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I linguaggi dell’immagine.

Dalla pittura ai Big Visual Data, di Maria


Giulia Dondero
Annalisa Cervone

“Come studiare, descrivere, analizzare un’immagine oggi? Possiamo concentrarci su un’immagine


singola o dobbiamo selezionare una serie di immagini affinché ognuna diventi comprensibile? E come
scegliere la buona serie, il buon intertesto, la buona relazione tra le immagini per farne emergere la
significazione?” (p. 13).
Intorno a interrogativi come questi – che considerano le immagini come un fenomeno di linguaggio da
esplorare secondo molteplici livelli di pertinenza analitica – valorizzando i vincoli di mediazione “tra le
strutture che [le] organizzano e compongono […] e gli statuti sociali che le inquadrano e ne orientano
l’interpretazione” (p. 14) – si articola e si espande il saggio di Maria Giulia Dondero, apparso
quest’anno presso la casa editrice Hermann Éditeurs (Paris 2020), e di recente pubblicato anche in ita-
liano (2020, a cura di Enzo D’Armenio) per i tipi della Meltemi, con un’illuminante Postfazione (pp.
219-234) di Francesco La Mantia.
Proponendo un approccio teorico basato su un principio di integrazione progressiva che tiene insieme
le diverse strutture enunciazionali dell’esperienza semiotica – per mettere l’immagine al riparo dal ri-
schio di un doppio irrigidimento: a) l’ontologizzazione dell’atto produttivo e b) l’immanentismo testua-
lista (l’attenzione alla sola specificità della grammatica visiva) – Dondero privilegia l’attivazione euristica
di una gerarchia dinamica di livelli di pertinenza, come il supporto, il genere e lo statuto delle immagini.
Questi tre parametri, per molti anni - l’autrice lo chiarisce bene nell’introduzione al volume - sono stati
fortemente marginalizzati dalle ricerche classiche della semiotica visiva, a vantaggio di una riflessione
incentrata solo su “questioni generali riguardanti la percezione (Gruppo ų 1992)” e sulla “[…] descri-
zione di forme […]” (p. 14). Semiotici come Floch (1986), ad esempio, hanno trattato le forme visive
come se fossero dimensioni immateriali, non intaccate da questioni mediatiche1. Detto altrimenti, co-
me se esse non fossero depositate su dei supporti. Maria Giulia Dondero, al contrario, fa della critica
all’indifferenza al medium (e quindi alla materialità dell’immagine) uno dei maggiori centri ispiratori
della sua indagine semiotica, esplorando – soprattutto nell’ultima sezione del libro (pp. 123-211) – la
densità concettuale di un vincolo di dipendenza: quello delle forme visive dalle loro diverse filiazioni e
genealogie, ovvero dal tipo di produzione, di tecnica e di materiali implicati nell’immagine2.

1 Cfr. Floch J.-M., (1986). Les formes de l’empreinte: Brandt, Cartier-Bresson, Doisneau, Stieglitz, Strandt, Périgueux, Fan-
lac.
2 A questo proposito si veda anche l’interessante articolo di Dondero, M. G. e Reyes-Garcia, E. Os suportes das

imagens: da fotografia à imageng digital, in Revista do GEL, v. 16, n. 2, pp. 163-190, 2019
(http://hdl.handle.net/2268/245247).
In questo saggio, tuttavia, alla questione del medium (valorizzato come sostanza del piano dell’espressione
dell’immagine), e alla sua scomposizione e ricomposizione semiotica, Dondero si avvicina per gradi, par-
tendo da lontano, e cioè – come lei stessa scrive – “[…] da un’interrogazione critica della metodologia
d’analisi e della teoria generale del senso in semiotica” (p. 14). Nell’introduzione, ad esempio, l’autrice,
cresciuta alla lezione della semiotica visiva – per usare le parole di La Mantia (vedi Postfazione, p. 221) – esor-
disce chiarendo al lettore, apertamente, la propria identità di studiosa, e lo fa puntando su un primo,
importante elemento differenziale: la scelta di trattare il problema dell’immagine “secondo una pro-
spettiva semiotica rinnovata ma complementare rispetto a quella formulata dal semiotico francese Jean
Marie Floch […]” (p. 15). Ciò che Dondero intende fare, in sostanza, è provare a “testare – prima di
tutto – la trasposizione della teoria dell’enunciazione, elaborata in linguistica, nel campo del discorso
visivo” (p. 15), per tentare poi di integrare il metodo della disamina plastico-figurativa dell’immagine
con “l’aspetto propriamente dialogico che [essa] instaura con lo spazio dell’osservatore” (p. 15). Al ri-
pensamento di questo rapporto simulacrale, che intercorre tra l’immagine e il suo osservatore, conside-
rato come un prodotto interno al discorso visivo, è affidata tutta la prima sezione del libro – La teoria
dell’enunciazione. Dalla linguistica alla semiotica dell’immagine (pp. 31-77). Qui l’enunciazione è presentata
come quella questione che, in termini teorici, regge e condiziona tutte le altre; cioè come il perno epi-
stemologico attorno a cui ruotano tutte le analisi semiotiche raccolte nel saggio.
Il primo capitolo propone, infatti, un attraversamento critico degli sviluppi di questa teoria: da Louis
Marin (1989) – a cui Dondero riconosce giustamente il primato nell’utilizzo della nozione di enunciazio-
ne enunciata nell’ambito visivo – a Jacques Fontanille (1989), che ha inaugurato una concezione
dell’immagine “come luogo non irenico dove le figure dell’enunciatore e dell’enunciatario possono
disputarsi la visione e la conoscenza tramite un conflitto di prospettive” (p. 21). Tra questi due modelli
interpretativi – che fungono anche da poli operativi disposti lungo l’arco di un continuum argomentativo
che vede nella teoria dell’enunciazione il suo fulcro genetico – Dondero colloca però un vasto e ricco
repertorio di riferimenti scientifici, interni ed esterni alla disciplina, provenienti dalle scienze del lin-
guaggio, dalla teoria e dalla storia dell’arte, dai Visual Studies e dalla Bildwissenschaft, a cui attinge, con il
coraggio della ricerca sperimentale (Postfazione, La Mantia, p. 219), per dare corpo alla propria prospettiva
teorica che appare come una delle espressioni più alte e compiute della ricerca semiotica degli ultimi
anni. Il capitolo si apre con una distinzione che, in termini di coerenza, risulta funzionale allo sviluppo
argomentativo del saggio e che riguarda la nozione di “enunciazione”, assunta nel testo secondo due
accezioni principali: 1. come “[…] mediazione tra il sistema e il processo, la langue e la parole” (p. 35); 2.
come “atto di appropriazione della langue mediante una presa soggettiva che confluisce «in un prodotto
linguistico chiuso e compiuto (la parole) chiamato enunciato” (p. 35). Questa bipartizione, da un lato,
consente a Dondero di accompagnare il lettore nella comprensione dei molteplici livelli della teoria,
fornendogli un’indispensabile visione d’insieme; dall’altro, costituisce l’incipit “in levare” di una trama
argomentativa che, sotto gli occhi del lettore, man mano, si fa sempre più densa, sottile e dettagliata,
generando una testura concettuale di rara eleganza teorica. Scegliendo di approfondire questioni cari-
che di senso, come quella della narratività dell’immagine fissa o quella del conflitto e della negazione nella e
attraverso l’immagine, Maria Giulia Dondero dimostra, peraltro, di saper sfruttare fino in fondo il poten-
ziale euristico di questa nozione. In particolar modo, considerando l’enunciato visivo come l’esito di un
atto oggettivato su un supporto (e non solo come una totalità significante priva di valori mediatici), riesce a
dotarsi di uno agile strumento concettuale, analiticamente affilato, che, nel terzo capitolo del libro, le
consentirà di impostare anche un nuovo tipo di paradigma mediatico, declinato in termini di supporto,
apporto e gesto d’iscrizione, e strettamente connesso alla pertinenza semiotica della sostanza dell’espressione.
L’enunciazione in quanto “istanza semiotica logicamente presupposta dall’enunciato” – l’enunciazione
enunciata – rappresenta dunque l’epicentro dell’intero saggio, costituendo non a caso anche lo sfondo da
cui si stacca il tema del ritratto, presentato e approfondito nel secondo capitolo del libro.
Dondero si interroga sul ritratto (pittorico e fotografico) nella sezione centrale del volume, e privile-
giando un punto di vista dinamico, lo considera come l’atto della messa in presenza dell’identità (p. 22).
Intendendolo come atto di produzione della presenza, l’autrice apre dunque il campo ad un problema

2
radicale: quello della soggettività. Per dirla con Nancy, “il semplice proposito di dipingere un ritratto
porta con sé […] tutta la filosofia del soggetto”3. L’empasse prospettata da Nancy, però, viene risolta in
modo brillante, riportando i termini della questione ancora una volta nell’alveo della teoria
dell’enunciazione, ovvero sciogliendo il problema della presenza nei meccanismi enunciativi del dispo-
sitivo della posa; istanza semiotica in cui Dondero rintraccia l’origine dell’organizzazione delle forme a
partire da un campo di forze internamente conflittuale. Ma quali sono, sul piano dell’espressione, le
modalità di manifestazione di quest’istanza? Affinché l’identità si mostri in superficie (congelandosi in
un punto apicale: il volto, inteso anche come vertice semantico), secondo Dondero, è necessario che la
figura si stacchi dal fondo, che si renda centrale, compatta. Occorre, inoltre, che il corpo resti fisso, e che
quindi non sia concentrato su nessun’altra azione che quella di guardare e farsi guardare. Per l’autrice,
quindi – che qui si rifà esplicitamente al contributo di Jean-Marie Pontévia (2000), teorico del ritratto –
la posa è tutta in quest’assenza di azione. Ogni azione altra (divergente rispetto a questa assenza d’atto,
di movimento), verrebbe ad interrompere il dialogo, a disturbare la comunicazione con l’osservatore
(p. 85). Eppure la posa è un evento, è un dinamismo speciale, che si basa su un mostrare per sottrazio-
ne, che si realizza per mezzo della ri-trazione del soggetto (dell’individuo vivente) nell’immobilità del
modello in favore del suo simulacro (ri-tratto). Ad essa l’autrice collega la frontalità del soggetto rappresenta-
to, una frontalità centralizzata e compatta, “[…] luogo della messa in presenza della presenza, cioè di una
presenza di secondo grado” (p. 85). Da un punto di vista semi-simbolico, Dondero associa alla caratte-
ristica della compattezza/non compattezza della figura, che si manifesta sul piano dell’espressione (E),
l’opposizione, sul piano del contenuto (C), tra totalità identitaria e identità indecisa, che fatica a stabi-
lizzarsi come unica, particolare, specifica. Se dunque si potrebbe pensare, di primo acchito, che il ge-
nere del ritratto, nell’ambito delle arti visive, sia il più affermativo di tutti, commetteremmo un grosso
errore – avverte l’autrice – se concepissimo il fenomeno della piena esposizione nei termini di una pre-
senza totale, totalmente svelata e risolta, poiché appunto “il campo d’azione del ritratto è modulato da
gradienti di intensità variabili di presenza e assenza” (p. 86). I soggetti ritratti, in sostanza, possono as-
surgere a diverse intensità di presenza e di completezza identitaria, fino a mettere completamente in
crisi questa stessa presenza; fino a negarla.
Per esplorare queste variabili di presenza e assenza, ovvero le differenti strategie di deviazione dallo schema del
ritratto, Dondero, nella sezione analitica del secondo capitolo, presenta un caso da lei stessa definito
“eccentrico”: quello della serie fotografica Soliloquy I-IX (1998-2001) dell’artista inglese Sam Taylor-
Johnson, che sconvolge lo schema classico del ritratto mettendo in scena “un’identità in cui la presenza
è dilatata in due momenti” (p. 97). Questa serie di ritratti sui generis, articolata in nove grandi lavori
fotografici, fonde la figura centrale nella parte alta dell’opera, situando nella fascia in basso una se-
quenza di immagini più piccole. Il titolo rimanda direttamente all’attore del teatro shakespeariano che
nelle scene più complesse si rivolge al pubblico spiegando a voce alta il suo pensiero: in questo senso
l’analisi della serie offre a Dondero la possibilità di testare “la trasposizione in immagine di un concetto
che rinvia esclusivamente al discorso verbale” (p. 98). Dal punto di vista iconografico, invece, è imme-
diato il richiamo alla pittura tre e quattrocentesca, con la separazione visiva dei cicli tra eventi celesti
nella parte alta della rappresentazione e accadimenti terreni nella predella. Questo secondo aspetto,
legato all’organizzazione eidetica e topologica dell’enunciato visivo, permette all’autrice di considerare
Soliloquy di Sam Taylor-Johnson come un esempio di negazione del ritratto - per mezzo di una serie di
atti di deviazione dal piano normativo, dal genere che dà la norma. Scrive, infatti, Dondero: “il fatto che
il ritratto dell’immagine superiore ‘si sviluppi’ in un’altra immagine, quella in basso, tradisce l’idea di
una chiusura dell’identità, o perlomeno mette in discussione il fatto che si possa visualizzare l’identità
come totalità” (p. 97).
Questo è uno dei momenti più alti e compiuti del saggio di Maria Giulia Dondero. Qui l’attenzione al
dettaglio empirico, sostenuta sempre da un piano argomentativo coerente e rigoroso, rappresenta il
punto di massima maturazione della teoria. In queste pagine, per mezzo di un tentativo di trasferimen-
to di una modalità dell’attività locutoria (il soliloquio) al plasticismo eidetico delle forme, Dondero – in-

3 Nancy, J.-L (2002). Il ritratto e il suo sguardo, Milano, Raffaello Cortina Editore, p. 11.

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corporando il verbale al visivo, come il lievito all’impasto – pone in essere un’affascinante operazione
di riabilitazione (enunciazionale) del sensibile, risalendo all’origine percettuale del linguaggio (e del
segno); all’idea di un silenzio interiore che per farsi parola deve prima di tutto prendere forma.
Ma veniamo, ora, all’ultimo capitolo del libro. Questa parte del saggio si presenta come la più ricca dal
punto di vista dell’articolazione tematica, anche perché risulta la più complessa sul piano della sua ela-
borazione concettuale. Qui, l’autrice, ancora una volta, sfida se stessa provando ad affrontare il pro-
blema del metavisivo “senza farsi ingabbiare dalla questione delle unità a priori” (p. 24). Ricollegandosi
alla lezione della semiotica greimasiana (Tra semiologia e semiotica, pp. 125-140) – a cui si riconosce il me-
rito di aver sottratto alla lingua verbale il ruolo di interprete globale degli altri sistemi di segni – e pro-
vando a comparare la nozione di riflessività (diffusa presso la maggior parte delle scienze dell’immagine)
con quella di metalinguaggio (ostacolata per via del suo implicito rimando ad una gerarchia tra linguaggi)
– Dondero, per mezzo di un approccio graduale e livellare, pone in essere una serie di ipotesi inanella-
te tra loro, tutte saldamente ancorate a pratiche d’analisi coraggiose e innovative, come nel caso della
disamina semiotica del fenomeno contemporaneo delle visualizzazioni di collezioni di immagini (degli ar-
chivi digitali massivi) generato dalla Media Visualization4, che le consente di esplorare, per analisi diffe-
renziale, anche il dominio della metalingua. “Ciò che costituisce la specificità di queste visualizzazioni
analitiche – scrive l’autrice – è la disposizione spaziale delle caratteristiche formali misurabili delle im-
magini, dovuta all’analisi automatica, che non contempla le variabili del supporto e dell’apporto delle
immagini” (p. 170). L’esigenza di testare “l’efficacia e il valore euristico della teoria dell’enunciazione”
(p. 25) secondo la prospettiva del medium – cioè dell’apporto e del supporto delle immagini – è però
l’altro grande tema che attraversa e chiude il saggio. La valorizzazione del medium come sostanza del
piano dell’espressione ha come scopo ultimo quello di riempire un vuoto, di “[…] chiarire un punto cieco
della disciplina semiotica: la materia e i gesti di cui sono fatte le immagini” (p. 124). Dondero, memore
della lezione di Fontanille, è profondamente consapevole del fatto che “la ‘formazione’ della materia
genera un dialogo/conflitto tra ciò che organizza e ciò che è organizzato, tra le regole di formazione e
le materie che le subiscono o le accompagnano” (pp. 201-202); e che da queste interazioni inerziali tra
un particolare sistema materiale (supporto) e un insieme di forze e pressioni che si esercitano su di esso
dipende l’intero processo di significazione dell’immagine.
Nell’ultimo capitolo del saggio, in sostanza, l’autrice mostra di saper articolare tra loro, con estrema
perizia metodologica, quelle che, secondo Marsciani (2007), sono le due grandi passioni contrastive
della ricerca semiotica: “[…] una passione della superficie e una passione della profondità” (p. 105)5.
Queste due passioni bisogna imparare a farle dialogare tra loro “se non si vuole che si contraddicano
ad ogni momento durante il lavoro di costruzione della teoria. Superficie e profondità sono nello stesso
tempo due realtà e due illusioni”6. Ciò che ne I linguaggi dell’immagine Maria Giulia Dondero riesce a
porre in essere è quindi proprio questo delicatissimo dosaggio. In questo testo, l’unione inestricabile di
profondità e superficie è sottoposta, peraltro, a continua verifica. L’immagine, infatti, in quanto feno-
meno di superficie, è assunta come simulacro delle condizioni della propria esistenza, per cui, sotto questo
aspetto, essa rimanda sempre ad una profondità (materica, mediatica, numerica, etc.) che la rende pos-
sibile, che la realizza. Con questo suo ultimo lavoro, dunque, Maria Giulia Dondero restituisce
l’immagine a se stessa e alla sua complessità dotando, nello stesso tempo, gli studi semiotici di una me-
todologia d’analisi che finalmente può essere considerata all’altezza del material turn.

pubblicato in rete il 3 febbraio 2021

4 Cfr. Manovich, L., 2002, The Language of New Media, MIT Press, Cambridge (MA); trad. it. Il linguaggio dei nuovi
media, Milano, Edizioni Olivares.
5 Cfr. Lancioni, T., Marsciani, F., 2007, “La pratica come testo. Per una etnosemiotica del mondo quotidiano”,

in Narrazione ed esperienza, Roma, Meltemi, pp. 59-70.


6 Ibidem.

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