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Matteo Mariotti 1ªA Liceo Classico ITSOS Marie Curie, “Vita per vite”.

La neve negli occhi non mi permette di vedere granché Scavo, scavo, so solo che devo scavare per di
qua. Il freddo penetra perfino all'interno degli spessi guanti che dovrebbero avere il compito di coprirmi
le mani. Il vento soffia quasi piacevolmente, non che io lo senta così tanto nel fosso in cui mi trovo. Ma
continuo imperterrito a spostare neve. Il ghiaccio ricopre ormai totalmente quello stemma rotondo e
giallo sul mio petto, con la sua croce bianca contornata di rosso. Ormai sono un'unica cosa con la neve,
una macchina che non smette di scavare, non ho intenzione di smettere, non smetto fino a quando non
avrò finito qui. Quando ci chiamarono per intervenire, pensammo al peggio. Porto ancora sulla giacca,
orgoglioso, il macabro ricordo di quel lontano sei aprile, una striscia blu con la bandiera della nostra
patria al centro, e dentro essa una spilla d'oro. Io ero lì e vidi le case cadere come i fiocchi di neve in
questa altrettanto triste giornata; per questo l'idea di un'altra emergenza in seguito ad una scossa
turbava tanto me e i miei compagni. Siamo come soldati in guerra, ma al posto di uccidere persone, le
salviamo, sfidando la morte e la natura. E intanto continuo a scavare, non posso smettere. Speranza, è la
speranza che ci spinge ad andare avanti in questa impresa oramai impossibile. Sono passati sei giorni; sei
giorni in cui, tutte le mattine appena sveglio, il mio primo pensiero è stato "Devo muovermi, lì sotto
qualcun altro mi starà aspettando". Sei giorni durissimi in cui nella mia testa, al posto della mia famiglia,
a casa che mi aspetta, ho pensato continuamente a cosa quelle persone stessero pensando, ricoperte da
metri e metri di macerie e neve. Sempre che abbiano ancora un pensiero. Oggi hanno estratto il
sedicesimo cadavere. Una lista infinita che continua ad aggiornarsi, purtroppo. A mensa, quando ci
riuniamo per mangiare, c'è silenzio. Nessuno ha il coraggio di parlare, è l'unico momento di pace, prima
che i pensieri, su coloro che aspettano il nostro aiuto, ritornino. E vediamo in mezzo alle tende
trasparenti passare sulle barelle tante persone, non ci resta che pregare. Ero ateo, prima. Poi otto anni
fa, a Colle Miruci, mi ritrovai a dover tirar fuori un pastore intrappolato tra due assi di legno. "È credente
lei?" fece lui. Risposi di no, freddamente, ero concentrato a spostare quelle macerie che lo avrebbero
lentamente ucciso. "Beh farebbe meglio a pregare, in un mondo di tali disgrazie". Disse questo, e poi il
suo cuore smise di battere. Pensai molto alle sue parole nel tempo. Nel giro di un anno e qualche mese,
quando le mie mani non servivano più lì a Roio e l'onorificenza blu già decorava la mia giacca, iniziai a
frequentare spesso la chiesa. Prego, prego e scavo. I miei compagni hanno iniziato a scavare ai lati
dell'hotel. Dovrò spostarmi anche io, la neve finisce e iniziano le macerie qui. Secondo gli esperti, con
delle modeste sacche di aria, i superstiti possono stare lì sotto per quattro giorni. Oggi è il sesto e
qualcosa in noi ci spinge a scavare lo stesso. Cinque metri più a Sud dicevano di sentire delle voci. Mi
ricorda ancora quella chiamata di otto anni fa. Chiamata in servizio si intende, ovviamente. Era la
giornata successiva alla Grande Scossa (così la chiamavano i contadini locali) e io, con altri tre o quattro
della mia squadra, ero incaricato di liberare una coppia di sposini da una casa crollata vicina al centro
storico della città. Tutto era in rovina e il paesaggio era apocalittico. Mentre calavo il mio compagno
nella casa, dove il pavimento era sceso di almeno quattro metri, ci fu un'altra scossa. Quei fragili muri
che per miracolo sostenevano quella casa crollarono, seppellendo sotto tonnellate di cemento quei due
giovani innamorati. Il soccorritore che io stesso feci scendere se la cavò con qualche osso rotto. Ricordo
benissimo l'immagine di lui che recita il salmo, mentre un medico gli pulisce le ferite e io gli stringo la
mano. "Siamo come soldati." disse l'infermiere. Torno al presente con la testa, il vento impregnato di
neve mi fa lacrimare gli occhi. Era quasi piacevole, fino a qualche ora fa. Due dei volontari che erano qui
con noi, verso mezzogiorno sono partiti per andare a soccorrere uno sciatore a ovest in elicottero;
ancora non sono tornati e non si hanno notizie di loro. Qui non c'è tempo di fare ipotesi pessimistiche,
dobbiamo scavare. È per la speranza che continuiamo no? Magari a quell'elicottero si sono solo guastate
le comunicazioni, o magari è la neve che impedisce alle radio di funzionare. Saltano in mente i ricordi di
quel secco giorno di agosto, ad Alba Adriatica; ero a casa da solo e alla radio suonavano dei pezzi anni
'90 davvero da brivido. Decisi di fare un pisolino, era un pomeriggio tranquillissimo, spensi la radio; ma
mentre mi sedevo di nuovo sul comodo divano, l'occhio cadde sul cassetto della scrivania. "Ma sì, uno
sguardo lì dentro non farà male!" Pensai. Quel cassetto rimaneva chiuso dai tempi della Grande Scossa.
Tirai fuori un contenitore e da esso estrassi un giornale. "L'Aquila distrutta dal terremoto, centinaia di
vittime, settantamila sfollati." Recitava l'edizione del sei aprile 2009 del giornale "Il Centro" in copertina.
“È arrivato a tradimento, in piena notte, spietato e terrificante. Ha ridotto in macerie case, palazzi e
chiese, ha lesionato ospedali, caserme, università e si è scatenato con violenza contro migliaia di
persone inermi, che dormivano." Leggere queste parole faceva male, affiancate ai nomi di troppe
persone. E mentre la mia mente si riempie delle parole che i giornalisti apportarono accuratamente,
qualcosa tocca le mie mani gelide che scavano e scavano. Ancora un po' di tempo assortito nei miei
pensieri e non me ne sarei accorto. Una mano, viola, spunta tra due blocchi di cemento. Faccio un balzo
all'indietro e grido ai medici di correre. Mentre accorrono gli altri, rimango immobile a guardare. È
morto, chiunque lui fosse stato in vita, ora non conta più. Magari era un macellaio, o magari era un
cartolaio. Chissà se aveva dei figli, una famiglia, una moglie ad aspettarlo a casa... Che ci faceva in questo
hotel? Una rilassante vacanza in queste maledette terre o magari era qui per le famose "Spa del
Rigopiano". Per queste era celebre nella zona l'albergo. La prima volta che scorsi un cadavere tra le
macerie rimasi immobile per minuti. Era una donna, residente vicino nella via principale, della quale
rimane ben poco lì in centro, appena spostai quel masso e vidi il suo volto squarciato rimasi pietrificato
dal terrore. A risvegliarmi furono i pianti del suo bambino. Era lì sotto con lei e non esitai un attimo
prima di tirarlo fuori. Fu un'operazione molto stressante, ma quel ragazzino riuscì ad uscire e se la cavò.
Ho ancora in mente la sua risata quando andai a trovarlo tre mesi dopo all'ospedale in cui stava. Ci
motiva questo. Ero stato chiamato subito dopo la catastrofe, pareva davvero tutto distrutto. Le case che
rimanevano ancora su perdevano macigni pesantissimi. Il tempo si era fermato al momento della
Grande Scossa: ogni cosa era stata abbandonata. Valigie per le strade, dei fortunati che erano riusciti a
mettere via qualcosa, le vetrine mostravano polverosi scaffali, vuoti; gli sciacalli avevano già
saccheggiato tutto. L'enorme chiesa al centro della città era crollata, le sue macerie arrivavano fino alle
case di fronte. Mi sembrava di essere l'unico a respirare nel raggio di chilometri. C’era vento, soffiava e
mi riempiva di polvere gli occhi. Respiravo quello che un tempo qui abitavano. L'unico ordine che avevo
era di cercare qualcuno. Ma diamine lì era tutto a pezzi, non sapevo da dove iniziare! Mi recai al primo
edificio più vicino a me. Era nell'area quello che di meno aveva subito danni. Un'enorme università. Mi
bastò avvicinarmi di poco per sentire le grida di almeno un centinaio di persone intrappolate lì dentro da
ore. Da un'apertura tra due tubi di metallo intravidi la sagoma di una ragazza. Alta, capelli lunghi e
lucenti. Pareva tranquilla, come se nulla stesse accadendo. Mi guardò anche lei e attraverso la poca luce
che riusciva ad entrare identificai due occhi molto chiari. Afferrai frettolosamente la radiolina, ma cadde
rompendosi. Cominciai a correre per quelle strade deserte mentre nell'aria la polvere mi impediva di
vedere. Cercavo qualcuno a cui chiedere aiuto, quelle persone necessitavano soccorsi. Ci fu una nuova
scossa. Ancora adesso continuo a pensare alla sguardo di quella. Appena i soccorsi arrivarono tirano
fuori gran parte dei ragazzi dall'università. Tra le numerose barelle nel triage, vidi moltissimi volti, ma
non trovai la ragazza. La estrassero due ore dopo, era salva e io ero davvero soddisfatto del mio
intervento immediato. Spero di riuscire nel mio attuale intento. Arriva notizia dei nostri due compagni
sull'elicottero del quale non si sa più nulla; a quanto sembrerebbe dire il capo il loro velivolo si è
schiantato nell'operazione di soccorso per la quale li avevano chiamati. Erano in sei a bordo, cinque
soccorritori e l'uomo che si era infortunato sciando. Una vera tragedia, questa terra è maledetta,
continuerò a dirlo. Sarebbero potuti restare qui con noi, al sicuro, avevano già lavorato abbastanza per
l'hotel, ma appena hanno sentito che qualcun altro necessitava del loro aiuto, non hanno esitato a
mettere a rischio le loro vite. Sta qui l'intelligenza del fare, nell'agire seguendo i propri obbiettivi, per
una motivazione. Ciò che ci spinge sono le persone in pericolo, salviamo vite e sicuramente non lo
facciamo solo per un misero stipendio. Nulla è più gratificante di vedere i sorrisi delle persone che
riabbracciano i propri familiari dati per dispersi, grazie a noi. Nulla è più gratificante di sapere, dopo
qualche anno, che il ragazzino che avevi tirato fuori da una scuola crollata è vivo e sorride ogni giorno. Ci
sono le delusioni? Sì, capita di non farcela, spesso non riusciamo a fare quello che vorremmo. Ma
rimaniamo comunque soddisfatti di noi, che ci abbiamo provato, che ce l'abbiamo messa tutta. A mia
moglie non piaceva per nulla il mio lavoro. Diceva sempre "la tua vita è per me e per i nostri figli, non
per gli altri!" E io non l'ho mai ascoltata perché dietro le persone che aiuto tutti i giorni ci sono
altrettante famiglie. Litigavamo spesso su questa cosa, ma lei non è mai riuscita a battere la mia
testardaggine. Il mio figlioletto, il più piccolo dei due, a differenza della madre, mi reputa un eroe. È una
cosa stupenda per me, tra noi c'è un rapporto stupendo e amo passare i pochi fine settimana liberi che
ho alle sue partite di calcio. Tempo fa andai alla sua scuola per parlare davanti a tutti i ragazzi di un
progetto che aveva a che fare con il pronto soccorso. Lui disse fiero a tutti i suoi compagni che quello
che intratteneva il discorso era suo papà, un supereroe. Mio figlio non ama il posto in cui abita; è un
piccolo paesino e i pochi suoi coetanei hanno una mentalità molto più chiusa e infantile della sua. Ogni
volta che facciamo delle belle gite famigliari, è più entusiasta di tutti noi, il suo sogno è viaggiare e
vedere il mondo e ho intenzione di far di tutto affinché si avveri. Un po' mi rispecchio in lui, anche io
desideravo visitare realtà diverse dalla mia, quando ero piccolo, ma poi ho seguito un'altra strada. Non
rifiuto comunque mai una passeggiata in qualche litorale qui in Abruzzo. Devo dire di aver notato un
cambiamento in queste spiagge dopo la Grande Scossa. Le persone sono significativamente diminuite,
nonostante la bellezza di molte coste suggestive, il terremoto ha lasciato una crepa nei ricordi di tutti
quanti coloro che, direttamente o indirettamente, l'hanno vissuto. Anche in me è cambiato molto. Tutte
le volte che vedo quell'orologio da tasca bloccato da quasi otto anni sulla stessa ora, il mio viso si
incupisce e in testa mi tornano un sacco di scene terribili di quei giorni. Per circa due o tre mesi dopo la
catastrofe, passai praticamente soltanto notti insonni. Sempre la stessa storia, mi mettevo nel letto (o
nella brandina, dipendeva da dove mi trovavo) e appena prendevo sonno mi tornava in mente il
medesimo incubo; vedevo la ragazza dentro l'edificio in centro, che mi guardava e chiedeva aiuto
immobile, senza chiudere le palpebre, e io non potevo far nulla. Mi svegliavo tutto sudato e da lì non
riprendevo più a dormire. Mia moglie era molto preoccupata per il mio stato mentale, ma io ero
assolutamente consapevole di star bene, lo dicevano sempre in caserma, affrontiamo tutti i giorni
situazioni shoccanti, subire effetti collaterali è normale. Devo rimettermi a scavare nella neve, anche se
ormai danno tutti i dispersi per morti. Come me altre migliaia di persone rischiano propria vita per quelle
altrui, tutti i giorni. Sono passati quasi otto anni dalla Grande Scossa che, nell'aprile di quella così cupa
stagione, riempí il paesaggio dell'Aquila di polvere, uní gli animi di persone, provenienti da tutta la
nazione, che vollero intervenire e ancora conservano nella memoria i volti di coloro che
miracolosamente si salvarono.

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