La pubblica amministrazione
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Le moderne forme di Stato presuppongono l'assoggettamento alla legge non solo
dei cittadini ma,anche dei poteri pubblici quindi della Pubblica amministrazione
(in seguito p.a.). Per questo contro i suoi atti illegittimi l'ordinamento mette a
disposizione dei cittadini diversi strumenti di tutela.
Per questo inoltre l'attività della p.a. deve essere svolta nel rispetto dei principi
costituzionali, della legge e dei principi affermati dalla giurisprudenza. In
particolare l'affermarsi nel secondo dopoguerra dello Stato sociale ha coinvolto i
pubblici poteri affidandogli il compito di soddisfare le esigenze dei cittadini (ad
es. attraverso il servizio pubblico).
Ciò ha comportato una profonda trasformazione del concetto stesso di potere che
perde i suoi connotati prettamente autoritativi che si contrappongono alle esigenze
di libertà dei cittadini, per avvicinarsi sempre più a queste ultime. Da
Amministrazione autoritativa (che concede uno status o l'esercizio di un diritto o
toglie qualcosa attraverso provvedimenti restrittivi) diventa amministrazione di
prestazione (da potere a funzione diretta a realizzare l'interesse generale).
Ciò d'altro canto avviene in piena armonia con l'art. 3, 2' co., Cost che impegna i
pubblici poteri a rimuovere gli ostacoli che si oppongono al raggiungimento
dell'eguaglianza sostanziale, delineando una forma di Stato sociale.
In virtù del fatto che l'esercizio del potere pubblico è sempre soggetto alla legge,
la Costituzione non contiene molte norme a disciplina dell'attività amministrativa,
ma detta soltanto alcuni principi generali (tra cui appunto quello di legalità) e
alcune norme sui controlli di legittimità sugli enti regionali e locali e alcuni
principi sulla giustizia amministrativa, per lo più ricavabili in via analogica dal
sistema di giustizia ordinaria.
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L'art. 5 Cost. prevede l'attuazione del pieno decentramento amministrativo e delle
autonomie locali. Si tratta di principi che mirano ad attuare un'Amministrazione
dislocata in vario modo sul territorio nazionale, in modo da configurare un livello
di potere sempre più vicino al privato. Una pluralità di centri e livelli di
Amministrazione che fanno sempre capo ad un organo centrale (di solito il
Ministero che ha unica sede a Roma).
All'interno degli organi della p.a. possono operarsi diverse distinzioni come ad
esempio organi monocratici o collegiali (composti da una persona o da più
persone con gli stessi poteri), organi complessi (formati da più organo con
funzioni differenti), organi attivi, consultivi, o di controllo (a seconda delle
competenze e della funzione che svolgono), organi centrali, locali o periferici (a
seconda dell'area territoriale in cui operano). Al di là delle distinzioni tutti gli
organi pubblici sono soggetti ai principi dettati in materia di attività
amministrativa dalla legge e dalla Costituzione.
Il rapporto gerarchico che caratterizza l'organizzazione amministrativa risponde al
principio della strumentalità dell'azione amministrativa al conseguimento degli
interessi pubblici: rapporto gerarchico significa che a monte di ogni organo c'è
sempre un superiore gerarchico che da ordini e annulla, riforma o controlla gli atti
dell'inferiore se essi sono viziati nella legittimità o nel merito. Quindi questo
rapporto è una ulteriore garanzia per i "governati" di legittimità dell'azione dei
"governanti".
Il rapporto che lega il pubblico impiegato o pubblico funzionario all'ente nel
quale egli presta la propria opera è denominato rapporto di servizio ed è
disciplinato da norme di legge speciali.
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profili della violazione, può essere censurato come violazione di legge, eccesso di
potere o incompetenza relativa o assoluta.
Questo il principio generale. Bisogna però tenere presente che la Costituzione e la
legge attribuiscono ai diversi interessi pubblici e ai diversi interessi dei singoli
una tutela ed un riconoscimento che potremmo dire maggiore o minore a seconda
della forza dell'interesse stesso. Ad esempio se un interesso di un privato
(normalmente ampiamente tutelato dall'ordinamento giuridico) interseca un
superiore interesse pubblico, è evidente che il primo venga giustamente e
legittimamente sacrificato per la realizzazione dell'interesse pubblico che ha una
forza maggiore, tanto da imporsi su quello privato (es. diritto di proprietà -
espropriazione per costruzione di una scuola che in quel punto soddisfa
maggiormente l'interesse pubblico).
Per cui possiamo dire che l'attività amministrativa sia libera di scegliere le
modalità mediante le quali realizzare i fini legislativamente determinati: una volta
fissati legislativamente gli obiettivi da perseguire, le competenze
dell'Amministrazione per il loro perseguimento e gli atti con i quali poter agire
(principio di legalità), all'amministrazione è spesso lasciato un margine di
discrezionalità che le consente di valutare, nel rispetto dei vari limiti fissati dalla
legge, quale sia la scelta migliore, più opportuna per il perseguimento
dell'interesse pubblico.
Questa discrezionalità l'Amministrazione la esercita effettuando una valutazione
comparativa degli interessi in gioco nel procedimento di formazione del
provvedimento amministrativo alla luce della quale sceglie quale interesse debba
prevalere e quale debba essere sacrificato.
E' evidente che stando così le cose, ben si giustificano le varie norme sul
procedimento amministrativo, a partire dalla legge 7 agosto 1990, n. 241 per
arrivare alle varie leggi Bassanini. Si tratta infatti di norme (la legge 241 del 1990
in particolare) che fissano i principi fondamentali del procedimento
amministrativo, per garantirne la legittimità e per garantire al privato il suo
intervento che gli consente di far presente all’amministrazione i suoi interessi che
rischiano di essere sacrificati. In questo modo da un lato l'amministrazione ottiene
un vero e proprio aiuto dal cittadino nello svolgimento del suo potere decisionale,
perché riesce ad avere un quadro più chiaro e completo degli interessi in gioco
che essa deve valutare (riducendo il rischio di contenzioso). Dall'altro il cittadino
ha maggiori possibilità di veder tutelati i suoi interessi e partecipa alla formazione
dell'atto amministrativo che lo riguarda configurando, il potere pubblico come
sempre meno autoritativo e sempre più "partecipato" dal privato.
Altri principi che la Carta costituzionale fissa in materia amministrativa sono
quello dell'imparzialità e del buon andamento dell'azione amministrativa:
L'imparzialità deriva dal combinato disposto degli artt. 97 e 3 Cost. e impone
all'amministrazione di agire secondo i principi di giustizia sostanziale e cioè
giustizia sia nel confrontare gli interessi dei singoli con quelli
dell'amministrazione, sia nel confrontare tra loro gli interessi dei soggetti estranei
all'amministrazione ma implicati nella sua azione cioè nel procedimento. Questo
principio importa anzitutto che tutti i soggetti che ne abbiano titolo possano fruire
dei servizi gestiti degli enti pubblici e dei loro benefici. Dal principio derivano
inoltre:
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- L'obbligo dei funzionari di astenersi dalla partecipazione a quei procedimenti in
cui essi abbiano un interesse diretto o indiretto ed il conseguente diritto (o meglio
onere) dei cittadini di ricusare il funzionario in questi casi.
- La composizione di commissioni giudicatrici di concorsi pubblici secondo
criteri assolutamente tecnici ed imparziali piuttosto che politici (Corte cost.
n.453/1990).
In sostanza possiamo dire che l'imparzialità nell'ambito del procedimento
amministrativo trova piena applicazione nella garanzia del contraddittorio, nella
completezza dell'istruttoria, nell'obbligo di motivazione e di pubblicità degli atti e
nell'obbligo della previa determinazione e pubblicazione dei criteri di massima
per l'attribuzione di agevolazioni e contributi (art. 12 1. 2141/1990).
Il buon andamento o buona amministrazione indica l'obbligo per tutti i soggetti
appartenenti alla p.a. di svolgere la propria attività secondo le regole di
opportunità al fine di assicurare l'efficacia (raffronto tra obiettivi e risultati),
l'efficienza (raffronto tra risorse impiegate e risultati conseguiti), la celerità ed
economicità dell'azione, con il minor sacrificio possibile degli interessi privati.
Derivano dal principio di buon andamento il criterio di economicità sancito
dall'art.1 della legge 241 del 1990 in base al quale la p.a. deve agire secondo la
logica dell'imprenditore cioè perseguendo l'ottimizzazione dei risultati'in relazione
ai mezzi che ha a disposizione, e il criterio dell'efficacia che indica l'idoneità
dell'azione amministrativa a perseguire gli obiettivi legislativamente fissati in
tema di tutela degli interessi pubblici.
Si è sempre ritenuto che si trattasse di principi il rispetto dei quali fosse
conseguibile applicando regole non scritte di opportunità e quindi che la p.a.
avesse un ampio margine di discrezionalità nella sua azione. La discrezionalità,
attenendo al merito, normalmente sfugge al sindacato del giudice della legittimità
qual è appunto il giudice amministrativo. Questo in realtà non è più vero grazie
alla legge 241 del 7 agosto 1990 che riferendosi esplicitamente a questi principi e
criteri li ha trasformati in precetti legislativi la cui violazione integra il vizio di
violazione di legge o, per alcuni aspetti, di eccesso di potere censurabili dal
giudice amministrativo in sede di giudizio di legittimità.
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A questi principi sanciti in parte dalla Costituzione ed in parte derivanti
dall'ordinamento giuridico generale devono oggi aggiungersi alcuni rilevanti
principi che sono stati introdotti dalla legge n. 241 del 1990 che ha portato enormi
novità nell'azione della pubblica Amministrazione soprattutto grazie alla totale
soppressione del principio di segretezza che fino ad allora aveva sempre
caratterizzato l'azione amministrativa tanto che oggi si dice che la partecipazione
al procedimento e l'accesso agli atti costituiscono la regola e il loro diniego per
motivi di segretezza l'eccezione.
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quelle attribuite ad aziende, agenzie o enti pubblici e alle autorità amministrative
indipendenti. L'esercizio di queste funzioni viene affidato a strutture decentrate
dei ministeri o ad agenzie, enti pubblici o aziende facenti capo ai ministeri. Molti
ministeri sono stati aboliti per semplificare l'organico amministrativo (attualmente
ci sono 12 -prima erano 22- ministeri + la Presidenza del Consiglio) e sono state
ridimensionate le loro competenze con il decreto lgs. n. 300 del 1999.
E' evidente che sebbene la funzioni siano individuate a livello centrale in capo ai
ministeri per motivi di efficienza dell'esercizio delle funzioni molte di esse sono
esercitate in determinate aree territoriali tramite uffici diversi. Così si spiegano le
diverse pubbliche amministrazioni site in ogni Comune o Regione.
Questo è il fenomeno del c.d. decentramento al quale si può procedere in modo
diverso ed è per lo più il Prefetto che provvede all'attività di coordinamento a
livello locale di tutti gli uffici statali decentrati perchè il Prefetto è l'organo
rappresentativo a livello locale (Provincia) del Governo della Repubblica infatti le
prefetture si chiamano ora Uffici territoriali del Governo. Il Prefetto svolge queste
fimzioni insieme al Commissario di Governo presso le Regioni perché a queste
ultime e agli enti locali è stata attribuita una maggiore autonomia.
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Le autorità amministrative indipendenti: Sono una eccezione alla regola per
cui tutta l'Aniministrazione dipende dai Ministri, responsabili di fronte al
Parlamento.
Queste autorità infatti sono del tutto autonome rispetto al Governo. La formula
usata dalla legge è che esse "operano in piena autonomia e con indipendenza di
giudizio e di valutazione".
Esse quindi non devono adeguarsi ad alcuna direttiva o indirizzo politico ed
amministrativo proveniente da qualsiasi parte.
Istituite per regolare settori e materie in cui interessi collettivi richiedano una
particolare protezione perché sono minacciati dalla presenza di operatori dotati di
forti poteri di influenza. Svolgono quindi attività amministrative neutrali o di
regolazione o direzione e controllo in determinati settori nei quali sono
specializzate.
Esempi ne sono l'antitrust, la autorità per l'energia elettrica (per sorvegliare la
privatizzazione e la prestazione del servizio svolto dai privati), Garante per la
protezione dei dati personali, ecc.
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soggettivi e interessi legittimi, entrambi considerati posizioni giuridiche
sostanziali.
La distinzione tra le due posizioni giuridiche è stata delineata per la prima volta
con la legge 20 marzo 1865, n.2248 allegato E (legge abolitiva del contenzioso
amministrativo) e confermata dalla Costituzione della Repubblica all'art. 13.
Diritto soggettivo: facoltà di agire che ha per oggetto un bene (materiale o
immateriale: proprietà, salute) tutelato dalla legge con una norma di relazione.
Ma i diritti soggettivi sono passibili di affievolimento ad interessi legittimi di
fronte al potere discrezionale della p.A. (il diritto di proprietà: espropriazione; il
diritto dì attività economica: autorizzazione o concessione). Tutela diretta e
pienamente satisfattiva.
Interesse legittimo: pretesa alla legittimità dell'atto amministrativo riconosciuta
al soggetto che si trovi in una posizione legittimane rispetto all'esercizio del
potere discrezionale. Tutelato da norma di azione. Tutela indiretta e non piena. E'
necessaria una posizione differenziata e qualificata rispetto al provvedimento.
Risarcibilità interessi legittimi: E' sempre stata esclusa dal legislatore e dalla
giurisprudenza perché il danno ingiusto si ravvisa solo nella lesione illegittima di
un diritto soggettivo (altrimenti non è ingiusto) si è poi ammessa la risarcibilità
degli interessi (ingiustamente lesi) derivanti da affievolimento di diritti soggettivi
(espropriazione giudice ordinario): venuto meno il provvedimento limitativo
del diritto soggettivo, questo è reintegrato completamente e deve essere risarcito
per la ingiusta compressione subita. Con la legge Merloni del 1994, n. 109 sui
lavori pubblici, in ottemperanza alle norme comunitarie risarcibilità per
illegittima aggiudicazione di appalti.
Con d. lgs. 31 marzo 1998, n. 80il giudice amministrativo dispone il
risarcimento del danno ingiusto derivante da lesione di interessi legittimi nelle
materie di giurisdizione esclusiva (discrezionalità del giudice).
Sentenza ss.uu. Corte di Cassazione n. 500 del 1999; Legge 205 del 2000
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Corte costituzionale Inammissibile la risarcibilità degli interessi legittimi
in base all’ordinamento giuridico vigente, ma necessità di maggiore equità
Corte cassazione risarcibili diritti soggettivi o affievoliti illegittimamente,
ma doppio giudice.
Lo Stato non può fare danno ingiusto.
Risarcibilità in appalti direttive CE sempre doppio giudice
D. lgs. 80/1998 nelle materie di giurisdizione esclusiva dispone
direttamente il g.a. il risarcimento e aumenta le materie di giurisdizione esclusiva.
Necessità di riconsiderare art. 2043 c.c.
Corte di cassazione per esserci danno non è necessario comporetamento
contra ius (contrario alla norma) e non iure (non giustificato dalla norma), ma è
sufficiente il comportamento non iure Non più necessaria la contrarietà alla
norma per affermare la responsabilità della p.a. In assenza di cause (norma
giuridica) che giustifichino il comportamento che ha leso l’interesse, c’è
risarcimento.
Non tutti gli interessi legittimi sono risarcibili Occorre che il giudice
interpreti l’art. 2043 e valuti l’interesse legittimo in gioco e l’interesse pubblico in
gioco (v. sentenza).
E’ risarcibile l’interesse legittimo collegato ad un bene essenziale della vita e
la lesione deve esserci sia per l’interesse che per il bene.
Legge 205/2000 completa il quadro attribuendo al g.a. sia l’accertamento
dell’illegittimità che della lesione, per la quale può direttamente disporre il
risarcimento si elimina il doppio giudice.
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Sulla classificazione degli atti amministrativi ci sono diverse teorie che la
effettuano in base al fatto che gli atti siano del potere esecutivo (qualunque atto
emanato da organi del potere esecutivo è atto amministrativo), oppure operano
una distinzione a seconda della funzione esercitata dal potere esecutivo attraverso
quell’atto (politico, normativo, puramente esecutivo), o, ancora distinguono tra
l’atto emanato nell’esercizio di un potere discrezionale o di un potere vincolato.
La teoria più accreditata è quella della procedimentalizzazione e
funzionalizzazione dell’attività amministrativa per la quale i provvedimenti
amministrativi vanno classificati in base alla loro funzionalizzazione (che
caratterizza il provvedimento in base alla manifestazione di volizione in esso
contenuta ed alla sua imperatività=idoneità a produrre effetti giuridici,
indipendentemente dalla volontà dei destinatari) ed alla procedimentalizzazione
(perché, a parte rare eccezioni, il provvedimento amministrativo è emanato
nell’ambito di un procedimento, quindi presuppone diversi atti).
Sulla base di questa teoria si distingue tra atti meri e provvedimenti. I primi sono
soltanto strumentali ai secondi ed hanno rilevanza unicamente interna al
procedimento, mentra il provvedimento (cioè l’atto finale del procedimento)
produce i suoi effetti giuridici all’esterno, esprimendo la volizione della pubblica
amministrazione.
E’ allora evidente la necessità di definire e rivolgere l’attenzione ai provvedimenti
amministrativi.
PROVVEDIMENTI AMMINISTRATIVI
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proprio consenso all'esecuzione. Esempi: apprensione forzata del bene,
esecuzione d'ufficio delle prestazioni di fare a carattere fungibile. L'esecutorietà
viene meno soltanto a seguito di un atto di caducazione da parte dell'autorità
gíurisdizionale o amministrativa competenti o di un atto di sospensione.
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3) Provvedimenti che incidono riduttivamente su diritti patrimonialí e non dei
destinatari
3a) provvedimenti mediante i quali l'A. sopprime o comprime diritti altrui
(confisca, espropriazione, requisizione, sequestro, dichiarazione di pubblica
utilità, d'interesse pubblico, atti creativi di vincoli o limitazioni della proprietà;
provvedimenti sanzionatori). Scelta discrezionale, talvolta valutazioni tecniche.
3b) provvedimenti a contenuto precettivo mediante i quali l'A. fa nascere in altri
soggetti l'obbligo di-ottemperare ai precetti con essi impartiti (ordini e direttive).
Scelte discrezionali o valutazioni tecniche o semplice accertamento.
C) Provvedimenti (di secondo grado) che operano su precedenti atti
amministrativi che ne costituiscono l'oggetto. Possono avere funzione di
autotutela, controllo o giustizia amministrativa.
1) Provvedimenti che producono la cessazione o la sospensione dell'efficacia
degli atti amministrativi (annullamento, revoca, rimozione, sospensione). In sede
di autotutela valutazione discrezionale; in sede di controllo o su ricorso
valutazione tecnico-giuridica.
2) Provvedimenti che producono la modificazione totale o parziale del contenuto
di provvedimenti preesistenti (modifica, riforma, proroga, rettifica). Scelta
discrezionale in sede di autotutela.
3) Provvedimenti che producono la consolidazione di precedenti provvedimenti
invalidi o l'integrazione di provvedimenti incompleti (convalida, conversione,
conferma integrativa, correzione di errori materiali). Scelta discrezionale (salvo
che nel caso della correzione)
D) Provvedimenti attinenti all'organizzazione della p.A ( creazione,
modificazione, estinzione di enti, uffici, posti, ecc., alla dotazione,
assegnazione di personale, ecc.).
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2) Atti che non consistono in manifestazioni di volontà.
A) Atti ricognitivi. Emanati nel corso di un procedimento di verificazione,
consistono in dichiarazioni di scienza relative a fatti constatati (inchieste,
ispezioni, visti, attestazioni, attestazioni che creano legale certezza, certificazioni,
documentazioni, registrazioni, valutazioni, pareri vincolanti, obbligatori,
facoltativi, conformi, proposte, intimazioni). Non presuppongono alcuna
discrezionalità e non hanno effetti innovativi.
B) Atti di valutazione. Presuppongono un giudizio valutativo quindi possono
essere discrezionali e possono avere effetti innovativi.
C) Intimazioni. Avvertimenti formali ad adempiere ad un obbligo già formato in
capo al destinatario. Non hanno effetto innovativo.
LA DISCREZIONALITA’ AMMINISTRATIVA
L'attività amministrativa si distingue in vincolata e discrezionale a seconda del
suo rapporto con la legge. Quest'ultima pone all'attività degli enti pubblici limiti
negativi (per impedire che le azioni sfocino nell'illecito) e limiti positivi (per
mantenere l'attività dell'amministrazione nei binari delle sue finalità istituzionali).
Se puntualizzati in modo specifico, i suddetti limiti impongono
all'amministrazione di uniformarsi a regole rigide e inderogabili dando vita ad
un'attività vincolata. Allorchè, invece, i limiti siano più elastici, restando ferme
soltanto le regole generali cui resta legata l'amministrazione nella sua azione, ad
essa resta un margine di scelta che le consente di completare, nel caso concreto, la
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regola fissata dall'ordinamento. Secondo alcuni autori, sussiste discrezionalità
allorché il potere pubblico è chiamato a riempire gli spazi liberi della norma che il
legislatore ha lasciato alla valutazione del caso concreto. Questa concezione parte
dal presupposto che il potere amministrativo sarebbe residuale rispetto alla legge,
operando tra le maglie vuote del tessuto normativo.
Sulla discrezionalità amministrativa si è soffermata a più riprese la scienza del
diritto amministrativo.
Il concetto di discrezionalità fu elaborato dalla dottrina francese nella prima metà
del XIX secolo sulla scorta del principio della separazione dei poteri. La
discrezionalità, o meglio, l'impiego della discrezionalità fu concepito come
carattere tipico e peculiare dell'amministrazione il cui esercizio metteva al riparo
il potere esecutivo dalle possibili ingerenze degli altri due poteri dello Stato. In
particolare, la discrezionalità fu riferita all'attività amministrativa per sottrarre gli
atti prodotti dall'amministrazione al sindacato del giudice, almeno -in Italia- fino
all'istituzione di quello amministrativo.
Questa concezione della discrezionalità come limite, come "affaire"
dell'amministrazione fu seguita anche dalla dottrina italiana che, per tutto il corso
dell'ottocento, dedicò scarsa attenzione a questo concetto. Piras ha osservato che
questo atteggiamento della dottrina ottocentesca dipese essenzialmente dalla
sensibilità della dottrina dell'ottocento in ordine alle vicende giuridiche prodotte
in capo ai cittadini dall'esercizio del potere amministrativo. Infatti la dottrina
dell'epoca era radicata al binomio potere amministrativo - diritto soggettivo:
dualismo considerato evidentemente privo di qualsiasi relazione che non fosse di
reciproca esclusione, posto che lo sforzo era di assicurare al cittadino una sfera
ben delimitata, del tutto intangibile per il potere amministrativo.
La discrezionalità, pertanto, essendo collegata al potere amministrativo, per
definizione non poteva incidere sulla sfera giuridica del cittadino, il cui diritto
soggettivo costituisce il baluardo nei confronti di qualsiasi intromissione del
potere. Anzi, per meglio dire, ciò che più impegnava la dottrina era di stabilire il
catalogo dei diritti soggettivi di cui fosse titolare il cittadino in quanto, al cospetto
del potere, non esisteva diritto e mancava qualsiasi possibilità di tutela, non
essendo ancora stata elaborata la categoria dell'interesse legittimo.
Questa prospettiva iniziò lentamente a mutare allorché, istituita nel 1889 la IV
Sezione del Consiglio di Stato, l'insindacabilità dell'esercizio del potere
amministrativo andò sgretolandosi. Il potere attribuito alla nuova Sezione del
Consiglio di Stato di annullare i provvedimenti amministrativi e il conseguente
affinamento della figura dell'interesse legittimo illuminarono la discrezionalità
amministrativa di una luce nuova, ossia come elemento tipico dell'esercizio del
potere.
In sostanza, l'istituzione della IV Sezione agevolò la percezione della rilevanza
giuridica della funzionalizzazione del potere e quindi della sindacabilità delle
relative scelte. La discrezionalità venne avvertita, in questa prima fase, dal
particolare punto di vista della sua patologia, al fine di consentire l'azionabilità
degli interessi incisi dall'esercizio dei potere amministrativo.
La costruzione "in positivo" della discrezionalità amministrativa fu operata da
Giannini, il quale ebbe l'indubbio merito di collegarla al principio di legalità,
concependola come elemento tipico del potere siccome attribuito dalla legge al
l'amministrazione e qualificandola come ponderazione comparativa (qualitativa e
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quantitativa) degli interessi. In estrema sintesi, può dirsi che tale dottrina radicò la
discrezionalità al potere di scelta dell'interesse prevalente nel caso concreto al fine
di soddisfare l'interesse pubblico; più in particolare, Giannini individuò due
momenti nella discrezionalità. Il primo caratterizzato dal giudizio (c.d. momento
del giudizio), in cui l'amministrazione valuta gli interessi in gioco per la
definizione del (e nel) caso concreto; il secondo, denominato momento volitivo,
in cui l'amministrazione opera la scelta in vista dell'interesse pubblico e decide le
modalità di esercizio del potere per la soddisfazione di quell'interesse.
In sostanza laddove i c.d. interessi primari, unitariamente valutati vanno a
comporre l'interesse pubblico concreto, la valutazione di quelli secondari, anche
in ipotesi coincidenti con l'interesse che l'amministrazione è chiamata a
soddisfare, serve a contenere la scelta discrezionale entro i limiti della
ragionevolezza e della proporzionalità che garantiscono la posizione degli
interessi dei privati nei confronti dell'amministrazione.
L'impostazione di Giannini venne recepita e ampliata dalla dottrina che più volte
tornò su questa sistematica seppure con originali svolgimenti.
In particolare, si ricorda l'importanza dell'opera di Benvenuti che, analizzando la
discrezionalità dal lato patologico nell'indagine sul vizio dell'eccesso di potere,
elaborò il collegamento tra eccesso di potere e vizio della funzione - farsi
dell'atto, inteso come mancata rispondenza dell'azione amministrativa ai parametri
di legittimità. Questa costruzione, che a tutt'oggi costituisce modello insuperato di
riferimento, descrive una delle caratteristiche principali della discrezionalità: la
scelta razionale e ragionevole tra soluzioni diverse al fine di conseguire il
pubblico interesse.
Nella ricostruzione delle elaborazioni della dottrina sul concetto di discrezionalità,
occorre ricordare ancora il pensiero di Nigro per il quale la discrezionalità si
svolge all'interno del procedimento amministrativo il cui sviluppo determina il
corretto esercizio della discrezionalità stessa. Il procedimento consente il
censimento e l'evidenziazione degli interessi secondari, quegli stessi interessi che
Giannini considerava elemento di ponderazione. Il procedimento è forma della
funzione quella forma, cioè, che, secondo Benvenuti, costituiva il modulo
attraverso cui si percepisce il farsi del potere e l'esercizio dello stesso.
Nella stessa prospettiva di analisi che individua un rapporto tra funzione e
discrezionalità si inserisce la recente teoria di Casetta, il quale collega la
discrezionalità direttamente alla funzione.
Secondo Casetta la discrezionalità non attiene al potere (Giannini), poiché il
potere costituisce un prius rispetto all'esercizio del potere e alla discrezionalità
(Casetta), né essa può ricondursi all'atto, in quanto quest'ultimo rappresenta il
momento finale dell'esercizio del potere, quando la discrezionalità si è consumata
e non trova che una mera rappresentazione nel contenuto dell'atto.
Un acceso dibattito dottrinale si è instaurato (in particolare tra Giannini e Mortati)
in ordine ai rapporti tra discrezionalità e merito. A fronte dell'affermazione per la
quale le regole non giuridiche che presiedono alle scelte discrezionali possono
acquisire valore giuridico per cui la scelta esatta può essere una sola ed il
sindacato di legittimità può estendersi ad essa per valutarne l'esattezza (Mortati) è
stato ribadito (discorso unanimemente appoggiato in dottrina) che la scelta
discrezionale avviene tra soluzioni tutte astrattamente possibili e legittime e
quindi, almeno in via diretta, essa è insindacabile sotto il profilo della legittimità.
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Proprio questo profilo del sindacato del giudice sulle scelte discrezionali della
pubblica amministrazione offre l'occasione di ripensare il tema della c.d.
discrezionalità tecnica. La configurabilità stessa della discrezionalità tecnica è
stata (ed è tuttora) più volte messa in discussione dalla dottrina, essendo
considerata sin da Presutti nel 1910, un istituto contingente, storico, residuo non
ancora eliminato di un ordinamento giuridico di altri tempi.
Essa si ricollega per lo più alla tradizionale classificazione della discrezionalità
nell'an nel quando e nel quomodo: le prime due devono forse ritenersi superate
dalla legge 241 del 1990 che impone all'amministrazione di chiudere qualsiasi
procedimento (anche ad iniziativa d'ufficio) con provvedimento esplicito entro un
tempo predeterminato.
Prevale nettamente anche in questa materia, nella prospettiva della più ampia
semplificazione dell'attività amministrativa, l'accentuazione dei profilo
dell'efficacia (intesa come idoneità a conseguire gli obiettivi preposti) e
dell'economicità, che strettamente si collegano al buon andamento, piuttosto, ad
esempio dell'imparzialità (neppure richiamata tra i criteri che reggono l'attività
amministrativa dalla legge 241 del 1990).
La discrezionalità nel quomodo caratterizza piuttosto diversi tipi di discrezionalità
che, per le caratteristiche peculiari che le connotano vanno tenute distinte
(politicoamministrativa, organizzativa e tecnica).
La discrezionalità tecnica si concreta nell'esame di fatti o situazioni sulla base di
cognizioni tecniche e scientifiche di carattere specialistico (diversa dagli
accertamenti tecnici che si basano su regole con maggior grado di certezza
-scienze esatte- priva di qualunque margine valutativo o di opinabilità).
E' stata spesso definita come "pseudodiscrezionalità" perché si riferisce ad un
momento conoscitivo che implica soltanto un giudizio e non la volizione, peraltro
si riteneva in passato del tutto insindacabile da parte del giudice. Ma
l'elaborazione dottrinale è approdata negli anni all'affermazione del principio per
il quale, affermata la profonda diversità tra discrezionalità amministrativa e
tecnica, fosse insostenibile che quest'ultima fosse trattata processualmente come la
prima, mancando in quella tecnica una valutazione degli interessi e dunque una
scelta di opportunità.
In particolare si rileva come ogni area di apprezzamento tecnico riservato al
l'amministrazione e dunque non verificabile in giudizio, comporti una lesione o
una compressione dei principio di piena e generale tutela giurisdizionale (art. 24 e
113 Cost.): ogni eccezione a tale principio deve avere una congrua ragione.
Quest'ultima si trova agevolmente nella sottrazione della discrezionalità
amministrativa al sindacato del giudice perché l'interesse pubblico e la sua cura è
affidato istituzionalmente all'amministrazione, per cui il sindacato non deve
impingere sulla adeguatezza delle scelte effettuate a soddisfare l'interesse
pubblico, ma dev'essere meramente estrinseco cioè avere ad oggetto il processo
logico che l'amministrazione percorre per giungere alla decisione che dovrà
rispondere ai canoni di ragionevolezza e logicità. Non altrettanto può dirsi per gli
apprezzamenti tecnici per i quali il giudice non può limitarsi alla verifica della
"superficie", ad un accertamento estrinseco, dovendo invece verificare che le
scelte tecniche siano esatte o, se opinabili, adeguatamente motivate.
D'altro canto la legge 21 luglio 2000, n. 205 sul processo amministrativo ha
recepito appieno le elaborazioni emerse sul punto in dottrina e giurisprudenza,
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generalizzando la possibilità per il giudice amministrativo di ricorrere, anche in
sede di legittimità, alla consulenza tecnica (art. 16) che parte della dottrina,
eliminando qualsiasi ostacolo processuale alla piena sindacabilità delle valutazioni
tecniche.
La discrezionalità mista si ha quando oltre alla verifica sulla base di regole
tecniche, vi sia da effettuare una scelta che nella specie si palesi come la soluzione
più opportuna nell'interesse della collettività (giudizio tecnico + scelta del
provvedimento da emanare). La commistione delle due discrezionalità (tecnica e
pura) in un unico genus (mista) è criticata da Sandulli il quale ritiene che i due
momenti (giudizio tecnico + scelta discrezionale) mantengano ciascuno una
propria autonomia.
Alla luce dei chiarimenti offerti dalla dottrina e che si è tentato di illustrare,
sembrano potersi individuare tre ulteriori momenti di analisi.
Il primo attiene al rapporto tra attività discrezionale e attività vincolata. Mentre la
prima - come si è cercato di affermare - è il potere di scelta, di valutazione circa
la modalità di azione e di perseguimento dell'interesse pubblico, la seconda
ricorre allorché la scelta sia già stata operata dal legislatore, che rimette
all'amministrazione il mero accertamento della corrispondenza della fattispecie
concreta a quella astratta, senza margini di scelta in capo all'amministrazione. Su
queste basi, parte della dottrina nega l'esistenza di un potere amministrativo
allorché l'attività sia vincolata (posizione peraltro ben nota anche nella più recente
giurisprudenza, che ha elaborato la dicotomia attività vincolata - carenza di
potere, attività discrezionale - cattivo uso del potere) e, conseguentemente,
collega la sola attività discrezionale a situazioni di interesse legittimo (Orsi
Battaglini). Tuttavia, è stato in contrario osservato (Travi) che questa teoria pare
non distinguere opportunamente il contenuto del potere con il suo effetto, in
quanto vi è potere anche laddove il contenuto dell'atto non sia innovativo rispetto
alla previsione normativa. Inoltre, a proposito dell'affermata inesistenza di
interessi legittimi. è stato osservato come anche nel caso di attività vincolata la
tutela consista nell'annullamento dell'atto e quindi dall'eliminazione del prodotto
dell'esercizio di un potere, anche in quel caso esistente. E al cospetto del potere
l'unica situazione giuridica configurabile è l'interesse legittimo.
Il secondo momento di approfondimento attiene alla progressiva limitazione da
parte del legislatore del potere discrezionale. E' stato osservato come la
discrezionalità c.d. “pura" sia prevista in ipotesi sempre più recessive e come ad
essa si sostituisca quella c.d. "tecnica": l'amministrazione è sempre più chiamata a
porre in essere valutazioni sulla base di conoscenze tecnico-scientifiche e sempre
meno giudizi in ordine alla scelta del contenuto dei provvedimento, già operata
dal legislatore.
Il terzo ed ultimo momento di analisi è strettamente collegato al precedente e
consente di confermare il parallelismo sopra operato tra diritto interno e diritto
comunitario.
Anche il legislatore della Comunità tende sempre più a limitare la "
discrezionalità delle amministrazioni degli Stati membri mediante la previsione di
meccanismi di esercizio del potere forgiati sul modello norma - accertamento e
conseguente limitazione del potere di scelta, valutazione e giudizio da parte dei
soggetti pubblici.
19
In conclusione, pare di potere affermare come questa tendenza alla compressione
compromissione della discrezionalità sia sotto certi aspetti contraddittoria rispetto
ai caratteri tipici e fondamentali del potere amministrativo che, per sua stessa
natura, implica una possibilità di scelta e giudizio, posto che appartiene
all'illusione illuminista la previsione a priori dei diversi svolgimenti della realtà.
Probabilmente il problema non è l'eliminazione della discrezionalità, bensì la
sottoposizione della stessa ai principi di responsabilità e di tutela da questo punto
di vista, le recenti riforme in materia di controlli e di processo amministrativo
forniscono più ampi strumenti al fine della equilibrata valutazione dei risultati
dell'esercizio della discrezionalità.
IL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO
Affinchè un atto amministrativo sia perfetto (cioè dotato di tutti gli elementi
necessari alla sua esistenza) ed efficace (cioè idoneo a produrre tutti gli effetti
giuridici propri) esso deve essere emanato seguendo un particolare iter
procedurale composto di diversi atti ed operazioni che prendono il nome di
procedimento amministrativo.
Il provvedimento finale che il procedimento è destinato a produrre è dunque un
atto a formazione progressiva essendo il risultato di tutto il procedimento.
Il procedimento amministrativo può essere definito come l'incontro tra l'esercizio
del potere pubblico e l'esercizio dei diritti dei cittadini ovvero il momento di
coordinamento e composizione (ponderazione) di opposti interessi pubblici e
privati.
20
• l'eterogeneità degli atti che lo compongono che hanno una diversa funzione,
diversa natura giuridica e vengono posti in essere da agenti diversi;
• l'autonomia degli atti che, anche se preordinati allo stesso fine, producono effetti
propri;
• il coordinamento ad un unico fine di tutti gli atti che sono ausiliari all'atto finale
che costituisce appunto l'unico fine.
Divieto di aggravamento del procedimento: (art. 21, co.2' della legge 241 del
1990) cioè di inutile prolungamento nel tempo con conseguente aggravio di spesa,
allorchè esso non sia dettato da effettive esigenze istruttorie.
21
provvedimento finale esplicito da comunicare all'interessato. A pena della
mancata conclusione del procedimento la legge prevede spesso che si formi il
silenzio assenso (rilascio silenzioso del provvedimento favorevole). A norma
della legge sul procedimento l'amministrazione procedente ha l'obbligo di
comunicare agli interessati la data entro la quale il procedimento dovrà
presuntivamente concludersi.
Responsabile del procedimento: gli artt. 4, 5 e 6 della legge 241 del 1990
prevedono la figura del responsabile affidandogli la gestione dell'intero
procedimento. La sua individuazione deve essere effettuata nell'ambito di una
unità organizzativa competente al procedimento e comunicata a tutti gli interessati
con la precisazione dei compiti affidati al responsabile in modo da consentire agli
interessati di sapere a chi rivolgersi e di controllare l'operato dall'amministrazione
in ogni momento. L'individuazione del responsabile ha inoltre la funzione di
responsabilizzare i funzionari preposti alla gestione del provvedimento con
eventuale comminatoria nei loro confronti di sanzioni amministrative, civili o
penali.
22
Il diritto di prendere visione degli atti del procedimento e di presentare
memorie scritte e documenti è sancito dall' 10 che impone all'Amministrazione
un obbligo di idonea valutazione a pena di illegittimità.
23
f) La denunzia in luogo di autorizzazione: - art. 19- accorda ai privati la
possibilità di intraprendere l'esercizio di un'attività sulla base di una mera
denuncia detta dichiarazione sostitutiva (dell'autorizzazione). Sarà poi
l'Amministrazione competente a verificare la sussistenza dei requisiti di legge e
disporre entro 60gg. Con provvedimento motivato l'eventuale divieto di
prosecuzione dell'attività.
g) La generalizzazione del silenzio-assenso: -art. 20- quando l'esercizio di
un'attività privata sia subordinato al rilascio di autorizzazione questa si considera
intervenuta se l'amministrazione non si esprime entro un dato termine volta a
volta stabilito dalla legge a seconda dei casi.
24
determinati documenti possa impedire o gravemente ostacolare lo svolgimento
dell'azione amministrativa.
Modalità di esercizio. Ai sensi dell'art. 25 l'accesso si esercita mediante richiesta
motivata rivolta dall'interessato all'amministrazione competente di esaminare il
documento oppure di estrarne copia. Questa ove ritenga di non poter accogliere
l'istanza privata può:
1) Respingerla se i documenti sono coperti da limiti tassativi
2) Limitarla ai documenti che non sono coperti da segreto
3) Differirla con provvedimento motivato se lo ritenga opportuno
Trascorsi inutilmente 30 gg. dall'invio dell'istanza di accesso l'interessato è
legittimato ad adire il giudice amministrativo cui è affidata la criurisdizione
esclusiva per la tutela di questo diritto. La tutela giurisdizionale in questo caso
prevede dei termini abbreviati (dimezzati) per consentire la celerità nella
soddisfazione della posizione soggettiva azionata. In particolare l'interessato potrà
fare ricorso dopo trenta giorni (invece di 60) dall'invio della istanza attraverso la
notificazione all'Amministrazione e ai controinteressati. Il giudizio deve poi
concludersi entro 30 giorni dal deposito del ricorso notificato, L'appello è
esperibile nei successivi trenta gg. (invece di 60) ed il relativo giudizio si svolge
in camera di consiglio. Il giudice ha il potere di ordinare,ove ne ricorrano i
presupposti, l'esibizione dei documenti richiesti.
25
rìchieste cioè atti amministrativi con cui l'autorità amministrativa competente si
rivolge ad un'altra autorità per sollecitare l'emanazione di un atti che altrimenti
non potrebbe essere emanato o con proposte cioè manifestazioni di giudizio circa
il contenuto da dare all'atto. Sia la proposta che la richiesta sono vincolanti per la
p.a. che le riceve (ha l'obbligo di provvedere).
Una volta aperta la fase dell'iniziativa l'amministrazione competente ha l'obbligo
di fissare un termine per la conclusione del procedimento, di nominare il
responsabile del procedimento e di comunicare l'avvio agli interessati.
26
motivatamente da quanto detto dal rappresentante entro venti gg., altrimenti il suo
assenso si intende definitivamente acquisito.
Conferenza decisoria: Quando, in sede di conferenza dei servizi si ritiene il
procedimento maturo per la decisione si procede alla codecisione delle
Amministrazioni interessate per l'emanazione del provvedimento finale (art. 3 bis,
legge 3 maggio 1997, n. 127).
Procedimento per dissenso di 1 Amm.ne: Amministrazione competente adotta
ugualmente e comunica a: Presidente Consiglio Ministri (Amministrazioni
statali); Presidente Regione (Amministrazioni regionali); Sindaco
(Amministrazioni comunali) i quali entro 60 gg. possono disporre la sospensione
della determinazione. In caso contrario, diventa esecutiva.
27
B) comunicazione. Ha una funzione diversa a seconda che l'atto sia recettizio
(atto restrittivo o coattivo) o meno (nel I caso è condizione di efficacia, nel II da
legale conoscenza per la decorrenza dei termini). La comunicazione avviene
normalmente per notificazione a mezzo di messo notificatore (per irreperibilità si
applica l'art. 140 cpc) ma anche attraverso racc. AR,. Per gli atti di carattere
generale o destinati a molte persone, la comunicazione avviene per pubblicazione
(GU, BUR, FAL, Albo comunale). La pubblicazione non è sufficiente per gli atti
recettizi.
Tempus regit actum è un principio per il quale la legittimità degli atti va valutata
in base al momento in cui sono stati adottati e ogni fase del procedimento va
sottoposta ( e valutata in base) alla disciplina vigente al momento del compimento
della fase stessa, anche se nel corso del procedimento sopravviene una nuova
legge che disciplina tutto in modo diverso.
Invalidità derivata Per gli atti del procedimento vige il principio per il quale
l'invalidità degli atti preparatori comporta l'invalidità derivata del provvedimento
finale. Ma non è vero il contrario: quindi l'eventuale rinnovazione dell'atto
conclusivo non comporta la riapertura di tutto il procedimento ma solo di quelle
(eventuali) fasi necessarie a ripetere gli atti che siano stati considerati
originariamente (e non per derivazione dall'invalidità del provvedimento finale)
invalidi.
28
I PARERI
La funzione consultiva si puntualizza nei pareri, comunemente definiti in dottrina
come atti non negoziali o come atti interni. Questa definizione dei pareri emerge
dalla tradizionale quadripartizione dell'attività amministrativa in attiva,
consultiva, di controllo e giustiziale e dal collegamento, comunemente prospettato
sul piano funzionale, tra gli organi consultivi e quelli attivi: i primi preposti ad
una funzione preparatoria ed ausiliaria (che svolgono, appunto, attraverso il
parere) rispetto all'azione dei secondi finalizzata al perseguimento dell'interesse
pubblico generale (attraverso l'emanazione del provvedimento finale).
La fase consultiva dell'istruttoria del procedimento si rende necessaria al fine di
consentire all'Amministrazione decidente, in ordine all'esercizio di poteri che
coinvolgono situazioni complesse (sul piano tecnico e su quello degli interessi in
gioco), che la sua decisione finale sia preceduta da un momento valutativo
affidato ad un ufficio da essa differenziato sul piano dell'organizzazione.
A fronte delle definizioni e classificazioni tradizionali di questo tipo di atti
amministrativi, si deve a Sandulli la prospettazione, nel 1940, di una nuova
metodologia per lo studio dei pareri: quella di un loro inserimento sistematico
nell'ambito del procedimento amministrativo e del conseguente abbandono di quel
metodo che suggeriva di studiare i pareri considerandoli come figure a sè, ovvero
in relazione al solo provvedimento finale. L'impostazione logico-sistematica di
Sandulli -tuttora fondamentale per un'indagine sui pareri nel diritto
amministrativo- tendeva a ricondurre ad unità la figura del parere in aperta critica
con quella posizione dottrinale che a lungo ha tenuto distinti dalla categoria i
pareri vincolanti sulla base della considerazione per la quale il contenuto di questi
ultimi, identificandosi con quello del provvedimento finale, ne comporterebbe la
configurazione come atto complesso, atto del quale il parere costituirebbe un
elemento integrante (Cammeo, Presutti). Sulla scorta della netta distinzione tra la
29
fase costitutiva e quella preparatoria del procedimento e della collocazione del
parere nell'ambito di questa ultima -che, lungi dall'acquisire una rilevanza
cronologica o descrittiva, riflette la sostanziale mancanza di autonomia funzionale
della "dichiarazione di giudizio"- Sandulli afferma l'inidoneità del parere (sia esso
vincolante, obbligatorio o facoltativo) a produrre effetti giuridici esterni e dunque
la sua incapacità a costituire elemento componente o integrante del
provvedimento finale.
Chiarita la natura giuridica e la caratterizzazione dei pareri rispetto agli altri atti
del procedimento, è opportuno analizzare le classificazioni dottrinali e giuri
sprudenziali dei pareri al fine di proporne una tipologia sistematica.
Anzitutto i pareri si distinguono in facoltativi e obbligatori a seconda che
all'Amministrazione procedente sia attribuita la facoltà di richiedere l'intervento
dell'autorità consultiva (talvolta individuata in organi monocratici ma per lo più
essi sono collegiali), ovvero che vi sia normativamente obbligata, pena
l'illegittimità del provvedimento finale per violazione di legge. Il primo tipo di
parere comporta la piena discrezionalità dell'Amministrazione competente
all'adozione del provvedimento finale di richiedere il parere ma non anche quella
di non prenderlo in considerazione, una volta ottenuto: è fatto obbligo, infatti,
all'Amministrazione, per giurisprudenza tralatizia, di motivare adeguatamente la
decisione presa eventualmente in difformità del parere reso, sia facoltativo che
obbligatorio. In una terza categoria rientrano i c.d. pareri vincolanti che
configurano in capo all'Amministrazione competente, accanto all'obbligo di
provvedere, quello di farlo in assoluta conformità dei parere (salvo che esso sia
contra legem). Da qui le posizioni dottrinali che rinvengono nel parere vincolante
un elemento integrante dell'atto complesso finale. Siffatta posizione teorica è
criticata da Sandulli anche sulla scorta della distinzione di questo tipo di pareri
dalle c.d. deliberazioni preparatorie che, a differenza dei pareri vincolanti -i quali
hanno un contenuto soltanto valutativo e non volitivo e decisionale- fissano il
contenuto degli atti che sul loro presupposto devono essere emanati. Il parere
vincolante per tal via, nella prospettazíone di Sandulli, comporta un obbligo di
conformità e non di attuazione di una decisione altrui.
Un'ulteriore categoria è rappresentata dal parere conforme (o "parere parzialmente
vincolante", nell'accezione preferita da Virga) che, attribuendo all'Autorità
competente una discrezionalità nell'an (lasciandola cioè libera di provvedere o
meno in ordine all'oggetto del procedimento), configura un vincolo (recte un
obbligo) in relazione al quid o al quomodo: allorché l'Autorità competente decida
di provvedere (in realtà grava sull'amministrazione un obbligo di provvedere ex
art. 2 a pena, talvolta, degli interventi sostitutivi delle competenti autorità, talaltra
di sanzioni o di indennizzi forfettari all'interessato, ecc.), potrà farlo soltanto in
conformità del parere (obbligatorio) espresso dall'organo consultivo. Si tratta, per
la dottrina, di una distinzione meramente nomínalistica operata dalla legge
rispetto al parere vincolante; tuttavia può forse rinvenirsi un criterio di discrimine
nell'apprezzamento discrezionale lasciato all'Amministrazione procedente
nell'attività di conformarsi al parere reso.
Vi sono infatti nel nostro ordinamento giuridico norme che non identificano
necessariamente il contenuto del parere con la decisione e tuttavia attribuiscono al
parere conforme effetti ulteriori rispetto a quello non vincolante, nel senso della
30
sua idoneità a limitare, senza annullarlo, l'apprezzamento discrezionale
dell'Amministrazione procedente.
Quanto alla disciplina legislativa generale dei pareri essa è contenuta nella legge 7
agosto 1990, n. 241 e più specificamente nel capo IV intitolato alla
semplificazione dell'azione amministrativa, artt. 16 (in materia di pareri
obbligatori) e 17 (relativo alle valutazioni tecnico-scientifiche).
La disciplina dell'attività consultiva è dunque inserita dal legislatore del 1990 in
un contesto normatìvo volto ad accelerare e snellire l'azione amministrativa: la
peculiarità della disciplina degli atti consultivi endoprocedimentali obbligatori
contenuta, nell'art. 16, può infatti individuarsi nella sua capacità di fornire
all'Amministrazione procedente strumenti idonei ad impedire che l'inerzia
dell'organo consultívo adito provochi arresti procedimentali capaci di configurare
rilevanti lesioni dell'interesse pubblico e di tutti gli altri interessi coinvolti dal
procedimento.
La norma, in particolare, sancisce che la richiesta di parere obbligatorio inoltrata
da parte dell'Amministrazione competente comporta un obbligo in capo all'organo
consultivo di emanare l'atto richiesto entro il termine previsto dalla legge o da
regolamenti, ovvero, in assenza di siffatte previsioni, entro 45 (come risulta dalla
modifica apportata dalla legge 127 del 1997) giorni dal ricevimento della richiesta
e che l'inutile decorrenza del termine legittima l'Amministrazione attiva a
proseguire l'iter procedimentale, prescindendo dal parere, salvo che si
rappresentino esigenze istruttorie (art. 16, comma 4).
Ora, quest'ultima disposizione normativa è stata oggetto di critiche da parte di
alcuni commentatori: in particolare, nella formulazione della norma è stata
ravvisata (e criticata nel merito) la scelta del legislatore di approdare ad una
soluzione compromissoria in ordine all'opportunità di prescindere dal parere
obbligatorio. Il legislatore, cioè, pur consapevole del danno che tale previsione
avrebbe potuto arrecare all'efficienza dell'Amministrazione (in conseguenza del
"depauperarnento" della fase istruttoria), ha lasciato all'Autorità investita del
potere decisionale la valutazione discrezionale dell'opportunità di procedere
prescindendo dal parere, senza stabilire preventivamente quale dei due valori in
gioco debba prevalere: quello della celerità del procedimento o quello della
completezza dell'istruttoria.
Le critiche mosse alla norma si basano sulla configurazione dell'ipotesi che il
responsabile del procedimento eserciti invano la facoltà di attendere oltre i termini
l'atto consultivo; in tal caso egli si vedrà comunque costretto a prescindere
dall'acquisizione del parere, portando a termine il procedimento con evidente
aggravio di tempi e incompletezza istruttoria.
Alla luce di queste considerazioni sarebbe stato forse più opportuno, al fine di
garantire una conoscenza ad ampio spettro delle questioni rilevanti nel (e degli
interessi coinvolti dal) procedimento - suggeriscono alcuni commentatori-,
assoggettare la disciplina dei pareri ad una normativa del tenore dell'art.17 sulle
valutazioni tecniche che impone, in caso di inerzia dell'organo consultivo, il
ricorso ad enti o organi in via surrogatoria, a vantaggio di un'adeguata
ponderazione degli interessi in gioco e conseguentemente della qualità del
provvedimento finale.
Allorché il termine previsto dalla norma per la comunicazione degli atti consultivi
obbligatoriamente richiesti risulti insufficiente a causa dell'incompletezza
31
dell'istruttoria ovvero a causa della complessità delle questioni prospettate
all'organo consultivo (la norma fa espresso riferimento alla "natura dell'affare"),
quest'ultimo può (ex art. 16, quarto co.) presentare istanza motivata (l'obbligo di
motivazione è desumibile ex art. 1, secondo co.) di rinnovazione del termine per
esigenze istruttorie. In tal caso la norma prevede la sospensione del termine fino
al momento "della ricezione da parte dell'organo stesso, delle notizie o dei
documenti richiesti".
In tal caso la norma sancisce che il parere debba essere "reso definitivamente
entro 15 giorni dalla ricezione degli elementi istruttori da parte delle
amministrazioni interessate" (art. 17 co. 24, n.4 della legge 127 del 1997): anche
nel caso di interruzione del termine per esigenze istruttorie è dato dunque
riscontrare nella nuova disciplina un'incisiva riduzione dei tempi accordati
all'organo consultivo per provvedere. Del tutto invariata risulta, invece, la
disciplina volta alla salvaguardia dei valori egemoni di tutela del paesaggio,
dell'ambiente e ella salute dei cittadini.
La norma, sebbene evidentemente ispirata alla semplificazione amministrativa, ha
suscitato qualche dubbio da parte dei suoi primi commentatori in ordine al
concreto raggiungimento dell'obiettivo che si propone, sulla base della mancata
previsione di un termine anche per la trasmissione degli atti istruttori richiesti
dall'organo consultivo: tale lacuna rischia infatti di pregiudicare la celerità del
procedimento cui è ispirata la legge di riforma, potendosi questo paralizzare per
l'inerzia dell'Amministrazione cui spetta il compito di raccogliere e trasmettere gli
atti istruttori. Anche per i pareri facoltativi (per i quali nulla prescrive la legge n.
241 del 1990) la legge 127 del 1997 sancisce un obbligo dell'organo consultivo
dei comunicare all'Amministrazione procedente il termine entro il quale il parere
sarà reso, consentendo per tal via all'Amministrazione di procedere, decorso
inutilmente il termine fissato, indipendentemente dalla sua acquisizione.
Nessun problema interpretativo pone la previsione di cui all'art. 16, terzo co.,
diretto alla tutela dei valori egemoni (tutela del paesaggio, dell'ambiente, delle
cose d'interesse storico, artistico, ecc.) che sancisce che le disposizioni relative al
termine previsto per l'emanazione dei pareri e alla facoltà di prescinderne, non
trovano applicazione allorché l'Amministrazione consultiva sia preposta alla tutela
ambientale, paesaggistico - territoriale e della salute dei cittadini.
La ratio della norma è evidente: l'interesse generale alla semplificazione e
all'accelerazione dell'azione amministrativa ovvero alla sua efficienza e al buon
andamento non giustifica il sacrificio di alcuni valori fondamentali come la sanità
l'ambiente e la tutela del paesaggio e dunque in ogni procedimento che coinvolga
siffatti interessi l'Amministrazione attiva non potrà prescindere dall'acquisizione
dell'atto consultivo che deve pertanto considerarsi insuperabile ed insostituibile.
D'altro canto la previsione normativa appare coerente con i principi fissati dalla
giurisprudenza amministrativa e costituzionale che, a partire dal 1987, ha
affermato con vigore la prevalenza dell'integrità paesaggistica e della tutela della
salute e dell'ambiente su ogni altro valore, anche costituzionalmente protetto.
Siffatta impossibilità di applicare la disciplina contenuta nelle norme di cui all'art.
16, primo e secondo co. della legge n. 241 del 1990, comporta che l'attività
consultiva delle pubbliche Amministrazioni preposte alla tutela dei suddetti valori
egemoni, risulta disciplinata dalle normative di settore, in qualità di lex spacialis.
L'eventuale mancanza da parte di queste ultime della fissazione di un limite
32
temporale per la comunicazione dei pareri richiesti, stante l'impossibilità di
prescinderne, nelle materie poco sopra richiamate e la loro infungibilità, sancita
dalla legge n. 241 del 1990, comporta l'obbligo per l'Autorità procedente di
attendere l'emanazione dell'atto richiesto e, nell'eventualità di ulteriori
comportamenti omissivi dell'organo consultivo, di impugnare davanti al giudice
amministrativo il silenzio - inadempimento.
Proprio al fine di scongiurare il pericolo di arresti procedimentali sine die e il
ricorso alla tutela giurisdizionale contro atti che -oltre a pregiudicare valori
garantiti dall'ordinamento giuridico al di sopra di ogni altro interesse-
comporterebbero anche un ingiustificato aggravio di spese a carico
dell'Amministrazione pubblica, il Ministro dell'ambiente, con suo decreto del
giugno 1994, nel dettare norme di attuazione degli artt. 2 e 4 della legge n.241 del
1990 relative ai termini e ai responsabili dei procedimenti, ha previsto la
conclusione di accordi procedimentali con gli organi consultivi competenti in
materia ambientale, paesaggistico-territoriale e di tutela della salute dei cittadini,
al fine di accelerare le procedure di adozione dei pareri necessari alla conclusione
dei procedimenti di competenza del Ministero.
Ben formulati appaiono anche gli ultimi due commi della norma di cui all'art. 16
che disciplinano la comunicazione degli atti consultivi e la predisposizione da
parte degli "organi consultivi dello Stato" (dunque anzitutto del Consiglio di
Stato) di particolari procedure per l'adozione dei pareri richiesti, tenendo conto
della complessità delle questioni sottoposte al loro esame, entrambi ispirati
all'accelerazione e all'efficienza dell'azione amministrativa.
Qualche riflessione sembra invece opportuna in ordine alla natura del termine
previsto dall'art. 16, primo co., sulla quale la norma non sembra offrire lumi. In
realtà, essa può essere agevolmente desunta dal tenore generale dell'intera norma:
l'attribuzione di una facoltà, piuttosto che l'individuazione di un obbligo, in capo
all'Amministrazione attiva, di procedere in caso di inutile decorrenza del termine
previsto per la comunicazione dell'atto consultivo e l'assenza di una specifica
previsione che escluda la possibilità per l'organo consultivo di pronunciarsi
tardivamente, sembrano, infatti, deporre a favore della natura ordinatoria del
termine, non apparendo configurabile, in seguito alla sua inutile decorrenza, la
"consumazione" del potere di emanare l'atto consultivo.
La rilevanza della questione può agevolmente vedersi allorché ci si voglia
interrogare sull'ammissibilità del parere tardivamente sopravvenuto: la natura
perentoria del termine comporterebbe infatti l'illegittimità del parere espresso
tardivamente che l'Autorità procedente dovrà dunque considerare inutiliter datum.
Al contrario, presupponendo l'ordinatorietà del termine, il parere dovrà comunque
esser preso in considerazione, dovendo motivarsi le determinazioni adottate in
difformità dell'atto consultivo, sia pur tardivamente intervenuto.
Può dunque concludersi, senza dubbio alcuno, per la natura ordinatoria del
termine normativamente previsto per la comunicazione dei pareri in perfetta
armonia con la ratio che ha ispirato il legislatore del 1990 nella formulazione
della legge n. 241, quella della semplificazione e dell'efficienza dell'azione
amministrativa.
Si accennava poco sopra alla maggior adeguatezza della disciplina contenuta nella
legge n. 241 sulle valutazioni tecniche (che si distinguono dai pareri -anche da
quelli c.d. tecnici- per essere giudizi formulati sulla base di parametri tecnico-
33
scientifici certi), in ordine alla garanzia della semplificazione amministrativa. In
particolare, la norma di cui all'art. 17 rileva per la assoluta garanzia del principio
dell'efficienza e rapidità del procedimento amministrativo (oltre che della sua
efficacia) che essa realizza ponendo a carico del responsabile del procedimento un
obbligo di acquisire comunque le valutazioni tecniche necessarie, anche in
presenza di un comportamento omissivo dell'organo interpellato, al fine di portare
a conclusione il procedimento nei termini, dopo averlo adeguatamente istruito.
La ratio dell'insuperabilità delle valutazioni tecniche risulta immediatamente
evidente anzitutto perché esse influiscono, a differenza dei pareri, sulla stessa
prosecuzione del procedimento nella sua fase conclusiva essendo capaci di
interromperlo in via definitiva attraverso un giudizio contrario, inconfutabile
perché basato su regole, cognizioni e mezzi certi forniti ad organi specialistici
dalle scienze e dall'arte. Ciò non accade evidentemente nel caso di parere negativo
che comporta, come si è detto, un obbligo di motivazione adeguata del
provvedimento difforme.
Per quanto attiene invece alla loro "sostituibilità", la ratio di siffatta previsione
risponde all'esigenza di accelerazione e semplificazione cui l'intera legge è
ispirata: l'attesa sine die di una valutazione tecnico-consultiva che tarda ad
arrivare comporterebbe una serie di pregiudizi -già evidenziati riguardo alla
disciplina dei pareri- che andrebbero a sicuro detrimento dell'interesse generale e
di quelli particolari coinvolti dal provvedimento finale.
Preme tuttavia evidenziare che gli "organi dell'Amministrazione pubblica od ...
enti pubblici che siano dotati di qualificazione e capacità tecnica equipollenti"
ovvero le Università che il responsabile del procedimento può adire in via
surrogatoria non devono ritenersi individuabili sulla scorta di un apprezzamento
discrezionale di quest'ultimo; il compito di siffatta individuazione preventiva deve
piuttosto ritenersi affidato ai regolamenti statali, regionali, provinciali e comunali.
Anche per le valutazioni tecniche -analogamente a quanto previsto per i pareri
dall'art. 16, terzo co.- la norma di cui all'art. 17, secondo co., esclude
l'applicabilità delle previsioni contenute nel primo comma ai casi in cui le
valutazioni tecniche richieste devono essere prodotte da Amministrazioni preposte
alla tutela dei valori egemoni già richiamati. La norma infine prevede la
possibilità per gli organi o enti affiti in via tecnico-valutativa di presentare
esigenze istruttorie, assoggettando la relativa disciplina alla previsione dei cui
all'art. 16, quarto co. Si rinvia pertanto, in ordine a queste ultime disposizioni, alle
considerazioni già svolte riguardo alla disciplina, di identico tenore, dei pareri.
Nessuna modifica, infine apporta al legge n. 127 del 1997 alla disciplina
contenuta nella legge n. 241 del 1990, relativa alle valutazioni tecniche.
Quanto alla tutela che l'ordinamento giuridico accorda agli interessati nei
confronti dei pareri della p.a., deve ritenersi normalmente esclusa l'impugnabilità
autonoma del parere in quanto atto interno e preliminare dei procedimento. La
tutela infatti va indirizzata verso il provvedimento finale che è l'unico capace di
incidere sulla sfera giuridica dei suoi destinatari essendo un atto a rilevanza
esterna cioè un atto negoziale: la mancanza di autonomia funzionale del parere
rispetto al provvedimento finale., cioè, comporta evidentemente la sua incapacità
a realizzare quella lesione attuale configurabile soltanto allorché il provvedimento
finale venga effettivamente emanato, potendo tra l'altro la p.A. decidere
34
discrezionalmente sull'an, cioè sull'opportunità di adottare o meno una
determinazione provvedimentale- conclusiva del procedimento.
Questa circostanza tuttavia non sottrae i pareri dal sindacato giurisdizionale che
viene condotto in occasione dell'impugnativa dell'atto cui accede il parere nei casi
in cui il vizio del provvedimento finale dipenda o sia comunque connesso
all'acquisizione del parere stesso (ad esempio nel caso di motivazione viziata del
provvedimento che per relationem si riferisca al parere, ovvero per lo stesso
difetto di motivazione del parere non sanato dal provvedimento finale, o ancora
per vizi relativi al procedimento di acquisizione del parere stesso).
L'autonoma impugnabilità del parere, tuttavia, è stata talvolta prospettata dalla
giurisprudenza amministrativa per quei pareri comunicati all'interessato dagli
stessi organi attivi competenti all'emanazione dei provvedimenti successivi: in tal
caso la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha fatto spesso coincidere l'attività di
comunicazione del parere all'acquisizione del suo contenuto -e dunque
all'assunzione della relativa responsabilità- da parte dell'Autorità decidente il cui
provvedimento finale si ridurrebbe, per tal via, ad un atto di concreta attuazione
del parere. In tal stregua può affermarsi che la giurisprudenza ha contribuito ad
accentuare la separatezza tra pareri vincolanti e non, assoggettando i primi al
regime degli atti presupposti, piuttosto che a quello, a loro più congeniale, degli
atti preparatori.
A fronte dell'obbligo dell'amministrazione procedente di conoscere tutti gli
interessi coinvolti nel procedimento, anche mediante l'acquisizione di pareri, v'è
la norma di cui all'art. 14, primo comma della legge 241 del 1990 che sancisce
l'obbligo per la p.a. di acquisire le determinazioni delle diverse amministrazioni in
ordine agli interessi pubblici coinvolti, prevedendo all'uopo uno strumento
procedurale di applicazione generale che consente siffatta acquisizione
contestuale: la conferenza dei servizi.
Si tratta di uno strumento messo a disposizione dell'amministrazione procedente
(la quale può tuttavia decidere di non utilizzarlo acquisendo le determinazioni
necessarie mediante apposita richiesta all'organo competente) al fine di consentire
la contestuale conoscenza di tutti gli interessi pubblici coinvolti dal procedimento
quando l'amministrazione "debba acquisire intese, concerti , nullaosta o assensi
comunque denominati di altre amministrazioni" (art. 14,1. 241 del 1990, sost. da
1. 537 del 1993).
Indetta dal responsabile del procedimento ex art. 6, lett. c) della legge 241 del
1990, la conferenza dei servizi si compone di persone fisiche esponenti delle
diverse amministrazioni interessate e perciò legittimate ad esprimere
"definitivamente" il loro parere sulle questioni relative al procedimento in corso.
La legge n. 127 del 15 maggio 1997 ha apportato alcune modifiche e integrazioni
all'istituto della conferenza dei servizi sia prevedendo in alcuni casi
l'obbligatorietà della sua convocazione (ad esempio per la realizzazione di opere
pubbliche d'importo superiore a trenta miliardi o per le opere soggette alla
valutazione di impatto ambientale), sia apportando alcune modifiche sostanziali
alla previdente disciplina per finalità di celerità e selezione degli interessi
pubblici.
Non è questa la sede idonea ad un'analisi della conferenza dei servizi e delle sue
problematiche, nè innovazioni apportate in materia dalla legge 127 del 1997:
ritengo opportuno tuttavia richiamare l'attenzione sulla disciplina che consente
35
all'amministrazione procedente di superare celermente l'empasse provocato ad
esempio da una o più amministrazioni dissenzienti.
Il "nuovo" procedimento che implica la convocazione della conferenza dei servizi
si apre con la fissazione, nella prima riunione della conferenza, del termine entro
il quale si deve pervenire alla decisione finale; decorso inutilmente il suddetto
termine (cioè senza che si sia pervenuti ad una decisione unanimemente
concordata), la norma stabilisce che 1a determinazione di conclusione positiva del
procedimento" possa essere adottata dandone "comunicazione al Presidente del
Consiglio dei ministri, ove l'amministrazione procedente o quella dissenziente sia
un'amministrazione statale", al Presidente della Regione o ai Sindaci, negli altri
casi. Per tal via la determinazione adottata dall'amministrazione procedente anche
in difformità al parere espresso da altre amministrazioni diventa esecutiva, salva
la sua sospensione che può essere disposta entro trenta giorni dalle autorità
destinatarie della comunicazione.
Soltanto nel caso in cui l'amministrazione dissenziente sia preposta alla tutela di
interessi legati ai "valori egemoni" la determinazione finale del procedimento non
spetta alla competenza dell'amministrazione inizialmente investita del relativo
compito, ma all'organo depositario dell'indirizzo politico - amministrativo cioè al
Presidente del Consiglio dei ministri, su richiesta dell'amministrazione procedente
e previa deliberazione del Consiglio dei ministri.
E' forse opportuno dedicare a questo punto qualche cenno anche alla recente legge
15 maggio 1997, n. 127 in materia di acquisizione obbligatoria dei pareri del
Consiglio di Stato. Nell'istituire una nuova sezione consultiva del Consiglio di
Stato (art. 17, co. 28), la legge in esame, abrogando ogni altra norma di legge che
configuri pareri obbligatori del Consiglio di Stato (art. 17, co. 26), sancisce
l'obbligatorietà della richiesta di parere per l'emanazione di atti normativi del
Governo e dei singoli ministri (regolamenti governativi e ministeriali) previsti
dalla norma di cui all'art. 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400; per la decisione
dei ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica e per la predisposizione da
parte di uno o più ministeri di schemi generali di contratti - tipo, accordi o
convenzioni (art. 17, co. 25), dimezzando il termine per la trasmissione dei
relativi pareri (stabilito in 90 giorni dalla legge 400 del 1988) a 45 giorni (salvo
termini -si noti- più brevi prescritti dalla legge), trascorsi i quali la norma
attribuisce all'Amministrazione la facoltà di procedere indipendentemente
dall'acquisizione del parere. Anche per il parere obbligatorio del Consiglio di
Stato la legge prevede l'interruzione -per una sola volta- del termine per esigenze
istruttorie, soddisfatte le quali il parere dovrà esser reso entro venti giorni (art. 17,
co. 27).
Alla nuova sezione consultiva del Consiglio di Stato la legge n. 127 del 1997
attribuisce la competenza ad esaminare, su richiesta del Presidente del Consiglio
dei ministri, gli schemi di atti normativi dell'Unione europea. La norma infine
sancisce che il parere del Consiglio di Stato debba sempre essere "reso in
adunanza generale per gli schemi di atti legislativi e di regolamenti devoluti dalla
sezione o dal presidente del Consiglio di Stato a causa della loro particolare
importanza.
Potrebbe agevolmente sostenersi che siffatta limitazione delle competenze
consultive del Consiglio di Stato ai pochi casi previsti dalla legge "Bassanini", pur
rispondendo alla generale tendenza alla semplificazione amministrativa e dunque
36
ad una maggiore efficacia dell'azione amministrativa, vada tuttavia a detrimento
della sua efficienza in ragione della ridotta possibilità di acquisizione degli
strumenti conoscitivi e degli elementi valutativi a disposizione
dell'Amministrazione procedente. E tuttavia siffatta prospettazione non appare
condivisibile alla luce dei "connotati" che il procedimento amministrativo assume,
in modo sempre più pregnante, in termini partecipativi: la garanzia legislativa,
accordata dalle leggi 7 agosto 1990, n. 241 e 8 giugno 1990 n. 142 a chiunque vi
abbia interesse, del diritto di inserirsi nei processi decisionali dell'Autorità
pubblica, partecipandovi attivamente, rende evidente il venir meno della
contrapposizione dialettica tra Amministrazione e cittadini all'interno del
procedimento di formazione del provvedimento, configurando una sorta di
coincidenza tra gli interessi procedimentali dei portatori d'interessi particolari e
l'interesse pubblico concreto che la prima è chiamata a soddisfare (è sulla base di
questa coincidenza d'interessi che Benvenuti "costruisce" la figura del nuovo
cittadino). Ciò al fine di consentire all'Amministrazione procedente l'acquisizione
di una completa conoscenza ad ampio spettro di tutti gli interessi che il
procedimento è destinato a coinvolgere ed in ragione del principio di buon
andamento ed economicità dell'azione amministrativa. In questa attività
conoscitiva l'Amministrazione è "aiutata" dai cittadini attraverso la loro
rappresentazione di situazioni e punti di vista che si aggiungono a quanto già
conosciuto e valutato dall'Amministrazione procedente, al fine di completare il
quadro delle informazioni in suo possesso.
Si profila per tal via un vero e proprio valore della partecipazione, non collegato
alla tutela delle singole posizioni dei soggetti interessati ma, in primo luogo,
guidato dall'esigenza di completezza conoscitiva per l'agente in vista dell'adozione
della determinazione più opportuna alla realizzazione dell'interesse pubblico
concreto.
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LA PATOLOGIA DELL'ATTO AMMINISTRATIVO
I provvedimenti amministrativi hanno delle caratteristiche particolari che comportano
cause di invalidità diverse da quelle tipiche degli atti che intervengono tra privati
(negozi giuridici). Sono infatti provvedimenti tipici nei quali la volontà dell'agente ha
una rilevanza molto ridotta (essendo la sua attività frutto di un potere pubblico
legislativamente attribuito). Per esempio essi sono caratterizzati da un generale
interesse a mantenere in vita l'atto adottato dal pubblico potere perché il suo
annullamento o la sua riforma sono causa di spese per la finanza pubblica. Occorre
distinguere tra nullità, irregolarità e cause di annullabilità dell'atto amministrativo.
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Questo comporta che se l'Autorità amministrativa si avvale del potere di adottare un
atto per un fine diverso da quello per cui il potere fu conferito dalla legge, l'atto sarà
viziato sotto il profilo funzionale. Inizialmente concepito come straripamento di
potere (cioè incompetenza assoluta), poi è stato elaborato dalla giurisprudenza come
un vero e proprio vizio di legittimità individuabile in presenza di alcune figure
sintomatiche. In particolare si è detto che esso ricorre tutte la volte che l'atto sia
indirizzato al perseguimento di un fine diverso da quello per il quale fu conferito il
potere. Ma non solo: esso ricorre anche quando l'atto appaia (non importa se
consapevolmente o no) affetto da vizi logici o se risulti determinato da una inesatta o
incongrua rappresentazione della realtà (che potrebbe portare ad una deviazione
dell'atto dalla sua funzione); o ancora quando l'atto sia irragionevole cioè quando
difetti il nesso di consequenziafità tra presupposti e conclusioni.
Alla stregua di questi presupposti, che in sostanza mostrano una divergenza tra il
risultato effettivo conseguito dall'atto e quello potenziale ovvero istituzionale dell'atto
stesso, sono state elaborate le figure sintomatiche dell'eccesso di potere:
1) Sviamento di potere: quello più attinente alla definizione generale di eccesso di
potere consiste nella constatata divergenza dell'atto dalla sua funzione istituzionale
(assolutamente palese, senza ricorrere a sintomi più nascosti come:)
2) Motivazione insufficiente (omissione della considerazione di alcune circostanze
rilevanti o della ponderazione di interessi rilevanti) (il difetto assoluto di motivazione
è ormai violazione di legge), incongrua (si motiva riferendosi solo ad elementi
irrilevanti o dando peso ad interessi irrilevanti), dubbiosa (si motiva sulla base di fatti
che si esclude siano certi), non rispondente ai fatti (si ordina l'abbattimento di uno
stabile perché pericoloso per l'incolumità pubblica, ma la sua stabilità era stata
accertata dagli organi tecnici), illogica nei criteri di valutazione (fissati criteri di
massima per giudicare i candidati ad un concorso, si danno punteggi alti seguendo
altri criteri = laurea molto importante, si valuta bene l'attività professionale dei non
laureati).
3) Contraddittorietà nel comportamento dell'Amministrazione: si licenzia un
impiegato per scarso rendimento pur essendo egli sempre stato qualificato come un
ottimo impiegato.
4) Slealtà nello svolgimento della procedura: L'amministrazione concede un termine
all'interessato per la presentazione di deduzioni prima di adottare un provvedimento
che potrebbe essere a lui sfavorevole, poi lo adotta prima della scadenza di quel
termine.
5) Ingiustizia manifesta: in situazioni assolutamente identiche l'amministrazione
provvede in modo diametralmente opposto: c'è molta discrezionalità e si riconduce
più al principio di imparzialità (violazione di legge: art. 97 Cost.).
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La violazione di legge: E' sempre la terza categoria dei vizi di legittimità perché ha
valore residuale, nel senso che vi rientrano tutti i vizi di legittimità non riconducibili
alle prime due categorie. Si manifesta tutte le volte che la legge prescrive qualcosa di
particolare per quell'atto e questa cosa manchi nell'atto.
Es.: motivazione, richiesta di parere obbligatorio, rispetto dì determinati termini di
legge per l'adozione dell'atto, nomina di un impiegato privo dei requisiti di studio
richiesti dalla legge per ricoprire quell'impiego): e tutte le volte che sia violato un
principio generale dell'azione amministrativa: imparzialità, irretroattività degli atti
amministrativi, ecc.
SCHEMA RIEPILOGATIVO su patologia atto amministrativo:
Inesistenza o nullità:
a) Mancanza dell'oggetto
b) Inesistenza del soggetto
c) Assenza della forma ad sustantiam
d) Mancanza assoluta di competenza per territorio
e) Mancanza assoluta di competenza per materia
f) Assenza finalità o illiceità
Non producono effetti nel mondo dei diritto quindi sono inefficaci, ineseguibili,
inannullabili e insanabili.
Annullabilità:
Vizio di uno degli elementi essenziali
• Giuridicamente esistenti
• Efficaci fino all'annullamento
• Esecutori
Sono annullati mediante provvedimento amministrativo o sentenza, oppure sono
sanati o ritirati (autotutela).
L'AUTOTUTELA
E' uno speciale potere conferito alla p.a. che le consente di sanare o annullare suoi
atti illegittimi o irregolari anche per evitare che sorgano controversie su di essi. E'
quindi un potere diretto all'eliminazione delle eventuali lesioni a pubblici interessi
che un provvedimento viziato sul piano della legittimità o del merito produce. La
titolarità del potere di autotutela è riconosciuto all'organo stesso che ha emanato l'atto
o a quello gerarchicamente superiore.
L'autotutela serve a sanare con efficacia ex tunc i provvedimenti affetti da vizi
sanabili e si esercita attraverso:
La ratifica quando l'organo competente faccia proprio l'atto emanato da un organo
incompetente (per incompetenza relativa)
La convalida quando l'atto viene completato di un elemento parzialmente mancante
(integrazione della motivazione)
La conversione quando si sostituisce l'atto viziato nella legittimità con un altro atto
identico, rimuovendo il vizio.
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La revoca quando si vuole far cessare solo per il futuro gli effetti dell'atto (una sorta
di annullamento con efficacia ex nunc) anche se l'atto era legittimo e opportuno al
momento dell'emanazione (possono esser venuti meno gli interessi pubblici che l'atto
voleva tutelare).
Vizi di merito dell'atto amministrativo
I vizi di merito sono vizi attinenti a regole non giuridiche e perlopiù tecniche o di
comportamento. Gli atti viziati nel merito sono soggetti ad annullamento con i limiti
propri della giurisdizione e del potere conferito all'amministrazione nei ricorsi
aniministrativi (no straordinario). Non sono classificabili ma la loro classificazione
non è necessaria perchè se il giudice amministrativo ha giurisdizione di merito,
allorchè ritenga che non ci sono vizi di legittimità, ma che l'atto sia comunque
viziato, potrà annullarlo in ogni caso.
IL FEDERALISMO AMMINISTRATIVO
E' noto che le leggi Bassanini sono il frutto di un disegno governativo teso a
riorganizzare le strutture della p.A attraverso un esteso decentramento di funzioni e
43
competenze dallo Stato alle Regioni ed agli altri enti locali. Esse sono il risultato dei
fallimenti delle diverse Commissioni bicamerali per le Riforme istituzionali ed hanno
lo scopo di provvedere ad un immediato decentramento agevolando la trasformazione
dello Stato verso una struttura meno accentrata. Proprio a causa dell’urgenza creata
dai fallimenti delle bicamerali, le Bassanini sono leggi formulate piuttosto
"frettolosamente” (di tale fretta se ne ritrovano ampie tracce nella legge n. 59/1997) e
ne è conferma il fatto che il d. lgs. 1 marzo 1998, n. 112 che ha realizzato una buona
parte del trasferimento previsto dalla Bassanini 1 ha suscitato il panico nelle
amministrazioni perché ancora del tutto impreparate a ricevere una mole di compiti
tale, tanto che alcune Amministrazioni (es. la Regione Veneto) hanno sollevato
diverse questioni di costituzionalità sul decreto 112 del 1998. D'altro canto la
Bassanini 3 ha avuto per lo più lo scopo di correggere e completare le leggi
precedenti.
Scopo fondamentale della Bassanini 1 è proprio quello di realizzare il c.d.
federalismo amministrativo attraverso un’ampia forma di conferimento di funzioni
dallo Stato alle Regioni e agli enti locali ma soprattutto attraverso il pieno
riconoscimento dell'autonomia di questi ultimi da parte dello Stato a "Costituzione
invariata".
In realtà mentre il termine “federalismo amministrativo” fa pensare ad una riforma
totale della p.A attraverso modi nuovi di "conferimento" di funzioni dallo Stato agli
altri enti le Bassanini hanno realizzato soltanto un decentramento autarchico
utilizzando i modelli tradizionali di decentramento quali il trasferimento e la delega
di funzioni. La novità è nella portata estremamente ampia del trasferimento di
funzioni. In sostanza mentre prima agli enti diversi dallo Stato spettava soltanto una
competenza residuale rispetto allo Stato ed in materie individuate dalla legge, oggi è
lo Stato che interviene soltanto nelle materie che la legge gli riserva; tutte le altre
spettano agli altri enti.
L'art. 1 della legge 59/1997 stabilisce due criteri in base ai quali il Governo è
autorizzato a delegare funzioni alle Regioni ed agli altri enti locali:
il criterio sostanziale in base al quale sono trasferite tutte le funzioni amministrative
relative alla cura degli interessi e alla promozione dello sviluppo delle rispettive
comunità;
il criterio formale-terrotoriale che riguarda le funzioni amministrative localizzabili
nei rispettivi territori anche se attualmente esercitate da amministrazioni centrali o
periferiche dello Stato: le funzioni relative alla tutela di interessi localizzabili sul
territorio comunale, vanno trasferite al comune, quelle localizzabili nel territorio
provinciale, alla provincia, quelle localizzabili nel territorio regionale, alla regione; le
funzioni relative agli interessi nazionali e quelle non localizzabili in aree territoriali
minori rispetto a quella statale, restano allo Stato. Peraltro le materie d'interesse
nazionale sono tassativamente elencate dalla legge stessa.
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In sostanza il principio di sussidiarietà funziona nella legge 59/1997 in questo modo:
al Comune vanno tutte le funzioni amministrative tranne quelle che non può svolgere
a causa delle proprie dimensioni o perché esulano dall'interesse locale; per gli
interessi di ambito provinciale le funzioni sono attribuite alla Provincia o, ratione
materie, se esiste, alla Comunità montana, tranne quelle che non possono essere
adeguatamente svolte in ambito provinciale; vanno riservate alla Regione per
l'ambito territoriale d’interesse regionale o, se esulino da questo o dalla effettive
possibilità gestionali delle amministrazioni regionali, allo Stato.
La legge 59 del 1997 elenca all'art. 1 commi 3, 4 e 5 le funzioni e le competenze
riconducibili alle materie elencate, riservate alla Stato. In queste materie il Governo
ha provveduto, attenendosi ai principi e criteri previsti della legge - delega, ad
individuare le funzioni e le competenze da mantenere in capo allo Stato e quelle da
trasferire alle Regioni ed agli enti locali.
Questo è stato fatto con i decreti delegati seguenti:
4 giugno 1997, n. 143 in materia di agricoltura e pesca
19 novembre 1997, n.422 in materia di trasporto pubblico locale
23 dicembre 1997, n.469 in materia di mercato del lavoro e collocamento
11 febbraio 1998, n. 32 in materia di distribuzione dei carburanti
31 marzo 1998, n. 114 sulla riforma del commercio
31 marzo 1998, n. 123 sugli interventi per il sostegno pubblico alle imprese
31 marzo 1998, n. 143 in materia di commercio con l'estero
31 marzo 1998, n. 112 in materia di generale conferimento di funzioni
amministrative alle Regioni e agli enti locali.
Il decreto 112 del 1998 è quello più ampio che ha chiuso la fase del trasferimento e
riparto di funzioni e compiti amministrativi prevista dall'art. 1 della legge 59/1997. E
i decreti n. 300 e 302 del 1999 hanno provveduto al riordino delle strutture centrali
e periferiche dello Stato assolutamente necessario al fine di attuare in modo efficace
il trasferimento, garantendo cioè lo svolgimento dei compiti trasferiti secondo i
criteri - guida dell'attività amministrativa. Infatti questa profonda trasformazione
della attività della p.a. non poteva che avere riflessi imponenti sulla dotazione
organica del personale statale e delle strutture. Infatti la stessa legge 59 sanciva
all'art.3, l° co, lett.e) che i decreti delegati dovessero prevedere le modalità e le
procedure, senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica, del trasferimento del
personale statale dipendente da amministrazioni soppresse o ridimensionate, presso le
Regioni e gli enti locali.
Quanto alle materie riservate alle Regioni e agli enti locali si è detto che spettano
loro tutte le funzioni amministrative che la legge non riserva allo Stato. Esse tuttavia
devono comunque essere individuate con decreti delegati. Il Governo ha svolto il
compito di ripartire le competenze amministrative tra Regioni ed enti locali, attuando
anche qui in modo molto ampio il principio di sussidiarietà tanto che il Comune è
diventato un'amministrazione a "competenza piena" poiché alle Regioni vengono
attribuiti soltanto i compiti che esulano dagli ambiti territoriali delle comunità locali.
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Né deve trarre in inganno la preponderante quantità di funzioni attribuita alle Regioni
perché leggendo i decreti delegati si vede bene come ad esse siano state attribuite per
lo più competenze attinenti alla fase programmatica dell'attività amministrativa nel
rispetto del ruolo tipico dell'Amministrazione regionale.
Le funzioni più direttamente gestionali restano invece tutte attribuite ai Comuni con
esclusione soltanto di quelle che sarebbero per essi di difficile o impossibile cura che
vengono attribuite alle Province.
Ulteriore importante attuazione dei principio di sussidiarietà è riscontrabile nel
meccanismo della subdelga di funzioni da parte delle Regioni in favore degli enti
locali, prevista dall'art.4 della legge 59/1997 per tutte la materie elencate dall’art.117
Cost. che non richiedano un intervento unitario a livello regionale; cosa che in
sostanza le Regioni avrebbero dovuto fare da tempo in attuazione dell’art. 118 Cost.
e delle previsioni contenute nella legge 142 del 1990 che all’art. 3 affida alle Regioni
il compito di organizzare l'esercizio delle funzioni amministrative a livello locale
attraverso i comuni e le province in base all'individuazione e allocazione territoriale
degli interessi locali.
Il riordino delle struttura, allora, si è reso necessario per la mole enorme di funzioni
che pian piano la Presidenza del Consiglio dei Ministri si era presa e per il proliferare
di piccoli ministeri con funzioni ed in materie marginali. Si è quindi attuata un'opera
di diradamento delle strutture della Presidenza del Consiglio dei Ministri anche (ma
non soltanto) in ragione delle funzioni trasferite a Regioni ed enti locali e si è ridotto
il numero dei ministeri esistenti.
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speciale) e la riforma della dirigenza pubblica (ridotta a due gradì: dirigente e
dirigente generale).
La legge 59/97 si pone appunto come completamento della riforma già intrapresa con
il decreto n.29/93 ed infatti la legge sancisce che il Governo in sede di decretazione
delegata dovrà conformare le disposizioni dei decreto 29 alla disciplina attuale dei
p.i. Il principale vincolo imposto al legislatore delegato è quello di conformarsi agli
artt. 97 e 98 Cost e ai criteri fissati dall'art.2 della legge 23 ottobre 1992, n.421 con
particolare riferimento al principio della separazione tra compiti e responsabilità di
direzione politica e compiti e responsabilità di direzione delle amministrazioni.
Il Governo ha esercitato la delega con il d.lgs.4 novembre 1997, n. 396 che ha
riformato il decreto 29 soprattutto in materia di contrattazione collettiva, di
rappresentatività sindacale nel settore del p.i. e di Agenzia per la rappresentanza
negoziale nelle pubbliche amministrazioni (ARAN).
Successivamente è stato emanato il d.1gs. 31 marzo 1998, n.80 modificato dal d.lgs.
29 ottobre 1998, n.387. Le finalità apportate dal decreto n. 80/98 sono:
trasformazione delle fonti pubblicistiche che regolano l'organizzazione degli
uffici sul modello delle fonti privatistiche che regolano il rapporto di lavoro con
particolare riferimento al trattamento economico;
valorizzazione del ruolo della contrattazione collettiva in particolare per il
trattamento retributivo e riaffermazione del principio derogabilità delle leggi, degli
statuti e regolamenti da parte delle norme contrattuali;
riformulazione dei principi sull'organizzazione dei pubblici uffici e attribuzione ai
dirigenti di un'ampia autonomia gestionale e dei poteri del datore di lavoro privato,
nonchè della responsabilità per il mancato conseguimento dei risultati di gestione
imposti dagli organi di governo;
riformulazione delle norme sul reclutamento del personale in relazione al
fabbisogno e alla variazione di dotazioni organiche e applicazione alle p.A. della
legislazione privatistica in materia di contratti di formazione e a tempo determinato;
riformulazione delle norme in tema di mutamento di mansioni e di passaggio dei
dipendenti per trasferimento di attività;
riorganizzazione della dirigenza statale (due fasce di dirigenza) e della disciplina
della responsabilità dirigenziale per inosservanza delle direttive;
costituzione in ogni singola amministrazione di codici di comportamento adeguati
alle varie categorie di personale;
devoluzione delle controversie al g.o. con la previsione di preventive procedure
di conciliazione.
Alcuni correttivi sono stati poi inseriti con l'approvazione del d.lgs. 29 ottobre 1998
n. 387 e del d. lgs. 29 settembre 1998, in materia di:
• accesso alla dirigenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici
economici che avviene per concorso: sono stabilite distinte procedure concorsuali a
seconda della provenienza e dei titoli posseduti dal candidato;
• formazione dei nuovi dirigenti. I vincitori del concorso per la dirigenza
partecipano a corsi di formazione annuale comprensivo di uno stage in Italia e
all'estero;
• durata degli incarichi dirigenziali che viene stabilita contrattualmente per
ciascun incarico con definizione dell'oggetto, degli obiettivi da conseguire e del
trattamento economico;
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• temporaneo servizio all'estero dei dipendenti pubblici presso amministrazioni
degli Stati membri UE e presso gli organismi della CE;
• nuovi requisiti per i pubblici concorsi a partire dal 1 gennaio 2000 nei bandi di
concorso è richiesta la conoscenza delle apparecchiature elettroniche, dei maggiori
sistemi informatici e di almeno 1 lingua straniera;
• riconoscimento di una maggiore autonomia alle P.A. diverse dallo Stato nella
quantificazione dei costi contrattuali e nell'autorizzazione di spesa per il rinnovo dei
contratti collettivi. Riconoscimento di un più ampio potere di verifica degli
andamenti di spesa da parte delle Corte dei Conti;
• competenze dei giudice ordinario che giudica anche su conferimento e revoca
degli incarichi dirigenziali e sulla responsabilità dirigenziale;
• conciliazione: vengono modificate le norme del c.p.c. precisando che il giudice
deve accertare che sia stato esperito il tentativo di conciliazione altrimenti deve
sospendere il giudizio e fissare il termine di 60 gg. per esperirlo.
Per quanto riguarda il controllo di gestione interno ed esterno previsto dall'art. 12
lett. Q) e 17, esso si riferisce al compito affidato alle amministrazioni statali di
coordinamento ed armonizzazione delle attività primarie esercitate dagli enti locali e
dalle Regioni e le innovazioni si sostanziano nell’introduzione di alcuni affinamenti
del sistema di valutazione dei risultati dell'attività amministrativa e del controllo di
gestione della p.A. Si sancisce l'istituzione di servizi di controllo interno e l'eventuale
intervento sostitutivo se questi non siano istituiti. La valutazione dei costi e dei
risultati è stata introdotta dal decreto 29/93 che ha disposto per la dirigenza una
responsabilità in via esclusiva per l'attività amministrativa, per la gestione e per i
risultati ed ha disposto che gli organi di direzione politica ne verifichino la
rispondenza attraverso nuclei interni di valutazione. Ma queste previsioni non hanno
sortito alcun effetto positivo per questo la Bassanini 1 ha delegato al Governo la
previsione del potenziamento degli strumenti di controllo anche esterno cioè quello
esercitato da appositi organismi su intere amministrazioni e sui risultati da esse
conseguiti. Ovviamente anche in questo caso il legislatore ha indicato al Governo i
criteri direttivi per l'esercizio della delega.
Per quanto riguarda l'ultimo punto del decreto 80/1998 cioè il passaggio dei
contenzioso, in materia di pubblico impiego al G.O. l'art.11 lett, g) della 1.59/97
ha fissato al 30 giugno 1998 il passaggio della giurisdizione. Il G.A. così perde un
caso di giurisdizione esclusiva (diritti e interessi) acquisendo in compenso in altre
materie già di giurisdizione esclusiva (edilizia, urbanistica, servizi pubblici e appalti)
ulteriori questioni e cioè quelle patrimoniali conseguenziali all'annullamento degli
atti amministrativi che erano di pertinenza del G.O. (risarcimento del danno). Ciò al
fine (del tutto apprezzabile) di evitare al cittadino defatiganti procedure che lo
costringevano a passare per il duplice canale processuale del G.A per ottenere
l'annullamento e del G.O. per il risarcimento (v. ora d. lgs. n. 80 del 31.3.1998 e
legge n. 205 del 2000).
48
Il G.O, giudica di tutte le controversie in materia di rapporti di lavoro alle dipendenze
della p.A, incluse quelle che riguardano le assunzioni, il conferimento e la revoca
degli incarichi dirigenziali, la responsabilità dirigenziale, l'indennità di fine rapporto.
Al G.A. rimane soltanto la competenza in materia di procedure concorsuali per
l'assunzione: le controversie sul bando di concorso, sull'illegittimità di un'esclusione,
sulla formazione della graduatoria o la valutazione dei titoli restano al G.A. Se invece
le controversie sorgono a rapporto già costituito vanno tutte al G.O.
I poteri del G.O.: può conoscere di atti amministrativi e, per dirimere la
controversia, può disapplicarli se illegittimi, può adottare nei confronti delle pA
provvedimenti di accertamento, condanna necessari alla tutela della posizione dedotta
in giudizio. Tra l'altro è stato chiarito che le sentenze che riconoscono il diritto
all'assunzione o che accertano che l'assunzione è avvenuta in violazione di norme
hanno effetto costitutivo o estintivo del rapporto di lavoro. Quindi il G.O. può
condannare la p.A ad un facere.
Il G.O. conosce anche delle controversie relative a comportamenti antisindacali della
p.A (art.28 statuto dei lavoratori) e delle controversie promosse dall'ARAN o dai
sindacati o dalle p.A. relative alle procedure di contrattazione collettiva.
Il problema fondamentale di questa devoluzione al G. O. è che nel processo civile
non esiste il giudizio di ottemperanza come in quello amministrativo. Quindi il
lavoratore che ha diritto all'assunzione ma che non viene assunto dovrà accontentarsi
del risarcimento del danno.
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