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Paolo
PERSONAGGI
“Che
intende, Lisa?”
“Intendo
dire che avete un potere straordinario, anche se spesso lo sprecate. Siete
capaci di fare
qualsiasi cosa, solo che semplicemente a volte restate fermi in
balia dei pensieri che vi hanno messo in testa. A
volte vi comportate
davvero come dei cazzoni e ci sono volte in cui mi vien veramente voglia di
dire a Evelin
di sistemarvi una volta per tutte.”
“Infatti
credevo che questa epidemia fosse opera di Evelin”, rispondo soltanto.
“È
opera del vostro cervello: il virus lo avete creato voi, e la paura e
l’ignoranza hanno fatto il resto.
Guardi, Leonard: la situazione potrebbe
persino essere migliore di quel che credete, se solo usaste un attimo il
cervello. Sta già passando, se vuole sapere la mia opinione. Ma vedo poca
gente che si prepara per il dopo.”
“Risponda
pure, Leonard, è Elizabeth”, mi dice Lisa come se avesse intuito il mio
pensiero e
facendomi come sempre innervosire, quando si diverte a leggermi il
pensiero.
“Ciao
Elizabeth”.
“Ciao
papà. Puoi parlare?”
“Certo,
di che si tratta?”
“Sono
un po’ preoccupata per quel che sta capitando”.
“Hai
ragione a esserlo”, le dico guardando Lisa, che a sua volta mi guarda ed
evitando di cadere nella
trappola della facile consolazione, che non funziona. In
momenti come questo, rassicurare subito una persona
che ha paura può produrre
effetti contrari a quelli sperati, perché il cervello rettile di chi ci
ascolta, per potersi
fidare di noi, ha bisogno di sapere che anche noi vediamo
le cose come le vede lui, che siamo allineati. Infatti,
Elizabeth tace, in
attesa di altro. È il momento di usare gli altri due cervelli. Ora tocca al
limbico.
“Per
questo, Elizabeth, visto che voglio parlarti con calma e metterti tranquilla,
preferisco prendermi il
tempo per farlo con calma. Così ti posso aiutare. Che
ne dici se ti chiamo fra poco, appena finisco qui?”,
concludo. Prima regola
per una interazione efficace: ingaggia il cervello rettile di chi ti ascolta,
dimostrandogli che può fidarsi di te. Poi, seduci il suo cervello limbico,
fornendogli una versione della realtà
che soddisfi il suo interesse. Infine,
lavora sulla neocorteccia, dando le indicazioni che vuoi dare o facendo la
tua
domanda finale.
“Va
bene, papà, ma tra poco. promesso?”
“Promesso”,
dico. Poi ripongo il telefono in tasca. Ne approfitto per capire che cosa
voglia Lisa da me.
“Perché
mi ha chiamato, Lisa? Che cosa vuole da me?”
“Camminiamo”,
dice riprendendo a camminare verso il cartellone led più famoso del mondo, che
di
solito trasmette immagini patinate e che in questi giorni è monopolizzato da
programmi di news e titoli
scorrevoli che parlano di ricoveri e contagi. Quando
si è circondati da notizie che continuamente ti fanno
pensare a determinate
cose, può essere davvero impegnativo restare concentrati su quello che ci fa
star
meglio. Al tempo stesso, il tuo cervello va dove gli dici di andare,
segue le tue regole e tu puoi portarlo
dove vuoi. Lui farà quel che tu
gli dici di fare. Come amo ripetere in aula, durante le lezioni, hai tu
il
completo controllo. Tu puoi decidere in qualsiasi momento di pensare ad
altro, di concentrarti su
quello che ti fa stare bene.
“Ho
un piccolo problema e vorrei che lei mi aiutasse a risolverlo, Leonard.
Ovviamente, la pagherò
bene per i suoi servigi”, aggiunge lanciandomi
un’occhiata di sbieco e sapendo che sono sensibile
all’argomento. Comunque,
taccio per evitare di sbilanciarmi e di mostrare che ho fretta di sapere di che
si
tratta. Durante una negoziazione, la cosa migliore da fare è mostrare di
non essere in condizione di bisogno.
Anzi, a dire il vero è una regola che vale
in ogni contesto della nostra vita: quando hai bisogno di qualcosa,
non sei
libero, perché agisci sulla spinta emotiva di quello che tu credi essere un
vuoto. Vale nel business, vale in
amore. Quando dici a qualcuno che hai
bisogno di lui, stai dichiarando di avere un vuoto da colmare. E
l’amore non
dovrebbe servire a colmare vuoti, personali o altrui. L’amore vero è quello che
solo una persona
piena può offrire, e solo una persona piena può ricevere.
“Ho
un problema con una persona, e lei mi deve aiutare a risolverlo”.
“Ho
capito. Che tipo di problema?”
“Adesso
è prematuro parlarne. Le dico solo che è una persona molto particolare e molto
sensibile, e che
ha delle idee malsane in testa che è meglio che smetta di
avere, per il bene suo e di tutti quanti voi. Ho
ritenuto, anche alla luce dei
suoi precedenti successi, che lei sia la persona più indicata per fargli
cambiare
idea. Potrà ovviamente contare sul supporto di Lucifer ed Evelin,
qualora ci fossero ostacoli o si
presentassero… per così dire, impedimenti”.
Io stringo, per riflesso
incondizionato, le mascelle. Impedimenti. Quando si tratta di Lisa, il termine
impedimento di solito è collegato a qualcosa come la fine del mondo, arcangeli
incazzati che vogliono
distruggere il Pianeta oppure demoni dell’inferno con
mire espansionistiche. Sto per chiedere ulteriori
delucidazioni, quando Lisa si
ferma. Siamo arrivati davanti a un piccolo pub, già mezzo vuoto: alle 18:00
scatta il coprifuoco e tutti i locali devono chiudere. Non che ci sia
moltissima gente in giro, comunque.
Sbircio all’interno dai pesanti vetri
spessi e scuri e intravedo una decina, forse, di avventori, nessuno dei quali
al banco. In tempi di virus, ti fanno consumare la tua pinta di birra solo al
tavolo. La cosa non mi riguarda:
non frequento i pub e i gin tonic solitamente
li preparo da me, nel mio appartamento in Buckingham Palace
road. Abito vicino
alla vecchia Regina che, qui a Londra ne siamo tutti certi, dopo aver seppellito
almeno
una dozzina di presidenti americani, seppellirà anche questo virus, se
mai lui avesse la sfortuna di incontrare
lei.
“E’
quello seduto di spalle, esattamente di fronte a lei. Lo vede?”
“Buongiorno”,
gli dico senza sapere bene da che parte iniziare. Farò qualche domanda per
esplorare la
situazione e verificherò se questo tizio, almeno, conosce Lisa. “Buongiorno a lei, buon uomo”, mi
risponde.
“Come
posso aiutarla?”, mi chiede.
“Sono
qui perché quella che credo sia una comune conoscenza mi ha chiesto di
incontrarla e di parlare
con lei. Mi chiamo Leonard Want, comunque”, chioso
senza dargli la mano, che di questi tempi ci si saluta
solo con gli occhi.
“Ah,
Leonard Want, ho sentito parlare di lei da mia madre.”
“Sua
madre?”
“Sì,
la signora che l’ha spedita qui. Credo che lei la conosca come Lisa”.
“Sua
madre. Lisa. Sì, è stata lei a mandarmi qui. Ma lei chi è?”
“Io?
Io sono Emmanuele. Mi chiamano anche Stella del Mattino, Maestro e così via.
Per me, va bene
Emmanuele. O, se preferisce, può chiamarmi Gesù. Ecco, mi
presento: io sono Gesù Cristo di Nazareth.
Lieto di conoscerla, mister Leonard
Want”.
“Credo
che vada bene Emmanuele”, gli dico, “chiamarla Gesù mi suonerebbe un po’
strano,
probabilmente”.
“Già,
la capisco. In effetti suona un po’ strano, meglio un nome più gestibile”.
“Usciamo”,
gli dico io andando al sodo. Se proprio devo parlare con questa persona, almeno
che sia
alle mie condizioni. Usciamo in una Londra un po’ surreale, con poche
persone che camminano a differenza
delle solite orde di turisti che intasano
piazze e strade con la loro mania di fare selfie. Mi lascio alle spalle
Piccadilly e mi dirigo verso la zona dei teatri, che preferisco perché un po’
più tranquilla. Lui mi segue
docilmente, vestito davvero come un hippy uscito
da chissà quale convegno. Però sorride, e questo è un buon
segno. Sembra
tranquillo.
“Come
mai sua madre ha voluto che io la vedessi, secondo lei?”, chiedo io iniziando a
condurre le
danze. Chi domanda comanda, è la regola.
“Perché
mi sono stufato di stare qui e me ne voglio tornare a casa, e lei non vuole
perché dice che se io
me ne andassi, qui sarebbe poi un gran casino, perché
spezzerei gli equilibri cosmici, o qualcosa del genere.
Sinceramente, non lo e
non mi interessa molto, io voglio tornare a casa.”.
“Immagino
che se queste sono le sue intenzioni, avrà le sue ottime ragioni per farlo…”
inizio io con
calma.
“Sì,
è così. Sono stufo di sentirmi addosso questo peso sulle spalle”.
“Beh,
chiaro. Ci sta”, riprendo io con tutta calma e poi chiedo “…peso sulle
spalle?”, usando
esattamente le stesse parole che ha usato Emmanuele o Gesù o
come caspita si chiama il mio barbuto amico.
Nel frattempo, ci viene in contro
un tizio che corre con mascherina di protezione bianca e io mi chiedo a che
cosa gli serva, visto che sta correndo e visto che, soprattutto, la mascherina
va usata in contesti molto
specifici, che di certo non comprendono una corsa in
pieno centro di Londra. Il cielo è plumbeo, l’aria è
fresca e qualche
uccellaccio se la ride sopra di noi, girando in tondo. L’approccio funziona.
Lui inizia a dirmi
di più.
“Sono
qui da tantissimo tempo, e sono molto stanco. Voglio tornarmene a casa perché
non sopporto
più l’idea di essere responsabile per la felicità degli altri e
nonostante mia madre mi dica che di fatto io non lo
sono, io invece mi ci
sento. Lei dice che io devo stare qui solo per rappresentanza, che poi gli
uomini sono
responsabili di quel che fanno, ma io dentro di me sento che la
responsabilità è tutta mia”, mi dice
rapidamente, e poi tace, traendo un
profondo sospiro, che mi dice quanto sia stressato in questo momento.
Se fossi
capace di provare emozioni nel senso compiuto del termine, adesso probabilmente
sentirei tenerezza
e affetto, ma il cervello prende il sopravvento. Lui ha
utilizzato una strategia motivazionale di
allontanamento dalla perdita, visto
che è focalizzato su tutte cose che non vuole. Poi, ha utilizzato una
strategia
di indice referenziale interno, visto che si fida molto più del suo parere
rispetto a quello che gli
suggerisce una fonte esterna. Lo conquisterò
usando anche io queste due strategie e, ovviamente, portandolo
poi verso altre
direzioni.
“Penso
che tu abbia ragione, Emmanuele. Chi meglio di te può sapere quel che provi? Io
sono più che
certo che tutti i problemi che in questo momento ritieni di avere
siano incredibilmente reali, per te, e
nessuno potrà farti cambiare idea”,
esordisco mentre noto che lui annuisce leggermente. È mio. Sono passato
al “tu”
sia perché è più giovane, sia perché in questo modo sarò certamente più
persuasivo. La seconda
persona singolare fa miracoli.
“Allo
stesso tempo, si tratta di una mia considerazione, poi ovviamente vedrai tu
come muoverti”, dico
aspettando un suo commento, mentre camminiamo. Il commento
non arriva, il che significa che posso
andare avanti.
“Ascoltami
bene. A volte, le persone stanno male perché si rendono conto che chi sta loro
accanto
fa cose sbagliate, o prende scelte che non dovrebbe prendere. E in quei casi,
è successo spesso
anche a me, noi insistiamo perché queste persone
capiscano, perché si rendano conto di quel che stanno
facendo, e poi stiamo
anche male se non ci danno retta. Sai la verità? Ognuno di noi è responsabile
per
prima cosa del suo benessere. E nessuno di noi è responsabile della
felicità altrui. Tu non sei
responsabile della felicità altrui. Liberati di
questa idea, lascia andare questo peso e fai un bel respiro di
sollievo,
amico, perché nessuno può essere salvato senza volerlo davvero. Tu vuoi
stare bene? Tu vuoi
davvero essere felice? Ecco, queste sono le domande a cui
devi rispondere, prima di tutto. Se la risposta è
sì, allora inizia a
permettere che gli altri possano fare la loro strada”. Faccio un attimo di
pausa, per lasciare
che l’effetto delle mie parole sia ancora più profondo. A
volte, ci vuole un attimo a capire. Lui è assorto.
“Addirittura,
ti dico che, da un certo punto di vista, il voler salvare a tutti i costi chi
non vuol essere
salvato può persino essere considerato un atto di egoismo. Lascia
andare, lascia correre, lascia che ognuno
trovi la sua strada, senza la pretesa
che sia per forza la tua. Ci sono persone che hanno bisogno di stare
male,
o di continuare a sbagliare”.
Lui si ferma.
“Che
cosa vuol dire? Chi può aver bisogno di star male?”
“Beh,
Gesù”, lo chiamo con quel nome così carico di significati, “stare bene o
stare male è solo una
questione di abitudine”.
“Spiegami”,
mi dice. Noto che anche lui è passato al “tu”.
“Il
tuo cervello fa più volentieri quel che è già abituato a fare. Tutto qui. Se tu
produci per troppo tempo
ormoni dello stress, il tuo cervello continuerà a
cercarli, anche se ti fanno star male. Ne ha bisogno. Tutto qui.”
“Vale
anche il contrario?”
“Eh
sì, amico, se ti abitui a stare bene, il tuo cervello poi vorrà sempre e
solo ormoni del benessere, solo
cose che ti fanno stare bene. È tutto qui,
davvero. È solo una questione di scelte.”
“Leonard
Want”, tuona con la sua voce cavernosa che mi fa tremare le ossa, “sono qui per
prendere in
custodia il suo compare, e trarlo con me in ben altri lidi, lontano
da questa massa di imbelli individui che
nulla sembrano potere al cospetto
delle supreme forze della natura!”.
“Stai
tranquillo”, gli dico con voce calma e tranquilla. “Andrà tutto bene,
sono qui io a
proteggerti. Tu ascolta me, fai quello che ti dico e ogni cosa
sarà sistemata. D’accordo?”
“D’accordo”,
dice lui.
“Quanto
a te, mio caro Dantalian, io credo che tu sia, come tuo solito, nel posto
sbagliato al momento
sbagliato. Sei peggio di un virus indesiderato, e farai
presto la fine che fanno i virus indesiderati. Sparirai nel
vento, e di te
nessuno nemmeno si ricorderà”, dico mantenendo la concentrazione sulla
voce, per evitare che il
mio leggero fastidio si noti da un qualche tremolio
non voluto. Mentre aspetto che mi risponda, il telefono
suona. So che è
Elizabeth prima ancora di controllare il display. Sono in ritardo, e lei ha
paura. La devo
chiamare, devo salvare Gesù e devo liberarmi di un demone che si
nutre di pensieri negativi.
“Ciao,
ragazzino”, sento dire alle mie spalle senza preavviso.
“Io
suggerisco di lasciar cadere la cosa. Intendo, lasciar cadere questo
insignificante essere da una rupe
profonda”, prosegue.
“Evelin”,
le dico a mo’ di saluto,
“Sì, è il mio nome. Adesso spostati, che devo sistemare questo damerino e sistemarlo nel primo orto
che trovo come concime per i pomodori”.
___segue___ (https://www.ilsignoredellementi.com/i-racconti-di-leonard-want-03/)
“Evelin!”,
dice Dantalian in tono sorpreso. Non se l’aspettava, il damerino.
“Dantalian”,
dice lei con la sua tipica espressione di disgusto.
“Signori”,
mi intrometto io guardando prima Dantalian, poi Evelin e infine Emmanuele, “io
me ne
vado. Vi lascio alle vostre faccende, io devo sistemare questioni più
urgenti”. E mi incammino, incurante
delle loro reazioni. Avevo promesso a mia
figlia che l’avrei chiamata, e la chiamerò. I momenti più
impegnativi che la
vita ci riserva possono essere l’occasione per ristabilire valori e priorità, e
per scoprire, o
riscoprire, quel che conta davvero. Nel via vai quotidiano,
quando diamo tutto per scontato, spesso ci si
dimentica di quel che conta
davvero, e del fatto che quel che conta davvero è ciò che non può essere contato.
Cammino percorrendo a ritroso la strada che ho appena percorso con il mio
biblico amico, entro in un coffee
shop e ordino una tazza di caffè americano
forte. Non può competere con quello che di solito bevo nella
Roastery Starbucks
di Milano, gestita dal mio amico Giampaolo, ma servirà al suo scopo: qualcosa
di caldo
da tenere in mano, e un po’ di caffeina. La caffeina, perché aumenta
il metabolismo e mi piace vivere
nell’illusione di bere qualcosa di buono che
consumi qualche caloria. La bevanda calda in mano, invece,
perché voglio
condizionare il mio umore in termini di maggior sensibilità ed empatia, visto
che i termocettori
del mio corpo trasformeranno il caldo trasferito dal
bicchiere di cartone al mio sistema nervoso, rilassandomi
e meglio predisponendomi
nei confronti di una conversazione che, lo so già, sarà impegnativa. Si
chiama
“cognizione incarnata” ed è un meccanismo molto utile da conoscere,
soprattutto in momenti come questo,
in cui il nostro stato d’animo è
fondamentale: quando sei più rilassato e di buon umore, prendi decisioni
migliori e riesci a vedere le cose da una prospettiva più rosea. Lo
consiglio sempre a Elizabeth: prima di
fare un esame o quando sei agitata o quando
vuoi rilassarti, le dico sempre, preparati qualcosa di caldo e
tieni la
tazza in mano per almeno tre minuti. Il tuo cervello si rilassa, ti fa sentire
più tranquillo e
favorisce l’empatia nei confronti delle altre persone. Cosa
assolutamente fondamentale, soprattutto
quando per legge ti impediscono di
toccarti o abbracciarti. Il caldo serve a fare in modo che la distanza fisica
non diventi anche distanza emotiva. Perché la verità è che il raffreddore lo
prendono più frequentemente le
persone tristi, e il miglior antidoto alla paura
è sempre stato, è e sarà la gioia.
Mi siedo su una panchina, mi rilasso e
faccio un bel respiro. Più ossigeno al cervello significa miglior capacità
di
analisi.
“Ciao
Elizabeth”, le dico appena risponde.
“Avevi
detto che mi avresti richiamato subito!”, grida lei.
“Sì,
hai ragione, sono un po’ in ritardo”, convengo senza aggiungere altro. Troppe
giustificazioni mi
esporrebbero a ulteriori attacchi da parte sua, e troppe
scuse peggiorerebbero la mia credibilità. Taccio, in
attesa che sia lei a
parlare. Voglio che sia lei a introdurre il tema. Quando taci abbastanza, il
tuo interlocutore
parla. E chi parla per primo, sia in negoziazione sia in vendita,
perde.
“Ho
paura, papà, ho paura per questo virus”.
“Hai
perfettamente ragione ad avere paura, Elizabeth. È una situazione
davvero sfidante, ed è
perfettamente comprensibile che tu abbia timore per quel
che sta capitando”, le dico. Qualsiasi
consolazione prematura sarebbe
inutile. Invece, in questo modo, ho dimostrato al suo cervello rettile che può
fidarsi di me, perché ho capito la situazione. Inoltre, ho trasformato la
parola “paura” in “timore” e ho
parlato di situazione sfidante. Piccole magie con
le parole che possono produrre grandi effetti sul cervello di
chi le ascolta.
Ora che ho conquistato la sua fiducia, posso applicare una tecnica che mi piace
tanto e che
consiste nel creare un effetto a mio piacere partendo da una causa
certa. Lei mi ha detto che ha paura, io da
questo posso far derivare qualsiasi
risultato.
“E il fatto che tu abbia paura ci permette, adesso, di riflettere con calma sia sulla situazione sia
sul modo per gestirla al meglio, perché se è vero che certe cose non le possiamo cambiare, è anche vero
che possiamo cambiare il modo di affrontarle.
“Va
bene papà”, dice lei.
“Di
che cosa hai paura, esattamente, Elizabeth?”
“Non
lo so di preciso. Della gente che gira con le mascherine, di quelli che dicono
che è la fine del
mondo… di quelli che dicono che è una pandemia mondiale e che
moriremo tutti… di ammalarmi… non lo so
papà, ho paura di tutte queste cose”.
“In
effetti è un bell’elenco, credo che potremmo metterci tutto il pomeriggio e
anche tutta la sera”,
rispondo sorridendo e prendendomi il tempo di sorseggiare
il mio caffè. Nessuna fretta, quando si vuol far
cambiare idea a una persona.
La fretta porta poco lontano.
“Eh,
papà, lo so che magari è una cosa sciocca, però io ho paura”.
“Ci
mancherebbe altro, Elizabeth, sono tutti pensieri più che legittimi”.
“E
quindi? Non mi tranquillizzi?”
“No,
Elizabeth, perché da un certo punto di vista tutte le cose che dici sono
sensate. Anzi, è utile
che tu pensi anche a quel che potrebbe andare peggio,
perché in questo modo presti attenzione a quel
che succede. Un po’ di attenzione
fa bene e non sarò certo io a fartela passare. Allo stesso tempo, puoi
anche
scegliere di alimentare il tuo cervello anche con altre idee.”
“E
che idee utili potrei mettere nel mio cervello?”
“Ecco,
questa è una eccellente domanda, Elizabeth. Io non lo so, ti dico solo che i
pensieri che hai
sono alimentati dagli ormoni che hai in corpo”; preciso
sapendo che è abbastanza grande per sapere di che
cosa sto parlando, e poi l’ho
allevata a pane e ormoni da quando è piccola.
“Quindi,
la prima cosa che devi fare è cambiare i tuoi ormoni, perché cambiare i
pensieri quando
hai paura è difficile, vero?”
“Sì,
infatti, io mi impegno a pensare a cose belle, ma poi i pensieri brutti tornano
sempre”.
“E’
normale. I pensieri dipendono dal livello di ormoni che hai in corpo. È
inutile che io ti inviti
al pensiero positivo, se prima non ti dico come
cambiare i tuoi ormoni. Quindi, alzati in piedi,
ovunque tu sia”, le dico,
aspettando che possa eseguire l’ordine.
“Ci
sei?”
“Sì”.
“Ora
fai un respiro lento e profondo. Inspira, trattieni il fiato qualche secondo,
espira
lentamente. Fallo adesso. Poi fallo ancora. Ti lascio il tempo di farlo.
Respira… profondamente.”
“Dimmi
quando ci sei”.
“Ci
sono”.
“E
come va?”
“Meglio”
“Vuoi
che vada ancora meglio?”
“Magari,
papà”.
“Bene,
allora adesso fai così. Divarica leggermente le gambe, alza la testa verso
il cielo e continua a
respirare. Se stai facendo altro, sospendi un attimo e
fai quello che ti ho detto. Puoi tornare qui dopo.
Prima, fallo. Resta con la
testa alzata verso il cielo, così mentre lo fai inizi a renderti conto che in
questa posizione, mentre respiri profondamente, cominci subito a stare meglio,
sempre meglio… una
sensazione di leggerezza ti pervade da capo a piedi… e stai
sempre meglio”, le dico abbassando il volume
della mia voce, in modo che
lei sia totalmente concentrata su di me. Aspetto qualche secondo.
“Stai
meglio”, le dico. Non è una domanda, è una affermazione, voglio concludere
alla grande questo
momento così importante.
“Sì”,
dice lei come se glielo avessi chiesto.
“E
adesso che succede?”, mi chiede poi.
“Ora
succede che ogni volta che senti il desiderio o il bisogno di stare meglio,
puoi ripetere questo
semplice esercizio. Poi, tesoro, io ti darò
ogni giorno nuovi consigli, così da starti vicino in questo
momento così
particolare. Va bene?”
“Sì,
papà, va bene”.
Io sorrido, e mi godo un altro sorso di caffè bollente, proprio un secondo prima che una figura mi faccia
ombra. Alzo lo sguardo verso l’uomo che si è appena sistemato fra me e la strada.
“Ora
devo salutarti, Elizabeth”, dico fissando negli occhi l’uomo e poggiando il
bicchiere di caffè sulla
panchina”.
“Va
bene, papà, a dopo”.
“A
dopo”, dico. Interrompo la comunicazione e continuo a fissare l’uomo,
elegantissimo in un
completo nero di evidente fattura sartoriale, impreziosito
da un elegante panciotto, scarpe inglesi di
eccellente qualità, capelli ordinati
e occhi di un nero talmente nero da togliere il fiato. E’ bellissimo, in modo
assoluto e oggettivo.
“Lucifer”,
gli dico.
___segue___ (https://www.ilsignoredellementi.com/i-racconti-di-leonard-want-04/)
“Che
cosa significa che questa è la vera legge dell’attrazione, Leonard?”
“Significa
che molte persone, purtroppo, hanno una idea distorta della legge
dell’attrazione”, gli
rispondo mentre lui compie una curva con una sterzata
piuttosto brusca che mi fa sobbalzare lo stomaco.
“Ad
esempio?”
“Beh,
molti per esempio dicono di voler diventare ricchi, o felici o altro. Dicono
cose come voglio
diventare ricco! Voglio diventare felice! Voglio trovare
l’amore della mia vita!”
“Mi
sembra una cosa buona”.
“E’
una cosa sbagliata, Lucifer”, ribatto mentre lui schiva un pedone munito di
mascherina con un
leggero tocco al volante.
“In
che senso?”.
“Rifletta,
Lucifer. Ci pensi un attimo. Chi potrebbe mai dire di voler diventare ricco?”
“Un
povero”, mi dice lui dopo un secondo.
“E
chi potrebbe mai dire di voler trovare la felicità?”.
“Una
persona che la felicità non ce l’ha”.
“Esattamente
così. Una persona ricca si gode la ricchezza, e parla come una persona
ricca, e si comporta
come una persona ricca, perché lo è già di suo. L’Universo
funziona così, lo diceva anche Aristotele. La Natura
aborre il vuoto. Se
tu crei un vuoto, la Natura lo riempie”.
“Perciò”,
proseguo, “se io parlo e mi comporto da persona ricca, e non lo sono,
l’Universo provvede, e
riempie il vuoto. Se dico di voler diventare ricco,
allora sto esprimendo la condizione del povero, e l’Universo
mi darà esattamente
quello che sto dichiarando, ovvero la condizione del povero”.
“Mio
caro Leonard, apprezzo senz’altro il ragionamento, e al tempo stesso secondo me
presenta un
limite importante”.
“Ovvero?”
“Lei
dice che per avere più ricchezza una persona deve comportarsi da ricca. Ma se
una persona non ha
i soldi, mica può andare per ristoranti di lusso a spendere
stipendi in cene principesche”, mi dice compiendo
un’altra curva a una velocità
che definirei audace.
“Io
trovo che sia il suo ragionamento a essere limitato”, dico senza mezzi termini,
“perché lei sta
parlando di ricchezza pensando solo ai soldi. Avere tanti
soldi sul conto corrente non significa essere ricchi. Era
ricco Voltaire, che
diceva di avere la più grande collezione di conchiglie al mondo, distribuita in
tutte le
spiagge in cui si era recato. La ricchezza prescinde dal conto
corrente, mio caro, è un atto di cuore”.
“Non
qui”, mi dice lui, “Lisa l’attende alla solita panca”.
“E’
contenta, Lisa?”, le chiedo a bruciapelo.
“Per
cosa?”
“Per
quello che sta capitando. Lei voleva la fine del mondo, pare che stia
succedendo”.
“Non
sta succedendo un cazzo, Leonard, apra gli occhi. Vi hanno messo in quarantena
solo perché
siete troppo idioti per prendere le cose sul serio e andate a fare
gli aperitivi al pub quando vi dicono di stare
in casa. Del resto, non mi
stupisco. State distruggendo il pianeta e passate le domeniche a guardar
partite di
calcio, è tutto perfettamente coerente. Che delusione. Questa cosa
passerà presto. L’unica cosa che spero è
che voi impariate dall’esperienza”.
“Io
avrei già sistemato le cose da un pezzo”, dice Evelin con un sogghigno.
“Lo
so perfettamente”, le dico.
“Io
propendo per la disciplina e un po’ di rigore. Vi comportate come ragazzini,
dovreste essere trattati
come tali. Lisa dice che dovrei accettarvi così come
siete… e anche io sono sicura che dovrei accettarvi. Tutti.
Solo che io e Lisa
diamo a questa parola significati diversi. Lei è un po’ più… metaforica. Si
dice così, vero,
maestrino delle parole?”
“Mio
figlio vuole abdicare, come le ha già detto. Vuole tornare a casa. Ma il suo
posto è qui. Serve qui.
E Dantalian, che lei ben conosce, sta facendo il
possibile per convincerlo a tornarsene a casa, ovviamente. Sa
che la sua
assenza toglierebbe speranza alle persone, e che queste persone scivolerebbero
nel buio di pensieri
negativi e demoni personali, e che sarebbero quindi la
massima fonte di nutrimento per il suo ego cosmico.
Lui si nutre di paura, e
diventa più forte. Io voglio evitare che questa cosa succeda, ma come sempre
non
posso intervenire. Sono cose da uomini, vanno gestire da uomini.”
“La
cosa fondamentale”, interviene Lucifer, “è che le persone continuino a
desiderare, perché è il
desiderio che le avvicina alle stelle, alla luce, nel
più ampio senso del termine. Noi”, e lo dice facendo un gesto
plateale che
abbraccia me, Evelin e Lisa, “vogliamo la luce, perché è la luce che vi
permette di elevarvi a più
alti ranghi, ed è solo attraverso la luce che, alla
fine, vi ricorderete chi siete e che cosa siete capaci di fare.”
“E
io che cosa dovrei fare, Lisa?”
“Io
appiccicherei un bel fuoco purificatore, per sistemare le cose”, interrompe
Evelin.
“E
io che cosa dovrei fare, Lisa?”
“Lei
deve convincere mio figlio a sacrificare la sua vita e la sua felicità
personale per il bene di tutti.
Altrimenti, glielo dico con il cuore, il virus
che adesso vi sta dando da pensare sarà l’ultimo dei vostri
problemi”.
“Che
cosa intende?”
“Che
lei deve convincere mio figlio. Altrimenti, e non ho altro modo per dirglielo,
il virus sarà l’ultimo
dei vostri problemi”.
___segue___ (https://www.ilsignoredellementi.com/i-racconti-di-leonard-want-05/)
Dopo aver trascorso una notte praticamente in bianco a causa dei pensieri di questi giorni, mi sono fatto una
super doccia bollente, mi sono riempito il viso di creme, gentile omaggio del mio amico David (che se sapesse
quante volte mi dimentico di fare quello che mi dice, probabilmente mi sgriderebbe tantissimo) e mi sono
spazzolato la barba con cura (e qui, invece, Tony ne sarebbe alquanto soddisfatto). Pensandoci, ho un sacco di
persone che si prendono cura di me. Pensandoci, forse sono io che non mi prendo abbastanza cura di loro.
Non so se avrei il coraggio di dirlo in pubblico o di scriverlo in un racconto, perché avrei timore di risultare
ridondante e a me piace sempre dire cose originali, ma questi giorni di virus possono davvero essere
l’occasione per fermarci un attimo e pensare alla frenesia quotidiana, che ci fa dare per scontate moltissime
cose e che, soprattutto, ci fa rimandare costantemente quei piccoli gesti che invece sono importanti. Chiamo
poco le persone, chiamo pochissimo i miei genitori, chiamo ancor meno mia sorella Claudia, che deve il suo
nome alla passione dei miei per una famosa attrice italiana, con la scusa degli impegni. Che ci sono, per
carità, ma che forse sono anche il pretesto per legittimare la mia misantropia. O la mia pigrizia, chissà.
“Stai
bene?”, mi chiede lei che non si aspettava la mia chiamata.
“Certo,
sister. Tu? I bimbi?”
“Tutto
a posto, loro sono tranquilli”.
“E
tu, invece?”, dico tossendo un paio di volte. È curioso come cambi la
percezione delle cose in base ai
pensieri che abbiamo in testa. Mi sarà
capitato di tossire, in tutta la mia vita, almeno un miliardo di volte. Ma
in
questi giorni ogni colpo di tosse ha un significato del tutto particolare, e il
cervello se ne va per la sua
strada. Che non è sempre una buona strada, e per
questo va rimesso in carreggiata.
“Hai
tossito”, mi chiede infatti lei, senza rispondere alla mia domanda.
“Sì,
Claudia, a quanto pare”.
“Beh,
quindi? Stai bene? Hai sintomi?”
“Sto
bene, ho tossito, come ho sempre fatto e come credo sempre farò.”
“Beh,
e io mi preoccupo per te”.
“E
io lo apprezzo tantissimo. Al tempo stesso, ti ricordo che le cose sono
semplicemente cose. Una
rosa, è una rosa.”
“E…?”
“E
il modo in cui definisci la rosa dice qualcosa di te, non della rosa”.
“Non
ho capito”.
“Intendo
dire, Claudia”, le rispondo mentre mi passa davanti una signora con quella che
sembra essere
carta da forno utilizzata come mascherina per il viso, “che
tendiamo a vedere le cose non per come sono,
ma per come siamo. Se tu non
sapessi quel che sta capitando adesso, il mio colpo di tosse sarebbe stato un
colpo di tosse. È significativo oggi perché hai in testa una serie di brutti
pensieri. Altrimenti, non te ne saresti
accorta. E aggiungo: stai anche facendo
un’equivalenza complessa”, concludo sapendo che non capirà e
quindi mi chiederà
di che cosa si tratta. L’ho fatto apposta, per sollecitare una reazione da
parte sua.
“Che
cosa sarebbe?”
“A volte, metti insieme cose che insieme non devono stare. A volte, attribuisci significati a
situazioni che invece possono voler dire altro. Nel tuo cervello, hai appena fatto una equivalenza fra il mio
colpo di tosse e il virus. Ma il mio colpo di tosse potrebbe essere legato a un pelo di gatto che mi stuzzica la
gola, oppure al fatto che ho respirato male mentre parlavo con te, oppure al fatto che ho pensato a un cliente
che avrei dovuto chiamare e il mio cervello inconscio ha scaricato in questo modo la sua tensione. Hai
sempre un altro modo di vedere le cose. Ricordatelo sempre, sister, sai che ti voglio bene: hai sempre un
altro modo di vedere le cose”.
“Sembra
facile, ma non è così facile, fratello”.
“È
vero”, rispondo al suo cervello rettile, che di sicuro non vuole essere
contrastato, “a volte è
tutt’altro che semplice”, proseguo utilizzando
la parola “semplice”, perché quando leggi o ascolti questa
parola il tuo
cervello si rilassa e inizia a pensare in termini più costruttivi, “a volte
è davvero tutt’altro
che semplice. Eppure, puoi. Puoi pensare, ad esempio, a
che cos’altro potrebbe significare quello che hai
visto o ascoltato. Puoi
pensare alle soluzioni invece che alle difficoltà, puoi concentrarti su tutto
quello
che di bello e positivo puoi imparare da questa o da altre situazioni”.
“Eh,
Leonard, tu la fai facile, ma come si fa?”
“Claudia,
te l’ho ripetuto mille volte. Per prima cosa, fermati e fai un bel respiro.
Un respiro
profondo, così che mentre respiri ogni cosa inizia a sembrare più
semplice. Poi, ripeti la tua parola
magica. Te la ricordi la tua parola
magica?”
“Sì,
ce l’ho”.
“Bene,
usala, e soprattutto insegna a tutti quelli che conosci a fare la stessa
cosa, perché se tutti
noi insieme iniziamo a comportarci bene, a pensare bene e
a usare il cervello per quello che è capace di
fare, allora usciremo da questa
situazione molto più velocemente, e molto più forti di quando tutto
questo è
cominciato. Ricordati che questa è la nostra miglior occasione per dimostrare
di che pasta
siamo fatti, sister. È la nostra chiamata nel viaggio
dell’Eroe. Ovviamente, hai paura. Nessun Eroe affronta
il viaggio
volentieri e senza paura, altrimenti non sarebbe un Eroe. Ma è proprio per
questo che è un Eroe.
Ricordalo sempre, questo è l’inizio di un viaggio,
abbiamo ricevuto la nostra chiamata. Ci aspettano
grandi prove, ma alla fine
gli eroi vincono sempre”. E a questo punto taccio, lasciando che tutto il
discorso
che ho fatto produca i suoi effetti.
“Va
bene”, mi dice lei con un tono di voce finalmente determinato, “questa cosa me
la rispieghi dopo
con calma, e comunque dovresti passare da me in farmacia, per
fare un bel check-up completo, e quella cosa
che sai”. So perfettamente a che
cosa si riferisce, e chiaramente salterò l’appuntamento che mi sta offrendo da
mesi. È la miglior infermiera del pianeta, ma ha una passione malsana per
alcune pratiche di purificazione
che preferisco evitare. La saluto e riattacco,
dopo essermi raccomandato di salutare anche Ludovico e
Federico, i miei
nipotini magici. Mentre mi incammino verso il centro del mercato di Covent,
penso ancora
alla signora con la maschera realizzata con, ne sono certo, carta
da forno. Ho letto da qualche parte che una
presentatrice televisiva ha
realizzato un tutorial al riguardo, e ho collegato con un’altra presentatrice
che ha
dedicato mezza puntata del suo programma a spiegare alle persone come
lavarsi le mani e, mentre sorrido,
penso che forse “meritiamo l’estinzione” è
un po’ esagerato, ma di certo meriteremmo una sfoltita. Se penso
che, giusto
ieri, in Francia, migliaia di persone hanno manifestato vestite da Puffo al
grido di “pufferemo il
virus”, l’idea di una sana sfoltita prende sempre più
piede.
A proposito di Francia, vedo
Emmanuele, sta camminando verso “Le Pain Quotidien”, uno dei locali che
amo di
questo posto. È vestito con lunghi calzoni bianchi di lino e una specie di
felpa che potrebbe essere
marrone o verde. Lo raggiungo accelerando il passo.
“Gesù!”,
lo chiamo, facendo girare alcuni passanti curiosi.
“Leonard”.
“Beviamo
qualcosa di caldo?”, gli propongo senza mezzi termini. Ho fretta, voglio
sbrigare questa
questione al più presto e tornare a dedicarmi ai miei affari e
al mio prossimo romanzo, una storia
soprannaturale che contiene tecniche
linguistiche che cambiano il cervello di chi la legge. Una cosa bizzarra,
mi
rendo conto, che però potrebbe anche avere successo. Chissà.
“Beviamo
qualcosa tutti insieme”, tuona una voce alle mie spalle. È Dantalian, il demone
dei pensieri
oscuri.
“Direi
che va benissimo, Dantalian, così il nostro amico Emmanuele potrà rendersi
conto di quanto tu
sia inutile e di quanto il mondo senza di te sia decisamente
più interessante. Entriamo, offro io”.
___segue___ (https://www.ilsignoredellementi.com/i-racconti-di-leonard-want-06)
“Quindi,
miei cari, facciamo così. Io ignoro il motivo per cui Lisa mi abbia chiesto di
parlare con
Emmanuele, e ignoro il motivo per cui tu, Dantalian”, e gli punto
contro il dito indice in modo aggressivo,
“sia venuto ancora nella mia città,
quando ti avevo detto di non ripresentarti più. In ogni caso, il tempo
stringe,
ho cose importanti da fare, quindi ditemi un po’ che cazzo ci facciamo qui”.
“Che
modi bruschi, mio caro Leonard! Il tenore del suo linguaggio e i suoi modi
assai poco garbati
paiono rendere scarso onore al tipo di figura che lei dice
di rappresentare. Un esperto in interazioni umane
dovrebbe palesare il suo
pensiero in ben diverso modo, ne conviene?”, mi punzecchia, parlando, come suo
solito, come se fossimo in un romanzo di fine ottocento. Ho capito dove vuole
andare a parare, ma di sicuro
evito di rispondere all’accusa. Terza regola:
evita di rispondere in modo diretto, rispondi sempre con
un’altra domanda. Chi
domanda, vince.
“Ognuno
ha il suo parere e ogni parere è rispettabile, persino il tuo, Dantalian. Non
so di che parli,
quindi spiegamelo”, lo incalzo dandogli un ordine diretto.
Questo mi serve sia per mantenere un livello di
parità psicologica con lui, sia
per dare a Emmanuele un messaggio molto chiaro: il leader, qui, sono io.
“Ho
letto in molti libri che la prima cosa da fare quando si comunica con qualcun
altro è rispecchiare il
suo comportamento, e allineare la propria comunicazione
alla sua”, mi dice beffardo. So a cosa si riferisce: c’è
tutta una corrente di
pensiero che ancora oggi parla di queste cose, ignorando completamente il modo
in cui il
cervello funziona. Anche io, una volta, mi ero bevuto tutte queste
storie e persino le insegnavo. Poi, vivaddio,
mi sono evoluto e ho iniziato ad
aprire i libri veri, oltre che quelli di auto aiuto che servono più a chi li
vende
che a chi li legge.
“Allora
forse dovresti leggere qualche altro libro, amico, perché la stronzata del
rispecchiamento va
bene solo in pochissimi casi. In ogni caso, non ho né tempo
né voglia di spiegare me stesso a un cialtrone che
ho già messo al suo posto
una volta”, gli ricordo, per evocare in lui l’immagine di me che lo prendo a
cazzotti
e lo rimando da dove è venuto. È successo non molto tempo fa, dovrebbe
ricordarselo bene. Quarta regola:
scegli come far stare il tuo
interlocutore, scegliendo le parole che dici e i pensieri che lui vuoi che
abbia. Per mettere di buon umore qualcuno, basta chiedergli di ricordare
qualche episodio piacevole.
Al contrario, per mettere di cattivo umore
qualcuno, basta fare il contrario. Di questi tempi, per mettere
di
cattivo umore qualcuno basta chiedergli “come va?”. Che domanda del cazzo,
penso quando me la fanno.
Come vuoi che vada? Chiedimi altro, penso sempre.
Chiedimi che tipo di storia racconterò nel mio prossimo
romanzo, chiedimi che
progetti ho per quando potrò di nuovo andarmene in giro liberamente, chiedimi
cosa
posso fare di buono per rendere questi giorni più divertenti, ma non
chiedermi come va, per la miseria. A
questo punto, interrompo io il flusso
della conversazione, sempre per detenere il potere sulla conversazione.
Mi rivolgo
a Emmanuele, o Gesù, o come caspita si chiama.
“Quanto
a te, mio caro, spiegami un po’ che cosa succede, visto che la volta scorsa
siamo stati
interrotti”, dico mentre lancio un’occhiataccia a Dantalian.
“Io
voglio andarmene da qui, voglio tornare a casa. Questo posto non mi piace più”.
“E
ne ha ben donde!”, tuona Dantalian, il cui compito è fomentare pensieri
negativi per accrescere il
malessere delle persone, “questo posto è ridicolo, è
pieno di persone che costantemente si crogiolano nelle
loro dabbenaggini,
dimentichi dei doni che hanno ricevuto e di quel che possono fare. Il nostro
Emmanuele,
la nostra Stella, merita un ben diverso palcoscenico!”
Sta lusingando il suo ego, ovviamente,
il che è una buona idea. Quinta regola: lusinga l’ego del tuo
interlocutore.
Con eleganza e garbo, ma ricordati che ogni persona crede di essere in qualche
modo
speciale, e lavorare sull’ego di chi ti parla è una via privilegiata di
accesso al suo cuore.
“Esatto”,
risponde infatti Emmanuele, “qui mi sento fuori luogo”.
“Questo
è assolutamente e perfettamente comprensibile”, gli dico ignorando il damerino
dell’ottocento, che voglio escludere il più possibile dalla conversazione, “e,
al tempo stesso, richiede una
riflessione”.
“Cioè?”,
mi chiede mentre una ragazza si avvicina per prender l’ordinazione. Io la
fulmino con lo
sguardo e con le labbra sillabo “DO-PO”, per dirle di tornare
fra poco. Lei gira su se stessa e sparisce dalla
nostra vista.
“Partiamo
dal presupposto che la situazione che stai vivendo non ti piaccia. È così?”,
inizio io
ingaggiando il suo cervello rettile e poi chiedendo a lui conferma di
quel che ho detto. Settima regola: prima
del passo successivo, chiedi sempre
conferma, fai prendere impegni al tuo interlocutore.
“Sì”.
“Va
bene, è ragionevole. A volte può succedere di vivere situazioni che ci vanno
strette…”,
proseguo ricorrendo a un linguaggio persuasivo e vago.
“…ed
è perfettamente legittimo avere il desiderio di fare altro, di andare altrove,
di scappare,
persino…”, dico abbassando leggermente il tono di voce, e
portandolo sempre più dalla mia parte.
“…e,
al tempo stesso, la vera libertà consiste nel saper stare ovunque, a
prescindere. Se tu ora
scappassi, saresti prigioniero di te stesso e delle tue
debolezze. Se tu, invece, riuscissi a stare bene anche
qui e ora, e poi volessi
andartene, allora saresti libero davvero. Se tu ti arrendessi ora, sarebbe un
ripiego. La libertà è un’altra cosa, è evitare che le circostanze esterne ti
facciano dimenticare chi sei. La
libertà è fronteggiare qualsiasi situazione
con il coraggio di chi sa che comunque vada, saprai gestire la
cosa. Solo
questa è libertà. Il resto, sono ripieghi. Puoi raccontartela come vuoi, ma
scappare adesso o
arrenderti adesso sarebbe un ripiego, la peggior forma di
prigionia”.
Devo averci messo abbastanza pathos,
perché Gesù annuisce e mi pare che abbia persino gli occhi lucidi. Mi
sono
commosso anch’io. Quasi. Ora sono pronto per ordinare il mio pane integrale con
avocado, che a
questo punto diventerà il mio pranzo. Dantalian, però, si alza
in piedi. Mossa non prevista. Decisamente non
prevista. Mi guarda, con occhi
fiammeggianti. Poi, in un secondo, senza che io abbia fisicamente la capacità
di reagire, si avvicina a me, lui in piedi e io seduto. Allunga il braccio
verso di me e mi appoggia con forza la
mano sul torace. Sento il rumore sordo
della sua mano che sbatte sulla cassa toracica. È questione di un
secondo, il
tempo di rendermi conto di quel che succede e abbozzare una reazione, ma ormai
lui è già lì.
“Senti!”,
dice con voce profonda e bassa. “Ora vedremo di che cosa sei capace, uomo delle
parole”,
continua. E io sento un senso di caldo malsano che dalla sua mano si
propaga nel mio petto, in un istante.
Sento caldo, e fastidio. Molto fastidio.
Non so per quale ragione, ma il secondo dopo ho dentro di me la
certezza che
Dantalian mi abbia contagiato, che mi abbia trasmesso il virus. È illogico e
irrazionale, ma so che
è così.
“Esattamente
come pensi, uomo delle parole. Ora hai dentro di te la creatura che io ho
creato per
gettare scompiglio su questa terra di pusillanimi. Vediamo, adesso,
che cosa potranno fare le tue parole. Buon
divertimento, Leonard Want”, mi
dice. Poi si gira e se ne va. Io guardo Emmanuele. Mi tocco il petto, che
ancora brucia, e sento quella sensazione sgradevole che ho avvertito prima
propagarsi in tutto il corpo,
provocandomi un leggero senso di nausea. Sono
stato contagiato. Sono stato contagiato, cazzo.
___segue___ (https://www.ilsignoredellementi.com/i-racconti-di-leonard-want-07/)
“Leonard!”,
mi sento chiamare. So chi è prima ancora di voltarmi.
“Paul”,
lo saluto con un sorriso. Paul Star, l’uomo delle stelle, un cognome che sembra
un destino,
visto che Paul è davvero una stella che brilla nel firmamento del
mondo dello showbusiness e dell’editoria. È
uno in gamba: nonostante il
successo, ha sempre lasciato acceso il cuore, cosa assai rara in un mondo in cui,
invece, di solito, sono accesi il fegato dell’invidia e dell’opportunismo e il
portafogli.
“Stai
bene?”, mi chiede lui. Evidentemente, non ho fatto in tempo a sollevare la mia
corazza, e la mia
faccia racconta una storia che non è quella che ufficialmente
di solito offro al pubblico. Inoltre, non mi sono
nemmeno avvicinato per
abbracciarlo: l’idea di essere contagiato ha già iniziato a germogliare,
dannato
Dantalian. Io lo so che vuole il mio cervello, che vuole piegare la mia
volontà e farmi perdere la fiducia in me
stesso che ho impiegato così tanti
anni a costruire. Vuole la mia paura, perché di essa si nutre. Vuole vedermi
cedere. Cosa che, per quel che mi riguarda, può anche sognarsi.
“Non
benissimo”, rispondo dicendo la verità e al tempo stesso usando una parola
buona. Puoi sempre
dire la verità, l’importante è dirla con parole belle. Come
una volta ho spiegato a Elizabeth, ai tempi in cui
ancora mi ascoltava, il
cervello intende tutto quello che dici in modo letterale. Qualsiasi cosa tu
legga, o
dica, lui la interpreta in modo letterale, e la trasforma in
un’immagine, che a sua volta diventa la
chimica del tuo corpo. Ovvero, il modo
in cui stai. Io, questa è la verità, ora sto male, perché penso di
essere
contagiato. Posso dire che “sto male” oppure posso dire che “non sto proprio
benissimo”.
Entrambe le affermazioni sono sincere, ma la prima peggiorerà la
situazione, mentre la seconda la
solleverà. Ecco perché dico sempre a
tutti: “più parole hai, più libero sei”. Paul, fra l’altro, è un
ambasciatore davvero virtuoso di queste idee, e le porta al mondo con una
grazia sublime. Infatti, capisce
quel che voglio dire davvero.
“Che
cos’hai, Leonard?”
“Pensieri,
Paul. Pensieri del cazzo”.
“Ehi,
amico, questo linguaggio ti si addice poco, lo sai vero?”
Registro il feedback, che punge ma che richiama alla ragione. È vero. Ognuno di noi viene definito dal
linguaggio che utilizza. Ognuno di noi disegna la sua realtà con le parole che usa.
“Hai
ragione, mi si addice poco. Facciamo un giro? Ho bisogno di un caffè.”
“Bravo,
fai un bel respiro profondo, adesso”, mi dice. Sembra che sappia fare il
mio mestiere meglio
di me, “…e ricordati che la qualità dei tuoi pensieri
dipende anche dalla qualità dei tuoi respiri. Quindi,
prima di iniziare a
parlare, respira ancora. Bravo.”
Attraversiamo la strada ed entriamo da Carpo, insolitamente vuoto. Il profumo di caffè è inebriante. I tavoli
sono ricoperti di mille varietà di cioccolato, che ignoro, dirigendomi subito verso i sacchi di iuta traboccanti
di anacardi e frutta secca. Mary, la ragazza che rifornisce gli avventori di quelle delizie, mi vede e ammicca. Sa
già che cosa deve fare. Sacchetto da 500 grammi, versione sale dell’Himalaya. Dopo che Tom ci ha preparato i
nostri due caffè, torniamo in strada, lasciandoci alle spalle Piccadilly e prendendo la direzione di Green Park.
Ho voglia di verde. E poi dal parco si può sempre tagliare per casa mia, passando chiaramente davanti
all’abitazione di Sua Maestà.
“Mi
dici che succede, Leonard?”
“Mi
vergogno quasi a dirtelo, ma ho pensieri irrazionali e una paura incredibile di
stare poco bene”.
“Sei
ammalato? Sembri sano”.
“E
di sicuro lo sono, Paul, ma ho pensieri che mi piacciono poco e, come dici tu,
mi fanno poco
onore”.
“Beh,
penso che di questi tempi sia normale, tutto sommato”. È bravo. Non posso fare
a meno di
annotare mentalmente il modo in cui mi parla. Ha evitato la consolazione
stucchevole da coach degli ovetti
Kinder e mi ha ingaggiato con abilità il
cervello rettile. Ha studiato, il ragazzo.
“Perciò”, dice dopo aver sorseggiato caffè, “se posso aiutarti in qualche modo, volentieri. Magari far
due parole ti può essere utile”, prosegue inanellando frasi perfette per il mio cervello limbico. Ora mi aspetto
che mi dica che cosa devo fare. Infatti, taccio e aspetto.
“Per
questo, mio caro, forse, invece di concentrarti su come stai, potresti
concentrarti su come
vuoi stare”.
Toccato, ancora.
“E
tu, Paul, che stai facendo di bello?”. Prendo in mano il discorso per lasciare
che le parole del mio
amico facciano il loro effetto. Concentrati su come vuoi
stare, mi ripeto.
“Io
ho organizzato una cosa bellissima, sui social, che si chiama
#mysweetquarantine”, mi racconta. So
di che cosa parla, lo seguo tutti i
giorni. È un’idea bellissima, che aiuta moltissime persone. Ciascuno di noi,
in questi giorni così straordinari, è chiamato a fare del suo meglio, e a
offrire valore agli altri. Ciascuno
a suo modo, ciascuno per quello che può.
“Lo
so, è bellissimo. Sei bravo. Stai aiutando molta gente. Ognuno di noi deve fare
la sua parte”.
“È
quello che credo. Mi spiace solo che molte persone mi scrivono dicendomi che
non sanno come fare la
loro, di parte”.
“Capita
anche a me. Io dico loro che a volte basta usare parole belle per rendere
più leggera la vita
di chi abbiamo intorno. Il mondo si cambia una parola alla
volta, dopo tutto.”
“Già”,
mi dice, e poi “attraversiamo, dai, così prendiamo per il parco”.
“Voglio
stare bene, ecco, stare concentrato e tornare in possesso della mia consueta
fiducia in me
stesso”, rispondo io alla domanda di qualche minuto prima.
“Fico,
mi sembra una bella cosa”.
“Sì,
è una bella cosa”.
“Leonard”,
mi dice Lisa. Evelin è accanto a lei. Ha l’espressione seria. Troppo seria.
“Che
cosa guardi, ragazzino? Ti si è incantato lo sguardo?”.
“Niente,
mia dolce Evelin, mi ero perso nel tuo sguardo fiammeggiante”, le rispondo con
un sorriso
ironico.
“L’unica
cosa di fiammeggiante sarai tu fra pochi secondi, se non la smetti subito di
fissarmi”, ribatte
in modo assolutamente serio. Quando parla Evelin, è sempre
terribilmente letterale.
“Quando
voi due avete finito di cazzeggiare”, ci riprende Lisa, “c’è una cosa urgente
da sistemare. Mio
figlio ha deciso di andarsene, e il mondo così come lo
conoscete collasserà su se stesso. Dantalian ha vinto,
cazzo”.
“Leonard,
di che cosa stanno parlando queste gentili signore?”
“Gentili
un cazzo”, lo apostrofa Lisa, tirando fuori una sigaretta dalla sua improbabile
giacca a quadri
che cozza con praticamente qualsiasi tipo di abbinamento
immaginabile. È la giacca più brutta che io abbia
mai visto in vita mia.
“La
cosa è seria, Leonard. Lui se ne sta andando, e se lui se ne va l’equilibrio
sarà rotto. E voi farete una
brutta fine”.
“Leonard…”,
mi dice Paul con un filo di voce, “che succede?”
“Succede
che tra poco sarete tutti concime per orti”, risponde Evelin con il suo
consueto tatto.
“Dantalian
ha vinto, Leonard. Credevo di poter contare su di lei”, mi apostrofa ancora
Lisa, sbuffando
fumo di sigaretta che sa di vaniglia direttamente in faccia a
me.
Respiro. Quindi, ricapitolando. Il mondo è in preda a un virus ballerino. Lisa, che poi sarebbe Dio, è
incazzata con me. Io, potrei essere malato e comunque ho tanti di quei pensieri terribili che mi ci vorrà
almeno un quarto d’ora per sistemarli tutti. Il mio amico Paul è spaventato. Gesù in persona sta per farci tutti
affondare in un mare di merda. E il mio nemico numero uno, a quanto pare, ha segnato il goal della vittoria.
Direi che il pomeriggio non sarebbe potuto finir peggio.
“Papà!”,
urla Elizabeth alle mie spalle. Mi giro di scatto, impiegando un secondo a
capire come mai
mia figlia sia qui, adesso.
“Stavo
venendo da te”, mi dice mentre scoppia a piangere, “sto male, papà. Sto male,
ho paura e penso
di essere ammalata”.
___segue___ (https://www.ilsignoredellementi.com/i-racconti-di-leonard-want-08/)
“Elizabeth”,
le dico mantenendo la calma.
“Leonard”,
mi esorta Lisa con tono deciso.
“Leonard…”,
mi chiama Paul.
“Papà!”,
insiste Elizabeth.
“Quindi?”,
è la volta di Evelin.
“Leonard”,
mi raggiunge la voce di Lucifer, che si fa incontro vestito come suo solito in
modo
impeccabile. A questo punto, la festa è al gran completo. Manca mia
sorella che, ne sono certo, mi chiamerà
presto. Mi sento mancare il fiato, ma
solo per un istante. Non permetterò a nessuna circostanza di scalfire la
mia
capacità di utilizzare il cervello. È la mia fede. È il mio dogma. È tutto
quello in cui credo, ho sempre
creduto, crederò. Io vivo con questa certezza: puoi
ottenere qualsiasi risultato, quando impari a usare la
testa come si vede. Ed è
esattamente nei momenti più impegnativi che devi dimostrare quanto vali, e
come
mettere in pratica tutto quello che hai studiato e imparato. Respira, mi
dico. Abracadabra, penso,
e tutto diventa un po’ più roseo. Analizzo
rapidamente le priorità e le possibilità. Quando un problema ti
sembra
troppo grande, la prima regola è: dividilo in pezzi più piccoli. Una cosa alla
volta, e tutto andrà
bene, come ripete sempre la mia amica Luciana e come,
oggi più che mai, è importante che anche io ripeta
nella mia testa.
“Paul,
ti chiedo una gentilezza. Accompagna a casa Elizabeth, lei ha le chiavi”, dico
per cominciare a
dividere il gruppo di questuanti in due. So che Elizabeth,
essendo pazzamente innamorata di Paul, almeno si
distrarrà durante il tragitto.
Da Green Park a casa mia ci vogliono circa dieci minuti, è proprio a metà
strada
fra il palazzo della Regina e Victoria’s Station.
“Va
bene”, mi risponde.
“Voi
mi dovete spiegare un po’ di cose, se volete che io possa ottenere qualche
risultato. Che Dantalian
abbia vinto, per me è ancora da vedere. Devo capire,
devo sapere. E come prima cosa devo sapere come mai,
Lisa, siamo passati da lei
che voleva distruggere il mondo e lei che mi chiede di salvarlo. Ed è la
seconda volta”.
La prima volta che l’ho incontrata, in effetti, voleva
distruggerci tutti. La seconda volta, ha voluto che io
salvassi una ragazza
che, secondo lei, aveva in grembo colui che ci avrebbe salvati tutti. Ora, di
nuovo, mi
chiede di aiutare qualcuno per aiutare l’intero mondo.
“Molto
semplice, Leonard. Io posso fare il cazzo che mi pare”, dice accendendosi una
sigaretta e
riempiendo l’aria del parco di buonissimo profumo di vaniglia,
“quindi la prima volta che l’ho incontrata
volevo capire se qualcuno di questo
pianeta valesse il mio interesse, e devo dire che lei mi ha convinto. Ora,
stiamo parlando di qualcuno che sta tessendo trame contro di me. Dantalian
vuole soffiarmi il posto, e creare
caos dove io ho creato armonia. Prima, con
Maria, poi, con questo cazzo di virus, e ora con mio figlio. Non si
sarebbe
dovuto permettere di mettere in mezzo mio figlio. Ora voglio semplicemente
fargli capire che con me
non ci deve mettere. Il problema è che io non posso
intervenire nelle cose umane, è la regola”, mi dice,
“nonostante voi
continuiate a pregarmi di risolvere cose che solo voi potete risolvere”.
“Lei
dice, Lisa?”
“Certo
che lo dico, cazzo. Vi ho dotati di un intelletto divino, a mia immagine e
somiglianza. Vi ho
creato geniali, con il potere di manifestare qualsiasi
realtà voi desideriate. Vi ho dato un cervello tale e quale
a quello di
Leonardo da Vinci, e voi avete inventato il Grande Fratello. Vi ho dato un
cervello come quello di
Galileo, e passate le domeniche a incazzarvi con
quattro ragazzini in braghette corte che corrono dietro a un
pallone. Vi ho
dato la mente di Shakespeare e voi avete creato gli allevamenti intensivi.
Cazzo, Leonard, certo
che potete cavarvela da soli, ma vi dovete svegliare!”
“È
parecchio dura, sa?”
“Dura?
Vi siete bevuti il cervello. Guardi solo che cosa sta succedendo in questi
giorni in Italia, giusto
per fare un esempio, tanto di questo passo dopo
l’Italia toccherà a voi inglesi. Il governo dice di stare in casa e
di limitare
le uscite e una manica di idioti che cosa fa? In ventimila persone, in coda, a
sciare. Il governo dice
di limitare gli spostamenti e voi che fate? Tutti in
stazione a prendere in treni per un esodo in massa. Cazzo,
ve la state
cercando, né più e né meno”.
“Siamo
anche capaci di cose straordinarie, Lisa, lei lo sa”.
“Certo
che lo so”.
“Siamo
capaci di dare il meglio di noi, di rialzarci mille volte, di fare tutto quello
che i nostri
cuori ci fanno sognare”.
“Certo
che lo so. Ma ve ne dovete ricordare. Altrimenti, finite male”.
“Va
bene, lei ha le sue ragioni e io posso anche essere d’accordo con lei, Lisa, ma
devo capire in che
modo suo figlio è coinvolto”.
“Questo
posso spiegarglielo io”, interviene Lucifer con la sua voce suadente, “Il
figlio di Lisa è un
simbolo, che serve a mantenere, per così dire, un’armonia e
un equilibrio universali. Lui rappresenta, a livello
cosmico, una sorta di
garanzia, un amuleto lasciato qui a proteggervi. Il suo compito è semplicemente
quello
di proteggervi.”
“Se
Dantalian riuscisse davvero a convincerlo a tornarsene a casa, questo
equilibrio verrebbe spezzato,
e le paure che vi stanno contagiando
diventerebbero insostenibili”, prosegue.
“Non
capito”.
“Voi
state alimentando la paura, Leonard, ma la paura è frutto solo di
precise strategie mentali, come
lei ben mi insegna. Lei lo dice sempre: nessuno
può farti star male senza il tuo permesso. Ho letto i suoi
libri. Per
avere paura, lo sa, è richiesto un grande impegno. Si devono pensare
certe cose, pensarle in un modo
particolare, concentrarsi su scenari che
nessuno sa se si realizzeranno o meno, ma che hanno comunque il potere
di
alterare la nostra percezione della realtà. È il mio lavoro, questo, lei lo
sa bene. Io di solito accendo nelle
persone i più sfrenati desideri, e la
stessa cosa funziona per la paura. È sempre e solo frutto di pensieri che
possono essere cambiati o trasformati in qualcos’altro.”
“Ditemi
che cosa devo fare”, rispondo io mentre rifletto sulle ultime parole di
Lucifer.
“È
semplice”, dice Lisa, “lei deve trovare mio figlio e convincerlo a restare. Ha
poco tempo, sta per
partire, perché Dantalian l’ha convinto. Lo troverà domani
sul London Bridge, a mezzogiorno. Il suo modo
per tornare a casa è farsi un bel
tuffo nell’acqua del Tamigi, e scomparire nella corrente. Le restano
diciassette
ore, Leonard. Le conviene sistemare i suoi affari, perché se
dovesse fallire, entro pochi giorni il mondo sarà
ridotto in cenere”.
“A
sua figlia penso io”, mi dice Lucifer, leggendomi come al solito nel pensiero.
“E
io”, aggiunge Evelin. Elizabeth ed Evelin hanno già familiarizzato, all’epoca
di Maria. Potrebbe
anche funzionare. Potrei lasciare che lui e lei raggiungano
Paul ed Elizabeth, mentre io potrei sistemare la
questione Gesù. Se il mio
catechista sapesse in che avventura mi sono trovato coinvolto, probabilmente
non
ci crederebbe. Lucifer ed Evelin sanno già dove abito. Gli devo dare le
chiavi.
“Mi
creda, Leonard, le chiavi non mi servono”, mi anticipa lui. E, mentre io vengo
distratto dal suono
di un clacson che arriva dalla strada principale, i miei
tre soprannaturali compagni di passeggiata scompaiono
nel nulla, lasciandomi
con un fastidioso senso di nausea nello stomaco.
___segue___ (https://www.ilsignoredellementi.com/i-racconti-di-leonard-want-09/)
“Ora,
Elizabeth, rilassati”, dice Lucifer a mia figlia.
“E
come cavolo dovrebbe fare a rilassarsi, con tutto quel che sta succedendo?”,
interrompe Evelin.
Sorrido. Se lei, lui ed io fossimo i tre cervelli, io sarei
la neocorteccia, Lucifer il cervello limbico ed Evelin,
chiaramente, il
cervello rettile.
Elizabeth, ovviamente, si anima sulle parole di Evelin. Il nostro cervello è molto più sensibile agli scenari
negativi rispetto a quelli positivi, per questo è più semplice notare notizie spiacevoli rispetto a notizie piacevoli.
Eppure, ricordalo sempre, intorno a noi ci sono tante notizie poco buone e almeno sempre altrettante
notizie buonissime. Il mondo è pieno di belle cose che val la pena notare, se solo ti ricordi che tu puoi
controllare il tuo cervello, e che il tuo cervello ubbidisce a te. Stare bene è il risultato di scelte
deliberate. Che cosa leggi? Chi ascolti? A chi ti rivolgi? Si tratta di decisioni che puoi prendere
liberamente e coscientemente, e che determinano il modo in cui stai. Se stai bene, è merito tuo. Se stai
meno bene, lo è altrettanto.
“Mia
cara Evelin”, riprende Lucifer con il suo aplomb, mentre Paul ha posato una
mano sulla spalla di
Il Signore delle Menti
Elizabeth, per confortarla e io ho bevuto un generoso
sorso di quello che credevo essere un gin tonic e che si è
trasformato nel
primo gin tonic della serata, “tu hai certamente ragione a ricordare a
Elizabeth che ci
troviamo in una situazione impegnativa. Io, se mi
consenti, la definirei una situazione eroica. Ecco,
Elizabeth, pensa a questo: siamo
in tempi da eroi, e quello che stai vivendo è un vero e proprio viaggio
dell’Eroe, di cui tu sei protagonista”, conclude lui con un ampio e
incredibilmente affascinante sorriso, che
mi fa pensare, per l’ennesima volta,
a quanto sia bravo. Certo che se dicessi io le stesse cose a mia figlia,
nemmeno mi ascolterebbe. Sono suo padre, è normale. A volte, l’impresa più
ardua è far star bene i nostri
cari. Per questo, è importante essere circondati
da persone speciali, che facciano per te quello che tu non puoi o
non riesci a
fare da solo e alle quali tu, poi, potrai dare il tuo aiuto. Sono tempi,
questi, in cui ci si deve dare
una mano, tutti insieme.
“Che
cosa vuol dire viaggio dell’Eroe”, chiede lei, evidentemente incuriosita.
“E’
semplice”, risponde lui, “ogni persona, durante il corso della sua vita,
deve affrontare sfide
davvero impegnative, come quella che ora noi stiamo
vivendo. Si chiama viaggio dell’Eroe, e f unziona
allo stesso modo per tutti.
Hai presente le serie tv, o i film?”
“Ebbene,
il film o la serie tv inizia sempre con quella che si chiama la chiamata,
ovvero la
situazione che costringe l’Eroe a mettersi in gioco. Tu, in questo
momento, hai ricevuto la tua
chiamata: il virus, la quarantena, la paura di
quel che succede. Puoi considerarle semplicemente cose
brutte, oppure puoi
considerarle l’inizio di un viaggio, il tuo viaggio, la tua Chiamata. Fin
qui ci sei?”
“Sì”.
“Bene.
Dopo la chiamata, c’è il rifiuto. È la parte del viaggio in cui l’Eroe sente
di aver paura, e
non vuole affrontare il viaggio. Tu hai paura, Elizabeth?”
“Sì,
tanta”.
“Evviva!”,
dice Lucifer con una risata… cristallina e di cuore, “evviva! Se tu non
avessi paura, non
saresti un Eroe e questo non sarebbe un viaggio epico!”
“Quindi…
mi stai dicendo che va bene avere paura?”
“Ti sto dicendo che i veri Eroi sono tali proprio perché hanno paura. Il fatto che tu faccia questo
viaggio nonostante la paura, ecco quel che ti rende speciale. Quelli che vedi intorno a te e che non hanno
paura, e che affollano le strade, o le stazioni dei treni, o le piste da sci, non sono Eroi, sono solo poveri idioti che
non hanno capito il senso di responsabilità che deriva dall’essere tutti cittadini del mondo. Sono solo poveri
egoisti che non hanno a cuore il destino dei loro simili. Sono comparse. La paura che tu hai, invece, ti rende
nobile, purché la usi a tuo vantaggio”. Lui fa una pausa, mentre Evelin ascolta senza intervenire, per fortuna.
Il Signore delle Menti
Paul ed Elizabeth sono assorti. Lucifer parla a lei, ma io so che anche il mio amico, che tanto sta facendo per
gli altri, in questo momento ha bisogno di qualcuno che gli dica che va tutto bene, e che tutto andrà per il
verso giusto.
“E
come uso la paura a mio vantaggio, Lucifer?”
“Attraversando
la soglia. L’altra parte del viaggio è quella in cui tu attraversi la
soglia, inizi il tuo
percorso, sfidando la paura. Sarà un viaggio impegnativo,
un viaggio in cui dovrai dare prova di te, e
affrontare situazioni che ti
piacciono poco. Sarà un viaggio in cui dovrai scoprire dentro di te nuove
risorse, e fare cose che forse nemmeno credevi di essere capace di fare.
Che cos’è che, ad esempio,
Elizabeth, ora non ti senti in grado di fare? Di che
cos’è che pensi di aver più bisogno?”
“Coraggio.
Sento di aver bisogno di più coraggio, sento che è la cosa che mi manca e che
faccio fatica a
trovare. Coraggio”.
“Allora,
offri ciò che cerchi”, intervengo io prendendo in prestito le parole
della mia amica Luciana.
Offri ciò che cerchi, uno dei più potenti assiomi
alchemici che io abbia mai incontrato e di cui abbia mai
sperimentato
l’efficacia.
“Che
cosa vuol dire, papà?”
“Vuol
dire, Elizabeth, esattamente quel che ho detto. Offri ciò che cerchi. Cerchi
coraggio? Offri
coraggio. Il mondo è pieno di persone che ne hanno bisogno.
Cerchi gioia? Offri gioia. A tutti, a
prescindere. Perché, questa è la magia,
per l’Universo, quando offri qualcosa vuol dire che ne possiedi
in abbondanza,
e lui fa poi tutto quello che serve per offrirtene ancora di più.”
“Quindi…
se offro paura…”
“Otterrai
quel che offri. Perciò, offri quel che cerchi. Tutto qui”.
“Non
so se sono capace, papà”, mi dice con gli occhi lucidi, e io mi sento spezzare
il cuore.
All’improvviso, decido che questo virus può andarsene affanculo, che
niente e nessuno potrà distrarmi da
quel che è veramente importante, che nessun
bacillo del cazzo avrà abbastanza potere su di me da farmi
dimenticare quel che
conta davvero. Vincerò, a prescindere. E il fottuto virus tornerà da dove è
venuto, e io
Il Signore delle Menti
sarò più forte di prima, e tutte le persone che sono con me
saranno anch’esse più forti.
“Sei
capace, Elizabeth. E ricorda: finché c’è Luce, tutto è possibile”.
“Ma
papà… ti sei guardato intorno? Non ce n’è, di Luce…”
“La
Luce c’è, Elizabeth. Dipende sempre da dove guardi. Se guardi dalla
parte sbagliata del
tunnel, vedrai buio. Se guardi in un pozzo, la luce non la
vedrai. Ma se alzi la testa verso l’alto, allora
vedrai tutta la luce di cui
hai bisogno”.
“…e
se fossero tutti pozzi? E se in alto ci fossero nuvole che mi impediscono di
vederla?”.
“Allora,
guardati dentro. Perché la Luce che hai dentro nessuno può spegnertela, e su
quella puoi
fare conto. Perché finché c’è Luce, tutto è possibile”.
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“Emmanuele”,
gli dico. Lui si gira verso di me, come se si aspettasse il mio arrivo, senza
mostrare
alcuna sorpresa.
“Leonard.
Sapevo che saresti venuto. Vuoi convincermi a non saltare?”
“In
realtà, non lo so perché sono qui. Tua madre è stata molto vaga con me. Ho
appena finito una
lunga chiacchierata con mia figlia Elizabeth, e sono solo
molto contento perché stava poco bene, e ora sta
meglio. Questo mi rende
contento. Magari tu non sei contento ma ecco, immagino tu possa essere felice
di
sapere che a qualcuno le cose, ogni tanto, girano per il verso giusto”.
“Certo
che sono contento”, mi dice cogliendo l’amo.
“Lo
sei davvero?”, chiedo per fargli rinforzare l’impegno preso.
“Ma
certo, che domande”.
“E
come mai sei contento?”
“Perché
sono contento quando le persone stanno bene, credo che sia nella mia natura, un
regalo di
mamma, per così dire”.
“E
tu lo sai che se tornassi a casa, molte persone sarebbero tutt’altro che
contente, e il male
prenderebbe il sopravvento? Conosci Dantalian, immagino,
sai di che cosa si nutre e di che cosa è capace.
Noi, adesso, proprio ora,
in questo momento, non possiamo permettere che la paura prenda il
sopravvento.
Noi abbiamo il dovere di fare del nostro meglio, tutti insieme, per superare
questo
momento così sfidante e impedire alla paura di renderci suoi schiavi.
Noi siamo liberi, e siamo liberi di
decidere come stare, a cosa pensare, come
comportarci. Questo ti è chiaro?”
“Mi
è molto chiaro, Leonard. E tu parli davvero molto bene”.
“Dimmi
qualcosa che non so, Gesù. Stupiscimi. Dimmi perché, ad esempio, pur sapendo
che il tuo
gesto farà soffrire molte persone, stai per farlo comunque”.
“Perché,
in tutta onestà, credo che non abbiate speranze. Vi ho visto, nel corso della
storia,
commettere così tanti errori che non riesco a contarli. State consumando
questo pianeta e lo avete ridotto a
una discarica. Adesso va bene che avete da
pensare al virus, così potete per un attimo distrarvi da quello che
avete fatto
ai mari, alle foreste, agli animali, all’aria che respirate. Siete tutti uniti
in questa vicenda che vi
siete dimenticati che molto probabilmente ve la siete
cercata. Non vedo perché dovrei insistere ancora, visto
che finora avete dato
prova di non aver imparato nessuna delle lezioni che avete ricevuto.”
“Hai
ragione”, ripeto, “in effetti non abbiamo dato prova di grande intelligenza,
negli ultimi secoli.
Fra guerre, inquinamento, distruzione del Pianeta… e
programmi televisivi di merda, mi rendo conto che a
volte non siamo proprio un
bello spettacolo”, concludo applicando una tecnica persuasiva molto potente,
che consiste nel descrivere il problema sollevato dal tuo interlocutore ancor
meglio di lui. Crea fiducia nel
suo cervello rettile. Inoltre, ho inserito una
piccola apertura nella sua convinzione, una piccola crepa, quel “a
volte” che
lascia spazio per ulteriori riflessioni. Lui non replica. Il suo inconscio lo
ha accettato. E non
aggiungo altro. Voglio che sia lui a parlare.
“E
allora perché mi stai chiedendo di cambiare idea?”, mi chiede lui.
“Perché
credo che possiamo farcela. Credo, come te, che il mondo sia pieno di idioti, e
credo anche che
sia ricolmo di persone bellissime, dal cuore grande, che nei
momenti di difficoltà sanno dare il meglio. Credo
che, alla fine, sapremo
risollevarci come sempre, e fare la cosa giusta. A volte, è vero, ci servono
lezioni
importanti, a volte non le capiamo e ce ne servono di più impegnative.
Ma alla fine, ne sono certo, sapremo
fare la cosa giusta.”
“Ci
credi?”
“Sì”,
dico con gli occhi che diventano umidi e bruciano un po’, “io credo”.
FINE
_____
Postilla
Caro lettore, il racconto finisce qui,
e chissà come finisce. Dipende da te, lo sai? Pensi a un brutto finale?
Il Signore delle Menti
Quello
avrai. Pensi a un gran lieto fine? Quello avrai. Fai finire questa storia come
ti piace, in attesa di
incontrare Leonard & co. nella loro più
straordinaria e apocalittica avventura, “La Quinta Essenza”, in arrivo
dopo
l’estate.
Credo in me stesso.
19/03/2020
Ti abbraccio, Paolo