Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Abbiamo ormai appreso che in molti casi il “povero” è prima di tutto un escluso dalla
società e che la sua povertà economica lo rende ancora più escluso. Non possiamo altresì
dimenticare che la distruzione della cultura di un gruppo, di una popolazione, di una
nazione può sicuramente essere annoverata tra le concause della povertà, in quanto
distrugge l’identità degli appartenenti alle diverse comunità. Certo, nemmeno la
disoccupazione può essere dimenticata, o la discriminazione di razza, cultura, genere, che
spesso si intrecciano all’esclusione. Povertà è anche essere impossibilitati da cause esterne
o sentirsi incapaci di partecipare alla vita sociale, politica ed economica di una città, di una
regione, di una nazione1.
Nell’ambito di un’analisi di quali strumenti vadano utilizzati per eliminare o quanto meno
ridurre il più possibile la povertà, bisogna dunque tenere ben presente che le povertà sono
tra loro eterogenee e differenti; che il concetto di povertà e la sua realtà è complesso, sia
dal punto di vista individuale sia da quello dell’ambiente sociale all’interno del quale essa
si presenta; che le caratteristiche storico-culturali delle persone povere sono differenti tra
loro, in differenti contesti sociali, ambientali, nazionali, regionali, continentali e così via. La
povertà è difficilmente riducibile agli indicatori che la misurano il che non vuol dire che
non siano necessari, ma che per affrontare il problema le politiche di lotta alla povertà
dovranno invece essere calate nelle realtà locali.
Vi sono approcci diversi per poter combattere la povertà. Un primo, “istintivo”, è quello
dell’alleviamento immediato, che consiste nel provvedere alle necessità minime per la
sopravvivenza di coloro che sono impossibilitati a garantirsele. Ciò è sicuramente utile e
necessario nelle situazioni d’emergenza, ma non può essere sufficiente. In primo luogo
bisogna riflettere sul fatto che interventi di questo tipo non fanno che perpetuare la
situazione di mancanza di dignità: che speranze, che forza può risvegliare un’azione che si
limita a garantire momentaneamente la sopravvivenza di qualcuno, che non crea
prospettive, che non dipinge scenari futuri, che una volta terminata lascia di nuovo in
balia della situazione precedente?
Un’altra via è quella di sostenere l’importanza di politiche e azioni specifiche che mirino a
rendere i poveri stessi capaci di garantirsi una dignitosa qualità della vita, di sferrare loro
stessi un attacco vincente contro la loro situazione. Gli interventi più fruttuosi sono infatti
quelli che coinvolgono le persone stesse nel proprio sviluppo, quelli che rendono gli
“aiutati” protagonisti dello delle loro vite, dei loro quartieri, città, paesi. È fondamentale
1
Non andrebbe dimenticata, inoltre, la dimensione spirituale della povertà: quanta della povertà
presente sul pianeta è collegata all’innegabile impoverimento spirituale delle vite delle singole persone?
Quanto conta il fatto che la vita di ogni singolo essere umano non sia considerata preziosa, unica,
ricolma di dignità? Quanto conta, nelle incredibili disparità della qualità della vita degli esseri umani, il
fatto che spesso la ricchezza materiale è l’unico valore per cui spendere la propria vita? Le
caratteristiche salienti di un essere umano, la capacità di intrattenere relazioni interpersonali, di avere
una vita sociale, di far propri quelli che potremmo chiamare valori morali, o virtù (onestà, tolleranza,
altruismo, cooperazione) sono sempre più rare e forse la loro assenza ha qualcosa a che vedere con un
mondo tutt’altro che equo e solidale, dove la dimensione della povertà, nel suo significato
multidimensionale, è purtroppo sperimentata da milioni di esseri umani.
rendere i più poveri capaci di partecipare ai diversi livelli della vita sociale, economica,
politica. In questo senso il ruolo delle associazioni della società civile, in tutte le loro
variegate tipologie, è fondamentale.
Nella prospettiva della lotta alla povertà vi sono alcuni punti che non vanno dimenticati:
il problema della discriminazione delle donne è una delle questioni centrali poiché la
discriminazione del genere femminile equivale a limitare la loro partecipazione al
processo di sviluppo e priva la società delle loro capacità e abilità. Ciò si traduce in un
rallentamento sia dello sviluppo sia della diminuzione della povertà.
ogni tentativo di creare un processo di sviluppo accelerato che perpetua situazioni di
povertà è negativo: lo sviluppo può anche essere minimo e lento, purché non danneggi i
poveri.
le politiche macroeconomiche non devono contraddire le politiche locali fatte a favore dei
poveri.
le differenze culturali tra le varie aree del pianeta vanno valorizzate, non annullate.
il pieno impiego lavorativo deve essere un fine strettamente legato alle politiche di
sviluppo. Nuove riflessioni sulle problematiche del lavoro vanno incoraggiate, perché
ogni persona deve poter lavorare in modo sicuro e dignitoso.
uno sviluppo che danneggi l’ambiente e l’ecosistema è inaccettabile oltre che distruttivo.
La povertà non può essere una scusa per non affrontare le problematiche legate
all’inquinamento.
non si possono raggiungere obiettivi di portata pari a quelli impliciti nella lotta alla
povertà senza le necessarie basi etiche. L’educazione etica delle persone è la base per uno
sviluppo realmente sostenibile, realmente umano.
Come accennato, le azioni vanno adeguate alle differenti situazioni ed aree. In ogni area
possono essere individuate alcune priorità, che sono incluse nelle raccomandazioni
internazionali (in particolare quelle della conferenza di Vienna) dove la lotta per i Diritti
Umani è messa in cima alle priorità dei governi e della società civile. Qui si sottolinea
inoltre l’importanza che ogni paese produca propri rapporti e valutazioni sulla situazione
della sua area perché solo incrementando la consapevolezza di ogni governo e della
società civile di ogni nazione si può sperare di fare ulteriori passi avanti nella lotta contro
le povertà. Nei paesi i cui governi rifiutano questo ruolo vanno incoraggiate e sostenute le
organizzazione della società civile.
È necessario continuare a tenere presente, che, per quanto la scena internazionale stia
mutando, la responsabilità della costruzione di uno sviluppo sostenibile è dei governi.
Sono gli stati che devono in primo luogo garantire che lo sviluppo sia per i poveri e non
sulle loro spalle, che sia accompagnato dall’affermazione dei Diritti Umani e sia sostenibile
dal punto di vista ambientale. Sta ai governi assicurare che tali questioni rientrino
prepotentemente nelle decisioni riguardanti la politica economica e che sia garantito un
dibattito pubblico trasparente in modo che la società civile sia in grado di entrare nelle
decisioni politico-economiche.
In quest’ottica i governi devono rivedere la loro legislazione e confrontarla con i
provvedimenti, le convenzioni, le esigenze che emergono dalle agenzie internazionali, al
fine di essere al passo con le esigenze fondamentali di questi anni. I diritti delle donne, il
loro ruolo, così come quelli dei bambini, non possono essere dimenticati se si parla di lotta
alla povertà e sviluppo. Un primo passo è spingere gli stati a ratificare le Convenzioni
relative ai diritti umani e poi verificarne l’applicazione. Esistono ancora stati che non
hanno né firmato, né ratificato, alcune convenzioni ONU; mentre moltissimi paesi che le
hanno ratificate, in realtà non le stanno applicando.
Nel 1996 l’UNDP ha lanciato il programma PSI (Poverty Strategies Iniziative), nato per
sostenere gli stati nell’analisi della povertà e per incrementare le strategie di riduzione
della povertà. Il programma ha due finalità: istituire fondazioni tecnico-politiche per
promuovere l’azione politica; mobilitare attori locali per ampliare il discorso pubblico
sulla povertà. Il PSI ha avuto il merito di incrementare progetti locali indirizzati a
particolari categorie di soggetti vulnerabili alla povertà, come le donne, i bambini di
strada, i malati di AIDS e i sieropositivi. Questi approcci innovativi hanno mostrato sia la
connessione tra povertà e isolamento, che la realtà dei processi di impoverimento
improvvisi.
Nei programmi PSI si prevede il coinvolgimento delle ONG, della stampa e delle
istituzioni educative ma anche il monitoraggio dell’impatto economico delle
multinazionali presenti nei paesi poveri. Infine, questi programmi stimolano studi
quantitativi in grado di suggerire come rendere disponibili risorse per la lotta alla povertà
e il miglioramento della qualità della vita.
Oltre ai programmi e agli interventi dell’ONU, hanno un impatto positivo sulla lotta alla
povertà le organizzazioni costituite dai poveri per i poveri. Infatti, chi può cambiare una
situazione di profondo disagio meglio di chi la vive? In questo senso le organizzazioni di
microcredito che sono nate in molti paesi in via di sviluppo sul modello di Grameen, di cui
parliamo piu’ diffusamente altrove, sono emblematiche. Prendersi la responsabilità di
cambiare la propria vita, la propria realtà, venendo contemporaneamente protetti il più
possibile dalla voracità e anche dalla illegalità che a volte caratterizzano il cosiddetto
libero mercato, è un ottimo modo di affrontare il problema povertà e ha, tra le sue
conseguenze, quella di rendere i cittadini più poveri parte attiva e consapevole dello
sviluppo umano della propria nazione.
In alcuni casi lo stato investe in attività coinvolgendo comunità locali o organizzazioni di
contadini. Questi programmi di coinvestimento sono usati per realizzare attività di lungo
termine, come il miglioramento e la conservazione del suolo agricolo, la creazione di
infrastrutture per l’irrigazione delle terre, il livellamento di terreni da riabilitare al pascolo
o per opere di riforestazione. Programmi di questo tipo sono stati avviati, per esempio, dai
governi del Nepal, del Butan e dell’Indonesia, coinvolgendo gli abitanti dei villaggi
interessati in modo da farli contribuire, con percentuali complessivamente importanti, al
valore dell’investimento. La chiave del successo di questi sistemi è il fatto che i contadini
detengono il controllo e la responsabilità, nella gestione delle loro risorse, e che gli
investimenti provenienti dallo stato catalizzano la mobilità di risorse addizionali
provenienti dagli stessi contadini.
Nei settori energetici molti paesi hanno un regolamento ambientale che non promuove
l’adozione di tecnologie innovative. Devono essere così pianificate politiche per
incrementare l’accesso a forniture di energie per i popoli poveri, con incentivi offerti ai
privati per fare uso di migliori alternative tecnologiche. In molti dei casi dove i sistemi di
diffusione dell’elettricità nelle campagne sono a basso costo queste politiche possono
favorire i benefici e lo sviluppo dei poveri. Analogamente, molti problemi possono essere
risolti con iniziative locali o istituzioni di autogoverno per pianificare la distribuzione di
energia a cooperative locali. Migliorare la salute dei poveri e ridurre il degrado
ambientale, rinnovare il sistema sanitario, evitare trattamenti chimici delle acque, sono
requisiti essenziali. Innovazioni tecnologiche e cambiamenti delle regole potrebbero
migliorare il riciclaggio degli scarichi biologici per il riutilizzo nell’agricoltura urbana e
rurale. La bonifica ecologica previene epidemie, conserva e protegge le risorse idriche e
indirizza verso la salvaguardia ambientale. Alcuni macro-investimenti ambientali, come la
protezione delle acque e delle riserve naturali, vanno solo parzialmente a beneficio delle
comunità locali povere. Molte di queste attività sono “laboratori intensivi” e sono offerte
come opportunità per le organizzazioni che operano in settori pubblici o privati al fine di
provvedere al pagamento del lavoro dei poveri. Il miglioramento su larga scala delle
opportunità di lavoro con progetti come la protezione delle risorse idriche o programmi di
lavoro temporaneo sono esempi di compensazione economica che includono sistemi di
risarcimento per pagare le fattorie locali, per il controllo degli incendi agricoli, così come
per la riduzione dell’emissione di anidride solforosa nell’aria e, infine, per migliorare il
sistema dei diritti. Le compagnie municipali dell’acqua sono capaci di ridurre i costi di
approvvigionamento idrico con forme di pagamento alle aziende agricole che adottano
sistemi di conservazione delle acque. Le autorità municipali possono anche investire in
progetti per la manutenzione degli impianti di riserva e distribuzione dell’acqua delle aree
urbane.
Le popolazioni che vivono nelle aree rurali povere possono trarre grande beneficio da
finanziamenti e sussidi per interventi di elettrificazione, di costruzione di strade e di canali
di irrigazione. Riforme locali che permettono ai poveri di vivere nelle zone dove lavorano
possono ridurre l’inquinamento e i costi di trasporto.
Molti incidenti, incendi e problemi di salute dovuti al sovraffollamento possono essere
affrontati dai governi che investono nel miglioramento delle condizioni abitative. Alcuni
governi locali hanno conseguito una riduzione della povertà investendo risorse nella
fornitura di acqua potabile, nella regolamentazione della raccolta dei rifiuti, nella bonifica
del territorio o in generale con piani di risanamento ambientale. È il caso di città come Ilo,
in Perù, Manizzales in Colombia e Porto Alegre in Brasile.
In molti casi le azioni di stimolo allo sviluppo di particolari aree di povertà sono venute
dall’impegno di numerose ONG che promuovono specifiche iniziative a livello locale.
Gli obiettivi per lo sviluppo internazionale nel XXI secolo (Strategy 21 goals)
La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, adottata nel 1948, nell’Art. 23, stabilisce
che:
- ogni persona ha diritto al lavoro, alla libera scelta del lavoro, a giuste e favorevoli
condizioni di lavoro e alla protezione contro la disoccupazione;
- ogni persona, senza alcuna discriminazione, ha diritto ad un eguale salario per uno
stesso tipo di lavoro;
- ogni persona che lavora ha il diritto ad una remunerazione giusta che possa assicurare a
sè stesso e alla sua famiglia un’esistenza dignitosa, integrata se necessario da mezzi di
protezione sociale;
- ogni persona ha il diritto di dar vita ad organizzazioni sindacali e di affiliarsi ad
organizzazioni sindacali per la protezione dei suoi interessi.
La Costituzione Italiana
La Costituzione Italiana negli artt. 35-38 tutela il diritto al lavoro. Questo implica la tutela
del diritto alla formazione continua e alla crescita professionale dei lavoratori.
L’art. 36 stabilisce inoltre il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e
qualità del lavoro svolto, mentre l’art. 37 sancisce i diritti della donna lavoratrice.
Quest’ultima oltre ad avere gli stessi diritti dell’uomo ha anche il diritto ad avere
condizioni di lavoro che le permettano di assolvere alle sue funzioni familiari e ai suoi
compiti di madre.
Ai lavoratori devono inoltre essere assicurati mezzi di sostentamento adeguati anche in
caso di infortunio, malattia, invalidità e disoccupazione involontaria. Anche il diritto alle
ferie e al riposo settimanale vengono tutelati dall’art. 36.
Infine l’art. 35 favorisce gli accordi e le organizzazioni sindacali intesi ad affermare e
regolare i diritti del lavoro.
A livello internazionale i diritti dei lavoratori vengono tutelati dall’ International Labour
Organisation (ILO). L’ILO è stata fondata nel 1920 e conta attualmente 175 paesi membri.
L’ILO ha promosso varie convenzioni per la tutela dei diritti dei lavoratori nel corso del
XX secolo, otto delle quali sono considerate dallo stesso ILO carte fondamentali per la
tutela del lavoratore.
Si possono suddividere nelle quattro seguenti aree tematiche.
Libertà di Associazione
La convenzione n. 87 del 1948 sulla Libertà di Associazione e sulla Tutela del Diritto di
Organizzazione sancisce il diritto dei lavoratori di costituire associazioni di lavoratori con
un proprio statuto che la pubblica autorità non può sciogliere.
Nel 1949 la Convenzione n. 98 sul Diritto dei Lavoratori ad Organizzarsi Collettivamente e
sul Diritto alla Contrattazione Collettiva ampliò il campo di tutela della precedente
convenzione arrivando a vietare al datore di lavoro di discriminare il lavoratore
impegnato in attività sindacali.
Uguaglianza
La Convenzione n. 100 del 1951 stabilisce il diritto ad un’eguale remunerazione per i
lavoratori e le lavoratrici a fronte di prestazione di eguale lavoro. Questa convenzione
vuole eliminare ogni forma di discriminazione basata sul sesso e legare il concetto di
retribuzione unicamente ad un giudizio obbiettivo sul lavoro prestato.
La Convenzione n. 111 sulla Discriminazione sul Lavoro del 1958 sancisce il divieto a
discriminare il lavoratore oltre che in base al sesso anche alla razza, al credo religioso,
all’opinione politica, all’estrazione sociale o alla nazionalità.
La Convenzione n.138 sull’età minima per l’accesso al lavoro del 1973 fissò a 15 anni l’età
minima per l’accesso al lavoro, tranne che per paesi in particolari condizioni sviluppo
dove l’età minima venne fissata a 14 anni.
Nel recente 1999 tale convenzione fu integrata dalla Convenzione n. 182 sull’Abolizione e
l’Immediato Intervento per l’Eliminazione delle Peggiori Forme di Lavoro Minorile.
Per lavoro minorile viene inteso ogni lavoro svolto da persone al di sotto dei 18 anni. Le
drammatiche forme di lavoro di cui si richiede l’immediata abolizione sono:
tutte le forme di lavoro in schiavitù,
la vendita e il traffico d minori,
il lavoro coatto o forzato, incluso il reclutamento coatto di minori durante i conflitti armati;
lo sfruttamento di minori per la prostituzione o per la pornografia;
lo sfruttamento dei minori per il traffico e/o lo spaccio di droga;
qualsiasi lavoro svolto in circostanze che possano risultare dannose per la salute, la
sicurezza e la morale dei minori.
I paesi che hanno ratificato queste convenzioni si sono impegnati ad attuare a livello
normativo e legislativo gli impegni presi entro un anno dalla ratifica della convenzione.
Nel 1995 in occasione del settantacinquesimo anniversario della fondazione dell’ILO è
stata lanciata dall’ILO una campagna mondiale per la ratifica di queste otto convenzioni.
Questa campagna ha portato alla registrazione di 70 ratifiche e conferme.
Abbiamo visto che in Italia i diritti di chi lavora sono riconosciuti nella Costituzione. Per
quanto riguarda la salute e la sicurezza dei lavoratori, sono tutelate in vario modo
dall’ordinamento giuridico. Il principale fondamento di questa tutela è rappresentato
dall’art. 2087 del codice civile, dove si stabilisce che “l’imprenditore è tenuto ad adottare
nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e
la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori
di lavoro”.
In questa norma vengono sanciti sia il diritto del lavoratore a svolgere la prestazione in un
ambiente di lavoro senza pericoli per il suo stato psicofisico, sia il dovere del datore di
lavoro di applicare non solo le norme antinfortunistiche di carattere pubblico, ma anche
ogni altra misura di prevenzione (ancorché non imposta da leggi specifiche) resa possibile
dalla tecnologia, ovvero suggeritagli dalla sua esperienza professionale.
Sul piano pratico questa norma è stata utilizzata sul piano giudiziale nei casi d’infortunio,
ma non è servita a pretendere l’applicazione preventiva di misure di sicurezza.
Negli ultimi anni l’elemento di novità nella difesa del diritto alla salute dei lavoratori è
stato il Decreto Legislativo 19.9.1994, n. 626 che ha fornito un approccio globale a queste
tematiche, sviluppando il tema della prevenzione. Questa norma si applica a tutti i settori
di attività privati e pubblici, comprese le aziende con meno di 15 dipendenti.
Il Decreto 626 impegna il Consiglio dei Ministri alla emanazione di venti decreti
applicativi i più importanti dei quali riguardano:
criteri per la prevenzione degli incendi;
le caratteristiche minime di pronto soccorso;
le attività lavorative con rischi elevati;
la raccolta dei dati e la loro elaborazione sui rischi e i danni da malattie professionali;
le verifiche sulle attrezzature di lavoro;
il controllo e la raccolta dei dati sugli agenti cancerogeni.
La tutela legislativa del diritto alla salute e alla sicurezza si rende necessaria perché
fenomeni quali le malattie professionali e le morti sul lavoro sono dati costanti in Italia.
Gli ultimi dati resi disponibili dall’INAIL (Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli
Infortuni sul Lavoro) raccontano di un paese dove in una anno (dal Maggio ‘99- ad Aprile
2000) sono avvenuti quasi un milione di infortuni sul lavoro, e quasi 25.000 casi di malattie
professionali. Per l’anno successivo (dal Maggio 2000 - ad Aprile 2001) è costante il
numero di infortuni sul lavoro denunciati, mentre si evidenzia un incremento del 9,5%
delle malattie professionali.
Un altro capitolo doloroso riguarda le morti sul lavoro. Negli stessi periodi considerati,
l’INAIL registra rispettivamente 1.391 e 1.245 casi mortali per infortunio in Italia.
Quello che si vuole sottolineare, in conclusione, è che nonostante gli strumenti legislativi
esistenti, il problema della sicurezza e della salute di chi lavora dipendono fortemente da
una continua crescita della consapevolezza, sui posti di lavoro, della necessità di prevenire
situazioni dannose o pericolose per la salute.
Il Summit mondiale per lo sviluppo sociale (World Summit For Social Development)
Al Summit Mondiale per lo Sviluppo Sociale che si è tenuto nel marzo del 1995 a
Copenhagen è stato raggiunto un accordo tra i governi partecipanti sulla necessità di
mettere la gente al centro dello sviluppo. Il Summit, a cui ha partecipato un notevole
numero di leader politici, ha messo la lotta alla povertà, l’obiettivo della piena
occupazione e l’integrazione sociale al centro delle politiche sullo sviluppo.
Il terzo capitolo del Programma di Azione del Summit Mondiale per lo Sviluppo Sociale
ha come scopo l’Espansione dell’Impiego Produttivo e la Riduzione della Disoccupazione.
Le basi d’azione e gli obiettivi sono:
- il pieno impiego adeguatamente remunerato come metodo efficace per combattere la
povertà e promuovere l’integrazione sociale. Questo obiettivo richiede lo sforzo congiunto
dello stato, delle parti sociali e della società civile nonché il sostegno della cooperazione
internazionale
- una politica di sviluppo delle risorse umane volta ad aumentare la conoscenza e le
capacità necessarie per lavorare produttivamente in un mondo in continuo cambiamento
dovuto al rapido sviluppo tecnologico e alla globalizzazione
- la tutela dei diritti dei lavoratori dei paesi in via di sviluppo che spesso si trovano a
lavorare in settori di attività non formalmente riconosciuti. Tali settori rappresentano
spesso le uniche possibilità di lavoro, specialmente per le donne, ma spesso la tutela dei
diritti del lavoratore non è presente come nei settori formalmente riconosciuti.
Uno sforzo particolare è richiesto al settore pubblico e privato nella lotta alla
discriminazione sulla base del sesso, della salute, della fede religiosa, dell’età, della razza e
dell’appartenenza etnica e nei confronti dei disabili
- il riconoscimento del lavoro non remunerato svolto in ambito familiare e assistenziale o
ambientale di stampo volontaristico spesso svolto dalle donne, le quali hanno un doppio
carico di lavoro, lavoro remunerato e lavoro non remunerato. E’ necessario che vengano
fatti degli sforzi per ampliare il concetto di lavoro produttivo e per dare riconoscimento
sociale a questo lavoro anche attraverso l’introduzione della flessibilità dell’orario delle
attività remunerate.
Il Trattato di Amsterdam
Nel 1994 vengono definite per la prima volte alcune linee di azione comunitarie relative al
problema dell’occupazione, seguendo le quali ogni singolo stato dovrebbe attuare un
programma pluriennale. Nel giugno del 1996 la Commissione Europea lancia il “Patto di
fiducia” al fine di sensibilizzare i paesi coinvolti verso una più efficace mobilitazione nelle
politiche dell’impiego e nel mercato del lavoro.
In questo modo si giunge alla stipula del Trattato di Amsterdam nel giugno del 1997: esso
rappresenta un passo cruciale per lo sviluppo della “ Strategia di Impiego della Comunità
Europea”. Infatti, per la prima volta, a livelli europei, le politiche economiche e d’impiego
sono state considerate in stretta relazione per quanto riguarda la discussione in materia di
occupazione.
La difficile interpretazione per un lettore non esperto di linguaggio legale può servire a
nascondere le forti implicazioni dei suoi contenuti; tuttavia il trattato ha una valenza
storica molto forte, dal momento che in esso per la prima volta le questioni riguardanti il
lavoro vengono riconosciute come aspetti chiave dell’economia dell’Unione Europea.
In particolare, il Trattato riconosce che la prima responsabilità nella costruzione di un
disegno politico e nella sua concretizzazione in materia di politiche occupazionali
appartiene prima di tutto al Paese Membro, ma pone l’accento sul fatto che:
“I Paesi Membri [ … ] devono avere riguardo di promuovere l’occupazione come una
questione di interesse comune e devono coordinare le loro azioni” (art. 2).
Nondimeno il Trattato fa un passo oltre verso le proposte di azione a livello comunitario e
verso l’impegno dell’Unione stessa per il raggiungimento di un alto livello di occupazione
come obiettivo esplicito:
“L’obiettivo di un alto livello di occupazione dovrà essere preso in considerazione nella
formulazione e nell’adempimento delle politiche e delle attività comunitarie” (art. 3).
Ben rimarcata dal Trattato è l’affermazione dell’interdipendenza delle politiche
occupazionali adottate dai singoli stati membri e del bisogno di coordinazione per
assicurare che le misure per sostenere l’occupazione in un paese non sia di danno al
progresso in un altro stato membro:
“ Gli Stati Membri convengono sulla necessità di promuovere il miglioramento delle
condizioni di vita di lavoro della mano d’opera che consenta la loro parificazione nel
progresso” (art. 117)
“ Gli Stati Membri ritengono che una tale evoluzione risulterà sia dal funzionamento del
mercato comune, che favorirà l’armonizzarsi dei sistemi sociali, sia dalle procedure
previste dal presente trattato e dal ravvicinamento delle disposizioni legislative,
regolamentari e amministrative” (art. 118 )
La nozione di occupazione come questione di interesse comune pone l’accento sul fatto
che gli Stati membri, nel perseguimento dei loro obiettivi, dovrebbero contribuire a una
crescita positiva attraverso tutta l’Unione. In difesa di questo obiettivo, l’accresciuto ruolo
dell’Unione Europea nella coordinazione della politica di impiego è ripresa con forza in
molti articoli dell’Employment Title nel Trattato. In particolare suggerisce:
• Agli Stati Membri e alla Comunità di cooperare nello sviluppare una strategia di
impiego coordinata
• Alla Comunità di incoraggiare e sostenere la collaborazione degli Stati Membri, agendo
in modo complementare se necessario
• Al Consiglio Europeo di stabilire delle linee-guida di cui gli Stati Membri debbano
tenere conto nelle loro politiche d’occupazione
• Agli Stati Membri di compilare rapporti annuali sulle misure adottate per accrescere le
loro politiche occupazionali e, se necessario, dare consigli mirati ai singoli Paesi membri
• Al Consiglio Europeo di adottare misure incentivanti per incoraggiare la cooperazione,
lo scambio di informazioni e di innovazioni tra Stati Membri nel campo dell’occupazione.
A seguito delle nuove direttive comunitarie per l’impiego, gli Stati Membri dell’Unione
hanno messo in atto una complessiva Strategia per l’Impiego in Europa, al fine di creare
posti di lavoro e combattere la disoccupazione. Nell’ambito di questo approccio
sistematico il Fondo Sociale Europeo (ESF), il principale strumento finanziario a livello di
Unione Europea, fornisce i mezzi per raggiungere gli obiettivi della Strategia per l’impiego
in Europa: protegge e promuove l’occupazione e combatte disoccupazione,
discriminazione e emarginazione sociale. Già delineato nel trattato di Roma, è il Fondo
Strutturale che esiste da più tempo ( oltre 40 anni) e che investe, in collaborazione con gli
Stati Membri, in programmi per lo sviluppo delle capacità produttive dei singoli e le loro
potenzialità d’impiego.
Proprio con l’inizio del nuovo millennio l’ESF si trova a un punto cruciale per il suo
sviluppo: dal 2000 è iniziato infatti un periodo di sette anni, in cui il suo potenziale è stato
rivolto a quanto si è fatto a livello nazionale da parte degli Stati Membri per mettere in
pratica le priorità della Strategia per l’Impiego in Europa. La Strategia coinvolge i quindici
Stati Membri nell’operare verso un obiettivo comune per preparare le persone al mondo
del lavoro.
L’ESF fornisce all’Unione Europea programmi volti a rinnovare l’occupabilità delle
persone. Per raggiungere questo scopo cerca di dotare i cittadini di adeguate capacità
tecniche come pure di sviluppare le loro capacità di interagire socialmente, rendendoli più
flessibili e migliorando la loro adattabilità al mercato del lavoro.
L’ESF canalizza il suo supporto verso programmi strategici a lungo termine per aiutare le
diverse regioni europee, particolarmente le più svantaggiate, per rinnovare e
modernizzare le capacità della forza lavoro e per incrementare l’iniziativa imprenditoriale.
Questo incoraggia investimenti all’interno come all’esterno del paese, aiutandolo a
raggiungere una più elevata competitività economica e una maggior prosperità.
I programmi sono stesi dagli Stati Membri in collaborazione con la Commissione Europea
e rielaborati produttivamente mediante l’intervento di un ampio numero di
organizzazioni, le quali includono autorità nazionali, regionali e locali; istituzioni per
l’educazione e la formazione; organizzazioni volontarie e partner sociali, come sindacati,
associazioni professionali e industriali; compagnie individuali.
L’ESF funziona da catalizzatore per nuovi approcci ai progetti, capacità di collaborazione e
azione per combinare le risorse di tutti quelli coinvolti nel progetto. Incrementa la
partnership a differenti livelli e alimenta gli scambi di sapere attraverso tutta la Comunità,
condivisione di idee e migliori attuazioni di progetti, assicurando che le nuove soluzioni
più efficaci siano accorpate in politiche di corrente principale.
2
La storia iniziale é tratta da “I nuovi schiavi” di Kevin Bales, 1999 Feltrinelli editore, traduzione
dall’inglese di Maria Nadotti di “Disposable people. New slavery in the global economy”
Confrontati con la media dei paesi in via di sviluppo, i tassi di analfabetismo dei paesi
fortemente indebitati sono di un quarto più alti, mentre la possibilità di accesso a fonti di
acqua pura sono di circa un terzo più basse.
Queste nazioni mancano delle risorse da investire nello sviluppo di competenze umane,
precisamente perché i debiti consolidati, in molti casi, assorbono completamente i loro
budget. Inoltre il recente crollo del prezzo di alcuni prodotti di esportazione, unito con il
calo del flusso di aiuti esterni, ha ulteriormente assottigliato le risorse disponibili per
promuovere lo sviluppo umano.
Questi paesi necessitano urgentemente di un alleggerimento del debito. Nel 1996, il Fondo
Monetario Internazionale (IMF) e la Banca Mondiale hanno lanciato l’Iniziativa HIPC
(Nazioni Povere Pesantemente Indebitate), al fine di ridurre a livelli sostenibili il carico del
debito.
Ma persino l’Iniziativa HIPC non fornisce un forte sostegno fiscale da investire nello
sviluppo delle competenze umane. Questa è la ragione per cui la comunità internazionale
preoccupata continua a chiedere un ulteriore alleggerimento del debito a vantaggio delle
nazioni povere.
Con riferimento all’Africa, dove un debito dal carico insostenibile sta minacciando la
sicurezza economica e la stabilità a lungo termine di alcuni degli stati più poveri, le
Nazioni Unite hanno lanciato un appello urgente: il Rapporto sull’Africa del 1998
presentato al Consiglio di Sicurezza ha chiaramente chiesto a tutte le nazioni creditrici di
annullare ciò che rimane dei debiti bilaterali ufficiali dei paesi più poveri dell’Africa.
Secondo, si richiede alle istituzioni finanziarie internazionali di facilitare
significativamente e accelerare l’accesso alle risorse, da parte dei paesi poveri fortemente
indebitati, nonché di fornire risorse finanziarie sufficienti a consentire loro di perseguire
un ritmo di crescita economico e di sviluppo sociale sostanziale e sostenuto.
Non è chiaro come potrà essere finanziato un maggiore alleggerimento del debito. Le
nazioni creditrici potrebbero teoricamente inserire delle “voci” nei loro bilanci nazionali,
relative alla cancellazione bilaterale del debito e la Banca Mondiale potrebbe rendersi
disponibile a utilizzare parte dei suoi fondi. Ma il Fondo Monetario Internazionale non ha
risorse da destinare a questo fine. La vendita di parte delle sue riserve d’oro é ancora
all’ordine del giorno, e questa potrebbe costituire una soluzione parziale.
Relativamente all’iniziativa HIPC potrebbe verificarsi il rischio che un già scarso sostegno
allo sviluppo ufficiale potrebbe essere distolto a vantaggio di quest’ultima. Questo
spostamento rischierebbe di negare fondi adeguati all’importante lavoro di rafforzamento
delle competenze economiche essenziali nelle nazioni povere, risorse sulle quali poggia il
successo di altri investimenti sullo sviluppo.
È perciò cruciale, in linea di principio, alleggerire il debito in via multilaterale attraverso
l’iniezione di denaro fresco, e non drenando fondi dedicati all’assistenza ufficiale allo
sviluppo.
Legare l’ulteriore alleggerimento del debito ad obiettivi di sviluppo umano consentirà
inoltre di concentrare l’attenzione internazionale sulla reale portata del problema. Questa
non consiste solo nell’incapacità delle nazioni povere di ripianare i debiti ai creditori. È
invece l’incapacità di decine di milioni di persone di veder assicurati i propri più
elementari diritti umani.
Questo perché l’iperbolico debito riduce le risorse per la crescita e i costi legati alla
restituzione del debito diminuiscono gli investimenti per le persone.
È chiaro che la crisi del debito limita la capacità delle nazioni, soprattutto di quelle povere
e fortemente indebitate, di perseguire una crescita sostenibile e equilibrata e di
raggiungere gli obiettivi di sviluppo umano. La notevole dimensione della povertà, unita
al fatto che la maggioranza dei paesi beneficiari dell’iniziativa HIPC rientrano nella
categoria delle nazioni classificate dal UNDP per i bassi livelli di sviluppo umano, spiega
in larga misura la preoccupazione che la comunità internazionale ripone sul problema del
debito. Le organizzazioni della società civile, quelle non-governative (principalmente
Jubilee 2000, Oxfam e Eurodad), le agenzie di aiuto bilaterale e multilaterale e le altre
istituzioni per lo sviluppo persistono nell’assicurare che la crisi del debito dei Paesi HIPC
non svanisca dalla memoria pubblica, anche se l’attenzione internazionale si sposta su crisi
che attualmente stanno affliggendo altre parti del mondo.
A tal proposito l’UNDP propone l’applicazione di tre principali linee di intervento:
- Alleggerimento addizionale del debito
L’UNDP perora e accoglie la posizione adottata dai governi del Nord e del Sud del mondo
e dalle Organizzazioni non Governative di ridurre la soglia del debito sostenibile
attualmente in essere, al fine di rendere disponibile un livello di alleggerimento del debito
addizionale e liberare risorse fiscali necessarie ai paesi poveri per lanciare un attacco alla
povertà su larga scala.
- Il “National Partnership Facility”
Dalla prospettiva dello sviluppo sostenibile, l’obiettivo degli sforzi di riduzione del debito
dovrebbero essere volti ad assicurare che i benefici ottenuti siano indirizzati ai poveri. Per
orientare parte degli utili derivanti dalla riduzione del debito verso i programmi di
sviluppo, le nazioni potrebbero considerare di implementare meccanismi finanziari, quali
il “National Partnership Facility” (NPF). Questo meccanismo può indirizzare una parte
degli utili (insieme ad altre risorse finanziarie per lo sviluppo, come quelle dell’Official
Development Assistance, fondi di parti terze e contributi del settore privato) verso le
comunità locali, le organizzazioni della società civile e le ONG, come sostegno dei loro
progetti rivolti allo sviluppo umano.
- Gestione del debito efficace
L’UNDP ha messo a punto accordi e programmi di gestione del debito a livello globale,
regionale e nazionale. Il “Joint Programme”, in coordinamento con UNCTAD (Conferenza
delle nazioni unite sul commercio e lo sviluppo) e la Banca Mondiale ha rappresentato un
ulteriore supporto internazionale alla gestione del debito. Alcuni dei principali risultati
sono stati lo sviluppo del programma UNCTAD in più di 50 paesi, spesso con il
finanziamento dell’UNPD e di altri donatori bilaterali, e la creazione di un programma
regionale per il debito e la gestione delle riserve nell’Africa Meridionale e Orientale, che si
è poi evoluto nell’Istituto per la Gestione Macroeconomica e Finanziaria dell’Africa
Meridionale e Orientale.
Poiché una delle maggiori critiche all’Iniziativa HIPC (Nazioni Povere Pesantemente
Indebitate) su citata, é che essa sottovaluta le problematiche legate all’eliminazione della
povertà e allo sviluppo umano, numerose organizzazioni hanno sviluppato metodi
alternativi, maggiormente concentrati su questi temi. Più precisamente sono quattro gli
approcci, sviluppati dal Network Europeo sul Debito e lo Sviluppo (Eurodad), Oxfam
International, Cafod e Christian Aid.
Eurodad (1997) . Ha presentato un approccio che unisce l’Indice di Sviluppo Umano
dell’UNDP (che misura il livello di povertà di una nazione) ai principali indicatori HIPC
di sostenibilità del debito.
Oxfam International (1998). Secondo questo approccio, i Governi disposti ad allocare
dall’85 al 100 per cento dei risparmi del debito in iniziative volte alla riduzione della
povertà, possono godere di una riduzione del debito anticipata e in proporzione maggiore.
Questo dovrebbe avvenire attraverso una “Finestra del Debito per lo Sviluppo Umano”,
che prevede l’abbassamento delle soglie di sostenibilità del debito. Al Governo debitore si
richiede di sviluppare un progetto d’azione per la riduzione della povertà e di sottoporlo
alla struttura decisionale dell’Iniziativa HIPC, per ottenere la conversione del risparmio
sul debito in iniziative concrete.
Christian Aid. Questo approccio prende il via dagli obiettivi di sviluppo fissati dalle
organizzazioni DAC e OECD che uniscono tutti i maggiori creditori. Questi obiettivi
incorporano la sanità, l’educazione, la povertà, l’eguaglianza tra i sessi e i diritti umani.
Secondo Christian Aid, raggiungere i livelli di povertà fissati dal DAC richiederà una
crescita nei paesi HIPC, maggiore di quella riscontrata negli ultimi 20 anni. Poiché il carico
del debito agisce come impedimento alla crescita, frenando gli investimenti nei paesi
HIPC, è improbabile che tali obiettivi possano essere conseguiti mediante la sola crescita
economica. È necessario un incremento della spesa pubblica, specialmente in sanità ed
educazione. Perciò la riduzione del debito ha un ruolo centrale nel raggiungimento degli
obiettivi DAC, stimolando maggiormente la crescita e liberando risorse.
Cafod (1998). Definito anche come l’approccio del reddito netto realizzabile, quello di
Cafod assume che non tutte le risorse raccolte dai Governi nei paesi sottosviluppati
possano essere utilizzate per ripagare il costo del servizio del debito, e che tantomeno una
porzione arbitraria delle stesse possano essere impiegate senza prima rispondere ad
imperativi di carattere umanitario. La misura di ciò che un paese può sostenere in termini
di servizio del debito è considerata in relazione ai livelli minimi di spesa statale che sono
stati stanziati per realizzare i più elementari livelli di sviluppo umano. Livelli di carico
debitorio esterno, superiori a tale livello, sono quindi eliminati. Più in specifico, il calcolo
del debito sostenibile si basa su quattro assunzioni:
Che non è ragionevole utilizzare la leva fiscale sui redditi al di sotto del livello
internazionale di povertà assoluta.
Che un’incidenza della tassazione sui redditi superiore al 25% - sopra questo livello - darà
luogo a distorsioni nell’economia, condizionando lo sviluppo.
Che ai Governi debitori deve essere permesso di accantonare risorse per rispondere ai
bisogni elementari di sviluppo umano delle loro popolazioni, prima di destinare risorse
alle necessità del servizio del debito.
Che solo un ammontare limitato delle risorse disponibili dovrebbero essere allocate per il
servizio del debito.
Gli sforzi volti ad allentare il carico dei pagamenti del debito hanno impiegato numerosi
meccanismi di riduzione del debito e di conversione delle risorse. Vogliamo citare, da
ultimo, il caso della conversione (swap) del debito: è un meccanismo che permette la
cancellazione del debito esterno in cambio di un impegno a mobilizzare risorse interne per
servizi sociali (salute, educazione, ecc.) o per l’ambiente o per programmi di riduzione
della povertà. Per quanto la maggior parte delle operazioni di conversione coinvolga
quantità limitate di risorse, questi meccanismi di riduzione del debito sono però di grande
interesse per coloro che sono coinvolti da progetti di sviluppo sociale e umano.
Negli anni ’80, la maggior parte delle conversioni ha avuto luogo in America Latina e ha
riguardato debiti commerciali. Dall’introduzione della “clausola swap” al Club di Parigi
nel 1990, l’utilizzo di questo meccanismo è aumentato sensibilmente e si è concentrato
sull’America Latina e su altre parti del mondo, incluse l’Africa e l’Europa Orientale.
Alcune delle esperienze più riuscite di conversione del debito hanno avuto luogo in
America Latina e si sono concentrate sull’ambiente: tra la fine degli anni 80’ e la metà dei
’90 le conversioni del debito hanno contribuito a generare 50 milioni di dollari per progetti
di protezione dell’ambiente, in 23 paesi, di cui il Costa Rica ne ha realizzati la parte
preponderante.
Nel succedersi di ascese e declini di imperi e civiltà durante l’arco della storia umana,
probabilmente i differenziali di ricchezza economica non hanno mai raggiunto livelli
estremi. Alcuni storici economici valutano che ancora nel XVIII secolo la ricchezza dei
paesi oggi considerati sviluppati, come l’Europa, non era molto più ampia del doppio
rispetto a quella dei paesi del Terzo Mondo, con diverse stime che riducono ancora il gap
in termini di reddito pro-capite (Bairoch, 1998; Landes 1978).
In realtà iniziamo a parlare di sviluppo economico con l’avvento del periodo storico
dell’industrializzazione, l’affermazione del sistema economico capitalistico, la creazione e
diffusione di mercati di scambio organizzati per tutte le merci. Sylos Labini classifica
l’evoluzione del capitalismo moderno in tre stadi (Sylos Labini 2000):
un primo stadio è quello del passaggio dal capitalismo mercantile a quello industriale, con
la nascita delle prime industrie manifatturiere (fine XVII sec.- metà XVIII sec.);
un secondo stadio, corrispondente alla rivoluzione industriale, è quello nel quale
l’innovazione tecnologica, “il sistema della fabbrica e le condizioni concorrenziali a poco a
poco si affermarono nella maggior parte dei mercati” (metà XVIII sec. – metà XIX sec.);
un terzo stadio, quello del capitalismo oligopolistico, che dura dalla metà del XIX secolo
fino agli anni ’70 del XX secolo.
A partire dal secondo stadio inizia l’accelerazione dello sviluppo economico nei paesi
occidentali, e la diffusione dell’economia capitalistica di mercato in tutto il globo tramite i
fenomeni storici della colonizzazione e dell’imperialismo. Secondo diversi autori la fine
del secolo XIX e l’inizio del XX hanno già visto il prevalere di una sorta di
globalizzazione, intesa in termini economici (Hirst e Thompson, 1997).
In realtà è a partire dal diffondersi su scala globale di uno stesso sistema economico che ha
senso concreto procedere a confronti tra la ricchezza economica di popoli e paesi tanto
diversi: nel momento in cui tendono sempre più ad assomigliarsi, dal punto di vista della
istituzioni che regolano l’economia, e del modo di organizzarsi degli agenti che
partecipano al processo di produzione e distribuzione della ricchezza.
Dal secondo stadio del capitalismo hanno iniziato a crescere le diseguaglianze tra paesi,
pur nell’ambito di una crescita complessiva dell’economia mondo, con un forte sviluppo
dei paesi occidentali ed un ristagno di quelli del terzo mondo. La globalizzazione degli
ultimi venti/trent’anni, che secondo diversi autori ci ha portato in una nuova fase o in un
nuovo stadio di evoluzione del capitalismo, ha “aggravato le tendenze alla diseguaglianza
che sono strutturali nello sviluppo capitalistico. Il risultato è che nel 1997 i paesi OCSE,
con il 19% della popolazione mondiale, controllano tre quarti del Prodottto Interno Lordo
del pianeta, il 71% del commercio, il 58% degli investimenti esteri, il 91% degli utenti di
internet. Al 20% più povero è lasciato l’1%, o meno, di tutte queste variabili” (Pianta, 2001,
p.19).
Il differenziale di crescita economica e di sviluppo umano tra i paesi è alla base del
problema della povertà nel mondo, di cui abbiamo parlato precedentemente. Un paese
povero avrà più cittadini poveri di un paese ricco, e un paese che non riesce a garantire
uno sviluppo umano non riuscirà a garantire il rispetto dei diritti fondamentali dei suoi
cittadini. A fronte dell’affermazione di una globalizzazione neoliberista, che negli ultimi
vent’anni sta portando ad una forte crescita delle disuguaglianze e dei differenziali di
reddito nelle società e tra gli stati, serve oggi una globalizzazione dei diritti e delle
responsabilità, affermata da una nascente società civile, che possa proteggere la dignità
della vita umana dalle ingiustizie (Alston 1999).
Nel prossimo paragrafo vedremo la posizione di uno dei più’ noti esperti di diritti
economici e sociali, Philip Alston, sul rapporto tra globalizzazione e diritti umani e sulla
necessita’ che le istituzioni europee contribuiscano alla già’ citata globalizzazione dei
diritti.
Infine, nei paragrafi successivi, vedremo cosa stanno proponendo le Nazioni Unite,
principalmente tramite le analisi e le proposte del loro Programma di sviluppo (UNDP), e
le ONG, nucleo importante di una società civile globale, autonoma dai poteri forti di chi
non mette al centro dello sviluppo l’uomo, ma il profitto e il guadagno.
Secondo Philip Alston (P. Alston, 1999), la globalizzazione non è un fenomeno neutrale
rispetto alla sfera dei diritti umani e questo per due ragioni fondamentali.
In primo luogo, il libero mercato in sé è diventato l’elemento di maggiore rilievo rispetto a
tutti gli altri valori. Così, anche alcune norme inerenti i diritti umani sono sempre più
sottoposte ad una valutazione di compatibilità con il mercato, che determina quale
importanza accordare loro.
Nel mondo della globalizzazione, il rifiuto e la reazione alle discriminazioni di genere o di
altro tipo, alla soppressione di sindacati, alla negazione dell’educazione primaria o
dell’assistenza sanitaria, vengono spesso sostanziate non solo dimostrando che tali
pratiche vanno contro gli standard dei diritti umani, ma anche dimostrando che non
rispettano gli imperativi dell’efficienza economica ed il funzionamento del libero mercato.
In secondo luogo, i mezzi che si suppone siano indispensabili nel processo di
globalizzazione hanno di fatto acquisito lo status di valori in sé. Basti pensare, sul piano
internazionale, alla crescente influenza dei mercati finanziari nel determinare le priorità
dei governi nazionali.
Nessuno di questi sviluppi è di per sé incompatibile con i principi dei diritti umani o con
gli obblighi specifici relativi ai diritti umani che ogni Stato del mondo ha liberamente
accettato. Nel complesso, comunque, se non accompagnata da appropriate politiche di
contenimento degli effetti negativi sulla distribuzione della ricchezza, la globalizzazione
rischia di sminuire il ruolo centrale che la Dichiarazione Universale e la Carta delle
Nazioni Unite hanno accordato ai diritti dell’uomo nell’economia mondiale.
La globalizzazione, alla luce dei diritti umani, non è assolutamente una strada a senso
unico.
Alcuni vantaggi prodotti dalla globalizzazione sono evidenti. Flussi di informazione più
liberi determinano una serie di conseguenze positive a tutti i livelli dei diritti umani. In
relazione ai diritti civili e politici, il processo di globalizzazione chiama in causa la
sostenibilità del tradizionale spartiacque tra responsabilità governativa nelle violazioni dei
diritti umani, e non-responsabilità degli attori privati.
Nel momento in cui le aziende assumono un ruolo crescente nel gestire o costruire
prigioni, ospedali, parchi pubblici e aree commerciali e ricreative e nel provvedere in
misura sempre maggiore alla sicurezza dei cittadini, si devono anche trovare strade
diverse e mezzi innovativi per la garanzia dei diritti civili e politici.
O ancora, il rispetto del diritto al lavoro e del diritto a condizioni di lavoro giuste e
favorevoli, è minacciato da un’esclusiva enfasi sulla competitività a detrimento del
rispetto per gli standard di lavoro riconosciuti nella Dichiarazione Universale.
Allo stesso modo, il rispetto della famiglia e dei diritti dei genitori di stare con i propri
bambini può richiedere politiche nuove ed innovative piuttosto che un approccio di
semplice laissez-faire, in un’era in cui il mercato del lavoro é esteso a livello globale,
almeno per certe occupazioni individuali.
Il processo di globalizzazione ci pone di fronte ad una varietà di sfide che richiedono da
parte nostra un’attenzione che finora non hanno ricevuto.
La globalizzazione è un fenomeno che preoccupa la comunità internazionale, anche se è
un fenomeno suscettibile di molteplici e contrastanti definizioni. Lasciando da parte gli
sviluppi nella scienza, nella tecnologia, nelle comunicazioni e nel trattamento
dell’informazione, che hanno reso per molti versi il mondo più piccolo ed interdipendente,
la globalizzazione è anche giunta ad essere strettamente associata a svariate tendenze e
politiche. A queste dobbiamo volgere la nostra attenzione minuziosa.
Sempre secondo Alston, “mentre i governi hanno la responsabilità principale
nell’assicurare il rispetto dei diritti umani, le organizzazioni internazionali sono un
importante strumento di politiche che possono sia contribuire ai diritti umani, sia
indebolirli direttamente o indirettamente. Queste organizzazioni, cosi’ come i governi che
le hanno create e le guidano, hanno la responsabilità forte e permanente di assumere tutte
le misure possibili per assistere i governi in azioni che siano compatibili con i loro obblighi
in materia di diritti umani e per cercare di escogitare politiche e direttive che promuovano
il rispetto di tali diritti [...]E’ particolarmente importante ricordare che i settori della
finanza e degli investimenti internazionali non sono per niente sottratti a questi principi
generali e che le organizzazioni internazionali con specifiche responsabilità in quelle aree
sono tenute a comportarsi in modo positivo e costruttivo in relazione ai diritti umani [...] il
Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale dovrebbero prestare molta
attenzione all’impatto delle loro politiche sui diritti umani, benché all’interno di
ragionevoli limiti legati alla portata specifica del loro mandato e della loro responsabilità
[...] E’ da ricordare che ne’ il fondo, ne’ la Banca mondiale hanno una chiara, e tanto meno
esauriente politica in relazione ai diritti umani [...] Anche l’Organizzazione mondiale per il
commercio (WTO) dovrebbe concepire metodi appropriati per facilitare una più
sistematica considerazione dell’impatto sui diritti umani di particolari politiche di
commercio e investimento. Senza prendere in considerazione il problema se tali politiche
debbano pretendere l’adozione di una “clausola sociale” legata a sanzioni verso paesi che
non la rispettano, ci sono molte altre opzioni per permettere al WTO di essere un partner
responsabile nello sforzo della comunità internazionale per dare realizzazione più ampia
possibile agli impegni contenuti nella Dichiarazione universale dei diritti umani. Alle
soglie del XXI secolo, e’ imperativo riconoscere che i diritti umani sono il solo baluardo
rimasto contro un mondo i cui “valori” sono definiti solamente dal determinismo
economico e dalle preferenze del mercato, spesso considerate, e spesso a ragione, ispirate a
egoismo e meschinità” (P.Alston, 1999).