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RECENSIONI

Gottlob Ernst Schulze, Vorlesung über Metaphysik nach der Nachschrift von A. Scho-
penhauer. Corso di Metafisica secondo il manoscritto di A. Schopenhauer (1810-
1811), Testo tedesco a cura di Nicoletta De Cian e Jochen Stollberg, Introduzione, tra-
duzione e apparati a cura di Nicoletta De Cian, Quaderni di Verifiche 10, Trento 2009,
pp. 260, € 25,00..

Nel volume a cura di Nicoletta De Cian viene presentato il testo della trascrizione
della Nachschrift di Schopenhauer relativa al corso di Metafisica che Gottlob Ernst
Schulze, l’autore dell’Enesidemo, tenne all’università di Gottinga nel semestre inver-
nale del 1810-1811. La trascrizione del manoscritto è realizzata avvalendosi della col-
laborazione di Jochen Stollberg (già Direttore dello Schopenhauer-Archiv di Fran-
coforte sul Meno) ed è condotta sulla scorta della riproduzione digitale dell’originale.
L’edizione integrale del testo è accompagnata da un ampio saggio introduttivo ed è
corredata da una traduzione in lingua italiana e da un apparato critico che consta di più
sezioni.
Fino a non molto tempo fa, della Nachschrift del corso di Metafisica si poteva con-
sultare una parte piuttosto esigua, dato che ne erano stati pubblicati soltanto brevi stral-
ci nell’edizione critica del lascito curata da A. Hübscher. Quasi in contemporanea al
volume qui recensito è uscita un’edizione tedesca del testo a cura di Matteo D’Alfon-
so, rispetto alla quale la presente edizione si distingue per il saggio d’apertura, che con
analisi rigorose e ben documentate inquadra la Nachschrift in tutta la sua rilevanza sto-
rica e speculativa, e per l’insieme strutturato degli apparati critici, composto da una se-
zione di carattere filologico, una relativa ai contenuti teorici e una dedicata ai Margi-
nalia apposti da Schopenhauer.
Il testo degli appunti delle lezioni di metafisica fa parte del secondo dei 29 volumi
di cui si compone il lascito manoscritto di Schopenhauer conservato presso la Staatsbi-
bliothek di Berlino. Questo secondo volume raccoglie le Nachschriften dei corsi che
Schopenhauer frequenta a Gottinga nel semestre estivo 1810 e in quello immediata-
mente successivo. Di Schulze, Schopenhauer segue il corso di Psicologia e quello di
Metafisica del semestre invernale 1810-1811, quello di Logica nel semestre estivo
1811. Dei primi due corsi esiste il manoscritto di appunti, mentre per quanto riguarda
il corso di Logica manca invece il testo di una Nachschrift in senso proprio, dato che
Schopenhauer ha redatto soltanto annotazioni a margine del manuale da lui utilizzato a
lezione. Secondo le indicazioni esplicite di Schopenhauer, apposte sul frontespizio del

Rivista di storia della filosofia, n. 4, 2010


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manoscritto, la Nachschrift del corso di Metafisica si articola su tre livelli. Per la mag-
gior parte il testo è costituito dai dettati di Schulze, ma ci sono anche parti, racchiuse
tra parentesi, in cui Schopenhauer riporta quanto il docente ha soltanto esposto e parti,
intitolate con “ego”, in corrispondenza delle proprie osservazioni. Non sempre Scho-
penhauer rispetta però i criteri dichiarati, e di conseguenza per alcuni contenuti si pone
il problema dell’attribuzione di paternità. Il testo della trascrizione nella presente edi-
zione restituisce questa stratificazione e tiene conto delle difficoltà che emergono lad-
dove i criteri di stesura subiscono delle eccezioni.
La Nachschrift del corso di Metafisica, che con questo volume viene messa a di-
sposizione della ricerca degli studiosi in edizione integrale, con testo italiano a fronte e
con un corredo di strumenti efficaci e variamente fruibili, riveste un ruolo fondamenta-
le perché, come fonte diretta, rappresenta una testimonianza decisiva per comprendere
meglio il rapporto di formazione filosofica che lega Schopenhauer a Schulze. Consape-
vole di ciò, con il suo lavoro Nicoletta De Cian si propone di fornire un contributo che
possa portare luce «sul contesto, le modalità e gli effettivi contenuti di questa Ausei-
nandersetzung per capire, da un lato in cosa sia consistito, concretamente, l’insegna-
mento filosofico schulziano; dall’altro, quale ruolo esso abbia realmente giocato nella
gestazione e nell’elaborazione del sistema di Schopenhauer» (pp. VIII-IX).
Nella considerazione del valore teorico della Nachschrift, la prospettiva di indagi-
ne centrata su Schopenhauer è indubbiamente prioritaria, ma non è l’unica. Il testo de-
gli appunti del corso di Metafisica, infatti, non soltanto consente di determinare più da
vicino i termini dell’influenza esercitata dal “maestro del dubbio” sul giovane Scho-
penhauer, ma costituisce anche un documento di rilievo relativamente al pensiero e
alla personalità di Schulze. L’intersezione di questi due piani di riflessione, il significa-
to della Vorlesung di Metafisica del 1810-1811 all’interno dell’evoluzione speculativa
di Schulze e il peso della stessa Vorlesung nella fase di formazione di Schopenhauer,
emerge chiaramente, e in tutta la sua importanza, dal saggio introduttivo in cui la Cu-
ratrice, oltre a presentare la Nachschrift all’interno di un’attenta ricostruzione storico-
concettuale, ne tematizza la duplice valenza teorica, sottolineandone a più riprese il si-
gnificato speculativo.
Per motivi differenti e in relazione a momenti del loro percorso intellettuale, per
così dire, inversi, la maturità per Schulze e gli esordi per Schopenhauer, questo corso
di Metafisica rappresenta per entrambi uno snodo nevralgico. Quando tiene il corso di
Metafisica, Schulze è al suo primo semestre di insegnamento all’università di Gottinga,
già da alcuni anni ha preso distanza dalla scena del dibattito sul kantismo e attraversa
una fase di riflessione sulle proprie convinzioni in filosofia che porterà solo anni dopo
a una nuova pubblicazione, l’Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften del
1814. Questa fase di riflessione viene ripercorsa da Schulze nella prefazione alla se-
conda edizione dell’Enzyklopädie, e descritta come un passaggio dalla valutazione cri-
tica dei sistemi filosofici altrui all’elaborazione di una propria prospettiva positiva. Nel
resoconto egli indica poi il 1810 come l’anno a partire dal quale nei suoi scritti comin-
ciano a farsi visibili i risultati di questa evoluzione. In ragione di ciò, la Vorlesung di
Metafisica del 1810 assume un’importanza cruciale perché documenta una tappa nello
sviluppo del percorso speculativo di Schulze che può ritenersi «emblematica di un mo-
mento di passaggio […] dalla critica alla proposta» (p. XXXVI) e, allo stesso tempo,
però anche il segno di un passaggio avvenuto. Come sottolinea la Curatrice, infatti,
questa Vorlesung di Schulze «appartiene già alla fase in cui la sua prospettiva metafisi-
ca può dirsi compiuta, ma si presenta nella forma più ampia, distesa e piana (rispetto al
testo a stampa) di un corso di lezioni» (p. XXXVI).
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Com’è noto, all’università di Gottinga, Schopenhauer si iscrive nel 1809 per stu-
diare medicina e nell’autunno 1810, al suo secondo anno e con alle spalle una breve
formazione filosofica, comincia a seguire le lezioni di Schulze. Da qui si assiste a un
cambiamento radicale nel percorso universitario di Schopenhauer e alla maturazione
della decisione di dedicarsi allo studio della filosofia, studio a cui viene “destato” pro-
prio dall’insegnamento di Schulze. Il confronto con il docente di Gottinga continua per
Schopenhauer anche dopo essersi trasferito a Berlino nel 1811 e diventa, per così dire,
una costante più o meno sotterranea della propria riflessione filosofica. A testimonian-
za di un rapporto che si dispiega lungo un tempo ben più ampio della frequenza ai cor-
si di Schulze, e che non si esaurisce dunque nel periodo dell’insegnamento diretto, c’è
il fatto che Schopenhauer «cita le opere di Schulze in tutto l’arco della sua produzione,
dalla Dissertazione del ’13 ai senili Parerga» (p. LIII); opere che continua a procurar-
si anche dopo aver lasciato Gottinga. Oltre a ciò, come ulteriore conferma della fami-
liarità con i testi schulziani, va sottolineato che nelle proprie riflessioni speculative
Schopenhauer ne riprende e rielabora diverse tematiche.
Il testo della Nachschrift del corso di Metafisica del semestre invernale 1810-1811
fornisce alcune coordinate importanti per poter determinare questa Auseinanderset-
zung tra maestro e allievo e per poter offrire nuovi contributi agli studi relativi ai due
pensatori. La Nachschrift è infatti una prova significativa a conferma della complessità
della concezione filosofica di Schulze, spesso appiattita dagli interpreti, e in modo
scorretto, su una forma di scetticismo radicale, che non riesce, per altro, a dare ragione
nemmeno della sola posizione teorica dell’Enesidemo. La Vorlesung, tanto per il suo
tenore generale, dato dall’impostazione e dalla finalità, quanto anche per le sue argo-
mentazioni specifiche, delinea un profilo speculativo di Schulze che si discosta per
molti aspetti dall’immagine usuale di Schulze-Enensidemo come “scettico-contestato-
re”. L’indagine schulziana ruota intorno a una definizione di filosofia che può conside-
rarsi già di per sé una prima smentita di quell’immagine usuale impropria. Schulze in-
tende la filosofia come un’attività connaturata con la razionalità dello spirito umano
tesa a dare spiegazione del mondo e, benché egli riconosca in questo compito uno svi-
luppo per infinita approssimazione, non ritiene di doverlo abbandonare in favore di una
presa di posizione scettica. L’interrogazione, che costituisce il filo conduttore della
Vorlesung, si basa sulla determinazione del significato della metafisica come tendenza
a operare un passaggio dal sensibile al soprasensibile, e pone a tema essenzialmente il
procedimento di realizzazione del compito della metafisica, quale scienza che ricerca,
in forza di principi certi stabiliti dall’indagine ontologica, un accesso all’incondiziona-
to. Lo scopo di Schulze sembra allora essere quello di individuare un ruolo fecondo
per la metafisica che emerga come il risultato di una valutazione critica in grado di
commisurare i propositi ai guadagni effettivi. Si tratta dunque, come ben evidenzia la
Curatrice, di una metafisica «che mantiene la propria ispirazione scettica ma ha smus-
sato alcune asprezze e ha saputo darsi compiti positivi» (p. LXVII). La proposta spe-
culativa della Vorlesung, a cui Schulze perviene attraverso un’indagine che riguarda in
sostanza la possibilità di elevare le rappresentazioni del sentimento religioso a un sa-
pere basato su concetti e principi, e che ha nell’analisi delle prove dell’esistenza di Dio
uno dei suoi nuclei argomentativi centrali, può essere sintetizzata nei termini di un rap-
porto equilibrato e produttivo tra metafisica e religione.
Con il manoscritto schopenhaueriano degli appunti del corso di Metafisica viene ad
aprirsi dunque una prospettiva molto interessante, e sotto alcuni aspetti ancora quasi
inedita, sulla concezione filosofica di Schulze. Allo stesso tempo, la Nachschrift è in
grado anche di documentare la varietà delle tematiche di cui si nutre il confronto di
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Schopenhauer con il docente di Gottinga. In modo emblematico essa mostra come la


riflessione sul kantismo, incentrata sulle obiezioni alla cosa in sé e al concetto di cau-
sa, per quanto indubbiamente abbia una valenza centrale, resti solo una delle compo-
nenti di questo rapporto. Attraverso l’insegnamento schulziano, Schopenhauer si con-
fronta “in tempo reale” con i sistemi della nuova metafisica di Fichte e Schelling, ma-
tura la conoscenza della filosofia di Hume, che tanta importanza riveste negli sviluppi
successivi del suo pensiero, ed entra in contatto con un vasto panorama di autori, tra i
quali, in particolare, Cartesio, Leibniz, Newton, Wolff, Crusius e i diversi protagonisti
del dibattito sulle prove dell’esistenza di Dio. Dalla Nachschrift si evince, inoltre, che
l’apporto di Schulze alla formazione di Schopenhauer riguarda una multiforme costel-
lazione di questioni speculative, alcune delle quali si scoprono avere un’incidenza non
trascurabile nell’elaborazione del sistema filosofico schopenhaueriano. In questa pro-
spettiva, tra gli argomenti affrontati e discussi da Schulze nella Vorlesung assumono
un rilievo significativo la contestazione del ruolo affidato da Kant alla ragione nella ri-
cerca di una via di accesso all’incondizionato, e insieme a ciò la critica alla nozione di
intuizione intellettuale proposta da Fichte e Schelling, la radicalità dell’indagine sul
concetto di causalità e la determinazione dello statuto che spetta alla rappresentazione
in relazione all’origine e al valore delle conoscenze. Sempre alla luce degli sviluppi
successivi del pensiero di Schopenhauer, sono da sottolineare anche la tematizzazione
che Schulze propone della corporeità e del rapporto tra la coscienza e il corpo e l’in-
terrogazione da lui condotta circa i limiti dei tentativi di teodicea in riferimento alla
questione del male. Attraverso il documento della Nachschrift del corso di Metafisica
si è in grado di valutare nel suo complesso la portata tematica e metodologica del con-
tributo con cui il docente di Gottinga imprime una direzione fondamentale alla rifles-
sione filosofica di Schopenhauer. Senza alcun dubbio si tratta di un apporto rilevante,
la cui cifra essenziale va individuata nell’integrazione armonica tra consapevolezza
storica e problematizzazione teoretica.
Nella prospettiva di una comprensione più dettagliata della Auseinandersetzung tra
Schopenhauer e il suo maestro di Gottinga, come pure dal punto di vista della discus-
sione intorno alla personalità filosofica poco conosciuta di Schulze, l’edizione della
Nachschrift del corso di Metafisica curata con competenza e acribia da Nicoletta De
Cian si rivela un contributo prezioso. I propositi indicati dalla Curatrice come i motivi
ispiratori del suo lavoro sono in questo senso pienamente conseguiti e il progetto edi-
toriale compiuto costituisce nella sua interezza un guadagno significativo tanto per la
ricerca su Schulze, quanto per quella su Schopenhauer.
Barbara Santini
(b.santini@inwind.it)

Niccolò Argentieri, Ci sono elettroni nel mondo-della-vita? Esperienza, matematica,


realtà: una lettura fenomenologica dell’epistemologia di Werner Heisenberg, Bonan-
no Editore, Roma 2009, pp. 126, € 10,00.

Pur sviluppandosi e giungendo a maturazione negli stessi decenni, la fenomenolo-


gia husserliana e la meccanica quantistica non sembra si siano mai veramente incon-
trate. Se certamente non mancano, negli scritti do Heisenberg, tentativi di riannodare
un filo, quello con la concettualità della tradizione filosofica, forse troppo bruscamente
interrottosi (basti pensare al reiterato appello, in Fisica e filosofia, alla nozione aristo-
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telica di “potenza”), al contrario, per quanto riguarda Husserl, non sembra egli abbia
mai avuto esitazioni nel relegare la meccanica dei quanti a mera propaggine della mo-
derna scienza naturale.
Data una simile premessa, che non potrebbe che dissuadere chiunque dal tentativo
di instaurare un fruttuoso dialogo tra Heisenberg e il padre della fenomenologia, il vo-
lume di Niccolò Argentieri presenta una prima, importante, caratteristica – quella che si
può direttamente evincere dal titolo, dove, piuttosto che del nome proprio di Edmund
Husserl, ci si serve di quello comune di “fenomenologia”. Non si tratterà semplicemen-
te, infatti, di enucleare le implicazioni filosofiche all’opera nel pensiero di un fisico, né
soltanto di accostare una specifica fenomenologia a un’altrettanto specifica epistemolo-
gia; ma di delineare una più ampia fenomenologia dell’esperienza che, se conosce in
Husserl e Heisenberg i due fuochi della propria ellisse, ad essi, tuttavia, non si riduce.
I riferimenti testuali principali del volume sono la Crisi delle scienze europee e un
testo di Heisenberg noto come il Manoscritto del 1942 (o, anche, Ordinamento della
realtà). Per quanto invece concerne la ripartizione interna, il percorso risulta scandito
in quattro capitoli. Quello iniziale presenta una breve e funzionale storia della «prima
formulazione della meccanica quantistica», di modo che il lettore possa avere ben
chiaro lo sfondo a partire dal quale venne affermandosi l’interpretazione che della
meccanica dei quanti fornì la scuola di Copenhagen; nel secondo l’Autore ripercorre
alcune delle più celebri pagine della Crisi, dove Husserl, sviluppando una analisi di
matrice genealogica, rinviene le radici della moderna scienza matematica in Galilei e
nella sua radicale «matematizzazione della natura». Nel terzo Argentieri si confronta
con il Manoscritto di Heisenberg e con la sua proposta di ideare uno Stufenbau ontolo-
gico e gnoseologico, vale a dire una concezione della realtà che si esprima in una co-
struzione a strati e livelli all’interno della quale poter articolare, dal basso verso l’alto
e in rapporti di mutua e progressiva fondazione, l’idea di realtà che si determina con la
scienza moderna nella sua esigenza di oggettività impersonale e quella invece che, con
la fisica quantistica, implica l’irriducibile presenza dell’istanza soggettiva. Nel quarto
ed ultimo capitolo l’Autore introduce e discute la nozione husserliana di Lebenswelt
quale suolo ultimo in cui si radica ogni fenomeno, come «il darsi stesso dell’esperien-
za» a partire dal quale poter problematizzare, in chiusura, il rapporto medesimo che
stringe assieme, nello stesso tempo differenziandole, scienza e filosofia – le descrizio-
ni che la prima dispiega e l’esigenza di comprensione che la seconda avanza.
Sin dalle prima pagine l’Autore è molto chiaro su due punti: se da un alto, infatti,
si tratta di leggere Heisenberg con Husserl e contro di lui, contro la sua frettolosa ri-
duzione della meccanica quantistica ad appendice della moderna scienza naturale ma
nel solco del quadro speculativo ed ermeneutico dischiuso della sua fenomenologia
trascendentale («il ruolo che Heisenberg assegna alla formulazione matematica della
teoria quantistica è costitutivo e non descrittivo»; p. 31), dall’altro non si tratterà di op-
porre semplicemente Heisenberg a Galilei, i quanti e la «relazione di imprecisione»
(Unschärferelation) del primo al determinismo che il secondo, tra le pagine del libro,
paradigmaticamente incarna.
L’argomentazione sviluppa allora due questioni cardine: 1) la ricostruzione del
quadro speculativo che caratterizza la metafisica della moderna scienza naturale; 2) il
significato specifico da attribuire, in tale quadro, all’irrompere storico della meccanica
dei quanti.
«Il profondo e apparentemente inscindibile legame tra realismo, intuizione, senso
comune e spiegazione» – nozioni che qualificano la «forma mentis della fisica classica»
– «riflette una complessa sedimentazione di senso che deve essere indagata e ricostruita
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mediante un rigoroso procedimento genealogico» (p. 37). Questa ricostruzione è ap-


prontata da Argentieri commentando la lettura che Husserl nella Krisis fornisce di Gali-
lei. L’elemento primo è individuato nel «progressivo venir meno della consapevolezza
del carattere correlativo dell’esperienza», quella che viene definita la sua oggettivazio-
ne, cosicché tale indebolimento «porta con sé una inevitabile polarizzazione tra la com-
ponente soggettiva e quella oggettiva» che fa sì che la stessa soggettività non risulti a
sua volta che «oggetto». Nel risultato di «questa rigida separazione tra una realtà ester-
na al soggetto e un processo conoscitivo tutto interno alla coscienza che esperisce la
realtà, Husserl individua l’essenza metafisica della scienza galileiana» (p. 41), che dal
punto di vita metodologico si basa «sulla possibilità di applicare allo studio del molte-
plice fenomenico i concetti e gli strumenti della geometria – meglio ancora: sulla possi-
bilità di trasformare gli oggetti e gli eventi reali in modo da renderli compatibili con una
descrizione geometrica». Lo strumento principale è quello di «una matematizzazione
indiretta per associazione, della riduzione delle qualità secondarie alle leggi della mec-
canica. Questo è, per Husserl, il contributo fondamentale dell’opera di Galileo, il vero
senso del suo “platonismo”» (p. 48). Cancellando la differenza che separa cielo e Terra,
«quel confine già simbolicamente violato dal cannocchiale galileiano puntato verso le
sfere celesti» (p. 50), la scienza galileiana, non semplicemente conduce il reale a metes-
si con l’ideale, ma li fa coincidere: «le forme dei corpi di cui la matematica dà conto
non sono approssimazioni delle forme esatte create dalla matematica, ma forme in sé
[...] che la matematica riconosce e descrive» (p. 52). La conoscenza si delinea in tal
modo come l’operazione in cui il soggetto, separato ab initio da quelle forme in sé, è
verso di esse e verso la loro autonomia costitutiva che si lancia nel tentativo di «interro-
gare e osservare (anche virtualmente) una realtà che si dà a vedere secondo modalità
che non dipendono in senso essenziale dalla presenza del ruolo dell’osservatore».
Questi, in chiusura del secondo capitolo, i tratti salienti che Argentieri riconosce
alla forma mentis della fisica classica (pp. 62-64): scissione tra componente oggettiva e
soggettiva della conoscenza; neutralità del soggetto medesimo quale possibilità di «se-
parare dalla “verità” del fenomeno/oggetto il ruolo della soggettività esperiente»; una
spazio-temporalità, quella degli oggetti, affissabile indipendentemente dalla loro effet-
tiva osservazione; coincidenza di matematica e realtà in sé nella contrapposizione tra
questa e la molteplicità dell’esperienza sensibile; tempo e massa come parametri mate-
matici considerati non pertinenti per lo studio «geometrico/cinematico»; «priorità e au-
tonomia dell’ in-sé» rispetto all’esperienza che se ne ha; universalità del metodo nella
sua pretesa di procedere oggettivamente all’infinito; «l’idea di spiegazione» come «tra-
duzione della formulazione matematico in un linguaggio ostensivo, realistico».
Stagliandosi sullo sfondo di un tale quadro speculativo, la meccanica quantistica
appare di contro «come la testimonianza della correlazione insuperabile e del recipro-
co ruolo costitutivo di oggettività e soggettività»; non semplicemente del loro incontro,
ma della «loro comune origine». Escludendo la possibilità che le particelle abbiano, o
siano descrivibili con, determinate proprietà prima dell’effettiva osservazione da parte
di un soggetto, opera quella che si potrebbe definire una epoché, primariamente se-
mantica, della «realtà»: «la domanda su cosa accade realmente in un evento quantisti-
co [...] si trasforma in una questione irresolubile, in senso tecnico prima ancora che fi-
losofico» (p. 69).
Nel percorso argomentativo che l’Autore delinea la meccanica dei quanti si presen-
ta quale riaffermazione, per dirla con lessico fenomenologico, dell’«a priori primario
della correlazione». Questo è il punto centrale, perché proprio il modello husserliano
permette ad Argentieri, di affermare sì l’inaggirabile presenza dell’istanza soggettiva,
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ma senza cadere o scadere in una lettura positivista dell’esperienza quantistica d’osser-


vazione: «Il soggetto neutro della fisica galileiana [...] lascia [...] il posto a un’intera-
zione insuperabile tra osservatore e osservato, impossibile da trascendere in direzione
di quella oggettività spazio-temporale che costitutiva al tempo stesso il principio e il
fine della fisica classica. Questo è, sostanzialmente, il contenuto del celeberrimo prin-
cipio di indeterminazione di Heisenberg». Gli stessi dati della conoscenza risultano al-
lora essere «l’esito di una oggettivazione secondaria esercitata su eventi esperienziali
[...] nei quali oggetto e soggetto trovano la loro comune origine costitutiva»; cosicché
lo stesso uso conoscitivo della matematica, che nell’operare galileiano si faceva realiz-
zatrice dell’oggettività impersonale dell’in-sé, subisce «un’importante metamorfosi:
non più la traduzione in formule di proprietà e connessioni oggettive [...], ma la dispo-
sizione in opportuno contesto linguistico, ai fini della intelligibilità e della previsione,
di una serie di esperienze altrimenti opache e indecifrabili» (p. 71).
La meccanica dei quanti risulterebbe allora semplicemente contrapposta, punto a
punto, alla scienza galileiana? Ecco che il problema filosoficamente più arduo da af-
frontare è quello della loro mutua relazione e connessione, quando non addirittura inte-
grazione. È a questo punto che Argentieri inizia a fare appello alla nozione husserliana
di «profonda continuità», «continuità più profonda» o «continuità fenomenologica»
(pp. 87, 108, 109): perché la meccanica quantistica, rispetto all’oggettività della scien-
za galileiana, non semplicemente introdurrebbe, tale la peculiarità dell’esegesi in que-
stione, piuttosto re-introdurrebbe l’originaria correlazione di soggetto-oggetto. Questa,
più originaria, risulterebbe sì obliata dal gesto galileiano, ma come ciò che carsica-
mente continua a scorrere al di sotto della sua superficie. Rispetto alla quale superficie,
allora, è sia più antica, sia più recente. Più recente, perché impostasi con la meccanica
dei quanti, ma più antica perché sarebbe l’esperienza medesima, nelle sue molteplici e
variegate forme, a non poter figurare che come originaria correlazione di soggetto-e-
oggetto: «la discontinuità introdotta dalla fisica quantistica permette di cogliere, in
questo senso, la profonda continuità fenomenologico/correlativa che lega l’esperienza
ordinaria» (p. 81). Essa «rappresenta per la fisica il punto di massima prossimità all’o-
rigine» – quella dell’imprescindibile correlazione strutturale.
Il quadro, come si diceva più sopra, non solo non risulta di natura oppositiva (Hei-
senbeg/Galilei, quanti/determinismo), ma addirittura marchiato a fuoco dalla più ferrea
delle asimmetrie: il cum della «relazione» di soggetto-oggetto figurandovi tanto come
uno dei poli o dei fuochi intorno ai quali si ordinerebbe l’argomentazione (l’altro è
l’oggettività in sé) quanto come l’argomentazione medesima nel suo intero movimento
ellittico. Essendo infatti la sub-objectivité più originaria di quell’operazione di mate-
matizzazione che ne ha infranto l’unità, tale infrazione non si può comprendere che
come momento della stessa più primordiale relazione di soggetto-oggetto. Lo scopo
del discorso diviene allora quello «di costruire un contesto gnoseologico che, rinun-
ciando ad alcuni punti fermi della teoria moderna della conoscenza», non la neghi, ma
«permetta di elaborare una visione coerente e non paradossale della meccanica quanti-
stica e del suo significato conoscitivo» (p. 73).
È seguendo il Manoscritto di Heisenberg che si introducono le nozioni di «ordina-
mento della realtà» (Ordnung der Wirklichkeit) e di molteplici «ambiti di realtà» (Berei-
che der Wirklichkeit), dato che l’obiettivo di Heisenberg è quello «di individuare un ordi-
namento della realtà che sia compatibile con la contemporanea sussistenza di fisica clas-
sica e fisica quantistica» (p. 75). Bisogna dunque partire dal «superamento del paradigma
classico di contrapposizione soggetto/oggetto», e questo proprio per evitare di dividere o
lottizzare il reale in ambiti soggettivi o eminentemente oggettivi: «La nozione di “ordina-
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mento della realtà” può allora essere interpretata come l’idea di realtà che regola e defini-
sce una particolare epoca storico/culturale: la “ricaduta ontologica” [...] di quell’orizzonte
di senso dell’esperienza (o della conoscenza) che abbiamo precedentemente definito for-
ma mentis» (p. 75). La «realtà» diviene una molteplicità di operazioni sintattiche o di
classificazione, le quali, individuando e stabilendo delle «“connessioni regolari”», deli-
neano, stando a una consolidata metaforica architettonico-edilizia, un edificio ontologico
all’interno del quale, dal basso verso l’alto, «la disposizione degli ambiti di realtà» ascen-
derebbe «dall’oggettivo al soggettivo». «Naturalmente, questo progressivo passaggio
“dall’oggettivo al soggettivo” non indica una caratteristica attribuibile all’ambito di realtà
considerato in sé [...], ma la maggiore o minore possibilità che nella considerazione delle
connessioni sia possibile prescindere dal ruolo costitutivo, e dalla presenza stessa, della
soggettività» (p. 78). In un tale ordinamento, allora, la fisica classica e quella dei quanti
occupano posizioni, dovremmo dire piani, differenti – e questo in corrispondenza del gra-
do di oggettivazione dell’esperienza che essi rispettivamente concedono.
La «domanda che deve ora essere posta investe la stessa nozione di Ordnung e il
fondamento della sua legittimità» (p. 92). Questo il problema che l’Autore si pone in
chiusura del suo percorso, il «problema della totalità». Se al soggetto scienza infatti «è
data soltanto la possibilità di estendere alla totalità potenziale dei fenomeni l’idea di
realtà conforme alla propria attività nomologica», a tale soggetto resta inevitabilmente
preclusa la domanda concernente il «mondo» come insieme di tutti gli «ambiti di
realtà». Se per il soggetto-scienza il mondo coincide, di volta in volta, con una delle
molteplici e stratificate Ordnungen, è alla filosofia che spetta l’interrogazione del «sen-
so», la sua comprensione: «le scienze hanno un senso, perché rimandano a una condi-
zione che permette di riconoscerle in primo luogo come attività significanti e di iscri-
verle, quindi, in un orizzonte di comunicabilità, in un mondo». Se esse ordinano sintat-
ticamente i fenomeni, è per il fatto stesso, scientificamente non interrogato perché non
interrogabile, che si diano dei fenomeni: «Comprendere, far emergere, e non descrivere,
questo radicamento (come senso/orizzonte e non come fondamento/verità) è il compito
che definisce la filosofia» (p. 95). Di qui la dialettica di completezza-incompletezza:
«nessuna teoria può essere completa, perché, piuttosto, la possibilità del senso rimanda
a una insuperabile incompletezza». Sondare e scandagliare tale incompletezza, ricondu-
cendo con ciò ad essa la completezza sintattica degli ordinamenti scientifici: questo
quello che l’Autore considera «il compito trascendentale della filosofia». Il testo si chiu-
de allora, concludendo sì il proprio percorso, ma anche aprendo a un programma di la-
voro: quello che – distinguendo tra «soggetto empirico», «soggetto-scienza» e soggetto
trascendentale; tra verità della natura e del mondo-della-vita – riprenda la questione
dello statuto di una filosofia trascendentale, dei suoi complicati rapporti con ciò che si
definisce soggetto, sua condizione, forse, ma non suo limite.
Daniele De Santis
(desantis_daniele@yahoo.it)

Jean-Marc Mandosio, Longévité d’une imposture: Michel Foucault, suivie de Fou-


caultphiles et foucaulâtres, Éditions de l’Encyclopédie des Nuisances, Paris 2010, pp.
123, € 10,00.

Questo piccolo libro, brillante e intelligente, è una critica dissacrante ed impietosa


del mito Foucault. Non si tratta, come si potrebbe pensare a tutta prima, di un semplice
pamphlet, di una semplice invettiva, anche se il tono è spesso sferzante e irriverente,
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bensì di un breve saggio, ben argomentato e ottimamente informato. Il motivo per cui
l’A. ha creduto opportuno occuparsi di Foucault è espresso a chiare lettere: «mettendo
in luce l’impostura consistente nel presentare dei luoghi comuni come delle verità rivo-
luzionarie e nell’erigere a modello di razionalità un discorso vago e inconsistente, ho
voluto contribuire alla riaffermazione dello spirito critico, per il quale non esistono vac-
che sacre» (p. 93). Come non essere d’accordo? Et de nobis fabula narratur!
L’opera è composta da due scritti. Il primo, Longévité d’une imposture, viene pub-
blicato qui per la prima volta in volume, in una nuova redazione «rivista e aumentata»,
ed è a sua volta diviso in due parti. La prima si occupa della «cassetta degli attrezzi» di
Foucault, com’egli stesso definisce il proprio armamentario teorico. La seconda è una
documentata denuncia delle incoerenze, della patente contraddittorietà delle prese di
posizione pratiche dello stesso Foucault, del suo opportunismo, dei suoi voltafaccia,
delle sue contorsioni, dei suoi clamorosi errori di valutazione, senza che tutto ciò ne
abbia mai scalfito il mito. È sempre pericoloso stabilire un parallelo tra la vita e l’ope-
ra di un pensatore. Si potrebbe obiettare che un pensatore va giudicato esclusivamente
per la sua opera. Il resto è miseria umana. Quanti pensatori di indiscusso valore si
sono, ahimè, dimostrati indegni della loro stessa opera! In questo caso tuttavia l’opera-
zione è legittima, sia perché Foucault stesso ha dichiarato a più riprese che vi è una
stretta interdipendenza tra le sue posizioni teoriche e le sue scelte pratiche; sia perché
l’immagine pubblica di Foucault, da lui stesso costruita con notevole abilità, ha avuto
e continua ad avere un considerevole peso mediatico e politico-culturale; sia infine
perché, come sottolinea giustamente l’Autore di questo saggio, le prese di posizione di
Foucault, sempre ambigue, spesso contraddittorie, assunte con incredibile arroganza e
supponenza, affondano le loro radici negli assunti teorici del filosofo ed in particolare
nella sua concezione dell’epistemologia.
Il secondo scritto che compone il volume, Foucaultphiles et foucaulâtres, che
avrebbe dovuto servire da postfazione dell’edizione italiana, che non ha mai visto la
luce, dello scritto precedente, prende in esame alcuni scritti di foucaultiani impeniten-
ti, a dispetto delle capriole teoriche e pratiche del maestro, a dispetto degli sviluppi in-
quietanti del suo pensiero, a dispetto di tutto.
Il libro nel suo complesso è ricchissimo di informazioni utili, spesso sconcertanti,
ma qui mi limiterò a prendere brevemente in considerazione la prima parte del primo
scritto, lasciando al lettore il piacere di seguire passo passo lo smantellamento del mito
Foucault. Gettiamo dunque un’occhiata dentro questa benedetta cassetta degli attrezzi.
La prima cosa che colpisce leggendo gli scritti di Foucault è la sconcertante erudi-
zione ostentata dal filosofo e lo stile ampolloso, barocco. Ma non è sempre oro quel
che luccica. È ben vero che gli scritti di Foucault sono letteralmente infarciti di cita-
zioni da opere sconosciute o dimenticate, ma si tratta spesso di opere scelte senza un
accurato criterio metodologico, interpretate senza alcun rigore, anzi, fatte spesso og-
getto di interpretazioni discutibilissime, quando non decisamente aberranti. Inoltre
Foucault ignora sistematicamente la letteratura specialistica, relativa ai temi che af-
fronta, col risultato di presentare come novità inaudite delle cose risapute, oppure di
costruire delle mitologie che sono state fatte spesso oggetto di severissime critiche da
parte degli specialisti, senza che questo scuotesse minimamente le certezze del filosofo
e dei suoi seguaci. È difficile resistere al sospetto che tutto questo armamentario e que-
sta erudizione servano soltanto a gettare fumo negli occhi e a predisporre favorevol-
mente il lettore. Quanto allo stile, ammesso che piaccia, per dirla con l’Autore del sag-
gio che si presenta qui, è piuttosto «una proliferazione concettuale», che si riduce, a
ben vedere, ad una mera «inflazione verbale» (p. 16). Foucault non argomenta vera-
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mente; fa sfoggio piuttosto di un linguaggio ambiguo, ricco di allegorie, un linguaggio


evocativo esoterico; si serve di concetti generici, vaghi, ma soprattutto fa sovente ri-
corso ad un procedimento «tipico dell’impostore: la reversibilità del discorso» (p. 25).
In questo modo egli può dire e disdire senza preoccuparsi della coerenza e del rigore.
Confesso che mi sembra di sentire aria di casa.
Ma veniamo all’originalità sempre sbandierata da Foucault ed attestata dai suoi se-
guaci. In realtà nei suoi scritti vi è pochissimo di originale. Per fare un solo esempio:
egli pretende di essere stato il primo a rompere con il dogma continuista che avrebbe
dominato in campo storiografico prima di lui. La storia delle idee, egli afferma, non è
lineare e neppure dialettica; essa procede per rotture successive. Si salta semplicemen-
te da un «regime di sapere» ad un altro. La storia è dunque una successione di episte-
mai che, come osserva giustamente Mandosio, meglio sarebbe chiamare concezioni
del mondo, se questo non suonasse troppo banale. È evidente che qui non vi è nulla di
veramente nuovo ed originale. Senza voler scomodare T. Kuhn, basterebbe ricordare
G. Bachelard ed il maestro stesso di Foucault, G. Canguilhem, che avevano aperta-
mente parlato di “rottura epistemologica”. Semmai queste teorie vengono banalizzate e
rese inservibili. L’estrema genericità e problematicità del concetto di episteme, così
come lo utilizza Foucault, si dimostra infatti adatto a costruire con grande disinvoltura
mitologie inconsistenti, ma alla lunga ingestibile. Niente paura, basta disfarsene senza
troppi complimenti e senza giustificazione alcuna. Foucault propone le «genealogie»,
le «archelogie», quali unici strumenti concettuali, atta a mettere in questione fino in
fondo tutte le certezze acquisite e l’idea di verità assoluta, atemporale. Come se questa
fosse una grande scoperta di Foucault. Peccato però, come fa notare Mandosio, che
egli «relativizzi tutto, tranne il suo proprio discorso» (20).
L’opera di Foucault sembra dunque all’A. una grande mistificazione, destituita di
qualsiasi valore scientifico, e il filosofo stesso un camaleonte adatto per ogni stagione,
pronto a cavalcare ogni moda, a seguire l’“aria che tira”, a strizzare l’occhio al potere,
pur presentandosi come l’irriducibile avversario di ogni potere costituito. Il talento
principale di Foucault sembrerebbe consistere piuttosto nel dare «forma filosofico-let-
teraria ai luoghi comuni di un’epoca» (82), restando così sempre in sella.
Nella Note de l’Auteur, ove si dà conto anche delle vicissitudini della (mancata)
edizione italiana del testo, l’A. cita con amarezza una recensione del suo scritto, pub-
blicata su internet, nella quale si dice che il libro convincerà soltanto chi è già convin-
to, ma lascerà indifferente chi non vuole lasciarsi convincere. Il problema, a mio avvi-
so, è un altro. Si può benissimo convincere chi accetta l’argomentazione d’avere torto.
Il fatto è che l’argomentazione è un’arma spuntata, se non del tutto inefficace, nei con-
fronti di chi non argomenta. E qui non c’è niente da fare.
Renato Pettoello
(renato.pettoello@unimi.it)

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