fourth, 2004, p. 258 s., ma v. anche p. 276 ss.


LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 857

fidarsi all’operato dell’attore collettivo (rispetto al quale – peraltro – sa-


ranno anche privi di adeguati strumenti controllo) ed in secondo luogo
con il vincolo di giudicato che la sentenza collettiva si potrebbe ritenere
produca nei confronti degli altri soggetti legittimati ad agire in via rap-
presentativa.
Al di là dei profili problematici appena evidenziati, è comunque pos-
sibile ipotizzare fattispecie concrete agevolmente riconducibili alla pre-
scrizione del secondo comma dell’art. 140 bis. Nella categoria delle «asso-
ciazioni» adeguatamente rappresentative degli interessi collettivi ai sensi
della disposizione in esame dovrebbero, infatti, rientrare piuttosto piana-
mente le associazioni non riconosciute, ma in attesa di riconoscimento, o
comunque con le carte in regola per conseguirlo, o magari anche non ri-
spondenti a tutti i requisiti richiesti dalla legge (si pensi, ad esempio, al re-
quisito della diffusione previsto dall’art. 137, comma 2, lett. c).
In riferimento ai «comitati», invece, l’ipotesi più semplice può esser
vista nel comitato che costituisca una coagulazione di consumatori pre-
giudicati particolarmente rilevante o per numero o per ammontare di
danni patiti in relazione alle dimensioni dell’illecito dedotto in giudizio.
Se poi si esamina con attenzione il meccanismo introdotto dal legi-
slatore con il nuovo art. 140 bis ci si avvede immediatamente che il fun-
zionamento del rimedio orbita tutto attorno all’istituto dell’adesione,
che, comunque si voglia ricostruire l’oggetto del giudizio, rappresenta il
collegamento strutturale tra azione collettiva e classe dei consumatori
pregiudicati. Sicché, ciò premesso, non par dubbio che specie nell’ipotesi
in cui l’azione collettiva venga ad essere esercitata dalle formazioni sociali
previste dal secondo comma dell’art. 140 bis, il vaglio di rappresentatività
non potrà non risentire del numero di adesioni già raccolte dall’attore
collettivo.
Per completezza va infine aggiunto che i primi commentatori della
nuova disciplina hanno prospettato l’opportunità di far rientrare il sin-
dacato sulla rappresentatività dell’attore collettivo legittimato ai sensi del
secondo comma dell’art. 140 bis all’interno del giudizio di ammissibilità
dell’azione collettiva previsto dal terzo comma del medesimo articolo, ri-
tenendo che tale sindacato possa essere ricompreso nell’ampia formula
secondo cui l’azione collettiva deve essere dichiarata inammissibile allor-
quando si constati l’insussistenza di un interesse collettivo suscettibile di
adeguata tutela mediante il rimedio collettivo203.

203 MENCHINI, S., La nuova azione collettiva risarcitoria e restitutoria, cit., § 2, sub G).
858 CAPITOLO DECIMO

Non sembra, peraltro, che questa operazione ricostruttiva sia cor-


retta, in quanto la disposizione ora ricordata va piuttosto interpretata alla
luce della necessità che la controversia sia decisa in forma collettiva solo
allorquando, pur ricorrendo i requisiti previsti dal primo comma dell’art.
140 bis, il giudizio ivi disciplinato si riveli concretamente idoneo a tute-
lare adeguatamente gli interessi coinvolti nella lite204.
Nemmeno convince la possibilità di far rientrare il vaglio di rappre-
sentatività nel sindacato di manifesta infondatezza della domanda collet-
tiva che appunto conduce alla dichiarazione di inammissibilità dell’a-
zione205. L’impostazione seguita dalla legge, infatti, sembra proprio quella
di tenere separato il giudizio di ammissibilità dell’azione dalla valuta-
zione di rappresentatività concreta, che peraltro investe solo la categoria
di legittimati indicata al comma 2 dell’art. 140 bis206.

3.3.4. L’oggetto del giudizio


3.3.4.1. Considerazioni introduttive. – Affrontato il tema della legit-
timazione ad agire in via collettiva risarcitoria, l’interrogativo che subito
dopo si pone all’interprete per proseguire nell’inquadramento del rime-
dio è rappresentato dall’esatta determinazione dell’oggetto del giudizio.
È di certo questa la questione giuridica in assoluto più importante e
delicata che la disciplina chiama a risolvere in quanto da essa dipende la
determinazione della natura stessa dell’istituto e la risposta a molti dei re-
stanti profili problematici che la lettura del nuovo art. 140 bis solleva, tra
cui ad esempio la natura ed i limiti del sindacato svolto in sede di giudi-
zio di ammissibilità, il contenuto e l’efficacia della decisione, la vincolati-
vità del giudicato collettivo anche nei confronti degli altri soggetti legitti-
mati in via rappresentativa, la natura della fase liquidatorio-conciliativa
che segue il giudizio collettivo.
Portare luce sulla questione ora indicata appare, d’altro canto, per
nulla agevole in quanto l’immagine del giudizio collettivo che l’art. 140

204 Il discorso sul significato appartenente alla disposizione richiamata nel testo può es-
sere proficuamente affrontato solo allorquando si definisca a monte l’oggetto del giudizio col-
lettivo. Sul punto, quindi, avremo occasione di tornare nel prosieguo. Va escluso, peraltro,
che, come ritenuto da parte della dottrina (GIUSSANI, A., Azioni collettive risarcitorie nel pro-
cesso civile, cit., p. 228 s.), tale previsione rappresenti «una regola ridondante e in definitiva
sprovvista di contenuto precettivo».
205 Così, BRIGUGLIO, A., Venti domande e venti risposte sulla nuova azione collettiva ri-

sarcitoria, cit., § 1.
206 In questo senso, v. anche GIUSSANI, A., Azioni collettive risarcitorie nel processo ci-

vile, cit., p. 227.


LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 859

bis rappresentata è assai poco chiara. I tratti strutturali del procedimento


si presentano, infatti, assai incerti e talora propriamente contraddittori.
È assai utile, quindi, recuperare in questa sede le riflessioni svolte
nel sesto capitolo di questo lavoro in merito alla determinazione dei re-
quisiti funzional-strutturali che appartengono in generale alle diverse ti-
pologie di giudizio collettivo.
Così facendo, infatti, è possibile accostare l’attuale disciplina previ-
sta per il giudizio collettivo risarcitorio ad una sorta di griglia concettuale
che agevoli l’operazione di inquadramento da intraprendere.
Recuperando, quindi, i criteri classificatori addietro enucleati, su-
bito si palesa piuttosto chiaramente l’alternativa tra il ritenere che il giu-
dizio disciplinato dall’art. 140 bis del codice del consumo abbia ad og-
getto l’insieme dei diritti soggettivi dei consumatori pregiudicati o – al
contrario – il ritenere che tale giudizio sia volto all’accertamento delle
questioni comuni che appartengono alle diverse pretese traenti origine
dalla medesima condotta imprenditoriale.
Si è avuto modo di osservare, infatti, che questa seconda tecnica di
tutela, sebbene presenti un grado di effettività, nonché di portata deter-
rente, ben minore rispetto alla prima, risponde ad indiscutibili esigenze
di semplificazione del giudizio collettivo improprio (ovvero risarcitorio),
che appunto pur non riuscendo a conseguire la completa tutela delle po-
sizioni di diritto dei singoli soggetti lesi, favorisce comunque il successivo
esercizio della loro azione individuale, conseguendo l’accertamento delle
questioni comuni e controverse che appartengono alle diverse pretese.
Sempre nel sesto capitolo si è anche visto, peraltro, che pratica-
mente tutti gli ordinamenti che presentano giudizi collettivi risarcitori ri-
spondenti al primo modello descritto207, proprio in ragione della com-
plessità processuale della controversia collettiva risarcitoria, presentano
apposite clausole di elasticità che, attivate con l’esercizio di penetranti
poteri di case management giudiziale, consentono al processo di meglio
adattarsi alla lite collettiva, sino anche al punto di separare – non ab ini-
tio e a priori, ma in corso di causa, nonché in relazione a specifiche ra-
gioni di opportunità – la trattazione e la decisione delle questioni comuni
dalla trattazione e dalla decisione delle questioni differenziate-personali.
D’altro canto, la disciplina presentata dall’art. 140 bis ignora com-
pletamente (o quasi) meccanismi processuali come quelli appena de-
scritti, sicché l’alternativa poc’anzi prospettata si presenta in termini ef-
fettivamente divaricanti.

207 Cfr. retro, cap. VI, §§ 5.1.2. e 5.1.3.


860 CAPITOLO DECIMO

Secondo una prima possibile lettura il giudizio collettivo, salvo il


profilo meramente liquidatorio che è rinviato alla fase successiva, do-
vrebbe essere volto all’accertamento dei diversi diritti soggettivi cumula-
tivamente dedotti nel processo208. In un unico giudizio, dunque, si realiz-
zerebbero la trattazione, l’istruzione ed il conseguente accertamento dei
fatti costitutivi, impeditivi, estintivi e modificativi da cui dipende l’esi-
stenza-inesistenza dei diversi diritti fatti valere; fatti che – d’altro canto –
rappresentano sovente questioni propriamente differenziate, ovvero con-
cernenti singulatim ciascun consumatore nel suo rapporto con la parte
imprenditoriale. Per quel che riguarda in particolare l’oggetto del giudi-
zio e – lo si ripete – facendo salvo il profilo liquidatorio, il processo as-
sumerebbe contorni strutturali assimilabili ad un giudizio svolto in re-
gime di litisconsorzio facoltativo in cui siano dedotti in giudizio più di-
ritti soggettivi connessi in via di causa petendi o in via impropria per
identità di questioni.
Al contrario, se si segue l’altra opzione ricostruttiva, l’ambito dell’ac-
certamento giudiziale verrebbe ad essere ritagliato attorno alle questioni
«condivise» dalle diverse pretese, ovvero, in primo luogo, all’illecito, cioè
alla condotta imprenditoriale che ha causato il danno ai consumatori209.
Sempre ragionando per similitudini, il giudizio ricorderebbe per la sua
consistenza oggettiva un giudizio di condanna generica, sebbene in riferi-
mento all’interpretazione giurisprudenziale secondo cui il giudizio sull’an
è limitato all’accertamento di un fatto potenzialmente produttivo di con-
seguenze dannose, restando impregiudicato e riservato al giudice della li-
quidazione non solo l’esistenza e l’entità del danno patito, ma anche il
nesso di causalità tra questo e l’illecito210.

208 Questa linea ricostruttiva è stata seguita sinora da CONSOLO, C., È legge una disposi-

zione sull’azione collettiva risarcitoria: si è scelta la via svedese dell’«opt-in» anziché quella da-
nese dell’«opt-out» e il filtro («L’inutil precauzione»), cit., p. 5 ss.; COSTANTINO, G., La tutela
collettiva risarcitoria: note a prima lettura dell’art. 140 «bis» cod. consumo, cit., p. 17 ss.; AMA-
DEI, D., L’azione di classe italiana per la tutela dei diritti individuali omogenei, cit., § 3.; MEN-
CHINI, S., La nuova azione collettiva risarcitoria e restitutoria, cit., § 2; GIUSSANI, A., Azioni col-
lettive risarcitorie nel processo civile, cit., p. 229 ss.
209 In questo senso, v. BOVE, M., Azione collettiva: una soluzione all’italiana lontana dal-

l’esperienze più mature, cit., p. 11 ss. Cfr. anche CHIARLONI, S., Per la chiarezza di idee in tema
di tutele collettive dei consumatori, cit., p. 580 ss., sebbene in relazione ai disegni di legge ri-
chiamati retro (nota 181) ed in particolare al progetto di legge Bersani.
210 Cfr. Cass., 31 luglio 2006, n. 17297, in Mass. Giur. it., 2006; Cass. pen., 11 marzo

2005, n. 12199, in Guida dir., 2005, n. 23, p. 73; Cass., 17 aprile 2003, n. 6190, in Gius, 2003,
p. 2028; Cass. pen., 30 aprile 2003, n. 38183, in Guida dir., 2004, n. 2, p. 108; Cass., 27 giu-
gno 2001, n. 8807, Mass. Giur. it., 2001; Cass., 11 gennaio 2001, n. 329, in Danno e resp.,
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 861

Il discorso appena introdotto necessita peraltro di ulteriori chiarifi-


cazioni e precisazioni che possano sottrarlo a quella genericità in cui fa-
cilmente può rimanere arenato.
A tal riguardo può essere utile proporre qualche esemplificazione
che rappresenti quantomeno sommariamente il rapporto che può venirsi
a realizzare tra questioni comuni e questioni differenziate in relazione a
talune fattispecie che comunemente ricorrono in materia di risarcimento
del danno e/o diritto alla restituzione di somme di denaro a favore dei
consumatori.
Si può – ad esempio – iniziare dall’ipotesi del risarcimento del
danno da fumo. In tale fattispecie, infatti, è assai probabile il realizzarsi
di una sostanziale predominanza delle questioni giuridiche a carattere
personale e specifico rispetto a quelle propriamente comuni alle distinte
pretese risarcitorie.
Non è ovviamente il caso di entrare nel merito dei diversi profili
problematici che attengono a questa controversa materia, ma è comun-
que opportuno rilevare come a fronte di questioni comuni, che per l’ap-
punto potrebbero interessare una certa classe di consumatori pregiudi-
cati (sussistenza o meno dell’obbligo di informazione relativamente ai ri-
schi da fumo, relativo inadempimento, qualificazione della vendita del
tabacco in termini di attività pericolosa ai sensi dell’art. 2050 c.c., deter-
minazione del comune criterio in base al quale verificare il rapporto ezio-
logico tra danno ed evento dannoso, ecc.), l’accertamento positivo del di-
ritto al risarcimento del danno dipende in primo luogo dalla concreta
sussistenza del nesso causale tra quest’ultimo e la condotta illecita; que-
stione – l’ultima ora indicata – fortemente condizionata da ulteriori e de-
licate circostanze che specificamente attengono alla situazione propria di
ciascun consumatore, ovvero la sua storia familiare, la sua vita lavorativa
e residenziale, ecc., non bastando – di contro – la prova del c.d. nesso di
causalità generale ottenibile sulla base degli studi epidemiologici e con-
cernente valutazioni a priori e generiche, ovvero non riferite specifica-
mente ad singolo danneggiato211.

2001, p. 753; cfr. anche App. Roma, 17 gennaio 2008 e App. Roma, 25 luglio 2006, in Utet
giuridica. L’inquadramento sistematico dell’istituto della condanna generica, in particolare ri-
ferimento al suo oggetto, nonché ai suoi rapporti con il giudizio sul quantum, costituisce da
tempo una questione particolarmente controversa; per approfondimenti, v. CARRATTA, A.,
Condanna generica, in Enc. giur. Trec., VII, Roma, 1997. Cfr. anche CAVALLINI, C., L’oggetto
della sentenza di condanna generica, in Riv. dir. proc., 2002, p. 523 ss.
211 Per approfondimenti, v. STELLA, F., A proposito di talune sentenze civili in tema di

causalità, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2005, p. 1159 ss.


862 CAPITOLO DECIMO

Se la fattispecie ora richiamata è di certo una delle più problemati-


che, va d’altro canto detto che la contrapposizione ora indicata tra que-
stioni comuni e questioni personali sussiste anche in fattispecie tutto
sommato meno complesse.
Nel risarcimento dei danni da black out, alle questioni comuni rela-
tive in particolar modo all’inadempimento del gestore e magari anche al-
l’impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile
(da questo eventualmente fatta valere in via generale ed indifferenziata
per sottrarsi alla responsabilità nei confronti dei consumatori), si con-
trappongono le questioni a carattere personale, inerenti ad esempio an-
che alla stessa qualifica di consumatore che deve appartenere a ciascun
danneggiato, nonché – di nuovo – il nesso di causalità tra inadempi-
mento e danno.
Riguardo a quest’ultimo profilo, d’altro canto, possono anche ricor-
rere fattispecie rispetto alle quali è forse opportuno svolgere considera-
zioni di diverso tenore. Si pensi a talune ipotesi di danno derivante da
comportamenti anticoncorrenziali, quali ad esempio il danno arrecato ai
consumatori in ragione delle intese realizzatesi tra imprese assicuratrici
comportanti un illegittimo aumento dei premi assicurativi. In tal caso, tra
le questioni comuni alle diverse pretese, può verosimilmente annoverarsi,
oltre – come ovvio – l’illecito anticoncorrenziale, forse anche il nesso di
causalità, ovvero il rapporto eziologico che intercorre tra tale comporta-
mento antigiuridico e l’aumento generalizzato dei premi.
L’esemplificazione potrebbe proseguire con altre interessanti fatti-
specie che hanno da tempo richiamato l’attenzione degli studiosi e impe-
gnato la giurisprudenza: si pensi alle numerose controversie sorte in pas-
sato in riferimento agli obblighi restitutori e risarcitori derivanti dalla
violazione del divieto di anatocismo da parte degli istituti di credito212 o
derivanti da altre pratiche ugualmente ritenute illegittime in ragione della
loro contrarietà agli interessi dei consumatori, come accaduto nel caso
delle organizzazioni piramidali volte ad ottenere corpose ed ingiustificate
quote associative213.
212 Cfr., ad esempio, T. Torino, 17 dicembre 2002, in Contratti, 2003, p. 999 ss., con
nota di DI FAZZIO, Tutela dell’interesse collettivo dei consumatori; con data 19 febbraio 2003,
in Giur. it., 2003, p. 950 ss.; con data 13 settembre 2004, in Giur. it., 2004, p. 319 ss., con
nota di A.D. De Santis; App. Torino, 1° marzo 2005, in Corr. giur., 2005, p. 1121 ss., con nota
di NIVARRA, L., La tutela collettiva dei consumatori e l’anatocismo bancario; T. Palermo, 22 giu-
gno 2006, in Corr. giur., 2006, p. 1268 ss., con nota di CONTI, R., Anatocismo bancario e ini-
bitoria collettiva. Una sentenza consumaristica.
213 Cfr. T. Torino, 3 ottobre 2000, in Corr. giur., 2001, p. 389 ss., con nota di CONTI, R.,

Ai nastri di partenza l’inibitoria a tutela degli interessi collettivi ex art. 3 l. n. 218/1998; in Foro
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 863

3.3.4.2. Giudizio su diritti o giudizio sull’illecito. – L’interrogativo di


base che quindi occorre porsi alla luce delle considerazioni che prece-
dono è il seguente: il giudizio collettivo risarcitorio previsto dall’art. 140
bis è rivolto all’accertamento di tutte le questioni pur differenziate che,
messa da parte la quantificazione del danno o della somma da restituire,
condizionano l’esistenza di ogni singolo diritto soggettivo fatto valere da
ciascun consumatore?
Di certo evidenti valutazioni assiologiche dovrebbero far propen-
dere per una ricostruzione di tal fatta, cioè volta ad innalzare il tasso di
effettività della tutela214. Va poi aggiunto che se si ritenesse che l’oggetto
del giudizio fosse limitato alle sole questioni comuni, se non unicamente
all’illecito, vi sarebbe una sostanziale sproporzione tra lo strumento ap-
pena introdotto ed il risultato conseguito215. D’altro canto, un attento
esame della contraddittoria disciplina prevista dall’art. 140 bis rende dif-
ficile per l’interprete orientarsi senza remore verso il preferibile esito ora
indicato.
Procedendo con cautela, va in primo luogo esaminato quanto di-
sposto dal comma primo dell’art. 140 bis, laddove si prevede che i sog-
getti legittimati in via rappresentativa esercitino l’azione collettiva per ri-
chiedere l’accertamento del diritto al risarcimento del danno o alla resti-
tuzione delle somme spettanti ai singoli consumatori. La formula
letterale impiegata dal legislatore, infatti, sembrerebbe costituire una
vera e propria descrizione positiva del rimedio, sicché il ritenere che il
giudizio abbia ad oggetto solo l’illecito (o le sole questioni comuni) e non
le diverse pretese a questo conseguenti comporterebbe la necessità di
procedere ad una lettura evidentemente riduttiva di quanto ora ripor-
tato.
Va detto, peraltro, che tale previsione può essere intesa in senso non
propriamente strutturale, ma fondamentalmente funzionale. È chiaro a

it., 2000, I, p. 3622 ss., con nota di A. Palmieri; in Giust. civ., 2001, p. 813 ss., con nota di
PLAIA, A., Organizzazioni «piramidali» e interessi del consumatore: il giudice ordinario e la l.
281 del 1998.
214 Per un articolato esame delle ragioni che inducono a preferire un giudizio collettivo

volto alla diretta tutela dei diritti soggettivi dei consumatori, anziché un giudizio collettivo su
mere questioni, v. CARRATTA, A., Effetti del giudicato e tutela collettiva, cit., p. 124 ss.
215 Ciò – fondamentalmente – in ragione del fatto che in via interpretativa era già pos-

sibile pervenire – come abbiamo visto nel cap. VI in chiave di riflessione generale – al risul-
tato dell’accertabilità con effetti di giudicato dell’illecito posto a fondamento dell’azione col-
lettiva inibitoria. In questo senso, sebbene in riferimento ai disegni di legge richiamati retro
alla nota 181, v. CHIARLONI, S., Per la chiarezza di idee in tema di tutele collettive dei consu-
matori alla luce della legislazione vigente e dei progetti all’esame in parlamento, cit., p. 583.
864 CAPITOLO DECIMO

tutti, infatti, che la disciplina complessiva del rimedio ora introdotto


(tanto nel suo primo momento giurisdizionale, quanto nel successivo mo-
mento di completamento in sede conciliativa o anche, eventualmente,
giurisdizionale) sia volta alla tutela dei diritti soggettivi indicati, ma ciò di
per sé non esclude in termini assoluti che l’oggetto del giudizio e dell’ac-
certamento possa in un primo momento (ovvero nella prima fase giuri-
sdizionale collettiva) non esser costituito direttamente dai diritti sogget-
tivi dei consumatori aderenti o intervenuti nel giudizio.
L’operazione di determinazione dell’oggetto del giudizio richiede,
infatti, particolare cautela, dovendosi non solo tener sempre presenti le
diverse esigenze che animano questa tipologia di controversie, ma anche
contemperare il momento esegetico-analitico della disciplina con un suc-
cessivo momento ricostruttivo di sintesi volto a conferire equilibrio strut-
turale al nuovo rimedio. A ciò si aggiunge il fatto che la sentenza che
chiude il giudizio collettivo, in qualunque modo si voglia concepire que-
st’ultimo, non contiene comunque quell’accertamento dell’esistenza dei
diritti dei consumatori che la legge invoca sin dal primo comma dell’art.
140 bis; e ciò, ovviamente, in quanto tale esistenza dipende anche dal-
l’accertamento del quantum, che al contrario è espressamente rinviata ad
altra sede216. Va poi ricordato che anche laddove il nostro ordinamento
processuale parla espressamente di accertamento della «sussistenza del
diritto», ovvero in materia di condanna generica ex art. 278, comma 1,
c.p.c., ciò non ha impedito a parte della dottrina di orientarsi in senso
esattamente opposto al significato letterale della formula impiegata dal
legislatore, ritenendo appunto escluso dall’ambito dell’accertamento l’e-
sistenza del danno e con essa la sussistenza del diritto217.
Se, quindi, la formula impiegata in apertura dal legislatore di per sé
non appare idonea a risolvere il quesito poc’anzi proposto, occorre riso-
lutamente volgere l’attenzione verso altri profili della disciplina che pos-
sano a tal proposito rilevare.

3.3.4.3. Le indicazioni ricostruttive offerte dalla disciplina dell’ade-


sione. – Preziose (e forse risolutive) indicazioni derivano, ad esempio, da
quanto disposto in merito agli istituti dell’adesione e dell’intervento218.

216 Cfr.CARRATTA, A., Effetti del giudicato e tutela collettiva, cit., p. 113, sebbene in re-
lazione ai progetti di legge precedenti l’approvazione del nuovo art. 140 bis.
217 Per approfondimenti relativi al controverso tema dell’oggetto e della natura della

condanna generica, v. la dottrina cit. retro, nota 210.


218 Proprio la lacunosa disciplina dei progetti di legge addietro indicati (cfr. nota 181)

aveva indotto la dottrina a suggerire l’introduzione di adeguati meccanismi di opt-in volti a


LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 865

L’adesione ha come effetto principale quello di consentire ai consu-


matori di «avvalersi della tutela» apprestata (comma 2), ovvero quello di
ottenere una sentenza che fa stato «anche nei loro confronti» (comma 5).
Detta adesione deve essere comunicata per iscritto all’attore collettivo e
ciò può avvenire anche in grado di appello e sino all’udienza di precisa-
zione delle conclusioni, con l’effetto di produrre l’interruzione della pre-
scrizione ai sensi dell’art. 2945 c.c.
Tale ultima previsione, peraltro, va letta con attenzione. Stando al-
l’ultima parte del secondo comma dell’art. 140 bis, infatti, tali effetti sono
prodotti dall’esercizio dell’azione collettiva o, se successiva, dall’adesione
all’azione collettiva. Ciò potrebbe significare che l’azione collettiva di per
sé produce tale effetto e che quindi essa nasce già in riferimento specifico
ad un certo gruppo di diritti soggettivi appartenenti a taluni consumatori
pregiudicati, cioè con un certo numero di adesioni alle spalle, potendo
poi accogliere al suo interno ulteriori diritti soggettivi in ragione della
successiva adesione di altri consumatori.
Va peraltro rimarcato che l’utilizzo della congiunzione disgiuntiva
«o» piuttosto che della coordinativa «e» apre la possibilità di ritenere che
l’azione collettiva possa essere esercitata in riferimento a taluni rapporti,
ma non necessariamente.
Come è comprensibile questa seconda linea intepretativa è ben ar-
monizzabile con un giudizio collettivo avente ad oggetto solo l’illecito219.
Lo scenario ipotetico a cui ci riferiamo potrebbe essere il seguente: l’at-
tore collettivo propone l’azione determinando l’oggetto del giudizio nella
condotta antigiuridica dell’imprenditore ed i soggetti pregiudicati pos-
sono aderirvi al fine di avvantaggiarsi dell’accertamento della questione
comune e con l’effetto interruttivo poc’anzi indicato in riferimento al di-
ritto soggettivo in ragione del quale si aderisce al giudizio.
Si potrebbe – però – anche ipotizzare che l’azione collettiva intro-
duca un giudizio collettivo avente come oggetto di accertamento minimo
e costante l’illecito, ma in grado di estendersi ed arricchirsi in ragione
della deduzione dei diritti soggettivi dei consumatori aderenti e inter-
venuti.
far intervenire i consumatori all’interno del giudizio per la tutela dei propri diritti soggettivi
pregiudicati dalla condotta imprenditoriale; sul punto, v. in particolare CARRATTA, A., Effetti
del giudicato e tutela collettiva, cit., p. 124 ss.
219 Ed, infatti, parte della dottrina (BOVE, M., Azione collettiva: una soluzione all’ita-

liana lontana dall’esperienze più mature, cit., p. 12) ha ritenuto che l’oggetto del giudizio sia
costituito dalle questioni comuni alle diverse pretese (e non da quest’ultime) proprio in ra-
gione della possibilità che il legittimato collettivo eserciti l’azione senza aver prima raccolto
adesioni.
866 CAPITOLO DECIMO

Ma anche questa possibile lettura non sembra trovare conforto nel


testo della legge.
Seguendo questa impostazione, infatti, l’atto di adesione e di inter-
vento avrebbero l’effetto comune di costituire il dovere-potere decisorio
del giudice anche riguardo al diritto soggettivo del consumatore aderente
o intervenuto, ovvero, per dirla in altri termini, l’adesione e l’intervento
rappresenterebbero entrambi una modalità di esercizio del potere di
azione del consumatore riguardo al diritto al risarcimento o alla restitu-
zione.
D’altro canto, il secondo comma dell’art. 140 bis, distingue l’istituto
dell’intervento da quello dell’adesione proprio in ragione del fatto che
solo con l’intervento il consumatore propone domande all’interno del
giudizio collettivo.
Come vedremo tra breve anche questa disposizione è difficilmente
interpretabile, ma essa sembra comunque escludere l’impostazione rico-
struttiva ora avanzata in via di ipotesi.
Va poi aggiunto che la possibilità di aderire all’azione collettiva ad-
dirittura fino all’udienza di precisazione delle conclusioni del giudizio di
appello confermerebbe la scarsa plausibilità di tale lettura. Detta ampia
possibilità, infatti, ben si comprende se l’adesione ha il mero effetto di
estendere soggettivamente l’efficacia della sentenza senza alterazione al-
cuna della consistenza oggettiva del giudizio, ovvero del materiale di ac-
certamento.
Se, al contrario si ritenesse che il giudizio abbia ad oggetto i diritti
soggettivi dei consumatori aderenti (e intervenuti), allora la conseguenza
di quanto appena detto sarebbe rappresentata dal fatto che, eccezion
fatta per le fattispecie corrispondenti al contenzioso seriale in cui le di-
fese personali sono piuttosto ridotte e magari trovano base documentale,
l’adesione imporrebbe la necessità di far retrocedere (magari più volte,
cioè ripetutamente) la controversia alla già conclusa fase istruttoria con
un imprevedibile ed ineludibile aggravamento della procedura, nonché
esponendo la stessa a facili abusi. Il che è ovviamente irragionevole se
non propriamente assurdo.
A ciò si aggiunge, peraltro, che l’adesione va comunicata al propo-
nente. Sicché la previsione secondo cui tale adesione può esser comuni-
cata anche nel giudizio di appello, «fino all’udienza di precisazione delle
conclusioni» sembra dover essere intesa nel senso che l’adesione può es-
sere comunicata sino alla data dell’udienza di precisazione delle conclu-
sioni, segnando detto momento il termine ultimo per giovarsi dell’accer-
tamento collettivo.
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 867

In altri termini, non pare sussista un vero e proprio vaso comuni-


cante tra adesione e consistenza oggettiva del giudizio collettivo risarci-
torio. Quest’ultimo, insomma, sembrerebbe seguire un suo percorso au-
tonomo e sostanzialmente indipendente – quantomeno sotto lo specifico
profilo ora indicato – rispetto alle adesioni individuali dei singoli consu-
matori, i quali – appunto – sembrerebbero posti nella condizione di «av-
valersi» (ovvero di far propri) gli effetti positivi di qualcosa che non li ri-
guarda a titolo schiettamente e direttamente personale.
Se, poi, si volesse comunque ritenere che il giudizio ex art. 140 bis
debba essere inteso come giudizio su diritti, si dovrebbe di certo forzare
la previsione legislativa imponendo non tanto e non solo la comunica-
zione al proponente dell’atto di adesione, ma anche un vero e proprio
obbligo di deposito in giudizio di tale atto da parte del proponente
stesso. Ed in tal caso, per coerenza ricostruttiva, si dovrebbe ritenere che
l’adesione produca effetto – tanto sotto il profilo dell’interruzione della
prescrizione, quanto sotto il profilo della sua incidenza sull’ambito og-
gettivo del giudizio, ovvero sul correlato dovere decisorio del giudice,
nonché anche sotto il profilo dei limiti soggettivi del giudicato – solo con
l’avvenuto deposito220.

3.3.4.4. Le indicazioni ricostruttive offerte dalla disciplina dell’inter-


vento. – Anche la disciplina dell’intervento dei singoli consumatori nel
processo, come poc’anzi anticipato, presenta taluni profili problematici
che vanno con cura esaminati al fine di portare ulteriore chiarezza sul
quesito addietro sollevato.
Ovviamente la riflessione deve gravitare attorno alla formula legale
secondo cui i consumatori intervengono nel processo collettivo «per pro-
porre domande aventi il medesimo oggetto», ma, ancor prima di entrare
nel merito di tale questione, va subito detto che, comunque si voglia im-
postare la problematica relativa alla determinazione dell’oggetto del giu-
dizio, l’intervento del consumatore nel giudizio collettivo si presenta dif-
ficilmente riconducibile alle tre species che la dogmatica tradizionale ha
individuato nella previsione dei due commi dell’art. 105 c.p.c.221. Seb-
bene, infatti, il riferimento operato dalla legge alla proposizione della do-

220 Sul punto, v. BRIGUGLIO, A., Venti domande e venti risposte sulla nuova azione col-
lettiva risarcitoria, cit., § 8.
221 La difficoltà qualificatoria relativa all’intervento del consumatore previsto dal

comma 2 dell’art. 140 bis c. cons. è – sebbene con diversità di sfumature – punto sostanzial-
mente condiviso all’interno del dibattito formatosi alla luce dei primi commenti.
868 CAPITOLO DECIMO

manda da parte del consumatore possa in prima approssimazione far


pensare ad un intervento autonomo di tipo litisconsortile, secondo
quanto dispone il primo comma dell’art. 105 c.p.c., d’altro canto assume
primario rilievo il fatto che il consumatore legittimato all’intervento non
è parimenti legittimato a proporre e condurre la controversia in forma
collettiva.
Ciò premesso, se si ritiene che il giudizio collettivo verta solo sull’il-
lecito da cui traggono origine le diverse pretese risarcitorie e restitutorie,
allora la formula legale poc’anzi richiamata risulta corretta laddove ap-
punto prevede che con l’intervento il consumatore proponga una do-
manda avente il medesimo oggetto del giudizio collettivo già istaurato.
Con l’intervento, infatti, il consumatore entrerebbe nel processo chie-
dendo anch’egli l’accertamento della questione comune già posta al cen-
tro della controversia da parte del legittimato collettivo.
Muovendosi in quest’ottica e valorizzando quanto poc’anzi rimar-
cato, ovvero il dato dell’insussistenza in capo al consumatore del potere
di attivare e condurre in via rappresentativa il giudizio collettivo, do-
vremmo ragionevolmente ritenere che i poteri a questo riservati non
siano diversi da quelli in genere riconosciuti all’interventore adesivo di-
pendente, ovvero allegativi ed istruttori222.
In questa prospettiva il riferimento della legge alla proposizione
della domanda avrebbe il mero effetto di differenziare la posizione pro-
cessuale del consumatore aderente rispetto al consumatore intervenuto al
fine di far acquistare a quest’ultimo la qualità di parte – che manca ap-
punto al mero aderente – con l’attribuzione dei poteri anzidetti e dei re-
lativi oneri.
Se al contrario si ritiene che il giudizio collettivo abbia ad oggetto i
diritti soggettivi dei consumatori pregiudicati, allora con l’intervento il
consumatore dovrebbe far valere in giudizio un nuovo effetto giuridico.
Seguendo tale impostazione ricostruttiva si dovrebbe, d’altro canto, su-
perare la lettera del disposto del comma 2 dell’art. 140 bis, laddove ap-
punto è previsto che tra l’oggetto originario del giudizio e il diritto sog-

222 Ponendo ad oggetto del giudizio le questioni comuni alle diverse pretese, riteniamo

doversi escludere il potere di impugnazione del consumatore intervenuto; diverso esito si po-
trebbe conseguire ritenendo, al contrario, che l’oggetto del giudizio siano i diritti soggettivi
dei consumatori: cfr., infatti, AMADEI, D., L’azione di classe italiana per la tutela dei diritti in-
dividuali omogenei, cit., spec. § 4.; implicitamente, anche MENCHINI, S., La nuova azione col-
lettiva risarcitoria e restitutoria, cit., § 2, sub F), il quale, qualificando l’intervento del consu-
matore ex art. 140 bis, comma 2, in termini di intervento litisconsortile, ammette anche la
possibilità di intervenire in via adesiva dipendente.
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 869

gettivo fatto valere in via di intervento sussista una connessione per «og-
getto», anziché – come già detto addietro – per causa petendi223.
La dottrina che ha seguito tale impostazione in merito alla determi-
nazione della natura del giudizio collettivo ha poi anche valorizzato la
posizione processuale del consumatore intervenuto ai sensi del secondo
comma dell’art. 140 bis, ritenendo addirittura che costui possa ottenere a
suo favore la completa liquidazione del danno, conseguendo così una tu-
tela giurisdizionale definitiva della propria posizione giuridica ed in
quanto tale non bisognosa di successivi giudizi di completamento224.
Muovendosi in questa direzione è sorto, poi, anche il problema di rico-
noscere all’interventore il potere di impugnazione della sentenza che
chiude il giudizio quantomeno riguardo al capo contenente la statuizione
relativa al suo diritto soggettivo225.

3.3.4.5. Conclusioni ricostruttive: il giudizio collettivo come giudizio


ad oggetto variabile. – Dalle riflessioni problematiche appena svolte
emerge in primo luogo la contraddittorietà della disciplina, ma di contro
emergono anche piuttosto nettamente una serie di dati ricostruttivi con i

223 Così, infatti, CONSOLO, C., È legge una disposizione sull’azione collettiva risarcitoria:
si è scelta la via svedese dell’«opt-in» anziché quella danese dell’«opt-out» e il filtro («L’inutil
precauzione»), cit., p. 6. Ma cfr., di contro, AMADEI, D., L’azione di classe italiana per la tutela
dei diritti individuali omogenei, cit., § 3., che ribadisce l’esattezza della formula legale, ma sul
presupposto che indipendetemente dall’adesione il legittimato collettivo abbia comunque sin
dall’inizio dedotto in giudizio anche il diritto del consumatore intervenuto successivamente.
224 In questo senso, v., infatti, BRIGUGLIO, A., Venti domande e venti risposte sulla nuova

azione collettiva risarcitoria, cit., § 9, il quale, peraltro, non ritiene ostativo a tale impostazione
né quanto previsto dal comma 4 dell’art. 140 bis, laddove – appunto – la posizione dell’ade-
rente e dell’interventore sono parificate dalla legge in riferimento alla determinazione dei cri-
teri di liquidazione contenuti nella pronuncia di accoglimento della domanda, né la lettera
del comma 2 del medesimo articolo nella parte in cui è previsto che il consumatore che in-
terviene proponga domanda avente il medesimo oggetto dell’azione collettiva. In relazione a
questo secondo profilo, si propende, infatti, per una lettura estensiva ed atecnica della norma,
mentre per quel che riguarda la prima questione si sostiene che spetti al creditore intervenuto
scegliere se limitare la domanda all’accertamento dell’an o estendere tale richiesta alla con-
danna al pagamento dell’intera somma, sicché quanto disposto dalla prima parte del comma
4 dell’art. 140 bis avrebbe il mero compito di indicare il contenuto minimo della pronuncia
collettiva di accoglimento. Cfr. anche AMADEI, D., L’azione di classe italiana per la tutela dei
diritti individuali omogenei, cit., § 4. Per MENCHINI, S., La nuova azione collettiva risarcitoria
e restitutoria, cit., § 2, sub H), l’accertamento definitivo del quantum e la conseguente con-
danna al pagamento dell’intera somma costituisce un risultato a cui potrà pervenire il giudice,
anche in riferimento solamente ad alcuni soggetti (vuoi aderenti meri o intervenuti), allor-
quando ciò sia possibile sulla base dei concreti esiti del processo.
225 Cfr. la dottrina richiamata retro, nota 222.
870 CAPITOLO DECIMO

quali l’interprete deve necessariamente fare i conti per ricostruire in ter-


mini soddisfacenti lo strumento collettivo risarcitorio appena introdotto:
a) la sostanziale rigidità del modello procedurale adottato, assoluta-
mente privo di clausole di elasticità che rendano il giudizio capace di ge-
stire efficientemente controversie ad elevata complessità processuale in
ragione della coesistenza di questioni comuni e questioni personali, in-
duce in prima approssimazione a ritenere che l’oggetto del giudizio sia
rappresentato dall’illecito da cui le pretese individuali traggono origine;
b) quanto previsto dal primo comma dell’art. 140 bis, laddove si
parla di accertamento dei diritti al risarcimento del danno o alla restitu-
zione delle somme appartenenti ai consumatori, non costituisce un dato
esegetico risolutivo in ordine all’opera di determinazione dell’oggetto del
giudizio collettivo;
c) l’esame della disciplina legale riservata all’istituto dell’adesione,
per le ragioni addietro analiticamente esposte, induce anch’esso a rite-
nere che il giudizio abbia ad oggetto la questione a rilevanza collettiva
comune ai diversi diritti soggettivi dei consumatori, in quanto – in
estrema sintesi – per come è concepito tale meccanismo sembra poco
plausibile che spetti all’adesione il ruolo di strumento volto a determi-
nare la consistenza (non solo oggettiva, ma fondamentalmente) oggettiva
del processo226;

226 Il discorso potrebbe essere impostato diversamente se si seguisse la ricostruzione


proposta da AMADEI, D., L’azione di classe italiana per la tutela dei diritti individuali omogenei,
cit., spec. § 3, secondo cui l’oggetto del giudizio è costituito dai diritti soggettivi dei singoli
consumatori, salvo il profilo della quantificazione del danno. L’accertamento svolto in sede
collettiva investirebbe, quindi, «il comportamento illecito, l’imputabilità e la responsabilità
del soggetto che lo ha posto in essere, la potenziale produzione di danno, l’ingiustizia di que-
st’ultimo». Il legittimato collettivo eserciterebbe l’azione in via sostitutiva ex art. 81 c.p.c. de-
ducendo in giudizio il diritto del singolo, ma solo l’adesione del consumatore produrrebbe il
risultato di rendere efficace la sentenza nel suoi confronti. Si realizzerebbe – richiamando le
parole della dottrina ora in esame – una «sorta di sostituzione processuale sottoposta a con-
dizione sospensiva». Se così fosse, quindi, il legittimato collettivo introdurrebbe un giudizio
relativamente a n diritti soggettivi appartenenti a determinati consumatori, volto all’accerta-
mento delle questioni giuridiche poc’anzi indicate (comuni o differenziate che siano), nella
speranza di una loro successiva adesione idonea a dar senso al giudizio svolto sino a quel mo-
mento e con la possibilità che comunque parte dei consumatori non aderiscano, rendendo –
così – inutile il processo svolto. Di contro la parte imprenditoriale dovrebbe difendersi in re-
lazione a rapporti giuridici ben determinati senza la certezza di poter poi opporre ai singoli
consumatori, titolari di quei rapporti, ma non aderenti, il giudicato a sé favorevole eventual-
mente ottenuto contro l’attore collettivo. Si otterebbe, insomma, un giudizio non solo molto
difficile da gestire in ragione dell’accertamento delle questioni differenziate appartenenti alle
diverse fattispecie, ma anche gravemente contrario alle ragioni di economia processuale che
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 871

d) la disciplina dell’istituto dell’intervento presenta tratti più equi-


voci, nel senso che entrambe le prospettazioni sinora presentate in me-
rito alla possibile natura del giudizio collettivo conducono comunque
l’interprete a dover forzare il dato normativo.
Dovendo, quindi, scegliere quale delle due opzioni ricostruttive si-
nora indicate risulti quella maggiormente plausibile sulla base dei dati si-
nora raccolti si dovrebbe propendere per l’inquadramento del giudizio
collettivo ex art. 140 bis all’interno del modello generale del giudizio su
questioni a rilevanza collettiva; l’accertamento sarebbe quindi limitato al-
l’illecito.
Se, al contrario, nonostante le indicazioni interpretative ora succin-
tamente riportate, si volesse comunque propendere per l’opposta rico-
struzione, si dovrebbe quantomeno trovare una soluzione interpretativa
idonea a rendere meno critica la presenza delle questioni differenziate al-
l’interno del giudizio collettivo; presenza che assume toni di criticità in-
superabili in ragione del fatto che tali questioni, mediante lo strumento
dell’adesione, possono riversarsi a pioggia sull’itineario processuale sino
addirittura all’udienza di precisazione delle conclusioni in grado di ap-
pello.
Orientandosi in tal senso, una possibile soluzione potrebbe essere
trovata nel terzo comma dell’art. 140 bis, laddove appunto è previsto che

animano la disciplina e fin’anche lesivo del diritto di difesa della parte convenuta. Anche l’ap-
piglio esegetico che la dottrina in esame sembra addurre a favore di detto inquadramento non
convince appieno. Il riferimento è a quanto disposto dal comma 2 dell’art. 140 bis, laddove
appunto è previsto che il consumatore che interviene propone una domanda avente il mede-
simo oggetto. Tale previsione, infatti, dimostrerebbe la previa deduzione del diritto sogget-
tivo del consumatore da parte del legittimato rappresentativo. Ma tale lettura dà per scontato
che l’associazione abbia dedotto in giudizio il diritto soggettivo del consumatore che voglia
intervenire, il che – muovendosi nella logica interna che appartiene a questa ricostruzione –
non è assolutamente certo. Ben potrebbe accadere, infatti, che il legittimato collettivo, che
appunto non necessita di una previa adesione per dedurre in giudizio il diritto di un certo
consumatore, non faccia valere il diritto del consumatore X, sicché, o si ritiene che il consu-
matore X non può intervenire (o aderire…) perché il suo diritto non è oggetto del giudizio,
o si ritiene che può ciononostante aderire, ma ampliando l’oggetto del giudizio ed in con-
traddizione con la formula legale poc’anzi richiamata. Conclusioni, entrambe le due da ul-
timo indicate, che palesano la non plausibilità della lettura ricostruttiva ora in esame. In con-
clusione, come meglio diremo nel testo, a noi sembra doversi escludere, allo stato attuale
della disciplina, che il giudizio collettivo risarcitorio abbia ad oggetto i diritti soggettivi dei
consumatori, ma quand’anche si voglia seguire questa lettura, crediamo che il fulcro della ri-
costruzione sia costituito dall’istituto dell’adesione. Sembra, infatti, sia questo lo strumento a
cui attribuire – oltre ovviamente all’intervento – il compito di estendere la consistenza ogget-
tiva del giudizio: l’azione collettiva viene esercitata in riferimento ad adesioni già raccolte e si
sviluppa in un processo aperto ad accoglierne altre.
872 CAPITOLO DECIMO

la «domanda è dichiarata inammissibile … quando il giudice non ravvisa


l’esistenza di un interesse collettivo suscettibile di adeguata tutela ai sensi
del presente articolo».
Similmente a quanto accade ai sensi della rule 23 del processo fede-
rale statunitense227, si potrebbe, infatti, far perno su tale previsione per
escludere che si istaurino giudizi collettivi riguardo a fattispecie sostan-
ziali con predominanza delle questioni personali228 e nelle quali dette
questioni richiedono istruzioni probatorie articolate e complesse. Si
pensi in primo luogo al risarcimento del danno da fumo. In tal caso, ap-
punto, non sussisterebbe un interesse collettivo suscettibile di adeguata
tutela con lo strumento previsto dall’art. 140 bis del codice del consumo.
D’altro canto, nonostante la soluzione ora proposta, l’inquadra-
mento del giudizio collettivo in termini di giudizio su diritti si dimostra
comunque poco aderente all’attuale stato della disciplina prevista dal-
l’art. 140 bis e ciò induce l’interprete non tanto e non solo a propendere
per l’opposta soluzione, ma anche a verificare se all’interno della legge
non sia possibile rinvenire correttivi interpretativi capaci di innalzare il
tasso di effettività di un giudizio dall’accertamento limitato alla questione
a rilevanza collettiva, ponendolo in un certo senso a mezza strada tra le
due alternative ricostruttive sinora prospettate come possibili.
Seguendo questa linea si può in primo luogo ritenere che l’attore
collettivo eserciti l’azione in riferimento non solo all’illecito, ma a tutte le
diverse questioni che, a seconda delle fattispecie, si pongano come co-
muni alle diverse pretese. Si potrebbe addirittura pensare che su tale am-
bito possa influire lo stesso convenuto esercitando i suoi poteri di deter-
minazione dell’oggetto del giudizio all’interno degli atti introduttivi.
Così, riprendendo talune delle fattispecie addietro riportate, si può
immaginare l’ipotesi in cui l’attore collettivo proponga la domanda di ac-
certamento collettivo non solo in riferimento alla pratica anticoncorren-
ziale, ma anche in riferimento al nesso di causalità intercorrente tra que-
sta e l’aumento dei premi assicurativi. Parimenti, si può ipotizzare il caso
del convenuto che, a fronte della domanda di risarcimento danni da
black out, chieda di estendere l’accertamento collettivo anche alla impos-
sibilità sopravvenuta per causa non imputabile di eseguire la prestazione
al fine di ottenere l’accertamento di tale difesa per poterla poi opporre ai
singoli consumatori.

227 Cfr. retro, cap. VI, §§ 5.1.2. e 5.1.3.


228 In questo senso è orientato MENCHINI, S., La nuova azione collettiva risarcitoria e re-
stitutoria, cit., § 2, sub G).
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 873

Si può, insomma, ritenere che agli atti introduttivi del giudizio spetti
in primo luogo il compito di ritagliare all’interno delle diverse fattispecie
le questioni comuni in ordine alla determinazione dell’oggetto del giudi-
zio collettivo. Al sindacato di ammissibilità previsto dal comma 3 dell’art.
140 bis, spetterebbe poi la funzione di verificare l’effettiva rilevanza col-
lettiva della questione così come determinata dalle parti. Si ricorda, in-
fatti, che il giudizio collettivo risarcitorio, impostato nei termini ora indi-
cati, ovvero limitando l’accertamento svolto alle sole questioni comuni,
assume la forma di un giudizio propriamente diretto alla tutela di inte-
ressi collettivi; interessi collettivi di rilievo – però – eminentemente pro-
cessuale, in quanto soddisfatti dall’accertamento mero della questione
comune229. Perfettamente coerente con questa impostazione si rivele-
rebbe – dunque – quanto dispone il terzo comma dell’art. 140 bis, lad-
dove appunto è previsto che la «domanda è dichiarata inammissibile …
quando il giudice non ravvisa l’esistenza di un interesse collettivo suscet-
tibile di adeguata tutela ai sensi del presente articolo».
A questo primo correttivo è poi possibile aggiungerne un secondo,
che peraltro è autonomo rispetto al primo; correttivo che a nostro parere
conduce alla ricostruzione in grado di rispondere al meglio alle diverse
esigenze che governano il giudizio collettivo.
Durante l’esame della disciplina dell’adesione abbiamo avuto occa-
sione di rimarcare il fatto che la previa raccolta di adesioni da parte del le-
gittimato ad agire – sebbene talora possa rilevare ad altri fini230 – non con-
diziona il regolare e valido esercizio dell’azione collettiva. Quanto ora
detto – come visto – trova conferma testuale nel comma 2 dell’art. 140 bis
laddove è disciplinato l’effetto interruttivo della prescrizione. La conse-
guenza ricostruttiva primaria di questo ragionamento è stata quella di ri-
tenere che il giudizio possa di per sé svolgersi solo in riferimento alle que-
stioni comuni poste ad oggetto dell’accertamento dall’attore collettivo.
Si è poi anche visto che la disciplina dell’adesione rende poco plau-
sibile una ricostruzione che veda in tale istituto uno strumento votato ad
incidere sull’oggetto del processo nel senso della deduzione in giudizio
dei diritti soggettivi fondati sull’illecito originariamente determinato dal-
l’attore collettivo: l’adesione, infatti, può arrivare anche quando il pro-
cesso è praticamente chiuso e poi con essa non vengono proposte do-
mande; cosa che, al contrario, il legislatore sembra ammettere e rimar-
care in riferimento all’intervento.

229 Cfr. retro, cap. VI, § 5.1.3., spec. lo schema indicato sub C.
230 Cfr. retro. § 3.3.3.
874 CAPITOLO DECIMO

Alla luce di queste premesse, rimane quindi viva la possibilità di ri-


tenere che l’ampliamento dell’oggetto del giudizio nei termini ora indi-
cati sia possibile proprio e solo con lo strumento dell’intervento in causa
previsto dal comma 2 dell’art. 140 bis.
Per procedere in questo senso occorre – come già detto e come già
fatto dai primi commentatori – interpretare in senso estensivo ed atec-
nico la formula «stesso oggetto» ivi prevista allo scopo di individuare la
relazione tra domanda dell’interventore e domanda collettiva; relazione
che appunto legittima il consumatore all’intervento.
L’inquadramento appena proposto ben si armonizza con i diversi
vincoli ricostruttivi che discendono dall’attuale disciplina dell’art. 140 bis
ed inoltre garantisce il miglior punto di contemperamento – in questo si-
stema vincolato – tra i distinti interessi in gioco ed in particolare tra l’in-
teresse dei consumatori all’innalzamento del grado di effettività della tu-
tela giurisdizionale offerta ai loro diritti soggettivi e l’interesse generale
del sistema giustizia a ridurre in termini efficienti il contenzioso seriale.
L’art. 140 bis disciplina, insomma, un giudizio collettivo ad oggetto
di accertamento variabile.
L’oggetto di accertamento naturale e ordinario è rappresentato dal-
l’illecito o, volendo aderire alla variante estensiva addietro caldeggiata, le
questioni comuni a rilevanza collettiva.
Questi sono i limiti imposti al dovere decisorio giudiziale con la pro-
posizione della domanda da parte dell’attore collettivo, sia in presenza
che in assenza di adesioni «preventive».
Sull’oggetto del giudizio vanno però ad incidere le domande propo-
ste dai consumatori in via di intervento, le quali – appunto – hanno la
funzione di estendere il giudizio alle questioni differenziate che condi-
zionano l’esistenza del diritto soggettivo fatto valere in giudizio.
I consumatori potranno – quindi – aderire meramente all’azione col-
lettiva o intervenire nel giudizio. L’effetto della prima condotta proces-
suale sarà quello di produrre l’effetto interruttivo della prescrizione e di
potersi avvantaggiare dell’accertamento delle questioni a rilevanza col-
lettiva.
Con la seconda condotta processuale, invece, il consumatore de-
durrà in giudizio il proprio diritto soggettivo, ottenendo – così – l’accer-
tamento delle ulteriori questioni pur differenziate che lo riguardano, con
la connessa possibilità di esercitare i poteri processuali conseguenti al-
l’acquisizione della qualità di parte, tra cui anche il potere di impugna-
zione del capo relativo alla specifica domanda individuale proposta in
giudizio dal consumatore intervenuto.
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 875

Per favorire il funzionamento del meccanismo processuale ora in


esame, si potrebbe poi addivenire all’operazione interpretativa che segue.
La parte finale del terzo comma dell’art. 140 bis prevede che il giu-
dice, se ritiene ammissibile la domanda, disponga a cura di chi ha pro-
posto l’azione collettiva idonea pubblicità dei contenuti della stessa e dia
i provvedimenti opportuni alla prosecuzione del giudizio.
Proprio in ragione dei caratteri di specialità che indubbiamente ap-
partengono all’istituto, nonché in relazione al naturale nesso che inter-
corre tra pubblicizzazione del giudizio collettivo e adeguato funziona-
mento del meccanismo di opt-in previsto dal legislatore, si potrebbe rite-
nere che tra i «provvedimenti» richiamati dal terzo comma appena
ricordato vi sia anche la fissazione di un termine per l’intervento in giu-
dizio da parte dei consumatori231.
Sorge poi l’interrogativo se il giudice possa esercitare anche in sede
di giudizio collettivo il potere di separazione delle cause previsto dal se-
condo comma dell’art. 103 c.p.c.; potere che potrebbe essere esercitato
allorquando la domanda proposta dal consumatore o dai consumatori in-
tervenuti, proprio in ragione delle questioni differenziate dedotte in giu-
dizio, comporti l’aggravamento del processo richiamato dalla disposi-
zione poc’anzi citata. In tal caso, allora, al consumatore spetterebbe la
scelta di proseguire il giudizio in via individuale svincolandosi dalle sorti
del giudizio collettivo o quantomeno avvantaggiarsi degli effetti di accer-
tamento delle questioni comuni aderendo al giudizio collettivo.

3.3.5. Gli effetti del giudizio collettivo risarcitorio ed il suo coordinamento


con le azioni collettive inibitorie
3.3.5.1. I rapporti tra il giudizio collettivo risarcitorio e i giudizi indi-
viduali di completamento. – Come già ricordato all’inizio della nostra ri-
flessione sull’oggetto del giudizio collettivo risarcitorio, la scelta adottata
in merito a tale questione ricostruttiva (e quindi relativamente alla natura
stessa del giudizio) ha conseguenze determinanti su diversi altri aspetti
della disciplina ed in particolar modo sul contenuto e la natura della de-
cisione che accoglie la domanda collettiva, nonché sul rapporto tra la
231 Se si ritiene che con l’intervento il consumatore faccia valere il proprio diritto sog-

gettivo occorre comunque procedere ad una lettura manipolativa del disposto del comma 2
dell’art. 140 bis, laddove è previsto che l’intervento del consumatore «è sempre ammesso».
Tale locuzione dovrebbe essere intesa come se dicesse «è comunque ammesso» l’intervento
del consumatore. In altri termini il «sempre ammesso» avrebbe lo scopo di evidenziare il fatto
che, oltre all’adesione, il consumatore può anche intervenire. Di recente, v., in una prospet-
tiva generale, COSSIGNANI, F., Intervento volontario e preclusioni, in Giur. it., 2007, p. 2807 ss.
876 CAPITOLO DECIMO

prima «fase» giurisdizionale collettiva e la successiva «fase» liquidativa,


nonché, più in generale, sugli effetti del giudizio collettivo.
Sotto il primo profilo, il comma 4 dell’art. 140 bis afferma quanto
segue: «se accoglie la domanda, il giudice determina i criteri in base ai
quali liquidare la somma da corrispondere o da restituire ai singoli con-
sumatori o utenti che hanno aderito all’azione collettiva o che sono in-
tervenuti nel giudizio». E poi aggiunge: «se possibile allo stato degli atti,
il giudice determina la somma minima da corrispondere a ciascun consu-
matore o utente».
Le disposizioni ora riportate confermano ulteriormente la ricostru-
zione poc’anzi prospettata come preferibile. Se, infatti, si ritiene che l’og-
getto del giudizio sia limitato alle questioni comuni ed eventualmente si
estenda ai diritti soggettivi dei consumatori intervenuti, allora ben si
comprende che la sentenza di accoglimento contenga l’accertamento del-
l’illecito, eventualmente delle ulteriori questioni comuni, nonché la defi-
nizione dei criteri da applicare alla classe di consumatori aderenti o in-
tervenuti per la liquidazione della somma da versare a loro favore.
L’altra parte della disposizione va poi riferita solo ai consumatori in-
tervenuti, i quali hanno appunto dedotto in giudizio il loro diritto sogget-
tivo. Solo in relazione a questi, infatti, e proprio in ragione dell’estensione
della cognizione del giudice alle questioni differenziate che li riguardano,
potrà rivelarsi possibile che allo stato degli atti il giudice determini anche
una somma minima da corrispondere. Solo loro, quindi, potranno av-
vantaggiarsi della condanna provvisionale prevista dal comma 4 dell’art.
140 bis232.
Per completezza va detto che, salvo l’ultimo profilo esaminato, il di-
scorso appena svolto rimane pressoché invariato se si ritiene che l’og-
getto del giudizio sia costituito anche dai diritti soggettivi dei consuma-
tori aderenti.
Le cose cambiano, invece, se si ricostruisce il giudizio ex art. 140 bis
in termini di giudizio collettivo avente ad oggetto (sempre e comunque)
solo le questioni comuni; in tal caso, infatti, la sentenza che accoglie la
domanda sarà di accertamento mero anche nell’ipotesi in cui sia deter-
minata la somma minima da corrispondere a ciascun consumatore. Tale
previsione, infatti, non dovrà essere propriamente intesa come l’attribu-
zione al giudice del potere di pronunciare condanne provvisionali contro
la parte convenuta, ma come un particolare criterio di determinazione
della somma da liquidare, volto a segnare il limite minimo della liquida-
232 Tale qualificazione del provvedimento la si trova in MENCHINI, S., La nuova azione
collettiva risarcitoria e restitutoria, cit., § 2, sub A) e H).
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 877

zione ed anche in tal caso come conseguenza di una valutazione generale


della fenomenologia dell’illecito; non – insomma – come previsione indi-
rizzata a vantaggio di specifici consumatori e con effetto vincolante nei
successivi giudizi di completamento.
Per quel che, invece, riguarda il secondo profilo indicato, ovvero il
rapporto tra giudizio contenzioso collettivo e successiva fase liquidatoria,
piuttosto scontato è il fatto che maggiore è l’area coperta dal giudicato
ottenuto in sede di giudizio collettivo, minore è l’area segnata dalle que-
stioni bisognose di soluzione nella fase successiva.
L’art. 140 bis prevede al sesto comma una procedura conciliativa
volta a determinare le somme spettanti ai consumatori aderenti o inter-
venuti. Se tale procedura non ha buon esito rimane ovviamente fermo il
diritto di ciascun consumatore di esercitare la propria azione ordinaria di
cognizione per ottenere l’accertamento definitivo del proprio diritto e la
condanna al pagamento della somma dovuta dall’imprenditore.
Se, quindi, si ritiene che dall’accertamento svolto in sede di giudizio
collettivo resti esclusa solo la questione relativa alla liquidazione del
quantum, allora – di conseguenza – tutte le altre questioni appartenenti
alla fattispecie di ciascun diritto (sia dal lato costitutivo, sia dal lato estin-
tivo-impeditivo-modificativo) non potranno più essere rimesse in discus-
sione da parte dell’imprenditore o del consumatore nel giudizio di com-
pletamento.
Se, al contrario, si ritiene che l’oggetto del giudizio collettivo sia
limitato alle sole questioni comuni, allora occorrerà prestare estrema at-
tenzione alla portata dell’accertamento contenuto nella sentenza per iso-
lare tali questioni da quelle a carattere personale (ovvero relative alle cir-
costanze specifiche appartenenti al rapporto intercorrente tra consuma-
tore ed imprenditore), le quali verranno a costituire la materia (residuale)
di cognizione nel successivo giudizio individuale di completamento,
avente ad oggetto – finalmente – l’effetto giuridico risarcitorio o restitu-
torio ai fini della eventuale condanna al pagamento della somma.
Se si accoglie l’inquadramento del giudizio collettivo qui offerto, oc-
correrà, ovviamente, distinguere a seconda che ci si riferisca ai consuma-
tori intervenuti o ai consumatori meramente aderenti: per i primi il giu-
dizio collettivo lascia impregiudicato solo il quantum; per i secondi tutte
le questioni personali.
Prestando ancora attenzione al tema degli effetti del giudizio collet-
tivo, sorgono – poi – ulteriori quesiti di primario rilievo rispetto ai quali
l’attuale disciplina dell’art. 140 bis è talora omissiva, talaltra effettiva-
mente muta.
878 CAPITOLO DECIMO

Uno di questi è quello relativo all’effetto che l’adesione del singolo


consumatore produce sull’azione che a questo spetta in via individuale
ed autonoma.
Il comma 5 dell’art. 140 bis prevede che la sentenza che definisce il
giudizio collettivo faccia stato anche nei confronti dei consumatori ed
utenti che hanno aderito all’azione collettiva.
Non sembra dubitabile, quindi, che tanto nei confronti dei creditori
intervenuti, quanto nei confronti dei consumatori meramente aderenti,
l’accertamento – al di là dei suoi limiti oggettivi – si riveli vincolante in-
dipendentemente dall’esito favorevole o sfavorevole dello stesso.
Non è chiaro, invece, se la vincolatività dell’accertamento si produca
nei confronti dei consumatori sin dalla sentenza che – appunto – «defi-
nisce» il giudizio di primo grado o solamente col passaggio in giudicato
della stessa.
La soluzione preferibile è forse quella corrispondente alla prima op-
zione; e ciò al fine di aprire quanto prima la via dei giudizi di liquida-
zione, nonostante tale regime di coordinamento esponga la sentenza suc-
cessivamente emessa in sede individuale agli effetti caducatori previsti
dall’art. 336, comma 2, c.p.c. D’altra parte, la disciplina prevista dall’art.
140 bis pone il consumatore nella piena libertà di scegliere se aderire al
giudizio collettivo al fine di avvantaggiarsi dell’accertamento, oppure af-
frontare con le sole sue forze il percorso segnato dall’azione ordinaria in-
dividuale. Se il consumatore seguirà la prima opzione potrà poi valutare
ulteriormente se attendere la definitiva stabilizzazione dell’accertamento
conferita dal passaggio in giudicato della sentenza o farne valere gli ef-
fetti vincolanti ancor prima di questo momento, ma esponendosi al ri-
schio dell’effetto espansivo esterno poc’anzi richiamato.
Tra i primi commentatori della nuova disciplina è sorto poi il dub-
bio se la sentenza collettiva possa produrre effetti anche nei confronti dei
consumatori che non hanno aderito o non sono intervenuti nel giudizio e
a tal proposito, muovendo da un inquadramento che vede nel giudizio
collettivo un giudizio su diritti soggettivi, si è ritenuto possibile che i con-
sumatori rimasti «esterni» al giudizio possano avvantaggiarsi degli effetti
favorevoli dell’accertamento relativamente alla sussistenza dell’illecito
posto in essere dall’imprenditore233.
D’altro canto, anche ragionando all’interno di un’impostazione di
tal fatta relativamente all’oggetto del giudizio collettivo (ed ovviamente a

233 Così, MENCHINI, S., La nuova azione collettiva risarcitoria e restitutoria, cit., § 3.
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 879

fortiori se si segue l’opposta ricostruzione che limita l’accertamento alle


questioni comuni), non pare che tale conclusione possa essere accolta.
La disciplina prevista dall’art. 140 bis, infatti, pur criticabile sotto
numerosi profili, trova la sua ragion d’essere nel regime di opt-in; regime
basato in primo luogo sulla volontaria adesione del singolo consumatore.
Proprio dal funzionamento di questo meccanismo processuale di-
pendono le sorti del rimedio collettivo, nonché il soddisfacimento degli
interessi che gravitano attorno al giudizio: l’interesse dei singoli ad av-
vantaggiarsi del giudicato collettivo, l’interesse della parte convenuta ad
evitare la reiterazione dei giudizi, l’interesse del sistema giustizia alla de-
flazione del contenzioso seriale.
Riconoscere ai consumatori non aderenti e non intervenuti la possi-
bilità di avvantaggiarsi del giudicato nei termini poc’anzi descritti com-
porta senz’altro una diminuzione dell’interesse di ciascun consumatore
ad aderire all’azione collettiva e conseguentemente una contraddizione
rispetto alla ratio di fondo che appartiene al rimedio appena introdotto.

3.3.5.2. Gli effetti del giudizio collettivo risarcitorio nei confronti de-
gli altri legittimati ad agire in via collettiva. – Ancora ragionando sugli ef-
fetti del giudizio sorge – poi – il quesito relativo ai rapporti tra legittima-
zioni rappresentative.
Sul punto la legge non spende una parola234. Non è detto in alcun
modo, cioè, quali effetti abbia la sentenza collettiva di rigetto nei con-
fronti degli altri legittimati.
Le soluzioni astrattamente prospettabili sono quelle addietro esami-
nate in relazione ai rapporti tra azioni collettive inibitorie: piena relatività
del giudicato; vincolatività erga omnes dell’accertamento collettivo; giu-
dicato secundum eventum litis235.
Anche sotto questo profilo, un rilievo primario sembra doversi asse-
gnare alle circostanze che influiscono sul buon funzionamento del rime-
dio per come esso è concepito; ed anche sotto questo profilo occorre evi-
234 Si potrebbe in effetti propendere per una lettura a contrario del comma 5 dell’art.
140 bis: nel prevedere che la sentenza vincola i consumatori aderenti o intervenuti il legisla-
tore esclude che pari vincolo si realizzi nei confronti dei legittimati rappresentativi. Ma subito
dopo la medesima disposizione aggiunge anche – in maniera un po’ ridondante – che l’azione
individuale dei consumatori non aderenti o intervenuti rimane libera, sicché – ancora inter-
pretando a contrario la lettera della norma – si dovrebbe giungere alla soluzione esattamente
opposta a quella appena prospettata. Dalla lettera del comma 5 dell’art. 140 bis non si rica-
vano – quindi – indicazioni di sorta in merito all’efficacia della sentenza nei confronti degli
altri legittimati collettivi.
235 Cfr. retro, § 3.2.3.5.
880 CAPITOLO DECIMO

denziare che il meccanismo di adesione dovrebbe indurre a ritenere che


il giudizio collettivo, relativamente ad un certo illecito posto in essere
dall’imprenditore, debba svolgersi una volta soltanto; ciò proprio al fine
di massimizzare la propensione all’adesione in capo ai singoli consuma-
tori, consapevoli del fatto di avere un’unica chance di avvantaggiarsi della
tutela collettiva risarcitoria.
In altri termini, seguendo il ragionamento ora indicato, sarebbe op-
portuno ritenere che l’accertamento collettivo vincoli gli altri legittimati
in via rappresentativa anche se di esito negativo236.
Ulteriori aspetti della disciplina potrebbero confermare questa solu-
zione.
Ci riferiamo in primo luogo al giudizio di ammissibilità previsto dal
comma 3 dell’art. 140 bis. Riguardo a tale profilo della procedura, infatti,
va ritenuto che il provvedimento che dichiara inammissibile l’azione col-
lettiva non sia idoneo a proiettare i suoi effetti vincolanti al di fuori del
giudizio in cui è stato pronunciato, sicché resta ferma la piena riproponi-
bilità dell’azione collettiva237.
Il filtro di ammissibilità dell’azione collettiva (a cui poi va aggiunto
il vaglio di rappresentatività previsto in relazione alle associazioni non ri-
conosciute e ai comitati legittimati ai sensi del secondo comma dell’art.
140 bis) potrebbe essere letto come una garanzia che va a vantaggio an-
che degli altri legittimati in via rappresentativa, sicché – anche sotto que-
sto profilo – l’efficacia erga omnes del giudicato potrebbe trovare con-
ferma.

236 In questo senso, v. CARRATTA, A., Effetti del giudicato e tutela collettiva, cit., p. 126
ss., in riferimento – anche in tal caso – ai precedenti disegni di legge avanzati in materia.
237 In questo senso, v. GIUSSANI, A., Azioni collettive risarcitorie nel processo civile, cit.,

p. 228; MENCHINI, S., La nuova azione collettiva risarcitoria e restitutoria, cit., § 4. L’inidoneità
al giudicato del provvedimento che chiude il giudizio preliminare di ammissibilità dell’azione
collettiva rappresenta anche la questione interpretativa essenziale per risolvere il quesito rela-
tivo alla ricorribilità di detto provvedimento in cassazione ai sensi del comma 7 dell’art. 111
Cost., che deve appunto escludersi. Sul punto, v. in generale le considerazioni già svolte da
chi scrive in La tutela dei diritti processuali violati nei procedimenti ablativi e limitativi della
potestà parentale, in Fam. e dir., 2004, p. 168, in nota a Cass., S.U., 11 luglio 2003, n. 11026;
decisione pubblicata assieme a Cass., S.U., 3 marzo 2003, n. 3073, in Corr. giur., 2004, p.
1215, con nota di TISCINI, R., Le Sezioni unite restringono la decisorietà ex art. 111 Cost. alle
statuizioni di consistenza sostanziale. D’altronde, parte della dottrina si è espressa a favore
della ricorribilità dell’ordinanza che decide sull’ammissibilità dell’azione collettiva: cfr. CO-
STANTINO, G., La tutela collettiva risarcitoria: note a prima lettura dell’art. 140 «bis» cod. con-
sumo, cit., p. 22; dubbioso CONSOLO, C., È legge una disposizione sull’azione collettiva risar-
citoria: si è scelta la via svedese dell’«opt-in» anziché quella danese dell’«opt-out» e il filtro
(«L’inutil precauzione»), cit., p. 8.
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 881

Nonostante le riflessioni ora svolte, peraltro, l’accoglimento dell’op-


zione ora indicata palesa un risvolto problematico non facilmente supe-
rabile.
Il problema è quello del coordinamento tra l’azione collettiva risarci-
toria e l’azione collettiva inibitoria e la premessa da cui muovere per fare
adeguata chiarezza sul punto è costituita dal fatto che la richiesta di tutela
collettiva inibitoria e la richiesta di tutela collettiva risarcitoria possono
trovare la loro ragion d’essere nel realizzarsi di un unico e comune illecito.
La condotta antigiuridica dell’imprenditore può, da un lato, con-
durre alla lesione dell’interesse collettivo tutelato sul piano sostanziale
dall’obbligo violato, legittimando – così – la richiesta di tutela inibitoria
e, dall’altro, realizzare quell’occasione di contatto tra imprenditore e
consumatori, idonea a differenziare la posizione giuridica di questi ed at-
tribuire loro un diritto soggettivo al risarcimento del danno o alla resti-
tuzione delle somme.
Se a queste considerazioni si aggiunge il fatto che, come visto
poc’anzi, l’oggetto di accertamento «minimo» del giudizio collettivo ri-
sarcitorio è rappresentato dall’illecito o dalle altre questioni comuni, al-
lora si arriva piuttosto rapidamente alla conclusione che riconoscere al
giudicato collettivo ottenuto ai sensi dell’art. 140 bis efficacia vincolante
nei confronti degli altri legittimati rappresentativi ha come conseguenza
tutt’altro che secondaria quella di paralizzare l’azione dei soggetti legitti-
mati in via rappresentativa non solo in riferimento al giudizio collettivo
risarcitorio, ma anche in riferimento alla tutela inibitoria.
Seguendo questa linea interpretativa, infatti, in sede di giudizio col-
lettivo inibitorio l’imprenditore potrebbe opporre all’ente esponenziale
l’accertamento negativo dell’illecito già ottenuto nel giudizio collettivo ri-
saritorio nei confronti di un altro attore collettivo.
Ammettere l’estensione erga omnes del giudicato collettivo risarcito-
rio significa quindi precludere la riproposizione della domanda da parte
dell’ente rappresentativo non solo in riferimento alla tutela collettiva ri-
sarcitoria, ma anche in riferimento a quella inibitoria.
Impostando la questione nei termini ove indicati, appare piuttosto
agevole rilevare che l’attuale stato della disciplina prevista dagli artt. 140
e 140 bis c. cons. non sembra affatto avallare una soluzione di tal fatta.
Premesso, infatti, che l’orientamento dominante in materia di inibi-
toria collettiva ha negato l’efficacia erga omnes della sentenza238, sulla
questione sarebbe stato opportuno un intervento espresso e deciso da

238 Cfr. retro, § 3.2.3.5.


882 CAPITOLO DECIMO

parte del legislatore per disciplinare il regime di efficacia della sentenza


collettiva non solo in riferimento al giudizio risarcitorio, ma anche in re-
lazione alle influenze di questo sulle azioni collettive inibitorie.
Sarebbe, infatti, paradossale ritenere, da un lato, che il giudicato
collettivo inibitorio non precluda la riproposizione dell’azione da parte
di un diverso legittimato e, dall’altro, che tale effetto preclusivo si possa
comunque produrre in ragione del giudicato collettivo risarcitorio239.

3.3.5.3. Gli effetti del giudizio collettivo risarcitorio e le sue ricadute


sulla configurazione del giudizio collettivo inibitorio. – Come visto nel
paragrafo che precede, la circostanza che l’azione collettiva inibitoria e
l’azione collettiva risarcitoria possano trovare fondamento nello stesso il-
lecito costituisce la ragione della possibile interferenza tra i due giudizi
collettivi; specie perché, dalle riflessioni svolte in queste pagine, è emerso
che comunque si voglia concepire la natura del giudizio collettivo risar-
citorio, l’ambito del suo accertamento include di certo anche l’illecito da
cui sorgono le pretese risarcitorie e restitutorie dei singoli consumatori.
Ancora nel paragrafo che precede è emerso come tale relazione ri-
levi sotto il profilo degli effetti del giudicato collettivo risarcitorio sulle
azioni collettive inibitorie spettanti alle associazioni dei consumatori.
L’ultima questione da affrontare, e che sinora avevamo accantonato,
solleva considerazioni simili alle precedenti ed anch’essa trova la sua ra-
gion d’essere nella relazione strutturale che sussiste tra i due giudizi.
Il quesito interpretativo a cui ci riferiamo concerne il problema, non
ancora affrontato, della possibile estensione dell’ambito dell’accerta-
mento svolto in sede di giudizio collettivo inibitorio all’illecito che giusti-
fica la reiterazione specificativa giudiziale dell’ordine di astensione dal
comportamento antigiuridico.
Come visto nella parte centrale del nostro lavoro la questione è
estremamente controversa, ma potrebbe essere sciolta in senso favore-
vole sulla base degli indici interpretativi di natura funzionale e letterale
239 Se si volesse comunque seguire l’opzione interpretativa negata nel testo occorre-
rebbe attribuire massimo rilievo alla pubblicità dei contenuti dell’azione proposta che segue
il giudizio di ammissibilità dell’azione. Tale pubblicità, infatti, avrebbe di certo anche il com-
pito di attivare la partecipazione al giudizio collettivo anche degli altri legittimati ad agire, in-
tenzionati ad evitare che sull’illecito si produca un giudicato sfavorevole. Non sembra, peral-
tro, da escludersi che possano rimanere operativi anche altri strumenti processuali, da potersi
esercitare successivamente, ovvero in uno stadio più avanzato del giudizio, allorquando, pur
a fronte di un’azione collettiva valutata ammissibile dall’organo giudicante, emerga l’oppor-
tunità di chiamare in causa ex art. 107 c.p.c. altri legittimati collettivi, da scegliersi – verosi-
milmente – tra le associazioni riconosciute previste dall’art. 137 del codice del consumo.
LA TUTELA COLLETTIVA DEI CONSUMATORI 883

che la normativa presenta; ed in questo senso si è orientata parte della


dottrina in riferimento al possibile accertamento autoritativo dell’illecito
o della clausola dichiarata abusiva dal giudice dell’inibitoria240.
Con l’avvento dell’art. 140 bis il discorso però si complica, in
quanto, come poc’anzi visto, l’illecito o la clausola potrebbero costituire
le questioni comuni da accertare con efficacia di giudicato in sede di giu-
dizio collettivo risarcitorio. E su questo piano nemmeno incide – lo ripe-
tiamo – la specifica tesi che si ritiene preferibile in merito alla natura del
giudizio.
Stando, dunque, all’attuale quadro positivo previsto dal nostro ordi-
namento, lo strumento tecnico precipuamente volto ad accertare con ef-
ficacia di giudicato le questioni comuni a rilevanza collettiva sembra es-
sere costituito proprio dal giudizio ex art. 140 bis e non dal giudizio col-
lettivo inibitorio.
D’altro canto, se si ritenesse il contrario, ovvero se si ritenesse che
anche l’azione collettiva inibitoria possa condurre all’accertamento auto-
ritativo della questione a rilevanza collettiva anche in materia di tutela
dei consumatori (accertamento di cui i consumatori potrebbero avvan-
taggiarsi nei giudizi individuali di completamento magari secondo le re-
gole del giudicato secundum eventum litis)241, l’utilità pratica dell’azione
collettiva risarcitoria diminuirebbe di gran lunga.
Non sembra proprio che il legislatore si sia prefigurato tale pro-
blema di coordinamento, ma sul piano pratico il problema può essere su-
perato ammettendo che il legittimato collettivo eserciti in un unico pro-
cesso l’azione collettiva inibitoria e l’azione collettiva risarcitoria. D’altra
parte, che la complementarietà dei due rimedi imponga una lettura ar-
monizzante degli stessi è fuor di dubbio, sicché il loro cumulativo eserci-
zio avrebbe l’effetto di far ottenere l’ordine inibitorio e parallelamente
provocare l’accertamento delle questioni comuni, consentendo ai consu-
matori interessati e pregiudicati dall’illecito di aderire all’azione o di in-
tervenire in giudizio.

240 Cfr. retro, § 3.2.3.6.


241 In generale, cfr. retro, cap. VI, § 5.2.3.
INDICE DEGLI AUTORI CITATI
I numeri romani indicano i capitoli,
mentre il numero arabo indica la nota in cui l’Autore è citato

A ARNAUD, N.: I, 10.


ARNAUD, A.: I, 10.
ACCIARI, M.: X, 123. ARRIA, C.: III, 13.
ADREWS, N.: VI, 28, 29, 47, 52. ARRIGONI, R.: IX, 82.
AGRIFOGLIO, S.: III, 101; IV, 35. ASCARELLI, T.: I, 167; II, 77, 81, 83, 87, 89;
AIMO, P.: I, 12.
VII, 64; X, 15.
ALAIMO, A.: X, 72.
ASQUINI, A.: I, 161, 165, 168, 172, 177; IV,
ALBAMONTE, A.: IV, 38; IX, 46, 68, 69,
40, 44.
115, 164, 183, 184, 188.
ATTARDI, A.: V, 30, 119, 122, 183; VI, 64,
ALESSI, R.: V, 122.
84, 133, 154.
ALLARA, M.: V, 123, 172.
ALLORIO, E.: V, 19, 21, 44, 63, 97, 99, 113, AULETTA, G.: II, 72, 73, 77, 92, 94; IV, 38;
122, 172, 174, 183, 184; VI, 17, 23, 88, V, 172.
105, 154, 156. AUSTIN, J.: V, 98, 99, 103, 110, 111, 123.
ALPA, G.: II, 17, 19, 20; III, 24, 42, 79, 89, AUTERI, P.: II, 95; X, 41.
149, 151; V, 60; VI, 113, 131; IX, 3, 8, AZZARITI, G.: I, 161, 169.
21, 46, 175; X, 1, 7, 9, 12, 55, 61, 93,
99, 140.
B
ALVISI, C.: X, 29, 51.
AMADEI, D.: X, 182, 186. 189, 208, 222, BALDUCCI, C.: VII, 132.
223, 224, 226. BALELLA, G.: I, 161, 163, 164, 170, 173.
AMATO, A.: IV, 38; IX, 76, 183, 186.
BALENA, G.: VI, 85, 115, 121; VIII, 13, 14,
ANDOLINA, I.: III, 5.
21, 50, 51, 53, 54.
ANDREIS, N.: VI, 137; IX, 126, 127, 132.
BALLADORE PALLIERI, G.: V, 22, 30, 35, 36,
ANDRIOLI, V.: I, 161, 164, 182; III, 5, 149;
45, 112, 122.
VI, 13; VI, 20, 22, 23, 113, 122; VIII,
7; IX, 124. BALLESTRERO, M.V.: VIII, 7, 8, 9, 11.
ANGIOLINI, V.: III, 123; IX, 44, 46. BALZARINI, R.: I, 167.
ANGIULI, A.: I, 54; III, 45, 123; IV, 43; IX, BARASSI, L.: I, 73, 151, 167; IV, 42, 44; V,
149. 78.
ANTONIUCCI, M.G.: III, 72. BARBERA, A.: II, 3, 5.
AQUARONE, A.: I, 113. BARBERA, M.: VIII, 9, 19, 24.
ARANGUREN, A.: VII, 5. BARBERO, D.: V, 30, 32, 42, 43, 44, 50, 58,
ARCIDIACONO, L.: III, 19. 86, 113, 122, 172; VI, 23.
ARCUDI, L.: IX, 164. BARBIERA, L.: IX, 46, 183.
ARIETA, G.: VI, 20. BARGELLI, E.: IX, 177.
ARMONE, G.M.: X, 57, 61, 69, 79, 80, 108, BARILE, G.: V, 78.
145, 147, 172. BARILE, P.: II, 3; III, 13.
886 INDICE DEGLI AUTORI CITATI

BARONE, C.M.: III, 94. BONINI BALARDI, M.: VIII, 25.


BARRINGTON WOOLF, T.: VI, 133. BONSIGNORI, A.: VI, 154; VII, 181.
BARTOLOMUCCI, P.: X, 61, 64. BORGHESI, D.: I, 21, 78, 82, 89, 101, 103,
BASILICO, G.: VI, 131; VII, 176; VIII, 17, 159; III, 89, 101, 102; IV, 35, 137;
44, 45, 47, 52, 56; IX, 180. VIII, 16, 17, 21, 22, 25, 29, 38, 58, 63,
BASTIANON, S.: X, 61, 84. 72, 77, 87, 88, 89; IX, 132.
BATÀ, A.: IX, 155. BORGOGELLI, F.: VIII, 31, 32, 33.
BATTAGLIA, F.: I, 114; V, 78. BORGONOVO RE, D.: IV, 38; IX, 46, 74, 82,
BATTELLI, E.: X, 87. 175.
BECCARIA, C.: IV, 47. BOVE, M.: X, 182, 200, 209, 219.
BELLELLI, A.: VI, 126; VII, 176; X, 7, 57, BOZZI, C.: V, 124.
62, 67, 69, 83, 156, 157, 161. BRIGANTI, E.: XI, 46, 61.
BELLI, C.: X, 61, 64, 80, 92, 99, 123, 147. BRIGUGLIO, A.: X, 182, 184, 186, 200, 205,
BELLINI, M.L.: VII, 107. 220, 224.
BELLOMIA, S.: IX, 6. BROCK, F.: II, 94.
BELTRAME, S.: III, 95; IX, 126, 127, 188. BUONCRISTINANO, M.: II, 3.
BENEDETTI, G.: II, 23, 28. BUSNELLI, F.D.: VI, 154.
BENINI, S.: III, 95.
BENTHAM, J.: IV, 1, 18, 48, 49, 50.
C
BENUCCI, S.: VI, 126.
BENVENUTI, F.: I, 12, 29. CACCIATORE, A.: II, 76, 78; X, 14, 19.
BERNATZIK, E.: V, 61. CAFAGNO, M.: IX, 2.
BERTI, G.: I, 12, 29; III, 13, 14, 18, 20, 24, CAFALÀ, L.: VIII, 19, 25, 30.
39, 93, 95; IV, 38; IX, 46, 55, 175. CAIANIELLO, V.: III, 38, 72.
BESSONE, M.: IX, 8, 46, 175; X, 7. CALABRÒ, M.: III, 95; IX, 166.
BETTI, E.: IV, 25; V, 60, 65, 68, 71, 122, CALAMANDREI, P.: I, 161, 183, 184; II, 9,
153, 178; VI, 23, 103, 105, 154. 15; V, 7, 183; VI, 20, 23, 68.
BIAGINI, C.: III, 101, 102; IV, 35. CALOGERO, G.: V, 16.
BIANCA, C.M.: III, 37, 41, 121; IV, 40; V, CALVI, G.L.: X, 57.
132; X, 2, 3. CAMERO, R.: IV, 41, 44; X, 12, 61, 67, 72,
BIGLIAZZI GERI, L.: V, 71; VI, 149; IX, 3, 74, 79, 84, 96, 119, 140, 154.
46, 107. CAMILLI, C.: II, 78.
BILE, R.: III, 12. CAMMARATA, A.E.: V, 127, 174, 179.
BILICH, E.K.M.: VI, 43. CAMMEO, F.: I, 43; V, 60.
BIN, R.: IX, 82. CANNADA BARTOLI, E.: I, 12, 24.
BIONDI, P.: VI, 20. CAPOBIANCO, E.: VI, 115; X, 57, 75, 76, 79,
BOBBIO, N.: II, 3; V, 15, 105, 107. 90, 119, 153, 162.
BONA, C.: IX, 126. CAPOBIANCO, G.L.: I, 161.
BONA, M.: IX, 177. CAPONI, R.: VI, 52, 73, 76, 80, 98.
BONASI BENUCCI, E.: II, 78. CAPPELLETTI, M.: III, 5, 7, 9, 26, 36, 37,
BONATO, G.: IX, 126, 127, 132. 76, 79, 82, 84, 112, 113, 115, 116, 118,
BONAUDI, E.: I, 32, 33, 34, 37, 38, 39, 40, 140, 151, 156, 157; IV, 40; VI, 13, 131;
42, 44, 45, 46, 48, 49, 50, 51, 52, 53, X, 10.
55, 56, 58, 59, 60; IV, 44. CAPPELLETTO, M.: I, 65, 78.
BONE, R.G.: VI, 45. CAPPONI, B.: III, 112; X, 12, 73.
BONELL, M.J.: X, 53. CAPRIOLI, S.: I, 77, 78.
INDICE DEGLI AUTORI CITATI 887

CARAVITA, B.: I, 32; III, 13, 42, 45, 68, 81, CAZZOLA, G.: I, 78.
89, 123; IV, 35, 43; IX, 28, 44, 46, 51, CECCHELLA, C.: I, 78, 80, 101; IV, 43; VI,
76, 82, 165. 23, 115; VII, 94.
CARBONARA, F.: IV, 44; VI, 95; VII, 85; X, CECCHETTI, M.: IX, 82.
57, 72, 163, 168. CENA, D.: X, 61, 99.
CARBONE, V.: IX, 8, 46. CENDON, P.: IX, 46, 49, 50, 177.
CARBONNIER, J.: V, 173. CERASANI, C.: X, 61.
CARCATERRA, G.: V, 99, 109, 172, 187. CERRI, A.: III, 37, 46, 81, 89, 93, 145; IV,
CARINCI, F.: VII, 132. 35; V, 172; VII, 140, 170.
CARINGELLA, F.: III, 42; IX, 24. CERRONI, U.: III, 76.
CARIOTA FERRARA, L.: V, 172. CERULLI IRELLI, V.: I, 12.
CARLE, G.: I, 6. CESARINI SFORZA, W.: I, 119, 120, 121, 122,
CARLETTI, F.: III, 43. 123, 124, 125, 126, 127, 128, 129, 130,
CARNELUTTI, F.: 116, 136, 137, 138, 139, 131, 132, 133, 134, 135, 140, 167, 187,
140, 141, 143, 144, 148, 149, 150, 161, 189; II, 1, 2, 4, 48; IV, 16, 17, 32, 44,
167, 173, 174, 178, 180, 181, 190, 191, 61; V, 16, 46, 63, 99, 105, 123, 174,
192; II, 48, 77; IV, 2, 7, 8, 13, 32, 35, 176, 178, 186.
36, 44, 69, 75; V, 32, 33, 34, 3, 36, 75, CHIARELLI, G.: II, 4.
126, 172, 183; VI, 23, 68, 95, 163. CHIARLONI, S.: IV, 40; VI, 26, 68, 81, 126,
CARNEVALE, V.: VI, 63, 68, 73, 81. 130, 154, 160; X, 57, 71, 87, 149, 153,
CARONI, P.: I, 10. 156, 172, 173, 174, 176, 181, 193, 209,
CARPI, F.: III, 37, 152; IV, 44; VI, 23, 131, 215.
133, 149, 154, 159. CHIAVASSA, A.: VIII, 37, 43.
CARPINO, B.: V, 172. CHIECO, P.: VIII, 9, 24.
CARRATTA, A.: III, 33, 37, 45, 77, 79, 89, CHIERICONI, E.: VII, 1.
105, 110, 146, 152; IV, 40, 44; VI, 106, CHINDEMI, D.: IX, 46.
115, 116, 130, 141, 160; IX, 55, 81, CHINÈ, G.: IV, 44; X, 57, 61, 68, 72, 75,
117, 126, 130; X, 57, 61, 71, 72, 77, 76, 108, 117, 154.
78, 79, 88, 99, 108, 110, 154, 158, 162, CHIOVENDA, G.: I, 95; II, 71; V, 122, 153,
176, 181, 190, 194, 198, 210, 214, 216, 172, 183; VI, 20, 23, 68, 82, 87, 88, 96,
218, 236. 105, 147, 154, 159.
CARULLO, A.: III, 104. CHIRONI, G.P.: V, 52.
CASANOVA, M.: I, 65; II, 77. CHIZZINI, A.: VI, 157.
CASCAVILLA, M.: I, 10. CICALA, F.B.: V, 59, 68, 88, 108, 155.
CASETTA, E.: III, 42; V, 123. CICCHITI, V.E.: VI, 126; VIII, 13, 16, 17,
CASSARINO, S.: III, 124; IV, 67; V, 30, 99, 27, 29, 31, 48, 50, 51, 52, 54, 57, 86.
119, 122, 126, 131, 136, 172, 174. CIOFFI, A.: I, 161, 165.
CASSESE, S.: I, 10, 51. CIPRESSI, P.: IV, 41; VI, 115; VII, 1, 94,
CASTELVETRI, L.: I, 61, 63, 64, 78, 80; VIII, 155.
27. CIVITARESE MATTEUCCI, S.: III, 95.
CASTRONOVO, C.: IX, 46, 89, 175. COCCO, G.: III, 13, 16; IX, 46, 121.
CATALDO, A.: III, 42, 68. COHEN, C.: IV, 32.
CATALINI TONELLI, P.: VIII, 11, 15. COLACINO, L.: III, 37, 89; IV, 35.
CATTANI, M.: VIII, 30. COLAGRANDE, R.: X, 61, 78, 79, 99, 140.
CAVALLINI, C.: X, 210. COLLIA, F.: VII, 1.
CAVALLO PERIN, R.: IX, 82. COLOMBINI, G.: III, 123; IX, 44.
CAZZETTA, G.: I, 65, 118. COLUSSI, V.: V, 132.
888 INDICE DEGLI AUTORI CITATI

COMOGLIO, L.P.: II, 7, 13; III, 5, 37; V, DAHRENDORF, R.: VII, 66, 71.
167; VI, 13, 139; X, 61, 181. DALFINO, D.: III, 95; IX, 133.
COMPORTI, M.: V, 66, 122; IX, 29, 46, 115, DAMONE, R.: III, 95.
175. DANOVI, F.: VI, 131; X, 57, 71, 79, 95, 146,
CONIGLIO, A.: I, 161. 162.
CONSOLI, G.: III, 94. DE ANGELIS, L.: VI, 131; VII, 170; VIII, 8,
CONSOLO, C.: III, 111; VI, 20, 52, 99, 115; 13, 21, 37, 41, 52, 54, 86.
IX, 180; X, 57, 92, 153, 162, 181, 182, DE BARROS LEONEL, R.: VI, 3, 41.
208, 223, 237. DE CESARIS, A.L.: IX, 133.
CONTI, R.: X, 72, 74, 87, 105, 106, 117, DE CRISTOFARO, G.: X, 61.
121, 212, 213. DE CRISTOFARO, M.: X, 57.
COPI, I.M.: IV, 32. DE CUPIS, A.: V, 60; IX, 188.
COPPINI, C.L.: IX, 183. DE LITALA, L.: I, 161.
CORAPI, D.: III, 111. DE LUCA TAMAJO, R.: VII, 132.
CORASANITI, A.: III, 43, 47, 49, 79, 89, 91, DE MARZO, G.: IX, 141.143, 178.
94; IV, 35, 43; V, 10; IX, 13, 18, 23. DE NEGRI, R., X, 57.
CORDEDDA, G.: VII, 160. DE NOVA, G.: X, 104, 117.
CORDERO, F.: V, 99, 105, 172, 174, 177, DE PALO, M.: VI, 68.
182, 183; VI, 98. DE PAULI, A.: IX, 85.
CORDOPATRI, F.: V, 172. DE RUGGIERO, R.: V, 53, 60.
COSSIGNANI, F.: X, 231. DE SANTIS, A.D.: X, 121, 181, 212.
COSTA, P.: I, 7, 10. DE SIERVO, U.: II, 14.
COSTAMAGNA, C.: I, 160, 161. DE SIMONE, G.: VIII, 9, 25.
COSTANTINO, G.: II, 93; III, 37, 46, 79, 89, DE TILLA, M.: IX, 53.
103, 150; IV, 35, 41; V, 11; VI, 23, 126, DEL REGNO MONTAGNA, M.R.: IX, 53, 164.
154; VIII, 97; X, 84, 181, 182, 199, DEL VECCHIO, G.: V, 15, 51, 76, 77.
208, 237. DELFINO, F.: III, 89.
COSTANZA, M.: X, 53. DELL’ACQUA, C.: IV, 35; IX, 53.
COSTANZO, A.: IX, 46, 114, 165, 175. DELL’ANNO, P.: IX, 46, 115.
COVIELLO, N.: V, 60. DELL’OLIO, M.: II, 28, 32, 44, 45, 46, 47;
CRAVERI, P.: I, 65. IV, 43, 65; VI, 115; VII, 94, 140, 153.
CRESTI, M.: I, 31, 50; III, 13, 23, 31, 43, DELL’UTRI, M.: VI, 149.
89, 93, 96, 103, 124, 125; IV, 35; V, 12. DELLA VALLE, S.: IV, 41, 44; X, 12, 61, 67,
CRISTOFOLINI, G.: VI, 20. 72, 74, 79, 84, 96, 119, 140, 154.
CURCIO, L.: VIII, 15, 17, 25, 42, 49, 50, 72, DENTAMARO, B.: VIII, 18.
103. DENTI, V.: II, 20; III, 26, 37, 40, 43, 47, 48,
49, 74, 76, 77, 79, 83, 84, 86, 112, 113,
D 115, 116, 118, 147, 149, 152; IV, 35; V,
183; VI, 26, 73, 84, 113, 114, 126; VII,
D’ADDA, A.: IX, 178. 2; IX, 24, 26.
D’AGOSTINO, G.: I, 161, 175, 177, 180, DERNBURG, H.: V, 122.
181; VI, 163. DI CERBO, V.: VII, 1.
D’ALESSIO, R.: II, 3. DI COLA, L.: IX, 8, 58, 126, 127.
D’AMELIO, G.: I, 10. DI FAZZIO, G.: X, 117, 212.
D’ANGELO, G.: IX, 9. DI FRANCO, L.: I, 78, 85.
D’ORTA, C.: III, 123; IX, 44, 46, 175. DI GIOVANNI, F.: IV, 40; IX, 1, 3, 10, 12,
DABIN, J.: V, 122. 24, 27, 28.
INDICE DEGLI AUTORI CITATI 889

DI MAJO, A.: I, 10; II, 78; IV, 35; VI, 70; FERRARI, E.: IX, 82.
VII, 176; X, 4, 5, 6, 7, 8, 87. FERRI, C.: VI, 115, 154; X, 57, 153, 162.
DI MARTINO, A.: IX, 137, 156. FERRI, G.: II, 92, 93; IV, 41.
DI PAOLO, A.: II, 78. FERRI, G.B.: X, 7.
DI SCIASCIO, E.: III, 95. FERRO, M.: X, 14.
DILCHER, G.: I, 10. FILOMUSI GUELFI, F.: V, 60.
DONATI, B.: V, 78. FIMIANI, P.: IX, 133, 145, 146, 166.
DONDI, A.: III, 111. FINZI, E.: II, 78; V, 99.
DONDI, G.: VIII, 27. FLAMMIA, R.: II, 27.
DONZELLI, R.: IV, 35; VI, 52, 108; VIII, 17, FLORIDIA, G.: II, 78, 92, 94, 96, 97, 98, 99;
59, 75; X, 237. IV, 38; X, 26, 27, 30, 32, 41, 42.
DOSSETTI, G.: II, 16. FORNACIARI, M.: V, 172.
DOSSETTI, M.: X, 2. FORTE, F.: IX, 9.
DUSI, B.: V, 72. FOVEL, N.M.: I, 114.
FRANCARIO, L.: IV, 38; IX, 46, 55, 86, 87,
E 88, 89, 90, 91, 92, 93, 116, 117, 165,
184, 186, 187, 188; X, 2.
EINAUDI, L.: I, 115. FRANCESCHELLI, R.: II, 76, 83; X, 42.
ESPOSITO, C.: I, 167; V, 46, 124, 174. FRANCHI, G.: VI, 17, 68.
EVANGELISTA, S.: X, 154. FRANZONI, M.: IX, 46, 76, 121, 175, 177.
FRASCA, R.: VI, 23; VIII, 86.
F FRENI, A.: VI, 115; VII, 6, 10, 62, 63.
FRIEDMAN, M.W.: VI, 45.
FABBIO, P.: X, 60. FRIGNANI, A.: VI, 65, 115; VII, 176; X, 57,
FABBRINI, G.: VI, 99, 105, 154, 159; VIII, 153, 162.
7, 39, 86; X, 151. FRITTELLI, A.: III, 72.
FABENI, S.: VIII, 25, 38. FROSINI, V.: V, 39, 66, 78, 172, 174.
FABIANI, E.: VI, 74. FURNO, C.: V, 60, 183; VI, 68.
FALZEA, A.: IV, 4, 11, 14, 15, 27, 47; V, 18,
172.
FASANO, A.: VIII, 9. G
FASSÒ, G.: IV, 47, 53, 60, 63.
FAVA, P.: X, 181. GABRIELLI, E.: III, 26, 32, 37, 78, 89; X,
FAZZALARI, E.: III, 37, 84, 120, 122; IV, 38; 57, 78.
V, 99, 122, 123, 126, 128, 153, 172, GALATINO, L.: VII, 132.
183; VI, 23, 105. GALGANO, F.: II, 21; V, 124; X, 9.
FAZZIO, G.: IV, 44; X, 72. GALIZIA, A.: I, 72, 73, 74; IV, 42, 44, 77.
FEDERICI, A.: VII, 160. GALLI, P.: I, 167.
FEDERICI, R.: III, 13, 19, 89; IV, 35. GALLO, P.: V, 78.
FEOLA, D.: IX, 46. GAMBINO, A.: X, 40.
FERRAJOLI, L.: II, 18, 20, 21. GANDINO, A.: III, 95.
FERRANTE, M.: V, 66. GARBAGNATI, E.: IV, 41; V, 27, 35, 36, 115,
FERRANTE, V.: VIII, 16. 119, 122, 126, 172, 183; VI, 22, 23, 24,
FERRARA, F. jr.: II, 77. 68, 146, 157; VII, 31, 32, 33, 34, 35,
FERRARA, F. sr.: V, 99, 136, 154, 159, 172. 36, 49, 50, 51, 106, 160, 172.
FERRARA, R.: III, 7, 13, 17, 33, 43, 48, 81, GAROFALO, M.G.: II, 38, 41; IV, 43; VI,
93, 98, 99, 100, 103; IV, 35; V, 12. 115; VII, 1, 61, 68, 69, 72, 73, 74, 75,
890 INDICE DEGLI AUTORI CITATI

76, 77, 78, 79, 80, 81, 82, 83, 84, 85, GRAZIUSO, E.: X, 57, 68.
86, 87, 88, 89, 107, 135, 180; VIII, 34, GRECO, A.: VIII, 26.
38. GRECO, F.: II, 77.
GASPANI, V.: X, 57. GRECO, G.: IV, 38; IX, 46, 71, 72, 73, 74,
GASPARINETTI, M.: X, 12. 115.
GASPARRI, P.: V, 78, 118. GRECO, P.: I, 161, 169.
GAZZONI, F.: V, 60. GRECO, R.: VII, 140.
GENOVESE, A.: X, 2. GROSSI, P.: I, 10, 63; II, 17, 19, 20, 22, 24.
GENTILI, A.: III, 90. GUARINO, G.: IV, 6; V, 41, 58, 89, 90, 91,
GERRATANA, V.: I, 10. 92, 93, 94, 95, 96, 117, 172.
GHERA, E.: II, 40; VII, 135; VIII, 5. GUARNIERI, A.: V, 172.
GHEZZI, G.: VI, 85, 131; VII, 6, 44, 47, 57, GUARRIELLO, F.: VIII, 12, 24, 33, 37, 42,
58, 134. 46.
GHIDINI, G.: II, 80, 82, 86, 88, 92; IV, 35; GUASTINI, R.: V, 174; VII, 143.
X, 7, 9, 17, 26, 27, 28, 30, 31, 41, 61. GUERRA MEDICI, M.T.: I, 10.
GHIRON, M.: II, 68, 69, 70, 71, 72, 79, 80, GUGLIELMETTI, G.: II, 66, 77, 79, 81, 85,
84, 85, 87; IV, 35. 87.
GHISALBERTI, C.: II, 5. GUICCIARDI, E.: III, 96.
GIAMPIETRO, F.: IV, 38; IX, 19, 45, 46, 68, GUIDI, D.: I, 161, 168, 173; IV, 40.
82, 115, 118, 121, 134, 144, 145, 147, GUIDOTTI, F.: I, 161.
148, 150, 159, 164, 166, 169, 171, 172.
GIANNINI, M.S.: I, 12, 13, 19, 50; III, 17,
38, 42, 52, 53, 54, 55, 56, 57, 123; IV, H
38; IX, 2. HAZARD Jr: VI, 133.
GIDI, A.: VI, 3, 41, 125.
HODGE, C.: VI, 29, 52, 55, 56.
GIORGIANNI, M.: II, 78; III, 76; V, 71.
HOESCH, L.: VIII, 37, 43.
GIOVA, S.: IX, 134.
HOHFELD, W.N.: V, 98, 103, 123.
GIRACCA, M.P.: IX, 126, 127.
HOLD VON FERNECK, A.: V, 106, 123, 125.
GIUGGIOLI, P.F.: III, 111; X, 181.
GIUGNI, G.: II, 4, 26, 28; VI, 115; VII, 6,
10, 62, 63, 65, 67, 132, 135; X, 8. I
GIULIANI, A.: VII, 140.
GIULIANO, M.: V, 97, 123, 172, 174. INVREA, F.: V, 68, 172; VI, 68.
GIUSSANI, A.: III, 111; VI, 28, 43, 115, IRTI, N.: V, 19, 99, 123, 137, 172, 174, 187;
131; X, 57, 61, 68, 75, 76, 82, 83, 89, VI, 88; VII, 187.
100, 110, 111, 145, 148, 152, 153, 154, ISSACHAROFF, S.: VI, 45.
158, 162, 181, 182, 183, 204, 206, 208, IUDICA, G.: V, 78.
237. IURILLI, C.: VI, 52.
GOTTARDI, D.: VIII, 3, 8, 19, 24, 25, 31. IZZI, D.: VI, 131; VIII, 12, 21, 37, 44, 52,
GRANDI, M.: I, 78; IV, 41; VI, 146; VII, 7, 54.
25, 26, 27, 28, 29, 52, 53.
GRANIERI, M.: IX, 177; X, 123. J
GRASSANO, P.: III, 72.
GRASSO, E.: III, 10, 37, 105, 115, 117, 119, JAEGER, N.: 115, 152, 161, 175, 176 , 177,
142, 155; IV, 40; VI, 20; IX, 46, 67, 84, 179, 181; II, 49, 51, 53, 56, 58, 61, 62,
85, 115, 121, 165, 175. 63, 64; IV, 10, 22, 32, 35, 36, 61, 69;
GRAZIADEI, M.: V, 14, 99, 153. VI, 163.
INDICE DEGLI AUTORI CITATI 891

JAEGER, P.G.: II, 50, 54, 55, 56, 60, 62, 77, LIBERTINI, M.: II, 80, 92, 94; IV, 38; VI, 66,
78, 89, 102, 103, 104, 105; IV, 10, 32, 70, 131; VII, 176; IX, 46, 55, 71, 74,
35, 36, 42, 75; X, 18, 19, 25, 34, 35, 117; X, 20, 57, 79, 91, 146, 147, 150,
36, 37, 38, 39, 40, 41. 172.
JAFFE, L.L.: III, 113. LIEBMAN, E.T.: V, 169, 183; VI, 20, 68,
JASPER, M.C:, VI, 44. 104, 133, 137, 156; X, 155.
JELLINEK, G.: IV, 67; V, 61. LIGUORI, A.: IX, 134, 135, 136, 156.
JEMOLO, A.C.: II, 3; V, 16. LO CIGNO, O.: II, 92, 94; IV, 38.
JHERING, R.: V, 31, 123, 132, 133, 134, 145, LOMBARDI, G.: II, 3.
165, 166, 168; VI, 70. LUBRANO DI RICCIO, G.: IX, 53.
JOCTEAU, G.C.: I, 113, 153, 155. LUCI, F.: IX, 126.
JOLOWICZ, J.A.: VI, 28, 47. LUCIANI, M.: III, 42, 59; IV, 35; IX, 18.
JONES, C.: VI, 39, 45, 49. LUISO, F.P.: VI, 99, 104, 116, 154; VIII, 85,
86.
K LUMINOSO, A.: IX, 46, 76, 81, 114, 175.
LUNARDON, F.: VII, 1; VIII, 9.
KANT, I.: V, 46. LUNGHEZZA, P.: X, 72.
KELSEN, H.: V, 30, 40, 62, 102, 103, 105,
136, 142, 153, 154, 156, 161, 162, 163, L
164.
KLONOFF, R.H.: VI, 43. MACIEL JÙNIOR, V.: VI, 3.
MADDALENA, P.: III, 102; IV, 35, 44, 45;
L IX, 13, 14, 32, 39, 40, 42, 44, 45, 46,
51, 53, 55, 70, 80, 89, 94, 96, 97, 98,
LA CHINA, S.: VI, 121; VIII, 100, 101, 107. 99, 100, 101, 102, 104, 106, 107, 108,
LA LUMIA, I.: II, 77. 109, 110, 112, 115, 126, 129, 131, 164,
LA TORRE, M.: V, 23, 132. 168, 171; X, 161.
LANDI, P.: IV, 35; IX, 46, 79, 117, 164, MAESTRONI, A.: III, 95.
167, 168. MAIELLO, U.: V, 78.
LANFRANCHI, L.: III, 3, 5, 37, 87, 89, 103, MAIORCA, C.: V, 39.
137, 151, 152; IV, 35; VI, 20, 24, 68, MAIORCA, S.: X, 2.
108, 126, 131; VII, 5, 8, 10, 11, 12, 15, MALAGNINO, D.: IX, 126, 127.
16, 17, 18, 19, 20, 21, 55, 117, 126, MALVEAUX, S.M.: VI, 43.
129, 170, 172, 173; VIII, 17, 58, 68, MANCARELLI, P.: VIII, 9.
72, 75, 76, 91; X, 66, 69, 78, 80, 100, MANCINI, F.: VII, 4.
109, 112, 142, 194. MANCINI, G.P.: II, 41.
LAPERTOSA, F.: VI, 115, 126; X, 57, 69, MANDRIOLI, C.: V, 183; VI, 23, 65, 68, 154.
153, 156. MANGINI, V.: II, 76.
LEANZA, P.: VII, 1. MANNORI, L.: I, 12.
LEIBNIZ, G.W.: IV, 53. MANTELLINI, G.: I, 27.
LENER, A.: III, 26, 37, 46, 89; V, 172; IX, MANTELLO, M.: VIII, 25, 27.
11, 28. MANTINI, P.: IX, 82.
LESSONA, C.: I, 78, 93. MARCHESE, S.: III, 95.
LEVI, A.: V, 30, 31, 55, 79, 80, 81, 83, 108, MARCHETTI, D.: I, 161, 169.
118. MARCUS, R.L.: VI, 111.
LEVI, F.: III, 21. MARENGO, R.: X, 57, 61, 88, 99, 121, 156,
LEVI, G.: II, 3. 172, 173, 176, 181, 183, 195.
892 INDICE DEGLI AUTORI CITATI

MARIANI, M.: VIII, 23. MONDA, G.M.: VIII, 19.


MARINUCCI, E.: I, 184; IV, 44; VI, 67, 126; MONTANARI, M.: VI, 84.
X, 57, 61, 72, 91, 99, 121, 156, 158, MONTELEONE, G.A.: VI, 20, 23, 105, 148.
160, 169, 170, 171, 176, 181. MONTESANO, L.: III, 94; VI, 17, 20, 23, 66,
MARTINETTO, P.: X, 57. 68, 70, 81, 96, 126; VII, 179; VIII,
MARTONE, C.: VIII, 8. 106, 107; IX, 19; X, 57, 152, 158, 164,
MARTONE, L.: I, 11. 165, 166, 167.
MARTONE, M.: I, 113; II, 28. MONTUSCHI, L.: VIII, 6.
MARUFFI, R.: VIII, 26. MORABITO, V.: VI, 45.
MARUOTTI, L.: III, 72. MORBIDELLI, G.: IX, 46, 66, 115, 164.
MASINI, S.: IX, 153, 156, 166. MORELLI, M.R.: III, 94.
MASTRODONATO, G.: IX, 126. MORETTI, C.: X, 57, 162.
MATARESE, L.: IX, 178. MORROZZO DELLA ROCCA, P.: VIII, 4, 27,
MATHIOT, A.: V, 173. 89.
MAUGERI, M.R.: IX, 178. MORTARA, L.: I, 43, 81, 82, 96, 98, 99, 100;
MAZZAMUTO, S.: IX, 46; X, 61, 87, 140. IV, 37; VI, 58.
MAZZONI, C.M.: X, 9. MORTATI, C.: II, 3.
MAZZONI, G.: I, 161, 167, 171, 177. MOSCARINI, L.V.: IX, 46, 76, 78, 117, 121,
MAZZOTTA, O.: VII, 110, 121. 175.
MENCHINI, S.: III, 79; V, 172; VI, 23, 46, MOSCO, L.: II, 77, 90, 94; IV, 38.
83, 84, 94, 99, 101, 105, 126, 129, 142, MULHERON, R.: VI, 28, 29, 39, 47, 48, 52,
154, 155, 158; VII, 169; VIII, 97, 98; 54; X, 187.
X, 121, 176, 182, 186, 203, 208, 222,
224, 228, 232, 233, 237.
MENESTRINA, F.: VI, 82. N
MENGONI, L.: I, 65.
NAGAREDA, R.A.: VI, 45.
MESSINA, G.: I, 66, 67, 68, 69, 70, 71, 74;
NAPOLI, E.V.: X, 57.
IV, 36, 40, 77; V, 172.
NAPOLITANO, G.: X, 2.
MEZZASOMA, L.: X, 181.
NAPPI, S.: VII, 145.
MEZZETTI, L.: IX, 82.
NATOLI, U.: II, 78; V, 32, 41, 54, 67, 72,
MIELE, G.: II, 24; V, 122, 172.
73, 74, 99, 116, 117; IX, 51.
MIGHELI, G.A.: V, 183.
NAVARRETTA, E.: IX, 177.
MIGLIARESE, F.: IX, 82.
NENCIONI, G.: VI, 23.
MIGLIORATI, G.: IX, 177.
NEPPI MODONA, G.: I, 155.
MIGNONE, C.: IX, 132.
NICOLÒ, R.: V, 32, 58, 68, 172; VI, 10.
MILDRED, M.: VI, 54.
NICOTINA, G.: X, 57, 79, 89, 168.
MILETO, S.: IX, 82.
NIGRO, M.: III, 13, 21, 42, 60, 81, 87, 89,
MILETTI, A.: IX, 178, 182.
93, 103; IV, 35; IX, 51.
MINERVINI, A.: VIII, 12.
NIVARRA, L.: V, 78; X, 212.
MINERVINI, E.: IX, 46, 164; X, 54, 56, 57,
NOVARESE, F.: IX, 46.
60, 61, 72, 79, 105, 106, 118, 121, 153,
NUNIN, R.: VIII, 19, 25.
154, 162.
MINERVINI, G.: II, 78, 80, 84; IV, 44.
MIRANDA PIZZOL, P.: VI, 41, 125. O
MOLASCHI, V.: III, 95.
MOLLE, A.: IX, 46. ODORISIO, E.: VI, 126; X, 61, 100, 157,
MONACCIANI, L.: VI, 22. 158, 159.
INDICE DEGLI AUTORI CITATI 893

OFFEDDU, M.: I, 78. PERUGINI, S.: III, 42.


OLIVIERI, G.: IV, 35; IX, 46, 58, 79, 117. PESSI, R.: VII, 140; VIII, 12, 13, 42, 45, 47.
ORESTANO, A.: X, 57, 78. PETRELLI, P.: IV, 44; X, 57, 61, 71, 72, 120.
ORESTANO, R.: V, 19, 20. PETRILLO, C.: II, 78; VI, 115; X, 57, 61, 62,
ORIANI, R.: V, 172. 64, 68, 84, 153, 154, 162.
ORLANDO, M.: I, 10. PETROLATI, F.: VII, 176; IX, 180.
ORLANDO, V.E.: I, 43. PICOZZA, E.: IX, 82.
ORLINI, F.: III, 95. PIETROBON, V.: VI, 66; VII, 176.
ORNAGHI, L.: I, 113; IV, 3, 19. PIGA, F.: III, 94; IX, 19.
ORRÙ, G.: I, 10. PIRAINO, S.: III, 37, 81, 89; IV, 35.
PIRAS, A.: I, 12, 13, 19, 50.
P PIZZORUSSO, A.: II, 3.
PLAIA, A.: X, 61, 72, 87, 121, 140, 213.
PACE, A.: II, 3. POCAR, V.: I, 10.
PAGNI, I.: IV, 44; V, 172; VI, 126; VII, 176; PODDIGHE, E.: X, 55, 57, 75, 90.
IX, 181; X, 61, 72, 82, 100, 113, 114, POLI, M.: III, 85.
115, 116, 122, 123, 157, 158. POLI, R.: VI, 84, 86; VIII, 98.
PALMIERI, A.: X, 56, 57, 72, 121, 213. PONCIBÒ, C.: IV, 44; X, 61, 72, 73, 121,
PALMIGIANO, A.: X, 61, 74, 117. 181.
PANETTA, E.: III, 7. PONZANELLI, G.: IX, 82.
PANETTA, R.: IX, 46, 127. POSTIGLIONE, A.: III, 37, 94; IV, 35; IX, 2,
PANZAROLA, A.: V, 183. 13, 14, 15, 16, 17, 19, 32, 33, 34, 35,
PAOLINI, R.: VIII, 7, 75, 86. 36, 37, 38, 46, 51, 52, 53, 58, 62, 63,
PAPALEONI, M.: VII, 1, 174. 64, 65, 77, 82, 115, 117, 121, 133, 134,
PARADISO, M.: IX, 9.
151, 156, 165.
PARDOLESI, R.: III, 35, 45, 78; V, 1; IX,
POTO, M.: III, 95.
177.
POZZO, B.: IX, 46, 165.
PASSANTI, P.: I, 65, 78.
PRATI, L.: IX, 133, 136, 148, 154, 187.
PATRONI GRIFFI, F.: III, 13.
PREDIERI, A.: IX, 2.
PATTI, S.: II, 20; III, 94, 111; IV, 35; IX, 1,
PROSPERETTI, U.: VII, 132.
8, 10, 13, 14, 16, 17, 18, 20, 25, 26, 32,
46. PROTO PISANI, A.: I, 78; II, 20; III, 34, 37,
PAVONE LA ROSA, A.: X, 3. 58, 69, 83, 84, 89, 103, 115, 137, 149,
PEDRAZZA GORLERO, M.: II, 3. 150, 152, 153; IV, 4, 35, 40; V, 183; VI,
PEKELIS, A.: V, 163. 23, 65, 68, 73, 78, 99, 105, 112, 113,
PELLEGRINI GRINOVER, A.: III, 152; VI, 3, 126, 131, 133, 153, 154, 157, 158, 159,
41, 125, 126. 168; VII, 3, 12, 36, 37, 38, 42, 43, 56,
PENE VIDARI, G.S.: I, 12. 123, 150, 160, 170, 172, 176, 181.
PERA, G.: VII, 15, 24, 106, 147, 160, 170, PUGLIATTI, S.: I, 167; II, 78; III, 76; V, 16,
181, 182. 60, 64, 65, 68, 69, 70, 71, 99, 172; IX,
PERASSI, T.: V, 131, 174. 103.
PERGOLESI, F.: I, 161, 163. PUGLIESE, F.: III, 95; IX, 188.
PERLINGIERI, P.: II, 21; VII, 176. PUGLIESE, G.: V, 27, 50, 58, 97, 99, 115,
PERONE, G.C.: VII, 1. 123, 126, 153, 172, 180; VI, 84, 154.
PEROZZI, S.: V, 124. PULEO, A.: VI, 131; VIII, 13, 21, 41, 48,
PERSIANI, M.: I, 167; II, 27, 28, 39, 43, 44, 50, 52.
77; VII, 5, 131, 132. PULEO, S.: V, 172.
894 INDICE DEGLI AUTORI CITATI

PUNZI, C.: III, 42; V, 144; VI, 22, 24, 115, 44, 47, 48, 57, 58, 59, 103, 134, 160,
121, 122, 146; VII, 13, 15, 22, 23, 49, 170.
50, 160, 181, 182; VIII, 66, 91, 95; IX, ROMANO CASTELLANA, A.: I, 161.
115, 128; X, 57, 59, 61, 103, 136, 153, ROMANO, A.: I, 12; III, 13, 81, 86, 93, 94,
154, 162. 97; IV, 35; V, 12; IX, 5, 6.
PUTTI, P.M.: X, 57. ROMANO, F.: V, 174.
ROMANO, Santi: I, 167, 185; V, 97, 122,
172, 174.
R ROPPO, E.: X, 2, 9.
ROPPO, V.: X, 55.
RAMM, T.: I, 10.
ROSEMBERG, D.: VI, 45.
RANELLETTI, O.: I, 43; V, 131.
ROSS, A.: V, 98, 99, 103, 123.
RAPISARDA, C.: III, 37, 46, 86; IV, 38; VI,
ROSSI CARLEO, L.: VI, 128; X, 62.
64, 65, 73, 124, 131, 154; VII, 176;
ROSSI, E.: II, 3.
VIII, 7, 8, 12, 13, 14, 21, 36, 37, 40,
ROTA, R.: III, 30, 43, 93.
41, 50, 52, 55, 86, 88, 91, 100, 198; IX,
ROTONDI, F.: VII, 1.
29.
ROUSSEAU, J.J.: IV, 54, 55, 56, 62.
RASELLI, A.: I, 161, 165, 166, 168, 172,
ROVELLI, F.: I, 161, 169, 177, 192.
177; II, 59; IV, 42, 44.
ROVELLI, R.: II, 92, 94; IV, 38.
RATTO, L.: 92, 93, 105; IV, 42.
RUBINO, D.: VI, 149.
RAVÀ, A.: V, 78, 118,.
RUFFOLO, U.: III, 7, 26, 37, 78, 81; V, 2; X,
REBUFFA, G.: I, 12.
27, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 49, 50, 51,
RECCHIA, G.: II, 4.
57, 94, 95, 162.
RECCHIA, G.A.: VIII, 38.
RUSCIANO, M.: VII, 131.
RECCHIONI, S.: VI, 99; IX, 121, 123.
RUSSO, E.: III, 37, 78, 89, 90; V, 9, 24, 25,
REDENTI, E.: I, 77, 78, 79, 91, 95, 106, 107,
172.
108, 110, 111, 112; V, 21, 132, 143,
163, 171, 183; VI, 18, 23, 105, 122,
131, 133, 154; X, 134. S
REICH, N.: I, 10.
RESCIGNO, P.: II, 3; III, 6, 79, 111, 149; IV, SACCHETTINI, E.: VIII, 26.
44; V, 66; VI, 122; IX, 52, 188; X, 72, SALANDRA, A.: I, 12, 14, 15, 16, 21, 22, 23,
121. 25.
RICCI, E.F.: VI, 104; VII, 159. SALANITRO, U.: IX, 46.
RICCIUTO, V.: V, 78. SALVI, C.: IV, 40; IX, 9, 10, 12, 18, 20, 24,
RIMOLI, F.: I, 11. 30, 31, 41, 42.
RIVA SANSEVERINO, L.: VII, 5. SALVI, G.: IX, 133, 149, 156, 158, 166,
RIZZARDO, D.: VI, 52. 173, 177.
ROCCO, Alf.: V, 60, 71, 172, 183. SALVIOLI, G.: I, 7.
ROCCO, Art.: IV, 10; V, 60, 71. SANDULLI, A.M.: II, 65; III, 13, 15, 16, 22,
ROCCO, U.: IV, 10; V, 60, 71, 108, 172, 23, 59, 96; IV, 35; V, 3; IX, 24.
183; VI, 23. SANTAGADA, F.: VIII, 29.
RODOTÀ, S.: III, 45, 78, 84; IX, 26, 51. SANTAGATA, C.: II, 78; X, 16, 18, 20, 21,
ROMAGNOLI, G.: X, 57, 84, 162. 22, 23, 24, 25, 41.
ROMAGNOLI, U.: I, 61, 65, 66, 80, 82, 87, SANTANIELLO, G.: III, 13, 25, 42, 68; IV,
90, 95, 101, 105, 109, 110, 146, 155, 43.
159; II, 28; VI, 85, 131; VII, 7, 13, 14, SANTINI, G.: II, 78, 100.
INDICE DEGLI AUTORI CITATI 895

SANTORO PASSARELLI, F.: I, 167; II, 24, 29, STANZIONE, P.: X, 53.
30, 33, 34, 35, 36, 37; IV, 34, 41, 43, STELLA, F.: X, 211.
44, 73, 74, 75; V, 60, 78, 97, 118, 172; STIFANO, M.: IX, 133, 149, 156, 173.
VI, 146; VII, 25, 52, 117. SUPPIEJ, G.: II, 28.
SAPIO, G.: VI, 131; X, 57, 146, 162.
SASSANI, B.: VI, 17, 71, 73, 78, 79, 122,
161; VII, 160; VIII, 13, 14, 86, 88. T
SATTA, F.: III, 43.
TACCOGNA, G.: VI, 137.
SATTA, S.: V, 19, 44, 131, 144, 183; VI, 22,
TARELLO, G.: I, 113; II, 25, 26, 28.
99, 143.
TARUFFO, M.: II, 20; III, 77, 84, 111, 113,
SAVIGNY, F.C.: V, 47, 48, 49.
152; IV, 35, 41; VI, 65, 84, 86, 96, 126,
SBRICCOLI, M.: I, 10.
131, 154, 157; VII, 1, 12, 25, 30, 56,
SCALISI, V.: IX, 9.
SCARPELLO, A.: X, 57. 106, 117, 150, 172, 176; IX, 46, 52, 54,
SCARPONI, S.: VIII, 9, 25. 57, 58, 59, 60, 61, 76, 122, 165; X,
SCARSELLI, G.: VIII, 27, 29, 81, 89. 185, 188.
SCHETTINI, C.: IX, 121, 124, 125. TARZIA, G.: I, 32; III, 43; IV, 36; VI, 131;
SCHLESINGER, P.: V, 60; X, 19. VIII, 27, 29, 37, 51, 86, 87, 88, 91; IX,
SCIARRETTA, S.: III, 72. 164; X, 57, 146, 149, 158, 162.
SCIOTTI, R.: VIII, 19. TAVORMINA, V.: V, 21, 44, 123, 172, 183;
SCOCA, F.G.: I, 17; III, 37, 81, 87, 89, 93, VI; 68.
96, 103, 123; IV, 35; IX, 24, 44. TENELLA SILLANI, C.: IX, 46.
SCOGNAMIGLIO, C.: V, 78. TERESI, F.: III, 96.
SCOGNAMIGLIO, R.: II, 40; VII, 1, 10, 160. TESORIERE, G.: VIII, 78, 88.
SCUFFI, M.: X, 61, 84, 121. THON, A.: V, 30, 35, 36, 82, 99, 136, 138,
SECRETI, G.: I, 161, 168. 139, 140, 141, 142, 146, 148, 149, 150,
SEELMANN, K.: I, 10. 151, 154, 157, 158, 160.
SEGNI, A.: I, 161; VI, 23. TISCI, A.: IV, 41; IX, 66, 67.
SELVAGGI, S.: IX, 46. TISCINI, R.: X, 237.
SENA, G.: X, 41. TOMASSINI, R.: IX, 46.
SENSALE, M.: III, 10, 45, 84. TOMEI, G.: VI, 23.
SERMONTI, A.: I, 118, 161. TOMMASEO, F.: III, 37; VI, 17, 23, 126; X,
SHERMAN, E.F.: VI, 111. 57, 75, 79, 91, 156, 159, 172, 173.
SILVESTRI, E.: VI, 131; VII, 1, 12, 30, 56, TONDO, S.: VI, 127; X, 53.
150; VIII, 13, 14, 100. TORREGROSSA, G.: IX, 24, 46, 118, 175.
SIMONCELLI, V.: V, 60. TORRENTE, A.: V, 60.
SOLARI, G.: I, 3, 4, 8, 62; IV, 53. TRABUCCHI, A.: V, 60.
SOMMA, A.: IX, 46. TRAVI, A.: III, 43.
SORDI, B.: I, 12, 13, 18, 20, 25, 28. TREU, T.: VII, 1, 138, 154, 157, 170; VIII,
SPAGNA MUSSO, B.: IV, 38; IX, 46, 68, 69, 5, 8, 11, 79, 84.
70, 115, 175. TREVES, R.: I, 10.
SPAGNUOLO VIGORITA, L.: I, 61. TRIGGIANI, E.: VIII, 5.
SPAGNUOLO VIGORITA, V.: II, 65; III, 96. TRIMARCHI BANFI, F.: IX, 46, 74, 118, 119,
SPAVENTA, S.: I, 25, 26. 120.
SPERDUTI, G.: V, 32, 84, 85, 114, 121, 175. TRIMARCHI, P.: II, 78; V, 56; IX, 46, 66,
SPOLIDORO, M.S.: II, 90, 91; VI, 64, 81, 114.
160. TRISORIO LIUZZI, G.: X, 99.
896 INDICE DEGLI AUTORI CITATI

TROCCOLI, A.: I, 21. 111, 116, 131, 134, 135, 136, 137, 138,
TROCKER, N.: III, 5, 7, 9, 37, 45, 46, 115, 139, 141, 151, 152, 157; IV, 10, 21, 32,
149, 150, 151, 154; IV, 35; VI, 13, 109, 34, 42, 43, 46; V, 13, 170; VI, 13, 20,
113, 131, 144, 154; VII, 3; X, 27. 116, 131, 160; VII, 43, 94, 150; IX,
TUCCI, G.: VII, 10. 163.
TUCCI, M.A.: III, 10, 37. VISCOMI, A.: VIII, 27.
TURATI, F.: 89, 92, 93, 102. VISINTINI, G.: IX, 9, 51, 121.
TURCO, V.: VIII, 26. VITTORIA, D.: IX, 188.
TURRONI, D.: V, 183. VITUCCI, P.: IX, 47, 48, 51.
VIVANI, C.: IX, 46, 164.
VOCINO, C.: III, 35, 152; VI, 23, 116, 154.
U
VOLPICELLI, A.: I, 114.
UBERTAZZI, L.C.: II, 92; X, 27. VULLO, E.: VI, 68.
UNGARI, P.: I , 10, 113.
W
V
WEBER, M.: VII, 70.
VACCARELLA, R.: VI, 78, 115; VII, 1, 91, WEINSTEIN, J.A.: VI, 35.
92, 93, 94, 95, 96, 97, 98, 99, 101, 126, WEYL, M.P.: I, 10.
151, 160. WEYL, R.: I, 10.
VALLEBONA, A.: VII, 157; VIII, 13, 14. WIEACKER, F.: V, 19.
VANNI, I.: V, 78. WINDSCHEID, B.: V, 25, 28, 37, 135.
VANZETTI, A.: X, 14, 18, 41. WOJETEK PANKIEWICZ, A.: II, 8.
VARDARO, G.: I, 65.
VARRONE, C.: III, 7, 13.
VECCHIO VERDERAME, S.: X, 61, 74, 117. Y
VELLANI, M.: V, 170, 183; VI, 20; IX, 165, YEAZELL, S.C.: VI, 28, 42.
167.
VENEZIANI, B.: I, 65, 78.
VERARDI, C.M.: IV, 44; IX, 46, 114, 165, Z
175; X, 12, 13, 14, 73, 91.
VERBARI, G.B.: III, 72, 89, 93; IV, 35. ZANOBINI, G.: I, 167; V, 131; VI, 149.
VERDE, G.: VI, 20. ZANUTTIGH, L.: III, 37, 46, 57, 79, 86, 94,
VETTORI, G.: X, 140. 113; VI; 23; IX, 6, 19, 20, 31.
VIDIRI, G.: VIII, 9. ZANZUCCHI, M.T.: V, 183.
VIGLIONE, R.: I, 161. ZATTI, P.: V, 78, 132.
VIGNERA, G.: III, 5. ZENO ZENCOVICH, V.: IX, 188.
VIGORITI, V.: II, 42; III, 2, 5, 11, 27, 28, 29, ZIVIZ, P.: IX, 46, 49, 50, 175, 177.
42, 61, 63, 64, 66, 67, 68, 79, 84, 108, ZOPPINI, A.: IX, 188.
INDICE ANALITICO
I numeri senza parentesi si riferiscono alle pagine, quelli tra parentesi alle note.
Le note vengono indicate solo se l’argomento riceve ivi una specifica trattazione o un
particolare approfondimento. L’indicazione della nota non esclude quella della pagina.

Adesione all’azione collettiva risarcitoria – tutela della salubrità ambientale:


– in generale: 864 ss. – in via inibitoria:
– sua rilevanza ai fini della valutazione di – individuale: 748 ss., 748 (178), 749
rappresentatività dell’attore collettivo: (180) (181).
857, 873. – collettiva: 751 (184).
– sua rilevanza ai fini dell’ammissibilità – in via risarcitoria:
dell’azione collettiva: 873. – individuale: 748 ss., 748 (178).
– sua rilevanza ai fini della determina- – collettiva: 750 ss.
zione dell’oggetto del giudizio: 864 ss., – pubblica: 750 ss.
869 ss.
Antigiuridicità della condotta: v. Illecito
Ambiente
– nozione: 676 (2). Atto discriminatorio complesso
– come bene pubblico: 707 ss. – nozione: 656 ss.
– come bene collettivo: 700 ss., 708 ss., – effetti sullo svolgimento del processo:
739 ss.
656 ss.
– distinzione tra bene ambiente e bene sa-
lute: 683 ss., v. anche Diritto soggettivo Azione (nozione)
all’ambiente salubre
– come potere giuridico: 370 (390).
Ambiente (tutela dell’) – come diritto soggettivo: 370 (390).
– inquadramento dogmatico degli stru- – come situazione giuridica complessa:
menti di tutela giuridica del bene am- 370 (390).
biente: – v. anche: Mera azione
– come oggetto di diritti soggettivi indi-
viduali privati: 683 (14) (15) (17). Azione collettiva (nozione): 222 (112), 422
– come oggetto di potestà pubblica: (26), v. anche Giudizio collettivo
709 s.
– come oggetto di proprietà pubblica: Azione inibitoria
707 ss. – natura: 439 ss.
– come oggetto di proprietà collettiva: – oggetto dell’accertamento del giudizio
690 ss., 694 s., 690 (39), 716 ss. inibitorio: 439 ss.
– come oggetto di tutela oggettiva: 714 – atipicità della tutela inibitoria:
ss., 741 (149). – in generale: 585 (176).
– tutela dell’integrità ambientale: – in materia di tutela dei diritti e delle
– tutela preventiva: 732 ss. libertà sindacali individuali: 582 ss.
– tutela risarcitoria e ripristinatoria: 735 – in materia di tutela dell’ambiente: 748
ss. ss.
898 INDICE ANALITICO

Azione popolare – condotta antisindacale plurioffensiva:


– in generale: 478 (137), 728 ss. 507 s., 561 ss.
– eccezionalità della figura: 12 (21), 13, 24 – licenziamento antisindacale: 518 (30),
(50), 45, 208 (96), 210 (97), 212 (102). 519 ss., 519 (33), 540 ss., 544 ss., 571 ss.
– v. anche Giustizia amministrativa e inte- – ammissibilità del mero accertamento
ressi sovraindividuali, Sostituzione pro- della condotta antisindacale: 576 (160),
cessuale v. anche Azione inibitoria, Illecito
Azione pubblica Consumatori (tutela dei)
– nozione: 377 ss. – tutela collettiva inibitoria in materia di
– del pubblico ministero: 412 (20). clausole abusive: 785 ss.
– di risarcimento del danno ambientale: – tutela collettiva inibitoria generale: 799
737 ss. ss.
– tutela collettiva risarcitoria-restitutoria:
Azione di rimozione 842 ss.
– in materia di tutela collettiva antidiscri-
minatoria: 658 s., 669 ss. Contratto collettivo e interesse collettivo
– in materia di tutela collettiva dei consu- – in generale: 102 ss. (25), 103 (26) (27).
matori: 810 ss. – in Giuseppe Messina: 28 ss.
– in Alberto Galizia: 32 ss. (73).
Azione unica plurisoggettiva: 495 (159),
– in Lodovico Barassi: 32 ss. (73).
830 (151).
– in Francesco Santoro Passarelli: 101 ss.
Class actions: 221 (11), 423 (27), 425 (35), – distorzioni della prospettiva giuslavori-
427 (39) (40), 429 (42) (43) (44) (45), sta sul concetto di interesse collettivo:
433 (48) (49), 845 (181). 297 ss.

Complessificazione del giudizio collettivo Controversie collettive di lavoro


risarcitorio: 424 ss., 425 (35), 427 (40), – nel periodo tardo-liberale:
858 ss., v. anche Questioni comuni o a ri- – generale fluidità del concetto nel pe-
levanza collettiva riodo tardo liberale: 40 ss. (92).
– in Lodovico Mortara: 36 ss. (83), 43
Concorrenza sleale ss. (101).
– natura del giudizio di repressione della – in Enrico Redenti: 40 s. (91), 47 ss.
concorrenza sleale: 123 ss. – nell’ordinamento corporativo:
– natura dell’azione collettiva di repres- – in generale: 67 ss., 70 ss., 70 (161).
sione della condotta sleale: 128 ss. – in Francesco Carnelutti: 77 ss.
– interessi dei consumatori ed azione col- – v. anche Condotta antisindacale
lettiva di repressione della condotta
sleale: 759 ss. Corporativismo e interesse collettivo
– in generale: 50 ss.
Concorso soggettivo di azioni – l’interesse collettivo come strumento di
– in generale: 460 (104). mediazione tra Stato e individuo: 51 ss.
– in materia di tutela giurisdizionale degli (114) (115).
interessi collettivi: v. Limiti soggettivi del
giudicato collettivo Costituzione e interessi sovraindividuali
– costituzionalizzazione del diritto privato
Condotta antisindacale e interessi collettivi: 98 ss., 146 ss.
– in generale: 505 (2). – rilevanza costituzionale degli interessi
– natura processuale o sostanziale della collettivi: 90 ss.
fattispecie: 568 ss. – interessi collettivi ed art. 24 Cost.:
INDICE ANALITICO 899

– nel dibattito in sede di Assemblea co- – come danno subito dagli enti esponen-
stituente: 93 ss. ziali impegnati nella promozione e di-
– sotto il profilo dell’azionabilità degli fesa dell’interesse collettivo leso: 752
interessi collettivi: (186) (187) (188), 812 (119) (120).
– in generale: 9 (13), 98 (14), 213 ss.,
214 (103), 244 ss., 244 (141). Diritti individuali omogenei (diritto brasi-
– nostra posizione: 244 (141), 377 ss., liano): 428 (41).
404 ss.
Diritti sindacali in senso stretto e diritti
– sotto il profilo dei limiti soggettivi del
sindacali correlati: 557 s.
giudicato:
– estensione ultra partes degli effetti Diritto collettivo: v. Ente esponenziale
della sentenza e rispetto della ga-
ranzia del diritto di azione e di di- Diritto potestativo: v. Potere giuridico
fesa:
– giudicato erga omnes e c.d. garan- Diritto soggettivo
tismo collettivo: 244 (141), 254 – nozione:
(157), 429 (45). – concezioni ricorrenti:
– giudicato erga omnes, «giusto – come potere della volontà: 317 ss.
processo» collettivo e spersona- – come potere di volere per il soddi-
lizzazione del diritto di difesa: sfacimento degli interessi: 329 ss.
253, 478 ss., 478 (137), 481 (141), – come facultas agendi: 322 ss., 335 ss.
486 (149). – come situazione giuridica comples-
– giudicato secundum eventum litis: sa: 317 (25), 338 (78), 341 ss., 358
(122).
250 ss., 468 (116), 472 ss., 474
– come posizione di vantaggio: 358
(130), 486 ss.
(122).
– correttivi processuali possibili:
– come posizione di appartenenza:
l’estensione del contraddittorio
358 (122).
mediante l’intervento in causa e
– come posizione di destinatarietà
la notificazione per pubblici pro-
dell’obbligo: 357 ss.
clami: 42 (95), 248 ss., 465 s., 465
– come facoltà di pretendere: 357 ss.
(113), 470 ss., 474 s., 483 s., 498
– come interesse protetto: 364 ss.
ss., 528 (55), 668 s., 833 (158).
– come tecnica di protezione degli in-
– estensione ultra partes degli effetti
teressi: 367 ss.
della sentenza ed effettività della tu-
– come mera tecnica giuridica: 371 ss.
tela giurisdizionale collettiva: 426
– come soggettivazione del diritto og-
s., 448 s., 452, 472 ss., 475 ss. gettivo: v. Soggettivazione del diritto
Crisi del diritto soggettivo: v. Diritto sog- – nostra posizione: 381 ss.
gettivo – c.d. crisi del diritto soggettivo:
– emersione della problematica in sede
Danno ambientale: 696 ss., 697 (46), 732, di approvazione dell’art. 19 del Pro-
735, 738 (148) (149). getto di Costituzione: 93 ss., 96 (9).
– cause della crisi: 95 ss., 185 ss., 305
Danno collettivo ss., 312 ss., 772 (45).
– come aggregato dei danni individuali – tendenza all’ideazione di figure dog-
prodotti: 427 (39), 428 (41), 850 (188). matiche alternative come conseguen-
– come danno ontologicamente distinto za della crisi:
dal danno individuale: 693 s., 750 ss., – in materia di inquadramento dog-
750 (183), 751 (184), 812 (119) (120). matico della posizione giuridica
900 INDICE ANALITICO

dell’ente esponenziale: v. Ente espo- – diritto soggettivo: 76 s., 132 ss., 228
nenziale ss., 516 ss., 538 ss., 539 (94), 552
– in materia di inquadramento dog- ss., 631 (48), 707 ss., 724 ss., 795 s.
matico della posizione giuridica del – diritto collettivo: 76 (171), 238 s.
pubblico ministero agente: v. Azio- (131), 531 ss., 716 ss., 797 (87), 806
ne pubblica (107), v. anche Legittimazione ad
– mera apparenza della crisi e critica agire sui generis
delle figure dogmatiche alternative: – interesse collettivo: 521 ss., 552 ss.,
97 s., 97 (12), 310 (9), 410 (17), 486 809 (111).
(149), 775 (42). – interesse legittimo di diritto pri-
– tutelabilità dell’interesse collettivo nella vato: 773 ss.
forma del diritto soggettivo: – mera azione: 136 ss., 223 (113), 225
– di titolarità del singolo membro della ss., 241 (137), 511 s., 682 (13), 714
collettività: 195 ss., ss., 724, 798 (88) (89).
– di titolarità dell’ente esponenziale: v. – rappresentanza ideologica: 221 ss.
Ente esponenziale – rappresentanza politica: 81 (180).
– nostra posizione: 398 ss. – sostituzione processuale: 78 (174),
129 (80), 132 (90) (91), 194 (95),
Diritto soggettivo all’ambiente salubre 511 s., 519, 631 (49), 648 (78), 706
– in generale: 683 ss., 747 ss. (61), 723, 724, 727 ss., 790 (72),
– triplice rilevanza dell’interesse all’am- 794 (80), 870 (226), v. anche Sosti-
biente salubre (individuale, sociale, tuzione processuale
pubblica): 750 ss., 750 (183), 751 (185), – nostra impostazione del problema:
v. anche Ambiente, Ambiente (tutela 407 ss., 575 ss., 594 ss., 737 ss., 816
dell’), Danno collettivo. ss., 823 ss., v. anche Legittimazione ad
agire istituzionale, Legittimazione ad
Discriminazione
agire suppletiva
– nozione: 607 (9).
– adeguata rappresentatività
– discriminazione collettiva: 634 ss., 643
– valutazione in astratto in sede ammi-
ss., 646 (75), 648 ss.
nistrativa: 227 (119), 702 (52), 704
Dovere: v. Obbligo (55), 781 (60).
– valutazione in concreto in sede giuri-
Effettività della tutela giurisdizionale degli sdizionale: 205 (95), 208 (96), 224
interessi collettivi: v. Costituzione ed in- (115), 851 ss.
teressi sovraindividuali – la correlazione tra il requisito dell’a-
deguata rappresentatività e la possi-
Efficacia normativa della sentenza collet- bile estensione ultra partes degli ef-
tiva fetti della sentenza
– nell’ordinamento corporativo: 82 ss. – opinioni correnti: 238 ss., 254
(184) (185). (157).
– in materia di tutela dei consumatori: – nostra posizione: 478 ss., 478 (137),
839 ss. 481 (141), 827 s.
Ente esponenziale Facoltà: v. Lecito
– inquadramento dogmatico della posi-
zione giuridica dell’ente esponenziale: Giudicato erga omnes
– impostazioni ricostruttive ricorrenti: – come regime di regolamentazione uni-
– abuso del diritto: 773 ss. forme alternativo al litisconsorzio neces-
– diritto giudiziario: 798 (92) (93). sario: 49, 462 (105).
INDICE ANALITICO 901

– in materia di tutela degli interessi collet- – nella Proposta di legge Mantellini: 12


tivi: v. Limiti soggettivi del giudicato col- ss.
lettivo, Costituzione ed interessi sovrain- – interessi collettivi e «giustizia nell’am-
dividuali ministrazione»: 13 ss. (25), 16 (30).
– i primi tentativi di tutela: lo studio di
Giudicato secundum eventum litis Emilio Bonaudi: 16 ss.
– nella dottrina tradizionale e nella dot- – processo amministrativo e interessi so-
trina più recente: 489 (154). vraindividuali in generale: 189 s., 190 ss.
– eccezionalità della figura come conse- – interesse legittimo e interessi sovraindi-
guenza delle difficoltà logico-teoriche viduali:
sottese all’estensione ultra partes degli – concezione «soggettiva» del giudizio
effetti diretti del giudicato derivanti amministrativo e tutelabilità degli in-
dalla concezione savigniana del rap- teressi sovraindividuali:
porto giuridico: 488 ss. – in generale: 20 ss. (43), 171 ss.
– in materia di tutela degli interessi collet- – nella forma dell’interesse legittimo
tivi: v. Costituzione ed interessi sovrain- individuale: 190 ss., 194 (86), 195
dividuali, Limiti soggettivi del giudicato ss., 203 (94), 204 (95)
collettivo – nella forma dell’interesse legittimo
collettivo: 234 ss. (129), 238 s. (131).
Giudizio collettivo – concezione «oggettiva» del giudizio
– nozione ed oggetto: amministrativo e tutelabilità degli in-
– proprio o inibitorio: 421 ss. teressi sovraindividuali:
– improprio o risarcitorio: 424 ss. – in generale: 13 ss. (30), 26 ss., 210
– su questioni: 430 ss. (97).
– v. anche Azione collettiva (nozione) – nella forma dell’azione popolare:
– legittimazione ad agire: v. Legittima- 210 ss., 212 (212).
zione ad agire dei singoli per la tutela de- – nella forma dell’interesse al ricorso:
gli interessi collettivi, Legittimazione ad 210 ss., 211 (99).
agire istituzionale, Legittimazione ad – nella forma dell’interesse non ille-
agire suppletiva, Legittimazione ad agire gittimo: 210 ss., 211 (99).
sui generis, Costituzione e interessi so- – partecipazione organica e tutelabilità
vraindividuali, Ente esponenziale degli interessi sovraindividuali: 200
– intervento in causa: 42 (95), 248 ss., 465 (9).
s., 465 (113), 470 ss., 474 s., 483 s., 498 – partecipazione al procedimento e tu-
ss., 528 (55), 537 (90), 549 (108), 612 telabilità degli interessi sovraindivi-
(21), 668 s., 723 ss., 833 (158), 867 ss., duali: 200 (9).
869 ss. – la distinzione tra interesse collettivo ed
– limiti soggettivi del giudicato: v. Limiti interesse diffuso in Massimo Severo
soggettivi del giudicato collettivo, Costi- Giannini: 171 ss.
tuzione e interessi sovraindividuali
Group actions: 434 ss.
Giudizio costitutivo: v. Potere giuridico
Illecito
Giustizia amministrativa e interessi so- – nozione: 455.
vraindividuali – accertabilità giurisdizionale dell’illecito
– gli interessi sovraindividuali nella rifor- nei giudizi collettivi inibitori:
ma del sistema di giustizia amministra- – in generale: 447 ss.
tiva: – in materia di repressione della con-
– nella Relazione Borgazzi: 10 ss. dotta antisindacale: 521 ss., 575 ss.
902 INDICE ANALITICO

– in materia di tutela collettiva antidi- – nostra definizione: 273 ss., 300.


scriminatoria: 631 ss., 654 ss. – interesse collettivo vs interesse diffuso:
– in materia di tutela collettiva dei con- – in generale: 162 ss., v. anche Interesse
sumatori: 836 ss., 858 ss., 879 ss., 882 diffuso
ss. – la posizione di Massimo Severo Gian-
nini e le ragioni della distinzione: 171
Inibitoria: v. Azione inibitoria ss.
Interesse – utilità scientifica della distinzione tra
– definizione: 259 ss. concezioni aggregate soggettive e conce-
– in senso concreto e in senso astratto: zioni unitarie oggettive degli interessi
266 ss., 266 (23). sovraindividuali: v. Interessi sovraindivi-
– normativamente rilevante o giuridica- duali in generale
mente tutelato: 267 s., v. anche Interesse
occasionalmente protetto e Tutela giuri- Interesse collettivo (tutelabilità giuridica)
dica dell’interesse – in generale:
– normativamente irrilevante o di fatto: – concezione individualistica del diritto
266 (23), 268. e ostacoli dogmatici: 17 (34), 185 ss.
– rapporti tra nozione pregiuridica del-
Interesse collettivo (nozione) l’interesse collettivo e formalizzazione
– nella dottrina classica: giuridica: 161 ss., 171 ss., 179 (72), 196
– in Widar Cesarini Sforza: 54 ss. (88), 256, 273 (33), 306 s., 712 (79).
– in Francesco Carnelutti: 60 ss. – tutelabilità nella forma del diritto sog-
– in Nicola Jaeger: 66 s. (152), 111 ss. gettivo:
– in Francesco Santoro Passarelli: 101 ss. – di titolarità del singolo membro
– nel dibattito post-costituzionale sulla tu- della collettività: 195 ss., 680 ss.
tela giurisdizionale degli interessi so- – di titolarità dell’ente esponenziale:
vraindividuali: 162 ss. v. Ente esponenziale
– concezioni ricorrenti: – tutelabilità nella forma di una situa-
– quadro di sintesi delle diverse conce- zione giuridica soggettiva alternativa:
zioni: 273 ss. – di titolarità del singolo membro
– come serie di interessi individuali: 30 della collettività:
ss., 60 ss., 72 ss., 78 ss., 111 ss., 136 ss., – abuso del diritto: 681 (11).
163 (37), 167 (43), 203 ss., 277 (36). – azione popolare: 45 s., 310 ss.
– come somma di interessi individuali: – interesse legittimo di diritto pri-
18, 232 ss.
vato: 627 (39), 687 (29).
– approfondimento e critica: 285 ss.
– di titolarità dell’ente esponenziale:
– come sintesi (o risultante) di interessi
v. Ente esponenziale
individuali: 18, 32 ss., 32 (73), 52
– nostra posizione: 398 ss.
(115), 73, 103 ss., 106 ss., 108 (42),
109 (43), 163 (37), 234 ss., 234 (129), Interesse collettivo e diritto soggettivo: v.
283 (44), 716 ss., 790 (72). Interesse collettivo (tutelabilità giuri-
– approfondimento e critica: 287 ss., dica); Ente esponenziale
290 ss.
– come organizzazione di interessi indi- Interesse collettivo-somma di interessi indi-
viduali: 106 ss., 108 (41), 109 (44), viduali: v. Interesse collettivo (nozione)
115, 177 ss., 230 (123), 234 ss. (129),
531 ss. Interesse collettivo-sintesi di interessi indi-
– approfondimento e critica: 290 ss. viduali: v. Interesse collettivo (nozione)
INDICE ANALITICO 903

Interesse diffuso Interessi concorrenti: v. Relazione tra inte-


– nel dibattito post-costituzionale sulla tu- ressi
tela giurisdizionale degli interessi so-
vraindividuali: 162 ss. Interessi incompatibili: v. Relazioni tra in-
– origine amministrativistica della no- teressi
zione: 171 ss. Interessi sovraindividuali in generale
– mancata autonomia formale del con- – utilità scientifica di una classificazione
cetto dalla figura dell’interesse collet- onnicomprensiva: 2 (2).
tivo: 302 ss. – utilità scientifica della distinzione tra le
– v. anche Interesse collettivo (nozione); concezioni aggregate soggettive e le
Interessi sovraindividuali in generale concezioni unitarie oggettive degli inte-
Interesse generale ressi sovraindividuali: 200 (93).
– nozione: 304. – concezioni aggregate soggettive: 195 ss.
– rapporti tra l’interesse pubblico e l’inte- – concezioni unitarie oggettive: 217 ss.,
resse generale: 151 ss., 154 (23), 200 (9), 277 ss., 277 (37).
363 (131). – v. anche Interesse collettivo (nozione),
Interesse diffuso
Interesse individuale e interesse collettivo
(distinzione ontologica) Interessi strumentali: v. Relazioni tra inte-
– opinione corrente: v. Interesse collettivo ressi
(nozione) Intervento in causa: v. Giudizio collettivo
– nostra posizione: 290 ss.
Lecito
Interesse individuale esclusivo: 304. – sua rilevanza teorica (c.d. lecito giuri-
Interesse legittimo dico): 345 (99), 353 (108).
– nozione: 21 (43), 363 (131), v. anche In- – la facoltà come situazione giuridica sog-
teresse legittimo di diritto privato gettiva elementare: 345 (99).
– interesse legittimo e interesse collettivo:
Legittimazione ad agire
v. Giustizia amministrativa e interessi so-
– ordinaria: 411 (18).
vraindividuali
– straordinaria: 411 (18).
– interesse legittimo e interesse diffuso: v.
Giustizia amministrativa e interessi so- Legittimazione ad agire dei singoli per la
vraindividuali tutela degli interessi collettivi
Interesse legittimo collettivo: 214 (103), – in generale: 213 ss., 217 ss., 398 ss.
234 ss. (129). – in materia di repressione della condotta
antisindacale: 582 ss.
Interesse legittimo di diritto privato: 486 – in materia di tutela collettiva antidiscri-
(149), 775 (42), v. anche Interesse occa- minatoria: 634 ss.
sionalmente protetto, Interesse legittimo. – in materia di tutela dell’ambiente: 700
ss., 737 ss.
Interesse occasionalmente protetto: 363
– in materia di tutela collettiva inibitoria
(131), v. anche Interesse legittimo, Inte-
degli interessi dei consumatori: 821 ss.
resse legittimo di diritto privato
– in materia di tutela collettiva risarcitoria
Interesse pubblico: 186 (76), 304, v. anche degli interessi dei consumatori: 851 ss.
Interesse generale
Legittimazione ad agire istituzionale: 216
Interessi compatibili: v. Relazioni tra inte- (104), 403 ss., 587 ss., 822 s., 855, v. an-
ressi che Legittimazione ad agire suppletiva
904 INDICE ANALITICO

Legittimazione ad agire sui generis: 241 effetti della sentenza: 489 (154),
(137). 834 (159).
– come conseguenza della stessa
Legittimazione ad agire suppletiva: 214 ss.
interpretazione dell’art. 2909
(103), 515, 587 ss., 639, 646 (75), 805,
c.c.: 489 (154).
822 s., v. anche Legittimazione ad agire
– estensione ultra partes dell’efficacia
istituzionale
della sentenza e garanzia costituzio-
Libertà e diritto soggettivo nale del diritto di azione e difesa: v.
– in generale: 343 ss. Costituzione e interessi sovraindivi-
– libertà protetta: 351 ss. duali
– v. anche Diritto soggettivo – comparazione dei diversi regimi di ef-
ficacia della sentenza collettiva alla
Limiti oggettivi del giudicato collettivo: v.
luce dei diversi valori in gioco e in re-
Giudizio collettivo
lazione all’attuale quadro positivo:
Limiti soggettivi del giudicato collettivo 466 ss.
– in generale: – in materia di repressione della condotta
– nel dibattito post-costituzionale sulla antisindacale: 525 ss., 535 ss., 544 ss.,
tutela giurisdizionale degli interessi 579 ss.
sovraindividuali: 246 ss. – in materia di tutela antidiscriminatoria:
– il problema dei limiti soggettivi del 631 ss., 651 ss.
giudicato in un ordinamento privo di – in materia di tutela dei consumatori:
una apposita regomentazione legale 826 ss., 875 ss.
dell’efficacia della sentenza collettiva:
– in generale: 459 ss., 477 (133). Litisconsorzio necessario e interessi collet-
– il concorso soggettivo di azioni: 466 tivi: 42 (95), 49, 188 (79), 475 ss., 498
ss. ss., 525 ss., 656 ss., 660 ss., 829 (145).
– il fondamento dell’estensione ultra
partes dell’efficacia della sentenza: Mera azione
– in particolare riferimento al giu- – in generale: 410 (20).
dicato erga omnes: – in relazione alla posizione dell’ente
– sua correlazione con l’adeguata esponenziale: v. Ente esponenziale, Di-
rappresentatività dell’ente ritto soggettivo
esponenziale: v. Costituzione e – in relazione all’azione del pubblico mi-
interessi sovraindividuali nistero: v. Azione pubblica
– sua correlazione con la natura
sovraindividuale degli interessi Misure idonee e tutela collettiva dei consu-
tutelati: 250, 253 s., 254 (155), matori: v. Azione di rimozione
475 (131), 486 (149), 831 (152).
– sua correlazione con la natura Norma giuridica
oggettiva dell’attività giurisdi- – nozione: 345 (99).
zionale svolta: 475 (131), 529, – dimensione normativa e dimensione
830 (150). pratica dell’ordinamento: 368 ss.
– in particolare riferimento al giu-
dicato secundum eventum litis: Notificazione per pubblici proclami
– disciplina delle obbligazioni in- – in generale: 470 (121) (122).
divisibili: 250 (152), 488 ss., – in materia di tutela giurisdizionale degli
489 (154), 497 (160), 834. interessi collettivi: 42 (95), 249 (149),
– come limite ex art. 24 Cost al- 470 ss., 483 ss., 498 ss., 668, 782 (62),
l’estensione ultra partes degli 833 (158).
INDICE ANALITICO 905

Obbligo Pregiudizialità logica: v. Rapporto giuridico


– nozione: 384 (174). fondamentale
– come elemento formale strutturale es-
senziale per la realizzazione giuridica Probiviri
degli interessi umani: v. Tutela giuridica – in generale: 35 (78).
dell’interesse – in relazione alla tutela giurisdizionale
degli interessi collettivi: v. Controversie
Opt-in e opt-out: 429 (45), v. anche Class collettive di lavoro
actions, Adesione all’azione collettiva ri-
sarcitoria Questioni comuni o a rilevanza collettiva
– in generale: 430 ss.
Organizzazione e interesse collettivo: v. In- – loro rilevanza in materia di tutela collet-
teresse collettivo (nozione) tiva:
– ai fini dell’ammissibilità stessa della
Parallelismo delle azioni (in materia di re- tutela collettiva risarcitoria: 428 ss.
pressione della condotta antisindacale) – ai fini di un efficiente gestione del
– in ambito dottrinale: 529 ss. giudizio collettivo risarcitorio: 433 ss.
– in ambito giurisprudenziale: 544 ss. (48) (49).
– come unico oggetto dell’accertamento
Partecipazione e tutela giurisdizionale degli
nei giudizi collettivi su questioni: 428
interessi sovraindividuali
(41), 431 ss.
– nel processo civile: 151 ss.
– in riferimento ai giudizi collettivi ini-
– nel processo amministrativo: 151 ss.
bitori: 447 ss.
Perseguimento dell’interesse – in riferimento al giudizio collettivo ri-
– in generale: 268 ss. sarcitorio ex art. 140 bis c. cons.: 858
– perseguimento individuale degli inte- ss., 871 ss.
ressi: 290.
Rappresentatività adeguata dell’ente espo-
– perseguimento collettivo degli interessi:
nenziale (valutazione della): v. Ente espo-
291 ss.
nenziale
– interferenze tra il concetto di persegui-
mento dell’interesse e la nozione di inte- Rapporto giuridico (nozione): 324 (41), 324
resse collettivo: 290 ss. (42), 329 (59), 336 ss., 352 (106), 357
(120).
Piano di rimozione delle discriminazioni
accertate: 669 ss. Rapporto giuridico fondamentale: 455 (99).
Plurioffensività della condotta: 561 ss., Relazioni tra interessi
747, 799 ss. – in generale: 113, 270 ss. (32).
– applicazioni rilevanti: v. Interesse occa-
Potere giuridico
sionalmente protetto
– nozione: 381 (172).
– ammissibilità teorica: 381 (172). Representative suit: 423 (28) (29).
– accertabilità giurisdizionale: 325 (44).
– potere giuridico e diritto soggettivo: 317 Risarcimento del danno e interessi collettivi
ss., 319 (29), 323 (38), 328 (58), 329 – in materia di concorrenza sleale: 119 ss.,
(59), 330 ss. – in materia di repressione della condotta
– potere giuridico e diritto potestativo: antisindacale: 594 ss.
381 (172). – in materia di tutela antidiscriminatoria:
– giudizio costitutivo: 381 (172). 660 ss.
906 INDICE ANALITICO

– in materia di tutela dell’ambiente: – in materia di tutela giurisdizionale degli


– risarcimento del danno all’ambiente: interessi collettivi: v. Ente esponenziale,
v. Ambiente (tutela dell’), Danno am- Azione pubblica, Litisconsorzio necessa-
bientale rio e interessi collettivi
– risarcimento del danno all’ambiente
salubre: v. Ambiente (tutela dell’), Di- Status: 452 (88).
ritto soggettivo all’ambiente salubre Tutela giuridica dell’interesse
– in materia di tutela dei consumatori: – la «sicurezza giuridica del soddisfaci-
810 ss., 842 ss. mento» come essenza del concetto: 377
– v. anche Giudizio collettivo, Danno am- ss.
bientale, Danno collettivo – sul piano sostanziale:
– ricerca logico-empirica degli elementi
Situazione giuridica individuale a rilevanza
formali-strutturali sostanziali che ga-
collettiva: 515 s., 646 (75).
rantiscono la realizzazione degli inte-
Situazione giuridica complessa: v. Diritto ressi umani: 332 (65), 344 ss.
soggettivo, Azione (nozione) – l’obbligo come elemento formale-
strutturale sostanziale che garantisce
Socialismo giuridico: 7 (10). la realizzazione degli interessi umani:
357, 381 ss., 384 (174).
Soddisfacimento dell’interesse: 266, v. an- – sul piano processuale:
che Tutela giuridica dell’interesse – la tutela giurisdizionale come stru-
mento pratico di adeguamento del
Soggettivazione del diritto: 321, 334 (68), concreto alla norma: 369 ss.
371 ss., 376 (163), 386 ss. – tutela diretta e tutela indiretta dell’inte-
resse:
Soggettivazione degli interessi – le confusioni ingenerate dalla figura
– in generale: 158 ss., 171 ss., 176 (59). dell’interesse occasionalmente pro-
– come ragione di distinzione tra interesse tetto: 363 (131).
collettivo e interesse diffuso: 171 ss. – l’azione pubblica come possibile for-
ma di tutela indiretta dell’interesse:
Sostituzione processuale 380.
– in generale: – rilevanza scientifica della distinzione tra
– nozioni: 415 (22), 417 (23). l’interesse al comportamento e l’inte-
– fondamento logico-giuridico dell’isti- resse alla modificazione giuridica: 363
tuto: 415 ss., 419 (24), 492 (156), 494 (131).
(157) (158). – rapporti tra la «sicurezza giuridica del
– natura processuale o sostanziale del- soddisfacimento» dell’interesse e il gene-
l’interesse tutelato in capo al sosti- ralizzarsi dell’interesse tutelato: 377 ss.
tuto: 415 (21) (22).
– sostituzione processuale e litisconsor- Vicinitas (criterio della): 205 (95), 208
zio necessario: 417 (23), 419 (24). (96).

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